Bacchin (Belluno).
Filosofo. Grice: “I like Bacchin; as an Italian he is allows to speak pompously
as we at Oxford cannot! But he is basically saying the commonplace that
‘intersoggetivita’ has a ‘dialectical dimension’ (interoggetivita come
dimensione dialettica) in the sense that the ego (or ‘l’io’) presupposes the
‘altro’ (as he puts it: ‘a cui’) – therefore; it is a presupposition of the
schema, as Collingwood would have it, alla Cook Wilson – and thus only
transcendentally justified. Bacchin has noted that the operator ~ is basic in
that ‘inter-rogo’ invites a ‘risposta’ whose ‘motivation’ may be ‘implicita’ –
the ad-firmatum is motivated by the domanda – which can be another dimanda: why
do you think so? “Why do you ask why I think so?” -- Bacchin is alla Heidegger and other
phenomenologists, with the ‘essere’ versus appare on which my impicata in
‘Causal Theory of Perception’ depend (‘if A seems B, A is not B. Note that
there is no way to express this implicata without a ~. It might be argued that
it can express with some of the strokes or with some expression that would
flout ‘be brief, rather than the simplest” – and which would involve, as
Parmenide has it, the idea of, precisely –altro’ (other than). Note that
Bacchin equivocates on the ‘altro’ – in the dialectical dimension of
intersubjectivity he obviously means ‘tu,’ not ‘altro.’ In the negation or
contradiction (in dialectical terms) of an affirmation – which is involved in
every ‘dialogue’ that Bacchin calls ‘socratico’ or euristico rather than
sofistico (based on equivocation) – the ‘altro’ is the other, A is not B,
impying A is other than B (cf. my ‘Negation and Privation’). This does not need
have us multiply the sense of ‘ne,’ in old Roman!” -- Giovanni Romano Bacchin
(Belluno), filosofo. Dopo aver conseguito la laurea nel 1961, nel 1965 ottenne
la libera docenza in filosofia della storia. Dal 1966 al 1980 insegnò filosofia
della storia e filosofia della scienza presso l'Perugia. Occupò anche la
cattedra di filosofia della scienza presso l'Lecce. Fu docente presso la
facoltà di lettere e filosofia dell'Padova, tenendo la cattedra di filosofia
teoretica. Fu membro della "Società
Filosofica Italiana". Morì il 10 gennaio 1995, sulla spiaggia di
Rimini. Pensiero Cresciuto
filosoficamente nella scuola metafisica padovana di Marino Gentile, intorno
agli anni sessanta, Bacchin presto sviluppò una propria originalità di
approccio e di ricerca filosofica, che lo rendono difficilmente assimilabile ad
una qualche corrente o "famiglia" filosofica se non quella della
libera e inesausta teoresi. A testimonianza
della specificità del suo approccio metafisico si può citare questa sua
affermazione. «V'è un senso metafisico
che può andare perduto. Né basta parlare di metafisica e considerarsi
metafisici per possederlo. La perdita del senso metafisico è anche trionfo del
condizionale e quindi dell'ipocrisia: "direi", "avanzerei la
proposta", "mi si passi l'espressione", "vorrei che il
lettore ricavasse l'impressione..'", "anche se siamo, il lettore ed
io,certo ioimmensamente piccoli", "a mio sommesso avviso" e così
via in un continuo spostare l'attenzione su di sé e in un continuo, inutile,
domandare scusa al lettore della propriascontatapochezza, rivelando che non è
poi così scontata da non parlarne. Nudo e indifeso alla presenza della verità,
il metafisico non lo può essere di meno di fronte agli uomini, i qualidi certo-
non sono la verità. » Riferimento
costante dell'incessante dialogo filosofico di Bacchin fu senz'altro
l'attualismo gentiliano. Altre opere: “Su
le implicazioni teoretiche della struttura formale” (Roma, Jandi Sapi); “Originarietà
e mediazione del discorso metafisico” (Roma, Jandi Sapi); Sull'autentico nel
filosofare” (Roma, Jandi Sapi); “L'originario come implesso
esperienza-discorso” (Roma, Jandi Sapi); “Il concetto di meditazione e la teoremi
del fondamento” (Roma, Jandi Sapi); “I fondamenti della filosofia del
linguaggio” (Assisi); “L'immediato e la sua negazione, Perugia, Grafica);
“Anypotheton” Saggio di filosofia teoretica” (Roma, Bulzoni); “Teoresi
metafisica” (Padova, Nuova Vita); “Haploustaton” (Firenze, Arnaud); “La
struttura teorematica del problema metafisico”; “Classicità e originarietà della metafisica,
scritti scelti” (Milano, Franco Angeli); “La metafisica agevola o impedisce
l'unità culturale europea?”in ‘Il contributo della cultura all'unità europea',
Danilo Castellano, Edizioni scientifiche italiane, Napoli); “L'attualismo nel
pensiero di Marino Gentile, in Annali, Roma, Fondazione Ugo Spirito 1992.
Note Informazioni biografiche reperibili
anche in G.R. Bacchin, Haploustaton, Arnaud, Firenze 1995 Giovanni Romano Bacchin in Teoresi
metafisica, 1984 Berti, Enrico Ricordo
di Giovanni Romano Bacchin, "Bollettino della Società Filosofica Italiana",
n. s. 154, gennaio-aprile 1995, 126-128
Scilironi, Carlo Tra opposte ragioni: nota in ricordo di Giovanni Romano
Bacchin a dieci anni dalla morte. in Studia patavina: Rivista di scienze
religiose. Filosofia Filosofo Professore1929 1995 27 dicembre 10 gennaio
Belluno Rimini. Metafisica del principio. Si comincia
dopo avere cominciato. L’innegabile è innegabilmente. Negare è escludere
un’inclusione indebita. Non v’è limite del sapere. Il luogo del filosofare è la
domanda del luogo per filosofare. Ciò che v’è di originario nell’esperienza. La
filosofia non ha oggetto e nessun oggetto si sottrae alla filosofia. La
riappropriazione metafisica. L’esperienza praticabile è conversione fattuale in
fatto. Funzione della parantesi nell’asserzione e l’aporia del dogmatico.
L’autorità del dogmatico si presenta come critica di ogni autorità. L’ideale
dell’autorità è di essere indiscutibile. Autorità e intelletto si fronteggiano.
Ciò che l’intelletto impone all’autorità è di essere ciò che pretende di
essere. Il luogo della domanda è l’insufficienza di ciò che si presenta a ciò
che, presentan- dosi, non è interamente. L’identità tra inevitabile e
necessario è solo co- struita. Il senso in cui non si può domandare tutto. Ciò
da cui dipendono le valutazioni del domandare. Il senso in cui non si può non
domandare tutto. Domandare tutto è negare di poter asserire. Paradigma del
dottrinario in filosofia. Una richiesta che preceda la domanda di verità non
può essere vera. Il prefilosofico oltrepassa il sapere di non sapere credendo
di superarlo. L’impossibilità di oltrepassare quel ‘limite’ che è la stessa
impossibilità di oltrepassarlo. La costante esistenziale dell’esperienza e gli
equivoci della sua valorazione. La domanda universale investe il linguaggio
come luogo della possibilità dell’errore. Digressione. La base del filologismo
in filosofia. Dell’ingenuità storiografica in filosofia. Le due direzioni
dell’ingenuità storiografica. L’equivoco storico in filosofia. Equivoco di
coscienza storica e conoscenza storica. Le storie della filosofia rendono la
filosofia accessibile al senso comune prefilosofico. L’ideale sistematico del
prefilosofico si prolunga nella storiografia. Filosofare nonostante la storia
della filosofia. Inattualità teoretica dello storicismo. La nozione dogmatica
di storia. Il carattere fideistico della tradizione e il circolo del
riconoscimento. Due figure dell’accoglimento della tradizione: integralismo e
progressismo. La ragione formale come unica ragione delle due figure. L’ideale
immanente del credere è coincidere con il vivere. La ragione. Indice. Indice
formale presiede nel suo uso ciò che la determina nei suoi contenuti. Se ogni
fede è cosmica, ogni cosmo è creduto. La valenza sperimentale è già nella
protomatematica, come si esemplifica in Galilei. Il carattere ipotetico di ogni
riferimento assertorio all’esperienza. Il rischio erme- neutico è considerare
effettivo ciò che è interpretazione, come si esemplifica in Galilei. Il senso
in cui la scienza è alienazione. Ingenuità del ten- tativo di fondare scienza e
filosofia sull’esperienza immediata. Il campo in cui si discute è ciò che
intanto permane indiscusso. Credere di conoscere è non sapere di credere. Il
rapporto tra intendere e pretendere è struttura del conoscere. Il rapporto
strutturale di compreso e comprendente tra universi. Il rapporto di compreso e
comprendente è struttura del contenuto di osservazione. Costanti del progetto
d’esperienza e il vettore di interesse. Il progetto fondamentale e Kant. Il
progetto di filosofare è il modo filosofico di progettare: miraggio del ritorno
all’immediato, Controllabilità e statuto dell’individuale. Ambiguità del
sapersi orientare nel mondo. L’intenzione conoscitiva del fenomeno individuale.
Progetto del conoscere come adeguazione progressiva. Il co- noscere
rappresentato come rappresentazione. Il presupporre è limite presupposto
all’operare. La scienza ignora di essere una fede. La scienza non può sapere
ciò che essa implica, dovendo postulare ciò di cui abbisogna. La considerazione
pensante. La conoscenza scientifica ipotizza la realtà che le consente di
ipotizzare. Tentativo della distinzione tra ‘visione naturale’ e ‘visione
scientifica’ del mondo. Esame della struttura del ‘punto di vista’ nella
configurazione dei sistemi di riferimento. Dopo l’intermezzo ludico, che cosa
si intende per ‘considerazione logica’. La logica formale è il modo formale di
considerare la logica. Il formalismo della logica è il nihilismo della verità.
La conciliazione tra storia mondana e filosofare non può avvenire nella storia
mondana. Ciò che si presenta con la divisione pone la richiesta della connessione.
Il pensiero si affida al linguaggio per essere riconosciuto come indipendente
dal linguaggio. Si esemplifica con l’espressione hegeliana “movimento
dell’essenza”. Si insiste con l’esemplificazione hegeliana. Ancora
esemplificazione hegeliana: la “cosa stessa” non può venire utilizzata. Il
senso della cura–custodia. Il senso in cui il pensare penetra. Il pragmatico è
fittiziamente teoretico. La verità mette in questione ogni discorso intorno
alla verità. Il nesso tra tecnica logica e configurazione funzionale del
concetto. La conoscenza scientifica considera astratto ciò che essa non può
considerare. Rischio dell’equivoco tra mera domanda e domanda pura. L’imporsi
della verità è l’asse delle pseudofilosofie. Volontà di coerenza e volontà di
dominio. Coerenza è fedeltà alla logica di un sistema. Sistema ed esistenza.
Esistenza e chiarificazione. Esistenza e coscienza. Coscienza e punto di vista.
Il punto di vista fondamentale non è un punto di vista. La nozione comune di
esistenza e l’istituzione. Ciò che esiste non è assoluto. Differenza tra
teoresi e teoria e l’impossibilità di scegliere la teoresi. La teoresi, che non
è teoria, appare in una qualche teoria. Poiché l’intero non può essere oggetto,
nessun og- getto è intero. La scienza che escluda la filosofia diventa
“filosofia della natura”. Il mondo della vita impone l’astrazione. La
filosofia non vincola a se stessa le scienze. Ricorso alla formula. La
“formula” e l’aporia del metodo ideale. Il metodo di filosofare è filosofare,
ossia domandare. Inevitabilità dell’astratto. Necessità e cogenza. Il carattere
divino della matematica è l’essenza matematica di Dio anche se Galilei non lo
vuole. L’ordine astratto si esemplifica in Wolff, ma esso è la logica interna
della formulazione del principio di non contraddizione. La “proposizione” è la
figura minima del sistema, la forma del quale è l’equazione. L’ideale del
conoscere esclude dal conoscere l’operare. Le condizioni del conoscere sono
riconosciute nella loro indipendenza dal conoscere, nel conoscere di cui sono
condizioni. La relazione, che è esperienza, non può essere relazione
dell’esperienza con altro da essa. La conoscenza dell’incono- scibilità dello
in sé è conoscenza in sé. L’astratto è inevitabile, ma non necessario. Per dire
con che cosa si comincia, si comincia con la domanda intorno a come si
comincia. Affermare la totalità è dimostrare che es- sa non può venire negata
e, dunque, non abbisogna di venire affermata. La condizione apriori è trovata
analiticamente, perché è contraddittorio che, nel no- stro conoscere, tutto
derivi dall’esperienza. L’uso è unicamente empirico ed è riconosciuto
trascendentalmente. L’analisi è la presenza operante del “principio di non
contraddizione”. La struttura sintetica del giudizio è l’infinitezza dell’analisi.
Il giudizio è domanda infinita di venire fondato. Tra esperienza e giudizio non
sussiste rapporto, perché l’esperienza non può essere un giudicato. La prima
forma di mediazione è l’immediatezza fenomenologica, o medialità. Il contessere
infinito del dato non è dato. Ogni ordinamento di oggetti è teorico. L’oggetto
è pluralità di oggetti. Se è astratto l’oggetto, è astratto il suo contesto.
L’intuizione astrae dal contessere infinito. Ciò che è dato per primo è
risultato di un processo astrattivo: l’intuizione non è originaria. Differenza
tra teorica dei giudizi e teoresi del giudizio. Impostazione. L’interpretazione
empirica dell’oggetto “come tale” quale “oggetto in generale”: trascrizione
generalizzata degli oggetti. La sintesi precede ogni analisi e la condiziona.
Il conoscere presenta un duplice livello: quello del suo fungere che
costituisce l’oggetto, quello della consapevolezza di tale fungere. Il
conoscere muove dalla fiducia nello essere in sé del conosciuto, con base
esclusiva- mente pratica. Può venire formulata anche la contraddizione, dunque
la forma proposizionale non è struttura del giudicare. L’analisi come pre-
senza dell’incontraddittorietà formulata come “principio di non
contraddizione”. Un giudizio media la posizione di altro giudizio: medialità
posizionale o fe- nomenologica. Di volta in volta un giudizio può valere come
analitico o come sintetico. Si intende di sapere con necessità. Se v’è un modo
empirico di conoscere, v’è un modo non empirico di riconoscerlo. Kant conosce
analiticamente che la conoscenza umana è sintetica. Nessun giudizio matematico
è conoscitivo. La ragione dell’aritmetica è un fatto, perché le risulta
possibile ciò che le risulta fattibile. Le categorie. Indice. Indice trovate
dall’analitica sono usate dalla stessa analitica. L’esperienza è condizione del
darsi delle sue condizioni. “Cosa” ha significato operativo. Il tempo è
essenzialmente prassi. Spazio e tempo provengono dalla sintesi dell’intelletto,
ma operano nella sensibilità. L’oggettivazione dell’esperienza è
matematizzazione, di cui il trascendente è negazione. Il trascendentale è, ma
non appare. La sintesi è negazione di se stessa come negarsi reciproco dei suoi
termini. Tempo e durata. La presenza fungente dell’apriori è analiticamente
reperibile nel dato e non lo eccede. La differenza tra conoscere e sapere è
conosciuta e saputa. Conoscere non è sapere e l’oggetto è matematico perché è
oggetto. Esemplificazione con Kant di ambiguità fra matematica e conoscenza. Il
conoscere della matematica, essendo matematico come conoscere, non è conoscere.
La volontà di potenza è l’impotenza dell’io nei confronti delle sue
rappresentazioni. L’io si riferisce a se stesso come dato all’io. Non vi può
essere una ragione pura. Teoresi e finitezza della ragione. Il senso teoretico
dell’inconoscibilità dello “in sé” è quello dell’inoggettivabilità del vero. La
ragione è strumentale per se stessa. Il carattere filosofico della
pricerca. Il carattere dialettico, o negatorio della
filosofia. La dialettica dell identico livello. La dia-letticità
della filosofia e il momento analitico della filosofia del linguaggio. I
limiti di validità dell analisi nella filosofia del linguaggio. Limiti di
validità e valore. Come è possibile una filosofia del linguaggio.
Concetto di "teoria" e sua riduzione. La riduzione del concetto
di teoria e la radice pragmatica dell intellettualismo. La nozione
ateoretica dello "in generale" come base della teoria.
Riduzione del procedimento analitico all inde terminato, cioè al
contraddittorio. Differenza ontologica tra il contraddittorio ed il
negato. La dialetticità come impossibilità di un procedimento analitico
sulla totalità. La domanda totale e la totalità domandata. L intero della
domanda totale e della totalità domandata. La conversione dialettica della
totalità domandata nella esclusività del domandare. La domanda come
riferirsi in atto alla risposta. La problematicità della
"definizione" concettuale. L intersoggettività come
dimensione dialettica. La struttura dialettica dell'implicazione.
L'insignificanza teoretica del disaccordo. La preoccupazione di
raggiungere un accordo effettivo è empirica e filosoficamente ingenua.
Fittizietà del rapporto tra filosofia e senso comune. La superfluità del
problema del "solipsismo". Presenza e coscienza. La
realtà come pensiero si risolve nel pensiero come atto. La realizzazione.
L'attualismo come attualismo puro. La realizzazione come negazione e come
posizione. L'attualismo monistico come naturalismo. La presenza pura. La
coscienza della presenza pura. Il rapporto tra atto ed oggettivazione tra
presenza e pre-sentificazione. Importo teoretico dell'espressione
"Verum et esse convertuntur". La metaforicità intrinseca delia
parola. La "cosa stessa" come l'intero di se stessa. L identità
pensare-essere. Il riproporsi del pensiero su se stesso come origine
della parola "cosa". La duplice funzione della parola
"cosa". Le condizioni ad un indagine critica. L atto critico o
negatorio come atto di pensiero nella coscienza. La ricerca del mezzo logico
adeguato e l interrogazione. I limiti teoretici delle asserzioni condizionate
da interessi. La riduzione pretesa del "sapere" al
"potere" e il concetto ateoretico di "teoria".
L'interpretazione matematicistica nei suoi limiti. La teoria come formulazione
generale. La radice dell'interpretazione matematicistica. Le
condizioni imposte dal concetto d interpretazione. Il carattere teoretico
del controllo sull esperienza. Lo spostamento del limite come essenziale
alle determinazioni. La determinazione come ritorno dell atto: totalità
di definizione e totalità di esaustione. La totalità di definizione come
"essenza". L' atteggiamento fondamentale umano operante nella
definizione concettuale. Il modo indiretto dì dire l'essenza.
Originarietà e mediazione nel discorso metafisico (Il "Tema";
Svolgimento delle indicazioni teoretiche del "Tema". L'originario
come implesso esperienza-discorso. L'"Esperito" e l'"Esperienza
integrale". Il significato dell'"Implesso"; Il senso
dell'"Originarietà" dell'"Implesso". Il concetto di
meditazione e la teoresi del fondamento (L'impostazione; La
"sospensione" degli enti dall'essere). Giovanni Romano
Bacchin. Keywords: il discorso metafisico – a new discourse on metaphysics,
from genesis to revelations, etymologia di ‘autentico’, l’esperienza e il
disscorso, implesso esperienza-discorso;
anypotheton, haploustaton, anypotheton hypotheton, supponibile,
insupponibile, haplloustaton, superlative di haplous, simplex, simplicior,
simplicissum, simplicissmo, complesso, simplice/complesso, simpliccismo,
simplicissimo, complessissimo, complesso proposizionale, semplice
sub-proposizionale – implesso, analisi del concetto d’impicazione – senso e
significato – senso e segno – proposizione – funzione proposizionale –
Whitehead. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bacchin” – The Swimming-Pool
Library.
Bacci (Sant’Elpidio al
Mare). Filosofo. Grice: “You’ve got to love Bacci; he was born in the Italian
equivalent of Weston-super-Mare, and therefore, he dedicated his philosophy to
swimming!” – Studia a Matelica, Siena, e Roma. Scrive “Del Tevere, della
natura...”. Pubblica il “De Thermis”, un saggio sulle acque, la loro storia e
le qualità terapeutiche che venne accolto con entusiasmo. Dopo aver ottenuto la
cattedra alla Sapienza e l'iscrizione all'albo dei cittadini romani, e nominato
Archiatra pontificio. I saggi “Delle acque albule di Tivoli”, “Delle acque
acetose presso Roma e delle acque d'Anticoli”, “Delle acque della terra
bergamasca”, “Tabula semplicim medicamentorum”, “De venenis et antidotis”, “Della
gran bestia detta alce e delle sue proprietà e virtù”; “Delle dodici pietre preziose
della loro forza ed uso”, “L'Alicorno”. Il monumentale trattato “De naturali
vinorum historia”, un compendio in sette libri su tutti i vini conosciuti.
Tratta temi relativi alla vinificazione e conservazione dei vini; Consumo dei
vini in rapporto alle condizioni di salute; Caratteristiche peculiari dei vini;
Uso dei vini nell'antichità classica, Vini delle varie parti d'Italia, Vini
importati a Roma, Vini stranieri. Note
DBI. Andrea Bacci la figura le
opere, Atti della giornata di studi tenutasi il 25 novembre 2000 a Sant'Elpidio
a Mare. Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina
dedicata a Andrea Bacci Collabora a Wikiquote Citazionio su Andrea Bacci Mario Crespi, Andrea Bacci, in Dizionario
biografico degli italiani, 5, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. De Naturali Vinorum Historia De Vinis ItalEae et de
Conuiuijs Antiquorum Libri Septem Andreae BacciI Traduzione del libro Quinto
nella parte dedicata ai vini delle Marche, Gianni Brandozzi, Associazione
culturale Giovane Europa, Filosofi italiani del XVI secoloMedici
italianiScrittori italiani Professore1524 1600 24 ottobre Sant'Elpidio a Mare
Roma Enologi italiani. In quo agitur de balneis
artificialibus, penes instituta recæperit, hoc tempus non esta deo compertum,
nisi quantum legitur fuisse antiquissimum. Nam ex omnibus monumentis quæad notitiam
hominum peruenerunt, vetustissima huncritum lavationum, perinde necessarium ad
communem vitam commemorant. Balnearum enim mentionem invenio non modo ante
ROMANORUM IMPERIUM. Sed ante asiaticos etiam et chaldæos extitisse.
Imòsiiactatis, antequam ulla extitissetliterarumin ventio, dicterija credamus;
extat apud Pisandrum id circo Calida balnea fuif fe natura bal. cognominata
Herculea, quòd Minerva olim fesso Herculi calida parasset. Vel veterum et
Galeni in Thermis primus la tascoengerit quodammodo ad lauacra homines. Quippe
ean ecessitas, quæ uationumv a primordio rerum monstrauerat mortalibus ex
agresti vita victum quærere, sus. Tecta construere,abæstu&
frigoresetueri:eadem & fordesabluere,mun ditiæquecultum monftrauit.primo
quidem quantum vitæsatisfaceret,donec paulatima liqua industriaadhibita, laffata
corpora mollia quarum foturecrea reedocuit. Verum quando id inftitutum locum
aliquem in REPUBLICA HABE ROMANORUM, VANTA fuerit naturæ solertiaincumulandis
gratijsaquarum spontemanantium et quæ differentiæsinttùm simplicis Elementi, tùm
consequentes ex misturi. Et quisvsusearumin balneis. Hactenus proeoac potuimus explicauimus.
Quis enim pro dignitate naturæ, speciales proprietatescunctarum aquarum sermonem
consequi audeat? In hisautem quæ ad thermarum vsum dicendarestant, sirectèquis
thermarum ARTIFICIALIUM magisteriaconsi dignitas. deret, summum artis cum
natura certamen videri poterit. Ut tnesciam anadeo sciuerit natura elargiri mortalibus
tota diumentorum materiam, torqueadeo diuinæ dispositionis ostentare miracula
inaquis. Quanto maiora funt, quæ arsaddiditornamentain Thermissuis. Præsertimfubila
ROMANI IMPERII maiestate. Inquarum monumentis,quæ exeispartimvidentur et
partimle gunturapud varios authores, nons atisconstatapudme vtra fuerit maior, an
magnificentia operis ad illorum temporum instituta, an commoditas popu.
larisadvtilitatemlauationum .Principiononeftdubium fiprima quasiin cunabula
cæterarum rerum coniectemus , quin ipsa vitæ , ac naturæ necessi quia
quia eidem (vtAthenæus est author)vulcanusmuneris vice feruida suppo
fuisset. Etlivera credimusre tulisse Platonem tamspectatæfapientiæautho rem,superatomnium
seculorummemoriam, quamipsetraditexantiquissi mis monumentis, de Atlantica maxim
a olim insula n u n c Oceano ipso occupant aextram Columnas; quam Neptunimunere
cùmomni delitiarum genere Thermar r o n clarssima, hab u i f f c ( r e f e r t
i pse) etiam balneas quæ omni cultu ornatæ partim usus, quidem subdiuopaterent,partim
veròsubtectocalentiahaberentlauacrahy Είμαζα, τ'έξιμοιρα,λοιπάτε θερμα,καιανα
CUS Sexcenti sautem post Homerum annis,Hippocratesprimusmedicinæau 4.derat.
thor, Thermarumvsum curandarumægritudinumcaussa, tanquamreiiam in Græciacommunitervsitate
commemorat, ac damnauit aliqua. Floruitau tem (ut ratio temporum habeatur) natusprimooctogesimæ
Olympiadis (ut Hippocrates Soranustradidit)circàPeloponnesiacum bellum
:quod(teftePlinio)gestu estàtricentesimovrbisRoniæannoexactisanteàRegibusannos
circitersexa ginta,& ArtaxersePersarumRegemagnam Græciæ partem, &
Hellespontú occupante. Poftquæ temporadum Græciaindies Sapientiffimorum virorú
scriptis venirent illustrior, perpetua habemus de Balneis testimonia, Socratis,
Platonis, Aristotelis, cæterorum quesuccessu temporum authorum,qui& Aliam, &
PersiamnonfolùmGręciambalnearumvsumhabuissefamiliarem LaconesTber testantur. Laconesinter
Græcos antiquiores, primamlaudem Thermarum marimiznitanquam suuminuentumsibivendicare
videntur, Dioneauthore: ac abeis tores . pofteà huncmorem reliquas nations didicisse.
Quod confirmatpartiumno 36 mina in Thermis Romanis ,quæ omnes græcæ
suntvoces,laconicum,Hypo cauftum,Miliarium ,& Thermæ ipfæ, nedicam cætera.
Ex quibusconstat vsumThermarumapudRomanos fuiseposteriorem,aceasinæmulationem
Græcorum constructastestanturMarcus Varroin librode antiquis nomini bus,&
itemVitruuius.VeruntamensubilaRomaniimperijmaiestate, sicut omnes artes floruere,
ac inuenta prius ab alijs meliora cuasére, vnde meri to Roma QUASI ALTER A
MVNDI PARENS dictaest: itaomnium maxi mè Thermarumi nftituta incredibiles, &
supraquàm exprimivnquam pof sit,habuêreprogressus,eatamen obliterataferèad
hancætatem ,necliteris mandata, multisforsanèdoctishæcmeliusscientibus.Quamobrem
nos, volentes ad noftrarum lauationum regulam, antiquum Thermarum vsum rcuocarein
lucem; operæ precium eftRomanarum institutaprosequi:inqui bus quæ prima ipsarum
introducendarum ratio fuerit, quisordopartium,& quisvsus,& quæ tandem
ineis medicinæ pars extiterit,percurremus. In Critia, berno tempore, atque
feorsumaliaregibuspriuata,alia viris,aliamulieri bus,aliaitem equis, cæterişúeiumentis.Posterisveròseculispater
Home rus, cuiusscriptisnullumconstatapud Græcos testimonium antiquius,mul
toties calidaruin lauationum mentionem fecit. Præcipuè verò in Odysseæ lib. 8.vbi
Poëtaomnium fermèrituum memoriadignorum obseruátissimus, Thermas
indeliciiscommemorat illisversibus. vic. Homeri lo Aid δωμϊνδαίς τεφίλη, κιθαρίςτε,
χοροίτε, De affiduis primùm venatibus deditos ,necminusagrestibus operibusedu
catos, nonaliaferè industriatùm amplificandæ Reipublicę, tùmdefen dendæquùm
opusfuit, præualuiffe, quàmquoddurataiampacislaboribus corpora,facilèquodcunquemilitiæonussustineredidicerant.Inquo
perce lebremhabemus Quintium Cincinnatum , abaratroaddictaturamvocatum. Itemque
C. Fabritium et Curium Dentatum, qui rure ac militiæ laudatissimi, omni Spicula
contorquent, cursuque, ictuquelacescunt, Abhisergoexercitijs, vterant frequentes,
harena, puluereque conspersi, ac fudoreprofusiatqueoleo,vtseminudi
acexertisbrachijs,cruribusque,vel liberosaltemhabitu, quo degebant, vt effent admunia
propriores, necessario lauationes pofcebant. Qua dere, dum adhuc nouitiavrbs
inhis studijs Patres campum Martium vicinum Tyberi, in quo iuventus post
exercitium Lib.1. c.10 armorum, ludorem, pulueremque dilueret, aclassitudinem,cursusquela
borem natandodeponeret. Qui mos vt paulatim èreipsa, & quasi nemine Lauationes
instituentese in ciuitatem ingessit (quem ve plurimum soletese nouo rūrituum
inTyberi, introductio)itatandem crescente indiesiuuentute,armorumquefimulac
exercitiorumaffiduostudio,viamtamfrugiinstitutiaperuit. Sanèin ciuile videri nobilem
ciuitatem in luculentis Auminis aquis quotidielauari;aclaua craid circo Asiaticorum,
& Græcorum moreparandaesse,quæpostexercitia non ad munditiam facerentsolùm,
verumetiam recrearent, maiusque robur laffatis membrisadiungerent.Quod tamenpropositumlongissimèdistulêre:
nonquideminscitia,autvecordiatamgenerosæciuitatis, sed propter
Antevrbempueri, & priinęuofore iuventus. Exercenturequis, domitant que in puluerecurrus.
Aut acres tendunt arcus, aut lenta lacertis 7. Aeneid. Lauationum Deprimis Thermarum
institutis in vrbe Roma. Aris quidem constar Romanos illos Quirites,antiquosque
Sabinos, satissuntexemplonobis,hæcfuisseilliusseculiftudia. Non pecuniapræua
lere, non forma, nõ ambitiofo hominum comitatu , non stemmatis dignitate
certare: fed totamvimin proprijanimiexcellentia,viribuscorporis,acexa etacura Rei
pub. collocare. Feruebant honestælaudisemulatione ingenia,vt quosarma,&
propria virtus ad prim s ciuitatis honores euexerant, studio, ac laboreæ quarent.
Quare vbi militiæ in externosceffasset occasio, ROMANORUM quasi natiuo instinctu
dediti ad labores, autrurese agrestibus exercebantope-studia. ribus, autaddisciplinamac
roburcorporis, ciuilibus,ijsquevarijs exercita mentis vtebantur: cursu,disco,faltu,
lucta,& pugilatu,natatione, atque armis. Quem more man t è urbem conditam
fuiffe quoue. APUD LATINO antiquissimum, planèilis versibusrepresentauitVergilius.
necessitas. 36 strenuè adolesceret, præclarum habemus Vegetij testimonium
,constituisse gruentem ,au&taque fpatio temporis,spectatævrbisinfinitimasterrasautho
Aquaríper ducen.decre ritate; deaquistandem èvicinis montibus, Auuijsquein
vrbem perducen- tum. 1 (vtegoreor) potissimascauffas:Tùm quiaprimiili Patresnontamfrugifu
turumolimhuncritum existimauêre, quàm luxui, ac mollicieiforelenoci nium; id quod
accidisse, posteà declarabitur. Deinde ob aquarum incom moditatem ,quarum
incolles,vbitunchabitabantdifficiliserat,& nonsine maximaimpensa,perductio.
Verùmhoc laucitiædesideriovniuersimin dis, duas dis, decreto S. P. Q.
R. publico ftatutum est: quæ & potuum fimul,& laua tionumritui suppeterent.Quod
factum est primùm M. Valerio Max. P. De cio Mure Coss. (authore Plinio) circa 444.
Ab vrbe condita annum, aqua Tyberinarī Appia ex Tusculano per ducta, Censore Appio
Claudio curante. Aquibusté. porusdimif. poribus, Tyberinarum aquarum vsus ,adeam
vsque ætatem tàm potu, quá sus. lauacrofrequentiffimus,exolescerepaulatimincepit:aclauationum
simul, atque exercitationis gratia (ut tradit Festus Pompeius) Piscina publica
ad cli Piscina Pub.uium Capitolinum iuxtàTyberimestconstituta.Pofteà
Thermæconstructę. stitut& uationumduntaxat,conftitutæfuerant,haudmagnum
habuêre progressum. Visicùm auctaciuitate, simul
atquecrescenteindiesineisiuuentutisapplau. fu; semper maiorisearum capacitates ratiofuit
habenda.& præsertim vbime dicorum consensu incurationem quoque ægritudinum
suscipicæperunt.Ve rumtamenpostinitiadiuadmodum consuetum
fuitangustasfieri,actenebri cosas;nonenimcalidævidebanturnisiobscuræ;quem
admodum fcribitSe necaadLucillum,fuissebalneum Scipionis Aphricani ad Linternum.
Causa verò amplificationis Thermarum præcipua, fuit Palæstrarum adiunctio.
Quippe cùm apud Romanos veteres, ferèvfquead Augustum,nonadeo multa extiterit architecturæ
dignitas, nec adeo fuerit consuetudinis Italicæ.20 (vt desuotemporescripsitVitruuius,&
multoetiampost)cumPalęstrisLa uationes habere coniunctas;contentus quisque
ruralibus exercitationibus, ThermeadvelCampo ipfoMartio,&
harenaPlatearum;solasinThermisobibantla exercitia có uationes. Quo ritu ad
imperium vsque Principum perseuerante (vnde planè stitute.
constarepoteritThermas exercitiorum cauffa fuiffeinstructas)vbicunqueali qua
fierent publica edificia, ac populi celebritas ,iuxtà constituebantur &
Thermæ .Exemplo primùm Agrippæ clarissimo ;qui ob celebritatem admira
bilistempli Pantheon,atqueCampi Martij;iuxtà,Thermas suas extruxit.
SicNeroposteàNeronianassuasiuxtà Agonalem circum, ob Ludos,quiibi
fiebantcelebres,constituit. Necfecus(authoreSuetonio)TitusVespasianus
dedicatoAmphitheatro,Thermas celeriterextruiiussit:nimirùm ad Amphi Palestrari
theatri,& exercitiorum,quæineofiebantcommoditatem.Donectandem cum
Ther.illustratacuniImperijmaiestateArchitecturæperitia,moreGræcorum Palæ mis
coniun-ftræcum Thermis fuêre coniunctæ ,vbinimirùm generosa iuuentus,relictis iamruribus,atqueharenis,simul&
exercitationesobirentomnisgeneris,ac lauarentur.AtquehincnonsolumoperaThermarum
fueruntelegantiùsdi. sposita,atque admodum amplificata, sedtantam etiam
promeruerunt o m niumgratiam,vttotaciuitaspaulatim hancsusceperitconsuetudinem,fre
quentare singulis diebus Thermas, & tàm Senes,quàm consulares,atque
amplissimiordinisviri,necnonartifices,& matronæ.Proveteriinstituto,
acftudiovirium,promunditia,& prosanitate,atqueomnicuracorporum. Romanarum
Thermarum cenfura, atque Magnificentia, Quæ quoniamfrugiinprimis,obeam, quam
dixi causam et ad ritum la.10 Etæ 40 čtio. Cap. 111. A e c ergo initia , atque
hæc incrementa fuerunt thermaru m Romanorum . Primò quidem institutæob ritum
laudabilem ,quem exer citium ,& vitæratioillorum temporum inuexerat . Deinde
au 30 Therme con Therma auCtæobcommunemvtilitatem,&
magnificatæcumpalestris. Eradfum mam tandem amplitudinem, acmagnificentiamperductęobdelicias.quem
ad modum à nobis ex earum aliqua descriptionem on f trabitur. Quan quam id
quidem, prorei, atq;vrbis magnitudine, haudnostroindigeret testimonio,descriptio
quiMedicinęduntaxatineisinstitutaprofiteremur:nisiminusplenèomnes,curnecela
quide Architecturaconscripserunt, earummaiestatemexpreffiffent. Nam ria. quiddeVitruuijlibriseliciemus,nisinudaquædam
lineamenta,atqueeaqui Invitruvio dem nonadmodum
explicata,paucaquelocabalnearumsuitemporis,quan-censura. doperangusta,&
blactariafiebantbalnea(vtpauloantèexSenecætestimo 10
niodiximus)quæeiusætate,& poftcà maximè, locuminter primasædificio rum
vrbismagnificentiashabuêre?Minusàiuniorum scriptis,quimutatis
rebusposttotsecula,acminus concordibus, quifparfimdeeismeminerunt
authoribus;fatissibi,atquelegentibus fecisseratisunt,sivastamduntaxat Thermarum
dixerintmolem ,acDedaleioperisinstaradmirarentur,cùm ta men Romanarum rerum
magnitudo cunctarum nationum miracula supera- Medicorum. uerit , n o n in
Thermis folum. Minimè o m n i u m à medicis. Quos turpe h o dieadrectam lauandiægros
institutionem videri deberet hæcignorasse; indi gnissimumveròproea,quam
profitenturGaleniimitationem,quæ vixvlla essepotestsinehorumrituum notitia, inquibus
ferètotaeius doĉtrina versa 20tur. Quam obremoperæ preciumest, advniuersam instituti
nostril rationé, Therme an aliquam ThermarumVrbanarum,partiumq;ipfarúcensuramfacere.Princi-publicę,an
pioThermas fuissedecreto publico constitutas, (vt eftdictü)non eft dubitan
priuata. dum .Nam idmultæ declarantauthoritatesscriptorum,acmarmoreæ tabu
læ,inquibusvelSenatusconsultaleguntur,vellegespositæinThermis,ve! munera. Quę
exmultispofteàritibusdeclarandavenient,vtpotè,inaliquo
publicogaudiosinemercedepræstarisolitas;veloleum gratuitodari.incom muni
veròluctupublicèThermarum vsum interdicisolitum . Imò in priua
tispęnisexéplumlegimusapud Valerium Max.lib.2.Titio pręfectoobigno miniofam deditionem
Calpurnium Cor. Conuictum hominum , & balnearu 30vsuminterdixisse. Verùm
quinegantThermasoperafuiffepublica,memi sedinThermis:quarumhodieamplitudinem
,accelebritatem,hac sancta religioneintroducta , templanostra, ac pia
xenodochia immittantur. Quare & Thermæ Xeniædicte,quæitaapudgræco scognominarifolebant,
quasi hospitales,& gratuitæ, quo cognomina Thermarum publicarum vtitur
manı Thermarum nissedebent magnificos in eis Imperatorum titulos , qui
æternitate nomi- Thermarum nissui, tantioperismagnitudine
affectassevidenturacRomanis suis,velPo- magnitudi Oo pulo gratuito
constitutasindicant.Quo planum fitetiam,easfierioportuis secapacissimas. Non
enim in templistuncconsueuit populus congregari, quæidcircoangustafiebant,acsuisquisqueindigetisacpenatibuseratcon
tentus, Tuniorum, nis ratio. Therma xea 40.Vnde perperam inhistorijsretulit Volaterranus,
quiblice. M.Tulliuspro Cælio legitproSenensibus,cùm nus Francisci Patritij
imitatus, Senias primas verò scripta subSenarummenioria.Inter quam
balneainantiquislegantur, quarummeminititem palatine.,credo fuiffe Palatinas, atquehas
xenias per acpublicas ,ademissaria Aque Claudiæ adeaspofteå
Cicero,vbiSex.Rosciusoccisus ,authoreeodemSene ,earum cura erat publici muneris
Max. ductæ. Necminus ætatem, quails & Cato, & Fabius ca , nobilissimos Aediles
antesuam, acsuaetiam & alij, populum inthermis exigend imunditias gratia receptare
niæ dop H. 2 manutemperare folitos. Balneatorestamenin Plautolegimus,
& pofteain Balneatores M. Tulliopro Celio,quieiministerioaderant.EtIureconsulcus.Instru
et Balneato me nto inquit balneatorio legato, balneatores continentur, quoniam
sinerium lega ti. his balneæ vsum suum præber e non possunt. Producto autem seu
t i s annis instituto ipso ad luxuriam Principum, non solùm capacitatitantæ vrbis
con sultum eft, fed citrà vllam mensuram aut modum ,& (vtAmmianus aflimi
Thermarunlat)potiusprouinciaruminftar,quàmvlliusædificijforma Thermascæpe
numerus Ther.Impe runtextruere.Extatinterprimamonumenta,M.Agrippam
,inAedilitatis munere;quodpostconsulatum
gessit,gratuitapræbuiffebalnea170.quæ'po steasub Nerone ,vt testator Plinius,
ad infinitum auxêre numerum. Sextus autem Aurelius victorin censu partium
vrbis, Thermas , amplissima opera Imperatori axii. nominauit. Priuatarum verò balnearú,
quasad priuatosvsus Ther. Priua qui lautè viuerētsibiinproprijs domibus compararunt,
numerum exeodem ta. fubducimusferèdcccLx.quassuccinctèperregioneshicrecensebimus.Pri
m a s ergo h a r u m duo deci m n o n eft dubitandum, fuisse Agrippę Thermas, qui Ther. Agripeo dé authore Plinio, imperáte
Augusto eiussocero, multa & egregiainvrbe perfecitopera, ac Thermas
fuaslytostrato,acencaustopinxit,& pauimétaex Neroniana . vitropofuit.
ErantautemvltràCampum Martium adfiniftram templiPan
theon,vbinunclocusvulgòCiambelladicitur,vtquæinCampo & inAgo
naliCircoexercitareturiuuentus,hincTyberisnaturalem aquam,hincverò
calentiuminThermisaquarumhaberetcommoditatem ,vbilauaretur.Ineis verocùm neque capacitati,
nequeadeodelicijs consultumfuisset, eodem au. thore, successitquadragesimocirciterpofteàanno
Nero profusiffimusImpe. rator, quiad Agonalem ipsum
CircumsecundasThermassuonomineextru.
xit.Inquibus,vtscribitLampridius,syluasdeputauit;& nonfolùmdulces,
Alexandri.sedvelmarinasaquasinterdum ,velalbulasperAquæductusAnienisadduci
Hadriani Traiana. eum
fecissememinitSuetonius.PonitidēLampridiusAlexandrinas,abAle xandro Seuero
extructas in C a m p o Martio ,quas quidam easdem esse N e r o nianas putant ,
quam tanto imperio fastuo- 30 sam ,par
erathacquoquenoncareresuperbia.InIli& SerapideMoneta Regione, c ù m Titus
Amphitheatrum dedicasser, Thermas iuxtà celerite rex truxit, Suetonio;quæ
tertiæfueruntImperatoriæ,nimirùm inAmphitheatri celebritatem& commode (vti diximus)
& id circo breues. Quartæiuxtàhas Traianę, quas Traianusobhonorem Suræ, cuiusstudioad
imperium perue nerat,erexit,acTitiThermismaiores,vbiquæextantmiraAquarum rece
ptaculaseptemSalasvulgoappellant.PriuatæveròintotahacRegione Bal cömodianæneę
xxx .In Regione ad Portam Capenam, quintæinordinefuerunt Com &
Seueria-modianę,quarum &AlexandrumSeuerumaffectassenomenvidetur:etiamsi nę.
Antoniana. interpriores,acnoftrosantiquarios,aliquafitdelocis,&
temporibus,&
cognominumassignationevarietas.Inquapræterhas,extantalicuiusnomi nisapud
authoresciuium balnea,Torquati,VettijBolani,Mamertini,Aba s c antiani,
Antiochiani , & priuatæ aliæ Balneæ Lxxxv. Sextæ in Circo Maximo Antonianæ,
quasmaximas verè dixeris, Spartianoauthore,quieasm e
minitadradicesAuentinicollisAntoninumImperatoremcognomento Ca
racallaminchoasse,perfeciffeveròeundemSeuerum:mirahodie architectu ra, ratoria. pa. na . Agrippina. Titi.
instauratas. Adhæc P.Victor Hadriani Thermas. Et ex priuatis
BalneisintotahacRegioneLxu11.Eodemtemporeerexitquoq;suasTher- : mas iuxtàExquilias
Agrippina Neronismater ra,necimitabili,cumPalęstrisconiuncto.Inhac&
Varianæ,& Decianępo
sterioresnumeranturaP.Victore,necnonSyriacæaliæcognominatę,& Pri
uatæaliæLXIIII. Seueriquoque nominef uêrein TranītyberinaRegione Scueriane.
Thermæ, eode in Spartiano teste. Necnon Aurelianz,Vopisco. Balneuitem
Aureliane. Ampelidis, Balneum Priscilianæ, & Priuatæ aliæ 1xxxvi. Inter Esquilias
&Montem Celium, apud Titi & Traiani Thermas, PhilippiImp.Thermas
Gordiani. amplifl. ac pofitum estadperpetuamreimemoriaminipsabasylicadistichuin,deAngelis.
20 quodlicànobisestrestitutum. QuæfuerantThermæ,nunctemplum estVirginis,auctor
El Pivs ipsePater,cediteDeliciz. ruptèdicuntur,&PriuatæintotahacRegione
1xxv.Porròrecenseturinli. 30 EsquilijsRegioneOlimpiadisLauacrum ,vbisummo
colliculoSanctiLau Vltimæ Cæsarum nomine, Constantinæleguntur ThermæinCliuoMontis
Quirinalis. Quas non reparatas , non d e integro ex tructas à Constantin o e x
i ftimo, cùmvetuftofatis appareant opére. Necnonmarmoreæ tabulætestimo
nio,quodlegitur:HAS CIVILI BELLO DEVAST ATAS QVANT VM PVBLICÆ PATIEBANTUR
ANGVSTIÆ PETRONIVS PERPENNA RE STITVIT. Propèhas L.quoq; PauliBalnea,quæ
vulgòBalncaNapolicor- BalneaPau rentijinPanisperna,monialium
ecclesiahodiecelebratur.AdcliuumcollisàOlympiadis. SuburraAgrippinæNeronis,quod
diximusBalneum, & infràNouati ciuis alix balneæ, vbi S. Pudentianæ est ecclesia.
Et Priuatæ aliæ in totum lxxv . Subinde vede Priuatisreliquisbreuiteragam
:erantinquartaRegione,vbi& Templum Pacis, Priuatæ BalnexLxxv.cum Daphnidisbalneo.
InCeli montio xx. InviaLataLXXV. InForoRomano iXVI.InPiscinaPubli. caxlinn . InP
alatioxxvi.PluresinMartialesparsimlegunturThermæ, Tuccæ,Hetrusci,Grilli,Lupi, Fortunati,
Pontij, Seueri, Fausti, Peti,Ti ti, Tigillini, quarum locanon assignantur. PorròextraVrbem
nonminor Thermarum cultusessedebuit,vtexquarundam preclariscolligimusm onu,
Constantina. mentis. Erantad Hostiam P. Tacij Thermæ,centum Numidicis columnis
Thermeer Ooij adscribit Pomponius Lçtus. Necprocul Gordianorum Domus, quam
descri psitIul.Capitolinusadmirandam ,ducentascolumnasvnostilohabentem ,&
cum Therinisadeolautis,vtprætervrbanas,vixaliæfimileshaberenturin toto orbe
terraru m . In a lta Semita Regione, Viminali colle , Diocletianæ ex -
Diocleti.1 1. . tant Thermæ, quasincçperatquidem Diocletianus Imp. cuni ordine
exactif simo, atque amplissimoPalestrarú omnium generum ,inquarum opus quadra
gintamilliaChristianorumeum addixisseaccepimus. Ob magnitudinem tamen (v tin Marmorea
tabula legitur)CONSTANTIVS ET MAXIMIANVS OMNICVLTV PERFECTASROMANIS SVIS
DEDICAR.Hę,cùm in fermè ædificio admirandæ permanerent, hodieCartusiensium Mona
tegro sterioSacræ, Pio Iu11.Pont. Max.subtitulo Sanctæ Mariæ de Angelis
magnificèrestaurantur: Curante M. ANTONIO AMV110.S.R.E.CARD. S. Maria exornatæ.
Arpini suas instituitThermas Cicero ,scribens ex Asia ad Q . Fra
trem.ErantinLucullano,quænuncFrascativulgòdicitur,LuculliThermæ, vbi nos
integra vidimus Hypocausti vestigia . Ad Baias autem Thermæ Baians.
erantprætervrbanas,supraquàm quisoptarepotuissetvoluptuofiffimæ,na
turaipsaibiaquasvberriinèfuppeditante,gelidas,calidas,& plurifariâfalu
bres,quasfatisinsuishistorijscelebrauimus.Quid verò hìc cęteras Italię pro
sequar Philippi. Trarbem L. haberet? Quinetiam Rusticanas, inquibusfamilia
(vt inquit Columella,& Rusticana. exeoPalladius) ferijssaltemdiebuslauaretur:
nequeenimfrequenteniearū vsum robori corporis operariorum conuenire. Similiterhunc
morem acce Aquarum maris, & portuumcommoditate, aquarumduntaxatsustineretpe-':
nuriam;hacinpartevenisseincertamenquodam modo cum naturavisaest, vtaquarum
quoque essetabundantissima. Itaquecumhocdesiderio,crescen
teindiesinstitutoThermarum,& modò aliaatquealiaadducta multo spatio temporis
in tantam aquæ venêre copiam, vt Augustiætate, Strabone teste,pervrbem ,atquecloacasomnesinundareviderentur,&
vni uersæpropemodum ędessubterraneos meatus, syphones,acfistulasvndo
sashaberent.Quo temporeM.AgrippaAugustiipliusgener,quem complura
invrbefecisseconstatopera,cultu,atqueedificiomagnifica;aquarum Cu
ratorperpetuus,authorePlinio,alijscorriuatisatqueemendatis,& alijs nouiter
adductis,septingentos lacus fecit.Pręterea fontes c v,Castella cXXX. 40
Lacusintelligoex Frontino, alueosbreuimuro,inquibusaquæ reciperen tur,&
aliaexalia,vtfiuntapudnos Fontane,Lauacra,Fullonum stagna,
jumentorumaquagia,& huiusmodipublicacommoda. Fontes, quiprimas a c f y n c
e r a s e x Castello funderent aquas, pauciores id circo quàm lacus. C a
stella,certaAquæductuum receptacula, ad MęniaVitruuio,&inviarumdi uortijs,
vbi aquarum facienda esset distributio.Quale etiam num visitur in E r quilijs
Castellum aquæ Claudiæ, indiuortio ad portam Maiorein nunc dictá et adpisse
reliquas Provincias, quibus Romani imperassent, in transcursu diversarum
lectionum obseruauimus. Prætermultas, quaslegimus Romanis anti Lacus in
vr sequarThermas,cùmeatempestatevulgòvilaquælibetdiuitumfuasbalneas
quiores,vtquasprimasinGreciadiximus,inAsia,inSicilia,& apudPersas Hebræorum
DarijThermas,quasPlutarchusdescribitditiffimas, & lautiffimas. EtIose
Hifpanorum phus Hebrçorum Thermas ad Ascalonem , ad Tripolim , ad Damascum , ad
Ptolemaidam. Hispaniaqua calidalauari poftfecundum bellum Punicum à 10
Romanisdidicêre,anteànon consueueruntnisiinfrigidalauari,authorIu
stinusHistoricus.Multæ occurrunt apud authores Thermarum memoriæ ,in
Germania,inGallia,inBritannia,aclongè pluraipfarumvestigiavisuntur in Italia, in
quibus vidi sępius per inscitiam etiam doctos virosobstupescere, alij
Theatra,alij Labirinthos, alijmemorandas moles alicuius sepulchri ia
ctantes.Quarum tamenritumlegimusvenisseadeocommunem ,vtnonco lonias, &
municipia solum ,sednemo dignè tùm Romanam militiam profi terivisusesset,quinon
haberetsuabalnea,& gymnasia, inquibuscommi litonessuiexercerentur. Quod de
CleandroTribuno equitum Commodi Cęs.meminitHerodianus.Indomesticisveròvsibusbalneum
eratviainci-20 bum ,vtnotauitArthemidorus .Cuiusreipassimhabentur exempla,quùm
ex itinere,labore,acexercitio quopiam balneum primò ingredi consueue rint,&
pofteamolliaquarumfotu recreatiaccumberent. De aquis vrbanisad vsum Thermarumadductis.
Externe. aqua ;haud copiaivrbe bequid. Fontes V Ros
autemRoma,cùmprætercæterasgratias,quibuseamaltissi
musdecorauit,salubritateaëris,situagriadimperium opportuno,zo adportamSanctiLaurentij,quod
pofteàC.Marijtrophæisinsignitum , adhuc illius retinet n o m e n . Porrò
fingulis castellis aquaruin erant propositi Trophça
suiCastellarij,vtpræclaroquod Romæ legitur epitaphiocostat. D. M. Clemen
Aquarum propria commoda. Mirariveròlicet inprimis ipsarum ductuum fabricam, duétuumma
dignam planècùm magnitudine operis, tùm certè publicaipsavtilitate, quęgnitudo.
Pluribus mundispectaculisproponendaessevideatur.Molesingens,àdimi
dioferèItaliæquædam perducta,partimexcisisac perforatismontibus, par
30timascendens, partim abimis vallibus perimmensosarcussublata, quibus
Aufeia,& 20 fue xit. Etanteà lib. 31. cap. 3. Clarissima inquit Aqua ruinomniumintotoorbefri
goris, falubritatisquepalmapræconio vrbis Martiaest, inter reliquadeûn
damlociscentum& nouempedesaltitudinismensurantur.Vniuersamverò omnium censuramitahabuitFrontinus.AltissimusAnioestnouus,Proxima
Claudia,Tertiumlocum tenetIulia,quartum Tepula,dehinc Martia,quæ capiteetiam Claudiælibramæquat,deindeAppia,omnibus
humiliorAllie tina. Primaverò,vtpropinquior,& maximècommoda,Appiaadducta co
ftarexTusculano:Cenfore(vtfupradiximus)Appio Claudio,annovrbisAppiaaqua quæ
perportam Capenam ,nuncSanctiSebastiani,inocto vr munera
vrbitributa.Vocabaturhæc quondam Aufeia.Fons autem ipfePico nia. OriturinvltimismontibusPelignorum.TransitMarsos,&
Fucinum La piconia tempus addu tiCæsarum N.SeruoCASTELLARIO Aquæ Claudiæ fecit Claudia
Saba tis& fibi& fuis.Extat Senatus consultum apud Iul. Frontinum
,quoaquam non eratpermissum nisiexcastelloadducere,ne autriui, autfiftulæ
publicæ lacerarentur. PublicisidcircoThermis,propriacastellavidenturfuissecon
ftituta: qualiavidemusintegraadDiocletianasThermas,& adTraianas,mul
tipliciopereconcameratas .In Priuatisautemprima Censorum,aut Aedi
liumeratauthoritas,quorum arbitratupermodulos,digiti,velvncięnomi
necertoannuosolutovectigaliconcedebatur. Legequecautum codem te fte,ne
quispriuatus aliam duceret,quàm quæ exlacuredundaret,quam ca ducam vocabant :
& hancipsam non in alium vsum quàm balnearum , aut
fullonicarumdariessesolitam. Omnem aquaminpublicosvsuserogari debere.Cæterùmquotnumeroessenthæaquæ,quæ,quonomine,&
quo tempore,& vnde adducerentur,breuiterpercurrendumest.ScribitPro
copiusIustinianiCæs.fcriba,Romæ quatuordecim fuisse aquarum ductus, excocto
latere,ealatitudine,acprofunditate, vtferèequesteripsocúequo pereosposseteuadere.
Nos Frontinum imitati, qui Nerva imperante pręfuit hisceoperibus curator perpetuus,&
fcriptis cuncta sid elitermandauit, octo aut nouem suo emissario per ductas
dicimus. Quę fuerunt ex ordine, Appia, Anienisvetus, Martia,Tepula,Claudia,Anienisnouus,Iulia,Allietina,&
virgo:etiamsipofteàduplici,acplurinomine,vtvsueuenit,fuerintcogno minatæ. Nam
poft Frontiniætatem, non aliamlegitur, prętereasfuiss ead ductam, nisieasdem àdiuersis
Imperatoribusautinstauratas, autseductasad bi sRegiones exviginti caftellis distribuebatur.
Quadraginta veròannispo- tus. fteà, exmanubijs PyrrhiRegisEpiri,SpurioGarbilio,L.PapirioCoff.prima
Anienisadductafuit,vtetiamcommodavrbi,& altæoriginissupraTybur.Martiaquę.
Tertia fuit adducta Martia, dicente Plinio lib. 36.c.15.Q.Martius iussusà Se
natu Aquarum Appiæ, & Anienistegulaductusreficere,nouamànomine suo
appellatam , cuniculispermontes actis intràpræturæ cum, Marü. Anienis ve Oo i
1 Triana . cum, Romam non du biè p e t e n s . M o x specum e r s a in
Tiburtina s e a p e r i t n o .
uemmillibuspassuumfornicibusftructisperducta.Primuseam invrbem per
ducereauspicatusestAncusMartius,vnus exregibus.Poftea Q.MartiusRex inprętura, rursus
querestituit M. Agrippa. Hæc Plinius. Hancdemum& Traia namnuncupatam
aseritFrontinus,àTraianoinAuentinumvsq;protracta.
QuartafuitTepula,quaabagroLuculli,quéinTusculanoexvarrone legimus Tepula,. Gn. Seruilius
Cepio,L.CasiusLonginusCollin Capitolium perduxêre, via , quæ PortaMaiorhodie appellatur,claristitulis
Cæsarum, Claudij, Claudiaque VespasianiT, iti,& M.Aurelij. EamquidemdestinaueratpriusCaligula,per
& Curiadaduxitveró Claudiusabvsquexxxvi.lapide, viaTiburtina, èfontibus Cæ
Cerulean ruleo,Curtio,atque Albudinocollectam,quibusfæpènominibusscribitur.
Adduxithiç & alteramAnienem,cuiductuiaddifferentiamveteris,Nouus
Aniocognomentumfuitinditum,Frontinoauthore,qui& ipfumpofteàre Fons Albu
ftituit.Concipiturautemperagrum Tyburtinumxx,milliario,operealtili-.
moadPortamEsquilinamadducto.AquamveròIuliamadmiscuitcum Tepu
laM.Agrippa,viaLatina,quæabAurelianoiterurmeftituta,eiuscognomen
Juliaquęegassumplit.Ållietinam,quam& Augustam, miratur Frontinus Augustumpro
Aureliana, uidentiffimum Principem per ducere curasse nullius gratiæ,imò &
parum sa Alietina, lubrem ,nisi fortecùm opusNaumachiæ aggredereturtransTyberim.
Qui dam ob hoc eam intervrbanas aquas non numerant. DE AQVA VIRGIN E,QVAM
duxitAgrippa,vtPlin,meminitlib.31.c.3.& deinde Claud.Cęs.Pri mum
veròauthorêCaium Cęs. fuisseindicantmarmoreæinscriptiones,quarú 30
vnaineiusaquæductuitalegitur. Tit.CLAVDIVS DrusifiliusCesarAug.
Nominisra-ductusaquæ Virginis destinatosper Cæs.àfundamétisrefecit, acrestituit.Vir
ginis porrò nomen (vt Frontinus scribitnobilis author de aquis vrbanis ) ad
cafum fuithuicaquæ inditum:nam quærentibusa quammilitibus, puellam vir g u n c
u l a m quasdam venas præmonstrasse, ac il as sequu t o s in gentem a q u ç
moduminueniffe.AediculaidcircoVirginisfontiapposita.Quod nomen
posteavidenturadsciuiffe Dianæ, ac Triuiænuncupaffe, quasi Dianæfonsdi Fons
Diane triplex habere dicebatur numen , celebrarisolita, necnon à
triplicifonte,qui- 40 bushæcaquaconcipitur. Vel (vtquibusdamplacetantiquarijs) virginisno
futurna menindicasseIuturnam,quam Nymphamsic dictam (testeVarrone) quòd Nympha.
iuuaret,invotisfuisehabitaminfirmis,quiexeaaquabiberent,facramque in via .
simulat que puteum, qui extat, dive Mariæ
Virgini fuisse consecratum, vt r a n In Triuia.
libetquiseiusnominisinterpretationem accipiat,verumtamen eofitmagis
verisimilisnoftrafententiahuncfontemfuissevirginéàDiana,& Triuianun Meuiæ
,quæ dinus, Anio nouns 20 vocant Şaloniam , tio. Vel Triuię. & aqua Diançsacra,quęveteribusvirgohabitaest,&
in Triuijs, vt AQVA autem Virgincquoniamsolahæcadnostramhancætatem Romam
perducitur, altioraliquantosermohabendusest. Eam per cupa Primus aute D thor,
ceretur, 10 Latina dextrorsus ,longex1, milliapaff. subterraprius, deinde arcuato
opere. Quinta, ac fausti nominis fuit aqua Claudia,vtinfrontispiciolegiturPortæ
id circo hanc ædemei fuisse constitutamasseruntiuxtaipsum fontem ,quam Sinct.Mar.posteàReligioneintroducta,insuperstitionempræteritiseculiabolendam,
JO est Herculaneus riuus, quem refugiens, virginis n o m e n obtinuit .
Hactenus Ductus lon Plinius. HabetautemductuslongitudinesàcapiteadipsumTriuijfontem,girudo.
spatio a bestàvia Prænestina,dicente Plinio.Marcus Agripa & virginéaddu ”
xitaquamaboctauilapidisdiuerticuloduomilliapafsuú Prænestinavia:iuxtà (vt
Frontinus dimensus est) milliariorum XIIII.n a m vbi fpecus subit montių ,
vbicircuitcolles,velvallesæquatarcuatoopere,multoshabetflexus. Pro greditur Anienemfuuium,acintersectaTyburtinavia,
& exinde Nomenta na, & proximè Salariavia; tandeminter Collatinam Portamque
estsalaria, & Puteus Po. Pincianam sub colle Hortulorú , qui est hodie
Sanctæ Trinitatis, ad Trivium litianus vicum exilit fonte. Subitautemeum
collempro fundiffimnospecu,cuiusho die puteus altissimus repertus estin medio
viridario, quod magnifico, ac con spicuointotāvrbem ædificio ibi constituit Cardinalisamplish.
POLITIA. 20NVS,& vtrinqueduæ eiusaquæ marmoreæ inscriptiones.Tı.CLAVDII
nomine. Etquo digno tum fuit magnisilis Romanorum Architectis, erita; omni
futuro seculo memorabile Camilli Agripæ Architecti inventum, salientemsuaptes ponte
facit aqua (impulsam tamen in æreum tubum rotis ræ, primam fanèlaudem promerentur
Sanctiffimi D.nostriPivs IIII.& qui - statim ei successit Pivs V. Pont. Max
. quivirginem ipsam aquam ad Virginisper pristinamantiquorumformamperducerecurauêre.Quippe
lapsu temporum hæcaqua varias subijt mutationes,& quodmirum eft, vsqueà Plinijtem
lutem. Pofte àc raffantibus in Italiam,& invrbemipsamtotbellis,acvaria
rumgentium incursionibus: plana in historijs monumenta habentur, quæ ductio. Refert
Platina, Adrianum patria Romanum Pont. Max.d omitisiamaf. Adrianiin
fi&isque Longobardis, anno falutisnoftræcirciter MCCLXXVI. Virginis Stauratio.
Aquæductum dirutum, cumalijsvrbisaquæ ductibus restituisse. Donecite
rumnonmulto poftdirutus, protantarerum ,quæsuccessitcalamitate, nuf quam prætdr
e a videtur fuisse restitutus. Nam quod i n i p s o Trivii fonte legi Nicolai.
tur, Nicholaumv. annoabhinccxII. Virginem fontem restituiffe, planevi detur is Pontifex
haud vllam antiqui ductus huius aquæ partem instauraffe;
sedconfluentesduntaxatèviciniavenascitràpontem Salarium prorefugio vrbis collegiffe,
quæeftminimapars; virgoigitur aqua octauo (vt diximus) est Salonia. Milliario concipitur,vbi
nunc locusà Salone dicitur: Quæcunque fuerithu ius nominis significatio apud
vulgus, quod,vt consueuit huiusinodi aqua run conceptaculafalasdicere,forsan
& hoc obamplitudinem areę Salonem nunc uparit, dicente præsertimFrontino,hunclocumvnde
virgo aqua con- Riuusnúad iicitur, palustrem fuiffe, & vt scaturigines contineret,
lignin operecom-mititur. 40 cupatum, quod nomen ipsum ædis Sancta Maria
invia , vulgari (vt videtur) vocem utila dicitur, pro Sancta Maria in Trivia, vbi multa cum devotione
Beatæ Mariæ Virginis etiam num ea aqua ab infirmis bibitur. De Fonte ergo ipso
quia d huc in Triviæ vico celebris est, non est dubitandum. De origin e a u -
Origo. tem , Pliniusa pertèdicit concipivia Prenestina. FrontinusautemCollatina
ad milliariumoctauum, quæ vtquidam putant,duorumcircitermilliariorü
pore(vtipsememinit )cæpithuius aquæ fimulatque Martiæpenuria: Ambitione (inquit)
ac auaritia in vilas,acsuburbanadetorquentibus publicamsa Artificium per Usurpatio.
Herculews ipsam aquam volubilibus, &
machinis) quæ eximo puteoads ummam planiciem. paffusexilitfonte, actantavbertate,
vt non hortosfolùm,fed & totam quoque subiectam vrbis partem reddat irriguam.
Cuiustam frugiope Agrippe. mu 4 OO 111) munitum, quod nunc quoque visitur
aliqua parte. Iuxtà estriuus Herculaneus. quemtamen non admittit, tùm quia locus
palustris humilisque est, ac v l i g i n e totus obsitus; nec aquæ est satis
vtilis: tùm qui a satis fupe r q ; adeam
formam aquæductus Salonia est. Neceum riuum admisisse antiquos,satis apertè de clarantea
Plinij verbaiam allegata. Iuxtàest Herculaneus riuusqué A Salinis refugiens Virginis
nomen obtinuit. Nec secusdimittendaeorum sententia aqua . est,qui ad Salinas
vocatas à Frontino aquas pro Salonia acceperint: cùm hæ longiusinfluantà Salone,
sinistrorsusàvia Præneftina, vcidem Frontinus inquit,passuum
septingentorumoctogintaquævelAppiaaqua,velAppix Appi&origo carestudeat, piètamen
& public vtilitati consulens, opus tàm frugiprofequu Vltimaper tusest, aquamqueVirginem,adeototseculisdesideratam,
hocanno,acmen se MDLxx. decimoseptimo Calen.Septembris, cummaximo totiusvrbis
applausu, ac gaudio perduxit in totum. Consultistamen prius (vt Sapientissimum decet
Principem) Medicis, àquibus & bonitatem aquæ, et vtilitatem, quam præbere posset
huic almæ vrbì re latam comprobauit. Qua dere Naturaem hæc mea eft sententia: Sanè
magnum argumentum bonitatis huius aquæ hoc Qualitates esseexistimo, quòd hæcaquafueritinvsu,
vt nunc quoqueeft, longiffimis seculis. Quippe hæc primas sempermeruit laudes
simulcum aqua Martiain tercæteras vrbisaquas. Authore Pliniolib.eodem
31.cap.3.d.Quantum vir gotactu(hocestfrigore)tantumpræstatMartia
haustu:alternantehocbo tactusintfrigidæ, easnonperinde(laudabiles) &
haustuesse. Hæcs uccinctè Plin. Hác aquam Martialis cognominatcrudam, ilisuerlibus.
Ritussi placeanttibi Laconum, Contentus potesaridovapore 30 te influentium, &
tepidarum, & frigidarum aquarum; hanc specialiter vsu Ab experi- balnei comprobat
frigore, & profrigida, metri causa dixitcrudam. Velcru mentis. Dam intelligas
eum dixisse in comparatione aquæ Martiæ, quæ (vt dictúest) vtilior haultuerat, virgo
tactu. In experimentis, tardius hæccoquit legu mina, accibariareliquaque Tyberisaquęlimpidę,&
Cisternalesaliquę.nimi rum quia fluuialeseiusmodi, inrespectu fontium, omni
exutæsuntcrudita te,ac pluuiales magis aëreæ . Cæterùm hęcaquanullis fontium
aquis vide- 40 turmeritò postponenda. Cætera veròquælegunturaquarumvrbisnomina,
autvariæduntaxatipso nomin e sunt, sicut iam plura ali c u i a quę adduximus
nomina :a u t externę sunt Crabra. Sabatina Lacus Saba saporem, inter vrbanas non
adnumerant. Nec Crabram,quæ erataliaaqua, aquæ,nonvrbanæ. Quomodo quidam
Alfietinam, itavocatamobingratū tis.Amnis
Tusculanis,vndeaduehebatur,relicta.NecSabatinam ,quamàLacuSa Larus . batis, qui
hodie est amnis Larus, nouissima momnium aquarum breuimo. Io ductio. Martialis.
pars per Capenam portam , nunc Sancti
Sebastiani ducebatur in vrbem. Tota ergo virgo aqua Saloniaeft, multisvenarum, &
riuulorum acquisitionibus (vt Frontini verbisvtar) obitervsqueinviam Salariamaucta'.
Quam Pivs IIII. Pont. Max. vt delectabatur vrbem suam æternis monumentis, publi
cisq; idgenus operibus adornare,destinauerat.Pivs verò V. Pont. Max.cũ
fanèprimùm orthodoxamfidemnoftramàtotseculihuiuserroribusvendi no , vtquæ
CrudaVirgineMartiaquemergi. Quo nomine haud quidem cruditatisvitioeāhic Poëta
damnare voluit. Sed mirisex tollens laudibus Hetrusci balneum, blandicie
præsertim, & varieta dulo 20 qua q u a n ı diversæ à prædictis
aquæ. Quod vsu c u e n i t in eternis id gen us operibus, perpetuams ibiquisque
memoriamcomparare .ItaqueprimaTherma structuræ exemplo, nulloque integrèscriptoremandataliteris,
nisi obiteràmultis,& controuersè. Etquæobfitaadeovetustissimisiacetruinis,
vt quanquàm peritissimi multi hacętate antiquarij conquisitiffimè studuerint
easinali quamlucem reuocare:nonminortamenadhucrelictafit, magnis
etiamingenijsconfusio, vtquęsparsim dehislegunturauthoritatesscripto rum,cum
paucisquæipsarumapparentreliquijs concordentur. Inprimis
describendaessetixvoypapíce,basisquetantiedificij,quam noftriadverbúPlan
tamrectè appellant: at hæc diuersissima habeturabe aquam tradit Vitruuius,
neceadem dispositioin omnibus Thermis.Porrò, præterfpatiaplatearum, m i n a
esse tantum aut instauratorum, aut insigniu m e o r u n d e m constat, h a u d
ac additos lucos, hortosque immensos, ac Lacus, distinguenda effentloca
exercitationum àbalneis.Acloca propriacuique exercitijgeneriassignanda,
vbicominus, acbreuicirco, vbieminusfierent, sub Diuo, subtecto, in Xi stis. Et quæratio
fuisset exercitiorum in Palestris, & quali aexercitia.Quis vsus præter e a
totali a r ú partiu m: & quæ dispositio, Corycęi E, p h e b ç i, E l ç o
thefij, Conisterij, Exhedrarum, Spheristerij, Xistorum. Etdebalneis, fi singulæ
Thermæ plura habebant balnea, at dubiumnonest,quæ naniratio 30 distinctionis, ancommoditati,
an loco, an ordini, vtcunctis legitur fuisse consultum. An omnibus vnum essetcommune
hypocaustum :& feu vnum comm u n e o m n i b u s , se u c o m m u n e v n i
p a r t i t i o n i , vt verisimile fit , q u o l o c o
maximècommodo.Anbinæ& ternæ, quælegunturlauationes,eodem fie
rentbalneo,andiuerso.Etsidiuerso,aneadem pluribusferuiebat,ansin
gulisnouaaqua.Velquæ ratiotàmmiriartificijcalefaciendivna hora tantam aquæ
quantitatem, quæ innumerabili populo sufficeret? Vnde & quo certo
ductutantæ aquæ copia? Quæ ratio erat Pensilium Balnearum, quastantocú applause
Vrbis, & totius Italiæ quosdamintroduxisselegitur? Quibusadid valibus, aut balneis,
aut alueisvtebantur? Etsilabrislapideis(vt quidam pu 4 0 t a n t) quæ videmus
per Vrbem maximis : q u æ e o r u m e r a n t i n balneis dispositiones, &
quo situ ad aquas accipiendas? Etdebalnearijsrebus,quæ fanis expedirent,&
quæęgris. Quiddicamdelauandirituperordines;perætates, perleges,peranni
tempora,peripsaexercitia;acde innumerisdenique id
genuscircunstantijs,quasvelnon scriptasabantiquarijs,velper coniectu ramduntax attentatasà
iunioribus, merispotiùserroribus obscuratas, quàm explicatas invenimus? Quar e
n o s d u m h e c aliqua ex parte revocare in lucem intendimus, &
quævsuimaximè medico opportunasunt, exponere,nullam Fos Veneris 1 rum
instituta, atquemomenta Aquarum ductuum habemus . is fchnographia Thermarum, &dehisquetractandafunt.
Cap.v. Hermas verò per partesliterisinstaurare, haudquaquàm presentis muneris
est. Nec facile esset, pro tantæ molis magnitudine, n õ v n i u s dulorestituit Hadrianus I. Pont. Max.quam & Ciminam interim
appellariin uenio,àCiminoipsomonteinFaliscis, fonteVenerisdeducta.Drusaauté,
Ciminaaqui Annia,Traiana,Antoniana,Seueriana,Alexandrina,& idgenusaliæ,no.
ferè Dubia in Ther. 2 Oov ferèiuniorum positionemfequemur:sedquátum
exrationeillorumrituum, Spacia Thersimulatque
locorum ipsorum diligenti consideratione colligerepotuimus, percurremus. Spatia
in primis Thermarum videmus amplissima: atque ad eo vt quasdam vndeciesmilliespedumtotaarea
continere constet,authore Baptista Alberto in libris de Architectura. In Diocletianis,
quæ inipsaareaappa rentvestigia,præterspatiavndiqueplatearum,&
prætermembra,quæinfe riusacsuperiusvarijsThermarum ministerijsferuiebant,centum
continent partitiones, vario ac nobiliffim oordine. Nec mirum, siconsidereturpublici
çdificijmagnitudo,inquocommunis fueritratiomaximæciuitatisadexer 10 Magnitudo .
c i t i a corporis, ad balneas, ad disciplinas. In i s enim communia er nt studia , tamanimi quàm corporis, necaliaerantartium
gymnasia, vndefæpè apud authores Gymnasia legimus pro balneis. Necminus
addelicias: Nam ratio Gymnasia acresipsaostendit, nonfolùmvsuiinpartibus Thermarumfuiffe
consultum, verumetiamvtiuuentus faciliùsadea studiatraheretur, &
delicijsmaximè, & ornamento cunctarum rerum. Propterea Thermæ neque digniores
occupa bantvrbislocos,nequeintervilioresfiebantvicos,sedvbilocicapacitas,at
Forma Ther marum,ac partitið. queoperismaiestasrequireret.Vitruuijtamenętatenon
videturfuissecon suetudinis Italicæ (vtipsescribit)magnificareadeo palæstrasac
Gymnasia in Thermis: vtquibus satisad exercitiafacerenttùm Campus
ipfeMartius,tùm Agonalis,totCirci,totplatex,totaliaexercitationumlocapublica,
& priuata. Sed per angustas fieri, & paruas quales Agrippæ Thermas m e
m i n i t P l i nius.Pofteàveroperductoimperiovrbisad luxuriam Principum ,non m
o dò Græcorum more constitutæ,sed dilatatæfuêreamplius,distinctaquem e
liuslocaexercitationum ,acGynınaliaàbalneis.QualesAntonianæ,acDio
cletianædemaioribusextant,acmeliusdispositis:quarum sinunc præsumná
describeremagnitudinem ,non tam describere, quàm maiorem partem di gnitatis
earum mihi videbor minuere :sedharum m a x i m è,ad notitiam tanti ritus,
fequarvestigia. In his edificationis eratvaria forma, ac varia dispositio
partium : sed a r e a amplissima, q u æ i n q u a d r u m c l a u s a , tribu s
v e l u t i perpetuis circuitionibusdiuisaesset. In primovndiq;ambitu,quæ
męnioruminftar lib.s. 6. 11. totum edificium claudebant, errant gymnasia
exercitationum, varioordine, quædicemus. In secundo, longèlat eque spatia platearum
,Xista, acPlatano nes, ad exercitiasub diuo. In medio,totaipfamoles
Thermarum,quæ sunt membra balnearum ,Atria,simul atq; Xifti, & Palęstrarum
amplissimæ porti cus,vbi (authoreVitruuio) Athletæ perhyberna tempora intectisstadijsexer
cerentur, actranfirentstatim ad balneas, vtdelineataprimùmipfarumbasi,
distinctèmagissingulaexplanabimus, 4marum . Thermæ. Ther.Diocl. 1 Oo
vj Hexedra Lalitudopal. 200 choricen Calidaria FO х NAT MC) V
R a THERMARVM DIOCLE Longitudo Platego Atriolum Die Scola riú BВ Spheriferti H
Tostring 71 Apod TOD Schola Longitudo Ρ
Ι Α ΤΑ Laconica Hexedra Basilica Fngida Topida n uนี"
Agaagiâetlume ORIINS Hexedma Hephebri ATRIVM nPoarttaitciuosnis la карэхэн Spheristerium
200 Hacera Lpatlitudo. 2 Hemicyclus
Condste platego Porucus Tres Stadiate Theatric SET VN M M HT NONES
Hexedra A triolum sperifleriâ Laconicü Coniste Hephebell Hexedra pal . Kesedara
LongituPdloa . odyterium Hypocau Dico Engda Hexedra 'Jių rium Porticus Staduatę
Aquagiấetlume pal. OCCIDENS OS Tres salo ирэхэн ATIOTES TIANARVM ICON. ATRIVM n
Paotrattiicounsis Spenfterum I O O O. Basilica Tepida Frigidai Calidariú
Tõstrina A 5oC Hemicjclus sefala ridium PTENTRIO Scola 1
Departibus Thermarum, acexercitationumlocis. Cap.vi. N PRIMA ergo facie, quæestadmeridiem,tertiamferèpartemmediamoc
cupabat Theatridium. Quæparseratprincipalis,& tanğcaputtotiushuius
ædificij:vndeduplicem (vt quibusdam videtur) habebatvsum;alterum extrinsecus,
alterum intrinsecus. Ambitum enim exterioré ponunt fuisse a r c u a t o opere
distinctum ,& apertum ,quo exéplo patet, circūcolumnium poftbafilicam
Posticã. ecclesiæ Lateranen.Vnde. f.ingrederenturquafiper Posticum, fiuedextrâverte
rentur, fiuefiniftrâ per porticus, apertèvenirentinampliffimam plateam,ac
exindè quò vellent, fiue in palæstras, fiue in balneas. In conspectu verò
interiori ergaplateas,eratTheatrispeciedistinctumcũsedibus,vbi.f.populus,&
maximè nobilessubvmbrameridieisederetadludorūspectacula, quiinplateisexercitij
causa f i e r e n t. Partes verò quæ v t r i n q u e à Theatri d i o p l u r e
s s u n t , a l i q u i b a l n e a putant.Ná
quodrotundaformaestvtrinqueinversurisvnum ,pinguntessecali darium,&
consequenterponunt vnú Tepidarium,vnum Frigidarium,& vnum lib.5.c.1 Apodyterium.
Nec equidem nega uerim debuisse quæ d ã balnea s e o r f u m , & q u a l i extra
palestras constitui:partimmulieribus,partim artificibus,&hisquivenien
tesàciuitate,statimintrarent,& quasiextràconspectumpopularemlauarétur,
& abirent.Verütamenhæcnonfuiflebalnea,hauddubièvidetur:nam iuxtàeá ria
Sacella. appictionem ,nullus hicvidetur Hypocaufti locus:quoddebuiteffeinmedio,
& communevtriqueordinibalnearum ,tefteVitruuio,atinmediohiceftThea
tridiummaximum.Nec eratconsentaneum,vtmébraspectaculieffentStuphæ. Deest &
laconicum ,nisifortasse hæc opinio confundat laconicum cũ calidario.
Saterat& vnum Apodyterium comune,vtpotevnum vestibulum balnearum : hicduo
ponuntur. EtprætereaTepidariaduo,cùm tamenidemfitTepidarium,
quodApodyterium.Meliusergomihivideturdicendū,hæc fuiffepartimipfius Theatridij membra,
& partimlocaadvsumAthletarum.i.eorum,quiexercendi essentcoram Theatridio, vtpoteConisteria,Elçotesia,&
quædam apertè in pla team, forsanequorumcarceres. Duo pofthæc Peristiliaquadracaoblonga,hinc
(vt scribit Plin. Lunior de villa sua) exercitationú generibus.Vel Sacella,vtnota
turperædiculasæquisvndiquespatiisstaruarum.hæceratprimæfacieipartitio.
Porròinalterafacie,quæabaquiloneeodemcomensuhuic refpondet, videntur Gymna fuiffe
maiori ex parte Gymnasia, philofophis dicata, ac Rhetoribus, reliquisq; q
studiis literarum de dissent operam.Vtpot epars magis remota àftrepituAthle
tarum,& litucômodiffimo,tùm propteramenitatévnibrarum(erant.n.inhac
plareaPlatanones,vtdicemus)tùm proptergratafontium murmuria, inNataa
tionéipsamcadentiū. Quaproptervisum estpluribusantiquariis, inmediohoc
Vestibulu. Spatioå Septétrione fuifleprincipale vestibule totius huiusæ dificij.
Exquoper40 Hexedre medios Platanones patebat aditus ad Natationem, & hinc, &
hinc in porticus, in & Hemi-basilicas, Diętas, & atria, quæ pofteà dicemus.
Primùm verò àd extra vestibuli, cycli. & àsinistraerant Ex hedræ pluresclausæ
ante plateam, &cusedibus Hemicycli forma, vt disputantes, & tam loquentes,
quàm audientes sese omnes afpicerent: & aliquæpatentes, cellscholænoftræad leuiora
studia. Maioremverò citer 10 Peristilia fia. atq; hincvnum
àTheatridiq,quasipalestræbreues,veldeābulationes.Acinver Spheriste
surisvtrinque,vnum Sphærifterium ,quod diximus rotunda forma,cum plurib. 30
Schola. exercitationum. Gymnasticarum continebant partem duæ vtrinque facies
laterales, hinc,atquehinchabebantpartitiones.Ac fuisseeasadexerci quæ conformes
tiadicatasvidetur:tùmquiaplatexhælateraleserantliberæ,& amplæmillecir, citer pedum spatio. T ù m quia membr a ipsa
partim erant Hemicycli aperti cũ sedibus,acvarioornamento,quod apparet,lignorum
,acpicturarum :& partimconisteria,Elæothesia,aliaquemembra advsumAthletarum
oppor tuna . Totam hanc autem primam circunferentiam circundabant continua
porticus,ducentiscolumnisvnostylo. Subinde erantPlatex,amplæ ,& .Nam
siædificiorumperfectioproportionibushumani
corporisresponderedebet,vtVitruuiustradit,perfectisfimèresponder in Thermis
Diocletianis, ac melius quàm constituat ex Græcis Vitruvius. Ex Lib. 3. 20
eniminhis Theatridium ,vbieratvestibulum ,tanquàmcaput: Apodyteriū, pectus:
Hyppocaustum, Stomachus: vmbilicus, maxima, acregalisbasili-Diocletiana
cainmedio: venter, Natatio. Membrorum veròvtrinque, quæfuntbalnea, rummirifica
a t r i a , palæstræ, porticus , Diętæ, basilicæ; æ q u a r a t i o , a c m e n
s u r a e f t, v t b r a a r s et de chiorum, acfæmorum. itavtquæ
exvnatradeturparte,cadem ex alterapa basilicaameniffima,vbiconuenirentomnes, quivelinpalæstrasventuriBasilica.
essent,velinbalneas. Idcircosatisampla,ornatuplastices,acpicturis adhucnitetantiquiflimis.
Hinc rectâ in Diętam, quæerateadem capacitate, fed latiortamen basilica, duplici
columnarum stylotripartita: nam media par
teceuatriolum,erataditusinatriummaximum,& inpalestras: capitaverò
hincatquehincdeunebantinhemicyclis,vbifortasseAthletarum ferrentur iudicia
Circuncolí - liberæ, vt dixi , t à m q u æ a n t è Theatr i d i u m Stadium ,
nia . ,erant xistum, Platanones, & autem,quæeratanteNatationem enim Xista (authoreVi
maximè estiuas idonea . Fiebant adexercitationes Platani, virentesqueidgenusXista,&Syl
)interduasporticusSylux,quæerant caperentre-ua. truuio situantèNatationem
,vndeaquarum arboresconfitæ,aptissimo autemStadium,itafiguratum,inquit Vitruuius,vtpof
frigeria. PoftXiftum, Athletarum cursus, variaque alia sent h o m i n u m copiæ
fine impedimento hæ omneserantpartitionesquoquo latere,& gym : spectarecertamina.Atque
veròoperismaiestas,erattotamolesinme Stadium nasiorum,& platearum. Summa
,acmultimodisearúmē dio,quæ communes habebatpalæstrascum balneis
bris,acmiriartificij ,quàm vtræquelaterales. Inea Porticus
riterintelligendafit. Incipiemusautem àNatatione,quæpatentiffimapars
aspiciebatAquilonem:& exeaàlatereperbasilicas,acdiệtasveniemusin
atria,exindeinpalæstrasinteriores,acmaximam bafilicam,& demum ad balnearum
membra. Erat i n q u a m Natatio in re c e s s u m e d i o a b a q u i l o n e,
l o n Natatio. Gitudinedu centorum pedum, latitudinedimidiominus, ponte ,acarcubus
bipartitaadinterioresaditus, vbinunc factaestmaiorisaltaris basilica. Habe
batautemàcastelloproximo Aquæ Martiæ emiffarium, quod per occultos tubos ferebatadNatationemipfamaquas.Habebat&
supernèadlongitudi-Emissarium nem fontesvariaspecie,acMusxa,quæ
teftePlinio,expumicibus, acero-aqua Mar fisvetustatefaxisextructa (vt hodie quoque
Romæ sunt in vsu) specusima-tię. g i n e m referebant, ac fiftulis modò apertis,
m o d ò clausis , vario , blandisli moque salientium
aquarumlusu,recentessemperaquasinnatationéipfam Fontes,ac fundebant.
Miriscircùmadhibitisornamentis,quorum etiamnumapparetMufaa
ædiculæfignorum,& statuarum,fontiumquevestigia, & columnarum bases. A
Natatione plura, ac nobilissimamembra: primùmabvtroquecapiteerantPorticusna
amplissimæ porticus conformes, nimirùm & adspectaculaNatationum,&
tationis. adrefrigeriaconstitutæ.Etaliæadaltiorem prospectumporticuspensiles,mi
noristylo.Exeuntibusveròàporticu,tamdextrâ,quam sinistra,eratprimùm fcriptio.
30 Platanones. Dięta. iudicia . I n Atriis era nt Peristilia, hoc est
circü c o l u m n i a , quæ facie b a n t a t r i u m oblongum trecentis
pedibus, latitudine dimidiominus. vbiin Porticu , orie simacum sedibus, quæ
tertiaitem parte longior quàm lata, eratad exercitia Corticum. iuuenumdicata. Sub
dextra Ephebei erat Corticeum,seu Coryceum à Co. Coryceum. ryco, quod videtur pilæ
genus in Galeno 11. de San. tuenda. Seu Choriceum Choriceum dictum, Choreisnimirùm,
ac saltationibus locus proprius. Proximè Frigidarium, locus ventis per flatus, feneftris
amplis. Ab eoqueiterin Spheristeriú ro oblongum, & fimplex, ad pilæ ludum aptissimum.
Adsinistram Elçothesium, Spherifleritquæeratad vnctiones faciendascellaolearia.
SubhocConisterium, vbificcó Elçothelium.puluere, velharenaluctaturiseseconspergerent.
Ab eoqueiterinPropni. Conisteriú . geum, vbi erat in ver u r a porticus Laconicum, quod referemus suo
loco p o Propnigeú. iteà. A Peristilioautem, atrioqueintrantibus ad interiores Palæstras,
erant Talastre in Porticus tres stadiatæ ,quas hodie occupat longitudo
ecclesiæ.Ex quibus m e teriores . diaparsamplissima, centumpedumlatitudine, superingentescolumnas,al
Porticusftatissima prominettestudine, cæterùmitafactasecundum Vitruuium , vtilate
Frigidariit. diate. Xistus. ra, quæ
suntvtrinqueadcolumnasmargineshaberent,& qualeshabethodie
viaabHadrianimoleadVaticanumsemitas,nonminuspedum denûm,re
liquaqueplaniciesoctogintapedúm.Itaquivestitiambularentcircùminmar 20
ginibus,non impediebanturàcunctisfeexercentibus.Hæc autemPorticus ziso'sapud
Gręcos vocitatur,in quo Athletæ in tectis stadijs exercerentur.Quę quoniamexacteeratinmedio,&
velutiincordetotiusedificij,vbimaximè
conueniresolebatnobilitasadexercitiahyberna,adambulationes,& adspe
ctacula;cæterasmeritòexceditpartes,tùm magnitudine, tùmregalimaie stateoperis, altiffimisfuperbiffimisqueprominenscolumnis,&
patentissima vndiqueinperistilia, inbalneas ,in Hypocaustum,inNatationein,acfuper
nè feneftris illustrator latissimis. 30 præualereassuesceret: deinde ad sanitatemtuendam,quiduofuerant
fines præcipui:& demumaddelicias.InquibusomnibusmutuaBalnearum,atq; Exercitationum
errant beneficia. Nam quantum conferebant balnea lassatis rumque similiter coniunctaeratvtilitas,
acmutuaerantinuicembe Thermarumneficia. Nempe Thermarum
ratioduos,imòtreshabebatfines:primumad
instituta,acdisciplinamiuuentutis,quæficviribuscorporis,honestisquevitæconatibus
fines et Exercita exercitatione, aclaborecorporibusadroburviriumreparandum,&
admun tionum muditiam. Tantundem rependebant vtilitatisexercitia,fine quibus
balnea non tuo beneficia possuntessevtilia,maximèsanis.ItaqueGalenusinlibrisdetuendaSan.mo
Non p i l a , non sollis, non t e p a g a n i c a Thermis Prz . tali parte, eranthæcmembra,situaliquantifperdiuerfoabeo,quem
assignat €phębeum Vitruuius .PrimòEphæbeum , in medio, hoc autem erat Hexædraamplif
Balnearum 1 Bal. Recurel Atria . De exercitatio num generibus, ac preparationibus
ad balnea. Cap. vir. CONSTAT ergo hactenus,balnearum locainThermis,atqueExer
citationumfuisseconiuncta.Idqueoptimaratione,quoniam vtro
dobalneaRecuratoriaviriumessedixit;modò Exercitia Præparatoriaadbal toria. Exerci
nea.Quod frequenter inalijs authoribuslegimus,& succinctèeoEpigram
tatio,Prapa ratoria. mate colligiturMartialis vnde dieta existimat D. Augustinusinconfessionibus,quòd
Bénestaisdivíes,idestquòdan xietatestollat. Ergo vtpro veteriinstitutogenerosæ
Ciuitatis,quam diximus inlaboribusnatam&
educatam,magnaeratomniuminThermiscelebritas; itapro tempore, &
proconditionibuspersonarum ,Exercitationeserantva- Exercitatio riæ,&
invarijslocis.QuippealiæinPalestrisfiebant,aliæinXistis,aliæinnumloca. Hexedris
,subdioalię,instadio,& platearumliberofpatio;alięinpluribus
fiebantlocis.Necsecusquædamerantcommunes exercitationes,pueris, senibus,&
iuuenibus, vteo carminenotaturà Martiale. tereolusuum genera,quorum (vt cætera rumrerum
viciffitudincs sunt) vix nomi. Iuuenum
1. De fatu. Præparat, aut nudis tipitisictushebes. Vara nec iniecto
ceromate brachia tendis, Folle decet pueros ludere, follesenes. Quædam
propriæ.Iunioresautlucta,autcursu,autfaltu,autpilaludicriss;Personarum 20 idgenusexercitijscepissentafsuescereinEphebęis.Quemplanèmoremre
exercitatio- presentauit Plautusin Bacchidibus, vbi in personam
seuerisenisindicatpue-nes. Rosprimis vigintianniscum Pedagogo in Palestramantè Solem
exorientem veniffefolitos, d. Βαλανέα Romanorum Puerorum Non harpaftamanu
puluerulentarapis. Vidiffesigiturtum frequentem civitatem ,nonfecusatq; hodienossolemus
Vite ratio facrasEcclefiasfestissolennibus, frequentare Thermas. Alios quidem adho
nestos, quos primo instituto proposuimus vitæ conatus .Alios ad sanitatem Ther.
tuendam . Et alios ad oblectamenta tam animi ,quàm corporis capienda, pro
celebritate illa populi, pro variarum rerum, ac ludorum spectaculis. Et d e n i
que pro amænitate loci deliciosissimi: vnde barevéesidcirco dictas græca voce
Ibi cursu, luctando, hasta, disco, pugilatu, pila, Saliendo se exercebant ,
magis q uam scorto, aut f a u i j s. Fortiori autemiuuentaiis dem quidemexercebantur,
velacrioribusetiáple runqueludis,halteribus,harpafto,&
aliquandocęstu.Velarmorum varijs g e n e ribus in Palestris. Vel in Hippodromis
cursu equì, vel agitatu. Athle - Caftus. t æ v e l s t a d i u m spectante
populo de cusrrissent, vela c r i pugilatu dimicassent, Halteres . cum cęstibusplumbeis,acbaltheis
implicatismanibus,quo grauiùs percu terent. Alijsaltusimul et halteribus, item
plumbeis globulis. Alijinsphę risterijslusifsent pila, vel foliinplateis, vel Harpasto,
pilamaxima. Senio-Harpastum. resquidam, quorum erat ad sanitatem
præcipuastudia,vtrecensuitGalenus, ambulationeduntaxatantèbalneumcontentierant.
Alijclaralectione, vel Senumexer disputatione in Hemicyclis, velde clamatione oratoria,
vel cantumusico. Alijcitationes. modòvnovtebantur, modòalioperoccasionem, exercitij
genere. Id circos. Defa. tu. nec mirum septies quosdam aliquadielauari solitos,
quod apud Plinium le gitur. Alexander Seuerus, vt meminit Lampridiuspostlectionemoperam
Palęftræ, aut Sphæristerio, aut cursui,aut luctaminibus mollioribus dabat, m o
x venieba t in balneum. Aliis supplebant diurni operris labores, quia d r e
Operari j. creandum lassatum viriumr oburvsuriessent balneo. Cæterùm lenis
exercitationis modus erat ambulatio,quam Senes, & Virigraues,&
imbecilles potiffimùmobibant. Dignioradlaudem ,acdisciplinam,eratexercitatioin
Palestris & armiseorum, quirobustisess entviribus. Etquam oriquazíar, hoc
2. Desa.cu. est vmbra t i l e m pugnam, vt interpretatur Gellius, Græci
appellant, divodepce T e u Tirl , ob salubritatem a gymnasticis dictam,Galeno
teste. Innumera præ Рp nomina adposterasætatestransiêre.Necnostræprofessionisestexercitatio
Nostrisecunum singulosmodos,aut genera:quibusiliveteresvterentur, recensê.
livita dif ferensaban tiquis. re, quam partemà Hieronymo Mercuriali, Medico atque
Philosopho scientissimo elucubratam, propediem in luce meditam videbimus.Verùm
exco rum exercitiorum censu, quem fecimus, hanc præcipuam habebimus vtili
tatem, considerantes quàm longè differathic præsens nostri seculi viuendi
modus,& maximèPrincipum,necopportuno pofteros destituemusconfi lio. Sanèvbiillorumtemporum
vitaaffiduisdeditaeratexercitijs,vtpote 10 quæ & fanitatem
conseruarent,& promptiores redderentviresad singula, tàm animi, quam
corporis munera o b e unda; è contra hodie in continuo ocio degitur. Età
Principibus maximè, quiob decorum, ac ampliffimi ordinis maiestatem , semotam à
communi consuetudine degentes vitam ;aut curis animi grauibus iugiter tenentur.
Aut siad ludicra aliqui tranfire foleant, ea Exercitianoinertiasunt, tabellæ, alex,
vel Trochinouus modus hàc illuc supermensam stritemporisagitati: inquovitægeneretandemobdefidiain,&
anxietatem,totam breui inertia, cursu vitædeficiant. Quapropter generalisfimum
hoc ac saluberrimum sibi 20 Exercitijnequisqueproponeredebet
institutum,exercitiumnecessariumessead susten cesitas ad vitationem vitæ: inquire
omnes sapientes, variorum quenationum ritussum moconsensu conueniunt. Verùin quoniam
hoc tempore non solùm pluri maveterum exercitiorum generanon funtinvsu, imòvelipsorum
nomina (ut diximus) sunt obscura; necadeoilisvtiessetpoffibile,quinec Palestras
habemus,necThermas,proptereàingratiamnoftrorunPrincipum,aliquot particularium
exercitationumgeneraproponemusexGaleno, atq;alijsan tiquisauthoribus, quarum multas
si non in campis et plateisobirepoterit; licebitfaltem et incameris et
inatrijs,acviridarijsfuis,seruataetiainperso
nægrauitate,percommodèexerceri.Exercitationum (inquitGalenus)com
Exercitatio-pluresdifferentiæinueniuntur. Aliærobustæsunt, & violentę, fiuevehemen
num dife-tes; aliæmediocres,&lenes. Aliæ singulares, aliæcumalio fiunt. Etaliæ
rētiæex Gavni uersas simul corporis exercent partes, aliæ vnam magis,&
aliæalteram . le.2.desan.Vehemens exercitatiodicitur,quę& robusta,&
celerissit:atquehæcmul tergrauequoduistelum iaculari,&
continuatisia&tibusoneremaximo subla tame, pervertere temperaturam
coguntur. Vnde non m i r u m est, q u i p r æ p r o p e r a m
accelerentsenectam , incurrantque facileautinmorbosrenales,autinpoda
gram,autinHemicraniam,aliosqueidgenus affectus,medioquevelutiin fum tuen to,
tash abet differentias. Quædam enim fiuntocylimèagitatis, quædamrobore, acnixu,
quædamfinehis, quædam cum roborepariter & celeritate ,& quæ
Exercitatio-damlente.Fodererobustaest,& singularis exercitatio,remigare,discum
nugenera. mittere,mouericeleriter,saltare;idquefineintermissionemaximè. Simili
et ac clivis ambulare.Grauiarmaturatectumceleriteragitari.Continua
tusdiucursus.Et iterfacere.Perfunem manibus apprehensum scandere, modo in
Palestris quo solitum erat puerosexerceri.Velèfune,velperticama nuapprehensa sublimenpendere,acdiutenere.Manibusinpugnum
redu: &tis, iisdemqueprolatis, velinaltumsublatis. Halteribus,feuglobisplus
minusgrauibusleorsumpositis,vtraqueseinflectensmanu attollere.Quæ robustior
erit exercitatio, si qui ad sinistram manum fuerit dextrâ coneturat tollere, &
sinistrà qui ad dexteram. Diuq;,acsępiusidentidem facere.Potest &
foliscruribuserectusacvnolococõsistensceleriterexerceri, modò retrora suminsiliens,
modóinanterioravicifsim crurumvtrunquereferens.Solus
fimiliterexerceriest,summispedibusingredi,tensasqueinsublimemanus,
hancantrorsum, illamretrorsumcelerrimèmouere.Sehumi celeritercir cumuoluere, velsolum,velcumalijs.Cum
alijsverò& citràrobur, & violen tiammultæexercitationesperaguntur.
Vtcursusadmetam constitutam.Vel vibratilisar morum meditatio. Summisinuicem
manibusconcertare.Co nes cú alijs. ryco,& paruapilaludere. Stare, nec
finereseloco dimoueri;quo exercitij genereMilo
Crotoniatescelebratur.Velseerectum ,& circumactum
10astantemmutare.Complecti quempiam manibus,digitisquepectinatimiun ctis,isque
diuellere seadnitens. Medium appræhendere ,ac sublatum ceù
magnumonusprotendere,&reducere. Luctaytriusqueluctatorisrobur
maximèvtipoteruntSeniores,& quiadmotumsuntimbecilles. Ambula .Vltimò Fri
&tiones suppleant. His omnibus ex ercitationum generibus ,imòinfinitis
alijs (vtGalenusinquit)docebant Pædotribæexercendumesse:& velinPa læstris, velextrà,
velinaltopuluere, velconculcato, & firmosolo, & omni noantèbalneum. Quibus
& nosiuxtàpræsentemviuendimodum,siuepro præparatione, fiquis velit ad balneum,feusinebalneo,vtpleriquehodiefa
tecdicere,quæ situborealifrigidas,acpurasstatimàfontibusadmittebat
aquas.EratenimNatatio (vtidiximus) separataà partibus balnearum: citationes, le
cimus , percommodè vtipoterimus. Sed de exercitationum emolumentis 40 alio loco
occurretdicere: nunc ad describendas balnearum partesin Thermis redibimụs, acaliaineisrequisitaexplicabimus.
De Natatione. Ne i principes autemThermarum partes, primùm de Natatione opor
Cap. vii . Рp ij nimi. Exercitatio. prope rium mem brorum .exercet. Luctaricum
roboreest, ambobus cruribus alter alteriu scrus com plecti, minibus intersesecollatis,
& collo. Manua lteratanquamfunecol
loalteriusiniecta,ipsumqueretrorsumtrahere, acreuellere.Pectoribusex aduers o i
n n i x i, magn o se co n a t u i n uicem retrudere. Ad singulares po r r ò
universalis, attinet electionem , qua parte corporis quis vtivelit, aut
indigeat exerci- particula tatione . Aliæ enim vniuersas simul exercent
corporis partes;quo nomine ludusparuæpilæàGalenoprætercæteracommendatur. Aliæ
vnam magis, aliæalteram exercentpartem, lumbos, crura,brachia,
spinam,pulmonē, Deparuepi thoracem . Itatio, cursusquecrurum exercitationes sunt.
Acrocorisini, hoclxludo. Est festiuæs altationes & Sciamachiæ, crurum, brachiorum
,& manuum pro pria. Lumborum autem, affiduèse inclinare,autpondusaliquod
àterra tollere,autassiduèmanibus sustinere, Spinam transuersim exercet, atollere
(vt dictum est) alternatimhalteres. Thoracis vero et pulmonis suntpro priæ, maximæ
Respirationes. Cor. Celsus inter exercitationes imbecillisto lib.2. c.8. macho conferentes,claramcommendatlectionem
.Maximaveròvoxvocis quoque instrumentaomniapermouet, dilatatque:naturalemexcitatcalo-Clarale&tio.
rem, & quomagisfitafsidua, eomagisvniuersis corporis partibus communicatur,
vtinnostris concionatoribus experimur et in libro de voceà Gale noestproditum. Hoc
genere exercitationum per vocem, quælenessunt, Lenesexer Lufta. Etio,& amo
tioneetiam quimagis validi. Velequitationessufficiantur, gestationesquebulatio.
seucurru, seuproægrotantibusin Scimpodio,& Sellaportatili Cap. 18.
Nimirùmquia singularis eiuserat, acpropriusvsus, non tàm quidemadlaua
Varzac efttionem ,quàm ad exercitium. Eftenim Natare laboriosum, quòd itaiacta
quoddam e rerectèAristotelesinProbleumatibus,Natationem ,oblaborem,cursuico
parat , aquarum periculaexercerentur. Et Galenus testator de suo tempore, pue
1, Defa.tu,rosin aquis qumasina's Feudasfacere consueuiffe,idest, quòd prima
fiebantin of Pifcina, Piscina P u aquis pueritiæ rudimenta. Itaque præter Tyberis
commoditatem,propria adhuncritumlocaconstituta fuisseinvrbediximus,quæ
diuersisexplicata nominibusinuenimus, Natationes, Piscinas, Stagna, atque etiam
naumachias, Piscinædi&tæ, quòd & pisces hauddubiècontinerent,
nontamenad vsum piscium, nam ad hoc propriaerantviuaria,sed ad munditiam
seruanda aquarum ,& amoenitatem . Videturautem exercitatio numhuiusmodi
causa, primùm constituta fuiffe Piscina publica dieta sub cliuo Capitolino, ad
veniebat populus. Exca& piscinæaliquandofuntdictæparticularesNata
tiones,& labra lapidea, qualia Romæ videmus maxima, nec non portatilia, ac lignea
advsum etiam calidarum aquarum. Quod authoritate constatM. 08 Tullijad Q.Fratrem
desuisbalneis,Latiorem (inquit)piscinamvoluissem,
vbiiactatabrachianonoffenderentur. Hasà Galeno,acalijsGræcisautho x a n u p u s
o ' n ga ribus, modò x o d u a k r í z s a s, mod ò Bari i su p o e edicta s
legimus. Parva autem Solia , Capesupulco peluesquequercus; quam differentiam
planamfaciuot Galeni verba lib.7. Mé πυελοι. Stagna. thodi, vbi ad ventriculis iccitatem
curandam, quæ Hecticamminetur, nata tioneminbalneo factam consulitivteīsnonumerisus,
id eft in piscinis natandocó stitutis, quàmivtotspixpsīsavenoīs. Memorantur porrò
& Neronis Stagna,vbi Amphitheatrumà Martiale poniturinprimis Epigrammatis d.
Hic,vbiconspicuivenerabilisAmphitheatri Erigitur moles Stagna Neronis erant .
Quod tamen stagnumnon plane constatanad natationis usum, anpro Nau stagno circumpofuit,
conseuiffe. Stagnihuiusin Vaticano Naumachiæno Navale Sta minememinit Egelippus
Græcus author, in D. Petri & Pauli martyrologijs. Cæterùm NaumachiapostNatationes&
balneas,altiorisfuitinstitutiquàm Naumachia adnatationem
,nec,nifipoftimperiaprincipuminuenta. Nempe inqua nautici certaminis fieret
spectaculum, vel ad disciplinam militarem , q u ò faci of Finis duplex liùsmilites
pericula Aluminum, vel naualis belli, cùın opus fuisset, possent Naumachię
euadere. Sic Polybius refert Romanos primo bello Punico, quod aduersus
Chartaginienses gesturierant, militessuosinnaualidisciplina exercuisse. Et
SuetoniusAugustumcúm effetcótrà Pompeiumiturus, inportuIulioapud Baias milites
in nauali exercitatione tota vna hieme detinuiffe. Vel erat N a u jucundunfpe
Etaculum. machiævsusaddelectationempopuli,vtcæteraspectacula.Pluraenimerãt q u
æ præberent animo delectationem :primò aluei magnitudo, ac Cyrci c u 1 vivarium . blica. Quam (ut Festus Pompeius est
author) & natatum et exercitationis caussas duo . rat, gnum . xercitium,
tismanibus, accruribusaffiduè, vniuerfæcorporis exercentur partes.Qua Et Oribasiuseaminteraliaexercitationum
generaadnumerat. Imò Natationis in vrbe fuitprimus ,acantiquissimus vsus ante
balnea :quando scilicet conftitutæ fuerunt exercitationes in Campo Martio,vbiiuuenes
(te ste Vegetio) puluerem, sudoremque
detergerent, simulatque a d o b e n n d a machiafuerità Nerone constitutum.Vsumtamen
vtrunquepræftarepote Neronis no- sicut& de altero eius nominis meminit
Tacitus,claufifle Neronem in m i n e stagna valle Vaticani spatium, in quo
equos regeret, apud q u e n e m u s , quod navali iusdam OZ
jusdamamplissimiforma,editaadcommoditatem tantiludi,inconspectu maximæciuitatis.
Deinde classisineam, etiammagnarumnauiumintrodu Etio, &
ludusipsecertaminis. Etdemum populicelebritas, & velipsaaqua r u m copia,
atque amænitas, m a r i s i n f t a r tranquillissimi. Et quæ apertis e u
ripistantamvimaquarun vnohaustureciperet,laxaretquefinitospectaculo.Martialis
inquo mouet admirationem aduenæ Martialis,dum sicadulatur Domitiano.locus. Cui lux
primas acrimunerisipsafuit. Ne tedecipiatratibus naualis Enyo (Paruamora est) dices,
hicmodò Pontuserat. Ex quo plane authoritate colligitur, in Cyrcotammarisquàm
terræcelebra In Cyrco rispectaculadebuisse: vbimodòterra (inquit) modòPontuserat.
Quod Naumachia. Cyrci MaximisitusconfirmatinterAuentinnm montem ,&
Palatinum de pressus,inquemGabiusæaquæriuus,quemMarianam
posteridixerunt,perGabiusaa petuòinfluit na. na aqua,vtFrontinuseftauthor, quæ
fapore,& crafficiemarinamaquam AugustiNa 2 0 æmulabatur, in q u a faciliùs
natat r, t e f t e q u o q u e Aristotele in Problemati - u m achia: sub colle
Hortulorum, ademiffarium aquæ Virginis. Authore Sueto Domitiani.
nio,quiasseritDomitianum circunstructoiuxtà Tyberinilacu (inter Cain pum
Martium scilicet& ipsum collem Hortulorum, vbi nunc iuxtà Sanctito pluresessentqui
exercerentur et quifrequentarent Thermas adca,quă Bal spectaculaquàm
quilauarentur.Eteodemtemporemagnahominum co-nearum.
piaexercebatur,&quivno,&quialioexercitiigenere. Atadbalneasin
trantiumcontinuaficbatsuccessio, nam cùm priores occupassentloca, reli qui (vt scribit
Vitruuius) circunstabant,dum lauarentur. Pleriquesani,ac robusti, poftquàm in
exercitijs incaluissent, nullisferè alijsvtebantur bal
neis(vtinfràmonftrabitur)nisinatatione.Quæ parsidcircoeratamplissi ma,&
exercitationibustamsubdialibus;quàm interniscommodissima. Ve lBalnearum
transiffentdunt axat ad balneas calidas, atqueillicoegrelliinsiliebantinfrigisitus.
dam. Summa ergo artificijin balneishæc fuissevidetur, vt in locoessentquả
commodo omnibus seseexercentibus;acmirandiplanè artificijministerijs totaquarum
,calidarum simul,& tepidarum ,quæcontinụèexsefunderen turin balneas. Pro
commoditate, ac ratione lauationum, erant omnes ad Рpij meri Et parvndafreti,
hic modò terrafuit. Non credis ?spectes dum laxent æquora Martem. ropriè verò ad
vsum naualis certaminis, duæ fuerunt certiffi-qua Maria
inæNaumachiæ.PriinaAugustitransTyberim,adductâobidineamAlfieti
Sylueftriædesapparentvestigia) naualespugnasineo, penè iustarum Claf fiume didisse.
Luxuosissimus Heliogabalus, euripis vino plenis, naumachia Heliogabali. exhibuisse.
Tradit Lampridius. Sed nuncad partes balnearum proprias accedamus . De partibus
balnearum, esde Milliariis vafisin Hyppocausto. BÀLNEARVM
veròinThermisnoneamvidemuscopiam, quamde BВ exercitationum locis iam diximus.
Ex quo planè videtur, quod m u l n u m pluralo Exercitatio Siquisades longis serus
spectatoraboris, bus. Alteraverò et magis celebris, fuit naumachia, quam Domitianidixi
. mus Apodyteriú seu Tepidarium . meridiem,vndefolissemperillustrarentur,acfouerenturaspectu.
Nam tó: taeafaciesanteriorerat distincta in duos ordines balnearum, vnusàdextris
Hypocausti,&alteràfiniftris. Etvterqueordo distinguebaturinquatuor Cameras,
conformes vtrinque, ac ita collocatas, vt ex una in aliam Etuplatearum
àsitumeridionaliproposuimus,progressuferèad media pla
eratceùvestibulumregaleApodyterium ,seu Tepidarium .Quem lo mirabilem, meritò alterum
noftræ ætatis Trimegistum dixerim. Hinc fini Hypocaustús tror sumn modicus introitus
in Hypocaustum. Sive (vt meliusdicam) super Hypocaustilocum
,quirotundaforma,cumopportunishincatquehincmē Cryptoportibris, nuncprimisNouæEcclesiæfacelisdicatuseft.Totaeniminfràmoles
res. Aftuaria. darum, aliæ frigidarum aquarum ductus, alię calorum æstuaria, aliægrandes
tores (vt vocabulo vtar Iure consulti) curam succédendi ignem habebant in
Thermis. Eratautem vnicum, teste etiam Vitruuio: collocatum tamenin
medio,vtcommuniseiusessetvsusvtrisquecaldarijs,exvnapartevirilibus, 30 exalteramuliebribus.Idqueperopportunaæstuaria,quierantmeatus
ab Hypocausto perpetui, vndecalores occulti in cameras caldariorumipsorum
penetrabant. Quod tetigit in primo Syluarum Papinius Statiusd.
Vbilanguidusignisinerrat dioplacet)æneatamenpatinasubiecta. Quorumidemeratnomencum
ca meris prædictis,vnum caldarium, alterum tepidarium, tertium frigidarių.
Legitur item Milliaria, a magna fortasse capacitate, quali plus millelibrarú
aquæ caperent.Quippeidgenusvasa, teste Vitruuio,maximi aheni inftar, actestudinataadcircinum
,itaerantcollocata, utex tepidarioin caldarium quantum quæ calidæ exisset, infueret,
de frigidario in tepidarium adeundem modum. Atque hinc planum artificium est,
in quot a n t opere laborauimus, quomodo ad communeinvsumtantaaquarum copia exvafisfuppedi
tareturinbalneas. Quod restituoinlucem ex Seneca, quidum adLucillum
miradeliciaruminuentasuitemporisdetrectat,hocafferitobiter. Construiteam ,
huiusædificij, concameratainuenitur,acdistinctaaddiuerfosvsus. Aliæ Fornacato.
Criptoporticus erant patentes ad refrigeria in magnis caloribus. Aliä сali 40
IO CUS . 20 cum laxum, & hilaremdescribit PliniusadApollinarem, hocest,amænum,
acmollisteporis, tùmsolaribusradijsàmeridie illustratum;tùm proximi Hypocausti
vapore laxum :vbi nimirùm ingressuri ad balneas exuebát vestes. Qux
quoniamprimaerat, acnobiliffima Thermarum pars,nobilissimietiá
numapparetartificij. Figura inquadrumoblonga,achemicyclisquaquefa
ciedistinctum,cum aditisvndiqueintercolumniorum ,columnisquesuper nætestudinisaltissimis,quætàmauthoris,quàmoperissummam
maiestate ostendunt. Vnde sapienter hæc pars , proposita est pro prima porticu
Ecclesiæà Michaele Angelo Bonaroto, quem pictura, sculptura et rchitectura
cloacæ vnde lauationes exonerarentur, & aliadenique Hypocaustum ,atq;
Lib.s.c.10 Hypocaustimembra.EratergoHypocaustum fornaxinferior,vbifornaca
Aedibus,& tenuemvoluunthypocaustavaporem. Vasariatria SuperHypocaustotriaerant
compositavasariaænea, velplumbea (ut Palla Mincepice Græcis hæc Mirsapíe, Latinis
(vt apud Catonem, Senecam, atque Palladium folitum aditus .Inmedio quidemerat Hypocaustum,
vtrinqueveròinversuris La conicum, deinde consequenter Calidarium,Frigidarium,&
tepidarium,vt planèsingula explicabimus. Principio contram Theatridium, quodinprospe
pateret solitumin ipsis milliarijs dracones, quæerant fistulatavasatubæ
instarære tenui, perdecliuemilliariocircundata,vtaquadum ados draconis con lis
canales occultos, q u o r u m aliquæ visæ sunt reliquię in eruendis ad nouam 2
0 ecclesiam m a c e r i j s: atque ex hinc aquas de duci s o l i t a s in N
atationes , i n F o n sicis organis n o n absimiles . Q u i a d firmitatem
quidem , ac robur faciebant Tubi etepi ipsis v a l ibus: simulatque artificio
ferès i m i l i q u o n o s hodie Romæ nymph e i s s t o m i a.
acviridarijsdamus velarcemusaquas,habebantfiftulasinfra parietes occul tas, q u
æ in cameras balnearum ,vbi opportunis locis essent epistomia, infun d e b a n
t aquas . Quod ex eodem Seneca non est dubium, d u m n i m i æ l a u t i t i æ
adscribit, quod continue aqua calida ex sefunderetur in balneas ,acrecens
semper, veluti ex calido fonte per cameras transcurreret. Et ex Galeno, vë iam
decamerarum dispositionibus dicemus. De Laconico, esde Solis Balnearum . RDINES
quidembalnearumin Thermisduosdiximus,vtrinque scilicetabhypocausto vnum
testeVitruuio,alterumvirilium,alte Balnea viri. rum muliebrium. Nam vtscribit Gelliuslib.io.cap.3.authoritateVar
ronis2.deAnalogia,Pudornon patiebaturvtrunquesexum simullauari,sed do liadoMu
aquarкт epis t o m i j s, fundebantur. Vbi nota h a r u m ductuum in Balneas
alterum arti 30fícium. Eranttubięne ierecti, tresàdextera et tresàsinistra milliarijs,
m u 40 glomerati specie plurieseundem ignemambiret, pertantumfueretspatij,vasis.
quantum acquirendocalorisatisesset. Quare triplex semper aqua invalis,
acinfinitæcopiæ, calida, tepida,frigida, nam successiuas vasexvase Caldarium
piebataquas.primum quidem,quod caldarium dicebatur,superprimavas.
hypocaustistraturacollocatum, tanquam omnium vasorumvalis, calfa tes, Dracones
i 10 са. Etasperdraconisinuo lucra fundebat aquas. Secundumsuperhoc erat
tepidarium, quod a primi vasis vaporibus modicè incalescebat. Tertium Fri-
Frigidariú. gidarium: vtpotequod frigidass tatimab emissario aquas capiebat et quan
tum subiecta vasa vacuabantur, tantum hoc nouarum aquarum infunde- batfinefine.
Emissarij verò huius obscura quoque ratio est. Nam vide-Emisariaa mus quidemad
Thermas ipsas propria aquarum Castella constituta: qualequarum· extatin Diocletianis
poft palestras orientali parte. Etin Antonianisàt ergo Theatridij admeridiein. Horum
tamen altitude nullibi excedit planiciem bal nearum. Nec vllus est modus, neque
artificij vllius vestigium, insummis Thermarum testudinibus, vndetam altè deduci
potuissent aquæ.Videturita que mihià proximisiliscaftelliscóstructosfuiffeinfràpauimentatotiusm
o Tepidarium lib.io.administris balnearijs veletiam iumento alligato, subleuatæ
aquæinsu ipsihypocausto piscinam infundebantur, quæs ponteposteàinsubie pernamn
rursusin Tepidarium ,& conse ĉtumFrigidariumcaderent,& exFrigidario ,
quenterinCaldarium ,velutidiximus. Vnde plenas emper vasa suis aquis
imumcalida, medium temperata, supremum frigida, quæ per fistulasencas hinc atque
hinc in quolibet vase compactas, versis ad vnum quenque actum Tympana Fistulę
aqua ac alias piscinas. Hinc, tanquam a communi fonte, per rotas ac tymparo t e
a c na, ac id genus alias machinas aquæ hau storias, quas describit Vitruuius
commoditas coniungi desiderabat. Quanquam in hisque post Varronis et post
Vitruvi j ętátem f a &t æ sunt , hæc distinctio non sit mihi ve risimili. Q
a n rum . liebria. do auctoritu exercitationum,ac lautitia
inThermis ,vix publicas potuisse virorum frequentiæ sufficere
videtur.Itaquepromiscuas potius ex eo tempo refuissereor,achonestismulieribussatisfecissepriuatas,velquasprincipes
Matronas constituisse iam scripsimus, Agrippinæ Neronis matris balneas, terke
inbal Olympiadis,atquealias. Cameræ in quoque ordine quaternæ, Laconicum,
Calidarium, Frigidarium et Tepidarium. Velternæ adminus :hoc enim non
videturdubitandum ,non fuisseThermas vno stylo vbique ,nequevno ordinepartium
et tam in publicis quam in priuatis. Et hinc in authoribus Celsus. Tanta earum inuenitur
varietas. Quaternas point Celsus lib. 1. cap. 4. dum scribit, Sub veste primùm
paululumin Tepidario sudare folitos: tùmtranfi- Galenus. re ad Calidarium, vbi sudabatur
largiùs, quod ponitpro Laconico: tumque aut in calidamd efcendere,autinTepidam
;deinde in Frigidam. Easdem C.i72ero qua λουτρόν Pyriateriit. Hypocaustü point Galenus
lib.10. .Methodi, a Laconico incipiens: Primùm enim inquit ingredientis inaë reversantur
calido:hinc secundò in aquam Calidam defcé dunt,quod propriè aoutcovait appellari.
Ab hac mox in tertiam Frigida ibár: & tandem in quarta sudoren detergebant
, quod erat tepidarium, seu Apo dyterium græce dictum. Inquo&
Celsusdicit,fenouissimèquiselauissent abstergere,& vngereconsueuisse. Quem
planèordinem& inhis Thermis, quarum videmus vestigia, seruatum inuenimus. Extat
Laconicum adsuda tiones inquoqueprimæfacieiangulo vnum , idquenonadeomagnum
,hu- 200 iusenim partis noneratvsus communis, nequeadeo necessariusomnibus,
vtquibus fatis ad sudandum exercitiafeciffent. Sed imbecillis proprius et
quiminus validiadexercitia,sudoreshocloco excitabant:subindeintrabát
adcæterasbalneas. Nomen autemdeduxità Laconibus: quos huncritum rium, Laconicum
veròc ommuniter omnibus, & Ciceroni quodam loco ad Sphærifte- Atticum. Suetoniusin
Vespasiani Cæs. Vita Sphærifterium hanc partemap- 30 rium . pellat à figuræ
rotunditate. Locus quippe concameratus ac rotunda fpecie,
Lib.5.c.10.habens,authore Vitruuio, inhemisphæriolumen,exeoqueclypeumæneú
cathenispendens,percuiusreductiones,acdemissiones perficeretur Suda Clypeus Lationum
temperatura, vaporibusnimirùm ficretentis,veldifflatis. Erat autem huius institutiratio,
vtfcribit Dion in Annalibus, vtfus è intrantesinhac par vfus: t e sudaret et
sub i n d e unctione ad hibita, statim descenderent in frigida. Quod planè
clarius ex Galeno fiet pofteà, ac à Martiali obiter tangitur in Hetrusci
Thermis, ad Oppianuin tribus versibus. tepidum tamen aquarum vaporem potuisse suscipere.
Proinde Celsusineo, affus dixit sudationes lib.z. cap.27. alibi exiccari dixit corpora:
Seneca exani tos .primò instituise,
Plutarchusin Alcybiadis Lacedemonijvitaeftteftis. Græ Calidarium. cialiquando
Ilupice Supo's,& nonnullisuTorw50sdictum,ob igneum ineova Sudatorium.porem
:Latinis modo Calidarium ,inodò Cella calidaria,Senecæ Sudato Laconici coni,
ncis. mari, ritus si placeant tibi Laconum Contentus potes arido vapore
CrudaVirgine, Martiaquemergi. Vaporíqua Virginem dixit, &
MartiaminhisbalneisRomanasaquas,blandissimifrigo litas in Laco ris. Videtur
autem Laconici aërem ,siccum quidem fuisse, atque igneum, Bico. Galenus &
alijmediciinterdum elixari, Oribafius planè aëreferuidu dixit , ac præhumidum i
n Laconico . Quod rationi consonum sit. Nam ex æstuarijs, partim quidem siccis,
ex quibusiaindiximusabhypocaustooccul 10 su tenui calore, diceba t Galenus x . Methodi,
reservatis vniquem eatibus, liquatisque per totum corpus superfluis ,sudores, vtilesquemadores
clicere, quæ inęqualias untęquare, cutimlaxare et multa quæsubhac detenta
erant, vacuare. Ex Laconico patet aditus i n Calidarium, quod proprie Calidum So
aoutpór, hocestlauacruindicitur, eodemteste,& calidum Solium. Patetau-lium.
tem hæc pars,duplex magnitudine ad cęteras cameras :vt cuius in balreis maior erat
necessitas, longior in e o f i ebat mora, ac usus frequentior, præsertim
minusvalidis ac imbecillis. Vbi meminisse oportetex Celli verbis, quæ pau Halat
& immodicosextaNeronecalet. Mox tertiolocoeratFrigidarium
,seuFrigidumSoliuminquo aquaexquisi. acviresdensatacutifirmarentur. Qui enim, subdit,hoc
modo àcalidislaua- Vlus. tionibus, sudationibus que laconicis ftatim in frigidam
non descendissent, Paulo post transpirato immoderatius calido innato,totum corpus
frigidius euafiffesentiebant.Quodfanèfrigidælauatiofieriprohibebat,totum semel
corpusconftringendo,&constipando,nonsecusatqueaccideresoletcalen
tiferro,quod quùm infrigidammittitur, & refrigeratur,& induratur. Atque
huius rei causa potissimum constatinuenta fuisse balna, pro imbecilliu vm i
delicetcorporumrobore: hoceftvtimbecilla corporapræcalfacerent, itaque ad frigidum
Soliumpræpararent. Adeoquepræualuitsemperfrigidarũvsus,Frigidarum 40vtvixquidam
alijsbalneis vterentur. Carmis Maffiliensis Medicus, etate Neronis prerogativa,
scribit Plinius lib. 29. cap. 1. damnatis prioribus Medicis, ac balneis, frigidalauarihybernis
etiam algoribuspersuasit. Merficęgrosin Lacus.Vide bamussenes consularesin ostentationem
vsquerigentes. Ex frigido tandem Solio erat exitus in Tepidarium, tepidiscilicetaëris,q
uod diximus apodyterium, sive spoliatorium. Etcratfinisinbalnco.Ancè Tepidarium
tamen Cella olearia in Diocletianis commodè est ut videtur Cella Olearia, eademque
Tonstrinæ na. tôs penetrare ignes in cameras, partim aqueis per suostubos
ac spiracula, v a pores misti ad hemisperium Laconicipetentes,sub curuatura magni
clypei intenuiffimasconuertebanturaspergines,quæimbrium modò super capita Facultates.
corum ,qui morabantur in Laconico depluebant. Potest autem hæc prima pars lo
ante retulimus ,vel in calidam fieridescensum , vel in tepidam , & quali ad
uno, tenore vtentis arbitrium potuisse temperari. Et Galenus in 3. de an, t u e n d a idem videtur asserere, nimirùmquòd
in Calido Solioaqua, exvafisquæ diximus Miliariorum calidis, tepidis ,ac frigidis,
poteratadvsum trifariam tèfrigida, ad hunc videlicet vsu minquit Galenusx.Methodi;vtquæ
fuerantFrigidum.So fòexcalfacta fiue'in lium., anterioribus Solijs, fiucin
exercitijs, hicrefrigerarentur, An balnea calida . fieri, tepidam, aciusto
calidiorem. Quam tamenva ri, nempè temperatam lauationibus, sed in priuatis,vel
non videopotuissefieriinpublicis rietatem , parabatur à Balneatore aqua advsum
pu adpriuatosvsus. Nam in Thermis compara LO Aeftiuo serues vbi piscem tempore
quæris. fortas selocus,vbinimirùmoleaseruarentur,atquevnguenta do Tonstri ,aliique
odo blicum,vnotenorecalidaomnibus. Quod declarant authoritates scripto-frigidæ,
alia rum, quialias Thermas appellant frigidas, alias blandas, alias fervidas. Vei
frigidas significauit Martialisinprimo Epigrammatum. In Thermisferua Cecilianetuis.
Idem inx. Neronianas indicat fuisse calidiffimas, eo epigrammate. Temperat hæc
Termas nimios priorhoravapores res cal d a Therme alię resad opportunosvsus,&
quivellentbarbæ,& capillorum cultuivacarent. Unetiones in Eratautem hæc pars
vn ade necessarijs, acessentialibus (ut ita loquuntur) in Thermis, toto ritu
Thermarum, quandohiçmoseratcommunissimus,vtquisque lo tus,simplicis faltem
oleivnctionevteretur,tùmvtsudoresinhiberet,tùm
vtfeabextrinsecùsambientisiniuriavendicarepofset. Hunc enim tenorem in omnibus
ferè,quę hùc sparsim adductæ sunt,authoritatibus obseruabis :
primùmlegiturexercitium,deindebalneum,vbifrictiofiebat,& detersio,
inoxstatim frigidæ lauatio, pofteavnctio,posteacibus& potus,vltimòso mnus.
Proinderecolome legissepluriesinvitisPrincipum, ficuti ntermu..10 Oleimunus
nerapublica erat Congiarium,erat Recta, erat Sportula,itaoleum aliquan
publicum. do publicè donatum , quoin communi velutigaudio,quisque frueretur in
balneis.Nimirùm vel Thermiscùmprimùmdicatis,velfaftualiquoPrinci pis.vnctionum
verò,quasquisquesibipriuatimdeferebatadbalneum,luxus
legiturinestimabilis.Quidelicatèviuerent,velimbecilles,odoratisvnguen Balnea con
- t i s r e f o u e bant spiritus. Quosdam legimus iu f f i s s e s p a r g i p
a r i e t e s unguento. spersa vn-Vtfimul (equidem puto) & lauarentur, proiectisinalueositaimbutosaquis
ipfis, & vngerentur, fic penetrante exactiùs vnguento, & odorem, virtu
temquesuam diutiusseruante in corpore. Atqueita Caium Principemsoli tum lauari,
testisest Suetonius. Scribit Lampridius Heliogabalum nunquá
inPiscinislauarisolitum,nisiillæcroco, aliisúepreciosisvnguentisperfusæ
fuissent. Velplanè conspersiseo modoadluxum parietibus vtebantur,vedu quis se
parieti confricaret ( quod aliqui facere folebant, vt apud Spartianum in Hadrianoleginus)sineministris,acetiam
proprijsmanibusperungilice Balneton ret. Neroautem profusissimus non folùm calidis
balneass pargebatodorib. guentipre-sed& frigidis quoque vnguentislauabatur,
fcribitPlinius.'Recensenturau ciosi. tem hoc in generepræciolamulta,quæ (Galeno
teste) Romanorum lauritia Olea, etvn- inueniffevidetur: vt Mendelium, Cyprinum,
Narcissinum, Susinum, M e guenta pre- galium factum ex balsamo, Regale apud
Reges Parthos primò comparatum . ciofa. Nardinumquoque,quod& Foliatumdicebatur,Plinio:&
alterum Spicatú, QuodidemNardipisticæpræciosivnguentum
legiturinEuangelio.Etitem30 Iasminum oleum
,quododoriscaufla(vtteftiseftDioscorides)non inbal
neissolùm,verumetiaminterepulandum apud Persas,vsurpari consueue. Unguenta in r
a t . Dono , e q u i d e m o p i n o r, et in Xenijs. Quem morem d i u Spartanos
, at conuiuijs. Quelonasretin uiffe narrat Valerius quę, Plinio teste, Diapasmata,quasi
conspersoria dixeris, Cyprini pulueris
instar,quohodievtimurodoratissimi;dequoebriam,putidamq;Felceniam
illuditMartialis in primo Epigrammatum , eo carmine. Quid?quod
oletgrauiusmiftumdiapasmatevirus? Apodyterií Vt redeamus ergo ad cameras, Apodyteriumerat
principium, & finisinbal gues. 40 M a x.lib.2. vnguenti, coronarumq uein
conuiuio dandarum, secundismensis.Erat& Oenanthinuminter præciosa. Quorum similia
aliqua apud Paul. Aeginetam legimusvnguenta,atqueolea. Multaquei d genu salia apud
Plinium lib.13.inalabastrisferuarisolita:nunc omnia rarissima, aut que d a m
sub dititi a, vel adulterata, tantæ verò e a tempestate copiæ, vevsuscorum ad
vulgares quoquede fuxerit, quodserioarguit Iuuenalis . Moechis Foliataparantur.
Diapasmara Ad sudores autem propri c o
hibendos, quæda m ficcis constab n t odoribu , neo; eôdem nimirùm
reuertentes, vbiantèbalnearum vestimentacõsignal sent.Idemqueex Galeniverbisplanèintelligiturx.Methodi:hicenim
dum cunctarentur,actergerentur,corpusadhucpersudorem ,innoxiè,accitrà
refrigerationem vacuabatur,acinnaturalem redibatmediocritatem. Porrò vana
quorundam controuersia est, ponereAuicen.trescasas(itaenim interpretantur) in
balneo, easque long è aliter dispositas, quam diximus. C u i b i l. cnim dubium
non fuisse balneas vnost ylovbiquenequevno ordine? Defijf setamen pariterapud Arabes
hunc ritum, testator Auerroes in Canticis, acBalnearum
nonmirùmimperfectastùmeoshabuiffebalneas, Nequeinantiquiffimisanidemsły
10exempliseadistinctioquærendaeft: quando Hippocratisætatenon adeori tè balneaparabantur,
quod & ipseinnuit 3. De ratione victus in morbis acutis. Neque in priuatis multo
minus, quas Galenus aliquando perinde damnat, acincommodas, Depensilibus balneis,
ac balneariis rebus. Uenire potuirationem .Nam si Pensiles balncas intellexeris
sublime salueos, Pensile quid & quæ fu per solario locatæessent, idmagnuninoneft:
ficut & Hortospensi lesvidemus, atquehorrea, acmaiusopus, Thębas Aegyptias pensiles
fcribit Plinius. Audiuiqui id artificiumattribuant Laconico, ècuiussuspensura
lusvbique. ENSILIVM veròbalnearum,celebreduntaxatnomenperuenitad nos , fuis se
eas inter maiora illius seculi blandimenta : cæterùm Cap. xi. n a m e a r u m
fuerit ratio, non facilè ex aut ho r i b u s colligitur. Ponit Valerius Max ,interluxuriæexemplalib.9.
CaiumSergium OratamPensiliabal quæ Auicenna neaprimum facereinstituiffe. Idquet
radit Plinius lib.9.cap: Pensilibal 54.L. Crafsi Ora- neurum inui
torisetate,parum anterempub.occupatam.Queminteraliasvoluptates,& torSergius
Ostrearum afferitinueniffe viuaria, nec tamgulæ causaa, quàm auaritiæ, vt Orata.
Quiitamangonizatas vendebat villas. Eadem testator Macrobius3. Saturna lium
cap.15. Porrò venisse eas in gratiam popularem planè oftendit Plinius
lib.26.cap.3.Asclepiadis NeronisMediciçtate:vrbe,inquit,imòveròtota
Italiaimperatrice,tum primùm vsu balnearum pensiliadinfinitumblandien te. Extat
& Annei Senecę censura ad Lucillum,dePensilibusbalneis:qua
vaporesconuersosintenuesaspergines,imbriummodo Aqua pensi supercapitacorum, lis.
q u i lauabantur, depluere diximu s. Vel quem ad modum Aqua Pensilis dicitur z
Fluvius p e n & Auuius Pensilis, ita id balneum Pensile fortasse intelligendum,
exquodi-filis. ximus (authore Seneca, atque Galeno) calidas perpetuò aquas, vel
quales quisquevellet & tepidas & frigidas, velut ex calido fonte depluere,
actran {currerepercameras. Verùm nihililliusblandimentivideoinhis,quam ob rem
populus eascum tanto applausu receperit, & quæ ad authorem adscri: bantur voluptuosiffimum.
Pensiles ergo balneę haud publici videntur fuisse vera balnea instituti, sed in
priuatis extitiffe. Vtquæ priuatum habuêre authorem , & pri-rum Pensi
uatamc aussam ,nempèinuentæaddelicias. Necvllumvestigium,nulladeliurnrutio. Hisin
Thermispublicismentiohabetur, Earumveròrationem, inquatanto.
perehesitaui,elicioexeodem Plinio, cuidererumantiquarummemoriapri ma
laussupercæterosscriptores,meritòtribuendaest.Pensileenim dicitur rum inqnit
suspensura inuentaest,vtnequid deesset adlautitiam. Hæc ha 3 benturde inuentione,
atquedelicijs Pensilium , quarum tamen non facilèin 40 P suspen
suspenfum,& mobile: qualesipfememinit lib. 19. cap. 5. Tyberij Cesaris
hortos Pensilesmiræ voluptatis,quoshaudquaquam ponitsupersolariolocatos,
sedsuspensos,& mobiles, quos(inquit)singulisdiebuspromouerentadso
lemrotisolitores. Quod idemclarainbalneis authoritate exposuit lib.26.
сар.3.dum Cleophantum Medicum commemorat, authore M. Varrone, alia quoque blandimenta ex cogitaffe,
iam (inquit )suspendendo lectulos, quo rum
iactatuautmorbosextenuaret,autsomnosalliceret. Iambalneasaui
disfimahominumcupiditateinstituendo:easdemscilicet,&suspensas,vtdi
xitlectulos.Quam fententiam confirmantquæmoxpaulòsubiunxitverba, quæ
allegauimus; Anxiam nimis fuisseAsclepiadis, & quorundam eum se."
quentium curan ,tum primùm Pensili balnearum vsu ad infinitum blandien te.
Easdem & balnearum suspensurasdixitSeneca. Et ValeriusMax.impen faleuibusinitijscępta,suspensis
calidæaquæ balneis. Vnde fiiam mente co cipiasvidere hominem inbalneo
Pensili,velęgritudine debilem,vel volu
ptuofævitæ,çuiusdulcitepore,acleniiactaræ,& nęnijs,& dulciconcentu
tibiarum,somno& quietiindulgeretur,iamnihilpoterisexcogitaresuauius.
Leftuli non Ex quibus intelligitur, neque lectulorum ritum in
publicisextitisse:sed ho erấtin Therrumquoq;, vtPensiliumbalnearum,priuataratioeffedebuit,maximèegris.
mis. Vtensilia in Neque particulariumquorundam vtensilium ,quorum in balneisaliquando
xandrinusPedagogij lib.3.cap.5.consueuiffenobilesanteferreadbalneasva
sainnumerabilia, aurea,atqueargentea,quorum hęcquidem adlauandum, illa ad
vescendum, alia ad propinandum. Quin etiam carbonum craticulas, Syndones.
&cathedras.Syndonestergendosudoripræparatas,maximèægris,memi-.
nusfitpedesdenos,vtgradusinferiorindeauferat,& puluinusduospedes.
Labrainvr-Hactenus Vitruuius. Quare, vtarbitror, labraistalapidea,quæmultavide
bemarmo-muspervrbemmaxima, vicenos& ampliuspedeslongitudine, erantfortaf-40
s e i n priuatis balne s. Vel aliqua fort af f e in Thermis ad magnificentiam
potius operis, ac ornamentum, quàm advsum. Alioquia d publicum vsum nó
videolocum ,nequeadeofuiffevidenturcapaciapopulo. Pofteàvitroquæ dam extructafuiffeconftat.
Pauimentorumautem, ac Lythoftrotorum, quibus alveos, atque ipsas cameras a d o
r n a bant, luxus erat inæstimabilis. Quod certe inuentum Agrippæ tefte Plinio
lib. 36. cap. 25. In Thermis, inquit, quas Romæ fecit Agrippa, figlinum opus encaustopinxit,
in reliquis albarioador Sufpenfabal nea, Thermis . mentio fit, quæ pueris
voquisque domino ad balneum ante ferebant. Ut de strigili, quo sudore in detergebant;meminit
Persius eocarmineIronico. Strigiles Ipuer,& Strigiles Crispiniadbalneadefer.
Inęgristamen prostrigilibus,quierantvelofsei,velferrei,velargentei,spon
giavtebantur,Galeno testex.Metho. Idgenuserat& Guttus,quodLe
cythumquoquelegitur,inquoferuabanturoleuni,velaliavnguenta præ 20 30 rea, ciosa
ad balneum. Hydriæ, pelues, alabastri, aliaqueid genusvasa, exau Vasaaurea.ro,argento,
ferro, velinterdum lapidibusquibusdam. Refert Clemens Ale Labra , nit Galenusx.
Methodi. Labraautem ex Vitruuio,& vestigijsipsorumal ueorum videntur fuiffe
extructa in cameris signino opere , atque albario : sic enimlegiturlib.5.cap.1o.
Labrumsubluminefaciendum videtur, nestan tes circumsuisvmbriso bscurentlucem. Scholasautem
labrorumitafieri oportetspaciosas, vtcùm prioresoccupauerintloca, circumspectantes
reli quirectèftare poffint. Aluei autem latitude inter parieten &
pluteumnemi nauit. O nauit. Non dubi èvitreas facturus cameras, fipriusi dinuentum
fuisset. Libro autem3.cap.12.visasolimscribitBalineasgemmis,acargentostraras,vtnevitres
ca vestigio quidem locus esset. Argento fæminas lauari solitas, argenteis
folijs, meræge m Afiaticori sum missem perin delicijs fuisse apud omnes nationes
oftenditur, hanc par mirans, hydrias, pelues, vnguentorum odores, &
alabastros, cunctaauromaditißimg 20 lita, ac miro ornamento instructa; ad
socios conuersus , & quasi nimiunı il DeritibusantiquisinThermisvrbis. Primis
ergoThermarum ,ac Palæstrarum institutis,jam partium earum principalium
distinctiones,necnon requisitaad earum vsum magis necessaria tetigimus. De
Ritibus verò in eis, atque ordine publicaemolumentum, quoniam per hæc
oblectamenta, assiduafiebatin gymnasijs frequentia,acvarijs,quasdiximuscorporisexercitationibus
af suefiebat iuuentusad armorum industriam ,vnde faciliùs posset militiæ labo
res,quando hæc erantprimailliusfeculiftudia, sustinere. Hûc accesserat&
alia causa, quoniam qui tepidescere quodammodo ab honeftis conatibus
cepiffent,perhas delicias retrahebaturà vitijsanimi, sicqueocium, quod
eftomnium malorum fomes, tollebantur, feditionesarcebantur, & omnes
populares corruptelæ. Ex quibus triainter communes ritus videnturesse
manifesta. Primùm si vetustam illam verecundiam, ac Romanum decusrespicias, summam
inThermishonestatemfuisseferuatam. Simaiestatempopu li,omnia ineis fuisse magnifica
& splendida, velutidiximus, & quæ nolentes allicerent, atque etiam
traherent. Sid enique communem causam. Communem, ac liberum earum vnicuique fuiffe
usum. Erat autem hæc balnea- Thermecó. Rum condition communissima, vt singuli balneum
ingressuri Quadrantem solmunes. Uerent balneatori. Quodplanèaliquæpræclarædeclarantauthoritates:
pri Quadrantis mùm M. Tullii pro Cælio, vbi quadrantariam vocat permutationem balnea
em concludam. Asiaticos durante suo imperio luxuofiflimos fuisse, acexeis
Thermalu A Fines, etvti &, probrisseruisse. Pauper fibiquisquevide
eandeinque materiam & cibis seexercentium,aclauationum,haudmirum
esthæcinstitutasempermaioré mis,acar litatesprin habuisseprogressum
;siconsideremus non folùm hincvitæ cip.ilesTher 30 seruare consueuiffe ,
fanitatem elegantiam eos , & roburcorporis;sedquod maius eftinre ز
gëtostratę. Baturacsordidus (scribit Seneca ad Lucillum) nisiparietes balnearūmagnis,
a c preciocis orbibus refulsissent. Alexandrina marmor a Numidicis crustis distincta,
operose vndique, & picturæmodo variataçircunlitio, Vitroconditæ cameræ. Aquainper
argenteaeffundebantepistomia, & adhuc (inquit) ple beiasfiftulasloquor. Relinquocum
hisstatuasillicęternitatidestinatas, operatectoria,picturas, speculariorumlapidumluxus,
quiantècameras præbe bantlumina, & columnarn mingentium numerum, alia quetantioperisor
namentasinefine. Atque hocvnotantùmPlutarchiexemplo,quobalneas primùm ad Gręcos,
& exindeadRomanos huncmorem balnearumema nafse,apud veterum
historiarummonumenta clarum est. Cùm ergo Alexa der Magnusdeuicto Dariorerumtandem
Persię, ac imperijeius potitusesset, balneumque, vt sudorem pugnæ leuaret, ingrederetur;
aquarum ductusad-Darij Ther ludens luxum, Hoccine (inquit) imperare erat. Torifieri
solitam . Indicat & cocarmine Horatius, folutio. 1. Saty.3. Qq dum
xuofiffima. Nuditas in Redde pilam ,sonatæs Thermarum ,luderepergis? Verecundi
ase nudum quisque in balneas exhibere ,& etiamin exercitationes. Cuiusreiinteraliafidem
faciuntstatuæ, præsertimvirotum,inqui bus videtur minuere potuisse corporis
gratiam, ac venustatem, si non pudenda etiam fimpliciterenudataessent.
Nonnullitameninterexercitationes,
autfuccinctafibulaprodiresolebant,autsubligaculis,quæ & subligariavo nihil
foluiffe videntur :teste Iuuenali Satir.2.d. Nec pueri credunt, nisiquinondum
ærelauantur. Quorum tamen priuatafieret lauatio, hora extraordinariaquæeratpoftde
cimā, ij pluri precio lauabant, quod indicate o carmine Martialis lib. 10.
Balneapostdecimanılafo, centumq; petuntur Quadrantes, &c. incommunitamen gaudio,
erataliquandohocmunus interalia Principum, ut gratis lavaretur. Antonini Pij exemplo,
quem balneum sinemercede prestitisse, meminitIul. Capitolinus. Sive ergo proveter
iinstituto, fiueproso Sub ligaculo cabant. AuthoreM.Tullio1.offi.Scenicorum
mostantamhabetveterisdi rumvfus. Sciplinæ verecundiam,vtinScenasinesubligaculoprodeatnemo.
40 Tecta tamen non hac ,qua debes partelauaris. .promi-Cæterùm cum
haclicentiabalnei,videturdiuadmodum perdurassemulie. Eal. Mulierum verecundiam,quænon
promiscuècumvirisintrarentinbalneas,nisi perabusum
.Hinctotpriuatarumbalnearumnumerus.Etquædam viden uerecunda. Subligar. E..
dum tuquadrante lauatum 14 .annum, Lauari. Cædere Syluano porcum, &
quadrantelauari. Pueri tamen antè Fibula . Bal Rexibis,&c. Vituperanseum Principem,quivtvnusdemultisqua
drāte lauaretur. Idem Iuuen.authoritate confirmatur in 6.ybi mulieres quas d a
m a r g u i t i m pudentiæ, q u æ c o m m uniter cum viris auderent, inquit ips
e, lutamercede,hocmanifestumest,commune,acperpetuum fuissein Ther Locai Thermis
indultum ,vtlocus inbalneo, cuicunque tam primati,quàm plebeio co mis commu
munis esset , atque indifferens . Ex quo intelligitur Tertulliani similitudo
nia. aduersusMarchionem, QUASI LOCVS IN BALNEIS: quiavidelicetnul li e x merito
datur, necto l l i t u r locus in balneis, iam gratuito constitutis, & T
intinnabu - ad usum publicum. Erant autem tintinnabula in Thermis summo quo p i
a m fasti g i o p o s i t a , fære factitio conflata, quorum s o n i t u populum,
sicut i h o d i e adfacra; conuocari lauandihoraeratsolitum.Tintinnabuluminter Xenias
exhibuit Martialis, eo disticho. Virgine visfolalotusabire domum? Facitadeandem
licentiam Suetonijauthoritas, D. Titum Cæs. admissaple Secum plebebenonnunquamin
Thermissuis lavisse. Et Aelij Spartianialia, Hadrianum
Cæs.tamprobatævitæ,publicèfrequenterselauiconsueuiffecum multis, verecundia
etiam priuatis . Inuafiffe enim consuetudo videtur,ex affiduis il
lisexercitijs, inbalneis. vndefolutohabitu,acseminudiplerunquehominesdegebant,vtnonesset
Idem affirmatquodamloco Clemens Alexandrinus de athletis et martialis si pudor
est, transfer subl igar in faciem . 10 la. Reges lauif. invil. bres . uaret .d.
Dum ludit media populospectantepalæstra Delapsa est misero fibula verpus erat.
Et lib.3. Chionemnotat verecundiæ, quæmuliebriainbalneis contectala tur publicæ
fuisse muliebres, ut Agrippinæ Augustæ Neronis matris. Olym piadisitem balneæ in
Suburra. EtquastransTyberim, quasiextràconspe čtum hominum habuisse Ampelidem,&
Priscilianam ex P.Victorerecensui mus. Conqueritur hac de caussa insuis Amatorijs
Propertiusnon eam esse tum Romanis virginibusin balneis libertatem, quibuscum
more Spartano publice liceretcertare, & lauari, hisversibus. Sed magè virgine
itot bona gymnasij. Quòd noninfamesexercetcorporelaudes cepsbeneinstitutę Reip.lapsus)
totossingulisdiebuslauaricepisse.Invniuer 20sum , qui cunquein exercitijsfuis, autlaboribusdefatigatieffent,vixfanam
vitam putassent, nisibalneasstatimintrarent, vbisudoré,fordespulueremq;
detergerent,acintotum semolliaquarumfoturecrearent. Quoplanèfit,veSeptiesquos
dam lauari. mirumessenondebeat,nequeluxuiadscribendum,quodquidamsepties eadem
dietum lauari consueu erint, quod Plinius in primis refert. Ac posteri scriprores
Commodum Cęf. et Gordianum idasseruntfactitasse. Sicenim intelle
xêrequotienscunqueexercerentur,laffitudinisacrefrictionisvitarepericula,
obstructionestollere,cutis afperitateinlenire,faciei,manuum ,ac vniuersi
corporis decorem conciliare. Erant tamen lauandi horæ constitutæ . Scribit
Lauandiho I ul. Capitolinus antem Alexandri Severi tempora numquam Theri n a s
an t è a u 30 roram apertas fuisse, & semper antè solis occasum claudi
consueuiffe. Communiterv erò lauandihora erat a meridie ad vesperum, quando (inquit
Vitruvius lib. 5. cap. 10) maxime calidæ
auræ a spirare incipiunt. Cu i o m n e s a l i æ authoritates consentiunt . Hadrianus
Cęs. (inquit Aelius Spartianus) ante horam octauam inpublico neminem, nisiçgrum,
lauaripassus est: quod erat duashoras poftmeridiem .Vbi operæ præciumest Horarum
apudantiquosHorologiri rationemhabere,quidiemartificialem
quolibetannitemporedistinguebanttusapudan horisduodecim
,&no&tenipervigilias. Horæergoerantinęquales,maiorestiquos. estate,quialongiorestuncdies;minoreshieme,&
proportionecæteristem poribus.Haud tamen intelligendumest cosà
prandiovsosbalneis fuise: Prădijetcę Nam communiter vir Romanus impransus, autientaculo
tantùm primoma-navfus. nerefectus,bonam dieipartemimpendissetnegocijs:mox
àmeridie,àsexta nimirùm ad decimam horam ,exercitijs & balneo ;à balneo
autem ,circa vi gesimamscilicet& secundamhoram ,cenabatopiparè.Quam
dieiatqueho rarum partitionemconquisitèin eo Martialis epigrammate comprehensam
habemus. Primasalutantes, atquealteracontinethora, Exercet raucos
tertiacausidicos. Martialis ma 10 CO, Multa tuæ Spartemiramur iura
Palæstræ, Inter luctantes n u d a puella viros . Refert Plutarc
husinterlaudabiles Catonisillius Cenforij mores,hocsum- verecundiă ma:laudiilicefliffe,
quodcùmfilionunquàmlauisset. Imò Val. Max. fcribitinterafines.
deinstitutisantiquis, necpatercum filiopubere, necsočercum generis lauabatur.
Quia interista fancta Vincula, non magis quàm in aliquo sacra tolo
nudaresenefasessecredebatur. Sedtranseamusiamadeosritus, qui com
inunivsuretinebanturin Thermis. Perinitiainstitutihuius,narratSenecaad
Lucillumconsueuifseveteresquotidiebrachia,& cruralauare, totosnundi
nisfolùm. Cæterùm poft Magni Pompei ętatē (cuiusmemoria notatur præ ra. Qa ij
Ad quintam variosextendit Roma labores, Sexta quieslafis,septimafiniserit.
Sufficitinnonam nitidisoctaua palæstris, Imperat extructos frangerenonatoros.
Hora libellorum decimaest Euphememeorum, Temperatambrosias cùm tuacuradapes.
Octavam verò dieihoram fuisselauationibus propriam ,tùm publica,tùm pri M.
Tullius, uata t e s t a n t u r exempla . M. Tullius scrib i t a d Atticum d e
Cesare: Ambulavit inquitinlittore,pofthoram octauamin balneum, vnctusest,
accubuit,edit, bibitq;opiparè. Horam & distinctionem temporum aliquamadnotamusex
Galenus, Galeno v.deSa.tuen.d. Antoninus Imp. cognomento Pius, ad curam corporis
promptifsimus, subbrumabreuibus, f.diebus, sole Occidente in palestram
ingressus, sub indeole operun & tus lauarierat solitus: in Solstitio
autemhora Thermehie-nona, autfummumdecima. Porrò quod legitur apud aliquos
authores,Ther males, eteftimasaliquasfuiseHiemales,
aliquasAestiuas;hæcnoneratcommunisom niumdistinctio,sedquarundam
àcertocoelisitu dispositio. QualesHiema lesfecissetraditVopiscusAurelianum Cæs .in
Transtyberina regione; nimi rum ad meridiem expositæ ,apertè solis fouebantur
aspectu, itaq; ad hie males exercitationes aptissimæ. A e quaratione A estivas
in Gordiano Iunior e meminitIul. Capitolinus, quæ in opaco fit uinter montem
Celium & Esqui Bal.vfuspe-lias,gratas estate exercitationibus præftabant
vmbras . Alioquî penes anni nesannitemtempora,vixvllaeratlauandidistinctio,sedbenèpersonarum.
Nam qui cun que lavaban t u r a d exercitium, in different e r t a m h i e m e,
quam estate lauissent, quandocunquescilicetexercerentur.Sanitatisverò&
mundicieicauf sa:quandocunque opusfuisset,velad priuatamcuique consuetudinem,
vt de Telep o Grammaticom e m i n i t Galen. v. de San . t u . qui lauari
consueverat hieme bis mense, estate quater,medijs verò temporibus ter. Et de
Primigene quodam philosopho, quiquadienonlauisset, febricitabatomnino. Adde
liciasautemacvoluptates,velme tacente, priuataquoqueratio essedebuit, 30
&citràvllamaut regulam, autmensuram. Vnde Meridianælauaționes le
Lychniinguntur, atqueetiam antemeridianę,& vespertinæ. Necnon Medicine
introductio. xi,trimixi,polymixi, idestangulorum &luminum
,vnius,duorum,trium, plurium, Devrilitatibus Balnearum esquandoprimum
Dalnceinvfum Medicinavenêre . seruatur;nonaliam legimusfuiffeRome Medicinamsexcentisannis,
quàm balnea. Quod teftatur Pliniuslib. 29.cap.1.Receptos primùm èGræcia Medicos
L.Aemilio, M.Licinio Coff.vxxxv.VrbisRomæ anno. Quádoqui dempetrarierant,
nisiquiob cæliinclementiam crassarenturmorbi.Nam quæ exmalovitæregimine,
acextermis causiseuenirep.
Andrea Baccius. Andrea Bacci. Keywords: De thermis – thermal baths – philosophy
of thermal baths – implicatura ginnastica – le xii pietro pretiose – storia
naturale del vino, bacco – terme romane – il vino e la filosofia, bacco ed
Apollo, le xii pietre pretiose per ordine di dio I sardio II topatio III
smeraldo IV barconchio IV saphhiro VI diaspro VII lingurio VIII agata IX
amethisto X berillo XI chrisolito XII onice – tevere, le tibre au louvre, i
vini. Thermopolium romanum – illustrazione – incisione terme romanae – natatio
– piscina – ginnasio, mercurial, arte ginnastica. -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Bacci” – The Swimming-Pool Library.
Badaloni (Livorno). Filosofo. Grice: “I like Badaloni;
he never took the ROMAN story of philosophy – I say story since history, as
every Italian knows, is too pretentious! – seriously until he had to teach it!
“Storia del pensiero filosofico – l’antichita’ is my favourite – because he
does his best to understand Plato’s pragmatics of dialogue as misunderstood by
Cicero!” -- Nicola Badaloni, Sindaco di
Livorno Durata mandato19541966 PredecessoreFurio Diaz SuccessoreDino Raugi
Nicola Badaloni (detto Marco) (Livorno). filosofo. Di spiccate convinzioni
marxiste, è stato uno studioso di Giordano Bruno, Tommaso Campanella,
Giambattista Vico, Karl Marx, Antonio Gramsci.
All'attività di ricerca e di docenza presso l'Pisa, dove è stato Preside
della Facoltà di Lettere e Filosofia e ha occupato dal 1966 e per molti lustri
la cattedra di Storia della filosofia, Badaloni ha affiancato un'imponente
attività politica nelle file del movimento operaio, ricoprendo per molti anni
la carica di sindaco di Livorno (dal 1954 al 1966), di presidente dell'Istituto
Gramsci, nonché di membro del Comitato centrale del PCI. I suoi contributi
storiografici, salutati fin dall'esordio dall'apprezzamento di Benedetto Croce
hanno messo in luce autori considerati minori e pensatori inattuali (Niccolò
Franco, Gerolamo Fracastoro, Giovanni Battista Della Porta, Herbert di
Cherbury, Antonio Conti) rinnovando radicalmente, attraverso una collocazione
nel contesto storico, grandi figure viste dalla storiografia idealistica
precedente come immerse in una «solitudine metastorica». Storicismo e filosofia Nella presentazione
dell'ultima pubblicazione di Badaloni nel 2005, Remo Bodei ha sostenuto che il
marxismo, lontano da ogni vulgata, conserva, per lo storico della filosofia
toscano, la sua capacità di strumento di comprensione del mondo, di erogatore
di energie di cambiamento, di guida per lo sviluppo di una prassi razionale,
ancora validi dopo le esperienze del cosiddetto "socialismo
realizzato". Badaloni ha incessantemente ricercato un legame, nella
storia, tra pensiero e azione sociale e sviluppato uno storicismo di impronta
marxista che raccordasse autori lontani nel tempo (come Giordano Bruno, Gian
Battista Vico, Antonio Labriola), ma accomunati dalla tensione al rinnovamento
e alla trasformazione progressiva degli assetti sociali in una data situazione
storica determinata. Così come c'è alterità profonda, ma non rottura senza
legame, tra Hegel e Marx e similmente tra Croce e Gramsci. Altre opere: “Retorica e storicità in Vico”
-- “Inquietudini e fermenti di libertà nel Rinascimento italiano” (ETS, Pisa);
“Appunti intorno alla fama del Bruno”; “Introduzione a Giambattista Vico,
Feltrinelli); “Marxismo come storicismo, Feltrinelli); “Tommaso Campanella”
(Feltrinelli, 'Istituto Poligrafico dello Stato); “Conti. Un abate libero
pensatore tra Newton e Voltaire” (Feltrinelli); “Il marxismo italiano degli
anni Sessanta” (Editori Riuniti); “Labriola politico e filosofo, sta in Critica
marxista, Roma); “Per il comunismo. Questioni di teoria, Einaudi); “Fermenti di
vita intellettuale a Napoli dal 1500 alla metà del 600, sta in Storia di Napoli, Società Editrice Storia di
Napoli); “Cultura e vita civile tra Riforma e Controriforma” (Laterza); “La
storia della cultura, sta in Storia d'Italia, III -(Dal primo Settecento
all'Unità), Einaudi); “Il marxismo di Gramsci. Dal mito alla ricomposizione
politica, Einaudi); “Libertà individuale e uomo collettivo in Gramsci, in
Politica e storia in Gramsci, F. Ferri,
1, Roma, Editori Riuniti-Istituto Gramsci); “Labriola, Croce e Gentile”
(Laterza); “Dialettica del capitale, Editori Riuniti); “Gramsci: la filosofia
della prassi, sta in Antonio Gramsci. La filosofia della prassi come
previsione, in Hobsbawm, E. H. , Storia del marxismo” (Torino, Einaudi); “Teoria
della società e dell'economia in A. Labriola, I e II, in Dimensioni”; Forme
della politica e teorie del cambiamento. Scritti e polemiche” (ETS); Movimento
operaio e lotta politica a Livorno”; “Democratici e socialisti in Livorno”
(Nuova Fortezza); “Filosofia della praxis, sta in Gramsci. Le sue idee nel nostro tempo,
Editrice l'Unità, 1987); “Labriola nella cultura europea dell'Ottocento,
Lacaita); “Il problema dell'immanenza nella filosofia politica di Antonio
Gramsci, Quaderni della Fondazione Istituto Gramsci Veneto, Venezia, Arsenale);
“Giordano Bruno. Tra cosmologia ed etica, De Donato); “Laici credenti all'alba
del moderno. La linea Herbert-Vico, Le Monnier-Mondadori); “Inquietudini e
fermenti di libertà nel Rinascimento italiano, Edizioni ETS, Pisa, 2005 Nicola
Badaloni è inoltre coautore di due importanti manuali: Storia della pedagogia, (Laterza); “Il pensiero
filosofico. Storia. Testi. Per le Scuole superiori” (Signorelli Editore). Notizia
della morte sul settimanale Macchianera, su macchianera. Giuliano Campioni, Addio a Nicola Badaloni,
uomo politico e maestro di filosofia, Athenet, n. 12, anno 2005. 16 agosto (archiviato dall'url originale l'11 settembre
)., nel sito del Sistema bibliotecario di ateneo, Pisa. La lezione di Nicola
Badaloni di Giuliano Campioni, professore del Dipartimento di Filosofia
dell'Pisa, 20 gennaio, , in Pisanotizie. Nicola Badaloni, in
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. PredecessoreSindaco di LivornoSuccessoreLivorno-Stemma.svg
Furio Diazdal 1954 al 1966Dino Raugi90637957 Filosofia Politica Politica Categorie: Politici italiani del XX
secoloPolitici italiani del XXI secoloFilosofi italiani del XX secoloFilosofi.
Nicola Badaloni. Keywords: la retorica di Vico. La storia di Vico, storia e
storicita, campanella, lingua utopica. Bruno, Campanella, Gentile, Croce,
Labriola, Gramsci. badaloni — implicatura vichiana —
libero — biologia filosofica telesio —
vallisneri — lingua utopica di campanella — “retorica e storicità” — laico —
bruno — comune — comunismo — marchetti — vignoli —Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Badaloni” – The Swimming-Pool Library.
Baglietto (Varazze). Filosofo. Grice: “I like Baglietto; unlike me, he
was a consceinious objector, but then we were fighting on different camps! I
love the fact that his first tract is on ‘il problema del linguaggio’ in
Mazzoni – but then he turned from ‘la bella lingua’ to Dutch! And specialized
in Kant, but most notably Heidegger – ‘mitsein und sprache.’ But he also wrote
on ‘eros’ and ‘love,’ – which is very Platonic of him! And of me, since the
ground for my theory of conversation is on the balance between what I call a
principle of conversational self-LOVE (or egoism, if you mustn’t) and a
corresponding principle of conversational OTHER-love (or altruism, if you must,
since I prefer tu-ism – ‘thou-ism’).” Claudio Baglietto (Varazze), filosofo. Di origini modeste, dopo gli studi liceali
presso il Liceo "Chiabrera"di Savona, studiò Filosofia all'Pisa e si
perfezionò presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, allora diretta da
Giovanni Gentile. Baglietto fu assistente del filosofo Armando Carlini. Negli
anni pisani sviluppò idee di riforma religiosa e morale, in contrapposizione al
Cattolicesimo e al Fascismo. Insieme ad Aldo Capitini, Baglietto organizzava
riunioni serali in una camera della Normale, cui partecipavano giovani
studenti, divenuti in seguito affermati intellettuali, come Walter Binni,
Giuseppe Dessì, Carlo Ragghianti, Claudio Varese. Così Capitini ricordava l'amico nel suo
saggio Antifascismo tra i giovani (Trapani, 1966): "era una mente limpida
e forte, un carattere disciplinato, uno studioso di prima qualità, una
coscienza sobria, pronta ad impegnarsi, con una forza razionale rara, con
un'evidentissima sanità spirituale. Cominciai a scambiare con lui idee di
riforma religiosa, egli era già staccato dal cattolicesimo, né era fascista. Su
due punti convenivamo facilmente perché ci eravamo diretti ad essi già in un
lavoro personale da anni: un teismo razionale di tipo spiccatamente etico e
kantiano; il metodo Gandhiano della noncollaborazione col male. Si aggiungeva,
strettamente conseguente, la posizione di antifascismo, che Baglietto venne
concretando meglio. Non tenemmo per noi queste idee, le scrivemmo facendo
circolare i dattiloscritti, cominciando quell'uso di diffondere pagine
dattilografate con idee di etica di politica, che continuò per tutto il periodo
clandestino, spesso unendo elenchi di libri da leggere, che fossero accessibili
e implicitamente antifascisti. Invitammo gli amici più vicini a conversazioni
periodiche in una camera della stessa Normale [...]". Ottenuta nel 1932 una borsa per perfezionarsi
presso l'Friburgo in Germania, dove allora insegnava Heidegger, in coerenza con
i suoi ideali di nonviolenza incompatibili col Fascismo, Baglietto decise di
non rientrare più in Italia e rinunciò alla borsa, cosa che scandalizza Gentile
(che aveva garantito per lui presso le autorità per il visto). Anche Delio
Cantimori criticò animatamente la scelta di Baglietto, in particolare nel suo
carteggio con Aldo Capitini e con Claudio Varese, accusando i colleghi
normalisti dissidenti dal Fascismo di mancanza di senso di realismo politico,
nonché di senso dello Stato (fu poi lo stesso Cantimori ad avvisare Gentile della
morte di Baglietto). Lasciata Friburgo,
Baglietto si trasfere quindi a Basilea, dove visse da esule, proseguendo gli studi
e dando lezioni private. Morì nel 1940:
è sepolto nel cimitero di Basilea. Il
cammino della filosofia tedesca dell'Ottocento, “Annali della Scuola Normale di
Pisa”, Scritti religiosi. Antifascismo tra i giovani, Celebres, Trapani); "Kant
e l'antifascismo" , in Claudio Fontanari e Maria Chiara Pievatolo ,
Bollettino italiano di filosofia politica, Pisa37, 1591-4305 (WC ACNP), 7181065539 (archiviato il 5 settembre ). Ospitato
su archiviomarini.sp.unipi. (Saggio inedito di Baglietto, composto a Basilea e
da anni depositato nell'Archivio Marini dell'Pisa) Note. A. Capitini,
L'antifascismo tra i giovani, Celebres, Trapani); Chiantera Stutte, Delio
Cantimori. Un intellettuale del Novecento, Carocci, Roma, che rinvia
soprattutto a Simoncelli, La Normale di Pisa. Tensioni e consenso; Franco
Angeli, Milano); Scritto pubblicato postumo Aldo Capitini. Aldo Capitini Mahatma Gandhi Nonviolenza Claudio Baglietto e la questione morale -- "Phenomology Lab", 2 giugno, .
Claudio Baglietto, Kant e l'antifascismo di Claudio Fontanari, nel sito "Archivio
Marini". Filosofia Università
Università Filosofo Professore1908 1940 Varazze Basilea Nonviolenza Antifascisti
italiani Studenti dell'Pisa. Claudio Baglietto. Keywords. baglietto
— il kantismo di heidegger — manzoni — filosofia dell’amore — dialettica — Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baglietto” – The
Swimming-Pool Library.
Baldini (Greve).
Filosofo. Grice: “I like Baldini, but more so does Austin! In his collection of
‘lessons’ (lezioni) on ‘filosofia del linguaggio’ (not just ‘sematnica’ or
‘semiotica’) for the distinguished Firenze-based publisher Nardini, he deals
with Austin, but not me!” Grice: “Baldini fails to realise that I refuted
Austdin – when Baldini opposes ‘filosofese,’ I am reminded of my non-conventional
non-conversational implicata – and Austin’s less happy idea of a felicity
condition for a perlocutionary effect!” Grice: “But what I like about Baldini
is that being Italian, he refers to ‘amore’ in his ‘natural’ history of
AMicizia – which is all that my conversational pragmatics is about: Achilles
and Ayax must share a lot of common ground to be able to play the game of
conversation, and they do!” -- Massimo Baldini (Greve in Chianti), filosofo. Si
è dedicato in particolare alla filosofia della scienza e alla filosofia del
linguaggio. Figlio dello storico Carlo Baldini, laureato in Pedagogia presso
l'Università degli Studi di Firenze nel 1969, nel 1970 è stato nominato
assistente incaricato di Filosofia; l'insegnamento era tenuto da Dario
Antiseri) presso la Facoltà di Magistero dell'Università degli Studi di Siena.
Nel 1975 è diventato professore incaricato di “Storia del pensiero scientifico”
presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di
Perugia. Nel 1980 ha vinto il concorso di professore di prima fascia di
“Filosofia del linguaggio” ed è stato chiamato dall'Bari alla Facoltà di
Lettere e Filosofia. Ha insegnato anche presso l'Università degli Studi di Roma
“La Sapienza” nella Facoltà di Medicina. È stato direttore del Dipartimento di
Filosofia e dell'Istituto di Filosofia presso la Facoltà di Scienze della
formazione all'Università degli Studi di Perugia e direttore della sezione di
Storia della medicina del Dipartimento di Patologia presso l'Università degli
Studi di Roma “La Sapienza”. Nel 1999 è stato chiamato dalla Libera
università internazionale degli studi sociali Guido Carli di Roma per coprire
la cattedra di "Semiotica". Qui ha insegnato anche “Teoria e tecniche
del linguaggio giornalistico e radiotelevisivo” (dal 2004), “Semiotica dei
linguaggi specialistici” (che avrebbe dovuto iniziare nel 2009). Presso la
LUISS ha inoltre rivestito numerosi incarichi accademici: preside della Facoltà
di Scienze Politiche (da giugno 2007); coordinatore del corso di laurea
magistrale in “Comunicazione politica, economica e istituzionale” (dal 2004),
direttore della Scuola superiore di giornalismo (dal 2007) e direttore del
Master di primo livello in “Economia, gestione e marketing dei turismi e dei
beni culturali” (dal 2004). In precedenza, è stato vice preside della Facoltà
di Scienze Politiche (2000-2006), direttore del Dipartimento di Scienze storiche
e socio-politiche (2006-2007), direttore del Centro di ricerche sulla
comunicazione (2003-2007). Tre sono stati gli ambiti di ricerca che più
di altri Massimo Baldini ha coltivato: la filosofia della scienza (con una
particolare attenzione al pensiero dell'epistemologo Karl R. Popper, di cui ha
curato anche alcune opere in edizione italiana), la filosofia del linguaggio,
la semiotica della moda. A partire dagli anni Settanta, Massimo Baldini ha
dedicato numerosi lavori all'epistemologia contemporanea, cogliendone le
possibili applicazioni alla medicina, alla storia della scienza, alla pedagogia
e, infine, alla filosofia politica. Parallelamente, ha rivolto i suoi interessi
anche alla storia della scienza e, in particolare, alla storia della medicina. Un'attenzione
particolare è stata dedicata ai nessi che intercorrono tra l'epistemologia e la
filosofia della politica: sulla scorta delle riflessioni popperiane, ha riletto
il pensiero utopico sia nella sua dimensione storica che in quella teorica.
L'altro grande interesse filosofico di Massimo Baldini è stata la filosofia del
linguaggio. In particolare ha studiato le tesi dei semanticisti generali, un
movimento nato negli Stati Uniti tra le due guerre mondiali e di cui si era
occupato per primo in Italia negli anni Cinquanta Francesco Barone. L'interesse
per la filosofia del linguaggio si è declinato anche in chiave storica: e alla
storia della comunicazione Massimo Baldini ha dedicato numerose opere. Inoltre,
gli studi sulla filosofia del linguaggio si sono incentrati sull'analisi di
alcuni linguaggi specialistici: quello della pubblicità, quello dei mistici,
quello della pubblica amministrazione, quello dei giornalisti, nonché il tema
correlato del silenzio. Tutti questi linguaggi, sono stati studiati nelle
prospettive dell'oscurità e della chiarezza, e dell'oggettività (soprattutto
con riferimento al contesto dell'informazione). La biblioteca
comunale "Carlo e Massimo Baldini" di Greve in Chianti A partire
dalla fine degli anni Novanta, infine, gli interessi di Massimo Baldini si sono
incentrati sul tema della moda, che egli ha studiato dal punto di vista storico
e semiotico, e nelle diverse componenti della moda vestimentaria e della moda
capelli. Tutta l'attività di ricerca di Massimo Baldini è confluita in numerose
opere individuali e collettive, curatele, introduzioni e prefazioni a testi
italiani e stranieri, traduzioni, nonché nella collaborazione stabile con
alcune case editrici e riviste scientifiche. In particolare, presso l'editore
Armando (Roma) ha diretto le collane Temi del nostro tempo, I maestri del
liberalismo, Moda e mode, I linguaggi della comunicazione; presso l'editore
Rubbettino (Soveria Mannelli) la collana Biblioteca austriaca (con Dario
Antiseri, Lorenzo Infantino e Sergio Ricossa). Menzione a parte merita
poi il ricordare che Baldini è stato ed è rimasto nel corso dei decenni un
grande estimatore e diffusore dell'opera del concittadino grevigiano Domenico
Giuliotti, il "poeta-mistico" o "profeta" Giuliotti,
del quale il nostro ha riedito alcune delle sue maggiori opere per lo più per
conto delle edizioni Logos di Roma, oltre a dedicare al medesimo alcune
raccolte di saggi come "Il più santo dei ribelli. Scritti su Domenico
Giuliotti" (1981) oppure "Giuliotti. Cristiano controcorrente"
(ed. EMP, 1996), senza contare i volumetti preparati per conto della preziosa
casa editrice La Locusta di Vicenza, a partire dal 1977, in consonanza agli
interessi espressisi e sviluppatisi soprattutto a partire dagli anni ottanta,
quelli che afferivano ai connotati e alle 'modalità' del linguaggio dei
mistici, o alle relazioni intercorrenti fra le dimensioni del
silenzio-parola-Parola di Dio-ascolto. È stato altresì membro del
Comitato Nazionale per la Bioetica; membro del comitato scientifico delle riviste
L'Arco di Giano, 'Nuova civiltà delle macchine, Desk. Morì a causa di un
infarto mentre si trovava a cena con alcuni colleghi universitari. Nel per la casa editrice Rubbettino è uscito il
libro La responsabilità del filosofo. Studi in onore di Massimo Baldini Dario
Antiseri con saggi di amici, colleghi, collaboratori e studenti per ricordare
la figura intellettuale e morale di Massimo Baldini a quattro anni dalla
scomparsa. Partecipano all'antologia Tullio De Mauro e Derrick de Kerckhove. Il
primo maggio è stata inaugurata a Greve
in Chianti la Biblioteca comunale "Carlo e Massimo Baldini".
Sulla filosofia del linguaggio «È chiaro che devo preoccuparmi di essere inteso
da tutti perché penso che la chiarezza sia la cortesia del filosofo»
(José Ortega y Gasset, Cos'è la filosofia?) Secondo Baldini scopo del filosofo
e della sua filosofia è essere chiari: scrisse infatti «l'accusa che più
frequentemente viene rivolta alle opere dei filosofi è quella
dell'illegibilità». I filosofi come dimostra nel suo Contro il filosofese e nel
Elogio dell'oscurità e della chiarezza non seguono sempre questa missione ed in
alcuni casi sembra usino volutamente un linguaggio oscuro ed incomprensibile.
Tre dei filosofi più oscuri secondo Baldini, che ricalca in questo anche il
giudizio di Schopenhauer, sono stati Fichte, Hegel e Schelling. Parlando di
Hegel, Baldini riporta il giudizio di uno scritto di Alexandre Koyré che
definisce la lingua di Hegel "incomprensibile e intraducibile".
Citando inoltre il giudizio di Popper scrive: «Troppo spesso, secondo Popper, i
filosofi vengono meno alla virtù della chiarezza. Con l'oscurità sovente
mascherano le tautologie e le banalità che infiorettano i loro discorsi». Henri
Bergson cita l'esempio di Cartesio, di Nicolas Malebranche e di molti altri
filosofi francesi mostrando che idee molto raffinate e profonde possono essere
espresse nel linguaggio ordinario anziché con circonlocuzioni e ridondanze e
termini che sono causa di equivoci. Baldini afferma che «l'oscurità in
filosofia è, dunque, il modo migliore per fingere di spacciare pensieri, mentre
si sta solo spacciando parole, è una maschera che cela spesso il vuoto di
pensiero o la banalità dei pensieri». Nonostante tutto secondo Baldini, non
bisogna giudicare frettolosamente un filosofo, definendolo "oscuro",
a volte può essere una carenza della nostra conoscenza che ci porta a
respingere come vuoto suono, parole che invece, hanno il loro preciso
significato. Scrivere la filosofia in maniera chiara può avere le sue
difficoltà, Nietzsche infatti afferma che «ci vuole meno tempo ad imparare a
scrivere nobilmente che chiaramente» e Ludwig Wittgenstein che celebra a più
riprese la chiarezza, fa autocritica ammettendo in una sua lettera a Russell
che il suo Tractatus logico-philosophicus «è tremendamente oscuro». Quanti
celebrano la chiarezza in filosofia, sanno bene che ogni lettore di testi
filosofici deve fare proprio il consiglio che Wittgenstein dava a Bertrand
Russell, quando questi si lamentava con lui dell'oscurità del trattato, gli
scrisse: «Non credere che tutto ciò in cui tu sei capace di capire consista di
stupidaggini». Invece, un personaggio che volutamente, secondo Baldini, tendeva
a non farsi capire e a sopraffare linguisticamente («fra gli applausi di
ammirazione») i suoi ascoltatori, è stato Armando Verdiglione. Chi si
avventurava nelle sue opere, fa rilevare il filosofo, si imbatteva in frasi
tipo questa: «Sono tratto da un demone a dire, a fare, a scrivere sempre fra
oriente e occidente e fra nord e sud. Senza luogo della parola. Questo demone è
il colore del punto, dello specchio, dello sguardo, della voce: la moneta
stessa. Punto, sembiante, oggetto scientifico, è indotto dalla pulsione,
dall'instaurazione della domanda, dove l'offerta è il pleonasmo», ed ancora: «Ecco
questo primo rinascimento. Primo in quanto procede dal secondo, ovvero
dall'originario. Secondo dunque non in senso ordinale, non in nome del nome.
Non è neppure nuovo, perché non parte dalla corruzione per arrivare
all'utopia». "Oscuro superlinguaggio" e "gargarismi linguistici
e semantici" sono secondo Baldini il risultato della
"verdiglionite" ovvero di chi si muove "sui sentieri del
filosofese". Secondo Baldini quindi la difficoltà di esprimere alcuni
profondi pensieri filosofici non dovrebbe essere amplificata, è vero che ci
sono pensieri filosofici difficili da esprimere in modo semplice, ma è pur vero
che il filosofo che desidera trasmettere la propria filosofia, dovrebbe fare un
onesto sforzo affinché essa sia quanto più possibile comprensibile al proprio
uditorio. Note Sociologi: è morto
Massimo Baldini, semiologo e filosofo, Adnkronos, 11 dicembre 2008 Contro il filosofeseI filosofi e l'abuso
delle parolepag. 43-49 Contro il
filosofeseFichte, Schelling, ed Hegel: i professionisti dell'oscuritàpag.
50-56 Alexandre Koyré, Note sulla lingua
e la terminologia hegeliana, Interpretazioni hegeliane, La Nuova Italia,
Firenze 1980, pag.43 Bertrand Russel.
L'autobiografia 1914-1944, Longanesi, Milano 1969, II, pag. 208 (la lettera è
datata 12 giugno 1919) Armando
Verdiglione, Manifesto del secondo rinascimento, Rizzoli, Milano 198323. Altre
opere: “Epistemologia e storia della scienza” (Ed. Città di vita, Firenze);
“Campanella ed il linguaggio dell’utopia” – “Utopia e ideologia: una rilettura
epistemologica” Ed. Studium, Roma); “Epistemologia contemporanea e clinica
medica” (Ed. Città di vita, Firenze); “Teoria e storia della scienza” (Armando
Editore, Roma); “I fondamenti epistemologici dell'educazione scientifica”
(Armando Editore, Roma); “La semantica generale” (Ed. Città nuova, Roma); “Gli
scienziati ipocriti sinceri: metodologia e storia della scienza” (Armando
Editore, Roma); “La tirannia e il potere delle parole: saggi sulla semantica
generale” (Armando Editore, Roma); “Congetture sull'epistemologia e sulla
storia della scienza” (Armando Editore, Roma); “Epistemologia e pedagogia
dell'errore” (Ed. La Scuola, Brescia); “Il linguaggio dei mistici” (Ed.Queriniana,
Brescia); “Il linguaggio della pubblicità” “La fantaparola” (Armando Editore,
Roma); “Educare all'ascolto, Ed. La Scuola, Brescia); “Parlar chiaro, parlar
oscuro” (Ed. Laterza, Roma Bari); “Lezioni di filosofia del linguaggio” (Ed.
Nardini, Firenze); “Antologia filosofica, Ed. La Scuola, Brescia); “Contro il
filosofese” (Ed. Laterza, Roma-Bari); “Storia della comunicazione, Newton &
Compton, Roma); “La storia delle utopie, Armando Editore, Roma); “Il proverbi
italiano” (Newton & Compton editori s.r.l., Milano); “Karl Popper e
Sherlock Holmes: l'epistemologo, il detective, il medico, lo storico e lo
scienziato” (Armando Editore, Roma); “La medicina: gli uomini e le teorie, Ed.
CLUEB, Bologna); “Il liberalismo, Dio e il mercato” (Armando Editore, Roma);
“L’amicizia” (Armando Editore, Roma); “Introduzione a Karl R. Popper, Armando
Editore, Roma); “Capelli: moda, seduzione, simbologia” (Ed. Peliti, Roma); “Popper
e Benetton: epistemologia per gli imprenditori e gli economisti” (Armando
Editore, Roma); “Elogio dell'oscurità e della chiarezza, LUISS University Press
e Armando Editore, Roma); “Elogio del silenzio e della parola: i filosofi, i
mistici, i poeti, Rubettino Editore, Soveria Mannelli); “I filosofi, le bionde
e le rosse, Armando Editore, Roma); “L'invenzione della moda: le teorie, gli
stilisti, la storia. Armando Editore, Roma); “L'arte della coiffure: i
parrucchieri, la moda e i pittori, Armando Editore, Roma); Popper, Ottone,
Scalfari, LUISS University Press, Roma 2009. Altri progetti Collabora a
Wikiquote Citazionio su Massimo Baldini
Scheda dell'Università LUISS, su docenti.luiss. Filosofia Filosofo del
XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloAccademici italiani del XX
secoloAccademici italiani Professore1947 2008 18 giugno 10 dicembre Greve in
Chianti RomaProfessori della Libera università internazionale degli studi
sociali Guido CarliProfessori della SapienzaRomaProfessori dell'Università
degli Studi di PerugiaProfessori dell'Università degli Studi di SienaProfessori
dell'BariStudenti dell'Università degli Studi di Firenze. In questo
contributo intendo concentrarmi su alcuni aspetti della teoria aristotelica
dell’amicizia: il metodo di indagine attraverso cui è articolata e acquisita, e
il suo significato dialettico e teorico. Il processo conoscitivo, per
Aristotele, è una transizione da ciò che è “primo per noi” a ciò che è “primo
per sé”[1], e l’indagine sull’amicizia non fa eccezione. Il “primo per noi”
contempla la nostra esperienza della cosa intesa in senso ampio, tale da
includere: le prassi linguistiche e ascrittive diffuse[2], le opinioni notevoli
(ἔνδοξα) condivise da tutti o dai più o dai sapienti o da alcuni di essi[3], i
topoi o luoghi comuni consegnati dalla tradizione, i fenomeni intesi come
“fatti della vita”, ovverosia le ordinarie prassi umane, i comportamenti
concreti implicati nelle relazioni di amicizia[4]. Si tratta di un materiale
eterogeneo, variegato, opaco, bisognoso di sintesi e di articolazione
concettuale: il suo trattamento dialettico preliminare sarà orientato anzitutto
a evidenziare le contraddizioni che tale materiale ospita, per poi cercare di
superarle entro una sintesi superiore la quale, attraverso una teorizzazione
positiva ˗ materiata di distinzioni semantiche e concettuali, argomenti,
definizioni ˗ ne salvi gli elementi genuini nella misura del possibile, mostri
l’apparenza delle contraddizioni, e produca così una sorta di “equilibrio
riflettuto” fra il “primo per noi”, da cui pure si sono prese le mosse, e il
“primo per sé”, punto d’arrivo dell’indagine. Una buona teoria dovrà fare
giustizia dei caratteri manifesti dell’oggetto, renderli cioè intellegibili e
inferibili[5]; invece una teoria che negasse questi caratteri, sarebbe ipso
facto una teoria deficitaria, insoddisfacente: non ci riconcilierebbe coi
φαινόμενα, che pure sono il suo originario explanandum. Questa cifra
metodologica va tenuta presente, se si vuole apprezzare in modo non
superficiale la trattazione aristotelica dell’amicizia nelle due Etiche. Perciò
è opportuno partire non da Aristotele, bensì dall’orizzonte teorico-culturale
cui egli si rapporta dialetticamente, nonché dai suoi obbiettivi polemici. Il
significato ordinario di «φιλία» ha un’estensione ben più ampia della nostra
nozione di «amicizia»: oltre all’amicizia propriamente intesa, può denotare
anche l’alleanza politica[6], la vasta gamma dei rapporti sociali, dalle relazioni
parentali e matrimoniali a quelle commerciali, quelle cameratistiche, quelle
amorose ed erotiche; insomma, qualunque interazione umana positiva e non
ostile, fra individui o fra gruppi – ma anche fra uomini e dei[7] – è
denotabile come φιλία. Nella caratterizzazione preliminare che ne offre,
Aristotele attinge ai grandi modelli omerico ed esiodeo, così come ai Sette
Savi, ai tragici, nonché al sapere filosofico dei predecessori (Empedocle,
Eraclito, etc.); ma il punto di riferimento dialettico che, sottotraccia,
orienta l’intera trattazione, è il Liside platonico, la prima indagine
filosofica sistematica dedicata alla φιλία[8], nelle cui note aporie sono
peraltro condensate e portate a tematizzazione le contraddizioni insite nelle
istanze della tradizione pre-filosofica globalmente intesa. Il Liside dunque,
fra gli ἔνδοξα e i λεγόμενα, riveste un ruolo dialettico-polemico primario,
anche se non se ne fa alcun riferimento esplicito. È impossibile in questa sede
tentarne anche solo una cursoria sintesi, ma è necessario individuare perlomeno
quelle aporie di fondo intorno alla φιλία che Aristotele riprende in maniera
puntuale[9]. Una importante aporia (210e-213c), radicata nella dicotomia
attivo/passivo, è articolata intorno alla questione: chi dei due, in una
relazione amicale, è l’amico? Chi ama o chi è amato[10]? Si sonda tutto lo
spazio logico delle possibilità, producendo esiti paradossali (di qui, appunto,
lo status di aporia): se 1) è chi ama, ad essere amico di chi è amato, allora
nel caso che chi è amato odiasse chi lo ama, uno sarebbe amico di chi lo odia!
2) se è chi è amato, ad essere amico, sarà anche il caso che chi è odiato è
nemico, dunque se qualcuno ama qualcuno che lo odia, allora sarà nemico di un
suo amico! 3) se sono amici o chi ama o chi è amato, indifferentemente, resta
fermo che uno potrebbe essere amico di chi lo odia 4) se sono amici
necessariamente entrambi, allora non potremmo essere “amici” di entità che non
ci amano, come la scienza, o il vino, o i cavalli. L’aporia presuppone l’ampia
estensione semantica di φιλία e di φίλος, che da un lato può avere significato
passivo (esser caro a qualcuno), attivo (essere amico di) o reciproco[11],
dall’altro come prefisso (φίλο-) può comporre termini denotanti amore, passione
o apprezzamento per entità impersonali, che non reciprocano. Ma l’aporia è
filosofica, non meramente linguistica[12]. Una seconda aporia (213d-223b)
muove dalla questione se l’amicizia si dia fra simili o fra dissimili. Se 1) si
dà fra simili, allora anche i malvagi sarebbero amici, ma fra malvagi non si dà
vera amicizia (assunzione qui data per vera)[13]; 2) se si dà non fra simili
simpliciter ma fra simili nell’esser buoni, sorge il problema di come il buono
– il quale basta a se stesso[14] – possa trarre utilità da un altro buono, e
viceversa, quando si era precedentemente stabilito che nessun amico è inutile
all’amico (210c6-8); 3) se si dà fra dissimili contrari, come povero/ricco,
sapiente/ignorante etc., allora, daccapo, l’amico sarà amico del nemico, il
malvagio del buono etc.: amico/nemico e malvagio/buono sono contrari; 4) forse
si dà fra certi dissimili non contrari: chi è intermedio fra buono e cattivo
può amare il buono in virtù della presenza in sé di un “male”, cioè della
privazione di bene di cui è conscio e che lo rende intermedio[15]; così
l’amicizia diventa un caso particolare del desiderio[16], volto strutturalmente
a ciò di cui si è privi. Ma anche qui si ricadrebbe nel caso 1 della Prima
aporia: pare che l’amare unidirezionale e non ricambiato non sia sufficiente
all’amicizia, inoltre il buono sarebbe amato senza amare a sua volta (infatti
l’altro gli è inutile giacché egli ha già il bene presso di sé). A questo
punto viene introdotta l’idea che, se noi cerchiamo nell’amico il bene ma
nessun amico può avere il bene pienamente presso di sé, allora ciò che
cerchiamo negli amici è il «Primo Amico», qualcosa che trascende sia noi che
gli amici stessi, di cui questi ultimi sono apparenze (εἰδώλα)[17]. Le
relazioni amicali sono da ultimo orientate verso qualcosa che trascende
entrambi i relati, secondo una dinamica “ascensionale” segnatamente platonica:
ma così l’amico in carne e ossa parrebbe ridotto a mero luogo di transito di
una tensione desiderante che ascende in direzione di un assoluto ideale. Riesaminando
poi la relazione “orizzontale”, si introduce la nozione di «affine» (οἰκεῖος):
forse la φιλία è rapporto col simile in quanto affine, o familiare; ma
l’affinità pare essere reciproca (se A è affine a B, B è affine ad A), dunque
il buono risulta inservibile a chi è già affine al buono; inoltre, sono affini
anche i malvagi. Anche se la trattazione appare un poco schematica e
talora verbalistica, essa tocca problemi speculativi genuini. Come ci si
aspetta da un dialogo “socratico” di Platone, le aporie non trovano uno
scioglimento, se non la paradossale acquisizione che né amanti né amati, né
simili né dissimili né contrari, né affini, né buoni, possono essere amici[18]!
Teniamo dunque a mente questi nodi problematici. 2. La
tassonomia delle amicizie e il suo significato L’amicizia è
studiata nel libro VII dell’Etica Eudemia, e nei libri VIII-IX dell’Etica
Nicomachea[19]. Mentre la trattazione dell’Etica Eudemia risulta più logica e
astratta, quella dell’Etica Nicomachea è più orientata a salvare i fenomeni, è
più empirica e inclusiva: per cogliere i nuclei teorici di fondo, è sensato
muovere dalla prima, e valutare criticamente quando e perché la seconda propone
integrazioni o discostamenti teorici da quella. Sia la Eudemia precedente alla
Nicomachea o meno[20], in essa appare più nitidamente come la trattazione
aristotelica costituisca una sorta di virtuale controcanto filosofico del
Liside platonico[21]. Etica Eudemia VII introduce il soggetto come
specialmente degno di essere indagato: gli ἔνδοξα universalmente diffusi
pongono la φιλία come il fine stesso della politica, come antidoto
all’ingiustizia, come habitus caratteriale rivolto ai buoni, pongono l’amico
come il più grande dei beni esterni (anche in quanto volontariamente scelto) e
l’assenza di amici come il male più terribile[22]. La φιλία è aspetto centrale
dell’etica – soprattutto entro un’etica eudemonistica imperniata sul bene e
sulla felicità – dunque non sorprende che la sua trattazione occupi quasi un
quinto degli scritti etici aristotelici. Ma altre opinioni notevoli non
sono universalmente condivise: per alcuni il simile è amico del simile (Omero,
Empedocle), per altri lo è il contrario del contrario (Esiodo, Euripide,
Eraclito)[23]: sono le opzioni 1 e 3 della Seconda Aporia del Liside, che pure
non viene citato. Si ricordano poi altre opinioni, topoi tradizionali già
ripresi dal Liside: per alcuni non c’è amicizia fra malvagi ma solo fra buoni
(cfr. opzione 1 della Prima Aporia), per altri solo chi è utile può essere
amico (cfr. opzione 2 della Seconda Aporia). Prima di passare alla pars
construens, Aristotele enuncia candidamente il criterio metodologico e lo scopo
dell’indagine: Occorre trovare un’argomentazione che insieme renda
conto (ἀποδώσει) al massimo grado delle opinioni (τά δοκοῦντα) intorno a queste
cose, e anche che sciolga le aporie e le contraddizioni. Ciò avverrà qualora
appaia che le opinioni contrarie sono sostenute con buone ragioni: una tale
argomentazione sarà nel massimo accordo coi fenomeni. E le tesi in contraddizione
risultano mantenersi, se quel che affermano è vero in un senso, ma in un altro
no. (Et. Eud. VII 2, 1235b13-18).[24] Le opinioni diffuse e notevoli non vanno
accolte in modo supino e acritico, ma comprese nelle loro buone ragioni e,
nella misura del possibile, salvate entro una sintesi teorica che superi le
aporie e mostri che le affermazioni apparentemente incompatibili possano essere
vere entrambe, in sensi diversi; così vi sarà anche il massimo accordo coi
φαινόμενα. Questi, i desiderata da soddisfare. Se l’amicizia è desiderio
(altra acquisizione del Liside[25]), il desiderio può essere del piacevole
(appetito) o del buono (volontà)[26], dunque ciascuno di essi ci è «amico» o
caro (φίλον); comunque il piacere si presenta come un bene (o appare tale o è
creduto tale[27]): la prima distinzione da fare è perciò fra bene e bene
apparente (φαινόμενον ἀγαθόν), oggetti del desiderio[28]. La seconda è quella
fra bene incondizionato (ἁπλῶς) e bene per qualcuno[29]: ciò che è buono
simpliciter lo è per l’essere umano in generale, ciò che è tale «per qualcuno»
lo è per certi individui particolari in certe circostanze (per esempio,
un’operazione per un malato); parimenti, vi è un piacevole incondizionato e un
piacevole «per qualcuno» (per esempio, in condizioni fisiche o morali
alterate); Aristotele sostiene che il piacevole incondizionato coincida col
buono incondizionato[30]: ciò che è buono per l’uomo in generale, è anche
piacevole per l’uomo in generale, invece un individuo malato o corrotto troverà
piacevoli cose non oggettivamente buone; né coincideranno il piacevole «per
lui» e il buono «per lui». Un uomo saggio e virtuoso troverà piacevole ciò che
è buono, dunque nel suo caso si identificano bene apparente e bene reale (è
buono ciò che gli appare tale), bene «per lui» e bene incondizionato (ciò che è
bene per lui è buono in generale per l’uomo), nonché bene e piacere: egli è
norma rispetto a ciò che per l’uomo in generale è e deve essere buono e
piacevole, in quanto esprime l’eccellenza della stessa natura umana. A ogni
modo, ciò che motiva un soggetto S deve apparire un bene a S (che lo sia o
meno), e apparire a S un bene per lui (che sia o meno anche un bene in senso
incondizionato)[31]. Ci sono cose per noi buone in quanto le riteniamo
dotate di valore intrinseco, cose per noi buone in quanto le riteniamo utili, e
cose per noi buone in quanto le troviamo piacevoli. Poiché l’amico è un bene
scelto e desiderato ˗ il φιλεῖν è un caso particolare di desiderio ˗ potrà
esserlo per questi tre motivi: come bene in sé, e cioè in quanto è ciò che è e
«per la virtù», o in quanto è ci è utile, o in quanto sia piacevole, «per il
piacere»[32]. Chiariremo successivamente perché il buono in quanto buono,
quando il bene sia l’amico stesso, si identifichi con la sua virtù. Colui
che è amato in base a uno dei tre aspetti suddetti (bene-virtù, utilità,
piacevolezza) diventa un amico ˗ si aggiunge ˗ quando contraccambia l’affetto:
dunque la reciprocità diviene un tratto essenziale dell’amicizia, una sua
condizione necessaria; Aristotele sceglie l’opzione 4 della Prima Aporia del
Liside, ma replica all’obiezione ivi contenuta, secondo cui cose amate come il
vino, i cavalli e la scienza non possono ricambiare, mediante la distinzione
fra φιλία e φίλησις[33]: la seconda è un affetto/desiderio per le cose
inanimate, la prima implica un simile affetto come componente, ma include
necessariamente la reciprocità. Talvolta, una nozione vaga può essere
disambiguata mediante una distinzione semantica, in modo da sciogliere apparenti
contraddizioni e insieme “salvare i fenomeni”. Tuttavia, l’affetto reciproco
sulla base di uno dei tre amabili non è ancora sufficiente perché ci sia φιλία;
tale reciprocità deve essere esplicita, non celata, nota ai due amici: se amo
qualcuno che non lo sa, non siamo amici, nemmeno nel caso lui ami me e io lo
sappia; entrambi devono amarsi l’un l’altro, ed entrambi lo devono fare in modo
manifesto, tale che sia noto all’uno e all’altro. La coscienza di essere amici
è essenziale all’essere amici: qualcuno può credere di essere amico senza
esserlo[34], però nessuno può essere amico di qualcuno senza credere di
esserlo. Se manca la reciprocità, non si ha amicizia ma «benevolenza» (εὔνοια),
cioè desiderio del bene dell’altro; quando quest’ultima è reciproca e non è
celata, allora può divenire amicizia[35]. Le tre forme di amicizia,
rispettivamente basate su virtù, utilità, piacere, secondo l’Eudemia
intrattengono la relazione asimmetrica che Aristotele chiama πρὸς ἓν, in cui vi
è un significato primario o focal meaning cui gli altri, secondari e derivati,
rimandano[36]: l’amicizia a causa della virtù e fondata sul bene è posta come
πρώτη φιλία, «prima amicizia», da cui le altre dipendono dal punto di vista
definitorio. Quindi «φιλία» non denota tre specie di un unico genere, né è un
termine equivoco che denota realtà completamente diverse; è termine
“multivoco”, giacché l’amicizia si dice in molti modi ma in riferimento a un
senso che illumina tutti gli altri, e a cui gli altri si rapportano
necessariamente. Molti critici ritengono che, siccome l’amicizia
“utilitaristica” e quella “edonistica” possono darsi indipendentemente da
quella “virtuosa”, l’idea che esse rimandino necessariamente a quella
“virtuosa” non sarebbe convincente, e proprio per questo sarebbe poi
abbandonata nella Nicomachea[37]. Ma la gerarchizzazione πρὸς ἓν è anzitutto
definitoria: il piacere è un bene apparente (dunque, una declinazione del
bene), l’utile è tale in quanto foriero di bene[38] o di piacere (che, daccapo,
è un bene apparente); dunque i tre amabili sono un bene, un modo di apparire
del bene, una via che porta al bene. Al modo in cui il piacere e l’utilità si
definiscono in rapporto al bene[39] (ma, per Aristotele, non viceversa), così
le amicizie basate sul piacere e l’utile si definiscono in rapporto a quella
basata sul bene come tale: e infatti, come vedremo, ne sono forme imperfette e
difettive. Si noti la pur generica assonanza fra la πρώτη φιλία e il πρῶτον
φίλον, il Primo Amico del Liside: se Platone radica il senso delle relazioni
amicali in un anelito a qualcosa che trascende le amicizie e gli amici stessi
illuminandole, per così dire, dall’alto, Aristotele immanentizza il bene entro
gli amici stessi e le loro relazioni; c’è una amicizia prima, ma non un Amico
primo che si distingua dagli amici empirici e concreti. Il bene che è in gioco
nell’amicizia è ubicato negli amici stessi, è immanente. Qual è la
ragione profonda di questa tripartizione? Si può mostrare in modo puntuale che
si tratta di una risposta alle aporie platoniche: se i platonici pongono come
amicizia solo quella virtuosa, «non riescono a dare conto dei fenomeni»[40],
ove per fenomeni si devono intendere non solo le prassi umane, ma anche gli ἔνδοξα
e i λεγόμενα. Se vi sono tre forme di amicizia, può darsi che alcune opinioni
notevoli e intuizioni siano vere dell’una ma false dell’altra, altre siano vere
dell’altra ma false dell’una, come afferma il passo metodologico succitato. Se
poi a partire da ciascuna delle tre caratterizzazioni si potessero inferire o congetturare
dei rispettivi propria, che coincidano coi rispettivi tratti manifesti
dell’amicizia che parevano aporetici in quanto incompatibili, allora grazie a
questa tassonomia tricotomica le aporie potrebbero essere sciolte, poiché
alcuni di questi tratti caratterizzeranno un tipo di amicizia, alcuni altri un
altro tipo di amicizia. L’amicizia virtuosa, fondata sul bene, è fra
simili in quanto buoni[41]: essa cattura l’opzione 2 della Seconda Aporia del
Liside, nonché l’ideale arcaico, omerico ma anche teognideo e in generale
aristocratico, della φιλία come sodalizio elettivo fra ἀγαθοί; a questo topos
tradizionale, il Socrate del Liside replica che esso è incompatibile con
un’altra idea ben radicata (basata su altri due topoi tradizionali): il buono è
autosufficiente, e un amico gli sarebbe inutile, ma l’amicizia è fondata
proprio sull’utilità reciproca; quest’ultima idea, di matrice esiodea[42] ma
anche un luogo comune confermato dalle prassi umane, non può essere negata, per
Aristotele: sono gli stessi φαινόμενα a mostrare che coloro che intrattengono
relazioni continuative di utilità e soccorso reciproco, si chiamano amici
e si ritengono tali, e così sono dagli altri chiamati e ritenuti. La
contraddizione è apparente, se si postula che l’utilità reciproca è un
prerequisito di una forma di amicizia (quella basata sull’utile) e non
dell’altra (quella basata sul bene). Le relazioni utilitaristiche sono
amicizia, sebbene di un certo tipo; sia queste che quelle fondate sul piacere,
possono sussistere anche fra individui non buoni, persino fra malvagi, sebbene
in forma estremamente labile e instabile: l’opzione 1 della Seconda Aporia del
Liside è anch’essa percorribile, in quanto due individui non “buoni” possono
essere amici sulla base del piacere, e sono simili nella misura in cui
condividono certi tipi di piacere; inoltre, l’intuizione per cui l’amicizia si
dà fra contrari come povero/ricco, sapiente/ignorante etc. ˗ opzione 3 della
Seconda Aporia del Liside ˗ è anch’essa fatta salva, in quanto viene posta come
peculiare all’amicizia utilitaristica, che tipicamente è intrattenuta da
individui in qualche senso contrari (l’uno ha qualcosa che l’altro non ha).
Aristotele riesce a salvare i fenomeni attraverso una distinzione tassonomica
fondamentale, che deve conciliare certe apparenti incompatibilità ma al tempo
stesso preservare una certa unitarietà dell’oggetto: quella di amicizia è una
nozione originariamente ospitale, plurale e polivoca, tanto internamente
differenziata da implicare una demarcazione netta fra l’amicizia virtuosa e le
altre, ma non tanto monolitica da implicare che si escludano dal novero delle
amicizie quelle forme di relazione (utilitaria, edonistica) ordinariamente
denominate così: altrimenti si farebbe violenza al linguaggio e alle “cose stesse”[43]:
a quel “primo per noi” che è lo stesso explanandum originario. Una delle
ragioni per cui l’amicizia virtuosa è detta «prima» nella Eudemia e poi
«perfetta» (τέλεια) nella Nicomachea[44], è che essa è costitutivamente
piacevole, benché non sia fondata sul piacere, e implica la disposizione alla
mutua utilità quando serva, benché non sia fondata sull’utile: dunque contiene
in sé, in certo modo, le altre due. Tuttavia, il piacere che consegue al bene
ed è persino costitutivo di esso, non è lo stesso piacere che fonda le amicizie
edonistiche; il primo è inseparabile dal bene cui consegue[45], quindi
l’integrazione di piacere e utilità nell’amicizia virtuosa non è da concepirsi
come una somma estrinseca o giustapposizione di aspetti positivi (bene + utilità
+ piacere). La perfezione di questa amicizia non è una somma di amicizie
imperfette, è originaria completezza. Nella Nicomachea non vi è traccia
della relazione πρὸς ἓν, e la πρώτη φιλία diventa τέλεια φιλία[46]. Le altre
amicizie qui sono dette tali «secondo somiglianza» a quella perfetta[47]: a mio
avviso, al netto della differenza di linguaggio, la posizione di Aristotele non
muta in modo sensibile fra le due opere; la somiglianza delle amicizie
edonistica e utilitaristica a quella perfetta consiste anche qui nel fatto che
quest’ultima è, per entrambi gli amici, utile e piacevole, dunque contiene
quegli aspetti che fondano le amicizie imperfette, ma non ne è simmetricamente
contenuta. Infatti, ciò che è buono è anche utile e piacevole, mentre ciò che è
utile può non essere piacevole e può non essere buono (né simpliciter, né per
l’individuo) – per esempio, se l’individuo è corrotto e trova per sé utile
qualcosa che lo approssima a ciò che non è il suo bene (anche se egli magari
crede che sia il suo bene[48]) – e ciò che è piacevole può essere inutile o
persino dannoso. Questo vale in generale, e a fortiori vale per gli amici
buoni, utili, piacevoli. In realtà, lo stesso “compito” etico implicitamente
affidato all’uomo, gli è affidato anche in rapporto all’amicizia: l’ideale
umano, incarnato dal saggio che ne è norma ed esempio, è quello di far
coincidere ciò che è bene per sé con ciò che è bene in generale, e ciò che è
piacevole per sé con ciò che lo è in generale; si realizza così anche la coincidenza
di bene e piacere, visto che il buono in generale e il piacevole in generale si
identificano per natura[49]. Ciò importa che occorra anzitutto essere buoni
(saggi e virtuosi) e, essendolo, prediligere le amicizie virtuose (che sono
appannaggio dei buoni): esse non ospitano conflitti strutturali, soprattutto il
bene e il piacere – il confliggere dei quali sopraffà l’acratico – sono
adeguati ab origine, nell’amicizia perfetta, giacché essa è piacevole proprio
in quanto buona. Ma ciò non esclude che i buoni possano intrattenere anche
amicizie fondate sul piacere, o sull’utile[50]: esse però, nell’economia della
loro vita, risulteranno marginali, sia nella quantità che nella qualità.
Può sorprenderci il fatto che alla forma di amicizia più rara e più “inarrivabile”
delle tre (i buoni sono pochi, gli amici a causa del bene ancora meno) venga
ascritta una priorità definitoria, sia essa del tipo πρὸς ἓν o «per
somiglianza». Ma per Aristotele qualunque capacità umana – l’amicizia è una
virtù, le virtù sono capacità acquisite – viene individuata e definita sulla
base della sua eccellenza: è il caso eccellente, in cui un tratto umano è più
pienamente realizzato, che funge da essenza normativa rispetto ai casi
difettivi, deficitari, degradati, imperfetti; per definire, occorre guardare ai
casi migliori, alla modalità in cui una potenzialità è dispiegata ed espressa
più compiutamente, e che misura gli altri casi quasi costituendone un virtuale
dover-essere rispetto a cui essi mostrano la loro manchevolezza. Perciò la teoria
aristotelica presenta al contempo una dimensione descrittiva e una normativa,
fra le quali sussiste una sorta di tensione dialettica. E in effetti le
amicizie fondate sul piacere e sull’utile sono incomplete: vengono
caratterizzate addirittura come amicizie per accidens[51], il che sembra sulle
prime vanificare l’atteggiamento inclusivo adottato da Aristotele come cifra
metodologica, non solo praticata ma persino esplicitata in modo
programmatico[52]. È come se in sede di definizione generale Aristotele fosse
interessato a preservare l’unità della nozione di amicizia nonostante le
differenze, ma in sede di caratterizzazione sinottico-comparativa dei diversi
tipi, ponesse invece l’enfasi sullo iato che separa l’amicizia prima o perfetta
dalle altre, fino a trattare le altre come solo accidentalmente tali. Perché
esse sono caratterizzate come «accidentali»? Chi si ama per l’utile o per
il piacere lo fa «non perché l’individuo amato sia quello che è, ma in quanto è
utile o in quanto è piacevole»[53]: l’utilità e la piacevolezza sono proprietà
relazionali esterne all’essenza dell’amico amato, determinate dagli effetti che
esso ha su chi lo ama, «perché gli uni ne traggono un qualche bene, gli altri
un piacere»[54]; invece l’amicizia basata sulla virtù e la bontà dell’amico
amato, è basata su proprietà intrinseche all’amato, su ciò che da ultimo
l’amato è[55]. Noi siamo il nostro carattere, il nostro carattere è l’insieme
unificato delle nostre virtù, una seconda natura che è frutto prima
dell’educazione e poi delle nostre scelte: noi siamo un sé che sceglie, e i
nostri pensieri, discorsi e azioni manifestano il nostro “sé”. Pertanto,
nell’amicizia perfetta il bene che è in gioco è l’amico stesso che è amato, per
ciò che egli essenzialmente è, mentre il bene che è in gioco nelle altre
amicizie è il bene – nella forma dell’utile o del piacevole – dell’amico che
ama. Anche se l’amicizia è sempre reciproca, resta fermo che nell’amicizia
perfetta il fondamento è, per ciascuno degli amici, l’altro come buono, nelle
altre è invece il proprio bene in quanto utilità o piacere[56]. Nelle amicizie
imperfette la ragione per cui si vuole e persegue il bene dell’altro, resta
radicata nell’interesse proprio come diverso dal bene elargito all’altro e
diverso dall’altro stesso come dotato di valore intrinseco. È questa differenza
radicale a rendere le amicizie imperfette amicizie per accidens: ciò non
implica, si badi, che non siano amicizie[57], bensì che lo sono solo in virtù
del loro somigliare all’amicizia perfetta, seppure in modo difettivo. Ma
l’amicizia fondata sul bene dell’amico non rischia così di risultare
“disinteressata” in un modo psicologicamente implausibile? Solo in apparenza,
in quanto il bene di chi ama è in gioco, ma lo è in quanto coincide col bene dell’amico:
se siamo amici perfetti, siamo entrambi buoni e virtuosi, e il nostro bene
individuale coincide col bene simpliciter: noi, come amici perfetti, cooperiamo
per realizzare il bene in generale[58]; il bene mio e dell’amico sono voluti –
rispettivamente, dall’amico e da me – in conseguenza del fatto che anzitutto io
e l’amico siamo dei beni: se lo siamo l’uno per l’altro, è perché siamo buoni,
siamo dotati di valore intrinseco, e lo riconosciamo reciprocamente. Non si
tratta di una implausibile relazione puramente altruistica e disinteressata,
perché non si fonda – ribadiamolo – solo sul volere il bene dell’altro, ma
anzitutto sull’altro come bene in sé: voglio e perseguo il bene dell’altro non
per altruismo astratto, ma perché l’altro è un bene. Una nozione comune con cui
forse potremmo rendere più chiaro questo aspetto, è quella di stima. L’amicizia
perfetta è fondata sulla stima reciproca: un amico che stimo per ciò che è e
per come è, esemplifica in sé ciò che è buono, a prescindere da ciò che io
posso trarre da lei/lui: «se uno non gioisce perché l’altro è buono, non c’è la
prima amicizia» (1237b4-5). La stima reciproca presuppone una consonanza di
valori, un’intesa su ciò che vale e ciò che è degno: e visto che i due amici
sono virtuosi e buoni, essi valgono e sanno di valere, per questo valgono anche
l’uno per l’altro. Si tratta di una amicizia in cui coltivare il proprio bene
coincide col coltivare l’altro e il suo bene, e questo coincidere non è
accidentale – come accade nelle altre amicizie – bensì è costitutivo. Invece
posso trarre vantaggio da un amico utile senza stimarlo affatto, così come
posso trarre piacere – per esempio, divertendomici insieme – da qualcuno che
non stimo, che non ritengo una persona buona, degna, valida.
L’accidentalità delle amicizie non perfette si rende perspicua nella loro
strutturale instabilità: un rapporto fondato sull’utilità non avrà più ragion
d’essere, qualora uno dei due amici smetta di essere utile all’altro; i bisogni
umani sono cangianti, e tali sono le risorse altrui per farvi fronte, cosicché
anche le relazioni utilitarie sono essenzialmente mutevoli; lo stesso accade
per gli amici secondo il piacere: cambiano, nel tempo, le fonti del piacere, i
“gusti”, e cambiano anche le capacità altrui di procurarci piacere; l’amicizia
piacevole, poi, è precaria anche perché riguarda tipicamente i giovani, i quali
sono di per sé in continuo cambiamento[59]. Invece la virtù del carattere
è cosa stabile: le amicizie complete sono stabili perché sono fondate sul bene
come virtù, che è costante e non facile a mutare[60]. Il tempo può rendere
inutile un amico che prima era utile, o non più piacevole un amico che lo era,
ma difficilmente può sottrarre a un carattere le virtù, far diventare malvagi i
buoni, stolti i saggi, e dunque minare le basi su cui le relazioni virtuose fra
buoni sono costruite. Per questo l’amicizia completa è specialmente solida,
quasi incrollabile[61], e l’amico virtuoso è un amico «al massimo grado»[62],
un amico «vero»[63]. Un tale amico si renderà utile se può e quando sia
necessario, ma sarà utile perché è un amico, piuttosto che essere amico perché
è utile; e sarà piacevole all’amico, giacché ci risulta tendenzialmente
piacevole frequentare chi stimiamo[64]. Così Aristotele, forte della sua
tassonomia tripartita, deriva dei propria (dei caratteri distintivi) di
ciascuna amicizia, spiegando i fenomeni e riconciliandoci con le comuni
pratiche ascrittive: alcune intuizioni, luoghi comuni e opinioni notevoli sono
vere di un’amicizia, alcune dell’altra. Parlando coi giovani Liside e
Menesseno, Socrate nel Liside si dice desideroso di amicizia più di ogni cosa
al mondo – con una Priamel che restituisce in modo icastico l’idea
dell’amicizia come il più grande dei beni esterni, fatta anch’essa propria da
Aristotele – e invidia ironicamente la loro felicità, visto che sono giovani e
sono diventati amici «in modo facile e rapido»[65]. Si tratta di caustica
ironia, visto che la φιλία che ha a cuore Socrate non è né facile né rapida:
ciò che è dissimulato, è che quella non è verace amicizia, ma altro. Qui c’è
un’aporia in nuce, visto che i giovani che si frequentano, pur con una certa
leggerezza e una conoscenza reciproca non profonda, paiono amici e sono detti
tali, eppure non soddisfano i requisiti della “vera” amicizia non solo secondo
l’idea socratica, ma anche secondo l’opinione diffusa per cui la vera amicizia
è durevole, lenta e difficile a darsi. Aristotele distingue i soggetti delle
attribuzioni incompatibili, salvando la verità di entrambe: l’amicizia giovanile
(per esempio, quella di Liside e Menesseno) è fondata sul piacere, e ha certi
tratti distintivi quali la facilità a prodursi e a decadere, l’intensità
emotiva, e così via; l’amicizia perfetta, tipica degli uomini maturi (è quella
per cui Socrate dice di ardere di desiderio), necessita di una lunga
consuetudine e di una conoscenza reciproca profonda[66], è rara e appannaggio
di pochi, è difficilissima a nascere ma altrettanto difficile a morire,
fondandosi su ciò che in noi vi è di più stabile. Invece, quella utile
caratterizza tipicamente gli anziani, particolarmente bisognosi d’aiuto e
sensibili, per debolezza, al beneficio che può arrecare il mutuo soccorso[67];
inoltre, essa si riscontra nei più, nelle masse, le quali sono più preoccupate
dei benefici personali che del bene e del bello. Fra le amicizie incomplete,
Aristotele ascrive una superiore nobiltà a quella fondata sul piacere, mentre
quella fondata sull’utile è «da bottegai»[68]. In effetti, la condivisione del
piacere è qualcosa di meno strumentale rispetto al trarre vantaggi da qualcuno:
perlomeno il piacere è un fine, non un mezzo; inoltre, il piacere appartiene
alla frequentazione stessa dell’amico, mentre l’utile è a questa completamente
estrinseco: dunque il fondamento dell’amicizia utile è più esteriore e più
contingente di quello dell’amicizia piacevole. Un altro aspetto
problematico del Liside emerge in particolare nella Prima Aporia rispetto alla
polarità attivo/passivo (amante/amato), ma soggiace implicitamente anche ad
altre aporie: l’amicizia sembra implicare uguaglianza e comunanza da un lato, e
differenza e asimmetria dall’altro; si mescolano aspetti tipici del rapporto
pederastico-erotico (amante e amato non sono intercambiabili), aspetti del
rapporto genitoriale, anch’essi per definizione asimmetrici, e relazioni “fra
buoni” simili, potenzialmente simmetriche. Aristotele cerca di articolare
queste istanze entro un quadro più sistematico: la tassonomia delle tre
amicizie si arricchisce di una distinzione trasversale, fra amicizie simmetriche
e amicizie asimmetriche in cui uno è superiore e l’altro inferiore[69]; la
φιλία deve essere reciproca, ma tale reciprocità può essere simmetrica o
asimmetrica (fra superiore e inferiore). I tipi di amicizia sono dunque sei,
giacché si può essere superiori quanto a virtù, a utilità, e a
piacevolezza. La ulteriore distinzione fra amicizie simmetriche e
asimmetriche consente ad Aristotele una esplorazione straordinariamente ricca
dei legami sociali più eterogenei, che assimila alla φιλία e alle sue declinazioni
i rapporti familiari (padre-figlio, marito-moglie, figlio-figlio), i rapporti
politici fra città (in vista dell’utile)[70], gli stessi rapporti fra i
cittadini in rapporto alla loro comunità, i rapporti fra governanti e
governati, le relazioni commerciali, e così via, e indaga le relazioni profonde
fra amicizia, giustizia, concordia, comunità. Non è possibile restituire
nemmeno sommariamente la ricchezza di tali analisi in questo contributo, il
quale si focalizza piuttosto sul significato filosofico e dialettico della
tripartizione in generale: ma fa d’uopo rilevare che le applicazioni di questa
teoria generale sono molteplici e fecondissime. 3. Amicizia
e autosufficienza La tripartizione (con ulteriore dicotomia trasversale)
non scioglie di per sé un nodo aporetico concernente la stessa amicizia
perfetta fra buoni: è l’idea espressa entro il punto 2 della Seconda Aporia del
Liside, per cui chi ha il bene presso di sé è autosufficiente e non ha bisogno
di nulla, dunque l’amicizia di chicchessia gli sarebbe inutile. È vero che
Aristotele ha distinto l’amicizia perfetta da quella utile, ma resta il
problema di comprendere come mai colui che è saggio, virtuoso e buono, bastando
a sé stesso, abbia una qualche motivazione a coltivare un amico, foss’anche un
amico perfetto: «se è felice chi ha la virtù, che bisogno avrà di un
amico?»[71]. L’idea dell’autosufficienza di chi è saggio, virtuoso, felice e
beato, ripresa dal Liside, è un topos tradizionale, quindi ha lo status di ἔνδοξον
ben radicato, di cui va dato conto e di cui va mostrata la compatibilità con la
teoria positiva proposta nonché con altri ἔνδοξα altrettanto ben
attestati. Il problema è affrontato in Etica Eudemia VII 12 e in Etica
Nicomachea IX 9, in maniere parzialmente differenti. L’Eudemia muove
dall’analogia con la condizione divina, paradigma dell’autosufficienza. Ma la
condizione umana può assurgere all’autosufficienza solo nella misura in cui lo
consente la natura dell’uomo, che è animale sociale-politico[72] e può/deve
realizzare questa natura, non quella divina[73]: il bene umano contempla sempre
il rapporto a un’alterità – è καθ’ ἕτερον[74] ˗ quello divino è assoluto
rapporto a sé[75]. L’autosufficienza divina funge da “idea regolativa”, da
norma ideale: l’uomo felice minimizzerà il numero degli amici e si limiterà a
quelli virtuosi, degni di accompagnarsi a lui; proprio il caso di chi non è
obnubilato da bisogni e mancanze, evidenzia il valore intrinseco dell’amicizia
perfetta, perseguita non già per ricevere benefici bensì per fare, dare e
condividere il bene che si possiede. Ma l’argomento successivo – che è molto
complesso e possiamo solo sintetizzare[76] – chiarisce che non si tratta di un
altruismo generico e astratto, in quanto l’amicizia è ingrediente essenziale,
non accessorio, della felicità individuale. Vivere, per l’uomo, è
percepire e conoscere[77], e – prosegue Aristotele ˗ l’aspirazione massima di
ciascuno di noi è, da ultimo, quella di conoscere noi stessi (tesi che rivisita
il celebre monito delfico-socratico); la felicità è costituita dalla conoscenza
di sé in quanto attivi come buoni e virtuosi[78], e la conoscenza di sé passa
per la conoscenza reciproca fra amici: l’amico è «un altro sé»[79], «percepire
l’amico necessariamente è percepire in certo modo sé stesso e conoscere in
certo modo sé stesso»[80]. Condividendo con l’amico i beni, i piaceri e le
attività della vita felice, incrementiamo dunque la conoscenza di noi stessi e
della nostra stessa felicità. La Nicomachea chiarisce la relazione fra il
riconoscimento reciproco degli amici virtuosi e la loro felicità, soprattutto
in un passo speculativamente densissimo: Se l’essere felici
consiste nel vivere e nell’agire, e l’attività dell’uomo dabbene ed eccellente
è per sé virtuosa [..], se poi anche ciò che è familiare/affine (οἰκεῖον) a
qualcuno è tra le cose che lui trova piacevoli, se noi possiamo osservare il
nostro prossimo meglio di noi stessi, e le sue azioni più che le nostre, se le
azioni degli uomini superiori, che siano anche amici, sono fonte di piacere per
i buoni, dato che hanno tutte e due le caratteristiche piacevoli per natura,
allora l’uomo beato avrà bisogno di amici simili a lui, posto che davvero
preferisca osservare azioni buone, e che gli sono proprie, come lo sono le
azioni dell’amico, quando è buono. (Et. Nic. IX 9 1169b31-1170a4)[81] Le
attività di un’esistenza virtuosa e felice sono obbiettivamente piacevoli agli
occhi di un uomo buono, virtuoso e felice a sua volta: vi si rispecchia,
sentendocisi “a casa propria”, e la familiarità determinata da affinità e
prossimità, gli è in sé piacevole. Come si evincerà, la nozione platonica di οἰκεῖον,
introdotta sul finire del Liside come cifra stessa della φιλία, trova una
ripresa puntuale e una valorizzazione speculativa nella teoria aristotelica. Il
prossimo si offre alla nostra conoscenza in modo più trasparente che noi
stessi, giacché la sua distanza da noi lo rende meglio oggettivabile. I due
tratti umani piacevoli per natura sono da un lato la felicità di cui la virtù è
costitutiva, dall’altro la familiarità, che chi è felice è virtuoso riscontra
ed esperisce nel contemplare e cooperare con un’altra esistenza felice e
virtuosa. Le azioni di un nostro amico “perfetto” sono buone e nel contempo ci
sono proprie, cosicché contemplarle è come trovare in esse lo stesso bene che
noi siamo. Potrebbe stupire il riferimento reiterato al tema del piacevole,
quasi che si trattasse di una delle due amicizie non perfette: ma occorre
tenere a mente che il piacevole per natura o ἁπλῶς coincide col bene ἁπλῶς, e
che si tratta di un piacere costitutivo del bene e inseparabile da esso,
piuttosto che di un piacere addizionale ed esteriore rispetto al bene cui
consegue. Se l’altro è sufficientemente prossimo a me, posso de-situarmi e
oggettivarmi riconoscendomi nelle sue azioni, secondo una dialettica complessa
e chiastica di riconoscimento reciproco. «Se l’uomo eccellente si comporta
verso l’amico come si comporta verso di sé, dato che l’amico è un altro se
stesso, allora, così come è desiderabile per ciascuno il suo proprio esserci,
così è desiderabile l’esserci dell’amico, o quasi» (EN IX 9, 1170b5-8). In
questo gioco speculare di identificazioni reciproche, il mio rapporto con
l’altro è mediato del mio rapporto con me stesso[82], l’altro è un «altro me» e
perseguo il suo bene in maniera pressoché equivalente a come perseguo il mio
(quel «quasi» è una concessione al realismo empirico, da cui questa
idealizzazione non vuole disancorarsi); ma è altrettanto vero che il mio
rapporto con me stesso è a sua volta mediato dal mio rapporto con l’altro,
giacché conosco genuinamente me stesso non già con un qualche misterioso atto
introspettivo[83], bensì conoscendo persone simili a me che a loro volta mi
riconoscono simili a sé: questa è la ragione perché v’è bisogno di amici buoni
e virtuosi entro relazioni di amicizia “perfetta”; se la felicità implica
autosufficienza, si tratta di un’autosufficienza umana e non divina, che passa
per l’inclusione del prossimo nella nostra esistenza, e per la cooperazione con
chi scegliamo come degno incarnare il bene e la virtù[84]. Come l’essere amici
non si dà senza il sapere di esserlo anche se si può credere di essere amici
senza esserlo, così l’essere felici (in quanto buoni e virtuosi in attività)
non si dà senza la coscienza di essere felici (in quanto buoni e virtuosi),
anche se è possibile credere di essere felici senza esserlo davvero. E per
sapere chi sono, devo rispecchiarmi in amici simili a me[85]. Ciò importa che
l’uomo beato non avrà bisogno di amici “meramente utili” e “meramente
piacevoli”, invece dovrà avere amici buoni e virtuosi: il topos tradizionale è
riscattato nella sua verità profonda, ma anche oltrepassato in virtù della
tripartizione; in un senso è vero, in un altro no. Essere felici insieme è
diverso dal semplice divertirsi insieme, anche se lo include, ed è diverso dal
semplice aiutarsi l’un l’altro, anche se può includerlo. L’amico perfetto
˗ come ogni altro autentico bene ˗ è oggetto di scelta razionale[86]. Anche per
questo la teoria aristotelica si distanzia da quella platonica[87]: la φιλία
erotica, già ben presente nel Liside sin dalla sua ambientazione scenica – una
palestra, ove Liside è il «bello del momento» di cui Ippotale è innamorato –
viene relegata da Aristotele a una delle tante forme di φιλία, degna di pochi
accenni espliciti, mentre nel Simposio e nel Fedro, dialoghi ben più elaborati
e costruttivi del Liside, l’eros è la forma di φιλία che viene eletta a oggetto
di indagine paradigmatico. Ma le componenti mistico-estatiche della φιλία
erotica come «follia divina» e frutto di invasamento[88], risultano
completamente marginalizzate entro la teoria aristotelica. L’amicizia più degna
e verace è attività derivante da scelta come desiderio razionale; se la
felicità è attività e i beni che la materiano sono oggetto di scelta, allora
anche l’amicizia, ingrediente costitutivo della vita felice, sarà espressione
di attività, piuttosto che passivo invasamento consistente nell’esser
“posseduti” da uomini o dèi. Il primato etico, fisico e metafisico dell’azione
sulla passione, è anche il primato di un certo tipo d’amore su un cert’altro.
L’amicizia è riportata fra gli amici, e la sua declinazione più eccellente,
normante rispetto alle altre, è caratterizzata secondo la dimensione eticamente
più elevata dell’umano: la ragione che sceglie e governa il desiderio,
piuttosto che esserne governata. L’eros platonico, così bellamente ed
enfaticamente rappresentato nel Simposio e nel Fedro, diventa per Aristotele
solo una delle tante declinazioni possibili di un tipo di amicizia – quella
fondata sul piacere – che è già di per sé incompleta e deficitaria[89].
Secondo l’aporetico excipit del Liside, né amanti né amati, né simili né
dissimili, né contrari né affini, né buoni, possono essere amici[90]; le Etiche
aristoteliche presentano una teoria la quale non solo consente ma anche prevede
che amanti, amati, simili, dissimili, contrari, affini, buoni, e perfino
malvagi possano essere amici; inoltre tale teoria offre le risorse concettuali
per chiarire quali coppie di amici possano e/o debbano avere questo o quel
carattere distintivo, e perché. Spero di avere almeno approssimato il
duplice obbiettivo prefissatomi: mostrare in modo dettagliato e sistematico la
dipendenza polemico-dialettica della teoria aristotelica dal Liside platonico,
e mettere in luce il significato filosofico generale della tripartizione della
φιλία in Aristotele. Bibliografia Adkins,
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seine Werke, (Auslage 5 mit Bruno Snell), Berlin: Weidmannsche Buchhandlung.
Walker, A.D.M. (1979), Aristotle’s Account of Friendship in the Nicomachean
Ethics, «Phronesis», 24: 180-196. Ward, J.W. (1995), Focal Reference in
Aristotle’s Account of Philia, «Apeiron», 28: 83-205. Wieland, W. (1970), Die
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Fisica di Aristotele (1993), Bologna: Il Mulino. Williams, R.R. (2010),
Aristotle and Hegel on Recognition and Friendship, in Seymour, M. (ed.), The
Plural States of Recognition, London: Palgrave Macmillan. Zucca, D. (2015),
L’anima del vivente. Vita, cognizione e azione nella psicologia aristotelica,
Milano-Brescia: Morcelliana. Note al testo [1]
Cfr. Phys. I 1: la conoscenza procede da ciò che è più prossimo e più
conoscibile per noi, a ciò che è primo per se o per natura; se tale “risalita”
verso i principi a partire da ciò che ci è immediatamente più vicino è il
metodo della fisica, a fortiori esso si applica all’ambito etico, che è ambito
segnatamente umano: cfr. Et. Nic. I 2, 1095a31-b4, ma anche De An. II 2,
413a11-17 e Met. VII 3, 1029a35-b12. Sul valore epistemologico di questa
differenza, resta decisivo Ruggiu (1965). [2] Per esempio: quando diciamo,
tipicamente, qualcuno «amico» di qualcun altro? Sul rapporto costitutivo fra il
primo-per-noi e il linguaggio, cfr. Wieland (1993). [3] Cfr. Top. I 1, 100 b
21-23; intendo questa definizione di ἔνδοξον come una disgiunzione inclusiva:
se un’opinione è condivisa almeno da uno degli insiemi indicati (tutti, i più,
i sapienti, qualcuno di essi), è un ἔνδοξον, e ciò che lo rende tale può essere
quantitativo, o qualitativo, o entrambi: per esempio, se è condiviso da tutti,
lo sarà anche dai sapienti. [4] Sulla intima connessione fra δοκοῦντα, λεγόμενα
e φαινόμενα, cfr. Owen (1967), Nussbaum (1986b). [5] Cfr. De An. I 1, 402b
16-403a8. [6] Cfr. Herod. III 82, 35 e Tucid. I 137, 4, in cui si trova
l’endiadi «συμμαχίᾳ καὶ φιλία». [7] Nei poemi omerici non vi è il termine φιλία
– le prime occorrenze si trovano in Teognide (Teog. I, 31-38, 53-60, 323-28) –
ma termini analoghi come φιλότης, φίλος sono utilizzati sia a proposito del rapporto
fra uomini che di quello fra uomini e dèi. Sulla φιλία nel mondo antico, cfr.
Pizzolato (1993), Fraisse (1974). [8] Nel Fedro platonico (228a-e), Socrate
confuta un discorso di Lisia sulla φιλία, che Fedro custodiva sotto il
mantello: quindi è verosimile che anche prima della data di composizione del
Liside la φιλία fosse importante oggetto di dibattito e di riflessione critica.
Del resto Giamblico (De Pythagorica Vita, 229-30) e Diogene Laerzio (Vitae
Philosophorum, VIII, 10) attribuiscono già a Pitagora la prima trattazione
filosofica della φιλία. [9] Anche il Fedro e il Simposio si occupano lungamente
della φιλία – l’eros è una forma della φιλία, per Platone quella più
significativa – ma, come cercherò di mostrare, l’indagine aristotelica dipende sistematicamente
dal Liside: per così dire, essa articola una differente risposta a quelle
aporie, rispetto a quella che propone Platone nel Simposio e nel Fedro. [10]
Meglio: se qualcuno sia amico di qualcun altro in quanto ami o, piuttosto, in
quanto sia amato. [11] φίλος + dativo significa “caro a qualcuno”, φίλος +
genitivo indica colui a cui qualcuno è caro, due individui sono φίλοι, quando
sono l’uno “caro” all’altro. [12] Alcuni interpreti leggono il Liside come un
esercizio dialettico, filosoficamente debole [Versenyi (1975)] o più
retorico-sofistico che filosofico [Bordt (1988)], o dal significato
prolettico-introduttivo rispetto ai maturi Simposio e Fedro [Kahn (1996), ma
già Gomperz (2013), Auslage 5, e Willamovitz (1959)]; benché questi due dialoghi
successivi ne possano a buon diritto adombrare il valore intrinseco, tuttavia i
temi sollevati dal Liside sono nodi aporetici sostanziali, e non deve fuorviare
il fatto che Socrate mutui il linguaggio e lo stile argomentativo dal tipo di
interlocutore che affronta (per esempio, “facendo” il sofista col sofista
Menesseno, e così via). Per una interpretazione non riduttiva del Liside e del
suo valore speculativo, è illuminante Trabattoni (2004). [13] Un altro topos
tradizionale – per cui la vera amicizia è fra ἀγαθοί – ricorrente in Platone:
per restare all’esempio più noto, in Resp. I, 351a-e Socrate replica a
Trasimaco che fra malvagi e ingiusti non può esserci alcuna cooperazione né
amicizia; era comunque un tema essenziale per Socrate (cfr. Senofonte, Mem.,
2.6 1-7). [14] Sull’ascendenza omerica di questo topos tradizionale, e sulla
sua importanza per Aristotele (cfr. infra: Par. III), cfr. Adkins (1963). [15]
La coscienza del male come tale è sintomo del fatto che il male è relativo e
non assoluto. [16] Qui nel Liside si tratta di ἐπιθυμία (cfr. 217c). [17]
Tralascio qui la questione della possibile identificazione del Primo Amico col
Bene: ciò che rileva, qui, è il fatto che esso trascenda gli amici concreti, i
quali sono tali solo «a parole» e stanno al Primo amico – che è tale «in
realtà» (τῷ ὄντι) – come i mezzi al fine (cfr. Lys. 220b1-4). [18] Lys 222e1-7.
[19] La letteratura sull’amicizia in Aristotele è sterminata: in luogo di
proporre una lunga lista di studi che comunque sarebbe tutt’altro che esaustiva,
nel seguito mi limiterò a citare alcuni contributi che sono particolarmente
pertinenti agli aspetti che tratterò. Un commento sintetico e preciso a Et.
Nic. VIII e IX è Pakaluk (1998). [20] È il giudizio nettamente prevalente,
anche se non unanime. [21] Sul rapporto fra il Liside e le Etiche aristoteliche
riguardo l’amicizia, buoni spunti si trovano in Annas (1986). [22] Et. Eud. VII
1, 1234b18-1235a4; cfr. anche Et. Nic. VIII 1. [23] Et. Eud. VII 1, 1155a33-b7.
[24] Trad. it. modificata. [25] Cfr. supra: nota 16. [26] Et. Eud. VII 2,
1235b22-23. [27] C’è chi crede che il piacere sia un bene, ma c’è anche chi
crede che non lo sia eppure gli appare – porto dalla φαντασία – come se lo
fosse. Nell’acratico la forza della φαντασία sopravanza, nelle scelte pratiche,
quella della δόξα. [28] Il «bene apparente» è qualcosa che appare come bene; ma
può anche non esserlo: tuttavia, anche il bene reale motiva il desiderio solo
apparendo come bene. Dunque «apparente» qui non va affatto interpretato come
falsa apparenza. [29] Et. Eud. VII 2, 1235b30-1236a1. [30] Il piacevole non è
l’immediato, ma anche ciò che non procura dispiacere futuro; Aristotele sa bene
che molte cose dannose possono procurare del piacere immediato. Ma chi non è
acratico, conscio delle conseguenze negative, accorderà il suo desiderio con la
sua ragione, e la motivazione data dall’ipotetico piacere immediato sarà
soverchiata dalla motivazione a evitare danni futuri. [31] Questo punto è più
chiaro per come è presentato in Et. Nic. VIII 2, 1155b23-27. [32] Nelle
espressioni δι’ ἀρετὴν, διὰ τὸ χρήσιμον, δι’ ἡδονήν, la preposizione significa
a un tempo «in base a», «a causa di», «al fine di»: il rispettivo amabile è ciò
che causa quell’amicizia, ciò che ne costituisce il fondamento o ragion d’essere,
ciò che ne rappresenta il fine [su un’idea analoga, cfr. Nussbaum (1986a)]; nei
termini della nota teoria delle quattro cause (dei quattro sensi del διὰ τί,
cfr. Phys. II 3), potremmo plausibilmente intendere il tipo di amabile come
causa efficiente, formale e finale della rispettiva relazione amicale. [33]
Cfr. Et. Nic. VIII 2, 1155b26-31. Mentre la φίλησις è una passione o affezione
(πάθος), la φιλία è uno stato abituale (ἕξις, 1557b28-29). [34] Cfr. Et. Eud.
VII 2, 1237b17-23; Et. Nic. VIII 4, 1156b30-33. [35] Vi è discussione sul fatto
che questa caratterizzazione definitoria offra condizioni sufficienti perché
qualcosa sia amicizia, oppure solo condizioni necessarie; propenderei per la
seconda opzione: per esempio, Aristotele ritiene che per diventare amici deve
passare del tempo, e molti scambiano il desiderio di essere amici con
l’amicizia stessa (Et. Eud. VII 2, 1237b12-22); ma se il desiderio è reciproco,
sussiste già benevolenza reciproca non celata, che non è ancora amicizia. [36]
Sul focal meaning cfr. Owen (1963), Ferejohn (1980). L’exemplum princeps è
quello della Metafisica: la sostanza è il focal meaning dell’essere, tutto ciò
che è o è sostanza o rimanda a una sostanza, al modo in cui tutto ciò che è
«sano» rimanda alla salute e tutto ciò che è «medico» alla medicina (cfr. Met.
IV 2, 1003a32-1003b11). [37] Cfr. Fortenbaugh (1975). [38] Può esserlo in modo
mediato, come foriero di un altro utile, al modo in cui qualcosa è mezzo di un
altro mezzo, ma in ultima istanza l’utile è tale perché porta al bene e i mezzi
sono tali perché portano al fine. [39] Per esempio, in De An. III 7, 431a10-13
il piacere è definito come l’essere percettivamente attivi nei confronti del
bene in quanto bene; l’utilità è indefinibile se non come capacità di avvicinarci
a un qualche bene; l’utile sta al bene come il mezzo al fine, e non vi è modo
di definire cosa sia un mezzo, senza chiamare in causa la nozione di fine. [40]
Et. Eud. VII 2, 1236a25-26. [41] Et. Eud. VII 2, 1236b1-2; Et. Nic. VIII 4,
1156b7-8. [42] Cfr. Esiodo, Opera et dies, 342-360; 707-723. [43] Chiamare
amicizia solo quella prima, equivarrebbe a «violentare i fenomeni» (βιάζεσθαι τὰ
φαινόμενα, Et. Eud. VII 2, 1236b 22). [44] Et. Nic. VIII 4, 1156b7. [45] La
prima amicizia, infatti è quella «secondo virtù e a causa del piacere della
virtù» (EE VII 1238a31-32). [46] Secondo Aspasio (164.3-11), Owen (1960) e
Dirlmeier (1967) vi sarebbe comunque focal meaning e relazione πρὸς ἓν,
ancorché non esplicitata. [47] Et. Nic. VIII 5, 1157a32. [48] Se poi l’individuo
è acratico, potrebbe anche non credere che qualcosa sia il suo bene, ma
perseguirlo perché gli “appare” bene e frequentare individui utili a qualcosa
che egli cerca di procurarsi pur sapendo che non è il suo bene: come uno che
frequentasse un pusher in modo costante per procurarsi della droga, sapendo di
farsi del male ma perseverando nel suo comportamento autodistruttivo (e nelle
frequentazioni relative) per debolezza. [49] Sulla rilevanza della distinzione
fra «bene per qualcuno» e «bene incondizionato» in rapporto alla teoria delle
tre amicizie, insiste doverosamente O’Connor (1990). [50] Et. Nic. IX
10,1170b20-29. [51] Così, nella Nicomachea (Et. Nic. VIII 2, 1156a17), non
nella Eudemia. [52] Cfr. supra: Par. II, 3. [53] EN VIII 3, 1156 a 16-17. [54]
EN VIII 3, 1156a18-19 [55] Cooper (1977) sostiene che le amicizie accidentali
siano tali perché dipendano da tratti accidentali del carattere dell’amico
amato; Payne (2000) replica che anche i tratti in virtù di cui qualcuno risulta
piacevole o utile possono essere altrettanto essenziali di quelli che lo
rendono virtuoso: gli amici perfetti sarebbero scelti «per sé stessi» in quanto
i loro caratteri virtuosi sono scelti come fine e non come mezzo (per altro).
Ma le letture sono forse componibili: l’esser utile o piacevole, anche se
sopravviene a tratti essenziali del carattere altrui, restano esterni
all’altro, in quanto relazionali in un senso diverso dalla virtù; l’esser buono
è sia essenziale e intrinseco all’amico, che scelto per sé stesso e non per altro,
e rende anche l’amico stesso, che ha quel carattere virtuoso, scelto per sé
stesso e non per altro. Cfr. supra: nota 31. [56] In Et. Eud. VII 7, 1241a5-7
si afferma che «se uno vuole per un altro i beni perché costui gli è utile, li
vorrebbe allora non per quello ma per sé stesso; mentre invece la benevolenza,
proprio come l’amicizia, si ritiene che sia rivolta non a quello che la prova,
ma a colui per il quale la si prova. Pertanto, è chiaro che la benevolenza è in
relazione con l’amicizia etica». Qui pare che solo l’amicizia etica (=virtuosa)
implichi la benevolenza, che però è un costituente della definizione generale
di amicizia. Da passi di questo tenore pare che le amicizie incomplete non
siano amicizie in senso proprio, visto che non soddisfano la definizione;
Aristotele è oscillante, è innegabile che vi sia una tensione irrisolta fra la
sua vocazione inclusiva e lo sforzo di enucleazione della “vera” amicizia come
tipologia normante e assiologicamente sovraordinata, che non è semplicemente
una delle tre amicizie ma quella par excellence, di cui le altre sono
approssimazioni manchevoli. Si può accogliere la lettura di Walker (1979), per
cui l’amicizia perfetta soddisfa criteri più severi, le altre criteri più
laschi. [57] Si pensi alla percezione per accidente (De An. II 6, III 1): essa
è comunque studiata come una modalità genuina di percezione: le ragioni per cui
essa è percezione per accidente non inficiano il fatto di essere genuinamente
un tipo di percezione. [58] I due amici perfetti, in quanto buoni e virtuosi,
realizzano l’eccellenza della natura umana, sono esempi del bene incondizionato
e del piacere incondizionato. [59] Et. Nic. VIII 3, 1156a31-1156b1. [60] Et.
Eud. VII 2, 1238a11-30; Et. Nic. VIII 3, 1156b17-32. [61] Può succedere che l’altro
cambi, peggiori, o impazzisca, ma non accade per lo più. Cfr. Et. Nic. IX 3.
[62] Et. Nic. VIII 4, 1156b10. [63] Et. Eud. VII 2, 1236b31. [64] La sventura,
poi, può rivelare che un’amicizia che pareva perfetta era in realtà in vista
dell’utile (Et. Eud. VII 2, 1238a19-21). [65] Lys. 211e-212a. [66] Et. Eud. VII
2, 1237b13-27. [67] Et. Nic. VIII 3, 1156a24-31. [68] Et. Nic. VIII 7, 1158a21.
[69] Et. Eud. VII 4; Et. Nic. VIII 8. [70] Et. Eud. VII 9-11, Et. Nic. VIII
12-14. [71] Et. Eud. VII 12, 1244b4-5. [72] Cfr. Pol. I 1, 1253a10-12; Et. Nic.
IX 12, 1169b18-19. [73] Et. Eud. VII 12, 1245b15-16. [74] Et. Nic. 1245b18.
[75] Et. Eud. VII 12, 1245b18-19. [76] Si tratta di una complessità anche
filologica, dovuta a corruzioni del testo. Su ciò, cfr. Kosman (2004). [77]
Delle tre anime – nutritivo-riproduttiva, percettiva, razionale – la percettiva
e la razionale sono quelle che discriminano la realtà (cfr. De An. III 3,
427a17-23); la percettiva, poi, è intimamente connessa col desiderio e, quindi,
con l’azione (cfr. De An. III 9-11). Vivere significa realizzare le proprie
capacità naturali e acquisite, il che per l’uomo implica anzitutto l’esercizio
di percezione e pensiero (ove entrambe vanno concepite come connesse
all’azione, in quanto coinvolgono anche desiderio e intelletto pratico). Su
ciò, mi permetto di rimandare a Zucca (2015), Capp. II e VI. [78] La felicità è
«una certa attività dell’anima secondo virtù completa» (Et. Nic. II 13,
1102a5-6). [79] Et. Eud. VII 12, 1245a30; Et. Nic. IX 9, 1166 a 32, 1170 b 6.
[80] Et. Eud. VII 12, 1245a35-7. [81] Trad. it. modificata. [82] In Et. Eud.
VII 6 e in Et. Nic. IX 4 si argomenta che i tipi di relazione che si hanno con
gli altri dipendono dal rapporto che si ha con sé stessi: chi è buono e
virtuoso sarà anche amico di sé stesso in modo armonico e costante – sebbene si
possa parlare di amicizia solo κατὰ ἀναλογίαν (1240a13), nel caso
dell’auto-rapporto – chi è malvagio sarà incostante e in conflitto con sé
stesso, e in senso analogico sarà nemico di sé stesso. Questa idea non
contraddice l’idea per cui la conoscenza di sé passa per la conoscenza
dell’altro (Et. Nic. IX 9), ma anzi la completa: il buono e virtuoso è felice
anzitutto in quanto ha un “sano” rapporto con sé, ma si conosce e realizza come
felice solo in quanto ha un rapporto di riconoscimento reciproco con amici che
hanno, a loro volta, un altrettanto “sano” rapporto con sé stessi. [83] L’idea
di un accesso introspettivo infallibile ed essenzialmente privato ai nostri
propri atti mentali, così tipicamente moderna, è affatto estranea ad
Aristotele. [84] Come è naturale porre l’enfasi sul valore speculativo
intrinseco della teoria, così è altrettanto opportuno ricordare che l’amicizia
perfetta aristotelica resta prerogativa di un sottoinsieme dei maschi adulti
liberi; tuttavia, questa tara storica affetta la teoria dell’amicizia, per così
dire, mediatamente: in quanto restringe a quel sottoinsieme la capacità di
realizzare l’eccellenza morale, precondizione della relazione d’amicizia
perfetta. [85] Non uso la locuzione «sapere chi sono», anacronisticamente, come
il coglimento di me stesso in quanto individualità irriducibile, magari
ineffabile e inaccessibile ad altri – non è certo questa sorta di soggettività
“novecentesca”, che secondo Aristotele giungerebbe alla coscienza di sé
nell’amicizia – bensì come il venire a conoscenza di che tipo di persona sono.
[86] Come bene intrinseco che trascende il livello del piacevole, è un amabile
oggetto di volontà piuttosto che di appetito (Et. Eud. VII 2, 1235b22-23), e la
volontà è desiderio razionale di beni scelti. [87] Un’analisi sistematica e
comparativa delle nozioni di amicizia e amore in Platone e Aristotele, è Price
(1989). Cfr. anche Kahn (1981). [88] Cfr. Phaedr. 265b-c. [89] La relazione
erotica amante/amato, peraltro, è anche meno significativa e più instabile di
altre relazioni fondate sul piacere – dunque, già di per sé instabili – in
quanto in questo caso il piacere «non deriva dalla stessa fonte» (l’uno gode
nell’esser corteggiato, l’altro nel contemplare l’altro, Et. Nic. VIII 5,
1157a2-10). [90] Lys. 222a3-7. Proverbi, impicatura proverbiale. A Errare
humanum est.jpg Ab amico reconciliato cave. Guardati da un amico
riconciliato.[1] Absit reverentia vero. Bando ai pudori di fronte alla verità.
(Ovidio) Abusus non tollit usum. L'abuso non esclude l'uso.[2] Accidere ex una
scintilla incendia passim. A volte da una sola scintilla scoppia un
incendio.[3] Ad impossibilia nemo tenetur. Nessuno è obbligato a fare
l'impossibile.[4] Adulator propriis commodis tantum suadet L'adulatore tiene di
mira solo i suoi interessi.[5] (Giulio Cesare) Amantis ius iurandum poenam non
habet. Il giuramento dell'innamorato non si può punire.[6] Amicus certus in re
incerta cernitur. Il vero amico si rivela nelle situazioni difficili.[7]
(Quinto Ennio) Amicus omnibus, amicus nemini. Amico di tutti, amico di
nessuno.[8] Amicus Plato, sed magis amica veritas. Amo Platone, ma amo di più
la verità.[9] (Aristotele) Amor arma ministrat. L'amore procura le armi [agli
amanti perché possano essere grati alla persona amata].[10] (proverbio
medievale) Amor caecus. L'amore è cieco.[11] Amor gignit amorem.[10] Amore
genera amore. Amor tussisque non celatur. L'amore e la tosse non si possono
nascondere.[12] Amoris vulnus sanat idem qui facit. La ferita d'amore la risana
chi la fa.[12] Anceps fortuna belli. Le sorti della guerra sono incerte.[9]
(Cicerone) Aquila non captat muscas. L'aquila non prende mosche.[13] Athenas
noctuas mittere.[14] Mandare nottole ad Atene. Fare cosa inutile e superflua.
Ars est celare artem.[15] La perfezione dell'arte sta nel celarla. Audi, vide,
tace, si vis vivere in pace.[16] Ascolta, guarda e taci, se vuoi vivere in
pace. B Barba virile decus, et sine barba pecus.[17] La barba è decoro
dell'uomo e chi è senza barba è pecoro. Bene qui latuit, bene vixit. Ben visse
chi seppe vivere nell'oscurità.[18] (Ovidio) Beati monoculi in terra caecorum.
Beati i monòcoli nel paese dei ciechi. Bis dat qui cito dat. Dà due volte chi
dà presto.[19] Bis peccat qui crimen negat.[20] È due volte colpevole chi nega
la propria colpa. Bis pueris senes.[21] Il vecchio è due volte fanciullo. Bonis
nocet qui malis parcet. Chi risparmia i malvagi danneggia i buoni.[22] Bonum
nomen, bonum omen.[23] Buon nome, buon augurio. C Caecus non judicat de
colore.[24] Il cieco non giudica i colori. Non si può giudicare ciò che si
sottrae alle nostre attitudini. Caesar non supra grammaticos.[25] Cesare non
(ha autorità) sopra i grammatici. Le persone più altolocate non possono avere
autorità se non su quelle cose di cui s'intendono. Canis caninam non est.[26]
Cane non mangia cane. Carpe diem. Cogli il giorno. (Quinto Orazio Flacco)
Caseus est sanus, quem dat avara manus. Fa bene quel formaggio servito da una
mano avara.[27] Causa patrocinio non bona peior erit. La causa cattiva diventa
peggiore col volerla difendere.[28] (Ovidio) Causa perit iusta, si dextera non
sit onusta.[29] La giusta causa soccombe se la destra non è piena [di denaro].
Cave a signatis. Guàrdati dai segnati.[28] Antico adagio in odio a coloro che
sono affetti da qualche imperfezione fisica: guerci, zoppi, ecc. Cave tibi ab
acquis silentibus. Guàrdati dalle acque chete.[28] Cavendo tutus.[30] Se sarai
cauto, sarai sicuro. Cogito ergo sum. Penso dunque sono. (Cartesio)
Commendatoria verba non obligant.[31] Le parole di raccomandazione non
obbligano. Commune periculum concordiam paret.[32] Il comune pericolo prepari
la concordia. Consuetudo est altera natura. L'abitudine è una seconda
natura.[33] D De gustibus non est disputandum. Sui gusti non si discute.[34]
Difficilis in otio quies. È difficile esser tranquilli nell'ozio.[35] Dulce
bellum inexpertis, expertus metuit. La guerra è dolce per chi non ne ha
esperienza, l'esperto la teme.[36] (proverbio medievale) Dum caput dolet,
caetera membra languent. Quando duole il capo, tutte le membra languono.[37]
Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur. Mentre a Roma si delibera, Sagunto è
espugnata.[38] Dum vinum intrat exit sapientia.[39] Mentre il vino entra, esce
la sapienza. Duo cum faciunt idem, non est idem.[35] Quando due fanno la stessa
cosa, non è più la stessa cosa. E Errare humanum est, perseverare autem
diabolicum.[40] L'errare è cosa umana, il perseverare nella colpa invece è
diabolico. Error hesternus sit tibi doctor hodiernus.[41] L'errore di ieri ti
sia maestro oggi. Est in canitie ridicula Venus. È ridicolo l'amore di un
vecchio.[42] (Proverbio medievale) Est modus in rebus, sunt certi denique fines
| quos ultra citraque nequit consistere rectum. C'è una giusta misura nelle
cose, ci sono giusti confini | al di qua e al di là dei quali non può
sussistere la cosa giusta. (Quinto Orazio Flacco) Ex ungue leonem.[43]
Dall'unghia si conosce il leone. Da un atto compiuto si rivela la forza
dell'autore, morale o materiale. Excusatio non petita fit accusatio manifesta
(proverbio medievale)[44] Chi si scusa senza esserne richiesto s'accusa. F
Fabas indulcat fames.[45] La fame addolcisce le fave. Facile est inventis
addere.[46] È facile aggiungere a ciò che è stato inventato. Facile perit
amicitia coacta.[47] Facilmente muore un'amicizia forzata. Facit experientia
cautos.[48] L'esperienza rende cauti. Fac sapias et liber eris.[49] Fa' di
sapere e sarai libero. Felicium omnes sunt cognati. Tutti sono parenti dei
fortunati.[8] Fiat iustitia et pereat mundus. Sia fatta giustizia e perisca
pure il mondo. Frangitur ira gravis cum sit responsio suavis.[50] Una dolce
risposta infrange l'ira. Frustra sapiens qui sibi non sapet.[51] Inutilmente sa
chi non sa per sé. G Gutta cavat lapidem. La goccia scava la pietra. H Homo
longus raro sapiens; sed si sapiens, sapientissimus. Un uomo lungo (ossia alto)
di rado è sapiente; ma se è sapiente, è sapientissimo.[52] Homo sine pecunia,
imago mortis. L'uomo senza danaro è l'immagine della morte.[53] I Ianuensis
ergo mercator. Genovese quindi mercante.[54] Imperare sibi maximum imperium
est. Comandare a sé stessi è la forma più grande di comando. (Seneca, Lettere a
Lucilio, CXIII.30) In magno mari capiuntur flumine pisces.[55] Nei grandi fiumi
si pescano i grandi pesci. Nei grandi affari si fanno i grossi guadagni. In
medio stat virtus. La virtù sta nel mezzo. (Orazio) In vino veritas. Nel vino
c'è la verità. L M Magnum vectigal parsimonia.[56] La parsimonia è un gran
capitale. (Cicerone) Major e longiquo reverentia.[56] La riverenza è maggiore
da lontano. (Tacito) Mala gallina, malum ovum.[57] Gallina cattiva, uovo
cattivo. Mea mihi conscientia pluris est quam omnium sermo.[58] Per me val più
la mia coscienza che il discorso di tutti. (Cicerone) Medicus curat, natura
sanat. Il medico cura ma è la natura che guarisce.[59] Melius est abundare quam
deficere. Meglio abbondare che trovarsi in scarsezza.[60] Mors tua vita
mea.[56] La tua morte è la mia vita. Mortui non mordent. I morti non
mordono[61] [truismo] Mortuo leoni et lepores insultant. Anche le lepri
insultano un leone morto.[62] Multi multa, nemo omnia novit. Molti sanno molto,
nessuno sa tutto.[63] N Natura non facit saltus. La natura non procede per
salti.[64] Naturalia non sunt turpia.[65] Le cose naturali non sono turpi. Nemo
non formosus filius matri. Nessun figlio non è bello per sua madre.[66] Ne
pulsato portam alterius, nisi velis pulsetur et tua.[67] Non bussare alla porta
altrui se non vuoi che bussino alla tua. Nihil est in intellectu quod non
fuerit in sensu. Nulla è nell'intelligenza che prima non fosse nel senso[68]
Non omne quod licet honestum est.[69] Non tutto ciò che è lecito è onesto. Non
omnibus dormio. Non dormo per tutti.[70] Nomen omen Il nome è un presagio (v.
anche nomina sunt consequentia rerum e conveniunt rebus nomina saepe suis)
(Plauto, Persa, 625) Nomina sunt consequentia rerum. I nomi sono corrispondenti
alle cose. (Giustiniano, Institutiones, 2, 7, 3) O Omne animal post coitum
triste. Tutti gli animali sono mesti dopo il coito.[71] Omne ignotum pro
terribili.[72] Tutto ciò che è ignoto incute paura. Omnia munda mundis. Per chi
è puro tutto è puro. (Paolo di Tarso) Omnia vincit amor. L'amore vince ogni
cosa. (Virgilio, Bucoliche X, 69) Omnia fert aetas. Il tempo porta via tutte le
cose. (Virgilio) Omnis festinatio ex parte diaboli est.[73] Ogni fretta viene
dal diavolo. P Panem et circenses. Pane e giochi [per distrarre il popolo].
(Giovenale, X 81) Patere quam ipse fecisti legem.[74] Subisci la legge che tu
stesso hai fatta. Pectus est enim quod disertos facit È infatti il cuore che
rende eloquenti (Quintiliano, 10,7,15) Pecunia non olet Il denaro non puzza
(Vespasiano) Per aspera ad astra. Alle stelle [si giunge] attraverso aspri
sentieri.[75] Periculum in mora. Vi è pericolo nel ritardo. (Tito Livio, Ab
urbe condita; XXXVIII, 25) Philosophum non facit barbam.[76] La barba non fa il
filosofo. Primum vivere deinde philosophari (Thomas Hobbes) Prima vivere, poi
fare della filosofia. Q Quando Sol est in Leone, bibe vinum cum pistone. Quando
il sole è in Leone [segno zodiacale], bevi il vino col pistone [a
garganella].[77] Qui aquam Nili bibit rursus bibet.[78] Chi beve l'acqua del
Nilo la berrà di nuovo. È destinato a ritornarvi. Qui asinum non potest,
stratum caedit.[79] Chi non può bastonare l'asino bastona la bardatura. Qui
gladio ferit gladio perit. Chi di spada ferisce di spada perisce.[80] Qui in
pergula natus est, aedes non somniatur. Chi è nato in una capanna, i palazzi
non li vede neanche in sogno. (Petronio, 74,14) Qui jacet in terra non habet
unde cadat. Per chi giace in terra non c'è pericolo di cadere.[81] [truismo]
Qui medice vivit, misere vivit. Chi vive sotto la guida del medico, vive
miseramente.[81] Qui scribit, bis legit. Chi scrive, legge due volte.[82]
Quisque faber fortunae suae. Ognuno è artefice del proprio destino. (Appio
Claudio Cieco) Quod differtur non aufertur Ciò che si dilaziona non lo si
perde[83] Quod non potest diabolus mulier evincit. Ciò che non può il diavolo,
l'ottiene la donna.[84] (proverbio medievale) Quot homines tot sententiae.
Tanti uomini, altrettante opinioni.[85] Quot servi tot hostes. Tanti servi,
tanti nemici.[85] R Re opitulandum, non verbis.[86] L'aiuto va dato con i
fatti, non con le parole. Rem tene, verba sequentur Possiedi l'argomento e le
parole seguiranno. (Marco Porcio Catone) Res satis est nota, plus foetent
stercora mota.[87] È cosa nota: lo sterco più è stuzzicato e più puzza. S Salus
extra Ecclesiam non est[88] Al di fuori della Chiesa non v'è salvezza (Tascio
Cecilio Cipriano, Lettera, 73, 21) Sapiens nihil affirmat quod non probet.[89]
Il saggio nulla afferma che non possa provare. Satis quod sufficit.[90] Ciò che
è sufficiente al bisogno, basta. Semel abas, semper abas.[91] Una volta abate,
sempre abate. Proverbio medioevale, affermante che chi ha vestito una volta
l'abito sacerdotale non può spogliarsi più delle idee e delle abitudini
ecclesiastiche. Significa anche, per estensione, che si conservano sempre le
idee una volta acquistate. Semel in anno licet insanire. Una volta all'anno è
lecito fare follie. (Seneca) Senatores boni viri: senatus autem mala
bestia.[92] I senatori sono brava gente; ma il senato è una cattiva bestia.
Sero venientibus ossa.[93] Per chi viene troppo tardi restano le ossa. Si vis
pacem, para bellum. Se vuoi la pace prepara la guerra. (Vegezio) Sicut mater,
ita et filia eius. Quale la madre, tale anche la figlia.[94] Simia simia est,
etiamsi aurea gestet insignia.[95] La scimmia resta sempre scimmia, anche se
indossa ornamenti d'oro. Sol lucet omnibus.[96] Il sole splende per tutti. Vi
sono delle cose di cui tutti gli uomini possono godere. Sorex suo perit
indicio.[97] Il topo perisce per essersi rivelato da sé. Sublata causa,
tollitur effectum.[98] Soppressa la causa, scompare l'effetto. T Timeo Danaos
et dona ferentes. Io temo comunque i Greci, anche se recano doni. (Publio
Virgilio Marone) U Ubi maior, minor cessat. Dinanzi al più forte, il debole
scompare.[8] Ubi opes, ibi amici. Dove sono le ricchezze, lì sono anche gli
amici.[8] Ubi uber, ibi tuber.[99] Dove è la mammella, ivi è il tumore. Dove
c'è abbondanza, ivi si forma il marciume, la corruzione. V Verba movent,
exempla trahunt.[100] Le parole commuovono, ma gli esempi trascinano. Verba
volant, scripta manent.[101] Le parole volano, gli scritti restano. Vigilantibus,
non dormientibus, jura succurunt.[102] Le leggi forniscono aiuto ai vigilanti,
non ai dormienti. Vinum lac senum.[103] Il vino è il latte dei vecchi. Vulgus
vult decipi, ergo decipiatur. Il popolo (il mondo) vuole essere ingannato, e
allora sia ingannato.[104] Note Citato
in Mastellaro, p. 21. Citato in Tosi
2017, n. 1408. Citato in Tosi 2017, n.
1010. Citato in 2005, p. 6. Citato in Mastellaro, p. 11. Citato in Mastellaro, p. 25. Citato in Mastellaro, p. 18. Citato in Mastellaro, p. 20. Citato e tradotto in 2005, p. 15. Citato in De Mauri, p. 27. Citato in Mastellaro, p. 24. Citato in Mastellaro, p. 23. Citato in Tosi 2017, n. 2265. Citato, con spiegazione, in Umberto Bosco,
Lessico universale italiano, vol. XV, Istituto della Enciclopedia italiana,
Roma, 1968, p. 59. Citato e tradotto in
2005, § 169. Citato e tradotto in 2005,
§ 188. Citato e tradotto in 2005, § 215. Citato con traduzione in 2005, p. 28. Citato in 1921, p. 43, § 161. Citato e tradotto in 2005, § 243. Citato e tradotto in Lo Forte, § 148. Citato con traduzione in 2005, p. 30. Citato e tradotto in 2005, § 256. Citato e tradotto in Lo Forte, § 154. Citato e tradotto in Lo Forte, § 155. Citato e tradotto in 2005, § 280. Citato in Andrea Perin e Francesca Tasso (a
cura di), Il sapore dell'arte, Skira, Milano, 2010, p. 41. Citato e tradotto in 2005, p. 37. Citato e tradotto in 2005, § 305. Citato e tradotto in 2005, § 312. Citato e tradotto in 2005, § 343. Citato e tradotto in 2005, § 344. Citato in Mastellaro, p. 9. Citato in 2005, p. 57. Citato in Arthur Schopenhauer, Aforismi sulla
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2005, § 732. Citato e tradotto in 2005,
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741. Citato e tradotto in 2005, § 744. Citato e tradotto in 2005, § 747. Citato e tradotto in 2005, § 829. Citato e tradotto in 2005, § 835. Citato in 2005, p. 108. Citato in 2005, p. 109, § 941. Citato in Filippo Ruschi, Questioni di
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Editore, 2012, p. 140. ISBN 9788834896839
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2005, p. 248. (DE) Citato in Friedrich
Otto Bittrich, Ägypten und Libyen, Safari-Verlag, Berlino, 1953, p. 7. Citato e tradotto in 2005, § 2167. Dal Vangelo: ... tutti quelli che mettono
mano alla spada periranno di spada (Mt 26:52).
Citato in 2005, p. 256. Citato in
2005, p. 258. Citato in Tosi 2017, n.
1174. Citato in De Mauri, p. 171. Citato in 2005, p. 266. Citato e tradotto in 2005, § 2342. Citato e tradotto in 2005, § 2363. Spesso la frase viene attribuita a Cipriano
in una forma diversa: Extra Ecclesiam nulla salus. Citato e tradotto in 2005, § 2415. Citato e tradotto in 2005, § 2421. Citato e tradotto in Lo Forte, § 1034. Citato e tradotto in 2005, § 2457. Citato e tradotto in 2005, § 2472. Citato in 1921, p. 138, § 465. Citato e tradotto in 2005, § 2528. Citato e tradotto in Lo Forte, § 1079. Citato e tradotto in 2005, § 2606. Citato e tradotto in Lo Forte, § 1097. Citato e tradotto in Lo Forte, § 1169. Citato e tradotto in Lo Forte, § 1203. Citato e tradotto in Lo Forte, § 1204. Citato e tradotto in Lo Forte, § 1216. Citato in Proverbi siciliani raccolti e
confrontati con quelli degli altri dialetti d'Italia da Giuseppe Pitrè, Luigi
Pedone Lauriel, Palermo, 1880, vol. IV, p. 140.
Traduzione in voce su Wikipedia. Bibliografia L. De Mauri, 5000 proverbi
e motti latini, seconda edizione, Hoepli, Milano, 2006. ISBN 978-88-203-0992-0
Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, Milano, 1921. Giuseppe Fumagalli,
L'ape latina, Hoepli, Milano, 2005. ISBN 88-203-0033-8 Giacomo Lo Forte, Ad
hoc, Sandron, 1921. Paola Mastellaro, Il libro delle citazioni latine e greche,
Mondadori, Milano, 2012. ISBN 978-88-04-47133-2. Gustavo Benelli, Raccolta di
proverbi, massime morali, aneddoti, ed altro, Carnesecchi, Firenze, 1876. Renzo
Tosi, Dizionario delle sentenze latine e greche, Rizzoli, 2017. Voci correlate
Modi di dire latini Lingua latina Palindromi latini Categorie: Lingua
latinaProverbi per nazione. Proverbi
Exquisite-kfind.png Per approfondire, vedi: Proverbi toscani. A A brigante
brigante e mezzo.[fonte 1] A buon cavalier non manca lancia.[fonte 2] A buon
cavallo non manca sella.[fonte 2] A buon cavallo non occorre dir trotta.[fonte
3] A buon intenditor poche parole.[1][fonte 2] A caldo autunno segue lungo
inverno.[fonte 4] A cane scottato l'acqua fredda par calda.[fonte 5] A cane
vecchio non dargli cuccia.[fonte 2] A carnevale ogni scherzo vale, ma che sia
uno scherzo che sa di sale.[fonte 6] A caval che corre, non abbisognano
speroni.[fonte 3] A caval donato non si guarda in bocca.[2][fonte 2] A cavalier
novizio, cavallo senza vizio.[fonte 3] A cavallo d'altri non si dice
zoppo.[fonte 3] A cavallo di fuoco, uomo di paglia, a uomo di paglia, cavallo
di fuoco.[fonte 3] A cavallo giovane, cavalier vecchio.[fonte 3] A caval nuovo
cavaliere vecchio.[fonte 2] A chi batte forte, si apron le porte.[fonte 7] A
chi Dio vuole aiutare, niente gli può nuocere.[fonte 4] A chi fortuna zufola,
ha un bel ballare.[fonte 4] A chi ha abbastanza, non manca nulla.[fonte 4] A
chi mangia sempre polli vien voglia di polenta.[fonte 8] A chi non piace il
vino, il Signore faccia mancar l'acqua.[fonte 8] A chi non può imparare
l'abbicì, non si può dare in mano la Bibbia.[fonte 4] A chi non vuol credere,
poco valgono mille testimoni.[fonte 8] A chi non vuol credere sono inutili
tutte le prove.[fonte 8] A chi non vuol far fatiche, il terreno produce
ortiche.[fonte 9] A chi prende moglie ci vogliono due cervelli.[fonte 4] A chi
tanto e a chi niente.[fonte 2] A chi troppo e a chi niente.[fonte 10] A chi ti
dà il cappone, dagli la coscia e l'alone.[fonte 8] A chi ti porge un dito non
prendere la mano.[fonte 2] A chi vuole fare del male non manca
l'occasione.[fonte 4] A ciascun giorno basta la sua pena.[3][fonte 2] A
ciascuno sta bene il proprio abito.[fonte 4] A donna di gran bellezza, dalla
poca larghezza.[fonte 4] A duro ceppo, dura accetta.[fonte 4] A goccia a goccia
si scava la pietra.[4][fonte 11] A goccia a goccia s'incava la pietra.[fonte 2]
A gran salita, gran discesa.[fonte 4] A granello a granello si riempie lo staio
e si fa il monte.[fonte 4] A grassa cucina povertà vicina.[fonte 4] A lavar la
testa all'asino si perde il ranno e il sapone.[fonte 12] A lume spento è pari
ogni bellezza.[fonte 4] A mali estremi estremi rimedi.[fonte 1] A muro basso
ognuno ci si appoggia.[fonte 1] A nemico che fugge ponti d'oro.[fonte 1] A ogni
uccello suo nido è bello.[fonte 1] A padre avaro figliuol prodigo.[fonte 13] A
pancia piena si ragiona meglio.[fonte 8] A pagare e a morire c'è sempre
tempo.[fonte 14] A paragone del molto che ignoriamo, è meno di niente quanto
noi sappiamo.[fonte 4] A pazzo relatore, savio ascoltatore.[fonte 8] A pensar
male, s'indovina sempre.[fonte 15] A pensar male ci s'indovina.[fonte 2] A
pentola che bolle, gatta non s'accosta.[fonte 8] A rubar poco si va in galera,
a rubar tanto si fa carriera.[fonte 1] A san Lorenzo il dente la noce già
sente.[fonte 2] A san Martino [11 novembre], apri la botte e assaggia il
vino.[fonte 8] A San Martino ogni mosto è vino.[fonte 16] A san Mattia la neve
va via.[fonte 4] A scherzar con la fiamma, ci si scotta.[fonte 17] A tal
fortezza, tal trincea.[fonte 4] A torto si lagna del mare chi due volte ci
vuole tornare.[fonte 4] A tutto c'è rimedio fuorché alla morte.[fonte 1] A
usanza nuova non correre.[fonte 2] Abbattuto l'albero scompare l'ombra.[fonte
8] Accasa il figlio quando vuoi, e la figlia quando puoi.[fonte 18] Acquista
buona fama e mettiti a dormire.[fonte 4] Ai bugiardi e agli spacconi non è
creduto.[fonte 8] Ai voli troppo alti e repentini sogliono i precipizi esser
vicini.[fonte 19] A voli troppo alti e repentini sogliono i precipizi esser
vicini.[fonte 2] Abate cupido, per un'offerta ne perde cento.[fonte 4] Abate
rigoroso rende i frati penitenti.[fonte 4] Abbi piuttosto il piccolo per amico,
che il grande per nemico.[fonte 8] Abiti stranieri, costumi stranieri; costumi
stranieri, gente straniera; la gente straniera sloggia gli antichi
abitanti.[fonte 4] Abito troppo portato e donna troppo vista vengono presto a
noia.[fonte 4] Abbondanza genera baldanza.[fonte 4] Accade in un'ora quel che
non avviene in mill'anni.[fonte 2] Accade in un'ora quel che non avviene in
cent'anni.[fonte 2] Accendere una candela ai Santi e una al diavolo.[fonte 4]
Accendere una fiaccola per far lume al sole.[fonte 4] Acqua che corre non porta
veleno.[fonte 4] Acqua cheta rompe i ponti.[fonte 16] Acqua di san Lorenzo [10
agosto] venuta per tempo; se alla Madonna viene va ancora bene; tardiva sempre
buona quando arriva.[fonte 2] Acqua e chiacchiere non fanno frittelle.[fonte
20] Acqua lontana non spegne il fuoco.[fonte 21] Acqua passata, non macina
più.[fonte 22] Ad albero vecchio ed a muro cadente, non manca mai edera.[fonte
4] Ad ogni primavera segue un autunno.[fonte 4] Ad ognuno la sua croce.[fonte
23] Ad ognuno pare bello il suo.[fonte 4] Ad un grasso mezzogiorno spesso tien
dietro una cena magra.[fonte 4] Agosto ci matura il grano e il mosto[fonte 16].
Agosto: moglie mia non ti conosco.[5][6][fonte 1] Ai macelli van più bovi che
vitelli.[fonte 2] Ai pazzi ed ai fanciulli, non si deve prometter nulla.[fonte
8] Ai pazzi si dà sempre ragione.[fonte 8] Aiutati che Dio t'aiuta.[fonte 24]
Aiutati che il ciel t'aiuta.[fonte 25] Aiutati che io ti aiuto.[fonte 16] Al
baciarsi presto tien dietro il coricarsi.[fonte 4] Al bisogno si conosce l'amico.[fonte
1] Al buio la villana è bella quanto la dama.[fonte 2] Al buio, le donne sono
tutte uguali.[fonte 8] Al buio tutti i gatti sono bigi.[fonte 16] Al confessor,
medico e avvocato, non tenere il ver celato.[fonte 26] Al confessore, al medico
e all'avvocato non si tiene il ver celato.[fonte 2] Al contadin non far sapere
quanto è buono il formaggio con le pere.[fonte 1] Al cuore non si
comanda.[fonte 1] Al cuor non si comanda.[fonte 27] Al cazzo non si
comanda.[fonte 2] Al culo non si comanda.[fonte 28] Al destino non si
comanda.[fonte 2] Al tempo non si comanda.[fonte 2] Al tempo e al culo non si
comanda.[fonte 2] Al debole il forte sovente fa torto.[fonte 8] Al fratello
piace più veder la sorella ricca, che farla tale.[fonte 8] Al levar le tende si
conosce il guadagno.[fonte 4] Al gatto che lecca lo spiedo non affidar
arrosto.[fonte 8] Al genio non si danno le ali, ma le si tagliano.[fonte 4] Al
medico, al confessore e all'avvocato, bisogna dire ogni peccato.[fonte 8] Al
povero manca il pane, al ricco l'appetito.[fonte 8] Al primo colpo non cade
l'albero.[fonte 2] Al primo colpo non cade un albero.[fonte 2] Al suono si
riconosce la pignata.[fonte 29] Al villano, se gli porgi il dito, si prende la
mano.[fonte 30] All'A tien dietro il B nel nostro abbicì.[fonte 4] All'eco
spetta l'ultima parola.[fonte 4] All'orsa paion belli i suoi
orsacchiotti.[fonte 8] All'uccello ingordo crepa il gozzo.[fonte 2] All'ultimo
si contano le pecore.[fonte 1] All'umiltà felicità, all'orgoglio
calamità.[fonte 8] Alla fame è presto ridotto chi s'imbarca senza
biscotto.[fonte 4] Alla fine anche le pernici allo spiedo vengono a noia.[fonte
8] Alla fine loda la vita e alla sera loda il giorno.[7][fonte 4] Alla fine
loda la vita e alla sera il giorno.[fonte 2] Alla guerra si va pieno di denari
e si torna pieni di vizi e di pidocchi.[fonte 4] Alle barbe dei pazzi, il
barbiere impara a radere.[fonte 8] Alle volte si crede di trovare il sole
d'agosto e si trova la luna di marzo.[fonte 8] Altri tempi, altri
costumi.[fonte 2] Alzati presto al mattino se vuoi gabbare il tuo vicino.[fonte
8] Ambasciator non porta pena.[fonte 2] Amare e non essere amato è tempo
perso.[fonte 4] Ambasciatore che tarda notizia buona che porta.[fonte 2]
Amicizia che cessa, non fu mai vera.[fonte 4] Amico beneficato, nemico
dichiarato.[fonte 4] Amico di buon tempo mutasi col vento.[fonte 4] Amico di
ventura, molto briga e poco dura.[fonte 31] Ammogliarsi è un piacere che costa
caro.[fonte 4] Amor che nasce di malattia, quando si guarisce passa via.[fonte
8] Amor di nostra vita ultimo inganno.[8][fonte 32] Amor, dispetto, rabbia e
gelosia, sul cuore della donna han signoria.[fonte 8] Amor nuovo va e viene,
amor vecchio si mantiene.[fonte 8] Amor regge il suo regno senza spada.[fonte
32] Amore con amor si paga.[fonte 2] Amore di parentato, amore
interessato.[fonte 4] Amore di villeggiatura poco vale e poco dura.[fonte 2]
Amore di fratello, amore di coltello.[fonte 8] Amore è il vero prezzo con che
si compra amore.[fonte 33] Amore non si compra né si vende.[fonte 33] Amore
onorato, né vergogna né peccato.[fonte 8] Amore scaccia amore.[fonte 4] Anche
fra le spine nascono le rose.[fonte 34] Anche i fanciulli diventano
uomini.[fonte 4] Anche il più verde diventa fieno.[fonte 4] Anche il sole ha le
sue macchie.[fonte 4] Anche l'abate fu prima frate.[fonte 4] Anche l'ambizione
è una fame.[fonte 4] Anche la legna storta dà il fuoco diritto.[fonte 4] Anche
la regina Margherita mangia il pollo con le dita.[fonte 35] Anche le bestie le
ha fatte il Signore.[fonte 8] Anche le colombe hanno il fiele.[fonte 4] Anche
le pulci hanno la tosse.[fonte 2] Anche le uova della gallina nera sono
bianche; ma staremo a vedere se anche i suoi pulcini sono bianchi.[fonte 4]
Anche un giogo dorato pesa.[fonte 8] Andar presto a dormire e alzarsi presto
chiude la porta a molte malattie.[fonte 8] Andar bestia, e tornar bestia, dice
il moro.[fonte 36] Anno nevoso anno fruttuoso.[fonte 16] Anno nuovo vita
nuova.[fonte 1] Approfitta degli errori degli altri, piuttosto che
censurarli.[fonte 4] Aprile dolce dormire.[9][fonte 2] Aprile e maggio sono la
chiave di tutto l'anno.[fonte 4] Aprile ogni goccia un barile.[10][fonte 2]
Aprile piovoso, maggio ventoso, anno fruttuoso.[fonte 4] Ara nel mare e nella
rena semina, chi crede alle parole della femmina.[fonte 8] Arcobaleno porta il
sereno.[fonte 2] Aria rossa o piscia o soffia.[fonte 2] Asino che ha fame
mangia d'ogni strame.[fonte 2] Assai bene balla a chi fortuna suona.[fonte 4]
Assai digiuna chi mal mangia.[fonte 8] Assai domanda chi ben serve e
tace.[fonte 37] Assai domanda chi si lamenta.[fonte 8] Assalto francese e
ritirata spagnola.[fonte 2] Attacca l'asino dove vuole il padrone e, se si
rompe il collo, suo danno.[fonte 1] Avuta la grazia, gabbato lo santo.[fonte 8]
B Bacco, tabacco e Venere riducon l'uomo in cenere.[fonte 2] Ballaremo secondo
che voi suonerete.[fonte 4] Bandiera rotta onor di capitano. Bandiera vecchia
onor di capitano.[fonte 2] Basta un matto per casa.[fonte 8] Batti il ferro
finché è caldo. Batti il ferro quando è caldo.[fonte 1] Bei gatti e grossi
letamai mostrano il buon agricoltore.[fonte 38] Bella cosa presto è
rapita.[fonte 4] Bella in vista, dentro è trista.[fonte 4] Bella ostessa, conti
traditori.[fonte 2] Bella ostessa, brutti conti.[fonte 39] Bell'ostessa, conto
caro.[fonte 40] Bella vigna poca uva.[fonte 2] Bellezza di corpo non è
eredità.[fonte 4] Bellezza e follia vanno spesso in compagnia.[fonte 41] Bello
in fasce brutto in piazza.[fonte 1] Ben sa la botte di qual vino è piena.[fonte
4] Ben si caccia il diavolo, ma Satana ritorna.[fonte 4] Bene per male è
carità, male per bene è crudeltà.[fonte 8] Bene educato, non mentì mai.[fonte
4] Bene perduto è conosciuto.[fonte 4] Beni di fortuna passano come la
luna.[fonte 2] Bevi il vino e lascia andar l'acqua al mulino.[fonte 8] Bisogna
dire pane al pane e vino al vino.[fonte 2] Bisogna far buon viso a cattivo
gioco.[fonte 1] Bisogna fare di necessità virtù.[fonte 2] Bisogna fare il pane
con la farina che si ha.[fonte 4] Bisogna fare la festa quando cade, e prendere
il tempo come viene.[fonte 4] Bisogna fare la festa quando è il santo.[fonte 4]
Bisogna mangiare per vivere e non vivere per mangiare.[fonte 2] Bisogna
prendere gli avvenimenti quando Dio li manda.[fonte 4] Bocca che tace nessuno
l'aiuta.[fonte 2] Bocca che tace mal si può aiutare.[fonte 42] Bocca chiusa ed
occhio aperto non fecero mai male a nessuno.[fonte 4] Botte buona fa buon
vino.[fonte 2] Brutta cosa è il povero superbo e il ricco avaro.[fonte 8]
Brutta di viso ha sotto il paradiso.[fonte 2] Brutto in fasce bello in piazza.[fonte
1] Buca il marmo fin d'acqua una goccia.[fonte 8] Bue sciolto lecca per
tutto.[fonte 8] Bue fiacco stampa più forte il piede in terra.[fonte 4] Bue
vecchio, solco diritto.[fonte 4] Buon fuoco e buon vino, scaldano il mio
camino.[fonte 8] Buon sangue non mente.[fonte 2] Buon tempo e mal tempo non
dura tutto il tempo.[fonte 1] Buon vino e bravura, poco dura.[fonte 8] Buon
vino fa buon sangue.[fonte 1][fonte 8] Buon vino, favola lunga.[fonte 8] Buona
fama presto è perduta.[fonte 4] Buona greppia, buona bestia.[fonte 8] Buona
guardia giova a molte cose.[fonte 4] Buona la forza, migliore l'ingegno.[fonte
4] Buone parole e pere marce non rompono la testa a nessuno.[fonte 31] Burlando
si dice il vero.[fonte 4] C Cader non può, chi ha la virtù per guida.[fonte 4]
Cambiano i suonatori ma la musica è sempre quella.[fonte 1] Cambiare e
migliorare sono due cose; molto si cambia nel mondo, ma poco si migliora.[fonte
4] Campa cavallo che l'erba cresce.[fonte 2] Campa, cavallo mio, che l'erba
cresce.[fonte 1] Can che abbaia non morde.[fonte 1] Cane affamato non teme
bastone.[11][fonte 2] Cane e gatta tre ne porta e tre ne allatta.[fonte 8] Cane
non mangia cane.[fonte 43] Cane ringhioso e non forzoso, guai alla sua
pelle![fonte 4] Capelli lunghi, cervello corto.[fonte 4] Carta canta e villan
dorme.[fonte 1] Casa fatta e vigna posta, non si sa quello che costa.[fonte 44]
Casa mia, casa mia, per piccina che tu sia, tu mi sembri una badia.[fonte 45]
Casa mia, casa mia, benché piccola tu sia, tu mi sembri una badia.[fonte 2]
Casa mia, casa mia, pur piccina che tu sia mi sembri una badia.[fonte 9]
Castiga il buono e si emenderà; castiga il cattivo e peggiorerà.[fonte 4]
Cattivo cominciamento, fine peggiore.[fonte 8] Cavallo da vettura, poco costa e
poco dura.[fonte 46] Cavallo vecchio, tardi muta ambiatura.[fonte 47] Cavolo
riscaldato non fu mai buono.[fonte 2] Cavolo riscaldato, frate sfratato e serva
ritornata non furon mai buoni.[fonte 2] Cento teste, cento cappelli.[fonte 48]
Certe macchie ben si possono grattare ma non togliere.[fonte 4] Cessato il
guadagno, cessata l'amicizia.[fonte 49] Chi a tutti facilmente crede, ingannato
si vede.[fonte 4] Chi accarezza la mula rimedia calci.[fonte 2] Chi accarezza
la mula buscherà calci.[fonte 2] Chi accetta l'eredità accetti anche i
debiti.[fonte 4] Chi ad altri inganni tesse, poco bene per sé ordisce.[fonte 4]
Chi alza il piede per ogni paglia, si può rompere facilmente una gamba.[fonte
8] Chi ama me, ama il mio cane.[fonte 50] Chi ara terra bagnata, per tre anni
l'ha dissipata.[fonte 51] Chi asino nasce, asino muore.[fonte 4] Chi balla
senza suono, come asino si ritrova.[fonte 52] Chi ben coltiva il moro, coltiva
nel suo campo un gran tesoro.[fonte 47] Chi ben comincia è a metà
dell'opera.[fonte 53] Chi ben comincia è alla metà dell'opera.[fonte 2] Chi ben
comincia è alla metà dell'opra.[fonte 1] Chi bene semina, bene raccoglie.[fonte
4] Chi beve vin, campa cent'anni.[fonte 54] Chi beve birra campa
cent'anni.[12][fonte 2] Chi biasima il suo prossimo che è morto, dica il vero,
dica il falso, ha sempre torto.[fonte 4] Chi caccia volentieri trova presto la
lepre.[fonte 4] Chi cade in povertà, perde ogni amico.[fonte 4] Chi cava e non
mette, le possessioni si disfanno.[fonte 55] Chi cavalca o trotta alla china, o
non è sua la bestia, o non la stima.[fonte 8] Chi cento ne fa una ne
aspetta.[fonte 1] Chi cerca di sapere ciò che bolle nella pentola d'altri, ha
leccate le sue.[fonte 8] Chi cerca lealtà e fedeltà nel mondo, non trova che
ipocrisia.[fonte 4] Chi cerca, trova.[13][fonte 2] Chi cerca trova e chi
domanda intende.[fonte 2] Chi coglie acerbo il senno, maturo ha sempre
d'ignoranza il frutto.[fonte 8] Chi comincia in alto, finisce in basso.[fonte
8] Chi compra il superfluo, si prepara a vendere il necessario.[fonte 56] Chi
compra sprezza e chi ha comprato apprezza.[fonte 2] Chi conserva per
l'indomani, conserva per il cane.[fonte 8] Chi contro Dio getta la pietra, in
capo gli torna.[fonte 8] Chi d'estate secca serpi, nell'inverno mangia
anguille.[fonte 4] Chi d'estate vuole stare al fresco, ci starà anche
d'inverno.[fonte 4] Chi da gallina nasce, convien che razzoli.[fonte 8] Chi da
savio operare vuole, pensi al fine.[fonte 4] Chi dà ghiande non può riavere
confetti.[fonte 4] Chi di gallina nasce convien che razzoli.[fonte 2] Chi dal lotto
spera soccorso, mette il pelo come un orso.[fonte 8] Chi dà per ricevere, non
dà nulla.[fonte 8] Chi del vino è amico, di se stesso è nemico.[fonte 8] Chi di
spada ferisce di spada perisce.[14][fonte 1] Chi di speranza vive disperato
muore.[fonte 1] Chi di una donna brutta s'innamora, lieto con essa invecchia e
l'ama ancora.[fonte 8] Chi di coltel ferisce, di coltel perisce.[fonte 4] Chi
di spirito e di talenti è pieno domina su quelli che ne hanno meno.[fonte 4]
Chi dice A arrivi fino alla Z.[fonte 4] Chi dice A deve dire anche B.[fonte 4]
Chi dice donna dice danno.[fonte 1] Chi dice donna dice guai, chi dice uomo
peggio che mai.[fonte 8] Chi dice male, l'indovina quasi sempre.[fonte 4] Chi
dice quel che vuole sente quel che non vorrebbe.[fonte 1] Chi disprezza
compra.[fonte 1] Chi disprezza vuol comprare e chi loda vuol lasciare.[fonte 2]
Chi domanda ciò che non dovrebbe, ode quel che non vorrebbe.[fonte 2] Chi
domanda non erra.[fonte 2] Chi domanda non fa errore.[fonte 57] Chi dopo la
polenta beve acqua, alza la gamba e la polenta scappa.[fonte 8] Chi dorme
d'agosto dorme a suo costo.[fonte 2] Chi dorme non piglia pesci.[15][fonte 1]
Chi è causa del suo mal pianga se stesso.[16][fonte 1] Chi è bugiardo è
ladro.[fonte 4] Chi è destinato alla forca non annega.[fonte 58] Chi è generoso
con la bocca, è avaro col sacco.[fonte 4] Chi è in difetto è in sospetto.[fonte
1] Chi è mandato dai farisei è ingannato dai farisei.[fonte 4] Chi è morso
dalla serpe, teme la lucertola.[fonte 8] Chi non è savio, paziente e forte si
lamenti di sé, non della sorte.[fonte 8] Chi è schiavo delle ambizioni ha mille
padroni.[fonte 4] Chi è stato trovato una volta in frode, si presume vi sia
sempre.[fonte 4] Chi è svelto a mangiare è svelto a lavorare.[fonte 1] Chi è
tosato da un usuraio, non mette più pelo.[fonte 8] Chi è uso all'impiccare, non
teme la forca.[fonte 4] Chi fa da sé fa per tre.[17][fonte 1] Chi fa come il
prete dice, va in Paradiso: ma chi fa come il prete fa, a casa del diavolo se
ne va.[18] Chi fa del bene agli ingrati, Dio lo considera per male.[fonte 4]
Chi fa il male odia la luce.[fonte 4] Chi fa l'altrui mestiere, fa la zuppa nel
paniere.[fonte 59] Chi fa la legge, deve conservarla.[fonte 4] Chi fa una
legge, deve anche preoccuparsi che sia eseguita.[fonte 4] Chi fa le fave senza
concime le raccoglie senza baccelli.[fonte 2] Chi fa falla e chi non fa
sfarfalla.[fonte 1] Chi fa un'ingiustizia, la dimentica; chi la riceve, se ne
ricorda.[fonte 4] Chi fosse indovino, sarebbe ricco.[fonte 4] Chi fugge il
giudizio, si condanna.[fonte 4] Chi fugge un matto, ha fatto buona
giornata.[fonte 8] Chi getta un seme lo deve coltivare, se vuol vederlo con il
tempo germogliare.[fonte 60] Chi gioca al lotto, è un gran merlotto.[fonte 8]
Chi gioca al lotto, in rovina va di botto.[fonte 8] Chi gioca al lotto, in
rovina va di trotto.[fonte 8] Chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha
dato.[fonte 16]. Chi ha avuto il beneficio, se lo dimentica.[fonte 4] Chi ha da
far con un incostante, tien l'anguilla per la coda.[fonte 4] Chi ha denti non
ha pane e chi ha pane non ha denti.[fonte 1] Chi ha farina non ha la
sacca.[fonte 1] Chi ha fatto ingiuria ad altri, da altri convien che la
sopporti.[fonte 4] Chi ha il capo di cera, non vada al sole.[fonte 61] Chi ha
imbarcato il diavolo, deve stare in sua compagnia.[fonte 4] Chi ha ingegno, lo
mostri.[fonte 62] Chi ha per letto la terra, deve coprirsi col cielo.[fonte 8]
Chi ha polvere spara.[fonte 1] Chi ha portato la tonaca puzza sempre di
frate.[fonte 2] Chi ha prete, o parente in corte, fontana gli risorge.[fonte
63] Chi ha tempo, ha vita.[fonte 64] Chi ha tempo non aspetti tempo.[fonte 1]
Chi ha terra, ha guerra.[fonte 56] Chi ha tutto il suo in un loco l'ha nel
fuoco.[fonte 2] Chi ha un mestiere in mano, dappertutto trova pane.[fonte 4]
Chi il vasto mare intrepido ha solcato, talvolta in piccol rio muore
annegato.[fonte 65] Chi la dura la vince.[fonte 1] Chi la fa l'aspetti.[fonte
1] Chi lascia la via vecchia per la nuova sa quel che lascia ma non sa quel che
trova.[fonte 1] Chi lascia la via vecchia per la nuova peggio si trova.[fonte
16] Chi lavora con diligenza, prega due volte.[fonte 4] Chi lavora, Dio gli
dona.[fonte 4] Chi mal semina mal raccoglie.[fonte 1] Chi male una volta si
marita, ne risente tutta la vita.[fonte 4] Chi male vive, male muore.[fonte 2]
Chi maltratta le bestie, non la fa mai bene.[fonte 8] Chi mangia sempre pan
bianco, spesso desidera il nero.[fonte 8] Chi mangia sempre torta se ne
sazia.[fonte 8] Chi mena per primo mena due volte.[fonte 1] Chi molto parla,
spesso falla.[fonte 66] Chi mordere non può non mostri i denti.[fonte 40] Chi
muore giace e chi vive si dà pace.[fonte 1] Chi nasce afflitto muore
sconsolato.[fonte 1] Chi nasce è bello, chi si sposa è buono e chi muore è
santo.[fonte 1] Chi nasce matto non guarisce mai.[fonte 8] Chi nasce tondo non
può morir quadrato.[fonte 57] Chi non ama le bestie, non ama i cristiani.[fonte
8] Chi non apre la bocca, non le piove dentro.[fonte 4] Chi non beve in
compagnia o è un ladro o è una spia.[fonte 1] Chi non caccia non prende.[fonte
4] Chi non comincia non finisce.[fonte 1] Chi non crede di esser matto, è matto
davvero.[fonte 8] Chi non crede in Dio, non crede nel diavolo.[fonte 67] Chi
non dà a Cristo, dà al fisco.[fonte 8] Chi non è con me è contro di me.[fonte
2] Chi non è volpe, dal lupo si guardi, perché ne sarà preda presto o
tardi.[fonte 4] Chi non fu buon soldato, non sarà buon capitano.[fonte 68] Chi
non ha fede, non ne può dare.[fonte 8] Chi non ha il gatto mantiene i topi e
chi ce l'ha li mantiene tutti e due.[fonte 8] Chi non ha imparato a ubbidire,
non saprà mai comandare.[fonte 8] Chi non ha testa abbia gambe.[fonte 57] Chi
non lavora non mangia.[fonte 2] Chi non mangia ha già mangiato.[fonte 2] Chi
non muore si rivede.[fonte 2] Chi non naufragò in mare, può naufragare in
porto.[fonte 8] Chi non può bastonare il cavallo, bastona la sella.[fonte 4]
Chi non risica, non rosica.[fonte 1] Chi non sa adulare non sa regnare.[fonte
4] Chi non sa fare non sa comandare.[fonte 68] Chi non sa leggere la sua
scrittura è asino di natura.[fonte 69] Chi non sa niente non è buono a
niente.[fonte 4] Chi non sa tacere non sa parlare.[fonte 2] Chi non sa
ubbidire, non sa comandare.[fonte 68] Chi non segue il consiglio dei genitori,
tardi se ne pente.[fonte 4] Chi non semina non raccoglie.[fonte 2] Chi non si
innamora da giovane, si innamora da vecchio.[fonte 8] Chi non trovò ombra
nell'estate, la troverà nell'inverno.[fonte 4] Chi non vuol essere consigliato,
non può essere aiutato.[fonte 4] Chi parla due lingue è doppio uomo.[fonte 70]
Chi pecca in segreto fa la penitenza pubblica.[fonte 8] Chi pecora si fa, il
lupo se la mangia.[fonte 1] Chi per grazia prega, non ha mai bene.[fonte 4] Chi
perde ha sempre torto.[fonte 1] Chi perdona senza dimenticare, non perdona che
metà.[fonte 4] Chi pesca con l'amo d'oro, qualcosa piglia sempr e.[fonte
8] Chi piglia leone in assenza, teme la talpa in presenza.[fonte 8] Chi più ha
più vuole.[fonte 1] Chi più ha più ne vorrebbe.[fonte 2] Chi più lavora, meno
mangia.[fonte 4] Chi più ne fa è fatto papa.[fonte 4] Chi più ne ha più ne
metta.[fonte 2] Chi più sa meno crede.[fonte 1] Chi più spende meno
spende.[fonte 2] Chi poco sa presto parla.[fonte 2] Chi porta fiori, porta
amore.[fonte 8] Chi predica al deserto, perde il sermone.[fonte 71] Chi prende
l'anguilla per la coda, può dire di non tenere nulla.[fonte 4] Chi prima arriva
meglio alloggia.[fonte 2] Chi prima nasce prima pasce.[fonte 1] Chi prima non
pensa dopo sospira.[fonte 2] Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da
casa sua la sciagura.[fonte 8] Chi ricorda un beneficio, lo rinfaccia.[fonte 4]
Chi ride il venerdì piange la domenica.[fonte 1] Chi rimane in umile stato, non
ha da temer caduta.[fonte 8] Chi ringrazia non vuol obblighi.[fonte 8] Chi
ringrazia per una spiga, riceve una manna.[fonte 8] Chi Roma non vede, nulla
crede.[fonte 8] Chi ruba poco, ruba assai.[fonte 72] Chi rompe paga e i cocci
sono suoi.[fonte 1] Chi ruba un regno è un ladro glorificato, e chi un
fazzoletto, un ladro castigato.[fonte 4] Chi ruba una volta è sempre ladro.[fonte
4] Chi s'accapiglia si piglia.[19] Chi s'aiuta Iddio l'aiuta.[fonte 1] Chi sa
fa e chi non sa insegna.[fonte 1] Chi sa fare fa e chi non sa fare insegna.[20]
Chi sa il gioco non l'insegni.[fonte 1] Chi sa il trucco non l'insegni.[fonte
1] Chi sa senza Cristo non sa nulla.[fonte 8] Chi scopre il segreto perde la
fede.[fonte 1] Chi semina buon grano avrà buon pane; chi semina lupino non avrà
né pan né vino.[fonte 2] Chi semina con l'acqua raccoglie col paniere.[fonte 2]
Chi semina raccoglie.[fonte 2] Chi semina vento raccoglie
tempesta.[21][22][fonte 1] Chi serba serba al gatto.[fonte 1] Chi si contenta
gode.[fonte 1] Chi si diletta di frodare gli altri, non si deve lamentare se
gli altri lo ingannano.[fonte 4] Chi si fa i fatti suoi campa cent'anni.[fonte 57]
Chi si fa un idolo del suo interesse, si fa un martire della sua
integrità.[fonte 73] Chi si fida nel lotto, non mangia di cotto.[fonte 8] Chi
si fida di greco, non ha il cervel seco.[fonte 74] Chi si guarda dal calcio
della mosca, gli tocca quello del cavallo.[fonte 4] Chi si immagina di essere
più di quello che è, si guardi nello specchio.[fonte 4] Chi si loda si
sbroda.[fonte 4] Chi si prende d'amore, si lascia di rabbia.[fonte 8] Chi si
scusa si accusa.[fonte 1] Chi si somiglia si piglia.[fonte 2] Chi si sposa in
fretta, stenta adagio.[fonte 75] Chi si umilia sarà esaltato, chi si esalta
sarà umiliato.[fonte 8] Chi si vanta da solo non vale un fagiolo.[fonte 2] Chi
si vanta del delitto è due volte delinquente.[fonte 4] Chi siede in basso,
siede bene.[fonte 8] Chi sta tra due selle si trova col culo in terra.[fonte 2]
Chi tace acconsente.[fonte 1][23] Chi tace davanti alla forza, perde il suo
diritto.[fonte 4] Chi tanto e chi niente.[fonte 1] Chi troppo e chi
niente.[fonte 1] Chi tardi arriva male alloggia.[fonte 1] Chi ti dà un osso non
ti vorrebbe morto.[fonte 4] Chi ti vuol male, ti liscia il pelo.[fonte 8] Chi
tiene il letame nel suo letamaio, fa triste il suo pagliaio.[fonte 8] Chi tiene
la scala non è meno reo del ladro.[fonte 76] Chi troppo comincia, poco
finisce.[fonte 77] Chi troppo vuole nulla stringe.[24][fonte 1] Chi trova un
amico trova un tesoro.[fonte 1] Chi uccide i gatti fa male i suoi fatti.[fonte
38] Chi va a caccia non deve lasciare a casa il fucile.[fonte 4] Chi va a Roma
perde la poltrona.[fonte 2] Chi va all'acqua d'agosto, non beve o non vuol bere
il mosto.[fonte 8] Chi va all'osto, perde il posto.[fonte 78] Chi va al mulino
s'infarina.[fonte 1] Chi va con lo zoppo, impara a zoppicare.[fonte 79] Chi va
piano va sano e va lontano. Chi va forte va alla morte.[25][fonte 80] Chi ha
più fretta, più tardi finisce.[fonte 4] Chi fa in fretta fa due volte.[fonte 4]
Chi pesca e ha fretta, spesse volte prende dei granchi.[fonte 4] Chi va via
perde il posto all'osteria.[fonte 81] Chi vanta se stesso e abbassa gli altri,
gli altri abbasseranno lui.[fonte 4] Chi vende a credenza spaccia assai: perde
gli amici e i quattrin non ha mai.[26][fonte 2] Chi dà a credito spaccia assai
perde gli amici e danar non ha mai.[fonte 2] Chi va alla festa e non è invitato,
ben gli sta se ne è scacciato.[fonte 4] Chi vien di raro, gli si fa
festa.[fonte 8] Chi vince ha sempre ragione.[fonte 82] Chi vive in libertà non
tenti il fato.[fonte 4] Chi vive sei giorni nell'oasi, il settimo anela il
deserto.[fonte 8] Chi vivrà vedrà.[fonte 2] Chi vuol d'avena un granaio la
semini di febbraio.[fonte 2] Chi vuol dell'acqua chiara vada alla fonte.[fonte
4] Chi vuol udir novelle, dal barbier si dicon belle.[fonte 8] Chi vuol esser
libero, non metta il collo sotto il giogo.[fonte 8] Chi vuol essere pagato, non
dev'essere ringraziato.[fonte 8] Chi vuol guarire deve soffrire.[fonte 4] Chi
vuol impetrare, la vergogna ha da levare.[fonte 83] Chi vuol lavoro degno assai
ferro e poco legno.[fonte 2] Chi vuol pane, meni letame.[fonte 84] Chi vuol
presto impoverire, chieda prestito all'usuraio.[fonte 8] Chi vuol provar le
pene dell'inferno, la stia in Puglia e all'Aquila d'inverno.[fonte 8] Chi vuol
saper cos'è l'inferno faccia il cuoco d'estate e il carrettiere
d'inverno.[fonte 8] Chi vuol un bel pagliaio lo pianti di febbraio.[fonte 8]
Chi vuol vedere Pisa vada a Genova.[fonte 85] Chi vuole arricchire in un anno,
è impiccato in sei mesi.[fonte 4] Chi vuole assai, non domandi poco.[fonte 86]
Chi vuole essere amato, divenga amabile.[fonte 9] Chi vuole essere sicuro della
sua farina, deve portare egli stesso il sacco al mulino.[fonte 4] Chi vuole i
santi se li preghi.[fonte 1] Chi vuole la figlia accarezzi la madre.[fonte 4]
Chi vuole vada e chi non vuole mandi.[fonte 1] Chiara notte di capodanno, dà
slancio a un buon anno.[fonte 8] Chiodo scaccia chiodo.[fonte 2] Chiodo
schiaccia chiodo.[fonte 9] Chitarra e schioppo fanno andare la casa a
galoppo.[fonte 8] Ci vuole altro che un'accozzaglia di gente per fare un
esercito.[fonte 4] Ci vuole ingegno per governare i pazzi.[fonte 4] Ciascuno è
artefice della sua fortuna.[fonte 2][27] Ciascuno è artefice della propria
fortuna.[fonte 2] Ciascuno porta il suo ingegno al mercato.[fonte 4] Cielo a
pecorelle acqua a catinelle.[fonte 1] Ciò che è male per uno, è bene per un
altro.[fonte 4] Ciò che lo stolto fa in fine, il savio fa in principio.[fonte
87] Ciò che non si può cambiare bisogna saperlo sopportare.[fonte 4] Col fuoco
non si scherza.[fonte 1] Col latino, con un ronzino e con un fiorino si gira il
mondo.[fonte 4] Col nulla non si fa nulla.[fonte 1] Col pane tutti i guai sono
dolci.[fonte 1] Col tempo e con la paglia maturano le nespole.[28][fonte 2] Col
tempo e con la paglia maturano le sorbe e la canaglia.[fonte 2] Colla sola
lealtà, non si pagano i merletti della cuffia.[fonte 4] Come farai, così
avrai.[fonte 4] Come i piedi portano il corpo, così la benevolenza porta
l'anima.[fonte 4] Comincia, che Dio provvede al resto.[fonte 4] Compar di
Puglia, l'un tiene e l'altro spoglia.[fonte 8] Comun servizio ingratitudine
rende.[fonte 8] Con arte e con ingegno, si acquista mezzo regno; e con ingegno
ed arte, si acquista l'altra parte.[fonte 4] Con gli anni crescono gli
affanni.[fonte 8] Con i matti non ci son patti.[fonte 8] Con l'inchiostro, una
mano può innalzare un furfante ed abbassare un galantuomo.[fonte 8] Con la
pazienza la foglia di gelso diventa seta.[fonte 88] Con la pietra si prova
l'oro, con l'oro la donna e con la donna l'uomo.[fonte 8] Con la più alta
libertà, abita la più bassa servitù.[fonte 4] Con le buone maniere si ottiene
tutto.[fonte 89] Con un bicchier di vino si fa un amico.[fonte 8] Con un occhio
si frigge il pesce e con l'altro si guarda il gatto.[fonte 8] Conchiuder lega è
facile, difficile il mantenerla.[fonte 4] Confidenza toglie riverenza.[fonte 4]
Conserva le monete bianche per le giornate nere.[fonte 8] Contadini, scarpe
grosse e cervelli fini.[fonte 1] Contano più i fatti che le parole.[fonte 90]
Contro due donne neanche il diavolo può metterci il becco.[fonte 8] Contro due
non la potrebbe Orlando.[fonte 91] Contro la forza la ragion non vale.[fonte 1]
Contro la nebbia forza no vale.[fonte 4] Coricarsi presto, alzarsi presto,
danno salute, ricchezza e sapienza.[fonte 8] Corpo satollo anima
consolata.[fonte 1] Corpo sazio non crede a digiuno.[fonte 1] Cortesia
schietta, domanda non aspetta.[fonte 92] Corre un pezzo la lepre, un pezzo il
cane; così s'alternano le vicende umane.[fonte 8] Cosa fatta capo ha.[29][fonte
2] Cosa di rado veduta, più cara è tenuta.[fonte 8] Cosa rara, cosa cara.[fonte
8] Cucina grassa, magra eredità.[fonte 4] Cuor contento gran talento.[fonte 93]
Cuor contento il ciel l'aiuta.[fonte 94] Cuor contento il ciel lo guarda.[fonte
2] Cuor contento non sente stento.[fonte 2] D D'aprile ogni goccia val mille
lire.[fonte 2] D'aquila non nasce colomba.[fonte 4] Da colpa nasce colpa.[fonte
4] Da cosa nasce cosa.[fonte 95] Da falsa lingua, cattiva arringa.[fonte 8] Da
Lodi, tutti passan volentieri.[fonte 8] Da un disordine nasce un ordine.[fonte
8] Dagli amici mi guardi Iddio che dai nemici mi guardo io.[fonte 2] Dàgli,
dàgli, le cipolle diventano agli.[fonte 96] Riferito alle insidie che l'amore
riserva alle virtù delle fanciulle. Dai giudici siciliani, vacci coi polli
nelle mani.[fonte 8] Dall'asino non cercar lana.[fonte 4] Dall'opera si conosce
il maestro.[fonte 4] Dall'immagine si conosce il pittore.[fonte 4] Dalla mano
si riconosce l'artista.[fonte 4] Dal canto si conosce l'uccello.[fonte 4] Dal
passato è facile predire il futuro.[fonte 4] Dalla casa si conosce il padrone.[fonte
4] Danaro e santità, metà della metà.[fonte 8] Denari e santità metà della
metà.[fonte 97] Date a Cesare quel che è di Cesare.[30][fonte 2] Davanti al
cameriere non vi è Eccellenza.[fonte 4] Davanti l'abisso e dietro i denti di un
lupo.[fonte 4] Debole catena muover può gran peso.[fonte 8] Dei vizi è regina
l'avarizia.[fonte 98] Del senno di poi son piene le fosse.[fonte 1] Delle
calende non me ne curo purché a san Paolo non faccia scuro.[31][fonte 2] Detto
senza fatto, ad ognuno pare un misfatto.[fonte 4] Di buone intenzioni è
lastricato l'inferno.[fonte 99] Di chi è l'asino, lo pigli per la coda.[fonte
4] Di dolore non si muore, ma d'allegrezza sì.[fonte 8] Di maggio si dorme per
assaggio.[32][fonte 2] Di malerba non si fa buon fieno.[fonte 4] Di notte si
ritirano i galantuomini ed escono i birbanti.[fonte 8] Di quello che non ti
interessa, non dire né bene né male.[fonte 4] Di tutte le arti maestro è
l'amore.[fonte 8] Dice la serpe: non mi toccar che non ti tocco.[fonte 8]
Dicembre favaio.[fonte 16] Dicono che è mercante anche chi perde, ma questo
presto ridurrassi al verde.[fonte 100] Dieci ne pensa il topo e cento il
gatto.[fonte 101] Dietro il monte c'è la china.[fonte 2] Dietro il riso viene
il pianto.[fonte 8] Dimmi con chi vai, e ti dirò che fai.[fonte 73] Dimmi con
chi vai, e ti dirò chi sei.[fonte 102] Dio aiuti il povero, perché il ricco può
aiutar se stesso.[fonte 8] Dio dà la piaga e dà anche la medicina.[fonte 4] Dio
guarisce e il medico è ringraziato.[fonte 4] Dio li fa e poi li accoppia.[fonte
1] Dio manda il freddo secondo i panni.[fonte 1] Dio mi guardi da chi studia un
libro solo.[fonte 4] Dio misura il vento all'agnello tosato.[fonte 4] Dio vede
e provvede.[fonte 2] Disse la volpe ai figli: "Quando a tordi, quando a
grilli".[fonte 4] Dolore comunicato è subito scemato.[fonte 4] Domandando
si va a Roma.[fonte 2] Domandare è lecito, rispondere è cortesia.[fonte 2]
Donna al volante, pericolo costante.[fonte 103] Donna adorna, tardi esce e
tardi torna.[fonte 8] Donna baffuta sempre piaciuta.[fonte 2] Donna barbuta,
sempre piaciuta.[fonte 103] Donna barbuta coi sassi si saluta.[fonte 2] Donna
bianca, poco gli manca.[fonte 8] Donna rossa coscia grossa.[fonte 8] Donna che
canti dolcemente in scena, pei giovani inesperti è una sirena.[fonte 8] Donna
che dona, di rado è buona.[fonte 8] Donna che piange, ovver che dolce canti,
son due diversi, ambo possenti incanti.[fonte 8] Donna che sa il latino è rara
cosa, ma guardati dal prenderla in isposa.[fonte 8] Donna e fuoco, toccali
poco.[fonte 8] Donne e motori gioie e dolori.[fonte 104] Donna e vino ubriaca
il grande e il piccolino.[fonte 8] Donna giovane e uomo anziano possono
riempire la casa di figli.[fonte 8] Donna io conosco, ch'è una santa a messa e
che in casa è un'orribil diavolessa.[fonte 8] Donna nana tutta tana.[fonte 2]
Donna nobil per natura è un tesor cheonna savia e bella è preziosa ancsempre
dura.[fonte 8] Donna pelosa, donna virtuosa.[fonte 2] Donna pregata nega,
trascurata prega.[fonte 8] Donna prudente, gioia eccellente.[fonte 8] Dhe in
gonnella.[fonte 8] Donna si lagna, donna si duole, donna s'ammala quando lo
vuole.[fonte 8] Donne e sardine, son buone piccoline.[fonte 8] Donne, danno,
fanno gli uomini e li disfanno.[fonte 8] Dopo desinare non camminare; dopo
cena, con dolce lena.[fonte 4] Dopo e poi son parenti del mai.[fonte 2] Dopo il
dolce vien l'amaro.[fonte 8] Dopo il fatto il consiglio non vale.[fonte 4] Dopo
il fatto viene troppo tardi il pentimento.[fonte 4] Dopo il giorno vien la
notte.[fonte 8] Dopo la grazia di Dio, la miglior cosa è la libertà.[fonte 8]
Dopo la tempesta, il sole.[fonte 8] Dopo le fosche nuvole il sol splende più
fulgido.[fonte 8] Dopo vendemmia, imbuto.[fonte 105] Non bisogna lasciarsi
sfuggire le occasioni favorevoli, chi ha tempo non aspetti tempo. Dove c'è
l'amore, la gamba trascina il piede.[fonte 8] Dove è castigo è disciplina, dove
è pace è gioia.[fonte 4] Dove entra la fortuna, esce l'umiltà.[fonte 8] Dove
l'accidia attecchisce ogni cosa deperisce.[fonte 4] Dove la fedeltà mette le
radici, Dio fa crescere un albero.[fonte 4] Dove non c'è amore, non c'è
umanità.[fonte 8] Dove non c'è fieno, i cavalli mangiano paglia.[fonte 8] Dove
non c'è ordine, c'è disordine.[fonte 8] Dove non si crede né all'inferno né al
paradiso, il diavolo intasca tutte le entrate.[fonte 8] Dove non vi è
educazione, non vi è onore.[fonte 4] Dove non vi sono capelli, male si
pettina.[fonte 4] Dove può il vino non può il silenzio.[fonte 8] Dove regna
Bacco e Amore, Minerva non si lascia vedere.[fonte 4] Dove regna il vino, non
regna il silenzio.[fonte 8] Dove son carogne son corvi.[fonte 8] Dove sono i
pulcini, ivi è l'occhio della chioccia.[fonte 8] Dove vola il cuore, striscia
la ragione.[fonte 8] Due cani che un solo osso hanno, difficilmente in pace
stanno.[fonte 4] Due noci in un sacco e due donne in casa fanno un bel
fracasso.[fonte 8] Due polente insieme non furon mai viste.[fonte 8] Dura più
un carro rotto che uno nuovo.[fonte 4] Duro con duro non fa buon muro.[fonte
106] E È cattivo sparviero quel che non torna al richiamo.[fonte 8] È difficile
far diventare bianco un moro.[fonte 4] È difficile guardarsi dai ladri di
casa.[fonte 4] È difficile piegare un albero vecchio.[fonte 4] È difficile
zoppicare bene davanti allo sciancato.[fonte 8] È facile lamentarsi quando c'è
chi ascolta.[fonte 8] È impossibile come cavalcare un raggio di sole.[fonte 4]
È impossibile volare senza ali.[fonte 4] È inutile piangere sul latte
versato.[fonte 98] [truismo] È l'acqua che fa l'orto.[fonte 98] L'acqua fa
l'orto.[fonte 98] È la donna che fa l'uomo.[fonte 57] È lieve astuzia ingannar
gelosia, che tutto crede quando è in frenesia.[fonte 4] È meglio avere la cura
di un sacco di pulci che una donna.[fonte 4] È meglio contentarsi che
lamentarsi.[fonte 8] È meglio correggere i propri difetti, che riprendere
quelli degli altri.[fonte 4] È meglio esser digiuno fuori, che satollo in
prigione.[fonte 8] È meglio essere testa d'anguilla che coda di storione.[fonte
8] È meglio essere uccel di bosco, che uccel di gabbia.[fonte 8] È meglio
essere umile a cavallo, che orgoglioso a piedi.[fonte 8] È meglio gelare nella
nuda cameretta della verità, che crogiolarsi nella pelliccia della
menzogna.[fonte 4] È meglio mangiarsi l'eredità, che conservarla per il
convento.[fonte 4] È meglio meritar la lode che ottenerla.[fonte 4] È meglio
sentir cantare l'usignolo, che rodere il topo.[fonte 8] È meglio testa di
lucertola che coda di drago.[fonte 8] È meglio un esercito di cervi sotto il
comando di un leone, che un esercito di leoni sotto il comando di un cervo.[fonte
4] È meglio un leone che mille mosche.[fonte 8] È più facile biasimare, che
migliorare.[fonte 4] È più facile lagnarsi, che rimuovere gl'impedimenti.[fonte
8] È più facile prevenire una malattia che guarirla.[fonte 8] È più facile
trovar dolce l'assenzio, che in mezzo a poche donne il silenzio.[fonte 8] È un
bel predicare il digiuno a corpo pieno.[fonte 4] È una bella risposta quella
che si attaglia ad ogni domanda.[fonte 8] Ebrei e rigattieri, spendono poco e
gabbano volentieri.[fonte 4] Ecco il rimedio per l'ipocondria: mangiare e bere
in buona compagnia.[fonte 8] Errare è umano, perseverare è diabolico.[fonte
107] Errare è umano, perseverare diabolico.[fonte 2] Sbagliare è umano,
perseverare è diabolico.[fonte 108] Errore non è inganno.[fonte 4] Errore non
paga debito.[fonte 4] Errore riconosciuto conduce alla verità.[fonte 4] Esser
dotto poco vale, quando gli altri non lo sanno.[fonte 8] Èssere più torbo che
non è l'acqua dei maccheroni.[fonte 8] F Fa quel che il prete dice, non quel
che il prete fa.[fonte 1] Fa quello che fanno gli altri, e nessuno si farà
beffe di te.[fonte 4] Faccia bella, anima bella.[fonte 4] Facile è criticare,
difficile è l'arte.[33][fonte 109] Fare debiti non è vergogna, ma pagarli è
questione d'onore.[fonte 4] Fare e disfare, è tutto un lavorare.[fonte 110]
Fare l'amore fa bene all'amore.[fonte 111] Fate del bene al villano, dirà che
gli fate del male.[fonte 8] Fatta la legge trovato l'inganno.[34][fonte 1]
Fatti asino e tutti ti metteranno la soma.[fonte 4] Fatti di miele e ti mangieranno
le mosche.[fonte 4] Fatti le ali e poi vola.[fonte 4] Febbraio, febbraietto
mese corto e maledetto.[35][fonte 2] Felice non è, chi d'esserlo non sa.[fonte
64] Femmine e galline, se giran troppo si perdono.[fonte 8] Ferita d'amore non
uccide.[fonte 8] Finché c'è vita c'è speranza.[fonte 1] Fino alla morte non si
sa qual è la sorte.[fonte 8] Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio.[fonte 1]
Fidati dell'arte, ma non dell'artigiano.[fonte 4] Fino alla bara sempre
s'impara.[fonte 112] Fortezza che parlamenta, è prossima ad arrendersi.[fonte
4] Fortuna cieca, i suoi acceca.[fonte 4] Fortuna instupidisce colui ch'ella
favorisce.[fonte 4] Fortunato al gioco, sfortunato in amore.[fonte 4] Fra
Modesto non fu mai priore.[fonte 8] Fra sepolto tesoro e occulta scienza, non
vi conosco alcuna differenza.[fonte 8] Fra un usuraio e un assassino poco ci
corre.[fonte 8] Frutto precoce facilmente si guasta.[fonte 8] Fuggire l'acqua
sotto la grondaia.[fonte 4] Funghi e poeti: per uno buono dieci cattivi.[fonte
8] G Gallina che non razzola ha già razzolato.[fonte 113] Gallina vecchia fa
buon brodo.[fonte 114] Gallo senza cresta è un cappone, uomo senza barba è un
minchione.[fonte 4] Gatta inguantata non prese mai topo.[fonte 8] Gattini
sventati, fanno gatti posati.[fonte 115] Gatto e donna in casa, cane e uomo
fuori.[fonte 38] Gatto rinchiuso diventa leone.[fonte 8] Gatto scottato
dall'acqua calda, ha paura della fredda.[fonte 4] Gelosia non mette ruga.[fonte
4] Gioco di mano gioco di villano.[fonte 1] Gioia e sciagura sempre non
dura.[fonte 8] Giovani di buon cuore, indoli buone, crescono cattivi per poca
educazione.[fonte 4] Giugno la falce in pugno.[36][fonte 2] Gli abiti e gli
uomini presto invecchiano.[fonte 4] Gli abiti e i costumi sono mutabili.[fonte
4] Gli abiti sono freddi, ma ricevono il calore da chi li porta.[fonte 4] Gli
amori nuovi fanno dimenticare i vecchi.[fonte 4] Gli eredi dell'avaro sono
onnipotenti, perché possono risuscitare i morti.[fonte 4] Gli eretici rubano la
parola di Dio.[fonte 4] Gli errori degli altri sono i nostri migliori
maestri.[fonte 4] Gli errori non si conoscono finché non siano commessi.[fonte
4] Gli errori si pagano.[fonte 8] Gli estremi si toccano.[fonte 4] Gli idoli
separano papa e imperatore.[fonte 4] Gli occhi s'hanno a toccare con le
gomita.[fonte 91] Gli stolti fanno le feste e gli accorti se le godono.[fonte
116] Gli uccelli dalle stesse piume devono stare nello stesso nido.[fonte 8]
Gli uomini onesti non temono né la luce, né il buio.[fonte 8] Gobba a ponente
luna crescente, gobba a levante luna calante.[fonte 2] Gola degli adulatori,
sepolcro aperto.[fonte 117] Gotta inossota, mai fi sanata.[fonte 118] Gran
giustizia, grande offesa.[fonte 4] Grande amore, gran dolore.[fonte 8] Greco in
mare, Greco in tavola, Greco non aver a far seco.[fonte 74] Gru e donne fan
volentieri il nido in alto.[fonte 8] Guardalo, figlia, guardalo tutto, l'uomo
senza denari com'è brutto.[fonte 4] Guardare e non toccare è una cosa da
imparare.[fonte 2] Guardati da chi accende il fuoco e grida poi contro le fiamme.[fonte
4] Guardati da cane rabbioso e da uomo sospettoso.[fonte 8] Guardati da chi
giura in coscienza.[fonte 8] Guardati da chi non ha cura della sua
reputazione.[fonte 8] Guardati da chi ride e guarda da un'altra parte.[fonte 8]
Guardati da tre cose: da cavallo focoso, da uomo infido e da donna
svergognata.[fonte 8] Guardati da tutte quelle cose che possono nuocere
all'anima e al corpo.[fonte 8] Guardati dai fanciulli che ascoltano: anche i
piccoli vasi hanno orecchie.[fonte 8] Guardati dai matti, dagli ubriachi, dagli
ipocriti e dai minchioni.[fonte 8] Guardati dai tumulti, e non sarai né
testimonio né parte.[fonte 8] Guardati dal diffamare, perché le prove sono
difficili.[fonte 8] Guardati dal vecchio turco e dal giovane serbo.[fonte 119]
Guardati dall'ipocrisia, perché è una cattiva malattia.[fonte 8] Guardati dalla
primavera di gennaio.[fonte 8] Guardati in tua vita di non dare a niun
smentita.[fonte 8] Guerra, peste e carestia, vanno sempre in compagnia.[fonte
120] H Ha cento volte un uomo flemma e giudizio, alla centuna corre al
precipizio.[fonte 65] Ha bel mentir chi vien da lontano.[fonte 76] Ha la
giustizia in mano bilancia e spada, perché il giusto s'innalza e l'empio
cada.[fonte 4] Ha più il ricco in un angolo, che il povero in tutta la casa.[fonte
8] Ha un buon sapore l'odore del guadagno.[fonte 4] Ha un coraggio da leone,
quello che non fa violenza ai deboli.[fonte 8] Ho veduto assai volte un piccol
male non rispettato, divenir mortale.[fonte 65] I I baci sono come le ciliegie:
uno tira l'altro.[fonte 2] I cani abbaiano come sono nutriti.[fonte 4] I
capponi sono buoni in tutte le stagioni.[fonte 8] I cattivi esempi si imitano
facilmente, meno i buoni.[fonte 4] I debiti sono gli eredi più prossimi.[fonte
4] I denari del lotto se ne van di galoppo.[fonte 8] I denari servono al povero
di beneficio, ed all'avaro di gran supplizio.[fonte 4] I desideri non riempiono
il sacco.[fonte 4] I docili non hanno bisogno della verga.[fonte 8] I doni dei
nemici sono pericolosi.[fonte 4] I fanciulli diventano uomini e le ragazze
spose.[fonte 4] I fanciulli e gli ubriachi cadono nelle mani di Dio.[fonte 4] I
figli dei gatti mangiano i topi.[fonte 8] I figli sono la ricchezza dei
poveri.[fonte 18] I figli sono pezzi di cuore.[fonte 2] I fiori tanto profumano
per i poveri come per i ricchi.[fonte 8] I frati non s'inchinano all'abate, ma
al mazzo delle sue chiavi.[fonte 4] I gamberi son buoni nei mesi della
erre.[fonte 8] I gatti e i veri uomini cadono sempre in piedi.[fonte 121] I
genii si incontrano.[fonte 4] I genitori amano i figli, più che i figli i
genitori.[fonte 4] I genovesi risparmiano anche sui numeri: li usano due
volte.[37][fonte 122] I giovani vogliono essere più accorti dei vecchi.[fonte
4] I giuramenti degli innamorati sono come quelli dei marinai.[fonte 4] I
granchi son pieni quando la luna è tonda.[fonte 8] I guai della pentola li sa
il mestolo che li rimescola.[fonte 8] I ladri grandi fanno impiccare i
piccoli.[fonte 4] I loquaci e i vantatori son mal veduti da tutti.[fonte 8] I
matti ed i fanciulli hanno un angelo dalla loro.[fonte 8] I matti fanno le
feste ed i savi le godono.[fonte 4] I medici vogliono essere vecchi, i
farmacisti ricchi ed i barbieri giovani.[fonte 4] "I miei datteri sono più
dolci", dice il vischio che cresce sulla palma.[fonte 8] [wellerismo] I
panni sporchi si lavano in casa.[fonte 123] I paperi vogliono portare a bere le
oche.[fonte 4] I parenti sono come le scarpe: più sono stretti, più fanno
male.[fonte 2] I pazzi crescono senza innaffiarli.[fonte 8] I pazzi e i
fanciulli possono dire quello che vogliono.[fonte 8] I pazzi per lettera sono i
maggiori pazzi.[fonte 124] I pazzi si conoscono dai gesti.[fonte 8] I peccati
di gioventù si piangono in vecchiaia.[fonte 8] I poeti nascono, e gli oratori
si formano.[fonte 8] I poveri cercano il mangiare per lo stomaco; e i ricchi lo
stomaco per mangiare.[fonte 8] I poveri hanno la salute e i ricchi le
medicine.[fonte 8] I pulci di vendemmia li tiene l'uomo e non le femmine.[fonte
125] I ricchi devono consolare i poveri.[fonte 8] I rimproveri del padre fanno
più che le legnate della madre.[fonte 8] I soldi non fanno la felicità.[fonte
2] I veri amici sono come le mosche bianche.[fonte 4] Il bel tempo non viene
mai a noia.[fonte 9] Il ben di un anno se ne va in una bestemmia.[fonte 4] Il
ben fare non è mai tardo.[fonte 4] Il bisognino fa trottar la vecchia.[fonte 2]
Il bue dice cornuto all'asino.[fonte 126] Il bue mangia il fieno perché si
ricorda che è stato erba.[fonte 2] Il buon ordine è figlio del disordine.[fonte
8] Il buon nocchiero muta vela, ma non tramontana.[fonte 8] Il caffè deve
essere caldo come l'inferno, nero come il diavolo, puro come un angelo e dolce
come l'amore.[38][fonte 127] Il caldo delle lenzuola non fa bollire la
pentola.[fonte 128] Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.[fonte 8] Il
cane è il miglior amico dell'uomo.[fonte 2] Il cane pauroso abbaia più
forte.[fonte 4] Il cane rode l'osso perché non può inghiottirlo.[fonte 4] Il
coccodrillo mangia l'uomo e poi lo piange.[fonte 8] Il colombo che rimane in
colombaia è al sicuro dal falco.[fonte 8] Il colore più caro agli ebrei è il
giallo.[fonte 4] Il coraggio copre l'eroe meglio che lo scudo il codardo.[fonte
8] Il corpo e l'anima ridono a chi si alza di buon mattino.[fonte 8] Il corvo
piange la pecora e poi la mangia.[fonte 117] Il cuor cattivo rende
ingratitudine per beneficio.[fonte 8] Il cuor magnanimo si piglia con poco
amore, e il cuore dello stolto con poca adulazione.[fonte 8] Il cuore ha le sue
ragioni e non intende ragione.[39][fonte 129] Il dare è onore, il chiedere è
dolore.[fonte 8] Il delitto non si deve tollerare, ma anche meno si deve
approvare.[fonte 4] Il denaro è il nervo della guerra.[fonte 4] Il denaro può
molto, ma l'amore può tutto.[fonte 4] Il diavolo ben si lascia pigliare per la
coda, ma non se la lascia strappare.[fonte 4] Il diavolo fa le pentole ma non i
coperchi.[fonte 1] Il diavolo non è così brutto come lo si dipinge.[fonte 130]
Il diavolo vuol farsi cappuccino.[fonte 2] Il diavolo vuol farsi santo.[fonte
2] Il domandare è senno, il rispondere è obbligo.[fonte 8] Il dono del cattivo
è simile al suo padrone.[fonte 56] Il dubbio è padre del sapere.[fonte 4] Il
fare insegna a fare.[fonte 4] Il fatto non si può disfare.[fonte 4] Il ferro di
cavallo che risuona, ha bisogno di un chiodo.[fonte 8] Il ferro è duro, ma il
fuoco lo rende morbido.[fonte 4] Il figlio al padre s'assomiglia, alla madre la
figlia.[fonte 4] Il filo sottile facilmente si strappa.[fonte 4] Il fuoco che
non mi scalda, non voglio che mi scotti.[fonte 4] Il fuoco che non mi brucia,
non lo spengo.[fonte 4] Il gatto ama i pesci, ma non vuole bagnarsi le
zampe.[fonte 131] Il gatto brontola sempre, anche quando gode.[fonte 8] Il
gatto che si è bruciato, ha paura anche dell'acqua fredda.[fonte 121] Il gatto
è una tigre domestica.[fonte 8] Il gatto lecca oggi, domani graffia.[fonte 132]
Il gatto non è gatto se non è ladro.[fonte 133] Il gatto non ti accarezza, si
accarezza vicino a te.[fonte 134] Il generoso non ha mai abbastanza
denaro.[fonte 4] Il gentiluomo chiede solo il miele, ma la gentildonna vuol
anche la cera.[fonte 8] Il gioco è bello quando dura poco.[fonte 2] Il gioco,
il lotto, la donna e il fuoco non si contentan mai di poco.[fonte 8] Il
giudizio è opera di Dio.[fonte 4] Il grano rado non fa vergogna all'aia.[fonte
135] Il Greco dice la verità solo una volta all'anno.[fonte 4] Il lamentarsi
non riempie camera vuota.[fonte 8] Il lavorare senza pregare, è una botte senza
vino, e oro senza splendore.[fonte 4] Il lavoro nobilita l'uomo.[fonte 136] Il
letto si chiama rosa, se non si dorme si riposa.[fonte 137] Il lotto è la tassa
degli imbecilli.[fonte 8] Il lotto è un inganno continuo.[fonte 8] Il lupo non
caca agnelli.[fonte 2] Il lupo perde il pelo ma non il vizio.[40][fonte 1] Il
lupo quando acciuffa una pecora, ne guarda già un'altra.[fonte 4] Il magnanimo
è superiore all'ingiuria, all'ingiustizia, al dolore.[fonte 8] Il magnanimo non
ricorre all'astuzia.[fonte 8] Il male che non ha riparo è bene tenerlo
nascosto.[fonte 4] Il male peggiore dei mali è il timore.[fonte 8] Il male
viene in grandi quantità, e se ne va via a poco a poco.[fonte 4] Il matrimonio
è la tomba dell'amore.[fonte 2] Il mattino ha l'oro in bocca.[fonte 138] Le ore
del mattino hanno l'oro in bocca.[fonte 139] Il medico pietoso fa la piaga
puzzolente.[fonte 140] Il medico pietoso fa la piaga verminosa.[fonte 140] Il
meglio è nemico del bene.[fonte 1] Il merlo ingrassa in gabbia, il leone muore
di rabbia.[fonte 8] Il miele non è fatto per gli asini.[fonte 4] Il miglior
tiro ai dadi è non giocarli.[fonte 4] Il molto ringraziare significa chieder
dell'altro.[fonte 8] Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo
padrone.[fonte 8] Il mulino di Dio macina piano ma sottile.[fonte 141] Il nano
è piccolo anche se è sul campanile.[fonte 8] Il passato deve essere maestro
dell'oggi.[fonte 4] Il passato non deve prendere a prestito dall'oggi.[fonte 4]
Il peggior passo è quello dell'uscio.[fonte 2] Il pesce puzza dalla
testa.[fonte 1] Il Piemonte è la sepoltura dei francesi.[fonte 8] Il poeta ben
trova le palme, ma non i datteri.[fonte 8] Il politico bacia con la bocca, e
tira calci con i piedi.[fonte 8] Il Portogallo[41] è piccolo, ma è un pezzo di
zucchero.[fonte 8] Il povero non può e il ricco non vuole.[fonte 8] Il prete,
dove mangia, vi canta.[fonte 142] Il prete vien cantando e va via
zufolando.[fonte 143] Il prete vive ancor un anno dopo morte.[fonte 142] I suoi
familiari continuano ad incassar per un anno i suoi redditi.[42] Il primo amore
non si arrugginisce.[fonte 8] Il primo amore non si scorda mai.[fonte 8] Il
primo anno ci si abbraccia, il secondo si fascia, il terzo anno si ha la
malattia e la cattiva Pasqua.[fonte 4] Il puledro non va all'ambio, se la
cavalla trotta.[fonte 144] Il ramo assomiglia al tronco.[fonte 4] Il ricco ha
tanto bisogno del povero, quanto il povero del ricco.[fonte 8] Il ricco vive,
il povero vivacchia.[fonte 8] Il ringraziare non fa male alla bocca.[fonte 8]
Il ringraziare non paga debito.[fonte 8] Il riso abbonda sulla bocca degli
stolti.[fonte 2] Il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi.[fonte 145] Il riso
nasce nell'acqua ma deve morire nel vino.[fonte 8] Il sapere è di tutti.[fonte
2] Il «se» e il «ma» sono due corbellerie da Adamo in qua.[fonte 4] Il silenzio
è d'oro e la parola d'argento.[fonte 1] Il sospirar non vale.[fonte 8] Il
superfluo del ricco è il necessario del povero.[fonte 8] Il tatto è
tattica.[fonte 8] Il tatto è tutto.[fonte 8] Il tempo è denaro.[fonte 146] Il
tempo è un gran medico.[fonte 147] Il tempo scopre tutto, perché è
galantuomo.[fonte 147] Il tempo vola.[fonte 147] Il termine della notte è
l'inizio del giorno.[fonte 8] Il timore fa trottare anche lo zoppo.[fonte 8] Il
troppo gestire è da pazzi.[fonte 8] Il troppo tirare, l'arco fa spezzare.[fonte
4] Il turco ben può divenir un dotto, ma un uomo giammai.[fonte 119] Il ventre
non ha orecchie.[fonte 2] Il vero infermo è quello che non vuol esser
guarito.[fonte 8] Il vino al sapore, il pane al colore.[fonte 8] Il vino è
buono per chi lo sa bere.[fonte 8] Il vino è forte ma il sonno lo vince, ma più
forte d'ogni cosa è la donna.[fonte 8] Il vino è il latte dei vecchi.[fonte 8]
Il vino è mezzo vitto.[fonte 8] Il vino fa ballare i vecchi.[fonte 8] Il vino
la mattina è piombo, a mezzodì argento, la sera oro.[fonte 8] Impara a vivere
lo sciocco a sue spese, il savio a quelle altrui.[fonte 4] Impara l'arte e
mettila da parte.[fonte 1] In amore e in guerra niente regole.[fonte 8] In
bocca chiusa non entran mosche.[fonte 2] In Campania si inganna persino il
diavolo.[fonte 8] In casa del calzolaio non si hanno scarpe.[fonte 4] In cento
libbre di legge, non v'è un'oncia di amore.[fonte 148] In chiesa coi santi e in
taverna coi ghiottoni.[fonte 1] In compagnia prese moglie un frate.[fonte 1] In
febbraio la beccaccia fa il nido.[fonte 8] In Lazio si nasce coi sassi in mano.[fonte
8] In lunghi viaggi anche la paglia pesa.[fonte 8] In paradiso non ci si va in
carrozza.[fonte 141] In Sardegna non vi son serpenti, né in Piemonte
bestemmie.[fonte 8] In tanta incostanza e quantità delle cose umane, nulla, se
non quello che è passato, è sicuro.[fonte 4] In terra di ciechi, beato chi ha
un occhio.[fonte 36] In terra di ladri, la valigia dinanzi.[fonte 8] In vaso
mal lavato, il vino è tosto guastato.[fonte 8] Ingegno e capelli, crescono
soltanto con gli anni.[fonte 4] Insieme non vanno la pudicizia e la
beltà.[fonte 4] Inventare è poco, diffondere l'invenzione è tutto.[fonte 4] L
L'abbaiare dei cani non arriva in cielo.[fonte 4] L'abbondanza non lascia
dormire il ricco.[fonte 4] L'abete che fa ombra crede di fare frutti.[fonte 4]
L'abete cresce in altezza, ma la felce cresce in larghezza.[fonte 4] L'abito
non fa il monaco.[43][fonte 2] L'abuso insegna il vero uso.[fonte 4] L'acqua
cheta rovina i ponti.[fonte 2] L'acqua corre al mare.[fonte 149] L'acqua e il
fuoco sono buoni servitori, ma cattivi padroni.[fonte 4] L'acqua fa male e il
vino fa cantare.[fonte 8] L'acqua fa marcire i pali.[fonte 5] L'acqua fa venire
i ranocchi in corpo.[fonte 150] L'acqua di maggio inganna il villano: par che
non piova e si bagna il gabbano[44].[fonte 2] L'acqua non è fatta per
sposarsi.[fonte 9] L'allegria dei cattivi dura poco.[fonte 8] L'allegria è di
ogni male il rimedio universale.[fonte 4] L'allegria è il balsamo della
vita.[fonte 8] L'allegria fa campare, la passione fa crepare.[fonte 8]
L'allegria piace anche a Dio.[fonte 8] L'allegria scaccia ogni male.[fonte 8]
L'allodola vola in alto, ma fa il suo nido in terra.[fonte 8] L'altezza è mezza
bellezza.[45][fonte 2] L'ambizione e la vendetta muoiono sempre di fame.[fonte
4] L'ambizione è nemica della ragione.[fonte 4] L'amore di carnevale muore in
quaresima.[fonte 8] L'amore è cieco.[fonte 2] L'amore è cieco, ma vede
lontano.[fonte 8] L'amore fa passare il tempo e il tempo fa passare
l'amore.[fonte 8] L'amore non è bello se non è litigarello.[fonte 103] L'amore
non si misura a metri.[fonte 8] L'amore passa dentro la cruna di un ago.[fonte
8] L'amore quanto più è bestia, tanto più sublime.[fonte 32] L'amore scalda il
cuore e l'ira fa il poeta.[fonte 8] L'amore senza baci è pane senza sale.[fonte
8] L'animo fa il nobile e non il sangue.[fonte 8] L'anno produce il raccolto,
non il campo.[fonte 4] L'apparenza inganna.[fonte 1] L'appetito non vuol
salsa.[fonte 151] L'appetito vien mangiando.[fonte 1] L'arancia la mattina è
oro, il giorno argento, la sera è piombo.[fonte 2] Con riferimento a chi fa
fatica a digerire le arance. L'arcobaleno la mattina bagna il becco della
gallina; l'arcobaleno la sera buon tempo mena.[fonte 1] L'arte non ha maggior
nemico dell'ignorante.[fonte 4] L'asino e il mulattiere non hanno lo stesso
pensiero.[fonte 4] L'asino non conosce la coda, se non quando non l'ha
più.[fonte 4] L'assai basta e il troppo guasta.[fonte 1] L'avaro in punto di
morte rimpiange i soldi spesi per la bara.[fonte 8] L'avaro lascia eredi
ridenti.[fonte 4] L'avaro non dorme.[fonte 4] L'avaro non vive, vegeta.[fonte
4] L'avversità che fiacca i cuori deboli, ingagliardisce le anime forti.[fonte
8] L'eccesso degli obblighi può fare perdere un amico.[fonte 4] L'eccesso della
gioia divien tristezza, e l'eccesso del vino ubriachezza.[fonte 8] L'eccezione
conferma la regola.[46][fonte 1] L'eclissi di sole avviene di giorno e non di
notte.[fonte 4] L'edera taciturna si arrampica in cima alla quercia.[fonte 4]
L'elefante non cura il morso delle pulci.[fonte 8] L'elemosina non fa
impoverire.[fonte 4] L'eloquenza del cattivo è falso acume.[fonte 8] L'Epifania
tutte le feste porta via.[47][fonte 1] L'erba del vicino è sempre più
verde.[48][fonte 152] L'erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del
re.[fonte 2] L'erba che non voglio, cresce nell'orto.[fonte 4] L'erba non
cresce sulla strada maestra.[fonte 4] L'eredità paterna ai paterni, la materna
ai materni.[fonte 4] L'errore che si confessa è mezzo rimediato.[fonte 4]
L'errore è un cocchiere che conduce sopra una falsa strada.[fonte 4] L'errore è
umano, il perdono divino.[fonte 153] L'esercizio è buon maestro.[fonte 4]
L'esperienza nel mondo conduce alla diffidenza, la diffidenza conduce al
sospetto, il sospetto all'astuzia, l'astuzia alla malvagità e la malvagità a
tutto.[fonte 4] L'esperienza senza il sapere è meglio che il sapere senza
sapienza.[fonte 70] L'estate ce la porta sant'Urbano e l'autunno san
Bartolomeo.[fonte 4] L'estate davanti e l'inverno dietro.[fonte 4] L'estate di
San Martino dura tre giorni e un pochinino.[49][fonte 2] L'estate per chi
lavora, l'inverno per chi dorme.[fonte 4] L'estate è una schiava, l'inverno un
padrone.[fonte 4] L'estate per il povero è migliore dell'inverno.[fonte 4]
L'eternità è una compera lunga.[fonte 4] L'eternità non ha capelli grigi.[fonte
4] L'eterno parlatore né ode né impara.[fonte 4] L'idolo si adora finché non è
infranto.[fonte 4] L'ignorante ha le ali di un'aquila e gli occhi di un
gufo.[fonte 4] L'inchiostro è il mio campo, su cui posso scrivere
valorosamente; la penna, il mio aratro; le parole, la mia semente.[fonte 8]
L'inchiostro è nero, e tinge le dita e la reputazione.[fonte 8] L'inferno e i
tribunali son sempre aperti.[fonte 4] L'ingegno viene con gli anni, e se ne va
con gli anni.[fonte 4] L'ingratitudine converte in ghiaccio il caldo
sangue.[fonte 8] L'ingratitudine è la mano sinistra dell'egoismo.[fonte 8]
L'ingratitudine è un'amara radice da cui crescono amari frutti.[fonte 8]
L'ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.[fonte 8] L'ingratitudine taglia i
nervi al beneficio.[fonte 8] L'intelletto è nella testa e non negli anni.[fonte
4] L'intelletto non viene mai prima degli anni.[fonte 4] L'interesse acceca
anche i galantuomini.[fonte 8] L'inverno al fuoco e l'estate all'ombra.[fonte
4] L'invidia è annessa alla felicità.[fonte 4] L'invidia è un gufo che non può
sopportare la luce della prosperità degli altri.[fonte 4] L'invidia è una
bestia che rode le proprie gambe, quando non ha altro da rodere.[fonte 4]
L'invidia somiglia alla gramigna, che mai non muore, e da per tutto
alligna.[fonte 4] L'ipocrisia intasca il denaro, e la verità va mendica.[fonte
4] L'ira senza forza, non vale una scorza.[fonte 4] L'ira turba la mente e
acceca la ragione.[fonte 4] L'Italia è il paese dove corre latte e miele.[fonte
4] L'Italia è un paradiso abitato da demoni.[fonte 4] L'Italia per nascervi, la
Francia per viverci e la Spagna per morirvi.[fonte 4] L'occasione fa l'uomo
ladro.[fonte 1] L'occhio del padrone ingrassa il cavallo.[fonte 1] L'oggi non
deve calunniare il passato.[fonte 4] L'olivo benedetto vuol trovar pulito e
netto.[50][fonte 2] L'ombra di un principe dev'essere la liberalità.[fonte 4]
L'ordine caccia il disordine.[fonte 8] L'ordine è pane, il disordine è
fame.[fonte 8] L'orgoglio crede che il suo uovo abbia due tuorli.[fonte 8]
L'orgoglio è stoltezza, l'umiltà è saviezza.[fonte 8] L'orgoglio fa colazione
con l'abbondanza, pranza con la povertà e cena con la vergogna.[fonte 154]
L'orologio dell'amore ritarda sempre.[fonte 8] L'ospite è come il pesce: dopo
tre giorni puzza.[fonte 2] L'ospite e il pesce dopo tre dì rincresce.[fonte 1]
L'ozio è il padre di tutti i vizi.[fonte 1] L'ozio in gioventù non è la via
della virtù.[fonte 4] L'uguaglianza e misurar tutti con la stessa spanna, è la
legge della morte.[fonte 8] L'umiliarsi è da saggio, l'avvilirsi è da
bestia.[fonte 8] L'umiliazione va dietro al superbo.[fonte 8] L'umiltà è il
miglior modo di evitare l'umiliazione.[fonte 8] L'umiltà è la corona di tutte
le virtù.[fonte 8] L'umiltà è la madre dell'onore.[fonte 8] L'umiltà è una virtù
che adorna tanto la vecchiaia, quanto la gioventù.[fonte 8] L'umiltà ottiene
spesso più dell'alterigia.[fonte 8] L'umiltà sta bene a tutti.[fonte 8]
L'umiltà sta bene con la castità.[fonte 8] L'unione fa la forza.[fonte 1]
L'uomo avaro e l'occhio sono insaziabili.[fonte 4] L'uomo deve tenere aperta la
bocca a lungo prima che c'entri un colombo arrostito.[fonte 4] L'uomo fu creato
per lavorare, come l'uccello per volare.[fonte 4] L'uomo ordisce e la fortuna
tesse.[fonte 1] L'uomo politico accende una candela a Dio e un'altra al
diavolo.[fonte 8] L'uomo per la parola e il bue per le corna.[fonte 1] L'uomo
propone e Dio dispone.[fonte 1] L'uomo propone e la donna dispone.[fonte 2]
L'uomo si conosce al bicchiere.[fonte 4] L'uomo si giudica male dall'aspetto.[fonte
4] L'usura arricchisce, ma non dura.[fonte 8] L'usura è il miglior apostolo del
diavolo.[fonte 8] L'usura è la figlia primogenita dell'avarizia.[fonte 8]
L'usura è un assassinio.[fonte 8] L'usura è vietata da Dio.[fonte 8] L'usura
veglia quando l'uomo dorme.[fonte 8] L'usuraio arricchisce col sudor dei
poveri.[fonte 8] L'usuraio ha un torchio a sangue.[fonte 8] L'usuraio ingrassa
andando a spasso.[fonte 8] La bestemmia gira gira torna addosso a chi la
tira.[fonte 4] La buona cantina fa il buon vino.[fonte 8] La buona mamma fa la
buona figlia.[fonte 4] La buona sorte ogni vile cuore fa forte.[fonte 8] La
calma è la virtù dei forti.[fonte 2] La capacità si vede nelle
difficoltà.[fonte 4] La carestia è il pane dell'usuraio.[fonte 4] La carne
migliore è quella intorno all'osso.[fonte 4] La carne senz'osso non fa
brodo.[fonte 4] La carrucola non frulla, se non è unta.[fonte 4] La cattiva
sorte porta spesso buona sorte.[fonte 8] La cicala prima canta e poi
muore.[fonte 8] La coda è la più lunga da scorticare.[fonte 1] La comodità fa
l'uomo cattivo.[fonte 8] La compassione è la figlia dell'amore.[fonte 4] La
concordia rende forti i deboli.[fonte 8] La contentezza viene dalle
budella.[fonte 1] La corda troppo tesa si spezza.[fonte 1] La cupidigia rompe
il sacco.[fonte 4] La dieta ogni mal quieta.[fonte 155] La difficoltà sta
nell'iniziare.[fonte 4] La diffidenza aguzza gli occhi.[fonte 4] La diffidenza
è la morte dell'amore.[fonte 4] La diffidenza porta più avanti della
fiducia.[fonte 4] La donna a 15 anni scherza, a 20 brilla, a 25 ama, a 30
brama, a 35 sente, a 40 vuole e a 50 paga.[fonte 8] La donna bisogna praticarla
un giorno, un mese e un'estate per sapere che odore sa.[fonte 8] La donna buona
vale una corona.[fonte 8] La donna deve avere tre m: matrona in strada, modesta
in chiesa, massaia in casa.[fonte 8] La donna e l'orto vogliono un sol
padrone.[fonte 8] La donna ha più capricci che ricci.[fonte 8] La donna oziosa
non può essere virtuosa.[fonte 8] La donna per piccola che sia, vince il
diavolo in furberia.[fonte 8] La donna più sciocca vale due uomini.[fonte 8] La
donna troppo in vista, è di facile conquista.[fonte 8] La fame caccia il lupo
dal bosco.[fonte 1] La fame caccia il lupo dalla tana.[fonte 4] La fame spinge
il lupo nel villaggio.[fonte 4] La fame condisce tutte le vivande.[fonte 4] La
fame non vede la muffa nel pane.[fonte 4] La fame è cattiva consigliera.[fonte
1] La fame, gran maestra, anche le bestie addestra.[fonte 4] La fame muta le
fave in mandorle.[fonte 4] La farina del diavolo va tutta in crusca.[fonte 1]
La fedeltà non è mai rimeritata abbastanza, e l'infedeltà mai abbastanza.[fonte
4] La femmina è cosa mobile per natura.[fonte 4] La fine della passione è il
principio del pentimento.[fonte 129] La fortuna aiuta gli audaci.[fonte 2] La fortuna
del savio ha per figliola la modestia.[fonte 8] La fortuna è cieca.[fonte 2] La
fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede benissimo.[fonte 108] La fretta fa rompere
la pentola.[fonte 8] La fretta è una cattiva consigliera.[fonte 108] La furia
non fu mai buona.[fonte 4] La gallina del vicino sembra un fagiano.[fonte 152]
La gatta frettolosa fece i gattini ciechi.[fonte 1] La gatta grassa fa onore
alla casa.[fonte 121] La gatta, mette il piede davanti alla vacca.[fonte 156]
La gatta non s'accosta alla pentola che bolle.[fonte 38] La gatta vorrebbe
mangiar pesci, ma non pescare.[fonte 157] La gelosia della moglie è la via al
suo divorzio.[fonte 4] La gelosia è il peggiore di tutti i mali.[fonte 4] La
gelosia è una passione che cerca avidamente quel che tormenta.[fonte 4] La
generosità è un muro che non si può alzare più alto di quello che arrivano i
materiali.[fonte 4] La gente ricca alleva male i suoi cani, e la gente povera i
suoi figlioli.[fonte 8] La gente savia non si cura di quel che non può
avere.[fonte 87] La gioventù fugge, e la bellezza sfiorisce.[fonte 4] La
gioventù vuol fare il suo corso.[fonte 4] La lealtà se ne è andata dal mondo e
la dirittura si è messa a dormire.[fonte 4] La lega fa forte i deboli.[fonte 4]
La liberalità è un muro che non si deve rizzare più alto di quello che
comportino i materiali.[fonte 4] La liberalità non sta nel dare molto, ma
saggiamente.[fonte 4] La libertà del povero è di lasciarlo mendicare.[fonte 4]
La libertà è da Dio; le libertà, dal diavolo.[fonte 4] La libertà è più cara
degli occhi e della vita.[fonte 4] La libertà fila con le sue mani il filo
della sua tenda.[fonte 4] La lingua batte dove il dente duole.[fonte 1] La
lingua non ha osso e sa rompere il dosso.[fonte 4] La lingua spagnola è la più
amabile; quando il diavolo tentò Eva, le parlo in spagnolo.[fonte 8] La lode
propria puzza, quella degli amici zoppica.[fonte 4] La luna di gennaio è la
luna del vino.[fonte 2] La luna è bugiarda: quando fa la C diminuisce, e quando
fa la D cresce[fonte 158] La luna non cura l'abbaiar dei cani.[fonte 2] La luna
regge il lume ai ladri.[fonte 158] La luna, se non riscalda, illumina.[fonte
158] La Lombardia è il giardino del mondo.[fonte 8] La madre del peggio è
sempre incinta.[fonte 159] La madre degli imbecilli è sempre incinta.[fonte
160] La madre dei fessi è sempre incinta.[fonte 160] La magnificenza spesso
copre la povertà.[fonte 4] La mala erba non muore mai.[fonte 1] La mala nuova
la porta il vento.[fonte 1] La malerba cresce presto.[fonte 2] La malinconia e
le cure fanno invecchiare anzitempo.[fonte 4] La mercanzia rara è meglio che
buona.[fonte 8] La miglior difesa è l'attacco.[fonte 1] La minestra lunga sa di
fumo.[fonte 8] La modestia è il dattero che matura raramente sull'albero della
ricchezza.[fonte 8] La modestia è madre d'ogni creanza.[fonte 8] La moglie è la
chiave di casa.[fonte 8] La morte ci rende uguali nella sepoltura, disuguali
nell'eternità.[fonte 8] La necessità aguzza l'ingegno.[fonte 2] La necessità fa
più ladri che galantuomini.[fonte 8] La notte è fatta per gli allocchi.[fonte
8] La notte porta consiglio.[fonte 1] La novella non è bella, se non c'è la
giuntarella.[fonte 8] La pancia del buongustaio è il cimitero dei cibi
buoni.[fonte 8] La parola del ricco è simile al sole, e quella del povero è
simile al vapore.[fonte 8] La pazienza è la virtù dei forti.[fonte 9] La
pazienza è una buon'erba, ma non nasce in tutti gli orti.[fonte 88] La pecora
che se ne va sola, il lupo la mangia.[fonte 91] La peggio ruota è quella che
stride.[fonte 8] La peggior carne da conoscere è quella dell'uomo.[fonte 4] La
penitenza corre dietro al peccato.[fonte 8] La pentola vuota è quella che
suona.[fonte 8] La pianta si conosce dal frutto.[fonte 1] La pigrizia e
l'impudicizia sono sorelle.[fonte 8] La pittura è una poesia tacita, e la
poesia una pittura loquace.[fonte 8] La più bell'ora per il mangiare è quella
in cui si ha fame.[fonte 8] La polenta è utile per quattro cose: serve da
minestra, serve da pane, sazia e scalda le mani.[fonte 8] La povertà è priva di
molte cose, l'avarizia è priva di tutto.[fonte 56] La prima acqua è quella che
bagna.[fonte 1] La prima gallina che canta ha fatto l'uovo.[fonte 108] La prima
eredità al primo figlio, l'ultima eredità all'ultimo figlio.[fonte 4] La
provvidenza quel che toglie rende.[fonte 4] La pulce che esce di dietro
l'orecchio con il diavolo si consiglia.[fonte 8] La puttana e la lattuga una
stagione dura.[fonte 8] La rana è usa ai pantani, se non ci va oggi ci andrà
domani.[fonte 8] La rana non morde, perché non ha denti.[fonte 8] La rana, o
salta o piscia, ma mai non sbrana.[fonte 8] La razza comincia dalla
bocca.[fonte 8] La roba dei pazzi è la prima ad andarsene.[fonte 8] La ruota
della fortuna gira.[fonte 4] La ruota della fortuna non è sempre una.[fonte 4]
La scorza fa bella la castagna.[fonte 4] La scimmia è sempre scimmia, anche
vestita di seta.[fonte 8] La semplicità senza accortezza è pura pazzia.[fonte
8] La sera leoni e la mattina coglioni.[fonte 2] La sorte è come ognuno se la
fa.[fonte 8] La speranza è cattivo denaro.[fonte 161] La speranza è il pane dei
poveri.[fonte 2] La speranza è il patrimonio dei poveri.[fonte 2] La speranza è
il sogno dell'uomo desto.[fonte 2] La speranza è l'ultima a morire.[fonte 2] La
speranza è la miglior consolazione nella miseria.[fonte 161] La speranza è la
miglior musica del dolore.[fonte 161] La speranza è la ricchezza dei
poveri.[fonte 2] La speranza è sempre verde.[fonte 2] La speranza è un balsamo
per i cuor piagati.[fonte 161] La speranza è un sogno nella veglia.[fonte 2] La
speranza infonde coraggio anche al codardo.[fonte 161] La speranza ingrandisce,
l'esperienza rimpicciolisce.[fonte 57] La superbia è figlia
dell'ignoranza.[fonte 1] La superbia mostra l'ignoranza.[fonte 162] La superbia
va a cavallo e torna a piedi.[fonte 1] La terra è madre di tutti gli uomini ed
anche sepoltura.[fonte 8] La troppa umiltà vien dalla superbia.[fonte 8] La
vanagloria è un fiore che mai non porta frutta.[fonte 163] La vera libertà è
non servire al vizio.[fonte 4] La verità è nel vino.[fonte 8] La verità viene
sempre a galla.[fonte 2] La veste copre gran difetti.[fonte 55] La via
dell'inferno è lastricata di buone intenzioni.[fonte 1] La vipera morta non
morde seno, ma pure fa male coll'odor del veleno.[fonte 8] La virtù sta nel
mezzo.[51][fonte 164] La vita è breve e l'arte è lunga.[52][fonte 55] La vita è
già mezzo trascorsa anziché si sappia che cosa sia.[fonte 165] La volpe si
conosce dalla coda.[fonte 4] Lamentarsi, supplicare e bere acqua è lecito a
tutti.[fonte 8] Latte e vino, tossico fino.[fonte 8] Lavora come se avessi a
campare ognora, adora come avessi a morire allora.[fonte 4] Lavoro non ingrassò
mai bue.[fonte 4] Le allegrezze non durano.[fonte 8] Le belle penne rendono
bello l'uccello.[fonte 4] Le bellezze durano fino alle porte, la bontà fino alla
morte.[fonte 4] Le braccia e le mani del povero appartengono al ricco.[fonte 8]
Le bugie hanno le gambe corte.[fonte 1] Le bugie sono lo scudo degli uomini
dappoco.[fonte 4] Le chiacchiere non fanno farina.[fonte 1] Le colombe che
rimangono in colombaia, sono sicure dal nibbio.[fonte 8] Le cose lunghe
diventano serpi.[fonte 1] Le cose lunghe prendono vizio.[fonte 1] Le dita della
mano sono disuguali.[fonte 8] Le donne hanno lunghi i capelli e corti i
cervelli.[fonte 4] Le donne hanno quattro malattie all'anno, e tre mesi dura
ogni malanno.[fonte 8] Le bestie vanno trattate da bestie.[fonte 8] Le cattive
nuove sono le prime ad arrivare.[fonte 8] Le cattive nuove volano.[fonte 1] Le
chiavi ed i lucchetti non si fanno per le dita fidate.[fonte 8] Le disgrazie
non vengono mai sole.[fonte 1] Le disgrazie sono come le ciliegie: una tira
l'altra.[53] Le donne hanno lunghi i capelli e corti i cervelli.[fonte 166] Le
donne hanno sette anime... e mezza.[fonte 8] Le donne ne sanno una più del
diavolo.[fonte 2] Le donne piglian bene le pulci.[fonte 8] Le lacrime sono le
armi delle donne.[fonte 4] Le leghe e le corde fradice non durano a
lungo.[fonte 4] Le malattie ci dicono quel che siamo.[fonte 88] Le montagne
stanno ferme, gli uomini s'incontrano.[fonte 167] Le ore del mattino hanno
l'oro in bocca.[fonte 1] Le parole sono femmine e i fatti sono maschi.[fonte 1]
Le piante che fruttano troppo presto, si seccano.[fonte 8] Le querce non fanno
limoni.[fonte 2] Le ragazze sono d'oro, le sposate d'argento, le vedove di rame
e le vecchie di latta.[fonte 8] Le rane han perso la coda perché non seppero
chiedere aiuto.[fonte 8] Le rose cascano, le spine restano.[fonte 168] Le teste
di legno fan sempre del chiasso.[fonte 55] Le Trentine vengono giù pollastre e
se ne vanno sù galline.[fonte 8] Le vie della provvidenza sono infinite.[fonte
1] Le vie del Signore sono infinite.[fonte 1] Leggi, rileggi e pondera.[fonte
8] Lingua cheta e fatti parlanti.[fonte 4] Lo sbadiglio non vuol mentire: o che
ha sonno o che vorrebbe dormire, o che ha qualche cosa che non può dire.[fonte
8] Lo scarafaggio corre sempre allo sterco.[fonte 8] Lo scimunito parla col
dito.[fonte 8] Lo scorpione dorme sotto ogni lastra.[fonte 8] Lo smargiasso
ciancia in guerra, il valente combatte muto.[fonte 8] Loda il gran campo e il
piccolo coltiva.[fonte 169] Loda il monte e tieniti al piano.[fonte 2] Loda il
pazzo e fallo saltare, se non è pazzo lo farai diventare.[fonte 8] Lontano
dagli occhi, lontano dal cuore.[fonte 170] Lontan dagli occhi, lontan dal
cuore.[fonte 2] Luna di grappoli a gennaio luna di racimoli a
febbraio.[54][fonte 2] Lunga lingua, corta mano.[fonte 8] Lungo come la
quaresima.[55][fonte 2] Luglio dal gran caldo, bevi bene e batti saldo.[fonte
16] Lungo digiuno caccia la fame.[fonte 4] Lupo non mangia lupo.[fonte 2] M Ma
in premio d'amore amor si rende.[fonte 33] Maggio ortolano, molta paglia e poco
grano.[fonte 16] Maggiore il santo, maggiore la sua umiltà.[fonte 8] Mai gli
uomini sanno essere abbastanza riconoscenti verso gli inventori.[fonte 4] Mal
comune mezzo gaudio.[fonte 2] Mal può rendere ragion del proprio fatto chi
lardo o pesce lascia in guardia al gatto.[fonte 65] Mal si giudica il cavallo
dalla sella.[fonte 3] Male che si vuole non duole.[fonte 9] Male ignoto si teme
doppiamente.[fonte 8] Male non fare, paura non avere.[fonte 2] Male voluto non
fu mai troppo.[fonte 57] Maledetto il ventre che del pan che mangia non si
ricorda niente.[fonte 8] Manca tanto la pazienza ai poveri, quanto la
compassione ai ricchi.[fonte 8] Mangiar molto e far buona digestione, è un
privilegio che han poche persone.[fonte 8] Mano dritta e bocca monda possono
andare per tutto il mondo.[fonte 4] Marinaio genovese, mercante
fiorentino.[fonte 8] Martello d'oro non rompe le porte del cielo.[fonte 47]
Marzo è pazzo.[fonte 16] Marzo pazzerello guarda il sole e prendi
l'ombrello.[fonte 2] Marzo molle, gran per le zolle.[fonte 16] Mazza e pane
fanno i figli belli; pane senza mazza fa i figli pazzi.[fonte 171] Medico
vecchio e chirurgo giovane.[fonte 172] Medico vecchio e medicina nuova.[fonte
2] Chirurgo giovane e medico anziano.[56] Mediocre bestiame ben pasciuto è di
maggior vantaggio che molto bestiame mal mantenuto.[fonte 173] Meglio andare a
letto senza cena, che alzarsi con debiti.[fonte 4] Meglio aperto rimprovero, che
odio segreto.[fonte 8] Meglio dietro agli uccelli, che dietro ai signori.[fonte
8] Meglio essere ben educato, che nascere nobile.[fonte 4] Meglio essere
invidiati che compatiti.[fonte 174] Meglio fare la serva in casa propria, che
la padrona in casa altrui.[fonte 4] Meglio fave in libertà, che capponi in
schiavitù.[fonte 8] Meglio fringuello in man che tordo in frasca.[fonte 2]
Meglio fringuello in tasca che tordo in frasca.[fonte 2] Meglio il marito
senz'amore, che con gelosia.[fonte 75] Meglio l'uovo oggi che la gallina
domani.[fonte 1] Meglio mangiar carote in pace che molte pietanze in
disunione.[fonte 8] Meglio mendicante che ignorante.[fonte 124] Meglio pane con
amore, che gallina con dolore.[fonte 4] Meglio poco che niente.[fonte 1] Meglio
soli che male accompagnati.[fonte 1] Meglio tardi che mai.[fonte 1] Meglio un
asino vivo che un dottore morto.[fonte 1] Meglio un fiorino guadagnato, che
cento ereditati.[fonte 4] Meglio un magro accordo che una grassa
sentenza.[fonte 2] Meglio un morto in casa che un pisano all'uscio.[fonte 2]
Meglio una festa che cento festicciole.[fonte 1] Meglio una volta arrossire che
mille impallidire.[fonte 8] Meglio vivere ben che vivere a lungo.[fonte 64]
Meno siamo meglio stiamo.[fonte 57] Mente lieta, vita quieta e moderata
dieta.[fonte 2] Merito non conosciuto poco vale.[fonte 8] Milan può far, Milan
può dir, ma non può far dell'acqua vin.[fonte 8] Mille errori sono più
facilmente pronunciati che una verità.[fonte 4] Moglie e buoi dei paesi
tuoi.[fonte 1] Donne e buoi dei paesi tuoi.[fonte 2] Mogli che non
contraddicono e galline che facciano le uova d'oro, sono uccelli rari.[fonte 8]
Moglie maglio.[fonte 1] Molte cose si giudicano impossibili a farsi prima che
siano fatte.[fonte 4] Molte mani fanno l'opera leggera.[fonte 4] Molte paglie
unite possono legare un elefante.[fonte 8] Molte volte la belleza più adorabile
si unisce alla stupidaggine più insopportabile.[fonte 4] Molte volte si perde
per negligenza quello che si è guadagnato con giustizia.[fonte 4] Molti hanno
buone carte in mano, ma non le sanno giocare.[fonte 4] Molti inventano oro con
la bocca ed hanno piombo alle mani e ai piedi.[fonte 4] Molti parlano d'Orlando
anche se non videro mai il suo brando.[fonte 8] Molti sfuggono alla pena, ma
non ai rimorsi della coscienza.[fonte 8] Molti si immaginano di avere il
pulcino, che non hanno ancora l'uovo.[fonte 4] Molti si lamentano del buon
tempo.[fonte 8] Molti sono i verseggiatori, pochi i poeti.[fonte 8] Molti
squartano un gatto e giurano che era un leone.[fonte 8] Molti voti fanno
l'abate.[fonte 4] Molto denaro, molti amici.[fonte 4] Molto fumo e poco
arrosto.[fonte 1] Molto può nuocere una piccola negligenza.[fonte 8] Morire di
fame in una madia di pane.[fonte 4] Morta la serpe, spento il veleno.[fonte 8]
Morto un papa se ne fa un altro.[fonte 1] Mulo buon mulo, ma cattiva
bestia.[fonte 8] Muore il ricco, gli fanno il funerale; muore il povero,
nessuno gli dice: vale.[fonte 8] Muove la coda il cane non per te, ma per il
pane.[fonte 4] N Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi.[fonte 2] Né col
capretto né con l'agnello, si adopera il coltello.[fonte 8] Né di venere, né di
marte non si sposa né si parte, né si dà principio all'arte.[fonte 2] Né donna
né tela al lume di candela.[fonte 8] Ne uccide più la lingua che la spada.[fonte
2] Ne uccide più la gola che la spada.[fonte 2] Necessità fa legge e
tribunale.[fonte 2] Negli ordini pari, i pareri sono dispari.[fonte 8] Nel bere
e nel camminare si conoscono le donne.[fonte 8] Nel bosco tagliato non ci
stanno assassini.[fonte 8] Nel dubbio astieniti.[fonte 2] Nel monte di Brianza,
senza vin non si danza.[fonte 8] Nel paese degli zoppi, zoppicar non è
vergogna.[fonte 8] Nel regno dei ciechi anche un orbo è re.[fonte 175] Nel
regno dei ciechi anche un guercio è re.[fonte 175] Nel regno di Dio, poveri e
ricchi sono uguali.[fonte 8] Nell'autunno non bisogna più sognare di rose e
tulipani.[fonte 4] Nell'estate si deve pensare all'inverno, e nella gioventù
alla vecchiaia.[fonte 4] Nell'eternità si arriva sempre in tempo.[fonte 4] Nell'inverno
il pazzo sogna rose, e nell'estate il savio le raccoglie.[fonte 4] Nella botte
piccola c'è il buon vino.[fonte 8] Nella felicità ragione, nell'infelicità
pazienza.[fonte 8] Nella gotta, il medico non vede gotta.[fonte 176] Nelle
sventure si conosce l'amico.[fonte 1] Nessuna corona è più bella di quella
dell'umiltà.[fonte 8] Nessuna fortezza è così salda che non si lasci
conquistare dall'oro.[fonte 4] Nessuna ingiustizia rimane impunita.[fonte 4]
Nessuna mela è così bella che non abbia qualche difetto.[fonte 4] Nessuna
nuova, buona nuova.[fonte 1] Nessuno è profeta in patria.[57][fonte 177]
Nessuno può dare quello che non ha.[fonte 4] Nessuno può difendersi dalla
beffa.[fonte 4] Ne uccide più Bacco che Marte.[fonte 4] Neve di Dicembre dura
fin che dura la brina.[fonte 8] Niente è più bello di una faccia allegra.[fonte
8] Niuna guardia è migliore di quella che una donna fa a se stessa.[fonte 4]
Non accettare i rimproveri o consigli da chi educare non seppe i propri
figli.[fonte 4] Non aspettar che l'abete porti pomi.[fonte 4] Non basta esser
galantuomo, bisogna anche esser conosciuto per tale.[fonte 8] Non bisogna fare
il diavolo più nero di quello che è.[fonte 8] Non bisogna fasciarsi il capo
prima di romperselo.[fonte 8] Non bisogna mai usare due pesi e due
misure.[fonte 8] Non bisogna scuotere l'orzo dal sacco prima di avere il
frumento.[fonte 8] Non c'è alcuno così povero che non possa aiutare, né alcuno
così ricco che non abbia bisogno d'aiuto.[fonte 8] Non c'è cosa più triste
sulla terra dell'uomo ingrato.[fonte 8] Non si muove foglia che Dio non
voglia.[fonte 1] Non c'è affanno senza danno.[fonte 4] Non c'è Carnevale senza
luna di febbraio.[fonte 2] Non c'è due senza tre.[fonte 1] Non c'è due senza
tre e il quarto vien da sé.[fonte 2] Non c'è cosa così cattiva che non sia
buona a qualche cosa.[fonte 4] Non c'è eretico che non abbia la sua
credenza.[fonte 4] Non c'è fumo senza arrosto.[fonte 1] Non c'è gallina né
gallinaccia che di gennaio l'uova non faccia.[fonte 2] Non c'è intoppo per
avere, più che chiedere e temere.[fonte 178] Non c'è male senza bene.[fonte 4]
Non c'è miglior cieco di quello che non vuole vedere.[fonte 4] Non c'è pane
senza pena.[fonte 1] Non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire.[fonte 2]
Non c'è regola senza eccezioni.[fonte 1] Non c'è rosa senza spine.[fonte 2] Non
cade foglia che Dio non voglia.[fonte 1] Non ci fu mai frettoloso che non fosse
pazzo.[fonte 8] Non ci rimane nessuna vigna da vendemmiare, e né meno nessuna
donna da maritare.[fonte 179] Non credere a donna, quand'anche sia morta.[fonte
4] Non destare il can che dorme.[fonte 1] Non dire quattro se non l'hai nel
sacco.[fonte 2] Non dire gatto se non ce l'hai nel sacco.[fonte 180] Non è arte
il giocare, ma lo smettere.[fonte 4] Non è bello ciò che è bello, ma è bello
ciò che piace.[fonte 181] Non è bene esser poeta nel villaggio.[fonte 8] Non è
bene riporre denaro in una cassa di cui non si ha la chiave.[fonte 4] Non è col
dire "miel, miel," che la dolcezza viene in bocca.[fonte 117] Non è
contento quel che si lamenta.[fonte 8] Non è in nessun luogo chi è in ogni
luogo.[fonte 4] Non è mai gran gagliardia, senza un ramo di pazzia.[fonte 8]
Non è povero, se non chi si crede tale.[fonte 8] Non è sempre savio chi non sa
esser qualche volta pazzo.[fonte 8] Non è sì tristo cane, che non meni la
coda.[fonte 182] Non è tutto oro quel che luccica.[fonte 183] Non è tutto oro
quel che riluce.[fonte 183] Non esiste amore senza gelosia.[fonte 8] Non fa la
stessa viva sensazione il solletico a tutte le persone.[fonte 8] Non facendo niente,
più pena si sente.[fonte 4] Non far mai bene, non avrai mai male.[fonte 8] Non
fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te.[58][fonte 2] Non fare
il male ch'è peccato, non fare il bene ch'è sprecato.[fonte 1] Non fare il
passo più lungo della gamba.[fonte 2] Non gira il corvo che non sia vicina la
carogna.[fonte 8] Non lodare il bel giorno prima di sera.[fonte 4] Non mettere
il carro davanti ai buoi.[fonte 184] Non mettere il rasoio in mano a un
pazzo.[fonte 8] Non mettere un rasoio in mano a un pazzo.[fonte 185] Non mi
morse mai scorpione, ch'io non mi medicassi col suo olio.[fonte 8] Non nominar
la corda in casa dell'impiccato.[fonte 1] Non ogni abisso ha un
parapetto.[fonte 4] Non ogni lettera va alla posta, non ogni domanda vuole risposta.[fonte
8] Non pensa il cuore quel che dice la bocca.[fonte 4] Non perde il cervello se
non chi l'ha.[fonte 8] Non rimandare a domani quello che puoi fare oggi.[fonte
1] Non sempre va d'accordo la campana dell'orologio con la meridiana.[fonte 8]
Non serve dire «Di tal acqua non berrò».[fonte 4] Non si campa d'aria.[fonte 4]
Non si comincia bene se non dal cielo.[fonte 4] Non si dà fumo senza
fuoco.[fonte 4] Non si entra in Paradiso a dispetto dei Santi.[fonte 1] Non si
fa niente per niente.[fonte 1] Non si fan nozze coi fichi secchi.[fonte 186]
Non si finisce mai di imparare.[fonte 4] Non si insegna a nuotare ai
pesci.[fonte 4] Non si legge mai libro senza imparare qualcosa.[fonte 4] Non si
possono cavar le castagne dal fuoco colla zampa del gatto.[fonte 187] Non si
può avere la botte piena e la moglie ubriaca.[fonte 1] Non si può bere e
fischiare.[fonte 77] Non si sa mai per chi si lavora.[fonte 4] Non si sta mai
tanto bene che non si possa star meglio, né tanto male che non si possa star
meglio.[fonte 8] Non sono cacciatori tutti quelli che portano il fucile.[fonte
4] Non sono uguali tutti i giorni.[fonte 4] Non ti far povero a chi non ha da
farti ricco.[fonte 8] Non ti fidar d'un tratto, di grazia o di bontà.[fonte 8]
Non ti vantar farfalla, tuo padre era un bruco.[fonte 8] Non tutte le ciambelle
riescono col buco.[fonte 1] Non tutte le lacrime vengono dal cuor.[fonte 4] Non
tutti i matti rompono i piatti.[fonte 8] Non tutti i pazzi stanno al
manicomio.[fonte 8] Non tutti possiamo abitare in piazza.[fonte 8] Non tutti
sono ammalati quelli che sono in letto.[fonte 8] Non tutti sono infelici come
credono.[fonte 8] Non tutti sono infermi quelli che gridano ahi![fonte 8] Non
tutti vedono la serpe che sta nascosta sotto l'erba.[fonte 4] Non tutto il male
vien per nuocere.[fonte 2] Non v'è mai tanta pace in convento, come quando i
frati portano tonache uguali.[fonte 8] Non vi è donna senza amore.[fonte 8] Non
vi è inganno che non si vinca con l'inganno.[fonte 4] Non vi è lino senza
resca, né donna senza pecca.[fonte 4] Non vi è nulla che ricercando non si
possa penetrare.[fonte 4] Non vi è peggior burla che la vera.[fonte 4] Non vi
fu mai gatta che non corresse ai topi.[fonte 8] Non vendere la pelle dell'orso
prima di averlo ucciso.[fonte 1] Non vo' dormire né fare la guardia.[fonte 4]
Notte, amore e vino fanno spesso l'uomo meschino.[fonte 8] Novembre
vinaio.[fonte 16] Nulla è così buono che a lungo andare non venga a noia.[fonte
8] Nuovo padrone, nuova legge.[fonte 58] Nutri il corvo e ti caverà gli
occhi.[fonte 8] Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.[fonte 8] O O taci, o
di' cosa migliore del silenzio.[59][fonte 8] Occhio che piange cuore che
duole.[fonte 2] Occhio che piange cuore che sente.[fonte 2] Occhio non vede,
cuore non duole.[fonte 2] Occhio per occhio, dente per dente.[60][fonte 2] Olio
di lucerna ogni mal governa.[fonte 2] Oggi a me domani a te.[fonte 2] Oggi
allegria, domani malinconia.[fonte 8] Oggi creditore, domani debitore.[fonte 8]
Oggi fresco e forte, domani nella morte.[fonte 8] Oggi in figura, domani in
sepoltura.[fonte 8] Oggi in pace, domani in guerra.[fonte 8] Oggi mercante,
domani mendicante.[fonte 8] Oggi pioggia e doman vento, tutto cambia in un
momento.[fonte 8] Ogni Abele ha il suo Caino.[fonte 4] Ogni animale per non
morir s'aiuta.[fonte 188] Ogni bel gioco dura poco.[fonte 1] Ogni bella scarpa
diventa ciabatta, ogni bella donna diventa nonna.[fonte 8] Ogni bene infine
svanisce, ma la fama non perisce.[fonte 4] Ogni cosa ch'è rara, suol essere più
cara.[fonte 8] Ogni disuguaglianza, l'amore uguaglia.[fonte 4] Ogni erba si
conosce dal seme.[fonte 4] Ogni fatica merita ricompensa.[fonte 4] Ogni gatta
ha il suo febbraio.[fonte 8] Ogni giorno non è festa.[fonte 4] Ogni giorno non
si fanno nozze.[fonte 4] Ogni grillo si crede cavallo.[fonte 8] Ogni lasciata è
persa.[fonte 1] Ogni legno ha il suo tarlo.[fonte 1] Ogni lucciola non è un
fuoco.[fonte 8] Ogni lumaca vede le corna delle altre.[fonte 189] Ogni matto fa
il suo atto.[fonte 8] Ogni medaglia ha il suo rovescio.[fonte 1] Ogni pazzo
vuol dar consiglio.[fonte 8] Ogni pelo ha la sua ombra.[fonte 4] Ogni popolo ha
il governo che si merita.[fonte 190] Ogni promessa è debito.[fonte 1] Ogni rana
si crede gran dama.[fonte 8] Ogni rana si crede una Diana.[fonte 8] Ogni
scimmia trova belli i suoi scimmiotti.[fonte 8] Ogni serpe ha il suo
veleno.[fonte 8] Ogni simile ama il suo simile.[fonte 1] Ogni uccello fa il suo
verso.[fonte 8] Ogni uccello canta il suo verso.[fonte 191] Ognun patisce del
suo mestiere.[fonte 192] Ognuno trascura per sé i godimenti dell'arte sua,
quasi venutigli a noia perché ci ha guardato dentro: il cuoco non è mai
ghiotto, il calzolaio va colle scarpe rotte. Ognun per sé e Dio per
tutti.[fonte 1] Ognun vede le proprie oche come cigni.[fonte 8] Ognuno all'arte
sua e il lupo alle pecore.[fonte 2] Ognuno ama sentirsi lodare.[fonte 4] Ognuno
che ha un gran coltello, non è un boia.[fonte 4] Ognuno fa degli errori.[fonte
4] Ognuno faccia il suo mestiere.[fonte 2] Ognuno ha i suoi gusti.[fonte 193]
Ognuno ha il suo affanno.[fonte 8] Ognuno ha la sua croce.[fonte 1] Ognuno tira
l'acqua al suo mulino.[fonte 2] Orto, uomo morto.[fonte 169] Orzo e paglia
fanno il caval da battaglia.[fonte 8] Ospite raro ospite caro.[fonte 1] Ottobre
mostaio.[fonte 16] P Paese che vai usanza che trovi.[fonte 1] Paga il giusto
per il peccatore.[fonte 1] Pancia affamata, vita disperata.[fonte 4] Pancia
piena non crede a digiuno.[fonte 1] Pancia vuota non sente ragioni.[fonte 1]
Parla all'amico come se ti avesse a diventar nemico.[fonte 8] Pane finché dura,
vino con misura.[fonte 194] Parenti, amici, pioggia, dopo tre giorni vengono a
noia.[fonte 8] Parenti serpenti.[fonte 1] Parenti serpenti, cugini assassini,
fratelli coltelli.[fonte 2] Parere e non essere è come filare e non
tessere.[fonte 2] Parlare francese come una vacca spagnola.[fonte 4] Passata la
festa gabbato lo santo.[fonte 1] Passato il fiume scordato il santo.[fonte 4]
Patti chiari, amici cari.[fonte 2] Patti chiari amicizia lunga.[fonte 2] Pazzi
e buffoni hanno pari libertà.[fonte 8] Pazzo è colui che bada ai fatti
altrui.[fonte 8] Pazzo è quel prete che biasima le sue reliquie.[fonte 195]
Pazzo per natura, savio per scrittura.[fonte 8] Peccati vecchi, penitenza
nuova.[fonte 8] Peccato celato è mezzo perdonato.[61][fonte 196] Peccato
confessato è mezzo perdonato.[fonte 8] Per amore anche una donna onesta, può
perdere la testa.[fonte 8] Per chi vuol esser libero, non c'è catena che
tenga.[fonte 8] Per essere amabili, bisogna amare.[fonte 9] Per fare
l'elemosina non manca mai la borsa.[fonte 4] Per il galantuomo non ci sono
leggi.[fonte 8] Per il saggio le lacrime delle donne sono come gocce
salate.[fonte 4] Per imparare qualche cosa, non è mai troppo tardi.[fonte 4]
Per l'abbondanza del cuore la bocca parla.[fonte 4] Per l'oro, l'abate vende il
convento.[fonte 4] Per la santa Candelora[62] dell'inverno siamo fora, ma se
piove o tira vento, dell'inverno siamo dentro.[fonte 2] Per la santa Candelora
se tempesta o se gragnola dell'inverno siamo fora; ma se è sole o solicello
siamo solo a mezzo inverno.[fonte 2] Per natura tutti gli uomini sono simili;
per l'educazione diventano interamente diversi.[fonte 4] Per ogni civetta che
si sente cantare sul tetto, non bisogna metter lutto.[fonte 8] Per quanto
alletti la bellezza di un fiore, nessuno lo coglie se ha cattivo odore.[fonte
4] Per san Lorenzo la noce è fatta.[fonte 2] Per San Lorenzo la noce si spacca
nel mezzo.[fonte 197] Per san Lorenzo piove dal cielo carbone ardente.[fonte 2]
Per Santa Caterina [25 novembre], le bestie fuori dalla cascina.[fonte 198] Per
trovare ingiustizie non occorrono lanterne.[fonte 4] Per un chiodo si perde un
ferro, e per un ferro un cavallo.[fonte 8] Per un punto Martin perse la
cappa.[63][fonte 2] Per una scopa formano un mercato tre donne e assordan tutto
il vicinato.[fonte 8] Perde le lacrime chi piange davanti al giudice.[fonte 4]
Perdona a tutti, ma non a te.[fonte 199] Perdonare è da uomini, scordare è da
bestie.[fonte 199] Pesce che va all'amo, cerca d'esser gramo.[fonte 8] Pianta a
cui spesso si muta luogo, non prende vigore.[fonte 4] Piccola fiamma non fa
gran luce.[fonte 8] Piccola pietra rovesciar può il carro.[fonte 8] Piccola
scintilla può bruciar la villa.[fonte 8] Piccole ruote portano gran pesi.[fonte
8] Piccolo ago scioglie stretto nodo.[fonte 8] Piglia il bene quando viene, ed
il male quando conviene.[fonte 8] Piove sempre sul bagnato.[fonte 2] Pisa, pesa
per chi posa.[fonte 8] Più alta la condizione, più si deve essere umili.[fonte
8] Più briccone, più fortunato.[fonte 4] Più il fiume è profondo, più scorre il
silenzio.[fonte 4] Più si chiacchiera, meno si ama.[fonte 8] Piuttosto un asino
che porti, che un cavallo che butti in terra.[fonte 87] Poca brigata vita
beata.[fonte 1] Poeta si nasce, oratori si diventa.[fonte 200] Poeti e Santi
campano tutti quanti.[fonte 201] Poeti, pittori e pellegrini a fare e a dire
sono indovini.[fonte 8] Polenta e latte bollito, in quattro salti è
digerito.[fonte 8] Portare frasconi a Vallombrosa.[fonte 4] Prendi la bruna per
amante e la bionda per moglie.[fonte 8] Preghiera di gatto e brontolio di pulce
non arrivano in cielo.[fonte 131] Preghiera umile entra in cielo.[fonte 8]
Presto e bene, raro avviene.[fonte 8] Prete spretato e cavolo riscaldato, non
fu mai buono.[64] Prevedere per provvedere e prevenire.[fonte 202] Prima della
morte non chiamare nessuno felice.[fonte 4] Prima di ammogliarsi bisogna fare
il nido.[fonte 4] Prima di andare alla pesca esamina ben bene la tua
rete.[fonte 8] Prima di domandare, pensa alla risposta.[fonte 203] Prima
lusingare e poi graffiare, è arte dei gatti.[fonte 8] Prodigo e bevitor di
vino, non fa né forno né mulino.[fonte 8] Pugliesi, cento per forca e un per
paese.[fonte 8] Puoi ben drizzare il tenero virgulto, non l'albero già fatto
adulto.[fonte 4] Putto in vino e donna in latino non fecero mai buon
fine.[fonte 4] Q Qual proposta tal risposta.[fonte 1] Qualche intervallo il
pazzo ha di saviezza, qualche intervallo il savio ha di stoltezza.[fonte 8]
Qualche volta anche Omero sonnecchia.[fonte 204] Quale uccello, tale il
nido.[fonte 205] Quand'anche si trapiantassero in paradiso, i cardi non
porterebbero mai rose.[fonte 8] Quando arriva la gloria svanisce la
memoria.[fonte 2] Quando c'è l'esercito, si trova anche il generale.[fonte 4]
Quando c'è la salute c'è tutto.[fonte 57] Quando canta la rana, la pioggia non
è lontana.[fonte 8] Quando ci sono molti galli a cantare non si fa mai
giorno.[fonte 16] Quando è alta la passione, è bassa la ragione.[fonte 206]
Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla
palma.[fonte 8] Quando fischia l'orecchio dritto, il cuore è afflitto;
quando il manco, il cuore è franco.[fonte 8] Quando gli eretici si
accapigliano, la chiesa ha pace.[fonte 4] Quando il colombo ha il gozzo pieno,
le vecce gli sembrano amare.[fonte 8] Quando il culo è avvezzo al peto non si
può tenerlo cheto.[fonte 2] Quando il fanciullo è satollo anche il miele non ha
più gusto.[fonte 4] Quando il fanciullo ha sette anni, la ragione spunta in
lui.[fonte 207] Quando il gatto lecca il pelo viene acqua giù dal cielo.[fonte 38]
Quando il gatto non c'è i topi ballano.[fonte 1] Quando il gatto non può
arrivare al lardo dice che è rancido.[fonte 8] Quando il gatto si lecca e si
sfrega le orecchie con la zampina, pioverà prima che sia mattina.[fonte 8]
Quando il gozzo è pieno, le ciliegie sono acerbe.[fonte 8] Quando il grano
ricasca, il contadino si rizza.[fonte 57] Quando il grano va a male, bisogna
ringraziare Dio per la paglia.[fonte 8] Quando il lardo è divorato, poco val
cacciare il gatto.[fonte 8] Quando il mandorlo non frutta, la semente ci va
tutta.[fonte 8] Quando il padrone zoppica, il servo non va diritto.[fonte 8]
Quando il sole splende, non ti curar della luna.[fonte 8] Quando il tempo è
chiaro in autunno, vento nell'inverno.[fonte 4] Quando in autunno sono grassi i
tassi e le lepri, l'inverno è rigoroso.[fonte 4] Quando l'amore è a pezzi non
c'è alcuna colla che lo riappiccichi.[fonte 8] Quando l'angelo diventa diavolo,
non c'è peggior diavolo.[fonte 4] Quando l'avaro muore, il danaro
respira.[fonte 4] Quando l'Italia suona la chitarra, la Spagna le nacchere, la
Francia il liuto, l'Irlanda l'arpa, la Germania la tromba, l'Inghilterra il
violino, l'Olanda il tamburo, nulla è uguale ad esse.[fonte 8] Quando la barba
fa bianchino, lascia la donna e tienti al vino.[fonte 208] Quando la cicala
canta in settembre, non comprare gran da vendere.[fonte 8] Quando la fame entra
dalla porta, l'amore esce dalla finestra.[fonte 8] Quando la grazia di Dio è
nel cuore, gli occhi nuotano nell'allegria.[fonte 4] Quando la guerra comincia
s'apre l'inferno.[fonte 4] Quando la neve si scioglie si scopre la
mondezza.[fonte 1] Quando la pera è matura casca da sé.[fonte 1] Quando la pera
è matura bisogna che caschi.[fonte 16] Quando la radice è tagliata, le foglie
se ne vanno.[fonte 8] Quando la ragione dorme, il cuore scappuccia.[fonte 8]
Quando la luna è bianca il tempo è bello; se è rossa, vuole dire vento; se
pallida, pioggia.[fonte 4] Quando la rana canta il tempo cambia.[fonte 8]
Quando non dice niente, non è dal savio il pazzo differente.[fonte 8] Quando
non sai, frequenta in domandare.[fonte 209] Quando piove col sole le vecchie
fanno l'amore.[fonte 1] Quando piove col sole il diavolo fa l'amore.[fonte 1]
Quando piove col sole le streghe fanno l'amore.[fonte 2] Quando piove col sole
si marita la volpe.[65][fonte 2] Quando piove d'agosto, piove miele e
mosto.[fonte 8] Quando si è in ballo bisogna ballare.[fonte 1] Quando si è
patito si è inclini a compatire.[fonte 4] Quando si mangia non si parla.[fonte
57] Quando sono fidanzate hanno sette mani e una lingua, quando sono sposate
hanno sette lingue e una mano.[fonte 8] Quando un amico chiede, non v'è
domani.[fonte 210] Quando un povero dà al ricco, Dio ride in cielo.[fonte 8]
Quando una cosa è accaduta, poco vale lamentarsi.[fonte 8] Quando viene la
forza, il diritto è morto.[fonte 4] Quanto più è alto il monte, tanto più
profonda la valle.[fonte 4] Quanto più la rana si gonfia, più presto
crepa.[fonte 8] Quanto più se n'ha, tanto più se ne vorrebbe.[fonte 4] Quattro
lumi non s'accendono.[fonte 2] Quattro nuove invenzioni vanta il mondo:
scorticare senza coltello, arrostire senza fuoco, lavare senza sapone, e invece
degli occhiali vedere attraverso le dita.[fonte 4] Quel ch'è innato per natura,
si porta alla sepoltura.[fonte 8] Quel ch'è raro, è stimato.[fonte 8] Quel che
con l'acqua mischia e guasta il vino, merita di bere il mare a capo
chino.[fonte 8] Quel che è disposto in cielo, conviene che sia.[fonte 4] Quel,
che è fatto, è fatto, e non si può fare, che fatto non sia.[fonte 211] Quel che
è fatto è reso.[fonte 2] Quel che non può l'ìngegno, può spesso la
fortuna.[fonte 4] Quel che non puoi pagare col denaro, pagalo almeno col
ringraziamento.[fonte 8] Quel che è gioco per il forte per il debole è
morte.[fonte 8] Quel che si dà al ricco, si ruba al povero.[fonte 8] Quel che
si fa a fin di bene, non dispiace mai a Dio.[fonte 4] Quel che si fa
all'oscuro, appare al sole.[fonte 4] Quel che supera il mio intelletto, lo
lascio stare.[fonte 4] Quella bellezza l'uomo saggio apprezza che dura sempre, fino
alla vecchiaia.[fonte 4] Quelli che hanno meno ingegno, ne hanno da vendere più
degli altri.[fonte 4] Quello che abbaia è il cane sdentato.[fonte 4] Quello che
deve durare per l'eternità non si deve scrivere con l'acqua.[fonte 4] Quello
che è accaduto ieri, può accadere oggi.[fonte 4] Quello che è passato, è
scordato.[fonte 4] Quello che ha da essere, sarà.[fonte 4] Quello che non
avviene oggi, può avvenire domani.[fonte 4] Quello che non è stato può
essere.[fonte 4] Quello che non può l'intelletto, può spesso il caso.[fonte 4]
Quello che puoi fare oggi, non rimandarlo a domani.[fonte 4] Quello che si dice
all'eco nel bosco, il bosco lo ripete.[fonte 4] Quello che si impara in
gioventù, non si dimentica mai più.[fonte 4] Quello che si usa non si scusa.[fonte
212] Quello è mio zio, che vuole il bene mio.[fonte 4] Quello è un fanciullo
accorto che conosce suo padre.[fonte 4] Questo devi sapere che la gelosia di un
Arabo è la stessa gelosia.[fonte 4] Quieta non muovere.[fonte 16] R Raglio
d'asino non giunse mai al cielo.[fonte 2] Rana di palude sempre si salva.[fonte
8] Rane, malsane.[fonte 8] Render nuovi benefici all'ingratitudine è la virtù
di Dio e dei veri uomini grandi.[fonte 8] Ricchezza mal disposta a povertà
s'accosta.[fonte 8] Ricchezze nell'India, sapere in Europa, e pompa fra gli
ottomani.[fonte 8] Ricchi e poveri non portano che un lenzuolo all'altro
mondo.[fonte 8] Ricco e grande fortuna potrà farti, ma mai il comune senso
potrà darti.[fonte 4] Ricorda che il nemico può diventarti amico.[fonte 8] Ride
ben chi ride ultimo.[fonte 2] Ride ben chi ride l'ultimo.[fonte 2] Roba calda
il corpo non salda.[fonte 213] Roba d'altri, tutti scaltri.[fonte 4] Roma, a
chi nulla in cent'anni, a chi molto in tre dì.[fonte 8] Roma non fu fatta in un
giorno.[fonte 2] Roma santa, Aquila bella, Napoli galante.[fonte 214] Rosso di
mattina, pioggia vicina.[fonte 215] Rosso di sera bel tempo si spera; rosso di
mattina acqua vicina.[fonte 2] Rosso di sera, buon tempo si spera; rosso di
mattina mal tempo si avvicina.[fonte 1] Rosso e giallaccio pare bello ad ogni
faccia, verde e turchino si deve essere più che bellino.[fonte 216] Rovo, in
buona terra covo.[fonte 169] S Salta chi può.[fonte 1] San Benedetto[66] la
rondine sotto il tetto.[fonte 2] San Lorenzo dalla gran calura.[fonte 2] San
Pietro abbracciato, Cristo negato.[fonte 4] San Silvestro [31 dicembre] l'oliva
nel canestro.[fonte 2] Sangue giovane sempre spavaldo.[fonte 8] Sasso che
rotola non fa muschio.[fonte 47] Pietra che rotola non fa muschio.[fonte 2]
Sbagliando s'impara.[fonte 1] Scalda più l'amore che mille fuochi.[fonte 8]
Scherza coi fanti e lascia stare i Santi.[fonte 1] Scherzando intorno al lume
che t'invita, farfalla perderai l'ali e la vita.[fonte 65] Scherzo di mano,
scherzo di villano.[fonte 1] Gioco di mano, gioco di villano.[fonte 1] Schiena
di mulo, corso di barca, buon per chi n'accatta.[fonte 8] Scusa non richiesta,
accusa manifesta.[67][fonte 217] Se ari male, peggio mieterai.[fonte 47] Se
fossero buoni i nipoti non si leverebbero dalla vigna.[fonte 218] Se gioventù
sapesse, se vecchiaia potesse.[fonte 167] Se i gatti sapessero volare, le
beccacce sarebbero rare.[fonte 131] Se il coltivatore non è più forte della su'
terra questa finisce per divorarlo.[fonte 47] Se il ladro lasciasse il suo
rubare, non ci sarebbero più forche.[fonte 4] Se il giovane sapesse di quanto
ha bisogno la vecchiaia, chiuderebbe spesso la borsa.[fonte 4] Se il padre di
famiglia è miope, i servi sono ciechi.[fonte 8] Se il piede destro è zoppo, Dio
rafforza il sinistro.[fonte 8] Se il poeta s'erige a oratore predicherà agli
orecchi e non al cuore.[fonte 8] Se il primo bottone hai fatto essere secondo,
tutti sbagliati saranno da cima a fondo.[fonte 4] Se il re sputa sopra un abete
si chiama subito abete reale.[fonte 4] Se il ricco conoscesse la fame del
povero, gli darebbe del suo pane.[fonte 8] Se il ringraziare costasse denaro,
molti se lo terrebbero in tasca.[fonte 8] Se il tuo gatto è ladro non
scacciarlo di casa.[fonte 8] Se il virtuoso è povero, il lodarlo non basta; il
dovere primo è d'aiutarlo.[fonte 8] Se la pazzia fosse dolore, in ogni casa si
sentirebbe stridere.[fonte 8] Se le lattughe lasci in guardia alle oche, al
ritorno ne troverai ben poche.[fonte 219] Se ne vanno gli amori e restano i
dolori.[fonte 4] Se nessuno sa quel che sai, a nulla serve il tuo sapere.[fonte
8] Se non è zuppa è pan bagnato.[fonte 1] Se non hai mai rubato, la parola
ladro non è per te un'ingiuria.[fonte 4] Se occhio non mira, cuor non
sospira.[fonte 8] Se ognun spazzasse da casa sua, tutta la città sarebbe
netta.[fonte 220] Se piovesse oro, la gente si stancherebbe a
raccoglierlo.[fonte 8] Se son rose fioriranno.[fonte 1] Se ti vuoi nutrire
bene, fai ballare i trentadue.[fonte 8] Se un fratello compie un omicidio, gli
altri non sono responsabili.[fonte 4] Se vuoi che t'ami, fa' che ti
brami.[fonte 8] Se vuoi portare l'uomo a incretinire, fallo ingelosire.[fonte
4] Segui il filo e troverai il gomitolo.[fonte 4] Senza denari non canta un
cieco.[fonte 1] Senza denari non si canta messa.[fonte 1] Senza umiltà tutte le
virtù sono vizi.[fonte 8] Sempre ti graffierà chi nacque gatto.[fonte 8] Senza
umanità non vi è né virtù, né vero coraggio, né gloria durevole.[fonte 8] Seren
d'inverno e nuvolo d'estate, non ti fidare.[fonte 4] Sette in un colpo! disse quel
sarto che aveva ammazzato sette mosche.[fonte 8] [wellerismo] Settembre, l'uva
è fatta e il fico pende.[fonte 16] Si bacia il fanciullo a causa della madre, e
la madre a causa del fanciullo.[fonte 4] Si deve alzare di buon'ora chi vuol
contentare i suoi vicini.[fonte 8] Si dice il peccato, ma non il
peccatore.[fonte 2] Si mantiene un esercito per mille giorni, e non se ne fa
uso che per un momento.[fonte 4] Si parla del diavolo e spuntano le
corna.[fonte 130] Si può conoscere la tua opinione dal tuo sbadigliare.[fonte
8] Si può vivere senza fratelli ma non senza amici.[68] Si stava meglio quando
si stava peggio.[69][fonte 2] Sia l'astrologo che l'indovina ti portano alla
rovina.[fonte 4] Sicuro come il pane.[fonte 4] Sin che si vive, s'impara
sempre.[fonte 4] Sol gente di mal'affare, bestie e botte, van fuori di
notte.[fonte 221] Son padrone del mondo oggi le donne e cedon toghe e spade a
cuffie e gonne.[fonte 8] Sono meglio cento beffe che un danno.[fonte 4] Sono
sempre gli stracci che vanno all'aria.[fonte 1] Sopra l'albero caduto ognuno
corre a fare legna.[fonte 4] Sopra ogni vino, il greco è divino.[fonte 8] Sotto
la neve pane, sotto l'acqua fame.[fonte 1] Spesso a chiaro mattino, v'è torbida
sera.[fonte 222] Spesso chi commette un'ingiustizia, ne subisce una
peggiore.[fonte 4] Spesso vince più l'umiltà che il ferro.[fonte 8] Sposa
bagnata sposa fortunata.[fonte 223] Stretta la foglia, larga la via dite la
vostra che ho detto la mia.[fonte 2] Larga la foglia, stretta la via dite la
vostra che ho detto la mia.[fonte 2] Stringe più la camicia che la
gonnella.[fonte 4] Studia non per sapere di più, ma per sapere meglio degli
altri.[fonte 224] Studio in gioventù, onore alla vecchiaia.[fonte 4] Sulla
pelle della serpe nessuno guarda alle macchie.[fonte 8] Superbia povera spiace
anche al diavolo; umiltà ricca piace anche a Dio.[fonte 8] T T'annoia il tuo
vicino? Prestagli uno zecchino.[fonte 4] Tagliare i capelli con la
pentola.[fonte 225] Tagliarli male. Tal lascia l'arrosto che poi brama il
fumo.[fonte 4] Tale padre, tale figlio.[70][fonte 2] Tanti galli a cantar non
fa mai giorno.[fonte 1] Tanti idoli, tanti templi.[fonte 4] Tanti pochi fanno
un assai.[fonte 226] Tanto fumo e poco arrosto.[fonte 2] Tanto l'amore quanto
il fuoco devono essere attizzati.[fonte 8] Tanto l'amore quanto la minestra di
fagioli vogliono uno sfogo.[fonte 8] Tanto va la gatta al lardo che ci lascia
lo zampino.[fonte 1] Tempo chiaro e dolce a capodanno, assicura bel tempo tutto
l'anno.[fonte 8] Tenga bene a mente un bugiardo quando mente.[fonte 4] Tentar
non nuoce.[fonte 1] Terra assai, terra poca.[fonte 169] Terra bianca, tosto
stanca.[fonte 227] Terra coltivata raccolta sperata.[fonte 2] Terra nera buon
grano mena.[fonte 2] Testa di lucertola, collo di gru, gambe di ragno, pancia
di vacca, groppa di baldracca.[fonte 8] Testa di pazzo non incanutisce
mai.[fonte 8] Tinca di maggio e luccio di settembre.[fonte 8] Tinca in camicia,
luccio in pelliccia.[fonte 8] Tira più un pelo di fica che cento paia di
buoi.[fonte 2] Tira più un capello di donna che cento paia di buoi.[fonte 8]
Tolta la causa, cessato l'effetto.[fonte 8] Tondi l'agnello e lascia il
porcello.[fonte 8] Torinesi e Monferrini, pane, vino e tamburini.[fonte 8] Tra
cani non si mordono.[fonte 1] Tra i due litiganti il terzo gode.[fonte 1] Tra
il dire e il fare c'è di mezzo il mare.[fonte 1] Tra l'incudine e il martello,
mano non metta chi ha cervello.[fonte 4] Tra moglie e marito non mettere il
dito.[fonte 1] Tradimento piace assai, traditor non piace mai.[fonte 148]
Trattar male il povero è il disonor del ricco.[fonte 8] Tre cose cacciano
l'uomo di casa: fumo, goccia e femmina arrabbiata.[fonte 4] Tre cose fanno
l'uomo ammalato: amore, vino e bagno.[fonte 8] Tre cose simili: prete, avvocato
e morte. Il prete toglie dal vivo e dal morto; l'avvocato vuol del diritto e
del torto; e la morte vuole il debole e il forte.[fonte 142] Tre cose sono
rare: un buon melone, un buon amico e una buona moglie.[fonte 8] Tre sono le
meraviglie, Napoli, Roma e la faccia tua.[fonte 228] Trenta monaci e un abate
non farebbero bere un asino per forza.[fonte 4] Triste e guai, chi crede troppo
e chi non crede mai.[fonte 8] Triste quel cane che si lascia prendere la coda
in mano.[fonte 8] Triste quell'estate, che ha saggina e rape.[fonte 8] Tromba
di culo, sanità di corpo.[fonte 213] Troppa manna, nausea.[fonte 8] Troppa
modestia è orgoglio mascherato.[fonte 8] Troppe soddisfazioni tolgono ogni
voglia.[fonte 8] Troppi cuochi guastano la cucina.[fonte 1] Troppo povero e
troppo ricco fa ugual disgrazia.[fonte 8] Tu scherzi col tuo gatto e
l'accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi.[fonte 8] Turchi e
Tartari, flagelli dei popoli.[fonte 229] Tutta la strada non fallisce il saggio
che, accortosi a metà, corregge il viaggio.[fonte 4] Tutte le cose sono difficili
prima di diventar facili.[fonte 70] Tutte le strade portano a Roma.[fonte 1]
Tutte le volpi si ritrovano in pellicceria.[fonte 2] Tutte le volpi si rivedono
in pellicceria.[fonte 2] Tutte le volte che si ride si toglie un chiodo dalla
cassa.[fonte 230] Tutti del pazzo tronco abbiamo un ramo.[fonte 8] Tutti i
fiumi vanno al mare.[fonte 1] Tutti i giorni sono buoni per andare a caccia. ma
non per prendere uccelli.[fonte 4] Tutti i guai son guai, ma il guaio senza
pane è il più grosso.[fonte 1] Tutti i gusti son gusti.[fonte 1] Tutti i
mestieri danno il pane.[fonte 231] Tutti i nodi vengono al pettine.[fonte 1]
Tutti i peccati mortali sono femmine.[fonte 8] Tutti i salmi finiscono in
gloria.[fonte 1] Tutti siamo figli di Adamo ed Eva.[fonte 190] Tutto ciò che
dura a lungo annoia.[fonte 8] Tutto è bene quel che finisce bene.[71][fonte 1]
Tutto il cervello non è in una testa.[fonte 4] Tutto il mondo è
paese.[72][fonte 1] Tutto quello che è bianco non è farina.[fonte 4] Tutto
s'accomoda fuorché l'osso del collo.[fonte 31] U Uccellin che mette coda vuol
mangiare a tutte l'ore.[fonte 2] Uccello raro ha nido raro.[fonte 8] Ucci ucci,
sento odor di cristianucci.[fonte 2] Umiltà e cortesia adornano più di una
veste tessuta d'oro.[fonte 8] Un bel tacer non fu mai scritto.[73][fonte 2]
Un'anima magnanima consulta le altre; un'anima volgare disprezza i
consigli.[fonte 8] Un'oncia di allegria vale più di una libbra di
tristezza.[fonte 232] Un'ora di contento sconta cent'anni di tormento.[fonte
233] Un abete non fa foresta.[fonte 4] Un bell'abito è una lettera di
raccomandazione.[fonte 4] Un buon abate loda sempre il suo convento.[fonte 4]
Un buon principio va sempre a buon fine.[fonte 4] Un cattivo libro ha spesso un
buon titolo, ed una fronte onesta, un cervello ribaldo.[fonte 4] Un cuor
magnanimo vuol sempre il bene, anche se il premio mai non ottiene.[fonte 8] Un
esercito senza generale è come un corpo senz'anima.[fonte 4] Un fido amico, e
ricchezze ben acquistate son due cose rare.[fonte 8] Un fratello aiuta l'altro.[fonte
4] Un granello fa traboccare la bilancia.[fonte 4] Un granello di polvere fa
scoppiare tutta la bomba.[fonte 4] Un ladro non ruba sempre, ma bisogna
guardarsi da lui.[fonte 4] Un lume è più presto spento che acceso.[fonte 4] Un
male tira l'altro.[fonte 4] Un padre campa cento figli e cento figli non
campano un padre.[fonte 2] Un pazzo ne fa cento.[fonte 8] Un piccolo buco fa
affondare un gran bastimento.[fonte 8] Un povero virtuoso val più di un ricco
vizioso.[fonte 8] Una bella barba e un cuor valente adornano l'uomo.[fonte 4]
Una bella giornata non fa estate.[fonte 4] Una bella lacrima trova facilmente
un fazzoletto che la asciughi.[fonte 4] Una bugia ha bisogno di sette
bugie.[fonte 4] Una buona risata si trasforma tutta in buon sangue.[fonte 232]
Una ciliegia tira l'altra.[fonte 2] Una cosa tira l'altra.[fonte 16] Una estate
vale più di dieci inverni.[fonte 4] Una parola tira l'altra.[fonte 2] Una e
buona.[fonte 16] Una ma buona.[fonte 16] Una fa, due stentano, ma a tre ci vuol
la serva.[fonte 8] Una Fenice fra le donne è quella, che altra donna confessa
essere bella.[fonte 8] Una mano lava l'altra e tutte e due lavano il
viso.[fonte 1] Una mela al giorno leva il medico di torno.[fonte 2] Una ne paga
cento.[fonte 1] Una ne paga tutte.[fonte 1] Una rondine non fa primavera.[fonte
1] Un fiore non fa giardino.[fonte 4] Un fiore non fa primavera.[fonte 4] Una
volta corre il cane e una volta la lepre.[fonte 1] Una volta per uno non fa
male a nessuno.[fonte 1] Uno semina, l'altro raccoglie.[fonte 72] Uno si fa la
sorte da sé, l'altro la riceve bell'e fatta.[fonte 8] Uomo a cavallo, sepoltura
aperta.[fonte 2] Uomo avvisato mezzo salvato.[fonte 1] Uomo da nessuno
invidiato, è uomo non fortunato.[fonte 4] Uomo di vino, non vale un
quattrino.[fonte 8] Uomo morto non fa più guerra.[fonte 234] Uomo senza
quattrini è un morto che cammina.[fonte 2] Uomo solitario, o angelo o
demone.[fonte 235] Uomo zelante, uomo amante.[fonte 4] L'uomo misero è un morto
che cammina.[fonte 2] Uovo di un'ora, pane di un giorno, vino di un anno, donna
di quindici e amici di trent'anni.[fonte 8] V Va' in piazza vedi e odi, torna a
casa bevi e godi.[fonte 236] Va più di un asino al mercato.[fonte 4] Val più un
piacere da farsi che cento di quelli fatti.[fonte 8] Val più una messa in vita
che cento in morte.[fonte 4] Vale più la pratica che la grammatica.[fonte 1]
Vale più un fatto che cento parole.[fonte 237] Vale più un gusto che un
casale.[fonte 1] Vale più un testimone di vista che cento d'udito.[fonte 2]
Vale più uno a fare.[fonte 16] Vanga e zappa non vuol digiuno.[fonte 47] Vanga
piatta poco attacca, vanga ritta terra ricca, vanga sotto ricca il
doppio.[fonte 2] Vecchi doni vogliono nuovi ringraziamenti.[fonte 8] Vecchiaia
d'aquila, giovinezza d'allodola.[fonte 4] Vedere e non toccare è una cosa da
crepare.[fonte 2] Vedere per credere.[fonte 238] Vento fresco mare
crespo.[fonte 239] Ventre pieno non crede a digiuno.[fonte 16] Ventre vuoto non
sente ragioni.[fonte 16] Vesti un legno, pare un regno.[fonte 41] Vi sono dei
matti savi, e dei savi matti.[fonte 8] Vicino alla chiesa lontano da Dio.[fonte
2] Vicino alla serpe c'è il biacco.[fonte 8] Vigna nel sasso e orto in terren
grasso.[fonte 240] Vincere un ambo al lotto è un malefizio, che più accresce la
speranza al vizio.[fonte 8] Vino amaro, tienilo caro.[fonte 8] Vino battezzato
non vale un fiato.[fonte 8] Vino battezzato, non va al palato.[fonte 8] Vino
dentro, senno fuori.[fonte 8] Vino di fiasco la sera buono e la mattina
guasto.[fonte 8] Vino e sdegno fan palese ogni disegno.[fonte 8] Vino non è
buono che non rallegra l'uomo.[fonte 8] Violenza non dura a lungo.[fonte 241]
Vivi e lascia vivere.[fonte 1] Vizio di natura fino alla fossa dura.[fonte 2]
Vizio di natura, fino alla morte dura.[fonte 242] Voglia di lavorar saltami
addosso, lavora tu per me che io non posso.[fonte 243] Voglio piuttosto un
asino che mi porti, che un cavallo che mi getti in terra.[fonte 4] Volpe che
dorme, ebreo che giura, donna che piange, malizie sopraffine colle
frange.[fonte 4] Note Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. voce
dedicata su Wikipedia. Cfr. Matteo, 6, 34. La locuzione latina
gutta cavat lapidem (letteralmente "la goccia perfora la pietra")
venne utilizzata da Tito Lucrezio Caro, Publio Ovidio Nasone e Albio Tibullo.
Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. voce dedicata su Wikipedia.
Titolo di un'opera di Achille Campanile del 1930, passato a proverbio e modo di
dire comune. Cfr. Petrarca: «La vita el fin, e 'l dí loda la sera».
Cfr. Giacomo Leopardi: «Amore, | amor, di nostra vita ultimo inganno, |
t'abbandonava». Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. voce dedicata
su Wikipedia. Cfr. Giovanni Verga, I Malavoglia. Slogan
pubblicitario degli anni Ottanta. Cfr. Gesù, Discorso della Montagna:
«Cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve,
e chi cerca trova». Cfr. Gesù, Vangelo secondo Matteo: «Rimetti la spada
nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di
spada». Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. voce dedicata su
Wikipedia. Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Citato in Giovanni
Battista Rossi, Conferenze popolari per gli uomini nel tempo degli esercizi
spirituali, Tappi, Torino, 1896, p. 164. Citato nel film Riso
amaro. Citato in Dizionario Italiano Olivetti, dizionario-italiano.it.
Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. Libro di Osea: «E poiché hanno
seminato vento | raccoglieranno tempesta». Cfr. attribuite a Papa
Bonifacio VIII: «Qui tacet, consentire videtur». Cfr. voce dedicata su
Wikipedia. Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. Cristoforo
Poggiali, Proverbj, motti e sentenze ad uso ed istruzione del popolo, 1821:
«Chi dà a credenza, molte merci spaccia; | Ma un presto fallimento si
procaccia». Cfr. Appio Claudio Cieco, Sententiae: «Quisque faber fortunae
suae.» Cfr. voce dedicata su Wikipedia. La frase è attribuita
(Niccolò Machiavelli, Istorie fiorentine, II, 3; Giovanni Villani, Nuova
Cronica, VI, 38) a Mosca dei Lamberti che, nel 1215, a Firenze, convinse così
gli Amidei a uccidere Buondelmonte de' Buondelmonti; dal delitto nacquero le
fazioni dei guelfi e dei ghibellini. Citato anche nella Divina Commedia di
Dante Alighieri (Inferno, 28, 106-108): Gridò: "Ricordera' ti anche del
Mosca, | che disse, lasso!, 'Capo ha cosa fatta', | che fu mal seme per la gente
tosca". È possibile che Mosca dei Lamberti adattò al momento un proverbio
già noto ai suoi tempi (Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921);
secondo l'Accademia della Crusca (Dizionario della lingua italiana, 1827)
corrisponderebbe al latino «Factum infectum fieri nequit». Cfr. Gesù,
Vangelo secondo Matteo: «Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio
quel che è di Dio». Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. voce
dedicata su Wikipedia. Cfr. Philippe Néricault Destouches, Le Glorieux,
atto II, scena V: «La critique est aisée, et l'art est difficile.». Cfr.
«Facta lex inventa fraus.» Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr.
voce dedicata su Wikipedia. Riferito all'uso di numeri civici di colore
nero per le abitazioni e rosso per gli esercizi commerciali. Cfr. Michail
Aleksandrovič Bakunin: «Il caffè, per esser buono, deve essere nero come la
notte, dolce come l'amore e caldo come l'inferno». Cfr. Blaise Pascal:
«Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce». Cfr. voce
dedicata su Wikipedia. Nei dialetti siciliani e nel napoletano l'arancia
viene chiamata portogallo. La spiegazione è in Strafforello, vol. III, p.
329. Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Veste da lavoro usata,
specialmente in Toscana, da contadini e operai. Cfr. voce dedicata su
Wikipedia. Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. voce dedicata su
Wikipedia. Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. voce dedicata su
Wikipedia. Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. voce dedicata su
Wikipedia. Cfr. Ippocrate: «La vita è breve, l'arte è lunga, l'occasione
è fugace, l'esperienza è fallace, il giudizio è difficile». Citato in
Dizionario Italiano, dizionario-italiano.it. Cfr. voce dedicata su
Wikipedia. Cfr. voce dedicata su Wikipedia. itato in Dizionario
Italiano Olivetti. Cfr. Gesù, Vangelo secondo Luca: «Nessun profeta è ben
accetto in patria». Cfr. Etica della reciprocità. Cfr. anche
Salvator Rosa, iscrizione riportato su un autoritratto: «Aut tace | aut loquere
meliora | silentio.». Questo detto, ripreso dal Libro dell'Esodo («occhio
per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per
bruciatura, ferita per ferita, livido per livido»), è chiamato Legge del
taglione. Il proverbio compare in una novella del Decameron di Giovanni
Boccaccio (la quarta della prima giornata). Cfr. Focus storia n. 49, novembre
2010, p. 74. 2 febbraio: in tale giorno la Chiesa cattolica celebra la
presentazione al Tempio di Gesù (Luca 2,22-39), popolarmente chiamata festa
della Candelora, perché in questo giorno si benedicono le candele, simbolo di
Cristo. La festa è anche detta della Purificazione di Maria, perché, secondo
l'usanza ebraica, una donna era considerata impura del sangue mestruale per un
periodo di 40 giorni dopo il parto di un maschio e doveva andare al Tempio per
purificarsi: il 2 febbraio cade appunto 40 giorni dopo il 25 dicembre.
Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Citato in Vocabolario degli accademici
della Crusca, vol II, parte 2 , Tipografia Galileiana di M. Cellini e c.,
Firenze, 1863, p. 726. Una leggenda simile esiste anche in Giappone: i
demoni-volpe (le kitsune) preferirebbero celebrare i loro matrimoni sotto la
pioggia mentre splende il sole; il regista Akira Kurosawa ne prese spunto per
il primo episodio (Raggi di sole nella pioggia) del film Sogni (1990). 21
marzo, prima della riforma del calendario liturgico del 1969. Cfr.
Proverbio latino medievale: Excusatio non petita, accusatio manifesta.
Citato in Macfarlane, p. 256. Attribuita a Francesco Domenico Guerrazzi.
Cfr. Libro di Ezechiele: «Ecco, ogni esperto di proverbi dovrà dire questo
proverbio a tuo riguardo: Quale la madre, tale la figlia». Titolo di una
commedia di William Shakespeare, scritta fra il 1602 e il 1603. Cfr.
Petronio Arbitro, Satyricon, 45, 4. Cfr. Iacopo Badoer: «Un bel tacer |
mai scritto fu». Fonti Citato ne Il nuovo Zingarelli. Citato in
Lapucci. Citato in Carlo Volpini, 516 proverbi sul cavallo,
Cisalpino-Goliardica, 1984. Citato in Donato. Citato in Max
Pfister, Lessico etimologico italiano, vol. 3, Reichert, 1987. Citato in
Schwamenthal, § 14. Citato in Schwamenthal, § 29. Citato in
Selene. Citato in Marino Ferrini, I proverbi dei nonni, Il Leccio,
2002³. Citato in Schwamenthal, § 52. Citato in Schwamenthal, § 78.
Citato in Schwamenthal, § 85. Citato in Schwamenthal, § 122. Citato
in Schwamenthal, § 123. Citato in Schwamenthal, § 131. Citato in
Vocabolario della lingua italiana. Citato in Schwamenthal, § 170.
Citato in Macfarlane, p. 118. Citato in Schwamenthal, § 278. Citato
in Schwamenthal, § 235. Citato in Schwamenthal, § 242. Citato in
Schwamenthal, § 243. Citato in Schwamenthal, § 255. Citato in
Schwamenthal, § 281. Citato in Schwamenthal, § 281. Citato in
Schwamenthal, § 288. Citato in Schwamenthal, § 290. Citato in
Schwamenthal, § 290. Citato in Castagna 1866, p. 137. Citato in
Schwamenthal, § 317. Citato in Vezio Melegari, Manuale della barzelletta,
Mondadori, Milano, 1976, p. 35. Citato in Macfarlane, p. 352.
Citato in Francesco Protonotari, Nuova antologia di scienze, lettere ed arti,
volume settimo, Direzione della nuova antologia, Firenze, 1868, p. 454.
Citato in Grisi, p. 34. Citato in Daniela Schembri Volpe, 101 perché
sulla storia di Torino che non puoi non sapere, Newton Compton Editori, 2018,
p. 121. ISBN 978-88-227-2521-9 Citato in Pescetti, p. 123. Citato
in Grisi, p. 254. Citato in Paronuzzi, p. 68. Citato in
Schwamenthal, § 585. Citato in Giulio Franceschi, Proverbi e modi
proverbiali italiani, Hoepli, 1908. Citato in Macfarlane, p. 83.
Citato in Grisi, p. 24. Citato in Schwamenthal, § 768. Citato in
Schwamenthal, § 804. Citato in Schwamenthal, § 805. Citato in
Volpini, p. 137. Citato in Francesco Picchianti, Proverbi italiani, A.
Salani, 1886. Citato in Schwamenthal, § 848. Citato in Schwamenthal,
§ 854. Citato in Schwamenthal, § 878. Citato in Schwamenthal, §
886. Citato in Castagna 1866, p. 172. Citato in Grisi, p.
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Dizionario comparato di proverbi e modi proverbiali, Hoepli, 1972. Citato
in Macfarlane, p. 276. Citato in Temistocle Franceschi, Atlante
paremiologico italiano, Edizioni dell'Orso, 2000. Citato in Macfarlane,
p. 214. Citato in Schwamenthal, § 1066. Citato in Grisi, p.
11. Citato in Macfarlane, p. 171. Citato in Amadeus Voldben, Il
giardino della saggezza, Amedeo Rotondi, 1967. Citato in Niccolò Tommaseo
e Bernardo Bellini, Dizionario della lingua italiana, 1872, Unione
Tipografico-Editrice Torinese, vol. IV, p. 369. Citato in Macfarlane, p.
281. Citato in Grisi, p. 106. Citato in Schwamenthal, § 1324.
Citato in Schwamenthal, § 1365. Citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha
detto?, Hoepli, 1921, p. 583. Citato in Grisi, p. 247. Citato in
Macfarlane, p. 194. Citato in Schwamenthal, § 1541. Citato in Emanuel
Strauss, Concise Dictionary of European Proverbs, Routledge, 2013. Citato
in Macfarlane, p. 112. Citato in Giuseppe Giusti, Dizionario dei proverbi
italiani. Citato in Macfarlane, p. 364. Citato in Macfarlane, p.
299. Citato in Macfarlane, p. 122. Citato in Schwamenthal, §
1742. Citato in Schwamenthal, § 1744. Citato in Schwamenthal, §
1753. Citato in Schwamenthal, § 1754. Citato in Schwamenthal, §
1762. Citato in Schwamenthal, § 1788. Citato in Schwamenthal, §
1796. Citato in Filippo Moisè, Storia della Toscana dalla fondazione di
Firenze fino ai nostri giorni, V. Batelli e compagni, 1848, p. 73 Citato
in Schwamenthal, § 1821. Citato in Macfarlane, p. 476. Citato in
Macfarlane, p. 399. Citato in Schwamenthal, § 1933. Citato in Alfani,
p. 75. Citato in Macfarlane, p. 103. Citato in Schwamenthal, §
1994. Citato in Schwamenthal, § 2034. Citato in Schwamenthal, §
2035. Citato in Schwamenthal, § 2047. Citato in Castagna 1866, p.
56. Citato in Schwamenthal, § 2142. Citato in Paola Guazzotti e
Maria Federica Oddera, Il Grande dizionario dei proverbi italiani, Zanichelli,
2006. Citato in Schwamenthal, § 2168. Citato in Grisi, p.
145. Citato in Schwamenthal, § 2245. Citato in Schwamenthal, §
2253. Citato in Valter Boggione, Chi dice donna, UTET, 2005. Citato
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della Lingua Italiana, VII Grav - Ing, Unione Tipografico-Editrice Torinese,
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Edizioni Il Punto d'Incontro, Vicenza, 2010, p. 178. ISBN
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Lingua Italiana, XII Orad - Pere, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino,
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Newton Compton, Roma, 2014, § 100. ISBN 978-88-541-6678-3 Citato in
Brigitte Bulard-Cordeau, Il piccolo libro dei gatti, traduzione di Giovanni
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Schwamenthal, § 3037. Citato in Castagna 1866, p. 151. Citato in
Schwamenthal, § 3266. Citato in Schwamenthal, § 4058. Citato in
Schwamenthal, § 3274. Citato in Macfarlane, p. 263. Citato in
Strafforello, vol. III, p. 329. Citato in Grisi, p. 211. Citato in
Volpini, p. 47. Citato in Schwamenthal, § 4901. Citato in Schwamenthal,
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Schwamenthal, § 2555. Citato in Macfarlane, p. 411. Citato in
Schwamenthal, § 2248. Citato in Schwamenthal, § 2779. Citato in
Schwamenthal, § 2780. Citato in Grisi, p. 130. Citato in Luigi
Pozzoli, Sul respiro di Dio. Commento alle letture festive. Anno B, Paoline,
Milano, 1999, p. 14. Citato in Schwamenthal, § 3129. Citato in
Grisi, p. 265. Citato in Grisi, p. 270. Citato in Macfarlane, p.
412. Citato in Grisi, p. 303. Citato in Macfarlane, p. 311.
Citato in Schwamenthal, § 2350. Citato in Ann H. Swenson, Proverbi e modi
proverbiali, Nerbini, 1931. Citato in Grisi, p. 109. Citato in Ugo
Rossi-Ferrini, Proverbi agricoli, I Fermenti, 1931. Citato in Grisi, p.
39. Citato in Schwamenthal, § 3271. Citato in Castagna 1866, p.
18. Citato in Carlo Giuseppe Sisti, Agricoltura pratica della Lombardia,
Milano, 1828, p. 99. Citato in Schwamenthal, § 3296. Citato in Schwamenthal,
§ 3528. Citato in Florio, lettera N. Citato in Schwamenthal, §
3566. Citato in Schwamenthal, § 3630. Citato in Castagna 1866, p.
75. Citato in Paronuzzi, p. 66. Citato in Schwamenthal, §
3674. Citato in Pescetti, p. 105. Anche in Arthur Schopenhauer, Aforismi
sulla saggezza della vita, Parenesi e massime, 29. Citato in
Schwamenthal, § 3691. Citato in Schwamenthal, § 3723. Citato in
Grisi, p. 191. Citato in Schwamenthal, § 3761. Citato in
Schwamenthal, § 3770. Citato in Grisi, p. 270. Citato in
Schwamenthal, § 3952. Citato in Macfarlane, p. 310. Citato in
Schwamenthal, § 3992. Citato in Alfani, p. 102. Citato in
Schwamenthal, § 4019. Citato in Schwamenthal, § 4130. Citato in La
scienza pratica: dizionario di proverbi e sentenze che a utile sociale raccolse
il padre Lorenzo da Volturino, Quaracchi: Tipografia del Collegio di
S.Bonaventura, Firenze, 1894, p. 457. Citato in Focus storia n. 49,
novembre 2010, p. 74. Citato in Schwamenthal, § 4306. Citato in
Schwamenthal, § 4352. Citato in Grisi, p. 197. Citato in
Schwamenthal, § 4498. Citato in Schwamenthal, § 4499. Citato in
Piero Angela, A cosa serve la politica?, Mondadori, Milano, 2011, p. 145. ISBN
978-88-04-60776-2 Citato in Schwamenthal, § 4568. Citato in
Macfarlane, p. 95. Citato in Schwamenthal, § 4615. Citato in
Macfarlane, p. 390. Citato in Grisi, p. 224. Citato in
Schwamenthal, § 4698. Citato in Schwamenthal, § 4757. Citato in
Macfarlane, p. 255. Citato in Pescetti, p. 98. Citato in
Schwamenthal, § 4850. Citato in Augusta Forconi, Le parole del corpo.
Modi di dire, frasi proverbiali, proverbi antichi e moderni del corpo umano,
SugarCo, 1987. Citato in Castagna 1866, p. 136. Citato in Castagna
1866, p. 35. Citato in Castagna 1866, p. 24. Citato in Schwamenthal,
§ 5051. Citato in Castagna 1866, p. 8. Citato in Grisi, p.
78. Citato in Schwamenthal, § 5147. Citato in Schwamenthal, §
5314. Citato in Grisi, p. 254. Citato in Schwamenthal, §
5385. Citato in Grisi, p. 269. Citato in Salvatore Battaglia, Grande
Dizionario della Lingua Italiana, XII Orad - Pere, Unione Tipografico-Editrice
Torinese, Torino, 1984, p. 1065. Citato in Schwamenthal, § 5454.
Citato in Schwamenthal, § 5513. Citato in Castagna 1866, p. 73.
Citato in Gustavo Strafforello, La sapienza del mondo, ovvero, Dizionario
universale dei proverbi, Volume III, A. F. Negro, 1883, p. 701. Citato in
Schwamenthal, § 5620. Citato in Schwamenthal, § 5630. Citato in
Francesco Grisi, Il grande libro dei proverbi. Dall'antica saggezza popolare detti
e massime per ogni occasione, Piemme, 1997, p. 12. (EN) Citato in Jerzy
Gluski, Proverbs. Proverbes. Sprichworter. Proverbi. Proverbios. Poslovitsy. A
comparative book of English, French, German, Italian, Spanish and Russian
proverbs with a Latin appendix, Elsevier Pub. Co., 1971, p. 114. Citato
in Schwamenthal, § 5721. Citato in Macfarlane, p. 267. Citato in
Novo vocabolario della lingua italiana, vol. I-II, coi tipi di M. Cellini e C.,
1870, p. 312. Citato in Schwamenthal, § 5765. Citato in Schwamenthal,
§ 5795. Citato in Schwamenthal, § 5817. Citato in Castagna 1866, p.
39. Citato in Macfarlane, p. 138. Citato in Schwamenthal, §
5924. Citato in Schwamenthal, § 5932. Bibliografia Augusto Alfani,
Proverbi e modi proverbiali, Tipografia e Libreria Salesiana, Torino, 1882.
Niccola Castagna, Proverbi italiani, Antonio Metitiero, Napoli, 1866. Niccola
Castagna, Proverbi italiani, pe' tipi del Commend. Gaetano Nobile, Napoli,
1869. Elena Donato, Gianni Palitta, Dizionario dei proverbi, L.I.BER. progetti
editoriali, Genova, 1998. John Florio, Giardino di ricreatione, appresso
Thomaso Woodcock, Londra, 1591. Francesco Grisi, Il grande libro dei proverbi,
Piemme, 1997. ISBN 88-384-2710-0 Carlo Lapucci, Dizionario dei proverbi
italiani, Mondadori, 2007. David Macfarlane, The Little Giant Encyclopedia of
Proverbs, Sterling, New York, 2001. ISBN 0-08069-7489-3 Alessandro Paronuzzi,
José e Renzo Kollmann, Non dire gatto..., Àncora Editrice, Milano, 2004. ISBN
88-514-0219-1 Orlando Pescetti, Proverbi italiani. Raccolti, e ridotti sotto a
certi capi, e luoghi comuni per ordine d'alfabeto, Compagnia degli Aspiranti,
Verona, 1603. Riccardo Schwamenthal e Michele L. Straniero, Dizionario dei
proverbi italiani e dialettali, BUR, 2005. ISBN 978-88-58-65738-6 Annarosa
Selene, Dizionario dei proverbi, Pan libri, 2004. ISBN 8872171903 Carlo
Volpini, 516 proverbi sul cavallo, Ulrico Hoepli, Milano, 1896. Aa. Vv., Il
nuovo Zingarelli, Zanichelli, 1983. Nicola Zingarelli, Vocabolario della lingua
italiana, Zanichelli Editore, Bologna, 1973. Gustavo Strafforello, La sapienza
del mondo: ovvero, Dizionario universale dei proverbi di tutti i popoli,, vol.
III, Augusto Federico Negro, Torino, stampa 1883. Voci correlate Modi di dire
italiani Scioglilingua italiani Categoria: Proverbi dell'Italia. Massimo Baldini. Keywords:
Campanellese, lingua utopica, fantaparola – phanta-parabola, il proverbio
italiano, amici, implicatura proverbiale, proverbi romani, proverbi italiani,
lezioni di filosofia del linguaggio, con D. Antiseri, indice, grice – filosofia
analica, parte I: filosofia analitica Austin e Grice, parte II tipi di
linguaggio. baldini — implicatura
proverbiale — i amici — das mystisch — filosofia italiana della moda maschile
italiana — haircuts — journalese — journal of the Royal Association of
Philosophy — lingua utopica — Campanellese — Empedocle filosofo poeta —
Lucrezio filosofo poeta — Parmenide filosofo poeta — Eraclito l’oscuro —
vallisneri — fantaparola — gargarismo — trabocchetta — rumore — ingorgo —
aforismo — Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baldini” – The Swimming-Pool
Library.
Baldinotti (Palermo). Filosofo. Grice: “I like Baldinotti; Speranza
thinks he is a Griceian, just to oppose to the Italian received view that he is
Lockeian! But I say, he is MORE than either! Baldinotti can quote from Rousseau, and the French authors that Locke
never cared about! And most importantly, he can SIMPLIFY and need not appeal to
Anglo-Saxonisms as Locke does (what does it mean that a ‘word’ STANDS for ‘an
idea’?” --.” Grice: “In fact, as Speranza showed at Oxford, one can organize a
tutorial on the philosophy of language (he won’t though – he hardly organises!)
just using Balidonotti’s rough Latin of
first chapter of ‘De vocibus’!” “All the
material I rely on in my Oxford 1948 talk on ‘meaning’ for the Philosophical
Society can be found there: ‘vox’ significat affectus animae artificialiter,
lachrymal significat affectum animae naturaliter --.” Grice: “Unless she is a
crocodile, as Speranza remarks!” -- Tutore di metafisica nel ginnasio di Mantova,
pavia, padova. -- Altre opere: “De recta humanae mentis institutione”; Historiae philosphica prima,
et expeditissima adumbratio -- Operationum mentis analysis -- De
elementis humanarum cognitionum -- de perceptione et ideas, earumque adnexis --
de idearum affectionibus, et in primis de realitate, abstractione, universalitate
earumdem -- de simplicitate, compositione, relatione idearum -- de idearum
clartitate, et distinctione, veritate, et perfectione -- DE VOCIBUS -- DE
SYNONIMIS, ET INVERSIONIBUS -- DE VARIETATE LINGUARUM, ET DE MUTUO VOCUM, ET
IDEARUM IFLUXU -- DE USU, ET ABUSU VERBORUM -- DE VERBORUM INTERPRETATIONE --
DE MULTIPLICITI SCRIBENDI RATIONE. -- De humana cognitione -- Humana
cognitionis analysis -- de PROPOSITIONIBUS -- de gradibus humana cognitionis
-- De cognitione probabili -- De cognitionum realitate -- De
extensione humanarum cognitionum -- De impedimentis humanarum cognitionum
-- de humanarum cognitionum instrumentis -- De mentis magnitudine,
et perspicacitate augenda -- De analysi, et definitione -- de ratiocinio
et demonstratione -- De nonnullis argumentorum generibus -- De
inductione et analogia -- De methodo generatim -- De methodo
analytica -- De methodo synthetica -- De principiis -- De
hypothesibus -- De ratione coniectandi probabilia -- De fontibus
humanarum cognitionum -- de conscientia -- de ratione -- De concursu
rationis, et revelationis -- De sensibus, deque recto eorum usu
-- De cognitionibus, et erroribus sensuum -- De observatione, et
experientia -- de auctoritate -- De testibus oculatis, et auritis --
De traditione et monumentis -- De historia -- De librorum
authenticitate,sinceritate, suppositione, interpolatione, corruptione, et de
interpretationibus -- de arte hermeneutica -- “Tentamen”;
“De metaphysca generali liber unicum” De existente et possibili, et
deiis, quae qua tenus tale est, ad utrumque pertinent -- De identitate,
similitudine, distinctione -- De composito, simplici, uno -- De infinito -- De
spatio -- De tempore -- De causa -- De non nullis impropriis causarum generibus
-- APPENDIX: De Kantii philosophandi ratione et placitis, ut ad metaphysicam
generalem referuntur. S. Gori Savellini, Cesare
Baldinotti in "Dizionario Biografico degli Italiani", Istituto
dell'Enciclpopedia Italiana, Roma. E. Troilo, Un maestro di Rosmini a Padova,
Cesare Baldinotti in: "Memorie e documenti per la storia della
Padova", Padova, 1922, v. 1,
427–441. Cesare Baldinotti, in
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. DE
VOCIBUS. Voces nostrum studium ,et operam expostulare,fuit iam suo loco
(V. Introd.) observatum.Quae cum sint idearum nostrarum signa, horum tradenda
prima divisio est', qua in naturalia, et artifi cialia distinguuntur. Signum
naturale cum re significata habet nexum ex eius natura derivatum ; artificiale
vero ex hominum institutione, et arbitrio aliquam rem significat: lacrymae sunt
doloris signum naturale, voces signum idearum artificiale. Non erit porro
alienum de naturalibus signis advertere, homines non raro ad errorem trahi, dum
ex illisrem significatam inferunt: sunt enim haec signa, vel effectus, qui
caussas, vel caussae quae effectus indicant,ut in signis rerum futurarum. Iidem
autem effectus nunc ab una,nunc ab alia caussa oriun tur;neceadem caussa eosdem
semper effectusgignit; sed multa sunt, quae causarum actionem determinant,
suspendunt, et etiam omnino mutant. Non igitur necessario, et semper SIGNUM
NATURALE rem certam innuit; sed a multi spendet, quod eo una potius,quam alia
ostendatur. SIGNA AFFECTUUM ANIMI SUNT NATURALIA. Eos tamen non semper
denotant,et ille in perpetuo errore versaretur, qui de affectibus ex eorum
signis statueret. Sed ad voces revertamur, quarum origo, indoles, vis, in ideas
et mentis operationes, influxus, usus, abusus, interpretatio leviter
attingenda. Quin imo Reid Rech. sur. l'Entend. tom. I. p.147. arbitratur, eas,
quas dicimus causas, esse tantum RERUM SIGNA.Videmus dumtaxat, quae dam hunc
inter se nexum habere, ut si unum praecedat, aliud illico subsequatur. Id
tantum statuere possumus; non vero in eo, quod prae cedit respectu illius, quod
subsequitur, causalitatem, ut aiunt, inesse, cum haec nullaratione
ostendatur. Inter eas quae non prorsus inutiliter attinguntur, commemorari
possunt potissimum nominum divisiones, ad quarum normam nomen in enunciatione,
vel est subiectum de quo aliquid effertur, vel est praedicatum quod effertur,
vel est concretum , remque significat cum sua forma, vel est ab. Voces
INSTITUTIONIS esse signa nempe ARTIFICIALIA, nec necessarium habere NEXUM
CUM REBUS, ad evidentiam probantmuti, et linguarum varietas. Nam si haberent,
organo tantum vocis impedito, sermonis nullus esset usus, et quae apud omnes
eadem sunt, iis demetiam nominibus appellarentum. Mira autem est non rerum, sed
verborum diversitas; et muti sunt ii, qui surditat elaborant. Nunc vero
videamus, an facultates humanae vocibus AD RES SIGNIFICANDAS INSTITUENDIS sint
pares. An videlicet possint homines linguam aliquam condere. Animi affectus,
sensusque vividi doloris et voluptatis naturalibus quibusdam signis
coniunguntur, iisdemque manifestantur: homines haec facile possunt artificialia
reddere, sinempe observent affectus, quos indicant, nec ea tantum edant
impellente natura, sed consulto, ut quae experiuntur, ceteris manifestent. Quae
signa clamoribus non articulatis, habitu vultus, et gestibus continentur, atque
actionis, quam vocant, linguam conficiunt. Usu autem constat facilem, expeditam
secretam idearum COMMUNICATIONEM hac lingua non obtineri, distantia, et
interposito corpore impediri. Sensim igitur ab ea recedere coguntur homines, ad
eamque feruntur, quae vocis distinctionibus pititur. Hanc ut instituant
clamores naturales in primis pro stractum solamque formam exprimit, vel est
categorematicum quod solum et per se aliquid notat, vel est syncatagorematicum
quod ab alio avulsum nihil certi repraesentat, vel categoricum quod rem
categoria comprehensam obiicit. Sed de his satis, sapiens est non qui multa,
sed qui utilia novit. Negat P. Lamy in Trat. de Ar. log.; et Rousseau disc.
sur. l’ineg. parmi les Hom. parum abesse censet, quin demonstratum sit, fieri
numquam posse, ut lingua ulla suam ab hominibus originem habeat. Ita etiam A.
Encycl. A. lang. His e diametro se se oppouunt Epicurei, quorum hac super re
doctrinam Lucretius l.5. de Nat. rerum exposuit. Diodorus Siculus lib. I. Bibl.
quod nobis possibile, et hypotheticum est, factum habet, omnesque linguas
humanum fuisse inventum putat. Nuperrime in Diss. de ling. orig. ab A. Berol.
an. praemio donata Herder contendit linguas in universum non divinae, sed
humanae prorsus esse institutionis. De hac lingua V. Condil. Gram. part. 1.
lib. 1. Sinensium lingua hanc videtur originem habuisse, ea constat ex
monosyllabis 328., quae pronunciationo variata otficiunt SIGNA, (V.
Condil. 100 -- trahunt, et simul iungunt, rerum etiam externarum
sonos referunt, et imitantur (1), unde voces oriuntur, quae elevatione et
depressione multum distantes aliquo modo gestuum et clamorum vim exprimunt (2).
Atque ita verborum dstinctioni consultum, quantum patitur vocis et auditus
organum rude adhuc et inexercitatum. Subtilius, qui haec disputant, quorum
etiam aures delicatiores, similitudinem quamdam inveniunt inter impressionem a
rebus, et a verbis excitatam. Eamque prolatis ex. gr. vocibus "crux",
"mel", "vepres", "furens",
"turbidus", "languidus" distincte sentiunt. Hinc multae
voces (3). Multae etiam facultate, qua pollemus, per metaphoras sive
transferentiam omnia explicandi, et associandi insensibiles ideas sensibilibus.
Revera verba, quae res insensibiles referunt, metaphorica sive transrelata
omnino sunt. Perpetuo autem usu nomina propria evasere, et vetustate multorum
etymologia sensibilis ita evanuit, ut res pror sus in sua SPIRITUALITATE
relinquant (4). Quin immo eadem verba solum confugiendo ad metaphoras sive
transferentiam poterant fabricari. Externa namque forma carent, etsono res
insensibiles, unde earum no mina desumantur. Ac certe per imagines solum et
similitudines id, quod experimur, aliis, qui illud ipsum non experiuntur,
possumus explicare. Traité des connois. hum. t. II.) Alii monosyllaba Sinensium
numerant 330. Freret sur la lang, des Chin. 214., et signa inde componunt
54509. et 80000. Haec loquendi ratio supponit iudicium aurium subtilissimum .V.
Soave Compendio di Lock. l. III. Ap. al c.I. Hoc facile sibi suadeat quisquis
rerum , quae sonorae sunt, nomina advertat ex gr. "ululare",
"hinnire", "sibilus", "tonitrus",
"stridor", "murmur". Observat Warburthon Ess. sus les
Hierogl. actionis lingua, inventis iam vocibus, homines usos fuisse, Orientales
praesertim, quorum alacritas, et imaginatio vehemens hunc exitum etiam
requirit. Atque exempla permulta ex historia tum sacra, tum profana hanc in rem
profert. Ut recte nomina rebus IMPOSITA sint, quamdam esse debere rerum, et
nominum convenientiam ex ipsa earumdem rerum natura ortam in Cratylo contendit
Plato. Sunt enim, ait ipse, nomina IMITAMENTUM, quemadmodum etiam pictura, et
qui rei speciem in litieras, ac syllabas referre nonnovit, is ineptus nominum
opifexest. Erecentioribus Ioannes Baptista Vico, principii d'una scienza ec.,
de similitudine verborum cum forma rerum multis disseruit. Horum nominum
exempla sint cogitatio, voluntas, desiderium, aliaque huiusmodi. V. Traité de
la Formation mechan. etc. Ch.XII. Quod vero homines, ut boc aliisque
modis ad sermonem formandum aptisutantur, fortius incitat, indigentia est,
maxima rerum omnium magistra. Sermonis etiam utilitas, atque necessitas vix
paucis inventis vocibus sub oculos posita. Hinc multi conatus, ut verborum
numerus augeatur, quos felices reddit cognitionum, et idearum COMMERCIUM
homines inter initum. Haec enim se mutuo fovent, et,ut verba commercium illud
amplificant, ita ex commercio novae vires additae, et nova suppeditata
istrumenta, quibus ars faciendorum et deligendorum verborum perficiatur. Nec
vero sunt verba hominum opus , in quo ipsi nihil aliud, quam arbitrium recte
sequantur. Est enim illa analogia im pressionis, et soni imitatio, quam
pulcherrime in fingendis vocibus sequimur. Est forma, et affectio orgaai vo
eis, a qua earumdem elementa, literae praesertim vocales determinantnr. Sunt
denique derivata, et voces artium, et technicae in hominum libertate haud
repositae, cum illae derivationis naturam imitentur. Hac vero vim, et EFFECTUS
RERUM SIGNIFICENT significent. Duo sunt, quae videntur iam asserta impugnare.
Primum scilicet sermonis institutionem requirere, ut de significatu verborum
conveniatur. Conveniri autem inter eos non posse, qui omni sermone destituti
sunt. Quasi vero nulla alia praeter voces ratio suppetat. Qua explicetur quid
ipsae SIGNIFICENT Percipi enim id. Modum transferendi verba necessitas genuit
inopia coactaet augustiis, post autem delectatio iucunditasque celebravit. Cic.
de Orat. III. 38. Notat et illuminat marime orationem tamquem stellis qui.
busdam verbum translatum Idem ib. 48. Huc faciunt quae de linguarum analogia
subtiliter disserunt Valcke naerius in observatt. academicis, Lennep
inpraelett. academicis et Scheidius in orat. de linguarum analogia ex
analogicis mentis actionibus probata. Sed est etiam unde moveantur homines ad
res alias per multas metaphorice appellandas, eas scilicet quas primum obscure,
et confuse percipiunt. Et enim has meditando earum quamdam similitudinem cum
aliis distincte perceptis intelligunt, quorum proinde nomina ad illa
transferunt. Atque in hoc mirifice dele ctantur luce, quae ex rebus claris, et
distinctis in alias obscuras, et confusas diffunditur. potest ex
circumstantiis, in quibus adhibentur, et ex gestibus, qui pronunciatis
nominibus res indicarent. In eamdem etiam rem conferet illa imitatio, atque
similitudo. Aliud vero erat huiusmodi. Summis viris difficultas maxima se semper
obiecit in linguis ornandis, et perficiendis. Qui ergo fieri potuit, ut homines
plane rudes, atque ferini, communione scilicet cum aliis non exculti ex integro
sermonem con dant? Fieri istud quidem non posset, si de perfecto sermone
contenderetur, in quo non tantum apte expressa, quae ad necessitatem pertinent,
sed etiam, quae ad cultum vitae, et oblectationem. In quo multae orationis
partes, multae leges syntaxis, et inflexionum, multa denique, ut numerus , et
varietas obtineatur. Haec sermoni non absolute necessaria sunt, et vix nomina,
utaiunt, substantiva, et signum aliquod numquam variatum ad verbum auxiliare
sum exprimendum. Quae quidem hominis licet sylvestris facultates non superant.
DE SYNONIMIS, ET INVERSIONIBUS. Multa in qualibet lingua videntur esse
synonima, voces scilicet, quae unam , eamdemque ideam referunt. Dubitari autem
iure potest, an revera sint. Quin potius statuerem ea, quae di cuntur synonima,
eamdem ideam principalem reddere, accessoria vero differre plerumque. Atque hoc
modo inter se differunt "amo", et "diligo";
"peto", et "postulo", "timeo", et
"vereor" V. Condill. Gram. P. I. Ch. XIV. V. Traité de la form.
mechan. du langage V. II. Ch. IX. et suiv. Condillac Traité des connois. hum.
T. II. Grammaire P. I. Ch. I. II., Maupertuis Diss.sur les moyens etc. pour
exprimer leurs idées; Sulzer de l'influence recipr. de la raison, etc. extat in
Ac. Ber. et Vol. IV. opusc. Select. Mediol. Soave Comp. etc. L. III. Ap. al
C.I. Receptum apud logicos novimus, ut nomina tribuant in synonima, quae
secundum unam eamdem que rationem de pluribus usurpantur, et in homonyma quae
rationem naturamque diversam in iis SIGNIFICANT, de quibus adhibentur, Iam vero
homonyma alia dicuntur casu et citra rationem ac temere im. Synonima stricto
sensu accepta, quae nulla idea accessoria differrent, linguae vitium
indicarent. D'Alemb. Elem. de Phil. XIII. Hac de re notandum est, vocibus
duplicem illam ideam subesse. Et, ut praeteream exempla, quis est, qui
non noverit, vocabula quaeque loco, et tempori, et generi s u scepto orationis
non convenire? Quod profecto maxime oritur ex idea accessoria , quae non solum
verba eamdem principalem exprimentia distinguit, sed eorum etiam opportunitatem
deter minat. Quae ergo synonima habentur, ea profecto non iure; namque discrepant
accessoriis illis ideis, quae rerum diversos aspectus, gradus, et relationes,
et adiuncta exprimunt. Imperiti haec apprime synonima reputant, quorum levia
discrimina lin guarum cultores notant. In eo frequenter peccant ex lexicis pene
omnia , quae adolescentes, misere decipiunt. Duplex distinguitur ordo verborum,
et conformatio, naturalis, et artificialis; seu inversa. Porro quem ordinem
habent ideae, idem etiam verborum est: ordo autem idearum , fertur ad modum,
quo in mente sibi succedunt, vel ad earum dependentiam mutuam ,ex qua fit,
utaliaealias regant, et explicent, aliae explicentur, atque regantur. Si
primum, ordo, quo exprimuntur ideae, naturalis erit, quando idem, ac ille, qui
in earum successione servatur. Qui quidem in singulis diversus est. Si
secundum, ut ordo sit naturalis , quae alias regunt, vel ab aliis explicantur
praemittendae sunt. Quae reguntur, et alias explicant postponendae. Secus erit
artificialis, seu inversus. Sed unde oritur, quod ordo inversus orationi vim
addat,et siteius quasi lumen quoddam nosque voluptate perfundat? Scilicet
posita , et alia dicuntur ratione , quod rebus tribuantur aliqua inter se
similitudine cohaerentibus. Posteriora haec aptius vocantur analoga , sive
attributionis, quum uni quidem rei primario conveniunt, reliquis secun
dario,sive proportionis,quae pluribus rebus propter proportionem aliquam
accommodantur. Ex hoc fonte methaphorae pleraeque omnesdimanant.
Nonnullarum rerum, atque actionum voces quaedam ex ideis hisce accessoriis
inhonestae, et turpes evadunt; quae ideae si in aliis vocibus omittantur, vel
mutentur,nulla amplius est turpitudo. Unde fit, quod eae. dem res, etverecunde,
etobscoene dicifpossint,etquod ea,quae turpia re non sunt, nominibus, ac verbis
flagitiosa ducamus. vel re. D'Alembert loc. cit. Traité de la form. mech. du
lang. ch. IX n.161. quia eum, quem Rethores MODUM appellant, et numerum
parit; quia imaginationem exercet;quia ideas nimis disiunctas coniungit. Revera
voces ordine inverso positas ad se mutuo referi m u s , ut postulat idearum
ratio. Atque si in periodo multae sint ideae, quae a quadam principalipendeant,
et exiis aliquaehuic praeponantur, postponantur vero aliae, arctius omnes cum
ea coniunguntur. In quo nexu illud praesertim admirabile,quod uno verbo ad
integram sententiam animus revocetur. ET IDEARUM INFLUXU. Varietatem
linguarum,et nos ad confusionem Babylonicam referimus: simul autem liceat
statuere,ex diverso hominum ingenio, et indole,eorumque externis circumstantiis
oriri potuisse, et magna ex parte ortum esse,ut singulae suum -co lorem
habeant. Ac ex confusione illa vocum origines potius , quam ipsaelinguae;quae
perfici sensim debuerunt,etaugeri verborum copia, atque syntaxi, et
inflexionibus moderari. Non una autem in hoc fuit omnium gentium ratio, quod
multis causis tum physicis, cum moralibus tribuendum est. Atque inter eas
recenserem caeli temperiem, non eamdem ubique faciem naturae, rerum aspectus
multiplices, diversas opiniones sive ad civitatem sive ad religionem
pertinentes , regiminis formam, educationem, mores denique et studia. Revera
sermonis vis, copia,et harmonia , et inflexio nationum exprimit characterem
,ingenium,atque culturam ;ac eadem linguarum , et gentium fuere semper fata, et
vicissitu dines. QUOD IN ROMANI IMPERII, ET LINGUAE LATINAE ORTU, progressu, et
occasu velut sub oculos positum est. Iunctam, cohaerentem, levem, et
aequabiliter fluentem orationem facit verborum collocatio. de Orat. II. 43. V.
D'Alembert Eclair cis. S. X. Condill. Gram. P. II. ch. XXIV. Art.d'Ecrire L. I.
Ch. I. II. V. Traité de la form. mechan. etc. Ch. IX. INSTITUTIONE
DE VARIETATE LINGUARUM, ET DE MUTUO VOCUM. Sed ex iisdem quoque caussis fit, ut
nationes singulae suas habeant idearum compositiones, et vocibus, quibus aliae
carent, utantur. Inde in interpretando necessitas verborum circuitum saepius
adhibendi, cum non semper verbum e verbo exprimi possit. Indeadeo difficile,
libros ex una in aliam linguam convertere. Atque in hoc lice tomnis cura, et
studium ponatur, adeo singulis linguis suum quoddam inest ingenium, ut nullae
fere sint interpretationes, quae authographi vim, et elegantiam, et nativum
splendorem nequaquam desiderent. Quae quidem eo nos adducunt, ut intelligamus,
quem dam esse posse sermonem , edisci, et percipi omnino facilem. Quem si
universalem veluti linguam cunctae gentes amplecterentur, eo possent mutuum
idearum, et cognitionum commercium inire. Ac difficultas, qua ab hoc
impediuntur, ex lin guarum varietate, et multitudine orta, alia etiam ratione
vinci posset, characteristicam nempe aliquam linguam adhibendo, quae res ipsas,
non rerum voces exprimeret. De bac sermo erit inferius. Interim cum nullus ex
hisce modis adhuc suppetat. Nec ulla spes sit, ut in unum, V. Clericum Art.
Crit. tom. I. part. II. cap. II JII.IV. Linguarum varietas non leve incommodum
affert societati, et progressui scientiarum. Nec enim consultum, ut facile
edisci possent, sed casu magna ex parte conditae, et procurata copia, et
ornatus. Sublatis declinationibus, coniugationibus, et generibus, si
substantiva unam immutabilem terminationem haberent, suam adiectiva, et verba
pariter, quae adverbiorum ope temporibus, et modis distinguerentur. Pullae
superessent regulae grammaticorum, et solius lexici auxilio linguam quam libet
perciperemus. Cumque insuper esset prima illa lingua absurda, et egestate,
atque uniformitatis squalore sordesceret. Maxime erit optandum, ut LATINI
SERMONIS USU conservetur. Locupletissimus namque est hic sermo, electissimis,
et praeclaris verbis abundat, communis hactenus fere fuit omnium eruditorum ;
qui eo abiecto, si suam singuli linguam in scribendo usurparent, iam, vel
aliena omnia nescirent, vel in omnium gentium, quae doctrinae laude vel alium
conveniant omnes. Splendescunt, perdiscendis linguis curam, et operam
compellerentur insumere, quam ad rerum cognitionem adipiscendam con tulissent.
Quae hactenus de vocibus dicta sunt, satis ostendunt , easabideis, et cogitandi
modo non parum pendere. Sed magnus etiam est verborum in ideas, et mentis
operationes influxus. Atque in psychologia, si fortasse ad veritatem plane non
sua detur, nullas fere absque verborum usu nos exequi posse. Illud profecto
demonstratur, eo foveri multum, et perfici. Quod probari nunc potest exemplo
mutorum. Earum etiam gentium, quibus signa numerica pro maioribus quantitatibus
deficiant, cetera sint nimis composita. Illi quidem multis omnino ideis
destituuntur, mentisque facultates obtusas habent, nec ad operandum faciles et
expeditas. Hae vero gentes in rebus ARITHMETICIS ne vix quidem progressae sunt.
Tantum signa valent ad humanas cognitiones promovendas vel impediendas. Equidem
arbitror, a veritate abesse longius , qui crederet verba communicationi cum
aliis tantum inservire. Ea menti sistunt obiecta. Nimis composita dividunt. Si
magnifica sint et nobilia, res amplificant, et extollunt. Si humilia ,
imminuunt , et deprimunt. V. Laur. Mosheim DISSERT. DE LINGUAE LATINAE CULTURA
ET NECESSITATE V. etiam quae nuperrime Ferrius, et Tiraboschius, Alexander
Gorius, et Clementinus Vannetti in eam habent Alamberti sententiam (Melang.
tom. V.) statuentem bene LATINE scribi non posse, et LATINITATE abiecta studium
omne ad patriam linguam transferentem. Refert Condaminius, quosdam Americae
populos, cum ocesnume rorum supra ternarium non habeant, in hoc arithmeticam
eorum consistere: certevix paucis huiusmodi signis utuntur, iisque ad modum
compositis, ex quofit, ut maiores numeros mente haud comprehendant, et quem
libet ultra vicesimu in indefinite concipiant, atque capillorum numero
comparent.V. De la Condamine Voy. Paw Rech. sur les Americ. tom. II. ch. 27.
Cogitatio, ait Plato in Theaeteto, est sermo,quem mens apud se volvit circa
illa, quae considerat. Cum enim cogitat, secum ipsa disserit adeo, ut cogitatio
sit sine strepitu vocis oratio, aut interior collocutio. Verba sunt veluti
signa algebrica idearum. Brevitati proinde consulunt, multarum idearum
comparationem faciliorem reddunt, mentenique sublevant in consideratione
multarum rerum , atque compositarum : quae verborum utilitates maxime elucentin
modorum mixtorum ideis, quas in nullo exemplari iunctas videmus, sed verbis
exhibentur et comprehenduntur. Verba denique nexus inter ideas augent, eas
facilius, et promptius exsuscitant, distinguunt, quae vix confuse percipe
rentur. Sic technicae in arte pingendi voces omnia alicuius tabulae vitia,
omnemque praestantiam indicant. Quae eos prorsus fugerent, qui illas voces
nequaquam callerent. Quare scientiae, omnesque artes multum debent verborum
inventoribus, ut Linnaeo Botanica; et Ontologia, licet nomenclatione tantum
contineretur, non esset penitus contemnenda. DE USU, ET ABUSU VERBORUM. De
verborum usu , et abusu haec fere a Lokio, aliisque melioris notae Logicis
accepimus. In primis duplicem esse usum verborum. Vel enim eo cogitationes
nobiscum cooferimus, vel aliis exprimimus. Illum jam attigimus capite
superiore, in quo osten debam, maximas utilitates ex hoc interno sermone
profluere. Cum aliis autem utimur verbis,aut in vitae civilis consuetudine,vel
in studio Scientiarum. Inquo praesertim distinctioni, et perspicuitati. Ideae
in primis connexae inter se sunt ex analogia rerum , et ex circumstantiis, in
quibus acquiruntur. Sed insuper verbis etiam unae cum aliis colligantur. Quot
ideas unum verbum saepius excitat? Atque ex verbis haec alia utilitas provenit,
ut in ideiş revocandis, et disponendis ordini, quo a nobis comparatae fuere,non
adstringamur, sed illum qui magis placeat, magisque conveniat iisdem tribuimus.
V. Bonnet Ess. Analyt. ch. XV. V. Sulzer loc. iam citato, Micheaelis de
l'influ. des opin. sur le lang. etc. Condil. Art. de penser. part. 1. ch. II.
STELLINI OSSERVAZIONE SULLE LINGUE tom.V. Soave Comp. di Locke I. III. ap. al
cap. XI. Scilicet, si circa ideas maxime compositas, sertim
versemus, iisdem nomina, quibus appellantur, substituimus. Nimis enimesset
operosum, eetiam impossibile, omnes ideas simplices illas componentes mente
revolvere. Quod etiam confusionem afferret, et, ne idearum relationes
viderentur, obstaret. Haec habitualis, non actualis distincta perceptio est
idea coeca, et symbolica Leibnitii. circa notiones prae 1 litandum est, ne per
se difficilia reddantur difficiliora. Et ne rerum INVESTIGATIONES in aeternas
quaestiones de nomine abeant. Locutionis perspicuitas, atque distinctio maxime
optanda idearum claritatem , et distinctionem desiderat: quomodo enim , quae
confuse percipimus, aliis distincte explicarentur? ad eam confert brevitas, in
qua tamen habendus modus ;nam ut nimia verborum copia res obruit, ita eorum
egestas tenebras rebus offundit. Denique cum iis, qui loquuntur confuse,
vitanda fa miliaritas est,qua nihil fortius ad idem vitium contrahendum. Ita
autem verbis utamur,ut unicuique idea determinata re spondeat;dequo,sinobiscum
tantum colloquimur, nos ipsos debemus interrogare; si vero cum aliis,et dubium
sit, an verba ideas claras,etdistinctas in aliorum mentem immittant, tunc ea
dilucide explicanda sunt. Id quidem de nominibus idea rum simplicium praestari
potest (vix autem erit necesse), si observanda proponantur obiecta,quae
significant,etmodus,et circumstantiae indicentur, in quibus eorum ideae acquiruntur.
Nomina vero idearum , quae sint compositae, decla rantur earum obiectis
exhibitis, et addita ipsorum definitione; nec enim omnia attributa patent
sensibus , et multa indolem potentiae habent. Quod si haec obiecta non
existant.Verborum universalium magnus est usus , et maxima utilitas; innumera
enim individua una tantum voce comprehendi mus , quae esset impossibile omnia
suis nominibus distinguere. Esset etiam inutile, quia necii , quibus cum
loquimur , multoque minus illi, quibus aliquid scriptum relinquimus, eadem
indivi dua agnoscunt. ergo. Sed quae circa rectum verborum usum ,et eorum
inter pretationem , de qua inferius, praecipienda sunt , separari vix possunt
ab idearum doctrina iam tradita; utrisque enim idem finis, avocationempe ab erroribus.
Inter eaetiam intimus nexus, quantus inter voces , et ideas. Nunc lum , quae
propius ad verba pertinent, quaeque eo loci explicata non sunt. ne actum agam ,
so meratio idearum , quas simul reflexione, aut pro arbitrio con iunximus .
fiat enu Vocibus demum abutimur, si quae incertam significa tionem habent , non
definiantur ; si definitus sensus mutetur. Si in rebus scientiarum artes
consectemur oratorias. Namque delectant, et movent , mentemque avertunt a
philosophico rerum examine,quas non accurate,sed ad similitudinem exprimunt. In
verborum sensu commutando peccarunt vehementer scholastici. V. Gassendum in
Exerc. Arist. Exerc. I. Y2. Hic cum Logicis fere omnibus non praecipio,
abstinendum esse a tropis atque figuris:rebus enim permultis vocabula metaphorica
necessario imposita sunt, aliis utiliter, cum ex iis orationi splen dor
accedere videatur.V. Condil. Art. d' écrire lib. II. ch.VI.VIII. Translationes
propter similitudinem transferunt animos,etre. Neque vero minor utilitas ex
verbis notionum ;.harum nullum archetypum extra nos invenitur iunctas exhibens
ideas, ex quibus componuntur. Id vero praestant nomina , quae illas
comprehendunt. Sunt denique voces , quas particulas appellant Grammatici ; his
utimur , ut ideas , et periodi membra , et periodos ipsas interse coniungamus.
Quisaneusus mirificus est, et ex eo maxime vis tota orationis derivat. Rectus
erit,si m u tuam rerumdependentiam , et relationes diligenter
consideremus. Haecdeusu. Nunc de abusu,quirestat,dicendumest. Iam vero
abutimur verbis, si iis, nullam ideam , aut obscuram associemus, adeo ut inania
sint, et ambigua : in quo non rarum estlabi;etmaxime verba notionum
virtutis,honoris,et simi lium multo pluribus sunt meri soni; obiectum namque
non referunt, quod sensus moveat, nec illud quod referunt in in fantia,
percipimus. Hinc ea absque ulla significatione usurpandi longam consuetudinem
iam contraximus, a qua ut recedamus, reflexione vehementer nitendum est. Sed
abusus verborum etiam ex ignorantia, et malitia. Scilicet, qui partium studio, vel
anticipata opinione moventur. Qui vulgo avent imponere. Qui difficultatum
pondere haerent et idearum defectu impediuntur. Tunc enim vero ii obscuritatem
affectant, verbis inanibus se se involvunt, nova etiam fundunt, atque
sesquipedalia. Optimum ergo erit, mentem parumper a verbis abstrabere, eamque
in ideas intendere, ne verborum so nitu hallucinemur. DE VERBORUM
INTERPRETATIONE. Ut verba recte interpretemur, advertendum in primis , notiones
eius, a quo adhibentur,'significare. Non igitur suppo natur, omnes iisdem
verbis adnectere easdem ideas, et ipsis rerum realitatem apprime respondere.
Quae qui supponunt, de rebus perperam ex verbis iudicant, et ex propriis
aliorum ideas non bene copiiciunt. Hisce per summa capita indicatis, advertam
in primis , duplicem distingui sensum verborum ,proprium scilicet,et tran
slatum ;namque verba,aut illam rem exprimunt,cui primum fuere assignata. Vel ex
quadam similitudine cum re ipsis propria eadem verba ad aliam significandam
transferimus. Quod si fiat, sensum habent translatum, secus autem proprium.
Nisi quis sensum proprium alicuius vocabuli accurate perceperit, numquam fieri
poterit, ut translatum assequatur ; hic siquidem ad illum refertur. Rerum
praeterea conditionem inspiciet,ex qua oritur, ut quaedam voces potius, quam
aliae, ad res sensu translato exprimendas , electae fuerint. Inde clarius is
sensus patebit ferunt, ac movent huc , et illuc, qui motus cogitationis
celeriter agi tatus per se ipse delectat. de Orat.III.39. Translatio est, cum
verbum in quamdam rem transfertur ex alia; quod propter similitudinem recte
videturposse transferri. Cic. ad Heren. IV. 34. V. D’Alembert Eclaircis., sur
les Elém. de phil.S.IX. Quam vero quisque vocibus notionem subiicit,
arguere tuto possumus, si multa nobis nota sint , eaque invicem conferamus ;
loquentis scilicet ingenium ,et characterem ; affectus, oris habitum; linguae,
quautitur, vim, etindolem; rem,quam tractat; circumstantias, in quibus versatur
; opiniones , religionem , quam sequitur;demum popularium eiusmores, ritus,
consuetudines. Haac enim omnia efficiunt, ut licet verba sint eadem , non tamen
eumdem significatum , eamdemque vim habeant. Nunc vero singula verborum genera
persequar, deque Difficilius assequimur sensum verborum , quae notionibus
respondent; siquidem praeter caussas nominibus rerum existentium communes,
peculiares etiam concurrunt, ex quibus efficitur, ut singuli fere has ideas
diverso modo componant. Nec eadem semper significatio est vocibus orationis par
ticulas exprimentibus; loquentium igitur, vel scribentium affe ctus, et
praecipue contextus consulatur,cum ex iis sit dedu cenda. De nominibus
relativis, quid advertendum in praesen tiarum,ut recte explicentur? Porro id
muneris iam explevi dum agebam de eiusdem generis ideis. Quid de nominibus uni versalibus,quod
paritereoloci, traditum non sit? Illud subiungam,voces
particulares,aliquis,quidem etc. obscuras esse et indeterminatas , nec denotare
, quae , et quanta subiecta sint; universales vero aliquando particulariter
esse sumendas , aliquando non omnia individua generum,sed individuorum
omnia siores esse , iisnonnulla admoneam ,ad quae semper in eorum
interpretatione spectemus. Qualitatum sensibilium nomina, colorum nempe,
saporum, aliarumque huiuscemodi, sensationum etiam doloris, et voluptatis, non
ita accipienda sunt, quasi explicent id, quod est in rebus extranos positis.
Nostras affectiones, sensationesque upice indicant, nec vero vim ,et
quantitatem earumdem. Hanc experimur, non autem accurate possumus efferre. Fit
autem sae pius,ut in singulis maior,vel minor multiplici gradu sit. Dubitari
quidem potest,quin ipsae sensationes apud aliquos prorsus differant, licet
omnes iisdem verbis utantur. Omnes arborum folia viridia appellant; sed adhuc
videndum, utrum haec vox eamdem omnibus ideam excitet. Quam dubitationem
ingerit di versa corporis temperies, et habitus, nec eadem omnino fabrica
sensuum;unde certo oritur,affectiones easdem aliquibus inten aliis
languidiores. Nomina idearum compositarum non idem apud omnes. Maxime si
veteres cum recentioribus confe rantur.Ne eas igitur ex nostris notionibus
interpretemur,sed ex illis quae ampliores fortasse, vel angustiores. Nominibus
substantiarum easdem qualitates non omnes complectimur. Nulli essentiam
primariam ,a qua eae nascuntur,et quam nemo novit. genera
significare. Quae quidem ex circumstantiis, linguarum indole , ingenio ,
loquendi consuetudine patent dilucide. His fere,quae adhuc de vocibus
disserebam,continentur potiora,ex quibus Grammatica philosophica conficitur:
linguarum singulae suam habent, eaque particularis Grammatica dicitur. Est vero
etiam Grammatica universalis,quae principia constituit omnibus linguis
communia.Notandum superest,syntaxim totam legibus concordantiae, et regiminis
moderari. Illae principio identitatis, hae principio diversitatis innituntur.
DE MULTIPLICI SCRIBENDI RATIONE. Verborum disputatio manca videretur, si de
scribendi rationibus haudquaquam dissererem . Non igitur una fuit haec ratio
apud omnes,nec omnibus temporibus;tamen in eo con veniebant, quod signis non ore,sed
manu expressis,quae mente revolvimus , manifestarent. Ac , quae fuere adhibitae
, pictura , symbolis allegoricis , denique signis arbitrariis continentur.
Pictura , aut unam figuram , aut plures exhibet , signa arbitraria , aut
ideas,aut syllabas,aut litteras verborum significant. Scripturae, licet ab ea,
qua nunc omnes fere gentes utuntur, longe dissimilis,specimen aliquod hominibus
innotuit per imagines, quae sui res exhibent, et quas conamur exprimere
gestibus, et clamoribus, ut iis longinqua designemus. Ad has imagines
adumbrandas urgebat necessitas communicandi cum absentibus, et praesentibus
explicandi id, quod verbis efferri non poterat. Inde scripturae origo potius,
quam ex cura committendi nostras cognitiones posteritati. Ac homines ex rerumimaginibusidconsiliicepisse,ut
illas ad suos cogitationes enuntiandas delinearent, omnium pene De usu, abusu,
interpretatione verborum videantur Locke Ess, etc. lib.III. Leibnitz
Nouv.Ess,etc. lib.III. Ioannes Clericus art.crit. tom.I. pari.II. V., silubet, Du
Marsais princip. de gram. Condillac gram. D'Alembert Elem .de Phil. XIII. et
Eclaircis. sur les Elem. etc. S.X. Hinc sensim crescere CONVENTIONIS
SIGNA, etomniatan. dem huiusmodi evadere. Quae sola notiones reflexione
perceptas possunt exprimere;quae ob multos rerum aspectus sunt neces saria.
Namque notiones illae nullam imaginem praeseferunt, nec ulla imago diversas
relationes comprehendit, sub quibus res, ut lubet, consideramus. Signa autem,
quae ex CONVENTIONES sunt, optime quidem ab eo constituta fuissent, qui singula
singulis ideis simplicibus destinasset, suaideis universalibus, aliademum
determinationibus individua constituentibus. Enim vero simul iungendo, et apte
componendo haec signa, res omnes possent distincte explicari. Hoc scribendi
modo philosophus tantum uti potest, nempe ille solus, qui probe noverit,
quaenam ideae simplices illas substantiarum , et notionum componant. Quique
etiam adeo individua observaverit, ut ea possit plane describere. Illum
Si V. Paw Recher. sur les Americ. tom. I. part.V. sect.I. Quemadmodum
artis typographicae occasio fuit ars caelatoria et sculptoria, ita occasio
scripturae non inepte ex pictura derivatur. Praesertim quum non aliter pictura
sit obiectorum in oculos incurrentium scriptura, quam scriptură sit obiectorum
quae aures feriunt pictura. Videsis Augustum Heumannum in conspectu reipublicae
literariae cap. III. Signa huiusmodi spectant ad linguae universalis
institutionem. Alia ratio, qua ad eamdem possumus pervenire, indicata, vix est
N. LXXII., LXXXII. V. Soave Comp. di Locke lib. III. cap. XI. append. II., qui
etiam celebriores scriptores recenset, a quibus ea institutio suscepta fuit. V.
Leibnitii historiam , et commend . characteristicae linguae univers. V. Traité
de la Form.etc. ch. XII. XIII. Mémoires de l'Acad.de Berl., ibi Thiebault
videtur succensere Michaelis, et non ita difficilem , nec vero inutilem, et
multo minus perniciosam , quemadmodum ille, censet linguae universalis
institutionem, quae primo illo modo conti. neretur. Sepositis iis,quae de universali
lingua instituenda excogitari subti. vetustarum nationum monumenta , et
gentium sylvestrium usus confirmant. Quae scribendi ratio picturae affinis, cum
auctis cogni tionibus , relationibus, et indigentiis ad omnia exprimenda non
non satis esset apta , paulatim a signis discessum est rerum i m a ginem
referentibus, et huius pars tantum depicta, et plures ideae uno signo
manifestatae. nenses adhibent; proindeque mirum non est, si tanti apud illos
sit literas scire. Quae difficultas effecit, ut nationes pene omnes eum
scribendi m o d u m probaverint, quo non obiecta , non ideas , sed sonos
verborum reddunt; ad quem duplici via perveniri posse declarabam liter possent,
splendideque proponi; multo fuerit satius consilio adquie scere Ludovici Vivis,
cuius haec sunt (De tradendis disciplinis lib.III. verba. Sacrarium est
eruditionis lingua,et sive quid recondendum est,sive promendum velut proma
quaedam conda.Et quando aerarium est eruditionis, ac instrumentum societatis
hominum ,e re esset generis humani unam esse linguam , qua omnes nationes
communiter ute rentur: si perfici hoc non posset, saltem qua gentes ac nationes
plurimae, certe qua nos christiani initiati eisdem sacris, et ad commercia et
ad peritiam rerumpropagandam. Peccati enim poenaesttot esse linguas. Eam vero
ipsam linguam oporteret esse cum suavem , tum etiam doctam et facundam.
Suavitas est in sono sivé simplicium verborum ac separatorum , sive
coniunctorum . Doctrina est in apta proprietate appellandarum rerum . Facundia
in verborum et formularum varietate ac copia. Quae omnia effi cerent, ut
libenter ea loquerentur homines,et aptissime possent explicare quae sentirent,
multumque per eam accresceret iudicii. Talis videtur mihi latina lingua ex iis
certe quas homines usurpant, quaeque nobis sunt cognitae. Quod continuo
diligenter, ostendit , eaque tradit quae merito cum disputatione componantur ab
Aloisio Lanzio libris inscriptionum et carminum praefixa. Sinensium alphabetum
Typographicum ex 50000. signis constat. V. Mémoir, concernant l'histoire etc.
des Chinois parles mission. tom.X1., Mopertuis ius auget ad 80000. Iaponenses,
licetomnino diversa linguautan tur, quae tamen Sinenses literis
consignant,probe intelligunt; adeo verum est haec signa non rerum voces, sed
earum conceptus delineare. V. Marpertuis loc. Iam. cit. Cesare Baldinotti. Keywords: signum, genere, segno, genere,
segno naturale, lacrima, segno artificiale, ‘homo’, conventione, imposizione,
idea, ideazionismo, ‘Locki’ – enciclopedismo, illuminismo, ‘discorso sulle
lingue’, propositione, articulazione, logica, grammatica, forma logica, modus
significandi, imitatmento, il Cratilo di Platone. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Baldinotti” – The Swimming-Pool Library.
Balduino (Montesardo). Filosofo. Grice: “It is amusing that when we
were lecturing with Sir Peter at Oxford on ‘Categoriae’ and ‘De
Interpretatione,’ Girolamo Balduino had done precisely that – AGES before, in a
beautiful beach town of Italy! ‘vir Montesardis,’ –“ Grice: “Strawson and I, following
an advice by Paulello, drew a lot from Balduino’s commentary – especially of
the Peri Hermeneias, the section on the ‘oratio,’ since we were looking for
ordinary-language ways to render all the modal distinctions (indicative,
imperative, optative, interrogative, vocative, …) that Balduino finds so easy
to digest – but our Oxonian tutees didn’t!” -- Girolamo Balduino (Montesardo), filosofo. Studiò all'Padova sotto Marco Antonio Passeri
(detto il Genua) e Sperone Speroni, formandosi nell'eclettismo aristotelico
proprio di quella scuola. Nell'anno 1528 insegnò sofistica in quello Studio;
passò poi all'Salerno e all'Napoli.
Nella seconda metà del Cinquecento le sue opere furono occasione di
vivaci dibattiti. Alle sue dottrine si oppose, in particolare, il filosofo
padovano Jacopo Zabarella. Altre opere: “Perì hermeneias”, “De interpretation,
“Dell’interpretazione”; “Quaesita tum naturalia, tum logicalia”. Studi Giovanni Papuli, Girolamo Balduino:
ricerche sulla logica della Scuola di Padova nel Rinascimento, Manduria,
Lacaita, 1967. Giovanni Papuli, Girolamo Balduino e la logica scotistica, in «
Acta Quarti Congressus Scotistici Internationalis », II, Roma, 1978. 257-264. Giovanni Papuli, Dal Balduino allo
Zabarella e al giovane Galilei: scienza e dimostrazioni, in « Bollettino di
storia e filosofia », 10, 1990-1992,
333-65. Raffaele Colapietra,
recensione di Ricerche sulla logica della scuola di Padova nel Rinascimento, Emeroteca
della Provincia di Brindisi. Girolamo Balduino. “De signis” – It. segnare,
notare, segnificare, notificare. Primum oportet ponere quid sit nomen et quiddam
in proæmio, ut propositum suæ considerationis ante quid verbum cognovit et
infra cap. 4. aborationibus rethoricis et poeticis, atque his quæ affe&us
explicant, illam se legit. Item tes cum iste liber cum tota logicae undem modum
cong ordine lint considerandæ quo, ex processu resolvente com, siderandi
participet, qui ut ante monstrani est instrumen monstrat cum inquit primum b u
m etc. vers tum seu organum notificandi. Quid inter hunc librum quid nomen quid
alios differt? Respondetur. Id interesse et, inter diversos primum, non
intentione, cum libros eandem rem eodem. Sed quod primo exequi instituimus
dicit opor versa prædicata propria, de illa cognoscantur. Q dis eaq. præs cipia
quæ ut deus, et prima in omni tempore, loco, et subiecto dicata ex fine libri
facile inveniri possunt demostrationis prin sunt nes mus, extremum nam ut
posuis cellaria. Sed suppositione in hoc libro et finis, rum conceptarum res et
secundum quid. nam tuimus dicata quinq vocem SIGNIficativam stag are, ut toto,
necessario tra verlrum etc. Hæc verbi, orationis, enunciationis nominis,
nis.quibus eædem libro poeticorum est præceptionem tradere finiendo considerant
alterum ut aspernetur et um metrum formandum , bi etc. ponere ergo sumetur non
tanquam res dubia inquirendum sum, verum et constans ponendum primo mento magno
exemplo explicatur artificum idem ligna ut lignum, sit sed ut per seno post.14.
incos unus artifex statua malter, referet tæ, cum suo proprio monius inquiens
est, ad metria positi oest. Ita que non nisi ut enunciativa. Sed de subiecto do
post 27 secund infine. Regulem logicem ponuntur ut notæ 7 .orator & poeta
enunciativa orationis codem modo ista des :ante & significativas intendit
idenim definitionem nomini suer, sitione significantes tionis tantum urilitatem
declarat apo demonstra, ad impossibile .primo prior.30. de tione simplici et
hæc porest. Sed demonstratio viriali cuius, extranea autemquod licer hæc omnia
demonstrationis Postremo scientiarum . ne viam atrium et iuxtaponitur uerbo.
Quinto. Magentinus positionis modos modo considerantes est interpretario posis
ab instituto, nomen, aim. Ponere seu constituere. Ammonius has tres particulas legit
cum ergo sunt prædicata propria, affirmationis et negatio m u m ponendum constituat,
alterum appetendum explicaretur oportet definire et fugiat. Poeta ad cocinnum Orator
vero adornatum. Id, quasi istorum quid nominis ad efficiendam. Huic (quam
retuli) rei confidera Averrois, definitio enim inquit Aristotele ingeo navem, alteradarcham
considerandi modo, assentit, Amonius definitiones positiones in arte dicuntur.
Sexto meta.primo .in hoc libro confiderari de oratione, 46.inmagnocóm.
cuiusratio eft. primopoft.17 , quam per voces clariores m o prior. primo, syllogismus
est pofitis et concessis et concesso, pri oratio in quaquibusdam attingit.
Magentinus syllogism ducente hac tenus. Paul e re niam fiunt. Quos cis nunc. De
utilitate dicimus ab anima, quæ facile opus suum inquitex proposito patet: ad
de et ex inscriptione cepit ergo tertium modorum quos Ammonius attulit. Su fubic&ti
interpretationem refertur. Quam mitur enim gratia quæri retulimus. nam
enunciatio ad ins ponere, primo prosupposito tendatur tet non simpliciter sic enunciatio
in to, propositum quas per voces clariores NOTIFICARE nostrum esse, de oratione
enunciatiua. Hic autem finis haberinó potest, nisi per hæc præ tertioait igitur
de partibus tractandum est, quid nomen et quid verbum inquiens et Aristotele
verba conne fit.ita res tractatæ alibi differunt. Requires et ens quia propositum
Aristotele quam, necessario. Quona igitur modo feiungi simplicium essential cognoscenda
differentia locus, tamen hic nomen quid ferme omnis explicatur ex proprio fine:
quoniam et uerbum. Juult ergo cum cæteris ista considerat utg; syllogism parte
sefficiantur logicus bus ponere sumendum fore pro definire et definit, ut verum
ftrationi deseruiant ,Grammaticus vero voces tis compositas incongruum sermonem
ex elemen, ut congruum, siue oportet ponere, id est definire et falsum
declarant. Et novissime ut demons dissentio latina ac sensum accedens ab
Ariftotele sidiceret. Sed ab his ad Aristotele verba græca et . nam
committereturnugatio possunt? ideo dixit (primum est. Erfide hoc infra fit proprius
considerandi oportet ponere id est
definire, magis ut iudico. Hæc ut bene Ammonius cognoscit. Ac .p fine propositis
nullo modo tamen, ut omnia moveri commune commodum est .id muniter posito .
primotop.nono.Tertio et concello quomodo sumitur procom de mente Ammonii
attulimus gratia explicentur omnibus Aristotele. Quarto pro ea fine ratiocina,
pro proprium est. Locis quos adverbio quod nibuscarentibus pro definitio
positione fieri ex Heracliti sententia via relinquenda non est docentes, fine uia
eius contemplationem medio. secundopofter.46. incommens damus, tenebrisan;
circumfufi more feramur, est igitur enumerat: tray in incertum imperitorum via,
illa quam toti logicæ Aristotele to magno est. coniung nomine et verbo. Pris
.primo poft.2. secundo poft. & ratiocinatione ex hypothesi. Secundo supra retulimus.
& hic accepit sed quem modum Aristotele hic fert. Ex hisitaque patet; Arit,
resconsiderandas acceperit, verbum nullum proj (3 ea considerantur. Quod si
orationem ante etiam posuit et tractavit, non nisi ut genus commune
enunciationis, ad uerbum. O D iii 11 rum ordinem pofuisse) tanquam subie&ta
& tertio prædi num triplex poteftelle consideratio: primo ut absolute Cara,
quideorum, scilicet ponere sive constituere. Sed (ci G gnificant simplices
conceptus. Ita in prædicamentis cons [citorcum primo post.42.in parva commentatione:scieny
fiderantur. aliomodo secundum orationem, ut partes tiasitunius generis fubieéti,
quçcúq; exprimis componitur, sunt enunciationis: f icadhuc librum spectabunt, propter
& partes et PASSIONES horú sunt pse.igitur duo sunt per reaenim (inquit) traduntur
sub rationem nominis: u et er se predicata, substantia sive essentia quæ per definitione,
& biut significant cum tempore aut sine tempore, intulit accidens proprium,
quod per demonlirarionem concluditur. etiam. & tradunturaliahuiuf modi, quæ
ad dictionum secundo post.12. & 20. Inmagno commento.curtantum
pertinentrationem, ut enunciationem conftituunt. sed quid iftorum proposuit? Ad
hoc dicendum mihi uiden quam vistant iuiri ingenium & iudicium semper cum sum
tur:ex primo poft.32.9 res quarüeifecf timperfe&um, & quafiinmente, non
habentuere definitiones. Secundo ponendum quod supra documus, res logicas ut
intrumen ta& organaartium &fcientiarum, ad proprios fines & quod satis
probatum est supra cum a nobis Ammonius notitiam explicandam referri. His datis
patet ad petitios eftr eprehensus. Præter eaut diximus nome et verbum nem
responsio: namdum Aristotele quid prædi & orumponen simplicior asunt decem
vocum conceptibus. Amplius dumpropofuit, &
propriosfinesquiipsorumpropriafer rationoininis & ucrbi, & fi ut
materia adorationemenun rendicuntur accidentia,anteposuilledicetur.sicenimora,
ciatiuampertineant:tamencorumrationesfuntcommu cionem definiens (enunciatilia
(inquiet) nonomnis: sedin nes,nonadorationem tantum contra &æ.ut prædicari
de qua verum et falsum explicatur et nomen quod uoxfitfi vocibus simplicibus
prædicamentorum non possint, licet significatrix. Requirit secundo Ammonius a
quo Sancto Thommas cum divo Thomas in ultimo suo dicto contra Ammonii opis mas accepit.
Side simpliciumuocum essentia in prædica; nionemconsentiam: nomina et uerba in hoc
libro tracta mentistra & auit: cur hic iterum repetits respondet Ammonius.
ri,ut cum tempore aut sine tempore significant, & non solu unum quod supra
tanquam falsum reiecimus. Nam et fi hæc significare dicuntur, sed& alia huius
modi quæperlig verum dicat. Ut robique easdem res subicto, rationetas nent ad
rationem di&tionum. Licet ipse subinferat, utes mendifferentes finiri: nihilo
minus differentia quamaddu nunciationem constituunt. Non solum affirmatigam
enun cit est falsa. Dum inquitin prædicamentis voces (implis ciationem, ut
Ammonius afferebat. Si autemista verba, ces considerariut indicativæ sunt rerum
simplicium. quæ Sancto Thomas referret addi &
tasuperius.utdiceret.qiftainhoc
quandocumtemporismensurasignificant,uerba:quando libro traduntur sub ratione
nominis et uerbi & aliahuius, finetemporecum articulisexplicant, nomina
sunt dicen modi, scilicet tradunturquęadrationempertinent diction da.
quandopars affirmationisuel negationis, dictio: cum num, tuncinternomen, &
verbum et di&ionem distingue autempars syllogismi, terminus. Sed primum
inassignay ret. Sed primum de mente sua verius credo. nam alii tadifferentiadubito:
quarationeun quamfiet: ut subftan teridemdi& umforet contrasequodin,
Ammoniumdie siaperleexistens significari possit cum motu ?maxime ximus.
Postular Ammonius et Sancto Thomas curaliisoras cum prædicamentares sint
completæina&tu.namquinto tionis partibus missis, solum nominis et verbi considen
metaph.14. septimom et. septimo. primophysic.13.ens rationem præposuit?
addituretiam. quialibropoetico, quod est, aut existeredicitur, indecemprimasres,
seuuo cespartitur: quo ergo significari possunt cum tempore! nifi diceres ut
sunt imperfe et cres, & in motu cum actione, et passione et generatione
lubstantiæ alteratione qualitatis augumento quantitates et ex accidente
mutatione eorum quem ut uo referuntur. Scundo nec dubium solue revidetur quod
dicit. Sed falsum etiam est in prædicamentis rum orationis partes enumerans,
inquit septem elle. Elementum, syllabam,coniun &ionem, nomen, uerbum,
articulum, orationem. Ad hoc breviter respondent alig qui Aristotele omifisse quediximus,
tanquam inutilia et ad rectum poetarum metrum spectancia hic solum mentioq nem
fecisse nominis et verbi: pista sunt necessariæ pars tes enunciativæ orationis,
inquo, Ammonio non aduery voces considerari,utadfimpliciúrerumcognitionédedu
saturnecdiuo Thomas & fi oratio enunciativa quando que cunt.
Sedinftantaliqui. In prædicamentis, Aristotele finiensin conftetexaliis,
nonnecessario,simpliciter,omnitempore, quit.
subftátiadicitur.sedquamuanèrefpondeantexAril. quintometa.14.& Alexandro
Aphrodiseo exponente cognoscant, secundum se inquit vero dicuntur quæcunq;
predicamenti figuras significant aut secundum Boethium quæcunque figuras
predicationis significant. Itaq. Per Aphrodiseus quod a nomine, vel uerbo
deducitur:lig verbum hoc dici et significare res simplices, prædicamen ca ad metaph.
Non logicum pertinent: sed ut decemu04 ces, resmediis CONCEPTIBUS A POSITIONE
SIGNIFICANT logie corum considerationi convenient.Tertio dubito& tan cuti
et legendum, et navigandum alegere et navigareuer bo originem ducunt. Similia
dici possunt de explicatione Alexandri. Quautitur Ammonius dum deuerboconsin
dcrans Aristotele inquit. Verba autem secundum se dicta nomina sunt id est simplex
habent significatum nominis86 eius simplicibus partibus simile, ex quibus constatoratio.
itapro Alexandro dicendum. Aduerbia plurima ex parte quam vanam explicationem
existimo, dictionem, fcili, cet affirmationis partem vocari. Nam quid interest
dicere nomen et verbum vocem esse SIGNIFICATRICEM A PLACITO et afferere nomen
et verbum dictionem esse ihuiusmay deduciauero nomine aut a parte orationis
simpliciquæ nifestum indicium ex Aristotele sumitur. Qui ipsam orationem
definiésait oratio est vox significatrix, cuius ex partibus aliqua separata
significat ut di&tio, verum non ut affirma, tio) ergo idem est dictio, quod
nomen. Ut habet translatio Magentini. Et uerbum. Ergo dictio, orationis communis
pars erit, non affirmatione stantum. Nisi per appropriationem dicatillud. sed
Sancto Thomas vidensuocesalo, gico consideratas non poffe decem simplicissimas resnis
fime diis conceptibus explicare (itaenim secundo intely uim habeat nominis. Et
ita si quando goriatura uerbo, nihil Alexandri et Aristotele sententiæ officit.
Sed cur particis pium, quoquam se pissime in demonstratiuis scientiarum sermonibus
utitur, tam hicquam poeticorum libro relis quit? Ammonius dicit, quia ad nomen
et verbum reduciy tur. Aliiuero (quod idem sft) dicunt.quia pars comporis ta
non simplex orationis dicitur. Quæ responsio magis perspicua et euidens iudicio
meo est. Nam primo pos ter, secundo, præposuit dupliciter præ cognoscere
oportere, leda siue secundæ intentiones dicentur, nonu tres linere alia någquiasuntprius
opinari necesseest. alia vero quid lationibusdenotant. ad philosophiam
naturalem spe&an eft quod dicitur intelligere oportet. sed cum duas propos
tes& metaph.) aliteralseric, fimplicium(inquit)di&tion
nerettresenumerauit. &adhocrespondet Auer,optertia ma ueneratione
sanctitatis probarim :in hactamenre' sponsione dissentio: cum decemuocesnon solum
limy plicesconceptus:sedresmediisconceptibusexplicent: loco,& subiecto
:& non nifirefpe&uhorum .ut pronos men loco proprii nominis. Adverbium
tam hic, quam in libro poeticorum relinquitur, uelquiautAmmonius ait, modum
dicitquo prædicatum incit subiecto . aut ut Грее species
compofitaeftexhis.dicasetiáoduaspræposuit necceffarias signum est q Aristotele
dixit (dupliciter præcognoscere oportet :& quia lunt,opinari neceffe
eft:& quid in telligereoportet.) ad tertiam vero præcognitionemder
scendens,fineullonecessitatisuerboadditoait.(quædam autemutrag:)
namcompofitaquæeffe&am tertiamnas turamnondicuntdistinctama
componentibus,explicatis neceffariispartibus,
coniunctimexhisexplicariintelligun tur:uerum quicquidsitdeArist.
textu&rationequamdi xi: sufficiensrefponfiofit: qhicdefimplicibus partibus
Aristotele loquitur,qualenonestparticipium. Coniuns &ionemomisit,nonquia
inutilis,quoniam .infra(quod ipseconfirmat hic, & fupra contra Boethii
opinionem adduxit) Arist. diuidet orationem enunciatiuam in unam simpliciter
& coniunctione unam: quæ neceffarioconiun &tionemexpoftulat. Necexomisitut
Ammonius et Sancto.Thomas quiapars orationis non est sedparsconne&ensatque
coniungens. quoniam Aristotele coniunctionem poeticælos
cutioniannumerauit,tanquam orationiselementum.Item incap.quarto Auerdicet,q
Syllogismuscöditionaliseft unusperunam copulatiuam .Gifoloriturergodieseft.
ficut predicatiuus est unus per medium terminum. sedhic medius terminus neceffaria
est pars prædicatiui sive CATHEGORICI cay thegoricifyllogismi. ergoconiunétiosyllogismiexpofis
tionefiuehypothetici.Hinc etiam contra eos fequetur inutilemconiun
&ionemnonesse: sed hypotethicofyllor gisino necessariam: ut medium
terminumprædicatiuo lyllogismo.Aliisentiunt proptereaconiun&ionemomiy
filfe:9 de enuntiatione una simpliciter demonftrationi seruienti, nonconiun
& ioneuna considerat. fed hanc reo sponsionem suprareiecimus: earationeq
hicliberetiam ad librum priorum dirigitur,proximam syllogismo hypothetico
positionem seu præmislamelargiens. Itemin hoclibro,capit.quarto,propofitamenunciationemab
aliis oratoriisac poeticis seligens, in has duas partitur. itidemq; definitaoratione
in libro poeticorum eam in hasdistribuit feudi uisit species. Dicendum
igiturnobis uidetur, proptereahic relictamconiunctionemesse,quia facilis,
&Arift. sufficienserateaparua cognitioquam tradidit in libropoeticorum. Aut
secundodicasquor demonstrativa (cientia. Etsecundo poft.1oo. iuxta ordi niamhic
propofitú est deuocibus neceffario SIGNIFICATRICI nemquem compositiuum aut
componentem appellant, pri bus agere ad interpretationem per voces clariores
efficie endam: quęoémorationemefficiant.namhiclibercom muniaprincipiaexplicat.
Dic secundoq in libro poeticorum cap.septimo, coniunctio fignificationis est
expers: quade causa definitioni, quæ perfectaoratio eft,nondeses Post eaquid
eft negatio, o affirmatio:& Enunciatio, u Oratio, Deinde quidsitnegatio,a
affirmatio,o enunciatio, oratio . mo genus,quid syllogismus,indespeciem,
.demonstras tionemcollegit. Pręponens igitur hic ista duo tangfinem unum integrūperse
ex genere & specie constitutum, primo ait enunciationem, deindeoratione,
non ita per se intenta: nobis innato aminus communi ad communiora. Sed hæc
responsio improbatur quia. Si ordinen obis innato, seu aminus communi &
imperfe &oincipiendum est, cur latus ordo ex accidente euenit, ut quando
gabimperfer &o furnatinitium . quia in libro de animal secundo, tex. tura
Magentino cum universęres (quas universalia dicunt) singulis pr æferantur,
cur hic non primum de oratione & genere, deindede enunciatione affirmatione
& negatione exorsus fit Aris.sed primum a nomine & uerbo:namauta
nobilior iinchoandumerat, aut aremagiscõi, utordone ceffariusseruaretur, non
anobiliori,cum negationem affirmationi prætulerit. nonacommuniori,
quiaoratiofuif setanteponenda. Responderipse. solerequandoq; Arist.
hocfacere,&arecommunioriquæadfingulasresfpes
&antincipere:quomodohicdicitanominefignificante
substantiamfiueeflentiam&auerbofignificanteaction nem,seupassionem,
Ariftot.inchoare:sedquareiftum fecundumneceffariumordinem internegationem&
affir mationem,enunciationem & orationem nonferuauerit,ut
Gbioccultumomifit. Præter ca enunciatio utfinishorum materialium principiorum
prenstantior eft, ergo antepor nendafuisset. Amplius nomen et uerbum,
nonideocom munioraeffedicimus,qfubftantiamautaccidensfignis
ficaredicuntur,sedquoces fignificatiueapositionelunt, non substantiæ aut
accidentis,ut naturæ terminatæ ,sed communiter omnium.ratio ergo eftfumpta a
processu re foluente finem in causas & principia prima intra rem.itas
quecum orationem nonomnem, sed inqua est verum et falsum, ideft enunciatiuam, ut
finems peculetur, & hæcex nomine et uerbo, u tmateriis, constituatur necessario
ers go primum dehis ponendum quidf snt: deindecóplebit reliquas partesprocessusresolutiui.sedlubieêtum,utto,
tumpotentiaprimasspeciescontinens,cognofcinonpo teftfinesuis speciebus, ficuttotumconftarenonpotnifiex
suis constituentibus principiismaterialibus:ergodeindede his quæ ad finem
propriú diriguntur, dicendú, quid oratio et enunciatio, ut completes finisele&us
habeatur:quiahęc in affirmationem & negationemdiuiditurincap.4.utpris
mophy.intelligere&scire,ideftintelligerescientificum: quodAuer. finemrerumnaturaliūpofuit.Itemgenuscú
principalisuaspecieunumfinéconstituit,aceaunoproce mio proponuntur&
epilogocolliguntur:utprimoprio rumdesyllogismotradaturus, resoluentemprocessumef
ficiensaprincipalifineinchoauit:dedemonftratione & Propositis
communibus, ut materia, principiis ,quæ per se significantiaomnem orationem
conftituunt: nunc de coniun&tis ex hisprincipiis& conftitutis proponit.pri
mumq; ait (Deinde, ut diximusex Ammonio, ordinem
&urumproponitderebusomnibus:deindedeelemétis,
denotatprincipiorumconftituentiumadresconstitutas. &deomnianimapriusquamhacautillaanimaratio
( Po f t e a (inquit) quid n e a t i o affirmati o &c Hic quæris
igitur & causa ordinisa dnoscelatiestanotioribus nobis Diiii gationé
affirmationi prætulerit. Ammonius ait
priusnomenperfe&tiusposuit?Iteminsitus,& adnosre
66.asenfuuisusincepit.ut Auer.aitineodem libro.co. 77.& tertio, de anima
de intelle&tu priusquamdesecuny. dum locúmotiuapotentia. fimilitersecundúaccidenseft
ut a comunioribus fiue minus cómunibus procedamus. N a m de generatione
confiderans de eageneratim sedin ruit: & fi per se non significat (utait
Aristotele licet significa, demonftratio intéditurquamfyllogifmus.Etprimophy.
tionemnonimpediat perfeadhunclibrumnon(per primofinemproponensrerum naturalium primum,dixit.
&at,quietiampersesignificantiaprincipiautmateriasspe
(quoniãintelligere&scirecótingit,)ideftrationemellen culari conftituit.quarenoninutilisquidemcõiun&tioerit:
tiamacnaturamipfarum,indescientiamperdemonstras
sednecneceffariaparsfignificans,orationiperse,ideft, tionemacquisitam
ratione& eflentiapofita,& explicata omni
conueniens.oratioautemdiuisainspeciesduas, perdefinitionem,infineexplicando,nobiliusexplicauit,
quas monftrauimus, conjunétionem a poetica,uteiusparti
acmagisintentum.Sedadhucdubiumremanetcurnes utilem ,mutuo accipit. fed ad
enunciationem relatam .ut primo priorum ,prius TEX.BOETHII. ordine ad nos relato
,ab imperfecto ad perfectum procedit :&
tum.negatioenimdiuisionemcontinet,affirmatioautem in compofitione
consistit.negationé igitur affirmationi præposuit, & magis ad
partesaccedir,compositioautem ad totum .Sed(ueniatantiuirifitdi&um
)negatiomagis composita dicitur quam affirmatio, cum additione negan
cisparticulæ,affirmatio efficiatur negatio .Ad rationem orationem quatenus ex
luis materialibus principiis cons harum alterutrapræferatur. Sedcontra
dicimus,pris mo hic liberad demonstrationem dirigitur, utipsefal dem , fic nece
æ de m voces . Quarum autem hæ primum notæ sunt, eædem omnibuspaßionesanimæfunt:&
quas rum hæ fimilitudines, res etiam eædem . Sunt quidem ergo hæc in uoce,earum
in anima paßios admodumnecliter&omnibuscædem,ficneceædemuoces. sentienscum
Magentino) reprehenditura Sueffa. adiu mentum seu commodumin proæmio, nointra&tatupræ
do) secondo phy.tertio.(natura est principium motus et quietis, per se et non
secundum accidens) ita que ex his
positissequiturnegationeminftrumentumexplicanscon fitioneformam
eflentiamq;cognoscimus)hoceft.agen rium& dirigentiumadipsas.) oportetigiturantecogno!
scereeaexquibusestdefinitio:proptereaq iftapræcogni tetur, quææternorumeftnonautemadeaquæpossunt
ponitur. diceretenimilleutilitatemtotiuslibri&fubiecti esse et noneffe.Amplius&fiinuno,quoddepotens
anteponenda, nonutilitatem cognitionis,perquampro tiaadactumeducitur, non effe prius
fit eo, quodeft: pofitad eclarari, ac definiri possunt. meæ etiam rationi
nontamen simpliciter inomni natura: cumea,quępoten responderet. In sequentitextu
commodumqualefitex tia continentur, nonnisiaba&tu, aceoquoduereeftin
plicari: sed quaminordinateacfinearteidfaciat,uides
actumedantur.prætereacap.quartoenunciationemin rintalii, retamenidemcumAmmoniosentit.quiait
Ari. hasduasspeciesdiuidensinquit.(Prima autem oratio docereuellenomen&
uerbumquorumfinitionespromi enunciatiuaeftaffirmatio,deindenegatio)crgoanaloga,
fit, voces significativas esse, quod ifferata uocibus nonli aut per rationem ad
aliud nonç quediuifaparticipaturab gnificantibus, ut scindapfus:docetớ; quæ
inprimis,ac utrii : feddehocfuolocodicemus. ficut Ammoniusdi
proximeabipfisuocibusindicentur. conceptus, fcilicet durumpromittit: Mihiquodueriusprobaturiftudeft,
primo: quorum interuenturesexplicantur.quæomnia, hic affirmationem et
negationem numerariut plures species enunciationis, id est oppositionem
contradictoriam erficientes. Quæinfinefectionis fecundæ,inhoccons
fiftit.utaliquasedeiiciant,deftruant,abiiciant,atque ne gent; inhocautemefficiendopotissimam&inprimis
uimhabetnegatio. Quade causaibiprimumabArift.nu meratur, utsecundodeanima.27.cum
speciesfubie &ti fintplures,exenumerationeipsarumpręcognoscituresse, id
uerum in demoftratione, itidemindefinitionemons quodanteponendumeft,priusquátra&atuscognitioaut
definitiohabeatur . Secundo sciendum primo topic. ofta 10i2. Oppofita secundum contradi&ionemprotenfaals
terumoppofitumexplicare.Et primopoft.o&auo.inan tiquacommentatione,(de omni
eftquod non inquodam quidem fic,in quodam autem non. nec aliquando quis d e m
sic, aliquando quidé non. Jitidem & tex. quinto (scire autem simpliciter opinamur:
fednonfophifticomos nitionis: quafimplici conceptu fine assertioneseucompo
iun&a & diuisa, notioremessequamaffirmationem.nam ta,adeamhabendamnosdiriguntatqzillamexpræno/
attenderefolemus diligentius ad contraria, ut nobisads
uerlancia,quameaquæfuntnobisinnata. hæcautemafs firmatio, illa negatio explicat
perexterna, explicantia tisefficiunt. Arif. igiturquoniamdixit(oportetnoscon
ftituere, fiue ponerequidnomen, & uerbum &c.)&com
muniterhæceruntuoces significatiuæpofitionealięfine quodammodoalterum.sedcumiplespeciesexpropriis
very explicatione, alięcum vero.iccircoiftatriaantemani
principiisinternisdefiniuntur,I uxtaipfarumnaturam, feftat: nesuedefinitionesfineratione&fineeaquamipse
proprietatem, &utadcommunegenusproportionale tradiditarteponantur,at
constituantur.Inhoctextu (euanalogumreferuntur,finiendasuntprimo,modohic
inproæmio negatio præposita numeratur, ut inftrumeng uoces essesignificatiuas:quod
Ammonilis exponens cum tumefthabensellenorius:secundoautemmodoinfrain
Magentinoaitquattuoradhocutilia effe:rem,conceptú, tra&tatu& propria
definition subsequitur.itainfra,intely uocem, &literas. Amm.autemait Aril.inchoare,nona
le&usquandoplineueroeft& falso: circa compositio/
rebus,quæperse,necfimplicessuntneccompofitr:(id
nemenimeftfalfum&uerum.Queruntnouissimecuruo
enimhabentconceptus)sedauocibus,tr"finequibusdis cem
omiserit.sedAris.infriadhocrespondebit:utsupra sciplina&
præceptiofierinonpoteft aitą;nullamfacere etiãanobisfatiseftdi&ú.Proptereaadaliacótendamus.
Aristotele de literis mentionem.gnulliusuifuntadproporto & fiuerafint, diminutetamen
ponunturcum aliammay gis intentam differentiam (significare scilicet a
positione, non natura) relinquat,quamtamenAlex.&Pfelliuspro sequuntur et in
expositione tex. Ammonius A uer.ato
aliinonomittunt.unumergo&idemcumhissentiens, eorumueritatem confirmo. Cumnominisdo&rina&dis
sciplinaexantepositafiuepræexistentifiatcognicicne, ftretur,&
testimonioAuer.confirmetur.primopost.ses cundo.& Arift.primoMetaph.48.&
apudAlex.83.pri motop.quarto.(oportetenimaitArift.exquibuseftde
finitiopræscire,fiueantecognoscere.)& Alex.inquit definitioperomnia nota
& precognita procedit & Averroes primopost. secundo.fic.(etiamuerisimileefteffedispofi
tionem fpecierum prænotionum conceptionis (ideftdefi
unumeorumquædiximusexplicatur,nomen& uerbum primo phy.fecundo.hec
autem quandog imperfe&tiora, TEX. BOETHIL. Suntergoea,quæ
funtinuoceearum,quesuntinanie quandoyperfectiora,minus communia autcõiora.Ma
ma,paßionumnot&,o eaquæ fcribuntur,corum,que gentinusaitq cum
euidentiadixerit,abhistanquáabdi tis&occultisabftinuit.S.Thomas dicit gquiaAril.cępitapar
suntinuoce.Etquemadmodumnecliteræomnibuse&s tibusenumerare:ideo nunc
procedit a partibusad tol adducam dicitur. aliudeffe dicere num note: O quæ
fcribuntur eorum in voce . Et queme
procedere,quiamagissensatasunt.3.deanima30.39. , inftrumentum ,seu Atat, essemagisminusuecompositam:aliudfinemhabes
paßionesanimesunt,o quarumbæfimilitudines,res quoquecedem .
reutalterumconiungicum altero,autfeiungiabaltero enunciet. secundum concedimus:
sed exillo affirmatio nis naturam magis compositam esse, sequi negamus sed
Magétinus dicitq enumeratis nomine,& uerbo,& aliis eorum
definitionestradendæ erant,quas ponereconstis
tuerat.SedhocAril.nonfacit:sedcaputproponit.quod
nobisadiumentoerit:sedquodfitadiumentumnonexi plicat,necincrepandusame
eritutHerminius(idem negationis potius. Secundorefpódetp in hisquę poffunt
efleXnonefle,priuseftnoneffequodfignificatnegatio,
quamefle,quodexplicataffirmatio:sedutspeciessunt
æquegenusdiuidentes,suntfimulnatura,nihilgrefert Quorum tamenhæc primum notæfunt,eædemomnibus
i ta con lacontemplanda.Quod fiitaest. Curergo iftorum quat
passiones seu conceptions esse omnibus.easdem :idest tuormeminic? Etsiinfralongioribus,nunctamenquod
ellea natura: Expolitoresnonexplicant.quadecausa, ad rem pertinent dicamus,&
brcuiter: finem huius libriin terpretationemesseut fuprapofuimus .hæc autem
utlov gicum inftrumentum & organum cognoscendi,ad expli
cationemrerumdirigitur,actanquamultimum & perfe netemere&
fineullarationeiddrift.pofuiffedicamus. notandum
,sextotopi.14.inexplicandispartibus defini tionisoppofitorum
,nontantumopuseffeoppoftiscum negationepræpofita,fedetiamrebushuiufmodi,quiz
intentumfinemrefertur.interpretatiouerorerumnon
busdefinitiofeudefinitionisparstanquamhabituiconue fit nisi per uoces clariores
significantes a positione , aut perl iteras (cum uoces defuerint) propter eanecresomi
lit, sed tanquam fine multimum&inprimisintentumpor
fuit.tertioenimmera.6.7.meta.23.nemodefineconsuls nit:nam
persehabitusperpriuationesnoscuntur:licet quodammodo (ideftut Commentator primo
pofter, 133.1nmagna commentauone & primorheto.cap.quin toinepitomatibus logicalibus)
explicet alicuigeneriha minum priuatio, atqueoppofitum cum negationepræs
posita,alterummanifeftet.quamobrem topicaloca con
ftituunt.Qomnibus,autpluribusitauidentur.Cum igis
turfupraexplicaffet,liocesfignaeffeapofitione,exappo
fat:fedftatuitatq;ponit:sedquomodo& perquæisfinis eueniatde liberat.nam
primo ethico septimo, fifinem tanquam exemplarhabuerimus,magisintelligemusquæ
nobissuntbona.& feptimopoli.13.inprincipio:Duo
funtinquibusomniscommendatiobeneagendiconsiy
fitocumnegationepræmiffa,nunceademexplicatpary ftit.unumutpropofitum
acfinisrecteagendisubiaceat: alterumuteasquæinillum sinemferantactionesinuenia
mus, resigiturhic non relinquuntur sed tanquamfines explicandiponuntur. Nec
literæ fruftraab Arift.nume ranturcumuocumfunganturofficio:hisq;principibus
explicatis,& quæ scribunturapeririintelligimus.huius
enimcaulaquæsuntinuoceconscribimus,utabsentis
busuocibus,resconceptascertius,uberius,&firmius teneremus.quæ enim
uox,totphilosophorum,anobis abfentium,sententiasunquáaperuitadquaseorumlibri
nostam facilcdeduxerunt,utpossemusaliquandoquid
ticulamexoppositopositiuo.passionesenim& respros prereaq
eædemsuntomnibus,naturasunt,nonexarn
bitrio,&pofitione.exoppositouoces,acscripiuræquia non sunteædem,apositione,
no natura significant. Hinc etiam differentia vocum a positione et passionum siue
conceptionum & rerum colligitur. & approbationem intelligat, ex græca
particular aperitur. quædicitiwvwww quorumquidem. Quæparticulacausampropofiti expliscat,
non controuerfiam . Quioaduerba, Ammonius pris mumobseruat.qcumdeuocibus&literisdiceret
Arist. ait. quorumexsignasunt. sed passions similitudinesre senserinteorum scripta
fæpiusrepetentesagnoscere: No rumuocauit. Quia simulacra rerum naturas,quoadlicet
igiturut Ammonius dico nihilo pusesse scriptis.seddico,
representant.utinpi&uristidetur.inquibusmutarefor magis fuisseconueniens Arift.
nomen& uerbum &c.des mas præsentatas non licet.litin Socratepitto calvo,
fi finireperuocesquæin disciplinis quasaliocertoduce
mo,oculisprominentibus.signauero¾totumha. perdiscimusfacile)primas
tulerunt:quam perscripta: bentabimpofitione,& cogitationenoftra,utinmilitum
quibus peritiocculta cognoscunt,& percepta declarant , signis,& notis diuerfisa;
inftitutis conspicitur.Sedcong Nunc adliteramueniamus ea quæ in uocesunt,cons
traquiasecundopriorum.27.deenthimematetractans. fi stunt,autcontinentur,suntfignaseunorę.ounebonorenim
duo hæc fignificat.(earumpassionum ).i.eorum conces ptuum
:quospatitur,ideft,utformisperficiturphantafia, mens, seuanima,ut Prelliusait.&
quem scribuntur SIGNA ac NOTAE funt eorum quæ in uoce consistunt.Etquemadmo
gnificans.quiaidemuerbum,lignum,¬auocatur. dum necliteræomnibusexdem
ficneceædem uoces.} Explicata prima definitionis particula,núc ad fecundam
accedit quoces a positione significant. Idqueapprobat Arifto.ratione fumptaex oppositocum
negation prol tensa. Quodquodammodo notius, alterum palam facit. primo topic.o
&auo, hinc facileconfirmatutexperimen 10 Arist. quodsupradenegationeantepositaaffirmationi
docuimus ratione,fedoppofitumeiquod eftapositione elle,estelleanatura:quæ eadem
omnibusineft.exops positoigiturratioinhuncmodum formetur. ad conclus fionem exfimilinotioriinlitterisinnuendam
, idnatura effediceturquod eftomnibus idem ;naturaenim princiy
piumeftperse& deomni:quæigiturnonsuntomnibus eadem ,nonnaturasuntautsignificant.anegatione
proy Prætereasihæcdifferentiaueraesset,acillamAristot.ex his uerbis
intenderet,his tantum nominibus pofitis fuffin cienterexplicasset,dum diceret. Propterea
quòd uoces & literæ SIGNA ac NOTAE sunt, a positione significant: passiones
uero & resquiafimilitudinessunt, a natura. Itain finiendo nomine& uerbo
sufficeretsiduntaxatdixisset, nomen&uerbumestnota.nonigituraddendumquog
cesfintapositionefignificantes.& hicomittendumfuils set,quòd uoces&
literæsuntnotæfuesignanoneadem, neidem calu, actemere refricaret. Mihi ita sentiendum
uidetur. Ovuboloy superior NOTAM (NOTARE, NOTIFICARE), SIGNUM (SIGNARE,
SIGNIFICARE), VESTIGIUM dices re. quæ ita dicuntur. quiaut notiora exterius
NOTIFICANT, ac ut VESTIGIA pedum significant. Hoera autem ,ideft passiones, sive
conceptiones, non ita: quanuis interius
priæ definitionis ad negationem definiti.hęc propositio, similitudines rerum vocentur:
rem tamen& fiinterius, quia perspicua, approbanda non eft:sed lumiper fenoi
exterius non aperiunt.proptereaigitur uoces et literas fi, tam oportet, alibiquodammodo
declarandam:Allumy gna& notasuocauit,& passionesfimilitudines:quiaille
prio ,ideftminorpropositiointextuexoppofitocumne exterius, hæcinteriusmanifestant.
Secundoexdictisfaz gatione præpofitanotioriinliteris.(&quemadmo!
cilereprehenditursyllogismusquemSuellaformauitex
dumnequeliteræomnibuseædem:ficneceædemuol litera.dum afferit Arifto.uelle probare
uoces & literas ces) conclufioconsequetur. Igitur nec voces a natura sig
quumeuarient,apositionehaberi,conceptionesuero& gnificant & nonomnibuseç
demerunt. Quorumaux res, cumnoneuarient,naturaeffe. hoctotumuultelle
tem.;Approbataminoripropofitioneexsimilinotiori præceptum& complexionem
fiueconclufionemadqua inliteris,inquibusidemprædicatuminuenitur.nunc
inferendamait Aristotele intexturatiocinari. Quæcung sunt aliaduo, conceptusfcilicet,
seu passions & resmanis aliorum signa vel notæ, positione fehabent. uultdeinde
festata naturaeffe:& ita ead emomnibus, inquit(ledpal, quòdassumptionem
,ideft minorem Arift.ponatibi.{funt Gones animæ) quarumhædi&æuoces.(primum)nuly
quidemigiturquæsuntinuoce&c.}ideftfed nomina & lointeruentu,noræfunt(hæanimæpassionessuntcæs
uerba. Et scripta suntf sgna et notæ. aliarum, voces, Ccili demomnibus:&
resquarumhæpassionessuntfimilitus c et conceptionum ,& (criptauocum:sequiturcóclufiout
dines,etiameædem funt.) Sed cuiusgratiamanifestat putatibi. (qaemadmodumnecliteræeædemficnecuos
Aristot.ipfumdefiniensait,syllogismuseftimperfe&tus: exfignis.ubieodem uerboutituradexplicandum69
gnum naturale,& fignum apositionc.uana itidemerit, assignata differentia
Magentini . non fita positione ceseædemerunt.} ubi(fic)ingræcononhaberiaffirmat:
tur. Sed primær esponsionispartitio, feudiftinétio, quo quodmanifeftefalsumeftToosenim
(sic) latine significat nammodo fituerainprimosuomembro,supralongios
{&quemadmodum&c.}ait(&)uimhabereinferendifæ ribus disseruimus.cęteratáquamueraprobanus.Seddu
pe consueuisse.Sed obiurgandus est Ammonius :qui lis gnum,& notam
aitapprobationem,ideftprobationem bitabis Vox significatrix est per se genus
nominis & uery bi: igitur vox erit gencris pars communis, per seunum constituens:duoigiturconsequuntur.primúnaturale,unā
perseconftituerecum artificiali,&ensrealecúenteratio, nis:secundopartem
efle intotoniinuscommuni:signifi care,scilicetapositione,effeinuoce,quæeftmagiscomo
munis. Qui modus improprius dicitur eius, quod est in esse.q nomina,& uerb auoces,
& scripta a positionef sgnificent:cum secondo priorum27. In Epiromatibus logica,
libus,derhetoricaperfuafiua,& fyllogismo.cótradičoria
fignaenthimematis& demonstrationis, & topica etiam, non a positione significent. lignum ergo, et
NOTA, commune est ad signum, quod EX ARBITRIO ET inftituto signifiy alioelle. quartophy.Adprimum&finihilhicneceffario
cat,& signumnaturaconsistens.Secundopropriaeiusra
tiocinatioconfutatur:nonenimunusestsyllogismus in textuquen suo arbitratu diuisit,
sedduo. Vnusquonos minaAristot.&uerbauoceseffefignificatiuasdeclarat:
quodamedi&um est Paulo antedum primum in textum hoc modo (quæ suntin voce
sunt notæ et signa) scili, cet significantia exterius (earum quæ sunt in anima
passionum.) minor siue assumptio, utpofitiopersenota,ap
Aris.dubitarem.reslogicasuthabentesesseimperfectum & quafiin cogitatione ut
fubiecto:inuoceutfigno,aliam naturamullam sortitas non effe, quam eamquam anima
probationis nonindigensponetur. Cum nomen & uers exarbitriofinxit: ut ad aliud
fignificandumexteriusrefe bumdefiniet,fednomen&uerbum funtfignaseuuoces: ratur.ficutea,quæartificummanuseffingunt
præterna itaq; maior, ergo &c.propofitioallumptaest,utperseno
turæopis,lignum,scilicetæs,aurumue,nilreliquumha ta. Signum est illa græca particula
(quidem igitur) quæ bent, nisi quodarsuerapersua inftrumenta hocuelillo uel executionisfitnota,
uel fineulla approbationeexpro positis inferens,m e a m sententiam confirmabit
id effe fine approbatione aliqua pofitum . ut communiter affertum
abomnibus:Secundusfyllogismuseritibi.(Etquems admodum &c.) ut secunda pars definitionis
ponatur, significare, scilicet a positione. Quod tanquam perfe notum, nondemonftrat,
sed quia non omnino,cinealiy qua controuerfia eft confeffum.proptereaquodam
modo ex opposito cum negatione præposita manifestat. Quod inscriptis eft manifestius,
apofitionefint;& eui dentiuscóftantiusq;manifestent.Syllogismusigiturerit.
quæ non omnibuseadem suntillanon a natura (quæ in omnibusuno
modoinuenitur:perseidem inomnibus fimiliter operans ) sed a positione sunt
,& fignificant : minorintextu.(Etquemadmodum necliteræomnibus eædem , ficnecuoceseædem
.}Itaquemaiorpropofitio fyllogismiSuessenonestadhanc inferendamconclufios nem
,quam nostra secundaratiocinatiointulit.& quæa
Sueffaratiocinationisconclufio& complexiodicitur, no
bisminorsecundisyllogismicumeiusapprobationeex simili literarum uiderur .nam
fine ulla controuerfia ( ut bene animaduertitAmmonius)fcripturæ&literæapos
fitione fignificant.licetquodammodo uertaturindus biumannomina&
uerba,nátura,utPlatouideturassere re, anaconfilio, ut Arift.sentit,significaredicantur.
hinc. perseunum conftituit cumuoce,naturaliopereanimaut fequetureum non aduerbaArift.nequefenfum
dicere. dum infecundasuaexpofitione afferit, quam Alexandri & Afpafiieffe
confirmat, hic Aristotele velle colligere similitudi singulare opus naturæ eft,
fedutindiuiduumabartefor matum. Itaquenecprimum sequetur, naturalecumarti
ficialiunum per se constituere: quianonutnaturale,sed néinterscripta et uoces.
Sedqexhocpredicato,fignifica utarteeffectum, formatumcumsuacausaformaliperle reutnonidem,ideftapofitione:quodnorius,&firmiusin
unum efficeredicitur: fimiliterres logicas et placitum f19 scriptis uidetur. Infertidemdeuocibussignificatiuis,tan
uementisarbitriuminuocecontineri affirmamus:non quamgenereproximonominis&
uerbi et omnium alio tamenutopusnaturæeft, per seunum genus conftituit, rum. Quæritsecundo
Ammonius:cur Arift.nondixer fed tantumutapositione,&confilio, et cogitationefal
cit. uoces sunt signac onceptionum. Sed eaquæ funtin &umeft ,utuoxadhocuelilludexplicandumponatur.
Voce irespondet primum: cum triplexfitoratio,concel & ex communiimponentiumconfilioreferatur.Sica
pra, inuoce; inscripto:desecundahicloquiturfecuny mentisrelatione,queinuocead fignificandum
relinquis do respondet, voces naturae dimusficutuidere, audire: aliudeftergouocesesse,utopusnaturæ,aliudnomis
na& uerbaapofitione& noftracogitatione,quæuoce utuntur,nam .quemadmodum
ianua diciturlignum ,& nummusæsuelaurum ex arte, quæ imponitfiguras&
tur,uocemnaturæopus ,artislogicæinftrumentum , & opusartificialeperleunum,&
adalterumsignang dum relatum conftituitur. Ex hisadidquodsecuns do
consequebaturpatet refponfio. non enim inconuer
nienseftminuscommune,quodformam& a&umdig
characteres:eodemmodo&uocesdicunturnomina,
cit,contineriinaliomagiscommuniquodinpotentia cum alocutoria imagination fingunturacformantur,
fie exiftensperficiacformariabaliopossitminuscommu; gna eorum ,quæ
inanimouoluntantur,& talem sunt formamadeptæ:utex
positionefignificent.signum est uoxmutorum
articulata,quæquianonexcompofito& institutionealiorum eft,ideonomen&
uerbumnondicis ni.utdeintelle&tu & cogitatiua Auer.opinaturdeanima
altrice,sentiente& rationali.& ex Aristotele confirmaturses
cundodeanima. 30. De forma artis in materia. Poftremo
inuoce,perfe&ioplaciti,seuarbitrii,confilii,&pofitionis, effetdicendum.sedmetaphyfico&
naturalihæcquæftio difficilisrelinquédaellerbonitatis,tamengratia,quambre
uissime poterorefpódebo. Fed animaduertendumprimo
modoeffigiantiaprogenuerit.Hoc,alterumcomitatur, easdem res logicas,utsecundo
intellecta,ad logicam non ut scientiamsedartem spectare.namearuni,mentisare
bitrium,utexternacausaefficiensassignatur.aquoeffig
ciunturea,quæartium&sciétiarumexplicationiconuer niunt .& inuocibus,acaliisnotioribusregulis
apponun tur.primopost.17. secundopofter.27. Tertioponens dum
octauometaph.16.noneodemmodo,omnium unitatis per se causam requiri. Alia nanque,
quæ matel riæconditionibusuacant,utintelligentiæ fiuementes,fta timens,&
unum perse sunt:Aliaquæ ex materiis cons ftant,unum
persefiunt:qhocidem,quodenspotentia erat;idem fita&u:efficientetantumeducentedepotens
tiaina&um artificialiaperseunum conftituunt,secundo phy.13. secundode
animao&tauo,non cum subie&tout naturæ indiuiduum eft,fed ut arte
formatum , viue effigia tum est : artis,ac formæ artificialis esse recipiens . causa
enimpropriacumsitars,& effe usartificialequiderit. Ficutcauf apropriaindiuidui&
effe& in aturaliseftforma
&fubftátia,effetumigitursubftantiaerit,itaproportione &
fimilitudinequadam,quædeunitate& definitioneres
rumartificialiumdictasunt:fereeademderebuslogicis, &
uocesignificatriceapofitionedicendafunt.non enim quod inuoceexconfilio,&
mentisarbitriopofitumest, quibus quibusuoxipsa, qualiformatur:&
denominationeexo trin.ecussignificareapolitionedicitur,atque,utaiunt, per
attributionem placiti ,ut formæ fpecialis, uoci , ut cantibus omnibus,nondefinitecontractisad110men,&
uerbum :nam uoxfignificatiuapartem communitsimam generis nominis & uerbi
& orationis conitituit non pros materiæ sive generi magis communi adsunt. Necincon
prienomen&uerbumtantum: Differentiam aut eniliter ueniens modusellendiinalioeft,minuscommunisinma
rarum abelcmentis quam Ammonius accepitaDionys
giscommunifiueformæinmateria,utSuetreuidetur,quo fio,lumasabArist.inlibrocnim
poeticorumait. Eles niamquartophy.23.Primus modusnumeraturpartisin
mentumuocéeffeindiuuduam:ergoproprieinuoce.sed
toto,tecundustotiusinpartibustertiusspecieiingenere, ad sensumpatetliterasparteseorumeflequæscribuntur.
quartusgenerisinspecie,quintusspeciei,leuformęinmai
Quæriturcurpassionesuocauit,&fimilitudinesuelfimu feria &c.NecualetfuaobiectiocontraPorphyrium:
lacra. Ut Ammonius dicit. Sueffarespondet proptereafie fequeretur Arist. Intampaucis
uerbis ambigue dicere. militudinesappellari,qarederiuaniur:passionesuero,
utanimum ipfum perficiunt:conceptus,utprincipilim, &
ratiointelligendi.Sedcontra,quiarecteAmmoniusin
terpretatur,fimulacrarerumdicuntur,nonquiacausa, taarebusutphantafmatibus fiue sensu
perceptis.sed quoniamrerumnaturas,quoadlicet,representant.utin
picturisdemonftrat.in quibus mutare,ac transformare
naturasreprefentatasnonlicet.Prætereaconceptus,nifi
constituanturnouarumrerumuocabula,remiamconcer ptam& cognitam supponunt. Non
igitur proprieprincis piumseuratiocognofcendidicentur:nisiutspecies&
phantasma, ut obiectum alumina intellectusagéus,eftdes puratum, utaiunt,
formatum et illustratum . Item non explicatquem animum
passionesperficiant.quianon mentemperseimpatibilein,utAuer.opinatur.Sedani mam
seumentem phantafticam,ideftexiftentem inphan tasia,utoprimePselliusexplicauit.attributiueenimmens
quiadudicit.{eaquesuntinuoce. sumiturutparsminus
communisintoto,ideftinmagiscommuni.cum uero
fequitur,{funtfignaearumpassionumquæfuntinanima} nuncfumiturutaccidens&
formainsubiecto.Sedcons traquiaæque ipfumin conueniens hoc fequetur: cumpla
citum ,fiue confilium ,uoci non hæreat denominatione interna, ideftintrinfecus.sedaconfilioimponentiumaty
tributú,utfigno:Placitumergofiuearbitrium,pactio,& mentiscogitatioeftinuoce
utsigno.non cuiextraanis mæoperationeminhæreat:sedpassionesanimærationa
liconueniuntutactueamformantesacperficientesetiam dum dormimus. Item proprius
modus elrendi in alio maxime dicitur ultimus,utinlocoueluale.aliitrans
lumptiue,ideftpertranslationem,utArift.& Commentator afirmant. Tertio
queritur(quod primo loco quæren dun fuerat) anperuoce,ergoaliquidexpropofitisinfe
rat, anexecutionisfitnota.S.Tho.aitexpræmissiscons cludere,hoc modo.quia
Arift.dixit{oportetponere quidnomen8uerbum&c.}Shęcsuntuocessigniíicatii
caduca&infirmapatibilis,&poftremoinhominesola mortalis.SedhicprimumquærocurfolumArift.passion
num & fimilitudinum seusimulacrorum meminit:Respo
deturcuprincipiointelletusfiuemensphantasticarerum qualiadumbratas
intelligentias & fimilitudinesrecipit, his ut patiens i l lu f tratur u t patibilis
intellectus. Hinc requistur, easfimilitudines,utanimam perficiuntphantafticam,
passionesuocari,perficientes, acillustranteseamnuilo contrarioantecorrupro. hęmecfimilitudinesdicütur
(ut oítendimusexAmmoniojurrerumnaturasquoadlicet representant.&
conceptus,utabintelle&tupatibiliseu possibiliconcipiuntur,autiam
suntconceptæ.Secundo ponendum intelle&tum patibilem ,idestpossibilem ad passiones
& fimilitudines (cum easprimumcócipit) conferri, ut poteftateeftomniailla, tertiodeanima.14.17.
quemadmodum tabulainquanihileftafcriptumfiuefir &um .Indeetiam
sequiturtertio.intellectumsemperesse uerum.tertio de anima 21. ideft non errare
.sed intelles Etussecundoprogressusultracomponitillaspassiones,
utsimpliciaintelle&a:&họcquandoßuerequandog falsecompræhendit (ut
infrasectionequintadatur opis nio falfa) ac
apositione,confilio,fiuearbitrioopinatur. Buntur sunt notæ eorum quæ sunt in voce,
nonautemdi dequibusAlexanderforteait.deeisdemrebusfæpe
uæ:ergooportetuocumsignificationemexponere,seu rectiusponere.ContraplacetSueffecum
græcisomnibus notam elleexecutionis:Sednecipsequicontradicitdiffi
cilerefellitur,nóenimdiuusTho.afirmat(ergo aliquid supra tra & tatum, seu, ut ipsia i u n t ,
colligere supra execustum, sed ex prædi&tisacpræceptisinferre,infraconfidei
randaspræcognitiones.utnosetiam diximus.&itaes xecutionisest nota. proptereanonuniuersatimeftuer
rum(quidemigitur)notam efleexecutionis,quæexan te positis no ntr a haturnam nomen
definiens, nomen (in quitquidemigitureftuox&c.)definitioautem nominis
exantecognitispartibusfequitur.fimilitersecundoprio
rumdeenthimematetractans,declarato,& pofitoquidfis
gnumdicatur,intulit(Enthimemaqudemigitureftfyllor gismusimperfe&us.) sedaliiarbitrantur,ornatuscaufaa
græcisponi.ficanoftrislatinis(quidem enim ) adexory nandam orationem ponuntur :
Mihi Arift.uerba & pro cellumconsideranci,quandoqueepilogi,quandoqexer
cutionis, siue ornatus ellenota uidetur: quodfacileex fuperiore& inferior scriptura,ne
ambigua çftimentur, perspicuum fiet. Quærit Ammonius cur dixerit.quçscri nosdiuersossensushabere.inquoMagentinusfruftraco
natur,Alexandrum arguere.itaphisensusuarii(quos
exuerisfimplicibuscognitis,& eifdem,acanaturacon dinonsuntliterę &elementasedhorumpartesisecundo
fiftentibusintelle&usconiungit)nonomnibusiidem Xerit.literæ&elementasuntfignaeorum,quæinuoce:
duobusmodisrespondet,primohicArif.denomine&
uerbo,acaliispropositisinproæmiospeculari,cuiusmo aitq
si'uerbumArisadomnemdi&ionemextenditur.lij teræ propric sub his continentur
quem scribuntur ,elemens taueroquæ proprie in prolatione consistunt, subhisquę
in uoce . Sed Arift. generatim loquitur de uocibus signifi catiuis ut pars definitioniseftomnium,
quæinproæmio definireproposuit.Sed in libro poeticorum elementum definitur, quoxfitindiuidua:nonomnis,scilicetperse
fignificans:sedexquaintelligibilisuoxfieripoteft.hic uero dixit(eaquæsuntinuoce).i.arbitrium,confilium,
anpassionessimplicesquasdeipsishabemus,easdemres
cognitio,intelligentiasuntfignafignificantia,& intelli fignificare dicantur:
cum semperfintdistinguendeutdie gentiam conceptuun
explicantia,nonigiturhiceftfers uerfasrescontinentes
Respondeasaliudeiledicerepaso mopropriedeelementissxliteris,quæeademsuntre,li
fiones primaseffefimilitudineseasdem,idefta natura cetratione quamdiximusdifferant,leddeuocibusfignifi
constantes,aliudpassionesessenaturalesfimilitudines rempatibilem
affirmamus.primodeanima65.66.tery tiodeanima 20.ratione
phantasiæ,fiuecogitatiue.quæ
funt,licetapositione&opinantiumconfiliopendeant. hispositis,patethorum
duntaxat Arist.meminiffe,quia hæc sola sintuereomnibuseadem, adquæ animacons
paraturutpotestaterecipiens:quamobrem passiones
Arift.appellauit.aliiautemconceptus,autnon iidemdi
cuntur,autadillas,quasdiximuspassiones& fimilitudi,
nes,reducuntur.hæcdehisha&enusquætuncdocenda eruntcumdeanimadicemus.Deæquiuocisambigunt.
idestnaturaconsistenteshabebunt:quibuspluracognos scunt,&
representant, acreferunt.licetuoces (quarum
proprieambiguitasdicitur,nonnaturasinteædem feda positionesignificent:æquoca
enim rem unam cominus nemnon habent: fedtantumuocem.&hçcresponsio,diz
uiThomæ dictis,eftfuita.Sedobiicies utSuella contra
Porphyriumubiuocesfunteædemaconfilio,pofitæ,
easdemprimasconceptionesfineerroreautfalsosignifi,
cant;nonergoambigueloquicontingeret,nequedifting
bis.ubinaminAri.patet,similitudinesinprimisesseres rum simulacra&
naturaliaficutresnatura eædem omnis bus
sunt?Respondeasextertiodeanima.38.animam, quodammodo efficiomnia,cum omnium
formas,aut sensu,autmentesuscipiat:&quiafingulorumformæper animam
cognoscuntur,lapisautem noneftinanima ,sed species&formaeiusprimumlapidemrepresentans.Pri
mumergosimilitudines,&speciesrem&lapidemrepre reautillicArist.dicit.Ad
phantasmata intelle&usconfers tur,ut sensus ad fenfibilia:a quibus natura
mouemur : atqueimpossibiledicitur,quinuisistangamur.Itemne celleArilair,intelligentcm
phantasmara,idefteorumfis militudines,fpeculari tex.39.res autem o narura
constent, tanquam omnibus perspicuum omittatur . Amnionius di de anima }ad
poftremo relatum dixit .cæterum prodig tum de
hiseflein'librisdeanima,fcilicettertio de anir TEX. BOETHIT. De hisueròdictumestinijs,quisuntdeanima,alte
riusenimeftnegocij. eiufdemreiueldiuerfarum.namanaloga,utprimum
offensioadarteriam,fidecófulto&compofitofiat,illac
concipiuntur,diuersacontinent,ordine,comparatione
quacommeatspiritusuoxeft:tussisuero,nonefteauox: seuproportioneadunum
collata.tamen eorum primęin telligentiæfcuconceptioneseædemdicuntur,ideftnatur
ranonarbitriouariæficutuoces:quxcomparatione,reu proportione dicta a positione
significant.simili ratione ambigua, ideftæquiuoca,primasconceptioneseasdem,
nus,quicumsignificationealiquaemittitur.)Sedpoftula quamuis per eadem
loca,machinamenta proueniat.quia,
scilicetnonexpropositoaccidit(namaitfinecogitatio
neautconfiliouoxmissa,nonestuox.nam;hocomnino
indefinitioneuociscollocandumeft.quoniamuox eftso in guere
differentes,qui satis ex notis locibus ,atque errore, conceptionibus
conftituere poffent, quod fitads sentant, nam intellectus omnium ,de rebus
fenfibilibus primum uenit,ex quibus uisa quædam & fimilitudines procreat.ad
quasintelligensfeconuertit.& cum intelli uersariorum consilium ,aut quid
ueline Dicas his disting dioneutiopusnoneffe,quibusitahæcnomina suntper
{picua& communia,utquasidomi ab ipsorum pofitione nascantur. Sed his qui
quasi modo nascentes de notissimis rebus atque nominibus hæsitant ,nihilq;ab
aliisexplicar tum nouerunt:qua de causa,diftin&tio in bis nominibus
fiet,quæ habentur dubia : quorum res abditæ & arbis trium confilium
plurimarum rerum & conceptum non gie necesse estfimulphantasma aliquod
speculari.phang ialmata enim,sicut sensibiliasunt:præterquam tertiode aninia
39.0 sunt sine materia. fecido natura constant fimi litudines:non
exarbitriopendent:quiaadsimilitudines comparatur patibilis intellectus ,ut
natura pure potentia autpoteftaterecipienstertiodeanima.17.14.innatura
enimanimęeftunum naturaagens,alterúnaturapatiens ficutin
omnialianaturamonftratur.17. tertii. Prætes perspicuuin dicitur . A d textum
nunc redeamus . Ex uerbishiscollige.quod supradocuimus(uenforqui dem igitur)quandog
ad exornandam orationem ab Ari.
poni,uthic:nilenimexfupracognitisinfert,nequealia quid exequendum. seutractandumproponit.Queresab
Arift.cur istorum naturam dillerere diligentius & proy prietates omittis
?quibusg ab animantibus instrumentis uocalibusproueniant:pulmone&
asperaarteria,aquos ma.39.at conceptus dicit mentis primi,quid intererit quo
minus fint phantasmata : Respordet an neque alii phantasmata sunt,uerum non
finephantasmate tum in rum primo ,uocis materia aer præstatur.ab altero, voces
graves et acutæeffigiemfumunt.& q articulatędicantur a lingua,palato
labiis,ac dentibus ut animæ rationalis
motionideseruiunt.curhçcitidemapositionc,alteraa
naturaconfiftant.atquefimilitudinesrerumsintprimum fimulacra,uoces uero
passionum ligna,ac notæ dicans tur:AdhæcomniaputoAristot.respondere.propterea
abeo essereliâa o alteriusestpertra&ationis,ideftad
aliumpertinentmodumconsiderandinaturalemdeani,
ma:nampertra&arequanamrationeistaabaninia,acin
ftrumentiseiusproueniant,anauoluntatependeant,ut operationes,adanimam,suumpropriumprincipiumres
rumuocesprimoresgeneratimsignificare,fedlogicos feruntur,de quibus ut supra
diximus,fecundo de anima . 87.88.89.90.differit.ubiuocem fignificatiuamex ima
ginationeanimæ uoluntaria,Conum appellat:hinc ergo patetuocesessesignificatiuas.sicenimad
interpretatio rum primo conceptus .quod ex definitione Platos
nis(aquoGranımaticiacceperunt)confirmant.nomen
nemdicunturconferretex.88.10.& apositionesignifica re. quia ab imaginatione
significant et voluntate.ut Com mentator&Arist.asserunt.Arist.enimait(oportetanis
matumeffeucrberans)& 90.(& cumimaginationeali
qua,)ideituoluntaria.cuiusrationemadducens,inquit suntinaninia:& quarum
pafsionum equoces primum 114 gnasunt&c.)sedcótra.quiaeodemmodonomendefini,
tura logico, poeta, atque grammatico.id autem(utue rum fit) in definition nominis
declarabimus .secundo fin nisharumuo cum eft idem eiadquemoratioenunciatiua
refertur.hicautemeftinterpretatiorerumconceptarum, quæ idemsuntquod
conceptus:Scotus uero quæstione secunda respondet.conceptus fignificarerem
,utfimilitu do & speciesrei,nonutaccidensanimædicitur,Sednon
quæriturhoc,sed duntaxat,an uoces principaliter,seu uox enim eft quidam sonus
fignificatiuus ,non naturali ter,ut significatiuus est fonus refpirati acris
.sicuttussis: fed ab alio libero mouente hunc aerem ad arteriam.) Ing quit
etiam Themiftius acute hunc locum perspiciens hus iusergoaeris(quem spirando reddimus)
percussion & quibusimaginationem pafsiuiintellc tusnomine appels
landamcensuit.tertiodeanima.20.primodeanima.6s. 66. ex quibus tam obscuris
verbis non poteft concludi aliud,nifiquod poftremo deduximus.non enim uideo
quid suadi&a sequatur,fiprimi& aliiaprimis concepti bus non sunt
phantasmata,non tamen sine phantasmate, line quo nihil intelligit animam , nisi
conceptus primo phantasmata representare & necesario : ut intulimus.
Mihiautemuifumeft,fermonemArift.adomniasupra di& a potuisse referri,cuius
uerifimile argumentum poteft esse. dixit{di&um eft,quidem ergo inhisquæ de
ani ma,}ideftlibrisduobus secundo& tertio:utretulimus; non tertio solum ut Ammoniusopinatur.Etutfinemtan
demquærendi faciamus.paucisadhæcadditis,poftres
moquæramusnominafiueuocesanprimofignificent
res,anconceptus?Quidamrespondent,grammaticos finientes quod subftantiam uel
qualitatem significet. & hicArift.quæ inuoce,lignasuntearumpassionumquæ De his
quidem igitur dicemus in hisquedeanimaalte. riusenim estnegocij: &um
hocArift.{Dehisquidem di&um eftinhis,quæ in primis res aut
conceptiones significent. Propterea ues riusadrem,& fenfum
accedés,refpódeo:& nobiscum,8C sinominibus non concinnat suella,re tamé
idem affirmat cumAlexádro. primumpono,uoces,tanquamultimoin? Tentumfiné &
principalius, mediatetamen, fignificareres. & extremum, uoces,an res ipsas
significent {'in cótrariam partemArift.& Comment. (& quæfcribunturfigna&
no iæsunteorumquæinuoce)&liuocesprimosignificant
conceptus,&conceptusprimumres,scripturæergopris mum uocesdeclarant. sedcótrarium,leniuumteltimonio
& experimentomonfiratur. quiascripturahominis& cei
terarumrerumdequibusphilosophidifferunt,utimur,rey c u m ipfarum explicádarum
caufa .præterea epiftola inuen fecundo autem minus principaliter,fed
immediate,con ceptus.quæduoaffertaexemploasciemanifestanturnam ascia
(utinftrumentum) efficitimmediatum .sed principay leseuprincepsefficiensestartificismanus.quoddeclar
taaffirmatur,utcertioresfaciamusabsentes,siquidesset
ransprimodeanimaoctauo.Themift.ait,qprincipaleac ultimo intentum cognosci &
definiri, indiuiduum dicis tur:fedaliointermediocognito.formauerouniuersalis
finealiomedio: ut tamen ad indiuiduum cognoscens dum refertur. Hæc di&ahisrationibusapprobantur.Id
quodeosscireautnoftraautipsoruminteresset:igiturres poftremo, ut ultimü &
finis,explicari intenduntur. Item fi
quæscribunturfignasuntuocum,autearumquæextraani mam,quodimpossibileeft,autinanima:uocesautemin
animaconceptusdicuntur,quosadrerumexplicationem inprimisuoces significant, adquodsignificandumnouos
referriut sinem supraretulimus. Nunc ade aquæ adduce rumnominum inuentorim posuit.hic
autem ad remexpli candamuoces consticuit.id.n. deuerboconsiderans Aril. &
manifeftansuerbumfignificare,approbat,quiacóftituit intellectu. seduoxprolatahoministunc
conftituit,&quie (cerefacitintelle&tum.noncumadcóceptum:sedadna
turamhumanamdeducit.ergouoces,& nominatanguls timum
fineminprimisintentumresexplicabunt.licetins
termediisconceptibus:prætereaprimoelenchorumpris
banturexArift.respondebo.nonfolumquerendumquid philofophusdicat. Sedquidcouenienterrationi&
sententiæ suæ uere opinetur audiendum. Hunc enim in modum. Aristoteles Intelligimus
(quæscribuntur, suntnotæeorumquç
inuoce).i.confilii&arbitriiinuoce.quæsecundointelle &a&
conceptusresexplicantesdicuntur.Sicinterpreteris quæ
exArift.adducuntur.(quefcribuntursuntlignaeorü, quæinuoce).i.explicant(cum voces
defuerint) ea, quçex plicantur per voces, quarumuice fungitur.immediateer go uoces,sednontanquamultimum
&extremum,quod mo,uocum finemdeclaransArist.ait:quoniamresaddil
serendumafferrenonpoffumus,utimurnominibusloco rerum :ad explicationem ergo
rerum ,cófideratiouocum referturnonconceptuum,utfinemulcimum.Amplius.4.
idemopusexercetcumeo, cuiusuicemgerit, utdeconsu metaph.28. ratioilliusrei,cuiusnomeneftfignum,defini
tioeftuoxigiturreiperdefinitionemexplicatæ,fignum dicetur.Itemteftimoniofenfuum
confirmatur:quorum clara& certaiudiciasunt, eorumquærationeetiamiudis
cantur.Ad quidenimtam diu expectamus, flagitamusuo le, rege et pro-consule, siue
proregein vollendiscontro uersiis perspicuum est. Scripta autem uocum uicem
exercent. Idem ergoextremum significatum habebunt.expli cationem, scilicet,
conceptarum rerum. Amplius literarum inuentor, ad rerum explicationem direxit, &
Auer.ait(cri cum interpretationem: nisiueriinueniédigratiainrebus,
pturassignificareuerba,ideftfinemedio&fignificatauer
quascognoscere3[cireftatuimus:I denimuolumus& borum,cumforte uocesdefuerint,hæcdequestionibus
ardemusdefideriotangextremum. Adhæc.ficonceptus
suntinftrumentaipsarumuocum.utadrerumnotitiáme diisconceptibusducant.nó igitur
ultimum & extremum que verum ad b u c est. Signum autem huius est, hır c o
c e e ruus enim aliquid significat, fed non dumuerum aliquid, -uel falfum, finonuelese,uelnonesseaddatur,uclfine
pliciter,uelfecundum tempus. Estautemquemadmodum inanimaaliquandoquidem o
falfum . Nomina quidem igituripsa Q uerba consimi liafunteiintelligentiæque
estsinecompositioneo diuie
suimus,&rationibusacsensibus,rationemconfirmatibus
fone,uthomouelalbum,quandononaliquidadditur:nes
approbauimus.Pugnabispoftremo,fiuoces,mediiscon
queenimfalfum,nequeuerumadhucest. signumautem ceptibusexplicationem rerum
efficiunt:cum immediate bus ueritas& falfitas inuenitur, hæc autem cnceptus
sunt, non res ipsę. respondeasuerum & falsum inconceptibus, ut in rerum
fimilitudine inueniri :quæadipfarumuerará
rerumcognitionemrefertur.ueruminrebuseft,utincau fa.inpoftprædicamentiscap.depriori&
infinehuiuspri m i libri.itap attributiue.i.per attributioné & collationem
adres,ueritasinconceptibuserit:uereautem,utincausa, inrebus. Dicespropterquodunúquodątale&
illudma césrefertur,ueasciaadmanusartificum:quodsuprapor fignificatumnon ab
organo sumi oportere:sedultimo explicare conftituunt.nam quod uicem alterius
perficit, dum uerumaliquiduelfalfum;sinonuelesseuel noneffe fatis , ac principale
fignificatumuocum dicétur. Etfiobiicietati quidem intellectusfincuero,uelfalso,aliquandoautemcuiiam
quisArift.textum,quemretulimus. uocesprimumsignis
ficareconceptus:intelligasfinemedio alio.non tamen,ut
necesseesthorumalterumineffe,ficetiaminuoce.Circa
compofitionem.n.odiuifionem,eftuerum ,o falfum.No ultimum & extremum
significatun. Nam uoces dicuntur significare conceptus, ut rerii sunt
similitudines.utab ipsis rebus conceptus uenisse ad intelletum dicamus, quas
nouissime, ut finem et ultimum intermedia sconceptibus per voces clariores
NOSCAMUS. Nec secundum eorum argumentum concludet. Voces ea in primis ut finem
significare in quis mina igitur ipsa et verba consimilia sunt ei, qui fine come
gis. Si ergo voces, mediis conceptibus, explicantres, igitur uoces magis et
inprimis conceptus, qresipsasaperient. Dic Aristoteles locum ualere in causa principe.i.principali
non iuuante tanquam instrumento, quomodo conceptus aduo intellecus et cogitation
fine ucrouel falso, aliquando autem cuiiam necesse estalterumhorum inesef, ic,etiam
inuos ce.Circa compositionem enim et divisionem estuerum conceptus, ut accidentia
denotent, nunquam substantiam explicabunt. Paucis, ut supra, respondeas,tocum
propria addatur, uel simpliciter uel secundum tempus et extremo fine intent. Quod
quandoq substantia quando g accidens appellatur. Huic veritati Alexander et
Themistius ascribunt, etc. Ammonius non dissentit. Secundo quæs ritur, an scripturæ
fiue quæ scribuntur, tanquamultimum Magentinus hunc in modum Aristotelis.textum
cum præce denticonne&tit.cum duo sintinueftigata. Primiiquonam modo nominis
& uerbi signification intelligenda ellerutrum TEX. BOETHII. Est autem, quem
ad modum in anima, aliquando positione, divisione est, intellectui. Ut homo , uelale
bum, quando non aliquid additur, neque enim falsum. Ne huius est, quia
“hircocervus” aliquid significat sed none E hæc duofineab
Aristotele, pofita, caulam & finem curitapo ratiocinatur. Quem ad modum in anima
intelle usquando fuerit, non declarant :ut.l. quid nominis partium definir
tionis nominis,& uerbiorationis, enunciatiuæ tang præs cognitionesponag
ntur. Alterum etiam secundodicúrey fello. Non et enim videoubiinueftigauerit
Aristotele inquibus verum et falsum inveniretur. Quod nucquoginueftigare
constituat. Itempugnantiacum Ammon. dicit. aitenim
inanimaeftquandoquerumautfalfum.&itaprobatio Ammonius .per hæc
utilitateinad inftitutæ commentatio , effet minorisibi. Circacain positionem. n.intellectus&
di nis propositum tradi.cum. C. verum et falsum sit in mentis
uifionemeftuerumautfalfum.}conclufioutclaratuncre concepribus&uocibusutsignificantibus,&quodnúcdo
linqueretur.ergoitaeritinuoce.seduerearguitexhypo
cetphilosophusnoninhisfimplicibus:sedcompofitisue theli, nonpotentiacathegoricosyllogismo.nam
cumpos rum&falsumspectari.nonnominibus,nisiutperoratio
fitionemquodammodoignotammanifestet,nonfyllogir n e m enunciatiuam a firmativam
coniunctis, vel per negativ uam diuisis, ita gnó in quit hæc quæ diximus
Aristotele docuif m o arguit. Ex quo aliud ignotum natura concluditur, sed ex hypothesi,
ut diximus.& infradicemus. Prætereaut Commen & Ammonius asserunt.ibi{circacompofitionem
enim & diuisionem}non minorem .sedapprobationem
uniuspartisantecedentisapponit. aliquádointellectus
cumuero&falsofit.signumestparticula{enim}quæcau sam
propositidenotat,fcilicet quia uerum & falfum sunt circacompositionem, id
est affirmatione,quaaliquid cum falsum in compofitione et divisione sequuntur
intétiones se:sednuncdocere&inconceptibus&uocibusutsigni?
ficatiuis,falsum & uerum fpe& ari,dum coniunguntur aut
diuidunturnonpersesumptis.Addeex Amm.hæc Aris.
nuncdocereutalteramorationispartemantecognoscat.
DicesproMagentinoillaquædixit,ab Amm.ferèaduer bum
fuperioritextusumpfife.cuminquit(cumhæcitaq percaquæ
nuncdicunturtradentur.Iuocesessesignificati was rerum mediis conceptibus:tum
uel maxime quibus in rebus quocunq; fuerit m o d o ueritatem ac falfitatem
scruz tariconuenict)C.inhoctex. Addés ueroquçintextusupe intellectus.i. sunt in
anima,sextometaph.8.ergoeruntin riori confideret ait.(de quibus in præsentia
nobis perpen uocibus seu uerbis significantibus ipsas conceptiones ,ut fioest.
Utrumin rebus anmentis conceptibus, an uocibus, Comen. animaduertit. Exhis declaratis
etiam patet,q in aninquibufdam. harumduabus: anetiaminomnibus.
telle&usfitaliquandofincueroautfalso,idq;tangexsuo fiinuocibusqualibushisscilicetcompofitis.nonnomine
& uerbo& prædicamentis,itaincompositisconceptibus qui caufa funtlocum, noperleinsimplicibusneccompo!
fitisrebus) Sed animaduerte quod dixerit(nobisperpésio
uisionez.i.lineueroautfalso.hæcexemplomanifeftatsubs inprçsentiaeft)quod tamen
inferius considerabit.neg dicitab Arifthæcquæ ipse
perpendit,inueftigata.nec'ait InueftigasseAristan significationominis&
uerbisolī,pen deatexuocetantum,anexintelligentiauelrebus:sedquo
cunq;fueritmodo,inhisueritas& falfitaseft,utexplicátis businftrumétis.hacenimrationeresipfasabiecit.adquas
famenutextremum&finemultimumexplicandas,uoces
tere&nonadmittunt:ergonecdequominus:nistuery & conceptiones animæ referuntur,
q siquispiamhęcquæ bum effeaffirmatum, aut non effe negatum addatur. fim eft fine
uero aut falso, quando cuihorum alteruminesse necesse eft, ita& in uoce: hoctotumeftpropofitiomaior,
affumptio&minoribi.circacompofitionemenim&diui rionemestuerum&
falsum ,&noncircasimplicia,itaergo
eritinuoce.Sedcótra:quiaminorhæceffedebuiflet:fed aliocomponisignificatur,autdiuifioné,idestnegationé,
quaexplicaturprçdicatumasubie&todisiúgi.& uerum &
oppositoperspicuúutcorolarium& cófequensposuitcū
ait.{nominaquidemigituripsa& uerbaconsimiliasuntei
intelligentięfiueintellectuiquiestfinecompositione& di ftantię& accidétis:hominis.C.&albi.utexhisomniaalia
prædicamenta intelligatur. quando.n.his non aliquid ads ditur, fcilicetuerbumprædicatumalbumcumhomine
suz biectoconiungens,nequefalfumnequeuerumadhuceft. Hoc
denominehyrcoceruimanifeftat,nanquehuiusinor di compofita nomina uidentur uerum
aut falsum admity exvocetanti:m,autsolaintelligentin,anexresolumuos ex Anmonio
dicimus non probarit, inutrunqzfitdi&tum. Cesitemper animi sensus rerum
elleinterpretes.Secundo inquibusuerum &falum inuenireiur.quòdnunequoß idoftendendtiArist.proponit.fedutrunchiltorum
reiicio. non eniinfuprainuestigauit.Sedpofuit,utpersenorum, S.Tho. dicitq
postquam tradiditordinem significationis uocum, hicagitde diuersauocumfignificatione:quarum
quædam uerum & falfumfignificant:quædam non.Sedli
cetuerumdicatur,utdeAmmonioreiulinius:tamenfine
nomina&uerbafignificatiuaefle,cxhocpeaquæsuntin
cuiusgratiaistaponantur,fubricuit:Licédumigiturcum uocefuntfigna&
notæsignificantespassionesnullomes diointerie&o,hisautem mediis, tanquam
ultimui ,res explicare.prçterea non uideo ubi inuestigarit,an nominis &
uerbifignificatiointelligendaessetexuocetantum,aut
intelligentiatantum,autexresolum:fedhocposuit(funt
uæ,quibusetiamdifferebantabaliis:nuncuelleconstitue quidem ergoquęfuntinuoce
&c.utsignificatiofumatur non exuocetantum,nonintelligentia,fedarbitrio,cogni
tione, et CONSILIO et imponentium
consensu, quem in uoce refeuantecognosceredifferétiam, quaoratiodiffertano
mine&uerbo:&quaoratioenunciatiuaaboraroriis8C
poeticisoptantibus&c.separatur.& quoniamquępones reoportet,&
antecognoscere,utpersenota,nõnisialiquo facili instrument innuidebét.nullomodo
demonstrari. proptereaexfimiliseuhypothefi,&cóceflo,acpofitotery
expaétione& confilioreliquerunt.acuociperattributio
nédederunt,atnullamentioeftfaétaderebus,anabeasu
mendaefletsignificationominis,& uerbi,quoniammaxiy m u m esset
ignorationis,ac inscitiæ in Arift.argumentum , firem tam perspicuam ,nec
dubiain pro occulta quæliffet tiam definitionis partem & differentiam
manifeftat.cũ inz quit.(esid..)ubi, ',proenim Magentinusuertit.utcaus sam hicassignareuelit.utAmmonius
&.S.Thomas dixerút, acdubia.cuieniniuelrudi dubium uideretur,nomen &
uerbum (quod ut organum & instrumentum significat)a-
rebus,inftrumentisignificatiui&Organicognoscendialte rum ,significationem habere,cum
tantü significentur,& nul lomodo significentine ignificare&
explicare,utorgas num logicum uideantur?Item ea significatioerat nomio nis&
uerbiponenda,quæutpræcognitiopartium defini
tionisadeacognoscendadirigeret.hæcautem eftuoxa de quo nuncdifferemus.aitergo
deantecedentesyllogiss miexposito.{ficutuelquemadmodumenimeftinanima
intellectus cogitatio,intelligentia.(vóruceenim ifta signifie
cat.)aliquandoquidemsineuerouelfallo:aliquandouer rocuinecesseesthorum
alteruminesse.}Exhocposito & notioriantecedenteinfertquodammodoignotumin
choantibusconsequens.(ficetiam& inuoce)utsignis& notis conceptuum
erit,aliquando sine uero uel fallout in nominibus&
uerbis,aliquandocuinecesseestiamhorum
alterumineffe:utinorationeenunciatiua,Suellaueroita pofitione fignificans,non
res tantum significata:a uoce er go&
intelligentiainvocerelicta,8Ctributafiueattributa
lignificationominis&uerbipident,noarebus.Amplius: Suela (nam licet fupra
male textum Arist.declararit Sucr sa,nuncueritatecoaausidem dicitquodnosinexplicans
do philofophodicebamus)pofitisduabus partibusdefini tioniscómunibusnomini&
uerbo& orationienunciatis pliciter, efle,quamartemutexemplar,adopuseffin
latenus (incaliquiduocum: neceorumquæ in uoce,nout
gendumexteriusafpicit,qopusexartenotioriinmates finis:cumconceptuspriorfituoce&
ueritatequęinuoce confiftit:nonutagens.quiaresagensest,aquaoratioues
taautfalsauocatur.sednondifficileestAmm.&.S.Tho. sententiam& opinionem
,aSuessæargumentisdefendere. primum, absurdumaffirmat. Conceptus non tangformam
ficant: quiinvocetangartificialimateriarelinquütur:quo
esseueriautfalliinuoce,cumnecaliquidfintvocum,nec
cumuiuocessuntnotæ:Exhisrespondemus:rationem eorum
quæsuntinuoce:Peroenimabeocumsupradixe
ritArift.eaquæfuntinuoce&c.nonnifiarbitrium,&pla citum, cogitatiointelligitur:
ut ipse metcum locum interpretans, opinatur: ergo conceptus est aliquid existens
in voce, non utopus naturaleest,sed arte.i. uoluntate: confi&um .
Itemipfeconfiteturuocemsignificatiuam,communeges
nusnominisuerbi&orationisenunciatiuęuocari:nõuo lessuntsimilitudinesrerum.Seddicessecundomenunc
cé,utnaturaleopus. ergoutacognitione, imaginatione
pugnantiadicerecumhis,quæanteacontraAnimo.Boe
uoluntariaeffi&taeft:utsignumfitadaliudextraexplican thium,& Scotum diximus:
orationen dariinméte& no dum relatum:Etfecundodeanima90.Averroes et Themist.
tioremesseea,quæinuoceconfiftit.Diximusadhçcartis fumentes ab Arift.asserunt:essentiamuocisinterpretatis
inuentoribusueliaminuentamdocentibus,ineodem no efle percussionem aeris anhelati,
ad membrum quod cana tioremesseartem, acconceptionescūuero& falsoinani
dicitur,abexpulfioneanimæimaginatiuæuoluntariæ:&
ma,quamexteriusopuseffictum:ficinpropofito,excong
infraqinessendouocemnecesseestutpercutienshabeat ceptibus rationem coposuit, notioribusapositionesignifi
animamimaginatiuam,8tuoluntatem:effentiaergouol
catis:quiquodammodonotiores:utindu&ionesensata cispendet
abipsoconceptu& placitoreliétoapositione patet.infraenim
se&ionequintaexoppositionemaioriin inuoce,tangforma:&uox (uropusnaturæinterpretans
mente, explicatitae! Tein uoce: Item placitum eft caufa, a placito) abanimaetiá
,tangagente, depédet:nam 87.& 90.secundo de anima.percussiorespiratiaerisad
uocala arteriam ab anima (quæinhispartibus) uoxeftutefficien
tecausa.hincCómen.inprincipiocómentiait.(oportet igiturutpercussioaerisanhelatiabanima,queestisismé
præcognitionempartistertiędefinitionisratiocinatur:no brisadcannam, fitilludquodfacituoc@)&inmediocom
igiturdemonftrationemeffecit.quæadnaturaliterignos menti:(primum enim
mouensinuoce,estanima,imagina tiua& concupiscibilis:& ideouox
eftsonusilliusprimi uolentis& mouentis.)Etq etiamdicipofsitquodammo
dofinisuocum, perspicuum est ex his,quæ fupradocuio mus: fine muocum effè eriam
res conceptas: namorgal na ad eorum opera ,tang finem &
ultima,diriguntur.pris mo topic.9.cumnonpropterse,sedpropteralterum exo
petantur:seduocesfignafunt& notæ conceptuú,adquos
explicandosreferimus:finesergomedii,licetnon ultimi tumdir igitur. Secundo post.primo.necillam(utperitus
ad rem per se nota efficere potuit. ne ipse suampręcogni tionum artem
confirmaturusexperimentocontrarioinfir maret.Itidemminimeconsecurionem
ualeredicimus:ra tioexcaufiseftnotioribus,ergodemóftrationempropter quid aut
simpliciter constituereaffirmabitur.quoniam alte rum& pręcipuum demonftratiodi&arequirit.utadigno
tum naturaliter dirigatur, non ad pręcognitionem ponendam, utpersenotam :nam
primopofte.2.veręetiàdefis uocabuntur:Exhisfacileeiusrationibusrespondemus.
nitiones,quidtantumnominisnonuerædefinitionisuim
haberedicunturabAuer.utpræcognitionessunt:ita&fi hæc præcognitio ex caufamonftretur,nonutdemonstras
tiua, fedutexfimiliaccepta,&uisa, &alibideclarata;pros ptereatopica potius,quàmdemonftransuocanda:noto
pica,o fitdubia,autfalfa,immouera,sedhicacceptaalig biuisaphilosopho,&
hicpofita,utcredita:dequo latius ressecundum
feeffedicantur,nótamenapudeosquicon ceprus& res conceptas ignorant:adquarumexplication
nem,utultimum,referuntur. Adtertiamdeagentedico: inquit)exAmmonioait. Primo quiahæcconfi&anomina
rem , agensremotumuocari: aquo intelle&us phantasticus falsum significare uidentur:
ut.S.Tho.ait.Sedcótra.quia fimilitudinéabftrahit:sedanima,utnaturaagens,uocem
ab Aristotele dicitur (fed non dum uerum aut falsum signifi interpretantem (tang
operationem propria mefficit, &lo cant. Nifi effe aut non effe addatur): ergoutrunquefignis
gicotradit:cuilogicuspropriumconsiderandimodum
ficareuidentur.Itemcausaassignandafuiffet,curexem
attribuens,utinftrumentumsignificandi& explicandicon pliscöpositis (que uerum
fignificare potius etiá uidentur) Ad primam ,utpatet,
intelligentia,inuoceartecong fi&tareli&ta,eft,utaliquiduocis.i.forma.Ad
secundam Q non fitfinis,nonualet,idpriuseft,ergonon finis:Deus
enimeftpriormotu&creatura,quæadDeicognitionem deducunt,utsigna&
effe&taadsuumfinemcognoscenda directa:fimiliterdicaturdeuocibus, &
ficóceptusprio riaexternareli&um :manifeftumeftargumentumqdixit
Arist.nonuoces:sedeaquæsuntinuoce,suntsignapass
fionum&conceptuum,utnaturaliumsimulacrorú&res rum
fimilitudinum.i.cóceptusapositione,(utratio)signi exfimilinotiori,&
fuperiusabArif.pofito,exlibrisdeani maprocessisle: ficutinanima
eftaliquandointelle us fineueroautfalso,aliquandocum horum altero:ita& in
uoce:&deuero& falsoloquitur(utAlex.& Ammo.ac
cæteriboniexpositoresaffirmant)orationisenunciatiuæ, & denominibusfignificantibusaplacito,nonutnaturas
quamobremuocessignificantcúfiuntnotæ.Necproptes reao
conceptusutcaufedicuntur.quosnomina& uoces tanquamfigna&
effetusimitantur,afferendúeftArif.des monftrantem rationem efficere:namhich ypotheticèad
Deoda nieprimotopic.dicemus. QuæruntcurArift.fis
&aprotulitexemplapotiusquàmuera.Sueflasumens(ut pliciter,quod
præsentis efttemporis .aut secundum tome pus.i.præteritum&
futurumutCom.explicauit. De Am moniiexpositionedicemustunc,cumaddubiaresponden
bimus. QuæritprimúSuessa.qualisnam ratiocinatioAris. fuerit(quéadmodum
inanimaquandoqintelligétiafine ueroautfallo,quandoquehorumalterumnecetleeft in
esse.)respondet.S.Tho.& Ammo. intex.præcedenti,nes liderat,accognoscit: Respondendum
ergoest(uteftdig &um )Arift.exhypothefileu positione,& ex fimili notion
riprocedere: quod (quemadmodum) particuladenotat. dum asimili: sedacausaquamimitatureffe&us,proceder
re.namAmmo.ait:circaenunciatiuamorationemquæ quæsupraetiam Aril.poluit:namproptereauoxfignum
exillorumcomplexuefficitur, uerum et falsum spectari.
¬aexteriusexplicansdicitur,qapositione&intellig ante voces quoq; hæccircaconceptuscósiderari.utqui
causæ uocuinlunt,aquibusconceptusfimplicesfineueris tate, & compofiticum
uero & falsodefignantur & declas tantur: Responsionem improbat Suelta: quia
conceptus non causaueriautfalliinuocetangformasunt:cumnuls duftioncperspicuum
eft(utAmnioniusanimaduertit)no tioremartem Seddices ratione inaliniilieffe&tamexignotisconcludes
re,nanieaexquibushicratiocinatur,extertiodeanima 21. infrasumuntur:hæcautemtanquam
ardua,& inchos antibus difficilia,utphilofophus,& relinquendasupra
nosmonuit:Satishuicrationifaciendumarbitrorexhis, gentiaatqzarbitriopendet:ineo
presertimartific equivoces impofuit: uel ab impositis et Gibi notis nominibus, regulas
logicæ docet:in mente enim artificis& docétis ing E ii
quærimus, ad que causa hæc nondirigitur. Tertio dicit: ut
quçinintelle&usuntfolo.sednefcioquçueritasdicipót,
cuinihilextraresponderinre:cum infra& inpoftpredi camentisdicatur.abeoq resest,uelnoneftoratiodicitur
uerauelf alla remota aūt causa et prima radice, ceterade ftruinec effe eft. Item
Aristotele de vocibus loquitur. Propterea mihi hoc libet dicere. Hac de causa fiais
exemplissuasen tentianicomproballe,o fi&aamer a positione significant:
& ideo magisobuia& perspicuaacconsuetafuntadexpli candum: utquodámodonotiora,utmagisuulgata,exars
omnemueritatem haberiin compofitione& diuisione.ne excludatur ueritas apud
Platonem in intelligibilibus,& in telligentiisfiuemenubus,& apudArift.desimpliciuming
telligentia et abstractis: fedeam que in pronunciatiuissubs est motibus, scilicet
cum discursu: seu ratiocinatione: quæ perenunciatiuam
fitorationem.&inniotibuspronuna ciatiuis,non invoce solum (intelligas) exiftentibus:fices
nimtextuiArift.& eiusdillisaduersantiadiceret.sedetia ne&diuifionefalsum
& uerumremouerineceffeeft:pro ptereaergodixit,(circacompositionem at causam
noia ret:sed ad nomina in uoce descendens ait:(non significare uerum, aut
falsum): significare enim proprium eftnomi num, quæinuoceacompositionesignificanteconfiftunt.
PetitAmmonius quomodo uerum fit,circacomposicios innueretueritatem non in rebusreperiri:fedinhisetiam,
nem et divisionenelle uerum et falsum. Responder non nonutitur: ficut utiturhis,
quæ falsum significare maxime affirmantur. fecundam causam adducit: utinnueret,
non solum nomina simplicia ad ueritatem explicanda indiges reuerbo sed etiam
ipsa composite. Sed idem est dicendum de nominibus compositis ueris, nosautem de
fictis proprie non bitrio plurimorum: exhistamenfi&lisnominibus, aliaue
ca intelligendasunt. exempla autem innotescendi gratia inuenta, exuulgatis&
consuetistr ad endafunt et lificadi cantur: quibustaméuerum facilius inueniamus,
autinuen tum facilius doceamus: Petit Suella cur Aristotele.dixerit conpositionem
significare cum uero et falso, non autem significare uerum aut falsum i
respondet, hoc differreinter significare uerum et significare cum uero:quias
ignificare ueru potest uere in nomine simplici inueniri:u.g.hoc nomen uerum aut
fallum, simplex verum significat.i. se ipsum: sed significare cum uero,eftfignificare
cum uerbi complexu ut de uerbo dicetur, significare cum tempore, notempus: ut dies
et annus sedlicethęc dubitatione relinquenda foret, cum id quærat,quodinArift.textunoneft:tamenneaus
inmotibus pronunciatiuis, ideftquicaufafuntutper enung ciatiuam orationem pronuncientur,ueritasergoquacon
ditorum ingenia, obuiriau&oritatem fallantur,ponere& cipitur,aut
enunciatur aliquid ineffc alicui,folum circa con pofitionem &
diuifionemeft,utspeciesorationisenuncia tiuæ.dixieam ueritatem
circacompofitionem elle,quæ concipiturinmente ,uelexplicaturinuoce,&
quaprædiy catuminesse subiectoaffirmatur:quoniam primotopic.4, loca accidentis
propriè dicuntur,quibus potentes fumus concludere hæc alteriineile:& ideo locaeducentia
uerum enunciative propofitionis dicuntur loca accidentis et veritatis qua aliquid
alicui in esse concipitur vel explicatur:Sci scitatursecüdoAmmonius cur
Aristotele dicens (nomina igitur et uerba consimiliaíunteiqui sine compositione
et divisione est intelleclui exempla protulittantum nommun, non uerborum
dicens, ut “homo” vel “album”. Respondet per hominem nomen: per “album” verbum fumpfiffe:
non eata meninquitratione, qua verbum proprie inferius definitur. Sed quia
Aristotele statuit, omnemvuocem quæt erminum prædicatum facit, verbum appellanda.
Sed responsio hęc improbandauidetur:primum q Arift.nondieetinfraprę
refellereconstitui:non.n.Aristotele dicit compositionem cum uero aut falso significare:
sed ait circa.n. compositionem et divisionem elle veritatem et falsitatem. Item
de “hircoscervi” nomine afferuit. “Chircocervus” aliquid significat, sed non dum
uerum aut falsum) denominibusergoopposiy dicatumu erbum appellandum fore: quod fictiam
dices tum dicit eiquod Suellafingebat: nomina non significare ret, exemplum
albiquod posueratantea, adexplicandum uerum aut falsum, sed significare sine vero
aut salso:Eiusery uere uerbum, inutile videretur:Aliter igitur responden, gore
sponfioin textu Aristotele.infirmatur, cum denominibus dum. His exemplis dicta inchoantibus
comprobandaque compositis neget significare verum aut fallum: differentia etiam
abeo assignatauerbis Aristotele, adversatur Ampliu snec potuisset Aristotele dicere,
compositionem et diuisionem verum significare, na in compositio.i.affirmatio et
divisio.i.negay cumuerbonominibus:tamenutnotaprædicatumcuin ciosumerenturinuoce.quoinfradeorationeenunciatiua
dubieto connectens, dubiumfaciunt, anuerum&failum dicetur. Litoratio significans
verum vel falsum, &inqua fignificent, signum est. Ammoniusetiam tanquam duy
eftuerum& falfumutinfignoexternosignificante:nam oratio in mente, non significate
positione, ut hic intelli, bium quærit de uerbis primæ et secundæ personæ
“ambulO”, “ambulaAS” et in quibus tertia persona et certas statuitur. Git
signum est opde nominibus fimplicibu s& compofitis, line uerbo, intulit
dicens nomina igitur ipsa auteur bacó similia sunt fine compositione et divisione
intellecus. lt homo et album hircocervus quæ et si aliquid simplex significent,
non dum tamen uerum aut falsum hæc autem nomini in voce sunt, noninmente:
quiafiutinmēte essent, ut ningit. quæ veritatis et falsitatis videntur capacia.
Licet nonperfe,fedcomplexuhorumuerborum cũcertispery fonis.nonitadubium eft de nominibus,
dequibusinse acceptishæstat nemo, an veritatem significant aut falsitatem: Quærit
nouissime Ammonius quid intellexerit Aristotele. Per simpliciter, uel secundum tempus
cum ait. (hircocery considerentur, non dicerenturno significare uerum aut
falsum et q effent fimilia intellectui fine compositione& diy uifione: quiaessentipseintelle&us,seuintelligentiafineue
roautfallo:Dicédumigiturinquestionempotiusuerten dumcurdixerit.(circac
compositionem.et divisionem, ut inmentesunt, est verum et falsumj denominibus autem
in uocecorolarieinferens,ait:(fineuerbonondum uerum uusenim
aliquidsignificat:fednondum uerumaliquid
autfalsum,finon,ueleffeuelnonesseaddatur,uelfimpli citeruelfecúdumtempus.) respondet
sermonem Arif.ad eadem referens verba, inquiens: nifi effe addatur fimplicis
ter,ideftnisi effe addaturindefinite& indeterminate significans: ut “Fuit
hircocervus” est, auterit. Non definiens, ac determinansan hodie, sero, anmane,
perendie etc. vel aut falsum significare. Ad quod respondendum, quod fecundum tempus,
ideftnifiaddatur cum aliqua determis propterea vox quando
eftfineuero&fallo, quandoque natione tempori addita præsenti, præterito, uel
futuro, cum his, quia circa compofitionem & divifionem intelle,
sciliceterat,eft,erit,herianno superiori,hodie uel cras, & us eftuerum
& falfum :ex quo intulit de nominibus in autsuccessiuotempore.quam
tamenexplicationemaci uoce,gfintfine uero, X fallo ex eadem causa, pfimiliasing
intellectui fine compofitione et divisione: circa quæuerum cipiens Magentinus uel
in latinum vertens non intellexit: cumpereffef smpliciter et omnino, in,finitoacdetermi
& falsum uersatur, ut caulam, quaposita, uerum aut falsum i ponitur. &
hac remota (ut in nominibusfineaddito uery natotemporeintelligat. Ad tempus uero
et in tempore infinito. tragelaphuserat, uel erit, hęc.n.infinitafunt: fed
bouidetur, quæ fimiliasuntintelligentięfinecompositio eft presentist emporis, aitdefinitumelle:l
iceteft,utdeDeo facilius conftitutamfententiamapprobant:uerbaautein (utdicetur)quandam
compositionemsignificant,quam licetexsenonhabeant, sed exalio,ex
compofitis,fcilicet dicitur infinitum significet: Idem.n.Deus,erat, &eft,
sed in aliis rebus, tempore non definite utimurita. Hinc liquet, igitur erunt: quæ&
fiacu& explicite uerbii, prædicatum et subiectum ut nomina non contineant, illatameneximigit,
ergo& hic per tempusdimpliciter, tempus præsens, 8C per secundum tempus præteritum
uel futurum: quæ pros ptereanuncupantur & lunt, quere tempus prælensciry
cunstant, iuxtas; ipsum ponuntur: propterea dixit,(secun significat, quemadmodum
in oratione quaestequus ferus. Ofitis & precognitis partibus definitionis nominis
ac nunc ad definitione sponendas integrasactotas accedit: sed Ammonius quęrit cur
primo de nomine äde verbo definis dumtempus) quodnonfimpliciter& ina&ueft.
Sedquod .tionem assignet? respondet, proptere a nomen uerbo esse præteriit uel
futurumest: solum præsens simpliciter & in actuest.utre&te. S.'Tho. exposuit:
Nec Sueffe confutatio ualet,& quęliberdifferentiatemporisefttempussecundu
quid:quoniamperaliquidabaliisdifferétiisdiffert:quod autemperpartemeft, fecundumquid,
nonsimplicitertas antepositum , qnomen subftantiả.i. naturam et vim rerum
significat: uerbum uero a&ionematqzaffetioné, quænel Cellario naturam
acuimmouentem supponit. contraarguit
Sueffa.substantianonnisiperaccidentiacognofcitur,prius
ergouerbumdefiniendumqnomen:Ad instantiam,Am Icessedicetur: primoclenchorum.4. Sedĝfalla
hæc fit monius facile diceret substantiam cognoscifinedescribir improbatio patet,
quiaens, cuminsubftantiamens simplisciter diuidatur& accidens, inaĉtumfimpliciter,&
potens tiam secundum quid, nequaquam uere diuideretur: quia per aliquid differ substantia
ab accidente et potentia ab aétu, &fipropriedifferentiamnonhabeant.Itemratiofal
lit.lihęcspeciesperaliquamdifferentiam (acuprecipue) differt, rrgo per partem.igitursecundum
quid. accidentiautpofteriora.accidentiavero per substantias definiri, ut priores:
fic.n.Aristotele primonaturam .2.phy.quá
motumfiniuit,aquamotus,utperseprincipio,prouenit: & materiam primo phy.81.g
formam .2.phy.2. quæ a materia cuiu nitur& datellelustentatur, Aliteripse respndet,
proptere a nomen uerbo prætulisle, onotiuscft. Et iterbi
feconuenireArift.affirmauit,fedenunciationitantu:erunt igitur enunciationes,
cum enunciationispropriumopusef
fignum.sedcópofitionemacueritatemcófignificatquan ficiant: Suellanouariis
Sorticularumdi&tis& improbatis sententiis,hocuisumeft:literas&
nominaquoadprima eorumimpo fitionem, non significarenifiincomplexum , neccum
uero et falso: sedquòd quoadnouăimpositio, nem, fignificare poffunt cum vero et
falso: proptereaqapo incópofitione explicarefineadditouer bonó possunt. Dis
fitione sunt. Nung tamenerunt propositiones autenuncia cas Querbumetsi
compositionem extremorum aétunon tiones: proptereanóualereait, a, significat cum
uero aut dicat, a&tionemtamen, et affectionem significat, quæ causa fallo, ergoenunciatioerit.quoniáinquitoportetinantes
eft, qpredicatumseuappositúsubie&ofiuesuppositocon cedenteaddere.
fignificetexprimaimpofitione,nonau
iungatur,uerbumergolempereftuniocóiungens(apritu temex noua institutione. Sed contrahancaddităconditio
dinesaltem cum inpropofitionenóeft:fedcũsecundum nemexproprioarbitrio. Enúciatio
primaimpofitionefis se, acpurúaccipitur: nominauerosunt composita, seu quæ significat
propriecum vero et falso. Ego ubi est proprium apta sunt pera & tumuerbi
coniungi, proptere a nominapen opus, necessario propriumerit inftrumentum:
neq;enima dentauerbo, quasi formauniéte, & uerbiianoíequasimai nova aliqua
institutione propriú opus a proprio inftrosen teria, qunici habetp uerbum. Ut
materiaaŭt, tempore pre iungipoteft: proptereafi. a.b.c, etc. novis aut
antiquis concedit forma, & prius,utfacilius& ordinenecessitatisnos Giliis&pofitioneimpositasunt,
ad verum et falsum,seu (ut menanteafiniendu. Verbú vero, quniédafunt, prçsuppo
ipfi volunt) cum uero & falso significandú. enunciationes nés, pofterius ut
ignotius & the posterius explicandú: quas quando secundū se,
acpurumdicetur. Ipsum.n.sic purumi nullüueritatis et compositionis, aqua verum
explicatur, est dam, nonperse, sed quam sine compofitis nominibus non est
intelligere. Gi ergo hac de causa nomé præponit uerbo, q notitia verbi in
compositione verū explicantis, non pont, intelligi sine nominibus compositis.
Ita et nomina, uerum illud, quod Ammonius, tempus simpliciter &
omnino, ponentium CONSILIO coplcctuntur. Exemplo similiAmm sus ideftindetinite
et indeterminate significans, appellabat, Ma, gentinus dicit esse tempus finitum
et determinatum. Et parsticula, quam Ammo. adom né temporis differentiam rer
pra, cum dicimus "curro", "curris", nin git, pluit,
complexuhorūuer borum cúcertis intelle&is personis, cú vero et fallof
sgnificant. ferebar, Magentinus ad solum præsens direxit. falsum igir. Keywords: logicalia, interpretatio, interpretazione,
logica, signum, segno, nota, notare, notante, segnante, notificare, segnante,
vestigio, il segno del’angelo, campidoglio, san michele, vestigo, etym. dub.
ves-stigium, foot-print. – segno naturale – segno, genere e specie – genere: segno.
Specie: segno naturale, vestigio, marca, nota.. segno artifiziae, segnar per
posizione, arbitrio, a piacere, consilio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Balduino” – The Swimming-Pool Library.
Banfi (Vimercati).
Filosofo. Grice: “What I like about Banfi is that he is more ‘important’ than
it seems, at least to Italians! He has written bunches, but my favourite are
two: his ‘l’interpretazione’ (Banfi makes a distinction between ‘esegesi,’
‘interpretazione’ and ‘TEORIA dell’interpretazione,’ in a slightly non-Griceian
use of ‘teoria’ – and his essays on ‘eros e prassi,’ for indeed the second
strand (eros e prassi) is the base for the former (interpretazione): unless you
CARE, why interpret – which is indeed, a performance?!” -- Antonio Banfi seenatore
della Repubblica Italiana LegislatureI, II Gruppo parlamentareComunista
CircoscrizioneLombardia Dati generali Partito politicoPartito Comunista
Italiano Titolo di studioLaurea in Lettere UniversitàUniversità Humboldt di
Berlino ProfessioneDocente. torico della filosofia, traduttore, accademico e
politico italiano. Fu sostenitore di un razionalismo aperto e antidogmatico in
grado di attraversare i vari settori dell'animo umano. A lui è intitolato
il Liceo Scientifico con Sezione Classica Aggregata del suo comune natale,
Vimercate. Antonio Banfi nacque a Vimercate, in provincia di
Milano, in un ambiente familiare formatosi su principi cattolici e liberali
della borghesia colta lombarda, nella quale da generazioni combaciavano una
moderna e positiva idea del cattolicesimo e un razionale illuminismo
tecnico-scientifico. La ricca e vasta biblioteca in possesso della famiglia
diventò per il giovane grande stimolo di conoscenza nei suoi studi, quando da
Mantova, dove frequentava il Liceo Virgilio, ritornava a Vimercate, dove
assieme alla famiglia trascorreva le vacanze estive. Nel 1904 incominciò
a frequentare i corsi universitari alla facoltà di lettere della Regia
Accademia scientifico-letteraria di Milano e ottenne, dopo quattro anni, la
laurea con lode, discutendo (con il relatore Francesco Novati) una monografia
su Francesco da Barberino. Incominciò a insegnare all'Istituto
Cavalli-Conti di Milano e contemporaneamente proseguì con grande determinazione
gli studi di filosofia (con Giuseppe Zuccante per la storia della filosofia e
Piero Martinetti per la teoretica); il 29 gennaio 1910 prese la seconda laurea
in filosofia, discutendo con Martinetti una tesi intitolata "Saggi critici
della filosofia della contingenza", contenente tre monografie sul pensiero
di Boutroux, Renouvier e Bergson. Con la borsa di studio attribuita
dall'Istituto Franchetti di Mantova ai laureati meritevoli, Banfi decise di
andare in Germania e iscriversi, con il suo amico Confucio Cotti, alla facoltà
di filosofia della Friedrich Wilhelms Universität di Berlino, dove strinse
amicizia con il socialista Andrea Caffi. Nella primavera del 1911 ritornò in
Italia e partecipò a vari concorsi, ottenendo una supplenza di Filosofia prima
a Lanciano, in seguito a Urbino; per molti anni assunse diversi incarichi in
varie sedi scolastiche. Banfi conobbe una ragazza, la contessa Daria
Malaguzzi Valeri, con la quale dopo poco tempo, il 4 marzo 1916, si unì in
matrimonio civile nel municipio di Bologna. Durante la guerra, già riformato al
servizio di leva, si dedicò con senso di servizio e scrupolosa diligenza
all'insegnamento e, per la penuria di insegnanti richiamati al fronte, oltre
alla sua cattedra fu costretto a ricoprire altri incarichi; solo agli inizi
dell'ultimo anno venne aggregato come soldato semplice all'ufficio annonario
della Prefettura di Alessandria. Nei primi anni del dopoguerra Banfi, pur
non militando nel movimento socialista, assunse in modo molto deciso posizioni
di sinistra e partecipò, come iscritto alla Camera del Lavoro, all'organizzazione
della cultura popolare, diventando in poco tempo una delle personalità più in
vista del mondo culturale democratico alessandrino; venne nominato anche
direttore della biblioteca di Alessandria, da cui fu in seguito allontanato dal
nascente squadrismo fascista. Nel 1925 fu tra i firmatari del Manifesto degli
intellettuali antifascisti, redatto da Benedetto Croce. Nel 1931 Piero
Martinetti, che era stato collocato a riposo d'autorità per aver rifiutato di
giurare fedeltà al fascismo, lo propose come suo successore per l'insegnamento
della Storia della Filosofia all'Università degli Studi di Milano, dove, a
partire dal 1941, fu maestro di Rossana Rossanda. Diresse la rivista
Studi filosofici, pubblicata dal 1940 al 1949. Nel secondo dopoguerra, con
le elezioni politiche del 1948, fu eletto per le liste del Partito
comunista,nel Senato della Repubblica. Il mandato fu confermato alle successive
elezioni del 1953. Il razionalismo critico Magnifying glass icon mgx2.svg
Problematicismo. Antonio Banfi può essere considerato il maestro della corrente
filosofica che in Italia si è denominata Razionalismo critico e che ha avuto
anche derivazioni significative nel campo della pedagogia teoretica con il
Problematicismo. In sostanza, usando il concetto kantiano di ragione, Banfi la
considera come la facoltà di un discernimento critico, analitico, presupposto
trascendentale che sistematizza l'esperienza, i dati empirici, non pervenendo a
dogmi o a sistemi di sapere chiusi e assoluti. Il principio razionale permette
di cogliere e comprendere la realtà nelle sue complesse determinazioni: senza
questo principio, che va assunto appunto come trascendentale, la realtà sarebbe
caotica e solo contingente ed esperienziale oppure interpretata secondo la
Metafisica o sistemi di pensiero chiusi e non problematici come richiesto dalla
scienza e in generale dalla complessa dinamica del mondo umano e naturale.
L'apertura della ragione è talmente ampia che anche le filosofie assolutizzanti
vengono poste come possibilità di verità, seppur parziali ("È bene tener
presente che il pensiero non pensa mai il falso in modo assoluto"). La
filosofia è lo strumento indispensabile per l'analisi critica del reale, non
deve tendere a un sapere assoluto, ma porsi il tema privilegiato della coscienza,
purché questa coscienza sia "coscienza della relatività, della
problematicità, della viva dialettica del reale". Si sfugge al relativismo
possibile seguendo le orme di Socrate: l'eticità prevale quando, non potendo
esistere se non come tendenza verità assoluta, le verità relative sono assunte
come problema, cioè come ricerca interrogante e incessante fondante l'intero
processo conoscitivo. Le conclusioni sono, come nell'ambito scientifico (la
scienza è lo strumento pragmatico della ragione, la filosofia lo strumento
teoretico) non false ma possibili, non solo provvisorie, ma reali. Le categorie
che Banfi propone per sintetizzare la sua proposta filosofica, sono quelle di
"sistematica" del sapere, fondata su un significato antidogmatico della
ragione, una "sistematica" aperta per il rinnovamento critico di
tutte le strutture razionali e di un umanesimo nuovo, radicale, che ponga
l'uomo al centro dell'indagine razionale e nella sua realtà storico-effettuale,
che forma la sua coscienza concreta nel mondo reale: dunque critica alla
metafisica ma necessità della filosofia, il sapere costruttivo garanzia di
libertà e concretezza. Il confronto che Banfi predilige è con gli indirizzi
filosofici della prima metà del Novecento, in particolare la Fenomenologia, il
neokantismo di Marburgo, il neopositivismo, l'Esistenzialismo, ma negli ultimi
anni orienta sempre più il suo interesse al Marxismo, di cui condivide gli
assunti fondamentali leggendoli alla luce del suo razionalismo critico, come si
evince dalla raccolta postuma Saggi sul marxismo editi nel 1960. Archivio
Si segnalano tre fondi archivistici del pensatore: "Fondo Antonio
Banfi" presso la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia. L'archivio, insieme
con la biblioteca personale di Banfi, dopo la morte del pensatore venne donato
alla provincia di Reggio Emilia insieme con la costituzione del "Centro
studi Antonio Banfi”. In seguito, il Centro si trasformerà in "Istituto
Banfi", con sede a Reggio Emilia. Nel , l’archivio e la biblioteca
personale del filosofo sono stati depositati alla Biblioteca Panizzi di Reggio
Emilia, a seguito di un accordo tra Soprintendenza Archivistica per
l’Emilia-Romagna, Comune e Provincia di Reggio Emilia. La biblioteca conserva
anche l'archivio di Daria Malaguzzi Valeri e l’archivio delle carte di Clelia
Abate, segretaria del Fronte della Cultura e allieva di Banfi. Archivio
"Antonio Banfi e Daria Malaguzzi Valeri" presso la Biblioteca di
Filosofia dell'Università degli Studi di Milano. Il fondo archivistico contiene
diverse centinaia di documenti conservati da Daria Malaguzzi Valeri, moglie del
filosofo, e da lei usati nella stesura del libro Umanità, pubblicato nel 1967
per le Edizioni Franco di Reggio Emilia. I documenti del fondo coprono l'intero
arco di vita di Antonio Banfi ma risultano particolarmente ben rappresentati
gli anni giovanili; da segnalare soprattutto il ricco epistolario con la futura
moglie, riferito agli anni compresi tra il 1911 e il 1916, e la corrispondenza
con Piero Martinetti, durante la sua docenza presso la Regia Accademia
Filosofico Letteraria di Milano e poi dal suo ritiro di Spineto. "Archivio
privato familiare Antonio Banfi" conservato presso l'Università degli
studi dell'Insubria. Centro Internazionale Insubrico Carlo Cattaneo e Giulio
Preti, riunisce migliaia di lettere, biglietti, cartoline postali, plichi e
buste, conservati in 33 raccoglitori a loro volta inseriti in 15 buste, per una
consistenza di circa 1,5 mi. Gran parte dell'archivio è costituito dal
carteggio tra Antonio Banfi e Daria Malaguzzi Valeri, sposatisi il 4 luglio
1916. Il rapporto epistolare con la moglie, infatti, non si limitò alla sfera
affettiva e familiare, ma affronta spesso tematiche filosofiche (ad esempio, la
frequentazione di G. Simmel durante il giovanile soggiorno a Berlino, nel
1909-1911, o la ricezione dell'opera e la personale conoscenza di E. Husserl) e
di attualità, nella concretezza dei riferimenti a eventi e circostanze del
presente e ai rapporti sociali coltivati da Banfi come pensatore, studioso,
organizzatore culturale e uomo politico. Altre opere: “La filosofia e la vita
spirituale” – lo spirito, l’animo, vita, animo vitale – (Milano, Isis); “Principi
di una teoria della ragione” (Firenze, la Nuova Italia); “Pestalozzi, Firenze,
Vallecchi); “Vita di Galileo Galilei” (Lanciano, R. Carabba); “Sommario di
storia della pedagogia” (Milano, A. Mondadori); “I classici della pedagogia:
Rousseau, Pestalozzi, Capponi, Gabelli, Gentile” (Milano, Mondadori); “Studi
filosofici : rivista trimestrale di filosofia contemporanea” (Milano); “Saggio
sul diritto e sullo Stato, Roma, Rivista internazionale di filosofia del
diritto); “Per un razionalismo critico, Como, Marzorati); “Lezioni di estetica
raccolte Maria Antonietta Fraschini e Ida Vergani, Milano, Istit. Edit.
Cisalpino); “Vita dell'arte, Milano, Minuziano); “Galileo Galilei” (Milano,
Ambrosiana); “L'uomo copernicano, Milano, A. Mondadori); “La crisi dell'uso
dogmatico della ragione, Milano, Bocca); :La filosofia del settecento, Milano,
La Goliardica); “La filosofia critica di Kant” (Milano, La Goliardica); “La
filosofia degli ultimi cinquant'anni, Milano, La Goliardica); “La ricerca della
realtà” (Firenze, Sansoni); “Saggi sul marxismo, Roma, Editori Riuniti); “Filosofia
dell'arte” (Roma, Editori Riuniti). Note
"Perciò appunto non ho dimenticato i tuoi interessi e sarei lieto
che fossi tu a succedermi, In questo senso ho scritto, richiesto da Castiglioni
stesso, che ora è preside, a Castiglioni. Ho consigliato lui e con lui la
facoltà ad accaparrarsi te per la F.[ilosofia] e Banfi per la St.[oria]
d.[ella] F.[ilosofia]"; Lettera n. 108 Piero Martinetti a Adelchi
Baratono, 21 dicembre 1931, in Piero Martinetti Lettere (1919-1942), Firenze,
, 107-108. Rossanda, Rossana, La ragazza del secolo
scorso, Torino, Einaudi, 2005, 52 ss., 9788806143756.
Vedi scheda del Senato della RepubblicaI Legislatura. Vedi scheda del Senato della RepubblicaII
Legislatura. Cit. in "Il marxismo e
la libertà di pensiero", (1954), pubblicato in "Saggi sul
marxismo", Editori Riuniti, 1960, pag.152
A.Banfi, La mia prospettiva filosofica, in La ricerca della realtà
(1959), pag.713 Fondo Banfi Antonio, su
SIUSA Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. 3
dicembre . Centro Internazionale
Insubrico Carlo Cattaneo e Giulio Preti per la filosofia, l'epistemologia, le
scienze cognitive e la scienza delle scienze tecniche, su dicom.uninsubria. 3
dicembre . G. M. Bertin, Banfi, Padova,
CEDAM, 1943 E. Garin, Cronache di filosofia italiana (1900-1943), Bari,
Laterza,1955 G. M. Bertin, L'idea di ragione e il pensiero etico-pedagogico di
Antonio Banfi, Roma, Armando, 1961. Fulvio Papi, Il pensiero di Antonio Banfi,
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1985. 1986. Centenario della nascita di Antonio Banfi, Reggio Emilia, Istituto
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filosofica. Antonio Banfi negli anni della sua formazione, Roma, Edizioni di
Storia e Letteratura, . A. Crisanti , Banfi a Milano. L'università, l'editoria,
il partito, Milano, Unicopli, . Maria
Corti Antonia Pozzi Luciano Anceschi Rossana Rossanda Pietro Bucalossi Piero
Martinetti Scuola di Milano Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons
Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Antonio Banfi Antonio Banfi, in Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
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Unlimited srl. Opere di Antonio Banfi. Antonio Banfi / Antonio Banfi (altra
versione), su senato, Senato della Repubblica.
La morte a Milano del sen. Antonio Banfi articolo del quotidiano La
Stampa, 23 luglio 19577, Archivio storico. Massimo Ferrari, Piero Martinetti e
Antonio Banfi, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Marcello Gisondi, La formazione
intellettuale e politica di Antonio Banfi. Tesi di dottorato discussa presso
l’Università Federico II di Napoli (a.a. /) "Antonio Banfi a Milano",
sito della mostra allestita dal 22 maggio al 13 giugno presso la Biblioteca di Filosofia
dell'Università degli Studi di Milano Filosofia Università Università Filosofo del XX secoloStorici
della filosofia italianiTraduttori italiani 1886 1957 30 settembre 22 luglio
Vimercate MilanoAccademici italiani del XX secoloDirettori di periodici
italianiPolitici italiani del XX secoloProfessori dell'Università degli Studi
di MilanoAntifascisti italianiSenatori della I legislatura della Repubblica
ItalianaSenatori della II legislatura della Repubblica ItalianaStudenti
dell'Università Humboldt di BerlinoTraduttori all'italianoTraduttori dal
franceseTraduttori dal greco all'italianoTraduttori dall'inglese
all'italianoTraduttori dal latinoTraduttori dal tedesco all'italiano. Antonio
Banfi. Keywords. banfi — spirito vitale — storiografia filosofica — istituto di
storia della filosofia — ragione e conversazione — criticismo — conversazione
con hegel — personalismo — l’interpersonale — sovranità — lo stato italiano —
lo stoicismo romano — enea e marc’aurelio — acerrima indago — diritto criminale
— kantismo —Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Banfi” – The Swimming-Pool Library.
Baratono: (Firenze). Filosofo. Grice: “I like Baratono – especially
his ‘stilistica italiana’ – if I were to offer an English stylistics I would
not count as a philosopher – but that’s because ‘English’ is spoken by more
than Englishmen, while Italian ain’t!” Grice: “Baratono thinks he is a sensist
alla ‘Giovanni Locke,’ which he possibly is.” Grice: “In the typical Italian
way, instead of focusing on the classics – Roman philosophy – he read sociology
and psychology and came up, in a typically Italian way, with a ‘sintessi,’ ‘la
psicologia del popolo’ alla Wundt.” Grice: “If Austin punned on sense and
sensibility – Baratono takes ‘sensibilia’ VERY sensibly – as the basis for
‘aesthetics,’ seeing that ‘aesthetikos’ IS Ciceronian for ‘sensibile’.” – Grice:
“Baratono is Griceian in his search for what he calls the ‘elementary’ – he
applies ‘elementary’ to ‘fatto psichico’: judicativo e volitivo – both based on
the ‘sensibile’ – or rather on probability and desirability – credibility and
desirability --. His use of ‘sense’ does not quite fit the Oxonian ‘sense
datum,’ since the will is involved in the sensibile – or, in his wording, it is
the anima (or psyche) that searches for the corpus -- -- The compound is
something like the hylemorphism – the form is sensible – and the volitive
(prattica) and judicative (teoretica) components of the soul operate on this.”
-- Fra i maggiori esponenti del Partito
Socialista Italiano nel periodo fra le due guerre. Vive sin dalla giovinezza a Genova, dove
compie i suoi studi. Si laurea in filosofia. Insegna a Genova, Savona,
Cagliari, Milano. Baratono si iscrive al
PSI subito dopo la fondazione e viene eletto consigliere comunale a Savona,
aderendo all'ala intransigente in forte polemica con i riformisti. Entra nella
Direzione nazionale del partito. Alcune battaglie politiche lo vedono emergere
come figura di primo piano del socialismo italiano, come quella che Baratono
porta avanti capeggiando la frazione comunista unitaria al Congresso di
Livorno. L'accettazione con riserva dei 21 punti dell'Internazionale comunista
di Mosca determina la clamorosa scissione e l'uscita dei comunisti dal Partito Socialista.
Presenta al congresso la mozione massimalista. Diviene deputato. Confermato per
la terza volta membro della Direzione socialista, mentre la maggioranza
massimalista si orienta per la scissione dei riformisti, al Congresso di Roma sostiene
fortemente l'unità, anche per il timore dell'affermarsi delle forze fasciste.
Dopo il Congresso di Roma, aderisce al Partito Socialista Unitario e diviene un
assiduo collaboratore di Critica Sociale. Collabora al “Quarto Stato”. Con il
consolidamento del regime fascista, si dedica esclusivamente ai suoi studi
filosofici. Torna all'attività politica
all'indomani della Liberazione, con collaborazioni sull'Avanti! riprendendo i
suoi studi di critica marxista.
Note «Perciò appunto non ho
dimenticato i tuoi interessi e sarei lieto che fossi tu a succedermi, In questo
senso ho scritto, richiesto da Castiglioni stesso, che ora è preside, a
Castiglioni. Ho consigliato lui e con lui la facoltà ad accaparrarsi te per la
F.[ilosofia] e Banfi per la St.[oria] d.[ella] F.[ilosofia]». Lettera n. 108,
Piero Martinetti a Adelchi Baratono, 21 dicembre 1931, in Piero Martinetti
Lettere (1919-1942), Firenze, , 107-108.
Fonti Vittorio Mathieu, «BARATONO,
Adelchi» in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 5, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1963. Altri progetti Collabora a Wikisource
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degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Adelchi Baratono, su Liber
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openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Adelchi Baratono, . Adelchi Baratono, su storia.camera, Camera
dei deputati. Filosofi italiani del XX secoloPolitici italiani del XX
secoloAccademici italiani Professore1875 1947Nati l'8 aprile 28 settembre
Firenze GenovaPolitici del Partito Socialista ItalianoDeputati della XXVI
legislatura del Regno d'ItaliaStudenti dell'Università degli Studi di
GenovaProfessori dell'Università degli Studi di GenovaProfessori
dell'Università degli Studi di CagliariProfessori dell'Università degli Studi
di Milano. Critica dei valori ed estetica metafisica. Psicologia critica dei
valori e metafisica estetica. Carissimo Groppali » Nella
tuapubblicazionedaltitoloPsicologia socialeepsic.collettira, trovo rammentato
un mio articolo (comparso nel quarto fascicolo del l'Archivio di
Psic.coll.).con queste parole (pag.29): RASSEGNA DI SOCIOLOGIA E
SCIENZE AFFINI citato;non posso fare comequel buon figliuolo di Renzo
Tramaglino, che, a sentir dire che la sua Lucia era una « bella baggiana »,per
amor dell'epiteto lasciava passare il sostantivo. » Lasciami invece un
po'brontolare contro la seconda parte del tuo giu dizio.E,quantunquein fatto di
scoperte scientifichenessuno sipossa dire assolutamente il primo scopritore,
permettimi di dare al Sighele quelch'èdiSighele,ea me quelchesembramio. »
Perilnostrocaso,lascopertapiùimportante,acuisonogiunti questi autori, è la
semplice constatazione del fatto, che gli atti estrin secanti la emozione d'un
individuo riproducono in altri individui ana loghe emozioni ed atti volontari.
» Ebbene:primaepiùcompletamentediquegliscienziati,loSpencer era pervenuto alla
medesima legge con la sua teorica della simpatia ; e per di più aveva spiegato
il fatto diquella suggestione con la ragione sociale, osservando che un atto
emotivo non potrebbe suscitare nei pre senti un sentimento corrispondente se
non vi fosse stata l'esperienza propria o atavica che avesse associato
quell'atto all'emozione reale uni. tamente sofferta; trovandone perciò la
genesi nella convivenza sociale, per essere gl'individui associati sottoposti
alle medesime cause di pia cere e dolore. » Adunque io nel mio studio potevo
passarmi di citare altre teorie, oltre quella spenceriana, quando ridussi il
fenomeno collettivo a feno meno simpatetico. E fin quinon ho fatto,nè ho detto
di fare,nessuna scoperta:ma soltantohoapplicatolaleggespencerianaaunnuovogruppo
di fatti,da Ini non considerati specialmente.Ripeto: ionon ho sostenuto come
mia scoperta, ma ho soltanto accettato e meglio dimostrato, che il fatto
psichico del delirio collettivo ha per sostrato il giuoco delle emo zioni e
rappresentazioni, cioè il fatto simpatetico. » A questa domanda non poteva
rispondere nè il Sighele, che non è mai entrato nel campo della psicologia
generale,nè,come si sa, lo Spen cer e gli associazionisti,che si contentavano
di descrivere il fatto, ridu cendolo a uno schema associativo,ciòche,come
spiegazione,ha ilvalore di una tautologia, senza svelarne il meccanismo, cioè
il rapporto fra gli elementi;né imaterialisti,che nedavanouna
ipoteticaspiegazioneana tomo-fisiologica, senza entrare nella pura psicologia.
>Dall'altraparte,rispondereaquelledomande significatrovarele ragioni ultime
e più generali del fenomeno collettivo ; vale a dire, ridurlo completamente . »
Questo ho tentato io di fare; di qui comincia il mio studio genuino. Me ne sono
vantato? ho soltanto asserito che tentavo di muovere un » Il Sighele
intui, che i fatti caratteristici della emozione di una folla si possono
ridurre a qualcosa di più generale,ov'entri quella facoltà dell'imitazione,
quella suggestione, con le quali altri avevano spiegato il contagio morale;
perciò egli, se malnon ricordo,senza nulla aggiun gere diproprio, si riferì
alle teorie di Bordère, Ebrard,Jolly,Tarde, Sergi, Espinas ecc. ecc. » Ho
dunque accettata una legge,o,meglio,ladescrizione di un fatto generale,chesi
potrebbe enunciare cosi: Negli individui associati,la percezione degli
atticorrispondenti alle emozioni di alcuno destando in altri la
rappresentazione di piaceri o dolori analoghi, suscita piaceri o dolori analoghi
e gliatti corrispondenti. > In questo enunciato c'èqualcosa di mio.Ma non mi
curo di metterlo in luce. Piuttosto ti rivolgo la domanda : osservato il fatto,
lo Spencer ne ha trovato la ragione sociologica ; ma vi è qualcuno che ne abbia
tro vato la ragione psicologica? Come una rappresentazione emotiva può
diventare un'emozione attuale, condizione e stimolo di atti volontari ? RASSEGNA
DI SOCIOLOGIA E SCIENZE AFFINI passo nel cammino dellapsicologia collettiva:tu
puoi scusarmene,perché conosci il tripudio di chi lavora per la scienza,che
oggi è ancor l'unica nostra ricompensa.
»Adunqueilrimanentestudio,larispostaaquelladomandaèmio: » 1.°Mio nelle
premesse,che si riferiscono al libro Ifatti psichiri elementari, dove
dimostravo che : « La legge più generale della psiche è data dalla serie dei
fatti emotivo -conoscitivo -volitivo, quando si con sideri questa come
l'espressione di un rapporto,per cui ilprimo termine rappresenta l'energia
determinante degli altri »; » 3.° Mio nell'applicazione alfenomeno collettivo,
dove le multiple rappresentazioni emotive devono agire sopra ognuno degli
individui come altrettante emozioni reali attenuate, ma accumulate sulla prima;
onde l'esaltazione propria della folla. » Tutte queste tesi sono diverse da
quelle sostenute e dall'intellet tualismo e dal volontarismo. » Riepilogando:
il Sighele giunse a ridurre il fenomeno collettivo a un fatto generale
enunciato come legge ; e lo Spencer aveva dato la spie gazione sociologica di
questo fatto : m a , perchè vi fosse una spiegazione psicologica, bisognava
aver trovato non solo l'associazione,ma anche il rapporto tra gli elementi
associati ;il quale rapporto di dipendenza, cioè di
condizioneestimolo,doveva,perridurrecompletamentequel fenomeno, coincidere col
rapporto o legge più generale della psiche. Questo ho cer cato difare: e, poi
che in modo particolare avevo stabilita la serie dei fatti psichici veramente
elementari e illoro rapporto,cioèla legge psi cologica generale, anche
particolare doveva riuscire l'inferenza al fenomeno collettivo. » Non
posso,egregio e carissimo amico, riassumere in poche pagine
quelloche,agiudiziomio edaltrui.ègiàtroppostrettamenteriassunto ne'mieilavori.A
te,che liconosci, eche possiedi un forteingegno intuitivo, basterà questo
richiamo; e spero che ti persuaderai, che il Sighele restaugualmente uno
de'nostri migliori scienziati,anche senza regalare a lui,che non ne ha
bisegno,quelle due o tre pagine con le quali si termina il mio studio. » Spero
ancora più fervidamente, che tu non mi dia del noioso e del l'immodesto per
questa mia lettera,e che sempre mi creda il tuo. BARATONO, Adelchi. -
Nacque l'8 apr. 1875 a Firenze dove il padre, Alessandro, originario di Ivrea,
si era stabilito dopo il trasferimento della capitale del regno da Torino. La
madre, Ermelinda Rossi, era fiorentina. La famiglia si fissò definitivamente a
Genova, e il B., compiuti gli studi classici, frequentò l'università,
addottorandosi in lettere e in filosofia. Suo principale maestro fu A.
Asturaro, del cui indirizzo sociologico il B. risentì nei suoi primi lavori
(Sociologia estetica,Civitanova Marche 1899; Sul problema religioso,in Riv.
ital. di sociol.,IV [1900], 4), così come, successivamente, subì l'influsso di
E. Morselli e delle sue lezioni di psichiatria. Gli interessi psic0logici del
B. sono documentati in questo periodo da numerose pubblicazioni (I fatti
psichici elementari, Torino 1900; Sulla classificazione dei fatti
psichici,Bologna 1900; Energia e psiche, in Riv. di filos. e scienze affini,
IV[1902], pp. 27-47, 162-180). Psicologia e sociologia venivano, poi,
naturalmente a fondersi in una wundtiana "psicologia dei popoli"
(Sulla psicologia dei popoli, Genova 1901), permeata di una filosofia
scientificamente concepita. Questo movimento culmina nei Fondamenti di psicologia
sperimentale (Torino 1906), che risentono ancora dell'influsso positivistico,
nella ricerca di una filosofia scientifica, ma cominciano, al tempo stesso, a
rivelare l'originalità filosofica del Baratono. Contemporaneamente il B.
coltivava il proprio gusto estetico frequentando i circoli letterari, le mostre
di pittura, i caffè degli artisti; a venticinque anni pubblicò un volumetto di
versi (Sparvieri,Genova 1900, con acqueforti di Edoardo De Albertis), che sarà
seguito da altre poesie (Lettera - Notturno - Congedo, 1908), articoli
letterari e frammentarie commedie, comparsi generalmente in Riviera
ligure. Questo duplice interesse, psicologico, ed estetico, accompagnò il
B. per tutta la vita, ma non senza trasformarsi radicalmente, dall'originario
positivismo, in una personale forma di "sensismo", dove tornavano a
incontrarsi il significato etimologico e il significato moderno della parola
"estetica". Nel 1911 - l'anno del congresso internazionale di
filosofia di Bologna, a cui il B. partecipò - egli, che l'anno prima aveva
celebrato I funerali del positivismo italiano (in Lavoro nuovo,5 apr. 1910),
pubblicò la Psicologia sintetica,in cui l'aspetto filosofico e quello
scientifico-sperimentale della ricerca erano nettamente divisi, e la psicologia
veniva assegnata al secondo. Conseguita la libera docenza, il B. tenne
corsi e conferenze all'università di Genova - oltre che all'università popolare
- prendendo a interessarsi del problema pedagogico, strettamente congiunto con
quello politico. QuattroDiscorsi sull'educazione furono da lui riuniti in un
volumetto, e alcuni anni dopo uscì la sua opera fondamentale in materia:
Critica e pedagogia dei valori (Palermo 1918). Dalla politica il B. si
era sentito attratto fin dalla prima giovinezza. Le sue convinzioni etiche lo
indussero a militare nelle file del socialismo; tuttavia, anche nell'attività
politica, egli conservò quell'atteggiamento aristocratico e leggermente
distaccato che lo caratterizzava sul piano culturale, ciò che tolse mordente
alla sua azione. Nell'aprile 1919, per le elezioni amministrative, redasse in
collaborazione con E. Gennari un ordine del giorno, votato poi all'unanimità
dal Consiglio nazionale del partito, dove si dichiarava che dei comuni ci si
doveva impadronire per "parálizzare tutti i poteri e tutti i congegni
dello Stato borghese, allo scopo... di accelerare la rivoluzione
proletaria". Rispetto alla rivoluzione russa, il B. si pronunciò contro
l'accettazione senza riserve delle ventuno condizioni poste da Mosca per
l'adesione alla Terza Internazionale, ma fu messo in minoranza nella riunione
della direzione del 28 sett. - 1° ott. 1920. Cercò inoltre di evitare ogni
scissione a sinistra, anche a costo dell'espulsione dei riformisti, che
rappresentavano l'ala destra del partito: questo suo punto di vista, sostenuto
prima e durante il congresso di Livorno (gennaio 1921), trovò tuttavia la via
sbarrata dal successo degli "unitari". Dalla sua dirittura morale il
B. era portato all'intransigenza; era antimassone, respingeva l'anticlericalismo
di maniera, auspicava la libertà dell'insegnamento. Turati ebbe a definirlo
"il filosofo della direzione del partito". Eletto deputato nella XXVI
legislatura, sedette al parlamento nel 1921-22, ma l'avvento deli fascismo lo
costrinse ad abbandonare l'attività politica (nella quale rientrano anche
scritti come Le due facce del marxismo taliano,Milano 1922, e Fatica senza
fatica,Torino 1923). Più fortunata divenne, a, questo punto, la carriera
universitaria. Titolare a Cagliari dal 1924, il B. si occupò, tra l'altro, di
Problemi universitari (Mediterranea,I[1927], 8) e vagheggiò un progetto Per la
riforma della facoltà filos. (Atti della Società ital. per il progresso delle
scienze,XX[1931]), che fu combattuto dal Gentile (Giorn. crit. d. filos.
ital.,XI[1931], pp. 239 s.). Nel '32 il B. passò a Milano, sulla cattedra di P.
Martinetti (che si era ritirato per non prestare giuramento) e nel ' 38 tornò
all'amata Genova, stabilendosi sulla riviera di Sant'Ilario. Qui riceveva
volentieri i suoi studenti e colti visitatori, attratti da una fama, che,
specialmente dopo la pubblicazione di Arte e poesia (Milano 1945), si estese
oltre la cerchia dei filosofi di professione. Riprese l'attività politica negli
ultimi anni, soprattutto in forma di collaborazione a giornali e di
rielaborazione di vecchi scritti di critica marxista. L'ultimo articolo,
L'etica dell'economia marxista, uscì sull'Avanti! alla vigilia della morte, che
avvenne il 28 sett. 1947. Al nome del B. è intitolato l'istituto universitario
di magistero di Genova. La prima formulazione pienamente matura della
filosofia del B. può essere considerata il volume Il mondo sensibile,
introduzione all'estetica (Messina 1934), preparato da alcuni degli scritti
raccolti in Filosofia in margine (Roma 1930); in esso si vuol raggiungere la
"prova esistenziale" della spiritualità del contenuto sensibile.
Contro l'impostazione gnoseologica che soggettivizza il mondo, il B. propugna
un'impostazione estetica che vede nel mondo sensibile, preso per se stesso,
"la forma dell'esistenza". Tale dottrina fu chiamata dal B.
"occasionalismo sensista", in una comunicazione alla sezione
piemontese dell'Istituto di studi filosofici nella primavera del 1940 (Per un
occasionalismo sensista, in Concetto e programma della filosofia d'oggi, Milano
1941, pp. 227-251). La denominazione esprime l'intento di "riflettere
sulla pura forma invece di prenderla quale rappresentazione di altro (soggetto
od oggetto) posto come un contenuto irreducibile a quella forma".
L'esperienza estetica ci mostra che un'ide a pura esiste come forma pura,
sensibilmente, e che questa forma sensibile vale per sé, in un rapporto
formalmente sentito con certezza, che diciamo "verità". Ciò
costituisce un valore sensibile direttamente, diverso sia dal valore del
sensibile (che rappresenta il valore specificamente teoretico) sia dal valore
del sentimento (che rappresenta il valore pratico). L'esserci sensibile
interessa il pensatore o l'uomo pratico solo come ostacolo da superare, ma
"riempe di meraviglia chi guarda il mondo con gli occhi spalancati sol per
la gioia di vedere, e così ne può apprezzare la bellezza". Queste
idee sono esposte dal B. in Arte e poesia,e messe alla prova non solo a
contatto con estetiche come quelle del Burke e del Focillon, a cui il B. scrisse
introduzioni (Milano 1945), ma con la stessa opera poetica, per es. di un
Verlaine, di cui il B. ripubblicò in Italia una raccolta di Poesie,
conintroduzione (Milano 1946). Arte e poesia si conclude con una "apologia
della forma", la quale sembra a torto imprigionare lo spirito e limitare
il valore solo perché, in realtà, lo determina e lo realizza. Rovesciando
l'istanza idealistica, secondo cui il valore sta in un'unità spirituale che si
riduce a "un'esigenza puro-pratica, a una rappresentazione di ciò che non
è", il B. dichiara che l'anima cerca il corpo, non viceversa, che lo
spirito cerca la forma, la filosofia la poesia. Sicché il valore non appare più
la premessa indimostrabile di ogni esistenza, ma il risultato intuitivo della
stessa forma sensibile. Bibl.: F. Della Corte, A. B., in Genova,
XXVI (sett. 1949), pp. 26-29. Sul B. Ipolitico: F. Meda. Il Partito Socialista
Italiano dalla Prima alla Terza Internazionale, Milano 1921, pp. 90-102; I
deputati al Parlamento per la XXVI legislatura, Milano 1922; M. Carrea, Per una
filosofia del socialismo, in Osservatorio, Genova 1946, n. 3; P. Nenni, Storia
di quattro anni (1919-1922), Roma 1946, passim; A. Tasca, Nascita e avvento del
fascismo. L'Italia dal 1918 al 1922, Firenze 1950, pp. 196 s., 361; F.
Turati-A. Kuliscioff, Carteggio. V: Dopoguerra e fascismo (1919-22), a cura di
A. Schiavi, Torino 1953, vedi Indice. Inoltre per alcuni scritti del B., in
Critica Sociale, degli anni 1923-24, vedi Critica Sociale, a cura di M.
Spinella, A. Caracciolo, R. Amaduzzi, G. Petronio, III, Milano 1959, Indici, a
cura di M. T. Lanza. Sul B. filosofo, oltre l'esposizione del proprio pensiero
fatta da lui stesso in Il mio paradosso, in Filosofi ital. contemporanei, Como
1944 (2 ediz. Milano 1946), cfr. U. Spirito, L'idealismo ital. e i suoi
critici, Firenze 1930, pp. 130-141; G. Della Volpe, Crisi dell'estetica
romantica, Messina 1941, pp. 26-31; M. F. Sciacca, Il secolo XX, Milano 1942,
pp. 218-223; G. Faggin, Il formalismo sensista di A. B.,in Riv. crit. di storia
d. filos., I (1946), pp. 189-96; R. Assunto, B. e l'estetica moderna, in
L'Italia che scrive, XXIX (1946), 3, pp. 50-52; G. M. Bertin, L'estetica di
B.,in Studi filosofici,VIII(1947), pp. 136-38; G. Bontadini, Dall'attualismo al
problematicismo, Brescia 1947, pp. 170-187, 254-56; C. Talenti, A. B., Torino
1957 (con bibl.). Adelchi Baratono. Keywords:
breviario di stilistica italiana, fatto psichico elementare, i fatti psichici
eleentare, psicologia filosofica, illuminismo, implicatura luminaria,
implicatura escataologica, politica ed etica, la filosofia al margine: gentile,
croce, natura umana, esperienza, il mondo sensibile, estetica, il bello, il
sublime, criticismo, assiologia, hume a Cremona e torino, spirito, animo, forma
logica, l’eneide, riviera ligure, “Rivera Ligure”. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Baratono” – The Swimming-Pool Library.
Barba (Gallipoli). Filosofo. Grice: “I like Barba, but then I like
Gallipoli – and he was born and died there, at Villa Barba. His main interest
was Roman philosophy, which he studied at Naples! – The Roman occupation in
Southern Italy brought ‘a breath of fresh air,’ as Barba has it, to the old
“Grecia Magna” tradition --.” Grice: “Barba is very clear: ‘Epigrafia
filosofica latina,’ o ‘epigrafia filosofica romana’ surely ain’t Grecian!”
-- Figlio di Ernesto, conduce gli studi
a Gallipoli, per poi trasferirsi a Napoli presso il zio, Tommaso Barba. Tommaso
Barba e presidente della Gran Corte. Studia grammatica e materie letterarie
nella scuola di Puoti. Si laurea in Filosofia. Studiare nel R. Collegio Cerusico
e divenne professore di anatomia umana comparata. Insegna scienze e lettere al
ginnasio di Gallipoli e fu sovrintendente scolastico ed Assessore delegato alla
Pubblica Istruzione. Fu arrestato ed
esiliato a causa delle resistenze al governo. I membri dell'Associazione
Democratica posero una scritta: "Nato dal popolo, Per il popolo si
adoperò". A lui fu intitolato il Museo civico di Gallipoli. Note
AnxaEmanuele Barba, su anxa. 21 aprile
13 ottobre ). Scheda sul sito del
Museo Emanuele Barba. Filosofi. Emanuele Barba. Keywords. epigrafia latina,
iscrizione latina, iscrizione greco-romana, la iscrizione di Platone sulla
porta dell’academia, ageometretos medeis eisito, Delville pittore belga
(Libert), a Italia crea ‘L’ecole de Platon,’ per la Sorbonna. I vasi di Barba – gemelli, fratelli siamesi,
ecc. Monete romana, Gallipoli, colonia romana, ‘Proverbi e motti del popolo
gallipolino” – poesie di Barba sulla morte del re d’Italia, risorgimento –
esilato, carcere – la filosofia di Barba, barba filosofo. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Barba” – The Swimming-Pool Library.
Barbaro (Venezia). Filosofo. Grice: “This can be confusing to
Oxonians, althou we are familiar with the Hanover dynasty! Daniele Barbaro, a
faitehful nephew, commented on his uncle’s, Ermolao Barbaro’s, ‘translation’ of
Aristotle’s rhetoric – I shouldn’t even be saying this since it’s implicated in
the title where Ermolao features as ‘interprete,’ and the ‘commentarium’ is due
to Daniele.” Grice: “On top, Daniele wrote about ‘eloquenza,’ but his comments
on his uncle’s vulgarization into latin of Aristotle’s vulgar-greek (koine)
rhetorica – is perhaps more Griceian – since there is little conversational
about Daniele Barbaro’s ‘eloquenza,’ while the rhetoric (or ‘rettorica,’ as he
prefers) is ALL about ‘dialettica’ and dialogue!” -- Daniele Barbaro patriarca della Chiesa
cattolica Portret van Daniele Barbaro Rijksmuseum SK-A-4011.jpeg Ritratto di
Daniele Barbaro, attorno al 1561-1565, opera di Paolo Veronese, presso il
Rijksmuseum di Amsterdam Template-Patriarch (Latin Rite) Interwoven with
gold.svg Incarichi ricopertiPatriarca
di Aquileia. Nato 8 a Venezia Nominato patriarca 17 dicembre 1550 da papa
Giulio III Deceduto13 aprile 1570 (56 anni) a Venezia. Ritratto da Paolo
Veronese, 1562-1570 (Firenze, Palazzo Pitti)
Villa Barbaro a Maser Pratica
della perspettiva, 1569 È noto soprattutto come traduttore e commentatore del
trattato De architectura di Marco Vitruvio Pollione e per il trattato La
pratica della perspettiva. Importanti
furono i suoi studi sulla prospettiva e sulle applicazioni della camera oscura,
dove utilizzò un diaframma per migliorare la resa dell'immagine. Uomo colto e
di ampi interessi, fu amico di Andrea Palladio, Torquato Tasso e Pietro Bembo.
Commissionò a Palladio Villa Barbaro a Maser e a Paolo Veronese numerose opere,
tra cui due suoi ritratti. Daniele
Matteo Alvise Barbaro o Barbarus fu figlio di Francesco di Daniele Barbaro ed
Elena Pisani, figlia del banchiere Alvise Pisani e Cecilia Giustinian. Suo fratello
minore fu l'ambasciatore Marcantonio Barbaro. Barbaro studiò filosofia,
matematica e ottica all'Padova. Fu
ambasciatore della Serenissima presso la corte di Edoardo VI a Londra,
dall'agosto 1549 al febbraio 1551, e come rappresentante di Venezia al Concilio
di Trento. Nipote del patriarca di
Aquileia Giovanni Grimani, fu suo coauditore nella sede patriarcale di Aquileia.
Venne promosso in concistoro a patriarca "eletto" di Aquileia
(coadiutore), con diritto di futura successione, ma non assunse mai la guida
del patriarcato perché morì prima dello zio. All'epoca tale carica era quasi
una questione di famiglia per i Barbaro, infatti furono patriarchi di Aquileia
ben 4 Barbaro fra il 1491 e il 1622:
Ermolao Barbaro il Giovane, patriarca di Aquileia dal 1491 al 1493,
Daniele Barbaro, patriarca di Aquileia, Francesco Barbaro, patriarca di
Aquileia dal 1593 al 1616, Ermolao II Barbaro († 1622), patriarca di Aquileia
dal 1616. Fu forse nominato cardinale in pectore da papa Pio IV nel concistoro
del 26 febbraio 1561 e mai pubblicato.
Solo i Grimani, con cui erano imparentati, occuparono più volte il
patriarcato (ben sei). Partecipò a varie
sedute del Concilio di Trento a partire dal 14 gennaio 1562 fino alla sua
chiusura nel 1563. Atre opere: commentarii
di Aristotele Retorica del suo pro-zio Ermolao Barbaro il Giovane (Venezia); Compendium
scientiae naturalis di Ermolao Barbaro il Giovane (Venezia); Commento
sull’archittetura d Vitruvio, pubblicato col titolo “Dieci libri
dell'architettura di M. Vitruvio” (Venezia). Di essa pubblica anche una
versione in latino intitolata M. Vitruvii de architectura, (Venezia). Le
illustrazioni sono realizzate da Palladio --; un trattato sulla geometria,
prospettiva e scienza della pittura, La pratica della perspettiva (Venezia); un
trattato sulla costruzione delle meridiani, “De Horologiis describendis
libellus” (Venice, Biblioteca Marciana, Cod. Lat. VIII, 42). Più tardi si
scopre che il testo del Barbaro affronta la tecnica di strumenti come
l'astrolabio, il planisfero, il bacolo, il triquetrum, e olometro di Abel
Foullon. Cronache, probabilmente riprese da Giovanni Bembo nella Cronaca Bemba.
Aurea in quinquaginta Davidicos Psalmos doctorum graecorum catena interpretante
Daniele Barbaro electo patriarcha Aquileiensi, Venetiis, apud Georgium de
Caballis. Note La pratica della perspettiva, 1569,
consultabile online (testo italiano + tavole originali) Giuseppe Trebbi, Barbaro Daniele, in Nuovo
Liruti: dizionario biografico dei friulani. 2: l'età veneta. A-C, Forum
editrice universitaria, Udine 2009374
Eubel, Hierarchia Catholica Medii et Recentoris Aevi, III39, che cita
gli Acta camerarii 9, f. 37 e gli Acta vicecancellarii 8, f 7 Louis Cellauro, Daniele Barbaro and
Vitruvius: the architectural theory of a Renaissance humanist and patron,
Papers of the British School at Rome, 72 (2004), 293–329 Pio Paschini, Daniele Barbaro
letterato e prelato veneziano del Cinquecento, Rivista di storia della chiesa
in Italia, 6 73–107. Władysław Tatarkiewicz, History of Aesthetics, III: Modern Aesthetics, edited by D. Petsch,
translated from the Polish by Chester A. Kisiel and John F. Besemeres, The
Hague, Mouton, 1974. Daniele Barbaro, Pratica della perspettiva, In Venetia,
appresso Camillo, & Rutilio Borgominieri fratelli, al Segno di S. Giorgio,
1569. 30 maggio . Robert Devreesse, La chaine sur les psaumes de Daniele Barbaro,
in Revue Biblique, Giovanni Mercati, Il
Niceforo della Catena di Daniele Barbaro e il suo commento del Salterio, in
Biblica, 26, 1945, 153-81.
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line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Giovanni Vacca, Daniele Barbaro, in Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Daniele Barbaro, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Giuseppe
Alberigo, Daniele Barbaro, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere di
Daniele Barbaro, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Daniele Barbaro,
. David M. Cheney, Daniele Barbaro, in Catholic Hierarchy. Daniele Barbaro, su museogalileoMuseo
Galileo, Firenze. 21 ottobre . Daniele Barbaro (15141570), su
mathematica.snsEdizione Nazionale Mathematica Italiana, Pisa, Centro di Ricerca
Matematica Ennio De Giorgi. 21 ottobre .Salvador Miranda, Barbaro, Daniele
Matteo Alvise, su fiu.eduThe Cardinals of the Holy Roman Church, Florida
International University. 21 ottobre . PredecessorePatriarca di
AquileiaSuccessorePatriarchNonCardinal PioM.svg Giovanni Grimani17 dicembre
155013 aprile 1570Aloisio Giustiniani4959495 Umanisti italiani 1514 1570. Nati
l'8 febbraio 13 aprile Venezia VeneziaBarbaroPatriarchi di AquileiaAmbasciatori
italiani. DELLA ELOQUENTIA, DIALOGO. INTERLOCVTORI: L'ARTE, LA NATVRA , ET L'ANIMA . R.IO VORREI
VOLENTIERI Natura , che noi disputaßimo insieme , fe però l'ufficio del
disputare alla tua conditio nesi conueniſſe . NAT. Il diſputare é cosa da te ò
Arte, figliuola mia. Ma fe à me stesse l'ammaeſtrarti, di presente direi, che
tra il tuo intendimento, o il mio, alcuna differenza non fuſje, da che dentro
ti venija se il contender meco. AR . Al almeno desidero tale occasione . NAT.
Vano, o dannoso desiderio é il tuo, si perche io non sono mai ociosa ,
come perche tu sempre dei non mes no abbracciare il bene che cercare la verità
delle cose. AR. Niena te più migioua, che il bene, ne che il vero più mi
diletta. NA. In questo almeno tu m'assomigli, che ouunque sia , ch'io mi
ritrdovi, il vero sono, o il bene di ciascuna cosa . AR. si, ma tu alla cieca ne vai, e io di tanto amo ogn'uno,
che con deliberato consiglio , o anati veduto fine faccio, lo difar bene . NAT.
Emmipur manifesto che la tua grandezza è di nascondere te stessa quantopuoi, o
di accoſtarti à me . AR. Queſto é,maciò auiene,perche tu prima di me al mondo
ueniſti, o gli huominia'tuoi piaceri aduſaſti , innanzi ch'io ci naſceßi; o
queſta mia imitatione non ti accreſce dignitade alcuna . Percioche,nëla formica
uile animaluzzo e più degna , ne l'huomo meno onorato, ancor che questo quella
imitando , l'eſtate per lo uerno ſiproueda.La mia induſtria, Ò Natura , fa
maggiore il tuo pouero patrimonio . NAT. Che accreſcimento farebbe ella,ſe io
non ti laſciaßi che accreſcere ? Tupure,ſe uuoi,ben ſai, che ogni operă
preſuppone il ſoggetto,ſenza il quale nulla ſi può fare. Que fto da me , non da
te procede; oltra che appreſſo giuſto giudice il ſecondo DELL A ſecondo luogo,
non che il primo, ti faria denegato. AR. Giusto à tua ſcelta intendi colui, che
te à me anteponga;ma nonſai che per la età molto ti concedo . NAT. E'mipiace di
ragionare an poco tea coſopra queſta materia , poi che tant'oltra procedutaſei,
che di te con buona equità midolga . Dicoti adunque, che in ordine di onoran za
ne prima ſei, né ſeconda . Ar . Chi adunque à noi ſopraſta ? NAT. Chi ne fece
ambedue é il primo.10 ſenza mezo dalui nace qui. Tu doppo me sei . NAT. Adunque
mentono coloro che affer mano , te effer madre uniuerſale , poi chetu ſteſſa
non nieghi eſſere d'altruifattura ? NAT. Ad un modo io ſono madre,ad un'altro
figlia. A R. Adunque di te coſa picprestante ſi truoua ? NAT. Chi ne dubita ?
Ma io per eſſere å gliumaniſentimenti uicina, tutta fiata ſon preferita . AR.
Hai tu conoſcimento di fine alcuno ? NAT. Certo no ;ma nelgouerno del tutto io
ſon drizzata,e quafi addeſtrata dalpadre mio . AR. In che dunque é ripoſta
queſta tud gloria ? NAT. Tanto potente,ſaggio, w buono é ilmio fattore , che la
ſua gloria in me mirabilmente ſoprabonda . AR. Sommi più voltemarauigliata di
coteſta tua occulta uirtù ,dalla quale tu ſei cosi gentilmente
guidata.jpelefiate mi è uenuto in animo di cre dere che ella forſe habbia
potere di trar mead imitarti diforza; ergo però diſcorrendo,etpiù dentro
penetrando, bo giudicato eſſere gran famiglianza tra quelprincipio , che ti
muoue, &me,ondeper la ſea creta uirtu ,non tua,io mi muouo ad operar come
tu fai. Ma poi mi pare,che,ſe il diſcorrere l'ordinare,e il ridurre àfine le
coſeantiue dute, è ufficio mio,io ſia inanzi di teſtata nel Cielo appreſſo il
padre tuo, che egli habbia l'opera mia uſata in generarti ò produrti NAT. In
altra guiſa io faccio le coſe mie tule tue, di quella del fattor noſtro,
chenehafatte, & create.Però guardati dinon giudi care troppo animoſamente
le coſe , figurando le inuiſibili, & occulte per le uiſibilio manifeſte .
Ma perchecosi agramente mi condane ni? ſe in qualunque modo tu uuoi per le coſe
già dette chiamar mi, ò madre, è figlia, o ſorella, ó amica ſeisforzatadi
nominarmi ? no mi tutti di congiuntione, amicitia, oſtrettezza. Egli non ſi uuol
có. si correre a furia . AR. Non ti adirare ó Natura, che io non ho contra te
mal uolere, né il finemio é ſtato cattiuo , anzi per lo tuo ef faltamento ho
uoluto raffrenare la mia credenza, che era di ſapere con qual calamita io
tirata fußi ad operare come tu fai,e mi uenu to ben fatto per lo ragionamento
,che éftato fra noi, perche hauen do noi do noi ritrouata l'origine del noſtro
naſcimento,ſiamoſicuré della no ftra nobiltà, come quella checon la eternità ſipareggi,o
dal primo fattore d'ogni coſa proceda . Ma ben mi duole , & per queſto ti
ho chiamata,cheà molte ſciagure ſia la grandezza mia ſottopoſta .Et quanto
maggiore è lo stato mio, tanto àpiù pericoli mi ueggio eſſer ſoggetta . NAT.
Quai ſciagure , oquai pericoliſono queſti ? AR. Saper dei Natura, madre mia ,
che in tutte le parti delmondo mi truouo hauer molti miniſtri,de quali neſono
alcuni,chemifanno una gran uergogna, a oltre à ciò miſono di danno infinito , o
per lor cagione io ne ſento male . Perche non indrizzando me al debito fine,
anzifieramente in abuſo ponendomi, come buona, utile, oono reuole cheio
ſono,rea,dannofa , & uituperabilemifanno . Ondegli huomini per mezo mio
ingannati da loro, certi de' loro danni, main certi di chi la colpaſiſia,
s'accendono d'ira contra dime, à guiſa di co loro,che le ſpade,o non
glihomicidi punir uoleſſero. NAT. Tu non ſei ſola nelmale di si fattioltraggi,
tutto'l dime ne uengono afe ſai . Percioche producendo io ogni coſaà beneficio
della vita di chi ci naſce, moltiſciagurati epieni dimal talento, maleufando
l'arti ficio loro,empiono iltutto diconfuſione, auelenando, uccidendo,in,
gannando, eoffendendoſenza riguardo alcuno; e chi ode o xede taliſceleraggini,
maledice ogni mia fattura . A R. Duraper certo ėlaforte noſtra,però che il
uolgo cieco, &ignorante non ſa,chereo non è quello , che in bene uſar
ſipuote.Maper uer direzio poco mi marauiglio, ſe il ueleno auelena,ò il
ferrouccide, ma ben grandeam miratione miporge,quädo il cibo, di cuiſiuiue,cosi
ſpeſſo in cattiuo umore ſi conuerte,che alla morte conduce. Et ciò dico à
fine,chetu Sappia quantoiogiuſtamente mi dolga,che lapiù pretiofa parte,che
tupergratia del tuo fattoreall'huomo cõcedi conla quale egli poſ fan debbia
altrui eſſere d'infinito giouamento , cosi ad offeſa Sia, ex à danno preparata
, che niente più . NAT. Chié quelmaluagio Oingrato,che tal coſa ardiſca di fare
? AR. L'Anima, o la più diuina parte di lei. NAT. Perseguitiamola dunque, o
facciamo la citare dinanzi al Tribunal diuino , Voglio , che ella dica la cauſa
ſua. AR. Ma prima uoglio,che infingendo noi con eſſo lei,tanto la prendiamo che
ella dica à noi ogni ſuaeſcufatione . NAT . Né la giuſtitia del Giudice, né la
uerità del fatto , nela tua dignità ricerca tale inganno,eſſendo quello ſincerißimo,la
coſa uerißima, otu quel la,che del medeſimo errorej, del quale ſei per
riprender lei, puoi eſ A 2 Ser accufatd. A R. Ben di..Ma io altrimenti non
ſonouſata difure. Ma eccoti queſta ingrata ,che di molte parti, et eccellenti
doni da noi dotata d'alcuna gratia,che futta le habbiamo,non ſi ricorda ,contre
mecon me fteſa ,o contra te per li beni, che dato le hai , altiera ſi lieua .
Aſcoltiamola alquanto. ANIMA. Iddio vi ſalui ſorelle amantißime, delle qualiund
mi rende atta l'altra mi fa gagliarda als l'operare . AR. Et te ancora ſecondo
il tuo buon uolere, ma dins ne, che usi tu cercando ? AN. Te ſopra tutte le
coſe . AR. In parte difficile ti ſei riuolta, perciò che biſogna, che tu
oſſeruicon di ligenzatutte le operationi, a modi di coteſta noſtra commune amis
ca. A N. Hoio ad impiegare tanta fatica, innanzich'io t'imprens da ? AR. Et
poſponere a queſta ogni altra cura,ben che dolcißima cura ti fia , per la
ſperanza dello acquiſto, che ne farai. Ma che parte di me conoſcer deſideri ?
AN. Indifferentemente,ſe poßibil fuſſe, tutte le uorrei , tutte le abbraccerei
tutte le poſſederei . Ma ora grado mifia tant'oltre procedere, ch'ioſappia
altrui paleſare i cons cetti miei . AR. Più chiaramente midi quel che
uuoi,perche in molte maniere giouar ti poſſo d'intorno à cosi fatto
dimoſtramento di penſieri . Vuoi tu ſapere conqual nodo di ragione ſi ſtringa
ung parola con l'altra quale ſia la concordanza de' numeridelle per fone, ode'
uocaboli delle coſe, et con quai regole dirittamente fifcri Me ? AN. Queſta
parte io la preſuppongo. AR. Forſe tu uai cer cando d'intendere con quale
unione una coſa con l'altra conuengd, per poter'à tua uoglia
diſcorrere,argomentare,o foſtenere le cons teſe
AN. Né ciò intendo per ora , ma di più diletteuol parte ho curd . AR. Tu
uuoi tutta fiata porgere diletto col parlar ſoauiſ fimamente,à guiſa di
delicata uiuanda acconciandoi numeri,il ſuono, per l'armonia delle uoci
eſprimenti coſe piaceuoli, & grate à i fenfi umani ? A R. 10 uorrei più
adentro penetrare, né tanto effer folles cita di piacere alle orecchie ,quanto
di giouare all'animo , operò dimmiſe hai più parti, quaſi figliuole,cui ſi
conuenga la cura del ras gionare. AR. Honne , o hauer ne poſſo ancora molte
altre , che nonſono in luce ; ma tra le altre una ue n'ba, che non è leggitima;
un'altra la quale bēche leggitima ſid, pure e di tāto riſpetto, che rare Holte
ſilaſcia al mondo compiutamente uedere. La prima in tanto da me é hauuta per
buona , in quanto ella inſegna di conoſcere gli ingan ni del parlare , e à
fuggire i ciurmatori . Laſeconda e da me coſto dita,
&guardatamolto,percheio temo , che gli huomini di malaf fare non la ſuijno.
Et eſſendo ella di bellezza,o di forma ſopra ogni altra eccellente gran
pericolo miſoprafta Jlquale tolga lddio , ma doue non paſſa la maluagità umana
: doue non penetra l'audacia ? ego di queſto, poco fa , la Natura, a io ci
doleuumo, et penſauamo,che tu fußi quella tu , che d'ogni male Q uergogna
noſtra fußi l'apporta trice . A N. Perunared eu perfida, che ſi truoua , non
crediate di gratia, che oggi di tutte ſieno tali,perche da me ui prometto,che
als tro che onore non hauerete , AR. Bene, o cosine cape nell’anis mo. Che uuoi
tu adunque da me ſapere ? AN. 10 cerco
molto , Ò Arte, à modo mio di posſedere coteſta tua cosi bella, o riguardata
figliuola,à benefitio deipopoli, o delle genti, o à gloria tua, di me,dicui
altro cibo più ſoaue non truouo . AR. Prega tu prima la Natura, che à te
conceda corpo ben diſpoſto, oformato , aſpetto graue, o gentile, uoce chiara, á
eſpedita fianco,modo, o mouimen ti conformialla virtù , che deſideri".
Appreſſo poi à me prometterai congiuramento di non ufare già mai la figliuola
mia,uezzofa , inſos lente, « che tanto uagaſia delle bellezze ſue, che per
farſi uaghegs giare in ogni luogo , in ogni tempo , in ogni propoſito ſenza
riſpetto alcuno compariſca . Et con luſinghe eadulatione dal ben fare le genti
, o i popoli aſcoltanti rimuoua . AN. Se ottimo uolere , fe oneſtédimanda
ritruoua luogo appreſſo di te, o Natura, con ogni af fetto ti priego, chetu mi
dia quello chel'arte mi perſuade, che ti dis mandi, corpo
gratiofo,formato,odotato di quelle parti, che conue nientiſono alualore della
figliuola fua . Etſe bene in alcun tempo io non ti poteßi di tanto
donorimeritare,pure non ceſſerò di eſſertiſem pre obligatißima. NAT . Siati la
gratia , che dimandi, conceſſa . A N. Io tigiuro ó Arte,perquella diuinità, che
ſi truoua maggiore, di accoſtumare la tua figliuola à giouare ouà ben
far’altrui , né per modo alcuno permettere, che ella ſeguagli apperiti
diſordinati, ma circoſpetta ſempre , oſempre riguardeuole compariſca . AR. CO
si habbi la chiarezza del ſangue, la libertà , eccellenza della pas tria ,
ibeni da gli huomini defiderati, come ciò facendo,alcolmo della gloria à pochi
conceſſa ,peruenirai. NA . Felice patria ,che di tale, e tant'huomoſaràfornita.
Maqual patria le dareſti tu ,ó Ar te ? AR. A'mia uogliale darei quella ,in cui
le leggi poteſſero piit, che gli huomini , doue la maggior parte alla commune
utilità s'ina drizzaſſe; antica,nobile,illuſtre,e di quelgouerno, nel quale il
bes ne di tutti glialtri gouerniſiconteneffe, qualeforſe non più che unds'e s'è ritrouata ,oſi ritruoua al mondo, oforſe
tu , o Natura,conſentia ſti di prepararle ilpiùſicuro & comodo luogo , oil
piie forte fito , cheueder ſi poſſa,nonmeno al mare che alla terra uicino ,cui
di gra tiaſpeciale ancora il Cielo concede priuilegio di eſſer nimica d'ogni
tumulto, o ſeditione,parca,pia,oreligioſa , con inſtitutiottimi temperata : NA.
Troppo di cuore commendi, o lodi queſta tua Città, eforſe à ciò fare queſto
t’induce ,che tu in eſſa puoi il tuo ud lore, o la tuaforza chiaramente
dimoſtrare . Ma tu, ó Anima, già ricca di tanti doni, chefatti t'habbiamo, che
dici ? A N. Le gratie non ſonopari al uolere,io attendo quello, che attender
dei , &sò lo ſtudio ,che tu ſei ſolita di porre nelle coſe tue;mi&
rendo certa, che tuſai ancora, che ritrouando io unatemperatißima compleßione
di corpo ,à quella dò la umanaperfettione, o come quella temperanza
cade,cosiſopra di eſſa declina ilmio ualore. Làondeſono alcune co ſe, allequali
io non degno la uita concedere. Ad altre ueramente dos no la uita,ma le
operationi di quella cosi ſono occulte, che in forſe fi ftà di credere ſe in
eſſe la uita ſi truoui . Altre uita ,ſenſo, omouis mento da me hanno comealcune
intelligēze, et amore, coſa nobile et ueramente diuina . NAT.
Queſtomipare,checosi ſia map ure als cuna fiata io ueggo, che le anime uan
ſeguitando le compleßioni de' corpi. Onde poiſono alcuni ſdegnoſi, alcuni
manſueti, altriuanno dietro alle apparenze,altrialle fauole più che alla uerità
fi danno , emolti in ogni pruoua, ſoda ex inquiſita ragione uan ricercando. A
N. Et queſto èquello da me tantodeſiderato dono , che e di ſapes re in tal
guiſaſpiegare i concetti miei,ch'io ſatisfaccia à tanta diuer. ſità di nature,
o d'ingegni. NAT. Quando tu ſarai giunta à quel paßo,chetu ſappia per mezo
dell'arte cosi ben gouernarti con ogni maniera di perſone,dotte,roze,ciuili,
barbare, umane, e inumane , allora potrai à tua uoglia mitigar’anco gli
adirati, fpingere i pigri, raffrenare i feroci, ingagliardire i deboli; et di
uno in altro cótrario à uiua forza ogni anima tramutare . A N. Coteſta é und
magica eccellentiſsima. Ma tu Arte,cui è dato di ritrouare alcune uie ragio
neuoli di peruenire alla cognitione di coſe non conoſciute, incomincia da
quelle che facili, en eſpedite ad inuiarmi al deſiderato fine riputes rai . Ar.
Cosi uoglio, o à te farò capo , ó Natura, dinuouo addis mandandoti,di che beni
uuoi tu adornare queſta noſtra nouella ſpoſa ? NAT. Hollo già detto, a più
aperto ti diſtinguo ,dar le uoglio , ol tre al corpo ben formato unauoce grata
, chiara, eguale, che ogniſuonoageuclmente ſi pieghi, e che ſe ſteſſa inſino
all'eſtremo ſoſtenti. AR. Et io le dimoſtreró parole atte ad eſprimere leggia
dramente ogni concetto,pure,ampie, illuftri, eleganti ſeuere,giocona de,
accoſtumate,ſemplici,uere, tarde, ueloci, ofinalmente tali , che abbracceranno
la uera idea di me in queſtoeſſercitio . Et di più io l'inſegnerò di collocarle
si fattamente inſieme, che diletteranno ſema pre , o non falliranno già mai ;
or iu Anima farai ociofa ? AN. Hauendo io per gratia di te Natura le coſe
conuenienti , oper tud corteſia ò Arte le parole conformi, farò si, che niuno
in mepotrà de fiderare ne penſamento neſtudio alcuno . NAT. 10 a' ſenſi tuoiſot
toporrò tutte le coſe, dalle quaifacilmēte ti uerrà fatto di prendere argomento
di ragionare. Tu fin tanto non mancherai di diligenza. AR. Paterno, oſaggio
ricordo. Però che con la diligenza ogni giorno teſteſſa auanzerai, ella ti farà
poßibile ogni impoßibilità ,ela la é la perfettione, lalode di tutte le opere
de mortalijà cui cons giunte ſono tutte queſte coſe, cura, induftria,
penſamento,fatica,eſſer citio , imitatione de migliori, «il tempo padre d'ogni
coſa . Credi adunque à me quelloche la lunga eſperienza mi haidimoſtrato, cioé,
che niente giouano imieiprecetti,niente le regole,niente gli ammae
ſtramenti,ſenza la diligenza,con la quale oltre alla inuentione , all'ordine
delle coſe,otterrai di accommodar la uoce alle parole, eſpri mendo le umili con
baſſo, o rimeſſo ſuono, le pure coniſchiettezza, le afpre con
durezza,abbaſſando, & inalzando queſto beato inſtrué mento à que' tuoni,
che ſaranno conuenienti . An. Coteſte fono leggi da eſſere oſſeruate allora che
io ſarò col corpo congiunta. Pers cheben ſai chenė lingua, nė uoce habbiamo, nė
però egliſi uuoldire cosi ad ogn'uno,in che maniera tra noi fauelliamo . NAT.
10 ſo be ne, chegli huomini andrannofauoleggiando di noi , come altre fiate
hanno detto chele cannucce parlarono , ilche é maggior miracolo , che ſe gli
Indiani uccelli eſprimono le uoci umane. A R. Se già col mio aiuto uolarono gli
huomini, molte coſe inſenſate hebbero mo uimento , che marauiglia potranno oggi
maiprendere del parlar nos ſtro ? AN. Che debbo dir’io ? partita ora dalluogo,oue
il parlaa re é uiſibile , l'intendimento ſenza fauella ſi ſcuopre, muoueſi
ſenza luogo,e s'impara ſenza discorso. AR. Coteſti miracoli , che tu ci
narri,ſono ſegno, che tu non habbia biſogno dell'opera noſtra . AN. Tu di vero,
ſeio nella mia primiera ſimplicità mi rimaneßi. Ma diſcendendo dalpuro o
purgato eſſere, o venendo quaſi ad un'aria infettata e corrotta,molto mi ſento
dal mio primo ſtato ria moſſa . NAT. Peggio ti auerrà meſcolandoticon la masſa
matea riile del corpo . A N. Ad ogni modo mi biſogna ſtar ſottopoſta. AR. Non
uſciamo di ſtrada,macome buoni mercatanti accontiamo inſieme . Haßi
dunquefin'ora promeſſa di uoce eſpedita , di copia di parole , di modo
conueniente di accomodar la uoce alle parole ;oraci reſta di affettare le
parole alle coſe. Cheditu Natura ? NAT. Die co, ch'egli è più che neceſſario
queſto affettamento,ſenzail quale le parole ſarebbon uane et ſenza frutto, però
accreſcendo le doti, che io intendo dare à coſtei , promettole di dimoſtrarle
nelle coſe mie us na certa uerità , alla quale accoſtandoſi, potrà ſeco tirare
ogniforte di gente , o di tale ueritàſenza dubbioti affermo eſſerne ogn'uno
capace. A'R . Già tre corde di queſto liuto ſono accordate , uoci, parole , a
coſe. Reſta, che nelle coſeſi ueda una certa conuenienza con eſſo teco,ò Anima,
e con le parti tue; che ne riſulti la perfetta e compiutafoauità della
deſiderata armonia. Però aiutamia ritros uare le tue più ſecrete parti, epiù
occulte uirtù, acciò cheſi ſappia qual parte di te, con quai coſe, « con che parole,
et con che attione ſi debba muovere . A n. Piacemi queſta diſpoſitione
mirabilmene te ofappi ,che auenga;ch'io nonſia ſtata col corpo già mai, nientes
dimeno come nouella ſpoſa nella caſa del padre molte coſe hoſapute, che mi
aueranno quando ciſarò legata. A R. Ora incomincia à dir mene alcune. AN. Hogià
inteſo,che quando io ſarò con eſſo il cor po, molte mie forze emoltemie uirtù
ſi ſcoprirāno,le qualiora non ſi conoſcono. Et prima ne gli occhi io ſarò il
uedere,nell'orecchie l’u dire, nel palato il guſto , per ogni luogo oparti del
corpo faró ſentimento, nel cuore principio diuita,di ſenſo,etdi mouimento .Ben
che ad altra intentione altri riguardando,la origine di tai coſe ad al tre
parti aſſegnerano. In un luogo ſarò fantaſia,in altro memoriain altro ingegno,et
per tutto ſarò anima.Et ſe il corpo fuſſe di tal tem pra, chegli fuſſe diffoſto
à riceuere ogni mis uirtù, farei nelle orecs chie la uiſte , o ne gli occhi
l'udito, quantunque per molti accia denti , che uengono à i corpi ,
l'animepouerelle uſar non poſſano le forzeloro, da che nacque l'opinione di
coloro, che dicono "credos no che noi moriamo inſieme col corpo.Ma io ti
giuro per quell'onnis potente maeſtro, che mi fece che noiſiamoimmortali , oſe
ora io fo noſenza il corpo,perche non ſi dee credere che io reſtar poſlı dapoi,
che'l corpoſarà disfatto ? AR. Tutto chemolte ragioni aſſai pro Babiliper l'und
ei per l'altra parte mi muouano,pureal modo,che io Sonoſolita di cercare la
uerità delle coſe ,io non ſono puntoſicura del la voſtra immortalità, però
rimettendomi à qualche maggior ſapien za, che la mia non é, mi gioua di credere
che noi uiuiate eternaměte. A N. Più oltraiſe fenza il corpo conoſco ,fo ueggio
, econoſco di conoſcere,miapropria operatione, che dirai tu poſcia dello eſſer
mio ? AR, Ritorniamo al cominciato ragionamento . An. Ben ti dico ora delle
forze mie, perche io conoſco di dentro , e di fuori, dentro con la fantaſia,
col diſcorſo , o con l'intelletto , o ciò si dia mandavolontà, come quello del
ſenſo appetito , il quale hauirtù di porſiinanzialle coſe diletteuoli, o di
fuggire le diſpiaceuoli.La no lontà è Regind. AR . A'me pare , che tu mi
hábbiposto inanzia gli occhi la forma di una ben'ordinata Republica, nella
quale ui ſia il Principe, iCoſiglieri,i Guardiani, et gli Artefici.
Mainfinitamentemi doglio d'alcuni , che per molti ſecreti auenimenti, de' quali
non fan renderealtramente ragione, corrono à fabricar nomi, che nonſono, et con
quegli impauriſcono le genti,aguiſa delle nutrici,che ſpauenta, no ifanciulli
con le fauole, quindi è nato il nome della Fortuna,cui ca pital nimica io
ſempreſonoſtata, nõ percheio creda,che à quel nome alcuna coſariſponda ,
maperche mimoleſtalafalſa opinione di colo ro, che non ſolamente uogliono , che
ella ſia una coſa come le altre, che ſono, ma le attribuiſcono la diuinità.
NAT. 10fo bene, che la for tuna non è fattura mia . ART. Né di me'ancora. An.
Molto mea no dimeauezza à coſe stabili e impermutabili. ART. Laſcida mola
dunque andare, o ueggiamo ſe io ti bo ben’inteſa, due ſono i conſiglieri,per
quanto io comprendo,ragione, &appetito, daiquali commoſſo e
perſuaſo,s’induce à fare, eoperare il tutto , perche ora nė difortuna,nédi
uiolenza alcuna ragiono. A N. Senza dub bio ,ſe riguardi al nome, maſaper dei,
che ſotto queſto nome di appea tito ſi comprendono due conſiglieri,l'uno , nel
quale è poſto l'iracons dia,che è come difenſore dell'altro,nelquale è posta
lacõcupiſcenza. AR . O diquantimali, e di quante conteſe l'uno e l'altro de gli
appetiti ſuoleſſer ſemenza . An. Queſto non già auiene pur il dritto gouerno in
tirannia non ſi tramuti. Diritto gouer è quel lo,nel quale ,chi deue ubidire,
ubidiſce , ochi dee comandare, cos manda". La ragione adunque di queſta
piccola città preceder deue allo appetito, e non permettere, che egli ad abandonate
redini cors sendo, ſeco dietro la tiri. AR . Moltomipidce quello che tu di,eso
B per che 1 jo per ricompenſa di tal piacere voglioti ſcopriremoltiſecreti, che
io bo d'intorno alle predette coſe.Ma dimmi tu prima queſta una parte, nella
quale é riposta la ragione,diche hai tu inteſo cheella eſſer deb bia adornata ?
NAT. Diſcienza o di buona opinione ART, Vero é , per che la ſcienza é ilpiù
bello adornamento , che s'habs bia, al qualeſe s’auicina la buona opinione,ò
che gentileabito é que ſto ,diche l'animaſiueſte apparando le ſcienze . Alora
ella acquiſta laſua perfettione,allora ella é pronta à conſeguire il deſiderato
fine, & quaſi ſeſopraſeinnalzando auanza ogni coſa mortale, o ſi cons
giungecon la diuinità .Ma come di coſa precioſa,orara, difficile,or non da noi
ora cercata,non ne ragioniamo, ma ritorniamo alla buong opinione , la quale si
come la ſcienza è una certa cognitione delle cofe occulte, nata da uere og
manifeſte cagioni, cosi eſſa opinione è una incerta notitia,nata da alcune
dubbioſe cagioni, alle quali l'anis ma con timore difallire, odi errare,
s'inchina . Per uoler'adunque ottenere l'intento fuo ,é biſognoconoſcere il
modo,col quale dapia gliareſi hanno ,o , comeſidice , farſi beneuoli i detti
conſiglieri,ac cio che acquiſtata lagratia loro , l'animaſi muoua àfareleuoglie
di chi parla.Muoueſiadunque la ragioneuol parte,che è nell'anima, că lepruoue,
ocon le ragioni; & tal mouimento s'addimanda inſegna re. Etperche la
ragione è uno de' conſiglieri,prudente,etſuegliato , perd nell'ufficio deŪ'inſegnare
é di mestiere diacuto epronto inten : dimento,mal'appetito in altro
modoſimuoue.Il primo , che è detto Concupiſcibile,richiede una certa
piaceuolezzaet cõciliatione. Pero ciòche cosi di dentro i petti umaniſono da
quello tirati . Ilſecondo gli fpigneàforza, operò cõ eſo egliſiuuole uſare uno
impeto, a cui più propriamente queſto nomedimouimento ſi conuiene, che à gli al
tri ; e comedebito è lo inſegnare,cioè il dimoſtrare con ueriſimil pruoua le
propoſte coſe, cosi è onoreuole il conciliare, o neceſſario il muouere. Ma da
ogni afficio di queſti tre peruiene lapropria dileto tatione. An. Io ſo almeno
,che altro diletto non ho che lo apparda re . AR. Et tu prouerai appreſo quanto
piacere naſca negliapa petiti. An. 10 pure ſono auifata cheeſſendo in eßi ripoſte
le umaa ne affettioni, nonpuò eſſere che ſenza riſentimento di dolore ſimuou
wano. ART. In ogni affetto, & mouimento d'animo,dolore, o piso cere ſono
compagni.Oruedi quáto sfrenataſia l'iracondia, oquana to doloroſo ſia
l'adirato,et pure conoſcerai, che lo appetito,et la ime ginatione della
vendettaglie piùfoane che il mele. Ho duucrtito ,che nc ELOQVEN Z A. ii negli
eſtremi dolori gli huomini hauuto hanno piacere di dolerſi , ayo il non poter
ciò fare , èſtato loro di doppia doglia cagione , non cbe à loro
elettionehaueſſero uoluto l'occaſione di dolerſi,ma poſti neldo lore; dolce
coſa il poter'à lor uoglia ramaricarſi hāno riputato. Dilet ta ueramente la
ſperanza,ma il deſiderio la tormenta. Peßima coſa è la diſperatione tra
tuttigli affetti umani , maſola è ſicura contra la morte. Mauannetu diſcorrendo
nelle altre perturbationi,che trouca rai nella allegrezza ſteſſa un mancamento
diſpiriti , ounatenerez xa, che al pianto ti condurrà fpele fiate.Però io
tiſcuopriròintorno à tai coſe bellißimiſecreti. A N. sidigratia; percioche
queſte mi paiono leuere, epotentifuni, con le quai ſi tirano l'altrui ate nos
ſtre uoglie. A R. 10 ho inſegnato a' mieifedeli,che non fieno fema pre
folleciti d'intorno ad unoaffetto , per fuggire la noia con la uda rietà dellecoſe,
imitando la Natura, la qualeamaſopra modo il udm riare,o il mutare le coſe ſue.
NAT. Vero è, perche chiaramente dei vedere la diuerſità delle ſtagioniedei
tempi, la grandezza co l'ornamento de i cieli, la moltitudine delle coſe e
delle apparenze, ch'io ſonouſata di dare alle coſe mie. AR. O'quanto io leggo
fo pra il tuo libro è Natura ;ma non abandoniamo l'impreſa. Deiaduna que
fapereè Animàun'altroſecreto, non meno delſopra detto bello, degno da eſſere
apprezzato . Jo ti dico che tu auuertiſca bene di nõ ſollecitare con tutte le
forze ad unoſteſſo tempo i detti conſiglieri, perche l'anima trauiata in molti
mouimenti , non attende comeſi dee ad un ſolo .L'eſperienza ti moſtrerà, che ad
un'bora né gliocchi, di belißime pitture,né l'orecchie di ſoauißime confonanze
potrai pies: namenteſatiarejma compartendole opere , meglio aſſai per guſtare i
diletti,e i piaceri delſenſo ,uederai quanto può queſtaſeparata pers ſuaſione.
Inſegna adunque. Inſegnato che hauerai,muoui ,apporta le facelle, et eccita con
gli ſtimolide gli affetti l'animo de gliaſcoltanti. AN. O' Arte tu ſarai ſempre
arte. A n. Et tu anima ſaraiſempre anima. A N. Eſſendo io anima, o da te
ammueſtrata,diuentero Ar te , o tu eſſendo in me Arte , Anima diventerai. A R.
Nuouo miracolo,didue coſe farne una ; ma digratia non ci laſciamo ſuiare dalle
occaſioni,che in uero alcuna uolta épiùdifficile la ſcelta, che la inuentione.
Ora foniamo a raccolta, o quaſi ſotto uno ſtendardo ria duciamo le tue;uirtù,
dalle quali fin’ora habbiamo iregali aßiſtenti ragione, concupiſcenza,oira.
Reſta, che andiamo alle altre parti . ; AN. Cosi faremo, o da eſſa memoria
ſidarà principio. AR..O B quanto tiſon tenuta in nomeſuo,che mi giouerebbe
duuertiré un'afa fetto di Natura, ſe altra fiata in quello abbattendomi , la memoris
preſta nõ mi diceſse, Eccoti,ò Arte,quello che ancora uedeſti. Che es ſperienza
ſitruouain meſenza di eſſa ?chis'accorgerebbe , che in al . cuna di uoi, ó
Anine , io miritrouaßi , ſe non fuſe la memoria come guardiana, teſoriera
ditutte le parti dello ingegno ? onde con ues rità ſidice, Che tanto fa
l'huomo, quäto ſiricordaNaſce la memoria dal bene ordinare , l'ordine dello
intendere, odal penſamento , però poſſo io con le imagini in alcuni luoghi
riposte artificioſaméte indura rela memoriadelle coſe. NAT. A lungo andare tu
le ſeipiù toſto di danno , che di prò alcuno ,però non mipiace altro che uno
eſſercitio, di eſſa memoria,cheſi fa mandando motte coſe à mente . A R. Che fai
tu di eſſercitio • Natura, l'ordine della quale è ſempre conforme ? il tuo fuoco
ſempre tiraall'insù , la tua terra per lo dritto all'ingiù di fcende, o cot ſuo
giuſto peſo al centro rouinando à modo alcuno non fi può uſare alla
ſalita.volgeſiilcielo tutta fiata raggirandoſi in ſe medeſimo, ogni tua legge e
impermutabile, o tutto che i tuoi mona ftri, le tue ſconciature alcuna volta ci
diano da marauigliare, pus ge ſono tue fatture,néſono alla tua generale
intentione repugnanti, mal'Anime da uno in altro cõtrario trapaſſando, buone di
ree,et ree di buonediuengono. NAT. Io conoſco il biſogno in quel modo che gli
occhi comprendono la notte , che é priuatione di luce, ma ben ti dico,chela
memoria da me con molta cura é guardata nella compoſiz tione dell'huomo. A R.
Io l'ho auuertito nel tagliare di eſſo, egomi fono marauigliata con quanta cura
difeſo hai quella parte,nella quale éla memoria collocata ,hauendole dato nella
parte di dietro della tes ſta un'oſſo fermo, e rileuato ,che da
ogniſtranieraforza nella difens da.Tui in temperata umidità e la impreſione, e
in ſecco proportios nato la ritentione delle coſe. Ma tu Arima,la cui nobiltà
fi fa manife ſta per tante & tali operationi , di ciò il tuo fattore ne
ringratierai, regolando con la ragione i tuoi appetiti, penſa,ordina, ocon lo
eſa fercitio conſerua la memoria quanto puoi,percheciò facendo,tale di
senterai,quale deſideri, e conoſcendo te ſteſſa, conoſcerai l'altre tue forelle
, & come della più onorata di eſſe la tua ragione ſopraſta alla loro, il
tuo dritto deſiderio ſarà lor freno , onde infinita riputatione acquiſterai,perche
di leggieriſicrede à colui,in chiſifida, et facilmen te ſi fida in chi ſi
truoua autorità , w credito, il qual naſce dalla inte grità ,o bontà de'
coſtumi, o queſto é ,ch'io deſideroſa , fe altra ſi trkowa E LO QVEN Z A. 13
truoua del bene,temo aſſai non abbattermiin perſonemalungie.AN : In che
potranno ufare la loro malu agità , non eſſendo lor data ſede ? ART . Come io
non ti niego,che il uiuer bene,es accoſtumatamente non ſia di gran giouamento à
farſi luogo nel coſpetto degli huomini, e acquiſtarlagratia de gli
aſcoltanti,cosi non ti conſento che l'has uergli dalla ſua,per uirtù, oforza di
parole non ſi poſſa fare. A N. Perche inſegni tu coteſti incanteſimi? A R. Il
mio ualore e tale , che io poſſi in parti contrarie e repugnanti , ſenza che io
deſidero ſcoprire in altruiſimili inganni,e però biſogna conoſcergli, cosila
uerità ſtadi ſopra, ola bugia cade'uinta in terra,cosiſiponfine alle conteſe,
cosi ſi terminano le liti , cosi ſi ammolliſce le durezze degli adirati,
s'attura le rabbie de’ ſeditioſi, ſi ſollieua l'autorità delle leggi caduta
contra il uolere di quegli, che ſtimando l'oro , l'argento, più cheil douere,
& à prezzoſeruendo , poſpongono la ſalute coma mune alla utilità priuata.o
quanto nei publici mali,e nei tempi pe ricoloſi compenſo pigliarſi ſuole dal
parlare digraue et onorato cit . tadino,le cui parole condite diſenno,ſeco
hanno l'alleggiamento d'o gnimalinconia,che gliafflige. An. E dunquegran
difetto d'huos mini da bene? AR. Senza dubbio , o ciò auiene perche la uia dis
ritta è una,male torteſono infinite, però di raro ſi vede tra mortali, chi per
la ſola camini. Ma tuſcordata ti ſei d’un'altrauirtù, la quale per mettere le
coſe dinanzi a gli occhi ( il che éſommamente richies ſto)non ha pari.Di queſta
uirtù , perche ella ha grande amicitia co i ſenſi corporali,o é molto
confuſa,come quella , che é lo ſpecchio ges nerale di tuttii ſentimenti umani ,
o perciò è detta imaginatione;di queſta uirtù dico, non hauendola tu ancora
eſſercitata, non ne haifin ora alcuna parola mosſa . Io odo dire che nella
imaginationeſirifere bano le imagini, e le apparenze da ſenſi riceuute,et
beneppeſſo in lei cosi ſtranamente tramutarſi che i ſogni non ſono cosi
turbati, et con fuſi, là onde molti ſono detti, o riputati fantaſtici, altri ſi
fanno Re O signori,o talmente par loro eſſere que'tali , che ſi credono di eſ
ſere,che riſo eg compaßione mouono a chigli vede . Alcuni uanno , come ſi
dice,in aria fábricando, et tanto ſi ſtannonel lor penſiero fißi, che
forſennati,e pazzi da tutti creduti ſono. A R. Quanto piùe uanamente ſpender ſi
ſuole tal uirtù , tanto à maggior prò li deue ue farla,& adoperarla. Per
queſta l'huomo prima taleſi fa, qual uuole che altri ſieno . Perche egli prima
dentro diſe ſi propone la coſa, che egli cerca dare ad intendere altrui, con quel
migliore e più eccelslente modo cheſi può, auolendo egli metter’altri a pianto,
non tera rà mai gli occhi aſciutti . Simile forza nella pittura ſi dimoſtra,lo
ar tefice della quale, ogni forma, che egli cerca di far uederenelle ſue tele,
primanella imaginatione fermamente ſi dipinze, o quanto più belli,o gagliarda è
la ſua imaginatione, tantopiù illuſtre, o loda . ta e la ſua pittura.Molte
forme, oſembianze ſono de gli adirati,ma una più eſprimela forza dell'iracondia
; queſta una deue inanzi alle altre eſſer poſta nella fantaſia, o à quela il
pennello e la linguafi deue indrizzare ; en cosi tutta fiata il più efficace
modo o di moues re, o di dilettare, ò d'inſegnare por ſi dee
chiragiona,inanzi,accioche egli ſi habbia l'aſcoltatore come deſidera.Et queſta
è la utilità grans de di coteſta tuapericoloſa potenza,pericoloſa
dico,perchemolti no ſanno ufarla à feruigidello intelletto , ocredono , che lo
imaginarſi ſia intendere odiſcorrere . Ma laſciamo queſto da parte;o racco :
gliamo le tue uirtù. Che mi hai tu dato fin'ora ? An. Mente,uolons
tà,appetito,memoria,imaginatione. A RT. Molto mi piace.Nella mente, che
uiporremo altro, ſenon buona opinione, con l'ufficio dello inſegnare? Làonde la
uolontà ſi muoua ad abbracciar le coſe . Et nel lo appetito,che ui ſtarà
ſenongli affetti ,eccitaticol muouere, &col dilettare, Là onde l'animo ſia
uiolentato à bene eſſequire ? Della me. moria non dico altro, né della
imaginatione , percheſono ambedue di ſopra aſſai bene ſtate de noi diſtinte .
Ora bella coſa udirai, oda non eſſer à dietro laſciata. A N. Che mi dirai tu ?
ART. Dicoti,che doppo la eſpedita dimoſtratione di tutte le tue parti, fa di
meſtiere di ſapere in qual maniera elleſieno dipoſte à riceuere la impreſione
dei loro oggetti. Perche uana, ofriuolafatica quella ſarebbe, di chi af
fettaſſe in parte al pianto diſpoſta ſenza alcun mezo porre il piacere. Credi
tu che eguale prontezza hauerai allo imparare,et allo adirars ti ? Indrizza
adunque i tuoi penſieri à gli ammaeſtramenti , che io ti uoglio dare, oſaperai
comedeueeſſer'apparecchiato l'animo dico . lui che ricerca la pruoua, edi colui
che è pronto all'affettione, imis tando i buoni medici, i quali prima
uannoinueſtigado quai partiſieno guaſte, o quaiſane,eappreſſo , le guaſte uanno
disponendo à rices uere i rimedij conuenienti; e primaleniſcono, e ammolliſcono
, poi apportano la medicina . L'anima adunque , nella quale la ragione fi dee
porre, acciò che dia luogo alle pruoue, et accettar poſſa la buona opinione, e
iſcacciare la contraria,deue eſſere ripoſata, e quieta,et non in modo niuno
affettionata, et trauagliata. Perche eſſendo il pian cere, E LO QVEN Z A. 15
cere,cheha l'anima, quandoimpara, foauißima coſa , biſognofache ellaſia lontana
da ogniturbatione , operò molto male è conſigliato colui chenel conſigliar'altrui
uſa la forza, o la violenza degli aps petiti, °li affetti,laſciando il
ripoſo della verità daparte ; qual contento può riportar colui, che partito dal
Senato dica, per qual ragione ho io aſſentito?perche ho io cosi
deliberato?Buona coſa è l'hauer’alla uerità conſentito,mamiglior'e , ciò
hauerfatto ragion neuolmente più toſto che à forza,perche in tal caſo non pure
ſifabe ne,maſiſa di far bene; di che non è coſa più diletteuole w gioconda.
Habbiaſi dunque l'animo ripoſato di colui cheattende la ragione; queſto
ageuolmenteſi può fare , ponendoſiprima di mezo trail si o il no,come chiſta in
dubbio.Però che più prontamëte ſi prende para tito,et ſi ammette il uero
dubitando,che portando ſeco alcuna opinio ne . Macome diſpoſto ſia lo
appetitoalle coſeſueattendi,che loſaprai con una bella diuiſione degli affetti.
Perciò che in eſſo appetito gliaf fetti ripoſti ſtanno,comet'ho detto. Ogni
affetto e d'intorno al male, ò d'intornoal bene, truouiſi pure lo affetto in
qualunque parteſi uos glia. Ecco nel tuo generoſoſoldato,cui é conceſſo
l'adirarſi, opren. der l’armi quando biſogna dico dello appetito iraſcibile
,d'intorno al bene uiſta la ſperanza, e la diſperatione. Laſperanza é uno
aſpetta re il bene, la diſperatione è un cadimento da quello aſpettare . D'in =
torno al maleuiſta l'ira, la manſuetudine , il timore , ol'audacia. Ira é
appetito diuendetta euidente per riceuuto oltraggio Mania ſuetudine
èraffrenamento dell'ira , oambedue queſti affettiſono in torno
almale,difficile,etpreſente.Il timore é un aſpettatione di noia, ouero un
ſoſpetto di eſſere diſonorato.Et queſta ſichiamauergogna. Il primo,ouero é
temperato,ouero eccede la miſura. Dal temperato neuieneil conſiglio,dall'altro
la inconſideratione,il tremore, & altri ſtrani accidenti.Laconfidenza ,
«audacia, é contrario affetto . Et queſte perturbationi tutte ſono d'intorno
almale che dee uenire.Nel L'altro appetito, in cui è poſta la concupiſcenza ,
d'intorno al bene ui ſta l’amore,il deſiderio, a l'allegrezza. D'intorno al
male l'odio, o l'abominatione, di cui ſegno infelice e la triſtezza, dalla
quale naſce l'inuidia, la emulatione, lo ſdegno, o la compaßione,quando auiene
che la triſtezza detta ſia de i maliouero de i beni altrui. Ma nelle co fe
proprie affligendoſi l'huomo tre alleggiamenti ritruoua. Il primo ė ripoſto nel
proprio ualore, perche niuno ſcelerato é compiutamente aüegro.L'altro è meſſo
nel conſiderare il dritto della ragione, werita 16 D ' Ε ι ι Α fuerità delle
coſe, da che naſce la ſofferenza figliuoladella fortezza. L'ultimo é la
conuerſatione di alcuno amico , perche ne gli amici e ripoſta la ſoauità della
uita . Ritornando adunque allo amore, ti dico, che Amore è uoglia del bene
altrui,eu ſe é mouimento d'animo a far bene, li dimanda gratis . Senonſopporta
concorrenza , geloſia , lela ſopporta ad onefto fine , amicitia . L'inuidia non
uorrebbe, che altri haueſſe bene,ſe benuifuſſe il merito . Lo ſdegno non lo
uorreb be , non ui eſſendo il merito La emulatione il uorrebbe anche per ſe .
La compaßione ſi duole del male altrui , temendo il ſimilenon da uengu á lei .
Etciò ti puòbaſtare in quanto ad una brieue dichiaraz tiore di tutti gli umani
affetti . Ora econueniente, che tu ſappia in che modo à ciaſcuno d'eſſi tu ſia
diſpoſta , acciò che tu ſappia poi als truiſimigliantemente diſporre . Eſſendo
adunque l'appetito uarias mente affettionato, quandoſi ſdegna,quandoinuidia,
quando aborris ſcequando ama, quando teme, quandofpera, equando in altro mo .
do é trauagliato,acommoſſo , aſcolta un bellißimo ſecreto, ilquale non
ſolamente à diſporre gli animi à qualunque affetto è buono, ma in ogni
operatione é neceſſario, & benche oggi mai per uero ammies ſtramento della
uita da ogn'uno ſi dica , RIGVARDA AL F 13 NE, non é però d'ogn’uno l'applicare
alle attioni o opere de' mor tali, cosi belle ſentenza . Laſcerò da canto le
coſe, che non ſpettano alla noſtra intentione,ſolo dirotti quanto io deſidero,
che ſia negli af fetti oſſeruato. Deiſapere che egli ſi truoua una maniera
diparlare, la quale in molte, manifeſte parole effrime la forzı, ey la natura
delle coſe ; e quelle molte, omanifeſte parole altro non ſono , che le parti
della coſa eſpreſſa. Queſtamanieradi parlare é detta Diffie nitione . Ora
dunque io ti ammoniſco, che nel muouere gli effetti pri ma tu habbia à
riguardare alla diffinitione di ciaſcuno,come al deſide rato fine. Però cheſe
la diffinitione rinchiude in certi termini la nas turi della coſa propoſta ,
ſenza dubbio querrà, che il conoſcitoredel la natura , o delle parti deltutto
diffinito , oeſpreſſo , indrizzerà tutte le forze dello ingegno ſuo, à ciò
fare,et tale aiuto preſterà abon dantißima copia di ragionare , o diſciogliere
ogni occorrente diffi cultà, e durezzé . Eccotiſe ſai, che l'ira é deſiderio di
uendetta per riceuuto oltraggio , o ſe mirerai in queſto fine , non anderai tu
dia ſcorrendo, in qual modo eſſer debbia diſpoſto all'ira colui, che tu uora
rai hauere ſcorucciato ? o conchi, oper qualicagione, & quanti modiſieno di
oltraggiare altrui ? Et ciòin ogni affetto facendo,non ti farai ſignore , &
poſſeditore dello animo di ciaſcheduno ? Et rans to più dimoſtrerai con la uoce
, & co i mouimenti del corpo , te tale . effere, quale uorrai,che altri
ſia,certamente si . La diffinitione adun queé il ſegno,al quale ſi deue
attentamente guardare . Ora inbrieue ti dico dell'ira, che eſſendo ella uoglia
di uendetta,è neceſſario,che lo adirato ſi dolga, o dolendoſi appetiſca alcuna
coſa, dalche naſce,che repugnando altri à gli umani deſiderij , ouero à quelli
alcuno impedi mento ponendo , ouero in qualunquemodo ritardande le uoglie al
trui, porga cigione di adirarſi, cioé di deſiderare uendetta,ilperche nella
ſtanchezza nell'amore, nella pouertà , e ne i biſogni ſonodiſpoſti i petti
umani agramente al dolore cagionato dall'ira, epiù cheſono ideſiderijmaggiori,
più apparecchiati , oprontiſono all'ira , o al furore. Lo hauer male di chi
s'attende ilbene,lo eſſere in poco pre gio tenuto , ò diſubidito, o prezzato ,
o per ingratitudine , ò per ingiuria ſenza prò dello ingiuriatore, ſono tutte
diſpoſitioni al predet to mouimento .Giouamolto , oin queſto , & in altri
affetti ſaper. la natura,ilpaeſe, la fortuna, ela conſuetudine di ciaſcheduno .
Se adunque ſi accende nell'ira in tal modo, chië diſonorato , o iſcordas
to,ſenza dubbio acqueterai colui cheſarà onorato, riuerito ,ubidito, ammeſſo,
et riputato;ouero, chiſiſarà uendicato ,a cuiſarà dimandato perdono con la
confeßione del fallo , incolpando la violenza , enon la uolontà. Deueſi dare
molto al tempo, oalla occaſionein ognicoſa, operò ne' conuiti, ne i diletti,
one igiuochigli umani appetitifoa no più alla manfuetudine inchinati
Dell'amorealtro non tidico , le non che eſſendo eſo soglia del bene altrui,
l'eſſere cagione , mezano, interceſſore, aiutore al bene altrui,diſpone
ageuolmente à tale affets to ciaſcuno . Et perche Amore appreſſo, é una
ſimiglianza, w unios ne di uolere , però coluiſarà più amato , ocon l'animo più
abbrace ciato, il quale dimoſtrerà d'eſſere d'un'animo, o d'una uoglia steſſa
con noi . Ilche nelle allegrezze, one i dolori ſi conoſce, o neį biſoa gni
ancora ; non ſolo nelle perſone amate, ma ancora negli amici de gli amici .
Allo Amore riferiſco la Benuoglienza, e l'Amicitia, las quale , ben che affetto
non ſia , pure è nata da eſſo amore , che è uno de gli umani affetti. Qui non é
luogo di più diſtintamente ragionare dell'amicitia; de gli oggetti, delle
parti, e delſine ſuo . Perciò che altroue nei graui ragionamenti di filoſofia
ciò ſi conuiene . Baftiti d'hauere per ora la ſuperficie , el'apparenza .
Ritorno adunque e ti dico,che ipiaceuoli,coloro, cheſidimenticano dell'ingiurie
i с faceti, imanſueti, gli officiofi uerſo i lontani, atti ſono ad eſſer'amati.
Peril cótrario ſapersi chedire intorno all'odio,il quale è ira inſatia: bile,
da uendetta, da tempo,daruina alcuna non mitigato; occulto ine ſidiatore, ymortale,
nato da in giurie o ſoſpetti. Al quale diſpoſte ſono altre nature più, altre
meno, o à megliodiſporle,biſogna ams plificare le ingiurie, « iſospetti,acciò
che nonſoloſi brami una ſema plice uendetta, ma la diſtruttione della perſona
odista . Del timore , odella confidenza, che ne attendi più , ſe di queſta ,
ed'ogni altra perturbatione ne i uolumi degliſcrittori, et nelle pratiche
umane'ne Jei per uedere aſſai ? Timore e turbation d'animo, nata da ſoſpetto di
futura noia . Et però chi temeſa ó penſa dipotere ageuolmente eſſer’offeſo, eda
chiſpecialmente, ſopraſtando il tempo,es la occas : fione. Etchiciò non
ſoſpetta,non é al timore diſpoſto comeé chi ſem pre éſtato fortunato, chi
ſempre miſero, chi è copioſo d'amici, di ros 64,09di potere,chi é fuggitoſpeſo
dalle ſciag ure, ode pericoli,ego altriſimiglianti ;o que'taliſono confidenti,
&audaci . Euui altra maniera di timore, non didanno,madi biaſimo; alla
quale diſpoſtiſos no i giouanetti,i riſpettoſi, oriuerenti, quelli
cheuoglionoeſſer' ha uutiper buoni da ' più uecchi , o da ſimili , opari . Et
però aûa loro preſenzaſonopronti ad arroſire. Non cosi ſono i vecchi,perche non
credono,che di loro altri ſoſpettino quelle coſe , che ſono ne' giouani, come
laſciuie,amori, euanità. Etperche il diſonore è coſa, cheuies n'altronde, però
gli ſpiritidalſangue à quellaparte, che più lo ricer inuiati ſono .Ladoueil
uiſo ſi tignediquel roſſore , cheſi vede . il contrario nei timidi, nel cuore
dei quali il ſangue ſi riſtringe, per ſoccorſo di quella parte , che teme la
offenſione .Nella uergogna ſi abbaſſano gli occhi , come che tolerar nonſi
posſa la preſenza dicos lui, che è giudice de i difetti umani . Queſto è ne'
giouani aſſai buon ſegno di gentil natura . Però che pare , cheuergognandoſi
conoſcas no idifetti, ey habbiano cura di quelli . Non uogliopire diſcorrer’ina
torno all'audacia, allo ſdegno, alla compaßione, alla emulatione, « al la
inuidia . Però che molto ne uedraiſcritto , eragionato da altri. Ben non ti
poſſo tacere del male acerbo , mortale, ch'io uoglio à quella fiera indomita,
eabomineuole dell'inuidia, che all'udir ſolo il nomeſuo, ſtranamentemi muouo .
Lafigura ,i modi, ai coſtumi di eſſa ſono da gran poetadeſcritti. Di queſta mi
dolgo , per eſſer quels la, che più regnaneimiei ſeguaci. Là doue il fabro al
fabro, il mes dico al medico ,l'uno artefice all'altro , inuidia portano ſempremai
. M4 ca ,Md tacciamoora di queſto, e poicheragionatohabbiamo di te, delo le
parti tue,delle quali taci, che in eſſeſi ſtanno,e delle loro difpofia tioni ,
addimandiamo la Natura quaicoſe a’quai parti di te conuena gono , acciò che
accordando la foauißima armonia della umana elo quenza con piacere, og
utiledegli aſcoltanti uditi ſiamo apieno por polo raccontare i miracoli della
Natura. ' AN. lo ueggio ben oggia mai' ' Arte, che tuſei quella chefai l'acume
, ò la ſottilezzadell’oca chio mortale nel ſecreto della diuinamentetrapaſſare.
AN. Anzi per te, ó Anima,coteſto mirabile ufficio s'acquiſta, la cui cognitione
tanto apporta di lume, e chiarezzaad ogniprofeßione, o ſcienza, che ucramenteſi
può dire chetuſia ilprincipio d'ogni conoſcimento Etperò chiunqueſtima; ola
uſanza di uno leggierieſſercitio, o il ca fo tanto potere quanto tu, o
io.uagliamo , grandamente s'allontana dal uero. Tu t'abbatterai in un ſecolo
impazzito, d'huomini, i quali s'accoſteranno ad imitare più uno , che l'altro ,
olo imitar loro non faràſenon manifeſto rubamento, ſciocchi,oferui imitatori,
che non Sapendo , perche altri s'habbiano acquiſtato il nome , tutta via in ciò
s'affaticano. Altri perche hanno unaſcelta di belle , &ornate pde role
uogliono ad uno ſteſſo tempo fcoprirle accomodando à quelle i concetti loro ;
ma che poi ſono cosi rozi, a inetti,cheſenza ordine , Ofuor di tempo le
metteranno, e diranno, Io cosi dißi,perche cosi ha detto alcuno de' più
preſtanti. Queſtiſono gli incomodi delfecom lo. Nat. O`quanto m’increſce perciò
eſſere ſtimatapouera «biſo gnoſa, come che à me manchi alcunafiata,che donare,
o che nel cer care l'altrui teſoro l'huomo perda,ò non conoſca il ſuo . AR. Chi
ſempre ſegue, ſempre ſta di dietro , chi nonua dipari,nõ puòauan zare . Male
hauerebbonofatto i primi inuentori delle coſe , fehae veſſero aſpettato
,chiloro douea farla ſtrada . Et troppo pigro écoe lui, cheſi contenta del
ritrouato. Ionon porgo già mai la mano a chi laſcia , oabandona la naturale
inclinatione , come bene ho ueduto que' ali non conſeguire il deſiderato fine .
NAT. Mi turbano apa preſſo quelli, ò Arte, che tanto di me ſi fidano , che te
laſciano à dies tro". A R. Non ti dißi da principio, chenoi erauamo unite
, e che ciò che appare di uarietà, e diſomiglianza tra noi,e in un principio
ricongiunto ? NAT. Che miditu ? A R. Chiunque opera alcuna coſa da me drizzato
, uſa una regola commune, & uniuerſale, che à molte, diuerſe nature
feruendo,quelle uniſce, o lega in uno artifi cio medeſimo , perche io ſono la
conformità,o la ſimiglianza ;altri acuti 20 DELLA ! acutifono , eſuegliati,
altriſeueri,& graui,altri piaceuoli,&eles ganti per natura . Vnaperò e
l'arte,una éla uia, che ciaſcuno al ſuo ſegno conduce . Quando adunque l'arte
precede,facile e lo imitare ; lodeuole il rubare , & aperta la ſtrada
alſuperare altrui . Et in tal guiſa bene ſilpendeſenza lo auantarſi di eſſer
ricco, a fenza dar ſos: spittione di uergognoſo furto . Accompagnifi dunque
nelle ciuili con teſe il core, ola ſcrima,cioè la natura, el'arte, ogſi
uederanno poi que’miracoli, ch'io ſo fare . Ma laſciamo tai coſe, e incomincia
o Natura , o dimmi , in che modo le coſe tue fiſtanno , che di eſſe cosi
dileggieri gli huominiſiuanno ingannando NAT. Sappi ò Arte, che ogn'uno che ci
naſce, ſeco porta dal naſcimento ſuo unacerta ins clinatione alla uerità ,
donde auiene, che inſieme con glianni creſcens do ella in parteſuole il uero
congetturare, laqual congetturi opis nione più toſtocheſcienza uferai di
chiamare . Laſcio la uſanza mia imitatrice,chefino da primiannirecarſuole molte
opinioni, che poi dipenacon l'altra certezzaſileuano, parlerò di quella
ſembianza più toſto, che ſembiante di uero ,cheé atta nata à muouere l'umane
mentia far giudicio delle coſe . Dico adunque, alcune coſeeſſer da ſe ſteſſe
manifeſte , chiare , altre , niente da ſe hanno di lume, edi
fplendore,mailluminate da quelleche ſeco hanno la luce , ſi fannoa? fenſi
umanipaleſi ; nel primo gradoé il Sole , o tutti que' corpi, che ſon chiamati
luminoſi . Nel ſecondo ſono i corpi coloriti, i quali non hannoin ſe ſcintilla
di chiarezza, ma d'altronde ſono illuminati . Il fimigliante ſi ritruoua nello
intelletto . Iljaale riceuendo alcune coſe diſubito quelle apprende, og ritiene
. Però che quelle ſeco hannoil lume loro, ſe à me ſteſſe il fabricare de' nomi,
io le chiamerei Noti tie, ouero Intendimentiprimi. Ma poi altre ſono , che non
hannoda ſe lume, ó uiuezza alcuna,&però di quelle ſifa giudicio con
ſoſpetto di errare, fe da altro luogo la loro intelligenza non uiene ; quinci ė
nata la opinione, la quale come opinione, che ella é, né uera ſitruoua, ne
falfa. Il difetto naſce daquelli uirtù,chepoco dianzi diceſte.Pero che le coſe
mie fono, come ſono,mariceuute nell'anima, e da' ſenſi al la fantaſia per
alcune debili ſembianze traportate , ſtranamente meſcolate,fannodiuerſe
opinioni. Ben’é uero, ch'io non faccio una co ſa tanto diuerſa da un'altra, che
l'huomo dueduto non poſſa alcuna Somiglianza tra eſſe ritrouare . A R. Molto mi
piace che l'animadi ciò nonſia fatta capace, perche accadendoleſpeſo mutare le
opinioni umine, e da uno in altro contrario traportarle, molto deſtramente
biſogna adoperarſi,et diſimiglianza, in ſimiglianzaà poco a poco pas
fando,perchelo errore in eſe ſimiglianze ſinaſconde, tirar le menti, che no
s'aueggono di una in altra ſentenza. An . Et chi può queſto ageuolmente fare ?
A R. Chi con diligenza inueftiga la natura dela le coſe ſottilmente, uedrà in
che l'una con l'altra ſi conuenga, ma non chiamiamo però la opinione
incerta,cognitione à queſto ſenſo,checo lui, che ha opinione ſappiaſempre
quella eſſer’incerta, o dubbioſt conoſcenza, ma bene che in ſe conſiderata,
come opinione da chiuna que hauerà il uero ſapere,ſarà riputataincerta . NAT. O
quans to mi nuoce in questo caſo,la uſanza inſieme con la età creſciuta , lds
quale à guiſadimeſtesſa, ferma talmente le coſe nelle menti umane , che bene
ſpeſſo la bugia , più che la uerità in eſi ritruoua luogo. Et peròcredono molte
coſe che nonſono, ouerofe ſono, ad altro modo di quello, che ſono, uengono
giudicate . Etfe pure dirittamente appreſe ſono, altre cagioni lor danno,che le
uere, e quelle ch'io so eſſere in mediati o continuate à gli effetti . Et
queſto auiene quando la ragio ne inchina più al ſenſo che all'intelletto, « più
all'apparenza, che al l'eſſenza. AR. Tu hai più dell'Arte,o Natura,che di te
ſteſſa,cos si bene uai diſtinguendo i tuoi ragionamenti . NAT. Non te ne ma
rauigliare, ò Arte,perche io qual ſono,tale mi dimoſtro, oſe di me medeſima
parlo, cometu uedi io lo faccio in quel modo, chetu altre uolté hai confeſſato
, che io ragionereiſe io fußite. AR. Quello che io dico, lo dico per
amınaeſtramento di coſtei, laqualanche non ſi dee marduegliare di queſta
apparenza del uero. Perciò che è aſſai als l'huomo ſaggio, che le buoneragioni
gliſieno ſemprequelle ſtelle, da quelle ne prenda la ſimiglianza del uero , che
per lo più muoue le umane menti, oin eſſe ageuolmente ſi pone, al che fare,
opportuna , ocomoda coſa é ricordarſi, in che maniera per lo pulſato l'huomo ſe
ſteſſo habbia ingannato, o in qual modo ancora, e per qual cagione altri
ingannatiſi fieno da loro medeſimi, in uero te ne riderui, uedens do alcuni che
penſano, ogni coſa, che precede un'altra, cffer di quella cigione, ò che lo
eſſer fimile ſia il medeſimo. Ne per ciò direi che l'os pinione fuſe
ignoranza,comenon dico, eſſa eſſere ſcienza , perche la ſcienza e stabilità,o
fermata da uero, e infallibile argomento, en la ignoranza non è di coſe uere .
Onde naſce,chela opinione è un abi to mezano tra il uero intendimento , o
l'ignoranza, differente dal dia bitare in queſto che la opinione piega più in
una, che in un'altra par te , il dubitare tiene in egual bilancia la mente tra
l'affermare, o il negare, eye però biſogna riuocare in dubbio le coſegià
ammeſſe,e di mojtrare quäto pericolo ſia il giudicare . Da queſtone naſcerà la
que ſtione, e la dimanda, la quale diſponendo le menti alle ragioni; quan to
leuerà della prima opinione,tanto porrà di quella , che tu uorrai, o à ciò fare
uia non é appreſſo quella che ua per le ſimiglianze delle coſe.Partipoco,ò
Anima,cotesti uirtu ? penſi tu ,che ſia cosi facile il perſuadere ? ó credi tù
chegià biſogni con dritto giudicio, o con ſal do intendimento penetrare dalla
ſuperficie alla profondità delle coſe? A N. Da che occulta radice l'apparente
bellezza dicoteſta tua figli uola,nel cuiadornameiito la Natura ſola non baſta
. NAT, Ora ogniſentimento mi ſi ſcuopre, ó Anima, da costei, emanifeſta uedo
eſſermifatta la cagione,per la quale molti miei amiciſono diſonorati. ART. Quai
ſono coteſti amicituoi ? NAT. Quei, che inueftis gando uanno iſecretimiei, le
ripoſte cagioni delle coſe,i movimenti, le alterationi, &i naſcimenti
d'ogni coſa , o che non ſicontentano di ſtare par pari de gli altri
huomini,manobilitando la ſpecie loro con le dottrine traſcendono i cieli. AR.
Che ſtrano accidente può ueni re à perſone cosi pregiate, come ſono iſeguaci
tuoi, ogli amatori della Sapienza,i quali comerettori delmondo, felicißimi,er
beatißis mi eſſer deono riputati? NAT. Queſti fedeli miei à punto ſonoquel li,
che più de gli altri ſono diſonorati. An . In che coſa ? ART. Aſcolta digratia;
mentre che gli ſtudioſidi meſi ſtannoſoli, ein par te ripoſta comeſchiui
dell'umano confortio,non é loda • grido onora to , che con ammiratione delle
gentinon gli eſſalti o inalzi infino al cielo. Mapoi che compareno, et uěgono
alla luce,ſono prima da ogn'u no guardati, si per la eſpettatione già conceputa
della virtù loro, si an cora per la nouità dell'abito, o dell'aſpetto ,et del
portamento,ogn's no lor tiene gli occhi addoſſo, a attentamente ſi dimoſtra di
uolergli udire. Io non ti potrei eſprimere con che grauità poi aprono la boca
ca, e con che tardezza poimandano fuori le parole , etquanta ſia la dimora de i
loro ragionamenti, i quali poi che da principio nonſono in teſi dalle
genti,comecoſe lontane dalla umana conuerſatione, non cosi toto uiene lor tolta
la credenza, per che purſiattende coſa miglios respire conforme alla
opinionede’uolgari,iquali dalla prima eſpets tatione inuiati danno i ſeſteßi la
colpa del non capire la profondità de' concetti loro. Mapoi che nel ſeguete
ragionare s'accorgono pur in tutto di non poter’alcuna coſa da que'beati
ritrarre, et che ogn'os ra più le coſe intricate, ar le parole aſcoſe ogni lume
d'intelligenza Hanno lor togliendo, quanto ſcherno, Dio buono , jego quanto
riſo ſe ne fanno . AR . Jo grauemente miſdegno, ó Natura, & mi dolgo di
ſimili auenimenti, poi chegli infelici non fanno drittamente ſtimar le
coſe,benchefino al fondodi eſſe paſarſi credono,maforſe è, cheſtan do
eßiſemprein altro, quando poi allo in giù riguardando ueggono l'altezza loro, a
la profondità delle coſe terrene, uanno uaccillando con gli occhi; ocomparando
il cielo alla terra , ſtimano ld terra un minimo punto , o una bella città un
niente che nobiltà, che chiaa rezza diſangue può eſſere appreſſo coloro , che
ſeſteßicon la eterni tà miſurando, tutti da uno ſteſſo principio uenuti
affermano ?Che rica chezzaſarà grande appreſocoloro, che ſi ſtimano poſſeditori
del cie. lo ? qual prouiſione daſoſtentare i popoli farà colui il quale quaſipa
ſciuto del cibo de i Dei,altro non guſta, altronon ſente,altronon din fia
,cheſempre ſtare alla ſteſſa menſa ? ne credono , che altriſieno in bi sogno ?
Queſte coſe io direi in loro efcuſatione. Ma che midiraitu di quelli
cheſonoſtudioſi della vita ciuile,ochefanno le cagioni de’mu. tamenti de i
Regni, e delle Rep.le conditioni de principi, gli ufficij di ciaſcuno,le uirti,
gli abiti uirtuoſi? Non credi tu, che queſti ſie no più auenturati de gli altri
? NAT . Peggio , percioche il ſapere ciaſcuna delle dette coſe ,hauer le
diffinitionid'ogni uirti, ocoa noſcere diſtintamente ogni buona qualità,non é
aſſai, ma egli biſogna uſar tanto teſoro al governoaltrui per ſalute, ocomodo
uniuerſaa le, e oltre all'uſo hauer parole al preſente maneggio oalla ciuile
uſanza accomodate . ART. Dondeprocede coteſta loro cosi ſot tile ignoranza:
forſe cosi eleggono penſando di eſſer' hauutiper dot tiæintelligentiparlando in
cotalguiſa ?Ma questa é una groſſezza infinita,perche non é piacere, che
s'agguagli àquelloche prende ľa ſcoltatore quando impara &intende ciò che
uien detto.Sai tu duns que la cagione di cosi fatto errore ? NAT. Forſe
è,perche non ha uendo eſsi alcuna eſperienza della conuerfatione cittadineſca,
fanno quelguidicio dimolti cheſonoſoliti di far d'alcuni pochi, loro come
pagni,co i quali tutto’l giorno con uarie diſputationi argomentando
trapaſſano,ne mai ſono riſoluti. ART. Et io ancora cosi credo, pe rò guardati ó
Anima, di non entrare nel loro no conoſciuto collegio , ò ſe pure ui uorrai
entrare tanto iui dimora,quanto alcun giouamen to ne puoi ritrarreper la ciuile
amminiſtratione. Nel resto pronta, et ſuegliata nel coſpetto degli huomininon
meno alla ſcuola eall'acas demia,che alla piazza,alla corte, o alſenato
intentafarai, o uſans do . D E L L A. doistiche le gi,con mozeme uoci
raptorersi, percbe riund coſa é få mots, creudire ripublicico:lizále uanie dig
esioni, o le Haitat parole di moint, i quali razlo" 2r.do le ébloro per la
Città frendere unsguerra,realize, ne : i mezi di efl: u21 riguardando,
riaprindo le ſcuole de presa deguono, di 7 : oro, oargos :ht ::opia ficcrente
del mondo , o cercano chifu il primo ins kantore deli'arxi chifrino in Roma
trionfale, cbisitrouo le naui , chui brizla i czasu, et ilere ciance si fatte
,cbenc irfegn2":0,ne dis last250,14.1widojiore della prostione de' daruri,
delle genti, o del *010 , col quale s bubbis a fartal guerra . Il percbelo. To
poi auies fie, cbei nero perini,çia deguamente di loro parlando, ſono con grue
de 11ratione acoltati. NAT. Cotto e mio dono,percbe ditus to potere affreuz!
cusi mi truono,che wina forzaglimetto irrar ci i tuoi ſegussi . AR. Et forſe
corne sfrenati causlii, gli fai tel mezo del coro pericolare; pero sili
eccellente natura,che ta lorda , sorrei che mi falje l'aiuto rio.percbe meglio
, o çik ficuri aadribs 6290 per lefiziglianze dre coſe. An. Biſogna dunque pik
skatie rigliz- guardare, cbe al wero ? A R. Cosi biſcgna ; o quedo porriaz
slitacels il facesi, sı il donerci tu fare , o ciaſcuno , che * pis airtai
perjuadere , accio cbe fiso aſcoltato , o inteſo dude geri , lezasli barefeito
-Is bagis nga 14.0 , får cbe in ejja las casicae spetto dd zero . Queto per fo
cjjere, cbei şià f- 931 babe bis 10 c50 surorit : b4xx.: predoi popoli cbei
nácti inges gs . An. Dizni gratis, çusio é cbegli buozi idaro fede : cazzo ,
cbe apps uto , nos lo faze0 percbeloro piace il nero ? Ar. . As. Paepiuere già
saco : 507 co :cf-:: ta ? A R. Nius . AX. Forzz aidake,che il sero lis és
glicucuitico ? AR. F: 17 . Ax Pacte danese giàceil serezos bruszni P -T271? AR
Perikliois tragises filer cxz . AX. Aja -- 22 :04 ks :0 600leri: del bero . Às.
SostraTrao Adira.secte lazaratsie sesi tid: acts
indiscrezi!4.cezecklacteaefepie 8222475l4regiaze, o lomatto; c ( 72.0: 1 , o
Resmitironine.cedriersdieedia 2.3 " To RossiradizioroBoricitis 32 2 ciasto
nigirisececeáciless Aires22:22: carte.ro 2:46, 13 :3050: 22 : 15 : 4 :15 ,cheſe
la opinione con la ragioneſarà legata , per modo niuno potrà fuggire,anzifuori
dell’eſſerſuo leggiadramente uſcita nõ più opinio ne,maſcienza ſi potrà
nominare . A N. Dimmi, ſe'l uerifimile e tale ad ogn'unoegualmente. AR. Nó. An.
Che differenza ci fai tu ? A R. Grande . Ben'è uero,che quando io dico
ueriſimile , io intendo ciò che pare alla più parte . Ma diſtinguendo dico, la
più parte però effere ode gli huomini ſenza dottrina,o degli huomini letterati
. Et altro ſarà il ueriſimile,che parerà à gli Idioti, altro à iperiti. A M.
Inſegnami à conoſcere queſto uerifimile . AR. Il ſegno della ſimia glianza
alcuna fiata ſi ritruoua in eſſaſuperficie delle coſe, cheſenza diſcorſo di
ragione ſono riceuute,o appreſe daiſenſi umani ; da ciò naſce il veriſimile,
che pare egualmente a tutti, come auienedimolte miſture, che's'aſſomigliano à
l'oro, cheſe il giudicio filaſciaſſe al ſenſo ſolo,per oro da ogn’uno ſarebbono
hauute. Alcune uolte il detto fe gno emeſcolato con alcuna ragione,accompagnata
col ſenſo , oque sto é quello , che pare àmo!ti . Speſſo più di ragione, che di
ſenſo ſi mette, e ciò è quello,che pare à i piùſaggi; o quarto più dalſenſo
s'allontana,o s'accoſta la ragione all'intelletto, tanto de' più saggi, edi
pochi ſarà l'apparenza del uero . Ma laſciando coteſte più ina
terneſomiglianzedel uero , bauendo tu àfare. con la moltitudine , quelle attendi,che
a tutti,ò alla partemaggiore appariranno ; &co: si ogniforza di
proponimento nelle altrui menti rompendo, farai la uoglia tud . AN.
Queſtomipiace . Ma uorrei, che tu m'inſegnaſi à congetturar quello chepuò
eſſere . Dimmi, ſe n'hai ammaeſtramen to alcuno . A R. Dimandane pur la Natura
. AN. Non n'hai tu ancora poter’alcuno? A r . sibene ; ma la Natura operando ,
Sa meglio dime,quello che èpoßibile . An. Dimmi tu dunqueò Naz tura,quai
coſeeſſer poſſono ? NAT. Tutte quelle il principio delle quali ſi ritruoua. An.
Adunque ui ſarà l'arte deldire, poi che'l prin cipio di lei ſi truoua? ilquale
nõ é altro, che l'ojferuatione,che fu l'Ar te di te ó Nitura. Ar. Che uai tu
mettendo in dubbio quello che fie qui habbiamo fermato ? ſegui. NAT. Se quello
chepiù importa, ò che piie uale, ò che ha più difficultà , fiuede , ſenza
dubbio il meno importante, il più debile, il più facile ejer potri. A n .
Adunque ſe l'arte puòridurre gli huomini rozialla uita ciuile , meglio potrà
gli ammaeſtrati inalzare algouerno della Città ? A R. T4 pur uti argomentando .
AN. Mercé tua, che giàmiſei fatta familiare . A R. Queſto ſo io , che poſſeduta
che io ſono dalle anime,dimoſtro il. D ualore, 26 , D Ε ιι. Α ualore , il
piacere , o la facilità dell'operare . NAT. se può eſſer la cagione, chivieta
che lo effetto non posſa eſſere ? et ſe queſtoé, quel la di neceßità ſi haue.
Quello che ſegue dimoſtra,che può eſſere quel lo che antecede. In ſomma ogni
coſa può offere, di cui naturale appeti toſi uegga, o dalla poſibilità delle
parti naſce quella del tutto. Dals l’uniuerſale il particolare, o dal meno
quello che più comprendeſi congettura . Vna metà, il ſimile , il pare ricerca
l'altra metà , l'altro Simile, o l'altro pare . Etſeſenza arteſi puòfar’una
coſa molto me glio ſi farà con artificio , ſe chi meno può opra, chi più può
non opes rera egli ancora ? Chene attendi più ,ſe queſto ti può eſſere à baſtan
za à farti aprire gli occhi è ritrouare il fonte della eloquenza ? AR . Et io
già mitruouoſatisfatta in queſta parte,che alle coſe appar tenenti
all'intelletto ſi conuiene ; però aquelle io uorrei,che paſſaßi, lequaliſono da
eſſere ne gli appetiti collocate.Et attendo,che tu quel le brieuemente mi
dimoſtri,etdiffiniſca, acciò che l'anima oggimaicõ. tenta dellaſeconda
promeſſa,alla terza,et ultima ſi riuolga. A N. Per qual cagione, ò
Arte,dimanditu le diffinitioni della Natura ? ejendo ſuo carico il diffinire. A
R. Perche ora io non attendo le eſquiſite , Oregolate diffinitioni,maquelle che
dalla più parte delle gentiſono ammeſſe, delle quaiquaſiſenz'artificio ſe ne
può formare un numero infinito . An. Tu ſei molto circoſpetta . AR. Seguiò
Natura , féle coſe àgli umaniappetitidi lor natura piacere, o dispiacere posſo
no apportare,òpur l'Anima ne li fa tali. NAT. Senza dubbio non folo elaAnimaha
uirtidi apprendere, ofuggire le coſe, ma in effe ancora e nonſo cheda eſſer
fuggito,ouero abbracciato. Quädo adun que tra la coſa, o l'animaſi truouaalcuna
conformità, allora lo appe tito ſi muoue ad abbracciarla, o queſto mouimento,ſi
può dire, no minar defiderio ,ilquale è appetito di coſa che nõ ſi
poßiede,cõforme però à quella uirtù ò parte dell'anima,che l'appetiſce; ma
quando no ui é queſta conformità,tra gli oggetti, o l'anima,ella gli aborre, o
fugge, né ſolamente oue o anima,oſentimento ſi truoua cotefti ab bracciamenti,e
fugheſiueggono,ma doue occultamente io ſonoſoli ta di operare, doue non éſenſo,
ociò faccio con un ſemplice inſtinto, ilquale al mio poteree tale, quale al tuo
é la conoſcenza. Coteſto in ſtinto ogni coſa conduce alla conſeruatione, o
albene; & dalmale & dalla morte il tutto ritragge quanto può . Maper
dirti de gli huo mini, ſappi, che eſſendo tra le coſe oppoſte, ole parti de gli
animi lo ro ,conuenienza,quando auiene,che quelli ſíenopreſenti,oche laſcia no
impreſſa la loro qualità,in quellapartechegli appetiſie , allora ſi genera
ildiletto , e l'allegrezzanata dalla morte delprimo deſides rio , perche
poſſedendo la coſa deſiderata , il diſio è già conuertito in piacere.
Ilqualpiacere altro non é,cheadempimento di uoglie. Tu conoſcerai, cheil guſto
tuo bauerà conformità con le coſe dolci; da queſta nenafcerà
l'appetito,auenendo poi,chele coſe dolci uicine fica no à quella parte,doue il
detto ſenſo dimora , eche in eſſa laſcino la lor qualitàimpreſſa,che é la
dolcezza,nonha dubbio ,che quella par te nonſia per bauer diletto , egiocondità
. Il ſimigliante uedrai in ogni tua parte, Et per lo contrario ſi ſente noia, e
diſpiacereo nella priuatione delle coſe deſiderate, o nell'hauere le difformi,
oaborrite, ecome il principio di ottenere il bene era il deſiderio dalla
ſperanza accompagnato ,cosi il principio di hauere la noia, era la fuga dal
timore commoffa . Etcome nella prima impreſione la ſperanza in gio is fi
conuertiua , cosi nella ſeconda la paura ſi tramutaua in dolore . Eccoti
adunque i quattro principali affetti diuoianime. AN. Vor reiſaperè,o Natura, in
cheſia poſta la conueneuolezza , che é trale coſe, ole parti mie . NAT.
Percheioſono tale in ciaſcuna coſa , quale io mi truouo , però nelle coſe
eſaéripoſta per me; maperche poi auenga,che io tale mi truoui in ciaſcuna
coſa,dimandane chi cos si ab eterno prouid. AR. Or l'anima tiparetroppo curioſa
? ma dimmi quai coſe,à qual parte dell'anima ſono conformi. NÁT. In fomma il
uero é il bene, &per tal cagione, quello che è uero,uien giu dicato bene.
Ar. Che intendi tù bene ? NAT. Ciò che daogn'u no,e da ogni coſa uien
deſiderato , &uoluto . A R. Qual bene Ć cercato daữ’intelletto ? NA T.
Dimandane coſtei AN. il ſapee re , la
dritta opinione. NAT. Dalla uolontà ? AR. Ogniabis to di uirti . NAT. Da gli
appetiti . AR. Ogniutilità ® dilets to AR. Che naſcerà poi , ò Natura , dal
deſiderio ditai coſe ? NAT. Lo sforzo, o lo ſtudio de'mortali per conſeguirle .
An . Buui alcuno inganno de gli appetiti intorno al bene, come ui é l'ingan no dell'intelletto
intorno al uero ? NAT. Grandissimo. AN. Et come ſe il bene e cosi conforme
all'anima ? NAT. Non hai tu udito poco di ſopra, come l'anima era d'intorno al
uero, opure anco il ue to le era molto conueneuole , et proportionato ? AN.
Ben'inteſi, che la cognitione del uero era molto confuſa, riſpetto alla
fantaſia . A'R . Cosi é . Et di nuouo ti dico, afferino,che ogn'uno confufae
mente apprende un bene,nelquale par che l'animo s’acqueti,et quels D 2 lo
28 lo deſideri,mapoi da gli appetiti
traportato (come prima era l'intele letto dalla fantaſia ) e aquegli rivolto
ſmarriſce la uera strada di quel bene, al quale ciaſcuno digiugner contende ,
moſſo dalla interna forza della Natura . Et in quella ſtrada,orapiù lentamente
, ora più. velocemente camina , troppo è meno amando, et deſiderando quello ,
che con miſura dourebbe amare,ò defiderare . Indië nata la ingorda uoglia delle
ricchezze, lo sfrenato appetito dei piaceri, vtalbora la pigritia, om
negligenza dell'ocio ; &deſiderando altrilapropria con ſeruatione,
s'inganna, credendo,che il bene altrui,ſia la ruina ſua ,oue ro temendo di
perder’i ſuoibeni, fauori,gratie ,amiſtà,onori,o lodi, ſi muoue alla
ingiuria,alla inuidis,alla uendetta. Et di qui naſce quello di che tutto di ſi
contende fra' mortali, il giuſto, lo ingiufto,ildouere, l'equità, l'utile,
oaltre coſe, che ſono cagioni di liti, o di conteſe Per il diletto adunque,
& per il comodo, ciaſcuno ſi muoue à fare. Et benefarà quello, alquale ogni
coſaſi riferiſce , ouero ſiriferirebbe , • perragione, o per appetito, o per
natura .Et ciò cheopera, difende, conſerua,accreſce,accompagna, ſegue,ordina,et
ſignifica il bene,bene ſi chiama, operò la felicità, o tutte le parti
ſueſarannobuone, a le uirtie ſopra tutto ſono benidiſua natura degni,bencheàmoltinon
ſono cosi apparenti. Ilpró ,l’utile , il piacere ebene , perche l'utile ė mezo
di conſeguire il deſiderio, oil piacereè moltoalla natura cona forme. A N.
Fermati un poco , & dimmi,come non eſſendo beni cosi apparenti le uirtù de
coſtumi,gli huominiſieno uenuti in cognis tione di quelle: AR. Credi, ó
Anima,che ogni maniera di bene, che appare à gli huomini , éſimiglianza di quel
bene, che non appare,e chi uuole drittamente giudicare da coteſti apparenti
beni , potrà ris trouare la uia di peruenire alla cognitione di quegli, cheſono
in ſebe ni, o che fanno la uera , es ſola felicità,più deſiderata ,che conoſciu
taima non ſta bene ora difiloſofare intorno a tal coſa . Baſtiti, ch'io ti
ritruoui la uia, per la quale gli huomini ſono andati a ritrovare i beni
dell'animo, o le uirti interiori . Dicoti adunque, che uedendo i mortali nel
corpo umano molte buone conditioni, hanno congetturas to, ancora nell'animo
ritrouarſi alcune ottime qualità, à quelle del cor po in qualche parte
conuenienti . Dimandane la Natura, quali ſieno le doti del corpo ,che tu ſaprai
da me poſcia quali ſienogli ornamenti tuoi. AN. Dimmi ò Natura , fe egli ti
piace, diche beni adorni tu i corpi umani ? NAT. Prima diſanità, o di
forza,poidi bellezza, O d'integrità diſenſi . An. In checonſiſte la ſanità ?
Nat. Nels la . la proportionata meſcolanza degliumori principali, enell'uſo di
ej 14,6 queſta proportionata meſcolanza , ueramente ſipuò chiamare una egualità
ragioneuole. ART. Credi tu , o Anima,di eſſer’al corpo inferiore ? AN. Non già .
ART. Credi adunque , che in te eſſer deue una certa egualità. Il cui ualore
conſiſte nell'uſo. A N. Quale uuoi tu che ella ſia ? AR. Quella che Giuſtitia
ſi chiamna,fers ma, o coſtante volontà di render a ciaſcuno ilſuo . Ma che dici
tu delle forze ? NÅT. Dico, la gagliardezzaeſſer’una uirtù del cor po,poſta nel
potere à ſua uoglia abbattere,atterrare,et uolgere ogni alieno impeto con
leggiadria. AR . Bella, aneceſſaris uirtù neli aa nimo. Perqueſto giudicarono
ifaggi,eſſer la fortezza, laquale reſis ſtendo à gli impetidella fortuna,ſola
nė"ſuperbanel bene,ne uile nelle auuerſità ſi dimoſtra, &fola guida
nella militia della uita mortale uin cendo,glorioſamente trionfa . NAT. Che
dirai tu della bellezza del corpo, laquale è una proportione di membra, o di parti
tra ſe ſteſ fe, o col tutto conuenienti dauiuacità di colori, et gentil gratia
acs compagnata ? AR. Tumi dipingila temperanza dell'animo,laqua le in ſe ſteſſa
raccolta, ecompoſta,inuera, o proportionata miſura conſiſte, tanto può di
dentro,che di fuorinel corpo il ripoſato , o quieto penſiero uedi, dolce,
ogratioſa maniera ſi conoſce, & quafie una conſonanza di tutte le
conſonanze . NAT. Che coſa trouerai tu nell'anima,conformealla integrità dei
ſenſi, come alla bontà della uiſta, alla perfettione dell'udito, « al
uigored'ogni ſentimento ? ART. La prudenza, la quale consiste in saldo, o sincero
conoſcia mento delle attioni umane : A N. Egli mi pare, che io ſia da Dio
creata à fine , che le coſe mie fieno ſcala all'altezza di quello . AR. Che
penſitu altro , ò Natura ? NAT. Nulla , ſenon che conchiudo frame, che gli
huominiſi ſieno aueduti delle uirtú interiori per le qua lità eſteriori. AR.
Senza dubbio, a molti anche ſi ſono ingannas ti, oper una ſimiglianza, che
hanno le uirtù con alcuni uitij, se lo Cangiando il nome hanno detto chela
tardezza ſia moderata pruten za,la liberalità ſia la larghezzaſenzamiſura; e
cosi all'incontro il prodigo ſia liberale . Et non hanno conſiderato ,
eſſergran differenza tra il ſaper dare, er il non ſaper conſeruare.Et queſto è
quel ueriſimi le nei beni, che muoue ſpeſſo lementi, ogli appetiti umani .
Orain brieue l'ordine,l'ornamento,e la coſtanza delle coſe handimoſtra to le
uirtù , ou appreſſo la concordanza di tutte le operationi , o la grandezza, che
le ſopra feſteſſa inalzają si come in ogni arte, com in ogni 30 DELLA ogni
ſcienza biſogna hauer’alcuna coſa manifesta , e chiara, dalla quale da prima
ella naſca, o s'augumenti,cosinella felicità, bed ta uitaſi richiede,
euidentefondamento,preſo dui benimanifeſti à i ſen ſi umani,dalquale
s'argomenti il uero , ottimo fine , operò dalle predette coſe ſiſtima,quella
eſſer felicità , che con proſpero corſo tracorre,tutta diſeſteſsa, tutta di ſua
uoglia, tutta piena,tutta d'ogni parte abondeuole, ocopioſa, eyd'intorno à tai coſe
ricordati ſeme pre della diffinitione, da unaparte conſiderando, che coſa é
bene,di! l'altra diſtinguendo quello che é del corpo , da quello , che é
del’ani mo, e come ciaſcuno in molte parti ſi diuide.perciò che cosi ne trar :
rai quella abondanza di coſe che tuuorrai,doue meritamente la pres detta
parteſi può dar tutta alla inuentione, laquale e il fondamento della noſtra
fábrica. Partidoadunque tutto quello cheſotto il nome di bene, ò uero, ò
apparente ſi conciene, trouerai la felicità con tutte le ſue parti,o trouerai,
che'l fuggire dal maggior male,ſia bene , et l'acquiſto delmaggior bene, « il
contrario delmale; & queſto, pera che molti s'affaticano, e che i nimici
lodano alcuna fiata.Et che ſifa ſenza incomodo, feſa, fatica, ò tempo, ſe é diſiderato;
ofinalmente tutto è bene,uero, apparente, v dubbio, quello che uiene
deſiderato. A N. Che dirai tu del piacere ? AR. Grande ueramente è la fore za
del piacere, & del dipiacere , percheſin da fanciulli ſi uede , che il
tuttoſi fa per tai contrarietà. Et s'io uoleßi pienamente ragionarti, io non
finirei cosi toſto, però di eſſo alcune brieui ſentenze io ti pros pongo,dalle
quaiſe ne ritrarrà quella ſimigliäza di uero, che in tai be niſi può trarre.
Dicotiadunque,che quelle coſe grate ſono, dipid= cere,che ſono alla natura
conformi,come hai diſopra ſentito ; pero à ciaſcheduno grato ſarà quello ,à che
eglidi natura ſua ſaràinchinas toje per la medeſima ragione,foaue,et gioconda
coſa é la conſuetudi ne, come quella chemolto alla natura ſi confaccia . Perche
quello, che speſſo ,et per lo più ſifa, è molto uicino a quello che ſempre ſi
ſuolfa re . Caro e quello ,che non ſi trde per forza,perche la forza é contra
natura, onde i trauagli,lecure , e ogni maniera diſtudio, odi pens ſiero,che
turbi la quiete dell'animo , perche é uiolēto,arrecca moleſtia o diſpiacere.
Seforſe la conſuetudine non l'ammolliſce. Cosi per con trario il diletto, il
giuoco, il ripoſo ,la ſicurezza ilſuono, et la rimeßio ne, come coſe di ogni
neceßitá lotane. Néſolo col ſenſo uicino ſiprende piacere delle coſepreſenti,
ma con la memoria,con la ſperanza,del lequali una riguarda le paſſate, l'altra
le future.Lepaſſate apportano nella ricordatione aſſai diletto,perche la
imaginatione le fa quaſi pres ſeriti, e ſe erano graui, o noioſe, con lieto, o
piaceuol fine fatte ſos no dolci, eſoauile coſe buoneche hanno à uenire nello
ſferare con fortano, comele preſenti nel goderle,ouero nel imaginarle, ilche
ſuos le à gliamantiuenire, iquali non hanno ripoſo ſenon quanto penſano alle
coſe diſiderate . Lauittoria ė foauißima coſa, ó lo auanzare il compagno , or
però ogni maniera digiuoco ſuol dilettare la caccia , l'uccelare, la
peſcagione, et appreſſo l'onore,ogni gratitudine, ogniri uerenza,inſin
l'adulatione piace infinitamente . Lo imparare ancora é coſa piaceuole , onde
la imitatione delle coſe è giocondiſſima , tutto che le coſe imitate non
dilettino, perche nõ la coſa eſpreſſa ,malo sfor zo, e il contraſto dell'arte
ſuol dilettare. Indi è nato, che la pittura, le statue,o l'opre finte aggradano
chi li mira . Ne più ti uoglio af faticare,o Anima,in dimoſtrarti,quello cheda
te, et in te prouerai ef ſendo con eſſo il corpo .o quanto ti fia dipiacere il
dominar’ultrui il comandare il ridurre à compimento le coſe incominciate, il veder
riu ſcire ogni tua deliberatione , e finalmente tutto quello, che al bene
t’indrizzerà,ò dal male ti ritrarrà. AN. Se queste coſe ſono buo ne, come tu di
, per qual cagione ſipuò errare nel deſiderarle , nel cercarle ? A R. Due
mouimenti,ò Anima in te conoſcerai, l'uno de' quali da eſſa Natura riceuerai, e
l'altro riporterai teco. Nel primo niuno errore puoi commettere,perche non è
colpa tua, che alcuna co ſa ſi truoui,che ti diletti; ma nelſecondo ageuolmente
puoi cadere , eſſendo in tua mano il freno di non conſentire cosi à pieno à
quella prima voglia&, non riguardare alla ragione, che con certo conſiglio
al gouerno de'primi appetiti guidar tidee. Maperche per lo primo, O
naturalemouimento gli huominifanno il più delle loro operatio ni però
debbonoeſſer ueriſimilmente guidati,o é creduto per lo più, che ciaſcuno faccia
con deliberatione quello cheegli fa, ſeguendo il primo inſtinto; néſi conſidera
che in teſi truoua uirtá libera, o po tente,dalla quale ognilode, o ogni
biaſimo procede . Etacciò che el la ſiapiù drittamentegouernata, eccoti
l'autorità delle ſacre leggi , nella quale è poſta la ſalute, e la correttione
d'ogniumano errore. Contra le quaichiunquepreſume di opporſi, dal proprio
conſiglio abandonato, è dato in preda alle ſue proprie uoglie,e ſottoposto ale
la pend, come quello cheiniquo, o ingiuſto ſia. Ora in brieue ti dico, che
eſſendo eſſe leggi nelle rep. àgli animi quaſi medicine delle loro infirmità, o
rimedijà i loro errori, biſogna ſapere ogni maniera di gouerno , gouerno, in che eglipiù fermo fia,da che uegna
il cadimento di quels lo, et quanti ſienoi contrarij ſuoi,per poteralla cõmune
utilità con le Sante inſtitutioniliberamente prouedere. NAT. Matu non dimo
ſtri, ò Arte, che alcune leggi ſono eterne, er immutabili, non da gli huomini
ſecondo gli ſtati loro ordinate, ma dallo editto diuino , o da me inuiolabili
ſtatuite, communi,& uniuerſali à tutte le genti, lequai non più allo
Indiano,cheallo Ethiope,eguali, in ogniſecolo , in ogni luogo ſi Sogliono
ritrouare, non ne igrandiuolumiſpiunati da' morta li,manel libro della eternità
impreſſe,et ſigillate in ciaſcuno che ci na ſce. AR. Coteſte leggi,ó Natura,non
ſono ritrouamenti umani, né ſecondo le occaſioniformate, ma eterne, econtinuate
ad un modo in permutabile , del quale non tocca à me il ragionare, «pint é
quella ch'io non dico di eſſe, o forſe quella equità,dichefpeſoſi ragiona, al
tro nonė, che la leggeſcritta nel cuore d'ogn'uno per correttione di quella
cheè poſta per commune uolere di ciaſcun popolo . An. Dun que nelle umane
leggiſi truoua errore? AR. Nongià , ma ben può eſſereche ilfondatoredi eſſe al
tutto non proueda,et chenon conſide ri molte coſe,lequaiperalcuno accidente ,
come , che molti ne ſieno fanno uariare i giudicij, e in queſto caſo la equità
, & l'oneſtà può aſſai, operò molto prudente, oqueduto biſogna cheſia ,
chiunque forma le fante leggi, « che il più che può tolga il potere à gli huos
mini di giudicare da ſe ſteßi . Però cheben ſai, quantopericoloſopra ſtà nel
giudicio, riſpetto allo amore, all'odio, e ognialtra perturbae tione umana .
Matempo è, cheſi dia fine à queſta parte , perche aſſai sé detto d'intorno alle
uirtù dell'anima,e d'intorno alle coſe appars tenenti ad eſſa , si di quelle
che allo intelletto, come di quelle, che ape partengono allo appetito . In
quanto che elle hanno ſimiglianza del uero , delbene, dj appartengono alla
inuentione. A N. Tutto che ó Arte, inanzi à gli occhimiſieno le coſe, che tu
m'hai dimoſtras te , hauendole tu ſopra la Natura delle coſe ſtabilite ,pur
uorrei ſapes re alcunſecreto , come diſopra molti me n'hai ſcoperti, quando tra
noi ſi ragionaua delle parti mie. AR. Io non per naſconderti alcu na coſa miſon
taciuta, maperche eglimipare, cheda te ſteſſa potrai ogni ripoſte bellezza
conſiderare, uedere, che da que' beni che di ſopra habbiamo diſtinti,naſcono
treparti principali dello artificio no ſtro . Però che ſe il bene é utile
,nenaſce quella parte, che é posta nel conſigliare, laquale ſi uſa neiſenati.
Se'l fine è giuſto, quell'altrapare te, che delle ingiurie ciuili,ò
criminalitra i popoli fa mentione, felfie ne 1 1 ne é honeſto , allora ampia, o
magnifica materia ſipreſta di lodare nelle pompe, et ne i trionfi le opere
glorioſe , ma il ualore delgraue, o riputato Cittadino,primanel ben fare,poi
nel ben conſigliareſi di moſtra. AN. Diche coſa più ſi conſiglia ? AR. Di
quello , che : più abbraccia l'utile uniuerſale . Etprima d'intorno al corpo
delle uettouaglie, odel uiuere per ſoſtenimento di ogn'uno, odella difen fione
per ſicurtà de i popoli, delle ricchezze perſoſtenere la difes Ja. Dapoi delle
ſacre leggi, e della religione per ottenere l'ultis mo , o deſiderato fine .
ANI. Che ſi ricerca nel conſigliare ? ART. Prudenza, beneuolenza , animo ,
ſecretezza , e celeris , tà nello eſſequire . A N. Gli ineſperti
adunque,imaligni, i timis di , i uani, i pigri huomini , non ſono atti al
conſigliare : ART. Non già . Necoloro , che non ſanno conſigliare ſe ſteßi. Ma
odi: alcuni ſecretidi queſta parte, forſe non uditi fin'ora. Vuoi tu ſapere un
modo mirabile di conoſcere glianimi de' mortali ? AN. Queſto eil tutto . A R.
Sappi,checiò, che ſecreto nell’hkomo ſi truoua , forza cheſia in alcun
ſentimento di eſſo,ò di dentro, o difuori.Sentis, mento chiamo ora ogniparte di
te ó Anima . Et però uolendo tu ri trouar coteſto ſecreto , tenterai ogni
ſentimento , perche quando es toccherai quella parte,nella qualee ripoſto il
ſecreto di alcuno, o pia ceuole, ò noioſo,che egli fi fia ,ſenza dubbiomanderà
fuorialcuniſea gni,comemeſſaggieridelle uoglie ſue,ocon alcuneſimiglianze dimo
ſtrerà quello,che egli ſipenſa di haueredétro diſe naſcoſo; aguiſa di una corda
chealſegno tirata di un'altra ; quandoritruoua la conſon: nanza,ſimuque, a
ſuona di pari armoniacon quella.Da queſta reues, latione dipende la uittoria,
eu l'onore di chi parla nel coſpetto degli huomini.Etqueſto è un ſecreto
ripoſto aſſai, wodegno di penſamento .. L'altro è , che a conoſcereil giuſto, e
lo ingiuſto,biſogna riguardas re al fire,alquale ciaſcuna coſa deueeſſer
meritamente riferita , pera , che quando ſia, che dal debito fine alcuna coſa
ſi rimuoua, allora ne ng ſce la ingiuria,la quale éuna eſpreſſa maniera di
ingiuſtitia. Aqueſta ingiuria altri ſono più diſpoſti a farla, che à patirla
,altri per lo cons , trario . Et questo biſogna conſiderare per potere in
quella parte uas lere , ii cuifinalgiudicio rizuarda il giuſto , o l'ingiuſto.
Altri ſes creti ui ſono , ma io mi riſeruo là doue della applicatione ragiones
remo, cioè quandoſi dirà il mododi porre le coſe nell'anima . Ma che marauiglia
è queſta ? doue é gita l'Anima , ò Natura ? Perche te ne ridi tu ? come ſono
ingannata ? come tolto mi viene il poter ſeguire E l'incominciato ragionamento
? NAT. Aſpetta ó Arte,non titurs bare, toſto merrà, con chi tu habbi à
ragionare . Ora uoglio che noi ci tramutiamo, o che cifacciamopalpabili, o
viſibili. AR. Che mutationimiusi predicando? NAT. Taci, attendi . Eccomi qui di
corpo ,e di formaumana . AR, Guardami ancora tu, ch'io ſo no trafigurata ,à
chimiſomigli tu o Natura ? NAT. Io non ſaprei à coſa alcuna ſimigliartijmubene
io uedo, che tu hai molto del graue nell'aſpetto, e nello andare, onel
uestire,et à pena io ardiſcofiſarti . gliocchi à doſſo . Et mi viene una certa
tenerezza di lagrimare. A R. Coteſto é ſegno ,che tu mi ami et riueriſci ;et
tanto più ch'io ti ſcorgo un certo roſſore nel uolto , e ti odo ſopirare. Ma
che ti pare de gli occhi miei ? NAT. Tu haideldiuinoin eßi,come cheſieno di
coloa re celeſte, o di luce penetrante . A R. Et de capelli,chedi tu ? delle
ciglia ? NAT. Quelli ſono neri, a queſte rare , e di oneſta grandezza. ART.
Saitu di cheſieno ſegni le predette coſe ? NAT. Non già,ma bene ſtimo, che tu
t'habbifigurata in quel mo do difuori,che tuſei di dentro, cioè piena
d'intelletto, edi capacità ftudiofa delbene,folerte ,er ſuegliata comeſei. A R.
Tudi il ues ro, e dipiù il naſo aquilino, le orecchie egualiil collo brieue, il
pete tolargo , le ſpalle große, le braccia, le palme, ø i diti lunghi, tuttiſou
no ſogni euidenti dello eſſer mio . NAT. Ma tunonſei peròtroppo
grande,bencheiltuo mouimento ſia tardo, elo ſtarediritto, chedie moſtrino te
manſueta , umana , a piaceuole . Ar. Se non fuſſe il mio continuo penſamento,
mi uedreſti ancora più allegra. Ma guarda quantiſtrumentiadoperar mi conuiene
perporre in opra quello che io nella mente diſegno . NAT. 10 ſono dite più
ſemplice , o piis ſchietta comeuedi. AR. Tu mifai ridere con tante mammelle .
NAT. A punto io fo ridere ogni coſa per tante mie mammelle, pero che credi tu ,
chelefemine , noni maſchi habbiano tai parti ? AR : Perche le femine ſono
quelle chepartoriſcono, però biſo gna, che come eſſe danno la uita, cosi diano
il notrimento ,etperò han no le dette parti come iſtrumenti della nodritione .
NAT. Quans te adunque nedebbo hauer’io, eſſendo madre dituttele coſe ? AR. Tu
hairagione,ma chi é quel giouane cosi bello , che incontro ne uie ne ? NAT.
L'anima,che poco dianzi era ſola,ora è accompagnata col corpo. AR. Chemiracoli
fai tu ò Natura? NAT . Credi tu Arte ſapere ogni coſa ? AR. 10 fo bene quello,
che credo, ſo che le genti non crederanno queſte mutationi, che tu o io
facciamo. NAT. E LO QVENZA. NAT. Pochi ſono i ueri Sauij., però non diamo
orecchie al uolgo . Eccoti il deſiderato aſpetto, conſidera o miſura le parti
fue , che ria trouerai bella ,o proportionata compoſitione. Ar. Che carne gen
tile, odelicata , non però troppo molle, guarda chedignità,che maa niera
chefronte allegra, « ſignorile ,chipotrà dire che egli nonhab bia ad eſſere
pieno di coſtumi, o d'ingegno ? NAT. Ben ſai,che io gli ho la promeſſa ſeruata
in tutto . ART. Rallegromi ueramen . te, o mi pare , che tu ſeimolto miglior
maeſtra di me, ma che nome gli daremo ?.NAT. Quello che conuengaà chi lo fece.
ART. Io ne ho poco che fare. NAT. Anzi tugli hai dato , & darai il
miglior'eſſere;ben’è uero ,ch'io ne ho la parte mia, o il mie fattore la ſua.
ART. Chiamiamolo dunque DINARDO. NAT. Perche ? AR. Perche Dio , Natura , &
Arte il donarono. NAT. Tu mi allegri con tal fabrica di nomi . A R. In molte
lingue io ho queſto potere, il quale e poco da gli huomini conoſciuto. NAT.
Mipiace, ma perche non l'hai tu dacapo a piedi minutamente miſurato ? AR.
Micuſui lo hauerglidimoſtrato , che la oratione eſſer dee.comeil corpo umano, o
hauere principio,mezo , & fine.Etche le partiſue deono corriſpondere à
ſejteſe, al tutto con dignità ,e decoro ? Et si comenel capo ſono tutti i ſentimenti
del corpo , cosi nel principio eller deono ripoſti i ſentimentidella oratione.
A lui pofciaſtarà di ore dinar la predetta materiafecondo il biſogno,facédolo
auuertito, che i teftimonij delle opere de’ mortaliſono le coſe che ſtanno
d'intorno à quelli . Et però mi gioua di nominarle circostanze, percioche fa
cendo,o operando l'huomo alcuna coſa, ha ſempre inanzi,ò apprefe ſo il tempo,il
luogo,le perſone, il modo, ilfine, le quaicoſe fanno fede ſe l'operaſua è
buona, orea . Da coteſta conſideratione, ſi ſtima chi ragiond, e con chi,ſe è
la occaſione di dire ſe in questo, o in quel luo, goſtarà bene di parlareſe
ilfine è buono,et altre coſe,alle opere ap pertenēti. Ma tu gratioſißimo
Giouane, che con tăto fauore delcielo ſeinato,ti ricorderai tu quelle coſe che
dette habbiamo fin'ora ? Non titurbure,cheio ſono l'Arte, e queſta è la
Natura,con la quale tu , eſſendo Anima ragionaſti. Din . In che maniera ſono le
coſe ſchiette, oignude , oin che forma ſono le compoſte,che cosi uiſiete
mutate, piacemi di hauerui riconoſciute , o cosi uiaffermo di ricordarmi di
quanto s'è detto . ART. 1o non mipoſſo ſatiare di guardarti. NAT. Che
giouanezze ſono queſte ? ART. Non ti dolere , o Natura , che la bellezza delle
opere tue ſia da me riguardata con E 2 marauiglia . NAT. Poi che io à tale fon
uenuta , che pienas mente ho ſatisfatto al deſiderio tuo , e chef Anima pronta
s'è die moſtrata, comincia tu ancora ò Arte ad inſegnarci ilmodo , col quale
applichiamo le coſe all'Anima. Et perché non più aſtratte ſiamo ,ma compoſte,però
voglio,che con le eſperienze degli ingegni altrui, eo con glieſempi,cheſono
oſtaggi della verità, e con l'uſo quotidiano, tu ti rivolga à darci ad
intendere la forza dell'eloquenza umana. AR. Cosifarò .Ma tu ò Dinardo,
preſteraimi udienza , enon las ſciare à dietro coſa, ch'io ti dica .
Marauiglioſae ueramente la förs za ola uirti della fauella umana. Perciò
cheoltre alla intentione de i concetti e delle uoglie di uoi mortali , che per
eſſa ſi fuole con bes neficio univerſale, &euidente diletto appaleſare ,
non é in uoi ſentis mento alcuno ,l'appettito del quale non ſia da
quellafieramente eccia tato, e commoſſo ; a chi uoleſſe di ciò prender debito
argomento . ogn'hora,che ueniſſe bene, riguardando à i modi,cheſiuſano tra uoi,
ritrouerebbe le coſe à i ſenſi ſottopoſte alcuna uolta effere di minor uirtù in
muovere ciaſcuna il ſenſoſuo ,che il parlare , qualhora egli fia con
bello,efficace, es maeſtreuole modoformato, ofabricato, o appreſo doppo alcuna
più profonda cõſideratione, conoſcerebbeese fere quaſi infinito il valore di
eſſo parlare,come che ſolo allo intellets to dimoſtri la ſoſtanza , ela ragione
delle coſe, it che à niuno altro . ſentimento, quantunque la Naturaſempre
atutti liberaliſima ſtata fia ,né é,në fu ,nefarà conceſſo già mai. Quante cofe
del cielo , quante delle intelligenze, quante di Dio per mezo della lingua,
ſenza l'aiuto de gliocchiò d'altro ſentimento ſi fanno ? Il parlare èſolo
dimoſtras tore della ſoſtanza, ilparlare e ſolo per uniuerfale miniſtro
dell'aniæ ma, ilparlare é ſolo ſtrumento della ragione , ma onde é o Dinardo,
che ne gliquenimenti,et ne gli atti degli huomini tanta forza diſcens da nelle
parole ? DIN. Credo ueramente, cheeſſendocidato da eſſa Natura ilparlare (come
tu dici )affine,che le noſtre biſogne , ino. ftri penſieri altrui manifestiamo,
granpotere in quella fauella debe ba eſſere,la quale da uero , &ſaldo
intendimento , e da sforzes uole diſiderio procedendo,tale difuori apparirà,
quale di dentro nele l'animo dimorando ſtaraſi. AR T. Ben di . Eſſendo adunque
le pas role come oſtaggi delle uoglie, o de concetti, bifogna , come tra ' sis
gnori auiene,dare gli oſtaggi alle perſone conuenienti, e però prens dendo noi
dintorno al parlare quelmiglior partito , che ſi conviene, soglio ,che picde
inanzipie mettendo or, gentilmente più oltre pafé fando ritrouiamo le maniere ,
egli aſpetti della oratione, oconfia deriamo quale parlamento à qual coſa,età
qualperſonaficonuenga. DIN. Di, ch'io t'aſcolto. A R. Non è dubbio , che
riportando il parlare per gli orrecchi alle anime de gli aſcoltanti, la forza
dello intendere, o del uolere, biſogna in queſto viaggio dar mouimento,et modo
ad eſſo parlare . Perciòche lo intendimento ó la uoglia nell'anis ma ſi
ripoſano, o iui come nel ſuo caro nido dimorano , ne ſi potreba bono da quello
ſenza ragione, et artificio, dipartire. Al che fare accõa ciamente uoglioin
prima che in ciaſcuna forma, o maniera dell'orda tioneſi truoui il
concettodelle coſe inteſe,ca deſiderate , ilquale par oraſia detto , ey
nominato SENTENZA. Appreſſo uoglio, che ci ſia lo artificio dileuare la
sentenza dalluogoſuo, & là doue farà biſoa gno, leggiadramente portarla ,
perche ſimigliando la ſentenza al ris poſo, e all'anima, diremo , che
l'artificio sia la machina , il modo conueniente di leuare il peſo della
ſentenza dalla menteumana Ma perche ſiuede, che l'anima uſa le forzeſue ,
oadopra il corpo come ſtrumento,peròà ciaſcunaforma dell'oratione appreſſo
l'artificio, Ry la sentenza, le ſidarà parole, e uoci,per mezo delle qualipotrà
l’q . nima delle fentenze la ſuauirtù , leforzeſue gentilmente adopea rare . Ma
perche aſpetto alcuno non ſipotrà vedere, oueſieno le pare ti, la compoſitione
di eſſe, il colore,icontorni, oifinimentideltutta, deſidero condonar alle
parole iſuoi colori, il ſito , o le partiquaſi membra, o iſuoitermini, accioche
altri allo aſpetto, o alla forma conoſca quali oſtaggiſienodati dall'anima dei
i ſuoi ripofti, & fecreti intendimenti. Chiameremo dunque i colori figure ,
le parti membra, il ſito compoſitione , il finimento chiuſa o termine della oratione
. Et perche uanafatica ſarebbe la noſtra, le haueßimo folamente formas to si
bella creaturaaffine che ella ſifteſle, népunto ſimoueffe , pexo come uiuo
s'intendequel corpo ,cui mouimēto e conceſſo ,cosidaremo al noſtro parlare il
ſuo paſſo,ò uero ilſuo corſo, il qualeſifarà col ri pofo dialcune parti, ecol
mouiméto di alcune altre,come farſi uede ne gli animali, o perche con altro
mouimentoſi muoue uno adirata, con altro un manſueto, o altro é il paſſo
d'huomograue , & atteme pato, altro d'un leggiero , & ancorafreſco di
età ,perònello ſpatio, per lo quale hauerà da correre, o caminare la oratione ,
uoglio che ſi conoſcaogniinterna qualità delle coſe perlo mouimento, e per lo
ris poſo delle parti delfermone, ewe perchediſopra habbiamo dato à cias fcunaparte
il nome che à formar una manieradiparlaméto ſi richies de däremo ancora à
queſta ultima il nomeſuo,si ueramente che il ripos fo, yo il mouimento delle
parti ſotto unoſteſſo uocabolo ſi rinchiuda, poi chiamato fia ó Numero,
onumeroſo componimento. Din , Qual Dedato potrebbecosi belle figure,afare,
adornare,comefai tu ò Arte ! Raccolgofin tanto quelloche io ho da te ſentito
fin’ora,odi * co,che tu uuoi, che la oratione habbia una qualità,checonuenga
alle *coſe,o alle perfoneſoggette, o queſta iſteſſa qualità, formaá maa
inierazò guiſa dimandi. Ari Cosić, Din . Tuuuoi appreſſo, che ciaſcunaforma
primieramente habbia la ſuaſentenza, che altro non è che il concetto della
coſa,dapoi l'artificio , che é il modo di les * uarla dalluogo ſuo,ne queſto ti
baſta , a però uuoi ire grandamente fi conſideri con quai parole ſi posſa pixi
acconciamente ragionare , a eſprimere la occulta uirtù delle
fentenze,diſponendo quelle parole,e dando loro iſuoicolori , o finalmente
rinchiudendole in alcuni ter "mini acciocheſieno alla ſentenza eguali
,come l'Anina à tutto il cor . Spo, oaciaſcuna parte dare il fuonumeroſo, e
miſuratomouimeto, checol ripoſo, o con la uelocità del tempo preſente ſi
miſuri.A RT. Cosi u'ho detto D'IN: Ognicoſamipare d'intendereragioneuol
mente,ſolo che tu uoglia dichiararmi alquanto d'intorno a questo numero ſo
componimento, che NvMERo hai nominato. ART. Et io fon diſpoſta àfarlo ,
sueramente ,ch'io uoglio prima partitamente ragionare, ego diſtinguerele
maniere,e le forme predette., decioche tu fappia ilnumero diciaſcuna
determinatione. Dico adunque,lapris smaguila,esla prima formadouer eſſere la
chiarezza,la qualeſotto dife contiene la purità , ola eleganzadel dire , anzi
più preſto da queſtemaniere ne riſultala cagione ,che nel primo luogoſi riponga
queſta forma perche niuna coſa più ſi ricerca , ò ſi diſideradachi jagiond,
cheil laſciarſi intendere , ilche altramente non ſi può fare fenzá la purita
del dire, la mondezza , la quale oggi uoglio , che ELEGANZA fi chiamidanoi.Ma
percheſpeſſo auiene, chesforzans doſi alcuni di eſfer’inteſi,cadono in forma
umile, ego dimeſſa molto les cuando , otogliendo della dignità , della
grandezza del parlare, però appreſſo la predetta forma,fi'dirà della grandezza,
o grauità della oratione, la quale damoltealtre forineprocede , che ſono ques
ste, Mueftd, Comprenſione, Afprezza; Veemenzt,splendore,viuacie tài boppo la
chiarezza, e la grandezza del dire a mepare che ſi conuenga conoſcer’un'altra
forma; ta quate tutto il corpo della os rationecon la conuenienza delle parti,ornamento,osgratia
recando, bella ELOVENZA. 39 bella, en miſurata ſimoſtra, v però mi gioua di
nominarldBellezzi, alla quale un'altra formaſidarà, uolubile, preſta,perche
tèggiaa dramente ſi muoua, leggiadramente dico å fine, chene troppo sciolta, né
troppo legtta ſiueggia.Et ſe la chiard, a la grande , ela bella, o la ueloce
forma ſono tanto richieſte, quanto previ dá te ſteſſo cona ſiderare chediremo
noi di quella, nella qual ſi dimoſtrano imodi, i coſtumi delle perſone? Et
diquell'altra,chefa credere ogni coſa, che fi dice esser uerißima? Certo non
meno queste, che quelle eſſerticare deuriano,quando in queſte ſta ripoſta ogni
riputatione di chi parla ; et ogni credenza delle coſe,cosi uoglio nominar
quella forma,la quae le ſecondo le nature , & gli abiti delle genti ua
ragionando ſotto della quale è la ſimplicità , la giocondità , o l'acutezza; e
quels l'altra ancora, che uerità ſi dimanda , ſono forme, ſenza le quali morta
, e ſpenta ſarebbe la oratione . Et in queſto numero ſono chiuſe le maniere , o
le guiſe , delle quali alcune haueranno le loro ſentenze , &i loro
artificij, e l'altre parti diſtinte, es ſes parate dalle altre; alcune
comunicando inſieme, ſi confarànno, o nelle ſentenze ,ò nello artificio, ò
nelle parole, ò nelle figure;o nel reſto, cos me chiaramente uedrai . Queſte
uoglio , chetu da feſteſe , come ſemplici forme riguardi diſtinte l'una
dall'altra . Perciò che non quel lo cheſitruoua,maquelloche può eſſere,uoglio
che tra te medeſimo rivolgendo conſideri, e ciaſcuna forma, come tale, ew tale
conoſchi. DIN. Io t'intendo, Tu vuoi, ch'io sappia considerare ogni guisa di
oratione in se stessa, onde poi a scelta mia io possa questa con quella,et
quella con altra meſcolando, di più ſempliciformarne una bella.coinin
poſitione. AR. Che credi tu,che uaglia poicoteſta meſcolanza,che nella purità
ritenga grandezza ,a peſo, nella ſemplicità ,forzkiego fplendore, et
habbianella grandezza delbello, e diletteuole,mache afþramente piaceuole,e
piaceuolmente aſpra ſi dimoſtri, pungendo; gungendo, comeſi dice,ad
un'horafteli, &facendo, chequello,che è nelle ſentenze ampio, o ripieno,ſia
nello artificio ampio, ad leggida dro ? Et in tal modo accompagnando le figure
d'unaforma con le pas role d'un'altra,dipiù contrarij ( coſa alla natura
medeſima riputatd . impoßibile)farne una amoreuolefratellanza , onde poiqueſto
genes roſo accozzamento di coſe repugnanti empia ogn’unodimarauiglia . DIN: Non
mi accender pir di gratia ,diquello che io ſono, cos minciami oggimai à formare
ciaſcheduna delle dette maniere , accion che io ueda il fine della deſiderata
catena dell'anima delle coſe, e del parlare. DE Ï Ï Á parlare. A R. Bendi. Dei
dunque ſapere che comenell'Anima,al. tra parte è quella che apprende la
ragione,alfra quella , che é da gli effetti commoſſi, come dicemmo, o
nellaNatura altre ſono le coſe allo inſegnare altreal muouere appartenenti,
cosi alcune formedels la orationeſaranno, le quali conuerranno alle coſe dello
intelletto ,als cune alle coſe della uoglia , odello appetito , o quando queſto
non fuſſe, né uia, nė ragione alcunaſarebbe di poter acconciamente indurs re
opinione è affettione con la forza della fuuella . Però auuertiſci, che nel
trattamento delle forme da te ſtesſo potrai intendere qual forma à qual coſaſi
confaccia. DIN. Ricorditi difarmi ogni coſa chiara con glieſſempi, eio mi
obligo di leggerli ſecondola occaſio ne,in qualunque libro di queſti,che tu
uorrai. Ma prima deſidero ſa per alcuna coſa d'intornoal Numero , o numeroſo
componimento . ART. Laſciati à me guidare cheil tutto ſaperai ſecondo il
biſogno. Sappi adunque, è Dinardo , chequalhora alcuno ſi rivolga à conſi=
derare il modo, es la ragione del medicare , che ritrouando alcus na bella coſa
nella medicina, uoglia giudicioſamente applicarla all’are te del dire, non è
dubbio, che egli non ſia per uedere tra la medicina, o l'arte di che
ſiragiona,grandiſsima ſimiglianza . Ecco la medicina cerca di indurre ſanità,
oue ella non ė, ò di conſeruarla doue ella fi truoua.Ilſimile fa queſt'arte
,d'intorno alla buonaopinione , perche conogni ſtudio s'affitica di metterla ,ò
di mantenerla oue ſia biſogno. La medicina conoſce qual parte del corpo con
qualrimedio eſſer debs bia riſanata, o preferuata,cosi queſt'arte opracon
l'anima, e con le partiſue con le formedel parlare.La medicina quantopiù può fugge
la noia chepotrebbe alcuno medicamento recar'atl'infermo,con mele ò con
zucchero, ò con altra coperta mitigando il peßimoſapore , ego l'odore delle
medicine , ne da queſta gentilezza ſi parte la mia figlis uola, cercandodinon
offendere quelſentimento,che prende iſuoi ris medij ,il qualſentimento é negli
orrecchi ripoſto ,per le qualiſotto la ſoauità delſuono fa trapaſſar’inſino
all'anima la opinione , quantun que ſia di coſa dalla Natura aborrita .
Etfinalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune coſe ui mette , non
tanto gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte apportatrici delle uirtù
dell'altre coſe al luogo infermo, il chequãtoſi conuenga all'artificiofa
fauella,non ti posſo in poca hora dichiarare , perche troppo grande é la forza
delſuo nus meroſo componimento ; il quale portando ſeco ageuolißimamente il
ualor delle parole, o delle ſentenze,paſa,e penetra per ogni parte
dell'anima,deſ leroſa di queſta foauicà, e benche gli orecchi del uolgo
neſentano aſſai, non è però da dimandare alcuno Idiota,onde ella proceda, ò
come ſi faccia, perche queſto giudicio è più proprio dell'intelletto , che
delſentimento umano. Giudicando adunque, o conſiderando lo intendente huomo
quale ſia la cagione, che le parole più ad un modo , che ad un'altro diſposte
fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua iltutto eſſere alla Natura, quanto alſuo
principio , conueniente, ma quanto alla perfettione non cosi ; però che io ne
ho grandißima parte.Et perche tuſappia quello che la Nde tura, a quello che io
ti poßiamo prestare,dico ,che la Natura ha posto alls cor nelle orecchie ilſuo
piacere & diletto, uuole chequelle affaticate fi folleuino con la ſoauità ,
a dolcezza del dire ; al che fare niuna coſa è più potente nel uostro ragionare
, che'l numero, ola fosnità delle parole. Il qual numero biſogna, che di ſua
uoglia uegna nella oratione, si perchefa oratione, e non muſica,si perfuggir la
fofpitione dello artificio, la quae le con luſingheuole inganno pare, che
uoglia abbagliar l’animo de gli aſcol tanti, operò leua loro ogni perſuaſione,
o fede . Ma quando con ine certo , & non conoſciuto numero,dolce però , e
foaue,ſi compone il parld . -mento, oſi lega inſieme il faſcio della ſentenza,
& del'intendimento,fena za dubbio il tutto con credenza, o diletto ſi
riceue . Fuggafi dunque il ucrſo, « ogni regola continouata del uerſo ;
continouata dico , peroche lo ſteſſo numero più volte replicato facilmente
ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti l'ordinato, « conſueto ritorno ,
più alſuono,che alſentia mentoſi diano,coſa aſſai chiara, oatteſa ne i uerſi,il
numero de' quali ufae to ,e conoſciuto,più dall'arte ,che dalla Natura
procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o ſciolta del tutto non dee
restare l'oratione , che oſcura, cu piaccuole ne rimarrebbe,però numeroſa o compoſta
ella fi dis fidera grandemente. Ora da che naſca, o per qual cagione
diuerſamente offer conuenga numeroſa l'oratione, quanto à me s'appartiene dirò
bries uemente,dichiarando prima,che coſa ſia NVMERO, ò numeroſo come ponimento.
DIN. Queſto ordine à meſommamente diletta,però di cuore ti prie go,che più
diſtintamente che puoi,me lo dimostri. A R. La neceßità uuole, che le parole
ſieno pari alla ſentenza ,perche à queſto fine ſi ragiona,comeſi è
detto,accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri di fuori,doue mancando o
accreſcendo parole, o il concetto interno non ſarebbeeſpreſſo, come nella mente
dimora , ò il parlar ſarebbe ociofo ,ò mancheuole.Maperche la ſentenza
nell'anima è finita Otermina ta ,però debbon’eſſerfinite,os terminate in
quantità le parole, che laſenten F DEELLA za dimostrano. Laqual quantità
inſieme ragunata, Giro , o circuito nos mineremo ilquale altro non
ſarà,chepieno operfetto abbracciamento del la ſentenza. Questo abbracciamento
di pari accompagnando la uirtù di ef la ſentenza,puòhauere una ò piu parti, o
maggiori, o minori , ſecondo le parti della ſentenza;@ ciaſcuna parte é
composta di parole, oſi chiama Membro, ó Nodo; osi come ogni parte del corpo ha
il ſuo principio, il ſuofine, e il ſuo mezo, o il corpomedeſimo e terminato, &
finitocosi , le parti dello abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà finito,
otermina to . In tutto queſto ſpatio adunque,che è tra il principio,il fine di
ciaſcu na parte, e tra il cominciamento, es la chiuſa,che s'è detto
chiamarſigia ro,ė forza,che la lingua alcuna uolta s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo
il biſoa gno,oſi muoua più ueloce ,ò piu tarda ſecondo laqualità del concetto .
Et questo ripoſo , oqueſto mouimento ,miſurato col tempo del proferire, para
toriſce ilnumero , del qual ragioniamo,uero figliuolo della compoſitione, o de
i termini del parlare, omoltopiu nel fine,chenel cominciamento e più apparente
ne gli eſtremi chenel mezo.Etperche di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio
in quanto al ſentimento del piacere, o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à
ciaſcuno la dilettatione de' ſenſi, ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca
la cagione però , hauendoſifin'ora in parte dimoſtra to quello
cheall'intelletto s'appartiene,in parte dico,perciò che l'intelletto in questo
caſo molto alle orecchie deferiſce , odiuerſe maniere hanno dia uerfo
numero.Però cominciando a trattare delle forme del dire daremo a ciaſcheduno il
ſuo numeroſo componimento,o con effempi ancora ritroue remo quello che con
ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene auif di farmicapace di questa
magnifica oillus ſtre compoſitione ; però ſegui,che con maggior deſiderio,
cheprima ,fono apparecchiato di aſcoltarti,perche mi pare ,che ora tu facci di
me pruoua marauiglioſa. AR: La primaformae nominata Chiarezza,laqual naſce da
purità, og da eleganza,come s'è detto. Pero eſſendo ella quaſi un tutto , acciò
che meglio ſi manifeſti,ſidirà delle parti fue,&prima della mondezza opile
rità ,poidella ſcelta, o eleganza. Deefl dunque dare allapurità del dire quelle
ſentenze, le qualiſono di piana intelligenza, & non hanno biſogno di piu
conſideratione,come per lo pia fono,o effer deono le narrationi delle co fe
,come qui. Leggi. DIN. Tancredi , Principe di Salerno , fu Signore affai umano
, di benigno aſpetto. AR. Eccoti, che ſenza alcuna fatica di diſcorſo ogni
mediocre in . gigno gegropuò capire
ilſentimento della ſentenzagià letta, come ancora in questi uerfi.Leggi. DIN.
Io ſon Manfredi , Nipote di Coſtanza Imperatrice. ART. Et molti eſſempi ſono
della purità nelle nouelle , la ſentenza delle quali per la maggior parte è
molto alla uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che partitamenteſa ciaſcheduna
inſe conſiderata , percio che pua re nonſarebbono, quando adalcun fineſi
riguardaſſe, oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in
questa guifa ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai
umano , per che queſta ſentenza non ſarebbe terminata,o finita,douendo
attendere a quel io, che ſegue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda
enetta . Non aſpetti adunque altro intendimento,chi uuoleſſer puro nella
ſentenza , las quale stando nell'anima,dee cljer con tal'artificio leuata, che
ſolaſi tirifuo riga come di dentro dimostra il concetto ,cosi di fuori fa fatto
paleſe,ſen. za alcun accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però
daquesta formaſia bandita ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di mo
. do,ò d'altro auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella ſentenza :
DIN. La quale percioche egli,sicomei mercatanti fanno, andava molto in
tornoapoco con lei dimoraua, s'inamoród’uno giovane chiamato Roberto. AR. Non
lascia eſſer pura cotesta sentenza, quel trammezamento, che dice, percioche
egli,si come i mercatanti fanno,andaua molto intorno , o questo adiuiene,perche
ſospeſoſi tiene l'animo, di chi ode . Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi
eſſere nel tuo dir mondo, &neto; &narra le co Se partitamente come
ſtanno,ma de i raccoglimenti quãti,o quali ſieno, dirà poi.Delle parole
ueramente con le quali ſi dee uestire 'la purità breue ammaeſtramento ſi
daràperche , tutte le parole,piane,facili,ufitate, bricui, O communi
ſonoall'anima della purità molto proportionate , onde le trae portate,le
ſtraniere,le lunghe, & quelle, che la lingua pena à proferire , o
l'intelletto a capirefono dalla purità lontane ,però purisſime ſono queste.
DIN. Cheà me pareuaeßer’in una bella , « diletteuole ſelua ,& in quella
andar cacciando ehauer preſo una cauriola , parcami, che ella fuſſepiu che la
neue bianca,or in brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica , che punto da me
nonſi partiua,tutta uia à meparcua hauerla, si cara , cbe accio che da me non
partiſſe,le mi pareua nella gola hauer meſſo un cola no d'oro,e quella con una
catena d'oro tener con le mani. ARTE Non è poco hauer giudicio di ritrouar le
parole adognima niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel diſporle, o
colorirle,on de ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la figura delle
parole,al la puritàſottopoſte,é il dritto,ecco. DIN. Nicolò Cornacchini fu
nostro cittadino,o ricco huomo. ARTE Et quiancora DIN. Aſolo adunqueuago , «
piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi gioghi delle nostre Alpiſopra il
Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe della reina di Cipri. ARTE Non
cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato, Dicendo,Di Aſolo
,uago & piaceuole caſtello poſſe ditrice fu la Reie na di Cipri . Ma puro e
per la figura del dritto, auegna che ſecondo quella : parola puro non ſia ,doue
ſi dice Arneſe,uoce ſtraniera, ancora nello are. tificio non é puro per quello
tramezamento, che dice ( si come ogn’uno dee ſapere) o per quelle circoſtanze
del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda il ſentimentode gli aſcoltanti ,
oui mette le circonſtanze del luogo. DI N. Dunque erra chi uolendo cßer puro
uſa parole non pure , artificio,ò figura d'altra maniera,della oratione ? ÁR:
Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe d'eſſere in ogni parte puro , &netto,
& non uſaſſe quello che ſi conuiene,ma non erra uolendo alla pu rità del
dire porgere «grandezza o dignità.Ma ancora uoglio che ogni maniera ſia in ſe
ſteſſa conſiderata , e però lapurità del dire haurà le. parti ſue distinte,os
ſeparate dalle altre;nė ſolamente il dritto è figura, di questaforma, o
maniera,ma anche ogni altro colore, che ſia contrario als la comprenſione della
quale ſi dirà poi,ora trattiamo delſito, odellacom poſitione delle parole ,
Dico nella purità ,cs mondezza del dire douerſi met : tere le parole inſieme
con quel modo,che piu uicino ſia al fauellare, uſitae coſenza molta
cura,caffettatione ſemplicemente quantoſi può. Et si cos me in ciaſcheduna
parola di queſta forma biſognaua leuar'ogni durczza , Cogni difficultà di
lettere,o di ſillabe,accioche la uoce di ſuono e quale , temperato , « non
impedito ufciſſe fuori,cosi nella compoſitione biſos gna guardare di acconciare
talmente , che pine tosto nate , che fabricate appariſcano,come nello eſempio
già letto del ſogno ſi conoſceud. Conſided ra tu poi la forza, & lofpirito
di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna fillaba , come la natura in tutte ha posto
la ſuapiaceuolezza, durezza, & tifa rai queſto giudice del ſuono
delleparole, della loro diſpoſitione,ucdi che la A ſi forma nella più profonda
parte del petto ,o eſce poifuori con alta восс, uoce,riſonante ,onde lo ſpirito
di eſſa grande,oſonoroffente,odi laſe guente , ch'é ,B. LA B é
puraſnella,deſpedita ,come è afpra'la C.quando è fine della fillaba,ISA C,
órauca quando è posta inanzi la A à la V come per lo contrario e di
dolce,ſpeſſo , o pieno ſuono,precedendo alla I. @alla E.co. me qui.Salabetto
mio dolce iomi ti raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer tuo, cosi é
ciò che ciė, o cio che per me ſi può fare al comando tuo . Conſidera poi da te
ſteſſo il restante delle lettere , in che maniera eſſa natura diſua propria
qualità ha ciaſcuna dotata , & uederai onde nde ſce più questa,chequella
compoſitione.Le parti, &le membra , della purie. rità effer deono
breui,& ciaſcuna dee terminar'ilſuo ſentimento,non ritar: dando con
lunghezza de' giri, o di raccoglimenti la intelligenza del poe polo ,come qui,
D. Suol’eſſere a' nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole nembofofpinti
errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana pie tra,ritrouare la trammontana,
in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non Ria lor tolto il potere, &
uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca ciano,ò almeno doue più la loro
ſaluezza ueggiono , indirizzare. Bifox gna parimente in minoreſpatio
raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt uuole eſſer puro, ofare in
questo modo,benche le parolefieno ale quanto dure.Leggi. DIN. Chino di Tacco
piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le di ſtomaco, « poi il
laſcia,L'abbate ritorna , in corte di Roma,o il rico cilia con Bonifatio Papa,o
fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta norma
oſſeruata,come, qui . Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho da farguerra , E
temo, eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio . Ilche non quiene in queſta altra
parte. DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono . Perciò che ilſenſo è
troppo ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità
quello chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile parole, alla
figura, alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi tratti del
numero, & del finimento ,cioè della chiuſa,odel ter mine della ſentenza,o
delle parti ſue.Dico adunque , che nello andare , ego nello ſpatio di queſta
forma non ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi
,one i mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal
fine,peròſapendo quale eßer dee la compoſitione dele parole, quale il
fineztutto quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender
quellocheſi è detto, perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito
reſta che ſidica del finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in
alcunaparola tronca,oin parola piena,ſienoque ſte parole ,ò di due,ò di tre,ò
di piu ſilabe,o ancora di una. Le parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe,
& uolubili,o ſalde ,oferme, opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema
parola di tutta la chiuſa, ma anco la uicina, o proſima,però partitamente ſi
dirà di ciaſcun finimento al luo go ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare
le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire
cotidiano,fuggirà il fine del le parole tronche, comeſono quelle
andò,corfuftarà,o C.perche le mede. fime dee nella diſpoſitione fuggire,come
ramarico, o render florido. Et A contenterà di quelfine,cheper lo più la Natura
a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con tanta religioneſifiniſca in parole
piene , &perfete te ,fuggendo le tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta
nonſimetta fie nealtrimenti alſuo parlare,perche quello cheſi dice, ſi dice per
la mage gior parte de ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi adunque
odalla diſpoſitione riſorge quella miſura,che noi numero addimandiamo. Eſſendo
adunque lachiuſa ſimile alla dispoſitione , «la diſpoſitione non
isforzeuole,matemperata,& naturale,fcguita che il numero dell'uno, o,
dell'altro figliuoloſarà , à quelle fomigliante.Ben'è uero ,che laforza di cia
fcuna manierà,e ripoſta piu toſto nelle altre parti,che nel numero, eccetto,
che nella bellezza,douc l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto
piùè ne i uerfi, « nella poeſia ,che altroue, o questo dico , acciò che fu non
metta piu ſtudio ,doue nonbiſogna riportandoti a gli orecchi, il giudicio delle
quali da eſſa natura é ſommamente aiutato . Ecco adunque, è Dinardo,quanto
giouala mondezza , opurità del dire alla chiarezza; ma perche questa
ſempliceforma non può daſefola si chiaramente parlae re che non uiſiaqualche
impedimento,però biſogna ouunque le ſia di aiua. to mestieri ,con la eleganza
aiutarla, come con maniera chepiù un modo, che un'altro, piu questo ordineche
quello ſecondo il biſogno adoprando eleg ge et fouegna alla ſemplicepurità del
dire ,ilqual'aiuto èpiù presto nell'ar . tificio, che nelle ſentenze ripoſto.
Però che ella ſi sforzafar ogni ſentenza chiara &aperta,non che le pure già
dichiarite di ſopra. Parliamo adune que della cleganza,o prima dello artificio,
colquale ella lcuar fuole ogni sentenza nella mente riposta. AR. La ceeganza e
maniera, che porta chiarezza à tutte le maniere della oratione, operò non tanto
alla purità, dove ella manca soccorre, quanto à ciascaduna forma opra
intelligenza, o facilità, daqueſto nasce, che la eleganza dalla purità del dire
in alcuna coſa é differente. Perciò che la purità da ſe ſteſſa è chiara,oaperta
,ma la eleganza nella grandezza, e magnificenza del dire ecomeun sole, che ogni
oſcurità , che per quella poteſſe uenire, leua,o diſgombra,o però in
ogniſentenza ella può molto, si con l'artificio fuo , si co i colori,«le
figure.L'artificio adunque di les uare ogniſentenza dallo intelletto,acciò che
ella ſia inteſa , cogni auuerti. mento innanzi fatto di quello che ft ha da
ragionare. Leggi. DIN. Canterò com’io uißi in libertade Mentre Amor nel mio
albergo à ſdegno s'hebbe Poiſeguirò si come à luim'increbbe Troppo altamente:
AR. ilſimigliante R fa nella proſa ,comequi. DI N. Mipiace à condiſcendere à
conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi conuerràfar due coſe molto a' miei
costumi contrarie,l'una fia alqua to me comendare, &l'altra il biaſimare
alquanto altrui, maprioche dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra non intendo
partirmi ilpurfarò. AR. Vedi quanto gentilmente | sbriga lo intelletto dello
aſcoltare con tali auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai bello artificio ,
s'intende quela to,che per chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le
quali non ſi in tenderebbe ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN. Ma per trattar
del ben, ch'io vi trovai, Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte. AR. Se il
poeta qui non doueſſe dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegli,che
ſono in diſgratia di Dio, non haur ebbe potuto dare ad intendere facilmente il
beneche ne riuſci poi,per hauer lo inferno cers Cato.Ecco qui dalla medeſima
neceßità costretto quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta
nella egregia Città di Firenze ,auuertendo pri ma chi legge ,in queſto modo.
DIN. Mapercioche qualefuße la cagione,perche le coſe che appref fo
Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare
,quafi dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. A R. Ecco qui ancora un'altra
bella preparatione di coſe,fatta per le uare ogni impedimento,chepoteſſe
offendereilrimanente. DIN . Ma io mi ti uoglio unpoco ſcuſare ,che di que'
tempi, che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti uenire, e non poteſti,alcune
ci uenisti, onon fosti cosi lietamente veduto,comefoleui,& oltre à questo
di ciòche io al termine promeſſo,non ti rendei gli tuoi danari, AR. In fine
ogni precedente auifo, & ogni ordine di coſe, e ſecondo , che elte ſon
fatte,narrandole,ė artificio ſcelto , & elegante ,però tutte le propofitoni
de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DIN. Veramente quant’io del regno fanto Ne
la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del mio canto, AR. E qui ancora
DIN. Et canterò di quel ſecondo regno, Que l'umanoſpirito ſi purga E di
ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il fimigliante modo è oſſeruato ne i principij
di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai.Suole ancora la Eleganza porre
artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte partitamentecome qui. Leggi.
DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi , che diranno,ch'io habbia nello
ſcriuere queste nouelle troppo licenza usata. ART. Eccola dimanda ſeguita la
ſolutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche niuna coſa esi difoneſta, che
con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART. Et cosi di paripaſſo
alle obiettioni riſponde, benche altre fide te inſiemepostohabbia ogni accuſa
di ſefatta, opoi s'habbiafcufato , ma quelmodo non ha dello
elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme allora quando
diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni , che queſte
nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo , eche oneſta coſa nonė,
che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni han dete to
peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando di uoler
dire,hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro queſte coſe,
cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te neri della
miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente,àſtarmi con le Mufe in
Parnaſo,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli ancora,che più
difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to ,cl’io farei più
diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro a queste
fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa eſſere state
le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in detrimento
della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe contra dello
autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è cosi elegante
,comeilprimoartife cio ,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe di eſſer
chiaro, cinteſo, eso auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa doue
dice,roppo alquanto dalle predet te oppoſitioni,perche non di ſubito riſponde ,
ilche ancora é dalia cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti, ch'io uegna à
far la riſpoſta ad alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non una nouella
intera ,ma parte di una. AR. Et ne poeti ancora fi oſferua,ſecondoche meglio
lor ben uiene di fare cosifatti partimenti.Vedi. DIN. Tu argomenti,ſe'lbuon
uoler dura, La uiolenza altrui,per qual cagione Di meritar mi ſcema la miſura ?
A R.Queſta éuna propoſta,alla quale ſecondo l'arte della eleganzaſ doueá prinia
riſponderemaſi è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita. DIN. Ancor di dubitar ti
dà cagione Parer tornarſi l'anima àleſtelle. Secondo la ſententia di Platone. AR.
Ben che tu ueda qui le propoſte effer'inſieme collocate, non è per ròſenza
cleganza quella parte,per quello cheſegue. DIN. Queſteſon le question,che nel
tuo uelle Pontano egualemente, e però pria Tratterò quella chepiù ba di felle.
ART. In queſto luogo non tanto la eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo
auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire, quanto per la elettione di
riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui ancora un'altro artificio
della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia quello,che ſi è detto, et ſi
dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti luoghiſegnati . DIN. Ma
hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio che mi basti,o à coloro
riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual luogo acciò chemeglio
quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui moſtrerò . AR. Aſaiſi èdetto
fin qui,con che arte la eleganza leua dalla mente ogni ſenienza,oraſi dirà con
quai parole più acconciamente ella ragioni , oquesto brieuemente ſi farà.Vſa la
eleganza le medeſime parole, che la purità,chiare,piane,natie,o tali,che niuna
durezza in eſe ſi truoui . Et perònonſono eleganti,né con eleganza diſposte le
parole che dicono, Amen due ſopra gli mal trattiſtracci caddero à terra
,&quelle, Non curandofar gli falſ , o quelle che nellapurità dicemmo,Ghino
di Tacco piglia l'Abba te di Clugni.Da quelloche ſi è detto delle parole , tu
puoi uedere chedalla difpofitione di eſſe,le parti,i finimenti, &il
numerononſono dalla purità lontani, DELLA lontani,anziſonole coſe steſſe.
Leggerai,come gentilměteſi sbriga dalle co fe,come brieuemente rinchiuda il
ſentimento, come puramente elegga , o temperatamenteſi muoua questa nouella di Ricciardo
de' Manardi,otro uerai parole parti, chiuſe,numerio fiti diparole purißime,
oelegantisſa me. Ma le figure di queſtaforma fono diuerſe molte, tra lequali
ottiene il primo luogo la ordinatione, laquale è unafigura,che da quello cheſi
dia ce,dimostra altro ſeguirne, come qui. DÍN. Et accioche quello chemi par
difare,conoſciate,oper conſes guente aggiugnere, o menomare poßiate à uoſtro
piacere,con pocheparo le we lo intendo di dimostrare. AR. Et ancora qui della
fortunaparlando . DIN. Le quai noiſcioccamente nostre chiamiamo,ſeno nelle ſue
ma ni, oper conſeguente da lei ſecondo ilſuo occulto giuditio ſenza alcuna po
ſa, d'uno in altro,o d'altro in uno fucceßiuamente ſenza alcun conoſciuto
ordine da noi,eſſer da lei permutate. AR. Egli ſf ordina, come ſi è detto anco
nel proporre di quante coſe fha da dire,con lo auuertimento di dire prima una
coſa,o poi un'altra.Il che inquanto abbraccia più coſe,ė Comprenſionedella
qualeſi dirà. Main quanto diſpone, acconcia allo intendimento,epuro,eleganteo
chiaro.Al trafiguraèſcelta,eelegante,oltra la predetta nominata Partitione ,
lde quale Afa,quando noi,due coſe è piùſepariamo parlando, come qui. DIN. Et il
tacere,oil parlareoggimai mi ſonoegualmente diſcari, perciò che nè quello
debbo,ne questo poſſo. AR. In molti modipuòpartitamente ragionare,come qui con
mola ti efſempi ſi dimostra . DIN. Tra per la forza della peftifera mortalità,
per lo eſſeremol ti infermimalſeruiti,& abbandonati. AR: Etqui ancora. DIN.
Et tra che egli s'accorſe, si come huomo, che molto aueduto erd, Otrache da
alcuno fu informato,trouò dal maggiore al minore Co. ART. Etaltroue. DIN.
Carißime dore,siper le parolede fauijhuomini udite , o si per le cofe da me molte
uedute or lette. AR. Appresso le dette figureit ripigliamento è bellißimo
colore della eleganza, come quelloche alla obliuione,alla oſcuritafoccorra, in
quca ſto modo, DIN: E perche mifogliate immantenente Del ben ,che adkor’adhor
l’anima fente ? Dico che ad hord ad bora , Vostra mercede, iofento in mezo
l'alma Vna dolcezza inufitata e noua AR. Et nella proſa, come qui. - DIN.
Ilchemanifestamente potrà apparire nella nouella , laquale dl raccontare
intendo,manifeſtamente dico,non il giuditio di Dio , maquello de gli
huominiſeguitando. · AR. Queſto ripigliamento appreſſo la chiarezza e di non
poco peſo alla oratione, come figura molto uicina al raddoppiamento, ilquale è
di for za marauiglioſanell'arte deldire,o ,òinterpretado,ò interrogado,ò riſpon
dendodi ſubito alla eleganzaconuerrà grandemente.Etper contrarioRfan ra nella
oſcurità ,la quale naſce da confuſione,& diſordine, nel’animofia tà, o ne
gli affetti grandementeſi ricerca,perche in eſil'animo dallo ema pito
traportato ogni coſa difordina,o la mente confonde. E adunque la confufione
alla ſcelta ,& elegante oratione contraria,come la meſcolanza, alla purità,
da ambedue, cioè confufione , meſcolanza, naſce la oſcurità , come da
quell'altre due la chiarezza del dire . Della quale pora uoglio che à baſtazaſa
detto ,o dimoſtrato.Resta chefi ragioni del la grădezzadel dire,acciò che il pericolo
della baſſezza,odell'umilità,che Hella chiarezza ciſopraſta,con l'autorità
della orationeſ leui in tuttó. DELLA GRANDEZZA DEL DIRE, prima della Maeſtà .
ESSEND'O la grandezza del dire unamaniera, che oltra l'uſato modo di ragionare
inalza , ø follicuala oratione , è di neceßità di molte parti compoſta delle
quali altre faranno daſe ſteße altreinſieme alcune co fe raccommunandofaranno
un tutto magnifico, generoſo. E adunque la grandezzafatta dalla maestà,dalla
comprenſionedalla ucemenza, dalla ui uacità,dallo ſplendore,o dall'apprezza.La
maeſtà, ola comprenſione da ſeſtanno,ohanno le parti loro dall'altre
ſeparate.Etperò di clje prima di rò, poi dell'altre partitamente. La maestà del
dire é maniera conueniente alle coſe grandi,o Rfa quan do di eſſe con dignità,o
ornamento ſi ragiona.Leſentenze ueramentedela la maeſtàſono prima quelleche
appartengono à Dio , o alle diuine coſe,co uerità e decoro efpreffe,come
queſte.Leggi, DIN. Conueneuole coſa è carißimeDonne,che in ciaſcuna coſa , che
l'huomo fa,dallo ammirabile ,oſanto nome di colui,ilquale di tuttofufate tore,
le diaprincipio. AR. AR. Dapoi,le coſe
appartenenti alla natura umana, come qui. Leggi. DIN. Natural ragione è di
ciaſcuno che ci naſce, la ſua uita quantū que può,aiutare,e conferuare, &
difendere. ART. Et appreſſo quelle,oue le ſecrete cagioni delle coſe
inuestigane do, & dimoſtrando ſt uanno,lequai poco appartengono alla uita
ciuile, po co dico, perche alcuna uolta ſi diconoperfare alcuna fede à
quellochedicia mo,come qui. DI N. Andiamo adunque,& bene duenturoſamente
aſſagliamo la nde ue, che Iddio alla noſtra impreſa fauorcuole ſenza uento
prestarle,la citien ferma . AR: La maeſtà è uſata per lo più ne i proemij delle
nouelle . Perció che in eßi fi contiene il fine,perlo qualeſi racconta il tutto
,& percheil fi ne, per utile,a giouamento de gli huomini ſi ricerca,però di
coſe al uiucre appartenenti con grandezza maeſtaſiragiona.Leggi queſto
principio, come è pieno di alta,o degna ſentenza. DIN. Credefi permolti
filoſofanti,che ciò che s'adopra de mortali , Rade gli Dij immortali
diſpoſitione,& prouedimento. AR. Degne adunque di riuerenzaſono le coſe di
Dio, però chiunque di quelle altramente ragiona,ė dalla maeſtà del dire
lontano, perche chida ramente da te comprenderai,che niuna maeſtàſi truoua
là,doue il mutamē to in Angelo, d’un frate ſi narra , &doue in alcuni altri
luoghi non ſi dicon no coſe alla religione conformi,con quella uerità e decoro,
che ſi conuica ne, &però aliena dalla maeſtà équcũa comparatione,chedice,
DIN. Si come eterna uita é ueder Dio, Ne più ſ brama,né bramarpiulice, Cosi me,
Donna , il uoi ueder, felice Fa in queſtobreue, efrale uiuer mio : AR. Lo
affetto di chi ragiona ſcuſa chiunque parla in tal modo, pere che lo acceſo
deſiderio acciecal'intelletto,ela lingua come di ebbri uacil la,ofa dire che
gli Angeli aſpettano di uedere il bel uiſo delle amate los rou che la preſenza
di quelle adorna il Paradiſo, altre coſe,le quai pe rò ſotto altra form !,che
questa ſi riduranno.Sarà dunque ſeuera,o degna, epiena di maeſtà la ſeguente
ſentenza. DIN. La gloria di colui che tutto mouc Per l'uniuerjo penetra, e
riſplende In una parte più, e meno altroue. ART. Et per la più parte degno e il
preſente poema,dalquale aj na turali, co umane,o diuine ſentenze,ſecondo la
macià delle coſe leggendo ne ritrarrai,
come qui , DIN. Le coſe tutte quante Hann'ordine tra loro ,e queſto è forma Che
l'uniuerfo à Diofaſomigliante. Qui ueggion l'altre creature l'orma De l'eterno
ualore, ilqualefine, Al qual'èfatta la toccata forma. A R. Et finalmente pieniſono
i uolumi de i buoniſcrittori. Leggi. DI . ciaſcuno , che bene , o onestamente
unol uiuere, dee in quan topuò , fuggire ogni cagione, laquale ad altrimenti
fare il potere cons durre AR. Et qui, D I N.Manifesta coſa è cheogni giuſto
Re,primo oſſeruatore dee eſſe re delle leggifatte da lui. AR. Baſtiti queſto
d'intorno alle ſentenze della formapredetta . Ord, con che artificio dal lor
ſoggiorno leuareſi debbano,intenderai.Percheadū que piene di maestà ſono
quelleſentenze,che di Dio, & delle diuine coſe, delle umane,& naturali
, peròfanno con fiducia O certezza è afferman do,ò negando,ſarà l'artificio
della maestà. Negando,come qui. DIN. Ne creator,necreatura mai Cominciòci,
figliuolfu ſenzaamore O ' natural, o d'animo, e tu'l ſai. AR. Affermando,come
qui , DIN. Lo natural fu ſempre ſenza errore Ma l'altro puote errar, per
mal'oggetto oper poco, ò per troppo di vigore. A R. Leggi pure,chenon mancano
effempi. DIN. Le coſe, che alferuigio di Dio N fanno, deono far tutte nete
tamente . AR. Et qui, DIN. Chiunque fouente fa male ,egli certamente non é
Iddio ,& chii que Iddio e,egliſenza dubbio non puòfar male. AR.
Laeſpreßione ha gran forza nell'artificio di quella forma com me qui. DIN.
Veramente fiam noi poluere eombra , Veramente la uoglia cieca,e ingorda, Veramente
fallaceè la ſperanza , AR. Et qui ancora DIN. 57 DE LL A DIN . Nel ciel, che
più de la ſua luce prende, Fu'io , euidi coſe, che ridire Nésà , ne può, chi di
la sù diſcende. A R. Hanno in queſta forma le allegorie peſo, or
forzagrandißima, eperò le ſacre lettere di allegorie ſono ripiene,etutto il
preſente poema è quaſi una continuata allegoria ,coſa molto alla ſuamaeſtà
diprofitto,co d'ornamento, &però la leonza,il leone,la lupa, e tutto quello
chein tute ta l'opera gli appariſce,èuna raunanza di allegorie , degna « grande
for pra modo.Conſidera come queſt'altro poeta uolendo innalzar le coſe baſe,
Qumili grandemente ſi dà alle allegorie,facendo con quelle i cotidiani aue
nimenti si grandi apparire che ifatti d'arme, ole coſe marauiglioſe di na tura
si grandi nonſono.Ecco , DIN. Quando dal proprio ſito ſi rimoue L'arbor, che
amogià Febo in corpo umano , Soſpira e fudaà l'opera Vulcano , Per rinfreſcar
l'afpre ſaette à Gioue. AR. Questa grandezza di coſa, altro non uuol dire,ſenon
,che nel partiredi un luogo ad un'altro della donnafua, fieramente era il Cielo
tura bato da uenti, « da tempefta.Et cosi il reſtante di questo fonetto, omolti
de gli altri,che ſeguono per l'artificio delle allegorie,ode gli enigmi, mis
rabili appariſcono,à chi gli legge.ENIGM Iſono modi oſcuri di dire , come qui,
Fortuna, chi t'intende, non t'intende, Efa chiſei ,chi non ſa chi tufa. Tale
adunque é l'artificio della maestà. Reſta óra à dirſi delle altre par tijeg
prima delle parole.Sono alcune lettere, lequali fanno leparole ampie, e di
ſpirito sforzeuole ,come la A la 0,però quelle parole, che ſono di tai
lettere,odiRllabe di eſſe fatte,ſaranno alla maestà del dire conucnicne
tißime,tanto più diforza haueranno,quanto auanzeranno le duefillas be,odi
maggiorſignificatione faranne.come qui. DIN. Quel, che infinita prouidenza, o
arte, Moſtrò nel ſuo mirabil magistero, Che creò questo, e quell'altro emiſpero
, E manſueto più Givue, che Marte. ART. Et ancora in un'altro luogo.
Perſeguendomi Amor’al loco uſato Ristretto, in guiſa d'huom , ch'aſpetta guirra
, Che prouede,e ipaßi intorno ferra , Di mici antichi penſier mi saua armato .
AR. Sono ancora le parole traportate ,di grandezza, e maestà mdo rauiglioſa,
«perche molti credono il loro dritto pagare,ſe degni, ogran di riputando ,poi
gonfi fono o freddiper la troppa licenza,cbe piglia no nel trasferire,però
alcuna coſa ti ſcoprirò d'intorno alle traslationi, bel lage degna,o di
profitto non mediocre. Voglio,che dalla bruttezza del uitio ſpauentatoda quello
alla uirtù ti riuolga,o però di quelli dirò, i qua li cosi gonfiamente,o cosi
freddamente parlando, come fanno,ſono da ogni ſaldo giuditio abborriti. Alcuni
di queſti hanno ardire di fingere,odi co por nomi,oparoleſenza alcuno
raffrenamento di conſideratione,chiamar do il Cielo oculoſo,il mare ueligante,
la terra granifera, o di queſte s'eme piono ifogli.Altri danno à nomi
ſtranieri,dalla antichità rifiutati,nuoui, oſcuri,o di niunſentimento,coſa
fpenta,o agghiacciata,comeeßiſono, che uuoi tu più freddo,che'l continuare in
fimili inuentioni? Tuſei l'ombra del l'angustia ,il diadema della
mestitia,un'atto fatale,o si fatti.Peccano mola ti dando ad ognicoſa i loro
aggiunti, ilche quando nonſifa per diletto, o con circonfpettione,come per
condimento del dire,affettato,inſipido,o rin creſceuoleſ truoua, comeſe in
luogo diſudoreſi diceſſe,il liquoredelle car niperlo caldo ſtillato,o non le
feſte,ma la celebrità delle feſte,ne i triona fi,ma la grandezza de i
trionfi,&alere gonfiezze, ilqual uitio in alcuni ė ucnuto al fommo,o però
parlandoeßi più che pocticamente & fuor di të po,fannocoſe degne di riſo, o
di compaßione,fono oſcuri &ociofiſatiano, Orincreſcono fieramente.Leggi.
DIN. Potrei,poſcia che il vento della licentia datami di ragionare ba tanto
inantifpinta la naue del mio parlamentoper l'ampio pelago di si fat ta
materia,conducerui distintamente à uedere checoſa è difpofitione. AR. 1o mene
rido di tai coſe,guarda quanto meglio ſi èdetto qui nel uerfo , o con più
modestia. DIN. O'uoi, che ſete in piccioletta barca , Defideroft d'aſcoltar
ſeguiti Retro almio legno,che cantando uarca , Tornate à riveder inoſtri liti
Non ui mettete in pelago, cheforſe Perdendo me rimarreſteſmarriti. AR.
Ecco,chedi più ampia materia ragionaua il Poeta, & non diffe la naue del
ſuo parlamento,o altroue diſſe, Per correr miglior’acqua alza le uele Ormai la
nauicella delmio ingegno Che laſcia retro à ſe mar si crudele , Etquandopurepiù
arditamenteegli baueſſe alcuna traslatione uſata , dico ,che egli era Poeta , o
hauea ſotto la penna materia,ſe altra ne è,gră dißima, o d'ogni parte degna; o
poteua ben laſciarſi portare(dirò cosi) dal uento della licenza,ma uedi ancora
nella proſa in miglior modo ridotta laſopradetta traslatione. DIN.
Madonna,aſſai m'aggrada,poi che ui piace, per questo campo aperto Wlibero, nel quale
la uoštra Magnificenza ci ha meßi,del nouella . re,d'eſſer colci, che corra il
primo arringo. AR. Ma riuolgiti à queste fredde,çocioſe maniere,& leggi,
DIN. La real conditione del quale ſaria stata di più felice uita,odi più beata
memoria,che uerun'altra mai,ſe il generoſo della bontà di lui,hax uelle men
creduto al maligno della fraudealtrui. AR. E' ancora più ſpento qui. DIN. Nel
finedelle parole cadendogli giù per le gote alcune lagrie me non men groſſe,che
calde, le compaßioni delle ſuepietadi transformaro. no l'ira in manſuetudine.
1. AR. Di che giudicio dotati,di che eſperienza ammaestrati,e di quan ta gratia
eſſer deono adornati coloro, i quali uogliono traportare le paro. le nate à
ſignificar’una coſa, alla di chiaratione d'un'altra , nonſi può cosi
brieuemente eſporre.Baſtiti per tuo ammaeſtramento ,che tu fugga le ridic
cole,perche ſono de' comici,le gonfie, percheſonode' tragici, le austere
dure,perchenon ſono euidenti, & infine quelleche dallalunga ſi uanno tra
endo,comeſe alcuno chiamaſſe la ſapienza lo ſteccato della anima, l'acqua
loſpecchiodi Narciſo , ò che diceſſe le faccende qui uerdeggiano,o altre coſe
sifatte . Biſogna adunque deriuare le parole da coſe facili,& di pres fta
intelligenza, con queste i due pocti le loro fittioni mirabilmente innale
zarono, delle quali piene ormai ne ſono tutte le carte.Alte parole appreſſo ſi
odono quelle del nome,or del uerbo partecipi comeAmante, Ardente,co quelle
ancora Andando, Vergognando,percheſono di ampio o largo fpiris to.Et nel loro
andare ſonoadagiate graui . Et di queſta ſia detto aſſai. Ora con quai colori,
ofigure adornar ſi debba la maeſtà delle parole,ſi di rà,o prima,che alle coſe
clgne unafalda confirmatione del proprio gilidi tio, come un fermo tratto di
pennello ,rileua mirabilmente la oratione.Pere che non è uera grandezza quella,
della qualeſi tiene alcuna dubitanza,cu però grande è quella parte. Leggi .
DIN. Chi il commendò mai tanto, quanto tu il commendaui in tutte quelle coſe
laudeuoli,di che ualoroſo huomodee eſſer commendato ? certo . certo non a torto.
AR. Ma quel giuditio,cheſeguc,ė fatto con timore na dubbioſamente te proferito
,però non ha del grande,benche al modeſto dire , grandemente fi conuegna. DIN.
Che ſe i miei occhi non mi ingannarono,niuna laude da te data glifu, ch'io lui
operarla,o più mirabilmente chele tue parole non poteca no eſprimere,non
uedeßi. ART. Conſidera quanto togliedella maeſtà di quel ſonetto ,che con
mincia, Perſeguendomi Amoral loco uſato, quel timido o ſoſpetto giudicio che
dice, quella che ſe'l giudicio mio non erra,Era più degna d'immortaa le
ſtato,Et tanto più quanto quest'ultimo uerfo non ha quelſuono,che gli al tri
hanno.Douea ſenza temenza giudicare ancora questo autore . Leggi, DIN. Et
perciò che la gratitudine,ſecondo ch'io credo,fra l'altre uir tùėfommamente da
commandare. AR. Perche la ſentenza è degna, a ricercaua un colore,che terminaf
se il ſentimento.Nequesta figura ſolamentealla maeſtàſ conuiene , ma tut te
quelle che alla purità ſirichieggono,delle quai di ſopra ſe ne è detto afa ſai.Et
ciò ſifa ,perche la maestànon entri in tumidezza, o cada ( diroco. si )in
quella infermità che idropiſia é nominata . Le parti, le membra eſſer deono
bricui ſenza alcuna lunghezza di giriyil che ſi uede ne'ſauij huomini, iquali
breuißimamente uanno raccom gliendo le coſe loro in fentenza, & detti,come
oracoli.Leggi, DI N. Giuſtitia moſſe il mio alto fattore. Fecemi la diuina
potestade , Laſommaſapientia ,e'l primo amore. A R. Et qui ancora. DIN. Iſon
Beatrice, che tifaccio andare , Vegno dal loco oue tornar diſo, Amor mi moſſe,
che mifa parlare. ART. Etqui . DIN. Gli animi noſtri ſono eterni,perche
difuggeuole uaghezza gli inebriate.Mirate uoi come belle creature ci ſiamo,o
penſate quanto dee of ſer bello colui, di cui noi ſiamo miniſtre. AR. Inſomma,degno
è ilſeguenteparlare in ogni ſua parte . Leggi, DIN. Et queſto altrimenti non ſi
fa ,che à quello Iddio gli noſiri ani mi riuolgendo,che ce gli ha dati.
Ilchefarai tufigliuolo ,ſe me udirai , o penſerai,che eſſo tutto queſtoſacro
tempio,chenoi mondo chiamiamo,di ſe empiendolo hafabricato. ART. AR. Et qui
ancora dicoſeumane. DIN. La uirti primieramente noi,che tuttinaſcemmo, o
naſciamo equali,ne distire,o quegli, che di lei maggior parte haucuano, o
adopee rauano, nobili furon detti, e il rimanente rimafe non nobile. A R. La
diſpoſitione o il ſito delle parole nella maestà del dire dee tal mente
ordinarji,che non ui ſia concorſo di uocaboli , onde la bocca ſi apra
ſconciamente. Voglio poi,che le paroleſdruccioloſe, con più libertà uilica no
,che nella parità, o tal ſuono eſſe legate inſieme diano, quale ft deſides
raua,che da ſe steſſo diſciolte faceſſero.Il ſimileſi dice nella chiuſa, o nel
finimento,operò il fine in parole manche non deeper alcun modo hde uer loco in
questa forma, deſidero la uarietà de' finimenti,o de i princia pi, ma fieno di
parole cheauanzino le dueſilabe, oquello cheper la più ſarà tale in tutto il
giro ,farà il numero , che in queſtaforma ft ricere ca. Leggi tutto il ſopra
detto effempio, che ciò chen'ho detto, chiaramena' te wedrai. Et ciò della
maeſtà ti può bastare. Eſſendo la comprenſione alla grane dezza del dire comela
eleganza alla chiarezza , e eſſendoſi della male stà detto , come di forma ,
che da ſemedeſima di tutte le ſueparti era cone tenta, nè ad altra maniera,
Òſentenze,ò numeri,ò parole, ò artificio, o ale": tra qualità concedeuia
,nėda altri alcuna coſa pigliaua , non è fuori dira. gione che ſi dica ora
della comprenſione, uera, ounicaforma da folleuare ogui baiſao umile maniera
della oratione. Et pero delleſueſentenze fi dirà prima, poi delle altre parti.
Le ſentenze di queſta forma,ſono quel le, che chiamano altro ſentimento, o che
raccolgono,operò in queſtapar te la comprenſione è oppoſta alla purità del
dire,nella quale dicemmo,non eſſer’alcuno raccoglimento. Raccoglimento intendo
,quando quello che piis i riſtringe nel meno ,come una coſa commune in generale
, alla ſpecialità ė ristretto. Leggi , Certißima coſa é adunque,ò Donne, che di
tutte le perturbationi dell’d nimo,niuna coſa é cosi noceuole, cosi graue, niuna
cosiforzeuole o nio . lenta ,niuna che cosi ci commoud,ogiri,comequellafa,che
noi amore chia mia mo. Eccoti che la perturbatione è un genere commune ſotto il
quale ſi rac coglie l'amore, che è una ſpecie di perturbatione. Raccoglieſi
ancora lo in determinato v oſcuro ,allo aperto & terminato ,comequi. Molte
nouelle,dilettoſe Denne à douer dar principio à cosi lieta gior . nata ,come
questa ſarà,per douere eſſere da me raccontate miſi parano das uanti,delle
quali una più nell'animo me ne piace. Et qui ancora molto più lines. $ 9 fi
uede per due raccoglimenti. Et come che à ciaſcuna perſona stia bene , à coloro
maßimamente éria chieſto,li quali già hanno di conforto hauuto mestieri, &
hannolo trouato in altrui.Fra quali ſe alcuno mai ne hebbe,ò gli fu caro,ò già
ne riceuette piacere io ſono uno di quegli. Riduceſt tutto il tutto alla parte
ſia quel tutto è del tempo, ò del luogo, ò d'altra coſa. Del tempo,come qui, ·
10 amaiſempre,ey amo forte ancora . Del luogo ancora, come qui , In
Frioli,paeſe quantunque freddo ,lieto di belle montagnedipiù fiumi e di
chiarefontane,è una terra chiamata Vdine. Suole ogniſentenza, che chiama o
ricerca ſentimento alcuno, eſſere di quella forma,o appreſſo tutte quelle che
alla purità ſono repugnanti nelle quali ogni circostanza di luogo,di tempo
dimodo, oogni accidente, che preceda,accompagni,ófegua ,alle coſe
ſiſuoleaggiugnere.Come fe egli R diceſſe in queſta guiſa, in sù la meza notte
con molti'armati al luogo del le guardieſoprauenne,fdegnato per la ingiuria
fattagli il precedente gior no.Ecco checon molte circostanze ſi narra il
fatto,oR amplifica mirabil mente la coſa.Come in queluerſo ancora , Giouane
incauto ,diſarmató, e ſolo. Chiamano altroſentimento alcuni in questo modo, Ma
si come àlui piacque,il quale eſſendo egli infinito, diede per legge
incommutabile à tutte le coſe mondane bauer fine , il mio amore oltre ad
ogn'altro feruente ,o il quale. AR. Non legger piùche da teſteſſo poi nel
predetto luogo potraiper comprenſione eabbracciamento uedere tantagrandezza di
oratione che niente più. Abbracciano alcuneſentenze mirabilmente,o ſono quelle,
che la ragio nedella coſa in ſe ſteſſe ritengono,come s’io diceßi,L'ira
de'mortali immor tale eſſer non dee,e queſta, Aſai dimanda chi feruendo tace.
Et quell'altra. Un bel morir tutta la uita onord. Etſimiglianti. Senza timor
uiue chi le leggi teme. : Che il perder tempo, à chi più sàpiù piace. Queste
fonole ſentenze,che abbracciano a comprendono, ma l'arte H 2 difolleuareè prima
in ogni tramezamento . Leggi, Alla qual coſa fare(come'chein ciaſcuna età stia
bene il leggere « l'u dire le giouenili coſe, & c. Etſopra l'altre questa.
Percioche non amare ,come che ſia,in uoſtra stagione nonſi può , quane doſi
uede, che da Natura inſieme col uiuere a tutti gli huomini è dato, cbe ciaſcuno
alcuna coſa ſempre ami, oſempre diſii,pure io, che giouane fono , gligiouani
buomini,« le giouani donne conforto oinuito . Maggiormente queſti tramezamenti
inalzano la oratione comeuedi, i quali uanno meſcolando le ragioni con le coſe,
o fanno la oratione ampia ecircondotia, o uſanſiſpeſſo da queſto Autore nelle
fentenze baſſe, co me qui, Le quai coſe ,quantunque molto affettuoſamente le
diceſſe, conuertite in uentocome le piu delleſue impreſefaceano,tornarono in
uano. AR. Lo andare per gli gradi raccogliendo ,ė artificio di quella fora md,
come qui, Figliuola miaio credo,che gran noiaſa ad una bella edelicata donna
come uoi ſiete,bauere per marito un mentecatto ,ma molto maggiore la cre do
eſſere d'hauere un geloſo. Et queſta ancora. Leggi, Drmare ciaſcheduna delle
dette maniere , accion che io ueda il fine della deſiderata catena dell'anima
delle coſe, e del parlare. 40 DE Ï Ï Á parlare. A R. Bendi. Dei dunque ſapere
che comenell'Anima,al. tra parte è quella che apprende la ragione,alfra quella
, che é da gli effetti commoſſi, come dicemmo, o nellaNatura altre ſono le coſe
allo inſegnare altreal muouere appartenenti, cosi alcune formedels la
orationeſaranno, le quali conuerranno alle coſe dello intelletto ,als cune alle
coſe della uoglia , odello appetito , o quando queſto non fuſſe, né uia, nė
ragione alcunaſarebbe di poter acconciamente indurs re opinione è affettione
con la forza della fuuella . Però auuertiſci, che nel trattamento delle forme
da te ſtesſo potrai intendere qual forma à qual coſaſi confaccia. DIN.
Ricorditi difarmi ogni coſa chiara con glieſſempi, eio mi obligo di leggerli
ſecondola occaſio ne,in qualunque libro di queſti,che tu uorrai. Ma prima
deſidero ſa per alcuna coſa d'intornoal Numero , o numeroſo componimento. ART.
Laſciati à me guidare cheil tutto ſaperai ſecondo il biſogno. Sappi adunque, è
Dinardo , chequalhora alcuno ſi rivolga à conſi= derare il modo, es la ragione
del medicare , che ritrouando alcus na bella coſa nella medicina, uoglia
giudicioſamente applicarla all’are te del dire, non è dubbio, che egli non ſia
per uedere tra la medicina, o l'arte di che ſiragiona,grandiſsima ſimiglianza .
Ecco la medicina cerca di indurre ſanità, oue ella non ė, ò di conſeruarla doue
ella fi truoua.Ilſimile fa queſt'arte ,d'intorno alla buonaopinione , perche
conogni ſtudio s'affitica di metterla ,ò di mantenerla oue ſia biſogno. La
medicina conoſce qual parte del corpo con qualrimedio eſſer debs bia riſanata,
o preferuata,cosi queſt'arte opracon l'anima, e con le partiſue con le formedel
parlare.La medicina quantopiù può fugge la noia chepotrebbe alcuno medicamento
recar'atl'infermo,con mele ò con zucchero, ò con altra coperta mitigando il
peßimoſapore , ego l'odore delle medicine , ne da queſta gentilezza ſi parte la
mia figlis uola, cercandodinon offendere quelſentimento,che prende iſuoi ris
medij ,il qualſentimento é negli orrecchi ripoſto ,per le qualiſotto la ſoauità
delſuono fa trapaſſar’inſino all'anima la opinione , quantun que ſia di coſa
dalla Natura aborrita . Etfinalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune
coſe ui mette , non tanto gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte
apportatrici delle uirtù dell'altre coſe al luogo infermo, il chequãtoſi
conuenga all'artificiofa fauella,non ti posſo in poca hora dichiarare , perche
troppo grande é la forza delſuo nus meroſo componimento ; il quale portando
ſeco ageuolißimamente il ualor delle parole, o delle ſentenze,paſa,e penetra
per ogni parte dell'anima,deſ leroſa di queſta foauicà, e benche gli orecchi
del uolgo neſentano aſſai, non è però da dimandare alcuno Idiota,onde ella
proceda, ò come ſi faccia, perche queſto giudicio è più proprio dell'intelletto
, che delſentimento umano. Giudicando adunque, o conſiderando lo intendente
huomo quale ſia la cagione, che le parole più ad un modo , che ad un'altro
diſposte fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua iltutto eſſere alla Natura,
quanto alſuo principio , conueniente, ma quanto alla perfettione non cosi ;
però che io ne ho grandißima parte.Et perche tuſappia quello che la Nde tura, a
quello che io ti poßiamo prestare,dico ,che la Natura ha posto alls cor nelle
orecchie ilſuo piacere & diletto, uuole chequelle affaticate fi folleuino
con la ſoauità , a dolcezza del dire ; al che fare niuna coſa è più potente nel
uostro ragionare , che'l numero, ola fosnità delle parole. Il qual numero
biſogna, che di ſua uoglia uegna nella oratione, si perchefa oratione, e non
muſica,si perfuggir la fofpitione dello artificio, la quae le con luſingheuole
inganno pare, che uoglia abbagliar l’animo de gli aſcol tanti, operò leua loro
ogni perſuaſione, o fede . Ma quando con ine certo , & non conoſciuto
numero,dolce però , e foaue,ſi compone il parld . -mento, oſi lega inſieme il
faſcio della ſentenza, & del'intendimento,fena za dubbio il tutto con credenza,
o diletto ſi riceue . Fuggafi dunque il ucrſo, « ogni regola continouata del
uerſo ; continouata dico , peroche lo ſteſſo numero più volte replicato
facilmente ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti l'ordinato, « conſueto
ritorno , più alſuono,che alſentia mentoſi diano,coſa aſſai chiara, oatteſa ne
i uerſi,il numero de' quali ufae to ,e conoſciuto,più dall'arte ,che dalla
Natura procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o ſciolta del tutto
non dee restare l'oratione , che oſcura, cu piaccuole ne rimarrebbe,però
numeroſa o compoſta ella fi dis fidera grandemente. Ora da che naſca, o per
qual cagione diuerſamente offer conuenga numeroſa l'oratione, quanto à me
s'appartiene dirò bries uemente,dichiarando prima,che coſa ſia NVMERO, ò
numeroſo come ponimento. DIN. Queſto ordine à meſommamente diletta,però di
cuore ti prie go,che più diſtintamente che puoi,me lo dimostri. A R. La
neceßità uuole, che le parole ſieno pari alla ſentenza ,perche à queſto fine ſi
ragiona,comeſi è detto,accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri di
fuori,doue mancando o accreſcendo parole, o il concetto interno non
ſarebbeeſpreſſo, come nella mente dimora , ò il parlar ſarebbe ociofo ,ò
mancheuole.Maperche la ſentenza nell'anima è finita Otermina ta ,però
debbon’eſſerfinite,os terminate in quantità le parole, che la sentenza
dimostrano. Laqual quantità inſieme ragunata, Giro , o circuito nos mineremo
ilquale altro non ſarà,chepieno operfetto abbracciamento del la ſentenza.
Questo abbracciamento di pari accompagnando la uirtù di ef la
ſentenza,puòhauere una ò piu parti, o maggiori, o minori , ſecondo le parti
della ſentenza;@ ciaſcuna parte é composta di parole, oſi chiama Membro, ó
Nodo; osi come ogni parte del corpo ha il ſuo principio, il ſuofine, e il ſuo
mezo, o il corpomedeſimo e terminato, & finitocosi , le parti dello
abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà finito, otermina to . In tutto queſto
ſpatio adunque,che è tra il principio,il fine di ciaſcu na parte, e tra il
cominciamento, es la chiuſa,che s'è detto chiamarſigia ro,ė forza,che la lingua
alcuna uolta s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo il biſoa gno,oſi muoua più ueloce ,ò
piu tarda ſecondo laqualità del concetto . Et questo ripoſo , oqueſto mouimento
,miſurato col tempo del proferire, para toriſce ilnumero , del qual
ragioniamo,uero figliuolo della compoſitione, o de i termini del parlare,
omoltopiu nel fine,chenel cominciamento e più apparente ne gli eſtremi chenel
mezo.Etperche di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio in quanto al ſentimento
del piacere, o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à ciaſcuno la dilettatione
de' ſenſi, ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca la cagione però ,
hauendoſifin'ora in parte dimoſtra to quello cheall'intelletto s'appartiene,in
parte dico,perciò che l'intelletto in questo caſo molto alle orecchie deferiſce
, odiuerſe maniere hanno dia uerfo numero.Però cominciando a trattare delle
forme del dire daremo a ciaſcheduno il ſuo numeroſo componimento,o con effempi
ancora ritroue remo quello che con ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene
auif di farmicapace di questa magnifica oillus ſtre compoſitione ; però
ſegui,che con maggior deſiderio, cheprima ,fono apparecchiato di
aſcoltarti,perche mi pare ,che ora tu facci di me pruoua marauiglioſa . AR: La
primaformae nominata Chiarezza,laqual naſce da purità, og da eleganza,come s'è
detto. Pero eſſendo ella quaſi un tutto , acciò che meglio ſi manifeſti,ſidirà
delle parti fue,&prima della mondezza opile rità ,poidella ſcelta, o
eleganza. Deefl dunque dare allapurità del dire quelle ſentenze, le qualiſono
di piana intelligenza, & non hanno biſogno di piu conſideratione,come per
lo pia fono,o effer deono le narrationi delle co fe ,come qui. Leggi. DIN.
Tancredi , Principe di Salerno , fu Signore affai umano , di benigno aſpetto. A
R. Eccoti, che ſenza alcuna fatica di diſcorſo ogni mediocre in . gigno gegropuò
capire ilſentimento della ſentenzagià letta, come ancora in questi uerfi.Leggi.
DIN. Io ſon Manfredi , Nipote di Coſtanza Imperatrice. ART. Et molti essempi
ſono della purità nelle nouelle , la ſentenza delle quali per la maggior parte
è molto alla uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che partitamenteſa ciaſcheduna
inſe conſiderata , percio che pua re nonſarebbono, quando adalcun fineſi
riguardaſſe, oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in
questa guifa ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai
umano , per che queſta ſentenza non ſarebbe terminata,o finita,douendo
attendere a quel io, che ſegue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda
enetta . Non aſpetti adunque altro intendimento,chi uuoleſſer puro nella
ſentenza , las quale stando nell'anima,dee cljer con tal'artificio leuata, che
ſolaſi tirifuo riga come di dentro dimostra il concetto ,cosi di fuori fa fatto
paleſe,ſen. za alcun accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però
daquesta formaſia bandita ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di mo
. do,ò d'altro auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella ſentenza :
DIN. La quale percioche egli,sicomei mercatanti fanno, andava molto in
tornoapoco con lei dimoraua,s'inamoród’uno giouane chiama to Roberto. AR. Non
laſcia eſſer pura cotestaſentenza,quel trammezamento ,che dice,percioche
egli,si come i mercatanti fanno,andaua molto intorno , o questo adiuiene,perche
ſospeſoſi tiene l'animo, di chi ode . Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi
eſſere nel tuo dir mondo, &neto; &narra le co Se partitamente come
ſtanno,ma de i raccoglimenti quãti,o quali ſieno, dirà poi.Delle parole
ueramente con le quali ſi dee uestire 'la purità breue ammaeſtramento ſi
daràperche , tutte le parole,piane,facili,ufitate, bricui, O communi
ſonoall'anima della purità molto proportionate , onde le trae portate,le
ſtraniere,le lunghe, & quelle, che la lingua pena à proferire , o
l'intelletto a capirefono dalla purità lontane ,però purisſime ſono queste.
DIN. Cheà me pareuaeßer’in una bella , « diletteuole ſelua ,& in quella
andar cacciando ehauer preſo una cauriola , parcami, che ella fuſſepiu che la
neue bianca,or in brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica , che punto da me
nonſi partiua,tutta uia à meparcua hauerla, si cara , cbe accio che da me non
partiſſe,le mi pareua nella gola hauer meſſo un cola no d'oro,e quella con una
catena d'oro tener con le mani. F 2 ARTE Non è poco hauer giudicio di ritrouar
le parole adognima niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel diſporle,
o colorirle,on de ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la figura
delle parole,al la puritàſottopoſte,é il dritto,ecco. DIN. Nicolò Cornacchini
fu nostro cittadino,o ricco huomo. ARTE Et quiancora DIN. Aſolo adunqueuago , «
piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi gioghi delle nostre Alpiſopra il
Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe della reina di Cipri. ARTE Non
cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato, Dicendo,DiAſolo
,uago &piaceuole caſtello poſſeditrice fu la Reie na di Cipri . Ma puro e
per la figura del dritto, auegna che ſecondo quella : parola puro non ſia ,doue
ſi dice Arneſe,uoce ſtraniera, ancora nello are. tificio non é puro per quello
tramezamento, che dice ( si come ogn’uno dee ſapere) o per quelle circoſtanze
del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda il ſentimentode gli aſcoltanti ,
oui mette le circonſtanze del luogo. DI N. Dunque erra chi uolendo cßer puro
uſa parole non pure , artificio,ò figura d'altra maniera,della oratione ? ÁR:
Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe d'eſſere in ogni parte puro , &netto,
& non uſaſſe quello che ſi conuiene,ma non erra uolendo alla pu rità del
dire porgere «grandezza o dignità.Ma ancora uoglio che ogni maniera ſia in ſe
ſteſſa conſiderata , e però lapurità del dire haurà le. parti ſue distinte,os
ſeparate dalle altre;nė ſolamente il dritto è figura, di questaforma, o
maniera,ma anche ogni altro colore, che ſia contrario als la comprenſione della
quale ſi dirà poi,ora trattiamo delſito, odellacom poſitione delle parole ,
Dico nella purità ,cs mondezza del dire douerſi met : tere le parole inſieme
con quel modo,che piu uicino ſia al fauellare, uſitae coſenza molta
cura,caffettatione ſemplicemente quantoſi può. Et si cos me in ciaſcheduna
parola di queſta forma biſognaua leuar'ogni durczza , Cogni difficultà di
lettere,o di ſillabe,accioche la uoce di ſuono e quale , temperato , « non
impedito ufciſſe fuori,cosi nella compoſitione biſos gna guardare di acconciare
talmente , che pine tosto nate , che fabricate appariſcano,come nello eſempio
già letto del ſogno ſi conoſceud. Conſided ra tu poi la forza, & lofpirito
di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna fillaba , come la natura in tutte ha posto la
ſuapiaceuolezza, durezza, & tifa rai queſto giudice del ſuono delleparole,
della loro diſpoſitione,ucdi che la A ſi forma nella più profonda parte del
petto ,o eſce poifuori con alta uoce,riſonante ,onde lo ſpirito di eſſa
grande,oſonoroffente,odi laſe guente , ch'é ,B. LA B é puraſnella,deſpedita
,come è afpra'la C.quando è fine della fillaba,ISA C, órauca quando è posta
inanzi la A à la V come per lo contrario e di dolce,ſpeſſo , o pieno
ſuono,precedendo alla I. @alla E.co. me qui.Salabetto mio dolce iomi ti
raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer tuo, cosi é ciò che ciė, o cio
che per me ſi può fare al comando tuo . Conſidera poi da te ſteſſo il restante
delle lettere , in che maniera eſſa natura diſua propria qualità ha ciaſcuna
dotata , & uederai onde nde ſce più questa,chequella compoſitione.Le parti,
&le membra , della purie. rità effer deono breui,& ciaſcuna dee
terminar'ilſuo ſentimento,non ritar: dando con lunghezza de' giri, o di
raccoglimenti la intelligenza del poe polo ,come qui, D. Suol’eſſere a'
nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole nembofofpinti
errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana pie tra,ritrouare la
trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non Ria lor tolto il
potere, & uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca ciano,ò almeno doue
più la loro ſaluezza ueggiono , indirizzare. Bifox gna parimente in
minoreſpatio raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt uuole eſſer
puro, ofare in questo modo,benche le parolefieno ale quanto dure.Leggi. DIN.
Chino di Tacco piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le di ſtomaco, « poi
il laſcia,L'abbate ritorna , in corte di Roma,o il rico cilia con Bonifatio
Papa,o fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta
norma oſſeruata,come, qui . Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho da farguerra ,
E temo, eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio . Ilche non quiene in queſta
altra parte. DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono . Perciò che ilſenſo
è troppo ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità
quello chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile parole, alla
figura, alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi tratti del
numero, & del finimento ,cioè della chiuſa,odel ter mine della ſentenza,o delle
parti ſue.Dico adunque , che nello andare , ego nello ſpatio di queſta forma
non ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi ,one i
mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal fine,peròſapendo
quale eßer dee la compoſitione delelc le parole, quale il fineztutto
quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender quellocheſi è detto,
perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito reſta che ſidica del
finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in alcunaparola tronca,oin parola
piena,ſienoque ſte parole ,ò di due,ò di tre,ò di piu ſilabe,o ancora di una.
Le parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe, & uolubili,o ſalde ,oferme,
opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema parola di tutta la chiuſa, ma anco
la uicina, o proſima,però partitamente ſi dirà di ciaſcun finimento al luo go
ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer
dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire cotidiano,fuggirà il fine del le
parole tronche, comeſono quelle andò,corfuftarà,o C.perche le mede. fime dee
nella diſpoſitione fuggire,come ramarico, o render florido. Et A contenterà di
quelfine,cheper lo più la Natura a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con
tanta religioneſifiniſca in parole piene , &perfete te ,fuggendo le
tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta nonſimetta fie nealtrimenti alſuo
parlare,perche quello cheſi dice , ſi dice per la mage gior parte de
ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi adunque odalla diſpoſitione riſorge
quella miſura,che noi numero addimandiamo. Eſſendo adunque lachiuſa ſimile alla
diſpoſitione , «la diſpoſitione non isforzeuole,matemperata,&
naturale,fcguita che il numero dell'uno, o, dell'altro figliuoloſarà , à quelle
fomigliante.Ben'è uero ,che laforza di cia fcuna manierà,e ripoſta piu toſto
nelle altre parti,che nel numero, eccetto, che nella bellezza,douc
l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto piùè ne i uerfi, « nella
poeſia ,che altroue, o questo dico, acciò che fu non metta piu ſtudio ,doue
nonbiſogna riportandoti a gli orecchi,il giudicio delle quali da eſſa natura é
ſommamente aiutato . Ecco adunque, è Dinardo,quanto giouala mondezza , opurità
del dire alla chiarezza ; ma perche questa ſempliceforma non può daſefola si
chiaramente parlae re che non uiſiaqualche impedimento,però biſogna ouunque le
ſia di aiua. to mestieri ,con la eleganza aiutarla, come con maniera chepiù un
modo, che un'altro,piu questo ordineche quello ſecondo il biſogno adoprando
eleg ge et fouegna alla ſemplicepurità del dire ,ilqual'aiuto èpiù presto
nell'ar . tificio, che nelle ſentenze ripoſto. Però che ella ſi sforzafar ogni
ſentenza chiara &aperta,non che le pure già dichiarite di ſopra. Parliamo
adune que della cleganza,o prima dello artificio,colquale ella lcuar fuole ogni
ſentenza nella mente riposta. AR. La cleganza e maniera,cheportachiarezza à
tutte le maniere della oratione , operò non tanto alla purità, douc ella manca
foccorre , quanto à ciaſcaduna forma opra intelligenza, o facilità,daqueſto
nafce , che la eleganza dalla purità del dire in alcuna coſa é
differente.Perciò che la purità da ſe ſteſſa è chiara,oaperta ,ma la eleganza
nella grandezza, e magnificenza del dire ecomeun ſole , che ogni oſcurità , che
per quella poteſſe uenire, leua,o diſgombra,o però in ogniſentenza ella può
molto, si con l'artificio fuo , si co i colori,«le figure.L'artificio adunque
di les uare ogniſentenza dallo intelletto,acciò che ella ſia inteſa , cogni
auuerti. mento innanzi fatto di quello che ft ha da ragionare. Leggi. DIN.
Canterò com’io uißi in libertade Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno s'hebbe
Poiſeguirò si come à luim'increbbe Troppo altamente: AR. ilſimigliante R fa
nella proſa ,comequi. DI N. Mipiace à condiſcendere à conſigli d'huomini, de'
quai dicena do mi conuerràfar due coſe molto a' miei costumi contrarie,l'una
fia alqua to me comendare, &l'altra il biaſimare alquanto altrui, maprioche
dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra non intendo partirmi ilpurfarò. AR. Vedi
quanto gentilmente | sbriga lo intelletto dello aſcoltare con tali
auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai bello artificio , s'intende quela to,che
per chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le quali non ſi in tenderebbe
ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN. Maper trattar del ben, ch'io ui trouai, Diró
de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte. A R. Se il poeta qui non doueſſe dimostrare
le pene de dannati e i tormenti di quegli,che ſono in diſgratia di Dio , non
haurebbepotuto dare ad intendere facilmente il beneche ne riuſci poi,per hauer
lo inferno cers Cato.Ecco qui dalla medeſima neceßità costretto quest'altro
deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta nella egregia Città di Firenze, avvertendo
pri ma chi legge ,in queſto modo. DIN. Mapercioche qualefuße la cagione,perche
le coſe che appref fo Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua ſenza queſta
rammemoratione dimoſtrare ,quafi dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. A
R. Ecco qui ancora un'altra bella preparatione di coſe,fatta per le uare ogni
impedimento,chepoteſſe offendereilrimanente. DIN . Ma io mi ti uoglio unpoco
ſcuſare ,che di que' tempi, che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti uenire,
e non poteſti,alcune ci uenisti, onon fosti cosi lietamente
veduto,comefoleui,& oltre à questo di ciòche io al termine promeſſo,non ti
rendei gli tuoi danari, AR. In fine ogni precedente auifo, & ogni ordine di
coſe, e ſecondo , che elte ſon fatte,narrandole,ė artificio ſcelto , &
elegante ,però tutte le propofitoni de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DIN. Veramente
quant’io del regno fanto Ne la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del
mio canto, AR. E qui ancora DIN. Et canterò di quel ſecondo regno, Que
l'umanoſpirito ſi purga E di ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il simigliante
modo è oſſeruato ne i principij di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai.Suole
ancora la Eleganza porre artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte
partitamentecome qui. Leggi. DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi , che
diranno,ch'io habbia nello ſcriuere queste nouelle troppolicenza uſata. ART.
Eccola dimanda ſeguita la ſolutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche niuna
coſa esi difoneſta, che con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART.
Et cosi di paripaſſo alle obiettioni riſponde, benche altre fide te
inſiemepostohabbia ogni accuſa di ſefatta, opoi s'habbiafcufato , ma quelmodo
non ha dello elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme
allora quando diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni ,
che queſte nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo , eche oneſta
coſa nonė, che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni
han dete to peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando
di uoler dire,hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro
queſte coſe, cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te
neri della miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente,àſtarmi con le
Mufe in Parnaſo,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli
ancora,che più difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to ,cl’io
farei più diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro
a queste fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa
eſſere state le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in detrimento
della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe contra dello
autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è cosi elegante
,comeilprimoartife cio ,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe di eſſer
chiaro, cinteſo, eso auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa doue
dice,roppo alquanto dalle predet te oppoſitioni,perche non di ſubito riſponde ,
ilche ancora é dalia cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti, ch'io uegna à
far la riſpoſta ad alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non una nouella
intera ,ma parte di una. A R. Et ne poeti ancora fi oſferua,ſecondoche meglio
lor ben uiene di fare cosifatti partimenti.Vedi. DIN. Tu argomenti,ſe'lbuon
uoler dura, La uiolenza altrui,per qual cagione Di meritar mi ſcema la miſura?
AR.Queſta éuna propoſta,alla quale ſecondo l'arte della eleganzaſ doueá prinia
riſponderemaſi è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita. DIN. Ancor di dubitar ti
dà cagione Parer tornarſi l'anima àleſtelle Secondo la ſententia di Platone. AR.
Ben che tu ueda qui le propoſte effer'inſieme collocate, non è per ròſenza
cleganza quella parte,per quello cheſegue. DIN. Queſteſon le question,che nel
tuo uelle Pontano egualemente, e però pria Tratterò quella chepiù ba di felle.
ART. In queſto luogo non tanto la eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo
auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire, quanto per la elettione di
riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui ancora un'altro artificio
della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia quello,che ſi è detto, et ſi
dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti luoghiſegnati . DIN. Ma
hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio che mi basti,o à coloro
riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual luogo acciò chemeglio
quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui moſtrerò. AR. Aſaiſi èdetto
fin qui,con che arte la eleganza leuarmare ciaſcheduna delle dette maniere ,
accion che io ueda il fine della deſiderata catena dell'anima delle coſe, e del
parlare. DE Ï Ï Á parlare. AR. Bendi. Dei dunque ſapere che
comenell'Anima,al. tra parte è quella che apprende la ragione,alfra quella ,
che é da gli effetti commoſſi, come dicemmo, o nellaNatura altre ſono le coſe
allo inſegnare altreal muouere appartenenti, cosi alcune formedels la
orationeſaranno, le quali conuerranno alle coſe dello intelletto ,als cune alle
coſe della uoglia , odello appetito , o quando queſto non fuſſe, né uia, nė
ragione alcunaſarebbe di poter acconciamente indurs re opinione è affettione
con la forza della fuuella . Però auuertiſci, che nel trattamento delle forme
da te ſtesſo potrai intendere qual forma à qual coſaſi confaccia. DIN.
Ricorditi difarmi ogni coſa chiara con glieſſempi, eio mi obligo di leggerli
ſecondola occaſio ne,in qualunque libro di queſti,che tu uorrai. Ma prima
deſidero ſa per alcuna coſa d'intornoal Numero , o numeroſo componimento . ART.
Laſciati à me guidare cheil tutto ſaperai ſecondo il biſogno. Sappi adunque, è
Dinardo , chequalhora alcuno ſi rivolga à conſi= derare il modo, es la ragione
del medicare , che ritrouando alcus na bella coſa nella medicina, uoglia
giudicioſamente applicarla all’are te del dire, non è dubbio, che egli non ſia
per uedere tra la medicina, o l'arte di che ſiragiona,grandiſsima ſimiglianza .
Ecco la medicina cerca di indurre ſanità, oue ella non ė, ò di conſeruarla doue
ella fi truoua.Ilſimile fa queſt'arte ,d'intorno alla buonaopinione , perche
conogni ſtudio s'affitica di metterla ,ò di mantenerla oue ſia biſogno. La
medicina conoſce qual parte del corpo con qualrimedio eſſer debs bia riſanata,
o preferuata,cosi queſt'arte opracon l'anima, e con le partiſue con le formedel
parlare.La medicina quantopiù può fugge la noia chepotrebbe alcuno medicamento
recar'atl'infermo,con mele ò con zucchero, ò con altra coperta mitigando il
peßimoſapore , ego l'odore delle medicine , ne da queſta gentilezza ſi parte la
mia figlis uola, cercandodinon offendere quelſentimento,che prende iſuoi ris
medij ,il qualſentimento é negli orrecchi ripoſto ,per le qualiſotto la ſoauità
delſuono fa trapaſſar’inſino all'anima la opinione , quantun que ſia di coſa
dalla Natura aborrita . Etfinalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune
coſe ui mette , non tanto gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte
apportatrici delle uirtù dell'altre coſe al luogo infermo, il chequãtoſi
conuenga all'artificiofa fauella,non ti posſo in poca hora dichiarare , perche
troppo grande é la forza delſuo nus meroſo componimento ; il quale portando
ſeco ageuolißimamente il ualor delle parole, o delle ſentenze,paſa,e penetra
per ogni parte dell'anima,deſ leroſa di queſta foauicà, e benche gli orecchi
del uolgo neſentano aſſai, non è però da dimandare alcuno Idiota,onde ella
proceda, ò come ſi faccia, perche queſto giudicio è più proprio dell'intelletto
, che delſentimento umano. Giudicando adunque, o conſiderando lo intendente
huomo quale ſia la cagione, che le parole più ad un modo , che ad un'altro
diſposte fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua iltutto eſſere alla Natura,
quanto alſuo principio , conueniente, ma quanto alla perfettione non cosi ;
però che io ne ho grandißima parte.Et perche tuſappia quello che la Nde tura, a
quello che io ti poßiamo prestare,dico ,che la Natura ha posto alls cor nelle
orecchie ilſuo piacere & diletto, uuole chequelle affaticate fi folleuino
con la ſoauità , a dolcezza del dire ; al che fare niuna coſa è più potente nel
uostro ragionare , che'l numero, ola fosnità delle parole. Il qual numero
biſogna, che di ſua uoglia uegna nella oratione, si perchefa oratione, e non
muſica,si perfuggir la fofpitione dello artificio, la quae le con luſingheuole
inganno pare, che uoglia abbagliar l’animo de gli aſcol tanti, operò leua loro
ogni perſuaſione, o fede . Ma quando con ine certo , & non conoſciuto
numero,dolce però , e foaue,ſi compone il parlamento, oſi lega inſieme il
faſcio della ſentenza, & del'intendimento,fena za dubbio il tutto con
credenza, o diletto ſi riceue . Fuggafi dunque il ucrſo, « ogni regola
continouata del uerſo ; continouata dico , peroche lo ſteſſo numero più volte
replicato facilmente ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti l'ordinato,
« conſueto ritorno , più alſuono,che alſentia mentoſi diano,coſa aſſai chiara,
oatteſa ne i uerſi,il numero de' quali ufae to ,e conoſciuto,più dall'arte ,che
dalla Natura procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o ſciolta del
tutto non dee restare l'oratione , che oſcura, cu piaccuole ne rimarrebbe,però
numeroſa o compoſta ella fi dis fidera grandemente. Ora da che naſca, o per
qual cagione diuerſamente offer conuenga numeroſa l'oratione, quanto à me
s'appartiene dirò bries uemente,dichiarando prima,che coſa ſia NVMERO, ò
numeroſo come ponimento. DIN. Queſto ordine à meſommamente diletta,però di
cuore ti prie go,che più diſtintamente che puoi,me lo dimostri. A R. La neceßità
uuole, che le parole ſieno pari alla ſentenza ,perche à queſto fine ſi
ragiona,comeſi è detto,accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri di
fuori,doue mancando o accreſcendo parole, o il concetto interno non
ſarebbeeſpreſſo, come nella mente dimora , ò il parlar ſarebbe ociofo ,ò
mancheuole.Maperche la ſentenza nell'anima è finita Otermina ta ,però
debbon’eſſerfinite,os terminate in quantità le parole, che laſenten F DEELLA za
dimostrano. Laqual quantità inſieme ragunata, Giro , o circuito nos mineremo
ilquale altro non ſarà,chepieno operfetto abbracciamento del la ſentenza.
Questo abbracciamento di pari accompagnando la uirtù di ef la
ſentenza,puòhauere una ò piu parti, o maggiori, o minori , ſecondo le parti
della ſentenza;@ ciaſcuna parte é composta di parole, oſi chiama Membro, ó
Nodo; osi come ogni parte del corpo ha il ſuo principio, il ſuofine, e il ſuo
mezo, o il corpomedeſimo e terminato, & finitocosi , le parti dello
abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà finito, otermina to . In tutto queſto
ſpatio adunque,che è tra il principio,il fine di ciaſcu na parte, e tra il
cominciamento, es la chiuſa,che s'è detto chiamarſigia ro,ė forza,che la lingua
alcuna uolta s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo il biſoa gno,oſi muoua più ueloce ,ò
piu tarda ſecondo laqualità del concetto . Et questo ripoſo , oqueſto mouimento
,miſurato col tempo del proferire, para toriſce ilnumero , del qual
ragioniamo,uero figliuolo della compoſitione, o de i termini del parlare,
omoltopiu nel fine,chenel cominciamento e più apparente ne gli eſtremi chenel
mezo.Etperche di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio in quanto al ſentimento
del piacere, o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à ciaſcuno la dilettatione
de' ſenſi, ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca la cagione però , hauendoſifin'ora
in parte dimoſtra to quello cheall'intelletto s'appartiene,in parte dico,perciò
che l'intelletto in questo caſo molto alle orecchie deferiſce , odiuerſe
maniere hanno dia uerfo numero.Però cominciando a trattare delle forme del dire
daremo a ciaſcheduno il ſuo numeroſo componimento,o con effempi ancora ritroue
remo quello che con ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene auif di
farmicapace di questa magnifica oillus ſtre compoſitione ; però ſegui,che con
maggior deſiderio, cheprima ,fono apparecchiato di aſcoltarti,perche mi pare
,che ora tu facci di me pruoua marauiglioſa . AR: La primaformae nominata
Chiarezza,laqual naſce da purità, og da eleganza,come s'è detto. Pero eſſendo
ella quaſi un tutto , acciò che meglio ſi manifeſti,ſidirà delle parti
fue,&prima della mondezza opile rità ,poidella ſcelta, o eleganza. Deefl
dunque dare allapurità del dire quelle ſentenze, le qualiſono di piana
intelligenza, & non hanno biſogno di piu conſideratione,come per lo pia
fono,o effer deono le narrationi delle co fe ,come qui. Leggi. DIN. Tancredi ,
Principe di Salerno , fu Signore affai umano , di benigno aſpetto. AR. Eccoti,
che ſenza alcuna fatica di diſcorſo ogni mediocre in . gigno. gegropuò capire
ilſentimento della ſentenzagià letta, come ancora in questi uerfi. Leggi. DIN.
Io son Manfredi, Nipote di Costanza Imperatrice. ART. Et molti eſſempi ſono
della purità nelle nouelle , la ſentenza delle quali per la maggior parte è
molto alla uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che partitamenteſa ciaſcheduna
inſe conſiderata , percio che pua re nonſarebbono, quando adalcun fineſi
riguardaſſe, oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in
questa guifa ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai
umano , per che queſta ſentenza non ſarebbe terminata,o finita,douendo
attendere a quel io, che ſegue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda
enetta . Non aſpetti adunque altro intendimento,chi uuoleſſer puro nella
ſentenza , las quale stando nell'anima,dee cljer con tal'artificio leuata, che
ſolaſi tirifuo riga come di dentro dimostra il concetto ,cosi di fuori fa fatto
paleſe,ſen. za alcun accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però
daquesta formaſia bandita ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di mo
. do,ò d'altro auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella sentenza: DIN.
La quale percioche egli,sicomei mercatanti fanno, andava molto in tornoapoco
con lei dimoraua,s'inamoród’uno giouane chiama to Roberto. AR. Non laſcia eſſer
pura cotestaſentenza,quel trammezamento ,che dice,percioche egli,si come i
mercatanti fanno,andaua molto intorno , o questo adiuiene,perche ſospeſoſi
tiene l'animo, di chi ode . Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi eſſere nel
tuo dir mondo, &neto; &narra le co Se partitamente come ſtanno,ma de i
raccoglimenti quãti,o quali ſieno, dirà poi.Delle parole ueramente con le quali
ſi dee uestire 'la purità breue ammaeſtramento ſi daràperche , tutte le
parole,piane,facili,ufitate, bricui, O communi ſonoall'anima della purità molto
proportionate , onde le trae portate,le ſtraniere,le lunghe, & quelle, che
la lingua pena à proferire , o l'intelletto a capirefono dalla purità lontane
,però purisſime ſono queste. DIN. Cheà me pareuaeßer’in una bella, diletteuole
ſelua ,& in quella andar cacciando ehauer preſo una cauriola , parcami, che
ella fuſſepiu che la neue bianca,or in brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica
, che punto da me nonſi partiua,tutta uia à meparcua hauerla, si cara , cbe
accio che da me non partiſſe,le mi pareua nella gola hauer meſſo un cola no
d'oro,e quella con una catena d'oro tener con le mani. F 2 AR DEL LOA: ARTE Non
è poco hauer giudicio di ritrouar le parole adognima niera conformii,mamolto
più ſi deue auuertir' nel diſporle, o colorirle,on de ne naſce il deſiderato
aſpetto.Et però ſappi che la figura delle parole,al la puritàſottopoſte,é il
dritto,ecco. DIN. Nicolò Cornacchini fu nostro cittadino,o ricco huomo. ARTE Et
quiancora DIN. Aſolo adunqueuago , « piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi
gioghi delle nostre Alpiſopra il Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe
della reina di Cipri. ARTE Non cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe
comine ciato, Dicendo, DiAſolo ,uago &piaceuole caſtello poſſeditrice fu la
Reie na di Cipri . Ma puro e per la figura del dritto, auegna che ſecondo
quella : parola puro non ſia ,doue ſi dice Arneſe,uoce ſtraniera, ancora nello
are. tificio non é puro per quello tramezamento, che dice ( si come ogn’uno dee
ſapere) o per quelle circoſtanze del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda
il ſentimentode gli aſcoltanti , oui mette le circonſtanze del luogo. DI N.
Dunque erra chi uolendo cßer puro uſa parole non pure , artificio,ò figura
d'altra maniera,della oratione ? ÁR: Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe
d'eſſere in ogni parte puro , &netto, & non uſaſſe quello che ſi
conuiene,ma non erra uolendo alla pu rità del dire porgere «grandezza o
dignità.Ma ancora uoglio che ogni maniera ſia in ſe ſteſſa conſiderata , e però
lapurità del dire haurà le. parti ſue distinte,os ſeparate dalle altre;nė
ſolamente il dritto è figura, di questaforma, o maniera,ma anche ogni altro
colore, che ſia contrario als la comprenſione della quale ſi dirà poi,ora
trattiamo delſito, odellacom poſitione delle parole , Dico nella purità ,cs
mondezza del dire douerſi met : tere le parole inſieme con quel modo,che piu
uicino ſia al fauellare, uſitae coſenza molta cura,caffettatione ſemplicemente
quantoſi può. Et si cos me in ciaſcheduna parola di queſta forma biſognaua
leuar'ogni durczza , Cogni difficultà di lettere,o di ſillabe,accioche la uoce
di ſuono e quale , temperato , « non impedito ufciſſe fuori,cosi nella
compoſitione biſos gna guardare di acconciare talmente , che pine tosto nate ,
che fabricate appariſcano,come nello eſempio già letto del ſogno ſi conoſceud.
Conſided ra tu poi la forza, & lofpirito di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna
fillaba , come la natura in tutte ha posto la ſuapiaceuolezza, durezza, &
tifa rai queſto giudice del ſuono delleparole, della loro diſpoſitione,ucdi che
la A ſi forma nella più profonda parte del petto ,o eſce poifuori con alta
восс, uoce,riſonante ,onde lo ſpirito di eſſa grande,oſonoroffente,odi laſe
guente , ch'é ,B. LA B é puraſnella,deſpedita ,come è afpra'la C.quando è fine
della fillaba,ISA C, órauca quando è posta inanzi la A à la V come per lo
contrario e di dolce,ſpeſſo , o pieno ſuono,precedendo alla I. @alla E.co. me
qui.Salabetto mio dolce iomi ti raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer
tuo, cosi é ciò che ciė, o cio che per me ſi può fare al comando tuo. Conſidera
poi da te ſteſſo il restante delle lettere , in che maniera eſſa natura diſua
propria qualità ha ciaſcuna dotata , & uederai onde nde ſce più
questa,chequella compoſitione.Le parti, &le membra , della purie. rità
effer deono breui,& ciaſcuna dee terminar'ilſuo ſentimento,non ritar: dando
con lunghezza de' giri, o di raccoglimenti la intelligenza del poe polo ,come
qui, D. Suol’essere a' nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole
nembofofpinti errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana pie
tra,ritrouare la trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non Ria
lor tolto il potere, & uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca ciano,ò
almeno doue più la loro ſaluezza ueggiono , indirizzare. Bifox gna parimente in
minoreſpatio raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt uuole eſſer
puro, ofare in questo modo,benche le parolefieno ale quanto dure.Leggi. DIN.
Chino di Tacco piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le di ſtomaco, « poi
il laſcia,L'abbate ritorna , in corte di Roma,o il rico cilia con Bonifatio
Papa,o fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta
norma oſſeruata,come, qui . Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho da farguerra ,
E temo, eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio . Ilche non quiene in queſta
altra parte. DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono . Perciò che ilſenſo
è troppo ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità
quello chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile parole, alla
figura, alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi tratti del
numero, & del finimento ,cioè della chiuſa,odel ter mine della ſentenza,o
delle parti ſue.Dico adunque , che nello andare , ego nello ſpatio di queſta
forma non ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi
,one i mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal
fine,peròſapendo quale eßer dee la compoſitione delelc le parole, quale
il fineztutto quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender
quellocheſi è detto, perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito
reſta che ſidica del finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in
alcunaparola tronca,oin parola piena,ſienoque ſte parole ,ò di due,ò di tre,ò
di piu ſilabe,o ancora di una. Le parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe,
& uolubili,o ſalde ,oferme, opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema
parola di tutta la chiuſa, ma anco la uicina, o proſima,però partitamente ſi
dirà di ciaſcun finimento al luo go ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare
le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire
cotidiano,fuggirà il fine del le parole tronche, comeſono quelle
andò,corfuftarà,o C.perche le mede. fime dee nella diſpoſitione fuggire,come
ramarico, o render florido. Et A contenterà di quelfine,cheper lo più la Natura
a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con tanta religioneſifiniſca in parole
piene , &perfete te ,fuggendo le tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta
nonſimetta fie nealtrimenti alſuo parlare,perche quello cheſi dice , ſi dice
per la mage gior parte de ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi
adunque odalla diſpoſitione riſorge quella miſura,che noi numero addimandiamo.
Eſſendo adunque lachiuſa ſimile alla diſpoſitione , «la diſpoſitione non
isforzeuole,matemperata,& naturale,fcguita che il numero dell'uno, o,
dell'altro figliuoloſarà , à quelle fomigliante.Ben'è uero ,che laforza di cia
fcuna manierà,e ripoſta piu toſto nelle altre parti,che nel numero, eccetto,
che nella bellezza,douc l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto
piùè ne i uerfi, « nella poeſia ,che altroue, o questo dico , acciò che fu non
metta piu ſtudio ,doue nonbiſogna riportandoti a gli orecchi,il giu . dicio
delle quali da eſſa natura é ſommamente aiutato . Ecco adunque, è
Dinardo,quanto giouala mondezza , opurità del dire alla chiarezza ; ma perche
questa ſempliceforma non può daſefola si chiaramente parlae re che non
uiſiaqualche impedimento,però biſogna ouunque le ſia di aiua. to mestieri ,con
la eleganza aiutarla, come con maniera chepiù un modo, che un'altro,piu questo
ordineche quello ſecondo il biſogno adoprando eleg ge et fouegna alla
ſemplicepurità del dire ,ilqual'aiuto èpiù presto nell'ar . tificio, che nelle
ſentenze ripoſto. Però che ella ſi sforzafar ogni ſentenza chiara
&aperta,non che le pure già dichiarite di ſopra. Parliamo adune que della
cleganza,o prima dello artificio,colquale ella lcuar fuole ogni ſentenza nella
mente riposta. AR. La cleganza e maniera,cheportachiarezza à tutte le maniere
della oratione , operò non tanto alla purità, douc ella manca foccorre, quanto
à ciaſcaduna forma opra intelligenza, o facilità,daqueſto nafce , che la
eleganza dalla purità del dire in alcuna coſa é differente.Perciò che la purità
da ſe ſteſſa è chiara,oaperta ,ma la eleganza nella grandezza, e magnificenza
del dire ecomeun ſole , che ogni oſcurità , che per quella poteſſe uenire,
leua,o diſgombra,o però in ogniſentenza ella può molto, si con l'artificio fuo
, si co i colori,«le figure.L'artificio adunque di les uare ogniſentenza dallo
intelletto,acciò che ella ſia inteſa , cogni auuerti. mento innanzi fatto di
quello che ft ha da ragionare. Leggi. DIN. Canterò com’io uißi in libertade
Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno s'hebbe Poiſeguirò si come à luim'increbbe
Troppo altamente: AR. ilſimigliante R fa nella proſa ,comequi. DI N. Mipiace à
condiſcendere à conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi conuerràfar due coſe
molto a' miei costumi contrarie,l'una fia alqua to me comendare, &l'altra
il biaſimare alquanto altrui, maprioche dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra non
intendo partirmi ilpurfarò. AR. Vedi quanto gentilmente | sbriga lo intelletto
dello aſcoltare con tali auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai bello artificio ,
s'intende quela to,che per chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le
quali non ſi in tenderebbe ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN. Maper trattar
del ben ,ch'io ui trouai, Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte. A R. Se il
poeta qui non doueſſe dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegli,che
ſono in diſgratia di Dio , non haurebbepotuto dare ad intendere facilmente il
beneche ne riuſci poi,per hauer lo inferno cers Cato.Ecco qui dalla medeſima
neceßità costretto quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta
nella egregia Città di Firenze ,auuertendo pri ma chi legge ,in queſto modo.
DIN. Mapercioche qualefuße la cagione,perche le coſe che appref fo
Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare
,quafi dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. A R. Ecco qui ancora
un'altra bella preparatione di coſe,fatta per le uare ogni
impedimento,chepoteſſe offendereilrimanente. DIN . Ma io mi ti uoglio unpoco
ſcuſare ,che di que' tempi, che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti uenire,
e non poteſti,alcune ci uenisti, onon fosti cosi lietamente
veduto,comefoleui,& oltre à questo di ciòche io al termine promeſſo,non ti
rendei gli tuoi danari, AR. In fine ogni precedente auifo, & ogni ordine di
coſe, e ſecondo , che elte ſon fatte,narrandole,ė artificio ſcelto , &
elegante ,però tutte le propofitoni de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DIN .
Veramente quant’io del regno fanto Ne la mia mente poteifar teſoro Sarà ora
materia del mio canto, AR. E qui ancora DIN. Et canterò di quel ſecondo regno,
Que l'umanoſpirito ſi purga E di ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il
fimigliante modo è oſſeruato ne i principij di ogni nouelld, come da tefteſſo
uedrai.Suole ancora la Eleganza porre artificioſamente le oppoſitioni con le
riſpoſte partitamentecome qui. Leggi. DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi ,
che diranno,ch'io habbia nello ſcriuere queste nouelle troppolicenza uſata.
ART. Eccola dimanda ſeguita la ſolutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche
niuna coſa esi difoneſta, che con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno.
ART. Et cosi di paripaſſo alle obiettioni riſponde, benche altre fide te
inſiemepostohabbia ogni accuſa di ſefatta, opoi s'habbiafcufato , ma quelmodo
non ha dello elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme
allora quando diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni ,
che queſte nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo , eche oneſta
coſa nonė, che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni
han dete to peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando
di uoler dire,hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro
queſte coſe, cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te
neri della miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente,àſtarmi con le
Mufe in Parnaſo,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli
ancora,che più difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to ,cl’io
farei più diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro
a queste fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa
eſſere state le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in
detrimento della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe
contra dello autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è
cosi elegante ,comeilprimoartife cio ,ben che in tanta confuſione egli
ſtudiaſſe di eſſer chiaro, cinteſo, eso auiſaſje quiſaſſe auanti lo
aſcoltante,come fa doue dice,roppo alquanto dalle predet te oppoſitioni,perche
non di ſubito riſponde , ilche ancora é dalia cleganza lontano. Ma leggi. DIN.
Ma quanti, ch'io uegna à far la riſpoſta ad alcuno,mipiace in fauore di me
raccontare, non una nouella intera ,ma parte di una. A R. Et ne poeti ancora fi
oſferua,ſecondoche meglio lor ben uiene di fare cosifatti partimenti.Vedi. DIN.
Tu argomenti,ſe'lbuon uoler dura, La uiolenza altrui,per qual cagione Di
meritar mi ſcema la miſura ? A R.Queſta éuna propoſta,alla quale ſecondo l'arte
della eleganzaſ doueá prinia riſponderemaſi è poſta ancora la ſeconda,
doueſeguita. DIN. Ancor di dubitar ti dà cagione Parer tornarſi l'anima
àleſtelle Secondo la ſententia di Platone. AR. Ben che tu ueda qui le propoſte
effer'inſieme collocate, non è per ròſenza cleganza quella parte,per quello cheſegue.
DIN. Queſteſon le question,che nel tuo uelle Pontano egualemente, e però pria
Tratterò quella chepiù ba di felle. ART. In queſto luogo non tanto la eleganza
dimoſtra lo artificio fuo per lo auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire,
quanto per la elettione di riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui
ancora un'altro artificio della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia
quello,che ſi è detto, et ſi dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti
luoghiſegnati . DIN. Ma hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio
che mi basti,o à coloro riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual
luogo acciò chemeglio quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui
moſtrerò . AR. Aſaiſi èdetto fin qui,con che arte la eleganza leuarmare
ciaſcheduna delle dette maniere , accion che io ueda il fine della deſiderata
catena dell'anima delle coſe, e del parlare. A R. Bendi. Dei dunque ſapere che
comenell'Anima,al. tra parte è quella che apprende la ragione,alfra quella ,
che é da gli effetti commoſſi, come dicemmo, o nellaNatura altre ſono le coſe
allo inſegnare altreal muouere appartenenti, cosi alcune formedels la
orationeſaranno, le quali conuerranno alle coſe dello intelletto ,als cune alle
coſe della uoglia , odello appetito , o quando queſto non fuſſe, né uia, nė
ragione alcunaſarebbe di poter acconciamente indurs re opinione è affettione
con la forza della fuuella . Però auuertiſci, che nel trattamento delle forme
da te ſtesſo potrai intendere qual forma à qual coſaſi confaccia. DIN.
Ricorditi difarmi ogni coſa chiara con glieſſempi, eio mi obligo di leggerli
ſecondola occaſio ne,in qualunque libro di queſti,che tu uorrai. Ma prima
deſidero ſa per alcuna coſa d'intornoal Numero , o numeroſo componimento . ART.
Laſciati à me guidare cheil tutto ſaperai ſecondo il biſogno. Sappi adunque, è
Dinardo , chequalhora alcuno ſi rivolga à conſi= derare il modo, es la ragione
del medicare , che ritrouando alcus na bella coſa nella medicina, uoglia
giudicioſamente applicarla all’are te del dire, non è dubbio, che egli non ſia
per uedere tra la medicina, o l'arte di che ſiragiona,grandiſsima ſimiglianza .
Ecco la medicina cerca di indurre ſanità, oue ella non ė, ò di conſeruarla doue
ella fi truoua.Ilſimile fa queſt'arte ,d'intorno alla buonaopinione , perche
conogni ſtudio s'affitica di metterla ,ò di mantenerla oue ſia biſogno. La
medicina conoſce qual parte del corpo con qualrimedio eſſer debs bia riſanata,
o preferuata,cosi queſt'arte opracon l'anima, e con le partiſue con le formedel
parlare.La medicina quantopiù può fugge la noia chepotrebbe alcuno medicamento
recar'atl'infermo,con mele ò con zucchero, ò con altra coperta mitigando il
peßimoſapore , ego l'odore delle medicine , ne da queſta gentilezza ſi parte la
mia figlis uola, cercandodinon offendere quelſentimento,che prende iſuoi ris
medij ,il qualſentimento é negli orrecchi ripoſto ,per le qualiſotto la ſoauità
delſuono fa trapaſſar’inſino all'anima la opinione , quantun que ſia di coſa
dalla Natura aborrita . Etfinalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune
coſe ui mette , non tanto gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte
apportatrici delle uirtù dell'altre coſe al luogo infermo, il chequãtoſi
conuenga all'artificiofa fauella,non ti posſo in poca hora dichiarare , perche
troppo grande é la forza delſuo nus meroſo componimento ; il quale portando
ſeco ageuolißimamente il ualor delle parole, o delle ſentenze,paſa,e penetra
per ogni parte dell'anima Ειοο ν Ε Ν Ζ Α. dell'anima,deſ leroſa di queſta
foauicà, e benche gli orecchi del uolgo neſentano aſſai, non è però da
dimandare alcuno Idiota,onde ella proceda, ò come ſi faccia, perche queſto
giudicio è più proprio dell'intelletto , che delſentimento umano. Giudicando
adunque, o conſiderando lo intendente huomo quale ſia la cagione, che le parole
più ad un modo , che ad un'altro diſposte fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua
iltutto eſſere alla Natura, quanto alſuo principio , conueniente, ma quanto
alla perfettione non cosi ; però che io ne ho grandißima parte.Et perche
tuſappia quello che la Nde tura, a quello che io ti poßiamo prestare,dico ,che
la Natura ha posto alls cor nelle orecchie ilſuo piacere & diletto, uuole
chequelle affaticate fi folleuino con la ſoauità , a dolcezza del dire ; al che
fare niuna coſa è più potente nel uostro ragionare , che'l numero, ola fosnità
delle parole. Il qual numero biſogna, che di ſua uoglia uegna nella oratione,
si perchefa oratione, e non muſica,si perfuggir la fofpitione dello artificio,
la quae le con luſingheuole inganno pare, che uoglia abbagliar l’animo de gli
aſcol tanti, operò leua loro ogni perſuaſione, o fede . Ma quando con ine certo
, & non conoſciuto numero,dolce però , e foaue,ſi compone il parld .
-mento, oſi lega inſieme il faſcio della ſentenza, & del'intendimento,fena
za dubbio il tutto con credenza, o diletto ſi riceue . Fuggafi dunque il ucrſo,
« ogni regola continouata del uerſo ; continouata dico , peroche lo ſteſſo
numero più volte replicato facilmente ſiriconoſce, o fache gli os recchi
aſpettanti l'ordinato, « conſueto ritorno , più alſuono,che alſentia mentoſi
diano,coſa aſſai chiara, oatteſa ne i uerſi,il numero de' quali ufae to ,e
conoſciuto,più dall'arte ,che dalla Natura procedente. Ma percheſenza legge di
numero alcuno, o ſciolta del tutto non dee restare l'oratione , che oſcura, cu
piaccuole ne rimarrebbe,però numeroſa o compoſta ella fi dis fidera
grandemente. Ora da che naſca, o per qual cagione diuerſamente offer conuenga
numeroſa l'oratione, quanto à me s'appartiene dirò bries uemente,dichiarando
prima,che coſa ſia NVMERO, ò numeroſo come ponimento. DIN. Queſto ordine à
meſommamente diletta,però di cuore ti prie go,che più diſtintamente che puoi,me
lo dimostri. AR. La neceßità uuole, che le parole ſieno pari alla ſentenza
,perche à queſto fine ſi ragiona,comeſi è detto,accioche quanto habbiamo di
dene troſi dimoſtri di fuori,doue mancando o accreſcendo parole, o il concetto
interno non ſarebbeeſpreſſo, come nella mente dimora, ò il parlar sarebbe
ocioso, ò mancheuole. Maperche la ſentenza nell'anima è finita Otermina ta
,però debbon’eſſerfinite,os terminate in quantità le parole, che laſentenza
dimostrano. Laqual quantità inſieme ragunata, Giro , o circuito nos mineremo
ilquale altro non ſarà,chepieno operfetto abbracciamento del la ſentenza.
Questo abbracciamento di pari accompagnando la uirtù di ef la
ſentenza,puòhauere una ò piu parti, o maggiori, o minori , ſecondo le parti
della ſentenza;@ ciaſcuna parte é composta di parole, oſi chiama Membro, ó
Nodo; osi come ogni parte del corpo ha il ſuo principio, il ſuofine, e il ſuo
mezo, o il corpomedeſimo e terminato, & finitocosi , le parti dello
abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà finito, otermina to . In tutto queſto
ſpatio adunque,che è tra il principio,il fine di ciaſcu na parte, e tra il
cominciamento, es la chiuſa,che s'è detto chiamarſigia ro,ė forza,che la lingua
alcuna uolta s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo il biſoa gno,oſi muoua più ueloce ,ò
piu tarda ſecondo laqualità del concetto . Et questo ripoſo , oqueſto mouimento
,miſurato col tempo del proferire, para toriſce ilnumero , del qual
ragioniamo,uero figliuolo della compoſitione, o de i termini del parlare,
omoltopiu nel fine,chenel cominciamento e più apparente ne gli eſtremi chenel
mezo.Etperche di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio in quanto al ſentimento
del piacere, o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à ciaſcuno la dilettatione
de' ſenſi, ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca la cagione però ,
hauendoſifin'ora in parte dimoſtra to quello cheall'intelletto s'appartiene,in
parte dico,perciò che l'intelletto in questo caſo molto alle orecchie deferiſce
, odiuerſe maniere hanno dia uerfo numero.Però cominciando a trattare delle
forme del dire daremo a ciaſcheduno il ſuo numeroſo componimento,o con effempi
ancora ritroue remo quello che con ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene
auif di farmicapace di questa magnifica oillus ſtre compoſitione ; però
ſegui,che con maggior deſiderio, cheprima ,fono apparecchiato di
aſcoltarti,perche mi pare ,che ora tu facci di me pruoua marauiglioſa . AR: La
primaformae nominata Chiarezza,laqual naſce da purità, og da eleganza,come s'è
detto. Pero eſſendo ella quaſi un tutto , acciò che meglio ſi manifeſti,ſidirà
delle parti fue,&prima della mondezza opile rità ,poidella ſcelta, o
eleganza. Deefl dunque dare allapurità del dire quelle ſentenze, le qualiſono
di piana intelligenza, & non hanno biſogno di piu conſideratione,come per
lo pia fono,o effer deono le narrationi delle co fe ,come qui. Leggi. DIN.
Tancredi , Principe di Salerno, fu Signore affai umano , di benigno aſpetto. AR.
Eccoti, che ſenza alcuna fatica di diſcorſo ogni mediocre in . gigno gegropuò
capire ilſentimento della ſentenzagià letta, come ancora in questi uerfi.Leggi.
DIN. Io ſon Manfredi , Nipote di Coſtanza Imperatrice. ART. Et molti eſſempi
ſono della purità nelle nouelle , la ſentenza delle quali per la maggior parte
è molto alla uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che partitamenteſa ciaſcheduna
inſe conſiderata , percio che pua re nonſarebbono, quando adalcun fineſi
riguardaſſe, oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in
questa guifa ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai
umano , per che queſta ſentenza non ſarebbe terminata,o finita,douendo
attendere a quel io, che ſegue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda
enetta . Non aſpetti adunque altro intendimento,chi uuoleſſer puro nella
ſentenza , las quale stando nell'anima,dee cljer con tal'artificio leuata, che
ſolaſi tirifuo riga come di dentro dimostra il concetto ,cosi di fuori fa fatto
paleſe,ſen. za alcun accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però
daquesta formaſia bandita ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di mo
. do,ò d'altro auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella ſentenza :
DIN. La quale percioche egli,sicomei mercatanti fanno, andava molto in
tornoapoco con lei dimoraua,s'inamoród’uno giouane chiama to Roberto. AR. Non
laſcia eſſer pura cotestaſentenza,quel trammezamento ,che dice,percioche
egli,si come i mercatanti fanno,andaua molto intorno , o questo adiuiene,perche
ſospeſoſi tiene l'animo, di chi ode . Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi
eſſere nel tuo dir mondo, &neto; &narra le co Se partitamente come
ſtanno,ma de i raccoglimenti quãti,o quali ſieno, dirà poi.Delle parole
ueramente con le quali ſi dee uestire 'la purità breue ammaeſtramento ſi
daràperche , tutte le parole,piane,facili,ufitate, bricui, O communi
ſonoall'anima della purità molto proportionate , onde le trae portate,le
ſtraniere,le lunghe, & quelle, che la lingua pena à proferire , o l'intelletto
a capirefono dalla purità lontane ,però purisſime ſono queste. DIN. Cheà me
pareva eßer’in una bella, diletteuole ſelua ,& in quella andar cacciando
ehauer preſo una cauriola , parcami, che ella fuſſepiu che la neue bianca,or in
brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica , che punto da me nonſi partiua,tutta
uia à meparcua hauerla, si cara , cbe accio che da me non partiſſe,le mi pareua
nella gola hauer meſſo un cola no d'oro,e quella con una catena d'oro tener con
le mani. F 2 ARTE Non è poco hauer giudicio di ritrouar le parole adognima
niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel diſporle, o colorirle,on de
ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la figura delle parole,al la
puritàſottopoſte,é il dritto,ecco. DIN. Nicolò Cornacchini fu nostro
cittadino,o ricco huomo. ARTE Et quiancora DIN. A solo adunqueuago , «
piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi gioghi delle nostre Alpiſopra il
Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe della reina di Cipri. ARTE Non
cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato, Dicendo,DiAſolo
,uago &piaceuole caſtello poſſeditrice fu la Reie na di Cipri. Ma puro e
per la figura del dritto, auegna che ſecondo quella : parola puro non ſia ,doue
ſi dice Arneſe,uoce ſtraniera, ancora nello are. tificio non é puro per quello
tramezamento, che dice ( si come ogn’uno dee ſapere) o per quelle circoſtanze
del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda il ſentimentode gli aſcoltanti ,
oui mette le circonſtanze del luogo. DI N. Dunque erra chi uolendo cßer puro
uſa parole non pure , artificio,ò figura d'altra maniera,della oratione ? ÁR:
Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe d'eſſere in ogni parte puro , &netto,
& non uſaſſe quello che ſi conuiene,ma non erra uolendo alla pu rità del
dire porgere «grandezza o dignità.Ma ancora uoglio che ogni maniera ſia in ſe
ſteſſa conſiderata , e però lapurità del dire haurà le. parti ſue distinte,os
ſeparate dalle altre;nė ſolamente il dritto è figura, di questaforma, o
maniera,ma anche ogni altro colore, che ſia contrario als la comprenſione della
quale ſi dirà poi,ora trattiamo delſito, odellacom poſitione delle parole ,
Dico nella purità ,cs mondezza del dire douerſi met : tere le parole inſieme
con quel modo,che piu uicino ſia al fauellare, uſitae coſenza molta cura,caffettatione
ſemplicemente quantoſi può. Et si cos me in ciaſcheduna parola di queſta forma
biſognaua leuar'ogni durczza , Cogni difficultà di lettere,o di
ſillabe,accioche la uoce di ſuono e quale , temperato , « non impedito ufciſſe
fuori,cosi nella compoſitione biſos gna guardare di acconciare talmente , che
pine tosto nate , che fabricate appariſcano,come nello eſempio già letto del
ſogno ſi conoſceud. Conſided ra tu poi la forza, & lofpirito di ciaſcuna
lettera, e di ciaſcuna fillaba , come la natura in tutte ha posto la
ſuapiaceuolezza, durezza, & tifa rai queſto giudice del ſuono delleparole,
della loro diſpoſitione,ucdi che la A ſi forma nella più profonda parte del
petto ,o eſce poifuori con alta восс, uoce,riſonante ,onde lo ſpirito di
eſſa grande,oſonoroffente,odi laſe guente , ch'é ,B. LA B é
puraſnella,deſpedita ,come è afpra'la C.quando è fine della fillaba,ISA C,
órauca quando è posta inanzi la A à la V come per lo contrario e di
dolce,ſpeſſo , o pieno ſuono,precedendo alla I. @alla E.co. me qui.Salabetto
mio dolce iomi ti raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer tuo, cosi é
ciò che ciė, o cio che per me ſi può fare al comando tuo . Conſidera poi da te
ſteſſo il restante delle lettere , in che maniera eſſa natura diſua propria
qualità ha ciaſcuna dotata , & uederai onde nde ſce più questa,chequella
compoſitione.Le parti, &le membra , della purie. rità effer deono
breui,& ciaſcuna dee terminar'ilſuo ſentimento,non ritar: dando con
lunghezza de' giri, o di raccoglimenti la intelligenza del poe polo ,come qui,
D. Suol’eſſere a' nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole nembofofpinti
errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana pie tra,ritrouare la
trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non Ria lor tolto il
potere, & uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca ciano,ò almeno doue
più la loro ſaluezza ueggiono , indirizzare. Bifox gna parimente in
minoreſpatio raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt uuole eſſer
puro, ofare in questo modo,benche le parolefieno ale quanto dure.Leggi. DIN.
Chino di Tacco piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le di ſtomaco, « poi
il laſcia,L'abbate ritorna , in corte di Roma,o il rico cilia con Bonifatio
Papa,o fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta
norma oſſeruata,come, qui . Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho da farguerra ,
E temo, eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio . Ilche non quiene in queſta
altra parte. DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono . Perciò che ilſenſo
è troppo ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità
quello chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile parole, alla
figura, alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi tratti del
numero, & del finimento ,cioè della chiuſa,odel ter mine della ſentenza,o
delle parti ſue.Dico adunque , che nello andare , ego nello ſpatio di queſta
forma non ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi
,one i mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal fine,peròſapendo
quale eßer dee la compoſitione delelc le parole, quale il fineztutto
quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender quellocheſi è detto,
perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito reſta che ſidica del
finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in alcunaparola tronca,oin parola
piena,ſienoque ſte parole ,ò di due,ò di tre,ò di piu ſilabe,o ancora di una.
Le parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe, & uolubili,o ſalde ,oferme,
opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema parola di tutta la chiuſa, ma anco
la uicina, o proſima,però partitamente ſi dirà di ciaſcun finimento al luo go
ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer
dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire cotidiano,fuggirà il fine del le
parole tronche, comeſono quelle andò,corfuftarà, o C.perche le mede. fime dee
nella diſpoſitione fuggire,come ramarico, o render florido. Et A contenterà di
quelfine,cheper lo più la Natura a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con
tanta religioneſifiniſca in parole piene , &perfete te ,fuggendo le
tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta nonſimetta fie nealtrimenti alſuo
parlare,perche quello cheſi dice , ſi dice per la mage gior parte de
ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi adunque odalla diſpoſitione
riſorge quella miſura,che noi numero addimandiamo. Eſſendo adunque lachiuſa
ſimile alla diſpoſitione , «la diſpoſitione non isforzeuole,matemperata,&
naturale,fcguita che il numero dell'uno, o, dell'altro figliuoloſarà , à quelle
fomigliante.Ben'è uero ,che laforza di cia fcuna manierà,e ripoſta piu toſto
nelle altre parti,che nel numero, eccetto, che nella bellezza,douc
l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto piùè ne i uerfi, « nella
poeſia ,che altroue, o questo dico , acciò che fu non metta piu ſtudio ,doue
nonbiſogna riportandoti a gli orecchi,il giu . dicio delle quali da eſſa natura
é ſommamente aiutato . Ecco adunque, è Dinardo,quanto giouala mondezza ,
opurità del dire alla chiarezza ; ma perche questa ſempliceforma non può
daſefola si chiaramente parlae re che non uiſiaqualche impedimento,però biſogna
ouunque le ſia di aiua. to mestieri ,con la eleganza aiutarla, come con maniera
chepiù un modo, che un'altro,piu questo ordineche quello ſecondo il biſogno
adoprando eleg ge et fouegna alla ſemplicepurità del dire ,ilqual'aiuto èpiù
presto nell'ar . tificio, che nelle ſentenze ripoſto. Però che ella ſi
sforzafar ogni ſentenza chiara &aperta,non che le pure già dichiarite di
ſopra. Parliamo adune que della cleganza,o prima dello artificio,colquale ella
lcuar fuole ogni ſentenza nella mente riposta. AR. La cleganza e
maniera,cheportachiarezza à tutte le maniere della oratione , operò non tanto
alla purità, douc ella manca foccorre, quanto à ciaſcaduna forma opra intelligenza,
o facilità,daqueſto nafce , che la eleganza dalla purità del dire in alcuna
coſa é differente.Perciò che la purità da ſe ſteſſa è chiara,oaperta ,ma la
eleganza nella grandezza, e magnificenza del dire ecomeun ſole , che ogni
oſcurità , che per quella poteſſe uenire, leua,o diſgombra,o però in
ogniſentenza ella può molto, si con l'artificio fuo , si co i colori,«le
figure.L'artificio adunque di les uare ogniſentenza dallo intelletto,acciò che
ella ſia inteſa , cogni auuerti. mento innanzi fatto di quello che ft ha da
ragionare. Leggi. DIN. Canterò com’io uißi in libertade Mentre Amor nel mio
albergo à ſdegno s'hebbe Poiſeguirò si come à luim'increbbe Troppo altamente:
AR. ilſimigliante R fa nella proſa ,comequi. DIN. Mipiace à condiſcendere à
conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi conuerràfar due coſe molto a' miei
costumi contrarie,l'una fia alqua to me comendare, &l'altra il biaſimare
alquanto altrui, maprioche dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra non intendo
partirmi ilpurfarò. AR. Vedi quanto gentilmente | sbriga lo intelletto dello
aſcoltare con tali auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai bello artificio ,
s'intende quela to,che per chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le
quali non ſi in tenderebbe ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN. Maper trattar
del ben ,ch'io ui trouai, Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte. A R. Se il
poeta qui non doueſſe dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegli,che
ſono in diſgratia di Dio , non haurebbepotuto dare ad intendere facilmente il
beneche ne riuſci poi,per hauer lo inferno cers Cato.Ecco qui dalla medeſima
neceßità costretto quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta
nella egregia Città di Firenze ,auuertendo pri ma chi legge ,in queſto modo.
DIN. Mapercioche qualefuße la cagione,perche le coſe che appref fo
Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare
,quafi dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. AR. Ecco qui ancora un'altra
bella preparatione di coſe,fatta per le uare ogni impedimento,chepoteſſe offendereilrimanente.
DIN . Ma io mi ti uoglio unpoco ſcuſare ,che di que' tempi, che tu te n'andaſti
alcuneuolte ci uoleſti uenire, e non poteſti,alcune ci uenisti, onon fosti cosi
lietamente veduto,comefoleui,& oltre à questo di ciòche io al termine promeſſo,non
ti rendei gli tuoi danari. AR. In fine ogni precedente auifo, & ogni ordine
di coſe, e ſecondo , che elte ſon fatte,narrandole,ė artificio ſcelto , &
elegante ,però tutte le propofitoni de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DIN. Veramente
quant’io del regno fanto Ne la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del
mio canto, AR. E qui ancora DIN. Et canterò di quel ſecondo regno, Que
l'umanoſpirito ſi purga E di ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il fimigliante
modo è oſſeruato ne i principij di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai.Suole
ancora la Eleganza porre artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte
partitamentecome qui. Leggi. DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi , che
diranno,ch'io habbia nello ſcriuere queste nouelle troppolicenza uſata. ART.
Eccola dimanda ſeguita la ſolutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche niuna
coſa esi difoneſta, che con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART.
Et cosi di paripaſſo alle obiettioni riſponde, benche altre fide te
inſiemepostohabbia ogni accuſa di ſefatta, opoi s'habbiafcufato , ma quelmodo
non ha dello elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme
allora quando diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni ,
che queſte nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo , eche oneſta
coſa nonė, che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni
han dete to peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando
di uoler dire,hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro
queſte coſe, cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te
neri della miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente,àſtarmi con le
Mufe in Parnaſo,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli
ancora,che più difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to ,cl’io
farei più diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro
a queste fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa
eſſere state le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in
detrimento della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe
contra dello autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è
cosi elegante ,comeilprimoartife cio ,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe
di eſſer chiaro, cinteſo, eso auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa
doue dice,roppo alquanto dalle predet te oppoſitioni,perche non di ſubito
riſponde , ilche ancora é dalia cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti,
ch'io uegna à far la riſpoſta ad alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non
una nouella intera ,ma parte di una. A R. Et ne poeti ancora fi
oſferua,ſecondoche meglio lor ben uiene di fare cosifatti partimenti.Vedi. DIN.
Tu argomenti,ſe'lbuon uoler dura, La uiolenza altrui,per qual cagione Di
meritar mi ſcema la miſura ? A R.Queſta éuna propoſta,alla quale ſecondo l'arte
della eleganzaſ doueá prinia riſponderemaſi è poſta ancora la ſeconda,
doueſeguita. DIN. Ancor di dubitar ti dà cagione Parer tornarſi l'anima
àleſtelle Secondo la ſententia di Platone. A R. Ben che tu ueda qui le propoſte
effer'inſieme collocate, non è per ròſenza cleganza quella parte,per quello
cheſegue. DIN. Queſteſon le question,che nel tuo uelle Pontano egualemente, e
però pria Tratterò quella chepiù ba di felle. ART. In queſto luogo non tanto la
eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo auuertimentofatto di quelloche ſi dee
dire, quanto per la elettione di riſpondere prima ad una domanda,che ad
un'altra.Euui ancora un'altro artificio della ſceltezza,ilqualeè quando ſi
ripiglia quello,che ſi è detto, et ſi dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in
queſti luoghiſegnati . DIN. Ma hauereinſino à qui detto della preſente nouella,
uoglio che mi basti,o à coloro riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual
luogo acciò chemeglio quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui
moſtrerò . AR. Aſaiſi èdetto fin qui,con che arte la eleganza leuarmare
ciaſcheduna delle dette maniere , accion che io ueda il fine della deſiderata
catena dell'anima delle coſe, e del parlare. 40 DE Ï Ï Á parlare. A R. Bendi.
Dei dunque ſapere che comenell'Anima,al. tra parte è quella che apprende la
ragione,alfra quella , che é da gli effetti commoſſi, come dicemmo, o
nellaNatura altre ſono le coſe allo inſegnare altreal muouere appartenenti,
cosi alcune formedels la orationeſaranno, le quali conuerranno alle coſe dello
intelletto ,als cune alle coſe della uoglia , odello appetito , o quando queſto
non fuſſe, né uia, nė ragione alcunaſarebbe di poter acconciamente indurs re opinione
è affettione con la forza della fuuella . Però auuertiſci, che nel trattamento
delle forme da te ſtesſo potrai intendere qual forma à qual coſaſi confaccia.
DIN. Ricorditi difarmi ogni coſa chiara con glieſſempi, eio mi obligo di
leggerli ſecondola occaſio ne,in qualunque libro di queſti,che tu uorrai. Ma
prima deſidero ſa per alcuna coſa d'intornoal Numero , o numeroſo componimento.
ART. Laſciati à me guidare cheil tutto ſaperai ſecondo il biſogno. Sappi
adunque, è Dinardo , chequalhora alcuno ſi rivolga à conſi= derare il modo, es
la ragione del medicare , che ritrouando alcus na bella coſa nella medicina,
uoglia giudicioſamente applicarla all’are te del dire, non è dubbio, che egli
non ſia per uedere tra la medicina, o l'arte di che ſiragiona,grandiſsima
ſimiglianza . Ecco la medicina cerca di indurre ſanità, oue ella non ė, ò di
conſeruarla doue ella fi truoua.Ilſimile fa queſt'arte ,d'intorno alla
buonaopinione , perche conogni ſtudio s'affitica di metterla ,ò di mantenerla
oue ſia biſogno. La medicina conoſce qual parte del corpo con qualrimedio eſſer
debs bia riſanata, o preferuata,cosi queſt'arte opracon l'anima, e con le
partiſue con le formedel parlare.La medicina quantopiù può fugge la noia
chepotrebbe alcuno medicamento recar'atl'infermo,con mele ò con zucchero, ò con
altra coperta mitigando il peßimoſapore , ego l'odore delle medicine , ne da
queſta gentilezza ſi parte la mia figlis uola, cercandodinon offendere
quelſentimento,che prende iſuoi ris medij ,il qualſentimento é negli orrecchi
ripoſto ,per le qualiſotto la ſoauità delſuono fa trapaſſar’inſino all'anima la
opinione , quantun que ſia di coſa dalla Natura aborrita . Etfinalmente la
medicina nelle ſue compoſitioni alcune coſe ui mette , non tanto gioueuoli alle
parti offeſe, quanto preſte apportatrici delle uirtù dell'altre coſe al luogo
infermo, il chequãtoſi conuenga all'artificiofa fauella,non ti posſo in poca
hora dichiarare , perche troppo grande é la forza delſuo nus meroſo
componimento ; il quale portando ſeco ageuolißimamente il ualor delle parole, o
delle ſentenze,paſa,e penetra per ogni parte dell'anima,deſ leroſa di queſta
foauicà, e benche gli orecchi del uolgo neſentano aſſai, non è però da
dimandare alcuno Idiota,onde ella proceda, ò come ſi faccia, perche queſto
giudicio è più proprio dell'intelletto , che delſentimento umano. Giudicando
adunque, o conſiderando lo intendente huomo quale ſia la cagione, che le parole
più ad un modo , che ad un'altro diſposte fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua
iltutto eſſere alla Natura, quanto alſuo principio , conueniente, ma quanto
alla perfettione non cosi ; però che io ne ho grandißima parte.Et perche
tuſappia quello che la Nde tura, a quello che io ti poßiamo prestare,dico ,che
la Natura ha posto alls cor nelle orecchie ilſuo piacere & diletto, vuole
chequelle affaticate fi folleuino con la ſoauità , a dolcezza del dire ; al che
fare niuna coſa è più potente nel uostro ragionare , che'l numero, ola fosnità
delle parole. Il qual numero biſogna, che di ſua uoglia uegna nella oratione,
si perchefa oratione, e non muſica,si perfuggir la fofpitione dello artificio,
la quae le con luſingheuole inganno pare, che uoglia abbagliar l’animo de gli
aſcol tanti, operò leua loro ogni perſuaſione, o fede . Ma quando con ine certo
, & non conoſciuto numero,dolce però , e foaue,ſi compone il parld .
-mento, oſi lega inſieme il faſcio della ſentenza, & dell’intendimento, fena
za dubbio il tutto con credenza, o diletto ſi riceue . Fuggafi dunque il ucrſo,
« ogni regola continouata del uerſo ; continouata dico , peroche lo ſteſſo
numero più volte replicato facilmente ſiriconoſce, o fache gli os recchi
aſpettanti l'ordinato, « conſueto ritorno , più alſuono,che alſentia mentoſi
diano,coſa aſſai chiara, oatteſa ne i uerſi,il numero de' quali ufae to ,e
conoſciuto,più dall'arte ,che dalla Natura procedente. Ma percheſenza legge di
numero alcuno, o ſciolta del tutto non dee restare l'oratione , che oſcura, cu
piaccuole ne rimarrebbe,però numeroſa o compoſta ella fi dis fidera
grandemente. Ora da che naſca, o per qual cagione diuerſamente offer conuenga
numeroſa l'oratione, quanto à me s'appartiene dirò bries uemente,dichiarando
prima,che coſa ſia NVMERO, ò numeroſo come ponimento. DIN. Queſto ordine à
meſommamente diletta,però di cuore ti prie go,che più diſtintamente che puoi,me
lo dimostri. A R. La neceßità uuole, che le parole ſieno pari alla ſentenza
,perche à queſto fine ſi ragiona,comeſi è detto,accioche quanto habbiamo di
dene troſi dimoſtri di fuori,doue mancando o accreſcendo parole, o il concetto
interno non ſarebbeeſpreſſo, come nella mente dimora , ò il parlar ſarebbe
ociofo ,ò mancheuole.Maperche la ſentenza nell'anima è finita Otermina ta ,però
debbon’eſſerfinite,os terminate in quantità le parole, che la sentenza
dimostrano. Laqual quantità inſieme ragunata, Giro , o circuito nos mineremo
ilquale altro non ſarà,chepieno operfetto abbracciamento del la ſentenza.
Questo abbracciamento di pari accompagnando la uirtù di ef la
ſentenza,puòhauere una ò piu parti, o maggiori, o minori , ſecondo le parti
della ſentenza;@ ciaſcuna parte é composta di parole, oſi chiama Membro, ó
Nodo; osi come ogni parte del corpo ha il ſuo principio, il ſuofine, e il ſuo
mezo, o il corpomedeſimo e terminato, & finitocosi , le parti dello
abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà finito, otermina to . In tutto queſto
ſpatio adunque,che è tra il principio,il fine di ciaſcu na parte, e tra il
cominciamento, es la chiuſa,che s'è detto chiamarſigia ro,ė forza,che la lingua
alcuna uolta s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo il biſoa gno,oſi muoua più ueloce ,ò
piu tarda ſecondo laqualità del concetto . Et questo ripoſo , oqueſto mouimento
,miſurato col tempo del proferire, para toriſce ilnumero , del qual
ragioniamo,uero figliuolo della compoſitione, o de i termini del parlare,
omoltopiu nel fine,chenel cominciamento e più apparente ne gli eſtremi chenel
mezo.Etperche di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio in quanto al ſentimento
del piacere, o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à ciaſcuno la dilettatione
de' ſenſi, ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca la cagione però ,
hauendoſifin'ora in parte dimoſtra to quello cheall'intelletto s'appartiene,in
parte dico,perciò che l'intelletto in questo caſo molto alle orecchie deferiſce
, odiuerſe maniere hanno dia uerfo numero.Però cominciando a trattare delle
forme del dire daremo a ciaſcheduno il ſuo numeroſo componimento,o con effempi
ancora ritroue remo quello che con ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene
auif di farmicapace di questa magnifica oillus ſtre compoſitione ; però
ſegui,che con maggior deſiderio, cheprima ,fono apparecchiato di
aſcoltarti,perche mi pare ,che ora tu facci di me pruoua marauiglioſa . AR: La
primaformae nominata Chiarezza,laqual naſce da purità, og da eleganza,come s'è
detto. Pero eſſendo ella quaſi un tutto , acciò che meglio ſi manifeſti,ſidirà
delle parti fue,&prima della mondezza opile rità ,poidella ſcelta, o
eleganza. Deefl dunque dare allapurità del dire quelle ſentenze, le qualiſono
di piana intelligenza, & non hanno biſogno di piu conſideratione,come per
lo pia fono,o effer deono le narrationi delle co fe ,come qui. Leggi. DIN.
Tancredi , Principe di Salerno , fu Signore affai umano , di benigno aſpetto. A
R. Eccoti, che ſenza alcuna fatica di diſcorſo ogni mediocre in . gigno
gegropuò capire ilſentimento della ſentenzagià letta, come ancora in questi
uerfi.Leggi. DIN. Io ſon Manfredi , Nipote di Coſtanza Imperatrice. ART. Et
molti eſſempi ſono della purità nelle nouelle , la ſentenza delle quali per la
maggior parte è molto alla uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che
partitamenteſa ciaſcheduna inſe conſiderata , percio che pua re nonſarebbono,
quando adalcun fineſi riguardaſſe, oueroaltro attendes fero per fornir'il
ſentimento loro, comeſe in questa guifa ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe
di Salerno Signore aſſai umano , per che queſta ſentenza non ſarebbe
terminata,o finita,douendo attendere a quel io, che ſegue, o però più preſto
oſcura ſarebbe chemonda enetta . Non aſpetti adunque altro intendimento,chi
uuoleſſer puro nella ſentenza , las quale stando nell'anima,dee cljer con
tal'artificio leuata, che ſolaſi tirifuo riga come di dentro dimostra il
concetto ,cosi di fuori fa fatto paleſe,ſen. za alcun accidente che quella
accompagni,o conſegua. Et però daquesta formaſia bandita ogni circoſtanza di
tempo diluogo, di perſona,o di mo . do,ò d'altro auenimento.Vedi questa parte
quanto, é pura nella ſentenza : DIN. La quale percioche egli,sicomei mercatanti
fanno, andava molto in tornoapoco con lei dimoraua,s'inamoród’uno giouane
chiama to Roberto. AR. Non laſcia eſſer pura cotestaſentenza,quel trammezamento
,che dice,percioche egli,si come i mercatanti fanno,andaua molto intorno , o
questo adiuiene,perche ſospeſoſi tiene l'animo, di chi ode . Fuggi adunque ogni
raccoglimento ſe uuoi eſſere nel tuo dir mondo, &neto; &narra le co Se
partitamente come ſtanno,ma de i raccoglimenti quãti,o quali ſieno, dirà
poi.Delle parole ueramente con le quali ſi dee uestire 'la purità breue
ammaeſtramento ſi daràperche , tutte le parole,piane,facili,ufitate, bricui, O
communi ſonoall'anima della purità molto proportionate , onde le trae
portate,le ſtraniere,le lunghe, & quelle, che la lingua pena à proferire ,
o l'intelletto a capirefono dalla purità lontane ,però purisſime ſono queste.
DIN. Cheà me pareuaeßer’in una bella, diletteuole ſelua ,& in quella andar
cacciando ehauer preſo una cauriola , parcami, che ella fuſſepiu che la neue
bianca,or in brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica , che punto da me nonſi
partiua,tutta uia à meparcua hauerla, si cara , cbe accio che da me non partiſſe,le
mi pareua nella gola hauer meſſo un cola no d'oro,e quella con una catena d'oro
tener con le mani. F 2 AR ARTE Non è poco hauer giudicio di ritrouar le parole
adognima niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel diſporle, o
colorirle,on de ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la figura
delle parole,al la puritàſottopoſte,é il dritto,ecco. DIN. Nicolò Cornacchini
fu nostro cittadino,o ricco huomo. ARTE Et quiancora DIN. Aſolo adunqueuago , «
piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi gioghi delle nostre Alpiſopra il
Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe della reina di Cipri. ARTE Non
cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato, Dicendo,DiAſolo
,uago &piaceuole caſtello poſſeditrice fu la Reie na di Cipri . Ma puro e
per la figura del dritto, auegna che ſecondo quella : parola puro non ſia, doue
ſi dice Arneſe,uoce straniera, ancora nello are. tificio non é puro per quello
tramezamento, che dice ( si come ogn’uno dee ſapere) o per quelle circoſtanze
del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda il ſentimentode gli aſcoltanti ,
oui mette le circonſtanze del luogo. DI N. Dunque erra chi uolendo cßer puro
uſa parole non pure , artificio,ò figura d'altra maniera,della oratione ? ÁR:
Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe d'eſſere in ogni parte puro , &netto,
& non uſaſſe quello che ſi conuiene,ma non erra uolendo alla pu rità del
dire porgere «grandezza o dignità.Ma ancora uoglio che ogni maniera ſia in ſe
ſteſſa conſiderata , e però lapurità del dire haurà le. parti ſue distinte,os
ſeparate dalle altre;nė ſolamente il dritto è figura, di questaforma, o
maniera,ma anche ogni altro colore, che ſia contrario als la comprenſione della
quale ſi dirà poi,ora trattiamo delſito, odellacom poſitione delle parole ,
Dico nella purità ,cs mondezza del dire douerſi met : tere le parole inſieme
con quel modo,che piu uicino ſia al fauellare, uſitae coſenza molta
cura,caffettatione ſemplicemente quantoſi può. Et si cos me in ciaſcheduna
parola di queſta forma biſognaua leuar'ogni durczza , Cogni difficultà di
lettere,o di ſillabe,accioche la uoce di ſuono e quale , temperato , « non
impedito ufciſſe fuori,cosi nella compoſitione biſos gna guardare di acconciare
talmente , che pine tosto nate , che fabricate appariſcano,come nello eſempio
già letto del ſogno ſi conoſceud. Conſided ra tu poi la forza, & lofpirito
di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna fillaba , come la natura in tutte ha posto
la ſuapiaceuolezza, durezza, & tifa rai queſto giudice del ſuono
delleparole, della loro diſpoſitione,ucdi che la A ſi forma nella più profonda
parte del petto ,o eſce poifuori con alta voce,riſonante ,onde lo ſpirito di
essa grande,oſonoroffente,odi laſe guente , ch'é ,B. LA B é
puraſnella,deſpedita ,come è afpra'la C.quando è fine della fillaba,ISA C, órauca
quando è posta inanzi la A à la V come per lo contrario e di dolce,ſpeſſo , o
pieno ſuono,precedendo alla I. @alla E.co. me qui.Salabetto mio dolce iomi ti
raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer tuo, cosi é ciò che ciė, o cio
che per me ſi può fare al comando tuo . Conſidera poi da te ſteſſo il restante
delle lettere , in che maniera eſſa natura diſua propria qualità ha ciaſcuna
dotata , & uederai onde nde ſce più questa,chequella compoſitione.Le parti,
&le membra , della purie. rità effer deono breui,& ciaſcuna dee
terminar'ilſuo ſentimento,non ritar: dando con lunghezza de' giri, o di
raccoglimenti la intelligenza del poe polo ,come qui, D. Suol’eſſere a'
nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole nembofofpinti
errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana pie tra,ritrouare la
trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non Ria lor tolto il
potere, & uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca ciano,ò almeno doue
più la loro ſaluezza ueggiono , indirizzare. Bifox gna parimente in
minoreſpatio raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt uuole eſſer
puro, ofare in questo modo,benche le parolefieno ale quanto dure.Leggi. DIN.
Chino di Tacco piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le di ſtomaco, « poi
il laſcia,L'abbate ritorna , in corte di Roma,o il rico cilia con Bonifatio
Papa,o fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta
norma oſſeruata,come, qui . Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho da farguerra ,
E temo, eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio . Ilche non quiene in queſta
altra parte. DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono . Perciò che ilſenſo
è troppo ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità
quello chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile parole, alla
figura, alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi tratti del
numero, & del finimento ,cioè della chiuſa,odel ter mine della ſentenza,o
delle parti ſue.Dico adunque , che nello andare , ego nello ſpatio di queſta
forma non ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi
,one i mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal
fine,peròſapendo quale eßer dee la compoſitione delelc le parole, quale il
fineztutto quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender
quellocheſi è detto, perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito
reſta che ſidica del finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in
alcunaparola tronca,oin parola piena,ſienoque ſte parole ,ò di due,ò di tre,ò
di piu ſilabe,o ancora di una. Le parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe,
& uolubili,o ſalde ,oferme, opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema
parola di tutta la chiuſa, ma anco la uicina, o proſima,però partitamente ſi
dirà di ciaſcun finimento al luo go ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare
le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire
cotidiano,fuggirà il fine del le parole tronche, comeſono quelle
andò,corfuftarà,o C.perche le mede. fime dee nella diſpoſitione fuggire,come
ramarico, o render florido. Et A contenterà di quelfine,cheper lo più la Natura
a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con tanta religioneſifiniſca in parole
piene , &perfete te ,fuggendo le tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta
nonſimetta fie nealtrimenti alſuo parlare,perche quello cheſi dice , ſi dice
per la mage gior parte de ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi
adunque odalla diſpoſitione riſorge quella miſura,che noi numero addimandiamo.
Eſſendo adunque lachiuſa ſimile alla diſpoſitione , «la diſpoſitione non
isforzeuole,matemperata,& naturale,fcguita che il numero dell'uno, o,
dell'altro figliuoloſarà , à quelle fomigliante. Ben'è vero ,che laforza di cia
fcuna manierà,e ripoſta piu toſto nelle altre parti,che nel numero, eccetto,
che nella bellezza,douc l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto
piùè ne i uerfi, nella poeſia ,che altroue, o questo dico , acciò che fu non
metta piu ſtudio ,doue nonbiſogna riportandoti a gli orecchi,il giu . dicio
delle quali da eſſa natura é ſommamente aiutato . Ecco adunque, è
Dinardo,quanto giouala mondezza , opurità del dire alla chiarezza ; ma perche
questa ſempliceforma non può daſefola si chiaramente parlae re che non
uiſiaqualche impedimento,però biſogna ouunque le ſia di aiua. to mestieri ,con
la eleganza aiutarla, come con maniera chepiù un modo, che un'altro,piu questo
ordineche quello ſecondo il biſogno adoprando eleg ge et fouegna alla
ſemplicepurità del dire ,ilqual'aiuto èpiù presto nell'ar . tificio, che nelle
ſentenze ripoſto. Però che ella ſi sforzafar ogni ſentenza chiara
&aperta,non che le pure già dichiarite di ſopra. Parliamo adune que della
cleganza,o prima dello artificio,colquale ella lcuar fuole ogni ſentenza nella
mente riposta. AR. La cleganza e maniera,cheportachiarezza à tutte le maniere
della oratione , operò non tanto alla purità, douc ella manca foccorre, quanto
à ciaſcaduna forma opra intelligenza, o facilità,daqueſto nafce , che la
eleganza dalla purità del dire in alcuna coſa é differente.Perciò che la purità
da ſe ſteſſa è chiara,oaperta ,ma la eleganza nella grandezza, e magnificenza
del dire ecomeun ſole , che ogni oſcurità , che per quella poteſſe uenire,
leua,o diſgombra,o però in ogniſentenza ella può molto, si con l'artificio fuo
, si co i colori,«le figure.L'artificio adunque di les uare ogniſentenza dallo
intelletto,acciò che ella ſia inteſa , cogni auuerti. mento innanzi fatto di
quello che ft ha da ragionare. Leggi. DIN. Canterò com’io uißi in libertade
Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno s'hebbe Poi seguirò si come à
luim'increbbe Troppo altamente: AR. ilſimigliante R fa nella proſa ,comequi. DIN.
Mipiace à condiſcendere à conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi conuerràfar
due coſe molto a' miei costumi contrarie,l'una fia alqua to me comendare,
&l'altra il biaſimare alquanto altrui, maprioche dal uc ro nė dall'una,ne
dall'altra non intendo partirmi ilpurfarò. AR. Vedi quanto gentilmente | sbriga
lo intelletto dello aſcoltare con tali auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai
bello artificio , s'intende quela to,che per chiarezza dialcune coſe altre ne
narra fenza le quali non ſi in tenderebbe ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN.
Maper trattar del ben ,ch'io ui trouai, Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho
ſcorte. AR. Se il poeta qui non doueſſe dimostrare le pene de dannati e i
tormenti di quegli,che ſono in diſgratia di Dio , non haurebbepotuto dare ad
intendere facilmente il beneche ne riuſci poi,per hauer lo inferno cers
Cato.Ecco qui dalla medeſima neceßità costretto quest'altro deſcriue la pee
ſtifera mortalità peruenuta nella egregia Città di Firenze ,auuertendo pri ma
chi legge ,in queſto modo. DIN. Mapercioche qualefuße la cagione,perche le coſe
che appref fo Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua ſenza queſta rammemoratione
dimoſtrare ,quafi dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. A R. Ecco qui
ancora un'altra bella preparatione di coſe,fatta per le uare ogni
impedimento,chepoteſſe offendereilrimanente. DIN . Ma io mi ti uoglio unpoco
ſcuſare ,che di que' tempi, che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti uenire,
e non poteſti,alcune ci uenisti, onon fosti cosi lietamente
veduto,comefoleui,& oltre à questo di ciòche io al termine promeſſo,non ti
rendei gli tuoi danari, AR. AR. In fine ogni precedente auifo, & ogni
ordine di coſe, e ſecondo , che elte ſon fatte,narrandole,ė artificio ſcelto ,
& elegante ,però tutte le propofitoni de' poeti ſono elegantißime. Leggi.
DIN. Veramente quant’io del regno fanto Ne la mia mente poteifar teſoro Sarà
ora materia del mio canto, AR. E qui ancora DIN. Et canterò di quel ſecondo
regno, Que l'umanoſpirito ſi purga E di ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il
fimigliante modo è oſſeruato ne i principij di ogni nouelld, come da tefteſſo
uedrai.Suole ancora la Eleganza porre artificioſamente le oppoſitioni con le
riſpoſte partitamentecome qui. Leggi. DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi ,
che diranno,ch'io habbia nello ſcriuere queste nouelle troppolicenza uſata.
ART. Eccola dimanda ſeguita la ſolutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche
niuna coſa esi difoneſta, che con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno.
ART. Et cosi di paripaſſo alle obiettioni riſponde, benche altre fide te
inſiemepostohabbia ogni accuſa di ſefatta, opoi s'habbiafcufato , ma quelmodo
non ha dello elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme
allora quando diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni ,
che queſte nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo , eche oneſta
coſa nonė, che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni
han dete to peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando
di uoler dire,hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro
queſte coſe, cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te
neri della miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente,àſtarmi con le
Mufe in Parnaſo,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli
ancora,che più difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to ,cl’io
farei più diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro
a queste fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa
eſſere state le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in
detrimento della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe
contra dello autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è
cosi elegante ,comeilprimoartife cio ,ben che in tanta confuſione egli
ſtudiaſſe di eſſer chiaro, cinteſo, eso auiſaſje quiſaſſe auanti lo
aſcoltante,come fa doue dice,roppo alquanto dalle predet te oppoſitioni,perche
non di ſubito riſponde , ilche ancora é dalia cleganza lontano. Ma leggi. DIN.
Ma quanti, ch'io uegna à far la riſpoſta ad alcuno,mipiace in fauore di me
raccontare, non una nouella intera ,ma parte di una. A R. Et ne poeti ancora fi
oſferua,ſecondoche meglio lor ben uiene di fare cosifatti partimenti.Vedi. DIN.
Tu argomenti,ſe'lbuon uoler dura, La uiolenza altrui,per qual cagione Di
meritar mi ſcema la miſura ? AR. Queſta éuna propoſta,alla quale ſecondo l'arte
della eleganzaſ doueá prinia riſponderemaſi è poſta ancora la ſeconda,
doueſeguita. DIN. Ancor di dubitar ti dà cagione Parer tornarſi l'anima
àleſtelle Secondo la ſententia di Platone. A R. Ben che tu ueda qui le propoſte
effer'inſieme collocate, non è per ròſenza cleganza quella parte,per quello
cheſegue. DIN. Queſteſon le question,che nel tuo uelle Pontano egualemente, e
però pria Tratterò quella chepiù ba di felle. ART. In queſto luogo non tanto la
eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo auuertimentofatto di quelloche ſi dee
dire, quanto per la elettione di riſpondere prima ad una domanda,che ad
un'altra.Euui ancora un'altro artificio della ſceltezza,ilqualeè quando ſi
ripiglia quello,che ſi è detto, et ſi dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in
queſti luoghiſegnati . DIN. Ma hauereinſino à qui detto della preſente nouella,
uoglio che mi basti,o à coloro riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata.
Ilqual luogo acciò chemeglio quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui
moſtrerò . AR. Aſaiſi èdetto fin qui,con che arte la eleganza leuadato per
ſostegno la grandezza o magnificenza del dire,cosi nella grandezza è pericolo
di uſcire in forma che non habbis ornamento, proportione,o peròſe le darà per
miſura, o bellezzafua unaforma diligente,accurata,o ben composta, laquale in
termini conuc. nienti richiudendo l'ampiezza della oratione,o ſangue, o colore
amabi le en gratioſo le donerà,ondeil tutto miſurato, & temperato
marauigliofan mente ſipotrà uedere.Questa forma nėſentenze, ne artificio
ſeparato dal l'altreforme ritiene ,ma ogniſuaforza nelle parole ,nelſito di
oſſe, ne i luo mi,onelle altre parti e ripoſta.Seperò dare non le uogliamo
quellefenten ze, che acuti fono,o diſottile intendimentodelle qualiſi dirà poi
. Le paro le adunque di queſtaforma ſono le foaui,leggiadre,bricui , difacile
intelli . genza,iſchiette,o con gran circoſpettione traportate. Perciò che le
trasla tioni in queſtaforma eſſer deono rarißime, o lefigure di questa miſurata
Oben compoſta manieraſono le repetitioni. Leggi, Per meſ ua ne la Città dolente,
Per me ſi ua ne l'eterno dolore , Per mefi ua tra la perduta gente. AR. E molto
bella eornata queſta figura, os tanto più ha di ornde mento,quantoquello che ſi
replica,augumenta,o creſce. Come qui. Amor, che à cor gentil ratto s'apprende,
Preſe costui de la bella perſona Che mifu tolta,e'l modo ancor m'offende. Amor
che a nullo amato amarperdona , Mipreſe del coſtui piacer si forte Che, come
uedi ancornon m'abbandona. amor conduſſe noi ad una morte . A R. Se alla
repetitione aggiugnerai la interrogatione, ſenza dubbio tu entrerai nella
maniera forte ucemente comequi. Qual'amore,qual ricchezza,qualparentado
baurebbe le lagrime, o i K sospiri pospiri di Tito con tanta efficaciafatti à
Gilppo nelcuorfentire , che egli perciò la bellaſpoſa ,gentile,&amata da
lui haueße fatta diuenir di Tito, fe non coſtei ? Quai leggi.Quaimi nacce ?oc.
AR. Tu da te stesſo poi quanto ornata ſa ducemente queſta parte conſiderando
uedrai; tanto più ſeappreſo le dettefigure ancora ui porrai la conuerſione
della quale di ſopra s'è detto.Nėti marauigliarefe( una me defimafiguraſia da
altrefigure ornata willustrata.Pero che la lingua di queſtiornamenti é
capacißima. Laſcia che à fuo modo altri ragioni, tu neſarai giudice,ola coſa
iſteſſa te lo dimostra. La conversione adunque è figura di queſta idea , a
Rſuol fare quando in quella ſteſſa parola pià membri ſ laſciano terminare,come
nello eſempio ora letto. Bella è ancora la ritornatacheſi fa quando la parola
cheſegue, comincia da quella in che la precedente finiſce,come qui. Leggi, Di
me medeſmo meco miuergogno. Et qui , Et confoauepaſſo a campi difcefa,per
l'ampia pianura sùper le rua giadoſe erbe in fine à tanto che, & c. AR. O
uero in questo modo. Infiammò contramegli animi tutti , Egli infiammati
infiammar si Auguſto , che lieti onor tornaro in tristi lutti. AR. Et ancora il
Bifquizzo come nell'uno Poeta ſi dicra Ch'io fuiper ritornar più uolte uolto,
Et l'altro. Il fiorir queſte innanzi tempo tempio. Da poi la predetta ui ſono
anco altre ornatisſimefigure , come è illoro aſcendimento,ala tradottione o
altre. Lo ascendimento R fa quando le parti che ſeguono,cominciano dalle parole
medeſime,nelle quali uan tere minando le parti precedenti,con questa conditione
che ſi mutino, le cadenze di esse parole. Come qui, Nel dir l'andar ,ne l'andar
lui più lento. AR. Ouero in queſt'altromodo. Luſca, io non poſſo credereche
queſte parole uengano dalla mia donnd, eperciò guarda quello che tu di.Et ſe
pure da lei ueniſfono,non credo che con l'animo fermo dire le tifaccia.Etſe
pure con l'animo le diceſſe, il mio Rignore mi fa più onorecheio non merito: A
R. La tradottione ė figura,che replicando la steſſa parola,nonfolde mente
dimoſtra la intentione di chi parla ,ma mirabil'ornamento accreſce oue ella
ſtruoud.come qui, Laurd, che'l uerde lauro,e l'aureo crine. AR. Molto diligente
as accurata figura e quella cheſifa quädo due, • più partifraſecongiunteſi
ſogliono proferire.Leggi, Et utile conſiglio potrannopigliare, & conoſcere
quello che fa dáfug gire,o che ſia fimilmente da ſeguitare. AR. Et qui, A cui
grandi ey rade ,o à cui minute pelje. AR. Forza ė,che onunque in una
bella,& adornata figura s'abbatta un bel giuditio, egli conoſca es ſenta
dentro difealcuna dolcezza; com meſe uno udirà in questo modo ragionare.
Riſpoſemi non huomo,huomo giàfui, E li parentimiei furon Lombardi, Mantovani
per patriambedui, Nacqui ſub Iulio ancor che foſſe tardi, E uißi à Romaſotto il
buon ’Auguſto, Al tempo de gli dei falſie bugiardi Poetafui,e cantaidi quel
giusto Figliuol d'Anchife,che uenne da Troia, Poi che'lſuperbo Ilion fu
combuſto . AR. Non ſentirai tu per queſta diſgiuntione,per la quale ogni parte
ſotto ilſuo uerbo è rinchiuſa ,una diligenza gentile del Pocta :si comelà ,do
we dice , Io ſon Beatrice,che ti faccio andare , Vegno dal loco, oue tornar
diſſo, Amor mi molle,che mifa parlare. Et molto piùſe nella proſa detto
ritrouaſi A que' tempi che i noſtri maggiorihaueano l'occhio al gouerno di que
ſta Republica,eta riconoſciuta la uirtù de'buoni , dauanſ i compenſi dei danni
riceuuti per la patria,chi robaua il publico,era castigato; fioriua dia na
giouentù dedita alla mercantia , oucro alle lettere , laſciauaſi il facerdos :
tio, la militia da' noſtri queſta,per che i cittadini non pigliaſſero l'arme
contrafe ſtoßi,quello,acciochefuſſero più finceri i parenti afar giudicio delle
coſe importanti. ART. Vedi,che narrando partitamente, oſenza congiugnimene to
alcuno , il parlareè ſpedito , la figura ornata , odiletteuole ſopramo do il
ſuono di eßa oratione. Al cui ornamento il traportar delle parti di oßa gioua mirabilmente
, come quando ſi dice , Al costei foco ,alcolei grido. K 2 Giouin Giouinettopoß'io
nel coſtui regno. Et qui. Vſate le colei bellezze. In queſto caſo nonf dee di
tanto leuar dall'ordine loro le parole, che la ſentenza oſcura deuenti,come
diſſe, Che i belli,onde miſtruggo,occhi mi co la , di che èquaſ piena quella
canzone. Verdi panni,ſanguigni,oſcuri,operſ . Bello alquanto èquel
tranſportamento chedice. Or non odio per lei, per mepietade Cerco, che quel non
uo,questo non poſſo. Concedeſ però a ' Poetimaggior licenza per riſpetto della
neceßità del uerfo,nel quale ancora più ampio luogo fanno gli ornamenti che
nella profa.pure non èche del bello nonhabbiano aſſai quelle figure, che per le
negationi affermano,come s'egliſi diceffe, io nol niego, cioè io il confefe
fo.Et quella ,non è alcuno,che nol creda,cioè ogn’uno il crede.Poi non taca
que,cioè parlò, e diſſe. Suole ancora chi fcriue amaggior bellezza
circoſcriuendo le coſe, con più parole,quello che conuna può eſprimere come
qui, Era giàl'hora,che uolge il deſio, A'nauiganti,e inteneriſceil core, Il
di,che han detto à i dolci amici,A Dio, AR. Et cosiA chiama il Sole Pianeta,che
distingué l'hore, e diceft. laprudenza di Mario,la fapienzadi Catonein luogo di
dire Mario prila dente , o Catone faggio ,&éappreßo bella figurala
innouatione i com me qui , Parte preſ in battaglia,e parte ucciſt. Et quia
Taciti ſolieſenza compagnia, N'andauan l'un dinanzi e l'altro dopo. AR. Ecco
come la bellezza ogni formaabbelifce ,ne per tanto auenga che ella moltefigure,
molti lumidimoſtre,di quelle ſolamenteſt contene ta,ma ſtudioſa del diletto
sforza di ragionare uariamente. Là onde per fuggir la fatietà con mirabile
artificio è uſata di uariare la oratione . Et questo ſuolfare primieramente
doppo molte uoci di piene «ſonore lettere ponendonealcune dibaſſe U
rimeſſe.Dapoifuggendo la continuatagiacia tura de gli accentiſopra una
medeſimafillaba ,ora nelle ultime,ora in quet le,che uanno innanzi adeffe
gliſopramette,o di più in mezo delle lunghe le corte parole framettendo gratia
&adornamento le giunge . Bella coſa ė si come tra cittadini vedere gli
ſtranieri, cosi tra le nostre parole alcuna adirai che alicna fa,o meſcolare le
ifquifite con alcuna detle popolari, le BMOWE huone con le uſate, finalmente la
elettiöne in queſta parte può aſai, la quale ritrouandofi in ſaldo w
ſottilgiudicio , dimoſtra in un'eſſere tutto quello che col conſiglio di molti
eletto a ricolto effer potrebbe però non degnale uili,ſcaccia le brutte,fugge
le aſpre, abbracciale eleganti ſceglie leſignificanti, o con copia marauigliofa
uaria la difpofitione, i të pi,ilnumeroje i finimenti;nė di pari lunghezza
formeràle parti delparlaa re,nėripiglierà una'steßa figura,un tempo medeſimo,un
modo Amile, una perfona pari,ma quaſi un'adorno pratola oratione di molta
varietà fora mando, diletto , o gioia,recherà ſempremai.Leggiprima qui, comeil
Poce ta i medeſimi nomi non ridice in uno steßo luogo. Io credo checi
credette,ch'io credeßi, Che tante uoci uſciße da quei bronchi, Da genti cheper
noiſi naſcondeffc., Però diſſe il maeſtro,ſe tu tronchi Qualchefrafchetta d'una
deste piante, Penſter c'hai ffaran tutti monchi. Allor porfi la mano un poco
duante , E colfi un ramufcel da un gran pruno, E'l tronco fuo gridò perche
miſchiante. Da chefattofupoi diſanguebruno, Rincominciò à gridar,per che mi
ſterpiš Non hai tu ſpirto di pietade alcuno ? Huominifummo, oorfemfatti sterpi,
Ben douerebbe la tua man più pia , seſtatefoßim'anime di ferpi ? Comed'un
ſtizzo uerde,che arfo Ria, Dal'un de lati cheda l'altro geme, Bi cigolaper
uento che ua uia. Cosi di quella ſcheggia ufciua inſteme, Parole,e
ſangue,ond'io laſciai la cima Cadere,e dette come l'huom che teme. A R. Tu
puoiuederein quanti modiilPoeta ha uoluto variar leparon ko con quanta felicità
egli lo habbia ottenuto . Il che in molti luoghi può in elo uedere.si come
là,doue parlando del lago gelato , lo chiamaora ghiaccio,era uetro, ora
gelozora groſſo,o duro uello ,ora ghiaccio, ora geld ti guazzi, ora eterno
uzzo,oragelata,ora cristallo orafaſcia gelata, ora fredda crostázora lagrime
inuetriate, &fimili altre parole ufa variando il poema. Il fimigliante
hannofatto ,fono perfare tutti gliſcrittori di non D B 1 L me. Leggerai
mirabili eſſempi della narietà in tanti principij di giornar Odi nouelle
cheſono in quell'autore, o leggerai anco l'ultima parte del ſecondo libro di
quest'altro che comincia. Che andiamo noipure tutta uia di molti amanti et
diletti ragionando. Maė tempo di ritornar’omai alle altre parti della
formapredetta ,ope ró d'intorno alle membra dei ſapere chela lunghezza di eſſe
in queſtafor. ma èpix deſiderata ,chela breuità ocortezza,non però uoglio, che
si lo ftremo ti fermi,macon più disteſe parti che nella eleganza uorrei ,che
leſue ſentenze liportaſjero ,che le parole di effe in tal guiſa ſi
collocaſſero,et ſ terminajſe queüa oratione,che uariate alſopradetto modoil
faſtidio o la satietà ſi fuggiſſe, oin grado ogni sprezzata coſa ci ueniſſe. Il
numero al uerfo uicino in questaforma ci uuole,il qual numero primaſarà di quel
la maniera,che di ſopra ti ho detto, cioè ripoſo o mouimento, ouero tempo di
proferire,ò da poi di un'altra ,che ora io ti dimoſtrerò. Perciò chemolto bene
all'oratione può dar formanumeroſa et bella, la qualeſia nata da ue na certa
neceßità delle coſe ben composte, o conſiderate, come il contra . porre i
contrarij, o le coſe diſcordi l'una all'altra con miſura corriſpone
denti,ritrouare i ſimiliipari, o altre coſe ſomiglianti à queste,delle quali
partitamente e con eßempio ne dirò, Sono alcune membra,ò nodi della
oratione,iquali hanno le lor ſentenze oppofte,ma con una corriſpondenza tra
loro mirabile temperate. Ilprimo cfſempioſarà di quello che ſi chiama Pare,il
qualeſi fa quando le parti che Äihanno à corriſpondere ſono quaſi di pare
numero di ſilabe, odi tempi , quafi dico,però che queſta parità di ſillabe, o
di tempi con ſaldo intendie mento o giuditiodeue eſſereſtimata, et nõ del tutto
pari.L'eßempio di que ſta forma e questo . Dou’elladifonestamente amica ti fu ,
ch'ella oneſtamente tua moglie diuenga. ART. Nel predetto effempio in duemodi
ſiuede effer fatta numero, ſa la oratione primaper la parità delle ſillabe ,la
quale nelle parti ſi uede poi per la contrarietà corriſpɔndenteperche amica
omoglie,ſono contra rij, oneftamente o difonestamente fo:10 contrarij ,
oppoſti,ſolodi pari ud queſto. Leggi, Quiui à niunoſi cerca inganno ,a
niunoſifa ingiuria. ART. I contrarij adunque fanno la orationeoffer
numeroſa,come an cora qui , Et di gran lunga é da eleggerpiù toſto il poco
oſaporito, che il mola to o infipido. ART. tornare. 2 ! TAR. Ne i ſimili ancora
cade il numeroſo concento in modochequando in fimil ſuono la chiuſa finiſce,ne
rinſulta il numero. Quel roſſore , che in altri ha creduto gittare,ſopra di ſe
l'ha ſentito A R. Speſſo auiene,che per fuggire il ſoſpetto di cotesto
artificio , la fimiglianza de ifinimenti delle parole in mezo delle parti ſi
ponga, com me qui, Poi ueggendo,che questoſuo , conſumamento,più tosto che
emendamento della cattiuità del marito potrebbe eſſere. Et qui. Che più
dispettosamente ,che fauiamente,parlando. Molti eſempi ritrouerai da teſteſſo
di queste numeroſe maniere, nate dalla corriſpondenza delle parti.Ora vorrei,
che bene aucrtißi di non re. plicare piùuolte cotesti adornamenti ,di non
affettar tanto la conſonana za delle parti,che cadeßi in fastidio,ouero infospetto
de gli aſcoltanti . Et per queſta reggerai medeſimamente il uerfo,nel quale
caduto in più luoghi Ruede l'autore delle nouelle,il quale à mepare che di ciò
molto curato nõ habbia.Beneuero ,che con mirabile perfettione riempie le parti
ele měs bra della ſua fauella quando diuide i nodi de' ſuoi giri in tre parti ,
come qui Percioche niun'altro diletto ,niun'altro diporto , niun'altra
confolatione laſciata ti ha la tua eſtremafortuna.Etqui, Et ſe qualunque di
quelle fuſſe in Salomone ,ò in Aristotile ,ò in Seneca, 'haurebbe forzadi
guastar'ogni lorſenno,ogni lor uirtů , ogni lor ſantità. Et qui.
Maquantoſenfante, quanto poderoſe,di quantoben cagion le fore ze d'Amore,&
c. Conſidera la distintione de' membri in quella nouella, doue introduce to ſcolare
,la uedoua,perche cosirichiedeua la dotta perſona dello ſcolare. AR. E degno di
conſideratione il numero delle fillabe, chenelle parti, che hanno à riſpondere
l'una all'altra,ſ mette. Perciò che quando una pare te di troppo l'altra
auanzaſſe,non ne ſeguiterebbe alcuna numeroſa compo Rtione ,però buone
onumeroſe appaiono eſſer queſte . Accioche come per nobiltà d'animo dall'altre
diuiſe fiete , cosi ancora per eccelentia di coſtumiſpartite dall'altre ui
dimostriate. ART. Maqui appare alquanto lunghetta la riſpondenza, &la die
fagguaglianza demembri.Leggi. Quanto piùſ parla de' fattidellafortuna,tantopiù
à chi uuole lefue co fe ben riguardare,ne reſta da poter dire, ÄR. ART. Può
eſfer’ancora,che non ſi gusti il numeroper la lunghezza delleſueparti,benche
fieno quaſi paricomequi, Egli auieneſpeſſo , che sicomela fortunafotto uili
artialcuna uolta grandi teſori di uirtù naſconde,cosi ancoraſotto turpißime
forme d'huo . miniſtruowa marauiglioſ ingegni dalla natura eſſere stati
ripoſti. AR. S'io ti uoleßi ogni coſa moſtrare d'intorno alla bellezza del
dire, troppo ritarderei gli ſtudij che hai afare,o pocoti laſcerei da eſercia
tarti d'intorno allaeloquéza umana.Peròp trapaſſare alle altre forme,par lerò
della ueloce e pronta maniera della oratione; la forza della quale è nello
artificio,più tosto,onelleſeguenti parti,che nelle ſentenze riposta.
L'artificio adunque della prestezza eà brieui dimande brieuementeria
fpondere.Leggi. S'amor non èche èdunque quel ch'ioſento? :: Ma s'egliè amor,per
Dio che coſa è quale ? Se buona,ond'ċ l'effetto afpro e mortale ? Se ria,ondési
dolce ogni tormento ? ART. Ouero il fare molte dimande , con forze di ſpirito
obrer uits : Non era egli nobile giouane ? Non era egli tra gli altri ſuoi
cittadini bello ? Non eraegli valorofo in quelle coſe che d' giouani
s'appartengono? Non amato? Non bauuto caro?Non uolentieri ueduto da ogni huomo
? AR. Le membra,quaſ parole eſſerdeono bricui «uolubili, oche pa ia che in eſſe
fail monimento del parlar noſtro, oltre alla ſignificatione delle parole nelle
quali ėripoſta la forza dela efpreßione di ogni forma . Leggi. Soli bastano ,
accompagnati creſcono , und mille nefå, odelle mille in brieue tempo mille ne
naſcono,per ciaſcuna ſono aſpettate giocondißime,no aſpettate uenturoſe, ſono
cari ageuoli,ma diſageuolivia più care inquanto le uittoric acquiſtate con
alcuna fatica fanno il trionfo maggiore, donare,
rubbare,guadagnare,guiderdonare,ragionare,ſoſpirare, lagrimare , rotte,
reintegrate ,prime ſeconde,falje,o uere,lunghe bricui, tutte fonodiletteuo li
tutte ſono gratiofe. AR. Vedi che mouimento apporti ſeco questo parlamento , il
quale quando l'huomo è riſcaldato s'aſcolta con marauiglia delle genti . Confia
Ate anco nellaforzadelleparole, o nelſuono , onella compoſitione . com mequi .
E già uenia sì per le torbid onde, Vn fracaſſo d'un ſuon pien difpauento, Per
cui tremauan' amendue le ſponde, Non altramente fatti,che d'un uento :
Impetuofo per gli auuerſardori, Chefier la ſeluaſenza alcun rattento Gli
ramiſchianta ,abbatte, e porta i fiori Dinanzipolucroſo uaſuperbo Etfafuggir
lefiere e gli pastori. ART. Tanto uoglio che tu ſappia della preſtezza del
dire. Perciò che date medeſimopuoi comprendere quanto « ilconcorſo delle
uocali,ore forezza delle fillabe pa lontana da questa forma,esfapere che ogni ina
dugio di proferire, ogni raccoglimento,ogni giro, impediſce il mouimento fuo.
Reſta adunque a dire della formaaccostumata,o delle fueparti, la . quale e ,
cheſi conuiene alle cocoalle perſone in tal modo chequello che ſi chiama
Decoro, molJa chiaramente ſi uedaEt però la detta forma ſota to di ſe quattro
maniere principaliſ uede contenere. La primaė la unilta ubaſſezza. L'altra é la
piaceuolezza o il diletto. La terza e l'acutezza Uprontezza. Et l'ultima la moderatezza
della oration. Delle quai fore menecessariamente in queſta forma si ragiona,
perche cosi porta la natua rade gli huomini,i quali sono ó uili, o riputati, è piaceuoli,
o moderati. La bajezze dangue e forma infima, e dimessa del dire, alle roze, o idiote
persone convenicnte, à femine, fanciulli non diſdiceuole: da Comici, rie
chieſta ouſata pia toſto che da Oratori,o eloquenti buomini,o piu tom Ho nelle
cauſe de priuati, che ne i communiconſigli ricercata ,quando uor rai attribuire
il parlar a quella perſona, cui non ſidifdice la baffizza. Cá dono in queſta
ſimplicita di dire i paſtori, aquelli che le coſe.boſcarecce Man deſcriuendo,o
però le ſentenze di queſtaformaſonopiu baſſe Qumi li, opiùfacili che quelle
della purità oſcioltezza del dire. Là onde ala cuni giuramenti ſciocchi à
qneſtamaniera ſi confanno. O Calandrino mio dolce, culor del corpo mio, quanto
tempo t'ho defide Tatob’dauerti edi poterti tenere a mio fenno.Tu m'hai con le
piaccuoa lezza tuațratto il filo delacamicia, tu m'hai aggrattigliato il cuore
con la tua ribecca. Può egli eſſer che io titenga ? ART. Leggeraila tutta,
otutto che in questa formauiſabaſſezza, non è però ela ſenza artificio,
percioche per dimoſlrarla pulefe ,fi fuole alcuna fista minutamente ogni coſa
deſcriuere,u ogni particolarità chia rire, introdurre alcune ſcioccheriſpoſte,
ò ſemplici contentioni di coſe, che non rileuano con detti, le ſentenze de
quali ſono grandi , ma le parole ſciocche, at rozze. Leggi. L Cominciò à dire
ch'egli era gentilhuomo per procuratore , roy. Begli bauea diſcudi più di
milantanouefenza quellich'egli hauea àdarealtri che erano anzi piùche meno e
che egliſapeus tale coſe fare ; ct dire che domine pure unquanche. ART.. A tuo
agio nie leggerai ilrestante,mauedi la contentione: Guatatala un poco in
cagneſco per amoreuolezza la riniorchiaua '; ege ella cotale ſaluatichetta,
facédo uiſtadi non auederſene andaua pure oltra in contengo. Seguita che tutta
ëbaſſa per li giuramenti, per le beffe, con per alcuni rabbuffi, come qui. Vedi
bestial buomo che ardiſce , là doue io Pid , parlar prima di me, laſcia dir à
me, Et alla reina riuolta diſſe,Madonna, costui mi uuol far. conoſcer la moglie
di Sicofanta ,ne più ne meno come scio con lei ufata nor , fußi, che mi uuol
dar' à uedere chela notte prima che Sicofanta giacque con lei meſſer Mazza
entraffe in monte nero per forza ,e con ſpargie mento di fangue oio vi dicoche
non é ucro,anzi u’entró pacificamente: 1 ART. La deſcrittione del fante di
fracipolld;& della fante,ėbaſſa,er propria di queſta formaa alcuni lameti
cô parole ufitate & popolari. Leggi. Dime,oimė Giãnel mio io fon morta,ecco
ilmarito mio,chetri fto il faccia Dio ,che ſi tornò, « non ſo che queſto ſi
uoglia dire. ART. Et alcuni prouerbiemodiſono dimeßi. Leggi. : Et cosi al
mododeluillan matto doppo il danno fece il patto, muoia. foldo, oniua amore, e
tutta la brigata. ART. Dalle fentenze di queſta forma ſipuò far congettura quai
parole, ochenumero, oquaichiuſe ad effali conuengonc, Però cheari
tificioſamente da ogni artificio lontana offer deue ogni ſua parte , & imie
tare la ſemplicità, ogroſſezza delle perſone. Io non uorrci queſtaforma in
unpocma grande, o genoroſo; o dubito che per questa ragione da ale cuni ripreſo
noſia uno de i piùcarifigliuoli ch'io habbia ,ilqualefpeſo per dire
ognicoſaminutamente cade in parole baßißime,come quando dife. Vn’amme non faria
potuto dirſt, Quero. Etmentre che la giù con l'occhio cerco , o quello che
ſegue Trale gambe pendeuan le minuggia La corata parea, e il tristo ſacco. Et
il reſto. E non uidi già mai menare ſtregghia A ragazzo aſpettato daſignorfo,
Et la doue diſſe che Tencuan bor done alle ſue rime. Md ora al diletto
paſſando, dirò, che per diletto de gli aſcoltanti ale cuna uolta l'oratione ad
una forma s'inchina la quale tutta e riposta nellä , bautentione delpoeta ,però
gioconda diletteuolemanieras'addimanda ĝrellache la ſemplice edimeſſa alquanto
più rileua ealla fauola, ó fala uoloſa narratione ſi uolge. Là onde leſentenze
di questa formafaranno contrarie alla forma della dignità del dire ; &però
diletteuoli o gior conde ſono quelle , doue ragionano inſieme la Diſcordia,
oGioue, o in quel dialogo d'Amore , oue R dimostra in che guiſa difcendeſſe fra
more tali Amore.Sonoanco grate,ga dolci quelle ſentenze chehanno quelle coſe
ntinutamente deſcritte, lequali per natura loro hanno onde piacere difense
timenti umani, es però la deſcrittione dell'amenißima valle delle Donne a molto
grata ad udire. Conſidererai di quanta dolcezzaſia ſtato amaeſtro Simone il
ragionaméto di Bruno, quando egli deſcriſſe la brigata, che giudi in corſo,og
de i loro follazzi, opiaceri,e delle altre coſe diletteuoli che egli uedeus in
udiua. Ma è bene che tu ſappia , come di quelle coſe, che a ſenſi ſono
ſottoposte, alcune fono oneste, alcune diſoneste. Le diſor Heiste ſe
paleſamentesi ſcuoprono co iloroproprij uocaboli, offender for gliono le caſte
orecchie ;benche non offendano quelliche nė di dirle , ne di farle R logliono
tergognare,maſe con diſcretomodoleggiadramente cura prono la bruttezza loro,non
pure non perdono il diletto quando ſono inteſe, ma molto più di ſoauird ſeco
recano à gli aſcoltanti: Narra lo amore di due cognatiilpoetaDante,o uolendo il
finedieſſo quantopiù poteua onestan mente ſcoprir diffe. Quel giorno pia non ui
legemmo auante, cioé attena demmo ad altro che à legger quello , che fu cagione
del nostro amore, o cosi quá lo l'altro poeta diſſe, Con lei fuß'io da cheparte
il ſole. E non ci Medeß'altri che le ſtelle.Ocosi in mille modi ó per le coſe
antecedenti, • per quelle cheſeguono,eſſendo meno diſoneste,le
difoneſtißimèappalefar ft poſſono ne è pocalode dichi ſcriuezin tale occaſione
abbattědofi,ſenza offen fione anzi con diletto delle oneſte perſone deſcriuer
le coſe meno che oneſte. Intělaſi adunque la coſa, ofuggaſi la bruttezza delle
parole,o in queſto modo ſarà foaue, &diletteuole il parlar uoſtro. Alquale
gli amori,le bele lezze de i luoghi,igiardinizi prati,i fiori le fontane,la
prima uera, le pite ture, o altre coſe piaceuoli aggiungendoſi,ſenzadubbio ſi
dimoſtrerà la predetta forma,della quale anco di ſopras é detto aſſai, quando
del diletto, della gioia tiragionxi ,che naturalinēte inuouc ogni coſa creata.
Et cosi ſecondo l'affettione di ciaſcuno ſi porge ſolazzo opiacere col
ragionare. L'artificio ,et le parole della giocõdità tolteſono dalla
primaformadel dire chiamata purità, onettezza. Voglio bene in queſto paſſo ,che
co più licen zoufigliaggiunti,ſegno e che i pocti loſtudio de' quali è proprio
il dilet ? tare , allora più dilettano quando più belli ;eacconiodatiaggiunti-
fono ? wfati di porre ne' verſi loro, ecco Leggi. L & Giace nella fommità
di Partenio,non'umile monte della pastorale Arct. dia,un diletteuolepiano di
ampiezza non molto patioſo,peròche'l ſito del luogo nol conſente ma,di minuta,
o uerdisſima, crbetta si ripieno , cbe fe: le lafciue pecorelle congli auidi
morſi non uipafceffero,ui ſi potrebbe dom gni tempo ritrouar merdura. ART.
Tutti i principii delle giornateſono à proua fatti per dileta tarc, eperò inshi
13 ziunti uiſono meſcolati come tu potrai uedere. Egli lliſuole anchora
interporre de i ucrſi per. dilettare , ma con destro modo, Perciò che non
mipareche bence ſtia , che la compoſitionc babbia del uer fo come qui. Cofi
detto, et riſposto,e contentato, doppo, un brieue.filentio di ciaſcuno. ART.
Ecco che nella proſa ui è il uerlo ,ſenza quel propoſito che: io ti diceua ,però,
biſogna rompere i ucrſi con alcuna parola,eccoti uer : foc, Postbaueafine alſuo
ragionamento, madicendo. Pofthauca fine Lau, retta.al ſuo.ragionamento non è
più verſo , benche queſto.autore altrowe: non foſſeſchifatodal uerfo,come
quando diſſe. Poſcia che molto commendata l'hebbe, Disleale, o spregiuro, e
traditore, Etpoi con un ſospir aſſai penſoſo, Luogo moltoſolingo, ofuor.
dimano.. Et questi uerſi quanto ſono migliori,tanto più ſono da.cſfer fuggiti
nel fic lo della oratione,fenon quando,o per eſſempio, o per autoritade, o per
di: letto ſono tolti da poeti. Ora delle figure di questa faperai ,che alla
giocondaforma, oltra le fi gure che alla purità,Q umiltà. conuengono quelle
ancora non disd.cono, che alla bellezza ſi danno,o peròle membra pari di ſimili
cadimenti le rime, i biſguizzi, itramutamenti; i circoli, le uoci.ſimiglianti,
il fingeri: de i nomi ſonofigure di questaforma. Leggi i ſimili cadimenti.
Tranquilla lite de'giudicanti ristora.le fettche gucrreggianti, in quel le con
le ſeuereleggi de gli huomini, la pisceuolezza della natura,meſcoa. lando a
queſti nel mezo de gli nocentisſimi guerreggiantipure, ø inno.. centisfime paci
recando.. ART . Nellefſempio letto ui troucrai anco la bellezza di contrari, la
parità de'membri, perche niente ci uicta ,che una ſtela figura da molti lumi
ancora illuminata, fi poffa fare illuſtre e luminoſa. Laura, che il ucrde
lauro,c l'aurco crine.. Eſcherzo di upci ſimiglianti. Il mormorar
dett'onde,bisbiglio , ſpruzza.. reribombo,gracidare, fonoparolefinte,cha con diletto
cfprimeno il fatto, ecco quando colui
diffe,Filli , Filli ,fonando tutti i calami, parue ueram mente che i calami
fuſſono tocchi col fiato di dettopaftore, o quello ſem zafar motto alcuno.
Rimafu quella di coſtui che diſſe. Tanto d'intorno à quel più bello, quanto pià
de Thumido fenting di quello , Et perpiù adornamento et diletto, diſſe anco .
L'acqua laquale alla ſua capacità ſoprabondaua. Et comei falli meritano
punitione, Cosi i beneficii meritano guidero: done. Nella rima è pofta. la
dolcezza de' Poeti di questa lingua, dallaqual.rima chi ardiſſe ò tentaſje per
alcun mododidipartirf, toſto ſi pentirebbe . Le rimepiùuicine fono più dolci:
Qucta licenzadel rimaremoderatamente Bplglia de proſatori , purche di affettata
dilettatione: disoneſto ſegno non porga. Voglio bene la compoſitione di questa
forma,numeroſa epiù al uerſo uicina che l'altre, ma il uerfo per ogni modo le
tolgo. Guarda con chefacilità ſipotrebbe coteſta proſa alla dolcezza deluerfo
ridurre.Leg. Vna fede medeſimatraloro per le menti unafermezza , unoamore in
agni faſo, in :ogni tronco,inognirina,,uede l'amante la faccia dolce delld.
fua.belladonna,o ella quella del ſuoſignore. Ma.ora non: voglio che tantoti
piaccia la forma predetta che tralaſcian do la dignità,o grandezzadeldire, procuri.con
ogni ſtudio il diletto piacere cheda quella fola procede , Perciò che io non
uorrei che alcuna . parte del tuo ragionamento ſenza piacer s udiſſe, di.che
l'aſcolta,ilqual pia cere naſce ancora. dalla Idea dell'altreforme, o dalle
orecchie allo animo, trapaſſando ogni parte di eſſo fparge di diletto
marauiglioſo, perche moe. uendo diletta, o dilettando li mouc, inſegnando
ſimilmente fi.moue,, odiletta.in quanto che lo inſegnare il mouere,o il
dilettare, ſono opera . tioni non distinte l'una dall'altra. Mi. laſciamo
queſta quiſtione. ad altro , tempo, o ancora nonstiamo troppo in.questa forma
tutta.di altra confla deratione, come quella.cbe al Posta.grandemente conuenga,
alquale pocta. i giuochi, po le coſe ridicole ſi confanno , operò di. cße ora non
te ne dia 60, e tanto piu adietro di buon cuore ti laſcerà queſta matcria ',
quanto di: ſacopioſamente damoltine è ſtato ſcritto,etragionato. Larifponfione:
ad ogni parte è anco figura di diletto. Leggi. Laquale ciiba fattinc i
corpi.delicate ,o morbide , negli animi. timide opaurofe,ne le menti benignc,
opietoſe, obacci dute le corporalifora ze leggieri, le uoci piacsuoli, o
imouimenti de imembrifoaui .. Ms or a pasfiamo all'acutezza del.dire , forma
inucro egregia. &. piùalto penfamentoche altra meriteuple. Peroche ella
contiene le ſentenza fic,deltuttocontrarioalla umiltà, «baffezza della
oratione, ej in uero altro dicendo,altro intende.Percioche è dicoſeche hanno in
ſeforza,et uds Forela onde lo artificiaė proferire le alteodifficili intentioni
pianaměte, o con facilità, e le umili &abictte che paianoalte ,o degne :
onde i primo modo é,quandofi piglia una parola in altra ſignificatione che
nella ufata confueta maniera,ne pcro e meno conuencuole et propriafe gli
wiguardaalla forza della uoce,che la uſala, « conſucta, come qui. Non creda
donna Berta oſer Martino * -Prueden un furar altro offerine. 9. Wedergli dentro
al conſiglio diuino. Che quel puo furger,oquel può cadere . C : il secondo modo e quello cheſi fa non mettendo
la parola, doueela berie Starebbe, ilche abufione s'addimanda; come ė à dire
allegrezza inſanabile, in luogo di dire allegrezza grandißima. Seguita il terzo
modo di porre. una þarola pia uolte'., ma che ſempre ſia ad un modo istefjo
pigliata , come dicendo,ſecglimuore, morirà tutto, perche uiuendo non
uiue.Vſaſi ancora biquestaforma un altro artificio aljai degno di
conſideratione ilquale ft fa quando il parlare ſi fa pieno ditraslationi,o per
la moltitudine di quelle lifa ogn'horpiùmanifesto. Leggi. Eeleggi fon,ma
chiponmanoad eſſe Nullo, percheil paſtor , che precede i Ruminar può,manon ha
l'ugne. foffe, Perche la gente che ſua guida uede ** Pur à quel bel ferir on
fella é ghiotta Di quelfi paſce, opiù oltre non chiede. ART. Et in queſto altro
loco ancora Nel mezo del camin di noſtra uita Mi ritrouai in unaſelua oſcura
Che la diritta uia craſinarita. ART. Acuti ſono ancora quei rimedij,che uanno
quafi medicando le dile rezte delle Tralationi con alcune altre piu chiare ,
ecco dire il fiato della morte é duratralatione. Ma dire della morte , e ſpigne
col ſuo fiato il noe ſtro lume,e acutamente raddolcita la aſprezza fua . O
qui.Con altezza di: animo propoſe di calcar la miſeria della fori una.Voglio
ancora ,che acuto fa ilporre inanzi yliocchi le coſe con bella colligatione di
ſignificantißia me parole,Vuoi tu ucdere la celerità del tempo. Leggi. a
Delaurco albergo con l'aurora istanzi E to 1vs K $ *** siratto ufciua it ſol
cinto di raggi, Che detto baureſt',.' Apur corcò dianzi. Jo uidi il ghiaccio, e
li preſſo la rofa, Quaſi in un tempo il granfreddo, e ilgran caldo. Che pure
udendo par mirabil cofa Veggo la fuga del miouiuerpresta. Anzi di tutti , et
nel fuggir delſole , La ruina del mondo manifesta Voi tu uedere dipinta la
oſcurità. Leggi. Buio d'inferno, o di notte priuata D'ogni pianeta ſotto pouer
ciclo Quant'eſſer puo di nuuol tenebrata : ART.No ſolaměte leparolefanno
l'effetto,ma te fllabe, et le lettere steffe Vedi quáte fiate uie replicata la
quinta lettera come lēte baſſa,co oſcura. Sotto queſtaforma i beidetti ſi
coprendono, et quei mottiurbani,che co dimeſe parole dicono altißime coſe.Là
onde alcune ſentēze, la ragione delle quali in effe ſi conticnejacute ſono, o
di ſuegliato ingegno ſegnimanifesti. come à dire, le minacce fon arme del
minacciato. sēdotu huomo penſa alle coſe humane o offendo mortale nõ
hauerl'odio immortale, o quello.Rade volte è ſenza effetto quello che uuole
ciaſcuna delle parti. Queſte ſono le parti principali dellaforma ſublime; &
acuta,nellealtre haida ſeguitare la purità o eleganza del dire. Ma della Modestia,o
Circonfpettione del parlarenelquale conſiſte quanta gratia tuti puoi con gli
aſcoltanti acqui Atare,dirò,pregandoti caraméte,che tu uoglia questaſopra tutte
l'altre ele gere,abbracciare,et fauorire in ogni tuo ragionamēto. Modesta è
adunque quella forma del dire che le proprie coſe abbaſſando innalza le altrui,
o quaſi cede e toglierſi laſcia del ſuo, il che opinione acquista di grābone
tade appreſſo chi ode.Le ſentezedi quellafono quelle che dimostrano l'ani mo di
chi parla alieno dalle contētioni, il deſiderio di fuggire, o terminar le
coteſe,ildiſpiacere d'accufar altrui, il poter dimoſtrar maggiorpeccati
dell'auuerfario,«nõfarlo,et quello che ſi fafarlo sforzatamēté ,ė astretto
dalla uerità,o p no laſciar opprimere gl'innocēti,uerfo de'quali,chi dice, A
deue dimostrare cõ queſta formaofficiofo,et benigne,comefece coſtui . Leggi. Mi
piace condiſcendere a' conſigli de gli huomini,de quai die cendo mi conuerrà
far due coſe molto a' miei coſtumi contrarie;luna fia al quanto me commendare o
l'altra il biaſmar alquanto altrui,o auilire. ART. Molti huomini eccellenti
nelle lodi, che date hanno a i loro cittadini uſati ſono di dire, uoi faceſte,
uoi uinceste ,mánel dimoſtrare alcana coſa meno che oneſta de' fatti loro
,hanno detto per modeftia.Noi perdesſimo, noi malefi
portasſimo,noialquantoimprudentemente to gließimo la guerra. A questeſentenzeſi
aggiugne l'artificio, ilquale con Rate nel dire di fero delle proprie coſe
modeſtamente, con dubitatione facendolegrditamente
minoridiquellocheſono;eſcuſando per lo contras rio gli auuerfarii,oucro con
ragione,conalquanto di timore accufando li,permettendoli alcuna coſa a
fuomodoin loro diffeſa pronuntiare,acció sonſi dia ſoſpetto al giudice dioffer
contentiofo,& amicodelle liti, in que ſto caſo voglio ,che tu uſ parole
baſſe, et pure, oquelle che hanno manco forza nelle tue lodijonel biaſimo de
gli auuerfari, però quelle figure a questaformaſono accomodate ,nellequali con
deliberato conſiglio alcuna coſaſ pretermette,quiſando però l'aſcoltante di
tale deliberationc.Inbrie ue ti dico, cbe la disſimulatione , che ironia
s'addimanda, quenga, che ale cuna volta morda cu pungasėperò artificio,o figura
di queſta materia,nel laqual alcuni Greci riuſcirono mirabilmente.
Lacorrettione, oil giudi cio con timore ſonocolori di questa idea. Come quando
ſi dice , S'io nca sn'inganno ,s’io non erro , cosi mipare,ofimiglianti modi, i
quali quanto più banno del leggiadro, tanto più dilettano,o fanno l'effetto,
che ſi ricer 14. La correttione e in quel luogo. Si come prima cagione di queſto
peccato , fe peccato é , perciò che io t'accerto. ART. Et la disſimulatione
iui. Godi Fiorenza , poi che ſei si grande. ART. Belmodo e modešto é quando o
il biaſimo, o la lote ſi fa dar da una terza perſona, perche meno ha d'innidia
il teſtimonio altrui , che'l noftro, operò in queſto Poeta nel dire la origine
fua, uedrai modestia ma rauiglioft, Leggi ancora qui. Nobilisfime giouuni, à
confolatione delle quai io mi ſono meſſo à cosi lunga fatica io mi creda
aiutandomi la diuina gratis ſi come io auiſo, per gli uostri pictofi preghi non
gia per i mei mcriti quello compiutamente ha Herfornito, che io nel principio
della preſente opera promiſi di douer far. ART. Etil principio della quarta
giornata i ripieno di queſti modi. Ma tempo è di ucnire all'ultima forma di
queſto ordine , ma prima in die gnità o perfettione,comequella, ſenza laquale
niuna delle altre può nel l'animo entrare de gli aſcoltanti,dico della uerità,
a laquale benche la moc desta e dimeſſaforma piu che l'altre s'auicinano
,nientedimeno non è da di Te,che ella debbia dall'altre offer abbandonata,
imperoche non è opinione, òaffetto ,che ſenza eſſa indurre ſi poſſa, queſta fa
credere che cofiſia ,come Adice,questa moſtra l'animo di chiragions, queſta
èfrutto diquella uir ta che tùche noi chiamiamo imaginatione,cosi potente nel
porre le coſe dinanzid gli occhi,et cosi efficace ad ottenere ogni nostra
intenţione.Dimoftrafl adia que l'aniino di chi parla in questo
modo,cioèſenzamezo alcuno rompendo in uno effetto ,perche la natura in queſta
guiſa ui diſpone chequandoſiete iņuno affetto ſenza altra ragione in quello
entrando le dimoſtrate, cosi l'a ra ,lo ſdegno, il diſo, il dolore,o
ogniaccidente ſi fa paleſe. In ſommaſe je fidate,o diffidate, c teneteſperanza
d'alcuna coſa ſe allegrezza uimuoue 'ò noia alcuna,ueracißimi pareranno gli
affetti uoftri,ſe da quello che defe derateſenza porui tempo di mezo
cominciante. Leggi. Fiamma del ciel si le tue trecce pioua Equi doue il Poeta
dimanda aiuto Quando uidi costui nel gran diferto. Miferere di me cridai à lui.
A R. Come qui è uitiofo, doue un nụncio corre al palazzo à dan nog ua alla
Regina della preſa della città, es ardere etſaccheggiare ogni coſa, o
incomincia con lunga narratione,dicendo, id ui dirò diffuſamente il tutto. Ma
ritorniamo, hauendo il Porta di mandato aiuto à Virgiliopiù bricue che può gli
da notitia diſco perche l'affetto lo pronaua à chiedergli pohc cagione egli ſi
trouaſje in quel luo. soſeluaggio ,dice. Ma tu perche ritorni à tanta noia ?
Etfa maggiore il ſuo affetto replia çando, perche non fali il dilettoſo monte.
Là onde poiil Poeta pien di mara uiglia di ueder Virgilio, non gli riſponde, ma
dà loco allo affetto,et dicca Leggi. orſe tu quel Virgilio, equella fonte, Che
parge di parlar si largo fiume, Ripoſi lui con uergognofa fronte , Et piu
ritornando all'effetto di primajo de gli altri Poeti onor',e tume. AR. Vedi
comele Diſcordia con Gioue'adirata in tal modo comincia. Parti Gioue,che io, la
qualeprodußi,et conſeruo il mondo,degna fia di doc uer’eßer biaſmata da
ciaſcaduno. AR. Serbati in questo caſo à dimostrare che inte più uaglia la
natur ra ,che l'arte, o otterrai la credenza del uero che tu uuoi. Dire con
uolubi li parolc é ſegno di uerità, l'infigner d'hauerſi ſcordato, il
dimostrare die ſere dall'artificio lontario, o lo ejer dulla ucrità commoſſo,il
correggerſ daſeſteſſo,lo cſclamare in alcune parti quafi rapito dal uero, o
finalmene, te una diligente traſcuragine, & una traſcurata diligentia può
far’apparenza diuero.Ecco quanto bene appare,ola modeftia, ola verità ufar la
Discordia ,doue dice, Etſel mio eſſere pien di miſeria mi ci rende in diſpetto
l'effer Dea (coa me tuſei ) onata al gentilißimo modo delfangue two pieghi il
tuo anis mo ad aſcoltarmi benignamente. oRati' stato ilmio minacciare più tos
fto fegno di diſperatione , che cagion d'odio è di ſdegno che tu mi debbi
portare. AR. Et poco dipoi. Io parlerò Gioueaffine di farti pietoſo alla mia
miſeria ,non con animo d'effer lodatacome eloquente;muoue il dolor la mia
lingua,parte,et diſpone a fuo modo le mie parole, o quale id'l ſento nel core
tale,à te uegnia allos recchie,cheſenza offer altramente artificioſa
,Oornata,affai ti perſuaderà l'oration mia à dolerti di me,la qualedi tanto
nonſon conformeallo affan nocleoue quello continuamente m’afflige,queſta toſto
fi finirà, o ad ogni richiesta tua s'interromperà,però che qualunque uolta cofa
dirò, che mena zogna ti paia ſon contenta di dichiararla ,accioche picciolo
error nel prin cipio nonſi faccia grande alla fine: AR. Vedi quanto efficaci
ſtenote eſclamationi. O‘Amor quanti, o quali ſono le tue forze: AR. Et là doue
dice, o felici anime,alle quali in unmedeſimo di auer re il feruente amore o la
mortal uita terminare,o piú felicife inſieme ad uno medeſimoluogo n'antaſte, o
felicissimi fe nell'altra uitaſi ama.com toi vi amate; come di qua faceste.
Questa eſclamationefa parere la cofa uera, ilfalimento bella, la ſentent za
degna,o grande,le parole aſpra, o acerba, oil numero fplendida,o generoſa.Al
predetto artificio s'aggiungono le parole conuenienti alle cos feale appre
nell'ira, le pure, o le fimplici nella comuniſeratione. Leggi. Ahi dolcißimo
albergo di tutti imiei piaceri,maledetta fia la crudeltà di colui checon gli
occhi della fronte or mi tifa uedcre . Affai m'ora con quelli dellu
mēteriguardarti à ciaſcun’hora.Tu hai il tuo corſo finito, et di tale ,come la
fortuna tel concedette tiſe ſpacciato.Venuto ſe alla fine ,alla quale ciaſcun
corre,laſciate hai le miſerie del mondo, o le fatiche. AR. Conſidera le
parti,le parole , o le figure di questa forma nella effempio ora letto, ote
ſimili uſorai nelle occaſioni che ti ucrranno, et uce derai uſcirne opora
maraniglioſa. Vodi che cömiferatione ſi truoua in que fe parole. Caro mio
signore , fe la tua anima oralcmiclagrimc uede, oniuno i
conoſcimentoóſentimento doppo la partita di quella rimane a corpi,rice. dei
benignemoute l'ultimo dono di colei, laquale tu uiuendo cotato amasti. Vedi
ancora qui la ſomiglianzadel ucro grandemente adopraſi in rio fpondere alle
coſe,che potriano eſſer dimandate. Andreuccio,io ſuno molto certa, che tu ti
marauigli, & delle carezze,le qualiiori.fo.a delle mie lagrime;si come
colui chenon miconoſci ,oper quentura mai ricordar nonm'udisti,matu udirai
toſto coſa, la quale più tifarà forſe marauigliare, si come è ch'io ſia tua
ſorella. AR. Eccoti,che con una coſa più incredibile fa parere il falſo eſer
aero. Vſafi questo modo nel raccontare ,nello amplificar le lodi, ouero i
uituperii delle genti ,ouero in narrare le coſe fuori dell'ordine naturali,e
rare.Con una antiucduta eſcuſatio::e,come qui, Carißime Donne à me ſipara
dinanzi a doucrmifi far raccontare una uerità,che ba troppopiù di quello che
ella fu,dimenzognaſembianza. AR. Vera in ſoiamaè quella formadel dire , nella
quale confiderata la natura delle coſe la uarietà de gli affetri,la uſanza del
uiucre , con prue denza,riguardo dimostra le coſe fuggendo il coſpetto dello
artificio, & però molto leggiadramente fidce procedere nell'accurata,
obella forme del dire nella quale più vale il numero etl'artificio , che
nell'altre.Sicno dun que gli ſpirtidi questa forma partiper tutto il
corpo,accompagnati dal Sanguedella bellezza,odal mouimento della celerità del
dire ,che facila menteſi otterrà il deſiderato fine.Ne gl'affetti grandi,bricui
ficno le mem bra,uiusci le parole ,nel resto il giudi.io di chi parla habbia
luogo.Et qui Na ilfine delleformc o maniere del direin quanto che di ciaſcuna
partie samente ſi può dirc. Ma non sarà il finedi eſſe in quanto
biſognaſapereil modo di uſarle,et Accomodarle nella ciuilc oratione. Perciò che
colui ne oratore,ne erudito parcrebbe ilquale come nouel cfſercitaßcle predette
maniere daſe steſſe ignude, o inconipote,onde l'artefuafi manifestaffs, oegli
di abomincus defatietà, ct fastidio ricmpicſſe le orecchie, o gli animi de gli
aſcoltanti , Bella coſa é adunque il meſcolare inſieme le predette forme, o
farne una ortima miſtura,dalla quale n'uſcirà l'ottima,o uniuerſale idea della
oratio nc;appreſſo la qualeſarà quellà, che mancherà alquanto da quella ottima
meſcolanza,cosi di grado in gradofcemundo ilterzo,il quarto, o l'ul timo luogo
occuperà l'oratore. Della prima operfetta compofitione dela leformeio non ti
trouerei per ls uerità chi in questa lingua potefje , pere che gli ſcrittori di
efla hanno hauutaaltra intētione,cheformarela città M dincica dineſca minicra,ben
che per quello ch'io ſtimo,non anderà molto,che alcu noci naſcerà atto a questa
grandezza,alla quale più tosto manca la fatie ča,che il modo.Ora in quale forma
debbia abondarc la eloquenzafaperaiz per che la chiarezza,la ucrità, quella
cheaccoſtumata ſi chiama , fono le formeprincipali di tutta la manicra
ciuile.Dapoi appreſſo io amerei la celerità del dire con quelle forme poi,che
alla grandezzafi danno, tra le quali io eleggerei la comprenſione.Le altre
ueramenteſecondo il tempo ; er la occafione reggendomi abbraccerei con quella
ſcelta, con quella di fcretione che uolentieri,ut non isforzate păreſſero
ucnire riel parlar mio Ben'è uero, che molte ſono le intentioni de gli huomini
, equelle con dilia genza offer dcono confiderate.Chi uuole de i ſecretidi
natura parlare, bo delle coſe morali dee abondar'in grandezza senza alcuno
volubile movimeto. Chi ueramente cerca narrare ifatti de mortali,comeſi fa
nella iſtoria , elleggerà la ſchiettezza,ocleganza,nella quale è ripoſto
l'ordine delle co fe,cu dei tempi,a riguarderà primai conſigli,ale
deliberationi, poi le attioni, o ifatti,o finalmente gli auenimentio
fucceßi.Neiconſigli di moſtrerà quelloche deue cffer lodato ,o quello che
merita biaſimo nelle at tioni,i fatti ,ole parole,ilmodo, il fine. Et ne
ifucceßi dimostrerà ció the alla uirtù ,o ciò che alla fortunafi deve attribuire.Chi
ne ifenati uud l'esprimere la forza dell’eloquenza,perche il peſo delle coſe
ſară poſto fore. pra lepalle di chiragiona,biſognaabondare in grandezza,o
dignità, di mostrar cura openſamento,il che non uale ne i giudicij, ſe non ſono
di coi . Le graui,aimportanti,perche in eſſe più fimplicità,baſſezzaſi ricerca,
eſſendo quegli per lo più di coſe edi buominipriuati . Nel difendere, ale fai
uale la forma accoſtumata,obalfa,ſe non quando arditamente il fatto Rinega.
Poco ancora ui ſi vedrà di uolubile,o presto mouimento . Ma non . cosi nello
accuſare,douc oajpro, uecmente,o uiuo cſer dee l'accuſato re. Chi lola. fi dee dare
alla bellezza,o al diletto, o apprezzare lo fplene dore fenza ucсmenza, o
celerità. Et in brieuc,biſogna aprir gli occhi; eje nello imitare i dotti,o
eccclenti huomini.ſi richiede conſiderare; di che for ma eßt ſieno più
abondanti,o di che meno;accioche ſapendoper qual caz glorie eß istatilicno
tali,ancora non ſia tolto il potere à gli studioſi di ace coſtarſi loro, o
aguagliarli,o le poßibilc é ,che pureé paßibile al modo già detto di
ſuperargli. Et chi.pure non uoleſſe la fatica,poteße almeno giudicare i loro
fecreti. Molti, o minuti ſono i precetti d'intorno a questo offercitio,maio non
uoglio più affaticarmi,effendo quegli in molti,o gran di uolumi ordinatamente
ripoſti,oltra che ilnostro diſcorſo à niunopuò på rere terc imperfitto ,quando
egli uoglia la noſtra intentione riguardare ,laqua le è stata di fare i
fondamenti della eloquenza, auuertire di quanta co gnitione elſer debbia chi à
quella ſi dona; sopra i quali fondamenti ſono for date l'articelle de' maeſtri,
o gli esercitij de' giovanetti. Baſtiti, ô Dinare do,che tu ſia giunto là, doue
di giugnere deſideraui,o che tu habbi ueduto un circolo della tanto deſiderata
cognitione. Però che dalle parti dell'anie ma incominciaſti ,o in eſſe ſei
ritornato ,hauendo il corſo tuo ſopra di natů ra, ci sopradi me fornito, come sopra
due rote di quel carro,cheper lo apet to cielo ti condurrà uittorioſo, o
trionfante. Daniele Matteo Alvise Barbaro. Daniele Barbaro. Keywords:
archittetura, palladio, prospettiva, retorica, ordine cronologico: Ermolao
Barbaro il vecchio – Ermolao Barbaro il giovane – Daniele Barbaro – Temisto,
index nominorum, interpretazione e commentario di Barbaro sul commentario di
Tesmisto sull’analitica posteriora – manoscritto, Bologna. Manoscritto delle
‘Adnotationes ad analyticos priores’ – commentario diretto su Aristoele e no
via Temisto – Villa Barbaro – lezione privati di Barbaro sull’organon di
Aristotele – analytica priora e analytica posteriora, non al studio GENERALE,
ma alla sua propria villa! . Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barbaro” – The
Swimming-Pool Library.
Barbaro (Venezia). Filosofo. Umanista --. Grice: “As much as Speranza LOVES
Daniele Barbaro, I prefer Ermolao Barbaro; after all, he was his uncle – I
mean, Ermolao was Daniele’s uncle – and therefore HE taught HIM; I mean,
Ermolao, as a good philosophical uncle, taught the ‘minor’ (literally, since he
was his junior) Barbaro.” "Some like Barbaro, but Barbaro's MY man." Ermolao Barbaro detto il
Vecchio. Umanista e vescovo cattolico italiano. Sendo stato uomo
degnissimo, m'è paruto farne alcuna menzione nel numero di tanti singulari
uomini, acciocché la fama di sì degno uomo non perisca (Vespasiano da Bisticci,
Vite di uomini illustri del secolo XV). Ancora bambino comincia a studiare
lettere conVeronese, e il successo di quest'accoppiata allievo-maestro fu tale
che tradusse in latino le favole d’Esopo. Fece poi i suoi studi universitari a
Padova dove si laurea. Successivamente si trasfee a Roma dove entrò al servizio
della cancelleria papale. La sua carriera nella curia romana fu così fulminea
che Eugenio IV lo nomina protonotario apostolico e gli concesse la diocesi di
Treviso. Il rapporto con il pontefice, però, si interruppe bruscamente quando,
dopo che gli era stata promessa la nomina a vescovo di Bergamo, il papa assegna
il posto a Foscari. Lascia Roma e viaggiò per l'Italia ma, dopo una serie
di peregrinazioni, tornò a lavorare in curia. Si trasfere poi a Verona dove
Niccolò V lo designa vescovo e dove si sistemò in pianta stabile, tranne una
breve parentesi a Perugia come governatore. Messer Ermolao Barbaro, gentiluomo
viniziano, fu fatto vescovo di Verona da papa Eugenio, per le sue virtù. Ebbe
notizia di ragione canonica e civile, ed ebbe universale perizia di teologia, e
di questi istudi d'umanità; ed ebbe nello scrivere ottimo stile. Fu di
buonissimi costumi, e nel tempo di papa Eugenio si ritornò a Verona al suo
vescovado, e attese con ogni diligenza alla cura, e vi accrebbe assai e onorò e
multiplicò il culto divino. Era umanissimo con ognuno. Ridusse nel suo tempo il
vescovado in buonissimo ordine, così nello spirituale come nel temporale. Aveva
in casa sua alcuni dotti uomini, in modo che sempre vi si disputava o ragionava
di lettere; ed era la sua casa governata, come si richiede una casa d'uno degno
prelato. S'egli compose (che credo di sì) non ho notizia alcuna. Compose. Nulla
se ne ha alle stampe trattane qualche lettera, ma più opuscoli manoscritti se
ne hanno in alcune biblioteche, e fra essi la traduzione della Vita di S.
Anastasio scritta da Eusebio di Cesarea. Note
Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri del secolo XV, ed.
Barbera-Bianchi, Firenze. Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura
italiana, ed. Firenze, Vol. VI, pag. 808
Società storica lombarda, Archivio storico lombardo, ser.4:v.7, L'Umanesimo
umbro: Atti del IX Convegno di studi umbri. Gubbio, 22-23 settembre, 1974,
Perugia, 1977, pag. 199 Vespasiano da
Bisticci, cit. pag. 195 Girolamo
Tiraboschi, cit. pag. 808 Opere (alcune moderne edizioni italiane)
Ermolao Barbaro il Vecchio. Orationes contra poetas. Epistolae. Edizione
critica a cura di Giorgio Ronconi. 16x24 cm, pp VIII+186. Firenze: Sansoni,
1972. Pubblicazioni della Facolta di Magistero dell'Universita di Padova
Ermolao Barbaro il Vecchio. Aesopi Fabulae. A cura di Cristina Cocco. 22 cm, pp
186. Genova: D.AR.FI.CL.ET., Trad. italiana a fronte Hermolao Barbaro seniore
interprete. Aesopi fabulae. A cura di Cristina Cocco, 25 cm, pp 155, Firenze:
Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2007. Il ritorno dei classici nell'umanesimo.
Edizione nazionale delle traduzioni dei testi greci in eta umanistica e
rinascimentale.9788884502506 Bibliografia Girolamo Tiraboschi, Storia della
letteratura italiana, Vol. VI, ed. Firenze, 1819. Vespasiano da Bisticci, Vite
di uomini illustri del secolo XV, ed. Barbera-Bianchi, Firenze, 1859. Pio
Paschini, Tre illustri prelati del Rinascimento: Ermolao Barbaro, Adriano
Castellesi, Giovanni Grimani, Roma, Facultas Theologica Pontificii Athenaei
Lateranensis, 1957. Emilio Bigi, Ermolao Barbaro, in Dizionario biografico
degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 6
luglio 2018. Voci correlate Ermolao Barbaro il Giovane Collegamenti
esterniDavid M. Cheney, Ermolao Barbaro il Vecchio, in Catholic Hierarchy.
Predecessore Vescovo di TrevisoSuccessoreBishopCoA PioM.svg Lodovico
Barbo1443-1453Marino ContariniPredecessoreVescovo di VeronaSuccessoreBishopCoA
PioM.svg Francesco Condulmer1453-1471Giovanni Michiel · SBN IT\ICCU\MILV\110912
· LCCNn95090012 · GND (DE) 102417849 · BNF (FR) cb146202310 (data) ·
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Portale Biografie Cattolicesimo Portale Cattolicesimo Treviso Portale Treviso
Venezia Portale Venezia Categorie: Umanisti italianiVescovi cattolici italiani
del XV secoloNati nel 1410Morti nel 1471Nati a VeneziaMorti a
VeneziaBarbaroVescovi di TrevisoVescovi di VeronaTraduttori dal greco al
latino. Ermolao Barbaro, il vecchio. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Barbaro” – The Swimming-Pool Library.
Barbaro (Venezia). Filosofo. Grice; “Very good.” , ermolao – the
younger – il giovane, non il vecchio -- "Speranza likes
Ermolao Barbaro the Younger, but Ermolao Barbaro The Elder is MY man." --
H.G. Ermolao Barbaro il
Giovane. Avea profondamente meditato sopra i doveri che impone il carattere di
legato a chi lo sostiene e sopra le avvertenze che devono servirgli di norma
nella pratica degli affari, ónde servir con vantaggio il proprio governo e
riportare onore anche da quello presso di cui risiede. Ei ne ha indicate le
tracce in un pregevolissimo opuscolo in
cui la prudenza apparisce compagna della onestà del candore, ed è venuto a
delineare in certa guisa il suo ritratto. Ma lo stesso suo merito fu a lui
cagione di grave calamità. Cardinale di Santa Romana Chiesa Hermolaus Barbarus Ritratto
di Ermolao Barbaro, opera di Theodor de Bry. Patriarca di Aquileia. Ordinato
presbitero. Nominato patriarca da papa Alessandro VI. Consacrato patriarca. Creato
cardinal da papa Innocenzo VIII. Ermolao Barbaro detto "Il giovane"
-- è stato un umanista, patriarca cattolico e diplomatico italiano, al servizio
della Repubblica di Venezia. Comincia l'educazione elementare con il padre
Zaccaria Barbaro, politico e diplomatico veneziano, poi in tenerissima età e
mandato a Verona dal pro-zio Ermolao Barbaro, vescovo della città e umanista di
fama, per studiare lettere latine con Bosso. Per perfezionarsi passa a Roma
dove ha come insegnanti prima Leto e poi Gaza. Un cursus studiorum concluso con
successo. E laureato poeta, a Verona, da Federico III. Segue a Napoli il padre,
titolare dell'ambasciata veneziana, e proprio nella città partenopea scrive la
sua prima opera ovvero il “De Caelibatu”. Traduce tutto Temistio, pubblicato poi, in
parafrasi. Tornato in Veneto consegue a Padova il dottorato in arti e quello in
diritto civile e canonico. Subito dopo fu nominato titolare della cattedra di
etica. Come professore insegna soprattutto sulla Nicomachea di Aristotele,
mettendo in guardia i suoi studenti dalle traduzioni in latino di Aristotele e
predicando il ritorno alla traduzione diretta dal greco, proprio come face lui.
Sono infatti di quegli anni i commentari all'Etica e alla Politica e la traduzione
della Retorica. Abbandonato l'insegnamento
accompagna nuovamente il padre in missione diplomatica a Roma. E promosso
senatore della Repubblica di Venezia e ma stavolta in veste ufficiale, si reca
a Milano con il padre per una nuova ambasceria. Il primo incarico
diplomatico arriva quando, insieme a Trevisano, rappresenta a Bruges la
Serenissima in occasione dei festeggiamenti per l'incoronazione a ‘re dei romani’
di Massimiliano d'Asburgo e nell'occasione fu investito cavaliere. Dopo
un'esperienza come savio di terraferma, e finalmente nominato ambasciatore residente
a Milano dove si accredita e rimane in carica. Venne creato cardinale in
pectore d’Innocenzo VIII nel concistoro, ma non venne mai pubblicato. L'ottima
gestione della legazione veneziana a Milano, in tempi davvero turbolenti come
quelli della reggenza di Ludovico il Moro, gli vale un anno dopo la nomina ad
ambasciatore a Roma alla corte d’Innocenzo VIII. Ed e qui che avvenne la
catastrofe. Il giorno dopo la morte del patriarca di Aquileia Marco
Barbo, Ermolao erasi recato all'udienza del papa, per fare istanza acciocché
fosse differita la nomina del patriarca successore, finché il senato non gli e
ne avesse presentato, secondo il consueto, la nomina. Ma il papa, senza punto badare
a cotesta istanza, nomina lui appunto in patriarca di Aquileja; aggiungendogli,
essere questa grazia una giusta ricompensa al suo sapere ed alla sua virtù. Il
Barbaro in sulle prime si rifiutò dall'accettare la dignità, che il pontefice
conferivagli; ma quando Innocenzo gli e lo comandò in virtù di santa ubbidienza,
si vide costretto a sottomettervisi ed obbedire. Allora il papa sull'istante lo
vestì del rocchetto, di cui, per darglielo, si spogliò uno dei cardinali colà
presenti; e poscia in pieno concistoro fu preconizzato patriarca di questa
Chiesa. La procedura era rigorosamente contraria alle leggi della repubblica
che vietavano ai propri ambasciatori, senza la previa autorizzazione del
senato, di ricevere incarichi o nomine dai principi presso i quali erano
accreditati. Allora, per giustificare la violazione procedurale, il Papa
scrisse una lettera al Doge chiedendogli di confermare la nomina, ma il
Consiglio dei Dieci, competente in materia, delibera comunque che Barbaro deve
rinunciare al patriarcato. Cosa che, dopo un po' di tira e molla, prontamente fa.
Scelse, per farla più solenne, la circostanza del giovedì santo alla presenza
del papa e di tutto il sacro collegio. Ma il papa non la volle accettare. Né
l'obbedienza sua agli ordini del senato basta per anco a giustificarlo. Poco
avveduto, non pensa di spedirne a Venezia la stessa sua dimissione al senato,
ad onta dell'opposizione del pontefice; mostrandosi dal canto suo per tal guisa
fedele ed obbediente alle leggi del suo governo. Più avrebbe inoltre dovuto
lasciar Roma e ritornare a Venezia. Ov'egli si fosse regolato così, l'affare
avrebbe cangiato di aspetto, e sarebbesi ridotta ad una semplice controversia
di giurisdizione tra la corte di Roma e la Repubblica di Venezia. Ma essendo
rimasto in quella capitale, ad onta della fatta rinunzia, né avendone dato
avviso al senato, egli fu riputato veramente colpevole in faccia alla legge, e
perciò costrinse il senato ad usare verso di lui ogni misura di rigore. Come
risultato di questo pasticcio fu bandito perennemente dalla repubblica e
interdetto da qualsiasi ufficio pubblico e privato. Quanto al patriarcato di
Aquileia, tecnicamente, ne rimase titolare ma il senato oltre ad avergli
impedito, con l'esilio, di recarvisi fisicamente, ne congelò le rendite
patriarcali e nomina Donato in suo vece, anche se la nomina non fu ratificata
dal papa. Ne deriva una situazione di stallo, durante la quale la diocesi
patriarcale fu amministrata da Valaresso (anche Valleresso), vescovo di
Capodistria, con il titolo di Governatore generale. Barbaro rimase a Roma
dove decise di dedicarsi a tempo pieno ai suoi studi. Pparticolarmente
importanti, oltre alla composizione di Orationes et Carmina in latino e alla
pubblicazione delle “Castigationes Plinianae,” disputazioni scientifiche sulle
imprecisioni e sulle invenzioni della Naturalis historia di Plinio, sono l’epistolario filosofico che si scambiò
con Poliziano e Pico, che, insieme, costituirono un vero e proprio
«triumvirato, a que' giorni potente e celebratissimo nelle scienze e nelle
lettere. E sventuratamente colto dalla pestilenza che serpeggia nell'agro
romano. Giunta a Firenze la nuova del suo pericolo trafisse altamente il cuore
dei due suoi celebri amici Poliziano e Pico. Si lagnavano essi che la sua
perdita seco involge il destino delle buone lettere, sembrando loro che in un
sol uomo pericolasse l'onere delle cose romane. Pico anzi volle tentar di
soccorrerlo, inviandogli col mezzo di suo corriere un antidoto ch'ei medesimo
componeva e che credeva atto a domare il morbo pestilenziale. Ma quando arriva
a Roma l'espresso, era di già passato tra gli estinti. Note De Legato, recuperato dal cardinal Quirini da
un codice della Vaticana e stampato per la prima volta nelle annotazioni alla
Deca II della sua Thiara et purpura veneta
Giovanni Battista Corniani, Camillo Ugoni, Stefano Ticozzi, I secoli
della letteratura italiana dopo il suo risorgimento, Torino, 1855, Vol.
II,132 Contemporaries of Erasmus, op. cit.91 Bruno Figliuolo, Il Diplomatico E Il
Trattatista: Ermolao Barbaro Ambasciatore Della Serenissima, Napoli, Guida Editori,
1999,19 Saverio Bettinelli, Risorgimento
d'Italia negli studj, nelle arti, e ne' costumi dopo il mille, Bassano, 1786,
parte I,219 S. Bettinelli, cit.219 Antonino Poppi, Ricerche sulla teologia e la
scienza nella scuola padovana del Cinque e Seicento, Rubbertino, 2001,54 Vittore Branca, La sapienza civile: Studi
Sull'umanesimo a Venezia, Firenze, 1988,67
Eugenio Albèri, Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, Firenze,
1846, Vol. VII,26 Giuseppe Cappelletti,
Le chiese d'Italia della loro origine sino ai nostri giorni, Venezia, 1851,
Vol. VIII,512-513 Giuseppe Cappelletti, op. cit.516 Jacopo Bernardi, Ermolao Barbaro o la scienza
del pensiero dal secolo decimoquinto a noi, Venezia, 1851,12 I secoli della letteratura italiana, op.
cit.134-135 Bibliografia Saverio Bettinelli, Risorgimento d'Italia negli studj,
nelle arti, e ne' costumi dopo il mille, Bassano, 1786 Eugenio Albèri,
Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, Firenze, 1846 Giuseppe
Cappelletti, Le chiese d'Italia della loro origine sino ai nostri giorni, Vol.
VIII, Venezia, 1851 Jacopo Bernardi, Ermolao Barbaro o la scienza del pensiero
dal secolo decimoquinto a noi, Venezia, 1851 Giovanni Battista Corniani,
Camillo Ugoni, Stefano Ticozzi, I secoli della letteratura italiana dopo il suo
risorgimento, Torino, 1855 Vittore Branca, La sapienza civile: Studi
Sull'umanesimo a Venezia, Firenze, 1988 Bruno Figliuolo, Il Diplomatico E Il
Trattatista: Ermolao Barbaro Ambasciatore Della Serenissima, Napoli, Guida
Editori, 1999 Antonino Poppi, Ricerche sulla teologia e la scienza nella scuola
padovana del Cinque e Seicento, Rubbertino, 2001Thomas Brian Deutscher,
Contemporaries of Erasmus: A Biographical Register of the Renaissance and
Reformation, University of Toronto Press, 2003 Altri progetti Collabora a
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Archive.David M. Cheney, Ermolao Barbaro il Giovane, in Catholic
Hierarchy.Salvador Miranda, BARBARO, iuniore, Ermolao, su fiu.edu – The
Cardinals of the Holy Roman Church, Florida International University. Ermolao
Barbaro, in Treccani – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Emilio Bigi, BARBARO, Ermolao, in Dizionario biografico degli
italiani, vol. 6, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1964.PredecessorePatriarca
di AquileiaSuccessorePatriarchNonCardinal PioM.svg Marco Barbo7 marzo 1491 - 2
maggio 1493Nicolò Donà Controllo di autoritàVIAF54942062 · ISNI0000 0001
2133 7866 · SBN IT\ICCU\MILV\088873 · LCCNn80137686 · GND (DE) 118657119 · BNF
(FR) cb121940202 (data) · BNE (ES) XX1216846 (data) · NLA35180637 ·
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Categorie: Umanisti italianiPatriarchi cattolici italianiDiplomatici italianiNati
nel 1454Morti nel 1493Nati il 21 maggioMorti il 14 giugnoNati a VeneziaMorti a
RomaBarbaroAmbasciatori italianiPatriarchi di AquileiaTraduttori dal greco al
latino[altre] Ermolao Barbaro. Keywords: il celibato, lettera a Pico, lettera a
Poliziano, traduzione della retorica, commentario all’etica nicomachea,
comentario alla politica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barbaro” – The
Swimming-Pool Library.
Barcellona (Catania). Filosofo. Grice: “Perhaps my favourite by
Barcellona is “I soggetti e le norme” – vide my conversational norms – and
‘soggeto’ of course relates to ‘intersoggetivita,’ a pet concept of Italian
phenomenology!” Grice: “Of course, for us British subjects (to the Queen), the
idea of ‘soggeti’ cannot quite make sense! But Barcellona’s point is
fascinating: the Romans did have the concept of a sub-iectum and an ob-iectum:
they like a symmetrical expression formation, too! Barcellona shows that we
have to speak of ‘soggetti’ to get intersoggetivita – and then the norma – a
very Roman concept, which as J. L. Austin said (following John Austin), does
not quite translate as ‘norm’ – “We don’t use ‘norm’ in ordinary language.”” Barcellona shows that it is ‘I soggetti’ i.
e. at least a dyad that makes ‘the noi trascendentale’ adding up ‘l’io
trascendentale’ with ‘il tu trascendentale’ and ‘l’altro trascendentale’ that
we get the norm. Barcellona got to the idea after seeing the French film, ‘l’un
et l’autre’!” -- Pietro Barcellona, deputato
della Repubblica Italiana LegislatureVIII Gruppo parlamentarePCI Dati generali
Partito politicoPartito Comunista Italiano Titolo di studioLaurea in
giurisprudenza ProfessioneDocente universitario Pietro Barcellona (Catania
), filosofo. È stato docente di diritto
privato e di filosofia del diritto presso la facoltà di giurisprudenza
dell'Catania. È stato membro del Consiglio superiore della magistratura. Si laurea in Giurisprudenza nel 1959. Nel 1963
consegue la libera docenza in Diritto Civile e insegna a Messina. Dal 1976 al
1979 è componente del Consiglio Superiore della Magistratura. Ha diretto il
Centro per la Riforma dello Stato, fondato con Pietro Ingrao. Nel 1979 è stato eletto deputato nelle file
del Partito Comunista Italiano ed è stato membro della commissione giustizia
della Camera fino al 1983 . A causa
della sua formazione teorica materialista, ha suscitato nel molto scalpore la sua conversione raccontata
nel libro Incontro con Gesù. Docente
emerito di filosofia del diritto all'Catania. Altre opere: “Diritto privato e
processo economico” (Jovene Editore); “L'uso alternativo del diritto, Laterza);
“Stato e giuristi tra crisi e riforma, De Donato, Bari); “Stato e mercato tra
monopolio e democrazia, De Donato); “La Repubblica in trasformazione. Problemi
istituzionali del caso italiano, De Donato); “Oltre lo Stato sociale: economia
e politica nella crisi dello Stato keynesiano, De Donato); “I soggetti e
l’intersoggetivo della norma” (Giuffrè); “L'individualismo proprietario, Bollati
Boringhieri); “L'egoismo maturo e la follia del capitale, Bollati Boringhieri);
“Il Capitale come puro spirito: un fantasma si aggira per il mondo, Editori Riuniti);
“Il ritorno del legame sociale, Bollati Boringhieri); “Lo spazio della
politica. Tecnica e democrazia, Editori Riuniti); “Dallo Stato sociale allo Stato
immaginario. Critica della ragione funzionalista (Bollati Boringhieri); “Laicità.
Una sfida per il terzo millennio, Argo); “Diritto privato società moderna,
Jovene); L'individuo sociale, Costa & Nolan); “Politica e passioni.
Proposte per un dibattito, Bollati Boringhieri); “Il declino dello Stato.
Riflessioni di fine secolo sulla crisi del progetto moderno, Ed. Dedalo); “Quale
politica per il Terzo millennio?, Ed. Dedalo); “L'individuo e la comunità” (Edizioni
Lavoro); “Le passioni negate. Globalismo e diritti umani, Città Aperta); “Le
istituzioni del diritto privato contemporaneo, Jovene); “Tensioni metropolitane,
Città Aperta); “I diritti umani tra politica, filosofia e storia, A. Guida); “La
strategia dell'anima, Città Aperta); “Diritto senza società. Dal disincanto
all'indifferenza, Ed. Dedalo); “Fine della storia e mondo come sistema. Tesi sulla
post-modernità, Ed. Dedalo, “Il suicidio dell'Europa. Dalla coscienza infelice
all'edonismo cognitivo, Ed. Dedalo); “Critica della ragion laica, Città Aperta);
“Diagnosi del presente, Bonanno); “La parola perduta. Tra polis greca e
cyberspazio, Ed. Dedalo); “L'epoca del postumano, Città Aperta); “La lotta tra
diritto e giustizia, Marietti); “Il furto dell'anima. La narrazione post-umana,
Ed. Dedalo); “L'ineludibile questione di Dio, Marietti); “L'oracolo di Delfi e
L'isola delle capre, Marietti, Elogio
del discorso inutile. La parola gratuita, Ed. Dedalo); “Viaggio nel Bel Paese.
Tra nostalgia e speranza, Città Aperta); “Incontro con Gesù, Marietti); “Declinazioni
futuro/passato. Poesie, Prova d'autore, Il sapere affettivo, Diabasis); “Il
desiderio impossibile, Prova d'autore”; “Passaggio d'epoca. L'Italia al tempo della
crisi, Marietti); La speranza contro la paura, Marietti); “L'occidente tra
libertà e tecnica, Saletta dell'Uva); “Parole potere, Castelvecchi, . Sottopelle.
La storia, gli affetti, Castelvecchi); La sfida della modernità, La Scuola, . 978-88-350-3599-2 Pietro Barcellona e la
pittura Una delle più grandi passioni di Pietro Barcellona, è stata senza ombra
di dubbio la pittura. Comincia a dipingere all'età di 20 anni. Due sue opere si
trovano in esposizione permanente presso il "Museo dei Castelli Romani".
Un suo quadro fa parte della collezione permanente della Salerniana, Galleria
Civica d'Arte Contemporanea "Giuseppe Perricone". Vanta diverse
personali: 1959"Mostra Città di
Catania"; 1997"Galleria Arte Club" di Catania, con testi critici
di Manlio Sgalambro e Salvo Di Stefano; 2001"Galleria Arte Club" di
Catania. Espone un nucleo di ventiquattro opere sul tema "La città della
donna" con testo critico di Giuseppe Frazzetto; 2002"Tensioni
metropolitane" presso "Fondazione Luigi Di Sarro" di Roma;
2002"Galleria Quadrifoglio" di Siracusa; 2002"Fondazione
Filiberto Menna" di Salerno; 2003"Mitologia del quotidiano"
presso "Galleria La Borgognona" di Roma, con testi in catalogo di
Simonetta Lux e Domenico Guzzi; 2003"Contrasti" presso "Galleria
Tornabuoni" di Firenze, con testo in catalogo di Fabio Fornaciai e dello
stesso Barcellona; 2004"Museo dell'Infiorata" di Genzano;
2006"L'impossibile completezza" presso il "Museo Laboratorio di
Arte Contemporanea" di Roma, Patrizia Ferri e Mario de Candia; "Il
desiderio impossibile" presso "Le Ciminiere", Sala C2, di
Catania, con testo critico di Mario Grasso. Saggi sull'opera di Pietro
Barcellona Su Pietro Barcellona, ovvero,
riverberi del meno, Atti del Convegno di Studi su alcune opere di Pietro
Barcellona, Mario Grasso. Prova d'Autore, .
978-88-6282-154-4 W. Magnoni, Persona e società: linee di etica sociale
a partire da alcune provocazioni di Norberto Bobbio, Glossa Edizioni,
Milano, M. De CandiaFerri, Pietro
Barcellona raccontato dai suoi amici, Gangemi, 2006. 978-88-492-0933-4 T. Greco, Modernità,
diritto e legame sociale, in «Materiali per una storia della cultura
giuridica», XXXI (2001), n. 2, 517–541.
S. Pegorin, Emergenza Antropologica. Pietro Barcellona e la lotta in difesa
dell’umano Riconoscimenti Il 29 marzo , il Comune di Misterbianco (CT) gli
intitola una piazza. Note Pietro Barcellona, su CameraVIII legislatura,
Parlamento italiano. "Pietro
Barcellona: Mi converto, dal Partito Comunista a Gesù Archiviato il 18
maggio in .", Ragusa News. l'Unità, 11 maggio 2003: "Pietro
Barcellona, Il Piacere di
Dipingere"//archiviostorico.unita/cgi-bin/highlightPdf.cgi?t=ebook& file=/golpdf/uni_2003_05.pdf/
11CUL31A.PDF&query=Andrea%20 carugati Archiviato il 4 marzo in .
Corriere della Sera, 1º febbraio 2006. Omaggio a Pietro Barcellona
pittore, giurista e filosofo.//archivio storico.corriere/2006/febbraio/01/ Omaggio_Pietro_Barcellona_pittore_giurista_co_10_06017.shtml Inaugurata la piazza intitolata al prof.
Pietro Barcellona | Misterbianco.COM Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio
su Pietro Barcellona Napolitano: Pietro
Barcellona fu un protagonista in Italia. Messaggio del Colle ai funerali del
giurista, ex parlamentare Pci e membro laico del Csm[collegamento interrotto]
articolo pubblicato da La Sicilia, 9 settembre , sito lasicilia. Filosofi
italiani del XX secoloFilosofi. Pietro Barcellona. Keywords, Barcellona, comune
di Messina. Conte di Barcellona, lo stato imaginario, i soggeti,
l’intersoggetivo della norma, communita intersoggetiva, discorso futilitario,
societas, communitas, socius, seguire, ‘follow’, Toennies, communitario, stato
keynesiano, stato imaginario, anima smartita, conflitto e cooperazione sociale,
anima smarrita, communitas, immunitas, sociale, societas, discorso inutile,
Grice, end of conversation, goal of conversation, deutero-esperanto, linguaggio
privato, i soggeti, l’intersoggetivo. --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Barcellona” – The Swimming-Pool Library.
Barié (Milano). Filosofo. Grice: “”My favourite of Barié’s is his
parody of Apel: “il noi trascendentale”!” -- I like Barié; he commited suicide,
which is not that rare among philosophers – same percentage than the general
population – cf. Durkheim, “Le suicide: a sociological enquiry,””. Grice:
“Barié tried to play with the idea of the transcendental, and he did – he
applied it first to “I” (‘l’io trascendentale’). When I wrote my thing on
personal identity, I preferred the pronoun ‘someone,’ to stand for ‘I’, ‘thou,’
and the allegedy THIRD ‘person,’ ‘he.’ – Barié has also edited Vico’’scienza
nuova,’ and provided a ‘compendium’ of the SYSTEMATIC kind, favoured by some,
of the history of philosophy, with sections on ‘roman’ philosophy
(“l’epicureanismo romano,” “lo stoicism romano,”) --.” Grice: “Perhaps the closes Barié comes to me is in his ‘The concept of the
‘transcendental,’ since I struggled with that in “Prejudices and
predilections,” where I feign to think that perhaps ‘transcendental’ is too
transcendental an expression and should be replaced by ‘metaphysical,’ but my
tutee, Sir Peter, being more of a Bariéian, disagreed wholeheartedly!” – Grice:
“I cherish Apel’s comment on Barié: “Surely, if we are going to have ‘l’io
trascendentale,’ we need at least ‘l’altro trascendentale,’ or as I prefer ‘il
tu trascendentale.’” Partendo da posizioni kantiane pervenne a una posizione da
lui stesso definita neotrascendentalismo, scuola di pensiero di cui fu il fondatore.
Nato il 19 ottobre 1894, si avviò agli studi di diritto che concluse solo a
seguito del primo conflitto mondiale, che lo vide impegnato inizialmente come
ufficiale di cavalleria e poi come aviatore. Nel 1924 ottenne la laurea in
filosofia. Inizialmente attestato su
posizioni kantiane (La dottrina matematica di Kant nell'interpretazione dei
matematici moderni, 1924, e La posizione gnoseologica della matematica, 1925),
nel corso del suo progredire intellettuale Barié perviene a una posizione
filosofica critica nei confronti della dottrina kantiana. Di questo passaggio è
emblematica l'opera Oltre la Critica, del 1929, che mette in luce le difficoltà
della dottrina precedentemente sostenuta. Il periodo metafisico Oltre la critica segna
il punto di svolta dell'attività filosofico-intellettuale di Barié, che
comincia a sviluppare un interesse metafisico, forse dovuto all'influenza di
Piero Martinetti, del quale era stato allievo. In questo senso il filosofo, nel
suo primo approccio alla metafisica, si pone su un binario che era già stato di
Spinoza, salvo poi rendersi conto del fatto che anche la posizione spinoziana è
in realtà insufficiente per tentare di risolvere il dilemma della relazione essere-pensiero.
Si ha quindi l'approdo di Barié al pensiero leibniziano, testimoniato
dell'opera del 1933 La spiritualità dell'essere e Leibniz. L'approdo al neotrascendentalismo e Il
Pensiero Libero docente dal 1929, ottiene la cattedra universitaria nel 1933
spostandosi di conseguenza a Genova, Roma e infine Milano, nella cui università
succede al suo maestro Martinetti nella cattedra di filosofia teoretica.
Consapevole del fatto che, per quanto superata, la lezione antidogmatica di
Kant non poteva essere completamente ignorata, Barié inizia una profonda
revisione del proprio sistema teoretico che lo porta a diminuire drasticamente
le sue pubblicazioni (di questo periodo sono il Compendio sistematico di storia
della filosofia, 1937, e Descartes, 1947) e che culmina con la pubblicazione de
L'io trascendentale (1948). Nel 1950 fonda l'istituto di filosofia dell'Milano
con lo scopo di renderlo centro propulsivo di una discussione
filosofico-culturale con le realtà filosofiche del tempo che si sarebbero confrontate
con la nuova visione di Barié, adesso orientato verso una concezione di
filosofia come metafisica, ossia di metafisica quale causa della realtà
sensibile e del pensiero. Con lo stesso scopo nacque nel 1956 la rivista Il
Pensiero. Altre opere: “La posizione gnoseologica della matematica – e
dell’arimmetica in particolare” 7 + 5 = 12” (Torino, Bocca); “Oltre la critica
della ragione e del giudizio, il criticismo (Milano, Libreria editrice
lombarda); “Spirito e anima: La spiritualità dell'essere e Leibniz” (Padova,
CEDAM); “Compendio sistematico di storia della filosofia con particolare
attenzione alla filosofia romana sino Cicerone” (Torino, Paravia); “L'io
trascendentale non-psicologico” (Milano-Messina, G. Principato); “Il concetto
trascendentale” “Il trascendentale” (Milano, Veronelli. Note
Atti del V Congresso Internazionale di Filosofia, Napoli, 1924 riproduzione fotografica (p.1-109) da
OpalLibri antichi riproduzione fotografica
(p.110-202) Davide Assael , Giovanni
Emanuele Bariè, Milano, CUEM, 2008. Davide Assael, "Il
neotrascendentalismo di Giovanni Emanuele Barié", in Rivista di Storia
della Filosofia, 2009; (4), 731–759.
Davide Assael, Alle origini della scuola di Milano: Martinetti, Barié, Banfi,
Guerini e associati, Milano, 2009.
Milano Accademia scientifico-letteraria di Milano Università degli Studi
di Milano Scuola di Milano Giovanni
Emanuele Barié, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Giovanni Emanuele Barié, su
sapere, De Agostini. Giovanni Emanuele
Barié, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Opere di Giovanni Emanuele
Barié, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Filosofia Università Università. Giovanni Emanuele Barié.
Keywords: lo stoicism romano, Enea, eroe romano, eroe stoico, Catone, il noi
trascendentale, vico, storia vichiana, arimmetica. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Barié” – The Swimming-Pool Library.
Baricelli (San Marco dei Cavoti). Filosofo. rice: “Italian
philosophers can be eccentric; Baricelli started commenting Plato but his
masterpiece is a philosophical tract on sweat, as experienced by the athletes
Plato was familiar with!”Medico, chimico e filosofo di fama italiana ed
europea, Giulio Cesare Barricelli- nacque a San Marco dei Cavoti nel 1574 (o
1575) e fu da molti, pure erroneamente, ritenuto originario di Benevento o di
San Marco Argentano in Calabria. Erudito
e studioso di poliedriche attitudini e capacità, studiò medicina e si interessò
di filosofia, tanto che ancora giovanissimo fu autore di commenti alle opere di
Platone, mentre nel pubblicò l'opera in quattro libri De hydronosa natura sive
de sudore umani corporis, sulla natura e la terapia della sudorazione umana,
nelscrisse l’Hortulus genialis, edito a Colonia e Ginevra ove raccolse antidoti
e sudi sulle intossicazioni, e successivamente diede alle stampe il Thesaurus
secretorum, opera in cui sono elencate le cure ed i rimedi per svariate
malattie e problematiche quotidiane. Nel
1623 pubblicò poi un trattato sull'uso del siero del latte e del burro come
medicamento, intitolato De lactis, seri, butyri facultatibus et usu, e nello
stesso anno gli fu conferita la cittadinanza beneventana. Cultore di studi
umanistici Barricelli scrisse anche alcuni epigrammi latini e morì in Benevento
tra il 1638 ed il 1640. A San Marco dei
Cavoti, nel corso degli anni, gli vennero intitolati un antico circolo
ricreativo (sec.XIX-XX), la scuola elementare (1942) ed infine la strada ove si
trovava l'abitazione in cui visse, già denominata Via Pastocchia, che ospita
anche un monumento in suo onore, opera dello scultore Giulio Calandro
(1989). A proposito dell'intitolazione
della scuola, su espressa richiesta dell'allora commissario prefettizio Mario
Jelardi, l'insigne storico Alfredo Zazo propose la seguente epigrafe che ne
riassume le doti i meriti: A GIULIO
CESARE BARRICELLI CHE DEL RINASCIMENTO EBBE LO SPRITO INFORMATORE E LA VASTA
ATTIVITA' PROFUSE NEL CAMPO DELLA SCIENZA MEDICA DELLE LETTERE E DELLE SPECULAZIONI
FILOSOFICHE IL COMUNE DI SAN MARCO DEI CAVOTI A RICORDO ED INCITAMENTO PER LE
GENERAZIONI CHE IN QUESTA SCUOLA SI EDUCANO NEL FERVORE E NELLA FEDE DEI NUOVI
GRANDI, AUSPICATI DESTINI DELLA PATRIA XXVIII OTTOBRE 1942XX E.F. Opere. “De hydronosa natura sive de sudore
umani corporis”; “Hortulus genialis”; “Thesaurus secretorum De lactis, seri,
butyri facultatibus et usu. Alfredo Zazo, Dizionario bio-bibliografico del
Sannio, Napoli, Angelo Fuschetto, Giulio Cesare Baricelli, 1989 Andrea Jelardi,
Dizionario biografico dei Sammarchesi, Benevento. nis
Hortuli Genialise RERVM MEMORABILI VM , QVAE IN HORTVLO Geniali continentur
elenchus . A Beſton accenfus,perpetuòarder. A cos. 12. poribus effe &tus
procreari. Admirandumauxiliuin advefica calculum , qwo abſque inciſione
diffoluitur de expurgatur. 211. • Alapides renum vefica frangendos mirabile
remedium . 204 Ammantium lac ab alimentis recipere qualita tem . 174 Agricola
nonſemel tempeftates e Serenitates pre dicunt. Abſyntbiumroborat ventry
Abfynthij Romani mira i 170 Abſalonformararus. Acorescapitis bufonefanartit Achatis
lapidismirabilis Acetum ad i &tus venenosov Acetiſcyllitici miraoperato
371. Adam eratſapiennriſsimus Aegyptiſ in annimenfura 233 Aegyptiorum opinio de
elementis. Isbe Aepyptij in morborum -Chrafacileadiguem recara 178 Aemorrhagia(
electumprefidiuna : 176 . ( Aegypti hierogliphicis vacabant, 2085 Aegyptiorumarcana
ait quartanam Aegyptijregesopera magnifica do admiranda an . Liquitus
conftruxiffe.zi. Aegye MONACENSIS. REGLA BIBLIOTHECA Tunt. Aegyptiorum in
condiendiscorporibus obferuatio. Levis ſalubritatem ad vite produktionem maxå
moperè videmusconducere. 34 Aegyptiorum Auditim ir lapidis á vefsica extra
Sione Aegyptij quomodoignea prefidia component Aerisnatura quomodo nofcatur Afflictionem
tribuere intellettum . Agricolafilicibus in horreis cur vtantur. 200 Agricola
cwufdam interitus. Alexandri mors.quo veneno fuexit caufata Alexandri
ſudoredolens. 197 Alexandri uder.fanguineus. Alexandrimagnanimitas in ftudiofos
Amazones mammas dextras ſecabant. Amoris originis controuerfia Amantes
surfacile irafcantur, Ambarum vi ebrietatemfaciat. 307 Animalia quadam Arni
tempora pradicero. 224 An transformatio realis detur. An animal in igne viuere
poſsie. 18 Anni computum diuerfimode fa &tum Animalia ex putri materia non
ſemper extitiffe. Anicularum quarundam facinona. Antimony in vitrum redu &
io. Anuli Bubali ad gramphum vtiles: 98 Anularis digitus cordi amicus. 100
Antora napello inimiciſsima. 175 Anginaprafocatina vt compefcatur. 197 Animalia
a vteerikus Dis dicata, 226 58 Anguil 214 290 306 343 120 Anguillarum cum
Aquilone affe &tus Animantiumcobur à cominé oritur. Anni climacterici
quales. Annibalisſtratagema in boftes. Anniprefagia à quercus galiis:
Ancitodorum aliquor obferuationes. 171 A priteftium virtus mirabilis. 162 Apri
ægrotantes hederam quarunt. Api efum infauftum veteribus, 165 Apri dentes adanginan
dompleuritidem vtiles Apes imminente pluuia adalucaria redeunt Apiumri
usherbafcelerata; Apum mirabilisſagacitasdan officium Aqua mirabilis ad
viſusdefectum Aquilinumlapidem partum accelerare , 126 Aquafrigidaqualiter
apparetur. 314 Arcades qualiter annum computabant. 39 Archelai Regis in populos
immanitasi go Arboris ficusmirabilisnatura: Arietislingualantium ostendit.
Araneorum reła in medicina vfurpata Arbores quandoquein lapides mutati. 90
Artemiſia quando in radicibus carbonem producati Articulares dolores quomodo
curentur. Archelaus Rexaſtronomie ignarus Ariſtotelis opinio demularum ortu .
Ariftotelis rerum indagator , Ariſtolochia piſces ftupidosfacit. Archelaus turrim
incombuſtibilem fecit: Aſphaltirisla 'usmirabilis natura, Apronomia medicis neceſaria
Ararum vomitu humores expurgat. Aparagor um 2u corporis nitorem producit. 245
Afphespropè halico ibum fiupidi. 272 Aſparagi vi mirabiliter erefcant. 279
Ap.dum natura qualis. Athenien esfacerdotes cicutam comedebant Atrila canis
instarlatrabat Athenienfium ura erga fiicos Aues vfu Taxi nigra fiunt. Auri
vfus in medicina Aufonij locus de mecha uxore Afilici odor vermesgignis Bafilijanhabitat
pelicudinibm Aphrice Ibid . Bafilifcum haudàgallo excludi. Bardana mira vis in
affe& u uteri. Bituminis vis in hiſterica paſs. Braſsica, dorura fimul
fatahereunt. Bruta aliquot lafciuiffe in fominas, Bryonia mira virtus in
affe&tu-matricis. Braſsica fuccus contra ibrietatem . Britânnurum præfidium
in furiofos. Bubuloftercore colicam ,anari. Bufonis lapis cóntra vinena .
Bufonis.mira propriet as in Aſcite. Arnes dura utfiant teneriores. Canes.obmutefcunt
vmbra Hyena. Capramaximèepilepſia tentatur, Capillorum defluussm laudano curare
Cani Canicula exortum à veteribus previſum , Carnes cocta ,quomodo crude
videantur. 161 Canes fabrorum exiguos habent lienes Cancri vini quomodo co
&tifimulentur Capre in luftinis montibuseuomunt Capilli noftri plantis
affimilantur Caftratilienem , dan vitella ouorum deglutire ne. queunt. Cauſtica
remedia ,qualia adftrumas Caryophillgte vis adcorporismacular. 287 Caftorei
teftespropèrenes adeffe Caminus quo fumum non emittet, Calphurnius beftia
uxores dormientes necabat.33% Catelli membrorum dolores confopiunt, Cacodamonem
mali nnncijpraſagiumattuliffe.32 Calendula folis amica. 341 Capiuacceiopinio de
menftruofanguine Cantharidum mira vis nocendi Carthaginienfium prefidium ad
deftillationes in . fantium . Cati.cerebrum hominesdementat.
Cornilacrymaſworesſuſcitat, Corui renouantnr eſos ferpenris Cervi carnes ad
vita produftionen . 107 Cepamab Hyppocrate deteftari. (109 Ceruorum vita
longiſsima 281 Cerius Alatus Francorum inſignie Cerninum penem.conceptum
facere. Ceraforum aqua epilecticis vtiliſsima 348 Chamedrij mira vis ad
lienofos Chalcanti vfus quidoperetur Chymici forebantapud veteres: Cibm ܫܐ 306
Chuslapidusquomodo apparetur. Cicutam uterinum furorem domare Cicuta virginum
mammas detumat. 344 Cynorrhodi radix ad hydrophobiam Cyminum hominibupallorem inducere.
Cyprinorum vfuspodlagricis infeftus. 135 Cyprini officulü caluarisad spilefiä
mirabile Clarorum virorumexitus. Lorui morientiúm fæditatem fentiunt, 1j2
Colicu dolor quomodofanetur. 88 Collegium veterum pro tuendaſanitate. ) 2OS
Cotoneorumfeminaadcombufta. 208 Confedtio fenibuspraftantiſſima Corpusutglabrum
reddipofit Corpora venenatá vtnofcantur. 24% Coralline vis adlumbricos Corniplanta
hydrophobiam ſuſcitat Consensus de disensus animantium Corneliu Celji
valetudinis precepta . Creationis mundi opiniones. 10 Croci
metallorum.compofitio. : 29% Crinesmulierum qua via denfiores fiant Cupreff
folia Strumas auferre. Cur fit vtquis clauos vomere videatur. Cucumeres oleum
abborrent. Cur quiti impronisè moriantur. D. Ature flores Defunium capillorum
ab hydrargiro, Demoris afturia apud indos. IS Democrittfedulitas in olei
caritare . Demofthenes quomodocuraffet lingue impedimen 14.290. Denti. 306 174
Dentium dolores bufonis tibia janari: 10% Dentium ftupor àportulacaremouetur Dentium
dolores paſtinaca marina radio conquieſterr Defipientia mulieribus familiaris,
Digiti annularis ſympathia . 160 E. EBura quoartificiocolorentur. Ebriy
variafufcipiunt deliria , 312 Echini ſagacitas in ventorum mutationibus. 41
Elephant's in fæminam mirusamor. 81 Empiricorumremedi4periculofa Epistola
quomodo in ouo celetur Equam grauidam marem admittere. Equagrauida fomas
occiditur,abortit Equorum teftes ad ſecundas depellendas praftan . tiſsimi. 317
Equusphaleris accinctus acrior.fot. 363 71 Asies rugata quomodo emendentur.
Faciem hominis diuerfimode alterari, 42 Familia in Creta mire faſcinatrices Faces
ardentes ex Betula corticibus. * 339 Fætor extin &ta lucerna
grauidisperniciofu , 48 Febricitantium fitis qualiter compefcatur Febrem à
quodum pifceillico exitari. 194 Fæmina aliquot inrares mutate, , 160 Fæmina
pruritu corripiuntur in pudendis in prima menftriornm eruptione. -Fæcula
Brionie in affecte vteri Feniculorum femina aliquando exitialia Filij Filij â
parentibus figna recipiunt. Ficorum efumfudoremparerefætidum Filices ab agris qualiter exterminentur.
Flores in Aegypto fine odore. 145 Flamma quomodo in aqua excitetur. 176 Fluuij
aliquot mirabilis natura. Fructum vinearum , iumentorumg interitus pre ſagium Ferarum
natura in hominibus mirum in modum deft. 8a Fons mirabilis apud Garamantes. 299
Frigida post pharmacü exhihita, felici fucceffu Fraxinum ferpentibus inimicum :
Furiofi in pleniluno,magis infaniunt. Futi vulnera quomodo curentur. Fungi ubi
in lapides mutentur. 90 fumus hydrargiri quid efficiat Galenu,Medicorum princeps
Aline appenfo milui capite furisunt. 188 Galega, defcordij vis contra peftem .
Gallinarum.stercus adfungorum viru . 276 Gallinarum adeps quomodo diu ſeruetw
.. 28% Gallina quomodofæcunda fiant. Gentium.don populorum ingenia. 17€
Germanorum mos circa coitum . 72 Gigantes quando in orbe fuerint, Gymnofophifta
apud Indos mirabiles. Grauidationis muliersus affertio. 7 % Grauida mulieres
marein admittunt. 73 Grauida conceptü quomodo valeant occisltare. 22
Grauidaaliquando fætupariuntfine vnguibus. Gra 200 Greuide mulieres curpallida.
139 Greci de Iudeorum monumentis nihiladduxe 189 H. Auftulus aqua matutinus
falubris . Heclaignis aqua nutritur Hemicrania Gagate fubmouetur. 133
Homicrania à carduo benedi&to fanythr. 216 Herfetes ceroro tabacci
coufanari. Hellebori nigti ele&tio in Anticris. Hederam cumvino habere
diſcordiam Hemorrboidailisherbe mira virtus, 340 Hellebori nigriextra & nm
. 160 Hybernie miraaerisſalubritas, Hidropsà viridi lacerto confanata Hydrophobosè
poto catuli congulo aquam illico ap petere. Hippocratis opinio de
balbisdefe&tiua, 74 Hydrargiri minera quomodo reperiatur. Hyppiatriquo
studioftellas albas in equorum fu cis confingant Hydrophobia rara dicuffion 54
Hydrargiri mira natura. .183 Hydrargirum remedium eft advermes. Hydrargirum
utilead celidolorem Hydrargirumremedium in pofte. Hydrargirum defluuium
capillorum facere. Hominis vite longitudinis breuitatis figna, Homo repertus
mira vaftitatis. 170 Hominumcur aliquotfubtilioris, vel graffiorisin .
genijfiant. 187 Homines Principis vitam imitantur. 17 320 326 Horai. 61 Homines
inuenti miragracilitatis. 245 Hominis compofitionismirabilia Hominesquomodo
fiant abfemy. 327 Hominum corpora olim vafta Ibis in degyptofolum moratur,
Ignispraſidra admorbos fele &ta . 303 Infantes à quibusnutricibm ladandi.
23 Infantis inumbilicum animaduerfio. Indi ante Hiſpanorum tranfitum variolas
baud paffi funt. 88 Infania ex folano fyluatico quomodo emondetur.85 Indus
quidam longiffime vite. Infantes eiulareautoladein mammillu , Infantium ruptura
ut curentur. 100 Infantes vipreferuentur ab epilepfie. Infantes ànutricibus
mores recipere 270 Infantis umbilicum conceptum facere. 334 Inser Lupum eAgnum
diſcordia . Inter brafficam , de vitesfympathis. 338 Iumenta clitellaria fibilo
, cantu á laboribus fubleuari Aminas aris& vitrileo extrahi Lapidis ignem
redensis compofitio. Lapathiam camas duras,teneruofacit, Lacerta apudIndosmira
magnitudinis, Lu ,fanguisaliquandopluers viſs. Lepusannis decemviueredicitur .
Letargicos à Satureia vigiles fieri. Leonardi vatri de partu opinio. 102 237
Leones Leonesaftatttertianam patiuntur. 348 Leporumnonomnes hermaphrodui, 294
Leo timet Gallung. ISO Linteaapud Indos igne depurari, Littera aurei coloris
quomodofiant: Lignum èviſco Latum diſcutita Lienem adcorporis turpitudinem
valere 191 Lolium praun inducit ſyptomata . 86 Lolij nocumenta Aceto fanari.
Ibid . Lups afpe&tu homines obmuteſcunt. Irupi pauci reperiuntur,ones autem
multa Zapi quomodo ouibus nacere nequeant. , 106. Lumaca lapispartum ,accelerat
Ludi in conuinijsfeftiuiquales, 19 Lupi,canes, doFeles ut curentur, 175 Lupi in
fenio ſerpentesin renibus.generant. 234 Luna confinusad inferiora, mirabilis.
236 Lue gallica canis infeftus 243 Lumbricosquandoquegenerari virulentos MAmirimum
vitulum àfulmine non ladi, izg Aris yubri admiranda : Maleficas artesir
Septentr. exerceri 176 Mascitius, quàm fæmina animatur , 182
Maritimarumtempestatumprafagia Maculanigre in morbisquid portendant.
Mădragoravitibus infundit vim ſoporiferam :214 Mares in mammillisſapè
Lachabent.. 323 Marina pallinace radiusad dentiumdelores yti lis. Mommarum sum
vtero ſympathis Medicinepraktamsia quanta fit .. Menftrualisfanguinis immanita
, 92 Medea an fuerit venefica. 138 Memoriaquo prafidio augeatur. 138 Mercury
pojisura in hominūnatiuitatibus, quan tum valeat. Mergorum i anferum proprietas
contraHydropho biam .. 49 Mellis vfu vita vtiliffimus. 285 Medicina multa
abanimalibus capta . Meſpulilignum ab ab ortu preferuat. Menftrua plerifqs
fæminis in fenio. Mirabiles in hominibusproprietates dari. Mithridates
inculpatè venena bibebat. Mithridatis antidotum ad venena . Mirafontis
inEpgroproprietas , 285 Mille pedum preparatio adcalculos. 223 Mille folium
aduulnera conſolidanda . Morborumprauorum natura , 69 Morus planta
prudentiffima . Morfusquidam à cane rabido latrauit. 1893 Mors inArthritide
quandofuccedat. 190 Mures futurorum praſcj. Muftela cur rutam comedat. Multa
prafidia ab animalibus homines accepije. 316 Mulierum capilli quomodo in vermes
mutentur.zo Monftruofa Dæmonis apparitio. Mulieres pregnantes vt nofcantur. Muftella
fanguisadepilepfiam . 197 Mundi creatio .ornatus. Mullus sterilisatem producit.
167 Mulierum pinguedoſuamis. 22 67 Mutin 140 Mulieresrarò inebriantur.
Mulorumgenuspropagare nequit. Mulieresin. Ponto animalibus.nocentes . 247 N :
64 392 Natura presidentia in brutis .. Natsuitates.hominum quando ob'eruende
230 Natura arcanaprovira producenda. Neronis crudelitas quoque pads a nutrice
wiginem fumpfit . 26 . Nero Tapfiam magnificauit. Nereides, Sirene lepe vifa
fust : Nili proprietu admiranda 10 Niues rubentes in Armenie. Nodi in vmbilico
infantis quid sotentas Nuxairiftica quomodofiat vigore for 1 1 20 % 139 O
Learum fterilitatis preſagium : olei, vini,fegetumquefterilitatis prefagium.
olei balneumproconkulfis laudatum . aleun amigdalarum dulcinm advariolarum
veftigia probibendu. olea Minerka a yeteribu dicata: 114 slei cinemani
raracampofis. 194 elina olinarum oleum adunguium pannas. tur. Par 200 Oleum
latris colicum affe& um domato 108 Oleum lixiuio miftum albeſcit. 332.
Opthalmia aliquando.folo afpe & u communicar 203 @ris
ulceraquomodofanemtur: Oryalus viſu auriginoſos.sanat.. 203: Orestis cadauer
odto cubitorum . fa de corde Cersui.corina uznena.. Oxes capite
mouentpluuialmininente. Quesalba ubi nigrefiant. 352 P Arimdi
difficultasquandoqueà curto umbi lco prouenit. Paracelfafalſaopinio
dehomunculipartu. 108 Panaritiumqualiter illico fanetur . Parthi, Scytheque quo
venenofagittas linjrent.318 Pestilentitemporeinter precipua præfidia.neris 18
Aifcatio fummum iudicatur. Papauer agreſte contra pleuritidem , Papauer
ſolisfpheraminfequitur, Perfa.aliis coquinas replebant: Pediculicorpora
morientium relinquunt 79 Beftem ex occulta antipashia oriti. 147 Penna Ibidis
ſerpentes-terret, 339 Perniones:quomodo fanentur: Phalangii'ueneni opera.
Phrensuci cur fortiſsimifint, Phrenetidem exnigro-corallio quiefcere 146
Bhreneticialiquando mirabilia loqui. Pharmacum dare, quando periculofum . 242
Philomenaà vipera deuoratut. 288 jot 3.1 $ 276 1:59 Pifa 102 Piſces
marinifalubres, japidi, Pifiesfrixi quomodo in venenum tranfeunt. 72 Pici
mirandulani ingenium ; 183 Picem cum oleo habere colligantiam Pici opinio de
fcientiarum varietate. 16 Portulæca foment contra lumbricosa Plurimamèterra
furfum rapi iterumque deorfumi cumpluuiis precipitarz. 333 Polypodijmira
viscontra cancrosa 239 Porri caputquomodo augeri pofsit: 25+ Potentia
imaginatiua in conceptu mirabilis . 295. Planta fimileseffe&tu fimiles ,
vinute... 77 % Pluvia imminentisprofagia. Plumburglans in coli dolorepraffans.
Prognoftica tempestatis pluusoſa. Prafodiam mirabile ad calculos 337 Preſedia
admiranda inangina. Pfli, do Marfi ferpentibus amici. Pulchritudo, deformitas
afpeétuo quid portono. dat . 175 Pulchritudo corporis quo termino confitna . $
. Euella à teneris veneno odusara . 36 Pulſus deficientes anfemper mali, 140
Queen Vanium profit neris puritasin peffe. 103 Wartanarii improuifo rimore
fananiky. Mr. Qua via volucrumpennacolorentur. 199 Quartana quomododebellerur.
***** Quibuscorpusflorsfcit,his lien decrefcit. 219 Quo artificio es aduratur.
153 QuorumdamiAnimalium vitalongitado 117 Quorumdam animalium naturl .
Quorumdam homină virtutes, & ornamenta. 196 quo artificio mares ab.
uxoribus. [tyfcipere vales 235 Quo Artificio duriſsimafaxa frangerevaleamus.30
Quomodo in urdieriſomasexcitari valeamus.341 mks. R Aneterreftris oleum
aditrumas ! Rexbarbarumcidoniatum gravidisfummum medicamentum . 263 Rerum
Sympathiam in aliquot brutis Admirabi. lem effe; . 113 Rută inter alexiteria
medicaméta cõnumerari, 49 Rores marini virtus miranda , 123 Ruta mira. vis
contra venenum . S jabbarici junijmiraproprietas, Sanguis menftruus quandoque
ex oculis velgingi uis excluditur, 77 Salis prunelle virtus,de compofitio. 149
Sartyriam carnofum venerems excitat ,flaccidum vero extinguat. 706 Sanguis
menstrualisexucis, ſcarabais venenū . 218 Sanguis caninus hydrophobis vtilis.
Saliua bominisfcorpionesnecat . 317 Scarabei miraproprietas. 280 Scarabai
cornuti vis in febre ciendo . 223 Sciffure laborum.usmanuum remed . 262 Scythe
quomodo diuabfque cibo vivant: 3:32 Berpentesquibus fufficibusarceantur.
Sene&tutisincommodah Sepermusinter mafculos meră retinet virtutã.226 14 128
Serpeniums ona, velgenitura in pornfumptaSerpenting gignunt. 319 Singulis
quopatto cohibeatar, Socij Diomedis in volucres conneri . Solis confuxm ad
inferiora maximus. Solatri potencia contra parafitos. 40 fomniorsuspreſagia à
Deoconcedi. 238 Sodami -Gomorrbi fruétus vari. 342 Solis defe & us quomodo
comprehendatur. 343 Spurij robuftiores legitimis fuus . 95 Spe& acula
veterum vbi celebratamagis. Spuweis epilepticis non femper filo Spatiuwvil e
fecundum Acryptias. Stygis Arcadiemortifera natura . Sirumarum mirum remediusa.
100 Strumaper vrisano quandoquepurgalai 257 Sterilituin bomine ytdiriwratur
SAMIremedium temporepeffu. 210 Succinum parium mulieris accelerare , Syrupus
fpinæ infeftorie ad temelusume. SS SwimeisterSidera calidißima . T. sbacci vw
apud Iudos. 15 Talpeoleum ad Aruma. 257 Taurifanguis inter VEREBANwerari. 29
Taurilapillu veſice contracalcules. Taum Philoſopbw famen cabiberet . Ferro
lenonia contra ventna . Tbagfia mira vis in facillasi . SO Thappa 319 274 T 93
138 213 105 - Thapſia veſsicas, do ademata excitat. 9 Torpedinismira vis in
capitis dolores. Trauli,cobalbi,do femilingues unde finns . Tuberum
efufrequenti hominescadunt. 13? Aleriane vis contra epilepfiam , V Variola
,morbilli affe&tmnoni, 74 Verruce quomodo extirpentur. Verbena vis in
capitis doloresi Verbena virtus contra frumas . 89 Vermium in corporibus
hominum varia figura 18 periuntur. 93 Vermes rubei in cerebro adnati. 134
Verbafci florss Sole aecedente decidunt, 137 Veterum fepulchra mitèconftrudia .
158 Veterum ruditasdo, in foribendovarietas. 197 Vena ſarustella ſpleneticis
auxiliatrix Veterum in nuptiisconfuetudo. 275 Veteres equoram lacrymas
admirabantur. 192 Venenumà diſsimili extinguigecontra , 309 Vermes in
cordis.capſula exorti, 322 Ventorum mutationes ab Echmo previderi. 41
Vifusacies,in quibus fueritadmiranda. Víres collapſa odoribus reſarciri
poffunt. 47 Vitrioli, com fulphurisoleumad vermes. Vipera
catellosfuosparit,utnutrit. 60 Vipera inter ſerpentes fola parit animal
vinã.ibe Viperamorſus Hellebori nigri radicibus fanan. Vinum pro Afthmate
ſele&tum Vito longena quomodo apparemme. 361 zur . Vina Vina alba quomodo
rubra fant , Virginitatismulierum figna . Vitrum quo modo diuidarur. Vinum
venenatumquibus profuerit. 29L Vinum à veteribusfeminis interdi & um . 304
Vifcum quercinum epilepticis falutare. 318 Vitri puluerem calculus comminuere.
344 Vimivſus elephanticisfalutaris. 325 Vlcera formicantia quomodo breui
fanentur. 59 Vricornu proprietas, bet cognitio. Volatilium ,piſciumque
fecunditatispreſagia. Vrtica folia ſalutem , vel mortem informi in lotio
prefagiunf. DeMedicinepraftantia. Edicina decçio demiſla eft: ita
Mercurius Trifmegiftus apud Aegyptiosſapientiſsi. profectoad fluxilis natura
goltre remedium Deus altiſsimus ho minibus conceſſit; vt fanitatem conſer .
uare, &perditam recuperare commodè valeamus. lofa autemà vitæ conftituto
termino, & à morte nequaquam viuen . sia omninoliberare; ſedcorpora à cor
suptione, & feftinadiſſolutione præfer uarepotius iudicatur. Amazonescur
mammasdextras refecauerint. Mazones illæ, tantum à ſcriptori bus celebratæ
,propterea fibi má. mas dextras refecari curabant, vt magis A armis HORTYLYS
GERIAITS. armis gerendis aptæ fierent; vel potius Demannum , & brachiorum
impedire • tur motus. Mihi zutem Galeni opinio 7. Aphor. 43.ex fententia
Hippoc. admo dum placet; qui has mulieres id feciffe aferuit, vt manus dextra
robuftior cua detet.Hocautem à ratione alienum mi. nimèeft, quippe nutrimentum ,quod
in mammam dextram à natura diſtribui debebat,totum in manum , & brachium
immittebatur. Strab . lib . 11. Olearum fterilitatis prefagium . Ergiliarum
occultatio , & emerso Sucularum tempeftuofi fideris, fi pluuiofam
tempeftatémouerit , & vitis, &olei germinationé fuffocabit.Ex hac cauſa
Democritus olei præuifa caricate, magna vilitate oliuas in toto co tractu
coemit, mirantibus , quipaupertatem , do & rinam , & quietem homini
oble & a . mento cffeſciebant : at vt apparuit cau . fa , & ingens
dinitiarum acceffio ,reftituis mercedem , contentusleita probaffe, 0 . pes fibi
in promptu eflc cum vellet. Ex Fran, luncino in Sphæra. V IVLII CÆSARIS BARL.
CELLI & SANCTO MARCO, Do&oris Medici, & Philofophi, Hortulus
Genialis. DeMedicinepraffantia. Edicina decçio demifla eft: ita Mercurius
Triſmegiſtus apud Aegyptios ſapientiſsi musfcriptum reliquit. Hát profecto ad
fluxilis natura noltre remèdium Deus altiſsimus ho minibus conceffit; vt
fanitatem confere uare, & perditam recuperare commodè valeamus. lofa autem
à vitæ conftituto termino, & à morte nequaquam viuen. sia omnino liberare;
fed corpora à cor ruptionc, &feftina diſſolutionepræfer uarepotius
iudicatur. Amazones cur mammasdextras refecauerint. AMiszonesilla, tantum
àfcriptori .. mas dextras reſccaricurabant,vt magis armis HORTVLVS GERIATS.
armis gerendis aptæ fierent; vel potius De manuum, & brachiorum impedire
tur motus.Mihi autem Galeni opinio 7 . Aphor. 43.exfententia Hippoc. admo. dum
placet; qui has mulieres id feciffe aferuit, vt manus dextra robuftior cua deret.Hocautem
à ratione alienum mi. nimé eft, quippe nutrimentum , quod in mammam dextram à
natura diſtribui debebat,totum in manum, & brachium immittebatur. Strab .
lib.11. Olearum fterilitatis præfagius . Ergiliarum occultatio , & emerGo
Sucularum tempeftuofi fideris , fi pluuiofam tempeſtatemouerit, & vitis,
& olei germinationé fuffocabit. Ex bas cauſa Democritusolei præuifa
caritate, magna vilitate oliuas in toto co tracta coemit, mirantibus ,
quipaupertatem , do & rinam , & quietem homini oble & a mento effe
ſciebant : at vt apparuit cau . $ a , & ingens dinitiarum acceffio
,reftituit mercedem , contentusleita probaffe , o pes Sbi in promptu effe cumi
vellet. Ex Frap, lundino in Sphæra. V BA KICELLI O aqua Nili,
Nilifluminisproprietas uædam aquæ reperiuntur, quæ fæ . cunditatem proprietate
quadam inducere celebrantur: ita eſt quæ ſua vi nitroſa, vt voluit Seneca 3 .
Natur. quæſt. natura. fæpè vteros per petua fterilitate occluſos aperuit ,
& conceptumfecit: Vnde mulieres in AE gypto,vtfcripfit Ariſtot.quinos,
& qua ternos frequenrer fætus edunt ; ratio non alteri tribuitur, quàm Nili
aquæ , quæ illis in potu familiariſlima eſt. De Mundicreatione. N qua Anni
parte Müdus à Deo crea tusfuiflet,diſcordes interſe ſcriptores funt, vt Hebræi
, Iſmaelitæ , Chaldæi, Arabes,Aegyptij,Græci, & Latini.Mula ti enim in
Aeftate, nonnulli in vere,alij verò in Autumno conditum fuifle con tendunt.
Moyles fuiſſe in Autumno affe . rere videtur, cum in Geneli dicat, Ger minet
terra berbam virentem , &facientem emen, Glignum pomifera faciens fru
&tung iuxta YO & TVLVS GENIALIS. iuxtágenusfuum.Ex Aegyptijs nonnulli A
eſtate creatum afferunt. Inter Latinos Cardinalis Aliacenfis vere nouo condi
tum voluit.Inſuper variant,quia Plane tas aliquot afferunt in mundi principio
fuiſſe creatos in fuis domibus: Solem ſci licet in Leone, Lunam in Cancro,
Martē in Scorpione, Saturnum in Capricorno, Venerem in Libra,Mercurium in Virgi
ne, Iouem in Sagittario. Alij , Planetas volunt, in fuis altitudinibus, præter
Mercuriú ,omnes fuiffe collocatos. Que autem opinio fit verior , D.Thomas 4
fons dif. 2. artic. 8. videnduseft. Murium fagacias. Vres ex ônibus
animalbusquo dám do cognofcuntur. Cum enim domus aliqua conſenuit,
&ruinamaliquam iamcom minatur, primi ſentiunt; & reli & is fuis cauernis,
priſtiniſque fiabitationibus, domum relinquunt, properè fugientes, aliudque
domiciliú quærunt. Aelianus de var, hift.lib.z.& Leuisius Lempius do fest.
nat. Pluuja Mamodofuturorum præcij effe SARICELLI Pluuioſa tempeftatis
Prognoſtics. ' Ergiliarum occafus matutinus , lo nubile Coelo accidat, hyené
plu . uiofam denunciat,fi fermo Cælo ,alpe ram.Sic Veneris,aut Martis per
Pleiades tranfitus aliquot dicbus pluuioſam ciet tempeftarem.Saturnus inſuper
cum cor pore , aut radijs ad a &turum accedit, i dem minatur.Ex Plinio,óobferuat.Stadi.
Agricola non femel tempeftates, & f renitates predicant. Vltos profe &
o cognoui pafto res, plerofquc agricolas , quiin prædicédislerenitatibus ,
& tépeftatib. magnæ mihi erant admirationi,quare tanquamcnriofus fciſcitabar
, qua via, &ordinc hęcſcirent?ratus forfan fimpli ces , &idiotas non
poflc tanta certitudi . ne futura prænoſcerc ;nifi vel Dei mu. nere, vel
Demonisa & uid fieret . Exre latu diuerfas ftellarum conftellationes abijs
experientia cognitas , no & u , ani . maduerti:quarüobferuatione vera pre M
dicunt HORT TITS GENIALIS. dicunt . Experti enim ſupt Pleiades in Autumno , quæ
in principio no&is ori. untur cum Marte , velVenere mouere tempeftatem .
Aréturum non fine gran dine emergere. Hadorum ortum & oc . cafum tempeftatem
pluvioſam in regio . nibus noftris prænunciare; & alia , quæ in promptu
tales habent, licet alijs no minibus hæc fidera nominent . Quare mirum non eft,
priores ftellarum per fcrutatores circa carum prædi& iones multa nobis
reliquiffe,cum id ſapientia , & obferuatione perfecerint, quod iam idiotæ
fine magiftro facere valent. Valeriana miraviscótra epilephan . leriana
ſylueftris, quęlpontènal. citur,præter innumeras, quæ ab au & oribus ei
tribuuntur virtutes, hancia diù, in multis , atque in fe ipfo Fabius Columna in
bifter, plant . expertam ape suit ,vt ſemel,velbis radicis puluerisco chlearij
dimidium cumvino,aqualadte, aut alio quouis decétifucco & proggro
sicómcditate, & ætate fumptü,epilep Valeri Ga correptos liberet. Extirpatur
ante quam caulem edat , & puerisexhibetur, & preſertim infantibus, qui
morbo hoc facilè laborant. Retulit auctor ſe multis puerulis lac propinafle ;
multiſ“; amicis donodediffe : qui deinde diuino prius numine glorificato ,
puluerehuiusplan tæ illis reftitutá fanitatem affirmarunt. Transformationes
hominumin beſtia as noneffe reales. Vædá monſtruoſæ hominü tranſ formationes in
beſtias à multis au Storibus fcribuntur; & inter alias, de il la Maga
famoſiffima Circe, quæ ſocios Vlysis in deftiasfertur mutaffe : de Ar codibus ,
qui forte ducti tranſnatabant quoddam ftagnum atq; ibi conuerteba tur in Lupos:
de Diomedis ſocijs, qui in voluitres conuerſi ſunt , plurima'addu cunt. Hoc non
fabuloſo mendacio ,fed hiftorica affirmatione multi confirmat, vt in fpec.
natut.Gib. Vincentius Beluacenſis retulit. Aflerunt enim (vt ajtSolinus
)velmagiciscantibus, vel her barum veneficio in feras corpora tranſ formari.
Dicunt in experimento Neuros populos Aeftatis tempore in lupos mu tari, deinde
fpatio, quod his attributun eft exacto, inpriſtinam faciem reuerti, Anautem
huiuſmodi trasformatiorea . lis ſit vel illufivè facta àDemone,D.Au guft.lib.
18. de ciuit. Dei ita nodum enu. cleauit: Quod transformationes homi numinbruta
animalia,quæ dicuntur ar te Dæmonum faétę ,non fuerint fecun dum veritatem ; fed
folum fecundum apparentiam . Quippe opus hoc tantum Deieft ; vt in Concil,
lacro A Acyrano fancitum eft. • Demonis aftutia apud Indos. Erba, quam
Tabacchum appella mus , apud Occidentales Iodos in magno cratpretio .Cum
eniminter hos dere graui agebatur ,ad Sacerdotemil. lico
accedebat,quitotuoegotiúexpone bát. Sacerdos auté corá illis fronde , vel
furculum Tabacchiſumebat, qua carbo . nibus inic & ta, fumum peros, &
nares ex . cipiebat , & inftar mortuiin terrá cade bat. Paulo poſt
conſumptis fumivirto bus in cerebro, reſponsa, ſed ambigua, prout Dæmones
perilluſiones, & fimu Jachra fuggefferant , populo dabat ;qua tanquam
religioſa, & veriſsima cunati recipiebant. Ita profi eto hominum ini. micus
Gentiles decipere confueuerat. Monardes de rebus Indicis. Quid
Picusdefcientiarum varietate fentiret. CH *Vm quodam die Ioannes Picus Mi
Urandula de fcientiarum varierate diſſereret,in Hebrçorú ,inquii ,Philofo phia,
omnia funtveluti quodam numi ne facra, & in maieftate veritatisabdita Ceu
prodigia quædam , & arcana myfte sia . In Græcorum veròdifciplinis, in
genium , acumen , & omnigena eruditio apparet , vt nulla vnquam gens
fuerit, quæ dicendi copia , & ingenij elegancia cam illis poffitconferri
.InRomanaved sò Academia, ca ferè omnia, quæad ci. witaté, & vitæ morespertinent,
&graui. * , & copiosè funt explicata,ac magni fica NORTÝ Ers GENIALIS.
P. ficè diđa. Sic ve grauitas maximè Roo manis, &
imperijmaieftas,Grçcisinge nium, &acumen; Hebræis do & rina fe .
cretior , & quaſi diuinitasaſiribi poſsit, Crinitus da honeft. diſcipl.
lib.g. Subditos , Principis vitam vtpluri. mumimitari Rincipis vitam fubditi
maximopere imitantur. Hinc fa & um eft,vt ex Philofophica vita Marci
Imperatoris, magnum virorum doctorum prouentu ærasilla tulerit. Solent enim
plerumque homines vitam Principis æmulari iux . ta illud Platonis à Tullio in
epift.ad Lé tulum reperitü : Quales fum in Republica Principes,sales folers
effe cines.Quapropter ex bonitate Principis Marci, plurimila philoſophari
finxerunr,vt abeo ditarë . tur. Ex Herodiano, & Xiphilino. Rutam allium
ferpentibuset werfari. Vtä odor,allija; ferpentibus max ex teftimonio Ariſtotelis
9.de.biſtor. animal.c. 6. habemus muſtelam , cum dimicatura eft cum ſerpentibus
, rutam comedere. Hac etiam ratione ducti Perfæ( auctore Simone Sethi )
coquinas allijs replebāt, vt ipfasà ferpentiú contagio tuerentur.
Animaliaoriri, & viuere poſſe in ig ne compertum eft. Agna admiratione
dignum eſt illud, quod ab Ariſt. s.de hiftor. animal.6.19.adducitur; animalia
ſcilicet oriri, & viuere in igne,cum elementum hoc omnia comburat: &
nullatenus pu treſcat. In Cypro, inquit, infulaærarijs fornacibusvbi , Calcites
lapis ingeftus compluribus diebus crematur,beſtiola in medio igne naſcuntur
pennatæ ,paulo mufcisgrandibus maiores, quæ per igne Saliant, & ambulent.
Equidem fià tanto viro hocnon aperiretur ; vix credere homincs auderent , cum
totum rationi aduerſetur; fed hæc, & alia maiora à po fentiſlimanatura
fieri poſſunt, 10 Lacus HORTVLvs GENIALIS . C Lachs Affhaltitis mirabilis
natura. Yommemoratione dignum puto Alphaltitis lacus naturam expo nere.Salfus
ille quidem,ac ſterilis eft,fed tanta leuitate , vt etiam, quæ grauiſſima
ſunt,in eum iacta fluitent:nec quiſquam demergi in profundum ne de induſtria
quidemfacilè poſſit.Denique Veſpaſia mus , qui eius viſendica uſa illucaccelle
sat, iuſfit quoſdam natandi infcios, vin &is poſt terga manibus, in altum
deijci, & euenit omnibus, vt tanquam vi fpiri. tus farſum repulfi , deluper
Auitarent. Joſepbas lib. 5.de bello Iudaicri.9. Piſces marinos falubriores,
& fapidi. ores efe fluminum piſcibus. lices, tum pidiores, tum falubriores
ſunt ijs, qui in fuminibus, ftagnis , lacubus, auc riuulis viuunt.Salfedo enim
duriorem facit carnem , & fubtilioris fubftantiæ . Contra in piſcibus, qui
ſunt in fiumini bus, &perinde eorú caro excrementitia eſt muccoſa, &
infuauis. Vndeapud Co. lumellam extat lepidum didū. Philip pus cum ad Numidam
hofpitem deue niſlet, & fibi è vicino fluminelupi for moſum
appofitúdeguftaffet,ex puiſſet guc dixit: Peream ni piſcem putauerim ! vſque adco
à Tyberino,velmarino dif. ferre putauit, vt illum piſcis nomine in. dignum
iudicauerit. Mulieris cinni fogant ſerpentes, da in vermesmutantMr. ulierum
capilli, quibustantopere gaudent, & pro quorum ſtructu ra in exornandis
multum conſumunt te . poris ,cremáei, ferpentes abigere vifi sūt: fin autem in
aquam inijciantur, in ver mes non diù retenti commutantur. Plurimos homines
aqui per tenebras, de per lucem vidiffe. Erum natura opulentiſsima admi ſus
aciem ,oculoſgue ſplendentes pręſti tit; vt multi felium more noctu vagari
liberè potuerint. Legitur de Alexandro per tenebras æquè,ac per lucem vidiſſe;
viſum adco acerrimum habuit Galenus, quod in lomnis, patefactis repentè pal
pebris, magnamante oculos lucer via debat, vtiplede ſe fidem facit lib. 7.Hip
port. Go Platon , plac.6.4. At mirabilior erat TiberijCeſaris proprietas; qui
in tenebris exactè videbat;de qua re adeo admiratur Tranquillus, vt id pro mira
culo ſcribat. Cibusfapidiſsimus quomodo apparetur. Viſapidissimum cibum habere
de liderat, Gallinaceos pullos, qui la &te & panis micis laginati lipt,
in menſa procuret, ij profe &to præſtantiſsimum ſaporem exhibent, mireque
cum palate ineunt gratiam . Andereriam carycis nu tritus, tum ad medicinam, tum
ad gula faporem eſt optimus, & piçlertim iccur. Vnde non mirum L in Inſula
Hiſpa niola apud Indos, porci harundinibus zacchari faginatitantæ , ſapiditatis
, & bonitatis ſint, vt febricitantibus etiam exhibeantur, Gigan eft
muccofa, & infuauis.Vndeapud Co. lumellam extat lepidum di& ú. Philip
puis cum ad Numidam hofpitem deuc niſlet, & fibi è vicino flumine lupi for
mo ſum appofitú deguftafſet,exfpuillet guc dixit: Peream ni piſcem putauerim !
vſque,adco à Tyberino,velmarino dif. ferre putauit, vt illum piſcis nomine in .
dignum iudicauerit. Mulieris cinni fogant ferpentes, do in vermes mutantur.
ulierum capilli,quibustantopere gaudent, & pro quorum ſtructu rain
exornandis multum confumunt té poris,cremári,ſerpentesabigere vifi sūt: fin
autem in aquaminijciantur, in ver . mes non diù retenti commutantur. Plurimos
homines aqui per tenebras, acper lucem vidiffe. REErum natura opulentilsima
admi randam fæpiſsimè hominibus vi. ſus aciem ,oculoſque ſplendentes pręſti
tit; vt multi felium more noctu vagari liberè potuerint. Legitur de Alexandro
per tenebras æquè, ac per lucem vidiſſe; viſum adco acerrimum habuit Galenus,
quod in fomnis, patefactis repentè pal pebris, magnamante oculos lucern vi.
debat, vtipfe de ſe fidem facit lib. 7.Hip porr. Platon . plac.6. 4. At
mirabilior erat Tiberij Ceſaris proprietas; qui in tenebris exactè videbat ;
dequa re adeo admiratur Tranquillus, void pro mira culo fcribat.
Cibusſapidiſsimus quomodo apparetur. QlideraGallinaceos , pullos,quila &e
& panismicis laginatiſipt, in menſa procuret, ij profe &to
præſtantiſsimum ſaporem exhibent, mireque cum palato ineunt gratiam. Anderetiam
carycis nu tritus, tum ad medicinam, tumad gulæ faporem eſt optimus, &
pięlertim iecur. Vnde non mirum G in Inſula Hiſpa niola apud Indos, porci
harundinibus zacchari faginatitantæ , ſapiditatis, & bonitatis ſint, vt
febricitantibus etiam exhibeantur, Gigantes in orbequando fuerint ? G. Igantum
foboles paulo ante Dilu ( uium apparuit, patet hoc in Geneſi c.6.quando
ingreſſi ſunt blijDei ad fili as hominum : poſt autem Diluuium aliqui
fueruntgigantes , qui tamen non multo tempore durauerunt. Bonitas e nim naturæ
( vt inquit Abulenfis c. 3 : Deuteronomij) in cibis, & afpectu cæli ad
terran habitatam remen humanum in tanta virtute continebat, vt tanti robo ris,
& ftaturæ homines ætas illa produ. ceret; Poftea paulatim deficiente natu,
ra,tanquam ad fenium múdus ifte decli . nauit, & humana corpora cum viribus
minorata funt. Adfacies mulierü rugatas ſelectum præfidium . ( N gratiam
rugatarum mulierum , & quæ maculas in viſu fortitæ fuerint, quo ſenium ,
turpitudinemque faciei abfcondere valcant, optimum adduca mus præſidium .
Alumen tritum, & cum recentis oui albumine agitatum ,ſi dein de I HORTVLVS
GENIALIS. 1 de ferbuerit in olla,& { patula ligno coti nuo mouebitur,in
vnguenti ſpiſfitudi nem tranſit. Hoc f biduo , vel triduo facies mane &
vefperi collinitur , non modò emaculari & erugari, verum ſum mepulchram
&gratam eam reddi ani maduertent. Maxima eft folis excellentia , do in hec
inferiorainfluxus. Am maximè Homerus Solis natura, & excellentiam admirabatur
, vt illú Deorú patré,hominūá; vocauerit. Ipfe enimomniú aftrorú Rex eft, &
tempora cuncta moderatur: annos,menfes, & di os diſtinguit, & efficit;
nos fua luce læti ficamur, & eiuscalore ſanamur. Ipfe vi. rentes herbas,
& terræ nafcentia germi. narefacit, & flores redolere. Ipſefruges,
producit, fructusmaturat, aerem puri ficat, lucem affert, tenebraſque repellit,
elementa tranſmutat,animalia gignit, gemmaſque pretiofas cum admirandis viribus
ex terræ viſceribus mira virtute spitøre facit, Hominųm ipſe, cum ho mine
BARACRILI Gigantes in orbequandofuerint? Glucos Igantum foboles paulo ante Dilu
( uium apparuit, patet hoc in Genefi c.6.quando ingreſſi funt alijDeiad fili as
hominum : poſt autem Diluvium aliqui fueruntgigantes, qui tamen non multo
tempore durauerunt. Bonitas e nim naturæ ( vt inquit Abulenfis 6. 3 .
Deuteronomy )in cibis, & aſpectu cæliad terran habitatam femen humanum in
tanta virtute continebat, vt tanti robo ris, & ftaturæ homines ætas illa
produ ceret; Poftea paulatim deficiente natu , ra ,tanquam ad fenium müdus iſte
decli. nauit, & humana corpora cum viribus minorata ſunt. Adfacies
mulierürugat asſeleétum præfidium . Ngratiam rugatarum mulierum , & quæ
maculas in viſu fortitæ fuerint, quo ſenium , turpitudinemque faciei abſcondere
valcant, optimum adduca mus præſidium. Alumen tritum, & cum recentis oui
albumine agitatum , fi dein de I HORTVLVS GENIALIS, de ferbuerit in olla, &
ſpacula ligno coti nuo mouebitur,in vnguenti fpiffitudi nem tranfit. Hoc ſi
biduo , vel triduo facies mane & vefperi collinitur , non modò emaculæri
& erugari, verum ſum mepulchram &gratam eam reddi ani. maduertent.
Maxima eft folis excellentia , din hec inferior ainfluxus** TO Am maximè
Homerus Solis natura, & excellentiam admirabatur, vtillu Deorú patré
,hominúý; vocauerit. Ipſe enim omniú aftrorú Rex eft, & tempora
cunctamoderatur: annos,menſes, & di es diftinguit, & efficit; nos fua
luce læti. ficamur, & eius calore ſanamur. Ipfe vi. rentes herbas, &
terræ nafcentia germi. nare facit, & flores redolere. Ipſe fruges producit,
fructus maturat, aerem puri ficat, lucem affert, tenebraſque repellit, elementa
tranſmutat,animalia gignit, gemmaſque pretiofas cum admirandis viribus ex terræ
vifceribus mira virtute qpicere facit, Hominum ipſe , çum ho mine BARICELLI
minegenerat,& tandem quicquid in ter ra oritur , & occidit ,
corrumpitur &ge neratur, in eius poteftate eft :fic ait Ari
ſtot.z.degener.d corrupt. quod propter acceſsú , &receffum Solis in circulo
ob liquo ,fiuntgenerationes, &corruptio pes. Hæc, & alia tali lideri
Creator om. pium largituseft. Falfißimum eft Salamandramin igne viuere pole . B
Ariftotelc, & Aeliano,Salaman dram non modò in igne viuere, verum etiam
illum extinguere proditú eſt. His ſuffragatur Plinius lib.io.c. 67. qui tantum
alleruit Salamandræ rigore elle,vt igné glaciei ad inſtar extinguat, Hi autem
famigeratiſſimi viri dormi. tare videntur, cum omnia & comburi, &
conſumi ab igne poſle iudicentur, Falſum ergo axioma eſt;breuique fpatio
animalillud, antequã comburatur, licet rigidiffimú foret, in igne viuere
verifia mile eft.Totú hocexperientia innotuit. Narrat enim Matthiolusin
lib.2.6.56 .Dia foridisin agro Tridentino ,Veris,& Au. Tumpi tempore,maximam
Salamandra rum copiam reperiri,fe autem ,vtexpe rimentum caperet eius , quodde
Sala mandra vulgo fertur , plurimas in igne conieciſſe, fed eas prorſus
exarſifle ,bre uique penitus eſſeconſumptas. Sabbaticifluuj admirada
proprietas. I Nter Arcas , & Raphandas ciuitates (teſtimonio Iofephi.7.de
bel. Iudaico ) regni Agrippę, Sabbaticus fluuius repe ritur, ita à leptimo die,
quem ludzire ligiosè colunt, appellatus. Hic copiofus fluit, nec meatu
ſegniseſt , mirabilemg; naturam obtinuit, liquidem interpofitis lex diebusà
fonte luo deficit,audumq; & ficcum alueum relinquit. Quod auté mirabilius
eft , nulla mutatione facta ſeptimo die fimilis exoritur, talemque continuo
ordinem obferuare pro certo ab omnibus cognitum eft. Quam fitexitiofumpro
lattandisine Fantibus vitioſas eligerenutrices. Vtrices pro lactádis puerulis
ma lis moribus imbutas, vitiofas , in . B eptas, crudeles vel ſuperbas
reijciendas exiſtimo: mites autem , benè moratas, fine vitio, & prudentes
cligendas. Pueri enim ex ijs educati ob acceptum nutri mentum à parentum natura
recedunt, & 1 ad nutricisvitia , vel prudentiam aliquá inclinationem habent.
Indelegitur Ne Pi ronem crudeliffimum à fuis progenito ribus longè degeneraffe(
quamuis pravá inclinationem vincerepotuiſſer) ijenim benigniffimi fuerant: ipſe
autem à crue delillima nutrice lactatus, & connutri tus, propriam matrem
interfecit. Menſtrualisfanguinis mulierum immanitas. Aximum contagium in
mulieris i ei F credidit.Refert enim nouellas vites eius pernecari contactu
,rutam , & hederam illico mori, apesta & is aluearijs fugere, lina
nigrefcere, aciem in cultris tonſor rum hebetari, æs graue virus & ærugi
nem contrahere: equas , li lint grauidæ, ta &tas abortire,multaque alia
pernicio famala ex illius contactw fieri tradidit. Sed longe à veritate diftar
hic auctor: cuiuslibet enimmulierisfanguinēmen i ftruum virulentum effe
falfamum eſt, quippe in ſana muliere, non differt & Yanguis à fanguine
vitiumque illius in i quantitate tantum perliftit,vtbenè Ca piuacceusin fua
Praxi recenſuit, fecus eft in morboſa muliere, ex menftruali enim iſtius
fanguine nõmodopericula, quæà Plinio adducuntur, eueniunt, ve - rum etiam alia.
Equidem canes epoto · menſtruo in rabiem vertuntur. Homi nes in he & icā ,
& phthiſim , fià veneficis, eis in potu tribuitur , deueniunt: Oleze
contacte ſterili fcunt . Alia ctiam ex il lius virulentia contingunt, quæ
reticere melius eſt. Frigidumpotumpoſt pharmacum af fumptum magnæ vtilitatis
afue tis fuiſſe. Egrotabat oliin in Sicilia Prorex Ioannes à Vega: ſumptoque
Phar maco ſegniter purgationem habebat. Medicusfamiliaris , vtaluum irritaret ,
juris pulli ſine ſale pararú cyathum co B 2 A ram Principe habebat ; illumque
nau . ſeantem , & tale brodium abhor. rentem , vtebiberet exorabat. Super
ueniens autem Philippus Ingraſsia , iua ris vice , libram aquæ frigidæ cum vn
cia zuccarimediocris albedinis propi. mauit. Erat enim ille frigidæ potioni af
fuetus,atqueiecore percalidus. At frigi. da cpota, deſtructa eft confeſtim
naufea fedatilque nonnullis in ore ventriculi morſibus , talem è veftigio
purgationé feliciter perfecit, vt gratias referre In graffiæ pro tali frigidæ
potione,cupiens, argenteum illud vas,in quo repofita fri gida fuerat, pretij
aureorum nummo. rum quinquaginta , gratiſsimo animo donauerit. Ingraff.
de.frig.por.poft medic. Verrucas cuiufdam animalculi liquo reperfanari. Eferam
quod mihi in Apuliæ quo dam loco, circa verrucas fucceflit. Expetebat à me
quidá nobilis , qui ma. nusà verrucis nimis deturbatas habebat aliquod pro
illis abigendis præſidium . Ego coram nonnullis multa ,quæ aliàs RII veriſſimaefle
comprobaueram ,illicon it'o fulebam.Inter hosrufticusquidam ino to pináter,fe
ele &tiffimum habere remedia pro ijs penitus dirimendis non rogatus I.
faſſus eſt . Sciſcitor quale fit, animalcu Di lum eſſe dixit: ad experimentum
veni Before mus, ægro confentiente. Ruſticus ani. i malculum inuenit. Hoc'in
floribns 1. Eringij, & Cichorez æftiuo tempore uk moratur,eft coloris
calaſsini, cum ma of culis rubeis, & quodammodo aſsimila tur
proportionecorporiscantharidiyli y cet paruulum ſit. Acceperat aliquot 12 i-
fticus, & ſingula in ſingulis verrucis d ... * gitis exprexit: exibat liquor
quidam , o manus intumuit, & doluit,fed cum mo. derantia: intra tres dies
detumuit, & fana facta eſt, nec verrucę ampliusviſę ſunt. Tauriſanguinem
inter lethalia vene na connumerari. Nter atrociſsima, & fuffocantia ve nena
Tauriſanguinem recenter epo tum connumeramus ; congelatur enim 2. in
ventriculo, reſpirationemqueimpe s diens, hominem fuffocat. Themiſtocles B 3
Athe Inesta Athenienfis tanti veneni tentauit expen rimentum . Hic enim ciuium
inuidia à Patria relegatus,ad Artaxerxem confu git, à quo diues factus eſt.Dum
autem in patriam ingratiam Artaxerxis pugnare cogeretur,in Dianæ téplo ,hauſto
Tauri fanguine, vitam cum morte commuta uit.Ex Plutarcbe . Quo artificio
duriſsim afaxafrangen re valeamus. Aris ſaxa non alia re frangendag quam larido
accenfo retulit Ola us.Hoc equidem rationi conſentaneum efle ducimus, cum
pinguehumidum ,fax lique commiftum illud fit, ob id enim flamma potens &
acris eſt diùque ma net. Annibal verò dum Alpium rupes, ingreſſurus Italiam ,
comminuereopta ret, faxa potentiſsimo igne concalefacta;
acerrimoacetohumectabat;:ita enim ea molliebãtur,& in fruſta cædebátur, fra
ctioniq; facilior erat locus.ex Tiro Liuip. De lapidis Asbeſti mirabilivirtutes
LAsbeſtos lapis,qué Arabia, & Arcadia producit, fi verus & probus
fuerit,femel accenſus perpetuam flammam retinere videtur.ExhocGentilestemplorú
cane delabra conficere folebant, clarè ani maduertentes fortiſsimam flammam
& i * inextinguibilem elucere, quęnecabima bribus,nec tempeſtatibus
extingueba tur. D. Auguſtinus lib.21.deCiuit.Deiz. Athenis Veneris Phanum
fuiſſe referty in quo de di&to lapide lucernæ conſtru Etæfuerant,quæ aliqua
intemperie ex tingui minimè poterant. Aegypti Reges opera magnifica,
&admirane da Antiquitus conftruxiſle. Pera ab Aegypti Regibus conſtria &
a omni admiratione digna ſem per exiſtimaui. Hi porrò Labyrinthoi rum
,Pyramidümqueprimifuerunt au & tores, & Mauſolea fepulchra , & Obe.
Hifcos erexerunt, Ferunt admiffo faci : nore, Pheronem Regem è veftigio vi- ,
Cum amififfe,decennioquecæcum -fúiſle. Vndecimo autem anno ab vrbe Buci,
accepto Oraculo , quod viſum reci peret, fi oculos mulieris, quæ tantum B 4 lui
ſui viri amplexibus contenta fuiſſet, cum terorumque virorum expers , lotio ab
luiſet. Hic ante omnia vxoris lotiura tentauit , cum autem nihil cerneret in.
finitarum mulierum vrinam experiri voluit; viſuque recuperato , præter eam
(vxorem enim eandem duxit )cuius lo tio vilum accepit, omnes concremauit .
'Abea autem calamitate liberatus, cup alia in alijs templis donaria pofuit, om
nia egregia ad memorię diuturnitatem , tum maximè memorabilia,ac fpe &tacu
lo dignain templo Solis gemina faxa, quosobelos vocant à figuraverucēzenam
cubitorum longitudinis ,octonum lati tudinis. Pelõdor. Virg.ex Herod.
lib.z. Cacodamonem malinuncijpræfagium aliquando attuliffe. Arcus Brutus
cumexercitu ex A Gia nocte media & profunda dum fplendidum erat lumen,
& filentium vndique caftra tenebat , multa fecum memoria recolebat. Cum
autem ad fe venire aliquem præſentiret, intentus MarcusBrutuscumexercituexA intentus ad introitum afpiciens,horren dam ,
& monſtruolam corporis feri & terribilis ſibi aſliſtere imaginem reſpex
it.Quis ( inquit)interrogans erutus,ho minum, aut Deorum es,quid tibi vis?
quidad nos veniſti ?Murmurans ille,tu . us Ô Brute( dixit)malus genius ſum , in
Philippis me videbis. Tum brufus nihil perterritus, Videbo, reſpondit,cogita .
bundusqueaccubuit. Verum Caſsiana cognita clade deinde , cogitationeſque fuas
videns, & fpes fallaces ſublapſas re tro referrifin Philippis fibiipfi
mortem coniciuit.Ex Plutarcbo. olei, vini ,ſegetumgſterilitatis prafagia. Irij
vefpertinus occaſus, fi biduoana teuertat, vel fequatur Plenilunium , fegeti
rubiginem,&foreftentibus vre . dinem pronunciat. Procionis occafus
veſpertinus,fi interlunio eueniat, flores ti yiti, & oleu germinanti
iniuriam ex vredine adfert.Aquilæ verfpertinus ex. ortus, & Arduri occalus,
in Pleniluniú B S incidit, & olei& vivi ſterilitatem , vtros quetum
florente denunciat Ex Iunitino - deris falubritatem advitæproduction anem
maximopere videmuscon : ducere.. N Hybernia quaſdam Infulas, ir quia bus
homines longiſsimæ vitæ funt, re periri compertum eſt,tanta eft enim ibi: aeris
ſalubritas,vtvita humanalongiſsi me producatur , Cum autem ad maxia . mam
ſenectutem homines deueniunt, deficiente pauliſper humido radicali , caloris
naturalis opera, quia anima pro-. pter complexionis bonitatem recedere: nequit
, in corpore magni ſuſcitantur dolores : Idcirco illius regionis homie nes poft
diuturnos labores, vitam aber forrétes , longèà propria regione fede portari
procurant;præſertimque ad lo . cum minus falubrem , vbifaciliter mon n'antur.
Abulenfis in Genef.c.2.6 . Anania: in Vnis .Fabrica . Linica.magna proprietatisapud!
indos fiering 1 Maximi valoris lintea ex Asbeſti. no lino ,& Amiancho
lapide con texere Indiani fo !ent. Hæc in ignem ; proie & a flammam quidem
concipiunt, detrimentumautem nullum recipiunto Cum autem vſu commaculata Indi
hæc lintea depurare coguntur, ( ſpreto more noſtro )non aqua,non cinere, vel
ſmege mate vtuntur; fed in ignem proijciunt:: certiſsimoexperimento perdocti ab
eo non cóluni modò; ſed potius-exempta. fplendeſcere,nihilqueillis deperire.
Ta.. le Carolum V..Imperatorem nonnulli habuiffe ferunt. Mizaldus. Hominibus
àgraui valetudine opa preffis varias hominum figuras appa: rnilleſepißime , expertum
oft . Ignum ſpeculatione illud fempers primuntur valetudine ex affe &to
cere. bro, an actu Demonis figare diuerſçapa pareant? Quippèno ſemel audiui,
non . mullos. Dæmanes ,alios verò fæminas. B 6 vidiſſe, vt inter cæteros
Alexander ab Alexandro de ſe teſtatur. Cum (inquit) Romæ
ægravaletudineoppreffus eſſem iaceremque in lectulo,fpeciem mulieris eleganti
formamibiplanè vigilanti ap paruiſſe confiteor, quam cum infpicerem diù
cogitabundus,&tacitus fui, repu tans nunquid ego falfà imagine captus, aliter,atque
res eſſetafpicerem ,cumque meos ſenſus. vigere, & figuram illam pufquam à
me dilabi viderem , quæ nam illa effet interrogaui, quæ tum fubridens & ea
quæ acceperat verba reſpondens, quaſi me planè derideret, cum diù me fuiſſet
intuita diſceſlit. Quomodo au hæcfiani in lib. 1. de pita hominis difa fusè
enucleamus. Hydropes lethales multoties ab occul. tis,abditiſq
præfidiisdifparuiſſe. Vltiequidem morbinon à me dicorum remedijs, fed à caufis
abditis curati funt.Refert Schenkius l.be 3.obferuat. Medicinal, Chriſtophorum
quendamin deſperata hyeme, ab hs drope lethali hac via fanatum fuifle. Illi
dormienti in Sole aprico lacertus viri. dis occurrit in laxatumque eius finum
irrepfit, & toto cotempore, quo dormi. it,per tumentem ,nudatumqueventrem
oberrauit. Poft horam expergefa & us lacertum in ſinu ſubfultare animaduer
tit, quem veluci homini amicum & in noxium dimilit . Huic ab eo tempore
hydropicus tumoromnis,citra alia re media intra paucosdies ſubſedit , & diſ
paruit. Quicafus mirabilis eft: & non minori admiratione dignus, Bufonis
fylueftris, quam fit proprietas. Hoc e nim animal fi per ventrem fcinditur,
& fuper renes hidropici ligatur, aquofita tem per vias vrina, quæ in
Aſcitelupet abundat,mirabiliter educit.Hoc VVie rus expertuseft,Napaulli ſecreto
rema dio hydropicorum aquas Colubri a quatici lapide ventriapplicato ſenfim
abfumunt. Infuper vituli marini pelle aquam corpori fuffulam Hermolaus
Barbarustolli prodidit. Cæca igitur,& abdita via multos hoc morbo ſanari
comperimus. B7 Mediana 38 BARICEL II Medeamà veneficiorum calumnia a Diogene
fuilevindicatam . , moriæ ſcriptoresmandarunt,Meo . deam illam concelebratam
magicis arti bus, maximam dediffe operam , ijſque latiſsime fúille
inſtructam.Hic.n.apud Srobæum dicebat,Medeam fapientem , non veneficam fuifle,
que acceptis mole libus, & effæminatishominum corpo , ribus confirmabat
ipfa gymnaſijs,acex ercitationibus, & robulta vigentiaque reddebat.Hinc, vt
veriſimile eft,faina emanauit, quod illa coquendo carnes hominibus ivuentutem
reftitueret , Si . enim ad ea, quæ de ipfa dicuntur , quod nocturnis horis
coram Luna proftrata maleficia fuo nudato corpore pararet , refpicimus, vt
patet per Seneca in Tras gæd.7.Quod vero alia attinet de quie bus ipſam
accuſent, neſcio quomodo. ab infamia eam liberare valeamus. ImPlenilunio
vtplurimum furioſos: vehementius infanire Luna dum Soli opponitur , vehementius
furiofos infanire obſerua-: mus: tunc enim ex. fuperabundantium humortin
copia-cerebrum ad cranium vique intumeſcit ,eofque ad furiam du.. cit.Hac (vt
reor) caufa, furioſos Britan . ni luna quarta decimaverberibus affli .,
gunt,conſiderantesſailicet ſanguinem , & fpiritum tunc temporis
efferuefcere.. Verbera.autem non fine ratione ad talie um ſalutem conferre
videntur; vt enim larga proſperitas ad inſaniam homines, ducere potenseft:ſic
dolor, & calamitas, prudentiam inducere conſueuit : quod ,
fapientiæPrinceps perbellè fignificauit: dum dixit, affli &tionem tribuere
intele lectum.Bodinus in tbeat.net, Annicomputumdimēſuramàquin
bufdamnationibusrudiordine fuiffeconstructiuni Noi.certus modusapud felos Ar
gyptiosfemper fuit, eorum enim Sacerdotes ab Abrahamoedocti,& verá
anni-menſura, & Solis curſumcogno., frese fcere valuerunt. Apud alias
nationes di ípari numero, parique errore annus no tatus eft :fiquidem Arcades
trium men. fium annum faciebát. Lauinij tredecim. Acananes fex.Gręci reliqui
314.diebus. Romulus annum decem menſibus, qui 304.dicbus conficiebatur
ordinauit.Hic å Martio incipiebat,eo quod Marti fuo genitori credito, menſem
hunc dicaue rat.Numa poft Romulum quinquagin. ta dies computo huic addidit,
annum . que conſtituit 354.diebus. At. C.Cæſar Aegyptios imitatus , ad curſum
Solis, quidiebus365.& quadrante conſtituie tur,annum dirigereftuduit.
Céſorinus, & Suetonius. Solatri maioris, e Serpent arie mio
norispotentiacontraparafitos mirabilis eft . Irabilis profecto Solatri maio.
ris, fiue herbæ Bella donna radicis potentia eft: fi enim contrita, &
exiccata vnius ſcrupuli pondere per horas ſex vino infunditur,illudque
facacolatura uno homini potui datur,vt illecibum guftare nequeat,efficiet. Hoc
paraſitis idoneum eft remedium ,hi'enim aperto ore,tanquãomnia deuoraturi,in
menſa cófident;fed hac via pænas luent, quip pè alios vidcbunt comedentes, ipſi
ta men inſtar Tantaliin menſa fameſcent. Vnde apud conuiuas ridiculi, &
confuſi apparebunt.Sanantur hiconfeftim ace to bibito.Idem facit radix Aron ,
fiuc -minoris Serpentariæ in acetarijs recens contrita ;qui enim guſtauerit,
apparebit Suffocari cibumque relinquet. Sanatur hie allio comefto . Ventorum
ortum ,occafumque terre AremEchinuinmirafagacitatehomi nibuspraſagire.
*ErreftrisEchini, quiautumnalitě. pore in vineis , dumoſilque fpinis verfari
præcipuè conſueuit, in ortu oc cafuque ventorum præfagiendo mira l'eft
fagacitas.Horum porrò latibula du obusconftru &ta foraminibus, quorum
alterum Boream , alterum verò Auftrú reſpiciat,conſtructa reperiuntur. Pre fentientes
autem Boream Auſtrum ,ali umve ventum fufHaturum , longè abe orum ortu , vnum
vel alterum cauernæ meatum obturant; ventorum enim cog nitio-ijs innata eft,
vtab ipſisſe tueri va Jeant.Hoc ordine Venatores Echinorú Jatibula , eorumque
fagacitatem cond derantes, nulla ſtellarum obferuatione habita, fed folum ex
cauernarum mea. tibus clauſis,velapertisVentorú indagia nem cófequentur. Ex
Plutarcho in Dialog. Animi pudorem , timoremque hu . manorumcorporum
diuerfimoda faciem alterare. agna inter animi pudorem , & ti morem cum
vtrumque fit triſti . riæ foboles, videturdiſparitas:quippe in pudorehomines
facie rubefcunt,timen tes verò pallefcunt. Natura( vt inquit Macrobius 7.
Saturn. ), cum quid ei oc currit honeſto pudore dignum , imum petendo penetrat
ſanguinem ,quo conto moto diffuſoque cutis tingitur,rubora; saluitur, Thelelius
auté (vt ex Taſſone citatur M HORIVLVS GENIALIS. 43 citatur) faciem in pudore,voluit
affe &iū recipere , & proinde erubeſcere. Hocà ratione alienum haud
eft, fiquidem vo lunt Philoſophi naturam pudoretacta, fanguinem ,inftar
velamenti ante fe ten dere.Experientia infuperhoc docet, e rubeſcentes enim
manum fibi ante faci. em frequenter opponunt. At timentes palleſcunt,quia
natura cũ quid extrinſe. teoccurrens metuit, in profundum de. mergitur: ita
&noscum timemus,late bras quærimus, & loca occulta, Natura itaque
defcendens ,vt lateat,fanguinem fecum trahit , quo demerſo dilutior cuti. humor
remanet,pallorqueſuccedit. Animaliaex putrigenita materit inmundiprimordio
minimè fuiffe. Væ ex putri materia generantur, ſex animalium genera communi ter
exiſtunt . Quædam enim , vt bibio nes, quæ ſunt minutifsima animalia,ex vini
exhalationibusfiunt,vt papiliones ex aqua.Quædã ex humorú corruptio pibus
proueniunt : vt vermes in fter core,velciſternis. Quædam ex cadaue ribus, vt
apes ex iumentis:crabrones ,fi ue muſcægrandes,quæ volando ſonant. Scarabæi
liue mufcæ virides ex equis, vel canibus mortuis: fcorpius de caucti mortui
carnibus:ſerpens de medulla ſpi næ humanæ. Quædam ex lignorum pu tredine, vt
teredines , qui lunt vermek intra ligna , quando non abſcinduntur tempore
debito , exorti. Quædam ex fructuum corruptione, vt girguliones ex fabis. Quædam
ex herbarum corrup tela, vttinex.Hçc autem in mundiprin cipio immediatè à Deo
creata fuiſſe, nulla ratio confiteri cogit,cum ipſa na turaliter ex corruptione
procedant;poſt autem mundi exordium huiuſmodi ex corruptelis generationes
eueniſſe verili mile eft;Deus tamen feminarias cauſas horum materijs indidit,
fine quibusori. ri non potuiſſent.Abulenfis in Genefi 6.2. Defygis Arcadia
mortifera natura, Alexandrimorte. Circa HORTVLVS Gerialis. ferunt, ille,
CircaNonacrinin Arcadia ,fons quidá teperitur è petraexoriés, quęStyx ab in
colis appellatur, tantæ mortiferæ natu rę, vt ſumma celeritate corrúpat corpo
ra . Equidemprotinus hauſta ( Seneca teſtimonio 3 quaft.natur.)induratur,in
Itarque gypſi ſub humore conftringitur, & ligat viſcera.Quia autem , nec odore,
nec fapore notabilis eft ,fæpè fallit, nec ea epota,amplius remedio locus
eft.Fe runt nonære,non ferro, non teſta aquí huiuſmodi continere,necaliter quam
in equi vngula ferri poſſe. Huius vemeni potu ,magnumAlexandrum in Babylo . nia
fuiſſeextin & um multi ſcriptoresre medico ,ob aquę feritatem in media po
tione repentè veluti telo confixusinge muit; elatuſque (vt ait Iuſtinus) è
conui yio ſemianimis, tanto dolore cruciatus eft ,vt ferrum in remedia
poſceret, & è tałtu hominum velut vulnere indole . fceret. Achores
tineafque capitis,ex bufonis oleofeliciter fanari. Dum 46 BARICELLI prope
Luceriam Apuliæ ſemel me dicinam faceren , ibi quendam achori bus,tineiſque per
multos annos turpi. ter affe & um ,cui varia fuerant applicata
temedia,omnia tamen inutiliter , prop termorbi reſiſtentiam repperi. Tande
noſtro conſilio hicele &tè ex pharmaco purgatus, folum linimento ex oleo in
quo ad exactam co &tionem Bufo fue Rana terreſtris ebullierat, optime cura
tus eft , quippe fimplici hoc remedio per paucosdies in capitevtens, fanus,
& capillatus fa & us eſt; durante autem lini mento
piliersortui,vulſellis à chirurgo extirpabantur. De Cerui lachryma, eiuſque in
ciendo fudore potentia. Antæ creditur elle efficaciæ Cerui lachryma in
Tudoreciendo , vt' li grana quinque vel ſex potui dětur, totü corpus fere folui
iudicemus.De hac lo quens.Abinzoar lib. I.tra & . 13.6.6. le tria grana
Azir filio Regij magiſtri equitum in lacte , vel aqua cucurbitæ, vel.roſatæ
exhibuiſle:retulit,illumque à virulento ictero liberaffe.Hæcautem in Ceruis
ante ceptelmum annum ( teſti monio Scaligeri)nulla eft,temporis au tem proceſſu
generatur, & in iuglandis molemaccreſcit.Dicitur magnam habe read venenum
efficaciam , vt in Afia fe Hiciſsimo fucceflu fæpè experiuntur. Vires
infirmorum collapſas, odoribus refarciripoffe. Nfirmorum deperditas vires non
potionibus modò,verum atqueodo , ribus reftaurari pofſe obſesuatum eft. Aiunt
enim Democritú in dies aliquot, amicorumgratia pomi odore vitam fic bi
prorogalle. Hinc multi panem cali dum vino odorifero immerfum nari
busadmouentægrorum , quem a tem . poribus, & coſtis cataplafmatis more
imponimus,vtique vires egrigie reſti tuimus.ConciliatorApponenſis mori. búdá
vitá, ex croco , & caſtoreo cótuſis, vinoq; cómiſtis producere fecófueuifle
tefta . 48 BARICELLI teftatur,ſenibuſque eam compofitioné exhibuiſſe ,
nullatenus olfa & u magis quam potu profuiſſe.Ferreriuslib.2.Me thod. De
olei Balnei mirifica in morbis præftantia. O Lei Balneum , vt Herodotus anti
quiſsimusmedicusprodidit, quià diuturnis affliguntur febribus, à laſsitu dine,
vel neruoſarum partium dolori bus oppreſsis,conuulfis , & vrinæ , fup
preſsis laudatiſsimum ,ac ſalutare efic remedium experimur. Vidit huius pre
ſidij experientiam Heurnius in quoda extenuato, ac ferè exhauſto , dumeflet Patauij:illum
enim validiſsima occupa uerat conuulfio,at tepidi olei pleno vafe immerſus,ac
fotus fanuseuafit.In lib.no ftro de Hydron.nat. Adam & fuos contemporaneos,
perfc. etiſsimamrerumnaturalium ha buiffe cognitionem . Nter aliasrationes,
quas Abulenſis in Genef.in c.f.de longiſsima vitæ pri. morum parentum,quiannum
ferè mila Jeſimum ateingebant,retulit,hácaddux it;quod'Adam'rerum naturalium
perfe Etamà Deo cognitionem habuit.Intele lexit enimfru & uum , herbarum
,lapidú, lignorum , animalium , mineraliumque virtutes, & do&rinam ,
quibus vita hv mana diutius conſeruari poterat; quæ omnia contemporaneos,(vt
ipfi etiam vitam producerent longiſsimèJedocuit. Hæc autem cognitio , & ex
diluuio, & gérium diuifione perdita eft.Reperiun turtamenin præfentiarum multa
mira bilia,naturęque ſecretiſsima apud ſapi entes, à temporuminiuria foslitan
vin dicata; quæ aliquando hominesvidentes aut audientes, tanquam lupernaturalia
opera admirantur Rutaminter alexiteria medicamenta connumerari:
Nteralexipharmaca præſidia, Rutam minimęconditionis haud efſc perhia
bent,fiquidem ieiuno ftomacho come fta multos à veneņiviçulentia liberaſſe C.
degi BARICE ILI legitur. Dehac Athenæus in 3.Deipn.la . quens, Archelaum Ponti
Regem fuos populos veneno interimete confue uifie fcribit, illos autem à
quibufdam edo &tos, ob id antequam è domibus ea grederentur,quotidieRutam
cdere fo litos à Tyrannicrudelitate.le.defendiffe. Solaſuſpenſione,
capitiscruciatus verbenam mitigare. Trabilis eft Verbenæ proprietas M.in dolore
capitis mitigando ; 'fi quidem à Petro Foreſto traditur hoc folo præſidio
quendam fuifle perſana tum.Ille netlis remedijs, quamuis opti mis curari
potuerat,non venæ ſectione, non ſcrupis digerentibus, neque steco &tis
pilulis,cucurbitulis, nec alijs topic cis auxilijs. Cum autem nulla iuuarent
semedia,ad collum Verbenaviridisafe penſa eſt, & fanus fa & us
eft,lib.9.ebſer.3. Detkapſie virtute in fugillatis faci nandis,Neronisquecalle.
ditate. Nero Imperator in ſui Imperij ex 36 ordio Thapfiam ,eiuſque excellé to
tiam magnificauit; Ille quidem dumno . & u incederet incognitus , & in
multos impetus faceret,nå ſemel facies fugitla Do ta ,cutifq;livida,piftula ;
ab illis fuerat. L. Confeftim hic,ex Thapfia,thure , & cem ra
commiſta,linimento ljuentem vifum collinibat ,quopræſidio antelucem à fe da
ſugillationeliberabatur; dum autem die in populiconſpectu , faciem fanam
oftenderet,facinoris ſui famam , & igno . miniam occultabat. Ex Durante in
Her . 25 g. barie . I je obſtétricibus animaduerfio. præcidendo diligentia
adhibenda eft;quippefi ni mium curtè vmbilicus religatur,ætatis progreſſu
pariédi conatumreftringere, imminenti vitę periculo ,poteſt. Ex M46
mbiaCornace. De arboris ficusmirabili natura . I coctu faciles habere
deſideramus, in arbore ficus eas ſuſpendemus, ita votum noftrum procul dubio
aſſeque mur: credo forſitan ob acutum , & incil : uú odorem , quem arbor
Ipirat id cauſa ri;velforſitan occulta cæcaque proprie tate.At quod
mirabiliusin huius arbo . ris natura eft , Taurum indomitum , fe rumque in
eodem alligatum manfuef cere tradunt. Neſcio autem annaturali via
propter-odorem ,an aliqua antipa thia, quæ inter talia exiftat hoc eueniat.
Audiui tamenà multis vtrumqueexpe rientia fuille confirmatum . Quomodoà
vitriolo arislaminas.ex . trahere valeamus. Lui momenti illa cognitio , quomodo
à vitrioloæris lamellę extrahantur,ape riam modum , qua facilitate id affequi
valeamus.Bulliatur Romanumvitrio . lum in olla cú aquafontis: in eaque cha
lybis lamina per horæ quaternionem demergatur : extrahito demum chaly bem ,
ipſumenim lamellis æris inftar suginis colligatum habebis, quęculcro radende
fút, vt alias chalybem immera. gere pofsisznouaſquelamellas extrahe.. re.
fiquidem tamdiù corradi poterunt, quouſq; Vätrioli portio in aqua fuerit.
Arrigat aures ingeniofus; quia ex hoc : minimo principio multa, precipuèinre:
medica, yrilia aſſequetur. oléum vitrioli ,&fulphuris rostris : lumbricos
plurimumvalere. NITlfi magnis experimentis præſtana tiſsimum remedium ad
puerors i lumbricoscomprobalſem ,haud audia . rem hic inter arcana ſele &tà
fóre repezia nendum confiteri: quippe tanta eft eiuss virtus,& potentia, vt
mortuos ferè pur erosè vermibus ad vitam trahat . Hic : induſtria paratur,In
libris ſingulis aque fontis oleifulphuris, vel vitrioli chimi.. cè extractorum
, aliquotguttulaadden dæ funt,ita vt aqua acidula frat, quæ pu eris,natuque
maioribus danda eft diù noctuque ad placitum ,.e & enim præſtaa tiſsimæ
virtutis 0 T! 10 Da DeCaraba mirabili virtute invuula cafum ,Amygdalaruamque tu
. mores ArtinusRulandusvirin chimicis M celeberrimus in Amygdalarum
inflāmatiene, & tumore, vuulæquecaſu ex humoribus à capite fluentibus exci
tatis ſola Carabâmirabiliaparauit-Prie mo fuffimétum cófuebat,hoc modo ex .
ceptü.Accipiebat Carabæ albiff . drach . 7.qua redacta in puluerem craſsiorem ,
& carbonibus impofita,fumus per infa dibulum ,ore excipiebatur ab ægro mar.
ne,meridie, & veſperi, multa vtilitate, Accipiebatetiam fermenti veteris
vnc .. & quam moreemplaftri linteolo indu cebat, afperfoque Carabæ albæ pul
uere vertici imponebat per diem ,per noctem vero fequétem recens applica bat.
Quibus paucis remedijs, &ex fola: quaſi Carabayquam plurimos à fauci um
tumoribus, vuulæque cafu ,Amyg dalarumque inflámationibus oppreſlos perſanauit.
Ex eiusCurationibus. Spina HorTvivs GENIALIS Spine infeftoriæ Baccas" ad.
Tenaf mumexfalfapituita expertiſsimum verumque ad illum exiftere remedium . St
mihi remedium pro Tenafmodo quadam fortafle mille kominum, qui endemiali fere
morbo hic ſugebant per fanafle quam citiſsime . Syrupum ex Baccis fpinæ ceruinæ,
fiue infectorice: Aromatario parariiufferam . Hæinfine: O & obris, cum bene
maturuerint, collie guntur, exprefloque fucco cum melle vel Zuccaro ad
formamfyrupi ducitur: additurque in fine maſticis, velzinzibes sis , anih, vel
cinamomiad drach.j.vet? in maiori dofi, fi libuerit.Datur hic fy rup.ab vnce
vſque ad duas cumpauco vino dilutus,abitemijs datur cum aqua cinamomi:epoto,
cibatur eger,parceta men , & ieiuno ftomacho, præcipiturque ne
dormiat.Equidem vna die fanaturę ger, foluitur enim aluus,abfque mole tia ,
& excretis féroſis .viſcidilg; humorib. Tolo hoc preſidio integrè liberatur
C Ariet mo Arietis linguam futurum in
ouibus milanitium ,commonftrare.. M Irantur multi Virgilium in 3.. nere , vt
linguam paftores conſpicere debeant, deſinant autem admirari , cau ſam enim
adducimus ex Plinio, quipro pterea Arietum ora introſpici à pafto ribus voluit
, quia cuius coloris ijlin guam habuerint, tále in fætibus gene randis
forelanitium . Audiui à multis , hocyeriſsimum reperiri. Ouis enim e . tam cum
vterum gerit ,fi linguam habueritnigram nigrum pariet agnum , fi albam album ,
& fic de aliis coloribus. Ridiculüm eft quod fertur; Bafilifcum
àGalliouoexclwdi.. On modo à plebeiis verum atq;: à nonnullis ftudiofis ,
Bafilifcum : abouo galli veteris connaſci perhibe tur. Fingunthi ex aliquorum
fcriptorú teſtimonio , quos eriam ego perlegia : Gallo decrepito , quiſeptimum
, aut no.. olm , vel ad fummum decimum quar .. Na tum annum agat, ex putrefacto
ſemine, aut humorum illuuie altiuo tempore, ouum conflári , ex quo ab eodemfoto
( vt à Gallinis alia fouentur oua ) Bafi... liſcusoriatur.Sed hoc animal nemo
vio dit,habitat enim ( auctóre Plinio ) in Aphricæ folitudinibus: proinde hæc
creo dere difficile eſt. Inſuper ſi hanc fpecie em mafculinam poſſe fætare
conceſſum . eflet , contingeret etiam inalijs , quod minimèobſeruamus. Mihi
aliquotoua: in experimentum à mulierculis allata fünt, dicentibusGallum
peperiſſe : erát oblonga ,& in caudam ſerpentis quibuſ dá nodulis
terminabátur:at hæc à Gallie nisex plurium ouorum minutorů col ligatura (cu
kuperfætatione,non autem a Gallis fieri dixi. Homines ex impromiſo Lupi afpects
: veluti mutosdo; attonitos fieri. Vlgatiſsimum illud eft, hominesex improuiſo
Lupi aſpectuadeo mutos& attonitos fieri,vt nec fari , nec vociferari valeant.
A Lupiquadá prietate id fieri aſlerunt , contenderse tes Lupum ,fiprior obuium
quempiam conſpexeritillico vocem adimere, can demque illum luere pænarn ,ſiab
homis ne prius videatur. Ad hænugæ ſuot.Si quidem ex terribilişimprouiloqueLu..
pi aſpe &tu ,homines terreri, timoteque concutiqveriſimile eft: ex timore
autem: valido mébra frigefieri ex raptu ad in teriora fpirituum ,inde corporis,
& ar.. tuum fieri impedimentu , vociſque pri uationem mirum non
eft.Alijalia fin gunt, mihi autem hęc omnia ad folum timorem ,tanquamad caufam
proporti Onatam reducere viſum eſt.. Multa facinoraàMagisanicalis perpetrari
pole. Etulit Leonardus Vairus lib.1.de: Faſcino multas hac noftra tempe fate
exiſtere aniculas, quarum impurie tate,nonpaucos effaſcinari pueros illofa quenonmodoin
grauiſsimum incidere diſcrimen ,verum etiam acerbam fæpiſe fimè ſubire mortem .
Pecudes inſuper: partuqalacte priuari,equospacreſcene R Falcin Cquote &
emorislegetes abſque fructu colligi, arbores arefcere;ac denique omnia per ſum
ire quandoque videri, AFucovulnera illata,Muſcis contri tisbreuifpatio
perſanari.. " Vm quadam die apud amicos alie , quot cómorarer ,& læti
in měla de more varia confabularemur; ecce vous ex ijs in ſuperiori labro à
Fuco animali vulneratur,quo morſu ſtatim intumuit vulnus,cum maximo patientis
dolore, Amici in riſum ſoli, patientismedelam minimeprocurabant.Ego quidem
alias morfus hos curafle recordabar ; quare confeftim , vt nonnullas muſcas
feruus meus caperet, iulli, quas contritas, dum fupermorfū
impofuiſset,breuidolorie datuseſt ;.tumorq, cúmaximapatientis lætitia;aliorúg,
admiratione detumuit, Quafacilitate vlcera formicantia dan cacoëthica
fanarivaleant. Vidam amicus meus , cumir Hya pochondrijs,vicera formicátia,pra
maque, quæ à nonnullis vermes dicun Q tur,paffus eſſet, ſauitatcm ,poftmultat do
& ifsimis medicis tētạta remedia , ac. quirere non potuit:ylcera enim licet
fac pari viderentur ;renouationem tamen continuo recipiebanta,Vltimò poftan..
nos,& menfes in empiricum chirurgum incidit:quipaucorum dierum ſpatioita hominem
perſänauit. Abluebat primo vlcera albo vino,tum ex - patellis -mari-. nis
puluerem , fiue cinerem Ex Corici bus(exemptis interioribus) couſperge-.
bat,vltimoherba marina vlcera coope riebat; faſciaque premebat, femel in die
hoc vſus remedio vigintidierum fpatio , ægerconualuit. Procurauit arcanum a..
micus, & mihi fideliter communicauit, Fallſsimumeft, quod fertur Viperă o
coitu mafculumoccidere,ipfamque asfuis.catultsinpartunecarie LAG Grauiſsimis au
& oribusaffirma , mine) maſculi caput'abſcindere (ille.n.. infæminæ os
caput inferit ) & fic củoca. sidere, ſed poenam täti facti illam luere.
ſiquia fiquidem Viperinicaruliconcepti, gra-. Jiores facti vifceramatris
cofrodunt,e am que occidunt. Sic voluit Plinius lib . 10.&Nicander in
Thoriacis, quare Vipe. ram aiunt diciab co , quod vi pereat,aut
vipariat.vtrumque autem falfifsimum effe , & experientia, &
grauiſsimorum e . tiam ſcriptorum auctoritate cognitum eſt.Apollonius apud
Philoftratum Vi... peram aliquando viſam fuiffe catulos ſuos; quos peperiſſet
lambere , & expolire aſſeruit. Bodinus in nat.theatr.lib. 33 in Gallia,ad
Clapum Pictauorú flumen , vbi Viperæfrequentiores ſunt, vtriuſq . fexus viperas
lagenis vitreis inclufas fu iffe reculit;illafque peperife, & conce piſle
vtroq; parente fuperſtite, Matthi olurs ex . Obferuatione FerdinandiIm perati
Neapol.Pharmacopolæ Viperam parere catulos ſuos , & non occidiafts-,
ruit;catuloſque-non viſcera matris,led membranas quibns incladuntur diſrúa
pere. Quarerectiusſentimus,fi Vipera non à vi parere,vel perire dicimus,fed
quafit quaſ Viuiparam , quod non oua, vtcæ .. teri ſerpentes, ſed viuum animal
pariat. Iraulos , balbos, & femilingues fieri ob nimiam cerebri bumiditatem
, VA communiseft fententia ab expe rientiaalienumreperitur. Rauli, & Balbi
non ob cerebri hus midam intemperiem fiunt, vt ferè omnes autumant ;
inueniuntur enim hi' modo calidi,modo frigidi,modo humi di,vel ficci, vt &
reliqui, qui nec Traus li,nec Balbi funt;imò & hi modo ( putis "
abundant ; modo ijs carent:quare non ob bumiditatem nimiam cerebri buiure modi
Traulos-& Balbos fieri , fed obt varietatem mearuum , in intrimentis;
pertinentibusad locutionem exiftenti um , docuit experientia.Porrò Trauli, qui
literam R.exprimere nequcunt , in media palatiregione , vbi quartum eſt osfuperiorismaxilta
, duo inueniuntur foramina, quæ nullo modo adeo aperta & obuia sút, vt ijs
, qui optime loquútur, Balbis veròiuxta dentes maioraobſer . samus foramina,per
quæ ſtillans pitui ta,linguamque irrigans in parte illa an . teriori,bleſam
locutionem facit ;; vnde bleſi , & ſemilingues fiunt: quod fi hæc non
eflent haud balbutarent, licet à ca pite copiofa defcéderet pituita, vtmul tis
contingit, quiex hac tamné balbi non fiunt.Quare fententiaHippocratis2.A
phor.32.malè verificatur, cum afferit, balbos ob frigidam , humidamque ca pitis
intemperiem fluxu tentari: Auxio. enim talis & Balbis, & non Balbis fuc
cedit : concurrit tamen hæc fluxio , vt caufa remota , qua aliquando cum pro
zima,dicitur affe &tum facere poffe, fi. iunctatuerit :: fola autem facere
nequit . vemale Hippocrates,& alijopinati ſunt ExSanctorio Sander.de
pit.en.lib.3. Morbosperniciofos; velmortem ,veb affectus longitudineminducere.
Jana ciuitate, & in circum vicinis propè Neapolim perniciofifsimi orto
funtmorbi,vbiſectis aliquibus corpo , tibus, eorum Ventriculus bilis copiaz,
vitellinæ plenus inuentuseft , eiuſque : tunicæ , & inteſtina eodem colore
per tincta viſa ſunt. Meatusqui ad fellis; chiftim protendit , ab humoribuscraf
fis, viſcoſis, & tenacibus obftru & us ea . rat. Fellis veſica diſſecta
, bilis flaua haud inuenta eſt; fed eius vice atra , & inſtar atramenti
nigerrima.Hepar quo ad externam partem album erat , in in terna autem nigrum ,
&atrum , veluti carbo accenſus, & extindus. Langueno tes,in febrium
initio ,vomitu , &nauſea, moleftabantur. Eorum lotia craſla icte . rica ,
& fubrubra ſemper erant. Omnes. ferè erant icterici, & longo tempore,ſi
: qui euadebant,indigebant, vt fanitatem acquirerent, Ex -Io. Bapt:Cauallario
deMore bo Nolano, ſeu demorbo epidemiali Lupicur paucireperiantur, ouess autem
multa Tidetur quafi abftrufum illud quxar , aucs autem multæ ?'profecto in
partu plures lupaedit catulos,quamouis,quæ vnicum , vt plurimum parit; Inſuper
o. ues, & agni in hominú alimoniam con tinuo occiduntur; luporum autem caro
eſui apta non probatur; nihilominus Q. ues-agni, & arietes ſemper in
maioriny mero reperiuntur, quă lupi.Huius cau fa, prima eftDei bonitas, qui tam
imma ne animal in eius ſpecie excrefcere non permittit, in facra enim Gen. c.
7.Noe, vt ex omnibus animantibusnūdis fepa, tena, & feptenamaſculum , &
foeminam in arcam tolleret monituseft:ex immu dis vero duo , & duomaſculum
, & foe minam. Secunda cauſa luporum eft faga citas, & in propriam
ſpeciemimmanitas. Hi enim ;cum rationesviuedi deficiunt, ob cibi inopiam in multo
numero con ueniunt:atque in circulo vnus poft aliú currit;vt apud vulgum á
villicisparatur ludus,diciturque Řotalupo;primusau tem,qui viribus deſtirutus,
currere ne . quit &in terram cadit,fit aliorum cibus, renouaturque ludus ad
omnium faturi taté.Hæceſt poitísimaratio huius ſpeci Vhelin ei decremen i ,
alius enim comedit alii um . Ex Aeliano vt reor, Antimonij in vitrum reductio,
eiuſ quevires in medicina. 7ltri ſtibium ,quod in longis, & dif ficilibus
morbis propinatur, in e . pilepfia fcilicet ,melarcholia ,podagra, elephanticis
, reſolutione, in febribus quotidianis,tertianis, & quartanis,peſti fentia
correptis, venenatis, hydropicis, tæphaleis, ictericis, & fimilibus; robu
ſtis tamen corporibus , ita præparatur. Stibiū, quod ex auri fodinis colligitur,
in puluerem tenuiflimum contunditur, teriturq; & fupra ignem in fi
&tilio, rude ferrea,aut cochleari continuo agitando vritur, vſquedum omnis
humor,ac fu mus euaneſcat, quod in ſex ,aut octo ho rarum fpatio
expeditur:deinde calx có teritur, carilloque impoſita,in fornacē inter
candentes carbones collocatur, & igne luculentiſsimo vrgetur,dū liqueſ. cat
picisiftar,poftea ſuper marnorfun ditur,atq; fic ex Stibij vncirs duodecim,
vitri ipfius hyacinthi modo pellucidi, wacja M vncias quinque coliges. Andernacus
Co ment-z.Dialog.7.de nou . vet.med. Solo Metronchita auxilio mulieres
offepragnantes ( omiſsis ceterisindio cys)experimur. Vlta apud fcriptores ,
quibusin primis menfibus mulieré præge nantem comprehendere valeamus, inu.
dicia reperiuntur.Dienntmulti,lorij tab. fpe &tione grauidas nofci;fillud
album , clarumque fuerit,in eoque atomi afcen dentes, &
defcendentesapparuerint. Alt ex ſuppreſsis menſibus,deie &to appeti. tu
,vomitu , & nauſea ante prandiumid conſequuntur.Nonnulliex la & te
in.ma millis,ex arterijs gulæ fi plus iuſto pul fant,ex lentiginibus,fi in
mulieris facie oriútur,ex tumefa & is mámillis , & a ful co earú capitú
colore pregnátes venatur. Cæteri tú ex his , tú ex pódese circa pe dé,ex:
vmbilici egreſſu , ſiin dies fit ma ior, ex tumefa &tis venis , quæ vidétur
in nariú angulis iuxta lachrimalia. Obfte trices.digitisexperiútur an
vteriorificiáfue-fat claufum , vel apertum , ex claufo te nim grauidationem
patefaciunt. Non défunt alij , qui Hippocratis Aphorifs mis confiſi hydromel,
& fuffumigia e x periuntur,epoto enim hydromelle poſt cenam , fi tormina
fequentur arguunt prægnantem eſſe mulierem .-Siilia fuf fumigio acuta per
pudenda vfa fuerit , fiadnaresodores non perueniunt ', in dicant vtero eſſe
gerentem.Hæc autem figna, quia pathognomica non funt ve lúti futilia
reijcimus,& tanquam abſurdaad meros Empiricos committimus. Nonenim ex lótij
afpe & u vere mulie rem efle prægnantem diuinare poſlumus,nam meatus
vrinarius cum vtero : nihilcommunehabet,lotijque claritasy; albedo,& bulloſa
granula in eo ,poflunt morbosetiam ſignificare , vtin cachochimo corpore ſæpius
obſeruamus; hoc itaque indicium prægnantium verum non eſt :Nonexmenſibus
ſuppreſsis ,nó ex vomita, &nauſea, ſiue appetitus de iectione hoc
conſequimur: quia affc & i oneshęc ex multiscaufis, in m ulieribus, quæ pregnantes
non funt, affe &tiones e uenirepoffunt. Non ex lacte in mam millis ; quia
id etiá virgines habere pof Lunt,vt voluit Hippocr.Inſuper inult mulieresin
primis menfibuslacinon ha bent: lacergo non eſt grauidationis ved irum indicium
Pulſatio arteriarum gule, ſolito crebrior conceptum peculiariter haud
arguit,quia ex retentismenfibus, {plenis & ventris tumore & ex pituita
in -pe &tore colle &ta etiam fieri poteft.Len tigenes non in folo
conceptuapparent, :: quippeſignumihoc,neque omnibus,nes queſemper competit,
& in nonprægnā . tibusetiamifta fiunt.Mammillæ tumes fa &tæ ,earumque
capitum fuſcus color, communiafignafunt &retentis menfi bus,&
prægnantibus.Pondus circa pe & en ,non in grauidismodò fed , in rete tis
menfibus, in mola, & veficæ calculo obſeruatur, Ymbilici egreffusex mul 6
tis caufis præter naturam fieripoteſt,nó ergo peculiare grauidarú indicium eft,
Yenæ tumefadęin nariú angulis iuxta lachrimalia , non in grauidis.modo ap 7 parent
, fed in quolibet abdomin's &fplenis tumore,& in occlulis menfi bus.
Obſtetrices anatomiæ ignaræ de queunt intimumVteri orificium tange
sc,licetmanibuscontractent,illud enim valdeà labijs matricis diftás eft,ipfe au
té externá Vteri tantummodo orifici um tractare poffunt , quod femper, &
grauidis , & non grauidis apertum ma net, experimentum Hippocratisde hy
dromelle, & acuto luftumigio non æter næveritatis eft, vtGalenus &
Auicenna comprobarunt. His itaque indicijs vere conceptum explorari non pofle
expla natumeft.cognoſcimus tamen ſigno e uidenti & infallibili indicio
prægnan tes mulieresin primismenfibusMitren chitæ fue Specilli, quo liquores in
Vte rum inijciuntur,auxilio.hoc apud vete. resin magno vſu erat. Profecto ;li
illius in foramen Vteriexternum apicemin . mittimus, quod fumma cum dexterita
te finiftræ manusdigito indice inuenie . mus non enim quilibet inexpertus in
yenirefciet, eft ſiquidem externum V. çeri foramé in vuluæ apice particula obe
longa, & duriuſcula , quæ exigui penis puerorum exprimit imaginem)ſi ex
pice ſpecilli liquor aliquis fuauiſsimus ficut efle vini tenuiſsimi
pauxillumine forte exiſtente coneep'u fequatur:abt ortus) exprimitur, breui
tractu votum I affequemur, Sienim obturatum eſt in timum vteri foramen , quod
fit concep tu pera & o liquor Vterum non ingredi gur,& mulier faftidij
njhil perfentiet. Sin autem ex intromiſlo liquore velli , cationem paruam
pertulerit mulier: quod facile fiet ex maximo ſenſu parti um
vteri,vưiquegrauida non erit; & V teri intimum foramenapertum reperiea tür,
vt experientia liquoris oftendet. Sand.Sanctor.lib.1.de vitand error .
Periculofum eft pifces frixesin humido locarefor matos fomedere; Nter magna
venena piſciú frixorú , quireſeruantur inhumido, vel qui Aeterint cooperti
calido vaſculo , eſus eft;bi enim in lethiferú cómutantur ver nenú ,
&fymptomata pernicioforú fun gorum corporibus inferút, quæ quan doq; non
ftatim ,ſed poft diem , vel bi duum eueniunt : oportet igitur frixos pifces in
loco aperto ,vtfrigeant, demita tere , fi venenimalitiam cupimus euita re.Ex
ArnoldoVittan .lib.de venenis, 10 . Lałtis balneum procorporis decoratie
onemultum præftare. Pud veteres lactis Balneum max A idve vu, illiusfiquidem
lotione,corpora , & candore, & venuſta te vigebant. Hinc memoriæ
proditum eſt Poppeiam Neronis vxorem quin gentas ſecum aſellas ducere
conſueuifle, quarü lacte,vt candefieret , totü corpus balneabatur. Mercurialis
de Decoratione. Germantantiquitùs corporis firmi tadinimaximèvacabant. M Agna
profe &to faude Germano rum conſuetudo,digna iudicatur in corporum hominum
vigore confir mando :ijenim legem habuerunt,neant te ætatis vigelimum annum ,
quiſpianti Venereis amplexibus commiſceretur, recte exiftimantes corporum
viresà nim mis tempeſtivo coitu eneruari.Cefar 6. de belloGalico. Fæminas vtero
gerentes , libenter : marem admittere :bruta autem grauida nequaquam . ! Olie
Vam diſsideatmulier à brutis gra uidationis tempore, bene nouit A rift.7.de
biſt. animal. cap. 4. Hæc enim ſigrauida clt, marem admittit,brutoru vero
omniumſola equa coitum patitur à conceptų , reliqua autemminime. Ma
nifeftifsimum eſthoc in ſpeciehumana mulierem grauidam coitum pati, & ap
petere. Cicutam ,vterinum furoremex " : tinguere. Icet cicuta inter
frigida connume. retur venena , præcipuè quæ in quis, &lacubus
inuenitur,furoris tamen vterini, fiue Satyriaſis remedium it. Hic affectus
Veneris eſt immoderatus appetitus , cum vteriardore , & delirio, Narrat
Diuus Baſilius quaſdam vidifle fæminas, quæ Cicutæ potione rabioſas capiditates
extinxerunt.Hoc legiturs. Liebe Homil.fup.Hexaemeron ,cuiusverbanotr nulli
intelligunt de ciborum appetitu, ego tamen potiusadfurorem vterinum , &ad
renereos incentiuosappetitus de ducerem , cuius auxilio compefcuntur: quippe
Athenienſes facerdotes cicutæ vfu ,libidinisincendia extinguere con
ſueuiſſeproditum eſt. Variolas &morbillosmorbos effe no yos, &
hereditaria, &paterna prom prietate vagari. Agna eft difcordia inter
feripto , origine. Aflerunt multi , hos fub nomi neexanthematum , veteres
intellexiſſe, cauſaſque illorum reliquias efle excre mentifanguinis menftrui,
quo nutriun fur fætusin vtero , & naturam , fiue calo . remnaturalem, ita
exprimunt materiá, & efficientem . Alij minimeà veteribus fuille cognitos
volunt , digladiantur que:num vitio .coli,vel ab internis cor. poris principijs
apparuerint: quippe Arabes, quorú tempore cæpiffe hic mor buscreditur, eos
peftem efle , fierique in pefte , & à corrupto cælo contendunt. de Equidem
ante Arabum tempora nul lus-reperitur au & or, à quo morbos hos LT aut
generatos, aut clare explicatos ha beamus.Proptereamulti latini, &non nulli
inter ipſos Arabes, propter labem menſtrualem , lactis corruptionem , vi
&tus rationem , & alias cauſas fieri fcrip ferunt.In tanta rerú
difficultate , & ob > fcuritate.Hieronymus Mercurialis vir
d octiſsimus, hosefle morbos hæridita o rios,ortúqueà cæli vitio
temporeſcrip e torum Arabum , & proinde à veteribus haud fuifle cognitos
enucleauit. Adhu ius viri opinionem libenter deuenie , quippęſi à
menftruivitio, homines in ficerentur , quia hocab Euæ peccato à mundiorigine
fempiternum fuit ,debu iffent homines hac menftruorum labe conta&i ſemper
Variolas, & Morbillos pari,tamcn vec inprimaætate, nec poſt Noe,nec ante
ſcriptores Arabes quem piam hos habuiſle , apertè legitur. Aperiunt iſtorú
fundamentum efleiro walidú bruta fanguinea,hæc enim ( teſti monio Arift.6.de
hiſtor.animal. 18. ) mé ſtruas purgationes habent, & inter cæte. ra
Equus,Canis, & Alinus,tamen hæc à Variolis, & Morbillis non tentantur.
At quodhuius reimagis negotium conua lidat,eft,Indosante Hifpanorútranſitú
nequaquã Variolas paſſos, dirco non à reliquiis nutrimentià menſtruo fangui
ne,velab iſtius excremento ortú ducunt Morbilli; quia ſià tali fuifsét
variolarú, morbillorúq; origines,vtiq;ij hos mor bos experti fuiſſent. Legitur
apud Ra mufiúIndiæ incolas,vitioCęliplurimos Variolis fuiffe extinctos,
eoq;tempore, quo noftriáb illis gallicam luem accepe runt, cordemmet viciſsim à
noftris Va riolas, & Morbillos recepiſſe.Suntergo hi morbi noui à Cælo
productiprimò, cuius vitio adco homines fædati funt, vtin pofterosper
hæreditatem maliſée minarias cauſas tranſmittant, proinde morbi hæreditarij
dici merentur , quia paterna proprietate vagantur. Ex Mer. caridi. A1 th
Dearaneorum telis,earumque ufuo inmedicina. Iro artificio Araneus telas ordi M
tur , quibusmufcaspro vi&u ta . piat , hasad Tertianę febris circuitusde
pellendos,multi præftantes, & celébres tempeftatis noſtremedici,non fine
feli ci fucceflu in vfum præſtitere:fiquidem exiis , & populeo vnguento
pilulas pam rant,corporiſque locis,horisaliquot an , - te acceſsionem ,in quibus
arteriariume uidens deprehenditur pulfátio, colligātas &relinquunt; indė
votum conſequun . tur. Ioannes Moibanus. - Natur& cautela
inmenftrualimulier rum fanguine purgandomaxi-, ma eft , MalenAgna eſt, in
depurandis femina rum corporibus à menſtruali luc, naturæ fagacitas ; quippe fi
oculos habuerit meatus, quibus lingulis men fibus illam deponere
conſueuerit,nouas adi illius expulfionem vias molitur. Proptera.multæ , ex
oculis cruentas, laie. chrymas,aliæ ex narium venis farguinis profluuium
emisêre,nonnullæ ſputa ru bentia pafſæ ſuntin menftruorum cefla tione.Ipfein
quadam ancilla noſtra, cui menſtrua occlufa erant, ex gingiuisſan guinem
profundere obferuati.Atquod magnam infert admirationem , multæ per minimum
manusdigitum ,& per an nularem fingulis menfibusfanguinis fu . fionem
habuerunt,vt in religiofa qua dama foeminanon menſtruante ter in fin niſtra
manu Ludouicus Mercatus fami. geratus medicus obferuauit. Inter rutam do
braſsicam nullam imao effe antipathiam . Xſèriptoribus in re ruſtica malti, fi
. fecus rutam feratur, braſsicam illico arefcere tradunt. Aliam von adducant
cauſam , & rationem , quam antipathiam, & diſparitatem quandam inter
talium naturam.F utile autem eſt hotum argua. mentum , nulla enim inter rutam ,
& braſsicam.contrarietas eft, quia tamen alte . Elec NO altera prope alteram areſcit, id in cauſam
eſle poteft ,quiavtraque calida, & ficca - eft , inde facile euenire poteft
, vt ob humiditátis inopiam altera, vel amba i ariditate perdantur. Pediculos
morientium corpora miris Jagacitate relinquere. on leue à Medicis præfagium à
pediculis in grauibus hominum valetudinibusſumitur . Hi profe &to in
moritüris; quandờadeo intenfà eft huis morum corruptela, ve calor innaus re
foluatur, vel putreſcat , circaventricule regionem , vel fub-mento, vbi maior
eft " ealiditas congregantur,parteſque extrbó mas, tanquam calore proprio
orbatasderelinquunt. Quodcalorem proprium penitus exſolui cognouerint, ab
infirmi corpore mira celeritate longius abeſle: confpiciuntur. Lemnius. De
Achatis lapidismirabili. natura A Chates lapis, qui ex India fertur, tum
coloribus diuerſis , tum ve D4 piss TA m nis variari confpicitur , ex quorum in ..
terſectione diuerlæ imagines multoties, fabricamtur .Quod autem mirabilius eft,
nuncferarum genera , flores, aut nemo ra,nuncvolucres, autRegum naturales, hic
lapis portendir effigies : quippe fer tur in Achate Pyrrhi Regis, & capuri
, & feptem arbores in quadam planitie ap parentes extitiſſe , Ex Camillo
Leonardo de. lapidib. Ferarum natura in hominibus mie rum in modum deteftanda..
On eſt à ratione alienum , quod de Attila circumfertur , quod Canis more
latraſſet : quippe Ioannes; Langius clari nominis medicus ab equi-.
tibusComitis Palatini feaudiuifle retu lit, quod in Auftria homine, qui latra .
tu ,ac curlus pernicitatecumcanibus co tenderet, & cũillisin ſyluis illæfus
ve naretur,vidiffent. Hæcauténaturaabfq; dubio deteſtanda eft , quippe tales .
im manes ſunt, & in hominum occiſiones procliues, vtAttila crudeliſsimus
fuit, NRege in es Ees & in viuentium cædes pronus , à quo tot Vrbes, &
populi vaſtati ſunt.. Non modòinfæminaslaſcinire homi : nesverum , etiam
brutacernuntur . Omines laſciuire in fæminas, nec nouum ,nec inauditum eft cum
anebo fub humana fpecie contineantur. Quod autem bruta in eafdem laſciuiant,
mirabile eft,Plutarchus in Dialog. Ele phantem in Alexandria fæminam qua- - dam
,quæ coronas ſutiles componebat, fuiffeque Ariſtophano Grammatico rio ualem ,
adamaſſe retulit: A micę,per pla team tranſiens Elephas,&poma, & frum
& us donabat, multiſque indicijs , & a morem , & ad fervitutem
promptitudi nem declarabat,læpeque à latereafside bat, & laſciuè mammarum
loca tange bat,Serpens etiam quidam (teſtimonio eiuſdem )puellam ardentiſsimè
adama uit,no & u ad illam accedebat, placide. - que amplectebatur, &à
latere dormie bat, luce autem aduentante nulla illata kelione
diſcedebat.Parentes,ne à ſerpé tele . t n itas te læderetur, aliò puellam
afportarunt: Ille autem ad amicam vltimo peruenit, quá
nonmorefolito'amplexa,ſed qui dam amantium ira in illam irruit , ma
nuſquepuellæ nodis vinciens,caudæ exe tremitate amicæ tibias verberebat,
profecto præreritę fügæ ,atqueablentiæ: iniuriam vlcifci videbatur:
Quomodofamine vterogerentes: conceptumvaleantoccultare. Aximam Sabini cuiuſdam
Roe mani vxoris in occultando conceptu referam ſagacitatem , quo præfi dioaliæ
confimiliter,fi optabuntfæmiö. næ à conceptionis.indicijs faciliter oe
cultabuntur.Illa quidé dû aliæ mulieres; fecum lauabantur ventris tumorem ce ..
Jare cupiens, vnguento , quo ruffas, & aureascomas.reddebat,ab vtero corpus
vniuerſumlinire folebat. Illius erat vis pinguitudinem , ſiue carnis
inffationem , aut laxitatem efficere , propterea com . Go: lange in corporis
particulis vtebatur, Hlud tumeftumrepletumque redde MA bat, ventriſque tumorem
' occultabat. Parabatur( vt' puto )'vnguentum ex res bus rubificairtibus,&
puftulas inducend tibus,calcefcilicet,auripigmento , tiap s. fia , &
lulphure, hæc enim alijs rebus co --- mifta veteres ad capillorum cultum cad 1
piebát,ſin a.in aliqua corporisparticula applicantur ex magna caloris vijaut hu
mores ex alto ad fummum :trahuntur; aut ipfis fuſis.gignuntur:flatus cutis,
& extima corporisſuperficies attollitur, & in maiorem molem ducitur.Ex
Plutarc... inlib - epwTikā . Fructuum , vinearum ,iumentorumga interitus
praſagium . Agnun à mori germinatione ca Lpiturpræſagium , mörus enim . ideo à
Theophraſto prudentiſsima vocatur , quia omnium nouiſsima gera minat , &
pruinis non tangitur : Idcirco fructus, & Vineæ à mori germia minationeà
pruinis liberi fünt. Ea tam menquando à pruina lædi contingit( fia: D G quidemosi
M Ty & fiquidem læſam in Aegypto, vt in pſala mo77 legimusMoyfis , tempore
prodia tur fuiſſe )Colimaximamarguitintema periem ,& proinde fructuum ,
vinearum . que interitum declarat.Atmaius ab vl. mo &perſicopræfagium
capimus, quip pèvlmi, & perfici, folia , præter tempus decidentia ,peftem
inomniiumentorű ,. &pecuino genere præfagiűt. Ex Cardano., Fætoremextinéta,
lucerna vteroge Trentibus,infeftumeffe ,& ini. micuin ... Dor extinctæ
lucernægrauis,adeo tur , vt in abortum faciliter conducat. Id : alleruit
Ariſtot.8.de hiſt. animal.c.24 . vbi non modo mulierés grauidas,,verú .
didit.Profecto malus odor fi odor. fi prægnana. tjú corpora ingreditur, quia
fætus im becilliseft , & à quolibet alteråtur,facili negotio inficitur,
eius caro tenerrima, & ſpiritus inde abortusſequitur.. At no
Kemelextinctalucernæ fætor perniciē. quoque Ila He 4 i quoquc hominibus
attulit, vt carbones in cameris teſtudinatis facere accenficó . fueuerunt. Duos
monachos retulit Pe. trus Foreftus in obferunt . medicin..cum nodu cellam
ceruiliariamintrașent , vt fæcem cbullientem exportarent,( fortè candela
extincta )cum exitum non inue nirent,ſuffocatosfuiffe ,ac mancmortu . os effe
inuentos. Infania ,&furori àfolanofluatico contrattis vinum
potentiſsimnmfora gulare eſe prafidium . Olamur . fyluaticum , quodà multis
Belladonna dicitur,tantæ eft immani tatis,vtinlaniam , &furorem hominibus
eiusacinos.comedentibusinducat, AC cidit cuidam ( referente. Hieron. Trago
dib.i.hiftor. ftirp.) quiin fylua plantam vi. derat talis calus: hicmultos
decerpfit acinos, & deuorauit : altera verò die in tantam inſaniam ,&
furorem deuenit, vt plerique illum à Dæmone obſeſlú cre derent.Intellecto
tamenmorbo, vinum fortiſsimumà. Trago illi propinatum Spelaria D ? esto) eft, quo facto conſopitus,paulòpoft con
ualuit, & abfquelslione vixit, Lolium tritico ", alýſque cerealibus :
commiftum varia hominibusfymptom mata attulille. Anis,in quo- lolium fuerit,
ſtuporem quendam ,ac veluti temulentiam efi tantibusparit cum fòmno inexpugna .
bili.Id Gatenus afferuit lib.1.de Aliment: facult.Etenim ( inquit )cum anni
confti tutio praua afiquando fuiffet, lolium tritico affatim ispaſci contigit ,
quo haud feparato, quod paucus effet tritici prouentus ftatim quidem multis
caput dolere cæpit ineunte æſtate in cutemula torum,qui comederant vlcera ;
& alia fymptomatafunt fubfequuta, quæ fuc corum.prauitatem indicabant,
Lolijta . mennocumento acetum efle præſenta Deum remedium iudicatur. Quare tum
Htritico ,tum abalijs feminibus cerealio busdiligenterloliumfeparandum eſt.
Scorpio Scorpioidem herbam Scorpionum : iltus feliciter fanara. Irabilis eft
herbæ Scorpioidis in : M Scorpiones potentia,illi quidem huius tactu ,exocculta
diſcordia exani. mantur, &intermoriuntur , tantam in ter eosanthiphatiam
natura indidit.As' quodmirabilius eſt exanimati Scorpi. ones,fi Hellebori albi
radice tanguntur; ad vitamreuocantur. Propterea.Scorpi oides,Scorpionum ictibus
impoſita fe liciter & citilsimè illorum virus mor , - tificat,viculque
perſanat ex, cuius prz . tentancain illos virtute à Scorpione now. men fumpfit,
& Scorpioidesdi&ta eft. Mirabilesin biomiwibus proprietatesquase doger
adfuiffe. Dmiranda profe &to in homini bus quandoque vifa funt. Regem
Pyrrhum aiuntpollicemindextro pede natura habuifle , cuius , taču lies nelis
medebatur : bunc cremari eum religae A réliquo corpore haud potuifle perhibet
.. De Samplone legitur infacrisLitteris, quod in capillitio mirabilem
contineret virtutem , qua aduerfis quibuslibet re fiftere audebat.
Veſpaſianūtactu .& fali ua, & fine his quandoquenon paucis af
feátibusmedicatumeffe tradunt.Ego e. quidem idiotam cognoui hominē, qui
Ipuitione ſola in osinfirmi ranulas per fanabat, &licet primoafpe & u
a&u De Monisid perfeciffe dubitauerim , quieui tamen ,cum fimpliciter
curamagere illú : cognouerim . Dolorem colicum Bubulo ftercore per Sanari.
Agnam Bubulo ſtercori" dolorem colicum fanandi indidit efficaciamquippè
apud fcriptores legi, & à fide dignis audiuiffe viris afferit Geſnerus,
illius potu complures ruſti.. cos fuiſſe liberatos,qui enim ftercus ari dú in
iuſculo bibit, ftatim fanatur. Hinc apud multos mosortus eft ,vt nonnulli
nonmodo ipſum excremét aridum ,ve rum. 1
E1 uum recens, & expreflum iufculis ebi bant, & melius habeant. Ego
quidéru fticis tantummodo remedium præbe rem , nobilibus vero, ne nausean indu
cerem ,non auderem ,cum nobiliora pro ijs habeamus præfidia , ſufficerent
tali.. bus ex eodem ftercore cataplafmata, vt enim reor,ex proprietate tale
auxilium colico dolore vexatis,ſubire confueuit. Epilepſiamfrumafqueverbena ako
xilio evaneſcere. Aturalis Magiæ profeſſoresverbes: nam ( Sole Arietemi ) colle
& am graniſque pæoniæ fociatam , contritam , & ex vino albo hauftam per
colato , epilepticosinftar miraculi fana . re prodidere.Hoc exHermetetraditur.
Nop.minoreft ejuſdem radicis efficacia, quippe collo eius appenfa, qui ſtrumas,
patitur,mirū,ac infperatum adfert pra fidiumReferunt Aſtrologi hanc Vene ri
effe dicatú , ffrumaſque delere ,quod Veneri ancilletur , quæ collo præeft,
propter Taurum eius domicilium .. Ex. Durante inHerb. N 1 1 1 1 i Arbores
quandoque in lapides commutantur: N Danico mari , iuxta Lubecenfem vrbem
Alberti Magni'ætate, arboris ramus inkientus eft cum Nido, & pullis, qui
cum in lapidem omnes, cum arboré & nido eflent conuerfi ,purpureum ta = men
,( vtipfe retulit Jadhuc colorem fa um retinebant. Georgius Agricola eti am memoriæ
tradidit,in Elpogano tra étu, iuxta oppidum à Falconibus cog nominatum ,
Abietes integras cum cor tice in lapides verſås elle ,atque , quod maius eft,
in rimisetiam porphyritidem Japidem continuifle , quod maximè foc Tertiſsimæ
naturæ operibus tribuen dum eſt. Bardanamaiorcum mulieris piero magnam baber
ſympathiami quæ MPerfomatia diciturinmulieris yra rum , magnaque eft cum illo
eius fym. pathia , quippe illius foliun lämmo ca. pite geftatum matricem furſum
tollit, fub planta pedis deorſum . Propterea huiufmodipræfidium aduerſus matri
cis ſuffocationes,præcipitationes, ac tiſo locationes præſtantiſsimum à multis
iudicatur. Ex Mizaldo, Quomodo literas axrei colorispinger . valeanks. VI T
literas aurei coloris habere pole fimus,auri ſolia quot libuerit, eli gemus
quibns mellis tres vel quatuor guttas miſcebimus, hæc infimul conte renda funt.
ad vnguenti fpiſsitudinem , in ofleoque vaſculo conferuanda, Cum autem ad
ſcribendum .huiuſmodi mir ftura vti volumus,aquæ gemmaræ ali quid addendum eſt;
vt operi liquorap tior exiftat:ita profe & ò litteras habebi.
musincomparabiles. Ex Alex. Pedemono Lano. Qyomodoveftigia; & défórmitates
vario lis,&morbillis bomines poſsint. euitari. Ne 92 E morbillos. in facie , corporeque hominum
remaneant , expertifsimum apud me, quod in publicam vtilitatem placuit
aperire,eftpreſidium ,quo vten tes pueri puella quedeformidate , quæ ab ijs
relinquitur , carebunt. Cum va riolæ, fiuemorbillimartruerint, & in medio
oculi quafi albicantes enricu erint , quod eft fignum bonæ matura tionis,omni
die bis oleo amygdalarum dulcium recers . expreffo plura leuiter oblinire
oportet, donecexſiccentur , ita profe & ò, vt fæpius experiri libuit , ve
Itigia non remanebunt; & quod melius eft,oleum hoc'excoriatas variolasmira
. bilíter ad fanitatem perducit. Quantum in hominibus: vfus vene norum valeat.
Ithridates fæpè veneno epoto , adeo venenorum tis auxilijs corpus
diſpoſuit,vtcitra of fenfam venena ebiberet. Cum autem à Pompeio profiigatus
eſſet,atque in ex trema:I trema fortunæ miſeria conſtitutus, è vi e taillæſus
diſcedere feſtinabat, quaprop ter venenum hauſit , & pluſquam fatis
eſſet,nectamen emori potuit,cum con tinuus venenorum vſus in hominum naturam
pertranſeat.Ex Plinio . Inhominibus vermes figura maximè differunt. V 23 5
admodum funt differentes, quippe in quodam Antoniano CanonicoMon tanus
obſeruauit.Hiccolico dolore tor quebatur , cuius moleftia Hierameram
deuorauit,vermemque deiecit.Erat ille viridis, figura lacerti, ſed craſsior,
hirfu . tusq ;, & pedibus quatuor innexus.Breui tempore à fera propulſa,
canonicus obia ic:contra illa in vitrea phiala aql a plena, per menſes aliquot
viua ſuperſtitit. Ex codemMontano lib.4.6.19 . Calculusrenum , veficæque in
homi mibus, quopacto confumi valeat. Lapil t Apillus, qui in Tauri veſica ,men {e Maio reperitur
, magnam habet in conſumendo calculo efficacia. Hic fi vino imponitur , mutato
paululum ſa pore, colorem croceum contrahit. De hocvino quotidierecens effufo ,
donec lapis vino impofitusomnino conſum peus lit, à calculo infirmos bibere
opor. tet. Hac enim ratione, nó modo calculú comminui, verum etiam conſumi mul.
tos experientia edocuit. Ex Quercetane. Filiosà parentibusfignum aliquod
recipere , vulgatifsimumet. " Ilii omnes patrium aliquid, aut aui tum ad
vnguema retinere folent,ver Tucam ſcilicet , vel cicatricem , vel effi giem
,velmores , autmanuum lineas.In domo noftra omnes à parentibus verru cam in
brachio habuimus, & Marcellus filius meus ex me confimiliter. Proue niunt
hæc à feminum miſcela , ſpiritu umquevtriuſq; parentis ſeminaliú,auo rumq;
effuſione. Proptera etiá ſuccedit, File ( fire fi feminain filiorum generatione
benc mifcentur,atque in minimas partesiun guntur) vt fætus robuſti euadant. Hac
enim rationefpurij robuftiores exiſtunt quoniam ob amoris vehementiam , ve
triuſque ſemina multum , beneque.co . ráiſcentur:Ex Cardano de subtit. go D:
Marerubrùm in plantisproducendis terre vigorem obtinuiffe videtur, to Adel D
mare rubrum afbos nulla in terra prouenit ,præter fpinam , quç dipras vocatur.
hęc autem propter fer uores, &aquę penuriam rara etiam eſt, quippe non nifi
quarto , quintoue anno pluit, & tuncquidem impetuoſe, breai quam te?mpore.
At- in mariexeunt plantz , cat quelaurum & oleam appellant.Läu rus arię
fimilis in toto eft, olea folio ta tum fru & um oleę proximuin his noftris oliuis
parit , & lachrymam -emittit ,ex qua medici, Irftendo fanguini medica Hentủ
compopunt: Cú auteaquỵ plures inceflerit,fúgi iuxta mare quodãin loco crum HM
erumpunt,qui Sole tacti, in lapidem co mutantur. Ex Tbeophr.in 4. de hift.plan.
Incapillorum defluuio ex Hydrargynı lac epotum peculiare iudicatur auxilium . .
rifabris capillorum defluuium in ducere conſueuit, aliaque ſymptomata; quæ
tales in mortis pericula conducunt. Pro huius immanitate, vtiin potu capri no
lacte, illudque cum pane commede re,fingulare & expertum eft remedium ;
quippe ſedata illius vi,atque potentia,à veneni morte liberanturægri, &
piliite rum nafcuntur. Ex Foreſto in obſeruat.med . Inter Lupum , Agnum maximam
effe antipathiam . Tantralis difcordia,vt ipfisemor. , tuis in eorum chordis id
etiä eluceſcat. Si enim ex Lupi, Agnique inteſtinis, chordæ conficiuntur, in
inftrumentis muſicis applicatas minime concentum vocefque lonoras reddere,fed continuo
tadas Bo ta &tas dillonare obſeruatum eft :at quod mirabilius eſt , agninas
chordas à Lupi funiculis corrodi , & confumi, fi fimul n repofitæ
fuerint,comprobatum eſt. I demde Aquilæ , &anſerum plumis fer tur, Aquilæ
enim pluma naturali antia pathia anſerinas poſitæ interplamas , vt docuit
experientia eas conlumunt & corrodunt, Quadam pro Epilepſia admiranda
reperiun. RiaabHoratio Augenio ioluiscá . (ult.pro epilepfia curanda magne
efficacię proponuntur remedia. Primo lococarbo eftille odoratus, qui fub Ar
timiſiç radicibusęſtiuo folftitio colligi tur, quiper dies40.infirmis,aliquocon
ucnienti liquore exhibendus eft mane ieiuno ſtomacho.confircor ego cuidam ,
epileptico huiuſmodi remedium ada modumprofuiſſeSecundo loco ,Mufte lę fanguis
adducitur , hic pręſtantiſsi. mus proepilepfia ſananda cenſetur,au. joris
experimento, vidit enim fanatum E epilep probauit , fanari confueuit .
Colligitur epilepticum fupra 25.annum ,ſolo huius fanguinis vfu potati ſcilicet
ftatim at queè venis exiſtadvoc.ij. cum vnaacer. ti :Vltimo loco tefticuli
Apri,aut faltem Verris fiueSuis domeſtici-Venere vtéris; &tefticuliGalliexiccati
in furno mira biles cenfentur;hi in puluerem tenuiſsi. mèredađi, cum zuccaro
mifcentur, & decem continuis diebus epilepticis ad drach.tres,cum
aqualettonicæfelici cũ fuccefsu.exhibent. Flatuofam inmembrisconuulfionem
lignoce peſcoperfanari, Onoulſio illa, quęà flatu in mufcus lis , &
membrisoritur cum dolore, Chanc noftrirampham ,ſiue gramphum.yo cát)nodis
ligneis à viſco , quod in quer. cubus'adnafcitur, vt experientia com С. viſcuin
aftiuo tempore,Sole in Lepois fickere commorante,tunc enim perfectia onis
complementumadeptum eft, Dc. bent nodi ligneiillius, loco patienti fu perponi,
vtitarimfiatus: diffugiat ,pio gui ficco, renuiq; prædirum eftlignum , * aut
occulta ratione, vtvoluirCardanus Confiteor,multis taleprælidium ad pre feruationem
meconfuluiſie ,votumque $ fuiſſe aſſequutosſola iſtius ligni tuſpen y fone.
Annult ex bubalorum cornibus | huiufmodi etiam dolores prohibere multa
experientia, ex eodem Cardano i obferuati ſunt. Quomodo nonnullorum animalium
vent num corpora vostra ingrediatur. Pedido Halangium cum aliquem momor . dit ,
quamuisparuum fit animal,ex . - iftimare tamen debemus, venenum ex ipſius ore ,
primo quidem in ſuperfici em ,deinde vero in totum corpus defer ri, Præterea
marina turturis , ficuti , & terreni Scorpionis aculeus , quamuis ir
extremam illam acutiſsimamque par temfiniatur , vbi nullum foramen eft , per
quod venenum deijci pofsit,neceffe en eft vt excogitemus ſúbftantiá quianda
ineſſe illi,aut fpirituale,autAgidam ,qnz E vt mole minima , ita facultate eft
quam maxima.Siquidécú nuper fuiſſet quida ict Scorpione, videormihi
eſle(inquit) percuſſus grandine:eratque omninofri gidus,frigidoq;fudore
perfufus.Quip pe vbi exicta parte,pertotam iplamce leriter diſtributa fuerit
venenivis,con tingiteam , endemrurſus.contactu ,in fingulas ſubiectarumei
partium recipi: mox ex illis inalias continuas, done: in aliquam peruenerit
principe :quo tem forémortis periculum inftar. Ad hanc remin primis conferunt
vincula parti bus fupernis inie & a, abſciſsioque pare tium venenatarum .
Noui equidem ru fticum ,quiepoto è viperis medicamen to , reſciſlo priusdigito
euafit, ficut , & alium quendamqui ſola ſectione circa medicamen eſt
liberatus. Hac Galat. 3. deloc. aff. Mirabile ad Strumas gurturis, ramicem ,
Adem44 Yemedium . Dmirandum remedium ad ſtru . A mas. Cupreſsi foljaneque
teneri. ora ,neque duriora in puluerem com di minties, tortiuo vino confperges,
atque ita volutabis , dum in fæcis corpus coe TH ant, inde fruma, velramex
indecitur, pe tertio primum die foluitur medicamen tum , contractum locum
inuenies, quidie o gitis-exprimidebec rurfus ad tres dies idem pharmacum
applicabis,eodemque modofolues ,&exprimes;feptimodie, vel ad fummum pono ,
ſtrumæ velut miraculo abolebuntur. Valet etiam ada ramicégutturis, parotidas,omnemdur
se ritiem , & ædemata. Hie tollerininhere fit.Chirurg.6... Peftilenti
tempore in :er pracipua-prafidia: aeris re&tificatio fummum iudicatur.
Mnilaudedignus, omniq; decore admirandus Hippocratesiudican dus eft ,qui peſtem
illam ex AEthiopia ad Græciam venientem , non aliorepu lit auxilio, quá aeris
purificatione.Præ cepit enim ,vt per totam ciuitatem ignes accenderétur ; qui
non è fimplici folum materia ,fed etiã beneolenti conftarent. Qua propter ,
& coronas odoriferas , florefquearomata ,vnguenta pinguiſsi magrati odoris,
& alia iucundosodores fpirantia, ciues igniſpargebant, quo paa Eto aer
purusfa & useft ,& ijà peſte tuti fuerunt. Ea fuit magni Hippocratis
dia ligentia. Ex Galeno. Portaldara fenuinis contra lumbricas: magna
estefficacia. Nlumbricis necandis nonmodòPon tulacz aqua ftillatitia aptiſsima
iudi.. catur ,verum etiam illius femen.Narrat enin : Arnaldus Villanoua ,
quendam puerum , dum effet in mortis periculo Conſtitutuspropter lumbricorum
mula titudinem drach.jem . feminis Portula cæ cum lacte fumpfiffe,atque
lumbricas multos emiſiſke,fuiffequeliberatum . Quorundam animalium vita
terminus con. ftitutus,quis fit. epusannis decem viuere fertur, & Catus
totidem . Capra o & o . Afinus triginta.Quisdecem : fed vir gregisfæpè quindecim
. Canis quatuordecim , & quandoque vigintiTaurus . quindecim . Bos,quia
caftratus,viginţi. Sus, & Pauo viginti quinque.Equus-vigioti,&non
punquam triginta , inuenti funt, quiad quinquageſimum peruenerint.Colum biodo ,
vti etiam Turtures. Perdix vi. ginti quinque , vt &Palumbus, qui non
nunquam ad quadrageſimumperuenit . Ex Alberto Låddoloresarticulares
electuariano mirabile. Periam electuarium illud mirabia le , quo ego in
doloribusiun &tura rum, & in arthritide cum felici fucceffua nor femel
vfus fum . Huius auctor Pem trus Bayrus eft,licetipfe Galenicompofitionem efle
dicat in -lib.18 : fuæ Praski. Confiteor fubito ſoluere finemoleſtia , ignitum
caloré extinguere, & membra patientis adeo contemperare, vtmultas viderim ,
endédie, qua pharmacum acce. perant, à ſella ad locú propriúſine alte rius
auxilio languētes redire. Capiútur Hermos Qua propter , & coronas
odoriferas į floreſquearomata, vnguenta pinguiſsi magrati odoris, & alia
iucundosodores fpirantia, ciues igni ſpargebant,quo paa cro aer purus fa &
useft , &ijà peftetuti fuerunt. Ea fuit magni Hippocratis dia ligentia. Ex
Galeno.. Portulara feminis contra lumbricos. magna est efficacia. Nlumbricis
necandis nonmoddPon tulacæ aqua ftillatitia aptiſsima iudim . catur ,verum
etiam illius femen . Narrat enin : Arnaldus Villanoua , quendam puerum , dum
eſſet in mortis periculo! Conſtitutuspropter lumbricorum mula titudinem
drach.jem . feminis Portula cæ cum lacte ſumpfiffe,atque lumbricas multos
emifiſke,fuifíeque liberatum . * Quorundam animalium vita terminus.com ftitutus,quis
fit. epusannis decem viuere fertur, & Catus totidem . Capraodo. Alinus
triginta.Quisdecem : fed virgregis læpè. quin io rabia quindecim . Canis
quatuordecim , & quandoqueviginti.Taurus quindecim . Bos,quia
caſtratus,viginti. Sus, & Pauo viginti quinque.Equus-viginti, & non
punquam triginta , inuentiſuật, qui ad quinquagefimum peruenerint.Colum biodo ,
veietiam Turtures, Perdix vi. ginti quinque, vt &Palumbus, qui nons nunquam
ad quadrageſimum peruenit . Ex Alberto Laddolores articulares electisarianos
mirabile . le,quo ego in doloribus iun & tura rum , & in arthritide cum
felici fucceffu non femel vfus fum . Huius auctor Pew trus Bayrus eft,
licetipſe Galenicompo fitionem efle dicat in lib.18. fuæ Brasti. Confiteor
ſubito ſoluere ſinemoleſtia, ignitum caloré extinguere, & membra patientis
adeo contemperare,vtmultos viderim ,eadédie,quapharmacum acce perant, àſella ad
locú propriú fine alte rius auxilio languētes redire. Capiútur Hermodactylorum
alborum à cordis fuperiorimundatorum , & Diagridii an .. drach.ij.cofti,cymini,zinziberis,cario
phyllorum an.dracij.trita , & cribellata conficianturcum fyrupo fa & o
exmelle , & vinoalbo inuicem coctis,donec ſyru. pi bene codi formam
recipiant. Dofis eſtà drach. ij.ad drac. iiij.fecundum in firmi tolerantiam . Auctorconfitetur
ter ab huiuſmodi doloribus fuiffe correp tum ,& femperinaurora huiusele
& uarij ( quod Diacoftum vocat )vnc.ſem , acces piſſe, & in vna die
conualuiffe. Ego dia-. gridium in minoridofi,exhibuifemper & beneſucceſsit.
Periculofumeft Bafilicum continues adorari. Vantį ſit periculi, herbæ Baſilica
frequens odoratus plenus,ex Hol Jerij exacta obferuationeperfpicitur. Quidam
enim Italus ex continuo eius odoratuin vehementes, &longos inci-. dit
dolores capitis ex Scorpionein cere bro epato ,cuius caufa morsconfequuta eft ck
Ratio apud aliquot huius euentus,ea potiſsima eft, quod Bafilici folia ſub te.
ftafi & ili putrefaéta in Scorpiones mu tentur, ex quo arguunt, frequentem
o . doratum animalcula quædam Scorpio onuminftàr, in cerebro geocrare . Vte
cumque tamen fit, Bafilici odoratus ad Syncopim , & animi hominum deliquia,
mirumin modum prodelle compertum cfts Piſcem Torpedinem, dolores capitis àcaufa
calida feliciter fanare. Nter fele & a , & quae dolores capitis à caula
calida auferunt remedia ,Tor. pedo piſcis eft. Aitenim Celfus, quem ſequutus
eft Seribonius Largus, huius Puciscapiti affricatu ,adeo tales dolores remoueri
vtin pofteru redire nequeant. Cauſa torpedinis qualitas eft,ipfa enim viua in
mari, & procul , & à longin $ quo velfi haftá; virgaveattingatur,tor
porem piſcatoris mébrisinduceredici. tur, vt Plinius lib.23.prodidit. Idcirco
etMatthiolus dixit) mirum non eft huiuſmodi affe& us, quodam ftupore :
feliciter ſola confricatione fanare . Queex occulta natura proprietate fiunt,
mirabilia videri. Aturæ arcana femper hominibus , admirationem præſticere:ratio
eſt,, quia caufas ignoramusproprias, & pro .. pterea in ſpeculandis his ce
pitamus, necaliud nobisreftat, quam føla admi. ratio. Quis enim non admiratur ,
cur: Hyænæ vmbræ conta & u , canesobmya. teſcant ?Cur Eryngium ore Capræſum
. ptum totum gregem fiftat? CurGallina, appenfo miluicapite nunquam quiefcea.
re valeant? Curappenſo allij flueſtris capite in ouis collo, quz in grege omnes
antecedat, Lupi ouibus nocere neque.. ant? Profe &to hæc mirabilia funt ,
& in refum fympathias, & antipathias, & na- . turæ arcana
reducuntur. Nonnulla animaliareiuuenefcere: proditur. Agnum natura quibuſdam
anie. inalibus pro fene&tute euitandai , COA conceſsit releuamer , Ceruus
enim elu , ſerpentum renouari dicitur , quippès dum fentit fene&tute fe
grauari, ſpiritu, per nares è cauernis ſerpentes extrahit, fuperataque veneni
pernicie ,illorum : pabuloreparatur.Colubri quoque alijq; ferpentes quoniamper
hybernas latebras. vifum obſcurari ſentiunt, primo vere, maratro , feu feniculo
feſe affricát,illud , que comedunt, ita vifum recuperant, &, exacuunt,
& vetuſta tunica depoſitag pelleque priori reiuuenelcere dicuntur..
Qgorandam animalium carnes ad vitæ lorem . gitudinem palere. Longifsima vita aliquorum
ami.. malium vel eorum proprietate, multi fapientés vitæ longitudinem in
hominibusinuenire conati funt,volunt enim carnium efu longæ vitæ animali um
,vită poffe produci , re& ecenſulen. tes ſolidá nutrimentă,multú,diùq nutri
R, & à morbis defendere. Hac ratione Ceruicarnesprecipuè iuuenisadlógitu L6
dinem vitæ valere autumant, Reculit Plinius quafdam nouifle principes fæ
minas,omnibus diebus Cerui carnes de paſtas, & longo ævo febribus, caruiffe
.. Dioſcorides lib.z.longam ſençđuter cos agere dixit , qui Viperę carnibus,
veſcuntur.Propterea Pliniuslib.13»An tonium Muſam Cæſaris Augufti medi cum
dicebat, Viperas in cibis ijs dediffen qui ab vlceribus incurabilibus affligea
bantur,ratus hoc auxilium , vitam illis, producere,atque omnesſanafle.Exlib.3;
Conuiuij noftilitterarij. Abfürdan, ridiculain effe Paracelli opic. nionem ,de
homunculi inpbialia vitrea g ! .. meratione, de partu . NPara Onmodo
ridicula,ledinfanda eft: Paracelfi, damnatæ memoriæ opi-. niode
homymauliconceptione, & partu .. Scripſitenimex feminehumano in ama pulla
vitrea. conie & o :;: & aliquandiù : fub cquino, fuma, Itabulato ,
homun-. Cului culum gencrari . Vt autem hanc hypo .. thefimfaliam ille
impiusdoceret, exo uo fumpfit conie &turam ,quod cum op ſeruaret in loco
calido concludipofle, & ex eo tandem pulliim excludi, perſuaſit hoc idem in
humano ſemine in vitreo vaſculo reclufo poffe contingere. Sed vana, &
fabulofa ſunt eius figmenta, fi- . quidem ex putrefa& o femine, in an.
pulla fub fimo recondita talis homun .. culi partus fieri nequit, qualis enim
eft cauſa,çaliseffe & us conſequitur,proinde ex putrefacto nihil ,piſi
corruptum ori .. tur. Infuper in fetusconceptu ,vt ex fa .
ais:diuiniverbidecretis capitur,ſemen virumque viri: &mulieris concurrere
opuseft ,præterhęęconceptio haud ori turniſi. fuerit vterus benetemperatus,
tanquam hortulus à Deo deftinatus ad hanc prolem , cui fanguis maternns fi
mulaffluar: quippè fi.materni- fanguinis deficeretappulfus,necfemenaugeri,nec
ali planıę inftar, necpartes conformari pollenr,, vt omnium philofophorum E. 7 conſenlus
eft. Ad hæc inter fætum, & vtero gerentem fympathia quædami requiritur , vr
calorem , & nutrimená. tum à matre recipiat, & à fætu viuena te inatsis
calor augeatur : & abia' ad cona coctionem , & produ &tionem
feliciter fuccedant. Quæ omnia fallain effe Pas tacelfi coniecturam atgtrunt:
ille enim non perfpexit in ouofemen , exquo puls dus fit , fimulcum alimento
vernaculo conferri, & in teſta per fe porracea tans quam
invteroquidemconcludi; ex qua pullus ali , & refpirare pofsit Semen vero
humanum caloris, & fpiritus Cu iuſdam viuifici particeps , &conforss
quorum vi , & beneficio fir generatio , antequam in vitream ampullam per
funderetur , eodem temporis veſtigio exhalaret , & conceptio euanefceret:
Hue aceedit, quod deeſt fanguis, quo femen nutritur, & augetur. Adde quod
per ampullam vitream , fub fimo recon ditam tetas fpirare nequiret confuta ..
maergofunt Paracelfiftarum fomnia ,& fabula fabulofa eorum magiftri conie
& ura; & vana de homunculi partu affertio. Ex. Georgio Bertino Campano.
In Armenia nines rúbentes fieri. Iues omnes(fublata philofophand tium
ratione)albæ funt, & ita ius d cat fenſus, vtnon immcrito Plinius lib . 17.
capite z : niuem vocaverit cæle ftiumaquarum ſpumam. Nihilominus Euftachius
Homeri interpres , in Ara menia niues rubentes confpici retulit. Harumcolorçm
multi fapientes rummi Aantes, non natura niues rubentes fieri, fed
accidentaliter illic voluere. Illa enim loca minio luxuriant, cuius colo re ex
halātiones , è quibus in Armenia ninesgenerantur , pallutæ , rubedincm .
acquirunti. Pro quartana febrejſalitaremedia . A Rnaldus Villanoua pra fecreto
ha. buit in febrequarrapaexhibere taxi barbaſsi radicem ex vino per dúashoras.
mote acceſsioné, & Dominus osdecorde: Ceruiad drach . Itidemex vino
alterator di& amocretico,ſaluta ,chamedrio ,chamæpithio, &myrrha ex
fucco abfynthit ad ſcrup.ij.caftorei eriam , & bituminis anſcrup. ij. ex
vino: Alij,vt quartanam excutiant , infirmis dum in acceſsione affliguntur,
timorem ex improuifo incu tiunt. Proptera Titus Liuius fcripfit, Quin &
umFabiuin Maximum in con fictu febre quartana fuille liberatum ... Terra
Lemonia contra venena miram : babet efficaciam . Nterpræſtantiſsima auxilia
contra venena,terra Lemniaconnumeratur , quæ ad Cantharides,& adLeporem ma
rinú adeò pręſtat , vt quadam proprie. tate, deuorata , omnevenenum per vomitum
expellat, quemadmodum mul tis experimentis hæc omnia didicifle.
Galenusconfitetur, Lumacalapidem ,partümulierum facilitati. Icitur Lumaca,
lapidem nobiliſsi.. me virtutis in capitcretinere, qué fi trio I tritum
ftranguriofis liquore aliquo conuenienti dederis , vrinam foluere , i
breuiterq; fanare comprobatum eft. AL mirabilem baberingrauidamulierecó. Senfum
:quippe appenfam fi ſecum por tauerit,in abortum minimè incidet , fin autem
tempore partus tritam ,cum vino capiet,multa facilitate pariet : fiquidem
lapides himeatusmuèaperiunt, è qui-. bus fætui facilior datur tranfitus. Ex :
Ifidoro.. Kamum fympathian in aliquet bruto mirabilem . elle Izaldus lib . 1.
arcan : &Podinus: lib.3 ,theat.nat.obſeruatű ,exper tumque audiuiſſe
aiunt,Vaccam ,Quem Equam , Afellam , Canem Suem , Felem ; fimiliaq, foeminei
generis animalia do meſtica , & manfueta, dum vtero gerunt , autinterire ,
autabortum parere, fi mas ex quo conceperunt,ma&tetur autocci.. datur,tam
valida eft,ac vehemens-illo rum inter fe fympathia. Hoc autem an verum fit
,confiteor, menondum fuiffe expertum .. oletno Oleam -arborem puritatis
virginitate of amantifsimam . Liva fimanuvirginea plantatur , & educatur
,,vberiores fructus præbe redicitur:, vſque adeo puritatis eſtamā tiſsima,
& labis nefcia. Hacde cauſa , ve Teor,abantiquis ſapientibus olea, Mi neruæ
dicata, & confecrata füit. Audiui equidem àmultis , alearum à laſciuis
mulieribus non femel fuifle collectas fructus,calq; fequenti amo parum fru
& ificaſſe,ExCarolo Stephanointideraruftia Aftronomiam Medicis effe
neceffariam . PRudens Phyſicus Aftronomiam in telligere debet, aliter
perfe& usMe dicus effe nequit.Cum autem ægros -Cųe rare intendet, Lunam
afpicereoporte bit, fi enim plena cſt,crefcitfanguis, & humiditas in
homine, & beftiis, & me dulla in plantis , ita voluit Hippocr.inl.
dediſciplina Mahemas: qui apud Galore peritur.Cum ergo quis in morbum in
ciderit,fi Luna è combuſtione exit,tunc iei creſcit infirmitas vfque ad
oppofitio bis gradum , quo tempore per a &to cceli themateaſpicienda Luna
eſt ,an cum alia quo planetarum ſocietur fortunato , vel & infortunato
;numin malovelbonofue . titalpe & u ; & an dominúdomus mortis.
afpexerit; ita enim de morte, & vita; de morbi longitudine , &
breuitate infire morum accuratiusconie &turarepoterit.. Ex Hippers . 10ak .
Ganjucto. Saturni,Martiſque coniun tionem inTauro , Bobuspeftilentiam pradicere
futuram . A. Strologorum ex multaobſeruan tia decretum eft, cum Saturnus.
Hupiter ,& Mars, vel iftorum duo fimul iun &ti fuerint ſub humano
figno, cona. currenti ad eam ftellarum fixarun vea Denoforum animalium afpe
& u ,morbos peftilentes hominibus effc futuros . Ex diuerſitate autem
Zodiaci brutis quan doque contagium appariturum , faluis hominibus . Vnde notat
Auguftinus Sueſſanus in comment.Apotelaſmatum Pro. Lomai ,non multis ante
annis,obferualle, cum SaturniMartiſque coniun & io in Tauro horrendiſsima
frigora'excitallet, magnam Bobus calamitatem eueniffe . Ques autem licet
imbecilliores , füper tites tamen fuiffe . In Boues tamen pe ffis illa defçuit
propter cceleſte fignum , ad quod terreftris Bos refertur. Quæfi fuiffet in
Ariete , forfitam in Oues graf fata effet. Anno 1479. in figno humano Martis,
& Saturni fuit coniunctio (tefti monio Ficini ) & peftis crudeliſsima
ho mines inuafit ,,vt& prius anno1408. & omnium peſsimaanno 1345. ex
trium Planetarium infimul conjun & ione. suffiiu bituminismulieres ab
byfterice '. 3 Vltis experimentis comproba audio , , lieres ab vtero ſuffocatas
lubitòad ſanie. tatem reuocari, & quod mirabiliuseft, Hyſterică
extemplobituméacceſsionen corrigere, fiue crudum , fiue vſtum mu. licrum
naribus admoueatur. Propterea mulieres,quętali pafsioni obnoxięfunt lans
paſsione liberari. CA lana exceptum , fiue goſsipiocolloap penſum ,Medicorum
conflio (Mizaldo · auctore ) in romullis locis habent , vt e, crebo olfactu
paroxyſmum arceant. Cantharides quandoque ſolo olfa & u fangui. nens,
veltactuècorpore euacuajſe. Antharidumvis , & venenú in fane guine purgando
per vrinam, apud paucos incognita eft, quippe in potui ex ceptas non modò
veſicam exulcerare , verumatque fuffocationes, & horrenda
ſymtomatainducerecomprobatum eft . Imò tantæ feritatis funt, vt quandoqué &
tactu ,vel olfactu hec efficiant,vt cui damchirurgo Mediolani ſucceſsit, qui
bis fanguinisprofluuio correptus fuit per vrinam ,folum portando cauterium ex
cantharidibus in Byrfa. Ex Micbarle Rafraljo. Podeortum fit adagium , Naniga
Anticres. } MXneotericisMedicis,nigrum Vlta obſertatione &à prioribus,
& neotericis , helleborum ad infanos, & mente captos peculiare auxilium
eſſe, probatum eſt. Huiuspotio licet periculoſa fit , cú cau telatamen fumpta,
mirabiliter ijs pro deffevidetur. Hellebori virtutem De. moſthenes innuere
volebat , dum acti. onem mouens Aeſchini , vt ſeſe pur. garet helleboro dicebat
.Hoc in Anti. cyris duabus ele&tiſsimum , & magniva. loris naſcitur,
quo nauigare oportere a dagium , quiab intania Canari cupit vt Strabo lib.9
.Geograph,loquitur. Hinc Stephanus deHelleboro loquens addit, Anticorenſem quempiã
fuiſſe , quiHer çulem dato Helleboro infania libera uerit, Grauidas simio fale
prentes, parerifetus fine vnguibus. Noneftàratione aliepum , quodab
Ariſtot.dicitur 7 de biftor.animal.c.4 mulieresgrauidas, fi nimio ſale in cibis
vſæ fuerint,fætusparere finc vnguibus vngues enim ,vt dixit Hipporc.in lib.de
care FOS . 1 Carnibusex glutinoſa, & viſcida materia
geperátør,hincaecedenteGalitorum v. Tu,materia illa viſcida adeo attenuatur ,
&adimitur , vtfacilè illorum ortusde . ficiat.Comprobatur hocetiam in ladá,
tibus, quibusex aſsiduo , & nimio ſali torum vſu ,lacomne, paulatim
deficere conſueuit. Oui badiin conuiuijsiucundi,feftiuiquelas beantur. N
conuiuijs profecto,vt hilariter'iu : Du { 11 X G 3 epulétur,tron femel ludi
aliquotper io cum apparantur qui omnes in iftanti um riſus, &cathihnos
mutantur. Inter multoshi erunt Feftiui:Si lintea;& map pæ calchanti puluere
confricantur, qui foti fe deterſerint ea parte nigrifient;li ceti lintea prius
candidiſsima apparue. sint.Si cultri fuccocolocynthidis, vela fòe ta &
ifuerit,amara oíaex ijs incita le tiétur :ex afla fætida autem cuncta fæti da
audientur:Si fuperpaſtillos nuper e fixos inſtrumétorü chordas minutim in
difasproieceris inftar vermium à calore V contracte apparebunt, naufeamque rei
inſcijs mouebunt. quibus vinum potui dabitur,cui caftancarum cruftæſubtili ter
tritæ fuerint inie & xà ventris «crepi tibusſollicitabuntur. De
amorisorigine aliquet controuerfia. OlentesPhyfici amoris originem , velpotius
furoris amatorijreperi te indaginem ,ex correſpondenti homi num complexione,
leu verius ex con formi ipfius fanguinis qualitate ,nempe calida
proficiſcivolunt, hancenim como plexionem valde amorem gignere af firmarunt,
Aſtrologi inter eos amorem exiſtere aiunt, qui in codem aftrorum gradu
conſiſtunt,vel qui in aliqua con Itellatione ex æquo participant, & con
formes ſunt,tunc enim fe redamare có . fingunt. Alij Philoſophi amorem naſci
afferuerút, quoties noftra luminainde. fideratumobic&um conijcimus,voluat
cnim quoſdam fpiritus ex ſubtiliſsimo, puriſsimoque fanguine cordis noftri in
rem concupitam exhalare, acque ocyſsi * IN me ad mè ad oculos noſtros
recurrere, ibique a in vapores'& 'humores refolui,quifen . fim ad
correlapſi , diffuſiq;per corpus, in oculis, rei dilectæ quandam idem, inſtar
fimulachri, & imaginis,non aliter , quam in fpeculo macula permanet ve
nenofi oculi, vel menſtruatæ ,auriginoſi, aut fimili aliquo morbo infecti,
impri munt.Hacde caufa miſerum amafium , hiſce nouisille &tum
fpiritibus,qui natu ralem fuam fedem repetunt, & ad cor permeant , perditam
libertatem fuam dolere , lamentarique cogi affirma. Nonnulli autem naturalis
fcientiæ ad. 'modum ftudiofi ,cum multa de amoris fcaturigine eſſent
imaginati;nec veram tam furiofi morbi originem inuenif. fent: in
hæcproruperunt:Amorem effe neſcio quid ,natum neſcio vnde, qui vee wit neſcio
quomodo, &accendit nefcio quo pa&to,certam aliquam rem , &per ſonam
. Hominem apud Indos longiſsimam pitam babuiſſe. F Apud Lufitanicæhiſtoricæ
fecènti ores ſcriptores(interquos eft Fer din . Caſtanneda:)fidei probatiſsimę,
longa narratione, & certa, cuidam nobia li,apud Indosannorū, quibus vixit
tre. to centorum , & quadraginta fpatio,iuuenis tæ florem ter exaruiffe,
& ter refloruiffe : inuenimus:atque ex cuiuſdam Epifcopi relatu
nouiterpercurrimus.(Hocprofe to mirabile eft , & paucifsimis à Deo
conceſſum . At non minori admiratione illud dignum eft,quod à Langio de Or
benouoproditur ,inſulam quádam fu . ifle repertam , Bonicam nomine,in qua
fontis reperiatur ſcaturigo cuius aqua vino preciofior fenium epota in iuuen
tutem cómutet. Ex lib. 1.debominis vita , vbi de Priorifla anu facta, &
reiuueneſs eente fcribitur. Hydrargyriminer aquomodo inueniatur . Ńter
metallica ônia ,hydrargyro ex cellétius vix inueniri aliud cryditur, cum ad
infinita tale accómodetur.Soler tiinduftria opus eſt, vt vbi eius mineræ fit
ſcaturigo coniectores deprehendant; propterea menſbus Aprilis, & Maiiſub
aurora, ſereno autem cælo afcendétes , vapores in montibus fpe & ant; ſi
enim inftar nebulæ fuerint, non altius feat tollentis,fed humillimæ, ac quaſi
terrae ad hærentis , argenti viuiibi ſedem eſſe allequuntur. Ex Cardanode
Subtil. Aqua mirabilis pro viſus obfuritate. Periam aquam , quam ſcribuntre
ſtituiſſe viſum cęco nouem anno . rum.R.ſucci apij,feniculi, verbenæ ,cha
medryos, pimpinellæ , Garyophilatæ, Caluię,chelidonię,rutę,centinodię,mor {
usgallinæ,garyophyllorum, farinæ vo. latilisan.vnc.j. piperis
craſsiuſculètrití, nucis muſchatę,ligni aloes an.drach . iij. Omnia imergătur
in vrina pueri, & lex : ta partevini maluatici. Bulliátbreuite pore, tú
exprime,& percola.Repone va le vitreo benè obturato.Hora sóni fingu . las
guttas ſingulis oculis inftilla. Holler. Roris marinipraftantiſstma'virtutes,
Lanta illa , quam Romani , & Itali Roſmarinum dicunt , inter plantas :
nobiliſsima eft , magiſque quam ex F 2 iſtimetur excellens, quamuis mulcitu .
dine, & frequétia vilefcat.Eftenim fem per virens,nulli nocens, &
multis infir mitatibus inimica maximè comitiali morbo, quiferè dæmoniacuseſt.
Radix eius cum melle purgatvlcera , tormini. bus medetur , & medendis
ferpentum i & ibus cum vino bibitur.Prodeſt etiam contra morbum Regium in
vino cum pipere. Et tanto contra maiora mala præualet, quanto maiori gaudet
tutela, & fauore cæleſti, à quo omnis virtus confouetur. Naturefagacitas in
difficillimis morbus fac mandis magna ift. Agna eft naturæ fagacitas in ali
quot morbis ſanandis,qui medi. corum auxilijs perdifficilc eft,vt ad fa nitatem
perducantur. Ketulit Alexan. der Veronenſis lib.2. Anatem.c.9.tr ulie rem
Venetam ,acum crinalem , qua cirri capillorum intorquentur , quatuor die
gitorum longitudine ore detinuiſle, dú obdormiſceret, fomnoque ſopitam de M
glutif Etv ghuiuifle : decimo autem menſe, quod m mirabile eſt , per vrinam
eminxiffe.Lan . Er gius etiá in alia iuuencula,quæ aciculam deuorauerat, id
etiam eueniffe fcribit, e Naturæigitur induſtria maxima eſt. * Lapidis
compofitio ignē fricationereddernisi. Ricatione cuiuſdam lapidis facilli
meignem excutere poterimus. Hæc eius eft compoſitio. Capimus ſkyracis, calamitæ
, ſulphuris, calcis viue, picise an.drach. iij. Camphorædrach.j,Alpalit . dre
iij critahæc pobanturinvalesce Teoroptimèconcoctecca Hapidécouertátur.Hic panno
fricatusu ceditur,fputo veròemoritur.ExRole! Naturam beftis,ad corporis t
ütelammulta remedia indicaffe. PlurimaşürNaturæ beneficiaquebê ftiis fuiffe
conceffa legimus.Hæcpro fectoruminans Plutarchus, præadmi. rationeinextaſin
raptus,Maturan mulo.. to plura in pecudes, quam in hominem contuliffe dixit.
Quippefibeſtijs Fors bus accidit.Naturamoxantidotum in F dicauit. Hinc Palumbes
, monedula , merulę,perdices, Lauri folijs deguftatis humores fuperfluos
expurgant. Lupi, Canes,Feles ſięgrotant,vel li excreme torum colluuie ftomachum
, vel viſcera oppleta fentiunt, gramina comedunt ra , re perfufa,herbam
frumenti, &rapiſtru decerpunt:quibus ſtomachum , aluumg; exonerant.Columbæ
,turtures,pullique gallinacei in morbis heliofelinum degu far. Teſtudincs
morſus ſibi in flictos ci cuta perfạnant.Cerui volnerati dictami paſtufagittas
, excutiunt.Ivuiteladůmu res venatur, ruta ſe munire confueuit,. vc
validiuseosoppugnet. Vrlimandra-. * goram quærunt in mala valetudine. A.
priauté egrotanteshedera ſe colligunt., Ceteraverò animalia pro virę tutela di
uerfa alia retinent auxilia.Ex Arifter.pl njo,Nipho,&aliis . Lapidem
Aetitem mulierum partus. accelerare. Maison Agnam intulitnatura Aetitilapi.
diin partu prægnantium accele rando efficaciam : quippefiearum coxis argento cóuolutus
partu inſtante fuerit ligatus, miram ytero generabit láxitam tem ,ex qua
prægnantesfacilius parient. Ab Aquilis pręlidium hoc'captum reorg illa enim dum
arctiores ſe ſentiunt & oua cum difficultate pariunt , Ae titem quærunt, ex
quo laxiori matricis orificio facto ,leniusoua excernūt.Hinc Aeritis S-apis,
Aquilinus di & us eft, quiaz Aquilă hos in nidum portant,ibiq;verii
reperiuntur. Intellexi ex feminis, pria marias aliquot hos lapides in vſu
,& pre cio habere,beneratas partuslaboresfu Bleuare. Hellebori nigriradićem
, Viperemorfus in bon Aysſanare. (N magna æſtimatione apud multosis
Helleborinigri radix habetur, ipſa enim inter carnem, & pellem iumentià
Vipera demorfiinſerta proculdubio faa - mat.Confiteor profe &to fubulcum
qué dam porcorú numerüigne perfico, fiue cryſipelate peftilenti pollutum ( hunc
morbum vulgares, eo quod porcorum caput in excreſcentiamagná deuenit,apo pellap
(męobſeruante adfanitatéducti funt.. pellant Capoatto.) fola huius radice om ..
nes incolumes feruaffe .In porcorum au. ribus cultello circulum ad viuum fane
guinem formabat,deindecentro,ex ſtye. lo ferro perforato,radicisfruſtulum éfo.
fingebat, ad paftumý;porcosmittebat, ita equidemſolo học auxilio , omnes
Hippiatros in equorum faciepitorum euul, maculas albasfacere. N hominum canitie
frequentescapil . larum euulfiones, vt nonnulliin viu habent,vituperantur, eo
quod illorum cuulſa niaior generaturcmitics:Hippia atri enim cum maculas albas
in equo-... tum facie fingere intendunt, frequeno tiſsime pilosextirpant, qua
continuata euulſione,pilos excreſcere albos exper tum eft. Queapud Veteresmagis
erantcelebrata: pectaculam Nterorbis terręcelebrata {pe& aculag, Mauſolæum
, hoceft: 9.Maufoli ſepul chrum ES Noun
ehrum ;Coloſſus folis apudRhodiosios uisOlympici fimulachturm,quodPhidias
-fecitex ebore:MuriBabylonis,quos ex . citauit Regina Semiramis; Pyramides in
Aegypto ; Obeliſcus in via nobiliſsima Babylone à Regina ſupradicta erectus,
Rodigingso Marinum Vitulum à Cåeli fulmine non mo leftari. O pauci ſunt
ſcriptores,quiMaria num Vitulum , (multa obferuatiu. one peracta) à fulmine
incolumem effe perhibent.Propterea Seuerum Imperaitorem Lecticam fuam
Vitulimarinico riocontégi voluiſſe legimus,hoc enim animal ex marinis, à Cæli
fulminemio nimè percuti audiuerat. Inde fa &tum elte vt veteres ,
pauidi,pefulmine ferirena tur , tabernacula ex iftiuspellibus con- .. tecta
retinerent,ita profecto àCæli fula . mine præſeruari poflcputabant. ExPline.
Captaminter bruta maxima Epilepsia tentari: Ippocratesin lib. de facro -morbou :
H Fs (si liber ille genuinus eius est) vt ab ' Èpilepſia homines præferuari
valeant monet , neque in caprina pelle decum . bendum effe,neq; eandemgeſtare
opor tere,beneratus tale animal; maximè ab Epilepſia tentari. Hocetiam
Plutarchus rerum naturalium perfcrutator indefef ſusaſleruit:propterea
veteresSacerdotes ab eius carne,ve morbida,abftinuiffe fe runtur ,
neguitantibus aut tangențibus . modo, aliquid eiusmorbi induceretur. . Dinum in
Asthmatisçura ſele &tiſsimim .". V TInum pro fanando Aſthmate ab , mo,
quo pater eius cum fælici ſemper : fucceflu vſus eſt ,adducitur . Habet yie .
ni dulcis , quaie potiſsimùm Verpacia eft ,non craſsi,ſedtepuis,mellicraticoctii
an, lib .decem :puluer. Foliorum Tabe. bacciexicc.in vmbra vnc.j radicum
polypodii quercini recentis,acminutiſ.. fimeconcili ync.iij.radicum hellenij
re.. motomcditullio,& inciſarum unc. iij .. : ? macerentur horis 48.poftea
verocolentur per manicam Hippocratis vocatam , conſeruetur vinum inloco
frigido. Dá - tur vnc. vj. pro vice; ſingulis diebus , ; horis ante prandium
quinque. Homines a phrenttide correptos sania fortiores fierii On pauci
admirantur , cur homi. nesphreneticiflicet in ſanitate debiles fuerint prius )
ipfis fanis fortiores : euadant?Equidem à morbi naturato- · tum procedere
verendum non eft : cum autem in phrenitide magis, ob exficca- - tionem lædantur
nerui fenſitui, quam motiui, nulli dubium eft, tales quo ad motum ipſis ſanis
fortiores, & debilio . res, quo ad virtutem fenfitiuam fieri; : ratio
omnium eft,quia operationes,ner uorum fenfitiuorum humiditate magis
perficiuntur: fecusmotiui. Huicadiun gitur, quod phrenetici ( mente læſa ).
doloremnon fentiunt,idcirco fortiores.com Ek Arculano . Tuberum efufrequenti,
bomines in epile Pliam incidere . 2 M2Aximopere ( ve valuit Simeon Zethus)
ſuberum continuattis v fus vituperatur : adeo enim hornines crebro eorú eſu
afticiuntur, vtepilepti ci;vel apoplectici fiant. Apud veteres autem in pretio
habebantur,illifq; cum Colo quandam affinitatem ,nec niſi to . nante loue
nafai, credidit antiquitas.. Vnde Iuuenalis: Facient optat atonitrus CHAS -
Offri de corde Cerui à morfibus venenofas;hos minespreferu476. Irabilis eſt profecto
oſsiculorum , proprietas , quæ in Ceruorum ; corde reperiuntur;geſtata enim ad
præ feruandiim à beftiarum venenofarum morſibus, & i &
ibusmaximeproſunt. In officinis tanquam præſtantiſsimum an .. ridotum contra
venenum , & febres pe tulentes,hxc eſſa conſeruatur, &cum
feelicifucceffu mediciindiesad hæc valere experiuntur : : multi tamen pre .
ofic.cordis ceruipi, os.bubulum tradunt in magnam languentium perniciem , &
ped.com M propi HORTVLVSGENIALIS 133 eterمه 27 that medicorum afamiam.Ex
Alexan.fro Be Pedido. Hemicranian lapide Gegatisſummoueri. MW Vleo experimento
Democritus: Hemicranian , lapidis Gagatis ſo'a ad collum appenfione tolli com
.. probauis fcribit enim huiufmodi lapi. dem geftatum ſeinperniagis ponderare,
quam antequam appendatur : quafi in eo quædam attrahendi in fe fe humo . rem ,à
quo dolor in parte cranij fufcitam. tar proprietasreperiatur.Mercurialis .
Epilepritof non perpetuoconcidere nee quefpumam facere. Vicomitiali morbo
laborátnánili in magoa ventrico !orum cerebriz cralo s humoribus obftru &
ione conci dere, & fpumam ferre confueuerunt: ſe cus vero in alijs cauſis,
vtin quadapu.. ella Aretina Beniuenius obferuauit. In cidit illa in Epilepfiam
, tamen neque concidebat,pequeexorefpumam emito. tebat. Sedſtanscaput hinc indecücere
wice uice , ac fi quid infpicere vellet
mous bat; nihil interim loquens , nihil fenti ens.Cum auté ad fe reuerteretur,
inter rogata quid egiflet, penitus ignorabat. Cauſam Beniuenius exiſtimauit ,
quod non caderet quod contra & io , & tenfio ad cerebrum non
ferretur,cumfolus va por ſurſum aſcenderet : ex quonullor gore cerebrum ipfum
intentum , abot dinatis motibus-reliqua membra pre feruare potuit. Vermes
rubros in hominum cerebro , in qua dam epidemia natos effe. y Beneuenti,cum
multi ignoto morbo decederent è vita , medici tandem , hoc morbo quedam mortuum
incidere voluerunt, & in huius cerebro vermem cubeum breuem inuenerunt,
quem cum mulrismedicamentis vermesoccidendi vim habétibus interficere
nequiuiſſent, fruſta raphani inciſa in vino-maluatico vltimo decoxerunt,quo
vermis occilus eft,atque hoc eodem remedio deinde - mili morbo , quali
epidemico affe & i omness. Omnes curabantur. Foreftusex lib.Corne tỷ
Roterodam. Capillorum defluuium ex Laudano curari. TOn femel morboacuto
egrotantia bus (-ſiad fanitatem reducuntur è capite capillos decidere
expertumelt. His facilliinè fuccurritur huiufmodilia nimento , quo 'capillorum
defluuium non folum amouetur verú etiam amiſsi irerum renouantur. Laudanum cum
vi. ño , & oleo rofato ad decentem vnguen ti fpiſsitudinem coquitur, quo
caput v niuerfum linitur ; breuique capillatum redditur, Ex Bayro .. An
empiricis tradararemedia,mortem ! non paucis:attulije.. ftrum baudelt, remedia,
quæ ab Kempricis adhibentur, morté aliquádo hominibus attulife, ij a . nulla
ra. tione, nullaq; methodofuffulti, fed fola experiméti indagine,nec
caufasmorbo Tum verè cognoſcere,nec ordine auxilia applicare
poſiúnt.Proptereamilesquida inmorboinueteratoluinepotis ,quicapi. Member Aximopere
(ve valuit Simeon MZethus) ſuberum.continuattis V.. fus vituperatur: adeo enim,
hornines crebro eorú cſuafticiuntur,vtepilepti ci;vel apoplectici fiatt. Apud
veteres autem in pretio habebantur, illiſq; cum Colo quandam affinicatem ,
necniſi toe. nante loue nafai , credidit antiquitas.. Vinde Iuuenalis : Facient
opfataronitrua , Cen45 -offi de corde Ceuiàmorfibus venenofisshos
minespreferuatge -Irabilis eſt protecto oſsiculorum , proprietas , quæin
Ceruorum corde reperiuntur;geſtata enimadpræ • Tóruandum à beſtiárum
venenofarum I morſibus, & i& ibusmaximeproſunt.In officinis tanquam
præſtantiſsimum an- . ridotum contra venenum , & febres pe.. bilentes,
hæcoſſa conſeruatur , & cum . foelici fucceffumcdiciindiesad hæc va lere
experiuntur : : (multi tamen pro . ofic.cordis ceruidi, osbubulumtradunt in magnam
languentium perniciem , & M pedice medicorum afamiam.Ex Alz xan.fro Bem
nedido. Hemicranian laide Gagatia ummoueri. Viro experimento Democritus
Hemicraniam , lapidisGagatis fola ad collum appenfione tolli com .. probauis
fcribit enim huiufmodi lapi. dem geſtatum ſempernagisponderare, quam antequam
appendatur : quafi in eo quædam attrahendi in fe fe humo rem ,à quodolor in
parte cranij ſuſcita.. tar proprietasreperiatur.Mercurialis . -Epileptites
nonperpetuo concidere nee que fpumam facere, Vicomitiali morbo laborát nánili
in magoa ventricolorum cerebria crais humoribus obftruatione eonci dere, &
fpumam ferre confueuerunt: ſe cus vero in alijs caufis, vt in quadá pu ella
Aretina Beniuenius obferuauit. In cidit illa in Epilepfiam , tamen neque
concidebat,pequeexore fpumam emit tebat. Sed ftans caput hinc inde cucere vice,
ac fi quid inſpicere vellet mout bat;nihil interim loquens , nihil fenti
ens.Cum auté ad fe reuerteretur,inter rogata quid egiflet , penitus ignorabat.
Caufam Beniucnius exiſtimauit , quod non caderet quod contra & io , &
tenfio ad cerebrum non ferretur, cum folusva por ſurſum aſcenderet : ex quo
nullori gorecerebrum ipfum intentum , ab of dinatis motibussreliqua membra præ
feruare potuit, Vermes rubros in hominum cerebro , in quae dam epidemia natos
effe. , Beneuenti, cum multi ignoto morbo ; decederent è vita , medici tandem ,
hoc morbo quedam mortuum incidere voluerunt, & in huius cerebro vermem
rubeum breuem inuenerunt, quem cum multismedicamentis vermesoccidendi vim
habétibus interficere nequiuiſſent, fruſta raphani inciſa in vino maluatico
vltimo decoxerunt, quo vermis occiſus eft,atque hoc eodem remedio deinde se
smili.morbo , quali epidemico affe & ij , omnes Nous ) omnes curabantur.
Foreftusex lib.Corne- , i Roterodam . Capillorum defluuium ex Laudano curari.
"Onfemel morboacuto egrotantia bus (-ſiad fanitatem reducuntur ) è capite
capillos decidere expertumelt. His facillimèfuccurritur huiufmodilia nimento ,
quo capillorum defluuium non ſolum amouetur verű etiam amiſsi irerum renouantur.
Laudanum cum vi . ño , & oleo rofato ad decentem vnguen ti fpiſsitudinem
coquitur, quo caput y niuerfum linitur, breuique capillatum redditur, Ex Bayro
.. An empiricis tradararemedia,mortem ! non paucis:attulife : ftrum baudelt,
remedia, quæ ab tempricis adhibentur, mortéali quádo hominibusattulife,ijn.
nulla ra . tione, nullaq; methodo fuffulti, fed fola
experiméti-indagine,neccaulas morbo . Tum verè cognoſcere,nec ordine auxilia
applicarepoflunt.Propterea miles quidā. igjorbo inueteratoluinepotis,quicapi N +
136 tis achoribus erat fædatus , finecautio . os,more empiricorum ,nec ætate
obfer uata, vnguentum ex arſenico , ſulphure viridiæris , femine ſinapis
confe&tum capiti appofuit;ita enim ex quodam lio bro remedium collegerat ,
& mane ſee quenti puer ille, qui erat duodecim an norum , in lecto mortuus
inuentus eſt. Hi profe& o fru & us empiricorum ſunt. ExValefio..
Triplici auxilio homines longauam vitam Af quirerepofle. Ifi hominum frequens
luxus exo NA vita songior,ſaniorquevideretur,hi ay tem in luxum ,epulas, &
otia effuli, vix trigefimum exceduntannum , abſque. fene & utis aliquo
veftigio ,vita enim los. gæua,non luxu ,& profufione nimia, fed triplici
tantum remediocomparatur;fie quidem pareitas cibi , & potus , bonus
cibus,& moderatum exercitiummorta - lium vitam, ex Philoſophorum decre
to,producere valebunt.Bartholom .Males ** Dino Gagorio. Nmin Quo paéto fingultum cohibere valeamus.
Onleui angaſtia angultum ho• mines cruciare quandoque vide mus adeò quod
multiin longiſsimā via. giliam huiuſmodi affe & u ducti funt, Multi funt,
quieximprouifo timorem ſingultientibus incuitientes,votum alle quumtur : alij
verò auricularidigito ito bentintus aures diu confricari;Lyfimam chus tamen
apud Platonem , fternuta . mento afperfione aquæ frigidæ , & re {pirationis
coñibitionefingultum cxčke ti propalauit. Quopado plebrios, tincios en
admiration nem -dustus. Plebeiprofe &to qui populi parsfino plicior eft,ex
leuifsima occaſione fa . cilè in admirationé ducuntur . Si optas autem vt
adftantes credantvel magico Çarmine, vel quodammiraculo te open. rari, manècum
Verbaſcum flores aperit æſtiuo tempore, iispræſentibus leniter moueto plantam :
flores enim paulatim decidunt, & exiccatur, cum magno ile . lorum ftupore,
fiquidem illius plantæ hæceſt proprietas, vt ( Sole accedente ) flores
decidant. Quod fi magis irridere velis inutiliter aliquid murmurabis , vt
admiratio excrefcat , vltimòtandemor mpia in rifum finiantur. Ex Porta .
Memoriam è thure epoto maximè Augeri. Maximo hominibusadiumento eſt firma
memoria , triftitiæ verò, & Jabori , imbecillitas, iis præſertim , qui
bonarum litterarum ftudio incúberec ptant. Ita autem cófirmatur.Thus albife
Gmuin in pollinem attritum ,& cú vino , li hyemsfuerit,velaqua deco &
ionis paſ fularü, fięſtas;epotum ,inLunęaugmen . to ,oriente Sole,
necnonmeridie, & oC- t caſu , mirum in modum memoriam aya gere fertur. Ex
Rafi. Quo pačtofamis importunitascohibeatur: Vis Taurum Philoſophum , eiufq;
mendo famisimpetu? profe& o dumfa . maemaximèmoleſtabatur, eius importurnitatem
, compreſsis hypochondriis & ventris ſtri & ione compefcebat. Apud.
Aulum Gellium . Mulierem grauidationis tempore pallefcere., debilioremque effe.
TOnlinerationemulieres , quoté pore vterum gerunt, virore pallia dæ fiunt,
purus enim illarú fanguiscono tinuò ex corpore deftillat, & in vterum à
natura demittitur, vtfætú tú nutriat; tú eius procuret augmentü.Cum autem ipfis
paucior in corpore-refideat fanguis neceſſe eſt fieri pallidas , atq; alienos
ci Bos appetere.In ſuper exco ,quia fanguis folitusipfis minuitur,debiliores fieri
ne celle eſt. ExHippocr. lib . 1. de morb.mulier .. Myrifticam nucem à vira
geftat am , vigo rofiorem fieri. MIrabilis eft nucismyriſtice, quava cant
muſcatam , cum homine fym pathia : ſi enim à viro.geftatur, nomodò vigore
proprium cóferuare, verù etiam turgere,magifq;fucculentam , & ſpecio ſam
ficrialkunāt, pręfertim fiiuuenilis adultæque ætatis homines circumferát Ex
Liuinio Lem . Hepaticos, Gtienoſos decodochamading fanari. INter præſtantiſsima
remedia, quæ I hepaticis, & lienofis adhibentur pri mum Chaniædrium locum
retinet: fie nim ex aceto deco & a,per pluresdies ex .
hibetur,hepaticos,atquelienoſos pro . culdubio fanat: multisequidem experi
mentis comprobatum eft tale decoctí viſceraab infar &tu liberare:propterea
ini febribus chronicis, eo quod obitruction tres mire abigat, fdelici fùcceffo
à multis: pro fingulari ſecreto audio vſurpari. Pulfus
deficientes,&intermittentes in ix . uenibus mortem prædicere, O Vanti
timoris in languentibus,pul sus deficientes, vermiculantes, & formicantes
exiſtant,apud Medicos notiſsimum eſt : ij enim ex proſtrata natura
exorti,exitiú efle in foribus aftédūt. In . termittentes autem duorúpulfuum ſpa
tie tio,non modò in omnibus fufpe & i ha bentur, verum etiam omnibus maxime
iuuenibus exitiofifunt; diſséticGalenus, qui in pueris, &fenibus non ita
fore ti mendos afleruit.Huius rei habuitexse. rimentum Proſper Alpinus in
Iacobo Antonio Cortulo octuagenario,pleuri. tiro , & febreardente vexato ,
cui pulfus fuerunt cùm intermittentcs, tum defi cientes; tamen ille citò conualuit.lib.s.
de med. method . Mitbridatis Regis , ad venena maximum Antidotum . D Euico
Mithridato Rege maximo, in eiusArcanis Pompeius inuenifle in peculiari
commentario ipfius manu exarato compofitionem antidoti dici Inr.Cóftabat ex
duabus nucibus ficcis ite ficis totidem , & ruræ folijs viginti fimul
tritis, addito falisgrano.Si aliquis hoc iciunus allumeret , rullum ei venenum
nociturum illa die affirmabat, Ex Plinio. ONO Slidera Quo artificio offa ,
velebora colorari valeant. I offa,vel ebora coloratahabere de lideramus,ca in
primis oportet abim munditiis purgare; deinde in aluminis aquadecoquere,tum
demumin vrină , vel calcis aquam in qua diffolutum fit verzioum , rubrica, aut
cæruleus color, fiue alius quem volumus immittere , & vna iterum coquere.Cum
autem perfri gerata in eodem etiam liquore fuerint, extrahenda ſunt; &
pulchra, & bellè tin eta habebimus . Alexius Pedemont. BRICA Bryonieradicio
è vinoalbo decoctum , hyfte. ricam paſsiorem reprimere. Ryonia in
fedandamulierum hyſte rica paſsione,egregiam habere vir tutem multis
experimentis dicitur.Ex multis obſeruationibus in quadam mu liere, quæ quotidie
ferè per multos an nos hocaffectu laborauerat, à Matthio lo experta eft. Hæccum
ſemelper heb. domadam , cius confilio , ſub fccti ingressum , vinum album , in
quo ip fius radicis vncia efferbuerat, hauſſet ex illa paſsione optimè
conualuit. Ne tamen amplius in fuffocationes deueni ret vteri,perannum integrum
hoc me dicamento vía eſt, nec morbus iterum recidiuauit. Quo fuffitu Serpentes
venenati à domibus, velpradiis arceantur. Vlta equidem reperiuntur, quo rum
ſuffitus adco o diolus eſt, vtà loco, vbi is. fiat ,penitus arçeantur. Scribit
Florentinus in Geo pon. Venenatam feram numquam accef luram , vbi
adepsceruinus, aut radix Centaurij maioris , autLapisGagates aurDictamus
creticus,aut Aquilæ , vel Milui fimus cú ftyrace miftus fuffatur. Ex Gal. autem
habemus in lib.de med. fac. parab.ad Solonem.Pyretrum , ful phur,cornu ceruinum
, pinguedinem ,& pulmonem Afini accenfum ,ac fuffitum , cuncta animalia
venenoſa efficaciter fu - gare compertum elle . Herpetes exedentesTabucoicereto
felicitors Sanuri. Terorymus Aquapenders inl.:.de Tumoy prenat.6.20.5xedcotes
her petes teſtatur curaſſe quoad totum cor pus, ex ſero Caprino expurgatione
con fecta,fæpèautem cum fa !fæ parille de co & ione:partes affectas aquis
therma lbus D.Petri lauabat,vltimoiis , felici cum fucceſfu ſequens
admouitCeratú . R.Succi Tabacci, ſeu herbæ Reginæ vnc. iij.Ceræ citrinæ
nouiſsime.vnc. ij.Refie næpinivnc.j. Rofinz Tyerebintinæ vnc.j.Oleimyrtini
quantum fuffic. pro formando Ceroto. Vina alba, qua induſtrie inrubramu tentur.
A Lba vina abſque vllo detrimento in rubra( auctore Mizaldo ) tatim
Conuertuntur,lipuluerem mellisad du rilsimă conliltentiam deco&i , &
ficcati in vinum albuin proiecerimus, & tran Suaſandomiſcuerimus,Idautem
minori faſtidio efficier lapathorum radix , fi re cens, vel ficca in vinum
mittitur. Flores in Aegyptoprope Nilum inode tar os exiftere. O Dorin ficco
fundatur , eidemq; in nititur;hinceuenit(auctore Theop . 6.de cauf.plantar .)
vt fru & us agreſtesvro - banis ſui generis odoratiores,eo quod - ficciores
exiſtant vrbanis,habeátur.Heç quoq; caufa eft,quod in Aegypto mini mèodorati
flores naſcantur;vt n . Plini - us prodidit, Aegypti aer à Aumine Nile tum nebulofus,
tum roſciduseſt : cuius cauſa odor in foribusadimitur. Abfynthium ventriculum
roborare ſo lum adftri& ione. Vantam Abſynthium in roboran do ventriculo
vim retineat,in mul. tis locis à Galeno exprimitur :bancau tem virtutem non ab
amaritudinem fed propter adftri & tionem abfynthio inefle verfimilc eſt.
Conſtat hoc totum ab eius fucci natura , qui corroborandi facultate deſtituitur
, ex eo , quod ter rez partes, in quibus adſtringendi vis poſita eſt, ab ipſo
feparantur. Succus itaque folum amarulentiamhabet, quz tantum abeft, vt
ventriculum roboret, fed vt potius illum infeſter. Ex epote Chalcantho, albos
pilos è capi te decidere . Icet Chalcanthi, fiuc vitrioli vſus, e reſumpti,
apudGalenum ſuſpeatus habeatur: à multis tamen audio maximè commendari. Inter
graues fcriptores , Rbaſes eft,qui 29. Continentis, 6.24. ſe habuifle amicum
quendam ſcribit; qui potata vitrioli drachma, propènoctem pilos omnes , quos in
capite habebatal bos, abiecit.Res profe &to mira eft, pbrenitidem ex nigro
Coralio felicitar Sanari. Oralium nigrum , quod Antipallas, fiue Antipatkes
dicitur,inPhrenitide morbo corrigendo , & fanando perquá Airam habere
facultatem exiſtimatur. Hoc nigerrimi.coloris eft , & ob varie. tatem in
magno precio tenetur, & cótra huiuſ HORTvĆvs G & NI ALIS. 14h ** Merete
huiuſmodi affectum tanquam præftan tiſsimům remedium vſurpatur. Ex Ense lio de
Gemmis lib . 3 : Lethargicosà Satureia capiti admota excitari. Vltis
experimentis obſeruatum reperio,Satureiam cumfloribus vino incoctam , &
calentem occipitiad . #motam , Lethargicosdifficili ac pertina E ci sono
oppreſlos, ac veluti raptos exci tare, & reuocare.Vt autem curæ folici $,
or fit exitushuius decoctiguttæ aliquot fe infirmiauribus inftillandæ funt.
Hana diſchius. I peftilentias quasdam occulta anispat hia ho minum corpora
depafcere. M Vlta reperiuntur,quæ occulta qua dam antipathia , cun &tis
hominis bus aduerfantur. Huiuſmodi fuit aura illa peſtilens, quæ ex arcula
aurea in quá miles forte quidam inciderát ( referente Iulio Capitolino ) in
Babylonia orta eft, Ex hac nata fertur peſtilentia , quæ in - de Parthos
orbemý; compleuit. Huic haud abfimilis , vel prauior vtique fuit G peſtisilla,
quæ anno 1348.ab oriente in cipiens ( teſte Guidone Cauliacenſi ) vniucrlum
fere orbem peruagata eſt , tảntaq; lauitie peragrabat, vt vix quar ta hominum
pars ſuperſtes euaferit. Bra M . Infantes eiulare quoties lar, nutricum mammas
papillas pangit. Slidua experientia comperimus f A mammasnutricum , &
papillas lancinat, & pungit,quippead infanculos tunc nu trices redire
videntur ftatim ; cum pa pillarum mordicationem , ſiue vellica. tionem
ſentiunt. Duplici autem id fieri caufa credendum eft; vel quia quo tem
porecoctionem infantulus perfecit, eo dem momento nutricis vbera complen . tur
, vel quia tutela Angeli Cuftodisin fantis nutricem ad officium , leuiſsima
vellicatione follicitat.Hoc verius vide. tur eo ,quod modo citiusmodo tardin
fanteseiulant: & vtriuſq; ſtatus non lem per idem eft. Ex Bodino
lib.3.Theanatu. Sales Han 7 Salis Prunella virtus, &compofitio. al prunella
,ob fingularem vim do lores mitigandià quauiscaufacalida &inflammatione
excitatos, quam reti- , net, a nodynum minerale à chymicis apo pellatur. Eius
compoſitio talis eſt:Para tur ex,nitro optimo ; quod in cruſibulo. funditur,
paulatim ſuperinijciendo flom res ſulphuris,quieiuspingaedinem tole Junt,
idqueadeo pellucidum , purum que reddunt; vt fi luper lapidemmar moreum
effundas; omninò clarum, & dlaphanuin appareat vitri inſtar: quod ? đšinde
Sal ſjuelapis prunelle.dicitur,Sa lutare eit remediú ad ardentiſsimills febrem
Hungaris familiaré extinguento - dam , & edomandam :cuius ferocia tana' ta
eſt, vt ægrotantium linguas prorſus nigras, & prunis ardentibusfimiles ef
ficiat. Cum autem tanti ſymptomatislę . vitia extinguatarhuius vlu ,leniatur ,
& opprimatur: Sal prunellæ apellatus eft . Eft præterea idem remedium
magnum diureticum ,& diaphoreticum . Querceta mus in Pharmacopes. 63 Hy ilico
appetere. 1 adduxeram : qui Leonem, Gallum ve.. Hydrophobos è poto Catuli
coagulo aquami Iris laudibusCatuli coagulum in Aetio, ex tollitur : Illud enim
fi femel tantum ex aceto Hydrophobici guftauerint;ſta rim eos,aquæ pofus
cupiditatem capere: ob id medicamentum hoc præftantiſsi muth iudicamus, in
huiuſmodi enim afa fe & u , nulla falus ſalubrior iudicatur , quam aquæ
potus : quo deficiente,mors in foribus ſemper eſte Cur Leo Gallum timeat
abfolutaz " izquifitio. CVVmquodam die Cercelliani gra tia apud Carolum
Cifellum luriſ conſult. clariſsimum , meique amiciſsi. mum effem , forteinter
nosde Gallina tura orta fuir diſputatio ; illa preſertim , cur Leo illum
timeret ? Pro dubii folu . tione Ficinú inlib . z . de vit a celit. compar:
reri ſcripfit, eo quod in ordine Phoebeo, Gallus eſt Leone ſuperior. Hoc etiá
ex Proclo confirmare volui, qui, Apollinca Dæmonem ;qui alias fub Leonis figura
apparuerat, ftatim obiecoGallo diſpa ruiffe prodidit. Ifle-autem quia bonarú
Jiteraum citra legalem fcientiam admo dumftudiofus et contraria rationeLeo i .
nis timorem euenire contendebat. Ada ducebat Leonardum Vairum in lib . 1. de Fafcino
, quiex Gallorum oculis ſemina i quædam , ac fpiritus exire profitetur gr I
quibus Leonib'dolor,acmeror incredia bilis inčuciatur, inde veluti effafciñatas
ritere.Ego quidem licera Lucretio hac etiam opinionem fuftentari viditlemi
tamen poft ,pleraque vltro , cirroque inter nios de re hac ventilata ;confeſſus
füi apud me neutram opinionem vide ti validam . Vbienim naturales rationes
præualēt,nec ad Aftrologicas,nec adoc cultascófugiendium eft.Leonesquoniá bile
faya, & copiacaloris abundant,faci le fit,vt ex fonoraGalli voce comoucka
tur:ita profecto Canesex leui etiam al 2 , G4 terius 30 D 3 BARICEL II terius
latratu faciunt. Infuperrubicun da Galli criſta ,flammæinftar rutilantis ,
primo afpectu ,colorisratione,bilem in Leonibus celeri motu excitat, vt panni
rubri armenta quædam fugare, & mo uerefolent,inde fit , vt quodammodo
Leones &afpe&tum , & Gallivocem ti meant. Haud tamen credendum eft
in iis ( ledato primo impetu ) perpetuotimo. rem ex hac beftiola durare, &
induci poffe. Corues , morientium feditatem ſentire , ob id fuperte&um
infirmorum crocitare. Orui, quia hominibus meliorem habent odoratum , vt
voluitÀrift , corporis morituri fætidum odorem de longe fentiunt: fecus eft in
hominibus, licet prope maneant. Propterea ſuper te & um infirmiCorui volitant,
&cro . citant, quando eius corruptio , &fædi tas magna eft, vt ea
paſcantur: huiufmo dienim animalium genusrerum foeti darummaximeauidum eſt; quibus
pa fcitur: Charlie [ citur : idcirco in bellis , &in peftilenti tempore ,
cum corpora mortuorum vel hominum velarimaliū humi ia&a funt;
Coruorucopiaprcualet.Homines vulga tes, & quiparú prudétes funt;dů Coruos
crocitantes fuper te &tum infirmiaſpici unt, illum moridebere afferunt:hoc
au . tem falfum eft: ii enim tantum fæditaté inſequuntur. Sæpè tamen Déus
permit tit Dæmonesin Coruorum , & aliorum animalium forma ſuper domos : vel
in domibusmorientiúapparere, quando be ftialiter vixerút. Et Bernardino de
Buftis. Quo artificio es aduratur, ut cinnaba. ricolorem acquiraté Iæsvífum
colore cinnabari, & ad ru bedinem verlum habere volueris , o quemadmodum
vult Diofcorides ; AC i cipe æristaminascuttricoftę profundas: non ſint
autemęris alias fufi, quia in hoc ſemper ſtannum commiſtum eſt, Has e ſuper
ignitos carbones apta, cum autem i illæ rubeſcere incipient,ſulphurispul. .
uerem tenuiſsimum leniter deſuper có iicito , Sleepin ijáto', videbisenim
(cellante fulphuris Máma) Pris ( quamu'as euidenter extra hi,&
euelli.Tumodol.perfe & e nó pol. Te cuelli cognoueris , addito ſulphur .
remtoties, quouſque lamulæ eradicari videantur :caue tamen nevrantur , & ad
nigredinem vergant. Extinéta tandem Sulphuris flamma, & refrigeratis lami .
nis;æris rubei ſquamulas habebis magni valoris ,quasloco Hydrargyri præcipi- .
tati in medicamentis recipies alias aut tem huius vires apudGalen . &
Dioſco videto . Theodorus Ga4, quedinfelicitertex Arist,', deHydrophobia
conuerterit, à crimine abfoluitur. Heodorus Gaza vir do & iffimus,
dumArift.tex.8.de hiftor,animal.c. 22 traduceret ,omnia animantia voluit à Cane
rabidodemorfa , ip - rabiem ági ,. ac mori , excepto homine. Hoc autem qqantum
ſit falfum ,quotidianademon Strát obferuantia. Homines n. demor fi; in rabiem
aguntur, & pereunt; niſi Tectè curentur, vtcuidam (pauci sunt menses) hic
iuueni accidit, quià Canc rabido in manu demorfus, nullo adhibi, to to medico,
fed folum circulatoribus com fiſus, in 40.die in furorem deuenit; quo
temporelicetme parentes vocaffent,fas s &o tamen preſagio,quodbreuimorere I
retur , tanquam deploratū reliqui. Hęc igiturTheodoritradu & io pleroſq; in
vi rioslabyrinthos deduxit:multin .,tum i vtGazá defenderent,tum iavtArifto
telem ab erroris ſuſpicione vindicarent, textum ita acceperunt animantia omnia
à cane rabido correpta interire, hominē 3 verò folum abſque periculo non ferua.
rizita expoſuitIulius Pollux. Alii verès inter quos eft Leonicenus, textum malè
fuifle conuerfum , veleſle depra suatum contendunt , & fic loco a pocos i
legendum mpirs afferunt , quafi ho mocorreptus, &in rabiem , & mortem
deueniret , fed non ita citiùs, vt ceteris animalibuscontingit.Hic fenfus quoad
- negotij veritaté ver eſt,quiahômo pro i pter oprimú téperamétum , tardius,
qua: cætera violatur:tamen Ariſtotelisinten . 2 tionen 856 BA'R ICELLI tio
neutiquam eſt ipfe enim ex profeſſo hominem à rabie, & morte ſeruari fcri
pſit ,cuius textů Gaza fideliter traduxit, neque deprauatum , neque commutan
dum exiſtimo , quia mens Philoſophi peruerteretur. Vtauté Ariftopinjoom nibus
innoceľçat; hydrophobiamin ho minemorbum elle nouum , illiuſq;tem
peftateincognitum proponimus,ex quo iure expofuit animantia omnia é: Canis
rabie emori, homine excepto,quia hæc lues in homine nondú innotuerat. Con-.
firmat opinionem noftram Plutarchus 8. Sympoſiacorum , in probl.9. dum exfen
tentia AthenodoriMedici ſcripfit, hy drophobiam eſſe morbum nouum, atq;
apparuiſſe tempore Aſclepiadis, qui Sub Pompeio Romæ claruit. Confir mant etiam
hoc Scriptores ante Aſcle piadem , quideHydrophobia mentio . nem aliquam haud
faciunt:e od lima. nifeſtum fuiffet, non video cur lub fie lentio tantum morbum
occultaſſent, E go quidem Hydrophobiam antiquitus haud extitiſſe,perſuaderemihi
nonpof fum :innotuiſſe autem veriſimile eft, nó ob aliud , niſi quia morbushic
non ſtaa tim à vulnereaperitur : Siquidem multi in 40.die rabiunt, aliqui poft
fextum , autoctauum menfem ,vel etiam poſtane num , vt fcribit Gal. Auicenna
adnota - uitpoftfeptimum ; Albertus poft duo decim.Propterea
antiquitus,&precipue Ariſtotelis tempeftate,huius morbi cau fa
nóaduertebatur à Medicis innoteſce bat quidem aquę timor taméàcanisvul nere &
tabiem , & illa praua ſymptoma ta oriri imaginabantur: idcirco Ariſto teles
etiam , interillos , hominem com morſum à canerabido ,necrabidum fi eri,nec
emori ſcripfit. Alai radicem pro expurg andis vomitu te nacibushumoribus à
ventriculo,effico cißimum eleremedium . Vanta Git Affari radicis non modo in
ciendo yon: itu ,verum etiam in expurgandis àventriculo. & ab eius par
tibus, humoribus craſsis & tenacibus ef ficacia ,fapientum aliquot edocuit
obler : uatio : fiquidem multinon folum in vis tiis ventriculi, ſed etiam in
quartanafea bre , aliisque longis affectibushac eua cuationefeliciſsimo
cũfucceflu va funt.. Præparatur è fcrup.ij.aut Drach.j.radio cis Affari, quæ in
hydromelite, aut para fularum decocto fit diſſoluta , cuitan - tillum cinamomi,
&firupi violar. ade iicitur. Ex Fernelio. In conftruendis ſepulebris
veteresfuiffeadu! modum diligentes... Xáca Veteres in conftruendis fer
Epulchris, webantur diligentia:id circo admiratione maxima dignum eft illud ,
quodà Ludouico Vluenarratur memoria patrum fuorum fepulhrim fuifleerutum , in
quo ardens lucerna inuenta eft.Hæcibidem ( vt infcriptio ata * teftabatur Jante
Ann.M.D.condita'erat, - & poſita: manibusautēcontreccata , ex templo in
puluerécóuerſa eſt.Ex Langit. Ganicula exortum à veteribus maxime fuiße obferuatum
. Canis cAničulæ exortus antiquitus à prifcis ex eius colore, deami ſtatu
côtecturam capiebant. Illan, fiobfcurior, & veluti : caliginofa oriebatur,
graui, & peftilenté foreannu;ficlara & pellucida ſalubre ac proſperu
predicebant.Heraclides Põticubi . Aegyptiorum de'quatuor elementis opinio.
Vatuor elementa feceruntAegy , & fæmiam conftituunt. Aerem marem
iudicant,quà ventus eft, feminā, quà ne bulofus , &iners . A quam
virilevocant mare,mulieréómnem aliam.Ignévocát maſculum ;qya arder fáma; &
fæminami quà luct;& innoxius eft tactu. Terram fortioré marem
vocent;faxiscautibusq; fæminçnomen aſsignant , tractabili ad culturam . L:
Senecakb.z.Natur. Quaft. Pbreneticos aliquandomirabilia loqui. Mirabile eft,
quod aliquádoin Phre« neticisobfcruamus,isturum enim , aliquot(benè inflammato
cerebro )}in guaLatinaloqui vel carmina cóponere cum . BARICIILI cum prius
fuerint eorum igna viſ funt, fed quod mirabilius eſt, Nicolaus Flo rentinus
refert, fe fratrem phrenericum habuiffe , qui futura pradixit, quæ euer nerunt,
ita vt eius prædictiones magna ex parte poftea veræ inuentæ fuerint:de quibus
tamen fanusexiftens,nullam ha: bebat cognitionem . Infantium rupturn ; qua via
Sanare: valeamus. Vltis obferuationibus , nullum remedium ; Salubrius infantium
rnpturis inueniri expertum eſt, quam extritis cochleis, thure, &oui
albumine emplaftrum confectum . Hoc enim fi pare in affi &tæ
apponitur,& infantes eo temporinlecto detinétur miram in fa nando' affectu
retinet efficaciam . Ex Matthiolo . Digitum anularem , maximam cum cords
retinere ſympathiam . Valem anularis digituscum corde habeat confenfum , in
animi defe & ibus, & in fyncope experimur. Qui e. nim à talibus
paſsionibus vexantur,vel. licato articulo anularis digiti,feu medi. ci , vel
attritu auri ad eundem cum croci momento eriguntur. Per hunc prefecto vis
quædamrefocillatrix ad cor perue nit ,ex qua ab animidefe & u collapſi vi
gorantur, & in priftinam valetudinem redeunt. Ex Lennio. Carnes code
quomodo cruda vje deantur. N lautis conuitiis,nevoraces gulofi que carnes coctas
comedant, ticarti ficium parabimus.Excipitur:leporis,aut agni ſanguis , quem
congelatum , & fico. catum in puluerem comminuemus,hic : fi fuper carnes
coetas fpargitur ftatim foluitur, illæq; colorem proprium mu tantes ſanguinofæ
videbuntur, venau feabundus, reijcias. In comeffationi.. bus contra
paraſitoshoc eſt ele &tumra medium . Ex Vuerckero ... Adoris plcera ,
labiorumque fciffuras exper HomasThomaiusin Idea fuivirida rij , Nicolaum
Zannonem Chirur. gum THI 16.2 BARTICE L L 1" , guim Rauennæ retulit ,
mirabili fucceffu : & artificio,oris, gingiuarum linguæ ,& : palari,
nulla alia re, quam radicis penta phyon, fiue quinque foliorum decocto vlcera
fanare,atque labiorum fciffuras linimento ,ex oleoamygdalarum dulci-, um ,
cera, &maſtice , quam breuiſsimè adianitatem perducere. Exapri
tefticulis,fterilitatem in bomi nibus remoueri. MA Agnaeft vxoratis inquietudo
, & Gerileſque exiſtere : propterea.vt à xan to infortunio liberentur,
prolemq; ha beant,peraliquot dies ieiuno ſtamacho vir, & vxor cum iure galli
veteristeſti culorumapri,que verrisin vmbra exico catorum puluerem capiant:ita
profectò. breui tempore optatumadipiſcentur , vt in multisfterilibus ex
quacunq; cau « fa non ſemel expertum eft.Ex Democrito. Bufonistibiisdentium
doloreseuanefcere.'. Nter maximos cruciatus à quibus ; dolo. HORTVLVS GENIA IJS
, 163 doloresperniciofiſsimiexiſtimătur,ad? cò quod multi & in
animideliquia ,& in manias deuenerint , multi etiam in vitę
deſperationem.Huius doloris remedio. um in odioſo & abominabili animali
natura repoſuit. Aperiam hoc arcanum maximum. Tibiæ Bufonis , fiue' ranz
terreſtris à carnibus mundatæ , fi fuper dentes condolences fricabuntur,imme
diatè dolorem remonent; adeoque cru ciatus ceffabit, vt quafi in dentium ſum
perficie dolor collocatusvideatur. Ex. perire modo , & fruere tanti arcani
theo fauro. Ex Florauanté. Cepam ab Hippocratemaximèdeteftario ' £pam
Hippocrates afpeétu inagis, quam efú coinmendauit, viſu bonā, elu malam elle
dicens. Idcirco lucubram tionibus, & litterarum ftuţiis addi& is fùmmècauenda
eft : oculos enim vitiati &viſum obtenebrat,bilemque exacuit.. Villicis,
& folloribus, qui literis non ind . cumbunt huius eſús maximè collauda tur:
eius enim calore vires ad opera exercitanda magnopere excitantur.Ex Plinio. . C
Anima 164 B1 : 1 c : L L / , Animalibus naturam non modo terra , perum etiam fi
um pra termino conftituiffe. Agna fuit conftituendis terrarum terminis, &
fitu quibufdam animalibus: ne simul vbique viuentia , & hominibus &
fibi ipfis perpetuo effent nocumento. Pro pterea animalium pleraque in diuersű
à proprio addu &ta fitum vtplurimum ægrotant, & moriuntur. Hinccolligi
musin Meda , Sylva Italia , non niſiin : parte repeririglires. In OlympoMaceo
doniæ monte Lupi minimè habitant, nec in Creta Infüla . In Africa nec Vrfig. nec
Apri , nec Cerui, necCapreæ viden tur : In Illyria , Thracia , & Epiro
Afini paruigenerantur : In Scythica terraa .. tem , &Celtica neclunti
Alini, nec vio . uunt Leones in Europa, Pantheræ in Aſia, Ibisin Aegypto lolum
commora tur. In Creta: nec Vulpes, nec Vrfifunt, necaliud animal maleficum
pręter Pha langium . In Ebulo Cuniculi non funt, [catent HORTVLVS GENIALIS 165
1 FO 11 [ catent in Hiſpania, & Balearibus, In Seripho inſula Ranæ ſuntmutæ
,illæ au tem fialiò transferuntur , vocales fiunt. In Italia mures aranei
venenati ſunt hos tamé regio vltcrior Apenninohaud generat. Ceruiin Hellesponto
ad alie nos fines non commeant. In Ithaca illati lepores no viuunt. Sunt &
alia animalia quæ in determinatis locis , &non vbiqi viuunt, &
generantur. Apjefum in menfis apud Veteres infauftum extitiffe. X veteribus
maiores nullum A pij genus in cibis admittere folebant defun &torum enim
epulis feralibus ab ipſis erat dicatum , vtex Chryfippo Pli nius retulit.
Multiautem non folum ex hoc, quia ſepulchra coronabantur,Api umà veteribus
fuiſle damnatum à men ſis , fed etiam quia eius eſu viſus dimis nuitur, &
Epilepſia generatur autumát: vnde à Mcdicis nutrices moneri conſue lo, (
frequenti enim huius vſu , lactum decrementum , tum malam recipit qua titatem
ECO 9 . i > 166 BARICELLI Samen litatem )vt ab Apio abſtineant,ne lacté tes
in morbum comitialem proni fiant. Dicunt in eorum caulibus nonnulli cru diti
ſcriptores vermiculos naſci, eoſque fterilefcere, qui comederint in vtroque
fexu : Satyri teſticulum carnofiorem Veneris in . cendia excitæreflaccidum vero
extinguere. Atyrium ; quod Canis teſticulos vo cant,magnæ apud fapientes eſt
conſi derationis:in hoc enim,tum Venerem excitandi,tum reprimendi à natura vi.
detur eſſe remedium collocatum . Quip pè maior planta bubulus, quiplenior,
& mollior eft ,ex ſuperflua &ventola eius humiditate, in potu aſſumptus
Veneris incendia excitate cóſueuit: minor verò, qui flaccidior, & aridior
eft illa reprime re,Veneremque extinguerevidetur. Ob id( vt aiunt) in Theſſalia
mulieres molle teſticulum in la &te caprino ad ſtimulan . doscoitus,&
bibere,& hominibus inpo tu ;præparare ſolent.Quod autem in Sa tyrio
mirabilius eft,aiunt, alterú alterius in poo HORTVLVSGENIALIS. 167 Sier o in
potu ſumptų potentiam & efficaciam refoluerezlı vterque teſticulusvpà exhi
betur. Sterilitatem hominibus,à fterilibus animali " bespoffe prouenire. I
verum eſt , quod ab Athenæo pro dicur,Malluin ter in vita parere,relis quoque
tempore fterilem efle, quod in eius vtero naſcantur vermiculi, à quibus femendeuoratur
non abfque rationeex iftius naturahomines pofle fterileſcere . Terpſicles apud
eundem dicebat.Mul lus enim fi viuusin vino fuerit fuffoca . arus,atque id vir
biberitçrei venerea -o peram darenon poffe creditur , quod ex 3 Plinio etiam
confirmatur , qui veneris incendia extinguere fcripſit. " 5.
Cynorhodiradicem ad Hydropbobiam pluri mum valere. Dmorſum canis rabidi vnicum
" A Pemedii,quodá oraculoroperti proponit Pliniuslib.8.cap.41. Hæc radix
Hlueftris roſæ eft , quæ Cynorhoda apl pellatur.NarratB.Fulgofius de quadam s
fæmina quæ per ſomniú admonita eft, vt 12 Hvide vtradicem Cynorhodi filio à
cane ra. bido demorſo , & aquas iam metuenti præberet, quæ ftatim ex
Hifpania affer ri curauit radice qua Hydrophobicus ce , lerrimè fanitati fuit
reftitutus. Ex Gem . m4Cofmacrit. lib.1. ap 6 . Hominis vitam quibusfignis long
am ,velbres nem metiamur. Ominis vita pomo perfimilis effe videtur; quod aut
maturum ,deci. dit Spóte,aut ante iniuria tempeſtatum , ventorumue impetu
deijcitur. Vitae breuis figna colligimus , raros dentes, prelongos digitos,ac
plumbeum habere colorem . Contra longæ , incuruos hu meros, nares amplas, &
tria ſigna primis contraria, multos ſcilicet dentes, breues digitos ,
craſfosque atque clarum reti. nere colorein Forcius. Extra£tum Hellebori nigri
ad morbos inue ter atosmagnaeffe praftantia. N thrities atqueaffectibus
inueteratis, iiſque potiſsimum , qui ex atro , & meo lancho HORTVLVS
GENIALIS. 169 T! ta ļ lancholico humore excitantur, extra Ecü
migriHellebori,remedium praſtancil efimum femper clle inueni.Capianturnie gr
Hellebori radices à fordibus purga tæ , & in pila terantur groſſo modo: in
fundantur vino albo,& in vafe terreo e bulliantur quousquc radices benè
emol liantur, quo facto prælo exprimantur,& iterum in vaſe terreo leniter
ebulliat (deic & is tamen radicibs) quod fucrit expreſsum . Acquiret fuccus
( piſsitudi nem inftar picis, quicum modico cinna. somo ,& pulucre aniſorum
miſcendus eft. Dofis in grandioribuseft fcrup.ſem . in minoribusà granis
quatuor vſque ad ſex. Datur cum zuccaro in forma pilalar . Confiteor in
obſtructionibus, in c pilepticis , retentione menftruorum ex cralforum humorum
infarctu , & in alijs inueteratis affectibus, mirabiles huius remedij
fucceflus vid.Conficitur eti , am extra & um fine expreſsionc, & cffi .
- Cacifsimum cſt. AdLejenem induratum ejufqueobfrationen efficacifsimaprafidia
TE 3 Inte 170 BARICELLI Nter ea remedia, quelienem , &fple. neticos ab
obſtru &tionibus liberare reperta sút,mihi femper ex voto fuccef
GtAbſinthijRomanideco &tum ,ieiuno ftomacho epocú ,quod à Cornelio Cel fo
fummècoromendatur:Vt autem eura felicior ſuccedat poft cibum ,aqua Fabri
ferrarij; in qua pluries ignitum ferrum extindum fit , Lienoſis præbenda eft.
Experientia id totum manifeftauit, ani Talia enim apud huiulmodi fabrose
nutrita, ob eiuspotum , exiguos habere lienes obferuatur. Beniuenius , ciuem
Florentinum per feptennium ſplenis fcirro malè affe & um curaffe gloriatur,
atque ſolo eſucapparorum , & aqua per lanalle .Debenttamé hæc remedia mul
to tempore vfurpari ,vtfcopú attingat. Hominem quendam fuiffe repertum , mira
vaftitatis,&ingluuiei. NdixeratMaximilianusCæſar Ann, MDX I.apud Auguſtú
comitia: quã. do illi vir quidam , prodigiofæ vaftita tis, & craſsitudinis
oblatus eft ;at in illo incredibilis, & inſatiabilis erat ingluuies itavt
integrű virtulü crudun ,vel ouem IMDEE HORTVLVS GENIALIS. 171 UN It incođá vna
vice deuoraret, nec taméfa . mem expleta diceret. Ferunt( vt Surius)
hominēBorealibus regionibus ortú fuiſ fe , vbiob locorú frigora folent homines
elleedaciores.Hoc taménon folú in Scp tentrionalibus partibus,verú etiam alibi
bi repertú cft :Voraces n .fupramodú fuifle referunt Aeliano auctore lib.3.de
var. hift.) Pityreú Phrygem , Cambeten Ly dium ,Charidamcleonymu,Pifandrum ,
Charippum ,Mithridatem , Ponticum.Et e Anaxilas comicus dicit, Cefiam quendā
infinitæ voracitatis extitifle . Antidot erum aliquet contra penenum ab
ſeruationes. Rcareca Viperamorfus, per impofi tioné tormentille à campo penſili
colle etę,illico liberatus eſt,Altercum ingen ti dolore, & ardore
premeretur fuper | dextra spatula, & ita angeretur, vt vix ſe s
pedibuscontinere , oculis videre , & lo . qui poſſet , veritus neà
fcorpione eller comorſus,oleum bibit,multú vomuit,& à dolore leuatus eft,
& quod mirabilius, Ha in ſpatula
nihil erat ſigni,vbi prius fue rat dolor.Quidametiamà fimili dolore, &
tremore correptus ex aflumpto Bolo armeno cum aceto ſubito cuafit.Puellus etiam
putredinem timens, & vermes al fumpfit Scordeum , &liber fa & us
eft. Ex Franci.Thomaſio depeste. Quoartificio Cancri pixiextemplo sodi vi
deantur. Inum ſublimatum , fiue aqua vita magnam habet efficaciam ia rubi
ficandis cancris viuis : propterea fi vis homines in admirationem dicere,accipe
viuos Cancros atque in vino fubliaato fubmergas, ita enim confeftim ruber cent,acli
perco &ti eflent cantaeft illius aquæ caliditas, & energia,vt inſtar
ignis exardeſcat: admiratio tamen indenaſci cur, quod rubefa & i,& viui
ab aqua e . cmpti ambulent. Quorradoflamme excit etw inagha. I calcem non extin
& am accipias,Sul & lalnitrum in partes æquales , ac bene omnia fimul
ailccas, puluis perabitur, qui forqui in aqua proiectus inflammabitur, ac ducem
reddet: quod parui mométi haud Berit,prçcipuè ſinodu luce indigebis.Po e terit
id fieri in valčulo aqua pleno, vt™ quidá amicusmeus dū no & u in itinere
lefſerexpertus eft,qui totum mihi fideliter comunicauit. 9 vbivigent morbi, ibi
maximè remedia oriri. M.Agna eft Naturę prouidentia ia ado iuuandis
hominibus,quippè obſeros suatú eft ,vbi aliquimorbi copiosè vaga . ctur, ibi
remedia accomodataad illlorum exterminiūnaſci voluiffe .Hincinaphri bea, quę
ferpentú eft feracißima,aromata? tanquã eorű veneno antidota,oriuntura In Argo
Scorpiones plurimi videntur; propterea ibi Locuſta adverſus Scorpio .
nesinſurgensnafcitur : ApudIndos Os cidentales Gallica lucs viget,ibi lignum
SanaaGuaiacum di& á exoritur , & il . lincad nosdefertur.Catharides
veneno ierodunt:ex illis remediú caput , alias & e pedes earum exiftere
obferuamus.Quia Stellionibus mordentur, iiſdem in potu Ghana fumptis,fanantur
Crocodili adeps, fi in ipfius vicera inftillatur,ſuo veneno me deri videtur.
Scorpiones,Draco mari. nus, & Paſtinaca contriti , & eorum pla gis
impofiti,procul dubio fanánt. Na. pellusmortiferum venenum eft, vbita men
nafcitur,ibi Antorareperitur.cuius radices cốntra Napelliperniciem ,fingu Jare
ſuntpræfidium . Animantium lac ab alimentis recipere gut litatem . Lacomnein
animantium corporibus alimeati recipere qualitatem adeo verum et vt
demonftratione nonegeat: liquidem nutrices ex prauo in vidure giminenon ſemel
infecifle infantesvifa funt,hac etiá caufa lacin ijs modò.craf fum ,modò
liquidum ,aut ferofum cer nitur,eo quod cibusaut craffus, aut in eiſsius
fuerit,modò infantium cóftrin git aluum ,modò ſoluit ,quod vel con ſtringentia
vel foluentia nutrices come derint,Hocin pecoribus etiam manife ftum eft:in
locis enim vbi hæc fcamoniú Helleborum ,aut mercurialem comedit, vtiq; lacomne
ventré,& ftomachūſub vertit: quemadmodú Dioſcorides in Iul ftinis moribus
contingere prodidit: vbi ficapre albúveratrū pro pabulo habue i fint, primo
foliorúpaftueunmere, & ea rá lacnauſea n epotứcreare atq; ftoma
chúvomitionibus offendere ait: Cum a .. adftringétibus
pabulis,robore,lentiſcogs frondibus oleagincis, & terebintho pe cus
hocveſcitur, lac ſtomacho accómoe datiſsimügenerare veriſimile eft. Ex
pulcbritudine, da deformitate aſpoetuse' mures viuentibus coniectusari. MAgmá
nobis afpe&tus pulchritudo veldeformitasnon folurn in homin I nib ,fed etiã
animalibus,& plátis preſtaci cóiectură,qua benignos vel prauosmon res &
naturas veoarifolemus ; intuitu nó pulchri corporiszfpeciofiq; afpe
&tusmité naturam , benignofq ;moresin homine illo perfiſtere conieéturamus:
contrain I deformicorpore,turpiafpe & u timemus. enim neſcio quid
calliditatis, & malitie i In animalibus laudamus catellos, canes Venaticos
, & ſagaces , venamur in eis benignam naturam , & mites mores: ( 6 ..
tra in Maloſsis,inLupis,Pantheris, & fi milibus, timemus crudelitatem ,
maliti am , & voracitatem . In plantisex pul chritudine venamur falutares
naturas , ex deformitate autem noxias, Rola,Li lium, & Iris nobis præftát
argumentum , quamplurimis pollere virtutibus: con tra Cicutam , Aconitum ,
Napellum.ex deformitate enim plantarumhuiuſmo di,mortem nobis poſſeinducere
arbitra arur . Ex Poria in pbyſiognom . 1 : partibus Septemrionalibu
sdeficitate tes exaceri. Laus Magnus de gentibus Septena. rrionalibus loquens:
Sunt (inquit ) Biariniidololatrę, & hamaxobii,Scytha. rum more,atquein
falcinandis homini.. bus inftru & iſsimi ; quippè oculorum , aut verborum ,
aut alicuius alterius rei maleficio , homines fæpe ad extremam maciem deducút
& tabefcêdo perdunt.. In hamorrhagia fele&tißimum praſidium . Nfluxu
fanguinis narium copioſople.. 5i9; & in animi deliquia, & fyncopim
deur. . perati intercant. A periam quod mihi deueniunt , multoties etiam tanti
peri cali bicmorbus eft,vtægrià ſalute deb u ,fem * per adhibere profuit.Burſa
paftoris co I trita, ficum ouialbugine, & aceto ,com i mifta fuerit, &
frontiapplicatur , confe * ftim fanguis conftringitur;ve mihinon £ femel in infirmorumcuracontigit.
Vi in febricitantibus fitis, lingua ardor compefcatur. Nfebricitantiú
querimonijs ex ſiti, & linguæ ardoribus, Criſtalli vfus inter præcipua
iudicatur remedium . It lad enim fi diù in aqua frigida agitatur, &ore
deindedetinetur , fitim & calore corrigit, atque linguam humectat : ma
ioris tamen virtutis eft lapis albus, qui in lysacis capite reperitur. hic
porrò ſub lingua agitatus non modo fitim ca loremquerefrenat; verum etiam
faliva in ore excitat: vnde febricitátibus,& ma kimè, fiticuloſis
prælentaneum iudicae tur effe præadium . Ex Lemnio. Skolen Al ignis prefidia
fuiſsimè in morbis CW AX : dis Aegypties TerueTATE. Var Aegyptij admodum
proclives in languentium cura,adignea prælia dia eligeada,propterea vftione
vtuntur afthmatelaborantibus,in ſtomacho frie gido,humidoque ab humorumque dea
Auxu, &facibus repleto,Hepar,& Lic nem obduratum , &refrigeratum
,multa cum vtilitate inucunt; Hydropicos ſub vmbilico, &fub hypochondrio
finiftro linea petia ignita adurunt. In doloribus dorfi,lumborum ,colli , &
orenium arti culorum ,in ſpina dorli ,lumbis,collo , & alijs partibusdolore
cruciatis,hocpræſi-. dium frequentant, In tumoribus à crue. dis, pituitofisquc
humoribus generatis ad ignem confugiunt, tanquam auxiliú quod citò multosmorbos
curet, inopia queproprium efle autumant. Ex Alpines de Medic. Aeg opri..
Centium , & populorum ingenia bifuris , prouerbäs: excogitari.. Vlius
Scaligeri vir acutiſsimi inge nij,Gentium ,& populorum naturas tum ex
hiſtorijs, tum ex prouerbijs, at que ex ore vulgi ita excepir. Alanoruto
luxus:Africanorum perfidia: Europeorü acritas.Mótani afperi. Campeſtres mol
liores,deſides.Maritimi prædones, mi ftis tamen moribus: eadem ratione In
fulani quoqueſunt.Indimobiles, inge nioſ, magiæ ſtudioſi,numcro fidenteso
Affyrij,Syri ſuperſtitioſi. Perſæ , Medi Baštriani,Pyrrhi,Scythæ ,Sibi,Phryges
, Cares,Cappadoces,Armeni,Pamphilij, mercenarij, atquealijsbellicoſi, Aegyp tiz
ignaui,molles, ſtolidi, pauidi. Afria cres infidi ,inquieti.Aethiopesanimofi,
pertinaces , vitæ mortifque iuxta con temptores. Thraces,Myfi,Arabes,Mo.
ſchouitæ, Pæones, Hungari,prædones. Illyrij, Liburni,Dalmatrz , iactabundi,
Germani fortes , limplices, animarum prodigi, veri amici, verique hoſtes,Sue.
tij.Noruegij.Grunlandi, Gorri, beluæ , Scoti non ininus. Angliperfidi, inflati,
feri,contemptorës,ftolidi,amentes, in ertes, in hoſpitales ,immanes. Itali con
Atatores irrifores ,fa &tioſi , alieni fibiip kis bellicofi,coacti,ferui
vine ( cruiant, E H Dci 318 ! CEL: 1 : 1 : Dei contéptores. Galli ad rem attenti,
mobiles,leues,humapi,hoſpitales ,'pro-. digi,lauri,bellicoli,hoftium contempto
ges,atque idcirco ſui negligentes, impa rati, audaces , cedentes labori,
equites, omnium longè optimi.Hifpanis vi& us, afper domi,alienis menfis
largi, alacres, bibaces,loquacesyia & abjadi lor 3.Poc-, tices. SCMabaum
,Solis Lunaque coniunčtionen piuentibus oftendere. Irabile eft, quod à natura
Scara-. bæus animal notifsimúedidicit, omnibus enim Solis, L'unaque coitum
apertè demonftrat.Hicex bibulo fter core pilulam ab ortu, ad occaſum totá .
döverlans, in orbis imaginem effingit, quam xxviii.diebus peracta humiicro
beobruit ibique candiu abfcondit , dum ZodiacuniLunaambiens fiat interme..
itiis,& fileat:tum foueamaperit, & fide- . THM coniunctionem
denuncians,nouam pralem cdit : hæc enim eft iftius beſtio la necalia nafcendi
origo Ex Mizeldo.i. exo # Bobilin 2x
Quorundam aimalistu natur & .. Oseft conftans , afinus piger,equus:
libidineincenditur, petitąue impe.. tnosè femellam ;lupusmiteſcerenequit;
Vulpes inſidiola, aſtuta callida: Ceruus timidus;Formicalaborioſa:Apis parca:
Canis gratioſus, ad amicitiam propēlus, Leoſolitarius,expers focietatis,nunqua
pabulum externum admittens, tanta vocis magnitudine, aut fonitu , vt ſolo
Tugitu celerrimaanimantia profternat; Visſa pigerrima,ſolitaria ,corporegraui,
compacto, indiftin & o: Panthera vehea menis,& ad impetus
faciendospropenfa, pernixoyedi& a quaſitota fera.Anguis fæniculi paſtu
oculorum lippitudinem carat: Formica temporishyberni pabu lum æfiate
condit:Item - fides in canibus, in elephante manſuetudo,ftudium ore of natus in
Pauone, çura vocis amanæ ſuam, uiſque in Lufcinia.Forciuss. Cervorum vitam ,eße
lengisimam . Piabat Magnus Alexander poſteria -jari, Ceruorum vitæ loogicudinem
oftenders,propterea multoscapi iuſsit, quibus aureos torques in collo in neđi
voluit : in ijs temporis curri culum erat expreffum , &Alexandri deo
creturn ; illorum aliquot poft centum annosab Alexádri morte capti fuerunt, qui
adhuc ætatis ſenium minimè pręfe ferebant.Ex Plinio. Mafculinum fuum citius in
ptero , gianfo mining animeri.. X omnium ferè Scriptorum opi nionemaremfætum
citiùs in vtero , quam fæminam animari capitur , aiunt enim marem io dextra
parte matricis ex feminecalidiori concipifæminam : verò ex ſemine frigido, ſiue
minus calido in finiftra partematricis, quæcomparatiuè ad alteram frigida eft
.Hincmasdie40. foemina verò 80.vel90..vt plurimuma nimaridicitur:quod frigidum
tardum fit ,&pigrum in ſua operatione: calidum . autem velox: idcircò
virtutem forma tricem invno femine velocius, & citius mébra organizare,
& formare, quam in alio obferuamus. Ex DominicoTbolofano fuper Leuit.cap. 1
o. Pici HORTVLVS GENIALIS 183 PictMirandulaniingenium , quam maximè collaudatum
. A ,& , + PiciMirandulani,& ingenium , & & multiplicem do
& rinam collaudabant, & miro ordine extollebant:Quando(in quit Picus)
ron eft,vthac in re mihi,aut meo ingenio velitisbiandiri: quin refpi.. cite
potius afsiduis vigilijs, atq; lucu brationibus,quàm noftro ingenio plau 9
dendum : & fimul aſpicite fupelle & ilem noftram ,atque librorum
thefauros:oité I debat porro Picus bibliothecam egre . gio ornatuconſtructam
,atque omnigem nis libris ex varia eruditione refertam . Ex Crimite
InHydrargyro onnis metallica Supernatare. Akreexcepto . Ercij,vel fi mauis,
Argenti viui; proprietas mirabilis cit, quòd , omnia mineralia ferè,vtplumbum ,
fer Tum, æs, & alia ponderotiſsima( excepto . auro )in eo fuperpatent:
aurum ditem , * fundum petir , & eius recipit, cola rem , quiignis tantùm
opeabfumitut & in fumú mali odoris refoluitur. Hu. jus nidor , &
virulentia nauſeam , nocu mentumque adftantibus inducit : inde membra ſtuporem
recipiunt, & nerui relaxantur; vt fæpifsimèip inauratorio bus obferuatur .
Ex Lem . oleicinnamomai rara o pretiofa como pofitio,plerisque incognita .
Icinnamomiolcum ad diuerfas infira : mitates parare optabimus caperec portet ,
cinnamomicontriti lib.j.quam adinftar liquid : pultis cum oleo amyg- : dalarum
dulcium commiſcere ftude bimus, tum demum duodecim dierum ſpatio in loco tepido
clauſo vaſculo fituabimus , poftmodum ex torculari totam id exprimatur fortiter
: hac ett nim methodo oleum , odoris, .coloris, &
faporiscinnamomihabebimusad vo tum . Hocadvires reparandas, & Vio letudinem
conferuandam rarum eft ro medium, prodeft parturientibus, & in ftomacho
debilitatotam interius,quàna exterius vfurpatur; ngritudines frigi 18g A E das
arcet , & in partibus corporis ro u borandis eft tantæ efficaciæ , vt vix
ale v toruin conſimile inueniatur remedium .. e Marimum Herinaechin
tempeftates:mariti w pracognofcere . Dmiranda profecto: eft' Marini Herinacei
proprietas : hic paruus pifciculus eſt, nullatenus tranquillita tis tempore
naturali propenſione futu ram præcognoſcit tempeftatem . Ea im. minente ita fe
præparat : faburram fa cit , lapidem ore percipiens , ne maris flu & us,vndaqueimpetuofæ
facile eum diocodimouere , atque huc illuc in pellere valeant. Nautæ id
afpicientes : fucuram tempeftatem à piſciculo hoce . do & ti percipiunt, ob
id anchoras & fue . des, & fe ipfos parant, tempeſtatibus maris
reſiſtere poſsint.Ex D.Ambrofia, Miracuimdam fontis in Epiro Proprietasi A
naturz proprietas illius fontis , qui in Epiro ( vbi Dodonæi louis tema . plum
olim inftru &tú erat , quacaufa hic faces facer di &tus eft )
inuenitur. Ille fri. gidus eft, & immerſas faces , ſicut cx teri extinguitcum
: autemfine igne pro culadmouentur,mirabiliter accedit , A bulenfis
fuperGeref.cap. 13. de hoc menti onem facit , afferitque huiuſmodi pro
prietatis cognitionem Adam , & conté poraneis fuiffe apertam , diluviogue
& gentiumdifperfione effle perditam .vide Pomponium Melam . mHecla ignem
emiffum ,ficcis.extingui, to que verò nutriri. Dmirationem , &fidem omnem
ſuperaret, ignem ab aqua nutriri, & non extinguiintelligere,nifiGeorgi us
Agricola,vif noftræ tempeftatis me moria dignus,oculatus adfuiffet in He cla
.Narrat hic in Inſula Irlandia mon tem nomine Heclam exiftere ,, ex quo ignis
emittitur,vt hodie in Vulcanopro. pe Siciliam ,Sicaniam dicam , & Puteo lis
in loco vocato le Fumarole , obſer uamus. Ille autem à cæteris diſsimilis
ficcis extinguitur, aqua verò alitur. Ex lib:noftro de Hydrom :Naty. Hominum
aliquot fubtilioris , plerofque au tem groſsioris ingenij adeffe. Ropterea
Aftrologi, & præcipuè Al. bumas,hominum aliquos fubtilioris i
ingenij,aliquosverò groſsioris inueniri volunt: quia in eorum natiuitate Mer .
curius, vel bonam ,vel malam habet pòa' fituram.In quorú enim natiuitate Mer.
curius in domo,velexaltatione Solis fue sit, ij ſunt ingenio prædici; fi verò
fuerit + in domo Lunæ , nafcuntur groſsioresor Ptolemæus, Bropoſ. 70. in quorum
ortu | Luna reſpicit Mercuriú , fapientes fieri voluit;contra autem
amentes:quiaLuna virtutes naturales infundit,Mercurius verò rationales:vnde eum
virtutes naa turales,quibus corpusguberdatur , rati onem reſpiciunt, ille
nafcitur sapiens; cùm autem non refpiciunt, amens. Hac etiam de cauſa efficitur
mentis hebes, & obliuiofus, qui in natiuitate Mercurium babuerit
retrogradum : fi enim dire &tus fuerit,ingenijceleris fiet. HancAſtrolo .
gi ducunt rationem , quòd ftellæ nóim. peditæ ,luas faciant naturales operatio nes
; oppoſitum autem ,fiimpediuntur. Hisdecaufis frequenter Aſtrologosve sa
pronoſticare de moribus hominiume" accidit ; non quòd ita neceſſariò eue.
niant, fi homo per voluntatem , ratico pis legem magis, quam ſenſusſequi vo
luerit:fed quia pronuseſt ad ſequendum appetitum fenfitiuum , in quo Aſtra
influunt. Raxael. Matr. in Addit. Bartol.. Bibyl. Galenum omniumporiamcorporis
, folum perfe& ifsimè inter veteres, morbos Caraffe. Ratapud
Aegyptiosinuiolabile de cretum, vt fingulis morbis , finguli adhiberentur
medici. Hinc illorum 0 . cularii, auricularij, & alterius ,morbo rum
nomenclaturæ aliquot vocabantur: arbitrabantur enim fieri non pofle, vt v nus
omnium curarum difciplinam re&tè teneret; quamuis in vnadoctus habere tur ,
vt BaptiftaFulgofuslib. 2. adnota uit . Galenus tamen illic temporis inter
veteres , naturæ miraculum , omnium corporis humani partium , tanquamfa. E pientiſsimus,morbusperfe&
ifsimè fo lus curare nouit. In lib.de Pet . Art.Med.c.2. Grecos feriptores de
Iudeorum monumenti rutibi pertractafle Riſteas , cuiushodielibellus extat de
Translatione In terpretum ,refert; Ptolomeum Philadel phum , fecundum Aegypti
Regem poft Alexandrum , quæluille ex Demetrio Phalereo, quem ille inſtruendæ
biblio thecæ præfecerat, curGræci ſcriptores, .nullá dehiftoriis,
&monumétis ludæo rummentionem feciſſent reſpondiffe autem Demetrium ,
tentafle quidem id facere Theopompu,& Theode&tem ,no biles in primis
fcriptores, & quedá ex lu .. dæorum monumentis ioleruiſle fcriptis fuis:
fed mox taméluifſe temeritatis pe nas:illum enim amentia : hunc cæcitate
diuinituspercuflum ; ſed poftea mali fui caufam agnofccntes, & ex animo
dolen tes, placato Deo ,ſanitari elle reſtitutos. Eufebius lib.8 De Prapar.
Euang. A Cane qido demo- fum , inftarCanis la traffe proditumeft. Ex corrupta
imaginatiua non femel à cane rapido commorh latrare vifi funt:cognouit enim
NicolausFlorenti nus quendam , quià cane rapido morſus, curationem vulneris
minimè quæfiuit; exercuit hic per dies 35.negotia ſua abſ. que læſjone,
maneautéfequentis diei è lecto ſurgens retrò vxorem ſuam inftar canis ſtetic,
cæpico;pofteam latrare : dú autemab illa reprehenderetur,lubridés ſurrexit,
idque pluries eadé die reperi uit. Serò corrupta ex eius ratio, & die
40.mortuusà morſu illato repertus eft. In Arthritidey Chiragra , quando mors
fuccedas. Arò mortem in Athritide, & Chi R corporis ignobilibus humor
refideat; hinc (nouo haud fuperueniente morbo) tales àmortis periculo ,
vexatidoloribus vindicantur. Has tamen mori com pertum eft , quando circa finiftrum
pectoris finum , cui cordis turbinatus mucro ſubeſt humorum colluuies den
cumbat,atque Gniſtræ manus digitus an Bulan Di mularis nodum acquirat, ac valde intu i
meſcat.ex Lemnis. Lienen ad -corporis tarpitudimem maximè Talere,
Vantacoloristurpitudine,qui ab in dicuntur,exiſtant, in dies obſervamus, non
modò in illius obftru &tionibus, verùm atqueScirrhis, alijſque tumori -
ribus. Hioc iure dicebat Galenus z.de Natur. Facult. Quibus corpus florefcit,
his lienem decreſcere,ac vice verla,qui bus lien creſcic, illis corpus
tabeſcere, & o vitiofis repleri humoribus. Caufa om nium eft, quòd lien ab
infar &tu fa & us imbecillis,nequit( fa &ta humorum ſeparatione in
Hepate) melancholicum fuc cumad ſe attrahere : hinc demiflus ille cum fanguine
corporisatro colore ani . bitum maculat. Iumenta clitellaria in itinare fibilo
, da Cana In à laboribus fubleuni. Vlicęconcencusſongriſ numeri maximè homines
delectant, ob id multi & cymbala , & alia muſica inftrumenta
frequentant, vt animus à mæftitiis fubleuetur. Hac coniectura obferuatum eft
:iumenta clitellaria in la boribus , & itinere , cantu , & libilo al
leuari:propterea mulones, vt muli, ce seraqueiumenta dicellaria,& tarcinam
, & alia onera minus laboriosè fentiant, tincionabulorum torques in illorú
col. lisfufpendunt, quorum fonitu , huiuſ modi valdedele &tari cognouerunt
, & perinde refici, & à laſsitudinc fubleyari. Ex Vairo kb.z.da
Fafcine, Mafalas nigras in acutis morbis apparentes, exitium prefagics. Neer
ligna , mortem languentiuni , quæ præſagiunt in febris acutis , illud maxime
obſeruatu iudicaui dignū , quod à Sauonarola multa experientia com probatum
eft. Sienim infacie, ſeu genis ægrerum ,maculæ nigræ obortæ contpi
cientur,prcculdubio languentis exitium minantur ,quippè venenofæ , &
peftiferę materiæ in corpore predominiú redun dere arguunt, ex quo mors
ſubſequitur. Has IS HORTVLVS GENIALIS 193 2 Has cum obſeruaſiet Sauonarola, ex
tali ľ prognognoſtico ,magnumhonorem fua ifle confequutum refert. Acetum
adictus venenofos epotumplurimum valere . X Cornelij Celli obferuatione ace tum
pertum eſt:quippecùm puer quidam ab j. afpide ictus eſſet , & partim ob
ipſum vulaus,partim ob immodicos æftus, fiti premeretur,cum in locis ficcis
aliumhu morem nó reperiret,acetum , quod fortè ſecum habebat, ebibit , & liberatus
eſt: coniecturandum eft acetum , quamuis refrigerandi vim habeat , habere etiam
difsipandi,quo fit, vt terra reſperſa co spumet. Propterea eadem vi veriſimia
le eft, fpifleſcentem quoq; intus humo. rem hominis , ab eo diſcuti , & fic
dari fanitatem , lib.s.de ictu afpidis. A quodam piſtisgenere febrem illico ex
citari. N Arota flumine Inſulæ Zeilã quod . dam piſais genus reperiri referunt,
quod manuapprehéfum febrem accen , 1 dat.Equidem piſcesillic neutiquam el
culenti ſunt , liceat flumen fitpiſcofiſsi mum , qui tamen piſcem febrium appel
fatum retigerit,confeftini à febre corri pitur;ſed quod mirabilius eſt ,
demiſſo piſce, ftatim liberauit.Cardanus, & 566 lig.in Exercit. Fæminas in
maresfuiße commutatas fabulo fum non est . Pudmultosauctores ex pluribus obferuationibus
notatum reperio , foeminas in mares quandoque commu taras fuifle:referam folum,
quod tempo reFerdinandi I.RegisNeapolisfueceſsit. Erat Salerni quidarn
Ludouicus Guara rea , à quo quinque filiæ fufceptæ funt, quarum natu maioribus
duabus, alteri Francifcæ , & alteri Carolæ erat nomen. Hæ ambæ cùm
perueniffent addecimu quintum annum ,in mares mutatę funt: ijs enim genitalia
membrainſtar marių eruperunt,mutatoquehabitu pro mari bushabiciſunt:
Franciſcus, &Carolus nuncupati.Ex Fulgoro. Sene & utis incommodatam
corporis quàm Animai NKINGT ANTUT : Quanta fint in fenibus, & corporis,
& animi incommoda , non modò à Scriptoribus, verùm arquecontinua,ob
feruatione experimar ,vt iure afferere libeat,hanc hominis poftremam ætatis $
partem miferrimam iudicari. Mortales enim cùm ad fene &tutem perueniunt *
cor eorum affcum eſt,caput tremulú , (piritus languidus, anhelitus færidus,
frons caperata, corpus recuruum , nares mucores deftillant , vifus debilitatur,
i capilli decidunt, dentesputreſcunt. In fuper ſenes ſunt iracundi,
inexorabiles, moroſi,nimis creduli, rarò obliuiſcun . tur iniuriarum
,laudantveteres, prælen tia damnant,triſtes ſunt, languidi, iniu cundi, &
alperi:ſuntauari,ſuſpiciofi , o. neroli,difficiles.Exquibus fene &tutem
fentina, & cloacam efleomnium ford ú, & immunditiarum ætatis noftræ
confia tendum eft.Ex Lauren . Cupero. + Magnum Alexandrum , corporis ſudorem ha
buiffe redoleni em . Rat Magnus Alexander tam re & a humorúarmo I 2 nia, E
196 BARICELLI nia , & temperamento conftitutus, vee iusanhelitus odorem
balſamiexpiraret; imò fudor, quem è corpore emittebat, tanta ſuauitate, &
fragrantia redolebat, vt quoties eiuspori recluderentur , gra tiſsimis odoribus
perfufus crederetur. Quod autem mirabile , & difficile credi tu eft ,cadauer
eius tam fuauiterſpira bat , vt aromaticis ſpeciebus repletum efle
iudicauerint.. Ex Quinto Curtio,& lib. noftro de Hydron .Natur. Diuerfe
quorundam hominum virtutes , ornamentA. P tibus,tumanimi magnificentia col.
laudantur,omnes in paucis earum per. fe &tionem , confirmant. Porrò Ablalo
nisformam , & pulchritudinem extol lunt:robur, &fortitudinem Sampfonis:
fapientiam Salomonis : agilitatem , & celeritaté Afaelis:diuitias, &
opes Creo G : liberalitatem Alexandri:vigorem , & dexteritatem Hectoris :
eloquentiam Homeri: fortuuam Augufti: Iuftitiam Traiani: zelum Ciceronis.
Veteran Baderoase no canna, & in papyro penna fcribebate Veterim ruditas,
&infcribendo vari Arbara equidem ,& mifera erat ve teruminfcribendo
ruditas:ij enim primò in cinere, deindein corticibus, & folijsarborum
,pofterin lapidibus,mox in lauri folijs, exinde in laminis plum
beis,conſequenter in pergameno, & tan dem in papyro fcribere
politiſant.Erat præterea illis in modo fcribendi , ins Itrumentorum diuerfitas:
in petrisenim: . ftylo ferreo, in folijs penicillo , in cinere
digito,incorticibus cultro in pergame. Eorum etiam atramentum varium erat,
primum fuit liquor pifcis illius, quem nos ſepiam appellamus;deinde mororú
fuccus;ad hæcex fuligine caminorum ; mox eft fynopica rubrica ,aut minio; vl. timò
tandem ex galla ,gummi,, & vitrio o lo fieri cófueuit. Bx Strabonede
situOrbis. $ InAngira prauosatiuspilulami rabiles Periamnunc pilulas meas maxi
mæ efficacia , quibus in angina 3 prafo А pręfocatiua à cratsis frigidiſý;
humori bus exorta, ſéper cu felicifucceeflu vfus fum.Interalias obſeruationes,
in quibus tale medicamétum libuit experiri, luc cefsit calus in R. Petro de
Stephano Archipresbytero Cercelli, qui ferè fufa focatuserat , quare vocatus
anno 16156 vt eius ſaluti confulerem ; cognito mora bo, quòd ex craſla &
viſcida à capite de ftillatione fieret, pilulas meas in aurora exhibui,non fine
loſephi de Simoncin medicinaDo&oris, mei collegæ admis. ratione, qui
rennebat quodammodo. medicamentum . Eratpilularum come pofitio ex trochis , alandahal,
& Aloes an.Scrup.Sem.j.Diagrid.Scrup.Sem.cú ſyrup.de líquiritia conficitur
maſſa. Ex hac plurimępilulæ ,vtfacilius æger de glutiret , confe&tæ
fupe:Hisdeglutitis, iuriscicerum fubitò cya mbum propine . re foleo
,quemadmodum in hoc feci, qui fine moleſtia euacuauit, & breui delituit
dolor & gulętumor,benè reſpirauit,be nècomedit, & vna die fanus factus
eft, cummaxima multorum admiration & lgtigia. His pilulis vfus eftGalenus
ad linguam tumefactam , vi lib . 14. Method s med. ſcriptum reliquit: Capitis
noftri capillos, plant arumnatura mo ximè aRimilari. M Agnácapitisnoftris
capillicumplá tis retinent fimilitudine: quemaddum n.plantę nónullæ humoris
defe& u . inarefcétes contabeſcút,aliç verò alienis naturæ ipfarum
humoribus occurſantes: o pereunt; fic &capitis noftricapillisaccia: -1 dit
:vel n.ex humiditatisdefe & u ,quanu. triútur ; vel ex eiuſdé prauitate
corrum- 3 puntut , & decidunt.inc defluuiú & alir eapillorūdefe& us
in cap'oriútur.Ex Gal. Qya dia volucrum pennits varite coloribus tirgere
valeamus: I volucrú pennas variisco !oribus tin-- , gere 1 ter abluereoportet;
mox in aqua alumi.. nis decoquere,atq; du calent,in aquá cro co colorarā , ſi
flauas eas cupimus, conii. * ciemus:lina.cæruleas, in fuccú, aut vinü acinorú
ſambuci vel ebuli.In diluto fio . ris æris virides fiunt: codémodo colore
minij,atraméti, alteriusue coloristin &tas habebimus. Agric Poftulanie,à meluannesBerardinus Agricolas,
Filicibus pro frumentoconfervant do in borreis pri. Oftulauit Mazzocca à
Vitulano,magna expe cationis adoleſcens, ob flagrantem in ſtudia amorem , cuius
familjaritas apud me gratiſsima eft:CurAgricolę pto fru mento conſeruando,
filicibus pro ftra gulis in horreis vtantur ; Equidem hu ius ingenium , &
animi indolem fepè de miratus fum : proptera in recurioſiſsima complacere
volui.Vtuntur Agricolæ fie 1 cibus in horreis, vt cerealia à corrupte la
præferuent: quippè filix à proprietate generationi obeft, hinc agrifilice pleni
reputantur fteriles. Hinc filix epota ne cat vermes, &ex aluo deiicit: in
grauie dis necar fætum , mulieresque reddit ſteriles: quapropter multa ratione
agria cula ( 1.cet tanti arcaniline ignari) filio cibus pro frumentorum
ſtragulis vtun ter : quia illorum corruptioni maxime refiftuor. Terrestres
Lumbrices digitorum panaricium : fanats. Panae sol PAnaricium in latere vnguium accidit,
&interapoftemata numeratur,quod tantum inducitdoloris, vt patiens , ne .
que diu , nequenoctu dormire valeat. Prohuiuscuratione, & dolorislenitione
multimultafcribunt : egoprofe & dcer. tiſsimo experiméto multoties compro
baui, lumbricos terreſtres viuos ſuper pánaricium alligatos,præfertim in prin .
cipio ,mirabilitet apoftemacompefcere, & fanare , vt vix diei fpatium affe
&tus pertranſeat. € Galega, atqueScordimir am ,contra lüemo peffifentemefe
efficaciam . M Trabile obſeruamus Galege , & Scordii efle virtutem cótra
febres malignas , & peſtilentes ; fi quis enim Galegęfoliainacetariis,
autcarniú iure femetindiefumplerit,afebre hactutus, & incolumis
præferuabitur. Idem (Gam leni teſtimonio ) Scordium efficere pro batum
eft:fiquidem ex.veterum quorú , dammonumentis aduerfus putredinem Scordium
fingulare effe. remedium tra đitur, vt j.de Antid.capaz. legimus:nam Is cum nteremptorumcadauerain
pręliog multosdies infepulta máſillent; quęcund que ſuper ſcordium.fortè fortuna
cocia derant, multò minùs aliis computrue . runt; ea præfertim
particula,qua(cerdi um attigerant:ob quáremomnibus per ſuaſum eft,tam reptilium
venenisquàm noxiis medicamétis quæ corpusputred ſcere faciunt, fcordum
aduerfari. Anni bal. Camil En. Nodos . in infantis ombilico filiorumrume-, rum
haud oftendere. * - 103 Pleriqueexnodis inkantis primènato bliorum numerum ex
eadem matre: naſciturumcognoſcere profirenturthoc autem caretratione;fæpèenim
fit , vt illa moriarur , aut cafta viuat:vel plutesge neret filios, &
pariat , quàm nodorum numerus exiſtat;fiue plures viros habeat: è quibuscum
alio plures, cum alio paung ciores filios fuſcipiat. Proptereà certio .
kiratione afferendum ,in nodorum vm bilici primi infantis coniectura , exiſtin
, mosfæcundosvteros plerumque plures ! nodosininfátis parerevmbilicofteriles;
miebe autem paucos, eofque non ad vnguem diſtincos, vt frequens obſtetricum obą
feruatio demonftrat, & vt euentui hæc talia, vtplurimum concordare.viden i
tur. Ex Carda. 8.de Oryalum quem ſolo afpeétu auriginoſosbom . mines ſanare.
Irabile eſt, quod de Oryalo aue ecircumfertur. Hæc potrò talem dicitur fuiſle
naturam ſortita, vt icteria cum affectum , à quo homines plerum que
moleſtantur, ad ſe valeat ſolo oculorum afpectu attrahere; proinde vocao tur I
&teribus,fiue Galgulus à multis, ab ' Ariſt. autéin biftor.animal.Goryon.
Sed 1 quod mirabilius eft, auriginofus homo ab alite viſus fanatur,ales verò
moritur. Homines, quandoque ſolo intuitu Ophtbaho miam contrahere. Vita
obieruatione animaduerti Ophthalmiam fiue lippitudinis morbũ quádoq; contagiosú
elle, & folo perinde afpe & uab hominibuscontrahi:: oculi enim tunc
adeò perniciofam vim . $ retineat , xt in alios propriumaffectum , 6
ciacus ejaculari valeant. Pulchra
ratione hoc Vairuslib.j.de Fafci, quomodofieri por fit, differuit:Siquidem
animus malèaffe & us fuum quoque corpusmalè habet; ob id
fianimusaliquomcrore, aut vi. tio afficitur,colores.corporisetiam im mutar:ſi
enimab inuidiacentatur,pallo re, &croceoscolore corpus. inficit . Inde
fitetiam ,winuidia tabefcentes ,ftocle. Jos.inaliquem . liuentes.defigunt,
animi fimul venenum vibrent, & quafivirule .. tis iaculis
confodiant.Proptereamirumi non-ef , hominesaliquando ſolo.aſpe &
uindippitudinemincideres,vt Hieron nymus, Thomafiusmedicusinſignis, (dú ipfe
Neapoli ftudijs.vacarem ) defeipfo. teftatus eft. Adlapidessenum,din
neficefrangendos mine rabile remedium .. Vidam -medicus ecuditus, ad lapin
desfrangendostanquam admiran dium.parauit cibum ,cuiusefficaciam a .
dedimirabilem eſle cognouit,včad.lapi.. desexpellendos non folumà renibus,&
retisa ;ſed etiamab anulo comedentis, efficacius remedium haud confedus fu .
erit.Paraturex hepate , pulmone, reni. bus,tefticulis cum priapo hirci , quæ cú
& croco , cinnamomo , & mellemifcentur , ac ijs hirci inteſtina
implentur.Doſis fint duæ, aut tres.buccella Res porrò mon ftruofa
,faveraeft.Ex.Micbaele Pafebl. lib. 1.Metbed.Meck . Veterum medicornmpro
conferuanda Sanin tate collegium lans Rifx potentiſsimus Afiæ , & Syrie,
quialter Alexanderdi &tus fum, it ( vt ex Ariftiin libisecret.fiuede Regin
. Principa.habetur)medicos præftantiores exregionibus Indiæ , GregiæMediæ , ,
ac aliarum mundi parcium congregauit, quibus impofuit ,vttalem inuenirent
medicinam , qua fi homo vteretur , nec. medicis ,nec adia: mediciņa indigeret,
pollicitufque fuitRex dirüsimus maxi mumpræmiumefle daturum.Illi autem pro
maturèconfülendo e rrium dierum fpatio postulato collegiú iniuére. Mox ad Regem
cùmomnes cffent requiſiti Sanages Grocus Medicinæ peritiſsimus, qui pręter
ceterosdo & trina & fciētiarua tilabat omniú conſenſu Regiindicauit,
quòd fumere quoủibet manè aquábisplez noore,efficiat,vt homo fanusperfiftat,
&alia haud indigeatmedicina.blocpro feccò à rationealienu non eft:vtenim in
Arabum , Græcorumque antiquifsimis voluminibus inuenitur,aqua ponderofitatis
ratione ad ftomachi fundum ten dit,auget calorem , & citiùs comprimit,
& digerit cibos, digeftionig; maximè au : xiliarur,ceteriſk; mébris
corporispluri múconducit. Fabrorú exemploid torú inquiritur, quiin accenſoscarbones
mo dicum aquæ conijciunt,vt ignis vi'maioriaccendatur.Idcirco binos aquæclear
ræ hauftus manè potare , menfe Iunio præſertim , propter choleram reprimen dam
, multum confert ad fanitatem cone feruandam . EfBurtbolam . Moles in lib. de;
ſanit.tuer.. Alexandrum Magnum fudorem fanguineum in pugna habuiſſe. * Vdare
fanguinem puruminteradri Skadar randa, quæ rard luccedunt,puimera . SUT 1 tur :vbenim in aliquot fudorex láguinis i
iclore cruentus corpore malè affecto, : vifuseft; & is nequaquam
fineadmiratie one, & iftuporezita di illeexputo danguis :
nexortusfuerit,atquein corpore fano; ) vtique maiorem præſtat-negotijcaufam
inueftigandi cupiditatem ; vt futiſsimè nobisinlib.de Hydraniofazatura.olimedia
to pertraétatuet Referam nunc quod , Magno: Alexandro euenit; dum eſſet in
extremevitae pcriculo conftitutus.Is cũ, in pugna quadamedererum fumma cum
Indis.decertaters lub @ diarioque milisere
deititueretoMilqucadedcholera:luccés, [useftzvékotocorpore purú languinédes
fudauerit; Barbariſgulecotus igneis filáns misardere vifus fit.Hocautemtantum
ijs terroris-ingcfsit, vt fe Alexandra.com mittere coactant, Lüpathium rantie
darworetaſtas,tenetrier mas, efung aprusreddere. Rat apud veteres Lapathiorum
vfus , pecu liare,eft,vt carnes; &vedulia cú hiselixata vel link dugaa
yesulta, & coriacea ,terit titatem, & mollitiemacquirant.Propte . rea
,quòdcibos concoctu faciles przſta , bant,& aluumemolliebant à vecerum à
mélis raròhujuſmodi abfuifle legimus. Catoncorum feminum :muccaginem combusa
fionibus maximèopitulai Nter præftantifsimaauxilia, quæ có buftionibus:
adhibentur' , feminun cotoneorum muccagipesretinent prin cipatum .
Referam:Petri Foreſti in pro prio filio experimentum , Ille matri obo.
fequioſus,,cümtefta carbone ignito re pletamkappostaret,cecidit & igneoculos.
combuftitit : Putem cum temen cotone . orum in quâ raſaceam coniecifset,atq;
muccagineoculosiçpiusabluiffet;mira culi-infarpuer-comualuitabfq; combus
ftionis veſtigio. Hoc etiãauxilio in f. milibus cafibus feliciſsimè ſemper vsű
fuiffe ,idemconfirmat, In lib.6 . Obf. Medo Aegyptiospermotas
figuras,fenfus,or. rummemoriameffingereconfueuiffe. A Egyptiorum fcientia,quia
inter cæterasprecelleroreratapud ve teres , ( illa enim ab Abrahan originem habuit)
dcirco ,& rudimento , &Hiero glyphicis ferè occulra indicabatur. Si à
qui illorum primi per figuras animaliú ( CornelijTaciti teftimonio)léfusmétis
elfingebant, & antiquifsimamonumera humanæ memoriælaxis impreſla cer.
auntur, & literarum inuentores perhi. bentur. Hinc in quibufdam Obeliſcis:
- látcerę reperiuntur,quæRegum illorum diuitias, acpotentiamdeclarant. Per a -
pis enim fpeciemmella conficientis Re. gem oftendebant. Siquem memorem s
fignificare volebant; leporem aut vul. pemauritis auribus, quod fummieſlent
auditus,& inlignismemoriæ ,effingebát: fi veròmalum crocodilum :fi velocem
, vel rem citò factam ,accipitrem ; quonis hæc aliarum fermè auium fit
velociſsie ma. Si inuidum , anguillam , quòd cum piſcibus fit intociabilis.Si
iuſtum ,oculü: Gliberalem , dextram manum , digitis paſsis:fiauarunn ,ijfdem
compreſsis.Per inſtrumenta quædam , & membra hu . mana pleraque fcribe
Jant. De bis vide Pie arium , Diodorum , Srabonem . lum ritatem , &mollitiem acquirant.Propte .
rea, quddcibos concoctu faciles præſta , bant,& aluumemolliebant à veterum
à mėlis raròhujuſmodi abfuifle legimus. Cotoncorsimfeminum -muccaginemcombuso
fionibus maximè opitulari. Nter præftantiſsimaauxilia, quæ có . buftionibus
adhibentur' ,, feminum , cotoneorum muccagines retinent prin cipatum .Referam
:PetriForeſti in pro prio filio experimentum . Illematri obo... fequiofus,cum
teſtá carbone ignito re pletamkappúrtaret cecidit& igncoculos, combuft
Pitemaeumtemen cotone . orum iniquárafáceam conieciſset,atq ;
muccagineocalosiçpiusabluiffet;mira. culiinffarpuce -Conualuitabſq; combus
ftionis veftigio. Hoc etiãauxilio in fi milibus cafibus feliciſsimè femper vsű
fuiffe ,idem confirmat, In lib.6.obf. Medo Aegyptiospermotasid pguras , fenfus,
re rum memoriam effingere confueuiffe. Aegyptiorum fcientia,quia inter teres ,
( illa enim ab Abraham originem habuit) dcirco,& rudimenen,& Hiero
glyphicis ferè occulta indicabatur. Si qui illorum primi per figuras animaliú 5
(CornelijTaciti teftimonio )jēlusmétis - elfingebant, &
antiquifsimamonuméta humanæ memoriæfaxis impreſia cer . auntur, & literarum
inuentoresperhi. bentur. Hinc in quibufdam Obeliſcis látceręreperiuntur,quæ
Regum illorum diuitias, ac potentiam declarant. Per a pis enim fpeciem mella
conficientis Re. gem oftendebant. Si quem memorem ſignificare volebant; leporem
aut vul pem auritisauribus, quod fummieſſent auditus, & inlignis memoriæ
,effingebát : fi veròmalum crocodilum : lì velocem , vel rem citò factam
,accipitrem ;quonis bec aliarum fermè auium fit velociſsi ma.Si inuidum ,
anguillam ,quòd cum piſcibus fitinfociabilis.Si iuftum , oculu : G liberalem ,
dextram manum , digitis paſsis:fi auaruin ijfdem compreſsis. Per inſtrumenta
quædam , & membra hu . mana pleraque fcribe vant. De bis vide Pie. crium
,Diadorum ,cSrabonem . Quamethodo peftilenti tempore àluenos tueri yalcancus .
Retiofa,acbreuis theriaca reperitur, qua homines ab aere peſtilenti , ad jun
& o vitę regimine,præferuari poſsúr: Sumuntur caricæ ,nuces iuglandæ, folia
rutæ , &iuni peri baccæ pondereæquali, confundanturfimul, atq cum aceto ro
faceo , vel communi diffoluantur; mox per pannum colentur, fuauiterg; expri
mantur;ſuccus verò, qui percolabit,fero uetur : vnúenim iftius cochleare, mane
ieiuno ftomacho ſumptum ,non finit illa die hominemà peſtilentia corripi. Ex
Alpbane de Pefter Olivarum oleum unguium pun &tura mira biliter fanare. IN
fedando dolore vnguium expun , Aurisacu,vel ferro ,atq; iisperſanan dis,nullam
remedium oleo oliuarum fa lubrius inuenitur; confiteor multa oba
feruatione,multisa; experimentis id toa tum comprobaffe. Honefta mulier ; ac
vnicè dilecta , Laura de Otaro, mea vxor cariſsima, no femel, dum varia-ad femi
liæornamentum ,acu contexerer, in vn guibus digitorum pun&a eft; limplicita
menoleo oliuarumio puncturiscollini to ;&dolor confeftim euanuit , &
falus introducta eſt.Ego profe & ò ſemel pun . aus ferri cufpide ſubter
pollicisvngue com ſanguinis effufione, fubitò ad lini mentum ex oliuarum oleo,
antequam aquamtetigiſſem ,deueni;quo adhibita dolor delituit ,atque vulnus vnà
breui ter , & conſolidationé, & fanitatéhabuito Admirandüauxiliü ad
vefica calculã ,quoabt que inciſione diffoluitur,& expurgtur. Nter
admiranda auxilia, quæ ad cal INTE culoſos adhibentur, connumerandum iudico
remedium , à do &tiſsimo Hora tio A ugenio experimento confirmatú in
epiftolis addu& um ,quo abfque inci fione in vefica multorum Japides com
minuit,& expurgauit.Réferam qua via id, innotuita Aegrotabat calculo veſicæ
cuiuſdam Typographi filius Romæ poft varia aſſumpta remedia ,cùm nulla lub
fequutá noſlet ytilitatem ,fecaricupidus; de pretio cû Nurfino
artificecóuenerate propterea Sacerdotem iufsit accerf ri, vt ſumptis Ecclefiæ
facramentis , fex le &tione moreretur , animæ fuiffet confultum.Religiofus
ex focietate Iefu , audita confeſsione, proponit illi phare macum ,de quo in
leipfo , & in alijs peri culum fecerat: expeririæger voluit, & magna
aſsiſtentium admiratione fana s:Pharmacum ita erat concinnatum . Puluerris
Millepedum præparar,drach, i.ad fummum Scrup.iiij.aquæ vitæ vnc. Sem.iuris
cicerum rub.vnc. ix.velx.ca piatæger calidum ,horis quinque ante prandium .
Efectus medicamenti talis fuit. Horarin duarum fpatio totum corpus
incalefcebat, anguſtiabatur z grotus fitiebat , ac ferè loco ſtare non
poterat,aliquandocirca pubem dolores vrgebant.Vrina hora quinta cceperunt
cralsiores:feddi,fed non multæ.Secunda die à pharmaco contingebant eadem ,
fedvrinæcopioſiores, & craſsiores.Ter tia labulumapparuit multum . Septima
tandem adeò plena fabulo vifæ funt , ve rectequis diceret,easnihil efte quamfabulum
aqua diflolutum : omnia in me liorem ftatum redigebantur, ita vt, qui
proximèincididebebat, liber abomni malo nona fuerit die. Miliepedum ad
calculosRenum VP fuca preparatio. PRæparantur Millepedes ad Renum Velicæque
calculos talimodo r.Az fellorumquam volueris quantitatem , vinoquealbogeneroſo
abluito diligen ter , mox in ollam copiicito nouam , vi tro obductam , lutoque
aliquopiam ile lam incruſtato , demú in furno exiccen tur ,ita vt poſsit in
tenuem puluerem rc . digi; tumverò affunde vini ciufdem gee neroli quantum
poterunt imbibere , & rurfus exiccato , ac tertiò imbibito & exiccato
vt ſupra,quartò veròpuluerem irrorato aqua fragarum deſtillationis &olei
exCalchanto Scrup.j. permifce to inuicem , & exiccato rurſus : vbi verò fic
fuerit exiccatum in tenuiſsimumque puluerem redactum ,feruetur in vale vi. treo
,aureo ,yelargento . Es codem . Frequentem ficoram efum fudorem parere
abominabilem . Licetficorumvfus multa hominibus commoda părturiat; ran & ij
citifsi mè nutriunt, & impinguant corpora, aluum emolliunt, & per
vrinas, & per ambitum corporis non pauca excernunt excrementa : tamen eorum
continuus, & frequens vfus fudorem generat abomi. nabilem, & corporis
fæditatem ; indici um huius rei eft , quòd illorum eſu pe diculorum copia
innaſcitur. Hinc apud Rhodiginum lib.6 .Antiquar. teet. Anchie molum , &
Moſchuni Sophiſtas,legitur tota vita fuiſſe hydropotas,acficis modò folitos
veſci, & tamen robuſtos extitiflc, ſed adeò fætentes,vt propter abomina
bilem fudorem certatim in balneis aba. liis excluderentur. Mulieres eximiam ,
&fuauemrerinete pinguedinem . Orpora mulierum fuauiori, & ma: ori
fulciuntur pinguedine, quàm hominium ipſa,quæ profe& ò ob ſiccitaa tis,
dominium ,minùshumidi, & oleofia C ttatis retinere videntur. Propterea apud
Plutarchú 3.Sympol -4.habemus, vbi mul sta cadauera promifcuè erất cóburenda,
veterú tempeftate, temper decévirorú vnú mulier brcímiſceri ſolitú : qualiil
lud vnú tantú ſuppeditaret pīguedin is, vt cętera faciliùs cócremari
valuiſsent, Aſtu demonum , mirabiles in hominum.cor poribus effectus procreari.
: ribus Dæmonis aftu cffectus con ců , ſpiciuntur, vt quando quis euomat am
icus, clauos , pilos,oflamagna: vel quòd plumæ in lecto fint ingeniofifsimè con
ferta :multæ enim de iis obferuationes apud Hieronymum Mengum in Malleo
Maleficar. Paul:Grillandum , & Delrium reperiuntur. Quomodo autem hæc fieri
pofsint, talis eft ratio : aut enim ifta funt Diaboli illufiones,ita quòd ea
videátur, quz vera non funt, fiue per a&iua natu ralia hoc efficiétia,
ſiueper acrifiam ,fiue per aeriscondenfationem ;aut funt vera; quippe
Diabolusinuifibiliter huiuſmodi in hominis ftomacho intulit, & exinde
viſbi. Emin viſibiliter educit,licet ram
magna vide antur ; nam &ea diuidere , & integrare poteft faltem
apparenter,eò quòd loca ſiter huiuſmodi corpora, & partes eorú, ad nutum
moueantur, & ad inuicem con glutinéter,Deo non impediente. Summa
Sylueftrina de Malefic. Carduum Benedi& um ab Hemicrania homi. nes
preferuare . X India Carduum Benedi& um pri mùmomniumad Imperatorem Fri
dericum honoris gratia fuiſle miſſum multi hiſtorici autumant , quod miris
laudibus, ob peculiares eius virtutes, planta hæccelebrabatur,&obidà mula
tis Carduus Sanctus dicitur. Hæcenim venena lupcrai, &confert cùm vlceri
bus , tùm vulneribus, eft præfentaneum remediumad peftem , necat vermes, &
vtero prcdeft, & in cibo , & potu viit pata , ab immenfoillo præferuat
capitis dolore, quemHemicraniam vocant. Ex Trago. Infantes preferuari Apoplexia
.Epilepfia fumpto prime fyropo de Cichor.cum Rhabar. vei Corallio, aut ſucco
Rute . tibus morbus epilepticus,apud au * Etores noftros paſsim legitur , ob id
af. feetus hic vocanturà nonnullis iLorbus * puerilis , liue mater puerorum :
Vtau iem cùm ab Epileplia , cùm apoplexia ghi præferuari valeant, multa obſerua
tioneexpertum eft,iis,antequam lacgu ftent, in primo ortu prebendo fyropum in
cichorea cum Rhabarbaro drach. ii.ab $ hacluepræſeruari ,vt Nicolaus Florer -
tinus fatetur. Arnaldus Villanoua Co mit rallium laudat:nam fi diligenter triti
të y Scrup .Sem , infans hauſerit cum lacte , antequam aliquid guſtat, nunquam
in Epilepſiam incurrere obſeruauit. Ego quidem Marcello ,Hieronymo, &Mare i
co Antonio filiolis meis ſuccũ ruiæ cum modico auro ad ſcrup. ii. cuilibet
dedi, antcquam lac guſtarent, &gratia Deiab Epileplia immunes
exiſtunt.Helionora, K. quæ nunc ablactatur , feremortua nata eft fumptoque
& ieiunato paruo cochle airo ſyropi de Cihor. cum Rhabar.re uixit ,
epilepfiam nunquam adhuc palla eft. Menſtrualem mulieris fanguinema Tontta #
nimaliaefe venenum . Nter naturæ arcana reponendum eſſe iudicaui,quodàMetrodoro
Sceptio traditur demulierismenftrualifangui ne.Mulieres fiquidem
fimenſtruationis ſpatio nudatæ ſegetes ambiunt, erucas, vermiculos,fcarabços,ac
alia noxia ani malcula decidere faciunt. Tale enim à natura ijs virus inuentum
eft.Non folú autem huiuſmodi animalculis menftru alis mulierum fanguis nocere
creditur, verùm atque grandioribus; quippè cao pes, ex Plinij teftimonio
menftruofan guine guſtato, in rabiemutari vifi funt, quorú morſus inter
difficillimos mora ſus fanatu reputatur. At de re hac fupe riùsaliàs
tractauimus. Thapfiam veficas,do ademata corporifuper poftam excitare. Magna
profectò eft Thapſiæ effi cacia in veficis , & ædematibus ge nerandis
,idcirco à nonnullis in peftife Eris febribus vbi veficantia neceffaria súc cum
felici ſucceſſu vſurpari audio.Cùm autem corporis locum aliquem inflare quis
deſiderat, veloſtentationis, vel cu o riofitatis gracia, ponatur Thapfia in low
i co conftituta:ibi enim breui veſicas , & ædemata excitabit; vt tandem
citra læ fionem id ſuccedat & breui etiam fol jů uantur, cheriacam linire,
vel curninum , i aut acerü fuperponere oportet. Ex Car dano lib.8.devaret. |
Antivfum inmedicinapro conferuanda va letudine mirabilem obtinera proprie
Mlimbi Irabilis efficaciæ aurum in medi Lcina eſt :quippe innumeras illud pro
corporis tuenda fanitate retinet vir. ? tutes.Eiusvſusin vino maximèexcellit
capiunturpropterea aurilamellæ , quæ ignitętoties in vino extinguútur,donec
ferueat iſtud,mox colatur, & vſuiſerua tur. Vigum bocpotatum ventriculo imbecillo
fuccurrit , concoctionem ad iuuat,foedum colorem emédat, & prin . cipalia membra
coroborat , & rcſarcia. Proinde obferuatum reperio,cor ab illo roborari
prauos humores calore fuo abi fumi,vitales ſpiritusclarificari, hepatia que
plurimum prodeffe fua virtute ile lius vſum . Multi certiſsimo experimen , to
huiufmodi vinum vitam prolongare cognouerunt,fpiritufque fynceros face re,atque
virestotius corporis renouare Nonnulli leproſis multum conducere Scribunt,ve ex
Mizaldo , & Zacharia à Puteo capitur. Quercetanus Auri falia in aliqua
betonicæ ,autabfinthij confer lacommiſta, ac deglutita ſua fpecifica facultate
vétriculú corroborare fcripfit, Aliquot animalia ex nature eorumfimili tudine à
veteribusfais Dầsfuiffe dicat . veterum infania in rum falſa religione:
quippe,& i nimalibus cultum reddidiffe,infinitis ae lijs federibus, &
naturalibusrebuscircú . fórtur. Inter alia , quædago apud eos PO animalia
erant, quæ ex naturæ illorum proprietate, & fimilitudine, vtreor, ali
quibus Dijs reperiuntur fuisſe dicata. Hinc Canis Diana { ace: eft, Aquila lo 1
ui, Tigris Baccho,Pawo luponi,LeoCy beli,EquusNeptuno,Cygnus Apollini, Anguis
Aeſculapio , CoruusPhoebo A finus Libero ,GallusMarti,Colúba Vara neri ,No&
ua Mineruæ , Lupus Marti, Anſer Iunoni,Soli Phenix.Ex Fonio. Veri V nicornu
proprietas, eiusque cognisio, Erum Vnicornu, quod in febribus peftiferis
propinatur languentibus veilitate maxima,in fyncopemaximo. Pere prodeffe
videtur.Illud auté non ex eo cognofcitur, quòd bullas excitet , vt plerique
hominum ignari perſuaſi ſunt: hocenim quodlibet cornu etiam facit: fed alia ,
diuerfaque methodo. Hoc eſt præcipuum experimentum . Si ſcobem eius củ
arſenicogallina,turturi,aut co lumbædeuorandum dabimus, fi fuper Itesmanſerit,
vel vnicornuftatim poft arſenicum fumptum datum fuerit)verí K 3 & legitimum
Vnicornu pronuntiabi mus. Alii in aurificis fornacem demit. tunt, fiodorem
cornu à ſe emittet,ve rumefle prędicapt.Nonnulli experime toʻreferunt, quòd in
vftionepon omni no comburaturſed , augeatur potius minimeque in vſtione fætorem
cornu *habeat, tt in cornu ceruinioexperirilor elet. Ex Føreſto. Oxo artificio
mulierum cinni crocei euadant. CApillorum cullui mulieresmaximè vacát , illud
autem iisoprabilìus eft, vt Aauitiem acquirant. Referam mo dum , quo votum
aflequi poſsint. Su mito Rhabarbarifabæ magnitudinem , fæniGræci, croci
fylueftris , liquiri tiæ tabacci, corticum aranciorum quan .. titatem adtui
libitum , paleæ triticæ ft . militer, his quernum cinerem addito,, &
incoquito , vt tribusdigitisdefcen dat aqua , inde lauentur capilli : tanta
enim fauitie“ redundabunt , vt illos aurcos eſledicas., . Ex Porta in Phitogn .
tipios A4 itib...Adexcitandum in fenibus nauralem caló lorem , eorum ; vires
deperdit assenquandika confectio præftantiſsima. "Heſauris profecta
comparanda eſt , Marſilio Fici 4. no , in lib.z.devita producenda , Medicina
Magorum appellatur, quippe ſpiritus , naturalem , vitalem , & animalem
fouet, confirmat,& Toborat; & proptereaſenie bus præſtantiſsima eſt.
Conſtat hæcex thurisvnc.ij . myrrhæ vnc,j. auri in fo lia ducti drach. fem .
contundere fimul į tria oportet, atque aureo quodam mero confundere, & in
pilulas ducere. Sumi kä tur huius-mifturæ portiuncula inaurora ieiuno ſtomacho
; in æftarecum aqua: roſacea ; in hyeme verò cum exiguo Quomodo febris in
aliquo confeftim induci palent.. VI febrem in aliquo velad oftentatio .. nem ,
vel ad remedium , curioſi tatemque inducereoptabimus,(fiquidem in
conuulfionibus , parakyſi , aliisque frigidis affe & ibus,non parumaliquádo
K4 febrew meri potu . 14 Sheh febrem
excitare profuit , ) Scarabe cor buti in oleo decoquantur, illogue arte ria
brachialis iniungatur: tanta enim eſt corum potentia , vt confeftim febris,
& accenſiones corporis criantur. Ex Car Nuno. Amultis animalibus anni
tempora precognoſci. Tdcntur profe & ò plerac; animalia anni
temporaprecognoſcere:fiqui dem ex corum inſtinctu , illa homines commentiuntur.
Grues enim autumni tempore ad loca calida peruolant, hye mis frigora fugientes.
Hirundines ver nali tempeftate ad regiones noftras re meant. Ficedulæ ,
coturnices . aliaque multa volucria , in anni temporibus,pa bula
commutare,aliaque loca adire con ſpiciuntur. Hæc autem non Ver , Autu mnum,vel
Hyemem dire & è præſentiút, quemadmodum nonnulli falsò ſibi per fuafi funt
; fed verius ex facta alteratio neà calido , vel frigido in eorum corpo ribus
,fiue occulta qualitate ,has viciſsi sudines facere cognouerunt. Am ago Amantis
ex leuiſsima quidemoccafione sie furcenfere folent. : Viperditè amant ,leui
alioqui mo mento iraici videntur : ratiohuius rei eft , quiainiurias, licet
leues , graues iudicant. Grauefiquidem exiftimatur, vtilleiniuriam in te
committat, cui ma ximeplacere ftudeas. Cæterùm quem admodum fubitò dolet», qui
contra fui habitus propenfionem facere quippiam conátur ; ita &amantem
facere conſpi cimas ;moxtamen rixarum ,& odisper nätde , rurfusque fupplex
iugumſubacta ceruice repofcit.Ex Leona dojachine, IN Plenilunio , Nouilunio
Pharmaci ex bibitionem àMedicis maximè deteftai. Vlra rationc à Medicis in.
Pleni junio , & Nouilunio Pharmacam ehitatur: fiquidem Luna ,cùm interme
Hriseftzomhiijo caret lumine,atqueſub radijs lotaribus ia &ta , &
proinde ſolica caret humiditate, quo fit vt corpora ne ftra magis licca
maneant, & virtusteten trix robuftior exiſtat. Idcirco fin No puilunio
ipharmacum ægris exhibetur;a K 5 abfquedubio humores noxiosagitabit, atqueob
retentricis facultatis inobedie. entiam parum euacuabit.InPlenitapig ob Lunç
porentiam corpora noftu yali de calefcunt,humoresque augetur,Hing In
pleniluniis no &tesicalidioreselle ex perimur,cuius caufa , cailorem à
centro ad circumferentiam attrahi, verilmile : eſt's quas propter fihumores,
corporis: noftriad ambitum tendunt, procul dus bio pharmacum
improbatur:illudenim à circumferencia ad centrum trahitmg . tumque
natureperuertit , quo facilefut cedit ;vt virtus kadetur,&humorumsys
tiacuatio ,velmale,veldeprauana.coring gat: Ex loann,de Pitch
19continuatamaſculorum generatione Jep, LR timanm mirabilembakere virtutem . :
TIG apud multos fcriptores repe rifles, feptimun mafculum com tinuatæ
generationis mirabilem habere virtutem interhæc noftra embammata minimehoc
adieciſlem . Volunt enim quando aliquis ſeptem filios maſculos Continuatim
& inter eos fæminam nul, Quod autem
in Hydrargiro mirabile pullam ſuſcipiat, ſeptimum mirabilem virtutem &
ftrumas , & alios plerofque effe & us retinere ſanandi, An autem ve rum
fit , ncſcio ,cupio tamen à fapienti bus experiri. Forum Hydrargiri ,
fuperpofito yclamine, 1: in molem Mercuriimatari, Yrifices dum valamineralla
inau . rare cupiunt , Hydrargiro pro bo peremoliendo vtuntur ; illud autem in
igneimpofitumin fætores grauem , & fætidas
exhalationesreſoluitur,pernici--- ofas quidem , niſi abijscautè'euitantur. iudicatur,
eft iftud, ſiſuper illius fumá linteolum extendimus, in quo colligi. poſsit ,
vtique in argentum viuum fu moſitas illa icerum conuertitur , & Hya,
drargiram renouatur. Experimur hoc . etiam in carbonum fumofitatibus in traffas
fuligines reuertuntur , licet die uerfimodè ab Hydrargiro,Ex Lemnie. Eæculas
Bryonia viera mundificando mirane babere pirtutem . 5 K Singularis profe &
ò fæcularum Bryo. niæ ,tum pro matrice muodificanda, tum ad hiſtoricas ipſius
paſsionesſanan das eſt efficacia :quippe ex multis expe. rimentis comprobatum
eft,in huiuſmo di affiEtibus curadis inter remedia,prin cipatum habere. Referam
ipfarum con ſtructionem , Exprimatur pręło ex Bry onix conciſis radicibus,
& contufis fuca cus.crit primò turbulétus,idcirco in va ſe aliquo
afferuādus eft , vefæcalisma . teria ſubſideat: detineatur in locofrigi doper
paucosdies; in hoc enim fpatio finclinato vaſculo,viturbulenta aguia)
Separetur, & proijciatur) fæces albiſsi mas inſtar amyli in fundo
inueniemus quas iterum in pluribusvafculis vitreis, aut terreis diuiſasin vmbra
vt, exiccen tur feruabimus;ita protectòintra paucas horaşexiccabitur, &
formáanjyli acqui rarexpreſlum , quã Bryonize foculá no minamus.Hac
fingipoſſunt pilulex.aut xij. granorum pondere, & cú palico ca ſtorci,
& alfęferidę ſummü; ac precipuú. aratur remediú cótra affcctusnarratos. Fæculæ
huiufmodi etiamfi diffoluütur, inaqua florum faþarú pro fuco ad orna tum
mulierum ,paneaſque defendas ef ficacifsimæ funt.Ex Quercerano, Miſaldo,
&Zubariaà Puted. Millefolium ad conſolidande vulnera misam babere
potentiam. Lurimis experimentis comprobatú audioMillefólij virtutem ad vulne
rum coitionem , indielğue nouis obſer : uationibus confirmari.Referam folum
quod ab Hellerioin Chirurg.adnotatur. Cuidam deciſus naſus erat,qua osin car
tilaginem definit: Ruſticus propenden tem partem alteridigitis coniunxit,her
bam tuſam ,& èvino nigro tritam ,quod Millefolium appellant,impegit ,
rudius omnia colligauit, vede celerrimè reſti . tit fanguis profuens, &
vulnus pulchra e cicatrice brcui coijt. Chymicam aztem, reterum tem ; eftate
floruiſe. Pud Veteres i maximo prctio ars p !eriſq ;illiusftudio vacabátur:inginte
s A K7 enim diuitiarum copias illa methodo homines componebant,quibus ditiores
facti cum Regibus bellum adibant.Pro . pterca DiocletianumCæſarem legitur
poftquam Achillem Aegyptiorum Du cem o & omenſcsin Alexandria obſeſsú :
profligaflet, omneschymicæ artis libros , diligenti ſtudio conquiſitos,
deflagral. fe: pereparatis opibus , Romanisfacilè . repugnarent. Ex Suidt,
oOrolio. Quoartificio corpus glabrum reddi : poßit L Itet varüs modis corpus
depilatum ; &glabrum reddipoſsit,nulla tamen via præftantior eft ,Varronis
teftimo nio , quàm loca lauare aqua; vbi Bufo nes decocti fint,donecad tertiam
redcat: - quippè- fi tali decocto corpus Jauetur, proculdubio glabrum
,&fine pilis had bebitur. . Natiuitatis hominum tempora à multis :
obferuari On leuis profectò eſt.multorem : ſcriptorum obſeruatio in homia . EN
lp mum natiuitatis tempore: à multis enim occafiopibus temperamenta corú.
variant, &plerique àrnaturæ terminis, roaximédiftrahantur. Porròquiinipfor
terremotus i momento nafcuntur femper patent in tonitru ſemper lan guidifumo
qardenet Cometa coex ar ... dendi complexjoneargentesfuntainter's
Lühiikempordebiles cuadunt, vel fals, temi Ariſtotelis teftimonio ) melan-;
eholici , & atrabile laborantes. Hydárrgýrum non effe vendnum in paura :
fumptums quam itme', fed adver : mes nes andas exiftere remedium ydrargyrum ,
vel fimauisargenti vionm , quodà multis venenum exiftimatur, feliciſsimo
fucceflu contra vermes exbibeturjzáptægue certitudi- . nis illud in Hiſpania
reputatur , vtmu lienes, tenellis pueris , quila ĉçis vomi.. ty laborant, ad
quantitatern granorum trium in propria fubftantia propinare audgár:bacn, via
morbuscellare videtur: frequen A Hedmare frequentatisexperimentis. Ego quidem
viduam mulierem curani, quæ nouem dierum fpatio vomitibus continuis ex
vermibuslaborauerat, & ferè triduono comederatznec cibum retinere valuerat.
Haiccùm fcrup.ij. bydrargyri mortifica tii , cum tantillo adoniipropinaffem
abfque vlla moleſtia peraluum centum , & pluresemifitvermes, &eademdie
lis berata eft , & folita exercuit domi, & foris negotia,magna profe
& ò parentum ſemper eventu , domique continuò a quamhabeo , in
quaHydrargyrum , in . furum retineo , illaa que puerulis pro vermibus
libentiſsimèconcedo , nec ad hucquempiam ex illo noxiam recepifle expertus ſum
. Vfuseft hoc remedioad vermesmecandos,MatthiolusHoratius, Augenius, &
plerique alii celebres viri, qui omnes huiusauxilii maximè extol. lunt
beneficium . Datur pueris in lub: ftantia Scrup. ji grandioribus Scrup.ij. vel
drach.j. Corrigitur illud , & nrore ficatur in mortario vitreo cum zuccaro
rubeo : ibi enim tam diù conteritur , vt in partes inuiſibiles diffoluatur; ne
au tem in priſtinam formam iterum redeat, * olei amigdal,dulc.gurtulas binas
adde re oportet, & cum zuccaro rof. violato , vel cidoniato ieiuno ftomacho
languen mtibus propinatur.Sciant igitur curioſiin hac dofi nullum præbere
periculum ,in # maiori tamen non dedi,neque concede tem :licet apud Aufonium
Epigram.10. o legatur hydrargyrum contra medicinas venenofas valere. * Datura
flores , com ſemper, hominem in ri(was; concitane. M ! Tra eſt Daturæ potentia
in faſcinan .. dis , vt ita dicam , hominum men tibus , adeò quòd , qui
illiusflores, vel Temen ſumpſerit , à riſu , cachinnisque non defiftat,donec
més alienata ex plan tæ viribus in priſtinem redeat tempera mentum, Apud Indos
à furibus Datura vfurpatur;fores enim , vel femen in ci bos eorum ,
quosdepredari volunt, exhi. bent, & in mentis alienationé, & in riſum
2. conci . MA it concitant: ita profecto
furádi parantin duftriam.Durat illorum riſus, & mentis error, viginti
quatuor horarumtermipc.. Ex Gozdab Horto . Lupesſenio confectos in renibus
venenoſosgeo net areſerpentes. Agnum profectò in præſentiarü arcanum aperio ,
multis hucuſ. que incognitum de luporum natura. Il lud eft,cur à Lupis animalia
commorfa modòfanentur,modòautemmoriantur.. Anquòdluporum aliqui venenoſi, ali
qui verò ſine veneno exiftant?Equidem CarolusStephanus lib7 Jus Agricult.cap.i.
ſe obſerualle fatetur, ib Luporum fenum renibus,primò ferpentes vno pede.Jona
giores , & breuiores, qui temporisſpa tio venenauſsimi effecti,Lupum
enecás. Hac via facilius nobis tribuiturconie &tura deLuporum morfibus.Si
enimle piiuuenes fuerint , animahaa, momor derint , ex benigniori eorum natura,
mortem baud inferunt,vtmultoties ob feruamus, niſifortè.vulnera in principi
buscorporis fuerint locis, vel tá grádia, vimori neceflc fit.Sin auté ſenio
fuerint confe & i,proculdubio leuiſsimo morſu animalianecabút,propter
peculiare ve nenum inLupo delitefcens,quod víu ve nit,vtpieraq; præmorla animalium
, vel moriantur, velmembrum morſum pu treſcat, vtfaltem difficillimè curetur.
Ex. Gaſp Benkino. Qualiartificio ab vxoribus homines mafcu losfilios fufcipere
pale ant. Vita à Scriptoribus ad marium M reperimus:hæcautem præcipua , &
ve riora effe exiftimaui.Primovthomo ex exceatur,folidiorig;vtatur cibo ,atq;
ra rius cócubat: ita n . & calidius & fpiflius fe . méeuadit,fita;
prolificum , & aptiſsimum ad marium conceptum . Secundo mater, &
incongreffu fuper latusdextrum recubat & à coitu confeftim fuper illud
conqui elcat: Siquidem Hippocratesmaſculosin dextris,fæminas verò in finiſtris
genera- . ri ſcripſit.In dextris enim ab Hepate fo . uetur ſemen ,quod eſt
calidum : in ſini. ftris autem à liene frigido quoquo pa.; do refrigeratur ,
& ad fæminarunt 3 conceptum'præparatur.Tertiò ſpiranti tibus Aquilonibus
concubant, Auſtris vero defiftát:Aquilo enim admares fuf. cipiendos
accommodatiſsimum eft ,Au fter verò ad fæmellas. Capimus huius rei ab ouibus
experimentum , quæ fiflá. te Aquilone concipiunt, marem ferunt; Auſtro autem
foeminam . Multi , inter quos Cardanus eft,ad marium concep tum Mercurialis
maſculæ elum extol lunt,hæc duos quafi coleos pro feminie bus habet, & ab
vtroq; coniuge depaſta, marem inducere occulte vi exiftimatur. Magnumele in hac
inferiora Lune con fluxum . Trabilis profectò eft Lunæ vis in hæc inferiora:
ipfa enim noctes illuminat, & fuper humida poteſtatem haber,marisfluxus,
& refluxus per quae draturasfuas intētiùs, & remifliùs facit; quippèdum
oritur,maria intumeſcunt, & in æftuariafluunt, quoufque ad circu. lum
meridianum illa perueniat; cùm autem ad occafum inclinat , Oceanus ab
æftuarijsrefluit ingurgites; quando ſub M Orizonte , percurrit,mare ad confueca
æftuaria conuertitur, quoad nocte me dia meridiei circulum Luna atringat; poſtremdcùm
ad Orienté tendit,Ocea Rusquoque ad folitos alueos regurgitat. Ipſa in
Agricultura rebus dicitur do , mina;propterea antiqui gentiles, qui in
terræcultura proficere optabant, Lund libamina ſpecialiter obtuliſſe dicuntur;
y ocabatur Diana, ſiue Latonia virgo, aut Plutonia coniux velProſerpin.
Leonardi asri deOdtimeftri pariu ſenten tiamdebilem effe. Peculatur Vairus in
lib. 2.de Faſcino, Cur partus odimeſtris vitalis mini mè lit,innuit hic, vir
alioquin doctus, talem partum non viuere, ob femen im perfectum :quia non datur
ſemen (vtar guit )quod ad illud tempus fætu procre. are valeat: ſicutin genere
triticiquod dam eft ,quod tribus menſibusgignitur; quoddam verò, quod nouem
menſibus: fed debile eft huius fundamentum , quá do in Hifpania, & Aegypto
o & imeltres partusões vitales efle perhibcãt:Potior ergo concluſionis
ratio requiritur,quam nos alibi tábgemus. somniarumprofagizà Deo diuinare,
aliqus bus bominibus concedi. On omnibusfomniorum diuina N
doconcellavidetur,fed quibusà Deo ex ſpeciali gratia permittitur. Qui anim
fomnia proprio ingenio diuirare intendunt ( dempta fomniorum intere pretatione,
quæ & caulis naturalibus in naſcitur , quorum præfagium ad media cos
pertinet) aut cæcutiunt , & delirant; aut dæmonum fallacijs inuoluuntur. Iofeph
apud Pharaonem , & Daniela pud Regem Chaldæorum ( vt infacris habemus) quia
diuina afflati erant ſapi entia, fomnia diuinabant.Propterea mi niftris fuis
Pharaonem audita fui fom . nijinterpretatione,dixifle legitur: Num
inueirepoterimustalem virum , quifpiriru Deiplenusfit ? & Rex Babylonis ad
Da. nielem :Audiui de te,queviäm fpiritum De orum habeas, ce
ſcientia,inselligentiaq, as Sapientia amplioresinuentafunsin tq.ExTa úello . Inter
Polypodium , & Cancrosmagxam in. eſſe antipathiam . Axima videtur inter
polybodie M , i quòd fi polypodiumſuper cancirú abie ceris viuum , breuiſpatio
tum pedum cortices,cum vngues ille eijcier:tanca eft i iſtius plantæ in illum
particularis viru 3 lentia,& efficacia.Ex Mashioto, Ć Dengan Ibidis ,
ferpentesattonitos reddere. Irabilis eſt ibidis pennarumvis M contra ſerpentes
, quippe fi illius penna ad illorum quempiam inijcitur , Confeſtim in
veſtigiogreffus hæret: ad mirabiliustamé eft, quòd ſerpens quer pis
frondibuscontacta moriatur , quare circulatores aftantibus mirabilia fæpè protrahere
à racione inconucniens elle a non debet:multa enim iis funt, quæ ad i
mirandaiudicantur:quemadmodum eft Viperam viſo Fago perterri:experimé. "
to enim probatum eſt , illiusramo ante hocanimal iniecto , veluti attonitú fie
si, nec ampliusmoueri Hoc etiá cuenic Gha . ti ſi barundine feuilsime
percutitur : fin verò iterum eadem vipera incutitur confirmari videtur , &
fugam repentè adire. Mulieres rard inebriari, acbrd autem ſenes, Ontrariam
naturam ſenile corpus, Contd & muliebre fortita funt:ob id mulie. res rarò
ab ebrietate corripi afpicimus, crebò tamen'ſencs. Mulier quidem hu mida eft,
vtà cutis cenitate ,& fplendo re.comperimus , fenex contra ſiccus , cucis
afperitas&ſqualor confirmat. M11, lier ex aſsiduis purgationibus fuperfluú
exonerat; ſenex autem ex corporis duri . tie,luperfluanonexcernit.Mulieriscor.
pus, quia variis purgationibus crat de putatum , pluribus foraminibus fuit có
fertum ; non ſic ſenis corpus ,propterea naturales meatus à corporis ſiccitate,
& duricie potiùs obſerantur. Hæc funt în caula , vt ebrii fenes facilè
fiant , muº lieres verò perquàm rard . Nam fià mu. liere largè vinumfuerit
hauſtum , illud magnam mulieris humiditatem incidens,vtiq;vimluam perdit;
dilutiulý; fit , & cerebriſedem non petit: nam per. varia foramina mulieris
illius vapor re Currit , & celeriter eius fortitudo euanel cit.In ſenibus
vinum contrarietatem no recipit: quia corpusillorum ficcum eſt; ob id vinum
firmiter adhæret, cerebría que petit , quia in durioribus membris; &
aridis(vt ita dică ) exhalatio nulla fit: hincab ebrietate facilècapiücur. Ex
MA crobio 7.Saturn. Qua induſtria in vrgenti fomno, quis vac leat excitari.
Agnus Alexander,vt ingerendo imperio, occupatior eſſet,magnú contra ſomnum
excogitauit remedium , quoſi quis vtetur,facilèin ſomni graui tate excitari
valebit. Ille Vas æneu pro pè lectum conſtituebat, & pilamæneam fiue
argenteam manu compreſſam ha bebat,brachiumque ſuper vas illud ap tè
componebat,vt pila in ſomno elapſa in æneum procideret, & à fonitu excita
retur, & furgeret.Mira equidé fuit hu. ias ingenij dexteritas , licet hæc Alexandri
dormitatio potius quàm fomnus dici poſsit.Ex Ammiano Marcellino. Quibusfignü
corpora venenata cognoſci yaleant. L Icet venenorum genera multa fint, ex quo
difficile fit omnia figna repe rire,quibus cognofci valeant,afferam ta men qua
mcthodo corpora, quæ venenü fumpferint,intelligere poſsimus. Porrò magna fit in
corpore commotio , dum quis venenum hauferit;præcipuè fiillud calidæ fuerit
naturę:doloribus enim va lidis ,atqueacutis in ſtomacho , & inte kinis
torbonibus languens cruciabitur, præcordiorum fentiet anguſtiam , fati gabitur
vomitu,& fuxu ventris , ſudor fuſcirabitur in fronte cum vultu frigi do :
colorægri erit pallidus , pulſus de bilis, inzqualis, & inordinatus ,fynco
pi , &animi deliquiis affligetur. Hæchi omania, vel in maiori parte
fuccedunt, o porter celerrimèinggris.vomitum pro uocare, vt aflumptum vencnum
eiicia ur. Ex pal.Vilan. Luem Gallicam non modò homines,fed canes etiam
inuidere. Tanta eft morbi Gallici quandoque immanitas, vt non modò ex vno lan
guente,vel reſpiratione,tactu, autcom merci oplures homines ea lue polluan tur;
verùm atque canes , ſi vicera , vel vnguenta infirini lingere potuerint.Ex I
perientia hoc edocuit ; viſus eft enim & quidam canis Gallica lue captus,
quihe I riſui emplaſtra linxerat. Ex obformatore if Iulii Scaligeri. 6. Poet.
Quotermi nocorporis hominispulchritudo conftitui debeat. Arii equidem funt
Scriptores in conſtituendo termino longitudi nis , & latitudiniscorporis
pulchri:ihter quos, ſententia loannis Goropii, in fua Gigantomachia , magis
acceptanda vide tur à fapientibus:colligit exHomeride Creto longitudinem
hominis pulchri de bere eſſe quatuor cubitorum , latitudi nem verò vnius
cubiti. Cymrinum bominibus palliditatem corporis inducere. More Multa profectd
ſunt , quæ vultus colorem hominum deflorare ob ſeruantur: fiquidem panis
hordeacęi v fus facit homines pallidos.Ex Ariftot. A quælutulentæ potus, vſus
ſalitorum , & immoderata Venus valde colorem de . turbant: inter ea tamen ,
quæ ex proprie. tate decolerare putantur, Cyminivſus, &olfactus eſt. Duo
enim de hoc exem pla habentur apud Plin.lib.20.C.24.V. num fe &tatorum
Portij latronis, qui, ve illius imitarenturpallorem ,cymino fre quenter
vtebátur:alterum eſt Iulij Vine dicis ,qui, vt Neronen falleret ,palloré
Sibicymino conciliabat. Ex Mercurialide Decorat . Regem Archelaum maximè
Aſtronomie fi iffe imperitum . T minibusneceffariaiudicatur,vt malè ciuitates,
refpublicas;hominumo; cætus fine illorumobſeruatione ij con leruare
valeant.Vtique horum ope té pora,annos, menſes , & horas metimur, &ſine
his in, varia labyrintha inuolui mus mur.Hoc apertè ille imperitus Aſtrono miæ
Rex Archelaus oftendit,qui (vt vi ri ſummæ fidei fcriptú reliquerunt) ob Solis
Eclipfim ,cuius caulam ignorabat, * tantotimore correptus eft ,vt regiam is
clauferit,filium totonderit, iudicia è fo ro fuftulerit , & iuriſdi&
ionem penitts en intermiſerit: vltimum enim orbis diem . eſſe arbitrabatur.Ex
Magino. Mira grecilitatis quofdam bomines fuilfe repertos. X Aeliano,&
Athençoquofdam ho mines extremæ gracilitatis fuiſſe * colligimus:legitur enim
quendá Arche ftratum vatem fuiſſe, qui captus ab ho ftibus tantæ gracilitatis
repertus eſt, vt cùmlanci apponeretur , pondus vnius obolihabuiſſet,quod
incredibile,& ferè ridiculum exiftimatur.Philetas Couse . tiaminuentuseft ,
quem ex gracilitate E vſque adeò inualidum fuiffe fcribunt, vt ne à vento
deijceretur , pondera ferrea pedibus, & foleis geftare coge { retur,
Anguit. Emine Anguillas cumAquilone mirambabere fyme putbiam . Trabilis profe
& ò conſenſus eſt, quem Anguillæ cum Aquiloni.. bus habent : ipfis enim
ſpirantibus fex. dies fine cibo, & aqua has viuere fertur; cum Auftrisautem
diſſentiunt, quippe his flátibus diu ſine cibo, & aqua illæ vi.. uere non
poflunt. Ex Bodino in Theat. Aſparagorum vſum corporis facere pitorem . Nter ea
,quæ nitorem ; &pulchritudia nem tur, Aſparagorum vfusconnumeratur, cuius
efficacia à multis in corpore colo.. rando ferè mirabilis iudicatur. Aſpara ..
gi fætentem reddunt arinam , & perilla pratos corporis expurganthumores:eb:
id mirum non eft ,fi,ijs euacuatis,corpus reliquum non modò odoratum redda tur,
ſed etiam nitidum , & coloratum : quippeex humorum prauorum conge. rie,
& palliditas , & defloreſcentia nobis jonaſcitur, quibus ceflantibus,
ceſat de . formitas, & colornitidus exoritur. Ex Auicenna. Picem cum oleo;
maximam babere colli gantiam . E X congeneri ferènatura Picem , Rea ſinam ,
& hujuſmodi, magnam cum oleo affinitatem retinereobferuamus:fi manus enim
pice , vel refina fædantur vtique eas oleum extergit,idque ob col" :
Tigantiam oritur. Oleum furfur tollit, furfur aqua eluit; aquam demumlintco:
ficcamus.Ex Cardino Mularumgenuse propriapecieminime propag ari: MVlasequidem
,& monftraconfimis lia,nec parere,nechium genus prou pagare obferuamus:id
fieri aiuntmulti;. ab improportionato generandi tempe ramento : veriùs tamen
cum Bodino in Theau.Natur: hot contingere exiftimo, une fpecierú fit infinitas
: natura enim in finitatem abhorret. Ariſtoteles in Syria fupra Phænicesmulas
parere ſcriplīt ; & Theophraſtus in Cappadocia illas genus 3 , propagare
voluit:tamen hoc veriſimile haud eſt. Propterea magis credendum reor , in illis
locis Aſinarum quoddams: genus oriri mulabus conſimile , potiùs, quàm mulas ,
quarum partus à noftris. prodigiofus, & funeftus effe dicitur , vt Iulius
Obſeq.inlib de prodig: adnotauit. Leones, Sole in Leone'peragrante,a'febribus,
moleftari: Irabileeſt, quod in Leonumfpecie contingit,dum Sol Leonis cælefte
fignum ingreditur:ijenim à febre tertia.. na in toto fyderis fpatio excruciantur:a
deà quòd fateri oportet , talium genus cum hoc fydere antipathiam habere &
tertianam recipere'; proinde Leoninaà multis hæcfeprisapperiatur,bene iudi.
cantibus, Leonemeſſe peculiarem . Leo. nes hoc temporetertio quoque die paſo
cuntur,neciemel etiam accidit, vt bidu um ,veltriduum inediam ſufferāt, Ster
custunc ficciſsimum , & vrinam fatente excernunt,vt Ariſtotelesadnotatum re
liquit.Aiuntmulti, hocà natura forſitan eſſe factum ,vt ferociſsimæ beſtiæ quo
quo pacto cohiberetur impetus, & à fre quentiori rapina coerceretur. Quo
HORIVLVS GENLADIS. 149 Quo artificio in fenibus barbas, albofque cam
pillosdenigrare pale amus. Eferam notabilem miſturam qua , ' R Jeant.Sumito
lixiuij communis quantú volueris, decoque in eo faluiæ , & lauri folia cum
corticibusiuglandium viri. dium ; mox laua , aut ablue madefa &ta fpongia
:ita enimnigredinem compara bis, quæ diu durabit, &lætaberis effectu . Ex
Porta : Mergum ,& Anferem aquaticum in Hydrsa phobiam plurimum valere
Ntercuncta animalia adnotauit Arie ftoteles Anſerem aquaticum folùm non rabire
, ob id à multis huius efum in Hydrophobia maximè celebrarur: mirifico autem
experimento contra ram . bidi canis morlus valere dicitur Mergus qui in aquis
& maridegit, quippe ab Ace. tio ,eius eſu Hydrophobosillicoaquam
efflagitare narratur. Lacertasmira magnitudinisapud Indos iz... Meniria NInfula
Sancti Thomę, quçdam La IN Ls certæ ſpécies miræ reperitur magnitu dinis,quæ
admodum illius gentibus fa miliaris, eft .In Ioſula etiam Capraria,, quæ vna
èFortunatis eft , ingentis ma gnitudinis hæc animalia cerpūrur;habis tatores
autépro ijs interficiendis , bom . bardis,fiue ſolopetis,alijfque bellicis in .
ftrumentis vtuntur. Ex Amate Luſsin Dia. ofcer. In educandis iuuenibus , miran
fulle aibe: niexfium induftriam . Moser Oserat Athenientum in iuvenum
educatione, vtij cothurnicibus, fio uc qualeis, aut gallis pugnantibus ftudi.
an impendcrent:Solent enim hiermo. di volucres,vfquead extremam virium
defeâionem certare . Qulo exemplo ad ſubeundapericula ; & vulnera contem
merida, ifamınabant iuuencs increpan tès au :bus minus ingenioſos effe homi.
nes, non debere.Exsotino apud Lucianum Serpentum eumapudl kudosfrequentari..
NCuba Inſula penes Indos ,ferpentes loua totius corporis ipecie, ac forma
prediti inueniuntur,quippe ſelquipedis IM I plerumque longitudine
exiftunt,& ex terra, & aqua viuunt:Quod autem apud illas rationes
mirabilius videtur inlay tioribusmenfis, horum animalium e fum ,tanquam ibum
ſapidiſsimum free quentari.Fx Petro Bembo. Quomifico,Po ticaput; inmiram intumeſcentiam
redderevaleamus. NterAgriculturæ arcana, non infimi momenti methodus eſt,
quaporri cam put in tumorem magnum reddere poro Gimus.Aperiam abftrufum
artificium :Si enim porri caput ,arundine, vel ligneo ſtylo pupugeris,atq;
raporum ,vel cucu- merum fomen vti foramine occultaueris proculdubio propria
capeo in tan tamtumorem deuenire, vtid prodigio- fum iudicetur, Ex Mizaldo.
Iwer Fraxinum , &Serpentes miram adeffe Antipathiami Raxini fuccus ad
ferpentum morfuss mirabili fuccelu à medicis vſurpa nec fine ratione : hanc
enim plans tam Serpentes, ex occulta antipathia ji miro odio infequuntur :
fiquidem illius L6 yobras OX tur , 252 BARICELLI vmbras tùm matutinas,tùm
veſpertinas euitant,& lógiusaufugiunt. Retulit Pli nius lib. 16.cap. 13.ex
fraxino experi. mentum quòd figyrum frondibus fra xini,& igne apparatur, in
cuius medio ſerpens lit proiectus,procul dubio ferá in ignempotius, quàm in
fraxinu aufu gere:tantusefthorum diffenfus , &co. culta ſerpentum
inimicitia. , Virginitatem in mulieribus, qua viaexperizi: paleamus. L Apathiū
maius in aperienda mulica rum virginitate aftantibus magnam retinet efficaciam
: ſi enim ex huius folijs faraturfuffumigium ,fiue hęc fuper ig . nitos
carbones inijciuntur,vteffument, vbi mulierum fit corona , cum odor ad pudenda
mulieris perueniet, illius bon. nitatem,vel malitiam oftendet: quippe fi viro
copulata fuerit,abfque dubio v rinabit, fim verò fuerit virgo ,vrina po tiùs
conftringitur, quam emictatur.Ide etiam faccre autumant,lignum Agallo chum ,
fiue Xiloaloem , vel femen portu-, acæ fi fuper carbonesiniecta,adeò effu ment
HORTVLVS GENIALIS. 253 L ment, vt ad pudenda mulieris odor va leat penetrare:
mouetur enim in deflo ratis vrina quantò citiùs , fecùs verò in
virginibus.Ex.Perta . Quomodo ex duabus aquis claris, lac effings re illud
valeamus.quod Virginale Pocatur. Ac illud,quodà pleriſque ob colo Cris
ſimilitudinem ,liue ex nouo ori gine, Virginale appellatur, ex duabus , aquis
artificiosè corifedis exoritur ad multa equidem corporis mala yti. Lifsimum ..
Eius modus talis eft . Su mito lithargyrij in puluerem redacti Vnc.ija
acetialbivnc.si.commiſta infi- , mul per filtram lineum deſtillato, & a
quam clară habebis.Vtautem alteram componas , fumito Salis gemmæ Vnc.), Aquæ
cómunis, fiuepluuialis claræ Vnc. Mimiketo fimul, & fic bimas habebisa quas
magni valoris. Cùm verò vel ad oftentationem , vel curioſitaré fiue ne.
celsitatem lac Virginale conficere opta bis,aquas vtrafque coniungesfimul mil
cendogita profectò confeftim laquor la L7 Ereus BA RICE E L'T M deus ſuſcitabitur
, qui Virgineusvoca . tur.Verrucæ in manibus fi hoc lacte per dies aliquot
beneconfricantur , euanef cunt. Impetigines,omneſq; faciei macu . læ ,rubores,
& ex foleardores , hoclini. mento facillimè curantur. Caftrates lienem
,velonorum vitellós durios ? res deglutire non poffe. Irabilc elt i : lud,quod
in caftratis, circa cibum obferuatur : hi enim nec lienem ,nec duriores ouorum
vitels losdeglutirepoffunt, vt frequentiſsima apud
multosinoleuirexperientia.Retulit Bodinus in ſuoTbea.tales priùs fame fe necari
pati, quàin lienem vorare por fe.Huius reialia non creditur effe ratio, quã
xſophagiiſtorú ex nimia adipecoão | guftatio, & cóftri& io; cũ auté
lienis fub-. Itātia spõgiofa &flatuoſa fit,atq; in mã. ducationemagis
infletur;facile fit , vtiji i ex ælophagi anguftia talem cibum deo to glutire
nequeant. Eadem ratio eftino uerum vitellisdurioribus', qui ex ſuba Itantia
glutinoſa,per anguftum non facie la tranſeunt. Spatium humanæ vita , centum
annorum fom cundum degyptios compenſariin . teruallo . in . * " Vriofa
magis, quàm veritari confo näns mihi videtur Aegyptiorum
aliquotopinio,dehominum vitęmenfu, ra :quippe illorú multi , qui medcata
cadauera feruart conſueuerant , ex quada conic & ura à cordis humani
ponderede fumpta in eam deuenerefententiam , ho. minisviram centum annorum
fpatio de Gniri.Sumebant experimentum in cora poribus, quæ fine
labemoriebantur; ho rumenim anniculi duarum drachmarú. pondtrisgcorretinere
videbantur , bini quatuor;& fic in iingulis annis, quo in anno
quinquagelimo bomines centum . drachmiscor in pondere retinere affiras mabant:à
quinquagefimo binas : dracha mas fingulisannis decreſcere , atque à cordis
pondere detrahi , minuijè dicea. bant, &fic in anno centefimo ad primum ,
fui ponderis: fecundum iftorum conie ... awan ,corredibat.Ex Teicntio /
arrone.. 256 BARICELLI Claro Pblibotomiam ex vena ſaluatella , pleneticis:
plurimumprodeffe. "VrabatGalenus ſpleneticum qué dam ;& cumdiù (vtipfe
narrat)de illius cura eſſet ſollicitus,atque diligen . ter remedia quæreret
quadam nođeſó niauit,fe in infirmo de vena faluatella, quæ eft
interminimú,& annularem ma nus digitos ſäguinétrahere; quod fecit, &
fanatus illeeſt. Hoc diuinæ bonitati tribuendúexiſtimo, quæ multoties, ho mines
per bonosfpiritus dirigit , vt ca perficiant, quæ in corpornm valetudine
concernuntur.Ex Bartbol.Sibylla. Gymnoſophiftas apud indosmire,viſus, &in
genij dexteritatis inueniri. MIIrabile profectò illud eft; quod de
-Gymnoſophiſtis quibusdam apud Indos narratur. Hienim ab exortu , vf quead
Solis occaſū ; oculis contentiscan . didiſsimi fyderis orbē intuentur,inglo bo
igneo rimantes fecreta quædam ,a renilgue feruentibus perpetem diem al ternis
pedibusinfiftunt.Ex Solino. Qui HORTVLVS GENIALIS, ' Quibus auxilysforumarum
materia ,per pri nis paleasensachari. Bseruatum eft huiufmodi præfi O sibus
euaneſcere.Adhibentur primò in firmis aliquot clyfteria, ex fucco bryo niæ,
& mercurialis,oleo , & fale concin nata, quibus patiens tum gelu, tum
ma. terias.viſcidas copiosè purgari videbi . tur:mox cum oleo amygdalaru dulciū,
vel mali aurantij coleis , manè dilucu .. lo , cantharidum præparatarum grana
quinque,velſex iuxta corporis naturama. capiet.Cantharides autem per horas 24
.. in aceto infundantur,deindeexiccentur, &in puluerem reddantur.Hic enim
ea. rumpræparationis modus eſt. Huiul modiauxilijsftrumarummaterias, vri pas
euacuari compertum eft., Obferua uit hocDo & orPhyficusJoannes Domi. nicus
Donnus,cuitis familiaritas,animi queindoleseſt mihiſemper gratiſsima, mihique
tale remedium communicauit; robuſtis tamen corporibus folú adhibe ducéleo: ex
illius enim experiméto do lors BARCE- 1 II! lores ad inftar parturientis circa
pe &tine tale præſidium commouereaudiui. Alijs etiam modis , & auxilijs
(trupęcurătur, quippe fioleo ,in quo rana terreſtris,tal pa vellacerto, ( vulgò
dicitur racano )fi ue lacerta magna vocata ebullierit , diú ftrumæ,purgato
corpore, liniantur,abf que dubioexiccátur, & euaneſcunt.Het animalia viua
prius in oleo fuffocantur, cùm ad carnium ab oſsibus ſeparationé ebulliunt,
& oleum mirabile ad ftrumas componitur. Nonpulliad earum extir . pationem
caufticis vtunturmedicamen tis, quorú potentia caro aperitur , & ftru
mæetiacuantur.Componuntur hęc talia ex arſenici fublimati drach.j. lithargyrij
aur. & aluminis roccean.drach.ij.fabari vftulatur:numero quinq; hæc in
pulue. rem reda & a cum frumenti farina,aceto que acerrimo mifcentur ,
& fit malfa , è qua orbiculi, vel plancentulæ formantur & exiccantur in
Sole, vel furno,admoué tur fuper ſtrumas , &fpatio horarum24. opus
perficiunt, Alexandri Magni magnanimitas in pofteros: ftudiofas. MVlta ratione
Alexander Macedo Magnusdi& us eft',cùm eius excel lentia non modò in
litteris apparuerit.. Ille quidem , vt Ariftoteles de animali bus
hiftoriasfcriberet,multa liberalitate in pofterum vtilitatem , octingenti auri
talenta , cum tribus hominum millibus dedit, vt fyluas,aularia , & viuaria,
omnis . generis diſquirerét, & opusab ipio per.. ficeretur.Illi autem per
Europain ,Afriw . - Cam , & Afiam peragrantes,multa anima : tium gencra ad
Ariſtotelem attulerunt, quarum difle & ionibus , de vniuerfa fen? rè horum
natura accuratiſsimè Philofon phus fcribere potuit.Ex loanne Bodeno. I WA
Mulieres quafdam in oculis, equi effigiem , pel: geminaspupilas babere
compertum eft. NO On rarò quædam mulicres magæ reperiuntur, quæ vt plurimum a-
. niculæ funt , hominibus , animalibusý; vilu ,nocentės. Solent hæ in fingulia,
acut 160 BARICELLI oculis, velgeminam habere pupillam , ( vt HieronymusMengus
de Arte Exe orciſt. adnotauit ) vel equi effigiem , quemadmodùm nonnullas
Pontumin colentes habuiſſe legitur. Referuntex iftarum oculis quofdam
emittiradios, qui non ſecus iacula & ſagitrę pro homi num cordibus
faſcinandis exiftunt , ità profe & ò totü pernicioſa quadam qua litate
corpus inficiūt,breuique velnullo temporis conſumpto interuallo,homie
nes,bruta,ſegetes,arbores polluunt , & ad interitum tæpè deducunt.
sanguinem caninum HydrophobosCupareba PotumAutumant Galenus N Serapio,&
pleriq;fapiêtes,fangui nis canini potu, canisrabidimorſum ca. rari teftantur :
quæautem fit ratio,apud hos non legitur. Referam tamen , quæ àMarſilio Ficino
in lib. z. de Vit.produc. adducitur. Ego opinor ( inquit) ſali ziam canis
rabidi venenoſam , impreſ fam hominis pedilæſo,per venas paula tim ad
corafcendere more veneni, nifi quid HORTVLVS GENIALIS : 261 quid in
tereadiſtrahat.Si igitur interim canis alterius fanguinem ille biberit,fan guis
illecrudus ad multashoras natat in ftomacho , eum denique velutperegrie - num
deie & uro per alium . Interea cani. pus languis ifte,faliuam caniná
fuperio ra membra prenſantem , priufquam ad præcordia veniat, deriuat ad
ftomachű : ná &in canino ſanguine virtus eft ad faa liuamcanis attrahendam
, & in ſaliuavia ciſsim viftus ad fimilem fanguinem proſequendum . Venenum
igitur à cor defemotum , fanguiniqueimbibitum , in aluo natanti, vnà cum
ſanguine per inferiora deducitur , hominemque ita relinquit incolumen .
Corallinam , ad puerorum vermes necandos maximè laudari. COMOrallinæ , quam
plerique muſcum marinum appellant , in puerorum ť vermibusnccandis,miraeft
virtus, & cf. ficacia .Hanccirculatores in plateis vene dere folent,talegue
remedium ad lum bricorum internecionem , fummis lau . dibus extollunt. Profectò
à veritate in hoc 262 BARICELLI hoc negotio haud abſuot:hoc enim cão teris
medicamentis, in rehacaccommo datis,excellétius eft:experimento fiqui. dem
comprobatum eft non modòlum . bricos interficeretale præfidium ; verùm atque
eadem die , cùin aſtantium admi ratione, oxpellere, vtiure dixit Mat thiolus,
quòd quandoque viſus fit puer, quiex aſſumpra huiuspulueris drachma, a centum
vermes excreuerit. Qua induſtria , labioram ,meruum , capia tamgmamilarum
citifsimèfifuras fanate vale anus. Periam ele &tiſsimum præfidium , A
tumque mamillarum fiffuris feliciſsimo fucceflu fere millies vfus fum . Sumiro
lithargyrii argent, myrrhæ , zinziberis an ,vncj.redigantur omnia in puluerem
fubtilif . & ex cera recenti, melle,& oleo oliuarum ad fuffic. fiat
vnguentú. Vfus talis eft : primò liniantur fifluræ ex hu mana ſaliua , mox
defuper in tela exten fum applicetur vnguentum ,ita cquidem paucis diebus
fanantur, Rhabarbarum cidoniatan , y terogerensabs que periculoalue exonerare.
IN graudis mulier bus, cùm grandi inorbo affliguntur, magna cautela ſo lent
medici medicamenta cuacuantiae ligere: vel enimhaud porrigunt,ne con Ceptum
diſperdant, & matrem occidant; velmitiſsima, & benigniſsima excogi
tant, & propinant. Multi Rhabarbarum ob eius caliditatem , &
amarulentiă recu fát: ſed perperá quidé, quádo illud cido nio Correptú, inter
ele& ifsima &benig piſsima connumerari debeat, Rcferam i qua induftria
à Ludouico Mercato ,viro celeberrimo,prçparetur.Sumanturcoto nea, ab
interraneis repurgata , tes diuifa, ( ſed fuperftite pellicula , quæ valde eft
odorata) in aquadonec tabuc rint ebulliant: mox per linteum colata, &
exprefla , optimolaccaro coquantur, & dumid fit,adiicies ad lib.j. huius
con diturz,vnc.j.Rhabarbari. Doſis cuius fit vnc.j.vel Aliud cidoniatum compo
nitur, quod eftgratius, & abfq; moleftia efficacius euacuat. Diuidatur
cidopium &fub God &in par 1 (264 & fublatis feminibuscủfolliculis,
parti um ciuitates puluere optimi Rhabar, negligenter triti,ac Drach.j.velj.-
aut ij.imp cátur, vel, ſi affectus poftulaueri agarici tantundem , vel foliorum
ſene; mox vniantur cidonij partes , papyro que inuoluantur, & ligata in
clibano ,vel furnello coquantur ad perfe &tam co & i onem ;poftremò
abie &tis medicamentis internis, pulpa manducetur. Hoc pro fe & ò
medicinæ genus fecurè cuacuat, & viſcera omnia corroborat. Animantium robur
animi, à femine inge terari. Vanta fit feminis efficacia, in aoda. cia
hominibus comparanda , nullo aliomedio ſecuriùs cognoſcitur, quàm caſtratorum
natură compéfare.Hipro fextò ſtatim atque teftibus priuantur, animi robur
amittunt, atque máſueſcár: fiquidem & à fpirituumcopia, & calore
potiſsimùm naſcitur audacia , quæ in teſtium natura valde { pongiola ge .
merantur , & ab ijs in corpus deferuntur.Ob id Galenus,in lib.1.de femine
,le méSolicóparauit, quod ſuo fulgoreorbe illuſtrat;iuxta cuius fulgorcs
ſemē,& ipi rituú ,& caloris potentia, ferè corpusil luſtrare admonemur.Hinc
Aegyptijſa pientiſsimi,cum Regem fractum , hebe temq; repreſentare
volebant,meritò Ti. phonem caſtratum pictabant benè ani maduertentes,nil poſle
verius hominem infirmum oftendere,quàin hominem fie nc ſemine. Aegyptiorum
aliquot ad Quartanam febrens ſecreta experimenta . х bris quartanas Aegyptis
familiaria ſunt , hoc pro ſele &tiſsimo remedio ha bent,ægrotisdeco
&tum ex menta para. tum ad femilibram ,calidum cum (polio ſerpentis
puluerizatibinisdrachmisan te accefsionem per horam propinare.A , lij cum
decocto affati temporeacceſsio nisvomitum procurant cum felici fuo . ceffu.Sunt
& nonnulli,quiante acceſsio nem pilularum drachmam exhibent. M He
exagarici,gentianę,caftorei,mytrhe, rutæ an , drach.ij.piperis longi,calamia
romatici,crocian . fcrup.iv.theriacæ an tiquæ drach. iij.conftant, & cum
ſyrupo de granat. dulcib.conficiuntur. Aliis ve ſitatiùs eft ,exhibere drach.
agarici,cum myrrhæ ſcrupulo, diſſoluram in pulegi deco & o, Ex Alpino de
Medic. Aegyp. Auesbacciarum taxi eſu nigro colore fieri. Axus inter plontas
virulentiam ha bere maximam videtur: quienim fub iftius vmbra dormire audebit,
in grauem affe & ionem incidet. In baccis autem venenum potiſsimum
viget.nam à viris comeftæ ,ventris profluuia, atque funefta pericula mouent :
boues illarum vfu moriútur, quemadmodum &peco ra ,ffortè has comederint,
Aues verò iftarum eſu minimè moriuntur , penna rum autem color in nigrediné
mutatus, Chelidonium Lapidem MIT APN epilepfiam baberepirtutcm . VIItrus
Chelidonii lapidis à pleriſque maximè extollitur: prelentaneum enim Epilepticis
réputatur remedium , adeò quòd non pauci iſtius vſu à tanta morbi forociate
liberati funt. Feruntin . Autumni principio ,Luna creſcente, hũc lapidem à
ventre hirundinis extrahi, & contricum aliquo liquore epilepticis in potum
propinari:quippe facultatem re tinere dicitur, tenacem , & vifcidum hu
morem, qui caufa caducimorbi eſt exica candi. Multi,chelidonium non folùm elu ,
fed etiam ſola ſuſpenſione, Epilep ticos à proprietate ſanare contendunt, Ex
Lomnio. Miram interafpides, & halic acabum inejſe Antipathiam . Irabilem
natura inter alpides, & halicacabum , quemaiorem veſi cariam inuenit
diſlenſum , & antipathi am :ijenim , fi iuxtà huiuſmodi plantæ radices
quoquo pacto corpora admoue rint,tanta ſtupiditate, & fomnolétia cor Tipiontur,
vt amplius nequeant excitari. Ariftotelem rerumcaufis maximum noſcena dis
adhibuiffe ftudium M M 2 Erat Aristoteles adeò cauſarum re , Erum cognitionis
ftudiofus,vedie cilè quiefceret , nifiad quæfitum exas ctum ſcrutinium
deueniret : ob id cumà. graui valetudineopprimeretur,atq; me dicus citra
morbicausa,pleraq; vetaret, fertur(teſtimonio Polybij ) sc.medico
dixiſſe:Nemecures,vt bubulcú , & for forem ; fed prius caufas ediſſere,
& ita pre ceptistuis facilè memorigeratum habe bis.Cum autem in Chalcide
exularet;ati que Euripi , qui inter Aulidem Bcotia portum,& Eubeam infulam
ſuntaugu iti freti,feptiesinterdiu noctuq;alternis fluctibus ſtato tempore
refluerent , ille maris recurſus excogitans,atque caulam reddere non valens,
tanto mærore affe & us eft ,vtmorti occumberet. Ex Iufting Martyr. Infates
a nutricib mores,& téperiē recipere, nfantes profe & ò à nutričibus non
foi lùm circa temperiem, fed etiam mo res multum recipere videntur.Ob id fat
pienterà veteribus,Romulum à lupafu. idela &tatum , proditum eſt ,
velhocfinx I ering HORTVLVS GENIALIS 26 erint, vel vera narrauerint; fuit
enimRo mulus ferinis moribus , callidus, fortif limus, &
incommodipatientifsimus.At præter hunc,multosà feris enutriros, & educatos
legimus; num autem hoc ijs, ex animi feritate fuerit tributum peſcio .
Scribitur Cyrum à cane fuiſſe nutritum , TelephumHerculis,filiumà cerua,Pelia
Neptuni filium abequa , Alexandrum Priamià vulpe,A egiſthum à capra,quo rum
inores,apudScriptoresnoti ſunt,vt apertènofcamus , quid nutrices infanti bus
afferant.Equidem quià capra lactá tur,ftulti fiunt, & fälaces;& ita
hircuselt;. quare ex hac conie & ura tales euadere in .. fantes , quales
fuerint& nutrices com perimus;fed mores virtute animi mode fari poffunt.
Qdo artificio vitrum diuidere valeamus. Icet vitrú folum ab adamante , cùm
plicabile haud fit, diuidiinueniatur, tamen alia induſtria etiam compertú eft
illud poſle diuidi,vt Cardanusrecenſuit Hic eft modus: Filum fulphure, &
oleo 테 ' irabue, L M3 370 imbue,locum circunda,accende, repete, donec
locus optimècalefcat;mox confe ftim alio filo , aqua frigida madefa&to
circundato , & vitro in eo loco fractum , &diuiſum habebis.Ego
quidéalio artie ficio , & fecuriori vitrum , diuido ,caſug; hoc mihi
notuit. Habebat quadam die cyathum vitri vino ſublimato,fiue aqua
vitæfemiplenum , ad curiofitatem non nullorum amicorum ,a quamin flammá,
accenfa candela ,reddidi, vt vinum fub. limatum accendi folet , confuiripta all
tem flamma , cyathusin medio diuifus eſt ,atque co potiſsimùm loco , quema qua
fupernatans attingebat.Ita ex curio . loexperimento , vitruin diuidere apud
alios amicosnon lemel valuir Gallinaceum ftercusà fungorum virulentia bomines
tueri . ' Vngorummalitia,ex multorum ex .. perimento , pleroſquevita priuauit
quia autem homines ab illorum elu ob luxus abſtinere nequeunt,referam quid
àGaleno,tanquam arcanum ,pro iſtorú. Fe virulentia extirpanda,leu ſuperanda ada
notetur.Erat in Myſia medicus quiho mines penè ſuffocatos ab elu fungorum ad
vitam ducebat, remedioa; tanquam arcano quodam vtebatur: huncprecibus exorauit
, vt tantum auxilium aperireta Stercus gallinaceum ille adduxit , quo contrito
ad- læuorem vtebatur , & cum : oxycrato ,autoxymelite propinabat in firmis,
qui celeriter omnesadiutiſunt. Hoc vſus fuitmox in quibuſdam Vr- r banis Galenus,
& verum inuenit : nain: qui præfocabantur , paulò poftvome bant pituitofum
humoré omninò cral hiſsimum , & exindeplanè liberati funt. Infuper Myſius
ille vtebatur huiuſmodi præſidio in diutinoColi dolorecú oxyo melite,propinato
vino , velaqua , cum felicifsimo fucceffu lob id Galenus ex Bolilongo dolore
fpafmo correptos,ta li remedio quoſdam perſanauit: nam & hoc colicum
doloremaufert, qui caufa ſpaſmi eſt.Ex Gal.16.simplic.cap.io . Varia
deliramenta di vini potentißimipotua.r exoriri. M 41 Multa Vlta equidem deliria
in ijs,quia vino potentiſsimo inebriantur, fecundùm humorum in corpore prædo-.
minium ſuſcitari ſolent:quippe iltorum nonnulliin riſum maximum mouentur,
aliqui plorant,pleriq; vociferantur , alij . profund ſsimo lomno
quiefcunt.Refert Alphinus,in lib .de medic, degypt. muliere quandam à vini potu
largiori ebriam , primònimis euafifle hilarem ,atq; in ho.. mines la ciuiffe,
quoscomplectebatur, & ofculis tenebat;moxèrifu , & cantu , ad ram ,
& furias deueniffe ex quibus fami.. liares eam pertimentes, præcauebant;de.
inumin mæftitiam ,vtdefun &tos lamě. tabili voce deploraret;poftremò à fom
. no oppreflam ,omnem ebrietatem digef fiffe.Caufa omnium eft , quia vinum pri
mòcalefacit,fecundò adurit,tertiò refri gerat; ſi potésfuerit , & immodeſte
poti. Ego profe & ò quendam cognoui, qui a pud Marchionem primum Sancti
Marci dominum meum erat in culina,vt lances vaſaque culinaria in dies-collueret
; vo cabant Iulium Colauentre. Hic epoto vino grandi, quodBeneuento pro domi 13
ni menſa forebatur in tam immanemde uenit ebrietaté, vt Dæmoniacus appare ret
,os,manufq; extorquebat,in fe ipfum fæuicbat, ia &tabatq; membra, &
infinita agebat deliramenta. Aulæ Sacerdos fa cris libris accingebatur ad
exorcizandú hominem : quando vocatus , ebrium illi effe faffus fum ,meoqueiuſſu
ferula,mo Te puerorum , circa nates,flagelliſá; con tačius, breui ebrietatem
dereliquit. Syrium inter fydera.calidißime exiſtere matuth. , Riente Syrio
tantum aëris concipi.. præ ardore langueſcant ;canes in rabiem
trahuntur;furiunt viperx , & ferpétes ; ftuant mariajaer occultam nocendi
qua . fitatem recipit;ſemina, ia era ſub tali ſy dere,minimènafcuntur : talis
profectò eft Syrij natura. Exlib.2.de Hydr.natur. Viterum in nuptis mulieribus
varios fuiffe mores, o confuetudines. . 3 MS Non 274 BARICELL ) : N.DE dumprima
On vna equidem apud Veteresin . nuptis fæminis erat confuetudo: quippe
conſueuerát homines in finuPer. fico, littoreg;Orientali , Virgines nobi. les
nubiles haud deflorare , nifi brachijs , margaritarıım ļineis ornatæ incederent::
ab id illæ in magņo.erantprecio.Deſije. a nuncmosille, & margaritæ vilius
illice. muntur.E « Garzi4 ab Horto . Catullus, in nuptijs Pelei, Tetbidw ,
aliam natat con ſuetudinem , Virgo nupta , noctecun marito erat concubituva ,
ita tra & abatur:ante coitum eiuscollinen .. fura filo circumdato
meníurabatur,mae nèhocrepetebant,quòd fi latius , quam vt filo comprehenderent,
collum inueni ebant, defloratam ça nocte cenfebant:ſin : Vitò
dibilomaius,integram , aut antea. fuille deuịrginatam habebant. Aļijalias.
habuere confuetudines . Pupauetagrefte mirabiliter Pleuriticum mere bum fanare,
Efeet Galenuspapaueradolores miti gare , atq; interanodyna reponiina multis
locis referat;tamen agrelte,pleu , ritiden HORTVLVS GENIALIS 275 ritidem ,in
lib deremed paras.facil.confel, - fus eſt perſanare. Aperiam quodà mo nacho
empirico mirabili fucceflu in hoc morbo fa & um vidi.Hic folia & ſemina
agreſtis papaueris,in vmbra exiccata,ſe cum continuo deferebat:cum autê quis
laterali morbo infeftabatur , eius confr lio ſanguinem à brachio ſecundum ca 1
nones extrahi curabat,mox deco&ú fo liorum in brodio pulli collatum , cum
drach.j.velj- iplius papaueris ſeminis capillamentorum , quæ poft colaturam
addebãtur,capiebat tepidè , & ieiunio * ſtomacho. In loco doloris hæc
Epithe. cata adhibebantur.Parabantur ex pul yere roris marini, &
ſalis,farina , & aqua" tres placentulæ ,quæ ſuper calido latere in
firmam ſubſtantiam ducebantur : hiss locus,epithematis inſtar,fouebatur , &
breui tim dolor euanefcebat , tum etiá : apoftema rupebatur , & infirmus ad
fa. lutem magna admiratione priftinam rew . dibát, Corni plantam ,
Singuinarie,vel SörbiHydrom phobiam curatam fufcitare. 1.1 ter 276 BARICE ILI
INE Je Nterrerum admiranda, connumera tur aliquot plantarum energia , quæ
ſopitam , atque curatam in hominibus Hydrophobiam ſuſcitare, & renouare
couſueuere. Pluries etenim obferuatum reperio à Canerabidocommorfos, fi plă tam
corni, yel fanguinariæ tetigerintan . te annum exa & um , velfub forbo dor
mierint, ineuitabiliter in rabiem incide. Tę. Salius in lib.de affe& .
part, virus hoc potius à toto ſubſtantia , quàmàtempe ramenti ratione ſufçitari
prodidit; nec enim à taląu , necab vmbra intemperi es introducipoteſt.
Itaquemirabileelt, ab iis lopitam rabiem renouari, quod. fieri non poſſet, niſicum
rabidalue , ha plantæ aliquam haberent antipathiamy cuius alia potior haud
adduci poterit ratio, quam tetigimus, quod huiufmodi a proprietate
hocperficiant. Qua induſtria penenum illumptum deſcen.. diffe ad gibbum Hepatis
pèlinteftina . rognoſcere valeamus. .. iquopropinato,nullamajor me dicis, difficultas
exoritur , quam veneni refidentiam reperire , vtritè ca adhibe antur pręfidia ,
quæ talia oppugnare re perta ſunt. Si enim venenum fuerit in ſtomacho,vomitum
proderit excitare; fecus autem ,li tranſiuerit hepatis regio nes,Hiceft modus.
Ponaturoui vitellus cumalbugine , cum infirmi lotioin ma tula ;fiinfra
paucashorasnigrefcit, & fee tet, venenum adiecoris gibbú peruenit ; Tip
verò rugetur,çitrinefcat, & non fæte at, inteſtina haudtranfiuit. Hinc
indica tionem corradimus, veneno ad inteſtina Traiecto ,non conferre vomitum
prouo care, ExBAYTO . Plantas peduconfimiles ;congeneres retine YENİKHI€s .
MVltis experimentiscomprobatum Teperio ,plátas,fruticelý; ligna, quę quadã
aſpectus ſimilitudine cóueniunt, congeneres retinere vires.Sic multi mea
dicorum peritiſsimi locolingniGuaiaci, Buxo vtuntur;loco falſę parillæ,ſmilace
it aſpera, loco ſaſſafras, žylucftrifoeniculo; pro polypodio , filicecligunt;
protipfa M 7 na nyhor leum pro
myrto,liguitrů ; pro ea buio,fambucum ;pro china radicem no ftræ arundinis;pro
Rhabarbaro , hippo lapathú.Hçcn.facie corporeg; aſsimilá . túr,proindecöſimiles
vires habere exia ftimatur. Exlib.noftro de Hydran. Natur. Inter Arundinem .
Fräcem ,may nam inefſe extipathiam. Aturali quodam odio inter ſe Fi lix ,
&Afando diſsidere videntur : moritur enim filix, quæ ab arundinem : plantis
circundatur; & arundo quæ à fio licum virgultis: quo dudi experimen to
agricolæ , arundinis folia in colendis agris, vomeribus alligant , perſuaſi ab
iſtorūdiſſenlu, ſilices ab agris extrudere, &,vt audio votum in dies
conſequütur. Apri dentem ad Cynanchen , Pleuritiden mirabiliter valere. Agna
eft efficacia dentis Apriin NA ! uis eius oleo linino excipitur , ac locus affe
&tus tangatur cum pennę' extremitaa: tę,cx Arnaldo, & Auicenna habetur
,bảo morbum præfeptiſsimè curari.In curan da pleuritidenon minor eft virtus
eius. propterea folent practicantes admiſcere tum fyrupis,tum electuarijs
huiufinodi dentis puluerem ,benèpoſcentes ab oc ! culta,&aperta proprietate
talem pulue rem prodeſſe: quippè extenuādi, & exic , candi vim habet. De
hocdente mirum . feribitur;occiſo enim Apro recentar,ip fius détes adeo feruere
referüt, yt capil losadmotos nonnunquam comburant. Id accidit., quia Apricalór
magous eſt; dumý; occiditur, ira & exercitatione fer uefcit ; proinde
dentespropter denſam ſubſtantiam , magnamrecipiunrcalidita tem ,cuius indicium
ipmaeſt. Aparagos ju arundineros fatosmirabiliter ex . crefcere. FAximuseft
inter arundines, & af par gos naturalis cófenſus;idcir... Iragos, &
pulchriores, & core pore ?s atq; ſapidiores habere op tabit,ue, arundinetis
leminare procu rabitquippe ex naturali ſympathia mi rum in modum excreſcere,
& germinare , animaduertet. Meani co qui MVltis profe& ò notiſsima eft,
an Viero gerentes eſu cotoneorum induftrios; acuri ingenij parere filios..
Mirab Trabile eft illud , quodà multis de cotoncorum proprietate affirmari
audio : ſi enim.grauidæ mulieres ,quàm læpius cotones-comedere folitæ fuerint,
filios & induſtrios , & maximaingenij pårere dicuntur:fiquidem cotoneis
mia ram hanc facultatem ineffe credunt . A. liud autem mirum in ijsreperiri
apud Mizaldum legi,grauidas mulieres háud parere, velfalte difficulter fætum
ede re,ſi in cubiculo , quotempore partus fuerint,cotosca feruauerint : credo
ex eorum conftringentiodore, velocculta . rationeid euenire. Heder am cum
vinomiram habere diſcordiam . tipathia , quæ inter hederam , &
vinuinànatura infita eft; fi enim ex hc deræ trunco cratera componitur, in qua
vinum dilutumfuerit impofitum ,pro cul dubio vinum confeftim effluesfun detur
aqua verò intus retinebitur,adeò vini impatiens hedera exiſtimatur.Hoc ducti
experimento nonnulli in vinise mendis hederæ poculis vtuntur : ita e quidem num
purum , vel dilutum vi num exiftat;examinani, & cognoſcunt, Volatilium
piſciumg;fecunditatis,Ginteria. Tuprafagia . Oletin quibuſdam annis animanti
bus quædam peculiaris peſtis graſſa ri;hinc fit,ve ( liannus valde pluuioſus
extiterit(auium , volatilium , bombycú ſericeorum ,araneorum ,erucarum ,inte ..
ritum videamus;piſcium verò ftirpiúq;: fertilitatem , & valetudinem .Annus
ay . tem ficcusvolatilibus (apibus excepris) falutaris iudicatur;piſcibus verò
perni... ciofius:ficut enim in angulto aere, obim . pediram reſpirationein
,fuffocamur, vi. uereque nequimus;ita piſces in anguſtis aquis concluſi diu
vicam agere mini mè poſſunt. Gallinarum adipem( accharo obuolutam ,vor modò a
corruptela preferuari;verùm atque oleum redderepretiofis fimun . Mira BARICELLI
Mina Ira equidem eft facchari virtus, in conferuandis àcorruptela adi pibus.
Cum quadam hyemePrudenria filiamea gallinarum adipes collegiſſeter acfaccharo
albo benè conuolutasin va ſculorepofuiflet,æftate ſubſequenti, il lud oleo
femiplenum reperit, adeòpel lucido, vtcumad medeferret excellen tius haud inueniri
poffe iudicaui. Hoc licet illa pro exornandis capillisvtere tur, tamen pro
mitigandis corporis do loribus,pro carnis ( cabritie tollenda, ae liifque
infirmitatibus vtiliſsimum effe į cenfeo :Quod autem mirabiliusiudicaui: adipes
illas:poft multos annos conſerua.. tas, eodem colore,atqueodore , quo re- :
centesin vafculo fuerunt claufæ anim aducrti. A quodam Chirurgo amicoet ia
nintellexi,humanam adipem faccha. ro conuolutam ;per longifsima tempo ra à
carie, & rancido præferuari: quodiſi. ita eſt, credo in
omnibusanimantiumde. dipibus id euenire.Qrare Magpatú cor pora condienda melius
faccharo imple. ta, quàm aromatibus pofle conſeruari crederem ;eò magis, quia
hoc præſidio , corpora in propriocolore, vi deadipe dixi perfifterent.
Cucameres naturali odżo oleumabborreres - aquam verò appetere. INteſtina
iudicatur diſcordia, quæ in, ter cucumeres, & oleum ineft: nam , &
ijaquam ,appetere.à lege naturæ viden . tur.Proinde virentes , atque è propriis
. plancis pendentes, vafcula ff aqua plena ſübterhabuerint,adeò longius
extrahús , tur, vtaquam inſequiex certitudine ex. iſtimentur; fin autem oleum
fub his fue. rit eie & tum procul dubio in feipfos, ve Juti vncus,
retrahuntur;fiquidem ij olei impatientes ex naturali antipathia co
gnofcuntur.ExMatthiolo, Mandragoram pitibusapplántatam ,vim il tis infundere
ſoporiferam . T Antam habét Mandragora inducena, di ſoporem efficaciam , vteius
pom vel comeſta, vel odorata,quandoque ca taphoram exuſçirent. Illud autem mi
rabilc eft, vitibus Mandragoram com plantatam, propriam iis naturam infun-.
dere, adeò quòd vinum ex huiuſmodi: confectum ſophrem bibentibusinduce
reconſueuerit, vt Rhodiginus adnota-, uit. De Mandragora Iulius Frontinus
hiſtoriam feripſit Strathagemwoz.Arn balà Carthaginenfibus cõrra Afrosmit. ſus
fuerat, qui cùn ſciret gentem illam vini auidam eſſe,in quibuldam vini do liis,
quæ in caſtris habebat, Mandragore copiam coniecit,indeleui comiſſo bello, ex
induſtria celsit, fugamque ſimulauit. Barbari,occupatis caltris ,auidèmedica.
tum merũ cùmhaufiffent, in captapho ram lapſi ſunt, & ab Annibale
trucidatia: Quando, Aegypti mortuorum corpora come dire foleant: E condiendis
mortuorum corporibus, Aegyptiorum ex monumena tis multa , tum ab Hérodoto , tum
à Cæ . Jio Rhodigino exempla afferuntur. Ae gyptii enimmortuoscondiunt, atq; do
mi feruant: Ageſilai cadauer cera condi. tum fuit , yt & Perfæ facere
folent; Alex andri corpus melle colitum eſt. Apud Iudæos exmyrrha, & aloe
cadauera con diebantar,vé apud Ioanné Euangeliſtam cap. Iceportabile
equindependenciaenels C. 19. legimus: quippeNicodemus myr rhæ, & alocs ad
libras fermè centum mi. furam fecit pro corpore Ieſu Saluatoris noftri
condiendo. Magorum eratmos, non humare fuorum corpora, nifià fer - ris ante
laniata forent : Affyriorum Re gure fepulchra in paludibus condita fu ile
tradunt. Mellis vſum , vita hominibus inducere diuturnitatem . Nenarrabili
equidem potentia mel , corruptione cuſtodire valeret, à natura
productúeft:propterea Plinius l.20.maximè huius virtutem ad miratur,
ClaudioqueCæſari Hippocen taurum , exAegyptoin melleallatum , vt citra cariem
eſlet, commendauit: nam & hoc corpora computraſcere non ſinit ; fiquidem
multi fenium longum mulſi tantum intinctu tolerauêre.Celebre eft mellis
exemplum in Pollione, qui cen tefimum annů excefsit: hicenim ab Au . gufto
interrogatus, qua ratione, &ani mi, & corporis vigorem , maximè cuſto
difíet ,hocreſpódiſſe fertur :Melle intus, foris oleo . Proditur etiam Corficæ
in fulæ populos, ex aſsiduo mellis vfu , vi. tæ acquirere diuturnitatem , cuius
rei li cet Diodorus non comprobet exemplu eò quòd mel Corficú peſsimum cente
at, tamen non per hoc vſum mellis ad vi tæ produ & ionem improbauit.
Gulinas ouaparere quolibet anni temporefi femina urtica, velcanabisin cibis
habuerint. Scripſit Ariftoteles6.de Hiftor.animal. cap. 1 , Gallinas toto anno
oua parere, exceptis duobus menlibus brumalibus. Hoctamen tempore , quo à
fætura deti ftunt, ferninis vrtica, & canabis auxilio faciliter gallinæ
fæcundantur :fienim in cibis iſtorum ſemina Ticca comederit, procul dubio tota
hyemis tempeſtate , non modò calidis temporibus oua pari ent. Hæc profectò
earum corpora cale . faciunt, & ad fæcunditatem diſponunt. Curyepbylatam
infantium maculas è corpo Olent tenella infantium corpora , dű vtero exiftunt
materno , maculis 0 pore extricare. Solenereexiftuntmaterno, quibusdam , næuis,
lituris , veruciſque , quæ à matris imaginatione fiunt, com maculari: hæcporrò
quali ſigilla impri muntur, &difficulter poft ortum elui poſluņi. Pro iis
delendis principatum habetCaryophyllata , cuius vis ,& po tétia in
huiuſmodi maculis extricandis, mirabilis iudicatur.Sumitur enim plan ta hæc cum
ſuis radicibus in fine menfis Maij, quo tempore virtus vigorofror eſt atque à
terreitate emundata , in alem bicco deftillatur , mox ex aqua ſtil lata
infantium lituræ maculæque Tæpius lauantur , abſque dubio, eua . Deſcunt.
Vrrica folia in lotio infirmi cuftodita , vitam , vel interitumpreſagire. Ira
equidem , ex abdito naturæ eſcrutinio , in vica,morteq; infirmi praſagienda,
vrticæ virtus ,&potentia eft . Si enim recensplanta extirpatur, ac
-24.horarum ſpatio ia ægri lotio aderua tur, vtiquefiviridis colore permanebit
ex multorum experimentis,falutem , & vitam infirmiſignificare dicitur:fin
auté haud A cantu haud viridis cuſtoditur,colorema; mura bit,mortem ,
velgrauepericulum deno tare, Ex Caftore Durante. Philomelam axem miro conſenſu
à viperade. pafci. Vis Philomela cx cantu dulciſsi mo omnibus cognita eft;
incogni tus autemeiusconfenſus eſt, quoà Vipe rà depaſci permittit:dum enim ſub
ar bore,in quacantans auis fuerit, viperam viderit paulatim ex illa defcendit
,&ad viperam accedit, vt illi fiteſca. Ex Thoma Tomai. Caftorem fià canibus
inuaditur, minimè te fticulos fibi amputare. Linius,Solinus, & grauiſsimorú
Scri ptorum multi,caftorem fibi teſticu . los amputare referunt, quoties venato
tes ipfum canibus aggrediuntur quafi confcius exiſtat,quod(ijs reciſis ) à mof
tis periculo ſit ereptus; fiquidem vena tores hæc infequuntur animalia , vt ex
his accipiant,quodad medicinam vſur patur.' Rci autem veritate hi om . nes grauiter
errant ; quippe caftor, Ppioru testiculi iuxta ſpinam inclufi funt, vt multis
ex anatome obferuatum . eſtiſte rum error ex velicis quibuſdam ortus eft, quæ
in vtroque, maſculo & fæmina, loco teſticulorum pendent, flauo plenæ
liquore ad medicinam vſurpatæ . Has vocant caſtereum aromatarii, teſticuii
autem minimè lunt. Quo atsficio miliciæ Duces , vt hoftes offen danti
gnemmiſsilem perniciofum -con ponere valeant. APeriam potentiſsimiigpis
miſsilis, fiue artificiari compoſitionem ,cuius potentia tanta eft , vt
eiusminimaItilla non modò hominem viuum , verùmat que ferrum comburere valeat.
Sumun turſandaracæ factitiæ lib. 1o. ſulphuris viui lib.4.oleiè rafa, fiue ex
adipealbur ni ftillari lib . 2. ſalinitrifib.j. thuris lib.j.camphoræ
vnc.6.vini ſublimati, fi ue aquævitæ optiinę vnc.14 .Omniahọc lento igne bene
mifceátur; deinde fupa obuoluta , atque accenſa in ollis , in ho ſtes
inijciuntur. Ignishic , infernalis di citur,tum ex eo ,quòd mirabilia agat; tū
N atque ex Paracelfi impij ceſtimonio, qui retulit fc à quodam Dæmone fuille
hunc ignem edocum . Demoſthmen lingua duritiem , quibuſdama Lapillis
confregiffe. DEmetrius Phalereusalloquutus.com, quomodo fibi curaſſet linguæ
impedi menta ſciſcitatus eft.Habebat enim ille linguam duram , & ſcabram , &proinde
adoratoriam exercitationem impoten. tiſsimam ). Sanatam refpondit atque la .
xatam fuiffe linguam raſpondit ex non nullis lapillisoreretentis, quibus loqui
conabatur.Cuius Demofthenis præfidi í um difficilem habentibus loquutionem
faluberrimum iudico , vtexpeditius fer mo citari valeat.Ex Plutarcho. Vinum
quoddam àferpentibus venenatum , pleroſque àdifficillimis morbisconfanaffe.
Trabilise{t hiltoria,quęáProlpe Milocro Alpino ,lib.4.de Medic.Method . de vino
à ſerpentibus venenato affertur In cella vinaria quidem ciuis Ferrariz inter alia,vinidolium
habebat, quod (i ne operculo diù apertum extiterat : - & proinde
compluresſerpentes,quos vul gus angues, & anzasappellant,ingreſsi in vinum
ſuffocati, & putrefa& i fuerát. Multiægroti ex febribuschronicis; atq;
difficillimis vexati morbis ignari,quod ſerpétes in eomortuielent, vinum à ci
ue emebant illud , quod guſtui gratum iudicabant, & breui fanati ſunt. Alij
ab huius viniſama ſuaui, cum paucos dies bibillent,itidem lanati funt , &
poft hos alijitidem eodem modo fere innumeri. Quare vinidominus tantæ vini
faculta tis admiratusvinum e dolio torum edu xit, & ferpétes complures ſemi
putridos inuenit,qui ré manifeſtá planè fecerunt. Veteres equorum lacrymas
inter auguria recepiſſe. Agnifaciebant veteres equorum Llachrymas, atq; ex ijs
auguriun vaniſsimumrecipiebant.Propterea ante Cæfaris mortem ad Rubiconemcqui
dedicati ab eo flebant,idquemagno au gurio excerptum eſt. Illorum autem N 2 inanitas,ſiue
ruditas vt ita loquar, mani feftiffima nobiseft :fiquidétépeftate no ftra
fæpius equos collachrymātes afpici mus , necperinde ex ijs alicui ſiniſtri quid
accidereobſeruamus. Vt ipſe non Semelexpertusfum , æftate potiſsimum equos
lachrymari conſpexi, idcirco vel illorum naturá efle,velmorbú iudicaui.
Crocimerallorum compofitio. Fferam Quercetani, Croci metal. Jorumcompoſitionem
, qui potens medicamentum tam vomitiuum , quàm purgatiuum fimul eſt, variisque
affecti bus accommodatum . Præparatur cum zquis partibus MagnefiæSaturninæ,
& Nitri inuicem mixtis, & inflammatis in quodã crucibulo vt vtar artis
vocabulis, & remanebit quædam materia calcina ta in colore Hepatis, quz
puluerizata, rubicunda apparet inſtarcroci Martis, quæque dulcoranda eft: Doris
-grana x. vel xij.cum vino ,aut ațio liquore. Hominis compoſitionis mirabilia .
Ntet mirabilia, quæin hominis com I pofitionecontingunt,illud quidem mirum
HORTVLVS GENIALIS. 293 mirum eft,quòd tali corporis fit colla tusproportione,vt
partes omnes pera . que toti cópofito correſpondeat. Licet auto in eius ftatuia
nec certa nec deter , minatareperiatur mēſura;ex hominibo enim
aliquibreues,aliquilongi ſunt;la pienus nihilominus perfectioré homi. nis
ſtaturam è ſex pedibus cóftareiudi cauerunt , vel quod ſaltem feptem non
trárcédar.Interproportiones voluit Vi truuius cubitum quartam partem totius
corporis exiftere; eandemſ;penſurat . eſſed capitis vertice , ad
pectorisinitisko Manus longitudo à cõiun &tione ad mee dijdigiti
extremūcorporisdecimapars : eft.Facies à capillorum radicibus ad ex® tremum
barbę,eade eſt menſura.Maior pollicis coiú & io,oris eftaltitudo.Tota
manustotius faciei menfura eft, Maior iudicisconiun &tio ,frontiset
altitudo, cilijs fcilicet ad capillorum radices ; cæ teræ autem iftius coniun
& iones , nafi longitudinem oftendunt:Hominisproe funditas, ſi ſub
brachiis, pe& ore , & hu merismeluratur,ftaturæ illiusmedietas : 3
reperi 292 BARICE I 1.1 inanitas,ſiue ruditas vt ita loquar,mani.
feftiffimanobiseft :fiquide tépeftate no ftrafæpius equos collachrymātes afpici
mus , necperindeex ijsalicui finiftri quidaccidere obſeruamus. Vt ipfe non
femelexpertus fum , æftatepotiſsimum equos lachrymari conſpexi, idcirco vel
illorum natura efle, velmorbú iudicaui. Crocimet allorumscompofitio. Fferam
Quercetani, Crocí metal. A medicamentum tam vomitiuum ,quàm -purgatiuum fimul eſt,
variisque affecti busaccommodatum . Præparatur cuin zquis partibus Magneſiæ
Saturninz, & Nitri inuicem mixtis, & inflammatis in quodá crucibulo vt
vtar artis vocabulis, & remanebit quædam materia calcina ta in colore
Hepatis,quz puluerizata, rubicundaapparetinftar croci Martis, quæque dulcoranda
eſt: Dofis -grana x . . vel xij.cum vino,aut alio liquore. Hominis
compofitionis mirabilia . I' poſitione contingunt, illud quidem mirum mirtim
eft,quod tali corporis fit colla tus proportione,vt partes omnes pera quetoti
copofito correfpondeat. Licet autē in eius ſtatura nec certa ,nec deter ,
minata reperiatur mēſura ;ex hominibe enim aliquibreues,aliquilongi ſunt; la
pienas nihilominus perfectiorë homi nisſtaturam è ſex pedibus cóftareiudi
cauerunt , vel quod faltem feptem non trárcédat.Inter proportiones voluitVi
truuius cubitum quartam partem totius corporis exiftere;eandemg;menfurami eſea
capitisvertice, ad gedorisinitiúko Manuslongitudo à cõiun & ionead mes
dijdigiti extrema corporis decimapars : eft.Facies à capillorum radicibus ad ex
tremum Barbę,eadé eſt menſura.Maior polliciscóiú & io,oris eftaltitudo.Tota
manustotius facieimenfura eft, Maior Indicisconiun &
io,frontisettaltitudo,a cilijs fcilicet ad capillorum radices; cæ teræ autem
iftius coniunctiones , naf longitudinem oftendunt:Hominisprop funditas, fifub
brachiis,pe & ore, & hu merisméluratur, ftaturæ illiusmedietas. 3 rreperitur.
Cæteræ partes cum aliistra. bentrationem ,vtſuperius tetigimus. Apedumnaturam
mirabilem effe. IN Neer terreftria animalia,Aſpidum ne , tura mirabilis
iudicatur. Ex his enim mas & fæmina infimul vitam agunt, ta . tula; amoris
affectus inter ambdsinge ritur, vtfi cafu illorum alter occiditur viuens
occiforem infequi , quouſque fo dj,necem vlciſcatur,hauddeſinat.Quod autem
mirabilius eft,ex Plinij, & Ifidori Teſtimonio , occulta proprietate occiío
on noicit,( talem ifs natura indidit ) igi quemIrruit, licet in quantovis
hominu agmine reperiatur. Præceptum ergoo . mnibus eflc velim ,vtocciſo iſtorum
ani malium quopiã,celeri fugaiter occiſor arripiat,ne à compare animali veneno
fiſsimoinfeftetur, Leporesomneshaudeffe bermaphroditos ,con traVeterum
opinionem . Mneslepores vtriufq; lcxusexiſte re voluerunt Veteres, quod &
M. Varro ctiam tradidit. Error tamen eſt, vt diuturna docuit experientia, quama
feulos fculos à fæminis lexu eſſe diſcreros cognitum cft. Porrò tantorum
inſcitia, abhoc, vt reor,ortaeft, quia in leporum genere lępius, quàm in aliis
animantibus hermaphroditos reperimus : inde Hee brei naturæ arcana
intimiùsſubodors tes, leporéfæminino vocabulo léper ex planarunt,ARNEBETH , eò
quòd in iis foemineusſexuspræualet magis.Rej ve ritate noomncs
hermaphroditiſunt ,vt ex peritiſsimis venatoribus audiui; exic & ione
multorum cognoui,ficut.com iam Bodinus edoctus fuit ,vtivrhluth confitetur.
Equidem Hermaphrodig plurimi funt,fedfæcunditatem fervita . rumminimè
recinéignecmares vnquam vtero gerunt, necminus fuperfætant. Mirabilen eße
Imaginationis po tentiam n vtero gerentibus imaginationis po tentia apertè
cognoſcitur.Si enim illæ inter virorum amplexus, & fuauia,ali quid intensè
cogitauerint, facilè in in .. fántium corporisexternis partibus imax ginata
imprimunt. Hinc variæ rerum formar Ire N forme ,næui,lituræ , verrucæ , & alia figa
na in infantibus impreſſa conlpicimus, Lingmultæ ex leporum obeutu fætuse- ,
dunt ſciſſolabello,aliæ fimis naribus,ore diftorto , vultumonftruofo ,labris
turpè prominentibus,corporedifformi,ocu- , liſq; horrendis infantes genérant :
quia conceptus , vel grauidationis tempore, turpia,monſtruoſa,& horribilia
fixa co gitatione excogitarunt-Fæminisidcirce, præſertim
nuptis,pulchrasimaginesda mihaberecófulerem ,atq;à turpibus av effe ,ne pręuia
imaginatione fætus mó. Atruoſos, turpefá; concipiant. Veteres, Climaftericos
annos admodum ti muiffe . 1 A mationis apud Aſtronomos exi ſtunt &re vera
videtur in quolibet anni feptenario quædam hominis mutation deò quod , ficuti
in morbis dies criticos timemus,ita in vita hominum annosClin mactericos,qui à
multis ſcalares dicun tui, quòd gradatim eueniant.Sunthi an ni,
7.14.21.28.35.42.49.56.63.70.77.81 91.Inte hos annos 49.63. magis periculosos
credunt; quiaconſtant è feptenario , duplici, &nouenario complicato,obfero
uatumq; àgrauibus auctoribusreperio , maioremhominum partem io anno 63.
moricontingere.Idcirco hos veteres ada modumpertinebant,& , vt capiturin
Gellio lib . Auguftus itaſcripfit ad Ça ium nepotem :Spero te lætum , &bene
uolum celebraffe , quartum & fexagefi mumannum natalem meum :nam ,vt vi
des,Elimactericum communem fenio rum omnium , tertium & 'fexageſimum annum
euafimus. Dehis tractatum edi dit Iofephus de Roſsi à Sulmona vtilem
&jucundum . fMundiprimordiisinter homines, es ferpema tes
antiparhiaminfurrexiffe. IRRreconciliabile odium eft, quod inter homines,&
ferpérescadit,adeò, quòd expauefcit homo fi ferpentem inuenit, antvidet;magis
autem fæmina : fiquidé obſeruatum audio gravidam mulierem ( vifo ferpéte )præ
timore abortire.Hu . ius difcordia illa ratio potiſsima eft
quodàmundiprimordijs ínterkanc, & QUnca Semuan -illum Gt ſtatuta
inimicitia, & irreparaa bile odium , quo altera-, alteram fpecia em
inſequatur. Carolum V I. Francorum Regem , Ceruum 4 latumpro infigniprimò
habuiße. Iluanettum Rex Carolus venandi cauſa fe contulerat , canum latratibus
excitatusin fugam Ceruus, æneam tore. quem collogerere viſuseſt, quem vena
bulis,aut ferro appeti Rex prohibens,in calles, & retia compellit.Erarin
torque latinis litteris infcriptum :HocmeCçſar donauit. Exeotempore Caroluserua
alatum pro inſigni habuit ; &alii,regibus inſignijs ( quęlilijsaurcis tribus
conftát) circa latera, Ceruos duos apponere con fueuerunt. Gaguilis in vita
Carol . V I. HANC. Reg . Insaanimantia confenfum , &difcas diane ineffe.
Vllidubium inter animantia fym pathiam , & antipathiam efle inter trpiantes
ſubditur: fiquidem muſtelam miro eiulatu in bufonis os deuorandam
inueherelegimus; & bufonern in ferpen Npathi Lisa I tis,botræ vocati, os
ingredi.Inſuperci cutam , fturno eſle cibum ; homini vero venenum in dies
obſeruamus: atqueveo Fatrum cotumices nutrire , hominem autem lædere non eft ambiguum
. Senaterem quendam , exconiuge liberos ſur dos, &mutosfufcepiffe omnes.
nature . omnesex , &mutos ſuſcipi,itaequidem à Fernelio obferuatum eft in
quodā Senatore.Cre didit Ambianus huius reiobfcuram , & cæcam eſſe rationem
, mihi autem altera fubeft, quæa Phyficis minimè differt: fi quidem auditio
grauis , atque ſurditas quæ à natalibus viſa fit à conformatio nis vitio
exoriens , hæreditarios mor bosgenerare creditur, & perinde libe ros,
exhuiuſmodivitioſis,ſurdos, &muin tos excitari:fæpè autem non in filiis,ſed
! in nepotibus hæclues oriri videtur. Apud Garamantes. mirabilem fonterros
obferuari, Dmiranda profe& ò, eft fontis il.com ARJiusproprietas, quiin
oppido Der 1 bris apud Garamantes reperitur. Hices nim die friget, no&c
verò æftuat; adeò quòd memoratu incredibile videtur, quomodoin tambreui
temporis fpatio tantam natura ſui faciat varietatem . Equidem , quinoéte fontem
afpicit , ibi flammasignefqueæternos exiſtere cres dit :quiautem die hyemales
ſpectat: fca. tebras, vtique fontem perpetuò rigere exiſtimat. Propterea Debris
apud mudi nationes inclyta eſt : eius enim aqua qualitatem excæleſti
vertigine,mutare confpiciuntur.Ex Solino. Quo artificio Caminus per ſuperiorem
"api cem ſolum fumum emittere valeat. N Caminorum fru & ura ,.non modi
aim tufferimus laboris , ne ignis fi molimtesin nos ipfos erumpant: fiqu. dem
in ventorum mutationc facile fit, vt fumi quandoque potius defcendant;
quàmadapicem aſcendant : ventorum enimvisillos deprimit , deſcenderequc
percaminum cogit. Egotale ad fumi ferlum impulfionem excogitaui artif . simm
.Struktur Caminus, cuiusfuperius fafti . zor faftigiu rotundú fit ,ibique
foramen la pidibus fi &tilibus conſtructum fit : mox ahenum inſtar tympani
ex-ære, in cuius latere feneſtella extracta ſit, fuper lapi des affigito:
ftylifớ ferreisfubcingito; ita tamen ,ve intus vagari, mouerique
commodèpoſsitapta demum fuper fer reos ftylos , & lebeten?' ex ære infuper
vexillum,quod feneftellam fubiec dia recto habeat,taliq ;induſtria ,vtin quo
libet vexilli motu, moueatur , & calda riumin gyrum ,ita profe & ò è
feneſtella , ventis oppofita,fumuserumpet, & non deſcendet.Pleriq;, vt
fpero, huit noftro fcruinio ,ineliorem addent Atructuram . meamque opinionem
noníſpernent. Adconftruendum celerrime Horologium muncrabile in paritte. Ncoritruendis,
pingendiſque ſolari , bus Horvlogiis, non modo lintā me ridianam ,opuseft
imienire, vthorarum tempus fidele reperiamus, rerum atque Ortum , & Occalum
, Borcam , &All ftrum cum Aquinoctia, & Solftitia: in is.n.
Solarismotusquarnaxime variat. N 7 Ego quidem , vt labores fugiamus, tale
excogitaui artificium .Globum planum . extabula lignea formato in cuius medio
ftylus ferreus ſitus fit;diuidito mox glo. bum lineis,ex centro ad extremum du
cendo illius in 24,portiones, demumin globiapice horas ſignato , &vltimo in
patiete contra Solis radios affigito. Vt auté ex Solaribus vmbris diei , horas
ve nari poſsis,Horologium portatile afpici. conglobumý; ad horam illam accommo.
dato :ita profectò ,abfq;alio auxilio , ce ferrimèHorologiumvmbratile in pari cre
habebis.In Aequinoctijs, & Solftitijs 1 eodem portatilis Horologijauxilio
,fa. cillimè ad horarum æqualitatem globů reducere poterimus. Infancium pir
uitam , è capitefluerem , quo artificio Chartaginenſes fiftere procurandTing,
Xinfantium pituita , in capiteredú . dante,plerique fuecedunt morbi in . ter
alios , morbus comitialis exoritur, qui à multis puerilis vocatur, quòd ijs,ve
plurinum ,eueniat .. Vt autem infantes ab huiuſmodi pręſèruarent Pæni, illorú
vedas capitis lana ſuecida inurere ,pitu. itainý; fuentem hoc præfidio compefa
cere conſueuerunt. Athiopes infantes te ditos,ab ipſo quoq; natali die ,in
fronte adurút,ita profe & ò tumcapitis, tumo culorü humorfiftitur. Apud
Inſubress. ex teſtimonio Mercurialis, & pleroſque populos,veícribit Scipio
Mercurius ,l ditos infantes fetonein collo muniunt, quod falutáre experti funt
aduerſus mor . bos,qui à capite Huunt, Inmise rasis pluuie,quapotiora
ixdiceniny præfagia. pluuiam imminentem ,tum ex Gallo rum cantu
intempeſtiuo,tum ex fre quenti cornicis crocitarione multi præ dicunt.Hisautem
addendum puto muf cas( ca imminente)pulice's , pleraqzani malcula à furore
vexari, intentula;mer il dere :hæc enini à vaporum inaerem ctc . rationc à
radijs falar bus perturbantur. Infuper ( pluuia imminente )odoris fra . grátia
in floribus sétitur;apes ad alueária - sedcut;bufones, vermeſi;èterraakédut 304
BARICELLI Brina vifa eft per dies præcedentes; catti manibus caput, quafi
linientes , compri munt; ouescapitacommotient:afini hu miles habent aures;
ftercora fumát, ma legue olent.Horum omniumratio , va poresàSole
exhumidisfublatifunt:pro. inde animalia,cerebra humida habentia, nonnulla magis
extorquentur. Vinum à Verrribus fuiffe mulieribus inter di& um . Agna
fuitVeterum à vinivfuab . Itinentia :illudautem adeò muli. eribus erat interdi
& um ,vtcapitale iudi. cium inirct,quæ vinum biberet. Porrò inoleuit
confuetudo,vtcognati, & affi. mes, mulieres ofcularentur, ore explo rantes
, an ex vinum bibiffent. Idem ve fusMafsilienfibus, Mileliis , pluribus ;
Græcorum , &Barbarorum gentibusin ,. valuit, apud quos muliereshydropota ,
& viri erant abftemiz: Intermemoran da illor um temporum ,EgnatiusMetel
fus, vxorem , quod vinum biberet,fufte necafe dicitur. Quo artifii io è plumbo
Antimonii flores ex Habere paleamase Ape nij, fiue Stibinon femel extrahere
Periam artem,qua flores Antimo à plumbo valui, quo præſidioin multis corporis
affe & ionibus feliciſsimo euétu voor.Capito Plumbicampanam , è qua
aromatarij rofarum aquam ftillatitiam extrahunt; hæc habet æris fundum : tu verò
txargilla eligito ,quodacerrimoa etto fupra medietatem implendum con fuilo
,eaq; induſtria ,qua rofæ ftillantur, in aceti deftillatione carbonibus bene
ignitisagendum cít:caue tamen , ne totus fillet acetum , ne aqua extracta
vftioné fentiat.Hæcaqua auri colore eft, fapore xerò facchari, & mellis;
mirabilis tamen tum in potu , tum extrinfecè vfurpata , ob ftib j flores ex
plumbo extre & os. vomitu , & aluo purgat, ob id frigidis affectionibus
,obſtructionibusý; vtiliſ. fima' : In vlceribus putridis , fætidis acoribus,
ſcabie, herpere exedente , & aliis huiuſmodi,maximi eſt valoris.Doe ſis in
potu ſît vnc.ij. Deforisad placitū. Clarorum virorum exitum aliquot inte felicem
fuiffe Aniene fluuio Aeneas poft tot vi. & orias, torque clara facinora
periiffe dicitur: nec diſsimilisRomulo , Cæfari, Alexandro,Annibali ,Scipioni,
Iugur thæ ,Mithridati , atque alijs innumeris mors ſucceſsit :per quàm n. pauci
viriex iis, qui clari,atque illuſtres tum virturi bus, tum fortuna habiti funt,
quos non infælix exitus,tanq : á pro exemolo ,fós offentäuérit porterial text
caligero. Defipientiam , mulierum natuefamiliarem indicati. MVlieres vtero
gerèntes,fiàphrenia tide capiuntur,Galeni teftimonio , rarò confanefcere
legimus , vt fcribit tamen Cælius Aur.femper minus graui ter,minuſquc
periculosè, quam viri,mu lieres ægrotant.Hoc autem , vt Merci. sialis
opinatur,ab alia ratione continge re non poteft, quam ab ipfarum natura, cuius
familiarius eft defipere,quam viri. Mirabile Annibalis, contra Romanos nauala
fratagemia. Nfolita ,& mirabilis Annibalis milita Eisafutia contra Romanos
iudicarur: hic enim bello naturali cum iis dimica . curus, cum impares vires
habere anim aduerteret,rale ſtratagema inuenit. Ser pentibus,
quorumvenenumconfeftim enecat,pleraſq;ollas impleuit,opertasq ; repente in
hoftes iaculatus cít, quorum ictibus plurimi cecidere.Hifceftratage matibus vir
hic tanquam alter ſerperis, multoties hoftium manus effugere con fucuit.Ex
Gdenoin lib.de tbet.Akrijon Ambarum cum vino alicui exbibitum , cena
feftiminducere ebrietaisn . Mbarum , quod à vulgo Ambrageye ſea
vocatur,fomiſsisatiopam falfos opinionib & bituminofis fontibus,qui in
maris profunditate exiftunt, oritur, Hocautem primòliquidum eft ,cùm ve rò
aquarum impetu ſurfum rapitur , ex aerisfrigiditatecondenſatur , & Amban
rum fir:Siquidem in maris concauo, ple raq; mollia,teneraque obfèruantur, &
interalia Coralliú , quod ex aqua exea ptum , citiſsimè lapideſeit. In Ambaro
illud mirabileiudicatur, quod ab alique antequam vinum hauriat,odoratum , ina
sttar ebrii eladat : cum vinoa, propina tū ,confeſtim notabiléinducere ebrieta
tem multis experimentis eft comproba. tum. Ex Simeone Sethi Greco auctore.
oleam Lathyris Tympaniam , Colicas , affe& iones mirabiliter ſanare.
Irabile quidem ,quod è Cataputię -ſeminibus extrahitur, oleum eft , quippein
expellendismorbis,qui à filao tu luccile;frigidis oriuntur, principem habet
locum.Contundantur huius ſemi na, atq; in aquatam diùebulliant,vt ex cocta
videantur;mox oleum in aqua fu pernatans cochleari colligendúeft. Mos eft apudIndos
tale oleum cómodius per decoctionem, quàm expreſsionem cola
ligere.Vfurpaturhocfeliciſsimofuccef. fuin Tympania ,colicis, iliaciſq;dolori .
bus,ftomachiaffe & ione,aurium furdita te,atq, in iis morbis,qui à ſuccis
frigidis, fatua;fiunt. Huius gutta aliquo lique re in potu ſumpta aquam
citrinam euan euat,in articulorumq; doloribus pitui tam , humoreſque frigidos.
Extrinfecè vfurpatur in omni Hydropis ſpecie : vbi HORTVLVS GENIALIS 309 vbi
tamen flatuofitas viget , maximam in expellenda proprietatem habere vi detur.
Ex Don Garzia ab Horto. Verenum à diſsimili extingui; à fimili vero angeri.
Hocpropriumelle veneni,àfapien Lrioribus proditur, à diſsimili ex. tingui,
& a ſimili augeri, & robuſtius fi erizea propter non femel à perfidisho
minibus exhibita venena nullius valo risfuifleobſeruatum eft,cùmeadiſsimi
libusfuerint fociata. Aconitú , & Napel lus miram retinent vim necandi, com
pefcitur accamen corum potentia à ve neno diſsimili, ex quorum diſsimilitu
dine,vtriuſq;vis hebetatur.Mira eftAu. fonii hiſtoria de vxore mæcha, quzma
rito venenum propinauerat, vt a. illud robuftius effet, Hydrargyrum miſcuit ex
quo toxici virtusdempta eft , & vir immunis euafit. Hoc epigrammate ille
monftrat; Texica Zelotypadedit vxor mecha marito, Necfatis ad mortem , credidit
effe datum : Miſcuit HA Mifcuit agente
lethaliapandera viui, Cogeret vt celerem visgemindanecem . Digid at ber fiquis
faciunt difiseta venenü; Ansideram fumet,quiſociala bibet. Ergo inter fefe dum
noxia pocula cortant, Cele lethalisnoxafalurifora Protinus,Go Vacuos duipetiêre
receffiua, Lubrica deie& is,quaria nota cibis. Quanpia cura Deumprodeft
crudelier vxor, Elçüm fata voluns,bina venena juuans. Cornelij Celfy de
valetudine fanorum bomsi num conferuandatutißimapræcepta . Nter
grauiſsimosmedicos,& fcripto res,nemo eft,qui in conſeruáda fano rum hominú
fanitate oculatior exiſtat. Afferă ciusverba ', ytfaluberrima iſtius præcepta
rectius intelligantur.Sanus ho mo,qui,&bene valet, & ſuæ (pontis eft,
nullis obligare fe legibusdebet , ac neq; medico,ncq; dcalipta egere.Húcoportet
varium habere vitæ genus , modo ruri eſſe,modòin vrbe,fæpiuſý; in agro : na
uigare, venari,quiefcere interdum : fed frequentius fe exercere.Siquidé ignauia
corpus hebetat labor firmat; illa matură lepc ſenectute,hic longăadoleſcentiá reddir.
Prodefteciâincerdúbalnco interdú ,aquis frigidisyti;modòvngi,modòipsú negli
gere:nullú cibigenus fugere,quopopu. lus-vtatur:interdú in cóuiuio eſie, inter.
dum ab eo ſe retrahere:modò plus iufto, modò no ampliusaffumere:bis die poti us
quàm femel cibú capere , & fèper quá plurimum ,dummodo hunc concoquat. Secl
vt huiusgenerisexercitationes cibi queneceſſarij ſunt;ficathletici, ſuperua.
cui. Nam , & intermiſſus propter ciui. les aliquas neceſsitates ordo
exercitati. onis,corpusaffligit, & ea corpora , quæ more eorum repleta
funt,celerrimè , & fenelcunt, & ægrotant. Hæc firmis ſer : uapda fune
,cauendumquene inſecunda valecudine , aduerfæ præſidia cenſum mantur.Ex lib.i.
Socrati à familiariDeironcde Plasonis indole Somnium fuiffe immiſſum. Solene
quandoq;malifpiritus homi nibus fomnia ingerere futurarum re rú , vel Dei
permiflione, vel vt nos ipfos dedecipiant. Hinc Socratem legimus, vidiffe per
ſomnium ,oloris pullum ſibi in gremio plumefcere , qui continuò exorcispennis
& expanfisalis, in altum aduolans , fua tiſsimos cantus edebat. Poftridie
Pla tone adducto, hic eft ( inquit ) Cygnus, quem ego præterita nocte cam
fuauiter canentem fomno videram . Hocfomnium , ve fcribit Henricus de Aſsia , à
fpirira fa. I miliari , ſub forma Cygni, quem Athe nienſesVeneri dicarunt ,
fuit immiſsum Socrati, vt Platonem in diſciplinam re ceperit ' , à quo , quum
ipſe uilil ſcrie ptum reliquerit , dulciſsimi ipfius & Caluberrimai
fermones proderentur, Magia ſeu inc antatianis ris . Onmeras eſſe præftigias,
quæ magica ? arte efficiuntur ; multis exemplis notum eft , fed vno in primis ,
quod deſcribere vifum eft. Rufticus quidam magnis doloribus ventriculi vexaba
tur :: quos etfi variis, medicameutis depellere cogar zur illi tamen non 1 ceffarunt
, fed potius in dies recrudeſcere vifi funt. Quare agricola doloruin impati ens
, cultello ſibi guttur abfcidit. Dum au tem tertio die mortuus ad fepulchrum ef
ferretur, à duobus chirurgisin magna ho. minum frequentia, illius ventriculus
iraci. fus eſt. In ee ( res mira , & prodigiofa ) lignum teres, &
oblongum ,quatuor excha. lybe cultri , partim acuti , partim ferræ in . ftar
dentari, ac duo ferramenta aſpera re . perta fuerunt:quorum fingulaſpithamęlos
gitudinem excedebant. Aderat, &capillo. rum inuolucrum globi inftar. Credibileen
fanè, hęcin ventriculi cauitate congeſta fu iffe, non alia arte, quàm Dæmonis
aftu ,& dolo. Quo artificio epiftolam , in ouo celatam alicui afcribere
valeamus Nter ſcripturarum furtiuarum arcana non infinum locum tenere exiftimo
, in ouo epiftolam celare , atq; amico ſcribere, Videbis enim oui putamen
illæſum , mun . dung; illo tamen exempto, difruptos; cha paeteres apparebunt.
Aperiam ſecretum . S ? Atramento, ex gallis, alumine &aceto con. fecto , in
ouicortice literas ſignabis, votum pffequeris. Has oportet in Sole calente ex
ccare , mox ouum in muria concoquere ita enim à cortice characteres euaneſcune,
& ad interna gradiuntur:ſiquidem putami. ne exempto, notæ oui durato
albumine in ueniunturEx.Carolo Stephano. In aquafrigida captanda maximum
veterum fuiffeftudium . Aximam antiqui curam adhibebát, vt aquam frigidam pro
ætatis in. cendio temperando conferuarent: quareex niuibus eam parabant , vt
Athenæusretulit . Dequa re perbellè loquebacur Seneca , & panas montium in
voluptates transferunt, Alexandrini aquam Soletepentem , in fene ftris ad
ventorum incurfus exponebant , vt poctu frigeſceret;manè autem inte Solis or
ruin hani ponebant , folijſque lactucæ , ac que pampinis iniectis frigidam
tuebantur. HocGalen.parrat.6 . Epidemior. Plasarchu: 6.Sympus cotibus &
filicibus aquæ inietti hoc fieri fcripfit. Neronis autem in re har ftudium
nobiliſsimum fuiffe proditur: ise genim , vtninis voluptate, ablque njuisia
iniuria fruererur , feruentem aquam vitro immifiam in niues refrige
jarimandabat:Ex Heur nie. Ecua Fæminas in prima menftruorum eruptione in
Venerem maximè incitari. e Erunpune,fceminis bera exurgunt:Pana guis
ille,inftar occifi animalis videtur, atq ; in maiori copia erumpit , cùm vbera
ad du os digitos prominent, que tempore puella rum vocem in grauiorem mutari
confpici. mus, Illud autem maximè adnotandum eft , in prima menſtruorum
eruptione puellas in pudendis,valida tentigine, prurituque core ripi,ex quo ad
Venerem incitantur : quare per tempus illud cautè cuſtodiri exiſtimo. Ex
Arift.7.de Hift.anim . Qua induſtria Aegypti lapides à vefica,abfiga incifione
extrahant. Irabile quidem eſt Aegyptiorum ftudium in extrahendo lapide à ve
fica abſque inciſione, quando noftrates me dici, lapidarij ſine illa
facerenequeant , idque cum magno languentium vicę periculo. Hiligneam cannulam
accipiunt , octo di . gitorum longitudine, & digiti pollicis latia tudine
in opere abfoluendo. Hanc colisca nali admouent, fortiterque infufflant;neau .
tem flatus ad interioraperueniat , extre . mū pudendimánu altera perftringunt ,
fo . samen deinde cannulæ claudunt , vt virga 0 % cabang M N eagalisiotumeſcat,
latiorq ; fiar. Quo facto miniſter digitoin ano pofito, lapidem pau Jatim ad
canalem virgæ, atq; in eius vasex tremun deducit. Quivbipræputio lapidem
appropinquare ſentit,cannulam à virgæ ca nali fortiter, impetug; amouet, &
lapis ex . trahitur. Ex Alpino. Mult a praſidia ab animalibus, bomines
accepiffe. On pauca equidem præſidia funt, quæ ad hominum tutelam ab animalibus
accepta ſunt. Chelidoniæenim virtutein ad oculorum morbos ab Hirundine accepi .
mus, quæ hanc conquirit herbam ,vt furorú filiorum oculos, vel vitiatos,
vel.cæcos cu rer, Fæoiculi virtutem ad eandep tutelam ab'anguibus didicimus, Ab
Ibide, quæ in ftar Ciconię auis eft, clyftris vſum habui mus: nam & illa
roftre marinamaquam al lumere folet, illoſ; pro clyfteri vtitur, vt ventrem
nimis onuftum exonerare valeat. Inſuper marinus equus, Hyppopot mus di etus,
venarum fectionein nos docuit: illef . quidem mala oppreffus -valetudine, ad re
center fuccifas arundines graditur , acutio . riſ ;cuſpidefanguinem è cryrjuin
venis adi mit. Quod autem in hocmirabile eft, vela guinem cohibeat, in fimo,
vel cono volutatur , & ica vitam tuetur, & fanguinem fim ftit. Ex
Plinio, alis. Equorum teft :cilos ad ſecundas depellendas miram babere pirt
utern . Ingularis profecto Equi teſticulorum ad nulierum fecundasdepellendas
eft pro prietas, adeò, quod teftatur Genſerus in e pift. Rufticum quendam ,
quinquaginta in puerperis feliciter hoc vſum fuiſſe reme dio . Vfus eit &
Horatius Augerius in plu. ribus mirabili euentu: præſtantiſsimuin id circo à
grauibus auctoribus indicatur re ne diun),nam , & pluribusiam deploratis
pro fuit.Capiunturteſticuli equ: caftrati ,& tria ftillatim conciſi in
forno exiccantur, quorü puluis quantum capitur tribusdigitis è jure bibendas
datur in neceſsitate; idé; fi opus eit, bis, auc ter reperitur. Humanam faliuam
Scorpiones interimere. Ominum faliua Scorpionibus infe ttiſsimum venenum eít,
adeò quòd ca tacti confeftim intereanc . Porrò ijs, ſaliua fora ſubſtancia
aduerfaelt, ve Galenus lib.io fimp, medic. experimento confeffus eft; ist . nim
à fola faliua morientem vidit Scorpio. nem, id ; celeriter patientem à faliua
elue riencium , aut fit jentium ; tard autem ab 3 illis,qui cibo, potuque
fuerant impleti,ina. liis autem proportione, Apium riſus,bominesridendo
interfi. cere. Scelerata eft herba quæ Apiamrifusdicia cur, quod ridendo
homines interficiar: fi quis enim gnftauerit ieiunus vtique ridendo
exanimabitur, vt Apuleiusteftatus eft : Ex hacillud adagium ortum habuit
:Sardonius siſus; nam & Sardonia eriam vocatur.Porrò on ex rifu , qui hác
guftauerint, moriuntur fed potius ,vt placet Saluſtio neruos labio rum , &
orismuſculosillius, qui eam come dit, contrahere facit,adeò , vtridendo mori
videatur. Qua induſtria Partbi, Scytheque Sagittarum aciem venenajunt:
AR'thorum , Scytarumque toxicum , quo fagicrarum acies inungi folebant , humano
fanguine, & viperinaſanie confta bat , tantæquc feritatis erat hoc venenum
, ve leui tactu animal interimerer , Equidem Scythæ viperas recenter enixas
venantur , eaſque diesal.quoccontabelcere finunt, do necip fapien putre.cane,
mox com visus hominis fanguine in ollam effuſo , eam ex quifite coopertam ;
fimoque obrutam com putrefcere finunt , cuius demum .1 . ick or fan . PAT fanguini
ſupernatans, fiue ferum cuni vipe rarum faniecommixtum lethale Scytharum
toxicum eft. Ex Arift. Plinio, & Langio. Succinumpterogerentibus exbibitum
, mire partum accelerare. Mvicis experimentis comprobariaudio ſuccinum
parturientibus drach. ſemis pondere ex vipo albo potui dátum, mirè par tuin
accelerare. Hoc eriam facit eius oleum , fi gutta tantum ex aqua verbenæ
parturienti propinatur.Quidātamen medicusHetrufcus (Fallopii teftimonio
)exhibebatfcrup.i.bora• cis in decoctomatricariæ , velfabinæ diffolu tæ
difficulter parientib.mirag; faciebat: bre ui enim temporis fpatio feetus,vel
viuus,vel mortuns egrediebatur. Habebat ille medi euis pro arcano
præftantiſsimum hoc auxili um tamen neſcio quomodo postea fuerit de fetum . Ex
Andernaco Serpentum oua genituramí per imprudētiam in petu haufta,ſerpentesin
corpe ribus procreare: Dmiranda fuccedunt quandoq; fym dem imprudenter cum ea
femina , vel ova ſerpentú hauriuntur, è quibus moxſerpentes generantur.
Genſerus in lib 2. hift animal cap, de Ranis Rubetis, bufones in ventriculis in
reftinifq; hominum haufta eorum genitura, fieri, &nutriri probauit. Iacobus
Manlius, in lib.experim.in cuiuſdam equitis, exhau * Ita cuiufdam lacunæ aqua,
vbi erantſemina Serpentum , in ventriculo plures angues fu . iflegenicos prodidit:
quibus per internalla extractis, medicorum auxiliis, fanus factus eft. Leuinus
Lemnius Vermiculos cauda tos , atg; infolita forma beſtiolas vomitu ciectas
nouit. In nonnullis lacertas à phar . maco fuifle eductas obferuatum eft, vt
Gé. maCoſmocrit vidit. Quare maxima in a quæ potu hominibus opus eſt
animaduerfi . one huiufinodi exhanftis, pernicies corpo . Tis conſequatur. In
deſperato coli dolore Hydrargyruin, v4. glandem plumbeamexbibitam , multos
confanaffe. Irabile videtur, Hydrargyrum ,quod à mulis venenum reputatur, in
der. peraro coli'dolore exhibitum , plurimun prodell:. Equidem Marianus Sanctus
, ex multorum confilio , qui ab hoc lethali mor bo fanati fint, fuadet, fi
obstructio perfeue rauerit, & fæces per os extrudantur , hau fire cum aqua
fola argenti viui libras tres, Probat hic exratione vinetuin feu duplicatű
inteltinum Hydrargyri pondere explicari, fæces detrudi,vermelý; fi ibi fuerint
interi . mi , &ægrum liberari . Haud ab hoc difsi mili auxilio quidam
nobilis , poft alia ten tata ad morbi huiuſinodi acerbita tem ma . chinamenta,
liberatus eft. Hic hauftis olei amygdalarum dulcium fine igne extraćti vnc.
iij.cum vino albo, &aqua parietariæ mixcis, mox deuorata glande pluoibea ar
gento viuo illita , planè à colico cruciatit euafit, illamque exano
abſquelaborerede didjt. Ex Pareo lib. 16. Infæniculorumfeminibus, vim quando
que exitialem deliteſcere. Grauibus ſcriptoribus comprobatur, ſerpentes
fæniculorum elu , &fene ctam exuere,&oculorum aciem rnonare. Hinc iis
affricantur oculi anguium, vt vo . tum affequantur, Ex attritu foeniculorum
feminibus, praya quædam imprimitur qua litas, è qua venenati producuntur vermi.
culi,quorum eſu multi in peſsima deuene . runt ſymptomata, &ab alexiteriis
rarò ad iusj funt, tanta huius veneni potentia eft. Quare foeniculorum
ymbelli,antequam co. medantur, aperiantur, & diligenter concu, tjantur, vtå
vermibus emundentur. Præ, OS Habis A A ſtabit al quantifper in frigida
macerare. Ex Balthajaro Pifanello, Noua admirandag; prafidia, ad Ang i nam ,
gutturules apoflemata. Fferanı fingularia auxilia, è quibus ex grauiſsimis
fcriptoribus, ad anginam & gutturis apoſtemata mirabilia contigiffe
proditur.Lignum hederæ ad gutturis apoſte . mata à proprietate valere fcribit
Ioannes Marquardus: quippe obſeruatum eft , come dentem excochlearihederæ
ligneo, fiue bi. bencem in aliquo ipfius vafe ligneo, num quam, vel raro in
gutturis , vel vuulæ apo . temaińcurrere, Rubeta cocta , &pro em
plaftroSynachicis impoſita,cófefim liberat. Vermes.quandog, in cordis capſula
pro creari , è quibus mors ſubitanea pleriſqueexoritur. Abulofum haud eft,
vermes in cordege : nerari. Hoc enim Melues docet , Holle rius, Marth . Cornax
, Alexius Pedemonta . nus, & alij loan , Hebenftrit, in lib . de Pette,
Principem quendam ex morbi fæuitia peri iffe narrar, cuius cadauere diffecto ,
vermis albus præacito roſtello , eoq; corneo præ. ditus, cordi adhęreſcere
deprehenfus eft . Exmedicis, ſucco alii feram hanc, tanquain ex indubitato
remedio, interimi probatü eft . Petrus Sphererius ( vt ScheukinsBarratti lem fiorentinum morte fubitanea correpti, atq;
diſſecatum obferuauit, in cuius cordis caplula vermis viuus repertus fuit.
Aiunt multi certiſsimo experimenco-ficco allii,ra phani , & nafturtii hos
vermes pecari, qui, ex teſtimonio Pedemontani, in corde deli teſcentes,ſyncopim
, Epilepfian , & mortem inferre folent. Mares pleroſque in mamillis,
mulierum instar, lac producere. Icet marium mamillæ fpiffa carne in fuiffe
productum obferuatum eft. Nouit hoc Arift. vtlib . 1. dehiſt. animal. docuit.
Veſali us non femel id confpexiffe in 1: 4. 15. Anat. commemorat, &
Hieronymus Eugubius in libell, de lacte: fic & Cardanus,lib. 1. de Sub til.
qui ianuæ vidit Antonium Denzium , è cuius mamillis lactis tantum profluebat ,
vt infantem fernè lactàre potuiffet. At hifto ria, quæ affertur ab Alex.
Benedicto mira. bilis eft : aitenim , Syrum quendam ,mortua coniuge, è qua
infans ſupererar, ybera filio admouiffe, ècuius ſuctu tanta lactiscopia i
pupillam manauit, vt exinde loco matris nn trire valuerit. Ego quidem in duobus
filiis meis, in primis diebus à partu obferuaui, ab obftetrice.mamillas
cofrectatas, lacimpulſo (magno multorum ftupore) emififfe: idậ; in aliis etiam
infantibus contpexi, Lumbricosquandoque tantaprocreari pi Tulentia , vt
interior a corporis perfurare valeant. Nfanda equidé fymptomata à vermibus
aliquando proueniunt: refert enim Om bibonus, lib. 4. de morb. infant.
Lumbricos ex vmbilico cuiuſdam erupiffe. Tralliani teſtimonio habemus, hæc
animalia ob ali menti inopiam inteftina laceraffe , fuiffe ob ſeruatum . Id
etiam ab Aegineta confirma tur : jofuper Hollerius confpexit , vermes per
inguina, & vmbilicum prorupifle. Ma . gna igitur cura opus eſt in horum
redua dantia, ne interioracorporis valeant lace fare , A Infamis vmbilicam ,
& Ceruinumpenem mirabiliter conceptumfacere. Lexander Benedictus, 1.30. de
curand. morbis,vmbilicü infantis, qui fponte caditquoquo , modo in ciboſumprú,
fiigno rauerit mulier,adconceptum facere , pro . didit;illumg; in brachialibus
à muliere ge ftacuin conceptum inhibere eredir. Cerui. aum inſuper penena
aridum , & in fari . namredactum , oboli pondere, à coitu forminis datum ;
procul dubio ad concipien . dum prodeffe experimento probat, Baueri. us tamen
conf: 50.vterum ceruinum fingu lari dote ad conceptum valere prædicat, Vlmi
vſum , recentem Elephantiafim curare fuiffe obferuatum . Inquam certum
remedium, Vimi vfus in curanda recenti Elephantiaſi à laco. bo Douinero ,
lib.Tic.7 . prædicatur. Vidit enim adoleſcentem tali affetu laboranté, &
decoctionis Vimi vſu ( factis faciendis ) conualuiffe . Ea equidem pro omni
potu vte barur in quolibet paſtu , cum pauco vino al. bo, &cantiſudores
mouebantur graueolen tes, vt vix illos cuftodes ferre poffent. Ita viſcera
purgabantur, &magaa yrinæ copia excernebatur, quibus excretionibus fanus
factus eft . Cyprinorum efum podagricis elle infeflum . Vamuis inter piſces,
Cyprinusnobi. lifsimus exiftimetur , cum optimum præbeat nutrimentum ,
exquiſitiſsimigsexi Atat faporis; tamen podagricis infeftuin ef. fe obferuatum
eft. Nouit enim podagroſum Iulius Alexandrinus ( vt retulit lib . 15.6. 6.. de
salubr. ) cui Cyprinorum efu pinguium, parata érat femper podagra, ve in manu
illi th effet, eo pacto accerfere, cùm vellet . G Puluere pellis leporine,
perniones à Sep tentrionalibusfanari. Laus, lib . 2. Rerum Septentrionalium , ,
tilsimè perniones experiri fcripfit, qui mor bus, non aliis ab iis fanatur
remediis, quàm puluere pellis leporinæ. Plinius verò Rapú domeſticum feruen's
calcaneis impofitúla . nareretulit. Ego ex Carolo Séephano, inlib. de Ragraria,
in quodam expertus ſum reme dium , & bene fucceflit. Accipit ille , ficos
crematos, è quorum puluere, & cera yngné tum parat;hoc pernionibus
impofitum bre uiliberat patientes. Hydrargyrum loco amuletigeftatum à pefte
faſcinog corpora defendere. Arfilius Ficinus, & P. Droerus, in lib . M ,
fienim auellana perforatur , &extracto in . teriori nucleocum acicula,
argento viuote pletur, & collo fuspenditur; mirum in mo dum à peſte corpora
tuta reddit: ira profe etò à peftifera lue fæniente fe defenderuut multi. Hoc
eriam præfidio mulieres lactan . tes, à faſcivatricibus, ne lac fic ademptum,
quo infantes alendi funt, præferuari poffe, i Thomas Iordanus, in libe dePefte,
prodidit. - Q " ppe multis experimentis obferuatum re , tulit (hoc fecum
geſtao - ullas prorſus laga. ruin , lamiarú aut ftriguin infidias lacrátibus
nocere. CNICO Meſpili lignum ,collo appenfum grauidas ab abo orth preferuare.
Wm quadam æſtate apud D. Ioannem Nicolaumn Cucillum Brancacium , mei
amantifsimun, ytpuerum curarem interef ſem , fortè inter me , & Doininam D.
Man. já Cotoneam e Toleris, eius vxorē, de abor tus præſeruatione, tunc vtero
gerentem , có : uentum est. Retulit domina hæc Meſpili li gnum collo appenfum
mirè ab abortu gra uidasdefendere;idq; millies à fuis maiori bus foiffe
expertum . Confiteor in plerifq ;, tale lignum fuifle à me expertum , atq
;certú , & rarum remedium ſemper inueniffe fe: fi quidein multæ
aborrientes, & dolore , & fã . guinis fluxu ( appeofo ligno reſtrictæ
ſunt, &ab abortuſeruatæ , adeò quòdined parti cularem virtutem abortú
prohibendiinefile seor, Qua induftriabomines abſtemios reddere valeamus. Vleis
experimentis comprobatum re perio Anguillas, vel Mullos in vino M fuffo peri sfuffocatos
vini faftidium inducere : & enim ex eo bibant homines, procul dubio abfte
mii fiunt. Infuper philoſtratus in vita Apol loni , ona noćtuæ elxaca, &
infantibus pro cibo allata, hydropotos in tota vita illos reddere ſcripſit.
Mizaldus, Ragam viridem , ex iis, quæ in fontibus ſaliunt, viuam in vi. no
fuffocatam , idem efficere , fi tale vinum potetur, prodidit. Rotundam
Ariſtolochiam mirè piſces ftu pidos reddere. Ira eſt Ariſtolochiæ virtis in
piſces: ipfa enim illos odore ad fe al licit,moxftupidos reddit. Proprerea fi
eius radicem contritam , calciq; commiſtam , fiue eius decoctionem cum calce
pacato flumine aut maris littore piſcatores confpergent, piſces agminatim
confluere videbunt. Ili autem puluere deguftata, veluti examina ti
ſupernatantes capientur. Puellam veneno ab infantia nutritam , Alexandro ab
Indorum Rege fuiße miffam . Ndorum Rex Alexandri fortunæ inuidés, vt illum
interimeret , miræ pulchritudi nis mifit puellam, ratus forfitan Alexandru
confeftim cum ea concubiturum. Illa au tem Nappelli veneno ferè à cunabulis
erat educata , propterea more Serpentum ſcin tillances habebat oculos. Hos
Ariftotelesar piciens, caue tibi ab hac ( dixit ) 6 Alexan der; nam virus
peftilentiſsimum alit , vode tibi exitium paratur. Poft paucos dies pleri q;
proci huius commercio venenari periere ex quo Ariſtotelis praſagium mirabile
fuit iudicatum . Ex Auerroe. Quale fitigneum prafidium , quodin morbis ab
Aegyptis, & * Arab.bus vfurpatur. N lib . deMedicina Aegyptiorum prodi. dit
Alpinus, quo pacto illiin morbis cor . pora adurant. Accipiunteniin lineam peti
. am cubiti longitudine, latitudine verò tri um digitorum , quam ad formam
pyramydis aptant goſsipioque implent; ipfius latior pars, parti adurendæ
applicatur, alterumg; capuc accendunt, comburió; cam dia per miteant, ye
faſciculus crematur. Continuò ramen dum cutis vritur, ferro circumcirca
accingunt carné,ne caloris incendio aliqua oriatur inflammatio
.Hocinfuperinuolucro parando obſeruant, vein medio meatus ex iftar fafciculi:
ita enim euentatio fue refa piratio aliqua paratur, In vftione autem per aćta
offium medulla in carneaduſta, quoad eſchara cadat yantur.Hic vrendi modusAe.
gyptiis & , Arabibus familiaris eft. Olim in Creta familiasquaſdam mirè
faſes: natricesadfuiffe A quoſdam , tum fæminas in hiſce parti bus animalibus,
pueriſque laudando faſci num attuliffe: adeo quodij;fiad ouile, por cileque
quodpiam adiuiffent,confeftim in teritum pleriſque produxiffe: Quare mirum haud
eft, quod legitur in Creta quaſdam fa. milias adfuiffe, quæ laudando faſcinum
is . ferebant. His profectonatura quædam ferè venenofa efficitur, & ex
oculis inde fpiritus efflant venenatos,quibusanimalia ,pueri, & grandiores
faſcino maculantur . Laudando autem venenum promptiusoperatur : fiqui dem laus
propria, gaudium affert, quo cordis fpirituumque dilaratio oritur, & veneno
. a ditus præparatur.Ex Fracaſtorio - de fymp. sta Antypat.rer. Cyprint
verticis oſsiculum mirabiliter Epilep. ticisfubuenire. N Cyprini caluarix
vertice quoddam re peritur ofsiculum triangulare lapidisin ftar, quod in
curanda Epilepſia ; principeng loců obtinereaiunt. Táta enim efficacia epi
lepticicis fubuenit, vt morbusis numquam reuertatur,Hoc, vbifuturæ in vertice
calua six Cyprinicômitrútur intus fubfiftit,prop I cerea terea ſi illa capello
penetratur, ſtacim fora profilit ,Andernacushoc ofsiculum nummi Germanici
cruciferi appellati,magnitudine exiſtere prodidit ,atque ſalutare eſſe Epilep
fiæ remedium , Calphurnius Bestia Romanus qua pia vxores dormientes
interemerit. Nonnulliex veteribus in venenisnofçé & dili gentiam inter alia
Aconitum venenorus omnium elle ocyfsimam comprobarlot : fi quidem tactis
huiufinoti veneno genitali bus lexus faninini animaliuin , eodem die mortem
inferre viſiun eft.Hacvia Calphur nius beitia , veditaretur forſiçan , vxores
dor mientes interemit , de quo à M.Cæcilio ac cufatus eft.Hincilla -atiox
peroratio eius in digito mertuas. Confimili induftria Ladica laus Neapolis Rex
, cum cuiuſdam medici Prochytami filiam adamaret , cum eaque concumberet ,
Florentinorum confilio ex cinctus eſt , AcetoStitillitieo Bythagoram vitam
longiſsi meproduxiße. Afecit:feripfit enim eius viulongāhonia nes vitá
conſequi, & vfquead eius extremum : finem permanere integrè, & dextra
valetu dine.lole cu quinquagefimum ageret awaum hoc remedio vfus eft &eius vfu ad centefi.
muum , & decimum ſeptimum productus et integer & nulla vnquam aduerfa
valetudine tentatus : cuius optimam facultatem admira. tus, confanguineis co
umuuicauit, vt illings vfum haberent. Oleiom lixiuio mixtum in lattis fpeciem
tran fire. ' rmè experimen : o oleum lixiuio mixtú, fi diuag retur,in lactis ſpeciem
tranfire, comprobatum eſt: eft enim lixiuium tenue, atque calidum ,oleum autem
cum aêreum fit à lixiuio attenuatur, & proinde aerem con cipit,ex qua
albedoiunaſcitur. In aquis etis am, quæ diu agitantur,lactis ſpecies quædam
exoritur ex confimili induſtria. huius indi. In cium ſpuma eft, quæ cun fic
tenuis , aérem concipit , & dealbatur, Ex Cardano. Quainduftria Scythe
abſque cibo , potu per plures diesexiftant. Miraett herba Scythicæ operatio,
qua scythæ per plures diesfiue cibo , po - tuque viliere dicuntur. Hanc ij
circa Boeri. am inueniuntcreſcentem , & ad famem ficou timque tolerandam
vtuntur: fi quidem guftu dulcis, vt liquiritia eft , & in ore detenta fa
mis, fitifq; fenfum habetar, Idem apud cales C : Hippice præſtat, eò quòd hæc
planta equis confini HORTVLVSGENIALIS 333 confimilem generet effectum .
Aiuntmulci, Scythas his herbis duodesos eriam dies, fac mem, &ſicim non
ſentire.Ex Martbiolo. Catellos calorem natiuum augere , membros rumque dolores
conſopire. P Ro excitando nativo calore , membro . rumque cruciatibus
demulcendis, Carelo li præſtantiſsimi( Galeni teſtimonio ,7. Me thod
med.)exiſtimantur:illorun autem hu . ius naturæ haud omnes habentur, fed ijpræ
cipuè ,quibus pilus concolor eft . Propterea in Chiragra , podagra, & in
omni Arthri. tis fpecie cruciatus , quamlibet efferatos, parti affectæ
adhibitos s præſtantiſsime confopire àmalcis comprobatuni repe ris . plurima è
terra furſumtapi, iterumque deorfum cum pluuis pracips tari, Aximam
yellera,rang,vermiculi,lapil li,ligna,vabijgeneris frumentacealac, fanguis,
& id genus alia terræ permixta, quæ cum pluuijs quandoque præcipitari
afpici. mus, , nobis præftant admiracionem , adeo quod à cafu infolito plerique
perterriti, Cæli mipas metuunt; Celiat aixen admira. tio ,fi eorúcauſas penfitamus:hæc
enim pri mo 334 BARICELLI mò ventorum effluuijs, ventorumque inipe tu terræ
permixta furfum feruntur,mox cum pluuijs iterum deſcendunt. Propterea nec
ſemper mirum ,autinſolens à ſapientibusiu dicatur: CorneliusGemma,
inCoſmitriticaca 6.hæc caufas legitimas à coeleftibus Syzygi. is habere
prodidit: fed tamen eo vſque pro gredi ſoiere,cum fpecie fua, tum magnitu
dine,vt etiam in portentis principem inue niant locum, Cum Pſylis, &Marfis,
Serpentes haudbabere inimicitiam . M Irabile eft, Serpentes, quià mundi pri
uerfam ,inimicitiainque iniuere,cum - Pſyl lis, & Marfis nec odium nec
difconuenienti am retinere, Neceſſe ctenim elt, ve ijs aliqua miftio non omnino
contraria oriatur,auto dor , autaliud , è quo fpecies minus ingraca videatur ;
ita profecto inter homines ipſos. criam contingit: quandoque enim fine cauſa
nonnullos odimus,alios amamus,prout re sum.fpecies ad animam noſtram perue.
niunte, quibus conuenientiam , & diſconnenientiain capta mus. Ex Fracastor
rian - ) Oling HORTVLVSGENIALIS. 339 Olim vasta, ego robuſtafuifle bominuincor
pora . Vamuis Plinius,cæteriq ;ſcriptores, ho ninum corpora , robur, vitam
ſemper imminui conquerantur;tamen olim Gigan ces extitiffe, &vaſta hominum
fuillecorpo . ra negandum non eft.D.Auguftinus lib.15.de Ciuit.Dei.dentem
gigantis in quodam flu mine inuentum fuiffe prodidit,quiminutim diuiſus,centum
ex noftris dentes ſuperabas. De Pailante ſcribitur admirandum.Hic Ae neam
contra Turnum Regem Rutilorum adiuuit , mortuustandem , & fepultus , vbi
nunc Roma eft, ( reference Solino)Anno O. atingefimo poft Chriftum Dominum dam
quiædam ædificia Romefierentcafu in ſepul chro quo arte mirabili cum lucerna
ardenti códitus erat, inuétus eft, & integer erectus altitudinem nuricapite
excellebat.Quid de Aiace, & quid de Turno ; & de ingenti ,faxo ,
quodvterque in hoftem conjecir , referatur nouúhaud eſt.Quid tandem de Oreſte,
filio Agamemnonis,cuiuscadauer oéto cub tirá longitudinem excedebat, atque de
alijs in numerisdicatur,apud fcriptores reperitur. Idcirco præter ftirpem
giganteam ,quæ poft diluuiumimminuca eft, alia corpora vastitatem & robur
maximum retinuiffe conce. dendum eft ; in præfentiarum verò homi. num corpora
huiuſmodi comparata , tam pufilla funt, vt præ illis inania effe videan tur. Ex
Helinando Chronographo. Equum Phaleris accin&tum pulcbris, acri oremfieri.
, chris ornantur phaleris, tum acriores, tum pulchriores iudicentur. Eſt de his
cla. rum exemplum de Bucephalo Alexandri, qui phaleris accioétus Regijs neminem
præter Alexandrum ( teftimonio Aeliani) ad fe aſcendere paciebatur , &
quoderat 18 illo mirabilius, veaſcenſus facilior effet , demittebatur cum
dominus equitare vole bat.Phaleris autem remotis ,quilibet medi. aftinus
aſcendere, &tractare poterat. Ego quidem domimulam habeo ,cuius tanta eft
ſagacitas,vt fi feruus meus ephipium parat, habenafque illa humilis ,demiffa ,
& quafi gaudens perfiſtic,viAernatur, hilariſque in . cedit, & acrior :
fin autem clitellas, calcitro fa, indomita, feraque confeftim fit , necta lem
ſarcinam , niſi vinctis pedibus ferre ſu Atinet , adeò quòd feruus ab opere
defiftere cogitur. Exitiofißimum effe homini,ſub Lunaradijs ſomnum facere.
Vnæproprium eft,in hæc inferiora hu miditatem immittere: quare exitioſum
elt,lub eius radijs diu dormire; quippè dor mientes obleruatum eft ægrè
excitari , atque proximos infanis fieri, Lunæ vires in lignis, quæ ad ædificia
colliguntur,potiſsimum ex perimur:conciſa enim Luna creſcente , funt ferè
emollira per humoris conceptionem , idcirco tanquam inepta à fabricis reijciun
rur. Agricola 'experimento cognouerunt, fruméta de agris in Lunæ diminutione
colo lecta diutius ficca permanere. Hæc à veterie bus Lucina vocabatur , &
à parturientibus inuocabatur : Lunæ enim diftendere rimas corporis,meatibuſgue
viam dare munus eft: propterea, tale ſydus partui ſalutare, illum.
queaccelerare putabant. Archelaum ,Mithridatispræfe&tum , ligneam turrim
incombuſtibilem confeiffe. Dmiranduin profectò iudicatum eft
AArchelai,Mithridatispræfe&ti,cótra Syllam commentum :hic enim turrim
ligue. ain iocombuſtibilem condidit,quam fruftra ille incendere conabatur. Erat
currista. bulata alumine collinita , in ijs autem cruſta durior erat obducta,
& alumen , plumbique albi 238 BARICELLI E albicineres pigmentis copioſè
commifti: quia induſtria ab igne feruata ſunt. Confio mili artificio ,Ceſar ex
larigna materia cir . ca Padum ,Caftellum etiarn conftruxit, Ex Lemnio. Viſcum
quercinum fola fufpenfioneEpilepti. cis fubuenire. X
grauibusfcriptoribusmultiorbicua losè viſco querciofola ſuſpenſione vulgari
filo transfixos idem præftare in 2 molienda,& præcauendaepilepfia tradunt,
quod peonię maſculæ radix ,aut ſmaragdus è collopendens efficere creditur,
Reculit Iacchinus in Epilepticerum curatione, fe mel ea ratione,qua ligno
guaiaco vtimur, Viſcum quercinum per dies 40. propinafre, & profuiffe
quidem , non tamen Worbum abituliffe,nequelicuilleiterum id temedij iofaciliori
morbo experiri. Isterbraſsicam o vites maxisnum ineſe dif fenfum . Focabilis
equidem difcordia inter braſsicam , & vites reperitur, propte reade
Reruftica fapientes fcriptores, VICCE à braſsica offendi, deterioreſque &
fucco , &odore, fi ſecusplancatur, fieri prodidere. Experimento hoc
comperitur:nam gerinen ijspropius cu accellerit, auerſü ab inimico Notabilis compulſum
odore retrograditur. Infuper G inollam , vbi braſsica elixatur, vini vel mi
nimum conijcitur, quippe nec braſsica cona coqui vnquam poterit , & quod
mirabilius eft, colorem proprium amitter. Hacmotira tione ſapiéres,ebriis
braſsicæ ſucçú propinát, quo ebrietas ſubitò foluitur. Conuiuates pa riter, ne
à vini copia potenciaģ; offendantur ( Germanorum inftar ) braſsicam crudam
primò comedere debent : ita enim viruna ad ſatietatem , abfq; ebrietaris
periculo haua rire valebunt. Cati nigerrimiefum cerebrum , homines dementare,
Ericulofum eft , verſicoloris, &maximè nigerrimicati cerebrum alicui efirm
prz bere: ad iufaniam enim homines ducit, & quod peius, cerebri meatus
obftruit , ſpiri. Etuſý; impedit animales, Inter fcriptores Per trusApoinenfis,
huius efuadeò io ſanirehow' mines dixit,vt præftigiis quafiobnoxii videa antur.
Ponzertus pariter cati pilos venenoſos eſſe prodidit, citly; anhelitumfebrem
heoti cam induccre. Exbetulacorticibus, ardentesfaces comparari Etulæ cortices
non modò ignem confe. tim recipiunt, verùm atque flammam pariung Mha pariunt ardentem ; quo fit, vepleriq;
faces, pro noctis obſcuritate fuganda , ex iis com. ponaot, bene rati
lucidiorem has flammam , quãpini fædam parere: ex liquore autem picis inſtar,
qui dum vtuntur deftillat, oriri hociu dicatur , cuius natura cùm facile
accendatur, mirum haud eft: talem effectum producere. Hæmorrhoidalemn berbam
contactu Hamer rboides fünare. Ira eft Hæmorrhoidalis vis, & poté. tia in
perfanandis Hæmorrhoides: fi enimhuius radicibus, Hæmorrhoidales do lentes
tanguntur, atq; illæ per diem circa fe. mur ferantur , & mox in camino
fumanti ( afpendantur, procul dubio effectusfanatur: fiquidé Hæmorrhoides que
atq ; radices ex iccărur, fiaccelcıyor: qua caufa herba ab effe ctu nomen
deduxir, nec immeritò: namin iftarum infiammatione, &doloribus , fi hu us
radices contufæ applicantur, confeftim , & dolor, & inflammatio
mulcentur. Ex Ex Tante. Marine Paltinuca radium ,identium do loresmitigare.
entium dolores multis experimentis ex Marinæ pattinacæ radio mitigari vifi
func; huius eniin radio, qui in piſcis cauda cpa, situr , dentes tanguntur,
& gingina ſcari. ! x herbis non paucæ Ecale ſcar ficantur , quo præſidio
quan cítiſsime dolor euanefcit. Prodidit Dioſcorides , lib . 2,64p. 9. radiuin
hunc dentes frangere, & e urcare.quomodo autem hoc perficiat docu it
Plinius lib. 3. cap 4. Conteritur enim is, & cum Helleboro albo miſcetur,
quorin miſtura fi dentes illiti fuerint, fine vexatio ne extrahuntur, Plerasg,
berbas, Solisexortum , & occafuma ostendere, Solis ortum , & OC cafum
noffe videntur tantaq;huius lyde. ris ſectandi,talibus auiditas nafcitur, vt
Gr. miter inter kas, & folem magnam in ſe lym pathiam credamus.
Profe&to fos calendula in Solis ortu aperitur, &in occafii clauditur;
ex quo villicorum horologium à nuleis di citur. Sequuntur Solis fphæram non
modo papauer , & illudtithymalli genus, quod vo. cant helioſcopon ; ſed
etiam malua , lupini & cichorea; intenſius autem Lotus herba re ctatur,
&exortum quotidianum , &occafum noſcit. Hæc ( Theophrafti teitimonio )
cau lem, &florem veſpere mergit, & circa me. diam noctem tota in lacum
irruit , & adeo occulcatur , vt nec manu admiffa quis valeat inuenire ,
verciturmox panlatimg; erigitur , &in Solis exortu extra aquas confirrgit;
for P 3 reing Temą; aperit, &
patefacit , caliterá; etiam num confulit , vc alièab aqua abeffe videa quarum
Sodo Qualssin Sodomi, & Gomorriveſtigiso riantur fru & us. LtiſsimiDei
decreto quinq; vrbes 211a ciquicus incentæ ſunt wuum , & Gomorrhum
præftantifsimæ fiudj erbantur.Harum in fauillis quædam noſcú . tur veſtigia;
Giquidem cæleftis ignis reliquiæ adhuc perfiftunt. Quod autem illic admira bile
perfpicitur .viridancia fpectantur poma, formaci vuarum racemi, nec quis elt,
qui e dendi haud cupiditatem habeat: illa. autem manibus capta faciſcunt, &
in cinerem refol. uuntur, fumuggsexcitant, quafiadhucarde ant. Ex Egeſippalib .
4 . Magnam inter vterun , ammasinef Seſympathiam . On exiguus inter mulierum
vterum , & mammas contéplatur confenfus: quip pe alterum alterius pathema
oftendere on laruamus, A venis inter has partes coniunctis maximè ratio
ošteditoriri ſympathiá:ex iis e nim materias ab vtrifq; contentis transferring
&exonerari experimur.In menftruorum re dundantia Cucurbitula fub
mammisappofita , fluxum cohiberi ab Hippocrate docemur, Lactis copia in puerperis dum magna grauit q;
fuerit, die feptimo puerperii octauo, 10 nog; in vterum à naturaefunditur.
Suppreisi menfes in virginibus , & viduis caftis , non femel io
mammasrefiliunt, & la & tis copiam fuſcitant. In mulierum pubertate
accedente menftruo vtramq; parteni creſcere vidernus. Quo artificio Solis
defectumfirmiter com prehendere paleamus. Aria induſtria pleriq; conantur folis
defectam deprehendere;hocautem có pertum eft, artificio illius defectionem fir
miter apprehendi, Pelues hora inſtanti capi. antur , quæ non aqua , fed aut oleo,
aút pice implendæ ſunt; ratio enim fuadet, humorem pinguem non facile curbari ,
atq; imagines perinde, quas recipit conſernare. Equidem in magines in liquido
& immoto tantum appa rereconfueuerunt, propterea in olen, & pi. ce ,
commodius, & firmius, quomodo Luna Solilc opponat, & illum abſcondat
accipere poterimus. Ex Seneca in Natur. Quaft. Virginummammillarum tumorem acis
cuta impediria Ac inter alias, cicuta pollet efficacia, vt contufa cum vmbeila,
atq; virginü B H mammillis impofita , tumorem , & excref centiam valeat
prohibere; fortaffe nutrimé cum impedit, quo minus augeantur, vt in pu crorun
tefticulis fuccedit, fi hæc adhibetur: ijenim reatibus alimenti obtufis facilè
ex iccantur. Aperiani in hoc loco quod à Bon doletio nultis experimentis comprobatum
Teperio de piſce Squarina: hicenim mulie. rum mammis fuperpofitus, illas adeò
con. ftringit , ve virginum mammillæ appareant; credunt multi in genitalibus
eundem fimili ter effectum producere. Quercusgallis, anniprafagia comparari.
Napoleon Onmodò à Plinio , verùm atq; à plea riſq; rei rufticæ ſcriptoribus
obſerua tum fuiffe comperio, à gallis quercus maio sibus præfagium aliud anni,
quodapud vece res in magno fuiſſe pretio,&opinione legi. tur. Aperiuntur
gallæ, quando integræ funt, ibig; muſca, aranea , aut vermiculus repe . ritur :
fiquidem planta hæc in gallis huiuſmo di aninialium gignere confueuit. Si mufca
volar, angi fertilitatem & bellum futurum præſagiunt ; ſin vermiculus repit
, annonæ carentiam arguunt; fi autem aranea profiliet fummam caritatem , &
peftilentes affectus prædicunt. His ego adderem , præfagia hu . iufmodi , fi
Deo placuerit, confimiles ſecta . tur elientus. Vitri puluerem , calculos
comminuere. ron folum Galenus, fed Anicenna, & mouendos vitri puluerem
excollunt quomo do autem hæc fieret , plurimum infudiui; tandem quæ ab
Abecizoare componitur,mihi ex voto ſucceſsit, & vitrum adurere didici.
Capitur vieri albi , & perſpicui fruftulum , quod terebinthina coll nire
oporter totum , nyox tandiù in prunis detinere, veexcandel. cat; hoc demum in
aqua exſtinguicur, ſepti. eſg; iteratur, primò tamen linitur, fecundò
cxcoquitur, vltimò extinguitur; quo peracto , vitrum conteritur, & in
puluerem lubciliſsi mum mutacur. Propinamus languentibus au rei pondus vel
drach.j. cum vino albo, & ef ficaciter calculos comminui experimur. Quo
artificio aëris naturimexplorare valeamus. Eris qualitatem , & naturam cum
ex plorare libuerit , fpongia bene ficca, atq; munda ſèreno cælo per noctem fub
diuo exponenda eft; illa eniin fiſicca mane fuerit, ficcu's P5 АБЫ liceus & aër erit ; fi humecta,nimbolus;
fi anoll cervda,humidus,acroridus Inſuper ft recente pané eadem induftria
expofueris , di corrupto,ficuin contrahere videbitur ;à fic co , fiec ficcus;ab
Humido aucem, à ftacu pro prionon mutabitur.Siaër fuerit peftilens,
carnesexpofitæ corrumpuntur,atque colo rem mutant;fic eciam &
adipes.Siaércraf fus erit,patebit in marmore, & filicibus, qnę in cali
natura admodum madere folent; cós tra verò in aere'tenui, liges humidus eſſet ,
hę enim in tali con ica humeſcunt. Ex CATO dano. Quali fratagemate homines,
mortui Š videantur. Vltis experimétis confirmatum repe rio fublimatum , ffue
aqua vitæ cum fale miſce tur, ac in patina ( ſublata qualibet alia lua ce )
accenditur in cabiculo, nocturno tem pore, vbi homines reperiantur; fiquidem
ipfi immobiles fuerint, fpeciem mortuorús repræſentabunt. Pleriq; vt Aethiopes
fin gant , lucernam accendunt oleo plenam, cum quo ſepia atramentum fit dilucum
, fi we calchantuni, aut ærugo, nec fine ratio ne:oftédit enim ,lux eorû
colores, quæ in iis sát quæaccédācur: oportet tamen iu cubi culorcliquas luces
adimere, Nerein VA No Nereidesfaciehumana dy venufta, prezi que fuifferepertas
Ereides, quas vulgus Birenas appela lat, plurimæ in locis maritimisinué tę
funt;quodauté cátusdulcedine nauigātes hein foporem perliciant, &
capiant,nos. in lib . 1. de Hominis vita, abundedifferui mus, vbi de
Tritonibus, Nereidibus, ho. minibuſqs in maridegēribas, quos marinos vocant
tractatur ; Poetarumq; fabulæ eno . dantur, Vidithas Theodorus Gaza & Gee
orgius Trapezont ius, homines nagnæ e ruditionis : Gaza in Pelepomeno exorta
maris tempeftate, Nereidem proiectain in lidcore reperije viuentem , &
fpirantem , ynleu hrniano, facie decora , corpore fqua mis hirto ad pubem vſq ,
cætera autem ia locuftæcaudam definebant: ad hanc viſen dam magnus fuit
concurſus, illa tamen e vac maefta , crebrog, ſuſpirio fatigata &
frequentia hominum circumdata gemitus dedit & lacrymas emiſit,quibusmacus
mi. fericordia,ad mare deduxit, vbimagno im petu fluctus fecauit , & ex
oculis omnium cuanuit. Quid Trapezontius, pleriqs. alii viderint, in loco cita.
to narrauimus De Apunx natura, earumque mirabiliſa gacitate . Tu quidem anceps
fui in fcrutanda A pummellificatione,foetu , & cera:nam & apud auctores
magna reperitur controuer. fia , num illæ ge nerent , & aliundeprolem
habeant.Poft auem exactum fcrutinium cu iufdam amici va lido experimento
Ariftoter lis opinionem veram eflecomprobaui;fiqui dem Apese floribus fauos
conftruunt, exar borum lacryma ceram fingunt, & mella ex aëris'rore
captant.Hæ primum fauos confi . ciunt,mox fotin collocant , ore calidum
ſpirantes,vt vitain recipiat.Mellificanræfta . te, & autūno cibi caufa ;mel
autem autinale cleatius eft.Foetus in vere ferotino debilis fit : nã &
naiori ex parte emoritur. Multi aiunt oliuas, & examinum copiam cógenerem
ha . bere nataram : nam fi altera augetur, alcera abundans fit: fi vna deficit
,altera deprimitur ratio eft:nam mella ficcitates augent;lobo . lem verò
imbres; quofit, vt ſimuloliuæ , & sopia examinam fit. Vinorum aliquot
existere genera natura mirabilis. R aliquot vinorum genera mirabilis naturæ
quod ? co A quod vua & guftu , & fenfuà cæteris minime diſcrepanr, nec
vinum á ymis; tamen quod Heracliam Arcadiæ fit, viros reddicinfancs epotum ,
& mulieres fteriles: & apudcabyni. am Achaiæ abortum facic: & in
Thiffo vi num quoddam lomaum producit; quoddam verò, vigiliam Ex Tbeophraſto
lib.9. Plant. Quoartificio ignem manibus abſque læfione tractare valeamus. Pud
plerofque fcriptores inueni, ig nem fine læſione poffe tractari , fi tri .
tomaluauiſco cum ouorum albumine , ma.. nus liniuntur,ac defuper alumen
inducitur.. Hoc autem experimentuin à Magno Alber to captum eſt, apud quem
aliud legitur hu. ius negotijartificium :fi enim Ichthyocolle, & aluminis
æquales partes capiuntur , & ad inuicem commiſcentur, fiacetum his ſuper
funditur; quicquidtali miſcellanea illitum in ignem proijcitur , vtique non
comburie tür. Menftrua in ſenio ferèquibufdam fæminés 46 cidere. Vàm fallax fit
tum Ariſtotelis, tum ali orum iudicium ,quodin mulieribuscir ca quadragefimum
annum ,fiue quinquagefi mum menftrua deficiant, quotidiana demone strat
experiencia. Mulierem hic cognoui, Qyour P7 Victoriam nomine , eamque honeftam
& bene morigeratamshuic in anno 45.méftrua ceffarunt, & faufta valetudine
vixit,cum au tem fexagefimum ferè annum attingeret, ce teilli menfes
rubei,bonique coloris redie. De vberague , quæ priusflaccida erant,more:
virginum turgidula facta ſunt lactifque tan ta copia impleta ,vt impulſu
ferretur: quarez, vt puerulú filiæ fuæ lactaret àmeadmonita eft. Alteram
cognoui, quæ vfque ad annum 65.femper menftrua paffa, & hodie viuit , &
menftrua fingulis menfibus fuentia habet Hæcautem raròcontingunt..
Bufonislapidem contra venena mirabileinha bere virtutem . Pleriſque lcriptoribus
excollitur lapiss ille terreſtrisinuenitur: ſiquidem contra venena folo
contactu valere expertü eft ; propterea inflationes abeftijs venenatis illatas
diſcute re, venenúq; elicere aiut.Scribit Lemnius, tu mores, & dolores ex
forieibus,araneis, vel pis,fcarabeis,gliribus, aliifuevenenofis 2 . nimalibus
caufatos fclo lapidis blaul do attritu.euanef cere HORTVLVS GENIALIST 1 Aquarum
Fluuios natur& mirabilis repe $ rire. N multis locis aquarum exortas, mira
cfficaciæ inuenirilegimus Scribit Arift. in terra Aſsirithidæ aquas naſci ,
quas cum oues biberint,moxgs inierint, nigros agnos generare. In Arandria dnos
ineffe fluuios ad .. notauit, quorum alter candorem , alter nio gritiem facit
pecoribas:at Scamander am gis, quem Homerus Xanthuniappellauit , fia uas
reddere oues creditur . Mirabilers in concepta imaginationis effe per rentiam
Maginationis potentiam tam miram effe Phyfici confitentur ve viſa per cóceptum
in partu fæpiſsimè eluceſcant. Referam hi ftoriain admirandam ex Ludouico Vives
12 ; de Ciuit.Dei de huius negotio conſcriptam In Brabantia Buſco ducis quædam
vrbs eft, in qua more eiufdem Prouinciæ quodam die rempli vrbis feſtum
celebratur, quo tempore varii ludi apparantur.Sunt aliquot, qui ſtato die
diuorum perſonas induunt:nönulli vera Dæmonů.Ex his vnus cū viſa puella
exarfif. fet, & demúfaltado ſe ſe recepiſſet , & apreprā Vt er at
perfonatus vxore fua in le &tum con . ieciſiet,ſe exeaDanonem gignere velle
di.. cells D cens , concubuit , &
concepit inulier: clim autem in partuinfantem peperiffet,'s fimul ac primum
editus eft, Calcitare cæpit forma, quali Dæ nones pinguntur. Dentium .stupores
à portulaca confeftim amoueri : Entium ftupores,qui ab acidis.edulijs Connarci
confueuere,ex aqua aut luc co , vel frondibus portulacæ commanfis , quam citifsimèdiffoluuntur.Ipfe
cum qua- . damæftate cùm fiti maxima , tùm dentium : ftupore
affligeretur,cömanfis ipfius frondi bus , &à fit , &à ftupore fubito
liberatussú, Ab amico quodam audiui parculacæ fuccúi collinitum ,abfque dubio
verrucas exter minare,mihiautem experiundi locus haudi adhuc datus eft. Ex
Aphrodiſeo , Ceraferum aquam ftillatitiam in Epilepfia ! fummumeſſeremedium .
Ninitis experimentis Ceraſorum aquam 10 laccurrendis Epilepticis conprebari
reperio propierea à loanneAgricola in lib .. Herbar.maximèetiam extollitur .
Qua pro vita producenda inter arcana natu 12 connumerentur. APudreru naturalium
(crucatores acer rimos inueni, idque in arcanis conſer wari Hellebori nigri
fólia Saccharo cómilta degluci INTHE HORT:VL VSGEN I AL-deglutientem ad iuglandis
magnitudinenia in offenſam valetudinem, ad ſenectutem vſ. que
conſeruari.InfuperSilicem ignitum lin . teiſque parum madidis inuolutum ,&
pedi. bus applicitum ,pernicioſos valetudinis vaki pores extrahere.
Quoartificio in mulieribuscrinesdenfiores, copiofiores comparare paluamus. Nter
ſelectiſsima prælidia, quæ ad capil lorum copiam generaodam ineffe cre duntur
,Maluæ radix connumerari poteft :: fi enim caput mulierum livinio lauatur in
quo elixa fit maluæ radix, & deinde fucco maluæ crines, inungantur,
profecto ya bercim prouenient, & cicila fimé. Giulio Cesare Baricelli (n.
San Marco dei Cavoti) è un filosofo. De hydronosa natura sive de sudore
umani corporis Hortulus genialis Thesaurus secretorum De lactis, seri, butyri
facultatibus et usu Indice baricelli — implicatura sudorosa —
de hydronosa natura — de medicinae praestantiae — amazones cur mammas dextras
resecaverint — olearum sterilitatis praesagium — nili flumines proprietas — de
mundi creatione — murium sagacitas — pluviosa tempestatis prognostica —
agricolas non semper tempestates et serenitates praedictunt — valeriana miravis
contra epilepsiam — transformationes hominum in bestias non esse reales —
daemonis astutia apud indos — quid picus de scientiarum varietatis
sentiret — subditos principis vitam ut plurium imitari — rutam et allium
serpentibus adversari — animalis oriri et vivere posse in igne compertum est —
lacus asphaltritis mirabilis naturae — pisces marinos salubriores et rapidiores
fulminibis esse — mulieris — hominos — cibus — gigantes in orbem —
mulieres — excellentia — falsissimum est salamandran in igne vivere posse —
sabbatici — lactandis infantibus — menstrualis — pharmacum — animal — tauri —
faxa — aegypti reges — sterilitatis praesagia — aeris salubritatem — lintea —
hominibus — hydropes — plenilunio — nationibus — romulus — serpentaria —
echinum — animi pudorem — animalia — alexandri morti — sanari — cervi sudori —
vires — balnei — adam — rutam — verbenam — anima — aeris — sulphuris —
caraba — baccas — linguam — galli — homines — magis — fuco — cacoethica —
vipera — traulos — morbos — lupi — vitrum — pregnantes — periculo — pro
corporis — corporum hominum — utero — paterna — araneus telas — menstruali —
rutam — corpora — achatis — hominibus — hominem — utero — praesagium —
utero — tritico — scorpionum — hominibus — bubulo — epilepsiam — arbores
lapides — bardana — literas — homines — hominibus — hominibus — filios
parentibus signum — mare rebrum — hydrargyri — lupum — epilepsia — flatu —
corpora — pestilenti — efficacia — animalium — seminis — basilicum — torpedinem
— animalia — armenia — febre — lumaca — amantissimam — astronomiam — martisque
— passione — cantharides — adagium — parere fetus — iucundi —de amoris origine
— aqua — virtutes — sagacitas — lapidis — naturam — partus — amorfus — equorum
— spectacula — marinum vitulum — epilepsia — vinum — homines — homines — cervi
— gagatis — epilepticos — hominum — laudano — mortem — pacto — a viro —
hepaticos — mortem — mithridatis — ossa — bryonia — herpetes — vina alba — flores
— absynthium — chalcantho — coralio — lethargicos — infantes — prunellae —
catuli — gallum — corios — artificio — theodorus — radicem — dilligentes —
canicula — quatuor elementis — phreneticos — digitum — carnes — vicera —
testiculis — dentium — hippocrate — animalibus — apii — satyrii
testiculum — hominibus — radicem — hominis — extractum — praesidia — hominem —
antidotorum — cancri — quomodo — morbi — animantium — pulchritudine —
septentrionalibum — hemorraghia — lingua ardor — aegyptios — gentium —
solis — animalium — cervorum — masculinum fetum — mirandulani — hydrargyro —
incognita — tempestates — epiro — hecla — hominum — galenum — graecos — cane —
athritide — lionem — iumenta — acutis — acetum — piscis — foeminas — corporis —
alexandrum — hominum — ruditas — angina — capillos — volucrum — agricolas
— galege — infantis — oryalum — homines — lapides — collegium — alexandrum —
laparhiorum — feminum — aegyptios — methodo — olivarum — admirandu — millepedum
— frequentem — mulieres — daemonum — carduum — infantes — menstrualem —
corpori — medicina — animalia — unicornu — mulierum — naturalem — febris —
precognosci — medicis — masculorum — hydrargiri — bryonia — consolidanda —
chymicam — corpus — hominum — venenum — semen — lupos — homines — luna — leonardi
— hominibus — polypidium — ibidis — mulieres — industria — corpora — gallicam —
hominis — hominibus — regem — homines — aquilone — usum — usum — oleo — genus —
leones — artificio — mergum — lacertas — educandis — artificio — serpentes —
virginitatem — virginale — vitellos — humana vita — vena — materia — alexandri
— mulieres — hydrophobos — puerorum — labiorum — utero — semine —
aegyptorum — taxi — epilepsiam — aspides — infantes — vitrum — homines — vini —
syrium — nuptis — agreste — hydrophobiam — hepatis — viventes — arundinem —
cynanchem — parere filios — vino — praesagia — gallinarum — aquam —
mandragoram — corpora — vita hominibus — semina — infantium — vitam —
philomelam — castorem — duces — lingua — vinum — equorum — croci — hominis —
aspidum — hermaphroditos — imaginationis potentian — climactericos — inter
homines — carolum — animantia — liberos — garamantes — caminus — horologium —
infantium — praesagia — vinum — virorum — familiarem — romanos — ambarum —
tympaniam — venenum — toxica — socrati — magia — epistolam — aqua frigida
— menstruorum — lapides — homines — testiculos — humanam salivam — homines
ridendo — parthi — partum accelerare — serpentum — hydrargyrum — vim —
anginam — vermes — mamillis — lumbricos — infantis — elephantiasim — cyprinorum
— leporine — hydrargyrum — gravidas — homines abstemios — aristolochiam —
alexandro — morbis — creta — cyprini — calphurnius bestia romanus — aceto —
oleum — scythae — catellos — plurima — martis — robusta hominum corpora — equum
— homini lunae — mithridiatu — viscum — vites — betulae — haemorrhoidalem —
dentium dolores — sodomi — uterum — solis — virginum — praesagia — vitri —
aeris — homines — facie humana — apum natura — vinorum — ignem — menstrua —
virtutem — aquarum — in conceptu imaginationis esse potentiam — dentium
stupores — epilepsia — pro vita producenda — mulieribus — Giulio Cesare Baricelli. Keywords: sweat, il sudore umano,
sudore e la regola, stirgilo, amore, Socrate, Aristotele, controversia
sull’origine del sentiment dell’amore, Socrate, l’idea di causa in
Aristotele. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baricelli” – The
Swimming-Pool Library.
Baroncelli (Savona). Filosofo. Grice: “I like Baroncelli – he can be
hyperbolic – “Mi manda Platone,” surely he only requested! My favourite is his
‘compassione,’ which is ‘calco’ of ‘sumpatheia’ and therefore at the core of my
balance between conversational egoism and conversational altruism.” Flavio
Baroncelli (Savona) filosofo Nato e
cresciuto a Savona, si laurea in filosofia all'Genova nel 1969 con relatore
Romeo Crippa, di cui diventa assistente.
Insegna Storia dell'età dell'Illuminismo all'Trieste. Dal 1977 al 1981 è di nuovo a Genova, dove
tiene la cattedra di Storia della filosofia moderna. Nel 1981 diventa ordinario all'Università
della Calabria. L'anno successivo ritorna a Genova dove prende la cattedra di
Filosofia morale. Nel 1988 un grave
incidente motociclistico durante una vacanza in Turchia lo allontana per
qualche periodo dall'insegnamento e dalla ricerca, attività che riprende
all'inizio degli anni novanta come visiting scholar all'Madison, nel
Wisconsin. Nel frattempo collabora con
molti quotidiani e periodici, come La Voce di Indro Montanelli, Village, Il
diario della settimana, il Secolo XIX.
Tornato a Genova, diviene molto amico del filosofo Franco Manti,
segretario generale dell’Istituto Italiano di Bioetica. Riprende la vita
accademica per allontanarsene a causa della malattia che lo porterà alla morte
sopraggiunta nel 2007. Il pensiero di
Baroncelli ripropose un'etica planetaria alla luce del mondo globalizzato,
invitando a riconsiderare i valori e le identità storiche dei gruppi umani
occidentali riorientandoli a favore di un sistema di valori e di identità
individuali e culturali di tipo mobile e pluralistico. Ha qualificato le varie
culture come sistemi aperti in grado comunicare e di essere traslati o
esportati ovunque nel mondo, nella convinzione che gli esseri umani
appartengano tutti alla stessa specie e siano tutti abitanti dello stesso
pianeta. Pensiero e la ricerca
Profondamente influenzato da David Hume e dallo scetticismo inglese, si è
occupato in prevalenza di temi etico-politici come il razzismo, la tolleranza,
il liberalismo e il politically correct.
Altre opere: “Un inquietante filosofo perbene: saggio su Davide Home” (La
Nuova Italia, Firenze); “Sulla povertà, idee leggi e progetti nell'Europa
moderna, Herodote, Genova-Ivrea); “Il razzismo è una gaffe” “Eccessi e virtù
del "politically correct", Donzelli, Roma); “Viaggio al termine degli
Stati Uniti Perché gli americani votano Bush e se ne vantano” Donzelli, Roma); “Mi manda Platone, Il Nuovo
Melangolo, Genova Saggi "Giustizialismo" in Ragion Pratica, "Post-fazione"
a Lysander Spooner, No treason, "Etica e razionalità. Un finto
divorzio?" in Materiali per una storia della cultura giuridica, Il
riconoscimento e i suoi sofismi" in Quaderni di Bioetica, "Come scrivere sulla tolleranza" in
Materiali per una storia della cultura giuridica. Note
Franco Manti per la fondazione Pubblicità progresso, su pubblicitaprogresso.org.
7 maggio (archiviato il 7 maggio ).
Franco Manti, Diversity, Otherness and the Politics of Recognition , in
Nordicum-Mediterraneum, 14, n. 2,
Akureyri, , Ospitato su archive.is. Citazione: To Flavio Baroncelli, a friend I
met only too late, / whose lively intellect, critical sense, friendliness / and
clever irony I just had time to appreciate. Info dalla pagina del Dottorato in filosofia
dell'Genova. Registrazione audio[collegamento interrotto] dell'intervento a una
trasmissione di Radio 3 dall'archivio RAI Trascrizione di un dibattito con gli
studenti sulla tolleranza dal Enciclopedia Multimediale delle Scienze
Filosofiche di Rai Educational Necrologi Archiviato il 16 marzo 2007 in . di
Giorgio Bertone, Vittorio Coletti, Salvatore Veca e Pietro Cheli. Altri dello
scrittore Bruno Morchio e dell'amico Daniele Miggino. Sezione speciale della
rivista Nordicum-Mediterraneum dedicata a Flavio Baroncelli. Pagina di
Wordpress su Flavio Baroncellicon alcuni testi inediti. Flavio Baroncelli.
Keywords: Home, etica, ragione, giustizia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Baroncelli” – The Swimming-Pool Library.
Barone (Torino). Filosofo. Grice: “I like Barone, but I’m not sure
he likes me! You see, in Italy, there’s ‘scienze filosofiche,’ and ‘scienza’
was indeed a way to describe philosophy! But at Oxford, you have to take the
great go! Lit. Hum., and I doubt Barone did! – ginnasio e liceo, as the
Italians have it! Therefore, his views on ‘filosofia e linguaggio,’ never mind
his rather pretentiously titled ‘logica formale,’ ‘logica trascendentale,’
‘algebra dela logica,’ etc. have little to do with, well, Italian!” Laureato in
Filosofia a Torino nel 1946 come allievo di Augusto Guzzo e Nicola Abbagnano,
visse a Viareggio. Professore di Filosofia teoretica all'Pisa (1957), dove fu
preside della facoltà di Lettere e filosofia dal 1967 al 1968, fu poi docente
di Filosofia della scienza (1987) nonché direttore dell'Istituto di Filosofia
nella stessa università (1960-80). Insegnò anche Filosofia morale alla Scuola
Normale Superiore di Pisa dal 1958 al 1974.
Si dedicò soprattutto a studi di storia e filosofia della scienza,
pubblicando numerosi libri. Nel 1979 curò l'edizione italiana delle opere di
Niccolò Copernico. Socio nazionale dell'Accademia delle scienze di Torino (dal
12 febbraio 1985), della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti in
Napoli, e dell'Accademia Nazionale dei Lincei, a Milano fu presidente del
Centro del C.N.R. di studi del pensiero filosofico del Cinquecento e del
Seicento in relazione ai problemi della scienza. Pensiero Particolarmente interessato alla
filosofia di Nicolai Hartmann, Barone ne trasse spunto per un confronto tra la
dottrina realistica e quella neoidealista. La sua riflessione filosofica si
sarebbe poi focalizzata sui problemi epistemologici e della filosofia della
scienza. Come pubblicista affrontò temi
etico-politici sul rapporto tra individuo e società dal punto di vista della
ideologia liberale e liberista. Il tema
principale delle opere di Barone riguarda la filosofia della scienza e la
storia della scienza e della tecnica. Si deve a lui la prima pubblicazione in
Italia di una monografia sulla filosofia neopositivistica. Il suo pensiero si contraddistingue per lo stretto
rapporto tra epistemologia e storiografia della scienza, settore, questo, in
cui Barone ha preso in particolare considerazione il tema della nascita
dell'astronomia moderna, da Niccolò Copernico a Keplero e Galilei. Intorno agli anni sessanta, inoltre, Barone
si è dedicato con particolare attenzione agli sviluppi culturali,
epistemologici e filosofici della nascente informatica. Altre opere: “L'ontologia di Nicolai
Hartmann” (Edizioni di Filosofia, Torino); “Rudolf Carnap, Edizioni di
Filosofia, Torino); “Wittgenstein inedito, Edizioni di Filosofia, Torino); “Il
neopositivismo logico, Edizioni di Filosofia, Torino); “Assiologia e ontologia:
etica ed estetica nel pensiero di N. Hartmann, Torino); “Leibniz e la logica
formale, Edizioni di Filosofia, Torino); “Nicolai Hartmann nella filosofia del
Novecento, Edizioni di Filosofia, Torino); “Logica formale e logica
trascendentale, I, Da Leibniz a Kant,
Edizioni di Filosofia, Torino); L'algebra della logica, Edizioni di Filosofia,
Torino) Metafisica della mente e analisi del pensiero, Edizioni di Filosofia,
Torino) 1748: viaggio di Hume a Torino, Edizioni di Filosofia, Torino); “Mondo
e linguaggi” (Edizioni di Filosofia, Torino); “Determinismo e indeterminismo
nella metodologia scientifica” (Edizioni di Filosofia, Torino); “Concetti e
teorie nella scienza empirica, Edizioni di Filosofia, Torino); “Nicola
Copernico, Opere (F. Barone), UTET, Torino); “Immagini filosofiche della scienza,
Laterza, Roma-Bari); “Pensieri contro, Società Editrice Napoletana, Napoli); Teoria
ed osservazione nella metodologia scientifica, Guida, Napoli); Verso un nuovo
rapporto tra scienza e filosofia, Centro Pannunzio, Torino); La fondazione
dell'ontologia di Nicolai Hartmann (F. Barone), Fabbri, Milano); Leibniz ,
Scritti di logica (F. Barone), Zanichelli, Bologna). Note Francesco Barone, Neopositivismo, in
Enciclopedia del Novecento, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani,
1979 Barone, Francesco, in
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Sito ufficiale, su francescobarone. Francesco Barone, su TreccaniEnciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Francesco Barone, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Francesco Barone, su BeWeb,
Conferenza Episcopale Italiana. Opere di
Francesco Barone, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Francesco
Barone, . David Hume, il filosofo della
non certezza di Francesco Barone, La Stampa, 26 agosto 19763. Addio a Barone il
filosofo che diffidava dei paradisi in terra di Dario Antiseri, Corriere della
Sera, 28 dicembre 200131, Archivio storico. Francesco Barone. Keywords:
assiologia, la semantica di Leibniz, la sintassi di Leibniz, logica matematica,
logica formale, logica trascendentale, logica aritmetica, Hume a Torino,
simbolo, logica simbolica, Leibnitii opera philosophica, assiologia ed
ontologia, mondo e linguaggio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barone” – The
Swimming-Pool Library.
Barone (Alcamo). Filosofo. Grice: “I like Barone; at last a priest
that takes Italian humanism SERIOUSLY!” --
Dopo avere finito gli studi teologici nel Seminario Vescovile di Mazara
del Vallo, fu ordinato sacerdote il 13 marzo del 1937. Frequentò, quindi, la
Pontificia Università Gregoriana di Roma dove conseguì la laurea in Filosofia
il 19 giugno 1946, trattando la tesi dal titolo: L'Umanesimo filosofico di
Giovanni Pico della Mirandola. Ebbe
subito la nomina di Canonico della Collegiata di Alcamo, poi dal 1949 al 1956
quella di Vicario foraneo e Visitatore dei Monasteri; dal maggio 1951 fu
nominato anche Canonico Onorario della cattedrale di Trapani. Nel mese di novembre 1956 fu pure nominato
Cameriere Segreto Soprannumerario di Sua Santità; fu quindi professore di
lettere e filosofia del Seminario di Mazara del Vallo e, per 16 anni, delegato
Vescovile alla dirigenza dell'Istituto Magistrale legalmente riconosciuto
"Maria Santissima Immacolata" di Alcamo. Per diversi anni, è stato anche Rettore della
Chiesa della Sacra Famiglia e della Badia Nuova; inoltre è stato membro del
Consiglio Presbiteriale diocesano e docente di Filosofia presso il Seminario
Vescovile di Trapani. Altre opere: “Il Santuario; Alcamo); “La Nuova parrocchia
di S.Oliva; ed. Bagolino, Alcamo); “Giovanni Pico della Mirandola profilo
biografico del celebre umanista; ed.Gastaldi, Milano-Roma); “L'Umanesimo
Filosofico di Giovanni Pico della Mirandola Studio del Pensiero Pichiano;
ed.Gastaldi, Milano-Roma); “Quattro saggi; ed. Accademia degli Studi
"Ciullo", Alcamo); “Donna IdealeIdeale di donna; ed. Accademia degli
Studi "Ciullo", Alcamo); “Didactica Magna di Comenius (traduzione
italiana); ed. Principato, Milano); “Scuola Libera, ed. Bagolino, Alcamo); “Il
Vero Maestro -Lineamenti di educazione; ed. Bagolino, Alcamo); “Verità e Vita;
ed. Cartografica, Alcamo, De hominis dignitate, di Giovanni Pico della
Mirandola, Firenze); “La Congregazione di Gesù Maria e Giuseppe nella chiesa
della Sacra Famiglia di Alcamo, Accademia di studi Cielo d'Alcamo); “La più
bella preghiera, Alcamo); “Antologia pichiana: letture filosofico-pedagogiche;
ed. Virgilio, Milano); “La docta pietas, di Sebastiano Bagolino erudito
alcamese del sec.XVI; tip. Bosco, Alcamo); “Maria fonte di Misericordia e Madre
dei Miracoli Patrona di Alcamo; tip. Sarograf, Alcamo); “Dialogo con gli invisibili;
tip. Bosco, Alcamo). Note
trapaninostra,//trapaninostra/libri/salvatoremugno/Poesia_narrativa_saggistica/Poesia_narrativa_e_saggistica_in_provincia_di_Trapani_02.pdf Tommaso Papa, Memorie storiche del clero di
Alcamo, Alcamo, Accademia di studi Cielo d'Alcamo, 1968. Tommaso Papa, Memorie storiche del clero di
Alcamo, Alcamo, Accademia di studi Cielo d'Alcamo, 1968.
trapaninostra,//trapaninostra/libri/salvatoremugno/Poesia_narrativa_saggistica/Poesia_narrativa_e_saggistica_in_provincia_di_Trapani_02.pdf.
14 giugno . Vincenzo Regina Tommaso Papa
305357714 Identities-305357714
Biografie Biografie Cattolicesimo Cattolicesimo Letteratura Letteratura Categorie: Presbiteri
italianiInsegnanti italiani del XX secoloFilosofi italiani Professore1914 2004
29 aprile 22 novembred Alcamod Alcamo. Giuseppe Barone. Keywords: umanesimo
toscano, pico, pichiano, pichismo, uomo, degno, la degnita dell’uomo. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Barone” – The Swimming-Pool Library.
Barsio (Mantova). Filosofo. Grice: “I like Barsio – he reminds me
of G.Baker – there he is, Baker, succeeding me – and an American! – as tutorial
fellow in philosophy at St. John’s, and dedicating his life to Witters – So
when reminiscing, in my “Predilections and prejudices” about them years, I
said, “God forbid that you dedicate your life to the oeuvre of a minor
philosopher like Witters – it’s good to introject into a philosopher’s shoes as
you attain to grasp the longitudinal unity of philosophy, but look for a
non-minor pair of shoes!” – “Barsio is a radically minor philosopher – in that,
he never had to grade – I always hated grading and seldom did it! – since he
lived under the Gonzagas at Mantova – and he just phiosophised to the sake of
the pleasure he derived from it! My favourite is his elegy to his enemy,
Pomponazzi – but his satirical curriculum vitae is fantastical, but possibly
true!” -- Noto anche come Vincenzo Mantovano, frequentò le corti del marchese
Federico II Gonzaga e di sua moglie Isabella d'Este, alla quale pare avesse
dedicato il poemetto Silvia e la corte del marchese di Castel Goffredo Aloisio
Gonzaga, al quale dedicò il poema latino Alba. Studia filosofia a Bologna.
Altre opere: “Silvia, poemetto in tre libri, Pamphilus; Alba, dedicato al
marchese Aloisio Gonzaga, signore di Castel Goffredo; Labyrintus, dedicato a
Federico II Gonzaga. Ireneo Affò, Vita di Luigi Gonzaga detto Rodomonte, 1780,
Parma., su books.google. 18 luglio .
Gaetano Melzi, Dizionario di opere anonime e pseudonime di scrittori
italiani, Milano, 1859., su books.google. Giuseppe Coniglio, I Gonzaga, Varese,
1973., su books.google. Vincenzo Barsio,
in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. ICCU. Vincenzo Barsio., su
edit16.iccu. Marsio. Vincenzo Barsio. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Barsio” – The Swimming-Pool Library.
BARTOLI search.gianpaolo --
Barzaghi (Monza).
Filosofo. Grice: “Barzaghi is a genius; the Italians hate him! In his
“Compendio di storia della filosofia,” there’s no mention of Cicero!” – Grice:
“Barzaghi is the Italian Copleston – what is it with religious minds – cf.
Kenny – that have this inclination towards the longitudinal unity of
philosophy?!” – Grice: “Barzaghi just ignores the most prosperous period in
Roman philosophy; not so much Romolo, but whatever happened in Rome after that
infamous ‘embassy’ of Carneade, an Academian, Critolao, a peripatetic, and Diogoene
di Celesia, a stoic!” -- Direttore della
Scuola di anagogia, fondata dal cardinale Giacomo Biffi. Discepolo del filosofo
Gustavo Bontadini e frate domenicano, è stato l'interlocutore privilegiato di
Emanuele Severino sulla questione di Dio e del cristianesimo. Nella
sua opera Oltre Dio, Barzaghi si interroga dapprima sull’essenza del
cristianesimo per giungere ad affermare la necessità, per il credente, di
assumere alcune fondamentali posizioni filosofiche riguardo la vera
comprensione della realtà: «Se il Cristianesimo è essenzialmente la
partecipazione della vita di Dio, cioè della vita eterna, per comprenderlo
occorrerà porsi dal punto di vista di Dio, cioè dell’eterno» (p. 13). Secondo
Barzaghi, l’Essere assoluto «non può essere inteso come qualcosa accanto ad
altre cose, e conseguentemente diviene il punto di vista rigoroso per
l’ispezione del tutto» (p. 17). In questo senso, la filosofia di Emanuele
Severino, che si presenta come alternativa al teismo, offre in realtà per
Barzaghi il fianco a un nuovo percorso argomentativo in favore dell’esistenza
di Dio (un Dio però non inteso come oggetto: da qui il titolo dell’opera, che
evoca esplicitamente un’espressione di Dionigi): se ogni cosa è eterna, e tale
dunque è anche il suo apparire, esso deve continuare ad apparire, eternamente,
anche quando “non appare”. «Dunqueafferma il filosofo –, se tale apparire non
permane nell’orizzonte dell’apparire che è la mia coscienza, perché consta
l’apparire-scomparire dell’ente, deve comunque continuare ad apparire […] in
modo determinatissimo, dunque alla sola scienza di Dio cui eternamente appaiono
gli eterni. Non ammettere questa scienza di Dio, cioè Dio, significa ammettere
che l’apparire, che è pur un non-niente, sia un niente nel momento in cui non
appare più determinatamente, individualmente» (p. 24). Questa scienzachiamata
nel linguaggio tomista scientia Dei visionis«ha la fisionomia dell’apparire
infinito di cui parla Severino nei suoi scritti» (p. 17). Nel pensiero
barzaghiano, il punto di vista sub specie aeternitatis (dal punto di vista
dell’eternità) diventa la condizione imprescindibile di tutta la riflessione
teologica e filosofica. In teologia, solo questa prospettiva riesce a rendere
metafisicamente plausibile l’affermazione rivelata dell’«Agnello immolato nella
stessa fondazione del cosmo» di cui parla il libro dell’Apocalisse, così da
poter parlare di una «inseità redentiva dell’atto creatore». Nella riflessione
filosofica, poi, la prospettiva sub specie aeternitatis consente di avere uno
sguardo «dialetticamente onninclusivo», per cui ogni ente rispecchia in sé
l’eternità del tutto e di ogni altro ente secondo la nozione di exemplar.
Ne Il fondamento teoretico della sintesi tomista, Barzaghi propone appunto
l’idea di exemplar come cardine speculativo, approfondendo e oltrepassando la
proposta di S. M. Ramírez, neotomista spagnolo (1891-1967) di individuare nella
“dottrina dell’ordine” la struttura più sintetica di tutto il pensiero di
Tommaso d'Aquino. L’exemplar rappresenta «il minimo di complessità per muoversi
nel massimo della complessità» (p. 31). Ma per compiere questa operazione di
analisi, occorre esprimersi attraverso l’analogia, «riflesso logico
gnoseologico dell’ordine ontologico [e] mezzo inventivo ed espressivo del
conoscere» (p. 47), che acquisisce conseguentemente una notevole importanza nel
pensiero di Barzaghi. Nell’esemplare (exemplar) si trova il centro della
spiegazione causale, dal momento che in esso si presenta in modo simultaneo
tutto l’ordine che lega le cause aristoteliche: il fine, l’agente che intende
il fine, la forma implicata, e la materia che la deve accogliere. E l’esemplare
trascende la mera dimensione funzionalistica: in quanto contiene tutto
(compreso l’esemplante nel suo riferirsi all’esemplato), è una totalità, e
possiede quindi caratteristiche di liberalità e assolutezza: è «sottratto alla
dipendenza e al dominio» (p. 90). In una frase, che sintetizza bene il punto di
vista anagogico della filosofia e della teologia di Barzaghi: «Dio, conoscendo
se stesso, conosce tutte le possibili realizzazioni similitudinarie della
propria essenza, cioè tutte le essenze create e creabili» (p.
96). Seguendo infine l’esempio specifico di Bontadini, suo maestro, egli
fa risiedere nell’atto creatore intemporale la consistenza della totalità delle
cose, cioè delle creature, giacché queste sono «nulla come aggiunta a Dio» (p.
98). Secondo tale prospettica dell’exemplar, si può così realizzare, senza
aporie dogmatiche, la visione del Deus omnia in omnibus (Dio tutto in tutto).
Il dibattito con Severino Il primo dibattito fra Giuseppe Barzaghi ed Emanuele
Severino avvenne nel 1995 nella forma di disputa tra le posizioni della
teologia cattolica tomista e quelle della filosofia severiniana. Il dibattito
trovò, al di là delle aspettative degli organizzatori, alcuni punti di
possibile convergenza, che portarono il filosofo-teologo alla pubblicazione di
Soliloqui sul divino (1997), in cui l’autore cerca per la prima volta di
rileggere le intuizioni di Severino in un modo che egli definirà più tardi
voler essere quello con cui Tommaso d'Aquino, filosofo e teologo cristiano,
leggeva e faceva tesoro dell’insegnamento filosofico di Aristotele, filosofo
pagano. Ciò rese il rapporto fra i due pensatori un dialogo di reciproca
conoscenza e stima. Il 2 novembre 1999 Severino dedicò a Barzaghi un articolo
sul Corriere della sera, in cui indicava il sacerdote monzese come il fautore
del più interessante tentativo di riportare la sua filosofia al contesto
cristiano da cui si era volontariamente staccato. In tale articolo, il filosofo
ateo definiva “aperto” il dilemma sulla possibilità o meno per il cristianesimo
di porsi come casa abitabile per l’uomo contemporaneo, a patto però di
diradare, sull’esempio di Barzaghi, la nebbia che circonda il discorso religioso
attraverso una ripulitura dei concetti a partire dal punto di vista
dell’eterno. Seguirono poi altri dibattiti pubblici, come quello del 29
novembre 2001 a Milano e quello del 12 giugno
a Bologna. Altre opere: “Metafisica della cultura” (Bologna, ESD);
“L’essere, la ragione, la persuasione, Bologna, ESD); “Diario di metafisica.
Concetti e digressioni sul senso dell’essere, Bologna, ESD); “Soliloqui sul
divino. Meditazioni sul segreto cristiano, Bologna, ESD); “Philosophia. Il
piacere di pensare, Padova, Il Poligrafo); “Oltre Dio, ovvero omnia in omnibus.
Pensieri su Dio, il divino, la Deità, Bologna, Barghigiani); “Maestro Eckart,
Cinisello Balsamo, Ed. San Paolo); “Anagogia. Il Cristianesimo sub specie aeternitatis,
Modena, ETC); “Lo sguardo di Dio. Saggi di teologia anagogica, Siena,
Cantagalli); “Compendio di storia della filosofia, Bologna, ESD); “Compendio di
filosofia sistematica, Bologna, ESD); “La Fuga. Esercizi di filosofia, Bologna,
ESD); “L’originario. La culla del mondo, Bologna, ESD); “Il fondamento
teoretico della sintesi tomista. L’Exemplar, Bologna, ESD); “La maestria
contagiosa. Il segreto di Tommaso d’Aquino, Bologna, ESD); “Il Riflesso,
Bologna, ESD); “Lezioni di dialettica, Bologna, ESD); “Il bene comune secondo
S.Tommaso d’Aquino, in “Communio” L’alterità tra mondo e Dio: la verità
dell’essere e il divenire, in “Divus Thomas”, Ambientazione teologica del concetto
di “gioia”,in I. Valent , Cura e la salvezza. Saggi dedicati a Emanuele
Severino, Bergamo, Moretti & Vitali); “I fondamenti metafisici della
mistica, in M. Vannini, Mistica d’oriente e occidente oggi, Milano, Paoline, La potenza obbedienziale dell’intelletto
agente come chiave di volta del rapporto fede-ragione, in “Angelicum”, Articolazione
teoretica della teologia trinitaria in chiave tomistica, in A. Petterlini, G.
Brianese, G. Goggi , Le parole dell’Essere. Milano, Bruno Mondadori, Desiderio
e abbandono. Maestro Eckhart e Tommaso d’Aquino: le due facce di un'unica
metafisica, in C. Ciancio , Metafisica del desiderio, Milano, Vita e Pensiero);
Anagogia epistemica, in R. Serpa , Antropologia, metafisica, teologia. Studi in
onore di Battista Mondin, filosofo, teologo, ciclista, Bologna, ESD); L’unum
argumentum di Anselmo d’Aosta e il fulcro anagogico della metafisica. Essere
logici nel Logos, in T. Rossi , Figurae fidei. Strategie di ricerca nel
Medioevo, Studi, Roma, Angelicum University Press, Anagogia: voce in
“Enciclopedia Filosofica”, Milano, Ed. Bompiani, L’epistemologia teologica di
Tommaso d’Aquino. Analisi e approfondimento, in G. GrandiL. Grion , Rivelazione
e conoscenza, Soveria Mannelli, Rubbettino,L’intero antropologico. Con Gentile
oltre Gentile verso una rifondazione metafisica dell’antropologia tomista.
Ovvero le virtualità tomistiche del discorso filosofico sull’autocoscienza e la
corporeità umana, in “Divus Thomas”. Il luogo poetico e contemplativo del
sapere filosofico-teologico. L’anima del giudizio scientifico, in “Divus
Thomas” Mistica cristiana come estetica assoluta, in Mistica forum, Bologna, Lombar Key, Fenomenologia,
metafisica e anagogia, in “Divus Thomas”, Il bisbiglio del “Logos” e il suo
riflesso nella ragione, in “Divus Thomas”, Il destino sempiterno dell’Occaso.
L’inseità mistica della ragione, in A. Olmi , L’eredità dell’occidente. Cristianesimo,
Europa, nuovi mondi, Firenze, Nerbini, La commozione come filosofia del valore.
Saper nuotare negli affetti. L’ambiente invisibile della vita cristiana: il
Fondamento, in V. Lagioia , Storie di invisibili, marginali ed esclusi, Bononia
University Press, Bologna, Abitare teologicamente la natura. Lo sguardo
metaforico di Tommaso d’Aquino. Teoresi e struttura. Riflessioni e
approfondimenti sulla rigorizzazione bontadiniana, in “Divus Thomas” Creazione
dal nulla o relazione fondativa, in S. PinnaD. Riserbato Fenomeno & Fondamento. Ricerca
dell’Assoluto. Studi in onore di Antonio Margaritti, Città del Vaticano, Ed.
vaticana, Anagogia e teoria del fondamento, in “Divus Thomas” Metafora. La
trasparenza nella trasposizione, in M. RaveriL. V. Tarca, “I linguaggi
dell’Assoluto, Milano, Mimesis, , L’eternità dell’essente in teologia, in G.
GoggiI. TestoniAll’alba dell’eternità”. I primi 60 anni de ‘La Struttura
Originaria’, Padova, Padova University Press, Dibattito con E. Severino, in
“Divus Thomas” . Il quadro anagogico e i segreti della musica di J. S. Bach. La
Ciaccona e il Contrappunto XIV de L’Arte della Fuga, in “Divus Thomas” 2
(), 13-27. Note A. Postorino, La scienza di Dio. Il tomismo
anagogico di Giuseppe Barzaghi... Data
l'importanza dell'anagogia nel pensiero di Barzaghi, gli è stata commissionata
la stesura dell'omonima voce sull'Enciclopedia filosofica (Bompiani 2006),
nonché, sul versante teologico, la voce «mistica anagogica» sul Nuovo
dizionario di mistica dell’Editrice vaticana.
RaiCultura: Dio e il concetto filosofico di eternità del Tutto Dialogo tra Emanuele Severino e Giuseppe
Barzaghiparte 1 e parte 2 E. Severino,
Nascere. E altri problemi della coscienza religiosa, Articolo pubblicato sul
Corriere della Sera del 2 novembre 1999
Dionigi, I nomi divini (testo critico di M. Moranicommento di G.
Barzaghi), Bologna, ESD, , II, 3.
All'alba dell'eternità. I primi 60 anni de 'La struttura originaria'
(UniPa) Apocalisse 13, 8 Cfr. G. Barzaghi, Lo sguardo di Dio. Nuovi
saggi di teologia anagogica, Bologna, ESD, ,
157-270 Santiago María Ramírez
op, De ordine placita quaedam thomistica, Salamanca, San Esteban, 1963. G. Barzaghi, Lo sguardo di Dio. Saggi di
teologia anagogica, Siena, Cantagalli, 200333. UniPdL’eternità
dell’essente RaiScuola: Giuseppe
Barzaghi. Dio e il concetto filosofico…
Si veda ad esempio: E. SeverinoG. Barzaghi, L’alterità tra mondo e Dio:
la verità dell’essere e il divenire, in: “Divus Thomas” 3 (1998), 57-81.
E. Severino, Nascere. E altri problemi della coscienza religiosa Dialogo Severino-Barzaghi a Milano Giornata di studio dello Studio filosofico
domenicano di Bologna RaiCultura.
Giuseppe Barzaghi, Dio e il concetto filosofico di eternità del Tutto su
raicultura. Interviste ai filosofi: Giuseppe Barzaghi su youtube.com. Giuseppe
Barzaghi. Keywords: ana-gogia, il quadro anagogico, anagogia, greco ‘anagogia’.
Implicatura storica, la porta di velia, girgentu, l’implicatura di milesso, il
segno di boezio, filosofia italiana. Scuola di anagogia, Bologna, fidanza,
Aquino, filosofia romana, carneade, l’ambassiata greca a Roma, filosofia, la
scuola di Crotone, l’impicatura di Gorgia di Leonzio. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Barzaghi” – The Swimming-Pool Library.
Barzellotti (Firenze). Filosofo. Grice: “The good thing about
Barzellotti’s treatment of Cicerone’s dialettica is that he pours in all his
expterise on two fields: Italian mentality, Roman mentality – so he can
understand, in a way an Englishman cannot, the way Cicerone dealt with the ‘dialectic,’
Athenian dialectic, if you wish, and turned it into a ‘Roman’ dialectic --. He
of course never considers English interpreters, only German! And refutes them!”
-- “You’ve got to love Barzellotti – he is critical of the idea of ‘Italian
philosophy,’ but not of what he calls ‘The Oxcford school of philosophy,’ – Philosophy
has no country-tag; she belongs to humanity; a DOCTRINE, or a school, may have
a ‘national’ identification – And part of the problem with Italian philosophy
is that there was Italian philosophy before there was Italy!” Grice: “My
favourite is his tract on Cicero, who he sees as an Italian!” -- Senatore del
Regno d'Italia nella XXII legislatura. Allievo di Terenzio Mamiani e di Augusto
Conti, entrambi filosofi spiritualisti, si professò poi seguace del
Neokantismo. Si interessò soprattutto alla storia della filosofia con
particolare riguardo ai problemi di psicologia artistica e religiosa. Ebbe la
cattedra di Filosofia morale alle Pavia nel 1881 e di Napoli, nel 1887. Nel
1896 divenne professore di Storia della filosofia all'Roma. Fu ammesso
all'Accademia nazionale dei Lincei nel 1899. Nel 1908 fu nominato senatore del
Regno d'Italia. Fu iniziato in
Massoneria nella Loggia Concordia di Firenze, appartenente al Grande Oriente
d'Italia. Altre opere: “La morale nella
filosofia positive” (Firenze: M. Cellini); “La rivoluzione italiana” (Firenze:
Successori Le Monnier); “La nuova scuola del Kant e la filosofia scientifica”
(Roma: Tip. Barbera); “David Lazzaretti di Arcidosso (detto il santo), Bologna:
Zanichelli); “Monte Amiata e il suo
profeta, Milano: Fratelli Treves); “ “Santi, solitari, filosofi: saggi
psicologici” (Bologna: Nicola Zanichelli); “Studi e ritratti, Bologna:
Zanichelli); “Taine, Roma : Loescher); “L'opera storica della filosofia, Palermo:
R. Sandron). Note Vittorio Gnocchini,
L'Italia dei Liberi Muratori, Erasmo ed., Roma, 200526. Virginia Cappelletti, Giacomo Barzellotti, in
Dizionario biografico degli italiani, 7,
Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1970. 20 novembre . Giacomo
Barzellotti, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 1930, giacomo-barzellotti. 20 novembre . Altri progetti Collabora a
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Italiana. Giacomo Barzellotti, su
siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le
Soprintendenze Archivistiche. Giacomo
Barzellotti, su accademicidellacrusca.org, Accademia della Crusca. Opere di Giacomo Barzellotti, su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di Giacomo Barzellotti, . Giacomo Barzellotti, su Senatori d'Italia,
Senato della Repubblica. Filosofia Filosofo
del XIX secoloFilosofi italiani Professore1844 1917 7 luglio 19 settembre
Firenze PiancastagnaioAccademici dei Lincei. Se questa
ricostruzione, che vengo tentando, del movimento filosofico nella seconda metà
del secolo XIX in Italia,dovesse rigida mente obbedire alle leggi di una storia
della filosofia,alcuni scrit tori,che rientrano nel nostro quadro,ne andrebbero
certamente esclusi. Lo notammo a proposito di T. Mamiani;e torna opportuno
dichiararlo per Giacomo Barzellotti. La prima legge della storia della
filosofia è, che il suo oggetto è costituito dal pensiero filosofico, ossia
dalla metafisica, o concezione della realtà, che voglia dirsi.E però non
potranno far parte di essa gli spiriti che a questa conce zione non abbiano
comunque lavorato,o che non ne abbiano sentito il bisogno o che non ne abbiano
avuto le forze. Il Mamiani non ne ebbe le forze, benchè vivamente desiderasse
di pervenire a una filosofia, e ben presto creasse a se medesimo l'illusione di
esservi pervenuto. Il Barzellotti pare invece che non abbia sentito il biso gno
; e, ingegno letterario anche lui, abbia cercato nell'attività este tica
piuttosto che nella speculativa il vanto di scrittore : più accorto in ciò e
sia detto a sua lode del Mamiani, che per voler essere quel che non era, non fu
nè anche quel che fino a un certo segno,avrebbe potuto essere. Il
Barzellotti, invece, è stato uno degli scrittori italiani più noti e più letti
dell'ultimo trentennio del secolo: il suo nome può dirsi a buon dritto che sia
divenuto popolare : il solo forse tra quelli di scrittori di cose filosofiche.
Chi non ha letto i due volumi di saggi pubblicati dallo Zanichelli : Santi,
solitari e filosofi (1) e Studi e (1)Santi, sol.efil., saggi psicologici,
Bologna, Zanichelli,2.a ediz.,1886. ritratti?(1).A questa
popolaritàegliappuntoaspirava,consciodelle attitudini del suo ingegno; e ha
messo da parte i problemi, a cui non era nato. Li ha messi da parte come
fanno tutti quelli che limettonodaparte,--negandon
e il valore. Ma nell'averlimessi intanto da parte per
suo conto è il suo merito e il segreto della sua fortuna
letteraria. Rileggiamo una confessione, che è nella prefazione ai Santi,
solitari efilosofi: « Più d'una volta al sentirmi chiedere quasi come tessera
d'ingresso ai posti distinti dell'insegnamento o al favore di certi
cenacoli letterari o filosofici una di quelle professioni di fede assoluta nei
dommi di qualche sistema,ho pensato involontariamente a quelle domande che le
signore fanno spesso nei giuochi di sala o nei loro albums profumati, mettendo
vi in mano illapis per la risposta:-- Guardi, mi faccia ilpiacere di dirmi o di
scrivermi qui, subito,che cos'è l'amore,e poi che cosa ella pensa dello
Shakespeare epoianche,secrede, del Goethe;ma chelarispostasiabreve,la prego,non
più che dieci righe,perchè,quaggiù,vede,ha da seri vere anche la mia
nipotina ». Vale a dire:il Barzellotti ha bensì aspirato ai posti
distinti dell'insegnamento filosofico.C'era avviato,era quella la sua car
riera:e l'ha percorsa ormai tutta con onore,fino alla cattedra di storia della
filosofia nell'università di Roma ; ma egli non ha potuto mai persuadersi
che per occuparsi di filosofia bisognasse aver fede assoluta in un sistema:che
per mangiar frutta,direbbe Hegel, bi sogna contentarsi di mangiare
ciliege,pere,uva ecc.Non che pro prio abbia ricusato la filosofia, in generale.
La sua filosofia l'ha avutaanche lui; ma «diametralmente opposta»
aquelladichigli venne sempre chiedendo a qualesistemaegliaderisse;opposta
«appunto in questo: che il suo resultato più sicuro, e ormai consentito da
quanti oggi vivono la vita intellettuale dei nostri tempi, si è la
dimostrazione critica dell'impossibilità di chiuder la mente umana inunaforma
sistematica d'interpretazione dell'universo da potersi dire definitiva per la
scienza».Un'opposizione,come puòvedere chiunque abbia studiato con mente
filosofica la storia della filosofia, affatto illusoria:fondata sopra quella
confusione dell'universale e del particolare (per rispetto al concetto della
filosofia) messa in canzonatura da Hegel nel luogo citato dell'Enciclopedia. In
realtà, nessuna forma sistematica ha voluto mai essere definitiva; ma s'è (1)
St. e ritr., ivi, 1893. sforzata di organizzarsi a sistema, per essere
qualche cosa di filoso fico, per vivere nel pensiero, che non può esser
pensiero senz'esser uno. E lo stesso Barzellotti nota una volta che perfino il
Kant,il grande avversario dei sistemi,costrui anche lui la sua Critica in forma
complicata ma strettamente organata di sistema. E che questo orrore dei
sistemi significhi, pel Barzellotti,non negazione critica della metafisica
(com'egli, si vedrà,avrebbe voluto significasse), ma, a dirittura,
liquidazione,anzi evaporazione della filosofia, negata nella sua universalità
perchè negata in tutte le sue forme particolari;loattesta,non
foss'altro,ladichiarazioneseguente: che il valore intimo di cotesta sua
superstite filosofia « sta tutto nel penetrar ch'essa fa oggi del suo spirito
critico i metodi e la parte più alta delle scienze naturali e matematiche non
meno che delle morali».Sit diva, dum nonsitviva.L'ideale delfilosofo,Helm holtz
(tante volte citato dal Barzellotti): un fisico. Voltando,quindi,in
effetti le spalle alla filosofia,ilBarzellotti sentiva bene di non dover
riuscire ostico ai nemici della filosofia, ossia agl'ignoranti di filosofia. Le
sue idee intorno a questo punto della secolarizzazione delle menti,
riescono molto interessanti e istruttive, perchè aiutano a intendere tutta la
psicologia dello scrit tore:« Tra noi in Italia,oggi,lo so da lunga
esperienza,solo a far balenare un momento sul frontespizio d'un
librolatestadifilosofia c'è da vedersi impietrar davanti dallo spavento o dalla
noia quante facce di lettori s'eran chinate a guardarlo ». Di chi la colpa ?
Della filosofia o dei lettori? Il Barzellotti avrebbe una gran voglia di
gettarla tutta addosso alla prima ; m a poichè una certa filosofia deve credere
di coltivarla anche lui,una filosofia invisibile perchè cela tasi nelle scienze
speciali o nell'arte, un pochino di colpa l'ha pur da dare ai lettori,
lamentando « quell'abito come lo chiamerò d'antipatia o di pigrizia mentale? –
che nella scienza e nell'arte ci fa rifuggire dalle forme più alte e più
complicate del pensiero, che ci sanno di aspro o di esotico ». Ma , s'intende,
il maggior torto è della filosofia: È l'effetto del discredito
meritatissimo, in cui la filosofia cadde tra noi parlando per tanto tempo il
gergo barbaro del pensare e dello scri vere di troppi ormai che ne hanno fatto
una casistica da medio evo in ritardo,e che,o predicassero dal pulpito delle
nostre scuole ortodosse,o negassero Dio e l'anima mettendo in cattivo italiano
i loro imparaticci francesi, inglesi o tedeschi, hanno nella filosofia impedito
tra noi quasi sino ad oggi quella definitiva secolarizzazione delle menti che
per tutto fuori di qui segna da un pezzo l'avvenimento della cultura moderna.
In Italia,un
lettore che abbia familiare l'abito di mente inseparabile dalla cultura e dalla
scienza contemporanea,è raro che,aprendo per distra zione o in mancanza d'ogni
altra lettura,un libro di filosofia,non lo faccia con quello stesso viso con
cui un giornalista della capitale si la scia,in viaggio,dare le ultime notizie
di una crisi ministeriale da un suo corrispondente di Cuneo o di Brindisi.E
avrà anche torto;ma che dire,quando il fatto stesso del mancare tra noi un
pubblico di lettori per la filosofia mostra chiaro che in Italia la filosofia
non sa,meno rare eccezioni,farsi leggere,cioè non sa pensare e scrivere,non
voglio dire coipiùepeipiù,ma almeno coipiùcolti,con coloro che pensano;il che
poi significa ch'essa non vive ancora tra noi la vita della mente
contemporanea? La filosofia, per vivere la vita di questa mente
contemporanea, deve abbandonare il suo barbaro gergo. Si potrebbe pensare
dataluno che l'unico movimento di qualche vigore che si sia avuto in Italia
negli ultimi tempi,è quello hegeliano di Napoli.
Ma quello, secondo il Barzellotti,
riuscìpiùascuoter elementi,chea fecon darle di germi durevoli,a cagione appunto
della sacra tenebra delle formule, nella quale i più di quegli scrittori
s'avvolgevano, del gergo tra barbaro e bizantino che facevano parlare al loro
pensiero oracoleggiante (1). Ma, che cosa è questo gergo e quest'oracoleggiare
se non la forma specifica della filosofia,inaccessibile,naturalmente, non solo
ai più, ma anche ai più culti, quando la loro cultura non abbracci anche la
filosofia; e la filosofia non liquida o vaporante
nellasuaastrattauniversalità,ma solidaeconcretanellasuccessione progressiva
delle sue forme storiche, fino a quella, alla quale una determinata
ricostruzione della storia mette capo? E la secolariz zazione dello spirito, e
il farsi leggere della filosofia che altro p o s sono significare se non
distruggere quella differenza specifica che costituisce il valore del
grado spirituale proprio della filosofia ? Intendiamoci: non già che il
filosofo debba scriver male. Il Barzellotti dice della Vita del Vico che « ha
dal lato letterario il difetto di tutti i libri delgranfilosofo:
èmalescritta»(2). E non è vero,com'è vero invece che è « mal
composta,oscura,involuta ). Oscuro e involuto rimase appunto gran parte del
pensiero delVico; e quindi l'oscurità e l'involuzione della forma. Ma il Vico
scriveva benissimo,esprimendo con efficacia potente d'immagini i (1) Vedi
lo scritto Il pessimismo filosofico in Germania e ilproblema m o . rale dei
nostri tempi, nella N. Antologia del 1.0 maggio 1889, p. 56. (2) D a l r i
n a s c i m e n t o a l r i s o r g i m e n t o , P a l e r m o , S a n d r o n
, 1 9 0 4 , p . 2 0 1 . suoi concetti; ma,s'intende,quando
avevadeiconcetti:laddoveè certo, come lo stesso Barzellotti dice, che a lui
mancò « la co scienza chiara, luminosa del proprio pensiero, che è la parte
prima ed essenziale dello scrittore ». In altri termini, egli non pervenne
alpossessocompletode'suoiconcetti,parecchideiquali,enon i secondarii, rimasero
in uno sfondo di penombra in quella gran mente che così largo giro ne
volle stringere nella sua speculazione, sbozzata con persistente lavorìo
intorno a una materia non veramente omogenea,tradistoriaedifilosofia.IlVico
scrive male dove e in quanto pensa male ; e questo è il Vico che non conta
nella storia. Ma ilVico che conta, il filosofo vero e proprio è uno scrittore
sommo.E non potrebbe essere altrimenti,perchè l'arteelafilosofia non sono due
muse sorelle,ma l'unico Apollo,lo spirito,che non sale alla filosofia se non
attraverso l'arte, e non supera mai se stesso, come avvertì per primo
Aristotile, se non conservando se stesso, crescendo sempre sopra disè.–
Chiscrivemale,perciò,appunto perchè scrive male non è filosofo. Ma lo
scriver bene del filosofo non è lo scriver bene del poeta;altrimenti verrebbe
meno la differenza, tra l'uno e l'altro, che nessuno vuol negare. E comeil
poeta scrive sempre bene se vien poetando, così il filosofo scrive bene anche
lui se, anzi che pensare a scriver bene, pensa piuttosto e riesce a filosofare,
anche a costo di finire per ravvolgersi in un gergo. Non c'è pure il gergo
della poesia? O non era poeta chi diede l'espressione classica della
impopolarità essenziale delle forme alte dello spirito nell'odi profanum
vulgus? Pel Barzellotti,invece,il filosofo può farsi leggere,se si
contenta di metter da parte la filosofia. Nella menzionata confessione,
premessa ai Santi, solitari e filosofi (1), lo dice chiaro : « lo
vorrei, senz'aver l'aria di presumer troppo,poter dire press'a poco
quello che un amico mio diceva ai lettori d'un
giornale,annunziandovi la prima edizione del Lazzaretti: perdonate a
questo libro quel po' di filosofia che l'Autore ci ha voluto,a ogni
costo,mettere (giacchè patisce, poveretto!,diqueste
malinconie);perdonateglielaingrazia di quel tanto dipiùedimeglioche illibro
visaprà farpensare oviracconteràovidescriverà come opera d'arte».Vedremo
fra pocoinche consiste quel po' di filosofiadacuiilBarzellottinon
s'èvoluto mai distaccare;ma non bisogna dimenticare,che quel che di più e
di meglio egli ha inteso di mettere ne'proprii scritti (1) Santi, p. 52
n. Perchè dunque parliamo qui del Barzellotti, e in questa
parte dedicata ai platonici Ecco: queste note, senza voler essere
propriamente una storia,mirano piuttosto a rivedere criticamente i
giudizii correnti intorno agli ultimi scrittori italiani di filosofia. Ora
il Barzellotti, per giudizio comune, avrebbe partecipato al movimento dei
nostri studii filosofici, e avrebbe agito nella cultura nazionale appunto
come filosofo. Domandate ai suoi molti lettori se egli sia uno scrittore
di filosofia o un prosatore, un artista; novantanove su cento vi
risponderanno che è sì un artista,ma un artista-filosofo, o meglio un
filosofo-artista; uno dei pochi, o il solo dei nostri filosofi, che abbia
saputo liberare la scienza della forma pedantesca della scuola e del
barbarico gergo abituale, per esporla in saggi eleganti, ossia in maniera
accessibile a tutte le persone colte e di gusto. Ripeterebbero, insomma, quel
che il Barzellotti stesso ha sempre pensato e detto di sé. Perchè, bisogna
pur dirlo, niente riesce più a render perplessi e a sviare igiudizii,di
questa specie di sofisticazioni della scienza,operate dai secolarizzatori
o popolarizzatori della medesima. Il po ' di filosofia viene apprezzato non
in ragione del suo valore,che può esser nullo,ma in ragione dell'arte, in
cui si diceepuò parere che si siamesso; l'operad'arte,egual mente, non è
giudicata con tutta la severità che si userebbe verso le opere di arte
pura, che non avessero quella difficoltà di una materia ribelle
all'elaborazione artistica; e i critici letterarii, inetti a giudicare
quel po'di filosofia, indulgono a quell'arte gravida o s a z i a d i s a p e r
e. Perchè , s e h o d e t t o c h e il B a r z e l l o t t i è u n a r t i s t
a p i ù che un filosofo,non credo poi (se mi è lecito proprio questa volta
una digressione letteraria (1)) che possa dirsi un artista finito, e che il suo
capolavoro (ilLazzaretti) siaun capolavororiuscito. È ilmeglio riu scito di
questi suoi tentativi artistici, pel senso vivo del paesaggio e dell'anima
popolare di quell'angolo della Toscana, in cui il B a r è al di qua della
filosofia: è qualche cosa che può far pensare,una riflessione morale e
psicologica;è soprattutto opera d'arte.Dello scritto su David Lazzaretti, che
può forse considerarsi come il ca p o l a v o r o d e l B a r z e l l o t t i ,
il q u a l e i n e s s o si p r o p o s e b e n s ì d i f a r e u n o studio di
psicologia religiosa,lo stesso autore dice che « vorrebbe essere,se pure non
pretende troppo,un'opera d'arte,ma senzadar nel romanzo ».(1) Vedi in questo
fasc. l’art. del Croce, pp. 337-8. zel lot ti era vissuto fanciullo, e
tornato spesso a rinnovare le sensa zioni dei primi anni.Ma anche
lì quel po'di filosofia come stuona in quell'ambiente
pastoraleenell'ingenua psicologiadel misticismo lazzarettiano! E come
appiccicato è lo studio sull'origineelosvol gimento e i caratteri di quel moto
religioso sulla cornice dell'im mediata azione, in cui l'autore l'ha voluto
inquadrare, per aver agioa descrivere meglio iluoghi,che furono scena dei fatti
del Lazzaretti,e individuare itipi de'suoi seguaci!L'azione, troppo povera,è
una gita di caccia,a cui l'autore per altro non partecipa, restando sempre in
disparte ad almanaccare sull'anima del barocciaio di Arcidosso.Dopo la caccia
c'è una colazione,sull'erba;e alacolazione questa volta pare pigli parte anche
il Barzellotti
Ma quale parte? Egli titrova nel cerchiounuomo
del paese, Filippo, il,bigonciaio, un discepolo del Lazzaretti ; e subito ne
profitta, dicen dogli che avrebbe avuto caro di sapere « molti particolari
intorno aDavid e alla vita che i suoi seguaci avevano fatto con lui in
quelluogo »,lisulla torre di Monte Labbro.Il lettore,nemico
della filosofia, a cui il Barzellotti s'indirizza, s'aspetterebbe la conversa
zione dell'autore con Filippo,il quale dovrebbe farci entrare a poco a poco con
i suoi ricordi in tutto quel mondo morale che l'autore
civuolrappresentare.Difficileimpresa,certo;ma soloachi,come ilBarzellotti,non
avesse davvero il suo Filippo rivelatore vivo e parlante nella fantasia;
sibbene gli scritti del Lazzaretti,gli appunti delle relazioni fornitegli da
amici del luogo,le deposizioni dei lazza r e t t i s t i, e p o i i v o l
u m i d e l R e n a n , e l e o p e r e d e l l ' H a r t m a n n e q u a l che
fascicolo del Nineteenth Century sul tavolino.
Il Barzellotti,che pure ha scritto un bel
saggio sulla sincerità nell'arte,in quel punto della sua opera non si
ricorda di quelle sue giustissime idee : e dopo aver detto come inducesse
Filippo a parlare,continua : « Mi rispose con un leggero atto della testa che
acconsentiva,e ci mettemmo tutti amangiare ».Ma alla conversazione non ci fa
assistere.«E ora mi pare da vero tempo che anche i lettori conoscano per :filo
e per segno i fatti cui ho accennato tante volte, e li conoscano, quello che
più importa,in ordine alle loro cause e alle condizioni sociali e morali
de'luoghi, o, come oggisidice, dell'ambiente nelquale ebbero origine ».E segue
infatti il corpo,per dir così,dello studio sul Lazzaretti: centoquaranta pagine
(1), in cui Filippo e la colazione sondimenticati.Poi
l'autoreripiglia:«Questecosemi andavano per la mente cinque anni dopo la morte
di David mentre co'miei (1) Santi, pp. 121-262. amici stavo nel
piazzale davanti all'eremo di Monte Labbro.Passato quel silenzio profondo
dei primi bocconi. »;– e torna a saltar su finalmente Filippo,che però il B.
non ci fa mai udire.Sicchè nel l'immaginazione dell'artista durante quella
colazione,oltre che per tutte le considerazioni seguenti sul carattere della
fede di Filippo, ci sarebbe stato il tempo per andar pensando a tutte quelle
140 paginediroba! L'elementodescrittivoedrammaticorestaaffatto estraneo e
sovrapposto allo studio storico-psicologico. E questa so vrapposizione,questa
mancanza di fusione,che accuserebbe per sè, quando non vi fossero le
dichiarazioni esplicite dello scrittore,le sue preoccupazioni artistiche,
mentre egli realmente non si mette mai
inunasituazionesinceramenteartistica,sonoilmaggiordifetto che io vedo in questi
suoi tentativi d'arte.- E un altro mi sia lecito anche notarne,che è in fondo
una conseguenza del primo,e mi fa tornare al mio soggetto speciale: la
lungaggine, la prolissità dello scrittore:difetto da lui stesso additato come
uno degli effetti più gravi della rettorica, della vuotaggine di gran parte
della lette ratura italiana. « Solo chi ha poco o nulla da dire dice sempre di
più di quello che dovrebbe dire »(1).Appunto,la esiguità del con tenuto
spirituale del Barzellotti gli ha fatto scrivere molte e molte pagine a cui
s'attagliano parecchie delle osservazioni da lui fatte intorno a cotesto
difetto della letteratura italiana, dominata dallo ideale umanistico.Non c'è
scritto di lui in cui sia detto breve e chiaro quello che l'autore s'è proposto
di dire;e spesso si stenta ad afferrare il suo concetto, tra le molte parole
non abbastanza precise e determinate,in cui egli si sforza d'esprimerlo,cioè di
concretarlo,quasi per una serie di approssimazioni al pensiero, che non si
riesce afermare inuna formavivente.Tipica,per questo riguardo,mi sembra la
prolusione letta a Napoli nel 1887:La morale come scienza e come fatto e il suo
progresso nella storia (2). E valga per esempio questo squarcio,che ne tolgo a
caso: Perchè è bene che io lo dica fin da ora,o signori,anche a titolo
di quella schietta professione di fede scientifica che mi pare d'esser
tenuto a farvi qui.Il modo
in cui io concepisco la legge intima dell'organismo e della vita delle scienze
morali o,meglio,delle scienze che io chiamo più propriamente umane,e quindi
dell'etica,che se ne può dire quasi il centro, non è quello stesso che pare
presupposto da quanti oggi ponendo, (1)Dal rinascimento al risorgimento,
p.206. (2)Rivista ital.difilos.del FERRI, a.I, vol.II(1887),
pp.3-33. con ragione, l'esperienza a fondamento di tutto il sapere
umano,non di stinguono con qual divario profondo il processo di costruzione
ideale del pensiero scientifico sui dati sperimentali si faccia nelle dottrine
naturali e in quelle morali e storiche. Là l'ufficio, l'opera della scienza sta
nel ritrarre, nel rilevare a uno a uno, sino a i piùintimi, i tratti della
fisonomia eternamente immota e impassibile della natura, che anche nel
l'inesausta ricchezza delle sue produzioni, ripete eternamente se stessa;
stanel far penetrare,se posso dir cosi,la parola,più e più criticamente
riveduta delle teorie e delle ipotesi,quasi scandaglio che tenti un fondo impossibile
però a toccare mai tutto,sempre più verso l'ultima espres sione approssimativa
di un vero che, inesauribile in sé,sappiamo però essere e durare ab eterno
eguale a sè stesso. Ed ecco perchè, una volta messe queste scienze sulla via
maestra del metodo sperimentale, e fu, o «signori, merito imperituro
dellafilosofiadelsec.XVI, latradizione del l'acquisto lento, faticoso, ma
sicuro del vero,vi si stabili con una fermezza che non ha pur troppo riscontro
alcuno nella storia delle scienze del l'uomo e della società. In questa
l'opera ideale costruttiva,la funzione che vi ha il pensiero scientifico di
assimilare a sè il vero dei fatti sperimentati e osservati e di trarlo quasi in
sostanza sua, è, mi pare, tutt'altro. È un farsi, uno svol gersi della vita e dell'organismo
riflesso della scienza insieme con quello spontaneo del vero umano e sociale
che si spiega,che fluisce inesauribilmente ricco, fecondo e vario ne'secoli.E
l'occhio delle scienze morali, intento a scrutarne le leggi,è simile a
quello di un osservatore che da punti di prospettiva via via sempre nuovi
studiasse, camminando, le forme,le proporzioni e la direzione di un'immensa
folla di oggetti che gli simostrano dinanzi. Sbaglierò; ma a me pare che,
tolti i fronzoli e i particolari inutili, il pensiero adombrato in tutta questa
pagina sarebbe stato espresso forse più chiaramente, se si fosse detto press'a
poco così: lescienzemoralisifondano,alparidellescienzenaturali,sul
l'esperienza;ma siccome la natura è sempre quella, el'uomohauna storia, le verità
scoperte dalle scienze naturali hanno una stabilità e fermezza incompatibile
con quelle via via determinate dalle scienze morali, alle quali spetta di
seguire il processo storico del loro o g getto. Egli è che al Barzellotti,
mente coltissima, è mancata proprio quella qualità ch'egli è andato sempre
cercando:l'intimità,il con tatto dell'anima con le cose. Quindi l'artifizio e
lo stento,la forma levigata, elegante,ma alquanto vuota e sonora. Le sue
professioni difedefilosofica,percuilodovremmo aggregareaineokantiani, sono
semplici adesioni formali, spesso ripetute con la premura di chi tiene ad
apparire spirito moderno, del proprio tempo (come (1)Nella N.
Antologia del 15 febbraio 1880,pp.591-630. (2)Fil.sc.ital.,
1878,XVIII,42-3.(3)Pag.38n. egli ha detto
di sè tante volte); ma non corrispondono a una par tecipazione effettiva della
sua mente ai problemi critici e morali, ridestati dal ritorno a Kant.Lo
scritto,che secondo lo stesso Bar zellotti, dovrebbe essere più significativo
per questa sua adesione al criticismo (La nuova scuola del Kant e la filosofia
scientifica contemporanea in Germania ) (1); e al quale egli infatti s'è
riferito ogni volta che ha voluto documentare l'affermazione sul suo in dirizzo
di pensiero,è un'esposizione informativa,condotta innanzi senza un indizio di
vero consenso, che le considerazioni dei neo kantiani trovassero nell'anima
dell'autore. E quando verso la con chiusione questi dice che « la natura
relativa d'ogni nostra cogni zione sensata è inconciliabile colla pretesa che
ha il dommatismo di determinare positivamente l'essere delle cose in se stesse,
di poter penetrare sino alle sostanze e alle forze ch'egli suppone al di là de'fenomeni
» non puoi dire sicuramente se questo sia il pensiero di chi scrive,o il
pensiero di quegli scrittori di cui que sticihaparlato. Meno che meno potresti
cogliere ilpensierodel Barzellotti nel suo precedente scritto La critica della
conoscenza e la metafisica dopo ilKant (1878-79), lavoro prevalentemente
storico, per cui l'autore si attiene più alle storie del Fischer e dello
Zeller, che alle fonti originali.In una
storia dell'idealismo postkantiano,di cui questo scritto voleva essere un
saggio (ma si arrestò allo Schelling), un n e o k a n t i a n o v e r o n o n p
u ò n o n f a r apparire i s u o i c r i t e r i i filosofici; e non c'è
sforzo d'oggettività storica che possa fargli dire che l'interpetrazione
realistica (a cui tenne sempre più fermamente lo stesso Kant) della critica
risponde alla lettera del kantismo,e l'interpetrazione idealistica del
Maimon,del Beck,del Fichte, ri sponde piuttosto allo spirito. Un neokantiano
non avrebbe scritto che il concetto realistico del noumeno (come qualche cosa
che è in sè,indipendentemente dalle forme del conoscere,ed opera sui sensi)è in
Kant un residuo del dommatismo antico che la Critica non era mai riuscita a spogliarsi
interamente, e che stuonava coi risultati negativi e idealistici della dottrina
della conoscenza;e che era una contradizione (2): un pensiero non pienamente
consentaneo a se stesso in ogni sua parte (3).Al Barzellotti il partito di
superare idealisticamentelaCritica,come feceilFichte,dopol'Enesidemo, pare
«ogni giorno più,non che consigliato, imposto inesorabilmente dalla
necessità logica che trascinava le dottrine del Kant alle loro ultime
conseguenze» (1).– Ma tutto questo è detto,anziripetuto, non con l'accento
energico di una convinzione maturata per proprio conto;sibbene con quella
stessa indifferenza che è propria di chi osserva da spettatore
assolutamente disinteressato. Che cosa pre cisamente debba pensarsi di quel
benedetto noumeno,che è lo spettro pauroso dell'idealismo moderno,non sembra
che sia affare che tocchi l'animo del Barzellotti: il quale potrà dirsi a sua
voglia neokantiano(2);ma nonfarà mai ilneo-kantiano,perchè non sen tirà mai
veramente il problema filosofico. E non ha fatto quindi nè anche
ilplatonico,benchè all'indi rizzo dei platoneggianti italiani egli si
accostasse ne'suoi scritti gio vanili,il principale dei quali è la tesi Delle
dottrine filosofiche nei libridi Cicerone (1867),in cui si vede ancora lo
scolaro di A. Conti edi T. Mamiani.Egli doveva pensare anche a sè quando,discor
rendo della Filosofia delle scuole italiane,— della quale fu sempre uno
dei compilatori ordinarii,e se ne poteva dire la sentinella avan zata verso le
letterature filosofiche straniere,di cui scriveva una cronaca;– disse: «I
collaboratori di quellaRivistahannopienali bertà di pensiero e di discussione ;
anzi varii tra di essi professano dottrine molte diverse da quelle del Mamiani
; ma si raccolgono intorno a lui come al rappresentante più autorevole di
quel moto speculativo,che aiutò il nostro risorgimento e ci riscosse da una
inerzia intellettuale di più che due secoli » (3). Anche al Barzellotti,
insomma,piaceva di essere un filosofo delle scuole italiane,insieme col
Mamianielasuaonrevolgente.Anche aluipareva,p.e.,che il«merito innegabile della
scuola hegeliana(diNapoli)apparirebbe maggiore allo storico imparziale,se essa
avesse tenuto più conto delle disposizioni naturali e tradizionali dello
spirito italiano » (4). Egli dunque si mise nella schiera del Mamiani ; e io
non potevo staccarnelo, non avendo potuto trovare ne'suoi scritti la
dottrina filosofica sua, che ne lo separasse. (1) Pag. 45 (2)Vedi
specialmente le proteste nella pref, ai Santi,p.xxm n. (3) La filosofia in
Italia, nella N. Antologia del 15 febbraio 1879, p. 630 (4)
Ivi,p.639. (1) Nella Rivista difilos,scientifica,
1882,vol.I,pp.496-525. (2 ) P a g . 4 9 8 . (3) Cosi nel libro sul
Taine qui appresso cit.,p. 168 dirà sempre : « La dot trina idealistica chefa
del mondo sensibile esterno un mero ordine di fenomeni e di segni datici dalle
sensazioni, debba dirsi, per ora almeno, l'ultima parola della scienza, venuta
a confermare la parte indubbiamente vera delle teorie del Berkeley e del Kant
».Vedi poi l'articolo su L'idealismo di A. Schopenh. e la sua dottrina della
percezione, nella Fil. dellesc.ital.,1882, XXVI, 137-65; la cui conclusione
favorevole ai filosofi che « tempo e spazio accolgono in se elementi , a u n t
e m p o , ideali ed empirici, subbiettivi e obiettiv i , h a n n o il l o
r o e s s e r e e la loro legge così nel pensiero come nelle cose,così in
noicome fuori di noi – non vedocomepossaacc
larsiconl'idealismoberkeleiano!Masipuòpar lare di contraddizione ? (4)
Credaro nel Grundriss di UEBERWEG-HEINZE,I,1,364. ( 5 ) C f r . L a m o r
a l e c o m e s c i e n z a e c o m e f a t t o , n e l l a R i v . i t a l . d
i f i l o s ., 1887,II,15-16elapref.aiSanti,p.xxi n. Nella prolusione con
cui iniziò a Pavia il suo insegnamento ufficiale universitario, nel 1881, Le
condizioni presenti della filosofia e il problema della morale (t), puoi
ravvisare tutto lo scrittore. Ivi più schietta la professione di fede
neo-critica: l'idealismo da Fichte a Hegel accusato non solo di aver voluto
costruire luni verso da un sol punto, con un solo principio assoluto,ma di
avere altresì dimenticato « quello che le aveva lasciato detto il maestro, che
cioè,se i fatti senza le idee sono ciechi,queste alla lor volta, non cimentate
coll'esperienza, riescon vuote e ingannevoli » (tra vestimento del genuino
pensiero kantiano e disconoscimento del genuino pensiero hegeliano); la
riflessione filosofica definita per artifizio(2); approvato- comegià nella
Morale della filosofia positiva (1871)– l'indirizzo psicologico-sperimentale
dato dagl'inglesi alla filosofia dello spirito; fatto buon viso alla loro
teoria della re latività del conoscere (dove l'autore vede un kantismo
ricondotto addietro fino a Berkeley (3); dato corpo in certo modo a quella
specie di eccletismo, che gli è stato talvolta attribuito (4), e a
cui egli stesso in alcuni scrittisi può dire che abbia accennato parlando
di una mediazione tra il criticismo e l'evoluzionismo (5); rifatta un'altra
volta la storia del ritorno a Kant, nonchè della scuola spe rimentale
inglese,per conchiudere che oggi il filosofo « non prova più in sè quello
che pure era,ed è tuttora,così proprio de'meta fisici, il sentimento superbo di
un preteso primato sui cultori dell altre scienze, la vana persuasione di
potersi segregare da loro nella solitudine di un infecondo sapere assoluto,
superiore alle indagini pazienti de fatti e all'esperienza, e ambizioso di
tutto darle, senza nulla riceverne ». Qui si abbandona,come ognun vede,
esplicitamente l'eterno proposito della filosofia. Niente di superiore ai fatti
e all'esperienza. Il filosofo non deve aspirare se non,come tutti gli altri
scienziati,a fornire col proprio lavoro alcuni pochi tra gl'infiniti dati, tra
le infinite verità d'esperienza e di ragionamento a c cessibili alla mente
umana nel suo sublime tentativo d'interpretare l ' unità delle cose e
delle loro leggi. Nien t ' a l t r o c h e d a t i ! Non c e r t o
«un'assolutadisperazionedelvero»,ma «una fede assai condizionata nel valore di
quelle forme del vero che la mente umana accoglie in sè successivamente »;
un « abito di mente critica inquisitiva per eccellenza, che non riposa mai o
quasi mai in una conchiusione, che rifà di continuo i proprii
convincimenti ». Abito di mente, insomma,da spettatore,non da artefice
della verità. E chi lo afferma si vede bene che,accortosi della vanità di
questo affaticarsi perenne nel tentativo sublime,quanto a sè,intende
mettersi da un canto,e stare a vedere.Qui, nella ricerca della verità, non
c'è l'anima del Barzellotti.Di questa ricerca egli non vede se non una vita
vana,dicui nessuno spirito può vivere.Onde vidirà: l'uomo è nato non tanto a
pensare quanto ad operare.E per operare ci vogliono quei saldi
convincimenti,che la scienza non può dare. Perciò è che la filosofia non può
prendere il luogo delle credenze religiose. Il Barzellotti non dice
propriamente perchè, e gira attorno a questo problema,che è dei più delicati
circa il valore della filosofia. Ma fa alcune osservazioni,che ritraggono lo
spirito dello scrittore. Non tutti possono vivere su principii, che siano
il risultato del ragionamento; infiniti sempre attingeranno la norma delle
azioni « dal cuore,dall'immaginativa, dalla fede, dalla per suasione affettuosa
immediata,da un che in somma non ragionato, m a sentito e i n t u i t o »
. C o n t r o c h i c r e d e , c o m e il R e n a n , che p o s s a la
scienza un giorno trasformare e governare tutta la vita,bisogna notare che «
delle due forme di conoscenza ond'è capace la nostra mente,la concreta e
diretta,o vuoi intuitiva, ha sull'astratta e sulla riflessa infiniti vantaggi
nella pratica della vita. Se non che,tale appunto quale è,ottimo istrumento e
guida all'azione,la conoscenza intuitiva ha in sè questo di più specialmente
proprio e suo e d'op posto all'indole del sapere scientifico.; appunto perchè
concreta, particolare e attinta dalla viva esperienza e quasi dal contatto
delle cose e degli uomini, essa è tutta individuale, e per ciò
incomunicabile:più che vera e propria cognizione, potrebbe dirsi un certo tatto
finissimo. La scienza stessa., in ciò ch'essa ha in sè di più intimo e
d'organico, presa come un tutto che si muove e vive d'una vita inseparabile da
quella d'ogni mente che l'ha in sè e l'ha fatta sua propria, riesce non meno
individuale e incomunicabile di quello che sia l'intuito, l'arte, l'esperienza
immediata,la convinzione istintiva ». Qui n d i l ' i n e f f i c a c i a della
scienza ; q u i n d i il segreto della forza delle religioni,che s'impossessano
di tutto l'uomo. Perchè la religione abbia quest'afflato, che manca alla
scienza, il Barzellotti non dice.E la verità dell'osservazione consiste,a
parer mio ,nell'esperienza personale dell'autore, di cui essa deve ritenersi un
indizio. È la scienza sua,da cui egli si sente ingombra la mente,non
riformata l'anima,che non può cacciar di nido la religione.Se la
metafisica, l'alta veduta speculativa investe tutto l'uomo nei grandi
pensatori, egli è che il pensatore in fondo è un artista.Onde ilBarzellotti
plau dirà al pensiero del Taine (in Idéal dans l'art): « che tra i diversi
modi,in cui l'uomo coglie la verità delle cose,il più potente e il più vero è
l'Arte.Essa infatti penetra,per dir così,giù sino al cuore del grande organismo
della natura,e non si limita a darcene,come
falascienza,soloilprofiloesterno,leleggigenerali quantitative,ma ce n'esprime
l'intimo senso,ce ne fa sentire nel loro lavorìo se greto le forze vitali, le
potenze originarie e germinali » (1). E al Taine tributa la gran lode di aver
avuto « anima e mente da ca pire come la scienza,che ci dà solo gli elementi
generali e comuni dei fatti e delle cose,non riesca nello studio dello spirito
umano a rendercene tutto il vero, se non è compenetrata con l'Arte, che
intuisce il particolare, l'individuale, ciò che sfugge all'analisi e al
l'astrazione » (2), E l'autore continua : « Qui sta con buona pace
dellapedanteriatogataditanticheoggisichiamanodotti– la superiorità
dell'Arte,se siagrande e vera, sulla scienza pura, quanto al comprendere l
a vita, il c a r a t t e r e e i sentiment i u m a n i . Si può esser certi
infatti che nessuno specialista, nessuno scienziato nello stretto senso della
parola,arriverà mai a scuotere una di quelle grandi verità della coscienza e
dell'ordine morale,che finora sono state trovate tutte dai fondatori di
religioni, dai metafisici sommi – artisti del pensieroessipure—
daipoeti,dagliscrittori,da co loro che il volgo degl'indotti e dei dotti chiama
uomini non p o sitivi » (3). (1)Ippolito Taine, Roma, Loescher, 1895,pp.
191-2. (2) Ivi, p. 149. (3) Pag. 150. E così ci accostiamo al po'di
filosofia del Barzellotti: a quel po'almeno, che è la nota metafisica vera e
sincera, che risuona nel l'anima sua. E questa nota suona spesso negli
scritti del Barzellotti, benchè non sia che una nota.La religione,dice
in uno scritto su L'idea religiosa negli uomini di stato del risorgimento
(1887), è «qualcosa di analogo all'artee d'irriducibile,per una legge del
nostro spirito,ad altre forme della sua vita interiore »: « la cer tezza delle
verità religiose venirci dal sentimento e dall'intuito, e appartenere a un
ordine affatto diverso da quello della certezza che cipossonodare le
dimostrazioni della ragione» (1).– Enellostudio La giovinezza e la prima
educazione di A. Schopenhauer e di G. Leopardi (1881): « L'uomo, egli (lo Sch.)
soleva dire con parole che esprimono forse l'aspetto più nuovo e più vero della
sua filo sofia, ha le sue radici nel cuore, non nella testa » (2). Quindi quel
sentimento,che in uno scritto,anche precedente,sullo stesso Schopenhauer, è
detto « ormai cessato da un pezzo in Germania; ma dura tuttavia, e cresce nei
lettori colti d'ogni paese.: quello del bisogno che tutti abbiamo,ma che in
specie gli studiosi hanno di stringersi in più intima armonia colla natura e
colla realtà » (3). Questo estetismo o misticismo estetizzante venne al B.
dai ro mantici tedeschi,dallo Schopenhauer,oggetto di suoi studi insistenti?
Certo non ha che vedere col suo preteso criticismo, che è uno scetticismo
ingenuo, appenalarvato.
Ma visiriconnettenelsensoche, dimostrandoci il
temperamento spirituale dell'uomo, ci fa inten dere la sua naturale avversione
alla vera e propria filosofia.Questo estetismo a me pare appunto la tendenza
naturale del suo spirito; e non prende infatti la forma dimostrativa e
sistematica,che in altri scrittori si atteggia almeno a una critica
gnoseologica del natura lismo, dal Barzellotti non mai fatta; ma resta sempre
una ten denza, che determina l'indirizzo degli studii del Barzellotti, quando
egli trova la sua strada.Più che un concetto pensato e ragionato dalla sua
mente,è un carattere reale della sua mentalità:per cui egli si può dire che
abbia trovato la sua strada quando ha comin
ciatoascrivereisuostudiieritrattiesaggipsicologici,intorno a
scrittori,indirizzi di cultura,epoche o popoli:dove non ha certo teorizzato
sulla tendenza, che ho detto, ma ha obbedito ad essa, cercando il concreto,
l'individuum ineffabile, con l'intuizione del (1) D a l r i n a s c . a l
r i s o r g ., p . 163 . (2 ) S a n t i , p . 4 1 5 . (3) Op . cit ., p .
4 0 5 - l'artista, vedendo, come egli disse, « nello studio
dell'uomo oltrechè un'arte d'intuito e di
divinazione felice,la lenta opera d'una scienza che ormai ha saputo prendere la
sua via in disparte dai sistemi »: rimettendo,insomma,in armonia sè con se
stesso, riducendo tutta lafilosofiaall'arte, cui natura più lo traeva. Se
nonsivogliadire arte,dicasi storia; ma illavoro mentale del Barzellotti non
mira al di là della rappresentazione individuale del concreto.E questa è la sua
filosofia; la quale ha inteso a «unireilpiùpossibile- egli dice l'arte alla scienza
» e « provarsi a ritrovare sui modelli vivi, che danno la storia, le
biografie intime e l'osservazione delle cose sociali,quanti più poteva dei
tratti veri,parlanti di quell'anima umana, che la scienza delle scuole e delle
accademie ci ha per troppo tempo fatta conoscere solo in copie
vaghe,generiche,lavorate di fantasia e di maniera »(1). Da S. Agostino al
Lazzaretti, dalla psicologia delle tentazioni a quella del pessimismo
filosofico, dal Taine al Nietzsche, dallo spi rito paganeggiante del rinascimento
alla tempra morale della deca denza, alla religiosità dei nostri uomini del
risorgimento, al river bero della nostra anima nazionale nella letteratura, il
Barzellotti dall'8o in circa ad oggi si può dire che abbia raccolto tutte le
forze della sua mente intorno a particolari problemi storici di psicologia,
cercando così attraverso i procedimenti intuitivi dell'arte quella ve rità alla
cui visione non s'era potuto elevare col metodo razionale del pensiero
speculativo:spargendo, in verità,gran copia di osser vazioni fini ed acute
principalmente sulla storia dellaforma mentis, com'egli ama dire, del popolo
italiano.Se incotestaarte, peraltro, egli sia riuscito di solito a toccare
il segno,non è il luogo questo di ricercare: se dovessi esprimere il mio giudizio,direi
che per sif fatte indagini di storia psicologica al Barzellotti manca,per otte
nere la rappresentazione piena e viva dell'anima umana,ciò che forma davvero lo
storico e l'artista: lo sguardo diretto all'intimo della individualità; la
quale non si potrà mai ricostruire,se non s'affisa prima di tutto il centro
vitale del suo organismo; laddove il Barzellotti gira troppo con considerazioni
e divagazioni generali intorno ai personaggi e agli stati morali presi a
studiare.E gli manca altresì, per lo più, quella piena e diretta conoscenza dei
particolari, in mezzo ai quali soltanto è dato d'imbattersi negl'individui
vivi, in quelle anime vere, che il Barzellotti è andato cercando. (1)
Santi, pp. XII-XIII. Di questa sua veduta estetizzante dello spirito umano
bisogna ricordarsi per intendere nel loro genuino significato i motivi della
comunicazione fatta dal Barzellotti intorno al metodo storico nella trattazione
della storia della filosofia al congresso romano di scienze storiche nel 1903
(1): contro la quale insorse il vecchio Lasson in nome della universalità
della ragione e della scienza (2). Pel Barzel lotti la filosofia dev'essere
rappresentata dallo storico come la filo sofia di una nazione o di
un'altra,quale in una certa epoca essa si costituisce in stretta attinenza con
tutte le condizioni della cultura circostante, e sulla base degli abiti e delle
forme di mente individuali del filosofoo prevalenti nel tempo dilui.E certo una
storia per ogni parte compiuta della filosofia non può non tener conto ditutta
cotesta condizionalità dei sistemi filosofici; ma ad un patto: che si rammenti
non essere la condizionalità, nè qui nè altrove, la realtà condizionata;e
quando tutta la cultura contemporanea che agi sullo spirito di Kant sia nota,e
tutta spiegata la psicologia per sonale di questo pensatore e del suo
secolo,restare tuttavia da in tendere tutta la sua filosofia, in quel che ha di
veramente filosofico, ossia di valore universale ed eterno. Qui la verità
affermata dal Lasson,edal Barzellotti disconosciuta, per quel suo occhio, fatto
per vedere il particolare,cieco all'universale. E poichè l'universale è
l'intimità vera delle menti speculative,anche qui ei conferma ilsuo difetto di
attitudine vera a penetrare nell'intimo degli spiriti. Egli vede i p e n s a t
o r i, e n o n v e d e il pensiero; e però non vede n è a n c h e veramente
i pensatori.Ne son
prova isuoi molteplici saggi sullo Schopenhauer e sul Kant. Ma il
Barzellotti è stato forse letto invano per la cultura intellettuale e morale
italiana? Io non credo:non èstato un filosofo, e neanche un artista riuscito;
ma è pure stato un nobile scrittore, che ha agitato molte menti e molti cuori
intorno a questioni morali e religiose troppo trascuratetra noi; è statoun
lucidospecchio di molta parte della cultura filosofica straniera
contemporanea;ed è stato un forbito scrittore, imitabile esempio ai
pedanteschi filoso fanti italiani degli ultimi tempi. (1) Di alcuni
criteri direttivi dell'odierno concetto della storia, che re stano tuttora da
applicare pienamente e rigorosamente alla storia della fi losofia, massime di
quel periodo che va dal Rinascimento a Kant, negli Atti d e l C o n g r . i n t
e r n . d i s c . s t o r . ( R o m a ). Fra i più malagevoli
ufficj della Critica istorica è per certo il determinare come e quanto
contribuisca l'inge gno di ciascun popolo alla sua grandezza intellettuale e
civile, di quanto egli sia debitore alle tradizioni dei suoi maggiori,o alla
civiltà delle nazioni contemporanee; que stione ardua , e più che alla storia
appartenente alla F i losofia, perchè risguarda una legge intima ed arcana
della natura,onde nell'armonia delle facoltà umane s'avvicenda l'operare e
ilpatire,ilconservareeilprodurre,la reve renza alle tradizioni e la libertà
dell'ingegno inventivo. Alla difficoltà d'un tale esame,la quale cresce a
misura che ci avanziamo verso i tempi più antichi,in cui fanno difetto i
documenti e le notizie necessarie ad illustrarne la storia, sono dovuti i
giudizj severi di molti critici in torno alle lettere e alla filosofia
de'Romani; giudizj che introdotti da un pezzo nelle scuole,e avvalorati dal
quasi comune consentimento,negano del tutto o quasi del tutto indole nuova ed originale
alle manifestazioni dell'ingegno latino. Gli argomenti che si allegano per
sostenere tali sentenze io mi dispenserò dal recarli, e perchè assai noti nella
storia delle lettere e della filosofia, e perchè tutti 1 Questa
ultima affermazione tanto più è conforme alla storia,in quanto,sebbene la
maggior parte dei critici odierni ricusi da un pezzo nome autorità di filosofo
al senatore romano , è per altro consentito da tutti che i suoi scritti
filosofici si conservarono chiari per benefica efficacia lungo tutta la
decadenza delle lettere e delle scienze latine, e per avere mantenuto e
trasmesso nei principj dell'Era cristiana, e giù pel Medio Evo le dot trine
della filosofia greca alle scuole de'Padri e de'Dottori, 2- concordi nel
sostenere che ai Romani , poco atti sin da principio per naturale tempra
d'ingegno, e distolti per lunga età dalle intestine discordie, dalla brama del
d o minare e dall'esercizio delle armi, e finalmente abba gliati dallo
splendore della civiltà greca,mancò una libera disposizione a ritrarre e a
creare il vero ed il bello negli esercizj della scienza e dell'arte.(Degerando,
Brucker, Tennemann,Ritter,Kuehner ed altri).Ai quali argomenti quando per sè
non rispondesse abbastanza la ragione istorica,la quale vieta potersi sempre dedurre
da ciò,che un popolo fece in certe condizioni di tempi e di civiltà, quello che
in altre condizioni avrebbe potuto e saputo fare; se non mostrasse il contrario
la scuola dei Giure consulti,che dalla coscienza del genere umano e dalle forme
logiche greche compose con tradizione costante quella scienza del gius
costitutrice delle nazioni europee, se l'Eneide emula all'Iliade, Lucrezio
maggiore d'Esio do,la Commedia di Plauto,le storie di Livio,di Sallustio, di
Tacito, la Satira togata di Giovenale e di Persio, l'Elegie di Catullo non
indicassero assai che il genio latino,libero nella imitazione,seppe aggiungere
all'ideale del vero e del bello greco un che d'universale e di so lenne, un
certo senso pratico e positivo, e un'intima ri velazione degli umani affetti,
ignota fin allora ai Gentili e resa più perfetta dal Cristianesimo,io mi
restringerei alle sole opere filosofiche di Cicerone,che sono, parmi, una fra
le prove maggiori del come la scienza deinostri padri, modestamente operosa,
recasse la sua parte alla civiltà universale. e all'età
delRinnovamento.(Ritter,Hist.dela Phil.an cienne,tom.IV, p. 136,e nota 2,Paris,
1858,Ladrange. Kuehner,M. T.Cic.inphil.ejusq.partesmerita.Ham burgi, 1825, P.
V. C. IV. Epil.) La storia della Fi losofia ci mostra di fatto che Cicerone fu
a’Padri latini molto in pregio,e segnatamente a Lattanzio che lo chiama
eccellente, e lo cita nel de Opificio hominis, e nelle In stitutiones divinæ
più volte; poi a sant'Agostino che ri conosce dall'Ortensio la preparazione al
cristianesimo, e in più luoghi della Città di Dio,e altrove lo cita o ne tira
le dottrine; altresì a san Girolamo che tanto l'amò da riferire in una sua
epistola il sì famoso castigo avu tone divinamente, poichè, meglio di
cristiano, meritava chiamarsi Ciceroniano.Fra iDottori più principali è noto
come Boezio togliesse da Tullio il pensiero sulle consola zioni perenni della
filosofia, e apparisce lo studio che di questo egli fece sì da'pensieri e sì
dallo stile; come san Tommaso ne arrechi l'autorità in più luoghi della sua
Somma,comeDante lomeditasse;piùtardinelsecolo decimosesto Erasmo lo esaltava
con lodi famose, e nel decimosettimo l'Autore della Scienza nuova attingeva in
parte dal libro de Legibus il pensiero d’un gius ideale eterno celebrato nella
città dell'universo col disegno della Provvidenza. Ad una fama sì lunga e sì
costante, e che per certo doveva avere una causa non soltanto, come si afferma
generalmente, in quella forma popolare e spontanea, onde le dottrine del
filosofo latino si porgevano all'educazione morale e civile, m a
nell'intrinseco loro valore speculativo, non disconosciuto nè anche oggi da
uomini egregj (Forsyth, Life ofCicero,London,1864,vol.II,XXV,p.282),con
trastano singolarmente i giudizj di alcuni critici piùre c e n t i . L a o p i
n i o n e e s p r e s s a d a t a l i g i u d i z j, a v o l e r l a r i a s
sumere in breve,è la seguente:M. T. Cicerone,ingegno universale, acutissimo e
disposto ai combattimenti dell'elo quenza, più che alle severe indagini
speculative, pensò e compì negli anni del suo ritiro dalla pubblica vita un
compendio largo, chiaro, eloquente della filosofia greca 3
in servigio dei suoi connazionali digiuni sino a quel tempo di tali
studj, o costretti ad attingerli da fonti greche. Da questa pretesa insufficienza
dell'ingegno speculativo di Tullio,dal fine pratico e letterario
ch'e'sipropose,e dal difetto di studjpreparatorj la Criticamodernadeduce la
natura delle sue dottrine; le quali,benchè guidate sempre da criterio sano, e
da una retta applicazione del senso comune,non vanno troppo addentro nei
fondamenti della scienza, affermano per lo più senza esame maturo, nè
costituiscono,come le dottrine dei migliori filosofi greci, un largo e ben
architettato disegno di scienza.(Brucker, H i s t . C r i t . P h i l ., V . I
I , p a r . 2 , p . 1 . C . 1 . T e n n e m a n n , G. Bernhardy, Grundriss der
Römischen Litteratur. Braunsweig, 1862, pag. 769, $ 119.) 2. Facendoci a
cercare l'origine di tali giudizj abba stanza severi,parmi se ne potrebbe
addurre innanzi tutto unacausaassairemota,ma inparterelativaalmodoben
differente, con cui gli antichi e i moderni giudicano il valore di certi uomini
e di certi principj. Tale è la ri forma cominciata in Italia col Bruno, col
Cartesio in Francia, e in Inghilterra con Francesco Bacone,che spez zando ogni
autorità del passato,e quanto sino allora un'eccessiva venerazione avea recato
a fastidio,proclamò l'assoluta libertà della riflessione filosofica, l'assoluta
novità dei sistemi. C o m e s'intendessero quella libertà, e quella novità ; e
quali resultati ne seguitassero alle let tere, alle scienze, alle arti,al
vivere privato e civile,come se ne avvantaggiasse o ne patisse la Morale e la
Reli gione,la Scuola,la Famiglia e lo Stato,non è qui luogo a mostrarlo,e le
son cose oggimai troppo note. Nè io voglio negare i benefizj innegabili della
riforma,e soprat tutto di quella introdotta nelle scienze sperimentali dal
Galilei,eda FrancescoBacone;chè,selariflessioneli bera ed esercitata desunse
mirabili frutti di dottrina da ogni campo dell'umano sapere, e se ne
avvantaggiò la scienza dell'uomo, ne crebbero l'erudizione, la filosofia, le
discipline morali e civili; perfezionò i suoi metodi la Medicina, si levò
gigante la Chimica ,la Geologia sfogliando -4 illibrodellanaturavilesseleetàdelmondo;se
tanti incrementi ne provennero alle industrie e alle manifat ture, onde il
viaggiatore trascorre paesi e province con v e l o c i t à p i ù c h e u m a n
a , e i n m e n d ’ u n b a l e n o il s a l u t o r i congiunge gli
amici,benchè separati dalla immensità del l'oceano, di tutto ciò alla riforma
della filosofia è debi trice l'Europa. M a le è pur debitrice di quella
inquieta brama del sapere speculativo, onde si successero sistemi a sistemi del
tutto nuovi sui più impenetrabili misteri della conoscenza umana,e quel nuovo
si cercò da molti nell'inusitato e nello strano più che nel vero ; così co
minciata in Italia ed in Francia la licenza della rifles sione esaminatrice sui
fondamenti della filosofia, ecco il panteismo superbo del Bruno, del Campanella
e dello Spinosa;poi,scontenti del panteismo,ci diedero dottrine dualistiche il
Malebranche e il Guelinx , l'idealismo e il sensismo ci vennero dal Berckeley e
dal Locke,lo scet ticismo dal Bayle e dall’ H u m e ; più tardi le sconfinate
immaginazioni degli Alemanni,e un ridurre Dio e l'uni
versoall'uomo,dall'uomoalpensiero,dalpensieroall'idea, dall'idea novamente alla
materia, ed ultima conseguenza di tutto uno scetticismo più sconsolato, un
correre con tinuo a una felicità e a una beatitudine ignota senza rag giungerla
mai ;ecco i resultati dell'aver voluto tutto inno vare !Posta in tal guisa la
filosofia su questo cammino delle restaurazioni assolute, e detto una volta che
la scienza dee rifar la natura (non,come è chiaro,dovere anzila scienza presuppor
la natura tal quale essa è, con tutti i suoi dati, con tutte le sue relazioni,
dover verificarla, non annientarla ), l'indirizzo introdotto nell'esercizio del
pensiero filosofico da quella folla di sistemi eccessiva mente inquisitivi,
doveva esser tale,che quando poi,sof fermata un istante la foga delle
invenzioni, il pensiero istesso si sarebbe rivolto sopra i suoi passi, e ne
sarebbe nata compiuta e perfetta la storia della filosofia, quella storia
ritenesse come presupposto del suo metodo, che unico,o quasi unico criterio per
giudicare della eccellenza di un filosofo e della sua filosofia, fosse
l'assoluta indi 5- 6 pendenza del pensiero esaminatore dallo
stato della n a turale certezza, fosse in una parola la compiuta novità del
sistema. A questo criterio, desunto dallo scetticismo e padre di parziali
opinioni, furono conformati più o meno quei metodi falsi e incompiuti che si
seguirono da oltre mezzo secolo in qua nello scrivere storie della filosofia,
onde ne derivò in Francia e nella Germania una folla di libri, come ad esempio
la storia comparata dei sistemi del Degerando,e la storia del Tennemann,dove si
giudi cano le varie filosofie alla stregua del problema sull'ori gine
dell'umane conoscenze, e dall'avvicinarsi che esse faccian più o meno alle
dottrine del criticismo di Kant; e un tal criterio ci spiega come più tardi
negli storici più temperati e meno imparziali,segnatamente Alemanni, e nei
filosofi delle altre nazioni, immuni dal criticismo, continuasse ereditato
dalla riforma questo soverchio studio dei sistemi inventati, esclusivi, che
ricusano dalla natura qualunque presupposto sull'efficacia delle potenze
conosci tive, e se ne avvalorasse l'opinione levata a cielo ne’diarj e ne’libri
di filosofia, sulla così detta individualità d'ogni sistema,e incomunicabilità
delle dottrine speculative. C o n siderate le quali cose,non dovrebbe far
maraviglia se quel tempo che corse tra lo scorcio del secolo decimosesto e i
principj del decimosettimo,quando Italia e Francia,stanche dell'autorità abusata
dagli scolastici, volevano innovare tutta quanta la scienza (e fu allora
appunto,come nota il Brucker, che si tentarono i primi lavori speciali sulle
dottrine dei Romani e di Cicerone),se quel tempo, dico, non era troppo
opportuno a giudicare imparzialmente una filosofia studiosa delle più antiche e
venerate tradi zioni.E nel vero anche piùtardi intuttoilsecoloXVII, se
n'eccettui coloro che rifiutarono i dubbj del Cartesio, m a tennero il suo
metodo d'esaminare la coscienza, quali il Bossuet, il Fénelon e i più segnalati
di Porto Reale, agli altri che s'appresero ai dubbj, e venner giù giù n e gando
i pregj dell'antichità,nemici d'ogni tradizione,non poteva andare a genio
davvero quella riflessione modesta e tranquillamente efficace che il grande
oratore avea 1 recato sulle verità eterne della coscienza,
desumendone le armonie universali delle dottrine greche temperate dal senno e
dalla moderazione latina. (Vedi l'opinione che ebbero diTullioilPomponaccio
eilCampanella,citatidal Brucker,pag.49,tomo II,notaa.) M a d'altra parte, se
per ispiegare questa opinione si nistra invalsa in Europa contro la letteratura
e la filosofia d'un popolo,che fu per eccellenza il popolo delle tradi
zioni,giova riportarci alle sorgenti diquella Critica, ec cessivamente nemica
al passato, questi giudizj poco reve renti che oggi si ripetono dai più,
apparvero solo nella Storia della Filosofia nata ne'principj del secolo passato
in Germania ed in Francia.Tra ifrancesi,per tacere dei p i ù a n t i c h i , il
D e g e r a n d o v i s p e n d e il c a p . X V I I I d e l l a s u a Storia
comparata dei Sistemi,dove enumerati prima gli ostacoli che impedirono ai
Romani un proprio esercizio dell'indagine speculativa,nota opportunamente non
essere stata abbastanza osservata dał comune degli storici la grande efficacia
che ebbe l'ingegno latino sulla Filosofia trapiantata di Grecia, ond'essa
assunse colore ed indole più positiva, e dalle soverchie astrazioni si
ricondusse al reale. Passa poi ad esaminare gli scritti di Cicerone nel quale
rinviene le note distintive d'ogni altro filosofo ro mano,cioè una scienza
desunta dalle greche tradizioni e composta con metodo ecclettico dalle scuole
differenti, una scienza accessibile ad ogni intelligenza educata, e confa cente
a spirar vita nell'eloquenza, ne'costumi, nell'arte politica; scienza
supremamente pratica e applicabile agli individui e agli stati. (Histoire
comparée des systèmes de philosophie considérés relativement aux principes des
connaissances humaines, par M. Degerando, tom. III, parte I, 1823.) Giudizj
assai meno temperati comparvero inAlemagna, dove fiorendo mirabilmente le
discipline filosofiche e isto riche, e pubblicandosi tuttodì lavori speciali
che illustrano con somma accuratezza ogni parte delle lettere antiche, prevalse
però più che altrove la severità della Critica, che negava ogni nota originale
alle lettere e alle scienze C Tra i critici alemanni va
innanzi agli altri in ordine di tempo e di autorità Giacomo Brucker vero
fondatore della Storia della Filosofia.Ma considerando però il ca pitolo dove
egli parla della filosofia de'romani e di Cice rone,ti accorgi tosto che
quell'uomo dottissimo moveva egli pure dal presupposto non esservi stata in
Roma che una semplice continuazione delle scuole greche ;e secondo le varie specie
di queste scuole divide lo storico il suo trattato intorno alle dottrine romane
annoverando Cicerone tra iseguaci della Nuova Accademia ;quantunque confessi
poco appresso ch'ei non seguì alcuna forma particolare di setta,ma inclinò a
quel Sincretismo istituitoda Antioco. Veramente ilBrucker nel proporsi
ilquesito,perchè mai i Romani e Cicerone non crearono una filosofia propria,non
ne accusa, come oggi il Forsyth, la infelice disposizione dell'ingegno latino
(the unmetaphysical character of the Roman intellect.Life of
Cicero,vol.II,p.282);ma quanto ai Romani in generale ei ne trova la causa nelle
occupa zioni della vita civile, e nella setta Accademica, che cri ticando e
sindacando tutti isistemi,svogliava gl'intelletti da nuove speculazioni ; e
quanto a Cicerone, nella natura del suo ingegno, più immaginoso assai che
penetrativo, ond'egli (dice lo storico) preferiva il probabile all'esame
profondo del certo, e delle greche dottrine rappresen tava nelle sue opere la
parte viva e oratoria più che il severo ordine dei giudicj e delle deduzioni,e
la generale armonia del sistema.(Brucker,Hist.Crit.Phil.,tom.II.) Al giudizio
dato dal Brucker si avvicina in gran parte quello del Tennemann ,e nelle loro
opinioni v'ha molto di vero e di certo, oltre la solita accuratezza nella
esposi 8 latine, appoggiandosi ben di frequente a così deboli prove da
far credere quasi che la movesse un'infelice gelosia di nazione. Ora da qualche
anno in Inghilterra e nella stessa Germania si torna con più studio al passato,
e molte parzialità si correggono ; ed io sono certo che ri composta in pace
l'Europa,ilprimo debito di giustizia alle memorie latine lo pagheranno gli
scrittori di quelle grandi e generose nazioni. 1 zione dei fatti;ma
per quanta possa essere la reverenza dovuta ai due storici insigni della
Filosofia, come non accorgersi che il loro esame,informato da un criterio an
ticipato e parziale, riesce insufficiente a cogliere il vero significato d'una
dottrina, come quella di Cicerone, la cui nota essenziale consiste nel rifiuto
d'ogni opinione di setta, e in un principio universale, che supera ogni si
stema ? M a se tanto può dirsi a buon dritto del Brucker e del Tennemann,
merita più speciale considerazione l'esame assai temperato,e per certo
ingegnoso,che fece degli scritti filosofici di Tullio, Enrico Ritter nella sua
storia della Filosofia antica. 3. Le indagini dotte e meditate del Ritter
movendo dai tempi antistorici della Filosofia,e procedendo lungo i tempi della
civiltà indiana, ionica e delle colonie italo greche fino all'origine delle
scuole socratiche, da queste al loro declinare e disperdersi in una confusione
di sistemi sparpagliati e sofistici, giungono a quello ch'ei chiama terzo
periodo dell'antica filosofia, all'età che intercede tra ilcadere delle repubbliche
greche sotto la romana, la rovina di quest'ultima, e il sorgere del
Cristianesimo. Due cause potenti egli allega del nuovo indirizzo preso in
quella età dalla filosofia greco-romana,e le ritrova nella storia delle due
nazioni, che allora si ricambiavano una vicendevole efficacia nelle lettere, e
nelle scienze, e nel vivere privato e civile. Nei Greci, perchè la costoro
scienza impoverita oramai dall'uso eccessivo della facoltà creatrice nei tempi
anteriori, dallo scadimento della li bertà e dei costumi, e costretta, per
accomodarsi all'in gegno e all'educazione dei nuovi dominatori,a vestire le
forme ed il metodo d'una disciplina scolastica, non d e sunse più le sue
dottrine immediatamente dalla riflessione, ma ritornò agli antichi sistemi,li
paragonò,li esaminò, li accordò, desumendo da essi stessi e incompiutamente,
non dalla natura intima del pensiero, il principio del l'esame e dell'accordo.
Nei Romani, perchè essi non of frirono ai Greci alcuna guarentigia di riforme
scientifiche, -9 ma vissuti sino a quel tempo in mezzo ai
tumulti della vita civile,e fra lo strepito delle armi,tranne una certa
tendenza, che li moveva agli ordinamenti giuridici, nè la natura, nè la
educazione loro si porgeva punto alle indagini della scienza. Quindi (osserva
ildotto Alemanno) era ben naturale che, date quelle condizioni morali,civili e
scientifiche, dall'accoppiamento dell'ingegno greco e latino derivasse un
Ecclettismo erudito; derivò infatti; e di questa filosofia, l'indole della
quale è sostituire la li bertà della scelta alla libertà dell'ingegno
inventivo, accomodarsi alla natura degli scrittori,abbandonato l'or dinamento
scienziale non fidarsi all'esame, e se occorre, attenersi principalmente
all'autorità del consentimento comune,eitrovò la più importante manifestazione,oltrechè
nel pendio generale dei tempi,nella vita,nell'animo e nelle opere di Cicerone.
Ei ne considerò con raro accor gimento la vita,e vedendo come la parte ch'ei
tiene nella storia della Filosofia, è perfettamente d'accordo con quella che occupò
nella storia civile dei tempi ; come furono le medesime qualità e gli stessi
difetti che, se lo levarono alto nella vita pubblica e nella filosofia, non gli
consen tirono per altro di giungere al sommo e nell'una e nel l'altra, ricercò
queste qualità e questi difetti nell'indole di lui, e non gli parve rinvenirvi
accoppiata alla vivezza dell'ingegno oratorio, al sentimento squisito del
diritto, all'amore per gli altri,e particolarmente pe'suoi,all'ope rosità
indefessa,a una rara previdenza dell'avvenire,quella sicurtà in sè stesso e
quella fermezza di volere che costi tuisce il grande scrittore e l'uomo di
stato. Condotto, egli dice,dall'efficacia di condizioni esteriori a filosofare,
come nella sua gioventù, mentre applicava la filosofia all'esercizio dell'eloquenza,egli
avea frequentato le prin cipali scuole di Grecia, così nel suo ritiro dalla
pubblica vita non seguì una dottrina particolare, ma trascelse il meglio di
tutte; la quale incertezza di studj, che non a p profondivano la scienza, ma la
assaggiavano appena, ri sentiva della incertezza della sua condizione politica,
perchè ei scrisse le sue opere principali durante gli scon 10
volgimenti del primo triumvirato,la dittatura di Cesare e il consolato di
Antonio,tempi calamitosi per la libertà, nei quali escluso da ogni ingerimento
civile, e fuggendo il cospetto degli scellerati, andava consolando la sua soli
tudine colle meditazioni della scienza.Era quindi ben naturale che il grande
oratore, vissuto da lunghi anni in tanto splendore delle pubbliche faccende,
non si ripo sasse volentieri negli ozj solitarj delle sue ville ; la d e
bolezza innata dell'animo suo, come gli avea impedito di rimaner fermo al
governo delle cose civili, di valersi della sua autorità per contrastare ai
principj della ti rannide cesarea, ora gl'impediva di darsi a tutt'uomo agli
studj della filosofia; ed ei ne scriveva ad Attico, e all'amico dipingeva con
vivi colori questo penoso on deggiar ch' ei faceva tra l'amore onde era tratto
agli studj, e il desiderio di prender parte ai pubblici affari, tra la sfiducia
sua nelle consolazioni della scienza,e una sublime speranza che lo levava al
disopra delle umane cose. Da queste intime qualità dell'indole di Cicerone
deduce l'istorico Alemanno la natura della sua filosofia, ch'è,secondo lui,un
moderato scetticismo,espressione fe dele di animo titubante;scetticismo
moderato,perchè seb bene talvolta, oppresso dal peso delle sventure proprie e
della patria, ei mostri dubitare del vero eterno e della virtù, nondimeno
conserva sempre intemerata la nobiltà d e l l a v i t a , e il d e s i d e r i
o d i u n a m o r t e g l o r i o s a ; m a t u t t a v i a scetticismo, perchè
riconoscendo la natura assoluta del vero, ammette solo come verosimili le
dottrine che ne d e rivano, e dubitando interroga tutte le scuole, prende ad
esame tutte le opinioni greche,e accordandole insieme più con intendimento
politico, che con vero criterio di scienza, ne vuole arricchire il patrimonio
della romana letteratura. Sennonchè tra le varie dottrine in cui si di videvano
le scuole greche, una ve n'era che s'accordava mirabilmente agli intendimenti,
e all'ecclettismo scettico abbracciato da Cicerone; e questa era la dottrina
della Nuova Accademia.Se Tullio infatti poneva ilfondamento della filosofia in
un dubbio moderato sui principj delle - 11 - umane
conoscenze, la Nuova Accademia , guidata allora da Filone, che gli era stato
maestro nella sua giovi nezza, riconosceva come legittimo questo dubbio, e lo
temperava con la verosimiglianza ; se l'oratore romano voleva che le dottrine
della filosofia conferissero ad a d destrare il pensiero e la parola negli
esercizj della elo quenza, nessuna scuola si porgeva meglio a questa di
sciplina della scuola dei Nuovi Accademici, che oltre all'essere stata sempre
frequentata da uomini eloquentis simi, si riduceva in sostanza a un metodo
disputativo ; infine se egli raccoglieva le principali dottrine della filo
sofia greca,per comporne una scienza accomodata all'in gegno
eall'educazionefilosoficadeisuoilettori,laNuova Accademia,che disputava contro
tutti e di tutto, che la sciava al filosofo la maggiore libertà dei proprj
giudizj, gli si porgeva opportuna a disegnare in brevi tratti ai Romani lo
stato della filosofia passata e contempo ranea, ad innamorarne i lettori, senza
perderli in vane e astruse dottrine, o incatenarli a un sistema. Cice rone
dunque (secondo l'opinione del Ritter) come ecclet tico dubitante,come oratore
e come espositore della filo sofia greca ai Romani, abbracciò le dottrine della
Nuova Accademia ;e va notato particolarmente, sì perchè questa è l'opinione più
universalmente accettata intorno alla vita filosofica di Tullio, e alla parte
che tengono le sue dottrine nella storia della filosofia, e perchè il comune
degli storici ricollega quasi sostanzialmente a quel si stema le sue opinioni
sulle parti principali in cui si divide la scienza. Così opina anche il Ritter,
e prendendo ad esame le opere tulliane, secondo la tripartizione plato nica
della filosofia più comune agli antichi (egli avverte però che,stante
l'incertezza dello scrittore e delle dottrine e la loro qualità, tutta pratica
e positiva, la distinzione delle tre parti non è abbastanza spiccata), rinviene
in tutte più o meno chiaro,più o meno deciso il dubbio della Nuova Accademia.
V'ha dubbio deciso nella parte fisica, perchè ivi abbondavano più che altrove
le dispute e le contradizioni dei filosofanti; dispute sulla natura delle
12 cose, dispute sull'esistenza e sulla natura di Dio e sua
provvidenza, sulla natura dell'anima e sua immortalità ; e di tutti questi veri
Cicerone o dubita compiutamente,o ammette solo una leggera verosimiglianza.
V'ha dubbio anche maggiore nella parte logica, anzi è questa la più povera e la
meno determinata di tutte le sue dottrine,e perchè ei la collegava meno d'ogni
altra agl' interessi pratici della vita,e perchè il sensismo degli Stoici e
degli Epicurei, che aveva a combattere, non potea tener fronte agli argomenti
della Nuova Accademia ; finalmente v'ha dubbio manifesto anche nella morale,
perchè s'ei con traddice ricisamente alla ignobiltà delle dottrine epi curee,
la controversia tra gli Stoici e i Peripatetici l o lascia indeciso da un lato
tra un'idea trascendente della virtù, a cui lo muove la grandezza dell'animo
romano, dall'altro la fragilità di natura ; incertezza che pure lo segue nella
politica, e nelle attinenze della politica colla morale. Talchè il Ritter
movendo dal presupposto che la filosofia di Tullio non fosse che
eloquente dell'indole particolare dello scrittore e dei tempi, negò ogni certezza
e ogni legame di scienza in ciascunasuaparte;ogniconcatenamentologicaledelle
tre parti tra loro (perchè quella logica e quella fisica non sono per lui che
un'appendice della morale, considerata da Tullio com'arte pratica della vita);
negò ogni unità di disegno scientifico, perchè mancava allo scrittore l'unità
del principio fondamentale, posto dalla riflessione, e a cui rispondesse
l'universale armonia del sistema.Onde a rias sumere in breve ciò che
rappresentino alla mente del l'istorico tedesco le dottrine tulliane,direi
ch'e'le con siderava qualcosa più e qualcosa meno d'un ecclettismo; ma una
scelta a cui manca e libertà di riflessione e cri t e r i o d i s c i e n z a .
( H i s t . d e l a P h i l . a n c ., l i b r o X I I , c a p . I I ,
vol.IV,ed.cit.) una manifestazione 13 Se noi ci siamo alquanto trattenuti
nell'esporre le opinioni del Degerando, del Brucker e del Ritter,è stato
segnatamente per due ragioni ; la prima perchè poteva recare non piccola luce
intorno ad una questione che abbiam preso ad esaminare,e su cui
sono infinite le dispute dei critici e de'filosofi, il giudizio degli storici
migliori che vanti la nostra scienza ; e in secondo luogo affinchè i pochi
cenni, che ne abbiamo dato,muovano gli studiosi a ricercare con maggior diligenza
le variazioni e iprogressi, che ha fatti sino a noi la critica sulle dottrine
filosofiche di Cicerone. Questa critica non pare immeritevole di qualche
considerazione, perchè rappresenta quasi in sè stessa quel moto graduale
dell'esame, e quel lento c h i a r i r s i d e ' p r i n c i p j s u p r e m i
, c h e g o v e r n a n o i f a t t i, o n d e si generava in Europa la storia
della filosofia. I primi tra questi storici,come Stanley e De Burigny, che
nuovi del cammino, e spaventati dalla grandezza dell'impresa, fecero lavori
imperfetti e meglio tentativi di storie, che storie vere, o tacquero affatto, o
poco parlarono di Cice rone che nella modestia delle proprie opinioni (magnus
opinator) non aveva dato un sistema. Negli storici se guenti, che abbiamo citato,
e segnatamente nel Brucker quella critica comincia a chiarirsi;vi si medita con
più ampio concetto la parte che ebbero i Romani nell'adu nare le greche
dottrine, nel farle proprie, e trasmetterle a noi;Cicerone v'è considerato,non
già come un filoso fastro qualelochiamò ilPomponaccio,ma comeunvasto e ben
disciplinato intelletto,che,scorrendo ilcampo della filosofia greca, ne
chiamava a rassegna ad uno ad uno i sistemi. E contuttociò quella critica era
ancora ben lon tana da un esame profondo e spassionato delle dottrine tulliane;
dovevansi emendare molte inesattezze, tor via molte preoccupazioni (qual
era,per esempio,quella che faceva di Cicerone un perfetto seguace della Nuova
Ac c a d e m i a , e u n e c c l e t t i c o d u b i t a n t e ), e , q u e l c
h e s o p r a t t u t t o importava,trattandosi di M. Tullio,che tanto ritrasse
da Socrate e nel metodo e ne'principj,conveniva cercare per entro alle sue
dottrine l'immagine della vita e del carat tere dello scrittore. Tale
intendimento apparisce in alcune memorie del sig.Gautier de Sibertche hanno per
titolo,Examen de la philosophie de Cicéron, lette all'Accademia francese
14 15 delle Iscrizioni e Belle Lettere, nella seconda metà del
secolo scorso ; dove si esamina accuratamente la parte oggettiva delle dottrine
tulliane, si dimostra il vincolo di sistema che le congiunge , e si difende
dalle accuse di scetticismo la fama del grande Oratore. Lavoro merite vole di
molta considerazione per sanità e profondità di giudizj, se a questa non
nocesse talvolta l'aver guardato più alla materia delle dottrine che alla loro
forma scien tifica, e considerato Cicerone come filosofo compiuto e dommatico
in ogni parte,anzichè avvolto di continuo nelle dispute degli opposti
sistemi.(Mémoir. de l'Acad. des I n s c r i p t . e t B e l l . L e t t ., v o
l . X L I , X L I I , X L V I .) A questi difetti sembra (come vedemmo)
riparare in gran parte l'esame del Ritter, che sebbene ritenga molto delle sue
opinioni private e di quelle della filosofia che lungo tempo ha dominato in
Germania, nondimeno rias sume in breve quanto di meno inverosimile può dirsi
sul preteso ecclettismo ciceroniano. E dirò anche di più, che l'esame del
Ritter, fondato com'è in una conoscenza profonda delle opere di Cicerone,
contiene innegabili verità, qual è quella,per es.,che nello svolgimento delle
dottrine del grande Oratore esercitasse una singolare efficacia i suoi tempi,
la sua nazione, la sua indole propria; che speciale qualità di questa indole
fosse sovente un ondeggiare fra la fiducia e la dispera zione del vero e del
bene eterno,e che a queste dubbiezze contrastasse efficacemente il senno
pratico della natura romana .M a d'altra parte noi siamo ben lungi dal credere
che il dotto Tedesco,e quanti innanzi e dopo ne tennero le opinioni, abbiano
considerato nel suo vero aspetto l'indole delle dottrine tulliane; chè, se non
può negarsi da un lato esservi in esse un che di necessariamente re lativo alle
condizioni dei tempi e alla natura dello scrit tore, e quindi mutabile, non
necessario e contraddicente alla natura assoluta e apodittica della scienza,non
è men vero dall'altro ch'ei pur rinvenne nell'intimo delle dot trine
contemporanee, e nello studio profondo dei veri eterni specchiati in sè stesso
e negli altriuomini,un cri 16 terio certo, universale, infallibile
da costituirvi la scienza. V’ha dunque nella filosofia di Cicerone questo che
di oggettivo e di soggettivo, di relativo e di assoluto, di mutabile e di
necessario ; m a l'una e l'altra qualità si ricollegano insieme per nodi di universale
armonia ; armonia di relazioni tra l'uomo di un tempo e l'uomo di tutti i
tempi,tra il romano e l'abitatore di tutta la terra, tra Cicerone oratore e
politico e Cicerone filosofo; armonia esterna e oggettiva a cui risponde
quell'altra interiore, attestataci dalla coscienza, tra il pensiero e
l'affetto, tra la volontà e la ragione,tra l'intelletto e le verità immortali.
E certo a queste considerazioni, disco nosciute dal Ritter e dagli altri
critici Alemanni, badò Raffaele Kuehner,autore sin qui del più compiuto esame
delle dottrine di Cicerone ch'io mi conosca,edito in A m burgo l'anno
1825,quando rispondendo al quesito pro posto da uomini dottissimi ; se Cicerone
meritasse o no il nome e l'autorità di filosofo,pensava che algrande Ora tore
s'appartiene giustamente quel titolo per l'ampiezza dell'ingegno,la vasta
cognizione delle dottrine contem poranee, l'uso ch'egli ne fece volgendole in
latino a cul tura e ammaestramento dei suoi concittadini, e infine per la
facoltà unica in lui, ond'egli seppe abbracciare tanta mole di scienza, fissare
l'indagine della riflessione sulle verità principali, e comparando tra loro le
varie dottrine, ricomporle coll'efficacia del proprio giudizio in unità di
sistema.(M.T. Cic.in phil.ejusq:partes merita, Auc.R. Kuehner.Hambur.1825. Pars
altera.Cap.VI; Utrum Cic.philosophus judicandus sit,nec ne,anquiritur,
pag.130.) E questi pajono anche a m e i meriti veri e innegabili del senatore
romano ; e nondimeno ogni qual volta io rileggo quelle sue opere, nelle quali
spira tanta univer salità di pensieri e d'affetti, universalità veramente
latina, incui ilvero è sìprofondamente immedesimato col buono, e tutta
s'accoglie la sapienza delle scuole socratiche, mi pare che la critica delle
sue dottrine possa ricevere a n cora notevoli perfezionamenti, sempre che col
chiarirsi Posto ciò, non sarà difficile, parmi, determinare con
sufficiente chiarezza in quali confini si contenesse l'effi cacia che l'ingegno
di Cicerone ebbe nella riforma della filosofia quand'essa fu trasferita di
Grecia in Roma, e in quali vicendevoli attinenze stiano tra loro quanto di già
meditato e discusso gli venne dalle scuole d'oltremare, e quanto vi seppe
recare egli stesso rivolgendo il pensiero sui fondamenti della scienza ,
questione che (conforme a quanto è detto più sopra) noi ci siam proposti di
chia rire nel presente discorso, fermandoci a tre punti segna tamente
:cioè,qual era la condizione della filosofia greco romana ai tempi di Cicerone,
e con qual metodo egli esaminasse e combattesse le dottrine delle principali
scuole tentando di conciliarle ; finalmente qual filosofia derivasse dalla
deliberata opposizione e dal metodo compositivo del l'Oratore latino.
successivo di quella legge,che regola la filosofia nel tempo, se ne va
perfezionando la storia. Ora quella legge può solo spiegare, a mio
avviso,l'ufficio della filosofia de’Giu reconsulti e di Cicerone, e
dall'ufficio desumerne la na tura e i principj. Può spiegarne l'ufficio, già
manifesto e considerato da molti rispetto alla Giurisprudenza e agli ordini
militari e politici, alla Religione e all'Architettura, che è di comprendere in
sè il buono degli altri popoli, tentando ridurlo a nuovi ordinamenti di
scienza; può spiegarne la natura, che è appunto quella comprensione universale,
tanto diversa dall'ecclettismo, che procede per accozzamento disordinato dei
sistemi,anzichè ricomporre le intime relazioni delle verità naturali sul
disegno della coscienza;finalmentepuòspiegarneilprincipio,cheèl'esa me
dell'uomointeriore,contrappostosull'esempiodiSocrate al dubbio , o all'esame
arbitrario e imperfetto dei sistemi contemporanei; tre punti importantissimi, a
mio parere, e che, ben meditati, danno luogo a chiarire i principali problemi
esaminati sin qui dalla critica sulle dottrinedel sommo Oratore. 17 2
18 1, Gli storici più reputati della filosofia si accordano tutti in
mostrarci un manifesto scadimento delle dottrine greche,il quale apparve dopo
il fiorire dell'antica Acca demia e del Peripato, e crebbe fino ai tempi di
Tullio, accompagnandosi,come suole avvenire il più delle volte, colle vicende
degli ordini privati e politici. I quali sin dalla prima metà del secolo V
avanti l'èra volgare venuti a mirabile altezza d'incivilimento, e generatori in
pochi anni di tanti miracoli di virtù e di dottrina, quanti presso altre
nazioni può appena rammentarne la storia di molti secoli,mancata la virtù che
liaveva nutriti,prima ancora d'invecchiare, si corruppero e precipitarono,
rappresen tando in sè stessi un'immagine stupenda, abbenchè fug gitiva, della
vita dell'uomo. E invero la gioventù della Grecia fu tutta in quei memorabili
anni ne'quali i suoi figli per ben due volte ricacciarono in Asia gl'invasori
Persiani, in quei combattimenti ne'quali la sua m a rina doventò signora del
Mediterraneo, ne crebbero i suoi commerci e le sue industrie, ne trassero
argomento a sublimi ispirazioni i poeti e gli artisti; così da quel primo
incitamento si propagò in tutte le repubbliche greche,e segnatamente in Atene,
un moto fecondo d'opere, d'istituti,di dottrine,d'eleganti costumi,che nutriva
in sè nella crescente corruzione del Gentilesimo germi di
rinnovamento,fecondati più tardi dalla riforma di Socrate e dalla filosofia di
Platone, nelle dottrine de'quali tu vedi scolpita quella vita operosa del
pensiero e de'co stumi popolareschi, quel conversare continuo, quelle di spute
in piazza e per via, quella reverenza delle tradizioni sacre,quel sentimento
profondo del divino e dell'immor tale che accompagnava la giovinezza del popolo
greco. Ma passata appena una generazione dal fondatore del l'antica Accademia,
le conseguenze della malaugurata guerra del Peloponneso si facevano
sentire,l'abuso scon II. umana 19 sigliato delle libertà
cittadine recava frutti di servitù, e la Macedonia invadeva.Chè se quella può
dirsi con qual che ragione l'età virile del popolo greco,nella quale raf
forzatosi di potenti ordini militari e principeschi sotto il regno di Filippo,
portò guerra con Alessandro nel cuore dell'Asia,vendicandoiTrecento
delleTermopili,èquesta una virilità che giàdeclina a vecchiezza;e n'è indiziola
filosofia d'Aristotele,superiore a Platone nel severo or dinamento scienziale,
e nell'indirizzo fecondo dato alla riflessione sul reale e alle scienze
d’esperimento,ma su perato da lui nella sublimità della dialettica, nella vi
vezza delle tradizioni sacre, e nella idealità del sistema. M a ormai la
discesa dei tempi non si poteva più tratte nere ; e la Grecia passata dal
dominio degli Spartani a quello de Macedoni, dai Macedoni, morto Alessandro e
diviso il regno nei successori, sotto un tritume di piccole tirannidi, non ebbe
nè anche, come più tardi avrebbe avuto l'Italia del secolo XVI,un legame di
alleanza poli. tica fra i suoi stati tanto da conservare un'effigie qua lunque
d'unità nazionale,e mancò,come l'Italia del se colo XVI,di quella efficacia di
salde istituzioni che una monarchia prudente suole introdurre nei popoli guasti
da libertà licenziosa. N o n è quindi a maravigliare se quella stessa Atene,
che avea veduto un Pericle non attentarsi a spogliare delle apparenze civili
l'autorità quasi regia consentitagli dai cittadini, pativa più tardi la
signoria d’un Demetrio di Falera,e quel popolo istesso,che avea punito di morte
Socrate accusato d'irreligione, salutava col nome d’iddio un Demetrio
Poliorcete, e lui pro fanatore d'ogni cosa e divina accoglieva nei sacri
penetrali del Partenone. Sono questi i segni più indubitati della vecchiaia
d'un popolo, e quel lento e continuo scadere dell'ingegno e della vita del
popolo greco, oltrechè negli ordini politici,appariva in ogni altra parte della
sua civiltà. Scadevano sempre più gli ordini materiali, perchè a quel primo
moto di commercj e d’in dustrie,nutrito dalle libere istituzioni,era succeduto
quel solito languore, quel ristagno d'operosità, che è conse guenza
necessaria (e noi lo sappiamo) delle arti dei go verni assoluti;e la signoria
de'mari, ristretta per l'in nanzi agli stati del continente e dell'Arcipelago
greco,si allargava ora ai Fenicj, agli Asiatici, agl’Italioti.Si cor rompevano
i costumi, e la corruzione tanto più rapida procedeva, quanto più nel crescente
oscurarsi delle anti che tradizioni si sentivano funesti gli effetti delle cre
denze gentili; e quella vita di raffinata eleganza non più temperata dal moto e
dalla severità dell'educazione re pubblicana, si affogava ne'diletti del senso;
e al senso, non più al pensiero, servivano le arti del bello divenute
adulazione di tiranni e di meretrici; infine di tutto ciò come causa ed effetto
risentivasi la filosofia, di rado a v versando, più spesso secondando il pendio
della corrut tela universale. E noi, lasciato da parte lo scetticismo, che fece
un breve e inopportuno tentativo in Pirrone,di remo più specialmente dei
principali sistemi fioriti in questa età, e che spiegarono maggiore e più
diretta effi cacia sulla filosofia latina. 2. Onde mossero dunque questi
sistemi? Ritenendo essi qual più qual meno , sebbene con notevoli alterazioni,
il metodo e il fondamento delle dottrine socratiche, co minciarono da un
ritorno ai sistemi che avean posto fine all'età antecedente della filosofia
italogreca, ritorno evi dentissimo negli Stoici, e che ci spiega com’essi,
mentre derivarono da Socrate la loro morale,e ne ritennero in parte il
dualismo, retrocedettero in fisica al panteismo degl'Ionj, e come contrastando
alle lusinghe dei tempi coll'idea sublime del bene, li secondarono poi brutta
mente desumendo la causa e la ragione suprema dalla materia e dal senso. E
anche questa volta la confusione del panteismo nacque da un modo fantastico e
altutto ar bitrario di conciliare ciò che si presenta alla ragione ed al
senso,la immobilità dell'essenza e la mobilità del fenomeno, il mutabile e
l'immutabile, l'ente e il non -ente, il neces s a r i o e il c o n t i n g e n
t e , il r e l a t i v o e l ' a s s o l u t o ; e p i ù , d a u n
pervertimento del concetto di causa prima.Per pensare, 0,meglio,immaginare
quella conciliazione, bisognava porre 20 un unico principio,
in cui esistessero ab eterno identifi cati in stato di quiete una potenza ed un
atto indeter minati ambedue, e che si determinassero poi al momento in cui
l'universo dall'indeterminatezza primordiale dovea passare alla forma e agli
atti successivi.Gli Stoici y'an darono alterando il concetto di causa prima.
Causa, essi dissero, è ciò per cui una cosa s'effettua; ora niente pro duce un
effetto, che non sia corpo ; dunque l'essenza uni versale di tutte le cose è un
che di corporeo; e quindi essi partivano dal punto direttamente opposto a
quello dacuierano mossiPlatoneeAristotele;chè,sel’Ateniese e lo Stagirita concepivano
la materia come negazione di essere (to un ow), e il primo segnatamente poneva
l' es senza assoluta nell'incorporeo e nell'intelligibile,gli Stoici invece
concepirono la materia corporea come il primo principio e l'intima realtà delle
cose tutte. M a che cosa era questa materia ? Questa materia primitiva ch'è in
Platone e in Aristotele, e che più tardi troviamo negli Scolastici, senza
qualità e senza forma, sostanza oscura,
infinitamentepassivaesuscettibilediforme,infinitamente divisibile,è una finzione
immaginativa,è una vTÓGeols (nel doppio significato antico e moderno) collocata
a capo delle cose tutte per ispiegarne in un modo qualunque la possi bilità,ed
eludere l'antico assioma ex nihilo nihil;ma non avvertivano que' pensatori che,
se v'è un caso in cui l'as sioma abbia un vero valore, è appunto questo,poichè
la materia pura potenza è un che vuoto,nudo ed inefficace, è il nulla vestito
dalla fantasia delle qualità del reale. Cercata la causa nel seno medesimo
dell'effetto, anzi iden tificata coll'effetto, il germe del panteismo doveva
svol gersi necessariamente,e sisvolse.Come?Si tornò al di namismo di una parte
degli Ionj, e poichè fondamento del dinamismo è l'ammettere che il moto
fenomenale delle cose si faccia per isvolgimenti di forze intrinseche ad esse,
si concepì nella essenza intima dell'universo,che a somiglianza d'Eraclito
dicevasi dagli Stoici essere il fuoco artificioso, rūp témuczor,un'energia
primitiva,un che infinitamente attivo,cagione unica di tutti i fenomeni
21 22 delle cose,e della loro forma determinata,perchè traendo ad
atto le forze intime della materia, ne va foggiando questo univers0
sensibile,(τον θεόν σπερματικός λόγον όντα ToŬ zoopov.Diog.L.,VII,136,e Cic.,De
N. D.,libroII, cap. XXII,e pass.). La falsa induzione che per vizio
d'antromorfismo finge le potenze e gli atti universali della natura ad esempio
delle facoltà umane,non si arresta qui, ma informa da cima a fondo la fisica
degli Stoici. Essi considerando che in noi principio primo di moto e d'at
tività è l'anima, chiamavano anima quella virtù infor matrice delle cose tutte,
e l'universo rassomigliavano a u n g r a n d e a n i m a l e ; p e r c h è, d i
c e v a n o (u s a n d o u n a r g o m e n t o di panteismo rigoroso adoperato
più tardi dal Campanella ), se le parti del mondo sono animate,sarà animato
anche il tutto, e se le varie parti del corpo sono mosse dall’anima, e l'anima
è governata dalla ragione, anche i moti del mondo proverranno dall'anima
universale, il cui princi pato risiede nella ragione. Quest'atto, anima e
ragione dell'universo per gli Stoici era Dio ; e quindi si capisce com'essi
trasportando sempre nel divino le facoltà del
l'umano,concepisseroDiodaunlatocomeprincipio prov vidente e ordinatore, e
dall'altro come energia primitiva, come causa e unità di tutti imoti
fenomenali,e perchè,m e n tre lo simboleggiavano sotto la cieca e inevitabile
neces sità del destino (dep.zpuéva), che contenendo la materia l'agitava di
causa in causa con movimento perpetuo, attribuissero a questo spirito divino
abitatore della m a teria la divinazione delle cose future.(Cic.,De N. D.,De
Divin .,De Fato,pass.)Concependo in tal modo la materia come contenuta e
vivificata intimamente dall'unità della forza divina (unità che per il
principio della filosofia s o cratica distinguevano in forze secondarie ed
opposte),non è maraviglia che gli Stoici, tornando anche in questa parte agli
Ionj,attribuissero qualità divine alle grandi potenze della natura, come agli
astri,agli elementi,ai vizj, alle virtù,e segnatamente all'anima umana,e ne
deri vasse la loro interpretazione fisica delle mitologie. Quindi dai principj
della loro scienza naturale uscivano la logica e la psicologia.Che
cosa è l'anima?Essa per gli Stoici,come tuttele altre cose,come Dio
stesso,ècorporea;ma come forza primitiva e principio di moto partecipante
all'atti vità universale, intimamente è divina ; e la sua unione col corpo la
immaginavano come una compenetrazione, sì per il loro principio della
compenetrazione delle so stanze, e sì per la somiglianza, che l'anima dell'uomo
ritiene coll'anima universale compenetrante e vivificante l'universo delle
cose;e come quest'anima universale, seb bene distinta in altre forze seconde,è
in sè stessa prin cipio unico de'moti e de'fenomeni delle cose, così in noi
tutti i fatti dell'anima riducevano all'unità del principio dominatore
(nepovezov ) che è fonte e causa motrice delle facoltà seconde. E qui è
notevole assai,che mentre l'in dirizzo dato all'osservazione dell'uomo
interiore dalla riforma di Socrate salvava gran parte della psicologia stoica
dalle conseguenze materialistiche del principio che la informava, quella loro
inclinazione a studiare i soli fenomeni della materia ricomparve nella dialet
tica, e ne proveniva il sensismo. Movevano anche que sta volta da un cattivo
concetto di potenza e di causa. E valga il vero. A quel modo stesso che in
fisica aveano pensato la prima potenza e la comune possibi lità delle cose come
un che vuoto e privo naturalmente d'entità e d'efficacia, così immaginarono
nell'anima la possibilità del conoscimento come una potenza nuda, inefficace e
priva di contenuto,simile, dicevano, ad una pergamena senza caratteri (ώσπερ
χαρτίoν άνεργον εις c.Troypapiv ), dove , svegliatosi l'atto dell'anima (come
l'atto primitivo di Giove nella materia) all'occasione delle sensazioni,
imprime le rappresentanze o le pav Tuoive delle cose. Che cosa poi fossero
queste fantasie è facile a immaginarlo, e ce lo dice anche il nome. Nel quale
comprendevano gli Stoici la totalità dei fatti interiori presenti alla coscienza
ed originati tutti dai sensi, nè potevano dare al conoscimento altra qualità in
fuori dalla sensibile, e perchè l'anima umana,come parte delDio animantelecose
tutte,ritiene ilsuo modo 23 - 24 di conoscere,che conforme
alla sua natură è un cono scere sensitivo, e perchè essa stessa l'anima è
corpo, e perchè, l'essenza universale di tutte le cose essendo cor porea, non
si può dar conoscenza se non di corpo. Or che ne veniva da ciò? Ne veniva che
ammettendo essi da un lato ogni conoscenza derivare dai sensi, dall'altro non
potendo negare la natura dell'intelligibile necessaria, assoluta e
profondamente opposta alla natura del sensibile, ponevano le idee come una
trasformazione della sensa zione operata dall'anima, precedendo in tal modo i
sen sisti francesi. M a , di grazia, sì gli uni che gli altri sfug
givanoforseallanecessitàdellacontradizione?Ne rimaneva una intrinseca al loro
sistema e maggiore di tutte,quella cioè di negare all'anima un primo principio,
una capa cità naturale al conoscere e immaginare ch'essa poi ve nutale la
materia di fuori, doventi all'improvviso o p e rante e di operazioni tutte sue
proprie. M a in tal m o d o il sensista tira più là la questione, e non la
risolve; per chè,quando eisarà pervenuto a un dato termine dellasua dimostrazione,
io gli mostrerò com'ei si trovi in opposi zione diretta ai principj su cui l'ha
fondata. Dice:Nego nell'anima qualunque notizia primitiva e fontale delle
idee;e aggiunge:ecco però come nell'anima stessa si generano quelle
idee.L'oggetto esterno fa impressione sui sensi; i sensi per mezzo dei nervi
comunicano le i m pressioni al cervello,e l'uomo acquista l'idea dell'obbietto
s e n t i t o . M a è q u i a p p u n t o d o v ’ i o p r e g o il s e n s i s
t a a d a r restarsi. Poichè, manifestatasi in noi la notizia, che al certo
provenne dall'occasione de'sensi, se la mente si volge a considerarla nella sua
natura,vi riconosce bensì da un lato un referimento esterno all'obbietto onde
spe rimentammo l'efficacia causale,ma d'altro lato vi scuo pre anche una più
intima e segreta relazione cogli atti dello spirito, e coi sommi principj del
vero, obbietto i m mediato della potenza conoscitiva.Tale contradizione che
deriva dal confondere insieme la natura del sentimento e delle cose e la natura
ideale, non potranno mai fug gire i sensisti, se pure essi non vorranno
ammettere la conseguenza più legittima del loro sistema,vo'dire il
m a terialismo; al qual proposito bene osserva il Leibniz nei Nuovi Saggi (lib.
II), che coloro i quali s'immaginano l'anima informa di una tavoletta,o di un
pezzo di cera,in cui nulla sia scritto prima della sensazione, trasferiscono in
lei le condizioni passive e inefficaci della materia. Se consideriamo adunque
attentamente il sistema de gli Stoici,esso ci si presenterà da un lato come un
pan teismo, dall'altro come un dualismo. È un panteismo se guardiamo a ciò che,
secondo il Ritter, ne formava il d o m m a fondamentale, all'unità primigenia e
finale delle cose tutte e al concatenamento o consenso delle parti della natura
informata dall'anima universale e divina, ond'era costituita per gli Stoici la
legge del Fato ; ma è invece un dualismo,se vi meditiamo la opposizione tra Dio
anima del mondo e il corpo del mondo, tra la m a t e r i a e l a f o r m a , il
p a s s i v o e l ' a t t i v o , il p i ù e m e n p e r fetto nelle esistenze,
l'unità assoluta di Dio e la diversità delle cose,diversità che pur dee
terminare una volta rientrando nella indifferenza primitiva di Dio. La quale
opposizione, che ha reso non ben definito il giudizio di parecchi istorici
sulla qualità di questo sistema, io credo derivasse non tanto da quella
medesima incertezza tra la confusione dell'età orientale ed italo-greca e il
nuovo bisogno delle distinzioni dialettiche, che è pur manifesta nelle dottrine
di Platone e d'Aristotile,quanto dall'avere gli Stoici, più assai de'loro
predecessori,esagerata l'in duzione che dalla notizia dell'uomo litrasportava a
quella dell'universo e di Dio. E fu qui dove peggiorarono assai dai sistemi
anteriori. Peggiorarono in fisica, perchè seb bene Platone nel Timeo
dimostrasse che l'universo tutto quanto era animato,e Aristotile,adombrando per
via con trariaildivenirehegeliano,trasformasselamateriaintutte lecose,ambedue
silevaronpiùalto,eoltrequell'universo animato e al di là di quella
materia,l'uno contemplò l'Ar tefice divino, da cui s'irraggiava nelle cose e
nelle anime la luce degli esemplari eterni , e l'altro intravide il fine
supremo desiderato dalla universale natura ; peggiora 25 3. E
d ecco circa in quei medesimi anni, nei quali fioriva Zenone Cizico,e spiegava
le sue dottrine infette di panteismo e di dualismo (verso l'a. 300 prima di
Gesù Cristo), apparire la negazione particolare dei sensisti e degli idealisti
con Epicuro e con Arcesilao. E quanto al primo, chi ben consideri la sua
filosofia, vi troverà un nuovo e sempre crescente pervertimento delle dottrine
o anteriori o contemporanee ; chè se già era cattivo indi zio in Zenone e in
Crisippo l'imitazione degli Ionj e d'Eraclito, fu pessimo in Epicuro il ritorno
ai sofisti della stessa età italo-greca,e segnatamente a Democrito. Notammo
anche come nonostante la rigidità e l'altezza della morale stoica,vi si
scorgeva chiaro un esame s e m pre più imperfetto e parziale dellaumana
coscienza;ora questo è anche più manifesto negli Epicurei, i quali non si
contentarono come gli Stoici, lasciate da un lato le naturali tendenze,di porre
la virtù e la beatitudine in un sublime disprezzo dei beni della vita ;m a
scesero più basso restringendo l'una e l'altra al godimento dei piaceri del
corpo; e riducendo i piaceri dell'animo alla speranza e al ricordo dei piaceri
del senso.Nel che essi secondavano bruttamente l'abbandono sensuale dei tempi ;
nè già mi reca maraviglia,in quella età in cui,rotto il freno ad ogni licenza,
si maturava negli ozj voluttuosi la servitù della 26 rono in
logica,stante che se Platone,giunto alla nozione suprema dell'essere,se ne
faceva scala per salire agli universali divini, e Aristotile distinguendo dal
senso l'in telletto, poneva in quest'ultimo l'apprensione dell'uni versale, gli
Stoici non ammettevano che il senso, e dal senso desumevano la necessità della
scienza ; peggiora rono finalmente in morale all'osservazione compiuta e
perfetta delle tendenze naturali, qual era nell'Accademia e nel Peripato,
sostituendo un esame sempre più povero e sminuzzato della coscienza morale,onde
il concetto del bene diventò più che umano , e quell'idea solitaria e i m
passibile della virtù parve quasi uno scherno in mezzo alle infinite sventure
deitempi.(Cic.,De Fin.,IV,V. Ritter,XI,L. 1,2,3,4.) - 27
Grecia,quando laNuova Commedia svelavaagliocchi delle moltitudini affollate le
più seducenti sembianze del vizio,e ne'ginnasj d’Atene convenivano le meretrici
a disputare co'filosofi,immaginarmi Epicuro che siede dettando nei suoi
giardini in mezzo alle gioje del convito i precetti della morale.Eppure più
secoli dopo in una etànon meno ar rendevole al senso di quella d'Epicuro,e che
precedè di poco quel tuono di uno dei più grandi rivolgimenti eu ropei, v'ebbe chi
nelle scuole de'filosofi difese Epicuro mostrando velato nei suoi precetti
morali sotto l'appa rente arrendersi al senso un rigore più che da stoico ; m a
q u e l r i g o r e , n o t a b e n e C i c e r o n e ( D e F i n ., L . I I )
, e r a un finto stoicismo e una maschera da saggio,che mal si addiceva sul
volto del filosofo gozzovigliante,era una sod disfazione
ch'e’dava,malgradosuo,all'autoritàdelsenso morale e della pubblica opinione. E
poi,se quel sistema mancava d'ogni fondamento scientifico,come poteva cer care
nella necessità dei principj ilpernio della morale ?E che tutto per Epicuro
fosse relativo,contingente,fuggitivo, nulla universale,necessario e assoluto,
lo mostra il con cetto ch'e’s'era fatto del giusto,stabilito da lui come una
norma destinata a tutelare la vita del saggio,e che quindi mutava
sostanzialmente a seconda degli interessi civili.Posto così a capo dei precetti
morali il puro sen timento animale,non poteva non derivarne una logica (o,come
Epicuro la chiamava,una Canonica) che peggio r a s s e il s e n s i s m o d e g
l i S t o i c i e n o n m o v e s s e u n p a s s o o l t r e la sensazione.
Infatti, mentre gli Stoici andavano almeno fino all'idea che proveniva dalla
percezione, e passavano dal soggetto all'oggetto per l'attinenza di causalità
(Vedi Cicerone nel secondo degli Accademici),Epicuro,lasciata da parte
l'idea,riconosceva il criterio del vero nella sola realtà della sensazione, e
negando che dal senziente si desse certo passaggio all'entità del sentito,
lastricava la via all'idealismo degli accademici e alle dottrine scet tiche
d'Enesidemo e di Sesto Empirico. Infine; negata ogni interiore attività dello
spirito, riconosciuta nella sola opposizione dei resultati sensibili la verità
e la falsità della sensazione,ristretti i fondamenti delle inda
gini scientifiche alla pretta significazione delle parole, a m o 'dei
Nominalisti; ecco in due parole la logica degli E p i c u r e i ( C i c ., D e
N a t . D e o r ., L . I. C . X X V , 1 0 . ) N è a d i verso cammino si volgeva
la fisica fondata da Epicuro sull'atomismo meccanico di Democrito.Ora,se ben
con sideriamo, questa dottrina naturale del filosofo di Samo paragonata al
dinamismo stoico è un nuovo perverti mento della ragione scientifica,e più che
con la filosofia del senso si accorda con quella della materia. E di fatto,
laddove gli Stoici che avean molto de'materialisti, pur trascendevano il
fenomeno sensibile,e vi rinvenivano l'intima energia, l'intimo atto che dava
vita e movimento alle cose, gli Epicurei lasciando da un lato la potenza
nascosta, se ne stavano contenti agli effetti, cioè alle trasformazioni
esteriori delle molecole materiali. Quindi la dottrina d'Epicuro intorno agli
atomi, mentre,come nota il Ritter, ha l'apparenza d'essere la confutazione
della sua logica materiale fondando tutta la scienza del mondo su quelle nature
elementari, non accessibili al conoscimento, n'è invece (dico io) la riprova
maggio re, perchè io non veggo in quelli atomi se non un abbaglio di fantasia
che pretende spiegare in modo ar cano i fenomeni più ovvj dell'aggregazione e
della dis gregazione molecolare.(De Fin.,L.I.)Che manchi,come io diceva più
sopra,nelle dottrine del filosofo di Samo qualunque criterio di scienza, si
vede quindi da ciò che in quelle intimamente repugna fra i principj e le con
seguenze. Egli non ammetteva nell'ordine dell' essere niente che non cadesse
sotto l'apprendimento dei sensi; ma
poseaprincipiodituttelecoseilvuotoimmensoegli atomi nè sensibili in modo alcuno
nè intelligibili. (De Fin .,L. 1. 6.) Credè immaginando la spontanea diversione
degli atomi dalla perpendicolare, sottrarsi alla inesora bile legge del Fato ;
m a s'imbattè in un'altra potenza non meno cieca e inconcepibile, nella potenza
del caso. (De N. D.,L. I;De Fato, C. X.) Finalmente un ultimo indizio di quanto
poco conto ei facesse dei veri i m m o r 28 tali presenti
alla coscienza dell'uomo, è che voleva spe gnere per mezzo delle sue indagini
fisiche quel concetto arcano dell'infinito per cui la nostra mente dalle cause
seconde si leva fino alla Causa prima, quell'intimo senso di stupore e
d'ammirazione che destano in noi,le tempeste, ifulmini,le meteore,icieli
sereni,lenottistellate,le so litudini de'mari, voce della natura a cui risponde
dal profondo dell'anima un'altra voce che ci parla di Dio. (Lucr.,De
rer.nat.,Ritter,L.X,C.II.Vedianche gli op. di Plutarco tradotti dall'Adriani:
1. Che non si può vivere lietamente secondo la dottrina di Epicuro ;2. Della
superstizione.) 4. Contemporaneo d'Epicuro, e un poco posteriore a
Zenone,poneva Arcesilao i fondamenti dell'idealismo ac cademico . L'incertezza
delle notizie intorno alla sua vita e ai suoi scritti ha dato occasione a
purgarlo dall'accusa di filosofo dubitante,dicendosi ch'e'non negava ilpositivo
delledottrinesocratiche,ma soloopponevailsuodubbio temperato al dommatismo
stoico di Crisippo (Vedi Gautier de Sibert, Mem . de l'Ac. des Inscrip. et
Bell. Lett., tom.XLIII),e Sant'Agostino nel libro Contra Academicos, L. III, p.
111), ci rappresenta questa dottrina come un domma filosofale, svelato prima
nell'insegnamento del l'antica Accademia , e ristretto poi nel mistero all'appa
rire del sensismo stoico, e adombrante l'intimo significato della filosofia di
Platone : due essere i mondi , uno intel ligibile, l'altro sensibile; quello
vero, verosimile questo, perchè fatto a somiglianza degli archetipi eterni; del
primo per via delle idee generarsi nel saggio la scienza, del secondo una
semplice opinione di verosimiglianza.M a quando io penso che il vescovo
d'Ippona dettava quel libro poco innanzi la sua conversione, scampato appena
dal dubbio della nuova Accademia, e che per guarire lo scetticismo inveterato
del tempo cercava le più riposte armonie della sapienza antica colle dottrine
cristiane, attingendo principalmente a fonti neoplatoniche; quando ritraggo
dalla testimonianza concorde dei più deglistorici che Arcesilao andò più là di
Socrate, dicendo non po 29 30 tersi nè anche sapere di saper
niente, che aprì scuola d'insegnamento pro e contro ogni opinione, negando in
tal modo il vero assoluto e ammettendo soltanto quello relativo ai principj
d'ogni sistema ; e che finalmente quel suo idealismo operò direttamente sul
dubbio univer sale degli Empirici ; allora son tratto ad attribuire a un
pervertimento delle dottrine Socratiche, e alla efficacia de’tempi quello che
Agostino riferiva al semplice accor gimento d'Arcesilao.(Cic.,De
Oratore,III,18.)Socrate opponendo all'orgoglio del sofista la modesta
affermazione del saggio,negava potersi trarre da una cavillosa dialettica
l'onnipotenza della ragione, e dalle dottrine meccaniche degli lonj il
conoscimento intimo delle cose.Platone tenne fermo quel dubbio, temperandolo
col conosci te stesso, e sceso a considerare i più riposti veri dell'umana
coscienza, vi riconobbe il combattimento della ragione coll'appetito,
dell'intelletto colla carne, quel non so che d'immortale e di terreno ch'è in
noi, e che lampeggia nelle serene aspi razioni del vero,del bello e del buono,e
s'abbuja nelle tempeste de’sensi;quindi trasportando quell'intimo co noscimento
all'esteriore forma delle cose,e al giudizio della loro perfezione, ne derivò
la dottrina dell'ente e del non ente, della üln e del c o s . E qui (si noti)
consisteva essenzialmente il positivo e il negativo delle dottrine platoniche.
Poneva egli, è vero, da un lato il concetto della scienza nel salire dai
particolari agli universali,da ciò che muta a ciò che non muta, dalla
sensazione al l'idea che rappresenta l'essenza, e il fondamento della sua
dialettica stabiliva nel cogliere fra i molteplici ele menti de'fatti
particolari il concetto supremo che tutti li contiene.Ma d'altra parte mosso
dall'idea trascendente della scienza,e dalle tradizioni delle dottrine
panteistiche orientali ed eleatiche, onde germinava il dualismo, egli faceva
del particolare, del mutabile, del sensibile un che intimamente oscuro,e non
soggetto al conoscimento,perchè partecipante della materia che è l'opposto
dell'ente,e alle MatematicheeallaFisicaindagatricede'fattinegònome di
scienza.Si dirà forse ch'e'rimediava a questa dualità ri
conoscendo necessaria attinenza tra gliArchetipi divini e le cose, e nella
mente dell'Artefice eterno che le informava della perfezione di quelli, e nella
mente dell'uomo per via della reminiscenza, onde per lui si dava reale pas
saggio dalla opinione al sapere; m a la illazione del d u b bio, che scendeva
dalle premesse del suo sistema,non si arrestava, perchè, se a Dio è coeterna la
materia,e l'una è negazione dell'altro, chi mi assicura che fra termini sì
disparati possa darsi attinenza di conoscimento ?nè,derivato da Dio
l'intelletto, basta la sola ipotesi ch'egli fingeva della preesistenza degli
animi nostri in una vita anterio re,e un debole legame di verosimiglianza tra
iparadigmi e le cose,'per verificare la certezza di quelle notizie che civengonodaicontingenti.E
perfermo,indebolitacosìdal principio della filosofia platonica la relazione tra
il cono scente e ilconosciuto,non v'era che un passo a negare o l'uno o l'altro
di questi due termini; e il termine intelli gibile negarono gli Stoici, alle cui
innovazioni aveva aperto la via il semi-panteismo materiale del Peripato, e
quella negazione sensistica esagerarono gli Epicurei col restrin gersi nello
studio della materia ; restava a trarre l'altra conseguenza del sistema
platonico negando il sensibile, e ciò fece Arcesilao colla sua dottrina
ideale-scettica, scetticismo però non al tutto compiuto, perchè non n e gava
l'entità del vero nelle cose, m a poneva soltanto in dubbio la loro
corrispondenza reale coll'apprensione del l'intelletto. È dunque vero in parte
quel che affermava Agostino che la dottrina della nuova Accademia (o media che
voglia chiamarsi) ebbe la sua ragione d'origine nel fondo del sistema di
Platone,e la sua ragione di svolgi mento nel sensismo contemporaneo di
Crisippo, m a è anche vera l'osservazione del Ritter che quel metodo di dubbio
fu corruzione del metodo socratico, e resultò dall'idea della scienza qual era
nell'antica Accademia,idea troppo trascendente la certezza naturale,e che
togliendo l'atti nenza tra il soggetto e l'oggetto imprigionava il pensiero
nella coscienza solitaria, e al dualismo innestava la Cri tica della
conoscenza.(Ritter,tom.XI,C. VI.Conclus.) 31 La quale non
ancora matura e compiuta in Arcesilao si svolse nei successori,perchè,laddove il
filosofo Pitano sostenendo la sua tesi contro i sensisti moveva special mente
dalla fallacia de'sensi e dall'oscurità della materia; Carneade,che gli
successe,introdusse in quella tesi maggior rigore scientifico,quando esaminò ex
professo l'entità della relazione inclusa nel conoscimento, e distinguendo
nella percezione sensitiva o rappresentazione due lati,uno ri
feribileall'oggetto,l'altro al soggetto,mostrò XIX secoli prima del Kant non
darsi vera certezza del sapere, per chè il conoscente trae in propria forma la
materia del conosciuto. V'ha egli dunque un nuovo peggioramento in Carneade ?
Sì ; perchè e'negò fede espressamente alla validità della ragione, dicendo non
potersi dare un crite rio certo pel ritrovamento del vero, e dovere contentarsi
il sapiente della semplice verosimiglianza; onde per lui l'idealismo accademico
si accostò sempre più alla nega zione universale, che compiendo le dottrine
anteriori di Pirrone, ricomparve più tardi;e n'è prova evidente il pas saggio
ch'e'fece dal dubbio sui fatti esteriori al dubbio sull'entità oggettiva delle
idee universali che si specchiano nella coscienza, manifestato da lui
ambasciatore per gli Ateniesi in Roma nel discorso sulla giustizia,dove to
gliendo nota d'universalità e d'assolutezza al concetto del bene,abbattevaifondamenti
dellamorale(Cic.,De Rep., L. 1. Ritter,L. XI,Cap.VI.) 5.E
ildiscorsodiCarneadeudivanoaffollatiiRomani, nella cui patria splendeva quella
gran scuola paesana dei Giureconsulti dove l'idea della personalità umana ,e la
n o zione del dovere e del diritto si desumevano da principj d'immortale
necessità, e dove la natura della legge dovea definirsi più tardi congenita
alla natura di Dio.(V. Cantù, St.
Un.Brucker,Degerando,Ritter,Kuehner.Cic.,Tusc.IV, 1,2,3.) È noto infatti come
fino dal secolo XVII G. Batt. Vico nel suo libro De antiquissima Italorum
sapientia indagando nella storia de’fatti umani iprincipj universali che
reggono il sapere, trovasse vestigj di antichissime e profonde speculazioni
ne'linguaggi primitivj d’Italia ; il 32 che,se non prova che
presso quei popoli, come ad esem pio i latini (intesi per lungo tempo e
unicamente ai ne gozj civili),fiorisse un vero e proprio esercizio d'indagini
scienziali, mostra però che v'era nel loro ingegno un'in tima disposizione a
filosofare. E questa disposizione d o veva attuarsi quando ilpensiero latino
libero dalle stret tezze presenti, e sollevato a un ideale più ampio,dal sen
timento di nazione si sarebbe volto a considerare l'umana natura specchiata in
sè stesso, e nell'universalità della storia. Queste erano le preparazioni e le
cause del fatto ; l'occasione esterna venne dalla celebre ambasceria di Cri
tolao, Carneade e Diogene babilonese. (A. di R. 585. V. gli autori soprac.)
Volgeva intanto a metà ilsecondo se colo innanzi l'Era volgare,e Roma,vinto
Antioco in Asia, distrutta Cartagine,e sottomessa definitivamente la Grecia
colle guerre Macedoniche, e colla memoranda presa di Corinto,riceveva dai vinti
la tradizione delle arti e delle discipline civili per parteciparle novamente e
sott'altra forma all'Europa ed al mondo. Ma quelle arti e quelle discipline che
giungevano d'oltremare non più informate dalla libera spontaneità dell'ingegno
dei padri, educato alla scuola del sentimento civile e del magistero divino, ma
guaste dal dubbio della nuova Accademia,e infette da signorie corruttrici e da
profonda sensualità di costu mi,trovarono nei Romani dismesso l'abito della
severità antica, e omai volgente a rovina quella repubblica inde bolita dalle
mollezze d'Affrica e d’Oriente .(Sallustio, C a til.,C.X.c.f.XI.XIV.)Non
èquindiamaravigliarechenon ostante i tentativi di molti ingegni valorosi,
dall'unione di due civiltà semispente non nascesse un grande rinno vamento ;
chè ogni rinnovamento è possibile quando nelle rovine dei popoli s'accoglie una
favilla immortale di vita, e un impulso efficace li risospinge ai principj; non
possibile allora,in quelli anni ultimi dell'Era pagana, in cui, ecclissato ogni
lume d'antiche tradizioni, spenta la famiglia e ridotto in pochi lo stato,
Europa, Affrica ed Asia precipitavano nella barbarie. Nè c'inganni quel moto
apparentemente efficace di letteratura e di scienza m a 33 era 3
nifestatosi nelle città greche, e nelle corti di Pergamo e
deiTolomei.Tranne inRoma,dovefinoallamorted'Au gusto durarono potente incitamento
alla libertà degl'in gegni le sembianze,e la memoria degli ordini repubblicani,
nel resto d'Europa nell’Asia e nell'Affrica le lettere e le scienze doventarono
trastullo di principi e di cortigiane, o sollievo di popoli in gioconda
schiavitù sonnecchianti, o (come apparisce da Filone Ebreo,dalla Kabbala,da
Apol lonio Tianeo,Moderato, Nicomaco,Plutarco,Apuleio ed altri) doventarono
contemplazione solitaria di pochi stu diosi, onde alla spontaneità dell'arte
che crea sottentrò l'erudizione ragunatrice dei commentatori e degli illustra
tori, e il panteismo greco -asiatico da cui poi derivarono gli Alessandrini; e
un vero e fecondo avanzamento ebbero soltanto le scienze matematiche e
d'esperienza sostenute dai principi e dalle città mercantili e dalla agiatezza
dei tempi.Ma d'altra parte (ed è un esempio che s’è rin novato più volte)
indietreggiavano ogni giorno più le di scipline speculative;nè solo (come
vedemmo)quanto alla materia,ma altresì quanto alla forma scientifica dei si
stemi ;perchè, se è legge connaturata all'umano intelletto che in quella
dirittura necessaria di relazioni, che passa tra il soggetto esaminato e la
riflessione esaminatrice, consista intimamente il metodo d'una scienza,una
volta guasta o distrutta la notizia dei veri principali, se ne scom piglia
l'indirizzo della riflessione, non si ravvisa più chiara l'integrità della
coscienza su cui cade l'esame,e n'è dis fatta la scienza. Richiamando ora in
breve le cose discorse, che mai ci mostra la storia della filosofia da Socrate
a Cicerone ? N o n altro che un continuo scadere della riflessione scientifica
da sistemi più ideali e che al sentimento del divino e del l'immortale
accoppiavano il rispetto delle più antiche e v e nerate tradizioni, ad altri
infetti di materialità e dispregia tori d'ogni magistero divino ed umano
;quindi da dottrine che offrono più ampio disegno di riflessione,e più perfetto
ordinamento scienziale,si sdrucciola ad altre che alla c o m prensione totale
della coscienza e delle sue relazioni fanno 34 seguire un
esame monco,spicciolato,minuzioso,eaimetodi positivi e dogmatici (benchè misti
di legittimo esame) im e todi semplicemente negativi e gl'inquisitivi.Questo è
il pen dío naturale del pensiero filosofico in quell'età,che dalle altezze del
disputare platonico ci conduce nelle ruvide a n gustie di alcuni trattati
aristotelici,dagli archetipi eterni, all'anima informatrice della materia
corporea, poi al Dio animante di Zenone e agli aridi sillogismi di Crisippo per
terminare nel materialismo d'Epicuro, e nella negazione della nuova Accademia ;
che infine dalla interpretazione sublime della Mitologia,qual era in Platone,ci
guida all'in terpretazione fisica e storica degli Stoici e d ' E v e m e r o .
M a la nuova Accademia di contro alle dottrine d'Epicuro,se non forse quanto
alla materia, era un nuovo peggiora mento quanto alla forma scientifica, perchè
Epicuro rico nosceva almeno molti veri, e offriva un disegno di pro prie
dottrine sulle principali teoriche della scienza ; gli Accademici negavano
soltanto, e, tranne poche e sparpa g l i a t e a f f e r m a z i o n i i n f i
s i c a e d i n m o r a l e , r e s t r i n g e v a n o il soggetto della
filosofia al problema del conoscimento ; ora da questo idealismo che solo
ammetteva pochi veri par ticolari, e scioglieva ogni attinenza del conoscimento
coi proprj obbietti, non v'era che un passo alla negazione scientifica d'ogni
verità della scienza, e da questa al d u b bio popolare e grossolano e ai
sistemi empirici e positivi che non sono più scienza. E anche allora fu detto o
sot tinteso da uomini dottissimi che unico criterio del vero era il mancare
d'ogni criterio,che la scienza era ilm e todo,e che unica e naturale forma del
pensiero filosofico era la storia ;e da questi abbagli di critica stemperata
che sirinnovano anche oggiinFrancia,inAlemagna einItalia, nacque l'ecclettismo
erudito degli Stoici e de'Peripatetici, e le dottrine empiriche d'Enesidemo e
di Sesto,come oggi dagli eccessi della critica Kanziana pullularono gli E m p i
rici Alemanni , l'Ecclettismo del Cousin e la Filosofia P o sitiva di Augusto
Comte.In quelle condizioni della filosofia
era,com'oggi,indispensabileunariforma,elariforma,come moto contrario alle
cagioni del male, dovea consistere 35 segnatamente nel
tornare ai princip j della coscienza n a turale, abbracciando la
universalità dei suoi veri, e affer mando
interoeindivisibileciòchelesetteaffermavano spar pagliato e diviso.Fu questa
l'opera immortale di Cicerone, e a tentarla egli ebbe occasione e conforto
dalle q u a lità dell'ingegno latino, mosso da antiche tradizioni e da indole
propria allacomprensione delle attinenze scienti fiche, dallo stato politico e
civile di R o m a , e dal contrasto ai dubbj che laceravano la scienza. Di
fatto, se era pos sibile una riforma in tanto scadimento di civiltà e di dot
trine, più che altrove ella dovea tentarsi in Italia ed in R o m a , dove le
sacre tradizioni primitive s'erano conser vate più schiette per opera degli
affetti di famiglia e d e gli ordinamenti civili ; durava ancora potente
l'efficacia della civiltà etrusca ed italica, ed ora dilatato il dominio romano
all'Europa, all’Affrica e a gran parte dell'Asia, vi correvano,come a centro
comune delle genti conosciute, la scienza, la letteratura, le arti, le
industrie, compagne della grandezza, e vi s'accoglieva,quasi a compire la m a e
stà della gran repubblica dominatrice,lacoscienza del ge nere umano.Quindi in
Roma era più che altrove potente ilsentimento
dell'universale,condizionenecessariaal na scere della Filosofia.D'altra
parte,se volgiamo gli occhi alla Grecia,ci si presenta un turbinìo d'opinioni e
di sette a cui non tien dietro la storia ; la filosofia era lacerata in sistemi
che ponevano la scienza nel paralogisma, e sempre più tralignanti dagli
istitutori scendevano il pen dío della negazione universale ; gli Epicurei e i
Cirenaici, facili secondatori della corruttela dei tempi, ogni giorno più
sprofondavano nell'ateismo e nel senso ;i Platonici e iPeripatetici,come
Cratippo,Stasea,AndronicodiRodi, Alessandro Afrodiseo si diedero all'erudizione,
e poichè non sapevano creare nulla di nuovo,rimestarono con cri tica infeconda
le dottrine anteriori; lo stoicismo con P a nezio e con Possidonio,
allontanatosi dall'aridità delle dottrine di Zenone, favorì l'eloquenza
trattando la filoso fia in modo più popolare,e ravvicinandosi alle altre scuole
socratiche; ravvicinamento anche più manifesto in Filone 36 -
e in Antioco,contemporanei ambedue e maestri di Cice rone, l'ultimo dei
quali segnatamente intese a conciliare il Portico colla nuova Accademia,e
riconobbe la validità del conoscimento. Infine secondavano da un lato quell'in
dirizzo le dottrine romane qual più qual meno imitatrici delle greche, e perciò
prive di u n metodo proprio e di proprie speculazioni; mentre dall'altro lato
(sebbene al quanto più tardi) si apparecchiava nelle dottrine de'N e o
platonici e Neopitagorici greci un congiungimento tra la sapienza orientale e
le scuole socratiche. Sembrerà forse a qualche lettore che dettando questi
cenni sui principali sistemi antecedenti a M. Tullio,ci siamo allontanati di
troppo dai confini di una semplice introduzione ; m a il rimanente di questo
discorso farà m a nifesto che a ben chiarire la natura del filosofo nostro,i
suoi intendimenti,lefontidellesueopereeilconcettoche egli ebbe di riformare e
riordinare la scienza, era neces sario distendersi alquanto intorno alle scuole
precedenti e contemporanee e all'efficacia loro sulle parti della filo sofia.
Per fermo allorchè l'oratore latino, fuggendo nella solitudine di Tuscolo e di
Cuma il cospetto degli scelle rati,poneva mano all'Ortensio(A. di Roma 709 in
circa), appariva,come ben notailRitter,una straordinariapo vertà di
speculazioni scientifiche in tutta Europa ; poche e sparpagliate verità
rimanevano intatte nei fondamenti del sapere; l'umana coscienza illuminata una
volta dai principj morali, allora in quella rovina d'ogni umano prin cipio
taceva, e al mancare della materia desunta dalla considerazione dell'animo
umano ,la forma scienziale, seb bene apparentemente raffinata, impoveriva ogni
giorno. Impoveriva di fatti la logica, venuto meno colle dottrine di Zenone il
vero concetto del principio e dell'atto del conoscimento, e ridotta da
Arcesilao e da Carneade a cogliere solo, sfuggendo gli universali, le
contradizioni particolari dei varj sistemi;il semipanteismo stoico e dei
Platonici posteriori, confondendo sempre più l'ente col non-ente, il finito
coll'infinito, il relativo coll'assoluto, uccideva la fisica e s'attraversava
al buon uso dei m e 37 todi sperimentali; la morale per ultimo
risentiva d'ogni setta,massime della epicurea, le cui ultime dottrine ve nute
in luce nel secolo scorso dai papirj Ercolanesi colle opere di Filodemo
Gadarense, contemporaneo e famigliare di Cicerone, testimoniarono anche una
volta la vacuità e i vaneggiamenti di una scienza decrepita.(Vedi Hercu
lanensium Voluminum quue supersunt.Nap.,1793.) Pertanto in quelle condizioni di
civiltà e di dottrine due sole vie rimanevano aperte all'indirizzo del pensiero
speculativo; o un ecclettismo erudito, o un ritorno all'uni versalità e
all'unità della scienza coll'indagine dell'uomo interiore,del senso comune,e
delletradizioniscientifiche e religiose ; impresa che, sebbene difficilissima e
degna di sublimi intelletti, non poteva esser sorgente a specula zioni copiose,
mirando più che altro a sceverare il certo dall'incerto,il teorematico dal
problematico, il necessario dal mutabile, il consentito dal disputato. La qual
cosa, mentre è una conferma dei meriti di Cicerone come filo sofo,e della
modesta grandezza della sua dottrina, ci spiega il divario notevole che lo
distingue dai filosofi contem poranei, e la brevità delle speculazioni latine;
e di fatti, se è vero che la storia della filosofia ci offre a quegli anni in
Grecia ed in Roma un ecclettismo erudito, testimo nianza imperfetta
dell'universale disposizione degl' inge gni a ritornare sul passato, e a
ricostituire la scienza sull'armonia delle attinenze universali, è anche vero
che Cicerone, solo tra i suoi contemporanei, tentò ridurre l'ec clettismo
romano a vera e propria forma di scienza, imi tatore e seguace di quella scuola
dei Giureconsulti, che desumendo dalle consuetudini e dal gius naturale la
santità delle leggi, aveva aperta la via ad un ritorno della rifles sione
filosofica sulla coscienza morale. 38 1. Quella sentenza del
Segretario fiorentino, che af ferma,doversi ogni umana istituzione ritirare
verso i principj,fa manifesta a chi consideri il cammino del pensiero e delle
opere umane nelle età della storia,una legge di scadimento e di progresso, di barbarie
e di ci viltà, di rovine e di restaurazioni, che si verificò in ogni tempo,
così negli ordini civili,come in quelli della filo sofia. La ragione di questo
fatto m i sembra chiara e nel l'un caso e nell'altro;è chiara negli ordini
civili,iquali, se hanno per principio e per fine l'adempimento delle necessità
umane e la conservazione del viver sociale,una volta allontanati da quello
riescono a contraddire la loro natura ; è chiarissima poi nella scienza, e
massime nella filosofia, che costituita nel proprio essere di scienza pri ma da
un ripiegarsi della riflessione sul pensiero come pensiero,e sulle verità
universali,ricereimmediatamente dalla natura ilproprio
soggetto,ipostulatiedilmetodo. La filosofia dunque,come scienza sovrana che ha
imme diatamente innanzi a sè la ragion di sè stessa, è ripen samento del
pensiero naturale e delle sue leggi,è,in una parola, ripensamento della natura
; la qual cosa concessa , PARTE SECONDA. ESAME DELLE DOTTRINE FILOSOFICHE
DI CICERONE. I. sembra doversi dedurre ch'ella abbia altresì nella
natura la possibilità di un indefinito svolgimento, e la possibilità delle
proprie riforme, se pure non vuol pensarsi che l'ef fetto sia inadeguato alla
causa, e la vita dell'animale e della pianta alla virtù generativa del proprio
germe.A chi affermando diversamente volesse mostrarmi, o che il pensiero non
vale a trar fuori dalle prime notizie, con progresso indefinito di
dimostrazione,la scienza, o che la riflessione del filosofo può introdurvi
alcunchè non sup posto antecedentemente dalla natura, io addurrei per ragione
la coscienza, spettacolo sublime dei fatti interni e dei più ardui problemi
sulle verità principali,evidente e misterioso ad un tempo,dove si acchiude come
in ger me la possibilità del sapere che si svolge ne'secoli, ad durrei per
ragione la storia,che ci mostra d'età in età i più grandi intelletti muovere
alla ricerca del vero ignoto dall'affermazione compiuta della coscienza,
deftinirne le più alte questioni concordemente alle tradizioni più a n tiche, e
alla parola del genere umano e di Dio, e fra i delirj e i vaneggiamenti delle
sette conservare e tra mandarsi l'un l'altro la Filosofia perenne. La
testimonianza più lampeggiante di questa verità ne’secoli pagani sono per certo
le due riformedi Socrate e di Cicerone ; entrambi trovarono la filosofia
perduta in dubbiezze infinite; entrambi la rilevarono con uno sforzo supremo
tornandola alla coscienza ; l'Ateniese divino in gegno, e iniziatore fecondo di
un moto speculativo che non è ancora cessato;più modesto intelletto ilRomano,
ma non meno benemerito della buona filosofia,per avere tentato, solo, in un
popolo nuovo fino allora a ogni eser cizio di speculazione e nell'universale
scadimento della civiltà e della scienza, ciò che il Maestro avea potuto
compireincondizionimeno avversedelsapereedeipub blici costumi. Per convincerci
di ciò,basta paragonare la Grecia dei tempi di Socrate con Roma dei tempi di Ci
cerone.E nel vero quel principio di corruzione e di sfi nimento che il
paganesimo già da lungo tempo recava in sè stesso, s'era mostrato segnatamente
in Grecia sin dal 40 - 41 D'altra parte i tempi in cui
Cicerone, nato in Arpino di famiglia provinciale (il terzo giorno di gennajo
l'anno A. C. 106, coss. C. Atilio Serrano, e Q. Servilio Cepione), venne a R o
m a per apprendervi l'esercizio dell'eloquenza, che gli fosse via alle cause
del fôro e al pubblico arringo, eran tempi di più profondi rivolgimenti civili,
conse guenza delle due grandi questioni che da lunghi anni empivano la storia
romana,la prevalenza degli Ottimati sopra la plebe, la prevalenza di Roma sopra
il resto di Italia e del mondo. (Cantù, St. Univ .) Già sin da quando tonò la
prima volta nel fôro la potente parola de'Grac chi, un moto profondo in favore
delle franchigie popolari e dei diritti di cittadinanza romana s'era venuto
propa gando in Roma e nel rimanente d'Italia, e quel moto crebbe cogli anni, e
coll'ampliarsi della potenza repub blicana, e ruppe finalmente nelle
dissensioni civili di Mario e di Silla, e nella guerra sociale. Cominciarono
allora que'tempi pieni di sedizioni, di esilj e di sangue, ne'quali la libertà,
mantenutasi per tanti anni incorrotta , fu solo istrumento dell'ambizione di
pochi, e la gloria militare, guarentigia d'indipendenza, venne adoperata a
sovvertire le leggi; non più libera nel fôro la parola degli oratori,non più
inviolata la persona e le sostanze d'un cittadino romano , dispersa la pubblica
ricchezza, venduti a chi più li pagava i consolati e le amministra
l'entrare della guerra del Peloponneso; poichè pessimo segno del decadimento di
un popolo è sempre il succedere delle interne gare alle lotte d'independenza ;
m a il vivo agitarsi della gente greca, calda ancora di gioventù vi
gorosa,ne'commerci,nelle riforme civili,ne'viaggi,nel l'agricoltura, nelle arti,
manteneva allora negli ordini materiali e politici qualche seme di bene,e negli
ordini in tellettuali volgeva le menti allo studio amoroso del vero l'efficacia
della filosofia italo-greca, che avea recato dal l'Oriente gran parte delle
tradizioni primitive, la fantasia greca, intesa a rendere l'animo interno nelle
manifesta zioni dell'arte plastica, e infine una gagliarda educazione del
pensiero nella dialettica de sofisti. zioni delle province ,
interrotti i giudizj, annullati i d e creti del senato e del popolo ; così
passarono i settanta anni precedenti al regno d'Augusto, finchè l'abuso della
libertà messe capo ad un governo assoluto.Causa di tanta rovina fu per fermo la
crescente corruzione d'ogni principio morale, chè una libertà partorita dal sangue
di tanti uo mini grandi, e da secoli di virtù, non si perde senza crollare i
fondamenti dell'edifizio civile ; e qual fosse a quel tempo la pubblica
moralità in Roma ,ce lo dice Sal lustio complice e accusatore dei delitti
narrati. (Sall., Catil.,cap.X,XI,XIV.)Quellacorruzione,profondanegli ordini
civili, non appariva minore negli ordini dell'intel ligenza ; innanzi tutto
perchè, il progresso intellettivo di un popolo non andando mai scompagnato dal
suo pro gresso morale,e la scienza essendo un che vivo, affet tuoso, e
supremamente civile, l'armonia del sapere col l'armonia della vita è legge
innegabile nella storia delle nazioni; e secondariamente perchè la scienza era
stata sino a quel tempo più spesso istrumento di dominio in mano degli Ottimati
che manifestazione della coscienza e dell'indole latina. Scendono da questi
fatti due considerazioni impor tanti sul nostro filosofo. Prima che, mentre
(come nota più d'uno storico) la letteratura e la filosofia fu colti vata in
Roma dai principali uomini di stato come arte di governo, Cicerone mostrò
co’suoi scritti ch'e'fece della scienza e della cultura, non già un istrumento
per domi narelarepubblicaesalireaglionori,ma,uomo dipace qual era,e
conservatore degli ordini civili che avean for mata la gloria degli avi, studiò
la scienza del vero l'arte del bello per contrapporla alla corruttela de tempi,
e all'oscurarsi d'ogni principio morale. La seconda con siderazione è che
Tullio s'oppose segnatamente, e con maggior vigore che a qualunque altra,alla
dottrina degli Epicurei.Ora,se consideriamo che l'epicurea era quella fra le
scuole contemporanee che avea posto più profonde radici in Roma,e che mentre
ciò era al certo l'effetto della civile corruzione, ne doventava poi alla sua
volta 42 e 2. M a qui c'imbattiamo subito in una questione i
m portante. - Cicerone fu egli soltanto condotto a filoso fare da cause
straordinarie ed esteriori? quando si pose a scrivere aveva egli profondamente
meditato sui più ardui problemi della vita e dell'animo umano ? possedeva quell'ampiezza
e universalità di studj speculativi necessaria per indirizzarlo nella via della
scienza? — Parecchi cri tici tra i quali il Ritter,ilDegerando, e il Bernhardy
lo hanno negato, e affermarono non potersi chiamare filosofo vero esso che
nella sua gioventù avea studiato la filosofia come semplice istrumento
dell'arte di persuadere. Sembra altresì che una simile domanda gli fosse stata
fatta da talunifraicontemporanei,quandoudiamo luistesso,il testimone più
autorevole nella storia della sua vita, re plicare espressamente dicendo : io
nè cominciai tutto a un tratto a filosofare, nè da’primi anni della mia vita
consumai in questo studio mediocre opera e cura,e allora, quando meno parera,
io era maggiormente intento a filosofare (De Nat.Deor.,I,III,6);parole che
potreb bero forse sembrare dettate da soverchio amore di sè
stesso,seiprimiindizj che ci rimangono de'suoi studj, e le opere antecedenti
alle filosofiche non mostrassero assai che ilsuo
ingegno,giovanissimoancora,sivolse'sui principj, sui metodi e sui più ardui
problemi della Scienza prima. Della qual cosa uno fra gl'indizj più certi si è
l'ain piezza e la comprensione ch'e'diede a'primi suoi studj, indizio notevole
per chi ricordi il disprezzo che i più fra i Romani contemporanei affettavano
verso la filosofia e le lettere greche.Ma inCicerone,appena ventenne,appa risce
un sentimento vivo,e quasi direi religioso,dell'unità della scienza; poeta
elegante e vigoroso ne'primi anni, poi traduttore di cose greche,udiva i più
eccellenti m a e stri d'ogni filosofia, studiava con Q. Mucio Scerola il giure,
coi più autoreroli cittadini la scienza delle cose 43 una causa, vedreino
essere immenso il beneficio che il grande uomo recò alla sua patria, più ancora
che come riformatore filosofo, come riformatore civile. civili, la
declamazione con Esopo e con Roscio, ed ebbe a maestri di rettorica Molone
Rodio, e Demetrio di Siria (Cic.Brutodal91allafine;Forsyth,ThelifeofM. T:
Cicero,chap.I,II,III.London,1864).Nutrito l'ingegno con tanta larghezza di cognizioni,
appena si fece avanti nel foro,si accorse,com'egli stesso ci dice (Brut.93,e
pro A r c h i a , V I ) , c h e a c o s t i t u i r e il p e r f e t t o o r a
t o r e n o n e r a s u f ficienteladestrezzaelacopiadellaparola,ma bisognava
che la materia scientifica desse pienezza e fondamento alla forma dell'arte;
quindi ei considerò sin d'allora la filosofiainunmodo
involutoecomprensivocomeunascienza che abbracciava le regole della
vita,dell'arte oratoria,del diritto, d'ogni disciplina umana e divina,
philosophiam matrem omnium benefactorum benequedictorum(Brut.93); omnis rerum
optimarum cognitio,atque in iis exercitatio philosophia nominatur (De Orat.,
III);concetto univer sale, che apparisce in uno fra i primi suoi- scritti, nel
-de Inventione, dove parla delle virtù secondo le dottrine platoniche, e
introduce l'eloquenza fondatrice delle città e del consorzio civile. Un tal
concetto che certo doveva poi chiarirsi cogli anni, e uscirne un disegno più
specifi cato di dottrine morali e speculative, mostra che il suo amore per la
filosofia si accrebbe col suo progresso nel l'eloquenza, talchè in lui (come
osserva ilRitter) l'ora tore preparò lo scrittore in filosofia, ed anzi
leggendo attentamente il De oratore, il Brutus e l'Orator vi senti spirare da
cima a fondo un alito di speculazione di scienza.Il dialogo De oratore è finto
a imitazione del Fedro, e la tesi sostenuta dei disputanti appartiene
intimamente alla filosofia, poichè trattasi ivi di sta bilire se l'eloquenza
sia una dottrina universale od un'arte, s' ella debba restringersi al puro
esercizio del la parola, o allargarsi alla scienza delle cose divine ed umane.
E qui v'è contrapposto deliberatamente nelle stesse persone dei disputanti il
concetto più ampio e più universale,e per conseguenza più filosofico,che Ci
cerone avea del sapere, al concetto parziale e negativo de'suoi contemporanei;
Crasso infatti, che rappresenta 44 l'opinione dell'Autore,
movendo dal principio che una sola è la sintesi delle materie scientifiche,e
che su tutte può e deve cadere l'esercizio dell'eloquenza,reputa ne cessario al
perfetto oratore quasi tutto lo scibile u m a n o , e conferma questa sentenza
coll'autorità degli antichi presso i quali l'arte del pensare e del dire erano
state sino ai tempi di Socrate indivisibilmente congiunte (III, 14, 19.). Lo
stesso argomento è trattato nell'altra opera Orator, dov'egli cercò pure
l'ideale dell'oratore perfetto assumendo a principio le idee archetipe di
Platone ; talchè l'armonia della scienza colla vita, dell'una e dell'altra colla
letteratura e coll'arte,l'accordo della materia scien tifica colla forma
oratoria, e della ragione col gusto, costituisce nei libri rettorici di
Cicerone una vera e pro pria unità di concetto . Considerando questo principio
universale,a cui il filo sofo latino rannodava le discipline letterarie,e
l'alto sen timento ch'egli ebbe dell'arte, io sempre meglio mi per suado che la
vita d'oratore e di politico fu per lui un apparecchio necessario agli scritti
speculativi. Più tardi, allorchèlalibertàvenneinmano degliscellerati,eilgran
cittadino si astenne volontariamente dall'esercizio della pubblica vita,tornò
agli studj non mai interrotti dalla giovanezza, cercandovi la pace che gli
negava l'animo addolorato per le sventure civili,una nuova occasione ad esercitarvi
l'eloquenza muta nel senato e nel fôro, un mezzo per confortare a virtù le
fiacche generazioni, e arricchire la letteratura della sua patria di questa
nuova gloria, sino a quel tempo non partecipata coi Greci
(Tusc.,II,5,6,7,8,9,10;I,1,2,3;III,3;De divin., I , 1 3 ; D e o f f ., I I , 1
, 2 ; A d f a m ., V , 1 5 ) . C h i c o n s i d e r a s s e partitamente un
solo di questi fini, senza comprenderli tutti nell'unità della mente e
dell'animo dello scrittore, mostrerebbe di non averlo compreso ; a lui l'inclinazione
oratoria e l'amor nazionale porgevano il pensiero di un nuovo accordo della
scienza coll'arte nelle opere di filo sofia, onde si aprisse questo nuovo campo
intentato agli ingegni latini; i mali e le necessità del suo tempo gli 45
consigliavano le dottrine morali e civili come riforma dei costumi
corrotti, e dall'intendimento letterario,nazionale e morale insieme congiunti e
contemperati uscì per l'ef ficacia dell'ingegno,degli studj anteriori, e della
riflessione psicologica, la riforma speculativa. La quale armonia di cause
determinanti e di fini fra l'animo dello scrittore ed i tempi, è notevole in
Cicerone ; perchè vi si fonda quella unione socratica tra il vero ed il buono,
onde la filosofia di lui, come quella d'ogni socratico, tanto più è affermativa
e solenne,quanto più gli argomenti metafisici hanno attinenza colle ragioni
morali, nè ciò per quello che oggi si chiama senso pratico , e che si crede
diviso dalla ragione speculativa, m a perchè appunto la ragione prima del
conoscimento si riconosce identica colla legge dell'operare . Se tali erano i
fini, con cui si accinse a filosofare, tra l'indole positiva e morale delle sue
dottrine, e il loro cri terio speculativo non v'ha per fermo alcuna
contradizione, chè anzi quella contradizione apparente,che il Ritter e il
Bernhardy han creduto di rinvenirvi, si dilegua tosto quando raccogliamo dalla
piena lettura delle opere filo sofiche un'idea complessiva del concetto della
filosofia, e seguendo le varie definizioni ch'egli ne diede,perveniamo fino al
punto in cui concepisce chiaro l'ordine scien ziale. 46 Il primo e più
notevole concetto ch'egli ebbe della filosofia, considerata come vera dottrina,
si è di una scienza moderatrice delle azioni e istitutrice della vita: vitæ
philosophia dux, virtutis indagatrix, expultrixque vitiorum ; animi medicina
philosophia ; a questo propo sito il conosci te stesso di Socrate ei lo
prendeva in un senso puramente morale, senso che apparisce più volte nella
Repubblica,e nelle Leggi, e nelle Tusculane, dove si agitano questioni relative
alla vita e ai costumi,e per quanto abbiamo da chiari indizj appariva pure
nell’Orten sio,opera perduta,dov'ei tesseva l'elogio della filosofia rac
comandandola allo studio dei concittadini come dottrina su premamente morale e
civile.(V.Hort.,fram.,e specialmente 47 il fram . 21, L. I. ed. di
Lipsia pag. 284, vol.III,p.IV.) Ora siffatto concetto involgeva di necessità un
criterio scientifico; innanzi tutto perchè chi medita l'ordinarsi d'una
dottrina scienziale, qualunque ella sia,ad un eser cizio d'operazioni, si
suppone averne penetrato l'intima essenza in cui quel principio regolatore
risiede; e poi perchèilverorelativoallavita,sebbene manifestoin noi pel
sentimento morale, s'attiene alle parti più vive e più affettuose dell'essere
umano,ond’è mossa la rifles sione a ripensare da sè stessa e con proprj
principj l'ordine speculativo delle conoscenze. Pervenuto a tal punto il
filosofo, non ha da fare che un passo per racco gliersi nella coscienza morale,
e quindi trar fuori con metodo ascensivo e discensivo d'induzione e di
deduzione tutto quanto il disegno dell'edifizio scientifico ; la qual cosa
apparisce a chi prenda ad esaminare in Cicerone l'ordinamento logico degli
scritti morali. Dove si scorge (e lo mostreremo a suo tempo) com'egli
procedendo di passo in passo nell'induzione, dall'idea morale di legge e di
diritto, che lampeggiava nella coscienza d'ogni cit tadino di Roma,si levò a
concepire un ordinamento di relazioni e di gradi dagli esseri inferiori
a'supremi; re lazioni che intercedevano tra Dio e l'uomo per l'eccel lenza
della ragione, tra uomo ed uomo per somiglianza di natura intellettuale e
socievole ; e quindi usciva una specie d'equazione ideale tra Dio e le
creature, tra gli enti ragionevoli, e i non dotati di ragione, per la reci
procanza dei doveri e dei dritti;e vi s'acchiudevano in germe Teologia
naturale, e Antropologia, Cosmologia e Filosofia del buono. Questo largo
disegno di veri morali fu il principio da cui Tullio moveva nella via della
scienza, e lo mostrano i libri politici e civili antecedenti in ordine di tempo
alle altre opere speculative. 3. Ora soffermiamoci un poco.Mostrato così per
suc cinto quale idea egli avesse della Scienza prima e dei suoi principj,
domandiamo che cosa debba pensarsi sul dubbio accademico quasi universalmente a
lui attribuito. La questione su tal soggetto,disputata a lungo dai
critici e storici della Filosofia, durante il secolo scorso,mentre
gl'ingegni si dividevano incerti tra l'amore dell'antico e la curiosità del nuovo,e
l'Enciclopedia affermava dogma ticamente le sue negazioni, mosse ne'più de'casi
dal pre supposto che Cicerone,come seguace della Nuova Acca
demia,ponesseildubbiouniversaleafondamentodiscienza. Così opinò il
Bayle,e,sebbene alquanto meno risoluti,lo affermarono il Brucker,ilDegerando e
ilBernhardy.Per combattere una siffatta obbiezione non rimanevano alla critica
che due sole vie ; o negare di pianta lo scettici smo della Seconda Accademia,
o rifacendosi da un nuovo e più accurato esame delle dottrine di Tullio,
cercare quale e quanta efficacia vi esercitasse quel dubbio, o come metodo
semplicemente,o come principio fondamen tale ed interno. La prima di queste vie
fu seguita dal sig.Gautier de Sibert in una memoria scritta da lui sui Nuovi
Accademici,la seconda da Raffaele Kuehner.Ma il critico francese,sebbene
dottissimo,quando volle mostrare che la Nuova Accademia non negava la
possibilità della scienza, contraddisse alla storia, nè rispose al quesito del
come conciliare la certezza dei libri morali di Tullio col dubbio quasi
assoluto d'Arcesilao e di Carneade ;l'Ale manno mostrava invece con maggior
verità come il filo sofo nostro, seguace della Nuova Accademia quanto al metodo
inquisitivo dei veri particolari,ne temperasse per altro il dubbio ravvicinandolo
alle fonti socratiche. Ma ilKuehner,cheraccolseconstudioletestimonianze fatte
da Tullio ne'più de'proemj sulla bontà e la modera zione del suo metodo,non ha
considerato abbastanza nei libri morali come a quel precetto apparentemente
negativo dinoncercarecheilprobabile,edirattenerel'assenso,con
trappongasempre,ad esempiodiSocrate,l'altrosuprema mente affermativo del
conosci te stesso.Nè il tornare che egli fa tante volte a raccomandare ilfamoso
placito del savio ateniese, si prenda come artifizio rettorico,o come vano e
miserabile ossequio alle tradizioni. L'esame più diligente e spregiudicato
delle sue opere (io lo affermo sin d'ora) mostra che il dubbio universale e
sistematico, il dubbio 48 di Carneade,del Cartesio e del
Kant,non antecedeva nella mente dell'oratore-filosofo allo stato di
scienza.Egli,prima d'esserefilosofo,come uomo,come romanogiàsisentiva e si
riconosceva nel vero;e quel vero,a cui l'animo spon taneamente piegava sin
da'primi anni per inconsapevole virtù di natura,l'intelletto glielo mostrava
più tardi adu nato, e come raccolto nell'evidenza interiore; evidenza non
solitaria,non priva d'oggettività,non fenomeno puro, quasi paesaggi riflessi
sulla tela da magico apparecchio dilenti,ma uno spettacolo interno,a
cuirispondevano. tre grandi attinenze dell'uomo con sè stesso,coll'universo e
con Dio ; un'armonia d'enti che la scienza dovea tras formare in armonia di
principj. » Nam quum animus cognitis perceptisque virtutibus, a corporis
obsequio indulgentiaque discesserit, volupta sedDelphico deo
tribueretur.Nam quiseipsenorit,primum 49 A questo proposito ci giova riferire
le sue parole tolte da un luogo eloquente del dialogo delle Leggi,dove egli
stesso in propria persona descrive il concetto ed il metodo della scienza
prima. « Ita fit (così il testo latino, che io trascrivo per maggiore esattezza
secondo l'ediz. di Lipsia riveduta dal Klotz) ut mater omnium bonarum rerum sit
sapientia, a cujus amore Græco verbo philosophia nomen invenit, qua nihil a dîs
immortalibus uberius, nihil florentius, nihil præstabilius hominum vitæ datum
est. Hæc enim una nos quum ceteras res omnes tum quod est difficil limum
docuitutnosmet ipsosnosceremus:cujuspræcepti tanta vis et tanta sententia
est,ut ea non homini cuipiam , aliquid se habere sentiet divinum ingeniumque in
se suum sicut simulacrum aliquod dedicatum putabit , tantoque munere deorum
semper dignum aliquid et faciet et sentiet, et,quum se ipse perspexerit
totumque temptârit,intelliget quem ad modum a natura subornatus in vitam
venerit quantaque instrumenta habeat ad obtinendam adipiscen
damquesapientiam,quoniamprincipiorerumomniumquasi adumbratas intelligentias
animo ac mente conceperit, quibus illustratis sapientia duce bonum virum et ob
eam ipsam causam cernat se beatum fore. 4 temque sicut labem
aliquam dedecoris oppresserit, o m n e m que mortis dolorisque timorem
effugerit, societatemque caritatis coierit cum suis , omnesque natura
coniunctos suos duxerit,cultumque deorum et puram religionem su sceperit,et
exacuerit illam,ut oculorum ,sic ingenii aciem ad bona eligenda et reiicienda
contraria, quæ virtus ex providendo est appellata prudentia, quid eo dici aut
co gitaripoteritbeatius?Idemque quum cælum,terras,maria rerumque omnium naturam
perspexerit eaque unde ge nerata,quo recurrant,quando,quo modo obitura,quid in
his mortale et caducum,quid divinum æternumque sit viderit, ipsumque ea
moderantem et regentem paene prehenderit seseque non unius circumdatum mænibus
loci, sed civem totius mundi quasi unius urbis agnoverit,in hac ille
magnificentia rerum atque in hoc conspectu et cogni
tionenaturæ,diimmortales,quam seipsenoscet!quod Apollo præcepit Pythius, quam
contemnet, quam despi ciet, quam pro nihilo putabit ea,quæ vulgo ducuntur
amplissima! » Atque hæc omnia quasi sæpimento aliquo vallabit disserendi
ratione, veri et falsi iudicandi scientia et arte quadam intelligendi quid
quamque rem sequatur et quid sit cuique contrarium . Quumque se ad civilem
societatem natum senserit, non solum illa subtili disputatione sibi utendum
putabit, sed etiam fusa latius perpetua oratione, qua regat populos, qua
stabiliat leges, qua castiget i m probos, qua tueatur bonos, qua laudet claros
viros, qua præcepta salutis et laudis apte ad persuadendum edat suis
civibus,qua hortari ad decus,revocare a flagitio, con solari possit adflictos
factaque et consulta fortium et sa pientium cum improborum ignominia
sempiternis monu mentis prodere. Quae cum tot res tantæque sint, quæ inesse in
homine perspiciantur ab iis, qui se ipsi velint nosse, earum parens est
educatrixque sapientia. » (De Leg.,I,XXII,XXIII.) 50 Qui s'espone a
dettatura del nostro filosofo il suo metodo dell'osservazione interiore
induttivo e deduttivo, quale uscì dalle dottrine di Socrate e di Platone, e
si 51 continuò, accolto dal Cristianesimo , lungo le scuole m i
gliori dell'universale Filosofia. Vi si distinguono tre cose : lo ciò che
antecede ; 2o ciò che accompagna ; 3o ciò che sussegue alla scienza. 1° Lo
stato che antecede la scienza non è il dubbio, m a un riconoscimento pratico e
speculativo dell'ordine universale.L'uomo ha innanzi tutto un sentimento ar
cano della sua somiglianza con l'Essere infinitamente perfetto; e quel
sentimento della dignità umana, e quel l'aspirazione all'immutabile e
all'assoluto in cui vero e buono sono congiunti, e la ragione procede da uno
stesso fonte identica colla legge morale, risveglia in lui l'evidenza intima de
principj speculativi, ond’e’si leva alla cognizione di sè stesso e di Dio,
capisce pei mezzi l'eccellenza del fine a cui nacque, e costituendo in ar monia
pensiero e volere,premette la riforma morale di sè stesso alla riforma
speculativa.Due condizioni del sog. getto rendono possibile in lui la contempla
zione dell'og getto che è scienza:prima la retta disposizione dell'animo
purificato spiritualmente dalla morale, l'istinto sociale educato dalla vita
civile, l'istinto religioso santificato e nutrito dal culto; in secondo luogo
rende possibile la scienza la capacità delle potenze conoscitive, che non sa
rebbero potenze ordinate alla notizia del vero,se un che di determinato e
d'efficace, se una verità prima non le costituisse tali nell'essere loro;ma è
prima necessaria la retta disposizione dell'animo,perchè ilpensiero avvalorato
dalcuore (animo acmente)ravvisinell'intellezioneprima (adumbrata intelligentia),un
po'confusa e indeterminata, le notizie riflesse. 2o Ciò posto, si procede allo
stato di scienza,e il filo sofo movendo dall'esperienza interiore, col soccorso
della Dialettica dottrina delle conseguenze e conciliatrice dei contrarj,
levasi alle ragioni supreme dell'essere, del co noscere e del fare,si forma i
concetti d'origine e di fine, di contingente e di necessario, di temporaneo e
di eterno, che gli sono via a discendere di nuovo alla notizia di sè stesso e
del mondo , notizia comprensiva ed univer 52 sale che lo palesa
inferiore soltanto a Dio , eguale ai suoi simili, e cittadino dell'universo. 3.
Dall'ordine universale della Scienza prima discen dono due dottrine applicate,
e strette in vincoli di co munanza fra di loro : la eloquenza civile e l'arte
dello stato . Tali erano per Cicerone i fondamenti, ed il metodo della scienza.
Ora ecco, secondo che riassume un istorico recente della Filosofia, quali erano
isuoi criterj: « Nella coscienza di noi stessi Cicerone, come Socrate,più di So
crate forse perchè romano ,sentiva l'universalità del vero, distinta dalle
opinioni particolari,e l'amore che tende al vero, e l'essere nostro sociale e
religioso, relazioni uni versali anch'esse ; e però egli inculcava sempre di
fermar l'occhio in ciò ch'è proprio dell'uomo,ossia nella retta ragione (De
off, I e II passim ); e contro gli Epicurei fa valere gli affetti più generosi
dell'animo (ivi, e negli Acc.e ne'Tuscul.e quasipertutto);echiama insoste gno
il senso comune e le tradizioni umane e divine.Così ne' libri Tuscolani (I, 12)
adopera l'autorità del senso comune a dimostrare l'esistenza di Dio e
l'immortalità dell'anima umana,e dice ne'Paradossi contro gli Stoici: « Noi più
adoperiamo quella filosofia che partorisce copia di dire, e dove si dicono cose
non molto discordi dal pen sardellagente.»(Proem.)E nelleseguentiparolede'Tu
scolani si vede com’ei raccogliesse,di mezzo alle opinioni varie,le tradizioni
universali de'filosofi e le divine;« Inol tre,d'ottime autorità intorno a tal
sentenza (cioè l'im mortalità dell'anima) possiamo far uso; il che in tutte le
questioni e dee e suole valere moltissimo (in omnibus, caussis et debet et
solet valere plurimum ); e prima, di tutta l'antichità (omni antiquitate); la
quale quanto più era presso all'origine divina (ab ortu et divina progenie )
tanto più forse discerneva la verità.» (Tusc.,I,12).E tra'filosofi, ch'egli
cita,preferisce appunto Ferecide,come antico,antiquus sane;e indine conferma
l'autorità con quella di Pitagora e de'Pitagorici;il nome de quali, egli dice,
ebbe per tanti secoli tanta virtù che niun altro paresse dotto (S
16). E dice più oltre che, secondo Pla tone,la filosofia fu un dono,ma quanto a
sè,una inven zione degli dèi : « Philosophia vero omnium mater artium , quid
est aliud,nisi, ut Plato ait,donum , ut ego, inventio deorum ? » ($ 26.) Nel
che s'accenna il principio divino della Sapienza e della tradizione.(Conti,St.
della Filo sofia, part.I,Lez.XVIII.) 4. Se per ciò che risguarda i principj e i
fondamenti della filosofia egli mosse direttamente da Socrate affer mando la
chiarezza naturale del soggetto scientifico,e l'efficacia della conoscenza,
quanto poi al metodo più propriamente detto, indagatore dei veri particolari,
fu se guace, o come ci dice egli stesso,restauratore della Nuova Accademia
(deserte discipline et iam pridem relicte ), restaurazione che, a mio parere,
può e debbe chiamarsi una vera riforma; perchè l'idealismo d'Arcesilao e di
Carneade tralignava nel dubbio, e, piuttosto che all'An tica Accademia , si
ricongiunse agli scettici dell'età italo greca e a Pirrone; m a Tullio
attingendo alle fonti socra tiche si riscontrò nelle tradizioni genuine della
sua scuola. Questo fatto s'è rinnovato in Italia nel secolo XVII, quando
Galileo Galilei tornando al vero metodo aristote lico dell'induzione,
restaurava la filosofia naturale ; più peripatetico in ciò, come egli stesso
scriveva al Liceti,di tutti i peripatetici de'tempi suoi. 53 Riassumendo
il tutto in poche parole, Cicerone attri buiva alla filosofia universalità di
fini, di principj e di metodo, e tutto ciò comprendeva,come Socrate,nel senso
generalissimo della voce sapienza, talchè dopo averla descritta ne'libri
oratorj come un semplice esercizio di raziocinio, e in alcune opere morali come
una dottrina puramente pratica e positiva,ne'Tuscolani e nel secondo libro
degli Officj la chiamò con significato più largo : scienza delle cose divine ed
umane e delle loro cagioni. Suolsi affermare comunemente dai critici e dai
filosofi che Cicerone diè prova di scarso ingegno speculativo non componendo le
sparse verità in un sistema ordinato. La quale accusa vuol bene determinarsi;
perchè,se con essa si nega che Cicerone aggiungesse copiose
speculazioni alla materia delle dottrine contemporanee, e che componesse le
verità antecedentemente trattate dalle scuole socrati che in un compiuto e
perfetto sistema, ha ragione la cri tica, m a la critica ha torto,se vuol
negare che a Cicerone mancasse qualunque disegno di scienza, o un proprio cri
terio per l'ordinamento formale delle dottrine. L'affermar ciò, rispetto a
Cicerone, importerebbe nel vero affermarlo pure di Socrate,e d'ogni altro
riformatore; chè il sistema della filosofia di Tullio (se così vuolsi
chiamarlo), come quello di Socrate, non è ordinato secondo un disegno po sitivo
corrispondente all'ordine del soggetto ripensato dalla coscienza, m a si svolge
nella stessa opposizione alle sette, e in quella opposizione egli scuopre il
concetto della scienza,e il metodo,e i criterj che gli son guida,indizio
manifesto che,mentre da un lato egli demoliva le dot trine sofistiche dei
contemporanei, edificava dall'altro sui fondamenti incrollabili della coscienza
umana. Ora si avverta come il considerare in tal modo questa temperata
efficacia della speculazione di Tullio, che ri pensa e rifà le dottrine degli
altri con un proprio criterio positivo di paragone e di scelta,in contrapposto
alla pas sività negativa dell'eclettico erudito che ricopia quelle dottrine e
le raguna nella memoria ,anzichè comporle nella riflessione; è metodo forse non
seguito fin qui dai prin cipali critici di Cicerone,e tale che potrebbe
condurre a meglio comprenderlo e giudicarlo col chiarire molte que stioni, tra
le quali non ultima quella sull'uso ch'egli fece dell'autorità quanto ai fonti
delle sue dottrine,trattata a lungo in Germania, e sì bene dal Kuehner nel
capitolo quinto, parte seconda della Dissertazione citata. 54 E tale è il
metodo che noi abbiam preso a seguire, ond'escono alcune conseguenze e regole
pel nostro esame. I n p r i m o l u o g o , p o i c h è s o l o p e r n o s t r
o a v v i s o , il c o n t r a p porre Tullio a'suoi contemporanei può
dimostrare quanta altezza d'ingegno e potenza d'analisi gli abbisognasse per
isceverare dalla confusione de'sistemi le verità principali, chiarirle e
ordinarle in forma di scienza, terremo l'uso d'esporre ogni volta
le principali opposizioni de' sistemi, e poi qual giudizio ne recasse il
filosofo latino.In secondo luogo avremo questo a principio di critica, notato
da altri, che, poichè le opere di Cicerone sono per la m a s sima parte dispute
scritte, e, come tali, ritraggono nei varj personaggj il conflitto delle
opinioni, e le nature differenti degl'interlocutori, convien distinguere con
ogni diligenza quando egli riferisce la propria, e quando l'opi nione degli
altri, quando egli stesso prende parte al dia logo, o si tien fuori, quando
tratta ex professo una m a teria,oquandosoltantol'accenna(V.Degerando,Brucker,
Kuehner, Middleton .) Finalmente si consideri bene che l'ordine di questo
ragionamento mostrerà come una pro gressiva verificazione dei principj supremi
nella mente di Tullio, a misura ch'egli passa dalla filosofia fisica alla
logica, e poi alla morale ; ed è perciò che qualche argo mento interrotto in
una parte delle dottrine, verrà ab bandonato e poi ripreso in un'altra,
quand'egli,conside randolo sotto un aspetto diverso, sempre più lo verifica, e
sempre più lo chiarisce. Le fonti da cui trarre le dottrine di Cicerone, sono
principalmente i suoi libri di filosofia, che ci pervennero la maggior parte,
se n'eccettui le traduzioni Oeconomica Xenophontis (scritta forse l'anno p. u.
c.670, o il se guente),Protagoras ex Platone (lavoro giovanile secondo
Quintiliano.) Timæus de Universo (trad., come app. dal p r o e m ., d o p o g l
i A c c a d e m i c i , c i o è d o p o i l 7 1 0 d i R o m a ) ; i libri
vriginali, Hortensius de philosophia (2 libri del l'anno forse
p.u.c.709),Consolatio de luctu minuendo (scritta dopo la morte della figlia
avvenuta nel 709, poco prima dei Tuscolani), D e Gloria (2 libri, compiti circa
alla metà del 710), Commentarius de virtutibus (incertadata),Cato,sivelausM.
Catonis(709),Deiure civili in urtem redigendo; de'più fra'quali rimangono
frammenti. Gli altri, non interi tutti, e che in ordine di tempo si
distribuiscono cosi: De republica (6 libri scritti dal 700 al 703 di Roma),De
legibus(6 libri,composti dopo il De republica), Paradoxa (avanti il
Giugno 55 e del 708),Academicorum (ne fece due edizioni dette
Acad. priorum in 2 libri, e posteriorum ,in 4 libri;della prima c'è rimasto il secondo
libro, della seconda il primo ; anno 709),De finibus bonorum et malorum (5
libri del 709 di R.); Tusculanarum disputationum (5 libri, cominciati l ' a n n
o d i R o m a 7 0 9 , c o m p i t i il 7 1 0 a v a n t i l a m o r t e d i
Cesare),De natura Deorum (3libri,compostitral'estate
del709egl'idjdiMarzodel710),De Divinatione(2libri, cominciati il 710), De fato
(un libro scritto a corredo dei due precedenti), De officiis (tre libri
cominciati nella seconda metà del 710), Cato major de senectute (un li bro,
scritto e pubblicato il 710), Lelius de amicitia (id.scritto dopo il Catone
maggiore av.gliOfficj);furono variamente distinti dai critici secondo la loro
materia e la forma. Il Ritter li distinse in riposti ed in popolari,
clistinzione che più esattamente potrebbe ridursi all'altra de'dialoghi
speculativi, come i libri Accademici, de'Fini, delle Leggi,della Natura degli
Dei ;dagli scritti che hanno È noto quanto siasi discusso tra i critici sulle
dale dei libri di Ci cerone.Cilusa principale del dissenso è il non trovarsi
d'accordo quauto al determinare l'anno della nascita dell'Autore. 1 Forsyth lo
dice nato il 3 d i g e n n a i o , 1 0 6 a v . C r i s t o ( 6 4 8 d i R o m a
), m a a g g i u n g e i n n o t a a p . 2 , che, secondo il calendario Giuliano,
egli sarebbe nato l'ottobre del 107 (647 di Roma). In questo anno pongono la
sua nascita il Middleton, il Kuehner ed altri autori meno recenti;onde seguita
che,mentre, a cagione ll'esempio,essi fanno il De consolatione,l'Orlensio,gli
Accademici, il De finibus e le Tuscolane, del 708 di Roma, (av. Cristo 46 e 62
della vita di Cicerone),eleopere De Natura deorum,DeDivinatione,DeFato,De Offi
riis, Cato Vajor e Lælius, del 709 di Roma (45 av.Cristo c 63'della vita di
Cicerone); il Forsyth e l'edizione di Lipsia del 1854 (riveduta dal Clolz so
quelle dell'Orelli e dell'Ernesti), riferiscono i primi cinque trattati al 7 0
9 d i R o m a ( 4 5 a v . C r i s t o , 6 2 d i C i c e r o n e ), e g l i a l
t r i a l 7 1 0 . N o i s t i a m o col critico di Lipsia, e col Forsyth,perchè
mollo recenti,e temperati assai nei giudizj.Del resto di parecchie opere si
conosce la data.Intorno a quella del De Republica e De Legibus rimane qualche
incertezza. Il dott.P. Richarz. in una dissert., De politicorum Ciceronis librorum
tempore natali (Wir ceb., 1822), stabilisce avervi speso Cicerone oltre a dieci
anni, e averli pubblicati nel principio circa del 703 di Roma.Questa ed altre
molte dis sertazioni di critici tedeschi e francesi,citate da noi,ricevemmo
dalla cor. tesia dell'illustre A. Vannucci, a cui rendiamo pubblica
testimonianza di gratitudine. 56 un fine pratico,ad esempio
gli Officj,dell'Amicizia,iPara dossi, le Tusculane e qualche altro. Noi abbiam
seguito l'altra distinzione più principale, ammessa da tutti icri tici, e che
fino a un certo punto concilia l'ordine logico dei libri coll'ordine di tempo,
tra le opere fisiche (De matura Deorum ,De divinatione, De fato, e il Somnium
Scipionis parte della Rep.), le logiche (Academicorum , Topica, De
inventione,etc.),lemorali(Definibus,Tuscu
lanarum,Paradoxa,Delegibus,Deofficiis,De republica, De senectute,De amicitia)
;avvertendo che la distinzione non siprenda troppo assoluta,ma che si guardi
alla qua litàche prevale.Fonti secondarj,ma dausarsiconmolto riserbo,sono,secondo
nota opportunamente il Middleton nella vita di Cicerone,le Orazioni e
l’Epistolario; e noi vi aggiungiamoleopererettoriche,segnatamente ilDe Ora tore
e l'Orator. La distinzione accennata delle opere fisiche,logiche e morali
risponde al concetto della scienza, e al metodo della antica Accademia seguito
da Tullio nell'ordina mento generale delle dottrine, e ne partisce la filosofia
nelle tre grandi teoriche dell'essere, del conoscere e del l'operare. Premessi
questi principj generali, si passi ora al l'esame più specificato delle
dottrine. II. 1. Il prendere ad esame con quella larghezza e dili genza,che è
necessaria allacriticaistorica,levarieparti delle dottrine tulliane, è cosa
invero che ricerca un abito non ordinario di osservazione, e un sentimento vivo
delle attinenze scientifiche; perchè, sebbene, come fu notato nel capitolo
antecedente, non si trovi nell'Arpinate un pieno disegno di filosofia ordinata
a sistema, basta leg gere alcuno dei suoi libri speculativi per accorgersi
tosto ch'ei ritraeva da Socrate,non soltanto ilmetodo esterno del disputare e
la sobrietà dell'esame, m a altresì quella 57 58 riflessione
larga e compiuta, onde l'Ateniese coglieva nel l'universo delle idee la unità
della scienza. E di fatto socratici veri sono, come ben nota il Ritter,tutti
coloro che videro chiaramente la necessità di collegare la scienza de'fatti
interni con quella dell'universo, l'osservazione morale coll'esperienza e la
fisica colla psicologia. Nes suno dunque fu più vero e perfetto socratico del
nostro Autore. Anch'egli si accorse, come già il suo Maestro , che se un
sentimento naturale, abbenchè indeterminato, dell'attinenza tra il pensiero
nostro e gli oggetti, mosse la riflessione ne'primi passi della scienza a
riconoscersi per illusione identica col mondo esteriore,illusione da cui poi i
Pittagorici, gli Eleati e gli Ionj traevano il pantei smo,e uscì la dialettica
de'sofisti, un secondo passo a ristorare la scienza caduta nella materia e
nelle astra zioni eccessive, doveva essere l'affermazione dell'uomo interiore,
e di quella sintesi intellettiva e morale, sola realtà oggettiva, in cui
mirando il pensiero potesse rav visaresèstessoinattinenzacollecose
conDio.Suquesti fondamenti Socrate restaurava la vera dottrina dell'es
sere,dottrina che tratta di Dio,dell'universo e dell'uomo, considerati nella
loro esistenza, natura e relazioni su preme, e abbraccia in sè le scienze
fisiche e matemati che, la teologia naturale, la psicologia e la cosmologia.
Tutto ciò veniva compreso dagli antichi sotto il nome universale di Fisica
(usato in più luoghi da Cicerone ), e la Fisica includevano nella Filosofia,
perchè questa trat tando degli enti nel loro ordine universale contemplato
interiormente dalla coscienza,porge alle dottrine d'osser vazione esteriore il
soggetto e i principj. Or qui bisogna avvertire che questa unione intima delle
parti scienziali, sentita vivamente dalle scuole antiche italiane, e confer
mata da Socrate (il quale, nemico della fisica sofistica degli Ionj,favorì
invece coll'osservazione interiore la fisica buona), dava occasione, come
sempre, ad un bene e ad un male ; il bene era l'altezza della riflessione
scientifica, che comprendendo nell'unità de'principj l'intelligibile e il
sovrintelligibile, la natura e il divino, scorgeva sempre 59 più addentro
i legami che stringono la teologia naturale, la psicologia e la cosmologia ; il
male era che le scienze sperimentali così intimamente collegate alla filosofia
spe culativa,mentre se ne avvantaggiavano da un lato rispetto all'universalità,
traendo dall'accordo colle altre parti del l'umano sapere occasione a più vera
e perfetta compren sione della propria materia, dall'altra ne scapitavano
quanto ai metodi, allorchè all'osservazione esteriore o induttiva, che sola ci
può condurre alla notizia dei corpi, si volle sostituire la deduzione, che da
pochi generalissimi, posati a priori, scendeva di salto, come nota Bacone , al
particolarede'fatti.Due fontiperennid'errorenellescienze sperimentali furono
pertanto il panteismo e il dualismo ; ilprimo,perchè,data l'unità di
sostanza,ne consegue la medesimezza dell'ordine ideale col reale,onde deduce il
filosofo darsi vero passaggio dalle idee alle cose,senza necessità di sensata
esperienza ; il secondo, perchè, fatta coeterna a Dio la materia,ne viene
alterato il concetto di finitudine, e il mondo si pensa non più finito e tem
poraneo, m a infinito ed eterno, e animata la materia e
incorruttibiliicieli;pertalmodo panteismo edualismo ci diedero la fisica
fabbricata a priori, quale fu nelle scuole dell'India,nelle Pittagoriche, nelle
Eleatiche,in Platone, negli Stoici e nei Peripatetici del medio -evo. Le quali
considerazioni son necessarie,parmi,a chiunque voglia esaminare la metafisica
di Cicerone, e chiarire come mai,mentre lafisicasuperioreeledottrinesuDio, sull'uomo
e sull'universo sono fondate da lui sopra prin cipj sì alti, vi prendono
pochissima parte e indiretta le indagini sperimentali. Ai tempi dell'Arpinate
in cui, venuta all'ultima cor ruzione laGentilità,si rinnovarono
esiesageraronotutti gli errori delle età anteriori, quello strano accozzo delle
scienze fisiche colle metafisiche era venuto al suo colmo, e potente occasione
di scetticismo era il contrasto delle opinioni. Ora v è un luogo sulla fine
degli Accademici primi,dove Tullio descrivendo in persona propria la di scordia
delle sette contemporanee nelle tre parti della scienza,e volendo
mostrare come quella discordia giusti ficasseildubbiodellaNuova
Accademia,sitrattienepiùspe cialmente sulle dottrine de'Fisici (Acad., 37, 38,
39). D a quel luogo apparisce che il panteismo e il dualismo italo-greco
spingendo all'eccesso l'induzione astrattiva, per stabilire l'identità della
sostanza prima, avean con cepito a priori un'essenza nascosta e universale
delle cose distinta dalle loro qualità manifeste pel senso,e che si convertiva
in tutti gli elementi ; m a sulla natura di quest' intima essenza si disputava
segnatamente tra le scuole pittagorica, eleatica ed ionica. D'altra parte sor
geva questione tra le differenti scuole socratiche sull'or dine e sui destini
dell'universo;gli Stoici ammettendo una continua successione di mondi,
affermavano temporaneo il presente ordine delle cose ; Aristotele lo diceva
eterno ; i primi trasportando l'immagine dell'uomo nel principio supremo,
concepivano Dio provvidente nei particolari e negli universali ; m a Stratone
da Lampsaco e Democrito gli rifiutavano ogni ingerimento nelle cose del mondo,
inentre Aristotile,accordandogli la provvidenza dei generi e delle specie, gli
negava quella dei particolari. Tal m e todo di ragionare a priori sull'essenza
delle cose,occulta intimamente all'umano intelletto,non piaceva a Tullio,
ond'e'consigliavaun piùmodestosapere;mostravacome la notizia, che noi
acquistiamo de'corpi, movendo dagli effetti, non comprende l'intima essenza e l'efficacia
delle cause, e se all'occhio stesso dell'anatomico, che pur p e metra ne'corpi,
non si manifesta l'attività che li avviva, molto meno ella si manifesterà al
Fisico, che non può tagliare e dividere la natura delle cose per indagare i
fondamenti su cui posa laterra.(39.)Procedendo di questo passo l'Autore faceva
vedere negli Accademici, nei T u sculani e nel libro della Natura degli
Dei,come i dubbj opposti alle eccessive affermazioni de'Fisici intorno alla
essenza delle cose si trasportavano dalla Nuova Accade mia
sull'esistenza,natura e destini dell'anima,sull'esi stenza e natura di Dio e
sue relazioni coll'universo, e sulle altre principali verità della
scienza. 60 61 Nei luoghi citatiadunque e in qualche
altro ancora,in cui l'oratore latino dipinge il dissidio delle scuole sulle
verità naturali, non può negarsi ch'egli si faccia seguace della Nuova
Accademia ; e non pertanto s'ingannerebbe col Ritter chi, attingendo di
preferenza a quei libri che han fine principalmente metodico, e dove le dottrine
della Fisica superiore si toccano per incidente, ne inferisse il dubbio
universale di Cicerone sui fondamenti di tutta la scienza. Nella fisica
ciceroniana si vuol distinguere infatti le verità problematiche dalle
teorematiche ; le prime ri feribili all'intima essenza e natura de'corpi, alle
leggi de’loro moti,alla costituzione fisica dell'universo ;l'altre risguardanti
l'esistenza e natura di Dio , dell'uomo e del mondo, considerati nell'ordine
loro e relazioni supreme. Quanto ai problemi naturali,egli non impugnava la pro
babilità che la scienza pervenisse a risolverli, e, come primo presupposto
somministrato dalla filosofia alle dot trinesperimentali,ammetteva
lapercezionede'corpi;ma di contro all'orgoglioso dommatismo degli Stoici, degli
Ionj e degli Eleati gli pareva assai più degna del saggio la modesta
verosimiglianza della Nuova Accademia,e fu per certo impresa vantaggiosa alla
Fisica, in una età come quella quando gli errori del panteismo,e il difetto dei
metodi e degli istrumenti toglievano fede alle verità di sensata esperienza,
professare una modesta ignoranza del vero per arrestare in tal guisa i rapidi
progressi dello scetticismo universale. E lo scetticismo, diceva Cicerone, si
sarebbe aperta la via quando que'filosofi dommatici non avessero considerato,
come sentenziando con assoluta certezza di cose occulte e dubbiose, si
toglievano poi l'autorità d'affermarne altre d'evidenza maggiore; os servazione
importante e che mostra come anche rispetto alla scienza sperimentale Tullio
non professasse un dub bio assoluto, m a riconoscesse un ordinamento di gradi
dal verosimile al certo.(Acad.prior.,41,e De repub.,I,10.) M a la prova
maggiore si è che, mentre le intermi nabili e vane questioni ond'era ingombra
la fisica, lo la sciavano sconfortato e dubbioso,un desiderio,quasi direi
62 giovanile,nutrito dall'ingegno potente e dall'animo roma
no,loinvogliava delle indagini naturali,di quelle indagini onde ci leviamo
sopra noi stessi, e dispregiando la picco lezza delle umane cose,proviamo un
vivo sentimento del divino e dell'immortale. « Nè anche io penso (così scrive
Cicerone)che sidebbano tor via tali questioni dei fisici; poichè viè un certo
naturale alimento degli animi nel considerare e contemplare la natura ;ce
ne sentiamo inal zati,e fatti più grandi, e nel pensiero delle cose supe riori
e celesti dispregiamo queste nostre del mondo come leggiere e di nessuna
importanza ; anche l'indagine stessa di cose grandissime e occultissime diletta
oltremodo ; se poi c'imbattiamo in qualcosa che sembri verosimile,l'ani mo
nostro è compreso da quel piacere che supremamente è degno
dell'uomo.»(Acad.prior., De fin.,IV,5).Innamo rato quindi della fisica, come
fonte di più alte specula zioni, egli rigettava le fantasie grossolane di
Democrito e d'Epicuro (De fin.,I,6);lodava Zenone perchè imitatore dell'antica
accademia diligente indagatrice della natura ( D e f i n ., I V ) ; e i q u e s
i t i d e l l a f i s i c a c h e l o m o s s e r o g i à vecchio a tradurre il
Timeo di Platone, gli avevan det tato qualche anno avanti le pagine più
eloquenti del trattato sulla Repubblica; il ragionamento di Filo e lo stupendo
sogno di Scipione.(De rep.,I,17,VI,9 e De fin.,IV,5;Tuscul.,V,23,25). Due
conseguenze,per quanto ci sembra,discendono dal contesto generale dei passi
sopraccitati,e da una lettura complessiva dei libri fisici di Cicerone : 1o che
il filosofo latino, a misura che dalla ricerca delle cose sensibili, e
dell'essenza loro occulta all'intelletto dell'uomo,argo mento de problemi, si
levava col discorso induttivo ai teoremi della scienza, scopriva illuminate da
una luce interiore le verità più alte, sebbene in mezzo alle tene
bredelgentilesimononardissedeterminarle;2ache,ofosse la dottrina stoica a cui
pendeva,o l'indole viva e meri dionale del suo ingegno, nella natura egli
sentiva e rico nosceva il divino; e tale attinenza sentimentale e logica della
sua mente tra ilfinito e l'infinito,tra il contingente e
l'assoluto, tra il temporaneo e l'eterno gli era scala a pensare la relazione
ontologica;e questa poi per abito alsemipanteismo-dualistico di Platone e
degliStoici lo conduceva probabilmente a immaginarsi l'intelletto umano emanato
da Dio,e Dio e le creature supreme disgiunte dall'universo de'corpi. In questo
metodo che sale per gradi di verosimiglianza dalla natura al divino, metodo
improntato sulle meditazioni socratiche,sta l'essenza della fisica di
Cicerone,e n’escono chiarite e per ordine le sue dottrine sull'esistenza e
natura di Dio, dell'universo e dell'uomo, sulla provvidenza e sulla libertà
dell'arbitrio. 2. La dottrina sull'esistenza e natura di Dio tiene il primo
luogo nella fisica di Cicerone.La causa di questo primato apparisce evidente
innanzi tutto per la sovranità incontestata dell'idea di Dio nella scienza.
Dio, oggetto necessario e reale assoluto ed eterno che si manifesta come prima
causa al di fuori di sè stesso nell'universo degli e n t i , e li g o v e r n a
v o l g e n d o l i a d u n f i n e i m m o r t a l e , c h e n e è prima
legge,in quanto si rivela all'intelletto dell'uomo nel mondo
degl'intelligibili,come ragione prima,signoreggia per fermo tutto l'ordine
scienziale ;e infatti,sebbene l'inda gine della coscienza interiore sia
principio e fondamento al sapere nell'ordine della riflessione, è pur certo che
i veri, i quali si dicono da’filosofi più noti rispetto a sè stessi, e son
centro d'infinite relazioni, come quello di Dio,partecipano all'uomo
quell'ampia veduta ideale,che sola lo conduce alle armonie della scienza. Nè il
primato del concetto di Dio si menoma punto se la mente sale da ciò che muta a
ciò che non muta,e dalla natura al di vino, una volta ch'ella v’ascende guidata
da un concetto necessario d'attinenza causale, attinenza di termini cor
relativi, l'uno dei quali è Dio stesso presente con arcana e invisibile
efficacia nel soggetto pensante. Anche senza
l'unitàassolutadeipanteisti,lafilosofiasicompone dunque in forma di scienza,e
la psicologia e la cosmologia si congiungono insieme nel massimo problema della
teologia naturale.La qual cosa è assai provata dal metodo di S o crate, che
movendo dalla coscienza produsse in Platone 63 64 u n a c o m
p i u t a a r m o n i a d i s i s t e m a , e a i u t o il f i l o s o f o l a
t i n o , venuto in tempi di povere e scucite speculazioni, a ser bare un
vincolo di dottrine nei suoi libri di fisica, che scritti in ordine successivo
di materie e di tempo,debbono quindi esser presi ad esame da noi come un solo
trattato. Premesse queste cose, viene spontanea la domanda : quale
fosseilpensierodell'oratorelatinointornoaDio.Se dopo una attenta lettura dei
passi delle sue opere, dove tal pensiero s'accenna,e un diligente ragguaglio di
questi passi tra loro,ci facciamo tal quesito, verrà spontanea pure
larispostach'eglidell'esistenzadiDio,diquelladell'anima e sua immortalità,
della provvidenza e del libero arbitrio non dubitava,e soltanto accoglieva una
più o meno decisa incertezza quanto al determinarne la natura ; e il suo
criterio in sì ardua questione della filosofia era un vivo intuito e un
sentimento più vivo dell'eccellenza e della armonia delle cose palesata
internamente dalla coscienza morale, esternamente dai principj supremi di
universale consenso.(Kuehner,Pars.IV,c.11,p.VIII.B. P. van Wesele
Scholten,Dissertatiophilosophico-criticadephi losophiæ ciceronianæ loco qui est
de Divina Natura . Amstelaed,1783,c.I,V,p.35).Inquestocriterioioravvisoil
riformatore e il filosofo vero ; il riformatore, perchè m o veva da ciò che
v’ha di più vivo e di più efficace nel l'uomo, dall'autorità delle tendenze
morali, il filosofo, perchè non se ne stava già al testimonio privato e indi
viduale,ma con deliberata indagine scientificacercavale note del vero nella
ragionevole natura dell'uomo, e nel suo carattere d’universalità. Tale
osservazione è degna d'es sere avvertita sin d'ora,perchè parecchi istorici
della filo sofia,tra iquali anche ilRitter,considerando ilmodo ora
dubitativo,oradommaticoconcuiCiceronesiesprimeinsif fatta dottrina,ilsuo
riserbo nell'accettare le opinioni degli altri, nell'esaminarle, nel
ventilarle, han voluto dedurre che egli in questa parte,filosofo di non troppo
sottili spe culazioni, più che a una severa riflessione, se ne stasse al
sentimento individuale destituito da criterj scientifici.
(Ritter,Hist.,L.XII,c.II,p.112. Brucker,Degerando.) M a questi
storici non hanno considerato a quali tempi si abbattè Cicerone ; tempi di
sfrenate passioni, di orribili scelleratezze, di guerre sterminatrici, ne'quali
ogni fon damento dell'edifizio civile crollava, e la scienza,abban donato il
sublime ministero di propagatrice del vero, si prostituiva
alguadagno.Alloralavocedelsenso comune e degli affetti naturali, alterata dalla
Gentilità, non so nava nelle plebi,quale una volta,testimone dei veriuni
versali e delle tradizioni primitive; la voce del popolo non era più quella di
Dio. Allora la tradizione scienti fica, che ravviata da Socrate s'era andata
continuando, benchè con notevoli alterazioni,lungo le scuole socrati che,
pervertita dagli ultimi sofisti avea perduto ogni sen timento del
vero;talchèalfilosofo,chenon avesse voluto o bestemmiar colle plebi o delirar
coi sapienti, non ri maneva che cercare iprincipj della scienza nella propria
natura non corrotta e nell'antichità veneranda. Ecco il fondamento che cercò
Cicerone alle principali dottrine della teologia,ed ecco icriterj che lo guidarono
in mezzo ai ravvolgimenti delle scuole sofistiche. Qui per altro è necessario
notare che,quando diciamo che in tempi di sì corrotta filosofia Cicerone ebbe e
metodo, e indagini pro prie,e guide non fallaci del vero,noi non lo rappresen
tiamo immune del tutto dalla funesta efficacia delle dot
trinecontemporanee,nèintendiamoch'e'fossesìfortunato da ravvisare scevre
d'errore nel santuario della coscienza le verità principali.- Ebbe egli
compiuta e perfetta n o tizia della natura di Dio e delle sue perfezioni ?
conobbe senza mischianza d’errori i d o m m i della spiritualità e i m
mortalità dell'anima umana ?ravvisò semplici e schiette, senza infezione di
panteismo e di dualismo,le attinenze dell'Ente supremo coll'intelletto
dell'uomo e col mondo ? - I o so che tali quesiti furono proposti più volte
dagli storici della filosofia, e poichè parve che Tullio non s e m pre
rispondesse chiaro e deciso all'esame dei postulanti, gli fu negato nome e
autorità di filosofo, e valore d'in gegno speculativo. (Brucker lo difese
dall'ateismo ; redi Bayle,Diz.Art.Spinoza).E veramente la conclusione 65
5 Il metodo ch'e'si propose apparisce manifesto dai tre libri D e
natura Deorum ; e tal metodo discende dal fine di tutto iltrattato.Or qual
eraquelfine? Chiamare 66 scenderebbe di necessità dai principj, quando si
potesse provare che la riflessione scientifica s'è trovata in ogni tempo nel
medesimo stato di certezza di contro al sapere naturale e al soggetto della
scienza,o che lo spirito umano nonsegueun cammino diprogressivosvolgimentonellaetà
dellastoria;e sela criticamoderna immune da preoccupa zioni, adoperasse sempre
una stessa severità imparziale nell'esame d'ogni filosofo. M a la cosa procede
ben altri menti ; perchè da un lato il razionalismo alemanno coi suoi seguaci
d'ogni paese, che ammette ogni perfeziona mento scientifico come un prodotto
spontaneo e succes sivo della ragione nel tempo,non potrebbe,senza rischio di
contraddire ai principj del proprio sistema, negare che la forma logicale e il
fondamento delle dottrine dei filo sofi antichi sia rispetto a quel de'moderni
notevolmente imperfetto ; d'altra parte il filosofo del Cristianesimo, che
afferma oscurate e corrotte prima della venuta di Cristo le tradizioni e le
verità primitive, e restituite dalla parola rivelatrice del Verbo quelle
tradizioni e quelle verità all'intelletto dell'uomo redento, non può non
ravvisare nelle dottrine cristiane un perfezionamento notevole delle dottrine
gentili; infine, ed è conseguenza del già detto, nessuno rimprovera ai filosofi
Indiani, Italo-Greci, a So crate, a Platone, ad Aristotele l'ignoranza,
l'errore e le manifeste dubbiezze intorno a parti sostanzialissime della
scienza. Le quali cose premesse, è inutile,parmi, far conside rare al lettore
di Cicerone ch' e' non vi troverà deter minato senza ondeggiamenti d'idee e
d'espressioni il con cetto di Dio ; anzi dirò di più che tal concetto in
parecchi luoghi delle sue opere (come nel De natura Deorum ) apparisce più
assai negativo che positivo. Resta ora che cerchiamo in breve per quale
indagine lenta e progressiva giungesse il filosofo nostro a una verificazione
sempre m a g giore di quel concetto divino. ad esame le principali
opinioni de'filosofi intorno a Dio, discuterle,confutarle, e mostrare come le
loro controversie sovra una parte sì nobile della scienza siano ben sovente
occasione e pericolo di scetticismo. (I. C. I,1;C. VI, 13, 14.) Con questo
intendimento venuto egli ad esporre l'occasione del dialogo, racconta come
essendo stato invi tato nel tempo delle Ferie latine in casa dell'accademico C.
Aurelio Cotta pontefice e suo familiare (fra il 676 e il 679 di R o m a ), e
trovatolo insieme con C. Vellejo, che alloraavevavoced'essereinRoma
ilprimotragliEpi curei,e Q. Lucilio Balbo,stoico da paragonarsi ai più prestanti
fra iGreci, cominciarono questi a disputare, lui presente, della natura degli
Dei, spartendo tutta la m a teria in tre punti principali ; vale a dire : se vi
fossero Dei,quale fosse la natura loro,e quale intervento aves sero nelle cose
del mondo e degliuomini.La qual spar tizione è conservata in appresso sì
nell'esposizione delle dottrine di Vellejo e di Balbo, come nelle risposte di
Cotta, che replicando ogni volta a ciascuno di loro, li confuta entrambi. Il
dialogo sulla natura degli Dei,che è dei più im portanti fra i libri
speculativi del nostro autore, si riduce in sostanza a una esposizione viva ed
eloquentissima delle incompiutezze dei sistemi sofistici, contraddicenti alla c
o scienza e al suo naturale riconoscimento, e si vede quivi come gli errori più
perniciosi sul concetto di causalità prima che è fonte a noi del concetto di
Dio,accumulati da secoli, corrompevano allora le speculazioni gentili. Il
panteista, immedesimando Dio colle creature, pervertiva l'idea della sua natura
infinita e assoluta, introducendo nell'ente senza difetti il maggior
de'difetti,la negazione dell'infinito e dell'assoluto ; il dualista che svolge
l'unità primordiale del panteismo, segregando il Creatore dalle cose create e
indiando la natura, si perdeva nella contra dizione immortale di due infiniti
coeterni, onde moltipli c a n d o D i o , l ' a n n i e n t a v a ; il m a t e
r i a l i s t a e l ' i d e a l i s t a l ’ u n o affogato nel senso, l'altro
confinato nella fredda solitu dine dell'idea, o si vedevano dileguare il
concetto di Dio 67 68 tra i fenomeni della materia, o lo
perdevano di vista nelle indefinite astrazioni; m a l'uno e l'altro riuscivano
a n e garlo,perchè sempre si nega per necessità di sofisma l'evi denza non
affermata per difetto di logica. Ora egli è a p punto questa legge inesorabile
dell'errore che Cicerone volle rappresentare mettendo alle prese l'Epicureo con
lo stoico, e sottoponendoli entrambi al sindacato della Nuova Accademia. E
invero quell'ardita e sconsigliata filosofia d'Epicuro che riesce sì
lusinghiera vestita dello splendore di Lucrezio, si mostra in tutta la sua
nudità nel discorso di Vellejo (Lib.I,dal C. VIII al XXI).Po neva egli come
certo che gli Dei sono,perchè la natura avea impressa negli animi di tutti la
loro anticipata no tizia (apódnbev),e ne accennava vagamente l'essere e la
figura, facendoli eterni e perfettissimi e conformati a si militudine umana,ma
non da materia corporea e sensi bile,bensì da un fortuito accozzo d'immagini
simili rin novantisi all'infinito (imaginibus similitudine et transi tione
perceptis); gli Dei così costituiti dipingeva beati, e non curanti nè di sè
stessi, nè delle cose pertinenti agli umani. Ora è chiaro che le conseguenze
d'una siffatta dottrina eran ridurre la natura di Dio ad un puro con cetto
della mente,ad un'immagine d'inerzia non conci liabile coll'ordine e col moto
d'ogni cosa creata. Ma a più alto concetto di Dio si levava lo stoico Lucilio.
Gli Stoici che,come vedemmo nella prima parte,ammettevano contenuta
nell'indeterminatezza primordiale della materia passiva, oscura, divisibile,
capace all'infinito di forme un'intima energia che traendola all'atto ne
costituiva la vita dell'universo, concepivano Dio in questa vita,e m o vevano
per affermarlo esistente dall'universale consenso, dai prodigj,dall'armonia
delle cose,e dalla eccellenza dello spirito umano. Sostenuta da questi
argomenti la prova fisica della provvidenza di Dio che va dal C. XXXIII al
LXVII del libro secondo, è uno dei più mirabili tratti dell'eloquenza romana .
Giunti a questo punto,se esaminiamo la polemica della Nuova Accademia contro le
dottrine d'Epicuro e di Cri sippo (I, dal cap. 21 al 43, e tutto
il libro terzo), ci si presenta la questione, a lungo agitata nelle scuole,
qual sia in questo libro il vero pensiero di Tullio su Dio,e se il dubbio
accademico si manifesti in lui sotto la per sona di Aurelio Cotta. I critici
più antichi lo affermarono risolutamente, alcuni più recenti come lo Scholten,
il Kuehner e il Ritter, con qualche riserbo. M a sì gli uni che gli altri si
avvicinarono al vero senza comprenderlo a pieno ; perchè essi ponevansi ad
esaminare quel libro preoccupati dal concetto che Cicerone conforme a ciò che
dice in varj de'suoi proemj,e nel proemio del De natura Deorum
(11),partecipassequivideltuttoildubbio fon damentale e sistematico, il dubbio
di Carneade sulle verità principali; laddove bisognava invece considerare come
il quesito proposto risguardasse intimamente il complesso delle dottrine, nè
quindi potesse essere risolto badando a qualche frase staccata, m a solo
serbando nell'esame la rigorosa armonia delle parti col tutto. Alla qual cosa,
se non m'inganno, noi ci aprimmo la strada sin da prin cipio,quando
distinguemmo nell'oratore latino due parti, e quasi due forme dell'indagine
scienziale; per l'una, che chiamerei intrinseca e dommatica, egli si
ravvicinava ai principj socratici, e ammetteva i fondamenti del vero nei fatti
della coscienza ; per l'altra estrinseca e negativa, che eraildubbio
dellaNuovaAccademia,moderatamente partecipato da lui, egli confutava i sistemi
contemporanei con dedurre da più negazioni particolari una compiuta
affermazione del vero. Assumendo egli in tal guisa le dot trine d'Arcesilao,
più come istrumento metodico e inqui sitivo,che come sostanza delleproprie opinioni,ed
anzi, quel che è maggiormente notevole, rifiutando il dubbio fondamentale sulla
validità della scienza,stabilito da A r cesilao e da Carneade,doveva avvenire
(siconsideri bene) che il fondamento delle teoriche tulliane contraddi più
volte a quella sua apparenza di dubbio,talchè vi fos sero in lui quasi due
persone distinte, l'una delle quali negava,l'altra implicitamente edecisamente
affermava. Ora si avverta un poco come questa contradizione, non 69
1 però sostanziale,apparisca, più che altrove,evidente nel l'opera
che noi esaminiamo; e come,introducendosi ivi da un lato Cicerone che assiste
al dialogo senza prendervi parte, e dall'altro Cotta che vi sostiene la parte
di con futatorecolmetododellaNuovaAccademia,èdato occa sione alla critica di verificare
con bastante certezza le sue opinioni, raffrontando insieme la persona del
ponte fice con quella dello scrittore. A persuadersi di ciò ba sterebbe
considerare qualmente, se Cicerone intendeva celarsi sotto la persona di
Cotta,era inutile allora che introducesse sè stesso;ma egli si dipinse là in
mezzo a que'disputanti, chiuso in un silenzio veramente sublime, per
rappresentare in sè l'immagine viva del sapiente, che, sebbene certo per natura
di veri infiniti, tuttavia procede cauto e riguardoso all'acquisto della
certezza scienziale. Noi affermiamo sin d'ora che Cicerone possedeva da n a
tura la certezza del teorema che prendeva a chiarire, perchè egli
stesso,alludendo a ciò nel proemio dove dis corre in persona propria, ci dice
che le discordie dei dotti intorno a materie importanti sono occasione potente
di scetticismo anche a coloro che han fiducia in qualche cosa di certo (I. 14);
e perchè i due primi capitoli del libro primo sono un testimonio irrepugnabile
del come il filosofo latino ponesse l'esistenza di Dio e la sua prov videnza
sui fondamenti della certezza morale (I. Cap.II, 1, 2,3,4,5).Il dubbio di
Cicerone nel libro De natura Deorum era dunque semplicemente verificativo delle
ra gioni già possedute, e avea per fine sostituire alla cer tezza naturale la
certezza scientifica. M a d'altra parte chi guardi le dottrine della Nuova
Accademia, quali ci sono rappresentate nella persona di Cotta,che le conduce
alle ultime conseguenze,siaccorge tosto che la loro indole negativa non era già
apparente e metodica, m a procedeva dall'intima essenza dell'idea lismo
d'Arcesilao, il quale dubitando d'una reale corri spondenza tra l'essere delle
cose e le potenze conosci tive, dovea dubitare pur anco della certezza naturale
e del senso comune, testimone per lui d'un'ingannatrice 70 71
evidenza. Questa è la ragione per cui Cotta nelle sue ri sposte moveva dal
negare agli Epicurei ed agli Stoici la nozione preconcetta di Dio, attestata
dal senso co mune.(I,21,23.III,3,7.)Ora siavvertacome la Nuova Accademia non
affermando un proprio e fermo fondamento di vero negli umani giudizj, e solo
una tal quale verosimiglianza eguale per tutti, mancava di prin cipj certi e
positivi da costituirvi la scienza,e conseguen temente anche di un criterio
sicuro a cui ragguagliare la critica de'sistemi contrarj. Questi sistemi,
conforme alle opinioni della Nuova Accademia,non erano quindi alcun chè di vero
o di falso secondochè si avvicinavano o si dilungavano dai principj
irrepugnabili della scienza ; con tenevano tutti, sebbene in gradi differenti,
la verosimi glianza concessa all'umano intelletto, e solo quando il legame
logico, che intercede di necessità tra le conse guenze e i principj, non era
strettamente serbato, allora soltanto si dava in essi l'errore. U n tal
criterio, sostan zialmente negativo e relativo,abbisognava (sidirà)diun
criterio positivo e assoluto desunto dall'evidenza de'prin cipj supremi,su cui
posa incardinata la necessità logica d'ogni sistema;ma laNuova Accademia non
vibadava, e ragguagliando ciascuna filosofia colle premesse del pro prio
sistema, tentava coglierla in evidente contradizione. (Nelle opere di Cicerone
passim.) U n si manifesto contrasto tra il dubbio verificativo e
scientifico del nostro Autore, e il dubbio scettico della Nuova Accademia apparisce
in ogni passo de'suoi libri, in cui egli introduce la persona di qualche
Accademico che confuta gli opposti sistemi; apparisce poi più evi dente che mai
nella conclusione del De Natura Deorum , dove Tullio, uditi i filosofi
disputanti, termina dicendo : la disputazione di Cotta (Accademico) sembrò a
Vellejo (Epicureo)più vera;a me l'altra diBalbo (Stoico)più verisimile; il che
è quanto dire che la Nuova Accademia dubitando di Dio si avvicinava agli
Epicurei, mentr'egli, certo di questo vero,si allontanava dagli uni e dagli
altri accettando in parte le dottrine del Portico.E che dim e 72
gliopotevaeglifareinmezzoalturbiníode’sistemi?Estinte quasi del tutto le sacre
tradizioni, il consentimento p o polare offuscato dai vizj, da un lato, imbestiati
nella materia negavano gli Epicurei la spiritualità del concetto di Dio, e la
sua provvidenza, dall'altro negavano gli Accademici la efficacia del senso
comune nell'affermare Dio,e sottili argomentatori lo contrapponevano al male;
ai primi Tullio opponeva nel proemio citato la dignità dell'umana
mente,ilbisogno innegabile della religione consentito da tutti;ai
secondi,l'efficacia del testimonio universale,gli affetti dell'animo,isupremi
principj della r a g i o n e e l a l i b e r t à d e l v o l e r e ( T u s c .,
d e N a t . D e o r ., D e Leg.,passim);del resto egli pendeva verso gli
Stoici,e perchè consentivano il consentito da lui, e perchè lo in namorava quel
loro sublime concetto della umana eccel lenza e dell'armonia delle cose.Come
poi egli movesse dalla coscienza morale, osservata al lume d'un criterio
scientifico, sarà dimostrato in altra parte di questo dis corso col libro delle
Leggi, dove l'efficacia esercitata nell'animo nostro dall'idea d'una suprema
sanzione gli faceva porre a proemio di tutte le istituzioni civili Dio
provvidente,e allegarne per prova la natura dell'uomo, solo fra gli animali, in
cui sia innata la notizia di Dio, e alberghi un animo immortale originato dal
cielo. (D e Leg.,I,7,II,7.) Premesse queste considerazioni, se ne possono
dedurre tre cose : 1° Il vero intendimento di C i cerone nello scrivere ilDe
Natura Deorum fu,esporre e confutare i principali sistemi contemporanei, e a
tal fine egli assunse come istrumento metodico e inquisitivo il dubbio della
Nuova Accademia,senza accettarne lo scet ticismo; 2o Cicerone non rappresentò
sè stesso nella per sona di Cotta, m a soltanto la forma estrinseca del m e
todo proprio ; 3o Il filosofo latino volle significare nelle parole del
proemio, e della conclusione,e nel silenzio ser bato in tutto il dialogo
ch'egli aveva di Dio un alto concetto, che quel concetto nella sua mente era
certo di certezza naturale, m a che in mezzo alle tenebre del G e n tilesimo e
alla discordia dei dotti,non ardiva determi . 73 narlo in ogni
sua parte, e sostituirvi una assoluta cer tezza di scienza. Ora si domanda,
perchè non riuscisse a Cicerone definire a sè stesso questo concetto. 3.
Dimostra l'Ontologia come l'intelletto dell'uomo investigando le proprietà
metafisiche dell'ente in ordine ai concetti universali, distingue l'essenza
dall'essere di una cosa;quella come idea generale rappresentante una
possibilità di cose indefinita, questo un che d'attuale, di esistente e di
determinato in sè stesso. Ora si badi che ciascuna cosa esistente, sebbene
offerta all'intendimento dell'uomo dall'intelligibilità universale della sua
essenza, in quanto è esistente,vale a dire in quanto è un atto reale
dell'essere, cade per via de'sensi sotto l'apprensione delle potenze
conoscitive,e come tale è appresa particolare e finita; dall'apprensione poi di
molti finiti nella serie degli atti intellettuali la mente dell'uomo,soccorsa
dalla rifles s i o n e , l e v a s i a l c o n c e p i m e n t o d e l l e c o
s e i n f i n i t e . M a il c o n cetto dell'infinito, che è cima della
piramide ideale,può es sere inteso in diversi significati; l'un significato che
ci offre l'entità assoluta, necessaria e in ogni sua parte perfetta; l'altro
che ci rappresenta una semplice entità indetermi nata,e un mero portato
dell'astrazione mentale.Però seb bene un intervallo notevole disgiunga
nell'intelletto del filo
sofoedell'uomovolgareitreconcettidelfinito,dell'infinito e del non definito,
merita di essere considerata quella ragione qualunque di rapporto e di
similitudine per cui essi possono scambiarsi talvolta. La riflessione naturale
aiutata dal lume della scienza e dalla pienezza delle tra dizioni divine, avea
concepito ab antico, indi al termine dell'Era pagana ravvisò con evidenza
maggiore nelle dot trine cristiane l'idea dell'infinito assoluto, dell'ente per
essenza correlativa necessariamente all'idea del finito, vide in quest'ultimo,
naturalmente determinato e imper fetto,come non darsi possibilità
d'attoinfinito,così nean che necessità d'eterna esistenza,onde dedusse ilfinito
procedere per atto creativo dall'infinito, il temporaneo dall'eterno,il
contingente dal necessario.Tale è la teorica cristiana della creazione, fondata
sopra una serie logica - 74 di concetti, la cui necessità è
confermata a noi tutti fino dai primi anni in una voce interiore che ci parlò
sublimi cose di Dio,in un continuo desiderio,che ci travaglia inconsapevoli per
tutta la vita in cerca d'una perfezione immortale. Nel procedere che fa la
mente a questo apice dei concetti v’ha per altro un pericolo d'arrestarsi per
via;chè sebbene ilsentimento e l'intuito dell'infinito non possa verificarsi
nell'uomo senza una segreta unione del l'intelletto con Dio (qualunque poi sia
questa unione,e in qualunque modo s'effettui), e sebbene per l'attinenza di
creazione l'atto infinito ed eternale del Creatore costi tuisca nelle cose
finite alcunchè di somigliante a sè stesso, cioè un'indefinita potenzialità
d'atti,di forme, di m o menti,è però assurdo scambiare quell'attinenza
coll'iden tità, e quella potenzialità indefinita coll'infinito che la pone.Tale
assurdo è l'origine del concetto d'indefinito applicato alla causa
creatrice.Fingasi ch'io pensi iltempo, lo spazio, o l'indefinita potenza del
mio pensiero ; allora (e può facilmente avvenire ciò che tutti provammo alla
vista di pianure interminate e di mari, o in un facile abbandono della mente a
sè stessa), se in quell'arcana presenza di Dio la fantasia prende il di sopra
sulla r a gione, io mi rappresento quell'ordine d'atti, di durate, di
coesistenze come infinitamente continuato, continuato per una perpetua
remozione di limiti che,a dir così,sono e non sono ad un tempo ; e
quell'abbaglio di fantasia si muta in un concetto reale,ed io penso
l'infinito,l'eterno, l'immenso di Dio sotto l'immagine d'indefinito.Così nacque
ilpanteismo in Asia,in Italia ed in Grecia;e così pen sano l'assoluto i
panteisti Alemanni, e l'Hegel segnata mente. Veduta la differenza d'origine dei
tre concetti di finito, d'infinito e d'indefinito,si domanda ora quanto
all'essere loro quale d'essi sia negativo. Per fermo l'infinito,se ne togli il
materiale significato della parola, evidentemente nel suo concetto non ha nulla
di negativo, desso che non ha limiti ond'è costituita negli enti la negazione
dell'es sere; non limiti di contingenza,perchè necessario,non 75
limiti di tempo, perchè eterno, non limiti di modi e di mutazioni,perchè
assoluta sostanza;anzi èinfinitamente positivo come causa infinita, e perchè
dotato d'efficienza assoluta pone dal nulla l'effetto, e perchè ne rappresenta
in sè in modo sopraeminente e immensurabile le perfezioni finite.Il finito poi
da un lato è negativo nella sua essenza ideale, come rappresentante
all'intelletto un che fornito di limiti, dall'altro lato è positivo nel suo
essere come atto sussistente e determinato ; l'indefinito che è propria mente l
' i p o y dei greci, è negativo nell'essenza e nel l'essere ;nell'essenza c o m
e astratta potenzialità del finito, nell'essere come un qualcosa che
perennemente diviene, e non è mai ; e dico che è negativo in ogni sua parte, per
che se il positivo del finito consiste nell'essere determinato come atto
individuo e concreto,l'indefinito che nega quella i n d e t e r m i n a t e z z
a , si r i d u c e a d u n a p r e t t a a s t r a z i o n e m e n talee per
ultimaconseguenzarisolvesiinnulla.A chipoisi maravigliasse che ilconcetto
d'indefinito,cima delle astra zioni, si fosse pôrto per tanto tempo e a tante
nobili menti in luogo del concetto più naturale assai d'infinito a spiegare la
divina entità, io addurrei per ragione lo strano giuoco della fantasia che
nelle nature vivamente passionate si mesce alle operazioni delle potenze cono
scitive, addurrei l'oscurarsi delle sacre tradizioni onde avviene che
nell'animo abbandonato a sè stesso la divina luce dell'intelletto soggiaccia agli
adombramenti del senso, e infine, ultima conseguenza di ciò,la superbia
dell'uomo che Dio e l'universo volle rassomigliati a sè stesso. Io parlo cose
ben chiare a chi abbia sufficiente notizia della Storia della Filosofia, quando
dico che la Paganità tutta avanti l'Era volgare,e nell'Era volgare tutti i
filosofi più o meno infetti di paganesimo ignorarono ilvero con cetto
dell'infinito applicabile alla natura di Dio;dico il vero concetto,e non
escludo che anche tra'pagani alcuni, e segnatamente Platone,vi si accostassero
in parte; tale è l'evidenza suprema di quella idea all'umano intelletto, e tale
il sentimento non repugnabile che la creatura rav vicina al Creatore.
- 76 Ma tornando alnostro filosofo,egli,come tuttipiùo meno gli antichi,
come tutti i pagani, rimase molto al di qua dal concetto genuino e legittimo
dell'infinito. C o n tuttociò,sebbene nel De Natura Deorum rappresenti del
concetto di Dio la parte più negativa,tra perchè quivi egli procedeva per
metodo d'eliminazione confutando i sofisti, e perchè mostrò avvicinarsi
all'idea indefinita che ne avevan gli Stoici,è noto alla Storia della Filosofia
che nelle sue dottrine s'incontra sovente l'altro concetto più positivo degli
attributi dell'anima considerati come corre lativi, o analogici agli attributi
di Dio. Questa teorica, accennata in fine del De Natura Deorum , ritorna negli
ultimi capitoli della Repubblica,e nel primo libro dei Tusculani. Argomento di
quei capitoli della Repubblica è il sogno di Scipione Affricano imitato dalla
Repubblica di Platone, ed è necessario fermarvisi un poco, perchè, sebbene ivi
si tratti dell'immortalità come premio delle virtù domestiche e civili, e
perciò la materia contenga un intendimento morale,l'essenza di quelle dottrine
si ri connette intimamente alla fisica.La ragione poi è chiaris sima. Nel fondo
di tutti isistemi gentili, per quanto con
nessiconsottilissimeprove,eanimatidaunintimoprincipio diidealità,siannidava pur
sempre una ragione dimateria lismo, procedente dall'idea indefinita ch'essi
qual più qual meno s'eran formati dell'infinito,e che originandosi da un
ristagno dell'immaginativa nei fenomeni della m a teria e del senso,ivi la
riconduceva pur sempre giù dalle altezze più metafisiche della scienza. I
Gentili, e segna tamente gl'Ionj, considerando in tal guisa l'operare delle
cause naturali,per quindi dedurne la prima causa del l'universo,tra i fenomeni
esterni posero particolare atten zione al moto, e perchè al moto si riducono
sostanzial mente tutte le trasformazioni della natura, e perchè al moto
s'attribuisce in generale la causa de'fecondamenti terrestri; il moto poi
richiede un'intima forza motrice delle sostanze, altrimenti non si spiegherebbe
come , data l'inerzia della materia,dall'una sostanza e'si comunichi
all'altra;ecco perchè negli antichi panteisti e semipan 77 teisti,
e nei loro imitatori moderni primeggia il concetto di forza (Büchner, Forza e
Materia ); applicate poi questo concetto delle forze particolari
all'universalità delle cose, e immaginate un'unica sostanza a cui segua necessaria
mente un'unica forza, e avrete il panteismo dinamico di Capila, degl'Ionj, del
Timeo e degli Stoici.Questo sistema dinamico ritiene nel suo fondo l'impronta
del pensiero che lo concepisce. Di fatto, poichè in esso la riflessione procede
astraendo per ragionamento induttivo lungo una serie di cause modali dalla più
manifesta e determinata ad una occulta e generalissima cui sidà ilnome di causa
prima, e tra le cause modali,fornite di più intima e m a nifesta
efficacia,l’anima,che ha coscienza viva del proprio essere,è tratta a concepire
sè stessa per prima, ne viene che l'ultima causa si pensi ad immagine
dell'anima come un alcunché diuno,origine difattimolteplici,presente col
l'unica attività a ogni parte della materia informata,fonte di vita, di movimento,di
senso. Stabilita questa dottrina panteistica,apparisce chiaro quali conseguenze
ne prover ranno alla dottrina dell'anima. Il filosofo gentile che dal concetto
dell'anima è tratto a pensare la causa prima dell'universo, e la natura di Dio
che lo informa, discen dendo novamente da Dio e dall'universo in sè stesso,
immaginerà l'anima d'origine e d'attributi divini (h u m a nus animus decerptus
ex mente divina. Tusc.), ne spie gherà l'intima efficacia e il modo d'operare
delle sue facoltà a somiglianza della natura divina, e finalmente confondendo
l'eternità, attributo dell'ente infinito, col l'immortalità che appartiene agli
spiriti finiti, farà eterna e immortale l'anima,dicendo con Platone che essa è
una causa,origine di moto ad altre,senzaorigine essa stessa e p e r c i ò s e n
z a f i n e ( D e R e p ., l i b . V I , c a p . X X V ; e T u s c .,
lib.I,XXIII.). Questa è la sostanza del sistema panteistico (o semi
panteistico) esposto dal filosofo nostro negli ultimi capi della Repubblica.
Ivi descrivendosi in modo stupendo la costituzione dell'universo, si
rappresenta la terra circon data dalle nove orbite dei pianeti animati da
divine menti, dei quali l'ultimo che contiene tutti gli altri,è
sommo e principe Iddio. D a questi fuochi sempiterni disceso l'animo dell' Da
queste considerazioni apparisce quanto sia intima mente collegata alla teologia
naturale la psicologia del filosofo latino.Se noi volessimo recare per esteso
la ra gione più generale di questo legame , e spiegare coi filo sofi recenti
quel modo d'induzione correlativa, onde la mente negando al finito le sue
limitazioni, si leva a cono scere l'infinito di Dio,trascenderemmo di troppo
itermini della presente questione. Invero la notizia che all'uomo è concessa
dell'assoluto divino,procedendo per analogie e rap presentanze il cui contenuto
ci è pôrto da elementi speri mentali, dee riuscire di necessità inadeguata
all'oggetto; 78 u o m o , è D i o e s s o p u r e c h e g o v e r n a e m
u o v e il c o r p o come il Dio principe,l'universo;sempiterno,immortale,
rinchiuso nel corpo come in un carcere,e desideroso della sua dimora
celeste,dove restituito dopo la morte in premio delle virtù cittadine godrà
eternamente la compagnia degli spiriti immortali.In questo luogo son chiare le
remi niscenze di Platone e degli Stoici;ma degli Stoici v'è poco ; laonde io
non vi riconosco col Ritter un prevalere del concetto stoico di materialità sul
concetto della spi r i t u a l i t à d i v i n a ( H i s t . d e l a p h i l .
a n c ., t o m o I V , p a g . 1 1 6 ) ; perchè, sebbene Cicerone volendo
abbellire della fantasia le sue dottrine fisiche ai lettori romani,riproducesse
ivi la parte più immaginosa e più sensibile del sistema pla tonico del Timeo,è
noto come quelle immagini nascon dono nell’Ateniese una idealità di concetti
sublimi,e più m'è argomento che Cicerone in questo luogo si scostò dagli
Stoici, il vedere com’ei faccia immortale non sol tanto l'anima universale, m a
anche le anime particolari, mentre per confessione del dotto Alemanno, « era con
forme alle dottrine degli Stoici il ricusare all'anima indi viduale, come parte
dell'anima universale, l'immortalità insensoproprio.»(Ritter,
XII,cap.II,pag.116,Physique des Stoïciens. Vedi però nelle Confessioni del
Mamiani , Ontologia, lib.IV,cap. VI, 150, acutamente accennata l'opinione
contraria.) inadeguata,io dico,perchè l'animo che giunge al
concetto di Dio trascendendo infinitamente sè stesso,non può far sì che nelle
conseguenze di quella induzione non soprabbondi tuttavia il sensibile e il contingente
che si conteneva nelle premesse ; e perchè in quella via che dalla natura ci
mena al divino,noi siamo ancora molto di qua dal ter mine che dovremmo
varcare,sebbene pur di qua piova su noi la luce incommutabile dell'infinito
riflessa dal l'universo a quel modo istesso che il sole, non ancora spuntato
sull'orizzonte, si rifrange scintillando nel mare. È questa la vera causa per
cui Cicerone, comecchè s'avanzasse d'assai soccorso dall'indole sublime,e
l'universalità dell'ingegno latino, non giunse però (e lo vedemmo) al concetto
ben determinato dell'infinito; ma è vero altresì che uno fra gli studj più
belli della Storia della Filosofia si è il cercare nei suoi libri popolari e s
p e culativi come il concetto di Dio,correlativo a quello del l'anima, si va
grado a grado perfezionando nelle opere fisiche, finchè perviene alla sua
pienezza nelle dottrine morali. U n primo passo di questa ardita speculazione
noi lo vedemmo nel De Natura Deorum ,libro essenzialmente istorico e
disputativo, in cui Cicerone, avvolto nella di scordia delle sètte,e inteso a
paragonarle tra loro e a c o m batterle con ogni argomento,non sa affermar che
ben poco, e si restringe all'esame delle altrui opinioni; tien dietro a questo
nell'ordine de'suoi pensieri il Sogno di Scipione, dove il concetto di Dio si
determina meglio, e apparisce anche più chiara la tendenza alle dottrine
platoniche ; m a quelle dottrine sono trattate ampiamente nel primo libro delle
Tusculane,testimonio del suo metodo che de sume i principj dell'osservazione intima
della coscienza, e si sforza, trascendendo il creato, di profondarsi nel
l'essenza di Dio. In quei capitoli si tratta dell'immorta lità, secondo il
metodo della Nuova Accademia ;cioè vuol provarsi (giusta l'intendimento
metodico del libro) come ammessa o non ammessa la indistruttibilità dell'anima
umana,segua in ogni modo che la morte non è da te mersi; l'immortalità poi si
dimostra movendo dalla tra dal 79 80 dizione degli antichi,
tradizione efficace quod propius aberant ab ortu et divina progenie, dal
consenso univer sale che è legge di natura, manifesto nelle consuetudini, nelle
leggi, nelle cerimonie, negl'istituti, e dal senti mento naturale, onde alberga
nelle menti degli uomini, e segnatamente dei grandi,il desiderio della gloria
che Cicerone chiama con bella immagine un augurio de'se coli futuri. Sostenuto
da tali prove la cui efficacia de riva dal fondo del pensiero platonico, egli
per ispiegare la condizione dell'anima dopo la morte, ricorreva a de terminarne
la natura, e contro gli Stoici che le aveano concesso un'immortalità
temporanea,affermava con ra gione essere più difficile assai pensare l'anima
rac chiusa nel corpo, che immaginarla libera da ogni m a teria, e tornata ad
abitare nel cielo ond'ella è discesa. (I.XXII.)In queste parole si accenna la
spiritualità che prevale tra gli attributi dell'anima ; sennonchè il nostro
filosofo,che avea penetrato nel Cap.XXII ilvero senso scientifico della parola,
dicendo: ciò che è spiri tuale, sebbene non percepibile al senso, andar
soggetto per altro all'apprensione del conoscimento, venuto poi a determinarlo,
rimase un po'titubante;onde,sebbenetra cinque elementi, che secondo Aristotele
costituivano la sostanza terrestre, scegliesse il quinto non nominato, più che
non inteso a costituirne l'essenza, e rifiutasse le gros solane fantasie
d’Aristoxeno,di Democrito e d'Epicuro, quando se la immaginò separata dal
corpo, necompose una dottrina non al tutto spirituale. (XVII,XVIII,XIX, X X , X
X I .) C o n c e d a n s i q u e s t e i n c e r t e z z e , d a c u i n o n a
n d ò assoluto neanche Platone, al bujo sempre crescente delle speculazioni
gentili.Ma da modesti principj si leva il filosofo latino alla sublimità della
scienza. Egli è tanto inclinato con Platone ad affermare l'anima come una natura
perfetta e immune da ogni contagio colla materia, che la vuol rinchiusa nel
corpo come in un carcere (X X , XXII);colle dottrine della filosofia moderna ne
inferisce la semplicità dal sentimento unico ch'ella ha del molte
plice;riproduce,come nella Repubblica, il noto argo mento
platonico tolto dall'eternità de'principj motori (XXIII),e chiama plebei quei
filosofi (gli Epicurei)che non ne consentivano l'efficacia; espone anche
l'altro che all'anima attribuisce l'immortalità per l'intuizione degli eterni esemplari
(XXIV.).Che dunque inferiva da queste prove ? Egli stante la incertezza
de'filosofi contemporanei , non si perdeva a determinare in che proprio
consistesse l'essenza dell'anima, o dove la sua sede nel corpo ; atte nendosi
al concetto di causa,rivendicava al ragionamento induttivo sui fatti interiori
la sua validità di contro al l'induzione delle scienze sperimentali; e si
volgeva agli empirici materialisti,maravigliandosi come negassero poter
concepire l'essenzadell'animaseparatadalcorpo,essiche pur tanto poco
conoscevano dell'initimo operare della materia ; argomento valevole anch'oggi a
smascherare i pretesi nemici della Metafisica,se la reverenza alla ne cessità
logica de principj fosse mantenuta nel fatto, come è predicata a parole,da
quanti amano chiamarsi seguaci d e l l e d i s c i p l i n e s p e c u l a t i
v e . ( T u s c ., I . X X I I , X X V , X V I I I , X I X ; C. f. Cato M . 21
, 23, de A m . 4. c. p .) Meditando i capitoli della Repubblica e delle Tuscu
lane, alcuni del Catone Maggiore e del Lelio, e qualche
squarciodelleOrazioni(Miloniana,cap.30,31),sivede in tutta la psicologia del
nostro filosofo, anzi in ogni parte della sua fisica questo ritorno costante
dell'induzione correlativa;nè sfugga all'osservazione del critico una nota importante
di questa dottrina, e cioè che, sebbene parrebbe a primo aspetto avere Cicerone
desunto la cer tezza scientifica della esistenza e delle perfezioni di Dio
dalla contemplazione dell'universo e dell'animo umano, apparisce invece in più
luoghi che un sentimento vivo del l'eccellenza di Dio,nutrito dall'indole
religiosa, e dalle tradizioni latine, dà lume e certezza al concetto positivo
dell'anima. E invero, se egli mostra talvolta di dubitare della semplicità e
immortalità dell'anima u m a n a , dell'esi stenza di Dio e delle sue
perfezioni infinite non dubita mai.«L'origine dell'anima umana,egli diceva nel
De consolatione, non può in alcun modo trovarsi su questa 81 6
82 terra. Non v'ha in essa niente di misto, nè di concreto o di
terrestre; niente d'aria, d'acqua o di fuoco. I m perocchè tali sostanze non
sono suscettibili di m e m o ria, d'intelligenza o di pensiero, nulla hanno in
loro che ritener possa il passato, prevedere il futuro, c o m prendere il
presente ; le quali facoltà sono unicamente divine, e non possono in guisa
alcuna essere venute nel l'uomo,se non discendon da Dio. La natura dell'anima è
perciò d'una specie singolarissima, e da queste comuni e cognite nature
distinta;talchè,qualunque esso sia,ciò che in noi sente e gusta,vive e si
muove,deve essere per necessità celeste e divino, e però eterno. Infatti Dio
stesso,che èinteso da noi,non può intendersi in altro modo che come una mente
liberissima e pura,sgombra da ogni concrezione mortale, che vede e move ogni
cosa, e sè stessa con sempiterno moto ; di questa sorta e di questa stessa
natura è l'anima umana.» (XXVII, 66.) Con queste parole conchiude Cicerone nel
primo dei Tu sculani la dimostrazione dell'anima e di Dio, dimostra zione
mirabile per lucentezza speculativa, e per schietta e dignitosa eleganza; qui
lo vedi abbandonato al nobile istinto del genio, e a un'immortale devozione pel
bello, levarsi nel mondo degli universali, nella dimora degli spiriti eterni, e
indovinare quasi sui vestigj di Platone i fondamenti ove posa la teologia del
teismo; salvochè, se il lettore tien dietro al procedere delle prove, e al le
game segreto che le connette,s'accorge tosto come per l'abito d'indurre dalle
cause modali manchi alla sua d e finizione di Dio la vera trascendenza logica
del concetto , sebbene (come vedremo) ve lo ravvicinasse d'assai nel primo
delle Leggi la viva coscienza dell'ingegno latino. La maggior parte di coloro
che ci hanno preceduto nella critica di Cicerone, hanno esaminato
diligentemente l'indole delle prove a cui s'appoggiava la dottrina del
l'immortalità, e alcuni andarono tant'oltre, nonostante le sue continue e
ripetute affermazioni,che da certe epi stole consolatorie agli amici (la
sedicesima e l'ultima del libro V,e la ventunesima del libro VI,ad Diversos)de
Principio etherio flammatus Iuppiter igni Vertitur et totum collustrat
lumine mundum , Menteque divina cælum terrasque petissit: Quæ penitus sensus
hominum vitasque retentat, Ætheris æterni sæpta atque inclusa cavernis. » (De
suo Consul.1.II,v.De Divin.,1.I,c.11,§ 17.) - 83 dussero ch'egli ne
dubitava ; m a a queste accuse rispose vittoriosamente il Gautier de Sibert
nell'Accademia di Francia,eilKuehner piùtardiloconfermava.Delresto per ciò che
risguarda gli attributi divini, e se Cicerone ammettesse uno o più dèi,e se
quest'unico Dio facesse veramente eterno,onnipotente,necessario,immutabile,e
qual fosse conforme alla sua dottrina la condizione degli animi separati dal
corpo, questione trattata da parecchi critici, io son d'avviso che tutto ciò
non possa stabilirsi con assoluta certezza, varie opere del nostro filosofo es
essendo andate perdute, nè trattando egli espressamente tali materie nelle
altre che ci sono rimaste.E nondimeno per chi mediti senza preoccupazione i
suoi libri v'è tanto ancora quanto basti a mostrare,come in mezzo a una re
pubblica corrottissima e ad uomini scelleratissimi l'ora tore latino cercasse
nel concetto genuino di Dio e del l'immortalità un degno conforto alle sventure
civili, e un magnanimo entusiasmo alla sua parola propugna trice ultima delle
libere istituzioni; egli che in uno dei suoi poemi,composto nel bel mezzo della
vita politica, avea definito Dio con quella immagine sublime di vera poesia :
4.Oratornandoalladottrinateologica,questosegregare la mente dell'uomo da ogni
natura corporea,e sublimarla a una parentela soprannaturale con Dio, il che è
già accennato nel sogno di Scipione,dove nel senso platonico la natura
materiale del corpo è opposta a quella del l'anima, e la vita nostra è chiamata
una morte ci dà oc casione a stabilire un punto importante della fisica di M.
Tullio, cioè il suo dualismo, o semipanteismo. Di tal dualismo mi pare
sipossano arrecare due cause;l'una co 84 mune
allaleggeconcuisisvolgonoisistemifilosoficinella storia,l'altra ristretta particolarmente
all'ingegno di Cice rone.Quanto alla prima causa,se ricordiamo ilgià detto in
torno al modo con cui l'uomo partendo da sè stesso conce pisce nell'indefinito
del suo pensiero l'indefinito di Dio,e l'anima lungo la serie delle cause
modali da sè,prima causa più manifesta e più vicina a sè stessa,immagina la
divina causalità, intenderemo come fra le contradizioni del pan teismo quella
che subito si porgeva più chiara alla riflessione esaminatrice,fosse la
medesimezza dell'anima e di Dio infi niticollamateriafinita,passibile,imperfettaedalrifiutodi
questa contradizione uscisse il dualismo di Dio e della m a teria,dell'anima e
del corpo,dell'intelletto e del senso.Tal dualismo desunto da Platone, benchè
in fondo contradit torio esso pure,indica un vivo sentimento dell'eccellenza di
Dio e dell'essere umano , e mi piace riconoscerlo come proprio degli uomini
sommi ; laonde è ben naturale vi dovesse aderire Cicerone, non tanto perchè
innamorato degli esempj delle scuole socratiche la cui efficacia infor mava
vivamente le dottrine romane, quanto perchè poco amante della incertezza delle
scienze sperimentali, e testi mone egli a sè stesso dell'altezza dell'umano
ingegno,la cui onnipotenza tante volte gli apparve ne'combattimenti immortali
della tribuna. (Vedi più luoghi negli Ufficj e segnat. L. III, c. XLIV , ed
opere pass.) E poi se quel dualismo soddisfaceva da un lato le aspirazioni dei
più grandi intelletti, e metteva la notizia diDio al sicuro da ogni condizione
del finito, d'altro lato il concetto astratto che dava di quello la scuola
socratica faceva nascere il dubbio sul come spiegarne le relazioni, pur
necessarie, coll'universo dei corpi. Tal dubbio implicava il solito quesito sul
come conciliare l'ente col non -ente, il finito coll'infinito, il relativo
coll'assoluto, la perenne mutabi lità de'moti fenomenali colla quiete
immutabile dell'es senza prima, quesito continuamente proposto dalla G e n
tilità,nè mai risoluto,perchè mancava a sciogliereilnodo il vero concetto
d'attinenza creatrice.(Vedi Platone,Sofi sta.) Quindi la mente desaggj
ondeggiava di continuo da un termine all'altro di quella
contradizione immortale. Enrico Ritter, più volte citato, esaminando il sentire
del filosofo latino intorno a siffatto quesito, e rappresentando con vivi colori
quell'opposizione ch'ei pose tra la natura e il divino, non ne conobbe forse la
causa più vera ; la quale gli sarebbe apparsa evidente se in luogo di vol gersi
soltanto all'indole dello scrittore, l'avesse cercata in questa contradizione
che affaticava da più secoli la filosofia pagana. Ma il Ritter s'appose anche
in parte, poichè quel vivo intuito delle perfezioni divine ed umane, e della
differenza tra la materia e lo spirito che prima avea salvato Cicerone dalla
dottrina d’un'unica sostanza, ora lo teneva sospeso nelle contradizioni del
dualismo, massima delle quali era il contrasto tra la libertà divina ed umana e
le leggi fatali della natura che spegneva ogni fede nella provvidenza, nel
libero arbitrio e nella religione degli avi. Come il nostro filosofo mantenendo
il dualismo inten desse di conciliare l'efficacia della prima cagione nelle
cagioni seconde col moto necessario dell'universo, come spiegasse quell'atto
misterioso di causalità con cui l'in finito si congiunge al finito, e lo
comprende e lo sostiene senza identificarsi con esso, e, mentre faceva con
Platone emanato da Dio l'intelletto,rivendicasse all'altra parte del
l'uomo,identica colla natura sensibile,l'autonomia de'pro prj atti,e
l'imputazione morale,è quesito di non poca dif ficoltà, sì perchè la sua
dottrina fisica del dualismo non è abbastanza accertata,e perchè d'altra parte
ne’libri che esaminiamo al presente, ma più ne'morali, s'incontrano
affermazioni decise e ben ragionate sulla provvidenza di Dio e l a l i b e r t
à d e l l ' e s s e r e u m a n o . ( D e L e g ., 1 1 , 7 ; 1 , 8 , F i n ., I
V , 5;V,11;Tusc.,I,49,25;N. D.,I,2;Catil.,I,5;pro M a r c e l l o , I I I ; a d
A t t ., I , 1 6 ; a d D i v ., V , 1 6 . ) C e r t o s ' e g l i non fosse
nato nell'ultima età dell'era pagana, e avesse accolta quella teorica della
creazione ex nihilo, chiamata giustamente da Terenzio Mamiani una delle
maggiori conquiste ottenute dalla speculativa dei nuovi tempi sulle e t à t r a
p a s s a t e , ( C o n f ., l i b . I V , 1 0 8 ) a v r e b b e t r a t t o d
a l l a S5 notizia di Dio creatore un concetto chiaro delle
sue re lazioni col mondo, e i due ordini naturale e soprannatu rale gli
sarebbero apparsi intrecciati fra loro per quel legame di causa che congiunge
la teologia colla scienza del mondo.Ma Cicerone,come tutti igentili,rifiutavala
dottrina della creazione, sebbene proposta alla mente dei filosofi e delle
plebi forse dalla memoria d'antiche tradi zioni, il che mostra un frammento del
libro terzo De Natura Deorum,conservatocidaLattanzionellibro secon do,c.8 delle
Istituzioni divine. Esclusa la teorica del congiungimento
tral'infinitoeilfinitoperattinenzacrea tiva,non rimanevano,come vedemmo, che
due sole vie;o l'unità consustanziale di Dio e dell'universo,o l'assoluta
separazione di questo da quello, del molteplice dall’uno, dell'assoluto dal
relativo. M a la dottrina de'panteisti menata alle sue ultime conseguenze,oltre
all'incorrere in quella lunga serie di paradossi e di antinomie che in parte
accennammo, e la cui dimostrazione ha esercitato per tanto tempo l'ingegno
de'filosofi d'ogni parte d'Eu ropa, repugnava secondo Cicerone all'indole
pratica e positiva del politico e del cittadino ; laonde egli la c o m battè
acutamente colle armi della Nuova Accademia nel quesito proposto dagli Stoici sulla
divinazione o previ sione del futuro. Secondo questa dottrina che usciva dalle
premesse della fisica di Zenone,l'uomo poteva prevedere ilfuturo
daisegnidellecoseanimateodinanimate,essen dochè l'universo fosse collegato ab
eterno da un ordine necessario di cause efficienti;ordine necessario nell'uomo,
che era una particella o determinazione dell'anima uni versale;necessario nella
natura,dove ogni fatto è gover nato da leggi, e racchiude in sè la ragione
de'fatti con secutivi; necessario in Dio stesso che, immutabile per sè, si
trasforma ne'fenomeni della natura come in uno svol gimento fatale della
propria esistenza. Questa dottrina che si finge esposta dal fratello di
Cicerone nel primo De divinatione,è poi confutata dal l'autore nel libro
secondo; e quel dialogo è di somma importanza
nellastoriadellecredenzeumane,perchè trat 86 tando la gran
questione del soprannaturale agitata ai tempi di Tullio,riproduce nel calore
della controversia quello stato penoso degli animi,sospesi nell'incertezza dei
più nobili veri, e in un'età in cui la rovina del politeismo già preparava il
rinnovamento cristiano. La conciliazione tra l'ordine necessario del mondo e
l'autonomia dell'essere umano è accennata nell'operetta de Fato.Questo libro,o
meglio questoframmento,dove si espone un dialogo avuto dall'Autore presso
Pozzuoli con Aulo Irzio,console designato,nel 710 di Roma,fu scritto, insieme
coi due libri della Divinazione,a supple mento dell'altra opera de Natura
Deorum per sostenere la libertà dell'arbitrio contro il concatenamento fatale
delle cause, e temperare le ultime illazioni de'panteisti e de'dualisti
contemporanei. Il metodo dell'osservazione, applicato nei soli termini della
natura sensibile,menava al lora(come oggi)alcunifilosofisperimentali ad
accettarela dottrina del Fato (detto dagli Stoici eiuzpuévn),inteso come un
ordine e una serie di forze,manifestanti la natura di cause , e che
s'intrecciano fra loro d'effetto in effetto per leggi costanti d'antecedenza e
di conseguenza.Ora è chiaro che da questa dottrina condotta alle ultime
conseguenze, uscivaalteratol'ordineuniversale,eilconcettodinecessità che lo
sovraneggia. Era alterato dal panteismo,dove ve rificandosi l'identità de'due
ordini soprannaturale e natu rale,ogni atto fisico ed umano si riduceva a un deter
minarsi necessario della causa divina ; era alterato dal dualismo che opponendo
Dio allanatura,e immaginando quest'ultima come sospinta da un ordine fatale di
cause intrinseche ad essa,non poteva spiegare in eterno come in quest'ordine
naturale si dessero fatti liberamente o p e rati. Ma Cicerone si schermiva da
questi errori ricor rendo alla osservazione interna, e al concetto di causa .
Che cos'è la libera volontà? 87 salità poi non dee intendersi costituita
dalla pura e s e m plice successione de'fatti,ma dallasuccessione lorounita
coll'efficienza degli uni sugli altri.Or dunque (riprendeva ilfilosoforomano
controCrisippo),argomentano benegli Una libera causa;lacail Stoici
dicendo che nell'ordine prestabilito della natura tutto si opera per cause
antecedenti ed esterne, m a non hanno ragione se vogliono turbata questa legge
della n a tura dall'operare dell'arbitrio ; « poichè quando diciamo di volere o
non volere qualche cosa senza una causa, fac ciamo uso non buono di una
consuetudine del linguaggio comune, intendendo dire, senza causa esterna ed
antece dente, ma non senza una causa qualunque;di fattiil moto volontario degli
animi ha tale natura che è in nostropotereeciubbidisce,non peròsenzacausa;chè
la causa di tutto ciò è la sua stessa natura (XI).» Non ci è permesso riferire
qual fosse in ogni parte la dottrina diTuiliosullalibertàdelvolere,perchè
illibroDe Fato racchiude importanti lacune; m a apparisce però da più luoghi
ch'egli la fondava sulla certezza dell'imputabilità degli atti umani,e per tal
via si apriva il passaggio dalle opere fisiche alle morali,nel modo che
appositamente e con ordine verrà dimostrato nel capitolo quarto. Concludendo,
alle dottrine sin qui esaminate si re stringe le serie delle opere fisiche di
Cicerone.Nelle quali vuolsi considerare com'egli avviluppato in una moltitu
dine di sistemi contradittorj e negativi,e costretto ad esercitare l'esame
della riflessione sopra una materia scientifica ingombra nelle parti più
sostanziali dalle te nebre del sofisma, distinse le verità disputabili dai
teoremi della scienza,sceverò con critica coscienziosa ilbuono ed il certo
delle filosofie contemporanee ponendo l'una a ri scontro dell'altra, e
temperandole ne'loro eccessi. Per tal modo le principali verità mantenendosi
intatte, soc correvano il pensiero a ricostituire l'Ontologia nei prin cipj
della scienza cristiana; e questo è davvero un m e rito insigne e innegabile
della fisica ciceroniana, come altri notati da noi sono la sua temperanza verso
le affer mazioni eccessive degli sperimentali, il concetto di Dio, ravvicinato
alla dottrina di Socrate,e sciolto,per quanto
erapossibileallora,dallecondizionielimitazionidell'uomo, la natura spirituale
dell'anima,la sua libertà dimostrate in tempi di abbattimento morale e di
costumi nefandi.Su 88 89 questi principj fondava l'oratore
latino la sua fede religio sa ;chè se (come nota bene il Vannucci) « nella
Divinazione ed altrove,allontanandosi dalle forme timide della Nuova Accademia
........ con argomentazione più forte che in ogni altro scritto combattè da
arditissimo novatore le credenze usate già come istrumenti oratorj e politici,e
mostrò il vano e il ridicolo dell'arte divinatoria, e dei prodigj, e delle
imposture sacerdotali ; » Senatore e console di R o m a , egli voleva una fede
ritemprata alle sorgenti incorruttibili della morale , e che diventasse vero
fondamento alla rico stituzione civile della sua patria. 1. Se la scienza, come
affermammo più volte, è un portato delle naturali notizie; se, ritenendo essa
nel suo svolgimento la natura del principio che la informava, la unità
dell'oggetto scientifico, riconosciuta dalla riflessione, si fonda in un
primitivo ordine di veri presenti tutti al l'armonia della coscienza,che
costituisce il soggetto scien tifico; nessuno può dubitare che i principj della
teorica del conoscere, o della Logica non si colleghino intima mente con quelli
della teorica dell'essere, coi principi dell'Ontologia. Il fondamento di questo
legame che, a n teriore al fatto della scienza, si riproduce tal quale nella
scienza stessa, ha la sua ragione nell'idea della persona lità umana, da cui,
come da unico fonte, rampolla la triplice attività dell'esistere,del
conoscere,dell'operare; l'ha nella stessa natura del vero che unico in sè, se
lo esamini sotto duplice aspetto, è prima essere nelle cose, e poi si fa vero
contemplato nell'intelletto. La medesi mezza delle due parti suddette della
filosofia apparisce per modo indiretto nella continua attinenza che strin fra
loro le questioni più importanti della logica e del l'ontologia dai più remoti
principj della nostra scienza fino ai tempi a noi più vicini.È un fatto omai
noto nella storia della filosofia come il quesito fondamentale della
90 logica : qual sia la relazione che corre tra l'ideale e il reale, quale
la corrispondenza tra le leggi del pensiero e quelle della natura, e se dandosi
passaggio dall'intelli gente all'inteso,se ne costituisca la possibilità della
scienza, quesito contenuto ab antico nella materia delle specula zioni pagane,
ricevesse la sua vera espressione scientifica dalle dottrine critiche della
Riforma. È altresì noto ai di nostri come dalla posizione deliberata di tal
quesito si diramarono due scuole;ilCriticismofranceseealemanno, e ilCriticismo
cristiano,che cominciato dai Dottori e dalla buona Scolastica ne'tempi di
mezzo,segue a fiorire segna tamente in Italia ai dì nostri. Ambedue queste
scuole, di verse sostanzialmenteneiprincipjontologicidelsistema,dis sentono
pure nella logica.La prima desumendo le sue dot trine dal panteismo e dualismo
antico, resuscitato più tardi da un ritorno della civiltà cristiana ai dommi
del Genti lesimo,disconobbe l'attinenza manifestatrice che per legge di natura
intercede tra il pensiero e le cose, tra il sog getto e l'oggetto,e
quell'attinenza odenaturò in identità colle dottrine d'un'unica sostanza,o
ridusse a separazione ammettendo col Cartesio un'intima differenza tra le qua
litàdell'esteso elequalitàdelpensiero,d'ondeilsistema delle cause occasionali
del Malebranche, quello dell'ar monia prestabilita del Leibnitz e lo
scetticismo del Bayle e del Kant. La seconda scuola movendo dal principio che
la libertà del pensiero scientifico soggiace per legge di natura alla
condizione di non potere alterare l'ordine necessario degli enti fra loro,
trovava con sublime e trascendente concetto il legame dell'idealità col reale e
nell'intima essenza dell'atto creativo di Dio, che pose primitivamente una
coordinazione d'atti fra l'essere delle cose e gl'intelletti creati ; e in Dio
stesso nella cui n a tura infinita e impartibile s'immedesima l'idealità colla
realtà, la realtà dell'essenza coll'eterne idee rappresen tative e causative
degli enti creati. Or che si deduce da c i ò ? C h e s e il p r i n c i p i o d
e l C r i t i c i s m o, o n d ' è r i d o t t o a problema il teorema della
conoscenza, ha un intimo ri scontro nei fondamenti della dottrina dell'essere,
e i si M a qui cade per altro una considerazione importante. Il
panteismo e ildualismo,sebbene alterassero dai fonda menti la dottrina della
conoscenza o distruggendo la re lazione ond' è manifestativo il pensiero, o
affermando un'incomunicabilità primordiale tra ilsenso e la materia, principio
di corruzione e d'ignoranza, e lo spirito eterno emanato da Dio, non negavano
per anco esplicitamente nè l'un termine nè l'altro dell'attinenza conoscitiva;e
quando in un sistema, sia pur guasta e corrotta,sia pure implicitamente
negata,siconserva nell'intimo significato delle dottrine la piena comprensione
del soggetto su cui cadelascienza,qualunquedisputaintornoaiprincipalipro blemi
si offre sempre con probabilità di scioglimento alla riflessione esaminatrice.
Quella probabilità cessa quando sensismo, materialismo e idealismo, negando due
parti sostanziali del soggetto, l'intelletto e l'idea manifestante, causa e
mezzo del conoscimento, e la cosa manifestata, termine della cognizione, si
chiudono la via ad affermare i n t e r a l a n o t i z i a d e l l ' e s s e r
e u m a n o , d e n a t u r a n o il l e g a m e che intercede tra l'ideale e
il reale, e rendono impossi bilelapsicologia,ingannatricelalogica.Un
breveaccenno di questa legge necessaria che si riscontra nella storia delle
controversie filosofiche, l'abbiamo già fatto nella prima parte toccando dei
sistemi principali che apparvero in Grecia dal primo scadere della scuola
socratica fino ai tempi dell'Arpinate ; allora fu osservato da noi come a n
dasse di pari passo coll'oscurarsi sempre maggiore dei veri principali e delle
antichissime tradizioni l'impoverire della forma logicale dei sistemi,e come
l'ultimo grado di questo scadimento fosse segnato dal sistema d'Epicuro, e
dalle dottrine logiche della Nuova Accademia.Ora poi 91 stemi che
alterarono questa dottrina sono contemporanei ai primordj della filosofia,
antichissimo deve essere il fon damento del Criticismo; e ne sono testimonj le
più strane teoriche sul modo del conoscimento procedenti dalla fisica
de'sistemid'India, d'Italia,diGrecia,come,ad esempio, gli atomi di
Capila,gl'idoletti diDemocrito,leimmagini fluenti d'Epicuro e di
Lucrezio. ci sia permesso venire su questo proposito a maggior
particolari, perchè, giunti a questa parte delle opere di Tullio dove conviene
esaminare la controversia tra gli Stoici e la Nuova Accademia sulle dottrine
del conosci mento,rappresentatada luineilibriAccademici,importa massimamente il
notare perchè e come ai tempi del filo sofo latino,o poco avanti,ilproblema
fondamentale della logica si fosseristretto alla percezione sensitiva; e come
dal punto diverso e dai confini onde le due parti dispu tanti consideravano il
quesito intorno al conoscere, di penda il valore delle prove allegate, e il
principio su premo che governa la controversia. 2. Venendo dunque al proposito,
il sistema d'Epicuro e le dottrine della Nuova Accademia, non che lo scetti
cismo e l'empirismo finale ci palesano quasi una spos satezza del pensiero
greco,che non val più ad abbracciare la totalità del soggetto scientifico con
quell'ampiezza di principj e di leggi con cui Platone e Aristotele l'avevano
abbracciata;ma un peggioramentoimportantenellaforma scienziale già si notava
nel sistema degli Stoici. Consi derate un poco la sostanza di quelle dottrine,e
vi troverete due principj che danno a tutto il sistema due qualità e due
aspettiben differenti.Il cardine del sistema di Ze none è infatti l'unità
primordiale e finale delle cose tutte, la unità della sostanza prima indistinta
e indeterminata, che poi si determina e si partisce per l'efficacia del prin
cipio attivo e divino svolgendo da un unico germe la dualitàde'principj.La
sostanzaprima,distintaallorain un'anima e in un corpo universali, causa delle
anime e dei corpi particolari, costituisce l'essere del mondo che rappresenta
la vita di Dio ; quella vita diffusa in tutte le cose animate ed inanimate le
fa partecipare per un in timo principio di compenetrazione alla natura e
all'effi cacia di Dio,e l'anima umana,ch'è più vicina a quella sorgente
universale, ne ritrae maggiormente, informando e compenetrando il corpo, a
somiglianza dell'anima uni versale, e come quella riducendo a un solo principio
m o tore le facoltà seconde; talchè per gli Stoici dall'unità 92
dell'essenza prima esce identificato l'intelligibile col reale, il p e n
s i e r o c o g l i o g g e t t i , l ' i n t e n d i m e n t o c o l s e n s o
. C o n s i derato inquestegeneralitàilsistemadiZenoneabbraccia tutto intero il
complesso dei veri palesati dalla coscienza, alterandone la natura col
Panteismo.Ma se vieni ad esa minarlo più particolarmente, allora i molti
principj con tenuti nel seno fecondo della materia prima,e in lei de terminati
più tardi,Dio e materia,anima e corpo,intelletto e senso,pensiero ed
oggetti,scompajono tutti,e siriducono ad un solo ; alla natura informe e
indeterminata della materia. Allora ti apparirà vizio capitale di quel sistema
la riflessione esaminatrice che, sebbene apparentemente voglia svincolarsi dal
senso e dalla materia, concependo a m o 'degli Ionj dinamici nel seno dei
fenomeni naturali un'intima energia infinitamente diversa dalla materia , e
cagione di que'moti,non sa dominare la fantasia, e ab bandonata al pendío
voluttuoso dei tempi,trasporta in quella forza primitiva e in Dio stesso,che la
pone in atto, le qualità corporee. Così la dottrina degli Stoici sin dalle sue
radici s'infettava di materialismo. Ora è tale il ri scontro dei veri
principali nella legge necessaria del co noscimento , che, oscurato il concetto
di Dio e delle cose, se ne oscura alla mente dell'uomo la nozione di sè stesso
Non è dunque a maravigliare se per gli Stoici al mate rialismo in fisica
tenesse dietro il sensismo in psicologia ; quindi,giàloaccennammo,alterato
ilvero concettodi potenza conoscitiva,scambiarono inostril'occasionedel l'atto
apprensivo, che ci viene dai sensi,colla causa intima di quello,veramente
causatrice, che è l'attività dello spi rito;quindi,non bene distinto l'operare
dei sensi e del l'immaginativa dall'operare dell' intelletto, diedero al
complesso dei fantasmi le qualità del pensiero. In questo esame parziale e
negativo delle facoltà del soggetto, quale ci offre la psicologia degli
Stoici,si nascondeva per fermo una potente causa di scetticismo;chè movendo dal
lato indiretto da cui la Stoa considerava il fatto dell'umano conoscimento , e
negli angusti confini in cui restringeva la coscienza delle interne operazioni
dell'animo,era facile 93 a sottili ragionatori trovare
appiglio per dubitare di qual che cosa o di tutto.Vi si prestava la natura
dell'idea, che avendo il proprio essere in un'attinenza manifestatrice, se la
consideri identica ai fatti animali, ti doventa un mistero; vi si prestava la
natura del senso, inesplicabile, oscuro e sostanzialmente erroneo, se non lo
risguardi illu minato dalla luce dell'intelletto ; vi si prestava infine la
fantasia perenne creatrice del falso, facile a denaturare coi più vivi colori
del senso gli ultimi resultati della p o tenza astrattiva. Così dal sofisma
degli Stoici (e sofisma vuol dire sempre difetto) germinava quello della Nuova
Accademia . Chè , se fu cattivo abito della riflessione esa minatrice nelle
dottrine di Zenone il fare ombra dei fe nomeni materiali allo splendore delle
idee,e ridurre quasi ciò che v'ha di più vivo nell'umana personalità allo
sviluppo meccanico delle funzioni apprensive,fu pessimo nella Nuova
Accademia,non già l'opporre ilvero all’er rore,il compiuto all'imperfetto esame
della coscienza,lo che essa non fece; m a profondarsi nelle sole astrazioni, m
a restringersi nel pensiero vuoto,fenomenale, apparente, o al più negl'inganni
d'un fallace conoscimento. Quindi a una negazione di negazione si riduceva ai
tempi di Tullio, o poco innanzi, la polemica tra gli Stoici e la Nuova A c
cademia.Ed ecco (ciò che cieravamo proposti a mostrare) perchè dopo i notevoli
perfezionamenti che la dialettica avea ricevuto dalle scuole italica ed
eleatica, da Platone e dall'Organo aristotelico, la teorica sulle fonti del
cono scimento, complessiva di tanti veri, s'era allora ristretta alla disputa
sulla percezione sensitiva. 94 Tal disputa , dipinta con tanta verità di
colori da Tullio nei due libri degli Accademici Primi, e massime nel se condo
(chè il breve frammento rimastoci del primo degli Accademici Posteriori,
dedicato a Varrone, si riduce ad una semplice esposizione istorica delle
principali scuole socratiche), rappresenta in fondo la lotta di tutti i tempi
tra ildommatismo inconseguente e lo scetticismo presun tuoso. Quel venire ai
cozzi di opinioni eccessivamente af fermative con altre assolutamente
inquisitive era, come dei nostri, un portato naturale dei tempi di
Tullio,tempi di contradizioni profonde, nei quali, come oggi, da una parte tutto
si disfaceva con rabbia sterminatrice, dall'altra con puntigliosa rigidità si
sosteneva qualunque lato anche debole e imperfetto del vero,imperfettamente
considerato. La superbia e ildisprezzo erano le armi con cui si scon travano i
combattenti, e l'una e l'altro stavano bene a quelliuomini,eloquenti,come
noi,nell'esaltareiprincipj, e non logici quanto conveniva nel dedurre da quelli
le gittime conseguenze ; altrettanto facili ai propositi gene rosi,quanto
difficilinell'eseguirli;filosofidaaccademia,e da piazza ; politici predicanti
la severità antica nelle m o l lezze moderne ; uomini a cui mancava la lena di
levarsi sulle ali del pensiero alle universali armonie della scienza nel
vero,nel bello e nel buono,capaci soltanto d'impri gionarsi nelle angustie
d'una dialettica ingannatrice o p ponendo sofisma a sofisma,contradizione a
contradizione. Quindi massimo argomento in questo, come in simili casi, del
difetto delle due parti che disputavano, era che, se tu esamini l'una e l'altra
con animo non preoccupato, e poi non imiti il Cousin, che dall'accozzo fortuito
degli errori volle ricomporre il corpo formoso della filosofia, quasi statua da
brani dispersi sopra antiche ruine , m a cerchi di compirle ambedue colla
pienezza dei veri atte stati dalla coscienza naturale, soltanto allora elle
t'appa riranno perfette, e risoluta la tesi, ti vedrai brillare al pensiero la
luce d'un irrepugnabile convincimento. La disputa è finta da Cicerone come
avvenuta presso Baule in una villa d'Ortensio, presenti lo stesso Ortensio, Ca tulo
e Lucullo. Gl'interlocutori principali sono Lucullo e Cicerone. Lucullo
sostiene le parti d'Antioco (stoico) contro Filone (Accademico ); Tullio quelle
di Filone con tro Antioco. Or qual era il principio da cui moveva, e quali i
punti più segnalati in cui si spartiva il ragiona mento ? Qui occorre ridurci a
memoria un'importante osser vazione del Ritter. Il quale nella sua Storia della
filosofia antica, tenendo dietro all'indirizzo che la dottrina sulle
95 96 fonti del conoscimento avea preso da Aristotele in poi,
quando nota la differenza segnalata che correva tra gli Stoici e il filosofo di
Stagira, mentre questi moveva sì dalla sensazione, ma senza negare il
resultamento del l'attività intellettuale dell'anima, laddove gli Stoici, più
vicini in ciò agli Epicurei,cercarono di ravvicinare di più in più il pensiero
razionale alla sensazione concependolo solo come una sua conseguenza e
trasformazione, aggiunge inoltre che nell'evitare le grandi difficoltà, le
quali si o p p o nevano alla dimostrazione di quel loro sensismo, si rias sume
intera la dottrina degli Stoici intorno al criterio del vero (Ritter, L. XI ,
3.). L'osservazione del Ritter è giusta. Di fatti per quella solita opposizione
che trovi in ogni filosofo di setta tra le tendenze vive dell'animo e
l'indirizzo artefatto della riflessione, si vedevano negli Stoici due
disposizioni opposte che imprimevano qualità contradittorie al loro sistema; da
un lato il pendio del l'età e il decadimento della forma e della materia
scienti fica li inchinava al sensismo e alla meditazione incompiuta del
soggetto su cui cade la scienza ; dall'altro la tradi zione socratica e la voce
non muta del senso comune li chiamava ad abbracciare il complesso dei veri di
natura, le facoltà dell'animo e i termini loro, e a rendere p o s sibilmente
perfetta la forma scienziale ; antitesi d'opposte tendenze che pur si specchia
in quell'ondeggiare continuo del loro sistema tra il panteismo ionio e il
dualismo so cratico. Ora che ne veniva da ciò ? Dal lato imperfetto da cui gli Stoici
consideravano l'umana coscienza quanto alla dottrina del conoscimento,
resultava ch'essi sbaglia vano il concetto di potenza,di causa,di relazione,
fonda menti primi di tal dottrina;quindi la loro logica si re stringeva alla
dimostrazione del conoscimento acquistato per via de'sensi,di cui ponevano
l'essenza nella rappresenta .zione vera o comprensiva (parrugia
2270)atlyn),ch'è un patire dell'anima,a cui risponde da un lato l'operare del
l'oggetto sentito, dall'altro l'operare dell'anima stessa che conseguentemente
alla sensazione ricevuta assente,giudica e ragiona.Ma
qui,giovailripeterlo,stavalafallaciadell'ar
gomento;gliStoicimovevano dalnulla,edaquelnullaface vano uscire la pienezza del
soggetto e dei principj costituenti la scienza.E veramente io non negherò mai
alla buona filosofia che ilfatto della percezione sensibile,intesa come
attinenza reale tra il sentito e il senziente, mi riporti al l'esistenza di due
termini de'quali l'uno è causa esterna e occasionale della sensazione, l' altro
è causa intima e veramente efficace; non negherò mai che l'illazione di
causalità mi mova ad affermare la reale natura dell'ente che opera sugli organi
de'sensi,e che il concetto di po tenza m'induca a concepire nelle facoltà
conoscitive un qualcosa che le costituisca operanti,un che di positivo e
d'efficace che risponde alla passività negativa del sentimento ; m a io nego
agli Stoici quel loro metodo di facili illazioni, onde identificata la potenza
intellettiva col senso volevano dedurre in virtù di universali prin cipj da una
condizione passiva delle facoltà del sog getto l'efficacia dell'intendimento, e
dalla sensazione mutabile e fenomenale l'incommutabile necessità della
scienza.Ma ilfatodellalogicanon's'arrestava;egliStoici ristretti in tal modo
nelle angustie dei fenomeni sensibili, tanto più quanto levavano lo sguardo
alla cima del sa pere,rammentando le tradizioni del Sofo ateniese, vede vano
l'importanza di ribattere le prove degli avversarj che paragonavano la
mutabilità e l'incertezza de'fatti animali colla natura assoluta del vero
contenuta negli universali concetti,onde germoglia e si sviluppa la scienza.
Quindi proveniva il bisogno vivamente sentito da loro di movere da un fatto e
da principj indubitabili ed evidenti (Acad.,II,VI,17);quindi la necessità di
mostrare,primo, come si possa distinguere la rappresentazione falsa dalla vera
;secondo, come movendo dal reale della rappresenta zione apparisca che la mente
stessa che è fonte dei sensi, e che essa medesima è senso,abbia una naturale
energia per cui tende a ciò che la move al di fuori; mens ipsa que sensuum fons
est,atque etiam ipsa sensus est,naturalem vim
habeatquamintenditadeaquibusmovetur.(X,30.) Da questo concetto,fondamentale
nella logica degli Stoici, 97 La prima parte cadeva sulla
domanda : se la perce zione sensibile avesse impressi in sè certi segni della v
e rità dell'oggetto rappresentato ; il che negava la Nuova Accademia,affermando
che in una percezione,fosse pur vera, non era alcuna certa nota per
distinguerla da una falsa; dubitavano dunque che per mezzo dei sensi l'entità
della cosa sentita passasse tal quale ella era nell'appren sione del soggetto
conoscitore. Posta in tal modo la que s t i o n e , è c h i a r o c h e p o i c
h è il m e z z o d i p a s s a g g i o d e l v e r o conosciutodallacosa,occasionedelsentimento,allepotenze
conoscitive, è il senso ed isuoi organi, conveniva innanzi tutto,a provare la
realtà della cognizione, argomentarla dalla veracità naturale dei sensi.Dai
quali movendo Lucullo ne afferma chiaro e indubitato il giudizio,nulla valendo,
ei dice,gli artificiosi argomenti degli avversarj intorno alle false apparenze
delle percezioni ; poichè : 1°,dato che i sensi siano sani,col buono uso ch'io
ne faccio posso ret tificarne i giudizj,posso coll'esercizio e coll'arte aumen
tarnemirabilmente laforza;2°,ilsensoèdimostratovero ne'suoi giudizj dal
successivo lavorìo della mente sulla materia da esso somministrata formandosene
i concetti delle qualità e delle specie che son via ai principj più universali,
ai quali naturalmente l'intelletto dà fede, e tolti i quali ogni arte,ogni
scienza,ogni regola della vita cadrebbe. Tutta la teorica si regge
manifestamente sul principio di causa e di relazione. Se io, diceva Antioco, ho
sperimentato in me l'effetto della percezione sensibile, questa mi riporta ad
una causa per via d'una necessaria attinenza. M a Filone invece (e in ciò è
imitato dagli scet tici odierni) ammettendo la possibilità del fenomeno come di
un che vuoto,di una mera apparenza senza alcun con tenuto, poneva come
probabile che la sensazione non ci scoprisse l'entità di veruna cosa. M a,
riprendeva A n tioco, primieramente oltre i naturali giudizi e i giudizj
scientifici, che nascono e si fanno manifesti in noi per l'occasione de'sensi,
dal germe del conoscimento spunta 98 il ragionamento d’Antioco si dirama
in due capi : della percezione e dell'assenso. 3. Il ragionamento
di Lucullo, compreso dal quinto al ventesimo cap.del secondo
librodegliAccademici,edove l'umano intelletto fa prova di quella forza irresistibile
che in mezzo alle contradizioni del sofisma pur lo sospinge ai principj
universali del vero, è uno dei più mirabili tratti della filosofia e della
eloquenza latina, e chi n'ha seguito con gioja confidente il cammino,se poi si
volge ad aspettare la risposta di Cicerone, gli par di vederlo quale si dipinge
con vivezza egli stesso « non minus c o m motum quam solebat in caussis
majoribus. » Egli per aprirsi la via a dimostrare la sua tesi, non move da una
professione di scetticismo assoluto, m a bensì da una cri tica temperata ; e si
fonda in special modo sull'argomento con cui Arcesilao avea combattuto Zenone,
cioè sull'in discernibilità delle percezioni vere dalle false,onde avve niva
che al sapiente non rimanesse alcun assenso deciso, m a una semplice opinione
di verosimiglianza. Comunque sia, s'è domandato da molti : Cicerone non
sostiene egli in questo libro le parti dello scetticismo accademico contro le
dottrine stoiche della percezione ? non si professa più volte ne'proemj delle
sue opere seguace della riforma 99 il fiore dell'appetito istintivo, il
quale se voi mi negate avere persuoproprio enaturaltermineilvero,inquanto è
conosciuto appetibile, io sono condotto ad affermare nell'uomo l'assurdo di più
facoltà naturali che natural mente s'ingannano. Poi il falso non può mai essere
ter mine dell'apprensione intellettuale,perchè ilconoscimento coglie di sua
natura l'essere delle cose, ma il falso è appunto,rispetto al
conoscimento,lanegazione dell'essere; dunque il falsonon può mai cadere sotto
ilconoscimento. Finalmente, se nulla è vero, sarà almen vero questo che nulla è
vero, perchè una scienza,una dottrina qualunque, per essere costituita nella
sua natura, ch'è ordine di veri conosciuti,ha bisogno,come di un metodo e di un
fine a cui vada e a cui giunga,così di un principio da cui mova indubitabile e
certo. Lo stesso ordine di concetti desunto dal principio di potenza e di
relazione regge a un di presso la teorica dell'assenso (Guyaute 985e»).
introdotta da Arcesilao ? non scrisse egli i due libri,che voi esaminate,
per mostrare ai Romani l'ottimo metodo del filosofare sull'esempio della Nuova
Accademia ? non han ripetuto e non ripetono ancora a una voce quasi tutti gli
storici della filosofia che Tullio, seguace nella sua gio ventù dell'Antica Accademia,
s'accostò già maturo alla Nuova, a cui lo traeva il suo istinto oratorio, lo
scetti cismo de'tempi, l'animo incerto in tanta folla didottrine
contradittorie, e la forma ecclettica di filosofia ch'e'si era proposta ?
Dunque Cicerone nelle tre parti della scienza,emassime
inlogica,seguitòildubbiodellaNuova
Accademia.(Brucker,Degerando,Bernhardy,Ritter).Tal conclusione,di cui demmo
qualche accenno nel cap.Idi questa parte,sebbene apparentemente provata da
parecchj testi divisi del filosofo nostro, da varie sue esplicite affer
mazioni,e segnatamente da tutto il tenore di questi due libri, dove e'prende
con lungo ragionamento in persona di Filone a confutare la certezza delle
notizie che ci ven gon dai sensi,e dove in ultimo contrappone ex professo la sua
dottrina del dubbio sistematico e della probabilità alle contradizioni in cui
si lacerava la logica contempo ranea, tal conclusione, dico, non regge avanti
al tutto delle dottrine esaminate spassionatamente, e avanti a quella norma di
critica, che ponemmo sin da principio,di badar bene alle opinioni che Tullio
combatte,e ai metodi che rappresenta in sè stesso senza per altro interamente
accettarli. Le affermazioni eccessive della critica odierna, bene merita per
tanti rispetti della civiltà e della scienza,hanno la loro sorgente esse pure
nel falso principio del Criti cismo speculativo, che togliendo il pensiero
scientifico fuori delle sue naturali armonie con sè stesso, colle cose, col
Creatore e col genere umano , non riconosce più nello scienziato e nel filosofo
l'uomo,e fa della più socievole fra le dottrine un gergo incomprensibile e
solitario.Bisogna invece nell'esame dei sistemi non uscir mai dalla n a tura di
que'tempi, di quegli uomini, di quelle passioni, di que'pregiudizj, di quelle
consuetudini; bisogna im 100 maginarsi i filosofi quali
furono in realtà, disputanti e pensanti, uomini di tribuna e di tavolino,
soggetti essi, come noi, alle contradizioni frequenti di qualche dottrina anche
erronea concessa nel calore della disputa alle prove degli avversarj, colla
interna coscienza, testimonio irrepugnabile al vero. Tale è più volte ilcaso di
Cicerone, e tal metodo noi tenemmo nella parte fisica delle sue dot trine, e
terremo nella logica e nella morale. Il Ritter scrittore accuratissimo nella critica'de'filo
sofi,e alemanno davvero nella coscienziosa ricerca dei passi e dei documenti,
talvolta, ci duole a confessarlo, compo nendo con disegno ingegnoso brani
staccati di varie opere, ne fa resultare in conferma delle proprie opinioni un
si gnificato che forse non germoglia dalla totalità del sistema. Così
nell'esame della dialettica di Tullio, sebbene non n e ghi che il filosofo
latino si leva al concetto dei principj e delle idee universali, cardine
dell'intelligenza, pure af ferma che in logica ei riferì una singolare
importanza al sentimento, pigliando questa parola nel significato in cui
laintendono iRazionalisti,come di un che sostanzialmente opposto alla scienza,
e soggetto alla cieca fatalità de gl’istinti.(Hist.,lib.XII,cap.II,pag.105,106).Ma
inprimo luogo, oltrechè Cicerone (e lo vedremo meglio in morale) non fece mai
del sentimento un qualcosa di opposto alla scienza, e anzi lo allegò sempre in
un significato essen zialmente scientifico, quale una necessaria attinenza del
l'affetto spirituale col vero (De Fin ., lib.II,passim ), è poi
esattaabbastanzal'asserzionedelRitter,checioèiprincipj fondamentali della sua
filosofia naturale lo conducessero
alledottrinelogicheperviadellasensibilità?Sefosselecito affermare risoluto
contro l'autorità dello storico insigne, direi invece che due cause,intrinseca
l'una,l'altra estrin seca alle dottrine di Tullio,lo guidarono in logica a con
clusioni direttamente opposte, e lo ravvicinarono (pro
gressorarointantacorruzioneditempi)aidommi sublimi dell'Antica Accademia . In
tal questione egli si trovò in mezzo al proprio semipanteismo e dualismo e alle
dottrine materiali e sensistiche di Zenone. Non è egli vero che il
101 dualismo semipanteistico da un lato rifuggendo alle con
tradizioni del panteismo che più repugnano agl'ingegni sovrani, e gratificando
dall' altro agli affetti spirituali, segregò la materia da Dio, lo spirito dal
senso,e pose la ragione del conoscere nella medesimezza fondamentale
dell'intelletto divino e degl'intelletti secondarj ? Ora tal sistema,
partecipato da quasi tutte le scuole socratiche e da Tullio,rompeva
l'attinenzatrailpensieroeipensati, tra l'ideale e il reale, e restringeva
l'intendimento alla semplice e inefficace visione degli universali. Se così è,
pare che il filosofo latino dovesse essere ben lungi dal porre nei resultati
delle potenze sensitive la certezza del conoscimento;e lo prova la sua fisica
dove sull'esem pio di Platone si rigettano i metodi delle scienze speri mentali
come incapaci di somministrare una sicura notizia de'corpi, e l'indagine
naturale si ammette solo come via di levarsi in virtù di principj superiori ai
veri della scienza soprannaturale ; lo prova la sua psicologia che tante volte
contrappone il fenomenale della materia e del corpo al l'essenza dello spirito,
che afferma il commercio dell'anima col corpo risiedere in una semplice
comunicazione di moto , isensiesseresoloun emissariodell'anima,un'intelligenza
ammezzata, e la personalità umana un gastigo. (Tuscul., De Leg.,De Rep.nel
sogno di Scipione). L'altra causa estrinseca che allontanò Cicerone dalla fede
che altri poneva nel conoscimento prodotto dai sensi, è l'opposizione ch'ei
dovette fare al dommatismo degli Stoici, nella quale opposizione si vede che,
mentre da un lato egli temperava colla moderazione dell'ingegno latino il
dubbio eccessivo a cui l'avrebbero forse condotto le dottrine della Nuova
Accademia, dall'altro sapeva con raro acume di logica smascherare e combattere
le intime contradizioni degli avversarj. Qual era la fonte di tutte queste contradizioni
? Noi già la conosciamo ;era l'eterna differenza che corre tra il sentimento
mutabile e fenome nale e l'incommutabile necessità della scienza. Questa
necessità sembrerebbe a primo aspetto bastantemente di mostrata nel sistema
degli Stoici dal porre ch'essi face 102 vano il conoscimento
scientifico nel possesso delle idee pure, e nel rappresentarcelo quasi l'ultimo
grado di ferma convinzione,a cui lo spirito umano perviene col passare pei
gradi intermedj della ouzoté0:015 (adsentio) e della 2.zténnyes (comprehensio),
movendo come da suo prin cipio dalla suurusis,o rappresentazione sensibile
(visum ). (Ritter;Cic.,Acad.II,47).Ma,seconsideriamomeglio,gli Stoici con
quella loro immagine della mano stesa e del pugno chiuso ed aperto determinavano
in qualche modo l'idea di una differenza tra il sentimento e ilsapere,ma non
uscivano dai fenomeni animali,non sapevano accen nare quella nuova parte
essenziale intrinseca al soggetto, che congiunta colla oggettività della
percezione costituisce il conoscimento; laonde la Nuova Accademia avrebbe po
tutodirloro:è vero che ilsaperedifferiscedalsenso,che il possesso sicuro delle
rappresentazioni resulta dalla c o n trazione e dall'energia dello
spirito(TÓvos);ma sepervoi l'intelletto non è che il travestimento del
senso,mostra teci orsù come la potenza derivi dall'impotenza, l'asso luto dal
relativo, il necessario dal contingente. Ora la Nuova Accademia senza levarsi a
questi principj universali ch'essa non ammetteva,ma, giusta il suo costume, no.
tando piuttosto quelle contradizioni che sidesumevano dal sistema stoico
paragonato a sè stesso, pure implicitamente li confessava. Fallita infatti agli
Stoici la definizione del concetto della scienza dato per via dell'attività
spontanea dell'anima,non rimaneva loro altro scampo che ridurre la ragione del
conoscimento alla indubitabilità della p e r cezione vera.Ma come mai
dimostrare tale indubitabilità? Questo mutamento notevole che doveva introdursi
nel l'indirizzo della questione sul problema della conoscenza per la legge a
cui è soggetta necessariamente la vita d'ogni sistema,è attestato dalla
storia;perchè,come os serva il Ritter, i primi Stoici dimostravano la necessità
del sapere per quella forza interna dell'animo che si mani festa nell'atto
d'apprendere la sensazione,e pel bisogno d'ammettere qual termine della
facoltàintellettivaeap petitiva il vero ed il bene ; laddove gli Stoici
susseguenti, 103 al numero de'quali appartiene Crisippo,
vedendo che ciò contraddiceva ai principj del sensismo,trassero alle ultime
illazioni il sistema ponendo il criterio del conoscere nella rappresentazione
vera che si manifesta da sè stessa come prodotta da un obbietto reale
analogamente alla sua natura . Nonpertanto una grave difficoltà rimaneva sempre
a risolvere anche dopo la modificazione introdotta da Cri sippo. Chè se il
vizio fondamentale di tutta la loro dot trina stava nel disconoscere
quell'intreccio d'attinenze interne ed esterne ond'è manifestativo
ilpensiero;iprimi Stoici guardarono troppo al lato interno e soggettivo di
quelle attinenze, mentre Crisippo, eccedendo per l'altra parte, si fermò
unicamente all'esterno; e quindi rima neva sempre intatto il quesito, se la
rappresentazione percetta offrisse piena e indubitata qual era la realità
dell'obbietto rappresentato. E invero si ponga mente. Fingasi che un oggetto
qualunque a cui noi riferiamo date proprietà di freddo, di caldo, di liscio, di
ruvido, d'ottuso, di tagliente etc., faccia impressione sui miei organi s e n
sorj,e che l'impressione, trasmessa per la treccia de'nervi al centro del
senso, sia occasione a farmi concepire l'idea d'entità; se io esamino allora lo
stato interno della mia coscienza, il fatto del conoscimento, unico in sè, mi
si paleserà resultante da una mirabile armonia di fatti se condi, successivi
bensì nell'esame della riflessione, con temporanei tutti nell'atto delle
potenze spirituali.Ciascuno di questi fatti sarà l'operare d'una special
facoltà, e cia scuna di quelle operazioni avrà il proprio termine ; io poi che
mi faccio ad esaminare quel nodo d'attinenze tra il soggetto e gli oggetti,
vedo che la qualità dell'atto conoscitivo resulta bensì dalla qualità di
ciascuno di quelli atti secondi, ma la sua certezza proviene da una legge di
natura che li costituisce contemporanei e correlativi. Fa'che io tolga via col
pensiero o l'uno o l'altro di quegli atti e i termini loro, quella stupenda
armonia di natura mi si spezza davanti agli occhi, e io cado di n e cessità
nello scetticismo ; tolgo via l'impressione sensibile 104 Il
sistema cristiano, che movendo dalla formula di creazione riproduce in uno
stupendo ordinamento di veri palesati dall'intimo della coscienza l'universale
armonia del creato, può soltanto offrire un'adeguata risposta ai quesiti dello
scetticismo sulla questione del conoscimento ; perchè solo in quel sistema le
attinenze dell'umano p e n siero con sè e cogli obbietti sono rigorosamente
serbate, nè può lo scettico separando o negando creare vane a p parenze quasi
dell'intelletto segregato in sè stesso,o della fantasia o del senso producenti
fenomeni vani non retti ficati poi dal paragone dei giudizj mentali. L'ingegno
di Agostino che meglio d'ogni altro comprese in sè stesso le armonie del
Cristianesimo e della scienza de'Padri, dava un esempio del confutare
cristianamente gli scettici nell'opera Contra Academicos, dove chiaro apparisce
lo studio profondo degli scritti di Cicerone, e come quei e 105 e il
termine materiale ? e la conoscenza mi si presenta come un fenomeno soggettivo
;non vedo più l'azione dello spirito e il termine ideale in cui cade ? e il
conoscimento doventa un qualche cosa d'estraneo a me stesso, un in ganno
misterioso del senso e della materia.Quest'ultimo segnatamente fu il vizio
fondamentale della dottrina degli Stoici nuovi, e in ciò,nota bene Cicerone,
essi furono assai meno conseguenti degli Epicurei. Costoro movendo dal
principio, che data unapercezione fallace mancava ogni criterio per verificare
la certezza delle umane notizie, ponevano quel criterio nella realtà stessa del
fenomeno sensibile, più conseguenti, dico, degli Stoici, i quali non ammettendo
come veretuttelepercezioni,ma soloquelle che presentavano in sè l'evidenza
della cosa percetta , nè riconoscendo d'altronde, come sensisti,la natura pro
pria dell'intelletto a cui solo spetta il giudizio sui r e sultamenti del
senso, si chiudevano la via per discernere la conoscenza vera dagl'inganni
dell'immaginazione; e quindi a buon dritto la Nuova Accademia allegava contro
gli Stoici i soliti argomenti della fallacia del senso degl'inganni dei ragionamenti
sofistici. (Acad., I e II dal cap.28 in giù). germi immortali di
vero che il filosofo romano seppe raccorre con rara indagine scientifica nel
suo tentativo di conciliare le scuole greche,producessero una vitaope rosa di
scienza fecondati dal calore di una dottrina rin novatrice. Nel libro Contra
Academicos Sant'Agostino serba a un di presso lo stesso ordine della disputa
seguito da Lucullo e da Cicerone, move dagli stessi principj, ribatte le
medesime contradizioni;ma un non so che di insolito, d'efficace, d'affettuoso
che annunzia una civiltà e una religione nuova tu lo senti là dentro,e non
tanto nello stile che, non paragonabile mai all'eleganza tulliana, ritrae pur
qualche volta la vivezza e il brio del parlare improvviso, quanto nell'energia
insolita dell'argomentare che sfuggendo iparticolari, dove facilmente sipuò
intro durre il sofisma, si rifugia nell'evidenza de'principj s u premi. Ma
ilmodo d'argomentare usato da Sant'Agostino non calzava agli Stoici; chè essi
non ammettendo un'in tima e reale attività dello spirito distinta dal senso e
capace di rettificarne gl'inganni, non potevano rinvenire nell'essere stesso
della percezione segni indubitati ch'ella fosse verace; e il loro
concettualismo non li lasciava af fermare contro il dubbio aceennato dalla
Nuova Accade mia sulla validità del pensiero. Gli storici della filosofia ci
han serbato in fatti memoria di una strana dottrina degli Stoici procedente del
resto dall'intimo del loro sistema e da quella tendenza dualistica che vi si
mesco lava ai principj del panteismo.Qual era questa dottrina? Gli Stoici
ponendo in fisica per un lato la realtà delle cose nella sostanza corporea ,nè
per l'altro costretti dalla logica riuscendo a negare del tutto l'essere delle
idee universali, distinsero queste dal reale corporeo,e ne fecero alcunchè di
non reale, ma capace d'essere concepito dall'intelletto ed espresso in
proposizioni (Asztóv).Distin guevano quindi due specie di vero ; il sensibile
contenuto nelle percezioni de'corpi, e il pensabile ristretto alle in
tellezioni della mente,questo procedente da quello e a quello correlativo ;
volevano con tale dottrina porre su stabili fondamenti la necessità de'principj
in cui cade la 106 .. scienza, nè gli acuti pensatori
s'avvidero che, se l'idea può rappresentarmi il reale, ciò accade appunto in
con seguenza ch'ella stessa è reale, non s'avvidero che n e gando qualunque
conformità tra il concetto universale e l'essenza del concepito, si cade nel
concettualismo rinno vato poi da Abelardo nei tempi di mezzo.La Nuova Accademia
recava alle ultime loro illazioni questi falsi prin cipj della scuola stoica ;
dal principio del sensismo traeva occasione a dubitare della veracità della
percezione sen sitiva; moveva dalle conclusioni del concettualismo per negare
la realtà del pensiero imprigionato in sè stesso, e diceva (argomento assai
notevole infatti) la dialettica non potere giudicare delle leggi della
geometria,perchè aliene dal proprio ordine di veri,non giudicare delle pro
prie, perchè non può il pensiero rivolgersi sopra sè stesso per giudicarsi.
L'argomento è di recentissima data,come ognun vede,e lo ripetono anch'oggi
iseguaci del Comte, iPositivisti francesi. E recenti pure sono le conseguenze
che ne deduceva la Nuova Accademia; poichè racchiuso una volta il pensiero in
sè stesso, e negata la sua atti nenza colle cose reali,manca ogni criterio a
risolvere il problema dei giudizj contradittorj,nè v’ha che un passo a dedurne
che dunque la contradizione è una legge ne cessaria dell'intelletto. Questa
ultima conclusione, che accenna per altro un notevole perfezionamento della
rifles sione nelle teoriche del criticismo, è dovuta al filosofo di
Conisberga,m a già è racchiusa implicitamente nei sofismi disgiuntivi della
Nuova Accademia.(Ac.,1.II,15,16,29, 30, 31.) Costituita dunque in questi
termini, la controversia sulle fonti del conoscimento conduceva la Nuova Acca
demia a uno scetticismo assoluto,e noi già ne vedemmo non dubbj segni in
Carneade ; m a era qui appunto dove Cicerone si arrestava temperando col suo vivo
sentimento dei veri naturali e colla moderazione latina gli eccessi del metodo
da lui fino allora seguito. Quindi usciva la sua teorica sulla verosimiglianza
delle percezioni sensibili che riporterò così riassunta dal Ritter. « Les
Stoïciens,en 107 108 admettant la possibilité de saisir
quelque chose avec tant de précision qu'il ne puisse y avoir
erreur,n'accordaient ce savoir qu'au sage. Ils ne faisaient donc en cela que de
refuser cette espèce de savoir aux hommes ordinaires, car eux-mêmes ne pouvaient
dire quel est l'homme qui est ou qui a été sage ; ils regardaient, au
contraire, tout le monde comme insensé, et refusaient en conséquence le savoir
véritable à tout le monde.Cicéron n'aspire pas à un pareil degré de savoir;
mais il veut que le non -sage aussi sache quelque chose,c'est-à-dire, qu'il ait
une per suasion de la vérité des phénomènes sensibles,sans cepen dant pouvoir y
croir avec une parfaite certitude.Son opinion est, qu'il y a des impressions
sensibles auxquelles nous pouvons nous fier, parce qu'elles ébranlent fortement
notre sens ou notre esprit;mais sans pouvoir cependant les adop ter comme
parfaitement vraies.Telle est sa théorie de la vraisemblance. Il ne veut pas
faire disparaître la différence entre le vrai et le faux ; nous avons raison de
tenir quelque chose pour vrai et de rejeter autre chose come faux; mais nous
n'avons aucun signe certain de la vérité et de la fausseté.Il croit pouvoir
prévenir l'objection,qu'il y a ce pendant ceci de certain,qu'il n'y a rien de
certain en te nant aussi pour vraisemblable seulement qu'il n'y a rien de
certain. C'est ainsi qu'il se purge du reproche que la théorie qui donne tout
pour incertain est impossible dans la vie pratique, car cette vie se conforme à
la vraisem blance, et la plus part des arts qui s'y rapportent avouent même
qu'ils ont plutôt pour but la conjecture que la science. Il ne voit d'autre
différence entre son opinion et celle des dogmatiques, si ce n'est que ceux-ci
ne dou tent pas de tout ce qu'ils soutiennent;mais qu'il est vrai qu'il
considère au contraire beaucoup des choses comme vraisemblables, qu'il peut
suivre, sans pouvoir cependant les affirmer avec una parfaite certitude..... On
voit bien que cette théorie de la vraisemblance s'éloigne un peu de la doctrine
de la nouvelle académie, du moins telle que Carnéade l'avait exposée; car elle
n'aspire pas à un art de tout rendre également vraisemblable et
invraisemblable, mais elle tient quelque chose pour vraisemblable,
autre chose pour invraisemblable. Cicéron remarque même qu'en ce point il
s'écartait de ses maîtres, particulière ment pour ce qui est des préceptes de
la morale.Il avoue à la vérité qu'il n'est pas assez hardi pour réfuter le
doute de nouveaux académiciens,par rapport à la morale, mais il désire les
atténuer. » (Stor., vol. IV, pag. 108, 109, 110 tradotta dal Tissot.) 4. Il
fondamento della teoria tulliana sulla verosi miglianza è dunque nella
questione del criterio del vero; e qui, segnatamente nel giudizio sulle
percezioni sensibili, apparisce il moderato scetticismo dell'oratore latino;m o
derato, dico, e parmi sia chiaro dopo le cose predette che egli avvolto, come
Socrate, in mezzo ai combattimenti del dommatismo e dello scetticismo
eccessivo, serbò una norma scientifica nell'affermare e nel dubitare, temperò
gli Stoici non accordando una fede illimitata al solo te stimonio de'sensi ;
temperò gli Accademici sostituendo al loro dubbio,uguale per qualunque
opinione,una graduata v e r o s i m i g l i a n z a n e ' c a s i p a r t i c o
l a r i, c o m b a t t è g l i u n i e g l i altri rigettando il dubbio
assoluto sui principj fondamen taliesulleveritàteorematiche.(Vediiproemj
particol. De Off,De Div.,De Nat.Deor.,Acad.) La sua psicologia in quelle parti
che si collega alla logica, sebbene qua e là i n f e t t a d e l d u a l i s m
o s o c r a t i c o, f a f e d e c o m ' e g l i e m e n d a s s e il vizio
della scienza contemporanea opponendo all' i m perfetta riflessione de'sofisti
un esame comprensivo del umano soggetto. Con metodo induttivo egli moveva dalla
coscienza, ed ivi,riconosciuti inaturali concetti dell'oltre naturale e
dell'intelligibile, s'innalzava con essi alla c o gnizione dell'animo
(Tuscul.,lib.I,cap.XXII);nell'animo distingueva la ragione dal senso;la
ragione,sovrana delle facoltà umane,ha un immortale e quasi divino istintodel
vero,legame primigenio tra il Creatore e icreati;isensi, satelliti e nuncj
dell'anima,le danno di molte cose certa notiziaconfusaeammezzata,cheèun qualche
fondamento alla scienza, e la scienza ne sorge per la libera efficacia
dell'animo, che comprendendo in sè il particolare e ilm u 109
tabile dei sentimenti, si leva alle idee e alle nozioni uni versali;
quindi i sensi ben guidati da natura,nè torti da mala educazione, hanno una
naturale rettitudine al vero, nell'animo dove cade il libero giudizio della
riflessione, ivi soltanto può introdursi l'errore.(De Leg., 1,23,26,
17,47;Tusc.,1,20;Ac.,1,8, 11,7.) Così col metodo induttivo di Platone egli sale
fino ai principj più universali, d'onde col deduttivo d'Aristotele ridiscende
ai particolari; e ne son prova i libri rettorici. Tra i quali merita speciale
considerazione la Topica, o logica inventrice, intitolata a Trebazio giovane
giurecon sulto e discepolo dell'autore,e dove ogni precetto è ac compagnato da
esempj di giurisprudenza. In questo libro che ha per soggetto tutte quelle
distinzioni e scomposizioni dialettiche che si ricercano per l'invenzione degli
argo menti, e si operano sui concetti che ne sono signifi cativi, Cicerone
divide la logica in inventiva e giudica trice, la prima delle quali parti porge
gli argomenti per disputare,la seconda li dispone,li analizza e lim a neggia
per persuadere.La logica Ciceroniana,osservata altresì ne'dialoghi,ed esposta
nel De Inventione, e nel De 'Oratore, è in fondo la istessa logica d'Aristotele
qualepiùtardisimodificònegliStoicienellaNuova Ac cademia, e l'accettarono in
gran parte i giureconsulti romani e gli oratori ; la qual cosa, perciò che
risguarda i Topici, si disputava lungamente, non sono molti anni, in alcune
università tedesche, come apparisce da un'ac curata dissertazione,De fontibus
Topicorum Ciceronis,di Giovanni Giuseppe Klein. (Bonnae 1844.) Ivi l'autore
prendendo ad esame la questione proposta dai critici a n teriori,se e quanto e
con qual metodo Cicerone seguisse in questo libro la Topica d'Aristotele che ci
pervenne, ovvero se attingesse ad un'altra di presente perduta, come qualche
critico mostrò sospettare; conclude dopo un dili gente ragguaglio dei due
scrittori,che le opere loro quanto aiprincipj,e in molte partisecondarie,differiscono
note volmente ; che Cicerone nella sua Topica non si propose (il che
apparirebbe a prima giunta dal proemio) di fare 110 111 un
semplice compendio dei libri Aristotelici;ma resulta da tutto il contesto avere
l'oratore latino attinto la m a teria del libro dai Rettorici dello Stagirita e
da alcuni precetti degli Stoici e della media Accademia,e poi averla composta
col proprio giudizio in una forma di vera e par ticolare disciplina. Sui Topici
di Cicerone scrisse con fine più filosofico un ampio e bel commento Severino
Boezio,in cui la storia della filosofia ravvisa il primo passaggio tra le
dottrine dei Padri e quelle de'Dottori,tra l'ultimo spirare della civiltà
latina sotto le conquiste de barbari e ilprimo rinnovarsi delle lettere e delle
scienze nella nostra Italia.Or quel c o m mento , che all'indole del trattato,
già di per sè stesso analitico, accoppia il rigore della dialettica della
Scuola, e congiunge i nomi di Aristotele, di Tullio, di Trebazio Testa e di
Severino Boezio, mi rappresenta al pensiero l'armonia delle scienze giuridiche
colla filosofia, dell'ana lisi colla sintesi,della dialettica colla storia,
della pratica colla speculazione, dell'amore operoso e civile colla sa pienza
cristiana. 1. Entrando ora a parlare dei libri morali, apparte nenti alla
teorica sulle azioni, l'ordine della materia sembra invitarci, come facemmo nei
capitoli precedenti, a dire qualche cosa in generale del disegno scientifico
che li collega, e delle attinenze loro più immediate e più rigorose colle altre
parti della filosofia di Cicerone. In vero la scienza morale nata sui rudimenti
del senso co mune,quale Socrate la menava a conversare famigliar niente fra gli
uomini ,e più tardi venne accolta e trasmessa sino a noi dalle scuole migliori,
si può assomigliarla ad uno stupendo poema, se guardiamo la sublimità de'suoi
veri,illegame che unisce i principj alle conseguenze,e l'armonia delle
speculazioni colla parte più affettuosa dell'uomo e colla vita civile. Il
principio n'è dato dalla IV. 112 natura,presupposto
indispensabile della scienza; chè la riflessione posta una volta su quel
cammino ov'essa pro cedendo incontra e ravvisa ad una ad una leveritàpiù prin
cipali della Filosofia, move dai primordj della vita vege tativa e animale
,manifestati nella puerizia dai sentimenti indefiniti e dagli istinti,passa su
su agli inizj della vita razionale, allorchè quei sentimenti illuminati dallo
splen dore della conoscenza si palesano come tendenze amorose al vero, al bello
ed al bene; in quei termini riconosce la ragione di fine,ed il fine,considerato
come qualcosa onde nasce armonia nelle operazioni d'un ente,guida la rifles
sione al concetto di legge, d'un archetipo assoluto ed eterno che per mezzo
dell'intelletto indirizza il volere a un'immortale destinazione. Principj
naturali, bene, fine, legge ; ecco i concetti che, intrecciati mirabilmente fra
loro nell'armonia della coscienza, costituiscono l'ordito
dell'Etica,allaquale,considerataperquestorispettocome scienza direttrice della
più nobile parte dell'umana n a tura, fan capo le altre scienze costitutrici
della filosofia. L a F i s i c a , c o m e l a i n t e n d e v a n o g l i a n
t i c h i, l a q u a l e m e ditando il principio primo dell'essere
nell'universo e nel l'uomo,ne ravvisa facile il fine che nell'universo è un
termine oltrenaturale di naturali armonie, desiderato dagli enti tutti, e
nell'uomo è un'idea di perfezione immortale, appresa confusamente, nè mai
raggiunta nell'ordine delle creature. La Logica, perchè trattando dell'ente sotto
la ragione di vero,ne scorge facileilpassaggio alla ragione di bene pel
concetto d'amabilità, testimonj i sentimenti più schietti della natura che
antecedono ilvero e ne ger minano come tendenze ed affetti. Vi conduce la
Scienza dei doveri e dei diritti;chè dovere e diritto sono concetti
eminentemente morali in quanto da un lato discendono dall'idea della legge,le
cui divine esigenze s'impongono alla coscienza degli enti creati,capaci di
cognizione,pur ri spettando quelli enti nell'ordine della loro natura ; dal
l'altro lato vengono su dall'idea dell'uomo,ente dotato d'intelletto e
d'amore,che riconosce in sè e nel suo libero arbitrio la sanzione di quella
legge,la quale osservando 113 si sente capace d’immortali destini.
Così l'ontologia, la logica, la scienza delle obbligazioni e il gius di natura
si appuntano, come in unico centro, nella morale, da cui pur si dirama il gius
civile, la politica, la legislazione, la storia e ogni altra scienza
meditatrice dell'uomo. Il Cristianesimo, dottrina e religione moralmente inci
vilitrice, che nata in tempi di costumi nefandi operò un mirabile rivolgimento
nella vita dell'uomo, ponendo a capo dei suoi precetti l'amore santificato da
tanto sangue di martiri, e ad esempio dei nuovi costumi, l'immagine più che umana
del figlio di Maria,il cristianesimo solo poteva dare un perfezionamento vero
alle teoriche della morale. E quel perfezionamento lo diede allorchè dichia
rando senz'ombra di dubbio l'infinita natura di Dio,la finita natura dell'uomo,
si valse dell'idea intermedia di creazione per assorgere al concetto più puro
delle loro attinenze, potè meglio chiarire l'idea di fine, di bene e di
legge,ricostituire l'ordine dei fini nella natura in telligibile e
sovrintelligibile, vedere l'uomo e l'universo ordinati a un disegno della
provvidenza;e quindi,posto a capo di tutta la Filosofia il concetto di Dio, se
ne sparse nuova luce sulle dottrine del soprannaturale e del naturale, sulla
psicologia e la logica, sulla teorica dei doveri e dei diritti; le scienze
politiche e civili e la storia ne apparvero nobilitate. Il che è tanto vero,
che quel tendere continuo dalle miserie di nostra natura all'i m mortale,
all'assoluto, all'eterno,può solo spiegarci le sca turigini arcane onde move
un'aura d'ineffabile bellezza, chela scienza cristiana respira,sono ormai più
che quat tordici secoli, dai dialoghi di sant'Agostino, e dalle let tere di san
Girolamo in poi,sino alla Divina Commedia, alla Somma dell'Aquinate,e alle
sublimi fantasie di Vin cenzo Gioberti. Considerate le quali cose, se alcuno mi
domandasse onde accadde che la Paganità, in tanto e continuo sca dere di
costumi e di scienza, riconobbe più volte, senza pur cadere in errori
sostanzialissimi,le principali verità della morale,di che abbiamo esempj
segnalati nelle Indie, 8 114 in Magna Grecia e soprattutto
nelle scuole socratiche e in Cicerone nostro, addurrei per risposta la vivezza
delle umane tendenze e l'efficacia de'sentimenti,che ger minando da
naturaciportano inconsapevolialvero ignoto, l'istinto della socievolezza e
l'amore per gli enti della medesima specie, che essendo un vivo bisogno
dell'uomo, gli mantiene fresca nell'animo la voce degli affetti do mestici e
civili, e infine la notevole differenza che corre fra l'apprensione astratta
del vero e il sentimento che n'hai nella vita, onde spesso il filosofo discorda
dal l'uomo, e il popolano e la povera vecchierella fanno a m mutolire
coll'evidenza della rozza parola il superbo sa piente.In Grecia,e segnatamente
inAtene,dove nacque Socrate, e dove si conservava nell'amore del bello e nei
gentili attici costumi un germe di rinnovamento, rimase aperta la via a tornare
sulle antiche tradizioni, attestate dalla coscienza e dal linguaggio, e a
derivarne, come scintilla da selce,i principj della morale che fanno sì bella
parte delle scuole socratiche. M a quei principj (già lo sappiamo) erano forse
più facili a ravvisarsi l’età sus seguenteallasocratica,inRoma;e perchèinRoma
s'era insanguinata e commista la civiltà dei popoli italici, in cui si
manifestò ab antico una notevole inclinazione alla scienza avvivata dal
sentimento e da fini di pratica a p plicazione,eperchè in Roma
erafioritaefiorivalascuola dei Giureconsulti, il cui pernio era l'idea morale
della legge e del dritto,e infine perchè, se una riforma era da farsi in tanta
corruzione di civiltà e di costumi,in tanto scadimento delle relazioni
domestiche e civili, e nella notevole prevalenza che da circa due secoli avean
preso le dottrine epicuree, certo quella riforma dovea comin ciare dai principj
della morale.L'Etica ciceroniana, che è uno dei più nobili tentativi fatti
dall'umano ingegno per opporsi, senz'altro ajuto che l'evidenza del vero de
sunta dalla natura viva, alla rovina d'un'intera nazione, era dunque preceduta
da un grande preparamento; chè giammai si compie un gran fatto senza che nei
tempi e nella società,da cui nasce,se ne acchiudano igermi.Ei 115
germi della riforma morale iniziata da Tullio furono, oltre le condizioni
civili e politiche di tutta l'Italia e di R o m a , i Giureconsulti e le sètte,
alle quali s'oppose il riforma tore; le splendide tradizioni delle scuole
socratiche, e segnatamente idommi platonici,aristotelici e stoici;ivi egli
mirando componeva il disegno scientifico della sua morale ;-m a quel nobile
magistero l'avrebbe ajutato ad accozzare brani di verità,non a comporre una
vera dot trina, a ragunare nella memoria, non ad unire nella ri flessione
esaminatrice, s'e'non avesse avuto l'occhio in un principio più alto, superiore
ad ogni opinione e ad ogni setta, nell'esemplare della natura considerata nel
suo popolo, in Italia, in Grecia, in Europa , nelle genti tutte conosciute, e
più viva in sè stesso, cittadino gene roso,scrittore sommo,oratore che tante
volte dall'alto della tribuna avea signoreggiato gli umani affetti colla parola
onnipotente. Questa meditazione profonda dell'uomo interiore, il cui fine era
dedurre le ragioni del giusto dalle attinenze dell'anima e dell'universo con
Dio,valse a Cicerone le accuse di quell'acuto intelletto che fu Michele Montai
gne. M a il Montaigne, osserva opportunamente un altro scrittore francese,
cercava forse troppo sovente materia al sorriso nell'invilire l'uomo e nel
rassegnarlo tra i bruti;.Cicerone lo stimava creato a qualcosa di più alto e di
più solenne (ad majora et magnificentiora quædam ), e riconosceva da Dio la
nobiltà dell'umana natura,e l'ef ficacia della ragione e del libero arbitrio,
per costituire la morale e con essa la vita civile su fondamenti non peri turi.
Premesse queste considerazioni, l'Etica di Tullio, in cui Francesco Forti
osservava rappresentarsi la maturità della ragion naturale presso gli antichi ,
si distingua i n nanzi tutto in due parti determinate intimamente dal
l'indirizzo del suo pensiero speculativo nell'esame dei veri morali,
estrinsecamente dalla forma filosofica de'trat tati. U n a parte è teoretica e
principalmente speculativa ; e in essa Cicerone esaminò la ragione delle
tendenze n a turali nell'umano soggetto per ispiegare il problema
sulla natura dei beni, e si levò coll'induzione da questo esame ai concetti
universali di legge, di dovere, di diritto (De finibus, De legibus); l'altra
parte, in cui prevale un fine pratico o di applicazione, movendo essa pure dai
principj fondamentali, innanzi chiariti, scende a determi narli nella vita
dell'uomo individuo e sociale e nelle dot trine sulle forme di governo
(Tusculanarum , Paradoxa, De officiis,De republica,De amicitia eDe
senectute).Se poi si considera bene,nella prima parte di tal distinzione,
avvertita pure dal Kuehner, è compresa manifestamente un'indagine soggettiva e
oggettiva ; soggettiva e ogget tiva ad un tempo,perchè nel problema, posto da
Tullio intorno alla natura dei beni, la riflessione scientifica si volge da un
lato sulle tendenze e sugli affetti spirituali, mentre dall'altro vi riconosce
un riferimento necessario a qualcosa d'assoluto, d'immutabile,d'infinito, di
essen zialmente oggettivo, all'esemplare di legge, da cui si ge nera in noi
l'obbligazione morale; e quindi è che la teorica de'Fini si distingue nel
filosofo nostro da quella del D o vere,e sorge fra l'una e l'altra, come centro
unitivo delle armonie morali, la teorica della legge. 2. Ponendo mano
impertanto all'esame della parte speculativa,cominceremo dalla
dottrinadeiFini,trattata ex professo, e con intendimento al tutto scientifico,
nel libro D e finibus, a cui fanno corredo con secondaria i m portanza, e con
oggetto non immediatamente speculativo, le Questioni Tusculane, e l'operetta
dei Paradossi. G i o vanni Rodolfo Thorbecke in una sua dotta dissertazione
universitaria sul principio della Filosofia e degli Officj desunto dalle opere
di Cicerone, osserva che il quesito dei Fini,o del sommo bene,occupa un luogo
principalis simo nella sua morale. Il critico tedesco allega a questo proposito
l'autorità stessa del nostro oratore,che più volte nelle sue opere , e
segnatamente nel primo libro degli Officj (I,3),riferisce ilfondamento delle
dottrine morali alla disputa sul fine dei beni,e nel De finibus nota oppor
tunamente contro gli Stoici non potersi separare, come 116
Due metodi si presentavano alla riflessione esamina trice per risolvere
il problema sulla natura dei beni. L'uno,che èmetodo comprensivo
edessenzialmente scien tifico, necessario in qualunque parte della filosofia,e
so prattutto indispensabile in questa, stava nel riprodurre esattamente
coll'ordine del pensiero speculativo l'ordine del soggetto, nell'abbracciare
quella stupenda armonia di tendenze e di fini, che ci manifesta l'uomo
interiore senza nulla tralasciare,nullanegare,nullaesaminare im perfettamente. L'altro
metodo invece, che s'informava dalle qualità negative e parziali del sofisma,
consisteva nel dimezzare colla scienza ciò che la natura avea unito, nel
considerare l'essere umano soltanto in certe sue dis posizioni e facoltà,
tralasciando le altre, nell'offrire c o m e opera compiuta del vero e di Dio un
informe viluppo di contradizioni e d'errori. Questa seconda fu la via torta e
fallace seguita dalle sette grecoromane; quello il m e todo di Socrate e della
coscienza tracciato da Tullio, come n'è testimone l'intero trattato de'Fini. La
quale avvertenza occorre fare fin d'ora ;perchè parecchj storici della
Filosofia trovarono anche in questa parte della m o 117 termini identici
d'una stessa relazione morale, il principio dell'operare e il fine dei beni.
Tale suprema importanza scientifica del trattato dei Fini si desume ancora dal
con siderare che la materia di quel problema si estende per un larghissimo
campo di relazioni intercedenti fra la psicologia e le dottrine morali.Invero
il filosofo,che pone mano a risolverlo,bisogna che mova dai rudimenti di
natura, comprenda con diligente esame tutto l'essere umano,e rifacendosi dalle
prime tendenze,dove appena appena si manifesta l'affetto, e da quelle che
palesano nel sentimento, nell'associazione dei fantasmi e nella m e moria lo
svolgimento della vita animale, e il germe del raziocinio, si apra la strada ad
esaminare tutto l'uomo nella conoscenza che più tardi acquista dell'essere pro
prio,dei proprj doveri,delle prime notiziescientifiche,e a considerarlo come
parte della famiglia, come individuo e come membro della civil società.
rale di Cicerone un appicco alle accuse;dissero non avere egli compreso
il vero aspetto scientifico della questione dei Fini, e poichè, sprovveduto di
un saldo criterio di scienza, tentava comporre le più disparate dottrine, quali
erano quelle degli Stoici e degli Accademici e Peripatetici antichi, la tentata
conciliazione provare anche una volta la povertà del suo ingegno speculativo
(Ritter,Brucker ). A una simile accusa, benchè apparentemente sostenuta da
validiargomenti,rispondemmo altravolta,eciparve che la prova più solenne e
palpabile contro le afferma zioni dei critici avversi forse il prendere in m a
n o le opere del filosofo latino, svolgerle con diligenza, ed esponendo que'suoi
dialoghi pieni di tanta vita d'eloquenza e di speculazione, rappresentarlo,se
fosse possibile,alla fan tasia dei lettori quale io me lo immagino là nelle cam
pagne di Tuscolo e di Cuma seduto all'ombra della quer cia di Mario, e inteso a
conciliare le negazioni de'sofisti nell'affermazione compiuta dell'umana
coscienza. Il dialogo de'Fini è diviso in tre giornate,e ciascuna comprende una
disputa,nella quale Tullio assume sem pre la parte di giudice e di confutatore,
argomentando in favore d'Epicuro, degli Stoici e dell’Antica Accademia il
consolare L. M. Torquato,M. Catone e L. Pupio Pisone. Il dialogo è introdotto
ora nella villa di Cicerone in quel di Cuma,oranellabibliotecadiLucullopresso
Tuscolo,e in fineall'ombrasilenziosadeplataninell'Accademiad'Atene. Per
cominciare dalla disputa contro Epicuro,occorre qui rammentarci come nella
prima parte di questa tesi esami nando le principali scuole che fiorivano in
Grecia avanti i tempi di Cicerone, e tra queste la scuola epicurea, vi trovammo
un nuovo e sempre crescente pervertimento delle dottrine anteriori o
contemporanee,e come tal per vertimento consistesse,a nostro avviso, in un
esame sem pre più povero e parziale del soggetto su cui cade la scienza,
manifestato, segnatamente in fisica, col fermare l'osservazione al nudo
meccanismo degli atomi,in logica con ridurre ogni facoltà dello spirito al
senso, e nella morale restringendo la virtù e la beatitudine ai piaceri
118 del corpo e i piaceri dell'animo alla speranza o al ricordo dei
piaceri del senso.Una siffatta dottrina,che spegnendo ogni più nobile tendenza
dell'uomo, riduceva il sapiente alla condizione del bruto, subito la riconosci
come il por tato d'un ingegno profondamente sofistico, solo il sofisma
togliendo all'uomo l'intuito vivo delle armonie di natura ; chè, posto a capo
dell'Etica il puro sentimento animale, se ne oscura la notizia dell'uomo, ente
capace non solo disentimento,ma d'intellettoed'amore,noncapiscipiù la
possibilità del dovere che dee cercarsi per sè,non già per diletto,e s'offende
la dignità dell'umana natura e delle virtù ponendo fra esse la voluttà come una
meretrice in u n ' a s s e m b l e a d i m a t r o n e . ( D e f i n ., L . I ,
I I , 2 2 , 4 , D e o f f ., I , C. II.) Tali sono gli argomenti, tolti altresì
dalle in time contradizioni di quel sistema, che Cicerone vibra di rimando
contro Epicuro colle armi d'una concitata elo quenza,e davvero la sua risposta
a Torquato è un con tinuo contrapporre a un cattivo e sofistico esame del
l'umana natura, un esame più alto e più vero delle sue leggi, de'suoi destini,
del suo aspirare all'immutabile e all'assoluto;chèilnobile animo
dell'accusatorediVerre, e del persecutore di Catilina e d'Antonio poneva da
parte ogni dubbio combattendo nelle dottrine epicuree una tra le cause maggiori
dell'affrettata rovina di R o m a. M a v'è un luogo,noterole su tutti gli
altri,in cui l'Ora tore latino, volendo mostrare come l'affetto abbia efficacia
viva e spontanea per ricondurci nel vero,rappresenta quella contradizione tra
il pensiero e l'operare, tra le dottrine e la vita,non rara neppure ai dì
nostri in uomini spon taneamente inclinati al bene per virtù di natura, e che
han guasta la mente da malvage filosofie. In quel luogo egli si volge a
Torquato, e invoca la sua coscienza di cittadino, il suo desiderio di gloria,
le tradizioni de'suoi avi famosi e il suo magnanimo affetto alla patria in te
stimonio delle dottrine da lui professate ; e gli chiede p e r chè mai non
oserebbe sostenerle nei comizj, alla presenza del popolo, o in pieno senato.
Crede egli con intimo coif vincimento unico fine della vita ilpiacere? E allora
perchè 119 mai v'è tanta contradizione tra quello che fa e
dice come cittadino e quello che sostiene come filosofo? Teme egli forse l'odio
del popolo ? M a badi, risponde Cicerone, che in questo caso l'errore
dell'intelletto non venga raddiriz zato dal cuore ; badi che il sentimento
universale, onde ogni popolo della terra si leva come un sol uomo a con dannare
Epicuro,non sia iltestimonio interiore e inappel labile della natura,
repugnante alla teorica del piacere! 120 Questo intimo disaccordo tra la
ragione ed il cuore, tra le dottrine della scienza e la vita civile, rappresen
tato in Torquato, oltre al mostrarci un alto principio della filosofia di
Socrate e di Tullio, che vuole il cono scimento del vero costituito da
un'interiore armonia del l'affetto coll'evidenza, serve poi in questo caso a
ritrarre mirabilmente i tempi dello scrittore, e a partecipare al
dialogolavitaeilmovimento deldramma.I tempi di Cicerone in molte parti
somigliavano ai nostri. Dismessa a poco a poco nelle mollezze la severità del
costume, s'era affievolito negli animi umani, per l'abito fatto a dottrine
sensuali, quel profondo discernimento del retto che non patteggia mai colla
coscienza,e sdegna chiamare con altri nomi da quello che sono il bene ed il
male. Quindi, come sempre avviene, l'errore nelle opinioni d o
ventavapoicausanon lievedidecadimento neicostumipri vati e civili,e non
pertanto alla corruzione profonda degli intelletti e delle volontà contrastava
potentemente nei più, e in special modo nel volgo,l'efficacia ingenita dell'af
fetto del bene. Ora questo che ad altri poteva sembrare niente più che un
argomento di fatto della differenza tra le opinioni volgari e le dottrine dei
filosofi, avea per C i cerone il valore di una prova scientifica, come testimo
nianza resa dalla natura ai supremi principj morali, e questa testimonianza ei
la vedeva,da un lato nell'efficacia degli affetti osservati in ogni individuo,
e dall'altro nel riscontrarsi la veracità di questi affetti coi pronunciati
solenni e infallibili del senso comune. • Sennonchè, mentre nel secondo libro
de'Fini era i m presa di non grande difficoltà pel filosofo latino il con
futare Epicuro la cui dottrina mancava d'ogni severo prin cipio di
scienza, la sua parte di giudice e di contradittore doventa non lieve quando
nel terzo e nel quarto libro egli prende ad esame la morale del Portico difesa
dall'autorità edalleparolediCatoneUticense.E invero,qualunquevolta a mostrare
la solidità e l'ampiezza dei principj etici e speculativi su cui Zenone fondava
la teorica de costumi, non bastasse il suo esame diligente dell'animo umano e
degli affetti spirituali osservati in ogni età della vita, varrebbe soltanto
ilrichiamare ch'ei faceva la morale, nelle sue parti più generali, ai sommi
principj della scienza della natura . Il filosofo di Cittio avea fondato la sua
dottrina sul riconoscimento pratico e speculativo del l'ordine naturale,
espresso in quella sentenza :vivi confor me alla natura. Πρώτος ο Ζήνων ...
τέλος είπε το ομολογ ouuevos rõ qurat Eno, così Diogene Laerzio ; e in quella
sentenza, chi ben la consideri, si riconosce l'efficacia del l'insegnamento
socratico, continuato in Zenone , onde a v veniva, e lo notammo più addietro,
che, mentre la sua logica e la fisica erano infette da un esame parziale e
meschinamente sofistico dell'universo e dell'uomo, la m o rale offriva un assai
più largo disegno di veri speculativi. Il principio fondamentale dell'Etica
degli Stoici era fuor d'ogni dubbio il concetto puro e assoluto del bene in
attinenza cogli affetti spirituali;tuttavia se fu merito insi gne di quella
dottrina che essi pervenissero a tale concetto dopo un largo esame psicologico
delle umane tendenze,il vizio era che partiti dalla comprensione totale
dell'essere nostro e giunti all'idea di virtù, restringevano ogni cosa a
quest'ultima,non abbracciando più tutto l'uomo nello spirito e nel senso ,
nell'intelletto e nel cuore , in sè stesso e nelle condizioni esteriori. Le
cose, diceva Zenone, si conoscono dall'uomo o per esperienza,o per giudizio di
causa,o per analogia, o per raciocinio comparativo, e in quest'ultimo cade la
notizia del bene , alla quale l'animo ascende universaleggiando da quelle cose
che sono secondo natura (L. III, C. X. 33). Laonde dal concetto del bene come
d'un che ideale, assoluto e simile soltanto a sè 121 122 s t
e s s o , v e n i v a p o i il c o n c e t t o d e l l a v i r t ù , a l q u a
l e l o s t o i c o saliva per la nozione intermedia d'onesto. Che cos'era
l'onesto ? L'onesto per gli Stoici altro non era che la convenienza dell'atto
umano colla natura, riconosciuta dalla ragione ; e quindi essi dicevano,
avvolgendosi in un paralogisma, che poichè quel riconoscimento pratico e
razionale avveniva nella pienezza delle facoltà intellet tuali dopo
l'infanzia,che è quella età in cui le prime cose conformi a natura ( prima
nature) (tá apota xato qusiv) si appetiscono inconsapevolmente,da queste prime
inclina zionidellanaturamovevailprincipiodell'operare,ma non però quelle
cose,che n'erano il termine, si annoveravano tra i beni. Questo principio era
vero in parte, m a nel l ' e s a g e r a r l o s t a v a il v i z i o f o n d a
m e n t a l e d e l l a m o r a l e s t o i c a ; l'esagerazione poi consisteva
in considerare l'atto m o rale come avente a fine sè stesso, niente altro che
sè stesso, nell'astrarre da ogni condizione esterna della vita privata o
civile, e da quell'armonia che intercede tra la ragione e gli affetti, onde il
libero volere o è condotto o conduce ; nel porre in petto al sapiente quella
virtù fredda, impassibile, solitaria, divisa dell'universo e da Dio, come
immobile quercia radicata nei macigni delle Alpi. Se poi si considera più
addentro nelle ragioni isto riche del sistema, il concetto eccessivo della
virtù ci p a lesa un vivo contrasto della morale stoica coi tempi. Qual fosse
il secolo di Zenone facemmo vedere più in nanzi. Ora se immaginiamo in quel
secolo un uomo di gagliardo volere e di generosi propositi, che ponga mano alla
filosofia coll’intendimento di fortificare il co stume,e di avviarlo ad un fine
più alto,subito si capi sce come a quell'uomo, profondamente ristucco dalla
ignavia dei tempi, la vita del saggio dovesse sembrare una lotta continua della
ragione innamorata del bene cogli affetti interiori, col rigoglio dei sensi,
colle ree c o stumanze civili, e l'onesto una perfezione quasi supe riore
all'umana, e conseguibile solo da pochi sapienti. (De finibus, tutto il libro
terzo ; Kuehner e Thorbecke passim .) Esponendo e confutando i
principj più generali della morale stoica,abbiamo esposto in gran parte intorno
a questa materia le opinioni del filosofo nostro. Solo ci ri mane da cercare in
qual modo egli svolgesse le proprie dottrine morali in contrapposto alle
dottrine del Portico, e come l'erroneo concetto del bene supremo da lui
combattuto nel quarto libro, movesse la sua riflessione a pensare un più vero e
men difettivo scioglimento del gran problema morale.Non v'ha forse
luogonelleopere da noi esaminate,in cui questa facoltà potente dell'inge gno
speculativo di Cicerone si faccia meglio manifesta, e con essa il suo metodo
delle attinenze che concilia gli opposti sistemi nell'unità non divisibile
dell'uomo. I principj su cui è fondata la confutazione, movendo dalle idee più
comuni e più popolari intorno alla poca conve nienza delle dottrine del Portico
colle necessità e cogli usi della vita civile (Capitoli VII, VIII, IX),
procedono poco appresso a cercare le cause più remote del paralo gisma nei
fondamenti del sistema avversario.I giudizi del filosofo latino, informati da
un metodo rigoroso d'esame , cadono sempre sul concatenamento scientifico delle
dot trine, e sulla loro armonia coll'indole del soggetto ; nè
sembreranno,iocredo,eccessivamente severi,come parvero alKuehner,qualorasipensiche
Cicerone,traisistemi maggiormente seguiti a'suoi tempi, preferiva ad ogni altro
lo stoico, e che inoltre la storia moderna della filosofia riassumendo l'esame
di lui sulle dottrine m o rali del Portico, solennemente lo confermava. In prova
di ciò Enrico Ritter, più volte citato, considerando l'idea che del saggio
s'erano formati gli Stoici, e su cui fonda v a n o l a m o r a l e , v i s c o
p r e il p r i n c i p i o d ' o g n i l o r p a r a d o s s o , e di parecchie
false opinioni sulla vita dell'uomo ; poichè, se da un lato, egli nota,si
nascondeva in quella idea un alto intendimento civile, ne veniva poi
necessariamente alterato il concetto della vita e dei doveri affermandosi quivi
l'apatia del saggio, ovvero (come suona in greco quella parola) il suo
affrancamento assoluto da ogni pas sione e da ogni causa esterna che turbasse
la tranquillità 123 - . del suo spirito. (Ritter, Morale des
Stoïciens, T. III, pag.540.)Questaeraun'ambiziosaostentazionedelsommo bene,così
la chiama ilnostro Oratore,ostentazione degna d'una filosofia da ottimati che
faceva privilegio della s a pienza, e l'appartava lungi dalla modesta sublimità
del senso comune. Laonde gli Stoici (prosegue Tullio), per non essere da quanto
il volgo, mutavano i principj della natura,dicevano che l'uomo è anima e
corpo,che visono nel corpo alcune cose desiderate da noi come beni ; m a
poi,avendo fatto nell'uomo eccellente l'animo sopra ogni altra sua facoltà,
designarono per modo la natura del bene sommo come se l'anima non sovrastasse
soltanto,ma fosse unica parte della umana persona.(C.XII.) E qui è notevole
davvero come ricercando il nostro filosofo le cause ultime dell'errore nel
principio stoico del bene supremo,si va gradatamente avvicinando al con cetto
positivo e scientifico della morale.Io dico che dalla confutazione degli Stoici
esce un concetto positivo e scien tifico della morale, perchè quivi egli non
segue le forme irresolute della Nuova Accademia, nè desume gli argo menti più
validi dalle contradizioni relative e parziali del sistemaavverso,ma
procedepiùinnanzi,indagasottilmente l'intervallo che separa il conoscimento
diretto dal cono scimento riflesso, e pone la vera indole della scienza nel suo
differire dalla natura,a quel modo che il compiuto differisce dall'incompiuto,
l'attuale dal virtuale e il per fezionamento dal perfettibile. La scienza, dice
Cicerone, move dai principjdi natura, e come tale ha nella stessa natura la
possibilità d'ogni suo sviluppo ulteriore; la scienza non crea l'uomo,ma ne è
un perfezionamento, non genera le notizie dirette,m a le chiarisce,le
distingue, le corregge,le riduce a principj; non disegna ella stessa l'immagine
dell'umana virtù, nè dispone l'uomo a desi derarla, m a trae in atto quelle
essenziali e ingenite dis posizioni; talchè l'opera sua è un continuo
avvicinarsi al concetto del bene,seguendo un archetipo eterno di perfezione, e
somiglia all'opera dello scultore che riceve da altri già disegnata e delineata
la statua per ridurla 124 125 poi a compimento colla virtù
del proprio scalpello. « Ut Phidias potest a primo instituere signum idque
perficere, potest ab alio inchoatum accipere et absolvere,huic similis est
sapientia : non enim ipsa genuit hominem ,sed accepit a natura inchoatum. Hanc
ergo intuens debet institutum illud quasi signum absolvere.Qualem igitur natura
homi nem inchoavit? et quod est munus,quod opus sapientiæ? quid est quod ab ea
absolvi et perfici debeat? Si nihil in quo perficiendum est præter motum
ingenii quemdam , id est,rationem,necesse est huic ultimum esse ex virtute
agere : rationis enim perfectio est virtus : si nihil nisi corpus, summa erunt
illa, valetudo, vacuitas doloris, pulcritudo,cætera.Nunc de hominis summo bono
quæ ritur. Quid ergo dubitamus in tota ejus natura quærere quid sit effectum? Quum
enim constet inter omnes,omne officium munusque sapientiæ in hominis cultu esse
occu patum , alii ne me existimes contra Stoicos solum di cere, eas sententias
adferunt, ut summum bonum in eo genere ponant,quod sitextra nostram
potestatem,tam quam de inanimo aliquo loquantur, alii contra, quasi corpus
nullum sit hominis, ita præter animum nihil cu rant, quum præsertim ipse quoque
animus non inane nescio quid sit -- neque enim id possum intelligere -- , sed
in quodam genere corporis, ut ne is quidem virtute una contentus sit,sed
appetat vacuitatem doloris.Quam ob rem utrique idem faciunt, ut si lævam partem
negli gerent, dexteram tuerentur, aut ipsius animi, ut fecit Herillus,
cognitionem amplexarentur, actionem relinque rent. Eorum enim omnium , multa prætermittentium
, dum eligant aliquid,quod sequantur,quasi curta senten
tia.Atveroillaperfectaatqueplena eorum,quiquum de hominis summo bono
quærerent,nullam in eo neque animi neque corporis partem vacuam tutela
reliquerunt.» Questa bella dimostrazione, che il Kuehner annovera tra le
dottrine interamente proprie di Tullio (Part. V , cap. 2), e che trascorre con
tanta signoria di sè stessa dalle nature inferiori alle superiori, ponendo la
legge che governa il sapere a riscontro colla legge dell'uni 126
verso, mostra quanto alto fosse pel filosofo romano il concetto della Scienza
Prima,ed è uno splendido testi monio della sua potenza speculativa e
dell'universalità dell'ingegno latino.Concepiva ilRomano lascienzacome un
ripensamento della natura, e la natura, considerata nell'ordine che la informa,
era per lui un'arcana ar monia d'attinenze ; talchè la scienza ei la immaginava
come un ripensamento delle naturali relazioni, che in tercedono tra i varj
gradi della vita nell'universo, tra le varie parti della natura fisica,
intellettiva e morale nell'uomo, e poi tra la natura e la speculazione, e tra
la speculazione e la vita civile. Filosofo vero è per lui chi ripete
veracemente,tal quale gliela diè la coscienza, quell'armonia di natura;filosofo
falso o sofista chi con fondendo o separando riesce a negarla. Quindi era
sofista l'epicureo, che meditando l'uomo solo nella parte più bassa di sua
natura, e chiudendo gli occhj davanti alla luce non estinguibile
dell'intelletto, poneva nel piacere il supremo dei beni ; era sofista Erillo
che disconoscendo la libera attività del volere, confinava la virtù nell'in
tuizione inefficace e disamorata del vero scientifico; ma non errava meno lo
stoico, che pervenuto al concetto di virtù movendo dalle naturali tendenze,a un
tratto le a b bandonava per rifugiarsi in un ideale di sapienza che alla natura
dell'uomo contraddiceva.(Cap.XIII,XIV,e glialtri sinoallafinedellibroIV;c.f.De
legibus,I,C.XVI.) Considerata sotto questo rispetto,l'idea altamente c o m
prensiva,che Tullio s'era formata della scienza morale, lo ravvicinava ai
principj delle scuole socratiche.La ra gione parmi assai chiara;poichè,posto
una volta,com'è di fatto, la scienza non essere altro che un fedele ripen
samento dell'umano soggetto, e dall'ordine dei principj intrinseci ad esso
venire l'ordine esterno costitutivo del metodo dilei;ammesso inoltre
infilosofiailrinnovamento essenziale d'ogni riforma essere,come nelle
istituzioni ci vili, un ritorno verso i naturali principj dell'animo ; da ciò
consegue che la misura per determinare la bontà del m e t o d o d ' u n a s c u
o l a , e il s u o a v a n z a r e o a l l o n t a n a r s i d a l
l'istituto riformatore,sarà ilparagone tra la pienezza della forma scienziale e
l'integrità della materia esaminata; talchè, dato un degeneramento delle scuole
successive dal principale istitutore, chi prendesse a confutarle richia mandole
ad un esame più pieno dell'umana coscienza, s'incontrerebbe per via diretta
negl'intendimenti del ri formatore. Tale è il caso da noi esaminato rispetto al
filosofo latino. Il principio della morale delle scuole so cratiche è il
conosci te stesso. Ora è noto quale fosse la pienezza e la comprensione del
significato, che il filosofo ateniese dava a quel precetto in ogni parte della
filosofia, e come il sentimento della perfezione ideale, connaturato
all'ingegno greco, e reso più vivo dalle armonie pitta goriche,traesse lui,uomo
di smisurato intelletto, a im maginare la virtù costituita da un armonico
concorso delle facoltà umane fra loro e coi termini esterni, e a conce pire il
cittadino nell'ideale dell'uomo perfetto. Tale indirizzo dell'ingegno greco nei
principj costi tutivi della morale seguitarono Platone e Aristotele; ma l'uno,
giovane della fantasia e dell'affetto,e nato in una civiltà, giovane ancora, e
che serbava nell'evento delle istituzioni civili tutte le speranze d'un
avvenire glorioso, sebbene affermasse l'effettuamento del bene assoluto non p o
t e r s i d a r e q u a g g i ù , p e r c h è il b e n e a s s o l u t o è l '
e n t e i n finito, in sè e per sè sussistente,e partecipato solo im
perfettamente dalle cose finite, pure faceva consistere la virtù in un continuo
avvicinarsi dell'uomo a quell'esem plare immortale di perfezione, e riconosceva
nei beni ter reni un'effigie lontana e appena un'analogia della beati t u d i n
e e t e r n a ( Q u o i w s i s S e w . D e r e p . e T h e a e t . ). A r i s
t o t e l e , ingegno più virile e più temperato e ritraente dai tempi, in
cui,perduto il fatto delle libere istituzioni, se ne ve niva creando con
affetto maggiore la scienza, se rinvenne il perfetto della vita nell'intuizione
del vero specula tivo, si volgeva di preferenza alla pratica, e faceva del
pensiero un semplice avviamento all'azione,della politica la parte
principalissima della sua morale. 127 Il concetto del bene , rimasto
assai indeterminato nelle dottrine del figlio di Sofronisco, si
bipartisce dunque nel l'Accademia e nel Peripato ; Platone lo congiungeva alla
psicologia e alla dialettica ; Aristotele lo ravvicinava alla politica; con
che, si avverta bene, noi vogliamo solo far notare certa speciale prevalenza
nella forma scientifica delle due scuole, non già determinare una essenziale
diver sitàneifondamentidellamorale.Chèlapienezzadell'osser vazione interiore,
tanto raccomandata da Socrate, durava lungo tempo ancora nei successori
d'Aristotele e di Pla tone, e fu tra le cause principali ond'essi, concordi con
Zenone nel sostanziale del sistema, ne combatterono il metodo e il concetto del
bene supremo come un trali gnamento dalle dottrine dei loro istitutori. Da
queste considerazioni s'inferisce più cose.Primie ramente si comprende come il
pensiero dell'oratore latino s u l l a t e o r i c a d e l b e n e m o r a l e
, c o n s i d e r a t o s o t t o il r i s p e t t o semplicemente speculativo,
sia universale, comprensivo e di un importante valore scientifico, sia un
testimonio di più del suo risalire mediante un principio più alto e più
generale,non certamente partecipato dalle scuole negative e
sofistiche,aiverisupremicostituentilascienza.Da que ste considerazioni esce
anche nuova luce sull’intendimento a c u i m i r a il l i b r o D e f i n i b u
s . Q u e s t ' o p e r a è d i u n a s i n golare importanza per la storia
della scienza morale, e, a considerarla bene, si vede che Tullio a fin di
mostrare e chiarire la perfetta dottrina sulla natura del bene su premo , si
valse del metodo più famigliare a Socrate e a Platone, metodo che potrebbe
dirsi ab absurdis, assai usato nelle dimostrazioni dei problemi di Geometria
;pose cioè più concetti particolari e negativi del bene perfetto, e su via di
contradizione in contradizione si levò elimi nando, e integrando insieme, al
concetto più universale e più comprensivo. Per talmodo egli,imitando ilSocrate
del Convito, del Fedro e della Repubblica,addestrava il giovane ingegno latino
a scoprire nel particolare e nel mutabile delle opinioni l'idea universale che
signoreggia la scienza. Conforme a tal metodo, se egli nel primo e nel secondo
libro confutava Epicuro mostrando quant 128 fosse difettivo
il suo principio che ponera il bene ed il fine nel puro sentimento animale,e se
nel terzo e nel quarto esponendo e correggendo le dottrine del Portico
richiamava i filosofi a meditarne la parte imperfetta, cioè il prevalere
soverchio del principio spirituale e sog . gettivo nel concetto del bene;nel
quinto libro intro dusse a coronamento della morale ilsistema dell'Antica
Accademia e del Peripato. Questo libro è una sintesi di tutta quanta la scienza
; vi si studia l'uomo dai primi rudimenti della vita vegetativa e animale su su
fino agli albori della vita intellettiva e morale ; vi si mostra come l'istinto
primitivo della conservazione esca in sentimento, il sentimento germini in
affetto,e quell'affetto,incerto e inconsaputo da prima, a poco a poco
coll'apprensione più viva di noi stessi e della differenza che ci distingue
dagli altrianimali,simuta inconoscimento;vis'insegna come debba la filosofia
tener conto nelle sue meditazioni di questa piega üei sentimenti animali e
spirituali, perchè le sono scala all'evidenza del vero che più tardi la ri
flessione esaminatrice coglie nei penetrali della coscienza . Invero quando io
leggo il trattato dei Fini non mi posso capacitare come vi siano stati alcuni
critici che han vo luto scoprire nel quinto e nel quarto libro, e nella con
ciliazione ivi proposta tra gli Stoici e l'Antica Accademia , non altro che un
misero tentativo dell'eclettismo latino; poichè (giova ripeterlo)mentre
investigava ilfine scientifi camente,Cicerone conciliava le scuole,ma integrando
col metodo dell'osservazione interiore; procedeva sì ravvici
nandoisistemide'filosofi,ma ilprincipiodellaloroarmo nia desumeva
dall'esemplare della natura, ch'è sistema immortale di Dio.(Vedi riassunto e
citato diligentemente ilDe finibus nella dissertazione già allegata di G. R.
Thorbecke,e inquelladelKuehner,Part.V,4,5,6,7, 8,9,18,19,20. Vedi pure per ciò
che risguarda ilconcetto di tutto il trattato l'importante dissertazione di G.
Carlo Hinkel :D e variis formis doctrine moralis Peripatetico rum usque ad
Ciceronem ,earumque cum cæterarum scho larum placitis comparatione.Marburgi
Cattorum, 1839). 129 9 130 Il concetto scientifico della
morale di Cicerone, quale noi l'abbiamo meditato sin qui,comprendendo nella sua
pienezza tutti i principj costitutivi di quella dottrina, e unificando in un
termine superiore,che era l'integrità del soggetto u m a n o , le contradizioni
parziali delle scuole, dà luogo a risolvere una delle più importanti questioni
mosse dagli storici sulla morale dell'oratore latino. I m perocchè ci spiega in
qual modo, concorde coll'antica Accademia e col Peripato nei principj supremi e
nel l'idea del bene e della virtù, quanto poi alle parti a c cessorie,che
avevan per fine determinare il contegno del saggio rispetto a sè stesso,e nelle
relazioni civili,egli se condasse talvolta gli Stoici la cui severità,
civilmente con siderata,glipareva un argine saldocontrolastraboccata corruttela
dei tempi. Procedendo con tal criterio, i libri attinenti a questa parte
soggettiva della morale appajono informati da un solo ed unico disegno di
scienza,e ven gono distribuiti per classi in ordine al metodo e agli in
tendimenti. Infatti dall'opera dei Fini, la quale tiene la parte suprema
dell'Etica, ch'io chiamai soggettiva, e discorre del bene e della vita con fine
immediatamente scientifico, scendono conforme a questo principio le Q u e
stioni Tusculane, e il libro dei Paradossi.Manifestano un fine positivo o
d'applicazione e un esercizio di metodo le dispute Tusculane,dove in mezzo ai
precetti stoici,esposti nella maggior parte dell'opera, traluce l'intendimento
di offrire, in tanta corruttela delle pubbliche istituzioni e dei costumi
romani,un alto esemplare del saggio,capace di volgere le menti a studj più
generosi ; e divisa la filosofia in più questioni (loca),si prende in ciascuna
a ribattere le istanze proposte col metodo della Nuova Accademia . Poi un
semplice esercizio di metodo forense rivelano i Paradossi, nei quali Tullio
poco dopo la morte di Catone Uticense prese a lodare secondo i principj stoici
le virtù dell'amico, e mostrò agli studiosi dell'eloquenza come qualunque
soggetto di filosofia, il più remoto dalle opi nioni volgari,si porgesse ad un
utile esperimento dell'in gegno oratorio. « Ego vero (così egli dice nel
Proemio) 131 illa ipsa quæ vix in gymnasiis et in otio Stoici
probant, ludens conieci in communes locos.» 3. Insino a questo punto, esponendo
fedelmente l'in dirizzo delle indagini speculative di Cicerone nella con
troversia intorno al bene supremo,noi paragonammo volta per volta le sue
opinioni coi principali sistemi contem poranei. Da quindi innanzi procederemo
con metodo di verso e più spedito, giunti a parlare di quella parte della sua
filosofia, dove egli si avvenne a minori opposizioni,e dove la sua riflessione
era soccorsa più largamente dalle idee nazionali e dai principj del Diritto
romano. mente la parte soggettiva della morale,che,come vedem il fine
dell'operare affetti e nel più intimo della coscienza mo sinqui,indaga umani ,
e col riscontro di Tullio non lieve di veri incer avvalorata indubitabili tezza
alla riflessione più che altrove cadendo l'indagine affettuosa dell'essere mai
dalla scienza, potea far velo al giudizio; separabile o perchè la discordia
senza metodo più ragione i problemi e le controversie .Ma con si governa sicuro
, e con più evidenti da sottili argomenti , offriva ai tempi esaminatrice
.Forse perchè in quella oggettiva della nella quale egli,esaminate
tendenze,el'istinto filosofale sulla umano,ilfomite delle sette vi avea
moltiplicati principj morale di Cicerone la parte , ossia quella parte le
naturali felicità, e ciò che per rispetto del della l'adempimento bene e alla
suprema universale della legge e del dovere. E proprio feconda speculazione va
dal soggetto all'oggetto dall'esame e conoscitive eterni, tanto più , come chi
senta del fine, si leva al concetto idealità anche in , che quanto più il
nostro questo è im fatto notevole ,trascende minuto delle potenze affettive
alla contemplazione per la via della scienza degli intelligibili animoso
procede della valle a una alleggerirsi vista interminata il respiro uscendo dal
basso teorica della della filosofia di pianure e di mari. La e del dovere è
dunque il fondamento legge civile di M. Tullio ; e certo a questa chiarezza dei
sommi parte più delle passioni,non E vera degli ,perquanto nella piega a noi
costituisce tempi di pensiero il sensibile,e passa 132 principj
morali da cui ella è desunta,e dove il pensiero del filosofo latino si ferma
per rinvenire le armonie più remote della scienza morale colle dottrine dello
stato e della vita politica, conviene attribuire quella pienezza di
speculazioni largamente intrecciate all'esame del mondo e dell'animo umano,onde
il libro delle Leggi riassumendo le teoriche civili,si rannoda da un lato col
dialogo dei Fini e coll’Etica soggettiva,e dall'altro cogli Officj e col libro
della Repubblica. Talchè, a voler direpienamente il pen siero del filosofo
romano, tutta la scienza morale sì del l'individuo come dell'umana famiglia, e
la filosofia civile nelle sue più remote congiunzioni colle altre dottrine,
muovono, come due maestose riviere di fiumi perenni, da quel fonte immutabile,
che è il concetto della eterna legge . Le dottrine della filosofia civile di
Cicerone furono da molti anni soggetto di lunghe e diligenti ricerche in
Germania, in Inghilterra ed in Francia, tanto che su questa più che sopra
qualunque altra parte delle sue opere forniscono le biblioteche copiosa materia
di lavori storici, critici e dottrinali agli studj dei commentatori e dei filo sofi.La
quale abbondanza di ricerche sulle dottrine posi
tivedelfilosofolatinoprovennealcerto,cosìdaunatalquale novità e armonia di
disegno scientifico che egli dava ai suoi studj sulla filosofia civile,
applicandovi l'esempio di R o m a e i larghi principj della Giurisprudenza e
del d i ritto latino;come da quell'opinione invalsa universalmente tra i dotti
ch'egli avesse un ingegno più fecondo nel l'applicare che nel trovare,più
acconcio ad esporre i pre cetti della scienza che a fondarne i principj per via
di rigorose indagini speculative. M a niente è più contrario a questa opinione
quanto un severo esame del libro De legibus. Meditando con attenzione questo
dialogo,uno dei più eloquenti che mai uscissero dalla fantasia largamente
inventiva del nostro filosofo, ti accorgi tosto essersi in gannati a partito
coloro i quali sull'autorità di alcune poche parole di lui nel cap. VI : «
quoniam in populari ratione omnis nostra versatur oratio,populariter
interduin loqui necesse erit », vollero indurre doversi annoverare
questo trattato fra i libri mancanti di vera speculazione scientifica, e volti
ad un fine semplicemente pratico popolare.Ora per risolvere una siffatta
questione, non certo di poca importanza nella critica della morale di Cicerone,
e risguardante quei principj che ne collegano le varie parti in u n disegno
ordinato di scienza , io distinguo nel libro De legibus due rispetti parimente
importanti in cui può essere considerato:un rispetto istorico, o giu ridico, e
un rispetto semplicemente speculativo. E a par lare innanzi tutto del primo,
non debbo lasciare indietro come dal 490,età della prima guerra cartaginese, al
628, anno della distruzione di Numanzia, mentre gran parte all'oriente e
all'occidente d'Europa, e l'Africa stessa venivano in potere dei Romani, la
repubblica (come dice il Forti) rapidamente si corrompesse.S'indeboliva a poco
a poco l'ordine delle famiglie, si mutava la moderazione in crudeltà e
capriccio, l'ossequio e l'ubbidienza in vile condiscendenza ai vizj con animo
rivolto a sciogliersi dai legami della famiglia, perdera forza la religione del
giu ramento ; nel VI secolo frequenti i privilegj, caduta in discredito
l'autorità sacerdotale, frequenti le prorogazioni degl'imperj; indi a grado a
grado cessava Roma dal l'avere una costituzione fissa e un prudente consiglio
che la dirigesse, e s'avviava all'anarchia popolare. Di queste condizioni
civili,che rendevano sempre più facile il vivere sciolto da ogni legge morale,
dovea risentirsi la disci plina del dritto. La quale nata da una viva
disposizione dell'ingegno latino a ricercare la suprema legge del vero nella
moralità delle azioni, e guidata dalla sublime idea del giure che G. B. Vico
riconobbe nel linguaggio dei primitivi italiani , si perfezionava tra il sesto
secolo e il settimo a causa del bisogno vivamente sentito di ridurre le
consuetudini a leggi scritte, per l'uso delle lettere greche, per lo studio
dell'antichità necessario alla notizia delle leggi,e per l'efficacia della
morale stoica.Va frat tanto la sparsa materia del diritto romano non si ordi
nava in forma di scienza ; non già che molte massime 133 134
generali delle XII tavole e dei pretori non fossero d e sunte dall'intimo della
filosofia, e che l'applicazione e lo svolgimento delle dottrine non desse
impulso efficace al l'ingegno speculativo de'Giureconsulti.Vi s'opponeva un
difetto,antico nella costituzione romana,percuicadendo in dissuetudine le
leggi, spesso occorreva di rinnovarle, l'autorità troppo larga dei legislatori,
onde, al dire di Cicerone, si studiavano piuttosto gli editti del Pretore e le
opere dei Giureconsulti, che il testo delle XII tavole, e poi il moltiplicare
delle massime e delle questioni per cui avveniva che la scienza, anzichè
ordinarsi a sistema con universalità di disegno, si veniva soltanto applicando
gradatamente ai bisogni civili. M a verso la metà del settimo secolo,quello
stesso in cui Cicerone scriveva la Topica,eaRoma
epertuttoildominiodellarepubblica s'era da un pezzo largamente propagato lo
studio della filosofia e delle lettere greche,l'ingegno romano già esperto
nell'esercizio della logica, e maturo all'abito della rifles sione interiore,
cominciò a dare forma più rigorosa di scienza alle discipline del giure. Uno di
coloro che più vi si volse, e che, per testimonianza di Cicerone,vi recò un
vero abito del raziocinio nutrito da studj profondi di filosofia, fu il
giureconsulto Servio Sulpicio,di cui si parla con molte lodi nel libro De
claris oratoribus (XLI); e dopo lui il nostro filosofo, al quale chi legga il
libro delle Leggi non può negare il merito insigne di avere meditato una
riforma del giure, desumendone l'origine,come dice egli stesso, dall'intimo
della filosofia, e tentato un codice del diritto pubblico per sopperire al
bisogno,allora viva mente sentito,di ridurre a principj universali e a dise gno
ordinato le sparse discipline del Diritto romano. (Libro I, e sey.) Ma questo
stesso proporsi una riforma del giure e meditarne l'ordinamento scienziale, chi
non vede ch'era già nella mente del nostro filosofo un naturale appa recchio
all'indagine speculativa dei principj morali ? L'oratore latino a cercare che
cosa è legge, mosse,come i giureconsulti odierni, dalla considerazione di due
rispetti nei quali la legge può meditarsi, cioè in quanto ella
esiste nel fatto come regola coattiva delle azioni, ovvero in quanto ha una
ragione d'esistere,o vogliam dire una origine razionale (Forti). Ei risguardò
di preferenza il secondo rispetto, e cercando nella sua definizione l'ottimo
ideale, « si rifece da un gius naturale anteriore alle leggi, variabili secondo
il volere dei legislatori,norma razionale al paragone della quale si potesse
distinguere la legge buona dalla cattiva, che in sostanza è una violazione del
giusto sostenuta dalle forze della società. Questo termine di confronto delle
leggi civili lo ravvisava nella legge di natura,ossia nella somma ragione
dell'economia che gli dèi, signori dell'universo, avean posta nel governo delle
coseumane.Da questofontederivavalagiustiziaassoluta ed eterna, che definisce il
bene ed il male indipendente mente dagli stabilimenti sociali e dalle opinioni
degli u o mini.Idea di assoluta giustizia,che,come Cicerone avverte
egregiamente, non può star separata dalla credenza reli giosa in un supremo
legislatore cui sia a cuore il bene e l'avanzamento dell'umanità. I comandi e
le proibizioni di questa legge suprema sono noti agli uomini, secondo
Cicerone,per natural lume di ragione, solchè essi vogliano esaminare se stessi
e consultare la coscienza. Laonde è da considerare sapientissimo il detto dell'antico
savio, c h e p o n e v a a f o n d a m e n t o d i s a p i e n z a il c o n o s
c e r s è s t e s s o . Conoscendo sè stesso, l'uomo vede di essere
naturalmente socievole,e va persuaso che la società è uno stato neces sario al
genere umano.Vede eziandio che gli uomini tutti fanno una sola famiglia, che ha
un padre e regolatore comune,che tutti ama ugualmente e gliobbliga a vicen
devoli uffizj. » Francesco Forti, nome caro alle lettere e alla giurisprudenza
toscana,così riassumeva nel I libro delle sue Istituzioni civili le dottrine
del dialogo sulle Leggi ; ed io lo citai augurando che per suo esempio il
trattato insigne del filosofo latino porgesse materia di larghe e fruttifere
meditazioni agli studiosi del Diritto. Tra le cause adunque che dettarono a
Cicerone il dialogo delle Leggi, sono in primo luogo da annoverarsi
135 136 l'incertezza del vero senso del giure per la moltiplicità
delle massime,deglieditti,delle leggi,degl'interpretanti, onde spesso si
perdeva il significato filosofico e morale nella aridità delle formule, ed era
opera di scienza vera e fruttuosa il ricondurvi le umane menti ;poi una ragione
politica che voleva richiamate ai principj morali le libere istituzioni;ed
infine un contrasto alle scuole greche, e specialmente alla Nuova Accademia,la
cui dottrina po teva riuscir fatale all'Etica e alla Giurisprudenza, fon data
com'era,non già sull'osservazione interiore o sopra un vero criterio
scientifico, m a sui deboli artifizj della dialettica e del sofisma (Lib. I, c.
IV, e XIII). Ora si consideri bene come ilnotare diligentemente questo con
trasto del filosofo latino colle scuole negative degli asso luti principj
morali,ci mena a poco a poco a scoprire la parte altamente speculativa delle
sue indagini intorno alle leggi,la quale dobbiam confessare avere sin qui assai
poco considerata i critici e i commentatori. Eppure ogni età della storia (e lo
notammo più innanzi) ci porge ampie e innegabili testimonianze di questo
tornare della riflessione all'esame della legge morale e della genesi dei sommi
principj che ne derivano, e si manifestano all'intelletto fecondi
d'innumerevoli attinenze con qua lunque parte dello scibile umano,ogni volta
che le dot trine dei sofisti pullulate dalla profonda corruzione civile e
dall'intepidire del senso morale , ponevano il bene ed il giusto
nell'attraimento degli istinti animali, e nel l'esca dell'interesse. In quei
tempi di grandi sventure private e pubbliche, massima delle quali è per certo
il dilungarsi degli ordini civili dalla notizia dei sommi prin
cipj,gl'intelletti più alti,nutriti nella meditazione e negli studj
dell'antichità, mossero la riforma morale da quella relazione chiarissima e
primitiva che intercede tra l'in telletto e l'assoluto, e si manifesta
nell'energia dell'im perativo morale.Questo intendimento di opporsi allo scet
ticismo coll'esame della realità oggettiva del supremo concetto di legge,è
manifesto nelle teoriche del Vico,è m a nifestissimo in quelle degli Scozzesi,e
dettò le pagine più 137 eloquenti di quel famoso libro che s'intitola
dalla Ragione pratica,sebbene l'affermare,come essofa,chelamia ra gione è un
che d'imperativo, che la mia volontà vi si sente soggetta, e che quindi
m'accorgo che quell'impero è universale e viene da Dio legislatore,creatore e
prov vidente, sia pronunciato assolutamente contrario al si stema della scuola
critica e alle dottrine del filosofo di Conisberga. M a poichè in questo luogo
facemmo espressa menzione del libro della Ragione pratica,vogliamo invitare
inostri lettori a seguirci in un paragone per certo singolare e inaspettato
delle dottrine di due differentissimi ingegni. Il filosofo di Conisberga,
abbeverato alle dottrine del C a r tesio, e seguace, benchè inconsapevole,
dello scetticismo d i D a v i d H u m e , il K a n t c h e n a c q u e il 1 7 2
4 , e v i d e n e l l a seconda metà del secolo XVIII i primi baleni di quella
filosofia, onde più tardi sfolgorava la rivoluzione fran cese, ammise a
fondamento del suo sistema l'assoluta impossibilità di trapassare dal soggetto
all'oggetto, rap presentando il pensiero racchiuso in sè stesso e pensante le
cose con proprie forme o categorie. La qual dottrina, oltre al contraddire,
come fa, alla natura del pensiero e all'evidenza immediata della percezione,e
porre il filo sofo nell'assoluta impossibilità di edificare la scienza nel
tempo stesso ch'egli sipropone ilproblema,se lascienza è possibile, distrugge
ogni certezza morale, e vieta alla mente di aggiungere mai colla riflessione
scientifica l'ori gine vera della legislazione assoluta. « Pel Kant (osserva
giustamente il Mamiani) l'anima è onninamente legisla trice di sè medesima e
crea l'assoluto dovere,crea,dico, non meno di un assoluto; e quella forza
invincibile di approvare o di biasimare è pur fattura dell'anima, onde ella
identicamente e simultaneamente è comando e obbe dienza, è autorità ed
obbligazione, è diritto e dovere, è attiva e passiva, è finita e infinita
(perchè ogni assoluto vero è infinito), e rimordesi talvolta amarissimamente
delle azioni contrarie all'imperativo di cui ella stessa è autrice spontanea
..... Cotal dovere e cotale legislazione as soluta che emerge
tutta ed unicamente dall'umano sub bietto,appare nel Kant (se è lecito
dirlo)più contradit toria assai che negli Stoici antichi e nei moderni
panteisti germanici.Imperocchè appo entrambe le scuole la volontà e libertà
umana si sustanzia in ultimo con la divina e assoluta. Quindi nelle loro
dottrine morali ricomparisce la contradizione perpetua d'identificare azione e
passione, finito e infinito e così proseguì;ma non vi si dee ravvi sare cotesta
forma particolare di ripugnanza tanto più deplorevole quanto la scienza morale
à un carattere sacro e interessa il genere umano e la vita civile più che altra
disciplina quale che sia. » (Confessioni, V. I, Lib. II, pag.294,95.) Tale è
pertanto la differenza notevole che corre tra le contradizioni morali del Kant
e quelle del nostro filo sofo. Già vedemmo parlando delle dottrine sulla natura
come da parecchj luoghi dei suoi trattati apparisca assai chiaro ch'egli,
seguace del semipanteismo platonico e stoico,faceva consustanziali l'intelletto
umano eildivino; la qual dottrina applicata nel dialogo delle Leggi avrebbe
dovuto condurlo per legittima illazione a identificare la natura infinita del
precetto morale colla ragione finita dell'uomo.Ora una volta ammessa questa
dottrina,come mai poteva dedurne il filosofo l'azione trascendente e as soluta
dell'imperativo morale sull'anima nostra? Come concluderne che la ragione
perfetta, in quanto risplende dell'assoluto concetto del bene, s'impone alla
mente e prende natura di legge? E d'altra parte è chiaro a chi sia
mediocremente versato nella storia della nostra scienza c h e l ' o r a t o r e
r o m a n o , il q u a l e r i f i u t a n e l l i b r o D e f i n i b u s la
parte soggettiva della morale del Portico,come il su perbo concetto del
perfezionamento umano ,l'indifferenza ai beni esteriori e l'eguaglianza delle
imputazioni, qui nel dialogo delle Leggi ne accettò pienamente la parte
oggettiva, vo'dire l'idea della legge eterna e i concetti dell'obbligazione e
della città universale. Tale repu gnanza del semipanteismo platonico e stoico
accoltoda Cicerone coll’autonomia dell'umano arbitrio, e coll'effi
138 Veramente non è ben chiaro se Cicerone si facesse mai tal domanda;
ma , a dirla breve e come io la penso, il sentimento più naturale e spontaneo
ch'io ritrassi dalla prima lettera del libro D e legibus, fu una ferma opinione
che il filosofo latino movendo dalla indagine sul concetto di legge,soccorso
dalle tradizioni del diritto romano, d o vesse riuscire a rappresentarsi
quell'azione trascendente della legge morale sull'animo nostro siccome derivata
dall'intima natura di un assoluto,distinto dalla ragione dell'uomo e a lei
superiore. Argomento valevole assai per confermarmi in tale giudizio,è
l'altezza a cui poggia l'indagine speculativa di Tullio,che allontanatosi dal
l'esame particolare e sottile delle scuole antecedenti e contemporanee, e dalla
parte soggettiva della stessa d o t trina stoica,riordinava la scienza tutta al
lume dei sommi principj,più tardi usciti a fondamento della sapienza
cristiana. 139 cacia trascendente di quella virtù onde si genera in noi
l'obbligazione morale, involge un importante quesito di storia della filosofia.
Nel quale si domanda, se il filosofo latino propose giammai nettamente innanzi
all'esame della sua riflessione questa controversia da cui dipende il principio
costitutivo dell'obbligazione e del bene m o rale; e se chiese a sè stesso come
potessero mai conci liarsi l'identità di natura tra l'intelletto divino e
l'intel letto dell'uomo con quel sentimento di soggezione assoluta che in noi
s'accompagna all'impero della legge morale. Un'altra prova di non lieve
importanza è altresì la dif ferenza notevole che corre tra i libri fisici e
morali del filo sofonostro.In quellieglidubitailpiùdellevolte,e,meno che nei
principj fondamentali,segue irresoluto leforme della Nuova
Accademia;neilibrimorali partuttoun altr'uomo, e le sue conclusioni rivelano
sempre una maravigliosa armonia del sentimento colla riflessione speculativa. A
l tresì non v'è dubbio alcuno che i concetti correlativi di Dio e dell'anima
umana e del libero arbitrio,assai inde terminati nel De natura deorum,nelle
Tuscolane, nel Sogno di Scipione e negli Accademici primi,qui nel libro 140
delle Leggi profilano più nettamente le loro fattezze,e ne discende ordinata e
architettata nelle sue verità uni versali tutta quanta la scienza.Il concetto
di Dio sopra ogni altro giunge in questo libro ad un'altezza scono sciuta alla
maggior parte dei filosofi antichi.Egli è rap presentato al lume delle
tradizioni romane come inente eterna ed eccelsa che tuttoprovvede,che a tutto
impera,e veste idue caratteri dell'arbitrio e dellam o ralità, che, al dir del
Gioberti, ne costituiscono le origi nalifattezze.L'indaginetullianadellaleggesuprema
pa lesa poi,per mio avviso,un vigore non ordinario d'ingegno speculativo.Posta
a capo di tutto ilragionamento lano zione di legge universale come un riscontro
delle leggi particolari e una misura intelligibile a cui ricorrendo si potesse
apprezzare l'essenza delle cose giuste od ingiuste, tal nozione presentava in
sè due rispetti intimi ambedue eambeduenecessarj.Lapoteviconsiderarecome
idealità suprema,come infinitagiustiziaonde ilgiusto sipartecipa, benchè
imperfettamente, alle cose finite, e come primo assoluto ed universale, che
volgendo le menti alla comune dispensazione del bene porgesse quasi l'unità
morale del l'umana famiglia. Considerata nel primo rispetto, la n o zione di
legge si offriva alla mente del filosofo latino come idealità suprema e
assoluta,e come un intelligibile primo che rappresentando ilperfetto
nell'ordine della ra gione le si imponeva come regola dell'operare.Egli dunque
concepiva quella nozione come un vivo riverbero dell'as soluto, e poichè l'assoluto
è divino, e la sua idea si palesa partecipata come luce dall'alto nella
perfetta ragione dell'uomo, unico di tutti gli animali che abbia innata
nell'animo la notizia di Dio, quell'idea gli parve una partecipazione segreta
ed arcana dell'assoluto nell'umano intelletto. Udiamo le sue parole: « Est
quidem vera lex recta ratio,naturæ congruens,diffusa in omnes,constans,
sempiterna, quæ vocet ad officium jubendo, vetando a fraude deterreat, quæ
tamen neque probos frustra jubet aut vetat nec improbos jubendo aut vetando
movet.Huic legi nec abrogari fas est neque derogare ex hac aliquid
una licet neque tota abrogari potest,nec vero aut per senatum aut
per populum solvihaclegepossumus,neque estquæ rendus explanator aut interpres
ejus alius,nec erit alia lex Romæ , alia Athenis, alia nunc, alia posthac, sed
et omnes gentes et omni tempore una lex et sempiterna et immutabilis continebit
unusque erit communis quasi m a gisteretimperatoromnium
deus:illelegishujusinventor, disceptator, lator, cui qui non parebit, ipse se
fugiet ac naturam hominis aspernatus hoc ipso luet maximas p æ nas,etiam si
cætera supplicia, quæ putantur, effugerit.» (Cic.,lib.III,De
Repub.,XXII,33,riportatoda Lattanzio
Instit.div.,1.VI,cap.8.)Stupendadefinizioneèquestadel principio regolatore
degli atti umani,e tale da mostrare una volta per sempre che qualcosa più di
una semplice continuazione delle scuole greche s'acchiudeva nei prin cipj
dell'Etica romana . Vi s'acchiudeva la speranza e la promessa immortale del
Cristianesimo! Considerato al lume di questi principj, il dialogo delle Leggi
ci si offre come una sintesi vasta di tutta la scienza. Una volta posto con
tanta chiarezza ilconcetto di legge nella cima dell'umana ragione,e l'umana
ragione stretta da un legame arcano d'attinenza coll'assoluto, se ne chiariva
alla mente del nostro filosofo la nozione di Dio e quella dell'uomo e
dell'universo, e il fondamento primo dei doveri civili. La causa di tutto ciò
era per fermo nel l'intima natura del metodo di lui,ilquale movendo dalla
coscienza morale e dal vivo sentimento dell'obbligazione, coglieva nel suo
stesso principio la più ampia e la più feconda di tutte le armonie scientifiche
; siccome quella in cui soggetto e oggetto si trovano unificati in un ter mine
superiore e trascendente,onde poi si diparte,come da unico centro, l'ordine
universale delle idee e quello dei fatti.La qual cosa non accade per certo
nella ragione informatrice del sistema di Emanuele Kant, e degli altri critici
e razionalisti moderni. In tali sistemi il pensiero (per valerci delle loro
stesse parole) non esce mai da se stesso,non coglie la realità viva e concreta
che è pre sente all'intuito, nè anche, dico, in questa parte della 141
- filosofia de'costumi, dove la mente afferma ogni volta per
ingenita necessità di natura l'indipendenza del pre cetto morale assoluto
dall'atto informatore del nostro spirito. Non ha dunque la filosofia soggettiva
un punto stabile e fermo in cui getti le prime fondamenta dell’edi
fiziomorale,eillegameintimodeipensierichene con nette le parti, non avendo
corrispondenza nella realità obbiettiva dei sommi principj,dee riuscire per
necessità fenomenico, relativo e contingente. Eppure, come ben nota il
Gioberti,vano è il voler riformare la dottrina del Buono senza risalire ai
principj, che è quanto dire, senza considerarla come una scienza
seconda,fondata sui canoni della scienza prima. (Del Buono,cap.III.) Questa
nobile impresa, degna di un condiscepolo dei Giureconsulti romani, fu tentata
dall'Autore del dialogo delle Leggi. L'esame della sua dottrina,solo che
illettore se lo riduca per poco al pensiero, ci ha mostrato assai largamente
che il metodo Socratico dell'osservazione in teriore lo condusse nei libri
fisici e logici ad accettare il conoscimento come un dato legittimo della
scienza,e nella disputa contro gli Stoici intorno al fine quel metodo istesso
lo avvertiva doversi trovare la ragione constitutrice del bene per rispetto
all'uomo nell'indagine piena dell'umano soggetto. Da questa cognizione
dell'animo si levava il Romano per l'evidenza dei comandi morali alla notizia
più perfetta di Dio,e lo concepiva come mente e ragione infinita in cui posa
l'idea della legge eterna, di questa legge obbiettiva,immutabile,
necessaria,anteriore a tutte le leggi civili, più antica d'ogni città e d'ogni
gente, e coevaa quel Dio che governa laterraedilcielo.Da Dio è disceso l'uomo;
egli uscito nel mondo ultimo degli ani mali, allorchè la natura fu disposta ad
accoglierlo,benchè mortale nelle altre parti dell'esser suo,nell'animo è ge
nerato da Dio.Egli solo quindi tra tutti gli animali ha notizia del Creatore,
solo è capace di virtù, e può valersi in suo servigio dei frutti della terra, e
inventò per a m maestramento della natura innumerevoli arti che imitate poi
dalla ragione gli procacciarono le cose necessarie alla 142
vita. L'uomo dunque è primitivamente simile a Dio ;simi litudine che può
vedersi dal fine a che la natura stessa lo destinava, e dai mezzi che gli diede
a conseguire quel fine; conciossiachè prima ordinò la intera costituzione del
mondo in suo beneficio, e all'uomo stesso diede conosci mento veloce, e del
conoscimento ministri e satelliti i sensi,e gl'impresse nell'intelletto certe
oscure nozioni di cose innumerevoli che furono in qualche modo fonda mento
allascienza:Diede anche all'uomo forma dimembra acconce a significarne la
natura intellettuale;poichè,mentre gli altri animali fece inchini alla terra
per l'uso del pasto, il solo uomo rivolse al cielo quasi alla contemplazione
del l'antica sua patria, e ne atteggiò il volto per modo che vi si leggesse
profondamente scolpita l'effigie dell'animo. 143 Sarebbe lungo il seguire
M. Tullio in questa larga deduzione dei veri morali e psicologici ch'egli
trasse dal concetto di legge. Basti per noi l'osservare che son belle e vere
dottrine, più tardi ripetute dai Padri e dai Dottori e dalle recenti scuole
italiane,l'autorità assoluta dell'im perativo morale,la sua attinenza con Dio
provvidente, l'idea dell'imputazione e dell'atto umano, e finalmente quella
grande città in cui l'ordine mondano e sopram mondano si congiungono insieme
nella universale comu nione degli spiriti eterni. (De leg., lib. I.) Esaminata
la legge nel suo primo rispetto,vale a dire in quanto essa è
obbiettiva,necessaria,immutabile, eterna, il filosofo latino passa a considerarla
come un principio universale, che si dispiega al di fuori di sè stesso in un
ordine di relazioni,ed è norma comune dell'operare agli umani intelletti. E qui
egli veniva cercando la comunità del concetto di legge nella somiglianza di
natura intel lettuale, onde avviene che a significare tutta quanta la umana
specie vale una sola definizione,e principio del consorzio civile è la comune e
vicendevole partecipazione del giure. « Non est enim (egli diceva) singulare
nec solivagum genus humanum .» Quindi esce altresì nel primo della Repubblica
la bella definizione della città, fonda mento alle sue dottrine politiche: «
est igitur respublica 144 Il cardine della morale di Cicerone posa
dunque m a n i festamente in questa dottrina delle Leggi, il cui merito insigne
si è di avere volto le sparse discipline del diritto romano contemporaneo ad un
ordinamento più razionale, e fondata la metafisica e la filosofia civile sopra
principj assoluti di scienza. Questo intendimento del nostro ora tore è tanto
più manifesto,in quanto che egli,dopo spie gata per ordine la dottrina della
legge suprema, assume nel primo libro la questione più tardi agitata nel De
finibus, e contro le dottrine di coloro che il buono misu ravano dall'utile, si
distende a provare la virtù sola d e siderabile per sè stessa, e l'efficacia
del buono venire dalla natura anzichè dalle mutabili opinioni. (XVII, X V I I I
, X I X .) L a q u a l c o s a , m e n t r e è u n a p r o v a d i p i ù per
mostrare come l’oratore-filosofo dai punti capitalis simi della morale,
scendesse con unità di concetto alle più remote applicazioni, prende in fallo
quei critici che supposero di fresco avere Cicerone abbandonato improv
visamente la dottrina dell'Antica Accademia sulla legge naturale per accettare
il metodo peripatetico nel suo più recente trattato dei Beni. M a innanzi tutto
noi d o m a n diamo a quei critici come mai,se Tullio si ribellò più tardi alla
ragione informatrice delle dottrine platoniche, qui nel libro delle Leggi
espone con fronte sicura la stessa teorica trattata nei Fini ? In secondo
luogo, fra le due opere v'è certo diversità nella ragione del metodo esterno
(procedendosi deduttivamente nel libro delle Leggi, e induttivamente nel libro
dei Fini), ma la diversità non involge alcuna contradizione; poichè nel
trattato dei Beni, quando esaminava quella controversia da parte
dell'umano res populi; populus autem non omnis hominum quoquo modo
congregatus, sed cætus multitudinis juris consensu et utilitatis communione
sociatus,» dove egli af ferma ilnesso primitivo tra il diritto naturale e
ildiritto delle genti, e contro Platone che attribuiva l'origine del consorzio
umano alla debolezza degl'individui,riconosce invece quell'origine nella
comunità di una legge assoluta e soprammondana. cætus 1 ! soggetto,
affermò nella vita presente non pervenire l'uomo al compiuto adempimento del
fine se non svolgendo e perfezionando ogni parte integrale di sua
natura,laddove qui nelle Leggi salito ad un concetto più universale, m e ditò
oggettivamente l'idea del buono e dell'obbligazione, riconoscendovi un'assoluta
efficacia indipendente dall'atto dello spirito umano.Così da questi due
larghissimi aspetti in cui può essere meditata la materia della scienza m o
rale, e dove all'intelletto del filosofo appajono congiunti l'assoluto e il
relativo, il contingente e il necessario, l'anima e Dio,deriva secondo la mente
di Cicerone, il vero e più ampio concetto della dottrina sul buono. 4. La
diligente esposizione impresa da noi degli scritti del filosofo latino ci ha
condotti,come avranno osservato i lettori, a trattenerci alquanto intorno alla
parte specu lativa delle sue dottrine morali, e segnatamente intorno ai due
trattati De finibus e De legibus. La qual cosa abbiamo fatta coll'intendimento
di porre innanzi agli occhi degli studiosi i principj fondamentali e il disegno
scien tifico dell'Etica latina,esposta da Cicerone,sembrandoci che questo esame
fosse stato assai leggermente condotto sin qui dai critici precedenti, i quali
o tenerano Cicerone in luogo di un eclettico e di un moralista positivo e spe
rimentale, o non facendo professione di filosofi, conside ravano nei suoi
trattati meglio la parte istorica e lette raria che l'intimo nesso e il metodo
speculativo delle dottrine.Eppure convien confessarlo) questa critica preoc
cupata e parziale è sommamente contraria alla giusta estimazione dei libri
speculativi di Tullio.Per essa avviene che i principj e la unità delle sue
dottrine morali ci ri mane ignota per sempre ; ci sfuggono le più alte indu
zioni che il grande oratore e i Giureconsulti adoperarono intorno ai
pronunciati del senso comune,e riesce un fatto senza ragione alcuna quell'ampia
utilità applicativa del l'Etica romana,da tutti riconosciuta,se il filosofo
morale non ne rintraccia i principj nelle speculazioni più remote intorno al
vero ed al buono. 145 10 Premesse queste osservazioni, veniamo ora alla
parte positiva dell’Etica tulliana, nella quale ci terremo più
brevi secondo è richiesto dalla natura principalmente fi losofica di questo
scritto. L'indagine che si contiene nel primo libro delle Leggi, porge
naturalmente il passaggio dai supremi principj speculativi alle dottrine
pratiche della morale, pel con cetto d'obbligazione e di vicendevole comunanza
del giure, onde il libero arbitrio sperimentando in sè l'efficacia trascendente
del precetto morale, e riconoscendovi un impero incondizionato che si dilata
nell'universalità del l'umana famiglia, si sente stretto all'osservanza degli
officj religiosi, individuali e civili. Officio dunque (così lo domandavano le
scuole socratiche) è illibero conformarsi della virtù all'impero della legge
morale. E importa assai determinare il significato scientifico della parola,
perchè si capisca come la teorica dell'officio che ha tanta parte nel sistema
del Portico,mentre discende immediatamente da quella del dovere (considerato
nella sua genesi razio nale),ha poi certi suoi peculiari rapporti che la connet
tono colla parte più positiva della scienza morale. Due specie d'officio
distinguevano gli Stoici.L'officio retto o perfetto (29Tóptospa, zadrzov
téheLov) che cade uni camente nel saggio,o in colui che abbia ottenuto l'ultimo
grado del perfezionamento morale ;e l'officio comune,o m e dio (2997zov
uésov),che era un ordinario conformarsi della virtù agli obblighi della vita privata
e civile,o,come direbbesi oggi popolarmente,un fare da persona dab bene. Ora
insorse controversia tra i critici, se Cicerone nel suo trattato, da tanti anni
notissimo nelle scuole, de finisse scientificamente l'officio.IlManuzio
eilFacciolati difesero Cicerone ; il Lilie con altri più antichi, citati dal
Kuehner, giudicò veramente omessa quella definizione; mentre il Binkes,il
Kuehner e ilGrysar avvisavano avere Cicerone definito soltanto l'officio medio,
di cui prese a trattare espressamente nel suo libro,in quelle parole del
capitoloIII,1.I:«medium officiumidesse,quodcur factum sit ratio probabilis
reddi possit. » (Vedi Lilie, Comment.de Stoic.doctrin.mor.ad Cic.libr.De
off.,1, 146 147
p.30;Kuehner,p.237;Fran.Binkes,Responsio ad quæst. juridicam etc., Franeq.,
1818, pag. 11; Prolegomena ad Cic.libr.De Off.scripsit,C.I.Grysar,Köln,1844,
pag.33.) Questa opinione dei commentatori tedeschi tanto più è conforme alla
natura del libro D e officiis e al metodo espositivo che quivi si propose
l'autore, in quanto che egli stesso ci dice nel capitolo III: due questioni
potersi fare intorno all'officio; l'una che si riferisce al fine dei
beni,l'altra che cade nei precetti ai quali in ogni parte si può conformare
l'uso della vita ; parole meritevoli di speciale considerazione, conciossiachè
mentre spiegano quell'intimo nesso scientifico che annoda le dottrine p o
sitive colla teorica del bene morale, stabiliscono poi il vero oggetto del
presente trattato,il quale non è altro, come giustamente osserva un critico moderno,
che la determinazione dei nostri doveri particolari. Coloro d u n que che dal
libro degli Officj prendevano argomento a ravvisare nel filosofo latino un
mediocre valore scientifico, perchè egli trattando dell'officio non si solleva
ai supremi principj della morale, non osservarono quale attinenza corra tra i
libri speculativi e pratici della sua morale, onde egli investigato prima che
cosa è il bene nell'umano soggetto (D e finibus), si leva alla nozione
oggettiva di legge (D e legibus), e scende per ultimo alle applicazioni più
remote dell'Etica nella vita privata e civile. (De of ficiis,De republica,De
amicitia,De senectute.) Migliore giudizio invece recarono quei critici, segna
tamente francesi, i quali considerando di preferenza questo speciale rispetto
tutto positivo e civile, in cui possono meditarsi gli Officj, quindi desumevano
i pregj e i difetti del libro. Infatti il trattato degli Officj non è un'opera
semplicemente speculativa,o un'opera di psicologia. Ivi si richiamano, è
vero,le altre parti delle dottrine m o rali, vi si accenna la distinzione
stoica tra l'officio per fetto e l'officio comune,e il pensiero dello scrittore
si leva talvolta a indagare la qualità morale degli atti nel l'intima natura
dell'uomo,ma l'intendimento primo a La gentilezza degli Attici
educata nell'ordine m a t e riale della civiltà da fina eleganza di costumi , e
dallo spettacolo d'una natura ridente, li traeva ad una viva e, quasi
direi,religiosa ammirazione del bello,onde il pen siero dalla convenienza e
armonia delle parti reali che genera il perfetto nei corpi,passava
all'invisibile bellezza degli animi. M a in R o m a dove ogni istituzione fu
vôlta sin da principio a rafforzare i legami che vincolavano il cittadino allo
stato, e il rispetto delle relazioni civili superava a gran pezza gl'interessi
domestici e il culto delle arti, regnava dominatrice siffatta la pubblica opi
nione che in lei risedeva il solo e inappellabile arbitrio di giudicare le
azioni. E per fermo i Greci considerando nella virtù la corrispondenza ideale
che corre tra l'ar monia interiore dell'animo nostro e le forme più elette
della natura sensibile,la nominarono bellezza, pei Romani la virtù sono quasi
convenienza delle azioni colle leggi sociali. Laonde Cicerone che qui negli
Officj la conside 148 cui mira quel libro, è un intendimento civile, e
Tullio che lo compose dopo la morte di Cesare, quando to *nava per l'ultima
volta nel fôro in difesa delle libere istituzioni, volle lasciare a suo figlio
in luogo di testa mento il codice più compiuto della morale politica. A questo
proposito nel libro degli Officj merita spe ciale considerazione una dottrina
che pel modo in cui fu trattata da Tullio palesa un rispetto istorico,e un'atti
nenza immediata colle istituzioni e coi costumi di R o m a . Tale è la dottrina
del decoro (Tpétrov), esposta nel capi tolo XXVII del libro primo.
Cicerone,osserva acutamente il Ritter, traduceva nei Paradossi la sentenza
degli Stoici : crcpovovaysoró 2.016;ilsolobuonoèbello,collepa role: quod
honestum sit,id solum bonum esse;onorabile è solamente ciò che è buono. Ora
questo diverso concetto che i Greci e i Latini s'erano fatto della virtù, e che
più volte ritorna nel De officiis, come in quel libro in cui Cicerone conformò
forse maggiormente le sue dottrine morali al pensare e al sentire romano , si
spiega assai facilmente ricorrendo alla Storia. rava in un rispetto
quasi esclusivamente civile, l'accom pagnava al decoro, o vogliam dire a quella
luce esterna di onoratezza , onde la stessa virtù si porgeva all'ammi razione
della pubblica coscienza. Considerato per questo rispetto, il libro D e
officiis, mentre si attiene alle altre opere speculative, presenta nelle sue
parti più sostanziale un vero ordinamento di scienza. Il filosofo latino seguì
liberamente Panezio, e perchè autore di un ottimo libro intorno agli Officj,
adesso perduto, e perchè assai temperato nelle dottrine dello stoicismo,come
portava l'età.Da Panezio,eforseda Pos sidonio, continuatore di lui, trasse in
gran parte le dot trine intorno all'onesto ed all'utile, che offrono soggetto
ai due primi libri, e v’aggiunse del proprio la materia del terzo, ovvero il
combattimento dell’utile coll'onesto, omessa dallo scrittore greco. La parte
più bella e più filosofica di tutto il trat tato, e dove splende più pura la
nobiltà dell'animo di Cicerone, è quella dov'egli toccando le relazioni della
politica colla morale, biasima altamente quei fatti, nei quali l'interesse
dell'utile pubblico avanzò le norme della giustizia e della onestà, e propone
al figlio i più sui blimi esempj dell'antica virtù ne'quali l'animo ritem
prando possa uscire incontaminato dalle scelleratezze dei tempi. E i tempi
dovevano esser tristi davvero, se con sideriamo parecchj esempjd'ingiustizia
contemporanea che Tullio ricorda al suo Marco, e ch'egli sebbene commessi da
uomini potentissimi nella repubblica e amici suoi, ge nerosamente condanna.Nè
dee far maraviglia che fosse cosìa
chiconsidericomeildisgiungersidellamoraledalla scienza di stato è uno dei
maggiori indizj della corru zione civile, e che tutto allora in R o m a
precipitava a ro vina, religione, costumi, esercito , cittadinanza, popolo,
senato, magistrati, privati ; e in quel rovescio d'ogni cosa e divina poneva i
fondamenti sanguinosi la ti rannide degli imperatori. Nel terzo libro, discorse
le attinenze della politica colla morale, passa il filosofo latino alle
attinenze della 149 umana morale colle altre scienze sociali,
la Giurisprudenza e l'Economia. In queste pagine di Tullio, a sempre più
smentire l'opinione di quelli che non trovano nei giure consulti romani le
tracce d'una profonda speculazione,si vede chiaramente come la giurisprudenza
latina, benchè costituisse da sè stessa un vero e proprio corpo di scienza con
norme immutabili e fisse, con ordine scienziale di dottrine, desumeva
da'principj della filosofia i suoi fon damenti ; il che mostra Cicerone citando
parecchie que stioni esaminate dagli antichi giureconsulti, e definite con
formule certe che più tardi assunsero la forza di legge.La qual cosa apparisce
vie più manifesta quando ne' seguenti capitoli Tullio, dopo definite alcune
questioni di morale, appellandosene al testimonio della coscienza e della retta
ragione,quasi a riprova di quei principj ne cerca il riscontro nella più antica
e venerata delle legislazioni romane, nella legge delle XII Tavole. Questo
ricorrere ai più vetusti testimonj, oltrechè era proprio al metodo di
Cicerone,che cercava nell'antichità più presso all'origine divina,le verità
naturali più schiet te,e le prime tradizioni,ha qui un'importanza d'oppor
tunità, perchè egli di fronte alla corruzione della morale civile voleva
additare lo scadimento della repubblica. Lo che è chiaro in tutto il libro;
chiarissimo poi dove avendo citato gli esempj di Fabbrizio e di Cammillo e
dell'antico senato romano,soggiunge l'infamia di L. Silla che coll'autorità del
senato raggravava i dazj antichi so pra alcuni popoli che se n'erano sciolti
pagando, nè r e s t i t u i v a il d a n a r o ; e p r o r o m p e c o n m o b
i l e s d e g n o : p i r a tarum enim melior fides quam senatus ! Il De
officiis accolto nelle scuole d'Europa sino dal primo risorgimento delle
lettere antiche, e stampato per la prima volta a Magonza il 1465, levò di sè
tanta fama da affaticare per ogni tempo l'acume degli eru diti e dei commentatori.
Un esame critico di questo trattato, che Paolo Janet chiama « il più
belmonumento filosofico della letteratura latina, » fu recentemente pro posto
dall'Accademia delle scienze morali e politiche 150 151 di
Francia,e ne usciva nel 1865 il libro del signor Arthur Desjardins col titolo :
Les devoirs, essai sur la morale de Cicéron . In quest'opera ricca d'ingegno,
di filosofia e di larga dottrina in ogni parte della giuris prudenza e delle
lettere antiche,l'autore con utile esem pio, che vorremmo rinnovato in Italia,
prende a esami nare largamente il libro D e officiis, ne mostra le varie
attinenze coi principj supremi della morale tulliana, e lo confronta coi
migliori filosofi antichi, e coi giurecon sulti moderni. È un lavoro di critica
larga e profonda, in cui la gravità del soggetto è abbellita dallo stile ele
gantemente sereno. E accresce lode al critico francese la schietta imparzialità
dei giudizj, onde egli intento solo a conoscere la verità, difese da ingiuste
accuse la fama del grande oratore, ne osservò opportunamente le omissioni o la
brevità soverchia per quel che risguarda i doveri verso Dio,la famiglia e noi
stessi, e rappresentò il De officiis come un codice compiuto di Etica civile,
in cui si ragiona dei doveri del cittadino verso lo Stato,e il concetto della
umana famiglia e della carità universale perviene a tale altezza da annunciarci
vicino il grande rinnovamento dell'Evangelo. 5. Dai principj della
filosofia civile e dai precetti par ticolari intorno ai costumi si varca alla
teorica dello Stato . Questafuesposta da Ciceronenel De republica,giudicato
universalmente dai critici come una delle opere le più ori ginali del nostro
autore.Gran parte ne andò sventu ratamente perduta,ma le reliquie del primo e
del se condo libro fanno assai splendida testimonianza che l'ora tore latino vi
avea diffuse largamente le memorie della antichità
greca,legrazieseveredell'eloquenza,eigrandi insegnamenti della vita politica.
Quando prese a trattare dello Stato,egli avea innanzi a sè due scuole egualmente
illustri, egualmente seguite dagli scrittori: la scuola di Platone e la scuola
d'Aristotele. Ma ei dovette certo considerare che l'ingegno dell’Ateniese,
poderoso d'in venzione e di veduta speculativa, non intese forse nei termini
del vero le attinenze della filosofia colla politica. Il merito
insigne di aver sostituito alle dottrine ideali l'autorità degli esempj, è pur
quello della Repubblica di Cicerone. In quest'opera, spartita in sei libri, e
condotta conlargaunitàdidisegno,ilgrandeoratoreimitò Pla tone nella forma
letteraria e nel tono dello stile, del resto si attenne al metodo aristotelico
; e volendo fare opera nonsoloutileallelettere,ma vantaggiosaallapatriae alle
più lontanegenerazioni,incarnòisuoiprecettinelgrande esempio di R o m a . L a dottrina
sui reggimenti civili si r i duce alla disputa delle tre forme monarchica,
aristocra tica e popolare, alle quali egli preferiva la mista, invo cando le
ragioni d'Aristotele e di Polibio e tutta quanta la storia di Roma. 6. Da
queste premesse esce a compimento delle dot trine morali la disputa
sull'immortalità.E qui Cicerone lasciando al tutto le orme dei Greci, seguì
l'indole pro pria e della sua nazione, e fece di quel problema una vera e
compiuta dottrina. Forse l'incertezza in cui aveano la sciata la controversia
sui destini dell'anima i panteisti 152 La quale, mentre ha bisogno per
disegnare e applicare le civili istituzioni di ricorrere talvolta ai principj
uni versali della natura,non può trascurare per altro nel l'ordine dei fatti le
imperfezioni dell'essere umano, e quella lunga serie d'esperienze infelici per
cui soltanto nella storia dei popoli si perviene ad applicare le istitu zioni
alle necessità dei tempi. A questo metodo, chiamato da'Cesare Balbo un metodo
razionale, si opponeva l'altro sperimentale d'Aristotele. Il filosofo di
Stagira, disposto per natura d'ingegno a un accordo più perfetto della spe
culazione col senno civile,e cresciuto alla scuola di Fi lippo e d'Alessandro,
intravide con occhio più fermo le armonie delle dottrine scientifiche
coll'esperienza, applicó alla scienza dello Stato quell'analisi sicura e
paziente che negli ordini del pensiero e della natura lo avea condotto a creare
la logica e la fisica; raccolse da ogni parte gli esempj dei governi migliori,
li ordinò, li paragon ), li ridusse a principi, e ne trasse la sua Politica
fonda mento della scienza civile. Ma
ataliprovediragioneedifattoaltreseneag giungevano per lui desunte dall'affetto
individuale e civile. L'indole del suo ingegno, inclinato a quanto v'ha di più
grande e di più sublime nelle opere della natura e di Dio, gli svegliava
nell'animo un vivo desiderio dei sommi estinti, e massimamente di quelli la cui
vita consacrata alla patria nelle scienze,nelle lettere,nelle arti,nei p u b b
l i c i n e g o z j , li r a c c o m a n d a v a a l l a r i c o n o s c e n z
a d i R o m a . Gran parte,e la più bella forse della sua vita,s'era pas sata
nella società di quei grandi ; chè molti n'avea co nosciuti da giovinetto, e
seguiti nello studio delle leggi e nella pratica del fôro; di molti avea udito
favellare al padre e agli zii paterni, m a di tutti gli restava impressa
nell'anima una memoria viva e costante, siccome di per sone domestiche e
care.La vita lungamente agitata nei pubblici affari in tempi di grandi rivolgimenti,
non gli tolse quest'abito di ritornare sul passato, e perchè vi pendeva l'animo
naturalmente mite, e disposto a racco gliersi in sè stesso, e perchè la sua
parte di conservatore lo menava in politica a desiderare il ritorno della virtù
e d e g l i a n t i c h i c o s t u m i. P i ù t a r d i l e s v e n t u r e d
e l l a p a t r i a lo strinsero a ritirarsi dalla vita pubblica, e allora la
fantasia nutrita negli studj speculativi gli consolava spesso colle grandi
memorie i dolori civili e le meditazioni della scienza. E quindi si spiega
perchè quelle meditazioni,in cambio di riuscire una fredda copia delle opere
greche, gli si convertivano spesso in dialoghi vivi e passionati,e l'abito di
conversare coi s o m m i estinti gliene porgesse gli interlocutori, e si spiega
altresì come la dottrina del l'immortalità occupi tanta parte nel Sogno
dell’Affricano 153 e dualisti italici e greci, contribuì non poco a
svogliarlo d'immaginarie astrazioni, e volgerlo a una via più sicura. Fatto è
che nelle Tusculane,ma più nel De republica e negli opuscoli popolari della
Vecchiezza e dell'Amicizia, egli chiese di preferenza le prove dell'immortalità
alla coscienza morale, alle antiche tradizioni, ai riti delle tombe, al
desiderio, connaturato nell'uomo, del divino e dell'assoluto. 154 e
nel Catone Maggiore, dov'egli imitando il Socrate di Platone, paragonava sè
stesso ai sommi che l'avean preceduto, e si consolava di speranze
immortali. Un'altra occasione, opportuna a indirizzare le medita zioni
del nostro filosofo sulla controversia dell'immorta lità, e a dettargli intorno
al soggetto affettuosi e mesti pensieri, fu per certo la morte della sua
Tullia, avvenuta il mese di Febbraio dell'anno 709. Nelle solitudini della sua
villa presso Astura, là dove avea in animo d'inal zare un tempio alla figlia
perduta, egli scrisse un libretto che poco appresso indirizzò ad Attico, e che
intitolava Consolazione. Su questo libro,adesso perduto,gli eruditi studiarono
a lungo,e dai pochi frammenti che Cicerone stesso ci conservava ,e da quel che
ne dissero parecchj scrit tori antichi,in special modo Lattanzio nelle
Istituzioni di vine,tentarono restituire per sommi capi il disegno gene rale e
lo spartimento delle materie. Francesco Schneider ne ragionava in una sua
dissertazione dottorale del l'anno 1835 ,dove suppose Cicerone avere trattato a
lungo dell'immortalità degli spiriti nell'opera della Consolazione, come
apparisce in gran parte dal primo libro delle Tusco lane.La quale supposizione,
che riteniamo a buon dritto per certa,ci fa grandemente deplorare la perdita di
questo monumento della letteratura latina,una forse delle opere più originali
di Cicerone,e da mostrare come il desiderio della figlia perduta gli volgesse a
più gravi e più solenni ispirazioni l'ingegno naturalmente fecondo.
CICERONE;LORO PARTE NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA. CONCLUSIONE . 1. Può
sembrare opportuno ai lettori (se pure ne avemmo in questo esame della
filosofia di M. Tullio) che noi dopo aver discorso delle scuole precedenti o
contem poranee all'oratore latino,del suo metodo e concetto della scienza e
finalmente dei libri fisici, logici e morali, con sideriamo adesso sotto un
rispetto più universale il valore speculativoel'indoledellesue dottrine.La qual
cosa,ol tre all'essere richiesta dalle leggi severe delle discipline
scientifiche, in cui l'uso della sintesi non deve mai scom pagnarsi da quello
dell'analisi,si porge opportuna a con futare l'accusa, che da alcuno potrebbe
esserci mossa ,di attribuire al più grande degli oratori latini una potenza
d'ingegno speculativo che mai per avventura non ebbe. La critica intorno alle
opere dottrinali di Cicerone, ne gletta dagli eruditi e dagli storici più
antichi, e infor mata a una severità eccessiva da quelli del secolo scorso e
del presente, è tempo ormai che ritorni a più maturo
esameeapiùimparzialigiudizj.Ma ciòammesso,non resta men fermo quell'altro
supremo pronunziato che Tacito invocava eloquentemente in un'età scellerata
come PARTE TERZA. INDOLE, VALORE SPECULATIVO E FONTI DELLE DOTTRINE DI I.
156 norma dell'ottima condotta civile, e che comanda allo spirito umano
di seguire una via lontana del pari dalla venerazione cieca, e dal disprezzo
non ragionevole del l'autorità. A questa via ci siamo attenuti nell'esame delle
opere di Cicerone.E non pertanto al critico che prende in mano quei suoi
scritti così varj, così fecondi, dove si mesce tanta parte della vita e delle
memorie latine, soprag giungono di tratto in tratto infinite difficoltà; non
ultima per certo quella, avvertita altra volta da noi, di accom pagnarlo
nell'indagine di tanti sistemi discordi, di racco glierne le sparse dottrine,e
quindi ricomporle nell'armonia dei principj e delle conseguenze. La
imparzialità delle opinioni, e il largo apprezzamento di quel tanto di vero e
di buono, che si trova sempre in ogni sistema,mentre costituisce un pregio
capitale della filosofia di Cicerone, fa sì che ella non si porga sempre
favorevolmente al giudizio della critica odierna,la quale troppo più spesso
vien cercando nelle materie speculative lo stupore delle invenzioni, anzichè la
legittima novità dell'esame e delle attinenze scientifiche. Ma per contrario
nulla v'è d'in ventato, nulla di strano nella filosofia di Marco Tullio. Ella è
la filosofia del senso comune e delle grandi tra dizioni, la quale, per
definirla con uno dei nostri filosofi, « non presume in alcuna cosa di saperne
più là della stessa natura:ma di questa,invece, si dichiara attenta disce pola,
e ne accetta i pronunziati siccome oracoli;.... filo sofia tanto riguardosa e
modesta, quanto serena e sicura nei suoi giudicj,e della quale fu detto averla
Socrate pri mamente levata dal cielo,e condotta a conversare fami g l i a r m e
n t e i n m e z z o a g l i u o m i n i . » ( M a m i a n i , C o n f ., p . 2
4 , vol. I.) Tale è l'indole vera della filosofia di Marco Tullio; e
contuttociò crediamo avere abbastanza mostrato in que sto nostro lavoro, come
alla semplicità de'principj e dei metodi si congiunga,segnatamente nella parte
morale,il procedimento rigoroso e l'unità di scienza. Coloro poi che
misurano il valore degli ingegni spe culativi dall'ardimento delle innovazioni,
e giudicano Marco Tullio una povera mente perchè dice egli stesso
di professare dottrine non arroganti, e non molto disco ste dalle opinioni
popolari, non hanno considerato a b bastanza in quanti modi si possa esercitare
la spontaneità del pensiero nelle materie scientifiche. V'hanno infatti di
quelle filosofie che esaminando e sindacando combattono gli errori de'tempi
loro;ve ne hanno altre che esponendo un nuovo ordine di pensieri,
ricostituiscono sopra diversi fondamenti l'edifizio scientifico;e nell'un caso
e nell'al tro l'intelletto del filosofo è attivo nelle materie esami nate od
esposte, e in quella efficacia speculativa v'ha pure sempre del nuovo. La
critica e l'esposizione delle dottrine speculative, sebbene quanto alla forma
estrin seca de pensieri sia opera d'arte, quanto alla materia è un esercizio
rigoroso di ragionamento e di filosofia; im perocchè al critico, se non vuol
fermarsi nella superficie, m a penetrare nel fondo e nell'anima delle
cose,convenga rifare,a dir così,il concetto dell'autore e trasformarsi in lui
stesso,convenga svelare illegame intimo che annoda le idee principali,
concepirne una moltitudine di acces sorie, da cui soltanto rampollano quelle,
vedere i trapassi e le attinenze più remote tra concetto e concetto,e scom
posta la totalità del sistema, ricomporla poi novamente colla viva efficacia
del suo pensiero. Apparisce da queste considerazioni che la novità e il valore
speculativo delle dottrine di Tullio si potrebbe soltanto dedurre dalla critica
assennata, e spesso profonda, ch'e'fece delle dottrine a n tecedenti e
contemporanee, raccogliendo con rara lar ghezza di principj e d'esame quanto di
meglio gli por gevano le scuole greche, per suggellarlo dell'impronta latina,e
svogliare iconnazionali della imitazionede'fo restieri. Questa parte espositiva
e confutativa delle greche dottrine, che tanto prevale nei libri tulliani, noi
la m o strammo contrapponendo ai pensieri proprj del sommo oratore l'analisi
de'sistemi da lui combattuti ed esposti; e tanto più perchè sappiamo essersi
affermato piùvolte da critici insigni che mancò a Cicerone una notizia pro
fonda della filosofia greca, mentre è cosa omai notissima 157
Cicerone adunque può innanzi tutto considerarsi come un istorico insigne
della filosofia, degno d'essere raggua gliato con Aristotele e con Platone per
l'ampio studio delle dottrine antecedenti e contemporanee. Chè se dai critici
più recenti è tenuto a ragione come fonte non principale di storia, perchè
spesso allega testi divisi, e perchè l'indole della sua riflessione scientifica
lo menava non di rado,come Platone,a suggellare del proprio pen siero le
dottrine d'altri sistemi, ogni età debbe essergli riconoscente d'aver campato
tanta e sì nobile parte delle greche meditazioni dalla ingiuria de'tempi e
dalla b a r barie degli uomini. M a d'altro canto, dopo una lettura ben
considerata degli scritti tulliani, può egli negarsi che vi si rinvenga una
parte dommatica, e un esercizio suo proprio della riflessione speculativa ? A
una simile domanda ci sembra avere bastantemente soddisfatto nella parte
antecedente di questo discorso coll'esporre ilmetodo di Cicerone nelle
principali teoriche della scienza; e qui facemmo manife sto come un tal metodo
di fina osservazione consistesse per lui nel ridurre ai semplici elementi delle
verità prin cipali i sistemi, e, sceverati gli errori, comporre un'altra volta
quelle verità nell'ordine del sapere. Difficile i m presa,che in tempi funesti
alla scienza ricercava un in gegno universale, e un potente esercizio della
riflessione. La quale,adoperata da Tullio al lume dell'evidenza in teriore, lo
condusse a salvare dal naufragio dello scetti cismo le più nobili parti delle
dottrine speculative.In Fisica mantenne la distinzione, quantunque non piena,
tra il finito e l'infinito, il contingente e il necessario, la n a t u r a e il
d i v i n o , l ' e s i s t e n z a d i D i o , d e l l ' u n i v e r s o e d e
l l'uomo, la natura delle cose corporee inferiori alle spi rituali e
all'eterne, l'ordine universale, la eccellenza della - '158 nelle storie
che la critica degli antichi scrittori, segna tamente per opera degli
Alessandrini,fioriva ai tempi di lui, eruditissimo nella lingua de'Greci, da
cui tradusse più libri di letteratura e di scienza, e che indirizzava i suoi
scritti ai più culti ingegni di R o m a . 159 r a g i o n e , il l
i b e r o a r b i t r i o e l ' i m m o r t a l i t à . I n L o g i c a t e n n
e salda la capacità del conoscimento a cogliere il vero, il concetto di
potenza, i sommi principj della ragione, la evidenza interiore, la distinzione
tra senso e intelletto e il metodo inventivo delle conoscenze. Nella Morale al
lume dei sentimenti interiori e del senso comune ricom poseilsistemaperfettodiquellascienza,e
salendocon metodo induttivo dalle tendenze e dai fini della natura all'oggetto
universale di legge e di dovere, ne seppe d e durre tutto l'ordine dei veri
relativi alla famiglia, all'in dividuo e allo stato.Veramente se ad un uomo,apparso
in quella età quando tutta la scienza,divenuta un pro blema, si lacerava fra i
delirj di una moltitudine di so fisti, nasca il pensiero di ricomporla a
sistema, e riassu mendo l'impresa di Socrate,raccolga le verità principali in
una sintesi vasta; e se vissuto in mezzo ai pregiudizj di un patriziato
superbo, e in tempi d'ateismo e di co stumi nefandi, egli invochi a soccorso
della riflessione speculativa l'esame delle antiche tradizioni e delle verità
fontali, contenute nella coscienza del genere u m a n o e nei
piùnobiliaffetti,aquest'uomo,parmi,non sipossane g a r e il n o m e d i f i l o
s o f o g r a n d e . L ' i n d a g i n e d e i d o m m i p r i mitivi e dei
sentimenti nella natura e nel linguaggio dei popoli voleva in Cicerone un
ingegno forte e addestrato a meditare, e un uso continuo dell'osservazione
interiore. Del che sono splendido testimonio le Orazioni, l’Epistole, il primo
libro delle Tusculane , il secondo e il quinto dei Fini e il proemio delle
Leggi ; che esposti senza preoc cupazione rettificherebbero d'assai il giudizio
sul valore speculativo dei suoi libri, e mostrerebbero com'egli esa minasse con
vero criterio di scienza l'umana natura nelle varie età,nelle diseguaglianze
de'sessi,degl'ingegni e de gli ordini civili, e sino dall'alto della tribuna, o
seduto agli spettacoli del circo cogliesse le verità eterne della coscienza
nelle manifestazioni spontanee del sentimento popolare . Parecchj critici di
Cicerone,e segnatamente quelli che gli negano ogni facoltà d'ingegno speculativo,non
hanno 160 inoltre considerato qual uso ei facesse della tradizione
scientifica,e come, movendo dalla coscienza, contrappo nesse all'esame
imperfetto e negativo de sistemi un esame comprensivo di tutto il sapere. Dissi
più volte ch'egli moveva dalla coscienza ; e questo fatto dell'osservazione
interiore, manifestissimo nelnostro filosofo,ogni volta che egli prende a
trattare importanti materie morali, non può mai andare disgiunto nell'esame
compiuto dei suoi scritti dallo studio ch'e'fece de'sistemi antecedenti e
contem poranei, perchè ci porge la più intima ragione del suo metodo esterno,
chiamato da molti impropriamente un eclettismo;e ci spiega come nella viva
armonia dell'animo umano egli cercasse quell'unità informatrice delle sue
dottrine,che il metodo sincretico d'Antioco e d'altri eru diti avrebbe indarno
aspettato dall'accozzamento inge gnoso di cento scuole. Certo Cicerone non ebbe
quella potenza inventrice d'ingegno speculativo, e quella rara f e l i c i t à
d e g l i a r d i m e n t i m e t a f i s i c i, c h e e b b e r o S o c r a t
e , P l a tone,Aristotele tra gli antichi,e tra imoderni Renato Cartesio,
Emanuele Kant e G. Batt.Vico. Il suo ingegno non altrettanto acuto, rapido e
penetrativo, quanto uni versale,comprensivo e solenne,più che in escogitare
nuove dottrine, e in architettare sistemi mirabili per ipotesi a u daci e
tirati a filo rigoroso di logica, piacevasi nel sot toporre ad esame le antiche
dottrine,sceverarne gli errori, ribatterne le istanze,scoprire nuove armonie
della ra gionescientificacolsensocomune,e iltuttopoi ricom porre in un vasto
disegno di scienza concorde colle arti, coi costumi e colla vita civile. Nel
che mirabilmente lo secondavano itempi.Allora,come era avvenuto nel secolo di
Socrate,e come per molte parti accade ora nel nostro, si manifestava nella
condizione delle discipline morali un'imperiosa necessità di riforma. L'eccesso
delle specu lazioni avea spossati gl'ingegni, e la scienza e l'arte tor navano
al vero della natura,unica fonte delle opere grandi. Era dunque suprema
necessità deporre la vana superbia delle innovazioni assolute, farsi discepoli
della natura, tornare agli adagj della sapienza popolare, e chiedere
alla tradizione de savj, non già il supremo criterio del vero,m a il sindacato
delle opinioni attinto nella coscienza più eletta del genere umano. Tale è la
parte modesta, e a un tempo solenne, che Marco Tullio rappresenta nella storia
della filosofia. Se ne'suoi scritti prevale il criterio della tradizione scien
tifica, perchè poco o nulla rimaneva da aggiungere alle speculazioni dei
filosofi greci ; e se, parlando ai concitta dini innamorati della letteratura e
delle dottrine stra niere, si mostra studioso al sommo dell'altrui autorità,
confessa però nel 1° degli Offici, ch'e'non seguiva gli a n tichi come
interprete, m a per proprio arbitrio e con li bero esame attingeva ai loro
fonti. È scritto nel primo dei Fini che egli sosteneva quelle dottrine soltanto
che erano approvate da lui,e vi aggiungeva un ordine pro prio di scrivere. Come
poi quest'ordine di scrivere (si gnificante non altro che un ordine di
pensieri) si esten desse per lui al collegamento necessario di tutta la
scienza, te lo dice in quelle parole dei Tuscolani (II, 1): « D i f ficile est
in philosophia pauca esse einota,cui non sint aut pleraque aut omnia.»
161 Noi dunque invitiamo gli studiosi delle lettere e della filosofia antica a
prendere in più seria considerazione quella sentenza, divenuta pur troppo
comune , che fa del filosofo latino non più che un seguace d'Antioco, e un
modesto raccoglitore delle dottrine greche. Di quanto in tervallo egli si
lasciasse discosti i migliori filosofi greci contemporanei può apparire assai
manifesto a chi ricordi quanto è detto nella prima parte di questo discorso.
Fra i latini poi non sapremmo chi contrapporgli,se non forse il dottissimo M.
Terenzio Varrone suo familiare, rammen tato nel primo degli Accademici,e della
cui filosofia per altro o poco o nulla sappiamo. Veramente, ammesso che
l'oratore romano fosse un eclettico, nella schietta e ger mana
significazionedellaparola,eglinon solo(siconsideri bene ) avrebbe dovuto
accettare le principali dottrine della scienza tal quali gliele porgeva la
Grecia, senza nulla mutare o innovare,ma l'autorità della tradizione scien
11 tifica sarebbe stata per lui unico e assoluto criterio per
venire dall'opinione al sapere.Ma per contrario, esami nando nella loro
pienezza le dottrine di Tullio, si vede ch'egli, anzichè inchinarsi a servile
imitazione, intese l'uso dell'autorità come un legittimo ossequio della ra
gione al vero riconosciuto per altrui testimonianza, e propose a sè stesso il
gran problema (chiarito poi dai moderni) del passaggio dalla certezza naturale
o volgare alla certezza scientifica. Pensatore e scrittore di cose fi losofiche
in una età in cui la scienza si divideva tra un dommatismo eccessivo e uno
scetticismo quasi assoluto, stimò che avrebbe ben meritato dell'umana ragione e
della patria,seguendo una filosofia modesta in mezzo agli estremi del tutto
credere e del tutto negare ; e scelse a suo metodo la verosimiglianza della
Nuova Accademia senza parteciparne lo scetticismo. Condotto da questo metodo in
mezzo alla confusione dei sistemi e alle rovine dell'edifizio scientifico, ne
sottopose ad esame le princi pali dottrine, e nelle parti incerte e dubbiose
ammise più gradi di verosimiglianza; le verità d'evidenza interiore affermò
risoluto. Nella fisica sperimentale non ebbe che verosimiglianze; in teologia
naturale, in cosmologia,in psicologia ed in logica ondeggiò tra il verosimile e
il certo; nella morale soggettiva e oggettiva, nelle teoriche del Diritto e
dello Stato si volse alla luce innegabile della coscienza e affermò con
certezza assoluta. Talchè in cia scuna parte delle sue dottrine, e nella
successione delle tre parti fra loro si nota quest'ordine di gradi che vanno
dal verosimile al certo. Tale procedimento, che si attiene all'intimo del suo
pensiero speculativo,l'osservi anche talvolta nella forma estrinseca e
nell'ordine logi cale delle dottrine.Imperciocchè,mentre isuoi scrittisono per
la maggior parte inquisitivi e disputativi,e la disputa ferve specialmente
nelle teoriche dell'essere e del cono scere e nei principj della teorica
dell'operare, quanto più procediamo nell'esame di questa, e dai giudizj dei
sistemi particolari e dalle pure opinioni ci leviamo al concetto di Dio, che
pose nell'umana ragione,a testimonianza di sè 162 163
stesso,laleggemorale,lacontroversia gradopergrado diminuisce,e questa
parte,cominciata col De finibus,dia logo contenzioso, segue col D e legibus e
col D e officiis, opere espositive, terminando colle dottrine della Repub
blica, e co'dialoghi popolari dell'Amicizia e della V e c chiezza. Esaminando
nella successione dei libri fisici, dialettici e morali questo procedimento del
pensiero di Tullio, le sue dottrine ci rappresentano quasi un tentativo di
ricom porre la filosofia nell'ordine perfetto delle conoscenze. Fu provato
assai largamente nel Capitolo primo della seconda parte, e in più luoghi delle
dottrine morali, come il nostro filosofo concepisse chiara la relazione che
inter cede tra la pienezza del soggetto scientifico, su cui si volge il
pensiero, e la unità oggettiva de'principj che danno legamento e connessione
rigorosa alla scienzaprima. Certo,checchè ne dicano il Brucker e il Bernhardy
(il secondo de'quali afferma che gli ultimi fondamenti del sapere rimasero
dubbiosi per Cicerone),apparisce evidente dai libri morali che il nostro
oratore seguendo la ragione informatrice del sistema platonico e dell'Etica di
Zenone, intese la sovranità dell'idea del Buono nell'ordine delle cognizioni, e
cercò in quel principio la più vasta di tutte le sintesi, che gli porgesse
unificata e spiegata nelle più remote sue applicazioni tutta la scienza. La
qual cosa crediamo avere posta sufficientemente in chiaro, esami nando il
dialogo delle Leggi. Ma il por mente a questa unità informatrice delle
dottrine tulliane, ci spiana la via per vedere come il suo metodo conciliativo
delle scuole particolari si risolvesse inun criteriointrinsecodiragione.Quistaildivario
es senziale tra la filosofia di Cicerone e la filosofia degli eclettici.
L'eclettico infatti raccogliendo le sue dottrine da sistemi contradittorj e
infetti sostanzialmente d'errore, come non può sperare di levarsi mai colla
riflessione a principj assoluti di scienza, così è costretto a scambiare la
vera filosofia,che è semplice ed una,con un viluppo di multiformi dottrine
senz'armonia e senz'accordo. La
verità,cheèingenita,assoluta,immortale,nonpuò uscire in eterno
dall'accozzo fortuito del falso; e la scelta a b bandonata a sè stessa e senza
un criterio intrinseco ed uno, mancherà sempre di principj saldi, universali,
apodittici. La qual cosa non conobbe abbastanza quella scuola fran cese,fiorita
nella prima metà di questo secolo, e a cui giu stamente si attribuisce la lode
di avere spento il sensismo, e restaurati gli studj istorici della filosofia
nella nostra Europa, quando sentenziava che i sistemi più avversi si compiono
tra loro, e che lo spirito umano procede d'er rore in errore per cammino non
interrotto alle armonie della Scienza prima. Ma Cicerone intese ben altrimenti
il principio costi tutivo delle sue dottrine. Per lui la tradizione scientifica
trovava un riscontro nell'esame immediato dei fatti in terni, e quindi egli
desunse il criterio con cui variamente conciliava i sistemi. Ora a questo
criterio che è la parte propria ed originale di sua dottrina, e che rappresenta
un vero esercizio dell'indagine filosofale nel sindacato delle scuole
particolari,fa d'uopo aver l'occhio per ve dere come e quanto egli attingesse
ai fonti delle opere greche. Sennonchè in tal questione, come osserva il
Kuehner, che ne disputava a lungo, e con rara diligenza, si affacciano
naturalmente non lievi difficoltà. In primo luogo, perchè M. Tullio, fornito di
varia e multiforme erudizione, volse in proprio uso tutte le migliori dottrine
dell'antichità italica e greca; secondariamente, perchè parlando di un dato
soggetto, non se ne stava contento all'autorità di un solo autore, m a
interrogava la m a g gior parte di quelli che ne avevano trattato, moltissimi
tra’ quali andarono per noi sventuratamente perduti ; e infine perchè il nostro
filosofo o tace non di rado, o accenna di passaggio i fonti a cui attinse, o
soltanto rammenta gli autori quando gli accade di confutarli. Passando poi a
determinare il metodo con cui Cicerone attinse ai greci filosofi, osserva
giustamente il critico te desco che questo metodo si esercitava in tre maniere.
Traduceva egli dal greco, trasportando liberamente in 164 165
latino, tanto (come egli stesso ci avverte nell'operetta De optimo genere
oratorum ) da serbare il colorito e la forza nativa del testo. Nelle altre
opere filosofiche segui principalmente un solo autore, adoperandovi sopra con
libera efficacia di riflessione ilsuo giudizio,e componendo le materie con
proprio ordine di pensieri;ricorse ad altri scrittori ove quello che seguiva
fosse riuscito mancante, e v'aggiunse del proprio.Era altresì suo costume inter
rogare varj libri che avean preso a trattare un m e d e simo soggetto, e ove
fosse stato possibile il conciliarli, trar fuori dalle loro dottrine un tutto
perfettamente connesso ed armonizzato.Quindi,prosegue ilKuehner,è necessario al
critico di Cicerone avvertire con diligenza gli scrittori da lui citati e accennati,
raffrontare spesso i suoi libri coi grandi monumenti dell'antica filosofia, che
ci pervennero intatti, osservare quello ch'egli trasse dai suoi maestri,e non
piccola luce daranno le congetture assennate e prudenti. Esposte queste
norme più generali di critica, noi non seguiremo più oltre l'erudito tedesco
nell'indagine minuta intorno alle fonti delle dottrine tulliane. Tale indagine
infatti, oltrechè si allontanerebbe di troppo dal l'indole speculativa e dai
confini di questo scritto,e riu scirebbe inutile al tutto per noi che non
neghiamo avere il filosofo latino attinto le sue dottrine migliori dall'an
tichità greca, è piena altresì d'incertezza e di congetture là dove i fonti
originali andarono perduti, e dove riesce difficile lo sceverare quanto appartiene
all'ingegno del nostro filosofo, e quanto debba invece attribuirsi all'au
torità stessa dei Greci. Del resto, concludendo coll'au tore della
dissertazione, M. Tullio ne'libri fisici, e in special modo nella disputa
sull'immortalità,seguì princi palmente Platone ; nei libri logici e nella
questione sul criterio della verosimiglianza e sulla percezione sensitiva ,
attinse dal Portico e dalla Nuova Accademia ; nei libri morali poi, discepolo
degli Stoici e dell'Antica Accade mia e del Peripato per ciò che risguarda le
dottrine speculative del bene e della legge, nelle materie politi
che e civili seguì a preferenza Aristotele,Teofrasto e P o libio. L a
qual cosa per altro vuole essere intesa discre tamente ; poichè, a considerare
bene il metodo con cui egli c o m p o s e i v a r j s i s t e m i, s i v e d e
c h e , s e b b e n e i n p i ù l u o ghi attinse separatamente dagli Stoici e
da Platone,tut tavia la natura dell'ingegno latino lo menava a tempe rare
l'austerità degli Stoici colle massime dell'Ateniese ; il che fece in più
luoghi, e segnatamente nel secondo libro della Natura degli Dei, e nel primo
della Divina zione. Come poi usando le opere dei greci scrittori, è attingendo
ai loro fonti la materia di sue dottrine, ei conservasse non pertanto la
libertà dell'ingegno, con queste parole lo attesta il Kuehner : « Negari quidem
non potest Ciceronem disputationes suas philosophicas e Graecorum fontibus
hausisse ; sed græca non interpretis modo ad verbum in linguam latinam
convertit,sed suum ipse iis adjunxit judicium,suum scribendi ordinem,viam
rationemque atque orationis lumen.Reputemus nobiscum , quantum ingenii
judiciique dexteritatis Cicero probaverit in hauriendis sapientiæ præceptis e
græcorum philoso phorum monumentis. Nam ex omnibus omnium æta tum græcorum
philosophorum disciplinis, ex hac ingenti materiæ quasi silva,ea delibavit,quæ
ad fingendos mores sapientiæ præceptis,et ad omnem vitam conformandam vim
omnino habebant saluberrimam. » (Epilogus). 2. Cicerone dunque , a riassumere
il tutto in poche parole,non fu nè Stoico,nè Accademico, nè Peripate tico, m a
fu vero Socratico con libertà di riflessione e di esame. Come Socrate, egli non
compose un sistema per fetto di cognizioni, m a tentò una riforma; non pervenne
agli estremi resultamenti delle indagini iniziate da lui, ma ne accennò la via
più sicura;non chiuse tutta la scienza nell'ambito angusto d'un'ipotesi,
d'un'inven zione o d'un fatto; m a assorgendo colla mente alla più feconda
delle armonie scientifiche, che è la ragione m o rale, vedeva in un'occhiata
spiegarsi da quella sintesi l'ordinamento necessario della scienza prima. Per
certo l'ingegno onnipotente dell’Ateniese, la cui efficacia dura
166 da ventiquattro secoli nell'indirizzo delle dottrine specu
lative, è unico esempio, e non mai superabile, nella storia della filosofia.Ma
consideri un poco il lettore, come al filosofo romano,ingegno senza dubbio men
vasto e meno inventivo, mentre si attraversavano per via le stesse dif ficoltà,
e forse maggiori,non arrisero altrettanto propizie, quanto al greco, le
condizioni dei tempi e dei pubblici costumi. Tullio non s'abbattè,come Socrate,
ad un po polo,qual era quello d'Atene, poderoso della fantasia, supremamente
inclinato da natura agli studj speculativi, e innamorato d’un amore infinito
del bello e del per fetto.La gente romana,sebbene felicemente disposta a
sentire ciò che è certo e applicabile fra i resultamenti dell'umano ingegno,
sebbene disciplinata nelle deduzioni morali dal magistero dei Giureconsulti,
ritenne per se coli quei costumi severi e quell'abito politico e militare, non
facilmente conciliabile colla vita meditativa della scienza e dell'arte. Più
tardi allorchè l'impero esteso a d u e t e r z i d e l m o n d o , e il v i v e
r e a g i a t o , e l a n e c e s s i t à d i allontanare il pensiero dallo
spettacolo della tirannia nascente, volgeva i migliori tra i Romani agli studj
della filosofia, la Grecia, maestra ai vincitori d'ogni arte e di ogni
disciplina civile, li trasse a sè, sviando la sponta neità degl'ingegni col
facile diletto dell'imitazione.Chè, se ciò non può dirsi assolutamente delle
lettere e delle scienze latine da chi consideri quel tanto d'originale che pur
v'è nelle imitazioni di Lucrezio, di Catullo e di Virgi lio,e che sappiamo
esservistato nei libridiVarrone,ora perduti,non resta men vero che tanta era
laservitùdel pensiero ai tempi di Tullio da costringerlo a scusarsi
pubblicamente per avere usata la propria lingua nelle materie speculative.
Opera altamente civile, altamente romana fu adun que quella che imprese il
nostro filosofo, procacciando di volgere il linguaggio latino alla
significazione dei veri scientifici. Nel che, tanto più egli si mostrò gran
maestro , quanto minori e maggiormente imperfetti erano gli esempi di coloro
che l'avean preceduto. Amafinio e Rabirio 167 168 epicurei,
rammentati da lui nel libro terzo delle Tusco lane (C. II),e ch'egli dice non
averlettoneppure,scris sero primi di cose filosofiche in modo informe ed
incolto. Più tardi Tito Lucrezio Caro esponeva splendidamente nelpoema De
rerumnaturalafilosofiad'Epicuro;ma tutti questi scrittori, dei quali il secondo
non era uscito dalle pastoje della poesia didascalica, non aveano potuto al
certo esercitare un'alta efficacia sul linguaggio filo sofico di Roma,ristretti
com'erano nelle cerchia d'un sistema povero e meschinamente sofistico.Noi
dunque con corriamo ben volentieri nella sentenza del Ritter, assicu rando che
soltanto ai tempi di Cicerone la filosofia volse in proprio uso l'idioma latino
; la qual cosa,per quanto è lecito pensarne ai moderni, può unicamente
affermarsi dei libri di lui dove la lingua filosofica è già formata, e dove la
parola si porge per modo mirabile ad ogni m o venza e inflessione del pensiero.
L'impresa che Cicerone tentava, era dunque novissima, e l'istrumento ch'egli a
v e v a f r a m a n o , il m e n o a c c o n c i o a c o m p i r l a . P e r c
h è n o n si trattava già d'esporre le dottrine d'un solo filosofo, come avean
fatto Amafinio, Rabirio e Lucrezio,ma con veniva volgersi a tutte le scuole, e
addestrare il giovane linguaggio latino nell'intero ámbito della
scienza.Talvolta, è vero, gli mancò la parola più appropriata al concetto, e
ristretto entro i termini d'una lingua non disciplinata ancora nelle indagini
troppo sottili, procedè incerto sulla significazione di qualche frase
scientifica appresa dai Greci; m a nella maggior parte dei suoi scritti egli
ebbe in grado supremo la facoltà di lumeggiare e colorire l'idea, e di far sì
che il pensiero rispondesse nella p a rola, come figura bella in limpido
specchio. Sentenziando ch'è vana impresa e da fanciulli voler dire con favella
ornata le cose sottili, plane autem it perspicue posse, docti et intelligentis
viri (D e fin ., III,5), seguì uno stile che fosse egualmente lontano dalla
forma splendida degli oratori, e dalla aridità faticosa di parec chj
contemporanei. Quinci egli trasse quel genere d'ora zione che negli Officj
chiamò æquabile et temperatum . 8 L'ingegno universale e
comprensivo di Cicerone a p parisce in ogni parte delle sue dottrine. Venuto ,
tuttora giovanissimo,inRoma,dove facevano capo le faccende d'Italia e del
mondo,tollerante per natura delle altrui opinioni, e disposto a tolleranza
maggiore dallo studio 1 Intorno allo stile filosofico di Cicerone scrisse con
molta dottrina il prof. Michele Ferrucci, in un suo discorso De singolari
merili di Cice g'one nella lingua ed cloquenza latina, edito recentemente in
Pisa coi tipi del Nistri. 169 La severità della meditazione scientifica è
in lui sempre solenne, m a variamente temperata dall'indole del sog
getto;èsobriol'usodellemetafore;ilperiodo procede ora maestoso, ora interrotto,
ora veloce, ora lento, a se conda della materia,e talvolta (come negli
Accademici) imita il linguaggio familiare, talaltra (come nelle Tusco lane)
sembra avvicinarsi piuttosto alla forma oratoria. Chi poi considerasse a parte
a parte la varietà degli stili nelle opere differenti, osserverebbe potersi
queste distin guere in più classi (modernamente in più maniere) cor rispondenti
ai varj tempi in cui l'autore le scrisse. Il D e republica e il D e legibus,
appartenenti al primo tempo, in cui egli era ancora indefessamente occupato nei
negozj pubblici e del fôro, hanno più del carattere ora torio.Gli
Accademici,ilDe finibus,ilDe natura deo rum,scritti nel 709 e 710 di Roma,poco
prima e poco dopo la morte di Cesare, palesano uno studio delibe rato,continuo
della severa forma speculativa; laddove nel De officiis, nel Cato Major e nel
De amicitia t’av vedi come l'abito della meditazione e la lettura degli ottimi esemplari
greci lo avessero condotto al miglior temperamento dello stile didattico colla
forma oratoria. Imitatore delle melodie d'Iocrate, e innamorato dello splendore
di Platone, ch'egli chiama il dio dei filosofi, lo seguì non soltanto nella
forma estrinseca de' suoi trat tati, e nel metodo del dialogizzare, m a
improntò sul Fedro, sulla Repubblica, sul Fedone, sulle Leggi i tratti più
belli delle opere sue, rimasti fino a noi come uno dei monumenti più solenni
delle lettere antiche. 170 imparziale che fece delle dottrine
contemporanee, con trasse per tempo quell'abito universale d'osservazione, e
quel sentimento delle armonie scientifiche, così vivo in ogni tempo nelle menti
romane,in lui straordinario.Cre sciuto intempi funesti alla libertà,e testimone
di quanti esilj e di quanto sangue contaminasse l'Italia la rabbia scellerata
di Mario e di Silla, egli in mezzo allo strepito delle armi e all'imperversare
delle civili discordie appli cava dì e notte con ardore inestimabile ad ogni
genera zione di studj. Più tardi per restaurare la salute, inde bolita dalla
pratica del fôro, si recò in Grecia, dove udì le scuole migliori, peragrò tutta
l'Asia, si trattenne a Rodi,e tornava inpatria ammaestrato da una larga no
tizia d’uomini e di cose,e dalla famigliaritàcoipiùpre stanti oratori. La sua
eloquenza, nutrita negli spazj del l'Accademia, ebbe ampiezza misurata e
solenne, tanto diversa dalla nervosa concisione di Demostene, e quale
s'addiceva alla pienezza e solennità de'suoi pensieri.Ne la ragione intima dell'arte
sua cirimane occulta,qualora si consideri nel De oratore, nel Bruto e
nell'Orator il significato vastissimo ch'egli riferisce alla parola elo quenza.
Quindi il largo concetto dell'unità del sapere, espresso in varj luoghi del D e
oratore, e meglio in quella sentenza: « omnem doctrinam ingenuarum et humana
rum artium uno quodam societatis vinculo contineri,» ci fa manifesto com'egli
intendeva l'officio dello scrittore,e come nella sua vita di cittadino,
d'oratore e di filosofo si mostrasse uno degli uomini più universali che mai
siano apparsi nel mondo. Come uomo di stato, egli vagheggiò la carità univer
sale del genere umano, e ne scrisse mirabili parole negli Offici e nelle
Leggi.Giovane ancora,patrocinando lacausa di una donna Aretina, giustificò le pretensioni
delle città italiane alla cittadinanza romana.Nel suo consolato sven tando la
congiura di Catilina,salvava da pericolo certo e imminente la libertà di Roma,e
tentava comporre l'or dine senatorio e l’equestre in un saldo partito contro il
prevalere della fazione plebea.Come avvocato e come oratore
politico (così scrive di lui il Vannucci),«creò un nuovo genere d'eloquenza
composto di tutto ciò che v'era di più bello a Roma e fra iGreci.Per giungere a
questo con l'amore e con l'entusiasmo,che è padre di tutte le egregie cose,
coltivò gli studj trascurati da altri, e con siderando che il poeta e l'oratore
dal lato degli orna menti hanno, com'egli scrisse, molte cose comuni, con
esercizj poetici ingentili e perfezionò lo stile latino. R i cercò i modelli
più famosi dell'eloquenza romana,svolse i Greci,ne tradusse per suo uso le
orazioni più belle.Sti mava che per esser grande oratore si vuol sapere ogni
cosa,e avere tutte le dottrine come compagne e ministre. Quindi afforzò la sua
ragione colle dottrine dei grandi filosofi, si arricchì della scienza del
diritto, non lasciò niuno studio da banda ; e così apparecchiato rappresentò
nel fôro la grandezza romana ingentilita dall'arte greca, e apparve come
splendido esempio dell'oratore perfetto, di cui mandò a noi il ritratto ne'suoi
scritti didattici.» (Studi storici e morali sulla letteratura latina, Firenze,
F. Le Monnier, 1862.) Non è dunque maraviglia se, dis posto per abito di mente
e per disciplina a sentire l’uni versalità in ogni cosa, espose più tardi
ne'suoi scritti speculativi ilmeglio delle scuole greche,e tornando ai fon
damenti e ai principj di tutto il sapere, vi cercò quel legame unitivo che
desse vita e armonia alle sparse membra della tradizione scientifica.
Seinluidopol'oratoreeilpoliticoconsideratel'uomo, dovrete riconoscere negli
scritti speculativi profondamente scolpite le tracce del sentimento e
dell'animo suo. In essi,quanto alla manifestazione degli affetti, ritrovi
quella sua schiettezza d'indole generosa, quegli amori potenti di gloria, di
famiglia e di patria, quell'abbandono di t e nerezza,ond'era caro finchè visse
ad ogni anima gen tile, e l'incertezza dei propositi, che talvolta lo rese in
feriore all'impeto degli avvenimenti, e un desiderio di lodi un po' troppo
sincero lo sentì qua e là nell'irreso lutezza delle espressioni e nello stile
maestoso non senza, pompa . L'esempio di Roma antica ch'egli seguì e
studio 171 con amore,quale un perfetto monumento di sapienza
ci vile,non gli tolse però di vederne e di biasimarne i difetti, come
l'eccessivo potere del popolo che spesso trascorreva in licenza,l'abuso
dell'autorità ne'patrizj,le guerre volte a istrumento di grandezza privata,la
prolungazione degli imperj, idisordini quotidiani nel fôro, e quelle leggi
agrarie e sui contratti, la cui promulgazione sciogliendo i diritti di
proprietà e l'osservanza della fede,era un vero attentato alle basi della
società civile.Dalla critica meno benigna si allegano alcuni passi dei suoi
scritti politici in cui parve dimenticare i principj della giustizia e della
moralità l o d a n d o il t i r a n n i c i d i o , t e n t a n d o g i u s t i
f i c a r e c o l t i t o l o d e l l a c i v i l t à il p r i m a t o o p p r
e s s i v o d e i R o m a n i s u l l e a l t r e n a z i o n i , ammettendo
come teorica di condotta civile il cangiar partito a seconda delle
circostanze.Nè io lo difendo da queste accuse;ma rammento solo per debito
imparziale d'istoria, che le stesse ragioni recate da lui a' suoi tempi per
giustificare le conquiste romane, sono state addotte in pieno secolo XIX da una
delle nazioni più civili del mondo per iscusare non meno odiose conquiste;e
che,se la storia non giustificò Tullio nel diritto,l'ha in parte giustificato
nel fatto, mostrando di quanto lume di civiltà la moderna Europa sia debitrice
alle conquiste romane. I giudizj intorno alla sua condotta morale e politica,
già di troppo benigni nelle opere del Middleton , e del Niebuhr,troppo severi
in quelle di Melmoth, Drumann e Mommsen,furono non ha guari saviamente temperati
in un bel libro del signor William Forsyth, venuto alla luce in Londra il 1864,
e di cui abbiam veduta quest'anno una nuova edizione. Tullio, così osserva
sapientemente il biografo inglese, fu qualche volta debole, timido, irreso
luto,m a a tali difetti rispose in altre condizioni di tempi con una nobile
condotta civile. Ei si diportò da uomo e da cittadino nella congiura di
Catilina, e nel finale c o m battimento contro il triunviro Antonio.Chè se non
sem pre fu pari agli avvenimenti che lo incalzavano, se non sostenne
coraggiosamente l'esilio, e restituito in patria, ondeggiò a lungo tra la parte
di Cesare e quella di 172 173 Pompeo,bisogna considerare
quanto difficili tempi fossero quelli a chi, come lui, non avea mai patteggiato
colla coscienza, e riconosceva nella religione del giuramento, e nella santità
dei costumi civili il principio tutelare delle libere istituzioni. Questo alto
sentimento del buono,po tentissimo nel nostro oratore, è la ragione che diede
sublimità vera alle sue dottrine morali ; e ci spiega c o m e nei libri degli
Officj, della Repubblica e delleLeggi egli desunse i principj fondamentali
della filosofia civile dal concetto più puro dell'onesto e della legge ; e
vissuto in tempi nefandi intese a conciliare l'interesse dell'utile pubblico
colla giustizia assoluta, nell'idea della famiglia, nell'idea dello stato,nel
possesso, nella legislazione e nei diritti di guerra e di pace. · Tale pure è
l'opinione esposta dal signor Gaston Boissier ne'suoi dotti articoli sulla
politica di Cicerone, stampati nella Rivista de'Duc Mondi. Corre adesso
in Europa un tempo assai propizio alla critica degli scrittori latini.Invero
gli studj che accompa gnarono fra noi ilprimo risorgimento delle lettere anti
che, mossi da curiosità e da desiderio di un passato a cui la notte tempestosa
dei tempi di mezzo sembrava aver cresciuto splendore, non mantennero sempre una
giusta eguaglianza fra il libero esame e l'ossequio dovuto alle tradizioni. M a
tal difetto venne largamente emendato in età più vicina, allorchè da molti si
esaminò solo per negare,e le passioni politiche e religiose fecero impaccio più
volte alla schietta manifestazione del vero. Oggi la quiete dei tempi,e questo
nuovo ricomporsi d'Europa a monarchie nazionali,avvicinando i popoli tra loro e
ren dendo sempre più facile il sindacato delle opinioni, per suade le menti a
giudizj più severi e imparziali. Ne mancano esempj di queste nuove condizioni
della critica odierna, segnatamente per ciò che risguarda gli studj del
l'antichità latina; non ignorano infatti i nostri lettori che,mentre in
Germania il Bernhardy e il Mommsen giudicarono con molta severità Cicerone, in
Francia e in Inghilterra hanno parlato con bella temperanza delle sue
dottrine morali e della sua vita politica il Desjardins e il Forsyth. Fra
noi gli studj istorici della filosofia o non furono sin qui troppo
favorevolmente accolti, o rimasero oscuri nella solitudine dei gabinetti,
mentre le lettere esercitavano un ufficio civile, e all'unità e all'indipen
denza dava opera l'intera nazione. È tempo oggimai che torniamo a così nobili
studj ;e la critica istorica e filoso fica faccia prova di richiamare nella
memoria ricono scente degli Italiani la storia di quel popolo da cui
venne il Desjardins e il Forsyth. Fra noi gli studj istorici della
filosofia o non furono sin qui troppo favorevolmente accolti, o rimasero oscuri
nella solitudine dei gabinetti, mentre le lettere esercitavano un ufficio
civile, e all'unità e all'indipen denza dava opera l'intera nazione. È tempo
oggimai che torniamo a così nobili studj ;e la critica istorica e filoso fica
faccia prova di richiamare nella memoria ricono scente degli Italiani la storia
di quel popolo da cui venne la prima luce delle nostre istituzioni. Allora
soltanto le dottrine di Cicerone saranno meglio studiate e apprezzate, e la
natura comprensiva dell'ingegno romano,dicuiegli fu esempio solenne, ci
apparirà come una sintesi vasta e feconda in cui s'accoglieva la coscienza dei
popoli antichi.Giacomo Barzellotti. Keywords.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barzellotti” – The Swimming-Pool Library.
Battaglia (Palmi). Filosofo. Grice: “You gotta like Battaglia; he
plays with the Italian language in ways I cannot play in the English language;
e. g. consider his philosophising ‘between being and value,’ ‘tra l’essere e il
valore.’ Surely the thing is the copula: A is B, A is worth B.’ -- “A e B,” “A vale.” “A vale B.” – “We
cannot say that a dollar is worth a dollar --. Stricctly, we CAN, it’s true –
but the implicaturum is ‘I’m an idiot or a philosopher.” Grice: “And I can say,
“Socrate e,’ i. e. Socrates is. And ‘Socrates vale,’ i.e. Socrates has value.’”
Grice: “When I did my linguistic
botanising on ‘value,’ I followed Austin’s misadvice: never contrast with
Anglo-Saxon, but actually ‘worth’ in Anglo-Saxon WAS a verb, and cognate with
Battaglia, ‘valere.’!” In seguito al terremoto di Messina lasciò la Calabria,
trasferendosi con tutta la famiglia a Roma, dove intraprese il suo percorso di
studi. Si laurea con una tesi su Marsilio
da Padova. Ottenuta la libera docenza di filosofia e un contratto
d'insegnamento dall'ateneo capitolino, si trasferì a Siena, dove vinse la
cattedra nella medesima disciplina. Si
sposta da Siena a Bologna, dove già teneva delle lezioni. Nell'ateneo bolognese
insegna, contemporaneamente, filosofia morale e filosofia del diritto nella
Facoltà di Filosofia, di cui e preside. Rettore dell'ateneo di Bologna. Il Comune
di Bologna gli ha dedicato una strada, e Bologna intitola a suo nome la Biblioteca
del ‘Dipartimento’ di filosofia. È stato autore di numerosi saggi in diverse
branche del diritto e della filosofia e, in loro connessione, sulla storia del
pensiero, sia antico che modern. Tale interesse declina anche in chiave
pedagogica, a testimonianza dell'intensa attenzione rivolta alla storia quale
concreta fonte dell'organizzazione sociale umana e del complesso e diffidente
approdo allo spiritualismo. Con i
sostenitori attualisti dell'autonomia della categoria filosofica della
politica, pensa che occorresse lasciare alla storia tout court quanto non fosse
pensiero sistematico, preservando così la storia delle dottrine da ogni
contaminazione con le dialettica sociale e istituzionale". Altre opere:“Cuoco e la formazione dello
spirito nazionale in Italia” (Bemporad, Firenze); “Marsilio da Padova e la filosofia
politica del Medioevo” (Felice Le Monnier, Firenze); “La crisi del diritto
naturale: saggio su alcune tendenze contemporanee della filosofia del diritto”
(La Nuova Italia, Firenze); “Diritto e filosofia della pratica: saggio su
alcuni problemi dell'idealismo contemporaneo” (La Nuova Italia, Firenze); “Thomasio
filosofo e giurista” (Circolo giuridico di Siena);“Scritti di teoria dello
stato” (Giuffré, Milano); “Orientamenti metodologici nella storia delle
dottrine politiche” (Tip. Nuova, Siena); “Problemi metodologici nella storia
delle dottrine politiche ed economiche” (Foro Italiano, Roma); “Corso di filosofia
del diritto” (Soc. editrice "Foro italiano", Roma); “Il domma della
personalità giuridica dello Stato” (Zanichelli, Bologna); “Impero Chiesa e
stati particolari nel pensiero di Alighieri” (Zanichelli, Bologna); “Libertà ed
uguaglianza nelle dichiarazioni francesi dei diritti dal 1789 al 1795: testi,
lavori preparatorii, progetti parlamentari” (Zanichelli, Bologna); “Il valore
nella storia” (Upeb, Bologna); “Il problema morale nell'esistenzialismo”
(Zuffi, Bologna); “Saggi sull'Utopia di Tommaso Moro” (Zuffi, Bologna); “Cenni
storici intorno al concetto di lavoro” (Zuffi, Bologna); “Filosofia del lavoro”
(Zuffi, Bologna); “Lineamenti di storia delle dottrine politiche” (Giuffré,
Milano); “Morale e storia nella prospettiva spiritualistica” (Zuffi, Bologna);
“Nuovi scritti di teoria dello stato” (Giuffré, Milano); “I valori fra la
metafisica e la storia” (Zanichelli, Bologna); “Linee sommarie di dottrina
morale” (Patron, Bologna); “I valori della pratica e l'esperienza storica”
(Patron, Bologna); “Il valore estetico” (Morcelliana, Brescia); “Cinque saggi
intorno alla sociologia” (Istituto Luigi Sturzo, Roma); “ Parva Desanctisiana”
(Patron, Bologna); “Economia, diritto, morale” (Coop. libraria universitaria
editoriale bolognese, Bologna); “Croce e i fratelli Mario e Luigi Sturzo”
(Longo, Ravenna); “Rosmini tra l'essere e i valori, Guida, Napoli); “Mondo
storico ed escatologia” (Clueb, Bologna); “Le carte dei diritti: dalla Magna
Charta alla carta del lavoro” (Sansoni, Firenze); “Le carte dei diritti: dalla
Magna Charta alla Carta di San Francisco” (Sansoni, Firenze); “Meis, I problemi
dello stato moderno” (Zanichelli, Bologna); “Sanctis, Lettere a Villari”
(Einaudi, Torino); “Lettere di Meis a Spaventa” (Azzoguidi, Bologna); “Il
pensiero pedagogico del Rinascimento” (Sansoni, Firenze); “Locke, Antologia
degli scritti politici” (Il Mulino, Bologna). Il pensiero di Felice Battaglia,
Atti del Seminario promosso dal Dipartimento di Filosofia di Bologna (29-30
ottobre 1987), Nicola Matteucci e Alberto Pasquinelli, Bologna, CLUEB,
1989, .
A cent'anni dalla nascita, Bologna, Baiesi, 2002, . Dal
filosofo all'uomo, Atti del convegno di studi su Felice Battaglia (Palmi 12-13
maggio 1990), Giuseppe Chiofalo, Palmi, Arti Grafiche Edizioni, 1991, . M. Ferrari, La filosofia italiana, in
«Storia della Filosofia», XI (La
filosofia contemporanea. Seconda metà del Novecento), t. I, M. Paganini,
Vallardi, Milano 199830. G. Marchello , Felice Battaglia, Edizioni di
Filosofia, Torino 1953. Nicola Matteucci, Felice Battaglia, filosofo della
pratica, in Atti della Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna, Classe
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1977-78 (LXXII), 297–305 (ora rifuso in
Id., Filosofi politici contemporanei, Il Mulino, Bologna 2001, 55–66,
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Scerbo, Felice Battaglia: la centralità del valore giuridico, Edizioni
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(290 ). A. Anzalone, Las aparentes contradicciones de la filosofía
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, 101–121. A. Anzalone, El Estado, sus
fines y su relación con el derecho. La perspectiva de Felice Battaglia, in “Lex
Social (Revista jurídica de los Derechos Sociales)”, Siviglia, enero-junio
, 3 n. 1, 59–74. A. Anzalone, La integración europea
como modelo para Latinoamérica según Felice Battaglia, in «Temas de Filosofía
Jurídica y Política», Número 5, SFD, Córdoba, ,
11–41. Girolamo Cotroneo, Felice Battaglia e la "filosofia dei
valori", in Benedetto Croce e altri ancora, Soveria Mannelli, Rubbettino,
2005, 173-194, 88-498-1264-7. Onorificenze Dottore honoris
causanastrino per uniforme ordinariaDottore honoris causa — Universidade de São
Paulo. Ufficiale dell'Ordine di Leopoldo IInastrino per uniforme ordinariaUfficiale
dell'Ordine di Leopoldo II Cavaliere dell'Ordine di San Gregorio Magno (classe
civile)nastrino per uniforme ordinariaCavaliere dell'Ordine di San Gregorio
Magno (classe civile) Grande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica
Italiananastrino per uniforme ordinariaGrande Ufficiale Ordine al Merito della
Repubblica Italiana — 2 giugno 1953 Cavaliere di gran croce dell'Ordine al
merito della Repubblica italiananastrino per uniforme ordinariaCavaliere di
gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana — 2 giugno 1959
Note Vittor Ivo Comparato, Vent'anni di
storia del pensiero politico in Italia, Il pensiero politico, 1987, anno XX, n.
13. Università degli Studi di Bologna,
fondata nel sec. XI. Annuario degli Anni Accademici 1950-511951-52 (JPG),
Bologna, Tipografia Compositori, 195419.
Dettaglio decorato, Presidenza della Repubblica. 27 giugno . Sito web del Quirinale: dettaglio decorato.
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. ULTURA MODERNA - Quaderni di Storia, Filosofia e
Politica a cura di GIOVANNI MARCHI FELICE BATTAGLIA L'opera di Vincenzo Cuoco e
la formazione dello spirito nazionale in Italia R. BEMPORAD & FIGLIO -
Editori - FIRENZE Rappresentanti per il Piemonte : S. LATTES & C. Torino.
PROPRIETÀ LETTERARIA ED ARTISTICA RISERVATA COPYRIGHT BY R. BEMPORAD & F.'
, 1925 1925. – Firenze, Stab. Pisa & Lampronti. DG 848 137 C8B3З CAPITOLO
I. La tradizione italica. Il Settecento e la sua importanza. L’Italia ritrova
sè stessa nella sua storia. Il processo unitario . – L'eru dizione: Muratori.
La filosofia : Vico. Antitesi al cartesianismo. -- Esperienza filologica . -
Italianismo di Vico: De antiquissima italorum sapientia. – Vico impersona la
nuova tradizione: a lui si ricollega Vin cenzo Cuoco. La fortuna di Vico
nell'alta Italia e le origini del nuovo pensiero. – Vincenzo Cuoco e i suoi
studiosi. La rivoluzione napoletana del '99.- La cultura rivo luzionaria e prerivoluzionaria.
- Razionalismo, astrat tismo. – La classe colta di Napoli. – Riformismo go
vernativo. Rottura tra Stato e borghesia. Carattere passivo della rivoluzione.
« Le origini sacre della nuova Italia » . Gli storici della letteratura e della
vita del popolo ita liano, che vogliano trattare del Risorgimento nostro con
piena e sicura conoscenza di cause e di effetti, debbono necessariamente
rifarsi al secolo XVIII. Nel secolo XVIII sono le scaturigini di quel vasto e
nobile movimento, denso più di idee che di fatti , poi che i pochi e modesti
avveni menti ricevono luce ed acquistano nobiltà solo nel riflesso delle idee,
di quel vasto e nobile movimento, ripeto, che condurrà all'unificazione e
all'indipendenza italiana . Mi rabile la continuità della vita di questo popolo
antico M519630 6 d'Italia : i secoli, che ad una critica occhialuta sembrano i
più torbidi, si presentano, poi, a chi sappia investigarli con amore e con
coscienza, gravi di preparazione, pon derosi d'esperienza : è tutta una vita che
si prepara , si svolge, sente il bisogno di concretizzarsi, finchè scoppierà in
foga d'eroismo e di volontà . È una preparazione lenta diuturna faticosa, la
quale fa emergere figure grandi di filosofi e di poeti, di giuristi e di uomini
di governo o di chiesa. La critica ha il dovere di rivendicare questi secoli e
di valutarli al paragone di concetti superiori di filosofia . È ridicolo
condannare alcune età nel corso d'un popolo, alcuni secoli in blocco per altri
secoli, chiamare questa età di decadenza, quella età di fioritura . I periodi
storici, le ere, i secoli sono quello che sono con le loro istituzioni, col
loro pensiero, con la loro arte, con i loro uomini, soprattutto coi loro
uomini. È ridicolo condannare i se coli XVII e XVIII per il XIX, come si usava
sino a venti anni fa, critico spietato, Minosse che giudica e manda senza
appello, il nostro maggiore poeta, Giosue Carducci. I secoli XVII e XVIII hanno
invece diritto alla nostra ammirazione come i secoli, in cui i destini della
patria si sono venuti maturando, attraverso un rinnovato fervore di pensiero,
di critica, di storiografia , preludio modesto mafaticoso di opere civili,
attraverso un rifoggiarsi, insomma, della coscienza nazionale, che da
universalmente umana tende a divenire più veramente, se pure più
ristrettivamente, italica . È forse, se l'affer mazione non trovasse nella sua
rigidità una smentita nell'oceanica figura di Giambattista Vico, un chiudersi
in noi stessi, un rinnegare gli ideali cosmopolitici, per ritro vare il
particolare più veramente nostro, l'essenza della stirpe. La storia è
l'esperienza del nuovo spirito, che gradual mente viene formandosi. Il popolo
della penisola s'astrae, si ritira, si allontana dalle grandi competizioni
politiche e culturali europee. Il centro del mondo si è spostato : non più
Roma, ma Parigi, Lisbona, Madrid, Londra , Vienna. Mentre le altre genti si
gettano tumultuose nel 7 fervore della conquista, nella lotta per il
predominio, e noi siamo le vittime, la nostra razza si chiude nel guscio della
propria coscienza , nel culto della propria essenza . Perchè ? Per essere più
italiani, per essere noi stessi , per riacquistare a noi tutto noi stessi, per
sapere il nostro passato, per foggiare nello spirito l'avvenire. Così
quell'Italia, che ai miopi occhialuti corifei dello storicismo positivo sembra
assente tra la seconda metà del Seicento e la prima metà del Settecento, per
riacqui stare vita nuova proprio con la critica razionalista pre
rivoluzionaria, e poi con « gli immortali princípi » del l '89 , è invece viva
e desta, sempre, in ogni tempo, per ritrovarsi, essa stessa , di fronte
all'irrompere delle giovani schiere galliche con un patrimonio nobilissimo di
schietto pensiero italico , di sapienza civile antica, di esperienza politica
nuova. Lo storico deve valutare tutto. La storia della cultura, ben altra cosa,
notiamo, dalla storia dell'arte, particola ristica, d'un subiettivismo che
rinnega ogni sviluppo che non sia nello spirito individuale e creatore, ha una
sua mirabile continuità , una sua ininterrotta evoluzione: l'oggi sorge dal
passato, nel passato si prepara il pre sente, il presente è la fucina in cui si
foggia il futuro. La storia deve valutare tutto e trovare i nessi ideali tra
gli avvenimenti, se vuol essere storia, cioè studio critico e superiore delle
idee, che muovono gli uomini gli uo mini sono sopra tutto idee, spirito —, e
non cronaca astratta di ciò che gli uomini fanno e potevano anche non fare. Lo
storico deve dunque, se vuol rinvenire l'origine vera del nostro Risorgimento,
salire assai più indietro che di solito non si faccia ed osservare più le idee
che i fatti, poi che i fatti a volte sono puri e semplici fenomeni senza
conseguenze, che si spengono come stelle cadenti nel cielo dopo un breve ciclo,
mentre le idee vivono, germinano nell'oscurità , generano altre idee, seguendo
la trama fatale del corso delle stirpi. Le idee rivelano quel mondo dello
spirito, ove si foggiano gli eventi, rivelano il segreto della génesi de'
popoli, il loro assurgere all'im 8 pero, le cause della grandezza politica .
Dietro il fatto sto rico c'è l'idea, la cui vita, vita storica cioè dinamica,
lo studioso deve analizzare nella sua complessa formazione e non rinnegare per
i preconcetti del proprio cervello. La rinascita dell'elemento italiano , particolaristico
e nazionalista , è un fatto estrinsecamente assai prossimo a noi, intimamente
preparato da lunga meditazione, da lunga speculazione, da lunghe ricerche. Una
storia vera della cultura , specie della cultura politica, non può non
ricollegarsi al secolo XVIII, anzi al secolo XVII, per ri trovarvi le origini
vere dell'Italia di oggi. Dove si foggia questa nuova coscienza, questa nuova
italianità ? Nell'angolo della penisola , che per il mo mento (siamo nel secolo
XVIII) , guardando in modo sommario la distesa temporale della storia , è il
più li bero dall'influsso culturale straniero . Non Venezia, non Milano, non
Torino, non Firenze .... Napoli. Venezia è decaduta non già, come la retorica
vuole, per la corruzione d'una nobiltà festaiola e carnevalesca, ma per un
fatto storico ed economico incontrovertibile, perchè la vita commerciale
d'Europa ha disertato le antiche vie dell’oriente, per spaziare negli oceani ,
ove le navi venete non possono andare, troppo lontane dall'infelice scalo della
città di San Marco ( 1 ) . Torino è più francese che italiana, più sabauda che
nazionale . Firenze è il centro d’uno Stato troppo piccolo, per imporre un'idea
politica alle città vicine, ed è estenuata per il rigoglio anteriore. Milano
sola può essere il centro delle nuove fortune nostre, e vedremo poi come essa
col di sastro della Partenopea riprenda tutto il tesoro ideale del popolo
italiano per rendersene degna depositaria . Ma Milano oggi è troppo aperta
all'influenza straniera , risente troppo gli effetti d'una vita non
propriamente italiana, è troppo cosmopolita, troppo mondana. Biso gna che il
rinnovamento si inizi altrove. Milano poi com pirà l'unità spirituale
dell'italianismo, sui primi anni ( 1 ) M. Rosi, L'Italia Odierna, Torino ,
1922, vol. I , p. 13 e sgg 9 dell'Ottocento, fondendo i due elementi propri
della no stra natura : il suo positivismo, più o meno razionalistico secondo i
tempi, con l'idealismo.concretamente storico e critico del mezzogiorno, per
foggiare quel carattere mentale del rinato popolo italiano, che rifugge così
dalla metafisica nubilosa di certe filosofie straniere come dal materialismo
volgare, ritrovando la sua sana vita in tima nel ponderato storicismo d'una
filosofia dello spirito. Napoli, posta dalla natura nel più incantevole luogo
della penisola, arrisa dal cielo e dal mare, beatificata dal sole, Napoli mite
e pensierosa impersona la nuova vita nazionale ; essa, chiusa nella sua
remotezza dalle grandi vie commerciali dell'alta Italia tra Francia ed Austria,
sola può custodire il patrimonio culturale della nazione. L'Italia era senza
dubbio indietro di fronte alle grandi speculazioni, di fronte alla grande
cultura straniera. Car tesio, Grozio, Spinoza, Locke, Hobbes erano nomi re
centi per la gloria della filosofia delle altre stirpi, nomi grandi illustri,
pietre miliari nello sviluppo del pensiero moderno. Che avevano gli italiani da
contrapporre ? Nulla, fuor che la loro povertà nuda ed altera. Lo spirito ita
liano era chiuso in sè stesso, ho detto, quasi disdegnoso della merce straniera,
che gli si voleva donare. E pure questa cultura, questa filosofia straniera pas
sava da noi ed acquistava diritto alla cittadinanza, spe cie a Torino e a
Milano, in quelle città più aperte ai nuovi rapporti civili. Il cartesianismo
ovunque si imponeva e con esso il classicismo francese lineare geometrico arido
. L'Italia però non filosofava . Il Muratori nella sua solitu dine di Modena
cercava, ricercava, spogliava, compilava con foga di ricostruttore, traeva
dagli archivi polverosi i resti della storia nostra , e il lavoro di
paleografia e di trascrizione diveniva poi lavoro di sceveramento, d’ana lisi,
di critica . Il nuovo italianismo rinasce con un rin novato fervore di studi
storici. « Il serio movimento scientifico » scrive Francesco De Sanctis «
usciva di là dove si era arrestato, dal seno stesso dell'erudizione . Lo studio
del passato era come una ginnastica intellet tuale, dove lo spirito ripigliava
le sue forze. Alle raccolte 10 successero le illustrazioni. E vi si sviluppò
uno spirito d'in vestigazione, di osservazione, di comparazione, dal quale
usciva naturalmente il dubbio e la discussione. Lo spi rito nuovo inseguiva gli
eruditi tra quegli antichi monu menti. Già non erano più semplici eruditi :
erano cri tici » ( 1 ) . A Modena, intanto, studiava il Tiraboschi, a Roma il
Crescimbeni, a Napoli il Gravina ; altrove Raf faele Fabretti, Francesco
Bianchini, Scipione Maffei e con essi una vera pleiade di dotti « segnano già
questo periodo, dove la scienza è ancora erudizione e nella eru dizione si
sviluppa la critica » . A Napoli e poi in un remoto paese del Cilento si for
mava intanto il Vico. E a Giambattista Vico bisogna rial lacciare tutto il
complesso movimento filosofico politico meridionale, tutta la fortuna
dell'italianismo, di cui lo scrittore del quale imprendiamo lo studio, Vincenzo
Cuoco, è il rappresentante maggiore. La filosofia del Vico nasce da una parte
in antitesi al cartesianismo aritme tico e razionalista, dall'altra sopra una
perfetta consape volezza, sopra un vero fondamento di ricerca storica, nell’un
caso e nell'altro come reazione al pensiero stra niero e ritorno alle fonti
nostrane. Solo l'antitesi al cartesianismo, cioè alla filosofia im perante,
avrebbe potuto portare il Vico ad affermare l'im possibilità d'una scienza
della natura, e in questa scienza era la gran cieca fede del razionalismo , e
la sicurezza d'una scienza perfetta nel mondo umano, morale e sto rico . La
conversione del vero col fatto ( verum ipsum factum) , impossibile nel mondo
naturale agli uomini, di vien possibile nel mondo morale. Per conoscere una
cosa occorre farla, o rifare il processo creativo : ciò è impossi bile
nell'ordine naturale a tutti, fuor che a Dio, divien possibile nell'ordine
umano, spirituale e storico , fatto dall'uomo, nel quale l'uomo opera come
Iddio . Le scienze morali, la politica, la poesia perdono il mero carattere di
probabilità e brillano di pura luce nello spi ( 1 ) F. DE SANCTIS , Storia
della letteratura italiana, Milano, Treves ed. , 1917 , v. II , p. 240. 11
rito. È un nuovo principio gnoseologico, il vero è riposto nel fatto : a questo
principio si rifà tutto il nuovo sistema storico. Ma domandiamoci : questo
nuovo principio , che è il nucleo d'ogni futura filosofia dello spirito, quest
' in versione, che è la nuova gnoseologia, era possibile come semplice reazione
ad un cartesianismo, che al Vico era pervenuto, sia pure, come scrive il De
Sanctis ( 1 ) , in una forma antipatica e menomatrice dei suoi studi, ma certo
non in maniera del tutto opprimente e scettica ? Io credo di no o almeno credo
che la rivoluzione non sa rebbe stata possibile senza considerare un nuovo ele
mento, le pure ricerche storiche, che portarono in fine il Vico a conclusioni
inattese . Il Vico, scritto il De ratione studiorum , il De antiquis sima
italorum sapientia, s ' ingolfò negli studi eruditi di storia antica, di
diritto romano, negli studi di diritto naturale, di pura linguistica, di
filologia . Dice bene quindi Benedetto Croce che, se pure il grande napoletano
non fu condotto alla filosofia , al nuovo orientamento della sua gnoseologia,
in virtù di un processo puramente filolo gico, certo lo stimolo e la materia
gli furono offerti da gli studi sopra detti, « attraverso i quali egli ebbe a
fare un'esperienza solenne ; e cioè che quella materia di studio ( 1) Ecco quel
che scrive F. DE SANCTIS , Storia , v. II , p. 246. « La materia della sua
cultura è sempre quella : dritto ro mano, storia romana, antichità. La sua
fisica è pitagorica, la sua metafisica è platonica, conciliata con la sua fede.
Base della sua filosofia è l'Ente, l’Uno, Dio. Tutto viene da Dio, tutto torna
a Dio, l'unum simplicissimum di Ficino . L'uomo e la natura sono le sue ombre,
i suoi fenomeni, ecc. ecc.... » . Dentro a questa coltura e contro a queste
credenze venne ad urtare Cartesio. La coltura non ha valore : del passato
bisogna far tavola . Datemi materia e moto, ed io farò il mondo. Il vero te lo
dà la scienza ed il senso. Cosa dive niva l'erudizione di Vico, la fisica di
Vico, la metafisica di Vico ? cosa divenivano le idee divine di Platone ? e il
simplicis simum di Ficino cosa diveniva ? e il dritto romano, la storia, la
tradizione, la filologia, la poesia, la rettorica non era più buona a nulla ?
Nella violenta contraddizione Vico sviluppo le sue forze, ecc. ». 12 non poteva
essere e non era elaborata dal suo pensiero senza l'aiuto di certi princípi
necessarî, che gli si ripre sentavano in ogni parte della storia da lui presa a
medi tare. Un tempo gli era sembrato che le scienze morali, ragguagliate al
metodo matematico, occupassero, quanto a sicurezza, l'infimo posto. Ora, nella
quotidiana fami liarità con quelle scienze, gli veniva apparendo il con trario
: niente di più sicuro del fondamento delle scienze morali » ( 1 ) . Verum
ipsum factum : « ove avvenga che chi fa le cose, esso stesso le narri, ivi non
può essere più certa l'istoria » ( 2 ) . Il nuovo pensiero italiano s'afferma
schiettamente storicista : il carattere della tradizione se guente serba questo
carattere : Cuoco, il discepolo di Vico in un'età caratterizzata da una
profonda negazione della storia, riaffermando l'italianismo, riafferma la
storia ( 3 ) . Tutta la filosofia dell'autore della Scienza nova nasce da
questa scoperta , e questa scoperta nasce da un'affan nosa ricerca storica . La
resistenza a Cartesio, a Malebran che, al razionalismo francese sarebbe rimasta
resistenza, cioè in parte incomprensione, se il Vico non avesse potuto superare
Cartesio stesso in una nuova visione della realtà. Solo la gran vita della
storia, l'eterno farsi de' po poli, gli imperi che sorgono si mutano si
sviluppano muoiono, solo l'analisi delle istituzioni politiche, del di ritto,
delle religioni, delle lingue, delle arti ne' loro par ticolari potevano dargli
la superba certezza : ... il pen siero si fa, il pensiero è in quanto diviene,
in quanto ha una sua propria dinamica. Il vero è in quanto noi lo facciamo, in
quanto lo rifacciamo pensandolo. Le scienze morali s'aprono a nuova vita. Solo
in esse v'è perfetta scienza, vera conoscenza. « Il pensiero è moto che va da
un termine all'altro, è idea che si fa , si realizza come ( 1 ) B. CROCE, La
filosofia di Giambattista Vico, Bari, G. La terza, 1911 , p. 22. (2 ) G. Vico,
La scienza nuova giusta l'edizione del 1744, a cura di F. Nicolini, Bari,
Laterza ed ., 1911, v. I , p. 187 . ( 3 ) G. GENTILE, Dal Genovesi al Galluppi,
Napoli, Edizione della Critica , 1903, p . 34 e sgg. 13 natura, e ritorna idea,
si ripensa, si riconosce nel fatto. Perciò verum et factum , vero e fatto, sono
convertibili; nel fatto vive il vero ; il fatto è pensiero, è scienza ; la
storia è una scienza, e, come ci è una logica per il moto delle idee, ci è
anche una logica per il moto dei fatti, una storia ideale eterna, sulla quale
corrono le storie di tutte le nazioni » (1 ) . Ora ritorniamo al nostro
argomento. Non interessava me tanto ridire quel che sul Vico fino ad oggi si è
detto e che coglie assai bene la génesi e il valore della spe culazione del
grande napoletano, se non per dimostrare come la nuova filosofia d'Italia, il
nuovo italianismo nasca da una vera e propria esperienza critica ed erudita. Il
Vico stesso nel De antiquissima italorum sapientia es lignuae latinae
originibus eruenda aveva compiuto uno sforzo mirabile di ricerca etimologica,
che lo aveva por tato ad affermazioni di grande audacia e nobiltà, se pure non
accettabili, quale l'esistenza di una setta filosofica italica preromana,
l'esistenza d’un'antica filosofia etrusca, generatrice d’un linguaggio
filosofico , che poi trascorse in altre lingue nostre, quali il latino, in cui si
trovano singolari tracce altrimenti inspiegabili, filosofia autoctona nostrana,
antichissima, di cui Pitagora stesso sarebbe un fievole epigono. Nella sua
seconda gnoseologia il Vico rinnegherà il principio informatore dell'opera : il
linguag gio cessa d'essere in rapporto alla logica, trova la sua spiegazione «
nei principi della poesia , cessa d'avere la sua origine nella volontà per
acquistare maggiore sponta neità e naturalezza ( 2) . Ma intanto resta
acquisito lo sforzo vichiano della conquista d'un vero italianismo pre latino e
preellenico, sforzo in parte rinnegato dallo stesso autore, che trova al suo
pensiero nuove vie, ma sforzo non perciò meno degno, dal punto di vista
culturale nazionalista. È una riconquista dell'italianità nella tra ( 1 ) F. DE
SANCTIS, Storia , v. II, p. 248. ( 2) Vedi B. CROCE , La filosofia di G. B.
Vico, pag. 50 e sgg .; B. SPAVENTA, Prolusione e introduzione alle lezioni di
filosofia , Napoli, Vitale, 1862, pag. 38 A sgg. 14 dizione, nella storia. La
storia è fatta dall' uomo : la storia d'Italia dagli italiani: trovare lo
sviluppo della storia italiana significa trovare lo sviluppo di quella volontà,
di quello spirito, di quelle idee, che formano il popolo nostro. Dai « rottami
dell'antichità » nasce la storia italiana. Nel Nord della penisola la cultura
era razionaliştica e cosmopolita. I dotti parlavano francese, non potevano
sottrarsi all'influsso di Cartesio o di Locke. A Napoli invece la cultura è
storica e filosofica e particolaristica mente italiana, sebbene pur comprensiva
ed universale . Il Vico ( 1 ) si sottrae al pensiero europeo, ritorna a Pita (
1 ) Intendere il Vico e staccarlo in un certo senso dallo sfondo comune delsuo
secolo è necessario per colui, che voglia studiare il secolo XVIII, in cui
senza dubbio sono le origini della nuova Italia e del nuovo pensiero. Ciò non
ha saputo fare, per esempio, Gabriele Maugain , autore di un dotto Étude sur
l'évolution intel. lectuelle de l'Italie de 1657 à 1750 environ ( Paris,
Hachette, 1909), in cui ritorna ed insiste l'antica tesi (carducciana tra
l'altro ) d'una decadenza e di una stasi dello spirito nazionale durante un
periodo più o meno lungo. Ma, se non accettiamo questa visione parziale del
fenomeno, come poi spiegarci tutta la fio ritura del secolo XIX ? Dobbiamo
crederla davvero, mancando una tradizione italica , una fioritura estrinseca,
mero riflesso della cultura rivoluzionaria francese prima e romantico -germa
nica poi ? O invece il periodo anzi detto è periodo di prepara zione metodica,
e in esso sono i germi della nuova Italia ? Questo viene al pensiero di chi
legge il libro accennato, in conclusione assai dotto ed interessante . Questo
venne al pen siero di Giovanni Gentile, che nella Critica recensì nel 1910
l'opera del Maugain ( recensione riveduta e ristampata in Studi vichiani ,
Messina, Principato, 1915 ), e che, pur riconoscendo che nel complesso, se si
eccettui la figura titanica del Vico , questa storia è una storia di cui non
abbiamo molto a com piacerci , nota come il Maugain la renda più malinconica di
quanto non sia. A prescindere dal fatto che proprio nell'età di cui si tratta (
1657-1750) fiorisce Vico, e Vico per noi è il genio dell'Italia nuova, la
tradizione insomma a cui il succes sivo italianismo si ricollega , occorre
pensare che, « dopo la metà del secolo XVIII, dalla morte rinascerà la vita , e
si preparerà l'Italia che accoglierà la Rivoluzione, e si scuoterà tutta, e ri
prenderà la sua via in tutte le manifestazioni della vita spiri tuale, e si
aprirà un varco nella politica de grandi Stati, e ri . sorgerà come nazione » .
Ora ciò sfugge all'autore del libro . 15 gora , a Platone, ai filosofi
cristiani da un lato, dall'altro, come vedemmo, procede da sè, per una via del
tutto nuova. La Scienza nova è, come scolpì il De Sanctis, « la Divina Commedia
della scienza, la vasta sintesi, che riassume il passato e apre l'avvenire,
tutta ancora in gombra di vecchi frantumi, dominati da uno spirito nuo vo » ( 1
) . Essa non è intesa per il momento, non importa ! Lo stesso Vico non si rende
conto dei formidabili svi luppi che si trarranno dai suoi studi. Ma il seme,
get tato in glebe feconde, germoglierà. Il pensiero meridio L'Italia rinasce e
si rinnova, dal cosmopolitismo antinazio nalistico nel culto d'un universale
umano l'Italia diviene na zionalistica nel culto d'un tradizionalismo più
nostro, pur non dimenticando d'esaurire il mondo morale nella filosofia del
Vico , proprio nel periodo che al Maugain sembra morte e stasi. Ben nota il
Gentile a proposito ( Studi vichiani, p . 13 ) : « .... Non bisogna dimenticare
che quella stessa che diciamo morte, è una morte relativa ; ed è anch'essa
vita, perchè condizione e momento di quella che dicesi vita : e senza intendere
l'una, non è possibile giungere all' intendimento dell'altra. Tutto sta a non cercare
la vita nella morte : e non volere una cosa nell'altra. Lastasi del periodo
studiato dal Maugain non è il progresso della creazione, ma è pure progresso ,
se è la pre parazione del progresso ulteriore. Noi infatti non potremmo
intendere l'Italia nuova, nutrita dalla cultura europea compene trata con la
tradizione nostra, quale la troviamo p . e. nella poe sia del Foscolo e
nell'Italia tutta del tramonto del secolo XVIII e degli albori del seguente, [
quale la troviamo , mi permetta l ' illustre Maestro la chiosa, nel nostro
Vincenzo Cuoco] se la innestassimo immediatamente all'Italia tutta italiana ,
crea trice in filosofia come in arte, maestra ancora all'Europa tutta , e
vivente di una vita spirituale sua, del 500 e del primo 600. L'Italia dal 1657 al
1750 è l'Italia che accoglie il riflusso della cultura europea, su cui ha
esercitato ella prima l'azione sto rica rinnovatrice: e in questo lavoro di
riassorbimento, che dev'essere ed è anche reazione ( esempio solenne Vico), è
la vita sua nuova rispetto al passato. Il senso di questa vita nuova , se non
m'inganno, non c'è nel libro del Maugain .... » . Precisamente così: può darsi
che chi rilegga i fogli dei vari Giornali de' letterati vi ritrovi morte, ma
chi trascorra le su date carte del Muratori e le induzioni geniali del Vico non
può che rinvenirvi la vita, e le origini grandi della nuova patria, la fonte
onde trassero la linfa vitale Cuoco e Foscolo . ( 1 ) F. DE SANCTIS , Storia,
v. II , p. 253. 16 nale si ricollega tutto al Vico e col Vico medita i nuovi
concetti e i nuovi concreti problemi della storia e della vita ; col Vico si
presenta, dopo la caduta d'una repub blica, ad incontrare il pensiero
settentrionale per ani marlo, per storicizzarlo nella realtà dello spirito,
donde nascerà la nuova cultura veramente nazionale, e non più lombarda toscana
napoletana. Così solo si possono spiegare molti atteggiamenti della cultura di
Monti e di Cesarotti, di Manzoni e di Foscolo. La tradizione vichiana è in fine
la tradizione del più puro italianismo. Da Napoli passerà a Milano, intanto
notiamo come a Napoli stessa, nel suo centro ideale, là dove il genio di
Giambattista s'era formato nell'umiltà borghese della vita d'ogni giorno, fra
amarezze familiari, fra disavventure accademiche, fra l'incomprensione di
quella che la retorica chiama alta cultura e poi non è che la più presuntuosa
saccenteria, come a Napoli stessa questa tradizione non fu sempre dominante, nè
sempre uguale, battuta in breccia dal francesismo, prima carte siano, poi
illuminista, volterriano, ecc. Comprensione vera e propria, infine, il Vico non
ebbe neppure in vita ( 1 ) : immaginiamo, dunque, se dopo la morte del grande
au tore della Scienza nova la patria potesse intendere affatto l'oceanico
spirito del suo figliolo . « Certamente a Napoli, nel secolo decimottavo, ci fu
in molti una confusa coscienza della grandezza dell'opera vichiana; ma in che
propriamente questa grandezza con sistesse non si poteva determinare, perchè
facevano an cora difetto l'esperienza e la preparazione adeguate » ( 2 ) . Lo
stesso discepolo ideale del Vico, colui che a, detta di Vincenzo Cuoco, solo
può condurci al maestro, solo può servirci di guida per raggiungere i suoi
voli, non fu immune da contaminazioni estrinseche : il vichismo in Mario Pagano
è mescolato al nuovo sensismo francese ( 3 ) . ( 1 ) B. CROCE, La filosofia di
G. B. Vico , pp. 270 e sgg. ( 2 ) B. CROCE, La filosofia di G. B. Vico , p.
286. ( 3 ) B. CROCE, La filosofia di G. B. Vico, p. 289. Cfr. VINCENZO Cuoco,
Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, Bari, Laterza 1913, L, p. 208 : «
Nella carriera sublime della 37 potè volgersi alla compilazione d'una legge -
base per la repubblica, e architetto un progetto. Il lavoro porta nell'edizione
che ho sott'occhio il seguente titolo : Pro getto di costituzione della
repubblica napoletana del 1799 per Mario Pagano, Giuseppe Logoteta e Giuseppe
Cestari (1 ) , ed è diviso in un Rapporto del Comitato di Legislazione al
Governo provvisorio, opera del Pagano, chè lo stile e tutto lo appalesa, e in
una Dichiarazione dei diritti e doveri dell'uomo, del cittadino, del popolo e
de' suoi rap presentanti, a stendere la quale fu certo maxima pars il celebre
autore dei Saggi politici. Per mezzo di Vincenzo Russo il Pagano dovette farne
pervenire una copia al Cuoco. Questi rispose coi Frammenti ( 2 ) . di uno
scrittore. Potremmo a questo punto intraprendere una confutazione delle
operazioni del Tria , ma non lo facciamo, per chè la confutazione scaturisce da
tutto il nostro lavoro, e perchè già fatta da N. RUGGIERI, op. cit. , p. 34 e
sgg. e da M. ROMANO, op. cit. , p. 51 e sgg. , i quali non hanno nulla
tralasciato per lu meggiare storicamente la complessa figura del molisano. Noi
per conto nostro abbiamo insistito su questo punto per mettere in guardia il
lettore su certi atteggiamenti del Cuoco, che , certo in antitesi con
l'atteggiamento del tempo suo, occorre valutare da un punto di vista molto
elevato, quasi metastorico, come quello che spesso trascende l'èra sua per
incontrare nel passato e nell'avvenire la più vera essenza del popolo nostro. (
1) Seguo per la Costituzione del Pagano l'edizione nap. del 1861, Rapporto al
cittadino Carnot sulla catastrofe napoletana del 1799 per FRANCESCO LOMONACO ,
con @enni sulla vita del l'autore, note e aggiunte di MARIANO D'AYALA ed infine
il Pro getto di costituzione della repubblica napoletana del 1799 per MARIO
PAGANO, GIUSEPPE LOGOTETA E GIUSEPPE CESTARI, con note di ANGELO LANZELLOTTI ,
Napoli, Tip. di M. Lombardi. (2) I Frammenti si credono quasi certamente
anteriori al Saggio, scritti quindi proprio durante la rivoluzione, a meno che
non si riesca a provare, il che non mi sembra facile , che siano stati scritti
col Saggio o del tutto dopo. Del resto ideal mente vanno innanzi. N. RUGGIERI,
op. cit., p. 17 , li crede an ch'egli, scritti durante il tempo della
Partenopea: a pag. 132 della sua monografia conferma il suo giudizio
cronologico, e in nota dà notizie sulla bibliografia del Progetto del Pagano,
inedito fino al giorno, in cui il Cuoco stampa il Saggio con l'ap . pendice dei
Frammenti, pubblicato la prima volta a Napoli nel 1820 da Angelo Lancellotti,
seguito da 30 note, 10 sue, 20 38 La critica al progetto ci mostra intero
l'animo di Vin cenzo Cuoco e la sua lucida netta precisa opposizione agli
immortali ed astratti princípi . Ma prima due parole su Vincenzo Russo.
Potrebbe sembrare un puro caso che le lettere siano a lui indirizzate. Si dirà
: una grande ami cizia univa il Russo al Cuoco, amicizia d'antica data, in
trinsichezza fraterna ; si dirà : il Russo ha fatto pervenire all'amico
studioso il Progetto di costituzione, ond' egli ne prenda visione per le sue
ricerche, quindi è naturale che a lui sia diretta la critica ideale della
legge. Sì, tutto ciò va bene, ma non bisogna dimenticare che proprio Vin cenzio
Russo è il rappresentante tipico dell'astratto rivo luzionarismo, di cui il
nostro fa la requisitoria, proprio il Russo il corifeo dell'estremismo che il
Cuoco detesta ( 1 ) , proprio il Russo, il socialista che crede furto la
proprietà che l'amico invece pone base della nuova società e del nuovo
ordinamento civile , come diremo. Teniamo pre sente ciò e le lettere
assumeranno un duplice valore, di critica scientifica e giuridica,
d'opposizione ad un si stema politico culturale . Sono, ripeto, l'una contro
l'altra due filosofie , due sistemi, il sistema rivoluzionario, esu berante e
fiducioso nel momentaneo trionfo dell'idea, il sistema liberale moderato, più
realistico, che solo nel tempo lentamente spera di vedere sanzionata dalla
storia la sua forza. Chi era Vincenzio Russo ? ( 2 ) . Basta leggere i suoi Pen
del Cuoco, ripubblicato con le sedicenti note del Lancellotti nella cit .
edizione napoletana del '61 . II ROMANO, op. cit., p . 22 e p. 62 e sgg. crede
i Frammenti anteriori al Saggio. Lo stesso il CROCE, La rivoluzione napoletana,
p. 108 . ( 1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 108 e sgg. , scrive a
proposito del Russo e del suo estremismo: « Certo , anche gli amici che gli
volevano bene e l'avevano in grande stima per la sincerità e nobiltà dei suoi
convincimenti, come il suo compagno della prima giovinezza Vincenzo Cuoco, non
potevano appro vare la via senza uscita per la quale egli si era messo » . ( 2
) Su V. Russo vedi B. CROCE, La rivoluzione napoletana, pp. 85-112 ; nonchè G.
DE RUGGIERO, Il pensiero politico meri dionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza
ed ., Bari, 1922, p. 120 e sgg. , che ci offre una buona analisi del pensiero
del 39 sieri politici , sui quali lo stesso Cuoco esprime nel Saggio un
giudizio ( 1 ) un po' incolore, sebbene ne tra peli una critica, per intendere
il suo astrattismo . Rileg giamo, a proposito, le parole di Benedetto Croce. Il
suo sistema si fondava « sull'idea di una repubblica popo lare, in cui ciascuno
possederebbe un pezzo di terra da coltivare direttamente e da trarne i mezzi di
sussistenza . Non testamenti e non atti tra vivi, e neanche succes E sioni
legittime; alla morte del possessore la quota di lui sarebbe tornata alla
repubblica per una nuova di stribuzione. Gli uffici esercitati dagli stessi
cittadini agricoltori, epperò senza stipendio, altro che i mezzi di sussistenza
a coloro cui fosse tolto il tempo di lavorare personalmente la terra ; al qual
uopo si sarebbero fatti leggieri prelevamenti sulle quote dei coltivatori. L'in
dustria, domestica e ridotta al puro necessario ; e il com mercio ridotto , del
pari, a permuta di cose necessarie. Nessun lusso di nessuna sorta ;
l'istruzione si sarebbe ristretta principalmente alla morale repubblicana e ai
princípi dell'agricoltura . Nessuna religione, tranne forse « un tal quale
vincolo di fratellanza nel centro di una idea sublimamente tenebrosa » ; e
quindi, non classe sa cerdotale. Non grandi città : una serie di piccoli
villaggi costituirebbero le nazioni. E, tra le nazioni, non più guerre, tranne
quelle per liberare le nazioni oppresse o per respingere tentativi di
oppressione. Le nazioni, in unione tra loro, avrebbero poi formato, come
termine ultimo, la « Società universale » ( 2 ) . Era nel Russo, come in molti
rivoluzionari, special 다.
l'insigne martire del '99, specie nelle sue derivazioni dal Leib nitz e dal
Rousseau . Un sunto delle dottrine del Russo ci of frono V. FIORINI e F. LEMMI.
Il periodo napoleonico dal 1799 1 al 1815, Milano, Vallardi, 8. d. , p. 167 e
sgg. ( 1 ) Il giudizio (Saggio , L, p. 209) è il seguente: « La sua opera de
Pensieri politici è una delle più forti che si possano leggere. Egli ne
preparava una seconda edizione, e l'avrebbe resa anche migliore, rendendola più
moderata » . In quel miglio ramento nella moderazione sta tutto Cuoco ! ( 2 )
B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 90 e sgg. 40 mente meridionali, un
misto curiosissimo di anticlerica lismo e di romanità, di filosofia ellenica e
di razionalismo moderno, di evangelicità e di naturalismo, che univa insieme
Leibniz e Mably, Condorcet e Bruno, Campa nella e Tacito, Platone e Saint-
Just, un misto di fierezza spartana e di retorica petroliera, di rigidità
catoniana e di montatura civica. Ma se guardiamo il Russo e la sua opera ( 1 )
, non vi troveremo certo il gonfio anticlé ricalismo e le diatribe di Francesco
Lomonaco, che potè col suo scilinguagnolo incantare il giovinetto Manzoni, ma
non potè incantare la posterità ; troveremo, invece, contrasti, contraddizioni,
astrattismi, ma in fondo un sistema, una volontà, un regime di vita e una
aspira zione, sia pure non realizzata, al concreto ( 2 ) . Nella pre fazione ai
suoi Pensieri politici scrive : « Io non ho volta la mente nè alle antiche
repubbliche nè alle moderne, non alle nuove nè alle vetuste legislazioni : ho
consul tato nelle cose stesse la verità » . Quindi un desiderio di analizzare
l'uomo ne'suoi bisogni specifici, e sovra di essi fondare la sua repubblica,
mentre i bisogni stessi individualmente indeterminabili, concetti economici in
sommo grado subiettivi, gli sfuggono. In fondo anche il Russo è un astratto e
non si distingue dai repubblicani, se non per ingegno, non certo per diversità
di metodo e di pratica politica. Basta rileggere i Pensieri e lo studio del
Croce per convincersi che i suoi concetti, democra tizzazione sistematica,
educazione repubblicana e sta tale, fraternità tra i popoli, sono quelli della
generalità, ( 1) La prima edizione dei Pensieri politici è dell'anno 1798 ,
allorquando il Russo, esule da Napoli, trovavasi a Roma, e fu stampata per
sottoscrizione:Pensieri politici diVINCENZIO Russo, napolitano, Roma, presso il
cittadino V. Poggioli, anno I della ri stabilita repubblica Romana. L'opera fu
ristampata in Milano tra il 1800 e il 1801 (Milano, anno IX , Tip. Milanese in
Strada nuova , n. 561 ) ; e poi ancora a Napoli nel 1861 ( ed . a cura del
D'Ayala ) e nel 1894 ( ed. a cura di B. Peluso con pref. di E. De Marinis).
Vedi a proposito B. CROCE, La rivoluzione napole tana , p. 98 , p. 112. ( 2) B.
CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 92 e sg. 33 civile. Aggiungiamo a ciò
quella sua ritrosia , quella specie di natural pigrizia, di cui abbiamo detto,
e comprende remo un altro elemento della solitudine di Vincenzo della sua
critica . Ma la causa principale del suo atteg giamento negativo è sopra tutto,
innanzi tutto spirituale culturale. Che cosa è la rivoluzione per lui, nutrito
di studi con creti d'economia e di storia ? La documentazione della risposta
sta in tutto il Saggio storico, ma io credo che egli, sin dagli inizi del
movimento sovversivo, dovesse pensarla come si espresse in seguito , altrimenti
non si spiega in qual maniera egli abbia potuto in piena repub blica scrivere i
suoi Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo, in risposta al Progetto di
costituzione di Mario Pa gano. Nella dedicatoria del suo Saggio, nella Lettera
del l'autore a N.Q. scrive : « Come va il mondo ! Il re di Na poli dichiara la
guerra ai francesi ed è vinto ; i francesi conquistano il di lui regno e poi
l'abbandonano ; il re ritorna e dichiara delitto capitale l'aver amata la
patria mentre non apparteneva più a lui . Tutto ciò è avvenuto senza che io vi
avessi avuto la minima parte, senza che neanche lo avessi potuto prevedere: ma
tutto ciò ha fatto sì che io sia stato esiliato, che sia venuto in Milano,
dove, per certo, seguendo il corso ordinario della mia vita, non era destinato
a venire, e che quivi , per non aver altro che fare, sia diventato autore.
Tutto è concatenato nel mondo, diceva Panglos : possa tutto esserlo per lo
meglio ! » ( 1 ) . Egli dichiara che nella rivoluzione tutto si i è svolto
senza che egli vi abbia avuto nessuna parte, senza che egli vi sia intervenuto
. L'affermazione è vera solo in quanto si sappia intenderla . Il Cuoco ha preso
parte agli avvenimenti politici del tempo , egli primo lo sa , e i nuovi studi
lo confermano, anche quando per prudenza tace con il fine di non compromettere
persone, che non vuol compromettere. Nel capo I del suo Saggio, esplicando la
natura del suo lavoro, studio di idee e non di fatti, con cui quasi intende prevenire
il giudizio della ( 1 ) V. Cuoco , Saggio storico, p. 11 . 3 - F. BATTAGLIA ,
34 posterità sugli avvenimenti, di cui è stato spettatore e di cui imprende la
narrazione, s'esprime diversamente. « Dichiaro che non sono addetto » scrive «
ad alcun par tito, a meno che la ragione e l'umanità non ne ab biano uno. Narro
le vicende della mia patria ; racconto avvenimenti che io stesso ho veduto e de
quali sono stato io stesso un giorno non ultima parte ; scrivo pei miei con
cittadini, che non debbo, che non posso, che non voglio ingannare » ( 1 ).
Dunque di fatto l'autore stesso accetta la partecipa zione. Che vuol dire ?
Cuoco sin dall'inizio della rivo luzione ha la coscienza della passività di
questa, in quanto è opera d'una classe colta, che ha suoi bisogni speciali ,
più intellettuali che materiali, e non opera del popolo, il vero agente delle
grandi rivoluzioni ; ha la coscienza della fatalità del movimento repubblicano,
in quanto non spontaneo , scaturito invece da contraccolpi internazionali, che
nessuno può evitare e dirigere ; ma nello stesso tempo egli non può sottrarsi
al terribile vortice che lo attrae, perchè la sua educazione e in parte la sua
cultura sono quelle della classe dirigente, perchè conosce la nobiltà dei
propositi di questa, perchè sa, e questo sovra ogni altra cosa è decisivo,
l'ignominia che da dieci anni in qua ha guidato i Borboni e i loro fa voriti ,
incapacità , cupidigia , sfrenatezza . La rivoluzione per Vincenzo è davvero un
fatale vortice. La parola « vortice » per caratterizzare la rivoluzione ricorre
spesso ne'suoi scritti. Egli non ne condivide le idee, ne critica la genesi, ne
prevede la triste fine, ciò non per tanto non può sottrarsene perchè i suoi
bisogni, la sua classe, la sua posizione sociale infallibilmente lo traggono ad
una par tecipazione, che noi possiamo, come la rivoluzione stessa, chiamare
passiva ( 2 ) . Nè basta ! Egli vede che la rivo luzione di Napoli è più
francese che italiana ; che gli uomini, che sono alla testa della cosa
pubblica, sono più ( 1 ) V. Cuoco , Saggio storico , I , p. 16. ( 2 ) Oltre i
brani citati cfr. Saggio storico, VIII , p. 47 ; XV, p. 84 ; XVI, p. 90. 35
illuministi che non i pensatori francesi, che s ' astrag gono dalla realtà e
costruiscono sull'acqua, alla ricerca d'un bene che dovrebbe provenire dalla
pura ragione, senza nessi con i bisogni concreti delle masse, senza legami con
l'immanente vita pubblica, che vuole essere soddisfatta con provvedimenti
specifici e non con le pa role . Questo il Cuoco nota, e doveva aver già notato
da un pezzo : fin dai primi processi del '94 il giovine Vin cenzo ha dovuto
notare l'astrattismo repubblicano, con sacrato del resto dal sangue de'
martiri, e meditarlo aspramente, molto aspramente, se poi darà nel Saggio
giudizi rudi contro i fanciulli e gli studenti infrancio sati ( 1 ) . Queste
poche osservazioni bastano a spiegarci il contegno di Vincenzo Cuoco nei grandi
eventi del 1799, contegno di critica, dunque, dovuto ad un diverso tem
peramento culturale, ad una vera antitesi o incompati bilità d'educazione e di
metodo tra il nostro e i suoi compatrioti, non già, come qualche storico vuole
( 2) , ad un vero e proprio antifrancesismo, antifrancesismo, che, se potè
essere difesa de costumi e del pensiero italiano contro la moda straniera, non
fu mai astio contro la nobile nazione gallica , nella quale anzi l'autore degli
articoli del Giornale italiano, di cui parleremo a lungo, ebbe grande fiducia
per l'avvenire d'Italia . Questo può spiegarci la natura dei Frammenti di
lettere a Vincenzio Russo, che ci appaiono non l'appendice, come giusta mente
nota il Romano, ma i precedenti solidi e sobri del Saggio storico ( 3 ) . ( 1 )
M. Rosi, op. cit. , v. I , p. 206 e sgg.; B. CROCE, La rivo luzione napoletana,
pp. 194-230, ove troverai abbondanti notizie sui primi movimenti sovvertitori a
Napoli, sui primi processi , sulla morte eroica di De Deo, Vitaliani e Galiani.
( 2 ) P. HAZARD, op. cit. , 219 e sgg . ( 3 ) Prima di andare innanzi bisogna
pur dire poche parole intorno ad una questione cuochiana. Si tratta d'un
argomento già dibattuto e risolto , ma su cui mette conto indugiarsi, poi che
la figura del nostro dal contrasto s'avvantaggia e non è menomata. U. Tria in
una sua nota , Vincenzo Cuoco a propo sito di due sue lettere inedite,
pubblicata in Rassegna critica della 36 Dopo che il Governo provvisorio di
Napoli fu diviso in due commissioni, la legislativa e l'esecutiva, la prima
letteratura italiana, v. VI, ( 1901 ) , p. 193 e sgg. , getta gravi ac cuse
sulla figura morale del molisano. Le lettere, sulle quali il Tria basa la sua
requisitoria contro il nostro autore, sono state alui date dal signor
L.A.Trotta di Toro ( Molise) . « In tutte e due le lettere » , scrive il Tria «
il Cuoco di scorre liberamente con il fratello (Michele Antonio] di sè stesso ,
dei suoi interessi, dei progetti, delle speranze sue. Evidente mente egli non
si angustiava del suo avvenire, non perchè le difficoltà incontrate aMilano
fossero moltissime, ma, anelando egli a raggiungere una condizione migliore e
più comoda degli indugi si infastidiva , e per sè stesso e per il vantaggio dei
suoi, che sempre aveva nel cuore. Nè gli studi sulla storia degli an tichi
italiani, che proprio in quegli anni andava facendo, nè le vicende non liete
della patria sua oppressa, nè il rumore degli inauditi successi di Napoleone lo
distoglievano dal suo particu lare, siccome avrebbe detto molto esattamente il
Guicciardini ! », Cosi il Tria : e tutto ciò , perchè il povero Cuoco, pur tra
le angu stie economiche dell'esilio, rivolge il pensiero ai suoi cari ! Ma fin
qui poco male, se il Tria , basandosi su alcune frasi dello scri vente , non
avesse voluto gravar la mano anche sull'uomo poli tico . Vediamo prima di tutto
le frasi incriminate. In quel tempo, siamo tra il 1871 e il 1802, il governo
borbonico era disposto a concedere al Cuoco il perdono, ma egli lo rifiutò . «
A che ritor nerei io in patria scrive l'esule al fratello . —- Se io fussi reo
, accetterei un perdono : ma un uomo che non ha avuto la viltà di far un
delitto , un uomo che ha potuto esser condannato solo perchè si trovò
strascinato in un vortice che egli odiava, ma a cui era im possibile resistere
; un uomo in cui l' amor della patria, della pace, della virtù non sono parole,
un tale uomo non deve cer tamente esser contento di un perdono che gli lascia
sempre l'apparenza di reo » . Alte sublimi parole, che non possiamo non
raffrontare con quelle non meno alte e sublimi, con cui l'Ali ghieri rispondeva
all'amico fiorentino, che gli annunciava l'umi liante grazia del sospirato
ritorno in patria. Ebbene in esse il Tria vede un indice di disdegno verso la
rivoluzione, dal Cuoco designata col nome di vortice. « Le parole sue»
commenta, « hanno un certo sapore di pentimento e di ritrattazione, che non gli
fanno onore: ora egli sconfessa gli atti e gli scatti del cittadino Cuoco, che
pure, durante la Repubblica, s'era reso benemerito della patria ; si dice un
fuorviato, dimentica i compagni di lotta, di patimenti, li rinnega » , Abbiamo
citato abbondevolmente dal Tria, tanto più per di mostrare come ci si discosti
dal vero, quando, sedotti dalle ap parenze ci si abbandona ad esse, senza
penetrare nello spirito 45 senso che le costituzioni siano una formazione
assoluta mente irriflessa e popolaresca, che il giurista osserva senza
intervenire, passivo, ma nel senso che non possano prescindere, sia pure quando
sono opera di studio perso nale e di ricerca dotta, dalla concreta realtà della
nazione. La faccenda si chiarifica. La Volkseele dello Schelling, la coscienza
giuridica popolare del Savigny diventano, sono nel Cuoco, più concreto e
positivo, i bisogni del po polo, bisogni economici e materiali, religiosi e
morali, qualcosa di più tangibile. « I nostri filosofi , » scrive « sono spesso
illusi dall'idea di nu ottimo, che è il peggior nemico del bene. Se si volesse
seguire i loro consigli, il mondo, per far sempre meglio, finirebbe col non far
nulla » . « L'ottimo non è fatto per l'uomo .... » ( 1 ) . Costoro, ai quali
accenna il critico, sono i rivoluzionari astratti, che credono ad un universale,
che non è, e vanno tanto alto da perdere ogni contatto col mondo. Una
costituzione non può scaturire dal cervello di un uomo, come Pallade dal
cervello di Giove, armata e folgorante ; deve sorgere dopo mature riflessioni,
sulla natura della nazione deve avere una base. « Questa base deve poggiare sul
carattere della nazione, deve precedere la costituzione ; e mentre con questa
si determina il modo in cui una nazione debba esercitare la sua sovra nità, vi
debbono esser molte cose più sacre della costi tuzione istessa , che il
sovrano, qualunque sia, non deve poter alterare » ( 2 ) . Nessuno può « törre
al popolo tutti i suoi costumi, tutte le sue opinioni, tutti gli usi suoi, che
io chiamerei base di una costituzione » ( 3 ) . Il Cuoco, se osserviamo bene la
questione, distingue due momenti : una elaborazione incosciente del popolo che
crea istituti giuridici, per consuetudine, desumendoli dalla sua stessa essenza
; una elaborazione cosciente e riflessa, che sistematizza e regola ciò che nel
popolo era mera pratica senza norma. Questi due momenti si compene ( 1 ) Framm
. I , p. 219. ( 2 ) Framm . III, p. 245. ( 3 ) Framm . III , p . 245. 46 trano
e sono indispensabili. La consuetudine, senza la legge, può divenire anarchia ,
dominio della volontà parti colare. La legge, che astragga dalla volontà dei
singoli, è mera parola, generalità senza significato. Siamo lon tani dallo
storicismo tedesco dell'Hugo e del Savigny. La base, alla quale accenniamo, è
d'una grande com plessità. Il costituzionalista, in particolare il legislatore,
deve avere riguardo non solo ai costumi, agli usi, alla religione, ai bisogni
economici, ma anche ai pregiudizi, ai difetti, ai mali del popolo. La vita non
è ottima, nè buona : è male e dolore . Gli uomini sono buoni e cattivi, generosi
ed egoisti, eroi e birbanti. Il più grave pericolo è che il legislatore, più
filosofo che uomo politico, alla ricerca dell'eterno dimentichi il transeunte,
alla ricerca dell'ottimo dimentichi il buono, creda non esservi il male. Le
costituzioni debbono parlare alla fantasia e ai sensi dei popoli, avere una
certa solennità, quasi un ele mento sacro, perchè « dopo le sue opinioni ed i
suoi costumi, il popolo nulla ha di più caro che le apparenze della regolarità
e dell'ordine » ( 1 ) . È un consiglio di este riorità. Poco importa ! Le plebi
amano l'esteriorità . « Quelle leggi sono più rispettate dal popolo, che con
mag giori solennità esterne colpiscono i sensi » ( 2 ) . Dunque, ammesso che un
legislatore possa dare una costituzione, interpretando più che sia possibile le
esi genze di una nazione, come potrà e dovrà egli compor tarsi ? .Un popolo ha
dei costumi. « Non vi è nazione quanto si voglia corrotta e misera, la quale
non abbia de costumi , che convien conservare ; non vi è governo quanto si
voglia dispotico, il quale non abbia molte parti convenienti ad un governo
libero. Ogni popolo che oggi è schiavo fu libero una volta.... Quanto più
pesante sarà la schiavitù di un popolo, tanto più questi avanzi degli altri
tempi gli saran cari ; perchè non mai tanto, quanto tra le avversità , ci son
care le memorie dei tempi felici . Quanto più il governo che voi distruggete è
stato ( 1 ) Framm . III , p. 246. ( 2) Framm. III , p. 246. 47 barbaro, tanto
più numerosi avanzi voi rinvenite di an tichi costumi; perchè il governo,
urtando troppo violen temente contro il popolo, l'ha quasi costretto a trince
rarsi tra le sue antiche istituzioni, nè ha rinvenuto nei nuovi avvenimenti
ragione di seguirli e di abbandonare ed obbliare gli antichi » ( 1 ). Nello
sviluppo storico nulla si perde completamente : l'evoluzione vitale degli
uomini e delle istituzioni loro è trasformazione e non distruzione, onde sotto
la scorza della modernità si possono ritrovare i nuclei ancor verdi
dell'antico. La tradizione non è un culto senza dèi, pro prio de' letterati e
de ’ filosofi, è la vita della nazione, è quel che di più sacro essa ha, poi
che rappresenta la sua continuità. Ciò non deve dimenticare il legislatore,
come colui che è più vicino al palpito dei popoli, dovendo re golare le manifestazioni
più svariate della loro attività privata e pubblica. « Questi avanzi di costumi
e governo di altri tempi, che in ogni nazione s ' incontrano, sono preziosi per
un legislatore saggio, e debbono formar la base dei suoi ordini nuovi. Il
popolo conserva sempre molto rispetto per tutto ciò che gli viene dai suoi mag
giori ; rispetto che produce talora qualche male, e spesso grandissimi beni. Ma
coloro , che vorrebbero distruggerlo , non si avvedono che distruggerebbero in
tal modo ogni fondamento di giustizia ed ogni principio d'ordine so ciale ? Noi
non possiamo più far parlare gli dèi come i legislatori antichi facevano :
facciamo almeno parlare gli eroi, che agli occhi dei popoli son sempre i loro
antichi. Un popolo , il quale cangiasse la sua costituzione per solo amor di
novità, non potrebbe far altro di meglio, che darsi una costituzione all'anno .
Ma, per buona sorte, un tal popolo non esiste che nella fantasia di qualche
filo sofo » ( 2 ) . Un legislatore quindi può realmente fare del bene alla
nazione, ma deve seguire la natura, cioè la na zione stessa nel suo spirito, e
trarre da essa il sistema costituzionale, non il sistema costituzionale da
princípi ( 1 ) Framm . I , p . 220 e sg. ( 2 ) Framm . I , p . 221 . 48 che non
sono nella natura, ma nella testa dei filosofi. « Tutto è perduto quando un
legislatore misura la infi nita estensione della natura colle piccole
dimensioni della sua testa, e che, non conoscendo se non le sue idee, gira per
la terra come un empirico col suo segreto, col quale pretende medicar tutt'i
mali » ( 1 ) . Vincenzo Cuoco ci si presenta come un tradizionalista e un
moderato. Non bisogna distruggere per distruggere, perchè si può perdere il
buono per un problematicissimo ottimo ; non bisogna atterrare, perchè non sempre
si può ricostruire; non bisogna aprire un novus ordo, perchè i novi ordines dei
filosofi sono in cielo e non in terra. Bi sogna costruire su quel che già è,
edificare sulle fonda menta della storia, che non soffre soluzioni di
continuità, riformare e non distruggere. « Io non credo la costitu zione
consistere in una dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino » ( 2 ) .
Essa è qualcosa di più profondo : è il popolo, il quale da sè stesso trae le
norme regolatrici della sua esistenza, della sua attività, della felicità . « E
chi non sa i suoi diritti ? Ma gran parte degli uomini li cede per timore;
grandissima li vende per interesse : la costituzione è il modo di far sì che
l'uomo sia sempre in uno stato da non esser nè indotto a venderli, nè costretto
a cederli, nè spinto ad abusarne » ( 3) . Ciò è possibile solo in quanto la
costituzione assicuri un medio benessere, attinga quella umana felicità , alla
quale abbiamo ac cennato. Le rivoluzioni nascono da un malessere economico
generalizzato. Le costituzioni post-rivoluzionarie debbono ristabilire
l'equilibrio, il benessere, l'armonia, la vita pa cifica ed operosa. Per fare
ciò bisogna intendere le esi genze e i bisogni della nazione, i suoi costumi,
il suo carattere . Ecco perchè Cuoco ci dice che, se egli fosse invitato a dar
leggi ad un popolo, vorrebbe prima stu diarlo e conoscerlo ; ecco perchè Cuoco
ci dice che egli ( 1 ) Framm . I , p . 221 . ( 2 ) Framm. II, p. 233. ( 3 )
Framm . II , p. 233. 41 forse più accentuati da una dinamica naturale d'ora
tore, da un estremismo fervente, che voleva, credo, far dimenticare in una vita
intemeratamente vissuta un istante di antica debolezza ( 1) . Queste
esagerazioni non sono proprie del tempera mento meridionale, ed in genere
italiano. Ma, come bene osserva il Romano, calcando un giudizio di G. Zito ( 2
) , « mentre all'inizio del movimento, i nostri alle teorie nuove davano di
proprio la misura e la calma, in seguito invece l'intrepidezza deduttiva
propria del tempera mento francese, non trovò più freni neppur da noi, e
sovente le dottrine non furono sottoposte a tentativi di analisi e di giudizio
» ( 3 ) . Ed è proprio così ! Anche Mario Pagano, mente geniale e solida, è
travolto dalla corrente e segue l'andazzo . Il suo vichismo non è coerente a sè
stesso , e risente gli influssi esterni, e , se pure gli studi suoi non sono
pura speculazione metafisica, « giovevole se mai nella scuola e presso che
inutile, se non pure dan nosa, nell'attrito reale del governo di uno Stato » (
+) , è certo però che il grande autore del Processo criminale si mostrò
insufficiente all'ardua opera della ricostru zione . Dare la costituzione ad un
popolo è l'opera più grande che un uomo possa a sè stesso assegnare, opera da
far tremare le vene e i polsi non solo ai legislatori di oggi, ma a menti
divine, come quelle di Platone e di Aristo tele. La costituzione non può essere
una sovrastruttura , che i dirigenti impongano ad un popolo, perchè le costi
tuzioni non si dànno ab externo, ma si formano nelle coscienze prima che sulla
carta, e, se pure si impongono, non si reggono sulle armi e sui fucili. Il
popolo è una realtà concreta viva palpitante, ne' suoi molteplici bi sogni, ne
' suoi desiderî , ne' suoi costumi , ne' suoi pre ( 1 ) B. CROCE, La
rivoluzione napoletana , p. 87. ( 2 ) G. Zito, Vita cd opere di Mario Pagano,
Potenza, Tip. Garramone, 1901 , passim . ( 3 ) M. ROMANO, op. cit. , p. 61. ( 4
) ROMANO, op. cit . , p. 63. Il giudizio sull'opera del Pa gano è eccessivo e
non può essere senz'altro condiviso da noi. 42 giudizi. Egli non sopporterà mai
una legge, che non intende la sua intima vita e il suo benessere, che tra
scenda la sua natura. « Le costituzioni sono simili alle vesti : è necessario
che ogni individuo, che ogni età di ciascun individuo abbia la sua propria, la quale,
se tu vorrai dare ad altri, starà male. Non vi è veste, per quanto sia mancante
di proporzioni nelle sue parti, la quale non possa trovare un uomo difforme cui
sieda bene ; ma, se vuoi fare una sola veste per tutti gli uomini, ancorchè
essa sia misurata sulla statua modellaria di Poli clete, troverai sempre che il
maggior numero è più alto, più basso, più secco , più grasso, e non potrà far
uso della tua veste » ( 1 ) . Non esiste un ottimo costituzionale, esi ste un
buono relativo alla vita delle singole genti . « Le costituzioni si debbono
fare per gli uomini quali sono e quali eternamente saranno, pieni di vizi ,
pieni di er rori ; imperocchè tanto è credibile che essi voglian de porre que'
loro costumi, che io reputo una seconda natura, per seguire le nostre
istituzioni, che io credo arbitrarie e variabili, quanto sarebbe ragionevole un
calzolaio che pretendesse accorciare il piede di colui cui avesse fatta corta
una scarpa » ( 2 ) . I due raffronti con la veste e la scarpa, tratti dal mondo
fisico, sono d'una evidenza mirabile. Il legislatore deve intendere il popolo,
e costruire sulla base dei bisogni del popolo. Il popolo non parla. Ma per lui
parla tutto, costumi, usanze, religione, pregiudizi, vizi. Le costituzioni non
si fanno nei gabinetti e negli studî, nelle scuole e nelle accademie, nascono
da sè, sotto l'impulso di concrete esigenze dell'anima collettiva, o più
vichianamente della collettività , e il legislatore non può essere che un
interprete di essa collettività, della ( 1 ) Seguo il già citato testo del
NICOLINI , edito dal Laterza di Bari, che come tutte le altre ed . cuochiane,
porta i Fram menti di lettere a V. Russo in appendice al Saggio. Per le ci
tazioni basterà quindi la sigla Framm. seguita dal numero d’or dine I o II
ecc., e dalla pagina dell'edizione barese, Framm . I , p. 218. ( 2 ) Framm. I ,
p. 219. 43 sono sua coscienza, non già il saggio che dal suo cielo di sa pienza
impone norme e nomi. L'obietto delle costituzioni sono gli uomini, e gli uomini
sono pieni di vizi, pieni di errori. Ora, chi si propone di legiferare deve
prendere gli uomini, come sono, e non andare alla ricerca di un ottimo, che in
na tura non è, contentarsi di rendere felici gli uomini, e ren dere felici gli
uomini si può solo, soddisfacendo alla loro natura, che è un misto di buono e
di cattivo, d'eticità e di pregiudizi, di religione e di ferocia . Siamo, come
ognun vede, penetrati nel pieno della critica cuochiana, ma la mia mente,
riflettendo su queste acutissime osservazioni, non può non instaurare un pa
ragone tra il relativismo giuridico del nostro e lo stori cismo germanico di
Gustavo Hugo e di Federico Carlo Savigny. È curioso ! Negli stessi anni, nell'
infierire della rivoluzione francese, o quando ancor fresche ne le conseguenze,
con basi, cultura diametralmente diverse, con intendimenti presso che uguali,
scrivono in Italia il Cuoco, in Inghilterra il Burke, le di cui Riflessioni
sulla rivoluzione francese sono del 1790, in Germania l'Hugo che nello stesso
anno 1790 formula in un suo libro quei prin cípi , che poi il Savigny, nel
1814, nella polemica col Thibaut, svilupperà nell'operetta : Della vocazione
del nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza . Ma tra il Savigny e
l'illuminismo rivoluzionario c'è uno sviluppo continuo di pensiero germanico,
tra il Cuoco e la rivoluzione non c'è transizione, poi che egli scrive i
Frammenti nella rivoluzione stessa, quando già i san fedisti di Ruffo sono alle
porte della città. Notiamo però come un certo parallelo c'è : il nostro si
ricollega al Vico, tradizione perenne d'italianità ; il Savigny parla di una
coscienza giuridica popolare, che non può non tro vare la sua origine nella
filosofia idealista tedesca, Schel ling e Hegel, ai quali il grande giurista si
ricollegano. Guardiamo brevemente la questione. Col Cuoco siamo da un punto di
vista filosofico giuridico più innanzi, ma il parallelismo non manca . Che cosa
è il diritto per il Sa vigny che combatte l'unificazione legislativa e la codi
44 ficazione proposta dal Thibaut ? Non certo un quid astratto, vivo nel solo
pensiero del legislatore. Il diritto ha úna vita sua propria nella vita d'ogni
giorno, che non è che consuetudine irriflessa e pratica comune. Ricor diamo lo
Schelling : il principio dello spirito collettivo, principio animatore in perpetuo
divenire, si sviluppa dalla sua filosofia, dall'evoluzione stessa della natura
nell'infinita sua produttività , concepita non più come mero oggetto, ma come
soggetto, nucleo di sviluppo di tutto il pensiero germanico, che dal dualismo
di Kant risolve il problema, attraverso Schelling, in Hegel, ul tima
conseguenza della posizione kantiana. Il concetto evolutivo della natura
trascorre nel diritto. Il diritto è la manifestazione d'una coscienza giuridica
che è nel popolo, il quale popolo ha una sua anima ( la Volkseele dello
Schelling ), che determina la morale, l'arte, il lin guaggio, e così pure il
diritto e la costituzione politica. Quel che nello Schelling è generalmente
accennato all'ori gine della costituzione e degli ordini civili, nel Savigny è applicato
ad una questione concreta : se convenga im mobilizzare il diritto, elaborazione
istintiva e irriflessa , viva nella consuetudine, in un sistema di codici.
Donde una illazione : la costituzione, legge fondamentale, non può che essere
la risultante d’un'elaborazione incosciente del popolo, che il legislatore può
cogliere ed inquadrare per princípi, ma non ex novo, così come il grammatico
studia la lingua già formata e non crea la lingua. Il Cuoco più concretamente
non arriva alle conclusioni un po' anarchiche del Savigny, il quale in reazione
ad una filosofia che pretendeva di sistematizzare e creare tutto a fil di
logica, si appalesa ostile ad ogni costituzione scritta , come ad ogni
codificazione; il Cuoco ammette in vece che un legislatore possa compilare un
progetto di costituzione. Ma come ? Il legislatore deve interpretare i bisogni
del popolo, alla felicità del quale vuol provve dere. Il principio base è uno.
« Le costituzioni durevoli sono quelle che il popolo si forma da sè » ( 1 ) .
Ciò non nel ( 1 ) Framm . I , p. 218 , 33 civile. Aggiungiamo a ciò quella sua
ritrosia, quella specie di natural pigrizia, di cui abbiamo detto, e comprende
remo un altro elemento della solitudine di Vincenzo e della sua critica . Ma la
causà principale del suo atteg giamento negativo è sopra tutto, innanzi tutto
spirituale culturale . Che cosa è la rivoluzione per lui , nutrito di studi con
creti d'economia e di storia ? La documentazione della risposta sta in tutto il
Saggio storico, ma io credo che egli, sin dagli inizi del movimento sovversivo
, dovesse pensarla come si espresse in seguito, altrimenti non si spiega in
qual maniera egli abbia potuto in piena repub blica scrivere i suoi Frammenti
di lettere dirette a Vincenzio Russo, in risposta al Progetto di costituzione
di Mario Pa gano. Nella dedicatoria del suo Saggio, nella Lettera del l'autore
a N.Q. scrive : « Come va il mondo ! Il re di Na poli dichiara la guerra ai
francesi ed è vinto ; i francesi conquistano il di lui regno e poi
l'abbandonano ; il re ritorna e dichiara delitto capitale l’aver amata la
patria mentre non apparteneva più a lui . Tutto ciò è avvenuto senza che io vi
avessi avuto la minima parte, senza che neanche lo avessi potuto prevedere: ma
tutto ciò ha fatto sì che io sia stato esiliato, che sia venuto in Milano,
dove, per certo, seguendo il corso ordinario della mia vita, non era destinato
a venire, e che quivi , per non aver altro che fare, sia diventato autore .
Tutto è concatenato nel mondo, diceva Panglos : possa tutto esserlo per lo meglio
! » ( 1 ). Egli dichiara che nella rivoluzione tutto si è svolto senza che egli
vi abbia avuto nessuna parte, senza che egli vi sia intervenuto .
L'affermazione è vera solo in quanto si sappia intenderla. Il Cuoco ha preso
parte agli avvenimenti politici del tempo, egli primo lo sa, e i nuovi studi lo
confermano, anche quando per prudenza tace con il fine di non compromettere
persone, che non vuol compromettere. Nel capo I del suo Saggio, esplicando la
natura del suo lavoro, studio di idee e non di fatti, con cui quasi intende
prevenire il giudizio della ( 1 ) V. Cuoco , Saggio storico , p. 11 . 3 E.
BATTAGLIA . 34 posterità sugli avvenimenti , di cui è stato spettatore e di cui
imprende la narrazione, s'esprime diversamente. « Dichiaro che non sono addetto
» scrive « ad alcun par tito , a meno che la ragione e l'umanità non ne ab
biano uno. Narro le vicende della mia patria ; racconto avvenimenti che io
stesso ho veduto e de'quali sono stato io stesso un giorno non ultima parte ;
scrivo pei miei con cittadini, che non debbo, che non posso, che non voglio
ingannare » ( 1 ) . Dunque di fatto l'autore stesso accetta la partecipa zione.
Che vuol dire ? Cuoco sin dall'inizio della rivo luzione ha la coscienza della
passività di questa, in quanto è opera d'una classe colta, che ha suoi bisogni
speciali, più intellettuali che materiali, e non opera del popolo, il vero
agente delle grandi rivoluzioni; ha la coscienza della fatalità del movimento
repubblicano, in quanto non spontaneo, scaturito invece da contraccolpi
internazionali, che nessuno può evitare e dirigere; ma nello stesso tempo egli
non può sottrarsi al terribile vortice che lo attrae, perchè la sua educazione
e in parte la sua cultura sono quelle della classe dirigente, perchè conosce la
nobiltà dei propositi di questa, perchè sa, e questo sovra ogni altra cosa è
decisivo, l'ignominia che da dieci anni in qua ha guidato i Borboni e i loro fa
voriti , incapacità, cupidigia, sfrenatezza. La rivoluzione per Vincenzo è
davvero un fatale vortice. La parola « vortice » per caratterizzare la
rivoluzione ricorre spesso ne' suoi scritti . Egli non ne condivide le idee, ne
critica la genesi, ne prevede la triste fine, ciò non per tanto non può
sottrarsene perchè i suoi bisogni, la sua classe, la sua posizione sociale
infallibilmente lo traggono ad una par tecipazione, che noi possiamo, come la
rivoluzione stessa , chiamare passiva ( 2 ) . Nè basta ! Egli vede che la rivo
luzione di Napoli è più francese che italiana ; che gli uomini, che sono alla
testa della cosa pubblica, sono più ( 1 ) V. Cuoco , Saggio storico , I , p. 16
. ( 2 ) Oltre i brani citati cfr. Saggio storico , VIII , p. 47 ; XV, p. 84 ;
XVI, p. 90. 35 illuministi che non i pensatori francesi, che s ’ astrag gono
dalla realtà e costruiscono sull’acqua, alla ricerca d'un bene che dovrebbe
provenire dalla pura ragione, senza nessi con i bisogni concreti delle masse,
senza legami con l'immanente vita pubblica, che vuole essere soddisfatta con
provvedimenti specifici e non con le pa role. Questo il Cuoco nota, e doveva
aver già notato da un pezzo : fin dai primi processi del '94 il giovine Vin
cenzo ha dovuto notare l'astrattismo repubblicano, con sacrato del resto dal
sangue de' martiri, e meditarlo aspramente, molto aspramente, se poi darà nel
Saggio giudizi rudi contro i fanciulli e gli studenti infrancio sati ( 1 ).
Queste poche osservazioni bastano a spiegarci il contegno di Vincenzo Cuoco nei
grandi eventi del 1799, contegno di critica, dunque, dovuto ad un diverso tem
peramento culturale, ad una vera antitesi o incompati bilità d'educazione e di
metodo tra il nostro e i suoi compatrioti, non già, come qualche storico vuole
( 2) , ad un vero e proprio antifrancesismo , antifrancesismo, che, se potè
essere difesa de costumi e del pensiero italiano contro la moda straniera, non
fu mai astio contro la nobile nazione gallica, nella quale anzi l'autore degli
articoli del Giornale italiano, di cui parleremo a lungo, ebbe grande fiducia
per l'avvenire d'Italia. Questo può spiegarci la natura dei Frammenti di lettere
a Vincenzio Russo, che ci appaiono non l'appendice, come giusta mente nota il
Romano, ma i precedenti solidi e sobri del Saggio storico ( 3 ) . ( 1 ) M.
Rosi, op. cit. , v. I, p. 206 e sgg.; B. CROCE, La rivo luzione napoletana, pp.
194-230, ove troverai abbondanti notizie sui primi movimenti sovvertitori a
Napoli, sui primi processi , sulla morte eroica di De Deo, Vitaliani e Galiani.
( 2 ) P. HAZARD, op. cit. , 219 e sgg. ( 3) Prima di andare innanzi bisogna pur
dire poche parole intorno ad una questione cuochiana. Si tratta d'un argomento
già dibattuto e risolto , ma su cui mette conto indugiarsi , poi che la figura
del nostro dal contrasto s’avvantaggia e non è menomata. U. Tria in una sua
nota, Vincenzo Cuoco a propo sito di due sue lettere inedite , pubblicata in
Rassegna critica della 36 Dopo che il Governo provvisorio di Napoli fu diviso
in due commissioni, la legislativa e l'esecutiva, la prima letteratura italiana
, v. VI, ( 1901), p. 193 e sgg. , getta gravi ac cuse sulla figura morale del molisano.
Le lettere , sulle quali il Tria basala sua requisitoria contro il nostro
autore, sono state alui date dal signor L. A. Trotta di Toro ( Molise) . « In
tutte e due le lettere » , scrive il Tria « il Cuoco di scorre liberamente con
il fratello [Michele Antonio] di sè stesso, dei suoi interessi , dei progetti ,
delle speranze sue. Evidente mente egli non si angustiava del suo avvenire, non
perchè le difficoltà incontrate aMilano fossero moltissime, ma, anelando egli a
raggiungere una condizione migliore e più comoda degli indugi si infastidiva ,e
per sè stesso e per il vantaggio dei suoi, che sempre aveva nel cuore. Nè gli
studi sulla storia degli an tichi italiani, che proprio in quegli anni andava
facendo, nè le vicende non liete della patria sua oppressa, nè il rumore degli
inauditi successi di Napoleone lo distoglievano dal suo particu , lare, siccome
avrebbe detto molto esattamente il Guicciardini ! » . Cosi il Tria : e tutto
ciò , perchè il povero Cuoco, pur tra le angu stie economiche dell'esilio,
rivolge il pensiero ai suoi cari ! Ma fin qui poco male, se il Tria, basandosi
su alcune frasi dello scri. vente, non avesse voluto gravar la mano anche
sull’uomo poli tico . Vediamo prima di tutto le frasi incriminate . In quel
tempo, siamo tra il 1871 e il 1802, il governo borbonico era disposto a
concedere al Cuoco il perdono , ma egli lo rifiutò . « A che ritor nerei io in
patria — scrive l’esule al fratello . - Se io fussi reo, accetterei un perdono
: ma un uomo che non ha avuto la viltà di far un delitto, un uomo che ha potuto
esser condannato solo perchè si trovò strascinato in un vortice che egli
odiava, ma a cui era im possibile resistere ; un uomo in cui l ' amor della
patria, della pace, della virtù non sono parole, un tale uomo non deve cer tamente
esser contento di un perdono che gli lascia sempre l'apparenza di reo » . Alte
sublimi parole, che non possiamo non raffrontare con quelle non meno alte e
sublimi, con cui l'Ali ghieri rispondeva all'amico fiorentino, che gli
annunciava l'umi liante grazia del sospirato ritorno in patria. Ebbene in esse
il Tria vede un indice di disdegno verso la rivoluzione, dal Cuoco designata
col nome di vortice . « Le parole sue» commenta, « hanno un certo sapore di
pentimento e di ritrattazione, che non gli fanno onore: ora egli sconfessa gli
atti e gli scatti del cittadino Cuoco, che pure, durante la Repubblica, s'era
reso benemerito della patria ; si dice un fuorviato, dimentica i compagni di
lotta, di patimenti, li rinnega » . Abbiamo citato abbondevolmente dal Tria ,
tanto più per di mostrare come ci si discosti dal vero, quando, sedotti dalle
ap parenze ci si abbandona ad esse , senza penetrare nello spirito 37 potè
volgersi alla compilazione d’una legge- base per la repubblica, e architetto un
progetto . Il lavoro porta nell'edizione che ho sott'occhio il seguente titolo
: Pro getto di costituzione della repubblica napoletana del 1799 per Mario
Pagano, Giuseppe Logoteta e Giuseppe Cestari ( 1 ) , ed è diviso in un Rapporto
del Comitato di Legislazione al Governo provvisorio, opera del Pagano, chè lo
stile e tutto lo appalesa, e in una Dichiarazione dei diritti e doveri
dell'uomo, del cittadino, del popolo e de' suoi rap presentanti, a stendere la
quale fu certo maxima pars il celebre autore dei Saggi politici . Per mezzo di
Vincenzo Russo il Pagano dovette farne pervenire una copia al Cuoco. Questi
rispose coi Frammenti ( 2 ) . di uno scrittore. Potremmo a questo punto
intraprendere una confutazione delle operazioni del Tria, ma non lo facciamo,
per chè la confutazione scaturisce da tutto il nostro lavoro ,e perchè già
fatta da N. RUGGIERI, op. cit. , p. 34 e sgg . e da M. ROMANO, op. cit. , p. 51
e sgg. , i quali non hanno nulla tralasciato per lu meggiare storicamente la
complessa figura del molisano. Noi perconto nostro abbiamo insistito su questo
punto per mettere in guardia il lettore su certi atteggiamenti del Cuoco , che
, certo in antitesi con l'atteggiamento del tempo suo, occorre valutare da un
punto di vista molto elevato, quasi metastorico, come quello che spesso
trascende l'èra sua per incontrare nel passato e nell'avvenire la più vera
essenza del popolo nostro. ( 1 ) Seguo per la Costituzione del Pagano
l'edizione nap. del 1861, Rapporto al cittadino Carnot sulla catastrofe
napoletana del 1799 per FRANCESCO LOMONACO, con cenni sulla vita del l'autore,
note e aggiunte di MARIANO D'AYALA ed infine il Pro getto di costituzione della
repubblica napoletana del 1799 per MARIO PAGANO, GIUSEPPE LOGOTETA e GIUSEPPE
CESTARI, con note di ANGELO LANZELLOTTI, Napoli, Tip. di M. Lombardi. ( 2 ) I
Frammenti si credono quasi certamente anteriori al Saggio, scritti quindi
proprio durante la rivoluzione, a meno che non si riesca a provare, il che non
mi sembra facile , che siano stati scritti col Saggio o del tutto dopo. Del
resto ideal mente vanno innanzi. N. RUGGIERI, op . cit ., p . 17 , li crede an
ch'egli , scritti durante il tempo della Partenopea: a pag. 132 della sua
monografia conferma il suo giudizio cronologico, in nota dà notizie sulla
bibliografia del Progetto del Pagano, inedito fino al giorno, in cui il Cuoco
stampa il Saggio con l'ap . pendice dei Frammenti, pubblicato la prima volta a
Napoli nel 1820 da Angelo Lancellotti, seguito da 30 note, 10 sue, 20 38 La
critica al progetto ci mostra intero l'animo di Vin cenzo Cuoco e la sua lucida
netta precisa opposizione agli immortali ed astratti princípi. Ma prima due
parole su Vincenzio Russo. Potrebbe sembrare un puro caso che le lettere siano
a lui indirizzate. Si dirà : una grande ami cizia univa il Russo al Cuoco,
amicizia d'antica data, in trinsichezza fraterna; si dirà : il Russo ha fatto
pervenire all'amico studioso il Progetto di costituzione, ond' egli ne prenda
visione per le sue ricerche, quindi è naturale che a lui sia diretta la critica
ideale della legge. Sì, tutto ciò va bene, ma non bisogna dimenticare che
proprio Vin cenzio Russo è il rappresentante tipico dell'astratto rivo
luzionarismo, di cui il nostro fa la requisitoria, proprio il Russo il corifeo
dell'estremismo che il Cuoco detesta ( 1 ) , proprio il Russo, il socialista
che crede furto la proprietà che l'amico invece pone base della nuova società e
del nuovo ordinamento civile , come diremo. Teniamo pre sente ciò e le lettere
assumeranno un duplice valore, di critica scientifica e giuridica,
d'opposizione ad un si stema politico culturale . Sono, ripeto, l'una contro
l'altra due filosofie, due sistemi, il sistema rivoluzionario, esu berante e
fiducioso nel momentaneo trionfo dell'idea, il sistema liberale moderato, più
realistico, che solo nel tempo lentamente spera di vedere sanzionata dalla
storia la sua forza . Chi era Vincenzio Russo ? ( 2 ) . Basta leggere i suoi
Pen del Cuoco, ripubblicato conle sedicenti note del Lancellotti nella cit.
edizione napoletana del '61 . Il ROMANO, op. cit ., p. 22 e p. 62 e sgg. crede
i Frammenti anteriori al Saggio. Lo stesso il CROCE, La rivoluzione napoletana,
p. 108. ( 1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 108 e sgg. , scrive a
proposito del Russo e del suo estremismo : « Certo , anche gli amici che gli
volevano bene e l'avevano in grande stima per la sincerità e nobiltà dei suoi
convincimenti, come il suo compagno della prima giovinezza Vincenzo Cuoco non
potevano appro. vare la via senza uscita per la quale egli si era messo » . ( 2
) Su V. Russo vedi B. CROCE, La rivoluzione napoletana, pp. 85-112 ; nonchè G.
DE RUGGIERO, Il pensiero politico meri dionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza
ed ., Bari, 1922, p. 120 e sgg. , che ci offre una buona analisi del pensiero
del, 39 sieri politici , sui quali lo stesso Cuoco esprime nel Saggio un
giudizio ( 1 ) un po ' incolore, sebbene ne tra peli una critica, per intendere
il suo astrattismo . Rileg giamo, a proposito, le parole di Benedetto Croce. Il
suo sistema si fondava « sull'idea di una repubblica popo lare , in cui
ciascuno possederebbe un pezzo di terra da coltivare direttamente e da trarne i
mezzi di sussistenza. Non testamenti e non atti tra vivi, e neanche succes
sioni legittime ; alla morte del possessore la quota di lui sarebbe tornata
alla repubblica per una nuova di stribuzione. Gli uffici esercitati dagli
stessi cittadini agricoltori, epperò senza stipendio, altro che i mezzi di
sussistenza a coloro cui fosse tolto il tempo di lavorare personalmente la
terra ; al qual uopo si sarebbero fatti leggieri prelevamenti sulle quote dei
coltivatori. L'in dustria, domestica e ridotta al puro necessario ; e il com
mercio ridotto , del pari, a permuta di cose necessarie. Nessun lusso di
nessuna sorta ; l'istruzione si sarebbe ristretta principalmente alla morale
repubblicana e ai princípi dell'agricoltura. Nessuna religione, tranne forse «
un tal quale vincolo di fratellanza nel centro di una idea sublimamente
tenebrosa » ; e quindi, non classe sa cerdotale. Non grandi città : una serie
di piccoli villaggi costituirebbero le nazioni. E, tra le nazioni, non più
guerre, tranne quelle per liberare le nazioni oppresse o per respingere
tentativi di oppressione. Le nazioni, in unione tra loro, avrebbero poi
formato, come termine ultimo, la « Società universale » ( 2 ). Era nel Russo,
come in molti rivoluzionari, special l ' insigne martire del '99, specie nelle
sue derivazioni dal Leib nitz e dal Rousseau . Un sunto delle dottrine del
Russo ci of. frono V. FIORINI e F. LEMMI. Il periodo napoleonico dal 1799 al 1815,
Milano, Vallardi, s . d. , p. 167 e sgg . ( 1 ) Il giudizio ( Saggio, L , p.
209) è il seguente: « La sua opera de Pensieri politici è una delle più forti
che si possano leggere. Egli ne preparava una seconda edizione, e t'avrebbe
resa anchemigliore, rendendola più moderata » . In quel miglio ramento nella
moderazione sta tutto Cuoco ! ( 2) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 90 e
sgg. 40 mente meridionali, un misto curiosissimo di anticlerica lismo e di
romanità, di filosofia ellenica e di razionalismo moderno, di evangelicità e di
naturalismo, che univa insieme Leibniz e Mably, Condorcet e Bruno, Campa nella
e Tacito, Platone e Saint- Just, un misto di fierezza spartana e di retorica
petroliera, di rigidità catoniana e di montatura civica. Ma se guardiamo il
Russo e la sua opera ( 1 ) , non vi troveremo certo il gonfio anticle ricalismo
e le diatribe di Francesco Lomonaco, che potè col suo scilinguagnolo incantare
il giovinetto Manzoni, ma non potè incantare la posterità ; troveremo, invece,
contrasti, contraddizioni, astrattismi, ma in fondo un sistema, una volontà, un
regime di vita e una aspira zione, sia pure non realizzata, al concreto ( 2 ) .
Nella pre fazione ai suoi Pensieri politici scrive : « Io non ho volta la mente
nè alle antiche repubbliche nè alle moderne, non alle nuove nè alle vetuste
legislazioni : ho consul tato nelle cose stesse la verità » . Quindi un
desiderio di analizzare l'uomo ne'suoi bisogni specifici, e sovra essi fondare
la sua repubblica, mentre i bisogni stessi individualmente indeterminabili,
concetti economici in sommo grado subiettivi, gli sfuggono. In fondo anche il
Russo è un astratto e non si distingue dai repubblicani, se non per ingegno,
non certo per diversità di metodo e di pratica politica. Basta rileggere i Pensieri
e lo studio del Croce per convincersi che i suoi concetti, democra tizzazione
sistematica , educazione repubblicana e sta tale, fraternità tra i popoli, sono
quelli della generalità, ( 1) La prima edizione dei Pensieri politici è
dell'anno 1798 , allorquando il Russo, esule da Napoli, trovavasi a Roma, e fu
stampata per sottoscrizione:Pensieri politici diVINCENZIO Russo, napolitano,
Roma, presso il cittadino V. Poggioli, anno I della ri stabilita repubblica
Romana. L'opera fu ristampata in Milano tra il 1800 e il 1801 ( Milano, anno IX
, Tip. Milanese in Strada nuova , n. 561) ; e poi ancora a Napoli nel 1861 (
ed. a cura del D’Ayala) e nel 1894 ( ed. a cura di B. Peluso con pref. di E. De
Marinis ) . Vedi a proposito B. CROCE, La rivoluzione napole tana , p. 98, p.
112. ( 2) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 92 e sg. 41 forse più
accentuati da una dinamica naturale d'ora tore, da un estremismo fervente, che
voleva, credo, far dimenticare in una vita intemeratamente vissuta un istante
di antica debolezza ( 1 ) . Queste esagerazioni non sono proprie del tempera
mento meridionale, ed in genere italiano . Ma, come bene osserva il Romano,
calcando un giudizio di G. Zito ( 2) , « mentre all'inizio del movimento, i
nostri alle teorie nuove davano di proprio la misura e la calma, in seguito
invece l ' intrepidezza deduttiva propria del tempera mento francese, non trovò
più freni neppur da noi, e sovente le dottrine non furono sottoposte a
tentativi di analisi e di giudizio » ( 3) . Ed è proprio così ! Anche Mario
Pagano, mente geniale e solida, è travolto dalla corrente e segue l'andazzo .
Il suo vichismo non è coerente a sè stesso , e risente gli influssi esterni, e
, se pure gli studi suoi non sono pura speculazione metafisica, « giovevole se
mai nella scuola e presso che inutile, se non pure dan nosa, nell'attrito reale
del governo di uno Stato » ( 1 ) , è certo però che il grande autore del
Processo criminale si mostrò insufficiente all'ardua opera della ricostru
zione. Dare la costituzione ad un popolo è l'opera più grande che un uomo possa
a sè stesso assegnare, opera da far tremare le vene e i polsi non solo ai
legislatori di oggi, ma a menti divine, come quelle di Platone e di Aristo tele
. La costituzione non può essere una sovrastruttura , che i dirigenti impongano
ad un popolo , perchè le costi tuzioni non si dànno ab externo, ma si formano
nelle coscienze prima che sulla carta, e, se pure si impongono, non si reggono
sulle armi e sui fucili . Il popolo è una realtà concreta viva palpitante, ne'
suoi molteplici bi sogni, ne' suoi desiderî, ne' suoi costumi, ne' suoi pre ( 1
) B. CROCE , La rivoluzione napoletana, p. 87 . ( 2 ) G. ZITO, Vita ed opere di
Mario Pagano, Potenza, Tip. Garramone, 1901 , passim . ( 3 ) M. ROMANO, op. cit
. , p. 61. ( 4) ROMANO, op. cit. , p. 63. Il giudizio sull'opera del Pa gano è
eccessivo e non può essere senz'altro condiviso da noi. 42 e giudizi. Egli non
sopporterà mai una legge, che non intende la sua intima vita e il suo
benessere, che tra scenda la sua natura. « Le costituzioni sono simili alle
vesti : è necessario che ogni individuo, che ogni età di ciascun individuo
abbia la sua propria , la quale , se tu vorrai dare ad altri, starà male. Non
vi è veste, per quanto sia mancante di proporzioni nelle sue parti, la quale
non possa trovare un uomo difforme cui sieda bene ; ma, se vuoi fare una sola
veste per tutti gli uomini, ancorchè essa sia misurata sulla statua modellaria
di Poli clete, troverai sempre che il maggior numero è più alto, più basso, più
secco, più grasso, e non potrà far uso della tua veste » ( 1 ) . Non esiste un
ottimo costituzionale, esi ste un buono relativo alla vita delle singole genti.
« Le costituzioni si debbono fare per gli uomini quali sono quali eternamente
saranno, pieni di vizi, pieni di er rori ; imperocchè tanto è credibile che
essi voglian de porre que' loro costumi, che io reputo una seconda natura, per
seguire le nostre istituzioni, che io credo arbitrarie e variabili, quanto
sarebbe ragionevole un calzolaio che pretendesse accorciare il piede di colui
cui avésse fatta corta una scarpa » ( 2 ) . I due raffronti con la veste e la
scarpa, tratti dal mondo fisico , sono d'una evidenza mirabile. Il legislatore
deve intendere il popolo, e costruire sulla base dei bisogni del popolo. Il
popolo non parla. Ma per lui parla tutto, costumi, usanze, religione,
pregiudizi, vizi . Le costituzioni non si fanno nei gabinetti e negli studî,
nelle scuole e nelle accademie, nascono da sè, sotto l ' impulso di concrete
esigenze dell'anima collettiva , o più vichianamente della collettività, e il
legislatore non può essere che un interprete di essa collettività , della ( 1 )
Seguo il già citato testo del NICOLINI , edito dal Laterza di Bari,che come
tutte le altre ed. cuochiane, porta i Fram menti di lettere a V. Russo in
appendice al Saggio. Per le ci tazioni basterà quindi la sigla Framm . seguita
dal numero d'or dine I o II ecc., e dalla pagina dell'edizione barese. Framm. I
, p. 218 . ( 2 ) Framm. I , p. 219, 43 1 sono sua coscienza, non già il saggio
che dal suo cielo di sa pienza impone norme e nomi. L'obietto delle
costituzioni sono gli uomini, e gli uomini sono pieni di vizi, pieni di errori.
Ora, chi si propone di legiferare deve prendere gli uomini, come sono, e non
andare alla ricerca di un ottimo, che in na tura non è, contentarsi di rendere
felici gli uomini, e ren dere felici gli uomini si può solo, soddisfacendo alla
loro natura, che è un misto di buono e di cattivo, d'eticità e di pregiudizi,
di religione e di ferocia . Siamo, come ognun vede, penetrati nel pieno della
critica cuochiana, ma la mia mente, riflettendo su queste acutissime
osservazioni, non può non instaurare un pa ragone tra il relativismo giuridico
del nostro e lo stori cismo germanico di Gustavo Hugo e di Federico Carlo
Savigny. È curioso ! Negli stessi anni, nell' infierire della rivoluzione
francese, o quando ancor fresche ne le conseguenze, con basi, cultura
diametralmente diverse, con intendimenti presso che uguali, scrivono in Italia
il Cuoco, in Inghilterrà il Burke, le di cui Riflessioni sulla rivoluzione
francese sono del 1790, in Germania l'Hugo che nello stesso anno 1790 formula
in un suo libro quei prin cípi, che poi il Savigny, nel 1814, nella polemica
col Thibaut, svilupperà nell'operetta : Della vocazione del nostro tempo per la
legislazione e la giurisprudenza. Ma tra il Savigny e l'illuminismo
rivoluzionario c'è uno sviluppo continuo di pensiero germanico, tra il Cuoco e
la rivoluzione non c'è transizione, poi che egli scrive i Frammenti nella
rivoluzione stessa, quando già i san fedisti di Ruffo sono alle porte della
città. Notiamo però come un certo parallelo c'è : il nostro si ricollega al
Vico, tradizione perenne d'italianità ; il Savigny parla di una coscienza
giuridica popolare, che non può non tro vare la sua origine nella filosofia
idealista tedesca, Schel ling e Hegel, ai quali il grande giurista si
ricollegano. Guardiamo brevemente la questione . Col Cuoco siamo da un punto di
vista filosofico giuridico più innanzi, ma il parallelismo non manca. Che cosa
è il diritto per il Sa vigny che combatte l'unificazione legislativa e la codi
44 ficazione proposta dal Thibaut ? Non certo un quid astratto , vivo nel solo
pensiero del legislatore. Il diritto ha una vita sua propria nella vita d'ogni
giorno, che non è che consuetudine irriflessa e pratica comune. Ricor diamo lo
Schelling : il principio dello spirito collettivo, principio animatore in
perpetuo divenire, si sviluppa dalla sua filosofia, dall'evoluzione stessa
della natura nell'infinita sua produttività, concepita non più come mero
oggetto , ma come soggetto, nucleo di sviluppo di tutto il pensiero germanico,
che dal dualismo di Kant risolve il problema, attraverso Schelling, in Hegel,
ul tima conseguenza della posizione kantiana. Il concetto evolutivo della natura
trascorre nel diritto . Il diritto è la manifestazione d'una coscienza
giuridica che è nel popolo, il quale popolo ha una sua anima ( la Volkseele
dello Schelling) , che determina la morale, l'arte, il lin guaggio, e così pure
il diritto e la costituzione politica . Quel che nello Schelling è generalmente
accennato all’ori gine della costituzione e degli ordini civili , nel Savigny è
applicato ad una questione concreta : se convenga im mobilizzare il diritto ,
elaborazione istintiva e irriflessa, viva nella consuetudine, in un sistema di
codici. Donde una illazione: la costituzione , legge fondamentale, non può che
essere la risultante d’un'elaborazione incosciente del popolo, che il
legislatore può cogliere ed inquadrare per princípi, ma non ex novo, così come
il grammatico studia la lingua già formata e non crea la lingua. Il Cuoco più
concretamente non arriva alle conclusioni un po' anarchiche del Savigny, il
quale in reazione ad una filosofia che pretendeva di sistematizzare e creare
tutto a fil di logica, si appalesa ostile ad ogni costituzione scritta, come ad
ogni codificazione; il Cuoco ammette in vece che un legislatore possa compilare
un progetto di costituzione. Ma come ? Il legislatore deve interpretare i
bisogni del popolo, alla felicità del quale vuol provve dere. Il principio base
è uno . « Le costituzioni durevoli sono quelle che il popolo si forma da sé » (
1 ) . Ciò non nel ( 1 ) Framm . I, p . 218 . 45 senso che le costituzioni siano
una formazione assoluta mente irriflessa e popolaresca, che il giurista osserva
senza intervenire, passivo, ma nel senso che non possano prescindere, sia pure
quando sono opera di studio perso nale e di ricerca dotta, dalla concreta
realtà della nazione. La faccenda si chiarifica. La Volkseele dello Schelling, la
coscienza giuridica popolare del Savigny diventano, sono nel Cuoco , più
concreto e positivo , i bisogni del po polo, bisogni economici e materiali,
religiosi e morali, qualcosa di più tangibile . « I nostri filosofi, » scrive «
sono spesso illusi dall'idea di nu ottimo, che è il peggior nemico del bene. Se
si volesse seguire i loro consigli, il mondo, per far sempre meglio, finirebbe
col non far nulla » . « L'ottimo non è fatto per l'uomo.... » ( 1 ) . Costoro,
ai quali accenna il critico, sono i rivoluzionari astratti, che credono ad un
universale, che non è, e vanno tanto alto da perdere ogni contatto col mondo.
Una costituzione non può scaturire dal cervello di un uomo, come Pallade dal
cervello di Giove, armata e folgorante ; deve sorgere dopo mature riflessioni ,
sulla natura della nazione deve avere una base. « Questa base deve poggiare sul
carattere della nazione, deve precedere la costituzione ; e mentre con questa
si determina il modo in cui una nazione debba esercitare la sua sovra nità, vi
debbono esser molte cose più sacre della costi tuzione istessa, che il sovrano,
qualunque sia, non deve poter alterare » ( 2 ) . Nessuno può « tôrre al popolo
tutti i suoi costumi, tutte le sue opinioni, tutti gli usi suoi, che io
chiamerei base di una costituzione » ( 3 ). Il Cuoco , se osserviamo bene la
questione, distingue due momenti: una elaborazione incosciente del popolo che
crea istituti giuridici, per consuetudine, desumendoli dalla sua stessa essenza
; una elaborazione cosciente e riflessa, che sistematizza e regola ciò che nel
popolo era mera pratica senza norma. Questi due momenti si compene ( 1 ) Framm.
I , p. 219 . ( 2 ) Framm. III , p. 245 . ( 3 ) Framm . III , p. 245. 46 trano e
sono indispensabili. La consuetudine, senza la legge, può divenire anarchia ,
dominio della volontà parti colare . La legge, che astragga dalla volontà dei
singoli, è mera parola, generalità senza significato . Siamo lon tani dallo
storicismo tedesco dell'Hugo e del Savigny. La base, alla quale accenniamo, è
d'una grande com plessità. Il costituzionalista, in particolare il legislatore,
deve avere riguardo' non solo ai costumi, agli usi, alla religione, ai bisogni
economici, ma anche ai pregiudizi, ai difetti, ai mali del popolo . La vita non
è ottima, nè buona : è male e dolore. Gli uomini sono buoni e cattivi, generosi
ed egoisti, eroi e birbanti. Il più grave pericolo è che il legislatore, più
filosofo che uomo politico, alla ricerca dell'eterno dimentichi il transeunte,
alla ricerca dell'ottimo dimentichi il buono, creda non esservi il male. Le
costituzioni debbono parlare alla fantasia e ai sensi dei popoli, avere una
certa solennità, quasi un ele mento sacro, perchè « dopo le sue opinioni ed i
suoi costumi, il popolo nulla ha di più caro che le apparenze della regolarità
e dell'ordine » ( 1 ) . È un consiglio di este riorità . Poco importa ! Le
plebi amano l'esteriorità . « Quelle leggi sono più rispettate dal popolo, che
con mag giori solennità esterne colpiscono i sensi » ( 2) . Dunque, ammesso che
un legislatore possa dare una costituzione, interpretando più che sia possibile
le esi genze di una nazione, come potrà e dovrà egli compor tarsi ? Un popolo
ha dei costumi. « Non vi è nazione quanto si voglia corrotta e misera, la quale
non abbia de' costumi, che convien conservare ; non vi è governo quanto si
voglia dispotico, il quale non abbia molte parti convenienti ad un governo
libero . Ogni popolo che oggi è schiavo fu libero una volta ... Quanto più
pesante sarà la schiavitù di un popolo, tanto più questi avanzi degli altri
tempi gli saran cari ; perchè non mai tanto, quanto tra le avversità, ci son
care le memorie dei tempi felici . Quanto più il governo che voi distruggete è
stato ( 1 ) Framm . III , p . 246. ( 2) Framm. III , p. 246. 47 barbaro, tanto
più numerosi avanzi voi rinvenite di an tichi costumi; perchè il governo,
urtando troppo violen temente contro il popolo, l'ha quasi costretto a trince
rarsi tra le sue antiche istituzioni, nè ha rinvenuto nei nuovi avvenimenti
ragione di seguirli e di abbandonare ed obbliare gli antichi (1 ). Nello
sviluppo storico nulla si perde completamente : l'evoluzione vitale degli
uomini e delle istituzioni loro è trasformazione e non distruzione, onde sotto
la scorza della modernità si possono ritrovare i nuclei ancor verdi dell'antico
. La tradizione non è un culto senza dèi, pro prio de letterati e de '
filosofi, è la vita della nazione, è quel che di più sacro essa ha, poi che
rappresenta la sua continuità. Ciò non deve dimenticare il legislatore, come
colui che è più vicino al palpito dei popoli, dovendo re golare le
manifestazioni più svariate della loro attività privata e pubblica. « Questi
avanzi di costumi e governo di altri tempi, che in ogni nazione s ' incontrano
, sono preziosi per un legislatore saggio , e debbono formar la base dei suoi
ordini nuovi. Il popolo conserva sempre molto rispetto per tutto ciò che gli
viene dai suoi mag giori; rispetto che produce talora qualche male, e spesso
grandissimi beni. Ma coloro, che vorrebbero distruggerlo, non si avvedono che distruggerebbero
in tal modo ogni fondamento di giustizia ed ogni principio d'ordine so ciale ?
Noi non possiamo più far parlare gli dèi come i legislatori antichi facevano :
facciamo almeno parlare gli eroi, che agli occhi dei popoli son sempre i loro
antichi. Un popolo , il quale cangiasse la sua costituzione per solo amor di
novità, non potrebbe far altro di meglio, che darsi una costituzione all'anno .
Ma, per buona sorte , un tal popolo non esiste che nella fantasia di qualche
filo sofo » ( 2 ) . Un legislatore quindi può realmente fare del bene alla
nazione, ma deve seguire la natura, cioè la na zione stessa nel suo spirito, e
trarre da essa il sistema costituzionale, non il sistema costituzionale da
princípi ( 1 ) Framm . I , p. 220 e sg. ( 2) Framm. I , p . 221 . 48 che non
sono nella natura, ma nella testa dei filosofi. « Tutto è perduto quando un
legislatore misura la infi nita estensione della natura colle piccole
dimensioni della sua testa, e che, non conoscendo se non le sue idee, gira per
la terra come un empirico col suo segreto, col quale pretende medicar tutt'i
mali ( 1 ) . Vincenzo Cuoco ci si presenta come un tradizionalista e un
moderato. Non bisogna distruggere per distruggere, perchè si può perdere il
buono per un problematicissimo ottimo; non bisogna atterrare, perchè non sempre
si può ricostruire ; non bisogna aprire un novus ordo, perchè i novi ordines
dei filosofi sono in cielo e non in terra. Bi sogna costruire su quel che già
è, edificare sulle fonda menta della storia, che non soffre soluzioni di
continuità , riformare e non distruggere. « Io non credo la costitu zione
consistere in una dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino » ( 2 ) .
Essa è qualcosa di più profondo : è il popolo, il quale da sè stesso trae le
norme regolatrici della sua esistenza, della sua attività, della felicità. « E
chi non sa i suoi diritti ? Ma gran parte degli uomini li cede per timore ;
grandissima li vende per interesse: la costituzione è il modo di far sì che
l'uomo sia sempre in uno stato da non esser nè indotto a venderli , nè
costretto a cederli, nè spinto ad abusarne » ( 3 ). Ciò è possibile solo in
quanto la costituzione assicuri un medio benessere, attinga quella umana
felicità, alla quale abbiamo ac cennato . Le rivoluzioni nascono da un malessere
economico generalizzato . Le costituzioni post - rivoluzionarie debbono
ristabilire l'equilibrio , il benessere, l'armonia , la vita pa cifica ed
operosa . Per fare ciò bisogna intendere le esi genze e i bisogni della
nazione, i suoi costumi, il suo carattere . Ecco perchè Cuoco ci dice che, se
egli fosse invitato a dar leggi ad un popolo, vorrebbe prima stu diarlo e
conoscerlo ; ecco perchè Cuoco ci dice che egli ( 1 ) Framm . I , p . 221 . ( 2
) Framm . II, p . 233. ( 3 ) Framm . II , p . 233. 49 vuol ritornare
all'antico, e all'antico ricollegare il pre sente, perchè il popolo ama le
antiche istituzioni, che in passato gli han pure dato felicità ; ecco perchè il
Cuoco vuol riformare solo ove è male ed ove le istituzioni antiche non
rispondono più ai nuovi bisogni, ed è tra dizionalista all'eccesso, laddove la
mania novatrice cerca distruggere istituti e norme consacrate da secoli. Questi
i convincimenti del critico . Ma che cosa in vece era avvenuto a Napoli,
qual'era, com'era la costi tuzione che Mario Pagano aveva elaborato ? Ogni po
polo ha una individualità ineffabile. Il popolo napole tano, quindi, ha pur
esso una sua natura specifica, che risulta da un complesso di cose. Parliamo
perciò , dice il Cuoco all'amico Russo, « della costituzione da darsi agli
oziosi lazzaroni di Napoli, ai feroci calabresi, ai leggieri leccesi, ai spurei
sanniti ed a tale altra simile genìa, che forma nove milioni novecento
novantanove mila nove cento novantanove decimilionesimi di quella razza umana
che tu vuoi tra poco rigenerare » ( 1 ) . Cioè discendiamo ai fatti, al
concreto , vediamo se il progetto costituzionale del Pagano risponde alla
natura delle cose. Il Cuoco ri sponde risolutamente : « Per questa razza di
uomini par mi che il progetto donatoci da Pagano non sia il migliore. Esso è
migliore al certo delle costituzioni ligure, romana, cisalpina ; ma al pari di
queste è troppo francese e troppo poco napolitano. L'edificio di Pagano è
costrutto colle materie che la costituzione francese gli dava : l'architetto è
grande, ma la materia del suo edifizio non è che creta » ( 2 ). Il Pagano,
nonostante il suo vichismo, è caduto nell'er rore tipico di tutti i
rivoluzionari alla francese, ha cre duto in un ottimo che non è ; ha creduto
negli immortali princípi che le masse non intendono, poi che gli uomini sentono
solo i bisogni e non i princípi che parlano al l'intelletto di pochi ; ha fatto
quella, che il critico mo lisano chiama una costituzione da tavolino ; « e
quindi ne è avvenuto, che siesi perduta la vera cognizione delle ( 1 ) Framm. I
, ( 2) Framm . I , p. p. 220. 220. 4 - F. BATTAGLIA . 50 cose e della loro
importanza » ( 1 ) . E nel dispiacere del fallimento, che al nostro appare
evidente, c'è una punta d'ironia , che al lettore è facile avvertire pur nell'amiche
volezza dell'espressione : « Oh ! perdona. Non mi ricor dava » dice il Cuoco al
Russo « di scrivere a colui, che, sull'orme della buona memoria di Condorcet,
crede possi bile in un essere finito, quale è l'uomo, una perfettibilità
infinita. Scusa un ignorante avvilito tra gli antichi errori: travaglia a
renderci angioli, ed allora fonderemo la re pubblica di Saint- Just. Per ora
contentiamoci di darcene una provvisoria, la quale ci possa rendere meno
infelici per tre o quattro altri secoli, quanti almeno, a creder mio, dovranno
ancora scorrere prima di giugnere all'esecu zione del tuo disegno » ( 2 ) .
Anche l'amico fedele Vincenzo Russo, come il grande maestro Pagano, è un
illuso, un astratto ! Ma osserviamo bene. Quest'astrattismo, che il Cuoco rimprovera
al suo Pagano , non è solo del Pagano, è di tutto un sistema, che il nostro
vivamente deplora. Primi i francesi, coloro per cui la rivoluzione nacque
spontanea esplosione di lungamente compressi bisogni, per cui il moto
repubblicano fu attivo e non passivo com'è a Na poli, caddero negli stessi
errori. « I francesi aveano fondata la loro costituzione sopra princípi troppo
astrusi, dai quali il popolo non può discendere alle cose sensibili se non per
mezzo di un sillogismo ; e quando siamo a sillogismo, allora non vi è più
uniformità di opinioni e non si potrà sperare regolarità di operazioni » ( 3 )
. Di ciò il molisano dà un esempio concreto . In Francia si volle stabilire
come norma costituzionale il diritto all'insur rezione . Ma senza quelle circostanze,
che l'accompagna vano e la dirigevano in qualche paese dell'antichità , ove
simile norma era stata applicata , essa non poteva pro durre che sedizioni e
turbolenze, seguite da una reazione violenta del governo attaccato, in barba ad
ogni princi F ( 1 ) Framm. III , p . 241 . ( 2 ) Framm . I , p. 220. ( 3 )
Framm. III, p. 247 . 51 pio legale. « Per buona sorte della Francia » commenta
iro nico il nostro « questa massima fu guillottinata con Robe spierre » ( 1 ) .
Vedete, dice, « la costituzione romana era sensibile, viva, parlante. Un romano
si avvedeva di ogni infrazione dei suoi diritti, come un inglese si avvede
delle infrazioni della Gran carta . In vece di questa, immagina per poco che
gli inglesi avessero avuto la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del
cittadino : essi allora non avreb bero avuto la bussola che loro ha servito di
guida in tutte le loro rivoluzioni . I romani eccedettero nella smania di voler
particolarizzar tutto, per cui negli ultimi tempi formarono dei loro diritti un
peso di molti cameli. Ma, mentre conosciamo i loro errori, evitiamo, anche gli
ec cessi contrari, e teniamoci quanto meno possiamo lon tani dai sensi. Se la
molteplicità dei dettagli forma un bosco troppo folto nel quale si smarrisce il
sentiero, i princípi troppo sublimi e troppo universali rassomigliano le cime
altissime, dei monti, donde più non si riconoscono gli oggetti sottoposti » ( 2
) . Questi sono gli errori dei francesi. L'esasperazione dei princípi dovea
portare necessariamente agli errori fatali. Questa è l'idea che il Cuoco ha
della costituzione francese del 1795. Una « costituzione è buona per tutti gli
uo mini ? Ebbene : ciò vuol dire che non è buona per nes suno.... » ( 3 ) . Il
Pagano, ritorniamo a lui, s'è ingolfato negli stessi errori. Seguiamo il nostro
autore nel suo excursus e nella sua critica minuta del progetto ; ma per
intendere come egli colpisca nel segno, e come i Frammenti siano una
meditazione veramente profonda, una critica sincera e non sistematica,
rileggiamo le prime righe del Rapporto al governo provvisorio, che precede la
Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell'uomo, e che è certo opera di Mario
Pagano. « Una costituzione, che assicuri la pubblica libertà, e ( 1 ) Framm .
III , p. 247 . ( 2) Framm. III , ( 3) Framm . I , p . 219. p. 247. 52 che
slanciando lo sguardo nella incertezza de ' secoli av venire , guardi a
soffocare i germi della corruzione e del dispotismo, è l'opera la più
difficile, a cui possa aspirare l’arditezza dell'umano ingegno. I filosofi
dell'antichità, che tanto elevarono l'umana ragione, ne presentarono i
principii soltanto, e le antiche repubbliche le più celebri e sagge ne
supplirono in più cose la mancanza con la · purità de' costumi, e colla energia
dell'anime, che ispirò loro una sublime educazione. Gran passi avea già dati
l'America in questa , diremo, nuova scienza, formando le costituzioni de' suoi
liberi Stati. Novellamente la Fran cia, che ha contestato straordinario amore
di libertà con prodigi di valore, ha data fuori altresì una delle migliori costituzioni
che siansi prodotte finora » . Fin dalle prime battute si sente l'uomo geniale,
ma insieme lo scolastico, che ha bisogno di rifarsi ai prece denti generici ( 1
) . Il Comitato di legislazione « ha.... adottata la costitu zione della madre
repubblica francese. Egli è ben giusto, che da quella mano istessa, da cui ha
ricevuto la libertà, ricevesse eziandio la legge, custode e conservatrice di
quella . Ma riflettendo che la diversità del carattere mo rale, le politiche
circostanze, e ben anche la fisica situa zione delle nazioni richiedono
necessariamente de' cam giamenti nelle costituzioni, propone alcune
modificazioni, che ha fatte in quella della repubblica madre, e vi rende conto
altresì delle ragioni che a ciò l'hanno determinato » . La derivazione è
confessata , e con essa l'astrattismo. Senonchè il Pagano afferma una esigenza,
che in lui na poletano e vichiano, deve essere sincera, ma che resta poi in
pratica insoddisfatta : tenere conto dei bisogni pe ( 1 ) L. PALMA, I tentativi
di nuove costituzioni in Italia dal 1796 al 1815, in Nuova Antologia , a .
XXVI, v. XXXVI, 16 no vembre, 1-6 dicembre 1891, p . 441. Il Palma ci offre una
buona analisi della costituzione di M. Pagano in rapporto alle altre
costituzioni francesi ed italiane del tempo, nonchè un'acuta critica di essa ,
critica che fondamentalmente coincide con quella cuochiana. Sulla costituzione
del Pagano vedi pure V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit. , Milano, Vallardi, s. d.
, p. 170 e sgg. 53 ) ) culiari della nazione alla quale si provvede; e nel
resto dell'opera legislativa si rivela per quello che è, cioè un mero teorico.
Vediamo. « La più egregia cosa che ritrovasi nelle moderne co stituzioni, è la
dichiarazione de' dritti dell'uomo. L'uguaglianza non è un diritto, ma la base
di tutti i diritti, che da essa scaturiscono. « L'uguaglianza è un rapporto, e
i dritti sono facoltà. Sono le facoltà di oprare, che la legge di natura , cioè
l ' invariabile ragione e cono scenza de ' naturali rapporti, ovvero la
positiva legge sociale, accorda a ciascuno » . Sembra di leggere un trat tato
di filosofia giuridica e non un rapporto di un comi tato legislativo, che
presenta un progetto di legge . « Da tal rapporto d'uguaglianza di natura , che
avvi tra gli uomini, deriva l'esistenza, e l'uguaglianza de' dritti: es sendo
gli uomini simili , e però uguali tra loro, hanno le medesime facoltà fisiche e
morali : e l'uno ha tanta ragione di valersi delle sue naturali forze, quanto
l'altro suo simile . Donde segue, che le naturali facoltà indefi nite per natura
, debbano essere prefinite per ragione, dovendosi ciascuno di quelle valere per
modo, che gli altri possano benanche adoprar le loro. E da ciò segue eziandio,
che i dritti sono uguali ; poichè negli esseri uguali, uguali debbono essere le
facoltà di oprare. Ecco adunque come dalla somiglianza ed eguaglianza della na
tura scaturiscano i dritti tutti dell'uomo, e l'uguaglianza di tai dritti » .
Io qui non istò a riferire come Mario Pagano « dall'unico e fondamentale dritto
della propria conservazione » derivi « la libertà, la facoltà di opinare, di
servirsi delle sue forze fisiche, di estrinsecare i suoi pensieri, la
resistenza all'oppressione » , modificazioni tutte del primitivo innato
diritto, che l'uomo ha di na tura, il conservarsi. Tutto il sistema si sviluppa
con una logica impeccabile filosofica e giuridica, e noi non sap piamo che
ammirare la grandezza di uno spirito geniale e deplorare la sua morte immatura
e tragica. Le defini zioni paganiane sono stupende di sintesi. Ecco la li bertà
! « La libertà è la facoltà dell'uomo di valersi di tutte le sue forze morali e
fisiche come gli piace, colla !! 54 sola limitazione di non impedire agli altri
di far lo stesso » . Tutto s ' impernia su un principio - postulato e
scaturisce di lì . Dal primo fonte di tutto il diritto deriva la pro prietà,
poi che « la proprietà reale è una emanazione e continuazione della personale »
. Gli stessi diritti ci dànno i doveri ; i diritti e i doveri dei cittadini, i
diritti e i doveri dei magistrati e dei pubblici funzionari, e così di seguito
. Nè mancano sani princípi costituzionali, che occorre an che oggi meditare.
V'è un vigile e vichiano senso della dinamicità delle costituzioni , che,
sebbene carte sacre di un popolo, non per questo sono inviolabili, cioè non mo
dificabili, poi che la vita stessa e le rinnovate esigenze delle nazioni dànno
origini a riforme naturali nel loro stesso seno . « La società vien formata
dalla unione delle volontà degli uomini, che voglion vivere insieme per la
vicende vole garanzia de proprii dritti. L'unione delle forze fa la pubblica
autorità , e l'unione de' consigli forma la pubblica ragione, la quale,
avvalorata dalla pubblica autorità, diviene legge. Quindi l ' imprescrittibile
dritto del popolo di mutar l'antica costituzione, e stabilirne una nuova, più
conforme agli attuali suoi interessi, ma demo cratica sempre ; quindi il dritto
di ogni cittadino di es sere garantito dalla pubblica forza, e il dovere di con
tribuire alla difesa della Patria ; quindi finalmente i dritti e i doveri de'pubblici
funzionarii, che per delega zione esercitano i poteri del popolo sovrano, e per
do vere sono vittime consacrate al pubblico bene » . E dire che ancor oggi
questo principio della vita giu ridica, che è dinamicità come ogni altra
manifestazione dello spirito, non è inteso, e la riforma dello Statuto ita
liano è temuta come un terribile evento sovvertitore, mentre le leggi
fondamentali sono una vuota forma senza contenuto materiale , vuota forma
premuta da esigenze nuove, e , purtroppo, dal più sfacciato illegalismo dei
partiti ! Ma, se dal Rapporto passiamo al Progetto costituzio nale, quanto
astrattismo ! Quanta artificiosità ne' sin goli istituti, in quell'eforato, che
ricorda Sparta, ma che 55 non è che il direttorio o potere esecutivo francese ;
in quella distinzione tra assemblee primarie ed assemblee elettorali espresse
dal seno delle prime ; in quell'istituto censorio, che arieggia la censura di
Roma, ma che in uno Stato moderno e vasto è inconcepibile e vano ! Se guardate
il Progetto di costituzione nel suo complesso la critica del giovane Cuoco vi
appare pienamente giusti ficata e altamente vera . Essa non si limita ad
appunti d'ordine pratico, ma risale pure ai princípi, e traccia, direi,
l'abbozzo d'una nuova scienza costituzionale, che nel nome di Vico e di
Machiavelli da un lato, di Monte squieu dall'altro, vuol essere positiva senza
cadere nel l'empirismo . La sovranità del popolo si manifesta in due maniere:
la legislazione e l'elezione. Negli Stati antichi, nelle città primitive, a
base democratica, il popolo stesso era legi slatore : negli Stati moderni, che
trascendono la greca Tól.is , la romana urbs, numerosi di popolazione, vasti di
territorio , il popolo sovrano può legiferare solo per mezzo della
rappresentanza. La costituzione del Pagano adotta il sistema rappresentativo,
ma lo travisa, per mezzo di un'assurda divisione delle assemblee popolari in
primarie, alle quali spetta il compito di eleggere un certo numero di
cittadini, ai quali è deferito il compito supe riore della scelta del deputato,
e in elettive, alle quali è assegnata la vera sovranità, la nomina del rappre
sentante in seno al Consiglio. Così il prescelto è allonta nato, divenuto
rappresentante della nazione napolitana e non del dipartimento che lo nomina,
dal popolo, di cui dovrebbe sentire i bisogni e rendersene esponente. Il
Pagano, in sostanza, non accetta l'elezione con man dato. Il Cuoco vuole invece
che il deputato riceva dalle popolazioni memoriali veri e propri, utili
avvertimenti, e che, durante l'esercizio della sua carica, viva a contatto con
le sue masse elettorali, e non si perda ne' meandri d'una politica, che, per
volere essere nazionale e generale, finisce per essere astratta e generica .
Tutte le deficienze del sistema parlamentaristico, specie nelle degenerazioni
de' nostri paesi, saltano al pensiero, nelle lungimiranti 56 notazioni del
nostro autore. E dire che non era necessario che guardarsi attorno per
rinvenire il sistema più adatto ai fini, che la Commissione legislativa o il
Pagano per lei si proponeva ! « La nazione napolitana offre un me todo più
semplice. Essa ha i suoi comizi, e son quei par lamenti che hanno tutte le
nostre popolazioni ; avanzi di antica sovranità, che la nostra nazione ha
sempre difesi contro le usurpazioni dei baroni e del fisco. È per me un diletto
( e qui il Cuoco pensatore diviene un pochino lirico ) ritrovarmi in taluni di
questi parlamenti, e ve dervi un popolo intero riunito discutervi i suoi
interessi , difendervi i suoi diritti, sceglier le persone cui debba affi dar le
sue cose : così i pacifici abitanti delle montagne dell'Elvezia esercitano la
loro sovranità ; così il più grande, il popolo romano, sceglieva i suoi consoli
e deci deva della sorte dell'universo » ( 1 ) . Il sistema nostro na zionale è
il più spontaneo, il più naturale, consacrato dalle glorie dei nostri comuni,
enti che hanno avuto un giorno in una storia grande indipendenza e forza, ed
hanno subìto un'evoluzione millenaria. La costituzione francese del 1795 ha
distrutto tutto ciò . « I municipi non sono eletti dal popolo, e rendono conto
delle loro operazioni al governo, cioè a colui che più facilmente può e che
spesso vuole esser ingannato » ( 2 ) . Ma il Cuoco si spiega tutto . La storia
insegna molte cose. L'ac centramento in Francia è naturale : questa nazione non
ha avuto mai l'esperimento dei comuni, una vera e propria municipalità, poi che
questo paese ha trovato l'unità assai presto. In Italia la faccenda è assai
diversa . In Italia il comune è stato un istituto spontaneo, espres sione della
rinascente romanità contro il feudalismo fer rato, istituto che non è morto
mai, e s'è sviluppato, perpetuato, anche allorquando da ente sovrano è dive
nuto ente subordinato entro gruppi politici più vasti , come il principato o
signoria e lo stato monarchico. Il Cuoco non dice tutto ciò, ma si intravede
chiaramente ( 1 ) Framm. II , p. 223. ( 2 ) Framm . II , p. 224. 57 che questo
è il suo pensiero. « Io perdono » scrive « ai fran cesi il loro sistema di
municipalità : essi non ne aveano giammai avuto, nè ne conoscevano altro
migliore: forse non era nè sicuro nè lodevole passar di un salto e senza veruna
preparazione al sistema nostro . Ma quella stessa natura, che non soffre salti,
non permette neanche che si retroceda ; e, quando i nostri legislatori voglion
dare a noi lo stesso sistema della Francia, non credi tu che la nostra nazione
abbia diritto a dolersi di un'istituzione che la priva dei più antichi e più
interessanti suoi di ritti ! » ( 1 ) . Il sistema costituzionale, dunque, che
ha alla sua base il comune, è il più naturale per noi, poi che l’ente comu nale
è l'espressione prima di quei bisogni complessi che abbiamo detto essere la
base imprescindibile di ordini durevoli. In poche parole, ecco tracciate le
funzioni del comune, funzioni varie e molteplici, dirette ad assicu rare la più
immediata soddisfazione de' bisogni elemen tari primordiali di una gente ! «
Ciascuna popolazione dunque, convocata in parlamento ( questo nome mi piace più
di quello di assemblea : esso è antico, è nazionale, è nobile; il popolo
l'intende e l'usa : quante ragioni per conservarlo !), eleggerà i suoi
municipi. Essi avranno il potere esecutivo delle popolazioni, saranno i
principali agenti del governo, e dovranno render conto della loro condotta al
governo ed alla popolazione. La loro carica durerà un anno. Tu vedi bene che
fino a questo punto altro non farei che rinnovare al popolo le antiche sue
leggi » ( 2 ) . Tutto trova la sua consacrazione nella storia italiana.
Affermare il comune è il primo passo. Ad esso occorre attribuire tanto potere
da assicurargli la possibi lità di vivere e di prosperare, vale a dire occorre
dargli una vera e propria autonomia amministrativa . « La mia prima legge
costituzionale sarebbe, che qualunque popo lazione della repubblica riunita in
solenne parlamento possa prendere sui suoi bisogni particolari quelle determi (
1 ) Framm . II , p. 224. ( 2 ) Framm . II , p. 225 . 58 nazioni che crederà le
migliori ; e le sue determinazioni avran vigore di legge nel suo territorio,
purché non siano contrarie alle leggi generali ed agl ' interessi delle altre
popolazioni » ( 1 ) . La legge è la volontà generale. Ogni individuo ha d'al
tra parte una volontà particolare, che costituisce la sua legge e la sua
libertà . Il sorgere dello Stato afferma la legge generale, ma il suo
ingrandirsi moltiplica le vo lontà particolari, onde sempre cresce e s'acuisce
un fa tale dissidio tra le due volontà , la generale e la partico lare, tra lo
Stato e l'individuo, tra l'autorità e la libertà, tra la sovranità e l'autonomia,
dissidio che in certe cir costanze anomali può portare al disfacimento dello
Stato, tendendo l'uomo per natura ad affermare la sua indi pendenza, lo Stato
la sua universalità autarchica . La legge, quindi, nella sua stessa génesi è
destinata a cozzare contro l'individualismo umano, onde quanto più generalizza
e si astrae tanto più divien tirannica. C'è il pericolo insomma che si venga a
creare una discrepanza tra volontà pubblica e volontà privata. Il rimedio è
solo nel decentramento. « Quanto più dunque le nazioni s ' ingrandiscono,
quanto più si coltivano, tanto più gli oggetti della volontà ge nerale debbono
esser ristretti, e più estesi quelli della volontà individuale. Ma, affinchè
tante volontà partico lari non diventino del tutto singolari, e lo Stato non
cada per questa via nella dissoluzione, facciamo che gli og getti siano presi
in considerazione da coloro cui maggior mente e più da vicino interessano . Vi
è maggior diffe renza tra una terra ed un'altra che tra un uomo ed un altro
uomo nella stessa terra. Se la base della libertà è che ad ogni uomo non sia
permesso di far ciò che nuoce ad un altro, perchè mai ciò non deve esser
permesso ad una popolazione ? Perchè mai, se una popolazione abbia bisogno di
un ponte, di una strada, di un medico, e se tutto ciò richiegga una nuova
contribuzione da' suoi ( 1 ) Framm. II , p. 227 . 59 cittadini, ci sarà bisogno
che ricorra all'assemblea legi 4 slativa , come prima ricorrer dovea alla
Camera ? Come si può sperare che quelle popolazioni, le quali erano im pazienti
del giogo camerale, soffrano oggi il giogo di altri , i quali sotto nuovi nomi
riuniscono l'antica ignoranza de' luoghi e delle cose, l'antica oscitanza ? ...
» ( 1 ) . È as sicurata così la forza dello Stato e la libertà dell'indi viduo.
L'individuo si sente più libero, se per lui opera il comune, la sua espressione
diretta , poi che il comune è a lui più vicino , è la immediata manifestazione
della sua sovranità di cittadino . Si dirà al Cuoco : ma anche la legge, la
volontà generale è tale in quanto è la risultante d'una convergenza di consensi
e di volontà particolari ; che anche lo Stato opera sul fondamento del diritto
, e in questo senso è Stato di diritto, e nella forma del di ritto, in quanto
ogni suo atto è manifestazione giuridica, cioè libero volere della collettività
; ma tutto ciò non esclude e menoma la grande verità affermata dal mo lisano .
La volontà generale che s ' esprime nello Stato è lontana dai sensi del
cittadino, in quanto la sua realtà concreta è una formazione etica di volontà
mediata, ond' essa è lontana dalla possibilità d'esaurire tutta la complessa
natura della nazione; mentre la volontà che si estrinseca negli atti del
comune, alla quale il Cuoco vuol dare carattere di legge, surge spontanea dalle
più intime fibre dell'anima popolare, realizza bisogni vera mente profondi,
parla infine ai sensi e alla fantasia, di quegli elementi de' popoli, che
vichianamente possiamo considerare eterni fanciulli ed eterni primitivi. I
risultati pratici di questo sistema sono incalcolabili . « Quante buone opere
pubbliche noi avremmo, se più li bero si fosse lasciato l'esercizio delle loro
volontà alle popolazioni » ( 2 ) . Vi sono paesi per i quali, esemplifica
l'autore, un porto, una rada è indispensabile, e che, in pochi anni, sotto la pressione
di esigenze inderogabili, avendo sufficienti libertà, lo costruirebbero :
ebbene, que ( 1 ) Framm. II , p. 229. ( 2 ) Framm . II , p. 230. 60 ste stesse
popolazioni oggi, posto un freno all'iniziativa individuale, attendono dal
governo quel che non viene . Si potrebbe obiettare : ma queste affermazioni
sono le affermazioni d'un federalista ! No.... Il Cuoco stesso ha prevenuto la
domanda, ed ha distinto tra autonomia e separazione, tra Stato su base
decentrata e Stato fede rativo. L'autonomia non rinnega l'unità, anzi la conso
lida, mentre la federazione per popoli schiettamente par ticolaristi e
campanilisti, com'è l'italiano, è un primo passo verso la disgregazione. Tra il
sistema accentratore alla francese, in cui gli organi periferici ricevono tutto
dalla capitale, e il sistema federativo di Stati alla sviz zera, ove ogni
gruppo gode di leggi sue proprie, ha un parlamento suo proprio , c'è lo Stato
unitario su largo decentramento amministrativo, e a quest'ultimo sistema il
nostro molisano si volge. « So gl’inconvenienti che seco porta la federazione ;
ma, siccome dall'altra parte essa ci dà infiniti vantaggi, così amerei trovar
il modo di evitar quelli senza perdere questi. Vorrei conservare al più che
fosse possibile l'attività individuale . Allora la repub blica sarà, quale
esser deve, lo sviluppo di tutta l'attività nazionale verso il massimo bene
della nazione, il quale altro non è che la somma dei beni dei privati. L'atti
vità nazionale si sviluppa sopra tutt'i punti della terra. Se tu restringi
tutto al governo, farai sì che un occhio solo, un sol braccio, da un sol punto
debba fare ciò , che vedrebbero e farebbero mille occhi e mille braccia in
mille punti diversi . Quest'occhio unico non vedrà bene, lento sarà il suo
braccio ; dovrà fidarsi di altri occhi e di altre braccia, che spesso non
sapranno, che spesso non vorranno nè vedere nè agire : tutto sarà malversazione
nel governo, tutto sarà languore nella nazione . Il go verno deve tutto vedere
, tutto dirigere » ( 1 ) . Nel sistema cuochiano l'attività privata è
garantita. Il necessario conflitto tra la volontà generale e la volontà
particolare si risolve con lo stabilimento d’una naturale delimita ( 1 ) Framm.
II , p. 230 e sg. 61 zione di competenza. L'individuo e gli enti a lui più vicini
agiscono in pieną indipendenza : allo Stato resta la funzione, che a lui è più
propria ed è manifestazione vera della sua sovranità, la guida e il controllo
supremo. Vincenzo Cuoco, come ognun vede, nelle sue ricerche di natura
costituzionale è fisso ad una realtà storica che non può fallire, e cerca di
stabilire un edifizio incrollabile. La natura opera in questo mondo umano e
crea diversità, onde tutto ci si appalesa nella sua ineffabile particola rità,
nel mondo fisico e nel mondo morale. I governi operano su questo mondo degli
uomini, e la loro volontà è sempre generale. Le norme giuridiche attraverso cui
s'esprime questa volontà dello Stato sono quindi fatal mente generali, hanno
origine da un processo d'astrazione, riferendosi non al singolo, ma ai singoli
in quanto formano una classe, una media, un tipo. Ai subietti per natura
diversi di bisogni, di aspirazioni, di carattere sovrasta una norma unica
uguale indistinta, e però entro certi limiti tirannica. È fatale, non può
essere diversamente. Ciò non toglie che questo hiatus, che può divenire con
trasto , tra la libertà dei singoli e l'autarchia sovrana dello Stato, cioè tra
la volontà particolare e l'autorità suprema, debba, ed è doveroso, colmarsi.
Ecco : lo Stato impone dei tributi, esprime la sua volontà in forma giu ridica,
che non può non essere quindi generale ; ma in tanto i prodotti di una nazione,
dai quali debbono i tributi raccogliersi, sono diversi : una popolazione ha
solo derrate, un'altra manifatture, una terza produce olio e deve realizzare la
sua ricchezza in novembre, un'altra è dedita alla pastorizia e la ha realizzata
in luglio, laddove un industriale ogni giorno produce, e così via.... « Ben
duro esattore sarebbe colui che obbligasse tutti a pa gar nello stesso tempo, e
nello stesso modo; e questa sua durezza che altro sarebbe se non ingiustizia ?
Al l'incontro tu non potresti giammai immaginare una legge, la quale abbia
tante eccezioni, tante modificazioni, quanti sono gli abitatori della tua
repubblica : non ti resta a far altro se non che imporre la somma dei tributi e
farne la ripartizione sopra ciascuna popolazione, la 62 sciando in loro balìa
la scelta del modo di soddisfarla ; così la volontà generale della nazione
determinerà l'im posizione, la particolare determinerà il modo : questa non
potrebbe far bene il primo, quella non potrebbe far bene il secondo » ( 1 ) .
Tutto ciò è la necessaria conseguenza di un sistema mentale potentemente fuso e
senza una con traddizione. È naturale che l'astrattismo alla francese si faccia
sostenitore d’una unitarietà soffocatrice del par ticolare umano, poi che vede
i princípi, che sono schema tici ed astratti, e non le cose, che rinserrano in
loro l'ineffabilità dell'opera della natura, la quale non crea una foglia
simile ad un'altra foglia. È naturale all'in contro che lo storicismo vichiano
di Vincenzo Cuoco vo glia discendere alla realtà, e nella realtà dedurre e sag
giare i princípi, così come l'oro si saggia dall'orefice esperto sulla pietra,
e su questa realtà edificare il sistema . Per finire questo argomento, sul
quale mi sono assai diffuso, perchè lo ritengo interessante, noto che il Cuoco
va ancora più in là, concedendo una certa autonomia ai cantoni, un quid come i
nostri circondari, ai dipar timenti o provincie . « La costituzione francese
confonde municipalità con cantone : cosicchè ogni cantone potrà avere più
popolazioni, ma non avrà mai più di una mu nicipalità . Io distinguo due
parlamenti : uno municipale per ogni popolazione di un cantone ; l'altro
cantonale per tutte le diverse popolazioni che compongono un can tone medesimo
» ( 2 ) . Ma anzichè fermarci e analizzare la critica che il nostro fa alla
divisione cantonale, qual'è p. 231 . p. 236. ( 1 ) Framm. II , ( 2 ) Framm. II,
La Costituzione del Pagano organizzava il territorio in di. ciassette
dipartimenti, che sono enumerati al tit. I , art. 3 del Progetto. L'articolo 5
al quale si riferisce il Cuoco dice : « Ciascun dipartimento è diviso in
cantoni , e ciascun cantone in comuni : i limiti de'cantoni possono ancora
esser rettificati o cambiati dal Corpo legislativo, ma in guisa che la distanza
di ogni co mune dal capoluogo del cantone non sia più di sei miglia » . Il
titolo VII, art. 173, dice : « In ogni dipartimento vi ha una amministrazione
centrale, e in ogni cantone almeno un'am ministrazione municipale » . 63 in
Francia, vediamo com'egli crede debba essere orga nizzata l'amministrazione. «
Sei tu ormai » scrive al Russo « persuaso della ragionevolezza dell'articolo ,
che io vorrei fondamentale nella costituzione nostra ? Tu mi conce derai anche
questo secondo : se due o tre popolazioni diverse avranno interessi comuni,
potranno provvedervi allo stesso modo ; ed, ogni qual volta le loro risoluzioni
saranno uniformi, avranno forza di legge obbligatoria per tutte le popolazioni
interessate » ( 1 ) . Ecco quindi una comunità d'interesși, che genera co
munità d'opera. Sono i bisogni che muovono gli uomini, la loro attività
legislativa, la loro vita pubblica. Occorre salire dal basso in alto, cioè dal
senso all ' intelletto , dal cittadino al governo, e non viceversa. Adopero una
simi litudine, che al Cuoco certo piacerebbe. L'individuo è il senso , il
governo l'intelletto dell'organismo sociale . L'intelletto che agisce senza l'
esperimento del senso è l'astrazione. Lasciamo, dunque, all'intelletto la
direzione, ma lasciamo al senso la avvertenza dei bisogni, che solo
l'esperienza immediata può dare. Una delimitazione di competenze è la salute
dello Stato. La visione netta e precisa del problema costituzionale , che ebbe
Vincenzo Cuoco e che trascende ogni limite di tempo, poi che certe questioni
anche oggi hanno il loro peso, ci si appalesa nella posizione che assegna al
can tone. Vi sono bisogni, che pur non essendo generali, non sono più
particolari, ma riflettono esigenze comuni a due o tre comuni : occorre che i
comuni che formano il can tone li risolvano insieme . « Imperocchè, avendo ogni
po polazione alcuni interessi particolari ad alcuni altri co muni, è giusto che
talvolta prenda delle risoluzioni comuni e tal altra delle particolari » ( 2 )
. Tuttavia il Cuoco non mi sembra che voglia attribuire al diparti mento quella
larga autonomia che assegna al comune. Perchè ? L’autore dei Frammenti non lo
dice , ma chi ha penetrato il suo pensiero intende facilmente. Il comune ( 1 )
Framm . II , p . 235. ( 2 ) Framm . II , p. 236. 64 è una formazione naturale,
consacrata dal tempo, ri spondente a bisogni concreti vigili e immediatamente
primi della società. Il dipartimento è una figura ammini strativa, che può
avere importanza entro i limiti d'una competenza ben precisa. Se al
dipartimento si dà una forza che di natura non ha, si crea un piccolo Stato
nello Stato, si perde la sua qualità di nesso d'unione tra il comune e il
potere centrale ( 1 ) . Come ognun vede si agitano qui questioni ancor oggi
vive nella coscienza politica della nazione nostra, que stioni , che, dopo un
sessantennio di convivenza unitaria, non hanno ancora avuto una loro pratica
risoluzione e un impostamento concreto. È tipico ed interessante notare come
tutti i progetti di riforma costituzionale ed amministrativa siano partiti
dall'Italia meridionale, la quale è forse la più danneggiata dal rigido sistema
cen tralizzatore, che noi attraverso il Piemonte abbiamo ereditato dalla
Francia . Nel '60 , occupando Garibaldi la Sicilia , alcuni patrioti, Crispi,
Mordini, agitarono il pro blema, fra l'incomprensione delle masse e peggio del
governo, che li tacciarono di separatismo ( 2 ) . Il Cavour stesso, mente
lucida e serena, non intese il problema, e non condivideva i vari progetti di
governi regionali, che si presentavano da altri a lui vicini ; ed era natura
lissimo: egli conosceva più l'Inghilterra e la Francia che non l'Italia
meridionale e centrale. Ma la natura si vendica degli uomini, e le crisi
politiche hanno origine dalla questione sovra detta. Vincenzo Cuoco l'ha
intuito ( 1) Questa è la ragione per cui l'autore ( Framm . II, p. 236)
scrive: « Ma le unionicantonali non debbono occuparsi di altro che delle
elezioni che la legge loro commette : inutile , inco modo, pericoloso sarebbe
incaricarle di oggetti che richiedes sero una riunione troppo frequente. I
cantoni, seguendo questi principi, potrebbero essere un poco più grandi di
quelli di Francia » . ( 2 ) M. Rosi, L'Italia Odierna, v. I , t . II , p. 988 e
sgg .; M. Rosi, Il risorgimento italiano e l'azione di un patriotta co
spiratore e soldato, Roma- Torino, Casa ed . nazionale, 1906 , p . 228 e sgg.
65 troppo bene, per non comprenderne il valore. Ma, pur troppo, tra l'Italia
settentrionale e l'Italia meridio nale c'è ancora un hiatus troppo vasto ,
perchè le stesse idee possano germinare nel cervello positivo de gli uomini del
nord e nel cervello storicista degli uo mini del mezzogiorno. Notiamo :
l'esperienza politica delle due parti d'Italia è troppo diversa, perchè la com
prensione sia facile. Il comune nell'Italia settentrionale fu piuttosto
sinonimo di particolarismo e di fazione, mentre nell'Italia meridionale seppe
chiudersi in limiti più naturali d'amministrazione. E ciò era necessario per
un'altra considerazione. Laddove nell'Italia alta si eb bero infiniti domíni,
monarchie e repubbliche, varie suc cessive preponderanze straniere, l'Italia
centrale e meri dionale, superato il dominio bizantino e il longobardico, che
non s'estese del resto oltre Benevento che per un tempo brevissimo — s'assettò
sotto i papi e sotto i Nor manni, e chi ricevette il dominio in eredità lo
ricevette nella sua complessità, senza infrangerlo. Quindi, mentre nell'Italia
del sud non si teme l'autonomia, perchè questa non può infrangere vincoli
millenarî, nel nord si teme l'autonomia, perchè si teme la sua degenerazione,
il fe deralismo, e con il federalismo, quella che si vuol chia mare la
questione meridionale, che ai miopi della poli tica appare questione
separatista, mentre è puramente amministrativa. Errore, che non esito a
chiamare defi cienza d'educazione politica e di comprensione storica ! L'Italia
ha raggiunto l'unità non per un caso furtuito, per l'opera di tre o quattro
genî più o meno ispirati, ma per un processo graduale spontaneo secolare di
compene trazione di pensiero e di interessi. La storia segue una trama eterna ,
e questa trama non s'infrange. Scombusso latela , violatela, provatevi a
romperla, essa si rifà con i tro di voi, e si ricostituisce. L'Italia è fatta e
non può disfarsi, poi che la sua unità è opera delle cose e non dei singoli
individui. Nel suo seno vi sono i vincoli d'una unità ancor maggiore e non i
germi della dissoluzione. E , se pure vi sono germi dissolvitori, saranno
altri, ma non il comunalismo, nome, che se vuol significare fazione e 5 - .F.
BATTAGLIA . 66 campanile, è superato da un pezzo. Crisi vi furono, vi sono e vi
saranno, ma furono sono e saranno crisi ammi nistrative politiche economiche,
ma non mai nazionali. La storia, e non il genio di alcuni ispirati, ha fatto
l'Ita lia , la storia la guida nel suo travaglio e la guida sicura, anche fra
le crisi , di cui ho detto la natura, senza il bi sogno di uomini, fatali
patres patriae, che ogni cinque minuti si arrogano il diritto di rafforzarla,
d’epurarla, e, modestamente, di salvarla ! La critica , come ognun vede, alla
costituzione del Pa. gano è addirittura radicale : troppo francese e troppo
poco napoletana ; per essere ottima men che buona , mediocre; come quella
francese del '95 per sancire gli immortali princípi non discende alla vita
positiva. I particolari dimostrano a sufficienza l'astrattismo della
concezione. Il paese elegge 170 rappresentanti, i quali il Pagano di vide in
due gruppi : 50 membri formano il Senato, 120 il Consiglio . Il Senato più
austero e savio approva o re spinge ciò che il Consiglio ha proposto. Il
critico però sempre fisso ad una realtà che non sfugge, l'elemento economico
nella vita dei popoli, si domanda : a qual divisione d'interessi corrisponda
questa divisione di Ca mere : « In Inghilterra ha una ragione, perchè gli uo
mini non sono eguali ; ha una ragione anche in Ame rica, poichè, sebbene gli
americani avessero dichiarati tutti gli uomini eguali per diritto, pure – ed in
ciò han pensato come gli antichi ( 1 ) non si sono lasciati illudere dalle loro
dichiarazioni, ed han . veduto che ri mane tra gli uomini una perpetua
disuguaglianza di fatto, la quale, se non deve influir nell'esecuzione della
legge, influisce però irreparabilmente nella formazione della medesima. Gli
americani han ricercata nelle ric chezze quella differenza che gl'inglesi
ricercan nel grado. (1 ) E noi possiamoaggiungere come.... Cuoco stesso . Il
Cuoco non è davvero per il suffragio universale, nè per una limita. zione
plutocratica, come gli americani, o per una limitazione di classe come gli
inglesi, ma per una limitazione di educa. zione politica , e lo proveremo
appresso . 67 La costituzione francese ha adottato inutilmente lo sta bilimento
americano » ( 1 ) . In sostanza, non essendovi nes suna diversità di bisogni
tra le due Camere, che rappre sentano la stessa borghesia che le esprime,
essendo uguale nell'una e nell'altra la possibilità della corruzione, la
distinzione non ha una ragione pratica. È un altro esempio della concretezza
del pensiero politico del no stro scrittore . La nazione napoletana, mentre per
il potere legisla tivo , offre, come abbiam detto una sua tradizione pae sana,
alla quale il giurista può rifarsi , non offre pari menti una forma indigena di
potere esecutivo potere è pure il più indocile e il più difficile ad organiz
zare. Difficoltà questa più grave oggi , in cui le costitu zioni si creano a
tavolino nel pieno oblìo degli uomini . « Forse non siamo stati mai tanto
lontani dalla vera scienza della legislazione quanto lo siamo adesso, che
crediamo di averne conosciuti i princípi più sublimi » ( 2 ) . Non esiste una
costituzione giusta, una costituzione ottima, esistono costituzioni che più o
meno rispondono ai bisogni di un popolo . Un popolo rozzo avrà una costi
tuzione rudimentale, la quale gli sarà più utile della costituzione del Pagano.
Un popolo culto avrà una costi tuzione sublime, e sol questa potrà essergli
utile . Perchè parlare quindi in via assoluta ? È questo un vero e pro prio
bisogno di ciò che tocca i sensi, il trionfo dello sto ricismo . La
costituzione è di per sè una mera forma, che è vuota, se tu non le dài un
contenuto di sensibilità umana, un contenuto essenzialmente storico, cioè dina
mico. Portate il diritto a contatto con la vita, e la vita vi darà la
direttiva, il metodo, i princípi ( 3 ) . Voi andate ( 1 ) Framm . II , p. 237 .
( 2 ) Framm. III, p. 241 . (3) Nel Platone in Italia ( a cura di F. Nicolini ,
Laterza, ed. , 1916, v. I , p. 45) il Cuoco scrive : « .... In Taranto si
disputa tutt' i giorni sulla miglior forma di governo; e taluno difende gli
ordini popolari , altri si lagna che quelli, che si hanno, non sieno abbastanza
oligarchici.... Tornate ai vostri affari -- ho detto io a molti di questi tali;
68 ricercando una norma, che delimiti il potere esecutivo dal potere
legislativo, che ponga un freno all'arbitrio e tenga il governo entro la legge
: è come cercare l'astratto ! Sono elementi questi di una costituzione che solo
una pratica civile può darvi. Stabilite un principio desumen dolo dalla
costituzione inglese, non è detto che possiate farlo valere da noi.
L'Inghilterra ha fissato per prima questa divisione dei poteri, ed è stata in
ciò scrupolosa; così la Francia, la Svizzera. « Ma questa divisione di forze
dipende dalle circostanze politiche di una nazione ; e bene spesso lo stato
delle cose ed il corso degli avveni menti vincono la prudenza dell'uomo :
cosicchè, volendo troppo dividere la forza armata, si corre rischio d’in
debolirla soverchio, e sacrificare così alla libertà della co stituzione
l'indipendenza della nazione » ( 1 ) . È facile ve dere ciò in concreto . Ogni
nazione ha bisogno della forza per la sua difesa , e questo bisogno è vario ,
secondo molte circostanze etnologiche, storiche, geografiche, ecc. In Inghilterra,
per esempio, la Carta costituzionale è animata da un sentimento d’estrema
diffidenza verso l'elemento militare, nel timore che questo si faccia stru
mento del governo per opprimere le libertà, onde il so vrano stesso non può
disporre della forza armata, ed è necessario un atto parlamentare ogni anno per
mante nere un esercito . Questi princípi hanno origine nelle lotte tra
monarchia e popolo, e trovarono la loro risolu zione pratica nella
Dichiarazione dei diritti ( anno 1689 ) , nel definitivo abbattimento degli
Stuart e nell'ascesa al fate in modo di star meglio nelle vostre famiglie , e
starete anche meglio nelle città. Se voi vi volete occupar sempre degli affari
pubblici, senza curar i vostri interessi privati, rassomi. glierete quei
viaggiatori, i quali, per la curiosità di osservar gli edifizi pubblici nella
città in cui arrivano , trascurano di tro varsi un albergo, e poi si dolgono
che in quella città si alberga male. Se volete esser cittadini felici ,
diventate prima uomini virtuosi. « I vostri maggiori eran liberi perchè forti e
virtuosi. » ( 1 ) Framm . III , p. 243. 69 trono degli Orange. Ma il problema
così com'è stato risoluto in Inghilterra, non può essere risoluto altrove : il
bisogno che Albione ha d'un esercito è minimo, poi che la natura stessa, il
mare difende le sue coste dalle aggressioni straniere. Il potere esecutivo può
perciò benissimo essere menomato nelle sue manifestazioni mi litaresche, mentre
non potrebbe essere menomato, senza che la nazione venga indebolita, qualora
dovesse ab bandonare la sua autorità sull'armata, sulla flotta , unico e grande
presidio dell'isola. È possibile tutto ciò in Francia ? Evidentemente no. A
Napoli ? Neppure. Da noi diminuire il potere esecutivo, togliendogli l'alta di
rezione dell'esercito, significherebbe porre il paese in braccio allo straniero
. D'altra parte quello stesso po tere esecutivo , che non ha energia
sufficiente per difen dere le frontiere, ne avrà sempre tanta da opprimere un
collegio elettorale, per fargli subire la sua volontà estrinseca. Gli antichi,
nota il Cuoco, « invece d'indebolire i po teri, ... li rendevano più energici,
e così, essendo tutti egualmente energici, venivano a bilanciarsi a vicenda » (
1 ) . Oggi i legislatori invece mirano più alle apparenze, per seguono una
delimitazione di forze e di competenze, che non ha ragione di essere, ed
ignorano il vero equilibrio delle cose. La ripartizione delle forze consiste in
un'ar monia di opinioni, è la risultante d’un lungo processo storico di
educazione politica. « I costumi de' maggiori, il. rispetto per la religione, i
pregiudizi istessi dei popoli servon talora a frenare i capricci dei più
terribili despoti, anche quando al potere esecutivo sia riunito il legisla tivo
.... » (2 ). È la natura che mette un limite all'arbi trio nella stessa
educazione, nello stesso senso civile del popolo . Una nazione ha, in sostanza,
il regime che si merita . A volte gli stessi tiranni sono fatali. Quando per
soverchio amore di ordine, di regolarità una repub blica, poniamo, vuol togliere
alle popolazioni usi , co ( 1 ) Framm . III , p. 244. ( 2 ) Framm . III , p.
244. 70 stumi, religione, per uniformarle ad una prassi desunta da princípi, il
déspota può darsi che sia accolto come un liberatore. Il concretismo storico
del Cuoco qui raggiunge le sue vette più alte . L'autore stesso dei Frammenti,
dopo pochi anni, dovette a lungo meditare su queste stesse analisi, veggendo
come i fatti avessero confermato le sue induzioni con l'avvento di Napoleone al
duplice trono di Francia e d'Italia, tra il plauso delle popola zioni stanche
di regolarismo repubblicano. « È pericoloso estendere soverchio l'impero delle
stesse leggi , perchè allora esse rimangono senza difesa . Le leggi da per loro
stesse son mute : la difesa la dovrebbe fare il popolo ; ma il popolo non
intende le leggi, e solo di fende le sue opinioni ed i costumi suoi. Questo è
il peri colo che io temo, quando veggo costituzioni troppo filo sofiche, e
perciò senza base, perchè troppo lontane dai sensi e dai costumi del popolo » (
1 ) . Il popolo ha sue esigenze d'ordine e di regolarità, in dipendentemente
dall'ordine e dalla regolarità che gli si vuole imporre estrinsecamente , e da
queste esigenze na scono spontanei contrappesi costituzionali, limiti al
l'esercizio de' poteri . Vuoi che egli resti attaccato alla legge, e se ne
faccia quasi il tutore ? Devi sfruttare la sua natura, pure i pregiudizi .
Vuole solennità ? Dà alle leggi solennità quasi jeratica. La costituzione gli
sem brerà cosa sacra, la rispetterà e la farà rispettare. L'uomo, però, è sopra
tutto interessi, plasmato com'è da bisogni materiali. Su una base economica e
materiale riposa in parte la sua natura. Dividete i poteri esterior mente, non
avrete fatto nulla : il più forte invaderà il campo del più debole, ne
nasceranno crisi , conflitti, pre dominii . Per frenare la forza non vi può
essere che un solo mezzo : dividere gli interessi. Da una disarmonia
d'interessi nasce l'armonia degli ordini civili, poi che ciascuno difenderà il
proprio interesse e sarà impedito a ( 1 ) Framm . III , p. 246. 71 sua volta di
violare l'interesse altrui. « Fate che il potere di uno non si possa estendere
senza offendere il potere di un altro ; non fate che tutt'i poteri si
ottenghino e si conservino nello stesso modo ; talune magistrature perpe tue,
talune elezioni a sorte, talune promozioni fatte dalla legge, cosicchè un uomo,
che siasi ben condotto in una carica, sia sicuro di ottenerne una migliore
senza aver bisogno del favor di nessuno ; tutte queste varietà , lungi dal
distruggere la libertà, ne sono anzi il più fermo so stegno, perchè così tutti
i possidenti, e coloro che sperano , temono un rovescio di costituzione, che
sarebbe contrario ai loro interessi » ( 1 ) . Questa la vera sapienza costitu
zionale : il resto è pregiudizio ed empirismo. Si è pensato a diminuire la
forza del governo, aumentando il numero delle persone a cui è affidato. Il
numero impedisce, sì , l'usurpazione, ma porta seco la debolezza. I romani
avevano il Senato, ma operavano per mezzo de' due consoli, o meglio per mezzo
del dittatore. « L'unità im pedisce la debolezza, che porta seco la
dissoluzione e la morte politica della nazione » ( 2 ) . Quest'affermazione
unitaria del Cuoco avrà, come dimostremo, grande im portanza per la successiva
evoluzione del suo pensiero, e sarà la base della legittimazione politica
dell'impero napoleonico . Un altro punto interessantissimo è questo. Le costitu
zioni sono istituti sociali, umani, e però vivi di vita pro pria. Il giudizio
sul loro valore è lento, graduale, si può avere solo dopo lungo tempo, sulla
base degli effetti pro dotti e non in base a princípi di ragione. Occorre cono
scere i popoli, e vedere se esse costituzioni rispondono alla loro vita, alla
loro natura : solo il tempo può darci un giudizio definitivo . Quindi nessuno
può dirci se la monar chia o la repubblica sia buona o cattiva . « Un re
eredita rio» , dice Mably , parlando della costituzione della Svezia , « quando
non ad altro, serve a togliere agli altri l'ambizione ( 1 ) Framm. III , p.
247. ( 2) Framm. III , p. 249. 72 di esserlo ; ed io credo la monarchia
temperata meno di quel che si pensa nemica degli ordini liberi » ( 1 ) . In
piena rivoluzione il Cuoco afferma che non è detto che la repub blica
estremista e radicale sia la panacea di tutti i mali, e che vi possano essere
sistemi più rispondenti alla realtà nazionale, che garantiscono meglio l'unità
del reggimento politico e la libertà stessa, senza cadere nella debolezza, che
di solito interviene allorquando il potere supremo per essere nelle mani d'un direttorio
di più persone nelle mani di nessuno. Già spuntano nell'autore dei Frammenti
idee, che germineranno e che renderanno sempre più coerenti i suoi princípi,
espressioni profonde di convincimenti sinceri e di meditazioni severe, non
opportunismi servili , come ha voluto dimostrare qual che critico che del
pensiero del grande molisano ha ca pito ben poco. Il popolo è quello che è, con
le sue virtù e con i suoi vizi. Il legislatore non deve che osservare, e dar
leggi conformi alle condizioni reali dei subietti , sfruttando vizi e virtù,
tutto disimpegnando, tutto cercando d'ar monizzare positivamente. Nel Progetto
del Pagano c'è un primo istituto, la censura, che rivive ed arieggia la censura
latina ; c' è un secondo ufficio, l'eforato, che ri corda un nome spartano
anche nella sostanza, avendo il fine di tenere i poteri pubblici nel proprio
cerchio, non partecipando ad alcuno di essi. Il Cuoco loda quest'ultima
magistratura, ma non nasconde la grave verità : non vi può essere forza
estrinseca, fuor dalle cose stesse, che mantenga l'equilibrio ! In quanto alla
censura siamo sem pre allo stesso punto : molta nobiltà di sentimenti, poca
concretezza. Come provare che un cittadino viva ari stocraticamente, agisca con
alterigia, « sia prodigo, avaro, intemperante, imprudente... ? » . Se la
nazione è corrotta, se gli strati sociali sono corrosi, la censura non potrà
fare nulla di nulla . « Libertà ! virtù ! ecco quale deve esser la meta di ogni
legislatore ; ecco ciò che forma tutta ( 1 ) Framm . III , p. 250. 73 la
felicità dei popoli. Ma, come per giugnere alla libertà, così la natura ha
segnata, per giugnere alla virtù , una via inalterabile : quella che noi
vogliam seguire non è la via della natura » ( 1 ) . La virtù, anch'essa, non è
un assoluto, quindi non esiste un termine a cui ricondurre le norme della vita.
Lo stesso entusiasmo per la virtù può produrre in un paese disgregamenti, e per
essere troppo spartani o romani si può cessare d'essere napoletani o milanesi.
La notazione è sottile e vera, in un tempo in cui ogni buon repubblicano era un
Bruto, uno Scevola o che so io in quarantottesimo, pronto a recitare la sua
parte tragica d'eroe e di tirannicida . « La virtù è una di quelle idee, »
scrive il Cuoco, « non mai ben definite, che si presentano al nostro intelletto
sotto vari aspetti ; è un nome capace di infiniti significati. Vi è la virtù
dell'uomo, quella delle nazioni, quella del cittadino : si può considerar la
virtù per i suoi princípi, si può considerare per i suoi effetti » ( 2 ) . Può
darsi che esi sta un'assoluta virtù, ma questo concetto non può che riflettere
la filosofia morale. Il legislatore deve mirare a ben altro fine che ad una
virtù superumana sublime, deve mirare a stabilizzare un costume « che non renda
infelice il cittadino » , deve cioè trovare quell'armonica delimitazione tra
libertà e libertà , tra volontà partico lare e volontà particolare, che sola
può rendere pacifica l'umana convivenza. « Il fine della virtù è la felicità, e
la felicità è la soddi sfazione dei bisogni, ossia l'equilibrio tra i desideri
e le forze » ( 3 ) . Il nostro autore è un politico. A lui non in teressa
l'universale etico, che riconosce e legittima nella sua sfera ideale ed eterna
; a lui interessa la morale po sitiva, che altro non è che la conformità del costume
del ( 1 ) Framm . VI , p. 261. La critica cuochiana coincide affatto con quella
che un valente costituzionalista moderno ha fatto dei due istituti del Pagano,
l'eforato e la censura : vedi L. PALMA, op. cit. , p . 442 e sgg . ( 2 ) Framm.
VI, p . 261 . ( 3 ) Framm. VI, p . 262. 74 singolo cittadino col costume della
nazione ( 1 ) . Il diritto ci appare, quindi, come un minimo etico, che
assicura una certa non esagerata regolarità ed uniformità di vivere civile .
D'altra parte il Cuoco riconosce che, se il diritto deve limitarsi ad osservare
dati di fatto e a porre norme alla convivenza, stabilendo una pura e semplice
hominis ( 1) Il concetto che una costituzione politica può assicurare la
felicità umana solo in quanto ha un fondamento sulla virtù politica; e, questa
alla sua volta rafferma, appare assai fre quente nel Platone in Italia. Arehita
(v: I, p . 87) dice : « Ciò , che veramente è necessario in una città ; è che
ciascuno stia al suo luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l'ordine. Ad ottener
l'uno e l'altro , sono necessari egualmente la scienza e la subordinazione...
-- Non perdete la stima del popolo, diceva Pittagora, se volete istruirlo. Il
popolo non ode coloro che disprezza. Di rado egli può conoscer le dottrine, ma
giudica se. verissimamente i maestri, e li giudica da quelle cose che sem .
brano spesso frivole , ma che son quelle sole che il popolo vede. Che vale il
dire che il popolo è ingiusto ? Quando si · tratta d'istruirlo , tutt' i
diritti sono suoi : tutt' i doveri son nostri, e nostre tutte le colpe....
Tutte quelle dottrine destinate a pro durre riforme popolari hanno bisogno di
collegi, d'iniziazione, di segreto. Tutt' i popoli hanno avuto di simili
collegi. Sono i primi passi che ogni popolo fa verso migliori ordini civili. I
vo. stri misteri di Eleusi e quelli di Samotracia hanno la stessa origine: ma
nè sul principio sonosi occupati de' nostri oggetti, perchè nati in età più
barbara ; nè oggi possono esser più utili, perchè resi troppo comuni. Come
pretendete che gl'iniziati emen dino il costume di Atene, se voi ateniesi siete
tutti iniziati ? ... ) . « Non son questi, o Archita ) , disse allora Platone,
« i soli mali che jo temo per tali collegi. Essi talora possono separarsi dal
resto degli uomini, e perdersi o dietro astruse inutili contemplazioni, o
dietro l'ozio e gli agi che il rispetto del popolo loro dona. Questo male io
temo ogni volta che si separano le instituzioni morali dalle civili. Del resto
la morale di Pittagora è nell'in trinseca natura dell'uomo. Essa rinascerà ,
non ne dubito, sotto altri nomi ed in altre terre. Rinascerà, quando la
corruzione dei costumi e degli ordini civili e la miseria generale avrà ridotti
gli animi all'estremo de' mali. L'estrema corruzione nei costumi de' popoli
produrrà l ' estrema austerità ne' precetti de' pochi saggi che allora vi
saranno ; l'estremo de' mali produrrà l'estre. mo del coraggio, della
temperanza, della virtù , e risorgeranno sotto altri nomi la sapienza ed i
collegi di Pittagora. Possan non separarsi mai dalle leggi e dalla società !
Possano non riunirsi mai con - vincoli troppo tenaci ! ... » . 75 ad hominem
proportio, la politica deve andare più in là, assicurare una felicità presente,
dalla quale sola può scaturire la virtù, ed inoltre aiutare lo sviluppo della felicità,
creare la felicità futura e di conseguenza la virtù futura . La sferà del
politico , pur non attingendo il sü blime vertice dell'indagine etica che non
può vigere che nel mondo teoretico, la sfera del politico, sfera del tutto
pratica, anzi economica, trascende, com'ognun vede, la pura determinazione
giuridica: La vita umana è una ë complessa nello stesso tempo, perchè uno e
complesso è lo spirito: La felicità politica , e quindi la virtù pub blica, ci
appaiono come una formazione vastissima, ri: sultando da elementi molteplici,
d'indole spirituale, reli giosa, materiale. Un elemento però è sovra gli altri
im portante , l'economico, pur che lo si sappia intendere in sepso lato. « Il
fine della virtù è la felicità » ( 1 ) . Per un politico l'affermazione non
suona male, specie dopo the egli stesso ha ammesso la possibilità d'un'altra
ricerca superiore, i cui termini sono di natura teoretica, che po trà influire
sulla ricerca positiva, essendovi innegabili vincoli di reciprocanza, ma che
non si connatura con questå . « La felicità è la soddisfazione dei bisogni
ossia l'equilibrio tra i desideri e le forze » . Sottentra l'elemento
economico. « Ma, siccome queste due quantità sono sem pre variabili, così si
può andare alla felicità, cioè si può ottener l'equilibrio oscemando i desideri
o accrescendo le forze » (2 ). Il selvaggio cura poco il suo simile: la sua
economia è, entro certi limiti, economia individuale iso lata, L'uomo civile
non può prescindere dal resto del mondo : la sua economia è solo per astrazione
individuale, concretamente è economia collettiva sociale . I bisogni di
quest'uomo sono bisogni dinamici e progressivi. Il con cetto della società ha
implicito il concetto della progres sività, poi che è impossibile pensare una
società umana statica, senza condannarla ad una prossima morte. I bi sogni
umani sono in continuo sviluppo : il lusso, quel che ( 1 ) Framm . VI , p .
262. ( 2 ) Framm . VI , p. 262, 76 chiamiamo lusso, è la manifestazione di
bisogni nuovi , null’affatto superflui, poi che sono la cagione d'ogni umano
progresso . Sorgono nuovi bisogni, ma con essi nasce spesso un disquilibrio,
l'infelicità, poi che non sempre le forze bastano a produrre i beni necessari
per soddisfare i nuovi bisogni. Che vale predicare gli antichi precetti di
moderatezza, fulminare le nuove esigenze so ciali , la ricchezza ? La storia
corre incessantemente il suo corso ideale . Nuove età : nuovi bisogni:
disquilibrio di forze produttive: poi, di nuovo , equilibrio per una
reintegrata armonia tra forze economiche e bisogni: infine ancora un secondo
disquilibrio per esigenze sottentrate nell'ambiente, e così in eterno. La
dinamica economica è un avvicendarsi continuo d'equilibri successivi, d'equi
libri turbati che si compongono in un nuovo punto. L'intuizione cuochiana è
lucida ed anticipa di molto alcune vedute economiche moderne. Il fine della
politica è assicurare quest'equilibrio tra forze e bisogni, tra forze e
desideri, come dice il Cuoco. « Se tu ci insegnerai» , scrive « la maniera di
soddisfare i nostri bisogni, se farai crescer le nostre forze, c' ispirerai
l'amore del lavoro, schiuderai i tesori che un suolo fertile chiude nel suo
seno, ci esenterai dai vettigali che oggi paghiamo per le inutili bagattelle
dello straniero, ci renderai grandi e felici: e, senza esser nè spartani nè
romani, potremo pure esser virtuosi al pari di loro, perchè al pari di loro
avremo le forze eguali ai desidèri nostri » ( 1 ) . Le ricerche del Cuoco sono
le ricerche dell'uomo politico . Il molisano è troppo superiore per credere che
la sua analisi esaurisca ogni altro problema : egli stesso dice al Russo : « Ti
dirò un'altra volta le mie idee sullo studio della morale, sulle cagioni per le
quali è stato tanto trascurato presso di noi, sulle cagioni delle
contraddizioni che ancora vi sono tra precetti e precetti, tra i libri e gli
uomini ; e forse allora converrai meco che di questa scienza, che tanto
interessa l'umanità, non ancora si conoscono quei prin ( 1 ) Framm . VI, p. 262
77 cípi che potrebbero renderla utile e vera » ( 1 ) . A me sembra di vedere
una netta distinzione tra filosofia e politica, tra etica e pedagogia generale
: quel che in una sfera ha un suo profondo valore è insufficiente nell'altra. «
L'amor del lavoro mi pare che debba essere l'unico fondamento di quella virtù,
che sola può avere il secol nostro. La cura del governo deve esser quella di
distrug gere le professioni che nulla producono, e quelle ancora le quali
consumano più di ciò che producono ;,e ne verrà à capo, se stabilirà tale
ordine, che per mezzo di esse non si possa mai sperare tanto di ricchezza
quanto colle arti utili se ne ottiene » ( 2) . Il governo deve dare un vero e
proprio impulso alla produzione : le forze giovani anzi che dirigersi agli
impieghi pubblici debbono svilup parsi altrove, alle industrie, ai commerci, e
sovra tutto alla campagna. « Il lavoro ci darà le arti che ci mancano, ci
renderà indipendenti da quelle nazioni dalle quali oggi dipendiamo; e così,
accrescendo l'uso delle cose nostre, ne accrescerà anche la stima, e colla stima
delle cose nostre si risveglierà l'amor della nostra patria » ( 3 ) . È una
vera pedagogia politica in cui i princípi vivono al contatto con la realtà, in
un sano relativismo, che, non scendendo alla bassezza dell’empirismo, respinge
da se ogni astruseria. Oggi specialmente, in cui la filosofia po litica è di
moda e si riconduce pure la pratica più volgare agli eterni princípi; questo
nobile realismo ideale, sia permessa la parola , dovrebbe insegnarci più d'una
cosa. La rivoluzione pretende di rinnegare la storia, s'af ferma come
antistorica ; ma di fronte ad essa, per un processo, che non è solo di
reazione, ma di sviluppo - da Vico a Cuoco è lo stesso genio italico lo
storicismo rinasce, critica della stessa rivoluzione e entro certi limiti sua
rivalutazione. Il Cuoco non rinnega la rivoluzione, anzi mostra di conoscerne i
benefíci, che poi enumererà con lucida visione nel Saggio e soprattutto ne'
suoi articoli ( 1 ) Framm . VI, p. 261 . ( 2 ) Framm. VI, p. 263. ( 3 ) Framm .
VI , p. 263. 78 milanesi . Ma l'astrattismo in materia legislativa è dele
terio, ed occorre superarlo, riconducendo il diritto alla vita. Sentimento
profondo, che il nostro non tradirà mai, e sarà sempre alla cima del suo
pensiero nel lungo corso, che noi ci sforzeremo di seguire . La critica del
progetto di Pagano ci appare, quindi, come la manifesta zione d'un sistema, che
nel molisano è organico ed in tero, non l'opposizione piccina d'un
antirepubblicano. Nè Vincenzo Cuoco si smentì mai. Le notazioni che egli volge
alla costituzione partenopea, rivolgerà più tardi nel Saggio alla costituzione
francese, che a lui sembra troppo poco adeguata ai bisogni del popolo. « Chi
para gona la Dichiarazione de ' diritti dell ' uomo fatta in America a quella
fatta in Francia, troverà che la prima parla ai sensi, la seconda vuol parlare
alla ragione : la francese è la formula algebraica dell'americana » ( 1 ) . Ma
quanto queste idee fossero in lui radicate e profonde, possiamo ancora meglio
dimostrare . Nel Giornale italiano, ricevuto l'annunzio che la patria di
Alcinoo e di Ulisse ha riacqui stato l'indipendenza , costituendo la così detta
Repub blica settinsulare, scrive alcune sue opinioni che è op portuno rivedere.
« È difficilissimo giudicar di una costi tuzione . La migliore non è sempre quella
che per astratti argomenti si dimostra ottima, ma bensì quella che è più
uniforme al costume de' popoli : a quel costume che esi ste sempre prima della
costituzione ; e, se è simile, la rende vicina e durevole ; se diverso, la
indebolisce e la distrugge .... » . Qual'è dunque il principio che solo può
sanzionare la bontà d'una costituzione ? Noi lo sappiamo : il tempo, il quale
ci confermerà se essa risponde a bisogni concreti ; la storia, la quale ci dirà
se essa si riconnette allo sviluppo della nazione, sviluppo o corso , al quale
occorre necessariamente rifarsi, come ad incrollabile base, poi che il processo
della vita non soffre soluzioni di con ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII , p.
39 . 79 tinuità. « La storia de' tempi passati », ci ammonisce il Cuoco, è la
norma di quelli che ancora debbono ve nire » ( 1 ) . ( 1 ) L'articolo è
intitolato La costituzione della repubblica set tinsulare ; Giornale italiano,
1804 , 15 febbraio, n . 20, pp. 78-79. Nelle pagine seguenti del mio lavoro
avrò frequente bisogno di rifarmi al Giorn . ital. , in cui c'è il meglio
dell'ingegno po litico del Cuoco, e citerò largamente disul testo. Siccome,
peraltro , molti dei più significativi articoli del foglio milanese sono stati
ristampati in appendice alle opere critiche del Ro MANO e del Cogo, se è del
caso, darò tra parentesi, dopo le indicazioni dirette del Giorn . ital., le
indicazioni delle ristampe. Altri cinque articoli cuochiani sono stati
ripubblicati da G. Gen tile insieme col Rapporto al re Murat e Progetto di
decreto per l'ordinamento della Pubbl. Istruzione nel Regno di Napoli col
titolo di Scritti pedagogici inediti o rari (Roma-Milano, Albrighi e Se gati
ed. , 1909) . Allorquando poi il mio lavoro era già compiuto sono usciti alla
luce due altri volumi contenenti quanto di V. Cuoco rimaneva disperso : Scritti
vari a cura di N. CORTESE E di F. NICOLINI, Bari, Laterza ed. , 1924. Forse
sarebbe stata op portuna una ristampa di tutti gli scritti del Giorn. ital. ,
ma gli egregi editori non hanno creduto di farla, limitandosi a ripro durre per
intero ben ventisette articoli, e sono i maggiori, e a dare, a mo' di
appendice, un catalogo ragionato degli altri ri . masti fuori. S'intende che io
ho rivisto le mie citazioni sull'edi. zione laterziana, che, dal punto di vista
della correttezza , offre i maggiori affidamenti. CAPITOLO III . Il « Saggio
storico sulla rivoluzione napoletana » . Il Saggio storico mostra in atto il
sistema negativo ab bozzato nei Frammenti. – Lo storico e l'artista . – La .
Rivoluzione francese è attiva, quella napoletana pas siva . L'astrattismo . -
La corte e il governo. – I re pubblicani e il popolo. - L'arte del Saggio . I
Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo ideal mente vanno innanzi al
Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, sebbene tipograficamente in tutte
le edizioni cuochiane seguano, quasi a mo' d'appendice, questo. Essi sono una
vera e propria formulazione di princípi filosofici giuridici economici, che
Vincenzo Cuoco desume da un'esperienza storica e politica insieme, antica e mo
derna nello stesso tempo. Larghi sono i raffronti tra le costituzioni classiche
e le odierne, tra costituzione odierna e costituzione odierna, e la critica si
svolge tra compara zioni ed appunti acutissimi. È l'opera di una eccellente
testa politica, che ha legittime pretese di teorizzatore e di sistematico. V'è
un ordine logico ferreo, una disciplina storica, una consequenzialità
impressionante. Avremmo desiderato che questo sistema in abbozzo il Cuoco
stesso avesse sviluppato, ma noi posteri, ammirando la sua eletta figura , non
possiamo domandargli più di quanto ci ha dato, se non nel dolore di vedere
quanta parte del suo genio sia andata dispersa nell'esilio, nella po vertà e
infine nelle malattie . È il libro d’un pensatore 81 che ad una astratta
ideologia oppone il suo paesano realismo storico . Vincenzo Cuoco assiste allo
svolgersi degli avvenimenti, giudice imparziale, ma non per que sto inattivo e
mutolo , e vede la storia rinnegare i suoi ideali, l'errore trionfare e
fatalmente sommergere l'edi fizio repubblicano. La vita segue una via che è
fatale che segua. L'errore trae l'errore, l'estremismo l'estremi smo.
L'astruseria rivoluzionaria forza le cose , e la storia sembra calpestare lo
storicismo, i princípi, che la specu lazione ha desunto e desume
dall'osservazione del suo eterno corso . La storia sembra seguire uno
spiegamento, che non è quello che il passato legittima. Vedremo, invece, come,
superato il vortice, sia la storia stessa che illumina le verità cuochiane :
sarà il periodo del Giornale italiano , il periodo napoleonico dell'impero . «
L'uomo è di tale natura, che tutte le sue idee si cangiano, tutt'i suoi
affetti, giunti all'estremo, s'indeboliscono e si estin guono : a forza di
voler troppo esser libero , l'uomo si stanca dello stesso sentimento di
libertà. Nec totam liber tatem, nec totam servitutem pati possumus, disse
Tacito del popolo romano : a me pare, che si possa dire di tutti i popoli della
terra . Or che altro aveva fatto Robespierre spingendo all'estremo il senso della
libertà, se non che accelerarne il cambiamento ? » ( 1 ) . « Questo è il corso
ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il po polo si agita senza
saper ove fermarsi : corre sempre agli estremi e non sa che la felicità è nel
mezzo » ( 2 ) . Tale è la vita : dalla sua stessa negazione scaturisce
un'afferma zione. La rivoluzione rinnega la storia, e la storia prende la sua
rivincita sulla rivoluzione. La rivoluzione afferma il diritto alla sommossa :
Robespierre, figlio della rivolu zione, lo nega ghigliottinando ; il popolo
stanco lo afferma sul capo di Robespierre. La cos za storica stess sem bra
distrutta da tutta una tragica serie di fatti, ispi rati alla più astrusa
ideologia : la realtà annichilisce i repubblicani e li conduce alla perdizione;
l'equilibrio si ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , XVIII, p .- 99. ( 2 ) V.
Cuoco, Saggio storico , XVIII, p. 102. 6 F. BATTAGLIA . 82 ristabilisce, si
riconferma ciò ch'era stato negato. Onde ben scrive, a mio avviso, il De
Ruggiero, affermando che l'esperienza rivoluzionaria dà un nuovo significato
alla negazione, in quanto questa è la crisi feconda di un rin novamento della
vita storica. La crisi, in sostanza, non può non apparire che come una critica
degli avveni menti passati e delle istituzioni da essi nate, che non giudica
arbitrariamente, sovrapponendo una verità a priori, ma svolge dagli errori
stessi un latente spirito di verità ( 1 ) . Questa, infine, la ragione
dell'ottimismo rela tivo del Cuoco. L'esperienza politica del Machiavelli do
veva necessariamente finire, data la sua natura , le sue premesse, i suoi fini,
nel pessimismo o nell'amarezza. L'esperienza del nostro, certo più tragica, più
dolorosa, più densa di dolore, che non quella del segretario fioren tino,
sfocia, ed è naturale, in un equilibrio, che è quanto dire in un bene relativo
, in Napoleone. Tra l'astrattismo e Napoleone c'è la rivoluzione, la prassi
sanguinosa, il rinnegamento del passato, la critica assoluta delle isti tuzioni
millenarie, l'apriorismo giuridico, la democratiz zazione, universale,
l'esaltazione dei princípi. La storia procede con continuità mirabile, ma nella
sua stessa continuità c'è un processo di tesi antitesi ed un supera mento
implicito, c'è infine la vera dinamica dello spi rito , dell'idea, che muove gli
uomini e le nazioni. La rivoluzione e Bonaparte sono due aspetti della stessa
realtà : « il passato, negato violentemente, si riaffaccia alla vita nell'atto
stesso della negazione » ( 2 ) . La critica dell’astrattismo razionalistico,
che ne' Frammenti abbia mo osservato e colta nella teoria, nel Saggio è
mostrata e, direi, vista in atto, nello stesso spiegarsi della storia . È la
storia stessa, che, nell'indicare la fatalità del pro cesso storico determinato
dai princípi e dalla prassi re pubblicana, giudica d’un metodo e d’una
mentalità. La storia sembra dire : queste norme hanno portato a tale orribile
scioglimento, giudica tu , lettore, della loro bontà ! ( 1 ) G. DE RUGGIERO,
op. cit . , p. 167. ( 2 ) G. DE RUGGIERO, op. cit., p. 168. 83 In ciò è riposto
quel carattere di sana sapienza, quel l'obiettività del Saggio, per cui Luigi
Settembrini ben potea paragonarlo ad una tragedia greca ( 1) . Ed il raf fronto
non è davvero stiracchiato . La Provvidenza vi chiana vi tiene il posto
dell'antico Fato nell'urto degli eventi, e gli uomini stessi, che hanno
determinato la ! catastrofe con i loro errori, con le loro incongruenze, sog
giacciono ad un destino, che sembra irrevocabile . Sono essi, gli uomini, che
determinano lo scioglimento, o sono poveri burattini nelle mani d'un ignoto
motore ? Ma la storia è reciprocanza e v'è perfetta conversione tra causa ed
effetto : gli uomini, che fanno la storia , soggiacciono ad essa. Il Cuoco
parla spesso di un vortice ( 2 ) , in cui egli stesso fu tratto, e da cui potè
districarsi a mala pena, dopo aver perduto i beni e la patria, vortice che egli
non ammirava, se pure non odiava, come vuole il Tria, ma che distrusse sul
palco ferale tante nobili esistenze, parla insomma di un vortice, che non è
altro che la rivoluzione. Che cosa è mai ? È superiore alla volontà degli
uomini ? : No, esso è fatto dagli uomini nel loro delirio , nel loro ! errore,
e gli uomini possono averne sicura conoscenza , poi che essi ne sono i fattori,
ma averne conoscenza, si gnifica in un certo senso superamento e distacco da
esso . Nei Frammenti era la teoria, la metodologia. Il Saggio storico è la vita
in atto, la tragedia greca in isviluppo, le passioni colte nel loro urto .
Questa è la ragione per cui esso è un'opera d'arte, una grande opera d'arte. Lo
spi rito dello scrittore rifà il processo della storia, segue il corso delle
idee, e lo fa con tale intensa visione da ri crearcelo in un miracolo di luci,
di chiaroscuri, di sfu I mature. V'è l'anima insomma, laddove prima era il
pensiero ; la fantasia , laddove prima era l'intelletto , la fantasia che
s'esprime per immagini e tutto risolve nella immagine. L'opera d'arte è attinta
in un processo d'obiet ( 1 ) L. SETTEMBRINI, Lezioni di letteratura italiana,
Napoli, Morano ed. , 1882, v. III , p. 282. ( 2 ) V. Cuoco ," Saggio
storico, Lettera dell'autore a N. Q. , p. 11: I , p. 16 ; VIII, p. 47 ; XV, p.
84, 84 tivazione, che non esito a dire perfetto, onde non v'è affatto, o assai
raramente, quel contrasto ibrido tra l'ar tista che intuisce e lo storico che
analizza quale può rin venirsi in molte opere di simile genere, poi che tutto è
compenetrato e fuso, attraverso una lunga maturazione, che dovette certo essere
prima consapevolezza di pen siero, meditazione di cause e di effetti, e poi
immedia tezza nervosa e rapida d'espressione (1 ). Invano tu cercherai nel
Saggio un elemento estrinseco all'artista e allo storico. Lo storico si fonde
con l'artista , ma lo stesso storico è perfetto. L'uomo pratico non con turba
l'artista, che supera nella visione l'enunciato fine utilitario della sua
narrazione; il partigiano non con turba lo storico. Leggete invece il Rapporto
al cittadino Carnot del vesuviano Francesco Lomonaco. Quante escla mazioni,
quanti interrogativi , quante tirate oratorie, quanti pistolotti repubblicani,
quanto anticlericalume, quanta montatura ! V? è l'uomo delle nobili passioni,
ma v'è pure l'uomo pratico, che per raggiungere un suo fine, non esita di
caricar di tinte fosche la storia , non esita un momento per indossare la toga
dell'avvocato . Infatti chi può negare la presenza d'una passionalità che di
strugge la storia, d'una coscienza turbata ed oscura, che è la negazione d'ogni
vera espressione artistica ? ( 2 ). Nel Cuoco nulla di tutto ciò . ( 1 ) La
questione della cronologia del Saggio a me sembra oramai risoluta . Fausto
Nicolini, in una sua nota all’ed . barese del Saggio, p. 357 e sgg. , la
riassume e ne trae le migliori conseguenze. Perciò non ho che da rinviare il
lettore a quanto il Nicolini ha egregiamente scritto . Del Saggio poi
possediamo numerose edizioni, di cui alcune buone, molte mediocri scorrette
ristampe, nonchè traduzioni straniere: vedi N. RUGGIERI, op. cit., p. 173 ; e
la nota del Nicolini all’ed . laterziana. ( 2 ) Ogni possibile raffronto tra il
Cuoco e il Lomonaco è assolutamente impari. Già lo osservò il Gentile ne' suoi
Studi vichiani, p . 361 , nota, là dove critica un giudizio di G. Na. tali, che
nella sua monografia La vita e il pensiero di Francesco Lomonaco, Napoli,
Sangiovanni, non esita a chiamare il suo scrittore predecessore in molte idee
di Vincenzo . Scrive il Gen tile : « Tra le superficialità del Lomonaco e le
vedute profonde 85 Chi si accinge a studiare il pensiero cuochiano, i mo menti
ideali dello spirito del grande molisano, non può non rifarsi ad un
avvenimento, che per lui , come per noi, è la fonte, donde scaturirono tutti i
successivi avveni menti, la rivoluzione francese, di cui la rivoluzione parte
nopea non è che un tardo episodio . Il Cuoco, che studia più le idee che i
fatti, le idee che sono degli uomini, le idee che muovono gli uomini, lega la
storia napoletana alla francese, e di questa ci dà un quadro ricco e vasto. «
Le grandi rivoluzioni politiche occupano nella storia dell'uomo: quel luogo
istesso che tengono i fenomeni straordinari nella storia della natura » ( 1 ) .
Le rivolu zioni-sono come le malattie nel corpo umano, i periodi sismici nel
mondo geologico. Le generazioni si succedono incolori uguali, finchè « un
avvenimento straordinario sembra dar loro una nuova vita » . Le rivoluzioni
sono un'misto di bene e di male, gravi di effetti buoni o cat tivi, come le
crisi di crescenza nel corpo d’un fanciullo . « In mezzo a quel disordine
generale, che sembra voler distruggere una nazione, si scoprono il suo
carattere, i suoi costumi e le leggi di quell'ordine, del quale prima si
vedevano solamente gli effetti » ( 2 ) . Le rivoluzioni sono esperienze
politiche, dalle quali non si può prescindere, perchè sono nell'ordine stesso
della natura. Esse rinnegano a parole il passato, di fatto poi lo riconfermano,
e nella negazione della storia il filosofo ritrova lo sviluppo fatale della
storia . Guardiamo la rivoluzione di Francia, a la più gran rivoluzione dicui
ci parli la storia » ( 3 ) . Essa scoppia improvvisamente, rinnegatrice di
tutto un passato : una analisi immediata ci dirà che lo stesso passato l'ha pre
parata, e allo stesso passato essa si ricongiunge, onde è stato possibile a
molti il prevederla. Gli uomini sono cie del Cuoco c'è tale abisso , che non è
lecito raccostare i due nomi, se non per illustrare l'ambiente in cui si
muoveva lo spi rito del Cuoco, o per far meglio vedere la sua superiorità » . (
1 ) V. Cuoco, Saggio storico, I. p. 15. ( 2 ) V. Cuoco, Saggio storico, I , p.
15. ( 3 ) V. Cuoco, Saggio storico , II , p . 17, 86 chi, ma la storia, fatta
dagli uomini, non è cieca, ed ha una sua logica, nella cui grandezza noi siamo
come dispersi. Gli uomini sono ciechi e sono inclini a scambiare il processo
della loro mente con il processo della storia, e, peggio , a credere i suoi
sviluppi mero sviluppo d'un pen siero loro individuale. Il filosofismo francese
ha preceduto la rivoluzione : ciò non significa che esso abbia generato la
rivoluzione . La storia non s'esaurisce nella filosofia, come non s'esaurisce
nell'economia : la storia è d'una complessità mirabile . « I francesi illusero
loro stessi sulla natura della loro rivoluzione, e credettero effetto della
filosofia quello che era effetto delle circostanze politiche nelle quali
trovavasi la loro nazione » ( 1 ) . Ma la filosofia non compie simili miracoli,
non sovverte un mondo, tutt'al più aiuta gli uomini ad insistere ne' loro
errori di metodo. Così accadde in Francia. Il Cuoco con ciò non nega l'alta
importanza umana della filosofia, vuol semplicemente delimitare la sfera di ogni
attività e ad ognuna assegnare il posto che le com pete ; anzi egli stesso
ritiene che in ogni operazione umana debba richiedersi la forza e l'idea, e
nelle rivoluzioni, come è necessario il popolo, sono necessari i filosofi, i
conduttori, « i quali presentino al popolo quelle idee , che egli talora
travede quasi per istinto, che molte volte segue con entusiasmo, ma che di rado
sa da sè stesso formarsi » ( 2 ) . Il compito dei filosofi è chiarificato :
essi debbono trarre i princípi della storia e della politica, non dal loro
cervello ed assumerli come postulati inderoga bili , ma dalla vita del popolo,
dalla natura eterna del l'uomo, che non è solo intelletto, ma vichiamente anche
senso e fantasia. Credere un avvenimento gigantesco, come la rivoluzione
francese, frutto soltanto del pensiero filosofico è uno sminuirlo in una
visione ristretta e par ticolaristica. La vita non è solo attività teoretica ,
è me diatamente anche attività pratica, politica ed economica. Pur tenendo di
vista il sorgere e l'imporsi delle idee, ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , VII ,
p. 37. ( 2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XV, p. 82. 87 occorre investigare i
bisogni e lo stato dei popoli per ve dere quanto essi siano stati i propulsori
d’un moto, che è determinato, ma non cieco, anche nelle sue più crudeli
manifestazioni. La rivoluzione francese non si può in tendere, se non s'intende
tutta la storia che la precede. La Francia monarchica, la gloriosa potente
monarchia accentratrice era un paese di abusi : « la rivoluzione non aspettava
che una causa occasionale per iscoppiare » ( 1) . Il Cuoco analizza tutto ciò,
e l'analisi breve serrata ner vosa, che egli fa, è, senza dubbio la cosa
migliore, che si possa scrivere sul turbolento periodo : gli stessi storici
francesi non ebbero mai nessuna di quelle lucide intui zioni che fanno grande
il molisano . « Tra tanti » si doman da « che hanno scritta la storia della
rivoluzione francese, è credibile che niuno ci abbia esposte le cagioni di tale
avvenimento, ricercandole, non già ne'fatti degli uomini, i quali possono
.modificare solo le apparenze, ma nel corso eterno delle cose istesse, in quel
corso che solo ne determina la natura ? » ( 2 ) . Nessuno, rispondiamo, perchè
è fatale negli uomini vedere solo alcuni individui di genio e trascurare le
masse e le cose ; credere un moto preparato dai secoli un fenomeno sporadico
senza stretti legami con l'antico ; una rivoluzione, opera d'un intero popolo,
com presso a lungo dall'ineguaglianza, la manifestazione di pochi genî o d'un
partito. Il Cuoco, ho detto, ci dà una disamina dei precedenti della grande
rivoluzione, che sfida i tempi nella sua tacitiana concisione. Val la pena di
riferirla : non si può estrarre il succo da ciò, che di per sè è tanto
concentrato, che togliere una parola val quanto distruggere una meditazione. «
La leggenda delle mosse popolari, degli eccidi, delle ruine, delle varie
opinioni, de' vari partiti, forma la storia di tutte le rivoluzioni, e non già
di quella di Fran cia, perchè nulla ci dice di quello per cui la rivoluzione di
Francia differisce da tutte le altre . Nessuno ci ha de scritto , una monarchia
assoluta, creata da Richelieu e ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII , p. 37. (
2 ) V. Cuoco, Saggio storico , VII , p. 38, 88 riforzata da Luigi XIV in un
momento ; una monarchia surta , al pari di tutte le altre d'Europa,
dall'anarchia feudale, senza però averla distrutta, talchè, mentre tutti gli
altri sovrani si erano elevati proteggendo i popoli contro i baroni, quello di
Francia avea nel tempo stesso nemici ed i feudatari , ivi più potenti che
altrove, ed il popolo ancora oppresso ; le tante diverse costituzioni che ogni
provincia avea ; la guerra sorda ma continua tra i diversi ceti del regno ; una
nobiltà singolare, la quale, senza esser meno oppressiva di quella delle altre
nazioni, era più numerosa, ed a cui apparteneva chiunque vo leva, talchè ogni
uomo, appena che fosse ricco, diven tava nobile, ed il popolo perdea così
financo la ricchezza ; un clero, che si credeva essere indipendente dal papa e
che non credeva dipendere dal re, onde era in continua lotta e col re e col
papa ; i gradi militari di privativa de' nobili ; i civili venali ed ereditari,
in modo che al l'uomo non nobile e non ricco nulla rimaneva a sperare ; le
dispute che tutti questi contrasti facevano nascere ; la smania di scrivere,
che indi nasceva e che era divenuta in Francia un mezzo di sussistenza per
coloro i quali non ne avevano altro, e che erano moltissimi ; la discus sione
delle opinioni a cui le dispute davan luogo ed il pericolo che dalle stesse
opinioni nasceva, perchè su di esse eran fondati gl'interessi reali de' ceti ;
quindi la massima persecuzione e la massima intolleranza per parte del clero e
della corte, nell'atto che si predicava la mas sima tolleranza dai filosofi;
quindi la massima contrad dizione tra il governo e le leggi, tra le leggi e le
idee, tra le idee e li costumi, tra una parte della nazione ed un'altra ;
contraddizione che dovea produrre l'urto vicen devole di tutte le parti, uno
stato di violenza nella na zione intera, ed in seguito o il languore della
distruzione o lo scoppio d'una rivoluzione . Questa sarebbe stata la storia
degna di Polibio » ( 1 ). La Francia ha mille cause per muoversi. La
rivoluzione ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , VII , p . 38. 89 s'esprime dal
seno d'un popolo in travaglio secolare, sca turisce da desideri compressi, da
bisogni materiali, da un malessere durevole. Che ci hanno a che fare i filosofi
? I filosofi servono, se mai, a conturbare quel che è chiaro , a far credere
opera loro quel che è già nella storia, a far scambiare come esigenza
intellettuale quel che è esigenza economica nel suo più vasto significato.
Enormi sono gli abusi, terribili i contrasti; più astratti, quasi per
necessità, i princípi riformistici, come quelli che voglion compren dere un
numero più grande di fatti umani. Ecco l'errore ! I francesi deducono i loro
princípi dalla metafisica , e cadono nell'errore « di confonder le proprie idee
colle leggi della natura » (1). È una ' falsa visione del reale questa in cui
possono cadere tutti gli uomini che seguono idee soverchiamente astratte .
Commentando le incon gruenze dei repubblicani della Partenopea il Cuoco escla
ma : « Io credeva di far delle riflessioni sulla rivoluzione di Napoli, e
scriveva intanto la storia della rivoluzione di tutt ' i popoli della terra,
especialmente della rivolu zione francese . Le false idee che i nostri aveano
conce pite di questa non han poco contribuito ai nostri mali » ( 2 ) . Siamo
sempre ad un punto : gli uomini credono troppo ne' loro princípi e non
s'accorgono che i principi sono spesso astrazioni, credono in essi e ' non
osservano che intanto la storia si muove oltre i princípi. La rivolu zione è
opéra dei filosofi ? Altro che filosofi ! « Il grande, il solo agente delle
rivoluzioni e delle controrivoluzioni >> è il popolo (3 ) . Guardate
questo popolo : si muove mai esso dietro i filosofemi ? No. « Il popolo non
intenderà, non seguirà mai' i filosofi » ( ) . Perché ? La ragione è una sola,
vichiana. Il popolo è senso e fantasia : i filosofi in telletto . Date al
popolo princípi : non li intenderà. Com primete il popolo, esacerbatelo : il
suo senso s'esaspererà, la sua fantasia s'accenderà violenta , vremo una crisi
vasta ' e potente, la rivoluzione. ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , VII, p .
39. ( 2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 96. ( 3) V. Cuoco, Saggio storico
, Prefazione alla sec. ed. , p . 5 , ( 4) V. Cuoco, Saggio storico , VI, p. 30,
90 La rivoluzione nasce da bisogni positivi, cioè dal senso e dalla fantasia
popolaresca. Ciò non toglie che il suo pervertirsi, il suo incrudelire provenga
invece dalla falsa filosofia . L'origine è naturale, lo sviluppo abnorme: lo
spunto è popolare ed economico, le conseguenze degene razioni di princípi,
intellettualistiche. Sono le astruserie dell'ultima ora che portano seco loro
gli inconvenienti propri delle grandi rivoluzioni, i capricci de' potenti, le
fazioni, le turbolenze, il sangue. « Chi guarda il corso della rivoluzione
francese ne sarà convinto » ( 1 ) . I saggi sono inutili a produrre una
rivoluzione ( 2 ) , ma i pseudo saggi possono condurre un moto già evoluto sur
una falsa via. Ecco perchè la rivoluzione francese ha un vizio d'origine, che
dovrà riuscire fatale alle rivoluzioni, che qua e là scoppiarono, riflessi
incolori e pur gravi della grande rivoluzione: essa parla troppo alla ragione,
poco al senso e alla fantasia, e i popoli, si sa, sono tutto senso, tutta
fantasia . Quanto più i pensatori navigano in sfere superne, tanto meno i
popoli li intendono, anzi, a volte, sono i popoli che accendono le
controrivoluzioni, se i princípi di ragione urtano le avite tradizioni, i sacri
costumi, i millenari bisogni. La critica è profonda, e, come ognuno intende,
coin volge tutta la rivoluzione francese, ma è una critica , che nel Saggio storico
appare per incidenza, e che tocca allo studioso di rilevare . La storia è tutta
una catena, in cui un avvenimento non si può astrarre dagli altri. La vita
delle nazioni oggi è così complessa, che, trattando della stessa Napoli e della
sua politica, non si può prescindere dalla politica generale dell'Inghilterra,
della Francia, della Spagna. Nel passato una rivoluzione potea apparire un
evento isolato , poteva chiudersi quasi in una barriera sanitaria ; oggi, in
tempi nuovi, deve fatalmente trovare addentellati un po' ovunque. La
rivoluzione francese suscita un incendio repubblicano in Italia , a Milano, a
Roma, a Napoli. Ma in questa stessa considerazione ( 1 ) V. Cuoco, Saggio
storico, VII, p. 40. ( 2 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione alla sec. ed. ,
p. 6, 91 sta il primo e capitale appunto alla rivoluzione parte nopea, di cui
il Cuoco esclusivamente si occupa. Lo storico critica lo svolgimento della
grande rivoluzione francese, ma non nega l'origine pienamente legittima di
essa, la riconosce nata da un secolare stato anomalo di cose, per cui il
popolo, attivo e industrioso, ma ciò non pertanto trascurato ed isolato
politicamente, reagisce e d'un balzo acquista di diritto ciò che di fatto aveva
già acquistato . Nulla di tutto ciò a Napoli. Quivi la rivolu zione è un mero
riflesso di quella gallica, è nella sua na scita e nel suo affermarsi passiva.
L'aggettivo passivo ha fatto epoca , e val quanto dire impopolare. Le idee
passano di paese in paese, perchè trovano ovunque in gegni culti atti a riceverle
e a meditarle ; i bisogni sono invece ovunque diversi, da nazione a nazione, da
po polo a popolo, anzi da regione a regione, da provincia a provincia. Quel che
a Parigi è spiegabile, a Napoli ' non lo è : quel che a Napoli è naturale, in
Calabria cessa di esserlo, diviene artefatto . Mentre tutto il pensiero
europeo, dalla Germania all'Italia, dall'Inghilterra alla Russia, dalla Spagna
alla Svizzera, è infranciosato, ra zionalista, illuminista, i bisogni dei
popoli sono sostan zialmente e profondamente diversi in ogni angolo del vecchio
continente europeo. Come poter condurre realtà di lor natura ineffabili e
particolari ad. aderire a prin cipi uniformi, se non sforzando lo stesso ordine
delle cose ? Così.a Napoli. Invece di fare una rivoluzione na poletana, si fece
una rivoluzione francese in piccolo . « Le idee della rivoluzione di Napoli »
scrive il Cuoco « avrebbero potuto esser popolari, ove si avesse voluto trarle
dal fondo istesso della nazione. Tratte da una co stituzione straniera , erano
lontanissime dalla nostra ; fondate sopra massime troppo astratte, erano
lontanis sime da’sensi, e, quel ch'è più, si aggiungevano ad esse, come leggi,
tutti gli usi, tutt'i capricci e talora tutt'i difetti di un altro popolo,
lontanissimi dai nostri difetti, da' nostri capricci, dagli usi nostri » ( 1 )
. La rivoluzione ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , XV, p. 83, 92 francese, in
sostanza , e qui è il nucleo di tutte le consi derazioni successive, è attiva,
cioè risultante di molte plici elementi economici e politici ; la rivoluzione
napo letana passiva, cioè frutto di opinioni labili. Ma guardate gli uomini ! I
monarchi europei credono la rivoluzione francese questione d'opinioni e la
perseguitano, mentre, se era in realtà questione d'opinione, sarebbe caduta di
per sè stessa ; il re di Napoli crede cosa grave e profonda, invece, ciò che
nel suo nascimento era ' un ' po ' moda e opinione, la tormenta ed
incrudelisce, finendo per creare col suo contegno un generico malcontento . Lo
stesso atteggiamento politico estremo in due circostanze diverse finisce per
produrre i più gravi effetti. Le conseguenze di non mirare entro la natura
delle cose ! È un astratti smo, che Vincenzo Cuoco non vede solo nella
rivoluzione, ma ne' governi, nei patrioti e nei codini , nella filosofia e
nella scienza militare. La reazione, al primo manifestarsi della rivoluzione
francese, è tutta ispirata a questa visuale errata. Le potenze europee si
coalizzano contro la Francia : effetto : la Francia, di fronte al pericolo
straniero, è un sol uomo, si arma, si oppone, vince. « Una guerra esterna,
mossa con .... ingiustizia ed imprudenza, assodò una rivoluzione, che, senza di
essa, sarebbe degenerata in guerra civile » ( 1 ) . È l'astrattismo, il solito
astrattismo del tempo, che crede forzare l'ordine delle cose. La Francia deve
ras sodare la sua insurrezione; ha contro di sè tutta l'Europa : la guerra le
diviene indispensabile per vivere. È l'oppo sizione stessa che costringe il
paese alla lotta. Quindi si sviluppa un sistema di democratizzazione
universale, di cui i politici interessati si servono, a cui i filosofi applau
dono in buona fede ; « sistema che alla forza delle armi riunisce quella dell'
opinione, che suol produrre, e ta lora ha prodotti, quegl'imperi che tanto
somigliano ad una monarchia universale » ( 2 ) . ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico
, II , p. 18 . ( 2 ) V. Cuoco, Saggio storico, II , p. 20. 93 A Napoli lo
stesso errore dei governanti è aggravato da circostanze peculiari. Il principio
della rivoluzione francese trova una nazione florida ed esuberante di pen siero
e di studi economici, giuridici, filosofici, un paese che trae dalla Francia
molte cose, ma tutte le concre tizza in una tradizione paesana, che si
ricollega al Vico. La rivoluzione, se pure in questo ambiente è possibile una
rivoluzione, è affare d'opinione. Ma a Napoli mancano i repubblicani. Pochi
giovinetti, presa la testa - dalle novità straniere, si proclamano sovversivi,
vestono alla francese, parlano francese, seguono insomma la moda . Convien
disprezzarli. No, il governo muta rotta, incru delisce. È proprio quella
politica, che più conveniva evi tare, volendo rimanere saldi nella grave crisi,
che agi tava tutto il mondo civile ( 1 ) . « I nostri affetti, preso che
abbiano un corso, più non si arrestano. L'odio segue il disprezzo, e dietro
l'odio vengono il sospetto ed il timore » ( 2 ). Gli uomini s'oppongono
violentemente, gli a ffetti s ' inacerbano : laddove con un metodo diverso la
situazione potea dominarsi, è lo scompiglio . « I mali d'opinione si guariscono
col disprezzo e coll'obblio : il popolo non intenderà, non seguirà mai i
filosofi » ( 3 ) . A Napoli il popolo non partecipa a nessun movimento : la
rivoluzione, quindi, è lecito presumere, non c'è , non ci 16 li la ti ( 1 ) È
lo stesso concetto che V. Cuoco esprime nel Platone in Italia, v . I , p. 43 :
« Nel portico di Falanto si ragunan tutti i giorni , molti, la cura principale
de quali è di ragionar della guerra e della pace di tutti popoli della terra
... Forse un giorno taluno imporrà fine al loro cicaleccio. Archita non lo
cura, ad onta che il più delle volte si parli di lui , e non sempre con
giustizia. E qual giustizia sperare da coloro che siedono tutt' i giorni in un
portico per ragionar di regni ? 0. presto o tardi si credono di esser re . Ma Archita,
a taluno che gli ha con sigliato di vietar taliadunanze, ha risposto : —Tu vuoi
dunque che il popolo creda alle parole di costoro ? Nessun uomo mostra la sua
stoltezza , nè il popolo se ne accorge mai al primo mo mento. Se vuoi
smascherar lo stolto , lascia che parli lungamente. Gli chiudi tu la bocca al
primo istante ? Corri il rischio di farlo riputar savio ( 2) V. Cuoco, Saggio
storico, VI, p. 29. ( 3) V. Cuoco , Saggio storico , VI, p . 30. 94 sarà. Ma,
ecco, la polizia perseguita quei giovinetti, che hanno per moda il fare le
corse a cavallo per Chiaia e Bagnuoli, imitando gli antichi greci, che leggono
ne' pe riodici le cose della rivoluzione francese e ne parlano ai loro barbieri
e alle innamorate, ecco, le opinioni diven tano sentimenti, il sentimento
genera l'entusiasmo, l'en tusiasmo si comunica : « vi inimicate chi soffre la
perse cuzione, vi inimicate chi la teme, vi inimicate anche l'uomo indifferente
che la condanna ; e finalmente l'opi nione perseguitata diventa generale e
trionfa » ( 1 ) . Una politica sbagliata insomma ingenera errori nuovi. Si
perde il senso della moderazione e si cade nell'estre mismo. Si vuol sangue, si
condanna ( 2 ) . Pochi a Napoli intendono la rivoluzione francese, pochissimi
l'approvano, nessuno la desidera : eppure si crea un ambiente insurre zionale,
laddove non era. « Il mezzo per opporsi al con tagio delle idee lo dirò io ?
non è che un solo : lasciarle conoscere e discutere quanto più sia possibile.
La di scussione farà nascere le idee contrarie » ( 3 ) . Il governo di Napoli
invece è pavido, e il timore rende deboli e inetti , ci offre sprovvisti
all'assalto inimico. « Vince una rivoluzione colui che meno la teme » ( + ) .
Questa incomprensione della realtà sociale, che il Cuoco trova nella prassi
politica preventiva della corte di Na poli, deriva dallo stesso astrattismo che
domina i go verni europei coalizzati, è lo stesso astrattismo che guida i
giacobini di Francia e i patrioti di Napoli . Non per nulla tutti gli attori
del fòsco dramma, gli uni e gli altri hanno bevuto alle acque della filosofia
illuminista, che per la ragione rinnega il senso, e ripone tutta la sua fiducia
nell'umano intelletto e nella sua ideologia. Eccone le conseguenze. Vedremo in
seguito il comportamento dei ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 30 . ( 2 )
Il tratto saliente di questa pre -reazione è la condanna a morte di tre
giovani, De Deo, Vitaliani e Galvani : la morte del De Deo fu sublime. Vedi
quel che ne scrive B. CROCE, La rivoluzione napoletana , p. 204 e sgg: ( 3 ) V.
Cuoco, Saggio storico , VII, p. 41. ( 4 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII , p.
42. 95 repubblicani, ora dobbiamo osservare più particolar mente la politica
governativa e la sua insufficienza . La rivoluzione a Napoli, abbiamo detto,
nasce come opinione, quindi passiva ; la corte finisce per renderla necessaria,
sforzando il cammino storico della nazione, suscitando vasti malcontenti in
tutte le classi del po polo, ne' signori e nella borghesia, perseguitando dotti
filosofi ed economisti, un giorno già vanto e decoro della corte stessa, nel
popolo, intaccando gravemente i suoi interessi . Vediamo quest'ultimo punto, il
quale ci mo strerà pure l'importanza che Vincenzo Cuoco dà all'ele mento
economico nella storia e nella politica. La storia per lui non è pura idea,
come per gl’intellettualisti, che finiscono per negarla, nè pura economia, come
per i ma terialisti storici : la storia è più complessa assai . « La storia si
può suddividere in tante parti quanti sono gli aspetti sotto de' quali gli
avvenimenti umani si vo gliono considerare » ( 1 ) . Ogni scienza particolare
ha una sua storia, ma quel che noi consideriamo come la storia per eccellenza
non s'esaurisce in alcuna ricerca partico lare. Lo spirito è complesso pur
nella sua unità, così com plessa è la vita dei popoli, che è attività pratica e
teore tica, prassi ed economia, intelletto e fantasia. Onde lo storico deve
tener conto di tutto, e di tutto deve rendersi conto. Ma non anticipiamo ! Il
Cuoco dà molta importanza all'elemento economico, ma non esaurisce in esso il
pro cesso storico, lo sviluppo d'una nazione. Qual è la posi zione geografica,
e di riflesso economica, del regno di Napoli ? Ove portano questo Stato i
bisogni generali ? Qual'è quindi la direttiva più naturale della sua politica ?
Quando Napoleone discende in Italia , la penisola è divisa in piccoli Stati, i
quali uniti avrebbero potuto opporre resistenza, disuniti era fatale che
cadessero . Que sta contingenza mostra quanto lo stato politico degli italiani
sia infelice , senza amor di patria e senza virtù militare. Di fronte al genio
d’un gran capitano tutte ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v . II , p. 31 . 96 le
barriere caddero come scenari vecchi : gli austriaci furono messi in fuga,
Venezia disparve colla sua imbe cille oligarchia , la distruzione del governo
teocratico del Pontefice non costò che il volerla. Napoli sola per un complesso
di cose poteva resistere . A Napoli c'era un governo monarchico forte, che
garantiva una maggiore compattezza, una certa disciplina, un esercito, un po
polo che bene o male seguiva il suo sovrano, c'era un popolo, e dietro di esso
una classe colta che voleva stu diare e vivere . Tutto rendeva possibile
l'esistenza felice della monarchia, pur nel vortice che dilagava in Eu ropa.
Non fu così : la politica borbonica da qualche anno seguiva , e ora sotto la
pressione napoleonica con tinuò a seguire, l'andazzo antifrancese de' governi
coa lizzati, ed urto in una condizione di cose secolare e pro fondamente
sentita dalle popolazioni meridionali. Il regno di Napoli era per sua natura
una potenza me diterranea . Tutti i suoi interessi lo portavano ad una politica
mediterranea, ad una politica, vale a dire, il cui centro di sviluppo fosse il
bacino del Mediterraneo, ad un commercio con l ' Oriente, con Tunisi, con la Francia,
con la Spagna. Queste le esigenze del paese : la volontà della regina
dominatrice co' suoi favoriti della corte e del governo dispose diversamente.
Lo Stato diventò ligio all'Austria, potenza lontana, dalla quale il paese nulla
aveva da sperare e tutto da perdere, che finì anzi per coinvolgerlo in continue
guerre . Le cause di questo errore si riconducono ad uno di quei concetti , che
nel Cuoco sono alla base di tutto il suo pensiero : il disdegno di tutto ciò
che è straniero. L'ita lianismo del Cuoco, che si vuol porre di solito come
mero antifrancesismo, è, entro certi limiti, un po' xenofobismo. Egli vuol
inoculare agli italiani un sicuro orgoglio nazio nale, un vero bisogno d'essere
esclusivamente italiani . La rivoluzione napoletana, come in genere tutte le
rivoluzioni italiane del tempo, sono la negazione dell'italianismo, negazione,
che, notiamo, è cominciata da lungo tempo e si perpetua tra gli errori de'
governi e dei repubblicani. È un indirizzo mentale, che il Cuoco combatte
ovunque 97 lo trova. Egli non è antirivoluzionario, perchè critica i patrioti:
egli non è antiborbonico, sol perchè critica il go verno . La sua critica ha
origini più grandi: bisogna riguar darla quale espressione d'una mentalità
politico- giuridica più italiana, più grande che non tutti i sistemi che la ri
voluzione ha maturati, d'una mentalità politica , che si rivolge combattiva
ovunque vede la sua negazione. L'azione rivoluzionaria è una prassi
d'astrattismo fran cese : è naturale che Vincenzo Cuoco non ne condivida le direttive
.. La politica di Maria Carolina di Napoli e del suo favorito Acton è poco
napoletana, molto austriaca : è naturale che Cuoco alla luce delle sue idee ne
riveli le incongruenze e le manchevolezze. La pietra di paragone: l'Italia ,
Napoli, il popolo e i suoi bisogni. Tutte le poli tiche , che astraggono da
questo elemento insuperabile, sono rovinose. Maria Carolina, salendo al trono
meridionale, dovea dimenticare di essere una tedesca, pensare di divenire
napoletana, se voleva divenire davvero regina di Napoli e cessare di essere una
principessa germanica. Volle in vece essere novatrice, cioè sforzare la
tradizione, gli usi, i costumi del nuovo ambiente, sviluppando una frivola
smania per ogni cosa estera, sia materiale, sia intellet tuale . Dalla moda per
il vestire si passò a quella per il costume e per i modi, si parlò francese od
inglese, e si ritenne poco obbrobrioso non sapere l'italiano ; l'imita zione
del vestimento e delle lingue portò di conseguenza l'imitazione delle opinioni
. « La mania » ammonisce il « per le nazioni estere prima avvilisce, indi ammi
serisce, finalmente ruina una nazione, spegnendo in lei ogni amore per le cose
sue » ( 1 ) . La stessa ineguaglianza in tutti i rami dell'ammi nistrazione .
Ovunque si navigava nell'astrazione. Chi potrebbe mai pensare la felicità e la
potenza, a cui un governo savio ed attivo, cioè nazionale, avrebbe potuto
portare il paese, sviluppando l'energia pubblica, ed esen Cuoco ( 1 ) V. Cuoco
, Saggio storico, V, p. 29. 7 -- F. BATTAGLIA . 98 tando il paese perciò dalla
dipendenza manifatturiera estera, proteggendo le arti, sviluppando il commercio
! Invece no : non v'è provvedimento borbonico che non si possa rimproverare. «
L'epoca in cui giunse Acton era l'epoca degli utili progetti : qual progettista
egli si spac ciò e qual progettista fu accolto ; ma i suoi progetti,
ineseguibili o non eseguiti o eseguiti male, divennero cagioni di nuove ruine,
perchè cagioni di nuove inutili spese » ( 1 ) . Il Cuoco non fa distinzioni :
il male è nella ra dice, nella mentalità del tempo. Si spera in un ottimo
assoluto, che è il peggior nemico del bene, e si finisce per far male : si è
miracolisti e si riduce a terra ogni utile antica istituzione. Gli ordini
antichi bene o male assicuravano la vita civile : perchè distruggerli ab imo,
anzi che rif marli ? Chi era Acton, chi era questo favorito, che voleva ! «
Acton non conosceva nè la nazione nè le cose. Voleva la marina, ed intanto non
avevamo porti, senza de' quali non vi è marina : non seppe nemmeno riattare quei
di Baia e di Brindisi, che la natura istessa avea formati, che un tempo erano
stati celebri e che poteano divenirlo di nuovo con piccolissima spesa, se,
invece di seguire il piano delle creature di Acton, si fosse seguito il piano
dei romani, che era quello della natura » ( 2 ) . Un esempio della vacuità del
favorito di Maria Carolina. Napoli, dato che è un paese mediterraneo, aveva
bisogni marinari . I bar bareschi erano i suoi nemici diretti, i nemici dei
suoi commerci, che con le loro scorrerie finivano per rovinare. Occorreva
proteggere le navi mercantili, occorreva una flotta di piccole navi veloci e
leggiere da opporre alle navi da corsa. Acton volle provvedervi. Manco a farlo
appo sta, la flotta che fece costrurre, era composta di legni pesanti, da combattimento
e non da guerriglia. Io non posso indugiarmi su questo argomento , poi che il
mio assunto non è quello di dare la contenenza del ( 1 ) V. Cuoco, Saggio
storico , VIII , p. 45. ( 2) V. Cuoco, Saggio storico, VIII, p . 46. 99 Saggio
storico, ma di tracciare un profilo ideale del pen siero di Vincenzo Cuoco
nelle sue svariate manifesta zioni, seguendo fin dove è possibile la cronologia
delle opere del molisano, tradendola ove essa complica lo sviluppo sistematico
dello spirito. Non mi indugierò quindi ad enumerare gli errori, l'atteggiamento
del go verno verso Napoleone, l'aggressione durante la sua as senza, la marcia
di Mack, capo dell'esercito borbonico, su Roma. Mack.... Se volete un ultimo
esempio di astrattismo, basta pensare al generale austriaco, al quale il
governo di Napoli'affidò le sue fortune. Cuoco non è un uomo di guerra, ma ha
il buon senso di cogliere il punto debole di duci della natura di Mack, inclini
a scambiare le loro idee con l'universo . La scienza militare è una scienza positiva,
scienza d'osservazioni particolari, che ripugnano , alle schematizzazioni. Mack
invece era la dottrina in per sona, ma faceva i piani a tavolino, risalendo col
pen siero ai princípi della sua scienza, senza collaudarli con la realtà, che
gli si parava dinanzi. « Vuoi conoscere » do manda il Cuoco « a segni
infallibili uno di questi capitani ? Soffre pochissimo la contradizione ed i
consigli altrui: il criterio della verità è per lui, non già la concordanza tra
le sue idee e le cose, ma bensì tra le sue idee mede sime. Prima dell'azione
sono audacissimi, timidissimi dopo l'azione : audacissimi, perchè non pensano
che le cose pos san esser diverse dalle idee loro ; timidissimi, perchè, non
avendo prevista questa diversità, non vi si trovan pre parati. Affettano ne'
loro discorsi estrema esattezza ; ma questa è inesattissima, perchè trascurano
tutte le diffe renze che esistono nella natura » ( 1 ) . Simili uomini, come
Acton e Mack, sono deleterii in ogni tempo, furono rui nosi ai Borboni, in
contingenze delicatissime. Date queste premesse , la sconfitta, la fuga del re,
l'in ganno della partenza, l'ingresso de' francesi nella capi tale, il governo
repubblicano, la proclamazione della Par ( 1 ) V. Cuoco , Saggio storico , XII,
p. 72. 100 tenopea ci appaiono necessari sviluppi di tutti gli elementi , che
abbiamo precedentemente analizzato. Ma la storia del Cuoco procede con la
stessa spietata critica, per cui l ' in dagine penetra acuta negli avvenimenti
e nelle determi nazioni umane, come il bisturì nel corpo d'un paziente, e ne
rivela i mali, ne appalesa gli errori. Ancora le stesse deficienze, ancora la
stessa visuale falsa. Repubblica e popolo sono due cose distinte. Vediamo i due
gruppi. Chi sono i repubblicani di Napoli ? Sono repubblicani tutti coloro che
hanno beni e costume. L'aristocrazia, la borghesia, la classe accademica, gli
studenti, il clero an che alto , l'ufficialità dànno il contingente maggiore
dei patrioti : filosofi, finanzieri, giureconsulti, vescovi, teologi,
giornalisti, poeti. Nel moto del '99 non è davvero il pen siero che manca. Ma
basta l'idea a muovere i popoli, a sovvertire un ordine secolare, a riformare
ab imo gli istituti d'una nazione ? Tra le file dei repubblicani c'è, abbiam
detto, quanto di meglio ha prodotto il mezzo giorno d'Italia in tutti i rami
dello scibile umano, ma non si può negare , che anche a Napoli si sia prodotto
quel fenomeno tipico di tutti i sovvertimenti, l'arrivismo, la speculazione.
Molti hanno la repubblica sulle labbra, pochi nel cuore ; molti l'esaltano,
pochi la raffermano. Alcuni hanno voluto accusare il Cuoco di parzialità, anzi
di malvolere verso le nobili figure de ' martiri del '99 ( 1) . Ma il Cuoco è
storico e non travisa ! Che meraviglia che accanto a Pagano ci sia il
faccendiere, accanto a Russo li procacciante, accanto a Conforti il paglietta
in cerca di clienti, accanto a Grimaldi il soldato che vuol far car riera ! È
la storia d'ogni giorno, più o meno triste, ma sempre uguale. Il Cuoco del
resto sa sollevare la testa e notare le grandi figure ed eternarle. Questi
repubblicani il molisano distingue in due gruppi : coloro che vogliono più un
cangiamento che un buon cangiamento, per pescare nel torbido, coloro che in
buona (1 ) Cfr. U. TRIA, op. cit., p . 158 e sgg. in Rassegna critica della letteratura
italiana , vol. VI, ( 1901) ; L. CONFORTI, op. cit. , p. 21 e sgg. 101 fede
vogliono imitare tutto dalla Francia ; i furbi, in somma, e i fantastici ( 1 )
. Ma la virtù a Napoli è grande. Mentre in tutte le altre rivoluzioni è
l'elemento cattivo, che fa sorgere principi pessimi, qui vi sono i princípi non
buoni, che fanno cadere uomini buoni ed eletti . La memoria dello storico s'in
china dinanzi ai martiri del '99 . I patrioti sono uomini colti, superiori, il
fior fiore della nazione : forse questa stessa loro origine è la causa prima
che li allontana, sele zionandoli, dalle masse, e quindi dalla realtà d'ogni
sana politica. Gli uomini sono buoni ; i princípi che essi pro fessano, gli
ordini cattivi. La loro virtù è una virtù stoica, il loro spirito romano, la
loro morale superiore, troppo superiore a quella comune delle plebi : quest ' è
stata una delle cagioni della ruina ( 2 ) . Uomini i patrioti insufficienti
tutti, nel giudizio sereno dello storico, a creare e a diri gere uno Stato,
grandi solo nella morte : la loro fine con sacra alla posterità la loro sublime
grandezza. Il Cuoco è davvero nella sua analisi uno scettico, e sa esaltare
l’eroi smo, come abbattere la falsa politica. Lo stesso uomo, che enumera
errori errori errori, è poi colui che con pa role degne di Tacito, esaltatore
delle ultime aristocra tiche virtù, descrive la difesa strenua degli ultimi
nuclei rivoluzionari dinanzi all'irrompere delle torme sanfedi ste , la
distruzione del forte di Vigliena, oppure la ca duta di Altamura. L'assedio di
Altamura, per esempio, è scolpito con una concisione ed una rapidità mirabili :
l'eroica disperata lotta rivive paurosa nella nostra fantasia. Il salto del
forte di Vigliena, la battaglia navale di Procida delle flot tiglie barcarecce
di Caracciolo contro le munite navi di Nelson mostrano un Cuoco, non solo
freddo analista, cri tico spietato d'errati metodi legislativi e costituzionali
, ma un Cuoco, direi, lirico e commosso, preso dal fascino delle figure
eroiche, che la storia suscita fra errori e de lusioni, onde ei può nel crollo
della sua, dico sua, repub ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , XV, p. 84, nota . (
2) V. Cuoco, Saggio storico , XXXVI, p. 157 . 102 blica esclamare esaltato : «
Si sono tanto ammirati i tre cento delle Termopili, perchè seppero morire ; i
nostri fecero anche dippiù : seppero capitolare coll'inimico e salvarsi ;
seppero almeno una volta far riconoscere la repubblica napoletana » ( 1 ) . Ma
lo spirito politico di Vincenzo Cuoco non può non far risalire alla sventatezza,
all'impreparazione dei pa trioti la causa dello sfacelo ; non può, esaltando
virtù e meriti, dimenticare l'insufficienza e la vacuità del me todo
legislativo, che doveva dar le norme direttive al nuovo ordine . Si è detto ( 2
) che la storia del Cuoco non è scritta con un fine ben netto . No, il fine c'è
: la condanna spietata d'una mitologia costituzionale e filosofica, af finchè
l'Italia ritorni alla sua tradizione e non ricada sugli antichi errori . I
saggi sono inutili a produrre le ri voluzioni; i filosofi navigheranno sempre
in beate astra zioni, ma invano credono di poter muovere con i loro pensamenti
i popoli, poi che questi non si muovono che sotto l'urgenza di concreti
bisogni. A Napoli, come al trove, c'era un popolo : bisognava tenerne conto, inter
pretarne i desideri. I patrioti non ne fecero caso . Tutta la rovina della
repubblica s'impernia su questa incompren sione sociale. Il popolo, sappiamo, è
il grande, il solo agente delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni ( 3 ) .
Credere un moto rivoluzionario determinato dalla filosofia è una semplice
illusione, che solo i francesi potevano concepire. La rivo luzione deve parlare
ai sensi e alla fantasia, non solo all'intelletto, cioè alle plebi, e non solo
ai pensatori. A Napoli c'era un popolo, che in qualche modo aveva di che
lagnarsi della più recente opera de' Borboni: biso gnava farlo agire,
soddisfare i suoi desideri, cointeressarlo alla nuova ricostruzione, legarlo
allo Stato : allora solo, ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLVIII, p. 188. ( 2 )
U. TRIA, op. cit., p. 196 , in Rassegna critica della lette ratura italiana, v
. VI, ( 1901 ) . ( 3 ) V. Cuoco, Saggio storico , Prefazione, p. 5. 103 fatto
ciò, la repubblica poteva dirsi basata su un piedi stallo incrollabile. In una
rivoluzione è necessario il numero e l'idea. Le idee repubblicane si sarebbero
potute rendere popolari , ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della
nazione . Quando la rivoluzione scoppia, il popolo ondeggia tra le due fazioni,
i patrioti che vede padroni della capitale, il re che vede fuggire
ignominiosamente. È il momento ! Il popolo dubita della saggezza del sovrano,
della sua magnanimità, lo coglie in peccato di vigliaccheria , dubita, e chi
dubita condanna a metà . Si può rendere il popolo partecipe all'azione, invece
si fa di tutto per allontanarlo. « La nostra rivoluzione » scrive Cuoco «
essendo una rivo luzione passiva, l'unico mezzo di condurla a buon fine era
quello di guadagnare l'opinione del popolo » ( 1 ) . Ma repubblicani e popolo
sembrano nonchè due classi, due popoli diversi per idee costumi lingua. I primi
sono fran cesizzanti ; il secondo per natura tradizionalista , attac cato alle
sue istituzioni, ai suoi principi, alla sua reli gione, ai suoi pregiudizi .
Tra gli uni e gli altri c ' è un divario di due secoli di cultura e di storia.
I dirigenti invece prescindono da ogni elemento nativo, quell'ele mento che si
deve coltivare, essendo tutto nel popolo . Co loro, che sono ancora napoletani,
nota con amarezza lo storico , e che compongono il maggior numero, sono in
colti. Ritorniamo al solito concetto : la moda straniera è la causa di tutta la
rovina ( 2 ) . « Le disgrazie de' popoli sono spesso le più evidenti
dimostrazioni delle più utili verità. Non si può mai gio vare alla patria se
non si ama, e non si può mai amare la patria se non si stima la nazione . Non
può mai esser libero quel popolo in cui la parte, che per la superiorità della
sua ragione è destinata dalla natura a governarlo, sia coll’autorità sia cogli
esempi, ha venduta la sua opi ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 90. ( 2)
Il giudizio cuochiano coincide col giudizio degli storici più recenti: vedi V.
FIORINI e F. LEMMI, op . cit . , p. 104. 104 nione ad una nazione straniera :
tutta la nazione ha per duto allora la metà della sua indipendenza » ( 1 ) .
Mancava alla rivoluzione l'orgoglio nazionale, che solo può salvare i popoli
nelle loro crisi . Si voleva imitare la Francia e si dimenticava Napoli, si
obliava che la gente meridionale avea una sua specifica natura diversa dalla natura
delle genti galliche . In Italia c'era un comunali smo, che in Francia non era
mai stato ; a Napoli c'erano cento volghi diversi l'uno dall'altro, in Francia
un popolo compatto ed omogeneo . I repubblicani dovevano tener conto di ciò, e
trovare un interesse comune, che riunisse dirigenti e diretti, governanti e
governati. « Quando la nazione si fosse una volta riunita, invano tutte le
potenze della terra si sarebbero collegate contro di noi » ( 2 ) . Il popolo
non è mai né borbonico nè sovversivo, nè nero nè rosso : « i popoli si riducono
» osserva con acutezza il nostro autore « a seguir quelli che loro offrono
maggiori beni sul momento » ( 3 ) . Il popolo di Napoli così avrebbe seguito i
rivoluzionari, se questi gli avessero dato spe ranze di miglioramenti, avessero
intesi i suoi desideri, avessero rispettato gli istituti a cui era legato,
avessero riverito la religione dei suoi avi. « Che cosa è mai una rivoluzione
in un popolo ? Tu vedrai mille teste, delle quali ciascuna ha pensieri,
interessi , disegni diversi dalle altre . Se a costoro si nta un capo che li
voglia riu nire, la riunione non seguirà giammai. Ma, se avviene che tutti
abbiano un interesse comune, allora seguirà la ri voluzione ed andrà avanti
solo per quell'oggetto che è comune a tutti » ( 1 ) . Ma per fare ciò bisogna
andare cauti : non bisogna di struggere . Bene o male gli istituti esistenti
assicurano la convivenza , occorre riformarli, migliorarli, non ab batterli al
suolo : « il voler tutto riformare è lo stesso che voler tutto distruggere » (
5 ) . ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 91 . ( 2 ) U. Cuoco, Saggio
storico, XVI, p . 92. ( 3 ) V. Cuoco, Saggio storico , VII, p . 42. ( 4 ) V.
Cuoco , Saggio storico , XVII, p . 94. ( 5 ) Framm ., p . 219. 105 Il popolo di
Napoli, nota il Cuoco, ha una sua religione. Osserviamo la natura di questa
religione, e vedremo che essa non ripugna ai principi della democrazia. « La
reli gione cristiana ridotta a poco a poco alla semplicità del Vangelo ;
riformate nel clero le soverchie ricchezze di po chi e la quasi indecente
miseria di molti ; diminuito il numero dei vescovati e dei benefici oziosi ;
tolte quelle cause che oggi separan troppo gli ecclesiastici dal go verno e li
rendono quasi indipendenti , sempre indifferenti e spesso anche nemici, ecc.
ecc.: è la religione che meglio d'ogni altra si adatta ad una forma di governo
moderato e liberale » ( 1 ) . In ciò il cristianesimo è assai diverso dal
paganesimo, che, basandosi su un'idea di forza, non può produrre che schiavi
indocili e padroni tirannici. La no stra religione si appoggia su princípi di
libertà , su prin cípi di fratellanza , su princípi di giustizia, e sembra
quindi la più adatta per legare il popolo allo Stato. La reli gione, nota il
Cuoco ripetendo un pensiero del Conforti ( 2 ), è un elemento insopprimibile
nella vita dello spirito umano, dal quale quindi non si può prescindere. « Non
è ancora dimostrato che un popolo possa rimaner senza religione : se voi non
gliela date, se ne formerà una da sè stesso . Ma, quando voi gliela date,
allora formate una religione analoga al governo, ed ambedue concorreranno al
bene della nazione : se il popolo se la forma da sè, allora la religione sarà
indifferente al governo e talora nemica » ( 3 ) . Questi i concetti di Vincenzo
Cuoco ( 4 ) . Lo Stato deve avere una sua religione, ed imporla : Stato e
Chiesa nazionale debbono concorrere al benessere gene rale . Princípi che
meritano un superiore approfondi ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p . 129 e
sg. ( 2 ) Sulla posizione religiosa del Conforti in confronto al Cuoco vedi B.
LABANCA, Giambattista Vico e i suoi critici cat tolici, Napoli, Pierro ed .,
1898, p . 414 e sgg. ( 3) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 130. (4) V. FIORINI
e F. LEMMI, op. cit ., p . 137. I due insigni storici concordano pienamente col
Cuoco nel ritenere che gli errori dei repubblicani in fatto di religione hanno
non poco influito ad allontanare il popolo dalla rivoluzione. 106 mento, che
noi faremo in seguito : resta acquisito in tanto l'alto e moderno ideale, che il
molisano aveva della religione ( 1 ) . La rivoluzione napoletana fu la
negazione di questi princípi. Sorse democratica, s'affermò anticlericale e vi
lipese l'alto valore etico della dottrina cristiana e catto lica, per
sostituirla con una generica morale laica. Si ab bandonò all'incomprensione dei
subalterni un problema grave, anzi gravissimo, come il problema religioso. « Il
po polo si stancò tra le tante opinioni contrarie degli agenti del governo, e
provò tanto maggiore odio contro i repub blicani, quanto che vedeva le
loro'operazioni essere effetti della sola loro volontà individuale » ( 2 ) . Il
governo in sostanza era agnostico, non conduceva ex professo una politica
antireligiosa ed anticlericale, ma lasciava fare, e gli emissari in provincia
si sfogavano contro i beni ec clesiastici o peggio contro il culto professato.
Il popolo, colpito in uno dei suoi più profondi affetti, s'affermò san fedista
contro lo Stato. È questo un episodio, ma certo il più saliente,
dell'incomprensione tra quelli, che Cuoco, nonchè due classi, due popoli volle
chiamare, i repubbli canti dirigenti e le popolazioni subordinate. Alla
religione alcuni volevano opporre una generica morale civile e laica. Si negava
il cattolicesimo, si affer mava di contro la libertà. Ma che cosa è la libertà,
se non un mero astratto ? Chi chiedeva la libertà ? Non certo quelle
popolazioni rurali, che il governo così bel lamente fraintendeva, « La libertà
delle opinioni, l'abo lizione de ' culti, l'esenzione dai pregiudizi, era
chiesta ( 1 ) Nel Platone in Italia ( v . I , p . 84) ritornano spesso con:
cetti consimili, indice della mirabile armonia dell'ingegno di V. Cuoco : «
Nelle città colte le leggi civili debbono esser tutte diverse dai precetti di
religione e di costumi: chiare, precise, inesorabili. Ma sapete voi perchè ?
Perchè, quando si deb bono riformare, il che avviene spessissimo , il popolo
tien altri precetti da seguire . Se il popolo allora si trovasse senza co stumi
e senza religione, si distruggerebbe per anarchia, prima di darvi il tempo
necessario a riordinare le leggi » , ( 2) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 131
. -107 da pochissimi, perchè a pochissimi interessava » ( 1 ) . L'er rore,
ripeto, è nelle basamenta, in un oblìo completo del popolo, nell'astrarsi
ne'sublimi princípi per dimenticare la vita e le sue molteplici manifestazioni.
Eppure, ep pure, nota con rimpianto il Cuoco, si poteva riuscire, si potevano
sfruttare le forze ignote, ma inesauribili del po polo, e creare così una
insuperabile barriera al legittimi smo borbonico . « Il popolo è un fanciullo »
( 2 ) : se ne intendi la complessa psicologia, lo porterai dove vuoi : basta
che tu intuisca la sua natura . « Il popolo è ordina riamente più saggio e più
giusto di quello che si crede » ( 3 ). Il talento del legislatore consiste nel
sapere sfruttare que sto innato senso di saggezza e di giustizia nelle più
adatte contingenze, così da « menare il popolo in modo che fac cia da sè quello
che vorresti far tu » ( 4) . Ovunque c'è un male da riparare, un abuso da
riformare, presentandosi come salvatore il riformatore, che non distrugge per
me todo, ma procede per osservazione diretta, troverà sem pre il popolo che
saprà seguirlo e rincorarlo. Il Cuoco osserva acutamente che a volte il
malcontento nasceva dal volersi fare talune operazioni senz'appa renza, senza
quelle solennità tipiche, che la plebe ama, perchè sono nella tradizione. Si
trattava di forma e non di sostanza . Ebbene, i repubblicani preferivano urtare
contro questi apparati, anzi che secondarli, perdere l'ar rosto per non volere
il fumo. La filosofia politica di Vincenzo Cuoco a proposito della rivoluzione
si concreta in una sola constatazione. « Ecco tutto il segreto delle
rivoluzioni: conoscere ciò che tutto il popolo vuole, e farlo ; egli allora vi
seguirà : distinguere ciò che vuole il popolo da ciò che vorreste voi, ed arre
starvi tosto che il popolo più non vuole ; egli allora vi abbandonerebbe » ( 5
) . Una prassi rivoluzionaria, che si ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p.
104. ( 2) V. Cuoco, Saggio storico , XIX, p. 106. ( 3 ) V. Cuoco , Saggio
storico , XIX, p. 108. ( 4) V. Cuoco , Saggio storico, XIX , p. 107 . ( 5) V.
Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 95. 108 allontani da questo elementare
principio produce effetti incalcolabilmente gravi e perniciosi. « La manìa di
voler tutto riformare porta seco la controrivoluzione » ( 1 ) . Le rivoluzioni
nascono dai bisogni, ma dietro i bisogni sono gli uomini, e gli uomini sono
idee, idee vive palpitanti, non astratte e categoriche, sono senso, sono
fantasia, sono religione, sono molte cose in uno. Ogni nazione ha un patrimonio
di idee, il risultato d'una esperienza secolare , d'una vita non interrotta
mai: essa è attaccata a questi princípi, vivi nella sua coscienza, presenti
alla sua atti vità. La rivoluzione scompiglia questo stato mentale, ma è un
errore credere che si possa distruggere tutto , far sottentrare alle idee
antiche idee del tutto nuove, ai princípi antichi princípi opposti . La
rivoluzione può so pire molte cose, ma esse, idee e princípi, si rifanno sulla
rivoluzione ; come la pressione s'indebolisce, affiorano novellamente ne
contrasti. Il popolo è scosso, tentato ne' suoi convincimenti : se voi
esagerate, ritorna sui suoi passi. Anche nelle idee v'è uno spiegamento, una
natu rale continuità : non rompete il processo : è da savi : « il popolo passa
per gradi dalle antiche idee alle nuove, e sempre le nuove sono appoggiate alle
antiche » ( 2 ) . Ogni nazione ha un suo spirito , una sua mente, dice Cuoco .
Questo spirito soggiace ad un processo, non al trimenti che lo spirito
individuale. L'estremismo poli tico , in qualsiasi suo aspetto, di destra o
sanfedista o legittimista, di sinistra o repubblicano o giacobino, riceve la
sua condanna nelle osservazioni del molisano . Le idee nel loro spiegamento non
possono essere sforzate , perchè, come ho detto, trovano nello stesso momento
della loro negazione un' implicita affermazione. L'estremismo, in sostanza, è
un vero e proprio sforzo estrinseco, che si esercita sullo spirito e sul popolo
. Le idee giunte allo estremo, debbono retrocedere. Si riforma più di quel che
è nelle esigenze de' popoli ; il popolo crede le riforme su perflue, cerca di
sottrarvisici; bisogna che il governo, se ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico ,
XVII, p. 96. ( 2 ) V. Cuoco, Saggio storico , XVII, p . 97 . 109 vuol mantenere
il suo punto di vista, le faccia osservare con la forza : ecco come un
malinteso riformismo legi slativo conduce all'estremismo, al terrore statale,
alla fine della repubblica a Napoli, a Robespierre in Francia . « L'uomo è di
tale natura, che tutte le sue idee si can giano, tutt' i suoi affetti, giunti
all'estremo, s'indeboli scono e si estinguono : a forza di voler troppo esser
libero, l'uomo si stanca dello stesso sentimento di libertà » ( 1 ) . I popoli
hanno un corso naturale tra l'estrema servitù e la licenza, estrema libertà ,
corso eterno che tutte le genti percorrono ! I princípi non debbono correre
innanzi alla storia, sforzandola a seguirli, poi che essa si vendica de '
princípi ed afferma la sua autonomia. La vendetta è nel sangue, nella reazione
legittimista a Napoli, nella ghigliottina che abbatte Robespierre a Parigi. Da
un estremo si ricorre all'altro, e così via, finchè non si ritrova l'equilibrio
: il liberalismo moderato . Il Cuoco è l'esponente più vivido del liberalismo
italiano . La sua figura si illu mina alla luce di questa idea liberale, grande
sopra tutte le idee, la quale ha saputo dare agli italiani l'Italia. Da tutto
il Saggio storico l'insopprimibilità del liberalismo, non come teoria, ma come prassi
costituzionale e politica, appare evidente. Non mi accusi il lettore di
sforzare la fisionomia intellettuale del Cuoco, no, poichè io mi rife risco a
ciò che leggo, e mi faccio cauto interprete di ciò che trovo, e documento. «
Questo è il corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il popolo
si agita senza saper ove fermarsi : corre sempre agli estremi e non sa che la
felicità è nel mezzo » ( 2 ) . Del resto queste opi nioni, che ora vediamo in
atto nella storia, che il”Cuoco fa degli avvenimenti napoletani, di cui fu
attore, spetta tore e giudice, rivedremo sotto un nuovo aspetto, allor quando
egli stesso ci dirà come e sino a quanto la storia , che si sviluppò dopo il
crollo della Partenopea, abbia dato a lui ragione , vale a dire allor quando
considere remo Cuoco di fronte alla figura di Napoleone, Cuoco di ( 1 ) V.
Cuoco, Saggio storico , XVIII, p. 99. ( 2 ) V. Cuoco, Saggio storico , XVIII,
p. 102. 110 1 2.02 fronte al problema teorico e pratico, filosofico e costitu
zionale dello Stato, Cuoco di fronte all'ideale dell'unità della patria.
Notiamo: quest'atteggiamento di modera tismo cuochiano non è estrinseco, non è
solo il principio base della critica rivoluzionaria , è anche l'elemento
unificatore di tutta la filosofia politica del molisano, l'ele mento che le dà
coerenza, e che egli trova impersonato in Napoleone, il restauratore
dell'ordine, il corifeo delle idee medie. L'estremismo è esaltazione di
princípi : allo Stato si sostituisce la setta : all'ordine costituzionale
l'associa zione fuori e a volte contro lo Stato : al diritto codificato le
norme del partito . Moderatismo significa : libertà nella legge, i partiti
nello Stato e non fuori dallo Stato, diret tiva unitaria della vita civile ,
garanzia nel diritto . Come il Cuoco vedrà incarnata e realizzata questa sua
conce zione, è cosa da studiarsi in seguito ( 1 ) . La rivoluzione del '99, che
per il Cuoco è veramente l'esperienza del sistema abbozzato ne' Frammenti,
nella stessa degenerazione de' princípi, riconferma il nostro nelle sue
aspirazioni. Egli, che dalla storia trae ogni in segnamento – la storia è la
fonte d'ogni pedagogia poli litica scrive : « La storia di una rivoluzione non
è tanto storià dei fatti quanto delle idee » ( 2 ) . Conoscere il corso delle
idee nella storia significa impadronirsi d'una tale sapienza, che ci permette
di evitare ogni errore poli tico. Gli errori di Napoli ? Denudiamo la realtà
dai fron zoli della retorica, dice Cuoco, esponiamoli nella loro cru dezza,
perchè gli uomini, gl'italiani si ravvedano. A Napoli abbiamo avuto perfino un
esperimento di terrorismo. È mirabile la definizione psicologica del feno meno.
« Il terrorismo è il sistema di quegli uomini che vogliono dispensarsi
dall'esser diligenti e severi ; che, non sapendo prevenire i delitti, amano
punirli; che , non sa pendo render gli uomini migliori, si tolgono l'imbarazzo
( 1 ) Questa fondamentale coerenza del pensiero di V. Cuoco è stata più che a
sufficienza dimostrata da M. ROMANO, op. cit., p. 90 e sgg. ( 2 ) V. Cuoco,
Saggio storico, XXXVIII, p . 169. 111 che dànno i cattivi, distruggendo
indistintamente cat tivi e buoni. Il terrorismo lusinga l'orgoglio, perchè è
più vicino all'impero ; lusinga la pigrizia naturale degli uomini, perchè è
molto facile » ( 1 ) . Il Cuoco non lo dice, ma lo pensa : i governi deboli
sono i più inclini all'abuso costituzionale, al terrorismo di Stato . Tutte le
considerazioni, che lo storico trae dai fatti, convergono verso uno
scioglimento, che ci appare fatal mente consequenziario. L'estremismo terroristico,
l'ultima ratio de' governi prossimi a cadere, si mostrò più d'ogni altro
sistema inutile . Il tribunale rivoluzionario, che si macchid del sangue dei
Baccher ( 2 ) , non salvò la repub blica pericolante . Stringiamo le fila della
trama, che siamo venuti dise gnando, portiamoci col pensiero di nuovo alla
critica del l'opera governativa, alla génesi della repubblica, all'azione
legislativa e costituzionale dei rivoluzionari, all'estremi smo di molti
patrioti, e ci apparirà vero quanto il nostro autore scrive sull'ineluttabilità
dello scioglimento. La sto ria del Cuoco corre, si può dire precipita, ad un
fine. Non c'è avvenimento, pagina che non ci ammonisca : ecco un male, ecco un
malinteso ! Perciò quando noi ci avvici niamo agli ultimi ruinosi eventi, non
possiamo che dire : era fatale ! , sia pure con rimpianto, con dolore. Ho detto
in principio che nel Saggio storico si nota una mirabile obiettività,
quell'obiettività del creatore, che sola può dare il capolavoro ; ho detto che
la personalità dello scrittore non s'intrude mai praticamente nello svi luppo
narrativo e nel progresso degli avvenimenti : la storia si svolge da sè, corre
sul suo binario logico, senza estrinseci sforzi. Ciò non toglie che il Cuoco a
volte rompa con sublime sapienza l'esposizione per ammonire, per parlare ai
suoi posteri, per consigliare : è lo storico che è consapevole della sua
missione, dell'altezza del suo inse gnamento. Questa pedagogia non è, però,
fuori dall'arte, ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , XXXVIII, p. 160. ( 2 ) B.
CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 115 e sgg. 112 personalità pratica esterna
all'arte, ma si risolve, attra verso una viva commozione dello spirito, in una
forma fantasiosa, in una espressione immaginifica, insomma, nell'arte stessa. «
La sua personalità » scrive assai bene Guido De Ruggiero ( 1 ) « non s'intrude
arbitrariamente nel corso degli avvenimenti; essa non è che raramente la sua
empirica e circoscritta soggettività, è più spesso invece la drammatica
personificazione del giudizio storico, è quella soggettività superiore dove
l'oggettività degli av venimenti e la soggettività dello storico sono fusi in
un sol getto » . È insomma il processo creativo della vera storia, che conduce
alla vera arte, risolvendo l'empirica personalità, in quell'alta subiettività ,
che forma l'essenza della storia e dell'arte. La forma precettistica qui non è
un elemento estrinseco alla storia, è la gran voce della storia . La critica
spietata degli avvenimenti politici lo porta ad accalorarsi per la sua stessa
valutazione filoso fica, lo porta a constatazioni, ad esclamazioni, in cui tu
senti a volte un rimpianto, perchè uomini di ingegno s'ingolfano in lotte, che
il nostro stima senza uscita, a volte una gioia profonda, in cui tu senti il
pensatore che discopre un principio sano di vita . Così, dopo una disa mina
minuta di idee e di fatti , il Cuoco può ésclamare, e nell'esclamazione io
sento un dolore profondo romper la glacialità dell'analista : « Tutti i fatti
ci conducono sem pre all'idea, la quale dir si può fondamentale di questo
Saggio : cioè che la prima norma fu sbagliata, ed i mi gliori architetti non
potevano innalzar edificio che fosse durevole » ( 2 ) . Le premesse dello
scioglimento sono d'ordine spirituale, sono metodologiche, politiche. I
susseguenti errori, mili tari, giuridici, religiosi, le disfatte, le congiure
realiste appaiono inevitabili. Le truppe repubblicane agiscono in territori
infidi, fra popolazioni ostili ; i capi sono ine sperti, troppo giovani; i
francesi portano aiuti sempre più ( 1 ) G. DE RUGGIERO, op. cit. , p. 189. ( 2
) V. Cuoco , Saggio storico, XXXIX, p. 163. 113 scarsi ; al contrario i
borbonici sono ben diretti, ben vet tovagliati, sempre più numerosi ; le plebi
sempre più fa vorevoli ad essi : sono particolari, ma che non possono
distogliere il pensiero dal principio sopra espresso, sola ed unica causa della
sciagura. Il disastro appare la logica cruda conseguenza di premesse false .
Tutto il Saggio ci porta in un mondo di rivoluzione , ove la critica è cruda e
precisa, ma ove la simpatia umana non manca. Vincenzo Cuoco possiamo credere
che rappresenti nel pensiero italiano quella medesima posizione ideale che
Edmund Burke rappresenta in quello inglese . Un raf fronto minuto,
particolareggiato tra i due scrittori non è stato fatto. Esso riuscirebbe assai
interessante , e po trebbe dimostrare come in ogni lato della vecchia Eu ropa
l'opposizione alla rivoluzione si faccia in nome d'un ritorno alla tradizione
nazionale. Il liberale moderato Cuoco è il rappresentante tipico dell'italianismo
risor gente : il Burke whig, cioè in sostanza liberale, non crede ancora
esaurita la missione delle antiche classi storiche, almeno nella vecchia
Inghilterra. È facile vedere alcuni punti di contatto tra i due scrittori
d'opposizione. Fre quentemente il Cuoco deplora l'esagerazione dei princípi di
libertà e d'eguaglianza. Gli uomini, se, di diritto, dinanzi alla legge, sono
uguali, serbano una originaria disugua glianza nel fatto : vi sono i buoni e i
cattivi, gli operosi e i parassiti , i borghesi industriosi e i lazzaroni
oziosi , gli aristocratici colti e gli aristocratici gaudenti: il governo dello
Stato deve essere riserbato ai migliori, cioè ai bor ghesi, e lo vedremo
documentato in seguito, poi che questi soli sono maturi. « Quando le pretensioni
di eguaglianza si spingono oltre il confine del diritto, la causa della libertà
diventa la causa degli scellerati . La legge, diceva Cicerone, non distingue
più i patrizi dai plebei : perchè dunque vi sono ancora dissensioni tra i
plebei ed i pa trizi ? Perchè vi sono ancora e vi saranno sempre, i pochi e i
moiti : pochi ricchi e molti .poveri, pochi indu striosi e moltissimi
scioperati, pochissimi savi e moltissimi 8 - F. BATTAGLIA. 114 stolti » (.1 ).
Se diamo una scorsa ai Discorsi parlamentari o alle Riflessioni sulla
rivoluzione francese del Burke scaturi scono osservazioni assai consimili, nel
senso, che pur am mettendo liberalmente una rotazione di classi, il politico
inglese crede ad un ordine sociale, in cui l'aristocrazia d'Inghilterra ha ancora
una sua propria missione . Certo vi sono differenze tra i due scrittori, ma le
analogie sono sempre interessanti. S'intende, l'aristocrazia politica del
Burke, il lievito, possiam dire, della grande vita costituzio nale
d'Inghilterra è qualche cosa di diverso dalla nobiltà italiana, con la quale
parola il molisano indica « un ceto che più non deve esistere, ma che ha
esistito finora » ( 2 ) . Ma le nazioni hanno svolgimenti diversi e bisogni
spesso opposti : quel, che nell’un paese si chiama con lo stesso nome che
nell'altro, a volte è una cosa sostanzialmente diversa , secondo varî elementi.
Ma non posso lasciare questo argomento senza notare come lo stesso Burke nelle
sue Riflessioni sulla rivoluzione francese si rifaccia ad una valutazione,
nella sua natura, simile a quella del Cuoco. Il liberale Burke nella
rivoluzione d'Oltre manica vede la negazione del suo moderatismo, una ri
voluzione, che prescinde dalle realtà peculiari d’un po polo, quale l'inglese,
la cui vita è un esempio dimirabile continuità politica, una rivoluzione che
pretende di struggere il passato, anche laddove il passato è il presup posto
d’un non disprezzabile presente ; uno Stato, che rigetta alcune classi per
altre, invece di sintetizzarle in una volontà superiore ed unica ; uno Stato,
che rigetta elementi sociali di primissimo ordine, senza pensare che si possano
utilizzare per la vita civile, perché hanno ancora energia e sopra tutto hanno
quell'esperienza pub blica, che ad altri manca. All'inglese, per cui la vita
civile dei popoli è un prodotto graduale d'una evoluzione storica
incancellabile, per cui la costituzione de' padri è una conquista continua,
nell'aderenza più completa coi ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 100. (
2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XX, p. 109. 115 n mille bisogni d'un popolo
secolare, la nuova pretesa di derivare un ordinamento democratico, valido per
tutte le genti del globo, desumendolo dalla pura ragione, appare veramente
ridicola . Mi sembra che il parallelo tra il Cuoco e il Burke non potrebbe essere
più calzante, sia pure tra numerose differenze. Il Burke è un oratore, un
parlamen tare, pratico e sensibile politico, che non risale mai a con
siderazioni superiori, pur quando la sua critica potrebbe coinvolgere non solo
la mentalità rivoluzionaria francese, ma una mentalità , che è di tutti i tempi
e di tutti i paesi. Il Cuoco invece, testa politica ma di volo più robusto, dai
particolari ascende ai princípi, dai fatti ritorna alle idee, che hanno un
corso eterno ed uno sviluppo continuo, per foggiare un suo sistema, che,
collaudato da una espe- ' rienza moderna ed antica, ha in sè qualcosa di ferreo
. Sì, il Cuoco si può raffrontare al Burke, ma il Saggio storico 1 « è un'opera
capitale di pensiero storico, la quale, come osserva B. Croce ( 1 ) , tiene in
certo modo in Italia, e forse con maggiore altezza filosofica le celebri
Riflessioni sulla rivoluzione francese » , non fosse altro per la vastità del
campo d'osservazione, per il senso vigile, che vi do mina, della storia, come
eterno farsi, come eterno divenire dello spirito umano. Della maggiore levatura
del moli sano sull'inglese noi abbiamo una prova sicura e positiva
nell'atteggiamento definito di fronte alla rivoluzione: il Burke da una critica
superiore passa presto all'op posizione sistematica, vedendo pura ribellione,
mero ri voluzionarismo, semplice neomania, anche ove vè sano liberalismo,
desiderio d'un nuovo pacifico equilibrio, rifor mismo contenuto entro limiti di
saggezza, sicchè i benefici effetti del movimento gli sfuggono : il Cuoco,
invece, rico nosce le origini delle rivoluzioni come legittime, e le spiega
completamente; nega, sì , l'applicazione universale dei princípi da essa
desunti, ma, nello stesso tempo, sa va lutare l'importanza della nuova
situazione creatasi , dalla ( 1) B. CROCE, Storia della storiografia italiana
nel secolo XIX, Bari, Laterza ed. , 1921 , v. I , p. 9 e sgg. 1 116 quale
nessun paese, nè l'Italia, nè l'Inghilterra, può prescindere (1 ) . Siamo
giunti alla fine del nostro discorso sul Saggio storico. Come quest'opera sia
nata, dal punto di vista materiale, ove sia stata scritta, come sia stata
concretata, a noi importa assai poco. L'esame che ne abbiamo fatto non può non
essere sommario, incuneato com'è in un più vasto problema : il pensiero
politico di Vincenzo Cuoco, che non si esaurisce, come comunemente si crede,
nel Saggio, ma trova il suo naturale sviluppo e comple mento negli articoli del
Giornale italiano, che il molisano venne scrivendo negli anni 1804-1806 , dopo
il grande successo che ebbe il Saggio nell'ambiente milanese ( 2 ) . Il Saggio
storico, per chi ricerchi la sua genesi spirituale, si svolge spontaneamente
dai Frammenti di lettere a V. Russo, de cui principi è la riprova vissuta,
l'espe rienza . Se la rivoluzione di Napoli ha avuto una utilità, è questa : il
foggiarsi d'una coscienza italiana, che all'estre mismo e all'astrattismo
oppone una veduta moderna e positiva della vita pubblica. Nel Saggio, abbiamo
detto, dette ( 1 ) Conobbe il Cuoco quando scrisse il Saggio storico sulla ri
voluzione napoletana le Reflections on the French Revolution di Edmund Burke ?
Con ogni probabilità, sì. Le sopra Reflections furono pubblicate per la prima
volta neil' ottobre del 1790, vale a dire dieci e più anni prima dell'opera del
no stro . Nel Saggio stesso vi è una nota in cui il nome del Burke spicca
evidente e col nome un suo giudizio ( II , p. 18 ) . Il Cuoco conosce assai
bene i princípi costituzionali inglesi e ne fa sfoggio nelle sue opere. Il
popolo inglese lo interessa assai, e le scritture d'autori inglesi ha spesso
fra le mani e le recensisce nel Giornale italiano (cfr. 1804, n. 17 , 8
febbraio , p. 68; -1804, n. 28, 5 marzo , pp. 111-12 ; 1804, n. 54 , 5 maggio ,
pp. 215-216 ; 1804, n. 58, 12 maggio, p . 228 ; ecc. ). Che l'opera del Burke,
V. Cuoco conoscesse assai profondamente, lo dimostra una re censione ( cfr.
Giorn . ital . , 22 settembre 1804, n. 114, p. 446) , ove egli discorre
abbondantemente e fa un largo elogio di una traduzione italiana d'una opera
estetica del celebre autore in glese , Essay on the Sublime and Beautiful,
Tutto ciò mostra una conoscenza delle cose d'oltre Manica assai profonda, prima
e dopo la pubblicazione del Saggio. ( 2 ) N. RUGGIERI, op. cit., p . 34 : G.
Cogo, op. cit. , p. 10. 117 non è tutto il Cuoco, non è tutto il suo pensiero
politico, ma è certo quanto di meglio abbia prodotto il suo genio, dal punto
-di vista artistico . Il Gentile, giudice di alto valore, crede il Rapporto al
re Murat per l'ordinamento della pubblica istruzione, di cui avremo a parlare
in seguito, quando tratteremo d'altri atteggiamenti spirituali del Cuoco, crede
dunque il Rapporto , insieme con il Saggio storico, « ciò che di più notevole
produsse il pensiero napoletano in quegli anni agitati tra il '99 e il '20 » (
1 ) . Ma ciò riguarda più il valore politico dell'opera , di cui diciamo,
piuttosto che il valore artistico. Dal punto di vista puramente storico, dal
1801 in poi gli scrittori hanno cercato in varî modi di far luce sugli
avvenimenti napoletani, ma le conclu sioni , alle quali si è pervenuto, sono
sostanzialmente quelle del nostro autore ( 2 ) . Sembra impossibile che un
individuo, che, come il Cuoco, scrive pochi mesi dopo la sciagura, di cui è
stato egli non piccola parte, possa superare i fatti stessi e la sua per sonale
passionalità, in una lucida espressione artistica, che di converso è anche una
mirabile storia umana. Lo storico si leva sugli avvenimenti, e il suo sguardo
pene tra a fondo nello spirito degli uomini e nel corso delle cose, allargando
la sua visuale dai fenomeni particolari ai princípi che sono eterni, dal
problema peculiarmente napoletano a questioni che sono europee, a considera
zioni più largamente umane. L'artista poi trova l'espressione più adeguata e
palpi- . tante in una forma, che non si sa se più ammirare per la sua immediata
precisione o per la sua sinteticità taci ( 1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p .
279. ( 2 ) Un'offensiva anticuochiana tenta L. CONFORTI, op. cit. , P: 21 e
sgg. , ma da un punto di vista assolutamente errato é falso. Dopo quanto abbiamo
scritto per il Tria una confuta zione delle affermazioni del Conforti ci appare
inutile , anche perchè non potremmo che ripetere ciò che già fu detto dal
RUGGIERI, op . cit. , p. 104 e sgg ., e dal ROMANO, op. cit. , p . 99. 118
tiana, a scatti , nervosa, e pur viva e palpitante ( 1 ) . In un mondo di
riflessi e di chiaroscuri, di luci e di ombre, le figure dei tragici eroi del
'99 appariscono scolpite per l'eternità, appaiono martellate nel marmo da una
mano michelangiolesca. Io non conosco pagina di storico mo derno, che mi animi
la trista figura del Vanni, bieco stru ( 1 ) Anche qui non mancarono i critici
. Il GIORDANI, per esempio , in un abbozzo di opera, che aveva intenzione di
scri vere col titolo di Studi degli Italiani nel secolo XVIII, discor. rendo di
quelli che « sono venuti in tanta stoltizia che hanno fermato non esservi arte
alcuna di scrivere » , osserva che in vece: « l'esperienza e la ragione e
l'autorità de' primicomprova che vi è : ed è fra tutte difficilissima: e ben lo
notò Cicerone che pur futra’ principali. Ma dovette credersi più savio ed
esperto di Cicerone quel Vincenzo Cuoco che scrisse non darsi arte di scrivere,
e quello che in poche parole affermò, ben con troppe carte, quanto a sè ,
confermò » . ( Scritti editi e postumi, pubblicati da A. Gusalli, Milano,
Borroni e Scotti, 1856, v. I , p. 187 e sgg). Giudizio addirittura stroncatorio
! Del resto l'ar tifizioso Giordani per la sua cultura accademica, per la sua
mentalità scolastica era il meno adatto ad intendere la spon taneità geniale
dello scultore del Saggio. Ben altro giudizio di quello del Giordani dovea dare
di V. Cuoco il Manzoni, per esempio ! Forse per reazione al Giordani il
SETTEMBRINI (op. cit. , v. III , p. 280) nella sua felice esaltazione del
Saggio , come opera di pensiero, in cui il Cuoco, pur narrando i fatti da pa
triota, « li considera da filosofo , e la sua filosofia non è tutta francese,
ma è anche senno italiano , è la sapienza storica di Giambattista Vico e di
Mario Pagano » , venendo quindi a dire della lingua della grande opera , «
nella quale si sente il mesco lamento di due popoli » , il francese e
l'italiano, prorompe : « Che importa a me di lingua non pura e di francesismi,
se io non me ne accorgo perchè le cose che dice mi occupano tutta l'anima, e in
quella lingua torbida io vedo e sento tutto quel torbido rimescolamento
diuomini e di cose ? È la lingua stessa del Filangieri, del Beccaria , del
Verri , con qualche cosa di più che viene da un profondo sentimento di dolore.
Dopo il 1815 i grammatici s' intabaccarono con la Polizia e con l' Indice, e
dissero che gli scrittori del tempo della Rivoluzione furono scorretti di
lingua, anzi barbari, anzi senza italianità , e da non leggersi, e da
dimenticarsi: e così Vincenzo Cuoco fra gli altri fu proscritto da tutte le
potestà. Noi dobbiamo conoscere quest'uomo che fu il solo scrittore di pregio
che i napoletani ebbero durante la rivoluzione, il solo che in sè stesso
raccoglie il senno e la fortuna di un regno » . 119 mento borbonico di
reazione, con tratti così rudi ed espres sivi, come quelli dello scrittore
civitese. « Lo sguardo di Vanni era sempre riconcentrato in sè stesso ; il
colore del volto pallido- cinereo , come suole essere il colore degli uomini
atroci; il suo passo irregolare e quasi a salti, il passo insomma della tigre :
tutte le sue azioni tendevano a sbalordire ed atterrire gli altri; tutt' i suoi
affetti at terrivano e sbalordivano lui stesso . Non ha potuto abitar più di un
anno in una stessa casa, ed in ogni casa abitava al modo che narrasi de '
signorotti di Fera e di Agrigento . Ecco l'uomo che dovea salvare il Regno ! »
( 1 ) . V’è in questa prosa lucida e insieme aderente alla realtà dello
spirito, tutta l'eloquenza di Livio, tutta la concentrata possanza di Tacito,
v'è la acutezza di Ma chiavelli, l'oscura densità di Vico. Una parola scolpisce
un individuo, una immagine ci rende un uomo. « Schipani rassomiglia Cleone di
Atene e Santerre di Parigi. Ripieno del più caldo zelo per la rivoluzione,
attissimo a far sulle scene il protagonista d'una tragedia di Bruto, fu eletto
comandante di una spedizione desti nata passar nelle Calabrie, cioè nella due
provincie le più difficili a ridursi ed a governarsi, per l'asprezza dei siti e
per il carattere degli abitanti. Non avea seco che ottocento uomini, ma essi
erano tutti valorosi e di poco inferiori di numero alla forza nemica » ( 2 ) .
Ecco come un raffronto , anzi due raffronti ci dànno il tipo dell'eroe gia
cobino, pieno di pseudo-romanità teatrale, e perciò lon tano dal secolo, in cui
vive ed opera. Dovrei continuare.... Caracciolo e la battaglia navale di
Procida, la difesa del forte di Vigliena sono nella narrazione del Cuoco poche
righe, ma s'imprimono indelebilmente nella memoria di chi legge e suscitano una
larga fantasia. Le pagine che lo scrittore dedica alla reazione sanfe dista e
alla caduta della repubblica fanno fremere. Chi non ricorda il combattimento
intorno ad Altamura ? ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , VI, p . 35. ( 2) V.
Cuoco, Saggio storico, XXXIII , p. 150, 120 « Il disegno di Ruffo era di
penetrar nella Puglia. Al tamura formava un ostacolo a questo disegno. Ruffo
l'assedia ; Altamura si difende. Per ritrovare esempi di difesa più ostinata,
bisogna ricorrere ai tempi della storia antica. Ma Altamura non avea munizioni
bastanti a di fendersi ; impiegarono i suoi abitanti i ferri delle loro case,
le pietre, finanche la moneta convertirono in uso di mi traglia ; ma finalmente
dovettero cedere. Ruffo prese Altamura di assalto , giacchè gli abitanti
ricusarono sem pre di capitolare ; e, dove prima nelle altre sue vittorie avea
usato apparente moderazione, in Altamura, sicuro già da tutte le parti, stanco
di guadagnar gli animi che potea ormai vincere, volle dare un esempio di
terrore . Il sacco di Altamura era stato promesso ai suoi soldati : la città fu
abbandonata al loro furore ; non fu perdonato nè al sesso nè all'età.
Accresceva il furore dei soldati la nobile ostinazione degli abitanti, i quali,
in faccia ad un nemico vincitore, col coltello alla gola, gridavano tutta via :
Viva la repubblica ! Altamura non fu che un mucchio di ceneri e di cadaveri
intrisi di sangue » (1 ) . Ma ove il Cuoco raggiunge le vette dell'eloquenza, e
la sua espressione è cristallina, d'una cristallinità meravi gliosa , è nelle
pagine da lui dedicate alla ricordanza dei grandi caduti, ai mani grandi di
Cirillo , di Grimaldi, di Caracciolo, di; Carafa , di Conforti, della Fonseca .
Alle volte è un episodio che lo scrittore riferisce , un aneddoto, una parola
pronunziata : basta , una figura s'illumina. Io non so, ma, forse, non c'è
biografia dell'autore dei Saggi politici che valga le poche righe, che
Vincenzo, discepolo riverente, dedica al maestro immortale. « Pa gano Francesco
Mario . Il suo nome vale un elogio . Il suo Processo criminale è tradotto in
tutte le lingue, ed è ancora uno delli migliori libri che si abbia su tale
oggetto . Nella carriera sublime della storia eterna del genere umano voi non
rinvenite che l'orme di Pagano, ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLV, p. 183.
121 che vi possano servir di guida per raggiugnere i voli di Vico » ( 1 ) . V'è
una grandezza degna di Machiavelli. Insomma il Saggio storico non è solo un
monumento di sapienza politica e di grande istoria , ma è ancora un capolavoro
d'arte, forse la più grande opera di prosa italiana , che dal Machiavelli al
Manzoni si sia scritta . I protagonisti del dramma, e il poeta li coglie in
atto, in tutta la loro spiritualità , illuminati da una luce di pen siero ,
possono sembrare ad alcuno marionette agitate da un triste fato. Non è così !
Gli uomini determinano gli eventi , sono gli operatori della vita civile,
dell'orribile rivoluzione ; sono essi stessi , poi, che cadono sotto il peso
dei loro errori . La loro autonomia così è salva . La storia del Cuoco è storia
di idee, da cui uomini potrebbero ban dirsi ed essere sostituiti con lettere
dell'alfabeto, X, Y, 2.... Sì , è vero, poichè l'autore mira alle cose, agli
interessi, ai bisogni; ma non dimentichiamo che i bisogni, gli inte ressi , le
cose, sono in quanto vi sono gli uomini: il Cuoco politico, che scaccia la
personalità dalla storia, è vinto dal Cuoco artista, che a tratti nervosi ed
icastici scolpisce una figura , anima una creatura umana. Lo storico ab- ·
braccia un vasto quadro, e ricerca il corso eterno di quelle idee, sulle quali
corrono gli eventi delle nazioni, e per lui gli uomini sono elementi
particolari e transeunti, meteore, che oggi sono e domani non saranno :
l'artista , integrando lo storico , anima gli uomini, e di essi e del loro
spirito vede piena la vita, di cui essi stessi sono i fattori. Tra storico ed
artista, insomma, c'è una supe riore armonia. « Il realismo della
rappresentazione, la nettezza del [ contorno » scrive Giovanni Gentile « il
rilievo delle figure, la luce di tutto il quadro » fanno del Saggio « una delle
maggiori opere storiche di tutte le letterature. Gli uo mini ci vivono ntro con
la vita individuale della loro psicologia, intuita in atto, e con la vita
storica, e più vera, degli interessi che rappresentarono, delle idee onde ( 1 )
V. Cuoco, Saggio storico , L, p . 208 . 122 furon investiti, della logica che
li governd. Pochi i nomi, e le figure appena abbozzate a tratti rapidi,
scultorii, quasi danteschi : l'interesse dello scrittore è per l'in sieme, per
le cose, come ei diceva, e per le idee, da cui gl'individui son dominati, e che
giovano più all' istru zione di chi legge . Pure, dove sorgono quelle mozze
figure, è tanto il sentimento che lo scrittore vi spira dentro, e così fosca la
luce in cui le avvolge, che l'opera politica , più che storica, s'anima del
patos d'una tragedia » ( 1 ) . Questo giudizio riecheggia con maggior
precisione il giu dizio, che sul capolavoro cuochiano ebbe ad esprimere Luigi
Settembrini ( 2 ) . Il De Sanctis conobbe il Cuoco ; se pur non integralmente,
conobbe certo il Saggio storico e il Platone in Italia, ma in lui non vide il
maggior pro satore dell'èra napoleonica; non vide che un mero disce polo di
Giambattista Vico. Del resto ai critici come ai poeti non possiam chiedere più
di quel che ci hanno dato, quando quel che ci hanno dato, ed è il caso di
Francesco De Sanctis, è perfetto . ( 1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 351 e
sg. ( 2 ) Luigi SETTEMBRINI, op . cit. , v. III , p. 279. CAPITOLO IV.
Napoleone e la sua politica generale. L'antifrancesismo di Cuoco : reazione
italiana. - Il prin cipio monarchico s'incarna in Napoleone. - I benefici della
rivoluzione. - La borghesia. - La proprietà base del nuovo ordine civile . -
Quarto stato : proletariato . - Milizia . - Liberismo e protezionismo
economico. – Lo Stato napoleonico. - L'unità d'Italia in rapporto alla politica
generale europea. - Anglofobia di Cuoco. Stato e religione. -
Giurisdizionalismo . Una illazione, forse fuori di posto, che si suole trarre
dall'atteggiamento di Vincenzo Cuoco di fronte alla rivo luzione di Francia e
al giacobinismo napoletano, è quella di un vero e proprio suo antifrancesismo.
Paul Hazard nel suo bel libro La révolution française et les lettres ita
liennes, parlando del molisano, al quale egli dedica un buon capitolo, che io credo
una delle cose migliori che sul nostro sia stata scritta , ponendo in rilievo
la sua op posizione all'astrattismo giacobino, accenna non solo ad una reazione
culturale dell'italianismo, e fin qui tutto è legittimo, ma crede di poter
rinvenire una vera e pro pria opposizione di natura politica ( 1 ) . È un punto
non solo storicamente importante , ma anche degno di di ( 1 ) P: HAZARD, op .
cit . , pp. 218 e sg. 124 scussione per intendere un nostro giudizio sul Cuoco,
che abbiamo detto essere assai coerente nel suo sviluppo spirituale,
affermazione e giudizio, che ora — è venuto il tempo dobbiamo dimostrare, per
respingere, di ri flesso, la taccia, che all'autore del Saggio è gettata di
opportunismo e di particolarismo . Solo risolvendo questo problema, potremo
intendere la situazione del Cuoco a Napoli, la sua visione generale della
politica repubblicana e poi di quella napoleonica, la sua concezione dello
Stato, la sua risoluzione d'un antico problema, i rapporti tra Stato e Chiesa,
tutte questioni che formano la materia del presente capitolo . La critica, che
il Cuoco fa della rivoluzione francese - astrattismo, esaltazione di princípi,
democratizzazione universale – non è solo critica metodologica e filosofica ,
ma anche critica politica. Che cosa egli vede nei francesi? Nei francesi vede
un popolo, il quale tende a sostituire il proprio spirito, la propria natura ,
la propria tradizione allo spirito, alla natura, alla tradizione nostra.
L'opera cuochiana, vista nel suo complesso, è dunque una reazione al
francesismo dilagante in nome della cultura e delle glorie italiane , in nome
della nostra storia : ben ha fatto l' Hazard , allorchè, sia pure con qualche
esagerazione propria della dimostrazione assunta, ha impersonata que sta
cultura, questa gloria, questa storia proprio in Vin cenzo Cuoco. Tutto
l'atteggiamento mentale di Vincenzo è diffidenza contro i francesi e contro
coloro che credettero di po tere imporre senza difficoltà gl' immortali
princípi con le baionette. Il Saggio storico, che il critico francese de
finisce l'esame di coscienza del popolo italiano, è infine la denunzia
documentata di un sistema che non va ; è la critica senza tregua di un
ibridismo politico che la realtà smentisce. La documentazione non potrebbe es
sere più sicura e più ricca . E il modo questo di porta la libertà,
l'uguaglianza, la fraternità ? di farsi amare dalle popolazioni illuse ? Il
popolo italiano, sembra dire il Cuoco, che aspetta l'indipendenza, e fors'anche
l'unità , dall'opera altrui, s'adagia in una troppo beata attesa di 125 ciò che
non sarà mai. La libertà, l'unificazione, l'indi pendenza occorre sapersele
conquistare attraverso un'o pera lunga indefessa grave . Bisogna rendersi degni
di miglior fortuna, e però bisogna rendersi prima spiritual mente migliori: divenire
prima cittadini in ispirito della gran patria Italia per poi esserlo di fatto .
Attendere la libertà come un dono dagli altri ? Ohimè ! La libertà, prima di
essere libertà civile, è libertà di pensiero, auto nomia di cultura. Possiamo
mai essere liberi noi, che prima di essere italiani, vogliamo essere francesi,
noi che nelle cose più banali e più grandi, nella foggia del vestire e
nell'ordinamento costituzionale, ci allontaniamo sempre più dalla nostra natura
per acquistarne un'altra estrin seca ? Le nazioni hanno un corso che è unitario
e lineare, perchè determinato da un primitivo impulso, che costi tuisce il
fondo materiale e morale della loro vita . « Una nazione che si sviluppa da sè
acquista una civiltà eguale in tutte le sue parti, e la coltura diventa un bene
generale della nazione » ( 1 ) . Ecco quindi come l'elemento cultu rale si lega
intimamente alle fortune politiche di un paese . Una nazione, che imita
un'altra , perde ogni com pattezza, ogni omogeneità, ogni ideale coerenza, e
non può che restare inferiore al modello, che ha dinanzi, senza considerare che
la perdita dell'unità spirituale porta seco fatalmente la perdita dell'unità
politica, se questa già c'è, ' o ritarda la sua formazione, se questa manca. «
Non può mai esser libero » ammonisce il Cuoco « quel popolo in cui la parte che
per la superiorità della sua ra gione è destinata dalla natura a governarlo,
sia coll’auto rità sia cogli esempi, ha venduta la sua opinione ad una nazione
straniera : tutta la nazione ha perduta allora la metà della sua indipendenza »
( 2 ) . A ciò bisogna aggiungere considerazioni d'altra natura . Il Cuoco nel
suo stesso fondo culturale è antirepubblicano, antirepubblicano per princípi,
che trascendono la sua stessa esperienza politica, la sua prassi civile. Ci
obiet ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p . 90, nota. ( 2 ) V. Cuoco, Saggio
storico , XVI, p. 91 . 126 teranno : ma la sua partecipazione al moto del '99,
par tecipazione ( 1 ) che oggi al lume della critica storica appare più
importante che per l'innanzi non fosse sem brato, come si spiega ? È dovere del
buon cittadino ser vire la patria, qualunque sia la forma di governo, qua
lunque sia il suo reggimento politico. Senza dimenticare che tra i Borbonici
malversatori e le nobili figure re pubblicane di Cirillo , di Pagano e di Ciaia
Cuoco sapeva fare le opportune distinzioni . Io credo che l'opposizione
antirepubblicana e antigia cobina del Cuoco derivi da veri e propri princípi
filoso fici, oltre che da pura ostilità pratica, che potrebbe anche essere un
fenomeno transeunte . Nei Frammenti di lettere, cioè nel pieno della
rivoluzione scriveva che « un re ere ditario... , quando non ad altro, serve a
togliere agli altri l'ambizione di esserlo » ; e che egli credea « la monarchia
temperata meno di quel che si pensa nemica degli ordini liberi » ( 2 ) . A me
pare che il Cuoco inclini ad una forma di monarchia costituzionale vera e
propria. La vita dei popoli corre uno sviluppo prestabilito. Dall'assoluta ti
rannia all'assoluta libertà è un passo, da un eccesso al l'altro eccesso : il
punto d'equilibrio , che salva l'unità e la coerenza interiore delle stirpi, è
la monarchia costitu zionale. La libertà è un astratto . Bisogna che il popolo
se ne renda degno, ed abbia nello stesso tempo un inte resse nella libertà, in
quanto questa effettivamente mi gliori la convivenza civile . Bisogna in
sostanza che il popolo sia maturo per le conquiste rivoluzionarie, e com prenda
: se non è così, gli stessi più alti benefíci si con vertono in pericoli. È
matura, si domanda il Cuoco, l'Eu ropa per l'assoluta libertà, per la
repubblica ? È matura Napoli per accogliere ordini rivoluzionari ? La risposta
( 1 ) Alludo alla preparazione del moto insurrezionale in Avi. gliano ,
all'opera repubblicana che il nostro preparò in Basili cata. Questa attività
cuochiana era rimasta nell'ombra fino a ieri : il primo che l'ha studiata
e documentata è stato M. Ro MANO, op. cit. , p . 19 e sgg. ( 2 ) Framm . III ,
p. 250. 127 non lascia dubbio. I popoli hanno ancora bisogno d'una guida, hanno
bisogno d'una forza, che li tenga costretti nei limiti d'una volontà generale,
pur contemperando questa con una maggior autonomia delle volontà parti colari o
individuali. Questi sono gli ordini costituzionali. Gli ordini giacobini sono
costituzionali a parole, in realtà sono anarchici, libertari. La saggezza dei
popoli è ancora da ritrovarsi: i popoli sono ancora più fantasia e mito , senso
e leggenda anzi che pensiero ed intelletto : i gover nanti mostrano di non
avere intesa questa complessa e primordiale natura loro. I popoli hanno bisogno
d'un in telletto, che li guidi ed eserciti ciò che essi, tutto senso e poesia
nel significato vichiano, non possono esercitare, la volontà dell'intelletto. «
Un sovrano saggio sul trono » scrive il molisano, « è meno raro d'un popolo
saggio ne' comizi » (1) . Notiamo che il Cuoco scriveva queste righe, quando
l'astro di Napoleone non brillava ancora di pura luce, di tutta la luce grande
che doveva poi spiegare, quando egli scrivendo non poteva menomamente pen sare
che dalle repubbliche di Francia e d'Italia doveva svolgersi il consolato,
l'impero . Il Cuoco ci appare dunque coerente. I suoi sentimenti, ripetiamo una
sua frase ti pica, sono eterni. In Napoleone egli vedrà realizzato po
sitivamente tutto il suo grande ideale. Nessuno potrà accusarlo di
particolarismo , d'amore per il suo parti culare. Ora nella repubblica francese
Vincenzo Cuoco vede pre cisamente la negazione di tutto il suo sistema
politico, l'astrattismo formulante vuoti schemi per chiudervi l ' ineffabilità
delle determinazioni naturali; la democra ( 1) Framm . III , p . 242. Quanto
quei sentimenti siano ra dicati nel Cuoco puoi vedere leggendo i suoi articoli
su pro blemi politici : in particolare cfr. Giorn . ital., 1804 , 30 maggio, 2
giugno ; n. 65, 66 ; p. 260, p . 264 ; 1805, 2 , 7 , 17 gennaio ; n. 1, 3 , 7 ;
pp. 3-4 , pp. 11-12 , pp. 26-28. Nel Platone in Italia , v. I , p . 142 e sgg.
, riconferma il suo pensiero , « riafferma » , come scrive il ROMANO, op. cit.
, p . 85, « la sua fiducia in ungoverno misto , temperato, tra la monarchia,
l'aristocrazia e la democrazia » . 128 zia universale, che cerca di sovrapporsi
a popoli , diversi di coltura e di interessi, per costringerli ad accettare un
governo monotono uguale ; la volontà generale, che cozza con le volontà singole
; un pazzo alternarsi d'anar chismo e di tirannia . Che cosa è mai questa
benedetta libertà, che i francesi portano ? È la più sfacciata tirannia .
Essere libero signi fica adattarsi al metodo , all'andazzo giacobino; se no,
guai a chi si oppone: le baionette strappano il consenso liberamente mancato.
La libertà imposta non è più li bertà, cioè libero volere, libera
determinazione. La libertà data dalle repubbliche, nota Vincenzo, è sempre più
dura che non la libertà data dai re . Sembra un paradosso, ma è così. Le
repubbliche sono infatuate dai loro prin cípi, e credono che tutti siano
desiderosi di comparteci parne, e quando li vedono ripudiati, li impongono, poi
che non vedono bene e felicità fuori di essi. L'antifrancesismo, dunque, di
Vincenzo Cuoco real mente ha radici profonde in questioni di metodo e di po
litica . Il Cuoco non è un repubblicano. Egli vagheggia forme costituzionali,
che sintetizzino l'indirizzo potente mente unitario dello Stato con le volontà
autonome delle popolazioni. Queste considerazioni di natura generale possono
spie garci vari punti della biografia di Cuoco, che altrimenti sarebbero
destinati a rimanere senza delucidazioni; pos sono darci la ragione della
scarsa sua partecipazione alla rivoluzione partenopea , la ragione forse della
sua sal vezza dopo la prigionia borbonica, la ragione del suo iso lamento a
Milano prima che un nuovo ordine un po' più schiettamente italiano e meno
repubblicano non venga a costituirsi; questioni, assai gravi, come ognun vede,
ma che acquistano maggior luce, se le si riconducono ai princípi, che sopra
abbiamo accennato. Il pensatore, che, criticando il progetto di costituzione
del Pagano, scriveva a Vincenzio Russo amaramente ed ironicamente nello stesso
tempo : « Oh ! perdona. Non mi ricordavo di scrivere a colui, che, sull'orme
della buona memoria di Condorcet, crede possibile in un es 129 sere finito una
perfettibilità infinita » ; il pensatore, che così ironicamente pungeva
l'amico, è lo stesso uomo, che oggi a Milano esule ricorda a un suo intimo il
suo co stante odio contro i Galli ( 1 ) . « Non ti pare che io era profeta »
scrive « quando in faccia a Scipione Lamarra ( generale e carceriere dei
repubblicani del 1799 ) mi dissi cisalpino ? E profeta anche più grande, quando
diceva tanto male dei francesi ? Eccomi dunque cisalpino, per chè in Milano, ed
odiator de'Galli, quale lo era nel '93 , nel '94 , nel '95 , nel '96 , nel '97
, nel '98 e finalmente in Capua nel '99 . I miei sentimenti sono eterni. » Il
Cuoco ci appare come il più genuino rappresentante di un pensiero politico in
tutte le sue manifestazioni in an titesi col pensiero e con la prassi politica
francese. Il suo spirito storico e pratico lo rimena al Vico, l'investi gatore
profondo delle leggi, che governano il corso delle nazioni, al Machiavelli, che
dai fatti trae le norme della vita pubblica, al Montesquieu , il più acuto
studioso della natura delle leggi e della loro conformazione ai bisogni fisici
e spirituali de' popoli. Nel Saggio, ricordiamo, dopo avere analizzato quanto
la rivoluzione era lontana dalla vita italiana e napoletana, quanto i bisogni
nostri eran , diversi da quelli francesi, quanto i nuovi princípi erano
astrusi, scrive delle righe assai importanti per una com prensione del suo pensiero.
« La scuola delle scienze mo rali e politiche italiane seguiva altri princípi.
Chiunque avea ripiena la sua mente delle idee di Macchiavelli, di Gravina, di
Vico, non poteva nè prestar fede alle pro messe nè applaudire alle operazioni
de ' rivoluzionari di | Francia, tostochè abbandonarono le idee della monar
chia costituzionale » (2 ) . Ecco, l'opposizione politica di viene una vera e
propria reazione culturale in nome del l'italianismo. Non mi sembra più il caso
ora di dubitare circa la po ( 1 ) La lettera che segue, pubblicata per primo da
M. Ro MANO, op. cit. , p. 269, in parte fu poi ripubblicata da G. GEN TILE ,
Studi vichiani, p. 350. ( 2 ) . V. Cuoco, Saggio storico , VII, p. 40. 9 - F.
BA'I TAGL A. 130 sizione del Cuoco di fronte alla rivoluzione . Il Cuoco non è
repubblicano, è monarchico costituzionale. Il Cuoco è antifrancese perchè è
troppo profondamente italiano. La posizione non potrebbe essere più chiara.
Questa rinnovata posizione di critica non conduce però Vincenzo ad un
isolamento politico totale . Egli s'oppone ad uno stato di cose profondamente
radicato nella vita contemporanea, ma crede suo dovere agire, operare in un
mondo di illusi e di dormienti, mostrare agli italiani quanto essi siano in
errore, ripudiando la loro essenza per una natura estrinseca . Come nel '99
egli, vagheggia tore d'una repubblica costituzionale indipendente, da fondarsi
subito dopo la partenza dei Borboni, prima del l'ingresso dei francesi, d'una
repubblica nazionale, non soggetta ad alcun influsso estraneo , che sapesse
intendere la natura del popolo, e su questo solo trovasse la base d'ogni suo
operare, rendendolo partecipe ed interessato, non seppe, non potè abbandonare i
suoi generosi compa gni per problemi e dissensi di carattere teorico , e si
senti travolto in quel vortice che pur non amava ; così oggi, a Milano,
ricostituitasi bene o male una parvenza di libertà italica, egli è al suo posto
di combattimento, assertore infaticabile delle più pure idealità nazionali. La
vita ha una sua particolare dialettica. Questo spie gamento non è lineare
uguale, ma inframmezzato da cu riosi contrasti : una affermazione è implicita
nell'atto stesso della negazione. La rivoluzione francese, che nega la storia,
è nella storia, e afferma la storia . Tutto il movi mento post -rivoluzionario,
in antitesi alla rivoluzione, nasce da uno stesso getto, con la rivoluzione .
L'illumini smo afferma l'assoluto della ragione e da questa desume formule e
princípi ad informarne la vita. Il nuovo pen siero trova il fondamento di tutto
nello spirito , che è in sè e fuori di se, istoria e natura, sviluppo continuo,
pro duttività infinita, principio attivo. Il Fichte in Germania in parte è
ancora nella rivoluzione ; lo Schelling e l'Hegel, e con essi tutto il
movimento storicista nella politica e nel diritto , sono già fuori dalla
rivoluzione . La filosofia della rivoluzione non aveva prodotto un vero sistema
costitu 131 zionale, aveva ondeggiato tra troppo opposti princípi, per finire
ad uno Stato, il cui contenuto etico era e non era. La nuova filosofia
riconsacra nella natura lo spirito, e lo spirito sublima nello Stato, sua
perfetta creazione. La fatale necessaria evoluzione dello spirito porta allo
Stato, e in esso celebra, diciamo pur così, tutto sè stesso . Chi dice Stato
dice realtà ed ideale, autorità e libertà, forza e consenso. È la reazione
dello Schelling e dell’Hegel alla rivoluzione. È la stessa reazione, ma
anticipata, di altri filosofi della restaurazione . In Italia questa reazione,
che però è una rivalutazione dello Stato monarchico nel suo contenuto etico, è
fatta da Vincenzo Cuoco. Col Cuoco, giornalista nella repubblica cisalpina e
poi nel regno italico, la rivoluzione muore, depone il berretto frigio, lascia
il posto allo Stato, come manifestazione ultima d'un processo etico, in cui la
libertà è nel con senso, l'unitarietà nella forza. Pochi hanno notato
l'importanza del molisano, come rivendicatore del principio monarchico. Si è
detto che egli è il primo, che si faccia araldo del problema unitario in quanto
problema spirituale e pedagogico ; ma si è dimenticato che nel suo pensiero il
fine della rinascita morale è una unità, che non può ottenersi che nella mo
narchia . Affermazione questa , notiamo, che non implica alcun assoluto
politico, ma che è la risultante di mere contingenze storiche, di una vera
impreparazione popo lare a più ampie libertà, da studiarsi, dunque, nell'am
biente, in cui e per cui il Cuoco l'esprime. Il processo pedagogico, che deve
condurre all'unità, è un processo nulla affatto rivoluzionario, anzi evolutivo.
Mentre in Germania questa rivalutazione è posteriore : alla rivoluzione, mentre
in Germania il Fichte, il futuro autore dei Discorsi alla nazione tedesca,
scrive il suo Con tributo alla rettificazione dei giudizi del pubblico sulla ri
voluzione francese, che non può non essere, nel grave incendio sovvertitore,
una partecipazione a quei princípi che agiscono in tutto il movimento, ed
insieme una loro legittimazione ; in Italia lo spirito nazionale nasce nella
stessa rivoluzione, come reazione d'una sostanza speci 132 ficamente italiana
ad una forma vuota ed estrinseca che le si vuol sovrimporre. Napoleone per
Cuoco è la creatura di genio, che impersona in sè tutto il nuovo ordine di
cose, che sorge dalla rivoluzione e alla rivoluzione s'op pone, ordine di cose
che il pensatore ha previsto sin dai primi bagliori dell ' incendio giacobino .
Le prime pagine del Saggio storico, la Lettera dell'autore all'amico N. 0. , la
Prefazione alla seconda edizione sono la conferma di tutto ciò , che siamo
venuti faticosamente esplicando fin qui . In questi scritti la figura del gran
capitano è esal tata : ma, se leggiamo profondo, più che l'uomo fatale sono
esaltati il nuovo ordine di cose e i nuovi princípi ci vili , che affiorano
nella politica generale di Francia. Il Cuoco, dopo alcuni anni dalla
rivoluzione di Napoli, di cui era stato spettatore, si rivolge indietro, rivede
con la fantasia accesa tutti gli avvenimenti, che nel breve corso d’un anno, il
1799, la storia ha suscitato nella sua patria : il regno del Borboni ruinato
mentre minaccia la conquista d'Italia, un monarca debole abbandonare i suoi
Stati, la libertà sorgere e stabilirsi quando meno la si attende, i fati
combattere la buona causa, e poi gli er rori e il crollo ; rivede tutto con la
fantasia e, facendo ciò prova il piacere di chi, essendo stato giudice impar
ziale, ha profetato un avvenire, nascente sulle contrad dizioni del presente.
L'uomo dei Frammenti è infine il profeta di Napoleone. « Desidero » scrive
Vincenzo nella Prefazione alla seconda edizione del Saggio storico « che
chiunque legge questo libro paragoni gli avvenimenti dei quali nel medesimo si
parla a quelli che sono succeduti alla sua pubblicazione . Troverà che spesso
il giudizio da me pronunziato sopra quelli è stata una predizione di questi, e
che l'esperienza posteriore ha confermate le antecedenti mie osservazioni » ( 1
) . La storia ha uno'svi luppo che non falla : lo storico, il quale intende le
idee che sono eterne, e non gli uomini che brillano un istante, può a ragione divenir
profeta. V'è nelle righe sopra citate ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico,
Prefazione, p. 8 . 133 la soddisfazione dell'uomo, che vede la conferma d'una
realtà, che non gli sfugge. « Io ho il vanto » aggiunge « di aver desiderate
non poche di quelle grandi cose che egli [Napoleone] posteriormente ha fatte ;
ed, in tempi nei quali tutt' i princípi erano esagerati, ho il vanto di aver
raccomandata , per quanto era in me, quella moderazione che è compagna
inseparabile della sapienza e della giu stizia , e che si può dire la massima
direttrice di tutte le operazioni che ha fatte l'uomo grandissimo. Egli ha
verificato l'adagio greco per cui si dice che gl ' iddii han data una forza
infinita alle mezze proporzionali, cioè alle idee di moderazione, di ordine, di
giustizia. Le stesse lettere , che io avea scritto al mio amico Russo sul pro-
. getto di costituzione composto dall'illustre e sventurato Pagano, sebbene
oggi superflue, pure le ho conservate e come monumento di storia e come una
dimostrazione che tutti quelli ordini che allora credevansi costituzionali non
eran che anarchici » ( 1 ) . V'è qui tutta la spiegazione della nuova
situazione, che s'è imposta e di cui il Cuoco si sente partecipe. La
rivoluzione era un vortice, che se egli non odiava, certo non amava, al quale s
' era abban donato un po' passivamente, più per criticare che per esaltare, più
per negare che per affermare : libertà, fra ternità, vane parole ; virtù e
gloria : parole astratte, lon tane dall'intendimento del popolo. Il regno
d'Italia, l'impero di Francia, ora, sono invece realtà concrete, ove la prassi
politica è ispirata al concreto , al benes sere delle genti, è ispirata ad un
principio monarchico unitario, che trova una precisa e sicura delimitazione tra
volontà generale e volontà particolari, tra governo ed individuo , in una nuova
visione costituzionale, per cui lo Stato è concepito come sublimazione dello
spi rito , come forza e consenso, e quindi come autorità e libertà . Il Cuoco
dinanzi a Napoleone si trova nell'atteg giamento di chi osserva una realtà, a
lungo deside rata , finalmente concretata nella politica generale euro ( 1 ) V.
Cuoco , Saggio storico, Prefazione, p. 9. 134 pea, e non nell'atteggiamento
dell'adulatore che leva lodi per averne compensi. Si è voluto dipingere il
nostro come un volgare, se pur d'ingegno, procacciante , ma coloro, che hanno
sostenuto questa tesi non hanno esaminato certo per intero gli scritti del
molisano, o hanno perduto per il particolare quell'esatta e continua visione
d'in sieme, che ci spiega solo la natura d'una mentalità poli tica. Il Cuoco è
l'uomo dai sentimenti eterni, l'eterno an tigiacobino, e in Bonaparte vede
l'uomo geniale, sintesi delle nuove idee, che si sono venute formando, di libe
ralismo, di moderazione, d'equilibrio . Come sorgono quegli uomini, che per il
volgo sono usurpatori, che per lo storico non sono che l'espressione d'una
fatalità storica, determinata da bisogni insiti nelle nature umane ? « La mania
di voler tutto riformare porta seco la controrivoluzione : il popolo allora non
si rivolta contro la legge, perchè non attacca la volontà generale, ma la
volontà individuale . Sapete allora perchè si segue un usurpatore ? Perchè
rallenta il vigore delle leggi; perchè non si occupa che di pochi oggetti, che
li sottopone alla volontà sua, la quale prende il luogo ed il nome di volontà
generale, e lascia tutti gli altri alla volontà in dividuale del popolo . Idque
apud imperitos humanitas vocabitur, cum pars servitutis esset . Strano
carattere di tutti i popoli della terra ! Il desiderio di dar loro sover chia
libertà, risveglia in essi l'amore della libertà contro gli stessi loro
liberatori » ( 1) . L'usurpatore ha una ragione di essere nella stessa
esagerazione della rivoluzione, rallenta il vigore delle leggi antiche, lascia pochi
oggetti a sè, il resto alla volontà singola. Mentre le repubbliche nel
l'esaltazione dei princípi cadono dalla tirannia all'anar chia, dall'eccesso
d’una volontà generale, che vuol sof focare ogni autonomia o volontà
subiettiva, all'eccesso di volontà individuali che non s'accordano in una vo
lontà generale, e viceversa, il monarca trova più facil mente l'equilibrio, che
nelle ere primitive è nella forza, ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 96.
135 nelle ere evolute nel consenso . Il giacobinismo, esaltando sè stesso,
parimenti ha sviluppato una nuova opinione pubblica. Napoleone è il
rappresentante di questa nuova opinione pubblica. Non è detto che il potere,
che si viene accentrando in un singolo, quando si sia trovata la delimitazione
sovraccennata tra individualità e legge, sia per sè stesso cattivo : quand'esso
, anzi, è saldo sicuro , può anche essere umano e temperato. È carattere pro
prio dei principi deboli essere sospettosi e feroci, mentre i sovrani, potenti
su basi di consenso e di forza, non possono che essere equanimi, larghi,
liberali. Tutta la logica storica cuochiana porta alla monarchia : la
monarchia, date le condizioni dei tempi e degli uomini, è la migliore forma di
governo . Napoleone, ho detto, sorge dalla rivoluzione, e ad essa si oppone. Il
Cuoco stesso ha la lucida intuizione che al sistema giacobino si è sostituito
un sistema nuovo su nuove basi. Ciò non pertanto egli, ingegno superiore sto
rico , portato a valutare le conseguenze ultime della ri voluzione, di fronte
al nuovo reggimento instaurato , sa trovare i benefíci che da questa sono
scaturiti insoppri mibilmente per l'uman genere. L'articolo Varietà ( 1 ) che
il molisano pubblicò nel suo Giornale italiano, i primi giorni del 1805, è un
vero e proprio esame di coscienza, dinanzi alla nuova situazione politica, che
trova le sue origini, pur negandole, nella rivoluzione. Col nuovo anno che si
apre Vincenzo Cuoco s'arresta e guarda indietro : molti mali da un lato, molti
beni dall'altro : nonostante i grandi errori, le grandi deficienze, si può
notare un progressivo cammino sulla via della saggezza. « Gran parte
dell'Europa fa grandi progressi verso un ordine migliore . « In Francia
nell'anno scorso le opinioni sono diventate più concordi, gli ordini più
regolari. Le idee di rivolu- · ( 1 ) Giorn . ital. , 1805, 2, 7 , 17 gennaio ;
n. 1 , 3 , 7 ; pp. 3-4 , pp. 11-12, pp. 27-28 : Varietà ( ristampato in Scritti
vari, v . I , pp. 134-144 col titolo La rivoluzione francese e l'Europa) . 136
zione, divenute una volta estreme, han fatto avverare il detto di Mirabeau che
l ' esaltazione de' princípi altro non è che la distruzione de' princípi. Ma,
incominciando tali idee a retrocedere dal 1795 , non potevano arrestarsi se non
giunte ad una forma di ordine regolare. Imper ciocchè ciascun costume richiede
una forma di governo , e ciascun governo ha in sé talune parti essenziali,
senza le quali, invece di costituzioni, si hanno que' mostri po litici, i quali
soglion aver la vita di un almanacco. Possono sembrar sublimi agli occhi de’ mezzo-
sapienti, ma sem brerebbero comici agli occhi de' sapienti veri , se l'espe
rimento de medesimi non costasse tanto all'umanità. Ri conosciuta una volta
necessaria la concentrazione del potere, è indispensabile renderlo ereditario ;
altrimenti sarebbe lo stesso che aprir la via a perpetue guerre ci vili.
Esempio ne sia la Polonia . Nè vale il dare al primo magistrato il diritto di
nominar il suo successore, poichè l'esempio di Roma antica e della Russia ben
dimostrano che questo ordine di successione non basta a render lo Stato sicuro
dai tristi effetti dell'ambizione de' privati. Reso una volta il potere
ereditario, è necessario rivestirlo di tutte le apparenze esteriori della
dignità, perchè queste accrescon la forza della opinione, e la forza delle opinioni
serve a risparmiar quella delle armi, della quale non si può mai far abuso
senza pericolo . Un governo, il quale non ha per sè la forza dell'opinione, si
chiami pure con quel nome che si voglia, sarà sempre un governo militare, il
pessimo di tutti . Un governo, il quale, avendo già tutto il potere, procura di
fortificarsi coll'opinione, se questa opinione non è di sua natura teocratica,
tende a cangiarsi da governo militare in governo civile . « Tale è l'ordine
delle cose, immutabile, eterno . L'ar restarsi dopo una rivoluzione in mezzo a
questa progres sione è lo stesso che dar fine ad una rivoluzione per in
cominciarne un'altra » . Come ognun vede, il pensiero di Vincenzo Cuoco, nella
sua limpidezza , non lascia dubbio alcuno . Il nuovo or dine costituito, cioè
Napoleone, ha la sua origine nella rivoluzione, ma la sua ragion d'essere nella
negazione 137 della rivoluzione, la sua base concreta ne' bisogni dei popoli di
trovare il loro punto d'equilibrio tra gli estre mismi di destra e di sinistra
in quel consenso, che nel mondo moderno solo può fortificare i governi. In Napo
leone il Cuoco vede il restauratore dell'ordine civile, ma non vuol vedere,
nello stesso tempo, il militare, il con quistatore . Il governo militare, che
si erige sulle baio nette , gli ripugna : non per nulla egli ha parteggiato nel
'99 per la repubblica , ha salutato con letizia la partenza dei borbonici dalla
sua Napoli. Il governo, che tiene in pugno la cosa pubblica e la direzione
dello Stato, deve avere seco la forza del consenso, e da questa derivare la
forza delle armi. Altrimenti si cade in quel governo mi litare, che, come dice
il nostro autore, è il peggiore dei governi , come quello, che, essendo odiato,
sovrapponen dosi alle volontà dei cittadini, rinnega le esigenze, i bi sogni,
gli interessi delle popolazioni. Lo Stato del Cuoco non è nè lo Stato paterno,
di polizia del Wolff, nè lo Stato rivoluzionario , che pone un limite
insuperabile alla sua autorità in una visione anarchica dei diritti subiettivi.
Nello Stato del Cuoco confluiscono vari e complessi ele menti, dal Rousseau al
Vico, dal Montesquieu ad Aristo tele . Se vogliamo caratterizzarlo, diremo che
è Stato di diritto , che importa e riposa su un contratto sociale, non storico
ma immanente alla vita stessa dello Stato, sin tesi di attività e di diritti
singolari, Stato infine che non pud agire che sub specie juris, nella forma del
diritto, in quanto il diritto stesso, nella sua natura generale, è alla fine
riaffermazione e consacrazione delle libere vo lontà particolari, che lo
costituiscono. Il molisano è ugual mente lontano dalle esagerazioni
rivoluzionarie, che egli stesso definì anarchiche e non costituzionali , come
dalle affermazioni di coloro, che in Napoleone avrebbero vo luto il signore dei
gratia, superiore ad ogni volontà na zionale . Egli, ingegno storico, sente che
tra Napoleone e il regime assoluto c'è una rivoluzione, e la rivoluzione non si
può nè politicamente ne teoreticamente superare a ritroso, onde s'arresta nel
giusto mezzo, e ci dà un con cetto dello Stato, che si ricollega sotto alcuni
aspetti al 138 Rousseau e al Vico, che ha, pure, qualche rassomiglianza con la
teorica kantiana, sebbene il nostro del Kant cono scesse assai poco, e più per
seconda mano che per let tura diretta (1 ) . Il Cuoco afferma in sostanza la
monar chia liberale moderata, che assomma in sè l'autorità e la forza con il
consenso e l'autonomia ( 2) . Le opinioni degli uomini, aggiunge continuando il
Cuoco, sono discordi: è fatale che siano discordi, poi che v'è stato di mezzo
una rivoluzione, e gli uni parteggiano ancora per essa, gli altri ancora la
maledicono. Perchè l'equilibrio si ristabilisca , è necessario che sorga un or
dine nuovo tra le varie opinioni, diverso dall'ordine an tico distrutto,
diverso dal nuovo che si desiderava. Sono concetti di moderazione, che appaiono
anche nel Platone. Michele Romano ha fatto un'analisi minuta di questo ro manzo
sotto l'aspetto politico, e noi, che seguiamo un'al tra strada, vi rinveniamo
facilmente la conferma delle nostre affermazioni, ed una prova diretta della
coerenza cuochiana. « Viene anche per le nazioni il tempo ineluttabile dei mali
; il tempo in cui tutta la forza è nelle mani di coloro che non hanno virtù, e
qualche virtù rimane solo a co loro che non hanno forza ; onde avviene che tra
le scel lerate pretese de' primi, tra le inutili tenacità de'secondi, tra quei
che tutto voglion distruggere e quei che tutto voglion conservare, sorge una
lotta asprissima, funesta, in cui i primi a cadere son sempre coloro i quali
osan parlar le parole di moderazione che dopo venti anni di strage e di orrore
diventa l'inutile pentimento di molti e l'unico desiderio di tutti » . La
moderazione, commenta però il Romano, non è virtù negativa in politica, perchè
« noi cresciamo andando avanti ; ci conserviamo rima nendoci al nostro posto ;
ma non possiamo riformarci tornando indietro, perchè indietro non si ritorna
mai » ( 3 ) . Ai partigiani dell'ordine antico si può rispondere che ( 1 ) G.
GENTILE, Dal Genovesi al Galluppi, p . 377 . ( 2 ) M. ROMANO, op . cit . , p.
81 e sgg. ( 3) M. ROMANO, op. cit. , p. 84. 139 non è stato Bonaparte a
distruggerlo : sono stati essi stessi con la loro viltà, con la loro caparbietà
. « Ai parteggiani della libertà si può rispondere che la Rivoluzione non è stata
interamente inutile. Si è ot tenuta una forma di governo costituzionale, e,
quando anche si volesse credere che questa non sia ancora per fetta , si è
sempre ottenuto molto avendone una. Le ot time costituzioni sono figlie del
tempo e non di sistemi. Quali sono le parti loro più belle ? le più rispettate.
E quali le più rispettate ? le più antiche. Quindi due ve rità : 1° Per
ottenere una buona costituzione, è necessario aver, quasi direi, un antico
addentellato al quale attac carla . 2 ° Per giudicare di una costituzione è
necessario il tempo, perchè le nuove, non potendo ancora goder il rispetto del
popolo, ancorchè sien ottime, si credon cat tive. Col tempo, i vari corpi , che
formano il governo, di ventano più rispettati dal popolo, e perciò più potenti
anche in faccia al governo ; e la libertà pubblica diventa maggiore. Intanto è
sempre un gran bene per una nazione che il suo capo s'intitoli tale per le
costituzioni della Re pubblica ; che si parli di libertà civile , di libertà di
per sone, di libertà di stampa ; che vi sien delle magistrature incaricate di
vegliare alla loro custodia ; che vi siano delle assemblee nelle quali si
riuniscano i migliori di cia scun dipartimento e di ciascun cantone per
proporre ciò che credon più utile allo Stato. Tutte queste istitu zioni han
prodotti finora molti beni e ne produrranno ancora . In ogni caso, la religione
è stata per sempre riu nita allo Stato col vincolo della tolleranza ; la
feudalità è stata abolita per sempre, e, quando anche risorgesse un patriziato,
potrebbe esser quello de'greci e de ' romani, eccitator di grandi azioni e non
già oppressore de'grandi ingegni; è stata aperta libera e larga la via della
gloria ad ogni specie di merito; non vi saranno più le dispute e le
persecuzioni de'gesuiti e de'giansenisti ; non vi sarà più la funesta
distruzione de'tre stati, de' quali uno era con dannato a pagare e soffrir
tutto e a non aver mai nulla ; le imposizioni saranno ripartite egualmente fra
tutti ; le proprietà saranno tutte della stessa natura, e le persone 140 della
stessa classe . Questi vantaggi si sono ottenuti, nè si perderanno più, e
questi vantaggi non sono mica pic cioli » . Tutta la filosofia cuochiana è
rinserrata qui. È natu rale che, quando un ordine nuovo di cose si afferma dopo
turbamenti generali , questo si presenti come una pana cea di tutti i mali, e
temperi l'antico con il nuovo in una fiducia mirabile di sè stesso : spazza via
l'antico, e in tanto crea una nuova aristocrazia, se non di sangue, d'armi ;
distrugge la teocrazia, e intanto vuol l'accordo con la religione ; sgomina
l'anarchia , e dà una nuova costituzione, che, sia pur limitatamente, ha la sua
impor tanza ; si basa sull’autorità, ma non prescinde dal con senso . Il nuovo
reggimento è in fine un reggimento eclet tico, ma è quel che ci vuole dopo una
rivoluzione, è quel che ci vuole in un'epoca, che ha bisogno di freno per non
dilagare nella licenza, di libertà per non rammaricarsi del passato soppresso.
Lo spirito del bonapartismo è in questo eclettismo moderato, che è classico e
moderno nello stesso tempo in arte, che è illuminista nello stesso tempo che
afferma la tradizione in filosofia, che è autoritario e non disprezza il
costituzionalismo in politica. Ma a noi poco importa la prassi politica del
primo console e del l'imperatore, a noi interessa il pensiero di Vincenzo Cuoco
in quanto sistematizza tutto un insieme di idee, proprie dell'èra sua, sia
sotto un aspetto critico, sia sotto un aspetto di simpatizzante affermazione.
Il senso squisitamente politico del Cuoco ci si appalesa sotto un altro punto
di vista . Il Saggio storico, abbiamo osservato, mostrava la rivoluzione in
atto, e di essa era la critica spietata e fiera . Ma la rivoluzione ha
prodotto, ha spiegato tutti i suoi effetti, ha sommerso un mondo, ne ha instaurato
uno novello. La realtà storica è quello che è , s ' impone senza rimedio . È
possibile rinnegare i benefici evidenti della rivoluzione ? Il Cuoco risponde
di no. La rivoluzione ha prodotto benefíci senza pari in Italia e in Francia, e
in certi limiti anche altrove, ha ab battuto la feudalità , ha riattivata la
vita de' popoli in un ritmo più robusto. Il Cuoco ancor oggi crede che la 141
rivoluzione si sarebbe potuto evitare, con una savia mo derazione sia de'
governi sia de' popoli, ma la storia è stata quel che è stata, e non si ritorna
indietro per le recriminazioni. Oggi è inutile ogni constatazione artifi cioso,
occorre pensare a trarre i maggior frutti possibili dalla concreta realtà. « Le
crisi sono nate dall'ostinazione per cui i governi non hanno voluto mai
soddisfare [ i reclami dei popoli] . Con una savia moderazione, invece di
rivoluzioni distrut tive, si sarebbero ottenute utili riforme » . Il ritornare
oggi con ostinazione agli antichi princípi sarebbe lo stesso che preparare
nuovi torbidi rivoluzionari. Sono ' con cetti questi assai radicati nel Cuoco :
ritornano frequente mente ne' suoi articoli nelle forme più varie . Altrove
scrive : « Cangiamo di nuovo lo stato delle idee, facciamo prevalere l'opinione
di qualunque partito; e vedremo tutta l'Europa turbarsi di nuovo. E, sia
qualunque l'opi nione che noi vorremo far prevalere, l'effetto sarà sem pre lo
stesso » ( 1 ) . La storia non si supera a ritroso . Ri tornando allo scritto,
di cui noi segnamo il filo ideale, vi troviamo una sicura legittimazione delle
nuove forze ( 1) Giorn . ital., 1804 ; 11, 23, 30 luglio, 1 , 11 agosto ; n .
87, 88, 91, 92, 96; pp. 350-351 , pp. 356, pp. 367-68, pp. 371-372, pp. 393-394
: Politica ( ristampato in Scritti vari, v . I , pp . 28-43 sotto il titolo Il
sistema politico europeo al principio dell'Otto cento ). Riporto in nota uno
squarcio dell'articolo, in seguito al brano citato . « Facciam ritornare in
campo i princípi che han dominato dal 1793 fino al 1798. Che avremo ?
Nell'interno, incertezza nel potere, che lo rende più impotente nel bene, più
sospettoso e più crudele nel male ; divisione tra i vari rami del potere
medesimo, onde l'anarchia e la guerra civile ; l ' in certezza dei principi ,
onde ne diventa l'uso difficile ai buoni e facile l'abuso agli intriganti ed ai
prepotenti. Nell'esterno, da una parte l'ambizione, che prende le apparenze di
democratiz zazione universale e diventa tanto più terribile quanto che alla
forza delle armi riunisce quella delle opinioni ; dall'altra, il timore e sospetto
; dall'una e dall'altra , minacce, tradimenti, inganni di popoli e di re,
guerre interminabili e feroci ». Il quadro è fosco : è impossibile ritornare ai
princípi puri della rivoluzione, come è impossibile una restaurazione del
regime prerivoluzionario : il separamento è inderogabile. 142 (( umane espresse
dal capovolgimento rivoluzionario della borghesia. È una osservazione costante,
che da tre secoli in qua ( anzi si potrebbe dire dall'epoca delle crociate ) ,
tutti gli Stati dell'Europa sono cresciuti di forza per l'accresci mento del
numero, dell'industria, dell'attività di quella parte della popolazione che
chiamavasi in Francia, e si potrebbe chiamar presso ogni nazione, terzo stato .
Quelli tra' popoli dell'Europa furono i primi a risorgere dalla barbarie,
dall'ignoranza , dalla debolezza, che primi sol levarono questo terzo stato.
Tali furono l'Italia, l ' In ghilterra, la Spagna. Quei popoli ne' loro
progressi s’ar restarono, che, per la forma del loro governo, tennero questo
terzo stato più oppresso : l'oligarchica Venezia, la Polonia . Quei popoli
soffrirono rivoluzioni e sedizioni asprissime, ne' quali il terzo stato non fu
distrutto ne ottenne giustizia .... E non vi è termine di mezzo. Lo stato di
oppressione è uno stato di guerra. Uno de' due : o convien che la classe
predominante distrugga la ser viente, o convien che divida con lei tutti i
vantaggi della vita civile . Nel primo caso, eviterà le sedizioni in terne,
perchè agli estremamente miseri che soffrono pa zientemente, la miseria toglie
loro, come diceva Omero, la metà dell'anima; ma, invece delle sedizioni
interne, avrà debolezza esterna grandissima, e sarà lo Stato esposto al furore
del primo che vorrà occuparlo. Tale è stata la sorte della Polonia ; e perchè
non direm noi che è stata la sorte di tutti gli Stati ove ancora è feudalità ?
Nel secondo caso, non solamente si accrescerà la forza esterna, ma si renderà
più durevole la tranquillità in terna, perchè la parte più numerosa del popolo
non avrà alcun motivo di doglianza ;, ed, essendo la nazione piena d'amor di
patria e di orgoglio nazionale, mancheranno anche quei fomenti di sedizioni, i
quali vengono dalla stolta ammirazione degli stranieri » . Il terzo stato, la
borghesia, è il lievito del nuovo ordine, è la parte più sana della nazione,
che rivendicati i suoi diritti, è quella che, ugualmente lontana dalla potenza
corruttrice e dall' indigenza mortificante, realizza nella 143 modernità quella
classe dei migliori, che Aristotele ha indicata come la più adatta a reggere la
cosa pubblica . E precisamente nel senso aristotelico il molisano intende la
borghesia, non dunque come una casta chiusa e dit tatoria, ma come una classe,
in cui liberamente conflui scono le forze vitali del popolo tutto, una classe
insomma aperta a tutti coloro, che per virtù d'ingegno e di atti vità s'elevino
dall'indigenza. « Le idee, i costumi, gli ordini pubblici di tutta l'Eu ropa »
scrive il nostro in un altro suo articolo ( 1 ) che adduco a conferma di quanto
vengo dicendo « tendono al ristabilimento di una nobiltà più antica, meno di
struttiva e più illustre : a quella nobiltà della quale si gloriavano i Fabi,
gli Scipioni, i Camilli, de ' nomie degli esempi de'quali noi italiani dovremmo
esser più superbi che di quelli degli Agilulfi e de ' Gundebaldi. La proprietà
diventerà la base di tutte le costituzioni : quella proprietà che sola può
tener uno Stato lontano dalla letargica in dolenza dell'oligarchia e delle
funeste commozioni del l'oclocrazia , perchè nè lo priva dell'opera di molti, i
quali possono colla loro industria acquistare un podere, ma non potrebbero mai
disfare l'ordine de’ secoli passati e darsi un antenato che non hanno ; nè,
dall'altra parte, affida la cosa pubblica alla fede, sempre dubbia, di co loro
i quali non hanno verun interesse a sostenerla. Non altra base che la proprietà
avea la costituzione di Roma, e noi abbiamo anche ciò che non poteano avere i
ro mani, cioè riputiamo proprietà anche l'industria ed il sapere. È la natura
delle cose che ha comandata questa differenza : i romani non aveano altra
industria che l'agricoltura e per molti secoli non conobbero studi più gravi di
quelli necessari a vincere i loro vicini. T ( 1 ) Giorn. ital., 1804, 14, 16,
18, 30 gennaio, 8 febbraio ; n . 6 , 7, 8 , 13 , 17 ; pp. 22-23, p. 27 , pp. 30-31
, p . 51-52, pp. 66-67 : Osservazioni sullo stato politico dell'Europa (
ristampato in Scritti vari, v. I , pp. 13-28 sotto il titolo Il sistema
politico europeo al principio dell'Ottocento in uno con l'altro articolo
cuochiano da noi già accennato, Politica . 144 « Io non nego che le varie
circostanze, nelle quali potrà trovarsi una nazione, possan render necessarie
molte modificazioni; ma la massima fondamentale rimane sem pre la stessa. Il
migliore de' governi, diceva Aristotele, è quello in cui governano i migliori;
e , siccome essi non si potrebbero mai ricercare ad uno ad uno, così il
migliore dei governi è quello in cui preponderano tutte quelle classi, nelle
quali per l'ordinario si ritrovano gli uomini migliori » . L'aristocrazia
nuova, di cui l'autore nostro discute a lungo, è, come ognuno bene intende, la
borghesia . Questa classe, che è la più numerosa , in quanto classe aperta a
tutti, in quanto esprime la forza di coloro, che si sono potuti sollevare dalle
masse, dal proletariato, dal l'artigianato, per darsi all'industria ed agli
studi, ha di nanzi a sè un vasto cammino da compiere, è destinata, ove non lo
sia già, ad essere la classe dirigente. Ritornando allo scritto sulla
rivoluzione francese e i suoi effetti, dal quale abbiamo preso le mosse, vi ri
troveremo sempre le stesse idee. « Il gran generale osserva il Cuoco « il
profondo ministro sono uomini rari. Chi s ' impone la legge di ricercarli tra
dieci, li troverà più difficilmente di colui il quale li ricerca tra mille, tra
tutto il popolo.... ») . Ma non bisogna abusare ; la rivoluzione francese aprì
la via alla canaglia. Ritorna il Cuoco antigiacobino, l'odia tore de ' princípi
esaltati, della democratizzazione uni versale . « Si obliò la profonda
osservazione di Aristotele, il quale avea detto che l ' ottimo de ' governi era
quello in cui predominavan gli ottimi, ma che questi ottimi non si dovean nè si
potevan ricercare individualmente, bensì doveansi ricercare per classe ; che vi
era in ogni Stato una classe di ottimi, e che questa era composta di co loro i
quali non fossero nè corrotti per eccessiva ric chezza né avviliti per
soverchia povertà . Quindi la pro prietà, nella nuova forma di governo, è
divenuta con ragione base delle costituzioni. Alla proprietà è ben af fidata la
custodia delle leggi : i proprietari, dice lo stesso 145 Aristotele, sono i più
atti a tal fine; e come no, se le leggi son tutte fatte per difendere i
proprietari ? Ove però non si tratta di custodire ma di agire, ove non basta la
volontà, ma vi bisogna la mente, è necessario sostituire alla semplice
proprietà l’educazione ; che val quanto dire mettere il merito personale nella
stessa linea della pro prietà . Quella parte di popolo, dice lo stesso
Aristotele, la quale non ha nè proprietà né educazione ; sarà su bordinata se
sarà contenta : è un gravissimo errore darle tutto e non darle nulla » . A me
sembra che il problema politico non potrebbe essere impostato dal Cuoco in
migliore maniera possibile. Che cosa sono le costituzioni, gli istituti , gli
ordinamenti, così come li studia la storia del diritto e il diritto stesso , se
non vuoti astratti ? Quel che a noi importa non è la forma in sè, che ci appare
morta senza un contenuto umano, ma il contenuto stesso . Le costituzioni in
realtà sono , e con esse tutta la struttura giuridica d’un popolo, in quanto in
esso popolo c'è una classe dominante, ri stretta o vasta importa poco, certo
qualitativamente mi-. gliore, che le determina, e non per via di pura ragione,
ma d'analisi concreta sulla realtà viva e pulsante delle masse, una classe
dirigente, che si fa interprete sicura della società che l'esprime. La storia
del diritto , io credo, anzi che studiare morte sovrastrutture, dovrebbe stu
diare come classi dirigenti, per natura condizioni coltura [ estensione diverse
secondo le varie epoche, possano de terminare tutto un complesso sistema
giuridico e costi tuzionale. In tal caso la storia del diritto, studio di
strutture vuote di realtà concrete, si risolverebbe nella politica, studio d’un
vero contenuto umano, pulsante d'attualità . Ma questo è un problema teoretico,
che nel caso nostro importa relativamente, e la di cui formulazio ne, a me
sembra, sorge spontanea dal pensiero cuochiano. Come ognun vede, la vita
moderna nella sua vasta for mazione non poteva essere tratteggiata in maniera
più vivace, più rispondente al vero, a ciò che poi sarà la realtà dello Stato
moderno, di quanto è nell'analisi del grande molisano. . 10 - F. BATTAGLIA ,
146 Una classe di migliori, che per la sua stessa composi zione e formazione è
atta a modificarsi e ad evolversi con la storia, tiene il reggimento dello
Stato. Lo Stato libe rale non è, come lo Stato assoluto e patrimoniale, sta
tico, anzi è il più atto ad ulteriori sviluppi. La base imprescindibile di esso
è la proprietà . La proprietà è la sua difesa, il suo presidio naturale. Chi ha
una sua pro prietà, mobile ed immobile, industriale o fondiaria, in tellettuale
o commerciale, tende per natura a conservarla e a migliorarla. Fate sì che uno
Stato si appoggi alla classe dei proprietari, questo Stato è al sicuro da ogni
attacco contro la sua compagine, poi che troverà sempre la sua difesa in
coloro, che, difendendo lo Stato, difendono i loro beni, i propri interessi .
Ove lo Stato transige sul l'inviolabilità della proprietà, tradendo le sue basi
e le sue origini, viene a mancare la classe de ' possidenti alla tutela della
cosa pubblica, e, se non interviene una pronta reazione a ristabilire
l'equilibrio, è il crollo, lo sfacelo. Abbiamo così uno Stato liberale, che,
pur tendendo alla sua conservazione in ogni manifestazione giuridica, si
afferma come dinamico e progressista, trovando però nella sua stessa
composizione un limite ad un progresso, che potrebbe divenire, se spinto troppo
oltre, anarchico e rivoluzionario . Questo concetto dello Stato borghese, che
solo nella proprietà può trovare una base salda, perchè non data
dall'estrinseca volontà legislativa, ma dagli umani in teressi per natura
conservativi, questo concetto politico della vita moderna non è nuovo, nè
sporadico in Vin cenzo Cuoco. Ne’ Frammenti è l'esempio di questa gran coerenza
del molisano, il di cui sistema politico non ha mai un'origine estranea alla
realtà umana, anzi tutto è organato ed ispirato a princípi superiori di logica
ed insieme ad una sicura visione storica . Dopo aver soste nuto che la
costituzione non può crearsi a tavolino, pre scindendo dalla vita, dopo aver
affermato che le costitu zioni debbono essere vive sensibili parlanti, e noi
abbiamo a lungo detto di ciò, il Cuoco viene ad analizzare il proble ma : come
si possa organizzare una divisione de' poteri. 147 « Dopo che avrete » scrive «
divisi i poteri, assodata la base della costituzione e fortificata la legge col
l'opinione e colle solennità esterne, per frenare la forza vi resta ancora a
dividere gli interessi . Fate che il po tere di uno non si possa estendere
senza offendere il potere di un altro ; non fate che tutti poteri si otten
ghino e si conservino nello stesso modo ; talune magi strature perpetue, talune
elezioni a sorte, talune pro mozioni fatte dalla legge, cosicchè un uomo, che
siasi ben condotto in una carica, sia sicuro di ottenerne una migliore senza
aver bisogno del favor di nessuno ; tutte queste varietà, lungi dal distruggere
la libertà, ne sono anzi il più fermo sostegno, perchè così tutti i possidenti,
e co loro che sperano, temono un rovescio di costituzione, che sarebbe
contrario ai loro interessi. Per questa ragione negli ultimi anni della
repubblica romana il senato ed i pa trizi furono sempre per la costituzione » (
1 ) . Se voi vi addentrate nel pensiero dello scrittore, ve drete però che
egli, pur disposto a dare alla proprietà la massima importanza tanto da fondare
su di essa il sistema politico moderno, non giunge mai a darle una origine
metafisica, e quindi a concepirla come un quid di eterno e di immutabile. Ed è
naturale : l'origine della proprietà non è in princípi generali filosofici, ma
in quel che nell ' uomo è senso , cioè bisogni mutevoli e transe unti. La
stessa natura dell'uomo, che vichianamente dà origine alle costituzioni, dà
origine alla proprietà, base degli odierni ordini civili . La natura, a cui
accenno, non è la natura intellettuale, ma quella natura primordiale e plebea,
tutta senso e fantasia, bisogni ed esteriorità . Quindi teoricamente non è
impossibile un sistema costi tuzionale, che prescinda dalla proprietà : resta a
vedere come questo sistema risolva il problema economico e pratico della vita,
che sempre bisogna aver di mira : lo che, evidentemente, non è facile ! Il
titolo della pro prietà ! ? È un po' arduo trovarlo nella metafisica.... ( 1 )
Framm. III. , p. 247 , 148 « Voler ricercare un titolo di proprietà nella
natura è lo stesso che voler distruggere la proprietà : la natura non riconosce
altro che il possesso, il quale non diventa pro prietà se non per consenso
degli uomini. Questo consenso è sempre il risultato delle circostanze e dei
bisogni nei quali il popolo si trova. Tutto ciò che la salute pubblica impe
riosamente non richiede, non può senza tirannia esser sottomesso a riforma,
perchè gli uomini, dopo i loro bi sogni, nulla hanno e nulla debbono aver di
più sacro che i costumi dei loro maggiori » ( 1 ) . È chiaro ! La pro prietà ha
un'origine schiettamente economica, e questa origine posa su un consenso
generale, ma storico, cioè null’affatto immutabile ed eterno . Una
giustificazione dell'istituto secondo i principi del diritto di natura ap pare
a Cuoco poco soddisfacente. Solo i bisogni e gli interessi lo consacrano e lo
legittimano : la ragione e la volontà giuridica spiegano, ma non esauriscono il
pro blema ( 2 ) Dato il concetto che Vincenzo Cuoco ha della borghesia, che per
lui non è una classe chiusa, capitalistica, oppres siva nel monopolio della
vita pubblica, è naturale che egli non parli mai o assai di rado del cosiddetto
proleta riato o quarto stato, il quale per altro non ha, ne ' tempi di cui ci
occupiamo, una sua fisionomia sociale ed eco nomica. Se il Cuoco vede un quarto
stato, lo vede, se mai, ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , XXV, p. 123 e sg . ( 2
) In tutta questa esaltazione della proprietà C., mi sembra, reagisce in parte
alla rivoluzione, che nelle sue esagerazioni ha cercato di scrollarla. Lo
stesso Russo, l'amico del nostro, non è tenero per i proprietari, e basa il suo
sistema su un ele mento comunistico . Io non faccio che rimandare il lettore,
che si interessa del problema, allo studio su V. Russo del CROCE ( La
rivoluzione napoletana, p. 90 e sgg. ). Lo stesso Edmund Burke in Inghilterra
reagà agli attacchidialcuni giacobini con tro la proprietà, e ne affermò il gran
compito sociale: è questo uno de tratti comuni tra l’A . delle Reflections on
the French Revolution e l'A . del Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli.
Il problema, di cui sopra ci siamo occupati, fu studiato da M. ROMANO, op .
cit. , p. 152, il quale peraltro non si diffuse molto. 149 nell'artigianato, il
quale è il germe di ciò che noi chia miamo proletariato, ma da questo
differisce sotto molte plici aspetti. L'artigiano è libero lavoratore, il prole
tario è il salariato della grande industria. La grande industria è il prodotto
di condizioni, che in Italia, al tempo in cui il nostro medita, non si sono
ancora svolte nella loro interezza. Le questioni attinenti al quarto stato
sfuggono perciò al Cuoco, ma non in tal misura che egli non vi accenni brevemente
in qualche articolo del Gior nale italiano ( 1 ) . Sarebbe pur questo un tema
interes santissimo ; senonchè, diffondendoci, noi usciremmo dal nostro assunto
: tracciare una linea generale e sommaria del pensiero politico di Vincenzo
Cuoco . Se con il pensiero noi andiamo agli scrittori politici , che il secolo
XIX offre al nostro studio, invano trove remo un quadro così vivo della società
post -rivoluzio naria , ed un intuito così immediato dei problemi, che ne
agitano la compagine. Basterà che noi riferiamo ciò che il molisano dice
intorno ai benefici effetti della rivo luzione, e che sono i capisaldi di tutta
la vita successiva, per intendere quanto lungimirante fosse il suo senso po
litico e quanto fine la sua visione economica. Un effetto importante del
sovvertimento è un progres sivo migliorarsi della morale pubblica. Quanto
grande posto il Cuoco faccia alla morale e alla religione nella vita civile de
' popoli è un problema, sul quale dovremo indugiarci dopo. Una seconda
conseguenza è « la perfezione della mi lizia , poichè essa non è perfetta se
non dove il nome di soldato si alterna con quello di cittadino ; e questo non
può avvenire se non dove non siano nè esenzioni nè pri vilegi » . Tutto il
pensiero della rivoluzione si rivela nella sua intima radice antimilitarista.
Perchè ? Lo Stato as ( 1) Giorn . ital., 1804, 6 febbraio, n . 16, p . 64 ,
Economia po litica: a proposito di una cassa filantropica a beneficio degli
artigiani; Giorn. ital., 1804, 7 maggio, n. 55, pp. 210-220: Pub blica beneficenza,
a proposito della mendicità e dei problemi connessi. 150 solutista era da esso
considerato come estrinseco alla volontà dei subietti singoli, come tirannico e
nemico : l'esercito nelle sue mani una forza passiva ed antide mocratica . Lo
Stato repubblicano, il vero Stato rivo luzionario, alla sua volta, riposa
invece su un consenso così largo, da ammettere, ed è un estremo, il diritto
alla sommossa, e il consenso così concepito non ha biso gno della forza a suo
sussidio ( 1 ) . Il Cuoco naturalmente non può condividere questi princípi . Il
suo Stato è stato di diritto, ma per natura tende alla conservazione, e re
spinge ogni attacco alla sua compagine anche violente mente. Il contratto
sociale, che è alla base della sua co stituzione, non è un contratto storico,
ma è immanente alla struttura dello Stato , cioè bisogna riguardarlo come una
esigenza ideale ed un presupposto della vita civile stessa. Il Cuoco deriva il
principio dal Rousseau, ma lo anima alla luce di superiori meditazioni
vichiane. Lo Stato sintetizza le volontà individuali o le libertà indi viduali
( libero volere è libertà ) , ma, appunto perchè in ogni momento della sua
esistenza è tale, si afferma come autoritario, contro chi rompe o cerca di
rompere l'armonia delle volontà concomitanti al fine sovrano. Il contratto
sociale eterno, che è alla base della vita stessa, in quanto è convergenza di
volontà e di diritti particolari, dà allo Stato il diritto generico della
difesa e della conservazione. In ciò la filosofia giuridica del Cuoco si
differenzia dalla filosofia della rivoluzione e, pur mantenendo alcuni punti di
contatto con quella del Rousseau, si avvicina alla filo sofia di alcuni
pensatori germanici. Nell'uomo si realiz zano due qualità di sovrano e di
suddito, in quanto lo Stato è sintesi di volontà singole e insieme volontà ge
nerale, che non ammette peraltro sottrazioni, anzi ri chiede la più assoluta
sottomissione. In ogni atto giuri ( 1 ) Notiamo che persino la costituzione
inglese ha tolto al re e al potere esecutivo ogni possibilità di disporre della
forza armata . Il principio è stato superato durante la guerra, date le
condizioni eccezionali, ma resta sempre base degli ordini ci vili dell'isola .
151 dico dello Stato è implicita la volontà generale, la quale volontà generale
non permette che alcuno possa evitare la sua autorità. Ecco il principio della
forza, che integra il consenso ; ecco lo stato di diritto, che nelle sue mani
festazioni sovrane diviene militare. Gli stessi cittadini, che sono sudditi di
una volontà generale e sovrani, poi chè sono gli elementi costitutivi di essa ,
sono anche soldati, cioè forza diretta a tutelare il rispetto alla legge, la
cui genesi, ripeto, è nel popolo, pur trovando la sua manifestazione più piena
e sintetica nel monarca , sim bolo della continuità nella vita giuridica e
storica della nazione. Mentre tutta la filosofia della rivoluzione inglese, la
filosofia dell'illuminismo e del giacobinismo sono anti militaristiche - e le
costituzioni, da esse scaturite, sot traggono al potere esecutivo ogni forza
armata — ; il pensiero politico del Cuoco, più addentro nelle concrete esigenze
della vita, è in senso altamente nobile milita ristico . La milizia , sotto i
Romani dovere e diritto, anzi più diritto che dovere, del cittadino, diviene
nel mondo feudale mestiere e prestazione con alla base un ob bligo
contrattuale, ritorna nel mondo moderno diritto del cittadino, che dà allo
Stato la forza morale del con senso, e la forza materiale delle armi, senza le
quali il consenso è mera parola e lo Stato s'espone indifeso agli attacchi di
pochi faziosi. Di ciò noi troviamo la con ferma in tutti gli scritti cuochiani,
dal Saggio storico al Platone in Italia. Dice assai bene il Romano : « L'anti
militarismo, così notevole nella letteratura meditativa del secolo XVIII,
permane nel Cuoco solo in quanto si ri ferisce alla bruta forza messa a
sostegno della tirannide. Con questa sarà militare il governo ma non il popolo
; e d'altra parte un popolo senza virtù militari passerà per vicende politiche
più frequenti e più crudeli » ( 1 ) . Con un governo costituzionale, lo Stato
sarà forte, ma il po polo, essendo esso stesso che dà l'elemento materiale per
( 1 ) M. ROMANO, op. cit. , p. 88. 152 l'esercizio della sovranità, avrà tanto
coraggio da non sopportare alcuna inconsigliata modificazione dei suoi di ritti
. Quest'alto sentimento dell'importanza civile della milizia meglio vedremo,
allorquando il Cuoco, apostolo dell'unità italiana e della resurrezione morale
del popolo nostro, rincorerà i suoi concittadini a ritornare agli an tichi sani
esercizi bellici . E passiamo ad altro . « Il terzo vantaggio » continua il
nostro autore « e mas simo, sarà quello di abolire l'antico pregiudizio che con
dannava all'ignominia l'utile industria, e specialmente l'agricoltura. Divenuta
una volta la proprietà la massima tra le distinzioni civili , questo farà sì
che il primo sen timento sociale sarà il desiderio di accrescerla, e quindi
un'attività maggiore nell'industria. Un mezzo secolo fa, l'abate Coyer destò
gran rumore in Europa pel suo opu scolo Sulla nobiltà commerciante. Egli però
non faceva che predicar l'imitazione dell'Inghilterra, ma non tentò mai
d'esaminar la cagione per la quale in Inghilterra era comune ciò che si
reputava paradosso in Francia . L'industria inglese era figlia delle
rivoluzioni che quella nazione avea sofferte più frequenti e più feroci delle
altre. È un'osservazione costante che , quando le rivoluzioni finiscono in
bene, l'agricoltura fa nuovi e rapidissimi progressi. Questo fenomeno,
osservato negli altri secoli, si è ripetuto anche nel nostro entro la Francia .
L'in dustria , e specialmente agricola , fa grandi progressi, ed i progressi
dell'industria non possono esser mai divisi da quelli della pubblica morale.
Esser buon cittadino non è altro che esser cittadino utile, e cittadino utile,
diceva Catone, vuol dire buon agricoltore >> Il nuovo Stato, appunto
perchè Stato di consenso, lascia la massima libertà individuale ; afferma la
volontà generale in tutto ciò che pertiene all'esercizio della so vranità , ma
lascia intatta la volontà particolare in ogni sua estrinsecazione, ove essa , s
' intende, si muova in una sfera determinata. Ogni attività , che non coinvolga
l'essenza sovrana dello Stato, è lasciata alla volontà dei singoli subietti :
il commercio, l'industria , la navi gazione, l'agricoltura , l'istruzione, con
riserve debite, 153 sono lasciate alla libera autonomia dei cittadini. Appa
riscono qui i princípi del liberismo economico, che ap pare già ne' primordi
dell'economia politica, nei Fisio crati, nella scuola liberale inglese e
francese, e giù di là ne' nostri maggiori scrittori, per essere l'anima d'ogni
ulteriore sviluppo della scienza. Secondo me, entro certi limiti , non si può
dubitare di un liberismo vero e pro prio nel Cuoco. Lo Stato assoluto, basato
sul principio patrimoniale regio, non potea di fatto non essere Stato
monopolistico , come quello che mirava ad un utile particolare e non
collettivo, di classe e non generale. L'equilibrio econo mico è la risultante
di libere forze individuali, è ciò che nasce dall'esplicazione di queste
attività. Ciò che è , è quanto di meglio si possa concepire . Questi princípi
liberali , che noi troviamo sviluppati in Adamo Smith, in Ricardo , in Giovan
Battista Say, ecc. non sono in antitesi notiamo ai principi della filosofia
cuochiana, per meata di vichismo. Le nazioni, dice il Cuoco col Vico , le
società umane, i popoli sono governati da leggi naturali eterne, che hanno un
proprio sviluppo, un proprio spie gamento, dietro un impulso originario ab
antiquo . Gli uomini non possono mutare queste leggi , perchè ciò che è dato
dalla natura stessa meglio soddisfa le esigenze umane, quindi rappresenta ciò
che, date le condizioni sociali e civili , di migliore si possa imaginare. È
l'ordine delle cose che determina l'ordine costituzionale, e non la nuda
filosofia : è l'ordine delle cose che determina l'or dine economico, e non
l'astratta economia . Di ciò ab biamo una prova diretta nel Cuoco. Esiste,
secondo il nostro, una vera scienza economica, ma, appunto perchè questa
scienza ha una base non dommatica ed apriori stica , ma di fatto e storica, i
princípi che la governano sono pochi, di loro natura « tanto semplici e pochi»
che « scompagnati dall'esperienza » divengono « incerti e fa cili ad esser corrotti
» ( 1 ). I princípi dell'economia sono ( 1 ) V. Cuoco , Scritti vari, v . II ,
p. 89. 154 pochi, perché sono i princípi stessi della natura . La na tura
determina l'ordine e lo sviluppo delle cose umane, in tutte le loro
conseguenze. Lasciamo operare la natura, e questa condurrà a sviluppi, che sono
quanto di meglio si possa immaginare ed operare per predeterminazione umana,
ammesso cioè che gli uomini, lasciato da parte ogni intendimento utilitario
individuale, mirino apriori sticamente ad un fine utilitario generale. La
disarmonia di contrastanti interessi porta all'armonia dell'utilità col
lettiva, ad un utile generale, lo stesso che si avrebbe, qua lora gli uomini
abbandonassero, ed è mera astrazione, l'egoismo economico nativo , che li porta
alla ricerca della soddisfazione maggiore de' propri bisogni anche a sca pito
altrui. Lo Stato cuochiano quindi è Stato liberista : il prin cipio però
notiamo è tutt'altro che chiaro, e lo stesso no stro autore lo intorbida e
spesso lo rinnega. Il legislatore interviene a limitare l'attività economica
individuale, solo in quanto quell'attività lasciata a sè stessa, in de
terminate circostanze sociali anomali, possa risolversi in un danno collettivo,
o in quanto quest'attività indivi duale, nel rimuovere gli ostacoli che le si
oppongano, agisca fuori dal lecito giuridico. Il Cuoco è troppo for temente
concreto per potere formulare princípi astratti e crederli validi per
un'universalità di fatti. I princípi economici, ha detto sono pochi, perchè
poche sono le leggi eterne della natura ; i casi concreti invece sono molti
moltissimi: quindi il principio economico trova nella realtà mille limitazioni,
e solo un'analisi caso per caso può ri solvere un problema positivo che ci si
presenti. Liberismo o protezionismo ? Questione fino ad un certo punto
astratta. La vita nelle sue manifestazioni reali può ren dere necessario il
protezionismo, e lo può presentare, vi sono pur de' casi, come un male minore
di quello, che si avrebbe lasciando sfogare le libere forze economiche. « Niente
si cura produrre chi non è sicuro di vendere. Or, perchè gli abitanti di uno
Stato possan vendere molto e con vantaggio , è necessaria una certa potenza
politica nello Stato . È necessaria, perchè possa ottenere 155 dalle altre
nazioni que patti equi, i quali non si otten gono se non quando taluno creda
che noi possiamo ot tenerli anche contro sua voglia. I popoli, dice Melun, e
noi diremo i governi, non si regalano nulla. Se non siete forte, sarete
sopraffatto. Non solamente non otter rete condizioni giuste, ma sarete
costretto a soffrirne delle ingiustissime » ( 1 ) . Come mai il Cuoco, di cui
abbiamo veduto il pensiero nella sua sostanza liberista, sembra tradire così i
suoi princípi ? In realtà, la concretezza del suo pensiero non può permettergli
apriorismi nè costituzionali, nè econo miei, ond’ei bene intende quanto
necessario sia il prote zionismo in certe contingenze politiche. Non dimenti
chiamo, poi, che non si può parlare di liberismo asso luto in un'età, in cui
ferve continua la lotta tra la Francia e le coalizioni europee, fra la Francia
e l'Inghilterra do minatrice de’mari, in un'età in cui ogni mezzo politico
diviene spietato per vincere economicamente, e le armi del contrasto non sono
più la libera concorrenza tra im prese nel campo internazionale, ma il
sequestro marit timo, il boicottaggio, il blocco. La realtà dell'èra napo
leonica, tragica nel conflitto tra il genio e le forze avverse, impone all'
impero il protezionismo. Il Cuoco lo crede ne cessario per evitare danni
maggiori, senza però condurre questa tattica positiva a princípi generali e
valevoli in eterno ( 2 ) . Ma dove il pensiero cuochiano attinge una verità eco
nomica di prim'ordine è in un principio, al quale il no stro accenna ne'
Frammenti di lettere a Vincenzio Russo, ( 1 ) Giorn. ital., a. 1806 ; 5, 6 , 7,
8 gennaio ; n . 5 , 6, 7 , 8 ; pp. 19-20, pp. 23-24, pp. 27-28, pp. 31-32;
Politica : ( ristampato in M. ROMANO, op. cit ., in Appendice; ed ora negli
Scritti vari, v . I, pp. 201-213 col titolo La politica inglese e l'Italia ). (
2 ) Mi sembra che anche il ROMANO, op. cit., p . 155, creda così. Dopo aver
riportato in nota il brano da me sovra ci . tato aggiunge: « Anche qui è palese
che il protezionismo del Cuoco non moveva da teoriche astratte, sibbene
dall'esame delle condizioni storiche del suo tempo. E che avesse ragione allora
.... non è chi non veda », 156 principio, al quale egli stesso non dà alcuna
elaborazione, ma in cui è il germe di dottrine, che nella stessa nostra Italia
hanno avuto così bello sviluppo. « Una nazione si dirà virtuosa, quando il suo
costume sia tale che non renda infelice il cittadino ; e se tutte le nazioni
potessero essere sagge a segno che, invece di farsi la guerra e di distruggersi
a vicenda, si aiutassero , si giovassero, questa sarebbe la virtù del genere
umano. Il fine della virtù è la felicità , e la felicità è la soddisfazione dei
bisogni, ossia l'equilibrio tra i desidèri e le forze. Ma, siccome queste due
quantità sono sempre variabili, così si può andare alla felicità, cioè si può
ottener l'equilibrio o scemando i desideri o accrescendo le forze. Un uomo, il
quale abbia ciò che desidera, non sarà mai ingiusto ; perchè naturale e
quasichè fisico è in noi quel senti mento di pietà , che ci fa risentire i mali
altrui al pari dei nostri, e questo solo sentimento basta a frenare la nostra
ingiustizia, sempre che la crediamo inutile. L'uomo selvaggio non cura il suo
simile, perchè non gli serve : egli solo basta a soddisfare i suoi bisogni, che
son pochi. Debbono crescere i suoi bisogni, perchè si avvegga che un altro uomo
gli possa esser utile, ed allora diventa umano. Per un momento nel corso
politico delle nazioni le forze dell'uomo saranno superiori ai bisogni suoi ;
allora que st'uomo sarà anche generoso . Ma questo periodo non dura che poco :
i bisogni tornan di nuovo a superar forze; l'uomo crede un altro uomo non solo
utile, ma anche necessario : ed allora non si contenta più di averlo per amico,
ma vuole averlo anche per schiavo » ( 1 ) . Per il Cuoco la felicità è ciò che
con linguaggio più pro prio possiamo dire soddisfazione de' bisogni,
possibilità di sfruttare le qualità fisico - chimiche de ' beni, dati de
terminati bisogni individuali. L'uomo è felice, cioè sod disfa interamente i
suoi bisogni, realizza uno stato di ap ( 1 ) Framm . VI, p. 262. Errerebbe
colui che nel brano citato volesse vedere un abbozzo di morale utilitaria : il
problema mo rale ben altrimenti è impostato da V. Cuoco . 157 pagamento, trova
un punto d'equilibrio, quando non v'è contrasto tra desideri e forze. La
visione però è moderna in ciò che segue. I bisogni , aggiunge lo scrittore, non
sono da comprimersi, tut t'altro, anzi è d'uopo dargli il modo d’esplicarsi. «
Invano tu colla tua eloquenza fulminerai il nostro lusso, i no stri capricci ,
l'amor che abbiamo per le ricchezze: noi ti ammireremo, e ti lasceremo solo » .
L'economia privata e pubblica dà l'esempio continuo di nuovi bisogni che
sorgono, che non trovano soddisfazione che parzialmente, e poi per le mutate
condizioni delle produzioni vengono soddisfatti sempre meglio . Il progresso
civile è una ca tena ininterrotta di bisogni nuovi e di soddisfazioni ade guate
che si sviluppano. Che vale gridare catoniana mente contro le troppo molteplici
esigenze della vita moderna ? Quel che è non si discute . Passarvi sopra sa
rebbe un condannarsi ad una eterna infelicità . L'equi librio tra i desideri e
le forze non può mantenersi che per breve tempo, perchè tosto che si realizza,
intervengono nuovi bisogni impreveduti per romperlo. Nella realtà, anzi, è impossibile
concepire un vero e proprio equili brio : quel che più ci dà l'idea di questo
mondo eco nomico è una serie di equilibri tra desidèri nuovi e forze
preesistenti, tra bisogni nuovi , che dan luogo a nuove domande di beni atti a
soddisfarli e lo stato della produ zione, che s'adatta all'oscillazioni delle
domande. Qual'è il comportamento naturale dello Stato in tali contin genze ? «
La cura del governo deve esser quella di distrug gere le professioni che nulla
producono, e quelle ancora le quali consumano più di ciò che producono ; e
verrà a capo, se stabilirà tale ordine, che per mezzo di esse non si possa mai
sperare tanto di ricchezza quanto colle arti utili se ne ottiene » . Il Cuoco
continua in una esaltazione del lavoro agricolo ed industriale, e in una
deplorazione degli impieghi, che chiama pericolosi per chè fomentano le
ambizioni. Con ciò noi usciamo dalla pura indagine economica . L'autore lascia
intravedere la possibilità d'un intervento statale in un campo che noi ne 158
vorremmo libero. Ma nel molisano, purtroppo, i concetti economici non sono
chiari : il Cuoco indulge troppo spesso a forme d'economia statale, che portano
ad un interven tismo e ad un protezionismo fuor di luogo, che, se sono a volte
spiegabili come espressioni di circostanze ano male, non hanno mai ragioni
scientifiche tali da imporli per una pratica economica generale ( 1 ) . ( 1 )
Bisogna pur riconoscere che elementi estrinseci interven gono a turbare la mera
analisi economica, onde il Cuoco so stiene forme d'economia statale e
d'intervento per altre ragioni, nobili e spiegabilissime. Dopo gli studi del
RUGGIERI ( op . cit., p. 39) e del Cogo sopra tutto ( op. cit. , pp. 13-23, pp.
59-66) non v'è alcun dubbio che l'opera statistica Operazioni sul di partimento
dell'Agogna anzichè al cittadino Lizzoli Luigi come appare estrinsecamente dal
frontespizio dell'opera ( Dalla tip. Nobile e Tosi, 8. d. ) , debba attribuirsi
al Cuoco, che la scrisse per incarico dell'amico tutta di suo pugno , sia pure
consigliato dal Lizzoli. Orbene in detta opera (cap. XII, Istruzione pubblica,
p. 107) il Cuoco tratta dell'importanza delle scuole di disegno e de' vantaggi
che da questa specie d'educazione si ritraggono. « Saremo sempre » scrive poi «
i servi degli esteri fin che crede remo che essi sieno i nostri maestri: chi ha
perduto la stima di sè stesso , ha già perduto tre quarti della sua
indipendenza. Or questa stima di noi stessi non si perde tanto ammirando i genî
che ha prodotto, e le grandi azioni che ha fatte una na zione estera, quanto ammirando
di soverchio alcune cose che sono per loro natura indifferenti , e che forse
anche sarebbero migliori tra noi , se come nostre non fossero disprezzate.
Pochi sono sempre presso qualunque nazione coloro che intendono e pregiano le
prime, e questi pochi per lo più hanno uno sviluppo tale di ragione che
impedisce l'abuso dell'ammirazione. Ma mol. tissimi sono quelli che ammirano le
chincaglierie, i ventagli, le fibbie , i mobili, le stoffe , e che aspettano da
Lione , o da Londra il figurino della moda. Tra cento uomini convien trovare
cin . quanta donne, e quarantotto altri esseri inferiori alle donne, i quali
ragionano così: in Inghilterra le fibbie, i mobili , le scarpe sono migliori
delle nostre : dunque gl' Inglesi sono migliori di noi. Allora tutto è perduto.
Le nazioni estere attaccano sempre la parte più numerosa e più debole di
un'altra nazione, e l'at taccano per le vie del comodo e del bello ; e quindiè
che un go verno savio deve procurar sempre di dare alla nazione propria gran
facilità di mezzi, onde poter vincere in questa concorrenza, e questa cura deve
formar la parte principale della pubblica istru zione » . 159 Abbiamo studiato
come il Cuoco concepisca lo Stato , Stato di diritto basato sul consenso e
realizzante la sua sovranità nella maggior pienezza, Stato militare e forte;
abbiamo anche studiato come questo suo Stato sia in fine lo Stato che egli vede
sorgere per opera di Bonaparte. Il Cuoco a me appare come il teorizzatore di
quel tipo di Stato, che alla storia è passato col nome di napoleonico . Abbiamo
già dato in parte la giustificazione di ciò che i legittimisti ben poteano
chiamare usurpazione, ma che per il nostro è lo sviluppo logico delle cose, è
la fine di tutto un processo storico : occorre però ritornare sul l'argomento per
una più vasta documentazione. La storia non s'interrompe. Il primo console
diviene presto imperatore di Francia e poi re d'Italia (1 ) . Tutto il
movimento spirituale che porta dalla repubblica ita liana al regno italico ,
trova la sua spiegazione negli scritti cuochiani. Sul Giornale italiano il
molisano manda fuori le sue Considerazioni sopra il senato - consulto ( 2 ) ,
scritto denso di pensiero politico, ove la monarchia napoleonica trova
un'adeguata giustificazione nella natura stessa delle cose, nel corso della
storia, che tra due estremismi, la tirannia e l'anarchia , trova il suo
equilibrio nella costi tuzionalità . I contemporanei non possono intendere
Napoleone : la sua figura complessa sfugge ad essi , perchè la conside rano
isolatamente, avulsa dal moto storico, in cui opera e dal quale è determinata ,
moto storico, che solo la po sterità potrà intendere. Avevamo una repubblica.
Come va che dal direttorio , dal consolato decennale, dal conso lato a vita,
dalla presidenza si passa all'impero e al regno ? « Noi diciamo, pieni di
stupore : – Come mai ha potuto avvenir questo ? — E coloro che ci han
preceduto, molto tempo prima che avvenisse, lo avean predetto ( 1 ) M. Rosi, op
. cit. , p. 230 e sgg. ( 2 ) Giorn . ital., 1804, 30 maggio, 2 giugno ; n. 65,
66 ; pp. 260, 264 : Considerazioni sovra il senato - consulto ( ristampato dal
Ro MANO , op. cit., in Appendice ; ed ora in Scritti vari, v. I , pp. 103-108,
col titolo Napoleone imperatore) . 160 inevitabile » . L'impero è sorto, perchè
tutte le idee por tavano all'impero. L'analisi di tutti i precedenti storici ,
senza i quali ogni evento ci appare estrinseco, è fatta dal nostro con una
lucidità mirabile . La rivoluzione francese, prima di scatenarsi sulle piazze e
sui patiboli col terrore, aveva tentato un esperimento costituzionale. Una
monarchia moderata sarebbe stata quanto di meglio potea avere in quel momento
la Francia . « La rivoluzione scoppiò, perchè era inevitabile. Tutte le idee
degli uomini non ebbero allora altro scopo che quello di formare una monarchia
costituzionale ; ma si errò nel circoscrivere il limite del potere esecutivo, e
se ne creò uno troppo debole e troppo poco rispettato » . Si inde bolì
costituzionalmente il potere centrale, togliendo così ogni difesa agli stessi
ordini civili, aprendo la via alla licenza trionfante . Gli errori in questo
campo furono in numerevoli. Il potere legislativo esercitò un predominio
eccessivo, inframettenze internazionali, in campi che pra ticamente, se pur non
logicamente, spettano all'autorità amministrativa. La forza ' armata fu divisa
, parte al re , parte al popolo : la monarchia fu esautorata, ma il paese resto
senza presidio alcuno . Il potere esecutivo perse ogni autorità sul
legislativo, e si giunse all'assurdo di togliergli parte sia diretta sia
indiretta, sia d'iniziativa sia di veto, nella decretazione e nella sanzione
delle leggi. Si separò ancora interamente il potere esecutivo dal giu diziario,
e al re fu vietato l'ultimo residuo d'autorità : il diritto di grazia e
d'amnistia, che pur tanto serve a sanare situazioni in via strettamente
giudiziaria irre solubili. « Che ne avvenne ? La monarchia costituzionale,
simile ad un colosso di arena, si sgretolò e cadde » . S'immaginò poi la
costituzione del 1793. Un altro ec cesso . Per non cedere la Francia il potere
esecutivo ad un organo specifico, esso fu assunto dalla stessa conven zione
nazionale . « L'epoca, in cui noi ebbimo distrutto ogni potere esecutivo, si
può chiamar l'epoca in cui al governo si sostituì la guillottina » . « Eravamo
giunti all'estremo. Era necessità retroce dere . Si comprese l’errore della
riunione de' poteri e, 161 colla costituzione del 1795, furon di nuovo
separati. Si comprese che la forza fisica di uno Stato dovea esser una sola , e
che questa dovea dipendere dal governo . Le at tribuzioni della guardia
nazionale furono limitate ; il co mando della forza armata, il pieno comando,
fu dato al Direttorio, a cui furon dati attributi più ampi che al re » . Come
ognun vede il processo della storia è sempre lo stesso : un estremo porta
all'altro estremo, ma nel l'urto e nell'antitesi si sviluppa spontaneo un
supera mento, che rappresenta il nuovo e logico equilibrio . La costituzione
del '95 avea molti difetti che dovevano in breve distruggerla : la lentezza e
la mancanza del se greto in azioni, che esigono rapidità ed unità di comando ;
l'incertezza del sistema nel troppo rapido cambiamento del Direttorio ;
l'ambizione de' membri che componevano il Direttorio stesso. Gli effetti del
sistema : vittorie inu tili, vertiginose disfatte, discredito all'interno e
all'estero . La storia continua il suo processo, alla ricerca d'un punto
d'equilibrio stabile. La costituzione del 18 bru male fu un rimedio solo in
parte . Comincia l'ascesa di Napoleone, ascesa che ora ci appare naturale,
inquadrata come è nella continuità d'un processo che si svolge con una
particolare logica. Invece che a cinque membri, il potere esecutivo fu affidato
ad uno solo, togliendo ogni lentezza alla vita statale ; il potere fu
prolungato per dieci anni, evitando la troppo frequente rotazione di governi ;
s'evitò ogni ingerenza legislativa nella sfera na turale d'azione del potere
amministrativo restituito così alla sua sovranità . Una volta preso questo
cammino, le idee andarono fino alla fine : per rendere l'ambizione privata meno
nociva, si ebbe il consolato a vita e si diede al console il diritto di
nominare il successore . L'ascesa di Napoleone appare così pienamente spiegata
nella storia . V'è perfetta reciprocanza : gli uomini deter minano la storia ed
operano per la storia ; sono liberi perchè sono i fattori della storia, sono
schiavi perchè soggiacciono alla loro opera. « Ciò che è avvenuto
posteriormente non è che il com pimento di tali istituzioni . L'eredità rende
il potere più 11 - F. BATTAGLIA, 162 sicuro, ed in conseguenza ne rende
l'esercizio più dolce; la responsabilità de' ministri corregge ogni abuso che
dal l'eredità potrebbe avvenire. Coll'eredità e colla responsa bilità si
riuniscono due cose che paiono di loro natura inconciliabili : la libertà e
l'impero » . Quand' io ho analizzata la critica rivoluzionaria nel pensiero
cuochiano, ho avvertito come da questa critica nasca tutto un sistema politico,
di cui la storia è la con sacrazione e la legittimazione. Eccoci giunti al
punto, in cui ciò che il Cuoco ha preveduto trova la sua realtà e la sua
riprova materiale . La storia ha un processo dialet tico eterno, le cui grandi
linee approssimativamente si possono cogliere, pur quando l' ineffabilità de'
partico lari ci sfugge. Il Cuoco ha osservato le idee, che sono eterne e non
fallano ; ha trascurato gli uomini, che brillano un istante ed ingannano, se li
si astrae dal corso ideale delle cose : le sue deduzioni fondate sulla natura
umana non sono fallite, ed hanno avuto la più piena sicura conferma. Com'ognun
vede, siamo giunti a Napoleone attraverso uno spiegarsi logico delle cose.
Bonaparte è la risultante di tutta una convergenza d'elementi, che allo storico
e al politico acuto non isfuggono, e de ' quali noi abbiamo descritto la natura
. Bonaparte è il creatore di quel tipo di Stato, che, pur lasciando il più
vasto campo alle atti vità individuali, esercita unitariamente il suo compito
sovrano, e, pur riposando consensualmente su un con tratto sociale, in ogni
istante vero nella convergenza delle volontà subiettive, sa trovare la sua
difesa in una forza attiva che non falla . Un'esperienza rovinosa di frammen
tarismo e di debolezza porta all'impero ( 1 ) . Si è avuta troppo lunga pratica
d'anarchismo costituzionale , d'insuf ficienza esecutiva, perchè si possa
continuare sulla stessa strada. I popoli non possono prosperare, quando gli or
dini civili non rispondono alla vita stessa. La vita è vo lontà unitaria ; lo
Stato è sovranità, cioè estrinsecazione di quella volontà suprema, che è alla base
d'ogni atti ( 1 ) V. FIORINI ( F. LEMMI, op . cit ., p. 619. 163 vità umana
coordinata in società. Ogni menomazione del principio porta all'anarchia . Le
costituzioni debbono ri spondere a quelle esigenze eterne ed immutabili, senza
le quali gli organismi sociali deperiscono e muoiono. Curioso e tipico è
osservare come ugualmente nella storia il Cuoco trovi la legittimazione di
altre figure in signi di capitani e di uomini eletti, il duca Valentino,
Cromwell. Mi si permetta la parentesi, anche perchè si tratta di considerazioni
che illuminano direttamente il nostro argomento. In uno scritto ( 1 ) il
molisano immagina che un suo amico possegga un manoscritto antico, descrivente
un viaggio per l'Italia nel secolo di Leone X, secolo aureo e grande nella sua pura
italianità : dall'opera egli desume un collo quio tra l'anonimo autore e il
Machiavelli. Non istard qui a riferire il dialogo, che si svolge animato e
profondo di politica, tra i due, nel quale Vincenzo tenta una giusti ficazione
di quell'atteggiamento del grande fiorentino, che i secoli hanno battezzato con
l'epiteto di machiavel lismo . L'Anonimo' nota al Machiavelli che il mondo lo
accusa d'avere insegnato massime di tirannia ai Medici e di avere presi per
suoi modelli uomini scellerati, Ca struccio e il Valentino . Alla prima
obiezione il Machia velli risponde che egli tanto poco è stato fautore dei
signori della sua città, che questi al contrario lo han per seguitato come
troppo caldo fautore della libertà della patria ; alla seconda obiezione oppone
un ragionamento assai acuto, sul quale merita fermarvisici un po ' . « Ascolta.
Per Castruccio ti dirò che, scrivendo la sua Vita, non ebbi altro pensiero che
quello di ridestar gli animi degl'italiani, inviliti tra l’ozio e la cura de'
cani, della caccia, delle donne e dei buffoni, all'amor delle cose militari,
mostrando loro coll' esempio di un uomo illu stre che per questa sola via si
può ascendere alla gloria e all'impero .... ». ( 1 ) Giorn. ital., 1804, 21,
23, 25 gennaio ; n . 9 , 10, 11; pp. 35-36 , pp. 39-40, pp. 43-44 : Varietà (
ristampato in Scritti vari, v . I , pp . 42-52 sotto il titolo Due frammenti
d'una storia della poli tica italiana ). 164 « Ma pel duca Valentino ? ... » «
Perchè quelli che egli oppresse e distrusse eran più scellerati di lui .... Tra
tanti scellerati io preferiva quello che almeno dirigeva le sue scelleraggini
ad un fine più nobile e tendeva a riunir l'Italia, che gli altri, con iscel
leraggini più vili, dividevano e desolavano. L'Italia non avea altro più da
sperare : niuna virtù ne' popoli, niun ordine di milizia . Quei tanti
tirannotti, che la laceravano, si facevan ogni giorno la guerra ; ma questa
guerra non decideva mai nulla. Nel massimo de' mali, era un sol lievo
diminuirne il numero. Valentino sarebbe rimasto solo. Più grande, sarebbe stato
più umano ed avrebbe accomodati i suoi pensieri all'ampiezza del nuovo impero.
Senza rivali, sarebbe stato anche senza sospetti e senza crudeltà. L'Italia
avrebbe cominciato a goder la pace, e dopo due età avrebbe incominciato ad
avere anche la virtù.... » . Il pensiero del Cuoco è chiaro . La
giustificazione del Duca è nei suoi stessi fini. Il secolo di Leone voleva
questi mezzi, e da essi non si poteva prescindere: un uomo, che aveva per
iscopo di realizzare la sua personalità, non po teva non agire in quella
maniera. Oggi la storia è cam biata . Napoleone non è il Valentino ; Napoleone
è un ambizioso, il nostro autore non lo disconosce, ma un ambizioso, che unisce
la gloria alla virtù . Coloro che lo han preceduto sono inetti metafisici,
incapaci di portare la nazione ad un fine grande. Qual è la ragione etica e
storica, che possa impedire al genio di farsi strada e di trovare nella sua
stessa personalità la sanzione del l'impero ? Nessuna. Tutte le cose invece
additano Na. poleone come il restauratore degli ordini civili sconvolti, come
colui, che può dare allo Stato un potente indirizzo unitario ( 1 ) ( 1) È
curioso ed interessante come l'anglofobo Cuoco spieghi e legittimi il Cromwell.
In un articolo del Giorn. ital., 1804, 5 marzo , n . 28 , pp. 111-12 :
Considerazioni sul libro in . glese « Uccidere non è assassinare » e sul
diritto delle genti ( ri stampato in Scritti vari, v . I , pp . 81-85 col
titolo L'assassinio politico e le violazioni del diritto delle genti) scrive, a
proposito 165 Napoleone ha inoltre un titolo maggiore al trono, un titolo più
nobile, il quale sta maggiormente al cuore di Cuoco : egli ha dato all'Italia
quell'unità , e in parte quel l'indipendenza, che è stata il sogno di tanti
pensatori e di tanti martiri della Partenopea. Vedremo, in seguito , quando
verremo a parlare della pedagogia e dell'ita lianismo del nostro, come il
problema unitario italiano sia anzi tutto un problema spirituale, cioè
educativo, e poi un problema politico . Limitiamoci ora a vedere la cosa
piuttosto dal di fuori, per poi penetrarla meglio nel suo intimo. Bene o male
s'è costituito nell'Italia settentrionale uno Stato unitario . Quel che al
Cuoco interessa è che, nella nostra patria, si cominci a vivere italianamente,
a pen sare nazionalisticamente. Altri dirà: il nuovo organismo è accodato al
carro di Napoleone ! Che importa ciò , se quest'uomo grande ha di mira il bene
comune dell'Italia , sua patria d'origine, e della Francia, sua patria di ele
zione . Il nuovo regno non ha con l'Impero' se non quel vincolo di solidarietà
reciproca, che lega il benefi cato al benefattore : Napoleone è il pegno tra i
due po poli, comune sovrano di due nazioni sorelle. Come mai il Cuoco così
irrimediabilmente antifrancese ora è così strettamente francofilo, incline ad
intendere i benefici dell'alleanza e dell'amicizia franco- italiana, fino a
ringraziare Iddio, che ha voluto porre Italia e Francia sotto il comune scettro
d’un uomo solo ? La risposta è implicita in tutto il pensiero politico del no
stró scrittore. di un'operetta del colonnello SEXBY, Killing is no murder e
dell'attentato contro Napoleone del febbraio 1804 queste con siderazioni sulla
posizione storica del lord protettore Cromwell: Dopo le crudeli stolidezze
degli evangelici, de'puritani, de' livellisti e di tutto quell'infinito numero
di sette religiose e politiche, che si agitavano allora in Inghilterra come
igra nelli di sabbia quando spira il vento di mezzogiorno ne' deserti
dell'Arabia, ... era inevitabile che sorgesse finalmente un uomo atto a
ricomporre in un qualche modo le cose. Ciò che è ine. vitabile è sempre il
minor male » , 166 La Francia, che il Cuoco non ama, è la Francia repub
blicana, sinonimo d'astrattismo e di debolezza, che am mannisce ai popoli
parole vacue di libertà di fratellanza d'uguaglianza, e intanto depreda musei
archivi bibliote che, saccheggia case private, taglieggia le stesse città che
dice d'aver liberato. La Francia rivoluzionaria , che egli descrive con così
foschi colori, non può dare a noi l'indi pendenza e l'unità. La Francia, che
invece esalta, è la Francia che ha superato la rivoluzione, ha ricostituito gli
ordini pubblici sconvolti, ha trovato in Bonaparte, la sintesi superba della
sua rinascita . L’unità che il molisano osserva realizzata nel nuovo Stato è,
però, un'unità più politica che spirituale, più estrinseca che intima. Bisogna
dunque operare ancora per rendere le fondamenta del nuovo regno salde ed
eterne, bisogna formare quel che manca : la coscienza dell'italianità, la
volontà unitaria , un nazionalismo. A ciò mirano gli sforzi del Cuoco, pedagogo
dell'Italia, « il pedagogista del primo risveglio della coscienza nazio nale »
( 1 ) . Abbiamo il Regno italico libero indipendente, punto di partenza per
estendere a tutta la penisola i benefici d’un nuovo ordinamento. È il gran
sogno di Vincenzo Cuoco, che s'esalta, egli , temperamento posi tivo, ovunque
veda un barlume d'unità italiana, lo stesso sogno che lo farà fervido
murattista ne' suoi ultimi anni, sembrandogli d'intravvedere in Gioacchino il
desìo am bizioso d’un più vasto dominio. Certo l'autore del Saggio storico
avrebbe voluto che il nuovo organismo nazionale sorgesse più naturalmente, per
virtù d'italiani, per il formarsi e il maturarsi d'uno spirito civile nostrano,
per un processo politico naturale, senza quell'intervento napoleonico, che pur
serba sempre il suo peccato d'origine: la sua esteriorità . Ma, tutto è fatale
necessario nella storia. « Quella ragione, per la quale gl'italiani, reggendosi
a repubblica, non potrebbero for mar mai uno Stato potente, quella ragione
istessa fa sì ( 1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 335. 167 che uno Stato
potente, tra le tante divisioni di luoghi e di animi, non possa sorgere in
Italia se non per mezzo dell’unione ; e questa unione, non essendo più figlia
della virtù e degli ordini antichi, non può ottenersi se non per la forza. E
come mai non sarà straniera la forza, quando ogni forza patria è già da tanto
tempo distrutta ? » ( 1 ) . La repubblica non fa per noi, come non fa per i
francesi : essa è disgregazione e ruina, mentre occorre unitarietà e forza per
superare i mali e i dottrinarismi del secolo. La Francia repubblicana, dannosa
a sè stessa, non potea essere benefica per poi : i suoi rapporti con l'Italia
eran rapporti di sudditanza e non di parità. « I legami che ci uniscono alla
Francia » scrive il Cuoco, « sono legami di necessità e di vantaggio
vicendevoli. Era naturale che la Francia vincitrice volesse usare della sua
vittoria ; ma, finchè la Francia ebbe apparenza di governo repubblicano, la
sorte d'Italia non fu per certo molto felice, perchè pessima è sempre la
condizione de' paesi conquistati o dominati dalle repubbliche . Par che la
somma delle libertà tutta si concentri entro le mura, e fuori non rimane che
l'oppressione. Forse è inevitabile nell'ordine della natura che l'estremo de
'mali non si possa evitare senza rinunciare a quell'estremo de' beni , a
quell'ottimo che si chiama con ragione il peggior ne mico del bene, e mettersi
in quella mediocrità che forma la base de governi temperati. La Francia, quando
ella stessa non avea governo, prometteva agli altri popoli un governo simile al
suo : con promesse, per tutt' i popoli , fallaci, perchè non poteano eseguirsi;
per l'Italia , an corchè potessero eseguirsi, dannose. Imperciocchè, am messo
per vero che i costumi degli europei viventi fos sero capaci di pure forme
repubblicane, rimane però sempre problematico se con forme puramente repubbli
cane l’Italia, il di cui male più grave stava nella divi ( 1 ) Giorn . ital . ,
1805, 1 , 3 , 6 aprile ; n. 39, 40, 41; p. 158 pp. 161-162, pp. 165-166: Sul
regno d'Italia ( ripubblicato in , parte da G. Cogo, op. cit. , pp. 134-136 ;
ed ora in Scritti vari, V. I , pp. 149-158) . 168 sione, avrebbe potuto mai
riunirsi; e se, non riunendosi, poteva acquistar forza e vera indipendenza ; e
se, senza indipendenza e senza forza, preda del primo che volesse invaderla ,
avrebbe mai potuto perfezionar gli ordini suoi ? » . Ritorniamo alla critica
rivoluzionaria di cui abbiamo parlato. Il popolo italiano, pur diviso e
suddiviso, ha una sua fisionomia speciale, bisogni propri, antichi ordini na
zionali, che non possono mutarsi ed adattarsi ai sistemi nuovi d'oltralpe.
Napoleone agisce diversamente : crea in Italia un Regno nuovo e lo pone
direttamente sotto il suo scettro, ma nello stesso tempo gli dà, almeno in
parte, una certa autonomia governativa, che intenda i bisogni e gli interessi
locali, gli dà un esercito proprio, che sol levi lo spirito popolare depresso e
lo riabiliti dopo un fiacco passato ; gli dà istituzioni, leggi proprie. V'è
una politica imperiale, politica estera, amministrazione ge nerale, la stessa
in Italia e in Francia, dipendente dalla volontà del monarca. V'è poi una
politica locale, diretta alla soddisfazione di esigenze specifiche, che varia
da luogo a luogo, lasciata alla volontà delle popolazioni, che intanto
s’abituano alle gestioni pubbliche, alle fun zioni civili, dalle quali sino ad
oggi erano state tenute lontane. « Il cangiamento di governo che è avvenuto in
Francia, per quanto sia stato necessario ai francesi, si può dire però che sia
stato egualmente utile agl'italiani. Di tutti i legami che univan questa a
quella non rimane che l'al leanza ; alleanza , che, se alla Francia è utile,
all'Italia è indispensabile . Il Regno dell'Italia è divenuto proprietà dello
stesso sovrano, e questo sovrano è il più grande uomo del secolo : egli saprà,
egli potrà e, ciò che più im porta, egli vorrà farlo prosperare. Questo uomo
avea già due titoli i più giusti alla sovranità : quello di creatore e di
restauratore dello Stato. Le circostanze politiche del l'Europa gliene dànno un
terzo, più giusto di tutti : la necessità di difendere ancora per altro tempo
lo Stato che egli ha creato, la necessità che ancora ha questa nazione dei benefíci
suoi » , 169 H In Italia non si è formato ancora uno spirito pubblico nazionale
, una comunione d'idealità, un italianismo in somma . L'unità , che Napoleone
ha dato a noi, è un'unità che non può trovare altra ragione che nel suo genio .
L'in dipendenza per volontà intrinseca del popolo è un as surdo : in Italia non
c'è ancora un popolo consapevole della sua natura e della sua forza. L'unica
possibile ri soluzione del problema italiano è quella che la storia ha sancito
. Il fatto nuovo avrà per effetto di mostrare agli italiani, come la convivenza
comune ed unitaria sia possibile, anzi vantaggiosa ; come essi uniti siano più
forti che non separati; come essi abbiano da sperar tutto da un avvenire
libero, e tutto da perdere ricadendo negli antichi errori. I germi di
quest'esperienza non andranno perduti, morto Napoleone, poi che la storia non
ritorna sui suoi passi, e procede infallibilmente. Qui il Cuoco è davvero il
profeta dell'avvenire. Siamo in un campo puramente politico. Ho detto che ci
riserviamo di studiare in seguito la maniera con la quale il Cuoco crede
possibile una unità italiana più in tima, di natura spirituale, attraverso
un'alta pedagogia, che cementi per l'eternità, ciò che il genio d’un uomo ha
potuto realizzare in maniera affatto pratica, e , nella sua stessa génesi,
estrinseca . Prima però di venire a questo problema, che formerà un capitolo
del presente lavoro, bisogna gettare uno sguardo rapido sulla politica gene
rale europea, in cui il nostro scrittore ebbe intuizioni ge niali e alcune
poche insufficienze tipiche. Per chi ritorna col pensiero alla tormentata
storia del secolo XIX, l'unità d'Italia appare come una necessaria conseguenza
di forze politiche in pieno sviluppo, come l'inderogabile fine d'un non mai
interrotto processo. La questione italiana, considerata da un punto di vista po
litico , appare, senza dubbio, come una grande questione europea . L'Italia è
il centro del Mediterraneo, il centro pulsante della vita civile di tante
stirpi, il transito tra l'Oriente mistico e voluttuoso e l'Occidente pratico e
po sitivo; il paese destinato a moderare, se libero ed uno, tutte le
competizioni di predominio commerciale, ad ali 170 mentarle, se disgiunto e
schiavo, in quanto nessuna grande potenza permetterà mai ad un'altra un dominio
incontrastato sulla penisola, che domina tutti gli sbocchi marinari e
commerciali europei. L'unità italiana è il fulcro del problema dell'equilibrio
europeo. Le guerre cesseranno, in gran parte, quando le nazioni si convince
ranno di questa grande verità : l'unità d'Italia è la condi zione
indispensabile d'un assetto europeo duraturo. È il concetto centrale del
Saggio, il concetto animatore della politica cuochiana. Vincenzo Cuoco si è
tuffato nel vor tice che non amava, la rivoluzione, solo perchè aveva una
lontana vaga speranza d'indipendenza e di unità italiana. « La rivoluzione di
Napoli, rimpiange l’esule della Ci salpina, potea solo assicurar l '
indipendenza d'Italia, e l'indipendenza d'Italia potea solo assicurar la
Francia. L'equilibrio tanto vantato di Europa non può esser af fidato se non
all'indipendenza italiana ; a quell'indipen denza, che tutte le potenze, quando
seguissero più il loro vero interesse che il loro capriccio, dovrebbero tutte
procurare. Chiunque sa riflettere converrà meco che, nella gran lotta politica
che oggi agita l'Europa, quello dei due partiti rimarrà vincitore che più
sinceramente favo rirà l'indipendenza italiana » ( 1 ) . La visuale politica di
Vincenzo è senza dubbio vasta e profonda. La lotta tra le grandi nazioni s'impernia
sul Mediterraneo : la questione unitaria cessa di essere, come per molti
patrioti del tempo, strettamente nazionale, e s'inquadra in problemi più
complessi, europei. Gli uomini politici del Risorgimento, purtroppo, non
intesero questa grande verità, e la storia, si può dire, operò per virtù
naturale delle cose, fra l'incomprensione anche di menti riccamente dotate. Per
lo stesso Cavour la lotta è una questione continentale di importanza limitata .
Solo un po'tardi, ma a tempo, lo statista piemontese, nell'im presa garibaldina
del '60 , s'accorge dall'atteggiamento in ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico ,
XLIII , p . 178. 171 glese quanto importante sia il problema meridionale nel
gioco delle forze mediterranee. Tutta la maggiore o minore bontà della politica
delle varie nazioni europee, vien giudicata dal Cuoco alla stre gua di questo
fine superiore, secondochè abbiano esse più o meno favorito l'equilibrio
internazionale nell'unità d'Italia. Abbiamo uno scritto cuochiano, già innanzi
ci tato, assai interessante per la comprensione integrale del suo italianissimo
pensiero politico, scritto del quale io darò un largo riassunto, poi che mi
sembra che non sia stato considerato dagli studiosi a sufficenza ( 1 ) . L'arti
colo , Osservazioni dello stato politico dell'Europa, è una sintesi mirabile
delle intime ragioni della storia europea negli ultimi secoli, delle lotte per
il predominio , dell'as setto italiano . Lo studio è determinato dalla lotta,
che si riacutizza, tra l'Inghilterra e Napoleone, ma il Cuoco supera le
contingenze politiche e risale a notazioni di ca rattere assai ampio. Nella
vita moderna due sono le pietre miliari dello sviluppo storico, il trattato di
Westfalia e il trattato di Amiens, i quali segnano come due epoche ben distinte
della vita europea, dopo Carlo V. « Quello che si chiama in Europa tempo di
pace non è che il tempo della minor guerra possibile. L'equilibrio politico
dell'Europa è la causa principale di tutte le guerre e di tutte le paci : gli
uomini e le nazioni travagliano con una mano a distrug gerlo e coll' altra a
ristabilirlo . Vi sono sempre due na zioni preponderanti, le quali, a calcolo
sicuro, si fanno. la guerra un giorno sì ed un altro no ; e la guerra dura
finchè ad una non riesca di acquistar sull'altra una su periorità tale che
sensibilmente faccia preponderare uno dei bacini della bilancia e faccia
nascere il bisogno di un equilibrio novello. » Le potenze, che fino a Westfalia
detennero il dominio in Europa, furono la Francia e la Spagna. Alla pace di (1
) Giorn . ital. , 1804, 14, 16 , 18, 30 gennaio, 8 febbraio ; n . 6, 7, 8, 13,
17 ; pp: 22-23, p . 27 , pp. 30-31, pp. 51-52, pp. 66-67 : Osservazioni sullo
stato politico dell'Europa ( vedi in precedenza, p . 143 ). 172 Westfalia si
scoprì la ragione della debolezza spagnuola, a Nimega questa si riconfermò:
l'Inghilterra surse a prendere il posto della Spagna nella rivalità con la
Francia . Queste le linee sommarie della storia. Vediamo, e qui sta il punto
che a noi interessa, quale sia la posizione della Spagna nella vita
continentale e quale l'intima ra gione della sua fiacchezza . La Spagna e la
Francia erano due nazioni di forze quasi uguali, l'una più grande, l'altra
meglio preparata : la Spagna poteva ' trionfare, ma non riuscì. Perché ! La
Spagna diventò potente, perché la fortuna delle successioni riunì sotto uno
stesso scettro metà dell'Europa, perchè Colombo le donò l'America, perchè potè
guadagnare in un primo tempo gli animi degli italiani divisi, discordi, e
contro altri irritati. Ma, una volta acquistato un dominio enorme, attese più
ad estenderlo ancora, anzi che a rinforzarlo , ad arricchirsi materialmente
anzi che moralmente : l'espulsione degli ebrei, le persecuzioni religiose, le
dispute teologiche, i governatori rapaci furono le piaghe della sua compagine.
La mancata risoluzione del problema italiano, e qui vo glio insistere, fu
secondo il Cuoco la causa prima della mancata affermazione della Spagna. « Se
la Spagna, potendo riunir l'Italia o formarvi un grande Stato, l'avesse fatto,
avrebbe, ottenuto un eterno poten tissimo alleato . Ma il fato avea riserbato
ad altri tempi l'uomo grande cui era commesso questo disegno. La volle ritenere
distruggendola . Montesquieu dice che la ritenne arricchendola : da troppo
impure fonti avea bevuto Mon tesquieu la storia nostra ! Dopo averli impoveriti
e spo polati, questi paesi divennero per la Spagna cagioni di spese e non di
forza. Difatti la Francia attaccò sempre la Spagna, non già nel centro della
monarchia, ma nella Borgogna, nelle Fiandre, nell'Italia, nelle provincie lon
tane, le quali non si potevan difendere per loro stesse, ed i successori de'
bravi Gonsalvi, De’ Leva e D'Avalos si perdettero inutilmente sulla Mosa e sul
Po. La Spagna s ' indebolì per conservar ciò che conservar non poteva » .
L'errore politico, causa della rapida decadenza spa 173 gnuola, è il non aver
voluto costituire uno Stato d'Italia, libero ma alleato, onde colpire la
Francia avversaria da ogni lato ; l'errore politico della Spagna sta dunque
nell’aver trattato l'Italia alla stregua delle colonie ame ricane, anzi peggio,
perchè in Italia la dominatrice di silluse un popolo grande colto e capace,
mentre fuori sfruttò solo genti barbare o semibarbare, tribù selvagge. La
politica francese nella lotta per il predominio, secondo il Cuoco, fu l'opposto
di quella spagnuola. La Francia divenne potente, mostrando di proteggere gli
italiani, proteggendo veramente l'Olanda, aiutando i principi dell'Impero :
così detta le condizioni a Munster ; sostiene il Portogallo , si allea con
l'Inghilterra : indebo lisce in Europa e nelle colonie, la rivale . I francesi
sono forti, desiderosi di dominio , ma non si lasciano accecare dalle
ambizioni. Luigi XIV, il superbissimo monarca , non giunge mai ad aspirare al
dominio del mondo ; ed è dif ficile trovare nelle storie un principe più di lui
moderato nelle vittorie . « La Francia ebbe per sistema quasi eterno di susci
tare sempre un'altra potenza contro la sua rivale. Ho detto che fece risorgere
il Portogallo e l'Olanda ; fece uso anche del gran Gustavo, e chiamò le forze
svedesi sulle sponde del Reno. Dopo le vittorie di Eugenio e la pace di
Utrecht, la monarchia austriaca di Germania era divenuta infinitamente più
potente di prima. La Svezia non bastava più a contenerla . La Prussia , con
popolazione più numerosa, con sito più opportuno, era più atta al bisogno; e la
Francia fece sorger la Prussia. «Tale è stata la condotta colla quale la
Francia è giunta a tanta grandezza. È la condotta della saviezza , della
giustizia e della generosità » . Cuoco non accenna qui all'Italia. La Francia
ovunque suscita Stati liberi contro le sue rivali, la Spagna e l'Au stria , ma
non crea un Regno d'Italia : ecco la causa del suo non completo trionfo . «
Vediamo che han fatto gl'inglesi » . Battuta la Spagna, la cui insufficienza si
fa palese a Westfalia e poi a Nimega, l'Inghilterra prende il posto della
Spagna. L'Inghilterra 174 è il fomite per tanti anni sino ad oggi, pensa il
Cuoco , di tutte le guerre in Europa : per la sua stessa natura non può
mantenersi forte che con la guerra. « Il vero baluardo dell'Inghilterra è
l'immensa quantità de'capitali che ha accumulati : con questi conserva la sua
superiorità ma rittima, perchè con questi mantiene quelle flotte che gli altri
non possono costruire. Ma, siccome questi capi tali li può accumular qualunque
altra nazione, tostochè abbia industria, commercio e pace ; così gl'inglesi deb
bono sostenere la loro superiorità con una continua guerra » . Dalle guerre di
successione ad oggi, alle guerre contro Napoleone è la stessa ragione che muove
gli iso lani a battersi. Ma questo metodo è assurdo e pazzesco : «
l'Inghilterra tende più rapidamente della Spagna alla sua dissoluzione » . Il
Cuoco, senza dubbio, s'inganna, ma s'inganna su dei particolari. La visione
d'insieme a me sembra luminosa, se pure in tutti i suoi punti non accet tabile.
Gl'inglesi prolungano le guerre, oltre il necessario , avidi desiderano troppo.
Nella guerra di successione di Spagna perdettero per un orgoglio male inteso
ciò che Luigi XIV voleva cedere prima delle vittorie del Villars. In essi nullà
della magnanimità de' romani. Essi sono forviati dalla saviezza dalla lusinga
di più felici successi. Alla guerra sono spinti dalla loro natura marinara
stessa, nella guerra permangono per migliorare il loro stato. Così ieri, così
oggi: così nelle guerre dinastiche di suc cessione, così nelle guerre nazionali
di oggi. E dire che l'Inghilterra con questa sua iniqua poli tica estera va
perdendo i frutti d ' un'antica continua savia politica interna di tolleranza e
di libertà ! Coloro, che ne' secoli favoriscono quella che il Cuoco chiama «
naturale irresistibile inclinazione a migliorare politica mente » lo stato de'
popoli, « o presto o tardi vincono gli uomini ed i tempi » . « L'Inghilterra è
giunta ad un grado di prosperità immenso ; fin dall'epoca di Luigi IX, l'in
terna sua amministrazione era superiore a quella degli altri popoli : ce lo
attesta un uomo, che io chiamo al tempo istesso il Villani ed il Macchiavelli
della Francia, il signor di Joinville. Perchè ? Perchè l'Inghilterra fu la
prima 175 à riconoscere la proprietà e la libertà civile . Perchè i papi furono
fino al secolo XI gli arbitri di tutta l'Europa ? Per chè, in tanta barbarie e
ferocia, erano i soli che predi cavano la pace ; perchè abolirono la schiavitù
; perchè, dice Leibnizio, erano i più savi e i più giusti uomini dei loro
tempi, e senza i papi l'Europa sarebbe caduta in mali peggiori. Dopo il XII
secolo cangiarono massime, e la loropotenza incominciò a diminuire. Perchè la
Fran cia e la Svezia vinsero nella guerra dei trent'anni ? Perchè sostennero il
partito della tolleranza, dell'umanità , delle idee liberali de'popoli tutti.
Nell'ordine eterno delle cose, la legge è sancita anche per i potenti ; anche i
popoli hanno la loro morale : chi la trascura , chi la calpesta , o presto o
tardi ruina. I francesi promettevano agl'italiani grandi ed utili cangiamenti;
non quelli che la stoltezza de’tempi fa ceva millantare in un'epoca che si
chiamava di riforma ed era di distruzione,ma quelli che ogni uomo savio sperava
da quel disordine dover sorgere un giorno. Imperocchè gli utili cangiamenti-
sogliono incominciare per lo più da vivissime commozioni ; ed errano egualmente
coloro che , amando troppo queste, voglion perpetuarle, e coloro che, temendole
soverchio, disperano di un fine migliore. Il destino dell'Italia era quello
che, dopo tre secoli di languore e d'inerzia, dovesse finalmente risorgere a
nuova vita. Inglesi, qual male vi avean fatto i discendenti di Galileo, di
Raffaello, di Virgilio, di Cicerone ? Ed il vo stro Wickam ha ricoperte le loro
terre di tanti orrori ! Ed invece di concorrere al loro risorgimento, non avete
neanche voluto riconoscere la repubblica italiana ! » ( 1) . Il Cuoco s'esprime
chiaramente. La sua anglofobia non ha origine, come sembrerebbe a prima vista,
in un en tusiasmo cieco per la politica di Napoleone contro l'acer rima isola
ribelle, ma si giustifica alla luce di supreme esigenze pratiche. La pietra di
paragone in tutta questa ( 1 ) . A. BUTTI, L'anglofobia nella letteratura della
cisalpina e del regno italico , in Archivio storico lombardo, a. XXXVI ( 1909 )
, p. 434 e sgg. 176 analisi critica è la necessità dell'unità d'Italia, che
tutti intendono come fatale, ma che non tutti amano. Alcuno potrebbe dire che
questa visione pecca di so verchia parzialità bonapartistica, perchè il nostro
scrit tore non rivolge alcun incitamento, alcun rimprovero all'imperatore, per
spronarlo a condurre a buon fine l'opera intrapresa, di cui il regno d'Italia
non è che un buon cominciamento , che attende ulteriori sviluppi. Non è così.
Vincenzo stesso intende quanto poco ab biano fatto i francesi, e la sua parola
non è servile . « Se io dovessi parlare al governo francese » scrive nel Saggio
« per l'Italia, gli direi liberamente che o convien liberarla tutta ò non
toccarla . Formandone un solo go verno, la Francia acquisterebbe una
potentissima alleata; democratizzandone una sola parte, siccome questa pic cola
parte nè potrebbe sperar pace dalle altre potenze nè potrebbe difendersi da sè
sola, così o dovrebbe pe rire abbandonata dalla Francia o dovrebbe costare alla
Francia una continua inutile guerra .... L'Italia è più utile alla Francia
amica che serva, e quindi è meglio renderla libera che provincia » (1 ). Nella
Lettera a N.Q., dinanzi al Saggio storico leggiamo gravi parole. « Se io
potessi parlare a colui a cui (il ] nuovo ordine si deve, gli direi che
l'obblìo ed il disprezzo appunto [delle idee di moderazione] fece sì che la
nuova sorte, che la sua mano e la sua mente avean data all'Italia, quasi dive
nisse per costei, nella di lui lontananza, sorte di desola zione, di ruina e di
morte, se egli stesso non ritornava a salvarla. Un uomo gli direi , che ha
liberata due volte l'Italia, che ha fatto conoscere all'Egitto il nome francese
e che, ritornando, quasi sulle ale de’vènti, simile alla folgore, ha dissipati,
dispersi, atterrati coloro che eransi uniti a perdere quello Stato che egli
avea creato ed illustrato colle sue vittorie, molto ha fatto per la sua gloria
; ma molto altro ancora può e deve fare ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLIII,
p. 178 , nota. Cfr. an che tutto ciò che il Cuoco scrive a Napoleone nella
Lettera del. l'autore all'amico N. Q. che va dinanzi al Saggio storico ,' a mo'
di prefazione, di cui solo poche righe ho riferito nel testo 177 per il bene
dell'umanità. Dopo aver infrante le catene all' Italia, ti rimane ancora a
renderle la libertà cara e sicura, onde nè per negligenza perda nè per forza le
sia rapito il tuo dono » . Queste righe il Cuoco scrive in piena Cisalpina, non
molti anni prima dell'articolo del quale ci siamo occupati. Queste righe furono
stampate, pub blicate, lette. La voce di Ugo Foscolo nella famosa de dicatoria
a Bonaparte liberatore non è più liberale della voce del Cuoco, anzi, direi,
che quest'ultimo nel suo genio politico metta il dito sulle piaghe, ond'è
afflitta l'Italia, con energia ed acume maggiore che non faccia il poeta de
Sepolcri. E dire che v'è sempre colui che vede l'adulazione, laddove questa non
c'è , e c'è solo un alto elogio per un uomo grande, il più puro interessamento
per le sorti della patria nostra ! Se ora ci accingiamo a dare un giudizio
sintetico sulla visione politica che il Cuoco ebbe dell'Europa e dell'Italia ,
possiamo dire con sicurezza che la storia ha dato in gran parte ragione al
grande molisano, in minima parte gli ha dato torto . La questione italiana, a
chi la studia oggi, mentre l'unità non solo politica, ma eziandio, come il
Cuoco l'ha desiderata, spirituale, è un fatto compiuto, appare sopra tutto una
questione di politica generale europea e me diterranea e non limitatamente
nazionale . Gli uomini del Risorgimento, attori coscienti e incoscienti della
sto ria, mossi da idee e da forze, di cui essi erano gli espo nenti e non i
creatori, videro poco : noi storici e critici possiamo affermare certi fatti
con maggiore sicurezza, e figurarci l' unità nazionale come un fenomeno prepa
rato da secoli nella coscienza del popolo, legato da se coli intimamente ad una
realtà spirituale e ad una storia, che si celebrava con mirabile continuità
ovunque. La rivoluzione francese desta dall'imo dello spirito italiano, sia
pure come reazione allo stesso giacobinismo, un mo vimento di rivalutazione
civile , di cui il nostro è il mag giore rappresentante, ma non crea
menomamente un fe nomeno, le di cui origini sono assai più remote. Invero il
Risorgimento s’è manifestato come un movi 12 - F. BATTAGLIA. 178 mento
altamente spirituale da un lato, come un problema d'equilibrio europeo
dall'altro . Mazzini e Gioberti sono stati il lievito della rinascita, ma essi
non s'intendono se non si comprende il pensiero del loro precursore Cuoco.
L'equilibrio politico è stato la causa prima, per cui il terzo Napoleone
discese nel '59 in Italia contro l'Austria ; l'equilibrio mediterraneo è stato
la causa, per cui l'Inghilterra permise l'opera di Garibaldi nel '60, opera che
l'imperatore de francesi prima osteggiò , e poi , inconscio e gabbato dal Nigra
e dal Cavour, finì per per mettere . Il Cuoco intravide il problema, e, se errò
ne' partico lari , nessuno può condannarlo. L'Inghilterra per il molisano è la
nemica naturale del l'unità italiana. È ciò vero ? La storia ha dimostrato di
no. La stessa politica, che egli attribuisce alla Francia di liberare i popoli
per farne alleati ed opporli ai suoi rivali, è stata la politica
dell'Inghilterra , quando nel '60, di fronte al Piemonte vincitore della guerra
contro l'Austria , preferì un Regno d'Italia, signore del mezzo giorno della
penisola, grande e forte, ad un Regno di Sardegna, grande sì da dominare tutto il
settentrione, ma non tale da sottrarsi al vassallaggio della Francia.
L'Inghilterra dopo il '59 , durante l'impresa garibaldina, favorì l'Italia per
le stesse considerazioni, di cui abbiamo parlato : suscitiamo un forte
organismo statale contro la Francia, aiutiamolo ad esimersi dal legame con Napo
leone III, esso ci sarà riconoscente, e non ci nuocerà La storia procede così :
uno Stato crea un altro Stato, questo dapprima debole è legato all'astro del
suo geni tore, poi s ' ingrandisce aiutato sia dalla sorte e dalla sua intima
virtù, sia da altri che abbia interesse a svilup parlo, poi, un bel giorno,
divenuto potente, saluta i suoi padroni, inizia il suo corso fatale, la sua
naturale evolu zione. Egoismo, mancanza di riconoscenza, diranno i mo ralisti,
che nella vita vogliono attuate le idee del loro cervello ! È della storia,
rispondiamo. L'.Italia sorge na zione dal conflitto austro - inglese, trova
ausilio nella Francia, nell' Inghilterra in seguito contro la sua stessa 179
antica protettrice, oggi è autonoma e forte : sarebbe ri dicolo che oggi
seguisse la politica de' suoi vecchi mag giori amici, essa che ha in sè forze
latenti è, in isviluppo, più esuberanti e vitali che non l'Inghilterra e la
Fran cia . La storia consacra interessi, bisogni, volontà e non precetti)
filosofici aprioristici.... Che il Cuoco nella storia vegga uno spiegamento di
bi sogni naturali ed omogenei, ci si appalesa facilmente, se riguardiamo la
condanna, che egli fa di organismi storicamente gloriosi , un giorno potenti,
oggi deboli, fiacchi, superati. La caduta dell'antica repubblica di San Marco
nel Saggio storico è espressa nella sua gelida obiettività , un sospiro, senza
un rimpianto. L'Italia di fronte a Bonaparte, che nel 1796 discende per la pri
mavolta da noi, si trova « divisa in tanti piccoli Stati » , che", uniti
potrebbero però opporre qualche resistenza . Il papa propone un'alleanza
difensiva. I Savii di Ve nezia rispondono che da secoli nel loro paese non si
parla di alleanze, che è inutile quindi far proposte. Venezia con ciò
sottoscrive la sua condanna di morte. « Per qual forza » si domanda il Cuoco «
di destino avrebbe potuto sussistere un governo, il quale da due secoli avea
distrutta ogni virtù ed ogni valor militare, che avea ristretto tutto lo Stato
nella sola capitale, e poscia avea concentrata la capitale in poche famiglie,
le quali, sentendosi deboli a tanto impero, non altra massima aveano che la
gelosia, non altra sicurezza che la debolezza de ' sudditi e, più che ogni
nemico esterno, temer doveano la virtù dei propri sudditi ? » . « Non so che
avverrà » conclude « del l'Italia ; ma il compimento della profezia del
segretario fiorentino, la distruzione di quella vecchia imbecille oli garchia
veneta, sarà sempre per l'Italia un gran bene » (1 ) . Quanto diverso il
politico Vincenzo Cuoco, che nella sua fredda obiettività interpreta la storia
presente, dal poeta Jacopo Ortis, che getta uno sguardo sulle età di gloria che
furono, piene di luce e di epopea , e sulle ruine della senza ( 1 ) V. Cuoco,
Saggio storico , III , p. 22. 180 patria , non trova di meglio , disperato
dell'avvenire, che darsi la morte ! Sotto i colpi di Napoleone un altro
antichissimo Stato cede : il potere temporale de' papi. Il trattato di Tolen
tino ha una importanza senza pari per la storia. Mentre ne' tempi trascorsi , i
papi vinti, sgominati, afflitti si rifiu tarono sempre di porre a base delle
trattative la benchè minima particella del territorio della Chiesa, a Tolentino
per la prima volta per la storia si fa uno strappo, si passa sopra ai diritti
inalienabili e imprescrittibili della Sede Romana. L'organismo antico invero è
tarlato : un pro cesso storico di disgregazione s'inizia , di cui il Cuoco non
può vedere le conseguenze, ma che noi oggi possiamo ben studiare. « La distruzione
di un vecchio governo teocra tico » non costa a Bonaparte « che il volerla » (
1) . La politica di Napoleone dal '97 in poi ne' riguardi della Chiesa, il modo
con cui egli impianta il nuovo ed antichissimo problema delle relazioni, merita
un acuto studio, che non possiamo fare. Limitiamoci a vedere come Vincenzo
apprezzi e giustifichi la visuale ecclesiastica dell'imperatore . Non
dimentichiamo che il Cuoco è nato in quel Regno di Napoli, che nello stesso
secolo XVIII ebbe a sostenere fiere lotte contro la Curia, in cui il giu
risdizionalismo ebbe una vera e propria teorica non solo in iscrittori insigni
come Giannone, D’Andrea, Capasso, Aulisio, Conforti, ma anche in ecclesiastici
eletti come il famoso arcivescovo Giuseppe Capeceletrato ( 2) : l'atteg. giamento
cuochiano solo tenendo presente tutti questi precedenti può apparirci chiaro .
Prima però di venire a discutere questo aspetto del pensiero del nostro,
dobbiamo intendere quale posto egli assegni alla religione nella vita dello
spirito e nella vita dello Stato . Lo Stato deve avere una base spirituale , la
quale non può essere data che dall'istruzione umana da un lato, dalla religione
dall'altro. Lo Stato per il Cuoco è stato ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , III
, p. 23. ( 2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 391 . 181 etico, sintesi di
volontà libere, e come tale non ha alcun limite alle sue funzioni, se non nelle
volontà particolari stesse che determinano la volontà generale ; esso non può
essere agnostico, in quanto l'attività religiosa è uno degli elementi che
costituiscono la sua stessa natura, che stanno alla base della sua vita . La
funzione educativa è di tale importanza che lo Stato del Cuoco, concepito come
so stanza etica, non può disinteressarsene. La religione , anche se lo Stato
non volesse occuparsene per principio , rientrerebbe nel quadro civile e
pubblico, cioè sottoposto alla sovranità, nel fatto stesso che essa non può nè
vuole prescindere d'operare nel campo educativo. Anche lo Stato agnostico di
fatto deve riconoscere la religione, quando insieme con essa opera nel terreno
vivo della pe dagogia , nella sfera perciò delle coscienze singole . Che cosa è
per il Cuoco la religione ? In una sua nota scritta su un foglietto, lasciato
inedito e pubblicato per la prima volta da G. Cogo nel suo tante volte da me ci
tato volume, egli si pone il formidabile quesito, se sia possibile una
delimitazione tra la morale e la religione ( 1 ) . Vediamo. « In questi ultimi
tempi » egli scrive « si è domandato se si dovesse o no separare la religione
dalla morale, e si è risposto da tutti che si dovea ; si è domandato se si po
tesse , e mille han risposto che si poteva ; si è tentato di separarla, e quasi
nessuno vi è riuscito. Io non credo che abbiano sciolto il problema coloro i
quali hanno tratti i princípi della nostra morale e de' doveri nostri da una
profonda analisi del cuore umano, o dall'ordine generale dell'universo, o dalla
dignità dell'uomo ; sublimi idee, ma inutili pe'l popolo il quale intende
queste cose meno del l'esistenza di una divinità ! ... Persuadiamoci : per
esser ateo ci vuole uno sforzo, e tutto nella natura ci parla di Dio. Coloro
che, restringendo l'idea della divinità a quella che noi abbiamo, invece di
dire : questo popolo ha un'idea della divinità diversa della nostra, o per imbe
( 1 ) G. Cogo, op. cit. , p. 80. Vedi anche V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit. ,
p. 653. 182 cillità o per malizia han voluto dire che non aveva ve runa idea
della divinità , han pronunziato l'assurdo di credere che una nazione selvaggia
potesse avere più forza d ' intelligenza della nazione culta ; perchè di fatti
che altra è presso tutt' i popoli la prima idea della di vinità se non quella
di una forza di cui non possiamo nè evitare ne comprendere gli effetti ? » In
sostanza il Cuoco non condanna coloro che credono la religione sopprimibile, o
almeno la credono distin guibile dalla morale, ma si limita positivamente ad
una affermazione : il popolo ha una religione, di essa non può fare a meno. Ben
nota Giovanni Gentile ( 1 ) come il Cuoco, ingegno eminentemente politico,
capace di ele varsi sicuro alle vette più eccelse della filosofia, ami,'una
volta attinto il sommo, ridiscendere al concreto della storia, lasciando a
mezzo ogni pensiero speculativo. Ogni problema, sia pure di natura teoretico,
al molisano si presenta nelle sue relazioni con la vita d'ogni giorno, con la
vita pratica dell'individuo e dello Stato. Noi nel caso nostro andavamo alla
ricerca d'un presupposto di natura ideologica, e ci imbattiamo in un problema
co stituzionale ; ci attendevamo una dimostrazione di prin cípi , e il Cuoco ci
dà senz'altro il principio, come mero dato di fatto. « L'idea di una divinità
si può chiamare una proprietà intrinseca dello spirito umano. Se la verità di
cui noi siam capaci è la coerenza di una nostra idea con tutte le altre, l'idea
di una divinità sarà eternamente vera, e coloro che vogliono distruggerla non
possono opporle che parole le quali s'intendono meno » . La religione ci appare
come un quid d'insopprimibile, di non superabile, in quanto è un elemento
eterno della stessa nostra natura umana. « La prima idea che gli uomini hanno
avuto della di vinità è stata quella della forza ; la seconda quella della
giustizia, la terza quella della bontà. Ecco il corso natu 11 ) G. GENTILE,
Studi vichiani , p. 376. 183 rale delle idee degli uomini. Se noi non daremo
loro una divinità, essi se ne formeranno mille, le quali spesso non
comanderanno quello che il bene dell'umanità esige, per chè l'idea di un nume è
potente sullo spirito umano ed è capace di far obliare i doveri dell'umanità
per quelli della religione ». Ritorniamo ad un concetto assai caro al Cuoco, di
cui il Saggio ci offre la conferma. « Non è ancora dimostrato che un popolo
possa rimaner senza religione: se voi non gliela date, se ne formerà una da sè
stesso » ( 1 ) . E perchè un popolo non può restar senza religione ? Perchè la
re ligione è la morale fantastica del popolo, e il popolo ha bisogno di qualche
cosa che lo guidi e lo governi. Io credo che sia questo il pensiero del Cuoco.
L'uomo colto può superare la religione nella filosofia , il semiconcetto nel
concetto , trovando la norma della sua condotta nell'as soluto etico ( 2 ) ; il
popolo, invece , ha ancora bisogno d'una morale d'autorità , e quindi
parzialmente estrin seca, le cui basi non possono non essere religiose. Nelle
origini la religione è tutto : diritto, cosmologia, morale : nella religione
tutte le forme della vita trovano un prin cipio autoritario e un fondamento. La
distinzione fra l'una attività e l'altra è assai tarda. Il popolo però oggi ci
offre l'immagine, almeno in parte, dell'umanità primi tiva . La religione per
lui è tutto, perchè, essendo, come dice il Cuoco, forza giustizia bontà, è la
base insopprimi bile, nel suo pensiero, d'ogni educazione, d'ogni morale,
d'ogni diritto umano. Togliete questa base, egli non vi ubbidirà , perchè non
trova più alcuna cosa che legittimi l'ubbidienza all'autorità . Il legislatore
deve porsi da un punto di vista pratico , ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , XXV,
p. 130. Vedi a propo sito B. LABANCA, op. cit. , p. 411. ( 2 ) Questo
superamento , come vedremo in seguito, è più formale che sostanziale . Il Cuoco
non crede possibile una mo rale fuor dalla religione. L'uomo colto
concettualizza ciò che pel volgo è senso e fantasia, ma dinanzi al mistero si
arresta pur esso . La filosofia sistematizza quel che nel popolo è senza
ordine, ma non rinnega la religione, 184 e rendersi interprete della natura dei
subietti, che vuol disciplinare : se egli vuol regolare tutta l'educazione, in
staurare una morale uniforme e sicura, dare un diritto ri spondente a bisogni
concreti, egli non può prescindere da quest'elemento dello spirito, la
religione ; anzi su questo elemento- base, nativo ed originario nella natura
umana, edificherà il suo edificio civile . Ecco come un problema di natura
filosofica si è con vertito in un problema politico, anzi nel problema poli
tico per eccellenza, come quello che involge tutta la vita giuridica della
nazione. Da quanto abbiamo detto derivano due corollari im portanti. Lo Stato ,
che combatte la religione entro le sue stesse terre, quando la religione è la
religione di tutti , è uno Stato che ha sbagliato grossolanamente tattica :
egli concepisce la religione come mero fenomeno tran seunte, come pregiudizio,
ignora che essa è nello spirito dell'uomo un momento insopprimibile. Lo Stato
agno stico, lo Stato neutrale in materia di fede, è ugualmente uno Stato senza
base , come quello al quale il problema fondamentale d'ogni vita civile viene a
sfuggire, cioè il compito educativo, pedagogico. Lo Stato non può dar mai al
popolo un'educazione interamente laica . Il popolo è quello che è. La religione
è radice di ogni suo convinci mento, opera della natura e non de' preti.
L'educazione popolare non può essere che educazione, non dico reli giosa, ma su
base religiosa . Date al popolo i concetti di libertà, virtù, bontà, egli non
vi comprende, perchè egli, eterno barbaro, eterno fanciullo, non intende il
linguag gio della ragione. Date al popolo miti, leggende, precetti in forma
sensibile semifantastica, egli non solo vi intende, ma vi segue, perchè egli ha
potente la facoltà fantastica dello spirito , e tutto intuisce prima di
pensare, e tutto vede e crede prima di rendersi conto di ciò che vede e crede.
Un'educazione popolare non può non informarsi a questi principi. Chi ne
prescinde, e va predicando l'istruzione areligiosa e civile, naviga
nell'astrazione. Ma del problema scolastico, come problema pedagogico e statale
dovremo occuparei in seguito ; qui notiamo la 185 prassi politica dello Stato
di fronte ad una realtà eterna, la religione. Lo Stato, se vuole avere un
fondamento incrollabile nel popolo, deve parlare al popolo, e, se al popolo
vuol parlare, deve parlargli nelle forme a lui familiari, cioè il linguaggio
fantastico della favola, il linguaggio semi concettuale della religione, in
quanto solo questo intende e non altro . Lo Stato deve in sostanza utilizzare
ai suoi fini la religione, come ogni altra realtà umana. Nulla di odioso . Lo
Stato fa il suo proprio bene, che collima con gli interessi della popolazione
che si vede meglio com presa, con le aspirazioni universali della religione. Co
loro , che credono di potere far la guerra alla religione, ed incitano lo Stato
ad una lotta impari, poi che esso non può contare che su pochi, mentre la
religione ha dietro di sè masse compatte di credenti , non sono che de' vol
gari astrattisti . Qui noi possiamo ben vedere quanto il Cuoco si stacchi dal
pensiero tipico della rivoluzione e segua una strada tutta sua . Il
giacobinismo è anticlericale ; il Cuoco non è nè clericale nè anticlericale,
guarda la vita nel suo con creto , e si accorge che lo spirito umano ha
esigenze re ligiose . Il Lomonaco urla , s'inquieta, scara venta invettive
contro la Sede Romana, contro i leviti, contro i falsi sa cerdoti ; il Cuoco
analizza, studia, infine edifica : due tem peramenti, due mentalità diverse,
due metodi antitetici : l'uno caduco, l'altro eterno . La nota, sulla quale io
vengo facendo le mie conside razioni e che a me appare d’una importanza grande,
con tinua ancora : « Io dirò a questo proposito un mio pensiero . Coloro i
quali per far la guerra ai preti han voluto segregarli dalla società non hanno
inteso il modo di combatterli. Era im possibile che in questa guerra non
vincesse quella causa che piaceva ai ( sic ) Dei . Se fosse dipeso da me, mi
sarei con dotto diversamente: avrei riunito la religione allo Stato » ( 1 ). (
1 ) Seguono importanti considerazioni che io non posso ri portare : cfr. Cogo,
op . cit., p. 80 e sg. 186 mo La politica che il Cuoco consiglia è
confessionista. Que sto significa edificare su fondamenta incrollabili,
edificare sulla stessa natura degli uomini. Nel Platone in Italia, Archita
esprime concetti assai simili e stabilisce che il diritto , pur mantenendosi
ben distinto dalla religione, di questa si serva per raggiungere i suoi fini (
1 ) . Il Cuoco non investiga in fine l'essenza vera della reli gione, anzi,
come può notare chi legga il bellissimo scritto di Giovanni Gentile sul nostro,
egli in ogni suo tenta tivo filosofico s'arresta timoroso dinanzi alla formida
bile incognita della divinità, e china il capo riverente. V’è in Cuoco un
nucleo di trascendenza, che nella nuova teologia vichiana è del tutto superata
( 2 ) . « Il savió» scrive nel Platone « si ritira in sè stesso, riconosce che
la nostra mente è una particella della divinità, che noi non riamo . Vede in
questa massima il fondamento della mo rale umana, e tenta di stabilirla e
diffonderla, non con misteri ristretti agli abitanti d'una sola città.... ; non
con istorie, che ciascuno può credere e non credere ; ma con ragioni tratte
dall'intrinseca natura delle menti di tutti gli uomini, e dalle quali nessun
uomo possa opporre altro che l'ostinazione . Ecco il primo dovere del savio. Il
se condo è quello di compatire il volgo, che cerca ad ogni momento delle cose
sensibili , ed i filosofi, che, per stabi lir la virtù, si adattano talora al
desiderio del volgo » ( 3 ) . Siamo sempre ad un punto. Una base religiosa
della mo rale non può mettersi in dubbio. Mentre l'uomo colto, pur arrestandosi
dinanzi al mistero della trascendenza, ha nella ragione, se non una impossibile
spiegazione, una maggior coscienza della rivelazione ; il volgo ha bisogno di
vedere e di sentire anche le cose più immateriali nel travaglio inesauribile
della fantasia. Solo la religione può rendere vicina agli uomini la sublime
norma della morale : la religione, fondamento della morale, essa stessa pensa a
renderla viva nella coscienza. ( 1 ) V. Cuoco, Platone, v . I , p . 84 e sg . (
2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 385. ( 3 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p. 133.
187 Non posso negare che in tutto ciò vi sia una vera e propria incertezza . La
verità è che il Cuoco non è filosofo, e de' grandi problemi filosofici non può
darci un'esplica zione adeguata. La questione per lui è tutta politica e
pratica, e, se s'ingolfa in discussioni teoretiche, lo fa per ridiscendere più
agguerrito sul terreno pratico. Alcuno potrebbe obiettare che da questa
contamina zione di morale civile e di religione, di politica e di reli gione,
vengano a scapitarne sia lo Stato sia la religione, in quanto lo Stato penetra,
si dice, in una sfera non sua, la religione viene ad essere subordinata ad un
fine mon dano. Non è così, ripeto. Il Cuoco stesso ci avverte che v'è netta
delimitazione di fini, tra Stato e religione, in quanto il primo persegue un
fine politico e gli trova la base sua naturale nello spirito e nella natura
umana, mentre la seconda dal fine poli tico si astrae o dovrebbe astrarsi
limitandosi ad un'opera meramente interiore. Sul terreno politico non v'è
possibilità di conflitti, ammesso che la religione si volga all'eterno ed
obblii il mondano . Sul terreno spirituale v'è identità d'oggetto, il
miglioramento interiore del po polo, cooperazione e non antitesi. In ogni caso
v'è vi cendevole vantaggio : lo Stato deve favorire, pur essendo tollerante, la
religione, perchè persegua i suoi fini super terreni; la religione deve aiutare
lo Stato, perchè questo possa in terra fruire materialmente d'ogni
miglioramento morale degli uomini : l'uomo veramente in ispirito reli gioso non
può non essere un buon padre di famiglia, un buon cittadino. Da quanto abbiam
detto è evidente come il Cuoco non cada affatto nell'errore di molti,
proclamando uno Stato, per il quale non v'è che una sola religione, ed è
intolle rante verso le altre. Lo Stato del Cuoco persegue un fine politico
ed utilizza ogni forza fisica e morale che trova, utilizza quindi anche, col
vincolo d’un vantaggio reci proco, le forze smisurate della religione dominante
la cattolica nel caso nostro e a questa dà benefici, come li darebbe ad un
qualunque altro ente pubblico che per segua un fine collettivo e civile , senza
che ciò significhi > 188 intolleranza verso gli altri culti, che possono pur
essi fruire di benefíci, ove il loro fine collimi col fine statale. Lo Stato
agisce nel suo interesse pratico , ond'è chiaro quanto sia necessario un
controllo continuo da parte sua sulle istituzioni ecclesiastiche, controllo che
non può essere altrimenti ispirato che a superiori esigenze di di fesa pubblica
e di polizia . ( 1 ) Sino ad ora abbiamo parlato della religione come fa coltà
dello spirito, come insopprimibile realtà umana, e il caso di conflitti tra
Stato e religione non poteva a noi presentarsi se non come un caso abnorme. Ma
il problema politico particolare e il caso d'un conflitto nella sfera pratica
può presentarsi, quando noi non consideriamo la religione, ma la Chiesa,
l'istituto universale, che può porsi e si pone di fronte allo Stato con uguali
caratteri d'eticità e di assolutezza, e con pretese che a volta usur pano le
facoltà proprie dello Stato nel campo giurisdi zionale . Date le premesse che
abbiamo poste, il Cuoco non può negare il giurisdizionalismo dello Stato e la
subordina zione entro i suoi confini d'ogni istituzione ecclesiastica alla
legge. L'educazione religiosa non sfugge al controllo dello Stato : l'attività
ecclesiastica culturale non può sot trarsi alla norma comune. Il Cuoco
differisce solo dai giurisdizionalisti antichi, in quanto ha un senso vigilissimo
dell'importanza della religione, « un'intuizione sicura dello spirito nella sua
vita politica » ( 2 ) . Con questa sua concezione dello Stato come sostanzia
lità etica, è naturale che il nostro non solo « della reli gione come della
filosofia, in quanto servono anch'esse come elementi riformatori della
coscienza civile » faccia « uno strumento del fine politico » , ma non possa ne
( 1 ) Dopo quanto abbiam detto, ci appare affatto falsa l'af fermazione di B.
LABANCA, op. cit . , p . 409, che il Cuoco non abbia mai approfondita la
questione religiosa. ( 2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p . 416. 189 ammettere
che la Chiesa di Roma, istituto fuori dello Stato, possa entrare a competere
con lo Stato in que stioni che involgono la sua sovranità. Libertà di culto e
d'istruzione, ma controllo dello Stato, subordinazione allo Stato ! Lo Stato
agisce nella forma del diritto, e il diritto pone un obbligo ed una tutela : la
religione ha, di conseguenza, l'obbligo di agire ne' limiti delle norme
giuridiche, e la libertà di operare come crede in essi, li bertà che si traduce
in una tutela civile contro i violatori di essà. Ognuno sa come t si siano
svolte le relazioni tra lo Stato e la Chiesa sotto Napoleone, sa come Pio VII
si mo strasse conciliante col déspota di Francia, come si giun gesse al
Concordato tra Francia e Santa Sede ( 1801 ) , come il papa presenziasse
all'incoronazione di Parigi, come presto la politica giurisdizionalista
degenerasse in tirannia, per finire attraverso varie occupazioni ( Ancona, 1805
; Civitavecchia, 1807 ; tutte le Marche, 1808) , con l'arresto brutale del
Pontefice in Roma ( 1809) , con la di chiarazione della fine del potere
temporale (maggio 1809) . Noi non abbiamo documenti tali dá permetterci di
seguire il Cuoco nel suo pensiero dinanzi a tali e sì gravi eventi: dovendo
stare allo spirito dell'opera sua fin qui studiata, potremmo, credo, con quasi
certezza dire, che egli non partecipasse alle violenze ultime di Napoleone
contro Pio VII. Tuttavia per intendere come il Cuoco ponesse il pro blema de'
rapporti tra Stato e Chiesa, possiamo esami nare un suo articolo,
Considerazioni sul concordato del febbraio del 1804 ( 1 ) . La pace religiosa è
uno degli elementi indispensabili della vita civile . Una nazione, che serri in
sè discordie chiesastiche si trova in condizioni peggiori d’una nazione, che
alimenti in sè le fazioni, poichè, mentre queste sono ( 1 ) Giorn . ital . ,
1804, 1 , 4, 6 febbraio ; n. 14, 15, 16 ; p. 56, pp. 59-60, pp. 62-63:
Considerazioni sul Concordato ( ristampato in Scritti vari, v. I , pp. 62-70
col titolo Stato e Chiesa ). 190 alimentate da meri bisogni materiali, le prime
traggono origine da esigenze spirituali, ben più profonde e durevoli. I
turbamenti di molti Stati derivano appunto dal credere che fenomeni di natura
religiosa si possano vincere con i metodi comuni, con i quali si distruggono le
sedizioni. La Francia in principio ha seguito queste massime, e ne ha fatto una
tristissima esperienza : la religione stessa è decaduta, ha perduto buona parte
dell’utilità sua ; lo Stato ha subìto più d'una menomazione nella sua auto rità
. « .... Chiunque ha un cuore deve applaudire ( siamo, quando il Cuoco scrive,
nel 1804, e il conflitto tra Napo leone e Pio non s’è ancora delineato )
all'umanità colla quale un governo savio ed un pontefice degno per le sue virtù
del posto eminente che occupa, ponendo fine ai dubbi, ai timori, alle querele,
ne hanno data quella pace che è preferibile a mille trionfi. La prudenza ha
trovata la via nelle angustie tortuose che vi erano tra il sacerdozio e
l'impero » . Fin qui , come ognun vede, ci troviamo di fronte a frasi
d’occasione, a concetti ben noti del Cuoco, altre volte espressi e ribaditi
nello stesso Saggio storico. Gli Stati sono tanto più forti , quanto più gli
elementi della vita materiale e spirituale convergono ad un fine unico . Lo
Stato, ove diritto e religione non cozzano in sieme, ma da punti opposti
realizzano una stessa verità, è lo Stato più forte che si possa immaginare.
Guardiamo la storia : le nazioni floride sono quelle, ove l’armonia tra diritto
e religione, autorità e libertà, s'è meglio pre sentata . Nel 1804, commentando
la storia che Melchiorre Delfico avea scritto della repubblica di San Marino,
dopo aver ricordato che negli Stati non è tanto l'ampiezza del territorio, il
numero degli uomini, la forza degli eserciti, che conta, quanto la virtù de '
cittadini e la giustizia degli ordini, scrive riferendosi al fatto che il
fondatore del pic colo Stato fu un religioso : « Sulla porta della maggior
chiesa leggesi questa iscrizione : Divo . Marino . Patrono. Et. Libertatis .
Auctore. Iscrizione che rammenta il de creto col quale gli Ateniesi
dichiararono Giove arconte perpetuo della loro repubblica ; iscrizione forse
unica tra popoli moderni, i quali per lo più hanno la religione di 191 visa
dallo Stato, e degna che si mediti dai ministri del l'una e dell'altro » ( 1 )
. Il sogno del Cuoco mi sembra molto simile al sogno di Dante e di Marsilio da
Padova : una Chiesa, ricondotta alla natìa purezza, riaffermante novellamente
col divino Maestro che il suo regno non è di questa terra : impero e papato,
Napoleone e Pio, con diversi mezzi, con scopi diversi, l'uno terreno, l'altro
celeste, operano concordi in terra per assicurare il benessere dei popoli. Il
Con cordato , al quale specificamente si riferisce il Cuoco, è il documento del
nuovo patto. Breve patto invero ! Ma il Cuoco nel 1804 è fiducioso di un
avvenire religioso di pace, che non sarà, crede sinceramente che le antiche
lotte giurisdizionali siano definitivamente della storia e non più della vita :
l'analisi , perciò, che vien facendo, è meramente storica, è uno sguardo su un
passato, che, pia illusione, non ritornerà più ! Nei primi secoli, riassumo il
pensiero del nostro, si disputò pochissimo di giurisdizione. Il divin Maestro
aveva detto che il suo regno non è di questa terra, onde non si potette
confondere ciò ch'era di Dio con quel che spettava a Cesare. Le dispute furono
sul dogma. Costan tino mirò solo a mantenere l'ordine nelle dispute, ma i suoi
successori Ariani, Nestoriani, Eutichiani si mischia rono ad esse, e l'impero
ne fu turbato : lo stesso Giusti niano cadde nell'errore. In Italia solo
Teodorico mo strò bene ciò che un principe savio deve alla religione . Egli la
rispettò e la fece rispettare. Rigido conservatore dell'autorità regia, fu
giusto giudice nella controversia tra il pontefice Simmaco e il suo competitore
Lorenzo. « Teodorico volea esser il sovrano egualmente e de’laici e de ' preti
» . Ma anche i suoi successori non ebbero la di lui virtù. Surse così in Europa
un nuovo ordine di cose . « Delle vicende della giurisdizione ecclesiastica
nell’Oc cidente hanno scritto moltissimi, tra i quali un gran nu mero forse non
è stato esente da ogni spirito di partito. ( 1 ) Giorn. ital., 1804 25 giugno ,
n . 76, p. 308 : Memorie stori che della repubblica di San Marino, ecc . 192 )
) . Noi crediamo che l'indicar le ragioni, per le quali si con fusero i limiti
delle due giurisdizioni, sia il più giusto elogio che far si possa e del nostro
governo e della Santa Sede ( ! ) , che con tanta prudenza li hanno ristabiliti.
Tutto ciò —— scriveva San Bernardo ad Eugenio papa, suo discepolo — tutto ciò
che tu hai ricevuto non da Cri sto , ma da Costantino, io ti consiglio a
ritenerlo a seconda de ' tempi, ma non mai a pretenderlo come un diritto Il
consiglio, che il molisano ripete al Pontefice, è un consiglio altamente
politico. Il Cuoco dice: io riconosco che, in determinate contingenze storiche,
il papa, posto tra barbari armati, crudeli, pronti alla violenza, abbia dovuto
far ricorso alle armi per difendersi, abbia quindi desiderato il potere
temporale; oggi le condizioni sono mutate, l'autorità regia non vuol menomare
il prestigio della Chiesa, anzi vuole accrescerlo, difenderlo, arric nirlo ; a
che dunque serve il potere temporale ? Il po tere temporale ci appare come il
resto inutile d'età sor passate, poi che, la base del rispetto e dell'autorità
non è più nella forza e nelle armi, ma nella giustizia e nella virtù. Il
patrimonio di San Pietro è intangibile ! Ma perchè? Serve alla difesa della
Chiesa .... Serviva : ora non più ! Le parole che il Cuoco ripete sono le
parole della sa viezza, le parole che la storia, che non torna indietro,
consacra nella realtà della vita . L'abdicazione ai diritti antichi significa potenziazione
della Chiesa nelle coscienze degli uomini, ritorno alla purezza antica degli
Apostoli. La Chiesa Romana ha in sostanza un duplice elemento : un elemento
dommatico, che nessuno pensa a menomare, specie l'autorità pubblica, che non
intende penetrare in una sfera che non è sua ; un elemento politico, determi
nato dai tempi, soggetto a flussi e a riflussi, ma sul quale il conflitto con
il potere civile è stato e può essere sempre facile. Il punto di minore
resistenza è il dominio temporale, che oggi è una vera barriera per una ( 1 )
Si riferisce sempre al Concordato. 193 comprensione tra Stato e Chiesa, e che
occorre superare, perchè i rapporti divengano da buoni ottimi. La Chiesa
abdichi ad ogni temporalità, lo Stato riconoscerà tutta la grandezza della
religione, la potenzierà praticamente, le darà tutti i mezzi per attuare in
terra il compito antico . Certo le ragioni del dominio temporale sono profonde,
ma sono tutte storiche, cioè superate; mentre le ragioni della grandezza
spirituale della religione sono eterne , cioè presenti alla nostra coscienza
umana insopprimibil i mente. Che le condizioni, che han reso il dominio
temporale necessario per la religione e il suo bene, siano sorpassate, il Cuoco
lo dimostra con una acutissima analisi, sulla quale merita fermarsi. I barbari,
discesi dalle provincie nordiche dell'impero romano, permisero, essi meno
civili, ai vinti culti e ricchi di sapienza, di vivere secondo le loro leggi,
le loro usanze, i loro istituti . Nacque così, crede il molisano, quella specie
di giurisdizione personale ignota agli antichi, donde poi scaturì la
distinzione de' fori. « A poco a poco le menti degli uomini si avvezzarono a
concepire due legislatori diversi ed uno Stato entro un altro Stato » . I
vescovi professarono la giurisprudenza romana e l'adattarono ai nuovi bisogni,
divennero feudatari, divennero ministri, cancellieri dei grandi sovrani.
L'elemento romano trovò in essi un baluardo contro la sopraffazione . La Chiesa
insomma fu nell'alto Medio Evo davvero un faro di luce nelle tenebre. Essa
predicava l'umanità e la libertà, essa sola potè dichiarare la schiavitù
contraria alla religione. Tutti questi elementi contribuirono a darle una forza
grandissima, che si tradusse presto in un dominio terreno. È naturale quindi che
un mutamento profondo negli ordini sociali porti seco un mutamento negli ordini
ec clesiastici . La storia ha uno sviluppo che non permette a lungo
superfetazioni antisociali . « Noi scorriamo rapi damente » scrive il nostro
autore « sopra un soggetto che è di sua natura vastissimo. Ci basta avere
indicate le cagioni principali. Conosciute queste, è facile conoscere che, a
misura che gli uomini s'incivilivano e gli ordini 13 F. BATTAGLIA . 194
pubblici ritornavano verso la loro perfezione, dovea ces sare tutto ciò che la
sola infelicità de' tempi avea consi gliato, introdotto, tollerato ; e dovean
segnarsi di nuovo quei confini entro de' quali la sovranità temporale fosse più
energica e meglio ordinata, e l'autorità religiosa più augusta e più sicura.
Così dal caos emerse l'ordine, e fu a ciascuna cosa assegnato il suo luogo ».
Questo or dine il Cuoco vede avverato in un giurisdizionalismo con fessionista,
che tende a volte ad un vero e proprio con fessionalismo all’austriaca. Gli
elementi di questo sistema non possono essere esposti brevemente, onde occorre
pas sarvi su, Vincenzo Cuoco, se noi guardiamo ora dall'alto le cose, e
cerchiamo di raccogliere le fila di ciò che siam venuti dicendo, ci si appalesa
come un fermo sostenitore dei diritti dello Stato, concepito come sostanza
etica, sostenitore che non ammette alcuna menomazione di quei caratteri
salienti che abbiamo veduto. Egli si pre senta come un vero e proprio
giurisdizionista, rappre sentante di quel giurisdizionalismo, che lo storico co
nosce nelle forme del leopoldinismo, del giuseppinismo e sopra tutto del
tanuccismo. Che il Cuoco sia giurisdizio nalista nel senso sovraccennato, molti
elementi lo testifi cano. Egli è giurisdizionalista , ma nello stesso tempo il
suo Stato è confessionista, sebbene tollerante : anzi il nostro lo consiglia ad
essere più confessionista che può, perchè gli interessi dell'autorità civile e
dell'autorità ec clesiastica collimano perfettamente. Lo Stato del Cuoco trova
una Chiesa dominante e le dà di fatto privilegi, benefíci, considera i suoi
sacerdoti come pubblici fun zionari, investiti di vere e proprie funzioni
pubbliche, esercitanti un compito che il potere supremo non solo riconosce ma
subordina al suo controllo : la stessa educa zione religiosa è vigilata dagli organi
centrali. « Il che» come ben nota Giovanni Gentile « non viene, in conchiu
sione, a soggiogare quello che non è soggiogabile, lo spi rito religioso e
scientifico, alle forme giuridiche istitu zionali dello Stato ; ma soltanto a
risolvere nella vita concreta dello Stato l'elemento sociale e pratico di co
teste forme superiori dello spirito , le quali, se sono ideal 195 mente
sopramondane, storicamente rientrano anch'esse nella sfera dei rapporti
sociali, materia del diritto » ( 1 ) . Questo giurisdizionalismo confessionista
del XVIII se colo, anteriore alla rivoluzione francese, aveva nei prin cipi e
negli statisti un fondamento di vere e proprie credenze e convinzioni
religiose, che portavano, come os serva lo Scaduto ( 2 ) , all'affermazione
d'una supremazia nel campo morale della Chiesa sullo Stato . Il giurisdizio
nalismo napoleonico ha invece cause più politiche che re ligiose, s ' ispira
più all'analisi delle condizioni storiche contemporanee che ad altro. Il Cuoco
segue quest'ultimo indirizzo, temperandolo col tanuccismo, vale a dire, ri
conoscendo l'altezza etica della Chiesa . Nulla ci induce a credere che egli
fosse specificamente cattolico prati cante, ma da un'analisi minuta de' suoi
scritti, da un manoscritto inedito sull' Ideologia , di cui ci dà' notizia il
Gentile, dal Platone in Italia, noi possiamo ritenerlo uno spirito
profondamente religioso. La sua filosofia serba anzi resti di trascendenza, e
la sua teologia, se è lecito così esprimersi, ritorna ad una posizione che il
Vico, suo maestro ideale, avea già superata ( 3) . Egli differisce dagli
scrittori politici del tempo suo, scettici e agnostici, per i quali il
confessionismo ha basi puramente effimere, dif ferisce dunque per il fatto che
nella religione vede un elemento insopprimibile della vita dello spirito . Da
noi la religione dominante è la cattolica : non vi è legge che da essa e dalla
sua morale possa prescindere . Il suo in gegno, la sua sicura intuizione delle
varie attività dello spirito, lo porta ad un riconoscimento che non è solo do
veroso in linea di principî, ma è savio in linea politica per lo Stato che
voglia realmente attuare la sua missione, e sulla natura umana costruire il suo
edificio istituzio nale. « Il primo dovere di chi ama la patria è quello di ( 1
) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 416. ( 2) F. SCADUTO, Diritto ecclesiastico
vigente, 1923, Cortona, v. I , p. 19 sg. ( 3) G. GENTILE; Studi vichiani, p .
385. Una parte dell’Ideo logia è stata ripubblicata in Scritti vari, v. I , pp.
297-302 . 196 rispettare la religione de' padri suoi ; il primo dovere di chi
ama la religione è quello di rispettare il governo della patria, senza di cui
non vi sarebbe alcuna religione ». Qui mi sembra che veramente il Cuoco si
distacchi dal l’età che fu sua, e all'astrattismo filosoficizzante e scet tico
sostituisca la realtà insopprimibile dello spirito, che è anche religiosità,
ed, essendo religiosità, non può essere che tolleranza. CAPITOLO V. Nazionalità
e italianismo nel « Giornale italiano » . Le origini della nuova Italia . Il concetto
di naziona nalità presso Cesare Paribelli e Francesco Lomonaco. Presso Vincenzo
Cuoco. - Sua visione spiritualistica del problema unitario e nazionale. - Mezzi
per formare una nuova coscienza nazionale. Abbiamo nella prima parte di questo
studio a lungo parlato del pensiero costituzionale di Vincenzo Cuoco , quale
egli di fronte all'astrattismo rivoluzionario dei giacobini franco- italiani
sistematicamente espresse ne'suoi Frammenti di lettere dirette a Vincenzio
Russo, e quale poi mostrò in atto negato in quel Saggio storico, che resta
ancora il più mirabile documento dei terribili giorni che passarono alla storia
col nome di Rivoluzione napoletana e con la gloria d'eroismi non emulabili. Nel
nostro lavoro abbiamo studiato il concetto che il molisano si è fatto dello
Stato e dei suoi attributi, la visione della vita giu ridica e politica , e,
infine, il modo ond'egli fissa il mille nario problema dei rapporti tra
l'autorità civile e l'auto rità ecclesiastica. In tutta questa nostra analisi
abbiamo visto come unitario sia il pensiero del nostro autore, che abbiamo
definito il più vivo esponente dell'italianismo di fronte ad ogni forma, ad
ogni espressione di vita, che non sia consona al nostro spirito, alle nostre
esigenze, ai nostri bisogni, alla nostra tradizione. 198 L'italianismo del
Cuoco ci si appalesa in tutta l'opera sua multiforme e molteplice, e noi non
avremmo bisogno di insistervi più, se in esso non vi fosse un elemento nuovo
che lo differenzia dall'italianismo di tutti i con temporanei e degli immediati
' posteri: il modo in cui egli concepisce la nazione e lo spirito nazionale . È
que sto il punto sul quale verterà la nuova indagine. Giustamente Benedetto
Croce, nella prefazione a La ri voluzione napoletana del 1799, dice che chi
cerca « le ori gini sacre della nuova Italia » deve di necessità rifarsi ai
fatti della Partenopea ( 1 ) . Il tragico fato della repubblica disperde per la
penisola centinaia di patrioti, gente, che, per quanto dottrinaria, astratta ,
più francese di costumi e di pensiero che italiana, ciò non pertanto ha una
fede rigida e calorosa nei destini immancabili della patria . È il polline
vivo, che trasportato dalla tempesta fecon derà in altri liti , e poi
s'esprimerà in nuovi fiori e in nuovi frutti . Sarebbe facile fare dei nomi e
degli scritti, ma uscirei dal mio compito e mancherei con ciò dal mio pro posto
: ricorderò solo due scritti molto importanti per due ragioni, in primo luogo
perchè in essi l'indagine storica può rinvenire le prime idee sull'indipendenza
e sull'unità della nazione italiana ; in secondo luogo perchè dal con fronto,
che di essi si farà con le pagine cuochiane, sca turirà la diversa posizione
spirituale, che il Cuoco rap presenta. Cesare Paribelli, ex ufficiale di
Ferdinando IV, dal 1793 al 1799 rimasto quasi sempre in prigione per ragioni
politiche, poi membro del Governo Provvisorio a Napoli, il 18 giugno 1799,
essendo incaricato d’una missione a Parigi, proprio mentre le sorti
repubblicane volgevano al peggio ( il 17 giugno Ruffo accorda la resa alla
città di Napoli e la Partenopea è finita ) scrive un Indirizzo dei Patriotti
Italiani ai Direttori e Legislatori Francesi, in cui, dopo avere espresso
numerose lagnanze contro gli stra nieri nemici ed amici, dopo avere descritto
la misera ( 1 ) B. CROCE , La rivoluzione napoletana , p . XII . 199 condizione
dell'Italia tutta, dopo avere enumerati i voti delle varie regioni conclude con
profetiche parole. « Legi slatori e Direttori, invoca , osate alfine di
soddisfare il voto universale dell'Italia, e di proclamare la sua indi pendenza
e la sua riunione, il di cui centro esiste già nella santa energia dei figli
del Vesuvio, nello spirito repubblicano dei montagnari Liguri, nello sdegno
invano ritenuto dei figli dell'infelice Vinegia, e nella disperazione di tutti
i rifugiati Piemontesi, Romani e Toscani, cui non resta più ormai verun'altra
alternativa , che o di cercare per via d'una morte volontaria un asilo nella
tomba, o di crearsi di bel nuovo, per mezzo d'una volontà ferma e determinata,
il felice avvenire, che era stato promesso alla loro Patria. Legislatori e
Direttori del popolo fran cese, parlate, e la Repubblica Italica esisterà .
Un'assem blea Nazionale e un Governo provvisorio, riunito in Fi renze nel
centro dell'Italia , saranno invito a tutti gli abitanti di queste belle
contrade ; un'armata ausiliaria sarà formata, lo stendardo Italico sventolerà
nell'aria ac canto al vessillo tricolorato, e gl ' intrighi stranieri sa ranno
sventati ancor questa volta ; e il secolo decimonono vedrà folgorare questi due
astri vittoriosi e protettori, che annunzieranno all'Austria e al gabinetto
Brittanico la vicina distruzione, o ai discendenti dei germani e agli abitanti
delle tre isole, ormai troppo serve, la prossima loro libertà ( 1 ) . Il
documento è importantissimo, e la sua importanza appare ancor maggiore, se si
pensa che è esso stato ver gato , quando le sorti non solo di Napoli e
d'Italia, ma anche di Francia, volgevano al male, e molti pavidi disperavano.
Lo stesso pensiero, un po ' più tardi, esprime Francesco Lomonaco in uno
scritto , enfatico e gonfio di forma, ma caldo e commosso d'amor patrio : il
Rapporto fatto al cit tadino Carnot, fiera requisitoria contro le malefatte
degli ( 1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana , p . 335 ; M. Rosi , op. cit.,
v. I , p. 215 e sgg.; V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit . , p. 151 e sgg 200
stessi francesi in Italia, malefatte, che non ebbero altro effetto che quello
di allontanare sempre più le simpatie del popolo dalla causa rivoluzionaria.
Anche il vesuviano Lo monaco sente che in Italia si sta formando una volontà
che non era per l ' innanzi, ma invano si sforza di spie garsela
filosoficamente, troppo imbevuto com'è di rigi dismo giacobino. Egli enumera i
diritti, quelli che egli almeno dice diritti del popolo italiano, all'unità e
all'in dipendenza , quegli elementi che l'indagine sistematica del secolo XIX
poi preciserà come i presupposti del con cetto di nazionalità. L'Italia, non
divisa da grossi fiumi nè da grandi mon tagne, separata dalle Alpi e dal triplice
mare dagli altri popoli, forma una indissolubile unità geografica : è questo il
primo elemento della nazionalità. Gli abitanti che l'a bitano hanno la stessa
tinta di passioni e di carattere, godono d'un eguale germe di sviluppo morale e
di fisica energia, hanno gli stessi interessi, la stessa lingua, la stessa
religione : tutto li addimostra per membri della stessa famiglia : sono questi
nuovi e complessi elementi della nazionalità, elementi etnici, linguistici e
religiosi, che si pongono accanto al primo elemento geografico. Aggiungete a
ciò una ininterrotta tradizione storica, per cui uno è il processo evolutivo
della stirpe, uno il fasto e la sventura, come uno l'avvenire, ed avrete
l'ultimo elemento, che informa di sè un popolo e cementa quel che possiamo dire
d'una nazione ( 1 ) . Gli italiani hanno perciò un diritto naturale, ab aeterno
acquisito, all'unità e all ' indipendenza. La Francia, dice in sostanza lo
stesso scrittore, può e deve riconoscerlo positivamente. Solo così l'Italia,
dopo tanti secoli potrà vedere sanate le sue molte e sanguinose piaghe, che la
tormentarono e la tormentano. « Qual riparo » scrive il Lomonaco « a tanti mali
? Qual rimedio a piaghe sì profonde ? Come imprimere alle de ( 1 ) F. LOMONACO
, Rapporto al cittadino Carnot, ecc. , in se guito al Saggio storico di V.
Cuoco , Laterza ed. , Bari, 1913 , p. 323. 201 presse ed avvilite fisonomie
italiane il suggello dell'an tica grandezza e maestà ? Uno dei principali
mezzi, se condo me, è l'unione. Perchè termini il monopolio in glese , e i vili
isolani cessino di arricchirsi su le rovine del continente ; perchè si
oppongano argini all'ambizione del l'Austria , la Francia abbia una fedele
alleata , la condotta della Prussia sia meno equivoca, il gran colosso dell’im
pero russo stia immobile ne ' ghiacci del nord, la Spagna divenga stabile amica
della gran repubblica ; perchè, in una parola, vi sia in Europa bilancia
politica e si disec chi la sorgente delle guerre, è d'uopo che l'Italia sia
fusa in un solo governo, facendo un fascio di forze. Rea lizzandosi quest'idea
, gl'italiani, avendo nazione, acqui steranno spirito di nazionalità ; avendo
governo, diver ranno politici e guerrieri; avendo patria, godranno della
libertà e di tutti beni che ne derivano ; ecc. » ( 1 ). La ragione prima
dell'unità italiana così è un fattore esterno, quello di un presunto equilibrio
europeo , quello d'una nuova armonia tra i popoli, tra le genti del nostro
belligero vecchio continente. Questi gli antecedenti dell'idea unitaria, queste
le sante origini di quel concetto di nazionalità ( 2 ) , che troverà poi in
Giuseppe Mazzini il suo apostolo. Il Cuoco, che a Na poli visse ed operò, che
con tutti i patrioti di Napoli a lungo ebbe rapporti, non può non agitare gli
stessi senti menti . Ma questi da lui come vengono trasformati , in lui quanta
nuova luce acquistano ! Esule dalle sventure della Partenopea, visitato Marsi
glia , Chambery, Parigi, dopo Marengo, nel dicembre 1800 il Cuoco è a Milano,
ove presto pubblica il Saggio e i Fram menti (3 ) . Io non mi indugierò neppur
brevemente sul l'attività del molisano nella Repubblica cisalpina ( poi italica
) e nel Regno italico, attività vasta e complessa di ( 1). F. LOMONACO, op.
cit. , p. 327. (2 ) Chi vuole avere notizie più ampie veda La rivoluzione
napoletana del CROCE , ove vi è un largo studio sull'argomento , pp . 329-342.
( 3) N. RUGGIERI , op. cit . , p . 3 ] . 202 studioso, di cui sono documento le
Osservazioni sul Dipar timento dell'Agogna, che vanno sotto il nome di L.
Lizzoli, sebbene siano, come è stato indiscutibilmente dimo strato ( 1), del
nostro scrittore, e i frammenti su la Sta tistica della Repubblica italiana,
opera scientifica di vasto respiro ( 2 ) , che dimostrano quanto alto fosse il
bisogno del nostro autore d'esaurire ogni forma di realtà umana, poichè solo
sovra una conoscenza adeguata di essa si può fondare un coerente edificio
politico e legislativo . Sono punti questi oramai acquisiti alla storia e su
essi non mi soffermo. Vengo piuttosto ad un altro punto, la fonda zione del
Giornale italiano, che tanta larga parte ha nella formazione della nostra
coscienza nazionale, che primo agita, nel fulgore della gloria napoleonica , il
problema unitario . In quel periodo tumultuoso, che comprende i primi decenni
del secolo XIX, Milano è il centro culturale più cospicuo d'Italia . Napoli,
dopo le aspre lotte giurisdi zionali con la Chiesa , dopo il fiorire della sua
Università, dopo la gran luce diffusa da Filangieri, Galiani, Pagano, Cirillo ,
caduta la breve repubblica del 1799, colla restau razione del Ruffo, aveva
visto disperso tutto quel te soro di sapienza che cinquant'anni di attività
scientifica aveano accumulato. Torino era un centro troppo ristretto, ancor
provinciale e particolaristico, sebbene già comin ciasse a dar segno di nuova e
più ampia vita, ma non poteva offrire assolutamente nulla , dato che con le vit
torie del Bonaparte aveva perduto l'antica libertà. Di Venezia , di Firenze, di
Roma inutile parlare. Milano dunque ne ' primi anni del nuovo secolo è il
centro più attivamente colto d'Italia . Grandi in essa sono le memorie del
popolo, grande la tradizione recente. « Ivi si era formata prima la scuola del
giansenismo, e poi la scuola de' diritti dell'uomo » ; ivi « la 6 Società
patriot tica ” , divenuta poi Società popolare, aveva lavorato alla diffusione
delle idee nuove » . Come rileva Francesco ( 1 ) N. RUGGIERI, op. cit . , p. 40
; G. Cogo , op. cit. , pp. 13-23, ( 2 ) G, Cogo, op. cit . , p . 24 e sgg. 203
De Sanctis ( 1 ) ivi s'era espresso, contemporaneamente forse ai primi
tentativi giurisdizionalisti del Tanucci, un moto, diretto principalmente
contro la curia romana, per sonificata nei gesuiti, e contro l'aristocrazia,
che pur non avendo portato ad immediati mutamenti politici, annun ciò
importanti riforme civili per il miglioramento del l'uomo, che già erano
concrete conquiste civili , allor quando il turbine rivoluzionario si scatenò,
distruggendo tutto, l'antico e il nuovo, il cattivo e il buono, ciò che doveva
crollare e ciò che era degno di restare. A Milano aveva scritto il Beccaria,
instaurando nel campo penale nuove dottrine, che, reagendo a tutto il sistema
degenere del medievale processo inquisitorio, preludono ad un mi rabile fiorire
delle dottrine criminalistiche ; il Verri aveva disputato di economia, di finanza
, di sociologia ; il Caffè aveva agitato nelle menti più illuminate i nuovi pro
blemi filosofici e scientifici, le nuove posizioni artistiche, che
appassionavano non solo l'Italia, ma la Francia e l'Europa tutta. Questa la
tradizione, che ne' primi anni del nuovo se colo Milano rinnova in una vita
sempre più grande e degna. Le varie rivoluzioni vi hanno fatto affluire esuli
non solo da Napoli , ma da ogni parte d'Italia , poeti e filosofi, soldati e
commercianti, giureconsulti ed econo misti ( 2 ) . È il periodo grande della
vita milanese; il pe riodo in cui, per dare tre illustri nomi, appena da poco
spento il Parini, cantano Monti Foscolo Manzoni. Nulla da meravigliare se in
questo ambiente d’intellettualità si agitano quelle questioni, che poi lo stesso
secolo XIX vedrà realizzate e risolte, concreterà insomma nell’azione politica
. L'animo ardente di Vincenzo Cuoco in questa società così vivace ed attiva
trova tutta lo stimolo per destarsi da quella sua natural pigrizia, che lo
stesso Manzoni in (1) F. DE SANCTIS , Saggi critici, Milano, Treves ed. , 1918
, v. III , p. 2 . ( 2 ) R. SORIGA, L'emigrazione meridionale a Milano nel primo
quinquennio del secolo XIX, in Bollettino della Società pavese di storia patria
, a. XVIII ( 1918 ) , pp. 102-117 , pp. 119-121 , 204 lui notava , e della sua
nuova attività, oltre gli scritti statistici su citati, sono testimonianza gli
articoli sul Gior nale italiano, che egli pubblica il 2 gennaio 1804 e di rige
continuamente fino all'agosto del 1806, fino cioè al suo ritorno in patria,
avvalendosi della cooperazione di due valentuomini, Bartolomeo Benincasa e
Giovanni d'Aniello ( 1 ) . Seguendo il nostro metodo di non occuparci di pro
blemi biografici, noti a sufficienza, sorvoliamo sulla fon dazione del foglio
milanese ( 2 ) , e vediamo piuttosto che cosa esso rappresenti nella storia
dell'idea nazionale, quale sia il suo rapporto con i precedenti ideologici del
nazionalismo, che abbiamo visto in Paribelli e Lomonaco. Che cosa è innanzi
tutto la nazione per Vincenzo Cuoco? È qualcosa di già acquisito, di
rigidamente fatto, di sta tico, o invece qualcosa da acquisirsi, da farsi, di
dina mico, qualcosa insomma che diviene in un processo inin terrotto ? Esiste
realmente e storicamente una naziona lità italiana, che è formata con questi e
con quegli altri elementi, che sono questi e quelli, e nulla più ? E quali sono
questi elementi ? Abbiamo noi perciò un diritto na turale ad essere nazione,
diritto che gli stranieri non pos sono contestare, donde scaturisce un
correlativo supe riore dovere a permettere la nostra unità nella forma d'uno
Stato indipendente e sovrano ? Sono questi al trettanti problemi , ai quali
dovremo singolarmente ri spondere. Se noi ritorniamo col pensiero agli scritti
del Paribelli e del Lomonaco, noi vediamo in essi uno sforzo a definire
concretamente gli elementi costitutivi di questo concetto di nazionalità, che
poi alla resa dei conti finisce per man care e per sfumare, proprio nel momento
, in cui pure essi credono d'averlo conquistato e fissato. Nè è a dire che ( 1
) V. FIORINI e F. LEMMI, op . cit., p . 655. ( 2 ) Cfr. A. BUTTI, La fondazione
del Giornale italiano » e i suoi primi redattori, Milano, Cogliati ed ., 1905 (
estr. dall’Ar chivio stor. lomb. , a. XXXII, fasc . VII) ; vedi pure N. RUGGIERI,
op. cit . , p. 43 e sgg.; nonchè G. Cogo, op. cit., pp. 30-34. 205
l'insufficienza sia dovuta all'insufficienza della loro cul tura . Uomini di
ben maggiore preparazione si sono sfor zati d'esaurire criticamente il
contenuto della naziona lità e non ci sono riusciti. Ogni elemento, tra quelli
da noi presi in esame, si rivela attivo nella formazione della nazionalità, ma
poi non può essere a rigore accolto come necessario essenziale costi tutivo.
Ancora : vi sono elementi, che a volta sono, a volta non sono ; altri che
operano storicamente con una certa intensità , ed altri con una intensità
maggiore o minore. Il Lomonaco accenna ad elementi geografici, etnici, lin
guistici ed eziandio religiosi, quali antecedenti del nostro concetto, del
concetto che noi tutti abbiamo di nazione, per cui gli italiani sono fatti per
essere membri d'una sola famiglia. Tutti questi egli afferma come la base
concreta , sovra la quale s'aderge il superiore diritto a che l'Italia sia un
solo Stato. Data questa concezione naturalistica, la conseguenza che ne
scaturisce è una sola : il popolo italiano ha una superiore ragione a divenire
indipendente, a trovare la sua forma giuridica in un reggimento uni tario ; gli
stranieri non debbono che riconoscere positiva mente quel che Dio o la natura,
o altri che dir si voglia, segnarono sulle coste delle montagne e nel corso
de'fiumi, separando la patria nostra dalle altre patrie, facendo si che essa,
geograficamente delimitata dalle Alpi e dal mare, sia abitata da una sola
gente, parlante un solo idioma, avente una sola religione, una sola storia, una
sola mis sione, una sola somma d'interessi. Ecco perchè il Paribelli e il
Lomonaco si rivolgono ai francesi . Essi sono i più forti, essi possono perciò
estrin secamente donare all'Italia quell'unità statale, a cui senza dubbio ha
diritto, perchè la nazionalità è una realtà non da farsi, ma già fatta e perciò
statica. Quel che ancora non è fatto ma da farsi è lo Stato uno ed
indipendente, considerato come esterno alla nazione, quasi come una sua
sovrastruttura, che può essere e può non essere, ma che, sia o non sia, lascia
inalterata la nazionalità. Può esservi la nazione e non esservi lo Stato, e
viceversa. Lo Stato sarà il riconoscimento susseguente ed esteriore d'una 206
realtà già concretizzata , e quindi definitiva, che è la na zione con quegli
elementi che sappiamo. Contro questa concezione s’oppone il Cuoco Nessuno de
gli elementi positivi della nazionalità può dirsi essenziale al concetto di
nazionalità. Prendiamoli uno ad uno, ed ognuno di essi ci apparirà fallace e
transeunte. Costruire sovr’essi val quanto costruire sovra la sabbia. Che è la
terra se non una mera quiddità naturale, che in sè e per sè non ha che una
importanza relativa, tant'è vero che gli ebrei sono nazione pur fuori dal
territorio nativo, e lo sono dopo quasi due millenni da che si sono dispersi
per il mondo ? Che è la religione, se noi la concepiamo come religione comune
di tutti, con quei determinati solenni riti e con quella certa gerarchia
ecclesiastica , se non un astratto ? Ma d'altra parte ognuno di questi ele
menti, ed altri che abbiamo sorvolato, acquistano mag giore consistenza , se
noi li guardiamo non già nella loro estrinsecità e nella loro astrattezza, ma
se li consideriamo nella loro significazione spirituale, vale a dire in quanto
noi li compenetriamo di noi, de ' nostri affetti, de' nostri sentimenti. Non è
più allora la terra fisica geografica, « bagnata » come dice il Lomonaco « dal
Mediterraneo, dal l ' Jonio , dall'Adriatico , e separata dagli altri popoli da
una catena di monti inaccessibili » , ma bensì quella terra che ci vide nascere
e vide nascere i nostri avi, ove i nostri avi sono sepolti, saranno sepolti i
nostri padri, saremo sepolti noi pure, quella terra ove noi lavoriamo ed amia
mo, ove lavorarono le generazioni che furono e compi rono grandi cose, quelle
grandi cose, di cui si vede ancor oggi la testimonianza nelle grandi
costruzioni, nelle opere plastiche, ne ' carmi, nelle.storie, che ci commovono
e ci fanno fremere d'orgoglio. Non è più allora la religione cattolica romana
con i suoi dommi scritti e rivelati, fissati perennemente ne' sacri libri,
bensì quella religione che vive ne ' nostri cuori, e ci anima nelle opere
degne, ci rimprovera nelle indegne, ci consola nelle disgrazie, che brilla come
speranza di luce futura, che noi sentiamoogni momento, sempre nuova e presente,
sempre viva e rin novantesi . 207 La nazione insomma è in noi, è quella maggior
consape volezza che noi abbiamo di noi, onde ci sentiamo fratelli di tanti
altri individui, che perciò poniamo non come estranei a noi, ma simili
ne’sentimenti e negli affetti, for manti una superiore unità spirituale. Non è
perciò nè il territorio, nè la lingua, nè la razza, nè l'interesse che de
termina la nazionalità, il suo essere e il suo contenuto, ma siamo noi stessi,
che con la nostra spiritualità affermiamo i vari elementi di volta in volta
come costituenti la nazio nalità, e li plasmiamo in una suprema volontà, che è
co scienza ed energia . La nazionalità così non è fuori di noi, ma in noi ; non
è materia o natura, ma spirito ; non è contenuto, ma forma del più vario
contenuto . Le conseguenze di questa posizione sono incalcolabili. La
nazionalità non è , diviene; non è qualche cosa di preesistente alla nostra
determinata energia spirituale, ma coeva con essa, perchè da questa posta e
generata in ogni suo momento. Tale più alta visuale del problema il Cuoco
esprime in quel Disegno di un giornale italiano, che egli presentò nel 1809 al
vice- presidente della Repubblica italiana Fran cesco Melzi d'Eril ( 1 ) . La
nazione, egli dice, non è formata ; si tratta anzi di formarla. « Fra noi non
si tratta di conservar lo spirito pubblico, ma di crearlo. Conviene avezzar le
menti degli italiani a pensar nobilmente, condurle, quasi senza che se ne
avvedano, alle idee che la loro nuova sorte richiede, e far divenire cittadini
di uno Stato coloro i quali sono nati abitanti di una provincia o di paesi
anche più umili di una provincia » ( 2 ) . Da ciò è facile vedere come la con
cezione naturalistica sia superata : la nazione non esiste ( 1 ) Il documento
tratto dall'Archivio di Stato di Milano è stato pubblicato dal prof. ATTILIO
Butti in appendice alla sua op. cit., nonchè ristampato da G. GENTILE :
VINCENZO Cuoco, Scritti pedagogici inediti e rari, Roma-Milano, Albrighi e Se
gati ed., 1909, p . 3 e sgg.; e poi da N. CORTESE e F. NICOLINI: VINCENZO
Cuoco, Scritti vari, Bari, Laterza ed. , 1924, v. I. , pp. 3-12 . ( 2 ) V.
Cuoco, Scritti vari, v . I , p. 4 . 208 in natura, come mera entità di fatto, ma
nello spirito, come superiore unità ideale. Quest'unità dello spirito, che poi
è energia plasmatrice e volontà realizzatrice, come abbiamo detto, consiste di
due parti principali: « la prima è la stima di noi stessi e delle cose nostre ;
la seconda è l'accordo de' giudizi di tutti su quegli oggetti che possono
essere utili o dannosi » ( 1 ) . Io direi : è in primo luogo autocoscienza,
consapevolezza di noi e delle nostre pos sibilità ; in secondo luogo
quell'atto, per cui il nostro io particolare, coincidendo con tutti gli altri
particolari in una sola volontà, s'afferma come universale. La nazione così
null'altro è che volontà di nazione, e, siccome con cretamente la volontà è in
noi uomini, la nazione è in noi, quella nazione che noi amiamo, sospiriamo, che
noi idoleggiamo ne' nostri pensamenti, che vediamo cantata ne' grandi poeti,
che desideriamo grande e possente nel futuro come lo fu nel lontano passato,
che infine noi vo gliamo ed affermiamo in ogni nostro pensiero ed atto, onde
ogni nostra opera o scritto reca l ' impronta d'un superiore carattere, che è
il carattere di nostra gente. La stessa così detta tradizione nazionale non è,
non ha alcun valore, se non nel presente, se non in quanto la poniamo come
presente, e perciò solo operativa di grandi cose, incitamento a maggiori
grandezze . Se noi l'assu miamo come passato, essa null'altro è che retorica,
sban dieramento inutile di grandi fatti , su cui tutti possono meritamente
ridere. « Un giornalista di Londra o di Pa rigi può mille volte al giorno ripetere
ai suoi compatrioti: Noi siamo grandi. Egli sarà sempre creduto . Un
giornalista italiano, se pronunzierà questa stessa propo sizione, desterà il
riso ; ed una proposizione di cui si è riso una volta, dice Shaftesbury , non
può produrre mai più verun buon effetto » ( 2 ) . Anche la tradizione, come
tutti gli elementi della nazionalità non deve essere fuori degli uomini, ma
veracemente parlare agli uomini. La sto ria resta mera erudizione passiva
inerte, se la riguardiamo ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I , p . 3 . ( 2 ) V.
Cuoco, Scritti vari, v . I , p. 4 . 209 come un frigido insieme di fatti ; ma
se questi fatti par lano ad uomini, e ad essi dànno maggior consapevolezza di
loro stessi, ond'essi acquistano maggiore energia e vo lontà di dominio, allora
la storia diventa davvero maestra de' popoli. Così la tradizione ben'intesa
diviene autoco scienza, stima di noi stessi. « Alla stima di loro stessi »
scrive il Cuoco « e delle pro prie cose debbono le grandi nazioni e quella
energia, per cui han fatto le grandi operazioni; e quella pazienza , per cui
han sopportati grandi mali e sacrifizi gravissimi; e quell' affezione al
proprio governo, che si raffredda ed estingue dall'idea che esso non operi bene
o che un altro operi meglio ; e finalmente quella costanza ne' pensieri, ne'
disegni e nelle operazioni, la quale, fondata sul rispetto che abbiamo per i
nostri maggiori, può sola farci ottenere i grandissimi effetti. Quando si
analizzano le nazioni, si trova che i beni ed i mali, la verità e gli errori sono
misti egualmente da per tutto, e che la differenza tra l'una e l'altra non
dipende da altro che dalla loro diversa ma niera di pensare e di sentire » ( 1
) . Posto ciò , allorquando la nazione non si è ancora con cretata nella forma
di uno Stato, non può esservi un di ritto, una pretesa a Stato unitario, che
noi possiamo esi gere dagli stranieri, aventi verso di noi un corrispondente
dovere al riconoscimento. Lo Stato è sì riconoscimento di nazionalità, ma non
riconoscimento estrinseco di altri, ma bensì intima affermazione della
nazionalità in ogni suo momento. Dire volontà di nazione e dire volontà di
Stato nazionale è la stessa cosa : affermare la nazione val quanto affermare lo
Stato nazionale. E siccome la nazione non è , ma diviene ; lo Stato non è, ma
diviene. In un senso altamente ideale esso è anche quando giuridicamente non è
riconosciuto dagli altri Stati, in quanto è in noi che lo poniamo ed operiamo
per realizzarlo , e lo realizziamo continuamente in ogni nostro atto. Come si
tratta di fare lo spirito pubblico , la coscienza nazionale, si tratta di ( 1 )
V. Cuoco, Scritti vari, v. I , p. 3 . 14 F. BATTAGLIA . 210 fare lo Stato, e lo
si fa, facendo lo spirito pubblico e la coscienza nazionale. Circa la seconda
parte della nazionalità, dello spirito pubblico, il Cuoco dice, c'è poco da
aggiungere: è il pro blema dell'accordo di più uomini nelle idee utili ( 1 ) ,
onde la loro volontà si può considerare come una sola volontà . Basta
presentare queste idee utili, presentarle caldamente sinceramente, presentarle
spesso, perchè tutti siano d'ac cordo. « È necessario che tutti gli uomini
convengano in tre cose : in rispettar i governi, in rispettar la religione ed
in praticar la morale ; e se tra queste cose si potesse stabilire una
progressione, io non avrei veruna difficoltà di dire che la corruzione della
morale porta seco il di sprezzo prima della religione e poscia del governo. È
na tura dell'uomo trascurar prima i doveri, indi conculcar le leggi che
sanciscono i doveri, e finalmente disprezzar coloro dai quali ci vengono le
leggi » ( 2 ) . Dato che lo Stato moderno null'altro è che nazione, coincidendo
la volontà di Stato con la volontà di nazione, e posto che questa non è fuor di
noi, ne viene che la volontà statale non è estrinseca al soggetto, ma a lui
intima e connaturale : anzi la volontà di Stato coincide con la nostra in
quanto que sta si pone come universale, una ed armonica con tutte le altre. Il
rispetto al governo non deve essere una coa zione, ma un'accettazione libera,
poichè nell'atto go vernativo vediamo l'espressione di posizioni da noi con
divise, anzi da noi volute. Il rispetto quindi allo Stato è in quanto nello
Stato vediamo la sublimazione di quanto di meglio è in noi, e, siccome lo Stato
del Cuoco è stato etico, e, in termini giuridici, professionista, ne
scaturiscono come conseguenze inderogabili: il bisogno che i soggetti
rispettino la loro religione che è anche religione di Stato, pratichino la loro
morale che è anche morale di Stato. Vincenzo Cuoco, in quella parvenza di Stato
unitario che è la Repubblica italica, poi Regno italico, si pone ( 1 ) V.
Cuoco, Scritti vari , v. I, p. 3. ( 2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I , p. 8 .
211 dinanzi una sublime missione, un compito titanico : for mare la coscienza
di quel che sarà o diverrà la nazione italiana. Il problema che abbiamo
esaminato nei napo letani del '99 è invertito. La rivoluzione imponeva una
unitarietà estrinseca, mirava a formare un sentimento vuoto ed astratto di
pseudo - solidarietà umana ; il Cuoco invece s'affisa nell'interiore degli
uomini, opera sui loro spiriti, ne ridesta quella coscienza che il nuovo secolo
XIX dirà nazionalità, e che infine null'altro è che un atto d'energia volitiva,
che plasma e fonde in sè ogni parti colare contenuto. V'è il popolo, quel popolo
che i giacobini idolatravano e levavano alle stelle , ma a questo popolo la
patria non è da darsi bell’e fatta, compiuta e grande, attraverso l'opera di
pochi disinteressati idealisti, o italiani o stra nieri; no , questo popolo
deve agire, vivere pur esso, sen tire i grandi problemi del tempo, acquistarne
la cono scenza , prepararsi liberamente l'avvenire. Il Cuoco pone il popolo
come elemento indispensabile della vita civile , come il grande operatore della
storia in tutti i suoi sviluppi. La rivoluzione sublima in teoria il popolo, ma
di fatto ne ha poco rispetto ; poichè crede po terlo dominare dal di fuori, e
fargli subire i nuovi sistemi politici , come già subiva i vecchi, vuote
sovrastrutture, in cui può vibrare ogni mutevole realtà. La rivoluzione infine
è ne' giacobini, che sono i pochi, non nel popolo, che è la molteplicità. Il
Cuoco crede ciò un grande errore, ed è questa la grande sua trovata, ond’egli
meritamente s’as side tra i grandi del nostro paese. Se vogliamo creare quella
realtà spirituale che è la nazione, non possiamo prescindere dal popolo, dal
popolo che abbiamo visto nel Saggio essere il solo autore delle rivoluzioni e
delle con trorivoluzioni. Il principio della storia è in lui, e in lui sono
tutte le più remote scaturigini della vita. Parlare al popolo, dunque, e
ridestarlo, inserirlo nel pulsare della cosa pubblica, fargli acquistare
dignità e sensibilità, e allora esso non odierà le istituzioni o non sarà ad
esse indifferente, in quanto queste vede fuor di sè stesso, ma le amerà come
sue, espressione della sua più alta eticità , 212 e con le istituzioni amerà la
morale e la religione, che con le prime vedrà intimamente legate. Oggi, dice il
molisano, esiste bene o male una Repub blica o un Regno italico ; il popolo
però ancora ne è fuori: bisogna unire i due termini, perchè solo così il primo
sarà veramente un ente vitale, il secondo un'unità cosciente e non una
molteplicità naturale e perciò bruta. Se domani, il Cuoco non lo dice ma noi lo
intendiamo, vicende storiche nuove distruggeranno la mal connessa unità
napoleonica, e nuovi stranieri invaderanno il bel suolo d'Italia, se in questo
domani il popolo sarà ancor sopito o morto alla vita pubblica, ohimè, non vi
sarà speranza più di unità e di indipendenza ; ma, se per av ventura questo
popolo noi lo avremo educato, istruito , reso elementó vero dell'attività
sociale, oh, allora non vi sarà bisogno di lunghissime lotte perchè la volontà
co mune di nazione, la volontà di Stato libero si concreti, s'imponga in
giuridiche affermazioni dinanzi agli stra nieri, che le subiranno e le
riconosceranno ! Così il problema politico in Vincenzo Cuoco diventa sopra
tutto problema pedagogico, anzi il problema peda gogico per eccellenza, come
quello che è destinato a creare un popolo, una nazione, uno Stato ( 1 ) . Ben
nota Guido De Ruggiero che, laddove il carattere spirituale dei moti, che dalla
rivoluzione si espressero, sfuggiva ai rivoluzionari, anche ai più eletti, il
Cuoco intende la nuova esigenza e vuol essere educatore : nella sua grandezza
come peda gogista intendiamo la sua grandezza come storico e po litico ( 2 ) .
Certo gli ostacoli a questa missione, a questo fine sono grandissimi, ma non
per ciò il molisano si sbigottisce: quanto maggiori sono gli ostacoli tanto più
bello sarà il premio nell'avvenire. Oggi in Italia non v'è nazione, non v'è
senso unitario; siamo poveri, pochi , disgregati, senza un esercito vero e ( 1
) P. ROMANO, Per una nuova coscienza pedagogica, G. B. Pa ravia, s. d. ( 1924
), Torino , p. 106. ( 2 ) G. DE RUGGIERO, op . cit., p. 175. 213 proprio ; non
importa, tutto si farà, ammonisce Cuoco, ed esce in una profetica dichiarazione
di fede, che, ancor oggi, commove e rende superbi nello stesso tempo. « Ogni
Stato » scrive « ha un periodo da correre . Tutte le nazioni piccole son
destinate ad ingrandirsi o a perire. Quelle non periscono, le quali dispongon
per tempo le loro menti all'ampiezza de’destini futuri; onde, quando il corso
de gli avvenimenti loro presenti le occasioni opportune, esse, per mancanza di
preparazione, non si ritrovano impo tenti » ( 1 ) . L'unità d'Italia prima sia
nello spirito, poi certamente sarà nella vita giuridica : ma noi non possiamo
presu merla in questa se non ci sforziamo di concretarla in quello. Dalla frase
che io ho richiamato appare chiaro quanto caldo sia in Cuoco il pensiero
unitario : non basta quella parvenza d'autonomia che la Francia ci dà e Na
poleone mantiene, occorre di più, occorre che ciò che è Italia a Milano sia
Italia a Scilla, e viceversa, occorre la vera unità, cioè lo Stato nazionale.
Questo non è un di ritto del passato inestinto e inestinguibile, sacra eredità
di generazioni trascorse, ma unità da formare ex novo attraverso un'opera
diuturna e disinteressata, in cui tutto ciò che è diritto e storia antica deve
rifondersi e rifog giarsi nel presente, diritto e storia nuova, perchè nuova
volontà e nuova consapevolezza. La storia in un certo senso è peso bruto, se
non si vince come passato ; è atti vità propulsatrice, se noi la riviviamo e ne
ritragghiamo incitamento. Perciò tutto il Giornale italiano è pieno di storia,
di memorie antiche, di riesumazioni dotte, d'in formazioni nazionalistiche : ma
tutto ciò non è materiale d'archivio , da biblioteca, bensì esempio da
prospettarsi ad animi italiani, ond'essi vibrino di un legittimo orgoglio, che
non è comodo adagiarsi in una indiscussa superiorità o antico primato italico,
ma incitamento a nuove opere . Ecco ciò che si propone all'incirca il Giornale
italiano : un'alta opera di pedagogia pubblica . ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari,
v. I , p. 7. 214 Questo giornale, divenuto rarissimo, per lungo tempo è stato
dimenticato dagli studiosi, ma oggi ad esso si è ritornati, e in esso si sono
rinvenute le vere ideali origini, di questa nostra Italia, di cui il
Risorgimento è stato la cosciente affermazione, non l'estrinseco dono di questo
o di quello, sia esso il terzo Napoleone o il Gabinetto britannico. La
direzione cuochiana al Giornale italiano durò tre anni : sono tre anni d'un
apostolato fervido sincero ele vatissimo, senza mai un minuto di riposo .
Nessun pro blema, giuridico o politico, etnografico o storico, econo mico od
agricolo, militare o industriale, sfugge alla mente di Vincenzo, e tutto egli
rivolge ad un ben noto fine, poichè, com'egli stesso osserva, « per formar la mente
de’ lettori, è necessario che l'opera istessa, abbia una mente, cioè un fine
unico, e parti tutte corrispondenti al fine » ( 1 ) . L'importanza di questo
foglio non isfuggì ai più acuti studiosi delCuoco. Già il Romano lo proclamò «
un nobi lissimo apostolato di italianità ( 2 ) » , e, come il Cogo ri leva,
questa affermazione il sopra detto critico convalida con prove sicure, sebbene
sarebbe stato forse opportuno che egli vi avesse fermato un po' di più la sua
atten zione ( 3 ) . Parimenti sul Giornale italiano ha scritt oltre il Cogo,
Paul Hazard, il quale nel suo obiettivo e felice intuito ha ben visto quanto il
Cuoco si differenzia dai gia cobini francesi e quanto rigidamente affermi la
sua na zione ( ) . Ma, nonostante il loro acume, il Romano, il Cogo, l'Hazard ,
non poterono avere quella sensazione sicura della grandiosa importanza di quel
giornale, che solo noi oggi possiamo apprezzare dopo che ulteriori studi hanno
messo in luce come quegli scritti della gazzetta milanese, spesso non firmati,
o sottoscritti con la sem plice sigla C. , fossero letti da un giovanetto
idealista ap ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari , v. I , p. 3. ( 2 ) M. ROMANO , op .
cit . , p. 136. ( 3 ) G. Cogo, op . cit. , p. 32. ( 4 ) P. HAZARD, op. cit., p.
231 e sgg. 215 pena uscito dall'università, che li postillava e li trascri veva
, da Giuseppe Mazzini: piccola favilla atta a destar gran fuoco. Per
raggiungere i suoi alti fini tre sono i mezzi che il Giornale italiano si
propone, e che esplicitamente di chiara : in primo luogo, « presentare al
pubblico quanto più spesso si possa le memorie degli altri tempi : non, come
talora si è fatto, sfigurate e dirette a turbar gli ordini che si avevano, ma
quali realmente sono, e per confermar colla stima di noi stessi gli ordini che
abbiamo » ; in se condo luogo, « incominciare a misurarci, almen col pen siero,
colle altre nazioni » ; poi, « ragionar frequentemente sulle operazioni nostre
», onde acquistare coscienza delle nostre possibilità, delle nostre virtù e dei
nostri vizi (1 ) . Tutti questi tre mezzi miravano ad un fine unico, far
comprendere agli italiani che « chi oggi non è grande » e « quasi diffida di
poterlo divenire » , lo sarà, come « lo è stato una volta » (2 ). Nel luglio
1805 Vincenzo Cuoco, recensendo uno scritto del Monti, di quel Monti, che egli
pur non troppo ammira come personalità morale ( 3) , scritto col quale il poeta
cesareo esalta l'Eroe, che' la gratitudine nazionale in voca « nel tempo stesso
suo conquistatore, suo liberatore, suo Re », non loda l’autore per il suo
lodare l'Eroe, « soggetto tanto comune qual è sempre » , ma bensì per la novità
che ha saputo trovare e per « l'interesse che ha saputo destare rammentando le
antiche glorie italiane, e le sciagure e l'avvilimento , che alla gloria
succedettero, ridestando le ombre de' tempi antichi, e dopo di esse l'ombra di
Dante, di quel poeta del quale nessuna nazione p. 5. ( 1 ) V. Cuoco, Scritti
vari, v. I , p. 5 e sgg . ( 2 ) V. Cuoco, Scritti vari , v. I , ( 3 ) Vedi N.
RUGGIERI, op. cit., p . 163 ; nonchè A. LEVATI, Saggio sulla storia della
letteratura italiana nei primi venti cinque anni del sec. XIX , Milano, Stella
ed ., 1831, p. 131 e sgg ., e G. MAFFEI, Storia della letteratura italiana, 3a
ediz. corretta da P. THOUAR, Firenze, 1853, v. II , p. 259, n . 3 , ai quali il
Ruggieri stesso rimanda. 216 può vantarne un altro più pieno di civile sapienza
» ( 1 ) . « Non altri » commenta « vi era di più opportuno di Dante
all'occasione solenne che Monti celebrava ; di Dante il quale forse il primo
incominciò a illuminar le opre infi nite degli antichi italiani per
ammaestramento de' mo derni; di Dante il più zelante dell'antica gloria degli
italiani ; il più severo censore della corruzione nella quale ai suoi tempi
l'Italia era caduta ; di Dante che tutti i suoi studi e tutte le sue cure
dirigeva al solo fine del risorgimento dell'Italia ; e con quali arti vi
tendeva ! Col predicare tra gli abitanti delle varie parti nelle quali era
allora divisa l'Italia l’unione, e negli ordini pubblici la concentrazione del
potere moderata dalle leggi » . L'alta coscienza del Cuoco vede in Dante il
simbolo d'ogni attività della stirpe, e per il divino poeta ha un vero culto,
come lo hanno e l'avranno tutti i grandi fattori della nostra storia e della
nostra civiltà , da Manzoni a Carducci, da Mazzini a Gioberti ( 2 ) . E la sua
volontà d'esaltare tutto ciò che è italiano, e in Italia ha avuto origine e
nascimento, si compenetra con un felice intuito storico, per cui il fenomeno
politico ( 1 ) Giorn. ital. , 1805, 27 maggio, n. 63, p. 274 : Visione del
professore V. Monti. Per altri accenni del Cuoco sull’Alighieri vedi Scritti
vari, v. I , p. 235, 257 ; v. II , p. 267. ( 2 ) L'alto concetto che V. Cuoco
avea della grandezza di Dante si addimostrò chiaramente in una circostanza spiace
vole, in una di quelle tante polemiche, con cui gli stranieri cercano di
menomare quel che è nostro e di impicciolirlo. Avendo un giornalista dei Débats
scritto che una vita di Dante poteva ritenersi a priori una lettura sonnifera ,
e che la Divina Commedia era l'opera di un piccolo politico , di un poeta bar:
baro, del quale solo pochi frammenti potevano dirsi buoni, il molisano rimbecca
: « Sia permesso all'autore dell'articolo di ignorare la storia, e non saper
quanto Dante fosse politica mente grande. La gloria del sublime poeta ha
offuscata quella del profondo politico , ed il maggior numero degli uomini ram
menta l'autor della Divina Commedia e quasi oblìa l'autor della Monarchia ,
libro che, ad onta delle spinosità scolastiche onde è ricoperto, racchiude
pensieri profondi, e, ciò che più importa, non è molto lontano dai nostri
attuali bisogni » . Vedi Giorn. Ital . , 1804 , 25 gennaio, n. 11 , p. 45. 217
e culturale è mirabilmente rappresentato . Esalta il se colo XVI, « il secolo
in cui rinacquero tutte le arti e tutte le scienze, e tutte rinacquero in
Italia, e dall'Italia si diffusero per tutto il resto ancor barbaro dell'Europa
; si scopersero due nuovi mondi, e tanti mali e tanti beni si aggiunsero
all'antico ; sursero nuove sette religiose, ed il fermento che esse produssero
fecondò li primi semi di quella libertà di pensare che dovea col tempo produrre
e la sana filosofia e l'imsensato pirronismo » ; ma subito si entusiasma, e ,
quasi a suggellare tanta gloria , esclama : « e tutti questi avvenimenti o
nacquero o agitaronsi o compironsi in Italia o per l'Italia o per l'opera degli
italiani...! » ( 1 ) . Il secolo XVI è il secolo di Leonardo, di Raffaello , di
Michelangiolo, di Cellini, di Palestrina, di Ariosto , di Tasso, di Machiavelli
. Il Cuoco è un ammiratore del se gretario fiorentino. E chi mai, se si
eccettui Francesco De Sanctis, intese così profondamente l'autore del Prin cipe
e delle Deche ? Anzi astraendo e generalizzando un parallelo tra il Cuoco e il
Machiavelli si può fare, ed è stato fatto ( 2) . « Più di uno » nota Giuseppe
Ottone « ha paragonato [ Il Cuoco) al Machiavelli, perchè al pari di lui trovò
i princípi e le formule di un rinnovamento della coscienza nazionale : e come
il Machiavelli segna il punto nel quale i fervori umanistici si incarnano nella
realtà della vita politica , e, svestito il paludamento retorico, si rivelano
nelle linee semplici e precise di un nuovo ideale, così il Cuoco, dopo un
secolo di vaneggiamenti filosofici e col concorso di una dura esperienza, per la
quale si fondono come cera le antiche illusioni, ci rivela rinnovata e con
sapevole di sè la coscienza italiana » ( 3 ) . ( 1 ) Giorn . ital., 1804, 21 ,
23 , 25 gennaio ; n . 9, 10, 11 ; pp. 35-36 , pp. 39-40, pp. 43-44 : Varietà :
( vedi in precedenza, p . 163 ) . ( 2) G. OTTONE, Vincenzo Coco è il risveglio
della coscienza nazionale, Vigevano, Unione tipografica vigevanese, 1903, Ap
pendice B. LABANCA, op . cit., p. 407 e sgg. (3) G. OTTONE, op. cit., p. 4. 218
« Le ragioni che possono suggerire il pensiero di una certa affinità tra i due
scrittori sono parecchie : 1° la tradizione, superficiale e scolastica più che
al tro, della trasmissione dell'ideale unitario ; 2º una certa affinità nelle
circostanze che hanno sug gerito all'uno e all'altro scrittore di attendere
alle fatiche dello scrivere ; 30 il comune intento di ricamare sul tessuto
della storia il disegno della loro personale esperienza e delle loro
convinzioni; 40 le frequenti citazioni che il Cuoco appunto fa di detti e
sentenze del Machiavelli; 50 la comune ammirazione per Roma repubbli cana » ( 1
) . Ma non è questo che a noi interessa vedere, poi che i paralleli hanno
sempre un valore approssimativo, dato che prescindono dalle mutevoli condizioni
dei tempi, che di volta in volta sono e non si riproducono più, onde il
Rinascimento, fenomeno sopra tutto culturale e in su bordinata politico, non si
può mai raffrontare col Risor gimento , fenomeno soprattutto politico sebbene
anche culturale. Quel che a noi invece interessa , ripeto, è la nuova luce che
il Cuoco riverbera sul segretario di Fi renze, onde per vie diverse da quelle
che tiene Ugo Fo scolo, tende a scagionarlo dai « giudizi ingiusti che il
maggior numero degli uomini dà sugli scritti suoi » . A ciò immagina che un suo
amico conservi il mano scritto d'uno de' suoi antenati, che visse nel secolo di
Leone X ed ebbe rapporti con i grandi uomini del tempo : in questo manoscritto
l'avo descrive una sua conversa zione col Machiavelli sovra un tema politico.
La discolpa del grande fiorentino non potrebbe essere più completa e sicura . «
Il maggior numero ( degli uomini), dice il Machiavelli, è ingiusto, perchè
pieno di passioni e servo de' partiti. Io ( 1 ) G. OTTONE, op. cit ., p. 51.
Giustamente nota l’A. che l'ideale unitario nel Machiavelli è scolastico,
laddove nel Cuoco è più profondo ed intimo. 219 ho voluto scrivere senza
passione veruna ; non ho seguito nessun partito , e li ho offesi tutti. Ho
scritto per gli uomini ragionevoli, e questo è stato il mio torto : gli uomini
ragionevoli son pochi » . Il Cuoco perciò intende studiare e giudicare il
Machia velli realisticamente, da un punto di vista storico, pre scindendo da
ogni giudizio a priori ( 1 ) . Ha il Machiavelli insegnato massime di tirannia
ai Me dici , ha preso per modelli uomini scelleratissimi quali Ca struccio e il
duca Valentino ? Nulla di tutto ciò . Egli ha visto i costumi e gli ordini dei
suoi tempi, e li ha descritti. Ha detto ai principi : che fate ? voi non sapete
essere nè buoni nè cattivi, voi finirete con l'essere nulla e vi per derete;
voi non avete religione e virtù, necessarie allo Stato, e finirete per
distruggerle negli altri. Ha detto : siate giusti, e, se pure qualche volta
vorrete permettervi di derogare dalle leggi della giustizia, sia questo a voi
soli permesso, non agli altri, non a tutti. Ecco un Machia velli più umano
dell'uomo foscoliano : che temprando lo scettro a' regnatori gli allòr ne
sfronda, ed alle genti svela di che lagrime grondi e di che sangue. ( 1 ) Che
questa sia proprio la posizione, sulla quale il Cuoco crede di poter pervenire
ad una esatta comprensione di Ma chiavelli politico, lo dimostra assai bene un
passo di un altro suo articolo : Giorn. ital., 1806, 5, 6 , 7, 8 gennaio , n .
5 , 6, 7, 8 ; p. 19, pp. 23-24, pp. 27-28 , pp . 31-32: Politica ( ristampato
in Scritti vari, v . I, pp. 201-213 col titolo La politica inglese e l’Italia
). « Quelli li quali leggono » scrive il Cuoco « le opere di Macchiavelli colla
stessa attenzione colla quale leggono un romanzo, e quegli altri i quali lo giudicano
senza averlo letto ( com'è accaduto al padre Possevino ed a tutta la scuola ge
suitica ) credono che Macchiavelli abbia date lezioni di tiran nide o abbia
voluto rappresentar quella stessa parte che rap presentò Samuele al popolo
ebreo . Io son persuaso che Mac. chiavelli non volle fare nè l'una nè l'altra
cosa, ma vide i costumi e gli ordini de' suoi tempi, e ne giudicò con una mente
la quale era superiore ai tempi suoi , e che in conseguenza doveva esser per
necessità ammirata o biasimata, e sempre senza ragione, perchè non era mai ben
compresa » . 220 Ma perchè invece di parlare ai sovrani non ha parlato ai
popoli ? Ha tentato di parlare anche ai popoli, ma si è avveduto che avrebbe
parlato, dati i tempi, invano. I principi si muovono per il loro potere, i
popoli per la loro virtù. Sperimentati i popoli tra i quali viveva, non ha
potuto dir loro : fate uso della vostra virtù ; essi non l'avevano. Invece si è
rivolto ai principi ed ha detto : fate uso del vostro potere ; e questo
precetto prima o dopo avrebbe dovuto produrre gli stessi effetti del primo, «
perchè è tanta l'efficacia della virtù che, anche simulata, vale a ricomporre
gli animi e gli ordini delle nazioni » . Ma perchè ha scelto come suo esempio
il duca Valentino ? Perchè quelli che il duca oppresse e distrusse erano più
scellerati di lui, e fra tanti scellerati ha preferito quello « che almeno
dirigeva le sue scelleraggini ad un fine più nobile e tendeva a riunir
l'Italia, che gli altri, con iscel leraggini più vili , dividevano e desolavano
» . Da queste notazioni scaturisce ben netto il giudizio che il Cuoco fa del
Machiavelli, giudizio ben diverso da quello che ne davano tutti gli storici e
ne dà lo stesso Foscolo, che si arresta sbigottito di fronte alla crudezza e
alla rigidità delle massime politiche dell'autore del Principe. Ma il molisano
troppo vigile senso storico e troppo realismo ha in sé per arrestarsi, ed il
suo giudizio infine coincide con quello di Francesco De Sanctis (1). Conobbe
questi proprio lo scritto cuochiano ? Io ne du bito assai ; ma certo è che i
due critici si incontrano, spinti forse ad un punto comune da un solo ideale,
da studi similari sovra la grande opera vichiana, da un eguale temperamento
meridionale, più nobilmente concreto nel suo idealismo critico che non astratto
in un nebuloso atomistico positivismo. ( 1 ) « C'è un piccolo libro del
Machiavelli, tradotto in tutte le lingue, il Principe, che ha gittato
nell'ombra le altre sue opere. L’autore è stato giudicato da questo libro , e
questo libro è stato giudicato non nel suo valore logico e scientifico, ma nel
suo va. lore morale. E hanno trovato che questo libro èun codice della
tirannia, fondato sulla turpe massima che il fine giustifica i mezzi e il
successo loda l'opera. E hanno chiamato machia. 221 Il Cuoco risulta da questo
nostro esame un esaltatore caldo delle glorie italiche, ma la sua esaltazione
non è un'esaltazione cieca fanatica, bensì cosciente illuminata da fine senso
storico, per cui ogni uomo, poeta o statista, ogni fenomeno politico, glorioso
od infausto, deve inse rirsi nel suo tempo, ove trova le sue radici, cioè la
sua determinazione genetica. Dante è Dante nel suo tempo ; Machiavelli è
Machiavelli nel suo. Quel che per essi potea avere una ragione, per noi può
anche non averla. In ogni caso noi non dobbiamo essere dinanzi a loro passivi,
ma assorbirli, farli nostri, sentirli, fare la loro esperienza no stra,
affinchè la loro vita spirituale non resti campata in cielo ma si saldi con la
nostra, e si continui e si perpetui. Quest'alta dignità umana di Vincenzo lo
differenza ben nettamente dagli stessi suoi cooperatori. Ben rivela a questo
proposito l ' Hazard che, per esempio, il Benin casa esercita nel giornale una
propaganda continua d'ita vellismo questa dottrina. Molte difese sonosi fatte
di questo libro , ingegnosissime, attribuendosi all'autore questa o quella
intenzione più o meno lodevole. Così n'è uscita una discussione limitata e un
Machiavelli rimpiccinito » . ( F. DE SANCTIS , Storia , v . II , p. 50) . «
Machiavelli bisogna giudicarlo da un alto punto di vista . Ciò a cui mira è la
serietà intellettuale, cioè la precisione dello scopo, e la virtù di andarvi
diritto senza guardare a destra e a manca e lasciarsi indugiare o traviare da
riguardi accessorii o estranei. La chiarezza dell'intelletto, non intorbidato
da elementi so prannaturali o fantastici o sentimentali, è il suo ideale. E il
suo Eroe è il domatore dell'uomo e della natura, colui che com prende e regola
le forze naturali e umane, e le fa suoi istru menti. Lo scopo può essere
lodevole o biasimevole ; e se è degno di biasimo , è lui il primo ad alzare la
voce e protestare in nome del genere umano.... Ma, posto lo scopo, la sua am
mirazione è senza misura per colui che ha voluto e saputo con seguirlo . La
responsabilità morale è nello scopo, non è nei mezzi. Quanto ai mezzi, la
responsabilità è nel non sapere o nel non volere, nell'ignoranza o nella
fiacchezza. Ammette il terribile ; non ammette l'odioso e lo spregevole.
L'odioso è il male fatto per libidine o per passione e per fanatismo, senza
scopo. Lo spregevole è la debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove
l'intelletto ti dice che pur bisogna andare » . ( F. DE SANCTIS , Storia , v.
II , p. 69 ) . 222 lianità esaltata, che finisce per divenire noiosa nella sua
metodicità, che fa pensare al partito preso. Si tratta di geografia : sono gli
italiani che hanno scoperto India ed America ( 1804, n. 6 ) ; si tratta del
sistema di Gall: esso è stato preceduto da trovate di italiani ( 1804, n. 140)
; si tratta d'arte tipografica : il primato italico con i vari Bo doni è
indiscusso ( 1805, n. 55) : e così in materia di belle arti, di poesia, di
teatro (1 ) . Il Cuoco ha un altro metodo, spesso esagera sull'infe riorità dei
suoi connazionali di fronte agli stranieri, ma esagera non per altro che per
provocare una specie d'emu lazione, una specie di slancio a cose più alte. Nè è
a dire però che la lode manchi al Cuoco, no, anzi gli abbonda, e si rivolge non
solo ai grandi antichi, ma anche ai contemporanei più eletti o a coloro che da
poco sono mancati ai vivi . E in quest'elogio quasi sempre co glie nel segno, e
le sue osservazioni sono quanto di più giusto si possa concepire. Esprime un
giudizio su Verri, ed il giudizio gli sgorga caldo, come un'apoteosi. « Egli fu
» scrive « sublime filosofo , profondo letterato ; il primo storico della sua
patria, la quale avanti di lui non aveva avuto che cronichisti privi per lo più
di filosofia , di cri tica , di gusto ; magistrato zelante, attivissimo, autore
o almeno parte principale di tutte le utili riforme che can giarono quasi
interamente la vita politica della Lom bardia austriaca » . E il Verri richiama
alla mente un altro grande, che in una disciplina delicatissima, come quella
dei delitti e delle pene, segna l'inizio d'una nuova èra. « A Verri deve
l'Europa Beccaria. Egli fu quasi l'oste trico di un genio grandissimo che
taceva compresso dal l'indolenza a cui era portato per fisica costituzione »
(2) . Spesso sono nomi, grandi ma non abbastanza noti, quelli ai quali si
riferisce, e allora il Cuoco si accalora e la parola diviene incitatrice ed
eloquente, sebben dolorosa ( 1 ) P. HAZARD , op . cit. , p. 235. ( 2) Giorn :
ital., 1804, 4 luglio, n . 80, p. 323-324, Scrittori clas sici italiani di
economia politica. 1 223 nello stesso tempo per la incomprensione degli
italiani . Parlando d’economia trova modo di ricordare un pio niere di questa
scienza e di richiamarvi l'attenzione na zionale, Giammaria Ortez . « Chi era
questo Giammaria Ortez ? Ecco una domanda che tutti gl'italiani fanno, e che
intanto farebbe torto a tutti gl'italiani se un uo mo di tanto merito quanto
Ortez, non avesse voluto egli stesso rimanersene ignoto, non sapremmo dir se
per mo destia o per orgoglio ; modestia sempre lodevole, orgoglio spesso nobile
in un secolo corrotto, ma tanto l'una quanto l'altro eccedenti quei limiti tra
quali si contiene la virtù » ( 1 ) . In questa difesa del nome italico il
molisano muove contro tutti gli stranieri che a lui ingiustamente s’oppon gono
e divengono dispregiatori delle glorie nostre . Recen sendo infatti nel
giornale un opuscolo di Vincenzo Monti , Del cavallo alato d'Arsinoe, nel quale
il poeta si scaglia contro Salvatore De Coureil, che con gallica fatuità aveva
osato menomare glorie purissime d'Italia , il Cuoco lo loda assai di ciò . «
Noi non entriamo in questa disputa.... Ma il sig. De Coureil chiama Parini
cattivo poeta ; Alfieri, se non mediocre, almeno non degno di tante lodi quante
gliene dànno gli italiani sol perchè non hanno altri tra gici; ecc. ecc.... Haec
non sana esse, non sanus juvet Ore stes » ( 2 ) . ( 1 ) Giorn . ital . , 1804,
24 novembre, n. 141 , p. 573 : Economisti italiani. ( 2) Giorn. ital. , 1804,
24 novembre, n. 141 , p. 574 : Il cavallo alato di drsinoe di V. MONTI. Nè la
tutela vigile che il Cuoco fa del buon nome italico s’ar resta qui: allorquando
« un Lalande dice con pueril sangue freddo, che l'Italia non ha oggi un solo (
un solo ? ) uomo di merito» ; allorquando il tragico -comico, drammatico
-sentimen tale e memorioso Kotzebue tratta tutti gl'italiani da ignoranti , da
incolti e quasi da canaglia » (Giorn . ital., 1805, 18 agosto, Sup plemento al
n . 98 , pp. 577-8 , Necrologia ), egli è là , e s'appa lesa bellicoso
difensore d'italianità. Recensisce un opuscolo di Luigi Bossi, in cui questi
vendica « l'onore italico trattato con poca civiltà dal sig . Akerblad » , egli
pur sempre ha dinanzi a sè un alto fine civile: la difesa delle nostre
intangibili glorie 224 Da questa rapida scorsa attraverso il Giornale italiano
appare chiara la posizione di Vincenzo. « Noi italiani ab biamo un maggior
numero di uomini grandi che non le altre nazioni », ma noi non li conosciamo
neppure per la nostra apatia : « longa urgentur nocte, carent quia vate sacro »
( 1 ) . La pianta uomo da noi cresce florida, ma gli ' italiani non la
coltivano; e, se vicendevolmente non si ignorano, gli italiani si disconoscono.
« Dotati gl' italiani dalla natura di grandissimo ed acutissimo ingegno, non
mancano di cognizioni ed osservazioni, e nell'angolo più incolto si ritrova
talora un uomo il quale vale per dieci accademici. Che pro ? Le sue
osservazioni, le cognizioni sue vivono una brevissima vita, ristretta tra i
confini di una picciola terra e muoiono con lui. Gli italiani sono grandi, ma
l'Italia rimane picciola » ( 2 ) . E così gli stra nieri si avvantaggiano su
noi : scoperte che furon fatte da italiani, poi vengon ripresentate come novità
francesi o inglesi, e magari da noi ammirate, da noi che forse le avevamo
vilipese e trascurate . E nel rilevare ciò Cuoco non esita a discendere a
problemi pratici, per dimostrare, per esempio, come un ramo d'industria, la
pastorizia « tanto utile » e largamente sfruttata all'estero, sia stata
esercitata tecnicamente per la prima volta da un italiano, il Dandolo, il quale
poi l'ha diffusa con grande dottrina e ripetuta esperienza ( 3 ) ; come, ancora
, certe pratiche agricole generalizzate in Inghilterra o altrove, siano po
steriori d’un buon secolo a ricognizioni nostre, del tutto (Giorn. ital. ,
1805, 22 luglio , n . 87 , p. 470 : A proposito della « Lettre » di L. Bossi
allo SCHLEGEL ). Sovra Lalande, Kotzebue e Akerblad vedi G. Cogo, op . cit., p.
89-90, ove di essi si parla esaurientemente, dando biblio grafia e notizie . (
1 ) Giorn. ital . , 1804, 28 marzo , n . 38, p. 152 : Scrittori italiani di
economia politica. ( 2 ) Giorn. ital., 1804, 19 novembre, n. 139, p. 566 :
Biblioteca di campagna , ecc. ( 3) Giorn . ital., 1805, 25 febbraio, n. 24, p.
96 : Del governo delle pecore spagnole e italiane , ecc. , saggio di VINCENZO
Dan. DOLO: sovra il Dandolo vedi G. Cogo, op. cit. , p. 88. 225 nostre secondo
il giudizio degli stessi stranieri ( 1 ) ; come, infine, addirittura pretese
scoperte fisiche intorno a cui inglesi e galli si disputano il primato siano
scoperte, ri trovati di un filosofo il cui nome va per la maggiore, nientemeno
di Giambattista Vico ( 2 ) . Tutte queste osservazioni rispondono ai mezzi, con
cui il Cuoco si propone di raggiungere il suo fine : la formazione della
coscienza nazionale e dello spirito pubblico. Bisogna cominciare a misurarci
con gli stranieri, ond'essi così ci p. 87. ( 1 ) Giorn . ital., 1805, 31
ottobre, 2 , 4 novembre; n. 148 , 150, 152; p. 874, pp. 882, p. 889-90 :
Giudizio sopra tre istituzioni agrarie. A proposito di questo articolo vedi G.
Cogo, op. cit. , ( 2 ) « Abbiamo parlato della scoperta fatta da un inglese
della virtù che hauna sfera magnetica nuotante nel mercurio di rivolgersi
intorno al proprio asse, e d'indicare così la la titudine e la longitudine. Ora
i francesi disputano agli in glesi l'onor della scoperta, e pretendono che
questo fenomeno trovasi descritto nelle Efemeridi geografiche di Busch, 1803. È
pur graziosa cosa veder altri popoli disputarsi la gloria di ciò che è
italiano. Nella Vita che Vico ha scritto di sè stesso ( e la scriveva circa il
1730 , quasi un secolo prima di Busch e del l'inglese ) , quest'uomo parla di
una nuova teoria che egli avea imaginata per ispiegar il fenomeno della
calamita, e da questa sua nuovateoria trae la conseguenza che la calamita non
solo si dirige al polo, ma anche al zenit, onde vien poi la rotazione intorno
al proprio asse, l' imitazione, diciam così, del giro della terra, ecc. Ķico
conchiude dicendo che questa nuova proprietà si sarebbe osservata tosto che si
fossero fatte dell'esperienze, in modo che la calamita avesse potuto
svilupparla. Non parliamo della ragione che mosse Vico a far questa congettura
: essa era figlia di una ipotesi forse falsa . E qual altra ragione può aver
altro fondamento che un'ipotesi , o qual altra ipotesi può dirsi vera ? Del
resto Vico proponeva un'esperienza : dovea farsi e non si fece. Ma già da due
secoli l'Italia non mancava di sommi ngegni, perchè questi li producono il
suolo ed il cielo : però l'italiani più non navigavano, più non commerciavano ;
i overni non si curavano di nulla ed i privati curavan solo lo studio delle
leggi o della medicina, dal quale speravan ric chezza, quello della teologia ,
che li promoveva ad un canoni cato, e qualche sonetto, unico mezzo che un uomo
d'ingegno avea per vedersi aprire la casa d'un grande... » . (Giorn. it. ,
1804, 6 'ottobre, n. 120, p. 489, Senza titolo : vedi V. Cuoco, Scritti vari,
v. I , p. 244. 15 F. BATTAGLIA, 226 appariranno sempre meno grandi di quello
che presu mono di essere, e noi appariremo sempre più grandi di quel che noi
stessi non crediamo. Se essi poi di fatto « sono oggi più grandi di noi » ; «
non importa : appariranno sem pre tanto meno grandi quanto più ci saranno
vicini, e perderanno quella riverenza che suole aversi per le cose lontane » (
1 ) . Ma in quest'esaltazione dell'italianità l'autore del Sag gio storico non
è cieco, anzi, laddove vede una deficienza, la rileva, la rileva, direi, con
crudeltà e freddo sguardo d'anatomista. Gli italiani, per esempio, hanno
rinvenuto quella filosofia delle lingue che è una scienza tutta nostra , ma i
piccoli nipoti , i discendenti di quel Vico, che in essa tant’orma stampò, non
che curarla, l'hanno abbando nata ( 2 ) : gli italiani hanno creato i più
splendidi melo drammi e libretti, che si conoscano, orbene, oggi essi stessi
non sono capaci di darci nulla più di buono, e la deca denza del libretto porta
seco la decadenza della musica ( 3 ) : gli italiani un dì maestri nella
difficile arte della sacra eloquenza, oggi sono inferiori agli stranieri che da
noi hanno appreso ( 4 ) . Questa posizione critica, che tanto distingue
l'italiani smo del Cuoco da quello del Benincasa o del Lomonaco, si rivela
anche nel terzo mezzo dal molisano adottato per creare un sentimento unitario :
il ragionar di frequente delle cose nostre. « Delle cose nostre o non ne
abbiamo parlato, o ne abbiam parlato con insensato disprezzo e con più
insensata lode ; cose le quali, sebbene opposte, pure per la natura dello
spirito umano, che oscilla sempre tra gli estremi, non sono inconciliabili tra
loro ». Delle cose nostre occorre invece ragionare obiettivamente, senza ( 1 )
V. Cuoco, Scritti vari, v. I , p. 5. ( 2 ) Giorn . ital. , 1804, 25 febbraio,
n. 24 : Sullo studio delle lingue ( ristampato in Scritti vari, v . I, p. 78 e
sgg., col titolo G. B. Vico e lo studio delle lingue come documenti storici). (
3 ) Giorn. ital . , 1804, 8 ottobre, n. 121 , p. 493: Spettacoli. ( 4 ) Giorn.
ital., 1804, 25 aprile , n. 50, p. 200 : Varietà ( ristam pato in Scritti
pedagogici, pp. 16-22; ed ora in Scritti vari, v. I , pp. 89-92, col titolo di
Eloquenza ecclesiastica ) . 227 accenderci troppo, con scienza e ragione, e
allora saremo davvero illuminati, e allora troveremo « mille volte motivi di
renderci migliori e non mai di crederci pessimi » ( 1 ) . A questi princípi
superiori il nostro uniforma l'analisi, che, di volta in volta, fa dei più
importanti fenomeni del tempo. Recensendo, per esempio , un libro dell'avv. An
tonio Corbetta sulla malavita , ( 2 ) ritiene che tra le altre cause, che
questa alimentano, la più importante și debba ritrovare nell'educazione
insufficiente. « Noi non abbiamo costume » . « Noi non abbiamo educazione
fisica » . « Noi non abbiamo educazione dello spirito. I figli del popolo non
imparan da fanciulli nulla di ciò che.... dovrebbero sapere quando sono
adulti». Ecco come Cuoco getta rapi damente la luce sul fenomeno, e dal
fenomeno risale alle cause , anzi alla causa per eccellenza, più remota, ma più
vera . Provvedimenti di sicurezza ? Ma questi sono insuf ficienti per eliminare
il male, una volta note le cause de terminanti. Se volete estirpare la
delinquenza, consiglia Vincenzo, i mezzi non sono la reazione e il carcere, ma
le istituzioni sociali con una intensa opera di pedagogia preventiva. Che
abbiamo fatto, si domanda, in questo campo ? Nulla. Ecco come un problema
giuridico diviene un problema di natura superiore, pedagogico, anzi filosofico
: l'educa zione del popolo, di cui il Cuoco è il più strenuo soste nitore , e
che egli pone sovra basi nuove e geniali. Ma questo problema, che poi è il
fulcro del pensiero del mo lisano, il problema insomma per eccellenza, noi
esamine remo più a lungo, quando verremo a parlare del Rap porto e Progetto di
decreto per l'ordinamento della pubblica istruzione nel regno di Napoli. ( 1 )
V. Cuoco, Scritti vari, v. I , p. 6 . (2) Giorn. it ., 1804, 20 agosto, n .
100, p. 410 : Osservazioni di un ex giudice , ecc . CAPITOLO VI. Il « Platone
in Italia » e la tesi di un antico primato italico. Deficienza artistica
filosofica e storica del « Platone » . – Suo - valore ideeale nella formazione
d'una nuova coscienza na zionale. - Antico primato italico preellenico. -
Unità. - Educazione del popolo. Governo dei migliori . – Stato e religione. -
Lotta di classe , - Cuoco e Gioberti. L'opera pubblica e pedagogica di Vincenzo
Cuoco nella Repubblica e nel Regno italico non si esaurisce nei molte plici
articoli del Giornale italiano, di cui noi abbiamo rile vato soltanto i più
importanti, quelli che meglio servivano a documentare particolari punti da noi presi
in esame, ma si continua nel Platone in Italia, nuova ed alta testi monianza di
quello spirito che abbiam visto in opera ininterrottamente dai Frammenti agli
scritti del foglio milanese. Questo sentimento nazionalistico, che ha il suo
centro sol nello spirito e non fuori di esso, è la gran trovata, il punto fermo
del molisano, e compenetra il Platone. Quello stesso uomo, nota giustamente
Paul Hazard ( 1 ) , che nel 1801 scriveva che avrebbe « amato di morir per la
sua patria » , con la sua Napoli, « poichè essa più non esiste », ( 1 ) P.
HAZARD, op. cit. , p. 243. 229 mentre egli vive ancora, ed aggiungeva che ad
essa ha consacrati tutti i suoi pensieri ( 1 ) ; ora consapevole sem pre di più
di quanto nel Saggio storico ha pur detto, cioè che « l'amore di patria....
nasce dalla pubblica educa zione » ( 2 ) , ora scrive una nuova opera il cui
solo fine è sempre lo stesso da noi precedentemente dichiarato : creare lo
spirito nazionale, e crearlo, presentando quanto più spesso si possa le memorie
dei tempi gloriosi . Che questo sia lo scopo del Platone in Italia nessun
dubbio : è Cuoco stesso che ce lo dice. Il Platone scrive l'autore , prossimo a
pubblicare il terzo ed ultimo volume del suo romanzo, in una lettera al vicerè
Eugenio è « diretto a formar la morale pubblica degl'italiani, ed ispirar loro
quello spirito d’unione, quell’amor di patria, quell’amor della milizia che
finora non hanno avuto » ( 3 ) . Il Platone perciò è un romanzo a tesi, o, se
volete , un romanzo didattico, se con ciò noi vogliamo riferirci al suo fine,
lasciando impregiudicata assolutamente l'ulte riore valutazione artistica. E
chi lo legge con cura non può non accorgersi di questo scopo , estrinseco sì
all'arte, ma non allo scrittore, di questo scopo che egli persegue, e per il quale
solo sembra vivere. La trama in sè è tenuissima, tanto tenue che lo scrit tore
quasi non se ne accorge, onde appena l'abbozza per tosto sorvolarla : un
giovane greco, Cleobolo, fa un viag gio culturale nella Magna Grecia al
principio del quinto secolo di Roma, con il suo grande maestro Platone, vi sita
le più importanti città d'Italia, Taranto, Metaponto, Eraclea, Turio, Sibari,
Crotone, Locri, ecc . , conosce di rettamente o indirettamente i più fieri
popoli della pe ( 1 ) G. ROBERTI, Lettere inedite di G. Botta, U. Foscolo e V.
Cuoco, in Giornale storico della letteratura italiana , a. XII ( 1894), v.
XXIII , pp. 416-427. La lettera del Cuoco è ora ri prodotta in Scritti vari ,
v. II , p . 302. ( 2 ) V. Cuoco, Saggio storico , p. 91 . ( 3) A. BUTTI, Una
lettera di V. Cuoco al Vicerè Eugenio nella miscellanea Da Dante al Leopardi,
per Nozze Scherillo -Negri, Milano, Hoepli ed. , 1904, pp . 529-40. La lettera
è ora ripro . dotta in Scritti vari, v. II, pp. 334-338. 230 nisola, i sanniti
e i romani, ammira le opere d'arte, di sputa di filosofia, si innamora d'una
bella ragazza, Mne silla, stringe con essa un bel nodo d'amore. La trama è
questa, ma vien meno dinanzi a l'urgere d'un contenuto didascalico
svariatissimo, che la spezza, la frantuma, e in fine ce la fa dimenticare. Nè
il Platone in Italia è sotto questo riguardo un ro manzo originale. Anzi ha i
suoi bravi antecedenti, tra cui sopra tutti importante quel Voyage du jeune Ana
charsis en Grèce, che nel secolo XVIII ebbe una grande diffusione in Francia e
fuori, che ovunque ebbe ammira tori ed imitatori. Ma nella maggior parte de'
casi , come nota il De Sanctis, il viaggio è « un semplice mezzo, con un altro
scopo ed un altro contenuto », che non sia quello vero e proprio di descrivere
paesaggi e monumenti. « Lo scopo non è più il viaggio ; ma l'espressione di
certe idee e sentimenti, fatta più agevole, con questo mezzo » . I secoli XVIII
e XIX amarono il romanzo viaggio, come del resto anche il romanzo -epistolario
, perchè col suo meccanismo si piega ad ogni finalità . Il Platone anzi è nello
stesso tempo viaggio ed epistolario , è un insieme di lettere spedite visitando
l'una dopo l'altra le varie città d' Italia. « Il viaggio, come forma
letteraria, può servire a qua lunque scopo ed avere qualunque contenuto ; è
cera, che può ricevere ogni specie d'impressione; marmo, che può configurarsi
secondo il capriccio dello scultore. È diffi cile trovare una forma più libera,
più pieghevole al vo stro volere. Passate da una città in un'altra : nessun
limite trovate al vostro pensiero . Potete incontrarvi con gli uomini che vi
piace ; immaginare ogni specie d'acci denti ; saltare dalla natura ai costumi,
da' costumi al l'anima; visitare, qua e colà, come vi torna meglio ; rin
chiudervi, tutto solo, nella vostra stanza, e fantasticare, filosofare,
poetare, mescere, a vostro grado, sogni , ghiri bizzi e ragionamenti, dialoghi
e soliloqui, visioni e rac conti . Se voi vi proponete uno scopo particolare,
questo v ' impone il tal contenuto, il tale ordine, la tal propor zione:
insomma v’impone un limite, che non procede 231 dal mezzo liberissimo di cui vi
valete, ma dal fine che avete in mente » ( 1 ) . Ma se voi leggete l'opera del
Barthélemy e la raffron tate con l'opera cuochiana, una differenza vi balzerà
su bito agli occhi, nell'alto fine che il nostro scrittore s'è proposto e che
nel francese, naturalmente, manca del tutto. È il fine quello che interessa il
Cuoco, e che da lungo tempo egli persegue ne' più vari modi. Il Giornale
italiano, a questo proposito, ci mostra come l'idea d'un viaggio educativo nei
vari reami della storia si sia al molisano altre volte presentata. « Tra tante
opere che ci si dànno ogni giorno, buone, mediocri, cattive » quella
descrivente un viaggio, per esempio, nel secolo di Leone X, « non sa rebbe
certamente la meno utile per la nostra istruzione e per la nostra gloria » .
Così scrive, e di questo viaggio ideale, di cui immagina che un suo amico
conservi l'an tico manoscritto d'un suo maggiore, dà un saggio in quel
colloquio col Machiavelli che abbiamo a più riprese ve duto ( 2 ) . Il fine
dunque è quello che occupa l'animo del nostro , e questo domina tutto, soffoca,
purtroppo, ogni intendimento che pedagogico non sia ( 3 ) . Il romanziere cerca
di scusare questa deficienza di trama, che si risolve in una deficienza
fantastica e quindi in una deficienza artistica, e nella prefazione scrive che
la sua storia fu rinvenuta in un antico manoscritto, auten tico , perchè
ritrovato da suo nonno proprio fra le fonda menta d'una sua casa, ergentesi sovra
quel suolo ove un dì superba fu Eraclea, manoscritto che è lacerato in varî
punti e perciò lacunoso , onde varje situazioni, prima ac cennate, non sono poi
svolte e tanto meno condotte a fine: ma questa è una scusa che non scusa nulla,
poichè tutti sanno che il manoscritto non è se non nell'immagi nazione del
Cuoco, nè più nè meno come l'anonimo ma ( 1 ) F. DÉ SANCTIS, Saggi critici, v .
III , pag. 290 e seg . ( 2 ) Giorn. ital . , 1804 ; 21 , 23, 25 gennaio ; n . 9
, 10, 11 , pp. 35-36, pp. 39-40, pp. 43-44 : Varietà (vedi p . 163 del nostro
lavoro ) . ( 3) L. SETTEMBRINI, op. cit ., v. III, p. 282. 232 noscritto dei
Promessi Sposi è nell'immaginazione di Don Alessandro . Perciò l'esiguità della
trama si deve unicamente al sopravvento di fini estrinseci all'arte ,
pedagogici e dida scalici . E gli stessi personaggi, che la piccola trama lega
, sono e non sono : noi li vediamo e non li vediamo : so prattutto noi non li
vediamo mai in azione, in atto , con i loro caratteri e con le loro passioni .
A rigore possiamo dire che non sono protagonisti di nessun dramma, poichè ci
appaiono, se mai, nella stessa funzione del prologo in certi antichi
componimenti teatrali, che si limita ad an nunciare ciò che fu o sarà e fa
alcune sue considerazioni . Essi hanno perciò un nome, come ne potrebbero avere
un altro : non sono essi quelli che contano, conta quel che dicono, o che per
essi dice Cuoco. Da questa condizion di cose, è evidente, scaturisce un
dissidio insanabile tra quello che è arte, e che perciò non ha nè può avere un
fine estrinseco a sè stessa, e lo scopo stesso dichiarato dall'autore : il
rammentare agli italiani « che essi furono una volta virtuosi, potenti, felici
» ; « che furono un giorno gl'inventori di quasi tutte le cognizioni che
adornano lo spirito umano » ( 1 ) . Come il Vico nel De antiquissima italorum
sapientia si pone dinanzi il fine di dimostrare qual filosofia si debba trarre
dalle origini della lingua latina, quella filosofia che in antico dovè certo
essere professata dai sapienti ita liani ; così il Cuoco si propone di
dimostrare che, nel pas sato più remoto, tra i popoli, che abitarono la nostra
penisola, ve ne furono di civilissimi, popoli, la cui ci viltà fu persino
anteriore alla civiltà ellenica, che dalla prima ricevette luce, e non viceversa.
E come « chi vo glia intendere il De antiquissima non deve tenere nessun conto
del suo titolo e del proemio , e di tutte le vane investigazioni che qua e là ,
vi ricorrono dei riposti con cetti , che, secondo il Vico supporrebbero talune
voci la tine, per considerare unicamente in sè stessa questa dot ( 1 ) V.
Cuoco, Platone, v. I , p. 3. 233 trina che egli pretende rimettere in luce dal
più vetusto tesoro della mente italica, e che non è altro che una dot trina
modernissima, quale poteva essere costruita da esso Vico nel 1710 » ( 1 ) ;
così chi voglia comprendere il vero spirito del Platone deve prescindere
dall'esil nucleo ro mantico , come dalla faticosa ricostruzione archeologica ,
e considerarlo nella sua attualità, poichè esso non esprime i pensieri nè di
Archita nè di Cleobolo, ma i pensieri del Cuoco, scrittore del Regno italico,
meditante sulle pro prie personali esperienze, e non sulle esperienze di ven
ticinque secoli avanti : all'anno di grazia 1806 vanno, per esempio , riferite
tutte le abbondanti considerazioni sulle leggi, sulla religione, sulle
istituzioni, sulle rivoluzioni, Ma l'opera del Vico è un'opera dottrinale,
filosofica, per cui lo sforzo di superamento temporale è facile, mentre l'opera
del Cuoco è un romanzo che vuol pure essere consi derato dal punto di vista
dell'arte : da ciò un insormon tabile dualismo, onde noi veniamo risospinti
dall'Italia del VI secolo di Roma all'Italia del secolo XIX di Cristo, da
Platone a Vico, da Archita a Napoleone, dai filoneisti di Taranto ai giacobini
di Francia , da Alcistenide e Nicorio a Monti ( 2) . E in questo urto di due
visioni opposte e con trastanti l'arte fugge via, e noi non sappiamo ove
finisca la finzione e cominci la realtà . La funzione è troppo evi dente,
perchè noi possiamo ingannarci. V'è troppa eru dizione, troppi richiami di
testi classici, e non solo greci, ma anche latini , medievali, moderni, perchè
la fantasia possa godere d’una pura contemplazione. E chi è quella Mnesilla,
che disputa così bene d'arte e di musica, se non un'estetica moderna, che
conosce Vico ? E chi è quel Cleobolo , che cita opinioni del Filangieri e del
Pagano, e parafrasa persino versi del Petrarca ? ( 3 ) . ( 1 ) G. GENTILE,
Studi vichiani, p . 95. (2 ) L. SETTEMBRINI , op. cit., v. III, p. 284. ( 3 )
In una lettera che Cleobolo scrive all'amata è detto . ( Platone, v. II , p.
114 ). « Così, passando di pensiero in pensiero e dimonte in monte, spesso
sopraggiunge la sera ; e , mentre par che tutta la natura dorma, solo il mio
cuore veglia, innalzan dosi col pensiero fino a quegli astri eternamente
lucenti che 234 E chi è quel Platone, che non ignora i princípi della na
zionalità e con Archita disputa di filosofia moderna ! La contaminazione è
troppo evidente, e la filosofia pi tagorica e platonica si mesce in uno strano
viluppo con quella vichiana. Da ciò, notiamo, scaturisce non solo , come abbiam
detto una deficienza grande nell'opera d'arte, ma anche nell'importanza
filosofica del Platone in Italia. È questo un'opera d'arte ? un lavoro
filosofico ? uno scritto politico ? Nulla di tutto ciò , e pure tutto ciò misto
in una unità singolare. Non scritto storico, perchè, « a parte il valore molto
discutibile del suo metodo, che egli si proponeva di ragionare e giustificare
più tardi, con una di quelle dilazioni, che svelano appunto l' incertezza del
pensiero e l'oscurità da vincere, lo scrittore è troppo preoccupato da fini
estrinseci alla storia, artistici ed educativi » ( 1 ) ; non filosofia ,
perchè, com' ho detto, egli non segue un indirizzo unico, ma si trova costretto
dal l'imbastitura della narrazione a mescere quel che è pa trimonio
dell'antichità con quella vigile coscienza tutta moderna e vichiana della
spiritualità del reale ; non opera d'arte per ragioni sovra dette, poichè egli
non riesce mai a trovare in sè quell'assoluta pacatezza della fantasia, che
sola può generare creature vive. L'arte « non c'è principalmente nota » il
Gentile « perchè egli non si dimentica abbastanza in questa visione con
fortante, che a un tratto gli sorge nell'animo, di un'Italia grande per virtù
private e pubbliche, perchè retta da una saggia filosofia. E corre a ogni po'
col pensiero all'Italia per cui scrive, all'Italia presente, piccola, inferma,
senza spirito pubblico, senza amor di grandezza , senza orgoglio di nazione,
senza forze vive : e ondeggia tra la statua brillano sul mio capo ; e ,
dopoaverli riguardati ad uno ad uno, il mio occhio si ferma in quella fascia
immensa, la quale pare che tutto circondi l'universo . Di là si dice che le
nostre anime sien discese, ed ivi ritorneranno.... e rimarranno unite.... per
sempre ! » . ( 1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 375. 235 che avrebbe da
animare, e sè stesso che egli quasi non crede da tanto ; e gli trema la mano »
. Non c'è l'opera d'arte, ma il lavoro non è cosa del tutto morta e caduca. Ci
sono parti molto belle, in cui realmente l'animo si placa in una commossa
visione d'amore, o in un paesaggio italico , ricco di tinte forti calde
sfumanti ( 1 ) ; poi c'è una sempre vigile volontà, tesa in un fine, che, se è estrinseco
all'arte, non è mai fuori dall'autore, ma pur sempre in lui, e l'accende di
sano amore di patria e d'alto nazionalismo. C'è in somma una matura attività
dello spirito, che, sia che ( 1 ) Per dare un esempio dell'arte del Platone,
trascrivo un brano, che già al RUGGIERI, op. cit. , p. 158 , apparve degno
d'attenzione: è una lettera di Cleobolo. « Ieri sera sedevamo in quel poggio il
quale tu sai che domina il mare e Taranto. È il sito più delizioso della villa
ch'ella tiene nell'Aulone. E noi non sedevamo propriamente sulla sommità, ma in
mezzo della falda, come in una valletta, la quale, ren dendo più ristretto
l'orizzonte , par che renda più ristretti e più forti i sensi del cuore. Il
sole tramontava ; spirava dal l'occidente il fresco venticello della sera, che
scendeva a noi turbinosetto per l'opposta falda del colle. Eravamo soli, io ed
ella, e nessuno di noi due parlava, assorti ambedue in quella languida estasi
che ispira il soave profumo de' fiori di primavera , forse più grave la sera
che la mattina ne' luoghi frequenti di alberi. Di tempo in tempo io rivolgevo i
miei occhi a lei, ma un istante dipoi li abbassava ; ella li abbassava come per
non incontrarsi coi miei, ma un istante dipoi li rial zava , quasi dolendole di
non averli incontrati.... Vedi quel l'arboscello di cotogno ? — mi disse ( e di
fatti ve ne era uno a dieci passi da me) — vedi come il vento, che si rompe in
faccia agli annosi ulivi ed ai duri peri, pare che sfoghi tutta la sua
prepotenza contro quel debole ed elegante arboscello ? Quanta verità è in quei
versi di Ibico : Il mio cuore è simile al cotogno fiorito, che il vento della
primavera afferra per la chioma e ne con torce tutti i teneri rami! ... Tu non
hai detti tutti i versi di Ibico ; no escləmai io tu non li hai detti tutti
.... Esso è stato nudrito colla fresca onda del ruscello che gli scorre vicino;
ma nel mio cuore un vento secco , simile al soffio del vento di Tra cia, divora
.... Io voleva continuare ; ma ella mi guardò e le vossi.... Qual potere era
mai in quel guardo, in quell'atto ? ... Io non lo so; so che tacqui, mi levai e
ritornai in casa , se guendola sempre un passo indietro , senza poter mai più
alzar gli occhi dal suolo » . (Platone, v. II , p. 58 ). 236 eccesso e analizzi
le antiche istituzioni del Sannio ; sia che valuti i germi della futura
grandezza di Roma, sia che da questi discenda ai fatti moderni, e
indirettamente dica della ri voluzione francese e de' popoli, che tra un
l'altro amano posarsi nelle opinioni medie o magari tro vare la pace in un
Napoleone, tiranno restauratore del l'ordine, rivela pur sempre un uomo d'alta
coscienza, con sapevole di sè e del suo posto nel suo popolo . Noi dimen
tichiamo l'artista mal riuscito , il metafisico contaminato, lo storico poco
sicuro , ma ammiriamo il pedagogo, che dai dati concreti della storia umana
trae un non perituro insegnamento. Egli parla non a sè stesso, poi che non si
pone dal rigido punto di vista subiettivo proprio dell'arti sta, ma a noi, a
noi italiani; e per noi vibra, per noi di sputa , per noi parla . Platone non
parla al suo discepolo Cleobolo, Archita non parla ai suoi tarantini, Ponzio
non parla ai suoi sanniti, ma tutti e tre, attraverso il Cuoco, si rivolgono a
noi, e il loro insegnamento mira a formare una più sicura anima italica . Certo
questa posizione è un po' monotona, e riporta l'autore ad insistere su punti
già precedentemente esposti nel Saggio, nei Frammenti, nel Giornale italiano,
ma, se guardiamo l'arduità dello scopo, la difficoltà d'attingerlo, le
ripetizioni non appariranno mai soverchie : da noi non si tratta , dice il
Cuoco, di conservare lo spirito pubblico, ma di crearlo, e la creazione è opera
lunga, spesso do lorosa . La tesi principale del Platone in Italia , che del
resto non è una novità cuochiana, ma una trovata del Vico, è che nella nostra
penisola vi sia stata una civiltà, come ho detto, anteriore alla greca , quella
etrusca, che per il mondo ha diffuso luce di sapere filosofico e splendore
d'arte, della quale civiltà quella ellenica e pitagorea è un posteriore
riverbero. L'opinione, sia essa tramontata, come pretendono alcuni, per cui le
origini greche del pi tagorismo sono indubbie, sia essa vera , come sostengono
altri, per cui l'autonomia della civiltà etrusca e delle susseguenti civiltà
italiche è parimenti comprovata, è profondamente radicata nel Cuoco, la di cui
serietà scien 237 tifica non può essere posta in dubbio. Il Cuoco è forte mente
compenetrato di essa, e, laddove crede di vederla comprovata dai fatti, l'animo
suo trema d'intima com mozione e di passionata esaltazione . Al tempo del
viaggio di Platone la Magna Grecia è in decadenza : molte città, che già furono
grandi, vennero nelle civili dissensioni rase al suolo ; altre, che un dì do
minarono molte terre, sono ridotte a piccoli borghi ; stirpi, che ebbero un
passato glorioso, fiere delle loro milizie e dei loro trionfi, ora languono
nell'ozio e nella effemina tezza ; ma, ovunque, a chi mira intimamente le cose
s'ap palesano i segni dell'antica grandezza e dell'antica forza, diffusi ne'
monumenti architettonici, vivi negli ordini ci vili, parlanti nelle costruzioni
filosofiche del pensiero e dell'arte. « Io credo, dunque » dice Ponzio a
Cleobolo « ciò che dicono i nostri sapienti, i quali dan per certo che ne'
tempi antichissimi l'Italia tutta fioriva per leggi, per agricol tura, per armi
e per commercio . Quando questo sia stato, io non saprei dirtelo : troverai
però facilmente altri che te lo saprà dire meglio di me. Questo solamente posso
dirti io : che allora tutti gl'italiani formavano un popolo solo, ed il loro
imperio chiamavasi etrusco » ( 1 ) . Mentre la Grecia è ancor giovane, l'Italia
è assai an tica e sul suo vecchio suolo già due epoche s'avvicen dano : l'una è
scomparsa, l'altra è in isviluppo, e solo esteriormente potrà dirsi ellenica,
nelle innegabili im migrazioni di popoli greci, poichè nel suo spirito è
italica, erede della prima : Pitagora, che la impersona, null'altro è che un
mito, ma un mito italico, una sintesi concettosa della sapienza, ma una sintesi
tutta italica . Come nella natura vi sono terribili sconvolgimenti fisici, per
cui la faccia della terra è alterata , i monti si fendono ed aprono larghe
valli, in cui scorrono nuovi fiumi che prima non erano, mentre i vecchi veggono
alterato il loro corso, così nella storia antiche catastrofi hanno distrutto
una fiori tura senza pari e modificato organismi civili possenti. ( 1 ) V.
Cuoco, Platone, v. II , p. 157. 238 « Sappi dunque » scrive Cleobolo al
maestro, riferendo un colloquio che egli ha avuto con un sacerdote di Pesto «
che un tempo tutta l'Italia è stata abitata da un popolo solo, che chiamavasi
etrusco. Grandi e per terra e per mare eran le di lui forze ; e, de' due mari
che, a modo d'isola, cingon l'Italia, uno chiamossi, dal nome co mune del
popolo, Etrusco ; l'altro , dal nome di una di lui colonia, Adriatico . «
Antichissima è l'origine di questo popolo ; le memorie della sua gloria si
confondono con quella de' vostri iddii e de ' vostri eroi.... « Ma chi potrebbe
dirti tutto ciò che gli etrusci opra rono nell’età de' vostri eroi e de' vostri
iddii ? Oscurità e favole coprono le memorie di que' tempi. Posso dirti però
che gli etrusci estendevano il loro commercio fino all'Asia ; signoreggiavano
tutte le isole che sono nel Medi terraneo, ed anche quelle che sono vicinissime
alla Gre cia. Dall'ampiezza dell'impero giudica dell'antichità » ( 1 ) .
Quest'impero però era troppo grande e poco omogeneo, più federazione di città
che Stato unitario, onde esso « avea in sè stesso il germe della dissoluzione.
Non mai si era pensato a render forte il vincolo che ne univa le varie parti.
Ciascun popolo avea ritenuto il proprio nome : era il nome della regione che
abitava, era quello della città principale.... Che importa saper qual mai fosse
? Non era il nome etrusco. Ciascun popolo avea governo, leggi e magistrati
diversi. Non vi era nè consiglio, nè magistrato comune se non per far la guerra
» ( 2 ) . Da ciò trassero origine grandi mali che distrussero ogni organiz
zazione : « la corruzione de' costumi produsse la corru zione delle arti, le
quali sono de' costumi ed istrumenti ed effetti » ( 3 ), e poi generò la
corruzione della religione, la quale « corrotta accelera la morte delle città »
( 4 ) . Perciò l'Etruria si sfasciò per legge naturale di cose . ( 1 ) V.
Cuoco, Platone, v. II , p. 244. ( 2 ) V. Cuoco, Platone, v. II , ( 3 ) V.
Cuoco, Platone, v. II , p. 249. ( 4 ) V. Cuoco, Platone, v. II , p. 254. p.
247. 239 « Così cade, o Cleobolo » commenta il divino Platone « qualunque altro
impero ove non è unità. Così cadrà la Grecia,, se non cesserà la disunione tra
le varie città che la compongono, tra gli uomini che abitano ciascuna città.
Imperciocchè, ovunque è sapienza, ivi si tende al l'unità ; all'unità si tende
ovunque è virtù , il fine della quale è di render i cittadini concordi e simili
; nè possono . esserlo se non son buoni. La vita istessa di tutti gli esseri
non è se non lo sforzo degli elementi, che li compongono, verso l'unità.
Ovunque non vi è unità, ivi non è più nè sapienza, nè virtù , nè vita, e si
corre a gran giornate alla morte » ( 1) . Ma la morte non è mai interamente
morte, bensì tra sformazione, cioè riduzione in nuove forme di vita, forme
nuove, che della prima vita mantengono alcuni elementi originari ed altri
novelli acquistano. Così l'Italia, dive nuta deserto nella ruina d'Etruria ,
tosto si ripopola di genti, di nuove città, si riorganizza, si riabbellisce, e
al contatto di nuovi popoli, specie i greci, di nuovo si ri presenta composta
all'ammirazione universa . Ma questa nuova civiltà , che possiamo dire
pitagorea, nella sua es senza è pur essa autoctona, se pure apparentemente elle
nistica. Quando le colonie greche si sono stabilite in Italia, già le stirpi
indigene dalle montagne eran discese al piano, e due civiltà s'erano espresse.
« Noi disputiamo » osserva un italico a Cleobolo « per sapere se i greci abbian
popolata l'Italia o gl'italiani abbian popolata la Grecia ; ed intanto è l'una
e l'altra regione sono state forse po polate da un altro popolo, ch'è il padre
comune de' greci e degl'italiani » ( 2) . Comune è perciò l'origine dei due
popoli, ma, stanziatisi in diverse sedi, gl' italiani hanno avuta una fioritura
più precoce che non i greci, che pure al V secolo, ai tempi di cui trattiamo,
sembrano i più ci vili, i maestri degli italiani in ogni campo dell'umana
attività. ( 1 ) V. Cuoco, Platone, v. II , p. 257 . ( 2 ) V. Cuoco, Platone, v
. II , p . 220. 240 L'antico primato etrusco però ancor si conserva, tra
sformato sì , ma sempre attivo, e si manifesta soprattutto ne' paesi
meridionali, ove l'influenza ellena sembra più manifesta. E su questo primato
italico il Cuoco insiste, insiste, in siste calorosamente : è la sua tesi
nucleare. La pittura era ' in Italia già vecchia ed evoluta, allorquando Panco,
fra tello di Fidia, « dipinse ne' portici di Atene la battaglia di Maratona » ,
riempiendo di stupore i suoi concittadini per la rassomiglianza che seppe
mettere nelle immagini dei duci greci e dei capitani nemici ( 1 ) . Furono
gl'ita liani che primi « diedero opera alle matematiche, e ne fecero un
istrumento principale della loro filosofia » : prima che Teodoro recasse ai
greci la scienza degli italiani, in Grecia « le idee geometriche erano puerili,
frivole, con traddittorie » ; invece « gl'italiani, potenti per un istru mento
di filosofia tanto efficace, han fatto delle scoperte ammirabili in tutte
quelle parti delle nostre cognizioni che versano sulla quantità : nella
geometria, nella astro nomia, nella meccanica, nella musica ; ed hanno spinte
al punto ' più sublime e più lontano dai sensi tutte quelle altre che versan
sulla qualità » ( 2 ) . La stessa arte della guerra e delle milizie in Italia
si perde nella remotezza de' secoli, onde ancora ai tempi di Platone gli
italici mantengono indiscussa la loro supe riorità : « la guerra presso i greci
ancora è duello » (3), scienza rudimentale ; mentre presso gli italiani è savio
urto di masse e organica distribuzione di manipoli. Le stesse leggi, che
regolano la convivenza dei popoli della penisola, sono originarie e nazionali,
frutto della loro in tima esperienza sociale, e perciò nel loro complesso im
muni da contaminazioni eterogenee. Le romane dodici tavole quindi non sono mai
derivate, come alcune storie vogliono , da Atene, poiché Atene nulla poteva
dare a un ( 1 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p . 252. ( 2 ) V. Cuoco, Platone, v.
II, p. 5 . ( 3 ) V. Cuoco, Platone, v. II , p. 119. 241 . popolo, come il
romano, discendente da popoli dell’ate niese più antichi. « Vedete dunque »
dice Cleobolo ad alcuni legati di Roma « che una parte delle vostre leggi è più
antica della città vostra. Un'altra è sicuramente più antica di quei dieci che
voi dite aver imitate le leggi di Atene. Voi mi avete recitate le leggi de’
dieci e quelle dei re, le quali dite esser state raccolte da Sesto Papirio
sotto il regno del buon Servio Tullio. Alcune, che voi recitate tra quelle, le
ripetete anche tra queste. Tali sono tutte quelle che regolano gli auspici, le
assemblee del popolo, il diritto di giudicar della vita di un cittadino, e che
so io ! Queste dunque già esistevano in Roma ; ed era superfluo correr tanti
stadi e valicare un mare tempestosissimo per pren derle da un popolo che non le
avea » ( 1 ) . « Tre quarti dunque del vostro diritto non ha potuto esser
imitato da noi. Vi rimane una quarta parte, ed è quella appunto nella quale può
aver luogo l ' imitazione, perchè può stare, senza sconcio alcuno, ed in un
modo ed in un altro. Tali sono le leggi sulla patria potestà, sulle nozze ,
sulle eredità, sulle tutele.... Ma queste cose sono dalle vostre leggi ordinate
in un modo tanto diverso dal nostro, che, se mai è vero che i vostri maggiori
abbiano inviati de' legati in Atene, è forza dire che ve li abbian spediti per
imparare, non ciò che volevano, ma ciò che non volevano fare.... » ( 2 ) .
Passando nel campo delle arti belle, tra gli elleni la poesia drammatica è meno
antica che tra gl'italiani : « ben poche olimpiadi » dice un comico italiano,
Alesside, a Platone e Cleobolo « contate dalla morte di Tespi e di Frinico,
padri della vostra tragedia . Quando il siciliano Epicarmo si avea già meritato
quel titolo di principe della commedia, che, più di un secolo dopo, gli ha dato
il principe de’ vostri filosofi, Magnete d'Icaria appena bal butiva tra voi un
dialogo goffo e villano, che tutta ancor ( 1 ) V. Cuoco, Platone, v. II , p. (
2 ) V. Cuoco, Platone, v. II , p . 155. 156. 16 F. BATTAGLIA . 242 oliva la
rusticità del villaggio ove era nato. Quando la commedia tra voi nasceva, tra
noi era già adulta » ( 1 ) . I poemi omerici stessi nel loro nucleo
fondamentale sono stati elaborati in Italia, poichè di favole omeriche gli
italiani ne hanno più de' greci, e quelle greche co minciano ove le italiche
finiscono. In tutto ciò noi non possiamo non notare il partito preso, la
volontà di dimostrare ad ogni costo quel che il Cuoco a priori afferma,
l'originario primato italico ; ma lo scopo nobilissimo, che ha dinanzi, vale a
fare perdonare allo scrittore varie inesattezze. Nel tempo in cui Platone e
Cleobolo iniziano il loro viaggio per l'Italia, la Magna Grecia è in
dissoluzione : i vari popoli hanno fra loro re lazioni saltuarie ed
estrinseche, non si sentono fratelli animati da un'unica missione: guerre,
dissensioni, lotte sono frequenti, donde scaturisce una condizione di per petua
incertezza. « Vedi, da una parte, l'Italia simile a vasto edificio rovinato dal
tempo, dalla forza delle acque, dall'impeto del terremoto : là un immenso
pilastro ancora torreggia intero, qua un portico si conserva ancora per metà ;
in tutto il rimanente dell'area, mucchi di calcinacci, di co lonne, di pietre,
avanzi preziosi, antichi, ma che oggi non sono altro che rovine. Ben si conosce
che tali mate riali han formato un tempo un nobile edificio, e che lo
potrebbero formare un'altra volta ; ma l'antico non è più, ed il nuovo
dev'essere ancora » ( 2 ) . È l'unità che si è infranta, per cui alla
primigenia unitaria forza statale è sottentrata la debolezza della
molteplicità, mal celata dall' invadente forza belligera di alcune stirpi ,
come i sanniti, o dal fasto di altre, come i tarentini. Ma questa molteplicità
tende quasi per fatale legge di natura all'unità, e dall'indistinto pullulare
delle genti dovrà pur sorgere chi di esse farà una sola gente, un nome unico,
Italia . « Pure, se tu osservi attentamente e con costanza , ti avvedrai che le
pietre, le quali formano ( 1 ) V. Cuoco , Platone, v. I , p. 204 e sg. ( 2 ) V.
Cuoco , Platone, v. II , p . 258. 243 quei mucchi di rovine, cangiano ogni
giorno di sito ; non le ritrovi oggi ove le avevi lasciate ieri ; e mi par di
rico noscere un certo quasi fermento intestino e la mano d'un architetto ignoto
che lavora ad innalzare un edificio no vello » ( 1 ) . È la gran fede del Cuoco
. Da questa unità o da questa frammentarietà dipende l'avvenire della penisola.
« Tutta l'Italia » dice Cleobolo « riunisce tanta varietà di siti e di cielo e
di caratteri, e nel tempo istesso sono questi caratteri tanto marcati e forti,
che per essi mi par che non siavi via di mezzo. Da ranno gl'italiani nella
storia, come han dato finora, gli esempi di tutti gli estremi, di vizi e di
virtù, di forza e di debolezza. Se saranno divisi , si faranno la guerra fino
alla distruzione : tu conti più città distrutte in Italia in pochi anni, che in
Grecia in molti secoli. Se saranno uniti, daranno leggi all'universo » ( 2 ) .
Il Cuoco però ha fede che questo suo ideale non resterà mero ideale, ma si
concreterà in una entità statale, in un impero, che all'itala gente dalle molte
vite darà or ganizzazione e potenza. Egli dice che questo ideale non è nuovo,
ma quasi conformandosi ad un antico vero, il dominio etrusco, è risorto e di
continuo risorge nelle più elette menti. Lo stesso Pitagora « concepì l'ardito
disegno di rista bilir la pace e la virtù, senzadi cui la pace non può du rare.
Egli volea far dell'Italia una sola città ; onde l’ener gia di ciascun
cittadino avesse un campo più vasto per esercitarsi, senza essere costretta a
cozzare continua mente con coloro, che la vicinanza, la lingua, il costume
facean nascer suoi fratelli e la divisione degli ordini politici ne costringeva
ad odiar come nemici ; e l'energia di tutti non logorata da domestiche gare,
potesse più vigorosamente difender la patria comune dalle offese de ' barbari.
Egli dava il nome di barbari a tutti coloro che s’in tromettono armati in un
paese che non è loro patria, e ( 1 ) V., Cuoco, Platone, v. II , ( 2 ) V.
Cuoco, Platone, v. I , p . 20. p. 258. 244 chiamava poi barbari e pazzi quegli
altri, i quali, parlando una stessa lingua, non sanno vivere in pace tra loro
ed invocano nelle loro contese l'aiuto degli stranieri. Egli soleva dire
agl'italiani quello stesso che Socrate ripeteva ai greci: Tra voi non vi può nè
vi deve essere guerra : ciò, che voi chiamate guerra, è sedizione, di cui, se
amas sivo veracemente la patria, dovreste arrossire -» ( 1 ) . Sia stato
Pitagora un essere umano di fatto vissuto, sia egli invece un'idea, un mito
elaborato dalla fantasia delle stirpi indigene, nel quale esse han fatto
confluire i risultati ultimi di tutte le loro secolari esperienze, ciò dimostra
l'antica radice, le remote propaggini nella co scienza collettiva del problema
unitario . Ma come attingere l'unità ? Ritorniamo a posizioni che noi già
sappiamo. Il problema è un problema etico e pe dagogico insieme. « A questa
meta non si può pervenire senza virtù e senza ottimi ordini civili : onde non
vi sia chi voglia e chi possa comprar la patria, chi voglia e chi possa
venderla ; ma l'ambizione di ciascuno, vedendosi tutte chiuse le vie della
viltà e del vizio, sia quasi co stretta a prender quella della virtù . È
necessario istruir il popolo, perchè.... un popolo ignorante è simile all'ata
bulo, che diserta le campagne : spirando con minor forza il vento delle
montagne lucane, porta sulle ali i vapori che le rinfrescano e le fecondano. È
necessario istruir coloro che devono reggerlo , perchè un popolo con cen tomila
piedi ha sempre bisogno di una mente per cam minare, e, con centomila braccia,
non ha una mente per agire » ( 2 ) . Ma quest'educazione pubblica, che occorre
diffondere, non deve essere per sua natura uniforme, uguale per tutti, bensì
multiforme, varia , secondante le infinite varietà che la natura umana ci offre
: deve essere educazione vera, cioè deve parlare agli spiriti, e perciò deve
essere in essi , e non fuori di essi . Diversa perciò l'educazione della classe
dirigente da quella delle classi povere, diversa però ( 1 ) V. Cuoco, Plaione,
v. I , p. 74. ( 2 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p . 74 e sg. 245 non nell'intima
qualità, perchè l'una e l'altra si volgono alla stessa natura umana e alle
stesse potenze dello spirito. « Un popolo » dicono alcuni « il quale conoscesse
le vere cagioni delle cose, sarebbe il più saggio ed il più virtuoso de'popoli
» . Non è invero così. « Riunite i saggi di tutta la terra, e formatene tante
famiglie ; riunite queste fami glie, e formatene una città : qual città potrà
dirsi eguale a questa ! » Nessuna, risponde il Cuoco o Archita per lui . « Essa
non meriterebbe neanche il nome di città, perchè le mancherebbe quello che solo
cangia un'unione di uo mini in unione di cittadini : la vicendevole dipendenza
tra di loro per tutto ciò che rende agiata e sicura la vita e la perfetta
indipendenza dagli stranieri » ( 1) . È necessario perciò ai fini dello Stato
che gl' indotti coesistano accanto ai dotti, come i poveri accanto ai ricchi ,
perché si realizzi quell’armonica convergenza di forze distinte che è la vita.
« Ciò, che veramente è neces sario in una città, è che ciascuno stia al suo
luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l'ordine. Ad ottener l'uno e l'altro
, sono necessarie egualmente la scienza e la su bordinazione » ( 2 ) . Diversa
sarà l'educazione dei poveri da quella dei di rigenti, ma una educazione per i
primi deve pur esservi. E per istruirli bisogna avere la loro stima. « Non
perdete la stima del popolo, se volete istruirlo . Il popolo non ode coloro che
disprezza . Di rado egli può conoscer le dottrine, ma giudica severissimamente
i maestri, e li giu dica da quelle cose che sembrano spesso frivole, ma che son
quelle sole che il popolo vede. Che vale il dire che il popolo è ingiusto ? Quando
si tratta d'istruirlo , tutt'i diritti sono suoi ; tutt’i doveri son nostri, e
nostre tutte le colpe » ( 3 ) . Al popolo occorre insegnare tutto ciò che è
necessario per agire, tutto ciò che può rendergli o più facile o più utile il
lavoro, più costante e più dolce la virtù . Al savio, ( 1 ) V. Cuoco, Platone,
v. I , p. 85 e sg. ( 2) V. Cuoco, Platone, v. I , p. 87. ( 3) V. Cuoco,
Platone, v. I , p. 87 e sg. 246 invece, « è necessaria la conoscenza delle
cagioni vere, perchè sol col mezzo della medesima può render più chiara, più
ampia e più sicura la conoscenza delle stesse cose. Al volgo conoscer le vere
cagioni è inutile, perchè non potrebbe farne quell'uso che ne fanno i savi . È
ne cessario però che ne conosca una, in cui la sua mente si acqueti ; e questa
necessità è tanto imperiosa, che, se voi non gli direte una cagione, se la
farneticherà egli stesso » ( 1 ) . Errano perciò i filosofi che credono
opportuno divul gare la sapienza è mettere il popolo a contatto con i sublimi
princípi della vita. Del resto ben diversa è la na tura del dotto e del
popolano : laddove il savio è ragione, il popolano è tutto senso e fantasia. Il
popolo è « un eterno fanciullo che ha sempre più cuore che mente, più sensi che
ragione » ( 2 ) : e quindi ad esso bisogna parlare con quello stesso linguaggio
che s'usa con il fanciullo , dan dogli in un certo qual modo cose e massime già
fatte. Bisogna parlare al popolo dei suoi cari interessi, e parlarne con il
linguaggio che a lui più si conviene, con parabole e proverbi. « Se è vero che
gli esempi muovon più dei precetti, le parabole, le quali non sono altro che
esempi, debbon muovere più degli argomenti » ( 3 ) . I proverbi, che a noi
possono sembrare inintelligibili, perchè igno riamo i veri costumi dei popoli
per i quali furono imma ginati, sono nella rude concettosità adattissimi per lo
scopo prefissoci. La stessa virtù non la si può inculcare al popolo se non con
mezzi diversi di quelli che ci si offrono nelle scuole di filosofia . « La
virtù è saviezza : la saviezza ha bisogno di ragione, e la ragione ha bisogno
di tempo. I pregiudizi, gli errori, i vizi che nella fantasia de' popoli vanno
e vengono come le onde del nostro Jonio, riempi rebbero sempre di nuova arena
quel bacino, che tu vuoi scavare a poco a poco per formarne un porto. È
necessità ( 1 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p. 85. ( 2 ) V. Cuoco, Platone, v.
II, p. 23. ( 3 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p . 82. 247 piantare con mano
potente una diga, che freni la violenza delle onde sempre mobili. Prima di
avvezzare il popolo a ragionare , convien comandargli di credere ; e, per
convin cerlo che il vero sia quello che tu gli dici, convien per suadergli,
prima, che non possa essere vero quello che tu non dici . Non cerchiamo....
l'uomo che abbia detto più verità, ma quello che ha persuase verità più utili ;
e, se talora la necessità ha mossi i grandi uomini ad illudere il popolo ,
cerchiamo solo se l'hanno utilmente illuso » ( 1 ) . Sono queste conclusioni
che già erano implicite nel Saggio storico, ma riescono sempre interessanti,
sia per il loro intrinseco valore, sia per la forma con la quale l'autore ce le
prospetta . Questa educazione che mira a far sentire l'interesse comune alla
virtù, e quindi a radicarla in eterno, deve precedere la stessa attività
legislativa, se non si vuole che essa cada nel vuoto. « Quando tu avrai incise
le leggi della tua città sulle tavole di bronzo, nulla potrai dir di aver
fatto, se non avrai anche scolpita la virtù ne' cuori de' suoi cittadini » ( 2
) . Leggi e costumi sono i principali oggetti di tutta la scienza politica : le
prime debbono rispondere all'ordine eterno che è nelle cose, sempre perciò
buono e vero ; i se condi invece presentano estreme varietà, e, nella maggior
parte dei casi, ci si presentano anzi che come correttivo delle prime, come
deviazione da esse ; onde coloro, che traggono da una corrotta natura de'
popoli le norme obiettive del vivere, invece di evitare il male, spesso lo
sanciscono, e la loro opera pedagogica manca . « La legge è sempre una, perchè
la natura dell'intelli genza è immutabile. Mutabile è la natura della materia,
di cui gli uomini sono in gran parte composti; e quindi è che i costumi
inclinan sempre ad allontanarsi dalla legge. È necessità, dunque, conoscere del
pari la natura sempre mobile di questo fango di cui siamo formati, onde sapere
( 1 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p . 78. ( 2 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p. 139.
248 per quali cagioni i nostri costumi si allontanano dalle leggi, per quali
modi, per quali arti possano riavvicinarsi alle medesime ; il che forma
l'oggetto di tutta la scienza dell’educazione : non di quella educazione che le
balie soglion dare ai nostri fanciulli, ma di quell'altra che Li curgo e
Minosse seppero dare una volta agli spartani ed ai cretesi. La ignoranza di una
di queste due scienze ha moltiplicati sulla terra i funesti esempi di quei
legisla tori, i quali, volendo tentare riforme di popoli, hanno o cagionata o
accellerata la loro ruina. Imperciocchè, pieni la mente delle sole idee
intellettuali delle leggi ed ignoranti de' costumi de ' popoli, li hanno spinti
ad una meta a cui non potevan pervenire, perdendo in tal modo il buono che
poteano ottenere, per avere un ottimo che era follia sperare ; o, conoscendo
solo i costumi ed igno rando il vero bene ed il vero male, hanno sancito i me
desimi, ed han fatto come quel nocchiero, il quale, non conoscendo il porto in
cui dovea entrare, e servendo ai venti ed all'onde, ha rotto miseramente il suo
legno tra gli scogli » (1 ) . La legge però resterà sempre un astratto, se gli
uomini non ne intenderanno la sua necessarietà e, quel che più conta, la sua
utilità. È d'uopo a ciò che essa sia accom pagnata non solo da pene, onde possa
con efficacia di storre gli animi dai vizî, ma eziandio da premi, onde possa
allettare alla virtù . Occorre parlare agli uomini un lin guaggio utilitario ed
edonistico, se si vuole essere seguiti da essi. E questa scienza, che si occupa
dei premî e delle pene, è difficilissima, perchè inutili sono senza premî e
pene le leggi, e arduo è calcolare l'adeguato rapporto so pra tutto delle pene
con i costumi dei popoli. Il crimi nalista perciò deve studiare non tanto i
rapporti giuri dici, di per sé astratti, ma i soggetti di essi rapporti, entità
concrete e viventi, e rispetto a questi porsi piut tosto in veste d’educatore,
anzi che di carceriere, e peg gio di boia. « La scienza delle pene e de' premî
» dice ( 1 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p . 139 e sg. , 249 il Cuoco con
perfetta sicurezza « appartiene alla pubblica educazione » ( 1) . Le leggi,
date alla città, hanno necessità di uomini atti ad eseguirle, che veglino alla
loro esecuzione. Le leggi, ho detto, sono nell'ordine eterno delle cose, onde
la filosofia a lungo le ha ritenute provenienti dalla divi nità. Perciò il
primo dovere degli esecutori è di comandare ne' limiti di esse, sovra la loro
base, poichè solo così si adempie l'universa volontà di Dio, o meglio, s'attua
l'ar monia immanente nelle cose. « Ora, ordinate le leggi di una città, per
qual modo ritroveremo noi gli uomini degni di eseguirle ? Questa è.... la parte
più difficile della scienza della legislazione : perchè, da una parte, le buone
leggi senza il buon governo sono inutili ; e, dall'altra, sulla natura del
migliore de’governi gli uomini son più discordi che su quella delle buone leggi
» ( 2 ) . Anche questo secondo problema è di natura spirituale e pedagogica: la
preparazione della classe dirigente, la sua natura, ecc. non possono non
rientrare in quella scienza, di cui abbiamo visto i caratteri e le forme. In
quanto al problema subordinato se sia da accogliere il governo di un solo, di
pochi, o di molti ; il governo ereditario o l'elettivo ; e tra quest'ultimo
quello regolato dalla nascita , dagli averi, dalla sorte, questo è un pro blema
essenzialmente relativo e che del resto abbiamo già storicamente esaminato in
altra parte di questo la voro. La risoluzione è offerta dal Cuoco in poche
parole che giova riportare. « Noi diremo il miglior de' governi esser quello
che non è affidato ad uno solo, perchè un solo può aver delle debolezze ; non a
tutti, perchè tra tutti il maggior numero è di stolti ; ma a pochi, perchè
pochi sempre sono gli ottimi. E questi pochi avranno obbligo di render ragione
delle opere loro, onde la spe ranza dell'impunità non li spinga o ad obbliare
per negligenza le leggi o a conculcarle per ambizione ; e per ( 1 ) V. Cuoco,
Platone, v. I , p. 140. ( 2 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p . 142, 250 ciò
divideremo il pubblico potere in modo che le diverse parti del medesimo si
temperino e bilancino a vicenda, e, dando a ciascuna classe di cittadini quella
parte a cui pare per natura più atta, riuniremo i beni del governo di uno solo,
di pochi e di tutti » ( 1 ) . Ma piuttosto altre considerazioni occorre fare,
che ci riportano ad un punto troppo caro al Cuoco perchè noi possiamo dimenticarcelo
: le considerazioni intorno alla religione. Abbiamo già visto i rapporti tra
autorità reli giosa ed autorità statale, il posto che la religione deve
occupare nello Stato, e lo abbiamo visto da un punto essenzialmente storico,
cioè in rapporto ai tempi del mo lisano : ora dobbiamo esaminare lo stesso
problema da un diverso punto, osservando quale posto può occupare la religione
nella formazione spirituale dei popoli. La religione è un fatto spirituale dal
quale non si può prescindere. « Quindi è che erran egualmente e coloro i quali
credon poter tutto ottenere colle sole leggi civili, e coloro che credono poter
colla religione e coi costumi supplire alle medesime. Questi renderanno le vite
dei cittadini e le loro sostanze dubbie, incerte ; quelli rende ranno
vacillante lo stato dell'intera città. È necessità che vi sieno egualmente
costumi, religione e leggi: uno che manchi, la città, o presto o tardi, ruina »
( 2 ) . Il bisogno della religione per il Cuoco non si basa tanto su ragioni
ideali quanto su ragioni pratiche. Lo Stato, che assorbe in sè la religione,
s'eleva agli occhi de'singoli e acquista maggiore rispetto . Nè è a dire che
esso con ciò menomi la religione, in quanto vita dello spirito, poi che esso
assorbe quel che può assorbire, infine il lato estrinseco e mondano della
religione, lasciando intatto il dommatico . I paesi, in cui i patrizi
conservano autorità, sono quelli in cui essi esercitano il sacerdozio, e in
questi paesi la religione può moltissimo sui costumi. « E forse queste due cose
[ religione e costumi, Stato e Chiesa) sono natural ( 1 ) V. Cuoco, Platone, v.
I , ( 2 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p. 144. P. 84. 251 mente inseparabili tra
loro ; perchè nè mai religione emen derà utilmente i costumi se non sarà
dipendente dal go verno ; nè mai religione, che non emendi i costumi e non
ispiri l'amor della patria, potrà esser utile allo Stato » ( 1 ) . Ora
concepite in questa maniera le due classi dei ricchi e dei poveri, dei savi e
degli stolti, il Cuoco riguarda la vita pubblica come una loro armonizzazione
continua, in una evoluzione ininterrotta. Ricco non vuol dire a priori savio,
ma è certo che il ricco, coeteris paribus, può pro curarsi un'educazione
superiore, che il povero non può procacciarsi che in casi eccezionali , onde quasi
sempre , nella sua indigenza, resterà ignorante e spesso stolto . L'opposizione
tra savi e stolti si può in linea generalis sima presentare come opposizione
tra patrizi e plebei, op posizione delucidata anche dal fatto che i patrizi,
cioè coloro che nelle epoche primitive s'affermano negli Stati e perpetuano la
loro posizione dirigente per eredità di sangue e di censo, sono, per lunga
consuetudine e pratica pubblica, i più atti al reggimento civile , mentre i
plebei, gente nova, spesso portata su da súbiti guadagni, sono di solito
inesperti e fiacchi, perchè ignari del nuovo go verno della cosa statale. Il
segreto della varia vita delle città è nella saggia ar monia di queste due
forze, l'esperienza matura dei patres e la giovinezza audace delle classi nuove.
Quelle nelle quali i primi furono troppo fieri difensori dei loro diritti lan
guirono : i patres non vollero essere giusti, preferirono es sere i più forti,
onde fu mestieri che divenissero tirannici ed oppressori : conservarono i loro
privilegi, ma il prezzo di questi privilegi fu la debolezza dello Stato, che al
primo urto divenne preda dell' inimico. Quelle altre, in cui la plebe per atto
rivoluzionario acquisì d'un tratto i suoi diritti, ebbero sempre costituzioni
ispirate più dalla vendetta che dalla sapienza, e poterono durare, per lo più,
breve tempo, per turbolenze e dissensioni interne. Ben diversa è la vita degli
Stati, ove si giunge ad una ( 1 ) V. Cuoco, Platone, v. II , p. 148, 252
reciproca graduale integrazione de' due opposti in una vitale sintesi. È
nell'ordine eterno delle cose che « le idee non possano mai retrocedere » , ed
hanno vita felice soltanto « quelle città nelle quali e la plebe ed i grandi
vengono tra loro ad eque transazioni » ( 1 ) . Ma pur tuttavia il Cuoco.
concepisce la lotta di classe non solo come un utile spediente, purché
mantenuta ne' limiti della legge per giungere ad un buono e durevole reggimento
politico, ma come necessità di vita : e qui è un punto fermo della sua dottrina
politica, che nel Saggio storico non appare, e che nel Platone si rivela nella
sua luminosa chiarezza. « Or vedi tu questa lotta eterna tra gli ottimati e la
plebe, tra i ricchi ed i poveri ? In essa sta la vita non solo di Roma, di
Atene, di Sparta, ma di tutte le città. Ove essa non è , ivi non è vita : ivi
un giogo di ferro impo sto al cittadino ha estinte tutte le passioni dell'uomo
e, con esse, il germe di tutte le virtù, lo stimolo a tutte le più grandi
imprese. Al cospetto del gran re, nessun uomo emula più l'altro : e che
invidierebbe, se son tutti nulla ? Quanto dura la vera vita di una città ?
Tanto quanto dura la disputa. Tutti popoli hanno un periodo di vita certo e
quasi diresti fatale, il quale incomincia dall'estrema barbarie, cioè
dall'estrema ignoranza ed op pressione, e finisce nell'estrema licenza di
ordini, di co stumi, di idee . Nella prima età i padri han tutto, sanno tutto,
fanno tutto, posseggon tutto. Se le cose si rima nessero sempre così, la città
sarebbe sempre barbara, cioè sempre fanciulla . È necessario che si ceda alla
plebe , poco a poco, ed in modo che non se le dia ne meno nè più di quello che
le bisogna : l'uno e l'altro ec cesso porta seco o pericolosa sedizione o
languore più funesto della sedizione istessa. È necessario che il popolo
prosperi sempre e che abbia sempre nuovi bisogni, per chè questo è il segno più
certo della sua prosperità. Guai a quella città in cui il popolo non ha nulla !
Ma due volte ma ( 1 ) V. Cuoco , Platone, v . II , p. 167. 253 guai a
quell'altra, in cui, non avendo nulla, nulla chiede ! È segno che la miseria
gli abbia tolto non solo, come dice Omero, la metà dell'anima, ma anche
l'ultimo spirito di vita che ci rimane nelle afflizioni, e che consiste nel la
gnarsi. È necessario però che il popolo e pretenda con modestia, e riceva con gratitudine,
e non cessi mai di sperare » ( 1 ) . Da queste considerazioni il molisano trae
una impor tante conclusione. Se la vita è molteplicità, ma molte plicità non
inorganizzata, bensì tendente ad unità, la molteplicità è pur necessaria per
attingere quella diffe renziazione di funzioni, il cui convergere forma la
felicità dello Stato. La vita di questo perciò è varietà, e non può essere
diversamente : l'uguaglianza assoluta è un'u topia, anzi un'utopia dannosa. «
Vi saranno sempre pa trizi e plebei, perchè vi saranno sempre i pochi ed i
molti; pochi ricchi e molti poveri ; pochi industriosi e molti scioperati;
pochissimi savi e moltissimi stolti. I partigiani de' primi si diran sempre
patrizi , quelli de'se condi sempre plebei » ( 2 ) . Allorquando la plebe avrà
tutto il potere pubblico, e i patrizi nulla più avranno a cedere, allora, «
dopo aver eguagliati a poco a poco gli ordini, si vorranno eguagliare anche gli
uomini; dopo aver eguagliati i diritti, si vorrà l'eguaglianza anco dei beni :
e sorgeranno da ciò dispute eterne e pericolose. Eterne, perchè la ragione
delle dispute sussisterà sempre : vi saranno sempre poveri, vi saranno sempre
uomini da poco, i quali pretenderanno e crede ranno di meritar molto.
Pericolose, perchè tali dispute moveranno sempre la parte più numerosa del
popolo : i poveri, gli scioperati, i viziosi, tutti coloro i quali, nulla
avendo che perdere, non ricusan qualunque modo si of fra a guadagnare.... Le
assemblee diventeranno più tu multuose, le decisioni meno prudenti. I cittadini
dalle sedizioni civili passeranno alla guerra . Fra tanti partiti nascerà la
necessità che ciascuno abbia un capo ; tra tanti ( 1 ) V. Cuoco, Platone, v. II
, p. 167 e sg. ( 2) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 147. 254 capi uno rimarrà
vincitore di tutti. Ed avrà fine così la lite e la vita della città » ( 1 ) .
Da ciò scaturisce un'altra conclusione, che è una ri prova di precedenti nostre
osservazioni circa la politica cuochiana : i più adatti al pubblico reggimento
non sono nè i ricchi, pochi e tirannici, nè i poveri, molti e ti rannici in
senso inverso dei ricchi, ma bensì quel ceto medio, che con forme diverse e
diversi aspetti, secondo i vari tempi e la mutevole realtà storica, è in ogni
Stato. « I migliori ordini pubblici sono inutili se non vengono affidati ai
migliori cittadini. Quelli sono, in parole ed in fatti, ottimi tra gli ordini,
i quali fan sì che la somma delle cose sia sempre in mano degli uomini ottimi.
Ma dove sono gli uomini ottimi ? Essi non son mai per l'ordinario nè tra i
massimi, corrotti sempre dalle ric chezze, nè tra i minimi di una città,
avviliti sempre dalla miseria » ( 2 ) . Ecco qui ritornare il concetto da noi
già esaminato di un governo temperato, equilibrio di forze opposte, e perciò
armonia e giustizia, la quale giustizia null'altro è se non obiettiva elisione
d'ogni antagonismo e d'ogni dissensione. « Ove avvien che siavi un ordine
scelto, ma nel tempo istesso la facoltà a tutti d'entrarvi, tostochè per le
loro azioni ne sien divenuti degni, ivi tu eviti gli scogli del l'oligarchia e
della democrazia. Il popolo non permetterà che i grandi, per gelosia di ordine,
trascurino il merito; i grandi non soffriranno che altri si elevi per via di
viltà e di corruzione : per opra de’secondi eviterai quella dissi pazione che
ne' tempi di pace dissolve le città popolari ; per opra de' primi eviterai
quella viltà per cui le città oligarchiche temono i pericoli, e quel livore col
quale si oppongono ad ogni pensiero nobile ed ardito, e che vien dal timore dei
grandi di dover ricorrere al merito di un uomo il quale non appartenga al loro
numero. Queste città così temperate sono quelle che fanno più grandi ( 1 ) V.
Cuoco, Platone, v. II , ( 2 ) V. Cuoco , Platone, v. II , p. 161 . p. 168. 255
cose delle altre, perchè non vi manca mai nè chi le pro ponga nè chi le esegua
» ( 1 ) . Soltanto attraverso questa coscienza politica dei diri genti,
attraverso quest'educazione dei poveri, attraverso questa organizzazione di
classi, sarà possibile realizzare quell’unione che è nel pensiero del Cuoco :
fare delle varie stirpi italiche un popolo unico. Come nelle singole città è
possibile un contemperamento di interessi e di volontà singole, così nella più
vasta Italia è possibile un armo nizzamento di stirpi, di genti, d' ideali
diversi. Ma, mentre nelle città il processo d’unità procede dal l'interno
all'esterno , poichè una tirannia imposta estrin secamente è sempre nociva e
deleteria ; nell'Italia il processo unitario può essere affrettato dalla
conquista e poi cementato dall'opera pubblica e pedagogica, dalla religione
unica e dalla legge unica. « Il primo effetto della sapienza » dice il Cuoco «
è.... quello di avvezzar gli uomini a considerar la conquista non come un mezzo
di distrug gersi, ma di difendersi » ( 2 ) ; e, aggiungiamo noi, si di fende spesso
più validamente colui, che, essendo forte impone la sua ragion civile, la sua
legge agli altri, e non si assopisce in una pace senza parentesi d'attività
belli gera, assopimento che può diventare anche sonno e poi ancora morte. La
conquista perciò non deve rimanere mera conquista, cioè estrinseca forza, ma
deve conver tirsi in attività pubblica, imporsi alle volontà, plasmarle di sè,
unificarle nel nome d'un superiore verbo, il diritto . Questa, ammonisce il
Cuoco, è la missione d’un popolo tra i tanti popoli della penisola, che Platone
e Cleobolo nel loro viaggio incontrano, missione divina, missione il cui
spiegamento d'altra parte è nell'attualità della storia. Certo Platone e
Cleobolo, nel frammentarismo italico del V secolo, non avrebbero mai potuto
dire quel che Vincenzo pone in bocca loro ; ma le loro osservazioni, per quanto
il nostro spirito critico le riferisca all'autore del ( 1 ) V. Cuoco, Platone,
v. II , p. 162. ( 2) V. Cuoco, Platone, v. I , p . 32. 256 romanzo , non
possono non commoverci, e la commozione è in noi com'è nel molisano . In una
prima età, scrive Platone all'amico Archita, le città vivono pacificamente, e
perciò s ' ignorano ; ma in un secondo tempo si conoscono, e quindi si fanno
guerra, o con le armi o con le sottigliezze del commercio ; ma questa
conoscenza e questa guerra non sono mai distruzione, ma reciproca integrazione
: « da questa vicendevole guerra, sia d'armi, sia d'industria, io veggo
un'irresistibile ten denza di tutte le nazioni a riunirsi ; e, siccome ciascuna
di esse ama aver le altre piuttosto serve che amiche... , così veggo che, ad
impedire la servitù del genere umano ed a conservar più lungamente la pace
sulla terra, il miglior consiglio è sempre quello di accrescer coll' unione di
molte città il numero de' cittadini, prima e principal parte di quella forza ,
contro la quale la virtù può bene insegnare a morire, ma la sola cieca e non
calcolabile fortuna può dar talora la vittoria » . « Non pare a te » continua
il filosofo antico caldo ne' suoi accenti e attraverso lui il magnanimo Cuoco «
che la natura, colle diramazioni de' monti e de' fiumi, col circolo de' mari,
colla varietà delle produzioni del suolo e della temperatura de'cieli , da cui
dipende la diversità de' nostri bisogni e de' costumi nostri, e colla varia mo
dificazione degli accenti di quel linguaggio primitivo ed unico che gli uomini
hanno appreso dalla veemenza de gli affetti interni e dall'imitazione de’vari
suoni esterni ; non ti pare, amico, ch'essa abbia in tal modo detto agli
abitanti di ciascuna regione : — Voi siete tutti fratelli: voi dovete formare
una nazione sola ? --- » ( 1 ) . Da ciò scaturisce la necessità della conquista
come mezzo per affrettare dall'esterno un processo naturale : chi si assume
questa missione, diviene arbitro e stru mento della Provvidenza, Provvidenza
che per il Cuoco, come del resto per Giambattista Vico, è nell'immanenza della
storia , piuttosto che nella celeste trascendenza di ( 1 ) V. Cuoco , Platone,
v. II , p. 186. 257 un Dio posto fuori di noi : questo l'intimo concetto, se
pur qualche volta tradito dall'esteriorità delle parole e dei simboli, nonchè
da una certa oscillanza di pensiero . In Italia , intuisce Platone, un solo
popolo sarà di ciò capace, il romano, che sovra la fiera rudezza dei san niti,
sovra la imbecillità effeminata dei greci del mez zodì, sovra la volubilità dei
galli del Nord imporrà la sua legge, il suo diritto, strumento d’universale
civiltà, e che, in un lontano avvenire, venuto a contatto con i cartaginesi e
poi con i greci, non solo li debellerà come entità politiche, ma solo
s'assiderà dominatore del Me diterraneo e del mondo, « Rimarrà un solo popolo
dominatore di tutta la terra, innanzi al di cui cospetto tutto il genere umano
tacerà ; ed i superbi vincitori, pieni di vizi e di orgoglio, rivolge ranno
nelle proprie viscere il pugnale ancor fumante del sangue del genere umano ; e
quando tutte le idee liberali degli uomini saranno schiacciate ed estinte sotto
l'im menso potere che è necessario a dominar l'universo, e le virtù di tutte le
nazioni prive di vicendevole emula zione rimarranno arrugginite, ed i vizi di
un sol popolo e talora di un sol uomo saran divenuti, per la comune schiavitù ,
vizi comuni, sarà consumata allora la vendetta degli dèi, i quali si servono
delle grandi crisi della natura per distruggere, e dell'ignoranza istessa degli
uomini per emendare la loro indocile razza » ( 1 ) . Grande sogno questo, in
cui vibra tutto l'animo nostro in uno con quello del Cuoco, ma che noi critici
non dob biamo lasciare nel passato inerte e perciò morto, come quello che non
ritornerà più , ma trasportare nel presente del Cuoco, cioè nel presente del
1806, che noi vediamo e pensiamo tale, quando in un' Italia scissa e menomata
da straniere superfetazioni, sia pur benigne come quelle napoleoniche, l'unità
era davvero un sogno ; nel nostro presente, nella nostra vita, che non è stasi
, ma divenire, e perciò slancio, espansione, conquista prima di noi stessi,
della nostra maggiore unità, e poi del vario mondo dei ( 1 ) V. Cuoco, Platone,
v. II , p. 190. 18 - F. BATTAGLIA . 258 commerci e delle genti, che noi non
vogliamo lasciare fuori di noi, inerte grandezza da contemplare taciti am
miranti, ma rendere nostre, per la nostra civiltà, che è civiltà latina.
Considerato da questo punto di vista altamente poli tico , prescindendo da ogni
considerazione artistica o filo sofica, il Platone in Italia riacquista una
grandissima importanza, « riacquista » come ben dice il Gentile « tutto il suo
valore, ed è la più grande battaglia, combattuta dal Cuoco, per il suo ideale
della formazione dello spi rito pubblico italiano » ( 1 ) . È l'animato ricordo
d'un tempo che fu e d'una grandezza, che sta a noi rinnovel lare, in cui tutta
l'Italia si pose maestra di civiltà tra i popoli, che da essa appresero le cose
belle della vita , la poesia, il teatro, la musica , la scultura, la pittura,
che da essa intesero i primi precetti del vivere e le norme de ' savi
reggimenti; in cui l'Italia ebbe un'egemonia indi scussa, che nella storia non
si ripresenterà più se non forse nel Rinascimento : ma, oltre che ricordo, è
nello stesso tempo vivo presente, perchè molte considerazioni che si fanno
riferendosi all'Impero etrusco, alla Magna Grecia , a Roma calzano nella loro
semplicità , s'adattano alla nostra travagliata vita moderna : ciò fa del
Platone un libro, la cui importanza trascende la sua deficienza artistica, il
suo ibridismo filosofico. Perciò un solo raffronto legittimo, quello tra il Pla
tone e un altro grande libro, il Primato morale e civile degli italiani, come
quelli il cui obietto è uno solo, e la materia alfine è pur essa comune :
un'alta nazionale pedagogia politica. Questo parallelismo fu prima accennato
dal Gentile (2 ), ma poi sbozzato da un francese, acuto studioso del Cuoco, al
quale nel nostro studio abbiamo frequentemente cennato, Paul Hazard ( 3 ). ac (
1 ) G. GENTILE, Studi vichiani , p. 386, ( 2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p.
387. ( 3 ) P. HAZARD, op. cit., p. 246. Anche P. ROMANO, op. cit., p. 5
raffronta il Cuoco e il Gioberti e dice che il Platone in Italia è la
preparazione del Primato morale e civile degli Italiani. 259 Il principio
genetico dei due libri è lo stesso : una na zione non può esplicare le forze
vere, che sono in essa in potenza, nè può di esse usare, se non ha la coscienza
d'avere queste forze, o almeno la coscienza di poterle sviluppare, e quindi
dispiegare nella storia : perciò bi sogna nutrire un orgoglio nazionale, che,
basato sulla concreta realtà , è legittimo, non arbitrario. Ma, d'altra parte,
laddove il Primato giobertiano, pur riannodan dosi, attraverso le glorie
romane, alle remote genti italo pelasgiche, trova il suo asse, il suo fulcro
nel Papato , espressione di purità religiosa e d'originaria sapienza, e si
rinnoverà, se il presente sarà a sufficienza legato al passato, cioè alla
tradizione medievale- cattolica ; il Cuoco, pur mantenendo ferma la remotissima
storia italo -pela sgica ed estrusca e poi ancora romana, pur riconoscendo
l'alta missione civilizzatrice della Chiesa nel Medio Evo, questo primato vuol rinnovellare
solo nel gioco delle li bere forze, espresse da quella tragica crisi che è la
rivo luzione francese ed italiana, nel loro sviluppo, e nello spiegamento della
loro maggior coscienza ; nello Stato laico, insomma, che afferrni sì la
religione, come luce alla plebi, ma affermi pure una sua intima naturale ra
gione, che con la religione non ha nulla a che fare. E in quest'accettamento
delle nuove forze popolaresche, alle quali bisogna parlare, perchè la volontà
di nazione sia realmente nazione, e la volontà di Stato realmente Stato ,
Vincenzo Cuoco si lega ad un altro grande, Mazzini, tanto diverso da Gioberti,
ma pur con questi entusiasta caldo nella visione del futuro popolo dell'Italia
re denta. CAPITOLO VII. L'educazione nazionale nel pensiero cuochiano. Il
popolo e la scuola . - I tre caratteri di una educazione nazionale :
universalità , pubblicità , uniformità. - Tre gradi in una completa educazione
: scuola elementare, media , universitaria . - Morale e religione nella scuola
. - Educazione filosofica . Quanto sopra abbiamo detto segna ben precisa la po
sizione di Vincenzo Cuoco come politico e pedagogo nel Regno italico . Il
Platone e gli scritti del Giornale italiano sono i do cumenti luminosi del
periodo milanese della vita del l'autore, e basterebbero a dargli una gloria
non dubbia nelle lettere del nostro paese, confortata anche da una amicizia
intellettuale, che egli godette con uomini come il Monti e il Manzoni ( 1 ) .
Con il 1806, ritornati i francesi oramai a Napoli, Vin cenzo pur esso riede in
patria , preceduto da una vasta notorietà e annunciato da missive ufficiali del
governo di Milano per quello meridionale . È l'ultimo tratto della nobile vita
del molisano, che, attraverso una fiera ma ( 1 ) B. LABANCA, op . cit., p. 409
; N. RUGGIERI, op. cit ., p. 48 ; B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 172 ;
G. GEN TILE , op. cit. , p. 389. 261 lattia di nervi e di mente, si concluderà
il 13 dicembre 1823 con la morte, tratto di vita, che è pur ricco di atti vità
pubblica, per cui il nostro attinge cariche supreme ( 1 ) , nonchè di un'opera
dottrinale e pratica nello stesso tempo ( 2 ) , il Rapporto e il Progetto di
decreto per l'ordi namento della pubblica istruzione nel Regno di Napoli, che
di per sé sola basterebbe ad assicurargli un posto eminente tra i pedagogisti
dell'epoca, Rapporto, che, seb bene tragga « occasione da un incarico
speciale.... agli inizi del regno murattiano » non è « il prodotto dell’oc
casione, poichè come vedremo, risponde nelle linee prin cipali , a idee
profondamente maturate dal Cuoco in tutta ( 1 ) G. GENTILE, op. cit., p. 390. (
2 ) Oltre il Rapporto il Cuoco lavorò in vari campi dello sci bile , e della
sua attività sono documento varie pagine raccolte nel secondo volume degli
Scritti vari. Del Rapporto e del Pro getto di decreto esistono numerose
edizioni : una prima, senza data e senza frontespizio , fatta a spese del
governo prima del 10 ottobre 1809 per tenere il luogo del manoscritto nelle
distri buzioni che del Rapporto e del Progetto si fece al re, ai mini stri e ad
altre autorità , e quindi non pubblica ; una seconda, che dovea essere il primo
volume delle Opere di V. Cuoco, raccolta iniziata nel 1848 a speso di Luisa de
Conciliis, nipote del gran molisano, e naturalmente non venuta mai a compi
mento, edizione che porta il titolo : Progetto di decreto per l'or dinamento
della pubblica istruzione seguito da un Rapporto ra gionato per V. Cuoco (
Napoli, Migliaccio, 1848); una terza infine, che uscì alla luce nel primo tomo
della Collezione delle leggi, de' decreti e di altri atti riguardanti la
Pubblica Istruzione promulgati nel già Reame di Napoli dall'anno 1806 in poi
(Na poli , Fibreno, 1861). Sovra queste edizioni, tutte e tre scor rette, il
Gentile trasse la sua edizione critica del Rapporto e del Progetto, corredata
di documenti e note bio -bibliografiche illustrate, che inserì negli Scritti
pedagogici inediti o rari ( pa gine 49-276 ). I criteri critici di collazione
delle tre suddette edizioni, seguìti dal Gentile , non furono dismessi da N.
Cortese e da F. Nicolini, che dovettero far posto sia al Rapporto che al
Progetto negli Scritti vari ( v. II , pp. 3-161 ), correggendo ta lune sviste e
supplendo in talune omissioni il loro illustre pre decessore. Nonostante che
gli Scritti vari abbiano visto la luce , allorquando questo lavoro era già
compiuto , le citazioni sono state su di essi rivedute definitivamente anche
per la parte pedagogica. 262 ī la sua carriera di scrittore e di uomo politico,
in rela zione con le questioni fondamentali del tempo suo » ( 1 ) . Evitando di
entrare nell'analisi dei fatti, che al Rap porto precedettero e che perciò lo
determinarono, perchè oramai sufficienza noti, vengo a studiare le idee che in
esso si agitano ed i loro addentellati con tutto il pen siero cuochiano. L'istruzione
è la chiave di volta d'ogni sistema po litico . E, come ogni sistema politico
mira al benessere sociale, in quanto questo è realizzato eticamente dallo
Stato, così chi questo benessere vuol attuato, deve ope rare col mezzo
dell'istruzione e della scuola. Il Cuoco vuol rendere grande uno indipendente
il popolo italiano, dan dogli veramente il modo di formarsi una coscienza na
zionale . Ma praticamente come? Con la scuola. « La sola istruzione, risponde,
può far diventare volontà ciò che è dovere. La sola istruzione può renderci
l'antica gran dezza e l'antica gloria » ( 2 ) . Il termine di riferimento di
questa istruzione è pur sempre il popolo, nel di cui spi rito dovranno essere
alimentate le più nobili idealità pub bliche e civili , alimentate da un lato
dall'opera giorna listica , dall'altro dalla scuola. Per comprendere questo
punto occorre riferirsi, aver presenti le condizioni del popolo e della scuola
ne' primi decenni del secolo XIX. Di chi era la scuola ? Non certo del popolo,
il quale, assente in tutte le manifestazioni della vita , era assente anche
nella scuola. Di chi dunque ? Di pochi fortunati , dotati dalla sorte dei mezzi
necessari, onde formarsi quel che si suol dire una cultura : i nobili, i
possidenti delle campagne, i borghesi e i commercianti nelle grandi città. La
rivoluzione ha il grande merito di avere richiamato l'attenzione dei governanti
sulle masse popolaresche, ha il merito di aver compreso che solo queste sono il
nucleo dello Stato, e che cointeressarle alla cosa pubblica equi vale eternare
lo Stato stesso . Ma la rivoluzione non po ( 1 ) G. GENTILE , op . cit ., p .
336 e sg. ( 2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II , p. 3. 263 teva dare nel campo
educativo, e in generale formativo, buoni risultati, dato il suo astrattismo e
la sua filosofia, troppo razionalista, lontana com'era dai bisogni e dagli
interessi delle classi basse. Il Cuoco di contro accetta il postulato
rivoluzionario , per cui dal popolo non si pre scinde, ma lo rinnova col suo
concreto senso storico della realtà : bisogna, dice, non elevare il popolo alle
nostre supreme idee di libertà , di virtù, di moralità, che, in quanto
assolute, esso non comprenderà, ma noi discen dere a lui, entrare nel suo
spirito, nel suo sistema men tale, e , attraverso un progresso graduale e
lento, mostrar gli l'utilità , oltre che la necessità ideale, della libertà ,
della virtù , della moralità . Questo compito, essenzial mente pratico, si può
assolvere con la scuola, che prende l'uomo fanciullo, e lo conduce
all'adolescenza, e magari alla gioventù , maturandone i sentimenti con un
processo intimo ed interiore, non mai estrinseco e forzato . Sol tanto così il
popolo entrerà nello Stato , rafforzandolo e potenziandolo. Sentite come
ragiona il Cuoco. « Le rivoluzioni » scrive « sogliono svelare il gran segreto
della forza di quel po polo, che ne' tempi di tranquillità suol esser la parte
pas siva di uno Stato. La rivoluzione francese lo ha messo in istato di
produrre grandi beni e grandi mali : la sua condizione è cangiata in gran parte
degli Stati dell'Eu ropa. Chiamarlo a parte della difesa dello Stato e delle
leggi senza istruirlo è lo stesso che renderlo pericoloso, facendogli fare ciò
che non sa fare . Volerlo ritenere inu tile, qual era prima, è lo stesso che
voler condannare lo Stato a perpetua debolezza esterna, a frequente disordine
interno. Debolezza, perchè è sempre debole quello Stato che non è difeso da’
cittadini, e non sono cittadini co loro che occupano col loro corpo sette palmi
di terra in una città, ma bensì coloro che contano tra i loro doveri l'amarla
ed il difenderla. Disordine, perchè le leggi e le istituzioni politiche non
hanno la loro garanzia se non nella volontà del maggior numero, e , se questo
maggior numero non è istruito , o non ha volontà o spesso ne ha una contraria
alla legge .... Tutto in Europa mostra la 264 necessità di dare al popolo, e
specialmente alla classe degli artefici e degli agricoltori, una nuova
educazione ed ispirargli l'amor della patria, delle armi, della gloria
nazionale » ( 1 ) . Indietro non si torna ! Avranno i conser vatori tutte le
loro buone ragioni per fossilizzarsi in forme statali superate, ma essi non
potranno mai negare al popolo , quello che a lui si deve : l'educazione, A
coloro che obiettano che il popolo è un ammasso inemendabile di vizi e di
passioni è facile rispondere . « E pure tra questo popolo noi viviamo ; questo
popolo forma la parte più grande della nostra patria , da cui di pende,
vogliamo o non vogliamo, la nostra sussistenza e la difesa nostra ; e noi
abbiam core di dormir tran quilli, affidando la nostra sussistenza e la difesa
nostra a colui che noi stessi reputiamo pieno di ogni vizio ed incapace d'ogni
virtù ? » . A coloro poi che dicono il popolo essere senza mente, o che
ripetono il vecchio sofi sma aristotelico, esservi uomini nati a servire ed
altri nati a governare, è pur facile controribattere. « Ebbene questo popolo
nato a servire, questo popolo che non ha mente, è quello che tante volte vi fa
tremare con quei delitti, ai quali lo spingono quella miseria , quell’ozio,
quella roz zezza in cui, per mancanza di educazione, voi lo lasciate. Se la
religione non avesse presa un poco di cura della educazione sua, qual sarebbe
mai questo popolo ? » . Oggi non si può tornare indietro : il bisogno dell'edu
cazione è immanente, sentito da tutti, sovrani e sudditi, governanti e
governati. « Non mai il bisogno dell'educa zione è stato maggiore. Tutti gli
usi antichi, che tenevan luogo di precetti, vacillano : gli uomini, dopo i
troppo vio lenti cangiamenti di ordini e d'idee, soglion cadere nel l'anarchia
de'costumi, che è peggiore di quella delle leggi. Non mai vi è stato bisogno
maggiore di educare quella ( 1 ) Giorn . ital . , 1804 ; n. 61 , 62, 75 ; 21 ,
23 maggio, 23 giugno; pp. 243-44, pp. 247-48, pp. 303-304 : Educazione popolare
(ri stampato in Scritti pedagogici, p. 23 e sgg.; ed ora in Scritti vari v. II,
pp. 93-102 ) . 265 parte della nazione che chiamasi popolo e diffonder l'istru
zione ne' villaggi e nelle campagne » . Per queste sue considerazioni il Cuoco
si ricollega al grande pedagogista prerivoluzionario, a Jean- Jacques Rousseau
, il solo forse che primo sentì le vive pulsanti forze del popolo nuovo ed il
bisogno di provvedere alla di lui istruzione, riferendosi alla sua natura e
all'evolu zione delle sue facoltà ( 1 ) . A chi noi daremo mai questo alto
compito di creare degli uomini consapevoli del loro posto nella società ! La
risposta del Cuoco non è dubbia. Dato il carattere etico -giuridico che egli
attribuisce allo Stato, è ovvio che l'educazione debba essere impartita, o
almeno control lata, dallo Stato. L'educazione mira a formare buoni cit tadini
: è naturale dunque che lo Stato » volontà collet tiva, somma di volontà
individuali, da essa non possa prescindere. « Posto questo bisogno nello Stato
» osserva giustamente il Gentile « di consolidare sempre più le pro ( 1) Del
resto il concetto di natura e quello d'educazione e di Stato nel Rousseau hanno
un significato ben più profondo di quanto generalmente non si creda. Vedi a
questo proposito il libro di G. DEL VECCHIO, Su la teoria del contratto
sociale, Bologna, Zanichelli, 1906, p . 32. « È .... massima ( del Rous seau )
che nella realtà si distingua ciò che è fattizio , ossia sopravvenuto per
arbitrio ed arte dell'uomo , da ciò che è na turale, ossia fondato nell'essenza
medesima della cosa. Questo ha valore di norma rispetto a quello. La natura è
dunque per Rousseau il principio del dover essere, più ancora che quello
dell'essere . Essa esprime la realtà in un senso filoso fico e non già fisico ;
rappresenta la sua ragione e non la sua contingenza » . Ma questa concezione
della natura, propria del Rousseau, nel Cuoco viene integrata e corretta, come
nota il GENTILE ( Studi vichiani , p. 419), con la concezione storica dello
spirito. « Ed è in verità non una contaminazione delle due filo sofie, ma la
schietta pedagogia del Vico , che aveva più salda mente fondata (benchè con
fortuna storica senza paragone minore) che non il Rousseau, il motivo di vero
del suo natu ralismo: l'autonomia dello spirito » . A due distinte fonti oc
corre ricondurre la pedagogia cuochiana, al Rousseau che gli dà vivo il senso
dell'essenza prima d'ogni realtà, al Vico che gli dà la consapevole riduzione
della stessa realtà allo spirito nella sua dialetticità . 266 prie basi nella coscienza
nazionale, è evidente che l'istru zione, come pensavano i pedagogisti della
Rivoluzione francese, e come prima aveva insegnato il Montesquieu per lo Stato
democratico, è funzione di Stato . Poichè lo Stato si regge sulla coscienza
nazionale, e questa si forma con l'istruzione pubblica , rinunziare a questa è
per lo Stato un assurdo : sarebbe come rinunziare a sè stesso » (.1). Il
compito educativo certo non si esaurisce nella scuola, ma questa trascende :
l'ecclesiastico , il filosofo, il legi slatore tutti e tre mirano allo spirito
e al suo sviluppo, ma la loro opera è di necessità insufficiente, se non è in
tegrata dall'attività generale e pubblica dello Stato. Scuole di morale, laiche
od ecclesiastiche, possono pur vivere, occorre però che lo Stato le controlli,
e le adatti sempre meglio allo scopo, alla finalità che esso si pro pone, e le
riconduca a questo, ove se ne allontanino. Sarà perfetta quella città, quello
Stato, in cui il sa cerdote, il filosofo e il legislatore si saranno messi di ac
cordo, e concorreranno ugualmente all'educazione del popolo. Stabilito il punto
primo che l'educazione deve essere dello Stato, ancorchè sia educazione
religiosa, fissiamo i suoi caratteri : essa deve essere in primo luogo univer
sale, poi pubblica, infine uniforme. L'educazione deve essere universale. Il
Cuoco concepi sce la vita da un punto di vista spiritualistico . Vita non è
vegetazione o deambulazione, è coscienza della propria posizione nel mondo,
perciò è innanzi tutto attività dello ( 1 ) G. GENTILE, Studi vichiani , p.
408. Noto a questo propo sito come soltanto tenendo presente il concetto di
Stato qual'è nel Rousseau, il Cuoco poteva giungere a concepire uno Stato
educatore. « Quando il Rousseau parla ( Vedi DEL VECCHIO, op. cit. , p. 33)
della « nature du corps politique » , non intende con ciò di riferirsi alla
guisa onde lo Stato si presenta nei fatti ; ma alla ragione dell'essere suo
ingenerale, all'esigenza suprema, cui esso ha da corrispondere.... La libertà e
l'uguaglianza, fon date nell'essenza stessa dell'uomo, debbono aver nello Stato
la loro assoluta sanzione » . E la libertà e l'uguaglianza bisogna intendere in
un senso spirituale e non empirico, intimo e non estrinseco. 267 spirito . Lo
spirito è qualcosa di inscindibilmente uni tario, onde l'educazione dev'essere
inscindibilmente uni taria . Tutto, scienze ed arti, scienze fisico - naturali
e scienze morali, debbono convergere ad un sol centro, lo spirito . I secoli
barbari potranno dire « non esservi alcun rapporto tra le scienze e le arti » (
1 ) ; i secoli di pro gresso, in quanto più hanno consapevolezza della realtà
mirano ad unire le disiecta membra di quel che in astratto sarà questa o quella
scienza a noi precostituita, ma che in concreto non è che una elaborazione
dello spirito, una nostra formazione, e nello spirito attinge l'uni versale .
Perciò, dice il Cuoco, « noi adopriamo la parola istruzione nel suo più ampio
significato ; ed in ciò , oltre d'imitare tutta l'Europa colta, abbiam la
gloria di se guire gli esempi domestici. I nostri pittagorici, forse i più savi
istruttori di tutta l'antichità, niuna parte della vita umana escludevano dalla
pubblica istruzione » ( 2 ) . L'educazione, in secondo luogo, deve essere
pubblica . L'Italia è sempre stata una terra feracissima di ingegni, ricca di
uomini grandi, ma costoro, maturatisi in am bienti apatici e morti alla
cultura, hanno molto contri buito alla propria gloria, poco alla gloria dello
Stato e al benessere della collettività . Poichè « la nazione non era istruita,
essi fecero molto per la gloria loro, nulla o poco per l'utilità della patria ;
tra essi ed il popolo non eravi nè lingua intelligibile, nè mezzo alcuno di
comunica zione » ( 3 ) . Occorre quindi che lo Stato dia un'istruzione ai suoi
cittadini, onde le loro forze non vadano disperse, ma convergano sempre più e
meglio ad un fine unico, . il progresso civile. Ma il fatto che l'istruzione
sia pubblica e statale si gnifica dunque la morte delle scuole private, specie
in un paese come l'Italia ed in particolare Napoli, ove la scuola privata ha
una storia nobilissima ? No certo : le scuole private sussistano pure gestite
da chiunque, ma ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II , p. 4. ( 2 ) V. Cuoco,
Scritti vari , v . II , p. ( 3) V. Cuoco, Scritti vari, v. II , p. 4. 5. 268 lo
Stato ha l'alto controllo a che i maestri siano degni e moralmente e
culturalmente, a che la materia d'in segnamento sia comune a quella delle
scuole pubbliche, a che non si propaghino per mezzo loro dottrine con trarie
all'ordine pubblico e alla moralità media della società . Il fatto però che
l'ente pubblico, cioè lo Stato, dia una educazione ai suoi cittadini non
significa che tutti i cit tadini debbano divenire altrettanti dotti. Lo Stato
non pud perseguire questo fine. Ricordiamo quel che il Cuoco dice nel Platone
in Italia, laddove osserva che una città di soli savi non meriterebbe nemmeno
il nome di città, perchè le mancherebbe ciò che solo tramuta una congre gazione
d’uomini, in città, in Stato : « la vicendevole di pendenza tra di loro per
tutto ciò che rende agiata e sicura la vita e la perfetta indipendenza dagli
stra nieri » ( 1 ) . Accanto al savio è necessaria la coesistenza della massa
dei non savi, e in questa è poi necessaria una ulteriore differenziazione di
funzioni , per cui l'agricoltore non sia calzolaio, il muratore non sia
mugnaio. Coloro che si propongono un assoluto illimitato eleva mento
intellettuale del popolo cadono nell'errore, poichè vogliono l'impossibile e il
dannoso : l'impossibile, « per chè non si può giungere alla perfezione nelle
scienze se non per la stessa via , per la quale vi si perviene in tutte le arti
, cioè dividendo gli oggetti del lavoro ed occu pandosi di un solo ; il che da
un popolo intero non si può fare, poichè, per sapere, dovrebbe egli rinunciare
ai mezzi di vivere » : il pernicioso, « perchè rimanendosi il popolo a mezza
strada, avremmo una nazione di mezzo sapienti; ed un mezzo sapiente, diceva il
Chesterfield, è unpazzo intero » ( 2 ) . Da ciò consegue che l'istruzione,
sebbene pubblica, non può essere uguale per tutti, e come nel paese vi deb bono
essere i ricchi e i poveri, i conservatorie i filoneisti, ( 1 ) V. Cuoco,
Platone, v. I , p. 86. ( 2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v . II , p. 5. 269 così vi
debbono essere i dotti e gli indotti, i più colti e i meno colti. Vi sarà
perciò una istruzione per pochi, che diremo sublime o alta, una per molti, che
diremo media o secondaria, una per tutti, che diremo elementare o pri maria .
La prima è destinata al progresso delle scienze, la seconda ha per iscopo di diffondere
i trovati dell'alta cultura nella vita commerciale industriale agricola a con
tatto con il popolo, la terza di dare allo Stato fedeli sud diti, virtuosi e
morali cittadini. Questa tripartizione della scuola rivela il gran senso
pratico del nostro autore, a cui della vasta gamma della vita umana nulla
sfugge e si perde. Ma la discriminazione non si ferma qui. Occorre che
l'istruzione, che lo Stato impartisce alle donne, sia diversa da quella, che
impar tisce agli uomini, e che per le donne stesse sianvi pure le tre forme o
gradi di scuola sovra dette. L'istruzione alle donne ? È questo un tema caro al
Cuoco. Le donne, scrive nel Platone, hanno il grandioso compito di allevare
figli per lo Stato, e di allevarli non nel senso comune, cioè di nutrirli, ma
di istillare in essi i primi sensi della vita sociale, i primi germi, che poi
nell'interiorità dello spirito si svilupperanno. Esse, che hanno un così alto
compito, conviene che abbiano una adeguata preparazione. Infatti, scrive il
Cuoco, « non può dare al figlio l'educazione di un cittadino colei che ha la
condizione e la mente di una serva » (1. ) . Perciò lo Stato si deve
preoccupare dell'educazione femminile, e provvedervi in modo da non turbare
l'ordine della natura e la sua essenza : educare le donne da donne, ed educarle
secondo la diversa posizione sociale che nel mondo esse avranno : e « quando le
donne saranno educate, sarà com piuta per metà l'educazione degli uomini » ( 2
) . Una questione subordinata è quella della gratuitità del l'istruzione. Deve
essere questa gratuita per tutti ? No. L'istruzione inferiore o primaria,
appunto perchè ha i ( 1 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p. 25. ( 2 ) V. Cuoco,
Scritti vari, v. II , p. 21 . 270 caratteri della più vasta generalità, è
offerta dallo Stato a tutti senza retribuzione alcuna, ma l'istruzione media e
superiore, siccome risponde ad utilità non solo sociale, ma altresì
particolare, deve essere pagata da chi ne usu fruisce, salvo sempre a fare
condizioni di favore a chi, essendo sfornito di beni di fortuna, s'addimostri
degno per altezza d'ingegno di essere mantenuto agli studi dallo Stato, che un
giorno o l'altro con le opere sue glo rificherà . Infine, in terzo luogo,
l'istruzione deve essere uni forme. Dopo quanto abbiamo detto l'uniformità
dell'istru zione appare chiara : in ogni suo grado, inferiore medio e
superiore, in ogni suo aspetto, maschile e femminile, l'istruzione deve essere
uniforme, svolta con gli stessi programmi, con gli stessi metodi, con gli
stessi libri. Il Cuoco non si nasconde i gravi difetti insiti nell'abuso d'un
simile sistema : le scienze possono anche arrestarsi, poichè la discussione e
il contrasto sono il vero e più efficace stimolo al progresso : si può
generalizzare un abito di servilità verso il passato, che è quanto di più
nocivo per la vita, che si sviluppa in un irrefrenabile superamento dell'antico
nel nuovo. Perciò questa uniformità non si può intenderla in un senso assoluto,
ma bensì relativo. Ognuno che insegna deve insegnare, previa autorizzazione
dello Stato, ed in segnare sulla base di un programma -metodo anteceden temente
presentato alle superiori autorità pubbliche. I corsi impartiti da privati non
avranno effetto accade mico, se non in seguito ad un esame dinanzi ai docenti
di Stato . Lo Stato inoltre esamina e giudica i libri di testo che andranno per
le mani dei giovani . Certo questo sistema potrebbe portare con sè il più grave
degli inconvenienti, lo staticizzarsi dell'insegnamento, il chiudersi in for
mule, in programmi, in metodi, cioè in quanto di più astratto si possa
immaginare. Per eliminare tutto ciò il Cuoco propone una direzione o ministero
di tecnici, che aperto a tutti gl'influssi scientifici europei, nell'opera sua
di controllo riconosca meriti e punisca abusi, ed 271 in ogni caso abbia di
mira il progresso e lo sviluppo del l'attività spirituale ( 1) . Posti questi
princípi fondamentali , Vincenzo Cuoco abbozza un suo vero e proprio progetto
di riforma sco lastica, particolareggiato e minuto, monumento insigne di
sapienza pedagogica, in cui davvero noi sentiamo vi vere quella che è la scuola
moderna. Noi non possiamo seguirlo fino alle ultime delucidazioni, ma ci
proponiamo di astrarre dall'opera quei princípi generali, che più hanno
relazione con l'assunto politico . Caratterizzando la scuola primaria il nostro
scrittore dice che questa, oltre a dare le prime nozioni della lettura e della
scrittura, mira a formare una morale, volendo significare che mira a formare
una moralità media so ciale . È un punto importante. La morale è necessaria per
gli aggregati umani, ed è necessaria in sè e nella sua uniformità. Possiamo
anzi osservare che essa è un bi sogno dello spirito che la elabora e la pone.
Questo pro cesso di formazione è un processo spontaneo . Lo Stato non può
ignorarlo . O esso interviene e lo promuove, al lorquando prende i fanciulli
nelle prime scuole e li porta giovinetti fino alle superiori, plasmando e
riplasmando le loro coscienze, o esso inattivo assisterà a degli svi luppi
spirituali, dai quali può anche ricevere danno. « È necessario che ai popoli si
dia ( una morale ]: altri . menti se la formeranno da loro » ( 2 ) . Questo
compito, il dare al popolo una morale, è af fidato alla scuola primaria,
allorquando l'uomo è tenero ed atto a ricevere le più svariate nozioni e a
compene trarle di tutto il proprio afflato spirituale . Se questa mo rale « la
riserbate all'età adulta, quando già l'uomo ha sentito ed ha agito, voi gliela
darete tardi ; egli si tro verà di aversene già formata un'altra : siete sicuro
che non sia diversa dalla vostra, e che, essendo diversa, vi riesca di
distruggerla ? » ( 3) . ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II , p. 14. ( 2 ) V.
Cuoco, Scritti vari, v. II , p. 16. ( 3 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II , p.
16. 272 La prima morale, quella dell'infanzia, è la più pro fonda. Il fanciullo
la riceverà, quando il suo animo è ancora puro, in sublime stato d'innocenza,
scevro di passioni conturbatrici, e non la dimenticherà mai più, poichè essa
gli è divenuta abitudinaria, vale a dire con naturale al proprio esssere . E,
se tutti i fanciulli saranno stati educati dallo Stato allo stesso modo,
l'opinione dei singoli sarà coincidente con l'opinione universale. Qui si
rivela un grande senso pratico . Non basta im porre la legge ai singoli,
occorre sentirne la necessarietà od anche, ov'è possibile, l'utilità, perchè
essa non resti un astratto, ma vibri davvero nella coscienza collettiva : e
questo è il compito della morale. Lo Stato perciò di Cuoco non si preoccupa
dell'istru zione letteraria soltanto, ma anche, e sopra tutto, del l'istruzione
morale e politica. Dell'istruzione religiosa non si preoccupa « perchè
appartiene ai di lei ministri » ( 1 ) . Ma quest'affermazione non bisogna
assumerla in senso rigido . Dato il sistema politico del Cuoco, per cui lo
Stato è stato professionista e giurisdizionalista, è ovvio che lo Stato non può
disinteressarsi di quell'educazione reli giosa, che, ancorchè si ponga fuori
dalle mura delle aule scolastiche, mira agli spiriti, cioè agli uomini, che
sono poi cittadini. La religione è un mirabile strumento d'educazione, an
corchè non sia l'educazione stessa . Come può lo Stato ri manere indifferente
dinanzi ad essa ? « È necessario che la legge le dia la norma, perchè spetta
alla legge, alla sola legge, il determinare qual debba essere la virtù del
cittadino . È necessario che la filosofia le indichi i mezzi, perchè la
filosofia è quella cui spetta conoscere il cuore e la mente umana e le vie per
insinuarvi la virtù e la saviezza » ( 2 ) . Ma d'altra parte la stessa
educazione di Stato deve ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II , p. 12. ( 2 )
Giorn . ital . , 1804, n. 61, 62, 75 ; 21, 29. maggio , 23 giugno; pp. 243-44,
pp. 247-48 , pp . 303-4: Educazione popolare (vedi p. 264 del presente lavoro
). 273 avere carattere religioso. Il Cuoco ha detto che la reli gione non
s'insegnerà nelle scuole : va bene : ma l'in segnamento, ' specie il primario,
non sarà efficace se non sarà circonfuso di quello spirito religioso, che parla
alle anime semplici. Il dotto trova nell'assoluto etico il soddisfacimento delle
sue esigenze di libertà ; l ' indotto, il fanciullo hanno bisogno di quella
morale rivelata ed oggettiva che è la religione. In un articolo del Giornale
italiano il Cuoco, par lando di una scuola normale danese, atta a creare ottimi
maestri, scrive che « il popolo deve esser istruito, ma non deve esser dotto :
ad ottener ambedue questi fini, non vi è altro mezzo più efficace che dargli
de' maestri egual mente lontani dall'ignoranza e dalla pedanteria ; met terli
in tutt'i punti dello Stato, onde sieno .in contatto col popolo, nè il popolo
abbia bisogno di cercarli; rive stirli di un carattere che pel popolo è il più
sacro, cioè del carattere religioso » ( 1 ) . Quindi anche l'istruzione ele
mentare, ancorchè laica e gestita e controllata dallo Stato, non può
prescindere da quel carattere, che diremo in senso assai largo religioso, come
quello che meglio risponde all'indole e alla natura del popolo, che è tutto
senso e fantasia e poco ragione. Sovra questa base religiosa si potrà fondare
una mo rale civica, poichè chi è buon credente in massima sarà buon cittadino,
e sulla morale poi si assicurerà il rispetto alle leggi e allo Stato . Ma la
base di tutto è la religione. E, siccome la pubblica autorità « si occupa
dapertutto a fare sì che vi sieno istituzioni uniformi di quelle idee che più
importa che sieno comuni e concordi, così dia una norma anche per le istruzioni
che fanno i ministri dell'altare ; le quali, se non sono concordi colle altre,
sa ranno inutili; se sono discordi , diventeranno nocive » . Da tutto ciò una
illazione. « Riuniamo ( esse non si avreb bero dovuto separar giammai) le
istruzioni della casa, ( 1 ) Giorn . ital . , 1804, 29 ottobre, n. 130, p.
528-29 : Utilità pubblica. 18 - F. BATTAGLIA . 274 del fòro, del tempio ;
tolgansi una volta quelle diversità di princípi , per cui ciò che la legge
economica di una famiglia richiede è condannato dalla legge politica di tutta
la città, e ciò che la patria impone è indifferente per la religione ; facciam
sì che costumi, leggi, religione non abbiano che un sol fine, che è quello di
render i cit tadini più virtuosi e la patria più felice » ( 1 ) . È la naturale
logica conseguenza di quella visuale che il Cuoco ha dei rapporti tra Stato e
Chiesa e del posto che egli attribuisce alla religione nella vita dello
spirito, so luzione tirannica, se si vuole, ma altamente liberale, se si pensa
alla natura dello Stato cuochiano, Stato etico, attuante una sua libera
finalità superiore ad ogni parti colare transeunte ed assommante in sè tutte le
varie ma nifestazioni della vita. Lo Stato del Cuoco ha molti punti di contatto
con lo Stato del Fichte e dell' Hegel. « E ogni - volta » nota giustamente il
Gentile « che si sente forte mente la sostanzialità etica, il valore ideale e
morale dello Stato ( il che avviene quando piuttosto si guarda all'idea di esso
o a uno Stato futuro, che non quando si abbia sott'occhio un determinato
governo, il quale di tanto è imperfetto a rappresentare realmente lo Stato, di
quanto è inferiore alle idealità che nello Stato pure si agitano , senza
raggiungere la forma giuridica ) , così della religione come della filosofia,
in quanto servono anch'esse come elementi riformatori della coscienza civile,
si fa necessariamente uno strumento del fine politico » ( 2 ) . Laddove
l'educazione primaria deve mirare alla fan tasia e al senso, e perciò deve
essere essenzialmente re ligiosa, l'educazione superiore deve essere
filosofica, cioè mirare allo spirito nelle sue più elevate manifestazioni
razionali. Le qualità proprie d'ogni vera educazione, in quanto spirito,
l'unitarietà sopra tutte, si rivelano ora. « L'educazione ben diretta non ha
tanto in mira d’in segnare una o due idee positive di più o di meno, quanto ( 1
) Giorn. ital . , 1804, 25 aprile, n. 50, p. 200 : Varietà ( vedi p. 226 del presente
nostro lavoro ). ( 2 ) G. GENTILE, Studi vichiani , p. 416. 275 d'ispirare
l'amore di una scienza e dare alla mente una attitudine maggiore a
comprenderla. Quasi diremmo che non si tratta di formar un libro, ma un uomo :
giacchè ad un libro rassomiglia un uomo meramente passivo, il quale tante idee
tiene quante se gliene son date ; mentre al contrario il carattere della mente
è quella di esser at tiva, creatrice, capace di formare le sue idee, ordinarle,
saperle insomma dominare in tutti i modi e signoreg giare » (1 ) . Il concetto
realistico della vecchia pedagogia è superato. Il maestro, infine, è tale in
quanto è nello spirito del discente, in cui si compie quel processo, per cui la
nozione divien vita, cioè atteggiamento spirituale e s’armonizza in un vasto
tutto , la personalità. La scuola non è accademia, ma intima affermazione di
coscienze formatesi gradualmente in un logico libero sviluppo. Tutto il vecchio
macchinario formalistico deve essere bandito : il giovane deve essere posto a
tu per tu con i grandi scrittori, poeti storici filosofi, senza il tramite di
quei cimiteri di formule che sono le grammatiche, senza il tramite di quelle
carceri di idee, che sono le retoriche e le poetiche : il giovane deve mirare
al contenuto ideale delle cose, formarsi quel che si può dire estrinsecamente
un metodo acquisitivo , ma che in sostanza null'altro è che una forma dello
spirito inscindibile dal suo conte nuto. Questo stesso carattere unitario deve
offrire l'istru zione superiore. Una differenziazione di facoltà o scuole
speciali e di cattedre s ' impone per i fini professionali che si perseguono,
ma « l'istruzione vera è quella che tutte le parti dello scibile ci presenta
ben ordinate, tutte ce le addita e ci mette nello stato di poter da noi stessi
trattenerci intorno a quella che più ci piace » ( 2 ) . Messo dinanzi ai mezzi
con cui si può progredire nello spirito, il giovane deve scegliere,
perfezionarsi nel sapere, af fermarsi nella gara della vita. ( 1 ) V. Cuoco,
Scritti vari, v. II , p. 25. ( 2) V. Cuoco, Scritti vari, v. II , p. 53. 276 Se
ora l'istruzione media ed universitaria, come ho detto deve avere carattere
filosofico, ne deriva una pro fonda trasformazione di tutto ciò che era per l'
innanzi. Un esempio solo basterà per mostrarci le infinite conse guenze di
questa nuova posizione. L'eloquenza per gli antichi null'altro era che uno
strumento per il ben scri vere, e questo bene scrivere tutto si imperniava
sovra il gioco delle grammatiche, delle retoriche, delle poe tiche. Ora,
osserva il Cuoco, la filosofia s'è impadronita delle materie dell'eloquenza .
Nè è a dire questa una usur pazione, ma una legittima rivendica di ciò che la
filosofia già possedeva in antico, cioè con i Platoni e gli Aristo teli. La
forza del dire, la perspicuità dello stile non di pendono da cause estranee a
noi, come le norme più o meno buone apprese sui " libri scolastici, ma
dalla ric chezza della nostra vita interiore, « dalla forza e dal nu mero delle
idee presentate al nostro spirito » ( 1 ) . Perciò quello che nella riforma del
Cuoco serba il vecchio nome di eloquenza , diviene una vera filosofia del bello
o este tica , che dir si voglia, come quella che direttamente mira allo spirito
e alle sue manifestazioni fantastiche, cioè artistiche. Ne il Cuoco si arresta
qui, ma seguendo la sua idea che la vera grammatica non possa essere se non
nella vita del periodo, in quanto questo scaturisce dalla mente originario e
fresco, vagheggia una grammatica universale e filosofica , che insegni il
meccanismo di tutte le lingue sulla base della comune uniforme mente umana ( 2
) . La stessa filologia, come la stessa erudizione e lo stesso studio dei
monumenti antichi, sia grafici che tecnici, « ha le sue idee astratte, ha la
sua parte filosofica ; perchè ha ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v p . 56. . II ,
( 2 ) Qui più che mai si palesa quel concetto della natura , per cui nelle cose
occorre distinguere quel che è fattizio accessorio da ciò che è essenziale ed
originario , che il Cuoco attinge come abbiamo veduto dal Rousseau ed integra
con una sicura intui. zione dello spirito in ogni suo aspetto o attività di
vita, che de riva certamente dal Vico. 277 le sue regole universali applicabili
ai fatti di tutte le na zioni. » ( 1 ) . Bisogna uscire dallo studio del fatto
in sè e per sè, sia esso un documento grafico o un rudere ar chitettonico,
risalire allo spirito, all'idea che ha mosso un popolo o un individuo a crearlo
. E come nello spi rito umano c'è un'essenzialità comune, dalle conclusioni
particolari ad un popolo occorre risalire a conclusioni più vaste, a
generalizzazioni più audaci, investenti il nu cleo della universalità, seguendo
questi stessi princípi, che il Vico ha divinato nella sua Scienza nova .
Giambattista Vico, analizzando la filologia dei greci e dei romani, ha così fissato
le norme per ogni filologia , ha stabilito leggi sicure, addimostrando non le
leggi che governano il linguaggio dei singoli , ma bensì quelle che governano
il linguaggio delle nazioni. E così si dica, per i miti, per le norme
giuridiche, per i riti . « In tal modo la scienza dell'erudizione diventa
veramente filosofica ; e ciò, che sappiamo de ' greci e de ' romani, diventa
utile ad intendere ciò che della filologia delle altre nazioni o ignoriamo o
conosciamo imperfettissimamente » (2 ) . ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II ,
p. 62. ( 2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II , p. 62. Conclusione. Ed ora che
abbiamo analizzato la personalità di Vin cenzo Cuoco in tutte le sue
manifestazioni politiche e pedagogiche, ci sia lecito concludere, pur sapendo
quanta parte del pensiero del molisano sia rimasta fuor dalle linee tracciate .
Qual'è la posizione del nostro scrittore nella storia culturale d'Italia ?
Posto a cavaliere tra il secolo XVIII e il XIX è il più importante
rappresentante di quel che un critico francese, Paul Hazard, ha detto
l'italiani smo, e che, se nel secolo XVIII s'impersona nel pen siero
storicista, e perciò antirazionalista, di Giambattista Vico, reagente contro
l'astrattismo razionalistico di Car tesio, nonchè contro il materialismo di altri
minori, in nome di supreme esigenze dello spirito ; nel secolo XIX si impersona
nel Cuoco, che animato dall'alta tradizione nazionale muove contro ogni forma
di vita, che italiana non sia , e quindi non connaturale a noi, e perciò non
veramente storica ma rigidamente morta, astratta, vuota d'ogni vibrante
contenuto umano . È un'ideale continuità quella che lega il Vico al Cuoco, è la
gloria perenne del pensiero italico rinascente, quando le straniere
infiltrazioni sempre più sembrano soffocarlo. Il Vico rappresenta un profondo
rinnovamento nella filosofia , e perciò in tutte le attività umane, che dal me
todo filosofico non possono prescindere : la politica, la storia, la
giurisprudenza, l'economia. Asserendo lo spi 279 rito fonte prima d'ogni realtà
morale, asserisce la vera libertà , libertà che nè il Medio Evo nè il
Rinascimento, moventisi ancora nell'antico dualismo dell'essere e del divenire,
potevano assolutamente concepire. Egli è il primo, che sente il dinamismo dello
spirito e pone le grandi proposizioni della filosofia moderna : il mondo del
l'arte sensuoso e fantastico, il mondo della storia delle nazioni concretato
nelle istituzioni e nelle leggi, il mondo della religione e della moralità
s'originano da noi, in noi trovano la loro fonte prima perenne inesauribile,
nella continua attività dello spirito. E, se teniamo fermo questo punto, tutto
ci si discopre trasformato, e quel che prima era estrinseco, incasellato ,
morto diviene intimo, libero, vivo. Ma questa posizione implica un nuovo e
diverso processo : la realtà spirituale non si conosce, se non affi sandosi
nelle più varie manifestazioni delle sue concretiz zazioni, vale a dire
discendendo al vero storico, per poi risalire di nuovo allo spirito prima e
remota scaturigine : l'unità dello spirito non si comprende se non attraverso
la molteplicità , e viceversa la molteplicità non si com prenderebbe se non per
il tramite dell'unità. Chiamiamo filosofia la scienza dell'idea eterna ed im
mutabile, di ciò che non è transeunte e contingente ; chiamiamo filologia la
scienza dei fatti umani, assom mante in sè ogni mutevole prodotto storico :
occorre con ciliare l'una con l'altra , la filologia con la filosofia . È il
grande assunto del Vico : porre questo nesso correlativo : non v'è filosofia
senza filologia, nè filologia senza filosofia . La mente umana è l'origine
dell’una e dell'altra, produce l'idea, il vero filosofico, come genera il fatto
umano, il vero storico . Da ciò scaturisce che la sua realtà è questo mondo
degli uomini, in cui siamo nati ed in cui ci muo viamo, in cui dobbiamo
foggiare la nostra individualità ed agire per noi e per gli altri, per il
nostro particolare e per lo Stato, in cui vive il nostro miglior noi . E questo
il Vico esprime nella notissima icasastica frase : « questo mondo civile
certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perchè se ne
debbono, ritruovare i prin cípi, dentro le modificazioni della nostra medesima
mente 280 umana » ( 1) . Questo il nucleo profondo della filosofia del Vico,
che Cuoco acquisisce e fa sangue del suo sangue, movendo da esso a rinnovare la
struttura della politica e della pedagogia tradizionale: Il Cuoco in senso
rigido non è filosofo vero, come colui nel quale rimangono vecchi e irresoluti
reliquati intellet tualistici nonchè contraddizioni insanabili, per cui in
qualche punto è ancor più indietro del suo istesso maestro; ma il suo grande
merito è l'aver posto in termini poli tici quel che in Vico era filosofia , e
l'aver visto quale inesauribilità di situazioni poteva germinare dalla vec chia
esperienza vichiana . In un mondo vuoto e falso quale quello della rivolu zione
italo - francese, egli, riinnestandosi al Vico, dà alla nazione quel senso
storico che le mancava, e le ridona * quella comprensione sicura della realtà,
quella fiducia, che solo può scaturire da una ferma credenza in noi, nelle
nostre possibilità, nel nostro avvenire. Nella rivoluzione napoletana si è
detto con felice frase sono i germi dell'unità d'Italia, e, notiamo, non solo
dal punto di vista estrinseco, ma dal punto di vista anche intellettuale. Con
il cadere della Partenopea, diecine e diecine di esuli si diffondono per il
Nord d'Italia, ed ivi portano il loro sapere, la loro cultura filosofica più o
meno permeata di vichismo, il loro diritto , la loro economia: da ciò nasce una
più intima comunione di spiriti, una più attiva fratellanza di idee tra
italiani ed italiani. E chi resta insensibile a questo gran movimento cultu
rale, in cui sono non pochi e piccoli germi di quel che sarà il Romanticismo ?
Nessuno, direi : non v'è alta co scienza che per effetto di questa propaganda
non vi chianeggi . È un po' la moda, ma una moda benefica, che porta ad una
migliore intesa tra uomini di diverse regioni d'Italia, che erano per secoli
rimaste quasi estranee tra loro . Più gli studi si approfondiscono e più questo
fenomeno ( 1 ) G. Vico, Scienza nova , v . I , p. 172. 281 appar vero, ' e,
notiamo, anteriore in un certo senso al l'opera stessa di Vincenzo Cuoco. È di
ieri, recentissimo, uno scritto di Luigi Rava, che ci informa di una rivista,
fiorita a Venezia verso il 1796, tre anni prima dunque dell'esilio del nostro
molisano, il Mercurio d'Italia , in cui Ugo Foscolo giovinetto fa le sue prime
armi e pubblica i suoi precoci scritti, La Croce, l'Ode a Dante, La morte di ***
ed altri componimenti di minore importanza ( 1 ) . Ebbene in un articolo
anonimo sovra l'Abbozzo di un quadro del progresso dello spirito umano del
Condorcet v'è un raffronto tra le dottrine del francese e quelle di
Giambattista Vico. È proprio ca suale questa coincidenza ? E il Foscolo
giovinetto, che del Vico poi certo si nutrì come dimostrano molte idee dei
Sepolcri e degli scritti critici, rimase insensibile al richiamo di questo
grande filosofo italiano, « così poco conosciuto fuori della sua Napoli » ? ( 2
) . Ma i veri apo ( 1) Luigi RAVA, Le prime armi del Foscolo giornalista : il
Mercurio d'Italia , in Rivista d'Italia , a. XXVII ( 1924) , v. I , fasc. III ,
pp. 257-279. ( 2 ) Un certo quale influsso vichiano forse inconscio si può
rinvenire in Carlo Gozzi e nella posizione assunta con le sue ce lebri Fiabe
contro il Chiari e il Goldoni, in cui certo egli rappre senta una tradizione
veramente italica, se pure esausta dal tempo, contro una riforma che a lui
pareva una volgarità , troppo permeata di verismo com'era. Lastessa ricerca del
fan tastico per il popolo in una società razionalista, superba della infinita
sicurezza dell' intelletto , è una posizione vichiana. « Il contenuto » scrive
il DE SANCTIS , ( Storia, II, p. 305 e sg. ) se è il mondo poetico com'è
concepito dal popolo , avido del meraviglioso e del misterioso,
impressionabile, facile al riso e al pianto. La sua base è il soprannaturale
nelle sue forme : miracolo, stregoneria, magia. Questo mondo dell'immagina
zione, tanto più vivo quanto meno l' intelletto è sviluppato, è la base
naturale della poesia popolana sotto le più diverse forme: conti, novelle,
romanzi, storie, commedie, farse. La vecchia letteratura se n'era impadronita ,
ma per demolirlo, per gettarvi entro il sorriso incredulo della colta
borghesia. Rifare questo mondo nella sua ingenuità, drammatizzare la fiaba o la
fola, cercare ivi il sangue giovane e nuovo della com media a soggetto : questo
osò Gozzi in presenza d'una società scettica e nel secolo de’lumi, nel secolo
degli spiriti forti e 282 stoli del vichismo sono nell'Italia settentrionale
gli esuli napoletani del '99, come osserva B. Croce ( 1 ) , sono Vin cenzo
Cuoco, Francesco Lomonaco, Francesco Salfi, il Massa, il De Angelis ed
innumerevoli altri minori ma pur degni. Per la loro opera si può dire che non
vi sia grande scrittore che non vichianeggi. L'influsso che il Cuoco od altri
esercitò sul Foscolo, è indiscutibile. A noi non risulta alcun documento com
provante possibili e diretti rapporti Cuoco - Foscolo, ma è certo che, se il
molisano ebbe relazioni , anche super ficiali, con amici del poeta dei
Sepolcri, questi non potè ignorare l'autore del Saggio storico ( 2 ) . Ma sia o
non sia stato il Cuoco od altri ( 3 ) a far conoscere il Vico al Foscolo,
de’belli spiriti. E riuscì ad interessarvi il pubblico , perchè quel mondo ha
un valore assoluto e risponde a certe corde che, ma neggiate da abile mano
d'artista, suonano sempre nell'animo: ciascuno ha entro di sè più o meno del
fanciullo e del popolo ». Del resto l'ultimo editore di C. Gozzi, Domenico
Bulferetti, ( Le memorie inutili , Torino , 1923 , vol. due) non ha potuto ne
gare che lo spirito dell'autore delle Fiabe assuma atteggia menti non certo
consoni al tempo suo e alla veneta società, come tutte le società del tempo
illuminata, ma riecheggi un po' il nuovo storicismo meridionale, pur senza
essere riuscito a provare una diretta influenza di quest'ultimo sugli studi del
suo autore. (1 ) B. CROCE , La filosofia di G. Vico, p . 289 ; B. CROCE, Storia
della storiografia , v . I , p. 12. ( 2 ) G. ROBERTI, in Giornale storico della
letteratura italiana , a. XII, v. XXIII, pp . 416-427. Il Roberti raccoglie
nell'arti colo alcune lettere che C. Botta, U. Foscolo , V. Cuoco inviarono al
suo bisavolo paterno , Giovanni Giulio Robert ( poi italianiz zato in Roberti).
Le lettere di Foscolo sono delle mere com mendatizie di due esuli meridionali,
uno certo Piscopo, l'altro un anonimo, che il Roberti crede, senza peraltro
dimostrarlo, che sia il Lomonaco . Da ciò si deduce sicuramente che Ugo ebbe
rapporti con meridionali e con amici diretti del Cuoco. ( 3 ) Vedi a proposito
G. PECCHIO, Vita di U. Foscolo, Città di Castello, Lapi, ed. , 1915 , p. 170,
p. 210 e passim . P. HAZARD, op. cit. , p. 241 osserva : « Son influence se répandra
même dans la littérature pure, où en trouvera des traces chez Monti et chez
Foscolo. Toux ceux lacomprennent les articles que Cuoco consacre à son maître
(Vico] » . Ora F. NICOLINI nella Nota agli Scritti vari di V. Cuoco, v . II ,p.
397 , dice che gli 283 gli scritti del poeta stanno lì a testimoniare come pro
fondamente nutriti essi siano di pensiero vichiano : così il processo
dell'incivilimento descritto nel carme, per cui furono nozze e tribunali ed
are, che diero alle umane belve essere pietose di sè stesse e d'altrui, è
derivato di- . rettamente dalla Scienza nova, ove è meditato il pas saggio
dall'età degli dei alle grandi società eroiche (1 ); e così pure il costume che
tolse i miserandi cadaverici avanzi alle fiere e li provvide di sepoltura ( 2 )
. Parimenti articoli del Giornale italiano furono letti attentamente, « molto
letti » oltre che da V. Monti e A. Manzoni anche da U. Fo scolo , e allo scopo
di provare ciò rimanda ad una recensione, in cui il molisano parla del libro
Della Tumulazione di A. DELLA PORTA, Como, Ostinelli, in cui « è, come si vede,
il medesimo fondo di idee vichiane, a cui .... s’ ispirò il Foscolo nei
Sepolcri » ( v. I , p. 254) . (1 ) B. CROCE, La filosofia di G. B. Vico, p.
172. ( 2) Confronta i su citati brani foscoliani con i seguenti di Vico : à
Osserviamo tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per immensi
spazi di luoghi e tempi tra loro lon tane, divisamente fondate, custodire
questi tre umani costumi : che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono
matri moni solenni, tutte seppelliscono i loro morti ; nè tra nazioni,
quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni umane con più ricercate
cerimonie e più consagrate solennità che reli gioni, matrimoni e seppolture.
Chè per la Degnità, che « idee uniformi, nate tra popoli sconosciuti tra loro ,
debbon avere un principio comune di vero, dee essere stato dettato a tutte, che
da queste tre cose incominciò appo tutte l'umanità , e perciò si debbano
santissimamente custodire da tutte, perchè 1 mondo non s'infierisca e si
rinselvi di nuovo » ( Scienza nova, v. I , p. 173) . « Finalmente, quanto gran
principio dell'umanità sieno le seppolture, s'immagini uno stato ferino nel
quale restino insep polti i cadaveri umani sopra la terra ad esser esca de corvi
e cani ; chè certamente con questo bestiale costume dee andar di concerto
quello d'esser incolti i campi nonchè disabitate le città, e che gli uomini a
guisa di porci anderebbono a mangiar le ghiande, colte dentro il marciume de’
loro morti congionti. Onde agran ragione le seppolture con quella espressione
su blime Foedera Generis Humani ci furono diffinite e, con minor grandezza ,
Humanitatis Commercia ci furono descritte da Ta cito » . ( Scienza nova, I , p.
177 ) . Notiamo che nel primo brano citato il rinselvarsi sta per 284 lo stato
ferino dei figli della terra, duellanti a predarsi, primi avi dell'uomo, quei
cannibali che s ' imbandiscono convito delle carni umane, così vivi nel mondo
rifinito de Le Grazie, non si intendono, se non riferendoci ad un sistema
filosofico che è certo quello del Vico ( 1 ) , si stema che siffattamente
compenetra l'opera del poeta, che questa trascende e si riflette in tutti gli
scritti pro sastici, sia pure storici e critici ( 2 ) . Onde tutta la sua cri
tica trova il nucleo originale nei nuovi portati dell'este significare il
ritorno allo stato selvaggio primitivo, onde la parola selva significherebbe lo
stato stesso, e che precisamente in questo senso il primo e il secondo termine
sono stati as sunti da Ugo Foscolo nella celebre Orazione inaugurale: « le
umane belve ancor vagabonde per la grande selva della terra » ( Opere, ed.
Lemonnier, v . II , p. 21 ) ; nonchè ripetuti da un gio vane, pur esso
destinato a divenire un grande scrittore , da GIOSUE CARDUCCI : « fuggendo per
la gran selva de la terra il nato de la donna ululò già co' leoni a la preda
cruenta : indi con vitto ferin la vita propagando, incerti videsi intorno i
figli: e lui cedente de la materia a le vicende eterne l ' immane salma, per lo
gran deserto dilaceraro i lupi ». ( Rime, San Miniato, Tipografia Ristori ,
1857 , p. 84) . ( 1) La vita preistorica è con viva arte descritta dallo stesso
Vico nelle prime pagine dell'opera sua, laddove accenna alle prime
trasmigrazioni marittime: « .... gli antenati di coloro che furono poi gli
autori delle trasmigrazioni medesime: furono dapprima uomini empi, che non
conoscevano niuna divinità ; nefari, chè, per non esser tra loro distinti i
paren tadi co' matrimoni, giacevano sovente i figliuoli con le madri, i padri con
le figliuole; e , finalmente, perchè, come fiere be stie, non intendevano
società , in mezzo ad essa infame comu nion delle cose , tutti soli e , quindi,
deboli e , finalmente, miseri ed infelici , perchè bisognosi di tutti i beni
che fan d'uopo per conservare con sicurezza la vita . Essi, con la fuga de
propri mali, sperimentati nelle risse , ch'essa ferina comunità produ ceva, per
loro scampo e salvezza, ricorsero ecc. » ( Scienza nova, v. I , p. 27 ) . ( 2 )
Il vichismo del Foscolo è stato rilevato da N. TOMMASEO, Storia civile nella
letteraria , Torino, 1872 , ma certo non com preso , troppo imbevuto , com'era
il critico, di passioni oscura trici d'un equanime giudizio e di false idee
d’un'arte pedago gica : il brano, al quale intendiamo riferirci , è stato
raccolto nell'antologia del TOMMASEO, Scritti di critica e di estetica scelti
da A. ALBERTAZZI, Napoli, Ricciardi ed ., s . d. , p. 192 e sgg. 285 tica
vichiana, che prima scuote le vecchie scolasticherie, a base di retoriche e di
poetiche per penetrare nello spi rito vivo e fantastico dell'opera d'arte ( 1)
. Ma l'influsso più importante e diretto Cuoco lo eser cita direttamente sul
Monti col quale ebbe rapporti epi stolari ( 2 ) , nonchè disappunti letterari,
dovuti al fiero" giudizio che l'autore del Saggio faceva circa il
carattere del poeta cesareo assai volubile in politica ; e sul Man zoni di cui
fu davvero intimo ( 3 ) . Le lezioni universi tarie, dal primo tenute a Pavia,
specie la prolusione Della necessità dell'eloquenza ( 1 ) , il Discorso sulla
storia longobarda del secondo ( 5 ) , sono la prova sicura della dif fusione
delle dottrine del Vico. ( 1 ) Vedi a proposito come Foscolo intende
l'eloquenza e confrontala con il modo come l'intende il Cuoco : G. PECCHIO, op.
cit., p . 210, nota ; B. ZUMBINI, Studi di letteratura ita liana, Firenze, Le
Monnier ed . , 1894, p. 267; G. A. BOR GESE, Storia della critica romantica in
Italia, Milano, Treves ed. , 1920, p. 248 e sgg. , sopra tutto p. 266 : « non è
una scoperta , dice quest'ultimo, quella dello Zumbini che anche le lezioni di
eloquenza siano tutte nutrite di concetti vichiani ; anzi fa rebbe una scoperta
chi indicasse uno scritto capitale del Fo scolo , nel quale la filosofia della
Scienza nova non abbia bene o male la sua parte » . ( 2 ) G. Cogo , op. cit. ,
p. 181; N. RUGGIERI, op. cit. , p. 47 ; P. HAZARD, op. cit ., p. 241 ; vedi
anche V. Cuoco, Scritti vari v. II , pp. 318 , 367 , passim . ( 3) N. RUGGIERI
, op. cit. , p. 48 , il quale in nota richiama G. CAPITELLI, Patria ed arte,
Lanciano, Carabba ed. , 1887 , p. 182 e sg.; vedi V. Cuoco , Scritti vari , v.
I , p. 285 ; v. II , pp. 318, 358, 367, 397 , passim . ( 4 ) V. MONTI, Prose e
poesie, Firenze, Le Monnier, 1847 , v. IV, p . 31 e sgg. ( 5 ) A. MANZONI,
Prose minori con note di A. BERTOLDI, Firenze, Sansoni ed ., s . d ., p. 22 e
sgg. Allorquando questo lavoro era già ultimato usciva per le stampe l'opuscolo
di G. GENTILE, Vincenzo Cuoco; commemorazione tenuta a Campo basso nel primo
centenario della sua morte, Roma, C. De Al berti ed ., *1924. L'influsso
vichiano, per il tramite del Cuoco, nota il prof. Gentile, si rivela « non solo
per l'alto concetto in cui dimostra di tenere il grande filosofo napoletano, ma
anche e principalmente per la forma definitiva della sua mente, per alcuno dei
caratteri più significativi della sua individualità di 286 n Nè questa si
arresta qui , ma plasma disè tutta la nuova critica d'arte, e in parte la nuova
storiografia, rifonden dosi con dottrine di diversa origine e di diversi paesi,
specie con i canoni romantici di Germania : a chi legge gli scritti del Berchet
( 1 ) , del Torti ( 2 ) , del Di Breme ( 3 ) , non sarà difficile rinvenirvi
idee e proposizioni vichiane. Così, gradualmente per opera del Cuoco e di pochi
altri napoletani, il pensiero nazionale si vien formando attra verso un apporto
di storicismo e d’idealismo meridio pensatore e scrittore , quale è
rappresentata sopra tutto ne romanzo. Poichè anche Manzoni pensatore e
scrittore è un realista che non conosce tipi astratti, ma vede sempre gli uo
mini e li rappresenta come sono in fatto storicamente; non repubblica di
Platone e neppur feccia di Romolo ; ideale col suo limite , come diceva De
Sanctis : tutto determinato, vero e certo : e così in questa determinatezza e
limitazione e storia, tutto segnato dal dito di Dio , tutto,come aveva
insegnato Vico, governato da una Provvidenza che non precede per mi racoli, ma
opera naturalmente attraverso gli stessi effetti delle cose e le azioni degli
uomini . ( 1 ) Vedi BORGESE, op. cit., p . 105 : « il Berchet s'era nutrito
degli scrittori più audaci d'oltremonte : la Staël, il Bouterweck, gli Schlegel
erangli familiari; conobbe non leggermente la let teratura inglese e la tedesca
; dei nostri venerò sopra tutti il Vico e il Beccaria. Vari fili della vita
intellettuale d'Italia, annodandosi, davano origine alla nuova critica e alla
nuova letteratura ; .... nel secolo decimottavo la filosofia aveva silen
ziosamente ed oscuramente rinnovato gli spiriti e s' era con pertinace lentezza
accostata alla letteratura , col Vico, non compreso, col Cesarotti non comune
ragionatore, col Beccaria autore di un trattato dello stile : e , se forza di
filosofare non ebbe il Berchet, questi filosofi studiò e ammirò non debol mente
» . ( 2 ) BORGESE, op . cit., p. 189 : « il Torti fu uomo di non co mune
coltura e d'ingegno e, cosa a quei tempi molto rara, conobbe il Vico e si
richiamò alle leggi da luisegnate, senza divenire per questo critico grande » .
( 3 ) L'ampia influenza del Vico si stende su tutta l'opera di Ludovico Di
Breme e su quella di tutti i redattori del Concilia tore, ed è stata ben messa
in luce dall'ultimo editore dell'abate piemontese C. CALCATERRA ( L. d . B.,
Polemiche, Torino, Unione tip . - editrice torinese, s . d. ( 1923 ) ] , che
dell'idealismo dei primi romantici, della loro reazione ai vecchi sistemi
filosofici, dei loro studi, fa un'ampia disamina . 287 nale al positivismo e al
razionalismo settentrionale . È certo un processo lento e faticoso, ma
nondimeno si curo, le di cui conseguenze ultime occorre osservare non soltanto
nel campo critico e storiografico, ma anche, e sopra tutto, nel campo politico
. « Eppure si come giusta mente nota Giovanni Gentile « nonostante la
propaganda del Cuoco,... quantunque i germi da lui seminati sian caduti in intelligenze
delle maggiori del secolo, si può affermare che la voce del Cuoco come
banditrice della verità vichiana non trovi nessuna eco in tutto il resto del
secolo. Altri scrittori, segnatamente il Gioberti, hanno lavorato ad educare le
menti italiane al realismo poli tico ; altri filosofi, segnatamente lo
Spaventa, hanno la vorato a sviscerare il nucleo centrale della filosofia vi
chiana ; ma fino ai nostri giorni nessuno ha visto in questa filosofia così
nettamente e fermamente come Vincenzo Cuoco il nuovo metodo, veramente
rivoluzionario , " del pensare storico e politico e un potente
irresistibile argo mento per un programma politico nazionale. Egli, per questo
rispetto, rimane sulla soglia del secolo XIX, maestro unico solitario : un
veggente » ( 1 ) . Con ciò vo gliamo semplicemente dire che se le dottrine
vichiane nel campo estetico, attraverso la propaganda del Cuoco, dànno subiti e
luminosi effetti, nel campo politico, que sti effetti sono più lenti e tardi,
quasi misconosciuti al lorquando si manifestano : Vincenzo Cuoco è un maestro
senza discepoli, o meglio , con un solo discepolo, e per avventura grandissimo,
Giuseppe Mazzini. Quel che nel Cuoco abbiamo detto realismo politico,
derivazione stretta di tutto l'insegnamento della Scienza nova, non è destinato
a perire, ma, rinnovandosi, tra sformandosi porta alle più grandi conquiste del
secolo : « primo, a riconoscere e a mettere in rilievo l'individua lità
insopprimibile di tutte le formazioni storiche; se condo, a negare che un
popolo, come un individuo, possa nulla ricevere di fuori, e che possa
progredire ed elevarsi senza uno sforzo proprio fondato sulla stima di sè e
sulla ( 1 ) G. GENTILE, V. Cuoco : commemorazione, p . 13 e sg. 288 fiducia
delle proprie forze » ( 1 ) . Questi due postulati gran diosi e veri, posti dal
Cuoco nella coscienza degli Italiani, non si distaccheranno più da essa, e
formeranno il nucleo di tutta l'educazione nazionale e di tutta la pratica po
litica, che si sintetizza nell'opera di Mazzini. Ora i nuovi studi di F. L. Mannucci
circa la prima fase del pensiero mazziniano hanno messo bene in luce come il
genovese non solo si sia nutrito del Vico ( 2 ) per il tra mite del Michelet (
3 ) , ma in suoi privati zibaldoni abbia recensito e fatto estratti de '
numerosi e vivi articoli, che ( 1 ) G. GENTILE, V. Cuoco : commemorazione, p.
14. ( 2 ) L'influenza del Vico su Mazzini è stata ben posta in luce prima che
dal Mannucci dal BORGESE, op. cit., p. 291 e sgg. « Egli era, come il Foscolo,
lontano dal finalismo dommatico che impediva in ogni modoal Tommasèo di trarre
vita e nutri mento dalle dottrine del Vico. Epperò egli era in condizioni più
felici di quei due che l'avevano preceduto nell’a i mirazione pel Vico, e se ne
disse discepolo con convinzione non minore, ed anzi ne persuase lo
studioproprio per il rinnovamento della storia letteraria. « Il vuoto esistente
nella filosofia » , egli la mentava, « deve naturalmente ripetersi nella
critica letteraria, che è la filosofia della letteratura » ; e la filosofia
ch'egli desi derava era proprio la Scienza nova. « Il vincolo » , disse
altrove, paragonando le antiche congerie erudite che usurpavano il nome di
storie letterarie con quelle che venivano in onore per effetto del rinnovamento
romantico, « il vincolo che annoda in un popolo le istituzioni, le lettere e i
progressi della civiltà, indovinato un secolo innanzi dal nostro Vico, fu posto
in chiaro, sottomesso ad analisi e diede cominciamento ad una sola scuola, il
cui scopo santissimo or s'irride da chi non sa , o non cura comprenderlo » . E
si compiaceva che ora molti libri e molti studiosi traessero il Vico da
quell'obblìo a cui per cento anni lo avevano condannato le baieerudite e
l'inerzia degli animi». ( 3 ) F. L. MANNUCCI, Giuseppe Mazzini e la prima fase
del suo pensiero letterario : l'aurora d'un genio, Casa ed. Risorgi. mento,
Roma, ecc. , 1919, p. 16, p. 23 e sg. , p. 66 e sgg., p . 143. Il Mannucci ci
rende edotti che uno dei cinque mss. da lui stu diati, di cui due sono
aPortomaurizio in casa dei sigg. Cremona eredi Ferrari, tre nel Museo del
Risorgimento a Genova, con tiene una recensione dei Principes de la philosophie
de l'histoire traduits de la Scienza Nuova de Fico et precédés d'un discours
sur le système et la vie de l'auteur, par J. MICHELET, professeur, ecc. , Paris,
Renouard , 1827. Vedi a proposito di questa versione fran cese , CROCE. La
filosofia di G. B. Vico, pp. 289, 291, 304. 289 il Cuoco andava pubblicando sul
Giornale italiano, firman doli con la semplice sigla C (1 ) . E in questi
zibaldoni il lettore commosso può rinvenirvi annotate le Osserva zioni sullo
stato politico dell'Europa, le Considerazioni sul Concordato, in cui Vincenzo
getta uno sguardo rapido non solo sul passato e sul presente d'Italia, ma anche
nel più lontano avvenire, risolvendo, da una parte, sovra basi giurisdizionali
il millenario problema dei rapporti tra Stato e Chiesa, dall'altra la questione
dell'equilibrio europeo. È interessante notare, pure, come il Mazzini, po
stillando il famoso scritto cuochiano sul Machiavelli, da noi a più riprese
richiamato, laddove il molisano loda con il segretario di Firenze il duca
Valentino, perchè tra tanti scellerati principotti avrebbe potuto rimanere
solo, nota : oltre a questo aggiungerei che un tiranno si spegne più facilmente
di cento ». Esuberanze giova nili che il Cuoco avrebbe rimproverato e che lo
stesso Maz zini maturo avrebbe certo rinnegato ! Sicuramente .... Ma io amo
pensare il giovane Giuseppe, appena uscito dal l'università, chino sulle pagine
del Cuoco, e, meditabondo, ripensare con lui le sorti della patria e la sua
redenzione morale non attraverso giuridici compromessi o speranze d'equilibrii
europei, ma attraverso un'azione che è pen siero , perchè guidata dal pensiero,
attraverso un pen siero che è azione, perchè mirante agli uomini e alle loro
coscienze. Il grande merito del Mazzini è precisamente l'avere accettato le
ultime conclusioni politiche cuochiane ed averle con un apostolato senza pari
concretate nella vita. Il popolo, il popolo, che il Cuoco vede nell'avvenire
nucleo vibrante della patria, diviene il fondamento della repubblica del
Mazzini, e in suo nome e per lui l'Italia ( 1 ) Il fatto che gli articoli non
siano firmati che con una si gla, il fatto che negli zibaldoni il Mazzini non
citi espressamente il Cuoco fa pensare al Mannucci ( op. cit. , p. 107, n. 101
) che il grande agitatore non abbia mai pensato che gli articoli da lui letti
nel Giornale italiano fossero proprio di V. Cuoco : così pure GENTILE, V. C.:
commemorazione, p. 26. In quanto poi al Saggio storico il prof. Gentile
sostiene nella stessa pagina che il genovese non solo lo conobbe ma lo
menzionò. 19 F. BATTAGLIA , 290 diviene dopo tante lotte una e indipendente,
diviene nazione e Stato . Il Cuoco intuisce che il problema unitario è un
problema di coscienze, Mazzini lo conferma, e nel binomio Pensiero e azione
redime l' Italia . Questa vasta trama d'influssi, che la dottrina cuo chiana,
in tutti i suoi attributi, sopra tutto nelle inter ferenze politiche, ha
esercitato nel pensiero italiano, specie settentrionale , meriterebbe uno
studio a parte, ma a me basta averne tracciato le somme linee, il filo
conduttore, perchè risulti ai lettori uno essere il processo che porta
all'unificazione d'Italia nel nome di una tra dizione secolare, che dal Vico va
al Mazzini e che un'unità così raggiunta, vale a dire attraverso una compenetra
zione graduale e lenta di spiriti e d'idee, per quanto ancor recente, è troppo
salda, perchè alcuno possa te mere di vederla infranta nell'urto fragoroso
d'interessi antagonistici internazionali o classisti, perchè altri si ar roghi
il non ammissibile diritto di salvarla e di rappre sentarla. 4 Nota
bibliografica. Ho seguito i testi più sicuri dal punto di vista tipografico,
cioè : VINCENZO Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 a
cura di Fausto Nicolini, Bari, Laterza ed. , 1913, che ho raffrontato con
l'edizione milanese del Sonzogno, 1820, e con quella fiorentina del Barbèra,
1865 ; VINCENZO Cuoco, Platone in Italia a cura di F. Nicolini, Bari, Laterza,
ed. , 1916-24, volumi due ; VINCENZO Cuoco, Scritti pedagogici inediti o rari
raccolti e pubblicati da Giovanni Gentile, Roma-Milano, Albrighi e Se ganti ed.
, 1909. Gli articoli del Giornale italiano ho veduto sul testo originario , ma
spesso mi sono servito delle ristampe in appendice alle opere critiche del
Romano e del Cogo. Allorquando il mio lavoro era già compiuto sono usciti i due
volumi di scritti cuochiani, che integrano nella raccolta degli Scrittori
d'Italia laterziana il Saggio e il Platone: VIN CENZO Cuoco, Scritti vari a
cura di N. Cortese e F. Nicolini, Bari, Laterza ed. , 1924, volumi due. Con
questa stampa quanto di meglio è stato scritto dal grande molisano è oramai
stato dato al pubblico, e ben poco resta da fare nel campo dell'ine dito. Non
tutti gli articoli del Giornale italiano invero hanno tro vato l'attesa
ripubblicazione, ma, sebbene alcuni scritti di una certa importanza siano stati
posti fuori, quei ventisette che il Cortese e il Nicolini hanno scelto , uniti
al catalogo ragionato dei 292 rimanenti, bastano a dare un'idea più che
sufficiente al let tore dell'attività pubblicistica del nostro autore. Va data
lode ai due insigni editori Cortese e Nicolini per non avere lasciato da parte
gli articoli; che il Cuoco ha pubblicato nel Corriere di Napoli e nel Monitore
delle due Sicilie, i quali, sebbene assai meno interessanti di quelli del
Giornale italiano, pure possono essere utili, e per avere di essi pure offerto
un catalogo ragio nato. S’ intende che ho riveduto il testo di tutti gli scritti
minori di Vincenzo Cuoco sovra la nuova edizione laterziana, che offre i
migliori affidamenti di serietà e di rigore, sopra tutto per la ortografia,
che, specie nei fogli originari del Giornale italiano, è la più volubile e
ineguale. P. ALBINO, Biografie e ritratti degli uomini illustri della pro
vincia di Molise, Campobasso, 1864, I , pp. 1-36 ; F. BALSANO, Vincenzo Cuoco e
gli studi della gioventù italiana in Rivista Bolognese, a. II , v. I , fasc.
IV, aprile 1868 ; F. BATTAGLIA, Critica rivoluzionaria e tradizione nel
pensiero di V. Cuoco in Studi politici, a. I , fasc . 4-5, aprile 1923 ; A.
BUTTI, La fondazione del « Giornale italiano » e i suoi primi redattori (
1804-1806) , Milano, Cogliati ed. , 1905 ( estr. dall' Arch. stor. lomb . , a.
XXXII, fasc. VII ) , alla quale operetta si riferisce la recensione di G.
OTTONE in Riv, stor. it ., a. XXIII, za serie, vol. V ( 1906 ) , p. 341 e sgg.;
A. BUTTI, Una lettera di V. Cuoco al vicerè Eugenio, nella miscellanea Dai
tempi antichi ai tempi moderni ( per nozze Scherillo- Negri), Milano , Hoepli
ed. , 1904, p. 529 e sgg .; A. BUTTI, L'Anglofobia nella letteratura della
cisalpina e del regno italico , in Archivio storico lombardo, a. XXXVI ( 1909)
, p. 434 e sgg.; C. CANTONI, Giambattista Vico, studi storici e comparativi,
Torino, Civelli ed . , p. 23 e sgg.; N. CAPRARA, V. Cuoco, Isernia , 1919 ( 1 )
; ( 1 ) L'indicazione dell'opuscolo non è esatta, poichè la sola copia che ho
potuto vedere manca del frontespizio : del resto si tratta di uno scritto di
mero inte resse bio - bibliografico . 293 9 G. Cogo, Vincenzo Cuoco, note e
documenti, Napoli, Jovene ed. , 1909 ( cfr. le recensioni di G. GENTILE in
Archivio stor. nap . XXXIV ( 1909) , pp. 588 e sgg ., poi ristampata in ap
pendice agli Studi vichiani, Messina, Principato ed ., 1915 ; di G. GALLAVRESI
in Il Risorgimento italiano, a. III , fasc. I - II , p. 223 e sgg .; e ancora
di G. GALLAVRESI in Arch. stor. lomb. , a. VII , ( 1910) , p. 462 e sgg. ) ; L.
CONFORTI, Napoli nel 1799, critica e documenti inediti, Napoli, De Falco ed. ,
1886, p. 21 e sgg ., passim (una confuta zione di molte affermazioni ingiuste
dell'autore è in N. RUG GIERI, Vincenzo Cuoco , Rocca San Casciano, Cappelli,
ed. , 1903, p. 104 e sgg. , nonchè in M. ROMANO, Ricerche su V. Cuoco, Isernia,
1904, p. 99 ) ; B. CROCE, La filosofia di Giambattista Vico, Bari, Laterza ed.
, 1911 , passim ; B. CROCE, La rivoluzione napoletana del 1799, terza edizione,
Bari, Laterza, 1912, passim ; B. CROCE, Storia della storiografia italiana nel
secolo XIX , Bari, Laterza, 1921 , vol. I , p. 8 e sgg ; R. DE RENZIS, Il
risveglio degli studi intorno a V. Cuoco in Italia moderna, 1905 ; G. DE
RUGGIERO, Il pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Bari,
Laterza ed . , 1922, p. 166 e sgg.; F. DE SANCTIS , Storia della letteratura
italiana, Milano, Treves ed. , v. II , p. 309, p. 327 ( accenni ) ; F. DE
SANCTIS , Saggi critici, Milano , Treves, v. III , p. 291 ; A. FRANCHETTI,
Storia d'Italia dal 1789 al 1799, Milano, s. d. , Vallardi, p. 557 e sgg .; G.
GENTILE, Studi vichiani, Messina, Principato ed. , 1915 ( in cui è ristampato
lo studio Un discepolo di G. B. Vico : Vincenzo Cuoco pedagogista , già
pubblicato in Riv. pedagogica, a. II , 1908) ; G. GENTILE, Dal Genovesi al
Galluppi, Napoli, edizione della Critica, 1903, p. 375 e sgg . G. B. GERINI,
Gli scrittori pedagogici italiani del secolo XIX, G. B. Paravia ed. , 1910,
Torino, pp. 30-44 ; F. GUEX, Storia dell' istruzione e della educazione, trad.
o note con app. su Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo storico di
G. VIDARI, G. B. Paravia ed. , s . d. , Torino, v. II , p. 314 e sgg.; 294 e P.
HAZARD, La révolution française et les lettres italiennes, 1779-1815, Paris,
Hachette ed. , 1911 , p. 218 e egg.; B. LABANCA, Giambattista Vico e i suoi critici
cattolici, Na poli, Pierro ed. , 1898, p. 406 e sgg.; A. LEVATI, Saggio sulla
storia della letteratura italiana nei primi venticinque anni del secolo XIX,
Milano, Stella ed. , 1831 , p. 228 ; G. MAFFEI, Storia della letteratura
italiana, riveduta da P. Thouar, Firenze, Le Monnier ed. , 1853, v. II, p. 259,
p. 348 e sgg.; F. L. MANNUCCI, Giuseppe Mazzini e la prima fase del suo
pensiero letterario ; l'aurora di un genio , Casa ed. Risorgimento, Roma, 1919,
(cfr. recensione di G. GENTILE in Critica, v. XVII, p. 317 e sgg. ) ; G. B.
MARCHESI, Studi e ricerche intorno ai romanzieri e ro manzi del ' 700, Bergamo,
1903 ; A. MARTINAZZOLI E CREDARO, Dizionario illustrato di peda gogia, F.
Vallardi ed. , 1901-5, Milano, v. I , p. 420 e sgg. ( 1 ) ; 0. MASTROIANNI,
Ricerche storiche pubblicate per delibera zione del R. Istituto d'
incoraggiamento di Napoli, Napoli, Pierro ed. , 1907, p. 196 e sgg .; P. MONROE
ed E. CODIGNOLA, Breve corso di storia dell'edu cazione, trad. di S. CARAMELLA,
Vallecchi ed. , 8. d. , Firenze, v. II , pp. 207 e sgg.; G. NATÁLI, Nel primo
centenario della morte di V. Cuoco in Rivista d'Italia, a. XXVI, fasc. XII ( 15
dic. 1923) ; G. NATALI, L'idea del primato italiano prima di V. Gio berti ,
Roma, 1917 ( estr. dalla Nuova Antologia ); G. NATALI, La letteratura italiana
nel periodo napoleonico, 1916 ( estr, dalla Rivista d'Italia ); G. NATALI, La
vita e il pensiero di F. Lomonaco , Napoli, San giovanni ed. , 1912 ( estr.
dagli Atti della R. Accademia di sc. mor. di Napoli: cfr. GENTILE, Studi
vichiani, p. 361 ) ; L. PALMA, I tentativi di nuove costituzioni in Italia dal
1796 al 1815 in Nuova Antologia, a. XXVI, fasc. XXVI, 16 novembre, 1-16
dicembre 1891 , p. 433 e sgg. ( 1 ) L'articolo Cuoco è fifmato A. Martin
azzoli. 295 1 G. OTTONE, V. Cuoco e il risveglio della coscienza nazionale,
Vigevano, Unione tip. vigevanese, 1903 (cfr. le recensioni di A. LEONE, in Riv.
stor. ital., a XXI ( 1904) , s. 3a , v. III , pp. 57-8 ; di A. Butti, in Giorn
. stor. d. lett. it. , a. XLIV ( 1904) , p. 240 e sgg .; di S. Rocco, in Rass.
crit. d. létt. it. a. IX ( 1904) , p. 277 e sgg.; e infine di G. G[ ENTILE) in
Arch . st. per le prov. nap. , a. XXX ( 1905) , p. 73 e sgg. ) ; G. OTTONE, La
tesi vichiana di un antico primato italiano nel « Platone » di V. Cuoco:
contributo alla storia del risveglio nazionale nel periodo napoleonico,
Fossano, Rossetti, 1905, ( cfr. recensioni di A. Butti, in Giorn . st. d. lett.
it., a. XLVII ( 1906) , p. 157 e sgg.; di S. Rocco, in Rass. crit. d. lett. it.
, a. XI ( 1906) , p. 181 e sgg. ) ; G. OTTONE, Mario Pagano e la tradizione
vichiana del secolo scorso, Milano , Trevisini, 1897 ; G. PEPE, Necrologia :
Vincenzo Cuoco , in Antologia, a. XIV ( 1824) , p. 99 e sgg. ( riprodotta
dinanzi a varie edizioni del Saggio storico del Pomba di Torino ) ; I. RINIERI,
Della rovina d'una monarchia ; relazioni storiche tra Pio VI e la Corte di
Napoli negli anni 1776-1779, Torino, 1901 , p. 484 e sgg.; G. ROBERTI, Lettere
inedite di C. Botta , U. Foscolo e V. Cuoco in Giorn. st. d. lett. it. , a.
XII, v. XXIII ( 1894) , p. 416 e sgg.; M. ROMANO, Ricerche su V. Cuoco,
politico, storiografo, ro manziere, giornalista , Isernia, Colitti, 1904 ( cfr.
recensioni di S. Rocco, in Rass. crit. d. lett. it. , a. IX (1904 ), p. 147 e
sgg.; di A. BUTTI, in Giorn . st. d. lett . it. , a. XLVI ( 1905) , p. 412 e
sgg ; infine di G. GENTILE, in Critica , III ( 1905) , p. 39 e sgg. ,
ristampata in Scritti vichiani, p. 427 e sgg. ) ; M. ROMANO, Una pagina inedita
di V. Cuoco su G. B. Vico, nella miscellanea : Scritti di storia , di filosofia
e d'arte ( nozze FEDELE- DE FABRITIIS ) , Napoli, Ricciardi ed. , 1908 , p. 181
e sgg.; P. ROMANO, Per una nuova coscienza pedagogica, G. B. Pa ravia ed. , s.
d . , Torino, pp. 102-124 ; N. RUGGIERI, Vincenzo Cuoco : studio storico
critico con una appendice di documenti inediti, Rocca S. Casciano , L. Cappelli
ed. , 1903 ( cfr. recensioni di B. CROCE, nella Critica, v. I ( 1903) , ſ. pad
296 p. 298 e sgg .; di G. R[OBERTI) , in Giornale st. d. lett. it., a. XLII (
1903 ) , p. 429 e sgg.; di F. TORRACA, in Rass. bibl. d. lett. it. , a. XII (
1904 ) , p. 132 e sgg.; di S. Rocco, in Rass. crit. d. lett . it. , a. IX (
1903) , p. 34 e sgg.; di C. R [INAUDO), in Riv. stor. it. , a. XXI, 3a 8. ,
vol. III ( 1904) , p. 58 e sgg ); L. SETTEMBRINI, Lezioni di letteratura
italiana, Napoli, Mo rano ed. , 1872 v. III , p. 279 e sgg.; R. SÓRIGA,
L'emigrazione meridionale a Milano nel primo quinquennio del secolo XIX , in
Bollettino della società pavese di storia patria , XVIII ( 1918 ) , pp. 102-117
, pp. 119-121 ; U. TRIA, Vincenzo Cuoco a proposito di due sue lettere ine dite
in Rass. crit. d. lett. it . , v. VI ( 1901 ) , p. 193 e sgg . ( cfr. RUGGIERI,
op. cit. , p . 94 ; ROMANO, op. cit. , p. 51 e sgg. ) ; A. Zazo , Le riforme
scolastiche di Gioacchino Murat, Roma, Albrighi e Segati ed. , 1924, ( estratto
dalla Rivista pedagogica, a. XVII ) . « Nel 1905, scrive il GENTILE ( Studi
vichiani p. 336) , l'Accade. mia delle scienze morali e politiche di Napoli
bandì un concorso sul pensiero politico di V. Cuoco, da studiarsi anche nei
mss. acquistati dalla Nazionale di Napoli. Fu presentata una sola memoria,
ancora inedita, di M. ROMANO, Di V. Cuoco consi derato come scrittore politico
e dei mss. recentemente acquistati dalla Nazionale di Napoli ( sulla quale vedi
F. PERSICO , Rel. sul concorso per il premio annuale dell'anno 1905 sul tema «
Di Vincenzo Cuoco, ecc. » nei Rend. dell'Acc. ecc. , tornata del 22 dic. 1906 »
. Circa questi mss. vedi Suppl. alla Riv. di bibl. ed arch. , 1905, pag. 3 , nonchè
RUGGIERI, op. cit. , p. 63 ; Cogo, op. cit ., p. 45, n. 13, il quale ultimo di
essi mss. abbondante mente si serve, documentando le sue acute asserzioni, e
infine CROCE nella Critica, a. I ( 1903 ) , p. 299. Del Cuoco si sono occupati
varî autori in storie generali politiche e letterarie, di cui citerò soltanto
alcuni più noti : V. FIORINI e F. LEMMI, Periodo napoleonico dal 1799 al 1814,
in Storia politica scritta da una Società di professori, Milano, Vallardi, s. d
. passim ; F. LEMMI, Le origini del Risorgimento italiano ( 1789-1815) ,
Milano, Hoepli, 1906, passim ; M. Rosi, L'Italia odierna, Unione tip .- editr.
torinese , 1922, v. I, p. 206, p. 238, passim ; G. MAZZONI, L'Ottocento,
Milano, Vallardi, 1913, p. 106-7, p. 131-32, e passim , in Storia letteraria
scritta da una 297 società di professori; V. Rossi, Storia della letteratura
italia na, Milano, Vallardi, 1915, v. III , p. 243 ; A. D' ANCONA e 0. BACCI,
Manuale della letteratura italiana , Firenze, Barbèra, 1914, v. V, p. 132, v.
VI, p. 386-7 ( 1 ) ; F. TORRACA, Manuale della letteratura italiana, settima
ed. , Firenze, Sansoni, 1918, v. III, p. II , p. 441 e sgg. Il primo centenario
della morte di V. Cuoco è stato degna mente ricordato agli italiani, oltre che
dalla pubblicazione dei due volumi di Scritti vari per cura di N. Cortese e di
F. Nico lini , dalla commemorazione di Campobasso tenuta da G. GEN TILE (
Vincenzo Cuoco , Roma, Alberti ed ., 1924) . Preannunziando o annunziando la
ricorrenza scrissero del grande molisano S. ARCOLESE, Vincenzo Cuoco (
1823-1923 ) , in Il popolo molisano, 15 marzo 1923 ; G. COLESANTI, Un realista
; Vincenzo Cuoco, in Il mondo, 13 dicembre 1923 ( 2 ) ; F. BARIOLA, Vincenzo
Cuoco, in Gazzetta delle Puglie, febbraio 1924 ; F. Mo MIGLIANO ,
Commemorazione di V. Cuoco, in Conscientia, 2 feb braio 1924. Ottima sotto ogni
rapporto è la prolusione al Corso di Fi losofia Giuridica tenuta nella R.
Università di Firenze da G. DE MONTEMAYOR : La buona politica : dal Vico al
Cuoco al Risorgimento Italiano ( Roma, Soc. Anonima Poligrafica 1925) . Altra
raccolta di scritti per uso scolastico . V. CUOCO - Educazione e politica (
Bemporad 1925 ) fu composta, pre ceduta da una larga introduzione, da G.
MARCHI. ( 1 ) A pag. 387 v'è una duplice inesattezza : ad A. BUTTI sono riferiti
gli scritti, Un articolo dimenticato di V. Cuoco sugli scrittori politici
italiani, in La Critica , II , p. 337 e Una pagina inedita su G. B. Vico in
miscellanea Per nozze Fedele- Fabritiis, p. 181 , la riesumazione dei quali
spetta , del primo a B. CROCE, del secondo a M. ROMANO. ( 2) L'articolo del
Colesanti era presentato su Il mondo come facente parte di un numero unico
cuochiano da pubblicarsi in Campobasso, che non ho potuto avere nè vedere.
INDICE CAP. I. La tradizione italica Pag. CAP. II . I « Frammenti di lettere a
V. Russo » e la critica rivoluzionaria . 27 CAP. III . Il « Saggio Storico
sulla rivoluzione di Napoli » 80 CAP. IV. Napoleone e la sua politica generale.
123 CAP. V. Nazionalità e italianismo nel « Giornale italiano » 197 CAP. VI. Il
« Platone in Italia » e la tesi di un antico primato italico . . >> 228
Cap. VII. L'educazione nazionale nel pensiero cuochiano 260 Conclusione 278
Nota bibliografica. ·Felice Battaglia. Keywords: “spirito
nazionale in Italia” -- ius, giure. – spirito nazionale, spirito italico,
spirito italiano, spirito nazionale in Italia, Vicco, Cuoco, roma antica,
Etruria, ‘la tradizione italica’, il ‘Platone’ di Cuoco, ‘Cuoco non e un vero
filosofo’, Gentile, Schelling, volksseele volksgeist, anima di una nazione,
anima universale, animus di una nazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Battaglia” –
The Swimming-Pool Library.
Battista (Nicosia).
Filosofo. Grice: Very good. – Giovanni Battista – he assumed the name “BONOMO” Gabriele Bonomo Frate Gabriele Bonomo
o Bonhomo – Appartenente all'Ordine dei Minimi. Scrive un saggio sulla “trigonometria”.
e inventò un orologio automatico. Entra come frate nell'Ordine dei Minimi con
il nome di Gabriello e fu assegnato al convento di Santa Oliva di Palermo. Pietro Riccardi, Bibliotheca mathematica
italiana dalla origine della stampa ai primi anni del secolo XIX, Editore
Soliani, 1871153. Antonio Muccioli, Le
strade di Palermo, Editore Newton & Compton, 1998127. Dizionario biografico
degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. 89092338 495/98454 Identities-89092338 Biografie Biografie:
di biografie Categorie: Teologi
italianiMatematici italiani del XVIII secoloFilosofi italiani Professore1694
1760 13 aprile 24 agosto Nicosia (Italia) PalermoMinimi. Batista. Giovanni
Batista. Giovanni Battista. Battista. Keywords: trigonometria, orologio
automatico, la filosofia della trigonometria, Comte, la trigonometria nella
matematica italiana, Venezia, la filosofia illustrata, la teoria causale della
percezione. Refs.: “Grice e Battista” – The Swimming-Pool Library.
Bausola (Ovada). Filosofo. Grice: “I would call Basuola a Griceian –
he speaks of the ‘reasons for solidarity,’ which is exactly the point I want to
make, alla Kant, in ‘Aspects of reason,’ as people kept asking me for the
rationale – i. e., literally, the rational basis – for conversational
cooperation – People agree that conversation is rational; but my stronger
thesis is that it’s cooperation which is rational. That is Bausola’s point.” “Basuola
has also explored the topics of ‘inter-personal relation’ from a philosophical
rather than sociological perspective – and therefore into the compromise
between self-love and other-love, or freedom and responsibility --. A genius!
That he also admires my latitudinal and longitudinal unity of philosophy
(‘storiografia filosofica,’ as the Italians call it) is a plus, or bonus!” – Figlio
di Filippo, scultore cieco di guerra ed Eugenia Bertero. Conseguita una
formazione cattolica attraverso le scuole primarie delle Madri Pie, fondate da
Paolo Gerolamo Franzoni, e dei Padri Scolopi, gli studi liceali lo vedono a
Novi Ligure al Classico Statale "Doria" dove «la materia che
veramente fu per lui una rivelazione è la filosofia». Sceglie così la facoltà all'Università Cattolica
a Milano, dopo un incontro con Padre Agostino Gemelli e Monsignor Francesco
Olgiati, vincendo anche il concorso per un posto gratuito nel Collegio
Augustinianum. Fra i suoi docenti emergono due figure che per lui sono «maestri
di vita e di pensiero», esponenti di spicco del movimento neotomista: Gustavo
Bontadini e Sofia Vanni Rovighi. Diventa così libero docente di filosofia
morale nel 1962. Nel 1970 vincendo la cattedra di storia della filosofia viene
chiamato alla Cattolica, dove dal 1974 al 1979 è ordinario di filosofia morale
passando poi, nel 1980, ad ordinario di filosofia teoretica. È preside della
facoltà di lettere e filosofia dal 1974 al 1983. Nel 1982 è chiamato a far parte del
Pontificio Consiglio della Cultura istituito da Giovanni Paolo II per il
periodo 1982-1992. Nel 1983 dell'Università Cattolica del Sacro Cuore ne
diventa il Rettore, carica che mantiene fino al 1998. È stato anche direttore della Rivista di
filosofia neo-scolastica, ininterrottamente, dal 1971, e dal 1984 della rivista
Vita e Pensiero e condirettore della Rivista Internazionale dei diritti
dell'uomo. Inoltre ha diretto la sezione di filosofia moderna della collana dei
Classici della Filosofia dell'Einaudi Rusconi. Ha fatto parte del Direttivo del
Centro di metafisica istituito dalla Cattolica, e per esso ha co-diretto la
collana di pubblicazioni Metafisica e storia della metafisica. Tra gli altri incarichi e funzioni è
stato: Socio dell'Accademia Nazionale
dei Lincei nella categoria scienze filosofiche; Membro dell'Istituto
LombardoAccademia di Scienze e lettere; Membro del direttivo della Società
Filosofica Italiana; Vice Presidente del Comitato Scientifico e Organizzatore
delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani dal 1985 al 1994; Consulente
della Sacra Congregazione per l'Educazione Cattolica; Presidente di una delle
Commissioni del Convegno ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana a Roma
dal 30 ottobre al 4 novembre 1976; Moderatore di uno dei cinque ambiti del
Convegno ecclesiale Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini a Loreto
dal 9 al 13 aprile 1985; Uditore al Sinodo straordinario dei Vescovi indetto
dal Papa per il 20º anniversario del Concilio Vaticano II; Studi Sul piano
teorico, le direttive di indagine di Bausola sono soprattutto quella etica
(fondazione della morale), quella antropologica (il problema della libertà; il
tema della cultura e della cultura cristiana in particolare), e quelle della
metafisica e della gnoseologia. I suoi interessi principali di studioso sono
rivolti, sul piano storico all'idealismo e al neo-idealismo, esperto a livello
internazionale di Friedrich Schelling e di Blaise Pascal i suoi studi sono
rivolti anche a Franz Brentano, John Dewey e al pragmatismo, alla tematica
esistenzialista. Caratteristico delle opere di Bausolalà dove si tratti dello
studio di filosofi del passato, o del nostro tempoè il legame tra ricostruzione
storica e ripensamento critico, secondo criteri teoretici: un orientamento
volto, attraverso il dialogo con alcune delle più importanti prospettive della
filosofia moderna e contemporanea, ad un ripensamento della concezione classica
del sapere. La sua attività pubblicistica si è svolta sul terreno filosofico,
politico-culturale, etico-religioso, e si è realizzata su giornali e su riviste
di cultura. Altre opere: “Saggi sulla
filosofia di Schelling” (Milano, Vita e Pensiero); “L'Etica di John Dewey,
Milano, Vita e Pensiero); “Filosofia e storia nel pensiero crociano, Milano,
Vita e Pensiero); “Metafisica e rivelazione nella filosofia positiva di Schelling,
Milano, Vita e Pensiero); “Etica e politica nel pensiero di Benedetto Croce,
Milano, Vita e Pensiero); “Il pensiero di Schelling); “Conoscenza e moralità in
Franz Brentano, Milano, Vita e Pensiero); “Indagini di storia della filosofia.
Da Leibniz a Moore, Milano, Vita e Pensiero); “Lo svolgimento del pensiero di
Schelling. Ricerche, Milano, Vita e Pensiero); “Il problema del valore nella
filosofia analitica, Milano, Scuole Grafiche Opera Don Calabria); “Il problema
della libertà. Introduzione a Sartre, Milano); “Filosofia della rivelazione.
Federico Guglielmo Giuseppe Schelling” (Bologna, Zanichelli); “Introduzione a
Pascal, Bari, Laterza); “Friedrich W. J. Schelling, Firenze, La Nuova Italia);
“Filosofia Morale. Lineamenti, Milano, Vita e Pensiero); “Natura e progetto
dell'uomo : riflessioni sul dibattito contemporaneo, Milano, Vita e Pensiero);
“Libertà e relazioni interpersonali : introduzione alla lettura di L'essere e
il nulla, Milano, Vita e Pensiero); “Pensieri, opuscoli, lettere di Blaise
Pascal, con Remo Tapella, Milano, Rusconi); “Libertà e responsabilità, Milano,
Vita e Pensiero “La libertà” (Brescia, La Scuola); “Le ragioni della libertà,
le ragioni della solidarietà” (Milano, Vita e Pensiero); “Fra etica e politica,
Milano, Vita e Pensiero. Onorificenze Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola
della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinariaMedaglia d'oro ai
benemeriti della scuola della cultura e dell'arte — Roma, 2 giugno 1981
Commendatore dell'Ordine al merito della Repubblica italiananastrino per
uniforme ordinariaCommendatore dell'Ordine al merito della Repubblica italiana
— 2 giugno 1985 Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica
italiananastrino per uniforme ordinariaCavaliere di gran croce dell'Ordine al
merito della Repubblica italiana — Roma, 2 giugno 1988 Cavaliere di Gran Croce
dell'Ordine di San Gregorio Magnonastrino per uniforme ordinariaCavaliere di
Gran Croce dell'Ordine di San Gregorio Magno Note Anna Maria Bausola Grillo, Adriano Bausola
nei ricordi della sorella, ne Atti del convegno "Studi di Storia
Ovadese", pubblicazione dedicata alla memoria di Adriano Bausola,
Accademia Urbense di Ovada, 2005
Avvenire, 29 aprile 2000, su swif.uniba. 30.08. 22 febbraio 2007). Sito web del Quirinale: dettaglio
decorato. Sito web del Quirinale:
dettaglio decorato. Sito web del
Quirinale: dettaglio decorato. Emilio
Costa, Un Ovadese nel mondo della cultura italiana: Adriano Bausola, filosofo,
in URBS Silva et flumen, Anno XIII n.2 giugno 2000, 71-72. Alessandro Laguzzi; Edilio Riccardini
, Atti del Convegno Studi di Storia Ovadese, Ovada, Accademia Urbense,
2005, 669-672. Altri progetti Collabora
a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Adriano
Bausola Emilio Costa, Un Ovadese nel
mondo della cultura italiana: Adriano Bausola, filosofo, URBS silva et flumen,
trimestrale di storia locale dell'Accademia Urbense di Ovada, Anno XIII n.2
giugno 2000, 71-72 , su
archiviostorico.net. Flavio Rolla, Adriano Bausola, filosofo. Ricordo
dell'illustre ovadese a 10 anni dalla scomparsa, URBS silva et flumen,
trimestrale di storia locale dell'Accademia Urbense di Ovada, Anno XXIII n.3-4
settembre-dicembre , 180-191 , su
accademiaurbense. Dal sito filosofico.net : Adriano Bausola Diego Fusaro, su
filosofico.net. blogphilosophica.wordpress.com//08/31/4161/ Lorenzo Cortesi
PredecessoreMagnifico Rettore dell'Università Cattolica del Sacro
CuoreSuccessoreStemma UCSC.png Giuseppe Lazzati19831998Sergio Zaninelli Filosofia
Università Università Filosofo del XX
secoloAccademici italiani Professore1930 2000 22 dicembre 28 aprile Ovada
RomaBenemeriti della scuola, della cultura e dell'arteCavalieri di gran croce
OMRICommendatori OMRIStudenti dell'Università Cattolica del Sacro CuoreRettori
dell'Università Cattolica del Sacro CuoreProfessori dell'Università Cattolica
del Sacro Cuore. Adriano Bausola. Keywords: solidarieta, storia in Croce – “The
problem with Bausola is that he is a Roman!” – Grice. Croce, fascismo, totalitarismo,
utilitarismo, egoita, noi-ita, Marx, conflitto, cooperazione, soderale, anche
solidaria, Butler, egoism, altruismo, self-love, other-love, self-love,
benevolence, ichheit, wirkheit, weness, we-ness, io-ita, ioita – Archivio di
Filosofia, 1937 – noi-eta, noi-ita. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bausola” –
The Swimming-Pool Library.
Bazzanella (Trieste).
Filosofo. Grice: “I like Bazzanella; he has a totally different background from
mine, but we can communicate – I have focused on conversational communication;
he specializes in televisional communication; he has used Heidegger’s concept
of contamination to elucidate that of structure –.” Grice: “My favourite of his
tracts must be one on ethics and topology, broadly understood, which is all
that my theory of conversational helpfulness is about – Bazzanella entitles his
essay, ‘il lugo dell’altro,’ playing with the strictness of his topological
approach as applied to the ethos that results when ‘ego’ meets and communes with
‘alter.’” Partecipa a tre edizioni della
Biennale di Venezia e a una edizione della Biennale di Architettura. Di formazione
fenomenologica e tutee di Rovatti, inizia la sua attività filosofica a con un
saggio su Jankélévitch, per poi approfondire il pensiero di Heidegger, Husserl,
nonché di autori francesi del secondo dopoguerra quali Derrida, Foucault,
Lacan, Merleau-Ponty, Deleuze e Guattari. Delinea una echologia. Ipotizzando
che l'ontologia non e che una finzione o un dispositivo di tipo immunologico,
storicizzabile e tipico della società occidentale. Successivamente elabora
l’echologia inserendola nel contesto più ampio del senso -- applicandola al
consumo. Espone a Udine "Size". Il suo sviluppo della performance introduce
nella gestualità del corpo le nuove tecnologie multimediali sulla scia delle
installazioni di Tony Oursler. Alla
Biennale di Venezia progetta un'installazione multimediale (Blue Zone)
che inaugura una serie di opere ispirate alla "morte dell'arte". In
una mostra surreale, quasi post-human, le opere degli artisti sono ricoperte da
un velo, mentre in una serie di monitor sparsi negli spazi espositivi vengono
riprodotti i volti degli artisti che cercano di descrivere a parole le loro
opere invisibili. Alla Biennale di Venezia del , invece, propone
un'installazione (Overplay), inserita nel contesto di un palazzo veneziano, in
cui 16 iPad riproducono in maniera casuale e differenziata delle domande
generate da un software. Si tratta di un'evoluzione del progetto "Tautologia"
nel quale invece il programma riproduce in rete una serie infinita di pensieri
filosofici. Dal pensiero debole al pensiero orizzontale. Bazzanella
declina la debolezza nel senso di un passaggio dalla profondità della
metafisica a un'idea del superficiale di cui vede alcune tracce presenti in
Husserl, Merleau-Ponty e Heidegger. In questo passaggio il relativismo non
viene più interpretato come una manifestazione del nichilismo, bensì come il
tentativo di articolare una filosofia di una “relazionie orizzontale” che tende
a scardinare l'impianto della logica aristotelica. L'echologia è un
termine che Bazzanella desume da Deleuze a proposito di Tarde. Nella genesi
delle Categorie di Aristotele ci siano stati movimenti contrapposti, in cui
soltanto in una seconda istanza sarebbe prevalsa un'impostazione
"usiologica", “ouisologia” -- cioè basata sulla centralità della
"sostanza" (ousia, stantia, essential, izzing, x izzes y. Questo passaggio è decisivo poiché segna il
definitivo abbandono delle suggestioni della filosofia presocratica (Velia,
Parmenide, Zenone, Crotone, Empedocle da Girgentu) ponendo le basi di quello
che sarebbe stato l'impianto della filosofia occidentale. La lateralizzazione,
dunque, della categoria di “échein” (hazzing – habitus) nel suo duplice
significato di "avere" (Grice: x hazzes y”) e di "essere in
relazione" ha comportato il privilegio dell'"essere" e di
un'ontologia che impone un principio ed una gerarchia verticale, colla,
suddivisione tra la "cosa" ed il "oggetto" (Grice’s
‘obble’). x Fid y. La relazione diadica
x/y e una “echo-logia, e non una “onto-logia”. L’echologia e decostruttiva.
L’echo-logia evidenzia come ogni costruzione di senso, prima che “onto-logica”
od ‘ontica’ e fondata sull’ente e
articolata sulla relazione o, come li definisce Bazzanella,
sull’”essema”. In “Echologia,” attraverso una rilettura del concetto di “aletheia”
(disvegliamento), sviluppa una teoria del senso secondo la quale il senso non
può sussistere senza un rapporto essenziale con il “non” senso. Ciò significa
che le classiche legge di Parmenide dell’identità, la legge della non-contraddizione,
e la legge del terzo escluso sono costruite sopra una superficie illogica. La
legge logica e una forma di copertura (vegliamento) dell'”àlogon”
(‘irrationale’). Bazzanella sostiene inoltre che la legge logica (a izz a,
non-a non izz a, a o non-a), dipende mimeticamente o iconicamente da una
relazione essematica esprimibile come una pre-posizioni che istanzia una
relazioni senza referenza a le due relati. La preposizione "in" (‘jack IN the
box). La preposizione "con" (p & q, p con q). La preposizione
"di” (il perro di Strawsn). La preposizione “ri-" (Grice ri-torna).
Si tratta di una filosofia al limite della pensabilità. Invita a non concepire la
cosa o l’oggetto. Invita a concepire la *re-lazione* (re-ferenza) -- che
vengono ad esempio esperite dal neonate. l'"in" esprime l'in-essere
del feto nel grembo materno – Jack in the box, il feto nel grembo. Il
"con" esprime l'essere-con la propria madre e il suo seno (“Achille e
Teti”, “Romolo con la lupa”, La madre di Ascanio. La madre di Enea. La madre di
Romolo (Rea Silva). Il padre di Romolo: Marte. Il "di-" echeggia nel “dià”
del “dia-framma” rappresentato dal liquido amniotico rispetto al mondo esterno.
Il dia-framma della dia-logo. El dia-lettico. Il "ri-" allude alla
ri-petizione e al carattere originariamente ossessivo del bambino che cerca
sicurezza ri-petendo sempre i medesimo gesto (pianto, sorriso) e i medesimi suono (‘ma-ma’
‘da-da’). L'impostazione relazionistica che è partita da una fenomenologia
dell'orizzonte per articolarsi attraverso un'echologia e una teoria del senso, trova
il suo significato nel "paradigma immunitario. Lo desume da Foucault e,
soprattutto, da Gehlen, Sloterdijk ed Esposito. Se l'Ego si trova ggettato"
nell'Altro sin dalla nascita, cioè in una relazione che viola la legge della
logica e, soprattutto, che non consentono un ancoraggio rassicurante alla cosa ed
all’ oggetto, deve proteggersi e difendersi. Questo processo avviene però in
analogia con il sistema immunitario del corpo. Cioè l'Altro, il non-Ego, il
non-senso (o anche il "reale" come lo definisce traendo spunto dalla
definizione di Lacan) non può essere addomesticato che attraverso l'Altro. Il
senso ha una funzione difensiva e immunizzante e si basa su una
"mimesi" del reale mediata dall’essema. Il senso "imita" iconicamente
così il non-senso, ne è una sorta di estrusione. Questo paradosso implica anche
una riconsiderazione del soggetto e della relazioni di soggeti
(l’inter-soggetivo), soprattutto alla luce del suo dispiegamento a partire dal
cogito cartesiano. Il soggetto non coincide con un'identità, un "io"
pre-costituito. L’”io” rappresenta una funzione immunologica in cui l'individuo
assoggetta una cosa o un’altra persona, delegando le medesime ad affrontare il
reale al proprio posto. Il soggetto è un a-soggetto nel doppio senso di
non-essere-soggetto e di as-soggettare (ab-sub-jectum, ad-sub-jectum). La
communita inter-soggetiva rappresenta il paradigma di un processo di normo-tipizzazione
in cui una relazione essematica il puro cum senza relati, in questo caso si
trasforma in una difesa immunologica nei confronti del "fuori". Riprende
il dispositivo come orizzonte di potere intersoggetivo che funge da barriera o
filtro nei confronti del reale, nonché da sistema di controllo endo-geno e
normalizzante. La normotipia da' senso a una relazione nella misura in cui
riesce a bilanciare più o meno efficacemente il senso e il non-senso. Il
rischio di un sistema di senso, infatti, è paradossalmente quello di un eccesso
di senso. Ciò implica infatti una psico-tizzazione della comunità intersoggetiva,
e, quindi, una sorta di non-senso di ritorno. Gli esempi sono ormai
classici: il marxismo declina nel leninismo e degenera nello stalinismo. Il fascismo dai un
presupposto socialista diviene un
totalitarismo spietato e annientante. Si tratta di un *eccesso* di senso, di un
surplus immunitario che, se inizialmente intendeva distanziare e filtrare il
reale, comporta alfine una sorta di "divenire-reale" del senso
stesso, un'insensatezza reattiva e reazionaria. È in tale prospettiva che il
modello di senso tardocapitalistico sembra svolgere una funzione
autoimmunitaria. Il soggeto non ha a che fare soltanto con un processo di
stretta pertinenza economica, ma con un orizzonte di senso condiviso che permea
ogni aspetto dell'esistenza itersoggetiva. Società dello spettacolo e società
dei consume momenti in cui in particolare si esplica il capitalism non
sarebbero che una forme dialettica di reazione all'eccesso di senso del
totalitarismio. Si tratta di un bilanciamento tra un'evasione nell'immaginario
e un ri-torno al reale che si manifesterebbe nel momento stesso del consume. Note A. Fabris, La noia, il nulla, in «aut aut»,
n. 270, La Nuova Italia, Firenze 199565.
2 F. Bonami (a c. di), La dittatura dello spettatore, Catalogo generale
della 50. Esposizione Internazionale d'Arte. La Biennale di Venezia, Marsilio,
Venezia 2003. 3 R. Storr (a c. di),
Pensa con i sensi, senti con la mente, Catalogo generale della 52. Esposizione
Internazionale d'Arte. La biennale di Venezia, Marsilio, Venezia 2007. D. Birnbaum (a c. di), Fare Mondi, Catalogo
generale della 53. Esposizione Internazionale d'Arte. La Biennale di Venezia,
Marsilio, Venezia 2009. M. Foucault,
Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978),
Feltrinelli, Milano 2005. R. Esposito,
Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002. R. Esposito, Communitas. Origine e destino
della comunità, Einaudi, Torino 1998.
Tempo e linguaggio. Studio su Vladimir Jankélévitch, Franco Angeli,
Milano 1994; Orizzonte. Passività e soggetto in Husserl e Merleau-Ponty,
Guerini e associati, Milano 1995; Contaminazione. L'idea di struttura in
Heidegger, Franco Angeli, Milano 1995; Spazio e potere. Heidegger, Foucault, la
televisione, Mimesis, Milano 1996; Il luogo dell'Altro. Etica e topologia in
Jacques Lacan, Franco Angeli, Milano 1998; Idee per un'echologia
fenomenologica, Franco Angeli, Milano 1999; Echologia. Introduzione a una
fenomenologia della proprietà e a una critica del pensiero ontologico, Asterios
Editore, Trieste 2000; Fede, echologia, sapere, Asterios Editore, Trieste 2002;
La Fabbrica, Trieste, FrancoPuzzoEditore, Trattato di echologia, Mimesis, Milano 2004;
La fabbrica, FPE Editore, Trieste 2005; Il ritornello. La questione del senso
in Deleuze-Guattari, Mimesis, (Milano 2005). Il tardocapitalismo. Decorsi e
patologie di una rivoluzione permanente, Asterios Editore, Trieste 2006. Etica
del tardocapitalismo, Mimesis, Milano 2008. Logica e tempo, Abiblio, Trieste
2009 Autoscrittura, Asterios Editore, Trieste 2009 Religio I. Senso e fede nel
tardocapitalismo, Mimesis, Milano
Religio II. La religione del soggetto, Mimesis, Milano . Indignatevi,
Asterios Editore Trieste . Oltre la decrescita. Il Tapis Roulant e la società
dei consumi, Asterios Editore, Trieste . Lacan. Immaginario, simbolico e reale
in tre lezioni, Asterios, Trieste . Filosofie della paura. Verso la condizione
post-postmoderna, Asterios Editore, Trieste . La filosofia e il suo consumo.
Nuovo realismo e postmoderno, Asterios Editore, Trieste . Religio III. Logica e
follia, Mimesis, Milano . Eros e Thanatos. Senso, corpo e morte nel XX
Seminario di Lacan, Asterios Editore, Trieste, . Come. Linee guida per una
immuno-fenomenologia, Asterios Editore, Trieste, . Il numero e il fenomeno,
Asterios Editore, Trieste . Il tragico e il comico nell'epoca del grillismo e
del trumpismo, Asterios Editore, Trieste . Simbolo e violenza, Asterios
Editore, Trieste . Del fallimento. Simbolo e violenza II, Asterios Editore . Filosofi
italiani del XX secoloFilosofi. Emiliano Bazzanella. Keywords: L’echologia di
Grice (dal greco ‘echein,’ avere, hazzing), essema, essematica, inessema,
coessema, diaessema, riessema, aritmetica. Esposito, communita, immunita. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bazzanella” –
The Swimming-Pool Library.
Beccaria (Milano). Filosofo.
Grice: “I would call Beccaria a Griceian, but I’m not sure he would call me a
Beccarian!” Grice: “His explicit, rather than implicated, Griceian ideology is
in the opening chapter on “Lo stilo conversazionale’ – he notes that the
implicaturum ain’t a part of the ‘sintassi’ of the ‘proposizione’ which is
explicated – he adds that ‘senses’ should not be multiplied because your
addressee may get YOUR sense, but trust he will lose interest if you keep
multiplying – “to the risk that he won’t get your sense in the last place!” – Grice:
“Like me, Beccaria was a unitarian philosopher; his tract on ‘I piaceri’ is
delightful, very pleasant read!” – If Austin and us met on different grounds
and pubs, Beccaria met at the caffe, and he liked it – Italians, unfortunately,
only know him for his tract on guilt and punishment!” – Grice: “Most Italians
don’t even consider Beccaria an Italian
philosopher but as a member of the Accademia dei Pigne, as part of the
illuminismo Lombardo --.” Grice: “The philosophical panorama or landscape of
Italian philosophy is much diverse than our Oxonian dialectic!” -- One of the most essential of Italian
philosophersReferred to by H. P. Grice in his explorations on moral versus
legal right, studied in Parma and Pavia and taught political economy in Milan.
Here, he met Pietro and Alessandro Verri and other Milanese intellectuals
attempting to promote political, economical, and judiciary reforms. His major
work, Dei delitti e delle pene “On Crimes and Punishments,” 1764, denounces the
contemporary methods in the administration of justice and the treatment f
criminals. Beccaria argues that the highest good is the greatest happiness
shared by the greatest number of people; hence, actions against the state are
the most serious crimes. Crimes against individuals and property are less
serious, and crimes endangering public harmony are the least serious. The
purposes of punishment are deterrence and the protection of society. However,
the employment of torture to obtain confessions is unjust and useless: it
results in acquittal of the strong and the ruthless and conviction of the weak
and the innocent. Beccaria also rejects the death penalty as a war of the state
against the individual. He claims that the duration and certainty of the
punishment, not its intensity, most strongly affect criminals. Beccaria was
influenced by Montesquieu, Rousseau, and Condillac. His major work was tr. into
many languages and set guidelines for revising the criminal and judicial
systems of several European countries. Se dimostrerò
non essere la pena di morte né utile, né necessaria, avrò vinto la causa
dell’umanità.» (da Dei delitti e delle pene) Cesare Beccaria Bonesana, marchese
di Gualdrasco e di Villareggio (Milano), giurista, filosofo, economista e
letterato italiano considerato tra i massimi esponenti dell'illuminismo
italiano, figura di spicco della scuola illuministica milanese. La sua
opera principale, il trattato Dei delitti e delle pene, in cui viene condotta
un'analisi politica e giuridica contro la pena di morte e la tortura sulla base
del razionalismo e del pragmatismo di stampo utilitarista, è tra i testi più
influenti della storia del diritto penale ed ispirò tra gli altri il codice
penale voluto dal granduca Pietro Leopoldo di Toscana. Nonno materno di
Alessandro Manzoni, Cesare Beccaria è considerato inoltre come uno dei padri
fondatori della teoria classica del diritto penale e della criminologia di scuola
liberale. nacque a Milano (allora appartenente all'impero asburgico),
figlio di Giovanni Saverio di Francesco e di Maria Visconti di Saliceto, il 15
marzo 1738. Fu educato a Parma dai gesuiti e si laureò in Giurisprudenza il 13
settembre 1758 all'Università degli Studi di Pavia. Il padre aveva sposato la
Visconti in seconde nozze nel 1736, dopo essere rimasto vedovo nel 1730 di
Cecilia Baldroni. Nel 1760 Cesare sposò Teresa Blasco contro la volontà
del padre, che lo costrinse a rinunciare ai diritti di primogenitura (mantenne
però il titolo di marchese); da questo matrimonio ebbe quattro figli: Giulia, Maria
(1766-1788), nata con gravi problemi neurologici e morta giovane, Giovanni
Annibale nato e morto nel 1767 e Margherita anch'essa nata e morta nel 1772.
Il padre lo cacciò anche da casa dopo il matrimonio, così dovette essere
ospitato da Pietro Verri, che lo mantenne anche economicamente per un
periodo. Teresa morì il 14 marzo 1774, a causa della sifilide o della
tubercolosi. Beccaria, dopo appena 40 giorni di vedovanza, firmò il contratto
di matrimonio con Anna dei Conti Barnaba Barbò, che sposò in seconde nozze il 4
giugno 1774, ad appena 82 giorni dalla morte della prima moglie. Da Anna Barbò
ebbe un altro figlio, Giulio. l suo avvicinamento all'Illuminismo avvenne
dopo la lettura delle Lettere persiane di Montesquieu e del “Contratto sociale”
di Rousseau, grazie ai quali si entusiasmò per i problemi filosofici e sociali
ed entrò nel cenacolo di casa Verri, dove aveva sede anche la redazione del Caffè,
il più celebre giornale politico-letterario del tempo, per il quale scrisse
sporadicamente. Dopo la pubblicazione di alcuni articoli di economia, nel
1764 diede alle stampe Dei delitti e delle pene, capolavoro ispirato dalle
discussioni in casa Verri del problema dello stato deplorevole della giustizia
penale. Inizialmente anonimo è un breve scritto contro la tortura e la pena di
morte che ebbe enorme fortuna in tutta Europa e nel mondo e in particolare in
Francia. Contro le posizioni di Beccaria uscì, nel 1765 il testo Note ed
osservazioni sul libro intitolato Dei delitti e delle pene di Ferdinando
Facchinei. Le polemiche che ne seguirono contribuirono alla decisione di
mettere il trattato di Beccaria all'Indice dei libri proibiti nel 1766, a causa
della distinzione tra peccato e reato. Nel 1766 Beccaria viaggiò poi
controvoglia fino a Parigi, e solo dietro l'insistenza dei fratelli Verri e dei
filosofi francesi desiderosi di conoscerlo. Fu accolto per breve tempo nel
circolo del barone d'Holbach. La sua giustificata gelosia per la moglie lontana
e il suo carattere ombroso e scostante, fecero sì che appena possibile tornasse
a Milano, lasciando solo il suo accompagnatore Alessandro Verri a proseguire il
viaggio verso l'Inghilterra. Il carattere riservato e riluttante di Beccaria,
tanto nelle vicende private quanto nelle pubbliche, ebbe nei fratelli Verri, e
soprattutto in Pietro, un fondamentale punto di appoggio e di stimolo
soprattutto quando iniziò ad interessarsi allo studio dell'economia. Come
Rousseau, Beccaria era a tratti paranoico e aveva spesso sbalzi d'umore, la sua
personalità era abbastanza indolente e il carattere debole, poco brillante e
non portato alla vita sociale; ciò non gli impediva però di esprimere molto
bene i concetti che aveva in mente, soprattutto nei suoi scritti. Tornato
a Milano nel 1768 ottenne la cattedra di Scienze Camerali (economia politica),
creata per lui nelle scuole palatine di Milano e cominciò a progettare una
grande opera sulla convivenza umana, mai completata. Antonio
Perego, L'Accademia dei Pugni. Da sinistra a destra: Alfonso Longo (di spalle),
Alessandro Verri, Giambattista Biffi, Cesare Beccaria, Luigi Lambertenghi,
Pietro Verri, Giuseppe Visconti di Saliceto Entrato nell'amministrazione
austriaca nel 1771, fu nominato membro del Supremo Consiglio dell'Economia,
carica che ricoprì per oltre vent'anni, contribuendo alle riforme asburgiche
sotto Maria Teresa e Giuseppe II. Fu criticato per questo dagli amici (tra cui
Pietro Verri), che gli rimproveravano di essere diventato un burocrate. Gli
studiosi, però, considerano questi giudizi ingiusti dal momento che Cesare
Beccaria si dedicò ad importanti riforme, che richiedevano una notevole
preparazione intellettuale, non solo amministrativa. Fra queste ci fu la riforma
delle misure dello stato milanese, intrapresa prima di quella del sistema
metrico decimale francese, e a cui Beccaria, insieme al fratello Annibale,
dedicò quasi vent'anni della sua vita. (La riforma, notevolmente complessa,
coinvolse alla fine solo il braccio milanese. La successiva riforma dei pesi
non fu mai realizzata.) Il suo rapporto con la figlia Giulia, futura
madre di Alessandro Manzoni, fu conflittuale per gran parte della sua vita;
ella era stata messa in collegio (nonostante Beccaria avesse spesso deprecato i
collegi religiosi) subito dopo la morte della madre e lì dimenticata per quasi
sei anni: suo padre non volle più sapere niente di lei per molto tempo e non la
considerò mai sua figlia, bensì il frutto di una relazione extraconiugale delle
numerose che la moglie aveva avuto. Beccaria non si sentiva adeguato al ruolo
di padre, inoltre negò l'eredità materna alla figlia, avendo contratto dei
debiti: ciò gli diede la fama di irriducibile avarizia. Giulia uscì dal
collegio nel 1780, frequentando poi gli ambienti illuministi e libertini. Nel
1782 la diede in sposa al conte Pietro Manzoni, più vecchio di vent'anni di
lei: il nipote Alessandro nacque nel 1785, ma pare fosse in realtà il figlio di
Giovanni Verri, fratello minore di Pietro e Alessandro, e amante di Giulia.
Prima della morte del padre, Giulia abbandonò il marito, nel 1792, per andare a
vivere a Parigi insieme al conte Carlo Imbonati, rompendo i rapporti
definitivamente col padre, e
temporaneamente anche con il figlio. Beccaria morì a Milano il 28
novembre 1794, a causa di un ictus, all'età di 56 anni, e trovò sepoltura nel
Cimitero della Mojazza, fuori Porta Comasina, in una sepoltura popolare (dove
fu sepolto anche Giuseppe Parini) anziché nella tomba di famiglia. Quando tutti
i resti vennero traslati nel cimitero monumentale di Milano, un secolo dopo, si
perse traccia della tomba del grande giurista. Pietro Verri, con una
riflessione valida ancora oggi, deplorò nei suoi scritti il fatto che i
milanesi non avessero onorato abbastanza il nome di Cesare Beccaria, né da vivo
né da morto, che tanta gloria aveva portato alla città. Ai funerali di Beccaria
era presente anche il giovane nipote Alessandro Manzoni (che riprenderà molte
delle riflessioni del nonno e di Verri nella Storia della colonna infame e nel
suo capolavoro, I promessi sposi), nonché il figlio superstite ed erede,
Giulio. Beccaria fu influenzato dalla lettura di Locke, Helvetius,
Rousseau e, come gran parte degli illuministi milanesi, dal sensismo di
Condillac. Fu influenzato anche dagli enciclopedisti, in particolare da
Voltaire e Diderot. Partendo dalla classica teoria contrattualistica del
diritto, derivata in parte dalla formulazione datane da Rousseau, che
sostanzialmente fonda la società su un contratto sociale (nell'omonima opera)
teso a salvaguardare i diritti degli individui e a garantire in questo modo
l'ordine, Beccaria definì in pratica il delitto in maniera laica come una
violazione del contratto, e non come offesa alla legge divina, che appartiene
alla coscienza della persona e non alla sfera pubblica. La società nel suo
complesso godeva pertanto di un diritto di autodifesa, da esercitare in misura
proporzionata al delitto commesso (principio del proporzionalismo della pena) e
secondo il principio contrattualistico per cui nessun uomo può disporre della
vita di un altro (Rousseau non considerava moralmente lecito nemmeno il
suicidio, in quanto non l'uomo, ma la natura, nella visione del ginevrino,
aveva potere sulla propria vita, e quindi tale diritto non poteva certamente
andare allo Stato, che comunque avrebbe violato un diritto
individuale). Il punto di vista illuministico del Beccaria si concentra in
frasi come «Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni
eventi l'uomo cessi di essere persona e diventi cosa». Ribadisce come è
necessario neutralizzare l'«inutile prodigalità di supplizi» ampiamente diffusi
nella società del suo tempo. La tesi umanitaria, messa in risalto da Voltaire,
è parzialmente da lui accantonata, in quanto Beccaria vuole dimostrare
pragmaticamente l'inutilità della tortura e della pena di morte, più che la
loro ingiustizia. Egli è infatti consapevole che i legislatori sono mossi più
dall'utile pratico di una legge, che da principi assoluti, di ordine religioso
o filosofico. Beccaria afferma infatti che «se dimostrerò non essere la morte
né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell'umanità». Beccaria quindi si
inserisce nel filone utilitaristico: considera l'utile come movente e metro di
valutazione di ogni azione umana. Monumento a Cesare Beccaria,
Giuseppe Grandi, Milano L'ambito della sua dottrina è quello
general-preventivo, nel quale si suppone che l'uomo sia condizionabile in base
alla promessa di un premio o di un castigo e, nel contempo, si ritiene che
sussista fra ogni cittadino e le istituzioni una conflittualità più o meno
latente. Sostiene la laicità dello Stato. Adotta come metodo d'indagine quello
analitico-deduttivo (tipico della matematica) e per lui l'esperienza è da
intendersi in termini fenomenici (approccio sensista). La natura umana si
svolge in una dimensione edonistico-pulsionistica, ovvero sia i singoli, sia la
moltitudine, agiscono seguendo i loro sensi. In poche parole l'uomo è
caratterizzato dall'edonismo. Gli individui possono essere parago dei «fluidi»
messi in movimento dalla costante ricerca del piacere, intesa come fuga dal
dolore. L'uomo però è una macchina intelligente capace di razionalizzare le
pulsioni, in modo da consentire la vita in società; infatti certamente ogni
uomo pretende di essere autonomo e insindacabile nelle sue decisioni, ma si
rende conto della convenienza della vita sociale. Ma la conflittualità rimane e
quindi bisogna impedire che il cittadino venga sedotto dall'idea di infrangere
la legge al fine di perseguire il proprio utile a tutti i costi, pertanto il
legislatore, da «abile architetto», deve predisporre sanzioni e premi in
funzione preventiva; è necessario tenere sotto controllo i «fluidi», inibendo
le pulsioni antisociali. Tuttavia Beccaria sostiene che la sanzione deve
essere sì idonea e sicura, a garantire la difesa sociale, ma al contempo
mitigata e rispettosa della persona umana. «Il fine delle pene non è di
tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già
commesso. Può egli in un corpo politico, che, ben lungi di agire per passione,
è il tranquillo moderatore delle passioni particolari, può egli albergare
questa inutile crudeltà stromento del furore e del fanatismo o dei deboli
tiranni? Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le
azioni già consumate? Il fine dunque non è altro che d'impedire il reo dal far
nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle
pene dunque e quel metodo d'infliggerle deve esser prescelto che, serbata la
proporzione, farà una impressione più efficace e più durevole sugli animi degli
uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo.» «Parmi un assurdo che le
leggi, che sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono
l'omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini
dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio» (Dei delitti e delle
pene, cap. XXVIII) Illustrazione allegorica da Dei delitti e delle pene:
la giustizia personificata respinge il boia, con in mano una testa, e una
spada. La pena di morte, “una guerra della nazione contro un cittadino”, è
inaccettabile perché il bene della vita è indisponibile, quindi sottratto alla
volontà del singolo e dello Stato. Inoltre essa: non è un vero deterrente
non è assolutamente necessaria in tempo di pace Essa non svolge un'adeguata
azione intimidatoria poiché lo stesso criminale teme meno la morte di un
ergastolo perpetuo o di una miserabile schiavitù: si tratta di una sofferenza
definitiva contro una sofferenza ripetuta. Ai soggetti che assistono alla sua
esecuzione, inoltre, essa può apparire come uno spettacolo o suscitare
compassione. Nel primo caso, essa indurisce gli animi, rendendoli più inclini
al delitto; nel secondo, non rafforza il senso di obbligatorietà della legge e
il senso di fiducia nelle istituzioni. Questa condizione è assai più
potente dell'idea della morte e spaventa più chi la vede che chi la soffre; è
quindi efficace ed intimidatoria, benché tenue. In realtà così facendo viene
sostituita alla morte del corpo la morte dell'anima, il condannato viene
annichilito interiormente. Tuttavia non è la punizione fine a sé stessa
l'obiettivo di Beccaria, ma egli utilizza questo argomento dell'afflittività
penale per convincere i governanti e i giudici, in quanto il suo fine resta
eminentemente rieducativo e risarcitivo (il condannato non deve essere afflitto
o torturato, ma deve riparare il danno in maniera economico-politica, come
previsto da una concezione puramente utilitaristica e di giustizia anti-retributiva).
Beccaria ammette che il ricorso alla pena capitale sia necessario solo quando
l'eliminazione del singolo fosse il vero ed unico freno per distogliere gli
altri dal commettere delitti, come nel caso di chi fomenta tumulti e tensioni
sociali: ma questo caso non sarebbe applicabile se non verso un individuo molto
potente e solo in caso di una guerra civile. Tale motivazione fu usata, per
chiedere la condanna di Luigi XVI, da Maximilien de Robespierre, il quale era
inizialmente avverso alla pena capitale ma in seguito diede il via ad un uso
spropositato della pena di morte e poi al Terrore; comportamenti del tutto
inammissibili nel pensiero di Beccaria, che infatti prese le distanze, come
molti illuministi moderati, dalla Rivoluzione francese dopo il 1793. La
tortura, “l'infame crociuolo della verità”, viene confutata da Beccaria con
varie argomentazioni: essa viola la presunzione di innocenza, dato che
«un uomo non può chiamarsi reo fino alla sentenza del giudice». consiste in
un'afflizione e pertanto è inaccettabile; se il delitto è certo porta alla pena
stabilita dalle leggi, se è incerto non si deve tormentare un possibile
innocente. non è operativa in quanto induce a false confessioni, poiché l'uomo,
stremato dal dolore, arriverà ad affermare falsità al fine di porre termine
alla sofferenza. è da rifiutarsi anche per motivi di umanità: l'innocente è
posto in condizioni peggiori del colpevole. non porta all'emenda del soggetto,
né lo purifica agli occhi della collettività. Beccaria ammette razionalmente
l'afflizione della tortura nel caso di testimone reticente, cioè a chi durante
il processo si ostini a non rispondere alle domande; in questo caso la tortura
trova una sua giustificazione, ma egli preferisce comunque chiederne la totale
abolizione, in quanto l'argomento utilitario viene in questo caso sopraffatto
comunque da quello razionale (il fatto che è ingiusto applicare una pena
preventiva, sproporzionata e comunque violenta). Il carcere preventivo
Beccaria mostra dubbi e raccomanda cautela nella custodia cautelare in attesa
di processo, attuata negli ordinamenti penali solitamente in casi di pericolo
di fuga, reiterazione o inquinamento delle prove, e alla sua epoca
assolutamente discrezionale e ingiusta. «Un errore non meno comune che contrario
al fine sociale, che è l'opinione della propria sicurezza, è il lasciare
arbitro il magistrato esecutore delle leggi, d'imprigionare un cittadino, di
togliere la libertà ad un nemico per frivoli pretesti, e il lasciare impunito
un amico ad onta degl'indizi più forti di reità. La prigionia è una pena che
per necessità deve, a differenza di ogni altra, precedere la dichiarazione del
delitto; ma questo carattere distintivo non le toglie l'altro essenziale, cioè
che la sola legge determini i casi, nei quali un uomo è degno di pena. La legge
dunque accennerà gli indizi di un delitto che meritano la custodia del reo, che
lo assoggettano ad un esame e ad una pena.» Può essere necessaria, ma
essendo comunque una pena contro un presunto innocente, come la tortura
(concezione garantista della giustizia), non deve essere attuata tramite
arbitrio di un magistrato o di un ufficiale di polizia. La carcerazione dopo
cattura e prima del processo è ammessibile solo quando ci sia, oltre ogni
dubbio la prova della pericolosità dell'imputato: «pubblica fama, la fuga, la
stragiudiciale confessione, quella d'un compagno del delitto, le minacce e la
costante inimicizia con l'offeso, il corpo del delitto, e simili indizi, sono
prove bastanti per catturare un cittadino. Ma queste prove devono stabilirsi
dalla legge e non dai giudici, i decreti de' quali sono sempre opposti alla
libertà politica, quando non sieno proposizioni particolari di una massima
generale esistente nel pubblico codice». Le prove dovranno essere quanto
più solide quanto la prigionia rischi di essere lunga o pesante: «A misura che
le pene saranno moderate, che sarà tolto lo squallore e la fame dalle carceri,
che la compassione e l'umanità penetreranno le porte ferrate e comanderanno
agli inesorabili ed induriti ministri della giustizia, le leggi potranno
contentarsi d'indizi sempre più deboli per catturare». Egli raccomanda
inoltre la piena riabilitazione per la carcerazione ingiusta: «Un uomo accusato
di un delitto, carcerato ed assoluto, non dovrebbe portar seco nota alcuna
d'infamia. Quanti romani accusati di gravissimi delitti, trovati poi innocenti,
furono dal popolo riveriti e di magistrature onorati! Ma per qual ragione è
così diverso ai tempi nostri l'esito di un innocente? perché sembra che nel
presente sistema criminale, secondo l'opinione degli uomini, prevalga l'idea
della forza e della prepotenza a quella della giustizia; si gettano confusi
nella stessa caverna gli accusati e i convinti; perché la prigione è piuttosto
un supplizio, che una custodia del reo, e perché la forza interna tutrice delle
leggi è separata dalla esterna difenditrice del trono e della nazione, quando
unite dovrebbono essere». Il carattere della sanzione Frontespizio
di Scritti e lettere inediti del 1910 Cesare Beccaria, incisione da Dei
delitti e delle pene Beccaria indica come la sanzione deve possedere alcuni
requisiti: la prontezza ovvero la vicinanza temporale della pena al
delitto l’infallibilità ovvero vi deve essere la certezza della risposta
sanzionatoria da parte delle autorità la proporzionalità con il reato
(difficile da realizzare ma auspicabile) la durata, che dev'essere adeguata la
pubblica esemplarità, infatti la destinataria della sanzione è la collettività,
che constata la non convenienza all'infrazione essere la «minima delle
possibili nelle date circostanze» Secondo Beccaria, per ottenere
un'approssimativa proporzionalità pena-delitto, bisogna tener conto: del
danno subito dalla collettività del vantaggio che comporta la commissione di
tale reato della tendenza dei cittadini a commettere tale reato Non dev'essere
comunque una violenza gratuita, ma dev'essere dettata dalle leggi, oltre a
possedere tutti i caratteri razionali citati, e sprovvista di personalismi e
sentimenti irrazionali di vendetta. La pena è oltretutto una extrema
ratio, infatti si dovrebbe evitare di ricorrere ad essa quando si hanno
efficaci strumenti di controllo sociale (non deve inoltre colpire le intenzioni
in maniera analoga al fatto compiuto: ad esempio, l'attentato fallito non è paragonabile
a uno riuscito). Per questi motivi è importante attuare degli espedienti di
“prevenzione indiretta”, come ad esempio: un sistema ordinato della
magistratura, la diffusione dell'istruzione nella società, il diritto premiale
(premiare la virtù del cittadino, anziché punire solo la colpa), una riforma
economico-sociale che migliori le condizioni di vita delle classi sociali
disagiate. Beccaria si dichiara inoltre sospettoso verso il sistema delatorio
(cosiddetta collaborazione di giustizia), da usare solo per prevenire delitti
importanti, in quanto incoraggia il tradimento e favorisce dei criminali rei
confessi dando loro l'impunità. Per quanto riguarda l'istituto premiale
nella pena già comminata, cioè le amnistie e la grazia, essi possono essere
usati ma con cautela: al condannato che si comporta in maniera esemplare
durante l'esecuzione della pena o in casi specifici, ma solo in caso di pene
pesanti, esse possono essere concesse; suggerisce però di limitare la
discrezionalità del governante e del giudice, poiché egli teme che lo strumento
della clemenza venga usato per favoritismi, come nell'Antico Regime, eliminando
anche pene lievi a persone che siano potenti o vicini politicamente o
umanamente al sovrano: «La clemenza è la virtú del legislatore e non
dell'esecutor delle leggi», scrive infatti. Pertanto il fine della
sanzione non è quello di affliggere, ma quello di impedire al reo di compiere
altri delitti e di intimidire gli altri dal compierne altri, fino a parlare di
"dolcezza della pena", in contrasto alla pena violenta: «Uno
dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l'infallibilità
di esse. La certezza di un castigo, benché moderato farà sempre una maggiore
impressione che non il timore di un altro più terribile, unito con la speranza
dell'impunità; perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre
gli animi umani, e la speranza, dono celeste, che sovente ci tien luogo di
tutto, ne allontana sempre l'idea dei maggiori, massimamente quando l'impunità,
che l'avarizia e la debolezza spesso accordano, ne aumenti la forza. L'atrocità
stessa della pena fa sì che si ardisca tanto più per schivarla, quanto è grande
il male a cui si va incontro; fa sì che si commettano più delitti, per fuggir
la pena di uno solo. I paesi e i tempi dei più atroci supplicii furon
sempre quelli delle più sanguinose ed inumane azioni, poiché il medesimo
spirito di ferocia che guidava la mano del legislatore, reggeva quella del
parricida e del sicario. (...) Perché una pena ottenga il suo effetto basta che
il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto, e in questo eccesso di
male deve essere calcolata l'infallibilità della pena e la perdita del bene che
il delitto produrrebbe. Tutto il di più è dunque superfluo e perciò tirannico.»
Il diritto all'autodifesa: sul porto di armi Il pensiero di Beccaria sul porto
di armi, che egli riteneva un utile strumento di deterrenza del crimine, si
riassume nelle seguenti citazioni: «Falsa idea di utilità è quella che
sacrifica mille vantaggi reali per un inconveniente o immaginario o di troppa
conseguenza, che toglierebbe agli uomini il fuoco perché incendia e l'acqua
perché annega, che non ripara ai mali che col distruggere. Le leggi che
proibiscono di portare armi sono leggi di tal natura; esse non disarmano che i
non inclinati né determii delitti, mentre coloro che hanno il coraggio di poter
violare le leggi più sacre della umanità e le più importanti del codice, come
rispetteranno le minori e le puramente arbitrarie, e delle quali tanto facili
ed impuni debbon essere le contravvenzioni, e l'esecuzione esatta delle quali
toglie la libertà personale, carissima all'uomo, carissima all'illuminato
legislatore, e sottopone gl'innocenti a tutte le vessazioni dovute ai rei?
Queste peggiorano la condizione degli assaliti, migliorando quella degli
assalitori, non iscemano gli omicidii, ma gli accrescono, perché è maggiore la
confidenza nell'assalire i disarmati che gli armati. Queste si chiamano leggi
non prevenitrici ma paurose dei delitti, che nascono dalla tumultuosa
impressione di alcuni fatti particolari, non dalla ragionata meditazione
degl'inconvenienti ed avantaggi di un decreto universale» Influenza Anche
Ugo Foscolo rileverà nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis che "le pene
crescono coi supplizi". L'opera ed il pensiero di Beccaria, inoltre,
influenzarono la codificazione del Granducato di Toscana, concretizzata nella
Riforma della legislazione criminale toscana, promulgata da Pietro Leopoldo
d'Asburgo nel 1787, meglio conosciuta come "Codice leopoldino" col
quale la Toscana divenne il primo stato in Europa ad eliminare integralmente la
pena di morte e la tortura dal proprio sistema penale. Il filosofo
utilitarista Jeremy Bentham ne riprenderà alcune idee. Le idee del
Beccaria stimolarono un dibattito (si pensi alle critiche che Kant gli mosse
nella sua Metafisica dei costumi) ancora vivo e attuale oggi. Citazioni e
riferimenti Monumento a Cesare Beccaria, Milano Nel 1837 venne realizzato
un monumento a Cesare Beccaria, opera dello scultore Pompeo Marchesi, posto
sulla scalinata richiniana del palazzo di Brera. Nel 1871 venne inaugurato un
secondo monumento in marmo a Milano (oggi piazza Beccaria); a causa del
deterioramento, nel 1913 il monumento fu sostituito da una copia in bronzo. Gli
è stato dedicato un asteroide: 8935 Beccaria. Il carcere minorile di Milano è a
lui intitolato. A lui è intitolato un prestigioso Liceo Classico milanese, il
Ginnasio Liceo Statale Cesare Beccaria. A lui è dedicato uno dei 3 dipartimenti
della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Milano. Altre
opere: “Del disordine e de' rimedi delle monete a Milano”; “Del delitto e della
pena” (Livorno, Marco Cortellini). Giovanni
Claudio Molini); “Ricerche intorno alla natura dello stile”; “Elementi di economia
pubblica”; “Raccolte di articoli Gli articoli di Beccaria in «Il Caffè» Collana
«Pantheon», Bollati Boringhieri). Due volumi, Genealogia Dati tratti da
genealogia settecentesca della famiglia Beccaria con indicazione della discendenza
di Cesare Beccaria”; “Simone «attese a negozi con prosperità”; Gerolamo «tesoriere
di vari luoghi pii, uomo di molti trafici” Sposa Isabella Busnata di Giovanni
Stefano. Galeazzo «I.C. causidico nel civile».
Francesco “cassiere generale del Banco Sant'Ambrogio sino a morte ed
agente del luogo Pio della Carità». Sposa Anna Cremasca.Filippo «Successe al
padre nel posto di cassiere suddetto, che poscia rinunciò e si fece
sacerdote». Anastasia«Monaca in Vigevano» Giovanni «Alla
morte di suo padre ebbe un'entrata di scuti 5000 con che la trattò alla
cavalleresca». Sposò Maddalena Bonesana figlia di Francesco («rimaritata nel
conte Isidoro del Careto»). Francesco «Fece aquisto de sudetti
feudi di Gualdrasco e Villareggio nel vicariato di Settimo per istrumento 3 marzo
1705 rogato dal notaio Benag.a. Creato marchese nel 1711 per cesareo diploma».
Sposò Francesca Paribelli di Nicolò «da Sondrio nella Valtellina». Giovanni
Saverio Secondo marchese di Gualdrasco e di Villareggio. Ereditò il cognome
Bonesana del prozio Cesare Bonesana. Con decreto, entrò a far parte del
patriziato milanese. Sposa Cecilia Baldironi Maria Visconti di Saliceto Cesare Terzo
marchese di Gualdrasco e di Villareggio. Sposò nel 1761 Teresa de Blasco Anna Barbò Giulia Sposò nel 1782 Pietro Manzoni.
Anna Maria Aloisia Giovanni Annibale Margherita Teresa Giulio Quarto marchese di
Gualdrasco e di Villareggio. Sposò nel 1821 Antonietta Curioni de Civati
Francesca Cecilia Cesare Antonio Maddalena Sposò nel 1766 Giulio Cesare
Isimbardi Tozzi. Annibale Sposò nel 1776 Marianna Vaccani Francesco
(1749-1856)Sposò Rosa Conti (vedova
Fè). Carlo Sposò Rosa Tronconi Giacomo Filippo Mariaabate
Carlo Teresamonaca Chiaramonaca
Nicola Francesco (1702-1765) -Laureato in legge, membro del
collegio dei giurisperiti dal 1738, fu anche giudice a Milano e a Pavia.
Giuseppe Marianna Ignazio Anna
MariaSposò un Cattaneo «fisico» Gerolamo«Canonico ordinario del
Duomo» AngiolaSposò Alberto Priorino nel 1619. Tendente al
deismo Il nome di «marchese di
Beccaria», usato talvolta nella corrispondenza, si trova in molte fonti (tra
cui l'Enciclopedia Britannica) ma è errato: il titolo esatto era «marchese di
Gualdrasco e di Villareggio» (cfr. Maria G. Vitali, Cesare Beccaria. Progresso
e discorsi di economia politica, Paris, 20059. Philippe Audegean, Introduzione,
in Lione, 20099. ) John Hostettler,
Cesare Beccaria: The Genius of 'On Crimes and Punishments', Hampshire,
Waterside Press, 160,
978-1-904380-63-4. Indicata come
"Ortensia" in Pompeo Litta, Visconti, in Famiglie celebri
italiane. Renzo Zorzi, Cesare Beccaria.
Dramma della Giustizia, Milano, 199553. Pirrotta, art. cit C. e M. Sambugar, D. Ermini, G. Salà, op,
cit.. Emanuele Lugli, 'Cesare Beccaria e
la riduzione delle misure lineari a Milano,' Nuova Informazione Bibliografica
3/, 579-602., DOI:10.1448/80865. l'11
dicembre . Beccaria non riposa sul
Lario F.Venturi, Settecento riformatore,
Einaudi, Torino, 1969 Sambugar, Salà,
Letteratura modulare, I Dei delitti e delle pene, capitolo XII Cesare Beccaria, la scoperta della libertà,
con Lucio Villari, Il tempo e la storia, Rai Tre Dei delitti e delle
pene, capitolo VI Dei delitti e delle pene,
Capitolo XLVII Dei delitti e delle pene,
Capitoli 38 e seguenti Dei delitti e
delle pene, capitolo 46, Delle grazie
Dei delitti e delle pene, capitolo 27
I. Kant, La metafisica dei costumi, traduzione e note di G. Vidari,
revisione di N. Merker, 10ª ed., Roma-Bari, Laterza, «Il marchese
Beccaria, per un affettato sentimento umanitario, sostiene [...] la illegalità
di ogni pena di morte: essa infatti non potrebbe essere contenuta nel contratto
civile originario, perché allora ogni individuo del popolo avrebbe dovuto
acconsentire a perdere la vita nel caso ch'egli avesse a uccidere un altro (nel
popolo); ora questo consenso sarebbe impossibile perché nessuno può disporre
della propria vita. Tutto ciò però non è che sofisma e snaturamento del
diritto». Teatro genealogico delle
famiglie nobili milanesi, su Hispanic Digital Library. Felice Calvi, Il patriziato milanese, Milano,
1875, 52-53. Nella genealogia settecentesca è indicato un
Nicolò abbate. Pietro Verri, Scritti di
argomento familiare e autobiografico, G. Barbarisi, Roma, 2003118. Franco Arese, Il Collegio dei nobili Giureconsulti
di Milano, in Archivio Storico Lombardo, 1977162. Cesare Beccaria, Ricerche intorno alla natura
dello stile, Milano, Società tipografica de' classici italiani, 1822. Cesare
Beccaria, Scritti e lettere inediti, Milano, Hoepli, 1910. Cesare Beccaria,
Opere, I, Firenze, Sansoni, 1958. Cesare Beccaria, Opere, II, Firenze, Sansoni,
1958. Introduzione a Beccaria, Enza Biagini, Roma-Bari,Laterza, 1992
Antoine-Marie Graziani, Fortune de Beccaria, Commentaire 2009/3 (Numéro 127). Dei delitti e delle pene Diritti umani
Ergastolo Tortura Pena capitale Del disordine e de' rimedi delle monete nello
stato di Milano nel 1762 Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource
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Liber. Opere di Cesare Beccaria / Cesare
Beccaria (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Cesare
Beccaria, . Audiolibri di Cesare Beccaria, su LibriVox. Vita di C.Beccaria, su zam. V D M Coterie
holbachiana V D M Illuministi italiani Filosofia Letteratura Letteratura Categorie: Giuristi italiani del
XVIII secoloFilosofi italiani del XVIII secoloEconomisti italiani 1738 1794 15
marzo 28 novembre Milano MilanoFilosofi del
dirittoIlluministiUtilitaristiLetterati italianiOppositori della pena di
morteStudiosi di diritto penale del XVIII secoloCriminologi italianiStoria del
dirittoNobili italiani del XVIII secoloStudenti dell'Università degli Studi di
Pavia. Refs.: Luigi Speranza, "Grice
e Beccaria," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa
Grice, Liguria, Italia. Delle idee espresse, e delle idee semplicemente suggerite.
Un altra osservazione non meno importante che generale sarà intorno al diverso
effetto che le idee accessorie pos sono produrre quando siano espresse coi
termini loro corrispondenti, o quando siano semplicemente suggerite o destate
nell' animo di chi legge o di chi ascolta. Espresse nuocerebbero al fascio intero
del le sensazioni; destate solamente lo giovano, non solo perchè la picciola
fatica che facciamo, e l'applauso interno del nostro ritrovato ci rinfranca
l'attenzione sul restante, ma molto più perchè è legge della nostra sensibilità
che tutt'altra forza abbiano le idee espresse e le taciute, e tutt'altra
attenzione esigono da noi quel le che queste. Ora le attenzioni saranno tanto
più lunghe o più frequenti, tanto più si nuocono tra di loro, e scemano
l'attenzione al tutto; mentre per lo contrario quei lampi, rapidi e passeggieri
di attenzione che balenano, in noi per tutte le idee espresse, e confusa per il
tutto e debolissima sarà la percezione deile parti, o solamente ad alcune noi
faremo idee accessorie e non espresse, accrescono delle sensazioni senza
nuocere all'attenzione ed all'energia del tutto. Abbiamo semplicemente il
numero dimostrato che la quantità d'impressione momentanea non deve eccedere
che tre o quattro sensazioni ordinarie, perchè per tante e non più la mente
umana è capace di una simultanea attenzione: la vivacità degli oggetti presenti
non le concedono una maggior ampiezza ed u na maggiore comprensibilità. Nelle
cose lette o ascoltate, in luogo della vivacità e della realità che è
nell'oggetto quando è presente, vi è la vivacità e la realità della parola
visibile o auditiva se noi dunque volessimo tutte le accessorie, che si
tacciono, esprimere, veremmo ad offendere quella legge determina e limita la
quantità d'impressioni simultanee, oltre la quale, o lo sforzo della mente si
porterà su destate che le attenzione, cioè solamente di alcune l'immagine
corrispondente alla parola si risveglierà nella mente, ed allora le altre
parole rimanendo insignificanti. Se dunque una parola racchiude nel suo
concetto molte e varie sensazioni, come 'spada', 'esercito', 'nave', ec. cosic
chè la mente dalla parola medesima non sia determinata a considerar più l'una
che l'altra delle sensazioni componenti 1 e terruzione al senso, e
distruggeranno l'effetto delle altre in vece di aumentarlo. , faranno i n 43
suc, ma sibbene sia piuttosto sforzata a co nsiderarle tutte in una volta,
accaderà che condensando due o tre di queste parole intorno ad un'idea
principale, vi saranno non due o tre accessorie soltanto unite e destinate ad
aggiunger forza al la principale, ma invece un molto maggior numero, quante
saranno le sensazioni egualmente comprese sotto i nomi di 'spada', 'esercito',
'nave', ec.: tutte queste varie e numerose sensazioni non essendo più
immediatamente le une che le altre suggerite, tutte concorrono
contemporaneamente ad associarsi colla principale; onde l'effetto reale che ne
cede si è, che la fantasia nostra resta distratta é confusa. Per lo contrario,
se invece de' nomi 'spada', 'esercito', 'nave', ec., si dicesse 'ferro',
'soldato', 'vele', e che questi nomi si condensassero attorno ad un'idea
principale per formarne un senso, si osservi che le tre sole nozioni e precise
sensazioni comprese nel proprio significato delle tres uddette parole si quelle
ogni sono che immediatamente, e prima di altra, si risvegliano nella fantasia;
saranno quelle che immediatamente si uniranno colla principale. Ma per forza di
onde associazione non tra lascerà la parola di 'ferro' di suggerire rapidamente
le altre sensazioni comprese sotto la parola 'spada'; quella di 'soldato',
quelle di 'esercito'; quella di 'vele', quelle di 'navi'. Ma essendo priamente
queste sensazioni suggerite pro associate colle parole 'ferro', 'soldato', e
'vele', ma con le idee che nuocere alla principale così facilmente. Ecco
chiaramente spiegato ciò st che io intendo per idee suggerite e per idee
espresse, mentre però tutta questa teoria sarà resa più evidente dopo che nel
progresso io avrò parlato de' nomi speciali ed appellativi, e de' traslati.
sono. E de sta que immediatamente risvegliano, non pos Le idee semplicemente
suggerite non entrano nella sintassi della proposizione, la quale regge senza
di quelle: non sono non SI. Accipite hanc animam, me que his exolvit e curis,
quanta folla d'idee si risveglia in chi legge quelle sole parole, in quella
occasione dette, dulces exuviae: la sintassi regge senza che si risveglino
queste idee, onde la mente non trovasi affaccendata a raccapezzare un senso
complicato e in molte parti diviso e coll'accennar sol tanto la spada di Enea
sotto il nome di una spoglia, cioè di una cosa da lui portata e da lui ricevuta
in dono, quanto teneri e contrastanti sentimenti non ci sentiamo fremere
interiormente! Egli è evidente che una medesima serie d'idee per
intervalli di tempo più lunghi occupa la mente se siano espresse, di quello che
se siano taciute, per chè un maggior tempo si consuma nella percezione della
parola, per la durata della quale si continua la presenza dell'idea
corrispondente di quello che sia con durevoli nella mente quanto le idee che
eccitate sono dalle parole immediatamente, quantunque come le altre, alla
occasione di quelle, si risveglino; onde con minore dispendio ditempo e di
forzesi ottiene un più grande effetto. Quando Virgilio fa dire à Didone:
'Dulces exuviae dum futa, Deusque sinebant, a rendere più tarda e più
lontana la connessione tra le idee principali, il che renderebbe annoiante e
faticoso il netto coucepimento del tutto, oppure essunto nella rapida ed
affollata successio ne d'imagini che per forza di associa zione si eccitano reciprocamente.
Tanto è ciò vero, che non sarà inutile il qui osservare che molte espressioni
non so no preferibili alle altre, se non appunto perchè la sensazione auditiva
o della parola è materialmente più dell' altra. È più bella e più nobile
pressione la parola cocchio della carrozza non per es parola visibile breve
l'azzardo capriccioso dell'esser meno comune ed avilita pressione, giacchè
tant'altre che nelle bocche di tutti sieno continuamente; cio nonostante nè si
rigettano, nè per meno belle son riputate, ma soltanto p e r chè è parola più
breve, e l'idea da un più rapido segno è rappresentata; onde si ottiene lo
stesso effetto con minore spesa di forza e ditempo. Ora se le idee taciute
fossero tutte espresse, noi verremmo mente nostra dividerebbe in più tempi ciò
che per l'unità dell'idea principale dovrebbe essere rinchiuso in un solo; il
che rendendo l'accessorio principale, pro la durrebbe e confusione nella
chiarezza, e noia nelle unioni diseguali e sproporzionate d'idee fatte nella
mente nostra. Tanto è vero che il tempo (che altro nonè per noi che la
successione delle idee degli esseri sensibili) è una quantità alla quale non la
scienza del moto solamente, ma le scienze tutte e le belle ti e la politica
debbono aver considerazione; perchè tutte le più fine e le più sottili ed
interiori, egualmente che le più complicate e più grossolane ed esteriori
operazioni dell'intelletto sotto l'inesorabile suo dominio si fanno e si
manifestano. Fra la moltitudine delle idee accesso rie che si presentano, quali
sceglieremo per essere espresse, quali serberemo per essere semplicemente
destate? In primo luogo, tramolte accessorie analoghe e moltissimo simili fra
di loro, e che si risvegliano reciprocamente ed infallibilmente l'una l'altra,
una sola sarà l'espressa, le altre taciute; perchè se tutte fossero espresse,
ciascheduna espressione replicando le idee di tutte le altre, vi sarebbe
superfluità e ridondanza che fastidio produrrebbe e stanchezza, e d i spendio
di tempo. La ripetizione delle idee accessorie non produce lo stesso. In
secondo luogo, tra la moltitudine delle idee accessorie vi saranno, oltre le
analoghe, quelle che sono più distanti, ciascheduna delle quali avrà le sue
rispettive simili ed associate: di queste ognu na apre la mente ad una serie
d'impressioni, e sono direi quasi capi -idee e c a pi- pensieri; queste saranno
le espresse, perchè non si destano reciprocamente, ed effetto della
ripetizione delle idee principali; queste si rinfrancano come tali nella mente,
e divengono perciò come un centro di luce che il tutto riscalda e rischiara;
quelle ripetute annebbiano e dissipano l'attenzione dalle principali: per lo
contrario, se una sola sia 1 espressa, le altre analoghe semplicemente destate,
la quantità d'idee ed'impressione rinchiusa in una sola espressione diviene più
grande, e per conseguenza più piacevole, restando picciola la insipida
sensazione dell'udito l'occhio, che abbiamo tempo considerabile esige le idee e
dell'immaginazione: così veniamo ad ottenere un più grand'effetto in più breve
tempo; problema è solo l'oggetto de'meccanici,m a della morale e della
politica, anzi di tutta la filosofia e del visto che un a che non to spese
del necessa è necessaria l'espressione per eccitare, ossia
perchè la mente possa percorrere tutte queste differenti progressioni d'idee.
Sarà dunque eccellente la combinazione di quelle accessorie colla principale,
in cui tutte le accessorie espresse siano ca pi-pensieri, e non molto analoghi
ed associati tradi loro, e moltissimo colla principale per una delle tre
indicate sorgenti per cui le idee vicende volmente si legano. Una riflessione
soggiungo intorno al l'effetto delle idee espresse e taciute; cioè che tra una
espressione e l'altra, per i limiti e la debolezza de'sensi esterni, tanto per
mezzo dell'occhio quanto per mezzo dell'udito, corre un picciolo intervallo di
tempo e, per così dire, di silenzio e di riposo: se vi sono idee desta te e non
espresse, queste come lampi di mente riempiono questo vuoto senza stan chezza;
ma se tutte sono espresse, si moltiplicano i vuoti e non si riempiono; il che
porta diminuzione di piacere e stanchezza per l'aumentata fatica delle
espressioni da leggersi o da ascoltarsi. Quanto più grandi epiù forti saranno
le idee accessorie espresse, tanto più numerose pos ono essere le idee taciute,
ma riamente destate da quelle, perchè l'efficacia delle prime tende e rinforza
l'attenzione che con più rapidi voli slancia si ad abbracciare le idee non
espresse senza pregiudicare all'interesse del tutto, e perchè espressioni più
grandi e più forti fermano l'immaginazione di chi legge o d'ascolta, essendo
manifesta legge della mente nostra di trovarsi obbligata ad impiegar un tempo
maggiore nella considerazione delle idee a misura che sono più grandi e più
forti: onde per questo tempo necessario, per questa dimora, per così dire,
della mente su di un oggetto, quantunque egli medesimo per la forza é grandezza
sua esiga tutto questo tempo maggiore di attenzione, cio nonostante la mente,
dall'impeto concepito a percorrere una serie d'idee quasi trattenuta, più
facilmente potrà ricevere altre idee rapidamente risvegliate all'occasione di
espressioni forti ed energiche. Chi ben considera, e ritorna sulla esperienza
dell'animo suo, potrà facilmente scorgere che sempre che un grande ed
interessante o ggetto fermi il pensiero, e percuota improvvisamente l'
immaginazione, questa dopo considerato quell'oggetto, nell'atto che si riscuote
e si risveglia dall' inten sione nella quale trovavasi, per così dire, attuatae
raccolta, non si abbandona su bito all'ordinaria impressione delle cose che le
stanno d'attorno, ma sibbene de stasi in lei una moltitudine d'idee tutte
relative non solo a quella straordinaria impressione che l'ha percossa, ma
ancoraa se stessa, ed alle passioni dalle quali è dominata. È da ciò che i
boschi, nei cupi e vari ravvolgimenti dei quali erra il pensiero, che le
solitudini antiche dei monti ove signoreggia illimitata la natura, che la vista
del mare che si allarga fra mille nazioni, oggetti immensi e tanto occupanti
l'attonita immaginazione, som no ricercati da coloro che più amano di pascolare
i loro pensieri, ed esercitar l'animo liberamente e senza distrazioni dal la
considerazione di se medesimi; mentre coloro i quali odiano di rientrare in se
stessi, e cercano fuggire in certo modo e sottrarsi dal sincerissimo accusatore
pensiero, si gettano nel minuto e sempre u niforme vortice della vita comune,
gli oggetti della quale sono atti bensi a spin 51 ľ 1 gertato l'animo
fuori di se stesso in un continuo movimento, ma non a fermarlo, e renderlo
attonito e pensieroso. Per lo contrario, più picciole e più deboli saranno le
accessorie espresse; la scelta si farà su di quelle che ne risvegliano un minor
numero, perchè la differenza tra le une e le altre essendo minore, e sovente
più importanti e più forti potendo essere le destate che le espresse, si corre
rischio che le idee dell'autore siano perdute divista, e confuso ed interrotto
riesca l'effetto del tutto sopra le immaginazioni varie e non legate da
sufficientemente forti ed esterne sensibili manifestazioni. L e deboli
accessorie espresse, secondo abbiamo di mostrato, debbono essere molte, accioc
chè il numero compensi la debolezza; m a molte idee espresse occupano un tempo
ch' esclude molte idee taciute o sottinte se, altrimenti di troppo
allontaneremo il concepimento dell'idea principale. L e accessorie forti, per
una contraria ragio ne, debbono essere poche in ciascun m o mento
d'impressione; m a poche forti la scierebbero del vuoto negli intervalli n e
cessari dell'espressione,che da molte idee non espresse debb'essere supplito.
Delle idee espresse, e delle idee semplicemente suggerite. Un altra
osservazione non meno importante che generale è intorno al diverso
*effetto* che una idea *accessoria* puo produrre quando è *espressa* col termino
corrispondente, o quando è *semplicemente suggerita o *destata* nell'animo
di chi ascolta. Espressa nuocerebbero al fascio intero della sensaziona;
destata solamente lo giove, non solo perchè la picciola fatica che facciamo e
l'applauso interno del nostro ritrovato ci rinfranca l'attenzione sul restante,
ma molto più perchè è legge della nostra sensibilità che tutt'altra forza ha la
idea espressa e la idea taciuta, e tutt'altra attenzione esigono da noi quella
le che questa. Ora l'attenzione è tanto più lunga o più frequente,
tanto più si nuocono tra di se, e scema l'attenzione al tutto. Mentre per lo
contrario quei lampi, rapidi e passeggieri di attenzione che balenano, in noi
per la idea espressa, e confusa per il *tutto* e debolissima è la
percezione della *parte* o solamente ad alcune noi faremo idea accessoria e non
espressa, accrescono della sensazioni senza nuocere all'attenzione ed
all'energia del tutto. Abbiamo semplicemente il numero dimostrato che la
quantità d'impressione momentanee non deve eccedere che *tre o quattro*
sensazioni ordinarie, perchè per tante e non più la mente umana è capace di una
simultanea attenzione. La vivacità dell'oggetto presenti non le concede una
maggior ampiezza ed una maggiore comprensibilità. Nella cosa ascoltate, in
luogo della vivacità e della realità che è nell'oggetto quando è presente, vi è
la vivacità e la realità dell'*espressione* se noi dunque volessimo
l'accessoria, che si tacce, esprimere, veremmo ad offendere quella legge
determina e limita la quantità d'impressioni simultanee, oltre la quale, o lo
sforzo del recipiente si porterà su destate che le attenzione, cioè solamente
di alcune l'immagine corrispondente all'espresione si risveglie nella mente, ed
allora le altre espressioni rimaneno insignificanti. Se dunque un'espressione
racchiude nel suo concetto o senso molte sensazioni -- come 'spada',
'esercito', o'nave' -- cosicchè la mente dall'espressione medesima non sia
determinata a considerar più l'una che l'altra delle sensazioni componenti e
l'interruzione al *senso* della profferenza, e distruggeranno l'effetto delle
altre espressione in vece di aumentarlo. , faranno in suc, ma sibbene sia
piuttosto sforzata a considerarle tutte le sensazioni in una volta, accade che,
condensando l'espressione intorno ad un'idea *principale*,
vi è un'idea accessoria soltanto unita e destinata ad aggiunger forza
alla idea principale, ma invece un molto maggior numero, quante sono le
sensazioni egualmente comprese sotto l'espressione 'spada', o 'esercito'
o 'nave'. Le varie sensazioni, non essendo più immediatamente le une che
le altre suggerite, concorrono contemporaneamente ad associarsi coll'idea
principale. Onde l'effetto reale che ne cede si è, che la fantasia nostra resta
distratta é *confusa*. Per lo contrario, se invece dell'espressione 'spada', o
'esercito', o 'nave', si dicesse 'ferro', o 'soldato', o 'vele', e che questa
espressione si condensa attorno ad un'idea principale per formarne un senso, si
osserva che la sola nozione e precisa sensaziona compressa nel proprio
significato dell'espressione 'ferro', o 'soldato' o 'vele', si quelle ogni sono
che immediatamente, e prima di altra, si risvegliano nella fantasia
-- è quella che immediatamente si une coll'idea principale. Ma per
forza di onde associazione non tra lascerà l'espressione 'ferro' di suggerire
rapidamente altre sensazioni comprese sotto l'espressione 'spada'; quella di
'soldato', quelle di 'esercito'; quella di 'vele', quelle di 'navi'. Ma essendo
priopiamente questa o quella sensazione *suggerita* propriamente, associata
coll'espressione 'ferro' o 'soldato' o 'vele', ma colla idea che nuocere
all'idea principale così facilmente. Ecco chiaramente spiegato ciò che io
intendo per una *idea suggerita* e per una *idea espressa*, mentre però tutta
questa teoria è resa più evidente nel nome o espressione speciale,
l'appellativo, e nel traslato. E de sta que immediatamente risvegliano, non
pos. Un'*idea semplicemente suggerita* non entra nella sintassi o forma logica
della proposizione, la quale regge senza di quella. Non sono non. Quando
Virgilio fa dire à Didone: 'Dulces exuviae dum futa, Deusque sinebant, accipite
hanc animam, me que his exolvit e curis" -- quanta folla d'idee si
risveglia in chi ascolta quelle sole espressioni, in quella occasione dette,
'dulces exuviae'. La sintassi latina regge senza che si risveglino quest'idea
semplicemente suggerita, onde la mente non trovasi affaccendata a raccapezzare
un *senso complicato* e in molte parti diviso e coll'accennar sol tanto la
spada di Enea sotto l'espressione di una spoglia, cioè di una cosa da lui
portata e da lui ricevuta in dono, quanto teneri e contrastanti sentimenti non
ci sentiamo fremere interiormente! Egli è evidente che una medesima idea
per intervalli di tempo più lunga occupa la mente se è espressa, di
quell'idea che se è taciuta, per chè un maggior tempo si consuma
nella percezione dell'espressione, per la durata della quale si continua la
presenza dell'idea corrispondente di quello che sia con durevoli nella mente
quanto le idee che eccitate sono dall'espressione *immediatamente*, quantunque
come le altre, alla occasione di quelle, si risveglino; onde con minore
dispendio di tempo e di forze si ottiene un più grande effetto. a rendere
più tarda e più lontana la connessione tra le idee principali, il che
renderebbe annoiante e faticoso il netto coucepimento del *tutto*, oppure
essunto nella rapida ed affollate imagini che per forza di associazione si
eccitano reciprocamente. Tanto è ciò vero, che non è inutile il qui
osservare che un'espressione E1 non e preferibili ad altr'espressione E2, se
non appunto perchè la sensazione auditiva o dell'espressione è materialmente
più dell' altra. È più bella e più nobile pressione l'espressione 'cocchio' (o
'se p, q') dell'espressione 'carrozza' (o 'p o non q') non per l'azzardo
capriccioso dell'esser meno comune ed avilita epressione, giacchè tant'altra
che nella bocca di tutti è continuamente. Cio nonostante nè si
rigettano, nè per meno bella è riputata, ma soltanto perchè è
espressione più breve e l'idea da un più rapido segno è rappresentata. Onde si
ottiene lo stesso effetto con minore spesa di forza e di tempo. Ora se l'idee
taciuta divienne espressa, noi verremmo la mente nostra dividerebbe in più
tempi ciò che per l'unità dell'*idea principale* dovrebbe essere rinchiuso in
un solo; il che rendendo l'idea accessoria una idea principale, pro la durrebbe
e *confusione* nella chiarezza, e noia nelle unioni diseguali e sproporzionate
dell'idea fatta nella mente nostra. Tanto è vero che il tempo, che altro non è
per noi che la successione delle idee degli esseri sensibili, è una quantità
alla quale non la scienza del moto solamente, ma le scienze tutte e le belle ti
e la politica debbono aver considerazione. Perchè la più fina e la più sottile
ed interiore, egualmente che la più complicata e più grossolana ed esteriore
operazioni dell'intelletto sotto l'inesorabile suo dominio si fanno e si
manifestano. Fra l'idea accessoria che si presenta, quali sceglieremo per
essere espressa, quali sceglieeremo per essere *semplicemente destata*? In
primo luogo, tra una accessoria analoga e moltissimo simile e che si risveglia
reciprocamente ed infallibilmente l'una l'altra, *una sola* sarà l'espressa
(l'acqua liquida), l'altra *semplicemente* taciuta. Perchè se 'liquida' è espressa,
ciascheduna espressione replicando l'idea è superfluità e
ridondanza che fastidio produrrebbe e stanchezza, e di spendio di tempo. La
ripetizione di una idea accessoria non produce lo stesso. Tra l'*idea accessoria* è ,
oltre l'analoga, quelle che è più distante (disparata), ciascheduna
delle quali ha la sua rispettiva simile ed associata (acqua liquida, bambino
non-adulto). Di questa ognuna apre la mente del co-conversatore ad una serie
d'impressioni, e è direi quasi capi-idea e capi-pensiero.
Questa è l'idea accessoria *espressa*, perchè non si desta
reciprocamente, ed effetto della ripetizione dell'idea principale ('bambino').
Questa si rinfranca come tale nella mente, e divienne perciò come un centro di
luce che il *tutto* ('il bambino è un'adulto') riscalda e
rischiara. Quella (non-adulto) ripetuta annebbia e dissipa l'attenzione
dall'idea principale ('bambino'). Per lo contrario, se una sola sia l'idea
espressa, le altr'analoga *semplicemente destata*, la quantità dell'idea e
dell'impressione rinchiusa in una *sola* espressione ('bambino' = umano non
adulto) diviene più grande, e per conseguenza più piacevole, restando picciola
la insipida sensazione dell'udito, che abbiamo tempo considerabile esige le
idee e dell'immaginazione. Così veniamo ad ottenere un più grand'effetto in più
breve tempo; Questo problema non è solo l'oggetto de'meccanici, ma della morale
e della politica, anzi di tutta la filosofia! Abbaimo visto che un a che non to
spese del necessa è necessaria l'*espressione* per *eccitare* (o
comunicare), ossia perchè la mente possa percorrere la progressione dell'idea
del discorso. Sarà dunque eccellente la combinazione di quell'idea accessoria
coll'idea principale, in cui l' accessorie espresse siano capi-pensieri ('ha una
calligrafia bellissima') e *non* molto analoga ed associata e moltissimo
coll'idea principale ('è un pessimo filosofo') per una delle ndicate
sorgenti per cui le idee vicende volmente si legano. Una riflessione soggiungo
intorno al l'effetto dell'idea espresse e dell'idea taciuta. Tra una
espressione E1 e l'altra, E2, per i limiti e la debolezza de' sensi esterni,
tanto per mezzo dell'udito, corre un picciolo intervallo di tempo e, per così
dire, di silenzio e di riposo. Se vi è idea semplicemente
destata e non espressa, questa come lampi di mente riempiono questo vuoto senza
stanchezza. Ma se l'idea è espressa, si moltiplicano i vuoti e non si
riempiono; il che porta diminuzione di piacere e stanchezza per l'aumentata
fatica dalla quantita d'informazione dell'espressione totale (ill moto
conversazionale) da interpretare. Quanto più grande e più *forte* ('bella
calligrafia) è l'idea accessoria espressa, tanto più numerosa
puo essere l'idea semplicemente taciute, ma riamente destata da quelle, perchè
l'efficacia dell'idea espressa tende e rinforza l'attenzione che con più rapidi
voli slancia si ad abbracciare l'idea non espressa ('è un pessimo
filosofo') senza pregiudicare all'interesse dell'espressione totale, e
perchè l'espressione più grande e più forte ferma l'immaginazione del
co-discorsante, essendo manifesta legge della mente nostra di trovarsi
obbligata ad impiegar un tempo maggiore nella considerazione di una idea
('è un pessimo filosofo?') a misura che è più grande
e più forte. Onde per questo tempo necessario, per questa dimora di
processamento, per così dire, della mente su di un oggetto, quantunque egli
medesimo per la forza e grandezza sua esiga tutto questo tempo maggiore di
attenzione, cio nonostante la mente, dall'impeto concepito a percorrere un'idea
quasi trattenuta, più facilmente puo ricevere altr'idea rapidamente risvegliata
all'occasione di una espressione forte ed energica ('Ha bella calligrafia').
Chi ben considera, e ritorna sulla esperienza dell'animo suo, puo facilmente
scorgere che sempre che un grande ed interessante oggetto fermi il pensiero, e
percuota improvvisamente l' immaginazione, questa dopo considerato
quell'oggetto, nell'atto che si riscuote e si risveglia dall' intensione nella
quale trovavasi, per così dire, attuata e raccolta, non si abbandona subito
all'ordinaria impressione delle cose che le stanno d'attorno, ma sibbene
destasa in lei un'idea relativa non solo a quella straordinaria impressione che
l'ha percossa, ma ancora a se stessa, ed alla passione dalla quale è dominata.
È da ciò che i boschi, nei cupi e vari ravvolgimenti dei quali erra il
pensiero, che le solitudini antiche dei monti ove signoreggia illimitata la
natura, che la vista del mare che si allarga fra mille nazioni, oggetti immensi
e tanto occupanti l'attonita immaginazione, sono ricercati da coloro che più
amano di pascolare i loro pensieri, ed esercitar l'animo liberamente e senza
distrazioni dal la considerazione di se medesimi. Mentre chi odia di rientrare
in se stessi, e cerca fuggire in certo modo e sottrarsi dal sincerissimo
accusatore pensiero, si getta nel minuto e sempre u niforme vortice della vita
comune, gli oggetti della quale sono atti bensi a spingertato l'animo fuori di
se stesso in un continuo movimento, ma non a fermarlo, e renderlo attonito e
pensieroso. Per lo contrario, più picciola e più
debole è l'idea accessoria espressa. La scelta si farà su di
quelle che ne risvegliano un minor numero, perchè la differenza, essendo
minore, e sovente più importanti e più *forti* potendo essere l'idea destata
che l'idea espressa, si corre rischio che le idea, intenzione, significato
dell'autore è perduto (involontariamente) di vista, e confuso ed
interrotto riesca l'effetto del tutto o l'espressione totale sopra
l'immaginazione non legata da sufficientemente forte ed esterne sensibile
manifestazione ('-- è un pessimo filosofo'). L'idea debola
accessoria espressa debbe essere molte, acciocchè il numero compensi la
debolezza. Ma un'idea espressa ('bambino) occupa un tempo ch'*esclude* un'idea
taciuta o sottintesa ('non-adulto'), altrimenti di troppo allontaneremo il
concepimento di un'idea principale. L'idea accessoria forte, per una contraria
ragione, debbe essere minima in ciascun momento d'impressione. Ma poche forti
la scierebbero del vuoto negli intervalli n e cessari dell'espressione,che da
molte idee non espresse debb'essere supplito. Dello espresso e dello semplicemente
suggerito, un’osservazione non meno importante che generale è intorno
al diverso effetto che una proposizione, non principale, ma *accessoria*, puo
produrre quando *espressa* o quando è semplicemente suggerita
dal conversatore, o destata nell'animo di chi con che conversa. Espressa
nuocerebbero al fascio intero della sensazione; destata solamente lo giove, non
solo perchè la picciola fatica che facciamo e 1'applauso interno del nostro
ritrovato ci rinfrancano l'attenzione sul restante, ma molto più perche è legge
della nostra sensibilità che tutt’altra forza ha una proposizione espressa e
una proposizione taciuta o semplicemente suggerita, e tutt’ altra attenzione
esigono da noi conversatori civile quella che questa. Ora
l'attenzione è tanto più lunga o più frequente, tanto più si nuoce
tra di se , e scema l’attenzione al tutto comunicato; mentre per lo contrario
quei lampi rapidi e passaggeri d'attenzione, che balenano bruci per la
proposizione accessoria *semplicemente suggerita* o destata e *non* espressa,
accresce il numero di sensazione senza nuocere all’attenzióne ed all'energia
del tutto comunicato. La quantità d’impressione momentanea non deve eccedere
che tre o quattro sensazioni ordinarie, perchè per tante, e non più, la mente
umana è capace di una simultanea attenzione. La vivacità di un oggett presente
-- la spada di Enea -- non le concedono ima maggior ampiezza ed una maggiore
comprensibilità . Nell'espresso, in luogo della vivacità e della realità che è
nell'oggetto quando è presente, vi è la vivacità e la realità della
*espressione* che representa (di modo iconico o altro) la spada d'Enea. Se noi
dunque volessimo la proposizione accessoria che si taccie esprimere verressimo
ad offendere quella legge che determina e limita la quantità d'impressioni
simultanee, oltre la quale, o lo sforzo d'interpretazione si porterà su il
tutto communicato (espresso e semplicemente suggerito) e confusa per il tutto e
debolissima sarà la percezione delle due parti (l'espresso e lo semplicementee
suggerito) o solamente ad alcune , noi faremo attenzione cioè solamente di
alcune 1'immagine o concetto o segnato o significato o senso corrispondente
all'espressione si risveglie nella mente, ed allora un altr'espressione
rimanendo *insignificanti* o superflua, fa inter- ruzione al senso della
proposizione comunicata , e distrugge l'effetto delle altre in vece di
aumentarlo . Se dunque una proposizione espressa racchiude nel suo concetto
molte e varie sensazioni, come "Questa spada e bella",
"L'esercito e bravo", "La nave va," ec. , cosicché la mente
dalla proposizione espressa medesima noù sia determinata a considerar più l'una
che 1'altra delle sensazioni componenti ma sibbene sia piuttosto sforzata a
considerarle tutte in una volta accaderà che condensando due o tre di queste
proposizioni intorno ad un proposizione *principale*, vi saranno non due o tre
proposizioni accessorie soltanto unite e destinate ad aggiunger forza alla
proposizione principale, ma invece un molto maggior numero quante saranno le
sensazioni egualmente comprese sotto la proposizione espressa, "La spada e
bella", "L'esercito e bravo," "La nave va", e tutte
queste varie e uumerose sensazioni, non essendo più immediatamente le uno che
le altre suggerito, tutte concorirono contemporaneamente ad associarsi colla
proposizione principale; onde l'effetto reale che ne succede è , che la
fantasia di nostro conversatore resta distratta e confusa. Per lo contrario, se
invece della proposizione "La spada e bela", "L'esercito e
bravo", "La nave ve", spa* da si dicesse "Il ferro e
formidable", "Il soldato e bravo", "Le vele va", e che
questi proposizioni si condensassero attorno ad una proposizione principale per
formarne il senso complesso, si osservi che le tre sole nozioni e precise
sensazioni comprese nel proprio significato o senso delle tre suddette
proposizione espresse piu specifica sono quelle che immediatamente e, prima d’
ogn’ altra si risvegliano nella fantasia. Onde saranno quelle che
immediatamente si uniranno colla principale. Ma per forza di associazione non
tralascerà la parola di fer- ro di suggerire rapidamente le altre sensazioni
comprese sotto la parola spada quella di soldato quelle di ;, esercito quella
di vele quelle di navi. ;, Ma non essendo queste sensazioni sug- gerite
propriamente associate colie parole ferro , soldato e vele , ma Con le idee che
queste immediatamen- te risvegliano non possono nuocere , alla principale così
facilmente. Ecco chiaramente spiegato ciò che io in- tendo per idee suggerite e
per idee * espresse , mentre però tutta questa teoria sarà resa più evidente
dopo ‘ che nel progresso io avrò parlato de’ nomi speciali ed appellativi , e
de’ traslati. Ee idee semplicemente, suggerite Digitj^ed by Google
3o non entrano nella sintassi della pro- posizione la quale regge senza
di , quelle: non sono durevoli nella mente quanto le idee che eccitate sono
dal- le parole immediatamente, quantun- que come le altre alla occasione di
quelle si risveglino ; onde con mino- re dispendio di tempo e di forze si
ottiene uu più grande effetto. Quan- do Virgilio fa dire a Didone : Dulces
exuviae dum fata, Deusque sinebant, Accipite hanc animam, meque his exolvite
curi», quanta folla d’idee si risveglia in citi legge quelle sole parole, in
quella oc- casione dette, dulces exuviaes la sin- tassi regge senza che si
risveglino queste idee , onde la mente non tro- vasi affacceudata a
raccapezzare un senso complicato e in molte parti diviso; e coll* accennar
soltanto la spada di Enea sotto il nome di una spoglia , cioè di una cosa da
lui por- tata e da lui ricevuta in dono quan- , to teneri e contrastanti
sentimenti noa ci sentiamo fremere interiormente! Egli è evidente che una
medesi- ma serie d’idee per intervalli di tem- po più lunghi occupa la menta se
siano espresse, di quello che se siane taciute perchè un maggior tempo ,
$T si cotìsuma nella percezione della pa- rola per la durata della quale
si con- tinua la presenza deir idea corrispon- dente di quello che sia consunto
, nella rapida ed affollata successione d* immagini che per forza di associa-
zione si eccitano reciprocamente. Tan- to è ciò vero, che non sarà inutile il
qui osservare ohe molte espressioni non sono preferibili alle altre appunto
perchè la sensazione auditiva o visibile della parola è materialmen- te più
breve dell’ altra . E* più bella e più nobile espressione la parola cocchio
della parola carrozza non per l’azzardo capriccioso dell’ esser meno comune ed
invilita espressione, giac- ché tant’ altre che nelle bocche di tutti sieno
contiuuamente cionono- ; stante nè si rigettano nè per meno belle son riputate,
ma soltanto perchè è parola più breve, e l’idea da un più rapido segno è
rappresentata; onde si ottiene lo stesso effetto con minore spesa di forza e di
tempo Ora se le idee taciute fossero tutte espresse, noi verressimo a rendere
più tarda e più lontana la connessione tra le idee principali il che rende- ,
rebbe annojaote e faticoso il netto , se non . Digitized by Google
Sa concepimento del tutto, oppure fa mente nostra dividerebbe in più tem-
pi ciò che per 1’ unità dell’ idea prin- cipale dorrebbe essere rinchiuso in un
solo ; il che rendendo 1* accessorio principale, produrrebbe e confusione nella
chiarezza , e noja nelle unioni diseguali e sproporzionate d’ idee fatte nella
mente nostra . Tanto è vero che il tempo (che altro non è per noi che la
successione delle idee degli es- è una quantità alla qua- le non la scienza del
moto solamente, ma le scienze tutte e le belle arti e la politica debbono aver
considera- zione perchè tutte le più fine e le ; più sottili ed interiori
egualmente , che le più complicate e più grossola- ne ed esteriori operazioni
dell’ intel- letto, sotto l’ inesorabile suo dominio si fanno e si manifestano
. Fra la moltitudine delle idee accessorie che si presentano , quali
sceglieremo per essere espresse, quali serberemo per essere semplicemente
destate? In primo luogo tra molte accessorie analoghe e moltissimo simili fra di
loro , e che si risvegliano reci- procamente ed infallibilmeute l* una l’ altra
uua sola sarà 1’ espressa > le y peri sensibili ) Digitized by Google
33 altre taciute perchè se tutte fossero ; espresse , ciascheduna espressione
re- plicando le idee di tutte le altre , vi sarebbe superfluità e ridondanza
che , fastidio produrrebbe e stanchezza e dispendio di tempo . La ripetizione
delle idee accessorie non produce lo stesso effetto della ripetizione delle
idee principali queste si rinfrancano ; come tali nella mente, e divengono
perciò come un centro di luce che il tutto riscalda e rischiara quelle ri- ;
petute annebbiano e dissipano 1’ atten- zione dalle principali : per lo contra-
rio se una sola sia 1* espressa le al- ,, tre analoghe semplicemente destate ,
la quantità d’ idea e d’ impressione rinchiusa in una sola espressione di-
viene più grande, e per* conseguenza più piacevole restando picciola la ,
insipida sensazione dell’ udito e dell* occhio che abbiamo visto che uu , tempo
considerabile esige a spese delle idee e dell’ immaginazione : così ve- niamo
ad ottenere un più grand’ effet- to in più breve tempo problema che ; nonè solo
l’oggetto de’meccanici ma della morale e della politica anzi , di tutta la
filosofia. lu secondo luogo , tra la molti- , , 34 tuaine
dell© idee accessorie vi saran- no, oltre le analoghe, quelle che sodo più
distanti, ciascheduna delle quali avrà le sue rispettive simili ed asso- ciate;
di queste ognuna apre la meu- te ad una serie d’impressioni, e sono direi quasi
capi-idee e capi-pensieri; queste saranno l’ espresse perchè non , si destano
reciprocamente ed è ne- , cessaria F espressione per eccitare ossia perchè la
mente possa percorre- re tutte queste differenti progressioni d’ idee . Sarà
dunque eccellente la combinazione di quelle accessorie col- la principale in
cui tutte le accesso- rie espresse siano capi-pensieri, e non molto analoghi od
associati tra di loro , e moltissimo colla principale per una delle tre
indicate sorgenti per cui le idee vicendevolmente si legano . Una riflessione
soggiungo intorno all* effetto delle idee espresse e ta- ciute ; cioè che tra
una espressione e F altra, per i limiti e la debolezza de’ sensi esterni, tanto
per mezzo del- F occhio quanto per mezzo del- F udito , corre un piccolo interval-
lo di tempo e, per così dire, di silenzio e di riposo se vi sono idee ;
35 queste come lampi di mente riempiono questo vo- to senza stanchezza;
ma se tutte sono espresse , moltiplioano i voti e non si riempiono il che porta
diminuzio- mentata fatica delle espressioni da leg- gersi o da ascoltarsi.
Quanto più gran* di e più forti saranno le idee acces- sorie espresse tanto più
numerose , destate e non espresse , ; ne di piacere e stanchezza per 1* au.
possono essere le idee taciute , ma necessariamente destate da quelle , perchè
l* efficacia delle prime tende e rinforza 1* attenzione che con più rapidi voli
slanciasi ad abbracciare le idee non espresse senza pregiudica- re all*
interesse del tutto , e perchè espressioni più grandi e più forti fer- mano T
immaginazione di chi legge od ascolta, essendo manifesta legge della mente
nostra di trovarsi obbli- gata ad impiegar un tempo maggiore nella
considerazione delle idee a mi- sura che sono più grandi e più forti: onde per
questo tempo necessario, per questa dimora per così dire della ,, mente su di
un oggetto quantunque , egli medesimo per la forza e gran- dezza sua esiga
tutto questo tempo maggiore di attenzione ciononostan- , Digitized by
Google 36 te la mente, dall’impeto concepito * percorrere una serie
d’ idee quasi trat- tenuta più facilmente potrà ricevere , altre idee
rapidamente risvegliate al- P occasione di espressioni forti ed energiche : chi
ben considera torna sulla esperienza dell* animo suo» potrà facilmente scorgere
che sempro che un grande ed interessante oggetto fermi il pensiero, e percuota
improv- visamente P immaginazione, questa do- po considerato quell’oggetto,
nell’at- to che si riscuote e si risveglia dal- Pintensione nella quale
trovavasi, per così dire , attuata e raccolta non si , abbandona subito
all’ordinaria impres- sione delle cose che le stanno d’ at- torno ma sibbene
destasi in lei una , moltitudine d’idee tutte relative non solo a quella
straordinaria impressio- ne che P ha percossa ma ancora a , , ed alle passioui
dalle quali se stessa è dominata. E’ da ciò che i boschi nei cupi e varj
ravvolgimenti dei quali erra il pensiero, che le solitudini an- tiche de’ monti
ove signoreggia illi- mitata la natura che la vista del , mare che si allarga
fra mille nazioni, oggetti immensi e tanto occupanti P attonita immaginazione,
sono ricer- , e ri- Digifeed by Google cati da coloro che piu amano
di pa- scolare i loro pensieri, ed esercitar P animo liberamente e senza
distra- - zioni dalla considerazione di se me- desimi; mentre coloro i quali
odiano • di rientrare in se stessi, e cercano fuggire in certo modo e sottrarsi
dal sincerissimo accusatore pensiero si , gettano nel minuto e sempre unifor-
me vortice della vita comune, gli og- getti della quale sono atti bensì a spioger
l’animo fuori di se stesso in un coutinuo movimento, ma non a fermarlo , e
renderlo attonito e pen- sieroso. Per lo contrario, più piccio- le e più deboli
saranno le accessorie espresse , la scelta si farà su di quel- le che ne
risvegliano un minor nu- mero, perchè la differenza tra le mie e le altre
essendo minore, e sovente piu importanti e più forti potendo essere le destate
che P espresse si , corre rischio che le idee dell’ autore siano perdute di
vista e confuso ed , interrotto riesca l’effetto del tutto sopra le
immaginazioni varie e non legate da sufficientemente forti ed esterno sensibili
manifestazioni . Le deboli accessorie espresse, secondo ab- biamo dimostrato
debbono essere , Digitized by Google 38 molte , acciocché il numero
compenti la debolezza ; ma molte idee espresse occupano un tempo eh* esclude
molte idee taciute o sottintese , altrimenti di troppo alloutaneressimo il
conce- pimento dell’ idea principale. Le ac- cessorie forti , per una contraria
ra- gione debbono essere poche in cia- , scun momento d’impressione; ma po- che
forti lascierebbero del voto ne- gl* intervalli necessarj dell* espressione che
da molte idee non espresse deb- b’essere supplito. Cesare Beccaria. Keywords. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Beccaria” – The Swimming-Pool Library.
Becchi (Genova). Grice: “Becchi is pretty
controversial; a good reason why he is not invited to the New World for
“Italian Studies”! – My favourite is his tract mocking Umberto Eco’s “Il
pnedolo di Foucault,” “L’incubo di Foucault”! – But Becchi is a jurisprudential
philosopher like Hart, and perhaps more than Hart did, knows what’s he’s doing!
-- Paolo Becchi -- Paolo Aureliano
Becchi (Genova), filosofo. Laureato in
filosofia, si è poi trasferito in Germania dove ha collaborato come assistente
alla cattedra di Filosofia e Sociologia del Diritto della Facoltà di
Giurisprudenza dell'Università del Saarland, e in seguito come borsista per il
Deutscher Akademischer Austauschdienst (DAAD). Attualmente è Professore di
Filosofia del Diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Genova. Inoltre
fino al è stato professore presso
l'Lucerna. Ha prodotto circa 200 pubblicazioni su temi concernenti la filosofia
del diritto, la storia della cultura giuridica e la bioetica. Nel si
avvicina al Movimento 5 Stelle, venendo definito dalla stampa l’“ideologo del
movimento” ma a gennaio del lo abbandona
criticandolo duramente e scrivendo ad aprile il libro Cinquestelle &
Associati. Di recente ha focalizzato il discorso politico sulla categoria del
sovranismo ed in particolare sul concetto di sovranismo debole, detto
althusiano; coniugando così, istanze federaliste e sovraniste in linea con la
Lega di Matteo Salvini. I suoi
interventi di natura politica sono raccolti nel suo blog. Fino alla metà del era noto al pubblico del piccolo schermo per
le interviste e i talk show in cui dibatteva.
È attualmente editorialista di Libero e de Il Sole 24 ORE, oltre ad
avere un blog sul sito de Il Fatto Quotidiano. Altre opere: “Morte cerebrale e
trapianto di organi. Una questione di etica giuridica” (Morcelliana); “Quando
finisce la vita. La morale e il diritto di fronte alla morte” (Aracne); “Giuristi
e prìncipi. Alle origini del diritto moderno” (Aracne); “Il principio dignità
umana” (Morcelliana), “Nuovi scritti corsari (Adagio Editore); “I figli delle
stelle. L'Italia in moVimento” (Adagio); “Colpo di Stato permanente”
(Marsilio); “Apocalypse Euro” (Arianna); “Oltre l'Euro” (Arianna); “Napolitano,
re nella Repubblica. Per una messa in stato d’accusa (Mimesis): “Cinquestelle
& Associati. Il MoVimento dopo Grillo (Kaos); “Referendum costituzionale.
Sì o no. Le ragioni per il no e il testo della «controriforma» (Arianna); “Come
finisce una democrazia. I sistemi elettorali dal dopoguerra ad oggi (Arianna);
“Italia sovrana (Sperling & Kupfer); “Democrazia in quarantena. Come un
virus ha travolto il Paese” (Historica) Note Biografia sul sito Genova Archiviato il 19
marzo in . M5S, Grillo scomunica (di nuovo) Becchi: “Non
ci rappresenta”. Lui: “Tolgo il disturbo”, ilfattoquotidiano, Perché dico addio al Movimento 5 Stelle. Parla
Paolo Becchi, formiche.net, 5 gennaio .
M5S, Becchi lascia il Movimento: “È diventato partito stampella di
Renzi. È finito il sogno”, ilfattoquotidiano, 5 gennaio . 9 gennaio . Per un’idea ‘federativa’ di Stato nazionale,
in "ParadoXa", anno XI, n. 2, aprile-giugno , 157-169.
Skytg24, Becchi: “Repubblica? Il giornale dell’orfano”. Bellasio lascia
lo studio. La redazione della tv si scusa con Calabresi, ilfattoquotidiano, 7
giugno . 9 gennaio . Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Paolo
Becchi Blog ufficiale, su
paolobecchi.wordpress.com. Opere di Paolo Becchi, . Registrazioni di Paolo Becchi, su
RadioRadicale, Radio Radicale. Filosofia
Politica Politica Filosofo del XXI
secoloAccademici italiani del XXI secoloBlogger italiani 1955 16 giugno
GenovaProfessori dell'LucernaProfessori dell'Università degli Studi di Genova.
Paolo Aureliano Becchi. Paolo Becchi. Keywords: filosofia politica, dignita,
soveranita, giurisprudenza, filosofia della giurisprudenza, repubblica. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Becchi” – The Swimming-Pool Library.
Bedeschi (Alphonsine).
Grice: “You gotta love Bedeschi – at Oxford Jurisprudence is not considered
Philosophy, but in Italy, ‘filosofia politica’ is at the centre of it all – and
Bedeschi knows it – this is because Italians take Hegel seriously with his
‘dialectic;’ and while I did speak profusely of the Athenian versus the Oxonian
dialectic or dialexis, I skipped the Hegelian dialectic! Bedeschi doesn’t – and
Hegel leads to the reset of it!” -- Giuseppe
Bedeschi (Alfonsine), filosofo. Docente di storia della filosofia
all'Università La Sapienza di Roma, ha insegnato all'Cagliari e all'Istituto
Universitario Orientale di Napoli. Studioso di Hegel e del marxismo, ha
approfondito in seguito la storia del pensiero liberale. Caporedattore
dell'Enciclopedia del Novecento, direttore dell'Enciclopedia delle scienze
sociali e dell'Enciclopedia dei Ragazzi, è membro del comitato scientifico
della rivista "Nuova storia contemporanea" e collabora al supplemento
domenicale de Il Sole 24 ORE. Altre
opere: “Alienazione e feticismo nel pensiero di Marx” (Bari, Laterza); “Introduzione
a Lukacs” (Bari, Laterza); “Politica e storia in Hegel” (Roma-Bari, Laterza); “Introduzione
a Marx” (Roma-Bari, Laterza); “La parabola del marxismo in Italia” (Roma-Bari,
Laterza); “Introduzione a La scuola di Francoforte
(Roma-Bari, Laterza); “Storia del
pensiero liberale” (Roma-Bari, Laterza); “Il pensiero politico di Hegel”
(Roma-Bari, Laterza); “Il pensiero politico di Tocqueville” (Roma-Bari,
Laterza); “La fabbrica delle ideologie: il pensiero politico nell'Italia del
Novecento” (Roma-Bari, Laterza); “Liberalismo vero e falso, Firenze, Le
lettere); “Il rifiuto della modernita: saggio su Jean-Jacques Rousseau”
(Firenze, Le lettere); “La prima Repubblica (1946-1993). Storia di una
democrazia difficile” (Soveria Mannelli, Rubbettino, Opere di Giuseppe Bedeschi, . Giuseppe
Bedeschi, su Goodreads. Registrazioni di
Giuseppe Bedeschi, su RadioRadicale, Radio Radicale. Profilo su RAI Educational, su emsf.rai. 16
marzo 21 dicembre ). Giuseppe Bedeschi
sul RAI Filosofia, su filosofia.rai. Filosofi
italiani del XX secoloAccademici italiani Professore1939d Alfonsine. Giuseppe
Bedeschi. Keywords: la parabola del Marxism in Italia, liberalismo,
conservatorismo, italia, fabbrica di ideologie”, sulla parte conservatrice, I
conservatori in italia, Scruton, ‘conservatismo’, nel dizionario di politica
del partito, la dialettica hegeliana, dialettica, dialexis. The two references
‘Sulla parte conservatrice’ and ‘I conservatori’ given in that entry, studio
della ideologia nell’italia del Novecento, Giuliani, prima guerra, veintenna. Refs.:
Luigi Speranza, “Bedeschi e Grice” – The Swimming-Pool Library.
Belleo. search –
Bedoni. search – Belloni, Camillo --
Belluto (Catania).
Filosofo. Grice: “You gotta love Belluto; he shows that the philosopher is the
master of grammar – his explanation of modi of the different ‘perfect’ orations—is
genial and exactly what I tried to convey in my lectures on ‘mode’: vocativo,
imperativo, optativo, indicativo – That this belongs in dialettica is obvious –
since all modi share the same logic, and that’s Belluto’s point!” -- Bonaventura Belluto, o Belluti (n. Catania), filosofo. Nato da distinta e facoltosa famiglia, studiò
diritto civile all'Catania. Entrato nell'Ordine dei Frati Minori Conventuali
nel 1621, emise la professione religiosa l'anno successivo. A Roma studiò
teologia presso il Collegio sistino di San Bonaventura dove conobbe il
confratello Bartolomeo Mastri di Meldola del quale divenne compagno
indivisibile di studio e di lavoro come reggente degli studi prima al convento
di Cesena, quindi a Perugia e poi a Padova. Durante questo periodo, entrambi
operarono per il rinnovamento della tradizione e per una nuova interpretazione
della dottrina scotista tale da soddisfare la nuova cultura religiosa
dell'epoca. Pubblica a Roma con la
collaborazione di Bartolomeo Mastri il primo volume di filosofia scolastica,
dal titolo “Disputationes in Aristotelis libros physicorum, quibus ab
adversantibus... Scoti philosophia vindicator” che ha il fine di essere diffuso
nelle scuole francescane per far conoscere la filosofia di Scoto difendendola
dalle critiche d’Aquino i e dai travisamenti operati da altri interpreti tra i
quali i gesuiti. Successivamente
pubblica un piccolo trattato di logica, “Institutiones logicae, quae vulgo
Summulas, vel logicam parvam nuncuparunt” (Venezia) . Ad opera dei due filosofi
fu pubblicato un “Cursus integer philosophiae ad mentem Scoti” che riune le “Disputationes”, le “Disputationes in libros de coelo et de
metheoris”, le “Disputationes in libros de generatione et corruptione” e le “Disputationes
in libros de anima”. Il “Cursus” e un'opera, con fini esclusivamente didattici
e divulgativi del pensiero scotista, dove manca ogni riferimento alla cultura
filosofica e scientifica contemporanea. Alla fine della comune reggenza a
Padova i due filosofi si separarono. Belluto torna a Catania dove fu ministro
provinciale di Sicilia e di Malta, distinguendosi per intelligenza e saggezza
di governo. In questo periodo esercita anche la carica di consultore e censore
per l'Inquisizione. Nell'ambito del piano di rinnovamento del pensiero di Scoto
oltre all'insegnamento della sua filosofia i due filosofi progettarono un corso
di teologia che Mastri sviluppa con il trattato D”e Deo in se” mentre Belluto
continua l'elaborazione dell'opera “De Deo homine” della quale fu pubblicata solo
la parte riguardante le “Disputationes de Incarnatione dominica ad mentem
Doctoris subtilis”. Tema specifico e quello della predestinazione di Maria:
argomento questo che non apparteneva alla dottrina di Scoto ma che cerca di
risolvere applicando i principi del maestro nel senso che applicò alla
predestinazione della Vergine Maria la dottrina scotista della predestinazione
assoluta di Cristo. Note F. Costa, IlBonaventura Belluto, (1603-1676).
Il religioso, lo scotista, lo scrittore, Roma 1976 La Sicilia e l'Immacolata: non solo 150 anni
: atti del convegno di studio, Palermo, Diego Ciccarelli, Marisa Dora Valenza,
Officina di Studi Medievali, 2006 p.172
Francesco Costa, Il primato assoluto di Cristo secondo Bonaventura
Belluto, OFMConv. (+1676), in "Miscellanea francescana", Cesare
Vasoli, Belluti, Bonaventura, in: Dizionario Biografico degli Italiani, Roberto
Osculati, Gli Opuscoli morali di Bonaventura Belluti . Duns Scoto Bartolomeo
Mastri V D M Francescanesimo. INSTITVTIONVM LOGICALIVM. Nomina transcendentia
infinitari possint verbum adiectiuum & substantiuum de Secundo adiacente
sint verba apud Log, de attinentibùs ad formam syllogiſmi, De oratione, quid
sit, quotuplex, oratio necesario debeat constare verbo, quid sit propositio, seu
Enunciatio, quotu De terminis, ac eorum affectionibus, Quanam sit recta Enunciationis
definitio.quotuplex sit terminus. Quomodo Enunciatio vocalis dicatur vera, vel
communi. falſa . Quæ dctiones fubeant rationem, divisio in catheg. bypotb. sit
generi sin termini. Species. An dentur termini in cap. 4. Quid sit propositio
cathegorica b quotuplex. propositione mentali, Determinorum multiplicitate
ratione fignifi Dub. 1 , Qualis sit diuisio propusitionis in veram, falsam ,
affirmativam, negativam, quid sit signum [segno], a quotuplex uniuersalem o particularem qui sint termini mixti
inter cathegoremati qualis sit diuisio propositionis in modalem cum syncathegorematicum
de inesse qui sit terminus complexus o incomplexys Capo, 5. Quid sit propositio
modalis , & quotuplex , Cap: 3. Determinorum multiplicitate in ratione modi
qualis sit divisio propositionis modalis significandi in compositam o diuitam. Quid fit terminus
connotatiuus. n.g Quid sit propositio bypothetica , oquotuplex, D emultiplicitate
terminorum in ordine ad res P.20 fignificatas . Dubi. An bypotbetica propositio
benèdefiniatur.n. De Uniuerfalibus, fue Prædicabilibus. Divisio bypothetice in
conditionalem. De Prædicamentis, primode absolutis. copulativam & disiunctiuam sit generis in species De
prædicamentis respectivis, De legibus eorum, quæ funt in Predicamento, De
oppositione cathegoricarum simplicium. De Terminorum collatione inter se, An
inter contradictoria detur medium , Varia terminorum supposition quod sint species oppositionis, An suppositio
competat adiectivis de æquipollentia, o conversione categorical. Quo pacto
differente suppositio determinata , rum simplicium & confusa, Quomodo equipolleant
ſubcontraria, De reliquis terminorum proprietatibus, propositio affirmativa
depredicato infins, Determinis componibilibus aquipolleat negative de predicato
finite explicantur quidam termini in fchalis fre è contra quentiffimi, De
oppositione, æquipollentia , &conuersione catbegoricarum , modalium, ac
etiam hypotheticarum propositionibus exponibilibus, insolubili de Propositione &
eius affectionibus, bus, propositiones exponibiless int catheg vel by Comez de nomine
o verba, pot. & quomodo contradicant solum nomen finitum rectum sit propositiones
insolubiles sint catheg, vel by nomen apud Logicum , pot.cies de Argumentatione,
& eius affectionibus de attinentibus ad materiain syllogiſmi. oquotuplex
fit Argumentatio formalis. De syllogismo Demonstrativo. De speciebus
argumentat. Quoi fint argumentationiss pecies, og mun ald. precognitionibus eo
perecognitis quod sint precognitiones, omnis consequentia sit argumentatio de
regulis communibus bona argumentatione. Quid depaſſionepre cognoscatur . nis. De
fcientia demonftrationis effectu liceat argumentariex fuppofitioneimpos Dub.V n
.An dentur scientia de novo. sibili, de neceffitate principiorum, ubi de modis
de inductione, ubi de ascensu, descensu, per feitatis Que predicentur in primo
modo dicendi per Dei. inductio fit bona, formalis consequentia , vel
argumentatio, modus intrinsecuspredicetur in primo modo De syllogifmo, &
eius principis constitutiuis, dicendi per se . n.is obi de figuris eiusdem quo patto
quartus modus dicendiper se disse unde dicantur maior, o minor in syllogism rat
a secundo. Propositio per se convertatur in propositio, conclusio sit de
essentia syllogismi nem per fe . detur quarta figura De demonstratione propter
quid De principis regulatiuis syllogismi Ancaufa virtualis pofit in seruire
demonstra dub us. quodnam sit principium precipuum regulationi siuum syllogismi
quomodo illud axioma propter quod, unum regule generales, especiales
cuiuscunque si quodque tale & illud magis. gure alignantur. De
demonstratione quia Alignantur modi cuiuscumque figura cum. De medio
demonstrationis .corum exemplis. De numero quaffionum modi syllogismorum sint sufficientere
numerati. figura dentur modi indirecte concludentes sicut in prima de
syllogiſmo topico, de inductione modorum imperfectorum ad perfectos. De varis
speciebus syllogiſmi cathegorici. De materia tum remota tum proxima syllogiſmi
topici. detur syllogismus constans ex propositinibus non significantibus de numero
predicatorum de locis topicis de Syllogismo hypothetico & alijs syllogismi,
de locis intrinsecis speciebus de locis extrinsecis un de finepetende divisions
syllogifmi, De locis medijs.fint eſentiales. Digifmus, ut fic, fit genus
demonftratiui, opici, co Sopbiſici.De arte inueniendí medium, ac bene disputan
de syllogismo sophistico de modis seu instrumentis sciendi fallacis in genere An
detur diftin & tiomedia interdiftin & tionem reslem,orationis, de
Fallaciis extra dictionem. Impiegatura del segnare. Ex
variis capitibus solent termini multiplicari et variæ eorum divisiones
assignari, ex parte nimirum significationis, ex parte modi significandi, et ex
parte rei significatæ. Ex primo capite, quantum ad præsens spectat, solet in
primis dividi vocalis terminus in significativum et non significativum. Ille
est, qui aliquid significat, ut hæc vox homo, qui naturam significat humanam,
ille est, qui nihil qui nihil fignificat, ut "blittri",
"buf", "baf". Sed ut ista divisio sit recte tradita
intelligi debet de termino in prima acceptione assignata cap. præced. nam in
secunda acceptione omnes termini sunt significativi, cum esse possint subiectum
et prædicatum in propositione. Terminus igitur vocalis in tota sua latitudine
sumptus dividitur in significativum et non significativum. Quæ divisio ut bene
percipiatur, cum terminus vocalis constituatur in ratione significantis per
significationem, videnduın est quid sit significare & quid signum [segnante,
segnare, segnato] a quo verbum "significare" derivatum est. [A cloud
may sign but a cloud does not 'make' [fare] a sign -- you cannot order a cloud,
'make a sign!' 'Signify', "Fa un segno!"]. Signum (ex August. De
Doct. Christ. cap. i) est illud [x], quod præter sui cognitionem, quam ingerit
sensibus, facit nos venire in cognitionem alterius [y], v. g. hæc vox
"homo" præter speciem, quam imprimit in auditu, ut sonus est, facit
nos venire in cognitionem alterius scilicet naturæ humanæ, unde signum
[segnante] debet esse tale, utillo cognito per sensus, mediante illo deinde
veniamus in cognitionem rei, cum qua signut habet *connexionem* [any link will
do]. Hinc significare nil aliud erit, quam aliquid aliud a se distinctum
*re-præsentare* potentiæ cognoscenti. Ex quo patet signum dicere ordinem et ad
potentiam cognoscentem, cui *re-præsentat* et ad rem significatam [signata,
segnata], quam re-præsentat. Dividitur porro signum in formale et est illud,
quod absque sui prævia cognitione aliud nobis [dual scenario] re-præsentat
& in eius cognitionem ducit, quales sunt species impressa et expressa
respectu proprii objecti et in instrumentale, quod præ-supposita sui cognitione
facit nos in alterius cognitionem venire, ut imago respectu Cælaris, vestigium
respectu feræ transeuntis. Qua de causa Scotus 2. d. 3.quæst. 9. et quol.14,
hoc secundum signum appellat medium cognitum, quia ut ducat in cognitionem
*signati* [segnato], prius petit ipsum cognosci, illud vero primum vocat
præcise rationem cognoscendi, quatenus præcise est quo aliud cognoscitur et non
quod cognoscitur. Signum autem instrumentale est, de quo agimus in præsenti et
quod proprie dicitur signum et definitur ab August. citat, ea tamen definitio
etiam formali conveniet, si prima pars dematur & dicatur signum esse, quod
facit nos in alterius rei cognitionem venire. Hæc tamen signi descriptio,
quamvis sit ab August, tradita & ob tanti doctoris authoritatem ab omnibus
passim recepta, non recipitur a Poncio disput. 19. Log. quæst. i, eamque impugnat
quo ad veramque partem. Quo ad primam quidem cum ait signum [segnante] esse id,
quod præter sui cognitionem, quam ingerit sensibus, etc. redarguit, quia non
complectitur omne signum, quia possent dari *signa spiritualia*, quae
deducerent in cognitionem aliarum rerum, nec possent percipi a *sensibus
materialibus*. Quo ad aliam vero partem, in qua ait. Quod signum facit nos
venire in cognitionem alterius eam impugnat, tamquam ab Arriag. traditam, quia
obiectum facit nos in cognitionem sui venire et tanem *non* dicitur signum.
Rursus Deus ipse facit nos venire in cognitionem multarum rerum eas nobis
revelando, nec tamen ab illo vocatur signum illarum rerum. Præterea cognitio
est signum rei quae cognoscitur per ipsam & tamen non facit nos in
cognitionem venire. Sed nimis audacter insiciatur Poncius doctrinam D.
Augustini, quam omnes venerantur, ut communis Magistri, unde mirum esse non
debet, quod saepius hic auctor minimo rubore suffusus doctrinam Scoti
praeceptoris audeat impugnare. Optima enim est illa descriptio quo ad omnes
partes, si bene intelligatur, nam duae solent assignari conditiones alicuius,
ut alterius rei signum dicatur, una est, quod nos ducat in illius rei
cognitionem, altera est, quod ducat in eius cognitionem, quatenus cognita,
quarum conditionum utramque *optime* [cf. optimality] exprimit definitio signi
ab Augustino tradita. Nam per primam partem definitionis secundum exprimit
conditionem. Vulc enim rem, quæ inservire debet pro alterius signo, prius
nostris sensibus cognitionem sui ingerere debere, specificat autem signum esse
debere *sensibile*, quia ut notat doctor 4. d. 1. quæst. 2. & 3. *signa
sensibilia* sunt *maxime apta pro statu ipso excitare intellectum coniunctum a
sensuum ministerio dependentem, ut in alterius rei cognitionem veniat. Per
alteram vero partem definitionis altera quoque conditio exprimirur, contra quam
nil urgent instantiæ a Poncio adducta, quia obiectum facit venire in
cognitionem sui, non alterius, nec facit venire in cognitionem sui, quatenus
cognitum, ut facit signum, sed quarenus cognoscibile. Nec etiam *Deus* hoc modo
ad instar signi ducit nos in rerum cognitionem, quatenus cognitus, sed eas
revelando, quod adhuc facere posset, etiamsi prius a nobis non cognosceretur.
Cognitio denique esse signum rei cognitae per ipsam formale, ut dicebamus, non
autem instrumentale, quod solum *proprie* dicitur signum et ab Aug. definitur
& ideo cognitio proprie loquendo non dicitur facere nos venire in
cognitionem rei, quam re-præsentat, quia non ducit nos in cognitionem illius rei,
quatenus cognita, sed ut medium cognitum, sed ut racio cognoscendi. Solum autem
signum instrumentale est illud, quod hic definitur. Et hoc signum instrumentale
adhuc *duplex* [like vyse and vice?] est, aliud *naturale*, et est quod *ex
natura* sua independenter ab hominum voluntate [those spots mean measles]
aliquid [measles] re-praesentat, ut fumus ignem [where there is smoke, there's
fire], et universaliter omnis *effectus* [causa/effectus] suam causum, qui
præsertim si *sensibilis* [fumus] erit, dicetur signum causae juxta sensum
definitionis allatæ. An vero ita e contra *causa* dici posse signum sui
*effectus*, negat Hurtad. disput. 1. sect. 4. quia etsi causa cognitio ducat in
cognitionem *effectus*, tamen, non es ordinata ad illum re-præsentandum. Sed plane
non minus ordinata est cognitio *causæ* ad nos ducendum in cognitionem
*effectus* a priori, quam cognitio *effectus* sic *ordinata* ad notitiam
*cautiam* a posteriori, quare ratio Hurtad. parum valet. At inquirare alii,
quod licet ita res se habeat, sola tamen cognitio, quae per *effectum* habetur,
dicitur haberi per signum, unde sola demonstratio a posteriori, quae est *per
effectum*, dicitur *a signo* et ideo solum *effectus* dici potest signum
*causæ*, non e contra. Verum neque hoc viget, licet enim cognitio habita *per
effectum* veluti sensibiliorem *causa*, magis proprie dicatur *a signo*, nil
tamen impedit, quin et cognitio habita *per causam* possit dici *a signo*
absolute loquendo. Potest igitur etiam *causa* dici signum sui *effectus*, et
praesertim quando *sensibilis* est, unde a theologis sacramenta dicuntur
*signa* *gratia*, cuius sunt *causa*, ita clare colligitur ex Doctore 4. d. 1.
quaest. 2. De secundo principali et sequitur Casil. cit. & Arriaga
disputat. 3. sect. 2. Aliud vero est *signum artificiale* [not conventional!
ars/natura], seu *ad placitum* et est: quod ex hominum impositione aliud
re-præsentat, sic ramus est signum venditionis vini, sonus campanae est signum
lectionis [the bell means the bus is full], et vox illius rei, ad quam
*signi-ficandum* est imposita. Ubi tamen est advertendum etiam in vocibus ipsis
non tamtum significationem ad placitum reperiri posse, sed etiam naturalem, ut
patet de gemitu infirmorum et latratu canum et ideo terminus vocalis
*signi-ficativus subdividi solet in *significatiuum naturaliter et ad placitum
et hic ad dialecticum spectat non quidem secundum suam realem entitatem, ut vox
est, et sonus quidam in aere *causatus*, sed secundum quod impositus est ad res
ipsas *signi-ficandas* et conceptus mentis exprimendos, in hoc enim sensu voces
pertinere dicuntur ad institutum dialecticum, ut dicemus disp. de vocibus, ubi
etiam declarabimus, per quid constituatur ratio signi. Special section on ‘sign’ – two sections. General
definition of sign, following Augustine, but with objections by Ponzio. Second
section, the criterion between artificial (‘a piacere’) and mere natural signs.
Segno – segnare – segnante, segnatum. Bonaventura Belluti. Bonaventura Belluto.
Keywords, “Institutiones logicae, quae vulgo Summulas, vel logicam parvam
nuncuparunt”, section on ‘segno’ – signum. The teacher ringing the bell means
that Strawson should go to the tutorial. The branch of grapes means that Grice
is selling wine from his orchard. Rather than ‘artificiale’ ‘a piacere’ is better,
‘ad placitum’. Scottism against Thomism in Italy – x means y in terms of cause
and effect. The problem of God, should sign be always ‘material’?—Etimologia di
‘segno’ – relazione con greco ‘semeion’ neutro. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Belluto” – The Swimming-Pool Library.
Bencivenga (Reggio
Calabria). Filosofo. Grice: You’ve got to love Bencivenga; my favourite is his
little tract on ‘pleasure,’ but he has philosophised on one of Austin’s
favourite concepts – that of ‘game’ – gioco – which he applies to communication
and philosophy – he thinks that Austin took philosophese too seriously –
‘implicatura,’ ‘perlocution,’ – when it was all meant in fun – as a joke –“. Dopo
la laurea in filosofia alla Statale di Milano, Bencivenga ha lasciato presto
l'Italia, trasferendosi prima in Canada per gli studi di dottorato e poi negli
Stati Uniti, dove ha intrapreso la sua carriera accademica insegnando, dal
1979, all'Università della California a Irvine.
I suoi interessi di studio, nel corso del tempo, hanno riguardato la
logica formale (negli anni settanta), la storia della filosofia (negli anni
ottanta), l'etica, la filosofia politica. Ha pubblicato numerosi testi sulla
storia della filosofia e su specifici argomenti filosofici, come logica,
estetica, filosofia del linguaggio, in forma dialogica, saggistica, trattatistica
– “Teoria del linguaggio e della mente” (Bollati Boringheri --, con scrittura
aforistica – “Anime danzanti” (Aragno) -- o affrontando singole figure storiche
(come Hegel e Kant). Ha scritto inoltre diversi testi introduttivi alla
filosofia e a sue tematiche, desti un pubblico più vasto, e alcuni libri di
poesie. “La filosofia in trentadue favole” (Arnoldo Montadori) è un saggio ripubblicato negli Oscar
Mondadori. Pur potendo essere raccontato a un uditorio di bambini, il saggio si
pone l'obiettivo di rivolgersi al bambino presente in ogni essere umano, che lo
rende capace di stupirsi e incantarsi di fronte alle domande della filosofia.
Il saggio è stato riedito in edizioni aumentate (a quarantadue, cinquantadue,
sessantadue e ottantadue favole). “Giocare per forza: critica della società del
divertimento” (Arnoldo Mondatori) è dedicato all'importanza del gioco e
all'esame critico del sovvertimento di senso di cui esso è stato fatto oggetto
nella società contemporanea: trasformato in industria, il divertimento ha
perduto la sua naturale collocazione, quale manifestazione della sfera
fantastica, ricerca libera e volontaria. Trasposto in una dimensione
'industrializzata' e organizzata, il gioco si qualifica come attività passiva e
ripetitiva, espressa all'insegna di rapporti psicologici coattivi che snaturano
completamente il senso dell’Homo Ludens di Johan Huizinga: il gioco del lotto e
l'intrattenersi con videogame o slot machine diventano forme di subire passivo,
una dimensione alla quale è precluso il manifestarsi dell'agire ludico
dell'uomo attraverso l'attività fantastica della psiche umana. In un mondo in cui domina la dimensione
organizzata del divertimento, si apre all'uomo una prospettiva impoverita
dell'esistenza, in cui si realizza la perdita del senso profondo del gioco, una
prospettiva che l'autore considera esiziale perché, nelle sue stesse parole,
«se perdiamo il gioco perdiamo la stessa umanità». Pubblica il saggio “L'etica di Kant: la
razionalità del bene” (Bruno Mondatori), una riflessione sul concetto di Etica
in Kant e sul fondamento logico-razionale del Bene. L'Etica consiste nel negare la preminenza al
nostro punto di vista, aprendosi all'esperienza altrui, all'ascolto di tutte le
altre voci e presenze che hanno diritto a occupare un posto nella riflessione
comune. Di converso, la negazione dell'etica consiste esattamente nella
negazione di questo diritto, nell'impedire agli altri la partecipazione alla
riflessione collettiva, la possibilità di offrire all'esperienza comune il
contributo particolare della propria ragione. Questa partecipazione coinvolge
ciò che si chiama l'"uso pubblico della ragione", un'espansione della
dimensione privata della ragione, quest'ultima intesa come la sfera d'uso che
ci è concessa, ad esempio, nell'esercizio dei compiti derivanti da necessità e
ruoli della nostra vita e della nostra professione. L'Etica è come un "fuoco
immaginario", impossibile da attingere. Ma ciò che conta veramente è il
percorso attraverso cui ci si muove in direzione di questo "fuoco",
un cammino in grado di aprire l'uomo a nuove acquisizioni, schiudendone gli
orizzonti al di fuori di pregiudizi e preconcetti. Si pone poi il problema di come considerare
l'etica in un contesto dominato dalla corruzione: l'etica non lascia spazio
alla rinuncia e al cinismo, anche se spesso quest'ultimo può presentasi in
forma artefatta, dissimulato da "realismo", e per questo non immediatamente
riconoscibile. Riprendendo la celebre riflessione sulla «banalità del male» di Arendt
(per Bencivenga, la massima interprete kantiana del XX secolo), il bene ha una
logica e una ragione, un fondamento da cui non è invece sorretto il male.
Quest'ultimo, infatti, trae origine proprio dalla rinuncia alle ragioni
dell'etica, si insinua proprio nelle lacerazioni dell'etica lasciate aperte da
questa rinuncia. Diversi suoi contributi sono apparsi negli anni su vari
giornali italiani, come La Stampa, il Sole 24 Ore, l'Unità, ecc. Altre
opere: “Le logiche libere” (Bollati Boringhieri); “Una logica nei termini
singolari” (Bollati Boringhieri); “Il primo libro di logica” (Bollati
Boringhieri); “Tre dialoghi: un invito alla pratica filosofica” (Bollati
Boringhieri); “Giochiamo con la filosofia” (Arnoldo Mondadori); “La filosofia
in trentadue favole” (Arnoldo Mondadori); “La filosofia in quarantadue favole”;
“La filosofia in cinquantadue favole”; “La filosofia in sessantadue favole”; “La
filosofia in ottantadue favole”; “La libertà: un dialogo. Il Saggiatore); “Oltre
la tolleranza. Feltrinelli); “Il metodo della follia. Il Saggiatore); “Filosofia:
istruzioni per l'uso. Arnoldo Mondadori); “Platone amico mio. Arnoldo
Mondadori); “Manifesto per un mondo senza lavoro, Feltrinelli); “Per gioco e
per passione, Di Renzo); “La rivoluzione copernicana di Kant. Bollati
Boringhieri); “Filosofia: nuove istruzioni per l'uso. Arnoldo Mondadori); “I
passi falsi della scienza. Garzanti 2001, Premio Nazionale Rhegium Julii); “Una
rivoluzione senza futuro. Garzanti); “Parole che contano. Da amicizia a
volontà, piccolo dizionario filosofico-politico. Arnoldo Mondadori); “Le due
Americhe. Perché amiamo e perché detestiamo gli Usa” (Arnoldo Mondadori); “Dio
in gioco: logica e sovversione in Anselmo d'Aosta” (Bollati Boringhieri); “Il
pensiero come stile” (Bruno Mondadori); “La dimostrazione di Dio. Come la
filosofia ha cercato di capire la fede” (Arnoldo Mondadori Editore); “La filosofia come strumento di liberazione” (Raffaello
Cortina); “Parole in gioco. Arnoldo Mondadori); “La logica dialettica di Hegel.
Bruno Mondadori); “Il piacere. Indagine filosofica. Laterza); Filosofia in
gioco. Laterza); “Filosofia chimica” (Editori Riuniti); “Il bene e il bello.
Etica dell'immagine” (Il Saggiatore
Prendiamola con filosofia. Nel tempo del terrore: un'indagine su quanto
le parole mettono in gioco); “Giunti La
scomparsa del pensiero. Perché non possiamo rinunciare a ragionare con la
nostra testa. Feltrinelli); “Filosofo anche tu. Siamo filosofi senza saperlo.
Giunti); “La stupidità del male. Storie di uomini molto cattivi” (Feltrinelli);
“L'arte della guerra per cavarsela nella vita” (Rizzoli Bur); “100 idee di cui
non sapevi di aver bisogno” (Rizzoli Bur); “Critica della ragione digitale.
Feltrinelli); “Nel nome del padre e del figlio. Hoepli; “I delitti della
logica” (Arnoldo Mondadori); “Abramo, tragedia in tre atti. Aragno Case. Cairo
Il giorno in cui non tornarono i conti. MdS, “Annibale, tragedia in tre
atti” (Aragno); Amori. MdS; “Alessandro, tragedia in tre atti” (Aragno); Ada.
Lettera a mia madre. Arsenio . Poesia Panni sporchi. Garzanti); Un amore da
quattro soldi. Aragno); Polvere e pioggia. Aragno Poesia dei miei coglioni. Galassia Arte); “Le
parole della notte. Di Felice Amore per
Milla. Di Felice. Interventi di Ermanno Bencivenga Archiviato il 13 giugno in . da SWIFTSito web italiano per la
filosofia premio Rhegium Julii, su
circolorhegiumjulii.wordpress.com. Blog ufficiale, su sites.uci.edu. Opere di Ermanno Bencivenga, su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di Ermanno Bencivenga, . Profilo dal sito dell'UCI Department of
Philosophy Testi di e su Ermanno Bencivenga dal sito dell'UCI Department of
Philosophy Biografia dal sito del Festivaletteratura di Mantova. Da
un quarto di secolo ormai parlo di gioco, e intorno a questo tema ho raccolto
tutte le attività che hanno per me il più profondo significato. Ho detto che il
linguaggio e la mente sono spazi ludici, che lo sono la soggettività e la
politica, che letteratura e filosofia sono giochi intellettuali. Ho scritto un
libro polemico nel quale criticavo varie attività che nel mondo contemporaneo
sono presentate e propagandate come forme di gioco e invece ne rappresentano
l’opposto: una violazione e repressione del gioco. Ma non ho mai spiegato con
cura che cosa intendo per gioco, non ho mai articolato i molteplici risvolti di
questo intricato concetto. Lo faccio qui, e forse è bene che lo faccia alla mia
età e dopo tante vicissitudini e traversie: forse un libro così, su un
argomento per me di tale importanza, poteva solo presentarsi come sommario di
un’esperienza di vita, come enunciazione della sua morale. Questo dunque
è il libro di tutti i miei libri e ogni mia forma espressiva è stata un suo
episodio. Che io mi sia dedicato alla logica o alla poesia, abbia esplorato
problemi metafisici o dialogato con i grandi della storia del pensiero, abbia
insegnato, parlato in pubblico o scritto articoli di giornale, non ho fatto che
pratica della sua composizione, non ho trovato che esempi delle sue tesi. Di
conseguenza, nel prepararlo, ho dovuto affrontare una difficoltà: quella di
mantenere una precisa misura. Il libro non poteva diventare un’enciclopedia:
doveva essere chiaro ed efficace, breve anzi, e gli stimoli che avrebbe offerto
alla lettura non dovevano causare distrazioni per un percorso che volevo
coerente e risolto in sé stesso. Se ho realizzato i miei scopi non sta a me
dire; aggiungerò solo una nota di commiato. In quella costellazione variegata
che è il mio lavoro di quarant’anni c’è un sole (un faro, l’aveva chiamato
l’amico Luciano Genta in un’intervista di molto tempo fa): Immanuel Kant. E c’è
un centro di forza, a lungo nascosto per quanto instancabilmente operoso e ora
infine venuto alla luce. Ringrazio Alessandro Giuliani, Ignazio Licata, Cinzio
Lombardi, Pasqualino Masciarelli, Daniela Mazzoli, Fabio Paglieri e Paolo
Zorzato per i loro commenti a una versione precedente del libro. Un
ringraziamento e un ricordo particolari vanno a Nuccia, antica compagna di
giochi, che, fin quando ha potuto, ha seguito queste pagine con l’intelligenza,
il rigore e la sensibilità di sempre. Roma, novembre 2012 Avvertenza Di regola,
le citazioni sono accompagnate dall’autore, dal titolo della fonte e dai numeri
delle pagine (le altre informazioni bibliografiche sono contenute nella
Bibliografia in fondo al volume), con le eccezioni seguenti: Quando mancano
autore o titolo è perché (a) sono menzionati nel testo che accompagna
immediatamente la citazione, (b) nel libro viene citata una sola opera di
quell’autore e l’opera è già stata menzionata, oppure (c) la citazione è tratta
dalla stessa fonte della citazione precedente. Quando mancano le pagine è
perché sono le stesse della citazione precedente. Infine, quando una citazione
è inserita nel testo (anziché presentata a parte, in corpo minore), la sua
iniziale maiuscola o minuscola è stata adattata alle esigenze del
contesto. 1. Il gioco Una bambina di due anni entra in una stanza per lei
nuova, cosparsa di oggetti ignoti. Si muove incerta dall’uno all’altro; li
prende in mano, osservandoli curiosa e perplessa da ogni punto di vista; li
assaggia e li mordicchia con i suoi piccoli denti; li scaglia per terra e per
aria; li fa rotolare sul pavimento, seguendone il percorso e le reazioni; ci
infila dentro le mani cercando di smontarli, di farli a pezzi; li picchia con
forza per trarne un suono e sorride quando rispondono. Poi si accovaccia
in un angolo, raccoglie intorno a sé tutti questi suoi tesori e li combina in
forme sempre nuove: un cerchio di libri e scarpe con un telefono in mezzo, una
pila di pentole e stoviglie, un orsacchiotto che guarda in cagnesco un
altoparlante. Il portiere ha appena raccolto una palla morta. Potrebbe
rilanciare lungo, oltre il centrocampo; ma preferisce l’appoggio al difensore
di fascia, appena fuori dall’area. Il terzino scatta veloce: gli avversari sono
sbilanciati dall’altro lato del campo, lui ha un’autostrada davanti e il
centinaio di metri che lo separa dalla linea di fondo è la distanza giusta per
le sue doti di velocista potente e armonioso. In affanno, sopraggiunge infine
un marcatore, ma prima che si stringa troppo il terzino si ferma di botto in un
fazzoletto di terra. Ha spazio, ancora per una frazione di secondo; lancia un
cross morbido per la testa del suo centravanti, chiaro punto di riferimento a
dieci metri dal portiere. L’attaccante ne ha due addosso, che lo spingono e lo
strattonano rischiando il rigore e gli bloccano la visuale della porta, così
invece di schiacciare direttamente a rete fa da torre e deposita la sfera sui
piedi dell’ala che si è appostata sul secondo palo. Non c’è che da spingere, il
pallone varca la linea bianca, lo stadio impazzisce. Tutto questo miracolo di
perfetti gesti atletici, di geometrie essenziali non è durato neanche un
minuto. Sono due esempi di un’attività che chiamiamo «gioco»; ma non è affatto
evidente che sia lecito usare per entrambi la stessa denominazione. Sembra anzi
un arbitrio, un capriccio; sembra non possano esserci modi più disparati di
occupare il tempo. La bambina agisce in assoluta libertà, guidata solo
dall’inclinazione del momento; non accetta alcuna barriera tra ciò che è
in gioco e ciò che non lo è, tra mosse consentite ed escluse; non
contempla un limite temporale per quel che sta facendo, e infatti si dovrà
sempre e comunque interromperla, e quando lo si farà lei manifesterà con vigore
il suo disappunto; non ha uno scopo, non vuole ottenere nulla – null’altro,
cioè, che continuare a giocare. I calciatori, invece, vivono un episodio che
dura esattamente novanta minuti (più recupero); sono soggetti a regole che è
compito dell’arbitro e dei suoi collaboratori far rispettare alla lettera (e
che domani provocheranno discussioni a non finire sui giornali e nei bar);
hanno l’obiettivo di vincere la partita, segnando un gol più degli avversari, e
per questa via conseguire fama imperitura e ingaggi stratosferici. Che cosa ci
può offrire l’uso di una stessa parola con significati tanto diversi se non una
penosa confusione? E non è finita, non per me almeno. Consideriamo infatti un
passo come il seguente, dalla Critica del giudizio: È un principio
trascendentale quello col quale è rappresentata la condizione universale a
priori, sotto la quale soltanto le cose possono diventare oggetti della nostra
conoscenza in generale. Invece, un principio si chiama metafisico quando esso
rappresenta la condizione a priori, sotto la quale soltanto oggetti, il cui
concetto deve esser dato empiricamente, possono essere ulteriormente determinati
a priori. Così il principio della conoscenza dei corpi, come sostanze e come
sostanze mutevoli, è trascendentale, quando s’intenda che il loro mutare debba
avere una causa: è metafisico, invece, quando s’intenda che quel mutamento
debba avere una causa esterna; perché nel primo caso basta che il corpo sia
pensato solo mediante predicati ontologici (concetti puri dell’intelletto) –
per esempio, come sostanza – per conoscere a priori la proposizione; laddove
nel secondo deve essere messo a fondamento di questa proposizione il concetto
empirico di un corpo (come una cosa mobile nello spazio), ed allora si può
vedere interamente a priori che l’ultimo predicato (del movimento prodotto solo
da una causa esterna) conviene al corpo (p. 21). Queste frasi compaiono in un
libro che rappresenta uno dei massimi vertici della filosofia occidentale, e io
ho sostenuto a più riprese che la filosofia è un gioco. Non solo la filosofia,
perché l’ho detto pure dell’arte e della letteratura, ma anche la filosofia. E
che cosa giustifica l’accostamento di espressioni così nobili dell’ingegno
umano a una partita di calcio o alle peripezie di una bimba da poco in grado di
reggersi in piedi? In filosofia si fa terribilmente sul serio, ci si concentra
sui temi che più contano, che dànno senso alla vita e all’esperienza del mondo,
e si fa di tutto per sviscerarne la struttura, per arrivare in proposito
all’unica, esatta verità; non ci si sta divertendo (sviando, cioè: andando a
spasso) per godere della novità e della sfida. In ballo non ci sono soldi o il
plauso delle folle, e neppure il piacere che deriva da qualche ora trascorsa
spensieratamente. Tutt’altro: il pensiero qui è acuto come uno spillo e
profondo come l’oceano, diretto come un raggio laser verso problemi per cui le
folle non provano (ahimè) alcun interesse, anche perché sono spesso
trattati in termini (come quelli del passo citato) che le folle troverebbero
incomprensibili; e talvolta l’esito di tanto ossessivo impegno, di tanta
rigorosa dedizione, di tanta puntuale insistenza sull’uso di formule corrette e
ragionamenti apodittici è un infuso di cicuta propinato al tramonto o il rogo
in una piazza romana, fra i pellegrini convenuti per l’anno santo. Anche questo
è un gioco: quello che stiamo conducendo adesso, voglio dire, quello suggerito
dall’inizio del mio libro. Ed è importante capire che gioco sia. Potrebbe
essere come quando si mettono accanto due vignette che raffigurano situazioni
del tutto diverse – che so io?, il varo di una nave e un compito in classe – e si
chiede che cosa abbiano in comune. E, aguzzando bene la vista e non lasciandosi
distrarre dalle forme più prominenti, si finisce per scoprire che la superficie
di un banco coincide con la bandiera spiegata, o la barra del timone con il
righello. Un gioco così non è nuovo, per rispondere alle domande che ho posto
qui sopra. Si mettono accanto un ragazzo che costruisce un castello di sabbia,
un campione di scacchi alle prese con un’apertura inconsueta, Guernica ed
Essere e tempo e ci si interroga su quali siano i dettagli che si ripresentano
identici in ciascuna situazione. Stabilendo, per esempio, che si ha sempre a
che fare con un esercizio fine a sé stesso o con un affrancamento dell’essere
umano dalla servitù del bisogno. Identificando il gioco, insomma (quel che lo
rende tale), con una singola, astratta caratteristica di ogni gioco
particolare, tanto astratta da far scomparire ciò che un gioco particolare ha
di vivido e intenso, di suggestivo e appassionante. Che cosa rimane
dell’inventiva del trasformare un passeggino in un’automobile, dell’eccitazione
di tirare un rigore all’ultimo istante, della sconfinata ingegnosità (e sublime
impertinenza) della prova ontologica anselmiana quando le dichiariamo ridotte a
una qualsiasi concisa definizione che ci dia l’essenza del gioco? Non è questo
il gioco a cui voglio giocare. È invece un gioco analogo a quello del
labirinto. C’è un punto di partenza e noi siamo lì, carichi di tutta la nostra
individualità, di tutto ciò che ci rende irripetibili, inconfondibili con chiunque
altro. Davanti a noi ci sono bivi e ostacoli, comodi varchi che potrebbero
finire in un vicolo cieco e strettoie malsane per cui potremmo trovare il
passaggio agognato. E c’è una meta che ci aspetta al termine di un tracciato
arduo e sofferto; ma una meta da raggiungere interi, non assottigliati in
un’ombra priva di peso e di spessore, anzi avendo acquisito maggior peso e
spessore per le avventure vissute e i rischi corsi, avendo visto maturare
anziché spegnersi le nostre opinioni e i nostri sentimenti. Nel
linguaggio della filosofia, i due giochi che ho descritto sarebbero
ribattezzati con i nomi di Aristotele e di Hegel: il primo fautore di una
logica analitica che divide (analizza) oggetti ed esperienze nelle loro
molteplici caratteristiche e quindi astrae le caratteristiche comuni
costituendo concetti universali che diventano il luogo privilegiato della sua
azione; il secondo, invece, di una logica dialettica che unisce (lega) oggetti
ed esperienze fra loro, senza perdere nulla della loro complessità, mediante un
tessuto narrativo, una storia che gradualmente trascende l’uno nell’altro
mantenendo però l’uno presente e attivo nell’altro, un po’ come il monello
dodicenne è trasceso, ma ancora presente e attivo, nell’attempato capitano
d’industria. Più avanti potremo riprendere in mano questa terminologia
filosofica e precisarla meglio; ora è tempo di giocare, di trovare la via nel
labirinto. Dovremo spiegare il punto di partenza: il gioco della bimba di due
anni – spiegarlo come si spiega una vela, mostrando tutto quel che le pieghe
nascondono. Dovremo avere sempre chiaro in mente l’obiettivo: ritrovare quel
gioco e quella bambina nella Critica del giudizio, passando per il gioco del
calcio e molte altre tappe. E dovremo affrontare false piste e pericoli, cioè
tutte le domande e obiezioni che già ci siamo posti e quelle che dovremo ancora
porci, e superarle senza lasciare sul terreno alcun elemento significativo del
punto di partenza: senza smarrire l’incanto che affascina la bimba, il brivido
con cui tenta un nuovo gesto o una prospettiva strampalata, il piacere riflesso
nel suo sorriso, il paziente e prezioso sviluppo della sua personalità che si
realizza attraverso questi um ili, intimi passi. 2. Il punto di
partenza Cominciamo con la bimba, dunque; studiamone la situazione e (per quel
che possiamo capirlo) lo stato d’animo. La prima cosa da notare è che il suo
comportamento è trasgressivo: sovverte ogni abitudine sull’uso «corretto» degli
oggetti con cui ha a che fare e ogni aspettativa che chiunque si sia formato in
proposito. Parte di questa sua natura rivoluzionaria è dovuta al semplice fatto
che la bimba non sa quale sia l’uso corretto degli oggetti: non sa, per
esempio, che con una spillatrice si cuciono dei fogli e se ne serve invece come
di un grosso pesce nella cui bocca spalancata inserire l’«esca» di una pedina
della dama, e chi la vede sorride e osserva bonario quanto ingegnoso sia il suo
spirito, quanto la sua immaginazione sia in grado di sopperire ai difetti
dell’ignoranza. Magari il benevolo spettatore prenderà la spillatrice e ne
dimostrerà con sapiente manovra pedagogica il funzionamento: la userà per
realizzare in quattro e quattr’otto un bel quadernetto degli appunti che
porgerà alla sua pupilla, perché colga subito un elemento decisivo della sua
educazione formale prossima ventura – perché l’esperienza attuale non rimanga
«solo un gioco». E avvertirà una profonda frustrazione quando l’indisciplinata
(presunta) scolara in erba si guarderà bene dall’imitare il suo esempio e
realizzare altri dieci quadernetti, e cercherà piuttosto di infilare le dita
dentro la spillatrice e strapparle i punti, cioè i piccoli denti affilati di
questo pesce goloso, intenzionato a divorare tutte le pedine della dama.
Scuoterà la testa, il nostro insegnante per il momento mancato, e si consolerà
pensando che è solo questione di tempo: prima o poi la bimba imparerà il minimo
indispensabile per un comportamento «come si deve» e allora ci si potrà
costruire sopra e darle altre utili lezioni, senza questo continuo cambiare le
carte in tavola che sarà forse motivo d’allegria per lei ma è anche, per tutti
gli altri e per la sua stessa crescita, un’inutile distrazione. Il secondo
commento va in senso opposto al primo, indicando che con il suo procedere
caotico e informale la bimba impara un’enorme quantità di cose molto
importanti. Non quante siano state le guerre puniche o chi abbia malgovernato
l’Italia negli ultimi anni; questi contenuti li apprenderà a scuola,
quando ci andrà, o da altre autorevoli e comunque successive fonti
d’informazione. Ora invece impara a vivere nel suo corpo, a distenderlo e
ritrarlo; impara quali resistenze è in grado di superare e a quali altre deve
cedere; impara a valutare le distanze fra le pareti e fra gli oggetti sparsi
per la stanza; impara la struttura complessa di quegli oggetti, rigirandoli fra
le mani e guardandoli e toccandoli da ogni angolo. Vocalizzando reazioni
emotive alle sue vicende, impara a padroneggiare la sua voce, ad articolarla e
modularla: a trasformare suoni rozzi e primitivi in un flusso sonoro di grande
ricchezza e flessibilità, nel quale inscenare il dramma del linguaggio. Non è
un’esagerazione dire che tutto quel che facciamo sul serio lo abbiamo un giorno
imparato giocando, purché non si dia dell’imparare – cioè della conoscenza –
un’interpretazione puramente intellettuale, che lo legga come una relazione fra
un soggetto ed entità astratte quali idee o proposizioni (i «contenuti» cui
accennavo). Certo sarebbe possibile, e per me desiderabile, imparare il teorema
di Pitagora o le valenze chimiche giocando; ma sta di fatto che la maggior
parte di noi li impara in situazioni d’imbarazzante rigidità. Non potrebbe
impararli affatto, però, se non avesse acquisito abilità «elementari» che
tendiamo a prendere per scontate ma che, riflettendoci, ci riempiono di
ammirato stupore: nel caso specifico, l’abilità di comprendere quel che ci
viene detto, di coglierlo come uguale a sé stesso nelle mille differenze di
tono e pronuncia di parlanti diversi, di adattarlo al contesto nel quale è
inserito. Prima dei tre anni un bambino impara tutto ciò senza sforzo – alcuni
bambini in più lingue – mentre i cultori dell’intelligenza artificiale ancora
non sono riusciti a produrre un meccanismo di traduzione automatica decente. E
impara a riconoscere e categorizzare oggetti nello spazio, distinguendoli dallo
sfondo; a interagire ed empatizzare con altri esseri umani; a bilanciarsi sulle
gambe e muoversi disinvoltamente in ogni direzione. Se pensiamo alla fatica con
cui, in età posteriori, quello stesso bambino ormai cresciuto tenterà
d’impadronirsi di una lingua straniera, di una teoria scientifica o di uno
strumento musicale, non possiamo non rimpiangere la facilità con cui
l’apprendimento avveniva nell’infanzia, e il fatto che l’infanzia sia
terminata. Ho menzionato l’apparente contrasto fra il carattere sovversivo del
gioco e la sua sconfinata capacità di insegnare. Sembra esserci un contrasto,
qui, perché di solito concepiamo la conoscenza (oltre che in termini astratti)
come rispecchiamento di una realtà data, da acquisire senza modificarla. Io
vengo a sapere che piove osservando in modo neutrale lo spettacolo che mi si
porge attraverso i vetri della finestra, piegandomi con assoluta
deferenza all’indipendente oggettività della pioggia e facendo del mio meglio
perché i miei piani, le mie esigenze e la mia immaginazione non la turbino. Se
avvertissi troppo forte l’anelito per una bella giornata di sole e una fantasia
troppo vivida me ne rappresentasse una davanti, finirei forse per illudermi
(parola importante, sulla quale ritornerò) che non piova, per rimanere vittima
del gioco delle mie emozioni e delle mie facoltà mentali – e non saprei più che
tempo fa. Il che senz’altro è ragionevole, ma non va frainteso. Non c’è nulla
di sbagliato nel desiderio di una conoscenza che rispecchi la realtà; ma non ne
segue che il metodo migliore per soddisfare tale desiderio sia adagiarsi in una
supina e passiva registrazione di circostanze a noi aliene. La realtà va
costantemente sfidata, messa sotto pressione come farebbe uno scienziato con i
suoi esperimenti di laboratorio: il suo carattere oggettivo non è un dono che
ci viene generosamente elargito ma il residuo di un’attività ininterrotta da
parte nostra. Per essere conosciuta, la realtà va esplorata; e il gioco è il
paradigma di questa esplorazione. La tensione fra trasgressione e apprendimento
può così essere risolta. Senza arrivare agli estremi di Bacone, per il quale
dovremmo costringere la natura con le sevizie a rivelarci i suoi segreti,
l’apprendere è un fare, non un puro constatare, o meglio è un constatare che
risulta da un fare. Se ci fossimo limitati a guardare la luce che emana dal
sole e da altre fonti luminose, la concepiremmo ancora come un fluido che
pervade l’aria. Invece abbiamo proiettato un fascio di luce su uno schermo
attraverso due fessure, osservando fenomeni d’interferenza e concludendo che
eravamo in presenza di onde. Prove successive ci hanno convinto che la luce si
comporta anche come se fosse costituita da particelle, e ragionando su questo
paradosso siamo arrivati alla meccanica quantistica che, sebbene in certa
misura inintelligibile, dà previsioni più accurate di ogni altra teoria nella
storia della fisica. Possiamo dire di aver raggiunto una perfetta conoscenza
della realtà? No di certo; ma non credo ci siano dubbi che abbiamo imparato
sulla luce molto più di quanto ne sapessimo in passato, e che abbiamo fatto
grandi progressi perché non siamo rimasti con le mani in mano, perché in
analogia con i grandi viaggiatori e scopritori di continenti del Rinascimento
ci siamo inoltrati in un terreno ignoto e lo abbiamo percorso in lungo e in
largo come cavalieri erranti, scrutando qua e là e menando fendenti
all’impazzata e a volte commettendo veri e propri errori – scambiando mulini a
vento per giganti. Il primo cavaliere errante è il bambino; il terreno ignoto
che esplora è il suo ambiente; i continenti che scopre sono oggetti di
uso comune, il che potrà sembrare banale solo a chi non consideri quanto
indispensabili, irrinunciabili siano tali scoperte e non ricordi che non c’è
altro modo di scoprire alcunché. Si potrebbero seguire alla lettera delle
istruzioni, ovviamente, e se ne diventerebbe prigionieri. Pensate per esempio
ai diversi atteggiamenti che un ragazzo e un adulto hanno spesso nei confronti
di un nuovo dispositivo elettronico. Il secondo segue istruzioni; il primo
invece schiaccia tutti i tasti e tenta tutte le combinazioni operative; come
risultato, quando il secondo si trova in difficoltà deve chiedere aiuto al
primo. Perché il primo ha errato, in entrambi i sensi della parola, quindi ha
imparato davvero: non solo quel che gli era stato detto ma anche, forse, quel
che nessuno gli avrebbe potuto dire, quel che nessuno sapeva, quel che stava
intorno a quel che ognuno sapeva e che mai si sarebbe visto se non si fosse
andati a zonzo, girovagato, per divertirsi – per deviare cioè dalla strada
battuta. Le parole «divertimento» e affini sono usate sovente come sinonimi di
«piacere» e affini; «mi sono divertito molto» ha nella maggior parte dei casi
lo stesso significato di «è stata un’esperienza molto piacevole». Il legame che
ho appena tracciato fra divertirsi e imparare getta una luce provvidenziale su
questa particolarità semantica: provvidenziale come sa esserlo l’evoluzione. Ha
fatto bene la natura, operando per mutazione e selezione, ad associare un vivo
piacere alla nutrizione e al sesso, come incentivo ad attività essenziali per
la sopravvivenza dell’individuo e della specie, e altrettanto ragionevole si è
mostrata nel farci vivere il divertimento, la divagazione, come fonte di gioia,
se è vero che divagare è il modo migliore di apprendere. L’ampio spettro
d’intercambiabilità fra piacere e divertimento suggerisce addirittura che
esplorare ed errare abbiano un valore adattativo più alto, o almeno più
capillare, di mangiare e accoppiarsi: non esiste occupazione umana che non
provochi «divertimento» per qualcuno, ma non sempre le stesse occupazioni
sarebbero definite dalle stesse persone «erotiche» o «gustose». Ad ogni buon conto,
arriviamo così a identificare un’ulteriore caratteristica della scena ludica
primaria: la bimba prova un indubbio piacere, che sembra durare per tutto il
tempo in cui gioca. Lo tradiscono talvolta i suoi sorrisi e gridolini di
eccitazione, ma in modo più ovvio (perché più continuo) la sua assoluta
concentrazione e apparente instancabilità, le sue proteste quando viene
interrotta, il suo pronto ritornare a quel che tanto la avvince quando le
proteste hanno effetto. Ed è il piacere che prova a motivarla a giocare: non
c’è in questa attività nessun secondo fine; l’attività è fine a sé stessa,
perseguita in completa autonomia (in accordo con una delle possibili
definizioni analitiche di gioco). La bimba non si aspetta nessun risultato, non
intende conseguire nessun obiettivo, o quantomeno nessun risultato o obiettivo
esterni. Nonostante tutto quel che ho detto sulla funzione pedagogica del
gioco, non è per imparare che si gioca: quale che sia il vantaggio adattativo
che il gioco procura, ognuno di noi gioca all’unico scopo di giocare. Nelle
prime pagine del suo I giochi e gli uomini, Roger Caillois lascia
apparentemente la porta aperta a un’interpretazione strumentale delle attività
ludiche, nel senso di un loro contributo all’addestramento fisico: Contrariamente
a quanto si sostiene spesso, il gioco non è un apprendistato del lavoro. Esso
non anticipa che in apparenza le attività dell’adulto [...]. Il gioco non
prepara a un mestiere preciso, esso allena in generale alla vita aumentando
ogni capacità di superare gli ostacoli o di far fronte alle difficoltà. È
assurdo, e non serve a niente nella vita reale, lanciare il più lontano
possibile un martello o un disco di metallo, o riprendere e rilanciare
continuamente una palla con una racchetta. Ma è utilissimo avere dei muscoli
possenti e dei riflessi pronti (p. 12; corsivo aggiunto). Alla fine del libro,
però, la chiude con decisione: Il gioco non è esercizio, non è neanche gara o
prodezza, se non in sovrappiù. Le facoltà che esso sviluppa beneficiano
certamente di questo allenamento supplementare, che è per di più libero,
intenso, divertente, creativo e protetto. Ma funzione specifica del gioco non è
mai quella di sviluppare una capacità. Scopo del gioco è il gioco stesso (p.
195). A testimonianza del fatto che il gioco non è facile da capire, affiora in
queste ultime battute un nuovo elemento di tensione. È naturale infatti porre
in contrasto il gioco fine a sé stesso con quanto si fa «sul serio»; ma che
cosa c’è di più serio, per la bimba, dell’immersione totale, dell’assorta
partecipazione con cui vive le sue trasgressioni e i suoi esperimenti? È quando
le si vorrà imporre un comportamento giudicato desiderabile dai grandi che si
mostrerà svogliata e distratta come chi non prenda la cosa sul serio; lo farà
anche quando le si vorrà dare da mangiare, una volta soddisfatta la fame più
immediata, e si calmerà e riprenderà il suo sguardo intento e le sue mosse
accurate appena i grandi si saranno allontanati e le sarà possibile giocare con
il cibo. In Homo ludens, Johan Huizinga conferma l’esistenza di un problema
quando scrive: «l’opposizione gioco-serietà non pare né conclusiva né stabile»
(p. 23). E più avanti dichiara: «Bambini, calciatori, scacchisti giocano con la
massima serietà senza la minima tendenza a ridere» (p. 24). «L’autentica,
spontanea mentalità del gioco può essere quella della profonda serietà. Il
giocatore può arrendersi al gioco con tutto l’essere» (p. 45). Càpita spesso
che termini ritenuti descrittivi di come va il mondo abbiano un valore assai più
decisamente prescrittivo: fungano, cioè, da ricette implicite su come il
mondo dovrebbe andare. Una persona è spesso detta normale non perché
rappresenta una media statistica ma perché meglio si adatta alle norme di chi
così la descrive, e il senso comune è spesso comune solo a chi lo chiama in
causa per dar credito a una propria tesi. Qui siamo di fronte a una situazione
analoga. Le cose che si fanno sul serio sono quelle cui si dedica pazienza,
sforzo, attenzione costante, e per chi sia stato «appropriatamente»
socializzato pazienza, sforzo e attenzione dovrebbero essere profusi
nell’andare al lavoro, nel preparare la cena e nel lavare i piatti. Che nel
fare cose del genere si risulti svogliati e distratti, che non si riesca a
prestar loro la cura che meritano, è giudicato un’anormalità, per quanto
sovente succeda, per quanto oneroso sia adempiere alla norma che viene così
(implicitamente) assunta. La bimba che stiamo osservando ci rivela la vanità di
tali pretese: rivela nel modo più chiaro che per lei il gioco è l’attività più
seria, anzi perché qualcosa sia davvero preso sul serio (non si voglia soltanto
che lo sia) deve entrare a far parte di un gioco. Superata anche questa
difficoltà, sembriamo aver ottenuto un’immagine incondizionatamente positiva del
nostro oggetto di studio. Il gioco sovverte abitudini e aspettative, ma non
solo questa sua natura irrispettosa è compatibile con una sua funzione
educativa: sembra che non ci sia un modo migliore, forse non ci sia un altro
modo, di educare che sfidando lo status quo ed esaminandone minuziosamente
tutte le possibili alternative. Il gioco è piacevole ed è praticato per il
piacere che dà; eppure è l’attività più seria, forse l’unica attività che venga
condotta con autentica serietà. C’è però ancora un aspetto del gioco che
occorre discutere, ed è un aspetto stavolta inquietante. Il gioco è pericoloso;
violando abitudini e aspettative ci si può far male, ed è probabile che i
grandi lo sappiano – che, se la bimba è stata lasciata sola nella stanza a
giocare, gli spigoli più acuti siano stati tolti di mezzo, le prese di corrente
siano state coperte e le finestre siano ben chiuse (già il fatto che avesse a
disposizione una spillatrice avrà sollevato qualche perplessità). Abitudini e
aspettative richiamano alla mente un’atmosfera di inerzia, di tedio, di
mediocrità; e nell’immagine che ne abbiamo dato finora il gioco emerge, per
contrasto, come eroico e innovativo, fantasioso ed eccitante. Ma su abitudini e
aspettative si fondano contesti che ci rassicurano, che ci permettono di
guardare al futuro con fiducia, almeno finché il futuro somiglierà al passato –
a quel passato che ha gradualmente dato luogo al costituirsi di abitudini e
aspettative. Chi gioca, d’altra parte, non mette in crisi solo il suo ambiente
e magari le altre persone che lo popolano: mette in gioco, e in crisi, anche sé
stesso, e questo comportamento avventato implica inequivocabilmente dei
rischi. Di gioco si può morire. «Il gioco può sempre diventare un fatto
pauroso», afferma lo psicoanalista Donald Winnicott in Gioco e realtà. «I
giochi regolamentati [in inglese games, parola che in seguito dovrà essere
discussa] e la loro organizzazione debbono essere considerati come parte di un
tentativo inteso a tenere a bada l’aspetto pauroso del gioco» (p. 88;
traduzione modificata). Incontriamo così un ulteriore ostacolo sul nostro
cammino, un enigma da risolvere prima di poter raggiungere la prossima tappa.
Stabilito che il gioco ha tutte le caratteristiche positive che ho elencato,
urge però un’analisi di costi e benefici se vogliamo mantenerne una concezione
generalmente provvidenziale. Vale la pena di educarsi attraverso una piacevole
attività di trasgressione se tale attività minaccia la nostra integrità fisica
o psicologica? Non sarebbe stato meglio per l’evoluzione scegliere percorsi
meno arditi: associare un vivo piacere, per esempio, proprio a quell’ascolto e
a quell’applicazione degli insegnamenti di un esperto cui il gioco, irridente,
fa gli sberleffi? Sarà anche vero che giocando impariamo di più; ma non è
preferibile talvolta, o sempre, imparare meno, se l’imparare mette a
repentaglio la nostra esistenza e il nostro benessere – le ragioni, cioè, per
le quali vorremmo imparare qualsiasi cosa? In che senso un’attività che ci fa
spesso correre pericoli può essere funzionale alla nostra sopravvivenza?
3. Caos e ordine Nell’antica mitologia greca non esiste una creazione dal
nulla. Quel che dà origine al mondo così come abbiamo imparato a conoscerlo e
abitarlo è invece una variante globale delle pulizie primaverili: al caos
originario (quindi in particolare privo di inizio) si sostituisce un cosmo,
cioè una struttura ordinata che obbedisce a leggi definite. Noi da tempo non
crediamo più nella storia di Zeus e delle sue lotte sanguinose con Crono, i Titani
e svariate altre forze oscure e ancestrali (forse non ci credevano davvero
neanche i greci); in secoli di sviluppo scientifico abbiamo elaborato un
modello ben più articolato e plausibile dell’universo e delle sue origini. Solo
recentemente, però, tale sviluppo ha cominciato a incidere in modo critico su
quello che era rimasto un elemento fondamentale di accordo con le favole
antiche: risiediamo in un cosmo e di conseguenza basta (in linea di principio,
perché poi la cosa è difficile e magari impossibile da realizzare) scoprire le
leggi che lo regolano per poterne prevedere con assoluta certezza il
comportamento futuro. Se così fosse, non sarebbe una cattiva idea fidarsi delle
istruzioni di chi è più esperto di noi: le leggi del cosmo dovrebbero essere sempre
le stesse e chi le ha viste all’opera più a lungo di noi dovrebbe essere in
grado di darci in proposito indicazioni preziose. Non sembrerebbe economico o
vantaggioso che ciascuno di noi dovesse invece riscoprire – giocando,
esplorando e contestando – quel che è comunque già noto. Se pure traessimo un
grande piacere da queste pratiche, ci sarebbe da chiedersi – riformulando in
altri termini le domande con cui ho chiuso il capitolo precedente – perché la
biologia associ un piacere simile a un’attività che nella migliore delle
ipotesi è inutile e nella peggiore è controproducente. Certo è possibile che le
leggi «scoperte» da chi è vissuto e ha operato prima di noi siano sbagliate;
nella scienza non solo le teorie si sono spesso reciprocamente confutate e avvicendate
ma sembra addirittura all’opera una perversa induzione in base alla quale ogni
teoria un tempo ritenuta corretta si è poi rivelata fallace – dunque,
probabilmente, lo saranno anche le teorie che oggi riteniamo corrette. Questa
allarmante conclusione, però, varrebbe solo per quel che la scienza offre
di più profondo e sofisticato, non per quella sua solida struttura intermedia
che appare costituita di verità inoppugnabili. Nel saggio Sulla libertà John
Stuart Mill, paladino di una discussione pubblica il più possibile aperta e
coraggiosa, considera un problema il fatto che su un numero crescente di tesi
il progresso scientifico abbia pronunciato una sentenza definitiva (quindi, in
particolare, indiscutibile) e auspica che si ricorra a espedienti fittizi – che
so io? a sostenere accanitamente che la Terra sia piatta – per ridar
significato e vividezza a credenze che altrimenti rischiano di trasformarsi in
puri dogmi. In assenza di dibattito non vengono dimenticati solamente i
fondamenti di un’opinione, ma viene dimenticato sovente il significato
dell’opinione stessa. Le parole che la esprimono cessano di suggerire idee, o
suggeriscono solo una piccola parte di quelle idee che in origine comunicavano.
In luogo di un concetto vivido e di una convinzione viva, rimangono soltanto
alcune frasi ritenute meccanicamente; oppure, se rimane qualcosa, è solo
l’involucro o il guscio del significato, mentre la sua essenza più pura è
andata dissolta (p. 135). Col progresso dell’umanità, il numero delle dottrine che
non vengono più messe in discussione o in dubbio sarà costantemente in aumento,
e il benessere del genere umano può essere quasi misurato dal numero e dalla
rilevanza delle verità che hanno raggiunto la condizione di verità incontestate
[...]. Il venire meno di un aiuto così importante all’intelligente e viva
comprensione di una verità – com’è quello offerto dalla necessità di spiegarla
o di difenderla dagli avversari – [...] rappresenta un inconveniente non di
poco conto. Là dove questo vantaggio viene a mancare, confesso che sarei
contento di vedere i maestri del genere umano sforzarsi per trovarne un
sostituto, un espediente per far sì che le difficoltà della questione siano
presenti alla coscienza di colui che la affronta, allo stesso modo in cui lo sarebbero
se gli venissero imposte da un avversario agguerrito, impegnato a convertirlo
(p. 147). Con tutto il rispetto per Mill, però, siamo daccapo: sarà
appassionante riscoprire il senso di opinioni generalmente accettate
sottoponendole a critiche fittizie ma, al di là dell’intensa emozione che
provoca, a che cosa serve questo esercizio? Non converrebbe invece riservare le
nostre risorse ludiche per le questioni che si collocano ai margini della
conoscenza, dove non si è ancora raggiunto un pacifico accordo e quindi le
opinioni attuali saranno verosimilmente contestate in futuro? Una modesta
replica alla sfida suggerita da queste domande emergerà nel quinto capitolo: se
non mantenessimo attiva in noi la pratica della contestazione, sia pure senza
vantaggi diretti, non potremmo risvegliarla quando lo giudichiamo opportuno.
Come suggerivo poc’anzi, però, la scienza contemporanea ha fatto di meglio: ha
mostrato che è vantaggioso contestare non solo quel che è in discussione o in
dubbio (esercitandosi magari prima con quel che non lo è) ma anche tutto ciò
che si ritiene ormai acquisito. Un primo passo in tal senso viene dalla teoria
del caos. A dispetto del suo nome, questa teoria non dichiara che il
mondo non sia mai uscito da una condizione di disordine e non ci siano leggi
che ne regolano il funzionamento. Le leggi ci sono, codificate come sempre
nella fisica moderna da equazioni matematiche, ma le equazioni sono altamente
non-lineari. Per esse, cioè, non vale la condizione seguente (tipica delle
equazioni lineari): a variazioni minime nell’input (diciamo, nell’istante di
tempo considerato) corrispondono variazioni minime nell’output (diciamo, nella
posizione spaziale di un certo corpo; quindi in istanti molto vicini fra loro
il corpo sarà in posizioni molto vicine fra loro). In un’equazione non-lineare,
una variazione impercettibile nell’input può causare conseguenze catastrofiche
nell’output, secondo la metafora suggerita dal famoso effetto-farfalla: il
battito d’ali di una farfalla in un punto della Terra può causare, dopo un
certo numero di passi, un uragano di spaventose dimensioni in un altro punto.
Nel linguaggio tecnico della filosofia, la teoria del caos non cambia la
sostanza metafisica dell’universo, e infatti il caos che essa evoca è descritto
come deterministico, fedele alla posizione tradizionale (per quanto oggi un po’
in crisi) secondo cui il passato determina necessariamente il futuro. Sconvolge
però l’epistemologia del nostro rapporto cognitivo con il mondo. In ogni
situazione in cui ci troviamo, sapremo solo in misura approssimativa come
stanno le cose: i nostri strumenti di osservazione e di controllo hanno una
portata limitata e, se per caso non l’avessero, perderemmo la testa davanti
alla quantità infinita di dati (perlopiù irrilevanti) che ci fornirebbero (un
po’ come la perdiamo davanti all’incontrollabile quantità di dati fornita da
Internet). Il che non creerebbe problemi se una conoscenza approssimativa delle
cause ci desse una conoscenza approssimativa degli effetti: se potessimo stabilire
grosso modo che cosa seguirà da che cos’altro. L’effetto-farfalla ci costringe
ad accantonare questa ipotesi favorevole: informazioni che al momento sono
sotto la soglia osservabile dai nostri strumenti o che, se osservabili,
rimarrebbero alla stregua di un fastidioso rumore di fondo, potrebbero in
seguito acquisire un peso decisivo e confutare drasticamente ogni nostra
previsione – trasformarla in qualcosa che non è vero approssimativamente, o
fino a un certo punto, ma non è vero per nulla. In un caos del genere, il fatto
che esistano leggi (cioè equazioni matematiche che ne descrivano il
comportamento) o che le conosciamo ha scarso peso ai fini della nostra capacità
di adattarci al mondo. Le equazioni non-lineari, in generale, non sono solubili
con i metodi dell’analisi matematica; il meglio che si possa fare, in generale,
è simularle a un computer e osservarne il percorso – senza peraltro mai
sfuggire al problema che ho indicato: la nostra simulazione sarà efficace nella
misura in cui avremo dato i valori «giusti» ai parametri significativi, ma
spesso basterà un’alterazione infinitesima in uno di questi valori per cambiare
radicalmente la situazione. Che cosa ci converrà fare allora? Le equazioni
non-lineari attraversano fasi anche estese di linearità; nel caos esistono
nicchie anche cospicue di cosmo. In tali nicchie il futuro somiglia al passato
e, per chi ci vive, le previsioni degli esperti risultano accurate e le loro
istruzioni valide. Sarebbe una pessima idea, però, estrapolare da
un’accuratezza e validità locali una loro variante universale, perché le cose
possono cambiare enormemente e molto in fretta. È preferibile procurarsi una
polizza di assicurazione: rispettare previsioni e istruzioni finché dànno buona
prova di sé, ma continuare anche incessantemente a sperimentare concezioni
alternative del mondo e modalità alternative di azione. Vale a dire: conviene
incoraggiare la trasgressione dell’autorità (intellettuale e operativa)
costituita, l’esplorazione fine a sé stessa e il rischio che vi si accompagna –
perché il gioco, secondo il detto popolare, vale la candela. E, siccome (già vi
accennavo e ci ritornerò) non si può improvvisare un atteggiamento trasgressivo
da un momento all’altro, dopo aver seguitato per anni a genuflettersi deferenti
verso «chi ne sa più di noi», conviene (alla natura e anche a noi, in quanto
capiamo che in questo caso è meglio non ostacolarla) lasciare i cuccioli umani
liberi di godersi il loro gioco, precisamente nel senso delineato nel capitolo
precedente. Fin qui la teoria del caos, ma c’è di più. C’è la teoria della
complessità, dove (in una lettura, lo ammetto, un po’ radicale, che peraltro si
accorda bene a mio parere con importanti conclusioni kantiane) la sfida alla
visione tradizionale è di carattere metafisico, dove anzi si mette in
discussione il concetto stesso di metafisica. La conclusione raggiunta dalla
teoria del caos è che il mondo sia troppo complesso perché noi possiamo
conoscerlo in modo certo ed esauriente, e questa tesi (epistemologica) continua
a essere vera nel nuovo scenario, ma come conseguenza di una tesi assai più
forte, in base alla quale non esiste «il mondo», inteso come ente unico e
onnicomprensivo, dotato di una sua propria struttura, indipendente dal fatto
che lo si conosca o meno. Esiste invece un numero indefinito di descrizioni
diverse, formulate in vocabolari fra loro incommensurabili; quindi prima di
poter accedere a domande su che cosa ci sia e che natura abbia occorre
scegliere un vocabolario e così determinare un particolare ambito descrittivo,
nel quale sarà possibile fornire una risposta a quelle domande. Non si può dire
come stiano le cose, insomma (ed eventualmente fino a che punto siamo in grado
di conoscerle), finché non si sia deciso in che linguaggio dirlo. (E
parole come «scegliere» e «deciso» vanno prese alla lettera: la selezione di un
linguaggio non è un evento a sua volta determinato; è invece condizione
necessaria perché possa darsi, nel suo ambito, una qualsiasi determinazione.)
Vediamo di capirci con un esempio. Davanti ai nostri occhi allibiti si svolge
una seduta del Senato italiano, con il solito contorno di urla, parolacce,
insulti e spintoni. Questa, verrebbe da dire, è la realtà oggettiva, e non c’è
che da diventarne consapevoli. Si potrà provare a spiegarla, ma prima di
lanciarsi in una siffatta operazione bisogna appurare che cosa sia
effettivamente successo – e debba essere spiegato. E su questo non ci sono
dubbi. Davvero? Certo per me è naturale, essendo io un essere umano, leggere la
situazione in termini di esseri come me e di oggetti di media grandezza
(scranni, sedie, microfoni) come quelli con cui sono abituato ad aver a che
fare. Ma la stessa identica scena potrebbe essere descritta in un linguaggio,
per esempio, di particelle elementari, e in quel linguaggio la frase «X ha dato
una bastonata a Y» (memore in ciò dell’infelice destino di Tiberio Gracco, in
un altro Senato di epoche remote ma di clima analogo) non avrebbe corso: non
potrebbe essere né direttamente formulata né tradotta in un’altra frase di uso corrente
(o insieme di tali frasi). Oppure, invece di spostarci dalla media grandezza a
uno sguardo microscopico, potremmo andare in direzione inversa ed esprimere in
un linguaggio ideale e astratto la nostra accorata testimonianza di quanto sia
caduta in basso la civiltà occidentale e di come atti di ingiustizia, violenza
e volgarità siano conseguenze inevitabili di una perdita dei valori di
riferimento, e in questo linguaggio non ci sarebbero bastoni e nemmeno
particolari individui ma solo, appunto, valori e princìpi, contraddizioni
logiche e (forse) loro risoluzioni dialettiche. Oppure potremmo muoverci
lateralmente, per così dire, e, rimanendo sempre al livello degli oggetti di
media grandezza, vedere la scena con gli occhi non di un giornalista affascinato
dai pettegolezzi della politica ma di un usciere che appena il baccano sarà
finito e gli onorevoli si saranno allontanati dovrà pulire l’aula. (E si noti
come l’ultima possibilità citata permetta di affinare e approfondire quel che
ho detto in precedenza: che io sia un essere umano potrà influire in parte su
come mi viene «naturale» leggere una situazione, ma molto dipenderà anche, al
riguardo, da che tipo di essere umano sono – fra l’altro, da qual è la mia
occupazione.) Secondo la teoria della complessità, vale per molti dei linguaggi
in cui «la stessa» situazione può essere descritta che nessuno di essi sia
riducibile a un altro: ciascuno rappresenta un punto di vista autosufficiente
che costituisce la sua realtà, e non c’è una realtà neutrale e autonoma,
«sottostante» a queste diverse costituzioni. Un particolare linguaggio potrà
essere o non essere deterministico, nel suo ambito descrittivo il futuro potrà
somigliare o non somigliare al passato; ma anche chi avesse un controllo
assoluto di un linguaggio deterministico e potesse formulare in esso previsioni
del tutto certe rimarrebbe in presenza di un’infinita, irrimediabile apertura a
linguaggi diversi e dovrebbe operare una scelta fra tali linguaggi, sia pure
implicitamente o inconsciamente, prima di poter emettere qualsiasi frase dotata
di senso. Una delle difficoltà più ardue con cui si è costantemente confrontata
l’intelligenza artificiale è il cosiddetto frame problem: il problema della
cornice. Un computer è uno strumento di prodigiosa efficienza una volta che gli
sia stato assegnato un compito preciso: sa ricordare, calcolare e combinare
dati a velocità e con rigore sovrumani. Perché ciò accada, però, deve prima
ricevere questi dati; qualcuno glieli deve dare. Qualcuno, cioè, deve
configurare per lui il compito da eseguire e assegnarglielo: incorniciare un
quadro ben definito della situazione e chiedergli un intervento specifico entro
quella cornice, alle condizioni che essa pone. Sono esseri umani quelli che
provvedono alle cornici dei computer, e gli esseri umani non hanno bisogno che
altri lo facciano per loro: ovunque si trovino, sono in grado di decidere da
soli quale sia il compito prima di tentare di eseguirlo – e magari poi lo
eseguiranno con prontezza inferiore a un computer, ma è proprio per questo che
sono stati gli esseri umani a inventare dei computer che li assistessero e non
viceversa. Che cosa fa la differenza fra gli uni e gli altri? Una volta
inquadrato, un problema sarà risolto applicando istruzioni valide in quel
quadro; ma non possono esserci istruzioni su quali siano le istruzioni da
applicare prima che il problema sia inquadrato, perché ciò presupporrebbe che
l’inquadramento fosse già avvenuto; quindi un approccio che si serva solo di
istruzioni (come è stato finora quello disponibile a un computer) non può avere
successo. Posto di fronte a un quesito analogo, Kant invocava il giudizio, che,
in contrasto con le istruzioni, non può essere imparato a memoria e poi
eseguito meccanicamente ma solo essere stimolato e perfezionato mediante
l’esercizio e l’esempio. Il quesito però rimane: esercizio di quale pratica?
esempio di quale comportamento? La mia riformulazione del quesito ci riporta al
tema principale della nostra discussione. Quel che un essere umano impara (e a
tutt’oggi un computer non ha imparato) a fare è selezionare un punto di vista
appropriato dal quale vedere le sue circostanze, e nessuna selezione può
avvenire nel vuoto. L’esercizio che è opportuno per acquisire questa
capacità deve dunque consistere nel mettere in gioco i punti di vista più
svariati e adattarli alle circostanze, finché uno fra essi ci sembri (a torto o
a ragione) il più appropriato e facendolo nostro (almeno temporaneamente) noi
procediamo a interagire con le circostanze in quell’ottica, applicando le
istruzioni, o regole, che l’ottica determina (con modalità che studieremo nel
prossimo capitolo). L’esempio che può aiutarci in proposito avrà a che fare con
altre persone che fanno la stessa cosa. E la «cosa» di cui stiamo parlando ha
un nome, che non a caso ho già usato: gioco. Senza la continua, piacevole
trasgressione di abitudini e aspettative che abbiamo identificato con il gioco,
rimarremmo bloccati in un’unica prospettiva e forse qualcuno (dall’esterno)
dovrebbe premere un nostro tasto per farci scattare in una prospettiva diversa.
Violando l’uso appropriato di tutto ciò che ha intorno, il bambino sta
addestrandosi a sviluppare un suo senso di appropriatezza che gli permetta di
inquadrare un compito senza che altri lo facciano per lui. E, se volessimo
davvero che un computer acquistasse la stessa capacità, dovremmo avere il
coraggio di lasciar giocare anche lui – come suggerivo anni fa, un po’
preoccupato delle conseguenze del mio stesso suggerimento, in Giocare per
forza. Riassumendo, l’itinerario che stiamo percorrendo nel continente gioco ci
aveva posto davanti a un ostacolo: sembrava irragionevole che i nostri istinti
privilegiassero un’attività che avrà sì valore educativo ma comporta gravi
rischi. L’ostacolo è stato affrontato e superato, chiarendo che non ci sono
alternative plausibili al correre rischi di questo tipo. Indipendentemente dal
fatto che ogni ricetta di vita elaborata in passato potrebbe rivelarsi
sbagliata, è comunque vero che le ricette che fossero al momento «giuste» sono
state elaborate sulla base delle regolarità riscontrate finora e saranno prima
o poi contraddette dalla natura caotica del mondo; quindi è bene adottare un
atteggiamento sperimentale ed esplorativo che allarghi l’ambito delle nostre
possibilità di concezione e di azione ben al di là di quanto è utile adesso –
perché non possiamo sapere che cosa sarà utile in futuro, quando la nostra
nicchia diventerà inospitale. Inoltre, questo stesso sperimentare ed esplorare
è indispensabile se vogliamo essere più che semplici esecutori di compiti: se
vogliamo determinare quali siano i compiti da eseguire. C’è qualcosa di
eccessivo nel gioco; esso sembra richiedere qualcosa (o molto) di più del
necessario (ricordiamo la segnalazione da parte di Caillois del suo
«sovrappiù»). Stiamo cominciando a capire, però, che per ottenere il necessario
si deve spesso scommettere sull’eccessivo, su ciò che al momento non
conta, che al momento è solo possibile. 4. Regole Avendo così
tutelato la natura provvidenziale della sua attività, torniamo alla bimba che
gioca e portiamone alla luce un aspetto che era rimasto in ombra. Per quanto
trasgressivo ed esplorativo, impertinente e creativo, il gioco ha dei limiti.
La bimba può percorrere la stanza in lungo e in largo, ma si scontrerà infine
con le pareti; può rigirare per ogni verso gli oggetti disponibili e combinarli
nei modi più inaspettati, ma dovrà piegarsi al fatto che questi oggetti hanno
una certa forma, sono composti di un certo materiale, hanno un certo peso e
certe dimensioni, una superficie ruvida o levigata, sono rossi piuttosto che
neri, sonori piuttosto che ottusi, luccicanti piuttosto che opachi. E lo stesso
varrebbe per qualsiasi altra situazione e in qualsiasi altro ambiente: ci
sarebbero sempre dei parametri che determinano l’impossibilità di certe mosse e
l’irraggiungibilità di certi obiettivi. Quando gioca, la bimba può fare molto,
e molto di sorprendente, ma non può fare tutto. Per dirla altrimenti, la mia
descrizione del gioco ne ha sottolineato la tendenza a ribellarsi a ogni fonte
di autorità, sia essa la tradizione, il buonsenso, gli espliciti comandi o
divieti di un «superiore» o la soggezione che proviamo nei confronti di quanto
è utile o opportuno – e ci costringe a comportarci in un modo specifico per
conseguirlo. In contrasto con ogni attività asservita e deferente (a una
persona, a un compito, a un ruolo, a uno scopo esterno), il gioco si presenta
come spontaneo: pronto a seguire idiosincrasie e ghiribizzi, a cambiare
direzione, a ricominciare da capo senza sentirsi vincolati a quel che si è già
realizzato o raggiunto, per nessun altro motivo che il puro piacere di giocare.
Ha insomma tratti che normalmente associamo alla libertà, e Huizinga è
d’accordo: «Ogni gioco è anzitutto e soprattutto un atto libero. Il gioco comandato
non è più gioco» (p. 26). Da qui a trovare nella libertà, quindi nel gioco,
l’essenza della nostra umanità e a lanciarsi in un peana celebrativo di una
specie biologica che sacrifica il proprio tornaconto alla pratica del
superfluo, del gratuito, dell’errabondo il passo sarebbe breve; ma non cederò
(per ora) a questa tentazione. Mi chiederò invece che cosa si debba intendere
per libertà e risponderò che di solito non s’intende un’infinita capacità
di arrivare dappertutto e ottenere qualsiasi risultato bensì la capacità di
operare una scelta entro un ambito più o meno ristretto di opzioni. La libertà
che noi conosciamo non è una condizione assoluta, sciolta cioè da ogni legame,
da ogni relazione; è sempre e solo un determinato grado di libertà, come quello
che mi è consentito dai miei arti, che certo mi dànno una notevole libertà di
movimento ma non mi rendono possibile ogni movimento. Nel primo capitolo ho
mostrato quanto ambigua appaia la parola «gioco» e mi sono proposto di
riscattare questa (apparente) ambiguità: di raccontare una storia in cui i suoi
vari significati siano connessi, nascano l’uno dall’altro per motivi
comprensibili. In lingue diverse dall’italiano l’ambiguità sembra ancora
maggiore: parole come «play», «spielen» e «jouer» possono anche significare che
si recita o si suona uno strumento – e anche questi significati dovranno essere
catturati dalla mia storia. Qui però voglio notare un’altra vicissitudine
semantica del gioco (Huizinga ci informa che essa «è comune al francese,
all’italiano, allo spagnolo, all’inglese, al tedesco, all’olandese e [...] al
giapponese», p. 66), illustrativa della tesi che sto articolando adesso.
Chiamiamo «gioco», infatti (o «play», o «Spielraum», o «jeu»), lo spazio libero
che (per esempio) una vite ha nel suo foro filettato, quando non aderisce a
perfezione, quando «balla». È anche in questo senso che la bimba gioca: le
pareti, il pavimento e i vari oggetti che vi giacciono sopra le permettono un
certo gioco, un certo (limitato) spazio di discrezione, che lei occupa
ballandovi, riempiendolo con le sue piroette e i suoi salti. Ed è questo il
ruolo principale, ritengo, che il gioco ha nella nostra vita, il fondamento
ultimo di ogni suo contributo alla nostra sopravvivenza e al nostro benessere.
Quella che ho appena enunciato è una tesi controversa e audace, una sfida
a inoltrarsi per un ispido percorso nel labirinto e una promessa che per tale
via procederemo più spediti verso il traguardo. Devo dunque giustificare la
tesi, convincere i miei compagni di avventura ad accettare la sfida. Per farlo,
torniamo al valore adattativo del gioco. In primo luogo, ho detto, esso funge
da polizza di assicurazione: esplora comportamenti alternativi cui rivolgersi
quando le equazioni non-lineari che controllano il mondo dovessero impazzire;
risponde al caos esterno dando luogo a un microcaos privato, cercando di
anticipare le prossime sorprese che l’ambiente ci offrirà con mosse a loro
volta imprevedibili e destabilizzanti. In secondo luogo, ci educa a slittare
costantemente da una prospettiva all’altra, a non rimanere inchiodati a un
singolo modo di percepire la nostra situazione, a «incorniciarla» dagli
angoli più diversi, perché questo slittamento diventi a sua volta
un’abitudine e ci aiuti a scegliere in ogni occasione la cornice adeguata in
cui inquadrare i nostri problemi e le nostre esigenze. Entrambe le funzioni
implicano una medesima conseguenza: il gioco deve avere un oggetto, ci deve
essere qualcosa con cui si gioca, quindi qualcosa che inevitabilmente offre
resistenza al gioco. I comportamenti alternativi cui mi rivolgerò quando quelli
attuali facessero cilecca devono trovar posto in un qualche ambiente specifico:
per folle che sia diventato il mondo, devo comunque sperare che ci sia ancora
intorno a me un mondo oppure non varrebbe la pena di indulgere in nessun
comportamento. Lo stesso vale per le mutazioni prospettiche: una prospettiva è
sempre di, o su, qualcosa; una cornice racchiude sempre un quadro. Il gioco
dunque potrà (e dovrà) essere sovversivo ma non uniformemente distruttivo; la
libertà che in esso si esprime ci porterà a varcare la soglia di quanto finora
era stato considerato lecito o vantaggioso ma non ad annullare la legittimità
di ogni soglia e di ogni limite e ad azzerare ogni possibile struttura in un’esplosione
universale e universalmente catartica. Al di là della soglia che varchiamo ne
troveremo un’altra, che definirà la nostra azione ludica; fatta a pezzi una
struttura ne appronteremo un’altra, che darà alla nostra azione concretezza e
sostanza. La sostanza e la concretezza di un sogno, forse; ma non del nulla. A
rendere difficile lo studio e la valutazione della nostra forma di vita è
soprattutto il suo mantenersi in precario equilibrio tra fattori e istanze
contrastanti, il cui peso opposto va tenuto in debito conto, evitando facili ma
deleterie riduzioni a uno dei piatti della bilancia. Questa considerazione cade
a proposito con il termine che stiamo esaminando, nella fase in cui siamo
dell’esame: che il gioco trasgredisca le aspettative è vero ma non va portato
all’estremo, dando luogo a una retorica della trasgressione in quanto tale,
aprendo la strada a una trasgressione così generalizzata e globale che alla
fine non le rimanga più niente da trasgredire. Sapete bene di che cosa sto
parlando: di quegli intellettuali (o artisti, o politici rivoluzionari) che il
film C’eravamo tanto amati rappresentava con sapiente ironia nel personaggio
interpretato da Stefano Satta Flores, sempre «oltre», sempre terrorizzato
dall’eventualità di poter andare d’accordo con qualcuno e infine schiacciato
nella più banale e televisiva delle ossessioni. Non è strano che questa
retorica copra spesso atteggiamenti conservatori, quando non biecamente
reazionari: se la nostra trasgressione equivale semplicemente a far saltare in
aria tutte le polveriere, allora nel vuoto che avremo creato (e sotto la
protezione del fumo con cui avremo oscurato la vista) si rifaranno avanti per
inerzia le solite mosse e i soliti valori. Negarli è un momento essenziale
della costruzione di un’alternativa, ma non può essere l’unico momento perché
una negazione, in sé e per sé, non costruisce nulla; e se nessuna nuova
costruzione è disponibile ci adatteremo, magari a malincuore (e con la
coscienza un po’ sporca), nelle baracche cui siamo abituati, per quanto
danneggiate siano dalla nostra azione trasgressiva. L’umile gioco della vite ci
offre un antidoto a tanto mal riposto entusiasmo. Ci invita a non trasformare
il gioco in una condotta esorbitante, cioè ex orbe, fuori dall’orbe terracqueo;
ci ricorda che il gioco avviene sempre in un contesto, ha sempre un orizzonte
(vale per l’orizzonte, come per la soglia, che varcatone uno se ne troverà un
altro) e consiste nel modulare le nostre reazioni al contesto, nel navigarne
con perizia le correnti, nel manipolare con gesti insospettati e inauditi
quanto popola il contesto senza però rifiutarlo in blocco, senza chiudere gli
occhi davanti alla sua specifica consistenza, alle sue particolari proprietà,
che possono essere manipolate in certi modi ma non in altri. È gioco (come
quello della vite) approfittare del grado di libertà che mi è lasciato dai miei
impegni di lavoro per imparare il russo o andare in palestra; non sarebbe gioco
bruciare la casa e tutti i miei averi e allontanarmi senza meta nella notte. Ci
sono circostanze in cui può essere giusta una scelta così radicale, ma solo
come premessa per un gioco ancora da inventare, in un ambiente ancora da
scoprire, non come essenza di un gioco già in atto. Chi risulterà convinto da
queste mie argomentazioni sarà ora disposto a seguirmi per la via che ho
intrapreso e avrà nel contempo imparato, vedendola all’opera in un caso
paradigmatico, un’importante lezione: quanta pazienza occorra per evitare
prevaricazioni e assurde semplificazioni, quanta saggezza sia necessario
conservare nel mezzo delle pratiche più dissacratorie. Incontreremo altri
esempi con la stessa morale; per ora riaffermiamo la conclusione raggiunta con
una variazione sulla metafora dell’orizzonte. Il gioco è sempre parzialmente
trasgressivo; ci sono sempre per esso una figura che il gioco mette in
discussione e uno sfondo che rimane fuori portata. E si badi che questa è una
metafora, quindi lo sfondo può benissimo far parte della figura quando «figura»
sia presa in senso letterale (e viceversa). Per la bimba che gioca (in un certo
modo) con la spillatrice, il normale uso di tale strumento fa parte della
figura che viene contestata, ma la sua forma e solidità fanno parte dello
sfondo – oppure, tornando alla metafora precedente, fanno parte del foro
filettato nel quale balla la vite. A riprova della pazienza che ho
definito indispensabile, quest’ultimo sommario del risultato acquisito ha già
bisogno di una correzione, o almeno di una precisazione contro possibili
malintesi. Potrebbe sembrare infatti che la forma e la solidità della
spillatrice, o di qualunque altro elemento appartenga allo sfondo, vi
appartengano in senso oggettivo, siano presupposti del gioco della bimba
indipendentemente da come lei agisca; e questa apparenza è errata. Ma, come con
molti errori, discuterlo ci aiuterà a capire meglio l’intera faccenda. I
bambini non sono soltanto simpatici e allegri scavezzacollo, non passano tutto
il loro tempo giocando con fantasia e con profitto. Talvolta fanno i capricci,
urlano e strepitano, si divincolano e picchiano i pugni per terra, o su quello
che fino a un istante prima era l’oggetto del loro gioco. Quando si abbandonano
a simili sfoghi, spesso il motivo è che l’oggetto si rivela un ostacolo ai loro
piani, sordo alle loro richieste, impermeabile alle loro sollecitazioni. Il
cubo non vuole saperne di rotolare come una palla; la palla continua a
scivolare giù dal cubo sul quale si vuole che stia ferma, e neanche il cubo
riesce a stare sopra la palla. Allora il bambino, frustrato e irritato,
afferrerà cubo e palla e li getterà contro il muro, e manifesterà una
disperazione tanto insanabile quanto, per fortuna, solitamente di breve durata.
Non sta a me dire quanto durano in media i capricci di un bambino o come
risolverli il più in fretta possibile; non sono uno psicologo, dell’età dello
sviluppo o di altra età. So però come descrivere e spiegare quel che accade,
nella migliore delle ipotesi, quando i capricci si siano risolti; so fornire
un’impalcatura concettuale per comprenderlo e servirmene per articolare
ulteriormente l’impalcatura concettuale del gioco. Il bambino può perdere
interesse per un oggetto così recalcitrante, così poco collaborativo, e
rivolgere la sua attenzione altrove. Può farsi distrarre e consolare dalla
mamma. Ma può anche – e questa è per noi la migliore delle ipotesi, quella che
ci aiuta a proseguire nel nostro cammino – accettare quanto nell’oggetto si è
mostrato recalcitrante: accettare che l’oggetto non possa essere contestato in
quel modo, a quel livello. Un cubo può passare per mille peripezie, entrare in
mille storie, ma non rotola; ed è necessario prenderne atto se si vuole davvero
farci qualcosa – qualcosa di diverso dal gettarlo contro il muro. Quando il
bambino ne ha preso atto, questa proprietà del cubo recede sullo sfondo, ma ciò
non vuol dire che perda importanza. Tutt’altro: ognuna delle figure che il
gioco costruisce e sostituisce a quella originaria, a quella che viene violata
e trasgredita, è un elemento variabile del gioco, può esserci o non esserci,
comparire o sparire, senza che il gioco cambi, perché esso consiste
proprio nel generare figure così variabili. Lo sfondo, al contrario, definisce
il gioco: ne detta le condizioni. Accompagneremo il cubo per mille peripezie
compatibili con il fatto che non rotola. Chi pensasse che il cubo rotoli
starebbe giocando (senza troppo successo, presumo) un altro gioco. Appropriata
soggettivamente dal bambino, la resistenza esercitata da un oggetto diventa
interna al gioco: ne diventa una regola. «L’attributo essenziale nel gioco»,
dichiara Lev Vygotskij in Il processo cognitivo, «è una regola che è diventata
un desiderio» (p. 146), e continua: è una regola interna, una regola di
autorepressione e autodeterminazione, come dice Piaget, e non una regola a cui
il bambino obbedisce come a una legge fisica. In breve, il gioco dà al bambino
una nuova forma di desideri. Gli insegna a desiderare mettendo in relazione i
suoi desideri con un «Io» fittizio, con il suo ruolo nel gioco e con le regole
di questo. Inoltre per Vygotskij, a differenza che per Jean Piaget, «si
potrebbe [...] proporre che non esiste gioco senza regole» (p. 138), e Huizinga
è d’accordo: «L’essenza del gioco [...] sta nel rispetto alle regole» (p. 86).
Da un po’ di tempo nel nostro paese si parla una strana lingua, soprattutto in
ambienti giovanili, aziendali e in generale «al passo» con la cultura popolare
più avanzata. A un italiano rozzo e approssimativo si mescolano termini
inglesi, insieme con strafalcioni che vorrebbero essere termini inglesi ma
invece non hanno corso (o senso) in nessuna lingua. Chi parli questo gergo (o
se preferite lingo) non sarà rimasto particolarmente colpito dal mio
giustapporre, nel primo capitolo, il gioco della bimba e il gioco del calcio;
si tratta chiaramente, avrà pensato, della differenza tra play e game, quindi
non c’è motivo di perplessità. Sarebbe facile obiettare che le due parole, in
inglese, sono assai più intimamente legate di quanto questa semplice
distinzione faccia supporre: che si dice «to play a game», i partecipanti a un
game si dicono players e l’italiano «giocoso» si può tradurre altrettanto bene
con «playful» e «gamesome». Io qui intendo, però, fare un altro discorso, che
riprende la chiusa di quello stesso primo capitolo: rilevare l’importanza della
strategia intellettuale sottesa alla distinzione e chiarire che, per motivi
altrettanto importanti, me ne dissocio. Ho detto che la logica aristotelica è
analitica perché fondata sull’analisi, sulla divisione; e ho aggiunto che
adotterò invece una logica dialettica, hegeliana. Aggiungo ora che le due
logiche nascono da due diversi atteggiamenti nei confronti della
contraddizione, dell’incoerenza. Nella logica analitica, la contraddizione è il
più terribile spauracchio e, ogniqualvolta se ne profili la minaccia, il rimedio
universale è appunto il divide et impera: il significato che sembrava
contraddittorio consta in realtà di due (o più) significati distinti, che
sarebbe meglio, per evitare confusioni, etichettare con due distinte parole –
se è il caso, con termini tecnici introdotti all’uopo. Non c’è vera
contraddizione, per esempio, fra l’educazione intesa come formazione di una
personalità e come passaggio di contenuti nozionistici (che non forma nessuno):
è che la stessa parola è usata in sensi diversi, quindi sarebbe meglio usare
parole diverse, diciamo «educazione» e «istruzione». La logica dialettica,
invece, si nutre di contraddizioni come se ne nutre una storia e, in generale,
ogni struttura vitale: è affrontando e superando il contrasto radicale fra il
suo desiderio d’indipendenza emotiva da un lato e quello di stabilire un legame
affettivo dall’altro che un adolescente arriva a ridefinirsi non più come
membro della sua famiglia di origine ma come partecipe della fondazione di una
nuova famiglia; e in questa ridefinizione i due elementi del contrasto che lo
lacerava non sono dimenticati – sono anzi la sostanza stessa della nuova fase
del suo sviluppo, che è ora quella di una persona tanto indipendente quanto
emotivamente legata. È bene per me reiterare qui la mia scelta logica di fondo
e specificarla meglio perché siamo arrivati a un punto nodale del nostro
percorso, in cui si apre chiaramente un bivio fra le due strategie. Tutto quel
che ho detto finora del gioco della bimba, del suo significato adattativo, dei rischi
che comporta e dell’opportunità di correre tali rischi può essere considerato
appartenente a un singolo significato (analiticamente inteso) della parola
«gioco». Un significato complesso e intricato, da svolgere con cura, ma ciò
nonostante un unico significato perché non infetto da alcuna contraddizione.
Ora però ci troviamo di fronte al fatto, apparentemente innegabile, che il
gioco del calcio è identificato da un insieme di regole e il gioco della bimba
no; quindi, da un punto di vista analitico, deve trattarsi di «giochi»
distinti. In questo spirito Caillois, per fare solo un esempio (ne farò un
altro più avanti), divide i giochi in categorie contrapposte, affermando: «I
giochi [...] non sono regolati e fittizi. Sono piuttosto o regolati o fittizi»
(p. 25). E poi precisa: «[la] classificazione proposta [...] [che distingue
giochi di competizione, di fortuna, di travestimento e di vertigine] non
avrebbe alcuna validità se non si vedesse con evidenza che le suddivisioni che
essa stabilisce corrispondono a degli impulsi essenziali e irriducibili» (p.
30; corsivo aggiunto). Il lavoro svolto in questo capitolo mi consente, nello
spirito della logica dialettica, di gestire la contraddizione in altro modo,
perché mi consente di riconcettualizzare alcuni aspetti della situazione della
bimba come regole del suo gioco e di stabilire così la parentela fra i due tipi
di gioco, che in questa luce sarebbero meglio detti due fasi del gioco – di un
gioco che, nella sua evoluzione da una fase all’altra, rimane sempre
uguale a sé stesso. Ridefinizioni come quella che incontriamo qui sono
possibili solo a uno sguardo retrospettivo. Se le nostre osservazioni e i
nostri dati fossero limitati al gioco della bimba, sarebbe peregrino parlare
del fatto che la bimba rinuncia a far rotolare il cubo come della sua
assunzione di una regola. Per dirne una, questa è una «regola» che nessuno ha
formulato e di cui addirittura forse nessuno è cosciente. Ma dal successivo
punto di vista di giochi come il calcio, le cui regole sono sancite da
istituzioni ufficiali e applicate (si spera) alla lettera da tutti i
praticanti, è possibile cogliere l’analogia con quella primitiva forma di
adeguamento: vederla come il germe che sarebbe poi fiorito in regole
precisamente codificate e trasmesse, come una manifestazione ancora implicita
di una caratteristica che si sarebbe successivamente fatta largo con evidenza.
Tale è appunto la logica della vita. Il senso dell’essere un bambino subito
quietato da una ninna nanna, o affascinato da oggetti di forma semplice e pura,
si coglierà solo quando l’adulto che quel bambino sarà diventato si rivelerà un
critico musicale o un geometra di prima grandezza; solo allora sarà possibile
raccontare la storia che è quel senso. Così, almeno, si procede nella logica dialettica
che ho adottato; in logica analitica, si potrebbero solo smembrare le
situazioni ed esperienze infantili e definirle in base ad alcuni tratti
(essenziali) che risultassero dallo smembramento, e andrebbero nettamente
distinti dai tratti che definirebbero le situazioni ed esperienze dell’adulto.
Nel caso specifico del gioco, come già accennavo, Piaget nega che quelle del
bambino molto piccolo siano regole, e dichiara (aprendo un tema sul quale dovrò
ritornare): prima del gioco in comune non potrebbero esistere delle regole vere
e proprie: esistono già delle regolarità e degli schemi ritualizzati, ma simili
rituali, essendo l’opera di un individuo solo, non possono comportare quella
sottomissione a qualcosa di superiore all’io, sottomissione che caratterizza
l’apparire di ogni vera regola (Il giudizio morale nel bambino, pp. 29-30).
Vygotskij, invece, scopre le sue carte hegeliane (e quelle della sua fonte)
quando, nella stessa pagina in cui esprime il suo disaccordo con Piaget, cita
il detto di Marx secondo cui «l’anatomia dell’uomo è la chiave dell’anatomia
della scimmia» (p. 138). Decenni più tardi, e senza citare nessuno, Steve Jobs
avrebbe affermato che si può ricostruire il senso della propria vita – in
inglese, connect its dots – solo per il passato, non per il futuro. Ecco allora
come la ridefinizione del gioco della bimba si estende alle prossime fasi del
nostro itinerario: Se è vero che il gioco è trasgressivo, è anche vero però che
la sua trasgressione ha luogo in un ambito che non viene a sua volta
trasgredito. Questo ambito dà al gioco condizioni, cioè regole, precise e ne
definisce l’identità – determina che gioco sia: il gioco condotto a quelle
regole. Nell’ambito delle sue regole, un gioco rimarrà tale in quanto è
trasgressivo e anche esplorativo, piacevole e rischioso; ma, più complesse e
articolate sono le sue regole, più complesse e articolate dovranno essere la
sua trasgressione, esplorazione eccetera. Un buon giocatore di scacchi
conoscerà bene le regole e avrà studiato molte partite dei grandi maestri del
passato, ma sarà un buon giocatore non perché ricorda e saprebbe ripetere
fedelmente le une e le altre quanto piuttosto perché, sapendo tutto quel che
sa, è in grado di sorprendere il suo avversario con una variante inedita o un
misterioso sacrificio – anzi, tanto più sarà bravo quanto più saprà sorprendere
un avversario che abbia conoscenze pari alle sue, magari usando le conoscenze
stesse per elaborare tattiche ancora più originali e sorprese ancora più
intense. Nelle parole di Caillois: «Il gioco consiste nella necessità di
trovare, d’inventare immediatamente una risposta che è libera nei limiti delle
regole» (p. 24). Tutto bene, sembra. O forse no. L’unificazione dialettica che
abbiamo così realizzato fra giocare con palle e cubi e giocare a calcio o a
scacchi reagisce ora in modo inquietante con la giustificazione provvidenziale
che avevo dato del gioco. È straordinariamente utile, dicevo, per un cucciolo
umano imparare giocando a controllare il suo corpo e i suoi movimenti, a riconoscere
e manipolare oggetti nello spazio, a dialogare ed empatizzare con i suoi
simili. Quando però questi straordinari progressi siano già stati effettuati,
qual è il senso e il valore del correre dietro un pallone o dello scervellarsi
su un’apertura di cavallo? Se il mondo è caotico, sarà una buona idea
esercitarsi ad abitare scenari diversi da quello attuale; ma che idea è
concentrarsi su attività come quelle appena citate? Ci aspettiamo che il mondo
diventi un giorno un gigantesco stadio o una gigantesca scacchiera? O abbiamo
invece a che fare, in questi casi, con delle forme di tic, di dipendenza: con
circostanze in cui quel che una volta dava piacere per ottimi motivi adesso
continua a dare piacere senza nessun motivo, e noi non sappiamo farne a meno?
5. Microcosmi Che un’attività o un’inclinazione originariamente proficue si
cristallizzino in un vano manierismo, in un’assurda coazione a ripetere è certo
possibile, e nel caso del gioco accade di frequente. In Giocare per forza,
dicevo, ho esaminato varie patologie ludiche, varie sembianze posticce in cui
si presenta qualcosa che non è più se non lo spettro del gioco, un parassita
che ne ha invaso l’area vitale soffocandone l’energia, la scoperta e il
piacere; le patologie non insorgerebbero se non si desse la perversa
possibilità che ho appena riconosciuto – se il gioco non potesse andare alla
deriva, non ci andrebbe così spesso. Per quanto ampiamente diffuso, però,
questo esito negativo non ha portata universale per il gioco condotto,
soprattutto dagli adulti, in ambienti fittizi e addomesticati come un campo di
calcio o una scacchiera. Al contrario, rimane vero in tali casi che l’esito
negativo è una perversione e che esistono modi legittimi di abitare quegli
ambienti fittizi e ottime ragioni per cui debbano essere fittizi. O forse
«fittizi» non è il termine giusto; più oltre dovremo riprendere in esame la
questione, con risultati su cui al momento converrà soprassedere. Cominciando
con la ragione più semplice, chi non gioca mai finirà per atrofizzare completamente
la sua capacità ludica così come chi non si muove mai finisce per atrofizzare i
suoi muscoli; una certa quantità di gioia trasgressiva, di istruttiva
esplorazione deve trovar posto nella nostra esistenza se non vogliamo
trasformarci in automi, morti prima del tempo pur continuando a respirare e a
metabolizzare il cibo. Se occupazioni e pratiche quotidiane non ci lasciano
molto tempo per il gioco, non avremo alternativa a trovarlo in spazi riservati,
in microcosmi di libertà entro i quali sfuggire a obblighi e impegni. (E sarà
un destino tanto più atroce e beffardo vedere questi presunti spazi serrarci in
nuove forme di schiavitù: vedere la nostra presunta libertà arenarsi nel tetro
cerimoniale di una slot machine o del «gioco» del lotto.) L’agilità non si
conquista una volta per tutte ma va mantenuta con uno sforzo costante: in
ambito fisico, con le corse e le flessioni mattutine; in ambito mentale, con il
sudoku e le parole crociate; in ambito ludico, improvvisando una discesa
da centrocampo o un arrocco – se non si dànno altre circostanze in cui ci
sia lecito improvvisare. Per addentrarci più a fondo e nelle pieghe più
complesse del problema, riprendiamo in considerazione il carattere rischioso
del gioco. È necessario tollerarlo, dicevo nel terzo capitolo, perché senza
correre rischi non potremmo sostenere il delicato equilibrio, sempre temporaneo
e sempre da rinegoziare e reinventare, richiesto da un mondo caotico e
costituzionalmente imprevedibile. Elaborare nuove strategie e comportamenti inusuali
è a sua volta una strategia preziosa se nessuna strategia sarà efficace per
sempre, e il gioco assolve questa indispensabile funzione. C’è però una strada
intermedia fra l’arrivare impreparati alla prossima catastrofe (ecologica,
finanziaria, sociale) e l’affrontare ogni catastrofe possibile prima che
diventi reale: affrontare piccole catastrofi sostitutive e rappresentative di
quelle che potrebbero capitare, giocare non direttamente nel mondo, e con il
mondo, ma ancora una volta in un microcosmo, una palestra che ci permetta di
compiere qualche avventata manovra senza correre gravi pericoli. Non proprio le
avventate manovre di cui avremmo bisogno quando si prospettasse un’autentica
catastrofe, forse; ma manovre abbastanza simili a quelle da darci una speranza
di salvezza. In altra sede ho articolato questa tesi commentando un passo del
Principe di Machiavelli; qui riassumerò in breve l’aspetto che ci riguarda. Il
principe, dice il Nostro, deve ininterrottamente addestrarsi alla guerra; ma
come può farlo quando la guerra non c’è e manca l’opportunità di farne pratica?
Risposta: in periodi di pace l’esercizio bellico del principe dovrà essere
condotto andando a caccia. Si metteranno così in azione doti che in guerra
saranno di grande utilità: la resistenza alla fatica, il compatto e
disciplinato lavoro di gruppo, la disinvoltura nel gestire varie configurazioni
del terreno. E lo si farà in modo tanto più adeguato allo scopo finale quanto
più quello scopo sarà presente al principe e ai suoi compagni: quanto più essi
non si lasceranno assorbire inerti dai meccanismi della caccia ma se ne
serviranno attivamente come di una scusa per giocare alla guerra. Immaginando
nemici appostati su una collina o nascosti nella macchia; ragionando su come
sventarne la minaccia e ridurli in proprio potere. Certo sarebbe più
realistico, quindi più efficace, inscenare una vera guerra, con vero
spargimento di sangue; numerose narrative distopiche molto popolari di questi
tempi raccontano un futuro angoscioso in cui un’umanità perduta si diletta con
simili trastulli. Chi (come me) ritenga inviolabile il rispetto per l’integrità
fisica e psicologica di ogni persona rifuggirà con orrore da
manifestazioni di tale vividezza e preferirà «accontentarsi» della lezione di
Machiavelli. Una lezione che dobbiamo generalizzare e dalla quale dobbiamo
trarre importanti conseguenze. Prepararsi alle sorprese che il futuro ci
riserba esige che abbandoniamo la serena, un po’ soporifera certezza delle
abitudini consolidate e ci mettiamo in gioco. Non necessariamente in modo
estremo, però, se arrivare all’estremo significa far violenza a noi o ad altri.
Possiamo metterci in gioco per procura, compiendo mosse che in parte somigliano
a quelle che dovremmo compiere nei momenti effettivi di crisi, e sperare che
quando tali momenti verranno ciò che abbiamo imparato, per quanto
insoddisfacente rispetto all’originale (quel che in parte somiglia è anche in
parte diverso), ci aiuti a sopravvivere e a prosperare. È questo il ruolo del
calcio e degli scacchi (oltre al loro contributo, già menzionato, nel tenere il
corpo o la mente «in forma»): chi sa sfuggire con destrezza a un marcatore
riuscirà forse a farlo davanti a un attacco ben più insidioso; chi sa
anticipare dieci mosse del suo avversario saprà forse anticipare il percorso di
una meteora o di un tornado. Poco fa ho chiamato questi «giochi per procura»;
voglio ora insistere sul termine perché è indice di un cruciale slittamento
semantico. Ogni sportivo sa quanto valgano gli allenamenti per far bene in gara
o nella partita; e sa che, per quanto preso tremendamente sul serio, un
allenamento non è mai la stessa cosa di una gara o di una partita. Troppi
fattori emotivi entrano in circolo quando si è alle prese con i cento metri di
una finale olimpica o l’ultimo incontro di un torneo: fattori che, per quante
volte si siano ripetute le mosse che si eseguiranno allora, rendono quella
situazione totalmente diversa – diversa proprio perché in essa non si può
ripetere nulla, perché è unica e irripetibile. Propongo di concepire la
grandissima maggioranza di quelli che comunemente denominiamo giochi come
allenamenti in questo senso. In certi casi noi stessi, o qualcosa o qualcuno
che conta molto per noi, siamo letteralmente in gioco; e questo è il gioco che
ci definisce, che ci qualifica come animal ludens, come l’animale che non ha
una nicchia ecologica ma, forzando costantemente i limiti della sua
adattabilità e sopportazione, ha fatto del mondo intero (questo mondo, per ora,
e domani, chissà, anche altri) la sua nicchia. Quelli che denominiamo giochi
sono spesso forme di allenamento al gioco per antonomasia, in cui si corrono i
veri rischi e si ottengono i veri benefici: un gioco che è bene in generale
rimandare fino a quando non diventerà inevitabile. Ottenendo in tal modo il
doppio vantaggio di assaporare la stabilità degli angoli di cosmo che si
annidano in un universo caotico e coltivare al tempo stesso, senza farsi
troppo male, abilità e mosse che potrebbero servirci quando il caos reclamerà
il suo dominio. Con una (già menzionata) limitazione, frutto scomodo della
relativa comodità dei giochi per procura: un allenamento non è mai la stessa
cosa della partita. In quanto puramente rappresentativo della partita, è
vittima della logica della rappresentazione: qualcosa è sempre rappresentato da
qualcos’altro, da qualcosa di diverso. La mia immagine nello specchio mi
rappresenta, ma non posso accarezzarla; i deputati in Parlamento mi
rappresentano (o almeno dovrebbero farlo), ma solo in quanto accetto di ridurmi
a una particolare costellazione di interessi; la caccia rappresenta la guerra,
o il calcio rappresenta un’invasione del terreno avversario e una violazione
della sua porta, della sua intimità, o gli scacchi rappresentano una raffinata
combinazione di intrighi, trappole e agguati, ma da queste violazioni e da
questi agguati nessuno dovrebbe uscire menomato o deflorato. (E forse è questo
il motivo per cui eccellono in tali rappresentazioni coloro che ne
marginalizzano il più possibile il carattere rappresentativo e in un certo
senso lo dimenticano: riescono cioè a disattivare nella loro pratica la
consapevolezza che si tratta solo di un gioco – su questo tema di grande
importanza ritornerò alla fine del capitolo.) Ernst Gombrich, che citerò ancora
in seguito a proposito del rapporto fra gioco e arte, rileva in A cavallo di un
manico di scopa (p. 14) che per un bambino un manico di scopa rappresenta un
cavallo solo in quanto può essere cavalcato, non perché gli somiglia. E, in
Arte e illusione, conferma ed estende il rilievo: L’essenziale dell’immagine
non è la sua verosimiglianza, ma la sua efficacia in un certo contesto
operativo. Può essere anche verosimile, allorché si ritiene che questo possa
contribuire alla sua efficacia (p. 112). Ho detto che i giochi per procura si svolgono
in microcosmi: ambienti ristretti e fittizi che simulano condizioni reali.
Potrebbe sembrare un paradosso che la bimba da cui è iniziato il nostro
percorso giochi nel mondo e i membri di una squadra di calcio, invece, in una
copia in miniatura del mondo, considerando quanto è piccola la stanza in cui si
muove la bimba in confronto allo stadio affollato e urlante in cui ha luogo la
partita; e sarà bene allora sottolineare che la miniatura di cui stiamo
parlando si riferisce a dimensioni non spaziali ma esistenziali. Nel suo
piccolo spazio la bimba investe tutta sé stessa, e bisogna farle attenzione e
proteggerla per evitare che questa sua assoluta dedizione abbia effetti
distruttivi; davanti alle folle oceaniche degli stadi si compie invece un rito
dalla fisionomia precisa ed esclusiva, in cui solo alcuni movimenti e
atteggiamenti sono legittimi. Le barriere che separano questo microcosmo dal
mondo sono assai porose, certo; il gioco vero è sempre sul punto di prendere la
mano a quello finto, con effetti talvolta tragici; ma la possibilità che l’uno
si trasformi nell’altro non nega la loro distinzione. Fa solo notare che non si
tratta di una distinzione neutrale, definita una volta per tutte: come la
repressione freudiana, va mantenuta a ogni istante esercitando appropriate
resistenze, e nel momento in cui le resistenze vengono meno il microcosmo è
inghiottito dal gioco globale, in cui ci si fa male davvero. Quest’ultima
osservazione ci costringe a rivisitare le conclusioni del capitolo precedente.
(In un labirinto, oltre a girare a vuoto e percorrere sentieri tortuosi, si
deve talvolta fare qualche passo indietro.) Lo sfondo, cioè le regole, avevo
concluso, definiscono il gioco a cui stiamo giocando; le figure che tracciamo
sullo sfondo costituiscono la nostra attività ludica. Le regole determinano la
topologia del microcosmo in cui abbiamo deciso di risiedere e a quelle regole
noi vi risiederemo con maggiore o minore creatività e godimento, da buoni o
cattivi giocatori quali siamo. Occorre però evitare il malinteso che la
distinzione tra figura e sfondo, tra regole e creatività, sia, una volta
decisa, mai più contestabile, che non sia essa stessa in gioco. In una scena
esilarante di Butch Cassidy, Paul Newman viene sfidato a duello da un membro
della sua banda, un bruto gigantesco che dà l’impressione di poterlo sbudellare
con facilità. Senza scomporsi, Butch/Paul lo avvicina e gli dice che, prima di
lottare, devono mettersi d’accordo sulle regole. Il mostro lo guarda allibito;
in quell’attimo di sconcerto Butch gli assesta un poderoso calcio al basso
ventre e poi, quando si piega in avanti, una robusta mazzata in faccia con i
due pugni congiunti. Il duello è finito prima ancora di cominciare, prima
ancora di stabilire le regole alle quali doveva essere condotto. Siamo così
tornati per altra via alla complessità sancita dalla fisica e quel che
sembravamo aver capito quando ne abbiamo parlato la prima volta si trasforma
ora in un oscuro dilemma. (In un labirinto, càpita di ripassare per lo stesso
punto e di non riconoscerlo.) Il mondo è infinitamente ambiguo, avevamo
concluso: non obbedisce a regole univoche ma risulta invece da una
sovrapposizione di sistemi di regole fra loro incommensurabili, entro ciascuno
dei quali si potranno anche fare previsioni senza però poter prevedere, di
volta in volta, in che sistema sceglieremo di vivere. Non c’è, anzi, il mondo
ma ci sono questi sistemi molteplici, e nello slittare dall’uno all’altro ci
spostiamo da un mondo all’altro. Nel linguaggio che stiamo utilizzando adesso,
potremmo dire che ciascun sistema è un microcosmo, un particolare ambiente
ludico; ma qui abbiamo anche detto che ogni microcosmo corre sempre il
rischio che i suoi confini non tengano, che il mondo reale (il mondo del gioco
reale) che fa pressione su quei confini li sfondi e a un tratto ci si possa far
male davvero. Come la mettiamo, allora? Esiste un mondo reale che fa pressione
sui microcosmi, sui sistemi di regole, sui giochi; oppure vale quel che si è
detto nel terzo capitolo, che esiste un mondo solo dopo che si sia scelto un
sistema di regole? Una risposta semplice e lapidaria a questa domanda è:
valgono entrambe le cose. Non c’è nulla di semplice, tuttavia, nel significato
della risposta. Per cominciare, occorre intendersi: se un «mondo» dev’essere
una struttura definita, che contenga oggetti specifici con specifiche proprietà
e relazioni, allora non esiste un mondo senza la scelta del vocabolario che lo
fonda (in accordo con le spiegazioni date nel terzo capitolo). Possiamo anche
dire, però, che «così va il mondo», cioè che esso non va come si pensava un
tempo (e come ancora pensano in molti): non è indipendente da una scelta; le
cose non stanno in nessun modo finché non si sia deciso come descriverle – e
anche questo è, in senso lato, un modo in cui stanno le cose. Da questa banale
distinzione terminologica segue una conclusione tutto men che banale: se «al
mondo» non ci sono che microcosmi, allora quel che fa «realmente» pressione su
un microcosmo, «il mondo» che minaccia di sommergerlo, sono altri microcosmi.
Un gioco è sempre e soltanto minacciato da altri giochi (nel senso che è sempre
possibile slittare dall’uno agli altri). Giocare con le regole invece che alle
regole di un particolare gioco (come faceva Butch Cassidy) non significa situarsi
in una dimensione neutrale, fuori da ogni gioco, dalla quale il gioco e le sue
regole possano essere contestati; significa sempre e soltanto collocarsi in un
altro gioco. Nel percorso compiuto finora abbiamo già provato qualche
sconvolgimento prospettico; abbiamo già visto talvolta l’anatra tramutarsi
sotto i nostri occhi in un coniglio. Qui siamo arrivati a un nuovo episodio
dello stesso tipo. In partenza, sembrava ovvio che la bimba stesse giocando e i
suoi genitori no (quando, per esempio, si assicuravano che fossero coperte
tutte le prese e chiuse tutte le finestre prima di lasciarla giocare
indisturbata); che gli atleti su un campo di calcio giocassero ma gli operai
che montavano le porte no; che ci fosse differenza tra giocare alla guerra e
fare la guerra (davvero, invece che per finta). Ora questa ovvia differenza non
solo non è più ovvia; non è più nemmeno una differenza. O meglio, una
differenza c’è ma non è quella tra un gioco e un non-gioco, o tra un ambiente
fittizio e uno reale. Se per la bimba non c’è niente di più serio del suo
gioco, e se in generale i giocatori prendono il loro gioco molto sul serio, è
perché non c’è distinzione sostanziale fra gioco e attività serie: un’attività
seria è un gioco preso sul serio, un’attività definita da uno sfondo di regole
in cui una o più persone decidono di immergersi, un microcosmo entro i cui
confini una o più persone decidono di abitare. Prendere sul serio qualcosa vuol
dire assumere un atteggiamento di completa concentrazione e rifiutarsi di
ammettere qualsiasi distrazione, qualsiasi alternativa alla pratica corrente.
Succede ai bambini che giocano, agli adulti ossessionati dal poker o dalla
roulette e agli altri adulti, molto più maturi e responsabili, che si dedicano
anima e corpo al loro lavoro. L’analogia fra tutte queste situazioni è
evidente, o almeno dovrebbe esserlo, ma noi di solito riusciamo a non vederla
inforcando gli occhiali normativi (o prescrittivi) di cui ho parlato nel
secondo capitolo: chi si concentra sul proprio lavoro fa bene perché sul lavoro
ci si deve concentrare; chi si concentra sulle avventure di una bambola
dimostra il proprio carattere infantile; chi si concentra sul poker è
dipendente e malato. Mettiamo da parte queste norme introdotte di straforo,
senza valutazione e senza critica, e rimaniamo su un piano descrittivo, là dove
l’evidenza dell’analogia è innegabile. Ci apparirà allora con improvvisa
chiarezza una nuova prospettiva sull’intera faccenda: la realtà «seria» non è
che un gioco senza alternative riconosciute, su cui non si avverte la pressione
di altri giochi. Il lavoro è la realtà di chi non vive le sue regole come una
scelta; il poker è la realtà del giocatore ossessivo. (Il che non modifica il
fatto che alcuni giochi possono [a] essere più ampi e ramificati di altri, meno
disponibili alla ripetizione, a provare e riprovare le stesse mosse, e più
propensi a esiti dolorosi e devastanti o [b] rappresentarne altri, con tutte le
ambiguità connesse alla rappresentazione, quindi che [c] si possono limitare i
danni giocando «per procura» a giochi puramente rappresentativi di quelli più
rischiosi.) C’è un’importante precisazione da fare su quel che ho appena detto:
è necessario correggere subito la rotta per non andare fuori strada.
Sembrerebbe, a questo punto, che ci sia qualcosa di intrinsecamente sbagliato
nel prendere un’attività sul serio, il che non è vero. Torniamo ancora una
volta alla bimba: sbaglia forse, lei, a immergersi in modo assoluto, totale,
nelle figure che costruisce? Niente affatto: praticare un gioco con pazienza,
con dedizione, nell’oblio di ogni alternativa, è il modo migliore per
familiarizzarsi con il suo particolare microcosmo, per esplorare tutta la
creatività, tutto il «gioco» consentiti dalle sue regole. Ma domani la bimba
sarà in un’altra stanza, o in giardino, o sul sedile posteriore di
un’automobile, dove incontrerà altre resistenze che accetterà come regole
di un altro gioco; ed è questa flessibilità che la protegge dall’ossessione,
che anzi trasforma la sua momentanea ossessione in un punto di forza. Ogni
gioco, mentre è giocato, va preso sul serio; quel che ne conserva anche il
carattere di gioco (oltre a quello di serietà), per chi lo pratica, è il fatto
che gli siano presenti, magari implicitamente, altri giochi. Nell’Essere e il
nulla, Sartre parla di un cameriere che si è trasformato nello stereotipo di un
cameriere, e che cerca così di sfuggire alla coscienza di essere un cameriere.
Adattando il suo esempio al mio discorso, direi che al cameriere manca ogni
senso di alterità e che senza alterità non c’è vera identità: c’è solo un magma
indifferenziato nel quale siamo avvolti senza rimedio. Gli manca un lampo di
quell’ironia che segnala l’alterità e gli permetterebbe di vedere (da un altro
punto di vista) quel che sta facendo come uno dei tanti giochi possibili – come
qualcosa che non lo inchioda fatalmente a un ruolo e proprio per questo gli
permette di vivere il suo ruolo con serenità. Ho avuto la fortuna, talvolta, di
veder affiorare questo lampo d’ironia (che sarebbe come dire, per me, d’intelligenza)
in un bambino, di solito intorno ai due anni, e mi sono reso conto allora che
avevo davanti un essere umano. In Verso un’ecologia della mente, Gregory
Bateson arriva a una conclusione analoga, formulata nei termini
logico-matematici che gli sono abituali. Un gioco, dice, è generalmente vissuto
in un’atmosfera paradossale: nell’ambito della premessa «Questo è un gioco» e
quindi di indicazioni contrastanti a prendere sul serio quel che si fa e anche
a non prenderlo sul serio. «È nostra ipotesi che il messaggio “Questo è gioco”
stabilisca un quadro paradossale, paragonabile al paradosso di Epimenide [cioè:
quel che sto dicendo adesso è falso]» (pp. 225-226). Ma tali paradossi,
analoghi a quelli della teoria degli insiemi (come «l’insieme di tutti gli
insiemi che non si appartengono si appartiene e non si appartiene») non vanno
esorcizzati (come fa Bertrand Russell introducendo la sua teoria dei tipi
logici), perché nella loro assurda, irriducibile complicazione sono l’essenza
stessa dell’attività e della vita. La nostra tesi principale può essere
riassunta in un’affermazione della necessità dei paradossi dell’astrazione.
L’ipotesi che gli uomini potrebbero o dovrebbero obbedire alla teoria dei tipi
logici nelle loro comunicazioni non sarebbe solo cattiva storia naturale; se
non obbediscono alla teoria non è solo per negligenza o per ignoranza.
Riteniamo, viceversa, che i paradossi dell’astrazione debbano intervenire in
tutte le comunicazioni più complesse di quelle dei segnali di umore, e che
senza questi paradossi l’evoluzione della comunicazione si arresterebbe. La
vita sarebbe allora uno scambio senza fine di messaggi stilizzati, un gioco con
regole rigide e senza la consolazione del cambiamento o dell’umorismo (p.
235). Alla fine del capitolo precedente mi ero posto un problema: qual è
il senso di giochi dai quali non sembriamo imparare nulla d’importante, che
sembrano servire solo a passare (ad ammazzare?) il tempo? La «soluzione» del
problema ha finito per negarlo, ridisegnando l’intera cartografia che ne
tracciava il territorio. Non ci sono giochi utili per conoscere il mondo reale
e altri oziosi e gratuiti. Ci sono solo giochi, che rimangono tali finché
rimangono al plurale e smettono di esserlo (diventano reali) quando ne perdiamo
di vista la molteplicità. Anche in questo caso, la molteplicità non cesserà di
esistere e noi dovremo pur sempre difenderci dalla sua intrusione; la nostra
difesa però non sarà (per usare ancora una volta metafore freudiane) un
consapevole, versatile negoziato fra istanze ugualmente legittime e in grado di
scambiarsi le parti, di mescolarle e così rinnovarsi continuamente, ma una
rimozione di fissità nevrotica che con l’altro non dialoga e che proprio per
questo all’altro prima o poi si arrenderà. 6. Calma e gesso Nel gioco del
biliardo, che un mio compagno di liceo definiva «giusto e saggio», càpita di
trovarsi davanti a situazioni molto complicate. La palla che dobbiamo colpire è
coperta dal pallino o dal castello (sto parlando di un biliardo all’italiana, o
eventualmente alla goriziana, con due palle, un pallino e cinque birilli, o
eventualmente nove); possiamo prenderla solo di sponda, quindi invece di
sparare subito d’istinto conviene esaminare le nostre opzioni con calma, e
meglio ancora se nel frattempo ingessiamo la stecca per evitare che dopo tante
elucubrazioni scivoli malamente nel tiro (probabilmente a effetto) che
decideremo di tentare. Fuor di metafora, quando si percorre un itinerario
tortuoso e accidentato come quello attuale è buona idea fermarsi ogni tanto e
considerare la nostra posizione, che magari dopo numerose giravolte è cambiata
e va rivalutata nella nuova forma che ha assunto e nelle nuove condizioni e
opportunità che ci offre. È quanto mi propongo di fare in questo capitolo,
prima di riprendere il cammino. Nelle ultime pagine abbiamo compiuto, ho detto,
un rivolgimento prospettico. Naturalmente, mi sono affrettato a trarne le
conseguenze e a ridisegnare alla sua luce il nostro territorio. Ma qualche
minuto di pausa supplementare e qualche riflessione più articolata sono
opportuni, per apprezzare la radicale novità della mappa che sta emergendo.
Siamo partiti con una distinzione forse talvolta (in casi limite) vaga ma di
solito, apparentemente, piuttosto chiara. A nascondino e a pallacanestro si gioca;
quando si prende il tram per andare in ufficio o si prepara la cena non si
gioca – e chi lo facesse non starebbe davvero preparando la cena o andando in
ufficio; starebbe facendo chissà che cosa, con l’alibi di preparare la cena o
andare in ufficio. Ora però abbiamo detto che ci sono solo giochi. Vogliamo
dire che quella distinzione apparentemente chiara (ma, ho affermato, non
«sostanziale») va abbandonata? E che senso ha parlare di gioco, di attività
ludica, se non esiste nessun altro tipo di attività: se il fatto che
un’attività sia un gioco non la pone in contrasto con nient’altro di quel che
possiamo fare? Non abbiamo così inopinatamente perso per strada il concetto
stesso di cui volevamo rendere conto, alla cui comprensione abbiamo
dedicato tanti sforzi? Ho detto che un gioco è definito da uno sfondo su cui il
gioco elabora le sue figure; ho detto che c’è concorrenza, e lotta, sulla
natura di questo sfondo, che si gioca non solo alle regole ma anche con le
regole. E ho detto che quello che stiamo conducendo qui è un gioco, di
carattere trasformativo (o dialettico): che esso ci porta (per esempio) a
vedere il gioco di una bimba trasformarsi nel gioco del calcio. Stiamo ora
arrivando a capire meglio che gioco è. Parte di quel che questo gioco fa è trasformare
il rapporto tra figura e sfondo nell’essere umano (dove «essere» è inteso come
verbo; alla fine del viaggio suggerirò che la qualifica «umano» potremmo
lasciarla cadere e che la trasformazione riguarda tutto l’essere). Normalmente
(e ricordiamo la norma sempre implicita in simili espressioni) si pensa che il
gioco sia una figura un po’ strana e misteriosa tracciata sullo sfondo delle
comuni, serie occupazioni quotidiane. Il suo posto è marginale, letteralmente
ai margini della vita ordinaria: pertiene all’infanzia, ai giorni di festa,
alla vita di scioperati e nullafacenti («Chi ha fame non gioca», dice Caillois
a p. 14). E c’è da chiedersi se serva a qualcosa. Il rivolgimento prospettico
che abbiamo attuato ci mostra un quadro completamente diverso: una condizione
umana in cui lo sfondo, la normalità, la norma sono attività ludiche, condotte
per il puro gusto e il puro piacere che dànno, e le attività strumentali, tese
a uno scopo esterno a sé stesse, al conseguimento di un risultato, sono un mistero
da spiegare. Nell’Educazione estetica Friedrich Schiller arriva a una
conclusione analoga quando afferma: «l’uomo gioca soltanto quando è uomo nel
senso pieno del termine, ed è interamente uomo solo laddove gioca» (p. 56). E
la spiega, anche, in modo simile all’articolazione che ho fornito qui, come il
risultato di una costante tensione fra esigenze opposte: «deve esservi un
elemento comune tra impulso formale e impulso materiale, cioè un impulso al
gioco, perché solo l’unità della realtà con la forma, della contingenza con la
necessità, della passività con la libertà porta alla perfezione il concetto di
umanità» (p. 54). In una famosa scena di 2001: Odissea nello spazio un nostro
antenato ominide solleva da terra un lungo, robusto osso e lo agita senza senso
e senza intenzione di qua e di là. Per gioco, potremmo dire. Finché,
casualmente, l’osso urta un cranio che giace lì vicino e lo frantuma, e così lo
scimmione scopre (con enorme eccitazione) di avere in mano un’arma e nella
prossima scaramuccia con un gruppo di avversari la usa per commettere un
omicidio. Kubrick vuole raccontarci la storia di una specie (la nostra) feroce
e sanguinaria; ma storie simili e meno cruente si potrebbero raccontare su
un’altra scimmia che con la medesima casualità scopra come far cadere un
cespo di banane da un albero, o come adagiare un tronco per traverso su un
ruscello e usarlo da ponte. Jerome Bruner, in Natura e usi dell’immaturità,
riassume storie analoghe in questo modo: Sarei tentato di avanzare l’ipotesi
poco ortodossa secondo la quale nello sviluppo dell’uso degli strumenti è stato
necessario un lungo periodo di attività combinatoria opzionale e libera da
qualsiasi pressione. Per sua natura l’uso di strumenti (o l’incorporazione di
oggetti in attività qualificante) ha richiesto la preliminare possibilità di
un’ampia varietà di esperienze sulla quale potesse poi operare la selezione (p.
37). Una caratteristica fondamentale dell’uso di strumenti negli scimpanzé come
nell’uomo è la tendenza a sperimentare varianti del nuovo pattern di attività
in differenti contesti [...]. Probabilmente è proprio questa «spinta alla
variazione» (piuttosto che la fissazione per rinforzo positivo) che rende tanto
efficace la manipolazione nello scimpanzé (p. 41). Il gioco, data la sua concomitante
libertà da rinforzi e il suo collocarsi in un ambiente relativamente libero da
pressioni, può produrre la flessibilità che rende possibile l’uso di strumenti
(p. 43). La libertà espressa nel gioco sarebbe dunque il serbatoio inesauribile
da cui sfociano tutte le attività serie: cristallizzazioni perlopiù temporanee
e locali cui ci affezioniamo e che ripetiamo con fedeltà perché si sono
rivelate inaspettatamente preziose, mentre il gioco continua. (Ritroviamo così,
come cifra del gioco, l’investimento nell’eccessivo e nel puramente possibile,
da cui viene distillato con pazienza ciò che finisce per apparire utile o anche
necessario.) L’immagine che stiamo disegnando è quella di uno spettro di
comportamenti (analogo allo spettro dei colori), a un’estremità del quale c’è
pura libertà (comportamenti del tutto caotici e imprevedibili) e all’altra pura
costrizione (comportamenti del tutto fissi e stereotipi). In modo analogo,
Caillois sovrappone alla sua già citata categorizzazione analitica di vari tipi
di gioco un’ulteriore tassonomia organizzata in modo graduale: [Si possono]
ordinare [i giochi] fra due poli antagonisti. A un’estremità regna, quasi
incondizionatamente, un principio comune di divertimento, di turbolenza, di
libera improvvisazione e spensierata pienezza vitale, attraverso cui si
manifesta una fantasia di tipo incontrollato che si può designare con il nome
di paidia. All’estremità opposta, questa esuberanza irrequieta e spontanea è
quasi totalmente assorbita, e comunque disciplinata, da una tendenza
complementare, opposta sotto certi aspetti, ma non tutti, alla sua natura
anarchica e capricciosa: un’esigenza crescente di piegarla a delle convenzioni
arbitrarie, imperative e di proposito ostacolanti, di contrastarla sempre di
più drizzandole davanti ostacoli via via più ingombranti allo scopo di renderle
più arduo il pervenire al risultato ambìto [...]. A questa seconda componente
do il nome di ludus (p. 29). E anche Piaget parla di polarità: il gioco non
costituisce una condotta a parte o un tipo particolare di attività tra le
altre: esso si definisce soltanto mediante un certo orientamento della condotta
o in virtù di un «polo» generale verso cui converge quest’attività nel
suo complesso restando caratterizzata così ogni azione particolare dall’essere
più o meno vicina a questo polo e dal tipo di equilibrio che c’è tra le
tendenze polarizzate (La formazione del simbolo nel bambino, pp. 213-214). il
gioco si riconosce da una modificazione, variabile di grado, dei rapporti di
equilibrio tra il reale e l’io. Si può sostenere dunque che, se l’attività ed
il pensiero adattati costituiscono un equilibrio tra l’assimilazione [del reale
all’io] e l’accomodamento [dell’io al reale], il gioco comincia quando la prima
predomina sul secondo [...]. Ora, per il fatto stesso che l’assimilazione
interviene in ogni pensiero e che l’assimilazione ludica ha per solo segno
distintivo il fatto di subordinarsi l’accomodamento invece di realizzare un
equilibrio con esso, il gioco si deve considerare collegato al pensiero
adattato da una gamma di stati intermedi, e solidale con tutto il pensiero, di
cui esso non costituisce che un polo più o meno differenziato (pp. 218-219). Io
però intendo proporre qui un’operazione più radicale. Invece di trovare il
gioco in una parte dello spettro e il non-gioco in un’altra (o, come fa
Caillois, giochi diversi da una parte e dall’altra), intendo rivoluzionare il
senso della parola «gioco», decidendo che il gioco sia non un’attività
specifica («questo è un gioco e quello non lo è») ma un aspetto di ogni
attività, un suo parametro: il parametro che misura quanta libertà l’attività
esprima. Che ci siano solo giochi vorrà dire allora che tutte le attività
possono essere misurate relativamente a questo parametro, anche se per alcune
la misurazione darà un valore assai vicino allo zero. In modo inversamente
proporzionale alla libertà di un comportamento cresce, nello spettro, la
presenza e l’importanza delle regole; quindi, se ammettiamo che gli estremi
dello spettro (il grado zero di libertà e il grado zero di regole) siano
astrazioni puramente ideali, confermeremo quanto si è detto nel quarto
capitolo, che cioè ogni gioco si svolge a determinate regole – intendendo la
frase nel nuovo senso che ha ora acquisito: ogni attività ha insieme un aspetto
regolamentato e uno ludico. Mentre varchiamo una soglia per affrancarci dalle
strettoie che al suo interno ci opprimono, troveremo un’altra soglia; e sarà
nell’interazione tra il nostro desiderio di affrancamento e i limiti con cui
quel desiderio si deve confrontare che la nostra libertà guadagnerà contenuto e
sostanza, e realizzerà strutture sempre più articolate, complesse e funzionali.
Quando siamo d’accordo che così stanno (così vediamo) le cose, nulla ci
impedisce di ammettere un uso informale e colloquiale della parola «gioco» in
riferimento a specifiche attività. Un gioco, potremmo dire, è un’attività il
cui parametro ludico è elevato, o almeno significativo; un non-gioco è
un’attività il cui parametro ludico è trascurabile. In modo analogo, gli esseri
umani potrebbero essere disposti su uno spettro in base alla loro altezza, e da
un certo punto in avanti (impossibile da determinare con esattezza) le persone
con un’altezza elevata, o almeno significativa, verrebberro dette,
semplicemente, alte. Rimarrebbe vero, con questa convenzione, che in
generale (il senso della precisazione sarà chiaro tra breve) il nascondino e la
pallacanestro sono giochi ma il preparare la cena e l’andare in ufficio no; e
sarebbe anche vero che le slot machines e il «gioco» del lotto, avendo un
parametro ludico praticamente nullo, non sono giochi ma imposture. Che
all’indomani del rivolgimento prospettico si possano dire le stesse cose di
prima non equivale però ad averne moderato l’impatto, ad avergli spuntato le
unghie. Categorizzare le attività umane in termini di uno spettro come quello
che ho descritto non è un’operazione innocente, perché implica che ogni
attività, per quanto scontata e ripetitiva, abbia almeno implicito, almeno
potenziale, un certo grado di libertà, e che dunque in essa ci sia spazio (ci
sia gioco, come quello della vite) per esplorare e apprendere, per rischiare e
trasgredire. (Così come ogni attività ludica può venir soffocata da un eccesso
di regole.) Nel mondo ordinato degli antichi greci, ogni cosa aveva il suo
posto e lo stato naturale era la quiete – lo stato, cioè, in cui era ogni cosa
quando aveva raggiunto il suo posto. (Questo valeva sulla Terra. Nei cieli, i
corpi si muovevano con il moto più simile alla quiete: il moto circolare
uniforme, che ritorna sempre su sé stesso.) E capire quel mondo voleva dire
«tagliarlo seguendone le nervature»: riflettere nelle nostre classificazioni
concettuali la precisa e definitiva articolazione delle sue differenze. In base
a questa logica, fra gioco e non-gioco esisterebbe uno scarto qualitativo: si
tratterebbe di qualità diverse, anzi opposte, e nulla potrebbe essere l’uno e
l’altro insieme. Che il nostro mondo sia caotico implica che in esso sia
naturale non la quiete ma un movimento costante e irregolare, e non solo il
movimento di una cosa da un posto all’altro ma anche un movimento che riguarda
l’essere di quella cosa, che costantemente e irregolarmente ne cambia la
definizione e le caratteristiche più intime. La nostra nuova prospettiva sul
gioco s’inquadra in un mondo siffatto, in cui l’essere gioco non è un destino
degli scacchi o del tennis e l’essere non-gioco un destino dell’avvitare un
bullone o dello spolverare il mobilio. Gioco e non-gioco sono invece
opportunità sempre aperte; e può essere sufficiente, a volte, il battito d’ali
di una farfalla perché la più ottusa delle routine si accenda d’improvvisa
follia (manifestando il pizzico di follia che già conteneva) o perché la più
audace delle avventure s’incagli su un binario morto. 7. Illusioni Nel
quarto capitolo ho detto che quella di figura e sfondo è una metafora: che le
«figure» non hanno necessariamente nulla di visivo. Una metafora estende l’uso
di una parola al di là dei suoi contesti abituali, dandole un senso traslato,
inappropriato e incongruo ma spesso suggestivo (in quanto suggerisce
associazioni, emozioni, ricordi). È anch’essa un gioco, di parole appunto; e
come tale ce ne dovremo occupare a tempo debito. Per ora mi limito a osservare
che se una metafora può traslare, trasferire il senso di una parola allora quel
senso, si presume, ha un’origine da cui essere trasferito: che si diano sensi
metaforici presuppone che ne esista uno letterale. Giulietta non è,
letteralmente, il sole; ma quel che ci permette di capire che cosa il poeta intenda
con questa frase è la nostra familiarità quotidiana con un astro che è il sole
nel senso più proprio del termine. Anche questa distinzione verrà in seguito
contestata; ma qui prendiamola per buona perché ha molto da insegnarci. Un
cambiamento di prospettiva, di punto di vista, può essere un evento di natura
astratta, che ci coinvolge solo a livello concettuale. Abbiamo sempre pensato a
noi stessi come a fedeli esecutori di istruzioni ricevute dall’esterno, da una
guida o un capo più o meno benevoli, e tutt’a un tratto comprendiamo («ci salta
agli occhi», metaforicamente parlando) di quante microdecisioni sia intessuta
la nostra esecuzione di un compito, e quanto siano quelle decisioni, quelle
scelte forse inconsapevoli ma importanti, a determinarne il successo, invece
della pedestre acquiescenza a modelli alieni. Se pure adoperiamo un vocabolario
percettivo per descriverla (dicendo per esempio che abbiamo imparato a
«vederci» in modo diverso), questa trasformazione è di carattere intellettuale,
logico; riguarda una «prospettiva» che è un’interpretazione, non una direzione
nello spazio. Esistono però anche casi come il seguente (ne parla fra gli altri
Jacques Lacan). Il famoso quadro Gli ambasciatori di Hans Holbein, se guardato
di fronte, presenta una strana forma in basso (Lacan la paragona a uova
fritte); ma se, mentre ce ne allontaniamo, ci giriamo ancora una volta a
guardarlo (forse perché quella forma misteriosa ci ha inquietato) ecco che da
quel punto, letteralmente, di vista scorgiamo infine l’immagine che il
pittore voleva mostrarci (e capiamo il messaggio che voleva lanciarci –
ogni trasformazione percettiva ha una ricaduta intellettuale, ma non vale
l’inverso). Le uova fritte sono diventate un teschio. Nell’universo infantile,
cambiamenti letterali di prospettiva (su un corpo, un oggetto, una situazione)
sono tra le fonti più intense di gioia. È un mondo popolato di smorfie, guizzi,
voltafaccia, nel quale nulla diverte di più del vedere personaggi di dimensioni
gigantesche, che normalmente costringono a guardarli dal basso in alto,
rotolarsi per terra, camminare a quattro zampe, magari con un bambino in groppa
per fargli vedere dall’alto spettacoli di solito inaccessibili: una nuca, del
cuoio capelluto, delle stanghette di occhiali. Nella vita adulta, occasioni del
genere sono più rare, limitate come sempre accade con il gioco a ricorrenze
catartiche (il carnevale, le vacanze, il sesso) e occupazioni specifiche
(l’attore, il clown). Quel che conserva una frequenza più costante sono non
tanto occasioni quanto particolari oggetti multiformi, insieme artistici e
illusori, anzi artistici perché illusori (come ben aveva capito Gombrich, che
al tema dedicò il suo capolavoro Arte e illusione). A questi loro aspetti mi
rivolgerò adesso, cominciando dal secondo. Abbiamo già incontrato il paradosso
della rappresentazione: di una cosa, cioè, che ne rappresenta un’altra, diversa
da sé stessa. Una rappresentazione, aggiungo ora, è in certa misura
un’illusione; in particolare, una rappresentazione percettiva come quelle su
cui mi concentrerò qui è (in certa misura) un’illusione percettiva. Nel
linguaggio ordinario, «illusione» non è un termine neutrale: accenna a qualcosa
di falso, di ingannevole; è legato a giudizi di valore negativi, usato con
intento critico. Dobbiamo evitare di rimanere vittime di illusioni; dobbiamo
conoscere la realtà che le illusioni ci nascondono. Voglio prendere le distanze
da tali giudizi e dalle norme che essi sottintendono: norme che favoriscono
stabilità e conformismo nella visione del mondo. Osservo invece che dentro
«illusione» c’è la radice del gioco e il prefisso «in» annuncia (se solo
stessimo a sentire quel che diciamo) che un’illusione (ci) mette in gioco.
Questo è il senso in cui voglio usare la parola, respingendo ogni ipotesi di
inganno o di frode e sostituendola con un richiamo positivo alla sfera ludica.
È in questo senso, per esempio, che nubi di una certa forma possono illuderci
che un destriero stia galoppando per il cielo: rimettendo in discussione il
fatto che quelle siano nubi, che il cielo abbia una sua determinata, fissa
configurazione, che certe cose (certi animali) non vi abbiano corso. L’epigrafe
del capitolo L’immagine nelle nubi, in Arte e illusione, è tratta da Antonio e
Cleopatra di Shakespeare, e recita: Talvolta noi vediamo una nuvola
prendere forma di drago; talvolta un cirro la forma di leone o d’orso o di
turrita cittadella o d’un aereo picco; di forcuta montagna, di azzurri
promontori vestiti d’alberi, che fanno cenno colle chiome al mondo giù e ci
illudono gli occhi con un gioco d’aria (p. 172). A mente fredda diremo poi,
forse, che le nubi hanno rappresentato un cavallo, sigillando il gioco in
un’espressione paradossale che lo esorcizza invece di spiegarlo (e, se viene
ripetuta abbastanza spesso, darà probabilmente l’illusione di aver capito –
metterà in gioco che cosa voglia dire «capire»); quando invece il gioco ci
catturerà, ci accoglierà in sé, vedremo davvero – e nessuno potrà dirci che non
lo vediamo – il cocchio di Fetonte scalpitare a precipizio verso il suo
infelice destino. L’«in» di «illusione» è una particella, una preposizione,
ambigua (ha un significato che è a sua volta in gioco). Può introdurre un
complemento di moto a luogo («vado in piazza») e allora indicherà oggetti che
ci attirano, ci seducono a entrare in un gioco; ma il complemento può anche
essere di stato in luogo e allora s’insinuerà che il gioco ci ha avvolto, che
abitiamo al suo interno. L’ambiguità, e la tensione che l’accompagna,
traspaiono nel nostro rapporto con le nubi, se oscilliamo fra il notarne
(dall’esterno) una semplice ma affascinante analogia con la criniera di Pegaso
e l’abbandonarci all’altalena cui l’analogia allude, senza riposare nell’una o
nell’altra condizione. Sono anche attivate da oggetti creati proprio a tale scopo,
creati ad arte; e così slittiamo da una delle nostre parole all’altra.
«Artificiale» si oppone a «naturale», ed è un contrasto da prendere con
beneficio d’inventario. Molto ci sarebbe da dire su quanto sia naturale per gli
esseri umani costruire oggetti diversi da quelli che trovano già fatti. Ma non
è il discorso che m’interessa qui; accetterò l’idea che un albero è un oggetto
naturale e la casetta che gli è stata costruita sopra è artificiale, e dirò
quindi che gli oggetti che ci imprigionano in un gioco perpetuo, o almeno di
una certa durata (ci imprigionano in un comportamento libero? poco fa ho detto
che il gioco può catturarci; c’è una guerra condotta su queste parole, su che
cosa vogliano dire «libertà» e «schiavitù», ed espressioni del genere fanno
ampie concessioni all’avversario), sono in gran parte artificiali e, quando
acquisiscono una buona reputazione sociale, vengono qualificati come artistici.
L’anatra/coniglio cui ho fatto riferimento in precedenza appartiene a questa
classe di oggetti: basta continuare a guardarlo, senza fare altro, per veder
apparire alternativamente l’una e l’altra figura. E si noti a che livello
l’oggetto agisce: quel che stiamo guardando non sono nubi che diventano un
cavallo, stelle che diventano un leone e nemmeno un’anatra che diventa un
coniglio – è un disegno di un’anatra che diventa il disegno di un
coniglio. L’anatra/coniglio è un giocattolo: non una parte dell’ambiente che
noi sottoponiamo a pressioni e rivoluzioni ludiche, ma un oggetto deputato precisamente
a consentirci e facilitarci tali pressioni e rivoluzioni – un oggetto nato per
essere elemento di un gioco. E per questa via siamo arrivati una prima volta a
dama; abbiamo raggiunto nel nostro percorso una prima sublime manifestazione
dell’ingegno e della perizia umani. Abbiamo raggiunto l’arte, che possiamo ora
definire come la costruzione di oggetti che consentano e facilitino il gioco
percettivo, il sovrapporsi e lo scambiarsi di immagini multiple, l’illusione
percettiva. Torniamo al quadro di Holbein e trascuriamo la sorpresa con cui
saprà accomiatarci. Rimane il fatto che questo oggetto artificiale ci dà
l’impressione di essere al cospetto di due distinti gentiluomini, riccamente
vestiti e circondati da svariati simboli di potere, cultura e intrattenimento;
ma, anche mantenendo la nostra posizione frontale rispetto alla scena,
scorrendo gli occhi è facile vedere al loro posto una tavola bidimensionale
ricoperta di colori a olio, e poi tornare a vedere i gentiluomini, e poi ancora
la tavola, e magari, se il gioco ci appassiona, sforzarci di svelare il segreto
di tale sortilegio – avvicinarci e allontanarci dal dipinto per cogliere il
punto esatto in cui un’immagine dà luogo all’altra, in cui i gentiluomini si
fanno avanti, robusti e vitali, dal legno e dal pigmento che ne evocano la
presenza. Lo stesso vale per i sobri tratti che in uno schizzo o in un fumetto
dànno vita a un personaggio e al suo umore, per le trombe e i timpani che nella
Sesta di Beethoven ci immergono in un temporale, per le volte e le vetrate che
da una cattedrale gotica ci trasportano in una selva oscura, attraversata da
lampi di luce divina. Ogni oggetto artistico sa illuderci, invitarci a un gioco
aperto fra le sue molteplici incarnazioni, ispirarci a un’oscillazione
gestaltica che ne costituisce, in quanto appartiene all’arte, la ragion
d’essere. Lo stimolo [...] è infinitamente ambiguo, e l’ambiguità in sé [...]
non può esser vista: può solo essere indotta dal confronto di diverse letture
che tutte si adattano a una stessa configurazione. Credo [...] che il dono
dell’artista sia di questo genere. Egli è un uomo che ha imparato a guardare
criticamente, a saggiare le sue percezioni provando interpretazioni diverse o
opposte, sia per gioco che seriamente (p. 282). Il piacere che proviamo davanti
a un quadro, affermava il grande critico neoclassico Quatremère de Quincy
citato da Gombrich, dipende esattamente dallo sforzo che la mente fa per creare
un ponte tra arte e realtà. È proprio questo piacere che viene distrutto
allorché l’illusione è troppo completa. «Allorché un pittore costringe una
grande estensione in uno spazio ristretto, quando mi porta attraverso gli
abissi dell’infinito su una superficie piatta e fa sì che l’aria circoli
[...] mi piace abbandonarmi alle sue illusioni; ma voglio che ci sia la
cornice, voglio essere certo che ciò che vedo in realtà non è altro che una
tela o un semplice piano» (p. 254). Se questo gioco viene a mancare, se
l’illusione diventa inganno, allora in modo solo apparentemente paradossale per
chi abbia seguito la parola nella deriva semantica che ho proposto, l’illusione
scompare: «la perfezione dell’illusione ne ha segnato anche la fine» (p. 253;
traduzione modificata). E talvolta l’artista gioca anche con l’illusione (gioca
con il gioco stesso) e con le aspettative culturali che le sono associate:
l’orinatoio di Duchamp ci riporta indietro, al bambino per cui i migliori
oggetti con cui giocare sono quelli d’uso comune, e insieme ci ricorda che un
oggetto non è mai solo, è sempre vissuto in un ambiente che ne determina il
ruolo; quindi un orinatoio in un museo è qualcosa di più (e di meno) di un
orinatoio in un bagno e ci racconta qualcosa non solo di sé ma anche di noi
stessi. Siamo noi a illuderci (a giocare con il fatto) che visitare un museo
sia un’operazione equivalente a guardare dal buco della serratura, lasciando
tutto – tutta l’arte – com’è; mentre invece è proprio quella nostra visita a
costituire l’arte. In molti punti del labirinto in cui ci siamo inoltrati si
aprono altri labirinti: la struttura tortuosa dell’insieme si riflette nella
struttura di molte delle sue parti (simile in ciò agli strani attrattori della
teoria del caos, in cui ogni dettaglio ha complessità tanto infinita quanto il
tutto). Qui siamo arrivati a un punto siffatto: sull’arte si potrebbe scrivere
un altro libro, o una biblioteca. Ma resisterò anche a questa tentazione e mi
rimetterò in marcia, dopo aver fatto tre precisazioni. In primo luogo, devo
insistere che non ho collegato gioco e arte in modo analitico, scoprendo delle
loro caratteristiche comuni. L’attività artistica è attività ludica, più
precisamente un gioco percettivo che ci porta a vedere oggetti in prospettive e
con risultati diversi da quelli abituali; dunque è la stessa attività praticata
da un bambino che rigira un cubo fra le mani per vederlo da ogni lato. Se il
cubo è una scatola che ha trovato in cucina, il caso è identico a quello delle
immagini nelle nubi; se invece è un oggetto (un giocattolo) che gli è stato
comprato apposta perché lui esegua tali rotazioni, corrisponde al quadro di
Holbein (e chi ha costruito il giocattolo corrisponde al pittore). Gli oggetti
ufficialmente giudicati artistici sono più raffinati di quelli con cui si
diletta un bambino (anche se ciò non vale sempre per l’arte contemporanea, da
Duchamp in poi); ma ciò vuol dire solo che un’attività (ludica, in questo caso)
può essere praticata con maggiore o minore maestria, non che si tratta di
attività diverse. Chiunque abbia partecipato a una settimana bianca ha sciato,
pur non danzando sulla neve con la grazia di Ingemar Stenmark. E non lasciamoci
turbare, nell’enunciare questa tesi, dalle inevitabili proteste di chi sostiene
che l’arte ha valore solo per sé stessa (l’art pour l’art) e non va
assoggettata alla funzione quasi-evolutiva che le ho conferito. Nessuno meno di
un appassionato giocatore, totalmente immerso nella sua partita, è in grado di
apprezzarne il contributo a un più vasto ambito d’interessi. Al limite, questo
genere di passione acceca, come osserva Gombrich in A cavallo di un manico di
scopa: gli scrittori di estetica ci dicono da tempo che cosa l’arte non è, e si
sono tanto preoccupati di liberare l’arte da valori eteronomi, che hanno finito
con il creare al centro di essa un vuoto, alquanto impressionante (p. 25). In secondo
luogo, l’arte è solitamente concepita come prodotta da certe persone (gli
artisti) e fruita da altre (il pubblico); le prime sono considerate attive e le
seconde ricettive, passive. Nel modello freudiano del motto di spirito, nucleo
di una generale teoria estetica, il piacere provato da chi ascolta una
barzelletta e il riso che ne segue sono causati proprio dal suo essere inerte e
trovarsi a un tratto libere energie psichiche che prima servivano a reprimere
dei contenuti inaccettabili, in seguito all’azione di un altro (chi racconta la
barzelletta, usando a tale scopo le stesse energie e quindi provando meno
piacere e non ridendo affatto). È un modello che potrà andar bene per le oscene
vicissitudini dell’industria artistica contemporanea: per opere teatrali e
liriche davanti alle quali beatamente assopirsi dopo una lauta cena o per
croste e installazioni rifilate da furbi mercanti a ricchi e incolti borghesi.
È anche un modello, però, che viola e stravolge la comunità d’intenti e
d’impegno che esiste fra un pittore, un architetto, un musicista e il suo
pubblico. Chi guarda un quadro, ammira un edificio o ascolta una sonata non
saprebbe, perlopiù, dipingere, progettare o comporre con la stessa abilità, ma
può godere dell’esperienza solo in quanto è coinvolto nelle stesse scoperte e
sorprese dell’artista: solo in quanto l’artista (come l’animatore di un gioco
di società) sa coinvolgerlo in quelle attive scoperte e sorprese. Si può essere
autentici spettatori di un’opera d’arte solo nella misura in cui si è a propria
volta artisti: solo in quanto si è in grado di far riecheggiare in sé la stessa
esplosione gestaltica che l’autore ha provato. Ancora Arte e illusione di
Gombrich e ancora una sua citazione, questa volta da Filostrato, biografo del
filosofo pitagorico (contemporaneo di Cristo) Apollonio di Tiana: «Ma
questo non significa forse – propone Apollonio – che l’arte dell’imitazione ha
un duplice aspetto? Uno è quello che porta ad usare le mani e la mente per
realizzare imitazioni, l’altro quello che realizza la somiglianza unicamente
con la mente?». Anche la mente dell’osservatore ha la sua parte
nell’imitazione. Anche una pittura a monocromo, o un rilievo in bronzo ci
colpiscono come qualcosa di somigliante: li vediamo come forma ed espressione.
«Perfino se disegnassimo uno di questi indiani con del gesso bianco, – conclude
Apollonio, – apparirebbe nero perché ci sarebbero sempre il suo naso
schiacciato, i suoi spessi capelli ricciuti e la sua mascella sporgente [...] a
rendere nera l’immagine per chi sa usare gli occhi. Per questo dico che coloro
che osservano opere di pittura e disegno devono possedere la facoltà imitativa»
(p. 173). In terzo luogo, chi propone una «naturalizzazione» di un aspetto
della nostra vita caratterizzato da pesanti risvolti normativi è spesso
accusato di farne evaporare ogni norma e lasciarci privi di ogni criterio o
giudizio di valore. Tale è il caso, per esempio, dell’etica, disciplina
normativa per eccellenza, quando la si riduca alla teoria della scelta
«razionale»: d’accordo che mi converrà accettare e rispettare certi patti, ma
che cosa resta allora dell’intuizione che, indipendentemente dalla convenienza,
sia giusto accettarli e rispettarli? La mia posizione complessiva non ha simili
conseguenze; l’etica (normativa) ha in essa un ruolo sostanziale, anche se
diverso dalla ricognizione e dal chiarimento concettuale che competono alla
metafisica. In questo libro, destinato alla ricognizione del territorio ludico
e al chiarimento dei concetti che lo popolano, di etica non mi occuperò; ma non
voglio congedarmi dall’argomento che stiamo trattando senza notare che definire
l’arte un gioco percettivo ci offre un coerente e plausibile sistema di valori
interno per oggetti artistici. C’è chi gioca a scacchi e chi a filetto; chi a bridge
e chi a briscola. Tutti quanti possono divertirsi; ma è indubbio che, in quanto
giochi, gli scacchi siano meglio del filetto e il bridge meglio della briscola.
Il filetto è decidibile: esiste una strategia sicura per chiudere in parità
ogni partita. A briscola (quella comune, tralasciando le sue infinite e
complicate varianti) di solito vince chi pesca i carichi (soprattutto quelli di
briscola). Dopo un po’, ci si annoia. Gli scacchi e il bridge, invece, non
stancano mai: con un repertorio limitato a trentadue pezzi o cinquantadue carte
sanno proporci una messe inesauribile di combinazioni diverse e richiedere usi
sempre nuovi del nostro talento e della nostra ingegnosità. Si può capire come
per molti diventino un’ossessione; è difficile immaginare persone altrettanto
ossessionate dal filetto o dalla briscola. Con l’arte è lo stesso. Ogni oggetto
artistico ci mette in gioco, ma talvolta il gioco è esile e di scarso respiro.
L’orinatoio di Duchamp ha rivoluzionato la nostra prospettiva su pratiche sociali
consolidate (e ne ha irrimediabilmente scosso la solidità); ma dubito che
l’ennesimo esempio di arte «trovata» solleciti più di una scrollata di
spalle o di uno sbadiglio (in chiunque non sia un critico che su queste cose ci
vive o uno sciocco in cerca di «investimenti»). Guardiamo invece al viso della
Gioconda: le labbra atteggiate a un sorriso, gli occhi tristi e pensosi, e il
conflitto fra questi due poli della condizione umana proposto (ma non risolto)
in un’espressione di incomprensibile, miracoloso, fragile equilibrio. Se anche
avessimo un tempo infinito, potremmo non smettere mai di oscillare dall’uno
all’altro «suggerimento» e di stupirci di un ossimoro presentato con tanto
candore e tanta armonia. Il capolavoro di Leonardo è un perfetto oggetto artistico
perché in esso potremmo a lungo e ripetutamente perderci (illuderci) e da ogni
siffatta avventura emergeremmo con uno sguardo nuovo sul mondo. 8. Il
fattore in gioco Una cosa che ho appena detto può dare adito a perplessità,
quindi devo affrontarla e risolvere il relativo problema prima di proseguire.
Ho detto che chi gioca a filetto o a briscola può divertirsi. Questo magari
succede perché non ha grandi doti intellettuali e il filetto e la briscola sono
alla sua altezza. Ma che dire di quanti si dilettano di giochi semplici proprio
nella loro semplicità, pur cogliendone perfettamente i limiti? Di quanti godono
della tombola natalizia con un piacere forse regressivo ma non per questo meno
intenso? Una volta a Parma, durante una presentazione di Giocare per forza, uno
spettatore mi rivolse una domanda analoga. «Quando ero ragazzo» disse «i miei
compagni e io “giocavamo” a guardar le macchine passare per strada, e ci
eccitava molto vedere una macchina inconsueta. In che senso un gioco così è
innovativo, esplorativo, istruttivo o trasgressivo? È di una banalità assoluta;
eppure noi ci divertivamo un sacco». L’osservazione è acuta e pertinente: un
buon esempio di quanto ci sia da imparare se, in un’occasione pubblica in cui
si parla del proprio lavoro e si dovrebbe avere completo controllo della
situazione, invece di reiterare una predica risaputa e inutile si accetta di
mettersi in gioco e di raccogliere gli stimoli straordinari che ci vengono
dispensati da chi dialoga con noi. Ma veniamo al punto. Supponiamo dunque che
una famiglia (allargata) costituita da persone di notevole spessore
intellettuale si ritrovi durante le vacanze di Natale per giocare a tombola.
Tutti sono consapevoli dell’estrema semplicità del rito; eppure le ore
trascorse in questa operazione d’imbarazzante infantilismo sono serene ed
eccitanti, gradevoli e ilari. Come spiegarlo? Se interrogati, i protagonisti
potrebbero giudicarla una forma di abbrutimento: una provvida parentesi fra
occupazioni di rigore e profondità encomiabili ma anche, a lungo andare,
insostenibili. Dobbiamo crederci? Dobbiamo ammettere che, in qualche caso, il
gioco e il suo piacere vadano cercati proprio nel carattere brutale ed
elementare di certi comportamenti? Nel puro sfogo che essi esprimono? Non
necessariamente. Basta osservare che, se stiamo giocando e se il presunto
oggetto del nostro agire è un’attività socialmente considerata ludica, non ne
segue che questa attività sia il gioco cui stiamo giocando. Forse stiamo
giocando ad altro, con la scusa di giocare a quel gioco socialmente
riconosciuto. Che cosa succede quando una famiglia (allargata) si ritrova per
le vacanze di Natale? Che persone con scarsa dimestichezza reciproca oppure
(peggio ancora) con ricordi di una dimestichezza ormai tramontata, alla luce
del modo in cui sono cresciute e maturate, si costringono a condividere spazi
ristretti per qualche giorno, con l’obbligo supplementare di manifestare
ripetutamente reazioni estatiche a tale improvvisa, temporanea, spesso faticosa
vicinanza. Non devo dilungarmi in dettagli: drammi di notevole veridicità (e
crudeltà) sono stati scritti in proposito. La tombola o la briscola possono
allora costituire un’area neutra nella quale sperimentare senza troppi rischi
mosse e atteggiamenti che in altri contesti potrebbero far male ma qui,
nell’atmosfera lieve di un gioco, hanno «corso legale» e consentono preziosi
passi avanti nel difficile compito di trasformare quella che di nome è una
famiglia nel senso di una concreta familiarità. Stiamo dunque assistendo a una scena
in cui si sovvertono e si rinnovano le proprie competenze e i propri ruoli, si
esplorano i propri rapporti con altri che, nonostante il disagio e
l’occasionale ostilità, sono pur sempre cari e s’imparano strategie per
distillare l’affetto dal disagio, e tutto questo accade mentre si gioca a
tombola, ma non riguarda la tombola. La delicatezza e la sottigliezza dei
tentativi che vengono condotti in quest’area protetta e la ricchezza di
insegnamenti che se ne derivano (senza rifletterci, senza neppure esserne
consapevoli, ma in modo estremamente utile per il prosieguo e il successo
dell’effimera convivenza) sono lontane toto coelo dall’insulsaggine degli ambi
e delle cinquine. Considerazioni analoghe valgono per i ragazzi che «giocano» a
veder passare le macchine, o a chi scorreggia più forte o dice più parolacce.
Se pensiamo che il fattore in gioco, in casi del genere, siano le scorregge o
le parolacce, dovremo modificare radicalmente la nozione di gioco che abbiamo
elaborato. Ma non bisogna pensarla così; e per capirne le ragioni dobbiamo
distanziarci dalle etichette correnti e anche da quelle che gli stessi
giocatori (si) attribuiscono. Le competizioni di cui sopra sono giochi, ma non
è detto che chi gioca partecipando a tali competizioni stia giocando a scorreggiare,
e si stia divertendo perché scorreggia. Forse sta giocando, esattamente nel
senso in cui ho definito il gioco, a qualcos’altro di ben più complesso (a
socializzare con dei coetanei, a mettere sotto pressione la sua fisicità ed
emotività), mentre tutti i presenti (e lui stesso) sono distratti dalle
scorregge; ed è anzi importante che ne siano distratti, perché altrimenti
il gioco cui stanno davvero giocando non sarebbe altrettanto trasgressivo e
innovativo, esplorativo e istruttivo, e piacevole. Questa osservazione mi
consente di precisare il punto con cui ho chiuso il capitolo precedente e di
prendere posizione rispetto a un tema che per molti autori ha grande importanza
nel definire il gioco ma nella mia trattazione, finora, è stato oggetto di
commenti piuttosto negativi. Cominciamo con la precisazione. Ho detto che la
Gioconda è un oggetto artistico di sublime efficacia e ho liquidato quanti
salutano con entusiasmo un po’ di sassi dispersi «ad arte» in un museo come
stupidi o conniventi. Devo ammettere che non è sempre così (per quanto riguarda
i sassi). Talvolta l’entusiasmo è genuino, e genuinamente ludico. Se è vero che
la fruizione di un’opera d’arte è un gioco che coinvolge insieme i sapienti
indizi lasciati dall’autore e l’attivo contributo dello spettatore nel
trasformare quegli indizi in un gioco percettivo, è anche vero che i due
elementi coinvolti in questa interazione possono esserlo in misura molto
diversa: esiste anche qui uno spettro di opzioni, che va da uno spettatore
inerte, sedotto suo malgrado, a uno invece iperdisponibile a raccogliere ogni
più remoto, implicito invito – perfino ciò che non potrebbe essere vissuto come
un invito senza tale sua immensa disponibilità. Socialmente, molte delle
persone che si collocano all’estremità benevola dello spettro sono vittime di
una posa, di una moda, di chiacchiere senza sostanza e senza costrutto. Per noi
però, qui, non importa: non stiamo facendo sociologia ma disegnando uno spazio
logico, una struttura concettuale, quindi è sufficiente che sia possibile
un’alternativa meno funesta per doverne rendere conto. E il conto è presto
reso: così come si può giocare con passione e con gioia, da bambini, con gli
oggetti più banali, e impararne fondamentali lezioni di vita, lo si può fare da
grandi con le molte banalità che popolano i musei d’arte contemporanea. In
entrambi i casi, gli oggetti con cui si gioca sono solo minimamente
responsabili dell’emozione e del piacere provati e dell’apprendimento che ne
segue. Non sono essi il principale fattore in gioco: è lo spettatore (o il
bambino) a sobbarcarsi la maggior parte del lavoro. All’estremo opposto dello
spettro, oggetti come la Gioconda hanno un valore universale in quanto sanno
parlare anche a chi non è disposto a impegnarsi personalmente per dar vita a un
dialogo – sanno parlargli anche se resiste, anche se fa di tutto per
convincersi che non gli si stia dicendo nulla. Il tema che finora è stato
trascurato (o peggio) e su cui è bene spendere qualche parola è il gioco
d’azzardo. Un autore che gli attribuisce sovrana importanza è Caillois,
che se ne serve per porre un’ulteriore radicale distinzione in campo ludico –
tra il gioco infantile (e animale) e quello adulto: I giochi d’azzardo appaiono
giochi umani per antonomasia. Gli animali conoscono i giochi di competizione,
d’immaginazione e di vertigine [...]. In cambio, gli animali, esclusivamente
immersi nell’immediato e troppo schiavi dei loro impulsi, non sono in grado di
immaginare una potenza astratta e insensibile al cui verdetto sottomettersi
anticipatamente per gioco e senza reagire. Attendere passivamente e
deliberatamente un pronunciamento del fato, rischiare su questo una somma per
moltiplicarla proporzionalmente al rischio di perderla, è atteggiamento che
esige una possibilità di previsione, di rappresentazione e di speculazione, di
cui può essere capace solo un pensiero oggettivo e calcolatore. Ed è forse
nella misura in cui il bambino è vicino all’animale che i giochi d’azzardo non
hanno per lui l’importanza che ricoprono per l’adulto. Per il bambino, giocare
è agire (p. 35). Buona parte dei giochi comunemente detti d’azzardo può già
essere inclusa nella rete concettuale che ho esposto. Nel poker, per esempio,
sia le carte che mi vengono di volta in volta offerte dal caso sia gli avversari
che affronto (e su cui amplieremo il discorso nel prossimo capitolo) possono
essere visti come condizioni oggettive del gioco, sue regole né più né meno
della particolare natura geometrica di un cubo o di una palla; e a queste
condizioni io esprimerò la mia capacità e creatività né più né meno che se
giocassi a scacchi o a calcio. Sembra rimanere totalmente esclusa da questo
ambito, però, una classe di giochi in cui non si può manifestare nessuna
capacità o creatività, in cui non si può mai migliorare, mai diventare buoni
giocatori, in cui si può solo assistere imbelli al modo in cui la sorte gioca
con noi: il lotto, la roulette, le slots... Nella maggior parte dei casi chi
«partecipa» a tali giochi, ho sostenuto in Giocare per forza e ripetuto qui, è
vittima di un imbroglio, di un asservimento truffaldino delle sue legittime
aspirazioni liberatorie a rituali il cui unico scopo è l’estorsione di (suo)
denaro; il che contrasta con l’esaltazione prometeica, nobile, perfino mistica
dell’azzardo in Caillois e altri. Hanno semplicemente torto, questi autori?
Sarebbe un errore affermarlo, e l’osservazione fatta sopra ci permette di
capire perché. Il gioco del lotto, ho detto nel sesto capitolo, è molto vicino
al grado zero di ludicità; se mantenuto a livelli moderati, ha l’unico effetto
(e senso) di causare una periodica emorragia pecuniaria e magari saldare alcuni
debiti psicologici che una persona ha con sé stessa (o con altri). Può anche
essere praticato, però, a livelli eccessivi, e allora il suo senso cambia.
Allora, su basi del tutto inconsistenti ma con esiti non per questo meno
fatali, una persona può trovarsi alle prese con un gioco che non accetta di
farsi rinchiudere entro limiti precisi, il cui ambito invade tutti i microcosmi
limitrofi e attenta a quella che è considerata la sua vita vera – la sua
sopravvivenza e il suo benessere. Depurato di ogni altro aspetto, qui il
gioco compare nella pura forma di rischio; ed è innegabile che in esistenze
ordinate e ripetitive, consuetudinarie e noiose l’affiorare del rischio sia
vissuto come il richiamo a una vocazione dimenticata, a un impegno tradito con
sé stessi. Chi sperpera le proprie risorse puntando sui numeri del lotto, o
della roulette, o sulle combinazioni di una slot, sta dunque talvolta giocando
– o meglio, direi, formulando una solenne promessa di un gioco a venire. Ma
tutto ciò non riguarda il lotto: il lotto, in quanto tale, non ha un parametro
ludico di valore abbastanza cospicuo da poter essere considerato un gioco, così
come non si può considerare alto un nano. Con la scusa del lotto, il giocatore
sta mettendosi alla prova, rinunciando alla sua sicurezza economica, emotiva e
anche familiare e personale, chiamando in causa tutto quanto per lui appariva
già deciso, già stabilito, in attesa di un rispettoso necrologio. Siccome
questo mettersi alla prova è l’essenza stessa della vita, il fascino di un
simile azzardo è comprensibile; purtuttavia voglio insistere che, senza negare
il fascino, non siamo in presenza di un vero gioco ma (ripeto) della promessa
di un gioco. Ho detto nel quarto capitolo che la semplice trasgressione non
costruisce nulla e che far saltare in aria la propria dimora e incamminarsi
nella notte può essere il preambolo di un nuovo gioco ma non ne costituisce lo
svolgimento. Il puro azzardo va spiegato allo stesso modo: è il ripido crinale
su un precipizio che minaccia di inghiottire tutto quel che siamo e suggerisce
che potremmo essere altro, radicalmente altro. Ma non sarebbe gioco buttarsi
giù per il precipizio e non lo sarebbe rimanere immobili e attoniti sul
crinale, nonostante l’intenso brivido che entrambe le esperienze ci darebbero.
Sarebbe gioco, invece, familiarizzarsi con il crinale o il precipizio e
realizzarvi un inaspettato insediamento, o percorrere con destrezza crescente
il crinale fino alla prossima valle. Non compiacersi del brivido e del rischio,
insomma, o lasciarsene sopraffare, ma integrarli in quell’equilibrio con atti
educativi e costruttivi che Schiller giudicava manifestazione del vero impulso
ludico e della vera umanità. (Un discorso analogo, ma che poco ha a che vedere
con l’azzardo, si potrebbe fare per molti di quanti giocano al lotto con
moderazione; anche loro non giocano al lotto, ma facendo finta di giocare al
lotto partecipano a un gioco sociale costituito da messaggi onirici,
numerologia superstiziosa e magia metropolitana. Un gioco che diventa un
linguaggio per una comunità, e talvolta una sfida per quella comunità
«ufficiale» che è basata su rigorose procedure scientifiche, leggi comprovate e
soprattutto «autorità competenti» sentite come estranee e predatrici. Un
ulteriore esempio, questo, di come sia necessario chiedersi, per ogni caso di
esperienza [presunta] ludica, «A che gioco giochiamo?».) Il fascino e
l’esaltazione mistica dell’azzardo sono spesso legati, in autori quali Caillois
e Huizinga, all’attribuzione al gioco di una natura sacrale; è opportuno quindi
chiarire la mia posizione al riguardo. Sono d’accordo che esista un’analogia
formale tra il gioco e il sacro, in quanto entrambi sono definiti da precise
barriere (regole): «Formalmente [...] [la] nozione di delimitazione è
assolutamente una e identica per un fine sacro o per un puro gioco» (Homo
ludens, p. 43). E sono d’accordo che ci sia un’altra analogia fra la presenza
dell’azzardo (del rischio) nel gioco e nel sacro: L’esito del gioco d’azzardo è
di natura una sacra decisione. Lo è ancora laddove un regolamento dice: a
parità di voti decide la sorte. Solo in una fase progredita dell’espressione
religiosa, sorge la nozione che verità e giustizia si manifestano perché un dio
guida la caduta dei dadi o la vittoria nella lotta [...]. [G]iurisdizione e
ordalìe sono radicate insieme in una pratica di decisione propriamente agonale,
ottenuta sia con un sorteggio sia con una lotta. La lotta per vittoria o
perdita è sacra per se stessa. Quando è animata da concetti formulati di
giustizia e di ingiustizia, allora si eleva nella sfera giuridica, e quando è
dominata da concetti positivi d’una forza divina, allora si eleva nella sfera
della fede. Qualità primaria di tutto questo è però la forma ludica (p. 125).
La mia coscienza laica si rifiuta di andare oltre. Uomini e donne giocano in
ogni sfera della loro esistenza; in particolare, esistono sacerdoti scherzosi e
autori come Gilbert Chesterton che parlano della religione come di una forma
suprema di umorismo. Ma esiste anche un sacro che è oppressione e nevrosi,
gerarchia e cieca obbedienza, nel quale vedo ben poco di ludico; e c’è un gioco
che è sberleffo fatto a Dio (pensate alla morte del Perozzi/Philippe Noiret in
Amici miei) e violazione della barriera o del recinto che ci rinchiudono –
sacri o meno che siano. Perché il legame fra gioco e sacro possa apparire
convincente bisogna appunto insistere sull’azzardo come elemento più autentico
del gioco e quindi spingerlo all’estremo, finché diventi l’Azzardo con la A
maiuscola di Abramo o di Pascal. E l’azzardo così concepito e vissuto ha un
effetto paralizzante, che può essere riscattato solo da un intervento esterno:
da un’entità trascendente che ci conferisca arbitrariamente una grazia. Non
voglio negare che la grazia e l’abbandono a essa ci salvino (anche se, per me
laico, è la grazia che l’un l’altro ci facciamo); ma in questa rarefatta
atmosfera oracolare non trovo più nulla della serena intraprendenza, dello
sforzo ingegnoso, del piacere insolente e, sì, del brivido presto dominato e a
sua volta goduto che tessono per me la trama del gioco. 9. Compagni di
gioco Torniamo ancora una volta alla bimba che gioca in una stanza. Il suo
gioco incontra resistenze, ho detto, che ne definiscono lo sfondo e ne
articolano le regole. Nel modo in cui ho descritto la situazione finora, le
resistenze sono offerte da quelli che comunemente denominiamo oggetti: le
pareti, la palla, la spillatrice. Immaginiamo però ora di introdurvi un altro
essere umano: affianchiamo alla bimba Sara un coetaneo di nome Tommaso e
osserviamoli mentre giocano insieme. In un certo senso, Tommaso e la palla
presentano gli stessi problemi. Anche di Tommaso bisogna tener conto, come
della palla. La palla non vuol saperne di rimanere in equilibrio sul cubo e
Tommaso non vuol saperne di dare la palla a Sara, quando l’ha afferrata dopo
l’ennesimo scivolone dal cubo. In entrambi i casi, questi inconvenienti possono
causare violente frustrazioni (nel caso della palla, come abbiamo visto, Sara
potrebbe fare i capricci; con Tommaso potrebbe litigare) oppure con entrambi si
può arrivare (magari dopo una successione di capricci e litigi) a una pacifica
convivenza. Se e quando ci si arriverà, Tommaso incarnerà un ulteriore insieme
di regole cui il gioco deve adeguarsi, un ulteriore insieme di spigoli
esistenziali da scansare con abilità, manipolandoli come si fa con gli spigoli
fisici di una scatola o con la rotondità della palla. Il comportamento di Tommaso
diventerà parte della struttura che Sara imparerà a riconoscere e sulla quale
il suo gioco eserciterà pressione, traendone lezioni di grande influsso su
giochi futuri. (I maschi sono prepotenti, concluderà per esempio Sara, ma
facilmente distratti. Tommaso stringe tanto forte la palla proprio perché io
mostro di volerla per me. Basta non farci caso, dedicarmi interamente a
qualcos’altro, e la lascerà andare.) Nel quarto capitolo ho citato un passo in
cui Piaget giudica impossibile che un bambino si dia regole da solo. Per il
tramite di Émile Durkheim, secondo cui la religione nasce dalla pressione del
gruppo sull’individuo («Il gruppo [...] non potrebbe imporsi all’individuo
senza rivestire l’aureola del sacro e senza provocare il sentimento dell’obbligo
morale», Il giudizio morale nel bambino, p. 98), questo giudizio lo porta a
collegare una volta di più il gioco e il sacro: La regola collettiva è
dapprima qualche cosa di esterno all’individuo e per conseguenza di sacro, poi
a poco a poco si interiorizza ed appare come il libero prodotto del consenso
reciproco e della coscienza autonoma. Ora, per ciò che riguarda la pratica, è
naturale che al rispetto mistico della legge corrisponda una conoscenza ed
un’applicazione ancora rudimentali del loro contenuto, mentre al rispetto
razionale e motivato corrisponda una conoscenza ed una pratica dettagliate di
ogni regola (pp. 22-23). Una volta di più, non sono d’accordo: il bambino, come
ho spiegato, può darsi regole da solo purché queste siano viste come regole con
il senno di poi di chi ricostruisce retrospettivamente il suo sviluppo. Eppure,
per una via che Piaget non approverebbe, anch’io arriverò a concepire una forma
di comunità come condizione, se non proprio necessaria, almeno predominante di
ogni gioco, che per me è quanto dire di ogni gioco regolamentato: non tanto la
comunità di cui parla lui, costituita spesso da figure autoritarie che
decretano le regole («Dal momento in cui un rituale viene imposto ad un bambino
da adulti o da ragazzi maggiori per i quali egli ha del rispetto [...] oppure
[...] da quando un rituale risulta dalla collaborazione di due bambini, esso
acquista per la coscienza del soggetto un carattere nuovo, che è precisamente
quello della regola», pp. 27-28), quanto piuttosto la comunità del suo teatro
interiore. L’itinerario cui ho appena accennato includerà questo capitolo e il
successivo, e il suo primo passo consiste nel notare che le situazioni
descritte finora non equivalgono a un giocare insieme. L’espressione «Sara
gioca con Tommaso», e in generale «X gioca con Y», può infatti essere intesa in
due sensi piuttosto diversi. Quello che ho descritto è il senso in cui Sara
gioca con Tommaso come gioca con la palla, o un adulto che disponesse di grande
potere (e si compiacesse di averlo, e di darne prova) potrebbe giocare con i
suoi simili come se fossero pedine della dama o birilli del bowling: il «con»
in tali casi introduce un complemento di mezzo. È anche possibile, e
auspicabile (vedremo perché), che il «con» introduca un complemento di
compagnia: che Sara giochi con Tommaso, o un adulto meno squallido di quello
immaginato prima giochi con i suoi simili, nel senso che Tommaso o gli altri
adulti siano non elementi o pezzi ma compagni del gioco. Che cosa succede
quando si manifesta questa seconda possibilità? Per capirlo, stabiliamo che un
gioco sia costituito da una serie di sfide rivolte all’ambiente (inteso sempre
come ambiente esistenziale, non soltanto fisico, quindi inclusivo di abitudini
e aspettative), ciascuna produttrice di una figura possibile ma di solito non
realizzata in quell’ambiente. Il letto è fatto per dormirci sopra e io (con
grande fatica) mi ci infilo sotto; l’interruttore è fatto per tenere la luce
accesa o spenta e io lo manovro in continuazione causando un costante lampeggiare
(e, a lungo andare, fulminando la lampadina); il tavolinetto è fatto per
appoggiarci bicchieri e tazzine e io lo uso come scalino per arrampicarmi sulla
credenza. Quando un gioco è praticato insieme da due o più compagni, quando
cioè due o più persone presenti al gioco vi sono presenti come giocatori, non
come pezzi del gioco (o come spettatori), ciascuno contribuisce ad accrescere
il repertorio di sfide di cui il gioco è costituito. Le sfide anzi si
accavallano le une sulle altre: se Tommaso usa il tavolinetto per arrampicarsi
sulla credenza, Sara ci metterà sopra un paio di grossi libri perché si riesca
a salire più in alto; se Sara s’infila sotto il letto, Tommaso vi trascinerà
anche palle e cubi, e tenterà di replicarvi tutte le evoluzioni che riuscivano
più facili all’aperto. Con tanta inventiva a disposizione, capiterà che qualche
sfida sconvolga le resistenze accettate come regole dai giocatori e cambi la
natura del gioco. D’accordo che la porta è chiusa e le pareti non retrocedono;
ma, guarda un po’, se spingi questa levetta la finestra si apre e tuffandosi
oltre il davanzale si esce in giardino! Ho detto che «costruire figure» è
un’espressione metaforica; talvolta però il gioco costruisce in senso
letterale. Seguiamo uno di questi episodi per un attimo, perché si tratta di un
tipo di costruzione che in seguito acquisterà notevole importanza. Spostiamo
Sara e Tommaso (più grandicelli) su una spiaggia e osserviamoli mentre
edificano un castello di sabbia. L’idea generale è semplice: si scava, con le
mani o con la paletta, e si usa il secchiello pieno di sabbia umida per
innalzare torri o il rastrello per raccogliere sabbia a forma di mura. Se un
solo bambino fosse responsabile dell’operazione, lavorerebbe eccitato per un
po’ e quindi forse rimarrebbe a corto di idee e si fermerebbe, contento di
rimirare il risultato; in due, invece... Uno pensa che con il secchiello si può
raccogliere acqua dal mare e circondare il castello con un fossato; l’altra
s’industria immediatamente a metterci sopra un rametto a mo’ di ponte, e il
primo allora va in cerca di una corda perché il ponte diventi levatoio. Una si
serve di una pietra per rappresentare il portone e l’altro ricopre il palazzo e
le mura di finestre e feritoie, e allora la prima fa sporgere armi dalle
feritoie, puntandole contro il nemico. Ogni nuova idea che l’uno offre cambia
il contesto in cui il gioco si muove, e nel contesto così mutato «viene
naturale» all’altra un’altra idea, che a sua volta cambia il contesto aprendosi
a ulteriori avventure, in una rincorsa ininterrotta di coraggio e creatività.
Un gioco coinvolge un certo numero di oggetti (talvolta puramente mentali, o
ideali), che il gioco usa entro limiti accettati come sue regole, e ha almeno
un soggetto che conduce la manipolazione: ha almeno un giocatore. Gli oggetti
possono essere inanimati, animati o anche umani; il soggetto sembra dover
essere animato (cani e gatti giocano, con gomitoli di filo, con topi o con i
loro padroni; al termine del libro suggerirò – già vi avevo accennato – che la
restrizione a soggetti animati, e forse la distinzione stessa fra enti animati
e non, sia da mettere in discussione). Un gioco che abbia un solo soggetto
sarebbe un solitario, e nel prossimo capitolo mostrerò come gli autentici
solitari siano rarissime eccezioni; ora m’interessa elaborare un altro punto,
illustrato dalla discussione condotta qui sopra. Un gioco che non sia un
solitario risponde infinitamente meglio alla sua natura di gioco, così come due
specchi paralleli dànno luogo a infinite riflessioni, perché moltiplica le
opportunità di trasgressione ed esplorazione, di apprendimento e relativo
piacere, permettendo a ognuno dei partecipanti di trarre spunto dal contributo
degli altri per mosse più libere e devianti di quanto lui mai sarebbe riuscito
a scoprire da solo. C’è però un risvolto meno edificante della faccenda: se è
vero che un gioco giocato insieme è più un gioco di uno giocato in solitudine
allora è anche vero che un gioco giocato insieme è più pericoloso di un
solitario. Quando prima ho parlato dei due bimbi che, riunendo le loro forze,
riescono a spalancare la finestra, molti avranno rabbrividito e io mi sono
affrettato a rassicurarli facendo capire che si trattava di una finestra al
pianterreno. Ma il problema era solo rimandato, non risolto, perché è chiaro
che i bambini di un altro esempio (come alcuni bambini reali, diciamo il figlio
di Eric Clapton) potrebbero fare la stessa scoperta ai piani alti di un
grattacielo, con esiti disastrosi. Il rischio continua, e anzi si accentua, fra
gli adulti, soprattutto fra i giovani adulti, che sovente si trovano spronati
dall’essere in gruppo a mosse devianti che ne mettono a repentaglio
l’incolumità (o la salute altrui) – e che non compirebbero isolati. Ogni
genitore avrà considerato eventualità del genere e molti, purtroppo, hanno
dovuto affrontare non il timore di un’astratta considerazione ma il dolore di
una concreta tragedia, non potendo capacitarsi di come il loro «bravo ragazzo»
(o brava ragazza) avesse potuto lasciarsi trascinare dalle «cattive compagnie»
a comportamenti distruttivi o criminali, e per lui (o lei) del tutto anomali,
addirittura irriconoscibili come suoi. Non intendo certo negare l’intensità o
la validità di tali preoccupazioni e sofferenze (sono un genitore anch’io), ma
insisto sulle tre tesi seguenti: (a) Le varie caratteristiche del gioco ne sono
componenti organiche e vitali, quindi il gioco va preso (o rifiutato) in
blocco, tutto insieme. Esplorazione e apprendimento non possono essere
disgiunti da violazione e rischio (per quanto il rischio possa essere ridotto
giocando «per procura»). (b) Il gioco è prezioso per la nostra forma di vita
(direi anzi per la vita in quanto tale), ne è una componente irrinunciabile:
meno gioco vuol dire meno umanità. (c) Il gioco è tanto più gioco se
giocato insieme, quindi (in ossequio alla formula aristotelica che fa dell’uomo
un animale sociale) siamo tanto più umani quanto più giochiamo con altri (dove
il «con» introduce un complemento di compagnia). Come gestire allora i pericoli
e i timori di cui ho detto? La mia risposta si applica in generale a tutti i
rischi in cui il gioco (anche solitario) incorre e a tutti i mali che può
causare: per proteggersene è opportuno non meno ma più gioco, e non meno ma più
gioco fatto insieme. Un ragazzo che sia stato troppo a lungo «bravo» e poco
avvezzo alla compagnia e all’esempio di altri sarà facilmente travolto dalla
prima circostanza in cui si ritrovi in un gruppo che agisca in modo
trasgressivo ed eccitante: per prepararlo a vivere questa circostanza con un
minimo di ragionevolezza nulla funziona meglio di una socializzazione ludica
precoce e continua, che lo metta in grado di riconoscere gli straordinari
vantaggi ma anche le trappole di una reazione a catena che può tanto riscaldare
le nostre emozioni e il nostro ingegno quanto bruciarli. L’unica cosa che mi ha
dato fiducia, quando ho pensato ai miei figli in tali circostanze (e in mia
assenza) è stato il fatto di sapere che in circostanze analoghe (pur se meno
estreme) c’erano già stati, in tempi in cui potevo ancora evitarne le
conseguenze più gravi. Il gioco dunque, e in particolare il gioco in compagnia,
è, direbbe Huizinga, «innegabile» (p. 20). Stabilita questa tesi, è il momento
di affrontare un aspetto del gioco che finora ho tralasciato e che per molti ne
è invece (come per altri l’azzardo) caratteristica essenziale: il fatto che
esso si presenti come competizione, come scontro, come lotta. In Giocare per
forza ho parlato di teoria dei giochi, come uno dei vari modi in cui il gioco è
violato e la sua natura distorta. La teoria dei giochi ha avuto origine
definendo «gioco» un’attività competitiva in cui si affrontano avversari con
l’obiettivo di batterli – di vincere quel che loro perdono (la teoria lo chiama
un «gioco a somma zero») – e su questa base ha conosciuto fortunate (e
sciagurate) applicazioni in politica e in economia. (Solo più recentemente ha
cominciato a studiare anche i giochi cooperativi, in cui i giocatori vincono
insieme.) In modo analogo, Piaget afferma che i giochi regolamentati (i quali,
come abbiamo visto, non esauriscono per lui tutti i giochi) sono
necessariamente competitivi e hanno necessariamente come obiettivo la sconfitta
di uno o più avversari: i giochi di regole sono giochi di combinazioni
sensorio-motrici [...] o intellettuali [...] con competizione degli individui
(senza di che la regola sarebbe inutile) e regolati sia da un codice trasmesso
di generazione in generazione sia da accordi momentanei (La formazione del
simbolo nel bambino, p. 209; corsivo aggiunto). il gioco di regole [...] è
ancora soddisfazione sensorio-motrice o intellettuale e, inoltre, tende alla
vittoria dell’individuo sugli altri (p. 247). È un sintomo rivelatore del
diverso atteggiamento espresso dalla mia teoria che le nozioni di avversario,
di competizione (o combattimento) e di vittoria non vi abbiano una dignità
autonoma o un senso unitario: in esse s’incontra ambiguamente una pluralità di
esperienze distinte, fra cui è bene non fare confusione. Per capirci,
supponiamo che io giochi a tennis con qualcuno. Posso giocarci come con uno
spigolo o una parete: dopo un certo numero di tentativi ed errori, capirò come
avere la meglio e ripeterò religiosamente (a proposito del sacro, e di quanto
spesso non sia ludico) le stesse mosse – quelle che hanno dimostrato di
«funzionare». Smetterò di esplorare, di trasgredire, di correre rischi e quindi
di imparare; il mio non sarà più un gioco. Posso anche, però, entrare in un
dialogo con l’altro giocatore in cui ciascuno inciti l’altro a mosse ignote e
avventate, per vedere che cosa càpita, e prima o poi l’ignoto diventerà
familiare e ciò che era avventato verrà eseguito con maestria; starò allora
giocando con un compagno e traendone tutta la ricchezza di stimoli, l’inventiva
e la soddisfazione che sempre derivano dal giocare insieme. Oppure posso fare
l’una o l’altra cosa per ottenere poi (c’è di solito uno scarto temporale, in
tal caso: il gioco è stato piegato alla logica di una prudente e oculata
gestione delle proprie risorse) un premio in denaro o una fama di ottimo
tennista; di conseguenza, se pure esploro e mi metto alla prova, corro rischi e
imparo, quello non è un gioco perché ha un fine strumentale ed esterno (oppure
è un gioco solo in quanto riesce ad affrancarsi da questo fine esterno e a liberarsi,
magari inconsapevolmente, dalla logica della prudenza). La percezione del mio
«avversario», in questi diversi casi, sarà molto diversa, e sarà molto diverso
che cosa voglia dire «combattere» o «vincere». Nel primo caso si combatterà e
si vincerà letteralmente: si affronterà un altro e lo si ridurrà in proprio
potere, perpetuando i sinistri riti della violenza (più o meno simbolica). Nel
secondo caso si combatterà per fare un passo avanti nel gioco e si vincerà se
si riuscirà a farlo; potrei dire che si combatterà con (e si vincerà su) sé
stessi, salvo che, come appunto spiegherò nel prossimo capitolo, si è raramente
soli quando si gioca, quindi preferisco dire che i due giocatori combatteranno
e vinceranno insieme superando lo stadio che il gioco aveva prima raggiunto per
ciascuno di loro. Nel terzo caso questa opportunità di crescita, e il
contributo che le dànno la presenza e l’azione del compagno, saranno a loro
volta asserviti alla volgarità e alla miseria dell’esercizio del potere
sull’altro – che può non essere il compagno stesso, il quale può fungere
invece da complice (da allenatore, per esempio). Non c’è nulla di oggettivo o
di neutrale, in conclusione, nel chiedersi chi sia il mio avversario in un
gioco o chi alla fine abbia vinto. Se queste domande sono intese nel modo più
comune, e sancito dalla più tradizionale teoria dei giochi, ciò che ne traspare
è un’istanza maligna che nega al gioco la sua libertà, il suo abbandono e anche
il suo specifico piacere (che non è quello di abbattere e umiliare un altro
giocatore). Dobbiamo cogliere l’ambiguità e – qui davvero, e nel senso più
ovvio – combattere perché il gioco non ne esca con le ossa rotte. 10.
Azione! Il gioco che più appassiona i bambini è quello di impersonare chi li
circonda, soprattutto chi li incuriosisce o li attrae (in senso positivo o
negativo). Talvolta mimano attività in cui hanno visto occupati i protagonisti
del loro universo familiare – genitori, zii, fratelli maggiori. Li vediamo
allora affaccendarsi intorno a finti fornelli, sgridare una bambola che fa le
bizze, distendersi su una sedia abbandonati alle cure di un «parrucchiere»; la
mia figlia più piccola, quando aveva da poco imparato a parlare, riempiva
quaderni di geroglifici incomprensibili e, a chi le chiedesse che cosa stava
facendo, rispondeva con sussiego «Faccio i compiti». Talaltra ricalcano con
imbarazzante fedeltà gli atteggiamenti, le espressioni, i manierismi di un
altro: li vedi corrugare la fronte, spingere avanti il petto, usare parole e
frasi idiosincratiche in un modo così sfacciato ed estremo (proprio per la sua
innocenza) che non può non sembrare caricaturale e invitare al sorriso (ma vedi
più avanti). Il tutto culmina in manifestazioni molto appariscenti: le
mascherate con lenzuola e tovaglie davanti allo specchio, le facce dipinte con
colori di guerra, le vite alternative vissute con amici, parenti e spesso figli
immaginari. Le feste commerciali rivolte a pratiche analoghe e destinate a
rinvigorire periodi di stanca del mercato – il vecchio carnevale, il più
recente Halloween – non sono che citazioni esauste di tanta passione,
sensibilità e allegria. Gli adulti non sono da meno. L’umanità, ho sostenuto
altrove, non è che una forma superiore (cioè più raffinata, più articolata) di
scimmiottamento: tutti riceviamo frammenti di personalità da amici del cuore,
sconosciuti intravisti una volta sul tram, artisti di successo o anche
individui odiosi e ributtanti ma tali da imporsi alla nostra attenzione, sia
pure per un minuto. E niente ci dà più piacere dell’inscenarli in una
pantomima: complici una buona bevuta o una situazione di alto tenore emotivo,
imitiamo con gusto, con abilità, con estrema attenzione ai dettagli. Il momento
migliore di Novak Djokovic, secondo me, non è stato uno dei suoi servizi
fulminanti o dei suoi incredibili recuperi difensivi, e neppure uno dei tanti
trionfi nello Slam o nella Coppa Davis: si è verificato in uno dei primi turni
di Flushing Meadows, qualche anno fa, quando ancora aveva vinto poco e a
un tratto, prima di una partita, dilettò il pubblico copiando con sorprendente
precisione i tic in fase di battuta di Rafael Nadal e Maria Sharapova. Il
piacere che ne provarono gli spettatori era analogo a quello di cui ho parlato
nel settimo capitolo, esaminando il rapporto fra un artista e il suo pubblico:
l’artista crea e noi ne riconosciamo l’azione perché abbiamo in noi la capacità
(magari latente) di vedere o ascoltare quel che lui vede o ascolta (e quindi
mostra); l’attore «entra» in un personaggio e noi ne godiamo perché comprendiamo
che cosa voglia dire entrarci. Nell’antica Atene la naturale teatralità
dell’essere umano era non solo praticata e apprezzata: in un mondo privo di
scritture sacre in cui sentenze e parabole erano raccolte dai testi poetici,
drammaturghi e commediografi dominavano la vita culturale. Da ciò Platone si
dissocia con severità nella Repubblica, bandendo ogni rappresentazione teatrale
dal suo Stato perfetto. Anzi, non proprio ogni rappresentazione: il filosofo ha
una sua teoria in proposito, e ragionarne ci aiuterà a proseguire nel nostro
cammino. La teoria si compone di due tesi principali, una descrittiva e una
normativa. In primo luogo, Platone sostiene che ogni recita ha delle
conseguenze sul carattere di un individuo: assumere un ruolo significa
identificarsi, per quanto parzialmente e temporaneamente, con quel ruolo, e
l’identificazione lascerà tracce nella nostra identità – la contaminerà con le
caratteristiche del personaggio di cui ci siamo presi carico. Da allora in
avanti, volenti o nolenti, non saremo più soltanto noi stessi: avremo
incorporato un estraneo che continuerà ad abitarci, anche se forse in sordina e
in disparte. Questo estraneo potrebbe essere un criminale o un mostro: pensiamo
a Bruno Ganz che recita la parte di Adolf Hitler nel film La caduta, oppure a
Medea o Riccardo III. Ma potrebbe essere Gandhi interpretato da Ben Kingsley, o
Atticus Finch interpretato da Gregory Peck, o semplicemente una brava persona
come il Mr. Smith di James Stewart che va a Washington a dire la sua. Qualcuno
vorrebbe fare delle differenze fra questi casi: può essere pericoloso imitare
un malvagio, direbbe, ma non c’è nulla di preoccupante nel farlo con individui
normali, o addirittura encomiabili. Qui interviene la seconda tesi di Platone,
quella normativa, che stigmatizza non solo la cattiveria ma ogni forma di
diversità: ciascuno dei cittadini della repubblica è «tagliato» per uno
specifico compito, cui deve assolvere con la pazienza di una formichina, e
qualunque attività possa distrarlo da tanta devozione va rifuggita come la
peste. Bando a ogni passione estranea, dunque; bando a ogni musica ritmata e
suggestiva; e bando soprattutto all’infezione che il contatto con ogni
altra indole, con ogni altro repertorio di mosse e di abitudini potrebbe
causare in un individuo così letteralmente «tutto d’un pezzo». Se pure si
trovasse su un palco, davanti a un pubblico, il nostro eroe non dovrebbe che
recitare monologicamente, monodicamente e (diciamolo!) monotonamente sé stesso,
per confermare e rafforzare quella coerenza inesorabile del suo io che sarebbe
invece attenuata e imbastardita dall’affiorare di impulsi e gesti alieni (e
queste sono le uniche rappresentazioni teatrali ammesse da Platone nella sua
repubblica). Ho già detto che in questo libro eviterò perlopiù i discorsi
normativi. Sono in totale disaccordo con i valori enunciati da Platone, ma
caliamoci sopra un velo e limitiamoci a una considerazione. La repubblica
ideale sarà forse di casa nel mondo della realtà più autentica, quella
illuminata dal sole che i prigionieri della caverna non vedono; nella caverna,
però (dove i prigionieri, varrà la pena di notare, sono continuamente testimoni
di uno spettacolo, anzi di uno spettacolo fatto di ombre, un vero e proprio
antesignano del cinema), domina non quella realtà, con tanto di noiosa
conformità alle proprie tendenze e funzioni e «sano» orrore per ogni tentazione
ad allargarne l’ambito, ma invece l’«apparenza» difettosa e biasimevole di cui
Platone ci ha appena dato una brillante descrizione. Ciascuno di noi (nel mondo
terreno) non fa che scimmiottare e scopiazzare il suo prossimo, e l’operazione
(Platone insegna) non è innocua: nel compierla, ciascuno di noi diventa un po’
il suo prossimo, lo incarna, fa del suo corpo un palcoscenico su cui l’altro
può giocare il suo ruolo. È una delicata questione metafisica se, quando un
attore recita un personaggio, faccia appello a qualcosa che gli appartiene o si
adegui a un modello esterno; anche a tale riguardo ho le mie idee e le passerò
qui sotto silenzio. Perché in ogni caso la pratica di un attore e di tutti noi
in quanto attori, in quanto osservatori e imitatori della molteplicità, umana e
non, che abbiamo intorno, è sempre la stessa: che il germe di un personaggio ci
ingravidi a sorpresa con una sua forma che possiamo solo accogliere
passivamente, come avrebbe detto Pirandello, o giaccia invece sepolto negli
abissi della nostra psiche, come avrebbe detto Stanislavskij, l’unico modo per
far crescere tale germe, per attualizzarne la possibilità, per farlo venire al
mondo, consiste nel prestare attenzione a come si è sviluppato ed è maturato in
altri, nell’emulare questi altri passo passo, nel rifletterne movenze ed
espressioni – forse inconsapevolmente ma efficacemente. E magari facendo loro
violenza, perché riduciamo la loro complessità a un ritratto in filigrana, a
una singola voce che arricchisce il nostro coro, o perché perdiamo di vista
il loro significato schiacciandolo su uno schema puramente motorio. Come
farebbe un bambino: il bambino che rimane dentro di noi e lì non cessa di
godere del suo gioco più intenso e appassionante. (Un gioco che, sia detto fra
parentesi, spesso finisce per indispettire quel che c’è di più platonico negli
adulti: quando un bambino fa il verso a qualcuno, è facile passare dal
divertimento e dalla tenerezza all’irritazione e al rimprovero.) La recente
scoperta dei neuroni specchio ha dato dignità scientifica a questa intuizione:
gli esseri umani si riflettono l’uno nell’altro e si capiscono perché vivono
sia pur vicariamente, sia pure in modo traslato le medesime esperienze. Io so
quel che fai perché mentre lo fai in certa misura (come preparazione all’atto,
non come atto vero e proprio, e comunque in senso appunto solo motorio) lo
faccio anch’io: mi atteggio e mi dispongo come vedo fare a te, e con tali
atteggiamenti e disposizioni sono in grado di seguirti nel tuo percorso. La
prossima volta forse, in tua assenza, saprò inoltrarmici da solo. Incontriamo
così di nuovo la biologia e di nuovo stupiamo dell’avvedutezza con cui un
piacere tanto vivo è associato a una qualità di grande importanza evolutiva.
L’essere umano (ci ricorda ancora Aristotele) è un animale sociale: non si
realizza, non diventa quel che dovrebbe essere se non in comunità con altri
esseri umani, traendone esempio e stimolo per foggiare il suo comportamento. La
microfisica dell’umanità, dunque, l’atto elementare che, costantemente ripetuto
e ricombinato in mille forme con sé stesso, ci rende umani, è il modesto
miracolo dell’imitazione di un esempio. Di alcuni di questi atti saremo
intimamente consapevoli: guarderemo ai loro archetipi con venerazione e
sentiremo un profondo impegno nei loro confronti; ne riceveremo ispirazione e
indimenticabili modelli di vita e di saggezza. Ma casi tanto sublimi non
avrebbero luogo (né lo avrebbero le mode che con stanca regolarità uniformano
un’intera generazione a uno stereotipo) senza l’umile sottobosco del
rispecchiamento quotidiano: di quegli impercettibili aggrottamenti di
sopracciglia, torsioni del naso, accenti peregrini con cui ci riscopriamo
bambini impertinenti. Quel nostro aspetto così serio e edificante ci è
possibile perché da piccoli abbiamo giocato e da grandi abbiamo continuato,
spesso nostro malgrado, a giocare, a impersonarci l’un l’altro. A impersonare
anche i malvagi, perché anche da loro c’è da apprendere, fosse solo per
rimanerne alla larga: nel dramma della vita, insegna Plotino, servono anche i
cattivi caratteri, per dare la massima completezza all’insieme. C’è di più.
Quello dell’imitazione non è solo uno dei tanti giochi che, inaugurati con
aspetto dimesso nell’infanzia, sanno crescere con l’età fino a
raggiungere splendide vette. È la base che sottende tutti i giochi, il
materiale di cui ogni altro gioco si nutre. Per capirlo, torniamo sui nostri
passi e riprendiamo in esame un contrasto che avevo segnalato nel capitolo
precedente (suggerendo che potesse risultare poco significativo): quello tra
giochi solitari e giochi fatti in compagnia. Chiediamoci: esistono davvero, i
solitari? Tanto per cominciare, un bambino non giocherebbe affatto se non fosse
coinvolto in un ambiente emotivo in cui si sente (comunque stiano concretamente
le cose) in compagnia di qualcuno, sotto gli occhi (benevoli) di qualcuno. «Il
“bambino in carenza”» dice Winnicott «è notoriamente irrequieto ed incapace di
giocare» (p. 162). Questo perché «il gioco implica fiducia e appartiene allo
spazio potenziale tra (quelli che erano in origine) il bambino e la figura
materna, con il bambino in uno stato di dipendenza quasi assoluta e la funzione
adattativa della figura materna presa dal bambino per scontata» (p. 90;
traduzione modificata). In termini epigrammatici, «il bambino è solo soltanto
in presenza di qualcuno» (p. 154). Che dire allora dell’adulto? Osserviamo una
situazione in cui io stesso sono occupato in un gioco senza altri partecipanti
o testimoni, magari in uno di quei giochi di carte che si chiamano proprio
«solitari», e poniamoci riguardo a questo particolare episodio la stessa
domanda formulata sopra: sono davvero solo, mentre gioco? Posso immaginare
circostanze in cui la risposta sia «Sì», ma si tratta di circostanze aberranti,
eccezionali. Se giocassi automaticamente, pensando ad altro, potrebbe capitarmi
di fare una mossa a caso e poi, ritornato improvvisamente in me stesso,
rendermi conto che la mossa è vantaggiosa e acquisirla come strategia
consapevole, perfino abituale. Oppure la casualità potrebbe essere frutto di
disperazione: le ho provate tutte e niente funziona, quindi provo una mossa
assurda, che assurdamente funziona. Circostanze del genere non sono da
escludere: anche un comportamento individuale obbedisce alle leggi
dell’evoluzione, dunque non è escluso che in esso si verifichino mutazioni
stocastiche. Ma non è così che il mio comportamento si evolve nella maggior
parte dei casi. Quasi sempre mentre gioco «da solo», prima di fare una mossa,
io esploro più o meno sistematicamente e consciamente una serie di alternative,
e ne traccio almeno per un po’ le conseguenze, cioè mi colloco, colloco
svariati «me stesso», in un certo numero di mondi possibili – ciascuno
contraddistinto da una particolare mossa – e confrontando fra loro queste
diverse eventualità decido infine quale sia la mossa da fare, o il mondo
possibile da abitare davvero. I vari me stesso coinvolti nel processo di
deliberazione appena descritto avranno caratteri diversi: qualcuno sarà
più audace e qualcun altro più cauto, ci sarà chi ama le carte rosse e
chi le nere, chi non si dà pace se non saltano fuori presto i re e chi è
disposto a lasciarli nel mazzo fino all’ultimo; e a loro volta tutti questi
diversi caratteri li avrò mutuati, in generale, da persone che ho incontrato,
da cui ho tratto lezioni e le cui lezioni adatto alla situazione in cui mi
trovo, selezionando quelle che mi sembrano più opportune. Insomma, se conduco
il gioco in quel modo specifico è perché altri, le cui mosse e strategie ho
incorporato, stanno giocando con me (complemento di compagnia) e aiutandomi a
vedere la situazione in tanti modi diversi – a metterla appunto in gioco. La
morale di questo discorso è che gli autentici solitari sono, come già
accennavo, rarissimi. Succede assai raramente che quello spostamento di
prospettiva, quell’esplorazione di terreni non altrimenti battuti, quella
violazione di quanto è noto e consueto che costituiscono il gioco mi arrivino
dal nulla, non abbiano a fondamento che un mio cieco arbitrio. Quel che succede
più di frequente, invece, è che gli apparenti solitari (e le apparenti «idee
originali» con cui dò un contributo «creativo» a un gioco fatto con altri)
siano giochi fatti in compagnia di persone fisicamente assenti ma ben presenti
nella mia pratica. E come ottengono la loro presenza tali persone assenti? Ho
usato la parola «incorporato» poco fa, applicando la stessa metafora di quando
prima ho parlato del fare del nostro «corpo un palcoscenico su cui l’altro può
giocare il suo ruolo» (e prima ancora ho espresso il rifiuto platonico di
questa forma di metabolizzazione del nostro prossimo): la presenza degli
assenti si ottiene imitandoli – scimmiottandoli oppure atteggiandosi e
disponendosi come loro secondo il modello dei neuroni specchio. Fatta salva la
sporadica occorrenza di mosse devianti e ludiche che emergano dal puro caso,
l’imitazione è la madre di tutti i giochi: ogni altro gioco si svolge su una
scena che il gioco dell’imitazione ha popolato di personaggi e storie. Ho
sempre trovato affascinante il fatto che la battuta che dà inizio a ogni
ripresa cinematografica sia «Azione!». A prima vista, la battuta non ha senso:
quel che la segue non è un’azione; al massimo la rappresenta; coloro che vi
«agiscono» non stanno facendo quel che pretendono di fare, e tutti lo sanno –
loro stessi, il regista, il pubblico. Perché «Azione!», allora? Ci saranno
senz’altro motivi contingenti che hanno dato origine alla battuta, ma non
m’interessano; m’interessa invece che sia rimasta, perché se è rimasta il
motivo è, ritengo, che c’è in essa una profonda, illuminante giustizia. Nella
rivoluzione concettuale proposta nel quinto e sesto capitolo la vita umana era
intesa come un insieme di giochi più o meno regolamentati, più o meno
vincolati a parametri fissi, e per converso più o meno espressione di libertà;
il gioco era la norma e le attività solitamente giudicate serie erano giochi
ristretti e limitati. Qui possiamo arrivare alla medesima radicale
costellazione di idee per una strada diversa (in un labirinto, strade diverse
ci portano spesso a un’identica meta). Che cos’è un’azione? È corsa sul posto,
routine, acquiescenza a ogni abitudine e aspettativa? È ripetizione del già agito?
Forse, ma solo nel senso della straordinaria intuizione kierkegaardiana per cui
l’unica vera ripetizione sarebbe una novità, e le stesse cose non sono mai le
stesse cose. Nel comune senso della parola, invece, nella comune ideologia che
informa il senso della parola, una ripetizione non è un’azione. Il mio computer
non agisce quando applica alla lettera (ripetutamente) le istruzioni che gli ho
dato: tutto quel che c’era da fare l’hanno fatto le istruzioni, il computer non
«fa» che confermarle. Solo una mossa che cambia qualcosa, che stupisce, che
scombina le carte è un’azione, solo allora siamo attivi. Quindi solo il
parametro ludico del nostro comportamento lo costituisce come azione, nella
misura in cui si manifesta. Solo il gioco è azione. Ma è nella teatralità, ho
detto, che il gioco trova il suo humus, il terreno fertile sul quale crescere,
e una produzione cinematografica ha il pregio di mostrarci questa teatralità
ridotta a scene elementari, a quella che ho chiamato la microfisica
dell’umanità, il modesto miracolo dell’imitazione di un esempio. Niente più di
tale costante e ripetuto (!) miracolo merita di essere annunciato con
«Azione!». 11. Giochi di parole A questo punto del nostro percorso ci
troviamo davanti a un abisso, non meno impervio e minaccioso di quello che nel
canto XVII dell’Inferno separa Dante da Malebolge, e che il poeta e la sua
guida riescono a superare solo aggrappandosi a Gerione, mostruosa e malevola
bestia. Abbiamo compiuto un’accurata perlustrazione di tutta l’ampia e variegata
area dei giochi fisici, quelli che coinvolgono i nostri organi e sensi corporei
e ci permettono di percepire altri oggetti nello spazio e di interagire con
essi. Abbiamo scoperto nel gioco di una bimba elementi con un ruolo identico a
quello delle regole del calcio; abbiamo esplorato il gioco fatto insieme, nello
stesso modo, da bambini e da adulti; abbiamo perfino catturato nella nostra
rete le arti figurative, plastiche e musicali come giochi sensoriali. Rimane
però il fatto, sembra, che il nostro corpo non esaurisce il nostro essere: che
quest’ultimo contiene anche, molti direbbero, componenti spirituali che non
occupano spazio, che palesano anzi una radicale alterità nei confronti di tutto
ciò che occupa spazio. A una di tali componenti ho accennato nel secondo
capitolo, quando ho paragonato il modo in cui la bimba apprende qualcosa dal
suo gioco al procedere della scienza. Chiaramente quello della scienza è un
procedere metaforico, un metaforico «inoltrarsi in un terreno ignoto»: la
scienza non si muove (per quanto gli scienziati lo facciano) e non può
letteralmente procedere o inoltrarsi. Lo stesso vale per la poesia, la
filosofia e tutte le altre discipline di natura verbale o mentale; se pure
riuscissimo a dimostrare che queste discipline hanno un carattere ludico, come
potrebbe esserci più di un’analogia fra il loro carattere ludico e quello,
diciamo, del tennis? Come potrei continuare a insistere che il tennis e il
«gioco» dell’Etica spinoziana sono (sia pur dialetticamente) la stessa cosa?
Qui sono in ballo (in gioco) due cose diverse, ci ha insegnato Cartesio: la
nostra anima è una cosa distinta dal nostro corpo, dunque gioca ad altri
giochi. Il meglio che io possa fare, si concluderà, è trascurare questa
differenza ed evidenziare alcuni tratti che tali diversi giochi hanno in
comune: tornare cioè precipitosamente a una visione analitica del gioco che lo
riduca a un’essenza astratta e abbandoni al suo destino tutta la zavorra
– in particolare la zavorra fisica – che finora mi sono trascinato dietro. Non
sono d’accordo. Ai giochi verbali e mentali voglio arrivare come Dante arriva
in Malebolge, con tutto il mio corpo e ancora vivo (cioè giocoso), non
facendomi sostituire da un ectoplasma. E, se ciò cui intendo aggrapparmi per
eseguire questo salto mortale non è una bestia mostruosa, è però un’inversione
che qualcuno giudicherà altrettanto mostruosa nell’ordine logico in cui
solitamente (e ingannevolmente) vengono disposti i termini della questione. Qui
sopra ho accennato un po’ di corsa a «discipline di natura verbale o mentale»;
ora però è bene rendersi conto che verbale non è lo stesso che mentale – uno si
riferisce a parole e l’altro a idee o concetti – quindi se verbale viene
associato a mentale si tratta d’intendersi su come funziona l’associazione. Più
precisamente, si tratta di decidere se verbale vada spiegato partendo da
mentale, cioè mentale sia la base, il fondamento e verbale quel che gli si
associa, che su tale fondamento si regge, o se invece valga l’inverso. Chi
accetti la radicale distinzione fra anima e corpo sceglierà il primo corno del
dilemma. Per esempio, un filosofo del linguaggio come Geach (che, non a caso,
ha scritto anche su Cartesio) ci dirà che, se pure una scimmia o il vento nel
deserto emettessero un suono del tutto indistinguibile dalla parola «albero»,
quella non sarebbe un’occorrenza della parola «albero» perché ciò che rende
«albero» una parola non è il suo suono ma il suo significato, e solo una mente
(che, presumibilmente, né la scimmia né il vento hanno) ha accesso a quelle
cose astratte, ideali, non spaziali, spirituali insomma, che sono i
significati. Quasi un secolo prima di Geach, il fondatore della linguistica
contemporanea Ferdinand de Saussure aveva addirittura stabilito che il rapporto
di significazione valesse fra due oggetti mentali – la rappresentazione mentale
del suono «albero» (non il suono stesso) e la rappresentazione mentale di un
albero – trasformando di fatto la linguistica in una branca della psicologia e
il linguaggio in qualcosa che compete solo a enti che abbiano una psiche
(un’anima, appunto) e solo in quanto tali enti esercitino le loro funzioni
psichiche (non in quanto abbiano un corpo). La drastica scissione che
cartesianamente attraversa ciascuno di noi viene così esaltata a livello
cosmico: tutto l’essere, non solo il mio, è radicalmente diviso fra uno spirito
che parla perché è consapevole del significato di quel che dice e una natura
che è irreparabilmente muta – anche se emette suoni, e quale che sia la
ricchezza e complessità di tali suoni, non vuole dire nulla. Se in principio
era il Verbo, non si trattava del Verbo in quanto lo sentono le mie orecchie,
ma in quanto lo capisce la mia mente. Io scelgo la direzione inversa: è la
mente a reggersi sul linguaggio e non c’è differenza sostanziale, sebbene certo
ci siano molte differenze specifiche, tra il linguaggio di un essere umano e
quello di una scimmia o del vento. Ci vorrà una buona dose di testardaggine per
rimanere attaccati a questa mostruosità, ma confido che facendolo sarò in grado
di superare il baratro che incombe e traghettare il gioco verso sublimi
creazioni spirituali senza perderne per strada la fisicità. Nel resto di questo
capitolo mi occuperò dunque di giochi verbali e nel prossimo di quelli mentali.
Cominciamo definendo con esattezza il problema. La teoria tradizionale del
linguaggio, cui io mi oppongo e di cui Geach e de Saussure sono autorevoli
rappresentanti, afferma quanto segue: Il linguaggio è un mezzo di comunicazione
fra menti. Quando io parlo con un interlocutore A, ho un certo contenuto B
(un’idea, un desiderio, un giudizio) nella mia mente, lo codifico in un
linguaggio che suppongo A conosca ed emetto dei suoni che in quel linguaggio
significano B; A recepisce i suoni, li decodifica e acquisisce il contenuto B,
che d’ora in poi avremo in comune. La comunicazione ha avuto successo e il
linguaggio ne è stato prezioso ma in fondo inessenziale strumento. Se io so che
sono le cinque meno un quarto e ti dico «Sono le cinque meno un quarto», anche
tu verrai a sapere che sono le cinque meno un quarto; ma è un peccato che per
informarti di che ora sia io debba scegliere un percorso così tortuoso. Sarebbe
tanto più semplice se tu potessi leggere nella mia mente, se la comunicazione
potesse avvenire per via telepatica. C’è da stupirsi che per una volta
l’evoluzione si sia impegolata in un rituale maldestro e aperto a ogni sorta di
inconvenienti (cattiva pronuncia da parte mia, cattiva ricezione da parte tua,
insufficiente competenza linguistica, rumori di fondo...). Come combatterò questa
teoria? Dimostrandola sbagliata? Solo un ingenuo si porrebbe un simile
obiettivo: introducendo opportune complicazioni, una teoria può essere protetta
da dati empirici «recalcitranti» o sue inerenti assurdità. Il modello
geocentrico afferma che Mercurio e Venere girano intorno alla Terra ma noi li
vediamo sempre molto vicini al Sole? Niente paura: basta aggiungere un certo
numero di epicicli e i conti tornano. Il mondo è sovrappopolato e io rifiuto
categoricamente ogni forma di controllo delle nascite? Perché dovrei
preoccuparmi? Forse che un Dio onnipotente, dopo averci detto «Crescete e
moltiplicatevi», non saprà salvare capra e cavoli? Una teoria avversa non si
affronta cercando di confutarla ma costruendole accanto un’altra teoria più
plausibile, più potente, più elegante e lasciando che sia il pubblico a
decidere. Nella peggiore delle ipotesi, se il pubblico rimanesse fedele alla
concorrenza, avremmo almeno ampliato il numero delle opzioni disponibili:
avremmo allargato il gioco. Albert Mehrabian, professore di psicologia alla
Ucla, afferma che, quando una persona ci comunica i suoi sentimenti o stati
d’animo, solo il 7% della fiducia che ci ispira, quindi dell’efficacia della
comunicazione, dipende dalle parole che usa, mentre il 38% dipende dal suo tono
e il 55% dal suo comportamento non verbale, o body language – il che
spiegherebbe fra l’altro perché veicoli eterei e immateriali come la posta
elettronica diano origine a tanti malintesi e corti circuiti emotivi. A riprova
della capacità di resistenza delle teorie, un fautore della posizione
tradizionale non si lascerebbe turbare da fatti del genere. Categorizzerebbe
malintesi e corti circuiti come incidenti di percorso (privilegiando così la
norma sui dati, per quanto frequenti) e aggiungerebbe al modello un epiciclo:
la mente non codifica il suo significato in un messaggio soltanto verbale ma in
una performance inclusiva di gesti, atteggiamenti del viso e del corpo, ritmi e
inflessioni di voce. (Già il fatto che il relativo comportamento venga qualificato
come body language segnala il tentativo di asservire il corpo a ulteriore
elemento di trasmissione di un contenuto che non gli appartiene.) Io invece
prendo questi fatti molto sul serio e ne traggo la morale opposta: noi
comunichiamo, cioè ci capiamo reciprocamente e mettiamo in comune non solo
sentimenti e stati d’animo ma anche idee e opinioni, perché siamo innanzitutto
corpi e una lunga consuetudine a vivere in mezzo ad altri corpi (e a
rispecchiarne le mosse) ci ha educato a coglierne ogni variazione, ogni
indugio, ogni forzatura come significativi, né più né meno di quanto un esperto
marinaio sappia trarre le conseguenze di ogni minimo trasalimento della massa
d’acqua al cospetto della quale vive e opera (o una scimmia sappia fare con
un’altra scimmia, con il mare o con i visitatori dello zoo – per il vento
occorrerà attendere la fine del libro) Una piccola parte delle mosse fisiche
che comprendiamo e mediante le quali comunichiamo è costituita dall’emissione
di suoni, e anche qui capiremo di più e comunicheremo meglio quanta più
familiarità avremo con il corpo che ci funge da interlocutore – con il tipo di
suoni che ce ne possiamo aspettare. Con uno sconosciuto adotteremo
comportamenti guardinghi e stilizzati, sintomo dell’incertezza e apprensione
che proviamo; chiederemo per esempio nel tono più neutro possibile che ore
siano, ed è paradossale che la tradizione che qui sto contestando assuma casi
di natura così marginale e deviante come modelli ideali di comunicazione. Per
me l’ideale sono invece i casi in cui varie persone sono immerse in un progetto
o in un impegno comune, e le parole che si scambiano sono perlopiù ridondanti,
echi di quel che si è già comunicato in modo non verbale: un’asserzione
diffonde e ufficializza quanto tutti hanno già riconosciuto, un’espressione
d’incoraggiamento conferma il sostegno emotivo che tutti già avvertono. (E,
invece di suggerire parlando di body language che il comportamento sia una
specie del genere linguaggio, preferisco suggerire che il linguaggio sia una
specie del genere comportamento usando termini come linguistic behavior.) Ma,
si dirà, il linguaggio non è usato solo in situazioni come quelle che ho
descritto, in cui l’ascoltatore è in presenza di quel che gli viene comunicato:
in cui un sentimento, un’intenzione o un’idea sono espressi da un parlante che
gli è direttamente accessibile, con tutto il suo essere, e quel che il parlante
dice è in buona parte superfluo, considerando in quanti altri modi «dice» la
stessa cosa. Il linguaggio è un prezioso mezzo di comunicazione perché ci
permette di comunicare anche significati che ci sono assenti. Il parlante può
raccontarci che cosa gli è capitato ieri in ufficio, o che disastro ferroviario
sia avvenuto in India, e non solo: può essere lui stesso assente e raccontarci
queste cose al telefono, o scrivercene in una lettera o per posta elettronica;
e noi acquisiremo comunque tali informazioni, ne sapremo di più alla fine dello
scambio di quanto ne sapessimo all’inizio. Non è comunicazione, questa? E non è
suo strumento un linguaggio distaccato dal corpo? Non intendo negare simili
ovvietà. Teorie alternative devono spiegare gli stessi fatti, non scegliersi i
fatti più convenienti, ma li spiegheranno stabilendo diverse relazioni di
dipendenza, collocando diversamente gli accenti; dunque mi prenderò la libertà
di rimandare a più tardi la spiegazione del linguaggio come racconto e
formulerò invece una domanda che sembrerà, a chi sostenga la priorità del
mentale, mettere il carro davanti ai buoi. Mi chiederò: se la funzione
fondamentale del linguaggio non è quella comunicativa, quale potrebbe essere?
Ai miei avversari sembrerà che io possa porre tale domanda solo dopo aver
fornito un’interpretazione convincente, dal mio punto di vista, del carattere
narrativo del linguaggio; ma cambiare teoria (ripeto) vuol dire anche cambiare
priorità, e in particolare ritengo che il racconto linguistico diventi
perfettamente comprensibile se prima rispondo alla mia domanda. Nel quinto
capitolo ho detto che un gioco come il calcio o gli scacchi è un
microcosmo nel quale rappresentare mosse ludiche che sarebbe in generale troppo
rischioso praticare «dal vivo» e ho discusso la logica della rappresentazione:
qualcosa è sempre rappresentato da qualcos’altro, quindi gli è simile per certi
aspetti ma se ne differenzia per altri. Se mai si verificasse una situazione in
cui il gioco vicario che abbiamo condotto dovesse rivelare la sua utilità (in
cui l’elaborazione di piani intricati per guadagnare un alfiere dovesse
aiutarci in una manovra di aggiramento diretta a conseguire una promozione),
c’è da sperare che a risultare decisivi siano gli aspetti in cui i due contesti
sono simili, non l’infinità di aspetti in cui non lo sono. Stando così le cose,
una rappresentazione che somigli di più all’originale sarà più utile di una che
gli somigli di meno: più riuscirà a seguirlo nei suoi dettagli, nelle sue
modulazioni, nella sua incalcolabile architettura frattale, più sarà probabile
che, quando si abbia a che fare con l’originale, si sappia come muoversi con i
dettagli che allora risulteranno pertinenti. Nessun mezzo rappresentativo
disponibile agli esseri umani può rivaleggiare su questo terreno con il
linguaggio (sebbene il computer, affermavo in Giocare per forza, stia emergendo
come un pericoloso candidato): l’eccezionale quantità e qualità di suoni che
riusciamo a produrre ci permette di costruire rappresentazioni estremamente
particolareggiate di oggetti, situazioni ed eventi, e di esplorare ludicamente
queste rappresentazioni con vantaggi potenziali molto maggiori di quelli
consentiti da un gioco sportivo o da un gioco di carte. Il linguaggio è, in
primo luogo, uno spazio di gioco.nGuardate al modo in cui un bambino vive il
linguaggio. Spezza le parole, le stiracchia, le unisce in aggregati inconsueti
e scorretti, è attratto dalle loro risonanze, dal rumore che fanno, e spesso
combina quei rumori con altri che noi giudicheremmo «inarticolati»; per lui le
parole sono oggetti da manipolare, mettere sotto pressione e violare tanto
quanto palle e cubi. Questa, per me, è la scena primaria del linguaggio, il
prototipo che ne chiarisce il ruolo e il senso. In età adulta, a rimanere più
vicini all’intimità e al calore della scena primaria sono i poeti; sono loro
più di chiunque altro a giocare con le parole e a trattarle, giocandovi, come
cose. Ancora una volta reinterpretando il passato alla luce del suo futuro,
dunque, vedendo il bambino alla luce del poeta che promette di diventare,
potremmo dire che l’uso primario del linguaggio è quello poetico. Il che equivarrebbe
a riascoltare bene questa parola: poieo è fare, in greco, quindi il poeta è
creatore, e lo è proprio in quanto gioca, perché solo chi gioca inventa, supera
l’esistente nel nome di un processo innovativo che solo il gioco consente di
realizzare. Se le parole sono (trattate come) cose le si potrà associare ad
altre cose, e mediante tali associazioni costituire quelle corrispondenze fra
parole e cose che sono alla base del significato delle parole. Quando ero
piccolo a casa dei miei nonni, d’estate, raccoglievo tappi di bottiglia (di
birra, di Coca-Cola) e poi li usavo per rappresentare eserciti e battaglie.
Ogni tappo era un soldato, e quando il tappo era rovesciato il soldato era
morto. Detta altrimenti: ogni tappo significava un soldato, e che il tappo
fosse rovesciato significava che il soldato era morto. Nel linguaggio, invece
di tappi, pedine o gettoni, e invece delle configurazioni in cui possono
comparire tappi e pedine, usiamo nomi e verbi e loro configurazioni, di cui
abbiamo imparato il significato (le associazioni) osservando e scimmiottando
padri e madri, cugini e amici di famiglia, e acquistando attraverso i nostri
errori una dimestichezza sempre più sottile con le mille sfumature, cadenze e
intonazioni che organizzano quei significati, in modi mille volte più complessi
di tappi e pedine, mille volte più disponibili a scatenare la fantasia ludica.
Ogni gioco ha delle regole, abbiamo visto: va a sbattere contro spigoli e
pareti. Nel caso di un gioco linguistico, del linguaggio in quanto gioco, le
regole non sono ostacoli o limiti fisici ma sociali. Ho usato il termine
«scorretto» per spiegare come un bambino opera con le parole; un atto è
scorretto (o corretto) in relazione a una norma, ed è la società a imporre le
norme linguistiche e a designare quello del bambino come un comportamento
linguistico scorretto. Lasciato a sé stesso, il linguaggio non fa che seguire
un’inarrestabile deriva metaforica e metonimica, trasformato costantemente dai
poeti che lo abitano (cioè da tutti coloro che lo parlano) e che tendono a
volgerlo in un gergo familiare o di gruppo e infine in un idioletto,
comprensibile solo a chi lo parla. Ma la libertà – lo sappiamo – è rischiosa;
bisogna limitarne l’ambito e il potere. Intervengono allora discipline
(ascoltiamo anche questa parola: anche le sue associazioni ci dicono qualcosa)
normative: grammatica, logica, semantica, retorica, stilistica, che sanciscono
quali combinazioni di parole siano accettabili, quali associazioni fra parole e
(altre) cose siano significanti, a quali fra le molteplici tappe della deriva
linguistica si possa attribuire l’etichetta di un significato letterale
(cercando così di fermare la deriva: un significato letterale è una metafora o
metonimia su cui ci siamo arenati), quali ritmi e cadenze abbiano valore
estetico. L’uso comune del linguaggio si colloca su uno spettro analogo a
quello discusso nel sesto capitolo (anzi, è proprio lo stesso spettro). A un
estremo c’è l’assoluta licenza di una vocalizzazione esasperata; all’altro gli
anodini enunciati della filosofia del linguaggio anglosassone – «The fat cat
sat on the mat; he saw a big rat», «Il gatto è sulla stuoia»: perfettamente
grammaticali, costruiti con termini assolutamente privi di ambiguità, ciascuno
indissolubilmente legato a una singola associazione, e proprio per questo,
direi, incapaci di esprimere un qualsiasi significato o dar vita ad alcuna
comunicazione. Né l’uno né l’altro degli estremi (per quanto citato nei testi
di filosofia del linguaggio) è mai effettivamente realizzato; quel che
incontriamo nelle nostre quotidiane vicissitudini è un universo multiforme di
mediazioni fra gli estremi. Incontriamo parole e frasi che in certa misura
fanno ossequio alle norme (tanto maggior ossequio quanto minor fiducia abbiamo
nell’ambiente) e in certa misura le trascendono colorandole di esperienze
personali, immettendovi il gusto saporito, talvolta un po’ nauseante, di una
sceneggiata che coinvolge tutto il corpo, non solo le labbra e la lingua. Come
in ogni altro caso, regole rigorose diventano l’occasione per una creatività
più raffinata, per un gioco più sagace anche se indubbiamente più difficile,
come il bridge è più difficile della briscola. Pensate a quanto è costrittiva
la forma di un sonetto: quattordici endecasillabi divisi in due quartine e due
terzine, rimati secondo pochi e precisi schemi. Come ci sarebbe da aspettarsi,
la grandissima maggioranza dei sonetti è mediocre e noiosa – adiacente
all’estremo regolamentato dello spettro linguistico. Quando però recitiamo (la
poesia va recitata ad alta voce, per motivi che ora dovrebbero essere ovvi!) un
capolavoro di Dante, Petrarca o Foscolo, ci rendiamo conto che senza quelle
costrizioni non avremmo potuto scoprire tanta ingegnosa libertà, e goderne. E
la medesima libertà è espressa, non sempre a questi livelli, da ogni
parlante/poeta in ogni linguaggio: quando inventa una battuta, adatta a nuovo
uso una parola, raccoglie e concentra le sue emozioni in una frase a effetto,
improvvisa una cantilena per un figlio che non vuol saperne di dormire. In
ciascuna di queste occasioni la vocazione ludica del linguaggio si riattiva: le
regole diventano un trampolino per un tuffo ancor più avvitato e carpiato,
invece che una camicia di forza. È arrivato il momento di affrontare il
linguaggio dell’assenza e, nel farlo, di distinguerne con cura le due modalità
che prima avevo indicato. Il linguaggio, dicevo, può essere usato da un
parlante per descrivere qualcosa di cui il suo interlocutore non è e non è
stato testimone; in tal caso, è il significato del linguaggio a essere assente
(a chi ascolta). Ma, aggiungevo, anche il parlante può essere assente:
l’interlocutore può essere fisicamente solo e il linguaggio apparirgli come
testo scritto. Questa seconda modalità sembra ora la più inquietante, per la
mia posizione. Che cosa ne è in essa della corporeità della comunicazione,
delle parole trattate come cose, della libertà di giocarvi e di creare? Quando
leggo un resoconto scritto di una seduta parlamentare o di una sparatoria, di
solito non ne conosco l’autore (il suo è per me «un mero nome»): capisco quel
che c’è scritto perché le parole hanno il loro significato abituale e le frasi
sono composte in modo grammaticalmente corretto. Sarà vero che molti testi di
filosofia del linguaggio mi restituiscono un’immagine stantia e retriva del
loro argomento; ma anche questi testi sono scritti in un linguaggio, e io li
leggo e li capisco. Capisco «The cat is on the mat» e capisco il senso di
questo esempio. Non è vero dunque che i testi scritti suggeriscono una visione del
linguaggio del tutto opposta alla mia, e affine a quella tradizionale? Andiamo
per gradi. Consideriamo prima il caso in cui il contenuto di un racconto ci sia
assente (non ne siamo stati testimoni) ma la persona che lo racconta ci sia
presente, e immaginiamo che più persone ci facciano un racconto con lo stesso
contenuto, descrivano per esempio lo stesso disastro ferroviario in India. Ne
segue che tutti ci comunicano la stessa cosa? Che, pur assumendo che
controllino al massimo i loro movimenti e mantengano un volto impassibile, ne
riceviamo le medesime informazioni? Forse sì, se intendiamo «informazione» nel
senso più comune, e profondamente legato al modello mentalistico del
linguaggio: un pacchetto di enti immateriali (chissà come faranno degli enti immateriali
a entrare in un pacchetto!) che va trasferito da una mente all’altra. No,
invece, se ascoltiamo quel che «informazione» ci sta dicendo: se a contare per
noi è quanto una comunicazione ci forma, ci cambia, ha un influsso temporaneo o
permanente su di noi. Se prendiamo il termine in questa seconda accezione (che
io preferisco), dovremo ammettere che le parole scelte da ciascuno dei
narratori fanno un’enorme differenza per l’efficacia del suo discorso: che il
loro suono, il tono e il ritmo con il quale sono pronunciate, le loro
associazioni, le risonanze o dissonanze che hanno con altre parole dello stesso
discorso, la forza con cui tutte queste parole sono concatenate l’una con
l’altra suggerendo un’immagine unitaria e l’inventiva con cui questa immagine
si rinnova senza sosta, illuminando angoli oscuri e chiamando in causa
prospettive balzane, possono coinvolgerci in un gioco vivido ed eccitante, in
cui costantemente elaboriamo aspettative sul prossimo passo e le vediamo
confermate o contraddette, e proviamo sorpresa e frustrazione e incanto e
disgusto, e alla fine sentiamo di aver percorso noi stessi quel territorio e di
conoscerlo bene anche se ciò non è vero – anche se il territorio non somiglia
affatto a quel che ci è stato comunicato e ci ha informato. Oppure le parole
possono essere spente e banali, sfilacciate e risapute, e dovremo fare un
grosso sforzo per mantenere desta l’attenzione su quel che vogliono dire perché
sembra che non vogliano dire niente, e alla fine ci sarà difficile ricordarle e
capire che cosa è successo, in India. Un logico sentenzierebbe che entrambi i
discorsi esprimono lo stesso pensiero e hanno lo stesso valore di verità, e
magari sarà così, quando «pensiero» e «valore di verità» siano stati definiti
in modo opportuno; ma allora si dovrà concludere che pensieri e valori di
verità hanno poco a che fare con quel che succede quando ci raccontiamo
qualcosa. Il linguaggio non è mai dell’assenza. L’assenza esiste, non ci sono
dubbi: cose e persone ci mancano, spesso per sempre. Ma il racconto non ha
altra funzione che evocare queste cose o persone: la parola è innanzitutto
magica. Con le sue limitate risorse – qualche nota, qualche alterazione di
timbro o volume – richiama quel che non c’è e lo fa essere, anzi fa essere
qualcosa che s’ispira a quel che non c’è, e che forse ne è molto diverso ma
adesso con questa scusa ci è diventato presente. E la magia del linguaggio non
è mai disgiunta dal suo carattere ludico: la seconda volta che ascoltassi lo
stesso racconto, formulato con le stesse parole, non evocherebbe più nulla e io
mi troverei a pensare ad altro. Solo un linguaggio che esplora e sovverte,
inquieta e soddisfa, solo un linguaggio giocoso, può raccontare. Anzi, meglio:
solo un linguaggio in quanto giocoso, in quanto esplora e sovverte, inquieta e
soddisfa, perché come al solito i nostri racconti quotidiani sono compromessi
fra trasgressione e conformismo, scoperta e stereotipo, quindi sono racconti
fino a un certo punto. Al limite, se il linguaggio fosse usato in modo puramente
rituale e prefissato, non lo staremmo nemmeno a sentire. Veniamo ora alla
scrittura. Anche qui c’è uno spettro di possibilità, e anche qui la mia
posizione e quella avversa assumono come paradigmatici i due diversi estremi
dello spettro. Per i miei avversari il modello di comunicazione scritta, cui
ogni altra si deve uniformare, è il dispaccio d’agenzia: «Ieri alle ore 18.05
la Corea del Nord ha lanciato un missile verso Seoul». Io parto dall’estremo
opposto: così come l’archetipo del linguaggio è per me la poesia, l’archetipo
del linguaggio scritto è la prosa letteraria. In un dispaccio d’agenzia – anzi,
per la precisione, secondo il modo ideologico in cui la posizione avversa
interpreta un dispaccio d’agenzia – le parole non contano: basta esprimere il
significato giusto, inteso come entità astratta e mentale. In un testo
letterario, invece, è chiaro che le parole contano, e noi le sentiamo anche se
leggiamo «a mente»; e sono parole scelte con creatività e maestria (con la
maestria di un grande giocatore) a far nascere per noi dalla pagina dei
personaggi, delle avventure, delle passioni, un mondo. Parole diverse, se pure
dicessero «la stessa cosa» (quella che la posizione avversa concepirebbe come
la stessa cosa) non avrebbero lo stesso effetto, o non avrebbero alcun effetto.
E, se un dispaccio d’agenzia mi colpisce, se entra davvero in circolo nella mia
persona, se non si perde fra i rumori di fondo, è perché sa trasmettermi
tutt’altro che un resoconto neutrale e oggettivo di un semplice fatto (come vorrebbe
l’ideologia cui mi oppongo): perché il suo linguaggio economico ed essenziale
conferisce invece maggiore urgenza ai timori e alle ansie che si sono
immediatamente scatenati in me appena ho visto queste parole insieme – «Corea
del Nord», «missile», «Seoul», «ieri». A suo modo, questo dispaccio (fittizio)
è un riuscito aforisma. Riassumiamo. Ho forse dimostrato che non esistono i
significati come entità astratte e accessibili solo a delle menti, e che non è
il rapporto con significati astratti a qualificare il linguaggio come tale? a
fare di un suono o di uno scarabocchio una parola o una frase? No di certo.
Dopo tutto quel che ho detto, anche chi volesse accettarlo potrebbe credere
che, in aggiunta a tutto quel che ho detto, ci sono i significati astratti ed è
la loro presenza a conferire dignità linguistica a suoni e scarabocchi. Ma non
era mia intenzione dimostrare niente del genere. Quel che ho cercato di fare è
stato difendere una tesi più debole ma per me d’importanza cruciale: dei
suddetti significati non abbiamo bisogno, possiamo farne a meno. Il nostro
linguaggio, anzi il nostro comportamento linguistico, è parte del flusso
continuo di tutto il nostro comportamento, che noi siamo in grado di
interpretare nei nostri simili o in noi stessi (perché ho detto quel che ho
detto?) così come interpretiamo l’annuvolarsi del cielo o il latrato di un
cane. Come con ogni altro aspetto del nostro comportamento, anche con il
linguaggio possiamo giocare; ed è qui che esso rivela la sua unicità, perché
nessun altro mezzo a nostra disposizione è tanto duttile, tanto articolato,
ricco di tanti dettagli e aperto a tante variazioni, quindi tanto generoso
nell’offrirci giochi d’insondabile profondità e complessità – microcosmi
infinitamente interessanti e istruttivi. Questa essenziale natura ludica del
linguaggio si combina con le sue altre caratteristiche dando luogo a ogni sorta
di mediazioni. Capiamo un altro che parla come capiamo un altro che cammina;
ma, parlando, quell’altro può esplorare e trasgredire e farci piacere e farci
paura molto meglio che camminando, e possiamo capire anche questo, e lasciarci
coinvolgere in questo gioco, e farcene trasportare in posti dove non siamo mai
stati, in compagnia di persone che non abbiamo mai visto. E possiamo creare lo
stesso miraggio senza nemmeno parlare, scrivendo parole in un libro come
questo; e le parole scritte evocheranno un significato se sono scelte con cura,
la stessa cura con cui uno scacchista prepara la sua prossima mossa – cura di
rassicurare e stupire al tempo stesso, di confermare e destabilizzare. Ho
chiarito come si possa arrivare, partendo da questa visione, a spiegare l’uso
del linguaggio per chiedere che ora sia, ma sono convinto che, se questo fosse
l’uso principale del linguaggio, esso sarebbe da tempo diventato non meno
vestigiale dei denti del giudizio. Temo che possa diventarlo, ho detto, che
all’orizzonte si profili minaccioso un terribile concorrente. Ma so che se non
lo è ancora diventato è perché nel linguaggio, più e meglio che altrove, si
gioca. All’inizio di questo capitolo mi ero assegnato il compito di
«traghettare il gioco verso sublimi creazioni spirituali senza perderne per
strada la fisicità». Che il lettore sia o meno d’accordo con le idee che sono
venuto sviluppando, avrà capito in che senso io intenda riconoscere un
importante elemento di fisicità in sublimi creazioni come sono spesso quelle
poetiche o letterarie. È ancora lecito, però, potrebbe chiedere, che io
qualifichi tali creazioni come spirituali? Non ho lasciato cadere lo spirito, o
anima o mente che dir si voglia, rifiutando la dualità cartesiana? Non sono
rimasto, quindi, in un universo che non ha più nulla di spirituale – un
universo fatto solo di corpi, eventualmente poetici o letterari? Non è, lo
stesso obiettivo che mi sono posto, prova evidente di una mia confusione, come
se volessi ammettere oggetti, o attività, che appartengono contemporaneamente
all’ambito fisico e spirituale? In realtà sono queste domande a provare
qualcosa: quanto sia difficile liberarsi di un pregiudizio. Per loro tramite il
cartesianesimo, scacciato dalla porta, rientra dalla finestra. Detta nel modo
più semplice e chiaro possibile, lo spirito (o la mente, o l’anima) può solo
essere un modo di vivere il corpo: non esiste uno spirito indipendente dal corpo.
Un corpo si anima quando i suoi atteggiamenti e le sue mosse si colorano di
spirito ludico: è spirito (o mente, o anima) in quanto gioca. (Potrei dire «in
quanto danza», purché per danza s’intenda una pratica creativa, non puramente
rituale e aperta ai movimenti della parola e del pensiero: una danza nello
spazio esistenziale.) La visione cartesiana ci fornisce uno spirito a buon
mercato: anche se giaccio del tutto inerte, o la mia vita è inchiodata senza
speranza di salvezza alla routine più inflessibile, sono comunque una mente,
una sostanza pensante; all’ottusità del mio corpo è comunque offerto questo
riscatto. Per me invece lo spirito compare quando il corpo si accende di
vitalità; il suo fiato è quello che avverto quando qualcosa mi stimola, mi provoca
e mi risveglia; e occuparsi di libri o concetti non dà nessuna garanzia che lo
spirito sia presente – basta guardare al mondo accademico per rendersene conto.
Siccome anche gli estremi di questo spettro sono astrazioni teoriche e ogni
nostra vicenda ha luogo come mediazione fra di essi, tutti noi siamo in ogni
momento corpi/spiriti, in parte animati e in parte inerti. Lo siamo, però, non
come convivenza di due entità radicalmente distinte ma come coesistenza di due
distinte modalità di comportamento di una medesima entità. E, in conclusione,
posso approvare Huizinga quando dice che «il gioco, qualunque sia l’essenza
sua, non è materia» (p. 21) ma non perché si riveli in esso un carattere
soprannaturale. Il gioco non è materia perché è spirito, cioè materia che si
reinventa incessantemente, così come il non-gioco (cioè la materia) è spirito
in coma. I Pensieri stupendi dell'Aosta sono stupendi. L’aspetto fondamentale
della tradizione cartesiana è stato denominato in tempi recenti (posteriori a
Cartesio) «accesso privilegiato». Consiste nella tesi seguente: la mia vita
mentale, privata, mi è del tutto trasparente; io ne colgo con assoluta
limpidezza ogni particolare; in proposito non posso sbagliarmi. Posso
sbagliarmi sul fatto che ci sia un elefante in questa stanza, ma non sul fatto
che io lo veda e sia sicuro di vederlo. E sono l’unico detentore di tale
certezza: chiunque voglia sapere che cosa provo, penso o voglio, non può far
altro che chiederlo a me – io sono l’unica autorità al riguardo.Ci sono voci molto
accreditate che si oppongono a questa tesi. La psicoanalisi stabilisce quali
siano le mie intenzioni o i miei desideri in base a un’osservazione del mio
comportamento ed eventualmente in contrasto con le intenzioni e i desideri che
io mi attribuisco. La neurofisiologia ritiene di poter determinare se ho
un’emozione consultando immagini del mio cervello. Ma, per quanto in difficoltà
fra gli specialisti, l’idea cartesiana che io sia padrone a casa mia (cioè
nella mia mente) continua ad aver fortuna nella cultura popolare, sostenuta da
potenti alleati: la responsabilità religiosa che ognuno deve assumersi per i
suoi peccati, la responsabilità legale che deve assumersi per i suoi crimini,
la responsabilità politica che deve assumersi per il suo voto. In tutti questi
casi, il fattore decisivo è quel che l’individuo ha voluto fare, e solo lui (e
magari il suo Dio) sa che cosa sia. Gli altri, al massimo, potranno fare
congetture sulle sue intime motivazioni ed emettere un verdetto al di là di
ogni ragionevole dubbio. Ciò che è comunque al di là di ogni dubbio,
ragionevole o irragionevole, è il cogito: il rapporto che il soggetto ha con sé
stesso come sostanza pensante. A giustificare questa convinzione c’è il modo in
cui viene concepito il rapporto: lo amministrerebbe la funzione nota come
coscienza, un flusso continuo di attenzione rivolto alla nostra vita interiore,
incapace di errore, custode della verità del nostro essere. Io so che cosa
provo, penso e voglio perché la mia coscienza me ne dà un responso infallibile;
nessun altro ha la mia coscienza, dunque nessun altro ha diretto accesso ai
miei dati. Ho affermato altrove che la coscienza così concepita è un mito: non
esiste un flusso continuo di attenzione a sé stessi che abbia il compito di
farci appurare tutto quel che accade in noi, ma una serie di episodi
indipendenti e frammentari in ciascuno dei quali dalla molteplicità che noi
siamo (che ciascuno di noi è) emerge un giudizio negativo, un’obiezione, verso
l’istanza che in quel momento occupa il proscenio e sta dirigendo i lavori. La
coscienza come flusso continuo e coerente è il risultato di un’azione politica
(reazionaria): di uno stravolgimento di tale episodico esercizio critico che ha
come scopo la conservazione dell’ordine sociale – ritenendoci costantemente
osservati, si spera che ci comporteremo bene. Qui non intendo sviluppare
ulteriormente l’argomento, se non per notare un punto in cui questo discorso
interseca i nostri temi attuali. La visione mentalistica del significato
sostiene che siano le mie esperienze mentali, le stesse che Cartesio giudicava
infallibili, a determinare la dignità linguistica delle parole e frasi che
pronuncio o scrivo, dicevo nel capitolo precedente, e io sostengo l’inverso (e
sostengo che quelle esperienze siano tutt’altro che infallibili). La mia
posizione richiede così che si contesti il presunto carattere originario del
mentale, caratterizzandolo invece come dipendente dal non-mentale, e per
raggiungere questo obiettivo comincerò ascoltando ancora una volta una parola.
«Privato», che nella tradizione cui mi oppongo è sinonimo di «mentale», è un
termine negativo, perché ciò che è privato lo è in quanto privato di qualcosa,
come un bimbo è privato d’affetto o un operaio del suo lavoro. Qual è dunque la
privazione che costituisce il dominio privato del soggetto e della sua mente?
Il gioco è rischioso, e abbiamo visto quante barriere si erigano per evitare
che faccia troppo male. Un adulto proteggerà lo spazio in cui giocano i
bambini: chiuderà porte e finestre, toglierà di mezzo gli oggetti che possano
essere ingoiati, nasconderà i fiammiferi. Quando sarà lui stesso a giocare,
troverà più conveniente scagliarsi contro un avversario su un campo di calcio o
tessere trame su una scacchiera piuttosto che nel quartiere o in fabbrica. E
spesso parlerà soltanto di quel che potrebbe fare invece di farlo: si
accontenterà di esplorare microcosmi linguistici in cui ogni mossa è lecita
invece di coinvolgere in analoghi movimenti il (resto del) suo corpo. Ma non si
è mai abbastanza cauti: una parola avventata, detta con sovversivo spirito
ludico, può ferire l’interlocutore, suscitare i sospetti del principale, essere
presa troppo sul serio da una «testa calda». Allora la nostra specie (e forse
non solo, ma è arduo decidere la questione) ha introdotto un’ulteriore misura
cautelare: molte parole sovversive, molte associazioni inappropriate, molti
racconti fantastici che attentano alle norme del vivere civile li enunciamo
solo a noi stessi, li vocalizziamo senza emettere alcun suono, senza neanche
muovere le labbra – li priviamo di ogni contatto con l’esterno. Ecco in che
senso il mentale dipende dal verbale: i pensieri sono parole non dette –
immagini mnestiche di tali parole, secondo l’espressione freudiana – perché
l’interlocutore giusto, che potrebbe capirle e apprezzarle, non c’è o forse non
c’è mai stato, e noi abbiamo imparato, dopo molti sforzi e qualche delusione, a
farle risuonare in un pubblico silenzio, unici testimoni della loro presenza.
Lo spazio abitato dai pensieri è l’esatto opposto di quello cartesiano. Quello
era popolato di infinite idee, acuto e perspicace nel cogliere quanto sfuggisse
ai sensi del corpo, solidamente risolto in sé stesso e pronto a sollevare dubbi
su tutto ciò che non gli appartenesse. Questo è parassitario, anaclitico,
povero di contenuto e di struttura, in costante pericolo di venire assorbito
nel pubblico chiacchiericcio. Non voglio negare che esistano persone con
straordinarie capacità di concentrazione; la realtà di noi comuni mortali,
però, è che ci risulta estremamente difficile seguire un’idea senza perdere il
filo, o cogliere il rapporto che questa idea ha con quell’altra che abbiamo
avuto ieri; e intanto il mondo incombe e disturba il fragile equilibrio che
siamo penosamente riusciti a costruire, e dopo un attimo tutto crolla e non
ricordiamo più nemmeno che cosa stavamo pensando, o perché ci sembrava così
importante. Se uno di noi comuni mortali vuole far chiaro «dentro sé stesso» e
capire che cosa sta pensando, deve fare un passo indietro in questo percorso e
abbozzare un testo, un diagramma, un disegno su un pezzo di carta. Si chiama
«pensare attraverso la scrittura» ed è un luogo comune per chiunque si occupi
di processi creativi; ma l’ipoteca cartesiana ci impedisce di comprendere la
lezione che ci sta impartendo. Il pensiero è fondato sul linguaggio; i singoli
pensieri non sono che parole o frasi private dell’audio; la mente non è altro
che la capacità di parlare un linguaggio silenzioso (e si noti che sto parlando
della mente, non del cervello, cioè dell’organo di enorme complessità ed
efficienza che presiede, perlopiù inconsciamente, a tutte le nostre funzioni).
Quando questa capacità mostra i suoi limiti, si ritorna alla base: talvolta ci
si racconta ad alta voce quel che si stava cercando di seguire nel pensiero,
più spesso lo si scrive. Con buona pace di Cartesio, non è proprio vero che la
mente ci fornisca idee più chiare e distinte di quanto faccia il corpo: nella
mente regna di solito una grande oscurità e confusione, che si può dissipare solo
eseguendo movimenti fisici – scrivendo, per esempio. Fra le cose che potremo
scrivere ci sono novelle e romanzi, e ho già suggerito come sia da intendere
questo gioco; qui aggiungerò solo qualche dettaglio. Buona parte
dell’esperienza ludica dei bambini consiste nel raccontarsi storie; se sono
fortunati, incontreranno anche degli adulti che ne racconteranno a loro,
trascinandoli fra misteri e sorprese, spaventi e salvataggi, facendo loro
saltare il cuore in gola e tirare sospiri di sollievo. Uno scrittore compie la
stessa benefica azione con i suoi lettori: si sceglie un bambino ideale (i
critici letterari direbbero: un lettore ideale) di cui conosce gusti e
passioni, sogni e desideri, e lo asseconda e lo scoraggia e lo deprime e lo
esalta evocando con parole incisive e frasi seducenti un mondo fittizio che
starà al bambino (al lettore) completare a suo modo, partendo dalle tracce che
le parole e le frasi dello scrittore avranno sparso, come molliche di pane, per
le pagine del libro. L’azione è benefica perché il bambino ne trae godimento:
non sono molti i giochi che offrano tanto piacere quanto una simile altalena di
vicende, scenari e affetti. Ed è benefica anche perché il bambino per suo
tramite impara a conoscere i personaggi e gli eventi del mondo fittizio, come
s’impara qualsiasi cosa – partecipandone attivamente: anticipando la prossima
mossa e verificando le sue ipotesi, piangendo insieme con le vittime e
delirando insieme con gli amanti, immaginandosi a sua volta martire o
raddrizzatorti – e così amplia il repertorio di atteggiamenti e strategie a sua
disposizione correndo rischi minimi: il rischio di una crisi emotiva o di un
estraniamento dalle urgenze quotidiane, il rischio di cercare invano un’Anna
Karenina, il rischio di scambiare per Anna Karenina una persona molto diversa;
certo non il rischio di finire sotto un treno. Anche la filosofia nasce come
racconto, ma con un accento diverso, più insolente. Nel testo che la inaugura,
i dialoghi di Platone, si comincia narrando aneddoti su un discolo che si
rifiuta di crescere, di trovarsi un lavoro, di badare alla sua famiglia,
perfino di cambiarsi d’abito, perché è troppo impegnato a contestare ogni forma
di autorità, a prenderla in giro, a insistere con i suoi infantili «Perché?», a
giocare con le parole degli esperti in modo che, qualunque definizione
propongano, «ci gira sempre dattorno e non c’è verso che voglia star ferma nel
punto dove la mettiamo» (Eutifrone, p. 21). Sembra di leggere Pinocchio, solo
che qui non c’è nessuna fata turchina che salvi il discolo dall’esecuzione. Più
avanti il racconto si complica: il discolo prende ancora la parola, ma non solo
per far esplodere l’arroganza e la presunzione dei grandi. Ora, invece di
distruggere i castelli in aria degli altri, ne costruisce di propri, con acume,
scrupolo e pazienza (gli stessi con cui si costruiscono bei castelli di
sabbia), e li presenta con atteggiamento di sfida a quanti ritengono di vivere
in un castello e invece abitano in una stamberga, convinto che questa sia la
forma più efficace di critica: invece di perder tempo rivelando le stamberghe
per quel che sono, edifichiamo loro accanto una reggia e tutti vorranno
abbandonarle. (Così infatti ho trattato la posizione cartesiana in questo
capitolo e nel precedente; ho avuto buoni compagni di gioco.) Alcuni elementi
della repubblica platonica provocano la nostra indignazione: che si debba
mentire al popolo per il suo bene; che le unioni fra uomini e donne debbano
essere decise dal governo per motivi eugenetici. Altri ci sembrano di grande ragionevolezza:
che i governanti debbano essere educati con cura e il loro carattere messo alla
prova prima di affidar loro lo Stato; che le donne non meno degli uomini
possano governare, perché la loro differenza biologica non implica una
differenza di abilità. Quel che è comune a entrambi è il coraggio, la
sfacciataggine quasi, con cui vengono proposti, la risolutezza con cui
s’insiste sulla loro inevitabilità, sulla loro consequenzialità logica, la
noncuranza con cui vengono trattate le proteste del «senso comune», l’ambizione
e la genialità con cui tutti gli elementi vengono combinati in un colossale
affresco, nell’immagine di un mondo, di esseri umani, di una società totalmente
nuovi. Se un bambino vero (sotto i dieci anni d’età) mai avesse le risorse intellettuali
per compiere un’opera del genere, certo non gli mancherebbero queste altre
doti; certo non avrebbe ancora imparato il conformismo, la soggezione, la
viltà. Platone come Socrate è un bambino che si rifiuta di crescere, che a
risorse intellettuali mature accompagna le qualità innocenti e sfrontate
dell’infanzia: il maestro a settant’anni scherza con i suoi accusatori e con la
giuria; il discepolo a quasi ottanta non smette di aggiungere dettagli al suo
racconto. All’inizio del nostro itinerario ho citato un passo della Critica del
giudizio; ora, vicini al termine del viaggio, occorre riprenderlo in esame e
renderne conto. Che cosa sta facendo Kant? Sta esponendo uno degli elementi del
suo castello, da lui opposto a una tradizione che considera derelitta. La
stamberga da cui vuole che gli altri fuggano è la concezione realista della
conoscenza: Da una parte ci sono io (anzi, la mia mente) e dall’altra c’è un
tavolo. Nella mia mente si forma un’idea del tavolo che gli corrisponde
fedelmente; quindi io conosco bene il tavolo, al punto di poter prevedere con
certezza le sue risposte a varie sollecitazioni. Come sia possibile che fra due
oggetti distinti e tanto diversi fra loro (la mia mente e il tavolo) si
stabilisca una così perfetta corrispondenza, la tradizione non sa spiegare;
Leibniz in proposito invocava il miracolo divino di un’armonia prestabilita.
Kant non si occupa di questa scalcinata tradizione; la liquida con una battuta
pesante (essa dà «il comico spettacolo [...] di uno che munge il becco [cioè il
montone] mentre l’altro tiene lo staccio [cioè il setaccio]», Critica della
ragion pura, p. 96) e suggerisce invece di fare un nuovo «tentativo» (p. 10),
un «rivolgimento» di prospettiva analogo a quello di Copernico. Supponiamo,
dice, che un oggetto sia proprio ciò di cui possiamo prevedere il
comportamento, per cui se quello che sembra un tavolo avesse un comportamento
imprevedibile non sarebbe un oggetto (ma, diciamo, un’allucinazione); allora
non sembrerà più strano che riusciamo a prevedere il comportamento degli
oggetti. Il principio di cui ci serviamo per siffatte previsioni, che cioè a
ogni causa seguano precisi effetti, non è da noi imposto dall’esterno alla
natura; è ciò che costituisce internamente la natura – non sarebbe una natura,
ma un sogno, se non esibisse tale regolarità. Perseguendo il suo tentativo
Kant, come Platone, costruisce un mondo nel quale non solo la conoscenza ma
anche i valori morali, l’apprezzamento estetico, Dio e l’immortalità assumono
ruoli diversi che nella tradizione. E, nel farlo, come tanti altri giocatori
alle prese con le loro costruzioni originali e bizzarre, usa parole magiche:
termini antiquati, imponenti ed enigmatici che colloca in contesti e in reti
associative devianti rispetto a quelli già noti, talvolta devianti fra loro,
gettando i lettori nello sbalordimento e nello scompiglio – lo stato d’animo
giusto per chi voglia aprirli a un punto di vista radicalmente nuovo. Qui, per
esempio, compaiono due di queste parole formidabili: il principio in base al quale
il tavolo non sarebbe un oggetto se il suo comportamento non fosse regolare e
prevedibile viene detto «trascendentale» e l’altro principio per cui niente
sarebbe un oggetto se non fosse nello spazio viene detto «metafisico», violando
gli usi comuni di entrambi i termini e quelli cui lo stesso Kant li adatta in
altri passi. Mentre gioca con la nostra visione dell’universo, il filosofo sta
giocando anche con il linguaggio. Giocando s’impara, quindi il gioco della
filosofia può essere istruttivo, nello stesso modo caotico e imponderabile di
ogni altro gioco. Per caso, una delle elaborate, ambiziose costruzioni
filosofiche di mondi, esseri umani o Stati alternativi a quelli esistenti entra
in contatto, talvolta, con la realtà quotidiana (con il gioco che è diventato
abitudine) e la cambia in modi che vengono giudicati vantaggiosi; può anche
capitare che in una di queste costruzioni decidiamo di traslocare e quella
diventi, per un po’, la nostra realtà quotidiana (il nuovo gioco diventi una
nuova abitudine). Quando ciò càpita, riteniamo di aver imparato qualcosa e
pensiamo che la costruzione filosofica abbia dato un contributo alla nostra
conoscenza – un contributo che viene detto scientifico. Giocando abilmente con
le lenti, Galileo riuscì a trasformare il nostro senso di che cosa significhi
osservare: ora, se vogliamo osservare un pianeta, guardiamo uno schermo invece
di sollevare la testa e aguzzare la vista. Ma il mondo fisico di Galileo non
esiste più, come non esiste più quello di Aristotele (noi non ci viviamo più);
altre costruzioni filosofiche ne hanno preso il posto e sono oggi al cutting
edge della scienza. Nel frattempo, i nostri giorni continuano a essere popolati
di pratiche e oggetti che sono il lascito di giochi «scientifici» a lungo
accantonati – di ciò che quei giochi sono stati in grado d’insegnarci. La
macchina a vapore fu inventata in base alla teoria del flogisto, l’esempio più
tipico di teoria screditata; molte persone colpite da tubercolosi sono state
curate dallo pneumotorace, anche se la teoria «meccanica» su cui lo
pneumotorace aveva basato il suo successo, avanzata da Carlo Forlanini, si è
volta presto in una simpatica curiosità. Nel prossimo (e ultimo) capitolo
tirerò le fila dei nostri sforzi. Qui voglio chiudere con una storia: un esempio
di come funzioni il gioco filosofico/scientifico, di come possa cambiare –
forse in meglio, forse orribilmente in peggio – le nostre condizioni di vita.
(I fatti che riferisco sono tratti da un articolo di Michael Specter intitolato
The Mosquito Solution e pubblicato sul «New Yorker» del 9 e 16 luglio 2012.) Le
zanzare sono state responsabili del 50% delle morti umane nella storia. La
malaria, la febbre gialla, varie forme di encefalite e numerose altre piaghe le
vedono come protagoniste. Fra le zanzare più letali c’è Aedes aegypti, che fa
strage in Africa e in Brasile ed è da poco rientrata negli Stati Uniti (vi
aveva già prosperato fino agli anni Sessanta del secolo scorso). Uno dei metodi
con cui si cercava di combattere Aedes era sterilizzando milioni di insetti con
dosi massicce di radiazioni e impedendo così loro di riprodursi. Ma, per quanto
efficaci con altri agenti patogeni, le radiazioni funzionavano male con animali
piccoli come le zanzare. Intorno al 1990, un genetista di nome Luke Alphey incontrò
per caso un collega che gli parlò della tecnica di sterilizzazione e delle sue
difficoltà. Immediatamente, vista la sua formazione professionale, pensò che,
invece di sterilizzare le zanzare, si potesse cambiarne il codice genetico in
modo che si autodistruggessero. C’erano due problemi, però. In primo luogo,
bisognava intervenire solo sui maschi, perché le femmine mordono gli esseri
umani e avrebbero potuto infettarli con chissà quale variazione genetica. In
secondo luogo, bisognava che i maschi rimanessero in vita abbastanza a lungo, e
fossero abbastanza vigorosi, per trasmettere i geni mortiferi ai loro
discendenti. Vuole il caso che, nella specie Aedes aegypti, le femmine siano
molto più grandi dei maschi, quindi facilmente identificabili; il primo
problema poteva essere risolto. E presto anche il secondo lo fu, ugualmente per
caso. Alphey infatti capitò in un seminario in cui si parlava di come la
tetraciclina funga da antidoto contro l’azione di un gene. Il piano era pronto:
si sarebbero creati milioni, miliardi di maschi Aedes con il gene
autodistruttivo proteggendoli in laboratorio con la tetraciclina; una volta
immessi nell’ambiente, avrebbero avuto il tempo e la forza di accoppiarsi prima
di soccombere (ormai privi dell’antidoto) insieme con tutta la loro progenie.
Detto fatto, il piano è già in fase di realizzazione in Brasile e in altri
paesi. Negli Stati Uniti, però, vari gruppi ambientalisti sono insorti
protestando: Possiamo prevedere tutto ciò che accadrà quando avremo scatenato
questo nuovo Frankenstein? Certo allora non potremo più rimettere il genio
nella bottiglia. Per esempio, che cosa succederà se anche solo poche femmine
sopravviveranno dopo il contatto con il gene e morderanno un essere umano?
Oppure, che conseguenze avrà la scomparsa di Aedes aegypti per la nicchia
ecologica che adesso occupa e per l’intera ecologia del sistema? Sullo sfondo,
intanto, si agitano domande filosofiche di grande profondità (cioè domande
globali sul tipo di vita che vogliamo vivere): È meglio sbarazzarsi di un
pericolo o imparare a conviverci? Può essere desiderabile un mondo in cui una
specie sia stata distrutta? È lecito considerare il bene degli esseri umani
come decisivo? È lecito per gli esseri umani giocare il ruolo di Dio? È un
esempio paradigmatico della natura ludica della ricerca più avanzata e
prestigiosa. Si procede (quando si procede e non si corre sul posto) non con un
disciplinato esame della questione e un lavoro certosino teso a scoprire che
cosa sia necessario per dirimerla (come vorrebbe la più comune ideologia) ma
invece ascoltando discorsi che non c’entrano, combinando contributi eterogenei,
mutando radicalmente prospettiva e contando molto sulla fortuna (se volete
giocare bene a briscola, o anche a bridge, fatevi venire delle carte). E, una
volta che, in questo modo macchinoso e fortuito, abbiamo eventualmente trovato
qualcosa che sembra risolvere la questione, dobbiamo confrontarci con il fatto
che ci sono rischi forse tragici nello scegliere una strada così inedita.
Potremmo illuminare la stanza o bruciare la casa, e, per quanto a lungo abbiamo
giocato per procura con una rappresentazione verbale o mentale delle
conseguenze della nostra scelta, girare l’interruttore è un’altra cosa. Prima
che ci si decidesse a esplodere una bomba atomica, c’erano fisici nucleari che,
sulla base della stessa teoria dei loro colleghi «interventisti», prevedevano
che l’atmosfera ne sarebbe stata consumata e la vita sulla Terra si sarebbe
estinta. È facile dire che avessero torto, dopo aver girato l’interruttore. E
dobbiamo confrontarci con il fatto che una questione non è mai davvero risolta:
che ogni risposta suscita nuove domande, che il gioco che ha prodotto quella
soluzione la supererà, come supererà ogni altra soluzione, perché il gioco non
ha mai fine. Sono i Labirinti dell’essere. Abbiamo compiuto il viaggio
promesso. Partendo dal gioco di una bimba di due anni abbiamo raggiunto giochi
fisici come il calcio e il tennis, intellettuali come gli scacchi e il bridge,
giochi in compagnia e solitari; abbiamo catturato nella nostra rete ludica
l’arte, la letteratura e la filosofia. E lo abbiamo fatto, converrà ripetere,
non riducendo il gioco a un’eterea silhouette, non facendo del «gioco»
filosofico o letterario una metafora che mostra presto la corda – perché se è
vero che ci sono analogie fra l’etica e il tressette, si sarebbe pronti a
obiettare, è anche vero che ci sono molte differenze. La bimba che ha
inaugurato la nostra avventura non ci ha mai lasciato; ha acquisito per strada
competenze e capacità che nessuno può avere a due anni, ma il suo universo
ludico è rimasto lo stesso, una versione adulta del medesimo gioco infantile.
Ha incorporato le pareti contro cui andava a sbattere come regole; collabora
con maggiore efficacia con i suoi compagni o li manipola con maggiore
destrezza; le sue vocalizzazioni hanno preso la forma di un linguaggio
articolato; ha imparato, quando è il caso, a parlare senza farsi sentire. Ma
l’acqua che scorre fra questi meandri (creati, è importante notarlo e ci
ritornerò fra breve, dall’acqua stessa) è ancora quella della sorgente: a
dispetto delle complicazioni, per la bimba cresciuta giocare (a calcio, a
scacchi, all’arte, alla filosofia, alla letteratura...) è pur sempre immergersi
senza alcun fine esterno in un’attività trasgressiva ed esplorativa, piacevole
e istruttiva, appassionata e rischiosa. Ogniqualvolta entro le regole che si è
imposta o le hanno imposto, o contro le regole, una persona riesce a ritrovare
lo spirito che l’animava a due anni, la bimba ritorna e riprende il controllo
delle operazioni: seria, intenta, un po’ inquieta, audace, intimamente
soddisfatta. Ancora Huizinga: «Il gioco del bambino possiede la qualità ludica
qua talis e nella sua forma più pura» (p. 40). La peculiarità di questo
atteggiamento risulta più chiara quando se ne considerino le conseguenze sul
piano dei valori. Se la filosofia avesse una sua definizione indipendente,
diciamo di essere tesa alla scoperta della realtà o della verità o della
saggezza, e fosse un gioco solo in senso metaforico, perché praticata con
creatività e passione, ne seguirebbe che una buona filosofia è quella che
meglio approssima la scoperta della realtà o della verità o della saggezza,
senza riguardo alla creatività o passione con cui è condotta. Chi eventualmente
potesse pervenire alle stesse scoperte senza creatività o passione avrebbe, in
ambito filosofico, gli stessi meriti (e dimostrerebbe che la metafora ha fatto
il suo corso: Giulietta non brilla più come il sole). Se invece la filosofia è
definita come un gioco, sia pure il gioco di cercare la realtà, la verità o la
saggezza, non ci può essere buona filosofia senza creatività e passione – e
trasgressione, e apprendimento, e rischio. Quali che siano le sue pretese di
verità e saggezza, una filosofia è degna della nostra attenzione e
partecipazione se ci spiazza e ci avvince, ci irrita e ci lusinga, ci fa vivere
ripetute Ah-ha experiences e ci suscita obiezioni e disaccordo a non finire.
Nello stesso modo, se il linguaggio è innanzitutto uno spazio di gioco, avremo
scritto una bella lettera, un bel racconto o una bella comunicazione d’ufficio
se le nostre parole sapranno riscuotere il lettore e implicarlo in un progetto
comune, il che tanto meglio faranno quanto più porteranno le tracce del respiro
e della saliva in cui sono nate, dell’eco che ci hanno fatto risuonare dentro,
dell’entusiasmo o dello sconforto, delle lacrime di gioia o di dolore che ne
hanno accompagnato l’accesso alla pagina. Ciò corrisponde esattamente,
peraltro, ai nostri giudizi empirici ordinari su testi filosofici e
comunicazioni d’ufficio, salvo che le nostre concezioni di tali oggetti non
fanno giustizia alle nostre intuizioni, e così rimaniamo perplessi davanti a un
testo filosofico o una comunicazione d’ufficio «che non hanno niente di sbagliato»
perché dicono quel che devono dire e contengono solo enunciati veri, eppure ci
sembrano, chissà perché, da buttare. Il discorso sarebbe terminato, dunque:
avremmo percorso il labirinto e saremmo arrivati nella stanza dove si ritirano
i premi. Ma mi piace pensare che la stanza non sia chiusa e che anzi il premio
consista in una porta aperta su un altro sentiero tortuoso da percorrere, in un
bosco stavolta anziché in una claustrofobica caverna. Non mi lancerò qui nel
nuovo viaggio cui il sentiero invita, ma getterò lo sguardo in quella direzione
per stimolare la mia e forse l’altrui curiosità. In questo libro ho parlato del
gioco come di un’attività esclusivamente animale, e perlopiù umana. L’ambiente
inanimato è stato visto come strumento del gioco (palle, cubi, carta e penna) o
come suo ostacolo (pareti, spigoli), non come suo soggetto. La cosa sembra
ragionevole: se il gioco, come ho detto, è vita, allora è riservato agli
organismi viventi; se consiste in una serie di mosse – devianti, istruttive, pericolose,
ma pur sempre mosse – allora per praticarlo occorre potersi muovere, il che fra
gli organismi viventi sembrerebbe escludere le piante. Ma è poi tanto certo che
così stiano le cose? Proviamo a giocare con le apparenti tautologie che ho
enunciato. Se la vita richiede funzioni che noi siamo in grado di riconoscere
come respiratorie, metaboliche e riproduttive, allora è chiaro che un orso, un
pappagallo e una quercia sono vivi ma una pietra no; se il movimento richiede
che un ente con una sua precisa struttura si stacchi (almeno in parte) dalla
sua posizione spaziale e ne assuma un’altra, allora formiche ed elefanti si
muovono ma un geranio o un cipresso no. Supponiamo però di invertire
l’equazione che ho appena citato: se il gioco è vita, la vita è gioco. E
ricordiamo che il movimento che conta per il gioco/vita si svolge in uno spazio
esistenziale, non sempre fisico. Con tali premesse, non è forse gioco/vita
quello di un cielo che non appare mai due volte nella stessa configurazione, di
un corso d’acqua che costruisce i suoi meandri o della sabbia che costruisce un
lido, di cristalli di neve di forme delicate e idiosincratiche (ciascuno,
sembra, un esperimento a sé stante), di una foresta che alterna grovigli e
radure, tronchi giganteschi e canne flessuose? E non è forse vero allora che al
mondo non esiste nulla di inanimato? Nel nono capitolo ho parlato dei diversi
modi in cui possiamo giocare con un altro: trattandolo da strumento o da
compagno. Vorrei aggiungere ora che trattare un altro da strumento significa
trattarlo come un oggetto inanimato: anche se l’altro è un essere umano, il mio
rapporto con lui (o lei) sarà basato sul controllo che esercito, schiacciando i
suoi tasti per ottenere l’effetto voluto. Il limite di questo controllo sarà
percepito come un’oscura minaccia e sarà causa di disagio o di terrore;
sentimenti così penosi hanno però un ruolo significativo – segnalano la
possibilità ancora indistinta di passare da un’utilizzazione a un incontro,
quando si riescano a dominare l’ansia e la paura. La medesima pluralità di
atteggiamenti ci è disponibile nei confronti di tutto l’essere. Possiamo
giocare con la natura come con una risorsa, e oscillare dalla boria sprezzante
di averla ridotta al nostro servizio all’inquietudine che quando meno ce lo
aspettiamo ci si apra la terra sotto i piedi (dal bruciare allegramente carbone
e petrolio al preoccuparci per il buco d’ozono e il riscaldamento globale),
oppure come con un compagno, raccogliendone i suggerimenti, facendole delle
proposte, cercando di costruire insieme un bel castello. Chi vive il rapporto
in questo secondo modo (molti lo fanno, pur se spesso non hanno parole per
dirlo) sente che una montagna lo sfida ma anche lo assiste premurosa nel
trovare una via per scalarla, che il mare ti avverte quando vuole lottare con
te, che la macchina ha piacere a distendersi veloce fra curve e dislivelli con
sapienti cambi di marcia, che il caffè mattutino parla di energia, di fiducia,
di piani ambiziosi per la giornata. Sarà bene che la smetta, prima che qualcuno
pensi che il gioco mi ha preso la mano – che poi sarebbe il suo, e il nostro,
destino. Ma non posso che congedarmi con una provocazione. Ho percorso un
labirinto per dipanare il senso di un’attività che è a sua volta labirintica,
ferocemente intricata. A quello che sembrava il termine del labirinto ho
trovato un’indicazione, ancora in buona parte misteriosa: che non si tratti di
un labirinto qualsiasi, che la sua natura labirintica sia la natura dell’essere
in quanto tale. Perché solo chi gioca, nelle mille disparate manifestazioni in
cui il gioco si realizza, è: è vivo, esiste. I labirinti ludici dell’essere
sono l’essere; il resto è uno zombie, un fantasma, uno spettro. Basta una
risata divertita per farlo scomparire.Ermanno
Bencivenga. Keywords: teoria del linguaggio, logica libre, metodo della logica,
calcolo di predicati di primo ordine, logica di termini singolari, piacere,
bello, logica dialettica, implicatura, Hegel, Kant, gioco. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Bencivenga” – The Swimming-Pool Library.
Bene (Maruggio).
Filosofo. Grice: “Molto bene”. Figlio da Lupo e da Perna Longo, entra nell'ordine
dei Teatini e fu professore. Lascia importanti opere come l'Apologia del
Tancredi e la Summa Theologica. A Maruggio, in sua memoria è stato intitolato
l'istituto comprensivo e una via cittadina.
Opere: “Apologia del Tancredi”, “Summa Theologica” “De officio S.
inquisitionis circa haeresim” “De immunitate, et iurisdictione ecclesiastica”,
“Theologiae moralis Tractatus”. Tommaso del Bene. Nacque in
Maruggio -- luogo nella diocesì, non già della diocesì di Taranto,
come li è scritto da molti; perchè è nullius come Tuoi dirli , ed è Commenda
della Religione di Malta -- e dopo di aver apprese le latine lettere, e le
greche , la matematica, e l’astronomia, entra fra’ Teatini, e ne professa
l’instituto in SS. Apolidi di Napoli. Sostenne l’ impiego di lettore di
filosofia. Ma avendo poi pubblicato il "De comitiis" per cui ebbe in
Napoli qualche disgusto, gli convenne di trasferii in Roma. Quivi pensando e
scrivendo in modo da piacere a quella corte, incontra miglior sorte, e fu predo
decorato delle cariche di esaminator del clero, di qualificator del S. Uffìzio,
e di confaitore di più congregazioni (a). Fu incaricato inficine co’Tea- tini
Vincenzio Riccardi , ed Aeoftino de Bellis della revifione ed y emendazione
dell’ Eucologio de Greci: e da Papa Alessandro VII. fu messo nella
congregazione indituita per l'esame delle proposizioni di Gianfenio. In premio
de’ fuoi fermisi furongli offerti alcuni Vcfcovadi ch’egli Rimò meglio di
modedamente rifiutare . On- ? de terminò di vivere da semplice religioso in
Roma. (b). Le sue opere sono molte. Brieve Apologia del Tancredi, Poema di
Ascanio Grande. Si trova dietro l'Apologia dell’ iftefio poema fatta dall'arcidiacono
Palma, e Rampata in Lecce i Ò35. in 8. Niuno ha fatta menzione di
quell'opuscolo del P. Del Bene, dell’ Ab. de Angelis in fuori, il quale ne ha
parlato con lode nc’ Letterati Salentini Par. z. nella Vita del Grande pag.
i$z. a. De Comitiis yfeu Parlamenti! •, ac inciijfnter (T corollarie de aliis
moralibas marerii!, precipue de ecclefinQica immunitate , Dubitationes morale!.
Lugduni fttmpt. Nemejìi Trichet i6\g in 4. con dedicatoria dell’autore a Papa
Urbano Vili, e poi, da lui deffo ri- veduto ed ampliato, Avemonefumpt. Guill.
Halli inf. cor. dedicatoria al Card. Francesco Albizi. Quedo su il libro, per
cui dovette partir di Napoli il P. Del Bene. Prese in elfo a trattare della
morale, che nfguarda i tribunali regi, e gli delfi sovrani. Materia assai
di!icata,e che vuole altri lumi di quelli, che aver fuole il volgo de’ moralidi
3. De immunitate jurifdittione eccleftajlìca Opus abfolutìjfimum in z. parte!
di/lributttm . Ivi Jumpt. Phil. Borie, Laur. Arnaud , <5* Claud. Rigaud
1650. in f. (c) 4. Summa theologica. Ivi fumpt. Jo. Ant. Huguetan , O* Mar.
Ant. Ravaud in f. 5. Trattarui morale! : videlicet de Conscientia; de radice
re/litu- rioni1 aliarumque obligationum <2Tpcenarum,ut eucommunicatio- nii
& irregularitatt! eu delitto de Comieiii seu Parlamenti! , ubi etiam da
alagiti (5“ contrattibus; de donativi! tributis (T fubjìdio Caritativo .
Avtnione Guill. Halli ió%8. in f. (d) ó.De (a) Di tatti cotefli titoli fi
fregia in virj suoi libri. (b) Cosi il Vezzoli Senti. Titt. che cita i
reijitlri di S.Ao'* ea della Val- le; e perciò debboao correggerli il SavanaroU
Gtrarth. Eccl. Tttt. p. 6j. e fegg. il Mazzucch. Striti, $ lui. ed altri (c) E
poi Avtniont Jo. Fiat. T.z. in f. Il MazzuecheHi s’è inganna- to r eli
attribuire a quell’ Opera le aggiunte fatte dall’Autore al libro dt Offi. ti Y.
Inquisitionit. (d) Il Vezzofi lot. tit, p.i 15. annoi, z. cenfura il
Mazzucchelii d’aver det- . t». Digjtized by Google BENE BENEDETTI.
,99 • 6. De Officio S. Inquisitionis circa h<trejim cum Bulli* tam voteti-
bus quam recentioribus etc. Lugd. Jumpt. ] A. Huguetan, T. 2. in f. L’ autore
poi compose, e vi uni le seguenti: Additiones de loci theologicis ad tomo de
Officio S. Inquisitionrs perneceffa• ria in f. Opuscolo di pag. sa il quale fi
riftampò in 8. fenz’ alcu- na data, coi titolo di Trattanti in vece di
Additiones. 7. De Juramento, in quo de ejus 0" voti rclaxationibus &c.
cui Dectftonet S- Rotte Romana accedunt &C- Lugd. fumpt. guetan , 0"
G. Barbier. in f, CXI. da Capoa , ha rime nel Sello libro delle Rime di diverfi
eccell. Autori nuovamente raccolte ec. da G. Rufcelli . Vene*. G.M- Bottelli
1553. in 8. (a), CXII. e Canonico Aquilano, diede alla luce : L' Imprefe della
Mae/là Cattolica di D. Filippi di Auflria II. Re di Spttgna rapprefentate nel
tumolo ptr la Jua , morte eretto dalla fedèlifs. citta de.’f Aquila ec. Aquila
Lepido Faci 1599. in 4. Toppi Bibl. Nap. CXIII. BENEDETTI ( Giuf. dilettò di
Poefia volgare, ed era Paftor A/cade della Colonia Ater- nino , di cui fu
Vicecuftode , e vi fi denominò Alcidalgo Spai da- te (b) Nell’ Accademia de’
Velati di fua patria egli era Principe nel 1717. (r). Fu anche accademico
Infenfato di Perugia (d). Di lui fi ha alle {lampe la vita di Biagio Aleffandrò
dall’Aquila nel- le Notiss. Iftor. degli Arcadi morti T. 3. p. 346. S.
BENEDETTO, Arciv. di Milano . V. Crifpo ( Benedetto ), BE- . to, edere (lato il
libro de Comìtiis unito dal P. del Bene in un corpo, o to- mo il Trattanti
moralts: elfendo quello un libro didimo, comechè in alcuni efemplari fi trovi a
quello unito. Ora in primo luogo il Mazzucchelli non dice nè punto nè poco di
tutto ciò ; e foltanto riferifee 1’ edizione de’ Tra- ttatus moralts, come io
pure ho fatto , unendovi deCom'niis etc. La qual co- fa è ben diverta, come
ognun vede . Ma poi non fo, fé il Vezzofi nella co- fa (Iella abbiali ragione .
Io non’ ho il libro , ma lo trovo riferito nel Cara!. Cafanattenfe alla voce
Detiene ( sbaglio prefo pure dal Toppi B'bl. Nap. } infieme eoa quello de
Comìtiis ; e ciò , eh' è più , il Nicodemo Addìi. al Toppi p.i]4. chiaramente
dice: ,, Io oltre l’ultima edizione del libro de Co- ,, mitiis etc. fi regillri
nel modo, che fiegue : Tbeologia moralis trattetus fextut. „ I. de Comìtiis
etc. II. de Alagiis etc. Un trattato fello ne fuppone cin- que, a’ quali dee
unirli. (a) Quadrio, Crefcimbeai , Tafuri.
Tommaso Del Bene. Keywords: Tancredi, Monteverdi, Tasso. Moralia, mos, morale,
cavalleria. Il santo cavaliere, mendacio, mentire, iuramento, morale, moralia,
abiuratio, conscienza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bene” – The
Swimming-Pool Library.
Benedetto (Crema).
Flosofo. Insegna a Padova, di cui divenne in seguito rettore. È ritratto in un
dipinto di Giovanni Busi detto il Cariani, allievo del Giorgione.Giovanni
Benedetto da Caravaggio. Benedetto. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Benedetto” – The Swimming-Pool Library.
Benincasa (Eboli).
Filosofo. Grice: “Benincasa is a good one; my fvaourite is his ‘la svolta
dell’interpretatzione,’ for that is what Boezio knew ‘hermeneias’ was! a
turning point!” -- Durante la conferenza "Da Zurbaran ad oggi" tenuta
a Ispra, Varese, 2009 Carmine Benincasa (Eboli), filosofo. Carmine Benincasa (sinistra) con il
presidente Sandro Pertini (centro) e Umberto Mastroianni (destra) Carmine Benincasa studiò teologia, filosofia
e giurisprudenza a Roma. Dopo aver completato tutti i suoi studi iniziò a
lavorare come traduttore di testi letterari (tra altri, Hans Urs von Balthasar)
per poi organizzare e curare mostre d'arte.
Dal 1978 al 1982 fu membro della Commissione Consultiva Arti Visive
della Biennale di Venezia e consigliere del Ministro per i Beni Culturali e
Ambientali. Fu professore di storia
dell'arte presso l'Accademia di Belle Arti di Macerata e di Firenze e docente
di storia dell'arte presso la facoltà di Architettura dell'università La
Sapienza di Roma (dal 1977 al 1994).
Scrisse testi storico-critici su vari artisti del XX secolo. Benincasa è morto nell'estate del a Roma, dove risiedeva. Altre opere: “Chiesa e storia di Suhard e il
Concilio Vaticano II, Paoline); “L'interpretazione tra futuro e utopia” (Ed.
Magma, Roma); “Poetica della negazione e della differenza” Il Giudizio
Universale (Magma, Roma); “Sul manierismo: come dentro uno specchio” (La Nuova
Foglio); “Babilonia in fiamme: saggi sull'arte contemporanea” (Electa, Milano);
“Architettura come dis-identità” (Dedalo, Bari); “L'altra scena: saggi sul
pensiero antico, medioevale e contro-rinascimentale” (Dedalo); “Anabasi Architettura
e arte” (Dedalo, Bari); “Alle soglie del sapere” Ed. del Tornese” Joan Miró 2C,
Roma); Oskar Kokoschka La mia vita” (Marsilio, Venezia); Oriente allo specchio 2C,
Roma); Georges Braque” (Marsilio, Venezia); Jackson Pollock : opere” (mostra,
Bari, Castello Svevo) Ed. Marsilio, Venezia); “Verso l'altrove: Fogli eretici
sull'arte contemporanea” Electa, Milano); Alvar Aalto” Leader); Umberto
Mastroianni Monumenti” (Ed. Electa, Milano); Il colore e la luce L'arte
contemporanea” (Ed. Spirali, Milano); “André Masson “L'universo della pittura” Mondatori,
Milano; Spirali/Vel, "Alfio
Mongelli: infinito futuro", Joyce & Company, Il tutto in frammenti :
arte Professore: una nuova interpretazione storica” (Giancarlo Politi, Milano).
Note: "la citta disalerno ricerca repubblica repubblica archivio repubblica biennale-il-
psi-fa-incetta-di-poltrone. html1http://ricerca.repubblica. it
repubblica/archivio/ repubblica artisti-rasputin-nel- mondo- dei- telefoni.
html2 lacittadisalerno/ cronaca
/benincasa-fece-amare-l-arte-all-italia-~:text=È%20morto%20ieri%20a%20
Roma,autore importanti%20opere letterarie Dal Benincasa 20 Beni
Culturali%20e%20 Ambientali. La Repubblica_1, su ricerca.repubblica. Errori
giudiziari, su errorigiudiziari.com
Carmine Benincasa. Keywords: implicatura plastica, la svoglia dell’interpretazione,
umberto mastroianni, nudo maschile, statuaria, il segno del teatro: rito,
mascara, anabasi, arte come dis-identita, futurismo, arte futurista, Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Benincasa”– The Swimming-Pool Library.
Benvenuto (Napoli).
Filosofo. Grice: “Benvenuto is a good one; my fiavoruite is his ‘stupore e
grido,’ the functionalist idea that after some sensorial input (stupor) you get
the manifestation in behaviour alla Witters – the ‘grido’ – and then there’s
one which is J. L. Austin’s favourite: his “a man of words and not of deeds is
like a garden full of weeds,” – difficult to translate, but Benvenuto offers,
‘dicieria,’ and ‘dicitura,’ which aptly combines with ‘empiegatura, or in my
more Latinate (or learned) terminology, ‘in-plicatura’!” Già Primo Ricercatore
presso l'Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione (ISTC) del CNR a
Roma. Professor Emeritus di Psicoanalisi presso l'Istituto Internazionale di
Psicologia del Profondo di Kiev (gemellata all'Nizza). Ha fondato (nel 1995) e
diretto l'European Journal of Psychoanalysis. Ha compiuto gli studi
universitari all'Università Paris VIIDenis-Diderot dal 1967 al 1973, dove ha
ottenuto la Maîtrise in Psicologia. Nel frattempo, ha seguito i seminari di
Roland Barthes e di Jacques Lacan. In seguito ha preparato un dottorato in
Psicoanalisi con Jean Laplanche all'Università Parigi 7. A Milano si è formato
in psicoanalisi attraverso gli psicoanalisti della S.P.I. Elvio Fachinelli e
Diego Napolitani, fondatore della Società Gruppo-Analitica Italiana. Trasferitosi in seguito a Roma, si divide tra
la ricerca in psicologia sociale al CNR, l'attività privata come psicoanalista,
e il lavoro di pubblicista. È stato cofondatore e caporedattore della rivista
Lettera Internazionale (fondata nel 1984) ed è tuttora assiduo collaboratore
del trimestrale Lettre Internationale di Berlino, e Magyar Lettre di Budapest.
Nel 1995 ha fondato a New York il semestrale Journal of European
Psychoanalysis, divenuto poi EJPsy, European Journal of Psychoanalysis, che
tuttora dirige. Dal insegna psicoanalisi
all'Istituto Internazionale di Psicologia del Profondo di Kiev e all'Istituto
di Psicoanalisi Moderna di Mosca.
Pensiero Benché Benvenuto si sia occupato di campi in apparenza alquanto
diversi tra loropsicologia sociale, filosofia del linguaggio e della politica,
psicoanalisi, teoria della politicaa partire dagli anni 90 ha articolato un
progetto predominante che tocca i vari campi: sostituire al primato della
riflessione sulla Verità (tipico della cultura occidentale) una riflessione che
punti al Reale. In questo modo egli cerca una terza via tra le due culture
predominanti e in opposizione in Occidente: l'epistemologia positivista
(interessata alle condizioni di verità degli enunciati) da una parte, la fenomenologia
e l'ermeneutica dall'altra (interessata al disvelamento di una Verità che si
dipana nella storia umana). Egli mutua
il concetto di Reale dal pensiero di Jacques Lacan, ma ne allarga il senso,
includendovi tutto ciò che resta esterno (origine e resto) a ogni assetto di
senso, sia esso scientifico, estetico, o etico-politico. Il Reale è quel fondo
attorno a cui gira ogni teoria scientifica, ogni produzione artistica, la
psicoanalisi di ciascun soggetto, ogni assetto etico, e che resta sempre in eccesso
rispetto a tutti questi “discorsi”. Così, il Reale di ogni teoria scientifica è
il Caos che si pone come limite e sfondo di ogni processo causale. Il Reale in
psicoanalisi è il fondo pulsionale, corporeo, irriducibilmente individuale, di
fronte a cui ogni interpretazione si arresta.
In Dicerie e pettegolezzi (dove articola una teoria delle leggende
metropolitane) mostra come quasi tutto il nostro sapere di fatto sia costituito
da leggende metropolitane, oltre le quali fa capolino la realtà dell'evento che
ogni discorso sociale aggira. In Un cannibale alla nostra mensa affronta la
questione del relativismo moderno, a cui oppone un “relativismo relativo”,
facendo notare come ogni impostazione relativista rimanda necessariamente a
qualcosa di assoluto che resta non tematizzato, presupposto e schivato. Accidia
è una storia della malinconia dal Medio Evo fino a oggi: il senso e la natura
che ogni epoca dà alla “depressione” rimanda a un vissuto opaco che nella
storia viene interpretato diversamente.
In “Sono uno spettro, ma non lo so” analizza la cultura degli spettri e
il nostro rapporto con i morti, notando come la morte “viva” tra noi proprio
come istanza di Reale inassimilabile a ogni progetto di vita, ma che avvolge la
costituzione di questi progetti. In particolare (ad esempio in La strategia
freudiana e in Perversioni) si è dedicato a una rilettura originale della
teoria di Freud, e della psicoanalisi in generale, come fondata su una
metafisica precisa della “carne significante”. Il tessuto interpretativo ed
esplicativo di Freud rimanda però a sua volta a qualcosa di non interpretabile
né spiegabile: la pulsione come sorgente opaca e non-significante della
soggettività. Altre opere: “La strategia
freudiana, Napoli, Liguori); "Traduzione / Tradizione" in Moderno
Postmoderno, Feltrinelli, Milano); La bottega dell' anima, Milano, Franco
Angeli); Capire l'America, Genova, Costa & Nolan); Dicerie e pettegolezzi,
Bologna, Il Mulino); Un cannibale alla nostra mensa. Gli argomenti del
relativismo nell'epoca della globalizzazione, Bari, Dedalo); Perversioni.
Sessualità, etica e psicoanalisi, Torino, Bollati Boringhieri); “Accidia. La
passione dell'indifferenza, Bologna, Il Mulino); “Lo jettatore, Milano,
Mimesis); “La gelosia, Bologna, Il Mulino); “Alle origini del relativismo moderno”,
Dei cannibali, Mimesis, Milano); “Confini dell'interpretazione. Freud Feyerabend
Foucault, Milano, IPOC); “Sono uno spettro, ma non lo so, Milano, Mimesis); “Wittgenstein.
Lo stupore e il grido, Milano, meditare; Sette conversazioni per capire Lacan, Milano,
MIMESIS, La psicoanalisi e il reale. 'La negazione' di Freud, Orthotes,
Napoli-Salerno. Godere senza limiti. Un italiano nel maggio '68 a Parigi,
Milano, Mimesis, Leggere Freud.
Dall'isteria alla fine dell'analisi, Orthotes, Napoli-Salerno. Il significante,
tra Saussure e Lacan, su journal-psychoanalysis.eu. su psychomedia. Il progetto
della psichiatria fenomenologica, su mondodomani.org. Sergio Benvenuto.
Keywords: segnante, segno, segnato, arbitrario, naturale, convenzionale,
established, recognised, stabile, stabilito, sistema di communicazione,
iconico, non-iconico, convenzionale, assoziativo, artificiale, non-naturale,
non-artificiale, procedimento, repertorio di procedimento, idio-lecto,
idio-sincrasia, popolazione, interprete, interpretante, mittente, recipiente,
nozione di consequenza come nozione comune a segno naturale e segno no
naturale, Hobbes sulla consequenza del segno convenzionale, segno naturale,
segnare naturalmente, segnare non naturalmente, l’adverbio ‘naturaliter’, ‘ad
placitum’, a piacere, natura, convenzione, posizione, natura, phusei, thesei,
positio, positione (ablativo di positio) – thesei – ‘natura’ (ablativo di
natura), imago Acustica, naturalita dell’imago, segno come imago, Benvenuto su
Plato sulla aribtrarieta del segno, Benvenuto su Heidegger sulla arbitrarieta
del segno, l’impiegatura della dicitura, segnante, meaner, one-off
communication, communicatum, segnaturm, one-off segnatum, iconico, non-iconico,
confine dell’interpretazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benvenuto” – The
Swimming-Pool Library.
Benvenuti (Montodine).
Filosofo. Grice: “A good thing about Benvenuti’s discussion of Agostino’s
semiotics is that Benvenuti has a strictly philosophical background, rather
than in grammar or linguistics or belles lettres, or even ‘theory of
communication.’ Therefore, he INTERPRETS Augustine as *I* do!” -- Grice: “You gotta love Benvenutti. He
dedicated his life to the semiotics of Agostino (who never knew he was a
saint), the first Griceian. Benvenutti divides his discussion of Agostino’s
semiotics in three: the semiotic triangle, the taxonomy of signs, and inferenza
– For Agostino, ‘segno’ contrasts with ‘cosa.’ And a sign can signify
‘naturaliter’ (fumo, orma, volta). Or non-naturaliter – daglia animali
including homo – prodotto dall’uomo – a ‘gesture’ that has to be perceived by
one of the five senses – or by the senses – auditum (parola detta) – visum (segno
scritto).” --. Cesare Benvenuti Cesare
Donato Benvenuti Don Cesare Donato Benvenuti (Montodine) filosofo. A partire
dal 1708 ricoprì la carica di Abate Generale Lateranense. Fece stampare
un'opera sulla vita di Sant'Agostino e una traduzione in italiano della Città
di Dio Biografia Cesare Benvenuti nacque
dal conte Girolamo Benvenuti e dalla contessa Domitilla Scotti di Piacenza. La
prima istruzione fu nella casa paterna di Crema, successivamente nelle scuole
tenute dai Barnabiti. All'età di 16 anni volle seguire l'esempio dei suoi due
fratelli entrando nella vita ecclesiastica prendendo l'abito della
Congregazione lateranense a San Leonardo di Verona. Dopo sette anni di studi di
filosofia e teologia venne nominato lettore e come tale risiedette in varie
città. Nel 1708 a Roma venne dichiarato abate perpetuo privilegiato con
l'incarico di presiedere alla Congregazione dei casi di coscienza e di emanare
i giudizi relativi. Per questo suo incarico che esercitò per otto anni crebbe
la sua fama di teologo tanto che dal cardinale Barberini lo volle accanto a sé
come teologo ed esaminatore sinodale. Benvenuti fu anche postulatore della
cause dei santi e si adoperò in particolare per la beatificazione del
venerabile Pietro Fererio che fu beatificato da papa Benedetto XIII. Cesare Benvenuti era anche dotato di
particolari capacità diplomatiche tanto da ricevere incarichi in tal senso in
Germania e a Vienna. Assieme a questi ufficii curiali Benvenuti esercitò anche
le pratiche caritative della sua ordinazione sacerdotale visitando e
prendendosi cura dei poveri e degli ammalati. Trasferitosi da Roma a Napoli fu
colpito da apoplessia e quivi morì nel 1746.
Altre opere: “Vita del gloriosissimo padre santo Agostino, vescovo e
dottore di S.Chiesa” (Stamperia Barberina); “Discorso
Storico-Cronologico-Critico della vita comune dei chierici de' primi sei secoli
della Chiesa” (Stamperia di Antonio de Rossi); “La città di Dio, opera del gran
padre s. Agostino vescovo d'Ippona, tradotta nell'Idioma italiano, Stamperia di
Antonio de Rossi). stone lo Stato di Grazia. I. Sono sua eredità, Vita comune
deg'apostoli &the sono i primi Sacerdoti di Gesù-Cristo.V.S. Lucanonne
parla: la rispondechica vedere la poca forza dell'argomento negativo. Vita
comune de primi fedeli. Uti. Vita comune e votiva de Santi Apostoli e de primi
Fedeli Passò succesivamen s e la Vita comune ne Ministri dell'A l r a r e . De'
terapeuti, che se ne dice. Persecuzione della Chiesa. Comunità di Vergini Sagre
nelle decadenze di questo primo secolo, è fa nell'incominciare del secondo
Sentimenti d'Origene. Della Comunità Apostolica come parli Cipriano. Del i modo
di vivere degli Ecclesiastici Jocto Dionigi. Paolino . SE G10LO 1L Comunità de'
beni nello stato dell'innocenza. Sacerdoti istituiti daGesù-Cria Vita comune
votiva del clero di Gerusalemme secondo la decretale afsritta a Clemente. Della
comunità del clero ďAntiochia. Della Vita, de Fedeli e reSpettivamente degli
Eclesiastici cosa scrissero: Giustino martire, Policarpo, Ireneo, Dionigi di
Corinta ed Apollonia. Della Vita comin g ne del Clero di Mans SECOLO III.
Clemente Alessandrino come parla della Continenza. Della vita comune votiva,
triferita da Urbano Papal. relativamente a quella descritra da Clemente PapaI.
III. praticoinse la Povertà Apostolica. Del celebre Pierio Prete della Chiesa
diAlessandria. Genulfo Uomo Apostolico promove la Vita Comunono Fedelida lui
convertitieconfa. gratialculeo del Signore on la Cornunità
de'Cherici ly Vira Comune nel Clero di Vercelli. Come de Cherici iparla Ilario
Pittavienfe. Esortazione del SantoDiaconoEfrem Siro agli Ecclessastici.
Comunità de'Cherici della Chiesa Rinocorurese. Basilio come parla a'
CanoniciedaleCanonicbese. Basilio che scrise di Ermogene e di Zenon
neilPelusota, ed i molti Vescovie Preri Se Epifanig. Che racconta Severo
Sulpizio della Povertà d'u n Prece , Tofimonio Postumiano. Del Clero vivente in
commune nela Chiesa di Salaming in Cipre. De Clero di Ambrogio di Milano. De
Cherici d'Aquileja. Della Chiesa Cartaginesi. Della Comunità di Agostino nelle
vicinanze di Tagasta. Sentimenti di Girolamo sopra lot Staro di Chorici.
Comunità di Agostino Prete in Ippona. Della Comu nità d'Agostino nel
PalazzoVescovile–Ippona. Ii Concilio Cartaginese ci porta la Comunità di
Vescovi coloro Cherici. SEGOLO V. La Comunità Chericale Sparsa perl'Africa. Di
Mario Arelatenfee del suovina vere Chericale. Del Clero Africano corso à Roma à
cagione de'Vandali forto il Papa LeoIne. Cheg indižio possa farlidelaperforiadit.
Prospero e delsuo vivere Chericale, Della Vita comunend Clero d'Ibernią
foto,S.Rørrizio Vescovo.VI. Della Vita Regolare degli Ecclesiastici della
Chiesa di Calcedonia. Che dice Giuliano Pomerio de Chericie, de Cherici del suo
tempo. Del Pontefice Gelafio Primiera mente tratasi delMonte Celio. De Laterani
e loro Palazzo, che fù convertito nela Basilica Lateranense, Del vivere comune
de ChericiLao "teranefo, Che's.Gelafio è Africano, Dell' antica
puncupazione di Canoni, Dell'invasione di Longobardi nel Monte Cassino e
venutdai que' Monacià Roma, e loro dimora; e dell'oratorio di Pancrazio, De
Priori della Chiesa 1 Lateranense Canonici Regolari SECOLO VI, m. Della Vita
Chericale comune secondo quella d'Ippona indicata negl'tti di Lorenzo detta!
Illuminatore. Che cosa prescrive il Concilio Ilerdense. Che il Concilio di
Toledo, Che i Padri del Concilio d'Orlans. Che ferive di Baudino Gregorio
SICOLO:Ivi. Povertà Evangelica sandria. Ill.Zin Canone del Concilio
Romano, atribuito à Silvestro vien intejaper Buplio Diacono. Comunità
Chericalen e laChiesa d Ales O o. DI 1 1 Turonense. Che fece Leobina Vescovo
nella Chiesa Carnotenje. Dalle proibizioni del Concilio Arelaten fededucesi il
metodo del vivere Chericale di que' tempi.Vita Regolare ne' Cherici espressa
nel Concilio di Tours. De vivere in comune de Chericj in Romaforzo il
Pontificato di Gregorio Magno. Note Fonte: Francesco Sforza Benvenuti, Storia di
Crema, Volume 2, 1859 p.37Filosofia Filosofo del XVII secoloTeologi italiani
1669 1746 Montodine NapoliTraduttori dal latino. Don Cesare Donato Benvenuti.
Cesare Donato Benvenuti. Cesare Benvenuti. Keywords: paganismo, religione
romana antica, paganesimo ario in Italia, i romani, i ostrogoti, i longobardi,
religione romana, religione ostrogota, religione longobarda, mitologia romana,
mitologia ostrogota, mitologia longobarda, cultura romana, cultura ostrogota,
cultura longobarda, le fonte pagane della teoria del segno in Agostino –
semeion, signum, segno, segnare, segnante, segnato. Antecedenti di una teoria
unitaria del segno. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Benvenuti” – The Swimming-Pool Library.
Berardi (Bologna).
Filosofo. Grice: “You gotta love Berardi, but I wonder if his background is in
the classics – he has written on ‘il futuro della comunicazione,’ and coined
some nice neologisms, like ‘psiconautica,’ – which is like my
telementationalism, only different – and dialogued with Guattari -- While Berardi is into ‘il futuro della
comunicazione,’ we at Oxford, them with a lit.hum. are usually into the PAST of
communication!” -- Franco Berardi (n. Bologna), filosofo. Detto “Bifo” -- Agitatore
culturale italiano. All'età di quattordici anni si iscrive alla FGCI, ma ne
viene espulso tre anni più tardi per "frazionismo". Partecipa al
movimento del '68 nella facoltà di lettere dell'Bologna, ove nel '67 conosce
Toni Negri. Si laurea in Estetica con Luciano Anceschi e aderisce a Potere
Operaio, gruppo della sinistra extraparlamentare di cui diviene figura di
spicco a livello nazionale. Nel 1970 pubblica il suo primo libro, Contro il
lavoro (edito da Feltrinelli). Nel 1975 fonda la rivista A/traverso, un foglio
che era espressione dell'ala "creativa" del movimento bolognese del
1977; nei suoi scritti mette al centro della propria analisi il rapporto tra
movimenti sociali e tecnologie comunicative.
Nel 1976 partecipa alla fondazione dell'emittente libera Radio Alice e
subisce l'arresto per l'accusa di partecipazione alle Brigate Rosse, da cui
viene assolto un mese dopo. Per richiederne la scarcerazione, Radio Alice
organizza una festa in Piazza Maggiore, a cui partecipano oltre diecimila
persone. Berardi viene scarcerato poco dopo, e diviene il leader dell'"ala
creativa" della protesta studentesca bolognese del 1977. Dopo la chiusura
della radio da parte della polizia, contro Berardi viene spiccato un mandato
per "istigazione di odio di classe a mezzo radio", per sottrarsi
all'arresto fugge da Bologna. Si rifugia a Parigi dove frequenta Félix Guattari
e Michel Foucault e pubblica il libro Le Ciel est enfin tombé sur la terre
(Éditions du Seuil). Negli anni ottanta
rientra brevemente in Italia e poi si trasferisce a New York dove collabora
alle riviste Semiotext(e), Almanacco musica e Musica 80. Viaggia a lungo in
Messico, India, Cina e Nepal. In quel periodo inizia ad occuparsi della
crescita delle reti telematiche e preconizza la futura esplosione della rete
quale vasto fenomeno sociale e culturale[senza fonte]. Alla fine degli anni
ottanta si trasferisce in California dove pubblica alcuni saggi sul cyberpunk.
Ritorna a Bologna e, in veste di protagonista, partecipa al documentario Il
trasloco di Renato De Maria, prodotto dalla RAI nel 1991, incentrato sulla
storia del suo appartamento. Collabora poi con varie riviste culturali fra cui
Virus mutations, Cyberzone, Millepiani e varie case editrici fra cui la
Castelvecchi e DeriveApprodi. Collabora, inoltre, alla stesura di testi per
MediaMente, la trasmissione televisiva prodotta da RAI Educational e condotta
da Carlo Massarini dedicata al mondo di Internet e delle nuove tecnologie di
comunicazione. Dal 1992 al 2004
collabora alla rivista DeriveApprodi insieme a Sergio Bianchi e altri. Dal 2000
al 2009 cura con Matteo Pasquinelli l'ambiente di rete Rekombinant. Nel 2002
fonda Orfeo Tv, la prima televisione di strada italiana. Nel 2005 un suo
pamphlet che si scaglia contro le politiche sociali del nuovo sindaco di
Bologna Sergio Cofferati viene ripreso con enfasi dalle testate giornalistiche
nazionali. Lavora come insegnante presso l'istituto tecnico industriale Aldini
Valeriani di Bologna. Pubblica regolarmente sul quotidiano Liberazione, sulla
rivista alfabeta2 e sul sito Through Europe. Collabora alla rivista canadese
Adbusters. Dal 2000 al 2009 ha animato la mailing-list Rekombinant con Matteo
Pasquinelli. Altre opere: “Contro il
lavoro”; “Scrittura e movimento” (Marsilio); “Teoria del valore e rimozione del
soggetto: critica dei fondamenti teorici del riformismo” (Verona, Bertani);
“Primavera” (Roma, Stampa Alternativa); “Chi ha ucciso Majakovskij” (Milano,
Squi/libri); “L'ideologia francese: contro i "nouveaux philosophes"”
(Milano, Squi/libri); “Finalmente il cielo è caduto sulla terra. Milano,
Squi/libri); “La barca dell'amore s'è spezzata. Milano, SugarCo); “Dell'innocenza”
(Bologna, Agalev); “Presagi. L'arte e l'immaginazione visionaria” (Bologna,
Agalev); “Terzo dopo guerra” (Bologna, A/traverso); “La pantera e il rizoma” (Bologna,
A/traverso); “Una poetica Ariosa” (Milano, ProgettoArio); “Più cyber che punk.
Bologna, A/traverso); “Politiche della mutazione. Milano-Bologna, Synergon), “Dalla
psichedelia alla telepatica” (Milano-Bologna, Synergon); “Hip Hop rap graph
gangs sullo sfondo di Los Angeles che brucia. Milano-Bologna, Synergon); “Cancel
& Più cyber che punk. Milano-Bologna, Synergon); “Come si cura il nazi.
Castelvecchi); “Mitologie Felici. Milano, Mudima); “Mutazione e cyberpunk.
Immaginario e tecnologia negli scenari di fine millennio. Costa & Nolan); “Lavoro
zero. Castelvecchi); “Neuromagma. Lavoro cognitivo e infoproduzione. Castelvecchi);
“Ciberfilosofia”; “Dell'innocenza”, “Premonizione. Verona, Ombre Corte); “Exit.
il nostro contributo all'estinzione della civiltà. Costa & Nolan); “La
nefasta utopia di Potere operaio. Castelvecchi); “Alice è il diavolo. storia di
una radio sovversiva”; “Shake edizioni. La fabbrica dell'infelicità: new
economy e movimento del cognitariato. Roma, DeriveApprodi); “Felix. Narrazione
del mio incontro con il pensiero di Guattari, cartografia visionaria del tempo
che viene. Luca Sossella Editore), “Quando il futuro incominciò. Fandango Libri);
“Un'estate all'inferno”; “Telestreet. Macchina immaginativa non omologata.
Baldini Castoldi Dalai); “Il sapiente, il mercante, il guerriero. Dal rifiuto
del lavoro all'emergere del cognitariato” (Roma, DeriveApprodi); “Da Bologna
(serie A) a Bologna (serie B). DeriveApprodi); “Skizomedia. mediattivismo.
Roma, DeriveApprodi); “Europa 2.0 Prospettive ed evoluzioni del sogno europeo,
edito da ombre corte, Un'utopia senile per l'Europa. Run. Forma, vita,
ricombinazione, Mimesis); L'eclissi. Dialogo precario sulla crisi della civiltà
capitalistica, Manni Editori); “La Sollevazione. Collasso europeo e prospettive
del movimento. Manni Editori); “L'anima al lavoro, DeriveApprodi); “After the
future AKPress, Oakland); “Dopo il futuro. Dal futurismo al cyberpunk.
L'esaurimento della modernità, DeriveApprodi); “La nonna di Schäuble. Come il
colonialismo finanziario ha distrutto il progetto europeo, Ombre corte, Heroes Suicidio e omicidi di massa, Baldini
& Castoldi, Asma, C&P Adver
Effigi); “Contro il lavoro, DeriveApprodi); “Il secondo avvento. Astrazione
apocalisse comunismo, DeriveApprodi); “Futurabilità, Produzioni Nero); “Respirare.
Caos e poesia, Sossella), “Il trasloco”, “Io non sono un moderato”. Note
Filmato audio Alexandra Weitz, Andreas Pichler, L'eterna rivolta, su
YouTube, 2006, a 0 min 47 s. 6 agosto .
Cronologia di Radio Alice, radiomarconi.com. 6 agosto . E-text s.r.l. (http://e-text/), MediaMente:
Franco Berardi, su mediamente.rai. 24 luglio
25 giugno ). Bifo: "Con la
Gelmini non insegno" Sospeso dall'insegnamento | Bologna la
Repubblica Cominciamo a parlare del
collasso europeo, alfabeta2 n.5, dicembre , pag. 5 rekombinant@liste.rekombinant.org, su
rekombinant.liste.rekombinant.narkive.com. 6 aprile . A/traverso | Casa Editrice Etichetta
Discografica | AlterAlter Erebus press & label, su Alter Erebus. 26
giugno 26 giugno ). Félix Guattari Gilles Deleuze Movimento del
'77 Radio Alice Telestreet Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su
Franco Berardi Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene
immagini o altri file su Franco Berardi Franco Berardi, su Internet Movie
Database, IMDb.com. //th-rough.eu/Pagina personale di Bifo sul Through Europe Interregno[collegamento
interrotto]Hacer lo imprevisible… después del 68: Entrevista con Franco Berardi
Bifo(Español) Rekombinant"Listblog" animato da Franco Berardi e
Matteo Pasquinelli radioalice.orgsito web su Radio Alice Il Trasloco
(scaricabile) su New Global Vision, su ngvision.org.
podcast.fmlatribu.comPodcast en castellanoEntrevista con Bifo en FM La Tribu,
Buenos Aires Articoli su arte e sensibilità, European School of Social
Imagination San Marino; scepsi.eu. 13 agosto
27 novembre ). Interviste a Franco Beradi di Christian Brogi, su ltmd.
Franco Berardi su Bookogs. Biografie
Biografie Letteratura Letteratura
Politica Politica Categorie: Saggisti
italiani del XX secoloFilosofi italiani Professore1949 2 novembre
BolognaMilitanti di Potere OperaioMovimento del '77Studenti
dell'BolognaFondatori di riviste italianeAttivisti italiani. Franco Berardi.
Keywords: implicatura del presagio, poetica ariosa, progetto ario, telepatia,
pre-sagio, sagio. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Berardi” – The Swimming-Pool Library.
Bernardi (Mirandola).
Filosofo. Grice: “We discussed Bernardi with Sir Peter – when we were tutoring
on ‘Categoriae’ – “Surely this is not propedeutic logic! This is pure
metaphysics, and even pure physics!” Bernardi held the same view! On top, I
love Bernardi because he does not use ‘logica,’ which he thinks for ‘kids,’ but
‘dialettica,’ which is real philosophy!” Aristotelico, nominato vescovo di Caserta.
Duomo di Mirandola. Compiuto gli studi presso Bologna avendo come maestri Boccadiferro
(l’autore di un trattato sui luoghi comuni d’Aristotele) e Pomponazzi. Si
trasferì poi a Roma presso la corte di Farnese, dove frequenta Bembo, Casa e Giovio,
e si conquista una fama di filosofo aristotelico e letterato. Consacrato vescovo di Caserta. Poi a Parma nel monastero di San Giovanni dei Cassinesi.
Fu tumulato nel Duomo di Mirandola. In
occasione del 5º centenario della sua nascita, il 30 novembre 2002, il Centro
Internazionale Giovanni Pico della Mirandola gli dedicò un convegno. Lo scrittore Antonio Saltini ha utilizzato la
figura di Antonio Bernardi come personaggio del suo romanzo storico L'assedio
della Mirandola. Atre opere: “La
Monomachia” -- dove si sostiene che il duello è legittimo secondo la ragione e
la filosofia morale ma illecito sotto il punto di vista religioso. Note Vedi Google Libri. Duello cavalleresco. , Antonio Bernardi della Mirandola
(1502-1565). Un aristotelico umanista alla corte dei Farnese. Atti del convegno
"Antonio Bernardi nel V centenario della nascita" (Mirandola, 30
novembre 2002), M. Forlivesi, Firenze, Olschki, 2009. 978-88-222-5846-5 Aristotelismo Altri progetti Collabora a
Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Antonio
Bernardi Paola Zambelli, «BERNARDI,
Antonio», in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 9, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1967. Filosofia Categorie: Vescovi cattolici
italiani del XVI secoloFilosofi italiani Professore1502 1565 3 giugno Mirandola
Bologna. EVERSIONIS SINGVLARIS
CERTAMINIS. PROPOSITVM NOBIS EST, SINGVLARE certamen , quantum quidem
poterimus , fundamentis ſanctiſsimæ religionisnoſtræinnitentes, euertere, ac pe
nitus ex animis hominum extirpare , ( utpote quod ab homine qui Chriſti
ſeruatoris noftri religionem & pie tatem profitetur, abhorreat.) Sed quia
edituseſtliber quidam , infcriptus Contra uſum duelli,in quo multa e tiam
diſputanturcontra libros noſtrosDehonore,ubi agitur de ſingulari certamine: qui
libri ſub nomine loan nis Baptiſtæ Poſleuinifallò in lucem prodierunt:etlino
lateat nos illud Ariſtotelis, to gasto TutóvG-gvarſíce tas Sofaes espolwaulio
agorti{ eup vxbés oszy : tamen faciendum nobis primùm uidetur,ut ea refellere
conemur, quæ contra libros noſtros De honore fcripta ſunt: ut,qui tantű. modò
uerborum faciem intuentes , interius autem non expendentes reconditam rerum
ueritatem , putauerunt eius libri quem diximus, auctorem , Ariſtotelis ſenten
tiam, ueritatem ipſam omnino affequutum effe, facileintelligant,non folùm no.
ftra quæ is refellit Peripateticorum doctrinæ prorſus conſentire, fed etiam
tantum abeſleut ille ( quiquidem magnum ſeadiumentum fuo hoclibro generi humano
at tuliſſe putauit) ex doctrina Ariſtotelis, & ex
philoſophiamoralilingulare certamē euerterit,ut id etiam ex ipfiuſmet uerbis
dari ac permitti in omnibus fere cauſis per, ſpicuè appareat.At ita plane
intelligetur,fierinon poſſe utſingulare certamene, uertatur,niſiex fundamentis
ſanctiſsimæ religionis noftræ. Quæ quidem res potiſ fimùm nos impulit,ut ad
hæcſcribenda aggrederemur. Hocigitur (niſi fallimur) cum ita futurum ſit contra
id quod ſibi iſte propoſuerat,magis probandữmihiqui dem uidetur eius conſilium
, uoluntas , quàm eo ipfe laudandus, quòd quæ uel let præſtiterit. Sed primùm
loquamur generaliter, ponentes id quod ipfe fatetur totius ſuæ cau fæ
fundamétum efle ,uidelicet ipſius ſingularis certaminis plura eſſe genera.
Verùm antequam ueniamus adipfius uerba , uideamus quam facilè hoc eius
fundamentum peruertamus:accipientes ex eis quæ ipfe conceſsit &dixit, arma,
quibus eius impe, tus aduerſusnoftrum librum labefactetur atą frangatur. Sed
quia nos, qui deopi nione Ariſtotelis diſſerimus, hujus controuerſiæ iudicem
Ariſtotelem conſtitui mus: afferemus in omnibus uerba ipſius Ariſtotelis,
ponentes ea ante oculos, ucho mines qui non certis quibuſdam , deſtinatis
ſententijs addicti confecratiga funt, fed ueritatem amplecti deſiderant, facile
intelligant quam iniuſtè, quàm etiam con . tra hominum utilitatem , iſte in me
quali grauiſsimum aliquod facinus admiſillem , inuaferit. Sed iam ad rem
ueniamus. Omnia ſingularia certamina, quæ ex fundamentis naturæ , non ex fancta
noftra religione permitti poffunt, ſuntunius generis,uel fpeciei(utiſte
loquitur:)ergo fun damentum eius à ueritate abhorret, quod ſcilicet fint plura
genera: & quòd ob hanc caufam unum genus fuerit permiſſum , &aliud nõ
permiſſum . Ex quo poftmodum emanat , me in libro Dehonore non eſſe lapſum ,
quia ignorauerim nomen &no. tionem , uim ; & originem fingularis
certaminis ,cum dixerim eius nomen apud GræcosfuiffeMonomachiam ,apud Romanos
Singulare certamen: quia non fue runt generalia nomina(ut ipſe dicit )fed folùm
nomina unius fpeciei uel generis. Conſequentia perſpicua eft: id uero quod
antecedit, probemus in hunc modum. Illa certamina quorum eft idem finis , effe
etiam eiuſdem generis uel ſpeciei neceſſe eſt.hoc enim loco pro eodem ſumuntur
genus & ſpecies. Propofitio ifta conceſſa eſt ab ipſo, etenim a
diltinctione finium ſumpſit diſtin , a ctioncm EVERS. SING CERTA M. ctionem
illorum certaminum :ut ex fine,qui erat honor,concluſit unum genus cer, 2.
Deanima. taminis. Sed probemus ipfam ex Ariſtotele. etenim ipſe inquit :
Quoniam autem à text.49. fineappellariomnia iuſtum eſt . Item inquit :
Determinatur enim & definitur u. 3.Ethic.o. numquodą fine. Siquidem
&ſuperabundantia ut nominetur ad finem, &excellen " tia uirtutum
oporter. Si ergo unumquodq; determinatur &definitur fine : ſingu laria ergo
certamina decerminabuntur & definientur fine. Ergo ſi finis erit unus, una
erit ſpeciesſingularis certaminis :ſi plures,ergo plures ſpecies. De cælo Item
Ariſtoteleshæcſcripta reliquit:Cuius enim cauſa unumquod eſt, &factű
mundo,tex.116 eſt ipſum eſt illius ſubſtātia . Quæ ergo certamina habent eundē
finē, ut fint etiam 1.Oeconom . eiuſdem ſpeciei neceffe eft: etenim ſunt eiufdé
fubftantiæ & formæ,necefTech eſt ut materia tantùm differant. Sed omnia
illa ſingularia certamina quæ ipſe conceſsit ex fundamentis naturæ , &
illud etiam genus quod nos conceſsimus in libris Deho . nore, ſunt certamina
ſingularia, quorum eſt idem finis :ut igitur ſint eiuſdem gene. ris uel
ſpeciei,neceſſe eſt. Minor probaturſic :llla quorum honeſtum eſt finis, ſunt
eiuſdem finis. Propofi tio iſta perſpicua eſt. Sed omnium illorum quæ ipfe
conceſsit ( utpugnare pro pa tria ,pro coniuge,pro regnis , honeſtum eſt finis
:ergo habent eundem finem . Sed oftendanus pofterioris huiusſyllogiſmiminorem .
Sienim honeſtum non effet eo. rum finis, non eſſent concedenda a Republica bene
inſtituta: quandoquidem Rer publica bene inſtituta nunquã concedicinhoneſta ,
alioquin nõ eſec bene inſtituta. 1. Rhet... Item inquit Ariſtoteles:Ėc
fimpliciter bona ſunt honeſta , & quæcunq pro patria facit,perdens fua. Qui
ergo facit pro patria, facit propter honeltatem . " Item , Viri fortis
finis eſt honeſtum . Qui pugnant pro patria, pro coniugibus, pro filijs, prore
. gno,ſuntuirifortes :ergo eorum quipugnant pro patria, pro coniugibus,pro
filijs, pro regnis,eſt finis honeſtum. Maior etli perſpicua ex ſe eſt,
declaraturtamen ab Ariſtotele his uerbis , quæ ſư 3. Ethic.io. prà etiam
citauimus ad aliud probandum : Finis enim, inquit, omnis actionis eft fe. ,
cundum habitum: &uiro forti fortitudo eft honeſta, &talis eſt finis :
determinatur , ' & definitur unumquodq; fine.Honeſtienim gratia fortis
ſuſtinet &agit ea quę funt , ' ſecundum fortitudinem Ergo uiri fortis eſt
finis honeſtum. Deinde paulo pòſt inquit: Oportet autem non propter
neceſsitatem fortem el so ſe,ſed quia honeſtum eſt . Item paulo poſt
inquit:Fortes enim agunt propter honeſtā ira aūtadiuuatipſos." 1. Rhet...
Item inquit:Quæcunq; funt opera fortitudinis , funt honeſta & iufta: &
opera iu . ftè facta,ſupple ſunt honeſta. Bernardi (Ant.,
Mirandulani, Episcopi Casertani ). - ANTONII BERNAR / di Mirandulani, epiſco- /
pi Caſertani, Eversionis / Singvlaris Certa- / minis Libri XL. / In quibvs cvm
omnes inivriæ / ſpecies declarantur: tum uerò offenſionum , & côtentio- /
num, quæ ex illis nafcuntur, honeſtė atque ex uirtute tol- / lendarum ratio
traditur : & præter multos, ac propè in- ! finitos locos Ariſtotelis, qui
ſunt difficilimi, obiter expli- / catos. Animi etiā immor talitas ex ipfius
ſententia oſten- / ditur : Aſtrologiæ quoq ; diuinatio omni pene au- / toritate
fpoliatur, atque libertas hu- / mana ſtabilitur. / -- Ad amplißimum uirum
Alexandrrm Farnesium Cardinalem , S. R. E. Vicecancellarium . Acceſsit locuples
rerum & uerborum toto Opere / memorabilium , Index. --- Basilea, Per llen-
/ ricum Petri. [ W - 1 '] In folio, p. 694 n. e p. 18 n . n . al princ . Di
queste : 3 per la dedica e 13 pel Rerum atqve verborum locuple tibimus Index.
Nel testo alcune iniziali con vignette . La stessa opera di questo autore,
detto da alcuni il Mi randola , dalla patria , e da altri il Caserta dalla
dignità , è stata pure pubblicata sotto l'altro titolo : ANTONII BERNAR- / DI
Mirandulani, epiſco- i pi Caſertani, 1 Dispvtatio / nes. I – In qvibvs primvm
ex professo / Monomachia ( quam Singulare certamen Latini, recentio- / res
Duellum uocant) philoſophicis ra tionibus aſtruitur, & / mox. diuina
authoritate labefactata penitùs euertitur : om- / nes quoq : iniuriarum ſpecies
declarantur, easq' ; conciliandi / & è medio tollendi certiſsimæ rationes
traduntur. Deinde / uerò omnes utriuſque Phi lofophiæ, tam contemplatiuæ / quàm
actiuæ, Loci / obfcuriores, & ambiguæ Quæſtiones, / (præſertim de Animæ
immortalitate, & Aſtrologiæ iudi- / ciariae diuinationibus) Ariſtotelica
methodo / luculentiſsimè examinantur & / expli cantur. / Ad amplißimum
uirum Alexandrem Farnesirm / Cardinalem , S. R. E. Vicecancellarium . / -
Acceſsit locuples rerum & uerborum toto Opere / memorabilium , Index. / -
Basileae, Per Henriccm / Petri, et Nicolarm SCIENZA CAVALLERESCA ANTICA 113
Bryling. | Anno 1562. / - ( In fine :) Finis Qvadragesimi et vltimi i libri
Euerfionis fingularis certaminis. / [ * -Fer] In folio p. 694 con iniziali con
vignette. Al princ. 18 p. 1. n . pel titolo, pella dedica al Cardinale Far nese
( nella quale accusa di plagio G. B. Possevino, uditore suo, per essersi
appropriata un'opera sull'Onore da esso scritta ) e pell' Index . Il Tiraboschi
nel t . 1.o della Bibliot. Modenese a p. 241 erroneamente sem brasa credere,
che questa seconda edizione losse la stessa cosa della 1.a edizione , della
quale essố aveva trovato il titolo nel Mazzuchelli. – Di quest'opera voluminosa
del Bernardi, divisa in 40 libri e scritta col preteso assunto di abbattere il
duello , stampa il Maffei ( op. cit. , 1.a ed. , a p. 252) , che è stata stesa
; « con metodo sco « lastico e coll'argomentazione usata in quegli scrittori,
che si chiamano di Filosofia ; ma procedendo sempre con « equiroci, e confusion
di vocaboli e con perpetui sofismi talvolta intrigatissimi e difficili e
talvolta manifesti e • palesi » Eppure, narra lo stesso Maffei ( a p. 264 ) ,
che dell'opera del Bernardi quattro doppie si stimava modesto prezzo . In
quell'epoca i libri di scienza cavalleresca erano tanto ricercati, che, scrive
lo stesso Maffei, quattro doppie è pur stata valutata un'edizione dell'Ariosto,
quella di Venezia 1566 per il Valvassori, « sol per poche righe , che in alcuni
luoghi vi si trovano con titolo di Pareri in Ducllo » . - In quanto all'accusa di
plagio dita apertamente dal Bernardi a G. B. Possevino , essa è abbastanza
giustificata. Il G. B. Posse vino era scolaro del Bernardi e questi ebbe dal
maestro il suo lavoro sul duello per copiarlo , ma il Pos sevino non si fece
alcuno scrupolo di rafazzonarlo alquanto per poterlo far passare come proprio.
È vero peró , che la pubblicazione dello scritto non avvenne per opera del
Possevino, ma di suo fratello Antonio , che appartenne alla Compagnia di Gesù ,
ed anzi vuolsi, che G. B. Possevino morendo raccomandasse al fratello di non
pubblicare quell'opera sul duello da esso lasciata , ma Antonio Possevino non
avrebbe però tenuto conto di questa raccomandazione, tanto più , che al dire
del Tiraboschi, a vincer i suoi scrupoli gli era oppor tanamente giunta all'orecchio
la falsa notizia della morte avvenuta a Ferrara del Bernardi, vero autore del
trattato sul duello , ed egli a tale notizia aveva prestato fede. Il
Tiraboschi, che dapprima aveva difeso G. B. Possevino dall'accusa di plagio
doveva finire per persuadersi, che tale accusa era ben fondata.
Antonio Bernardi. Keywords:
L’assedio della Mirandola. i duellisti, la legittimita del duello, i duellisti,
mono machia, duo machia. Il duello nell’antichita romana, roma antica, il
duello, statua di due duellisti antichi, armi bianchi, Boccadiferro, Pomponazzi,
aristotelismo Bolognese. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bernardi” – The
Swimming-Pool Library.
Bernardo (Benne). Filosofo.
Grice: “I like Bernardo: he is a philosophical mason – but then most Italian
philosophers are, as a way of NOT being Roman!” Massone. Gran maestro del
Grande Oriente d'Italia dal 1990 al 1993, ha poi fondato la Gran Loggia Regolare
d'Italia. Diplomato in ragioneria e poi impiegato in banca, si laureò in
Sociologia presso l'Università degli Studi di Trento. Nello stesso ateneo seguì
la carriera accademica, divenendo docente ordinario di Filosofia della scienza
e di Logica, nonché pro-rettore. È inoltre autore di nmerosi saggi e
pubblicazioni sul tema della filosofia delle scienze sociali e della logica
delle norme. Fu iniziato alla massoneria
nella loggia bolognese "Risorgimento-VIII agosto" divenendo Maestro
venerabile della loggia "Zamboni-De Rolandis". Nello stesso anno
chiese e ottenne di venire inserito tra i massoni coperti per ragioni di
riservatezza legata alla sua professione di docente. Stessi requisiti di
riservatezza ebbe la sua appartenenza al Capitolo Nazionale del rito scozzese
antico e accettato. Eletto Gran maestro del Grande Oriente d'Italia. Negli anni
della sua maestranza tenne posizioni di aperto contrasto con la Chiesa
cattolica, dichiarò espressamente il proprio sostegno al Partito Socialista
Italiano, e dovette confrontarsi con la cosiddetta "inchiesta
Cordova" (dal nome del pubblico ministero di Palmi Agostino Cordova). Al
centro di polemiche anche con i vertici del GOI, Di Bernardo decise di
dimettersi dalla carica di Gran maestro al termine della Gran Loggia annuale a
Roma alla quale si era presentato dopo aver redatto atto costitutivo e statuto
di una nuova Obbedienza, la Gran Loggia Regolare d'Italia. Al vertice del GOI
gli succedette il reggente Eraldo Ghinoi.
La neonata Obbedienza si regge su uno sparuto gruppo di Logge
fuoriuscite dal GOI, caratterizzandosi per l'uso esclusivo del rito inglese
Emulation. Otto anni dopo la fondazione, viene espulso dalla GLRI; gli succede
alla guida dell'Obbedienza Venzi. Quindi avvia un nuovo progetto di un ordine
paramassonico, denominato Dignity Order, che tuttavia non è un'Obbedienza
regolare. Pur dichiarando di essere fuoriuscito dalla Massoneria, Di Bernardo
da anni si presta a rilasciare interviste e dichiarazioni sull'argomento sia a
giornalisti che ad organi inquirenti. Nel
ha polemizzato con il GOI dopo aver reso una dichiarazione alla
Commissione Antimafia relativa a presunte rivelazioni del defunto Ettore Loizzo
(vedi ). Il GOI ha annunciato l'intenzione di denunciare Di Bernardo per diffamazione
e calunnia. Il lo stesso Di Bernardo annuncia di voler a sua volta querelare il
Gran Maestro del GOI Stefano Bisi per diffamazione. La querela di Di Bernardo a
carico di Bisi viene archiviata per insussistenza. Aldo Alessandro Mola, Gelli e la P2: fra
cronaca e storia, Bastogi Editrice Italiana, Giuliano Di Bernardo, unitn. Il Gran Maestro: chi è Giuliano Di Bernardo.
Aldo A. Mola. Pubblicazioni di Giuliano
Di Bernardo, unitn. Fra tradizione e rinnovamento: la lunga traversata del
deserto dal 1945 a oggi, GOI. Aldo A.
Mola, 801 e ss. Aldo A. Mola, Di Bernardo fonda la nuova
Grande loggia, in Corriere della Sera. Sito ufficiale del Dignity Order, dignityorder.com.
Aldo Alessandro Mola, Storia della massoneria italiana, Bompiani, Gran loggia
regolare d'Italia Massoneria in Italia Massoneria Citazionio su Giuliano Di
Bernardo Intervista a Giuliano Di
Bernardo del, Predecessore Gran maestro del Grande Oriente d'Italia Successore Square
compasses.svg Armando Corona. Eraldo Ghinoi (reggente) Predecessore Gran
maestro della Gran Loggia Regolare d'Italia SuccessoreSquare compasses.svg
Carica inesistente Fabio VenziB Filosofia Università Università Filosofo del XX secolo Filosofi
italiani Professore Penne Gran maestri del Grande Oriente d'Italia. Giuliano Di
Bernardo. Keywords. logica dei sistemi normativi, normativa sociale,
l’implicatura del massone, psicologia filosofica, Homo sapiens sapiens. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Bernardo” – The Swimming-Pool Library.
Bernieri (Lodi).
Filosofo. Grice: ‘I like Berneri; of course we need to know more about his
philosophical background and education – he represents the epitome of what
Italian philosophers call ‘filosofia militante,’ but then I fought the Hun – so
I was militante, too!” – Figlio di padre originario di Ronco, frazione di
Corteno Golgi (nella Val Camonica, in provincia di Brescia) e da madre
emiliana, ben presto, si trasferì con la famiglia dapprima a Milano, poi a
Palermo, e Forlìdove, a Varallo Sesia (in provincia di Vercelli) e, infine, a
Reggio nell'Emilia. Qui, da una
testimonianza di Angelo Tasca risulta che Camillo Berneri militava nella
Federazione Giovanile Socialista di Reggio Emilia già dal 1912 (da
"Mussolini-Psicologia di un dittatore", Camillo Berneri, Pier Carlo
Masini, Milano, 1966, pag 109). Dopo essere stato membro del Comitato Centrale
della Federazione Giovanile Socialista reggiana, e dopo aver collaborato
all'Avanguardia (organo nazionale della FGS), nel 1915 rassegna le dimissioni
dalla FGS, attraverso una lettera ai compagni, avendo maturato convinzioni
anarchiche. Sarà colpito dal gesto dei compagni che, nonostante le dimissioni,
vorranno che presieda un'ultima riunione della FGS a Reggio, e dal gesto del
mentore Camillo Prampolini, che lo convocherà per conoscere le ragioni del suo
dissenso. Berneri ricorderà sempre "i dolci ricordi del mio catecumenato
socialista". Nel 1916 si trasferisce ad Arezzo dove frequenta il liceo. Chiamato alle armi ed escluso dall'Accademia
Militare di Modena per le sue idee, fu inviato al fronte nel 1918; quindi,
ancora in servizio, venne confinato nell'isola di Pianosa in occasione dello
sciopero generale del luglio 1919. Iniziava intanto con lo pseudonimo Camillo
da Lodi la sua copiosa attività pubblicistica collaborando per anni a vari
periodici libertari: da Umanità Nova a Pensiero e Volontà, da L'avvenire
anarchico di Pisa a La Rivolta di Firenze e a Volontà di Ancona. Laureatosi in filosofia, insegnò tale materia
per qualche tempo a Camerino. Pronta e decisa si manifestava la sua avversione
al fascismo e, dall'Umbria in particolare, egli manteneva i contatti con gli
antifascisti fiorentini diffondendo il battagliero giornaletto Non mollare.
Molto intensa fu in quegli anni l'attività nell'Unione anarchica italiana.
Inaspritasi la dittatura fascista, dovette espatriare clandestinamente in
Francia e lo raggiunse poco dopo la moglie con le figlie; sua moglie era
Giovanna Caleffi anche lei militante anarchica così come poi le figlie Marie
Louise Berneri e Giliana Berneri. Scoppiata la guerra civile spagnola, fu tra i
primi ad accorrere in Catalogna, centro dell'attività di massa libertaria
esprimentesi nella Confederación Nacional del Trabajo: qui si trovò a fianco di
Carlo Rosselli con tanta parte dell'antifascismo italiano e internazionale. Al
di là della solidarietà militante, a Carlo Rosselli lo legava anche
l'atteggiamento critico, e l'apertura mentale verso le prospettive del
socialism. Collabora con l'organo clandestino del movimento socialista-liberale
"Giustizia e Libertà", argomentando con Rosselli sull'alternativa
secca tra socialismo libertario e socialismo dispotico ("Gli anarchici e
G.L.", Camillo Berneri e Carlo Rosselli, Giustizia e Libertà). Furono gli
ultimi mesi febbrili della sua vita: inadatto alle fatiche del fronte, si
dedicò con entusiasmo all'opera formativa, al dibattito ideale e alle
incombenze politiche pubblicando un proprio periodico dal titolo “Guerra di
classe” che sintetizza la sua precisa interpretazione del conflitto in corso.
In esso infatti Berneri, preoccupato per il crescente isolamento non tanto del
legittimo governo repubblicano quanto delle più tipiche realizzazioni
rivoluzionarie e libertarie conseguite in Catalogna, Aragona e altre regioni,
si batté vigorosamente per la stretta connessione di guerra e rivoluzione
ponendo agli antifascisti e ai suoi stessi compagni anarchici il dilemma:
vittoria su Franco, grazie alla guerra rivoluzionaria, o disfatta. Tale la
sostanza di numerosi suoi articoli e discorsi come della famosa Lettera aperta
alla ministra anarchica della Sanità Federica Montseny che con altri tre
anarchici era nel governo di Largo Caballero.
Molteplici, seppure inascoltati, furono anche i suoi suggerimenti
politici per colpire le basi operative del fascismo proclamando l'indipendenza
del Marocco, coordinare gli sforzi militari, potenziare gradualmente la
socializzazione. Fu dunque quella di Berneri una funzione singolarmente
impegnata che lo espose ben presto alle feroci repressioni condotte dai
comunisti ormai prevalsi dopo l'avvento del governo di Juan Negrín: scomparvero
così tragicamente, vittime dei massacri di massa, migliaia di combattenti
antifascisti non comunisti, anarchici ma anche comunisti non stalinisti, come i
miliziani del POUM. L'assassinio di Camillo Berneri, sulle cui esatte
circostanze esistono diverse versioni, si colloca precisamente nella sanguinosa
resa dei conti tra stalinisti e loro avversari antifascisti conosciuta come le
giornate di Maggio. Il 5 maggio Berneri fu prelevato insieme con l'amico
anarchico Francesco Barbieri dall'appartamento che i due condividevano con le
rispettive compagne. I cadaveri dei due anarchici italiani furono ritrovati
crivellati di proiettili. La moglie allevò i figli di Antonio Cieri, anche lui
caduto in Spagna. In morte di Berneri, il leader socialista Pietro Nenni
scrisse: "Se l'anarchico Berneri fosse caduto su una barricata di
Barcellona, combattendo contro il governo popolare, noi non avremmo niente da
dire, e nella severità del suo destino ritroveremmo la severa legge della
rivoluzione. Ma Berneri è stato assassinato, e noi dobbiamo dirlo" (Pietro
Nenni, Nuovo Avanti, Parigi). Altre
opere: “Lettera aperta ai giovani socialisti di un giovane anarchico”
(Orvieto); “I problemi della produzione comunista” (Firenze); “Le tre città” (Firenze);
“Un federalista russo. Pietro Kropotkin, Roma); “Mussolini normalizzatore,
Zurigo); “Lo spionaggio fascista all'estero, Marsiglia); “Nozioni di chimica antifascista”;
“L'operaiolatria, Brest); “ll lavoro attraente, Ginevra); “Ed ancora: Mussolini normalizzatore La donna e la
garçonne”; “Pensieri e battaglie Il cristianesimo e il lavoro” – “Il Leonardo
di Freud”. da "Mussolini-Psicologia di un dittatore", Camillo
Berneri, Edizioni Azione Comune, Pier Carlo Masini, Milano, 1966, pag
115-117) Mirella Serri, I profeti
disarmati. 1945-1948, la guerra fra le due sinistre, Milano, Corbaccio, 2008. Cfr. Nicola Fedel, Introduzione e criteri di
edizione in Camillo Berneri, Lo spionaggio fascista all'estero, Nicola Fedel
(prefazione di Mimmo Franzinelli), Fondazione Comandante Libero, Milano, , XVII-XIX
, Enciclopedia UTET. Camillo Berneri, Anarchia e società aperta, Pietro
Adamo, M&B Publishing, Milano 2006. Stefano D'Errico, Anarchismo e
politica. Nel problemismo e nella critica all'anarchismo del Ventesimo Secolo,
il "programma minimo" dei libertari del Terzo Millennio. Rilettura
antologica e biografica di Camillo Berneri, Mimesis, Milano 2007. Roberto
Gremmo, Bombe, soldi e anarchia: l'affare Berneri e la tragedia dei libertari
italiani in Spagna, Storia Ribelle, Biella 2008. Mirella Serri, I profeti
disarmati. 1945-1948. La guerra tra le due sinistre, Milano, Corbaccio, 2008.
Flavio Guidi, "Nostra patria è il mondo intero". Camillo Berneri e
"Guerra di Classe" a Barcellona (1936-37), pubblicato dall'autore,
Milano . Giampietro Berti, Giorgio Sacchetti , Un libertario in Europa. Camillo
Berneri: fra totalitarismi e democrazia. Atti del convegno di studi storici, Arezzo,
5 maggio 2007, Archivio famiglia Berneri A. Chessa, Reggio Emilia . Camillo
Berneri, Lo spionaggio fascista all'estero, Nicola Fedel (e prefazione di Mimmo
Franzinelli), Fondazione Comandante Libero, Milano, , 978-88-906018-9-7 Antifascismo Archivio Famiglia Berneri Guerra
civile spagnola Giornate di maggio Altri progetti Collabora a Wikisource
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contiene immagini o altri file su Camillo Berneri Camillo Berneri, su TreccaniEnciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Camillo Berneri, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Camillo Berneri, in Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Camillo Berneri, su Liber
Liber. Opere di Camillo Berneri, su
openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Camillo Berneri, . Camillo Berneri,
su Goodreads. Altri particolari sul sito
dell'ANPI di Roma, su romacivica.net. 6 aprile 2006 31 agosto 2006). Carlo De
MariaUn convegno e una nuova stagione di studi su Camillo Berneri, su
storiaefuturo.com 26 luglio 2007). Socialismo LibertarioProfili
biobibliografici libertari, su socialismolibertario. Abolizione ed estinzione
dello stato (1936) Anarchismo e federalismo di Camillo Berneri, su magozine. V
D M Antifascismo. Anarchia Anarchia
Biografie Biografie Politica Politica Storia Storia Filosofo del XX secoloScrittori
italiani del XX secoloAnarchici italiani 1897 1937 20 maggio 5 maggio Lodi
BarcellonaAntifascisti italianiAssassinati con arma da fuocoVittime di
dittature comuniste. Camillo Bernieri. Keywords: normalizazzione, delirio
racista, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bernieri” – The Swimming-Pool Library.
Berti (Valeggio
sul Mincio). Filosofo. Grice: “I like Berti; of course he has philosophised on
the only two philosophers worth philosophising about Plato and Aristotle – his
interest is in the ‘number idea’ in Plato, the unity in Aristotle, and various
other things – notably Socratic dialectic as the basis for both!” -- Grice: “I also love his courtesy: cf. Sir
Peter, “Introduction to logical theory,” versus the gentle “Un invite alla filosofia,”
– for philosophy needs to be invited to, rather than intro- and extro-ducted to
and fro’!” Professore emerito di storia
della filosofia, presidente onorario dell'Istituto internazionale di
filosofia. Laureatosi in filosofia
all'Padova nel 1957, è stato allievo di Marino Gentile. Dal 1961 al 1964 è assistente presso
l'Padova. Nel 1965 diventa professore di storia della filosofia antica
all'Perugia e nel 1969 di storia della filosofia nella stessa Università. Nel 1971 si trasferisce all'Padova, dove
insegna storia della filosofia. È poi docente anche nelle Ginevra, di
Bruxelles, di Santa Fé (Argentina) e alla Facoltà di Teologia di Lugano. Dal 1983 al 1986 presiede la Società
Filosofica Italiana. Nel 1987 vince il
premio dell'Associazione internazionale "Federico Nietzsche" per la
filosofia, nel 2005 il premio Iannone per la filosofia antica, nel 2007 il
premio Santa Marinella e il premio Castiglioncello per la filosofia, nel 2009
il premio "Athene Noctua" e nel
il premio giornalistico Lucio Colletti.
Nel è nominato "doctor
honoris causa" dell'Università nazionale capodistriana di Atene e nel Honorary Fellow dell'"Interdisciplinary
Centre for Aristotle Studies" dell'Salonicco. Pensiero Interessato particolarmente alla
filosofia di Aristotele, Enrico Berti ne ha intravisto le tracce nella
metafisica, nell'etica e nella politica contemporanea in particolar modo per il
problema della contraddizione e della dialettica. Berti si è poi inserito nella dibattuta
questione del rapporto tra filosofia e scienza, cercando di definire la
specificità della filosofia, che si fonda su una razionalità non rapportabile a
quella scientifica, ma piuttosto alla dialettica e alla retorica. Su un piano
più propriamente teoretico si è interessato alla possibilità di riproporre oggi
una filosofia di tipo metafisico, formulando una concezione «umile« o «povera»
della metafisica come consapevolezza della problematicità, e quindi
dell'insufficienza, del mondo dell'esperienza, considerato nella sua totalità
(comprendente scienza, storia, individuo e società). Altre opere: “L'interpretazione neo-umanistica
della filosofia presocratica” (scuola di Crotone, la porta di Velia); “La filosofia del primo
Aristotele” (Padova, Cedam); Il "De republica" di Cicerone e il pensiero
politico classico”; “L'unità del sapere in Aristotele”; “La contraddizione” (la
porta di Velia, la dialettica della struttura originaria, Bontadini); “Studi
sulla struttura logica del discorso scientifico”; “Studi aristotelici”;
“Aristotele: dalla dialettica alla filosofia prima” (Padova, Cedam); “Ragione
scientifica e ragione filosofica” (Roma, La Goliardica); “Profilo di
Aristotele, Roma, Studium); “Il bene” (Brescia, La Scuola); “Le vie della ragione” (Bologna, Il Mulino);
“Contraddizione e dialettica negli antichi” (Palermo, L'Epos); :Le ragioni di
Aristotele, Roma-Bari, Laterza); “Storia della filosofia” (Roma-Bari, Laterza);
“Aristotele nel Novecento, Roma-Bari, Laterza); “Introduzione alla metafisica,
Torino, UTET); “Il pensiero politico di Aristotele, Roma-Bari, Laterza); “Aristotele
e altri autori, Divisioni, con testo greco a fronte, coll. Il pensiero
occidentale); “In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia
antica, Laterza, Roma-Bari); “Il libro primo della «Metafisica» (Laterza,
Roma-Bari); Sumphilosophein. La vita
nell'Accademia di Platone, Roma-Bari, Laterza); “Nuovi studi aristotelici”
(Morcelliana); “Invito alla filosofia, Brescia, La Scuola); “La ricerca della
verità in filosofia, Roma, Studium. Ha scritto un dialogo satirico, un
"falso d'autore" attribuito ad Aristotele, Eubulo o della ricchezza:
dialogo perduto contro i governanti ricchi.
Traduzioni Aristotele, Metafisica, traduzione, introduzione e note di E.
Berti, Collana Biblioteca Filosofica, Roma-Bari, Laterza. Onorificenze e
riconoscimenti Grande Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica
Italiana È membro delle seguenti
accademie e istituzioni scientifiche:
Accademia nazionale dei Lincei Institut international de philosophie
Istituto veneto di scienze, lettere ed arti Société européenne de culture
Fédération internationale des sociétés de philosophie Pontificia accademia
delle scienze Pontificia accademia di San Tommaso d'Aquino Accademia galileiana
di scienze, lettere ed arti Società filosofica italiana Note festivalfilosofia, su festivalfilosofia 15
novembre 2008). Enciclopedia
multimediale delle Scienze filosofiche, su emsf.rai. 10 settembre 27 settembre ). Biografia Enrico Berti [collegamento interrotto], su
comune.ancona. Aristotele Opere di Enrico Berti, su openMLOL, Horizons
Unlimited srl. Opere di Enrico Berti, .
Registrazioni di Enrico Berti, su RadioRadicale, Radio Radicale. Intervista a Enrico Berti () Enrico Berti
scheda nel sito dell'Padova (con l'elenco delle pubblicazion. Filosofia Filosofo
del XX secoloFilosofi italiani Professore1935 3 novembre Valeggio sul
MincioProfessori dell'Università degli Studi di PadovaStudenti dell'Università degli
Studi di PadovaProfessor dell'Università degli Studi di PerugiaAccademici dei LinceiStorici
della filosofia italiani. I pitagorici -- Gli eleati -- Parmenide -- Zenone, Melisso
-- Empedocle -- Gorgia --. LA FILOSOFIA A ROMA Lo stoicismo medio il
neo-epicureismo e Lucrezio -- L’Accademia nuova e Cicerone -- Il neo-stoicismo
romano Seneca, Epitteto, Marc'Aurelio,
Enrico Berti. Keywords. Cicerone res publica – “De republica” – cf. il bene/il
buono/il bello, “il bene e il buono”, Cicerone e la filosofia politica
classica, il De Republica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Berti” – The Swimming-Pool
Library.
Bertinaria (Genova).
Filosofo. Grice: “I like Bertinaria; he is, like me a philosophical
cartographer – in his case, of ‘filosofia italiana’ for which he has identified
‘indole’ e this or that ‘vicenda,’ – now J. L. Austin once remarked that ‘sake’
has no denotatum – but ‘vicem’ does!” -- Francesco Bertinaria (n. Genova), filosofo.
Studiò all'Pisa, si trasferì a Torino per collaborare con l'editoria Pomba. Ha
curato la traduzione Abriss der Geschichte der Philosophie di Kennegieszer,
professore dell'Breslavia. Si occupò anche di filosofia orientale e di
filosofia italiana. Nel 1860 Bertinaria ottenne la cattedra di Filosofia della
Storia all'Torino. Nel 1865 fu chiamato all'Genova. Morì a Genova nel
1892. Altre opere: “La filosofia italiana” (Pomba, Torino);
“Compendio di storia della filosofia” (Pomba, Torino); “Discorso sull'indole e
le vicende della filosofia italiana” (Pomba, Torino). “Concetto della filosofia
e delle scienze inchiuse nel dominio di essa, «Antologia italiana»”; “Disegno
di una storia delle scienze filosofiche in Italia dal Risorgimento delle lettere
sin oggi, Antologia italiana», “Concetto scientifico della storia, Stamp.
sociale degli artisti tipografi, Torino); “Saggi filosofici” (Tip. Fory e
Dalmazza, Torino); “Prospetto dell'insegnamento della filosofia della storia” (Stamperia
dell'unione tipografico editrice, Torino); “Della teoria poetica e dell'epopea
latina, Torino); “Dell'importanza della filosofia della storia e sue relazioni
con le altre scienze” (Torino); “L'antica filosofia del diritto” (Tip. Cavour,
Torino); “Principi di biologia e di sociologia, Negro, Torino); “La storia
della filosofia e la filosofia della storia” «Riv. cont.», Estr.: Baglione,
Torino); “Sulla formola esprimente il nuovo principio dell'enciclopedia” «Riv. cont.»,Il
positivismo e la metafisica” «Riv. cont.», Estr.: A. F. Negro, Torino); “Scienza, Arte e
Religione, «Gerdil», Estr.: Tip. Torinese, Torino); “Dell'origine, progresso e
condizione presente della filosofia civile, «Riv. bol.», “Saggio sulla funzione
ontologica della rappresentazione ideale, FSI); “Concetto del mondo civile
universale, FSI); “La dottrina dell'evoluzione e la filosofia trascendentale”
(Tip. Ferrando, Genova); “Ricerca se la separazione della Chiesa dallo Stato
sia dialettica ovvero sofistica, FSI, Estr.: Tip. dell'Opinione, Roma); “Il
problema dell'incivilimento, ossia come possano essere conciliate fra loro le
dottrine della civiltà nativa di Vico e della civiltà nativa di Romagnosi,
FSI); “La psicologia fisica ed iperfisica” (Unione tipografico-editrice,
Torino); “Ricerca se l'odierna società civile progredisca ovvero retroceda,
FSI); “L'odierno antagonismo sociale. Discorso inaugurale nella Genova”
(Tip.Martini, Genova); “Il problema critico esaminato dalla filosofia
trascendente, FSI); “Discorso per l'inaugurazione dei corsi filosofici e letterari
nella R. Genova, Tip.Martini, Genova); “Idee introduttive alla storia della
filosofia, RIF, Estr.: Tip. della R. Accademia dei Lincei, Roma); “Determinazione
dell'assoluto. Saggio di filosofia esoterica, «Giornale della Società di
letture e conversazioni scientifiche di Genova», Estr.: Tip. A. Ciminago, Genova); “Il problema
capitale della scolastica risoluto dalla filosofia trascendente. Nota
storico-critica, RIF, Estr.: Tip. alle Terme Diocleziane di Giovanni Balbi,
Roma); “Scritti Bulgarini, G. B., Recensione dell'articolo del prof. F.
Bertinaria apparso sulla «Rivista Italiana»: Idee introduttive alla storia
della filosofia, «Rosmini», F. Bertinaria. Studio biografico, «Annuario della R.
Genova», Estr.:Martini, Genova, CecchiL., Francesco Bertinaria. Commemorazione,
Martini, Genova); D'Ercole, P., Notizie biografiche del prof. F. Bertinaria,
«Annuario della R. Università degli studi di Torino», Estr.: Torino; Mamiani,
T., Rec. di F. Bertinaria, La dottrina della evoluzione e la filosofia
trascendente.Discorso, Genova 1876, FSI); “Mamiani T., Intorno alla sintesi
ultima del sapere e dell'essere. Lettere al professore Bertinaria, FSI, XII,
1881, XXIII, 3-28, 231-249; XIII, 1882, XXVI,
84-95. Estr.: Roma 1882. Tolomio,
249-266. Note Bertinaria, su dif.unige. Piero Di Giovanni , Un secolo di filosofia
italiana attraverso le riviste 1870-1960, FrancoAngeli, 304,
978-88-56-86938-5. Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su
Francesco Bertinaria Opere di Francesco
Bertinaria, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Biografie Biografie Letteratura Letteratura Filosofo del XIX secoloSaggisti
italiani del XIX secoloInsegnanti italiani Professore1816 1892 Genova. TAVOLA
GENETICA DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA ( 1 ) ( Secondo la legge di creazione)
I. Facoltà spirituali e fisiche dell'uomo, le quali ne fanno condi zionalmente
un essere razionale, vale a dire un ente creato, soggetto alle condizioni della
sua vita presente ossia all'orga namento terrestre. = UOMO MORTALE . A ) Teoria
o Autotesia ; quello che v’ha di dato nello spirito dell'uomo per istabilirne
le facoltà fisiche ossia create . a ) Contenuto, ossia costituzione
psicologica. a2) Parte elementare. = FACOLTÀ ELEMENTARI (in numero di sette ).
a3) Elementi primitivi. = FACOLTÀ PRIMITIVE . a4) Elemento fondamentale ossia
neutro ; facoltà di sapere, = COGNIZIONE (Kenntniss]. (I) 64) Elementi
primordiali ossia polari. a5 ) Cognizione del Non - Io . = RAPPRESENTAZIONE (
Vorstellung]. ( II) ( 1 ) Per la lettura delle nostre Tavole genetiche
noi.dobbiamo far notare alle persone non peranco abituate a siffatta
esposizione tabellare, che, a seconda della divisione dicotomica , ch'è la sola
rigorosamente logica , le due sottoclassi di ciascuna classe suddivisa sono
notate colle lettere a) e b) a destra accompagnate da un numero superiore
d'un'unità a quello che ha il medesimo indice della classe così suddivisa. In
tal maniera, muo vendo dai due generi primitivi, designati da A) e B), ciascuno
di questi due generi ha due classi designate rispettivamente da a) e b) ;
ciascuna di queste classi a) e 6) può avere di nuovo due sottoclassi a2) e 62 )
; ciascuna di queste ultime classi a2) e 62) può avere di nuovo due sotto
classi , designate rispettivamente da a3) é 73 ); e così di seguito finchè ciascuna
di queste diverse sottoclassi ammette divisioni ulteriori. BERTINARIA -3 34
TAVOLA GENETICA 65) Cognizione dell'Io . = COSCIENZA (Bewusztsein ).(III) 63)
Elementi derivati. = FACOLTÀ ORGANICHE. a4) Elementi derivati immediati ossia
distinti . a5) Combinazione della Cognizione colla Rappresen tazione. =
SENSIBILITÀ. (IV) Nota. Qui hanno luogo i Sensi esterni ed il Senso interno.
65) Combinazione della Cognizione colla Coscienza. = INTELLETTO. (V) Nota. Qui
hanno luogo l'Intelligenza, il Giudizio e la Ragione condizionale ( quella che
si trova incarnata nel. l'organismo fisico ossia terrestre dell'uomo) . 64)
Elementi derivati mediati ossia transitivi. = IM MAGINAZIONE, a5) Transizione
dalla Sensibilità all'Intelletto . = IM MAGINAZIONE RIPRODUTTIVA. (VI) Nota.
—Qui hanno luogo la Memoria e la Previsione. 65) Transizione dall'Intelletto
alla Sensibilità . = IM MAGINAZIONE PRODUTTIVA . (VII) Nota. — Qui hanno luogo
la Costruzione e la Fantasia . 62) Parte sistematica. = FACOLTÀ SISTEMATICHE
(in numero di quattro ). a3) Diversità nella riunione sistematica degli
elementi primordiali. a4) Influenza parziale. a5) Influenza della
Rappresentazione nella Coscienza . = SENTIMENTO. ( I) 65) Influenza della
Coscienza nella Rappresenta zione. = COGNIZIONE . (II) b4) Influenza reciproca
di questi elementi primordiali; armonia sistematica tra la Rappresentazione e
la Coscienza per mezzo del loro concorso teleologico alla generazione delle
Cognizioni. = COMPRENSIONE. ( III) NOTA. Qui hanno luogo il Giudizio
teleologico ( per la cognizione dell'ordine ), ed il Gusto estetico ( per la
cogni zione del bello e del sublime) . DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 35 63)
Identità finale nella riunione sistematica dei due ele menti distinti, della
Sensibilità e dell'Intelletto , per mezzo dell'elemento fondamentale ossia
neutro , for mante la Cognizione. = POTENZIALITÀ. (IV) NoTA. - Qui hanno luogo,
nell'aspetto speculativo, ch'è quello della cognizione senza causalità, il
GENIO, e nel l'aspetto pratico, che è quello della cognizione colla cau salità
, la VOLONTÀ. b ) Forma, ossia relazione psicologica. a2) Nella parte
elementare della costituzione psicologica. a3) Per le facoltà primitive. a4)
Per l'elemento fondamentale ; forma della Cogni zione. = ATTENZIONE. 64) Per
gli elementi primordiali : a5) Forma della Rappresentazione. = OBJETTIVITÀ. b5)
Forma della Coscienza. = SUBJETTIVITÀ . 63 ) Per le facoltà organiche : a4)
Immediate o distinte . a5) Forma della Sensibilità. = INTUIZIONE ( An
schauung). 65) Forma dell'Intelletto. = CONCETTO ( Begriff ). 64) Mediate o
transitive. a5) Forma dell'Immaginazione riproduttiva. = IM MAGINE . 65) Forma
dell’Immaginazione produttiva. = SCHEMA. 62) Nella parte sistematica della
costituzione psicologica. a3) Nella diversità sistematica . a4 ) Per l'influenza
parziale degli elementi primordiali. a5) Forma del Sentimento. = APPRENSIONE .
65) Forma della Cognizione. = APPERCEZIONE . 64) Per la loro influenza
reciproca ; forma della Com prensione. = RIFLESSIONE. 63) Nell'identità finale
degli elementi distinti ; forma della Potenzialità . = AZIONE [Thaetigkeit ).
36 TAVOLA GENETICA B) Tecnia o Autogenia ; quello che bisogna fare pel
compimento delle facoltà fisiche ossia create nell'uomo. a ) Nel contenuto
ossia nella costituzione psicologica. a2) Nella parte elementare di questa
costituzione. ' a3) Per gli elementi immediati ossia distinti. al) Compimento
della Sensibilità . = PERFEZIONE ESTE TICA. 64) Compimento dell'Intelletto. =
PERFEZIONE LOGICA . Nota. —I caratteri di questa doppia perfezione, estetica e
logica, sono : l'estensione, la chiarezza, la varietà , la precisione, il
complesso e la certezza . 63) Per gli elementi mediati o transitivi. a4)
Compimento dell'Immaginazione riproduttiva , per la legge d'associazione delle
immagini. = As SIMILAZIONE ( spiritualizzazione delle intuizioni). 64)
Compimento dell'Immaginazione produttiva , per la legge di schematizzazione
delle idee. = MOSTRA ( corporificazione dei concetti ). 62) Nella parte
sistematica di questa stessa costituzione. a3) Per il compimento dell'armonia
prestabilita ( préfor mation primitive] nei due elementi primordiali, nella
Rappresentazione e nella Coscienza ; la quale armonia prestabilita fornisce le
ragioni sufficienti per la desi gnazione reciproca ( facultas signatrix ) dei
concetti per mezzo delle intuizioni, e delle intuizioni per mezzo dei concetti.
= LINGUAGGIO ( in generale). 63) Per il compimento dell'identità primitiva
negli ele menti distinti, nella Sensibilità e nell'Intelletto ; la quale
identità fornisce il compimento della Potenzialità per via d'indefinita
ascensione ai principii, e per mezzo d'indefinita deduzione delle conseguenze,
siccome legge suprema delle umane cognizioni. = RAGIONE INCONDI ZIONALE. 6 )
Nella forma ossia nella relazione psicologica. DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA
37 a2) Nella parte elementare di questa stessa relazione; com pimento delle
facoltà organiche in ordine all'uniformità nella generazione delle cognizioni
umane, siccome regola ossia canone psicologico. = METODO. (DESTINO ). 62) Nella
parte sistematica di questa stessa relazione; com pimento delle facoltà
sistematiche in ordine all'identità finale negli oggetti delle cognizioni
umane, siccome pro blema universale della Psicologia. = IDEE ( trascendenti)
(RAGIONE ASSOLUTA ). II. Facoltà spirituali ed iperfisiche dell'uomo, le quali
ne fanno in condizionatamente un essere razionale , vale a dire un ente
assoluto , indipendente da qualsivoglia condizione. = UOMO IMMORTALE . Nota. -
Questa seconda parte della vera psicologia, da niuno finora avvertita,
appartiene solamente alla filosofia assoluta del Messianismo. Essa non potrebbe
in alcun modo venir raggiunta dall'esperienza, perchè le facoltà che ne formano
l'oggetto sono, non solamente iperfisiche, ma al tresì creatrici, vale a dire
poste fuori del mondo creato , dove si trovano gli oggetti dell'osservazione e
dell'espe rienza. Eccone la genesi assoluta. A) Teoria o Autotesia ; quello che
vha di dato nell'ipostasi dello spirito dell'uomo per poterne ricavare le sue
facoltà iper fisiche ossia creatrici . a) Contenuto ossia costituzione
eleuterica . a2) Parte elementare. = FACOLTÀ CREATRICI ELEMENTARI (in numero di
sette ). a3) Elementi primitivi. = FACOLTÀ PRIMITIVE. a4) Elemento fondamentale
o neutro ; principio ipo statico nell'uomo. = COSCIENZA POTENZIALE . ( I) 64)
Elementi primordiali o polari. a5 ) Coscienza potenziale del Non - 10 . =
ALTERIETÀ . ( II) 65) Coscienza potenziale dell’Io. = IPSEITÀ. ( III) 38 TAVOLA
GENETICA 63) Elementi derivati. = FACOLTÀ ORGANICHE. a4) Elementi derivati immediati
o distinti. a5) Combinazione della Coscienza potenziale coll’Al terietà . =
ETERONOMIA . (IV) 65) Combinazione della Coscienza potenziale con l'Ipseità. =
AUTONOMIA. (V) 64) Elementi derivati mediati o transitivi. a5) Transizione
dall'Eteronomia all'Autonomia . = RELIGIONE RIVELATA . (VI) 65) Transizione
dall'Autonomia all'Eteronomia . = RELIGIONE ASSOLUTA . ( VII) 62) Parte
sistematica . = FACOLTÀ SISTEMATICHE (in numero di quattro ). a3) Diversità
nella riunione sistematica degli elementi primordiali. a4) Influenza parziale.
a5) Influenza parziale dell'Alterietà nell'Ipseità. = ETEROTELIA . ( I) 65)
Influenza parziale dell'Ipseità nell’Alterietà. = AUTOTELIA . ( II) 64)
Influenza reciproca di questi elementi primordiali ; armonia sistematica tra l’Alterietà
e l'Ipseità, per mezzo del loro concorso teleologico alla creazione propria
dell'uomo. = SPIRITO (Geist]. ( III) Nota. Questo è il principio più alto della
filosofia di Hegel ; ma si vede ch'esso non raggiunge il Verbo e nem meno
l'Assoluto, del quale secondo riesce, in certa ma niera, solamente peristilio.
63) Identità finale nella riunione sistematica degli ele menti distinti
dell'Eteronomia e dell'Autonomia per mezzo dell'elemento fondamentale o neutro
, formante la Coscienza potenziale. = ASSOLUTO nella coscienza ossia COSCIENZA
ASSOLUTA . (IV) b) Forma o relazione eleuterica. a2) Nella parte elementare
della costituzione eleuterica. DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 39 a3) Per le
facoltà primitive. a4) Per l'elemento fondamentale ; formadella Coscienza
potenziale. = GENIALITÀ . 64) Per gli elementi primordiali. a5) Forma
dell'Alterietà. = RECETTIVITÀ (nella co scienza ). 65) Forma dell'Ipseità. =
PROPRIETIVITÀ ( nella co scienza ). 63) Per le facoltà organiche : a4)
Immediate o distinte. a5) Forma dell'Eteronomia . = MORALITÀ . 65) Forma
dell’Autonomia. = MESSIANITÀ. 64 ) Mediate o transitive. a5) Forma della
Religione rivelata . = GRAZIA. 65) Forma della Religione assoluta . = MERITO.
62) Nella parte sistematica della costituzione eleuterica. a3) Nella diversità
sistematica. a4) Per l'influenza parziale degli elementi primordiali. a5) Forma
dell'Eterotelia. = DIPENDENZA PROVVI DENZIALE . 65 ) Forma dell'Autotelia. =
INDIPENDENZA UMANA. 64) Per l'influenza reciproca ; forma dello Spirito. =
SPONTANEITÀ. 63) Nell'identità finale degli elementi distinti; forma
dell'Assoluto nella coscienza . = RAZIONALITÀ CREATRICE . B ) Tecnia o
Autogenia ; ciò che bisogna fare pel compimento delle facoltà iperfisiche o
creatrici nell'uomo. a) Nel contenuto o nella costituzione eleuterica. a2)
Nella parte elementare di questa costituzione. a3) Per gli elementi immediati o
distinti. a4) Compimento dell’Eteronomia ; stabilimento proprio, operato
dall'uomo stesso, del suo essere assoluto . = AUTOTESIA . 40 TAVOLA GENETICA
DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 64) Compimento dell'Autonomia ; stabilimento
proprio, operato dall'uomo stesso del suo sapere assoluto . = AUTOGENIA . 63)
Per gli elementi mediati o transitivi. a4) Compimento della Religione rivelata
. = Per mezzo della LEGGE DEL PROGRESSO . 64) Compimento della Religione
assoluta . = Per mezzo della LEGGE DI CREAZIONE . 62) Nella parte sistematica
di questa stessa costituzione. a3) Per il compimento dell'armonia prestabilita
(préfor mation primitive] nei due elementi primordiali, nella Alterietà e
nell'Ipseità ; armonia che fornisce le ra gioni sufficienti per l'esplicazione
della Virtualità creatrice nell'uomo. = VERBO. 63) Per il compimento
dell'identità primitiva nei due elementi distinti, nell'Eteronomia e nell'Autonomia
; identità che fornisce il compimento dell'Assoluto nella coscienza per mezzo
della sua identificazione col Verbo, come legge suprema della creazione propria
dell'ờomo. = ARCIASSOLUTO ossia ciò che è INDICIBILE (nell'ipostasi della
coscienza umana ). b) Nella forma o nella relazione eleuterica. a2) Nella parte
elementare di questa relazione; compimento delle facoltà organiche in ordine
all'uniformità nella pro pria creazione umana, come regola o canone eleuterico
per la liberazione dell'uomo dalle sue condizioni fisiche. = RIGENERAZIONE
SPIRITUALE DELL'UOMO. 62) Nella parte sistematica di questa stessa relazione ;
com pimento delle facoltà sistematiche in ordine all'identità finale nel
risultamento della propria creazione umana, cioè in ordine all'individualità
assoluta dell'uomo, come problema universale di questa parte eleuterica della
Psi cologia. = CREAZIONE PROPRIA DELL'UOMO ( Immortalità ). COMMENTO ALLA
TAVOLA GENETICA DELLA . PSICOLOGIA FISICA ED IPERFISICA DI HOENATO
WRONSKI PARTE PRIMA PSICOLOGIA FISICA Facoltà spirituali e fisiche
dell'uomo, le quali ne fanno condi zionatamente un ESSERE RAZIONALE , vale a
dire un ente creato , soggetto alle condizioni della sua vita presente , ossia
all'organamento terrestre. - UOMO MORTALE . Commento. — In questa prima parte
della Tavola genetica della Filosofia della Psicologia l'Autore tratta
solamente delle facoltà spirituali da lui dette fisiche per ciò ch'esse sono
date immediatamente dalla natura , e si svolgono per necessità della
costituzione naturale dell'uomo, riserbandosi di trattare delle facoltà
iperfisiche nella seconda parte della Tavola stessa . L'Autore dice che le
facoltà fisiche fanno dell'uomo condizio natamente un essere razionale, e
spiega l'avverbio , chiamando l'uomo, in quanto egli è solamente fornito di
tali facoltà, un ente creato soggetto alle condizioni della sua vita presente.
Chiun que non conosca l'ontologia wronskiana, e si trovi solamente iniziato
alla psicologia ancora comunemente coltivata oggidì, avrà motivo d'inarcare le
ciglia udendo queste espressioni ; ma colui il quale sappia che l'Autore
ammette due sorta di creazione, delle quali la prima è opera dell'Ente supremo,
e costituisce, rispetto alla mente umana che la contempla, l'ordine eterono
mico governato dalla necessità, e la seconda è opera dello Spi ſito creato , e
costituisce, rispetto allo spirito stesso , l'ordine autonomico governato dalla
libertà di cui egli è dotato, capirà pure facilmente che l'uomo, quale creatura
di Dio, è essenzial mente eteronomico, e per conseguenza soggetto alle
condizioni 44 PARTE PRIMA dell'organamento terrestre, al quale la sua vita è
vincolata in forza delle leggi necessarie del cosmo ; e quale autore del
proprio svolgimento, egli è essenzialmente autonomico, vale a dire crea tore di
se stesso. Posta questa teoria ontologica, si debbono pure ammettere due ordini
di umane facoltà, fra loro così distinti che non vadano mai fra loro confusi,
sebbene siano fra loro collegati come qualità di un medesimo soggetto, ed il
primo si trovi logi camente e cronologicamente anteriore al secondo, che in
dignità gli è superiore. Laonde, chiamando naturale o fisica l'entità
eteronomica, e soprannaturale od iperfisica l'entità autonomica dell'uomo, si
vengono a caratterizzare benissimo i due ordini di facoltà fra loro così
diversi, che quelle del primo fanno dell'uomo bensì un ente razionale, ma
condizionato, laddove quelle altre del secondo rendono l'uomo stesso ente
razionale incondizionato cioè assoluto. A Teoria o Autotesia. Presso le
colonie greche nell'Italia inferiore, le quali erano per lo più composte di
Dori ed Achei, ebbe luogo molto svolgimento di vita esteriore ed interna ;
imperocchè vennero a rinomanza per le legislazioni di Saleuco e Caronda, per
l'arte orato ria e la poesia lirica , per un'eccellente scuola me dica
stabilita in Crotone, città salita a prospera for tuna , e per molti vincitori
ai giuochi olimpici , che quivi ebbero i natali . $ 65 PITAGORA da Samo, nato
verso il 584, portossi a Crotone e dimorò per lo più nella Magna - Grecia. La
sua vita è oscura e molto favolosa . Egli fu dotto particolarmente in
matematica , musica teoretica, astronomia e ginnastica . Le favole lo dicono
tau maturgo e rivelatore di sapienza divina. Egli deve essere figlio d'Apollo e
d'Ermete, con una gamba d'oro, e fu veduto in più luoghi nello stesso tempo.
Gli animali seguivano la sua chiamata. Da Ermete ebbe il dono della ricordanza
della sua vita ante riore, come Euforbio, e seppe ridestare la medesi PRIMO
PERIODO -- PITAGORICI. 91 ma in altri . Egli sentiva l'armonia delle sfere
celesti , e venne considerato come una divinità . Però è che si parla di un
culto sacro e di orgie pitagoriche. Egli deve aver conosciuto Ferecide e Talete
, ed essere stato educato dai sacerdoti egiziani ; ma da se stesso si procacciò
la maggior parte di sue cogni zioni. Fondò a Crotone una società segreta in cui
si professavano i principii politici dell'aristocrazia : Pri ma che un
individuo venisse accettato in quella do veva subire prove. I membrisi
distinguevano in eso. terici ed essoterici, cioè più e meno iniziati. In tale
società praticavanşi esercizii corporali e spirituali, vita e costumi comuni e
regole, parole simboliche, invocazioni al fondatore (aútòs špa ), banchetti (
ovo oltia ) e funerali ; ma non già comunione di beni. I fini principali della
società erano prima la mo rale religiosa , poi la scienza , particolarmente la
matematica e la musica . La società pitagorica ebbe influenza diretta sugli
interessi politici nelle città di Crotone, Sibari , Metaponto, Locri e Tarento
; ma essendo stata cagione di una guerra, molti Pitago rici perirono e
fors’anche lo stesso Pitagora mori a Metaponto, e dopo morte fu onoratissimo. I
Pita gorici perseguitati e scacciati, conservarono pure influenza politica . A
molti di essi, come Timeo , Archita ed Ocello da Lucania, sono attribuiti
scritti, e le lettere attribuite a Pitagora ed a sua moglie o figlia Teano,
come pure i versi d'oro, sono d'ori gine posteriore. Fra gli ultimi Pitagorici
i migliori sono Filolao ed Archita , e dei primi scritti riman gono ancora
frammenti. 92 FILOSOFIA GRECA S 66 Quantunque la filosofia pitagorica abbia
seguito varie direzioni, pure dobbiamo considerarla nella sua unità . L'esporre
la medesima riesce difficile sia pella diversità delle vedute de'varii
scrittori che le appartengono, sia pei segni simbolici di cui servi vasi quella
scuola per significare le idee ed i varii sensi a cui s'impiegavano. -Come
Ferecide, miti camente esprimendosi, diceva che Erebo aveva dato forma al Caos
e ne venne il Tempo, Pitagora volle la pluralità generata dall'unità , ossia
dal numero. Que sto è l'essenza (ovoia) od il principio (apxn) di tutte le
cose. Il numero è pensato come uno, però anche quale unità di due antitesi ,
del pari e dispari. Onde la monade e la diade sono i principii delle cose . La
diade è il principio della sostanza informe, ossia il numero indeterminato ; la
monade è il principio ordinatore. La sostanza informe viene alla pluralità ed
alla varietà per mezzo dell'unità ; però tutte le cose si fanno ad imitazione
del nu mero, possono considerarsiqualinumeri. Il numero . è il principio
generale tanto della natura , quanto della cognizione. Cosi l'uno è l'essenza
del numero, il numero semplicemente , il fondamento di tutti i numeri, l'unità
suprema, la divinità nel mondo . I Pitagorici dissero triade il numero del
tutto consi derato nell'integrità di principio, mezzo e fine. La tetrattisi è
importante, perchè i primi quattro nu meri formano assieme dieci , ed i primi
quattro PRIMO PERIODO — PITAGORICI. 93 pari e dispari formano trentasei;
parimente im portante è la deca, e vale come l'unità per sim bolo del principio
di tutte le cose. Nell'essenza del numero , ossia nell'unità suprema, si
contengono tutti i numeri , e per conseguenza gli elementi della natura e
dell'universo. Questa teoria si accorda colla divisione dei toni del monocordo
inventato da Pitagora. Dividendo in due parti una corda tesa, la metà produce
l'ottava ; cosi il tono fondamentale della corda intiera sta all'ottava come 2
: 1 , che è la perfetta proporzione musicale. La corda divisa in tre parti dà
2/3 della corda divisa, la quinta che sta al tono fondamentale come 2 : 3 ;
così 3/4 della corda dà la quarta , che sta al tono fondamen tale come 3 : 4.
Questi tre intervalli formavano l'ar monia degli antichi, onde l'importanza dei
segni 1 , 2 , 3 , 4. L'unità suprema è pari- dispari. Gli elementi della natura
sono compresi nelle seguenti dieci antitesi : 1. Limitato , illimitato : 2.
Dispari, pari : 3. Uno , più : 4. Destro , sinistro : 5. Mascolino, femminino:
6. Quiete , moto : 7. Retto , curvo : 8. Luce, tenebra : 9. Buono, cattivo :
10. Quadrato, rettangolo . Tuttavia non furono escluse altre antitesi. L'uno 94
FILOSOFIA GRECA è solo nella terza antitesi, perchè ha due signifi cati , come principio
e come sintesi di tutte le an titesi . Nelle antitesi il primomembro significa
sem pre il più perfetto, in quanto che tutto nel mondo risulta dal perfetto e
dall'imperfetto. L'uno essendo il fondamento di tutti i numeri, perchè è pari e
dispari nello stesso tempo , non solamente è il principio del perfetto, ma
anche dell'imperfetto. Il perfetto , ossia il buono, non è dunque primamente,
ma coesiste all'imperfetto nell'uno come diade ; perciò avviene in prima che
l'uno forma il mondo, ossia quanto è possibile ; imperocchè l'efficacia di Dio
è limitata, ed ogni cosa recà al meglio solamente secondo sua potenza. Ma
perchè i Pitagorici non prendono l'antitesi per fondamento delle cose, bensi il
numero ossia il pari- dispari come dispari e pari? Nella tavola si presentano
il limite, ossia il limitanté, ed il limitato . Il limitante è secondo loro,
rispetto ai corpi , una pluralità di punti che formano un numero. L'illimitato
significa il mezzo tra il limite, ossia lo spazio di mezzo ; la quale espressione
aveva grande significato nella musica e geometria loro . Dagli spazii musicali
mezzani , ossia intervalli, essi derivavano l'accordo de'varii toni. I punti di
limite costituendo il principio e la fine, l'illimitato è nel mezzo e produce
l'espansione, e precisamente la geometria secondo le tre misure. Il cubo è pro
dotto da tre intervalli , la superficie da due , la linea da un solo ; il punto
non ha intervallo , è l'u nità . Dal limite e dall'illimitato , ossia dalle
unità e dagli intervalli , viene la grandezza dello spazio . PRIMO PERIODO
-PITAGORICI . 95 Ma d'onde lo spazio mezzano ? Il secondo membro delle loro
antitesi è il negativo ; perciò l'illimitato, o lo spazio mezzano , è il vacuo.
La separazione delle unità , ossia numeri , avviene per mezzo del vacuo ;
questo è dunque principio e solamente un'altra espressione dell'illimitato o
pari , perchè tutti i membri posteriori delle antitesi possono es sere mutati,
e cosi anche i membri anteriori. Qual fu l'opinione dei Pitagorici intorno
l'origine del mondo ? Le cose provengono dalle unità in diversi spazii mezzani
, esse formano un numero di unità , ed in ciò consiste la loro natura e la loro
origine, non 'secondo il tempo , ma secondo la maniera umana di pensare.
L'unità suprema come circon data dall'infinito , ossia dal vacuo, si sforza di
di vidersi in antitesi e di ricongiungersi di nuovo. L’uno si divide in una
pluralità di cose per mezzo dello spazio vacuo, perció l'illimitato si partisce
in più parti affinchè entri nel limitante. Il vero essere ha dunque il suo
fondamento nel limite . L'entrare dell'illimitato nel limitato vien detto
l'alito ossia la vita del mondo . Perciò bisogna prendere il mondo come numero
, come unità, le quali sono congiunte in Dio, che è l'unità primitiva , e
separate dallo spazio mezzano . Dalla composizione delle unità provengono
diverse relazioni, che sono ordinate armonicamente e con simmetria . Il legame
di ogni relazione è l'armonia . Ora l'unione delle antitesi trovandosi
nell'unità suprema, essa è il principio dell'armonia e l'universo numero ed
armonia, ed anche l'armonia è di bel nuovo il principio dell'u 96 FILOSOFIA
GRECA nità di tutte le cose . Ma nell'armonia è pur anco compreso il concetto
di ordine. Avuto riguardo all' importanza della deca , adottavano dieci corpi
mondani che si trovano in armoniche distanze. Rispetto ai sette toni, dal tono
fondamentale all'ot tava adottavano sette -vocali. La monade è il punto, la
diade la linea , la triade la superficie , la tetrat tisi il corpo geometrico,
la pentattisi i corpi fisici. In questo modo arbitrario continuavano essi a
porre cinque elementi, e dicevano paragonando : Il cubo significa la terra, la
piramide il fuoco, l'ottaedro l'aria, l'icosaedro l'acqua, ed il dodecaedro
l'etere come quinto elemento . Il migliore di questi ele menti è il fuoco ,
probabilmente perchè fra le dieci antitesi la luce e l'inerte significano il
perfetto. Il fuoco riposa nel mezzo del mondo ed è la guardia ο castello di
Giove ( Διός φυλακή .Ζηνός πύργος) , ha la forma di un cubo, perché questo,
essendo consi derato il corpo più perfetto a cagione dei tre inter valli
simili, secondo i Pitagorici era l'altare dell'u niverso ; il qual fuoco si
forma prima da sè e guida poi la formazione del mondo. Dal mezzo il fuoco si
spande per tutto l'universoe lo abbraccia . Attorno al fuoco centrale sono
ordinati i dieci corpi mon dani, cioè il cielo delle stelle fisse, i cinque
pianeti, il sole, la luna , la terra e la controterra ( artiyJabí), il quale
ultimo corpo è invisibile. Essi si vibrano in direzione circolare, ad eccezione
della terra im mobile nel mezzo ( probabilmente con la contro terra ), e la
quale contiene il fuoco ; perchè anche il mondo intiero corrispondente alla
deca è una PRIMO PERIODO PITAGORICI. 97 palla : onde l'armonia delle sfere,
perchè ogni corpo vibrandosi rende un tono. Tuttavia noi non sentiamo
quell'armonia, giacchè appartiene alla nostra so stanza , e come ogni tono si
può solo sentire pel contrapposto del silenzio , l'armonia delle sfere è senza
pausa . I corpi circolanti sono otto solamente , e questi sono ordinati in
quattro intervalli e sette toni , talchè la sfera delle stelle fissé ha il tono
più basso , quello della luna il più alto . L'imperfezione è particolarınente
sulla terra ; però la luna e gli altri mondi sono più perfetti e più belli.
Sulla terra ba luogo il cangiamento disordinato ed in appa renza molto fortuito
; essa stessa è soggetta all'in stabilità . S 67 Si annodano ai numeri anche i
concetti di per fezione e d'imperfezione in senso morale. La diade è principalmente
il simbolo dell'immorale . L'anima dell'uomo è parimenti un numero od armonia ,
l'intelletto o pensiero è l'uno , la scienza il due , l'immaginazione il tre ,
il sentimento il quattro. L'anima è inserita nel corpo pel número e relazione
armonica del corpo , perciò non è corporea , ma solo apparente in una relazione
corporale . Vi sono anche anime prive di corpo che hanno vita di fan tasma , e
le quali non sono mai entrate in alcun corpo o di nuovo ne sono uscite ; queste
sono i de moni . A questo si riferisce la dottrina esoterica della metempsicosi
e la fede nella ricompensa dopo H 98 FILOSOFIA GRECA morte, a cui conseguita la
personalità e l'immor talità dell'anima. L'unione dell'anima con un corpo è la
pena di qualche empietà ; la vita terrena è uno stato d'infelicità , ma
necessario ed ordinato al buo no per mezzo dell'unione col tutto . L'anima
umana possiede l'essenza ragionevole e l'essenza irragio nevole, quella delle
bestie solamente la seconda , però ha qualche germe d'intelligenza . La virtù è
armonia, la giustizia è detta anche numero uguale. Tutta la vita è sotto la
cura divina : il suicidio è da condannarsi. Pare che la morale e la politica
dei Pitagorici si appoggiasse a massime separate di ca rattere ascetico ; essi
inculcavano la moderazione nei desiderii e nelle passioni, la fedeltà, l'amore,
l'amicizia, il lavoro , la costanza e l'educazione ri gorosa. – Cosi la
dottrina pitagorica è in parte etica , rappresentata dall'armonia e dalla
musica, in parte fisica per la matematica , pei fenomeni fisici derivanti dalla
forma della sensibilità ; la quale si ricava da ciò che l'unità del principio
si risolve in una pluralità di cose. La presupposizione della ori ginale
imperfezione deve unire ambe queste parti . L'unità suprema è semplice, ma
considerata nella sua attività, nello sviluppo mondano della sensibi lità è
composta ; il soprasensibile ossia l'unità su prema è indeterminato . In ciò
sta riposta senza dubbio l'idea di Dio come creatore del mondo, ma è offuscata
dal modo forzato con cui si presenta all'uopo di spiegare l'origine del mondo,
la natura delle cose singolari e la loro connessione, e dalla nozione simbolica
e particolarmente matematica PRIMO PERIODO -PITAGORICI 99
della provvidenza divina . Onde l'applicazione di questa dottrina alla
parte spirituale è difficilissima. Pertanto la dottrina pitagorica è nell'etica
tanto difettosa , quanto pare siano stati eccellenti i parti giani di essa
nell'esercizio della virtù . I
lonii e Pitagorici tentarono spiegare l'origine del mondo ; essi ammettendo la
produzione delle cose riuscirono realisti . Per l'opposto gli Eleati sono
idealisti, tendono alla cognizione del non -sensibile ed affermano : Nulla
viene all'essere, tutto esiste. Il nome loro proviene dalla città d'Elea nella
Magna Grecia , dov'era la sede principale di questa scuola filosofica . S 69
SENOFANE da Colofone, sede della poesia epica e gnomica , contemporaneo di
Pitagora, si portò verso il 536 ad Elea nella Magna Grecia, e fu prima poeta
epico ed elegiaco. Rimangono solo frammenti delle sue opere . La sua tesi
fondamentale è questa : Dio è, e non può divenire; come pure in generale nis
100 FILOSOFIA GRECA suna cosa può cominciare ad esistere ; imperocchè il
generato dovrebbe essere uguale al generante , epperò ambi non sarebbero fra
loro differenti; ma l'ineguaglianza, come per esempio , che il più pic colo
nasca dal più grande e vi ritorni , si deve attri buire all'opinione
insussistente che alcuna cosa non esistente possa venir prodotta da ciò che
esiste. Per ciò vi ha solamente l'uno, e questi è Dio , il quale forma col
cielo e la terra un essere solo , unico (in TÒ öv xai tò Tây) . Per conseguenza
il politeismo o la mitologia parvegli un'empietà, particolarmente i miti
immorali . Sostenne contro le scuole jonica e pitagorica che Dio non è mosso e
limitato , nè inerte ed illimitato, perchè le prime limitazioni sono pro prie
della pluralità , le altre appartengono al non esistente. Dio è perfettamente
uguale perchè non ha parti; considerato spiritualmente è pura intelli genza,
considerato corporalmente è da paragonarsi ad un globo. Secondo tali principii
era impossibile una spiegazione della natura . Cosi egli oppose alla verità
l'opinione, ossia l'intuizione sensibile ; ep però non seppe trovare il nesso
tra l'unità e la pluralità. Per la qual cosa si duole che l'ignoranza sia
retaggio dell'umana schiatta. Senofane è pan teista ; ma importante il suo
pensiero dell'essere assoluto . S 70 PARMENIDE da Elea fece verso l'anno 460
con Zeno ne un viaggio ad Atene, dove forse conobbe Socrate . PRIMO PERIODO 101
. ELEATI . Egli sviluppò il sistema di Senofane ; tuttavia non prese le mosse
dal concetto di Dio , ma da quello dell'essere e del non -essere, della
certezza e dell'o pinione, riconducendosi poi all'idea di Dio siccome quella
che è riposta nell'esistente . Secondo lui v'ha un doppio sistema di conoscenza
, quello della ra gione ossia del vero , e quello dei sensi ossia del
l'apparenza . Il suo poema sulla natura trattava di ambe le maniere, ma dai
frammenti che pervennero a noi conosciamo la prima meglio della seconda. Es
sere , pensare e conoscere è tutt'uno. Il non-essere è impossibile, tutto
l'essere è identico ; perciò il reale non lią cominciamento, è invariabile,
indivisibile, riempie tutto lo spazio, da se stesso si limita, sussi ste per
legge di necessità : onde qualunque cangia mento, qualunque movimento è mera
apparenza . Ciò non ostante la stessa apparenza è regolata da una legge, per
cui le rappresentazioni delle cose sono costanti ( 80% a ). A fine di spiegare
la natura di tali rappresentazioni ricorre a due principii , il caldo, ossia il
fuoco etereo , il freddo ossia la notte della terra ; il primo è penetrante,
positivo , reale , pensante ( Saucoupyós), epperò più vicino alla verità; il
secondo è denso , pesante (@an) , negativo, sola mente una limitazione del
primo . Questa dottrina della natura è meccanica . Da tali due principii de
rivò egli tutti i cangiamenti ed anche i fenomeni del senso interno. L'uomo è
un composto di fuoco etereo e di notte, per conseguenza partecipa alla
cognizione della verità ed all'apparenza . : 102 FILOSOFIA GRECA $ 71 MELISSO
da Samo, verso l'anno 444, celebre an che come politico e capitano di flotta
contro Pericle, adottò lo stesso idealismo, e prese a combattere particolarmente
la filosofia naturale della scuola ionica. Non si deve far parola degli dei,
perchè gli uomini non hanno cognizione alcuna di tali enti. Presso Melisso
ritorna il concetto di perfezione. Ciò che esiste è infinito, non è prodotto ,
nè può perire. Non v'ha movimento o trasformazione, perché avvi un essere solo
e nissun vacuo; epperò non si danno la porosità e la densità . L'esistente non
può essere diviso, cosi non ha parti , non è corporeo . La plu ralità è sola
apparenza sensibile. Quello che in ve rità esiste è dotato di vita . $ .72
ZENONE d'Elea , discepolo ed amico di Parmenide, fece con questo un viaggio ad
Atene e si distinse tanto per acume d'intelletto e sottile dialettica , quanto
per fortezza d'animo, avendo sacrificata in battaglia la propria vita a difesa
della patria . Egli sostene va il sistema di Parmenide in ciò che nega la plu
ralità delle cose, il movimento e lo spazio. Data la pluralità delle cose , ne
dovrebbe conseguitare che nello stesso tempo fossero infinitamente piccole ed
infinitamente grandi; la prima condizione perchè risultano di ultime unità
indivisibili, il cui aggre PRIMO PERIODO - ELEATI. 103 zo . gato non può
produrre grandezza ; la seconda con dizione perchè risultano da una quantità
infinita di parti sempre più estese e per conseguenza divisi bili. Qui il
sofisma consiste in ciò, che nel primo caso suppone l'indivisibilità , nel
secondo la rigetta. In seguito diceva : la pluralità è ad un tempo limitata ed
illimitata ; limitata perchè più o meno determinata , illimitata perchè ogni
distanza da un punto di una grandezza fino all'altro è infinito , avuto
riguardo all'infinita quantità di parti di mez Egli contestava il movimento per
le contrad dizioni inerenti a questo concetto ; imperocchè bi sogna che lo
spazio misuratore , il quale consta di parti infinite , venga percorso in un
intervallo limi tato . Onde l'argomento detto l'Achille, con cui af fermava che
se una testuggine avesse il vantaggio d'un passo avanti, non potrebbe essere
raggiunta da Achille, perchè la distanza non cesserebbe mai appieno, quantunque
si facesse sempre più breve. Diceva poi che non dovevasi accettare la dottrina
del movimento , risultando da semplici momenti di quiete, in quanto ciò che si
muove perpetuamente si sviluppa in qualche parte . Lo spazio vacuo è ines
cogitabile, appunto perché la pluralità ed il mo vimento non sono pensabili.
Che se fosse alcun che reale , esso dovrebbe trovarsi in uno spazio , giac chè
ogni realità è compresa in quello, epperò una continuazione senza fine dovrebbe
trovare luogo in uno spazio che la contenesse. Queste prove apago giche,
appoggiate all'assurdità dell'opinione con traria , sono sofistiche per lo
scambio delle forme 104 FILOSOFIA GRECA rappresentative logico -matematiche di
valore su biettivo e delle forme razionali di valore obiettivo. Nell'Achille si
trova una falsa applicazione della ce lerità all'espansione, ossia del tempo
allo spazio. Per mezzo dell'antitesi della ragione e dell'espe rienza Zenone
pose le fondamenta della dialettica e dello scetticismo , che ben presto venne
continuato dalla scuola di Megara e finalmente corruppe tutta la filosofia
greca . $ 75 EMPEDOCLE d'Agrigento in Sicilia , verso l'anno 460, naturalista,
medico, celebre come taumaturgo, perfezionò la fisica degli Eleati, siccome Zenone
la metafisica . L'unità delle cose è il mondo, simile ad un globo, ragione per
cui lo chiama opalpos, opera perfetta dell'amore, da lui governata, a lui iden
tica. La materia e la forza non si decompongono. L'amore irradiandosi dal
centro penetra tutto ed è ad un tempo necessità : dipende da tutto pel con
trasto delle forze . Essendo l'uomo solamente una parte della divinità , la
cognizione umana non può essere che imperfetta ,''e quantunque conosca gli
elementi del tutto , non può penetrarne l'unità , che Dio solo può comprendere.
Egli distingue dalla mas sa la forza movente . Le forze solamente movono, ma
non variano le cose ; però questa dottrina della natura è meccanica . Egli è
impossibile che il nulla produca alcuna cosa , e che venga a mancare ciò che
esiste . Egli ammette quattro elementi, fra i PRIMO PERIODO - ELEATI. 105 quali
dà preferenza al fuoco, considerandolo come l'essenza divina delle cose ;
imperocchè tutto si ri cava dal fuoco ed in esso tutto si risolve. La sepa
razione avviene per odio , ma senza che riman gano intervalli vacui. L'amore
congiunge le cose eterogenee , l'odio le omogenee, operando la sepa razione del
composto. Vi sono periodi nella for mazione del mondo. Ma il mondo mosso è sola
mente una parte del tutto , il dominio dell'odio solo sottordinato, ed anche
solo presente nella rappre sentazione. Prima si formano le cose elementari, il
sole, l'aria, il mare, la terra, poi da questi pro vengono le organiche per
mezzo dell'amore ; le piante e gli animali si formano dal concorso degli
elementi, ma in principio le membra esistendo se paratamente hanno prima luogo
i mostri. La na tura organica essendo formata dall'amore è il pas. saggio alla
vita beata nello sfero. Gli spiriti sono trasmigrati in corpi per delitto ,
epperò sono neces sarie le purificazioni. Tutto è ripieno di ragione e
partecipa alla conoscenza. Gli elementi non godono di vita pacifica, essendo
svelti dallo sfero, mossi dall'odio, epperciò ricevono diverse forme senza
propria metempsicosi. Tale migrazione per tutte le forme è la miseria delle
cose , conseguenza dell’o dio . Rimedio contrario è l'intiero abbandono all'a
more. Non v'ha guarentigia d'intelletto se ci diamo alla vita sensuale. La
cognizione de' corpi ha per fondamento l'osservazione sensibile , ed è opera
dell'unione meccanica de'corpi per mezzo dei tras corrimenti á toppolai) e
delle correnti che pene 106 FILOSOFIA GRECA trano in altri corpi per via
de'pori (xotha ). L'unione delle impressioni sensibili nella coscienza,
spiegasi col congiungersi del sangae nel cuore . Questa co gnizione procura
l'opinione, ma non il vero sapere. La cognizione divina è somministrata dalla
ragione ed avviene in maniera mistica per mezzo della pu rificazione. — La
filosofia di Empedocle è il primo tenue saggio per rettificare le nozioni
sensibili coi puri concetti della ragione, e disgiungere dai feno meni fisici
la cognizione del vero reale, ossia il fondamento sensibile delle cose. La sua
fisica ha tutti i difetti della spiegazione meccanica della na tura . Anch'egli
si duole della ristrettezza dell'uma no intendimento. Si racconta che incontrò
la morte nel cratere dell'Etna . Empedocle aveva scritto un poena didattico
sulla natura, ma non ne perven nero a noi che frammenti. GORGIA da Leonzio , verso l'anno 440, discepolo d’Empedocle,
fu anche maggior dispregiatore di Protagora di quanto è vero e buono. Egli si
portò 112 FILOSOFIA GRECA in Atene in qualità d'ambasciatore , si attirò gli
sguardi per una nuova maniera oratoria , viaggið all'intorno , raccolse molto
danaro dall'insegna mnento e morì in età avanzata. Le sue orazioni sono
meramente pompose, svolte per mezzo di antitesi, epperciò fredde. Egli si
vantava di parlare all'im provviso di tutto , sia brevemente sia a lungo, e di
sapere a tutto rispondere. Il suo insegnamento nel l'arte oratoria consiste in
artifizii, specialmente in paralogismi. Egli sprezzava la virtù, tenendo l'arte
di persuadere per la suprema. In luogo dell'esistente degli Eleati pose il non
- esistente . Egli sosteneva tre tesi : 1 ° egli v'ha niente , nè l'essere nè
il non essere, nè ambi assieme. L'essere non è perchè o non deve aver principio
o deve averlo , od ambi assieme. Se non ha principio è eterno , perciò un non -
essere , è come eterno anche infinito, ma poi dovrebbe essere od in se stesso od
in -un altros ma in se stesso dovrebbe essere ad un tempo contenente e
contenuto, in un altro vi sarebbe un infinito in un altro infinito ; però ambi
i casi sono impossibili. Se ha principio, dev'essere prodotto o dall'esistente
o dal non esistente. Nel primo caso sarebbe contro la presupposizione eterno e
non avrebbe principio , nel secondo dovrebbe il nulla come non esistente,
produrre alcuna cosa . Ma il nulla esistendo, l'es sere dovrebbe essere non
esistente, perchè il nulla e l'essere sono contrapposti . L'essere poi non po
trebbe avere principio e non averlo nello stesso tempo per essere un'antitesi.
Parimenti il non essere non può essere, perchè altrimenti l'essere PRIMO
PERIODO - ATOMISTI E SOFISTI. 113 stesso non potrebbe essere . 2° Quand'anche qual
che cosa fosse, tuttavia non si potrebbe conoscere , perchè non si può pensare
che il pensabile, non il reale che è fuori del pensiero. Vi ha differenza tra
il pensato ed il reale (questa distinzione è vera , maGorgia ne fece
un'applicazione falsa ). 3° Quando anche alcuna cosa fosse pensabile , essa
pero non sarebbe comunicabile, perchè solamente il concetto ed il discorso si
possono comunicare, non già la cosa stessa.- Zenone aveva già adoperato gli ele
menti delle nozioni sensibili per mostrare in esse stesse la loronullità a
frontedella verità puramente razionale ; Gorgia si prevalse degli elementi
della dottrina eleatica intorno alla ragione per annullare l'ultima stessa ,
essendo contraria alla verità delle nozioni sensibili, ed il pensiero potendo
solamente produrre apparenze. $ 80 In tal maniera fini il primo periodo della
filosofia greca. I lonii partirono dalla natura, ossia dalmondo, gli Eleati da
Dio; i primi rifletterono meno alla Di vinità, facendone conto solamente come
dellaforza prima della natura o della vita ; imperocchè per essa solamente
intendevano a spiegare l'origine del mondo o per via dinamica o meccanica ,
finchè Anassagora separò Dio dalla materia , però ad ambi attribuendo pari
originalità e concedendo solo al primo la direzione del mondo. Gli Eleati
rigetta rono cotesto dualismo, ritornarono al monismo, ma 114 FILOSOFIA GRECA
non poterono accordare la perfezione di Dio coll'im perfezione del mondo,
cercando un rifugio col dire che il mondo non è alcuna cosa reale, ma solo ap parente.
Fu questo il grave errore, che sempre più ingrandito aboli finalmente Dio, la
religione e la moralità. Già la scuola ionica aveva lasciato la mo rale in un
canto . Pitagora, il quale trattò l'origine ed il governo del mondo col suo
ingegnoso ma farzato e sterile paragone colla matematica, ebbe riguardo al
morale, però meno in teorica che in pratica. –La filosofia ebbe poi un nuovo
eccita mento della parte morale per - mezzo di Socrate , quantunque egli non
abbia seguito la direzione scientifica , ma solo la pratica e religiosa. A ciò
conseguitarono i sublimi saggi di Platone e d'Aristo tele per investigare la
natura, Dio e la moralità ; ma anche questi uomini dovettero soccombere al
grande incarico, per quanto inspirato sembrasse il primo e circospetto il
secondo . Finalmente la scuola epicurea prese, come gli Atomisti e Sofisti sul
finire del primo periodo , a proteggere la sensualità e l'ateismo. Per opera
degli Scettici prese a domi nare il dubbio ; si cercò invano di risolvere il
pro blema dell'unione della materia e dello spirito , dell'intuizione e del
pensiero , e bisogno gettarsi nelle braccia del teosofismo: Così terminava la
fi losofia greca , avendola dal principio alla fine ac compagnata il dubbio e
la tristezza. Il Cristiane simo salvo poiil mondo dalla corruzione
intellettuale e morale. I Romani non ebbero mente filosofica . Essi ac colsero la
filosofia greca , particolarmente l'epicu rea, che rispondeva al loro lusso, e
Tito LUCREZIO TERZO PERIODO -ECLETTICI E SINCREBISTI. 177 ne fece soggetto di
un poema didattico , cui diede l'antico titolo : Della natura delle cose ;
anche più famigliare si resero la dottrina stoica , che accor dandosi
all'antico carattere romano, esercitò in fluenza sulla loro legislazione ed
amministrazione, e trovò ancora rinomati partigiani al tempo del l'impero ,
cioè Lucio ANNEO SENECA , maestro di Nerone, autore di molti scritti
filosofici, EPITTETO da Terapoli in Frigia , verso lo stesso tempo, schia vo ,
il cui discepolo FLAVIO ARRIANO da Nicomedia compilò in greco un piccolo
manuale ( éyxezpidcov) secondo le lezioni del maestro, e MARCO AURELIÓ ANTONINO
, imperatore romano dall'anno 164 fino al 180, autore di meditazioni in lingua
greca sotto il titolo : Eis éautóv. Seneca fu più eclettico , Epit teto si attenne
ai voti della natura e ridusse la dottrina stoica alla formola ανέχον και
απέχου , 81 stine et abstine. Lo scritto di Antonino ha carattere di dolcezza e
pietà ; tutti e tre abbracciarono sola mente la parte etica della filosofia
stoica . Che se questi Epicurei e Stoici romani si mantennero fedeli ad un solo
sistema , MARCO TULLIO CICERONE diede esempio di un compiuto eclettismo, e
tanto egli contribui co'suoi numerosi scritti a rendere acces sibile ai Romani
la filosofia greca , quanto gli mancò originalità filosofica . Nella pratica
preferi il sistema stoico, nella teoretica l'accademico, accettandovi anche
l'epicureo e l'aristotelico . In generale poi le dottrine di Platone ed ancora
più quelle di Aristo tele rimasero pei Romani tesori nascosti. Francesco Bertinaria. Keywords. Refs.: determinazione
dell’assoluto. Luigi Speranza, “Grice e Bertinaria” – The Swimming-Pool
Library.
Berto (Venezia).
Filosofo. Grice: “I like Berto, but then, my first unpublication is on negation
and privation! Against my tutee, Sir Peter, I always took Aristotle’s tertium
non datur pretty seriously, but the consequentia mirabilis I had to re-label
implicature; for, as Tertulliano used to say, ‘Just because it is deaf
(ab-surdum), I believe it!” -- Grice:
“If Peirce (I lectured on him for years, and deem him my friend) is right that
‘dictum,’ in Roman, is cognate with Hellenic ‘deixis,’ Boezio was too hasty to
translate ‘anti-phasis’ as ‘contra-dictio,’ for ‘phrasis’ is indeed Hare’s
phrastic, while the dictio can be just a signal – as a spoon casting the shadow
of a fork, to use Berto’s genial example!” – Grice: “Berto likes to pose the
thing as an x-rhetorical question: che cosa e una contradizione, --
implicaturum: ‘if anything AT ALL!” – “He is friends with Priest, so what can
you expect!? J).
Francesco Berto (Venezia), filosofo. Laureatosi a Venezia con una tesi su
Emanuele Severino, ha conseguito il dottorato presso la stessa università con
una tesi sulla dialettica hegeliana. Dopo aver conseguito un post-doc in
Filosofia teoretica all'Università degli Studi di Padova è stato Chaire
d'Excellence Fellow al CNRS di Parigi, dove ha insegnato Ontologia all'École
Normale Supérieure ed è stato membro dell'Istituto di Filosofia della Scienza e
della Tecnica della Sorbona. È stato Research Fellow all'Institute for Advanced
Study della University of Notre Dame (Indiana, USA). Ha insegnato Logica anche
all'Università Ca' Foscari di Venezia e all'Università Vita-Salute San
Raffaele. È stato Structural Chair of Metaphysics alla Universiteit van
Amsterdam e membro del Northern Institute of Philosophy di Crispin Wright alla
University of Aberdeen. Attualmente tiene la Chair of Logic and Metaphysics al
dipartimento di Filosofia dell'University of St Andrews ed è Research Chair
all'Institute for Logic, Language and Computation alla Universiteit van
Amsterdam. Nel 2007 ha vinto il Premio
Filosofico Castiglioncello, nella sezione giovani, con il libro Teorie
dell'assurdo. I rivali del Principio di Non-Contraddizione. Nel
l'Università Ca' Foscari di Venezia gli ha assegnato il Premio
Ca'Foscari alla Ricerca di 10.000 euro per giovani ricercatori. Nel ha
ottenuto dall'AHRCResearch Council di Gran Bretagna un finanziamento di 240.000
sterline per il progetto "The Metaphysical Basis of Logic". Nel ha
ottenuto dall'European Research Council un finanziamento di 2.000.000 di euro
per il progetto "The Logic of Conceivability". Altre opere: “Logica” (Roma, Carocci); “Che
cos'è una contraddizione” (Roma, Carocci); “L'esistenza non è logica: dal
quadrato rotondo ai mondi impossibili” (Roma-Bari, Laterza); “Tutti pazzi per
Gödel. La guida completa al Teorema di Incompletezza” (Roma-Bari, Laterza);
“Logica da Zero a Gödel” (Roma-Bari, Laterza); “Teorie dell'Assurdo. I rivali
del Principio di Non-Contraddizione” (Roma, Carocci); “Che cos'è la dialettica
hegeliana? Un'interpretazione analitica del metodo” (Padova, Il Poligrafo); “La
Dialettica della struttura originaria, Padova, Il Poligrafo). “Il Pensiero”;
“Sistemi intelligenti”; “Iride”, “Rivista di estetica”, “Divus Thomas” “Il
Giornale di metafisica. Comune
RosignanoLivorno, su comune.rosignano.livorno. 3 febbraio 19 luglio ).
Università Ca'Foscari di Venezia, su unive. 23 aprile 20 luglio ).
Aberdeen Amsterdam Archiviato il
12 febbraio in . Aberdeen Archiviato il 9 settembre in .
PhilPapers.org Stanford
Encyclopedia of Philosophy: Dialetheism, su plato.stanford.edu. Stanford
Encyclopedia of Philosophy: Impossible Worlds, su plato.stanford.edu. Stanford
Encyclopedia of Philosophy: Cellular Automata, su plato.stanford.edu. 23
aprile 23 aprile ).Filosofia Filosofo
del XXI secoloLogici italianiAccademici italiani Professore1973 10 luglio
VeneziaProfessori dell'Università Ca' FoscariProfessori dell'AmsterdamStudenti
dell'Università Ca' Foscari Venezia. Francesco Berto. Keywords: il quadrato
redondo, incompletezza goedeliana, Grice’s System Q, Myro’s System G,
Speranza’s System GHP, R. J. Jones’s System C., dialettica, contradizzione,
negazione, quadratto di opposizione, Hegel e l’opposizione, Hegel e la
contradizione, che e inompleto secondo Godel? Sistema G incompieto,
incopetiezza, Bellorofonte in sistema G, Parmenide, neo-Parmenide, Severino
come neo-Parmenidiano, circolo quadrato, la quadratura del circolo, calcolo di
predicate di primo ordine con identita, la struttura originaria della
dialettica, dialettica, posizione, contraposizione, composizione – Oxonian
dialectic, dialettica hegeliana, severino, dialettica oxoniense, dialettica
ateniense. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Berto” – The Swimming-Pool
Library.
Betti (Camerino).
Filosofo. Studia a Parma e Bologna (con una tesi sulla Crisi della
repubblica e la genesi del principato in Roma). Insegna per un anno
Lettere al Liceo classico di Camerino e nel 1915 vince il concorso per la
libera docenza presso l'Università di Parma. Trascorre lunghi periodi di studio
all'estero, grazie a diverse borse di studio, nelle più prestigiose università
europee (Marburgo, Friburgo e altre). Nel 1917 diviene professore
ordinario all'Università degli Studi di Camerino. In seguito insegna diritto
nelle Università degli Studi di Macerata (1918-1922), Pavia (1920), Messina
(1922-1925, dove ha tra i suoi allievi Giorgio La Pira e Tullio Segrè), Parma
(1925-1926), Firenze (1925-1927), Milano (1928-1947), Roma (1947-1960).
Come Gastprofessor e visiting professor svolge corsi nelle Università di
Francoforte sul Meno, Bonn, Gießen, Colonia, Marburgo, Amburgo, Il Cairo,
Alessandria d'Egitto, Porto Alegre, Caracas. Betti è stato uno dei più
importanti giuristi italiani di tutti i tempi e fu tra i principali artefici
del codice civile italiano del 1942 tuttora vigente. Collocato fuori ruolo
1960, emerito dal 1965, è chiamato a insegnare ius romanum alla Pontificia
Università Lateranense. Nel corso della sua attività accademica ha
coperto tutti i rami del diritto, in particolare il diritto romano, civile,
commerciale e processuale[2]. Nel 1955 ha fondato presso le Università di Roma
e di Camerino l'Istituto di Teoria dell'interpretazione. È stato socio
corrispondente dell'Accademia dei Lincei e dottore honoris causa delle
Università di Marburgo, Porto Alegre e Caracas. Per il suo sostegno
intellettuale al fascismo fin dal 1919, alla Liberazione fu messo agli arresti
nel 1944 a Camerino e imprigionato per circa un mese per decisione del CLN[3].
Nell'agosto del 1945 fu sospeso dall'insegnamento e sottoposto a giudizio di
epurazione. Il procedimento lo prosciolse da ogni imputazione. Produzione
scientifica Le sue scelte politiche comunque non hanno compromesso il pregio e
l'importanza delle sue opere. Le sue opere principali sono: Teoria generale del
negozio giuridico, Teoria generale delle obbligazioni, Teoria generale della
interpretazione. Fin dal 1939 fece parte delle commissioni ministeriali
che hanno redatto il codice civile del 1942. L'influenza di Betti fu
determinante nella soluzione, adottata dal guardasigilli Dino Grandi,
dell'abbandono del progetto italo-francese delle obbligazioni e dei contratti
del 1927, che negli intenti originari del piano per la nuova codificazione
avrebbe dovuto costituire l'attuale quarto libro del codice civile. Altre
opere: “Sulla opposizione dell'exceptio sull'actio e sulla concorrenza tra
loro”; “La vindicatio romana primitiva e il suo svolgimento storico nel diritto
privato e nel processo”; “L'antitesi storica tra iudicare (pronuntiatio) e
damnare (condemnatio) nello svolgimento del processo romano”; “Studii sulla
litis aestimatio del processo civile romano”; “Sul valore dogmatico della
categoria contahere in giuristi proculiani e sabiniani”; “La restaurazione
sullana e il suo esito: contributo allo studio della crisi della costituzione
repubblicana in Roma”; “La struttura dell'obbligazione romana e il problema
della sua genesi”; “Il concetto dell’obbligazione costruito dal punto di vista
dell'azione”; “Trattato dei limiti soggettivi della cosa giudicata in diritto
romano”; “La tradizione nel diritto romano classico e giustinianeo”; “Esercitazioni
romanistiche su casi pratici”, “Anormalità del negozio giuridico”; “Diritto
romano”; “Diritto processuale civile italiano”; “Teoria generale del negozio
giuridico”; “Interpretazione della legge e degli atti giuridici: teoria
generale e dogmatica”; “Teoria generale delle obbligazioni”; “Teoria generale
della interpretazione”; “Teoria delle obbligazioni in diritto romano”; “L'ermeneutica
come metodica generale delle scienze dello spirito” (Città Nuova, Roma); “Attualità
di una teoria generale dell'interpretazione”; “La crisi della repubblica e la
genesi del principato in Roma”. Note ^ La sua dottrina ha costituito oggetto di
studio approfondito da parte di Tonino Griffero. ^ Crifò Giuliano, Maestri del
Novecento : Emilio Betti : il ruolo del giurista, Milano : Franco Angeli,
Ritorno al diritto : i valori della convivenza. Fascicolo 7, 2008. ^
Sull'intervento a suo favore di Giuseppe Ferri, v. S. Truzzi, Stefano Rodotà,
l’autobiografia in un’intervista: formazione, diritti, giornali, impegno civile
e politica, Il Fatto quotidiano, 24 giugno 2017. Bibliografia Crifò, Giuliano
(1978). Emilio Betti. Note per una ricerca, in Quaderni fiorentini per la
storia del pensiero giuridico, 7, 1978, pp. 165-292. Ciocchetti, Mario (1998).
Emilio Betti, Giureconsulto e umanista. Belforte del Chienti. Brutti, Massimo
(2015). Emilio Betti e l'incontro con il fascismo. Roma Tre-Press. Voci
correlate Filosofia del diritto Ermeneutica giuridica Collegamenti esterni
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· BAV (EN) 495/99257 · WorldCat Identities (EN) lccn-n79113001 Biografie
Portale Biografie Diritto Portale Diritto Categorie: Giuristi italiani del XX
secoloStorici italiani del XX secoloAccademici italiani del XX secoloNati nel
1890Morti nel 1968Nati il 20 agostoMorti l'11 agostoNati a CamerinoAccademici
dei LinceiProfessori della Sapienza - Università di RomaProfessori
dell'Università degli Studi di CamerinoProfessori dell'Università degli Studi
di FirenzeProfessori dell'Università degli Studi di MacerataProfessori
dell'Università degli Studi di MessinaProfessori dell'Università degli Studi di
MilanoProfessori dell'Università degli Studi di ParmaProfessori dell'Università
degli Studi di PaviaProfessori dell'Università di MarburgoProfessori
dell'Università di ViennaStudiosi di diritto romanoStudenti dell'Università
degli Studi di ParmaStudenti dell'Università di BolognaStudenti dell'Università
di FriburgoStudenti dell'Università di MarburgoStudiosi di diritto civile del
XX secoloStudiosi di diritto commercialeStudiosi di diritto processuale civile
del XX secolo[altre] Emilio Betti. Keywords: auslegung, auslegungslehre, storia
della repubblica romana, diritto romano, exception, action, vindication,
dirittop rivato, iudicare, pronuntiatio, damnare, condemnation, processor
omano, litis aestimatio, processo civile, contaheer, giurista proculiano,
giurista sabiniano, restauraziones ullana, constitutziane rpeubblicana,
obbligazioner omana, cosa giudicata, diritto romanoc lassico, diritto romano
guistinaneo, diritto processuale civile, negozio giuridico, interpretazione, genesi
del principato, lingua romana, lingua latina, base etnica della antica Roma, i
latini, l’eta monarchica, il signficato di ‘rex’ (regere, cf. lex, legare),
l’eta repubblicana, res pubica used during l’eta monarchica, Romolo, il primo
re, Tarquino, l’ultimo re, l’eta repubblicana, la stirpe dei patrizi, patrizio,
cepo aristocratico, Caesar dittatore, assassinio di Caesar, il principato,
Augusto, significante ‘consacrato’, ‘Imperator Augusto Ottaviano’, imperio,
imperatore, pater familias, paternalism, diritto consuetudinario, il fuhrer,
l’hero, autorita carismatica, civilita, ius civile, romanita, diritto romano
ostrogotico, diritto romano longobardi, popolo romano, nazione romana, romano e
sabini, diritto per romani e diritto per pellegrini, vocabulario del diritto
romano, dizionario di diritto romano, lexicon di diritto romano, concetto
autenticamente romano di auctoritas, lex, legare, eddictum, decretum,
suggestion, agere, diritto processuale, contratto, negozio, diritto penale,
diritto civile, crisi della repubblica, Antonio e Ottaviano, stato autoritario,
concetto di stato, Ponzio Pilato e la morte di Gesu, pontificex massimo,
laicitia del diritto romano, senatus, PSQR, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Betti: Vico ed il circolo dell’implicatura” – The Swimming-Pool Library.
Bianco (Cervinara). Filosofo. Grice: “I
like Bianco; he optimistically thinks of ‘morale’ as a ‘scienza’ – but ‘della
vita,’ which helps. I have myself explored the topic, and came with a
‘philosophy’ of life, rather!” -- Carlo Bianco (n. Cervinara), filosofo. Ha
vissuto per tutta la vita nella città natale, in provincia di Avellino. La sua
intensa e appassionata vita di uomo di cultura lo ha portato in giro per tutto
il mondo. Laureato in lettere,
filosofia e scienze, docente di filosofia morale all'Trento, fu un seguace del
pensiero di Platone e Marcuse. Fondatore della corrente del concretismo,
dottrina filosofica che propugna il rispetto di ogni fede religiosa, il credo
nell'aldilà e nella vita dopo la morte, ottenne nel 2004 la candidatura al
premio Nobel per la letteratura dalle Accademie italiane. Nel corso della sua carriera ricevette per
tre volte il premio della Presidenza del Consiglio dei ministri: nel 1953, nel
1975 e, infine, nel 1995. Accademico di Francia, membro della Columbia Academy,
nella sua lunga attività letteraria conseguì diversi diplomi e riconoscimenti.
Nel 2003 vinse il premio "Elsa Morante" che gli venne consegnato da
Maurizio Costanzo e Dacia Maraini. Il sindaco di Napoli Rosa Russo Iervolino
gli conferì la medaglia d'oro quale miglior ambasciatore della Campania nel mondo.
Bianco, infatti, era un valente conoscitore di lingue straniere, compresi
alcuni dialetti. Conosceva molti dialetti di paesi africani, che aveva avuto
modo di apprendere nei suoi frequenti viaggi; aveva conseguito, inoltre, una
laurea in scienze coloniali. L'Università Latina di Parigi gli conferì una
laurea honoris causa in lettere. Un
saggio biografico del 2001 e una raccolta di poesie curata da Alfredo Marro,
direttore del Caudino (mensile cervinarese col quale il filosofo ha a lungo
collaborato), si occupano del filosofo cervinarese. Nell'autunno , Franco
Martino gli dedicò una poesia dal titolo "A Carlo Bianco" nel suo
libro Paese mio carissimo. Bianco morì
il 9 aprile a 99 anni mentre stava
lavorando su un testo di Tommaso d'Aquino. Il 29 ottobre la città di Cervinara gli ha dedicato una
piazza nella natia frazione dei Salomoni.
Altre opere:: “Introduzione a Kant” (Edizione La nuova Italia letteraria,
Bergamo); “Saggio di filosofia dello spirito” (Editrice La Zagara); “L'Uomo sui
confini dell'ignoto” (Edizioni centro ricerche Biopsichiche, Padova); “La morale
come scienza della vita” (Edizioni Studi e ricerche, Catania); “Tempi di
Sofistica” (Edizioni studi e ricerche, Catania); “Pensieri, Vincenzo Ursini
Editore, Catanzaro); “L'uomo, l'inconoscibile” (Edizioni Scientifiche
Internazionale, Napoli); “La vita davanti a voi, Casa Editrice Fausto
Fiorentino. Vedi Cervinara commemora Carlo Bianco articolo de la Repubblica, 3
settembre , Sezione Napoli, Archivio storico.
Vedi È morto Carlo Bianco avvocato e candidato al Nobel nel 2006
articolo de la Repubblica, 11 aprile , Sezione Napoli, Archivio storico. Alfredo Marro, Un gigante del pensiero,
Edizioni Il Caudino, Cervinara 2001. Alfredo Marro, Biografie cervinaresi, Edizioni
Il Caudino, Cervinara 2004. Alfredo Marro, Frammenti di un'animapoesie scelte
di Carlo Bianco, Edizioni Il Caudino, Cervinara 2006. Filomena Stanzione, Carlo
Bianco nella Cultura Caudina, Casa Editrice Fausto Fiorentino, Rotondi
2000. Carlo Bianco, poeta della fede e
del dolore biografia e nel sito
"carlobianco.blogspot". Filosofia Categorie: Avvocati italiani del XX
secoloFilosofi italiani del XX secoloLetterati italiani 1911 25 luglio 9 aprile Cervinara Cervinara. Carlo
Bianco. Keywords: Centro Ricerche Biopsichiche Padova, saggio sulla filosofia
dello spirito, kantismo, spiritualismo, morale, vita, liberta, piazza bianco,
cervinara. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bianco” – The Swimming-Pool
Library.
Bobbio (Torino). Filosofo. Grice: “My
favourite Bobbio must be his ‘dialettica’ – he knows all about it, since he is
into the Plato/Aristotle models that run most philosophy – some think there is
a third model at play – but …” – “Bobbio is a good one; like me, he is a
philosophical cartographer – into the longitudinal and latitudinal unity of
philosophy – even if he can be picky when it comes to the longitudinal: Italian
only, and uncanonical, like Cattaneo, Gramsci, Croce, … -- Especially
Cattaneo!” Grice: “Bobbio – this is the philosopher, not the infantry general –
is a Griceian in that ‘fiducia reciproca’ becomes an essential meta-goal; he
has been involved with the dispute naturalism/positivism, and has come with
some interesting points about the ‘regole del gioco’ – and whether ‘custom’ can
be a ‘normative fact’!” – “All in all, his philosophy is about trying to look
for an answer to what I deem the fundamental question regarding rational
co-operation – His appeal to philosophical biology or zoology is interesting –
Toby trusts Tibby, the squarrels, as Jack trusts Jill and vice versa – but does
a ‘lupus’ trust a ‘lupus’? Hobbes, who didn’t know the first thing about
zoology, philosophical or other – thought so!” Essential Italian philosopher,
who’s written on Fregeian sense ‘senso,’the need for sensethe search for sense,
meaning meaning. «Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi
quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze.» (Norberto
Bobbio, Invito al colloquio, in Politica e cultura, Einaudi, Torino 195515.). Considerato
«al tempo stesso il massimo teorico del diritto e il massimo filosofo
[italiano] della politica […] nella seconda metà del Novecento», fu
«sicuramente quello che ha lasciato il segno più profondo nella cultura
filosofico-giuridica e filosofico-politica e che più generazioni di studiosi,
anche di formazione assai diversa, hanno considerato come un
maestro». Bobbio nacque a Torino il 18 ottobre 1909 da Luigi (medico) e
Rosa Caviglia. Una condizione familiare agiata gli permise un'infanzia
serena. Il giovane Norberto scrive versi, ama Bach e la Traviata, ma
svilupperà, per causa di una non ben determinata malattia infantile «la
sensazione della fatica di vivere, di una permanente e invincibile stanchezza»
che si aggravò con l'età, traducendosi in un taedium vitae, in un sentimento
malinconico, che si rivelerà essenziale per la sua maturazione
intellettuale. Studiò prima al Ginnasio e poi al Liceo classico Massimo
D'Azeglio dove conoscerà Leone Ginzburg, Vittorio Foa e Cesare Pavese, poi
divenute figure di primo piano della cultura dell'Italia repubblicana. Dal
1928, come molti giovani dell'epoca, fu infine iscritto al Partito Nazionale
Fascista. La sua giovinezza, come da lui stesso descritto fu:
"vissuta tra un convinto fascismo patriottico in famiglia e un altrettanto
fermo antifascismo appreso nella scuola, con insegnanti noti antifascisti, come
Umberto Cosmo e Zino Zini, e compagni altrettanto intransigenti antifascisti
come Leone Ginzburg e Vittorio Foa". Allievo di Gioele Solari e
Luigi Einaudi, si laureò in Giurisprudenza l'11 luglio 1931 con una tesi
intitolata Filosofia e dogmatica del Diritto, conseguendo una votazione di
110/110 e lode con dignità di stampa. Nel 1932 seguì un corso estivo
all'Marburgo, in Germania, insieme a Renato Treves e Ludovico Geymonat, ove
conoscerà le teorie di Jaspers e i valori dell'esistenzialismo. L'anno
seguente, nel dicembre 1933, conseguì la laurea in Filosofia sotto la guida di
Annibale Pastore con una tesi sulla fenomenologia di Husserl, riportando un
voto di 110/110 e lode con dignità di stampa, e nel 1934 ottenne la libera
docenza in Filosofia del diritto, che gli aprì le porte nel 1935
all'insegnamento, dapprima all'Camerino, poi all'Siena e a Padova (dal 1940 al
1948). Nel 1934 pubblicò il primo libro, L'indirizzo fenomenologico nella
filosofia sociale e giuridica. Le sue frequentazioni sgradite al regime
gli valsero, il 15 maggio 1935, un primo arresto a Torino, insieme agli amici
del gruppo antifascista Giustizia e Libertà; fu quindi costretto, a seguito di
una intimazione a presentarsi davanti alla Commissione provinciale della
Prefettura per discolparsi, a inoltrare esposto a Benito Mussolini. La chiara
reputazione fascista di cui godeva la famiglia gli permise però una piena
riabilitazione, tanto che, pochi mesi dopo, con il richiesto intervento di
Mussolini e di Gentile, ottenne la cattedra di filosofia del diritto a
Camerino, che era occupata da un altro ordinario ebreo, espulso a seguito delle
leggi razziali. Dopo un diniego iniziale a causa dell'arresto di tre anni
prima, fu reintegrato grazie all'intervento di Emilio De Bono, amico di
famiglia, mentre era presidente di commissione il cattolico e dichiarato
antifascista Giuseppe Capograssi. È in questi anni che Norberto Bobbio
delineò parte degli interessi che saranno alla base della sua ricerca e dei
suoi studi futuri: la filosofia del diritto, la filosofia contemporanea e gli
studi sociali, uno sviluppo culturale che Bobbio vive contemporaneamente al
contesto politico temporale. Un anno dopo le leggi razziali, infatti,
esattamente il 3 marzo 1939, giurò fedeltà al fascismo per poter ottenere la
cattedra all'Siena. E rinnovò il giuramento nel 1940, a guerra dichiarata, per
prendere il posto del professor Giuseppe Capograssi, a sua volta insediatosi
nel 1938 nella cattedra del professor Adolfo Ravà estromesso dall'Padova perché
ebreo. Questo episodio della sua vitaspesso riportato come se Bobbio avesse
preso direttamente il posto di Ravàfu poi oggetto di svariate polemiche.
Nel '42, un giovane Bobbio affermò davanti alla Società Italiana di Filosofia
del Diritto che Capograssi crebbe in «quel rinascimento idealistico del XX
secolo, nel nostro campo di studi iniziato, stimolato, e, quel ch'è di più,
criticamente fondato da Giorgio Del Vecchio». Nel 1942 partecipò al
movimento liberalsocialista fondato da Guido Calogero e Aldo Capitini e,
nell'ottobre dello stesso anno, aderì al Partito d'Azione clandestino.
Nei primi mesi del 1943 respinse l'"invito" del ministro Biggini (che
poco dopo redasse, su impulso di Mussolini, la costituzione della Repubblica di
Salò) a partecipare a una cerimonia presso l'Padova durante la quale si sarebbe
dedicata una lampada votiva da collocare al sacrario dei caduti della
rivoluzione fascista nel cimitero della città. Nel 1943 sposò Valeria
Cova: dalla loro unione nacquero i figli Luigi, Andrea e Marco. Il 6 dicembre
del 1943 fu arrestato a Padova per attività clandestina e rimase in carcere per
tre mesi. Nel 1944 venne pubblicato il saggio La filosofia del decadentismo,
nel quale criticò l'esistenzialismo e le correnti irrazionalistiche,
rivendicando al contempo le esigenze della ragione illuministica. Dopo la
liberazione collaborò regolarmente con Giustizia e Libertà, quotidiano torinese
del Partito d'azione, diretto da Franco Venturi. Collaborò all'attività del Centro
di studi metodologici con lo scopo di favorire l'incontro tra cultura
scientifica e cultura umanistica, e poi con la Società Europea di
Cultura. Nel 1945 pubblicò un'antologia di scritti di Carlo Cattaneo, col
titolo Stati uniti d'Italia, premettendovi uno studio, scritto tra la primavera
del 1944 e quella del 1945 dove sosteneva che il federalismo come unione di
stati diversi era da considerarsi superato dopo l'avvenuta unificazione
nazionale. Il federalismo a cui pensava Bobbio era quello inteso come
"teorica della libertà" con una pluralità di centri di partecipazione
che potessero esprimersi in forme di moderna democrazia diretta. Nel
1948 lasciò l'incarico a Padova e venne chiamato alla cattedra di filosofia del
diritto dell'Torino, annoverando corsi di notevole importanza come Teoria della
scienza giuridica (1950), Teoria della norma giuridica (1958), Teoria
dell'ordinamento giuridico (1960) e Il positivismo giuridico (1961). Dal
1962 assunse l'incarico di insegnare scienza politica, che ricoprirà sino al
1971; fu tra i fondatori della odierna facoltà di Scienze politiche all'Torino
insieme con Alessandro Passerin d'Entrèves, al quale subentrò nella cattedra di
filosofia politica nel 1972 mantenendola fino al 1979 anche per l'insegnamento
di Filosofia del diritto e Scienza politica. Dal 1973 al 1976 divenne preside
della facoltà ritenendo che mentre gli incarichi accademici fossero «onerosi e
senza onori» era l'insegnamento l'attività principale della sua vita: «un abito
e non solo una professione». La politica, del resto, divenne via via un
tema fondamentale nel suo percorso intellettuale e accademico, e parallelamente
alla pubblicazioni di carattere giuridico, aveva avviato un dibattito con gli
intellettuali del tempo; nel 1955 aveva scritto Politica e cultura, considerato
una delle sue pietre miliari, mentre nel 1969 era uscito il libro Saggi sulla
scienza politica in Italia. Nei venticinque anni accademici all'ombra
della Mole Antonelliana, Bobbio svolse anche diversi tra corsi su Kant, Locke,
lavori su Hobbes e Marx, Hans Kelsen, Carlo Cattaneo, Hegel, Vilfredo Pareto,
Gaetano Mosca, Piero Gobetti, Antonio Gramsci, e contribuì con una pluralità di
saggi, scritti, articoli e interventi di grande rilievo che lo portarono, in
seguito a diventare socio dell'Accademia dei Lincei e della British Academy.
Divenuto condirettore con Nicola Abbagnano della Rivista di filosofia a partire
dal '53, fu come questi socio dell'Accademia delle Scienze di Torino, della
quale entrò a far parte il 9 marzo dello stesso anno per essere confermato
socio nazionale e residente dal 26 aprile 1960. Significativa la
collaborazione, sul tema pacifista, col filosofo e amico antifascista Aldo
Capitini, le cui riflessioni comuni sfoceranno nell'opera I problemi della
guerra e le vie della pace (1979). Nel 1953 partecipò alla lotta condotta
dal movimento di Unità Popolare contro la legge elettorale maggioritaria e nel
1967 alla Costituente del Partito Socialista Unificato. Nel tempo delle
contestazioni giovanili, Torino fu la prima città a farsi carico della
protesta, e Bobbio, fautore del dialogo, non si sottrasse a un difficile
confronto con gli studenti, tra i quali il suo stesso primogenito Luigi che
militava all'epoca in Lotta Continua. Nel contempo, venne anche incaricato dal
Ministero per la Pubblica Istruzione quale membro della Commissione tecnica per
la creazione della facoltà di sociologia di Trento. Guido Calogero
e Norberto Bobbio alla Rencontres internationales de Genève Nel 1971 Bobbio fu
tra i firmatari della lettera aperta pubblicata sul settimanale L'Espresso sul
caso Pinelli. Nel 1998 Norberto Bobbio in una lettera indirizzata ad Adriano
Sofri pubblicata su La Repubblica ripudiò il tono del linguaggio utilizzato
nell'appello ma senza ritrattarne l'adesione al contenuto di critica sui fatti
legati a Piazza Fontana. Il 14 febbraio 1972 scrivendo a Guido Fassò
intorno al problema democratico, Bobbio si sfogava sostenendo che «questa
nostra democrazia è divenuta sempre più un guscio vuoto, o meglio un paravento
dietro cui si nasconde un potere sempre più corrotto, sempre più incontrollato,
sempre più esorbitante [...] Democrazia di fuori, nella facciata. Ma dietro la
tradizionale prepotenza dei potenti che non sono disposti a rinunciare nemmeno
a un'oncia del loro potere, e lo mantengono con tutti i mezzi, prima di tutto
con la corruzione. La democrazia non è soltanto metodo, ma è anche un ideale: è
l'ideale egualitario. Dove questo ideale non ispira i governanti di un regime
che si proclama democratico, la democrazia è un nome vano. Io non posso
separare la democrazia formale da quella sostanziale. Ho il presentimento che
dove c'è soltanto la prima un regime democratico non è destinato a durare. Sono
molto amaro, amico mio. Ma vedo questo nostro sistema politico sfasciarsi a
poco a poco [...] a causa delle sue interne, profonde, forse inarrestabili
degenerazioni».[25] A metà degli anni settanta, nel solco di un sempre
più vivace impegno civile, e alle soglie di uno dei periodi più drammatici in
Italia (culminato col rapimento e l'omicidio di Aldo Moro), provocò un vivace
dibattito sia negando l'esistenza di una cultura fascista sia trattando
estensivamente sui rapporti tra democrazia e socialismo. L'8 maggio 1981,
alla vigilia dei referendum sull'aborto, rilascia un'intervista al Corriere
della Sera nella quale afferma la sua contrarietà all'interruzione della
gravidanza. Successivamente la sua attenzione si concentrò a favore di una
"politica per la pace", con motivati distinguo a sostegno del diritto
internazionale in occasione della Guerra del Golfo del 1991. Delle
venticinque lettere inedite che fanno parte della corrispondenza epistolare che
Bobbio tenne con Danilo Zolo e che ora sono state rese pubbliche nel volume
L'alito della libertà, a cura dello stesso Zolo, interessante quella del 25
febbraio 1991 riguardante la "Guerra del Golfo" che vide protagonisti
nel gennaio del 1991 gli Stati Uniti di George Bush senior, le forze dell'ONU e
vari paesi arabi alleati contro l'Iraq di Saddam Hussein che aveva invaso il
Kuwait. Bobbio definì "giusta" questa guerra non rendendosi conto che
quella parola «... poteva essere interpretata in modo diverso da come l'avevo
intesa io... come guerra "giustificata" in quanto rispondente a
un'aggressione.» Bobbio quindi si lamentò delle polemiche nate al riguardo da
parte di "pacifisti da strapazzo". Il fatto che l'ONU, scrisse
Bobbio, avesse autorizzato l'intervento in guerra contro l'Iraq, la rendeva
"legale", in questo senso, "giusta". Bobbio però
riconobbe che l'ONU fosse stato successivamente, nel corso della guerra, messo
da parte e gli "spietati bombardamenti" su Baghdad hanno fatto sì che
si possa temere che «...se la pace sarà instaurata con la stessa mancanza di
saggezza con cui è stata condotta la guerra, anche questa guerra sarà stata,
come tante altre inutile.» Nel 1979 fu nominato professore emerito
dell'Torino e nel 1984, ai sensi del secondo comma dell'articolo 59 della
Costituzione italiana, avendo «illustrato la Patria per altissimi meriti» in
campo sociale e scientifico, fu nominato senatore a vita dal Presidente della
Repubblica Sandro Pertini. In quanto membro del Senato si iscrisse prima come
indipendente nel gruppo socialista, poi dal 1991 al gruppo misto ed infine dal
1996 al gruppo parlamentare del Partito Democratico della Sinistra, poi
divenuto dei Democratici di Sinistra.[27] Norberto Bobbio e Natalia
Ginzburg a Barolo per festeggiare gli ottant'anni di Vittorio Foa. Dopo la
stagione di mani pulite, e la cosiddetta fine della Prima Repubblica, venne
pubblicato il saggio Destra e sinistra, i cui contenuti provocarono un notevole
dibattito culturale, agitando non poco l'humus della politica italiana. Il
libro toccò le cinquecentomila copie vendute in pochi mesi e venne ripubblicato
l'anno successivo, riveduto e ampliato, con risposte ai critici. A
riconoscimento di un'intera vita lucidamente dedicata alle scienze del diritto,
della politica, della filosofia e della società, tra dubbio e metodo, tra ethos
e laicità, Bobbio ricevette lauree honoris causa da molte università, tra le
quali quelle di Parigi (Nanterre), Buenos Aires, Madrid (tre, in particolare
alla Complutense) e Bologna,[29] e vinse il Premio europeo Charles Veillon per
la saggistica nel 1981, il Premio Balzan ed il Premio Agnelli nel 1995.
Nel 1997 pubblicò la sua autobiografia. Nel 1999 uscì una terza edizione
aggiornata del suo best seller, ormai tradotto in una ventina di lingue. Nel
2001 morì la moglie Valeria, e Bobbio iniziò un graduale ritiro dalla vita
pubblica, pur rimanendo in attività e curando ulteriori pubblicazioni. Fecero
rumore le sue osservazioni critiche sia nei confronti di Silvio Berlusconi sia
della partitopenia (ossia mancanza di partiti)[31], e le riflessioni sulla
crisi della sinistra e della socialdemocrazia europea. Il 18 ottobre 2003,
ricevette il "Sigillo Civico" della sua Torino "per l'impegno
politico e il contributo alla riflessione storica e culturale". Dopo
avervi trascorso la maggior parte della vita, Norberto Bobbio morì a Torino il
9 gennaio 2004. Secondo le sue volontà, alcuni giorni dopo la morte, la salma
venne tumulata, con una cerimonia civile strettamente privata nel cimitero di
Rivalta Bormida, comune piemontese in provincia di Alessandria.[32][33] Il
pensiero di Norberto Bobbio si forma nei primi decenni del Novecento in una
temperie filosofica dominata dell'idealismo. Tuttavia, come molti studiosi
torinesi, non abbraccia mai questa visione del mondo: dopo un primo
accostamento alla fenomenologia, significativamente attestato dalle sue opere
sulla filosofia di Husserl, si avvicina al filone neorazionalista e
neoempirista fiorito in Europa, specialmente oltralpe in Germania ed attorno al
Circolo di Vienna. Negli anni quaranta e cinquanta Bobbio entra in
contatto con la filosofia analitica di tradizione anglosassone. Compie studi di
analisi del linguaggio, tracciando le prime linee di ricerca della scuola
analitica italiana di filosofia del diritto, di cui è ancora oggi riconosciuto
figura eminente di riferimento. Al riguardo vanno menzionati perlomeno i due
saggi: Scienza del diritto e analisi del linguaggio del 1950[34] e Essere e
dover essere nella scienza giuridica del 1967[35]. Dedica studi specifici
a Hobbes, a Pareto e a molti filosofi e teorici della politica di cui già s'è
detto. Vede nell'Illuminismo un modello di rigore e di rifiuto del dogmatismo
di cui riprende l'ideale razionalistico, traducendolo anche nell'analisi del
sistema democratico e parlamentare. Sino dagli anni cinquanta si occupa di temi
quali la guerra e la legittimità del potere, dividendo la sua produzione tra la
filosofia giuridica, la storia della filosofia e i temi di attualità
politica. Durante gli ultimi anni del fascismo, Bobbio matura la
convinzione della necessità di uno Stato democratico, che sgombri il campo dal
pericolo della politica ideologizzata e delle ideologie totalitarie sia di
destra che di sinistra; auspica una gestione laica della politica e un
approccio filosofico-culturale ad essa, che aiuti a superare la
contrapposizione fra capitalismo e comunismo e a promuovere la libertà e la
giustizia. Nel saggio Quale socialismo? (1976), Bobbio critica sia la
dialettica marxista sia gli obiettivi dei movimenti rivoluzionari, sostenendo
che le conquiste borghesi dovevano estendersi anche alla classe dei proletari.
Bobbio ritiene fallimentare solo l'esperienza marxista-leninista, mentre
prevede che le istanze di giustizia rivendicate dai marxisti possano, in
futuro, riaffiorare nel panorama politico. Il pensiero di Bobbio diviene
così, soprattutto tra gli intellettuali dell'area socialista, un modello
esemplare, grazie al suo 'sapere impegnato', certamente «più preoccupato di
seminare dubbi che di raccogliere consensi». Egli stesso riprenderà la
riflessione su un tema a lui caro, quello del rapporto tra politica e cultura,
proponendo, tra le pagine di Mondoperaio, una «autonomia relativa della cultura
rispetto alla politica» secondo la quale «la cultura non può né deve essere
ridotta integralmente alla sfera del politico». Nel 1994 esce l'opera
Destra e sinistra, nella quale Bobbio focalizza le differenze fra le due
ideologie e i due indirizzi politico-sociali; la destra, secondo l'autore, è
caratterizzata dalle tendenze alla disuguaglianza, al conservatorismo ed è
ispirata da interessi, mentre la sinistra persegue l'uguaglianza, la
trasformazione, ed è sospinta da ideali. In quest'opera, Bobbio si esprime
anche in favore dei diritti animali[36]. Nell'opera L'età dei diritti
(1990), Bobbio individua i diritti fondamentali che consentono lo sviluppo di
una democrazia reale e di una pace giusta e duratura. Una partecipazione
collettiva e non coercitiva alle decisioni comunitarie, una contrattazione
delle parti, l'allargamento del modello democratico a tutto il mondo, la
fratellanza fra gli uomini, il rispetto degli avversari, l'alternanza senza
l'ausilio della violenza, una serie di condizioni liberali, vengono indicati da
Bobbio come capisaldi di una democrazia, che seppur cattiva, è preferibile ad
una dittatura. Per tutta la vita scrittore di numerosissimi articoli, anche
tramite interviste, Norberto Bobbio incarna l'ideale della filosofia critica e
militante che lo vede protagonista anche del Centro di studi metodologici di
Torino e tra i fondatori del Centro studi Piero Gobetti di Torino che conserva
la sua biblioteca e il suo archivio, «Mi ritengo un uomo del dubbio e del
dialogo. Del dubbio, perché ogni mio ragionamento su una delle grandi domande
termina quasi sempre, o esponendo la gamma delle possibili risposte, o ponendo
ancora un'altra grande domanda. Del dialogo, perché non presumo di sapere
quello che non so, e quello che so metto alla prova continuamente con coloro
che presumo ne sappiano più di me.» (Norberto Bobbio, Elogio della
mitezza, Linea d'ombra edizioni, Milano 19948.) Contrario alla figura dell'intellettuale
«Profeta»[37], preferendo il ruolo del «Mediatore» impegnato «nella difficile
arte del dialogo» (e ciò è anche testimoniato dal colloquio intrattenuto con i
marxisti per un riesame critico del loro «dogmatismo e settarismo» che coinvolse
anche Togliatti), il suo atteggiamento teoretico fu segnato da una positiva
«ambivalenza» fra una posizione realista e una idealista che non rifuggiva le
complessità del discorso, ricorrendo sovente al paradosso. Ciò gli valse, in
virtù dell'amore per il dibattito che consideri «il pro e il contro» di ogni
questione, la qualifica di filosofo «de la indecisión» (Rafael de Asís
Roig)[41][42], giacché ogni suo «ragionamento su una delle grandi domande [si
concludeva] quasi sempre, o esponendo la gamma delle possibili risposte, o
ponendo ancora un'altra grande domanda». Nell'ultimo libro che raccoglie saggi,
scritti e testimonianze su maestri, amici ed allievi, Bobbio comincia
ricordando i tre maestri Francesco Ruffini, Piero Martinetti e Tommaso Fiore.
L'elenco degli amici è lungo e annovera compagni di studio come Antonino
Repaci[44][45] come Renato Treves e Ludovico Geymonat e colleghi come Nicola
Abbagnano, Bruno Leoni, Alessandro Passerin d'Entrèves e Giovanni Tarello.
Bobbio ricorda poi gli allievi Paolo Farneti, Morris Lorenzo Ghezzi, Amedeo
Giovanni Conte, Uberto Scarpelli che, come Bobbio stesso scrive, nel 1972 fu
naturaliter suo successore a Torino sulla cattedra di Filosofia del
diritto. Traggono ispirazione dal pensiero di Bobbio le "lezioni
Bobbio", svoltesi nel 2004, e la manifestazione "Biennale
Democrazia" di Torino. Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola
della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro ai
benemeriti della scuola della cultura e dell'arte — Roma, 2 giugno 1966.[46]
Gran Croce del Merito Civilenastrino per uniforme ordinariaGran Croce del
Merito Civile — Roma, Laurea honoris causa in Scienze Politichenastrino per
uniforme ordinaria Laurea honoris causa in Scienze Politiche — Università degli
Studi di Sassari, 5 maggio 1994. Onorificenza dell'Ordine Messicano Aquila
Aztecanastrino per uniforme ordinaria Onorificenza dell'Ordine Messicano Aquila
Azteca — Torino, Intitolazioni A
Norberto Bobbio è stata intitolata la biblioteca dell'Torino, sita in Lungo
Dora Siena, 100 A. Gli è stato inoltre intitolato un istituto di
istruzione superiore a Carignano, nella provincia di Torino, denominato appunto
"I.I.S Norberto Bobbio". A lui è intitolata la biblioteca
civica di Rivalta Bormida, paese natale della madre Rosa Caviglia. Altre opere:
“Saggi” (Roma-Bari, Laterza); “L'indirizzo fenomenologico nella filosofia
sociale e giuridica” (Di Lucia, Torino, Giappichelli); “Scienza e tecnica del
diritto” (Torino, Istituto giuridico della Regia Università); “L'analogia nella
logica del diritto” (Di Lucia, Milano, Giuffrè); “La consuetudine come fatto
normative” (Torino, Giappichelli); “La filosofia del decadentismo, Torino,
Chiantore); “Stati Uniti d'Italia. Scritti sul federalismo democratico” (Roma,
Donzelli); “Teoria della scienza giuridica, Torino, Giappichelli); “Politica e
cultura” (Torino, Einaudi); “Studi sulla teoria generale del diritto, Torino,
Giappichelli); “Teoria della norma giuridica” (Torino, Giappichelli); “Teoria
dell'ordinamento giuridico, Torino, Giappichelli); “Teoria generale del diritto,
Torino, Giappichelli); “Il positivismo giuridico, Lezioni di Filosofia del
diritto” (Torino, Giappichelli); “Locke e il diritto naturale” (Torino); “Da
Hobbes a Marx. Saggi di storia della filosofia” (Napoli, Morano); “Italia
civile. Ritratti e testimonianze” (Firenze, Passigli); “Giusnaturalismo e
positivismo giuridico” (Roma-Bari, Laterza); “Profilo ideologico del Novecento
italiano” (Milano, Garzanti); “La scienza politica in Italia” (Roma-Bari, Laterza); “Diritto e Stato in
Kant” (Torino, Giappichelli); “Una filosofia militante” (Torino, Einaudi); “La
teoria delle forme di governo nella storia del pensiero politico” (Torino,
Giappichelli); “Quale socialismo? Discussione di un'alternativa” (Torino, Einaudi);
“Il problema della guerra e le vie della pace” (Bologna, Il Mulino); “Studi
hegeliani. Diritto, società civile, Stato, Torino, Einaudi); “Le ideologie e il
potere in crisi. Pluralismo, democrazia, socialismo, comunismo, terza via e
terza forza, Firenze, Le Monnier); “Il futuro della democrazia. Una difesa
delle regole del gioco, Torino, Einaudi); “Maestri e compagni, 3ª ed., Firenze,
Passigli); “Il terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e sulla guerra” (Casale
Monferrato, Sonda); “Hobbes, Torino, Einaudi); “L'età dei diritti, Torino,
Einaudi, “Il dubbio e la scelta.
Intellettuali e potere nella società contemporanea, Roma, Carocci); “Elogio
della mitezza e altri scritti morali, Milano, Il Saggiatore); “Destra e
sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica” (Roma, Donzelli);
“Tra due repubbliche. Alle origini della democrazia italiana” (Roma, Donzelli);
“Eguaglianza e libertà” (Torino, Einuadi); “De senectute e altri scritti
autobiograficiPolito, prefazione di G. Zagrebelsky, Torino, Einaudi); “Né con
Marx né contro Marx, C. Violi, Roma, Editori Riuniti); “Autobiografia, A.
Papuzzi, 3ª ed., Roma-Bari, Laterza); “Teoria generale della politica, M.
Bovero, Torino, Einaudi); “Trent'anni di storia della cultura a Torino”
(Torino, Einaudi); “Dialogo intorno alla repubblica, Roma-Bari, Laterza); “Liberalismo
e Democrazia” (Milano, Simonelli); Contro i nuovi dispotismi. Scritti sul berlusconismo”
(Bari, Dedalo); “Etica e politica. Scritti di impegno civile” (Mondadori). Premio
"Artigiano della Pace"giovanipace.sermig.org, su
giovanipace.sermig.org. 3 dicembre
(archiviato dall'url originale l'8 dicembre ). Premi e
riconoscimenti a Norberto Bobbiocentenariobobbio, su centenariobobbio. Fondazione
Internazionale BalzanPremiati: Norberto Bobbiobalzan.org Hegel-Preis der Landeshauptstadt
StuttgartStadt Stuttgart: Bisherige Preisträgerstuttgart.de Luigi Ferrajoli, L'itinerario di Norberto
Bobbio: dalla teoria generale del diritto alla teoria della democrazia , in
Teoria politica, N. Bobbio, seconda tavola fuori testo. Scrive Bobbio:
«[Fui] esonerato, per mia vergogna, dalle ore di ginnastica per una malattia
infantile restata, almeno per me, misteriosa». (Norberto Bobbio, De senectute,
Einaudi, Torino Fondo Norberto BobbioL'Inventario: Stanza studio Bobbio
(SB)centrogobetti , su centrogobetti, N. Bobbio18.
Cesare Maffi, Massimo Bontempelli: punito da fascisti e antifascisti, in
ItaliaOggi, n. 206, 1º settembre 11.
Nello Ajello, Una vita per la democrazia nel secolo delle dittature, su
ricerca.repubblica, Anna Pintore, RAVÀ, Adolfo Marco, in Dizionario biografico
degli italiani, 86, Torino, Treccani, .
28 aprile . A puro titolo d'esempio si
veda Diego Gabutti, Norberto Bobbio non esitò a occupare la cattedra del
professore ebreo Adolfo Ravà, cacciato dall'università per motivi razziali, in
ItaliaOggi, Francesco Gentile, Società
italiana di filosofia del diritto (atti del XXV Congresso), La via della guerra
e il problema della pace, Vincenzo Ferrari, Filosofia giuridica della guerra e
della pace, Milano, Courmayeur, Franco Angeli,
"Laicità e immanentismo nel pensiero di Norberto Bobbio", di
Alfonso Di Giovine, in Democrazia e diritto, Nicola Abbagnano, Storia della filosofia,
volume 9. Il pensiero contemporaneo: il dibattito attuale, UTET, Torino Norberto Bobbio, Tra due repubbliche: alle
origini della democrazia italiana, Donzelli Editore, Fortini si reca in Cina in
visita ufficiale nella Repubblica Popolare Cinese con la prima delegazione
italiana formata, tra gli altri, da Piero Calamandrei, Norberto Bobbio, Enrico
Treccani e Cesare Musatti. Il viaggio durerà un mese e il diario della visita
verrà pubblicato l'anno seguente in Asia Maggiore. Così Fortini chiama scherzosamente Bobbio
assimilandolo a Cartesio (Descartes) e al suo razionalismo Franco Fortini, Asia Maggiore, Einaudi,
Torino Ricordo di Norberto bobio, in Rivista
di Filosofia, Bologna, Società Editrice
Il Mulino, Proiflo biografico di Norberto Bobbio, su accademiadellescienze, N. Bobbio, decima tavola fuori testo. "Non dobbiamo chiedere scusa per Piazza
Fontana" Guido Fassò, La democrazia
in Grecia, Giuffrè Editore, Milano «con
l'aborto si dispone di una vita altrui». Affermava la necessità di evitare il
concepimento non voluto e non gradito; e concludeva, rispondendo a Nascimbeni:
«Vorrei chiedere quale sorpresa ci può essere nel fatto che un laico consideri
come valido in senso assoluto, come un imperativo categorico, il "non
uccidere". E mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il
privilegio e l'onore di affermare che non si deve uccidere».(in Intervista a
Bobbio) Senato della Repubblica, su
senato. N. Bobbio, ventesima tavola
fuori testo. Centenario Norberto Bobbio,
su centenariobobbio 5 aprile 2009).
Premio Balzan [collegamento interrotto], su balzan.com. I timori di Bobbio Democrazia senza partitiLa
Repubblica Ha lasciato scritto Norberto
Bobbio: «Ho compiuto 90 anni il 18 ottobre. La morte dovrebbe essere vicina a
dire il vero, l'ho sentita vicina tutta la vita. Non ho mai neppure lontanamente
pensato di vivere così a lungo. Mi sento molto stanco, nonostante le affettuose
cure di cui sono circondato, di mia moglie e dei miei figli. Mi accade spesso
nella conversazione e nelle lettere di usare l'espressione 'stanchezza
mortale'. L'unico rimedio alla stanchezza 'mortale' è il riposo della morte.
Decido funerali civili in comune accordo con mia moglie e i miei figli. In un
appunto del 10 maggio 1968 (più di trent'anni fa) trovo scritto: vorrei
funerali civili. Credo di non essermi mai allontanato dalla religione dei
padri, ma dalla Chiesa sì. Me ne sono allontanato ormai da troppo tempo per
tornarvi di soppiatto all'ultima ora. Non mi considero né ateo né agnostico.
Come uomo di ragione e non di fede, so di essere immerso nel mistero che la
ragione non riesce a penetrare fino in fondo, e le varie religioni interpretano
in vari modi. Alla morte si addice il raccoglimento, la commozione intima di
coloro che sono più vicini, il silenzio. Breve cerimonia in casa, o, se sarà il
caso, in ospedale. Nessun discorso. Non c'è nulla di più retorico e fastidioso
dei discorsi funebri». (Ne La Repubblica la cronaca del funerale di
Bobbio.) Né ateo né agnostico ma lontano
dalla Chiesa, in «La Repubblica», 10 gennaio 2004. Norberto Bobbio, Scienza del diritto e
analisi del linguaggio , in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile,
n. 2, giugno 1950, 342-367. 5 luglio
. Norberto Bobbio, Essere e dover essere
nella scienza giuridica , in Rivista di filosofia, n. 3, luglio-settembre
1967, 235-262. 5 luglio . «Mai come nella nostra epoca sono state messe
in discussione le tre fonti principali di disuguaglianza: la classe, la razza
ed il sesso. La graduale parificazione delle donne agli uomini, prima nella
piccola società familiare e poi nella più grande società civile e politica è
uno dei segni più certi dell'inarrestabile cammino del genere umano verso
l'eguaglianza. E che dire del nuovo atteggiamento verso gli animali? Dibattiti
sempre più frequenti ed estesi, riguardanti la liceità della caccia, i limiti
della vivisezione, la protezione di specie animali diventate sempre più rare,
il vegetarianesimo, che cosa rappresentano se non avvisaglie di una possibile
estensione del principio di eguaglianza al di là addirittura dei confini del
genere umano, un'estensione fondata sulla consapevolezza che gli animali sono
eguali a noi uomini, per lo meno nella capacità di soffrire? Si capisce che per
cogliere il senso di questo grandioso movimento storico occorre alzare la testa
dalle schermaglie quotidiane e guardare più in alto e più lontano». (da Destra
e sinistra, Donzelli, Roma 1994) N.
BobbioLIV, nota 11: «È significativo che nella sua ultima lezione accademica
tenuta come titolare della cattedra di Filosofia della politica a Torino ipresente’
come egli stesso ricorderà ‘il collega cui mi sentivo intellettualmente e
politicamente più vicino, Alessandro Passerin d'Entrèves’, Bobbio abbia citato
‘con forza la celebre frase che subito dopo la Prima guerra mondiale, di fronte
agli allievi, che pretendevano dal celebre professore un orientamento politico,
Max Weber pronunciò: «La cattedra non è né per i demagoghi né per i profeti»’.
(N. Bobbio, Il mestiere di vivere, il mestiere di insegnare, il mestiere di
scrivere, colloquio con Pietro Polito, in “Nuova Antologia”, N. Abbagnano,
Storia della filosofia, IX, UTET per
Gruppo Editoriale L'Espresso S.p.A., Torino ove è detto: «Bobbio, dai primi
anni Cinquanta in poi, ha ricorrentemente tallonato la sinistra marxista,
provocandola con intenti costruttivi e spingendola ad un esame critico del suo
persistente dogmatismo e settarismo. Il documento più importante di tali
provocazioni, nel decennio in esame, è la raccolta di saggi Politica e cultura
del Alcuni di questi saggi appaiono in origine sulla rivista ‘Nuovi argomenti'
che [...] costituisce in quegli anni uno dei più significativi luoghi
d'incontro tra area laica e quella marxista. Lì appare, nel 1954, uno dei saggi
più provocatori, in senso costruttivo, [...] rivolti a quest'area (dalla quale
si risponderà con gli interventi di Della Volpe e di Togliatti): quello dal
titolo molto significativo Democrazia e dittatura». Scrive Bobbio: «Pur non essendo mai stato
comunista [...] [e] avendo dedicato la maggior parte degli scritti di critica
politica a discutere coi comunisti su temi fondamentali come la libertà e la
democrazia [...], [ho] sempre considerato i comunisti, o per lo meno i
comunisti italiani, non come nemici da combattere ma come interlocutori di un
dialogo sulle ragioni della sinistra». (N. Bobbio, Teoria generale della
politica, Einaudi, Torino 2009618) Sul
pensiero di Bobbio circa il comunismo, si veda anche l'intervista Giancarlo
Bosetti, «No, non c'è mai stato il comunismo giusto» , in l'Unità, 3 aprile
1998. Segue alla pagina successiva Archiviato N. Bobbio203. N. BobbioXVII. N. Bobbio, Elogio della mitezza, Linea
d'ombra edizioni, Milano 19948. Antonino
Repaci, magistrato e uomo della Resistenza, nipote di Leonida Repaci Istituto storico della Resistenza e della
società contemporanea in provincia di Cuneo, su beniculturali.ilc.cnr:8080. 19
febbraio 26 aprile ). Sito della Presidenza della Repubblica,
quirinale Comune di Rivalta Bormida | La
Biblioteca, su comune.rivalta.al. 14 luglio . Norberto Bobbio,
Giuseppe Tamburrano, Carteggio su marxismo, liberalismo, socialismo, Roma, Editori
Riuniti, Pier Paolo Portinaro,
Introduzione a Bobbio, Roma-Bari, Laterza, Voce "Norberto Bobbio" in
, Biografie e bibliografie degli Accademici Lincei, Accademia dei Lincei, Roma,
Enrico Lanfranchi, Un filosofo militante. Politica e cultura nel pensiero di
Norberto Bobbio, Bollati Boringhieri, Torino, Nunzio Dell'Erba, Norberto Bobbio
l'accento sulla democrazia, in "Storia e problemi contemporanei", Angelo
Mancarella, Norberto Bobbio e la politica della cultura. Le sfide della
ragione, "Ideologia e Scienze sociali", 26, Lacaita Editore,
Bari-Roma 1995 Giuseppe Gangemi, Meridione, Nordest, Federalismo. Da Salvemini
alla Lega Nord, Rubbettino, Soveria Mannelli 1996 Girolamo Cotroneo, Tra
filosofia e politica. Un dialogo con Norberto Bobbio, Soveria Mannelli, Rubbettino,
1998, Silvio Paolini Merlo, Consuntivo
storico e filosofico sul "Centro di Studi Metodologici" di Torino
(1940-1979), Pantograf (CNR), Genova Morris Lorenzo Ghezzi, La distinción entre
hechos y valores en el pensamento de Norberto Bobbio, Editorial U. Externado de
Colombia, Bogotá, Tommaso Greco, Norberto Bobbio. Un itinerario intellettuale
tra filosofia e politica, Donzelli, Roma 2000 Costanzo Preve, Le contraddizioni
di Norberto Bobbio. Per una critica del bobbianesimo cerimoniale, CRT, Pistoia
2004 Gustavo Zagrebelsky, Massimo L. Salvadori, Riccardo Guastini, Norberto
Bobbio tra diritto e politica, Laterza, Roma-Bari 2005 Marco Revelli , Norberto
Bobbio maestro di democrazia e di libertà, Cittadella Editrice, Assisi 2005
Valentina Pazé , L'opera di Norberto Bobbio. Itinerari di lettura, Milano,
Franco Angeli, Roberto Giannetti, Tra liberaldemocrazia e socialismo. Saggi sul
pensiero politico di Norberto Bobbio, Plus, Pisa 2006 Antonio Punzi , Omaggio a
Norberto Bobbio, Metodo, linguaggio, Scienza del diritto, Giuffrè, Milano 2007
Paola Agosti, Marco Revelli , Bobbio e il suo mondo. Storie di impegno e di
amicizia nel '900, Aragno, Torino 2009 Enrico Peyretti, Dialoghi con Norberto
Bobbio su politica, fede, nonviolenza , Claudiana, Torino () Nunzio Dell'Erba,
Norberto Bobbio, in Id., Intellettuali laici nel '900 italiano", Vincenzo
Grasso editore, Padova , 235–254 Pier
Paolo Portinaro, «Bobbio, Norberto» in Il contributo italiano alla storia del
PensieroDiritto, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, . Ruiz Miguel
Alonso, Politica, historia y derecho en Norberto Bobbio [Fontamara ed.], .
Mario G. Losano, Norberto Bobbio. Una biografia culturale, Carocci, Roma , Tommaso
Greco, Norberto Bobbio e la storia della filosofia del diritto, in Diacronìa.
Rivista di storia della filosofia del diritto, Norberto Bobbio; Franco
Pierandrei, Introduzione alla costituzione, Roma, Laterza, Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Norberto Bobbio, su BeWeb, Conferenza Episcopale
Italiana. Norberto Bobbio, su Find a Grave.
Opere di Norberto Bobbio, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di
Norberto Bobbio / Norberto Bobbio (altra versione), . Norberto Bobbio, su
Goodreads. Norberto Bobbio / Norberto
Bobbio (altra versione) / Norberto Bobbio (altra versione) / Norberto Bobbio
(altra versione) / Norberto Bobbio (altra versione) / Norberto Bobbio (altra
versione), su senato, Senato della Repubblica.
Registrazioni di Norberto Bobbio, su RadioRadicale, Radio Radicale. Le opere di Norberto Bobbio (Biblioteca e
Archivio "Norberto Bobbio" del Centro Studi "Piero Gobetti"
di Torino), su erasmo. Commemorazione di Norberto Bobbio, su
giornaledifilosofia.net. Epistolario Norberto BobbioDanilo Zolo Norberto
Bobbio, dal sito dell'ANPIAssociazione Nazionale Partigiani d'Italia (ultimo
accesso del 15 ottobre 2009) I presupposti filosofici nell'opera di Norberto
Bobbio di Franco Manni V D M Antifascismo V D M Senatori a vita di nomina
presidenziale Filosofia. Norberto Bobbio. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, "Grice
e Bobbio," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa
Grice, Liguria, Italia.
Boccadiferro (Bologna).
Filosofo. rice: “Boccadiferro is a good one; he is what Oxonians call ‘a
Renaissance man,’ and all’italiana, he has a beautiful carved grave – He was
into ‘physica,’ or physics, what Lord Russell would call ‘stone-age
metaphysics,’ but the Italians call ‘fisica medievale,’ and he was surely an
Aristotelian – Platonic physics is a florentine, rather than a Bolognese thing
– no wonder the first stadium ever in Italy started in Bologna, not Firenze,
whose Accademia platonica was the place to see and be seen!” -- Ludovico Boccadiferro Bologna: la tomba di Boccadiferro nella
basilica di San Francesco Ludovico Boccadiferro (Bologna) filosofo e umanista
italiano. Il suo nome latino è 'Ludovicus Buccaferrea, Da una illustre famiglia cittadina, dopo aver
seguito le lezioni dei filosofi Alessandro Achillini dal quale derivò il suo
orientamento averroistico, e forse Pietro Pomponazzi, presso lo Studio di
Bologna, Ludovico Boccadiferro insegnò a sua volta filosofia nella medesima
università. Nel 1525 si trasferì alla Sapienza di Roma ove ebbe modo di farsi
apprezzare anche da papa Clemente VII. Alla Sapienza rimase sino al 1527
quando, a seguito del rovinoso sacco di Roma dei lanzichenecchi, tornò a
Bologna per riprendere l'insegnamento che mantenne fino sua alla morte,
avvenuta nella città natale a circa sessantatré anni nel 1545. È sepolto in una
tomba monumentale all'interno della basilica di San Francesco a Bologna. Scrisse diverse opere, in buona parte edite
postume o mai pubblicate, sulla filosofia aristotelica. Altre opere: “Explanatio
libri I physicorum Aristotelis” (Venezia, Academia Veneta); “Nova explanatio
Topicorum Aristotelis” (Venezia, Academia Veneta); “Lectiones in quartum meteororum
Aristotelis librum” (Venezia, Francisci Senensis); “Philosophi praeclarissimi
Lectiones super primum librum meteorologicorum Aristotelis, nunc recens in
lucem editae, additi etiam sunt duo indices, tum rerum, tum quaestionum
copiosissimi” (Venezia, Ioannem Baptistam Somascum Papiensem); “Lectiones super
tres libros de anima Arist. Nunc recens in lucem aeditae, cum copiosissimo
indice tam rerum notabilium quam quaestionum quae in uniuerso opere
continentur” (Venezia, apud Ioan. Baptistam Somascum, & fratres); “Explanatio
libri primi physicorum Aristotelis lectionibus excerpta recenti hac nostra
editione quam potuit diligentissime expolita atque elaborate” (Venezia, Hieronymum
Scotum); “Lectiones in Aristotelis Stagiritae libros, quos vocant Parva
naturalia” (Venezia, Hieronymum Scotum); “Lectiones, in secundum, ac tertium
meteororum Aristotelis libros” (Venezia, Hieronymum Scotum); “In duos libros
Aristotelis de generatione et corruptione doctissima commentaria a Ioanne
Carolo Saraceno nunc primùm castigata atque diligentissimè repurgata necnon
copiosissimo atque locupletissimo indice ab eodem nunc primùm amplificata atque
illustrata” (Venezia, Franciscum de Franciscis Senensem); “Lectiones super
primum librum Meteorologicorum Aristotelis, duo additi etiam sunt indices,
nempe rerum ac quæstiorum copiosissimi” (Venezia, hæredem Hieronymi Scoti). Vedi
Treccani L'Enciclopedia Italiana, riferimenti in . Fonte Dizionario Biografico degli Italiani,
riferimenti in . Antonio Rotondò,
«BOCCADIFERRO, Ludovico», in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 11,
Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1969. Charles H. Lohr, «The Aristotle
commentaries of Ludovicus Buccaferrea», Nouvelles de la république des lettres,
1984, pp . 107-18. Alessandro Achillini
Averroè Aristotelismo Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia
Commons contiene immagini o altri file su Ludovico Boccadiferro Ludovico Boccadiferro, su TreccaniEnciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Ludovico Boccadiferro, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Ludovico
Boccadiferro, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Ludovico Boccadiferro,
. Ritratto di Ludovico Boccadiferro
Quadreria dell'Bologna, Archivio storico. il 24 marzo . Averroismo, in
Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Filosofia Filosofo
Professore1482 1545 3 maggio Bologna BolognaUmanisti italiani. Eex
decem illis capitibus , quæ præmittenda eſſe alias diximus , cetera , ut mi-
Quz præmis nus neceſſaria huic tra & ationi,prætermittentes, hæc potiſsimú
attingemus, tenda ſunt an te expolitio quodnam fit philoſophi propoſitum in his
libris Topicorum , quæ ſit huius nem Topico partis utilitas, quæ inſcriptio,
qui ordo, & quæ operis diuiſio : quibus abſo- rum lutis,ad textus
expofitionem accedemus. Propolitum igitur in his libris eſt, quod fit phi
diale& icam methodum tradere.quare,ut, quid hoc propofitum nobis polli
pofitum in li ceatur, intelligamus, cognoſcendum eftquid fit diale & ica .
& quoniam tunc bris Topico rem unamquanque optime cognofcimus , fi ipfam à
ſui fimilibus fciamus rum . diſtinguere; dialectica autem maxime ſimilis effe
uidetur rhetoricæ; ideo ui debimus, quo modo conueniant , differantg; inter ſe
dialectica, & rhetorica. DIALECTICAM Stoici definiunt ſcientiam bene
dicendi. bene dicereautem quidfit diale effe uolunt uera dicere , ac rei
conſentanea.cum autem folus philoſophus corum ſente Čtica ex Stoia hoc
efficiat, ipfi ad philoſophiam ſolum diale &ticæ nomen referunt, ac ſolus
cia . philoſophus , ex eorum ſententia, diale&icus eſt . PLATO uero, ut
Alexanderrefert, diale&icam eſſe exiſtimauit diuiſiuam me quid iterú fit
thodum : cuius opus eft , & ex uno plura facere, & plura in unum
compone- Placonis fena ex re. hanc enim in Phædro dialecticã appellat, ubi eā
ſummis laudibus extollit . tentia , Vervm alia forte eſt Platonis ſententia :
uult enim ipſe , ut patet in dialogo alia , & uera , de iufto ,
diale&icam eſſe facultatem , qux conatur ordinecerto ,circa unum Platonis
fen : quodque , quid ipſum ſit , inuenire . cum autem hæc facultas dupliciter
tentia de dia lectica , quid conſiderari poſsit, primout eius regulæ, ac præcepta
ſeorſum conſiderantur; lit. fecúdo, ut hæ regulæ rebus ipſis applicantur;
diale&ticam Plato à rebus non feiunxit, ideo diale & icum metaphyſicum
appellauit , qui rationem capit cu iuſlibet eſſentiæ , & non ſolum regulas,
& præceptiones callet, quibus inter rogandum reſpondendum ue fit fed ,
& interrogare fic , & reſpondere , quod eſt diale & ici proprium .
cum autem huius fit uel præcipuum inſtrumentum diuifio , ideo eam in Phædro
tantopere commendauit . ARISTOTELES autem diale & icam poſuit ſyllogiſticã
methodum ex proba- Ariſtotelis sé bilibus agentem de quacunque re propofita .
methodum appellat fyllogifti- tentia de dia cam ex probabilibus,
quoniammultipliciter fyllogiſinidifferunt, uel ſcilicet lectica , quid ſecundum
propofitionis ſpecies , uel ſecundum modos, &figuras, uel ſecun dummateriam
,in qua ſunt. ſecundum quidem propofitionum ſpecies alii funt categorici, alii
hypothetici.ſecundum modos , & figuras, alii ſunt per- quomodo fe fe&
i, aliiimperfecti, alii in aliis figura, & modo . fecundum autem materiam
cundum mo differunt , quoniamalii ſuntex ueris, & propriis, qui
demonſtratiuidicun- dos & figu tur ; atque ars , quæ huiuſmodi ſyllogiſmos
docer conſtruere, appellaturme ſyllogiſmi,et thodus demonſtratiua . Alexander
eam dicit appellari demonſtrationem . quomodo fe alii autem ſyllogiſmi ex
probabilibus probant , qui diale &tici appellantur ; at cundum ma que ars ,
quæ huiuſmodi fyllogiſmos docet conſtruere, diale & ica methodus teriam . A
eſt EXPOSITIO LIB . 1 . tedicta decla rat . eſt peripateticis , de qua
philoſopho propoſitum eſt agere in his topicorum libris . at uero ſyllogiſmi ,
qui ex apponentibusprobabilibus procedunt, ſo exemplis an phiſtici ſunt; ac
ſophiſtica ars eft , quæ de ipſis agit, horum autem differen tia hinc perſpici
poteſt. ſienim dicamus, nullum bonum eſt imperfe & um ,uo luptas eſtquid
imperfe & um , ergo uòluptas non eſt bona , hic eſt demonſt ra tiuus
ſyllogiſmus, quiex uoluptatis diffinitione procedit . at ſi dicamus , om ne
bonum bonos efficit poſsidentes , fed uoluptas bonos non efficit , ergo
uoluptas non eſt bona : hic erit dialecticus ſyllogiſmus. quod enim bonum bonos
efficiat , eſtquidem probabile , non tamen neceſſario uerum . ſcien tia enim
bona eſt , quæ tamen bonos poſsidentes non efficit. at ſi quis dicat, quod eft
bonum , eſt appetibile , ſed uoluptas eſt appetibilis , ergo uoluptas quare
diale- elt bona: ettfyllogiſinus ſophiſticus, quiex apparentibus probabilibus
pro ética ex pro- cedit : fallit autem ex loco à conſequenti.quòd fi quis
cauſam quærat, cur babilibus ,& dialectica ex probabilibus tantú procedat
,hæcnimirum eſſe uidetur , quòd, te propolita cum diale&tica interrogare
doceat,acreſpondere,( id quod uerbum Sráneye agat . sou , à quo dialectica
di& a eft , nobis indicat ) oportet , utdiale & ica de rebus omnibus
differat, cum res omnes interrogando , & reſpondendo tractari poſsinc . ſi
igitur diale & icus de quacunque re propoſita agit, neceſſe eſt , de rebus
etiam fallis quandoque diſſerat. quod li ita fit , impoſsibile eſt , ut ex
rebus ueris ſemper probet: neque enim ex ueris falſum colligi aliquo mo: do
poteſt . ad probabilia igitur diale&icus conuertitur , quæ élicit à reſpon
quare diale- dente, ex illisq; propofitum concludit: neque enim probabilia
omnino ue etica lit à phi ra ſunt. ita igitur patet, quid peripateticis
diale&tica fit . lofopho ap- Quæ cum ita fint , re& e di& um eſt à
philoſopho , diale &ticã eſſe avtispoçor rhet pellata avti- toricæ . tribus
enim modis potiſsimum conueniunt rhetorica, & diale &tica: primo
quidem, quia definitum genus non habent circa quod uerſentur, ſicut & modis
inter aliæ omnes diſciplinæ. nam & medicina, & mathematica ,&
naturalis philofo fe conueniát phia , & ciuilis ſcientia , & artes
omnes ſubie & um quoddam agnoſcunt, in dialectica & tra cuius ambitum
continentur . nihil enim , quod ad humanum corpus non rhetorica .
pertineat,medicina conſiderat: neque arithmetica , quod ad numerum.at diale
&tica de quacunque re propofita poteſtagere.eodem modo & rhetoris ca
proprium ſubieci genus,circa quod uerſetur, non habet . ſecüdo , conue niunt
dialectica , & rhetorica , quia utraque non ex propriisrerum princi piis,
ſed ex rebus communibus probat . aliter enim deremedica agit diale Žicus , quam
medicus . hic ex propriis eius artis principiis diſſerit :diale&ti cus uero
ex communibus : eodé modo & orator . Tertio conueniunt , quia circa
oppoſita æque uerſantur, id eft, utranque partem contradictionis tuen tur .
ſimiliter enim diale & icus tuebitur uoluptatem effe bonam , &non bo, :
nam , animam effe mortalem, & immortalem :& orator , aliquid effe
iuſtum , & non iuſtum , utile & non utile, laudabile, &
uituperabile, eodem modo de fendet. aliæ autem omnes artes , etfi utrunque
oppoſitorum cognofcant, non tamen utrunque eorum efficiunt, fed, quod melius
eſt , ſemper ſibi pro ponunt.medicus , exempli cauſa , quæ ſanitatem
efficiunt,fimul& quæ mor bum, perſpecta habet , non tamen fanitatem , &
morbum indifferenter effi cit , ſed ſanitatem ſibi ſemper proponit.eodem modo
& aliiomnes artifices. quare diale- ſola diale & ica, ac oratoria ars
circa utrunque oppofitæ indifferenter uerſan rica à philo tur.atque hinc eſt ,
quòd hæ duæ artes à philoſophis poteſtates ſolent appel fophis lint ap lari.
poteftas enim proprie oppofitorumeſt : hæ autem artes non unum mat pellatę
pote- gis oppofitorum , quam alterum tuentur, licet alii iccirco ipſas
appellari po ſtate ; idý; teftates dicant, quoniam potentesreddunt eos, qui
ipſis inſtructiſunt.quid spopoo rheto ! tici & rheto enim E x P O ŞI T'IQ
LI B. I'I 2 tur . enim non poteſt, qui hominibus probare , ac perſuadere , quod
libeat; pofsit? alii uero iccirco eas poteſtates appellari dicunt, quoniã ad
bonú æque busci nfirma tribus rationi ad malú uſum his uti poffumus: atque hinc
eft, quòd neſcias, bonine an mali plus hominibus hæ artes attulerint: ficut
enim ,fiad honeſtas rariones dedu cantur , ut ueritatis inuentionem , iuſtitiæ
defenfionem , ac commoda pa trix maxime proſunt, ita fiad oppoſita trahantur,
maxime obelle ſolent his igitur tribus cóueniunt dialectica, & rhetorica ,
quòd definitum genus ſub je& um non habent , quod non ex propriis , ſed ex
communibus probant , & quòd utranque oppofitorum æque tuentur. TOTIDEM etiã
modisinter fe differút.primoenim diale & ica circa quam- quot modis cunque
materiam uerſatur. rhetorica autem ciuilem materiam quodammo inter fediffe
dofibiappropriat. ſecundo diale &interrogando ica , & reſpondendo de
re- rat rhetoria busagic, ac prolixitatem uerborum fugiens quambreuiſsime
differit : rhe- lectica : torica uero continuata , ac diffuſa oracione uritur ,
quod confiderans Zeno reéte admodum rhetoricam manui expanſæ , dialecticam uero
eidem in pu gnum contractæ comparauit . tertio differunt , quia diale&ica
circa séris : quid ſie 94 sherorica uero circa uzóleous uerſatur . eft autem
Siois quæſtio nullis certiş is ; & quid finibus temporum locorum ,
perſonarum concluſa . úzóteous uero quæ defini ta eft uelomnibus , uel pluribus
horum , ut fi quæramus , an philoſophiæ ope ra fit danda , siois eſt , fi
quæramus , an nobis hoc temporephiloſophiz ſiç uacandum , utóðeris eft . IT A
igitur paret , quod ſie philoſophi propoſitum in his Topicorum libris agere ,
ſcilicet de dialecticamethodo , uidimusý; , quid eſſet diale &tica , &
quid cum rhetorica conueniat , quid ue ad ipfa differat. AlterVM , quod
diſcutiendum propoſuimus, eft , quænam ſit huius operis diale &icz u .
utilitas eftautem eius utilitas ad quatuor præcipue.primo ad diſputationes,
tilitas , & ad fecundo ad oratoriam facultatem ,tertio ad ueritatis
inuentionem , ultimo quot res cöfe ad ſcientiarum principia probanda.ſi quis ea
demoliri tentet, ad difputatio- ratpotiſſimú, nes quidem utilis eſt
diale&ica , quoniam loca nobis ſubminiſtrat; unde e. quid.confe Tuantur
argumenta ad quodlibet problema conſtruendum , uel deftruédum . ad diſputa -
præterea docer quomodo interrogare , ac reſpondere debeamus. quare fi ţiones.
alios interrogabimus, quodlibet probare poţerimus: fiautem interroganti
reſpondebimus, fententiam noſtram egregie ſuſtinebimus , atque ad ircon ueniens
non deducemur.quàm autem adrhetoricam conferat,hinc patet', quàm confen quod
omnes fere , qui de rhetorica conſcripſerunt, non aliunde , quam ex riam
faculta docis, qui hic traduntur, probationes fuas, quæ ſunt quaſi orationis
cor, de- cem , ſumi tradunt , neque tamen eo minor eft hæc utilitas , quòd plerique
rhe cores ex his Ariſtotelis libris, quod ad rem ſuam faceret, iamdudum mutua
cti ſunt.magni enim intereſt, fi quis aquam ex riuulis hauriat potius quam ex
fonte, id autem uel hinc patere poteſt , quòd , cum apud Ariſtotelem tradi ti
ſint tercentum , atque eo amplius loci , ita diſtincte ſecundum quæſtionum
differentias , ut nihilmagisrhetores eos omnes ad uiginti fere deduxerunt, quam
ampla facultas in quantascoa&a anguſtias. Ad ueritatis autem inuent quàm
confe tionem dialectica confert , quoniã cum in unaquaquere poſsimus ad utran-
rat ad uerita quepartem diſputare ex probabilibus . probabilia autem non fint
exomni tis inucntio parte falſa , ideo ex ipſis aliquid ueri colligere
poterimus , quod Ariftotelis reſtimonio confirmatur , qui plerunque in
rebusdifficillimis diale & icos fyl logiſmos pro utraque parte
præmittit.deinde fententiam ferens folet often quim confe dere quoquo modo rem
ita ſe habere, & quoquomodo non . Confert de rat ad ſciena mum diale &
ica ad ſcientiarum principia defendenda : nulla enim ſciétia pro A 2 pria nem .
EXPOSITIO. LIB. I. 1 Iteriorum . tiarum prima pria principia poteſtprobare ,
fed ea pro ueris aſſumens , alia omnia ex illis pendapaa pro probat: at fi
huiuſmodi principia negentur , nullus præter dialecticum ,& metaphyſicum
poterit ipſa probare.maxima igitur, utpatet, eſt diale &ticæ utilitas
,atque ideo immerito quidam ipfam damnarunt, & fuftulerunt.fie quòd quidã
nim diale &tici quidam pernicioſas opiniones intulerunt , ut Protagoras,
dialectica im qui cum in dialecticis excelleret, Deos in dubium reuocauit ,
unde decreto merito dam- publico Athenienfes eius libros arſerunt ,ipſumą;
Athenis ablegarunt, tan narint , idq ; Protagoræ e quam hominem reipublicæ , ac
philoſophicæ ueritati perniciofum , id non xemplo. dialecticæ contigit uitio ,
ſed eorum potius , qui dialecticam à rerum cogni tione ſepararunt, quod
profecto aliud non eft, quàm fi quis corpus ab ani ma ſeparet , aut oculum à
uiſua facultate: unde mirum non eft, fi poftea dialectica ad deteriorem partem
abufi fuerint . quæ fit hu - SEQUITUR , ut inquiramus,quæ ſit huius operis
inſcriptio , et inſcriptionis ius operis in- caula. inſcribuntur autem hi libri
Torine , græco nomine , à uerbo Tótosi, infcriptionis. quodlocum nobis
ſignificat. eſt autem locus , ut Rodulphus definit ,com munis quædam reinota,
cuius admonitu , quid in quaque re probabile ſit; poteft inueniri , atq ; hinc
libri, qui de huiufmodi locis agut, Topica appellati. Iam illuduidendum eſt ,
qui ſit horum librorum ordo ad alios libros logicæ qui fit ordo facultatis .
primoq; inquirendum eſt, an libri Topici ſequi debeant libros huius libri.
pofteriorum reſolutoriorum : deinde an etiam ſequi debeant libros priorú , et
primo an Primo quidem , quòd pofteriorum libri, qui de demonſtratione agunt, To
cedere debe- pica conſequi debeant ; ex eo probatur , quoniam demonſtratio eft
finis to ant libros Po tius logicæ tractationis , ut Græci atteſtantur, de ea
igitur ultimo loco agen dum eſt .præterea cum probabilia uiam nobis aperiant ad
ipſam demonſtra tionem , fintq; inuentu , ac cognitu faciliora , dehis igitur
priori loco agen huius ratio dum eſt. his itaque rationibus Topica præcedere
Poſteriora ſtatuamus . an uero præcedant, an ſequantur Priora, non minor eſt
difficultas. Marcus Ci Topica cero , cuius fententiam ſequitur Boetius ,
logicam facultatem , quam dili - Lebeidlibros gentem rationem diſſerendi
appellat, in duas partes dicit efle diductam , u . Priorum , nam
inueniendi,alteram iudicandi:inueniendi artem ordine naturæ priorem idậ; ex
fen- dicit . ſi hæcita ſunt, cum inueniendi ars in Topicis libris tradatur,
iudican tentia Cice- diuero in Prioribus, ergo Topica procedut Priora.quæ enim
priora ſuntin ronis, & Boe doctriva ordinata , prius etiam tradi
debent.uerum quoniam plerique ne çit. fciunt qua ratione pars illa appelletur
iudicatiua,ideo hoc ipſum nunc:0. ſtendamus. Appellatur hæc pars inuentiua eo
quòd locos, utdiximus, con partes logicæ tinet , ex quibus probabilia
eruuntur.pars uero altera iudicatiua dicitur, altera inuen- quoniam doceſ, quo
pacto, probabilia illa , quæ inuenimus , fint conne& en tiua,altera ne da ,
qua ſcilicet figura , & quomodo, ut aliquid concludamus, non ſolum ma
appellentur. teria opuseft , qua id efficiamus , ſed etiam recto , &
artificioſo connexu. , non aliter, quam qui cercas, autáreasimagines fundunt,
non ſolum materia indlgent , fed etiam typis quibuſdam ,per quos fuſa materia
debitam formam fufcipiat.pars igitur illa , quæ de locis agit, inuentiua, quæ
uero de modis,ac figuris ſyllogiſmorum , atque inſuper decautionibuscaptioſarum
argumen opinionis fu- tationum , iudicatiua eſt appellata . ſed , ut ad rem
propoſitam redeamus, perioris effi - concludebat prior ratio Topica debere
præcedere librospriorum , ſed huic cax oppofi - fententia opponitur efficax
ratio.in Prioribus enim agitur de ſyllogiſmo in . communi, in Topicis autem de
ſyllogiſmo dialectico.cum autem commu niora femper præcedere debeant , ergo
priorum libri præcedent Topica, hancq; ſententiam peripateticiomnes, Græci,
Latini , & Arabes concordes cui caméopi conſequuntur.Si cui tamen prior
ſententia magis arrideat , quòd ſcilicet TO nis confirma tio . an qua '
ratione. I O PICOR VM ARIŞ T. 3 Ctio . $ Topica præcedane, non concedet ; quod
oppoſita ratio aſſumit , quòd fcili- nioni magis cet in Topicis de diale&ico
ſyllogiſmo agatur , ſed dicețibi agi de materia & eiustatio diale & ici
fyllogiſmi , quæ ſunt ipſa probabilia.hæc poſtea quomodo ſyllogif- nis confirma
mosautalia argumentationis fpecieconnecti debeant,in prioribus traditur. tio .
quòd Gi philoſophus Topicoru initio dicit ſe in propoſita tractatione diale
&icum fyllogiſmum quærere , hoc propterea dicit , quoniam hæc omnia gra-
niobiectio. huic opinio tia diale & ici ſyllogiſmitra & antur: quid
enim conferent probabilia , nifi ipfi huius obie– recte componere, ac
connectere ſciamus? non tamen ſupponunt do &trinam ctionis diflo de
fyllogiſmo, quæ in prioribus traditur : Id neque ex eo oſtendi poteſt, hanc
lutio . tračiationem eam fupponere , quæ eſt de fyllogiſmo , quoniam
philoſophus alia huius ra obie initio primi Topicorum de ſyllogiſmo , atque
eius ſpeciebus agit:non enim ob aliud de his agit, niſi ut dialectici
fyllogiſmi materiam inueniat, de qua huius obie hoc loco nou diffiniret ,
eiusg; ſpecies, cum dehis in reſolutoriis abunde e- ftionis dißio lutio alia,
giffet.ita igitur Topica librum de interpretatione conſequentur, Priorum
conclufio . autem , ac Pofteriorum libros præcedent. Illvd deniū uidendum
ſuperelt , quæ fit huius operis diuiſio.diuiditur au- quæ fic huius tem in tres
partes . in primo enim libro oſtendit partes , ex quibus compo- operis diui –
nuntur orationes dialecticæ , & partium partes , uſque ad fimpliciſſimas.
in fio. fecunda parte oitendit loca , ex quibus fumantur argumenta ad conſtruen
dum , & deftruendum omnegenus quæſiti , quod fit in ſex ſequentibus libris
. in tertia autem parte; uidelicet in o & auo libro interrogantem inftruit,
quo- . modo debeat interrogare, ac reſpondentem , quomodo debeat reſpódere . In
hoc primo capite proponitphiloſophus propoſitum ſuum in his Topicis libris .
&quoniam hæc omnia,quæ in hoc uolumine tractantur , gratia diale quid in
hoc Etici fyllogiſmi tractantur , ideo præmittit, quid ſit fyllogiſmus , &
quæ fint agendum pro eius differentiæ.primo igitur definit fyllogiſmum , deinde
definit ſyllogiſ- ponac philo mum demonſtratiuum : & quoniam demonltratio
conſtat exprimis, & ueris, fophus . oftendit , quænam ſint hæc prima, &
uera , definit etiam diale &ticum ſyllogif mum . & quoniam conſtat ex
probabilibus,oftendit quænam ſint probabilia. definit deinde litigioſum
fyllogiſmum , poftremo definit paralogiſmum , qui in ſcientiis fit , ac
concludens dicit ſe ſummatim dehis egiſſe , admonetą; ſe non effe de rebus his
exactam do & rinam traditurum , ſed qualis pro poſitæ methodo conuenit.
Propoſitum ) Duæ ſunt apud philoſophos uoces cognatæ , propofitum , & fub-
quid inter se iectum . ſubiectum eſt circa quod unaquæque diſciplina uerfatur:
propoſitum differantpro uero eſt id , quod artifex ſibiproponit , & quo
effe & to ceſſat ab opere, exem- pofitum ; & plicauſa ,fubie& um in
medicina efthumanum corpus, propoſitum uero eſt ſubiectum . fanitatem efficere
in humano corpore , & femper propoſitum comprehen dit etiam ſubiectum ,
quare Græci interpretes, cum ſemper expofitum quæ rant , de ſubiecto nunquam
fere uerba faciunt notandum autem eſt, quòd in hoc differre uidentur artes
factiuæ à diſciplinis contemplatiuis, quòd in pro- quomodo fa pofito artium
faciuarum tria complectuntur, effectio primum , quæ eſt cu- ctiuz artes à
juſlibetartis finis , deinde forma, quæ ab artifice introducitur , quæ &
ipſa differant. fubie & um artis propinquum appellatur, ſicut eſt in
medicina ſanitas: ptäte rea ipſum ſubiectum , atque hæc tria in propoſito artis
explicantur , nilicon tingat formæ illi , &fubiecto unum eſſe nomen impofitum
. in propofito au tem contemplatiuarum diſciplinarum comprehenditur cognitio ,
quæ eſt cuiuſlibet fcientiæ contemplatiuæ finis , & ipſum ſubie & um
licet fiquis in his etiam diligentius inſpiciat , uidebit formam quandam latere
naturalis philoſophi.propofitum eſt res naturales cognoſcere , fed forma latet
modus 1 1 торт сок у м ARIST , di , dus , ſcilicet & character quo illas
cognofcit , nempe phyſice eodem modo , &arithmetici propoſituni eſt numeros
cognoſcere ledlatet illud mathema tice , quod eſt quali forma eius cognitionis
. notandum etiam eft aliud effe proris differ. propofitum eius, qui ſcientiam
aliquam tradit , &ipſius ſcientiæ , exempli se àpropoſ- cauſa
,philoſophipropofitum eſt in hoc uolumine de dialectica agere , ipfius to
ſcientiæ , uero diale &ticæ propofitum eſt probabiliter diſputare de
quacunque propofi quä ipfe fcri- to problemate . utrunque autem propofitum
indicant uerba philoſophi. ptor tradit . quid ſit me Methodum . utcognoſcamus
quid methodusſit, quæ res , ſicuti non facilis eſt; thodus . ita digniſsima eft
cognitione, notandum eſt,quòd methodus , ficut nomen indicat, elt uia quædam ,
qua unum poft aliud certo quodam ordine poſitum eft , quare diſciplinæ omnes ,
quæ certum quendam ordinem obſeruant, me : quæ fint pro- thodi appellantur: ſed
inter ipſas diſciplinas aliæ ſunt, quæipſis diſciplinis prie mecho- tradendis
deſeruiunt, & iccirco diſciplinarum inſtrumenta dici poflunt, cu juſmodi
ſunt definiendiars , & diuidendi , & aliæ quædam . aliæ uero ſunt di
ſciplinæ , quibus illæ deferuiunt, proprie quidem methodi nomen diſciplinis
deſeruientibus conuenit , quæ omnes ad logicam tractationem pertinent , quæ
etiam in cauſa ſunr, cum aliis diſciplinis applicantur,ut niethodi nomé
accipiant: unde & medendimethodus, & phylica methodus dicitur , cum ſci
licethæ diſciplinæ certo quodam ordine traduntur , quod non aliunde ha bent,
quam ex illis logicis mechodis . quod hæc ars Inuenire. dixit hoc philoſophus ,
quoniam ante ipſum hæc ars nondum erat nondum inué conſtituta : etſi multa apud
Platonem , & alios ueteres philoſophos reperi ta erat,ſed ip rentur, illa
tamen erant præcepta quædam ſparſa , & difie & a ,neque colle ſe primus
ea inuenit, & p &a in artem . primus omnium Ariftoteles hæc diligenter
perſecutus artem fecit , hanc inſtituit , fimul & perfecit . A quapoterimus
etc, cum diale & icainterrogando , & reſpondendo conſiſtat , quid diale
& i- oftendit philoſophus , quidnam ipſa conferac tum interroganti , tum
reſpon ca cöferat in denti.confert enim interroganti , quoniam docet ipſum diſſerere
de qua reſpondenti cunque re, quæ à reſpondente proponi poſsit: confert
reſpondenti, quonia inftruit ipſum , ne abinterrogante deducatur ad
inconueniens :ſed ſenten tiam ſuam egregie ſuſtinear , De omni, hoc dicens
philoſophus quodam modo diale & icam d rhetorica ſe parauit. etſi neutra
earum habeatſubie & um limitatum ,non æque tamen rhe torica de omni
quæſtione diſputat , ſicut dialectica.circa ciuilia enim nego cia magis
uerſatur, quod quædā Propoſito problemate. Quid ſit problemainferius oftendet
philoſophus. diſpu non ſunt dia- tat diale & icus de rebus ciuilibus , de
rebus naturalibus , de rebus medicis lettica pro- aliisg;, in his tamen quædam
ſunt, quæ non ſuntdialectica problemata , ne blemata . que enim diſputabit de
his , quæ indigentſenſu , aut pæna,utquòd ignis fic callidus , neque de his ,
quæ propinquam habent demonſtrationem , led de his quæ dubitationem aliquam
habent. Ex probabilibus.quare diale & icus ex probabilibus diſſerat,
ſuperius diximus. quid philofo. Primum igitur. particula igitur coniungit hanc
partem cum eo , quod dixit gat illa parti ſyllogizare.fi enim docet hæc ars
fyllogizare ex probabilibus, ergo oppor Cula,Primum tet , utcognoſcamus , quid
fit fyllogiſmus ; præterea debemus uidere, quæ igitur . ſint ſyllogiſmorum differentiæ
, ut manifeſtum fiat , quòd fit hic fyllogiſinus ex probabilibus , quo
dialectica methodus utitur . dubitatio an Hunc enim quærimus. dubitant quidam ,
cum diale&icus ſyllogiſmus ſit huius hisusubiectului operis fubie& um ,
quomodo dicat philoſophus, hunc enim quærimus , quo fit dialecticus niam fubie
& um debet præcognoſci in qualibet ſcientia, cuiuseſt ſubie & um : 1 1
1 quod TOPIC Q R VM. ARIS 1 .: 4 tionem . quod autem eft præcognitum , non
poteſt eſſe quæſitum : ſed dicendum eft , fyllogiſmus, quòd in hoc uolumine
fubie & um eſtnon dialecticus ſyllogiſmus, ſed diale & i- methodus. ca
methodus , cuius tamen præcipuum opus eſt ſyllogiſmus diale&icus . ſed li
folutio Tupe etiam ſupponamus ſubiectum eſſe ſyllogiſmum diale& icum ,nó
tamen eſt in- rioris dubita conueniens, quòd quæratur, quoniam ſubie &tum
in ſciétia ſupponitur, quod aliaetiam for fit , & quid ſignificet. ſed
poteſt poſtea quæri , quid fit , quæ ſint eius partes, lutio . paſsiones ,
&proprietates .non igitur idem erit ſuppofitum , & quæſitum . Eft
itaque ſyllogiſinus. fyllogiſmum interpretatus eft Cicero ratiocinationem ,
quid nobis fi in eius definitione orationem poſuit philoſophus loco generis
(cum enim gnificet fyllo aéros duo fignificet, græci omnesaccipiunthoc loco pro
oratione )non folu gulmus: enim ſyllogiſmum , fed & alia plura oratio
comprehendit.quæ omnia à fyllo Pelindorecas giſmo ſeparauitphilofophus quatuor
adiectisdifferentiis: eam enim oratio fumatphilo nem, in qua poſitis quibuſdam
, aliud quid neceſſario accidit , propter po- fophus ora fita ſyllogiſmum
appellat. Quibufdampoſitis, per hocſyllogiſmum ſeparauitab his orationibus, in
quibus quid ſeparec nihil ponitur , qualis eſt enarratiua oratio. pofitis autem
ſignificat fumptis, hac particula & conceſsis: oportet enim , ut quæ ad
ſyllogizandum ſumuntur , etiam con atis. quibufdá po cedantur , uel ſcilicet ab
alio , fi cum alio quis ratiocinetur , uel faltem à ſe ipſo , ſiſecum
ratiocinetur ,uelab audiente non expetit reſponſionem . præ utrú illud, po
terea illud , poſitis , comprehendit non folum affirmatiuas propoſitiones,
ſitis,compre uerum & negatiuas.nam & negatiuæ nihilo fecius ad
fyllogizandum ſumun- hendat & af tur , quàm affirmatiuæ.præterea illud,
poſitis, proprie reſpicit categoricas negatiuas p propoſitiones. hypotheticæ
enim non ponuntur, fed fupponuntur, unde ca politiones: tegorici ſyllogiſmi
ſimpliciter , acproprie fyllogiſmi dicuntur. hypothetici utrú illud po ſitis
compre non ſimpliciter dicuntur ſyllogiſmi, fed hoc totum ſyllogiſini
hypothetici . dixit præterea pofitis , & non pofito , quoniam ex uno pofito
nihil poteft fyi ricas, aneuí logiſtice concludi , ſed utminimum ex duobus
.argumenta enim illa, quæ ex hypoteticas. uno polito aliquid concludunt , uti
ſunt enthymemara , & quæ Antipatri ſe- quomodo co &tatores Moronéquata
appellarunt, defectuoſa funt ,quod deprehenditur,quiasnofcai qua fi id , quod
prætereunt, ſuppleamus , nihil eft in argnmentatione ſuperuaca veum , quod
profe & o fieret ,fi huiuſmodi argumentationes non eflent defi- etuoſa .
cientes, ut in ſyllogiſmis uidere eft.fiuntautem enthymemata , ubi propofi
quando pof lint fieri en tio aliqua præteriri poteſt , quoniam euidens eſt,
& manifefta , ut reſpirat , thymemata ergo uiuit: at ſi huiuſmodi
propoſitio latens ſit , tunc no poſſunt effici enthy- quando non memata , ut fi
dicamus,motus eſt,ergo uacuum non eſt, ſed hæ appellantur poſsint fieri
illationes , & conſequentiæ , non etiam enthymemata . enthymema Aliud quid
à poſitis, oftendit his uerbis philoſophus fyllogiſmi utilitatem.nul fyllogiſmi
uci lum enim eft aptius inſtrumentum ad cognoſcendum , quàm fyllogiſmus : cú
litas . enim nos fimus cognitionis participes , non tamen fine diſcurſu res
cogno- quotuplici - fcamus , ſicuti beatæ métes , quæ intuitiue cognoſcunt,
ideo ab uno ad aliud ter abuno ad procedimus.cum autem hoc quadrupliciter fieri
pofsit, uel à noto ad notū, datur. uel ab ignoto ad ignotum ,uel ab ignoto ad
notum, uel à noto ad ignotum ; tres primi modi nihil ad cognitionem conferunt ,
ſed ſolus quartus, quo pro cedimus à noto ad ignotum , hoc autem fit per
fyllogiſmum :quare cum im poſsibile fit , ut idem fit notum , & ignotum ,
ideo oportet , ut in fyllogif mo aliud concludatur ab his , quæ poſita ſunt:
quia fialiquid concludaturno aliud à pofitis, ea oratio non erit ſyllogiſmus,
quia fyllogiſmi uim nó habet, quinam fyllo ſicut oculumnon dicimus, qui uidendi
uſu caret, ut eſt pidus, autlapideus. gifni à toi merito igitur à fyllogiſmi
definitione excluduntur, qui ſyllogiſmi siapapouueror pellari Siepo iſtoicis
appellantur, in quibus aliud à pofitis non concluditur , ut uel dies pouuevos.
eſt, do argu menta defe ta . aliud proce TOPIC OR VM ARI S. T. 1 obie &tio
. eſt , uelnox eſt, ſed dies eſt,ergo dies eft.Sed obiiciet quis , liſyllogiſmi
funt, qui hoc modo ex diuifione procedunt , uel dies eſt, uel nox eít, ſed dies
eſt , non ergo nox eſt: quare non etiam priores illi fyllogiſmi erunt . uidetur
e nim quòd idem ſit , nox non eſt, & dies eſt , etſi in uerbis fit
differentia.uer borum enim differentia , fi idem ſit ſignificatum , nihil
omnino facit . dicen ſolutio obie- dum eſt, quòd illatum illud noxnon eſt ,
ſignificat quidem diem eſſe, non ta ctionis . men primario , ſed ſecundario.
primo enim ſignificat no &is negationem , ſe cundario autem ſignificat diei
præſentiam , eo quòd non exiſtente no & te ne cellario dies eſt
:quemadmodum & nox eſt , primo ſignificat no &i præſen tiam ,
ſecundario uero diei priuationem . cum igitur aliqua fit inter hæc dif ·
ferentia , quoniam non eandem rem primario lignificat, ideo hi ſyllogiſmi quòd
fyllogif ſunt. illiuero, in quibus nulla prorſus eſt differentia, inter
aſſumptum , et illa mi,quifiunt tum non merentur dici ſyllogiſmi, eadem ratione
& fyllogiſmi illi ſunt , qui ex contradi- ex contradi& tione fiunt, ut
uel dies eſt , uel dies non eſt , ſed dies eſt , non er merentur di- go non
eſt.aſſumptum enim illud primario ponit diem efle , fecundario au ci
ſyllogiſmi. temnegat diem non eſſe . quæna fit ha Ex neceſſitate accidit .
declarat hac uoce philoſophushabitudinem ,quæ eſt in bitudo inter ter
concluſionem , & præmiſſas , quas appellauit pofita . oportet enim quòd
præmillas, & concluſio à pofitis neceffario inferatur . notandum autem eſt
,aliud eſſe con quid differat cluſionem neceſſariam , quàm quæ ex neceſsitate
accidit.conclufio enim eſt inter conclu- neceſſaria , quæ eſt in
neceſariamateria , uthomoeft mortalis : concluſio ue fioné necella ro ex
neceſsitate eſt , quæ à poſitis neceſſario dependet , quod non minus riá ,
& de ne: uerum eſt in materia neceſſaria , quam in contingenti . ſeparauit
autem hoc dentem ,& de dicens philoſophus , ſyllogiſmum ab indu & ione
, in qua , quoniam non om neceffario, nia ſingularia inducuntur , & fi
inducantur, non tamen oportet, quòd eodem ſcilicet é hæc modo fe habeat
uniuerfale , ficut unumquodque ſumptorum , ideo conclu conclufio in lio in ea
non accidit ex neceſsitate. fiigitur conclufio non accidit ex neceſsi Cario ,
tate, non erit ſyllogiſmus: atquehinc merito litigioſus ſyllogiſmus in forma
peccans nonmereturdiciſyllogiſmus. quot de cau- Propter poſita. quatuor de
cauſis hoc adiecit Philoſophus, primout deficien lis philoſo - tes fyllogiſmos
ſepararet, in quibus deficit altera propofitio ad ſyllogiſtica il phus poſuerit
lationem , ut lac habet, ergopeperit . ſecüdo, ut ſepararet ſyllogiſmos ſuper
in definitione ſyllogiſmi uacaneos, in quibus aſſumitur propofitio aliqua ad
concluſionem non necef particulă hâc faria , ut fi dicamus , omne iuſtum eſt
honeſtum , omne honeftum eft bonum , ſcilicet Pro- omne bonum eſt eligibile ,
ergo omne honeftum eſt eligibile.tertio ,ut ſepa pter poſita raret orationes ,
in quibus propria conclufio non infertur, fed aliquid alie tuor de cap - num ,
ut, quod eſt ſecundum naturam , eſt eligibile, uoluptas eſt ſecundum na Gis.
turam , ergo uoluptasbona eſt. talis elt Epicuri ratio , de morte diſſolutum
non ſentit : quod non ſentit, nihil ad nos pertinet :mors ergo nihil ad nos
pertinet. quarto , ut ſepararet eas orationes , in quibus non ponitur aliqua
propoſitio uniuerſalis ,utſi dicamus , linea a eſt æqualis lineæb, &linea c
eſt æqualis eidem lineæb , ergo linea a, & linea c funt æquales inter ſe .
hæc enim concluſionon ſequitur expofitis , fed ex uniuerſali prætermiffa , quæ
dicit , quæ ſunt æqualia uni tertio ,funt æqualia inter ſe . quid differae
Demonſtratio igitureſt , quando ex ueris, & primis ſyllogiſinus eft. Aliud
eft demon inter demon- ftratio , & demonſtratiua methodus.eſt enim
demonſtratiua inethodus ip deinonitrati ſa ars , & diſciplina , quæ
demonſtrationes efficit . demonftratio uero eſt uam metho demonſtratiux methodiopus.cum
igitur uelit philoſophus fyllogiſmi dif duin . ferentias definire , à
demonſtratione incipit , quæ eft omnibus aliis nobiliſſi ma . dicit autem ipſam
eſſe fyllogiſmum , qui conſtat exprimis , & ueris , uel . hoc eft qua 1 ex
торгсок у м AA 5 R I S T. ex his , quæ pro aliqua prima ,& uera ſuæ
cognitionis principium ſumpſe runt.oportet igitur , fi definitionem aliquam
cognofcere debemus , icire quænam ſint prima , & uera, quod ipſe paulo poſt
oftendit, quòd ſcilicet ſunt fcientifica principia diſciplinarum , quæ nonex
aliis , ſed ex ſeiplis fidem ha- quòd ſcienti bent . hxc enim quoniam funt
principia ,non poſſunt ex aliis demonſtrari , exte, non au quia non amplius
eflentprincipia , ſi ex aliis poflent demonſtrari . & cum ex tem ex aliis
ipfis alia demonftrentur ,opus eſt, quòd ex ſeipſis fidem habeant , alioqui o-
fidem habét . mnia demonſtrata eſſent incerta . ſunt igitur ipſa principia
ſcientiarum cer ta , & euidentia : ex his autem quædam funt nobiſcum innata
, & quæ à præce ptore non diſcuntur , ac proinde appellantur communes animi
conceptio nes , dignitates , & proloquia , ſeu profata . alia uero ſunt ,
quæ non poſſunt quidem demonſtrari , nobiſcum tamen non ſunt inſita , ſed
admonitione quadam , & declaratione indigent.leui enim declaratione ipfis
affentimur, & hæc appellantur poſitiones, quæ duplices ſunt , uel enim
dicunt aliquid ef quotuplices lint politio ſe , uel non eſſe , &dicuntur
petitiones , uel poftulata , uel quid fit res indi- nes. cant : ſed
non dicunt aliquid efle , uel non efle , & appellantur definitiones ,
quæ omnia apud mathematicos manifefta funt . Quod autem dicit philoſophus, Non
enim oportet in diſciplinalibus principijs inquirere propter quid . Videri
poſſetali- obie &tio , 9 cui dubium , cum Themiftius primo poſteriorum
dicat , prima principia fcilicet prima ſcientiarum habere cauſam , propter quam
illis affentimur lumen , ſcilicet fciétifica prin intellectus agentis :
præterea principia cognoſcimus per terminos , ſed ter- habent,pro mini ſunt
cauſamaterialis principiorum , ergo principia habent cauſam.di- pterquam il
cendum eſt , quòd prima principia habent quidem cauſam , quæ affentimur ip
nöautem ex ſis , non tamen habent caufam ,propterquam poffintdemonſtrari. ad
ſecun- fe habentcau dum dicendum eft , quòd ex terminis quidem cognofcuntur
priucipia , non fam . tamen ex illis poſſuntdemonftrari,quoniam termini ſunt
incomplexi : ne que omnis cauſa dicitur propter quid, ſed ea, ex qua poſſit
aliquid demoſtrari. HABEmvs igitur , quæ ſint prima , & uera : addit uel ex
his, quæ per aliqua quare philo prima , & uera, &c. niſi enim hoc eſſet
additum , primæ ſolum illæ effentde- fophus in de monſtrationes , quæ ex
principiis demonſtrantur, cum non minus etiam de- nis definitio monſtrationes
ſint , quæ demonſtrantur ex demonſtratis primis, ſed quamuis ne poſuerit ca ,
ex quibus fit demonſtratio , prima non fint ſemper, tamen ſunt priora etiã hæc
uer concluſione . ſemper enim debent eſſe caufæ conclufionis , non folum in in-
ba, uel ex his , ſerendo , ſed etiam in eſſendo . propterea dubitat Alexander ,
fi quis ab effe- quæ penalina &u ad cauſam procedat , utrum debeat dici
demonſtratio ,andiale& icus ſyl- uera luz co logiſmus , quia enim procedit
ex ueris, non uidetur, quòd fit diale & icus; qui gnitionis prin ex probabilibusprocedir
: & quoniam ex pofteriori procedit , non uidetur, сіруй fumple quòd fit
demonitratio , quæ ex primis procedit . ſoluit Alexander , quòdu trunque tueri
poſſumus , & quòd ſit dialecticus fyllogiſmus , quoniam huiuf modi uera
ſumuntur pro probabilibus , ut lac habet , ergo peperit. luna de ficit , ergo
terra inter ipſam , & folem eſt interpofita. poffumus etiam dice re , quod
fit demonſtratio , fed demonſtratio quo ad nos, quia in ea accipi mus ea.quæ
nobis notiora ſunt.eſt igitur demonſtratio imperfe & a , & im proprie
dicta . Dialecticus autem ſyllogiſmusex probabilibus ſyllogizans.Non poflumus
autem hanc quænam fint definitionem intelligere , niſi cognoſcamus ,quæ fint
probabilia, ideo fubdit probabilia. philoſophus ,probabilia ſunt, quæ uidentur uel
omnibus, uel pluribus , uel ſapientibus,& his uel omnibus , uel pluribus,
uel maxime cognitis , & pro- omnibus pro batis , omnibus quidem probabilia
ſunt, ut fanitatem eſſe expetendam ,ui- babilia . runt . quænam ſint B tam торт
сок у м A R I S T. . tam eſe expetendam , fcire pulchrum eſſe , parentes eſſe
honorandos: hæc e nini omnibus probantur, quòd fi quialiter affirmant,id
aduerſus intrinſeca rationem dicunt . plurimis autem probabilia ſunt ,
prudentiam effe diuitiis plurimis quænam fint eligibiliorem , & animam
corpore præftantiorem . notató; hoc loco Alexan pro babilia . der , quòd fi
diale&icus de his ſoluni diſputaret , quæ in communi notione uerfantur, ea
ipfi ſufficerent, quæ omnibus, uel pluribus probātur : fed quo niam plerunque
etiam de his , quæ à communi notitia remota ſunt , ideo ea quænam fint etiam
probabilia aſſumit , quæ ſapientibus uidentur.omnibusautem ſapien pbabilia om-
tibus uidentur , quæanimi bona ſcientia , ſcilicet & uirtus fint
præftantiora nibusſapien- bonis corporis ,quòd ex nihilo nihil fiat. plurimis
autem ſapientibus proba bilia ſunt uirtutem effe per ſe expetibilem : & fi
aliter Epicurus ſentiat felici tatem à uirtute fieri, quòd non detur aliquod
corpus indiuiſibile; & fi aliter ſentiat Democritus , quòd non ſint mundi
infiniti ; & ſi contra Anaxagoras quænam fint opinatus ſit ; celeberrimis
autem probabilia ſunt,animam humanam eſſe im probabilia ce mortalē , quæ fuit
Platonis opinio , uel effe quoddam quintum corpus,quam leberrimis fa- dicit
Alexander fuifle Ariſtotelis ſententiam , quod & M. Tullius eidem at
pientibus . quòd etiam tribuit , licet alii omnes aliter ſentiant de
Ariſtotelis opinione . ſunt autem ,pbabilia ſunt hæc probabilia, & fiuel
pauciadmodum , uelunus tantum forteita ſit opina ea , quæ uel tus, quoniam ſicut
illi probatiſsimi ſunt, ita eorum opiniones maxime pro unus, uel pau babiles
eſſe uidentur . notandum autem eſt differre probabile à uero, non eo
fenferint-, quòd probabile falſum ſit ,utplurimum enim probabile , neque omnino
eft illi probabi- uerum , neque omnino falſum , ſed differunt iudicio.dicitur
enim uerum ex les fuerint. ipſa re , quando ſcilicet cum re conſentit.
probabile autem dicitur ex audie tium opinione : fi enim ita audientes
opinentur , probabile dicitur.probabi lia enim quatenus probabilia ſunt, neque
uera , neque falſa ſunt: quædam e nim uera probabilia ſunt, ut Deos eſſe :
quædã etiam uera ſunt,quæ non funt probabilia , ut quòd extra cælum nihil ſit:
quædam etiam ſunt falſa , & proba bilia , ut quòd Deus omnia pofsit, neque
enim mala poteſt, ſicut & pleraque ſunt, &faiſa , & non probabilia
: ſed ex his nulla fit argumentatio . notandum etiam eft , pleraque probabilia
eſſe inter ſe oppoſita . fæpe enim quod proba turuulgo,non probatur à
fapientibus , ut quòd bona animi præſtentcorpo quid fit pro- ris bonis. M.
Tulius primode inuétione probabile dicit effe id , quod fere fie babile ex M.
ri ſolet , ut matres diligere filios ſuos , & id , quod in opinione pofitú
eft , ut Tullii opinio, impiis apud inferospenaseffe paratas :&quòd ad
hochabetquandã ſimilitu dinem , ut ſi his , qui imprudenter ceſſeruntignoſci
,conuenit: his , qui ne in quot par- ceſſario profuerunt, haberigratiam non
oportet. hoc autem probabile in tes diuidatur quatuor partesdiuiditur , in
lignum , quod uel negocium præcedit, uel comi probabile . tatur ,uel
conſequitur . credibile iudicatum , quod eſt uel religioſum , uel commune , uel
approbatum : & comparabile , cuius partes tres ſunt, imago, collatio ,
exemplum , quotuplex ſit Litigioſus autem ſyllogiſmus . duplicem oftendit
philoſophus eſſe ſyllogiſmum fyllogiſmus litigiofum , & qui procedit ex
apparenter probabilibus , ſed re&am ſeruar litigiofus. connexionem : &
quiconnexionem prauam habet , uel fit ex uere probabi libus . ftatuita;
philoſophus eum , quiin connexione fyllogiſtica peccat, non eſſe dicendum
ſyllogiſmum , fed hoc totum fyllogiſmum contentioſum , quemadmodum homo mortuus
non dicitur homo , fed hoc totum homo mortuus. qui uero ſyllogiſticam
connexionem ſeruat , ſed procedit ex ap parentibus probabilibus , dici poteſt
ſyllogiſmus. ratio autem quare hic ſit fyllogiſmus, hic uero non eſt, quoniam
uitiatur fyllogiſtica connexio , pe rit fyllogiſmi natura non aliter , quam
homo deſinit elle, quod eſt , li anima priuetur, ne . E X POSITIO LIB L IB. 1 .
6 . priuetur, quoniam non poterat hæc definitio intelligi , nifi cognoſceremus
quid etient apparenter probabilia , & quid differrenta uere probabilibus,
quid fint ap ideo hocipfum declarabit philofophus. dicit enim , quòd nihil
eorum , quæ bilia ; & quid funt probabilia in ſuperficie idem ,
funtapparenter probabilia , habet omni differant à ue no fantaſiam idem ,
funtuero probabilia.id autem eſt apparenter probabi- re probabili le & in
ſuperficie , quòd facile redarguitur ,quia ſcilicet promptam habet bus .
inſtantiam , ut ſi dicamus , quod uidet, oculoshabet.ſi quis enim hoc admit
-tat , fateri cogetur oculum habere oculos, ita ſi quis fateatur , quæ loque
ris , ex ore exeunt , audire poterit , currũ loqueris ergo : currus ex ore exit
. eodem modo qui oculos habet , uidet , fed dormiens habet oculos, ergo
uidet.in his fi quis parum infpiciat , mox deprehendet mendacium , quod
nonhabeantea, quæ uere probabilia dicuntur :neque enim hoc facile quis
redarguet, quod maiori bono contrariuin eſt ,maius malum eft : in multis eniin hoc
uerum eſt, falſum tamen quandoque deprehenditur.nam morbus, qui eſt maius malum
, quàm mala babitudo, contrariatur ſanitati, quæ eſt minus bonum , quàm bona
habitudo . Principii litigioſarum orationum . per hoc intelligit philoſophus
propoſitiones, ex quibus litigiofi ſyllogiſmi fiunt , non autem horum
argumentorum loca. NOTAND v M autem eft differre litigioſum , ſeu contentioſum
ſyllogiſmũ quid differat à ſophiſtico ex utentis inſtituto.contencioſus enim
eſt ,qui ui& oriam aſpi- litigiofus fyl rat :fophifticusautem , qui gloriam
. ſophiſtice enim ex fucata fapientia glo logiſmus à ſo phiftico . riam captat,
ut inde pecunias acquirat ,ut dicitur ,primo Elenchorum ca pite decimo . Adhuc
autem præter dictos omnes fyllogiſmos . aliam ſyllogiſmidifferentiam affert
quidfit para philoſophus , qui eſt paralogiſmus, quifit in ſcientiis expropriis
quidéprin- logiſmus. cipiis alicuius fcientiæ procedens, ſed male dedu &is
, atque ideo falſis. appel lauit autem philoſophis ſcientiis geometriæ cognatas
ſtereometriam ,per- fcientiæ geo fpe &tiuam , aſtrologiam , arithmeticam
,muficam , archite & uram , chofmo- metriä сo graphiam , mechanicen , &
alias quaſdam.quòd autem huiuſmodiſyllogiſmi gnatæ . à ſuperius di&is
differant , patet : non enim ſuntdemonſtratiui, quia falſum concludunt. nam
etſi propria principia alicuius fcientiæ aſſumant, quxuera funt , eo tamenmodo
intellecta , quo falſus deſcriptor illis utitur , ſunt falla. neque etiam
huiuſmodi ſyllogiſmidicipoffunt diale & ici ; quoniam ex proba bilibus non
ſunt : neque enim quæ omnibus probantur , neque quæ pluribus affumunt , neque
quæ omnibus fapientibus , neque quæ plurimis , neque celeberrimis , ſed
nequedicipoffunthi ſyllogiſmi litigiofi ,quoniam non af fumunt apparenter
probabilia . propria enim principia non uulgo , ſed his , qui in ſcientia ſunt
uerſati,cognoſcuntur quare probabilia dici non poffunt, & cum ad prauum
ſenſum deducuntur , non etiam dici poterunt apparen ter probabilia . Λημμάτων.
λήμματα funt apud Αriftoteleim propofitionesfyllogifmorti quas λήμματα . nos
præmiffas appellamus , & ſumpta: undelyllogiſinidefe & uofi, qui ex ana
qua ſint . tantū propoſitioni conſtabāt,ab Antipatro coronéiuuati ſunt
appellati.notan dum eft paralogiſmum , qui in ſcientiis fit , qui
pſeudographusappellatur;ita quonam mo fe habere ad demonſtrationem ,
quemadmodum fe habet contentiofus ad do paralogiſ diale& icum.notandum
præterea eſt paralogiſmi nomine, comprehédi utrun- mus habeat que modum
ſyllogiſmi contentiofi , fyllogiſmum ſophiſticum pſeudogra- ftrationen phum ,
& tentatiuum . Species igitur fyllogiſmorum , ut figura quadam complecti
licet . Plures affert ratio. rationes qua nes Alexander , quare dixerit
philoſophus, ut figura quadam comple & i licet, re philofo B 2 uel phus
dixerit, quænam Gnt E XPOSITIO L 1 B. I , 1 tiuus . ut figura qua uel quoniam
non tradiderit diligentem , & exquiſitam horum definitionem , dam comple
Eti licet . nonenim ad hoc inſtitutum pertinebat , uel quia non omnes
fyllogiſmorum differentias eſt perſecutus.eas enim prætermiſit , quæ fumuntur
pencs dif ferentias propofitionum , & quæ penes earum connexionem , uel
quoniam prætermiſit enthymema , quod quamuis non fit fimpliciter fyllogiſmus,
eſt tamen ſyllogiſmus rhetoricus , uel quoniam prætermiſit ſyllogiſmum tenta
quid fit fyllo tiuum ,dequo alibi fa&a eſt mentio.eft autem fyllogiſmus
tentatiuus , qui gıſmus tenta procedit ex probabilibus , non ſimpliciter , ſed
reſpondenti. eft enim ten tatiuus ſyllogiſinus ad eos refellendos , qui fingunt
fe aliquid ſcire, quod ne ſciunt : fed dubitat Alexander ,ac fere affirmat idem
effe Tyllogiſmum tenta tiuum , ac pſeudographum . philoſophus enim in
Elenchorum libro tenta tiuum fyllogiſmum definit , quod fit ex his , quæ
reſpondenti probantur : & quæ neceſſario tenere debetis , qui profiteturſe
habere ſcientiam . hoc au qua in re ten tem idem eſt, ac fi diceret ex
peculiaribus fcientiæ principiis. hæc enim tene tatiuus fyllo- re debet , qui
ſcientiam habere profitetur . appellatur autem tentatiuus à Fat a pſeudo
propoſito , & inftituto interrogantis, pſeudographema autem ab effe& u.
grapho . Vtautem uniuerſaliter dicamus. Admonet philoſophus in his , quæ di
&a ſunt, ac quòdnon in in omnibus , quæ ſunt dicenda , non eile expectandam
certam , ac demon omnibus re- ftratiuam ſcientiam , quia propoſita tra & atio
id non fert , cum de probabili renda demó- bus fit, quorum certa , atque
exquiſita fcientia haberi non poteft, ut dicebat ftratiua fcien in ſecundo
metaphyſices, certitudo mathematica non eſt in omnibus expe tenda , neque
omnium poteſt haberi demonſtratio . dubitatio Q- QVAER VNT quidam , cum
philoſophus attulerit duos fyllogiſmos con phus attule- tentiofos,alterum ,qui
peccat in materia ,alterum , qui peccat in forma, fit du os fyllo cur unum
tantum pſeudographum , qui in materia peccat, foluunt, quòd giſmos con-
peccatum formæ eſt commune omnibus ſyllogiſmis: quoniam igitur ipſum tentiofos,
& expoſuit in fyllogiſmo contentioſo : ideo hoc loco ipſum prætermiſit, at
pſeudogra- peccatum materix eſt fingulis proprium . Sequitur, ut inquiramus,
quæ sit huius operis inscriptio, et inscriptionis ius operis incausa
inscribuntur autem hi libri topice, græco nomine, a verbo topos inscriptionis
munis quædam rei nota, cuius admonitu, quid in quaque reprobabile sit, potest
inueniri, atq hinc libri, quide huiusmodi loci sagut, topica appellati. Iam
illud videndum est, quisit horum librorum ordo ad alios libros logicæ qui sit
ordo facultatis primo q; inquirendum est, an libri topici se qui debeant libros
huius libri ant libros totius logicæ tractationis, ut græci attestantur de
eaigitur ultimo loco agen Iteriorum .dumest. prætere a cum probabilia viam nobi
saperi anta dipsam demonstrationem, ling inventu, accognitu faciliora, dehi
sigitur priori loco agen huius ratio, dumest his itaque rationibus topica
præcedere posteriora statuamus: an uero præcedant, ansequantur priora, non
minor est difficultas. Marcus Cicero, cuius sententiam sequitur Boetius,
logicam facultatem, quam dili-, posteriorum resolutoriorum: deinde an etiam
sequi debeant libros priori et primo an Primo quidem, quod posteriorum libri,
qui de demonstratione agunt, Topica cedere debe- consequi debeant,
ex eo probatur, quoniam demonstratio est finisto præcedere gentem rationem
differendi appellat, in duas partes dicites sedidu &am , unam inveniendi,
alteram iudicandi: ioveniendi artem ordine naturæ priorem ida; exfen- dicit si
hæc ita sunt, cum inveniendi ars in topicis libris tradatur, iudican tencia
Ciceronis diueroin prioribus, ergo topica procedúr priora quæ enim priora sunt
in sciunt qua ratione pars illa appelletur iudicativa , ideo hoci p sum nunc o
qua ratione stendamus. Appellatur hæc pars inventiva eo quod locos, ut diximus,
con partes logicæ tinet, ex quibus probabilia eruuntur. pars vero altera
iudicatiua dicitur, altera inven quoniam docer, quo pa & t o
probabilia illa. Locus sigitur, ut definit Alexander, est principium, &
occasio epicherema- secundumA eo tis, cum inprimo ea omnia tradiderit,
quæ præcognoscenda erant, antequa traderentur loci: merito igitur hic incipit
explicare locos sed hic duo sunt secundo libro et si enim de hacrenon nulla
dixerimus, minandaante examinanda primoq,uidsit locus nunc est diligentius
explicatione libri, hoc ipsum tamen cum agebamus de inscriptione sit de locis,
par est, explicandum cum enim omnis futura tractatio d u o efle exatis est
autem in ixeípnucdiale & icus syllogismus. Theophrastus autem hoc mo
lexandrum. do definivit locum, quod est principium quoddam, u elelementum, a
quo principia, quæ circa unum quodque sunt, accipimus, ratione quidem
circumscriptionis universalium definitum, ratione vero singularium indefinitum
in hac definitione per illud, quæ sunt circa unum quod que principia,
intelligere debemus, quæ de uno quoque problemate afferri possunt argumenta per
illud autem rationem quidem circumscriptionis universalium definitum,
rationeuero singularium indefinitum, intelligeredebemus, quod huius modi
principium & elementum universale ipsum definit & determinat singularia
autem indefinite comprehendit, neque enim de hoc, aut de illo singulari
loquitur, fedde ipso universali, sub quo omnia singularia indefinite
comprehenduntur, exempli causa, hic est locus, fia licui contrario aliquod
inest contrarium, reliquo quoque contrario reliquum contrarium inerit in hac
propositione universale est determinatum, singularia vero indefinite
comprehenduntur atque exea argumenta accipimus ad unum quod que eorum, quæ
subea comprehenduntur sienim quæ raturutrum bonum pro exemplum, sit, ab eo loco
accipiemus propositionem huic proposito problemati convenientem; si enim malum
obest, ergo bonum prod est patet autem, quod hæc propositio ex eo loco &
est, & probabilitatem nacta est, eodem modo si quæratur, ut rum albus color
sit disgregativu suisus ex prædi &o loco conveniens, argumentum proposito
problemati accipiemus hoc modo, si nigrum est congregatiuum uisus, ergo album
est disgregatiuum eodem modo pro babimus voluptatem esse bonam si enim
tristitia mala est, ergo voluptas est bona hæc igitur omnia, & plura alia
in eo loco indefinite, & indeterminate comprehenduntur hic etiam est locus,
si id, quod magis videtur alicui inef senonin est, tamen neque id, quod minus
videtur in esse ipsiinerit, qui sicut & in priori visum est, universale
quidem definite, singularia vero indefinite comprehendit neque enim de hoc, aut
illo quicquam pronunciat ex definitio loci ANTIQVAM contextum philosophi
exponamus, videamus priuseiuspro } H roncm . quando que
ingrediuntur argumentatione, quando queuero extra positæ vim solum ipsi
tribuunt. Cicero autem intelligit locum esse terminum, unde hæ maxime
propositiones desumuntur cum enim hæ maximæ propositiones plurimæ sint termini
autem,unde sumuntur, longe pauciores; ideo universa earum multitudo in paucos
illos terminos collecta est, ut aliæ in definitione consistant, aliæ ingenere,
aliæ in roto, at que aliæ in aliis, at quehiter mini a Boetio appellantur
differentiæ, eo quod maxime proposiciones per ipsos dividantur, sicut igenus
per differentias maximæ enim propositiones aliæ sunt ex toto, aliæ ex partibus,
aliæ ex genere, &c & sicut maximæ illæ propositiones minorum
propositionum copiam intra suum ambitum continent, ita termini ili, in quos
maximæ illæ propositiones convenienti ratione re ducuntur, illas continere
quodam modo videntur ideoq loci dicuntur ita igitur locum intelligit M.
Tullius, deilisý; in suis Topicis agit, cum Aristoteles priori modo locum
intelligat, ac de illis agat. Sed incidit hoc loco non indigna contemplatio
quis scilicet melius, atque ad usum accomodatius rem hanc tractaverit, an
Aristoteles, qui universales, & maximas illas propositiones explicaverit;
an M. Tullius, qui maximis propositionibus præter missis eos tantum terminos,
in quos illæ colliguntur, exposuerit hoc autem ita investigari psse videtur
siquis exterminis ilis uelit in proposita quæstione argumenta sibi consicere,
cum ad argumenta conficienda necessariæs intpropositiones id eo oportet, ut
exterminis illis propositiones inveniat, ex quibus argumenta construat sed hoc
dificilli mum est, & multa indiget prudentia, & longa consideratione
quis enim possetstatim inspecto termino propositionum, quæ probabiles sint
& indubita txcopiam inuenire; atque ex hiseas, quæ propositæ quæstioni
conveniat, eligere si hoc ita est, patet longe consultius, & præstantiu
segisse philosophum, qui has propolitiones nobis invenerit, & explicauerit;
easq; secundum unum quodque quæstionis genus certo ordine ita digesserit, ut
quam vis plurimæ sint, nihil tamen confusionis pariant, sed maximam, accertamin
una quaquere argumentorum copiam suppeditant neque tamen prætermit tit
philosophus terminos, exquibus maximæ propositiones desumuntur: hoc enim facile
ad modum est exeiusdi & iselicere sed noluit ipse terminorum ordinem sequi,
quoniam ordo ille problematum ordine minterturbasset, qui longe præstantior est
& ad usum accomodatior qai igitur terminorum do &rinam sequitur, primo
propositiones ignorat; quarum præcipuus est usus in argumentis & fine
quibus nullus est terminorum usus deinde nullum secundum quæstionum genera
ordinem habet, quo sit, utinomni qux sionis genere per omnia loca temere
vagaricoa & us sit atque ita patet lon dubitatio, TOPICORVM ARIST. cota
mende his omnibus possumus argumentari, ut si velimus probare diuitias non esse
bonas, ex eo loco hoc modo argumentabimur si sanitas, quæ magis videtur esse
bona, quam divitiæ, bona tam en non est, ergo neque divitiæ bonæ sunt si enim
deinde probemus sanitatem non esse bonam ex eo forte, quod aliquibus sit causa
mali, ex loco proposito ostensumerit divitias non esse bonas. probare uule
NOTANDVM autem hoc loco est,alio mod.
Ludovicus Buccaferreus. Ludovicus Buccaferrea. Ludovico Boccadiferro. Keywords.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Boccadiferro” – The Swimming-Pool Library.
Boccanegra (Venezia).
Filosofo. Grice: “Boccanegra is a good one; we often laugh at Aquinas because
he is a saint – but we have to recall that Aquinas never knew it – for
centuries after his death he ain’t one! Boccanegra prefers to call him
‘Aquino,’ or ‘Aquinate,’ --.” Grice: “Boccanegra is like me a systematic
philosopher: dalla metafisica alla etica – is that possible? Yes, what is the
‘paraidm,’ in Kuhn’s use of this tricky word? Esperienza, alla Locke! And
co-experience in my conversational model!” --
Alberto Boccanegra (n. Venezia),
filosofo. Osvaldo Boccanegra nacque a Venezia, figlio
primogenito di Antonio e Ida Camerin. Partecipò alla seconda guerra mondiale
come sottotenente del Regio esercito, richiamato alle armi nel 1941. Nei giorni
successivi all'armistizio di Cassibile riuscì a sottrarsi alle rappresaglie
naziste e si ricongiunse all'esercito italiano a Catanzaro, dove spesso prestò
servizio presso la Croce rossa.
Formazione Durante gli anni della leva trovò il tempo per dedicarsi allo
studio dell'intero Organon di Aristotele. Nel 1948 ottenne il dottorato in
filosofia presso l'Università Cattolica di Milano con una tesi dal titolo I
primi principi in Duns Scoto. Presupposti e corollari. Nell'ateneo milanese,
dove Boccanegra frequentava la cerchia dei neo-tomisti radunatisi attorno a Gustavo
Bontadini, gli venne offerta la cattedra di filosofia teoretica che lui,
tuttavia, rifiutò. In quegli anni scrisse e divulgò le sue idee alternative
sulla rivista filosofica Vita e Pensiero. Entrò a far parte dell'Ordine
Domenicano a San Domenico di Fiesole il 10 ottobre 1948 con il nome religioso
di frà Alberto, che lo accompagnò di lì in poi anche in occasione della
pubblicazione delle sue opere. Il 14
ottobre 1949 entrò al Pontificio Ateneo Angelicum di Roma per lo studio delle
materie filosofiche e teologiche dove nel 1953 discusse la sua tesi dottorale
in filosofia (De dynamismo entis) e nel 1954 ottenne il lettorato in teologia
grazie al suo Fundamenta metaphisica, tractatus de Deo secundum S. Thomam.
Ordinato sacerdote a San Marco di Firenze il 25 luglio 1953 non abbandonò più
il convento di San Domenico di Fiesole.
Attività filosofica, teologica e critica Boccanegra lasciò per sempre
incompiuto il suo trattato dottorale in teologia, ma nel 1969 pubblicò comunque
una esauriente sintesi del suo pensiero su vari numeri della rivista filosofica
“Sapienza”. Fu per anni vice direttore della Commissione per la traduzione
della Somma Teologica di Tommaso d'Aquino in Italiano presieduta da Tito Centi.
Gli imponenti schemi riassuntivi sono consultabili nei 35 volumi editi dalle
ESD di Bologna. Degne di nota furono le sue corpose introduzioni alla Summa di
d'Aquino pubblicate in più edizioni a partire dal 1959. Neotomista, è considerato da alcuni filosofo
metafisico per altro tra i più rilevanti, mentre altri lo ricordano tra i
teologi cattolici di spicco. La sua attività preferita tuttavia, fu
l'insegnamento e la divulgazione. Negli anni settanta Professoreè professore di
filosofia al Pontificio Ateneo Angelicum di Roma. Di tale corso ci restano le
dispense dal titolo: Frammenti di metafisica iniziale. Per più di vent'anni ha
insegnato filosofia e teologia nello Studio Teologico Accademico Bolognese e
nello Studio Teologico Fiorentino.
Migliaia di pagine manoscritte sono conservate dopo la sua morte nell'archivio
conventuale di San Domenico di Fiesole. Fu autore di pubblicazioni ed articoli
filosofici comparsi o recensiti su riviste italiane ed internazionali. Fu confessore ricercato soprattutto dai
giovani. Nonostante una malattia che lo ha accompagnato e provato per quasi
tutta la vita costringendolo a cure costanti, riusciva quotidianamente a fare
escursioni per diversi chilometri. Quando negli ultimi anni le sue forze non
gli permisero di continuare la ricerca, si dedicò alla preghiera costante, sia di
giorno che di notte. Saggi e
pubblicazioni La beatitudine Gli atti umani (I-II, qq. 1-21), Edizioni Studio
Domenicano, 1985 La prova radicale dell'esistenza di Dio e i suoi rapporti con
l'antropologia, 1969 Osservazioni sul fondamento della moralità, 1975
Pluralismo teologico di «tolleranza» o di «diritto»?, 1966 Circa la relazione
di G. Bontadini, 1973 La persona umana centro della metafisica tomistica, 1969
Note Nome di battesimo. Angelo Belloni, Biografia di Alberto
Boccanegra, Ordine dei frati predicatori Domenicani, Provincia Romana di S.
Caterina da Siena, luglio Relatore
Amato Masnovo. Alberto Boccanegra,
L'uomo in quanto persona centro della metafisica tomista, su “Sapienza”, numero
3-4, XXII (1969), 410-513 Alberto Boccanegra, “La Somma teologica”, VIII, La Beatitudine; Gli Atti umani (I-II,
qq.1-21)” (Prima edizione 1959, seconda 1984) Giuseppe Del Re, The cosmic
dance: science discovers the mysterious harmony of the universe, Templeton
Foundation Press, 2000,
1890151254.62 Giuseppe Barzaghi,
Diario di metafisica. Concetti e digressioni sul senso dell'essere, Volume 3,
Studio Domenicano, 1997,
887094270870. Giovanni Cavalcoli,
Enrico Maria Radaelli, La questione dell'eresia in Rahner. Archiviato il 30
dicembre 2009 in ., articolo uscito su «Divinitas», anno LI, n. 3, III
quadrimestre 2008. Alberto Boccanegra,
L'uomo in quanto persona centro della metafisica tomista, su
"Sapienza", nn. 3-4, XXII, 1969,
410-513 Alberto Boccanegra, Il rinnovamento metodologico
nell'insegnamento della filosofia, "Revue internationale de
philosophie", Edizioni 87-90, 1969 L'homme et la moraleOrigine et sources
de la morale thomisteÉlaboration de la théologie comme science dans l'œuvre de
saint Thomas, "Revue thomiste", recensione, Volume 62, Saint-Maximin
(France), École de théologie pour les missions176. "Revista nacional de
cultura", recensione, Edizioni 173-178, Ministerio de Educación, Instituto
Nacional de Cultura y Bellas Artes, 196653.311595467 Identities-311595467 Biografie Biografie Cattolicesimo Cattolicesimo Filosofo del XX secoloTeologi
italiani 1920 19 ottobreMorti l'11
luglio Venezia FiesoleDomenicani italiani
Bocchi. (Milano).
Filosofo. Grice: “Bocchi is a good one; and Bocchi is a good one – Gianluca
Bocchi is a curator who lives in a Roman palazzo and whose expertise is ‘natura
morta.’ Gianluca Bocchi is also a philosopher of science – as he calls it – My
favourite piece by Bocchi is about collective thinking, -- solidarieta – Surely
when I wrote ‘In defense of a dogma’ with my tutee we were being solidary with
each other, and we own each sentence – collective thinking --.” Grice: “I could
have called my desideratum the principle of conversational solidarity – I am
thinking of course Butler in mind, and the whole bit is to see why (if at all –
cf. Stalnaker) an utilitarian justification is insufficient, and we need
recourse to Kant!” -- Gianluca Bocchi
«La nostra età non ha soltanto vissuto l'esperienza della relatività da
ogni punto di vista. Ha fatto soprattutto l'esperienza dell'incompiutezza di
ogni punto di vista. La contingenza, la singolarità e l'irripetibilità di ogni
punto di vista sono condizioni indispensabili per avere accesso al mondo, per
dialogare con gli altri punti di vista, per creare nuovi mondi» «Per noi, raccogliere la sfida della
complessità significa considerare la scienza una via importante per riannodare
i legami con le altre tradizioni, per riscoprire con interesse i loro
significati profondi, per esplorare la varietà delle esperienze cognitive,
emotive, estetiche, spirituali della specie umana» «Il nostro continente è sempre stato sede di
migrazioni, di interazioni, di contrasti e di conflitti fra popoli e stirpi
differenti, e questa diversità di radici è un elemento integrante dei suoi
sviluppi passati e presenti.» Niente
fonti! Questa voce o sezione sull'argomento filosofi italiani non cita le fonti
necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Puoi migliorare questa voce
aggiungendo citazioni da fonti attendibili secondo le linee guida sull'uso
delle fonti. -- Gianluca Bocchi (n. Milano), filosofo. Gianluca Bocchi È un
filosofo della scienza e della storia, esperto di scienze biologiche ed
evolutive, di storia globale, di storia urbana, di geopolitica, di storia delle
idee, delle culture, delle lingue. Ha fra l'altro introdotto in Italia, con
Mauro Ceruti, le tematiche concernenti le scienze dei sistemi complessi e la
connessa epistemologia della complessità, contribuendo altresì alla loro
diffusione a livello internazionale.
Pubblicazioni Disordine e costruzione. Un'interpretazione epistemologica
dell'opera di Jean Piaget (con Mauro Ceruti), Milano, Feltrinelli, 1981. Modi
di pensare postdarwiniani. Saggio sul pluralismo evolutivo (con Mauro Ceruti),
Bari, Dedalo, 1984. La sfida della complessità (con Mauro Ceruti), Milano,
Feltrinelli, 1985, (nuova edizione con nuova introduzione, Milano, Bruno
Mondadori, 2007). Un nouveau commencement (con Edgar Morin e Mauro Ceruti),
Seuil, Paris, 1991. L'Europa nell'era planetaria (con Edgar Morin e Mauro
Ceruti), Milano, Sperling and Kupfer, 1991. Origini di storie (con Mauro
Ceruti), Milano, Feltrinelli, 1993,
88-07-10295-1. (tr. inglese The Narrative Universe, NJ, Hampton Press;
tr. spagnola El sentido de la historia, Editorial Débate, Madrid; tr.
portoghese Origens e Historias, Instituto Piaget, Lisbona). La formazione come
costruzione di nuovi mondi, Roma, Formez-Censis, 1993. Solidarietà o barbarie.
L'Europa delle diversità contro la pulizia etnica (a cura di, con Mauro
Ceruti), Milano, Raffaello Cortina, 1994. Le radici prime dell'Europa. Gli
intrecci genetici, linguistici, storici (a cura di, con Mauro Ceruti), Milano,
Bruno Mondadori, 2001. Origini della scrittura. Genealogie di un'invenzione (a
cura di, con Mauro Ceruti), Milano, Bruno Mondadori, 2002. Educazione e
globalizzazione (con Mauro Ceruti), Milano, Raffaello Cortina, 2004, 88-7078-865-2. Una e molteplice. Ripensare
l'Europa (con Mauro Ceruti), Milano, Tropea, 2009. Le città di Berlino (con
Laura Peters), Bologna, Bononia University Press, 2009. Le vie della
formazione. Creatività, innovazione, complessità (con Francesco Varanini),
Milano, Guerini, . L'Europa globale. Epistemologie delle identità, Roma,
Studium, , 978-88-382-4323-3.
Borderscaping: Imaginations and Practices of Border Making (a cura di, con Chiara
Brambilla, Jussi Laine, James W. Scott), Farnham (Surrey, UK), Ashgate, .
Note Gianluca Bocchi, Mauro Ceruti,
Origini di storie, Prefazione, Milano, Feltrinelli, 199312, 88-07-10295-1
Gianluca Bocchi, Mauro Ceruti, La sfida della complessità, Introduzione
alla nuova edizione, Milano, Bruno Mondadori, 2007, p.XXII. Gianluca Bocchi, L'Europa globale.
Epistemologie delle identità, Mille anni d'Europa, fra globale e locale, Roma,
Studium, 26. 978-88-382-4323-3. Sito ufficiale, su gianlucabocchi. 10
aprile (archiviato dall'url originale l'8
settembre ). CE.R.CO, su cercounibg. 2 giugno
14 maggio ). Filosofia Filosofo Professore1954 19 dicembre Milano.
Oddly, my favourite Bocchi philosopher is Francesco Bocchi! Keywords: Francesco
Bocchi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bocchi” – The Swimming-Pool Library.
bodei: Grice: “Bodei is a good one; of
course he is sardo -- my favourite of his tracts is one on ‘condivisione’ and
‘beni communi’ – which is what my conversational pragmatics is all about --; he
has also philosophised on the tricky Grecian concept of ‘harmony’, and the very
charming Roman concept of ‘con-cordia’ – and he has explored the diagogic form
of philosophy in his historical analysis of ‘la dialettica,’ – he has explored
‘ragione,’ vis-à-vis what he calls the ‘geometria delle passioni,’ and he has
also shed light on the univocity or lack thereof of ‘virtu cardinali” – virtue
is unitary, but some virtues are more unitary than others!” Grice: “Bodei has
explored ‘coraggio,’ and other virtues.” – “In his geometry of passions, he sheds
light on Plato’s convoluted idea that in my head I have the reason of a man; in
my heart I have the will of a lion-like warrior, and in my gut I have the love
of a multi-headed monster!” -- Essential
Italian philosopher. Remo Bodei (n. Cagliari) filosofo
e accademico italiano. Laureato all'Pisa, perfezionò la sua preparazione
teoretica e storico-filosofica a Tubinga e Friburgo, frequentando le lezioni di
Ernst Bloch ed Eugen Fink; a Heidelberg, con Karl Löwith e Dieter Henrich; poi
all'Bochum. Conseguì inoltre il diploma di licenza e il diploma di
perfezionamento della Scuola Normale Superiore. Fu visiting professor
presso le Cambridge, Ottawa, New York, Toronto, Girona, Città del Messico, UCLA
(Los Angeles) e tenne conferenze in molte università europee, americane e
australiane. Dal 1981 al 1983 fu nel comitato redazionale della rivista
Laboratorio politico. Dal 1995 collaborava con Massimo Cacciari, Massimo
Donà, Giuseppe Barzaghi, Salvatore Natoli e Stefano Zamagni nell’iniziativa La
filosofia nei luoghi del silenzio, un tentativo di coniugare filosofia e
contemplazione nella forma del ritiro comunitario. Dal 2006 fu docente di
ruolo in Filosofia alla UCLA di Los Angeles, dopo aver a lungo
insegnato Storia della filosofia ed Estetica alla Scuola Normale Superiore
e all'Pisa, dove continuò a tenere, sia pur saltuariamente, qualche
corso. Era anche membro dell'Advisory Board internazionale dello
IEDIstituto Europeo di Design. Dal 13 novembre Remo Bodei fu socio corrispondente
dell'Accademia dei Lincei, per la classe di Scienze Morali, Storiche e
Filosofiche. Remo Bodei è morto il 7 novembre , a 81 anni. Era marito
della storica Gabriella Giglioni. I suoi libri sono stati tradotti in
molte lingue. Pensiero Si interessò a fondo della filosofia classica
tedesca e dell'Idealismo, esordendo con la fondamentale monografia Sistema ed
epoca in Hegel, dopo aver già tradotto in italiano l'importante Hegels Leben
(Vita di Hegel) di Johann Karl Friedrich Rosenkranz. Appassionato cultore della
poesia hölderliniana, all'autore dell'Hyperion dedicò saggi di notevole
interesse. Con il volume Geometria delle passioni estese la sua meditazione
anche a protagonisti della filosofia moderna come Cartesio, Hobbes e
soprattutto Spinoza. Studioso del pensiero utopistico del Novecento, in
particolare del marxismo eterodosso di Ernst Bloch e di autori 'francofortesi'
come Theodor Adorno e Walter Benjamin, intervenne nella discussione sulla
filosofia politica italiana, confrontandosi e dialogando in particolare con Norberto
Bobbio, Michelangelo Bovero, Salvatore Veca e Nicola Badaloni. Nei suoi studi
sull'estetica curò l'edizione dell'Estetica del brutto di Johann Karl Friedrich
Rosenkranz e analizzò in particolare concetti centrali come le categorie del
bello e del tragico. Costante la sua attenzione per Sigmund Freud e gli
sviluppi della psicoanalisi, per le logiche del delirio e per fenomeni in
apparenza quotidiani ma sconvolgenti come l'esperienza del déjà vu. Filosofo di
una ragione laica, sulla scia di Ernst Bloch, autore di Ateismo nel
cristianesimo, cercò di distillare anche nel teorico del compelle intrare,
Agostino d'Ippona, le possibili linee di un "ordo amoris" capace di
assicurarci quell'identità in cui, come vuole il Padre della Chiesa, saremmo
noi stessi pienamente: dies septimus, nos ipsi erimus ("il settimo giorno
saremo noi stessi"). Nel 1992 vinse il Premio Nazionale Letterario
Pisa Sezione Saggistica. Bodei inoltre curò la traduzione e l'edizione
italiana di testi di Hegel, Karl Rosenkranz, Franz Rosenzweig, Ernst Bloch,
Theodor Adorno, Siegfried Kracauer, Michel Foucault. Molti suoi lavori
hanno per oggetto lo spessore e la storia delle domande che riguardano la
ricerca della felicità da parte del singolo, le indeterminate attese collettive
di una vita migliore, i limiti che imprigionano l'esistenza e il sapere entro
vincoli politici, domestici e ideali. Già in Scomposizioni (1987), affrontò
alcuni temi della genealogia dell'uomo contemporaneo e propose la metafora
della geometria variabile per indagare le strutture concettuali ed espositive
che, contraendosi o espandendosi sino a noi, orientano la percezione e la
formulazione di problemi. La sua analisi dell'interazione di queste
configurazioni mobili proseguì in Geometria delle passioni (1991) e in Destini
personali (2002) che hanno avuto rilevante successo di pubblico. Alla
divulgazione dell'amore per la filosofia dedicò alcune conferenze e un libro
(Una scintilla di fuoco, 2005). Negli ultimi tempi stava lavorando sulla
storia e sulle teorie della memoria. Citazioni «Ciascuno di noi vive
nell'immaginazione altre vite, alimentate dai testi letterari e dai media. Per
loro tramite tenta di porre rimedio alla limitatezza della propria esistenza.
(citato in Corriere della sera, 16 gennaio 2009)» «Malgrado i ripetuti
annunci è certo che la filosofia, al pari dell'arte, non è affatto 'morta'.
Essa rivive anzi a ogni stagione perché corrisponde a bisogni di senso che
vengono continuamentee spesso inconsapevolmenteriformulati. A tali domande,
mute o esplicite, la filosofia cerca risposte, misurando ed esplorando la
deriva, la conformazione e le faglie di quei continenti simbolici su cui poggia
il nostro comune pensare e sentire» (Remo Bodei, La filosofia nel
Novecento, Roma, Donzelli, 1997188) «Nel passato il progresso delle civiltà
umane era relativo, sottoposto a cicli naturali di distruzioni e di rinascite,
che ne spezzavano periodicamente il consolidamento e la crescita» (Remo
Bodei, Limite, Il Mulino, 66) Opere Sistema ed epoca in Hegel, Bologna, Il Mulino,
1975. Riedizione ampliata con il titolo: La civetta e la talpa. Sistema ed
epoca in Hegel, Bologna, Il Mulino, . Hegel e Weber. Egemonia e legittimazione,
(con Franco Cassano), Bari, De Donato, 1977 Multiversum. Tempo e storia in
Ernst Bloch, Napoli, Bibliopolis, 1979 (Seconda edizione ampliata, 1983).
Scomposizioni. Forme dell'individuo moderno, Torino, Einaudi, 1987. Riedizione
ampliata, Bologna, Il Mulino, . Hölderlin: la filosofia y lo trágico, Madrid,
Visor, 1990. Ordo amoris. Conflitti terreni e felicità celeste, Bologna, Il
Mulino, 1991 (Terza edizione ampliata, 2005). Geometria delle passioni. Paura,
speranza e felicità: filosofia e uso politico, Milano, Feltrinelli, 1991
(Settima edizione ampliata, 2003). Le prix de la liberté, Paris, Éditions du
Cerf, 1995. Le forme del bello, Bologna, Il Mulino, 1995. Seconda edizione
riveduta e ampliata Bologna, Il Mulino, . La filosofia nel Novecento, Roma,
Donzelli, 1997. Se la storia ha un senso, Bergamo, Moretti & Vitali, 1997.
La politica e la felicità (con Luigi Franco Pizzolato), Roma, Edizioni Lavoro,
1997. Il noi diviso. Ethos e idee dell'Italia repubblicana, Torino, Einaudi,
1998. Le logiche del delirio. Ragione, affetti, follia, Roma-Bari, Laterza,
2000. I senza Dio. Figure e momenti dell'ateismo, Brescia, Morcelliana, 2001.
Il dottor Freud e i nervi dell'anima. Filosofia e società a un secolo dalla
nascita della psicoanalisi, Roma, Donzelli, 2001. Destini personali. L'età
della colonizzazione delle coscienze, Milano, Feltrinelli, 2002. Delirio e conoscenza,
Remo Bodei, in Il Vaso di Pandora, Dialoghi in psichiatria e scienze
umane, X, N. 3, 2002. Una scintilla di
fuoco. Invito alla filosofia, Bologna, Zanichelli, 2005. Piramidi di tempo.
Storie e teoria del déjà vu, Bologna, Il Mulino, 2006. Paesaggi sublimi. Gli
uomini davanti alla natura selvaggia, Milano, Bompiani, 2008. Il sapere della
follia, Modena, Fondazione Collegio San Carlo per FestivalFilosofia, 2008. Il
dire la verità nella genealogia del soggetto occidentale in A.A. V.V., Foucault
oggi, Milano, Feltrinelli, 2008. La vita delle cose, Roma-Bari, Laterza, 2009.
Ira. La passione furente, Bologna, Il Mulino, . Beati i miti, perché avranno in
eredità la terra (con Sergio Givone), Torino, Lindau, . Immaginare altre vite.
Realtà, progetti, desideri, Milano, Feltrinelli, . Limite, Bologna, Il Mulino,
. Le virtù Cardinali (con Giulio Giorello, Michela Marzano e Salvatore Veca),
Roma-Bari, Laterza, . Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine,
Intelligenza Artificiale, Bologna, Il Mulino, . Onorificenze Grand'Ufficiale
dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana.nastrino per uniforme ordinaria
Grand'Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana. — 1º giugno
2001. Di iniziativa del Presidente della Repubblica. Cavaliere dell'Ordine
delle Palme Accademichenastrino per uniforme ordinaria Cavaliere dell'Ordine
delle Palme Accademiche immagine del nastrino non ancora presente Cittadino
onorario di Siracusa, Modena, Carrara e Roccella Jonica. Note È morto il filosofo Remo Bodei, aveva 81
anni, su fanpage, 7 novembre .
Repubblica 18/08/ Albo d'oro, su
premionazionaleletterariopisa.onweb. 7 novembre . «Bodei Prof. Remo: Grande Ufficiale Ordine al
Merito della Repubblica Italiana», sito della presidenza della repubblica.
Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Remo Bodei Collabora a
Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Remo
Bodei Remo Bodei, su
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Remo Bodei, su openMLOL, Horizons
Unlimited srl. Opere di Remo Bodei, .
Pubblicazioni di Remo Bodei, su Persée, Ministère de l'Enseignement
supérieur, de la Recherche et de l'Innovation.
Registrazioni di Remo Bodei, su RadioRadicale, Radio Radicale. Remo Bodei: Spinoza, un filosofo maledetto,
sul RAI Filosofia, su filosofia.rai.
Scheda del professor Bodei nel sito del Dipartimento di filosofia dell'Pisa, su
fls.unipi. V D M Vincitori del Premio Dessì Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi
italiani del XXI secoloAccademici italiani del XX secoloAccademici italiani Professore1938 3 agosto 7 novembre Cagliari PisaAccademici
dei LinceiAccademici italiani negli Stati Uniti d'AmericaProfessori della
Scuola Normale SuperioreProfessori dell'Università della California, Los AngelesProfessori
dell'PisaStudenti dell'Pisa. Bodei. Keywords: I concordati, Concordia,
armonia , condivisio. Refs.: Luigi Speranza,
"Grice e Bodei," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
boezio:
Grice:
“Boezio is possibly my favourite Italian philosopher, only that he wasn’t
really Italian – he found Vittorino’s Latin translation from the Grecian urn of
Aristotle ‘rough,’ and provided a ‘newish’ one – but actually Vittorino had
better intuitions about the lingo than Boezio did – and that is why Strawson
preferred to tutor with the Vittorino translation – we covered all that Boezio
wrote – and we never used the Patrologia edition, since we are protestant!” --
Possibly the most important Italian philosopher of all time. Grice loved Boethius“He made Aristotle
intelligible at Clifton!” -- Anicius Manlius Severinus, Roman philosopher and
Aristotelian translator and commentator. He was born into a wealthy patrician
family in Rome and had a distinguished political career under the Ostrogothic
king Theodoric before being arrested and executed on charges of treason. His
logic and philosophical theology contain important contributions to the
philosophy of the late classical and early medieval periods, and his translations
of and commentaries on Aristotle profoundly influenced the history of
philosophy, particularly in the medieval Latin West. His most famous work, The
Consolation of Philosophy, composed during his imprisonment, is a moving
reflection on the nature of human happiness and the problem of evil and
contains classic discussions of providence, fate, chance, and the apparent
incompatibility of divine foreknowledge and human free choice. He was known
during his own lifetime, however, as a brilliant scholar whose knowledge of the
Grecian language and ancient Grecian philosophy set him apart from his Latin
contemporaries. He conceived his scholarly career as devoted to preserving and
making accessible to the Latin West the great philosophical achievement of ancient
Greece. To this end he announced an ambitious plan to translate into Latin and
write commenbodily continuity Boethius, Anicius Manlius Severinus 91 91 taries on all of Plato and Aristotle, but
it seems that he achieved this goal only for Aristotle’s Organon. His extant
translations include Porphyry’s Isagoge an introduction to Aristotle’s
Categories and Aristotle’s Categories, On Interpretation, Prior Analytics,
Topics, and Sophistical Refutations. He wrote two commentaries on the Isagoge
and On Interpretation and one on the Categories, and we have what appear to be
his notes for a commentary on the Prior Analytics. His translation of the
Posterior Analytics and his commentary on the Topics are lost. He also
commented on Cicero’s Topica and wrote his own treatises on logic, including De
syllogismis hypotheticis, De syllogismis categoricis, Introductio in
categoricos syllogismos, De divisione, and De topicis differentiis, in which he
elaborates and supplements Aristotelian logic. Boethius shared the common
Neoplatonist view that the Platonist and Aristotelian systems could be
harmonized by following Aristotle in logic and natural philosophy and Plato in
metaphysics and theology. This plan for harmonization rests on a distinction
between two kinds of forms: 1 forms that are conjoined with matter to
constitute bodies these, which he calls
“images” imagines, correspond to the forms in Aristotle’s hylomorphic account
of corporeal substances; and 2 forms that are pure and entirely separate from
matter, corresponding to Plato’s ontologically separate Forms. He calls these
“true forms” and “the forms themselves.” He holds that the former, “enmattered”
forms depend for their being on the latter, pure forms. Boethius takes these
three sorts of entities bodies, enmattered
forms, and separate forms to be the
respective objects of three different cognitive activities, which constitute
the three branches of speculative philosophy. Natural philosophy is concerned
with enmattered forms as enmattered, mathematics with enmattered forms
considered apart from their matter though they cannot be separated from matter
in actuality, and theology with the pure and separate forms. He thinks that the
mental abstraction characteristic of mathematics is important for understanding
the Peripatetic account of universals: the enmattered, particular forms found
in sensible things can be considered as universal when they are considered
apart from the matter in which they inhere though they cannot actually exist
apart from matter. But he stops short of endorsing this moderately realist
Aristotelian account of universals. His commitment to an ontology that includes
not just Aristotelian natural forms but also Platonist Forms existing apart
from matter implies a strong realist view of universals. With the exception of
De fide catholica, which is a straightforward credal statement, Boethius’s
theological treatises De Trinitate, Utrum Pater et Filius, Quomodo substantiae,
and Contra Euthychen et Nestorium show his commitment to using logic and metaphysics,
particularly the Aristotelian doctrines of the categories and predicables, to
clarify and resolve issues in Christian theology. De Trinitate, e.g., includes
a historically influential discussion of the Aristotelian categories and the
applicability of various kinds of predicates to God. Running through these
treatises is his view that predicates in the category of relation are unique by
virtue of not always requiring for their applicability an ontological ground in
the subjects to which they apply, a doctrine that gave rise to the common
medieval distinction between so-called real and non-real relations. Regardless
of the intrinsic significance of Boethius’s philosophical ideas, he stands as a
monumental figure in the history of medieval philosophy rivaled in importance
only by Aristotle and Augustine. Until the recovery of the works of Aristotle
in the mid-twelfth century, medieval philosophers depended almost entirely on
Boethius’s translations and commentaries for their knowledge of pagan ancient philosophy,
and his treatises on logic continued to be influential throughout the Middle
Ages. The preoccupation of early medieval philosophers with logic and with the
problem of universals in particular is due largely to their having been tutored
by Boethius and Boethius’s Aristotle. The theological treatises also received
wide attention in the Middle Ages, giving rise to a commentary tradition
extending from the ninth century through the Renaissance and shaping discussion
of central theological doctrines such as the Trinity and Incarnation. «Nulla è più fugace della forma esteriore,
che appassisce e muta come i fiori di campo all'apparire dell'autunno.»
(Boezio, citato da Umberto Eco ne Il nome della rosa) Severino Boezio
Boetius.png Magister officiorum del Regno Ostrogoto Durata mandatosettembre 522
– agosto 523 MonarcaTeodorico il Grande Console del Regno Ostrogoto Durata
mandato510 Monarca Teodorico il Grande PredecessoreFlavio Importuno
SuccessoreMagno Felice Flavio Secondino Senatore romano Durata mandato510 –
settembre 524 Dati generali Professionefilosofo San Severino Boezio Fl Boetio
(Flavio Boezio) - Studiolo di Federico da MontefeltroFl Boetio (Flavio Boezio)
- Studiolo di Federico da Montefeltro Padre della Chiesa
Martire NascitaRoma, 475/477 MortePavia, 524/526 Venerato da Tutte
le Chiese che ammettono il culto dei santi Ricorrenza23 ottobre Attributipalma
Manuale Anicio Manlio Torquato Severino Boezio (in latino: Anicius Manlius
Torquatus Severinus Boethius; Roma, 475/477 – Pavia, 524/526) è stato un
filosofo e senatore romano. Inter latinos aristotelis interpretes
et aetate primi, et doctrina praecipui dialectica, 1547. Da BEIC, biblioteca
digitale Noto come Severino Boezio, o anche solo come Boezio, con le sue opere
ha avuto una profonda influenza sulla filosofia cristiana del Medioevo, tanto
che alcuni lo collocarono tra i fondatori della Scolastica[1]. Fu principale
collaboratore del re Teodorico, ricoprendo la carica di magister officiorum.
Boezio, nel clima di rilancio della cultura che la pace rese possibile durante
il regno del re goto, concepì l'ambizioso progetto di tradurre in latino le
opere di Platone e di Aristotele. Teodorico, nei suoi ultimi anni, divenne
sospettoso di tradimenti e congiure, e Severino venne imprigionato a Pavia e
giustiziato. Papa Leone XIII ne approvò il culto per la Chiesa in Pavia,
che ne custodisce i resti nella basilica di San Pietro in Ciel d'Oro e lo
festeggia il 23 ottobre[2].Discendeva da una nobile famiglia, i cui membri
avevano avuto carriere prestigiose. Suo padre fu probabilmente Manlio Boezio,
prefetto del pretorio d'Italia, due volte prefetto di Roma e console nel 487;
probabilmente suo nonno fu il Boezio prefetto del pretorio sotto Valentiniano
III, ed è verosimile che fosse imparentato col Severino console nel 461 e col
Severino Iunior console nel 482. Boezio era anche imparentato con la nobile e
antica gens Anicia (gens a cui apparteneva san Gregorio Magno e san Benedetto
da Norcia), oltre che con lo scrittore Magno Felice Ennodio.[3] Alla morte del
padre avvenuta intorno al 490, fu affidato ad una nobile famiglia romana,
probabilmente quella di Quinto Aurelio Memmio Simmaco, la cui figlia Rusticiana
Boezio sposerà intorno al 495; la coppia ebbe due figli, Boezio e Simmaco, che
proseguirono la tradizione di famiglia di ricoprire ruoli prestigiosi
diventando entrambi consoli nel 522. L'evento fondante della vita
politica di Boezio fu la vittoria (493) del re degli Ostrogoti Teodorico il
Grande su Odoacre, re degli Eruli e sovrano d'Italia; fu l'inizio del regno
degli Ostrogoti sull'Italia (con Ravenna come capitale e Pavia e Verona come
sedi reali) e della difficile convivenza tra questi e la popolazione
romana. Boezio studiò alla scuola di Atene, retta dallo scolarca Isidoro
di Alessandria, dove si insegnavano soprattutto Aristotele e Platone insieme
con le quattro scienze fondamentali per la comprensione della filosofia
platonica, l'aritmetica, la geometria, l'astronomia e la musica; qui conobbe
forse il giovane e futuro grande commentatore di Aristotele, Simplicio.
S'iniziava con lo studio della logica aristotelica, preceduta
dall'introduzione, l'Isagoge, di Porfirio; è il piano che Boezio seguirà nel
compito che un giorno vorrà assumersi di tradurre in latino, commentare e
accordare i due pensatori greci. Al periodo intorno al 502 si fa risalire
l'inizio della sua attività letteraria e filosofica: scrisse i trattati del
quadrivio, le quattro scienze fondamentali del tempo, il De institutione
arithmetica, il De institutione musica e i perduti De institutione geometrica e
De institutione astronomica. Qualche anno dopo tradusse dal greco in latino e
commentò l'Isagoge di Porfirio, un'introduzione alle Categorie di Aristotele,
che avrà un'enorme diffusione nei secoli a venire. La sua erudizione era
ben nota e apprezzata: nel 507 Teodorico lo interpellò riguardo alla richiesta
ricevuta dal re burgundo Gundobado per un orologio ad acqua, e menzionò la sua
conoscenza del greco e la sua opera di traduzione dal greco al latino;[4]
quello stesso anno Teodorico consultò Boezio riguardo a un suonatore di lira,
richiestogli dal sovrano franco Clodoveo I, in quanto era al corrente della
conoscenza della teoria musicale da parte dell'erudito romano.[5] La fama
così ottenuta gli procurò il rango di patricius (già nel 507)[4] e nel 510 la
nomina al consolato sine collega da parte della corte imperiale di
Costantinopoli, carica biennale che gli dà diritto a un seggio permanente nel
Senato romano. Da questi anni fino al 520 tradusse e commentò le Categorie
e il De interpretatione di Aristotele, scrisse il trattato teologico Contra
Eutychen et Nestorium, il perduto commento ai Primi Analitici di Aristotele, un
De syllogismis categoricis, un De divisione, gli Analytica posteriora, un De
hypotheticis syllogismis, la traduzione, perduta, dei Topica di Aristotele e un
commento ai Topica di Cicerone. Partecipò ai dibattiti teologici del tempo:
intorno al 520 compose il De Trinitate, dedicato al nonno Simmaco, l'Utrum
Pater et Filius et Spiritus Sanctus de divinitate substantialiter praedicentur,
il Quomodo substantiae in eo quod sint bonae sint, cum non sint substantialia
sint. L'interesse di Boezio e di molta parte del patriziato romano per i
problemi teologici che avevano il loro centro soprattutto in Oriente, con i
dibattiti sull'arianesimo, misero in allarme Teodorico, che sospettava
un'intelligenza politica della classe senatoria romana con l'Impero, la cui
ostilità verso i Goti ariani era sempre stata appena malcelata. Appena
terminati i De sophisticis elenchis, perduti, e i De differentiis topicis,
Boezio fu chiamato alla corte di Teodorico, per discutere della non facile
convivenza fra gli elementi gotici e italici della popolazione. Nel 522 i suoi
due figli ebbero l'onore del consolato; in tale occasione Boezio pronunciò un
panegirico in onore di Teodorico di fronte al Senato romano.[6] Nel settembre
di quello stesso anno fu nominato magister officiorum, carica che tenne fino
all'agosto successivo, e Boezio stesso elenca tra gli atti che compì in tale
carica, come l'aver impedito ad alcuni militari ostrogoti di vessare i deboli,
l'aver osteggiato la pesante tassazione che gravava sulla Campania in periodo
di carestia, l'aver salvato le proprietà di Paolino, l'aver difeso da un
processo ingiusto l'ex-console Albino;[7] proprio quest'ultima azione causò la
caduta in disgrazia di Boezio, e la composizione della sua opera più
famosa. Era infatti accaduto che a Pavia il referendarius Cipriano aveva
sequestrato alcune lettere dirette alla corte di Bisanzio, in base alle quali
Cipriano accusò il nobile romano Albino di complottare ai danni di Teodorico.
Boezio difese Albino, affermando che le accuse di Cipriano erano false, e che
se Albino era colpevole, allora lo erano anche Boezio stesso e tutto il
Senato.[8] Gli furono avanzate delle nuove accuse fondate su sue lettere, forse
falsificate, nelle quali Boezio avrebbe sostenuto la necessità di «restaurare
la libertà di Roma»; fu allora sostituito nella sua carica da Cassiodoro e, nel
settembre 524, incarcerato a Pavia con l'accusa di praticare arti magiche; qui
ebbe inizio la composizione della sua opera più nota, il De consolatione
philosophiae. La tomba di Severino Boezio nella Basilica di San
Pietro in Ciel d'Oro a Pavia. Boezio fu giudicato a Roma da un collegio di cinque
senatori, estratti a sorte, presieduto dal praefectus urbi Eusebio. Questi,
nell'estate del 525, notificò la sentenza di condanna a morte di Boezio, che fu
ratificata da Teodorico ed eseguita presso Pavia, nell'Ager Calventianus, una
località che non si è potuta identificare con certezza. Secondo alcuni
studiosi, l'Ager Calventianus sarebbe da identificare con la scomparsa località
di Calvenza, presso Villaregio dove, nel XIX secolo, venne scoperta una grande
epigrafe del VI secolo, ora conservata nei Musei Civici di Pavia, che fu forse
la lastra tombale di Boezio[9]. Lo storico bizantino Procopio racconta che,
poco dopo l'esecuzione di Boezio e Simmaco, a Teodorico fu servito un pesce di
sproporzionate dimensioni nella cui testa gli parve di vedere il teschio del
secondo che lo fissava minaccioso. Sconvolto da ciò, Teodorico si ammalò e morì
poco dopo in preda ad allucinazioni e rimorsi. Un'altra leggenda post mortem di
Boezio narra che un cavallo nero si presentò da Teodorico, che volle a forza
montarlo. Il cavallo, insensibile alle redini, iniziò a correre con il
cavaliere incollato alla sella, finché arrivò al Vesuvio, nel cratere del quale
rovesciò Teodorico. Severino Boezio ebbe due mogli. La prima fu la
poetessa siciliana Elpide, morta nel 504. La seconda fu Rusticiana.[10]
Il pensiero di Boezio Le discipline filosofiche Boezio e l'Aritmetica in
un manoscritto tedesco del XV secolo Boezio insegna agli studenti,
miniatura, 1385 Consapevole della crisi della cultura latina del suo tempo,
Boezio avvertì la necessità di tramandare e conservare le conoscenze elaborate
nel mondo greco. Data alla filosofia la definizione di amore della sapienza, da
lui intesa come causa della realtà e perciò sufficiente a sé stessa, la
filosofia, come amore di quella, è anche amore e ricerca di Dio, che è la
sapienza assoluta. La filosofia è conoscenza di tre tipi di esseri. Gli
intellettibili - termine tratto da Mario Vittorino - sono gli esseri
immateriali, concepibili solo dall'intelletto, senza l'ausilio dei sensi, come
Dio, gli angeli, le anime; il ramo della filosofia che di questi si occupa è
propriamente la teologia. Gli intelligibili sono invece gli esseri
presenti nelle realtà materiali, le quali sono percepite dai sensi ma quelli
sono concepibili dall'intelletto: gli intelligibili sono dunque gli
intellettibili in forma materiale. La natura è infine oggetto della fisica,
suddivisa in sette discipline: quelle del quadrivium - aritmetica, geometria,
musica e astronomia - e del trivium - grammatica, logica e retorica. Le scienze
del quadrivio sono per Boezio i quattro gradi che portano alla sapienza: il
quadrivio «deve essere percorso da coloro la cui mente superiore può essere
sollevata dalla sensazione naturale agli oggetti più sicuri dell'intelligenza».
La prima delle discipline del quadrivio, «il principio e la madre» delle altre
è, per Boezio, l'aritmetica; il De institutione arithmetica, scritta intorno al
505 e dedicata al suocero Simmaco, è ripresa dall'Introduzione all'Aritmetica
di Nicomaco di Gerasa. Nel suo De institutione musica, la cui fonte sono
gli Elementi armonici di Tolomeo e un'opera perduta di Nicomaco, distingue tre
generi di musica: una musica cosmica, mundana, che non è percepibile dall'uomo
ma deve derivare dal movimento degli astri, dal momento che l'universo, secondo
Platone, è strutturato sul modello degli accordi musicali, la cui armonia è
fondata sull'equilibrio dei quattro elementi presenti in natura - acqua, aria,
terra e fuoco; una musica humana, espressione della mescolanza, nell'uomo,
dell'anima e del corpo e derivante dal rapporto fra l'elemento fisico e
l'elemento intellettuale e pertanto percepibile con un'attività di
introspezione in noi stessi; la musica ha una profonda influenza sulla vita
umana: è l'armonia dell'uomo con sé stesso e di sé con il mondo. Infine, esiste
naturalmente la musica pratica, strumentale, musica instrumentis constituta,
ottenuta dalle vibrazioni degli strumenti e dalla voce. Le altre due opere di
geometria e di astronomia, tratte dagli Elementi di Euclide e dall'Almagesto di
Tolomeo, sono andate perdute. La logica L'acquisizione delle discipline
del trivium - grammatica, retorica e logica - è utile per esprimere al meglio
la conoscenza che già si possiede. La logica di Boezio è in sostanza un commento
della logica di Aristotele, dal momento che egli segue l'Isagoge, il commento
alla logica aristotelica del neoplatonico Porfirio, che Boezio conobbe dapprima
nella traduzione latina di Vittorino e poi direttamente dal testo greco di
Porfirio, oltre a tradurre le Categorie e il De interpretatione di Aristotele.
Le categorie, secondo Aristotele, sono i diversi significati che i termini
(όροι) usati in una discussione possono assumere; un medesimo vocabolo - per
esempio uomo - può significare un uomo reale, l'uomo in generale, un uomo
rappresentato in una scultura; per evitare confusioni, al termine
"uomo", che è una categoria sostanza, aggiungendo altre nove
categorie, ossia colore, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo,
situazione, stato, azione e passione, un discorso, che ha per soggetto la
sostanza "uomo", sarà chiaramente individuato. Al soggetto
sostanza si possono unire dei predicati, distinti da Aristotele in cinque modi
diversi: il genere, la specie, la differenza, la proprietà e l'accidente. Il genere
è il predicato più generale di un soggetto: al soggetto "Socrate"
appartiene allora il genere "animale" e, caratterizzando più in
particolare con l'indicare la specie come sottoclasse del genere, si potrà dire
che Socrate è un animale di specie "uomo". Le sostanze
"prime", quelle che indicano le cose, gli oggetti sensibili, esistono
di per sé, secondo Aristotele, mentre il genere e la specie sono indicate da
Aristotele come sostanze "seconde", e non è chiaro se esse esistano
di per sé. A questo proposito «non dirò», scrive Porfirio, «riguardo ai generi
e alle specie, se siano sostanze esistenti per sé, o se siano semplici
pensieri; se siano realtà corporee o incorporee; se siano separate dai
sensibili ovvero poste in essi. Poiché questa è impresa molto ardua, che ha
bisogno di più vaste indagini». Boezio in un manoscritto medievale.
Allo stesso modo Boezio si pone il problema se i generi e le specie siano
realtà esistenti di per sé, come esistono realmente i singoli individui, e se,
in questo caso, siano realtà spirituali o materiali e, se materiali, esistano
in unione con le realtà sensibili o se siano separate; oppure, non esistendo di
per sé, se siano semplici categorie dello spirito umano che le abbia concepite
per necessità di linguaggio. La risposta di Boezio è che «Platone ritiene
che i generi, le specie e gli altri universali non siano soltanto conosciuti
separatamente dai corpi, ma che esistano e sussistano indipendentemente da
quelli; invece Aristotele pensa che gli incorporei e gli universali sono sì
oggetto di conoscenza, ma che non sussistono che nelle cose sensibili. Quale di
queste opinioni sia la vera, io non ho avuto l'intenzione di decidere, perché è
compito di più alta filosofia. Noi abbiamo deciso di seguire l'opinione di
Aristotele, non perché l'approviamo totalmente ma perché questo libro l'Isagoge
di Porfirio è scritto seguendo le Categorie di Aristotele». Tuttavia
Boezio dà una risposta al problema degli universali, prendendola da Alessandro
d'Afrodisia: il pensiero umano è in grado di separare dagli oggetti sensibili
nozioni astratte, come quelle di "animale" e di "uomo";
anche se il genere e la specie non potessero esistere separati dal corpo, non
per questo ci è impedito di pensarli separatamente da esso. I cinque
predicabili o universali, se non sono delle sostanze, come vuole Aristotele,
sono allora dei concetti (intellectus): «uno stesso soggetto è universale
quando lo si pensa ed è singolare quando lo si coglie con i sensi nelle cose»;
platonicamente, egli riafferma così l'esistenza di oggetti propri della mente
che non possono essere conosciuti sensibilmente. Boezio non riprende la teoria
aristotelica dell'intelletto agente, che spiegherebbe come sia possibile al
pensiero separare ciò che è unito: nel suo commento all'Isagoge questa
operazione di astrazione resta inspiegata ma verrà ripresa, in diversa forma,
nel De consolatione philosophiae. Sono quattro gli scritti boeziani che
trattano di questioni teologiche: il Contra Eutychen et Nestorium, o De persona
et duabus naturis in Christo, dedicato a un diacono Giovanni, che potrebbe
essere il futuro papa Giovanni I, fu composto nel 512 come contributo al
controverso dibattito sulla persona e sulla natura, umana e divina, di Cristo.
Eutiche sosteneva l'esistenza in Cristo di una natura divina in una persona
divina, mentre Nestorio, sostenendo l'identità di persona e natura, sosteneva
che Cristo avesse avuto due nature, una divina e una umana e perciò anche due
persone, una divina e una umana. Boezio si preoccupa innanzi tutto di chiarire
i significati delle parole, affinché non si creino contrasti dovuti a semplici
fraintendimenti. Distingue tre diversi significati del termine «natura»,
natura come «predicato di tutte le cose esistenti», natura come «predicato di
tutte le sostanze corporee e incorporee» e natura come «differenza specifica
che dà forma a qualsiasi realtà»; definisce poi con "persona" una
«sostanza individua di natura razionale» riferibile agli uomini, agli angeli e
a Dio. Scrive infatti (Contra Eutychen, 2, 3): «la persona non si può mai
applicare agli universali, ma soltanto ai particolari e agli individui: non
esiste infatti la persona dell'uomo in genere o dell'uomo in quanto animale.
Pertanto se la persona appartiene soltanto alle sostanze e soltanto a quelle razionali,
se ogni natura è una sostanza, e se la persona sussiste non negli universali ma
soltanto negli individui, essa si può così definire: "la sostanza
individua di natura razionale"». Ma Boezio non pretende di aver dato
una parola definitiva sulla controversia: occorre che sia «il linguaggio
ecclesiastico a scegliere il nome più adatto»; per quello che lo riguarda, egli
dichiara di non essere «tanto vanitoso da anteporre la mia opinione a un
giudizio più sicuro. Non è in noi la sorgente del bene e nelle nostre opinioni
non vi è nulla che dobbiamo preferire a ogni costo; da Colui che solo è buono
derivano tutte le cose veramente buone». Intorno al 518 fu composto il De
hebdomadibus, o Ad eundem quomodo substantiae in eo quod sint, bonae sint, cum
non sint substantialia sint, ossia In che modo le sostanze siano buone in quel
che sono, pur non essendo beni sostanziali, ove Boezio distingue, nell'ente,
l'essere e il «ciò che è» l'id quod est, ciòe il soggetto individuale che
possiede l'essere: per Boezio «l'essere non è ancora, ma ciò che ha ricevuto la
forma dell'essere, quello è e sussiste». Stabilito che «tutto ciò che è
tende al bene», si pone il problema se possano definirsi buoni gli enti finiti,
la cui essenza non è la bontà; distingue allora i beni che sono tali in sé dai
«beni secondi», ossia quelli che lo sono in quanto partecipano della bontà, per
giungere alla conclusione che anche il «bene secondo» è buono, essendo
«scaturito da quello il cui essere stesso è buono», ossia dal primo Essere che
è anche e necessariamente il primo Bene. Nel De sancta Trinitate o Quomodo
trinitas unus Deus, uno scritto successivo al 520, si pone il problema se a
Dio, come a tutte le persone della Trinità, si applichino le categorie della
logica, e se dunque siano una sostanza e se sia possibile che abbiano degli
attributi; lo stesso tema, in forma sintetica, è espresso nell'Ad Johannem
diaconum utrum Pater et Filius et Spiritus Sanctus de divinitate
substantialiter praedicentur. Il De consolatione philosophiae La
consolazione della filosofia, miniatura del 1485. Boezio in prigione,
miniatura, 1385. Scritta durante la carcerazione, i cinque libri del De
consolatione si presentano come un dialogo nel quale la Filosofia,
personificata da «una donna di aspetto oltremodo venerabile nel volto, con gli
occhi sfavillanti e acuti più della normale capacità umana; di colorito vivo e
d'inesausto vigore, benché tanto avanti con gli anni da non credere che potesse
appartenere alla nostra epoca», dimostra che l'afflizione patita da Boezio per
la sventura che lo ha colpito non ha in realtà bisogno di alcuna consolazione,
rientrando nell'ordine naturale delle cose, governate dalla Provvidenza
divina. Si può dividere l'opera in due parti, una costituita dai primi
due libri e l'altra dagli ultimi tre. È una distinzione che corrisponde a
quanto raccomandato dallo stoico Crisippo nella cura delle afflizioni: quando
l'intensità della passione è al culmine, prima di ricorrere ai rimedi più
efficaci, occorre attendere che essa si attenui. Così infatti si esprime la
Filosofia (I, VI, 21): «siccome non è ancora il momento per rimedi più
energici, e la natura della mente è tale che, respingendo le vere opinioni,
subito si riempie di errori, dai quali nasce la caligine delle perturbazioni
che confonde l'intelletto, io cercherò di attenuare a poco a poco questa
oscurità in modo che, rimosse le tenebre delle passioni ingannevoli, tu possa
conoscere lo splendore della luce vera». Una medicina leggera, «qualcosa
di dolce e di piacevole che, penetrato al tuo interno, apra la strada a rimedi
più efficaci», è la comprensione della natura della fortuna, esposta nel II
libro utilizzando temi della filosofia stoica ed epicurea. La fortuna (II, I,
10 e segg.) «era sempre la stessa, quando ti lusingava e t'illudeva con le
attrattive di una felicità menzognera se l'apprezzi, adeguati ai suoi
comportamenti, senza lamentarti. Se aborrisci la sua perfidia, disprezzala
[...] ti ha lasciato colei dalla quale nessuno può essere sicuro di non essere
abbandonato ti sforzi di trattenere la ruota della fortuna, che gira
vorticosamente? Ma, stoltissimo fra tutti i mortali, se si fermasse, non
sarebbe più lei». Del resto, quello che la fortuna ci dà, saremo noi stessi a
doverlo abbandonare in quell'ultimo giorno della nostra vita che (II, III, 12)
«è pur sempre la morte della fortuna, anche della fortuna che dura. Che
importanza credi allora che abbia, se sia tu a lasciarla morendo, o se sia lei
a lasciarti, fuggendo?». Se dunque ci rende infelice tanto il suo abbandono
durante la nostra vita, quanto il fatto che, morendo, dobbiamo abbandonare i
doni che quella ci ha elargito in vita, allora la nostra felicità non può
consistere in quei doni effimeri, in cose mortali, e neppure nella gloria, nel
potere e nella fama, ma deve essere dentro noi stessi. Si tratta allora di
conoscere «l'aspetto della felicità vera», dal momento che ciascuno (III, II,
1) «per vie diverse, cerca pur sempre di giungere a un unico fine, che è quello
della felicità. Tale fine consiste nel bene: ognuno, una volta che l'abbia
ottenuto, non può più desiderare altro». Dimostrato che (III, IX, 2) «con le
ricchezze non si ottiene l'autosufficienza, non la potenza con i regni, non con
le cariche il rispetto, non con la gloria la fama, né la gioia con i piaceri»,
tutti beni imperfetti, occorre determinare la forma del bene perfetto, «questa
perfezione della felicità». Ora, il bene perfetto, il «Sommo Bene», è
Dio, dal momento che, secondo Boezio, sviluppando una concezione neoplatonica
(III, X, 8) «la ragione dimostra che Dio è buono in modo da poterci convincere
che in lui vi è anche il bene perfetto. Se infatti non fosse tale, non potrebbe
essere l'origine di ogni cosa; vi sarebbe altro, migliore di lui, in possesso
del bene perfetto, a lui precedente e più prezioso; è chiaro che le cose
perfette precedono quelle imperfette. Pertanto, per non procedere all'infinito
col ragionamento, dobbiamo ammettere che il sommo Dio sia del tutto pieno del
bene sommo e perfetto; ma s'era stabilito che il bene perfetto sia la vera
felicità: dunque la vera felicità è posta nel sommo Dio». Nel IV libro
(I, 3) Boezio pone il problema di come «pur esistendo il buon reggitore delle
cose, i mali esistano comunque ed siano impuniti e non solo la virtù non venga
premiata ma sia persino calpestata dai malvagi e punita al posto degli
scellerati». La risposta, secondo lo schema platonico, della Filosofia, è che
tutti, buoni e malvagi, tendono al bene; i buoni lo raggiungono, i malvagi non
riescono a raggiungerlo per loro propria incapacità, mancanza di volonta,
debolezza. Perché infatti i malvagi (IV, II, 31 - 32) «abbandonata la virtù,
ricercano i vizi? Per ignoranza di ciò che è bene? Ma cosa c'è di più debole
della cecità dell'ignoranza? Oppure sanno cosa cercare ma il piacere li allontana
dalle retta via? Anche in questo caso si dimostrano deboli, a causa
dell'intemperanza che impedisce loro di opporsi al male? oppure abbandonano il
bene consapevolmente e si volgono al vizio? Ma anche così cessano di essere
potenti e cessano persino di essere del tutto». Infatti il bene è l'essere e
chi non raggiunge il bene è privo necessariamente dell'essere: dell'uomo ha
solo la parvenza: «tu potresti chiamare cadavere un uomo morto, ma non
semplicemente uomo; così, i viziosi sono malvagi ma nego che essi siano in
senso assoluto». Nel quinto e ultimo libro Boezio tratta il problema
della prescienza e provvidenza divina e del libero arbitrio. Definito il caso
(I, I, 18) «un evento inaspettato prodotto da cause che convergono in cose
fatte per uno scopo determinato», per Boezio il concorrere e confluire di
quelle cause è «il prodotto di quell'ordine che, procedendo per inevitabile
connessione, discende dalla provvidenza disponendo le cose in luoghi e in tempi
determinati». Il caso, dunque, non esiste in sé stesso, ma è l'evento di cui
gli uomini non riescono a stabilire le cause che lo hanno determinato. È
compatibile allora il libero arbitrio dell'uomo con la presenza della
prescienza divina e a cosa dovrebbe servire pregare che qualcosa avvenga o
meno, se già tutto è stabilito? La risposta della Filosofia è che la previdenza
di Dio non dà necessità agli eventi umani: essi restano la conseguenza della
libera volontà dell'uomo anche se sono previsti da Dio. Ma questo stesso
problema, così posto dall'uomo, non è nemmeno corretto. Dio è infatti eterno,
nel senso che non è soggetto al tempo; per lui non esiste il passato e il
futuro, ma un eterno presente; il mondo, invece, anche se non avesse avuto
nascita, sarebbe perpetuo, ossia soggetto al mutamento e dunque soggetto al
tempo; nel mondo esiste pertanto un passato e un futuro. La conoscenza che Dio
ha delle cose non è a rigore un "vedere prima", una pre-videnza, ma
una provvidenza, un vedere nell'eterno presente tanto gli eventi necessari,
come sono quelli regolati dalle leggi fisiche, che gli eventi determinati dalla
libera volontà dell'uomo. La fortuna della Consolazione fu notevole per
tutto il Medioevo, così da fare del suo autore una delle fonti più autorevoli
del pensiero cristiano, per quanto l'opera si fondi sulle tradizioni stoiche e
soprattutto neoplatoniche; essa tuttavia si manifesta come ultima autorevole
affermazione della libertà del pensiero in complementarità con la fede espressa
in sue altre opere, come dimostra il fatto che Boezio non abbia mai citato
Cristo in un'opera di tale natura e composta a un passo dalla morte - tanto che
già nel X secolo il monaco sassone Bovo di Corvey dirà, a questo riguardo, che
nella Consolazione sembra che la Filosofia abbia scacciato Cristo. Allievo
della scuola neoplatonica di Atene, Boezio trovò negli insegnamenti della
classica tradizione neoplatonica esempi di direttiva morale pienamente
sufficienti rispetto a quanto poteva trovare nel Cristianesimo, del quale, non
a caso, come mostrano i suoi Opuscoli teologici, si occupò soltanto per
problemi relativi unicamente alla dogmatica e mai alla morale e al destino
dell'uomo. Lo stile La De Consolatione philosophiae è un esempio di
prosimetro, una composizione in cui la poesia si alterna alla prosa, secondo un
modello che viene fatto risalire al filosofo cinico Menippo di Gadara nel III
secolo a.C. e introdotto a Roma nel I secolo a.C. da Varrone; molto
probabilmente Boezio tenne presente il De nuptiis Mercurii et Philologiae di
Marziano Capella, opera di struttura analoga, composta circa un secolo prima.
Boezio, nelle opere precedenti, frutto di elaborazioni teologiche, di commenti
e di traduzioni, non si era preoccupato di dare dignità letteraria ai suoi
scritti; nella Consolazione ha voluto affermare la propria appartenenza alla
tradizione latina, con una trasparente imitazione del dialogo platonico
attraverso i modelli di Cicerone e di Seneca, così da porsi, nel versante sia
letterario che filosofico, come l'ultimo classico romano. Le opere
discusse A Boezio furono attribuite altre opere, come la De fide catholica o
Brevis fidei christianae complexio, che sembra appartenere a quel suo allievo
Giovanni nel quale si è voluto riconoscere Papa Giovanni I. Anche se ancora
oggi vi è discussione sull'attribuzione a Boezio, l'impostazione catechistica
dell'opera, che tratta delle verità essenziali del Cristianesimo, quali la
Trinità, il peccato originale, l'Incarnazione, la Redenzione e la Creazione,
porterebbero a escludere una paternità boeziana. Attribuita a Mario Vittorino
la De definitione e a Domenico Gundisalvo la De unitate et uno, resta tuttora
non definito l'autore della De disciplina scholarium, anch'essa attribuita a
suo tempo a Boezio. Culto La figura di Boezio fu molto stimata nel
Medioevo. Le sue vicissitudini avevano molte analogie con la vita di San Paolo,
ingiustamente imprigionato e martire. Il poeta Dante Alighieri nomina
Boezio nella Divina Commedia e nel Convivio, dove afferma (II, 12) di averne
iniziato gli studi quando, dopo la morte di Beatrice, si era dedicato alla
filosofia. Nel Paradiso di Dante, Boezio è uno degli spiriti sapienti del IV
Cielo del Sole (Par., X, 124-126), che formano la prima corona di dodici
spiriti in cui è presente anche san Tommaso d'Aquino. Dal Martirologio
Romano al 23 ottobre: "A Pavia, commemorazione di san Severino Boezio,
martire, che, illustre per la sua cultura e i suoi scritti, mentre era
rinchiuso in carcere scrisse un trattato sulla consolazione della filosofia e
servì con integrità Dio fino alla morte inflittagli dal re
Teodorico". Opere Le date di composizione sono tratte da Philip
Edward Phillips, "Anicius Manlius Severinus Boethius: A Chronology and
Selected Annotated Bibliography", in Noel Harold Kaylor Jr., & Philip
Edward Phillips, (a cura di), A Companion to Boethius in the Middle Ages,
Leiden, Brill, 2012,551–589. Opere matematiche De institutione
arithmetica (c. 500) adattamento delle Introductionis Arithmeticae di Nicomaco
di Gerasa (c. 160 - c. 220). De Institutione musica (c. 510), si basa su un'opera
perduta di Nicomaco di Gerasa e sulla Harmonica di Tolomeo. Opere logiche A)
Traduzioni dal greco Porphyrii Isagoge (traduzione dell'Isagoge di Porfirio) In
Categorias Aristotelis De Interpretatione vel Periermenias Interpretatio
priorum Analyticorum (due versioni) Interpretatio Topicorum Aristotelis
Interpretatio Elenchorum Sophisticorum Aristotelis B) Commenti a Porfirio,
Aristotele e Cicerone In Isagogen Porphyrii commenta (due versioni, la prima
basata sulla traduzione di Gaio Mario Vittorino, (c. 504-505); la seconda sulla
sua traduzione (507-509). In Aristotelis Categorias (c. 509-511) In librum
Aristotelis de interpretatione Commentaria minora (non prima del 513) In librum
Aristotelis de interpretatione Commentaria majora (c. 515-516) In Aristotelis
Analytica Priora (due versioni) (c.520-523) Commentaria in Topica Ciceronis
(incompleta: manca la fine del sesto libro e tutto il settimo) Opere originali
De syllogismo cathegorico (505-506) De divisione (515-520?) De hypotheticis
syllogismis (c. 516-522) In Ciceronis Topica (prima del 522) De topicis
differentiis (prima del 523) Introductio ad syllogismos cathegoricos (c. 523)
Opuscola Sacra (trattati teologici) (c. 520) De Trinitate (c. 520-521) Utrum
Pater et Filius et Spiritus Sanctus de divinitate substantialiter praedicentur
(Se "Padre" "Figlio" e "Spirito Santo", siano
predicati sostanzialmente della Divinità) Quomodo substantiae in eo quod sint
bonae sint cum non sint substantialia bona conosciuto anche col titolo De
Hebodmadibus (In che modo le sostanze siano buone in quel che sono, pur non
essendo beni sostanziali) De fide Catholica Contra Eutychen et Nestorium De
consolatione Philosophiae (524-525). Frammenti di un trattato sulla geometria
sono pubblicati in: Menso Folkerts (a cura di), Boethius' Geometrie II. Ein
mathematisches Lehrbuch des Mittelalters, Wiesbaden, Franz Steiner, 1970.
Edizioni Severino Boezio, Dialectica, Venetiis, apud Iuntas, 1547. Manlii
Severini Boethii Opera Omnia, Patrologiae cursus completus, Series latina, vol.
63 e 64, 1882 - 1891. Anicii Manlii Severini Boethii Opera, I-II, Turnholt
1957-1999 Anicius Manlius Severinus Boethius Torquatus, De consolatione
philosophiae. Opuscula theologica, ed. C. Moreschini, editio altera, Monachii -
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da Giulio Marziano Rota ed ora nuovamente volgarizzata"", ed infine
la traduzione in fiorentino "" volgare fiorentina"" di
Benedetto Varchi che traduce in italiano anche le parti non in prosa con versi
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di Monaco di Baviera. De institutione Musica, su imslp.org. PredecessoreConsole
romanoSuccessore Flavio Importuno, sine collega510Flavio Arcadio Placido Magno
Felice, Flavio Secondino V · D · M Padri e dottori della Chiesa
cattolica Severino Boezio Boetius.png Magister officiorum del Regno
Ostrogoto Durata mandatosettembre 522 – agosto 523 MonarcaTeodorico il Grande
Console del Regno Ostrogoto Durata mandato510 MonarcaTeodorico il Grande
PredecessoreFlavio Importuno SuccessoreMagno Felice Flavio Secondino Senatore
romano Durata mandato510 – settembre 524 Dati generali Professionefilosofo San
Severino Boezio Fl Boetio (Flavio Boezio) - Studiolo di Federico da
MontefeltroFl Boetio (Flavio Boezio) - Studiolo di Federico da
Montefeltro Padre della Chiesa Martire NascitaRoma,
475/477 MortePavia, 524/526 Venerato daTutte le Chiese che ammettono il culto
dei santi Ricorrenza23 ottobre Attributipalma ManualeInter latinos aristotelis interpretes
et aetate primi, et doctrina praecipui dialectica, 1547. Da BEIC, biblioteca
digitale. Boezio raffigurato col proprio suocero, Quinto Aurelio Memmio
Simmaco, nobile e letterato romano.Controllo di autoritàVIAF100218964 ·
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officiorumPersonaggi citati nella Divina Commedia (Paradiso)Santi romani del VI
secoloTeorici della musica italianiTraduttori dal greco al latino[alter. Refs.: Boethiius,
in Stanford Encyclopaedia. Luigi Speranza,
"Grice e Boezio," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Bollettino della Società filosofica italiana. Cum sit necessarium, Chrisaorie, et ad eam quae est apud
Aristotelem praedicamentorum doctrinam nosse quid genus sit et quid differentia
quidque species et quid proprium et quid accidens, et ad definitionum
assignationem, et omnino ad ea quae in divisione vel demonstratione sunt
utilia, hac istarum rerum speculatione compendiosam tibi traditionem faciens
temptabo breviter velut introductionis modo ea quae ab antiquis dicta sunt
aggredi; altioribus quidem quaestionibus abstinens, simpliciores vero
mediocriter coniectans. Mox de generibus et speciebus illud quidem sive
subsistunt sive in solis nudis purisque intellectibus posita sunt sive
subsistentia corporalia sunt an incorporalia, et utrum separata an in
sensibilibus et circa ea constantia, dicere recusabo. Altissimum enim est
huiusmodi negotium et maioris egens inquisitionis. Illud vero quemadmodum
de his ac de propositis probabiliter antiqui tractaverint, et horum maxime
Peripatetici, tibi nunc temptabo monstrare. Videtur autem neque genus neque
species simpliciter dici. Genus enim dicitur et aliquorum quodammodo se
habentium ad unum aliquid et ad se invicem collectio, secundum quam
significationem Romanorum dicitur genus, ab unius scilicet habitudine -- dico
autem Romuli -- et multitudinis habentium aliquo modo ad invicem eam quae ab
illo est cognationem secundum divisionem ab aliis generibus
dictam. Dicitur autem et aliter rursus genus quod est uniuscuiusque
generationis principium vel ab eo qui genuit vel a loco in quo quis genitus
est. Sic enim Oresten quidem dicimus a Tantalo habere genus, Illum autem ab
Hercule, et rursus Pindarum quidem Thebanum esse genere, Platonem vero Atheniensem;
et enim patria principium est uniuscuiusque generationis quemadmodum pater.
Haec autem videtur promptissima esse significatio; Romani enim qui ex genere
descendunt Romuli, et Cecropidae qui ex genere descendunt Cecropis et horum
proximi. Et prius quidem appellatum est genus uniuscuiusque generationis
principium, dehinc etiam multitudo eorum qui sunt ab uno principio; ut a
Romulo, dividentes et ab aliis separantes, dicebamus omnem illam collectionem
esse Romanorum genus. Aliter autem rursus dicitur genus, cui supponitur
species ad horum fortasse similitudinem dictum. Etenim principium quoddam est
huiusmodi genus earum quae sub ipso sunt specierum, videturque et omnem eam
multitudinem continere quae sub ipso sunt specierum. Tripliciter igitur
cum genus dicatur, de tertio apud philosophos sermo, quod etiam describentes
assignaverunt, dicentes, genus esse quod de pluribus et differentibus specie,
in eo quod quid sit praedicatur, ut animal. Eorum enim quae praedicantur
alia quidem de uno dicuntur solo, sicut individua sicut Socrates et hic et hoc,
alia vero de pluribus, quemadmodum genera et species et differentiae et
propria, et accidentia communiter sed non proprie alicui. Est autem genus
quidem ut animal, species vero ut homo, differentia autem ut rationale,
proprium ut risibile, accidens ut album, nigrum, sedere. Ab his ergo quae
de uno solo praedicantur differunt genera, eo quod haec de pluribus dicuntur.
Ab his autem rursus quae de pluribus, a speciebus quidem, quoniam species etsi
de pluribus praedicentur, non tamen de differentibus specie, sed numero: homo
enim cum sit species, de Socrate et Platone praedicatur, qui non specie a se
invicem differunt, sed numero. Animal vero cum sit genus, de homine, equo, et
boue praedicatur, qui differunt a se invicem specie, non numero solum. A
proprio quoque differt genus, quoniam proprium de una sola specie, cuius est
proprium, praedicatur, et de iis quae sub una specie sunt individuis,
quemadmodum risibile de homine solo, et de particularibus hominibus: genus autem
non de una solum specie praedicatur, sed de pluribus et differentibus. A
differentia vero et ab iis quae communiter sunt accidentia differt genus,
quoniam etsi de pluribus et differentibus specie praedicentur differentiae, et
communiter accidentia, non tamen in eo quod quid sit praedicantur, sed potius
in eo quod quale est, et quomodo se habet. Interrogantibus enim aliquibus quid
est illud de quo praedicantur haec? genus respondebimus: differentias autem et
communiter et accidentia non respondebimus. Non enim in eo quod quid est
praedicantur de subiecto, sed magis in eo quod quale sit. Interrogantibus enim
qualis est homo? dicimus rationalis, et qualis est corvus, dicimus niger. Est
autem rationale, differentia: nigrum vero, accidens. Quando autem quid est homo
interrogamur, animal respondemus: est autem genus hominis animal. Quare genus
de pluribus praedicari dividit ipsum ab iis quae de uno solo dicuntur, sicut
individua; de differentibus vero specie, separat eumdem ab iis quae sicut
species praedicantur, vel sicut propria: in eo autem quod quid sit praedicari,
dividit ipsum a differentiis et communiter accidentibus, quae singula non in eo
quod quid sit praedicatur, sed in eo quod quale est, vel quomodo se habet.
Nihil igitur neque superfluum, neque minus continet generis dicta descriptio.
Species autem dicitur quidem, et de uniuscuiusque forma, secundum quam dictum
est: primum quidem species digna est imperio: Dicitur autem species, et ea
quae est sub assignato genere, secundum quam solemus dicere, hominem quidem
speciem animalis, cum sit genus animal; album autem coloris speciem, triangulum
vero figurae speciem. Quod si etiam genus assignantes speciei meminimus,
dicentes quod de pluribus et differentibus specie in eo quod quid praedicatur,
et speciem dicimus id quod sub assignato genere ponitur. Nosse oportet quod
quoniam genus alicuius est genus, et species alicuius est species, idcirco
necesse est et in utrorumque rationibus utrisque uti. Assignant ergo et sic
speciem: Species est quae sub assignato genere ponitur, et de qua genus in eo
quod quid sit praedicatur. Amplius autem sic quoque: Species est quae de
pluribus et differentibus numero, in eo quod quid sit praedicatur; sed haec
quidem assignatio specialissimae est, et eius quae solum species est, non etiam
genus: aliae vero et non specialissimarum esse possunt. Planum autem erit quod
dicitur hoc modo: In unoquoque praedicamento sunt quaedam generalissima, et
rursus alia specialissima, et inter generalissima et specialissima sunt alia
quae et genera et species eadem dicuntur. Est autem generalissimum quidem supra
quod non est aliud aliquod superveniens genus. Specialissimum autem post quod
non est alia aliqua inferior species. Inter generalissimum autem et
specialissimum, alia sunt quae et genera et species sunt eadem, ad aliud tamen
et aliud sumpta. Sit autem manifestum in uno praedicamento quod dicitur
substantia: est quidem et ipsa genus, sub hac autem est corpus, et sub corpore
animatum corpus, sub quo animal: sub animali vero, rationale animal, sub quo
homo: sub homine vero, Socrates et Plato, et qui sunt particulares
homines. Sed horum substantia quidem, generalissimum est, et genus solum:
homo vero specialissimum, et solum species; corpus vero, species quidem est
substantiae, genus vero corporis animati, sed et animatum corpus, species
quidem est corporis, genus vero animalis. Rursus animal species quidem est
corporis animati, genus vero animalis rationalis, sed rationale animal, species
quidem est animalis, genus autem hominis: homo vero species est rationalis
animalis, non autem etiam genus particularium hominum, sed solum species. Ac
omne quod est ante individua proximeque de ipsis praedicatur, species erit
solum, non etiam genus. Quemadmodum igitur substantia cum suprema sit, eo quod
nihil supra eam sit, genus est generalissimum, sic et homo, cum sit species,
postquam non est alia species, neque aliquid eorum quae possunt dividi in
species, sed solum individua (individuum enim est Socrates et Plato, et hoc
album), species erit solum, et ultima species (et ut dictum est) specialissima:
quae vero in medio sunt, eorum quidem quae supra se sunt species erunt, eorum
vero quae post genera sunt, quare haec quidem duas habent habitudines,
illam quae est ad superiora, secundum quam species dicuntur esse ipsorum, et
eam quae est ad posteriora, secundum quam genera ipsorum esse dicuntur. Extrema
vero habent unam habitudinem, nam et generalissimum ad ea quae posteriora sunt,
habet habitudinem, cum genus sit omnium supremum: eam vero quae est ad
superiora non habet, cum sit supremum, et primum principium, et (ut diximus)
supra quod non est aliud superveniens genus: et specialissimum etiam unam habet
habitudinem, ea quae est ad superiora, quorum est species: eam vero quae est ad
posteriora non diversam habet sed eandem, nam et individuorum species dicitur.
Sed species quidem individuorum, velut ea continens, species vero superiorum,
ut quae ab illis contineatur. Determinant ergo generalissimum ita, quod cum
genus sit non est species: et rursus, supra quod non est aliud superveniens
genus: specialissimum vero, quod cum sit species, non est genus, et quod cum
sit species, non amplius in species dividere possumus, et hoc modo quod de
pluribus et differentibus numero, in eo quod quid sit, praedicatur. Ea vero
quae sunt in medio extremorum, subalterna vocantur genera et species, et
unumquodque eorum species esse potest et genus, ad aliud quidem, et ad aliud
sumpta. Ea vero quae sunt supra specialissima usque ad generalissimum
ascendentia, vicissim genera dicuntur et species, ut Agamemnon, Atrides,
Pelopides, Tantalides, et ultimo Iovis. Sed in familiis quidem plerumque
reducuntur ad unum principium, verbi gratia ad Iovem. In generibus autem et
speciebus non sic se habet; neque enim unum commune genus omnium est ens, nec
omnia eiusdem generis sunt secundum unum supremum genus, quemadmodum dicit
Aristoteles, sed sint posita, quemadmodum dictum est in praedicamentis, prima
decem genera, quasi decem prima principia. Et si omnia quis entia vocet,
aequivoce inquit nuncupabit, non univoce: si enim ens unum esset commune omnium
genus, univoce omnia entia dicerentur: cum vero sint decem prima, commune est
ens secundum nomen solum, non etiam secundum rationem, quae secundum entis
nomen est. Decem quidem igitur generalissima sunt, specialissima vero in numero
quidem quodam sunt, non tamen infinito. Individua autem quae sunt post
specialissima, infinita sunt quapropter usque ad specialissima a generalissimis
descendentes iubebat Plato quiescere. Descendere autem per media dividendo specificis
differentiis, infinita vero relinquenda suadet, neque enim eorum posse fieri
disciplinam. Descendentibus igitur ad specialissima necesse est, dividendo per
multitudinem ire, ascendentibus vero ad generalissima necesse est colligere
multitudinem in unum: collectivum enim multorum in unam naturam species est, et
magis etiam genus. Particularia vero et singularia e contrario, in multitudinem
semper dividunt id quod unum est, participatione enim speciei, plures homines,
sunt unus homo, in particularibus autem et singularibus, unus et communis,
plures, divisivum enim est semper quod singulare est, collectivum autem et
adunativum quod commune est. Assignato autem genere, specie quid sit
utrumque, et genere quidem uno existente, speciebus vero pluribus: semper enim
divisio generis in species plures est, genus quidem semper de speciebus
praedicatur, et omnia superiora de inferioribus, species autem neque de proximo
sibi genere, neque de superioribus, neque enim convertitur. Oportet enim aut
aequa de aequis praedicari, ut hinnibile de equo, aut maiora de minoribus, ut
animal de homine, minora vero de maioribus minime: nec enim animal dicis esse
hominem, quemadmodum dicis hominem animal. De quibus autem species praedicatur,
de his necessario et speciei genus praedicatur et generis genus, usque ad
generalissimum. Si enim verum est dicere: Socratem hominem, hominem autem
animal, animal vero substantiam, verum est Socratem animal dicere atque
substantiam: semper igitur cum superiora de inferioribus praedicentur, species
quidem de individuo praedicabitur, genus autem et de specie et de individuo;
generalissimum autem et de genere, et de generibus, si plura sunt media et
subalterna, et de specie, et de individuo: Dicitur enim generalissimum
quidem de omnibus sub se positis generibus et speciebus et individuis; genus
autem quod ante specialissimum est, de omnibus specialissimis et de individuis,
solum autem species de omnibus individuis, individuum autem praedicatur de uno
solo particulari. Individuum autem dicitur Socrates, et hoc album, et hic
veniens Sophronisci filius, si solus sit ei Socrates filius). Individua
autem dicuntur huiusmodi, quoniam ex proprietatibus consistit unumquodque
eorum, quarum collectio numquam in alio quolibet eadem erit. Socratis enim proprietates
nunquam in alioquo quolibet erunt particularium eaedem. Hae vero quae sunt
hominis proprietates: dico autem eius qui est communis, erunt eaedem pluribus,
magis autem in omnibus particularibus hominibus in eo quod homines sunt.
Continetur igitur individuum quidem sub specie, species autem sub genere. Totum
enim quidem est genus, individuum autem pars, species vero totum et pars: sed
pars quidem alterius, totum vero non alterius, sed in aliis. In partibus enim
totum est. De genere quidem et specie, et quid sit generalissimum, et quid
specialissimum, et quae genera, et species eadem sunt, et quae individua, et
quot modis genus et species dicatur, sufficienter dictum est. Differentia vero
communiter, proprie, et magis proprie dicitur. Communiter quidem differre
alterum ab altero dicitur, quoniam alteritate quadam differt quocunque modo,
vel a seipso vel ab alio; differt enim Socrates a Platone alteritate quadam, et
ipse a se puero iam vir factus, et a se faciente aliquid cum quiescit, et
semper in aliquo modo habendi se alteritatibus spectatur. Proprie autem
differre alterum ab altero dicitur, quando inseparabili accidente alterum ab
altero differt. Inseparabile vero accidens est, ut nasi curvitas, caesitas
oculorum, et cicatrix cum ex vulnere occalluerit. Magis autem proprie alterum
differre ab altero dicitur, quando specifica differentia differt, quemadmodum
homo ab equo specifica differentia differt rationali qualitate. Universaliter
ergo omnis differentia alteratum facit cuilibet adveniens, sed ea quae est
communiter et proprie, alteratum facit: illa autem quae est magis proprie,
aliud. Differentiarum enim, aliae quidem alteratum faciunt, aliae vero aliud.
Illae igitur quae faciunt aliud, specificae uocantur; illae vero quae
alteratum, simpliciter differentiae: animali enim rationalis differentia
adveniens aliud facit, et speciem animalis facit. Illa vero quae est movendi,
alteratum facit a quiescente. Quare haec quidem aliud, illa vero alteratum
solum facit. Secundum igitur aliud facientes differentias et divisiones
fiunt a generibus in species, et diffinitiones assignantur, quae sunt ex
genere, et huiusmodi differentiis: secundum autem eas quae solum alteratum
faciunt, alterationes solum consistunt, et aliquo modo se habentis
permutationes. A superioribus rursus inchoanti dicendum est,
differentiarum alias quidem esse separabiles, alias vero inseparabiles. Moveri
enim et quiescere, et sanum esse, et aegrum, et quaecunque his proxima sunt,
separabilia sunt. At vero aquilum esse, vel simum, vel rationale, vel
irrationale, inseparabilia sunt. Inseparabilium autem, aliae quidem sunt per
se, aliae vero per accidens; nam rationale per se inest homini, et mortale, et
disciplinae esse susceptibile. At vero aquilum esse vel simum, per accidens et
non per se. Illae igitur quae per se sunt, in ratione substantiae accipiuntur,
et faciunt aliud: illae vero quae secundum accidens, nec in substantiae ratione
accipiuntur, nec faciunt aliud, sed alteratum. Et illae quidem quae per se
sunt, non suscipiunt magis et minus: illae vero quae per accidens, et si
inseparabiles sint, intentionem accipiunt et remissionem: nam neque genus magis
et minus praedicatur de eo cuius est genus, neque generis differentiae,
secundum quas dividitur: ipsae enim sunt quae uniuscuiusque rationem complent:
esse autem unicuique unum et idem, nec intentionem nec remissionem suscipiens
est, aquilum autem vel simum esse, vel coloratum aliquo modo, et intenditur et
remittitur. Cum igitur tres species differentiae considerentur, et cum hae
quidem sint separabiles, illae vero inseparabiles, et rursus inseparabilium,
hae quidem sint per se, illae vero per accidens, et rursus earum quae per se
sint differentiarum, aliae quidem sunt, secundum quas dividimus genera in
species aliae vero secundum quas haec quae divisa sunt specificantur; ut, cum
per se differentiae omnes huiusmodi sint animalis, animati et sensibilis,
rationalis et irrationalis, mortalis et immortalis, ea quidem quae est animati
et sensibilis differentia, constitutiva est animalis substantiae: est enim
animal substantia animata sensibilis, ea vero quae est mortalis et immortalis
differentia, itemque rationalis et irrationalis, divisivae sunt animalis
differentiae, per eas enim genera in species dividimus. Sed hae quidem
quae divisivae sunt differentiae generum, completivae fiunt et constitutivae
specierum: dividitur enim animal rationali et irrationali differentia, et
rursus mortali et immortali differentia, sed ea quae sunt rationalis
differentiae et mortalis, constitutivae sunt hominis, rationalis vero et
immortalis, Dei: illae vero quae sunt irrationalis et mortalis, irrationabilium
animalium. Sic et suprema substantia, cum divisiva sit animati et inanimati
differentia, sensibili et insensibili, animata et sensibilis congregatae ad
substantiam, animal perfecerunt, animata vero et insensibilis perfecerunt
plantam. Quoniam ergo eaedem aliquo modo acceptae fiunt constitutivae,
aliquo modo autem divisivae, omnes specificae dicuntur: et his maxime opus est
ad divisiones generum et diffinitiones specierum, sed non his quae secundum
accidens inseparabiles, nec magis his, quae sunt separabiles. Quas etiam
determinantes dicunt: Differentia est qua abundat species a genere. Homo enim
ab animali plus habet rationale et mortale: animal enim ipsum nihil horum est,
nam unde haberent species differentias? nec enim omnes oppositas habet, namque
idem simul habebit oppositas, sed quemadmodum probant, potestate quidem habet
omnes differentias sub se, actu vero nullam. Et sic nec ex his quae non sunt,
aliquid fit, nec in eodem simul opposita erunt. Definiunt autem eam et hoc
modo: Differentia est quod de pluribus et differentibus specie in eo quod quale
sit praedicatur rationale enim et mortale, de homine praedicatum in eo quod
quale quiddam est homo dicitur sed non in eo quod quid est; "Quid
est" enim "homo?" interrogatis nobis conveniens est dicere
"Animal"; quale autem animal inquisiti, quoniam rationale et mortale
est convenienter assignabimus. Rebus enim ex materia et forma constantibus
vel ad similitudinem materiae specieique constitutionem habentibus (quemadmodum
statua ex materia est aeris, forma autem figura), sic et homo communis et
specialis ex materia quidem similiter consistit genere, ex forma autem
differentia, totum autem hoc animal rationale mortale homo est quemadmodum
illic statua. Describunt autem huiusmodi differentiam et hoc modo:
Differentia est quod aptum natum est dividere quae sub eodem sunt genere
rationale enim et irrationale hominem et equum, quae sub eodem sunt genere quod
est animal, dividunt. Assignant autem etiam hoc modo: Differentia est qua
differunt a se singula nam secundum genus non differunt; sumus enim mortalia
animalia et nos et irrationabilia sed additum rationabile separavit nos ab
illis; rationabiles sumus et nos et dii sed mortale appositum disiunxit nos ab
illis. Interius autem perscrutantes et speculantes differentiam, dicunt
non quodlibet eorum quae sub eodem sunt genere dividentium esse differentiam
sed quod ad esse conducit et quod eius quod est esse rei pars est; neque enim
quod aptum natum est nauigare erit hominis differentia, etsi proprium sit
hominis. Dicimus enim: animalium haec quidem apta nata sunt ad nauigandum, illa
vero minime dividentes ab aliis, sed aptum natum esse ad nauigandum non erat
completiuum substantiae nec eius pars sed aptitudo quaedam eius est (idcirco
quoniam non est talis quales sunt quae specificae dicuntur differentiae). Erunt
igitur specificae differentiae quaecumque alteram faciunt speciem et quaecumque
in eo quod quale est accipiuntur. Et de differentiis quidem ista
sufficiunt. Proprium vero quadrifariam dividunt. Nam et id quod soli
alicui speciei accidit, etsi non omni (ut homini medicum esse vel geometrem),
et quod omni accidit, etsi non soli (quemadmodum homini esse bipedem), et quod
soli et omni et aliquando (ut homini in senectute canescere), quartum vero in
quo concurrit et soli et omni et semper (quemadmodum homini esse risibile; nam,
etsi non ridet, tamen risibile dicitur, non quod iam rideat sed quod aptus
natus sit; hoc autem ei semper est naturale; et equo hinnibile). Haec autem
proprie propria perhibent, quoniam etiam convertuntur; quicquid enim equus, et
hinnibile, et quicquid hinnibile, equus. Accidens vero est quod adest et
abest praeter subiecti corruptionem. Dividitur autem in duo, in separabile et
in inseparabile; namque dormire est separabile accidens, nigrum vero esse
inseparabiliter coruo et Aethiopi accidit (potest autem subintellegi et corvus
albus et Aethiops amittens colorem praeter subiecti
corruptionem). Definitur autem sic quoque: Accidens est quod contingit
eidem esse et non esse uel: Quod neque genus neque differentia neque species
neque proprium, semper autem est in subiecto subsistens. Omnibus igitur
determinatis quae proposita sunt, dico autem genere, specie, differentia,
proprio, accidenti, dicendum est quae eis communia adsunt et quae
propria. Commune quidem omnibus est de pluribus praedicari; sed genus
quidem de speciebus et de individuis, et differentia similiter, species autem
de his quae sub ipsa sunt individuis, at vero proprium et de specie et cuius
est proprium et de his quae sub specie sunt individuis, accidens autem et de
speciebus et de individuis. Namque animal de equis et bubus et canibus
praedicatur quae sunt species, et de hoc equo et de hoc boue quae sunt individua;
irrationale vero et de equis et de bubus praedicatur et de his qui sunt
particulares; species autem, ut homo, solum de his qui sunt particulares
praedicatur; proprium autem, quod est risibile, de homine et de his qui sunt
particulares; nigrum autem et de specie coruorum et de his qui sunt
particulares, quod est accidens inseparabile; et moueri de homine et de equo,
quod est accidens separabile sed principaliter quidem de individuis, secundum
posteriorem vero rationem de his quae continent individua. Commune est
autem generi et differentiae continentia specierum; continet enim et
differentia species, etsi non omnes quot genera; rationale enim, etiam si non
continet ea quae sunt irrationabilia ut genus quemadmodum animal sed continet
hominem et deum quae sunt species. Et quaecumque praedicantur de genere ut
genus, et de his quae sub ipso sunt speciebus praedicantur; quaeque de
differentia praedicantur ut differentiae, et de ea quae ex ipsa est specie
praedicabuntur. Nam, cum sit genus animal, non solum de eo praedicantur ut
genus substantia et animatum sed etiam de his quae sunt sub animali speciebus
omnibus praedicantur haec usque ad individua; cumque sit differentia
rationalis, praedicatur de ea ut differentia id quod est ratione uti, non solum
de eo quod est rationale sed etiam de his quae sunt sub rationali speciebus
praedicabitur ratione uti. Commune autem est et perempto genere vel
differentia simul perimi quae sub ipsis sunt; quemadmodum, si non sit animal,
non est equus neque homo, sic, si non sit rationale, nullum erit animal quod
utatur ratione. Proprium autem generis est de pluribus praedicari quam
differentia et species et proprium et accidens; animal enim de homine et equo
et aue et serpente, quadrupes vero de solis quattuor pedes habentibus, homo
vero videtur de solis individuis, et hinnibile de equo et de his qui sunt
particulares; et accidens similiter de paucioribus. Oportet autem differentias
accipere quibus dividitur genus, non eas quae complent substantiam
generis. Amplius genus continet differentiam potestate; animalis enim hoc
quidem rationale est, illud vero irrationale. Amplius genera quidem priora
sunt his quae sunt sub se positis differentiis propter quod simul quidem eas
aufert, non autem simul aufertur (sublato enim animali aufertur rationale et
irrationale), differentiae vero non auferunt genus (nam, si omnes interimantur,
tamen substantia animata sensibilis subintellegi potest quae est
animal). Amplius genus quidem in eo quod quid est, differentia vero in eo
quod quale quiddam est, quemadmodum dictum est, praedicatur. Amplius genus
quidem unum est secundum unamquamque speciem (ut hominis id quod est animal),
differentiae vero plurimae (ut rationale, mortale, mentis et disciplinae
perceptibile) quibus ab aliis differt. Et genus quidem consimile est materiae,
formae vero differentia. Cum autem sint et alia communia et propria
generis et differentiae, nunc ista sufficiant. Genus autem et species
commune quidem habent de pluribus (quemadmodum dictum est) praedicari; sumatur
autem species ut species et non etiam ut genus, si fuerit idem species et
genus. Commune autem his est et priora esse eorum de quibus praedicantur
et totum quiddam esse utrumque. Differt autem eo quod genus quidem
continet species sub se, species vero continentur et non continent genera; in
pluribus enim genus quam species est (genera enim praeiacere oportet et formata
specificis differentiis perficere species, unde et priora sunt naturaliter
genera et simul interimentia sed quae non simul interimantur). Et species
quidem cum sit, est et genus, genus vero cum sit non omnino erit et
species. Et genera quidem univoce de speciebus praedicantur, species vero
de generibus minime. Amplius quidem genera abundant earum quae sub ipsis
sunt specierum continentia, species vero generibus abundant propriis
differentiis. Amplius neque species fiet umquam generalissimum neque genus
specialissimum. Generis autem et proprii commune quidem est sequi species
(nam, si homo est, animal est, et, si homo est, risibile est), et aequaliter praedicari
genus de speciebus et proprium de his quae illo participant (aequaliter enim et
homo et bos animal, et Cato et Cicero risibile). Commune autem et univoce
praedicari genus de propriis speciebus et proprium quorum est proprium. Differt
autem quoniam genus quidem prius est, posterius vero proprium (oportet enim
esse animal, dehinc dividi differentiis et propriis). Et genus quidem de
pluribus speciebus praedicari, proprium vero de una sola specie cuius est
proprium. Et proprium quidem conversim praedicatur cuius est proprium, genus
vero de nullo conversim praedicatur (nam neque si animal est, homo est, neque
si animal est, risibile est; sin vero homo, et risibile est, et e converso).
Amplius proprium omni speciei inest cuius est proprium et uni et semper, genus
vero omni quidem speciei cuius fuerit genus et semper, non autem
soli. Amplius species quidem interemptae non simul interimunt genera,
propria vero interempta simul interimunt quorum sunt propria, et his quorum
sunt propria interemptis et ipsa simul interimuntur. Generis vero et
accidentis commune est de pluribus (quemadmodum dictum est) praedicari sive
separabilium sit sive inseparabilium; et enim moueri de pluribus, et nigrum de
coruis et hominibus et Aethiopibus et aliquibus inanimatis. Differt autem
genus accidente quoniam genus ante species est, accidentia vero speciebus
inferiora sunt; nam si etiam inseparabile sumatur accidens sed tamen prius est
illud cui accidit quam accidens. Et genere quidem quae participant
aequaliter participant, accidente vero non aequaliter; intentionem enim et
remissionem suscipit accidentium participatio, generum vero minime. Et
accidentia quidem in individuis principaliter subsistunt, genera vero et
species naturaliter priora sunt individuis substantiis. Et genera quidem in eo
quod quid est praedicantur de his quae sub ipsis sunt, accidentia vero in eo
quod quale aliquid est vel quomodo se habeat unumquodque; "Qualis
est" enim "Aethiops?" interrogatus dicis "Niger", et
quemadmodum se Socrates habeat, dicis quoniam sedet vel ambulat. Genus
vero quo aliis quattuor differat dictum est. Contingit autem etiam unumquodque
aliorum differre ab aliis quattuor, ut, cum quinque quidem sint, unum autem ab
aliis quattuor differat, quater quinque (uiginti) fiant omnes differentiae;
sed, semper posterioribus enumeratis et secundis quidem una differentia
superatis (propterea quoniam iam sumpta est), tertiis vero, duabus, quartis
vero tribus, quintis vero quattuor, decem omnes fiunt (quattuor, tres, duae,
una). Genus enim differt differentia et specie et proprio et accidenti;
quattuor igitur sunt omnes differentiae. Differentia vero quo differt genere
dictum est quando quo differret genus ab ea dicebatur; relinquitur igitur quo
differat specie et proprio et accidente dicere, et fiunt tres. Rursus species
quo quidem differat a differentia dictum est quando quo differret specie
differentia dicebatur, quo autem differt species genere dictum est quando quo
differret genus specie dicebatur; reliquum est igitur ut quo differat proprio
et accidente dicatur; duae igitur etiam istae sunt differentiae. Proprium autem quo differat
accidente relinquitur, nam quo specie et differentia et genere differt
praedictum est in illorum ad ipsum differentia. Quattuor igitur sumptis generis
ad alia differentiis, tribus vero differentiae, duabus autem speciei, una autem
proprii ad accidens, decem erunt omnes; quarum quattuor quae erant generis ad
reliqua superius demonstravimus. Commune ergo differentiae et speciei est
aequaliter participari; homine enim aequaliter participant particulares homines
et rationali differentia. Commune vero est et semper adesse his quae
participant; semper enim Socrates rationalis et semper Socrates
homo. Proprium autem differentiae quidem est in eo quod quale sit
praedicari, speciei vero in eo quod quid est; nam, et si homo velut qualitas
accipiatur, non simpliciter erit qualitas sed secundum id quod generi
aduenientes differentiae eam constituerunt. Amplius differentia quidem in
pluribus saepe speciebus consideratur (quemadmodum quadrupes in pluribus
animalibus specie differentibus), species vero in solis his quae sub specie
sunt individuis est. Amplius differentia prima est ab ea specie quae est
secundum ipsam; simul enim ablatum rationale interimit hominem, homo vero
interemptus non aufert rationale, cum sit deus. Amplius differentia quidem
componitur cum alia differentia (rationale enim et mortale compositum est in
substantia hominis), species vero speciei non componitur ut gignat aliquam
aliam speciem (quidam enim equus cuidam asino permiscetur ad muli generationem,
equus autem simpliciter asino numquam conveniens perficiet
mulum). Differentia vero et proprium commune quidem habent aequaliter
participari ab his quae eorum participant; aequaliter enim rationalia
rationalia sunt et risibilia risibilia sunt. Et semper et omni adesse
commune utrisque est; sive enim curtetur qui est bipes, non substantiam perimit
sed ad quod natum est semper dicitur; nam et risibile, eo quod natum est habet
id quod est semper sed non eo quod semper rideat. Proprium autem
differentiae est quoniam haec quidem de pluribus speciebus dicitur saepe (ut
rationale de homine et deo), proprium vero in una sola specie cuius est
proprium. Et differentia quidem illis est consequens quorum est
differentia sed non convertitur, propria vero conversim praedicantur quorum
sunt propria idcirco quoniam convertuntur. Differentiae autem et accidenti
commune quidem est de pluribus dici, commune vero ad ea quae sunt inseparabilia
accidentia semper et omnibus adesse; bipes enim semper adest omnibus coruis, et
nigrum esse similiter. Differunt autem quoniam differentia quidem continet et
non continetur (continet enim rationalitas hominem), accidentia vero quodam
quidem modo continent eo quod in pluribus sint, quodam vero modo continentur eo
quod non unius accidentis susceptibilia sunt subiecta sed plurimorum. Et
differentia quidem inintendibilis est et inremissibilis, accidentia vero magis
et minus recipiunt. Et impermixtae quidem sunt contrariae differentiae, mista
vero contraria accidentia. Huiusmodi quidem communiones et proprietates
differentiae et caeterorum sunt. Species vero quo quidem differat a genere
et differentia dictum est in eo quod dicebamus quo genus differt caeteris et
quo differentia differret caeteris. Speciei autem et proprii commune est
de se invicem praedicari; nam, si homo, risibile est, et si risibile, homo est
(risibile vero quoniam secundum id quod natum est dicitur, saepe iam dictum
est); aequaliter enim sunt species his quae eorum participant et propria quorum
sunt propria. Differt autem species proprio quoniam species quidem potest
et aliis genus esse, proprium vero et aliarum specierum esse impossibile
est. Et species quidem ante subsistit quam proprium, proprium vero postea
fit in specie; oportet enim hominem esse ut sit risibile. Amplius species
quidem semper actu adest subiecto, proprium vero aliquando potestate; homo enim
semper actu est Socrates, non vero semper ridet quamuis sit natus semper
risibilis. Amplius quorum termini differentes, et ipsa sunt differentia; est
autem speciei quidem sub genere esse et de pluribus et differentibus numero in
eo quod quid est praedicari et caetera huiusmodi, proprii vero quod est soli et
semper et omni adesse. Speciei vero et accidentis commune quidem est de
pluribus praedicari; rarae vero aliae sunt communitates propterea quoniam
plurimum a se distant accidens et cui accidit. Propria vero utriusque sunt,
speciei quidem in eo quod quid est praedicari de his quorum est species,
accidentis autem in eo quod quale quiddam est vel aliquo modo se
habens. Et unamquamque substantiam una quidem specie participare, pluribus
autem accidentibus et separabilibus et inseparabilibus. Et species quidem ante
subintellegi quam accidentia vel si sint inseparabilia (oportet enim esse subiectum
ut illi aliquid accidat), accidentia vero posterioris generis sunt et
aduenticiae naturae. Et speciei quidem participatio aequaliter est,
accidentis vero, vel si inseparabile sit, non aequaliter; Aethiops enim alio
Aethiope habebit colorem vel intentum amplius vel remissum secundum
nigritudinem. Restat igitur de proprio et accidenti dicere; quo enim
proprium specie et differentia et genere differt, dictum est. Commune
autem proprii et inseparabilis accidentis est quod praeter ea numquam consistant
illa in quibus considerantur; quemadmodum enim praeter risibile non subsistit
homo, ita nec praeter nigredinem subsistit Aethiops. Et quemadmodum semper
et omni adest proprium, sic et inseparabile accidens. Differunt autem
quoniam proprium uni soli speciei adest (quemadmodum risibile homini),
inseparabile vero accidens, ut nigrum, non solum Aethiopi sed etiam coruo adest
et carboni et ebeno et quibusdam aliis. Quare proprium conversim
praedicatur de eo cuius est proprium et est aequaliter, inseparabile vero accidens
conversim non praedicatur. Et propriorum quidem aequalis est participatio,
accidentium vero haec quidem magis, illa vero minus. Sunt quidem etiam
aliae communitates vel proprietates eorum quae dicta sunt sed sufficiunt etiam
haec ad discretionem eorum communitatisque traditionem. Hiemantis anni tempore in Aureliae montibus concesseramus
atque ibi tunc, cum violentior auster eiecisset noctis placidam atque
exturbasset quietem, recensere libitum est ea ƿ quae doctissimi viri ad
illuminandas quodammodo res intellectus densitate caliginantissimas quibusdam
quasi introductoriis commentariis ediderunt. Eius vero rei Fabius initium
fecit, qui cum me lectulo recumbentem et quaedam super eisdem rebus cogitantem
meditantemque vidisset, hortatus est, ut, quod saepe eram pollicitus, aliquam
illi eius rei traderem disciplinatu. Complacitum est igitur, quoniam tunc et
familiarium salutationes et domestica negotia cessabant. Interrogatus ergo a me
super quibus vellet rebus enodare atque expedire, tunc Fabius: Quoniam, inquit,
tempus ad studia uacat et hoc otium in honestum negotium converti licet, rogo
ut mihi explices id quod Victorinus orator sui temporis ferme doctissimus
Porphyrii per Isagogen, id est per introductionem in Aristotelis Categorias
dicitur transtulisse. Et primum didascalicis quibusdam me imbue, quibus
expositores vel etiam commentatores, ut discipulorum animos docibilitate quadam
assuescant, utuntur. ÑTunc ego: Sex omnino, inquam, Magistri in omni
expositione praelibant. Praedocent enim quae sit cuiuscumque operis intentio,
quod apud illos skopou" vocatur; secundum, quae utilitas, quod a Graecis
crhusimon appellatur; tertium, qui ordo, quod tauxin vocant; quartum, si eius
cuius esse opus dicitur, germanus propriusque liber est, quod gnhusion interpretari
solent; quintum, quae sit eius operis inscriptio, quod eipigrafhun Graeci
nominant. In hoc etiam quod intentionem cuiusque libri insollerter
interpretarentur, de inscriptione quoque operis apud quosdam minus callentes
haesitatum est. Sextum est id dicere, ad quam partem philosophiae cuiuscumque
libri ducatur intentio quod Graeca oratione dicitur eii" poi~on
meuro" filosofiva" ainaugetai. Haec ergo omnia in quolibet
philosophiae libro quaeri convenit atque expediri. Tunc Fabius quae esset
introductionis intentio interrogavit. Et ego inquam: Aristoteles, cui factus
est introductionis pons, non aliter intellegi potest, nisi ipsas res de quibus
disputaturus est ad intellegentiam praeparemus. Videns enim Porphyrius quod in
rebus omnibus essent quaedam prima natura, ex quibus omnia velut ex aliquo
fonte manarent, et illa quae prima essent, et substantia esse et generis
vocabulo nuncupari; porro autem numquam esse genus posse, nisi ei quaedam aliau
subderentur, et quae essent subdita, species appellari; porro autem numquam
genus uni speciei genus esse posse sed pluribus; plures autem species non posse
esse multiplices, nisi eas aliqua discretio separaret -- si enim nihil sibi
dissimiles forent, una species, non multiplices viderentur; illa igitur divisio
et dissimilitudo specierum ƿ differentiae nomine vocitatur, omnia vero quae
aliqua re differunt, fieri aliter non potest, nisi quibusdam propriis
solitariisque naturis insignita sint. Atque haec hactenus -- videns ergo quod
omnis omnium disparilitas in gemina rerum principia secaretur, in substantiam
atque accidens, ita ut neque accidens sine substantia neque sine accidenti
substantia esse posset -- accidens quippe sine aliquo substantiae fundamento
esse non potest, substantia vero ipsa sine superiecto accidenti videli nullo
modo potest. Ut enim color sit, quod est accidens, in corpore erit, quod est
substantia. Porro autem cum corpus, id est substantiam videris, insignitam eam
accidenti, id est aliquo colore respicies. Itaque fit ut neque substantia
praeter accidens sit neque accidens a substantia relinquatur; ubi enim
substantia fait, mox accidens consecutum est -- speculatus igitur Porphyrius in
his duabus rebus, id est accidenti et substantia, genera, species, propria
differentiasque versari et quod ipsa per se sint genera subiectis et
subiacentibus speciebus, quae differentiis et propriis insignitae sunt, statuit
principaliter de genere, specie, differentia propriisque tractare. Et quoniam
tractatus hic in definitionibus, ut post docebimus, proderit, si quis autem in
definitione generali ponat accidens, eum non recte definire manifestum est,
quod suo loco tractabitur, statuit pauca de accidentibus praelibare. Ita enim
nos prudentissimus doctor instituit, ut tunc in definitionibus quibuslibet ƿ
plenam scientiam queamus accipere, cum quod prosit, dictum sit et quod non sit
utile, segregetur. Haec igitur huius operis est intentio, de genere, specie,
differentiis, propriis accidentibusque tractare. Hic Fabius: Expedisti, inquit,
de intentione, nunc utilitatem explica. ÐVaria, inquam, et multiplex in hoc
corpore commoditas utilitasque versatur. Primum enim in Aristotelis Categorias
perquam uberrime prodest. Quid autem prosit, dicemus, cum de eius libri
inscriptione tractabimus sed in quibus aliis prosit, paucis philosophiae ipsius
divisione facta perstringam. Et prius quid sit ipsa philosophia considerandum
est. Est enim philosophia amor et studium et amicitia quodammodo sapientiae,
sapientiae vero non huius, quae in artibus quibusdam et in aliqua fabrili
scientia notitiaque versatur sed illius sapientiae, quae nullius indigens,
vivax mens et sola rerum primaeua ratio est. Est autem hic amor sapientiae
intellegentis animi ab illa pura sapientia illuminatio et quodammodo ad se
ipsam retractio atque aduocatio, ut videatur studium sapientiae studium
divinitatis et purae mentis illius amicitia. Haec igitur sapientia cuncto
equidem animarum generi meritum suae divinitatis imponit et ad propriam naturae
vim puritatemque reducit. Hinc nascitur speculationum cogitationumque veritas et
sancta puraque actuum castimonia. Quae res in ipsius philosophiae divisionem
sectionemque convertitur. ƿ Est enim philosophia genus, species vero duae, una
quae theoretica dicitur, altera quae practica, id est speculativa et activa.
Erunt autem et tot speculativae philosophiae species, quot sunt res in quibus
iustae speculatio considerationis habetur, quotque actuum diversitates, tot
species varietatesque virtutum. Est igitur theoretices, id est contemplativae
vel speculativae, triplex diversitas atque ipsa pars philosophiae in tres
species dividitur. Est enim una theoretices pars de intellectibilibus, alia de
intellegibilibus, alia de naturalibus. Tunc interpellavit Fabius
miratusque est, quid hoc novi sermonis esset, quod unam speculativae partem intellectibilem
nominassem. Nohtau, inquam, quoniam Latino sermone numquam dictum repperi,
intellectibilia egomet mea verbi compositione vocavi. Est enim intellectibile
quod unum atque idem per se in propria semper divinitate consistens nullis
umquam sensibus sed sola tantum mente intellectuque capitur. Quae res ad
speculationem dei atque ad animi incorporalitatem considerationemque verae
philosophiae indagatione componitur: quam partem Graeci qeologivan nominant.
Secunda vero est pars intellegibilis, quae primam intellectibilem cogitatione
atque intellegentia comprehendit. Quae est omnium caelestium supernae
divinitatis operum et quicquid sub lunari globo beatiore animo atque ƿ puriore
substantia valet et postremo humanarum animarum quae omnia cum prioris illius intellectibilis
substantiae fuissent corporum tactu ab intellectibilibus ad intellegibilia
degenerarunt ut non magis ipsa intellegantur quam intellegant et intellegentiae
puritate tunc beatiora sint, quotiens sese intellectibilibus applicarint.
Tertia theoretices species est quae circa corpora atque eorum scientiam
cognitionemqtle versatur: quae est physiologia, quae naturas corporum
passionesque declarat secunda vero, intellegibilium substantia, merito medio
collocata est, quod habeat et corporum animationem et quodammodo vivificationem
et intellectibilium considerationem cognitionemque. Practicae vero
philosophiae, quam activam superius dici demonstratum est, huius quoque triplex
est divisio. Est enim prima quae sui curam gerens cunctis sese erigit, exornat
augetque virtutibus, nihil in vita admittens quo non gaudeat, nihil faciens
paenitendum. Secunda vero est quae rei publicae curam suscipiens cunctorum
saluti suae providentiae sollertia et iustitiae libra et fortitudinis
stabilitate et temperantiae patientia medetur; tertia vero, quae familiaris rei
officium mediocri componens dispositione distribuit. Sunt harum etiam aliae
subdivisiones, quas nunc persequi supersedendum est. Ad haec igitur ut fieri
possint et ut superiora intellegi queant, necessarius maxime uberrimusque
fructus est artis eius quam Graeci logikhun, nos rationalem possumus dicere.
Quod ƿ recta orationis ratione quid verum quidque decens sit, nullo erroris
flexu diverticulove fallatur. Quam quidem artem quidam partem philosophiae,
quidam non partem sed ferramentum et quodammodo supellectilem iudicarunt. Qua
autem id utrique impulsi ratione crediderint, alio erit in opere commemorandum.
Haec autem generis, speciei, differentiae, proprii atque accidentis disputatio
in omni nobis philosophiae cognitione quas quandam viam parat. Nam cum quid
genus sit docemur, quid species, intellegimus genus esse philosophiam, species
vero indubitanter theoreticen et practicen. De logica vero, utrum sit species,
eadem hac possumus ratione perpendere. Prodest nobis differentiae cognitio ad
ipsarum philosophiae specierum differentias cognoscendas. Prodest proprii
scientia ad cognoscendum quid unicuique philosophiae differentiae solitaria
natura videatur substantia innatum. Prodest accidentis cognitio quid principaliter
in rebus sit cernere et quid secundo contingentique loco veniat, discernere.
Ita nobis harum quinque rerum scientia ramosa quadam et multifida vi in omnes
sese philosophiae partes infundit. Ad grammaticam vero non minor huius rei
usus est, quando per orationem genus, octo vero partes orationis per genera,
species, differentias propriaque metimur. Est vero huius rei perquam rhetoricae
amica coniunctaque cognitio. Ita enim rhetoricam in tribus causarum possumus
separare generibus et eas in subiectis constitutionibus dissecare. Definitionum
quoque, quod ad logicam pertinet, magna ƿ atque utilis uberrimaque cognitio
est; quas definitiones nisi per genera, species, differentias proprietatesque
tractaveris mlllus umquam definitionibus terminus imponetur. Nam si quid
definies, ex quo sit genere primum tibi dicendum est, atque in hoc genus
speciesque consummata sit. Nam cuiuscumque rei genus dixeris, ad quam rem illud
dixeris, speciem facis, ut si quid sit homo definias, dicas hominem esse animal
igitur quoniam ad hominem aptasti animal, genus esse animal et hominem speciem
a te declaratum est. Sed non sufficit sola generis in definitione
monstratio. Si enim solum animal hominem esse dixeris, non potius hominem quam
bovem aut equum definitione depinxeris. Prodest igitur etiam differentias
adhibere, per quas id quod definies ab speciebus aliis seiungatur, ut dicas
hominem esse animal rationale. Et quoniam sub eadem differentia plures
frequenter species inveniuntur, ut sub rationali deus atque homo, utilissimus
proprietatis usus est, ut id dicas quod sola quam definis species suum
propriumque retineat. Fit ergo huiuscemodi hominis definitio: homo est animal,
id est genus, homo vero species; rationale, quod differentia est; risus capax,
quod proprium est. Accidentium vero in definitionibus nullus usus est. Prodest
ergo in definitionibus harum quinque rerum cognitio; ut nec ea quae sunt utilia
praetermittas nec ea quae nihil praestant commoditatis adiungas. In divisione
vero tantum prodest, ut nisi per horum scientiam nulla res recte distribui
secarique possit. Nam quae generum vel specierum recta distributio divisiove
erit, ubi ipsarum per quas dividitur rerum nulla scientiae cognitione
dirigimur? ƿ Probationum vero veritas in his maxime constituta est, quod per ea
quae dividis, id quod dividis vel quid aliud probas. Nam Marcus Tullius in
Rhetoricorum primo, quoniam divisionem generum causarum rite atque ordinate
faciebat, eius rei probationem ita esse debere per species generaque disposuit,
cum ait easdem res aliis superponi, aliis supponi posse, eisdem et subiectas et
superpositas esse non posse. Haec fere de utilitate ad tempus dicenda
credidimus. Tunc Fabius: Demiror, inquit, cur inchoanti mihi tam subtilius
inventas exercitatasque res edideris. Sed dic, quaeso, quodnam hoc tuum fuit
consilium? ÑEgo dicam tibi: quod assuescendus animus auditoris et mediocri
subtilitate imbuendus est, ut cum sese hic primum exercuerit palaestra ingenii,
quasi quodammodo prius luctatus ea quae sequentur sine ullo labore conficiat.
Sed 'quid restat?' dicas licebit. ÐEt Fabius: Ordinem, inquit, restare
arbitror, si bene commemini. ÑAtqui, inquam, hic ordo valde cum inscriptione
coniunctus est. Si enim alterutrum noris, ambo noveris. Ordo tamen est quod
omnes post Porphyrium ingredientes ad logicam huius primum libelli traditores
fuerunt, quod primus hic ad simplicitatem tenuitatis usque progressus, quo
procedentibus viandum sit, praeparat. Aristoteles enim quoniam dialecticae ƿ
atque apodicticae disciplinae volebat posteris ordinem scientiamque contradere,
vidit apodicticam dialecticamque vim uno syllogismi ordine contineri. Scribit
itaque priores Resolutorios, quos Graeci iAnalutikouu" vocant, qui legendi
essent antequam aliquid dialecticae vel apodicticae artis attingerent. In
primis enim Resolutoriis de syllogismorum ordine, complexione figurisque
tractatur. Et quoniam syllogismus genus est apodictici et dialectici
syllogismi, dialecticam vero in Topicis suis exercuit, aipoudeixin in secundis
Resolutoriis ordinavit, horum disciplina, quam ille in monstrandis syllogismis
ante collegerat, prius etiam in studiis lectitatur. Itaque prius primi
Resolutorii, qui de syllogismi sunt, quam secundi Resolutorii, qui de
apodictico syllogismo, vel Topica, quae de dialectico syllogismo sunt,
accipiuntur. Traxit igitur Aristoteles dialecticam atque apodicticam
scientiam adunavitque in syllogismorum resolutoria disputatione. Sed quoniam
syllogismum ex propositionibus constare necesse est, librum Peri;
eIrmhneiva" qui inscribitur, 'de propositionibus' adnotavit. Omnes vero
propositiones ex sermonibus aliguid significantibus componuntur. ƿ Itaque liber
quem de decem praedicamentis scripsit, quae apud Graecos kathgorivai dicuntur,
de primis rerum nominibus significationibusque est. Vidit enim Aristoteles
infinitam miscellamque esse rerum omnium verborumque disparilitatem et, ut
eorum ordinem reperiret, in decem primis sermonibus prima rerum genera
significantibus omne quicquid illud vel rerum vel sermonum poterat esse,
collegit. Sed Aristoteles hactenus. Speculatus autem Porphyrius si categoriae
genera sunt rerum, rerum vero sermonumque diversitas speciebus, differentiis
propriisque insigniretur, videns etiam quod accidentium in categoriis magna vis
esset -- omnes enim res Aristoteles in duas primum dividit partes, in accidens
atque substantiam, et accidens in novem membra dispersit dicens aut substantiam
esse quamcumque illam rem aut si accidens esset, quoniam aut qualitas aut
quantitas aut ad aliquid aut ubi aut quando aut iacere aut habere aut facere
esset aut pati -- praelibat igitur nobis Porphyrius ad horum verissimam
cognitionem hoc de generibus, speciebus, differentiis, propriis accidentibusque
tractatu. Sic igitur cum ante apodicticam dialecticamque rem syllogistica
praelegatur, ante syllogisticam in propositionibus primus labor sit, ante
propositiones in categoriis pauca desudent, ante categorias quae generibus,
speciebus, differentiis, propriis accidentibusque censentur, ordo est de his
ipsis rebus pauca praelibare. Recte igitur et filo lineae quodam hic Porphyrii
liber primus legentibus studiorum praegustator et quodammodo initiator
occurrit. Quodsi in hac re quod dictum est sat est, rem etiam de inscriptione
confecimus. Quo enim alio melius quam introductionis nomine nuncuparetur hic
liber? Est namque ad Categorias Aristotelis introitus et quaedam quasi ianua
venientes admittet. Tunc Fabius: Perge, quaeso te, et si eius hoc proprium
germanumque opus est collige. ÑHoc, inquam, indubitatum est, omnibus enim
Porphyrii libris stilus hic convenit. Et mos hic Porphyrio est, ut in his rebus
quae sunt obscurissimae, introducenda quaedam et praegustanda praecurrat, ut
alio quodam libro de categoricis syllogismis fecit et de multis item aliis quae
in philosophia gravia illustriaque versantur. Et hoc apud superiores indubitatum
est, quibus nos nolle credere inscitia est. ÑTunc Fabius: Restat, inquit, ut ad
quam partem philosophiae ducatur, edisseras. ÑEgo dicam tibi. Quoniam
categoriae ad propositiones aptantur, syllogismi de propositionibus
componuntur, apodictici vero vel dialectici syllogismi in logicae artis
disciplina vertuntur, constat quoque categorias, quae ad propositiones
syllogismosque pertinent, logicae scientiae esse conexas. Quare introductio
quoque in categorias ad logicam scientiam convenienter aptabitur. Quoniam ea
quae praedicuntur explicui, nunc textus ipsius ratio atque ordo videatur. ÑTunc
Fahius: Priusquam explanatio sensus procedat, id scire desidero, cur cum posset
dicere 'cum necessarium sit', praeposterato ordine cum sit necessarium dixit.
Et ego: Quoniam, inquam, nullum ƿ accidens est, quod non substantiae fundamento
nitatur. Porro autem quicquid ad cuiuslibet superiecti firmitatem est, id
antequam ipsum esset, fuisse necesse est. Ut enim in domibus, nisi prius
fundamenta subicias, nulla umquam fabrica, sic, nisi prius substantiae
fundamenta sint, nulla umquam accidentia superponentur. oportet enim prius esse
aliquid, ut formam qualitatis arripiat, nam 'necessarium' qualitas est. Non
absurde igitur prius 'esse' posuit, post etiam 'necessarium', id est post
substantiam qualitatis nomen aptavit. Hic Fabius: Subtilissime, inquit, et
lucide sed nunc ordo ipse operis testusque videatur. CUM SIT NECESSARIUM,
MENANTI, SIVE AD ARISTOTELIS CATEGORIAS SIVE AD DEFINITIONIS DISCIPLINAM, NOSSE
QUID GENUS SIT QUIDVE SPECIES, QUID DIFFERENTIA, QUID PROPRIUM, QUID ACCIDENS,
OMNINO ENIM AD EA QUAE SUNT DIVISIONIS VEL QUAE PROBATIONIS, QUORUM UTILITATIS
EST MAGNAE COGNITIO, BREVITER TIBI EXPLICARE TEMPTABO. QUAE APUD ANTIQUOS
QUIDEM ALTE ET MAGNIFICE QUAESTIONUM GENERA PROPOSITA SUNT, EGO SIMPLICI
SERMONE CUM QUADAM CONIECTURA IN RES ALIAS ISTA EXPLICABO MEDIOCRITER. Nunc
ego: Praediximus quidem pauca superius sed vel his quaedam addere vel haec
eadem rursus commemorare absurdum esse non arbitror. Totus autem sensus talis
est. Scribens ad Menantium de utilitate libri summatim pauca praedixit, quo
elucubratior animus auditoris exercitatiorque ad haec capienda perveniat.
Prodesse autem ad Aristotelis Categorias dicit, quod, cum omnem sermonum
significantium varietatem diversa rerum summa divideret et in substantiam atque
accidens omnes res secaret atque dispergeret, accidens in novem secuit partes,
quod superius demonstravi, et haec genera generalissima nominavit, id est
genikwutata, quod super ista alia genera inveniri non possint. Igitur si sunt
genera, sine speciebus esse non possunt. Si sub his species supponuntur,
differentiis non uacabunt. Quodsi differentias retinent, propriis indigebunt.
Accidentis vero novem praedicamenta sunt. Quocirca non absurdum fuit hinc introductionem
in Praedicamenta componi, ut de generibus, speciebus, differentiis propriisque
tractaret, quae in ipsis Praedicamentis inseparabiliter videntur inserta.
Amplius, quod Aristotelica subtilitas, priusquam ad praedicamentorum ordinem
veniretur, de aequivocis univocisque tractavit, definit vero aequivoca
sic: AEQUIVOCA SUNT QUORUM NOMEN SOLUM COMMUNE EST, SECUNDUM NOMEN VERO
SUBSTANTIAE RATIO ALIA ut si qua sunt quae nomine tantum communicent,
substantia vero dissimilent, univoca vero, quae sub eodem ƿ nomine et sub eadem
substantia continentur. omne igitur genus ad species quae sunt sub ipso
positae, univoce praedicari potest. Porro autem quicquid ad quaslibet res
aequivoce praedicatur, in his sola differentia est, genus vero speciesque non
convertitur. Animal enim et homo univocum est. Animal enim animalis nomine
dicitur, porro autem nomini nomen etiam convenit animalis, ut dicatur animal:
uno ergo nomine animalis homo et animal appellatur. Animalis vero definitio est
'substantia animata sensibilis': quam si ad hominem vertas, nihil absurdum
feceris; potest enim esse homo substantia animata sensibilis sed animal genus,
homo vero species. Univoce igitur genus et species praedicantur. Aequivoca vero
quae fuerint, quoniam definitionibus differunt et eorum quorum definitiones
aliae sunt, alia est etiam et substantia, quorum alia substantia est, alia sunt
etiam omnino genera, in his, id est aequivocis, constat quod neque genus neque
species possit aptari. Ut enim si quis hominem marmoreum et hominem vivum hominis
nomine appellet, idem nomen fecerit substantiae, differentia vero
definitioneque dissimili. Porro autem hominis et statuae non unum genus est sed
statuae inanimatum, hominis animatum. Quare constat quoniam numquam sub eisdem
generibus continentur quaecumque aequivoce praedicantur. Quam vim, nisi prius
de generibus, speciebus, propriis et differentiis notitiam ƿ scientiamque
perceperis, nullo umquam tempore discernes. Idem Aristoteles ait quid sint
primae substantiae, quid secundae. Et primas substantias dicit esse
individuorum corporum et singulorum, ut est Cicero aut Plato aut Socrates,
secundas vero substantiis species appellavit, ut est homo, vel genera, in
quibus ipsae species continentur, ut est animal. Haec igitur nisi praelibata
generis specieique cognitione sciri non possunt. Idem ait substantiam ad aliam
substantiam in eo quod substantia sit, nulla differentia disgregari. Idem
substantiae proprietates requirit, ut quasi inpresso aliquo signo, sic
proprietate nota facilius quid substantia sit invenire atque expedire possimus.
Atque hoc idem in accidentibus fecit. Nam et quantitatis et qualitatis et ad
aliquid relationis propria collegit, et idem magna apud Aristotelem cura
diligentiaque conspicitur. Videsne ut sese quinque harum rerum vis in categorias
interserat et praedicamentorum virtutibus inseparabiliter colligetor? non
mendax igitur Porphyrius de hac quinque harum rerum nobis in Categorias
utilitate promisit. Definitionis vero disciplinam superius diximus praeter
genela, species, differentias et propria non posse tractari. Sed quoniam sunt
quaedam genera quae genus habere non possunt, ut est substantia vel alia quae
Aristoteles in praedicamentis constituit. Dicat quis ad haec horum cognitionem
nihil omnino prodesse. Quod non sit in his a genere trahenda definitio in
quibus genus inveniri non possit, quod, si qua res genus non ƿ haberet, species
non esset; hoc ita posito ad generalissimarum generum definitionem nihil genera
et species utilitatis habere. Ridicula mehercule atque absurda propositio!
Praeter scientiam enim generum specierumque magis genera illa generalissima
cognoscere qui potis est, cum, haec sola generum specierumque cognitio si
amissa sit, nihil de generibus speciebusque noscatur? In illis igitur in quibus
genus aliud superius inveniri non potest, nullus umquam terminus definitionis
aptabitur et in ipsius definitione genera speciesque cessabunt et solae
differentiae propriaque illius terminum definitionis informant. Cum enim id
quod dicis, ab aliis rebus omnibus adiunctis differentiis segregaveris et
propriis inpressis formam eius figuramque monstraveris, genus quod invenire non
poteris. Perquirere non labores. Sed in his species et genera non requiruntur
in quibus, quod ipsa generalissima sint genera, genus inveniri non queat. Porro
autem in his quorum genus est aliquid, nisi a genere definitio ducatur, finis
eius definitionis vitiosa conclusione colligitur. Accidens vero ad
definitiones nihil prodesse non dubium est. Definitio enim substantiam
informare desiderat, accidens vero substantiam non designat. Accidens igitur in
definitione nihil prodest. Est itaque necessaria generis specieique cognitio,
ut si generalissima non sint quae quisque definiturus est, a genere
definitionem trahat, si vero generalissima sint, ut genus quaerere, quod
inveniri non potest, non laboret. Aeque enim vitiosum est vel in generalissimis
genera quaerere vel subalternis generibus a ƿ generibus definitionem ducere
supersedere. Differentiae vero et propria, vel si magis genera sunt vel si
subalterna, maximam retinent utilitatem. Et quoniam ad definitiones quae
pertinent quaedam dicta sunt, pauca etiam de his ipsis rationabilius
subtiliusque colligemus. Sit genus animal, sit species homo, sit differentia
rationale vel mortale, sit proprium risibile; accidens vero quoniam ad
definitiones in commodum est, praetermittamus. Quisquis ergo speciem definit,
ita genere ab aliis eam generibus separat, ut si quis dicat 'quid est homo?'
'animal' dicat. Dicens enim animal separavit hominem ab omnibus generibus
quaecumque animalia non sunt. Si quis vero differentiam dicat et eam ad speciem
accommodet, res sub eisdem generibus per differentias disgregavit. Nam cum
dicis hominem esse animal rationale, eum etiam et bos et equus species animalis
sint, additum tamen rationale homini ab aliis sub eodem genere speciebus
hominis speciem segregavit atque distinxit propria vero cum dederis, res quae
sunt sub eisdem differentlis segregabis. Nam cum dixeris hinnibile vel
risibile, illud est equi proprium, illud hominis. Et cum equus cum bove atque
cane sub eadem differentia sit, quod irrationabilia sunt omnia, adiectum
hinnibile a caeteris equum sub eadem differentia speciebus dividit. Homo vero
et deus sub eadem differentia, id est rationali, quod utrique rationales sunt,
quamvis homo et deus adiuncta mortali differentia separentur, proprio tamen, id
est risibili, quod solus habet homo, naturalius ƿ substantialiusque
disiungitur. Quod in aliis rebus in quibus nullas species talis differentia
separat, melius cognosci potest. Nam cum sub eadem differentia sint
irrationabilia, equus, bos, canis, nec sit ulla alia quae eos separet
differentia substalltialis -- possunt enim accidentis differentiae esse quae
eos separent, quales sunt formarum -- additum proprium hinnibile equum ab aliis
sub eadem differentia speciebus proprietatis ipsius separatione
disiunxit. Repetendum est igitur a primordio quod genera in definitionibus
ab aliis generibus separant, differentiae ab ipsis speciebus quae sub eisdem
generibus positae sunt, propria ab speciebus quae sub eisdem differentiis
supponuntur. Sed quoniam plenede definitione tractatum est, probationis
vel divisionis vim subtilitatemque tractemus. Sed omnis divisio duplex est, aut
cum totum corpus in diversa disiungis aut cum genera per species distribuis. Si
quis igitur harum quinque rerum minus sollers divisiones rerum facere voluerit,
non est dubium quin eas per inscientiam saepe ab speciebus in genera solvat,
quod est factu foedissimum. Quod Hermagorae in prima Rhetoricorum disputatione
usu venit. In tales enim erroris nebulas incidit, ut duo genera sub aequalis
generis parte supponeret. Quodsi divisionum vim veritatemque vidisset et
disciplinam generum, specierum, propriorum et ƿ differentiarum suscepisset,
numquam tam insulsae divisionis errore tam vivacissime a Marco Tullio
culparetur. In probationibus vero tantus est huius operis fructus, ut praeter
hoc nullius umquam rei possit provenire probatio. Quid enim digne monstrare
queas, cuius si differentias nescias, id ipsum quale sit scire non possis? Quid
autem digne exequeris, cuius si genus nescias, ex quo id ipsum fonte manet
ignores? vel quid in probationibus ratione possis ostendere, cuius si speciem
nescias, id ipsum de quo aliquid probare vis, quid sit non possis agnoscere?
Quodsi propria praetermittas, nullas umquam res valebis propriae termino
probationis includere. At vero si non vim accidentium naturamque perspicias,
cum de cuiusque substantia tractes, inane accidentis nomen aeque in
definitionibus probationibusque miscebis. Ita his rebus cognitis integra
stabilisque divisio et definitio permanebit, incognitis debilis lababit et
trunca probatio. Haec se igitur Porphyrius, non enim Victorinus, breviter
mediocriterque promittit exponere. Nec enim introductionis vice fungeretur, si
ea nobis a primordio fundaret ad quae nobis haec tam clara introductio
praeparatur. Servat igitur introductionis modum doctissima parcitas disputandi,
ut ingredientium viam ad obscurissimas rerum caligines aliquo quasi doctrinae
lumine temperaret. Dicit enim apud antiquos alta et magnifica quaestione
disserta quae ipse nunc parce breviterque ƿ composuit. Quid autem de his a
priscis philosophiae tractatoribus dissertum sit, breviter ipse tangit et
praeterit. ÑTunc Fabius: Quid illud, inquit, est? ÑEt ego: Hoc, inquam, quod ait
se omnino praetermittere genera ipsa et species, utrum vere subsistant an
intellectu solo et mente teneantur, an corporalia ista sint an incorporalia, et
utrum separata an ipsis sensibilirbus iuncta. De his sese, quoniam altior esset
disputatio, tacere promisit, nos autem adhibito moderationis freno mediocriter
unumquodque tangamus. Eorum ergo quae se transire et praetermittere pollicetur,
prima est quaestio, utrum genera ipsa et species vere sint an in solis
intellectibus nuda inaniaque fingantur. Quae quaestio huiusmodi est. Quoniam
hominum multiformis est animus, per sensuum qualitatem res sensibus subiectas
intellegit et ex his quadam speculatione concepta viam sibi ad incorporalia
intellegenda praemunit, ut cum singulos homines videam, eos quoque me vidisse
cognoscam et quia homines sint, me intellexisse profitear. Hinc igitur ducta
intellegentia velut iam sensibilium cognitione roborata sublimiori sese
intellectu considerationis extollit et iam speciem ipsam hominis, quae sub
animali est posita, et singulos homines continere suspicatur et illud
incorporeum intellegit cuius aote particulas corporales in singulis hominibus
sentiendis et intellegendis assumpserat. Nam hominem quidem illum specialem,
qui nos ƿ omnes intra sui nominis ambitum cohercet, non est dicere corporalem,
quippe quem sola mente intellegentiaque concipimus. Sic igitur mens rerum nixa
primordiis altiori atque incomparabili intellegentia sublimatur. Hinc ergo
animus non solum per sensibilia res incorporales intellegendi est artifex sed etiam
fingendi sibi atque etiam mentiendi. Inde enim ex forma equi vel hominis falsam
Centaurorum speciem sibi ipsa intellegentia comparavit. Has igitur mentis
considerationes quae a rerum sensu ad intellegentiam profectae vel
illtelleguntur vel certe finguntur, fantasiva" Graeci dicunt, a nobis visa
poterunt nominari. Ita ergo nunc de generibus, speciebus et caeteris quaerunt,
utrum haec vere subsistentia et quodammodo essentia constantiaque
intellegantur, ut a corporalibus singulis vere atque integre ductam hominis
speciem intellegamus, an certe quadam animi imaginatione fingantur, ut ille
Horatii versus est: HUMANO CAPITI CERUICEM PICTOR EQUINAM IUNGERE SI
VELIT quod neque est neque esse poterit sed sola falsa mentis
consideratione pingitur. Nimis acute subtilis inquisitio atque ad rem maxime
profutura! Scienda enim sunt utrum vere sint nec esse de his disputationem
considerationemque, si non sint. Sed si rerum veritatem atque integritatem
perpendas, non est dubium quin vere sint. Nam cum res omnes quae vere
sunt, sine his quinque esse non possint, has ipsas quinque res vere intellectas
esse non dubites. Sunt autem in rebus omnibus conglutinatae et quodammodo
coniunctae atque compactae. Cur enim Aristoteles de primis decem sermonibus
genera rerum significantibus disputaret vel eorum differentias propriaque
colligeret et principaliter de accidentibus dissereret, nisi haec in rebus
intimata et quodammodo adunata vidisset? Quod si ita est, non est dubium quin
vere sint et certa animi consideratione teneantur. Quod ipsius quoque Porphyrii
probatur assensu. Nam quasi iam probato et scito quod ista vere subsistant,
aliam quaestionem inferre non dubitat, cum dicit: an corporalia ista sint an
incorporalia. Quae nimis esset frivola atque absurda quaestio, utrum essent
corporalia, nisi prius esse constaret. Haec quoque non mediocriter utilis
inquisitio ita resolvitur: incorporalia esse quae ipsa quidem nullis sensibus
capiantur, animi tamen qualia sint consideratione clarescunt. Nam quia
incorporeorum prima natura est, potest res incorporea parens esse quodammodo
corporeae. Corporea vero incorporeis praeesse non poterunt, quod, quoniam
substantia genus est, corporale vero et incorporale species substantiae,
corporale non esse genus haec res declarat, quod substantiae, id est generi,
incorporale supponitur. Quodsi corporale esset genus, numquam sub eo species
incorporea poneretur. Animadverte igitur vehementissime, quam numquam ƿ
quicquam a te animadversum fuit. Genus ipsum quoniam species habet, species
vero differentiis disiunguntur et proprietatibus informantur, quoniam quaedam
species reperiuntur quae in contraria sub genere divisione contrarias obtineant
vices, ut sub animali rationale atque irrationale contraria sunt et sub
rationali mortale atque immortale et haec quoque contraria, quaeritur, si
animal solitario intellectu neque rationale neque irrationale sit, unde hae
differentiae in speciebus natae sint, quae in genere ante non fuerant. Quodsi
genus, id est animal, utrasque res in se habet, ut et rationale et irrationale
sit, in uno eodemque duo contraria eveniunt, quod est impossibile. Accingam
igitur breviter quaestionem et dicam quod non genus utrumque sit, id est
rationale vel irrationale, vel quicquid aliud inter se species per
contrarietates dividunt sed vi sua et potestate genus, hoc continet, ipsum vero
nihil horum est. Ita ergo genus tale est, ut ipsum neque corporale neque
incorporale sit, utrumque tamen ex se possit efficere, quod secundo libro
melius liquebit. Species alias corporalis, alias incorporalis est. Nam si
hominem sub substantia ponas, corporalem speciem posuisti, sin deum,
incorporalem. Eodem modo etiam differentiae. Nam si corporales vel incorporales
ƿ species dividunt, erunt alias incorporales, alio tempore corporales, ut si
dicas 'quadrupes' ad bipedem, corporalis differentia est sed 'rationalis' ad
irrationalem, incorporalis differentia est. Et propria nihilominus eodem modo.
Nam aequale speciei proprium fuerit: si corporalis, corporale erit proprium, si
incorporalis, incorporale vindicabitur. Et accidens eodem modo. Nam si
incorporalibus quid accidit, incorporale esse manifestum est, ut in animo
accidens est scientia, incorporalis scilicet, corporalibus vero quae accidunt,
corporalia esse manifestum est, ut si quis dicat accidens me habere capillum
crispum. Si igitur genus neutrum per se ipsum est sed utrasque res es se ipso
efficere potest, species, differentia, propria et accidentia ut accepta in
contrarias species fuerint, proinde vel corporalia vel incorporalia vocabuntur.
Sed sunt quibus hoc ipsum integrum videri possit, et haec solum incorporalia
esse definiunt. Qui sic dicunt, non considerari genus in eo quod quaeque res
suapte natura constat sed in eo quod genus sit. Itaque si substantia genus est,
non consideratur in eo quod substantia est sed in eo quod sub se species habet.
Item si species corporeum et incorporeum est, non in eo quod deus vel homo
dicitur, consideratur sed in eo quod est sub genere. Eodem modo etiam
differentiae non cons'iderantur in eo quod bipes vel quadrupes sit sed in eo
quod est differentia. Nam quadrupes hoc ipsum nulla differentia est, nisi sit
bipes a quo differat. Itaque non quadrupes vel bipes respicitur sed id quod
medium est in bipede et quadrupede, id est differentia: et de proprio idem. Nam
quod cuiusque est proprium, in eo proprium consideratur quod eius cuius dicitur
esse proprium speciei solius est. Nam 'risibilis' non in eo proprium hominis
quod risus est sed in eo quod solus homo potest ridere. Quae manifeste
incorporalia esse indubitatum est. Deinde accidentia proinde sunt, qualia
fuerint ea quibus accidunt, ut superius dictum est. Sed hi probare videntur hoc
ipsius Porphyrii sententia, qui, veluti iam probato quodi ncorporea sint, ita
ait: ET UTRUM SEPARATA AN IPSIS SENSIBILIBUS IUNCTA, quod, si esse haec
aliquando corporalia extitisset, absurdum esset quaerere utrum incorporalia
seiuncta essent a sensibilibus an iuncta, cum sensibilia ipsa sint corpora.
Talis autem est quaestio, ut quoniam quaedam incorporales sunt res, quae omnino
corpora non patiuntur, ut ƿ animus vel deus, quaedam vero quae sine corporibus
esse non possunt, ut prima post terminos incorporalitas, quaedam autem quae in
corporibus sunt et praeter corpora sese esse patiuntur, ut anima -- quaeritur
ergo hae quinque res ex quo incorporalitatis sint genere, utrum eorum quae
omnino separantur a corpore an quae a corporibus separari non possunt an quae
iungantur aliquotiens, aliquotiens segregentur. Videtur autem quod et segregari
et iungi possint. Nam quando corporalium divisio per genera in species fit et
eorum propria et differentiae nominantur, haec circa sensibilia, id est
corporalia esse non dubium est; cum vero de incorporalibus rebus tractatus
habetur et per ea ipsa dividuntur quae corpore carent, circa incorporalia
versantur. Quodsi boc est, non est dubium quod quinque haec ex eodem sunt
genere, quod et praeter corpora separata esse possint et corporibus iungi
patiantur sed ita, ut si corporibus iuncta fuerint, inseparabilia a corporibus
sint, si vero incorporalibus, numquam ab incorporalibus separentur et utrasque
in se contineant potestates. Nam si corporalibus iunguntur, talia sunt, qualis
illa prima post terminos incorporalitas, quae numquam discedit a corpore, si
vero incorporalibus, talia sunt, qualis est animus, qui numquam corpori
copulatur. Haec sese igitur Porphyrius tacere pollicitus breviter ƿ
mediocriterque super his rebus tractare promittit habita in res alias
consideratione aut coniectura, quod simile est ac si diceret: quoniam haec ad
praedicamenta et ad definitiones et ad divisiones et ad probationes pertinent,
ideo haec tractaturus assumo et eatenus de his disseram, quatenus in supra
dictis rebus proficiunt, non quatenus de his ipsis generibus speciebusque et
caeteris tractari possit. SUNT ENIM ILLA, ut ipse ait, GRAVIORIS TRACTATUS;
QUAM DOCTRINAM A PERIPATETICIS ACCEPTAM, id est ab Aristotelicis, SE SEQUI
confessus est. Nam Stoici, qui de his quoque rebus tractare voluerunt, non
omnino a Porphyrio suscipiuntur, atque ideo ait se a Peripateticis rationem
disputationis accipere. ÑTunc me Fabius ita percunctatus: Quid est, inquit,
quod dudum dixeras, cum a te de incorporalibus tractaretur, esse quasdam
incorporalitates quae circa corpus semper consisterent, ut sunt primae
incorporalitates post terminos? Quae est haec incorporalitas aut quos terminos
dicis? Non enim intellego. ÑEt ego: Longas, inquam, tractatus est et nihil
nobis ad hanc rem quam quaerimus profuturus. Sed dicam breviter terminos me
dixisse extremitates earum quae in geometria sunt figurarum, de incorporalitate
vero quae circa terminos constat, si Macrobii Theodosii doctissimi viri primum
librum quem de ƿ Somnio Scipionis composuit in manibus sumpseris, plenius
uberiusque cognosces. Sed nunc ad sequentia transeamus. Tunc Fabius: Ut
placet, inquit, simulque sic incipit: VIDETUR ENIM NEQUE GENUS NEQUE SPECIES
SIMPLICITER APPELLARI, ID EST UNO MODO. GENUS NAMQUE DICITUR QUORUNDAM AD
ALIQUID QUODAMMODO HABENTIUM COLLECTIO, PER QUAM DARDANIDUM DICITUR GENUS.
DICITUR RURSUS GENUS UNIUSCUIUSQUE NATIVITATIS PRINCIPIUM AUT A GENERANTE AUT AB
EO IN QUO QUIS GENITUS EST. Caetera, inquit, fere nota sunt. ÑTunc ego: Si vim
prius aequivocationis aspicias, divisionem generis diligenter agnosces. Placet
enim per generis nomen cum sibi subectis aequivoca nominare. Aequivoca vero
sunt quae, cum nomine una sint, longe diversa substantiae ratione et
definitione discreta sunt, ut si quis hanc verbi gratia statuam Veneris
<Venerem> appellet. Congruunt igitur Venus ipsa et statua Veneris unius
nuncupatione vocabuli, quod utrisque Veneris nomen est. Si quis vero qui sit
utrumque definiat, longe aliam Veneris, aliam lapidis rationem definitionemque
constituet. Speciebus igitur illa esse aequivoca quae uno vocabulo appellentur,
definitionibus vero diversis ƿ constituantur, clarescet, ut opinor,
participatione generis quam Porphyrius fecit, non Victorinus, visa. Omne enim
quicquid a genere in species ducitur, univocum. non aequivocum est. Univocum
est quod et eodem nomine vocari et eadem definitione constitui potest, ut est
animal genus, homo vero species sed idem homo animal est. Genus igitur et
species, id est animal atque homo, possunt unius animalis nomine nuncupari, ut
utrumque animal vocetur sed eadem definitionibus non discrepent. Nam si
definitionem reddas animalis, dicas id esse animal quod est substantia animata
sensibilis; quam si definitionem ad hominem vertas, non erit absurdum dicere
hominem substantiam esse animatam atque sensibilem sicut animal, sicut iam
superius dictum est. Si enim univoca sunt quae uno nomine atque eadem definitione
constituuntur, aequivoca vero quae uno nomine sunt et non sunt una definitione
substantiae, quicquid univocum est, in his genera speciesque versantur,
quicquid aequivocum est, non est in eis talis participatio, ut speciebus et
generibus censeantur quae enim erit in his generis specieique cognitio, in
quibus substantiae definitio atque integerrima ratio disgregatur? Ita ergo
Porphyrius nomen generis ƿ in tres dividit formas sed ut aequivoca, non ut
univoca, id est ut hae formae uno quidem generis nomine contineantur, sui autem
proprietate disgregata dissentiant. Sed Porphyrius nomen generis hoc modo in
tres dividit partes, ut dicat vocari semel genus de eorunr inter se
plurimorumque collectione qui ab uno quocumque nomen generis trahunt, ut Romani
a Romulo trahentes genus ex eodem genere esse dicuntur. Secundo vero loco dici
genus affirmat, ut cuiuscumque est nationis principium aut a generante aut a
loco in quo quis natus est, ut Aeneam ab Anchisa et genere dicimus esse
Troianum. TERTIUM VERO GENUS DICIT ILLUD CUI SPECIES SUPPONITUR. Victorinus
vero duo superiora genera in unum redigit. Nam et multitudinis congruentiam
inter se per eandem generis nuncupationem et quorumcumque a genere lineam et
locum in quo quis natus est, uno generis vocabulo et designatione esse
declarat. Addit autem ipse quod soli Latinae linguae congruere possit: dicit
enim SECUNDO MODO GENUS DICI. UT EST GENUS CAUSAE HONESTUM. Quae genera
causarum Graeci in rhetorica arte genera esse non putant sed schumata vocant id
est figuras, genera autem sola principalia accipiunt, demonstrativum,
deliberativum scilicet et iudiciale. Quae ipsa ƿ ei[dh rIhtorikh`" vocant,
id est species rhetoricae, genera vero causarum. Tertium vero genus est id quod
Porphyrius ponit, id est sub quo differentiis distributae species supponuntur.
Sed quoniam de tertio genere tractaturus est, Victorini culpam vel, si ita
contingit, emendationem aequi bonique faciamus. Nunc ergo ad priorem apud
Victorinum generis significationem reuertamur et eius ut sunt verba enodanda
atque expedienda sumamus. GENUS NAMQUE inquit DICITUR QUORUNDAM AD ALIQUID
QUODAMMODO HABENTIUM COLLECTIO. Hic ergo utrumque monstravit, et cognationem
inter se multitudinis et lineae ductum. Nam cum dicit genus esse quorundam
collectionem ad se invicem quodammodo habentium, id est aliqua inter se
cognatione, iunctorum, et quod addidit ET AD ALIQUID, generis lineam
significat, quam singuli contingentes et ad unum sese ipsius generationis
applicatione iungentes plures ex eadem linea iuncti atque cognati sunt, ut sit
hic ordo: genus dicitur quorundam collectio quodammodo ad aliquem habentium, id
est alicuius lineam per genus contingentium, ut per collectionem cognationem
demonstret et per habitudinem quodammodo ad aliquem colligatam lineam generis
ductumque designet. Sequitur ergo et id planius lucidiusque significat, cum
dicit: DICITUR RURSUS GENUS CUIUSCUMQUE NATIVITATIS PRINCIPIUM AUT A GENERANTE
ƿ AUT AB EO IN QUO QUIS GENITUS EST. Id ipsum latius expedit quod superius
stricto et sentuoso brevitatis vinculo colligaverat. Dicit enim rursus dici
genus aut a generante aut a loco in quo quis natus est. Sed rursus particula si
ad hoc conectatur quod ait aut ab eo in quo quis genitus est, intellectus non
titubat, ut sit ordo: dicitur genus uniuscuiusque nativitatis principium aut a
generante aut rursus ab eo in quo quis genitus est. Vel certe erit simplicior
expositio. Si priorem generis significationem, id est quorundam ad aliquem
quodammodo habentium collectionem, ad solius cognationem multitudinis accipiamus,
lineae vero ductum et loci generationem in subteriore significatione distribui,
ita tamen, ut una quodammodo generis significatiolle et multitudinis
cognationem et a generante lineam et loci nativitatem significet. Haec enim
omnia de sola cuiuslibet natione tractantur. Quare non absurdum est quae omnia
ad ortum genitalem cuiuslibet pertineant. Una significatione generis contineri.
Propriae tamen et simplicissimae expositionis est quattuor significationes
generis constituisse Victorinum, ut ad tres Porphyrii unam ipse addiderit
generis causae, ut sint hae quattuor significationes, multitudinis cognatio,
lineae ductus, genus causae, genus specierum. Sequitur secunda generis
divisio apud Victorinum UT EST GENUS CAUSAE: quae Graeci, ut dictum est, Non
genera sed schumata vocant. Tertiae vero significationis generis, hic modus est
GENUS DICI CUI SUPPONITUR SPECIES, id est genus illud a quo species derivantur,
quod ait ad superiorum fortasse similitudinem aequitatemque dispositum. Sic
enim genus speciebus suis principium est, ut Romulus his, qui ab eo cognati
sunt iunctique Romani item eodem modo nomen Romuli Romanos omnes continet,
quemadmodum nomine generis species continentur. Nam sicut a Dardano Dardanidae
prioris nomen Dardani in sese ipsos posteriores accipiunt, ita et animal cum
verbi gratia species habeat hominem atque equum, equus scilicet atque homo
animalis in se vocabulum capere, ut dicantur ipsa animalia non recusant. Eodem
igitur modo species sub generibus continentur, quemadmodum cognati homines sub
illo a quo illam cognationem forte traxerunt. Nam et genus speciebus principium
est et plurimarum in se specierum collectivum est. Rursus primum cognationis
nomen et ipsius generationis est principium et in illius solius vocabulo
diversitas hominum vocabuli et generis participatione colligitur, atque hoc est
quod ait his verbis: ALITER DICITUR GENUS CUI SUPPONUNTUR SPECIES, IUXTA
SIMILITUDINEM FORTE SUPERIORUM APPELLATUM ETENIM PRINCIPIUM QUODDAM EST GENUS
HIS QUAE SUB IPSO SUNT ET VIDETUR MULTITUDINEM CONTINERE OMNIUM QUAE SUB SE
SUNT. Sed cautissime additum est videtur. Si enim nihil haec omnia distarent,
una significatio generis esset et ea quae in species funditur et ea quae in
cognatione dividitur. Sed est inter haec ƿ genera talis diversitas, quod genera
earum specierum quae sub se habent alias species, aequaevis speciebus
aequaliter sunt genera. Hominem enim et equum, qui sub animali sunt, neutrum
neutro possumus dicere prius ad tempus inchoationemque nascendi. Nam si qua res
una sit prior, altera posterior et eas sub uniuscuiusque generis nomine quis
velit aptare, non poterit; genus enim speciebus suis aequaliter genus est.
Quodsi genus speciebus suis aequaliter genus est, species ipsae eius ordinis
inter se aequali tempore ortuque censentur. At vero in generibus quae
cognationes efficiunt, non ita est. Quisquis enim fuit Capis pater, qui Capuam
condidit, si solum filium Capin progenuit et ab uno Capuanorum cognatio
iunctioque cuncta manavit, distat a genere cui species supponuntur, quod genus
uni speciei genus numquam esse potest nisi pluribus, quod quoniam est idoneum
genus illud, id est principium cognationum, etiam ab uno filio colligere et
congregare cognationem, quod genus per species ductum facere non potest, nisi
plures species supponantur, constat in hoc distare genus quod cognationem
colligit, ab eo a quo species dividuntur. Potest autem distare in hoc etiam,
quod genus, id est principium cognationis, potest habere sub se duos ex se non
aequali temporis conditione progenitos sed alium posterioris ortus, alium vero
senioris, quod in generibus speciebusque non convenit. Nam, ut ƿ superius
dictum est, species nisi sibi aequales fuerint, non merito sed natura, sub
genere poni non possunt. His igitur expeditis sequitur: TOTIENS IGITUR DE
GENERE DICTO DE POSTREMA SIGNIFICATIONE INTER PHILOSOPHOS DISPUTATIO EST, QUOD
DEFINIENTES ITA DECLARANT -- Quod dicit TOTIENS, tertio demonstrare vult atque
hoc propter lucidam operis seriem admissum est, ut, quoniam genus plurimorum
nomen est, omnis eius primum significatio diceretur, ut de qua disputandum
esset, aliis reiectis eligeret. Quod ait hoc modo: cum totiens, id est tertio,
genus dicatur, apud philosophos, id est unde ipse tractaturus est, de postrema
generis significatione quam dixit, id est de illo genere quod sub se species
habet, disputatio consideratioque vertitur. At vero de superioribus generibus
id est de cognatione et loco in quo quis genitus est, aut historicorum aut
poetarum spectatio est secundi vero generis rhetorum, tertii philosophorum consideratio
est. Etiam hic in disputationibus ordo est, quod, cum inciderent res quae
multis possit nominibus nuncupari et de unoquoque eorum vocabulo tractari
disserique, necesse est dici prius in ordinem omnia, ut id quod eligitur et
reicitur distinguatur. Sed illa quae reicienda atque explodenda sunt, prius
dicantur, illud vero quod disserendum tractandumque, ƿ capitur, posterius
nominetur, ut hic illa posterior generis significatio posita est, quam
disserendam accepturus prius definiendam et termino quodam circumscribendam
demonstrandamque suscepit. Omnis enim res, nisi quid prius sit constiterit.
Eius tractatus uacuo modo speculationis habebitur. Definit igitur sic: genus
esse quod ad plures differentias specie distantes in eo quod quid sit
praedicatur, velut animal. Quod definitionis talis est. Omnia quae distant,
habent inter se quandam differentiam qua distare et differre videantur. Porro
autem si quid sit genus et sub eo species supponantur, duas vel plures necesse
est species poni sub genere, quoniam unius speciei genus esse non potest. Sed
si plurimae species erunt, aliqua necesse est differentia dividantur, aliter
cnim plures esse non possunt. Nam si nihil distent, non erunt plures species et
nomen generis perit. Constat igitur eas sub genere poni species quae
differentiis distributae plures numero ipsarum differentiarum divisionibus
componantur. Ergo, quoniam superius dictum est in omnibus definitionibus a
genere definitionis trahendum esse principium, si quam cuiuslibet speciem
definile volueris, genus primo necesse est nominabis et ad illam speciem quam
definis, generis ipsius nomen prius aptabis. Et hoc illam principaliter dicis
esse, quod est illud genus sub quo ipsa species quam definis est posita. Post
autem differentiis propriisque eam ab aliis circumscriptione quadam
definitionis ƿ excludis. Nam si dicis animal esse hominem, animal genus est,
species vero homo. Nomen igitur animalis, id est generis, de homine, id est
specie, praedicasti, cum dixeris hominem esse animal. Quodsi nomen generis in definitionibus
ad unam speciem dicere posses, de ea nomen generis praedicares. Species autem
aequali modo generibus suis species sunt, nihil uetat, immo etiam necesse est
semper quaecumque sunt genera, de sibi subiectis speciebus in definitionibus
vel in quibuslibet interrogationibus praedicari. Sed quoniam praedicatur genus
de speciebus, quomodo praedicetur agnoscendum est. Nam si dixeris: quid est
homo? Et aliquis responderit animal, bene et integre respondisse videtur, et
certe. Nam cum tu quid sit homo interrogaveris, ille respondit animal, genus
scilicet de specie in eo quod quid sit species praedicavit. Nam tu quid esset
species interrogasti, ille vero in eo quod quid sit species quam interrogasti,
animalis nomen, id est generis accommodavit. Plena igitur et propria definitio
facta est generis, 'hoc esse genus quod ad plurimas differentias specie
distantes in eo quod quid sit appellatur, velut animal'; animal enim ad
hominem, equum, bovem, coruum, anguem et alia plura quae differentiis
speciebusque differunt, in eo quod quid sit appellatur. Sed utrum sic dixisset,
genus esse quod ad plurimas species differentia distantes in, eo quod quid sit
praedicetur, an, sicut dixit, 'genus esse quod ad plurimas differentias specie
distantes in ƿ eo quod quid sit praedicatur', nihil interest. Nam sive
differentiae specie distent sive species differentiis distent, utrumque idem
est. Nam sive rationale et irrationale, quae sunt differentiae, specie hominis
verbi gratia atque equi distent, sive species homo atque equus differentia
rationali atque irrationali dividantur et distent, nihil interest. Quare plena
perfectaque facta est generis definitio. Sed definitiones duplicibus modis
fiunt. Una enim definitio est quae, sicut dictum est, a genere trahitur. Sed
quoniam sunt quaedam magis genera, quae super se genus aliud habere non
possunt, ut sunt praedicamentas decem quae Aristoteles constituit, eorum igitur
definitio quae haberi potest quorum genus inveniri non potest, quod omnium
quaecumque sunt, ipsa sunt genera? horum ergo quos Graeci vipografikou;"
lougou" dicunt, Latini subscriptivas rationes dicere possunt, reddemus.
Subscriptivae autem rationes sunt demonstrativae et quodammodo insignitivae
proprietatis illius rei quae cum ipsa generalissima sit et genus eius nullum
reperiri possit, eam tamen definire necesse est. Et Aristoteles, quoniam
substantiam genus generalissimum definire volebat et eius nullum genus poterat
invenire, proprietatem quandam et demonstrationem subscriptionemque ipsius rei
dixit esse subiectum. Substantia enim omnibus subiecta est. Accidens enim, quod
in novem ƿ dividitur partes, praeter substantiam esse non potest. Atque ideo
omnia quaecumque definienda sunt, si genus non habeant, eorum subscriptivam
quandam et demonstrativam rationem reddi necesse est. Sic igitur nunc generis,
quoniam rem ipsam definiendam putabat, non duxit a genere definitionem sed
dedit quandam generis demonstrationem proprietatemque. Dico autem quod
Porphyrius vel subalternorum generum vel illorum quae generalissima sunt, hanc
dederit definitionem et quodammodo subscriptionem demonstrationemque. Nam si
quod genus habeat aliud genus et item hoc ipsum aliud et item aliud si nullum
erit supra genus quod genus non habeat, in infinitum procedit ratio. Sin vero
non habuerit, necesse est quoque istam definitionem apte ordinateque congruere.
Dico autem genus non animal homini atque equo sed illud quo ipsum animal homini
atque equo genus est. Animal enim ipsum per sese nulli genus est neque homo
ipsum per sese ulli species est neque equus ipsum per sese ulli species est sed
sunt genera et species ad alterius participationem. Nam quoniam sub animali est
equus atque homo, non ad se ipsum animal genus est sed ad equum atque hominem.
Et item species quae vocantur, homo scilicet atque equus, non ad equum atque
hominem sed ad animal, species sunt. Dico igitur genus <et species> non
ipsas substantias in quibus genus et species sunt. Sed ipsam participationem
priorum ad subteriores et subterioram ad priores. Haec igitur participatio
quoniam et in magis ƿ generibus et in magis speciebus et in subalternis
generibus et in subalternis speciebus una atque eadem est et huius
participationis inveniri genus non poterat. Haec definitio generis quae facta
est, non a genere tracta est sed subscriptiva ratio et demonstrativa et
designatitla quodammodo generis est reddita. Hic Fabius: Subtiliter
mehercule et quod numquam fere ante haec audivimus. Sed perge, quaeso te. Iam
enim certant sidera quodammodo et nox luce superatur. ÑTunc ego: Sequitur rerum
omnium prima brevisque divisio. Ita enim ait: EORUM QUAE DICUNTUR, ALIA AD
UNITATEM DICUNTUR, SICUT SUNT OMNIA INDIVIDUA, UT EST SOCRATES ET HIC ET ILLUD,
ALIA QUAE AD MULTITUDINEM, UT SUNT GENERA ET SPECIES ET DIFFERENTIAE ET PROPRIA
ET ACCIDENTIA. HAEC ENIM COMMUNITER, NON UNIUS PROPRIE APPELLATIONIS
SUNT. Brevis, ut supra dictum est, et distincta divisio. Omnis enim res
aut unius rei nomen est aut plurimarum, et hoc est quod ait: eorum quae
dicuntur, alia ad unitatem dicuntur, sicut sunt omnia individua. Quid autem sit,
breviter explicandum est. Omne genus quoniam sub se ƿ species habet, species
vero differentiis distinguuntur et proprietatibus explicantur -- accidunt autem
in speciebus accidentia secundo loco, principaliter vero in individuis quae
sunt sub speciebus. Quid autem sit, posterius dicendum est -- genera igitur et
de speciebus dicuntur et de differentiis, quae ipsas species distribuunt, et de
propriis. Quae species componunt. Et de his accidentibus quae, cum
principaliter in individuis fuerint, in speciebus esse dicuntur. Hoc autem
monstremus exemplis. Et sit nobis genus animal, sit species homo, sit
differenti rationale, sit proprium risibile, sit accidens stans vel ambulans
vel aliquid in mensura corporis, ut tripedalis. Animal ergo, quod genus est,
dicitur de specie, id est de homine; dicis enim hominem esse animal. Porro
autem de speciei differentia nihilominus dicis genus: dicis enim rationale esse
animal. Nihil autem prohibet eodem modo et de proprio genus dicere. Nam si
dicas: quid est risibile? non absurdum est animal nominare. Accidentia vero hoc
modo principaliter in individuis, secundo vero loco in speciebus sunt. Nam si
quis dicat ad singulos homines, ut puta Ciceronem sedere vel stare vel quod
aliud libet, in specie hominis eadem quoque convenire necesse est. Nam si
Cicero sedet sedet etiam homo, si Cicero ambulat, ambulat etiam homo. Ergo si
qua accidentia venerint ab individuis et ea tracta in speciebus consederint, ad
ipsa quoque accidentia dici poterit genus. Quid est enim ambulans, si quis interroget,
merito animal dicitur. Nihil enim ambulare nisi animal potest. Porro autem sub
speciebus individua sunt, ut Cicero et Virgilius sub homine, atque de individuo
ƿ genus speciei praedicari potest. Nam si interrogaveris, quid est Cicero,
merito animal dicas. Genus igitur et ad speciem et ad differentias et ad
accidentia et ad propria et ad individua nominatur. Porro autem species
non iam de genere neque de differentiis sed de solis propriis et subiectis
individuis appellatur, in illis, id est individuis, quia superest. In propriis
vero, quia aequalis est. Quid autem sit, hoc modo videamus. omnia genera
speciebus suis supersunt et abundant. Abundare autem genera dicimus speciebus
plus habere genera virtutis quam species. Homo enim quod est species, solum homo
est, animal vero quod est genus, non solum homo est sed et equus vel bos vel
quod aliud libet animali supponere. Ita maior vis generis recte de minori sibi
et subiecta specie praedicatur. Alia vero sunt quae sibi sunt paria, ut sunt
propria et species. Species est homo, proprium risibile. Quicquid ergo fuerit
risibile, hoc est homo, quicquid homo, hoc risibile. Itaque neque risibile
hominis neque homo risibilis potentiam superuadit sed aequalia sibi ad se
invicem praedicari possunt, ut dicas: quid est homo? risibile; quid est
risibile? homo. Ita igitur quaecumque superiora fuerint, ad illa quae
subteriora sunt, praedicantur et quaecumque aequalia fuerint. Aequaliter sibi
ad <se> invicem praedicantur. Illa vero quae subteriora sunt et minora,
de superioribus et abundantibus, ut sunt genera et species -- genera enim
abundantia, species minores -- praedicari non possunt. Numquam enim recte
speciem de genere ƿ praedicabis. Ita ergo species de proprio praedicatur ut
pari sed quoniam sub speciebus singillatim individua sunt -- individua autem
vocamus quae in nullas species neque in aliquas iam alias partes dividi
possunt, ut est Cato vel Plato vel Cicero et quicquid hominum singulorum est;
hos enim in nullis partibus dividis, ut animal in species, hominem scilicet
atque equum, hominem ipsum specialem et singulos circumplectentem in Catonem,
Platonem, Virgilium et omnes singillatim homines distributos; hominem vero
ipsum singulum, id est Ciceronem, in nullos alios distribuere possumus atque
ideo a[tomon, id est individuum, vocitatum est -- species ergo, quae ad propria
aequaliter praedicatur, ad individua, quoniam maior est species hominis quam
quodlibet individuum, ita praedicatur, ut superius ad id quod est subterius.
Cicero enim solus Cicero est, homo autem non solum est Cicero quod si ad
individua praedicatur, et ad individuornm accidentia praedicabitur. Ita igitur
species ad genus eo quod superius est, non praedicatur neque ad differentiam,
quia differentia, ut nunc monstraturi sumus, super speciem est, ad proprium
vero, cui par est, vel ad individuum, cui superest, praedicatur. Differentia
vero et ad species et ad propria et ad individua praedicatur. Namque rationale,
quod est differentia, ad hominem praedicatur, quod est species. Item rationale,
id ƿ est differentia, praedicatur ad risibile, id est proprium. Dicitur enim id
esse risibile, quod rationale. Nam si homo rational et homo risibile, constat
id quod est risibile, etiam rationale posse nominari. Quodsi ad species
differentia dicitur, species autem ad individua praedicatur. Necesse est ut
differentia quoque ad individua praedicetur. Dicis enim: qualis est Cicero?
rationalis. Quodsi differentia ad individua praedicatur, accidentia vero in
individuis accidunt. Necesse est differentias et ad accidentia praedicari.
Proprium vero quoniam semper unius speciei proprium est, et ad ullam speciem
praedicatur solam. Cuius est proprium. Risibile namque, quod proprium est ad
solam hominis speciem praedicatur. Quod si ad hominis speciem praedicatur.
Species vero ad individua dicitur. Non est dubium quin proprium quoque de
individuis praedicetur. Nam si homo risibile animal est, Cicero quoque et
Virgilius risibilia animalia recte dicuntur. Quodsi proprium ad individua recte
dicitur, recte etiam et de accidentibus praedicatur quae in ipsis accidunt
individuis. Accidentia vero ipsa et de speciebus et de aliis omnibus
praedicantur et de ipsis maxime individuis. Namque et albus equus et albus homo
dicitur et iterum niger equus et niger Aethiops. Quod si ita est, animal quoque
nigrum dicitur. Dicitur etiam rationale nigrum et irrationale nigrum, quippe si
equus et homo Aethiops nigri sunt. Dicitur etiam risibile nigrum, cum homo quis
niger fuerit. Dicitur etiam individuum nigrum, cum quis unus homo ex Aethiopia
nominatur. Quod cum ita sit, constat genus ad plurima praedicari, id est ƿ
speciem, differentias, accidentia propriaque et individua, nihilominus et
differentiam ad plurima praedicari, id est ad speciem, propria, individua et
accidentia, et proprium ad plurima, id est speciem, individua et accidentia, et
speciem ad plurima, id est <proprium>, individua et accidentia, accidens
vero et ad genus et ad speciem et ad proprium et ad differentiam at ad
individua. Quod si ita est, has quinque res constat ad plurima praedicari. At
vero individuum quoniam sub se nihil habet, ad singularitatem quandam et
unitatem praedicatur. Cicero enim unus est et ad unum nomen istud aptatur. Ita
individua quae ad unitatem dicuntur, cunctis superioribus supposita sunt, ut
genus, species, differentia, propria vel accidentia, quamvis ad se invicem dici
possunt, ad individua tamen aequaliter praedicantur, ut superius demonstratum
est. Individua vero quoniam sub se nihil habent ubi secari distribuique
possint, ad nihil aliud praedicantur nisi ad se ipsa, quae singula atque una
sunt. Atque hoc est quod ait: EORUM QUAE DICUNTUR, ALIA AD UNITATEM
DICUNTUR, SICUT OMNIA INDIVIDUA, UT EST SOCRATES ET HIC ET ILLUD, ALIA QUAE AD
MULTITUDINEM, UT SUNT GENERA ET SPECIES ET DIFFERENTIAE ET PROPRIA ET ACCIDENTIA.
HAEC ENIM COMMUNITER, NON UNIUS PROPRIE APPELLATIONIS SUNT. Simile est ac
si diceret: haec enim communiter ad plurima praedicantur, non ad unitatem sicut
individua. Et quid sint genera vel species vel differentiae vel propria ƿ vel
accidentia, exemplum supponit dicens: EST ENIM GENUS, UT ANIMAL, SPECIES, UT
HOMO -- quam dudum hominis speciem cum aliis animantibus sub animali posuimus
-- DIFFERENTIA, UT RATIONALE -- qua species scilicet hominis ab irrationali
distat animal -- PROPRIUM, UT RISIBILE, quod nullum aliud animal neque
rationale neque irrationale habet. Nullum enim animal ridet nisi solus homo.
Quare, cum quaedam caelestium potestatum animalia rationabilia sint, eorum
tamen proprium risibile non est, quoniam non rident. Recte igitur risibile
solius hominis proprium praedicatur. ACCIDENS, <UT> ALBUM, NIGRUM ET
SEDERE: quia ista in substantia hominum non sunt, merito accidentia vocantur.
Nam si substantiae cuiuscumque speciei inesset id quod accidens dicimus,
interempto accidenti periret etiam eius speciei substantia cui accidit. Nam
quoniam rationale in hominis substantia est, si rationalitas interimatur,
hominis quoque substantia necessarlo peritura est idcirco, quod in ipsius
speciei substantia naturaque nersatur. At vero nigrum et album vel quaecumque sunt
accidentia si interimas, species ipsa in qua illa accidebant, manet. Nam neque
omnis homo candidus neque omnis niger est, et cui alterutra defuerint, eius
species non peribit. Atque idcirco haec accidentia, veluti non innata in
substantia sed a foris venientia, recte nominata sunt. Nunc ergo, quoniam
quid sit genus ostendit et ea quae ƿ ad unitatem dicuntur, ab his quae de
plurimis praedicantur distinxit atque distribuit. Ipsius generis differentias
vel ab his quae ad unitatem dicuntur vel ab eis quae ad pluralitatem congruunt,
id est differentis, specie, proprio accidentique, declarat et dicit genus ab
illis quae ad sola individua prae dicantur, id est quae ad unitatem, hoc
differre, quod genus ad plurima praedicetur, individua vero ad singula. Sed quoniam
haec differentia generis ad individua communis erat differentiis speciebusque,
propriis et accidentibus, ab illis ipsis aliis differentiis genus dividit atque
disiungit. Quod ita demonstrat: AB HIS IGITUR QUAE AD UNITATEM DICUNTUR,
DIFFERT GENUS, QUOD GENUS EST HOC QUOD DE PLURIMIS PRAEDICATUR. AB HIS VERO
RELIQUIS GENUS DIFFERT, PRIMO AB SPECIE, QUONIAM SPECIES ETSI DE PLURIBUS, NON
TAMEN SPECIE DIFFERENTIBUS SED NUMERO PRAEDICATUR. Ac primum generis specieique
distantiam monstrat, quae propior est generi. Nam quamvis differentia super
speciem sit, super speciem specialissimam differentia ponitur. Nam quamvis
rationalis differentia super hominem ponatur, quae species specialissima est,
tamen ante speciem specialissimam ƿ ipsa differentia species est eius generis,
cui species snecialissima supponitur; nam sub animali ante hominem rationale
ponitur. Igitur cum genus et species utraque ad plurima praedicentur, genus
vero ad plurimas species in eo quod quid sit praedicetur, species non iam ad
plurimas species sed ad plurima individua praedicatur. Sunt autem quaedam
genera generalissima, ut dictum est, supra quae aliud genus inveniri non
possit. Sunt autem species sub quibus alia species inveniri non possit, et
integra species illa nominatur quae numquam genus est, id est sub qua species
nullae sunt. Nam si sub ea species essent, ipsa etiam genus esse posset.
Species ergo quae vere species est, alias sub se species non habebit, nt est
homo. Namque homo quoniam species est, singuli homines qui sub ipso sunt, non
eius species sed individua nominantur. Nam si homo genus esset hominum
singulorum, genus autem, sicut dictum est, ad plurimas res specie differentes
in eo quod quid sit appellatur, homo, id est species, si sicut genus
praedicaretur ad singulos homines, singuli homines specie ipsa differrent. Sed
quia singuli homines specie non differunt, quod autem specie non differt, si
quid ad hoc praedicatum fuerit, non praedicatur ut genus ad species, id est
homo non praedicatur ad singulos homines ut genus ad res plurimas specie
differentes, quid igitur? Ad res plurimas numero differentes; ƿ singuli enim
homines numero a se tantum, non specie distant. Atque ideo, quoniam genus
sic ad subiecta praedicatur, ut ad plurimas res specie differentes praedicetur,
species autem ad subiecta ita praedicatur, ut ad plurimas res numero
differentes praedicetur, genus in hoc ab specie distat, quoniam genus ad
plurimas res specie differentes praedicatur. Species autem ad plurimas res
numero differentes dicitur. Congruunt ergo sibi genus et species, quod genus et
species ad plurima praedicantur et utraque in eo quod quid sit. Nam si
interroges: quid est Cicero? Animal dicitur, id est genus. Et si interroges:
quid est Cicero? Homo dicitur, id est species distant autem, quod quamvis utraque
ad plurima praedicentur et in eo quod quid sit, genus praedicatur ad res specie
differentes, species vero dicitur ad res tantum numero differentes quod
Porphyrius sic demonstrat: AB HIS VERO RELIQUIS QUAE DE PLURIBUS
APPELLANTUR, GENUS DIFFERT, PRIMO AB SPECIE, QUONIAM SPECIES ETSI DE PLURIBUS
PRAEDICATUR, NON TAMEN SPECIE DIFFERENTIBUS SED NUMERO. HOMO ENIM SPECIES CUM
SIT, DE SOCRATE, PLATONE, CICERONE PRAEDICATUR, QUI NON SPECIE SED NUMERO
DIFFERUNT, ANIMAL VERO QUOD GENUS EST, ET BOVIS ET EQUI PRAEDICATIO EST QUAE
ETIAM DIFFERUNT SPECIE A SE INVICEM, NON NUMERO SOLO. Quod simile est ac
si diceret genus ab specie unam differentiam plus habere. Congruunt namque
genera speciebus, quod utraque in eo quod quid sit praedicantur, ut dictum est.
Congruit item et genus et species, quod utraque ad res plulimas praedicantur.
Congruit item genus ad species, quod utraque ad les numero differentes
praedicantur. Nam et singuli homines sta a se divisi sunt, quantum ad numerum,
ut homo ab equo vel a bove vel a coruo vel a quibuslibet aliis animantibus. At
vero distat ab specie genus, quod genus de pluribus rebus specie differentibus
praedicatur, quod species non habet. Nihil autem differre arbitrator, utrum ita
dicatur 'aliam rem ad aliam praedicari' an 'aliam de alia praedicari'. Utrumque
enim idem intellectus est. Nam si animal praedicatur ad hominem, idem etiam
animal de homine praedicatur. Nam cum interrogaveris: quid est homo? Respondeas
de hominis interrogatione hominem esse animal. Sed nunc oportet nos ea quae
secuntur aspicere. Quid ergo sequitur? A PROPRIO AUTEM GENUS DIFFERT, QUOD
PROPRIUM IUXTA UNAMQUAMQUE SPECIEM PROPRIUM APPELLATUR CUIUS EST PROPRIUM, ET
IUXTA EA QUAE SUB SPECIE SUNT, SCILICET INDIVIDUA; NAMQUE RISIBILE HOMINIS
SOLUM EST ET SINGULORUM UTIQUE HOMINUM. GENUS AUTEM NON AD UNAM SPECIEM SED AD
PLURES DIFFERENTES SEMPER APTATUR. Ergo hoc videtur hic dicere, quoniam omne
proprium si fuerit speciei unius, tunc vere est proprium. Nam si unius speciei
non fuerit sed duarum vel plurium, tunc duabus vel pluribus non proprium sed
erit in substantiae ratione commune. Constat ergo proprium ei cuius est
proprium soli speciei singulariter adhaerere. Unde quia hominis species sola
est quae ridet, risibile homini proprie et singulariter aptatur. Ad unam semper
igitur speciem proprietas adhibetur. Distat igitur proprium a genere, quod
genus semper ad plurimas species appellatur, proprium vero de una tantum specie
cuius est proprium. Nam si risibile dicas, ad unam tantum speciem hominis
appellatur. Congruit autem genus cum proprio in hoc, quod genus et proprium de
pluribus appellantur. Namque genus ad plures species appellatur, appellatur
etiam genus de his quae sub specie sunt individuis. Nam si homo et equus animal
est, erit etiam Cicero animal et quilibet equus singulariter animal nominatur.
Similiter et proprium ad plurima dicitur. Dicitur enim ad unamquamque speciem
et ad ea individua quae sunt sub specie praedicatur. Nam si homo risibilis est,
risibilis est etiam Cicero et Virgilius, et quicumque singulariter nominantur,
risibiles sunt. Congruunt etiam, quoniam utraque in eo quod quld sit
praedicantur. Nam genus de specie in eo quod quid sit praedicatur. Nam si
dicis: quid est homo? Animal appellabis. Item proprium in eo quod quid sit
praedicatur. Nam ƿ si dicis: quid est homo? Merito risibile praedicabis.
Congruunt autem, quod genus et proprium ad plurimas res numelo differentes
praedicantur. Nam ita a se differunt singula animalia, id est homo, equus et
coruus et caetera, ut singuli homines, quantum ad numerum. Distat autem a
genere, quod genus ad plurimas species praedicatur, proprium vero ad unam solam
cuius est proprium nominatur. Sed non est inter genus et proprium eadem
differentia, quae est inter speciem et genus. Nam species de nulla omnino
specie praedicatur, proprium vero licet non ad plures, ad unam tamen solam
speciem, cuius est proprium, semper aptabitur. Post hoc igitur de
differentiae accidentisque a genere distantia disserit dicens: A DIFFERENTIA
VERO ET AB ACCIDENTIBUS DIFFERT GENUS, QUONIAM ETSI ETIAM ISTA DE PLURIBUS
SPECIE DIFFERENTIBUS PRAEDICANTUR, DIFFERENTIAE SCILICET ET ACCIDENTIA QUAE
COMMUNITER ACCIDUNT, NON TAMEN IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICANTUR, CUM
INTERROGANTIBUS NOBIS FIT SECUNDUM EA RESPONSIO; MAGIS ENIM QUALE QUID SIT
OSTENDUNT. Differentiam vero et accidens idcirco posterius reservavit,
quod eorum unam differentiam erat distantiamque dicturus. Differentia enim et
accidens qualitatem cuiuscumque speciei demonstrant. Illa substantiae
qualitatem, id est differentia, illud, ƿ id est accidens, non substantiae. Ergo
quoniam genus super speciem est et species supposita generi, genus speciem,
species individuum quid sit ostendit. Porro autem solae possunt species
differentiae segregare quae qualitatibus eas substantialibus, id est substantias
declarantibus, seiungunt atque dispertiunt. Nam cum animal genus sit, homo vero
vel equus species, quales utraeque species sint monstrat differentiae
segregatio, ut dicamus speciem esse hominis rationalem, speciem vero equi
irrationalem. Si enim quis interroget: quid est homo? Animal dicitur. Si autem
quis dicat: qualis est homo? Rationalis respondetur. Ita semper differentia non
in eo quod quid sit sed in eo quod quale sit appellatur. De accidenti vero non
dubium est, cum ipsa qualitas in accidentis partibus componatur. Namque in
praedicamentis inter alias novem partes accidentis etiam qualitas nominatur.
Nam etiam si quis interroget qualis corui species sit, nigra continuo
respondetur. Congruunt ergo genera differentiis et accidentibus, quod de
speciebus pluribus praedicantur. Nam sicut genus plures sub se species habet,
ita differentia. Nam rationale dicimus deum et hominem. rursus etiam accidens
de pluribus speciebus praedicatur. Nam nigrum dicimus et hominem et equum et
coruum et hebenum et plurimas alias species. Rursus congruit genus
differentiae, quod, sicut genus, sic differentia aequaliter ad indiniduum
praedicatur. Nam si Cicero animal est, quod est genus, et rationale avimal est.
Quod est differentia. Congruunt etiam, quod de numero differentibus praedicantur,
quod ƿ superius de aliis monstratum est. Distant autem quod, sicut dictum est,
genus in eo quod quid sit appellatur, differentia vero vel accidentia in eo
quod quale sit praedicantur. Nam si dicas: quid est homo? Appellabis genus et
dicis animal esse hominem, si vero qualis sit ad differentiam interrogaveris,
rationale respondebis, vel <ad> accidens, nigrum vel album vel qualis
quisque sit de quo interrogatur. His igitur distributis distantias ipsas a
primordio rursus orditur dicens: UNDE HOC QUOD DE PLURIBUS PRAEDICATUR
GENUS DISTAT AB HIS QUAE DE SINGULIS PRAEDICANTUR, HOC EST AB INDIVIDUIS; ILLO
QUOD DE SPECIE DIFFERENTIBUS PRAEDICATUR, DISTAT AB SPECIEBUS ET A PROPRIIS;
ILLO ETIAM IN QUO QUID SIT APPELLATUR, SECERNITUR A DIFFERENTIIS ET A COMMUNITER
ACCIDENTIBUS, QUOD HAEC DUO QUALE QUID SIT DECLARANT. Hoc dicit distare
genus ab individuis, quod genus de pluribus, ut dictum est, praedicatur.
Colligit autem et in unum redigit proprii specieique differentias. Nam quoniam
species de pluribus non specie sed numero differentibus praedicatur, proprium
vero de una tantum specie et de his quae sub eadem specie sunt individuis
praedicatur, quamvis de una specie praedicetur, tamen aequa est illi cum specie
a genere differentia de pluribus specie differentibus non praedicari. Nam neque
species omnino de speciebus aliquibus poterit praedicari ƿ neque proprium,
quoniam proprium non de pluribus speciebus sed de una tantum cuius est specie
praedicatur. Quod si ita est, una differentia a genere species et propria
seiunguntur accidens vero et differentia eadem quoque una a genere differentia
separantur, quod genus in eo quod quid sit dicitur, differentia vero vel
accidentia in eo quod quale appellantur. Has Porphyrius ad constituendam
generis rationem differentias quam parcissime potest colligit et ipsas
differentias multis modis posterius probaturus, nunc vero quantum sat est dicit
se <neque deminutam neque> abundantem generis constituisse rationem hoc
dicens: HOC SI ITA EST, NULLO MINUS AUT PLUS EFFECTA EST GENERIS
DEFINITIO. Perfectam plenamque se generis definitionem fecisse dicit,
quoniam neque plus neque minus facta sit definitio sed aequaliter ad genus
pariterque composita. Quod unde sit, hoc modo monstrandum est. Novimus quod
quaedam res quae ad alia praedicantur, his de quibus praedicantur, abundant, ut
genera et species. Namque animal, quod genus est, de homine, quod est species,
hoc abundat, quod nomen generis etiam in equum atque bovem atque in alia valet
aptari. Ergo si quis ad quamlibet rem abun dantem fecerit maioremque
definitionem quam ipsa res fuerit quam definit, non erit integra propriaque
definitio, quoniam non solum illam rem amplectitur quam definit, ƿ si maior
fuerit definitio sed etiam alias quascumque res, quibus ipsius definitionis
terminus abundabit. maiorum igitur praedicamentorum maior erit definitio,
minorum vero minor erit etiam definitio; animal ergo, quod maius est, ita
definiunt: animal est substantia animata sensibilis, hominem vero, quod ab
animali minus est, ita definiunt: animal rationale, mortale, risus et
disciplinae perceptibile quoniam maius est animal ab homine, maior etiam erit
animalis definitio ab hominis definitione. Plus enim erit dicere 'substantia
animata sensibilis' quam 'animal rationale et mortale'. Nam substantia animata
sensibilis, sicut ipsum animal, non solum hominem complectitur sed etiam equum
vel bovem atque alias huiusmodi species. Si quis ergo ad hominem maiorem
definitionem aptaverit, quae est animalis, ut ita definiat hominem: homo est
substantia animata sensibilis, non est plena definitionis ratio, cum equus
atque bos substantia animata atque sensibilis esse possint, quae species
hominis non sunt. Si quis vero maiori rei minorem definitionem aptaverit,
curtam et deminutam quodammodo faciet rationem. Nam si quis animal definire
volens dicat: animal est res rationalis, risus et disciplinae perceptibilis,
non erit integra definitio, quoniam sunt quaedam animalia quae istius
definitionis rationem subterfugere atque euadere possunt. Est enim animal bos,
quod neque rationale sit neque risus perceptibile. Sola igitur relinquuntur
bene definiri quaecumque aequalibus definitionibus constituuntur. Ubi autem
aequalis definitio sit, hoc modo possumus reperire. Praedicamenta quaecumque
fuerint, si maius praedicamentum de minore aliquo praedicatur, converti non
potest, ut minus de maiore praedicetur. Semper enim maiora de minoribus,
numquam minora ƿ de maioribus praedicantur. Nam si quis dicat hominem esse
animal, non poterit convertere animal esse hominem. Nam homo nihil aliud,
quantum ad genus, nisi animal est, animal, quantum ad species, potest esse
etiam non homo. Paria vero praedicamenta semper sibi ipsa invicem convertuntur.
Nam quoniam risibile solius est hominis, risibile ad hominem praedicatum etiam
converti potest, ut homo ad risibile praedicetur dicitur enim: quid est homo?
Risibile. Quid est risibile? Homo. Ergo quascumque definitiones convertere
potes, illae verae atque pares sunt, quascumque vero convertere non potes, aut
maiores sunt aut minores, pares inveniri non possunt. Nam si dicas hominem
substantiam esse animatam atque sensibilem, verum est. Item si convertas et
dicas substantiam animatam atque sensibilem esse hominem, non omnino verum
dixeris potest enim et substantia animata esse atque sensibilis et homo non
esse. Item si dixeris rem rationalem, mortalem, risus et disciplinae capacem
esse animal, verum dixeris. Si autem dicas atque convertas animal esse rem
rationalem mortalem, risus et disciplinae perceptibilem, non omnino verum
dixeris. Potest enim esse animal et non esse rationale et risus capax. Ergo
quotiens est maior definitio quam id quod definitur si prius dicitur id quod
definitur et maior definitio adhibetur vera esse poterit definitio. Si enim
prius dixeris hominem, rem minorem, et ad ipsum posterius adbibueris
definitionem maiorem, ut prius dicas 'homo est', et post subiungas 'substantia
ƿ animata sensibilis', verum est. Homo enim necessario est substantia animata
sensibilis. Si vero prius dixeris definitionem et postea dixeris id quod definies,
vera esse non omnino potest. Nam si definitionem maiorem prius dixeris dicens
'substantia animata sensibilis' et postea rem minorem intuleris, ut dicas 'homo
est', ut sit 'substantia animata sensibilis homo est', non omnino verum est.
Potest enim esse et substantia animata sensibilis, non tamen homo. At vero
si minor fuerit definitio quam illa ipsa res quae definitur, si prius dicta sit
definitio, vera est, posterius, falsa. Nam si dixeris definitionem quae est
minor 'res rationalis, mortalis, risus et disciplinae capax' et post intuleris
'animal est', ut sit 'res rationalis, mortalis, risus et disciplinae capax
animal est', vera est. Omnis enim res quae rationalis et mortalis est et risus
et disciplinae capax, necessario animal est. At vero si converteris et rem
maiorem prius dixeris, post vero minorem definitionem adhibueris, vera omnino
esse non potest. Nam si dicas prius 'animal est', postea autem iunxeris 'res
rationalis, mortalis, risus et disciplinae perceptibilis', non omnino verum
est. Potest enim esse animal et rationale vel mortale non esse. Itaque si maior
est definitio quam res fuerit, si prius rem dixeris, postea definitionem
intuleris, vera est, si vero prius definitionem dixelis, post rem intuleris,
falsa est. In minoribus vero definitionibus et maioribus rebus contra ƿ est.
Nam si definitionem prius dixeris, postea rem subieceris vera est, si vero rem
prius dixeris, postea definitionem sub ieceris, vera omnino esse non potest. At
vero in aequalibus definitionibus converti aequaliter potest. Nam quoniam
solius hominis haec est definitio 'animal rationale, mortale, <risus et
disciplinae perceptibile>', aequalis est haec ad hominem definitio, quoniam
non est cui alii possit aptari. Itaque vel si prius rem dixeris, postea
definitionem subieceris, vera erit, ut est 'homo est animal rationale, mortale,
risus et disciplinae perceptibile', sin vero converteris et prius definitionem,
postea rem dixeris ut si dicas 'animal quod fuerit rationale, mortale, risus et
disciplinae perceptibile homo est', haec quoque vera est. Ita semper ut
definitiones verae sint, neque plus neque minus in defini tionibus oportet
aptari sed aequalitter definitiones convenienterque disponi. Quod Porphyrius
scilicet non ignorans ait se neque plus neque minus effecisse generis definitionem. Et
Fabius: Sequitur, inquit, te de specie disputare. ÑDic, inquam, quid sequitur?
ÑEt Fabius: Hic, ut opinor, ordo est: SPECIES QUOQUE MULTIS DICITUR MODIS.
NAM ET UNIUSCUIUSQUE HOMINIS FORMA SPECIES APPELLATUR. RURSUS IGITUR ET PULCHRITUDO
UULTUS, UNDE PULCHERRIMOS QUOSQUE SPECIOSOS DICIMUS. DICITUR SPECIES ET EA QUAE
ƿ SUPPOSITA EST GENERI, UNDE ANIMALIS SPECIEM APPELLAMUS, CUM ANIMAL IPSUM
GENUS SIT, ET ALBUM COLORIS SPECIEM. Tunc ego: Speciei quoque nomen sicut
generis aequivocum puta. Nam et hoc quoque multifariam appellari designat.
Dicitur enim, inquit, species et figura corporis et fortasse alia plura. De
quibus quoniam nullus tractatus habebatur, iure praetermissa sunt. Hic tamen a
Victorino videtur erratum, quod cum idem sit cuiuscumque hominis species et
uultus, quasi in alia appellatione speciei uultus iterum pulchritudinem dixit,
quasi vero non proinde pulchlitudo uultus sit ac tota species fuerit; nam si
quispiam pulcher fuerit toto corpore, etiam uultu. Sed praemissis his ad illam
speciem quae sub genere ponitur atque genus efficit veniamus. Namque, ut dictum
est, substantiae ipsae nullo speciei nomine generisue censentur, nisi quadam ad
se invicem collatione sint comparationeque compositae. Nam quod animal est, non
idcirco est genus, quoniam animal est sed idcirco, quod hominis sub se atque
equi et caeterorum animantium species habet. Atque idcirco ait: UNDE ANIMALIS
SPECIEM APPELLAMUS, CUM ANIMAL IPSUM GENUS SIT; neque enim homo species
diceretur, si super ipsum animalis appellatio non praedicaretur. Sed ut
monstraret non in unis solis substantiis genera speciesque versari sed etiam in
omnium praedicamentorum nuncupationibus ƿ esse conexa, non solius substantiae
dedit exemplum sed etiam eius quod reliquum remanserat, accidentis. Quid enim
ait et album coloris speciem: quae sunt in accidentis divisione qualitatis. Sed
quoniam inter se quaedam conexio est et talis comparatio atque relatio, ut
praeter ad se invicem latitudinem genera et species esse non possint -- nihil
enim in eorum definitionibus concludi potest, nisi ad alterutrum nominata sint;
nam si substantia generis specie supposita species vero genere superposito et
ad ipsam praedicato perficitur, non est dubium quin cum genus definire necesse
it iure speciem, et cum speciem, iure nobis genus praedicare necesse sit --
haec igitur etiam in generis subscriptione servatur distinctio, cum generis
definitio habita est. Hoc enim dictum est tunc, esse genus quod ad distantes
species diceretur, nunc vero dicendum est id esse speciem quae sub genere
ponitur. Sed multiplex eius definitio haberi potest. Potest enim rursus dici id
esse speciem, ad quam genus in eo quod quid sit praedicatur. Quae res utraeque
id significant, speciem poni sub genere. Nam prima quidem definitia id aperte
designat, secunda vero talis est: quoniam semper ƿ maioribus minora
supponuntur, genus ab eo, ad quod in eo quod quid sit praedicatur, maius esse
non dubium est. Quod si ita est, nullus est obscuritatis error, quin species
quae minor est, maiori sibi generi supponatur. Nihil igitur haec secunda
definitionis significatio a priore differt; si enim species sub genere non
poneretur, genus ad speciem in eo quod quid sit non praedicaretur. Tertia vero
definitio speciei integra ratione collecta est et ipsius speciei vim naturamque
demonstrat. Dicit enim speciem esse quae ad plurima numero differentia in eo
quod quid sit praedicatur. Quae definitio etiam ex superiore genere debuit esse
planissima sed ego nunc quantum castigata permittit brevitas explicabo. Sed
prius de ipsis generibus speciebusque pauca dicenda sunt. Cum sint quaedam
genera quae species habeant atque ipsa aliis generibus species esse possint,
non est dubium ea gemina comparationis habitudine fungi, ut ad alia species, ad
alia genera nominentur. Sed si in uno filo atque ordine speculemur et
quodcumque genus alicuius rei repertum sit, eius rursus genus aliud requiramus
et rursus aliud atque aliud iterum, si nihil sit quod intellectus ratione
consistat, inesplicabilis ratio interminabilisque tractabitur. Sed quoniam
nulla sunt in his scientiae fundamenta quae nulla consideratione animi in
infinitum procedentia concluduntur, dicendum necessario est posse nos
ascendentes usque ad tale aliquid pervenire cuius, cum ipsum caeteris genus
sit, ƿ aliud genus invenire non possumus, quod genus primum et magis genus et
generalissimum nuncupetur. Sed si hoc in genere contingit, ut ascendentes
alicubi consistamus, non est dubium quin descendentes iterum per species ad
aliquem quodammodo calcem offenso termino consistamus. Igitur cum
descendentes per species usque ad illam speciem venerimus quae sub se species
nullas habet, illam speciem ultimam speciem et magis speciem et specialissimam
nuncupemus. Sed quoniam species aliquorum est continens, si aliquorum specie
differentiam continens esset, non magis species sed genus merito vocaretur. Sed
quoniam continet et non specie differentes res continet, similes necesse est
sibi contineat pluralitates. Sed si continet pluralitatem et maius semper est
id quod continet quam id quod continetur, de pluralitate illa species
praedicabitur. Appellabitur igitur species de pluribus rebus numero
differentibus in eo quod quid sit. Species enim cum appellatur de
subterioribus, superiorem speciem substantiamque declarat nam cum dicimus: quid
est Cicero? Homo continuo respondetur. Cum ergo tribus modis speciei facta sit
definitio, superiores duae non tantum sunt speciei sed etiam subalternae
speciei, quae et ipsa genus. generalissimum substantia et sub ea corpus
animatum, sub animato corpore animal et sub animali ƿ homo, sub homine
individua. Sed hanc divisionem plenius posterius exequemur, nunc autem hoc
nobis tantum sufficit. Substantia igitur magis genus est, homo magis species,
ita ut neque substantia species aliquando esse possit nec homo genus. Corpus
vero animatum vel animal ad superiora species, ad subteriora genera
nominantur. Si quis ergo corpus animatum vel animal vel hominem velit
exprimere et dicat: SPECIES EST QUOD PONITUR SUB GENERE ET AD QUAM GENUS IN EO
QUOD QUID SIT PRAEDICATUR, haec definitio et magis speciem, id est hominem, et
subalternam speciem continet, id est corpus animatum vel animal. Nam corpus
animatum et animal et homo sub genere sunt posita, et ad eas omnes in eo quod
quid sit appellatur, ut dictum est. Si quis vero illam speciem definitione
monstrare velit quae vere species est, id est specialissimam speciem, quae
tantum species, numquam et genus sit, hoc modo definiet, speciem esse quae ad
plurimas res numero differentes in eo quod quid sit praedicetur. Sed haec
definitio subalternis speciebus numquam conveniet. Illae enim quae subalternae
sunt species, possunt etiam pro generibus accipi, si ad subiecta praedicentur.
Quodsi possunt pro genelibus accipi, cum pro generibus acceptae fuerint, non
tantum ad plurimas res numero differentes praedicabuntur sed etiam ad plurimas
res specie differentes, quippe cum sint genera. Sed quia hoc in magis speciebus
non evenit, ut aliquando de specie differentibus praedicentur, haec definitio
posterior solius magis speciei definitio est et eam caeterae subalternae
species excludunt atque reiciunt. Quod Porphyrius ita demonstrat: SED HAEC
DEFINITIO EIUS SPECIEI EST QUAE MAGIS SPECIES DICITUR, ALIAE VERO DEFINITIONES
ERUNT ETIAM ILLARUM QUAE NON SUNT MAGIS SPECIES. Horum ergo ipsam subscriptionem
demonstrationemque clarius se ipsum dicere promittit cum dicit: MANIFESTIUS
AUTEM FIET HOC QUOD DICIMUS HOC MODO. IN OMNIBUS PRAEDICAMENTIS SUNT QUAEDAM
MAGIS GENERUM ET MAGIS SPECIERUM, SUNT ALIA MIXTA. MAGIS GENERA SUNT SUPRA QUAE
NULLUM ALIUD GENUS POTERIT INVENIRI, MAGIS SPECIES RURSUS, SUB QUA NULLA
SPECIES REPERITUR. HORUM INTERUALLA QUAE POSSIDENT, ET GENERA ET SPECIES SUNT,
SINGULA SUPERIORIBUS INFERIORIBUSQUE COLLATA, UT ALTERI GENUS, ALTERI SPECIES
APPELLENTUR Huiusmodi sunt, inquit, quaedam quorum genera inveniri non possunt,
haecque ipsa merito magis genera nominantur, quoniam maius ipsorum aliquid
inveniri non potest. Nam si ista sunt genera, genus autem omnibus sub se
positis maius est, quorum genus nullum est, nihil eorum maius poterit reperiri.
At quorum genus nihil poterit inveniri, merito ipsa magis genera vocitantur.
Sunt autem quaedam alia quae magis spe cies appellentur, sub quibus non aliae
species locatae sunt. nam plus videtur esse species ea et integrior vere
species est ƿ quae genus numquam est quam ea quae aliquando genus esse potest.
Quodsi verior species est quae sola species, numquam genus est, merito magis
species appellata est. Igitur inter magis speciem et magis genus quod est
interuallum, subalterna genera et subalternae species impleuerunt. Nam
subalterna vocamus quaecumque ad superiora species, ad inferiora pro generibus
accipiuntur, idcirco quoniam, si omnes res ad inferiora componas, genera, si ad
superiora, species, et si ad superiora et inferiora eadem ducas, genera et
species invenientur. Atque ideo subalterna genera et species nominata
sunt, quod filo quodam atque ordine ad inferiora composita genera et ad
superiora species agnoscuntur. Sed haec ita genera speciesque esse possunt, non
ut cui genus est, eidem iterum velut species supponatur. Nam si, ut prius
ostensum est, specie sua maius est genus, non est dubium quin maior res sub
minore poni non possit. Atque ideo ait ut alteri genus, alteri species
appellentur, quod nequaquam eandem rem et genus esse et speciem conveniret. Dat
igitur huius rei exemplum, quo quod dicit, facilius possit agnosci. Facit
igitur hanc divisionem. Ponit substantiam magis genus, supponitur substantiae
corpus et incorporeum, corpori animatum corpus et inanimatum, animato corpori
animal sensibile et insensibile -- ut sunt ostrea vel conchilia vel echini vel
arbores et alia huiusoemodi, quae vivendi animam habent, non etiam sentiendi --
sub animali animal rationale et irrationale, sub rationali mortale et
inmortale, sub mortali hominem, gub homine singulos homines, hoc est corpora
individua, Ciceronem et Virgilium scilicet et eos ƿ qui iam in partes sunt
singuli. Substantia ergo quae prior est magis generis accipitur loco; genus
enim solum, non etiam species est, quod numquam eius genus superius invenitur.
Homo vero solum species est, nullas enim alias species sub se cohercet; singuli
enim homines non specie, ut dictum est, numero differunt. Corpus vero, quod
pridem sub genere posuimus, id est substantia, ad substantiam quidem species,
ad animatum corpus genus accipitur. Animatum autem corpus ad corpus species
est, ad animal genus, animal autem ad animatum corpus species videtur, ad
rationale animal genus. Rationale item animal mortalis genus est, species
animalis. Mortale autem genus hominis est, species rationalis animalis. Homo
autem quod super individua est, nihil de generis natura sortitus est sed tantum
sola species appellatur. Sed hanc divisionem sicubi in aliis rebus
transferri et aptari placeat, ita considerandum est, ut quicquid fuerit cuius
genus inveniri non potest, magis id genus appelletur et quicquid cuius nulla
species fuerit, id est ut super individua collocetur, illam magis speciem esse.
Oportet enim, si quod genus sit. Super differentes specie res poni, quod autem
magis species non super specie res differentes ponitur, numquam digne genus
poterit appellari. Ergo quemadmodum quod ƿ superius genus super se nullum genus
habet, magis genus dicitur, ita et species quae sub se species non habet sed
tantum individua, merito magis species appellatur. Illa autem quae in medio
posita sunt, non eiusdem sunt habitudinis. Nam quoniam species esse possunt,
non sunt magis genera, et quoniam genera possunt esse, idcirco numquam magis
species praedicantur. Nam illis quae supersunt, species sunt, illis vero quae
subsunt, loco generis praeponuntur. Cum igitur duae formae sint omnium
rerum, aut ut genera praeponantur aut ut species supponantur, summitates, id
est generalissimum genus et specialissima species, singulas tantum continent
habitudines, illud, ut tantum genus, numquam species videatur, illud, ut sola
species, numquam etiam genus appelletur. Subalterna vero, quae media sunt, duas
formas habent, id est utrasque. Namque, ut frequentius inculcatum est, et
generis quodammodo parentelam et speciei derivationem sortita sunt. Nec hoc
fortasse nos turbet, quod species specialissima habet sub se aliquid. Namque
homo cum sit magis species, habet sub se singulos homines. Haec enim quamvis
individuis supersit, numquam formam specialitatis inmutat. Cum enim sub se
individua habeat, quod ea contineat quae sub una specie sint et nulla
substantiae proprietate discrepent, species eorum vocatur quae continet. Ita
homo et animalis species dicitur, quia continetur, et hominum singulorum
species est, quia eos continet qui nulla umquam specie discrepabunt. Definitio
ergo magis generum magisque specierum talis est: magis genus ƿ esse dicitur
quod genus semper sit, numquam species, et quo superius nullum genus sit;
rursus magis species est quae semper species sit, tumquam genus, et iterum,
quae numquam dividitur in species et quae ad plurima numero differentia in eo
quod quid sit praedicatur. Illa vero alia, ut saepe dictum est, et genera et
species esse possunt, superioribus scilicet inferioribusque collata. Hoc autem
attentissime respiciendum est, quod in diversis longe nationibus in eo genere
ubi ex sanguine aliqua cognatio deducitur, diversarum cognationum gens ad unum
caput generis duci potest. Nam quoniam Romani a Romulo sunt, Romulus autem a
Marte, Mars a Iove, poterit gens Romanorum ad Iovem duci. Item quoniam
Athenienses a Minerua, Minerua a Iove, potest Atheniensium gens ad eundem Iovem
duci. Item quoniam Persae a Sole, Sol autem a Iove, possunt Persae quoque ad
eundem Iovem velut ad originem propriam deduci. Ita diversissimae gentes ad
unius cognationem erigi possunt, quod idem speciebus generibusque non fit.
Numquam enim diversa genera sub uno genere poterunt accommodari. Aristoteles
enim primorum generum decem praedicamenta constituit, quae velut aliquis fons,
ita subterioribus omnibus ortum quodammodo nationemque profuderint. Haec igitur
decem genera quoniam generalissima sunt et superius eis nullum inveniri genus
potest, ad unum genus reduci non poterunt. Quodsi decem genera prima ad unum
genus ƿ reduci non poterunt, nec illa quae sunt sub eisdem generibus, id est
species subalternaque genera, ad unum genus aliquando poterunt applicari. Nam
si prima eorum genera ad unum superius duci non possunt, non est dubium quin ea
ipsa quae sub ipsis sunt, ab uno genere coherceri continerique non patiantur.
Nam si substantia, qualitas et quantitas et caetera sub alio communi genere
poni non possunt, quod ipsa magis sunt genera, nec quicquid sub substantia
fuerit, id est sub eodem genere, ut animal vel homo, vel item sub qualitate vel
quantitate, ad aliquod genus commune se poterunt applicare. Numquam enim
inveniri genus poterit quod haec decem genera solitario et proprio intellectu
intra se possit velut species continere. At dicat quis haec omnia decem genera
si vere sunt subsistentia, quodammodo vel entia dici posse. Flexus enim hic
sermo est ab eo quod est esse, et in participii abusionem tractum est propter
angustationem linguae Latinae compressionemque haec igitur, ut dictum est,
entia poterunt appellari, et ens hoc ipsum, id est esse, genus eorum fortasse
dici videbitur. Sed falso. Namque omnia quae inter se aequivoce nominantur,
numquam eiusdem continentiam generis sortiuntur, quippe quorum substantia
discrepat, non est dubium quin generis quoque ipsius definitio discrepabit;
haec autem ut entia nominentur, non univoce sed aequivoce praedicantur. Nam
quoniam substantia ens est et item qualitas ens, <sed> si quis rationem
definitionemque qualitatis dixerit, ƿ eadem natura utriusque non poterit
convenire, non est dubium quin substantia et qualitas non univoce sed aequivoce
praedicentur. Quodsi aequivoce praedicantur, sub eiusdem generis fonte poni non
poteront. Non est igitur in generibus speciebusque aliquod genus solum quod
possit diversa remm genera cohercere. Tunc Fabius: Abundanter haec,
inquit, omnia, et de his ipsis rebus frequentius inculcatum est. Sed perge ad
sequentia. Faciam, inquam. Haec enim, ut arbitror, secuntur: ERGO DECEM
GENERA CONSTITUIT ARISTOTELES IN PRAEDICAMENTIS QUAE MAGIS GENERA SUNT, AT VERO
ILLAE QUAE MAGIS SPECIES SUNT, SEMPER IN PLURIMO QUIDEM NUMERO SUNT, NON TAMEN
IN INFINITO. AT INDIVIDUA QUAE SUB MAGIS SPECIEBUS SUNT, INFINITA SUNT
SEMPER. Hoc enim dicere vult quod multo plures species sunt quam genera;
habet enim genus sub se plurimas species. Et quoniam decem genera rerum omnium
prima sunt, species specialissimae non solum decem sunt sed plures, non tamen
infinitae individua vero quae sub magis speciebus sunt, infinita sunt et eorum
intellegentia nulla umquam capi potest. Quae enim infinita sunt, nullo
scientiae termino concluduntur. Igitur omnis nobis divisio omnisque scientia a
magis generibus per subalterna genera usque ad magis species deducatur; ibi
enim consistentes integram, superiorum scientiam capere possumus ac retinere.
Si quis autem individua velit scientia disciplinaque comprehendere, frustra
laborat sed ita iubemur a magis generibus ƿ usque ad magis species per media
interualla decurrere, ut specificis differentiis dividentes subalterna genera a
magis generibus usque ad magis species descendamus. Specificae autem
differentiae sunt quae speciem quamcumque declarant. Declaratur autem species
differentiis hoc modo. Si quis enim dicat substantiam, ut ponat sub substantia
corpus, sub corpore animatum corpus, sub animato corpore animal, sub animali
rationale, sub rationali mortale, has omnes species, quae sunt substantiae, cum
pro differentiis posuerit, hominis scilicet species informabitur. Nam corpus
animatum ab inanimato corpore differentia est, porro autem animal ab
insensibilibus et rationale ab irrationalibus et mortale ab immortalibus
differentiae sunt. Haec igitur omnia cum iunxeris, unam speciem declarabis, id
est hominem. Nam cum dicis corpus animatum, animal rationale et mortale, quae
scilicet differentiae in subalterno ordine sibi suppositae sunt, hominem
demonstrasti. Sunt autem quaedam aliae differentiae, quae tales sunt ac si
dicas animal rhetoricum, quod solus homo rhetor esse possit. Sed haec
differentia non specifica differentia est et substantiam hominis naturamque non
perficit sed tantum artem quandam scientiamque esse commendat. Illae igitur in
divisionibus differentiae speciesque prosunt ex quibus illa quae dicitur magis
species informatur, et haec vocatur specifica differentia quae magis speciem
possit efficere. Ergo cum per haec descensum fuerit ad magis species,
relinquenda sunt sub magis speciebus individua nec eorum aliqua scientia
requirenda. Nam illa non ƿ solum infinita sunt sed etiam quaecumque in sese
continverint infinita fiunt. Rhetorica enim species est sed cum venerit in
singulos homines, tunc per singulos et infinitos divisa singula etiam fiet et
infinita. Si enim omnes quicumque sunt vel fuere numerentur rhetores, nullus
umquam huiusce numerationis finis erit, cum praesertim etiam per infinita
tempora in futurum singuli homines rhetores esse possint. Hic Fabius: Hoc
igitur, inquit, erat quod ait: PORRO AUTEM VEL ARTIUM VEL DISCIPLINARUM CUM
INDIVIDUA PER HOMINES SINGULOS ESSE COEPERINT, RATIONEM AD PERCIPIENDUM CAPERE
VEL HABERE OMNINO NON POSSUNT. Et ego: Hoc, inquam, est quod 'cum artes
vel disciplinae quae in sua specie una ante collecta fuerant, in individua
venerint', id est per singulos homines in infinitam multitudinem
innumerabilemque sese dispertiunt; hoc autem idcirco evenit, quod haec eadem
ratio est quam Porphyrius ipse dicere non neglexit. Genus enim cum unum sit,
plurimarum specierum progenitivum est; namque sub uno genere plures species
inveniuntur. Idcirco species genus illud unde profluunt. In plurima segregant
atque dispertiunt. Genus autem plurimas colligit res, sicut ipsum a plurimis
iterum speciebus dividitur. Namque homo, coruus et equus, quae sunt species,
quantum ad animal aequaliter animalia sunt. Ita nomen animalis omnes suas
species intra se continet. Quodsi et in homine animalis ƿ nomen est et in coruo
et in equo, non est dubium quoniam illud genus quod sub se ipsum ea continet,
species divisae inter se dividant multiplicentque. Colligit igitur genus
species in se, species vero genus ipsum suapte natura dispertiunt. Est igitur
genus collectivum specierum suarum et quodammodo adunativum, species vero
divisivae generis et quodammodo multiplicativae. Igitur quicumque ad magis
genera ascendit, omnem specierum multitudinem per genera colligit adunatque.
Cum vero a magis generibus usque ad magis species decurritur, omnis unitas
generum superiorum in multifidas ramosasque species segregabitur. Quod autem
ait multitudo capieuda, proinde est ac si diceret 'multitudo facienda' est; nam
cum dividis genus in species, easdem species multas esse accipis, quas tu idem
fecisti. Species quoque ab hac generis adunatione ac quodammodo collectione non
discrepant. Namque et ipsae infinitatem individuorum ad unam reuocant formam.
Singulorum enim hominum species, quae est homo, collectiva est hoc modo. Ad
hominis enim speciem cuncti singuli homines unus homo sumus, id est prima
species quae nos continet cohercetque. Porro autem ipsa species in nos multos
scissa dividitur. Omne enim quod singulum est atque individuum, illud unde
nascitur dividit, omne quod non est singulum atque individuum sed dividi
potest, non ipsum magis dividit subteriora quam colligit. His igitur expeditis
constat genus plurimarum esse specierum genus et speciem plurima sub se
individua cohercere. Nam si qua sunt subteriora, illa quae sunt superiora
dispertiunt et in multitudinem dissipant dividuntque; quare non est dubium quin
superiora semper inferioribus pauciora sunt. Praedicamenta vero aliud de alio
vel ad se invicem quae torquentur, hoc modo sunt. Omnis enim res alia aut maior
erit aut minor aut aequa. Omne quod est maius, de minore poterit praedicari;
nam cum animal sit maius ab homine, poterit animal de homine praedicari. Minus
vero de maiore non dicitur: nam quoniam animal est et homo et equus, ad animal
hominem si praedicare volueris, tantum haec convenit praedicatio, quantum
convenit animalis partem esse super hominem. Age enim, converte et dic hoc esse
animal quod hominem: quantum igitur pars est animalis, quae hominis speciem
contineat, tantum animal homo est. In illis autem aliis partibus animalis quae
aliud continent quam est species hominis, hominis appellatio non
convenit. Nam si dicas 'animal hoc est quod homo', in illa parte in qua
equus est animal et coruus, ista talis praedicatio non aptatur atque ideo
universaliter non convertuntur. Nam si dicis 'omnis homo animal', verum est, si
dixeris 'omne animal homo', falsum est. Quodsi maiora de minoribus idcirco
praedicantur, quia omne minus in se continent, et minora de maioribus idcirco
non praedicantur, quia maiora minoris definitionem superuadunt et ƿ quodammodo
exsuperant. Non est dubium quin illa quae sunt aequalia, sibi possint ipsa
converti. Aequalia autem illa sunt quae neque minora neque maiora sunt, id est,
ut si in quamlibet speciem apponantur, et omni illi speciei adsint et nulli
alii; nam omnis homo risibile est et nulla alia species risibili potest proprio
nuncupari, atque ideo quoniam aequalia sunt, convertuntur. Dicis enim: quid est
homo? Risibile. Quid est risibile? Homo. Et item: quid est hinnibile? Equus.
Quid est equus? Hinnibile. Quodsi semper maiora de minoribus praedicuntur,
superiora necesse est genera esse et omnia subalterna minora fiunt. Quodsi
subalterna omnia minora sunt, non est dubium quin, si quis per subdivisionem
descendat ad ultimam speciem. Quodcumque genus de vicinis sibi praedicabitur,
etiam de subalternis. Namque substantia habet sibi vicinum ad subteriora genus,
ad se vero speciem, quod est corpus; de hoc igitur substantia praedicatur. Si
quis enim interroget: quid est corpus? Dicitur substantia. Sub corpore vero est
animatum corpus et sub eo animal ergo quoniam substantia idcirco praedicatur de
corpore. Quia illi est superior, necesse est, quibus corpus superius fuerit,
eisdem etiam sit substantia superiol. Nam si corpus praedicatur de animato corpore
et de animali, praedicabitur etiam substantia de animato corpore et de animali.
Sic igitur quaecumque superiora fuerint, de subterioribus non solum sibi
vicinis sed etiam longe subterioribus praedicantur. Nam si maiora sunt his quae
sibi vicinae sunt speciebus, multo maiora erunt etiam illis quibus ƿ illae
vicinae species fuerint ampliores. Ergo de quibuscumque species
praedicatur, de ipsis praedicabitur et illius speciei genus. Nam si species
aliqua alicui maior est, multo genus speciei ipsius illa re qua species maior
est, maius erit. Atque ita ad id praedicabitur, quemadmodum ipsa species antea
praedicata est. Quod si ita est, non est dubium genus quoque generis illius
quod ad illud ad quod species praedicabatur, poterat praedicari, etiam id,
quoque de eo <ad> quod species et genus speciei praedicabatur, praedicari
posse. Nam si quis dicat Ciceronem esse hominem, cum animal hominis genus sit,
non erit absurdum Ciceronem animal praedicari. Et cum animalis ipsius
substantia genus sit, non erit inconveniens Ciceronem substantiam praedicari,
quoniam quae supersunt, de subterioribus praedicantor et ea quae subteriora
sunt, si qua alia sibi subteriora habeant, illud primum genus habebunt etiam
ista subteriora et de his non inconvenienter praedicabitur. Igitur species de
individuo praedicatur ut maius, magis genus vero de omnibus subalternis et de
magis specie praedicatur. Aequo enim modo dicitur et corpus substantia et
animatum corpus substantia et sensibile corpus substantia et rationale animal
substantia et mortale substantia et homo substantia. Et de ipsis etiam magis
genus individuis praedicatur. Potest enim Cicero dici substantia, species vero
sola de nullis aliis nisi de individuis praedicatur, ut dictum est, individua
autem ipsa de nullo alio praedicantur nisi de ipsis, id est singulis. Natura
autem individuorum haec est, quod ƿ proprietates individuorum in solis singulis
individuis constant et in nullis aliis transferuntur atque ideo de nullis aliis
praedicantur. Ciceronis enim proprietas cuiuslibet modi fuerit, neque in
Catonem neque in Brutum neque in Catulum aliquando conveniet. At vero
proprietates hominis quae sunt idem quod est rationale, mortale,
<sensibile>, risibile, in pluribus et in omnibus individuis possunt et
singulis convenire. Omnis enim homo et singulatim individuus et rationalis est
et mortalis et sensibilis et risibilis. Atque ideo illa quorum proprietates
possunt <in> aliis convenire, possunt de aliis praedicari, haec autem
quorum proprietas in aliis non convenit, nisi ipsis tantum singulariter, de
aliquibus aliis praeter se singulariter praedicari non possunt. Repetendum
est igitur quod omne individuum specie continetur. Species vero ipsa cohercetur
a genere et ullum quasi omnium corpus magis genus est et numquam est pars,
individuum vero pars semper est, numquam est totum. Species autem et pars et
totum merito nuncupatur, nam ad genus pars est, ad individua totum: dividit
enim genus, ut dictum est, et individua colligit. Sed species pars est
alterius, id est generis, totum vero non est partis sed partium. Namque genus
unum est et plures species unius rei, id est unius generis species pars est. Et
quoniam individua plura sunt et infinita sub una specie, quae illa individua
colligit, species illa non est unius totum, id est non est partis totum sed
plurimorum, id est partium; plures enim partes ƿ sub ea individuorum sunt,
quarum totum species, id est homo appellatur. Sed de genere et specie
sufficienter dictum. Et quoniam matutinae salutationes vocant, in futuras
noctis vigilias quod est reliquum transferamus. Multa nobis a parente
natura excelsius quam caeteris animantibus gravia illustliaque concessa sunt.
Quae nos ita quasi quaedam benigna artifex hllmanitatis excoluit, ut primum
nobis reputandi considerandique animos rationemque concederet, post vero
ratione reperta proloquendi conferret usus iussissetque nos non corpolis
sensibus a beluis sed mentis divinitate distare. Quae cum se sibi adiunxerit et
a suae vivacitate naturae non discesserit, tunc vero sicut ipsa est aeterni
generis, ita quoque famam in posteros vitamque gloriae infinitissimis
temporibus coaequat. Sin vero se pravis libidinibus corporis obnoxilam
perdendam corrumpendamque permiserit, naturam corporis sequitur. Nam nihil eius
vivacitatis post corpora remanet cui omnis labor et studium de rebus corporis
atque in corpus impensum est. Quare annitendum est, ut nos meliores
curatioresque reddamus, non ea re qua pecudibus nihil distare possumus sed quo
caelestium virtutum similitudine aeternitatis gloriam factis egregiis dictisque
mereamur. Sed de his alias, nunc ad propositum reuertar. Cum igitur
alterius noctis consueta lucubratio vigiliaeque venissent, credo hesternae
rationis subtilitate captus vel qua ipse est cupiditate discendi audiendique
studio vigilantius quam umquam surrexerat, Fabius ad me perrexit. Qui postquam
consalutatus sequentis a me operis plomissam continuationem reposceret, Faciam,
inquam, non inuitus, quippe cum nec mihi sit in vita quicquam melius agere et
tu hanc mihi iucunditatem studio tuo augeas, quod mihi perquam glatissimum est.
Placuit igitur ut, quoniam hesterna dissertio speciem explicuerat, alterius
expositionis principium de sequenti differentia sumeretur. ÐHic Fabius:
Uberrime, inquit, a te hesternis vigiliis de generibus et speciebus expositum
est. Sed, ut dici audio, subtilior de differentiis tenuiorque tractatus est.
ÑNon, inquam, immerito. Nam varie acceptae differentiae varias babebunt etiam
potestates. Erunt namque alias genera, alias species, alias vero differentiae.
Sed hoc postea demonstrabitur, nunc nero ita, ut arbitror, textus
est: OMNIS DIFFERENTIA ET COMMUNITER ET PROPRIE ET MAGIS PROPRIE
DICITUR. Differentiam quoque, multis modis appellari designat. Dicit autem
tribus his modis fieri differentiam, cuius aut communes sunt aut propriae aut
magis propriae. Communes sunt quibus omnes aut ab aliis differimus aut a nobis
ipsis. Nam sedere vel ambulare vel stare differentia est; nam si tu ambules,
ego vero sedeam, in situ ipso atque ambulatione differimus. Et item ego cum
nunc sedeo, postea vero si ambulem, communi a me ipso differentia discrepabo.
Propriae vero sunt ƿ quae uniuscuiusque individui formam aliqua naturali
proprietate depingunt, ut si quis sit caecis oculis vel crispo capillo; etenim
propria uniuscuiusque singuli hominis sunt quoquomodo ista nascuntur. Magis
propriae sunt quae in substantia ipsa permanent et totam speciem differentia
descriptioneque permutant, ut est rationalis vel mortalis hominis differentia.
Harum autem communes et propriae differentiae sub eadem specie singulos a se
faciunt discrepare, illa propriis differentiis, illa communibus, magis propriae
vero totam naturam cuiuslibet speciei substantiamque permutant et ab aliis
speciebus segregant atque disiungunt. Harum ergo communes et propriae
differentiae, quoniam speciem non permutant sed formam quodammodo et
habitudinem solam faciunt discrepare, alteratum facere dicuntur, id est non
integrum alterum facere, id est non integre permutare sed quodammodo
discrepantiam distantiamque faciunt, atque ideo non vocantur alterum facientes,
id est permutantes sed magis alteratum, id est non integrum alterum facientes.
Illa vero tertia, id est magis propria, quoniam substantialis est et ipsius
speciei inserta naturae, alterum facit. Nam quoniam homo atque equus quantum ad
quod animalia erant, una illis erat substantia, veniens rationale disgregavit
omnino speciem et funditus alteram fecit. Ergo communes et propriae
differentiae alteratum facientes vocantur, magis propriae alterum facientes.
Constat igitur differentiarum alias facere alterum, alias alteratum. Illae quae
faciunt alterum, substantiales sunt et omnes naturam speciemque ƿ permutant et
specificae praedicantur; valent enim quamlibet speciem constituere et ab aliis
omnibus segregare et eius formam paturamque componere. Nam si dicas mortale et
rationale differentias et eas animali supponas, non est dubium quin hominis
speciem, facias et speciei huius sint perfectrices. Atque ideo specificae
nominantur, quod et permutant naturam et ipsam substantiam cuiuslibet illius
speciei constituunt illae vero aliae nihil aliud efficiunt nisi alteratum,
quippe cum aut proprietate quadam formae alius distet ab alio aut aliqua
habitudine et dispositione aliquid faciendi. Illa igitur magis propria
differentia, quam specificam nominamus, sola poterit in generis divisione
congruere. Etenim caeterae nihil ad substantiam sed ad quandam quodammodo
eiusdem similitudinis discrepantiam distantiamque ponuntur. Nihil enim in illis
praeter alteritatem solam reperire queas, quippe quae non constituunt species
sed constitutas iam et effectas magis propriis suis qualitatibus ipsae
discriminant. Quod autem dicit: REPETENTI NUNC A SUPERIORIBUS
DICENDUM EST DIFFERENTIARUM ALIAS ESSE SEPARABILES, ALIAS
INSEPARABILES. hoc est quod hic nunc divisio alia rursus assumitur. Nam
cum prius differentiam in tribus partibus separaret et postea tres illas in
duarum tantum namerum quantitatemque colligeret, ut alias alterum facientes
esse diceret, alias alterantes, ipsarum rursus trium tertia sumitur facienda
divisio. Dicit enim alias esse separabiles, alias vero inseparabiles, et sicut
in priore divisione alteratum facientes duae fuerant communes et propriae. Sola
vero magis propria remanserat quae alterum faciebat, eodem nunc etiam modo in
separabilibus et in inseparabilibus communis tantum separabilis differentia
est, aliae vero differentiae utraeque, ut caecitas oculorum vel flaua caesaries
vel corporis proceritas, quae sunt propriae differentiae, vel certe
rationabilitas vel mortalitas. Quae sunt magis propriae differentiae, possunt
numquam ab hominis specie segregari. Sedere vero vel currere, quae communes
sunt, separantur a singulis et item rursus adduntur. Earum vero quae sunt inse
pal abiles, aliae per se veniunt, aliae vero per accidens. Et illae quae per se
veniunt, a magis propriis manant, illae quae per accidens, a solis propriis
effunduntur. Et inseparabile accidens est quicquid per inseparabilem propriam
differentia unim cuique speciei contigerit. Sed quamquam propria et magis
propria inseparabiles differentiae sint, numquam tarnen illam superiorem formam
naturamque commutant. Nam magis propria semper alterum, propria vero solum
semper efficit alteratum. Huc accedit quod inseparabiles propriae possunt
alicui plus minusue contingere, inseparabiles magis propriae nec cumulis
intentionis augentur nec imminutione decrescunt. Potest enim alius procerior,
alius fuscior, deductioribus alius capillis, alius ƿ flavioribus nasci, quae
sunt inseparabiles propriae differentiae at vero magis propria, id est
rationale, neque plus neque minus admittit. Omnes enim homines in eo quod
homines sunt, aequaliter sunt rationales atque mortales. Nam si genus alicui
plus minusue esse posset genus, possent etiam differentiae vel intentione
crescere vel remissione decrescere. Nam quoniam animal non est plus homini quam
equo neque equo quam caeteris, et aequaliter subiectis omnibus genus est. Sic
specierum differentiae quas specificas appellamus, maius minusue non capiunt.
Nam si animal rationale mortale hominis definitio est et hominum nihilominus
singulorum, non est dubium quin haec definitio ad omnes homines singulos
aequaliter semper aptetur et nulli neque plus neque minus conveniat quod si ita
est, partes quoque totius definitionis, quae sunt differentiae, tales erunt, ut
nulli neque plus neque minus sed aequaliter semper et convenienter aptentur.
Partes autem huius definitionis sunt rationale et mortale. Rationale igitur et
mortale, quae sunt magis propriae differentiae, plus minusue non
capiunt. Ab hac igitur, id est separabilium inseparabiliumque
differentiarum divisione tribus modis differentias speculamur nam aut
separabiles sunt aut inseparabiles, inseparabilium vero aut per se veniunt aut
per accidens. Quae per se veniunt, aliae sunt quae genus dividunt, aliae quae
speciem informant atque constituunt. Sed de superioribus prius dictum est, nunc
autem de his quae genus dividunt et speciem constituunt. Disseramus. Omnis
quaecumque fit generum divisio in species, si earum specierum alia snbdivisio
fiat et a magis generibus ƿ per subalterna genera usque ad magis species
decurratur, gemina in his erit duplexque divisio. Namque si contrarias
specierum differentias respicias. Generum est divisio, si suba-ltemorum
generum, fit specierum constitutio. Si enim genus dividamus id est
sublstantiam, ut iam speciei disputatione e divisa est, et sit substantia, post
substantiam animatum corpus et inanimatum, sub animato corpore sensibile et
insensibile, sub sensihili, id est animali, rationale vel irrationale, sub
rationali mortale vel immortale, hae igitur differentiae eaedem species sunt,
si contra se ipsas in divisione respiciantur. Et dividunt genus hoc modo. Nam
quoniam sub substantia animatum corpus et inanimatum posuimus, si animatum
corpus contra inanimatum respicias, substantiam divisisti. Si vero subalterna
genera in ipsis differentiis aspicias, speciem constitues. Nam si animatum
corpus et quod sub ipso est sensibile corpus aspeseris, animal
respexisti. Item si rationalem differentiam contra hlrationalem acceperis,
genus quod est utrorumque, id est animal divisisti. Si vero sub eodem ordine
rationalem differentiam et mortalem accipias, hominis sine dubio speciem
demonstrasti. Ita hae differentiae alio modo acceptae fiunt generis
divisibiles, id est genera dividentes, alio vero modo fiunt constitutivae
specierum, id est quae species declarent atque constituant, nam si contrarias
differentias respexeris, divides genus, si vero subalternas, speciem
constitues. Differentiarum igitur vis et separabilium et inseparabilium
caeteras tres res, id est genus, speciem aceidensque sic retinet, ut permutata
comparatione per haec eadem ipsa etiam permutentur. Nam rationale et mortale
differentias si contra irrationale et immortale respexeris. Divisibiles sunt et
generis differentiae, sin vero idem ipsum rationale et mortale ad superiora
comparaveris, species erunt eius quod eas continet animalis. Si vero rationale
atque mortale ad subiectum hominem consideres, genera eius constitutivasque
differentias contemplabere. At vero de illis aliis inseparabilibus. Id est propriis,
cadunt differentiae inseparabilis accidentis. Inseparabile namque est accidens
caecitas oculorum et, nasi curuitas et alia huiusce modi. Et idem de
separabilibus accidentibus, id est de communibus. Separabile namque est
accidens vigilare, dormire et currere vel sedere. Quod autem dicit: SIC IGITUR
COMPOSITA SIT SUPER OMNIA SUBSTANTIA ET SINT EIUS DIFFERENTIAE DIVISIBILES
ANIMATUM ET INANIMATUM, contrarias differentias in species monstrat. Quod
autem dicit: HAEC DIFFERENTIA ANIMATA ATQUE SENSIBILIS SOCIATA SUBSTANTIAE
PERFICIET ANIMAL, constitutivas specierum diffetentias monstrat. Sic
igitur variis modis acceptae varias virtutes formasque sortitae sunt. Sed et
divisibiles et constitutivae utraeque specificae nominantur ƿ et in divisione
generum definitionibusque solae sunt utiles, caeterae vero inseparabiles per
accidens inutiles, et multo magis illae sunt inutiles quae separabili
differentia discretioneque formatae sunt. Has autem specificas differentias qui
de differentiarum definitione tractaverunt, tales esse declarant quibus species
a genere abundant. Quid autem sit, breviter explanandum est. Controversia est
utrum genus differentias specierum suarum in se habeat an minime, ut puta:
animal sub se habet species rationale et irrationale, id est hominem et verbi
gratia equum; rationabilitatem igitur et irrationabilitatem, id est hominis vel
equi differentias, quibus a se species sub animali positae differunt, utrum
habeat utrasque animal an non habeat. Nam si animal, quod genus est, neque
rationale neque immtionale est, species quae sub ipso sunt positae, istas
differentias non habebunt. Nam si genus istas differentias non habebit, unde
erunt speciebus differentiae, quibus a se ipsis differunt? Sed si quis dicat
esse in genere istas differentias, non enim haberent species, nisi prius genus
habuisset, aliud maius continget incommodum. Nam quoniam aeque sunt species
quae sub aliquo genere supponuntur, et aequaliter homo atque equus sub animali
genere ponuntur neque homo prius est neque equus sed uterque aequaliter animati
species nominantur. Igitur si rationale atque irrationale aequaliter sub
eodem genere sunt, ƿ erunt etiam uno tempore. Quodsi uno tempore et genus istas
differentias habet, ut genus suapte natura id est animal rationale sit et
irrationale, noo est dubium quod eadem res uno tempore duas contrarietates in
sese substantialiter retineat. Quod fieri nequit. Quid igitur? Dicendum est
quoniam genus actu quidem ipso, quod Graeci eineurgeian vocant, istas
differentias non habet, at vero potestate ab his ipsis differentiis, quas in
suas species fundit, non uacat. Quid autem sit actus et potestas, castigatius
explicandum est. tantum interest aotus a potestate, quantum homo ridens ab eo
qui ridere possit, non tamen rideat. Ille enim agit ipsam rem, ille tantum
potest, non etiam agit. Sic igitur et animal. Namque homo actu ipso rationalis
est, semper enim homo rationalis et nihil aliud est; et equus semper
irrationalis, et eius irrationabilitas in actu posita est. At vero ipsum animal
rationale vel irrationale non ipsum agit neque est in eorum actu positum sed in
potestate. Potest ellim es se rationale atque irrationale profundere. Quare
quoniam species actu differentias continent, genus vero potestate, species a
genere merito differentiis abundare dicuntur, quoniam quod genus potest, id est
differentias facere, species non solum possunt sed etiam agunt; in ipsis enim
speciebus positae informataeque sunt. Est autem alia differentiae
definitio talis, quae dicat differentiam esse quae ad plurimas species in eo quod
quale sit praedicetur. Differentia ad res plurimas dici potest, ut rationale
dicitur ad hominem -- homo enim rationalis -- dicitur ad deum; deus enim
rationalis dicitur sed non in eo ƿ quod quid sit sed in eo quod quale sit. Nam
si qualis homo sit interrogetur, rationalis continuo respondetur, qualis deus
sit si interroges, rationalem non absurde dixeris. Eodem modo etiam
irrationabilitas. Dicitur enim et ad equum et ad bovem et ad piscem et ad avem,
quae omnia si qualia sint interrogaveris, irrationabilia praedicantur. bona
igitur et recta haec est definitio, id est: DIFFERENTIA EST QUOD AD
PLURIMAS RES SPECIE DISTANTES IN EO QUOD QUALE SIT PRAEDICATUR. Et de
mortali vero et de aliis differentiis eadem est ratio. Sequitur locus
perdifficilis sed transferentis obscuritate Victorini magis quam Porphyrii
proponentis, qui huiusmodi est. Dicit omnem rem quaecumque est corporea, ex
materia et forma constare. Namque si statuam dicas, constat statua ex aere
verbi gratia et figura illa quam ei suus fictor imposuit, et est materia ex quo
facta est aeris, figura vero, id est forma, qua aes ipsum formatum est. Nam si
hominem formabis ex aere, erit hominis forma, aes vero materia. Eodem modo
etiam genus. Namque genus in modo materiae accipitur, differentia vero in modo
formae. Etenim quemadmodum quaecumque illa res ex materia et forma consistit,
sic etiam omnis species ex genere et differentia. Namque genus ita est hominis,
ut est statuae aes, differentia vero sic est hominis, ut est forma illa es qua
aes effictum est. Nam sicut ex aliqua figura quae es aeris materia efficta est,
cuiuscumque illius species statuae ƿ fit, sic etiam cum in genus, id est in
animal venerit differentia, id est rationale, hominis species fingitur. Ista
igitur sibi proportionaliter sunt. Proportio autem est cuiuscumque, illius rei
similis ad aliquam rem cognatam comparatio, ut puta si duo compares ad
quattuor, dupla proportio est, sin vero viginti ad quadraginta, eadem dupla.
Sub eadem ergo proportione sunt quattuor ad duo, sub quali quadraginta ad
viginti quod utrique duplex est numerorum! comparatio. Sic igitur qualis
proportio est, id est comparatio materiae et figurae talis est proportio
generis et differentiae, et ista quattuor sibi proportionaliter sunt. Eodem
enim modo ex materia et figura species cuiuscumque illius fictionis fortnata
est, quemadmodum ex genere vel differentiis species cuiuscumque illius
animantis inanimantisue formatur. Quod Victorinus scilicet intellexisse minus
videtur. Nam quod Porphyrius ainaulogon dixit, id est proportionale, ille sic
accepit quasi a[logon diceret, id est irrationale. Atque ideo in loco ubi habet
hoc modo scriptum: OMNES NAMQUE RES EX FORMA ET MATERIA CONSISTUNT IPSA
AUTEM FORMA IRRATIONABILIS EST, tollendum est irrationabilis est et dicendum
proportionabilis est. Et subterius paululum ubi habet: IAM OMNE GENUS
SIMILE MATERIAE EST ET CONSISTIT IRRATIONALE, tollendum irrationale et
ponendum est proportionale, ut sit et consistit proportionaliter. Nam quae
proportio est figurae ad materiam in efficienda cuiuslibet corporis fictione,
eadem est proportio diffelrentiae ad genus in efficienda cuiuslibet specie
animati atque inanimati. Sequitur item alia definitio, quae est huiusmodi.
Dicunt enim esse differentiam quod possit separare quicquid sub eodem genere
est, et recte dicunt. Nam dum syb eodem genere sit homo atque equus, quia
utrumque est animal, cum venerit rationale vel irrationale, equum atque
hominem, quae sub eodem genere sunt, dividunt atque discerllunt. Sunt igitur
illae differentiae quae possunt res sub eodem genere separare. Est autem alia
definitio: differentiae sunt quibus quidque ab alio distat. Nam homo atque
equus rationali atque irrationali differentia discrepant, cum unum sint quantum
ad genus. Et hoc est quod dicit: DIFFERENTIA EST QUA DIFFERUNT SINGULA,
QUIA PER SE IPSUM GENUS EST ET ILLA QUAE RATIONABILIA SUNT, NOS SCILICET, ET
ILLA QUAE IRRATIONABILIA SUNT. NAMQUE ET HOMO ET EQUUS ET AVIS HAEC OMNIA GENUS
UNUM SUNT, ID EST ANIMAL. NAMQUE ANIMAL HORUM OMNIUM GENUS EST. Sed si de hoc
loco in quo positum est quia per se ipsum ƿ genus est, mutes et facias 'quia
per se ipsa animalia sunt', plenior sensus erit -- generis enim hic nomine pro
animalis abusus est -- et erit huiusmodi ordo: 'differentia est qua differunt
singula, quia per se ipsa animalia sunt et illa quae rationabilia sunt
animalia, nos scilicet, et illa quae irrationabilla sunt'. Quod si sic esset,
nullus esset error omnino. Nunc vero genus quod ait, pro animalis nomine
intellegendum est. Item dii atque homines cum utrique rationales sint,
mortalitatis tamen nomine adiecto differunt discrepantque. Sic igitur
differentia est qua singula differunt sed hoc non simpliciter sed illas tantum
differentias huiusmodi esse putandum est quae ad substantiam prosunt et quae ad
id quod est et quaecumque speciei possint esse aliqua pars. Quod huiusmodi est
si equus atque homo, quorum utrorumque unum genus est animal, a se differunt
rationali atque irrationali qualitate attamen ista rationabilitas et
irrationabilitas in substantia ipsarum specierum est hoc modo. Nam neque equus
potest esse sine irrationabilitate, neque homo sine rationabilitate. Atque ideo
istae differentiae prosunt ad aliquid esse speciei illi cui fuerint
accommodatae et substantiae ipsius partes sunt. Nam cum homo ex his differentiis
constet, id est ex rationali et mortali, rationale et mortale solum positum
pars est substantiae hominis. Nam si utraque simul unum hominem faciunt, non
est dubium quin ad substantiam hominis efficiendam unaquaeque earum res pars
esse videatur. Quare illae ƿ differentiae quaecumque non prosunt ad esse nec
partes substantiae cuiuslibet speciei sunt, specificae differentiae dici non
habent, quamvis sola hoc una species habeat. Nam si homo navigat, potest dici
animal navigabile sed navigare in substantiam hominis non convertitur. Neque
enim homo inde subsistit, quia navigat, quamvis hoc nullum aliud animal habere
possit, id est nullum possit animal navigare. Eodem modo et esse rhetorem vel
grammaticum. Has igitur differentias quae ad esse non prosunt sed tantum artem
aliquam scientiamque commemorant, non ponimus specificas esse, quamvis una
quaelibet animalis id species habeat. Ergo considerandum est, ut quotiens
dicimus definitionem differentiae illam, 'differentiam esse qua differant
singula', illam significari differentiam intellegamus quae ad aliquid esse
prodest et quae est alicuius pars substantiae speciei, illas vero quae ad esse
non prosunt, a in hoc genere differentiarum, quamvis singulae cuiusque sint,
non ponamus. Sed quoniam de differentia dictum est, de proprio explicemus.
ÑTunc Fabius: Ut arbitror, consequens est: PROPRIUM QUATTUOR DICITUR MODIS.
DICITUR NAMQUE PROPRIUM QUOD UNI SPECIEI ACCIDIT, ETIAMSI NON OMNIBUS. Et ego:
Quattuor ergo modis propria dividuntur. Est enim proprium quod uni accidit,
etsi non omnibus, ut est rhetor vel geometer vel grammaticus. Haec vero omnia
uni soli speciei, id est homini accidunt, non tamen omnibus. Neque ƿ enim omnes
homines grammatici vel rhetores vel geometres sunt, atque ideo vocabitur hoc
proprium quod uni sit, etiamsi non omnibus. Est item alia proprietas quae est
omnibus etiamsi non soli. Nam bipes omni homini accidit, omnis enim homo bipes
est sed non soli hominum speciei accidit sed etiam avibus. Est item tertium
proprium quod omni et soli et aliquo tempore accidit, ut est in pubertate
pubescere et in senecta canescere. Namque et umnibus hominibus evenit et nulli
alii speciei nisi soli hominum et aliquo tempore; constitutum enim tempus est
vel adolescentibus pubescendi vel senescentibus canescendi. Neque enim a sexto
anno vel septimo aliquis pubescit aut a vicesimo canescit, nisi forte aliquid
accidit novi quartum proprium est quod uni speciei accidit et omnibus sub eadem
specie individuis et omni tempore. Nam risibilem esse hominem et uni speciei
solum, id est homini, contingit et omnibus sub eadem specie individuis; omnes
enim singuli homines rident et omni tempore. Numquam enim tempus fuit ut
quicumque ridere non posset. Sed risibile dico potestate, non actu. Namque etsi
non rideat homo, tamen quia ridere potest, risibilis appellatur. Et sunt
integre et vere propria ista quae et uni et omnibus et omni tempore insunt,
namque haec speciebus suis converti possunt. Si enim dicas: quid est homo?
Risibile. Si: quid est risibile? interroges, homo praedicabis. Illa vero alia,
bipes vel grammaticus, propria quidem sunt sed converti non possunt. Nam
grammaticus semper homo, homo vero non semper grammatices, et e contrario homo
ƿ semper bipes est, non e contra bipes semper homo est. Et hinnibile similiter
magis proprium equi est. Nam eodem modo haec proprietas ad suam speciem
converti potest. Nam si dicas: quid est equus? hinnibile respondebis, si: quid
est hinnibile? equus praedicabitur. Sed quoniam de propriis dictum est, de
accidentibus sequens tractatus habeatur. Tum Fabius: Definit Porphyrius
accidens sic: ACCIDENS EST QUOD INFERTUR ET AUFERTUR SINE EIUS IN QUO EST
INTERITU. Hoc autem dicere videtur, illud esse accidens sine quo potest
constare illud cui accidit; ut puta si forte casu aliquo cuiquam facies inrubuerit,
abscedente rubore inlaesa facies permanebit, sicut eveniente non laesa est.
Dividit ergo accidens in separabile et in inseparabile. Namque separabile
accidens est, ut puta si quis sedeat vel ambulet, inseparabile est, ut si dicas
coruum nigrum, cygnum album; a quibus haec accidentia separari non possunt.
Nascitur autem huiusmodi dubietas, utrum superior definitio vera sit et omnium
accidentium nomen includat. Nam quoniam sunt quaedam, ut ipse ait, accidentia
inseparabilia, in his talis definitio videtur convenire non posse. Nam si
separari non possunt, non est in illis vera definitio quae dicit accidens esse
quod et inferri et auferri potest sine eius in quo est interitu. Nam cum
inseparabilia sunt, auferri non possunt. Sed haec tam uehemens quaestio solvitur
sic, quod haec ipsa definitio de accidentibus facta est potestate, non ƿ actu,
et intellegentia, non veritate, non quia Aethiops et coruus colorem amittunt
sed sine isto colore ad intellegentiam nostram possunt subsistere. Nam verum
est quoniam Aethiopem aut coruum color niger numquam deserit. Sed si quis
subintellegat colorem istum Aethiopem vel coruum posse amittere plumarum tantum
color in coruo mutabitur et erit avis alba specie et forma corui, si quis hoc
intellegat, at vero hominis, id est Aethiopis, amisso nigro colore, elit eius
species candida sicut etiam aliorum hominum. Ergo hoc non ideo quia fiat
dicitur sed ideo quia, si posset fieri, huius accidentis susceptrix substantia
non periret. Quod ipse hoc modo demonstrat: POTEST AUTEM SUBINTELLEGI ET CORVUS
ALBUS ET AETHIOPS COLOREM SUUM PERDITURUS SINE INTERITU SUO IN QUO COLOR FUIT. Nihil
enim ad speciem impedit, si Aethiops vel coruus amisso colore in propriae
substantiae natura permaneat. Est autem alia definitio, quae est
huiusmodi: ACCIDENS EST QUOD CONTINGIT ALICUI ET ESSE ET NON
ESSE. Nam quod in substantiam non convertitur, id accidens esse dicimus,
id est non in substantia insitum sed extrinsecus veniens. Ergo ea quae
contingunt et esse et non esse, ideo accidentia vocata sunt, quoniam in
substantiae ratione non accipiuntur. Si enim in substantiae ratione ponerentur,
numquam non essent, et si non essent, numquam esse possent. Nam quoniam verbi
gratia ratio in substantia hominis est, numquam homo esse potelit irrationalis,
quoniam irrationabilitas in substantia hominis non est. Ex hoc ergo venit etiam
alia definitio, ƿ accidens esse illud quod neque genus sit ueque species neque
differentia neque proprium. Nam quoniam genus, species, differentia et proprium
in substantia sunt et cuiuscumque illius rei substantiam monstrant, idcirco
quicquid horum aliquid non fuerit, id accidens merito
praedicatur. Explicitis igitur atque expeditis his quae proposuit, id est
genere, specie, propriis, differentiis accidentibusque, tractare a nunc exequitur
illa quae inter haec communia omnia vel quae differentiae sint. Et primo omnium
simul inter se communiones explicat, post etiam singulorum, et dicit omnium
esse commune de pluribus praedicari. Namque genus praedicatur de speciebus et
de individuis, eodem modo praedicatur et differentia de speciebus et de
individuis, etiam proprium et de speciebus et de individuis praedicatur, at
vero species de solis tantum individuis appellatur. Genus enim praedicatur de
equis, hominibus, bobus et canibus, id est speciebus, praedicatur item et de
his quae sub ipsis speciebus individua continentur; nam sicut species ipsae
canis vel equi vel hominis ƿ animalia sunt, sic et unusquisque equus vel homo
animalia praedicantur. Differentiae vero praedicantur de speciebus et de individuis
hoc modo. Namque homo et equus species sunt sed rationalis dicitur et ad
speciem hominis differentia praedicatur eodem modo et ad Ciceronem. Nam cum sub
hominis specie individuum sit, et ipse rationalis appellatur proprium autem de
specie praedicatur. Cum dicitur species; quod est homo, risibilis et cum
dicitur Cicero risibilis, quod est individuum, monstratur proprium de
individuis praedicari. Species vero de suis tantum solis individuis praedicatur
interrogatur enim: quid est Cicero? et homo respondetur. Accidens vero ante
praedicatur de individuis et postea de speciebus. Nam si quis dicat: homo
sedet, quod est accidens separabile, cum quicumque singulum hominem, id
est'individuum sedere viderit, tunc id et de specie praedicat, ut dicat:
quoniam Cicero sedet Cicero autem homo est, homo sedet. Eodem modo inseparabile
de speciebus et de individuis praedicatur. Expeditis ergo omnium
communionibus, generis et differentiae primum communiones differentiasque
declarat. Et primum dicit generi cum differentia esse commune quod ab utrisque
species continentur. Nam genus, quod est animal, continet speciem hominis atque
equi. Porro autem rationale, quod est differentia, continet et hominem et deum,
et irrationale, ƿ quod est differentia, continet equum, bovem atque avem sed
ita continet, ut genus semper plures species contineat quam continet
differentia. Namque genus et ipsas differentias continet. Genus enim, id est
animal, rationale atque irrationale continet illasque species quae sunt sub
rationali; etiam eas <quae sunt sub> irrationali, continet genus, lid est
animal. At vero differentia, id est rationale, in rationale non continet sed
tantum hominem atque deum. Plus igitur genus continet quam differentia. Est
autem et alia communio. Si quid enim ad quodlibet genus ita praedicatur, ut
eius genus sit, et de illis speciebus quae sunt sub illo genere ad quod
praedicatur, illud genus appellatur et de individuis quae sub illis speciebus
sunt. Namque animal genus est hominis, et de animali praedicatur ut genus substantia;
genus enim substantia animalis est. Ergo illa substantia quae ad hominis genus,
id est animal, ita praedicatur ut genus, praedicatur etiam et ad ipsum hominem;
dicitur enim homo substantia. Praedicatur item illud generis genus etiam de bis
quae sunt sub specie individuis; dicitur enim Cicero, quod est sub hominis
specie individuum, substantia. Differentia eodem modo. Nam si qua differentia
dicta fuerit de alia differentia, ut differentia intellegatur, praedicabitur et
ad speciem quae sub illa differentia est ad quam praedicatur, et de illis
individuis quae sub eadem specie sunt. Nam 'ratione uti' differentia ad
rationalem differentiam veluti cognata differentia praedicatur, rationabile
autem praedicatur ad hominem: ƿ ergo et ratione uti praedicatur ad hominem.
Idem etiam ratione uti praedicatur ad Ciceronem, quod est individuum sub illa
specie ad quam speciem illa differentia, id est rationalis, praedicabatur, de
qua praedicabatur ut cognata illa differentia, id est ratione uti. Igitur est
ista generis differentiaeque communitas, quod ea quae de genere speciei
praedicantur ut genus, et de sub eodem genere specie praedicantur et de
indiaiduis, et illa quae de differentia praedicatur ut differentia, et de sub
eadem differentia specie praedicatur et de individuis. Est autem alia communio,
quod quemadmodum interempto genere species interimuntur, sic interempta
differentia species sub eadem differentia interimuntur. Nam si interielit
animal, homo atque equus continuo periturus est, sin vero differentia, id est rationale,
dii atque homines interibunt et nihil eorum erit quod uti ratione possit. Post
demonstrationem igitur communium proprietates eorum differentiasque designat et
dicit differentiam primam eam qua genus non solum <a> differentiis sed
etiam speciebus vel propriis vel accidentibus differat. Namque dicit genus
multo de pluribus praedicari quam praedicetur differentia vel species vel
accidens vel proprium. Namque genus dicitur, id est animal, de quadrupede, de
bipede, <de> reptili, id est ƿ de serpentibus, vel de natabili, id est de
pisce. Quadrupes autem, quod est a bipede differentia, de solis illis dicitur
quae quattuor pedes habent, id est equus vel bos, de caeteris autem aliis, id
est bipede vel reptili vel natabili, unde genus aequaliter praedicatur,
appellari non potest. Plus autem genus ab speciebus praedicatur, quod, cum
hominis species sit et de solis individuis praedicetur, idem tamen homo de equo
vel bove vel cane non praedicatur. At vero animal, quod est genus, de pluribus
speciebus praedicatur, id est de homine et de equo et cane et bove et de
omnibus quae sunt sub ipsis posita individuis. Genus autem a proprio
praedicationibus abundat, quod proprium unius speciei semper est et de sub
eadem individuis, genus vero de multis speciebus et propriis praedicatur et de
sub eisdem individuis. Ab accidentibus vero genus magis de plurimis
praedicatur, quod, cum unius cygni inseparabile fortasse accidens sit album,
animal non solum de cygno praedicatur sed de omnibus animalibus, etiam non
albis, at vero accidens de solis tantum illis quibus inseparabiliter continetur
vel quibus separabiliter; nam principaliter de individuis dicitur. Quare
constat multo de pluribus praedicari genus quam accidentia praedicantur, quod
accidentia principaliter de individuis, genera vero de individuis et de
speciebus et de differentiis praedicantur. SED NUNC ILLAS DIFFERENTIAS
ACCIPIAMUS QUIBUS GENUS DIVIDITUR, NON QUIBUS SPECIES FORMANTUR. Hoc autem
tale est. Quoniam duas diximus differentiarum esse formas, ut aliae sint divisibiles,
aliae constitutivae, constitutivas illas diximus quae sub eodem filo positae et
a subalternis generibus descendentes speciem quandam informant atque efficiunt,
ut est rationale vel mortale; quae hominis speciem constituunt, alias vero
divisibiles, quae genus dividunt, non speciem informant, id est rationale et
irrationale, mortale et immortale. Nunc de illis differentiis iste tractatus
habetur quae genus dividunt, non quae speciem constituunt. Nam illae quae genus
dividunt, 1n differentiarum integro loco accipiuntur, illae vero quae speciem
constituunt, in generum specierumque substantia recipiuntur. Namque rationale
mortalis genus est, porro mortale hominis genus est, et istae constituunt
speciem, at vero rationale irrationalis species non est neque genus, nec
mortale immortalis neque genus neque species est. Atque ideo quoniam propriam
vim differentiarum ista retinent quae neque genera neque species sibi invicem
esse possunt, ipsas nunc differentias accipiamus in quibus nulla quantum ad
genus est speciemque communitas. Est etiam generis differentia. Namque genus a
propriis differentiis prius est. Namque si abstuleris genus, omnes simul
differentias abstulisti. Nam si abstuleris animal, rationale atque irrationale
non remanent. Porro autem si rationale abstuleris, remanet ƿ animal. Sed si
utrasque interemeris differentias, id est rationale vel irrationale, potest
tamen quiddam intellegi, quod sit substantia animata sensibilis, id est animal.
Ita genus sublatum omnes secum auferet differentias, sublatae differentiae
genus secum non interimunt, quod intellegentia genus remanet, id est quoniam
potest animal intellegi praeter differentias, ut eius tantum definitionem animo
capias et esse dicas substantiam animatam atque sensibilem. Quae autem talia
sunt, ut ipsa interempta interimant, non simul aliis interemptis ipsa
interimantur, priora sunt illis quae possunt interimere. Est etiam alia
differentia, quod genus semper in eo quod quid sit praedicatur, ut dictum est,
differentia vero in eo quod quale sit. Sed hoc frequentius inculcatum est atque
ideo a nobis praetermittendum est. Est etiam alia differentia, quod ad omnem
speciem unum semper genus aptatur. Homo enim unum tantum genus habet, ut animal
appelletur, in unam autem speciem plurimae differentiae poterunt commodari.
Namque homo et rationale est, quae differentia est, et mortale, quae eadem
differentia est, et sensibile, quibus scilicet omnibus ab aliis differt.
Differt enim his omnibus, quod sensibilis est ab insensibilibus, quod
rationalis ab irrationabilibus, quod mortalis ab immortalibus. Est etiam alia
differentia, quae superius dicta est. Nam genus speciei ita est ut materies,
differentia vero ut figura. Nam sicut in aeris materiem veniens figura statuam
efficit, ita animali, id est generi, veniens differentia, id est rationale vel
irrationale, facit hominis vel pecudis speciem. Quae autem communitates ƿ vel
proprietates generis <et differentiae> fuerunt, hactenus dixit. Et
fortasse erunt etiam aliae, quae propter brevitatem supersedendae atque omittendae
sunt. Nunc autem de generis vel speciei communitatibus proprietatibusque
tractatur. Et dicit genus et speciem commune habere de pluribus praedicari,
sicut dictum est. Nam genus et de speciebus pluribus praedicatur et earum
individuis et item species de sub se plurimis individuis appellatur. Et hic
quoque illae species accipiuntur quae magis species sunt. Nam si subalternae
accipiuntur, non magis species quam genera videbuntur. Nam quae subalternae
species sunt, etiam genera sunt, et erit absurdum et huic propositioni
inconveniens de generum inter se differentiis communibusque tractare.
Accipiantur illae tantum species quae vere species et magis species
appellantur. Est etiam alia eorum communio, quod sicut gentls ab specie primum
est, sic species ab individuis primae sunt. Nam si genus auferas, species
abstulisti, si species abstuleris, genera non peribunt. Porro si species
abstuleris, individua morientur, si individua interierint, species manent. Est
etiam his alia communio, quod quemadmodum genus quid sit totum declarat, sic
etiam species. Nam totum quod est rationale atque irrationale, a genere
declaratum est; dicitur enim quicquid fuerit rationale vel irrationale, id esse
animal. ƿ Sic igitur totum quid sit, a genere declaratur. Porro autem quid sit tota
hominum diversitas, id est individuorum, a sola specie declaratur, cum dicitur
homo. Nam et Scytha et Indus et totum quisquid in individuis est, uno solo
hominis, id est speciei nomine continetur. Dissertis igitur generis specieique
communibus ad proprietates eorum vel differentias transitum fecit dicens
differre inter se genus et species, quod genera species continent, numquam
rursus genera ab speciebus propriis continentur. Oportet autem, ut dictum est,
in hoc tractatu non subalternas sed magis species considerari. Genus enim
plurimarum specierum est continens et unum omnium et totum et omnibus et
singulis. Quod si ita est et genus a suis speciebus singulis maius est atque
ideo eas dicitur continere, non est dubium quin ea ipsa genera quae continent species,
ab his ipsis contineri non possint. Insuper omnia genera praeiacent. Hoc
videtur dicere quod omnia genera prius sint ab his speciebus quae sub ipsis
positae continentur. Nam sicuti materies prima est ab illa re quae veniens in
materiem formam constituerit atque figuravexit, sic etiam prius est genus ab
illa specie quam veniens differentia formabit atque constituet. Nisi enim in
generibus differentia venerit, species numquam constituentur. Quare praeiacent,
id est praesunt et antiquiora sunt genera speciebus suis. Atque ideo si genera
interimantur, ƿ species quoque peribunt; nam si animal sustuleris, hominem
pecudemque sustulisti. Si vero species interimantur, non continuo genus
interibit; nam si homo perierit, animal continuo non interemptum est, alia enim
remanebit species de qua ipsum animal, id est genus praedicetur. Atque ideo
genera ab speciebus suis priora dicuntur. Et quod omnia genera univoce de
speciebus praedicentur, species ipsae de generibus numquam. Hoc, ut arbitror,
in hesterna lucubratione iam dictum est. Nam genera semper de speciebus univoce
praedicantur. Homo enim et homo est et animal. Porro autem animal genus est
hominis et praedicatur animal de lmmine. Quoniam ergo animal Ac homine
praedicatur et dioitur homo animal, animal et homo uno animalis nomine
nuncupantur. Sed his ipsis definitio una conveniet. Est enim animal snbstantia
animata sensibilis, quod non absurdum est in homine dici. Nam si homo ipse
animal dicatur, non erit absurdum dici de homine 'substantia animata
sensibilis'. Igitur genus de speciebus suis univoce praedicatur, quod eodem
nomine et eadem definitione conveniat. At vero species non modo univoce non
praedicantur de generibus suis sed nec omnino praedicantur; nulla enim res
minor de maiore poterit prxedicari. Atque ideo, quoniam species minores sunt
suis generibus, de generibus suis neque univoce neque aliquo modo poterunt
appellari. AMPLIUS OMNIA GENERA ABUNDANT COMPLEXIONE SUB SE POSITARUM
SPECIERUM, IPSAE SPECIES ABUNDANT GENERUM SUORUM PROPRIIS
DIFFERENTIIS. Quod dicit proinde est ac si diceret: Omne quod genus est,
plures sub se species continet, omne quod species, plures in se differentias
habet. Genus enim, id est animal, in hoc homine, id est specie, superabundat et
superest, quod homo solum homo est, animal vero non solum homo sed etiam bos
vel avis vel alia huiusmodi. Species vero in eo superant genera sua, quod eas
differentias quas species in actu habent, eas genera non habents nam, sicut
superius dictum est, genera differentias illas quas habent sub se species
positae, potestate continent, non etiam re. Atque ideo species quae est homo,
vel alia species, sicut est equus, a genere suo, animali, in hoc abundant et
supersunt, quod animal ipsum per se neque rationale neque irrationale est, at
vero homo vel equus hoc rationale. Illud vero rationis expers. ILLUD
ETIAM, QUOD SPECIES NUMQUAM MAGIS GENUS FIET, RURSUS ET GENUS NUMQUAM MAGIS
SPECIES FIT. Et ut sciremus hic non de subalternis speciebus. Sed de illis
magis speciebus specialissimisque tractari, quid ait? Quod ea quae sunt genera,
magis species fieri numquam possunt neque magis species aliquando fieri magis
genus. Nam species numquam genus est. Quicquid enim fuerit species, genus non
erit neque quicquid fuerit genus, species erit. Quare constat in his eum tractatibus
de speciebus solis, non etiam de subalternis disserere. Subalternae enim
possunt esse etiam genera. Magis species vero, ut ipse ait, numquam genera esse
possunt. Sed postquam de generum specierumque communitatibus
differentiisque tractatus est habitus, ad genera propriaque transgressus
est. GENERIS ET PROPRII COMMUNE HOC EST, ADHAERERE SPECIEBUS ET
AMPLECTI. Dicit geners et propria in hoc sibi esse consimilia, quod omne
genus a suis speciebus numquam recedit. Eodem modo et propria. Nam si dixeris 'homo',
cum ipso homine continuo animal nominasti, quod ipsius hominis, id ost speciei
genus est. At vero etiam si hominem dixeris, eius etiam proprium continuo cum
bomine nominasti; omnis enim homo risihilis est. Ita semper genus et propria
suis speciebus inselta et quodammodo conglutinata sunt. SIMILITER ET GENUS
PRAEDICATUR DE SPECIEBUS ET PROPRIUM DE HIS QUAE SUI PARTICIPANTIA
SUNT. Et aequaliter, inquit, omnes species eidem generi supponuntur et ad
eas genus illud appellatur, sicut propria ad ea praedicantur quae sui
participare possunt. Namque aequaliter genus animal de homine dicitur et de
equo et de bove et de caeteris animantibus, quemadmodum et risibile, id est
proprium, de Hortensio dicitur et Cicerone et de singulis individuis quae sub
eadem specie continentur, ad quam speciem proprium, id est risibile, poterit
praedicari. Adhuc commune est ipsis univoce praedicari. Nam genus ƿ de
suis speciebus, ut dictum est, univoce praedicatur et risibile de ea specie
cuius est proprium, univoce praedicatur; namque et homo est et risibile. Porro
autem si quis dicat hominem esse animal rationale et mortale et dixerit
risibile esse animal rationale et mortale, non errabit. Aequaliter igitur et
genus de speciebus suis et propria de ea specie cuius sunt propria, univoce
praedicantur. Differt autem utrumque, quod genus primum et secundum est
proprium. Genus enim si ab specie primum est, proprium autem uni tantum speciei
adhaeret et eidem aequale est, non est dubium quoniam genus, quod specie maius
est, proprio etiam speciei maius sit. Nam ut sit risibile, animal prius est.
Namque ut aliqua species informetur, propriis et differentiis primo erit genus,
ubi illa conveniant, sicut *equentius inculcatum est. Accedit etiam quod genus
de plurimis speciebus praedicatur. Namque genus, id est animal, de pluribus, at
vero propriums id est risibile, de sola tantum hominis specie praedicatur. Unde
fit ut semper propria de speciebus suis conversim praedicari possint, species
autem de generibus numquam. Neque enim omne quod animal est, homo est neque
omne quod animal est, risibile est. Potest enim esse et equus et hinnibile id ƿ
quod animal nominatur. Porro autem omne quod est homo, id risibile est et omne
quod risibile est, id homo est. Possunt autem propria et species sibi ipsa converti
et conversim ad se invicem praedicari. Praeterea omni speciei quicquid fuerit
proprium, omni et soli est. Namque risibile et omnibus hominibus est et solius
hominis speciei evenit. At vero animal, qmld genus est, etsi uni speciei inest,
non tamen soli. Namque animal omni homini inest, non soli tamen homini, quia
inest etiam pecudi et caeteris animantibus. Oportet autem hic illa propria
intellegere quae magis propria sunt, id est quae integre propria nominantur;
quae sunt huiusmodi, ut et uni speciei et omnibus insint. Differunt ergo in hoc
quoque genera et propria, quod propria et uni speciei et omnibus individuis in
ea specie sunt, genera vero omnibus quidem individuis in ea specie sunt sub
eodem genere, non tamen uni soli speciei, quoniam genus semper de plurimis
praedicatur. Unde fit ut sublata propria non auferant genus, sublatis vero
generibus ipsa quoque propria auferantur. Nam si sustuleris proprium, id est
risibile, remanet hinnibile remanet natabile. Si vero genus snstuleris, simul
quoque species sustulisti si species sustuleris, propria etiam quae sunt
speciebus, simul interibunt. Itaque sublatis generibus propria sustuleris,
sublatis propriis simul genera non auferuntur Peractis igitur generum
propriorumque differentiis ad generum accidentiumque communitates vel
proprietates transitum ƿ fecit et unam eorum praedicat communitatem, quae est
quod de pluribus praedicantur. Namque sicut genus de plurimis speciebus
praedicatur, ita etiam separabile accidens vel inseparabile de plurimis
speciebus appellatur. Dicitur enim et de coruo et de homine Aethiope nigrum et
de equo et de homine moveri, quod illud est inseparabile accidens, illud vero
separabile. Et quoniam longius a se distant, idcirco unam eorum solam
communionem dixit et alias si quae forte essent quaerere
supersedit. Differt autem genus ab accidenti, quod genus ante species est,
accidentia vero speciebus posteriora sunt. Semper genera super species et his
praeiacere et esse maiora superius demonstratum est. Namque prius est animal ab
homine, atque ideo consumptum animal species quoque consumit, consumptae
species non interimunt genera. At vero accidens postea necesse est ut sit, quam
sunt ipsae species. Erit enim prius aliquid cui possit accidere. Omne enim
accidens praeter illud cui accidit, esse non potest. Atque ideo prius erit
aliqua res ubi accidat, quam est ipsum accidens. Necesse est igitur omne
accidens post species inveniatur et magis post individua, quibus principaliter
possit accidere. Huc accedit quod generis participantia aequaliter participant.
Sicut omne genus speciebus suis aequaliter genus est, ut saepius dictum est, ƿ
et species omnes aequaliter suo generi participant. Namque equus et homo
aequaliter animalia sunt neque equus homine plus neque homo equo. At vero
accidentia non aequaliter participant nam cum separabile accidens sit moveri,
possunt aliae inter se species eodem accidenti participantes tardius
velociusque moveri. Et de inseparabili accidenti eodem modo. Est enim ut
aliquis nigrioribus oculis sit et alius quamvis nigris, tamen purpureis. Atque
ideo et intentionem et remissionem recipit accidens. Nam et candidum quod
dicitur, et magis et minus dicitur et alia huiusmodi. Quare distant haec duo,
quod genere quae participant, aequaliter participant, accidenti fortasse non aequaliter.
Huc accedit quod genera non modo ante individua sed ante species sunt,
accidentia vero non modo post species sed etiam post individua sunt; ipsis enim
principaliter necidunt, ut dictum est. Est etiam differeutia quae iam superius
dicta est. Nam genus in eo quod quid sit praedicatur, accidens vero in eo quod
quale sit aut quomodo se habeat. Nam si quid sit Socrates interroges, 'homo'
atque 'animal' respondetur, si vero qualis sit, fortasse 'caluus' aut 'simus',
quae accidentia sunt inseparabilia. Sin vero quomodo se habeat, aut 'iacet'
respondetur aut 'sedet' aut quod aliud faciens contigerit. Ergo quoniam generis
ad speciem et differentiam, ad proprium et accidens divisa substantia est, nunc
vero posteriora persequitur. Sunt autem omnes differentiae viginti. Nam cum
quinque res sint et unaquaeque ipsarum ad alias quattuor quattuor item
differentias habeat, quinquies quaternis viginti differentiae efficiuntur. Nam
si genus differt ab specie, proprio, differentia, accidenti, quattuor
differentiae fiunt. Sin vero species differt a genere, proprio, differentia,
accidenti, item quattuor; quae iunctae cum superioribus octo fiunt. Et si
differentia distat ab specie, proprio, genere. Accidenti, aliae quattuor
supercresculat; quae iunctae cum octo prioribus duodecim faciunt. At vero si
proprium differt a genere, specie, differentia et accidenti, aliis quattuor
differentiis super duodecim positis omnes sedecim differentiae fiunt. Quodsi
accidentis quoque differentias ad quattuor reliqua duxeris, quattuor super
sedecim crescentibus viginti omnes differentiae perficiuntur. Quarum ita
viginti sunt, ut ad sufficientem doctrinae cumulum decem tantum differentiae
numerentur. Nam quod dictum est genus differre a differentia, specie, proprio
et accidenti, quattuor fuere differentiae. Si autem differentiam dicamus
differre <ab> specie, proprio et accidenti, superuacuum ƿ est
differentiae cum genere differentias commemorare, cum iam prius
commemoraverimus, quando generis ad differentiam differentias dicimus. Eisdem
enim, ut opinor, differt differentia a genere quibus differebat genus a
differentia. Itaque relinquenda est haec differentia qua distat differentia a
genere, quoniam iam superius dicta est, cum diceretur quid genus, distaret a
differentia. Remanent igitur tres differentiae, quibus ipsa differentia ab
specie, proprio et accidenti distat. Et cum superioris generis ad alia quattuor
differentiae fuerint. Nunc vero differentiae ad alia tres distantiae videantur,
septem hae distantiae fiunt. At vero species quid a genere distet, iam tunc
dictum est, cum dicebatur quid genus distet ab specie. Quid autem a differentia
discreparet, tunc demonstratum est, cum diceremus in quo differentia ab specie
discerneretur. Remanent igitur duae speciei, id est cum proprio et accidenti
differentiae, quae iunctae cum superioribus septem novem differentias
efficiunt. Restat igitur una proprii et accidentis differentia quae dicatur.
Nam quid a genere distet dictum est, cum quid genus distaret a proprio
diceretur, porro quid ab specie, dudum dicebatur, cum quid species a proprio
differret enumerabatur, porro autem quid a differentia, etiam id dictum est,
cum a proprio differentia separaretur. Sed nunc quemadmodum differentia ab
specie, proprio accidentique discernatur, videamus. Et est communio
differentiae et speciei quod aequaliter species sub se individuis se permittit
et aequaliter individua specie ipsa participant; namque omnes homines
aequaliter homines sunt et hominis participatione aeque participant. Eodem modo
etiam differentia; namque omnes homines aequaliter rationales sunt et
rationabilitate, quae est differentia, omnes qui ratione participant, aeque
participant. Est etiam alia communitas. Quod quemadmodum species numquam
deserit ea quorum species est et quibus superest, sic et differentia numquam ea
deserit quae distare ab aliis facit. Namque Socrates quoniam sub specie hominis
est, numquam ab hominis specie deseritur; semper enim Socrates homo est. At
vero differentia Socratem, quoniam Socrates rationalis est, numquam deserit; semper
enim Socrates rationale animal est. Differunt autem inter se species et
differentia, quod differentia semper in eo quod quale sit praedicatur -- nam
dicitur quale animal sit <Socrates>, ut rationale respondeatur. Species
vero in eo quod quid sit praedicatur; nam dicitur quid sit Socrates, ut homo
respondeatur. Namque hominis qualitas rationale est. Sed non simpliciter. Illa
enim qualitas pro differentia accipitur, quae veniens in ƿ genere speciem
constituit et de qualitate substantiali facta est substantialis et specifica
differentia. Ista igitur talis qualitas differentia nominatur et ea in eo quod
quale sit ad hominem praedicatur. Hoc etiam est in eorum differentiis. Namque
differentia frequenter in pluribus speciebus consideratur. Differentia enim quadrupes
in bovis et in equi et in canis specie est et differentia rationalis hominis et
dei. Species vero numquam aliis nisi solis sub se individuis praeest. Numquam
enim alia res homo est nisi quod est individuum, ut est Socrates et Plato et
Cicero. Unde fit ut sublata differentia species quoque tollatur. Nam si
sustuleris rationale, hominem sustuleris. Si vero sustuleris speciem,
differentia manet. Nam si sustuleris hominem, rationalis dei differentia
remanebit. Est vero etiam haec differentia, quod differentia cum alia
differentia iungi potest, ut aliqua ex his species informetur. Namque
rationalis differentia et mortalis differentia iunctae hominis unius speciem
reddiderunt, iunctae vero species numquam aliquam ex se speciem constituent. Si
enim iungas hominem bovi, nulla ex his species informabitur. Sed fortasse dicat
quis: asini atque equi coniunctione mulus nascitur. Sed non ita est: namque
individui coniunctione natum est aliquid individuum. Si autem sic simpliciter
speciem ipsam asini atque equi coniungas, nulla ex his umquam species
constituitur. Neque enim si se possunt individua commiscere, ideirco etiam
species individuorum in alterutram substantiam transeunt. ƿ Atque ideo constat
iunctas species unam speciem non posse componere, quod differentiae iunctae
unius speciei constitutivae sint. His itaque transactis ad differentiae et
proprii communia veniamus. Differentia et proprium commune habent quod quibus
differentia est et a quibus ipsa differentia participatur, aequaliter
participatur, sicut etiam et quibus proprium est, proprium ipsum participatur.
Nam rationalis differentia quoniam est hominibus et omnes homines rationali
differentia participant, non est dubium quia omnes homines aequaliter sint
rationales atque aequaliter rationabilitate participent. At vero proprium, quod
risibile est, aequaliter omnibus hominibus est; omnes enim homines aequaliter
risibiles sunt. Est etiam haec eorum communitas, quod sicut potestate risibile
dicitur, etiamsi non rideat, ita etiam potestate bipes dicitur, etiamsi quis
uno pede minuatur. Non enim quod est dicitur sed quod esse possit; nam quoniam
ille ridere potest, risibilis nominatur, quod ille duos pedes habere possit,
bipes. Atque ideo numquam ab illis in quibus sederint, proprium differentiaque
discedunt. Semper enim homo risibilis est, etiamsi non rideat, semper bipes,
etiamsi uno pede minuatur. In his enim differentiis et propriis, ut dictum est,
quod potestate esse possit, non quod vere sit consideratur. Differunt
autem inter se, quod differentia de pluribus speciebus praedicatur, proprium
vero de una. Namque differentia quae est mortalis, praedicatur de homine et de
bove et equo et caeteris animantibus et rationale praedicatur et de deo et de
homine, at vero risibile de sola tantum specie hominis praedicatur. Unde evenit
ut omnis differentia, quoniam plurimarum continens est specierum, a suis
speciebus maior sit, atque ideo ipsa de speciebus praedicari potest. Porro
autem de ipsa species praedicari non possunt, neque conversim dini potest. Nam
quoniam homo dicitur rationalis, non contra dicitur 'quod rationale est, id
homo est'; potest enim esse etiam non homo sed deus. At vero proprium, quoniam
aequaliter et ad unam speciem semper aptatur, aequa vice atque appellatione
convertitur. Dicitur enim: quid est homo? risibile; quid est risibile? homo.
Quibus pertractatis ad differentiam et accidens transgressa disputatio
est. Differentia et accidens commune habent de pluribus praedicari. Namque
differentia dicitur et de homine et de deo, quoniam utrique rationales sunt, et
accidens dicitur de homine et de equo, ut homo Aethiops niger et equus niger.
Est etiam ista communio, quod inseparabile accidens, cuicumque speciei fuerit,
inseparabiliter et omnibus inest ut differentia. ƿ Namque inseparabile accidens
quod est nigrum coruo, inseparabiliter accidit coruo et omnibus coruis. Eodem
modo etiam differentia. Nam quoniam accidit homini ut bipes sit, semper et
omnibus hominibus est esse bipedibus. Differunt autem inter se, quod omnis
differentia species continet, non contra ipsa ab speciebus continetur. Nam si
differentia plures sub se species habet, ut dictum est, maior erit sub se
positis speciebus, si maior etit, numquam eam quaelibet species continet; maior
enim a minori numquam continetur. Namque quod est rationale, continet hominem
et deum homo vero rationale non continet. Accidentia vero aliquotiens
continent, aliquotiens continentur. Namque continent; quoniam frequenter unum
accidens duas sub se species habet. Ut nigrum habet Aethiopem, habet et coruum,
continentur vero. Quoniam species una habet duo vel tria vel quamlibet plurima
accidentia. Si quis enim sit glaucus vel crispus vel candidus vel procerus,
haec omnia accidentia ille unus cui accesserunt complectitur et continet. Atque
ideo species illa quae illud individuum continet quod individuum plura in se
accidentia suscepit, accidentis illius complexiva est. DEHINC DIFFERENTIA
NUMQUAM INTENDITUR NEQUE RELAXATUR. Quod dicit hoc est. Rationale in
unaquaque specie neque plus neque minus est. Nullus enim homo alio homine ad
substantiam ƿ plus rationalis est neque minus. At vero accidens et intenditur
et relaxatur. Dicitur enim quicumque procerior, dicitur quicumque velocior,
dicitur quicumque crispior, quae omnia accidentia esse non dubium
est. PRAETEREA IMMIXTAE SEMPER SUNT CONTRARIAE DIFFERENTIAE. Immixtae ait,
id est immixtibiles, quae misceri non possunt. Neque enim rationale cum
irrationali misceri potest neque in una specie convenire. At vero contraria
accidentia manifestum est in una specie posse congruere. Namque nigrum vel
album potest in una non modo specie sed etiam individuo congruere. Potest enim
quicumque homo, cum ipse sit candidus, nigros tamen capillos habere. Ergo
<quoniam> quemadmodum species differat a genere vel differentia dictum
est, cum de generis ad speciem et differentiae ad speciem distantia diceremus.
Nunc dicemus, id quod reliquum est, de speciei propriique communibus. Et est
una eorum communio, quod de se ipsa invicem praedicantur. Nam quoniam aequa
sibi sunt, neque species hominis alii proprio convenit nisi risibili neque
risibile alii convenit speciei nisi horhini, atque ideo dicitur: ƿ quid homo?
quod risibile; quid risibile? quod homo. Commune est etiam illud, quod omne
proprium aequaliter ad sub se posita praedicatur, namque omnes homines
aequaliter risibiles sunt, et species aequaliter ad sub se posita praedicatur,
namque omnes homines individni aequaliter uno nomine homines nuncupantur. Differunt
autem a se, quoniam species potest etiam genus alteri esse, proprium esse non
potest. Sed hic illam speciem intellegamus quae subalterna est, non illam quae
magis species est et genus esse numquam potest. Atque ideo nos illam modo solam
quae subalterna species est intellegamus, quae scilicet poterit esse et genus:
namque mortale cum rationalis generis species sit, hominis genus est, at vero
risibile de nulla umquam specie alia poterit praedicari neque alii esse
proprium, sicut est hominis. Illa enim semper, ut dictum est, propria sunt quae
nulli alii nisi ad unam speciem semper aptantur. DEINDE SPECIES PRAECEDIT
ET SIC PROPRIUM SEQUITUR. Quod dicit tale est. Omnis species ut habeat
proprium, primo eam esse et constare necesse est. Oportet enim prius esse
hominem, ut sit risibilis, non prius esse risibile, ut sit homo. Nam quoniam
proprium dicitur, per se proprium non constat, nisi alicuius speciei sit. Atque
ideo prius esse necesse est illud cuius est proprium, quam sit
proprium. Huc accedit quod species semper in opere intellegitur
cuiuscumque subiecti. Species enim semper in actu est, non solum potestate.
Homo enim re vera et opere et actu homo est, id est numquam poterit esse non
homo. At vero risibile, quod est proprium, potestate tantum dicitur, etiamsi in
actu non sit. Potest enim quilibet ille non ridere, tamen quia ridere potest,
risibile nominatur. Distant igitur in hoc, quod semper species in actu est et
in opere, proprium vero aliquotiens potestate. Deinde quorum definitiones
diversae sunt, necessario etiam ipsa quoque diversa sunt. Omnis definitio
substantiam definit. Ergo si qua eiusdem substantiae fuerint, eadem etiam
definitione monstrantur, si qua eadem definitione fuerint, eadem substantia
praedicantur. At vero si qua definitionibus differant, differunt etiam
substantiis, quae substantiis difforunt, longe a se ipsis alia sunt. Nunc igitur
quoniam definitiones proprii et speciei differunt, species quoque ipsa et
propriurn a se differunt. Est autem speciei definitio sub genere esse et ad
plurima numero differentia in eo quod quid sit praedicari, at vero proprii uni
tantum inesse speciei et sub ipsa de omnibus individuis praedicari. Sed quoniam
et definitiones differunt, ipsa quoque species a proprio distabit. Post
haec ad communitates speciei et accidentis disputationem transtulit et dicit
eorum raras esse alias communitates ƿ nisi has solas, quod de pluribus
praedicantur. longe enim a se distare videntur in substantia sui et in
potestate patiendi atque faciendi id quod alicui accidit et id cui accidit.
Namque illud cui accidit, quasi quoddam accidentis est fundamentum, illud vero
quod accidit, praeter id cui accidit, esse in sui substatltiÇ non
potest. Propria vero singulorum sunt haec, quod species in eo quod quid
sit praedicatur, accidens vero in eo quod quale sit et quodammodo se habens.
Nam si quis dicat: quid Socrates est? homo dicitur; si quis dicat, qualis sit,
caluus vel simus appellatur, si quis vero, quomodo se habens sedens aut iacens
appellabitur. Item quod unaquaeque substantia unam speciem habet. Namque
hominis substantia unam solam hominis speciem habet, substantia vero equi unam
solius equi speciem habet. At vero una substantia plura frequenter accidentia
continebit. Nam et in eodem equo quaedam pars frequenter nigra, quaedam alba et
est in eo proceritas, est altitudo, est aquilum caput et alia huiusmodi. Habet
etiam non solum inseparabile accidens eadem substantia sed etiam separabile.
Nam fortasse quidam velos est et idem etiam corpore validus eat, idem etiam
sagittator et caetera. Huc accedit quod species praenoscuntur, ƿ id est
praeintelleguntur, hoc est ante esse cognoscuntur quam accidentia. Et prius
erit aliqua res ubi accidat, quam illa quae accidat. Et quoniam species est
subiectum accidentis ubi accidens accidat, ideoque ante species intellegitur
esse quam accidens. Accidentia vero postnativa sunt, id est a foris venientia
et estranea a qualibet illa substantia, etiamsi inseparabilia sunt. Haec quoque
est eorum separatio, quod semper omnia quae participant specie, aequaliter
participant; aequaliter enim et Socrates et Cicero et Plato homines sunt. At
vero illa quae participant accidenti, etiamsi inseparabile accidens sit, tamen
non aequaliter participant. Namque quamvis inseparabile sit accidens
Aethiopibus nigros esse, tamen est aliquis inter ipsos nigrior nec omnes illa
nigredine aequaliter participant. Relinquitur igitur de communibus proprii
accidentisque tractare; nam proprium quid distaret vel ab specie vel a genere
vel a differentia, superius demonstratum est. Proprium autem et
inseparabile accidens commune habent, quod sine his numquam consistunt ea quae
ƿ eorum participant et in quibus ipsa considerantur. Nam neque homo amittit
risibile esse nec Aethiops aut coruus nigrum. Atque ideo sine his ipsis, id est
propriis et accidentibus, quae eorum participant, constare non possunt, ne
forte contra superiorem definitionem accidentis venire videatur ista communio
-- est enim ita definitum: accidens est quod infertur et aufertur sine eius in
quo est interitu -- quod nunc dici videtur sine his constare non posse, cum
superius sine eorum interitu posse dicerentur auferri. Sed hoc modo dicitur,
non quod, si auferatur hoc accidens inseparabile, intereat illud cui accidit
sed quoniam separari non potest, idcirco sine hoc constare non possit. Est
etiam in separabilis accidentis et proprii alia communio, quod sicut et omni et
semper inest proprium cui inest, id est homini -- semper enim et omnis homo
risibile est -- sic etiam quodlibet accidens inseparabile et semper et omni est
accidens inseparabile; namque et omnis coruus et semper niger est. Sola autem
separabilibus accidentibus illa communio est, quod quemadmodum de multis
individuis proprium praedicatur, ita etiam accidens de multis individuis potest
praedicari. Plures etiam currunt, plures ambulant, quae scilicet accidentia
separabilia sunt, quemadmodum plures possunt esse risibiles. Differunt
autem ista, quod proprium semper uni speciei inest, accidens vero et pluribus.
Namque accidens ƿ pluribus speciebus et animatis et inanimatis evenit, ut est
hebeno nigrum, coruo nigrum, homini Aethiopi nigrum, risibile vero nulli nisi
soli homini. Atque ideo conversim proprium praedicatur, quia unius speciei
continens est et illi speciei soli aequalis est, at vero accidens conversim
praedicari non potest, quia plures sub se species habet. Non enim potes dicere
id esse nigrum quod hebenum, cum dicas hoc esse hebenum quod nigrum; potest
enim esse nigrum et non esse hebenum. Deinde omne proprium aequaliter se his
rebus quae sub se fuelint dat et ab his aequaliter participatur -- Socrates
enim et Cicero et Vergilius aequaliter et risibili participant et aequaliter
risibiles sunt -- at vero accidens non semper aequaliter; potest enim quicumque
esse procerior et alius esse velocior, quod scilicet illud separabile est
accidens, illud inseparabile. Et fortasse aliae eorum quaedam proprietates
vel communiones esse videantur sed nunc quantum introductioni sat est, ista
sufficiant. Sed iam tibi, mi Fabi, omnia quaecumque ad Introductionem
Porphyrii pertinent, plenius uberiusque tractata sunt. Post vero si quid umquam
mei egueris, studiis praesertim tuis, quae nulla umquam honestate caruerunt,
libens animo hortatorque ad easdem cupiditates parebo. ÑHic Fabius: Tu, inquit,
paterno haec mihi animo polliceris, verum ego numquam deficiam ab his studiis,
te praesertim docente, ƿ a quo totam fortasse logicae Aristotelis, si vita
suppetet, capiam disciplinam. ÑEt ego: Faciam, inquam, libentissime. Sed
quoniam iam matutinus, ut ait Petronius, sol tectis arrisit, surgamus, et si
quid illud est, diligentiore postea consideratione tractabitur. Secundus
hic arreptae expositionis labor nostrae seriem translationis expediet, in qua
quidem vereor ne subierim fidi interpretis culpam, cum verbum verbo espressum
comparatumque reddiderim. Cuius incepti ratio est quod in his scriptis in
quibus rerum cognitio quaeritur, non luculentae orationis lepos sed incorrupta
veritas exprimenda est. Quocirca multum profecisse videor, si philosophiae
libris Latina oratione compositis per integerrimae translationis sinceritatem
nihil in Graecorum litteris amplius desideretur. Et quoniam humanis animis
excellentissimum bonum philosophiae comparatum est ƿ ut via et filo quodam
procedat oratio, ex animae ipsius efficientiis ordiendum est. Triplex omnino
animae vis in vegetandis corporibus deprehenditur. Quarum una quidem vitam
corpori subministrat ut nascendo crescat alendoque subsistat; alia vero
sentiendi iudicium praebet; tertia vi mentis et ratione subnixa est. Quarum
quidem primae id officium est ut creandis nutriendis alendisque corporibus
praesto sit, nullum vero rationis praestet sensusue iudicium. Haec autem est
herbarum atque arborum et quicquid terrae radicitus affixum tenetur. Secunda
vero composita atque coniuncta est ac primam sibi sumens et in partem
constituens varium de rebus capere potest ac multiforme iudicium. Omne enim
animal quod sensu viget, idem et nascitur et nutritur et alitur. Sensus vero
diversi sunt et usque ad quinarium numerum crescunt. Itaque quicquid tantum
alitur non etiam sentit, quicquid vero sentire potest ei prima quoque animae
vis, nascendi scilicet atque nutriendi, probatur esse subiecta. Quibus vero
sensus adest non tantum eas rerum capiunt formas quibus sensibili corpore
feriuntur praesente, sed abscedente quoque sensu sensibilibusque se positis
cognitarum sensu formarum imagines tenent memoriamque conficiunt, et prout
quodque animal valet longius breviusque custodit. Sed eas imaginationes
confusas atque inevidentes sumunt ut nihil ex earum coniunctione ac
compositione ƿ efficere possint. Atque idcirco meminisse quidem possunt nec
aeque omnia, admissa vero oblivione memoriam recolligere ac reuocare non
possunt. Futuri vero his nulla cognitio est. Sed vis animae tertia, quae secum
priores alendi ac sentiendi trahit hisque velut famulis atque oboedientibus
utitur, eadem tota in ratione constituta est eaque vel in rerum praesentium
firmissima conceptione vel in absentium intellegentia vel in ignotarum
inquisitione versatur. Haec tantum humano generi praesto est, quae non solum
sensus imaginationesque perfectas et non inconditas capit sed etiam pleno actu
intellegentiae quod imaginatio suggessit, explicat atque confirmat. Itaque, ut
dictum est, huic divinae naturae non ea tantum cognitione sufficiunt quae
subiecta sensibus comprehendit, verum etiam et insensibilibus imaginatione
concepta et absentibus rebus nomina indere potest, et quod intellegentiae
ratione comprehendit vocabulorum quoque positionibus aperit. Illud quoque ei
naturae proprium est, ut per ea quae sibi nota sunt ignota uestiget et non
solum unumquodque an sit sed quid sit etiam et quale sit necnon cur sit, optet
agnoscere. Quam triplicis animae vim sola, ut dictum est, hominum natura
sortita est. Cuius animae vis intellegentiae motibus non caret, quia in his
quattuor propriae vim rationis exercet. Aut enim aliquid an sit inquirit aut si
esse constiterit, quid sit addubitat. Quodsi etiam utriusque scientiam ratione
possidet, quale sit ƿ unumquodque uestigat atque in eo caetera accidentium
momenta perquirit, quibus cognitis cur ita sit quaeritur et ratione nihilominus
uestigatur. Cum igitur hic actus sit humani animi ut semper aut in
<rerum> praesentium comprehensione aut in absentium intellegentia aut in
ignotarum inquisitione atque inventione versetur, duo sunt in quibus omnem
operam vis animae ratiocinantis impendit, unum quidem ut rerum naturas certa inquisitionis
ratione cognoscat, alterum vero ut ad scientiam prius veniat quod post gravitas
moralis exerceat. Quibus inquirendis permulta esse necesse est quae uestigantem
animum a recti itinere non minimum progressione deducant, ut in multis evenit
Epicuro qui atomis mundum consistere putat et honestum voluptate metitur. Hoc
autem idcirco huic atque aliis accidisse manifestum est quoniam per imperitiam
disputandi quicquid ratiocinatione comprehenderant, hoc in res quoque ipsas
evenire arbitrabantur. Hic vero magnus est error; neque enim sese ut in numeris
ita etiam in ratiocinationibus habet. In numeris enim quicquid in digitis recte
computantis euenerit, id sine dubio in res quoque ipsas necesse est evenire, ut
si ex calculo centum esse contigerit, centum quoque res illi numero subiectas
esse necesse est. Hoc vero non aeque in disputatione servatur: neque enim
quicquid sermonum decursus invenerit, ƿ id natura quoque fixum tenetur. Quare
necesse erat eos falli qui abiecta scientia disputandi de rerum natura
perquirerent. Nisi enim prius ad scientiam venerit quae ratiocinatio veram
teneat disputandi semitam quae veri similem, et agnoverit[1] quae fida quae
possit esse suspecta, rerum incorrupta veritas ex ratiocinatione non potest
inveniri. Cum igitur ueteres saepe multis lapsi erroribus falsa quaedam et
sibimet contraria in disputatione colligerent -- atque id fieri impossibile
videretur ut de eadem re contraria conclusione facta utraque essent vera quae
sibi dissentiens ratiocinatio conclusisset, cuique ratiocinationi credi
oporteret esset ambiguum -- visum est prius disputationis ipsius veram atque
integram considerare naturam, qua cognita tum illud quoque quod per
disputationem inveniretur, an vere comprehensum esset, posset intellegi. Hinc
igitur profecta est logicae peritia disciplinae, quae disputandi modos atque
ipsas ratiocinationes internoscendi ias parat, ut quae ratiocinatio nunc quidem
falsa nunc autem vera sit, quae vero semper falsa quae numquam falsa, possit
agnosci. Huius autem vis duplex esse perpenditur, una quidem in inveniendo,
altera in iudicando. Quod Marcus etiam Tullius in eo libro cui Topica titulus
est, evidenter espressit dicens Cum omnis ratio diligens disserendi duas habeat
partes, unam inveniendi alteram iudicandi, utriusque princeps, ut mihi quidem
videtur, Aristoteles fuit. Stoici ƿ autem in altera elaboraverunt; iudicandi
enim vias diligenter persecuti sunt ea scientia quam *dialektiken* appellant,
inveniendi artem, quae *topike*; dicitur quae et ad usum potior erat et ordine
naturae certe prior, totam reliquerunt. Nos autem, quoniam in utraque summa
utilitas est et utramque, si erit otium, persequi cogitamus, ab ea quae prima
est ordiemur. Cum igitur tantus huius considerationis fructus sit danda est
huic tam sollertissimae disciplinae tota mentis intentio, ut primis firmati in
disputandi veritate uestigiis facile ad rerum ipsarum certam comprehensionem
venire possimus. Et quoniam qui sit ortus logicae disciplinae praediximus,
reliquum videtur adiungere: an omnino pars quaedam sit philosophiae an (ut
quibusdam placet) supellex atque instrumentum per quod philosophia cognitionem
rerum naturamque deprehendat. Cuius quidem rei has e contrario video esse
sententias. Hi enim qui partem philosophiae putant logicam considerationem his
fere argumentis utuntur. Dicentes philosophiam indubitanter habere partes
speculativam atque activam, de hac tertia rationali quaeritur an sit in parte
ponenda. Sed eam quoque partem esse philosophiae non potest dubitari. Nam sicut
de naturalibus caeterisque sub speculativa positis solius philosophiae
uestigatio est itemque de moralibus ac ƿ reliquis quae sub activam partem
cadunt sola philosophia perpendit, ita quoque de hac parte tractatus, id est de
his quae logicae subiecta sunt, sola philosophia iudicat. Quodsi speculativa
atque activa idcirco philosophiae partes sunt quia de his philosophia sola
pertractat, propter eandem causam erit logica philosophiae pars, quoniam
philosophiae soli haec disputandi materia subiecta est. Iam vero inquiunt:
cum in his tribus philosophia versetur cumque activam et speculativam
considerationem subiecta discernant, quod illa de rerum naturis, haec de
moribus quaerit, non dubium est quin logica disciplina a naturali atque morali
suae materiae proprietate disiuncta sit. Est enim logicae tractatus de
propositionibus atque syllogismis et caeteris huiusmodi, quod neque ea quae non
de oratione sed de rebus speculatur neque activa pars quae de moribus inuigilat
aeque praestare potest. Quodsi in his tribus (id est speculativa, activa, atque
rationali) philosophia consistit quae proprio triplicique a se fino disiuncta
sunt, cum speculativa et activa philosophia partes esse dicuntur, non dubium
est quin rationalis quoque philosophia pars esse conuincatur. Qui vero non
partem sed philosophiae instrumentum putant haec fere afferunt argumenta. Non
esse inquiunt similem logicae finem speculativae atque activae partis extremo.
Utraque enim illarum ad suum proprium terminum spectat ut speculativa ƿ quidem
rerum cognitionem, activa vero mores atque instituta perficiat; neque altera
refertur ad alteram. Logicae vero finis esse non potest absolutus sed
quodammodo cum reliquis duabus partibus colligatus atque constrictus est. Quid
enim est in logica disciplina quod suo merito debeat optari nisi quod propter
investigationem rerum huius effectio artis inventa est? Scire enim quemadmodum
argumentatio concludatur vel quae vera sit quae veri similis, ad hoc scilicet
tendit, ut vel ad rerum cognitionem referatur haec scientia rationum vel ad
invenienda ea quae in exercitium moralitatis adducta beatitudinem pariunt.
Atque ideo quoniam speculativae atque activae suus certusque finis est, logicae
autem ad duas reliquas partes refertur extremum, manifestum est non eam esse
philosophiae partem sed potius instrumentum. Sunt vero plura quae ex alterutra
parte dicantur quorum nos ea quae dicta sunt strictim notasse sufficiat. Hanc
litem vero tali ratione discernimus. Nihil quippe dicimus impedire ut eadem
logica partis vice simul instrumentique fungatur officio. Quoniam enim ipsa
suum retinet finem isque finis a sola philosophia consideratur, pars philosophiae
esse ponenda est. Quoniam vero finis ille logicae quem sola speculatur
philosophia ad alias eius partes suam operam pollicetur, instrumentum esse
philosophiae non negamus. Est autem finis logicae inventio iudiciumque
rationum. Quod scilicet non esse mirum videbitur quod eadem pars, eadem quoddam
ponitur instrumentum, si ad partes corporis animum reducamus quibus et fit
aliquid ut his quasi quibusdam instrumentis utamur, et in toto tamen corpore
partium obtinent locum. Manus enim ad tractandum, oculi ad videndum,
caeteraeque corporis partes proprium quoddam videntur habere officium. Quod
tamen si ad totius utilitatem corporis referatur, instrumenta quaedam corporis
esse deprehenduntur quae etiam partes esse nullus abnuerit. Ita quoque logica
disciplina pars quidem philosophiae est, quoniam eius philosophia sola magistra
est, supellex vero quod per eam inquisita philosophiae veritas uestigatur. Sed
quoniam, quantum mihi quoque brevitas succincta largita est, ortum logicae et
quid ipsa logica esset explicui, nunc de eo nobis libro pauca dicenda sunt quem
in praesens sumpsimus exponendum. Titulo enim proponit Porphyrius
introductionem se in Aristotelis Praedicamenta conscribere. Quid vero valeat
haec introductio vel ad quid lectoris animum praeparet breviter explicabo. Aristoteles
enim librum qui De decem praedicamentis inscribitur hac intentione composuit ut
infinitas rerum diversitates quae sub scientiam cadere non possent paucitate
generum comprehenderet, atque ita quod per incomprehensibilem multitudinem sub
disciplinam venire non poterat per generum, ut dictum est, paucitatem animo fieret
scientiaeque subiectum. Decem igitur genera rerum esse omnium consideravit --
id est unam substantiam et accidentia novem (quae sunt qualitas, quantitas,
relatio, ubi, quando, facere et pati, situs, habere) -- quae quoniam genera
essent suprema et quibus nullum aliud superponi genus posset, omnem necesse est
multitudinem rerum horum decem generum species inveniri. Quae quidem genera a
se omnibus differentiis distributa sunt nec quicquam videntur habere commune
nisi tantum nomen, quoniam omnia esse praedicantur. Quippe substantia est,
qualitas est, quantitas est, et de aliis omnibus 'est' verbum communiter
praedicatur sed non est eorum communis una substantia vel natura sed tantum
nomen. Itaque decem genera ab Aristotele reperta omnibus a se differentiis
distributa sunt. Sed quae aliquibus differentiis disiunguntur necesse est ut
habeant proprium quiddam quod ea in singularem solitariamque vindicet formam.
Non est autem idem proprium quod accidens: accidentia enim et venire et abesse
possunt, propria ita sunt insita ut absque his quorum sunt propria esse non
possint. Quae cum ita sint cumque Aristoteles decem rerum genera repperisset
quae vel intellegendo mens caperet vel loquendo disputator efferret (quicquid
enim intellectu capimus id ad alterum sermone uulgamus), evenit ut ad horum
decem praedicamentorum intellegentiam quinque harum rerum tractatus incurreret,
scilicet generis, speciei, differentiae, proprii, accidentis. Generis quidem
quoniam oportet ante praediscere quid sit genus ut decem illa quae Aristoteles
caeteris anteposuit rebus genera esse possimus agnoscere. Speciei vero cognitio
plurimum valet ut quae cuiusque generis sit species possit agnosci. Si enim
quid sit species intellegimus, nihil impediti errore turbamur. Fieri enim
potest ut per speciei inscientiam saepe quantitatis species in relatione
ponamus et cuiuslibet primi generis species alteri cuilibet ƿ generi subdamus
atque ita fiat permixta rerum atque indiscreta confusio; quod ne accidat quae
sit natura speciei ante noscendum est. Nec vero in hoc tantum prodest speciei
cognoscenda natura ne priorum generum species invicem permutemus, verum etiam
ut in eodem quolibet genere proximas species generi noverimus eligere, ut ne
substantiae mox animal dicamus esse speciem potius quam corpus aut corporis
hominem potius quam animatum corpus. At vero differentiarum scientia in his
maximum retinet locum. Qui enim omnino qualitatem a substantia vel caetera a se
genera distare cognoscimus nisi eorum differentias viderimus? Quomodo autem
discernere eorum differentias possumus si quid ipsa sit differentia nesciamus? Nec
hunc solum nobis inscientia differentiae offundit errorem, verum etiam
specierum quoque tollit omne iudicium. Nam omnes species differentiae
informant; ignorata differentia species quoque necesse est ignorari. Quomodo
vero fieri potest ut quamlibet differentiam possimus agnoscere si omnino quae
sit nominis huius significatio nesciamus? Iam vero proprii tantus usus est ut
Aristoteles quoque singulorum praedicamentorum propria perquisiverit. Quae
propria esse quis deprehenderit antequam quid omnino sit proprium discat? Nec
in his tantum propriis haec cognitio valet quae singulis nominibus efferuntur,
ut hominis risibile, verum etiam in his quae in locum definitionis adhibentur.
Omnia enim propria rem subiectam quodam termino descriptionis includunt, quod suo
quoque loco ƿ oportunius commemorabo. Accidentis quoque cognitio quantum
afferat quis dubitare queat, cum videat inter decem praedicamenta novem
accidentis naturas? Quae quomodo accidentia esse putabimus si omnino quid sit
accidens ignoremus, cum praesertim nec differentiarum nec proprii scientia nota
sit nisi accidentis naturam firmissima consideratione teneamus? Fieri enim
potest ut differentiae loco vel proprii per inscientiam accidens apponatur.
Quod esse vitiosissimum etiam definitiones probant, quae cum ipsae ex
differentiis constent et fiant uniuscuiusque definitiones propriae, accidens
tamen non videntur admittere. Cum igitur Aristoteles rerum genera collegisset
quae nimirum diversas sub se species continerent, quae species numquam diversae
forent nisi differentiis segregarentur, cumque omnia in substantiam atque
accidens, accidens vero in alia novem praedicamenta solvisset, cumque aliquorum
praedicamentorum fere sit propria persecutus -- de his ipsis quidem
praedicamentis docuit. Quid vero esset genus, quid species, quid differentia,
quid illud accidens de quo nunc dicendum est, vel quid proprium, velut nota
praeteriit. Ne igitur ad Praedicamenta Aristotelis venientes quid significaret
unumquodque eorum quae superius dicta sunt ignorarent, hunc librum Porphyrius
de earum quinque rerum cognitione perscripsit, quo perspecto et considerato
quid unumquodque eorum quae supra praeposuit designaret, facilior intellectus
ea quae ab Aristotele proponerentur addisceret. Haec quidem intentio est huius
libri, quem Porphyrius ad introductionem Praedicamentorum se conscripsisse
ipsa, ut ƿ dictum est, tituli inscriptione signavit. Sed licet ad hoc unum
huius libri referatur intentio, non tamen simplex eius utilitas est verum
multiplex et in maxima quaeque diffusa est. Quam idem Porphyrius in principio huius
libri commemorat dicens: CUM SIT NECESSARIUM, CHRYSAORI, ET AD EAM QUAE EST
APUD ARISTOTELEM PRAEDICAMENTORUM DOCTRINAM, NOSSE QUID GENUS SIT ET QUID
DIFFERENTIA QUIDQUE SPECIES ET QUID PROPRIUM ET QUID ACCIDENS, ET AD
DEFINITIONUM ASSIGNATIONEM ET OMNINO AD EA QUAE IN DIVISIONE VEL DEMONSTRATIONE
SUNT UTILIA, HAC ISTARUM RERUM SPECULATIONE COMPENDIOSAM TIBI TRADITIONEM
FACIENS TEMPTABO BREVITER VELUT INTRODUCTIONIS MODO EA QUAE AB ANTIQUIS DICTA
SUNT AGGREDI; ALTIORIBUS QUIDEM QUAESTIONIBUS ABSTINENS, SIMPLICIORES VERO
MEDIOCRITER CONIECTANS. Utilitas huius libri quadrifariam spargitur. Namque ad
illud etiam ad quod eius dirigitur intentio, magno legentibus usui ƿ est et ad
caetera: quae cum extra intentionem sint, non tamen minor ex his legentibus
utilitas comparatur. Est enim per hoc opusculum et praedicamentorum facilis
cognitio et definitionum integra assignatio et divisionum recta perspectio et
demonstrationum veracissima conclusio. Quae res quanto difficiles atque arduae
sunt tanto perspicaciorem studiosioremque animum lectoris expectant. Dicendum
vero est quod in omnibus libris evenit. Nam primum si quae sit intentio
cognoscatur, quanta quoque utilitas inde provenire possit expenditur; et licet
extra multa, ut fit, huiusmodi librum sequantur, tamen illam proxime utilitatem
videtur habere ad quod eius refertur intentio ipso libro quem sumpsimus
exponente. Cum eius intentio sit ad Praedicamenta intellectum facilem
comparandi, non dubium quin haec eius principalis probetur utilitas, licet non
minores sint comites definitio, divisio, ac demonstratio, quorum nobis quaedam
hic principia suggeruntur. Sensus vero totus huiusmodi est Cum sit, inquit,
utilis generis, speciei, differentiae, proprii accidentisque cognitio ad
Praedicamenta Aristotelis eiusque doctrinam, ad definitionum etiam
assignationem, ad divisionem et demonstrationem, quae sit harum rerum utilis
uberrimaque cognitio, compendiosam, inquit, traditionem ƿ faciens ea quae ab
antiquis large ac diffuse dicta sunt, temptabo breviter aperire. Neque enim
esset compendiosa nisi totum opus brevitate constringeret. Et quoniam
introductionem scribebat: Altiores, inquit, quaestiones sponte refugiam,
simpliciores vero mediocriter coniectabo -- id est simpliciorum quaestionum
obscuritates habita in eis quadam coniecturae ratiocinatione tractabo. Tota
quidem sententia huiusce prooemii talis est quae et utilitate uberrima et
facilitate incipientis animo blandiatur; sed dicendum videtur quidnam celet
amplius altitudo sermonum. NECESSARIUM in Latino sermone, sicut in Graeco
*anagkoion*, plura significat. Diversa enim significatione Marcus Tullius dicit
necessarium suum esse aliquem atque nos cum nobis necessarium esse dicimus ad
forum descendere, qua in voce quaedam utilitas significatur. Alia quoque
significatio est qua dicimus solem necessarium esse moveri, id est necesse
esse. Et illa quidem prima significatio praetermittenda est, omnino enim ab eo
necessario quod hic Porphyrius ponit aliena est. Hae vero duae huiusmodi sunt
ut inter se certare videantur quae huius loci obtineat significationem in quo
dicit Porphyrius: CUM SIT NECESSARIUM, CHRYSAORI; namque, ut dictum est,
necessarium ƿ et utilitatem significat et necessitatem. Videntur autem huic
loco utraque congruere. Nam et summe utile est ad ea quae superius dicta sunt
de genere et specie et caeteris disputare, et summa est necessitas quia nisi
sint haec ante praecognita illa ad quae ista praeparantur non possunt cognosci.
Nam neque praeter generis vel speciei cognitionem praedicamenta discuntur, nec
definitio genus relinquit et differentiam, et in caeteris quam sit utilis iste
tractatus, cum de divisione et demonstratione disputabitur, apparebit. Sed
quamquam necesse sit haec quinque de quibus hic disputandum est, prius ad
cognitionem venire quam ea quibus illa praeparantur, non tamen ea
significatione hic a Porphyrio positum est qua necessitatem significari vellet
ac non potius utilitatem. Ipsa enim oratio contextusque sermonum id clarissima
intellegentiae ratione significat. Neque enim quisquam ita utitur ratione ut
aliquam necessitatem referri dicat ad aliud. Necessitas enim per se est,
utilitas vero semper ad id quod utile est refertur, ut hic quoque. Ait enim:
CUM SIT NECESSARIUM, CHRYSAORI, ET AD EAM QUAE EST APUD ARISTOTELEM
PRAEDICAMENTORUM DOCTRINAM. Si igitur hoc necessarium 'utile' intellegamus et
id nomine ipso vertamus dicentes: Cum sit utile, Chrysaori, et ad eam quae est
apud Aristotelem praedicamentorum ƿ doctrinam, nosse quid genus sit... etc. recte
se habebit ordo sermonum; sin vero id ad 'necesse' permutetur atque dicamus: Cum
sit necesse, Chrysaori, et ad eam quae est apud Aristotelem praedicamentorum
doctrinam, nosse quid genus sit... etc. rectae intellegentiae sermonum ordo non
convenit. Quocirca hic diutius immorandum non est. Quamquam enim sit summa
necessitas his ignoratis non posse ad ea ad quae hic tractatus intenditur
perveniri, non tamen de necessitate hic dictum est NECESSARIUM sed potius de
utilitate. Nunc vero, licet idem superius dictum sit, tamen breviter quid ad
praedicamenta generis, speciei, differentiae, proprii atque accidentis prosit
agnitio, disputemus. Aristoteles enim in praedicamentis decem genera constituit
rerum quae de cunctis aliis praedicarentur, ut quicquid ad significationem venire
posset, id si integram significationem teneret, cuilibet eorum subiceretur
generi de quibus Aristoteles tractat in eo libro qui De decem praedicamentis
inscribitur. Hoc ipsum vero referri ad aliquid velut ad genus tale est, quale
si quis speciem supponat generi. Hoc vero neque praeter cognitionem speciei
ullo modo fieri potest. Nec vero ipsae species quid sint vel cuius magis sint
possunt perspici nisi earum differentiae cognoscantur. Sed differentiarum
natura incognita, quae uniuscuiusque ƿ speciei sint differentiae modis omnibus
ignorabitur. Quare sciendum est quoniam si de generibus Aristoteles tractat in
Praedicamentis, et generum natura cognoscenda est, cuius cognitionem speciei
quoque comitatur agnitio. Sed hoc cognito quid sit differentia non potest
ignorari, quamquam in eodem libro plura sint ad quae nisi maximam peritiam et
generis et speciei et differentiae lector attulerit, nullus omnino intellectus
patebit ut cum ipse Aristoteles dicit: Diversorum generum et non subalternatim
positorum diversae secundum species et differentiae sunt quod his ignoratis
intellegi impossibile est. Sed idem Aristoteles proprium uniuscuiusque
praedicamenti diligentissima inquisitione uestigat, ut cum substantiae proprium
post multa dicit esse quod idem numero contrariorum susceptibile sit, vel
rursus quantitatis, quod in ea sola aequale atque inaequale dicatur, qualitatis
etiam, quod per eam simile et dissimile aliud alii esse proponimus, et in
caeteris eodem modo, ut quae sit proprietas contrarii, quae secundum relationem
oppositionis, quae privationis et habitus, quae affirmationis et ƿ negationis.
In quibus ita tractat tamquam iam peritis scientibusque quae sit proprietatis
natura; quam si quis ignorat, frustra ea quae de his dispusantur aggreditur. Iam
vero illud manifestum est quod accidens maximum praedicamentorum obtineat
locum, quod proprio nomine novem praedicamenta circumdat. Et ad praedicamenta
quidem quanta sit huius libri utilitas ex his manifestum est. Quod vero ait ET
AD DEFINITIONUM ASSIGNATIONEM facile cognosci potest si prius substantiae
rationum divisio fiat. Substantiae ratio alia quidem in descriptione ponitur,
alia vero in definitione. Sed ea quae in descriptione est, proprietatem quandam
colligit eius rei cuius substantiae rationem prodit -- ac non modo proprietate
id quod monstrat informat, verum etiam ipsa fit proprium, quod in definitionem
quoque venire necesse est; si quis enim quantitatis rationem reddere velit,
dicat licebit: Quantitas est secundum quam aequale atque inaequale dicitur. Sicut
igitur proprietatem quidem quantitatis in ratione posuit quantitatis et ipsa
tota ratio ipsius quantitatis propria est, ita descriptio et proprietatem
colligit et propria fit ipsa descriptio. Definitio vero ipsa quidem propria non
colligit sed ipsa quoque fit propria. Definitio namque substantiam monstrat,
genus differentiis iungit et ea quae per se sunt communia atque multorum in
unum redigens uni speciei quam definit reddit aequalia. Ita igitur ad
descriptionem utilis est proprii cognitio, quoniam sola proprietas in
descriptione colligitur et ipsa fit propria sicut definitio quoque, ad
definitionem vero genus (quod primum ƿ ponitur), et species (ad quam genus
illud aptatur), et differentiae (quibus iunctis cum genere species definitur). Sed
si cui haec pressiora quam expositionis modus postulat videbuntur, eum hoc
scire convenit, nos, ut in prima editione dictum est, hanc expositionem nostro
reservasse iudicio ut ad intellegentiam simplicem huius libri editio prima
sufficiat, ad interiorem vero speculationem confirmatis paene iam scientia nec
in singulis vocabulis rerum haerentibus haec postelior colloquatur. Ad
divisionem vero faciendam tam hic liber est utilis ut praeter earum scientiam
rerum de quibus in hac libri serie disputatur, casu fiat potius quam ratione
partitio. Hoc autem manifestum erit si divisionem ipsam dividamus, id est si
nomen ipsum divisionis in ea quae significat partiamur. Est namque divisio
generis in species, ut cum dicimus: Coloris aliud est album, aliud nigrum,
aliud vero medium. Rursus divisio est quotiens vox plura significans aperitur
et quam multa sint quae ab ea significantur ostenditur, ut si quis dicat: Nomen
canis plura significat, et hunc latrabilem quadrupedemque et caeleste sidus et
marinam bestiam quae omnia a se definitione disiuncta sunt. Dividi autem
dicitur et quotiens totum in partes proprias separatur, ut cum dicimus: Domus
aliud sunt fundamenta, aliud parietes, aliud tectum. Et haec quidem triplex
divisio secundum se partitio nuncupatur. Est autem ƿ alia quae secundum
accidens dicitur. Ea quoque fit tripliciter aut cum accidens in subiecta
dividimus, ut cum dico: Bonorum alia sunt in animo, alia in corpore vel rursus
cum subiectum in accidentia, ut Corporum alia sunt alba, alia nigra, alia medii
coloris rursus cum accidens in accidentia separamus, ut cum dicimus: Liquentium
alia sunt alba, alia nigra, alia medii coloris et rursus: Alborum alia sunt
dura, alia liquentia quaedam mollia. Cum igitur ita omnis sit divisio aut
secundum se aut per accidens, utraque vero partitio tripliciter fiat cumque in
superiore secundum se triplici partitione sit una divisionis forma genus in
species separare, id neque praeter generum scientiam fieri ullo modo potest
neque vero praeter differentiarum, quas necesse est in specierum divisione sumi
manifestum est igitur, quanta utilitas huius libri ad hanc divisionem sit quae
primo aditu genus ac species et differentias tractat. Secunda vero ea divisio
quae est secundum se in vocis significantias, nec haec quidem ab huius libri
utilitate discreta est. Uno enim modo cognosci poterit utrum vox cuius
divisionem facere quaerimus, aequivoca esse videatur an genus si ea quae
significat definiantur. Et si ea quae sub communi nomine sunt definitione
clauduntur, species esse necesse est, et illud commune eorum genus. Quodsi illa
quae proposita ƿ vox designat non possunt una definitione concludi, nemo
dubitat quin illa vox sit aequivoca neque ita sit communis his de quibus
praedicatur ut genus, quandoquidem ea quae sub se posita significat, secundum
commune nomen non possunt una definitione comprehendi. Si igitur ex definitione
manifestum fit quid genus sit, quid vero nomen aequivocum, definitio vero per
genera differentiasque discurrit, quisquamne dubitare potest aeque in hac
divisionis forma plurimum huius libri auctoritatem valere? Illa vero secundum
se divisio quae est totius in partes, quemadmodum discernitur ac non potius
generis in species divisio esse putabitur, nisi sint genus et species et
differentiae earumque vis ante disciplinae ratione tractata? Cur enim non
quisquam dicat domus species potius esse quam partes fundamenta, parietes, et
tectum? Sed cum occurrit generis nomen in unaquaque specie totum posse
congruere, totius vero in unaquaque parte sua nomen convenlre non posse,
manifestum fit aliam divisionem esse generis in species, aliam totius in
partes. Convenire autem nomen generis singulis speciebus ostenditur per id,
quod et homo et equus singuli animalia nuncupantur. Neque tectum vero neque
parietes aut fundamenta singillatim domus nomine appellari solent sed ƿ cum
fuerint iunctae partes, tunc recte totius nomen excipiunt. De ea vero divisione
quae secundum accidens fit, nullus ignorat quin incognito accidenti
incognitaque vi generis ac differentiarum facile evenire possit, ut accidens ita
in subiecta solvatur quasi genus in species, et postremo omnem hunc ordinem
partitionis foedissime permiscebit inscientia. Et quoniam quid hic liber ad
divisionem prosit ostendimus, nunc de demonstratione dicemus, ne per ardua
atque difficilia haereat qui in tanta hac disciplina vigilantissimo ingenio et
sollertissimo labore sudaverit. Fit enim demonstratio, id est alicuius
quaesitae rei certa rationis collectio, ex ante cognitis naturaliter, ex
convenientibus, ex primis, ex causa, ex necessaliis, ex per se inhaerentibus.
Sed genera speciebus propriis priora naturaliter sunt; ex generibus enim
species fluunt. Item species sub se positis vel speciebus vel individuis
priores naturaliter esse manifestum est. Quae vero priora sunt, ea et
praenoscuntur et notiora sunt sequentibus naturaliter. Duobus enim modis primum
aliquid et notum dicitur, secundum nos scilicet et secundum naturam. Nobis enim
illa magis cognita sunt quae sunt proxima, ut individua, dehinc species,
postremo genera, at vero natura converso modo ea sunt magis cognita quae nobis
minime proxima. Atque ideo quamlibet se longius ƿ a nobis genera protulerint,
tanto magis erunt lucida et naturaliter nota. Differentiae vero substantiales
illae sunt quas per se inesse his rebus quae demonstrantur agnoscimus. Praecedere
autem debet generum ac differentiarum cognitio ut in unaquaque disciplina quae
sint eius rei quae demonstratur convenientia principia possit intellegi.
Necessaria vero esse ea ipsa quae genera et differentias dicimus, nullus
dubitat qui speciem sine genere et differentia intellegit esse non posse.
Genera vero et differentiae sunt causae specierum. Idcirco enim species sunt
quia genera earum et differentiae sunt quae in syllogismis posita
demonstrativis non rei solum, verum conclusionis etiam causae sunt, quod
postremi Resolutorii locupletius dicent. Cum igitur perutile sit et definitione
quodlibet illud circumscribere et divisio ne dissoluere et demonstrationibus
comprobare, haec autem praeter earum rerum scientiam de quibus in hoc libro
disputabitur, neque intellegi neque exerceri valeant, quis umquam poterit
dubitare quin hic liber maximum totius logicae adiumentum sit, praeter quem
caetera quae in ea magnam vim tenent, nullum doctrinae aditum praebent? Sed
meminit Porphyrius introductionem sese conscribere neque ultra quam
institutionis modus est formam tractatus egreditur. Ait enim se altiorum
quaestionum nodis abstinere, simplices vero mediocri coniectura perstringere. Quae
vero sint altiores quaestiones quas se differre promittit ita proponit: MOX,
INQUIT, DE GENERIBUS AC SPECIEBUS ILLUD QUIDEM SIVE SUBSISTUNT SIVE IN SOLIS
NUDISQUE INTELLECTIBUS POSITA SUNT SIVE SUBSISTENTIA CORPORALIA SUNT AN
INCORPORALIA ET UTRUM SEPARATA A SENSIBILIBUS AN IN SENSIBILIBUS POSITA ET
CIRCA EA CONSTANTIA, DICERE RECUSABO. ALTISSIMUM ENIM EST HUIUSMODI NEGOTIUM ET
MAIORIS EGENS INQUISITIONIS. Altiores, inquit, quaestiones praetereo ne eis
intempestive lectoris animo ingestis initia eius primitiasque perturbem. Sed ne
omnino faceret neglegentem ut nihil praeterquam quod ipse dixisset lector
amplius putaret occultum, id ipsum cuius exequi quaestionem se differre
promisit addidit ut de his minime obscure penitusque tractando nec lectori
quicquam obscuritatis offunderet et tamen scientia roboratus quid quaeri iure
posset agnosceret. Sunt autem quaestiones quas sese reticere ƿ promittit et
perutiles et secretae et temptatae quidem a doctis viris nec a pluribus
dissolutae. Quarum prima est huiusmodi. Omne quod intellegit animus aut id quod
est in rerum natura constitutum intellectu concipit et sibimet ratione
describit aut id quod non est uacua sibi imaginatione depingit. Ergo
intellectus generis et caeterorum cuiusmodi sit quaeritur -- utrumne ita
intellegamus species et genera ut ea quae sunt et ex quibus verum capimus
intellectum, an nosmet ipsi nos ludimus cum ea quae non sunt animi nobis cassa
cogitatione formamus. Quodsi esse quidem constiterit et ab his quae sunt
intellectum concipi diserimus, tunc alia maior ac difficilior quaestio
dubitationem parit cum discernendi atque intellegendi generis ipsius naturam
summa difficultas ostenditur. Nam quoniam omne quod est aut corporeum aut
incorporeum esse necesse est, genus et species in aliquo horum esse oportebit.
Quale erit igitur id quod genus dicitur -- utrumne corporeum an vero
incorporeum? Neque enim quid sit diligenter intenditur nisi in quo horum poni
debeat agnoscatur. Sed neque cum haec soluta fuerit quaestio omne excludetur
ambiguum. Subest enim aliquid quod, si incorporalia esse genus ac species
dicantur, obsideat intellegentiam atque detineat exsolvi postulans: utrum circa
corpora ipsa subsistant an et praeter corpora subsistentiae incorporales esse
videantur. Duae quippe incorporeorum formae sunt: ut alia praeter corpora esse
ƿ possint et separata a corporibus in sua incorporalitate perdurent (ut deus,
mens, anima); alia vero cum sint incorporea, tamen praeter corpora esse non
possint (ut linea vel superficies vel numerus vel singulae qualitates), quas
tametsi incorporeas esse pronuntiamus quod tribus spatiis minime distendantur,
tamen ita in corporibus sunt ut ab his divelli nequeant aut separari aut si a
corporibus separata sint, nullo modo permaneant. Quas licet quaestiones arduum
sit ipso interim Porphyrio renuente dissoluere, tamen aggrediar ut nec anxium
lectoris animum relinquam nec ipse in his quae praeter muneris suscepti seriem
sunt tempus operamque consumam. Primum quidem pauca sub quaestionis ambiguitate
proponam, post vero eundem dubitationis nodum absoluere atque explicare
temptabo. Genera et species aut sunt atque subsistunt aut intellectu et sola
cogitatione formantur. Sed genera et species esse non possunt. Hoc autem ex his
intellegitur. Omne enim quod commune est uno tempore pluribus, id unum esse non
poterit. Multorum enim est quod commune est, praesertim cum una eademque res in
multis uno tempore tota sit. Quantaecumque enim sunt species in omnibus genus
unum est, non quod de eo singulae species quasi partes aliquas carpant sed
singulae uno tempore totum genus habent. Quo fit ut totum genus in pluribus
singulis uno tempore positum unum esse non possit; neque enim fieri potest ut
cum in pluribus totum uno sit tempore in semet ipso sit unum ƿ numero. Quod si
ita est, unum quiddam genus esse non poterit. Quo fit ut omnino nihil sit; omne
enim quod est, idcirco est quia unum est. Et de specie idem convenit dici. Quodsi
est quidem genus ac species sed multiplex neque unum numero, non erit ultimum
genus sed habebit aliud superpositum genus quod illam multiplicitatem unius vi
nominis includat. Ut enim plura animalia quoniam habent quiddam simile, eadem
tamen non sunt, idcirco eorum genera perquiruntur, ita quoque quoniam genus
quod in pluribus est atque ideo multiplex habet sui similitudinem quod genus
est; non est vero unum quoniam in pluribus est -- eius generis quoque genus
aliud quaerendum est, cumque fuerit inventum eadem ratione quae superius dicta
est, rursus genus tertium uestigatur. Itaque in infinitum ratio procedat
necesse est cum nullus disciplinae terminus occurrat. Quodsi unum quiddam numero
genus est commune multorum esse non poterit. Una enim res si communis est aut
partibus communis est et non iam tota communis sed partes eius propriae
singulorum; aut in usus habentium etiam per tempora transit ut sit commune ut
seruus communis vel equus; aut uno tempore omnibus commune fit, non tamen ut
eorum quibus commune est substantiam constituat, ut est theatrum vel
spectaculum aliquod, quod spectantibus omnibus commune est. Genus vero secundum
nullum horum modum commune esse speciebus potest, nam ƿ ita commune esse debet
ut et totum sit in singulis et uno tempore et eorum quorum commune est
constituere valeat et formare substantiam. Quocirca si neque unum est quoniam
commune est, neque multa quoniam eius quoque multitudinis genus aliud
inquirendum est, videbitur genus omnino non esse. Idemque de caeteris
intellegendum est. Quodsi tantum intellectibus genera et species caeteraque
capiuntur, cum omnis intellectus aut ex re fiat subiecta ut sese res habet aut
ut sese res non habet (nam ex nullo subiecto fieri intellectus non potest) -- Si
generis et speciei caeterorumque intellectus ex re subiecta veniat ita ut sese
res ipsa habet quae intellegitur, iam non tantum in intellectu posita sunt sed
in rerum etiam veritate consistunt, et rursus quaerendum est quae sit eorum
natura quod superior quaestio uestigabat. Quodsi ex re quidem generis
caeterorumque sumitur intellectus neque ita ut sese res habet quae intellectui
subiecta est, uanum necesse est esse intellectum qui ex re quidem sumitur, non
tamen ita ut sese res habet; id est enim falsum quod aliter atque res est
intellegitur. Sic igitur quoniam genus ac species nec sunt nec cum
intelleguntur verus eorum est intellectus, non est ambiguum quin omnis haec sit
deponenda de his quinque propositis disputandi cura, quandoquidem neque de ea
re quae sit ƿ neque de ea de qua verum aliquid intellegi proferrive possit,
inquiritur. Haec quidem est ad praesens de propositis quaestio, quam nos
Alexandro consentientes hac ratiocinatione soluemus. Non enim necesse esse dicimus
omnem intellectum qui ex subiecto quidem fit, non tamen ut sese ipsum subiectum
habet, falsum et uacuum videri. In his enim solis falsa opinio ac non potius
intellegentia est quae per compositionem fiunt. Si enim quis componat atque
coniungat intellectu id quod natura iungi non patitur, illud falsum esse nullus
ignorat -- ut si quis equum atque hominem iungat imaginatione atque effigiet
centaurum. Quodsi hoc per divisionem et per abstractionem fiat, non quidem ita
res sese habet ut intellectus est, intellectus tamen ille minime falsus est.
Sunt enim plura quae in aliis esse suum habent ex quibus aut omnino separari
non possunt aut, si separata fuerint, nulla ratione subsistunt. Atque ut hoc
nobis in peruagato exemplo manifestum sit, linea in corpore quidem est aliquid
et id quod est corpori debet, hoc est esse suum per corpus retinet. Quod
docetur ita: si enim separata sit a corpore, non subsistit; quis enim umquam
sensu ullo separatam a corpore lineam cepit? Sed animus cum confusas res
permixtasque in se a sensibus cepit, eas propria vi et ƿ cogitatione
distinguit. Omnes enim huiusmodi res incorporeas in corporibus esse suum
habentes sensus cum ipsis nobis corporibus tradit, at vero animus, cui potestas
est et disiuncta componere et composita resoluere, quae a sensibus confusa et
corporibus coniuncta traduntur ita distinguit ut incorpoream naturam per se ac
sine corporibus in quibus est concreta speculetur et videat. Diversae enim
proprietates sunt incorporeorum corporibus permixtorum, etsi separentur a
corpore. Genera ergo et species caeteraque vel in incorporeis rebus vel in his
quae sunt corporea reperiuntur. Et si ea in rebus incorporeis invenit animus,
habet ilico incorporeum generis intellectum. Si vero corporalium rerum genera
speciesque perspexerit, aufert, ut solet, a corporibus incorporeorum naturam et
solam puramque ut in se ipsa forma est contuetur. Ita haec cum accipit animus
permixta corporibus, incorporalia dividens speculatur atque considerat. Nemo
ergo dicat falso nos lineam cogitare, quoniam ita eam mente capimus quasi
praeter corpora sit, cum praeter corpora esse non possit. Non enim omnis qui ex
subiectis rebus capitur intellectus aliter quam sese ipsae res habent, falsus
esse putandus est sed, ut superius dictum ƿ est, ille quidem qui hoc in
compositione facit falsus est, ut cum hominem atque equum iungens putat esse
centaurum, qui vero id in divisionibus et abstractionibus assumptionibusque ab
his rebus in quibus sunt efficit, non modo falsus non est, verum etiam solus id
quod in proprietate verum est invenire potest. Sunt igitur huiusmodi res in
corporalibus atque in sensibilibus, intelleguntur autem praeter sensibilia ut
eorum natura perspici et proprietas valeat comprehendi. Quocirca cum genera et
species cogitantur, tunc ex singulis in quibus sunt eorum similitudo colligitur
-- ut ex singulis hominibus inter se dissimilibus humanitatis similitudo, quae
similitudo cogitata animo veraciterque perspecta fit species; quarum specierum
rursus diversarum similitudo considerata, quae nisi in ipsis speciebus aut in
earum individuis esse non potest, efficit genus. Itaque haec sunt quidem in
singularibus, cogitantur vero universalia. Nihilque aliud species esse putanda
est nisi cogitatio collecta ex individuorum dissimilium numero substantiali similitudine,
genus vero cogitatio collecta ex specierum similitudine. Sed haec similitudo
cum in singularibus est fit sensibilis; cum in universalibus fit intellegibilis
-- eodemque modo cum sensibilis est in singularibus permanet; cum intellegitur
fit universalis. Subsistunt ergo circa sensibilia, intelleguntur autem praeter
corpora. Neque enim interclusum est ut duae res eodem in subiecto sint ratione
diversae, ut linea curua atque caua, quae ƿ res cum diversis definitionibus
terminentur diversusque earum intellectus sit, semper tamen in eodem subiecto
reperiuntur; eadem enim linea caua, eadem curua est. Ita quoque generibus et
speciebus, id est singularitati et universalitati, unum quidem subiectum est;
sed alio modo universale est cum cogitatur, alio singulare cum sentitur in
rebus his in quibus esse suum habet. His igitur terminatis omnis, ut arbitror,
quaestio dissoluta est. Ipsa enim genera et species subsistunt quidem alio modo,
intelleguntur vero alio. Et sunt incorporalia sed sensibilibus iuncta subsistunt
in sensibilibus. Intelleguntur vero ut per semet ipsa subsistentia ac non in
aliis esse suum habentia. Sed Plato genera et species caeteraque non modo
intellegi universalia, verum etiam esse atque praeter corpora subsistere putat,
Aristoteles vero intellegi quidem incorporalia atque universalia sed subsistere
in sensibilibus putat. Quorum diiudicare sententias aptum esse non duxi,
altioris enim est philosophiae. Idcirco vero studiosius Aristotelis sententiam
executi sumus, non quod eam maxime probaremus sed quod hic liber ad
Praedicamenta conscriptus est quorum Aristoteles est auctor. ILLUD VERO
QUEMADMODUM DE HIS AC DE PROPOSITIS PROBABILITER ANTIQUI TRACTAVERUNT ET HORUM
MAXIME PERIPATETICI, TIBI NUNC TEMPTABO MONSTRARE. Praetermissis his quaestionibus
quas altiores esse praedixit, ƿ exoptat mediocrem introductorii operis
tractatum. Sed ne haec ipsa sibi harum quaestionum omissio vitio daretur,
apposuit quemadmodum de propositis tractaturus est, ex quorumque hoc opus
auctoritate subnixus aggrediatur ante denuntiat. Cum mediocritatem quidem
tractatus promittit detracta obscuritatis difficultate, animum lectoris
inuitat, ut vero acquiescat ac sileat ad id quod dicturus est, Peripateticorum
auctoritate confirmat. Atque ideo ait DE HIS, id est de generibus et speciebus
de quibus superiores intulerat quaestiones, AC DE PROPOSITIS, id est de
differentiis, propriis atque accidentibus, sese PROBABILITER disputaturum. PROBABILITER
autem ait veri similiter, quod Graeci *logikos* vel *endoxos* dicunt. Saepe enim
et apud Aristotelem *logikos* veri similiter ac probabiliter dictum invenimus
et apud Boethum et apud Alexandrum. Porphyrius quoque ipse in multis hac
significatione hoc usus est verbo quod nos scilicet in translatione, quod ait
*logikos* ita interpretari ut rationabiliter diceremus, omisimus. Longe enim
melior ac verior significatio ea visa est ut probabiliter sese dicere
promitteret, id est non praeter opinionem ingredientium atque lectorum, quod
introductionis est proprium. Nam cum ab imperitorum hominum mentibus doctrinae
secretum altioris abhorreat, talis esse introductio debet ut praeter opinionem
ingredientium non sit. Atque ideo melius ƿ probabiliter quam rationabiliter, ut
nobis videtur, interpretati sumus. Antiquos autem ait de eisdem disputasse
rebus sed <se> eorum illum maxime tractatum insequi quem Peripatetici
Aristotele duce reliquerint, ut tota disputatio ad Praedicamenta conveniat. Quaeri
in ei positionum principiis solet, cur unumquodque caeteris in disputationis
ordine praeponatur, velut nunc in genere dubitari potest, cur genus speciei,
differentiae, proprio accidentique praetulerit; de eo enim primitus tractat.
Respondebimus itaque iure factum videri; omne enim quod universale est, intra
semet ipsum caetera concludit, ipsum vero non clauditur. Maioris itaque meriti
est ac principalis naturae quod ita caetera cohercet, ut ipsum naturae
magnitudine nequeat ab aliis contineri. Genus igitur et species intra se
positas habet et earum differentias propriaque, nihilominus etiam accidentia,
atque ita de genere inchoandum fuit, quod caetera naturae suae magnitudine
cohercet et continet. Praeterea illa semper priora putanda sunt quae si auferat
quis, caetera perimuntur, illa posteriora quibus positis ea quae caeterorum
substantiam perficiunt, consequuntur, ut in genere et caeteris. Nam si animal
auferas, quod est hominis genus, homo quoque, quod species est, et rationale,
quod differentia, et risibile, quod proprium, et grammaticum, quod accidens,
non manebit et ƿ interemptum genus cuncta consumit. Si vero hominem esse
constituas vel grammaticum vel rationale vel risibile, animal quoque esse
necesse est. Sive enim homo est, animal est, sive rationale, sive risibile,
sive grammaticum, ab animalis substantia non recedit. Sublato igitur genere et
caetera consumuntur, positis caeteris sequitur genus; prior est igitur natura
generis, posterior caeterorum. Iure est igitur in disputati*one praepositum. Sed
quoniam generis nomen multa significat -- hoc est enim quod ait: VIDETUR AUTEM
NEQUE GENUS NEQUE SPECIES SIMPLICITER DICI. Ubi enim non est simplex dictio,
illic multiplex significatio est -- prius huius nominis significationes
discernit ac separat, ut de qua significatione generis tractaturus est, sub
oculis ponat. Sed cum neque genus neque species neque differentia nec proprium
nec accidens significatione simplici sint, cur de his tantum duobus, genere
inquam ac specie, dixit non simpliciter dici, cum proprium, differentia atque
accidens ipsa quoque sint significatione multiplici? Dicendum est quoniam
longitudinem vitans tantum speciem nominavit eamque idcirco, ne solum genus
significationis esse multiplicis putaretur. Enumerat autem primam quidem generis
significationem hoc modo: GENUS ENIM DICITUR ET ALIQUORUM QUODAMMODO SE
HABENTIUM AD UNUM ALIQUID ET AD SE INVICEM COLLECTIO, SECUNDUM QUAM
SIGNIFICATIONEM ROMANORUM DICITUR GENUS AB UNIUS SCILICET HABITUDINE, DICO
AUTEM ROMULI, ET MULTITUDINIS HABENTIUM ALIQUO MODO AD INVICEM EAM QUAE AB ILLO
EST COGNATIONEM SECUNDUM DIVISIONEM AB ALIIS GENERIBUS DICTAE. Una, inquit,
generis significatio est quae in multitudinem venit a quolibet uno principium
trahens, ad quem scilicet ita illa multitudo coniuncta est, ut ad se invicem
per eiusdem unius principium copulata sit, ut cum Romanorum dicitur genus; multitudo
enim Romanorum ab uno Romulo vocabulum trahans et ipsi Romulo et ad se invicem
quasi quadam nominis hereditate coniuncta est. Eadem enim quae a Romulo
societas descendit, Romanos inter se omnes uno generis nomine devincit et
colligat. Videtur autem secuisse hanc generis significationem in duas partes,
cum copulativam coniunctionem admiscuit dicens: GENUS DICITUR ET ALIQUORUM
QUODAMMODO SE HABENTIUM AD UNUM ALIQUID ET AD SE INVICEM COLLECTIO, tamquam et
illud genus dicatur ad unum se aliquo modo habere et hoc rursus genus dicatur,
quod ad se invicem unius generis significatione coniuncti sint. Hoc vero
minime; eadem enim a quolibet uno propagata societas et ad illum qui princeps
est generis, totam multitudinem refert et ipsam ƿ inter se multitudinem uno
generis nomine conectit et continet. Quocirca non est putandus divisionem
fecisse sed omne quicquid in hac generis significatione intellegendum fuit,
aperuisse. Ordo autem verborum ita sese habet (qui est hyperbaton
intellegendus): 'genus enim dicitur et aliquorum ad unum se aliquo modo
habentium collectio et ad se invicem aliquo modo habentium' -- rursus
'collectio' subaudienda; est enim zeugma -- cuius significationis adiecit
exemplum: SECUNDUM QUAM SIGNIFICATIONEM ROMANORUM DICITUR GENUS AB UNIUS SCILICET
HABITUDINE, DICO AUTEM ROMULI, ET MULTITUDINIS RURSUS HABITUDINE HABENTIUM
ALIQUO MODO AD INVICEM COGNATIONEM, EAM SCILICET QUAE AB ILLO EST, ID EST
ROMULO, SECUNDUM DIVISIONEM AB ALIIS GENERIBUS DICTAE, scilicet multitudinis.
Haec enim multitudo aliquo modo ad unum et ad se invicem habens genus dicta
est, ut ab aliis discerneretur, ut Romanorum genus ab Atheniensium
caeterorumque separatur, ut sit integer verborum ordo: 'genus enim dicitur et
aliquorum collectio ad unum se quodammodo habentium et ad se invicem, secundum
quam significationem Romanorum dicitur genus ab unius scilicet habitudine, dico
autem Romuli, et multitudinis secundum divisionem ab aliis generibus dictae,
habentium scilicet hominum aliquo modo ad invicem eam quae ab illo est, id est Romulo,
cognationem.' ƿ Atque haec hactenus; nunc de secunda generis significatione
dicendum est. DICITUR AUTEM ET ALITER RURSUS GENUS, QUOD EST UNIUSCUIUSQUE
GENERATIONIS PRINCIPIUM VEL AB EO QUI GENUIT VEL A LOCO IN QUO QUIS GENITUS
EST. SIC ENIM ORESTEM QUIDEM DICIMUS A TANTALO HABERE GENUS, HYLLUM AUTEM AB
HERCULE, ET RURSUS PINDARUM QUIDEM THEBANUM ESSE GENERE, PLATONEM VERO
ATHENIENSEM; ETENIM PATRIA PRINCIPIUM EST UNIUSCUIUSQUE GENERATIONIS,
QUEMADMODUM ET PATER. HAEC AUTEM VIDETUR PROMPTISSIMA ESSE SIGNIFICATIO; ROMANI
ENIM SUNT QUI EX GENERE DESCENDUNT ROMULI, ET CECROPIDAE, QUI A CECROPE, ET
HORUM PROXIMI. Quattuor omnino sunt principia quae unumquodque principaliter
efficiunt. Est enim una causa quae effectiva dicitur, velut pater filii, est
alia quae materialis, velut lapides domus, tertia forma, velut hominis
rationabilitas, quarta, quam ob rem, velut pugnae victoria. Duae vero sunt quae
per accidens uniuscuiusque ƿ dicuntur esse principia, locus scilicet ac tempus.
Quoniam enim omne quod nascitur vel fit, in loco ac tempore est, quicquid loco
vel tempore natum factumue fuerit, eum locum vel id tempus accidenter dicitur
habere principium. Horum omnium in hac secunda generis significatione duo
quaedam ex alterutris assumit, quae ad significationem generis videbuntur
accommoda, ex his quidem quae principalia sunt, effectivum,; ex his vero quae
accidentia, locum. Ait enim 'genus dicitur et a quo quis genitus est', quod est
effectiva principalium causa, 'et in quo quis loco est procreatus', quae est accidens
causa principii. Itaque haec secunda significatio duo continet, eum a quo quis
procreatus est, et locum in quo quis editus, ut exempla quoque demonstrant.
Orestem enim dicimus a Tantalo genus ducere; Tantalus quippe Pelopem, Pelops
Atreum, Atreus Agamemnonem, Agamemnon genuit Orestem. Itaque a procreatione
genus hoc dictum est. At vero Pindarum dicimus esse Thebanum, scilicet quoniam
Thebis editus tale generis nomen accepit. Sed quoniam diversum est illud, a quo
quis procreatus est, locusque in quo quis editus, videtur diversa esse generis
significatio procreantis et loci, quam in secunda scilicet parte enumerans unam
fecit. Sed ne videretur duplex, per similitudinem coniunxit dicens: ETENIM
PATRIA PRINCIPIUM EST UNIUSCUIUSQUE GENERATIONIS, ƿ QUEMADMODUM ET PATER. Sed
quoniam in significationibus evenit fere, ut sit aliquid quod intellectui
significatae rei propinquius esse videatur, quoniam duas generis apposuit
significationes, multitudinis scilicet et procreantis, cui generis nomen
convenientius aptetur, iudicat atque discernit dicens hanc esse promptissimam
generis significationem quae a procreante deducta sit; hi enim maxime
Cecropidae sunt qui a Cecrope descendunt, hi Romani, qui a Romulo. Quae cum ita
sint, confundi rursus generis significationes videntur. Si enim hi sunt maxime
Romani qui a Romulo originem trahunt, et haec significatio illa est quae a
procreante deducitur, ubi est reliqua, quam primam quoque enumeravit, quae est
'multitudinis ad unum et ad se invicem quodammodo se habentium collectio'? Sed
acutius intuentibus plurimae admodum differentiae sunt. Aliud est enim a
quolibet primo procreante genus ducere, aliud unum genus esse plurimorum. Illud
enim et per rectam sanguinis lineam fieri potest et non in multa diffundi, ut
si per unicos familia descendat, huic enim aptabitur secunda illa generis
significatio, quae a procreante deducitur; prima vero illa non nisi in
multitudine consistit. Illud quoque est, quod prima procreationis principium
non requirit sed, ut ipse ait, sufficit aliquo modo se habere ad id unde
huiusmodi generis principium sumitur, secunda vero significatio nullam vim nisi
procreante sortitur. Item in illa primae significationis multitudine huius
secundae particularitas continetur, ut in ƿ Romanorum genere Scipiadarum genus;
nam cum sint Romani, Scipiadae sunt. Quoniam enim ad Romulum et ad caeteros
Romanos secundum Romuli habitudinem iuncti sunt, Romani sunt, Seipiadae vero
dicuntur ad secundam generis significationem, quia eorum familiae Scipio et
sanguinis principium fuit. ET PRIUS QUIDEM APPELLATUM EST GENUS UNIUSCUIUSQUE
GENERATIONIS PRINCIPIUM, DEHINC ETIAM MULTITUDO EORUM QUI SUNT AB UNO
PRINCIPIO, UT A ROMULO; NAMQUE DIVIDENTES ET AB ALIIS SEPARANTES DICEBAMUS
OMNEM ILLAM COLLECTIONEM ESSE ROMANORUM GENUS. Sensus facilis et expeditus, si
tamen ambiguitas una solvatur. Cum enim prius multitudinis significationem
retulerit ad generis nomen, post autem ad procreationis initium, nunc contrario
modo illam prius a se enumeratam significationem dicere videtur quae est procreationis,
illam vero posteriorem quae est multitudinis; quod contrarium videri potest, si
quis ad ordinem superius digestae disputationis aspexerit. Sed hic non de se
loquitur sed de humani consuetudine sermonis, in quo prius eam significationem
generis fuisse dicit quae a procreante sit tracta, accedente vero aetate
loquendi usu nomen generis etiam ad multitudinem habentem se quodammodo ad
aliquem fuisse translatum, hoc vero idcirco, quoniam ƿ superius dixerat: haec
enim videtur promptissima esse significatio, ut ab hac, id est secunda, quam
promptissimam significationem esse dixit, illa quoque nuncupata videretur, quae
est multitudinis. Prius enim genus inter homines appellatum est quod quis a
generante deduceret, post autem factum est, ut per loquendi usum etiam
multitudinis ad aliquem quodammodo se habentis genus diceretur propter
divisionem scilicet gentium, ut esset inter eas nominis societatisque
discretio. His igitur expletis venit ad tertium genus quod inter philosophos
tractatur cuiusque ad dialecticam facultatem multus usus est. Horum quippe
generum historia magis vel poesis tractat exordium, tertium vero genus apud
philosophos consideratur. De quo hoc modo loquitur: ALITER AUTEM RURSUS GENUS
DICITUR CUI SUPPONITUR SPECIES, AD HORUM FORTASSE SIMILITUDINEM DICTUM. ETENIM
PRINCIPIUM QUODDAM EST HUIUSMODI GENUS EARUM QUAE SUB IPSO SUNT SPECIERUM,
VIDETUR ETIAM MULTITUDINEM CONTINERE OMNEM QUAE SUB EO EST. Duplicem
significationem generis supra posuit, nunc tertiam monstrare contendit, hanc
autem ad superiorum similitudinem ƿ dictam esse arbitratur. Superius autem
dictae significationes sunt una quidem, cum nomen generis quadam principii
antiquitate ad se iunctam multitudinem contineret, alia vero, cum genus ab
unoquoque procreante duceretur, quod eorum quae procreantur principium est. Cum
igitur sint superius duae generis propositae significationes, tertium nunc
addit de quo inter philosophos sermo est, illud scilicet cui supponitur
species, quod idcirco genus vocatum esse sub opinionis credit ambiguo, quoniam
habet aliquam similitudinem superiorum. Nam sicut illud genus quod ad
multitudinem dicitur, uno suo nomine multitudinem claudit, ita etiam genus
plurimas species cohercet et continet. Item ut genus illud quod secundum
procreationem dicitur, principium quoddam est eorum quae ab ipso procreantur,
ita genus speciebus suis est principium. Ergo quoniam utrisque est simile,
idcirco nomen quoque generis etiam in hac significatione a superioribus mutuatum
esse veri simile est. TRIPLICITER IGITUR CUM GENUS DICATUR, DE TERTIO APUD
PHILOSOPHOS SERMO EST; QUOD ETIAM DESCRIBENTES ASSIGNAVERUNT ƿ GENUS ESSE
DICENTES QUOD DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS SPECIE IN EO QUOD QUID SIT
PRAEDICATUR, UT ANIMAL. Iure tertium genus philosophi ad disputationem sumunt;
hoc enim solum est quod substantiam monstrat, caetera vero aut unde quid
existat aut quemadmodum a caeteris hominibus in unam quasi populi formam
dividatur ostendunt. Nam illud quod multitudinem continet genus, illius
multitudinis quam continet substantiam non demonstrat sed tantum uno nomine
collectionem populi facit, ut ab alterius generis populo segregetur. Item illud
quod secundum procreationem dictum est, non rei procreatae substantiam monstrat
sed tantum quod eius fuerit procreationis initium. At vero genus id cui supponitur
species, ad speciem accommodatum speciei substantiam informat. Et quia inter
philosophos haec maxima est quaestio, quid unumquodque sit -- tunc enim
unumquodque scire videmur, quando quid sit agnoscimus -- idcirco reiectis
caeteris de hoc genere quam maxime apud philosophos sermo est, quod etiam
describentes assignaverunt ea descriptione quam subter annexuit. Diligenter
vero ait describentes, non definientes; definitio enim fit es genere, genus
autem aliud genus habere non poterit. Idque obscurius est quam ut primo aditu
dictum pateat. Fieri autem potest ut res quae ƿ alii genus sit, alii generi
supponatur, non quasi genus sed tamquam species sub alio collocata. Unde non in
eo quod genus est, supponi alicui potest sed cum supponitur, ilico species fit.
Quae cum ita sint, ostenditur genus ipsum in eo quod genus est, genus habere
non posse. Si igitur voluisset genus definitione concludere, nullo modo
potuisset; genus enim aliud quod ei posset praeponere, non haberet, atque
idcirco descriptionem ait esse factam, non definitionem. Descriptio vero est,
ut in priore volumine dictum est ex proprietatibus informatio quaedam rei et
tamquam coloribus quibusdam depictio. Cum enim plura in unum convenerint, ita
ut omnia simul rei cui applicantur aequentur, nisi ex genere vel differentiis
haec collectio fiat, descriptio nuncupatur. Est igitur descriptio generis haec:
genus est quod de pluribus et differentibus specie in eo quod quid sit
praedicatur. Tria haec requiruntur in genere, ut de pluribus praedicetur, ut de
specie differentibus, ut in eo qund quid sit de qua re quoniam ipse posterius
latius disputat, nos breviter huius rei intellegentiam significemus exemplo.
Sit enim nobis in forma generis animal. Id de aliquibus sine dubio praedicatur,
homine scilicet, equo, bove et caeteris. Sed haec plura sunt. Animal igitur de
pluribus praedicatur, homo vero, equus atque bos talia sunt, ut a se
discrepent, nec qualibet mediocri re sed tota specie, id est tota forma suae
substantiae. De quibus dicitur animal; homo enim et equus et bos animalia
nuncupantur. Praedicatur ergo animal de pluribus specie differentibus. Sed
quonam modo fit ƿ haec praedicatio? Non enim quicquid interrogaveris, mox
animal respondetur: non enim si quantus sit homo interrogaveris, 'animal'
respondebitur, ut opinor; hoc enim ad quantitatem pertinet, non ad substantiam.
Item si 'qualis' interrogess ne huic quidem responsio convenit animalis,
caeterisque omnibus interrogationibus hanc animalis responsionem ineptam atque
inutilem semper esse reperies, nisi ei tantum apta est quae quid sit
interroget. Interrogantibus enim nobis quid sit homo, quid sit equus, quid sit
bos, 'animalia' respondebitur. Ita nomen animalis ad interrogationem 'quid sit'
de homine, equo atque bove ac de caeteris praedicatur, unde fit ut animal
praedicetur de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit. Et quoniam
generis haec definitio est, animal hominis, equi, bovis genus esse necesse est.
Omne autem genus aliud est quod in semet ipso atque in re intellegitur, aliud
quod alterius praedicatione. Sua enim proprietas ipsum esse constituit, ad
alterum relatio genus facit, ut ipsum animal, si eius substantiam quaeras,
dicam substantiam esse animatam atque sensibilem. Haec igitur definitio rem
monstrat per se sicut est, non tamquam referatur ad aliud. At vero cum dicimus
animal genus esse, non, ut arbitror, tunc de re ipsa hoc dicimus sed de ea
relatione qua potest animal ad caeterorum quae sibi subiecta ƿ sunt
praedicationem referri. Itaque character est quidam ac forma generis in eo quod
referri praedicatione ad eas res potest, quae cum sint plures et specie
differentes, in earum tamen substantia praedicatur. Huius autem definitionis
rationem per exempla subiecit dicens: EORUM ENIM QUAE PRAEDICANTUR, ALIA QUIDEM
DE UNO DICUNTUR SOLO, SICUT INDIVIDUA UT SOCRATES ET HIC ET HOC, ALIA VERO DE
PLURIBUS, QUEMADMODUM GENERA ET SPECIES ET DIFFERENTIAE ET PROPRIA ET
ACCIDENTIA COMMUNITER SED NON PROPRIE ALICUI. EST AUTEM GENUS QUIDEM UT ANIMAL,
SPECIES VERO UT HOMO, DIFFERENTIA AUTEM UT RATIONALE, PROPRIUM UT RISIBILE, ACCIDENS
UT ALBUM, NIGRUM SEDERE. Omnium quae praedicantur quolibet modo, facit
Porphyrius divisionem idcirco, ut ab reliquis omnibus praedicationem generis
seiungat ac separet, hoc modo. Omnium, inquit, quae praedicantur, alia de
singularitate, alia de pluralitate dicuntur. ƿ De singularitate vero, inquit,
praedicantur quaecumque unum quodlibet habent subiectum de quo dici possint, ut
ea quibus singula subiecta sunt individua, ut Socrates, Plato, ut hoc album
quod in hac proposita nive est, ut hoc scamnum in quo nunc sedemus, non omne
scamnum -- hoc enim universale est -- sed hoc quod nunc suppositum est, nec
album quod in nive est -- universale est enim album et nix -- sed hoc album
quod in hac nive nunc esse conspicitur; hoc enim non potest de quolibet alio
albo praedicari quod in hac nive est, quia ad singularitatem deductum est atque
ad in dividuam formam constrictum est individui participatione. Alia vero sunt
quae de pluribus praedicantur, ut genera, species, differentiae et propria et
accidentia communiter sed non proprie alicui. Genera quidem de pluribus
praedicantur speciebus suis, species vero de pluribus praedicantur individuis;
homo enim, quod est animalis species, plures sub se homines habet de quibus
appellari possit. Item equus, qui sub animali est loco speciei, plurimos habet
individuos equos de quibus praedicetur. Differentia vero ipsa quoque de
pluribus speciebus dici potest, ut rationale de homine ac de deo corpolibusque
caelestibus, quae, sicut Platoni placet, animata sunt et ratione vigentia.
Proprium item etsi de una specie praedicatur, de multis tamen individuis
dicitur, quae sub convenienti specie collocantur, ut risibile de Platone,
Socrate et caeteris individuis quae homini supponuntur. Accidens etiam ƿ de
multis dicitur; album enim et nigrum de multis omnino dici potest quae a se
genere specieque seiuncta sunt. Sedere etiam de multis dicitur; homo enim
sedet, simia sedet, aves quoque, quorum species longe diversae sunt. Accidens
autem quoniam communiter accidens esse potest et proprie alicui, idcirco
determinavit dicens et accidentia communiter sed non proprie alicui. Quae enim
proprie alicui accidunt, individua fiunt et de uno tantum valentia praedicari,
ea quae communiter accipiuntur, de pluribus dici queunt. Ut enim de nive dictum
est, illud album quod in hac subiecta nive est, non est communiter accidens sed
proprie huic nivi quae oculis ostensionique subiecta est. Itaque ex eo quod
communiter praedicari poterat -- de multis enim album dici potest, ut albus
homo, albus equus, alba nix -- factum est, ut de una tantum nive praedicari
illud album: possit cuius participatione ipsum quoque factum est singulare. Omnino
autem omnia genera vel species vel differentiae vel propria vel accidentia, si
per semet ipsa speculemur in eo quod genera vel species vel differentiae vel
propria vel accidentia sunt, manifestum est quoniam de pluribus praedicantur.
At si ea in his speculemur in quibus sunt, ut secundum subiecta eorum formam et
substantiam metiamur, evenit ut ex pluralitate praedicationis ad singularitatem
videantur adduci. Animal enim, ƿ quod genus est, de pluribus praedicatur sed
cum hoc animal in Socrate consideramus -- Socrates enim animal est -- ipsum
animal fit individuum, quoniam Socrates est individuus ac singularis. Item homo
de pluribus quidem hominibus praedicatur sed si illam humanitatem quae in
Socrate est individuo consideremus, fit individua, quoniam Socrates ipse
individuus est ac singularis. Item differentia ut rationale de pluribus dici
potest sed in Socrate individua est. Risibile etiam cum de pluribus hominibus
praedicetur, in Socrate fit unicum. Communiter quoque accidens, ut album, cum
de pluribus dici possit, in unoquoque singulari perspectum individuum est.
Fieri autem potuit commodior divisio hoc modo. Eorum quae dicuntur, alia quidem
ad singularitatem praedicantur, alia ad pluralitatem, eorum vero quae de
pluribus praedicantur, alia secundum substantiam praedicantur, alia secundum
accidens. Eorum quae secundum substantiam praedicantur, alia in eo quod quid
sit dicuntur, alia in eo quod quale sit, in eo quod quid sit quidem, genus ac
species, in eo quod quale sit, differentia. Item eorum quae in eo quod quid sit
praedicantur, alia de speciebus praedicantur pluribus, alia minime; de
speciebus pluribus praedicantur genera, de nullis vero species. Eorum autem
quae secundum accidens praedicantur, alia quidem sunt quae de pluribus
praedicantur, ut accidentia, ƿ alia quae de uno tantum, ut propria. Posset
autem fieri etiam huiusmodi divisio. Eorum quae praedicantur, alia de singulis
praedicantur, alia de pluribus. Eorum quae de pluibus, alia in eo quod quid
sit, alia in eo quod quale sit praedicantur. Eorum quae in eo quod quid sit,
alia de differentibus specie dicuntur, ut genera, alia minime, ut species,
eorum autem quae in eo quod quale sit de pluribus praedicantur, alia quidem de
differentibus specie praedicantur, ut differentiae et accidentia, alia de una
tantum specie, ut propria. Eorum vero quae de differentibus specie in eo quod
quale sit praedicantur, alia quidem in substantia praedicantur, ut
differentiae, alia in communiter evenientibus, ut accidentia. Et per hanc
divisionem quinque barum rerum definitiones colligi possunt hoc modo. Genus est
quod de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit praedicatur. Species
est quod de pluribus minime specie differentibus in eo quod quid sit
praedicatur. Differentia est quod de pluribus specie differentibus in eo quod
quale sit in substantia praedicatur. Proprium est quod de una tantum specie in
eo quod quale sit non in substantia praedicatur. Accidens est quod de pluribus
specie differentibus in eo quod quale sit non in substantia praedicatur. Et nos
quidem has divisiones fecimus, ut omnia a semet ipsis separaremus, Porphyrio
vero alia fuit intentio. Non enim omnia nunc a semet ipsis disiungere
festinabat sed tantum ut caetera a generis forma et proprietate separaret.
Idcirco divisit quidem omnia quae praedicantur aut in ea quae de singulis
praedicantur, aut in ea quae de pluribus, ea vero quae de pluribus
praedicantur, aut genera esse dilit aut species aut caetera, horumque exempla
subiciens adiungit: AB HIS ERGO QUAE DE UNO SOLO PRAEDICANTUR, DIFFERUNT GENERA
EO QUOD DE PLURIBUS ASSIGNATA PRAEDICENTUR, AB HIS AUTEM QUAE DE PLURIBUS, AB
SPECIEBUS QUIDEM, QUONIAM SPECIES ETSI DE PLURIBUS PRAEDICANTUR SED NON DE
DIFFERENTIBUS SPECIE SED NUMERO; HOMO ENIM CUM SIT SPECIES, DE SOCRATE ET
PLATONE PRAEDICATUR, QUI NON SPECIE DIFFERUNT A SE INVICEM SED NUMERO, ANIMAL
VERO CUM GENUS SIT, DE HOMINE ET BOVE ET EQUO PRAEDICATUR, QUI DIFFERUNT A SE
INVICEM ET SPECIE QUOQUE, NON NUMERO SOLO. A PROPRIO VERO DIFFERT GENUS,
QUONIAM PROPRIUM QUIDEM DE UNA SOLA SPECIE, CUIUS EST PROPRIUM, PRAEDICATUR ET
DE HIS QUAE SUB UNA SPECIE SUNT INDIVIDUIS, QUEMADMODUM ƿ RISIBILE DE HOMINE
SOLO ET DE PARTICULARIBUS HOMINIBUS, GENUS AUTEM NON DE UNA SPECIE PRAEDICATUR
SED DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS SPECIE. A DIFFERENTIA VERO ET AB HIS QUAE
COMMUNITER SUNT ACCIDENTIBUS DIFFERT GENUS, QUONIAM ETSI DE PLURIBUS ET
DIFFERENTIBUS SPECIE PRAEDICANTUR DIFFERENTIAE ET COMMUNITER ACCIDENTIA SED NON
IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICANTUR SED IN EO QUOD QUALE QUID SIT INTERROGANTIBUS
ENIM NOBIS ILLUD DE QUO PRAEDICANTUR HAEC, NON IN EO QUOD QUID SIT DICIMUS
PRAEDICARI SED MAGIS IN EO QUOD QUALE SIT. INTERROGANTI ENIM QUALIS EST HOMO,
DICIMUS RATIONALIS, ET IN EO QUOD QUALIS EST CORUUS, DICIMUS QUONIAM NIGER. EST
AUTEM RATIONALE QUIDEM DIFFERENTIA, NIGRUM VERO ACCIDENS. QUANDO AUTEM QUID EST
HOMO INTERROGAMUR, ANIMAL RESPONDEMUS; ERAT AUTEM HOMINIS GENUS ANIMAL. Nunc
genus a caeteris omnibus quae quolibet modo praedicantur ƿ separare contendit
hoc modo. Quoniam enim genus de pluribus praedicatur, statim differt ab his
quidem quae de uno tantum praedicantur quaeque unum quodlibet habent individuum
ac singulare subiectum; sed haec differentia generis ab his quae de uno
praedicantur, communis ei est cum caeteris, id est specie, differentia, proprio
atque accidenti idcirco, quoniam ipsa quoque de pluribus praedicantur. Horum
igitur singulorum differentias a genere colligit, ut solum intellegendum genus
quale sit sub animi deducat aspectum, dicens: AB HIS AUTEM QUAE DE PLURIBUS
PRAEDICANTUR, DIFFERT GENUS, AB SPECIEBUS QUIDEM PRIMUM, QUONIAM SPECIES ETSI
DE PLURIBUS PRAEDICANTUR, NON TAMEN DE DIFFERENTIBUS SPECIE SED NUMERO. Species
enim sub se plurimas species habere non poterit, alioquin genus, non species
appellaretur. Si enim genus est quod de pluribus specie differentibus in eo
quod quid sit praedicatur, cum species de pluribus dicatur et in eo quod quid
sit, huic si adiciatur ut de specie differentibus praedicetur, speciei forma
transit in generis; id quoque exemplo intellegi fas est. Homo enim praedicatur
de Socrate, Platone et caeteris quae a se non specie disiuncta sunt, sicut homo
atque equus sed numero: quod quidem habet dubitationem quid sit boc quod
dicitur numero differre. Numero enim differre aliquid videbitur quotiens
numerus a ƿ numero differt, ut grex boum qui fortasse continet triginta boves,
differt numero ab alio boum grege, si centum in se contineat boves; in eo enim
quod grex est, non differunt, in eo quod boves, ne eo quidem: numero igitur
differunt, quod illi plures, illi vero sunt pauciores. Quomodo igitur Socrates
et Plato specie non differunt sed numero, cum et Socrates unus sit et Plato
unus, unitas vero numero ab unitate non differat? Sed ita intellegendum quod
dictum est numero differentibus, id est in numerando differentibus, hoc est dum
numerantur differentibus. Cum enim dicimus 'hic Socrates est, hic Plato', duas
fecimus unitates, ac si digito tangamus dicentes 'hic unus est' de Socrate,
rursus de Platone 'hic unus est', non eadem unitas in Socrate numerata est quae
in Platone. Alioquin posset fieri ut secundo tacto Socrate Plato etiam
monstraretur. Quod non fit. Nisi enim tetigeris Socratem vel mente vel digito
itemque tetigeris Platonem, non facies duos, dum numerantur ergo differunt qute
sunt numero differentia. Cum igitur species de numero differentibus, non de
specie praedicetur, genus de pluribus et differentibus specie dicitur, ut de
bove, de equo et de caeteris quae a se specie invicem differunt, non numero
solo. Tribus enim modis unumquodque vel differre ab aliquo dicitur vel alicui
idem esse, ƿ genere, specie, numero. Quaecumque igitur genere eadem sunt, non
necesse est eadem esse specie, ut si eadem sint genere, differant specie. Si
vero eadem sint specie, genere quoque eadem esse necesse est, ut cum homo atque
equus idem sint genere -- uterque enim animal nuncupatur -- differunt specie,
quoniam alia est hominis species, alia equi. Socrates vero atque Plato cum idem
sint specie, idem quoque sunt genere; utrique enim et sub hominis et sub
animalis praedicatione ponuntur. Si quid vero vel genere vel specie idem sit,
non necesse est idem esse numero, quod si idem sit numero, idem et specie et
genere esse necesse est; ut Socrates et Plato, cum et genere animalis et specie
hominis idem sint, num ero tam en reperiuntur esse disiuncti. Gladius vero
atque ensis idem sunt numero, nihil enim omnino aliud est ensis quam gladius.
Sed nec specie diversi sunt, utrumque enim gladius est, nec genere, utrumque
enim instrumentum est, quod est gladii genus. Quoniam igitur homo, bos atque
equus, de quibus animal praedicatur, specie differunt, numero ergo etiam eos
differre necesse est. Idcirco hoc plus habet genus ab specie, quod de specie
differentibus praedicatur. Nam si integram generis definitionem demus, dabimus
hoc modo: genus est quod de pluribus ƿ specie et numero differentibus in eo
quod quid sit praedicatur, at vero speciei sic: species est quod de pluribus
numero differentibus in eo quod quid sit praedicatur. A PROPRIO VERO DIFFERT
GENUS, QUONIAM PROPRIUM QUIDEM DE UNA SOLA SPECIE, CUIUS EST PROPRIUM,
PRAEDICATUR ET DE HIS QUAE SUB UNA SPECIE SUNT INDIVIDUIS. Proprium semper uni
speciei adesse potest neque eam relinquit nec transit ad aliam, atque idcirco
proprium nuncupatum est, ut risibile hominis; itaque et de ea specie cuius est
proprium praedicatur et de his individuis quae sub illa sunt specie, ut risibile
de homine dicitur et de Socrate et Platone et caeteris quae sub hominis nomine
continentur. Genus vero non de una tantum specie, ut dictum est sed de
pluribus. Differt igitur genus a proprio eo quod de pluribus speciebus
praedicatur, cum proprium de una tantum de qua dicitur appelletur et de his quae
sub illa sunt individuis. A DIFFERENTIA VERO ET AB HIS QUAE COMMUNITER SUNT
ACCIDENTIBUS DIFFERT GENUS. Differentiae atque accidentis discrepantiam a
genere una separatione concludit. Omnino enim quia haec in eo quod quid sit
minime praedicantur, eo ipso segregantur a genere; nam in caeteris quidem
propinqua sunt generi, nam et ƿ de pluribus praedicantur et de specie
differentibus sed non in eo quod quid sit. Si quis enim interroget: qualis est
homo? respondetur rationalis, quod est differentia; si quis: qualis est coruus?
dicitur niger, quod est accidens. Si autem interroges: quid est homo? animal
respondebitur, quod est genus. Quod vero ait: HAEC NON IN EO QUOD QUID SIT
DICIMUS PRAEDICARI SED MAGIS IN EO QUOD QUALE SIT, hoc magis quaestioni
occurrit huiusmodi. Aristoteles enim differentias in substantis putat oportere
praedicari. Quod autem in substantia praedicatur, hoc rem de qua praedicatur,
non quale sit sed quid sit ostendit. Unde non videtur differentia in eo quod
quale sit praedicari sed potius in eo quod quid sit. Sed solvitur hoc modo.
Differentia enim ita substantiam demonstrat, ut circa substantiam qualitatem
determinet, id est substantialem proferat qualitatem. Quod ergo dictum est
magis, tale est tamquam si diceret: videtur quidem substantiam significare
atque idcirco in eo quod quid sit praedicari sed magis illud est verius, quia
tametsi substantiam monstret, tamen in eo quod quale sit praedicatur. QUARE DE
PLURIBUS PRAEDICARI DIVIDIT GENUS AB HIS QUAE DE UNO SOLO EORUM QUAE SUNT
INDIVIDUA PRAEDICANTUR, DIFFERENTIBUS VERO SPECIE SEPARAT AB HIS QUAE ƿ SICUT
SPECIES PRAEDICANTUR VEL SICUT PROPRIA; IN EO AUTEM QUOD QUID SIT PRAEDICARI
DIVIDIT A DIFFERENTIIS ET COMMUNITER ACCIDENTIBUS, QUAE NON IN EO QUOD QUID SIT
SED IN EO QUOD QUALE SIT VEL QUODAMMODO SE HABENS PRAEDICANTUR DE QUIBUS
PRAEDICANTUR. Tria esse diximus quae significationem hanc tertiam generis
informarent, id est de pluribus praedicari, de specie differentibus et in eo
quod quid sit. Quae singulae partes genus a caeteris quae quomodolibet
praedicantur distribuant ac secernunt, quod ipse breviter colligens dicit; id,
enim quod' de pluribus praedicatur, genus ab his dividit quae de uno tantum
praedicantur individuo. Individuum autem pluribus dicitur modis. Dicitur
individuum quod omnino secari non potest, ut unitas vel mens; dicitur
individuum quod ob soliditatem dividi nequit, ut adamans; dicitur individuum
cuius praedicatio in reliqua similia non convenit, ut Socrates: nam cum illi
sint caeteri homines similes, non convenit proprietas et praedicatio Socratis
in caeteris. Ergo, ab his quae de uno tantum praedicantur, genus differt eo
quod de pluribus praedicatur restant igitur quattuor, species et proprium,
differentia et accidens, ƿ quorum a genere differentias colligamus. Singulis
igitur differentiis ab his rebus segregabitur genus. Ea quidem differentia qua
de specie differentibus genus dicitur, separat ab his quae sicut species
praedicantur vel sicut propria. Species enim omnino de nulla specie dicitur,
proprium vero de una tantum specie praedicatur atque ideo non de specie
differentibus. Item genus a differentia et accidenti differt, quod in eo quod
quid sit praedicatur; illa enim in eo quod quale sit appellantur, ut dictum
est. Itaque genus quidem ab his quae de uno praedicantur differt in quantitate
praedicationis, ab speciebus vero et proprio in subiectorum natura, quoniam
genus de specie differentibus dicitur, proprium vero et species minime. Item
genus in qualitate praedicationis a differentia accidentique dividitur.
Qualitas enim praedicationis quaedam est vel in eo quod quid sit vel in eo quod
quale sit praedicari. NIHIL IGITUR NEQUE SUPERFLUUM NEQUE MINUS CONTINET
GENERIS DICTA DESCRIPTIO. Omnis descriptio vel definitio debet ei quod definitur
aequari. Si enim definitio definito non sit aequalis et si quidem maior sit,
etiam quaedam alia continebit et non necesse est ut semper definiti substantiam
monstret; si minor, ad omnem definitionem ƿ substantiae non pervenit. Omnia
enim quae maiora sunt, de minoribus praedicantur, ut animal de homine, minora
vero de maioribus minime; nemo enim vere dicere potest 'omne animal homo est'.
Atque idcirco si sibi praedicatio convertenda est, aequalis oportebit sit. Id
autem fieri potest, si neque superfluum quicquam habet neque diminutum, ut in
ea ipsa generis descriptione. Dictum est enim esse genus quod de pluribus
specie differentibus in eo quod quid sit praedicetur, quae descriptio cum
genere converti potest, ut dicamus quicquid de pluribus specie differentibus in
eo quod quid sit praedicetur, id esse genus. Quodsi converti potest, ut ait,
nec plus neque minus continet generis facta descriptio. Superior de genere
disputatio videatur forsitan omnem etiam speciei consumpsisse tractatum. Nam
cum genus ad aliquid praedicetur, id est ad speciem, cognosci natura generis
non potest, si speciei quae sit intellegentia nesciatur. Sed quoniam diversa
est in suis naturis eorum consideratio atque discretio, diversa in permixtis,
idcirco sicut singula in prooemio proposuit, ita dividere cuncta persequitur.
Ac primum post generis disputationem de specie tractat. De qua quidem dubitari
potest. Si enim haec fuit ratio praeponendi generis reliquis omnibus, quod
naturae suae magnitudine caetera contineret, non aequum erat speciem
differentiae in ordine tractatus anteponere, quod differentia speciem
contineret, cum praesertim differentiae ipsas species informent. Prius autem
est quod informat quam id quod eius informatione perficitur. Posterior igitur
est species a differentia, prius igitur de differentia tractandum fuit. Etenim
prooemio etiam consentiret, in quo eum ordinem collocavit quem naturalis ordo
suggessit, dicens utile esse nosse quid genus sit et quid differentia. Huic
respondendum est quaestioni, quoniam omnia quaecumque ƿ ad aliquid
praedicantur, substantiam semper ex oppositis sumunt. Ut igitur non potest esse
pater, nisi sit filius, nec filius, nisi praecedat pater, alteriusque nomen
pendet ex altero, ita etiam in genere ac specie videre licet. Species quippe nisi
generis non est rursusque genus esse non potest, nisi referatur ad speciem; nec
vero substantiae quaedam aut res absolutae esse putandae sunt genus ac species,
ut superius quoque dictum est sed quicquid illud est quod in naturae
proprietate consistat, id tunc fit genus ac species, cum vel ad inferiora vel
ad superiora referatur. Quorum ergo relatio alterutrum constituit, eorum
continens factus est iure tractatus. De specie igitur inchoans ait hoc modo: SPECIES
AUTEM DICITUR QUIDEM ET DE UNIUSCUIUSQUE FORMA, SECUNDUM QUAM DICTUM EST:
'PRIMUM QUIDEM SPECIES DIGNA IMPERIO'. DICITUR AUTEM SPECIES ET EA QUAE EST SUB
ASSIGNATO GENERE, SECUNDUM QUAM SOLEMUS DICERE HOMINEM QUIDEM SPECIEM ANIMALIS,
CUM SIT GENUS ANIMAL, ALBUM AUTEM COLORIS SPECIEM, TRIANGULUM VERO FIGURAE
SPECIEM. Sicut generis supra significationes distinxit aequivocas, ita idem in
specie facit dicens non esse speciei simplicem significationem. Et ponit quidem
duas, longe autem plures esse ƿ manifestum est, quas idcirco praeteriit, ne
lectoris animum prolixitate confunderet. Dicit autem primum quidem speciem
vocali uniuscuiusque formam, quae ex accidentium congregatione perficitur.
Cautissime autem dictum est uniuscuiusque, hoc enim secundum accidens dicitur.
Quae enim unicuique individuo forma est, ea non ex substantiali quadam forma
species sed ex accidentibus venit. Alia est enim substantialis formae species
quae humanitas nuncupatur, eaque non est quasi supposita animali sed tamquam
ipsa qualitas substantiam monstrans; haec enim et ab bac diversa est quae
uniuscuiusque corpori accidenter insita est, et ab ea quae genus deducit in
partes. Postremumque plura sunt quae cum eadem sint, diversis tamen modis ad
aliud atque aliud relata intelleguntur, ut hanc ipsam humanitatem in eo quod
ipsa est si perspexeris, species est eaque substantialem determinat qualitatem;
si sub animali eam intellegendo locaveris, deducit animalis in sese
participationem separaturque a caeteris animalibus ac fit generis species.
Quodsi uniuscuiusque proprietatem consideres, id est quam virilis uultus, quam
firmus incessus caeteraque quibus individua conformantur et quodammodo
depinguntur, haec est accidens species secundum quam dicimus quemlibet illum
imperio esse aptum propter formae ƿ eximiam dignitatem. Huic aliam adiungit
speciei significationem, id est eam quam supponimus generi. Nos vero triplicem
speciei significationem esse subicimus, unam quidem substantiae qualitatem,
aliam cuiuslibet individui propriam formam, tertiam s de qua nunc loquitur,
quae sub genere collocatur. Credendum vero est propter obscuritatem eius quam
nos adiecimus, quia nimirum altiorem atque eruditiorem quaereret intellectum,
ea, tacita praetermissaque caeteras edidisse. Cuius quidem speciei haec exempla
subiecit, ut hominem quidem animalis speciem, album, autem coloris, triangulum
vero figurae; haec enim omnia species nuncupantur eorum quae sunt genera animal
quidem hominis, albi autem color, trianguli figura. QUODSI ETIAM GENUS
ASSIGNANTES SPECIEI MEMINIMUS DICENTES QUOD DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS SPECIE
IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICATUR, ET SPECIEM DICIMUS ID QUOD SUB GENERE EST. Dudum
cum generis description em assignaret, in generis definitione speciei nomen
iniecit dicens id esse genus quod de pluribus specie differentibus in eo quod
quid sit praedicaretur, ut scilicet per speciei nomen definiret genus. Nunc
vero cam speciem definire contendat, generis utitur nuncupatione dicens speciem
esse quae sub genere ponatur. ƿ Cui quidem dicto illa quaestio iure videtur
opponi. Omnis enim definitio rem declarare debet quam definitio concludit,
eamque apertiorem reddere quam suo nomine monstrabatur. Ex notioribus igitur
fieri oportet definitionem quam res illa sit quae definitur. Cum igitur per
speciei nomen describeret vel definiret genus, abusus est vocabulo speciei
velut notiore quam generis atque ita ex notioribus descripsit genus. Nunc vero
cum speciem vellet termino descriptionis includere, generis utitur nomine
rerumque convertit notionem, ut in generis quidem sit notius speciei vocabulum,
in speciei autem descriptione sit notius generis, quod fieri nequit. Si enim
generis vocabulum notius est quam speciei, in definitione generis speciei
nomine uti non debuit. Quodsi speciei nomen facilius intellegitur quam generis,
in definitione speciei nomen generis non fuit apponendum. Cui quaestioni
occurrit dicens: NOSSE ASTEM OPORTET <QUOD>, QUONIAM ET GENUS ALICUIUS
EST GENUS ET SPECIES ALICUIUS EST SPECIES, IDCIRCO NECESSE EST ET IN UTRORUMQUE
RATIONIBUS UTRISQUE UTI. Omnia quaecumque ad aliquid praedicantur, ex his de
quibus praedicantur, substantiam sortiuntur; quodsi definitio uniuscuiusque
substantiae proprietatem debet ostendere, iure ex alterutro fit descriptio in
his quae invicem referuntur. Ergo quoniam genus speciei genus est et
substantiam suam et ƿ vocabulum genus ab specie sumit, in definitione generis
speciei nomen est aduocandum, quoniam vero species id quod est sumit el genere,
nomen generis in speciei descriptione non fuit relinquendum. Quoniam vero
diversae sunt specierum qualitates -- aliae enim sunt species, quae et genera
esse possunt, aliae, quae in sola speciei permanent proprietate neque in
naturam generis transeunt -- idcirco multiplicem speciei definitionem dedit
dicens: ASSIGNANT ERGO ET SIC SPECIEM: SPECIES EST QUOD PONITUR SUB GENERE ET
DE QUO GENUS IN EO QUOD QUID SIT PRAEDIAATUR. AMPLIUS AUTEM SIC QUOQUE: SPECIES
EST QUOD DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS NUMERO IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICATUR.
SED HAEC QUIDEM ASSIGNATIO SPECIALISSIMAE EST ET QUAE SOLUM SPECIES EST, ALIAE
VERO ERUNT ETIAM NON SPECIALISSIMARUM. Tribus speciem definitionibus
informavit, quarum quidem duae omni speciei conveniunt omnesque quae quolibet
modo species appellantur, sua conclusione determinant, tertia vero non ita. Cum
enim duae sint specierum formae, una quidem, cum species alicuius aliquando
etiam alterius genus esse potest, altera, cum tantum species est neque in
formam generis ƿ transit, priores quidem duae, illa scilicet in qua dictum est
id esse speciem quod sub genere ponitur, et rursus in qua dictum est id esse
speciem de quo genus in eo quod quid sit praedicatur, omni speciei conveniunt.
Id enim tantum hae definitiones monstrant quod sub genere ponitur. Nam et ea
quae dicit id esse speciem quod sub genere ponitur, eam vim significat speciei
qua refertur ad genus, et ea quae dicit id esse speciem de quo genus in eo quod
quid sit praedicatur, eam rursus significat speciei formam quam retinet ex
generis praedicatione. Idem est autem et poni sub genere et de eo praedicari
genus, sicut idem est supponi generi et ei genus praeponi. Quodsi omnis species
sub genere collocatur, manifestum est omnem speciem hoc ambitu descriptionis
includi. Sed tertia definitio de ea tantum specie loquitur quae numquam genus
est et quae solum species restat. Haec autem species ea est quae de
differentibus specie minime praedicatur. Nam si id habet genus plus ab specie,
quod de differentibus specie praedicatur, si qua species praedicetur quidem de
subiectis sed non de specie differentibus, ea solum erit superioris generis
species, subiectorum vero non erit genus. Igitur praedicatio ea quam species
habet ad subiecta, si talis sit, ut de differentibus specie non praedicetur,
distinguit eam ab his speciebus ƿ quae genera esse possunt et monstrat eam
solum speciem esse nec generis praedicationem tenere. Illa igitur tertia
descriptio speciei quae magis species ac specialissima dicitur, definitur hoc
modo: SPECIES EST QUOD DE PLURIBUS NUMERO DIFFERENTIBUS IN EO QUOD QUID SIT
PRAEDICATUR, UT HOMO; praedicatur enim de Cicerone ac Demosthene et caeteris
qui a se, ut dictum est, non specie sed numero discrepant. Ex tribus igitur
definitionibus duae quidem et specialissimis et non specialissimis aptae sunt,
haec vero tertia solam ultimam speciem claudit. Ut autem id apertius liqueat,
rem paulo altius orditur eamque congruis inlustrat exemplis: PLANUM AUTEM ERIT
QUOD DICITUR HOC MODO. IN UNOQUOQUE PRAEDICAMEUTO SUNT QUAEDAM GENERALISSIMA ET
RURSUS ALIA SPECIALISSIMA ET INTER GENERALISSIMA ET SPECIALISSIMA SUNT ALIA.
EST AUTEM GENERALISSIMUM QUIDEM SUPER QUOD NULLUM ULTRA ALIUD SIT SUPERVENIENS
GENUS, SPECIALISSIMUM AUTEM, POST QUOD NON ERIT ALIN INFERIOR SPECIES, INTER
GENERALISSIMUM AUTEM ET SPECIALISSIMUM ET GENERA ET SPECIES SUNT EADEM, AD
ALIUD ƿ QUIDEM ET AD ALIUD SUMPTA. SIT AUTEM IN UNO PRAEDICAMENTO MANIFESTUM
QUOD DICITUR. SUBSTANTIA EST QUIDEM ET IPSA GENUS, SUB HAC AUTEM EST CORPUS,
SUB CORPORE VERO ANIMATUM CORPUS, SUB QUO ANIMAL, SUB ANIMALI VERO RATIONALE
ANIMAL, SUB QUO HOMO, SUB HOMINE VERO SOCRATES ET PLATO ET QUI SUNT
PARTICULARES HOMINES. SED HORUM SUBSTANTIA QUIDEM GENERALISSIMUM EST ET QUOD
GENUS SIT SOLUM, HOMO VERO SPECIALISSIMUM ET QUOD SPECIES SOLUM SIT, CORPUS
VERO SPECIES QUIDEM EST SUBSTANTIAE, GENUS VERO CORPORIS ANIMATI; ET ANIMATUM
CORPUS SPECIES QUIDEM EST CORPORIS, GENUS VERO ANIMALIS. ANIMAL AUTEM SPECIES
QUIDEM EST CORPORIS ANIMATI, GENUS VERO ANIMALIS RATIONALIS SED RATIONALE
ANIMAL SPECIES QUIDEM EST ANIMALIS, GENUS AUTEM HOMINIS, HOMO VERO SPECIES
QUIDEM EST RATIONALIS ANIMALIS, NON AUTEM ETIAM GENUS PARTICULARIUM HOMINUM SED
SOLUM SPECIES. ET OMNE QUOD ANTE INDIVIDUA PROXIMUM EST, SPECIES ERIT SOLUM,
NON ETIAM GENUS. Praediximus ab Aristotele decem praedicamenta esse disposita,
ƿ quae idcirco praedicamenta vocaverit, quoniam de caeteris omnibus
praedicantur. Quicquid vero de alio praedicatur, si non potuerit praedicatio
converti, maior est res illa quae praedicatur ab ea de qua praedicatur. Itaque
haec praedicamenta maxima rerum omnium, quoniam de omnibus praedicantur,
ostensa sunt. In unoquoque igitur horum praedicamentorum quaedam generalissima
sunt genera et est longa series specierum atque a maximo decursus ad minima. Et
illa quidem quae de caeteris praedicantur ut genera neque ullis aliis
supponuntur ut species, generalissima genera nuncupantur, idcirco quia his nullum
aliud superponitur genus, infima vero quae de nullis speciebus dicuntur,
specialissimae species appellantur, idcirco quoniam integrum cuiuslibet rei
vocabulum illa suscipiunt quae pura inmixtaque in ea de qua quaeritur
proprietate sunt constituta. At quoniam species id quod species est ex eo habet
nomen, quia supponitur generi, ipsa erit simplex species, si ita generi
supponatur, ut nullis aliis differentiis praeponatur ut genus. Species enim
quae sic supponitur alii, ut alii praeponatur, non est simplex species sed
habet quandam generis admixtionem, illa vero species quae ita supponitur
generi, ut minime speciebus aliis praeponatur, illa solum species simplexque
est species atque idcirco et maxime species et specialissima nuncupatur. Inter
genera igitur quae sunt generalissima et species, quae specialissimae sunt, in
medio ƿ sunt quaedam quae superioribus quidem collata species sunt.
Inferioribus vero genera. Haec subalterna genera nuncupantur. Quod ita sunt
genera, ut alterum sub altero collocetur. Quod igitur genus solum est, id
dicitur generalissimum genus, quae vero ita sunt genera, ut esse species
possint, vel ita species, ut sint genera nonnumquam, subalterna genera vel
species appellantur. Quod vero ita est species, ut alii genus esse non possit,
specialissima species dicitur. His igitur cognitis sumamus praedicamenti unius
exemplum. Ut ab eo in caeteris quoque praedicamentis atque in a caeteris
speciebus in uno filo atque ordine quid eveniat possit agnosci. Substantia
igitur generalissimum genus est; haec enim de cunctis aliis praedicatur. Ac
primum huius species duae, corporeum, incorporeum; nam et quod corporeum est,
substantia dicitur et item quod incorporeum est, substantia praedicatur. Sub
corporeo vero animatum atque inanimatum corpus ponitur, sub animato corpore
animal ponitur; nam si sensibile adicias animato corpori, animal facis, reliqua
vero pars, id est species, continet animatum insensibile corpus. Sub animali
autem rationale atque irrationale, sub rationali homo atque deus; nam si rationali
mortale subieceris, hominem feceris, si immortale, deum, deum vero corporeum;
hunc enim mundum ueteres deum vocabant et Iovis eum appellatione ƿ dignati sunt
deumque solem caeteraque caelestia corpora, quae animata esse cum Plato, tum
plurimus doctorum chorus arbitratus est. Sub homine vero individui
singularesque homines ut Plato, Cato, Cicero et caeteri, quorum numerum
pluralitas infinita non recipit. Cuius rei subiecta descriptio sub oculos ponat
exemplum: incorporea corpus animatum | inanimatum animatum corpus sensibile |
insensibile animal rationale | irrationale rationale animal mortale | immortale
homo | Plato Cato Cicero Superius posita descriptio omnem ordinem a
generalissimo usque ad individua praedicationis ostendit. In qua quidem
substantia generalissimum dicitur genus, quoniam praeposita est omnibus, nulli
vero ipsa supponitur, et solum genus propter eandem scilicet causam, homo autem
species solum, quoniam Plato, ƿ Cato et Cicero, quibus est ipsa praeposita, non
differunt specie sed numero tantum. Corporeum vero, quod secundum a substantia
collocatur, et species esse probatur et genus, substantiae species, genus
animati. At vero animatum genus est animalis, corporei species. Est enim
animatum genus sensibilis, animatum vero sensibile animal est; ipsum igitur
animatum propter propriam differentiam, quod est sensibile, recte genus esse
dicitur animalis. Animal vero rationalis genus est et rationale mortalis.
Cumque rationale mortale nihil sit aliud nisi homo, rationale fit animalis
species. Hominis genus. Homo vero ipse Platonis, Catonis, Ciceronis non erit,
ut dictum est, genus sed est solum species. Nec solum differentiae rationalis
species est homo, verum etiam Platonis et Catonis caeterorumque species
appellatur, propter diversam scilicet causam. Nam rationalis idcirco est
species, quoniam rationale per mortale atque immortale dividitur, cum sit homo
mortale. Idem vero homo species est Platonis atque caeterorum; forma enim eorum
omnium homo erit substantialis atque ultima similitudo. Est autem communis
omnium regula eas esse species specialissimas quae supra sola individua
collocantur, ut homo, equus, coruus -- sed non avis; avium enim multae sunt
species sed hae tantum species esse dicuntur -- quorum subiecta ita sibi sunt
consimilia, ut substantialem differentiam habere non possint. In omni autem hac
dispositione priora genera cum inferioribus coniunguntur, ut posteriores
efficiant species; nam ƿ ut sit corpus substantia, cum corporalitate
coniungitur et est substantia corporea corpus. Item ut sit animatum, corporeum
atque substantia animato copulatur et est animatum substantia corporea habens
animam. Item ut sit sensibile, eidem tria illa superiora iunguntur. Nam quod
est sensibile, tantum est, quantum substantia corporea animata retinens sensum,
quod totum animal est. Item superiora omnia rationi iuncta efficiunt rationale
postremumque hominem superiora omnia nihilominus terminant; est enim homo
substantia corporea, animata. Sensibilis, rationalis, mortalis. Nos vero
definitionem hominis reddimus dicentes animal rationale, mortale, in animali
scilicet includentes et substantiam et corporeum et animatum atque sensibile.
Et in caeteris quidem speciebus atque generibus ad hunc modum vel genera
dividuntur vel species describuntur. QUEMADMODUM IGITUR SUBSTANTIA, CUM SUPREMA
SIT, EO QUOD NIHIL SIT SUPRA EAM, GENUS ERAT GENERALISSIMUM, SIC ET HOMO, CUM
SIT SPECIES POST QUAM NON SIT ALIA SPECIES NEQUE ALIQUID EORUM QUAE POSSUNT
DIVIDI SED SOLUM INDIVIDUORUM -- INDIVIDUUM ENIM EST SOCRATES ET PLATO -- SPECIES
ERIT SOLA ET ULTIMA SPECIES ƿ ET, UT DICTUM EST, SPECIALISSIMA. QUAE VERO SUNT
IN MEDIO, EORUM QUIDEM QUAE SUPRA IPSA SUNT, ERUNT SPECIES, EORUM VERO QUAE
POST IPSA SUNT, GENERA. QUARE HAEC QUIDEM HABENT DUAS HABITUDINES, EAM QUAE EST
AD SUPERIORA, SECUNDUM QUAM SPECIES IPSORUM ESSE DICUNTUR, ET EAM QUAE EST AD
POSTERIORA, SECUNDUM QUAM GENERA IPSORUM ESSE DICUNTUR. EXTREMA VERO UNAM
HABENT HABITUDINEM. NAM ET GENERALISSIMUM AD EA QUIDEM QUAE POSTERIORA SUNT,
HABET HABITUDINEM, CUM GENUS SIT OMNIUM ID QUOD EST SUPREMUM, EAM VERO QUAE EST
AD SUPERIORA, NON HABET, CUM SIT SUPREMUM ET PRIMUM PRINCIPIUM, SPECIALISSIMUM
AUTEM UNAM HABET HABITUDINEM, EAM QUAE EST AD SUPERIORA, QUORUM EST SPECIES,
EAM VERO QUAE EST AD POSTERIORA, NON DIVERSAM HABET SED ETIAM INDIVIDUORUM
SPECIES DICITUR SED SPECIES QUIDEM INDIVIDUORUM VELUT EA CONTINENS, SPECIES
AUTEM SUPERIORUM, VELUT QUAE AB EIS CONTINEATUR. Ex proportione speciei nomen
et generis ostendit. Nam ut genus, quoniam non habet genus supra se,
generalissimum genus dicitur, ut substantia, ita species, quoniam non habet sub
se speciem sed individua, specialissima species dicitur, ut homo. Quid est
autem species non habere? His praeesse quae neque in dissimilia dividi possunt,
ut genera dividuntur, neque in similia secantur, ut species. Quae vero inter
genera generalissima speciesque specialissimas constituta sunt, ea et species
et genera nuncupantur, quoniam et ipsa aliis supponuntur et his alia
subiciuntur, quorum vel in dissimilia vel in similia possit esse partitio.
Cumque duae sint habitudines et quasi comparationes oppositae, quae in omnibus
generibus speciebusque versentur, una quidem quae ad superiora respiciat, ut
specierum, quae suis generibus supponuntur, alia vero quae ad inferiora, ut
generum, cum speciebus propriis praeponuntur, generalissima quidem genera unam
tantum retinent habitudinem, eam scilicet quae inferiora complectitur, illam
vero quae ad praeposita comparatur, non habent. Generalissimum enim genus nulli
supponitur. Item species specialissima unam possidet habitudinem, per quam
scilicet ad sola gellera comparatur, illam vero quae ad inferiora committitur,
non habet; nullis enim speciebus ipsa praeponitur. At vero quae subalterna sunt
genera, utraque habitudine funguntur. ƿ Nam et illam possident quae ad
superiora respicit, quoniam quae subalterna sunt, habent superpositum genus, et
illam quae de inferioribus praedicatur; habent enim subalterna genera
suppositas species, ut corporeum ad substantiam quidem eam retinet habitudinem
qua potest poni sub genere, ad animatum vero eam qua potest de specie
praedicari. Specialissimae vero species licet ipsae individuis praeponantur,
tamen praepositi habitudinem non habebunt, idcirco quoniam illa quae speciei
ultimae supponuntur, talia sunt, ut quantum ad substantiam unum quiddam sint
non habentia substantialem differentiam sed accidentibus efficitur, ut numero
saltem distare videantur, ut paene dici possit et pluribus praeesse speciem et
quodammodo nulli omnino esse praepositam. Nam cum species substantiam monstret
unam, quae omnium individuorum sub specie positorum substantia sit, quodammodo
nulli praeposita est, si ad substantiam quis velit aspicere. At si accidentia
quis consideret, plures de quibus praedicetur species fiunt, non substantiae
diversitate sed accidentium multitudine itaque fit ut genus quidem semper
plurimas sub ƿ se habeat species; de differentibus enim specie praedicatur,
differentia vero nisi pluralitati non convenit. At vero species etiam uni
aliquando individuo praeesse potest. Si enim unus, ut perhibetur, est phoenix,
phoenicis species de uno tantum individuo praedicatur; solis etiam species unum
solem intellegitur habere subiectum. Ita nullam multitudinem species per se
continet, cum etiam si unum sit tantum individuum, speciei tamen non pereat
intellectus; quibusdam enim suis quasi similibus partibus praeest, ut si aeris
virgulam dividas, secundum id quod aes dicitur, idem et partes esse
intellegitur et totum. Idcirco dictum est speciem, licet sit individuis
praeposita, unam tamen habitudinem possidere, unam scilicet qua species est.
Quoniam enim praepositis subditur, species nuncupatur, et est superiorum
species tamquam subiecta inferiorum quoque species, idcirco quoniam eorum
substantiam monstrat. Speciem vero substantiam nuncupamus, nec ita est species
substantia individuorum, quemadmodum speciei genus; illud enim pars substantiae
est, ut animalis homo. Reliquae enim partes rationale sunt atque mortale, homo
vero Socratis atque Ciceronis tota substantia est; nulla enim additur
differentia substantialis ad hominem, ut Socrates fiat aut Cicero, ƿ sicut
additur animali rationale atque mortale, ut homo integra definitione claudatur.
Idcirco igitur species specialissima tantum species est atque hanc solam
possidet habitudinem ad superiora quidem, quoniam ab his continetur, ad
inferiora vero, quoniam eorum substantiam format et continet. DETERMINANT ERGO
GENERALISSIMUM ITA, QUOD CUM GENUS SIT, NON EST SPECIES, ET RURSUS, SUPRA QUOD
NON ERIT ALIUD SUPERVENIENS GENUS, SPECIALISSIMUM VERO, QUOD CUM SIT SPECIES,
NON EST GENUS ET QUOD CUM SIT SPECIES, NUMQUAM DIVIDITUR IN SPECIES ET QUOD DE
PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS NUMERO IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICATUR. EA VERO QUAE
IN MEDIO SUNT EXTREMORUM, SUBALTERNA VOCANT GENERA ET SPECIES, ET UNUMQUODQUE
IPSORUM SPECIEM ESSE ET GENUS PONUNT, AD ALIUD QUIDEM ET AD ALIUD SUMPTA. EA
VERO QUAE SUNT ANTE SPECIALISSIMA USQUE AD GENERALISSIMUM ASCENDENTIA, ET
GENERA DICUNTUR ET SPECIES ET SUBALTERNA GENERA, UT AGAMEMNON ATRIDES ET
PELOPIDES ET TANTALIDES ET ULTIMUM IOVIS. Posteaquam naturam generum ac
specierum diversitatemque monstravit, eorum ordinem definitionis
descriptionisque commemorat. Ac primum quidem generalissimi generis terminum ƿ
inducit, id esse generalissimum genus quod cum ipsum genus sit, non habet
superpositum genus, hoc est speciem non esse, et rursus, supra quod non erit
aliud superveniens genus. Si enim haberet aliud genus, minime ipsum
generalissimum vocaretur. Specialissima vero species hoc modo: quod cum sit
species, non est genus, ex opposito, quoniam opposita ex oppositis describuntur
interdum. Nam quoniam praepositio opposita est suppositioni, genus autem
praeponitur, species vero supponitur, si idcirco erit primum genus, quia ita
superponitur, ut minime supponatur, idcirco erit ultima species, quia ita
supponitur, ut praeponi non possit, oppositorum igitur recte ex oppositis facta
est definitio. Est alia rursus descriptio: quod cum sit species, numquam
dividatur in species, id est genus esse non possit. Si enim omne genus
specierum genus est, si quid non dividitur in species, genus esse non poterit.
Est rursus alia definitio: quod de pluribus et differentibus numero in eo quod
quid sit praedicatur. De qua definitione saepe est superius demonstratum. Nunc
illud attendendum est. Si, ut paulo superius dictum est, speciei unum
individuum potest esse subiectum, ut phoenici atomum suum, ut soli corpus hoc
lucidum, ut mundo vel lunae, quorum species singulis suis individuis
superponuntur, qui convenit dicere speciem esse quae de pluribus numero
differentibus in eo quod quid sit praedicatur? Sunt enim quaedam quae de numero
differentibus minime dicuntur, ut phoenix, sol, luna, mundus. Sed de his illa
ratio est de qua etiam superius pauca reddidimus, quae paululum inflexa
commodissime nodum quaestionis absolvit. Omnia enim quae sub speciebus
specialissimis sunt, sive infinita sint sive finito numero constituta sive ad
singularitatem deducantur, dum est aliquod individuum, semper species
permanebit neque individuorum deminutione, dum quodlibet unum maneat, species
consumitur. ut enim dictum est, tametsi plura sint individua, substantiales
differentias non habebunt. Id vero in genere dici non convenit, quod his
praeest quae substantiali a se differentia disgregata sunti praeest enim
speciebus quae diversis differentiis informantur. ƿ Si igitur earum una
perierit et ad unitatem speciei reducta sit ratio, genus esse non poterit, quia
de differentibus specie praedicatur. Non ita in speciebus. Si enim omnium
individuorum natura consumpta sit et ad unius singularitatem individul
superpositae speciei praedicatio peruenerit, est tamen species ac permanet.
Talia enim sunt illa quae pereunt ac desunt, quale est id quod permansit et
subiacet quod vero dicimus de pluribus numero differentibus speciem praedicari,
duobus id recte explicabitur modis, uno quidem, quia multo plures sunt species
quae de numerosis individuis praedicantur, quam hae quibus unum tantum
individuum videtur esse suppositum, dehinc hoc, quia multa secundum potestatem
dicuntur, cum actu non semper ita sint, ut risibilis homo dicitur; etiamsi
minime rideat, quoniam ridere potest. Ita igitur species de numero
differentibus praedicatur; nihilo enim minus phoenix de pluribus phoenicibus
praedicaretur, si plures essent, quam nunc, quando unus esse perhibetur. Item
solis species de hoc uno sole quem novimus, nunc dicitur, at si animo plures
soles et cogitatione fingantur, nihilominus de pluribus solibus in dividuis
nomen solis quam de hoc uno praedicabitur. Idcirco igitur species de pluribus
numero differentibus dicitur praedicari cum sint aliquae quae de singulis
individuis appellentur. Illa vero quae subalterna vocantur ita definiri queunt:
subalternum ƿ genus est quod et genus esse poterit et species, ad eumque modum
est ut in familiis, quae procreant et procreantur, ut etiam subiectum monstrat
exemplum: UT AGAMEMNON ATRIDES ET PELOPIDES ET TANTALIDES ET ULTIMUM IOVIS.
Atreus enim Pelopis filius tamquam eiusdem species quasi Agamemnonis genus est.
Item Agamemnon Pelopides et Tantalides, cum Pelops ad Tantalum comparatus
Tantalusque ad Iovem quasi species itemque Tantalus ad Pelopem, Pelops ad
Atreum tamquam genera esse videantur, cum Iuppiter veluti sit horum
generalissimum genus. SED IN FAMILIIS QUIDEM PLERUMQUE AD UNUM REDUCUNTUR
PRINCIPIUM, VERBI GRATIA AD IOVEM, IN GENERIBUS AUTEM ET SPECIEBUS NON SE SIC
HABET. NEQUE ENIM EST COMMUNE UNUM GENUS OMNIUM ENS NEC OMNIA EIUSDEM GENERIS
SUNT SECUNDUM UNUM SUPREMUM GENUS, QUEMADMODUM DICIT ARISTOTELES. SED SINT
POSITA, QUEMADMODUM ƿ IN PRAEDICAMENTIS, PRIMA DECEM GENERA QUASI PRIMA DECEM
PRINCIPIA; VEL SI OMNIA QUIS ENTIA VOCET, AEQUIVOCE, INQUIT, NUNCUPABIT, NON
UNIVOCE. SI ENIM UNUM ESSET COMMUNE OMNIUM GENUS ENS, UNIVOCE ENTIA DICERENTUR;
CUM VERO DECEM SINT PRIMA, COMMUNIO SECUNDUM NOMEN EST SOLUM, NON ETIAM SECUNDUM
RATIONEM, QUAE SECUNDUM NOMEN EST. Cum de subalternis generibus diceret,
familiae cuiusdam posuit exemplum, quae ab Agamemnone pervenit ad Iovem, quem
quidem pro numinis reuerentia ultimum posuit. Quantum enim ad ueteres
theologos, refertur Iuppiter ad Saturnum, Saturnus ad Caelum, Caelus vero ad
antiquissimum Ophionem ducitur, cuius Ophionis nullum principium est. Ne igitur
quod in familiis est, id in rebus quoque esse credatur, ut res omnes possint ad
unum sui nominis redire principium, idcirco determinat hoc in generibus ac
speciebus esse non posse; neque enim sicut familiae cuiuslibet, ita etiam
omnium rerum unum esse principium potest. Fuere enim qui hac opinione
tenerentur, ut rerum omnium quae sunt umlm putarent esse genus quod ens
nuncupant, tractum ab eo quod dicimus 'est'; omnia enim ƿ sunt et de omnibus
esse praedicatur. Itaque et substantia est et qualitas est itemque quantitas
caeteraque esse dicuntur; nec de his aliquid tractaretur, nisi haec quae
praedicamenta dicuit tur, esse constaret. Quae cum ita sint, ultimum omnium
genus ens esse posuerunt, scilicet quod de omnibus praedicaretur. Ab eo autem
quod dicimus 'est' participium inflectentes Graeco quidem sermone *on* Latine
ens appellaverunt. Sed Aristoteles sapientissimus rerum cognitor reclamat huic
sententiae nec ad unum res omnes putat duci posse primordium, sed decem esse
genera in rebus, quae cum a semet ipsis diversa sint, tum ad nullum commune
principium reducantur. Haec autem decem genera statuit substantiam, qualitatem,
quantitatem, ad aliquid, ubi, quando, situm, facere, pati, habere. Quod vero
occurrebat quoniam de his omnibus esse praedicaretur -- omnia enim quae
superius enumerata sunt genera, esse dicuntur -- ita discussit ac reppulit
dicens non omne commune nomen communem etiam formare substantiam nec ex eo
debere genus esse commune arbitrari, quod de aliquibus nomen commune
praedicaretur. Quibus enim definitio communis nominis convenit, illa communis
nominis iure species iudicabuntur et communi illo vocabulo univoce praedicantur,
quibus vero non convenit, vox his communis tantum est, nulla vero substantia.
Id autem manifestius declaratur exemplis hoc modo. Animal hominis atque equi
genus esse praedicamus; demus igitur ƿ animalis definitionem, quae est
substantia animata sensibilis; hanc si ad hominem reducamus, erit homo
substantia animata sensibilis, nec ulla falsitate definitio maculatur. Rursus
si ad equum, erit equus substantia animata sensibilis; id quoque verum est.
Convenit igitur haec definitio et animali, quod commune est homini atque equo,
et eidem equo atque homini, quae species ponuntur animalis. Ex quo fit ut homo
atque equus utraque animalia univoce nuncupentur. At si quis hominem pictum
hominemque vivum communi animalis nomine nuncupaverit, definiat si libet animal
hoc modo, substantiam animatam esse atque sensibilem. Sed haec definitio ei
quidem homini qui vivus est convenit, ei vero qui pictus est, minime; neque
enim est animata substantia. Igitur homini vivo atque picto, quibus communis
nominis definitio, id est animalis, non potest convenire, non est animal
commune genus sed tantum commune vocabulum diciturque hoc nomen animalis in
vivo homine atque picto non genus sed vox plura significans; vox autem plura
significans aequivoca nuncupatur, sicut vox ea quae genus ostendit, univoca
dicitur. Itaque id quod dicitur ens, etsi de omnibus dicitur praedicamentis,
quoniam tam en nulla eius definitio inveniri potest quae omnibus praedicamentis
possit aptari, idcirco non dicitur univoce de praedicamentis, id est ut genus
sed aequivoce, id est ut vox plura significans. Conuincitur etiam hac quoque
ratione id quod dicimus, ens praedicamentorum genus esse non posse. ƿ Unius
enim rei duo genera esse non possunt, nisi alterum alteri subiciatur, ut
hominis genus est animal atque animatum, cum animal animato velut species
supponatur. At si duo sint sibimet ita aequalia, ut numquam alterum alteri
supponatur. Haec utraque eiusdem speciei genera esse non possunt. Ens igitur
atque unum neutrum neutri supponitur; neque enim unius dicere possumus genus
ens nec eius quod dicimus ens, unum. Nam quod dicimus ens, unum est et quod
unum dicitur, ens est; genus autem et species sibi minime convertuntur. Si
igitur praedicatur ens de omnibus praedicamentis, praedicatur etiam unum. Nam
substantia unum est, qualitas unum est. Quantitas unum est caeteraque ad hunc
modum. Si igitur, quoniam esse de omnibus praedicatur, omnium genus erit, et
unum, quoniam de omnibus praedicatur, erit omnium genus. Sed unum atque ens, ut
demonstratum est, minime alterum alteri praeponitur; duo igitur aequalia
singulorum praedicamentorum genera sunt, quod fieri non potest. Cum haec igitur
ita sint, id Porphyrius determinavit dicens non ita in rebus, ut in familiis
omnia ad unum principium posse reduci nec omnium rerum commune esse genus
posse, ut Aristoteli placet; SED SINT POSITA, inquit, QUEMADMODUM IN
PRAEDICAMENTIS dictum est, PRIMA DECEM GENERA QUASI DECEM PRIMA PRINCIPIA,
scilicet ut nulla interim ratio perquiratur sed auctoritati Aristotelis
concedentes haec decem genera nulli ƿ alii generi esse credamus subiecta, quae
si quis entia nuncupat, aequivoce nuncupabit, non univoce; neque enim una eorum
omnium secundum commune nomen definitio poterit adhiberi. Quae res facit, ut
non univoce de his aliquid praedicetur. Si enim univoce praedicaretur, genus
esset eorum commune nomen quod de omnibus praedicaretur; at si genus esset.
Definitio generis conveniret in species. Quod quia non fit, commune his id quod
dicimus ens, vocabulum est vocis significatione, non ratione substantiae. DECEM
QUIDEM GENERALISSIMA SUNT, SPECIALISSIMA VERO IN NUMERO QUIDEM QUODAM SUNT, NON
TAMEN INFINITO, INDIVIDUA AUTEM QUAE SUNT POST SPECIALISSIMA, INFINITA SUNT.
QUAPROPTER USQUE AD SPECIALISSIMA A GENERALISSIMIS DESCENDENTEM IUBET PLATO
QUIESCERE, DESCENDERE AUTEM PER MEDIA DIVIDENTEM SPECIFICIS DIFFERENTIIS;
INFINITA, INQUIT, RELINQUENDA SUNT; NEQUE ENIM HORUM POSSE FIERI DISCIPLINAM. Quoniam
specierum nosse naturam ad sectionem generum pertinet quoniamque scientia
infinita esse non potest -- nullus enim intellectus infinita circumdat --
idcirco de multitudine generum, specierum atque individuorum rectissima
raitione persequitur dicens supremorum generum numerum notum -- decem enim
praedicamenta ab Aristotele esse reperta quae rebus omnibus generis loco
praeferenda sint -- species vero multo plures esse quam genera. Nam cum decem
suprema sint genera cumque uni generi non una sed multae species supponantur
proximaeque species supremis generibus subalterna sint genera usque dum ad
ultimas species descendatur, nimirum unius generis multas species esse necesse
est utrobique diffusas, specialissimas vero multo plures esse quam subalterna,
quoniam per multitudinem generum subalternorum ad specialissimas descenditur
species. Quas multo plures esse quam genera subalterna hoc maxime ostenditur,
quod inferiores sunt; semper enim genera in plura subiecta dividuntur. Decem
vero generum species multo plures quam unius existere manifestum est, verum
tamen etsi plures sunt, certo tamen numero continentur; quem facile si quis
discutiat omniumque generum species persequatur, possit agnoscere. Individua
vero quae sub unaquaque sunt specie, infinita sunt vel quod tam multa ƿ sunt
diversisque locis posita, ut scientia numeroque includi comprehendique non
possint, vel quod in generatione et corruptione posita nunc quidem incipiunt
esse, nunc vero desinunt. Atque idcirco suprema quidem genera et subalterna et
species eas quae specialissimae nuncupantur, quoniam finitae sunt numero,
potest scientiae terminus includere, individua vero nullo modo idcirco igitur
Plato a magis generibus usque ad magis species id est specialissimas
praecipiebat facere sectionem; per ea enim quae finita essent numero, iubebat
descendere dividentem, ubi autem ad individua veniretur, standum esse suadebat,
ne, quod natura non ferret, infinita colligeret. Ita vero genera in species
dividi comprobabat, ut specificis differentiis soluerentur. De specificis autem
differentiis melius in eo tituro ubi de differentia disputatur, ac largius
disseremus. Hic enim hoc tantum dixisse sufficiat, eas esse specificas
differentias quibus species informantur, ut rationale vel mortale hominis. Cum
igitur dividimus animal, rationali atque irrationali, mortali immortalique
separamus. <Hoc ergo> caeteraque genera talibus differentiis quae
subiectas species informent, Plato censuit esse dividenda usque dum ad
specialissima ƿ veniretur, dehinc consistere nec infinita sequi, quoniam
individuorum numquam esset nec disciplina nec numerus. DESCENDENTIBUS IGITUR AD
SPECIALISSIMA NECESSE EST DIVIDENTEM PER MULTITUDINEM IRE, ASCENDENTIBUS VERO
AD GENERALISSIMA NECESSE EST COLLIGERE MULTITURDINEM. COLLECTIVUM ENIM MULTORUM
IN UNAM NATURAM SPECIES EST ET MAGIS ID QUOD GENUS EST, PARTICULARIA VERO ET
SINGULARIA E CONTRARIO IN MULTITUDINEM SEMPER DIVIDUNT QUOD UNUM EST;
PARTICIPATIONE ENIM SPECIEI PLURES HOMINES UNUS, PARTICULARIBUS AUTEM UNUS ET
COMMUNIS PLURES; DIVISIVUM EST ENIM SEMPER QUOD SINGULARE EST, COLLECTIVUM
AUTEM ET ADUNATIVUM QUOD COMMUNE EST. Dividere est in multitudinem quod unum
fuerat ante dis soluere, omoisque divisio e contrario compositionem
coniunctionemque meditatur. Quod enim, cum sit unum, dispertiendo dividitur, id
ipsum ex pluribus rursus partibus adunando componitur. ut igitur superius
dictum est, individuorum quidem similitudinem species colligunt, specierum vero
genera; similitudo vero nihil est aliud nisi quaedam unitas qualitatis. Ergo
substantialem similitudinem individuorum species colligere manifestum est,
substantialem vero similitudinem specierum genera contrahunt et ad se ipsa
reducunt. Rursus ƿ generis adunationem differentiae in species distribuunt,
specieique adunationem in singulares individuasque personas accidentia
partiuntur. Cum igitur haec ita sint, necesse est semper cum a genere descendis
ad speciem, dividendo semper facere multitudinem, cum vero ab speciebus
ascendis ad genera, componendo colligere et plura quae in specierum
differentiis fuerant similitudine qualitatis adunare. In speciebus etiam idem
considerari potest. ut enim ipsae individua, quae sunt infinita, una
similitudine substantiali colligunt, ita individua speciem propria infinitate
distribuunt Omnia enim individua disgregativa sunt et divisiva, species vero et
genera collectiva, species quidem individuorum collectiva atque adunativa, specierum
vero genera, ut ita dicendum sit: genus quidem species distribuunt et species
ab individuis in multitudinem deducuntur, rursus autem genus quidem multas
species colligit, species autem particularem singularemque multitudinem ad
singularitatis deducit unitatem. Igitur plus genus adunativum est quam species.
Species namque sola individua colligit, genus vero tam species quam ipsarum
quoque specierum individuas contrahit singularesque personas. Sed in hoc
convenienti utitur exemplo dicens quoniam PARTICIPATIONE SPECIEI, id est
hominis, Cato, Plato et Cicero PLURESQUE RELIQUI HOMINES UNUS, id est milia
hominum ƿ in eo quod sunt homines, unus homo est; at vero unus homo, qui
specialis est, si ad homivum multitudinem qui sub ipso sunt consideretur, plures
fiunt. Ita et plures homines in speciali homine unus est et specialis unus in
pluribus infinitus sic igitur quod singulare quidem est, divisivum est, quod
vero commune, quoniam multorum unum est, ut genus ac species, collectivum atque
adunativum. ASSIGNATO AUTEM GENERE ET SPECIE, QUID EST UTRUMQUE, ET GENERE
QUIDEM UNO, SPECIEBUS VERO PLURIBUS -- SEMPER ENIM IN PLURES SPECIES DIVISIO
GENERIS EST -- GENUS QUIDEM SEMPER DE SPECIE PRAEDICATUR ET OMNIA SUPERIORA DE
INFERIORIBUS, SPECIES AUTEM NEQUE DE PROXIMO SIBI GENERE NEQUE DE SUPERIORIBUS;
NEQUE ENIM CONVERTITUR. OPORTET AUTEM AUT AEQUA DE AEQUIS PRAEDICARI, UT
HINNIBILE DE EQUO, AUT MAIORA DE MINORIBUS, UT ANIMAL DE HOMINE, MINORA VERO DE
MAIORIBUS MINIME; NEQUE ENIM ANIMAL DICES ESSE HOMINEM, QUEMADMODUM HOMINEM
DICES ESSE ANIMAL. DE QUIBUS AUTEM SPECIES PRAEDICATUR, ƿ DE HIS NECESSARIO ET
SPECIEI GENUS PRAEDICABITUR ET GENERIS GENUS USQUE AD GENERALISSIMUM; SI ENIM
verUM EST SOCRATEM HOMINEM DICERE, HOMINEM AUTEM ANIMAL, ANIMAL VERO
SUBSTANTIAM, VERUM EST ET SOCRATEM ANIMAL DICERE ATQUE SUBSTANTIAM. SEMPER
IGITUR SUPERIORIBUS DE INFERIORIBUS PRAEDICATIS SPECIES QUIDEM DE INDIVIDUO
PRAEDICABITUR, GENUS AUTEM ET DE SPECIE ET DE INDIVIDUO, GENERALISSIMUM AUTEM
ET DE GENERE ET DE GENERIBUS, SI PLURA SINT MEDIA ET SUBALTERNA, ET DE SPECIE
ET DE INDIVIDUO. DICITUR ENIM GENERALISSIMUM QUIDEM DE OMNIBUS SUB SE GENERIBUS
SPECIEBUSQUE ET DE INDIVIDUIS, GENUS AUTEM QUOD ANTE SPECIALISSIMUM EST, DE
OMNIBUS SPECIALISSIMIS ET DE INDIVIDUIS, SOLUM AUTEM SPECIES DE OMNIBUS
INDIVIDUIS, INDIVIDUUM AUTEM DE UNO SOLO PARTICULARI. INDIVIDUUM AUTEM DICITUR
SOCRATES ET HOC ALBUM ET HIC VENIENS, UT SOPHRONISCI FILIUS, SI SOLUS EI SIT
SOCRATES FILIUS. Breviter quaecumque superius dicta sunt commemorat hoc modo.
Cum, inquit, assignaverimus quid sit genus et quid species, cumque suis ea
definitionibus comprehenderimus docuerimusque unum genus semper in plurimas
species solvi, illud, inquit, adiungimus quoniam omnia superiora de
inferioribus praedicantur, inferiora vero de superioribus minime. Et ea quae
sunt utilia de praedicationis modo rite pertractat. Ostendit autem genus in
plurimas species semper solvi assignata generis definitione. Quod enim de
pluribus rebus specie differentibus in eo quod quid sit praedicaretur, esse
definivit genus. Nihil autem sunt plurimae res specie differentes nisi plurimae
species; de quibus autem praedicatur genus, in ea ipsa dissolvitur. Ostensum
est igitur es definitionis assignatione unius generis esse species plures. Quae
cum ita sint, genus quidem de specie praedicatur, species vero de individuis
omniaque superiora de inferioribus, inferiora de superioribus nullo modo. Id
quare eveniat paucis absolvam. Quae superiora sunt, substantialiter ea genera
esse praediximus, qua vero sunt genera, ampliora sunt quam unaquaeque species.
Neque enim in plurima divideretur genus, nisi ab unaquaque specie maius
existeret. Id cum ita sit, nomen generis toti convenit speciei; non enim
coaequatur solum speciei generis magnitudo, verum etiam speciem superuadit.
Idcirco igitur omnis homo animal est, quoniam intra animalis vocabulum et homo
et caetera continentur. At vero nullus dixerit: omne animal homo est; non enim
pervenit ad totum animal hominis nomen, quia, cum sit minus, nullo modo generis
vocabulo coaequatur. Itaque quae maiora sunt, de minoribus praedicantur, quae
minora, non convertuntur, ut de maioribus praedicentur. At vero si qua sint
aequalia, ea secundum naturae parilitatem converti necesse est, ut hinnibile
atque equus, quoniam ita sibimet ƿ coaequantur, ut neque equus non sit
hinnibilis neque quod sit hinnibile, non sit equus. Fit ergo ut omne hinnibile
equus sit et omnis equus hinnibilis. Quae cum ita sint, ea quae superiora sunt,
non modo de sibi proximis inferioribus praedicantur, verum etiam de inferiorum
inferioribus. Nam si illud recipitur, ut ea quae superiora sunt, de
inferioribus praedicentur, inferiorum inferiora superioribus multo magis
inferiora sunt, velut substantia praedicatur de animali, quod est inferius; sed
animali inferius est homo, praedicabitur igitur etiam substantia de homine.
Rursus Socrates inferius est homine, praedicabitur igitur substantia de
Socrate. Itaque species quidem de individuis praedieantur, genera vero et de
speciebus et de individuis. Quod converti non potest; nam neque individua de
speciebus aut generibus praedicantur nec species de generibus. Ita fit ut genus
quod est generalissimum, de omnibus subalternis generibus praedicari et de
speciebus et de individuis possit, de ipso nihil. Ultimum vero genus id est
quod ante specialissimas species collocatur et de solis speciebus
specialissimis dici potest, species vero de individuis, ut dictun est,
individua autem de singulis praedicantur, ut Socrates et Plato, eaque maxime
sunt ƿ individua quae sub ostensionem indicationemque digiti cadunt, ut hoc
scamnum, hic veniens atque quae ex aliqua proprie accidentium designantur nota,
ut, si quis Socratem significatione velit ostendere, non dicat 'Socrates', ne
sit alius qui forte hoc nomine nuncupetur sed dicat 'Sophronisci filius', si unicus
Sophronisco fuit. Individua enim maxime ostendi queunt, si vel tacito nomine
sensui ipsi oculorum digito tactuue monstrentur, vel el aliquo accidenti
significentur vel nomine proprio, si solus illud adeptus est nomen, vel ex
parentibus, si illorum est unicus filius, vel ex quolibet alio accidenti
singularitas demonstratur. Eo quod ad esse unam praedicationem habeat eiusque
dictio non transeat ad alterum, sicut generis quidem ad species, specierum vero
ad individua. INDIVIDUA ERGO DICUNTUR HUIUSMODI, QUONIAM EX PROPRIETATIBUS
CONSISTIT UNUMQUODQUE EORUM, QUARUM COLLECTIO NUMQUAM IN ALIO EADEM ERIT.
SOCRATIS ENIM PROPRIETATES NUMQUAM IN ALIO QUOLIBET ERUNT ƿ PARTICULARIUM, HAE
VERO QUAE SUNT HOMINIS, DICO AUTEM EIUS QUI EST COMMUNIS, PROPRIETATES ERUNT EAEDEM
IN PLURIBUS, MAGIS AUTEM IN OMNIBUS PARTICULARIBUS HOMINIBUS IN EO QUOD HOMINES
SUNT. Quoniam superius individuum appellavit, huius nominis rationem conatur
ostendere. Ea enim sola dividuntur quae pluribus communia sunt; his enim
unumquodque dividitur quorum est commune quorumque naturam ac similitudinem
continet. Illa vero in quae commune dividitur, communi natura participant
proprietasque communis rei his quibus communis est convenit. At vero
individuorum proprietas nulli communis est. Socratis enim proprietas, si fuit
caluus, simus, propenso aluo caeterisque corporis lineamentis aut morum
institutione aut forma vocis, non conveniebat in alterum; hae enim proprietates
quae ex accidentibus ei obuenerant eiusque formam figuramque coniunxerant, in
nullum alium conveniebant. Cuius autem proprietates in nullum alium conveniunt,
eius proprietates nulli poterunt esse commones, cuius autem proprietas nulli
communis est, nihil est quod eius proprietate participet. Quod vero tale est,
ut proprietate eius nihil participet, ƿ dividi in ea quae non participant, non
potest; recte igitur haec quorum proprietas in alium non convenit, individua
nuncupantur. At vero hominis proprietas, id est specialis, convenit et in
Socratem et in Platonem et in caeteros, quorum proprietates ex accidentibus
venientes in quemlibet alium singularem nulla ratione conveniunt. CONTINETUR
IGITUR INDIVIDUUM QUIDEM SUB SPECIE, SPECIES AUTEM SUB GENERE. TOTUM ENIM
QUIDDAM EST GENUS, INDIVIDUUM AUTEM PARS, SPECIES vero ET TOTUM ET PARS SED
PARS QUIDEM ALTERIUS, TOTUM AUTEM A NON ALTERIUS SED ALIIS; PARTIBUS ENIM TOTUM
EST. DE GENERE QUIDEM ET SPECIE ET QUID GENERALISSIMUM ET QUID SPECIALISSIMUM
ET QUAE GENERA EADEM ET SPECIES SUNT, QUAE ETIAM INDIVIDUA, ET QUOT MODIS GENUS
ET SPECIES DICITUR, SUFFICIENTER DICTUM EST. Hic retractat omnia breviter quae
supra latius absolvit dicens individuum ab specie contineri, species vero ipsas
a genere, huiusque causam reddens ait: OMNE ENIM GENUS TOTUM EST, INDIVIDUUM
PARS. Totum enim genus in eo quod genus est. Continet, tametsi species esse
potest; totum enim non ut genus species est sed ut ea quae supponitur generi.
Genus igitur in eo quod genus est, totum est speciebus, semper enim continet
eas. At vero individuum pars semper est, numquam ƿ enim ipsum aliquid sua
proprietate concludit. Species vero et totum est et pars, pars quidem generis,
totum vero individuis. Et cum pars est, ad singularitatem refertur, cum totum,
ad pluralitatem. Quoniam enim unum genus pluribus speciebus superest, una
quaelibet species pars est generis, id est unius, quoniam autem species
pluribus individuis praeest, non est uni individuo totum sed plurimis. Idcirco
enim totum dicitur, quia plura continet et cohercet. Nam ut pars sit aliquid,
una ipsa unius pars esse poterit, ut vero totum sit, unum ipsum unius totum
esse non poterit. Idcirco alterius quidem pars est species, aliis vero totum. Et
de genere quidem et specie dictum est et quid sit generalissimum genus, quoniam
id cui nullum aliud superponitur genus, et quid specialissima species, quoniam
ea cui species nulla supponitur, et quae genela eadem sunt, eadem et speries
scilicet subalterna quibus aliquid superponitur, aliquid vero supponitur, quae
etiam individua, ea scilicet quorum proprietates alteri nequeunt convenire, et
quot modis genus vel species dicitur, genus quidem aut in multitudine aut in
procreatione aut in participatione substantiae. Species vero aut ex figura aut
ex generis suppositione, sufficienter dictum est. Quibus absolutis modum
voluminis terminabo, ut quarti area libri differentiae reseruetur. De
differentia disputanti non aeque illud debet occurrere quod in generis
specieique tractatu de collocationis ordine quaerebatur. Illic enim meminimus
inquisitum, cur esset omnibus praepositum genus, ut id primum ad disputationem
veniret, cur post genus species esset iniecta, nunc vero superuacuum est
dicere, cur post speciem differentia sumpta sit, cum illud iam fuerit
inquisitum, cur non ante speciem collocata sit. Quodsi mirum videbatur speciem
differentiae in disputationis loco fuisse praepositam, quod differentia
continentior et magis amplior esset specie, quid est quod possit quisque
mirari, si eandem differentiam ante proprium atque accidens collocaverit, cum
proprium unius semper sit speciei, ut posterius demonstrabitur, accidens vero
exteriorem quandam ostendat naturam nec omnino in substantia praedicetur,
differentia vero utrumque contineat, et de pluribus speciebus et in substantia
praedicari? sed haec hactenus, nunc ad ipsa Porphyrii verba veniamus. DIFFERENTIA
VERO COMMUNITER ET PROPRIE ET MAGIS ƿ PROPRIE DICITUR. COMMUNITER QUIDEM
DIFFERRE ALTERUM AB ALTERO DICITUR, QUOD ALTERITATE QUADAM DIFFERT QUOCUMQUE
MODO VEL A SE IPSO VEL AB ALIO. DIFFERT ENIM SOCRATES A PLATONE ALTERITATE ET
IPSE A SE VEL PUERO VEL IAM viRO ET FACIENTE ALIQUID VEL QUIESCENTE ET SEMPER
IN ALIQUO MODO HABENDI ALTERITATIBUS. PROPRIE AUTEM DIFFERRE ALTERUM AB ALTERO
DICITUR, QUANDO INSEPARABILI ACCIDENTI AB ALTERO DIFFERT. INSEPARABILE VERO
ACCIDENS EST UT NASI CURUITAS, CAECITAS OCULORUM, CICATRIX, CUM ES UULNERE
OBCALLUERIT. MAGIS PROPRIE DIFFERRE ALTERUM AB ALTERO DICITUR, QUANDO SPECIFICA
DIFFERENTIA DISTITERIT, QUEMADMODUM HOMO AB EQUO SPECIFICA DIFFERENTIA DIFFERT
RATIONALI QUALITATE. Tribus modis aliud ab alio distare praediximus, genere,
specie, numero, in quibus omnibus aut secundum substantiales quasdam
differentias alia res distat ab alia aut secundum accidentes. Nam quae genere
vel specie distant, substantialibus quibusdam differentiis disgregata sunt,
idcirco quoniam genera et species quibusdam differentiis informantur. Nam quod
homo ab arbore genere distat, animalis sensibilis qualitas in eo differentiam
facit. Addita enim sensibilis qualitas ƿ animato animal facit, eidem detracta
facit animatum atque insensibile, quod virgulta sunt. Igitur homo atque arbor
genere differunt -- utraque enim sub animalis genere poni non possunt --
differentia sensibili secundum genus discrepant, quae unius ex propositis
tantum genus, id est hominis informat, ut dictum est. Illa vero quae specie distant
manifestum est quod ipsa quoque differentiis substantialibus discrepant, ut
homo atque equus differentiis substantialibus discrepant, rationabilitate atque
irrationabilitate. Ea vero quae individua sunt et solo numero discrepant, solis
accidentibus distant. Haec autem sunt vel separabilia vel inseparabilia,
separabilia quidem, ut moveri, dormire; distat enim alius ab alio, quod ille
somno prematur, hic vigilet. Distat item inseparabilibus accidentibus, quod hic
staturae sit longioris, hic minimae. Quae cum ita sint, in ternarium numerum
has differentiarum diversitates Porphyrius colligit hisque ipse nomina quibus
post utatur, apponit dicens: OMNIS DIFFERENTIA VEL COMMUNITER VEL PROPRIE VEL
MAGIS PROPRIE NUNCUPATUR, communiter quidem eam differentiam sumens quae
quodlibet accidens monstret, quae in quadam alteritate consistit, ut si Plato a
Socrate differat, quod ille sedeat, hic ambulet, vel quod ille sit senex, hic ƿ
ivvenis. A se ipso etiam saepe aliquis differre potest, ut si nunc quidem
faciat aliquid, cum ante quieuerit, vel si nunc adulescens iam factus sit, cum
prius tenera vixisset infantia. Communes autem differentiae nuncupatae sunt,
quoniam nullius propriae esse possunt differentiae sed separabilia accidentia
sola significant. Nam et stare et sedere et facere aliquid ac non facere
multorum atque adeo omnium et separabilia esse accidentia manifestum est.
Quibus si qui differunt, communibus differentiis distare dicuntur. Praeterea
puerum esse atque adulescentem vel senem, ea quoque separabilia sunt accidentia.
Nam ex pueritia ad adulescentiam atque hinc ad senectutem, ab hac denique ad
decrepitam usque aetatem naturae ipsius necessitate progredimur. Illud forsitan
sit dubitabile de uniuscuiusque forma corporis, an ullo modo separari queat.
Sed ea quoque est separabilis, nullius enim diuturna ac stabilis forma
perdurat. Idcirco nec peregrinus pater relictum domi puerum, si adulescentem
redux viderit, possit agnoscere; forma enim semper quae ante fuerat, permutatur
atque ipsa alteritas qua distamus ab altero, semper diversa est. Constat igitur
hanc communem differentiam separabilibus maxime accidentibus applicari, propria
vero est quae inseparabilia significat accidentia. Ea huiusmodi sunt, ut si
quis caecis nascatur oculis, si quis incuruo naso; dum enim adest nasus atque
oculi, ille caecus, ille erit semper incuruus. Atque haec per naturam. Sunt
vero alia quae per accidens corporibus fiunt, ut si cui uulnus ƿ inflictum
cicatrice fuerit obductum, haec si obcalluerit. Propriam differentiam facit;
distabit enim alter ab altero, quod hic cicatricem habeat, ille vero minime.
Postremoque in his omnibus vel separabilibus accidentibus vel inseparabilibus
alia sunt naturaliter accidentia, alia extrinsecus, naturaliter quidem ut
pueritia vel ivuentus et totius conformatio corporis, sic caeci oculi et
curuitas nasi. Et superiora quidem exempla separabilis accidentis per naturam
sunt, posteriora vero inseparabilis. Item extrinsecus vel ambulare vel currere;
id enim nou natura sed sola affert voluntas, natura vero posse tantum dedit,
non etiam facere. Atque haec sunt separabilis accidentis extrinsecus venientis
exempla, illa vero inseparabilis, ut si qua cicatrix obducta uulneri
obcalluerit. Magis propriae autem differentiae praedicantur, quae non accidens
sed substantiam formant, ut hominis rationabilitas; differt enim homo a
caeteris, quod rationalis est vel quod mortalis. Hae sunt igitur magis
propriae, quae monstrant uniuscuiusque substantiam. Nam si illae quidem idcirco
communes dicuntur, quia separabiles atque omnium sunt, aliae autem propriae.
Quoniam separari non possunt, quamvis sint in accidentium numero, illae iure
magis propriae praedicantur, quae non modo a subiecto separari non possunt,
verum subiecti ipsius speciem substantiamque perficiunt. Ex his igitur tribus
differentiarum diversitatibus, id est communibus, propriis ac magis propriis,
fiunt secundum genus vel speciem vel numerum discrepantiae. Nam ex communibus
et propriis secundum numerum distantiae nascuntur, ex magis propriis vero secundum
genus ac speciem. UNIVERSALITER ERGO OMNIS DIFFERENTIA ALTERATUM FACIT CUILIBET
ADVENIENS SED EA QUAE EST COMMUNITER ET PROPRIE, ALTERATUM FACIT, ILLA AUTEM
QUAE EST MAGIS PROPRIE, ALIUD. DIFFERENTIARUM ENIM ALIAE QUIDEM ALTERATUM
FACIUNT, ALIAE VERO ALIUD. ILLAE QUIDEM QUAE FACIUNT ALIUD, SPECIFICAE
VOCANTUR, ILLAE VERO QUAE ALTERATUM, SIMPLICITER DIFFERENTIAE. ANIMALI ENIM
DIFFERENTIA ADVENIENS RATIONALIS ALIUD FECIT ET SPECIEM ANIMALIS FECIT, ILLA
VERO QUAE EST MOVENDI, ALTERATUM SOLUM A QUIESCENTE FECIT; QUARE HAEC QUIDEM
ALIUD, ILLA VERO ALTERATUM SOLUM FECIT. Omnis differentia alterius ab altero
distantiam facit. Sed haec vel est communis et continens vel cum quodam proprio
et magis proprio differentiarum modo. Quare quicquid qualibet ratione ab alio
diversum est, alteratum esse dicitur. Si vero accesserit illi diversitati ut
etiam specifica quadam differentia sit diversum, non alteratum solum, verum
etiam aliud esse praedicatur. Alteratio igitur continens est, aliud vero intra
alterationis spatium continetur; nam et quod aliud est, alteratum est sed nou
omne quod alteratum est, aliud dici potest. Itaque si accidentibus aliquibus
fuerit facta diversitas, alteratum ƿ quidem effectum est, quoniam quidem
quolibet modo vel ex quibuslibet differentiis considerata diversitas
alterationem facit intellegi, aliud vero non fit, nisi substantiali differentia
alterum ab altero fuerit dissociatum. Itaque communes et propriae differentiae,
quoniam accidentium, ut dictum est, sunt, solum efficiunt alteratum. Aliud vero
minime, magis propriae autem, quoniam substantiam tenent et in subiecti forma
prnedicantur, non modo alteratum, quod est commune vel substantiali vel
accidenti differentiae sed etiam aliud faciunt, quod ea sola retinet
differentia quae substantiam continet formamque suhiecti. Atque ilae quidem
differentiao quae faciunt aliud, specificab nuncupantur idcirco, quod ipsae
efficiunt speciem; quam cum substantialibus differentiis informaverint, faciunt
ab aliis ita esse diversam, ut non aiterata solum sit, verum etiam tota alia
praedicetur. Itaque fit huiusmodi divisio, differentiarum ut aliae alteratum
faciant, aliae vero aliud. Et illae quidem quae faciunt alteratum, simpliciter
pro nomine differentiae nuncupantur, illae vero quae aliud, specificae differentiae
praedicantur. Atque, ut planius liqueat quid sit alteratum, quid aliud, tali
describuntur termino vel declarantur exemplo: aliud est quod tota speciei
ratione diversum est, ut equus ab homine, quoniatll rationalis differentia
animali advenieus hominem fecit aliudque eum quam equum esse constituit. Item
si unus homo sedeat, alter assistat, non efficietur homo diversus ab homine sed
eos alteratio sola disiungit, ut eum qui assistit ab eo qui ƿ sedet faciat
alteratum. Item si ille sit nigris oculis, ille caesiis, nihil, quantum ad
formam humanitatis attinet, permutatum est. Ita secundum has differentias
alteratio sola consistit. At si equus quidem iaceat, homo vero ambulet, et
aliud est equus ab homine et alteratum, dupliciter quidem alteratum, semel vero
aliud. Alteratum est enim, vel quod omnino specie diversum est -- et est aliud;
omne enim aliud, ut dictum est, etiam alteratum est -- vel quod accidentibus
distat, quod ille iaceat, hic ambulet, semel vero est aliud, quod rationabili
atque irrationabili differentiis disgregatur, quae specificae sunt et
substantiales dicuntur. Est igitur alteratum quod ab alio qualibet ratione
diversum est. SECUNDUM IGITUR ALIUD FACIENTES DIVISIONES FIUNT A GENERIBUS IN
SPECIES ET DEFINITIONES ASSIGNANTUR, QUAE SUNT EX GENERE ET HUIUSMODI
DIFFERENTIIS, SECUNDUM AUTEM EAS QUAE SOLUM ALTERATUM FACIUNT, ALTERATIO SOLA
CONSISTIT ET ALIQUO MODO SE HABENDI PERMUTATIONES. Quoniam in principio operis
huius generis, speciei, differentiae, ƿ proprii accidentisque notitiam ad
divisionem atque ad definitionem utilem esse praedixit, idcirco nunc
differentiarum ipsarum facta divisione easdem partitur et segregat, quaenam
differentiae divisionibus ac definitionibus accommodentur, quae vero minime.
Quoniam igitur divisio generis ita in species facienda est, ut illae a se
species omni substantiae ratione diversae sint, idcirco non probat assumendas
esse eas ad divisionem differentias quae vel separabilis vel inseparabilis
accidentis significationem tenent, idcirco quoniam, ut dictum est, solum
faciunt alteratum, aliud vero perficere et informare non possunt. Inutiles
igitur sunt ad divisionem hae differentiae quae faciunt alteratum. Segregandae
igitur sunt communes et propriae a generis divisione, illae assumendae tantum
quae sunt magis propriae. Illae enim faciunt aliud, quod generis divisio
videtur exposcere. Ad definitionem quoque eaedem magis propriae plurimum
valent, communes et propriae velut inutiles segregantur; communes enim et
propriae, quoniam accidens diversi generis ferunt, nihil substantiae ratione
conformant, definitio vero omnis substantiam conatur ostendere. Specificae vero
differentiae illae sunt quae, ut superius dictum est, speciem informant
substantiamque perficiunt; hae sunt magis propriae. Eaedem igitur sicut in
divisionem, ita etiam in definitionem assumuntur. ut enim dictum est, eaedem
differentiae ƿ nunc quidem constitutivae ad definitionem specierum sunluntur,
nunc divisivae ad partitionem generis accommodantur. Ita igitur cum divisivae
sunt generis, aliud constituunt. In substantiae vero definitione speciei
informationem faciunt, cumque magis propriae et aliud faciant et specificae
sint, eo quidem quo aliud faciunt. Divisionibus aptae sunt. Eo vero quo speciem
informant. Definitionibus accommodatae sunt. Communes autem et propriae quoniam
neque aliud faciunt sed alteratum, neque omnino substantiam monstrant, aeque a
divisione ut a definitione disiunctae sunt. A SUPERIORIBUS ERGO RURSUS
INCHOANTI DICENDUM EST DIFFERENTIARUM ALIAS QUIDEM ESSE SEPARABILES, ALIAS VERO
INSEPARABILES. MOVERI ENIM ET QUIESCERE ET SANUM ESSE ET AEGRUM ET QUAECUMQUE
HIS PROXIMA SUNT, SEPARABILIA SUNT, AT VERO AQUILUM ESSE VEL SIMUM VEL
RATIONALE VEL IRRATIONALE INSEPARABILIA. IN SEPARABILIUM AUTEM ALIAE QUIDEM
SUNT PER SE, ALIAE ƿ VERO PER ACCIDENS; NAM RATIONALE PER SE INEST HOMINI ET
MORTALE ET DISCIPLINAE ESSE PERCEPTIBILE, AT VERO AQUILUM ESSE VEL SIMUM SECUNDUM
ACCIDENS ET NON PER SE. Superius differentias triplici divisione partitus est
dicens aut communes esse aut proprias aut magis proprias, dehinc easdem alia
divisione in duas secuit partes dicens has quidem aliud facere, illas vero
alteratum. Nunc tertiam earum quidem facit divisionem dicens alias esse
separabiles, alias inseparabiles, posse autem de unoquoque cuius multae sunt
differentiae, plurimas fieri divisiones ex ipsa differentiarum natura
manifestum est. Nam si omnis divisio differentiis distribuitur quorum multae
sunt differentiae, multas etiam divisiones esse necesse est. Fit autem ut
animal dividatur quidem hoc modo: animalis alia quidem sunt rationabilia, alia
irrationabilia, item alia mortalia, alia immortalia; item alia pedes habentia,
alia minime; rursus alia herbis uescentia, alia carnibus, alia seminibus. Ita
nihil mirum videri debet, si multiplex differentiae est facta partitio. Ac
primum quidem cum in ternarium numerum differentiae membra secuisset, communes
et proprias et magis proprias nuncupavit. Secunda vero divisio communes et
proprias intra nomen alteratum facientis inclusit, magis proprias vero intra aliud
facientis. Haec vero tertia divisio, quae ait DIFFERENTIARUM ALIAS ESSE SEPARABILES,
ALIAS INSEPARABILES, unam quidem ex alteratum facientibus separabilibus
differentiis adiungit, caeteras vero intra inseparabilis differentiae vocabulum
claudit. Una quidem ex alteratum facientibus, id est propria differentia, et
reliqua quae aliud facere demonstrata est, id est magis propria, inseparabiles
differentiae esse dicuntur. F quarum subdivisio fit. Inseparabilium
differentiarum aliae sunt per se, aliae secundum accidens, per se quidem magis
propriae, secundum accidens vero propriae. Per se autem aliquid inesse dicitur
quod alicuius substantiam informat. Si enim idcirco quaelibet species est,
quoniam substantiali differentia constituitur, illa differentia per se subiecto
adest neque per accidens aut per quodlibet aliud medium sed sui praesentia
speciem quam tuetur informat, ut hominem rationabilitas, homini enim huiusmodi
differentia per se inest, idcirco enim homo est, quia ei rationabilitas adest;
quae si discesserit, species hominis non manebit. Et has quidem quae
substantiales sunt, inseparabiles esse nullus ignorat; separari enim a subiecto
non poterunt, nisi interempta sit natura subiecti. Secundum accidens vero
inseparabiles differentiae sunt hae quae propriae nuncupantur, ut aquilum esse
vel simum; quae idcirco per accidens nuncupantur, quoniam iam constitutae
speciei extrinsecus accidunt nihil subiecti substantiae commodantes. ILLAE
IGITUR QUAE PER SE SUNT, IN SUBSTANTIAE ƿ RATIONE ACCIPIUNTUR ET FACIUNT ALIUD,
ILLAE VERO QUAE SECUNDUM ACCIDENS, NEC IN SUBSTANTIAE RATIONE DICUNTUR NEC
FACIUNT ALIUD SED ALTERATUM. ET ILLAE QUIDEM QUAE PER SE SUNT, NON SUSCIPIUNT
MAGIS ET MINUS, ILLAE vero QUAE PER ACCIDENS, VEL SI INSEPARABILES SINT,
INTENTIONEM RECIPIUNT ET REMISSIONEM; NAM NEQUE GENUS MAGIS AUT MINUS
PRAEDICATUR DE EO CUIUS FUERIT GENUS, NEQUE GENERIS DIFFERENTIAE, SECUNDUM QUAS
DIVIDITUR; IPSAE ENIM SUNT QUAE UNIUSCUIUSQUE RATIONEM COMPLENT, ESSE AUTEM UNI
CUIQUE UNUM ET IDEM NEQUE INTENTIONEM NEQUE REMISSIONEM SUSCIPIENS EST, AQUILUM
AUTEM ESSE VEL SIMUM VEL COLORATUM ALIQUO MODO ET INTENDITUR ET REMITTITUR. Differentiis
rite partitis earum inter se distantiam monstrat atque unam quidem repetit quam
superius dixit. Cum enim tres esse dixisset differentias, communes, proprias,
magis proprias, alteratum facere dixit proprias, sicut etiam communes, aliud
mimme sed hoc solis magis propriis reservavit. Nunc igitur idem repetit dicens
quoniam inseparabiles differentiae quae substantiam monstrant, id est quae per
se subiectis speciebus insunt easque perficiunt, aliud faciunt, illae vero ƿ
quae sunt propriae, id est secundum accidens inseparabiles differentiae, neque
in substantia insunt nec aliud faciunt sed tantum, ut superius dictum est,
alteratum. Item alia distantia est earum differentiarum quae secundum
substantiam sunt, ab his quae secundum accidens, quoniam quae substantiam
monstrant, intendi aut remitti non possunt, quae vero sunt secundum accidens,
et intentione crescunt et remissione decrescunt. Id autem probatur hoc modo.
Unicuique rei esse suum neque crescere neque deminui potest; nam qui homo est,
humanitatis suae nec crementa potest nec detrimenta suscipere. Nam neque ipse a
se plus aut minus hodie vel quolibet alio tempore homo esse potest nec homo
rursus ab alio homine plus homo potest esse vel animal. Utrique enim aequaliter
animalia, aequaliter homines esse dicuntur. Quodsi uni cuique esse suum nec
cremento ampliari potest nec inminutione decrescere, quod per id facile
monstrari potest, quoniam quae genera sunt vel species. Nulla intentione vel
remissione variantur, non est dubium quin differentiae quoque, quae
uniuscuiusque speciei substantiam formant, nec remissionis detrimenta
suscipiant nec intentionis augmenta. Itaque substantiales differentiae neque
intentionem neque remissionem suscipiunt. Huius causa haec est. Quoniam esse
unicuique unum et idem est, et intentionem remissionemue non suscipit huius
exemplum. Genus ƿ enim dici non potest plus minusue cuilibet genus; omnibus
enim genus aequaliter superponitur. Differentiae quoque quae dividunt genus et
informant speciem, quoniam speciei essentiam complent, nec intentionem
recipiunt nec remissionem. Quae vero secundum accidens differentiae sunt
inseparabiles, ut aquilum esse vel simum vel coloratum aliquo modo, et
intentionem suscipiunt et remissionem. Fieri enim potest ut hic paulo sit
nigrior, hic vero amplius simus, ille minus aquilus, at vero quod non omnes
homines aequaliter rationales mortalesque sint nec specierum nec differentiarum
natura videtur admittere. CUM IGITUR TRES SPECIES DIFFERENTIAE CONSIDERENTUR ET
CUM HAE QUIDEM SINT SEPARABILES, ILLAE VERO INSEPARABILES, ET RURSUS
INSEPARABILIUM CUM HAE QUIDEM SINT PER SE, ILLAE VERO PER ACCIDENS, RURSLLS
EARUM QUAE SUNT PER SE DIFFERENTIARUM ALIAC QUIDEM SUNT SECUNDUM QUAS DIVIDIMUS
GENERA IN SPECIES, ALIAE VERO SECUNDUM QUAS EA QUAE DIVISA SUNT SPECIFICANTUR,
UT CUM PER SE DIFFERENTIAE OMNES HUINSMODI SINT, ANIMATI ET INANIMATI, ƿ
SENSIBILIS ET INSENSIBILIS, RATIONALIS ET IRRATIONALIS, MORTALIS ET IMMORTALIS,
EA QUIDEM QUAE EST ANIMATI ET SENSIBILIS DIFFERENTIA. CONSTITUTIVA EST
SUBSTANTIAE ANIMALIS -- EST ENIM ANIMAL SUBSTANTIA ANIMATA SENSIBILIS -- EA
VERO QUAE EST MORTALIS ET IMMORTALIS DIFFERENTIA ET RATIONALIS ET IRRATIONALIS,
DIVISIVAE SUNT ANIMALIS DIFFERENTIAE; PER EAS ENIM GENERA IN SPECIES DIVIDIMUS.
Fit nunc differentiarum plena et suprema divisio, quae est huiusmodi.
Differentiarum aliae sunt separabiles, aliae inseparabiles, inseparabilium
aliae sunt secundum accidens, aliae substantiales. Substantialium aliae sunt
divisibiles generis, aliae constitutivae specierum. Quod vero ait: CUM IGITUR
TRES SPECIES DIFFERENTIAE CONSIDERENTUR, ad hoc retulit, quod in prima
differentiarum divisione partim eas communes esse, partim proprias, partim
magis proprias disit, quas rursus tres differentias alias separabiles esse
monstravit, alias inseparabiles, separabiles quidem commlmes, inseparabiles
vero proprias ac magis proprias. Inseparabilium vero fecit divisionem dicens
alias esse secundum accidens, quae propriae nuncupantur, magis proprias vero
secundum substantiam considerari. Earum vero quae secundum substantiam sunt,
subdivisionem facit, quod ƿ aliae earum genus dividant, aliae speciem
informent. Ad cuius rei facilem cognitionem illa tertii libri specierum
generumque dispositio transcribatur. Sitque primum substantia, sub hac
corporeum atque incorporeum, sub corporeo animatum atque inanimatum, sub
animato sensibile atque insensibile, sub quo animal, sub animali rationale
atque irrationale, sub rationali mortale atque immortale et sub mortali species
hominis, quae solis deinceps individuis praeponatur. In hac igitur divisione
omnes hae differentiae specificae nuncupantur, generum enim specierumque
differentiae sunt sed generum quidem divisivae, specierum autem constitutivae. Id
autem probatur hoc modo. Substantiam quippe corporei atque incorporei
differentiae partiuntur, corporeum vero animati atque inanimati, animatum
sensibilis atque insensibilis. Ita igitur genera substantiales differentiae
partiuntur et dicuntur generum divisivae. At velo si eaedem differentiae quae a
genere descendentes genus dividunt, colligantur et in unum quae possunt iungi
copulentur, species informatur. Nam cum animal species sit substantiae -- omnia
enim superiora de inferioribus praedicantur et quicquid inferius fuerit,
species erit etiam superioris -- animatum tamen atque ƿ sensibile quae sunt
differentiae, si referantur ad genera, divisivae sunt, constitutivae vero fiunt
animalis eiusque substantiam formant atque constituunt definitionemque conformant,
ut sit animal substantia animata sensibilis. Substantia quidem genus, animatum
vero atque sensibile eiusdem differentiae constitutivae. Item animal
rationabilitas atque irrationabilitas dividit, mortali etiam atque immortali
dividitur sed iuncta rationabilitas atque mortalitas, quae animalis divisivae
fuerant, fiunt hominis constitutivae eiusque perficiunt speciem atque omnem
eius rationem definitionis informant atque perficiunt. At si irrationabilitas
cum mortalitate iungatur, fiet equus aut quodlibet animal, quod ratione non
utitur, rationabilitas vero atque immortalitas copulatae dei substantiam
informant. Ita eaedem differentiae cum referuntur ad genera, divisivae generum
fiunt, si vero ad inferiores species considerentur, informant species earumque
substantiam convenienti copulatione constituunt. In hoc quaesitum est,
quemadmodum dicerentur esse hae differentiae ƿ specierum constitutivae, cum
irrationabilis differentia atque immortalis nullam speciem videantur efficere.
Respondemus primum quidem placere Aristoteli caelestia corpora animata non
esse: quod velo animatum non sit, animal esse non posse; quod vero non sit
animal, nec rationale esse concedi. Sed eadem corpora propter simplicitatem et
perpetuitatem motus aeterna esse confirmat. Est igitur aliquid quod ex duabus
his differentiis conficiatur, irrationabili scilicet atque immortali. Quodsi
magis cedendum Platoni est et caelestia corpora animata esse credendum, nullum
quidem his differentiis potest esse subiectum -- quicquid enim irrationabile est
corruptioni subiacens et generationi, immortale esse non poterit -- sed tamen
hae differentiae, quoniam substantialium differentiarum in numero sunt, si
iungi ullo modo potuissent, earum naturam et speciem quoque possent efficere. Atque
ut intellegatur, quae sit haec potentia effieiendae substantiae specieique
formandae respiciamus ad proprias atque communes, quae tametsi iungantur,
speciem substantiamque nulla ratione constituunt. Si quis enim loquatur
ambulans, quae sunt duae communes differentiae, vel si albus ac longus, num
idcirco isdem eius substantia constituitur? Minime. Cur? Quia non eiusdem sunt
generis, quae alicuius possint constituere et conformare substantiam. ƿ Ita
igitur hae, id est irrationale atque immortale, etiamsi subiectum aliquod habere
non possunt, possent tamen substantiam efficere, si ullo modo iungi copularique
potuissent. Praeterea irrationale iunctum cum mortali substantiam pecudis
facit: est igitur constitutiva irrationalis differentia. Item immortale ac
rationale coniuncta efficiunt deum: est igitur immorlale quod speciem formet.
Quodsi inter se iungi nequeunt, non idcirco quod in natura earum est,
abrogatur. SED HAE QUIDEM QUAE DIVISIVAE SUNT DIFFERENTIAE GENERUM, COMPLETIVAE
FIUNT ET CONSTITUTIVAE SPECIERUM; DIVIDITUR ENIM ANIMAL RATIONALI ET
IRRATIONALI DIFFERENTIA ET RURSUS MORTALI ET IMMORTALI DIFFERENTIA. SED EA QUAE
EST RATIONALIS DIFFERENTIA ET MORTALIS, CONSTITUTIVAE FIUNT HOMINIS, RATIONALIS
VERO ET IMMORTALIS. DEI, ILLAE vero QUAE SUNT IRRATIONALIS ET MORTALIS, IRRATIONABILIUM
ANIMALIUM. SIC ETIAM ET SUPREMAE SUBSTANTIAE CUM DIVISIVA SIT ANIMATI ET
INANIMATI DIFFERENTIA ET SENSIBILIS ET INSENSIBILIS, ANIMATA ET SENSIBILIS
CONGREGATAE AD SUBSTANTIAM ANIMAL PERFECERUNT. Geminum differentiarum usum esse
demonstrat, unum quidem quo genera dividuntur, alium vero quo species
informantur; neque enim hoc solum differentiae faciunt, ut genera partiantur,
verum etiam dum genera dividunt, species in quas genera deducuntur efficiunt.
Itaque quae divisivae sunt generum, fiunt constitutivae specierum, huiusque rei
illud exemplum est quod ipse subiecit: animalis quippe differentiae sunt
divisivae rationale atque irrationale, mortale atque immortale, his enim
praedicatio diniditur animalis. Omne enim quod animal est, aut rationale aut irrationale
aut mortale aut immortale est. Sed istae differentiae quae dividunt genus quod
est animal speciei substantiam formam quae constituunt. Nam cum sit homo
animal, efficitur rationali mortalique differentiis, quae dudum animal
partiebantur. Item cum sit equus animal, irrationali mortalique differentiis
constituitur, quae dudum animal dividebant. Deus autem cum sit animal, ut de
sole dicamus. Rationali immortalique efficitur differentiis, quas dividere
genus habita partitio paulo ante monstravit. Sed hic, ut diximus deum corpoleum
intellegi oportet, ut solem et caelum caeteraque huiusmodi, quae cum animata et
rationabilia Plato esse confirmat, tum in deorum vocabulum antiquitatis
veneratione probantur assumpta, de primo quoque genere, id est substantia demonstrantur
venire. Nam cum eius divisivae sint differentiae ƿ animatum atque inanimatum,
sensibile atque insensibile, iunctae differentiae sensibilis atque animati
efficiunt substantiam animatam atque sensibilem, quod est animal. Iure igitur
dictum est, quae divisivae sunt differentiae generum, easdem esse constitutivas
specierum. QUONIAM ERGO EAEDEM ALIQUO MODO QUIDEM ACCEPTAE FIUNT CONSTITUTIVAE,
ALIQUO MODO AUTEM DIVISIVAE, SPECIFICAE OMNES VOCANTUR. ET HIS MAXIME OPUS EST
AD DIVISIONES GENERUM ET DEFINITIONES SED NON HIS QUAE SECUNDUM ACCIDENS
INSEPARABILES SUNT, NEC MAGIS HIS QUAE SUNT SEPARABILES. Omnes a genere
differentias procedentes genus ipsum a quo procedunt, dividere nullus ignorat.
Ipsae autem quae dividunt genus, si ad posteriores species applicentur,
informant substantias easque perficiunt. Eaedem igitur sunt constitutivae
specierum, eaedem divisibiles generum, alio tamen modo atque alio consideratae,
ut si ad genus relatae quidem in contrariam divisionem spectentur, divisibiles
generis inveniuntur, si vero iunctae aliquid efficere possint, specierum
constitutivae sunt. Quae cum ita sint, hae differentiae quae genus dividunt,
rectissime divisivae nominanturÑquae enim constitumlt speciem, specificae sunt
sed constituunt speciem hae differentiae quae ƿ sunt generis divisivae Ñ
eaedemque sunt specierum constitutivae. Quare iure quae generum divisivae sunt
et quae specierum constitutivae, specificae nuncupantur. Has igitur in
divisione generis et in definitione specierum accipi oportere manifestum est.
Quoniam enim divisivae sunt, per eas dividi oportet genus, quoniam autem
constitutivae, per eas species definiri; quibus enim unumquodque constituitur,
isdem etiam definitur. Constituitur autem species per differentias generis
divisivas, quae sunt specificae. Iure igitur specificae solae et in generis
divisione et in specierum definitione ponuntur. Et de specificis quidem haec
ratio est, de his autem quae vel separabilia vel inseparabilia continent
accidentia, nihil in generum divisione vel definitione specierum poterit
assumi, idcirco quoniam quae divisibiles sunt, substantiam generis dividunt, et
quae constitutivae sunt. Substantiam speciei constituunt. Quae vero sunt
inseparabilia accidentia, nullius substantiam informant. Unde fit ut multo
minus separabilia accidentia ad divisiones generum vel specierum definitiones
accommodentur; omnino enim dissimiles sunt substantialibus differentiis. Nam
inseparabilia accidentia hoc fortasse habent commune cum specificis, hoc est
substantialibus differentiis, quod aeque subiectum non relinquunt, sicut nec
specificae differentiae. Separabilia autem accidentia ne hoc quidem; separari ƿ
enim possunt, nec tantum potestate et mentis ratiocinatione sed actus etiam
praesentia, et omnino veniendi vel discedendi varietatibus permutantur. QUAS
ETIAM DETERMINANTES DICUNT: DIFFERENTIA EST QUA ABUNDAT SPECIES A GENERE. HOMO
ENIM AB ANIMALI PLUS HABET RATIONALE ET MORTALE: ANIMAL ENIM NEQUE IPSUM NIHIL
HORUM EST -- NAM UNDE HABEBUNT SPECIES DIFFERENTIAS? -- NEQUE ENIM OMNES OPPOSITAS
HABET -- NAM IN EODEM SIMUL HABEBUNT OPPOSITA -- SED, QUEMADMODUM PROBANT,
POTESTATE QUIDEM OMNES HABET SUB SE DIFFERENTIAS, ACTU VERO NULLAM. AC SIC
NEQUE EX HIS QUAE NON SUNT, ALIQUID FIT NEQUE OPPOSITA CIRCA IDEM SUNT. Specificas
differentias definitione concludit dicens substantiales differentias a
quibusdam tali descriptionis ratione finiri: DIFFERENTIA SPECIFICA EST QUA
ABUNDAT SPECIES A GENERE. Sit enim genus animal, species homo: habet igitur
homo differentias in se, quae eum constituunt, rationale atque mortale; omnis
enim species constitutivas formae suae differentias in se retinet nec praeter
illas esse potest, quarum congregatione perfecta est. Si igitur animal quidem
solum genus est, homo vero est animal rationale mortale, plus habet homo ab
animali id quod rationale est atque mortale. Quo igitur abundat species ƿ a
genere, id est quo superat genus et quo plus habet a genere, hoc est specifica
differentia. Sed huic definitioni quaedam quaestio videtur occurrere habens
principium ex duabus per se propositionibus votis, una quidem, quoniam duo
contraria in eodem esse non possunt, alia vero, quoniam ex nihilo nihil fit.
Nam neque contraria pati sese possunt, ut in eodem simul sint, nec aliquid ex
nihilo fieri potest; omne enim quod fit, habet aliquid unde effici possit atque
formari. Quae propositiones talem
faciunt quaestionem. Dictum est differentiam esse id qua plus haberet species a
genere. Quid igitur? Dicendum est genus eas differentias quas habent species,
non habere? Et unde habebit species differentias quas genus non habet? Nisi
enim sit unde veniant, differentiae in speciem venire non possunt. Quodsi genus
quidem has differentias non habet, species autem habet, videntur ex nihilo
differentiae in speciem comlenisse et factum esse aliquid ex nihilo, quod fieri
non posse superius dicta propositio monstravit. Quod si differentias omnes
genus continet, differentiae autem in contraria dissoluuntur, fiet ut
rationabilitatem atque irrationabilitatem, mortalitatem atque immortalitatem
simul habeat animal, quod est genus, et erunt in eodem bina contraria, quod
fieri non potest. Neque enim sicut in corpore solet esse alia pars alba, alia
nigra, ita fieri in genere potest; genus enim per se consideratum partes non
habet, nisi ad species referatur. Quicquid igitur habet, non partibus sed tota
sui magnitudine retinebit. Nec illud dubium est, quin in partibus suis genus
habeat ƿ contrarietates, ut animal in homine rationabilitatem, in bove
contrarium. Sed
nunc non de speciebus quaerimus, de quibus constat sed an ipsum per se genus
eas differentias quas habent species, habere possit atque intra suae
substantiae ambitum continere. Hanc igitur quaestionem tali ratione
dissolvimus. Potest quaelibet illa res id quod est non esse sed alio modo esse,
alio vero non esse, ut Socrates cum stat, et sedet et non sedet sedet quidem
potestate, actu vero non sedet. Cum enim stat, manifestum est eum pon agere
sessionem sed potius standi immobilitatem. Sed rursus cum stat sedet, non quia
iam sedet sed quia sedere potest; ita actu quidem non sedet, potestate vero
sedet. Et ouum animal est et non est animal. Non est quidem animal actu, adhuc
namque ouum est nec ad animalis processit vivificationem sed idem tamen est
animal potestate, quia potest effici animal, cum formam ac spiritum
vivificationis acceperit. Ita igitur genus et habet has differentias et non
habet, non habet quidem actu sed habet potestate. Si enim ipsum per se animal
consideretur, differentias non habebit; si autem ad species reducatur, habere
potest sed distributim atque ut eius speciebus separatim nihil possit evenire
contrarium. Ita ipsum genus si per se consideretur, ƿ differentiis caret; quod
si ad species referatur, per distributas species vel in partibus suis contraria
retinebit, atque ita nec ex nihilo venerunt differentiae quas genus retinet
potestate nec utraque contraria in eodem sunt, cum contrarias differentias in
eo quod dicitur genus, actu non habet: impossibilitas enim eius propositionis
quae dicit contraria in eodem esse non posse, in eo consistit quod contraria
actu in eodem esse non possunt. Nam potestate et non actu duo contraria in
eodem esse nihil impedit. Quae vero nos contraria diximus, Porphyrius opposita
nuncupavit. Est enim genus contrarii oppositum; omnia enim contralia, si sibimet
ipsis considerantur, opposita sunt. DEFINIUNT AUTEM EAM ET HOC MODO:
DIFFERENTIA EST QUOD DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS SPECIE IN EO QUOD QUALE SIT
PRAEDICATUR; RATIONALE ENIM ET MORTALE DE HOMINE PRAEDICATUM IN EO QUOD QUALE
QUIDDAM EST HOMO DICITUR SED NOLL IN EO QUOD QUID EST. QUID EST ENIM HOMO
INTERROGATIS NOBIS CONVENIENS EST DICERE ANIMAL, QUALE AUTEM ANIMAL INQUISITI,
QUONIAM RATIONALE ET MORTALE EST, CONVENIENTER ASSIGNABIMUS. Tres sunt
interrogationes ad quas genus, species, differentia, proprium atque accidens
respondetur, haec autem sunt: quid sit, quale sit, quomodo se habeat. Nam si
quis interroget: quid est Socrates? Responderi per genus ac speciem convenit
aut animal aut homo. Si quis quomodo se habeat Socrates interroget, iure
accidens respondebitur, id est aut sedet aut legit aut caetera. Si quis vero
qualis sit Socrates interroget, aut differentia aut proprium aut accidens
respondebitur, id est vel rationalis vel risibilis vel caluus. Sed in proprio
quidem illa est observatio, quod illud proprium dici potest quod de una specie
praedicatur, accidens vero tale est quod qualitatem designet quae non
substantiam significet, differentia vero talis est quae substantiam demonstret.
Interrogati igitur qualis unaquaeque res sit, si volumus reddere substantiae
qualitatem, differentiam praedicamus. Quae differentia numquam de una tantum
specie praedicatur, ut mortale vel rationale sed de pluribus. Quod igitur de
pluribus speciebus inter se differentibus praedicatur ad eam interrogationem,
quae quale sit id de quo quaeritur interrogat, ea est differentia cuius talem
posuit definitionem: DIFFERENTIA EST QUOD DE PLURIBUS ƿ SPECIE DIFFERENTIBUS IN
EO QUOD QUALE SIT PRAEDICATUR. Cuius definitionis causam rationemque
pertractans ait: REBUS ENIM EX MATERIA ET FORMA CONSTANTIBUS VEL AD
SIMILITUDINEM MATERIAE ET FORMAE CONSTITUTIONEM HABENTIBUS, QUEMADMODUM STATUA
EX MATERIA EST AERIS, FORMA AUTEM FIGURA. SIC ET HOMO COMMUNIS ET SPECIALIS EX
MATERIA QUIDEM SIMILITER CONSISTIT GENERE, EX FORMA AUTEM DIFFERENTIA, TOTUM
AUTEM HOC ANLMAL RATIONALE MORTALE HOMO EST, QUEMADMODUM ILLIC STATUA. Dixit
superius differentias esse quae in qualitate speciei praedicarentur, nunc autem
causas exequitur, cur speciei qualitas differentia sit. Omnes, inquit, res vel
ex materia formaque consistunt vel ad similitudinem materiae atque formae
substantiam sortiuntur. Ex materia quidem formaque subsistunt ƿ omnia
quaecumque sunt corporalia; nisi enim sit subiectum corpus quod suscipiat
formam, nihil omnino esse potest. Si enim lapides non fuissent. Muri
parietesque non essent, si lignum non fuisset, omnino nec mensa quidem, quae ex
ligni materia est, esse potuisset. Igitur supposita materia ac praeiacente cum
in ipsam figura superuenerit, fit quaelibet illa res corporea ex materia
formaque subsistens, ut Achillis statua ex aeris materia et ipsius Achillis
figura perficitur. Atque ea quidem quae corporea sunt, manifestum est ex
materia formaque subsistere, ea vero quae sunt incorporalia, ad similitudinem
materiae atque formae habent suppositas priores antiquioresque naturas, super
quas differentiae venientes efficiunt aliquid quod eodem modo sicut corpus
tamquam ex materia ac figura consistere videatur, ut in genere ac specie
additis generi differentiis species effecta est. Ut igitur est in Achillis
statua aes quidem materia, forma vero Achillis qualitas et quaedarn figura, ex
quibus efficitur Achillis statua, quae subiecta sensibus capitur, ita etiam in
specie, quod est homo, materia quidem eius genus est, quod est animal, cui
superveniens qualitas rationalis animal rationale, id est speciem fecit. Igitur
speciei materia quaedam est genus, forma vero et quasi qualitas differentia.
Quod est igitur in statua aes, hoc est in specie genus, quod in statua figura
conformans, id in specie differentia, quod in statua ipsa statua, quae ex aere
ƿ figuraque conformatur, id in specie ipsa species, quae ex genere
differentiaque coniungitur. Quodsi materia quidem speciei genus est, forma
autem differentia, omnis vero forma qualitas est, iure omnis differentia
qualitas appellatur. Quae cum ita sint, iure in eo quod quale sit
interrogantibus respondetur. DESCRIBUNT AUTEM HUIUSMODI DIFFERENTIAS ET HOC
MODO: DIFFERENTIA EST QUOD APTUM NATURA EST DIVIDERE QUAE SUB EODEM SUNT
GENERE; RATIONALE ENIM ET IRRATIONALE HOMINEM ET EQUUM, QUAE SUB EODEM SUNT
GENERE, QUOD EST ANIMAL, DIVIDUNT. Haec quidem definitio cum sit usitata atque
ante oculos exposita, eam tamen plenius dilucideque declaravit. Omnes enim
differentiae idcirco differentiae nuncupantur, quia species a se differre
faciunt, quas unum genus includit, ut homo atque equus propriis discrepant
differentiis; nam sicut homo animal est, ita etiam equus, ergo secundum genus
nullo modo distant. Quae igitur secundum genus minime discrepant, ea differentiis
distribuuntur. Additum enim rationale quidem homini, irrationale vero equo
equus atque homo, quae sub eodem fuerant genere; distribuuntur et discrepant, additis
scilicet differentiis. ASSIGNANT AUTEM ETIAM HOC MODO: DIFFERENTIA EST QUA
DIFFERUNT A SE SINGULA; NAM SECUNDUM GENUS NON DIFFERUNT. SUMUS ENIM MORTALIA
ANIMALIA ET NOS ET IRRATIONABILIA SED ADDITUM RATIONABILE SEPARAVIT NOS AB
ILLIS, ET RATIONABILES SUMUS ET NOS ET DII SED MORTALE APPOSITUM DISIUNXIT NOS
AB ILLIS. Vitiosa ratione et non sana quod uult explicat definitio quorundam.
Id enim esse dicunt differentiam qua unaquaeque res ab alia distet. In qua
definitione nihil interest quod ita dixit an ita concluserit: differentia est
id quod est differentia. Etenim differentiae nomine in eiusdem differentiae
usus est ƿ definitione dicens: DIFFERENTIA EST QUA DIFFERUNT A SE SINGULA.
Quodsi adhuc differentia nescitur, nisi definitione clarescat, differre quoque
quid sit qui poterimus agnoscere? Ita nihil amplius attulit ad agnitionem qui
differentiae nomine id eiusdem usus est definitione. Est autem communis et uaga
nec includens substantiales differentias sed quaslibet etiam accidentes hoc
modo: DIFFERENTIA EST QUA A SE DIFFERUNT SINGULA; quae enim genere eadem sunt,
differentia discrepant, ut cum homo atque equus idem sint in animalis genere,
quoninm utraque sunt animalia, differunt tamen differentia rationali, et cum
dii atque homines sub rationalitate sint positi, differunt mortalitate.
Rationale igitur hominis ad equum differentia est, mortale hominis ad deum,
atque hoc quidem modo substantiales differentiae colliguntur. Quodsi Socrates
sedeat, Plato vero ambulet, erit differentia ambulatio vel sessio, quae
substantialis non est. Namque istam quoque differentiam definitio videtur
incllldere, cum dicit: DIFFERENTIA EST QUA DIFFERUNT SINGULA; quocumque enim
Socrates a Platone distiterit -- nullo autem alio distare nisi accidentibus
potest -- id erit differentia secundum superioris terminum definitionis. Quam
rem scilicet viderunt etiam hi qui definitionis huius uagum communemque finem
reprehendentes certae conclusionis terminum subiecerunt. INTERIUS AUTEM
PERSCRUTANTES DE DIFFERENTIA DICUNT, NON QUODLIBET EORUM QUAE SUB EODEM SUNT
GENERE DIVIDENTIUM ESSE DIFFERENTIAM SED QUOD AD ESSE CONDUCIT ET QUOD EIUS
QUOD EST ESSE REI PARS EST; NEQUE ENIM QUOD APTUM NATUM EST NAVIGARE ERIT
HOMINIS DIFFERENTIA, ETSI PROPRIUM SIT HOMINIS. DICIMUS ENIM 'ANIMALIUM HAEC
QUIDEM APTA NATA SUNT AD NAVIGANDUM, ILLA VERO MINIME', DINIDENTES AB ALIIS SED
APTUM NATUM ESSE AD NAVIGANDUM NON ERAT COMPLETIVUM SUBSTANTIAE NEC EIUS PARS
SED APTITUDO QUAEDAM EIUS EST, IDCIRCO, QUONIAM NON EST TALIS QUALES SUNT QUAE
SPECIFICAE DICUNTUR DIFFERENTIAE. ERUNT IGITUR SPECIFICAE DIFFERENTIAE
QUAECUMQUE ALTERAM FACIUNT SPECIEM ET QUAECUMQUE IN EO QUOD QUALE EST
ACCIPIUNTUR. -- ET DE DIFFERENTIIS QUIDEM ISTA SUFFICIUNT. Sensus propositionis
huiusmodi est. Quoniam superius disit determinasse quosdam differentiam esse
qua a se singllla discreparent, ait alios diligentius de differential perscrutantes
non ƿ fuisse arbitratos recte esse superius propositam definitionem. Neque enim
omnia quaecumque sub eodem posita genere differre faciunt, differentiae hae de
quibus nunc tractatur, id est specificae, numerari queunt. Plura enim sunt quae
ita dividunt species sub uno genere positas, ut tamen eorum substantiam minime
conforment, quia non videntur esse differentiae specificae nisi illae tantum
quae ad id quod est esse proficiunt et quae in definitionis alicuius parte
ponuntur. Hae autem sunt nt rationale hominis. Nam et substantiam hominis
conformat et ad esse hominis proficit et definitionis eius pars est. Ergo nisi
ad id quod est esse conducit et eius quod est esse rei pars sit, specifica
differentia nullo modo poterit nuncupari quid est autem esse rei? Nihil est
aliud nisi definitio. Unicuique enim rei interrogatae 'quid est?' si quis quod
est esse monstrare voluerit, definitionem dicit. Ergo si qua definitionis pars
fuerit, eius erit pars quae uniuscuiusque rei quid esse sit designet. Definitio
est quidem quae quid unaquaeque res ƿ sit, ostendit ac profert, demonstraturque
quid uni cuique rei sit esse per definitionis assignationem. Illae vero
differentiae quae non ad substantiam conducunt sed quoddam quasi extrinsecus
accidens afferunt, specificae non dicuntur, licet sub eodem genere positas
species faciant discrepare, ut si quis hominis atque equi hanc differentiam
dicat, aptum esse ad navigandum. Homo enim aptus est ad navigandum, equus vero
minime, et cum sit equus atque homo sub eodem genere animalis, addita
differentia 'aptum esse ad navigandum' equum distinxit ab homine. Sed aptum
esse ad navigandum non est huiusmodi, quale quod possit hominis formare
substantiam sed tantum quandam quodammodo aptitudinem monstrat et ad faciendum
aliquid vel non faciendum oportunitatem. Idcirco ergo specifica differentia
esse non dicitur. Quo fit ut non omnis differentia quae sub eodem genere
positas species distribuit, specifica esse possit sed ea tantum quae ad
substantiam speciei proficit et quae in parte definitionis accipitur. Concludit
igitur esse specificas differentias quae alteras a se species faciunt per
differentias substantiales. Nam si uni cuique id est esse quodoumque
substantialiter fuerit, quaecumque differentiae substantialiter diversae sunt,
illas species quibus assunt, omni substantia faciunt alteras ac discrepantes,
atque hae in definitionis parte sumuntur. Nam si definitio substantiam monstrat
ƿ et substantiales differentiae species efficiunt, substantiales differentiae
erunt partes definitionum. PROPRIUM VERO QUADRIFARIAM DIVIDUNT. NAM ET ID QUOD
SOLI ALICUI SPECIEI ACCIDIT, ETSI NON OMNI, UT HOMINI MEDICUM ESSE VEL
GEOMETREM, ET QUOD OMNI ACCIDIT, ETSI NON SOLI, QUEMADMODUM HOMINI ESSE BIPEDEM
ET QUOD SOLI ET OMNI ET ALIQUANDO, UT HOMINI IN SENECTUTE CANESCERE, QUARTUM
VERO, IN QUO CONCURRIT ET SOLI ET OMNI ET SEMPER, QUEMADMODUM HOMINI ESSE
RISIBILE. NAM ETSI NON SEMPER RIDEAT, TAMEN RISIBILE DICITUR, NON QUOD IAM
RIDEAT SED QUOD APTUS NATUS SIT; HOC AUTEM EI SEMPER EST NATURALE ET EQUO HINNIBILE.
HAEC AUTEM PROPRIE PROPRIA PERHIBENT ESSE, QUONIAM ETIAM CONVERTUNTUR. QUICQUID
ENIM EQUUS, HINNIBILE, ET QUICQUID HINNIBILE, EQUUS. Superius dictum est omnia
propria ex accidentium genere descendere. Quicquid enim de aliquo praedicatur,
aut substftntiam informat aut secundum accidens inest. Nihil vero est quod
cuiuslibet rei substantiam monstret nisi genus, species et differentia, genus
quidem et differentia speciei, species vero individuorum. Quicquid ergo
reliquum est, in accidentium numero ponitur. Sed quoniam ipsa accidentia habent
inter se aliquam differentiam, idcirco alia quidem propria, alia priore atque
antiquiore nomine accidentia nunlcupantur. Et de accidentibus paulo post, nunc
de propriis. Quae quadrifariam dividuntur, non tamquam genus aliquod proprium
in quattuor species dividi secarique possit sed hoc quod ait dividunt, ita
intellegendum est, tamquam si diceret 'nuncupant', id est propria quadrifariam
dicunt. Cuius quadrifariae appellationis significationes enumerat, ut quae sit
conveniens et congrua nuncupatio proprietatis ostendat. Dicit ergo proprium
accidens quod ita uni speciei adest, ut tamen nullo modo coaequetur ei sed
infra subsistat ac maneat, ut hominis dicitur proprium medicum esse, idcirco
quoniam nulli alii inesse animalium ƿ potest. Nec illud attendimus, an hoc de
omni homine praedicari possit sed illud tantum, quod de nullo alio nigi de homine
dici potest medicum esse. Et haec quidem significatio proprii dicitur inesse
SOLI, ETSI NON OMNI; soli enim speciei, etsi non omni coaequatur, ut medicina
soli quidem inest homini sed non omnibus hominibus ad scientiam adest. Aliud
proprium est quod huic e contrario dicitur omni, etsi non soli; quod huiusmodi
est, ut omnem quidem speciem contineat eamque transcendat. Et quoniam quidem
nihil est subiectae speciei quod illo proprio non utatur, dicimus omni, quoniam
vero transcendit in alias, dicimus non soli: hoc huiusmodi est quale homini
esse bipedem, proprium est enim bomini esse bipedem. Omnis enim homo bipes est
etiamsi non solus, aves enim bipedes sunt. Geminae igitur significationes
proprii quae superius dictae sunt, habent aliquid minus, prima quidem quia non
omni, secunda vero quia non soli. Quas si iungimus, facimus omni et soli. Sed
demimus aliquid secundum tempus, si ei adiciatur aliquando, ut sit haec tertia
proprii nuncupatio 'omni et soli sed aliquando', ut est in senectute canescere
vel in ivuentute pubescere; omni enim homini adest in ivuentute pubescere, in
senectute canescere, et soli. Pubescere enim solius hominis est sed aliquando,
ƿ neque enim omni tempore sed in sola tantum ivuentute. Haec igitur
determinatio proprii in eo quidem modo quod omni et soli inest, absoluta est
sed ex eo minuit aliquid vel contrahit, cum dicimus ALIQUANDO. Quod si
auferamus, fit proprii integra simplexque significatio hoc modo: proprium est
quod omni et soli et semper adest. Omni autem et soli speciei et semper
intellegendum est ut hornini risibile, equo hinnibile; omnis enim et solus homo
risibilis est et semper. Neque illud nos ulla dubitatione perturbet, quod
semper homo non rideat; non enim ridere est proprium hominis sed esse risibile,
quod non in actu sed in potestate consistit. Ergo etiamsi non rideat, quia
ridere tamen posse soli et omni homini semper adesse dicitur, convenienter proprium
nuncupatur. Nam si actus separatur ab specie, potestas nulla ratione
disiungitur. Quattuor igitur significationes proprii dixit. Nam prima quidem,
quando accidens ita subiectae speciei adest, ut soli ei adsit, etiamsi non
omni, ut homini medicina; secunda vero, ƿ cum soli quidem non adest, omni vero
semper adiungitur, ut homini esse bipedem; tertia vero, cum omni et soli sed
aliquando, ut omni homini in ivuentute pubescere; quarta, cum omni et soli et
semper adest, ut esse risibile. Atque ideo caetera quidem converti non possunt:
neque enim coaequatur quod soli sed non omni speciei adest. Species quidem de
ipso dici potest, ipsum vero de specie minime. Qui enim medicus est, potest
dici homo, homo vero qui est, medicus esse non dicitur. Rursus quod ita est
alii proprium, ut omni adsit etiamsi non soli, ipsum quidem de specie
praedicari potest, species vero de eo minime. Nam bipes praedicari de homine
potest, homo vero de bipede nullo modo. Rursus quod ita adest, ut omni et soli
sed aliquando assit, quoniam de tempore, habet aliquid deminutum nec
simpliciter semper adest, reciprocari non poterit. Possumus enim dicere 'omnis
qui pubescit homo est', non 'omnis homo pubescit': potest enim minime ad
inllentutem nenire atque ideo nec pubescere; nisi forte non sit pubescere
hominis proprium sed in ivuentute pubescere, aut, etiam cum nondum est in
ivuentute aut etiam praeteriit, tamen sit ei proprium non tale quale tunc fieri
possit, cum praeter ivuentutem est sed quale cum in ivuentnte consistit. Atque
ideo hoc ƿ quod non in omne tempus tenditur, etiamsi tale est, ut omni speciei
assit, quod tamen in tempus aliquod differatur, integrum atque absolutum
proprium esse von dicitur. Quartum est quod ita alicui adest, ut et solam
teneat speciem et omni assit et absolutum sit a temporis conditione, ut
risibile quod a superiore plurimum distat; nam qui risibilis est, semper ridere
potest. Rursus qui potest in ivuentute pubescere, cum ipsa ivuentus non sit
semper, non ei adest semper ut in ivuentute pubescat. Haec autem quarta proprii
significatio quoniam nulla temporis definitione constringitur, absoluta est
atque ideo etiam convertitur et de se invicem proprium atque species
praedicantur; homo enim risibilis est et risibile homo. ACCIDENS VERO EST QUOD
ADEST ET ABEST PRAETER SUBIECTI CORRUPTIONEM. DIVIDITUR AUTEM IN DUO, IN
SEPARABILE ET IN INSEPARABILE. NAMQUE DORMIRE EST SEPARABILE ACCIDENS, NIGRUM
VERO ESSE INSEPARABILITER CORUO ET AETHIOPI ACCIDIT, POTEST AUTEM SUBINTELLEGI
ET CORUUS ALBUS ET AETHIOPS AMITTENS COLOREM PRAETER SUBIECTI CORRUPTIONEM.
DEFINITUR AUTEM SIC QUOQUE: ACCIDENS EST ƿ QUOD CONTINGIT EIDEM ESSE ET NON
ESSE, VEL QUOD NEQUE GENUS NEQUE DIFFERENTIA NEQUE SPECIES NEQUE PROPRIUM,
SEMPER AUTEM EST IN SUBIECTO SUBSISTENS. OMNIBUS IGITUR DETERMINATIS QUAE
PROPOSITA SUNT, DICO AUTEM GENERE, SPECIE, DIFFERENTIA, PROPRIO, ACCIDENTI,
DICENDUM EST QUAE EIS COMMUNIA ADSINT ET QUAE PROPRIA. Quoniam, ut superius
dictum est, quae de aliquo praedicantur, vel substantialiter vel accidentaliter
dicuntur cumque ea quae substantialiter praedicantur, eius de quo dicuntur
substantiam definitionemque contineant et sint eo antiquiora atque maiora, quod
ex substantialibus praedicatis efficiuntur, cum ea quae substantialiter
dicuntur pereunt, necesse est ut simul etiam ea interimantur quorum naturam
substantiamque formabant. Quae cum ita sint, necesse est ut quae accidenter
dicuntur, quoniam substantiam minime informant, et adesse et abesse possint
praeter subiecti corruptionem. Ea enim tantum cum absunt subiectum corrumpere poterunt,
quae efficiunt atque conformant quae sunt substantialia, quae vero ƿ non
efficiunt substantiam, ut accidentia, ea cum adsunt vel absunt, nec informant
substantiam nec corrumpunt. Est igitur accidens quod adest et abest praeter
subiecti corruptionem. Id autem dividitur in duas partes. Accidentis enim aliud
est separabile, aliud inseparabile, separabile quidem dormire sedere.
Inseparabile vero ut Aethiopi atque coruo color niger. In qua re talis oritur
dubitatio. Ita enim est definitum: accidens est quod adesse et abesse possit
praeter subiecti corruptionem. Idem tamen accidens aliquando inseparabile
dicitur; quod si inseparabile est, abesse non poterit. Frustra igitur positum
est accidens esse quod adesse et abesse possit, cum sint quaedam accidentia
quae a subiecto non valeant separari. Sed fit saepe ut quae actu disiungi non
valeant, mente et cogitatione separentur. Sed si animi ratione disiunctae
qualitates a subiectis non ea perimunt sed in sua substantia permanent atque
perdurant, accidentes esse intelleguntur. Age igitur, quoniam Aethiopi color
niger auferri non potest. Animo emn atque cogitatione separemus. Erit igitur
color albus Aethiopi. uum idcirco species consumpta sit? minime. Item etiam
coruus, si ab eo colorem nigrum imaginatione separemus, permanet tamen avis nec
interit species. Ergo quod dictum est et adesse et abesse, non re sed animo
intellegendum est. Alioquin et substantialia, quae omnino separari non possunt,
si animo et cogitatione disiungimus, ut si ab homine rationabilitatem auferamus
-- ƿ quam licet actu separare non possumus, tamen animi imaginatione
disiungimus -- statim perit hominis species quod idem in accidentibus non fit:
sublato enim accidenti cogitatione species manet. Est alia quoque accidentis
definitio caeterorum omnium privatione, ut id dicatur esse accidens quod neque
genus sit neque species nec differentia nec proprium; quae definitio plurimum
uaga est valdeque communis sic enim etiam genus definiri potest, quod neque
species neque differentia nec proprium sit nec accidens, eodemque modo species
ac differentia et proprium. Cum autem eadem similitudine definitionis plura
definiri queant, non est terminans et circumclusa descriptio, praesertim cum
longe sit a definitionis integritate seiunctum quod cuiuslibet rei formam aliarum
rerum negatione demonstrat. Quibus omnibus expeditis, id est genere, specie,
differentia, proprio atque accidenti, descriptisque eorum terminis quantum
postulabat institutionis brevitas, ea ipsa communiter pertractanda persequitur,
ut quas inter se habeant differentias haec quinque, de quibus superius
disputatum est, quas vero communiones, mediocri consideratione demonstret, ut
non solum ƿ quid ipsa sint, verum etiam quemadmodum inter se comparentur,
appareat. Expeditis per se omnibus quae proposuit et quantum in uniuscuiusque
consideratione poterat, ad scientiae terminum breviter adductis nunc iam non de
singulorum natura, id est vel generis vel differentiae vel speciei vel proprii
vel accidentis sed de ad se invicem relatione pertractat. Nam qui communiones
ac differentias rerum colligit, non ut sunt per se res illae considerat sed ut
ad alias comparentur. Id autem duplici modo, vel similitudine, dum communitates
sectatur, vel dissimilitudine, dum differentias. Quae cum ita sint, nos quoque,
ut adhuc fecimus, propter planiorem intellectum philosophi uestigia
persequentes ordiemur de his communionibus quae assunt generi et speciei et
differentiae vel proprio et accidenti. COMMUNE QUIDEM OMNIBUS EST DE PLURIBUS
PRAEDICARI, ƿ SED GENUS QUIDEM DE SPECIEBUS ET DE INDIVIDUIS, ET DIFFERENTIA
SIMILITER, SPECIES AUTEM DE HIS QUAE SUB IPSA SUNT INDIVIDUIS, AT VERO PROPRIUM
ET DE SPECIE CUIUS EST PROPRIUM ET DE HIS QUAE SUB SPECIE SUNT INDIVIDUIS,
ACCIDENS AUTEM ET DE SPECIEBUS ET DE INDIVIDUIS. NAMQUE ANIMAL DE EQUIS ET
BOBUS [ET CANIBUS] PRAEDICATUR, QUAE SUNT SPECIES, ET DE HOC EQUO ET DE HOC
BOVE, QUAE SUNT INDIVIDUA, IRRATIONALE VERO ET DE EQUIS ET DE BOBUS PRAEDICATUR
ET DE HIS QUI SUNT PARTICULARES, SPECIES AUTEM, UT HOMO, SOLUM DE HIS QUI SUNT
PARTICULARES PRAEDICATUR, PROPRIUM AUTEM, QUOD EST RISIBILE, ET DE HOMINE ET DE
HIS QUI SUNT PARTICULARES, NIGRUM AUTEM ET DE SPECIE CORUORUM ET DE HIS QUI
SUNT PARTICULARES, QUOD EST ACCIDENS INSEPARABILE, ET MOVERI DE HOMINE ET DE
EQUO, QUOD EST ACCIDENS SEPARABILE SED PRINCIPALITER QUIDEM DE INDIVIDUIS,
SECUNDUM POSTERIOREM VERO RATIONEM DE HIS QUAE CONTINENT INDIVIDUA. Antequam
singulorum ad unumquodque habitudinem tractet, illam prius respicit quam omnes
ad se invicem habere videantur. ƿ Haec est autem una communio quae propositarum
quinque rerum numerum pluralitate praedicationis includit omnia enim de
pluribus praedicantur. In hoc ergo sibi cuncta communicant. Nam et genus de
pluribus praedicatur, itemque species ac differentia et proprium et accidens.
Quae cum ita sint, est eorum una atque indiscreta communio de pluribus
plaedicari. Disgregat autem ipsam de pluribus praedicationem, quemadmodum in
singulis fiat, quod unumquodque propositorum de quibus pluribus praedicetur
ostendit. Ait enim genus quidem de pluribus praedicari, id est speciebus ac
specierum individuis, ut animal praedicatur de homine atque equo ac de his
individuis quae sub homine sunt atque sub equo. Item genus praedicatur de
differentiis specierum atque id iure. Quoniam enim species differentiae
informant, cum genus de speciebus praedicetur, consequens est ut etiam de his
dicatur quae specierum substantiam formamque efficiunt. Quo fit ut genus etiam
de differentiis praedicetur ac non de una sed de pluribus; dicitur enim quod
rationabile est, esse animal et rursus quod irrationabile est, esse animal. Ita
genus de speciebus ac differentiis praedicatur ac de his quae sub ipsis sunt
individuis. Differentia vero de speciebus dicitur pluribus ac de earum
individuis, ut irrationabile et de equo praedicatur ac bove, quae sunt plures
species, et de his quae sub ipsis sunt individuis eodem modo dicitur; nam quod
de universali praedicatur, praedicatur et de individuo. Quodsi differentia de
speciebus dicitur, praedicabitur etiam de eiusdem speciei subiectis. Species
vero de suis tantum individuis praedicatur; neque enim fieri potest, ut quae
species est ultima quaeque vere species ac magis species nuncupatur, haec alias
deducatur in species. Quod si ita est, sola post speciem individua restant.
Iure igitur species de suis tantum individuis praedicantur, ut homo de Socrate,
Platone, Cicerone et caeteris. Proprium item de specie praedicatur cuius est
proprium, neque enim esset proprium alicuius, si de alio diceretur; de quo enim
unaquaeque res 'et soli et omni et semper' dicitur, eiusdem proprium esse
monstratur. Quae cum ita sint proprium de specie dicitur, ut risibile de
homine; omnis enim homo risibilis est. Dicitur etiam de individuis speciei de
qua praedicatur; est enim Socrates, Plato et Cicero risibilis. Accidens vero et
de speciebus pluribus dicitur et de diversarum specierum individuis. Dicuntur
enim coruus atque Aethiops nigri et hic coruus et hic Aethiops, qui sunt
individui, nigri secundum nigredinis qualitatem vocantur. Atque hoc quidem est
accidens inseparabile. Sed multo magis separabilia accidentia pluribus
inhaerescunt, ut moveri homini et bovi -- uterque enim movetur -- et rursus ea
quae sub homine sunt atque bove individua, moveri saepe praedicantur. Sed
advertendum est auctore Porphyrio quod ea quae accidentia sunt, principaliter
quidem de his dicuntur in quibus sunt individuis, secundo vero loco ad
universalia individuorum referuntur. Atque ita praedicatio ƿ superiorum
redditur, ut quoniam nigredo singulis coruis adest accidentis nigredinis inficit,
idcirco eam de specie quoque praedicamus dicentes coruum, ipsam speciem, nigrum
esse. In quibus omnibus mirum videri potest, cur genus de proprio praedicari
non dixerit nec vero speciem de eodem proprio nec differentiam de proprio sed
tantum genus quidem de speciebus ac differentiis, differentiam vero de
speciebus atque individuis, speciem de individuis, proprium de specie atque
individuis, accidens de speciebus atque individuis. Fieri enim potest ut quae
maioris praedicationis sint, ea de cunctis minoribus praedicentur, et quae
aequalia sunt, sibimet convertuntur, eoque fit ut genus de differentiis, de
speciebus, de propriis, de accidentibus praedicetur, ut cum dicimus 'quod
rationale est, animal est', genus de differentia, 'quod homo est, animal est',
genus de specie, 'quod risibile est, animal est,' genus de proprio, 'quod
nigrum est', si forte coruum vel Aethiopem demonstremus, 'animal est,' genus de
accidenti praedicamus. Rursus 'quod homo est, rationale est', differentia de
specie, ƿ 'quod risibile est, rationale est,' differentia de proprio, 'quod
nigrum est, rationale est', si Aethiopem demonstremus, differentia de
accidenti; item 'quod risibile est, homo est', species de proprio, 'quod nigrum
est, homo est,' si Aethiopem designemus, species de accidenti. Qua in re etiam
'quod nigrum est, risibile est' in Aethiopis demonstratione ut proprium de
accidenti praedicatur. Converti autem ad totum accidens potest, ut quoniam in
individuis singulorum esse proponitur, idcirco de superioribus etiam praedicetur,
ut quoniam Socrates animal est, rationalis est, risibilis est et homo est,
cumque in Socrate sit caluitium, quod est accidens, praedicetur idem accidens
de animali, de rationali, de risibili, de homine, ut accidens de quattuor
reliquis praedicetur. Sed horum profundior quaestio est nec ad soluendum satis
est temporis, hoc tantum ingredientium intellegeutia expectet, quod alia quidem
recto ordine praedicantur, alia vero obliquo, quoniam moveri hominem rectum
est, id quod movetur hominem esse conversa locutione proponitur. Quocirca
rectam Porphyrius in omnibus propositionem sumpsit. Quodsi quis vim
praedicationis et solutionis attenderit in singulis praedicationibus comparans,
eas quidem ƿ prolationes quae rectae sunt, inveniet a Porphyrio esse enumeratas,
eas vero quae converso ordine praedicantur, fuisse sepositas. COMMUNE EST AUTEM
GENERI ET DIFFERENTIAE CONTINENTIA SPECIERUM. CONTINET ENIM ET DIFFERENTIA
SPECIES, ETSI NON OMNES QUOT GENERA. RATIONALE ENIM ETIAMSI NON CONTINET EA
QUAE SUNT IRRATIONABILIA QUEMADMODUM ANIMAL SED CONTINET HOMINEM ET DEUM, QUAE
SUNT SPECIES. ET QUAECUMQUE PRAEDICANTUR DE GENERE UT GENERA, ET DE HIS QUAE
SUB IPSO SUNT SPECIEBUS PRAEDICANTUR, ET QUAECUMQUE DE DIFFERENTIA PRAEDICANTUR
UT DIFFERENTIAE, ET DE EA QUAE EX IPSA EST SPECIE PRAEDICABUNTUR. NAM CUM SIT
GENUS ANIMAL, NON SOLUM DE EO PRAEDICANTUR UT GENERA SUBSTANTIA ET ANIMATUM SED
ETIAM DE HIS QUAE SUNT SUB ANIMALI SPECIEBUS ƿ OMNIBUS PRAEDICANTUR HAEC USQUE
AD INDIVIDUA. CUMQUE SIT DIFFERENTIA RATIONALIS, PRAEDICATUR DE EA UT
DIFFERENTIA ID QUOD EST RATIONE UTI. NON SOLUM AUTEM DE EO QUOD EST RATIONALE
SED ETIAM DE HIS QUAE SUNT SUB RATIONALI SPECIEBUS PRAEDICABITUR RATIONE UTI.
COMMUNE AUTEM EST ET PEREMPTO GENERE VEL DIFFERENTIA SIMUL PERIMI QUAE SUB
IPSIS SUNT; QUEMADMODUM ELLIM SI NON SIT ANIMAL, NON EST EQUUS NEQUE HOMO, ITA
SI NON SIT RATIONALE. NULLUM ERIT ANIMAL QUOD UTATUR RATIONE. Post eam quae
cunctis adesse visa est communitatem, singulorum ad se similitudines ac
dissimilitudines quaerit. Et quoniam inter quinque proposita genus ac
differentia universalioris praedicationis sunt, siquidem genus species continet
ac differentias, differentiae vero species continent neque ab his ullo modo
continentur, primum generis ac differentiarum similitudines colligit. Ac primam
quidem ponit hanc. Dicit enim commune esse generi ac differentiae, ut species
claudant; ƿ nam sicut genus sub se habet species, ita etiam differentia tametsi
non tantas quot habet genus. Etenim genus quoniam differentiam etiam claudit et
non unam tantum sub se differentialn cohercet ac retinet, plures necesse est
habeat sub se species, quam quaelibet una earum differentiarum quas claudit. ut
animal praedicatur de rationabili et irrationabili. Quodsi ita est,
praedicabitur et de his quae sub rationali sunt positae speciebus et de his
quae sub irrationali. Est ergo commune animali et rationali, id est generi et
differentiae, quod sicut genus de homine et de deo praedicatur, ita etiam
rationale. Quod est differentia, de deo ac de homine dicitur. Sed non in tantum
haec praedicatio funditur quantum animalis, id est generis. Animal enim non de
deo solum atque homine sed de equo et bove praedicatur, ad quae rationalis
differentia non pervenit. Sed quandocumque deum supponimus animali, secundum
eam opinionem facimus quae solem stellasque atque hunc totum millium animatum
esse confirmat, quos etiam deorum nomine, ut saepe dictum est, appellaverunt.
Secunda item communio est generis ac differentiae, quoniam quaecumque
praedicantur de genere ut genera, eadem de his quae sub ipso sunt speciebus
praedicantur; ad hanc similitudinem ƿ quaecumque de differentia praedicantur ut
differentiae, et de his quae sub differentia sunt ut differentiae praedicantur.
Cuius sententiae talis est expositio. Sunt plura quae de generibus praedicantur
ut genera, ut de animali dicitur animatum, dicitur substantia, atque haec ut
genera. Haec igitur praedicantur et de his quae sub animali sunt, ut genera
rursus; nam hominis et animatum et substantia genus est, sicut ante fuerat
animalis. Item in ipsis differentiis quaedam differentiae inveniuntur quae de
ipsis differentiis praedicantur, ut de rationali duae differentiae dicuntur.
Quod enim rationale est, utitur ratione vel habet rationem. Aliud est autem uti
ratione, aliud habere rationem, ut aliud est habere sensum, aliud uti sensu.
Habet quippe sensum et dormiens sed minime utitur, ita quoque dormiens habet
rationem sed minime utitur. Ergo ipsius rationabilitatis quaedam differentia
est ratione uti sed sub ratioaabilitate homo positus est: praedicatur igitur de
homine ratione uti ut quaedam differentia. Differt enim a caeteris animalibus
homo, quia ratione utitur. Demonstratum igitur est quia sicut ea quae de genere
praedicantur, dicuntur de generi subiectis, ita etiam ea quae de differentia praedicantur,
dicuntur de his quae differentiae supponuntur. Tertium commune est quod ƿ sicut
absumptis generibus species interimuntur, ita absumptis differentiis species de
quibus differentiae praedicantur, intereunt. Commune enim est hoc, universalium
in substantia pereuntium perire subiecta. Sed prima communio demonstravit
genera de speciebus praedicari, sicut etiam differentias. Propter hanc igitur
similitudinem si auferantur genera, species pereunt, sicut etiam species perire
necesse est quae sub differentiis sunt, si universales earum differentiae
consumantur. Cuius exemplum est: si enim auferas animal, hominem atque equum
sustuleris, quae sunt species positae sub animali, si auferas rationale,
hominem deumque sustuleris, qui sunt sub rationali differentia collecti. Et de
communitatibus quidem hactenus, nunc de generis et differentiae dissimilitudine
perpendit. PROPRIUM AUTEM GENERIS EST DE PLURIBUS PRAEDICARI QUAM DIFFERENTIA
ET SPECIES ET PROPRIUM ET ACCIDENS; ANIMAL ENIM DE HOMINE ET EQUO ET AVE ET
SERPENTE, QUADRUPES VERO DE SOLIS QUATTUORPEDES HABENTIBUS, HOMO vero DE SOLIS
INDIVIDUIS ET HINNIBILE DE EQUO ET DE HIS QUI SUNT PARTICULARES, ET ACCIDENS
SIMILITER DE PAUCIORIBUS. OPORTET AUTEM DIFFERENTIAS ACCIPERE QUIBUS DIVIDITUR
GENUS, NON EAS QUAE COMPLENT SUBSTANTIAM GENERIS. AMPLIUS GENUS CONTINET
DIFFERENTIAM POTESTATE; ANIMALIS ENIM HOC QUIDEM RATIONALE EST, ILLUD VERO
IRRATIONALE. AMPLIUS GENERA QUIDEM PRIORA SUNT HIS QUAE SUNT SUB SE POSITAE
DIFFERENTIIS, PROPTER QUOD SIMUL QUIDEM EAS AUFERUNT, NON AUTEM SIMUL
AUFERUNTUR; SUBLATO ENIM ANIMALI AUFERTUR RATIONALE ET IRRATIONALE.
DIFFERENTIAE VERO NON AUFERUNT GENUS; NAM SI OMNES INTERIMANTUR, TAMEN
SUBSTANTIA ANIMATA SENSIBILIS SUBINTELLEGITUR, QUAE EST ANIMAL. AMPLIUS GENUS
QUIDEM IN EO QUOD QUID EST, DIFFERENTIA vero IN EO QUOD QUALE QUIDDAM EST,
QUEMADMODUM DICTUM EST, PRAEDICATUR. AMPLIUS GENUS QUIDEM UNUM EST SECUNDUM
UNAMQUAMQUE SPECIEM, UT HOMINIS ID QUOD EST ANIMAL, DIFFERENTIAE VERO PLURIMAE,
UT RATIONALE, MORTALE. MENTIS ET DISCIPLINAE PERCEPTIBILE, QUIBUS AB ALIIS
DIFFERT. ET GENUS QUIDEM CONSIMILE EST MATERIAE, FORMAE VERO DIFFERENTIA. CUM
AUTEM SINT ET ALIA COMMUNIA ƿ ET PROPRIA GENERIS ET DIFFERENTIAE, NUNC ISTA
SUFFICIANT. Proprium quidem quid sit, convenienti atque integro vocabulo definitum
est. Sed per abusionem illa etiam propria quorumlibet dicuntur quae in
unaquaque re ab aliis continent differentiam, licet cum aliis sint ea ipsa
communia. Per se quippe proprium est homini quod ei omni et soli et semper
adest, ut risibilitas, per usurpatam vero locutionem etiam proprium hominis
rationabilitas dicitur non per se proprium quippe quod ei cum deorum est natura
commune sed homini rationabilitas proprium dicitur ad discretionem pecudis,
quod rationale non est; id vero propter hanc causam, quoniam id proprium
uniuscuiusque dicitur quod habet suum. Quo igitur quis ab alio differt,
proprium eius non absurda usurpatione praedicatur. Sed nunc quod dicit proprium
generis esse de pluribus praedicari quam caetera quattuor, id ipsum generis
tale proprium est, quale per se proprium dici solet, id est quod semper
<et> omni et soli adsit generi. Generi enim soli adest, ut differentia,
specie, proprio, accidenti uberius atque affluentius praedicetur. Sed de his
differentiis, speciebus, propriis, atque accidentibus id dici potest quae sub
quolibet ƿ genere sunt, id est differentiae quidem quae quodlibet dividunt
genus, species vero quae divisibilibus generis differentiis informatur,
proprium autem illius speciei quae sub illo genere est quod differentiis est
divisum, accidentiaque quae his haereant individuis quae sub ea specie sunt
quam designatum genus includit. Hoc facilius exempla declarant. Sit enim genus
animal, quadrupes ac bipes differentiae sub animalis positae continentia, homo
atque equus species sub eodem genere constitutae, risibile atque hinnibile
propria earundem specierum, velox vero vel bellator accidentia quae his
individuis accidunt quae sub speciebus equi atque hominis continentur: animal
igitur, quod est genus, praedicatur et de quadrupede et bipede, quae sunt
differentiae, quadrupes vero de bipede non dicitur sed tantum de his animalibus
quae quattuor pedes habent; plus igitur praedicatur genus quam differentia. Rursus
homo de Platone ac Socrate praedicatur, animal vero non modo de hominibus
individuis, verum etiam de caeteris irrationabilibus individuis dicitur; plus
igitur genus quam species praedicatur. Sed cum sit proprium hinnibile equi
speciei cumque ƿ genus quam species uberius praedicetur, praedicatio quoque
generis proprii supergreditur praedicationem. Accidens quoquo etsi pluribus
inesse potest, tamen saepe genere contractius invenitur, ut bellator non
proprie nisi homo dicitur, ut velocitas in paucis animalibus invenitur. Quo
fit, ut genus differentia, specie, proprio et accidentibus amplius praedicetur.
Atque haec est una proprietas generis quae genus ab aliis omnibus disiungat ac
separet. Oportet autem, inquit, nunc eas differentias intellegere quibus
dividitur genus, non quibus informatur. Illae enim quibus informatur genus plus
quam ipsum genus sine dubio praedicantur, ut animatum et corporeum ultra animal
tenditur, cum sint differentiae animalis sed non divisivae sed potius
constitutivae; omnia enim superiora de inferioribus praedicantur. Quae vero de
inferioribus praedicantur neque converti possunt, haec ab eis quae inferiora
sunt amplius praedicantur. Post hoc aliud proprium generis ostendit quo ab his
differentiis quae sub eodem sunt positae, segregatur. Omne enim genus continet
differentias potestate, differentia vero genus non potest continere. Animal
enim rationale atque irrationale continet potestate; neque enim
irrationabilitas neque rationabilitas animal poterit continere. Potestate autem
ait continere animal differentias quia, ut superius dictum est, ƿ genus quidem
omnes sub se habet differentias potestate, actu vero minime. Ex quo fit ut alia
proprietas oriatur. Sublato enim genere perit differentia, veluti sublato
animali interimitur rationabilitas, quod est differentia. At si rationale
interimas, irrationale animal manet. Sed obici potest: quid? Si utrasque
differentias simul abstulero, num poterit remanere genus? Dicimus: potest.
Unumquodque enim non ex his de quibus praedicatur sed ex his ex quibus
efficitur, substantiam sumit. Itaque fit ut genus sublatis divisivis
differentiis permanere possit, dum tamen maneant illae quae ipsius generis
formam substantiamque constituunt. Quoniam enim animal animata atque sensibilis
differentiae constituunt, hae si maneant atque iungantur, perire animal non
potest, licet ea pereant de quibus animal praedicatur, rationale scilicet atque
irrationale. unumquodque enim, ut dictum est, ex his substantiae proprietatem
sumit ex quibus efficitur non ab his de quibus praedicatur. Amplius si utrasque
differentias genus potestate continet, ipsum per se neutram earum intra se
positam collocatamque concludit. Quodsi actu quidem eas non continet sed
potestate, actu etiam ab his poterit separari; hoc ipsum enim, potestate eas
continere, id erat actu non continere. Genus vero, quod quaslibet differentias
actu non continet, actu ab eisdem etiam separatur. Rursus aliud est proprium
generis, quod ex proprietate ƿ praedicationis agnoscitur. Omne enim genus ad
interrogationem 'quid est unumquodque?' responderi convenit, ut animal in eo
quod quid est de homine praedicatur, differentia vero minime sed in eo quod
quale sit; omnis enim differentia in qualitate consistit. Sed hoc proprium tale
est quale superius diximus, non per se sed secundum alicuius differentiam
dictum. Alioquin commune est hoc generi cum specie, ut in eo quod quid sit
praedicetur. Sed quia hoc genus a differentia discrepat, quoniam differentia
quidem in eo quod quale est, genus vero in eo quod quid est praedicatur,
generis proprium dicltur non per se sed ad differentiae comparationem. Et in
omnibus reliquis eandem rationem conveniet speculari; quodcumque enim ita
generi proprium dicitur, ut nulli sit alii commune sed tantum hoc habeat genus
ut omne genus et semper, id secundum se proprium nuncupatur, quicquid vero cum
quolibet alio commune est, id non per se sed ad alterius differentiam proprium
dicitur. Alia rursus generis et differentiae separatio est, quod genus quidem
speciei unum semper adest, scilicet proximum -- plura enim possunt esse
superiora, velut hominis animal atque substantia sed proximum eiusdem hominis
animal tantum -- differentiae vero plures uni speciei ƿ adesse poterunt, ut
rationale atque mortale homini. Itaque fit definitio ex uno quidem genere sed
pluribus differentiis, ut hominis animal rationale mortale. Rursus alia discretio
est, quod genus quidem quasi subiecti locum tenet, differentia vero formae, ita
ut illud sit materia quaedam quae figuram suscipiat, haec vero sit forma quao
superveniens speciei substantiam rationemque perficiat. Idcirco vero pluribus
differentiis a genere differentiam segregavit, quia haec maxime generis quandam
similitudinem contineat, quia est universalis et praeter genus inter caeteras
maxima. Sed cum alia plura: communia pluraque propria generis inter se ac
differentiae valeant inveniri, nunc, inquit, ista sufficiant. Satis est enim ad
discretionem quaslibet differentias assumere, etiamsi non quae dici possunt
omnia colligantur.DE COMMUNIBUS GENERIS ET SPECIEI GENUS AUTEM ET SPECIES
COMMUNE QUIDEM HABENT DE PLURIBUS, QUEMADMODUM DICTUM EST, PRAEDICARI. SUMATUR
AUTEM SPECIES UT SPECIES ET NON ETIAM UT GENUS, SI FUERIT IDEM ET SPECIES ET
GENUS. ƿ COMMUNE AUTEM HIS EST ET PRIORA ESSE EORUM DE QUIBUS PRAEDICANTUR, ET
TOTUM QUIDDAM ESSE UTRUMQUE. Generis et speciei enumerat tria communia, unum
quidem, de pluribus praedicari; genus enim et species de pluribus praedicantur
sed genus de speciebus, ut dictum est, species vero de individuis. Sed nunc de
illa specie loquitur quae tantum species est, id est quae non etiam genus est
sed ultima species. Quodsi talem speciem ponamus quae etiam genus esse potest,
ac de ea dicamus quoniam commune habet cum genere de pluribus praedicari, nihil
interest an ita dicamus, ipsum genus id secum habere commune de pluribus
plaedicari. Talis enim species quae non est solum species, ea etiam genus est.
Est autem commune his quoque quod utraque priora sunt his de quibus
praedicantul. Omne enim quod de aliquibus praedicatur, si recto, ut dictum est
superius, ordine dicatur, prius est his de quibus praedicatur. Praeterea est illis
hoc etiam commune, quod genus ac species totum sunt eorum quae intra suum
ambitum continent et cohercent; omnium enim specierum totum est genus et omnium
in dividuorum totum species. Aeque enim genus et species adunativa sunt
plurimorum, quod vero multorum adunativum est, id eorum quae ad unitatis formam
reducit, recte dicitur totum. Ƿ DIFFERT AUTEM EO QUOD GENUS QUIDEM CONTINET
SPECIES SUB SE, SPECIES vero CONTINENTUR ET NON CONTINENT GENERA; IN PLURIBUS
ENIM GENUS QUAM SPECIES EST. GENERA ENIM PRAEIACERE OPORTET ET FORMATA
SPECIFICIS DIFFERENTIIS PERFICERE SPECIES; UNDE ET PRIORA SUNT NATURALITER
GENERA ET SIMUL INTERIMENTIA SED QUAE NON SIMUL INTERIMANTUR. ET SPECIES QUIDEM
CUM SIT, EST ET GENUS, GENUS VERO CUM SIT, NON OMNINO ERIT ET SPECIES. ET GENERA
QUIDEM UNIVOCE DE SPECIEBUS PRAEDICANTUR, SPECIES vero DE GENERIBUS MINIME.
AMPLIUS GENERA QUIDEM ABUNDANT EARUM QUAE SUB IPSIS SUNT SPECIERUM CONTINENTIA,
SPECIES VERO A GENERIBUS ABUNDANT PROPRIIS DIFFERENTIIS. AMPLIUS NEQUE SPECIES
FIET UMQUAM GENERALISSIMUM NEQUE GENUS SPECIALISSIMUM. Expeditis communibus
generis ac speciei nunc de eorum discretione pertractat. Differre enim dicit
genus ab specio, quoniam genus continet species, ut animal hominem, species ƿ
vero non continet genera; neque enim homo de animali praedicatur. Itaque fit ut
species quidem contineantur a generibus numquam vero contineant genera. Omne
enim quod amplius praedicatur, illius est continens quod minus dicitur. Quodsi
genus amplius praedicatur quam species, necesse est ut species quidem
contineatur a genere, genus vero speciei nullo ambitu praedicationis
includatur. Huius autem ratio est quoniam genus semper suscipiens differentiam
speciem facit, hoc est. Genus quod habebat latissimam praedicationem, coartatum
differentia et contractum speciem facit; omnino enim generi iuncta differentia
speciem reddit et ex universalitate atque latissima praedicatione in angustum
speciei terminum contrahit. Animal enim, cuins praedicatio per se longe lateque
diffusa est, si arripiat rationalis differentiam, si etiam mortalis deminuit
atque contrahit in unum hominis speciem. Unde fit ut minor sit semper species
quam genus atque ideo contineatur sed non contineat, sublatoque genere
auferatur et species; si enim totum auferas, pars non erit. Quodsi species
auferatur, genus manet, veluti cum animal sustuleris, interimitur etiam homo,
si hominem auferas, animal restat. Haec etiam causa est, ut genus de specie
univoce praedicetur, id est ut species suscipiat definitionem generis et nomen
sed ƿ non e converso. Definitionem quippe speciei genus suscipere non videtur;
substantiam enim priorum inferiora suscipiunt. Si enim definias animal et dicas
sub stanti am esse animatam atque sensibilem aut si praedices de homine
'animal', verum dixeris. Si etiam animalis definitionem de homine praedicaveris
dicasque hominem esse substantiam animatam atque sensibilem, nihil fuerit in
propositione falsi. Sed si hominis definitionem reddas 'animal rationale
mortale', ea animali non conveniunt; neque enim quod animal est, id dici
poterit animal rationale mortale. Fit igitur, ut sicut species generis nomen
suscipit, ita etiam capiat definitionem, et sicut genus nomen speciei non
suscipit, ita nec eiusdem definitione monstretur sed cuius nomen et definitio
de aliquo praedicatur, id univoce dicitur. Cum igitur generis et nomen et
definitio de specie praedicetur; genus de specie univoce dicitur. Quoniam vero
speciei de genere neque nomen neque definitio praedicatur, non comlertitur
univoca praedicatio. Differunt genera <ab> speciebus hoc quoque modo,
quod genera superuadunt species suas aliarum continentia specierum, species
vero genera differentiarum pluralitate. Animal enim, quod est genus, superuadit
hominem, quod est species, quia non hominem solum continet, verum etiam bovem,
equum aliasque species, quas suae spatio praedicationis includit. Species vero,
ut homo, superuadit genus, ut animal, multitudine differentiarum. Nam quod actu
genus ƿ non habet rationale vel mortale -- nullas quippe actu genus retinet
differentias -- easdem species suae substantiae inhaerentes atque insitas
tenet. Homo enim rationalis est atque mortalis, quod genus minime est; animal
enim neque mortale est per se neque rationale. Quodsi genus quidem plus unam
continet speciem, at vero species multis differentiis infor mantur, superat
quidem genus speciem continentia specierum species vero vincit genus
differentiarum pluralitate. Illa quoque est differentia, quod genus quoniam
omnium primum est, numquam in tantum descendere poterit, ut fiat ultimum,
species vero, quae cunctis est inferior, in tantum ascendere non poterit, ut
suprerna omnium fiat; numquam igitur nec species generalissimum fiet nec genus
specialissimum. Sed ex his quae dictae sunt differentiae aliae sunt quae genus
ab specie propriae coniunctaeque disterminant, aliae vero quae non solum genus
ab specie, verum etiam a caeteris diducunt ac disterminant. Neque in his tantum
differentiae quae sunt dictae, verum etiam in caeteris considerentur oportet,
si proprie normam quaerimus discretionis agnoscere. GENERIS AUTEM ET PROPRII
COMMUNE QUIDEM EST SEQUI SPECIES -- NAM SI HOMO EST, ANIMAL EST, ET SI HOMO
EST, RISIBILE EST -- ET AEQUALITER PRAEDICARI GENUS DE SPECIEBUS ET PROPRIUM DE
HIS QUAE ILLO PARTICIPANT; AEQUALITER ENIM ET HOMO ET BOS ANIMAL ET CATO ET
CICERO RISIBILE. COMMUNE AUTEM ET UNIVOCE PRAEDICARI GENUS DE PROPRIIS
SPECIEBUS ET PROPRIUM QUORUM EST PROPRIUM. Tria intelim generis ac proprii
dicit esse communia. Quorum primum illud est, quoniam ita genus sequitur
species ut proprium. Posita enim specie necesse est intellegi genus ac
proprium; neutrum enim species proprias derelinquit. Nam si homo est, animal
est, si homo est, risibile est; ita quemadmodum genus, sic proprium ab ea
specie cuius est proprium, non recedit. Illud quoque, quod aequalis est generis
participatio, sicut etiam proprii. Omne enim genus aequaliter speciebus
participatur, proprium vero individuis omnibus aequaliter adhaerescit.
Manifestum vero est participationem esse generis aequalem; neque enim plus homo
animal est quam equus ƿ atque bos sed in eo quod sunt animalia, aequaliter
animalis, id est generis ad se vocabulum trahunt. Cato etiam et Cicero
aequaliter risibiles sunt, etiamsi aequaliter non rideant; in eo enim quod apti
ad ridendum sunt, dici risibiles possunt, non quod iam rideant. Aequaliter ergo
ea quae sub genere sunt, suscipiunt genus, sicut ea quae sub propriis, propria.
Tertium illud, quod sicut genus de speciebus propriis univoce praedicatur, itn
etiam proprium de sua specie univoce dicitur. Genus enim quoniam substantiam
speciei continet, non modo eius nomen de specie, verum etiam definitio
praedicatur. Proprium vero quia speciem non relinquit eamque semper sequitur
nec in aliam speciem transgreditur nec infra subsistit, definitionem quoque
propriam speciebus tradit; cuius enim nomen uni tantum convenit speciei cui
coaequatur, dubitari non potest quin eius quoque definitio speciei conveniat.
Quo fit ut sicut genus de speciebus, ita proprium de sua specie univoce
praedicetur. DIFFERT AUTEM, QUONIAM GENUS QUIDEM PRIUS EST, POSTERIUS VERO
PROPRIUM; OPORTET ENIM ESSE ANIMAL, DEHINC DIVIDI DIFFERENTIIS ET PROPRIIS. ET
GENUS QUIDEM ƿ DE PLURIBUS SPECIEBUS PRAEDICATUR, PROPRIUM VERO DE UNA SOLA
SPECIE CUIUS EST PROPRIUM. ET PROPRIUM QUIDEM CONVERSIM PRAEDICATUR DE EO CUIUS
EST PROPRIUM, GENUS VERO DE NULLO CONVERSIM PRAEDICATUR. NAM NEQUE SI ANIMAL
EST, HOMO EST, NEQUE SI ANIMAL EST, RISIBILE EST; SIN VERO HOMO EST, RISIBILE
EST, ET E CONVERSO. AMPLIUS PROPRIUM OMNI SPECIEI INEST CUIUS EST PROPRIUM, ET
SOLI ET SEMPER, GENUS VERO OMNI QUIDEM SPECIEI CUIUS FUERIT GENUS, ET SEMPER,
NON AUTEM SOLI. AMPLIUS SPECIES QUIDEM INTEREMPTAE NON SIMUL INTERLIMUNT
GENERA, PROPRIA VERO INTEREMPTA SIMUL INTERIMUNT EA QUORUM SUNT PROPRIA. ET HIS
QUORUM SUNT PROPRIA INTEREMPTIS ET IPSA SIMUL INTERIMUNTUR. Rursus tale
proprium sumit, quod ad alterius comparationem proprium nuncupetur. Dicit enim
proprium esse generis prius esse quam propria. Oportet enim prius esse genus,
quod veluti materia differentiis supponatur, venientibusque differentiis fieri
speciem, cum quibus propria nascuntur. Si igitur prius est ƿ genus quam
differentiae, prius etiam differentiae quam species et speciebus propria
coaequantur, non est dubium quin propria generibus posteriora sint, ac per hoc
quod dictum est, proprium esse generis prius esse quam propria, commune est hoc
generi cum differentia. Differentiae enim species conformantes priores
considerantur esse quam propria, siquidem speciebus ipsis priores sunt, quas
propria ratione determinant. Sed ut dictum est, hoc proprium ad differentiam
proprii intellegendum est, non quale superius per se proprium constitutum est.
Rursus differt genus a proprio, quod genus quidem de pluribus praedicatur
speciebus, proprium vero minime; nam neque genus est, nisi plures ex se species
proferat, nec proprium, si alteri cuilibet speciei possit esse commune. Fit
igitur ut genus quidem plurimas sub se species habeat, ut animal hominem atque
equum, proprium vero unam tantum, sieut risibile hominem. Quo fit ut illa
quoque differentia nascatur: genus enim praedicatur quidem de speciebus, ipsum
vero in nulla praedicatione supponitur, proprium vero et species alterna
praedicatione mutantur. Fit enim praedicatio aut a maioribus ad minora aut ab
aequalibus ad aqqualia. Genus igitur, quod maius est, de speciebus omnibus
praedicahlr, species vero, quoniam minores sunt, de generibus non dicuntur, ut
animal de homine dicitur, homo vero de animali nullo modo praedicatur. At vero
proprium, quoniam speciei aequale est, aeque ƿ praedicatur atque supponitur, ut
risibile de homine dicitur -- omnis enim homo risibilis est -- eodemque
convertitur modo; omne enim risibile homo est. Differt etiam proprium a genere,
quod proprium uni et omni et semper speciei adest, genus vero ex his duo quidem
retinet, in uno vero diversum est. Nam speciebus suis et semper adest et
omnibus, non vero solis; hoc enim haeret propriis, quod singulas tantum species
continent, hoc generibus, quod plures. Igitur propria quidem singulas optinent
species, genera vero non singulas. Adest igitur proprium uni soli speciei et
semper et omni, genus vero omni quidem et semper sed non soli, ut risibile
homini soli, animal vero eidem homini sed non soli; praeest enim caeteriss quae
irrationabilia nuncupamus. Praeterea si auferatul genus, species interimuntur
-- nam si non sit animal, non erit homo -- si auferas species, non interimitur
genus; nam si non sit homo, animal non peribit. Species vero et propria quoniam
sunt aequalia, alterna sese vice consumunt; nam si non sit risibile, homo non
erit, si homo non sit, risibile non manebit. Consumunt igitur genera sub se
positas species, non vero ab his invicem consumuntur, species vero et proprium
invicem perimuutur et perimunt. GENERIS VERO ET ACCIDENTIS COMMUNE EST DE
PLURIBUS, QUEMADMODUM DICTUM EST, PRAEDICARI, SIVE SEPARABILIUM SIT SIVE
INSEPARABILIUM; ETENIM MOVERI DE PLURIBUS ET NIGRUM DE CORUIS ET DE HOMINIBUS
AETHIOPIBUS ET ALIQUIBUS INANIMATIS. Nihil est quod inter caetera ita sit a
generis ratione disiunctum. Sicut est accidens. Nam cum genus cuiuslibet
substantiam monstret, accidens vero a substantia longe disiunctum sit et
extrinsecus veniens, nihil fere notius commune potest habere cum genere quam de
pluribus praedicari. Genus enim de plaribus praedicatur speciebus, accidens
vero de pluribus non modo speciebus, verum etiam generibus animatis atque
inanimatis, ut nigrum dicitur de rationabili homine, de irrationabili coruo et
de inanimato hebeno, album etiam de cygno et marmore, moveri de homine, de equo
et de stellis ac de sagitta, quae sunt separabilis accidentis exempla. DIFFERT
AUTEM GENUS AB ACCIDENTI, QUONIAM GENUS ANTE SPECIES EST, ACCIDENTIA VERO
SPECIEBUS POSTERIORA SUNT; NAM SI ETIAM INSEPARABILE SUMATUR ACCIDENS SED TAMEN
PRIUS EST ILLUD CUI ACCIDIT QUAM ACCIDENS. ET GENERE QUIDEM QUAE PARTICIPANT,
AEQUALITER PARTICIPANT, ACCIDENTI VERO NON AEQUALITER; INTENTIONEM ENIM ET
REMISSIONEM SUSCIPIT ACCIDENTIUM PARTICIPATIO, GENERUM VERO MINIME. ET
ACCIDENTIA QUIDEM IN INDIVIDUIS PRINCIPALITER SUBSISTUNT, GENERA NERO ET
SPECIES NATURALITER PRIORA SUNT INDIVIDUIS SUBSTANTIIS. ET GENERA QUIDEM IN EO
QUOD QUID SIT PRAEDICANTUR DE HIS QUAE SUB IPSIS SUNT, ACCIDENTIA VERO IN EO
QUOD QUALE ALIQUID SIT VEL QUOMODO SE HABEAT UNUMQUODQUE; QUALIS EST ENIM
AETHIOPS INTERROGATUS DICES 'NIGER', ET QUEMADMODUM SE SOCRATES HABEAT, DICES
QUONIAM SEDET VEL AMBULAT. Differentiam generis et accidentis hanc primam
proponit, quod genus quidem ante species sit, quippe quod mateliae loco est et
differentiis informatum species gignit, at vero accidens post species invenitur.
Oportet enim prius esse cui aliquid accidat, post vero ipsum accidens
supervenire; nam si subiectum non sit quod suscipiat, accidens esse non
poterit. Quodsi genus quidem speciebus subiectum est nec possunt esse species,
nisi eis genus veluti materia supponatur, accidentia vero esse non possunt,
nisi eis species supponantur, manifestum est genus quidem esse ante species,
accidentia vero post species. Rursus alia differentia, quoniam genus neque
intentionem neque remissionem suscipere potest. Quo fit ut quae participant
genere, aequaliter eius nomen definitionemque suscipiant; omnes enim homines
aequaliter animalia sunt eodernque modo equi, necnon inter se homo atque equus
et caetera animalia comparata aeque animalia praedicantur. Accidentis vero
participatio et intenditur et remittitur. Invenies enim quemlibet paulo diutius
ambulantem, paulo amplius nigrum et in ipsis Aethiopibus considerabis omnes non
aeque nigro colore obductos. Alia quoque differentia est, quoniam omne accidens
in individuis principaliter subsistit, genera vero et species individuis priora
sunt; nisi enim singuli corui ƿ nigredine infecti essent, corui species nigra
esse minime diceretur. Ita fit ut accidentia post individua esse videantur. Nam
si prius est id cui aliquid accidit quam illud quod accidit, non est dubium
prius esse individua, posterius vero accidens. Genera vero et species supra
individua considerantur; hoc idcirco, quoniam de his omnibus praedicantur
eorumque substantiam propria praedicatione constituunt. Sed dici potest genera
quoque ipsa et species posteriora individuis inveniri; nam nisi sint singuli
homines singulique equi, hominis atque equi species esse non possunt, et nisi
singulae species sint, eorum genus animal esse non poterit. Sed meminisse
debemus superius dictum esse genus non ex his sumere substantiam de quibus
praedicatur sed de eo potius, quod differentiis constitutivis eorum substantia
formaque perficitur. Itaque si genus quidem divisivis differentiis interemptis
non perimitur sed manet in his quae eius constitutivae sunt eiusque formam
definitionemque perficiunt, cumque differentiae divisivae generis speciebus
sint priores -- ipsas enim species conformant atque constituunt -- non est
dubium quin genus etiam pereuntibus speciebus possit in propria manere substantia.
Idem de speciebus dictum sit; species enim superioribus differentiis, non
posterioribus individuis informantur. Quae cum ita sint, species quoque ante
individua subsistunt. Accidentia vero nisi sint ƿ quibus accidant, esse non
possunt, nullis vero prius accidunt quam individuis; haec enim generationi et
corruptioni supposita variis semper accidentibus permutantur. Illam quoque
adnumerat differentiam quae est superius dicta, quod genus quidem, quia rem
demonstrat et de substantia praedicatur, in eo quod quid est dicitur, accidens
vero in eo quod quale est aut in eo quod quomodo sese habet res. Nam si
qualitatem interroges, accidens respondebitur, ut si qualis est coruus,
'niger', si quomodo sese habeat, aliud rursus accidens, aut 'sedet' aut 'uolat'
aut 'crocitat'. Nam cum accidens in novem praedicamenta dividatur, qualitatem,
quantitatem, ad aiiquid, ubi, quando, situm, habitum, facere, pati, caetera
quidem omnia in {quomo do se habeat' in terrogatione pomlntur, qualitas vero in
qualitatis sciscitatione responderi solet. Nam si interrogemur qualis est
Aethiops, respondebimus accidens, id est 'niger', si quomodo se habeat
Socrates, tunc dicemus aut 'sedet' aut 'ambulat' aut superiorum aliquid
accidentium.GENUS VERO QUO AB ALIIS QUATTUOR DIFFERAT, DICTUM EST. CONTINGIT
AUTEM ETIAM UNUMQUODQUE ALIORUM DIFFERRE AB ALIIS QUATTUOR, UT CUM QUINQUE
QUIDEM SINT, UNUMQUODQUE AUTEM AB ALIIS QUATTUOR DIFFERAT. QUATER QUINQUE,
viGINTI FIANT OMNES DIFFERENTIAE SED SEMPER POSTERIORIBUS ENUMERATIS ET
SECUNDIS QUIDEM UNA DIFFERENTIA SUPERATIS, PROPTEREA QUIA IAM SUMPTA EST,
TERTIIS VERO DUABUS, QUARTIS VERO TRIBUS, QUINTIS VERO QUATTUOR, DECEM OMNES
FIUNT, QUATTUOR, TRES, DUAE, UNA. GENUS ENIM DIFFERT A DIFFERENTIA ET SPECIE ET
PROPRIO ET ACCIDENTI; QUATTUOR IGITUR SUNT OMNES DIFFERENTIAE. DIFFERENTIA VERO
QUO DIFFERAT A GENERE DICTUM EST, QUANDO QUO DIFFERRET GENUS AB EA DICEBATUR;
RELINQUITUR IGITUR QUO DIFFERAT AB SPECIE ET PROPRIO ET ACCIDENTI DICERE, ET
FIUNT TRES. RURSUS SPECIES QUO ƿ QUIDEM DIFFERAT A DIFFERENTIA DICTUM EST,
QUANDO QUO DIFFERRET DIFFERENTIA AB SPECIE, DICEBATUR; QUO AUTEM DIFFERAT
SPECIES A GENERE, DICTUM EST, QUANDO QUO DIFFERRET GENUS AB SPECIE DICEBATUR;
RELIQUUM EST IGITUR, UT QUO DIFFERAT A PROPRIO ET ACCIDENTI DICATUR DUAE IGITUR
ETIAM ISTAE SUNT DIFFERENTIAE. PROPRIUM AUTEM QUO DIFFERAT AB ACCIDENTI
RELINQUITUR; NAM QUO AB SPECIE ET DIFFERENTIA ET GENERE DIFFERAT, PRAEDICTUM
EST IN ILLORUM AD IPSUM DIFFERENTIA. QUATTUOR IGITUR SUMPTIS GENERIS AD ALIA
DIFFERENTIIS, TRIBUS VERO DIFFERENTIAE, DUABUS AUTEM SPECIEI, UNA AUTEM PROPRII
AD ACCIDENS, DECEM ELUNT OMNES, QUARUM QUATTUOR, QUAE ERANT GENERIS AD RELIQUA,
SUPERIUS DEMONSTRAVIMUS.Quoniam differentias atque communitates generis ad
differentiam, ad speciem, ad proprium atque accidens persecutus est, idem
quoque ad caeteras facere contendens praedicit, quot omnes differentiae possint
esse quae inter se comparatis commixtisque ƿ rebus his quae supra propositae
sunt efficiantur. Sunt autem viginti. Nam cum quinque sint res, unaquaeque res
earum si a quattuor aliis differat, quinquies quater, viginti differentiae
fiunt, quod appositarum litterarum manifestatur exemplo. Sint quinque res
veluti quinque litterae A B C D E. Differat igitur A quidem ab aliis quattuor,
id est B C D E, fient quattuor differentiae. Rursus B differat ab aliis
quattuor, id est A C D E, erunt rursus quattuor; quae superioribus iunctae octo
coniungunt. C vero tertia ab reliquis differt quattuor, scilicet A B D E; quae
quattuor differentiae superioribus octo copulatae duodecim reddunt. Quarta D
reliquis quattuor comparetur differatque ab eisdem, id est A B C E, fient
igitur rursus quattuor; quae superioribus duodecim appositae sedecim copulant.
Quodsi ultima B ab aliis quattuor differat, scilicet A B C D, fient aliae
quattuor differentiae; quae compositae prioribus viginti perficiunt. Et sit
quidem huiusmodi descriptio: A --> B C D E B --> A C D E C --> A B D E
D --> A B C E E --> A B C D. Quae cum ita sint, in generibus quoque et
speciebus et caeteris idem considerabitur. Erunt ergo quattuor differentiae,
quibus genus a differentia, specie, proprio accidentique disiungitur; aliae
rursus quattuor, quibus differentia a genere, specie, proprio atque accidenti
discrepat; rursus quattuor speciei ad genus ac differentiam, proprium atque
accidens; quattuor etiam proprii ad genus, differentiam, speciem atque
accidens; quattuor in super accidentis ad genus, differentiam, speciem atque
proprium. Quae coniunctae omnes viginti explicant differentias. Sed hoc, si ad
numeri refelatur naturam comparationisque alternationem; nam si ad ipsas
differentiarum naturas vigilans lector aspiciat, easdem saepe differentias
inveniet sumptas. Quo enim genus differt a differentia, eodem differentia
distat a genere, et quo differentia distat ab specie, eodem species a
differentia disgregatur, et in caeteris eodem modo. In hac igitur dispositione
differentianlm, quam supla disposui, easdem saepius adnumeravi. Atque si
differentiarum similitudines detrahamus, decem fiunt omnino differentiae, quas
ad praesentem tractatum velut diversas atque dissimiles oportet assumere. Age
enim differat genus a differentia, specie, proprio ƿ atque accidenti, quattuor
differentiis, quas supra iam diximus. Item sumamus differentiam, distabit haec
a genere primum, dehinc ab specie, proprio atque accidenti. Sed quo discrepet a
genere, iam superius explicatum est, cum diceremus quo genus a differentia
discreparet. Detracta igitur hac comparatione, quoniam supra commemorata est,
relinquuntur tres distantiae quibus differentia ab specie, proprio accidentique
disiungitur; quae iunctae cum superioribus quattuor septem differentias
reddunt. Post hanc species si sumatur, quattuor quidem eius essent differentiae
secundum numeri diversitatem, cum ad genus, a differentiam, proprium atque
accidens comparatur sed priores duae comparationes iam dictae sunt. Nam quo
species differat a genere tunc dictum est, cum quid genus differret ab specie
dicebamus, quid vero species a differentia distet commemoratum est, cum
differentiae ab specie dissimilitudines redderemus. Quibus detractis duae
supersunt integrae atque intactae speciei ad proprium atque accidens
discrepantiae; quae iunctae cum septem novem differentias copulant. Proprii
vero si ad numerum differentiae considerentur, quattuor erunt, scilicet ad genus,
differentiam, speciem atque accidens comparati, quarum quidem tres superiores
differentiae iam dictae sunt. Nam quid proprium distet a genere, tunc dictum
est, cum quid genus a proprio distaret ostendimus, rursus quid proprium a
differentia discrepet, in colligenda distantia differentiae propriique superius
ƿ demonstratum est, quid vero proprium distet ab specie, tunc expositum est,
cum quid species distaret a proprio dicebatur. Restat igitur una differentia
proprii ad accidens, quae superioribus iuncta decem differentias claudit.
Accidentis vero ad caetera possent quidem esse quattuor, nisi iam omnes
probarentur esse consumptae. Nam quid differat vel genus vel differentia vel
species vel proprium ab accidenti, supra monstratum est, nec sunt diversae differentiae
accidentis ad caetera quam caeterorum ad accidens. Itaque fit, ut cum sit
quinque rerum numerus, si prima assumatur, quattuor fiant differentiae, si
secunda, tres, vincanturque secundae rei ad caeteras differentiae a prima ad
caeteras una tantum distantia; nam cum prima habuerit quattuor, secunda retinet
tres. Tertia vero si sumatur, duas habebit differentias, quae vincantur a
primis quattuor differentiis duabus; quarta si sumatur, unam habebit
differentiam, quae vincitur a primis quattuor differentiis tribus, quinta vero
quoniam nullam omnino habebit differentiam nouam, totis quattuor a prima
differentiis superatur. Atque hoc numerorum gradu quidem usque ad denarium
numerum tenditur: quattuor, tres, duae, una, ut generis quidem quattuor,
differentiae vero tres, speciei duae, proprii una, accidentis nulla sit. Et
primae quidem generis comparationes quattuor nouas tenent differentias,
secundae vero differentiae comparationes ƿ tres nouas tenent; una enim superius
adnumerata est, vincitur autem a primis quattuor novis differentiis una tantum.
Speciei vero tertia comparatio dnas tantum habet differentias nouas, duas
quippe superius adnumeratas agnoscimus, et vincitur a quattuor primis duabus
tantum differentiis novis. Proprium vero unam retineat nouam, quoniam tres
habet superius adnumeratas, vincaturque a prima novis tribus differentiis,
quinti vero accidentis comparationes quoniam nullam retinent nouam
differentiam, totis quattuor a primis generis transcendantur. Atque ad hunc
modum ex viginti differentiis secundum numerum decem secundum dissimilitudinem
contrahuntur. ut tamen has secundum dissimilitudinem differentias non in
quinario tantum numero, verum in caeteris notas habere possimus, talis dabitur
regula quae plenam differentiarum dissimilitudinem in qualibet numeri
pluralitate repeliat. Propositarum enim rerum numero si unum dempseris atque id
quod dempto uno relinquitur, in totam summam numeri multiplicaveris, eius quod
ex multiplicatione factum est dimidium coaequabitur ei pluralitati quam propositarum
rerum differentiae continebunt. Sint igitur res quattuor A B C D; his aufero
unum, fiunt tres; has igitur quater multiplico, fient duodecim; horum dimidium
ƿ teneo, sex erunt. Tot igitur erunt differentiae inter se rebus quattuor
comparatis: A quippe ad B et C et D tres retinet differentias, rursus B ad C et
D duas, C vero ad D unam; quae iulletae senarium numerum complent. Atque hanc
quidem regulam simpliciter ac sine demonstratione nunc dedisse sufficiat, in
Praedicamcntorum vero expositione ratio quoque cur ita sit explicabitur. COMMUNE
ERGO DIFFERENTIAE ET SPECIEI EST AEQUALITER PARTICIPARI; HOMINE ENIM AEQUALITER
PARTICIPRNT PARTICULARES HOMINES ET RATIONALI DIFFERENTIA. COMMUNE VERO EST ET
SEMPER ADESSE HIS QUAE PARTICIPANT; SEMPER ENIM SOCRATES RATIONALIS ET SEMPER
SOCRATES HOMO. Dictum est saepius ea quae substantiam formant, nec remissione
contrahi nec intentione produci; uni cuique enim id quod est, unum atque idem
est. Quodsi differentia specierum substantiam monstret, species vero individuorum,
aequaliter utraque ab intentione et remissione seiuncta sunt; quo fit ut
aequaliter participentur. Omnes enim individui mortales aeque sunt atque
rationales sicut homines. Nam si idem est 'esse' homini quod est 'esse
rationale', cum omnes homines aeque sint homines, necesse est ut sint
aequaliter rationales. Aliud quoque commune habent quoniam ita differentiae sui
participantia non relinquut ut species. Semper enim Socrates rationalis est --
Socrates enim rationabilitate participat -- semper homo est, quia scilicet
humanitate participat. Ut igitur differentiae sui participantia non relinqbunt,
ita species his quae ea participant, semper adiuncta est. PROPRIUM AUTEM
DIFFERENTIAE QUIDEM EST IN EO QUOD QUALE SIT PRAEDICARI, SPECIEI VERO IN EO
QUOD QUID EST; NAM ET SI HOMO VELUT QUALITAS ACCIPIATUR, NON SIMPLICITER ƿ ERIT
QUALITAS SED SECUNDUM ID QUOD GENERI ADVENIENTES DIFFERENTIAE EAM
CONSTITUERUNT. AMPLIUS DIFFERENTIA QUIDEM IN PLURIBUS SAEPE SPECIEBUS
CONSIDERATUR, QUEMADMODUM QUADRUPES IN PLURIBUS ANIMALIBUS SPECIE
DIFFERENTIBUS, SPECIES VERO IN SOLIS HIS QUAE SUB SPECIE SUNT INDIVIDUIS EST.
AMPLIUS DIFFERENTIA PRIMA EST AB EA SPECIE QUAE EST SECUNDUM IPSAM; SIMUL ENIM
ABLATUM RATIONALE INTERIMIT HOMINEM, HOMO VERO INTEREMPTUS NON AUFERT
RATIONALE, CUM SIT DEUS. AMPLIUS DIFFERENTIA QUIDEM COMPONITUR CUM ALIA
DIFFERENTIA -- RATIONALE ENIM ET MORTALE COMPOSITUM EST IN SUBSTANTIA HOMINIS
-- SPECIES VERO SPECIEI NON COMPONITUR, UT GIGNAT ALIAM ALIQUAM SPECIEM; QUIDAM
ENIM EQUUS CUIDAM ASINO PERMISCETUR AD MULI GENERATIONEM, EQUUS AUTEM
SIMPLICITER ASINO NUMQUAM CONVENIENS PERFICIET MULUM. Expositis communitatibus
quantum ad institutionem pertinebat differentiae et speciei, eorundem nunc
dissimilitudines colligit dicens quoniam differunt, quod species in eo quod
quid sit praedicatur, differentia vero in eo quod quale sit. Huic differentiae
poterat occurri. Nam si humanitas ipsa, quae species est, qualitas quaedam est,
cur dicatur species in eo quod quid sit praedicari, cum propter quandam suae
naturae ƿ proprietatem quaedam qualitas esse videatur? Huic respondemus, quia
differentia solum qualitas est, humanitas vero non est solum qualitas sed
tantum qualitate perficitur. Differentia enim superveniens generi speciem
fecit; ergo genus quadam differentiae qualitate formatum est, ut procederet in
speciem, species vero ipsa, qualis quidem est, secundum differentiam illius
quae est pura ac simplex qualitas, qua scilicet perficitur et conformatur,
qualitas vero ipsa pura simplexque nullo modo est sed ex qualitatibus effecta
substantia. Itaque iure differentia, quae pure ac simpliciter qualitas est, in
eo quod quale est sciscitantibus respondetur, species vero in eo quod quid sit,
licet ipsa quoque quaedam qualitas sit non simplex sed aliis qualitatibus
informata. Rursus illa quoque differentia est, quia plures sub se species
differentia continet, species vero tantum individuis praesunt. Rationabilitas
enim et hominem claudit et deum, quadrupes equum, bovem, canem et caetera, homo
vero solos individuos. Atque in aliis speciebus eadem ratio est. Idcirco enim
definitiones quoque secutae sunt, ut differentia vocaretur quod in pluribus
specie differentibus in eo quod quale sit praedicatur, species vero quod de
pluribus numero differentibus in eo quod quid sit praedicatur. Ideo etiam
superioris naturae sunt differentiae, quoniam continentes sunt specierum. Nam
si quis auferat differentiam, speciem ƿ quoque sustulerit, ut si quis auferat
rationabilitatem, hominem deumque consumpserit, si vero hominem tollat,
rationabiiitas nuanet in speciebus reliquis constituta. Est igitur differentiae
specieique distantia quod una differentia plures species contmerc potest,
species vero nullo modo. Alia rursus est dlfferentia, quoniam ex pluribus
differentiis una saepe species iungitut, ex pluribus speciebus nulla speciei
substantia copulatur. Iunctis enim differentiis mortali ac rationali factus est
homo, iunctis vero speciebus nulla umquam species informatur. Quodsi quis
occurrat dicens quoniam permixtus asino equus efficit mulum, non recte dixerit.
Individua enim individuis iuncta individua rursus alia fortasse perficiunt,
ipseuero equus simpliciter, id est universaliter, et asinus universaliter neque
permisceri possunt neque aliquid, si cogitatione misceantur, efficiunt. Constat
igitur differentias quidem plurimas ad unius speciei substantiam convenire,
species vero in alterius speciei naturam nililo modo posse congruere. DIFFERENTIA
VERO ET PROPRIUM COMMUNE QUIDEM HABENT AEQUALITER PARTICIPARI AB HIS QUAE EORUM
PARTICIPANT; AEQUALITER ENIM RATIONALIA RATIONALIA SUNT ET RISIBILIA RISIBILIA.
ET SEMPER ET OMNI ADESSE COMMUNE ƿ UTRIUSQUE EST. SI ENIM CURTETUR QUI EST
BIPES SED AD ID QUOD NATUM EST SEMPER DICITUR; NAM ET RISIBILE IN EO QUOD NATUM
EST HABET ID QUOD EST SEMPER SED NON IN EO QUOD SEMPER RIDEAT. Nunc
differentiae propriique communia continua ratione persequitur. Commune enim
dicit esse proprio ac differentiae quod aequaliter participantur -- aeque enim
omnes homines rationabiles sunt, aeque risibiles -- illud, quia substantiam
monstrat, istud, quia est aequum proprium speciei et subiectam speciem non
relinquit. Aliud etiam his commune subiungit: aequaliter enim semper
differentia subiectis adest ut proprium; semper enim homines rationabiles sunt,
ut semper quoque risibiles. Sed obici poterat non semper esse bipedem hominem,
cum sit bipes differentia, si unius pedis perfectione curtetur. Quam tali modo
solvimus quaestionem. Propria et differentiae non in eo quod semper habeantur
sed in eo quod semper natutaliter haberi possunt, semper dicuntur adesse
subiectis. ƿ Si enim quis curtetur pede, nihil attinet ad naturam, sicut nihil
ad detrahendum proprium valet, si homo non rideat. Haec enim non in eo quod
assint sed in eo quod per naturam adesse possint, semper adesse dicuntur. Ipsum
enim semper non actu esse dicimus sed natura. Numquam enim fieri potest, ut per
naturae ipsius proprietatem non semper homo bipes sit, etiamsi potest fieri, ut
pede curtetur, etiam si deminuto pede sit natus; in his enim non speciei atque
substantiae sed nascenti individuo derogatur. PROPRIUM AUTEM DIFFERENTIAE EST
QUONIAM HAEC QUIDEM DE PLURIBUS SPECIEBUS DICITUT SAEPE, UT RATIONALE DE HOMINE
ET DE DEO, PROPRIUM vero DE UNA SOLA SPECIE, CUIUS EST PROPRIUM. ET DIFFERENTIA
QUIDEM ILLIS EST CONSEQUENS QUORUM EST DIFFERENTIA SED NON CONVERTITUR, PROPRIA
VERO CONVERSIM PRAEDICANTUR QUORUN SUNT PROPRIA, IDCIRCO QUONIAM CONVERTUNTUR. Distat
a proprio differentia, quia differentia plurimas species ƿ claudit ac de his
omnibus praedicatur, proprium vero uni tantum speciei cui iungitur adaequatur.
Rationale enim de homine atque de deo, quadrupes de equo et caeteris
animalibus, risibile vero unam tantum tenet speciem, id est hominem. Unde fit
ut differentia semper speciem consequatur, species vero differentiam minime.
Proprium vero ac species alterius sese vicibus aequa praedicatione comitantur.
Sequi vero dicitur, quotiens quolibet prius nominato posterius reliquum
convenit nuncupari, ut si dicam 'omnis homo rationabilis est', prius hominem,
posterius apposui differentiam; sequitur ergo differentia speciem. At si
convertam nomina dicamque 'omnis rationabile homo est', propositio non tenet
veritatem; igitur species differentiam nulla ratione comitatur. Proprium vero
et species quia converti possunt, mutuo se secuntur: omnis homo risibilis est
et omne risibile homo est. DIFFERENTIAE AUTEM ET ACCIDENTI COMMUNE QUIDEM EST
DE PLURIBUS DICI, COMMUNE VERO AD EA QUAE SUNT ƿ INSEPARABILIA ACCIDENTIA,
SEMPER ET OMNIBUS ADESSE; BIPES ENIM SEMPER ADEST OMNIBUS CORUIS ET NIGRUM ESSE
SIMILITER. Duo quidem differentiae et aecidentis communia proponit, quorum unum
separabilibus et inseparabilibus accidentibus cum differentia commune est, ab
altero vero separabile accidens segregatur. Tantum vero inseparabile secundo
communi concluditur. Est enim commune differentiae cum omnibus accidentibus de
pluribus praedicari; nam et separabilia et inseparabilia accidentia sicut
differentia de pluribus speciebus et individuis praedicantur, ut bipes de coruo
atque cygno et de his individuis quae sub coruo et cygno sunt, nuncupatur. Item
de eodem coruo atque cygno album et nigrum, quae sunt inseparabilia accidentia,
praedicantur. Ambulare enim vel stare, dormire ac vigilare de eisdem dicimus,
quae sunt accidentia separabilia, reliqua vero communitas ea tantum accidentia
videtur includere quae sunt inseparabilia. Nam sicut differentia semper
subiectis speciebus adhaerescit, ita etiam inseparabilia accidentia numquam
videntur deserere subiectum. ut enim bipes, quod est differentiat numquam
coruorum speciem derelinquit, ita nec nigrum, quod accidens inseparabile est.
Differentia enim idcirco non relinquit subiectum, quoniam cius substantiam
complet ac perficit, accidens vero huiusmodi, quia noo potest separari; neque
enim possit esse accidens inseparabile, si subiectum aliquando relinquit. DIFFERUNT
AUTEM QUONIAM DIFFERENTIA QUIDEM CONTINET ET NON CONTINETUR -- CONTINET ENIM
RATIONABILITAS HOMINEM -- ACCIDENTIA VERO QUODAM QUIDEM MODO CONTINENT EO QUOD
IN PLURIBUS SUNT, QUODAM VERO MODO CONTINENTUR EO QUOD NON UNIUS ACCIDENTIS
SUSCEPTIBILIA SUNT SUBIECTA SED PLURIMORUM. ET DIFFERENTIA QUIDEM
ININTENTIBILIS EST ET IRREMISSIBILIS, ACCIDENTIA VERO MAGIS ET MINUS RECIPIUNT.
ET IMPERMIXTAE QUIDEM SUNT CONTRARIAE DIFFERENTIAE, MIXTA VERO CONTRARIA
ACCIDENTIA. HUIUSMODI QUIDEM COMMUNIONES ET PROPRIETATES DIFFERENTIAE ET
CAETERORUM SUNT, SPECIES VERO QUO QUIDEM DIFFERAT A GENERE ET DIFFERENTIA,
DICTUM EST IN EO QUOD DICEBAMUS, QUO GENUS DIFFERRET A CAETERIS ET QUO DIFFERENTIA
DIFFERRET A CAETERIS. Post differentiae et accidentis redditas communitates
nunc de eorum differentiis tractat. Ac primum quidem talem proponit. Differentia,
inquit, omnis speciem continet rationabilitas enim continet hominem, quoniam
plus rationabilitas quam species, id est homo, praedicatur: supergressa enim
substantiam hominis in deum usque diffunditur. Accidentia vero aliquando quidem
continent, aliquando continentur. Continent quidem, quia quodlibet unum
accidens speciebus adesse pluribus consuevit, ut album cygno et lapidi? Nigrum
coruo, Aethiopi atque hebeno, continentur vero, quoniam plura accidentia uni
accidunt speciei, ut videatur illa species plurima accidentia continere. Cum
enim Aethiopi accidit ut sit niger, accidit ut sit simus, ut crispus, quae
cuncta sunt accidentia Aethiopis, species, quod est homo, omnia quae habet
intra se plurima accidentia videtur includere. Huic occurri potest: quoniam
differentiae quoque aliquo modo continentur, aliquo modo continent, ut
rationabilitas continet hominem -- plus enim quam de homine praedicatur --
continetur quoque ab homine, quia non solum hanc differentiam homo continet,
verum etiam mortalem. Respondebimus: omnia quaecumque substantialiter de
pluribus praedicantur, ab his de quibus dicuntur non poterunt contineri; quo
fit ut differentiae quidem non contineantur ab specie, etsi sint differentiae
plures quae speciem forment. Accidentia vero continentur, quoniam accidentia
speciei substantiam nulla praedicatione constituunt; nam nec pioprie
universalia dicuntur ƿ accidentia, cum de speciebus pluribus dicuntur,
differentiae vero maxime. Quae enim quorumlibet universalia sunt, ea necesse
est eorum quorum sunt universalia, etiam substantiam continere. Quo fit ut quia
differentiae substantiam monstrant, intentione ac remissione careant -- una
enim quaeque substantia neque contrahi neque remitti potest -- at vero
accidentia quoniam nullam constitutionem substantiae profitentur, intentione
crescunt et remissione decrescunt. Illa quoque eorum est differentia, quod
differentiae contrariae permisceri, ut ex his fiat aliquid, non queunt,
accidentia vero contraria miscentur et quaedam medietas ex alterutra
contrarietate coniungitur. Ex rationabili enim et irrationabili nihil in unum
iungi potest, ex albo vero et nigro coniunctis fit aliquis medius color. Expositis
igitur distantiis differentiae ad caetera restat de specie dicere, cuius quidem
differentias ad genus ante collegimus, cum generis ad speciem differentias
dicetamus, eiuselem etiam speciei distantias ad differentiam diximus, cum
differentiae ad species dissimilitudines monstrabamus. Restat igitur speciem
proprii et accidentium communioni coniungere, tum differentia segregare. SPECIEI
AUTEM ET PROPRII COMMUNE EST DE SE INVICEM PRAEDICARI; NAM SI HOMO, RISIBILE
EST, ET SI RISIBILE, HOMO EST -- RISIBILE VERO QUONIAM SECUNDUM ID QUOD NATUM
EST SUMI OPORTET, SAEPE IAM DICTUM EST -- AEQUALITER ENIM SUNT SPECIES HIS QUAE
EORUM PARTICIPANT ET PROPRIA QUORUM SUNT PROPRIA. Commune, inquit, habent
propria atque species ad se ipsa praedicationes habere conversas. Nam sicut
species de proprio, ita proprium de specie praedicatur; namque ut est homo
risihilis, ita risibile homo est; idque iam saepius dictum esse commemorat.
Cuius communitatis rationem subdidit, eam scilicet, quia aequaliter species
individuis participantur, sicut eadem propria his quorum sunt propria. Quae
ratio non videtur ad conversionem praedicationis accommoda sed potius ad illam
aliam similitudinem, quia sicut species aequaliter individuis participantur,
ita etiam propria; aeque enim Socrates et Plato homines sunt, sicut etiam
risibiles. Itaque tamquam aliam communionem debemus accipere quod est additum:
AEQUALITER ENIM SUNT SPECIES HIS QUAE EORUM PARTICIPANT ET PROPRIA QUORUM SUNT
PROPRIA. An magis intellegendum est hoc modo dictum, tamquam si diceret
'aequalia enim sunt species et propria'? Nam quia species eorum sunt species
quae speciebus ipsis participant. Et propria eorum propria quael propriis
participant, proprium atque species aequaliter utrisque sunt, id est neque
species superuadit ea quae specie participant, ƿ neque propria superuadunt ea
quae propriis participant. Cumque haec propria specierum sint propria, species
ac propria aequalia esse necesse est atque invicem praedicari. DIFFERT AUTEM
SPECIES A PROPRIO, QUONIAM SPECIES QUIDEM POTEST ET ALIIS GENUS ESSE, PROPRIUM
VERO ET ALIARUM SPECIERUM ESSE IMPOSSIBILE EST. ET SPECIES QUIDEM ANTE
SUBSISTIT QUAM PROPRIUM, PROPRIUM VERO POSTEA FIT IN SPECIE; OPORTET ENIM
HOMINEM ESSE, UT SIT RISIBILE. AMPLIUS SPECIES QUIDEM SEMPER ACTU ADEST
SUBIECTO, PROPRIUM vero ALIQUANDO POTESTATE; HOMO ENIM SEMPER ACTU EST
SOCRATES, NON VERO SEMPER RIDET, QUAMVIS SIT NATUS SEMPER RISIBILIS. AMPLIUS
QUORUM TERMINI DIFFERENTES, ET IPSA SUNT DIFFERENTIA; EST AUTEM SPECIEI QUIDEM
SUB GENERE ESSE ET DE PLURIBUS ƿ ET DIFFERENTIBUS NUMERO IN EO QUOD QUID EST
PRAEDICARI ET CAETERA HUIUSMODI, PROPRII VERO QUOD EST SOLI ET SEMPER ET OMNI
ADESSE. Primam proprii et speciei differentiam dicit quoniam species potest
aliquando in alias species derivari, id est potest esse genus, ut animal, cum
sit species animati, potest esse hominis genus. Sed nunc non de his speciebus
loquitur quae sunt specialissimae, atque hunc confundele videtur errorem, quod
cum de his speciebus dicere proposuerit quae essent ultimae, nunc de his quae
sunt subalternae et saepe locum generis optineant disserit. Propria vero nullo
modo esse genera possunt, quoniam specialissimis adaequantur; quae quoniam
genera esse non queunt, nec propria quae sibi sunt aequalia, genera es se
permittuntur. Rursus species semper ante subsistit quam proprium -- nisi enim
sit homo, risibile esse non poterit -- et cum ista simul sint, tamen
substantiae cogitatio praecedit proprii rationem. Omne enim proprium in
accidentis genere collocatur, eo vero differt ab accidenti, quia circa omnem
solam quamlibet unam speciem vim propriae praedicationis continet. Quodsi
priores sunt substantiae quam accidentia, species vero substantia est, proprium
vero accidens, non est dubium quin prior sit species. Proprium vero posterius.
Discernuntur ƿ etiam species a propriis actus potestatisque natura; species
enim actu semper individuis adest, propria vero aliquotiens actu, potestate
autem semper. Socrates enim et Plato actu sunt homines, non vero semper actu
rident sed risibiles esse dicuntur, quia tametsi non rideant, ridere tamen
potenlnt. Natura itaque species et proprium semper subiectis adest sed actu
species. Proprium vero non semper actu, velut dictum est. At rursus quoniam
definitio substantiam monstrat, quorum diversae sunt definitiones, diversas
necesse est esse substantias; speciei vero et proprii diversae sunt
definitiones, diversae sunt igitur substantiae. Est autem speciei definitio
esse sub genere et de pluribus numero differentibus in eo quod quid sit
praedicari; quam superius frequenter expositam nunc iterare non opus est.
Proprium vero non ita: definitur: proprium est quod uni et omni et semper
speciei adest. Quodsi definitiones diversae sunt, non est dubium speciem ac
proprium secundum naturae suae terminos discrepare. SPECIEI VERO ET ACCIDENTIS COMMUNE
QUIDEM EST DE PLURIBUS PRAEDICARI; RARAE VERO ALIAE SUNT COMMUNITATES ƿ
PROPTEREA, QUONIAM QUAM PLURIMUM A SE DISTANT ACCIDENS ET ID CUI ACCIDIT. Speciei
atque accidentis similitudinem communem dicit de pluribus praedicari; de
pluribus enim dicitur species, sicut et accidens. Raras vero dicit esse alias
eorum communiones idcirco, quoniam longe diversum est id quod accidit et cui
accidit. Cui enim accidit, subiectum est atque suppositum, quod vero accidit,
superpositum est atque advenientis naturae. Item quod supponitur substantia
est, quod vero velut accidens praedicatur, extrinsecus venit. Quae omnia multam
eius quod est subiectum et eius quad est accidens differentiam faciunt. Tamen
inveniri etiam aliae possunt speciei et accidentis inseparabilis communitates,
ut semper adesse subiectis -- aeque enim homo singulis hominibus semper adest
et inseparabilia accidentia singulis individuis praesto sunt -- et quod sicut
species de his quae individua continet, aeque de pluribus accidentia individuis
praedicantur; nam homo de Socrate et Platone, nigrum vero atque album de
pluribus coruis et cygnis quibus accidit nuncupatur. PROPRIA VERO UTRIUSQUE
SUNT, SPECIEI QUIDEM IN EO QUOD QUID EST PRAEDICARI DE HIS QUORUM EST SPECIES,
ƿ ACCIDENTIS AUTEM IN EO QUOD QUALE QUIDDAM EST VEL ALIQUO MODO SE HABENS; ET
UNAMQUAMQUE SUBSTANTIAM UNA QUIDEM SPECIE PARTICIPARE, PLURIBUS AUTEM
ACCIDENTIBUS ET SEPARABILIBUS ET INSEPARABILIBUS; ET SPECIES QUIDEM ANTE
SUBINTELLEGI QUAM ACCIDENTIA, VEL SI SINT INSEPARABILIA -- OPORTET ENIM ESSE
SUBIECTUM, UT ILLI ALIQUID ACCIDAT -- ACCIDENTIA VERO POSTERIORIS GENERIS SUNT
ET ADVENTICIAE NATURAE. ET SPECIEI QUIDEM PARTICIPATIO AEQUALITER EST,
ACCIDENTIS VERO, VEL SI INSEPARABILE SIT, NON AEQUALITER; AETHIOPS ENIM ALIO
AETHIOPE HABEBIT COLOREM VEL INTENTUM AMPLIUS VEL REMISSUM SECUNDUM NIGREDINEM.
RESTAT IGITUR DE PROPRIO ET ACCIDENTI DICERE; QUO ENIM PROPRIUM AB SPECIE ET
DIFFERENTIA ET GENERE DIFFERT, DICTUM EST. Quod nunc proprium speciei et
accidentis se exequi pollicetur, tale proprium intellegendum est quod, ut
superius dictum est, ad comparationem dicitur differentium rerum. Species enim
in eo quod quid est praedicatur, accidens vero in eo quod quale est. Qua
differentia non ab accidentibus solis species ƿ discernitur, verum etiam a differentiis
ac propriis, nec solum species ab eisdem, verum etiam genus. Praeterea quod
species in eo quod quid est praedicatur, accidens vero in eo quod quomodo sese
habeat, id quoque commune est cum genere; genus quippe ab accidenti in eo quod
quid est et quomodo se habeat praedicatione dividitur. Item ullam quamque
substantiam una videtur species continere, ut Socrntem homo, atque ideo Socrati
una tantum propinquitas est species hominis. Rursus individuo equo una species
equi est proxima, itemque in caeteris; uni cuique enim substantiae una species
praeest. At vero uni cuique substantiae non unum accidens iungitur; uni cuique
enim substantiae plura semper accidentia superveniunt, ut Socrati quod caluus,
quod simus, quod glaucus, quod propenso ventre, et in aliis quidem substantiis
de numero accidentium idem convenit. Dehinc semper ante accidentia species
intelleguntur. Nisi enim sit homo cui accidat aliquid, accidens esse non
poterit, et nisi sit quaelibet substantia cui accidens possit adiungi, accidens
non erit. Omnis autem substantia propria specie continetur. Recte igitur prins
species, accidentia vero posterius intelleguntur; posterioris enim sunt, ut
ait, generis et adventiciae naturae. Nam quae substantiam non informant, recte
adventiciae naturae esse dicuntur et posterioris generis; his enim substantiis
assunt quae ante differentiis informatae sunt. Rursus quoniam species
substantiam ƿ monstrat, substantia vero, ut dictum est, intentione ac
remissione caret, speciei participatio intentionem remissionemque non suscipit.
Accidens vero vel si inseparabile sit, potest intentionis remissionisque
cremento et detrimento variari, ut ipsum inseparabile accidens quod Aethiopibus
inest, nigredo. Potest enim quibusdam talis adesse, ut sit fuscis proxima,
aliis vero talis, ut sit nigerrima. Restat nunc proprii communiones ac
differentias persequi. Sed quo proprium differat a genere vel specie vel
differentia superius demon stratum est, cum quid genus vel species vel
differentia a proprio distaret ostendimus. Nunc reliqua ad communitatem vel
differentiam consideratio est, quid proprium accidentibus aut iungat aut
segreget. COMMUNE AUTEM PROPRII ET INSEPARABILIS ACCIDENTIS EST QUOD PRAETER EA
NUMQUAM CONSTANT ILLA IN QUIBUS CONSIDERANTUR; QUEMADMODUM ENIM PRAETER RISIBILE
NON SUBSISTIT HOMO, ITA NEC PRAETER NIGREDINEM SUBSISTIT ƿ AETHIOPS, ET
QUEMADMODUM SEMPER ET OMNI ADEST PROPRIUM, SIC ET INSEPARABILE ACCIDENS. Quoniam
proprium semper adest speciebus nec eas ullo modo relinquit quoniamque
inseparabile accidens a subiecto non potest segregari, hoc illis inter se
videtur esse commune. Quod ea in quibus insunt, praeter propria vel
inseparabilia accidentia esse non possint. Inseparabilia vero accidentia
comparat, quoniam, ut in specie dictum est, rarissimae sunt speciei atque
accidentis similitudines. Quocirca multo magis proprii atque accidentis
communitates difficile reperiuntur. Accidens enim in contrarium dividi solet,
in separabile accidens atque in inseparabile, quae vero sub genere in
contrarium dividuntur, ea nullo alio nisi tantum generis praedicatione
participant. Quodsi proprium inseparabile quoddam accidens est, a separabili
accidenti plurimum differt, atque ideo nullas proprii et separabilis accidentis
similitudines quaerit. Sed quia ipsum proprium certis quibusdam causis ab
inseparabilibus accidentibus differt, horum et communitates inveniri possunt et
inter se differentiae. Quarum una quidem ea est quam superius exposuimus,
secunda nero quoniam sicut proprium semper et omni speciei adest. Ita etiam
inseparabile accidens; nam sicut risibile omni homini et semper adest, ita
etiam nigredo omni coruo et semper adiuncta est. DIFFERT AUTEM QUONIAM PROPRIUM
UNI SOLI SPECIEI ADEST, QUEMADMODUM RISIBILE HOMINI, IN SEPARABILE VERO
ACCIDENS, UT NIGRUM, NON SOLUM AETHIOPI SED ET IAM CORNO ADEST ET CARBONI ET
HEBENO ET QUIBUSDAM ALIIS. QUARE PROPRIUM CONVERSIM PRAEDICATUR DE EO CUIUS EST
PROPRIUM ET EST AEQUALITER, INSEPARABILE AUTEM ACCIDENS CONVERSIM NON
PRAEDICATUR. ET PROPRIORUM QUIDEM AEQUALITER EST PARTICIPATIO, ACCIDENTIUM VERO
HAEC QUIDEM MAGIS, ILLA VERO MINUS. SUNT QUIDEM ETIAM ALIAE COMMUNITATES VEL
PROPRIETATES EORUM QUAE DICTA SUNT SED SUFFICIUNT ETIAM HAEC AD DISCRETIOLLEM
EORUM COMMUNITATISQUE TRADITIONEM. Proprii atque accidentis prima quidem
differentia est quia proprium semper de una tantum specie dicitur, accidens
vero minime sed eius praedicatio in plurimas diversi generis substantias
speciesque diffunditur. Risibile enim de nullo alio nisi de homine praedicatur,
nigrum vero, quod est inseparabile quibusdam accidens, tam coruo quam Aethiopi,
quae diversa sunt specie, tam coruo atque hebeno, quae differunt generibus, non
tantum specie, praesto est. Quo fit ut propriis quidem ƿ conversio aequa
seruetur, in accidentibus vero minime. Quoniam enim propria in singulis esse
possunt atque omnes continent, species converso ordine praedicantur; nam quod
risibile est homo est, et quod homo, risibile. Nigrum vero non ita sed ipsum
quidem de his praedicari potest quibus inest, illa vero ad huius praedicationem
converti retrahique non possunt; nigrum enim de carbone, hebeno, homine atque
coruo praedicatur, haec vero de nigro minime. Nam quae plurima continent, de
his quae continent praedicari possunt, ea vero quae continentur, de sese
continentibus nullo modo nuncupantur. Rursus proprium quidem aequaliter
participatur, accidens remissionibus atque intentionibus permutatur. Omnis enim
homo aeque risibilis est, Aethiops vero non aequaliter niger est sed, ut dictum
est. Alius quidem panlo minus niger, alius vero tacterrimus invenitur. Et de
proprii quidem atque accidentis differentiis satis dictum est. Restabat vero
accidentis ad caetera communiones proprietatesque explicare sed iam superius
adnumeratae sunt, cum generis, differentiae, speciei et proprii ad accidens
similitudines ac differentias assignavimus. Fortasse autem his institutus
animus et sollertior factus alias praeter eas quas nunc diximus communitates
vel differentias quinque rerum quae superius sunt positae reperiet sed ad
discretionem atque eorum similitudines comparandas ea fere quae sunt dicta
sufficiunt. Nos etiam, quoniam promissi operis portum tenemus atque huius libri
seriem primo quidem ab rhetore Victorino, post vero a nobis ƿ Latina oratione
conversam gemina expositione patefecimus, hic terminum longo statuimus operi
continenti quinque rerum disputationem et ad Praedicamenta servanti. Expeditis
his quae ad praedicamenta Aristotelis Porphyrii institutione digesta sunt, hos
quoque commentarios in praedicamenta perscribens mediocris styli seriem
persecutus, nihil de aliorum quaestionum tractatione permiscui sed dilucidandi
moderatione servata, nec angere lectorem brevitate volui nec dilatatione
confundere. Quare prius breviter huius operis aperienda videtur intentio, quae
est huiusmodi: Rebus praeiacentibus, et in propria principaliter naturae
constitutione manentibus, humanum solum genus exstitit, quod rebus nomina
posset imponere. Unde factum est ut sigillatim omnia prosecutus hominis animis
singulis vocabula rebus aptaret. Et hoc quidem (verbi gratia) corpus hominem
vocavit, illud vero lapidem, aliud lignum, aliud vero 159B colorem. Et rursus
quicumque ex se alium genuisset, patris vocabulo nuncupavit. Mensuram quoque
magnitudinis proprii forma nominis terminavit, ut diceret bipedale esse, aut
tripedale, et in aliis eodem modo. Omnibus ergo nominibus ordinatis, ad ipsorum
rursus vocabulorum proprietates figurasque reuersus est, et huiusmodi vocabuli
formam, quae inflecti casibus possit, 'nomen' vocavit; quae vero temporibus
distribui, 'uerbum'. Prima igitur illa fuit nominum positio, per quam vel
intellectui subiecta vel sensibus designaret. Secunda consideratio, qua
singulas proprietates nominum figurasque perspicerent, ita ut primum nomen sit
ipsum rei vocabulum: ut, verbi gratia, cum quaelibet res homo dicatur. Quod
autem ipsum vocabulum, id est homo, nomen vocatur, non ad significationem
nominis ipsius refertur sed ad figuram, idcirco quod possit casibus inflecti.
Ergo prima positio nominis secundum significationem vocabuli facta est, secunda
vero secundum figuram: et est prima positio, ut nomina rebus imponerentur,
secunda vero ut aliis nominibus ipsa nomina designarentur. Nam cum homo
vocabulum sit subiectae substantiae, id quod dicitur homo, nomen est hominis,
quod ipsius nominis appellatio est. Dicimus enim, Quale vocabulum est homo? et
proprie respondetur: nomen. In hoc igitur opere haec intentio est de primis
rerum nominibus et de vocibus res significantibus disputare, non in eo quod
secundum aliquam proprietatem figuramque formantur sed in eo quod significantes
sunt. Nam quodcumque de substantia 159D vel facere vel pati dicitur, non ita
tractatur quasi unum eorum casibus inflecti possit, aliud vero temporibus
permutari sed quasi aut hominem, aut equum, aut individuum aliquod, aut speciem
genusue 160A significet. Est igitur huius operis intentione vocibus res
significantibus in eo quod significantes sunt pertractare. Haec quidem est
tempori introductionis, et simplicis expositionis apta sententia, quam nos nunc
Porphyrium sequentes, quod videbatur expeditior esse planiorque digessimus. Est
vero in mente de intentione, utilitate et ordine, tribus quaestionibus
disputare, videlicet in alio commentario quem componere proposui de eisdem
categoriis ad doctiores, quarum una est quid praedicamentorum velit intentio, ibique
numeratis diversorum sententiis, docebimus cui vostrum quoque accedat
arbitrium, quod nemo huic in praesentia sententiae repugnare miretur, cum
videat quanto illa sit altior cuius non nimium ingredientium mentes capaces
esse potuissent, ad quos mediocriter 160B imbuendos ista conscripsimus.
Afficiendi ergo, et quodammodo disponendi mediocri expositione sunt in ipsi
quasi disciplinae huius foribus, quos ad hanc paramus scientiam admittere. Hanc
igitur causam mutatae sententiae utriusque operis lector agnoscat, quod illic
ad scientiam Pythagoricam perfectamque doctrinam, hic ad simplices
introducendorum motus expositionis sit accommodata sententia. Sed nunc ad
propositum reuertamur, sitque in praesens praedicamentorum intentio, quae
superius est comprehensa, id est, de primis vocibus significantibus prima rerum
genera in eo quod significantes sunt disputare: et quoniam res infinitae sunt,
infinitas quoque voces quae significant eas esse necesse est: sed infinitorum
nulla cognitio est, infinita namque animo comprehendi 160C nequeunt. Quod autem
ratione mentis circumdari non potest, nullius scientiae fine concluditur, quare
infinitorum scientia nulla est: sed hic Aristoteles non de infinitis rerum
significationibus tractat sed decem praedicamenta constituens, ad quae ipsa
infinita multitudo significantium vocum referri debeat, terminavit: ut, verbi
gratia, cum dico homo, lignum, lapis, equus, animal, plumbum, stannum,
argentum, aurum, et alia huiusmodi quae nimirum infinitum sunt, haec omnia ad
unum substantiae vocabulum deducantur. Haec namque, etsi qua sunt alia quae
certae sunt infinita vocabula unum substantiae nomen includit. Rursus cum dico
bipedale, tripedale, sex, quattuor, decem, lineam superficiem, soliditatem, et
quaecumque alia ex eodem genere qua infinita 160D sunt, uno quantitas nomine
continentur, ut haec omnia sub quantitate ponantur. Rursus cum dico album, vel
scientiam, vel bonum, vel malum, vel alia huiusmodi, quaeque in hoc quoquo
genere infinita sunt, unum tamen nomen concludens omnia qualitatis occurrit, et
de aliis quoque similiter. Rerum ergo diversarum indeterminatam infinitamque
multitudinem, decem praedicamentorum paucissima numerositate concludit, ut ea
quae infinita sub scientiam cadere non poterant, decem propriis generibus definita
scientiae comprehensione claudantur. Ergo decem praedicamenta quae dicimus,
infinitarum in vocibus significationum genera sunt sed quoniam omnis vocum
significatio de rebus est, quae voce significantur in eo quod significantes
sunt, genera rerum necessario significabunt. Ut igitur concludenda sit
intentio, dicendum est in hoc libro de primis vocibus, prima rerum genera
significantibus in eo quod significantes sunt, dispositum esse tractatum. Sed
quoniam de intentione dictum est, breviter huius operis utilitas explicanda
est. Nam cum res infinitae infinitis quoque vocibus significarentur, et (ut
dictum est) sub scientiam venire non possent, hac definitione, qua decem
praedicamentorum divisio facta est, cunctarum rerum et vocum significantium
acquirimus disciplinam. Hinc est quod ad logicum tendentibus primus hic liber
legendus occurrit, idcirco quod cum omnis logica syllogismorum ratione sit
constituta syllogismi vero propositionibus iungantur, propositiones vero
sermonibus constent, prima est utilitas quid quisque sermo significet, propriae
scientiae definitione cognoscere. Haec quoque nobis de decem praedicamentis
inspectio, et in physica Aristotelis doctrina, et in moralis philosophiae 161C
cognitione perutilis est, quod per singula currentibus magis liquebit. Quocirca
de ordine quoque libri huius eadem ratio est. Nam quoniam res simplices
compositis natura priores sunt, quae enim composita sunt, ex simplicibus
componuntur. Hic quoniam de simplicibus vocibus res significentibus disputatur,
secundum ipsius simplicitatis principalem naturam, primus hic Aristotelis liber
inchoantibus addiscitur. Nec illud fere dubium est ad quam partem philosophiae
huius libri ducatur intentio, idcirco quoniam qui de significativis vocibus
tractat, de rebus quoque est aliquatenus tractaturus. Res etenim et rerum
significatio iuncta est sed principalior erit illa disputatio quae de
sermonibus est: secundo vero loco illa quae de rerum ratione formatur. Quare
quoniam omnis ars logica de oratione est, et in hoc opere de vocibus principaliter
tractatur (quamquam enim sit huius libri relatio ad caeteras quoque
philosophiae partes) principaliter tamen refertur ad logicam, de cuius
quodammodo simplicibus elementis, id est, de sermonibus in eo principaliter
disputavi. Aristotelis vero neque ullius alterius liber est, idcirco quod in
omni philosophia sibi ipse de huius operis disputatione consentit, et brevitas
ipsa atque subtilitas ab Aristolele non discrepat, alioqui interruptum
imperfectumque opus edidisse videretur qui de syllogismis scriberet, si aut de
propositionibus praetermisisset, aut de primis vocibus tractatum, quibus ipsae
propositiones continentur, omitteret. Quanquam exstet 162A alter Aristotelis
liber de eisdem disputans, eadem fere continens, cum sit oratione diversus; sed
hic proprietatis liber calculum coepit. Archytes etiam duos composuit libros
quos *Kathulous logous* inscripsit, quorum in primo haec decem praedicamenta
disposuit. Unde posteriores quidam non esse Aristotelem huius divisionis
inventorem suspicati sunt, quod Pythagoricus vir eadem conscripsisset, in qua
sententia Iamblicus philosophus est non ignobilis, cui non consentit
Themistius, neque concedit eum fuisse Archytem, qui Pythagoricus Tarentinusque
esset, quique cum Platone aliquantulum vixisset sed peripateticum aliquem
Architem, qui nouo operi auctoritatem uetustate nominis conderet. Sed de his
alias. Restat inscriptio quae varia fuit. Inscripsere namque 162B alii de
rebus, alii de generibus rerum, quos eadem similisque culpa confudit. Namque
(ut docuimus) non de rerum generibus, neque de rebus sed de sermonibus rerum
genera significantibus in hoc opere tractatus habetur, hoc vero Aristoteles
ipse declarat cum dicit: Eorum quae secundum nullam complexionem dicuntur,
singulum aut substantiam significat, aut quantitatem. Quod si de rebus
divisionem faceret, non dixisset "significat"; res enim significatur,
non ipsa significat. Illud quoque maximo argumento est Aristotelem non de rebus
sed de sermonibus res significantibus speculari, quod ait: Singulum igitur eorum
quae dicta sunt, ipsum quidem secundum se in nulla affirmatione dicitur, horum
autem ad se invicem complexione affirmatio fit. Res enim si iungantur,
affirmationem 162C nullo modo perficiunt, affirmatio namque in oratione est.
Quocirca si praedicamenta iuncta faciunt affirmationem (affirmatio vero nonnisi
in oratione est, quae autem iunguntur ut affirmatio fiat, hae sunt rerum
significantes voces) praedicamentorum tractatus non de rebus sed de vocibus
est; male igitur vel de rebus vel rerum generibus inscripserunt. Annotant alii
hunc librum legendum ante Topica, quod nimis absurdum est. Cur enim non magis
ante Physica? Quasi vero minor huius sit libri usus in Physicis, cum primi
Resolutorii ante Topica legantur, et ante primos Resolutorios Perihermenias liber
ad cognitionem veniat inchoantis, cur non magis hunc librum vel ante
Perihermenias, vel ante Resolutorios inscripserunt? Quare repudianda est
inscriptionis istius quoque ipsa sententia, dicendumque est: Quoniam rerum
prima decem genera sunt, necesse fuit decem quoque esse simplices voces, quae
de subiectis rebus dicerentur: omne enim quod significat de illa re dicitur
quam significat, ergo inscribendus liber est de decem Praedicamentis. Sed forte
quis dicat, si de significantibus rerum vocibus ipsa disputatio est, cur de
ipsis disputat rebus? Dicendum est, quoniam res semper cum propria
significatione coniunctae sunt, et quidquid in res venit, hoc quidem in rerum
vocabulis invenitur: quare recte de vocabulis disputans, proprietatem
significantium vocum de his quae significabantur, id est de rebus assumpsit. Erit
alia quoque fortasse quaestio: Cur enim hic orationem in 163A decem
praedicamenta sit partitus, in Perihermenias libro in duas tantum partes
divisionem fecit, in verbum videlicet et nomen? Sed hoc interest quod illic
figuras vocabulorum dividit, in hoc de significationibus tractat, quare non est
sibi ipse contrarius. In Perihermenias enim libro de nomine et verbo considerat
quae secundum figuram quamdam vocabuli sunt, quod illud inflecti casibus potest,
illud variari per tempora: hic vero non secundum has figuras sed in eo quod
voces significantes sunt disputatur: quare diversam in diversis rebus atque
tractatibus faciendo divisionem, nulla contrarietate notabitur, neque nunc
orationem dividit sed ad multitudinem generum nomina ipsa dispertit: nam
quoniam decem rerum genera sunt non secundum orationem sed secundum rerum
significationem in decem praedicamenta voces dividit, deque his tractat. Atque
ideo necesse fuit quodammodo disputationem de rebus quoque misceri, ita (ut
dictum est) ut non aliter nisi ex rebus proprietates in sermonibus apparerent,
atque ita non de rebus proprie sed de praedicamentis, id est de ipsis rerum
significativis vocibus in eo quod significantes sunt, seriem disputationis orditur.
Cur autem, si de praedicamentis disputat, de aequivocis, vel univocis, vel
denominativis primus illi tractatus est? Idcirco nimirum quod quaedam semper a
disputantibus praemittuntur, quibus positis facilior de sequentibus possit esse
doctrina: ut in geometria, prius termini praeponuntur, post theorematum ordo
conteritur. Ita quoque hic quidquid ad praedicamentorum disputationem possit
esse utile, priusquam ad ipsa predicamenta veniret, exposuit: quare quoniam
quae praedicenda erant explicavi, nunc ad ipsius disputationis seriem textumque
veniamus. Quid autem aequivoca vel univoca vel denominativa utilitatis habeant,
secundum ipsas singulorum rationes definitionesque tractabitur. DE AEQUIVOCIS AEQUIVOCA
DICUNTUR QUORUM NOMEN SOLUM COMMUNE EST, SECUNDUM NOMEN VERO SUBSTANTIAE RATIO
DIVERSA, UT ANIMAL HOMO ET QUOD PINGITUR. HORUM ENIM SOLUM NOMEN COMMUNE EST,
SECUNDUM NOMEN VERO SUBSTANTIAE RATIO DIVERSA; SI ENIM QUIS ASSIGNET QUID EST
UTRIQUE EORUM QUO SINT ANIMALIA, PROPRIAM ASSIGNABIT UTRIUSQUE RATIONEM. Omnis
res aut nomine aut definitione monstratur: 163D namque subiectam rem aut
proprio nomine vocamus aut definitione quid sit ostendimus. Ut verbi gratia
quamdam substantiam vocamus hominis nomine, et eiusdem definitionem damus
dicentes esse hominem animal rationale mortale; ergo quoniam res omnis aut
definitione aut nomine declaratur, ex his duobus, nomine scilicet et
definitione, diversitates quattuor procreantur. Omnes namque res aut eodem
nomine et eadem definitione iunguntur, ut homo et animal, utraque enim animalia
dici possunt, et utraque una definitione iunguntur. Est namque animal
substantia animata sensibilis, et homo rursus substantia animata sensibilis, et
haec vocantur univoca. Alia vero 164A quae neque nominibus neque definitionibus
coniunguntur: ut ignis, lapis, color, et quae propriae substantiae natura
discreta sunt, haec autem vocantur diversivoca. Alia vero quae diversis
nominibus nuncupantur, et uni definitioni designationique subduatur, ut
gladius, ensis; haec enim multa sunt nomina sed id quod significant una
definitione declaratur, et hoc vocatur multivocum. Alia vero quae nomine quidem
congruunt, definitionibus discrepant: ut est homo vivens et homo pictus, nam
utrumque vel animalia vel homines nuncupantur. Si vero quis velit picturam
hominemque definire, diversas utrisque definitiones aptabit, et haec vocantur
aequivoca. Quare quoniam quid sint aequivoca dictum est, singulis Aristotelicae
definitionis sententias persequamur. AEQUIVOCA, inquit, dicitur res scilicet,
quae per se ipsas aequivocae non sunt, nisi uno nomine praedicentur: quare
quoniam ut aequivoca sint, ex communi vocabulo trahunt, recte ait, aequivoca
dicuntur. Non enim sunt aequivoca sed dicuntur. Fit autem non solum in
nominibus sed etiam in verbis aequivocatio: ut cum dico complector te, et
complector a te. In quibus significationibus cum unum nomen sit complector,
alia tamen faciendi ratio est, alia patiendi: atque ideo hic quoque
aequivocatio est: unum enim nomen quod est complector, diversis faciendi et
patiendi definitionibus terminatur. In praepositionibus quoque et in
coniunctionibus frequenter aequivocatio reperitur, atque ideo quod ait: QUORUM
NOMEN SOLUM COMMUNE EST, 'nomen' accipiendum 164C est omnis rerum per vocem
significatio, id est omne vocabulum non proprium solum, aut appellativum, quod
ab illud tantum nomen pertinet quod casibus inflecti potest sed ad nomen rerum
significationem, qua rebus imposita vocabula praedicamus. SOLUM autem duobus
modis dicitur: semel cum aliquid unum esse dicimus, ut si dicamus solus est
mundus, id est unus; alio vero modo cum dicimus ad quamdam ab altero
divisionem, ut si quis dicat solam me habere tunicam, id est, non etiam togam,
ad divisionem videlicet togae. Hic ergo Aristoteles posuit dicens, SOLUM NOMEN
COMMUNE EST, quasi hoc voluisset intelligi non etiam definitio, aequivoca enim
iunguntur nomine sed definitione dissentiunt. COMMUNE quoque multis dicitur
modis. Dicitur commune quod in partes dividitur, et non iam totum commune 164D
est sed partes eius propriae singularum, ut domus. Dicitur commune quod id
partes non dividitur sed vicissim in usus habentium transit, ut seruus communis
vel equus. Dicitur etiam commune quod utendo cuiusque fit proprium, post usum
vero in commune remittitur, ut est theatrum, nam cum eo utor, meum est, cum
inde discedo, in commune remisi. Dicitur quoque commune quod ipsum quidem
nullis divisum partibus, totum uno tempore in singulos venit, ut vox vel sermo
ad multorum aures uno eodemque tempore totus atque integer pervenit. Secundum
hanc igitur ultimam communis significationem Aristoteles putat aequivocis rebus
commune esse vocabulum. 165A Namque in homine picto et in homine vivo, totum in
utrisque vocabulum dicitur animalis. SECUNDUM NOMEN VERO SUBSTANTIAE RATIO
DIVERSA, hoc hac significatione praemittit, ut si aliter reddantur definitiones
quam secundum nomen, statim tota definitio labet ac titubet. Ac primum de
definitionis proprietate dicendum est. Illae enim certae definitiones sunt quae
convertuntur, ut si dicas, Quid est homo? animal rationale mortale -- verum
est. Quid est animal rationale mortale? homo -- hoc quoque verum est. At vero
si ita quis dicat, Quid est homo? substantia animata sensibilis -- verum est;
quid substantia animata sensibilis? homo -- hoc non modis omnibus verum est, idcirco
quod equus quoque est substantia animata sensibilis sed homo non est. Ergo
illas constat esse definitiones integras quae converti possunt. Sed hoc fit in
iis quae non de communi sed uno tantum, ut cum de hominis nomine redduntur,
verbi gratia: Animal est commune nomen, si dixerit quis, Homo est substantia
animata sensibilis, procedit: si non convertatur, quia de communi nomine
reddita est definitio; sin vero de uno nomine redditur, tunc de ipso nomine
facienda est definitio; sic tamen est recta facienda, ut hominis definitio sit
animal rationale mortale, non substantia animata sensibilis, illa enim secundum
hominis nomen, ista secundum animalis est reddita. Idem etiam in his nominibus
quae de duabus rebus communiter praedicantur, si secundum nomen substantiae
ratio non reddatur, potest aliquoties fieri, ut ex univocis aequivoca sint, et
ex aequivocis univoca; namque homo 165C atque equus cum secundum nomen animalis
univoca sint, possunt esse aequivoca, si secundum nomen minime definita sunt.
Homo namque et equus communi nomine animalia nuncupatur, si quis ergo hominis
reddat definitionem dicens, animal rationale mortale, et equi, animal
irrationale hinnibile, diversas reddidit definitiones, et erunt res univocae in
aequivocas permutatae. Hoc autem idcirco evenit, quod definitiones non secundum
animalis nomen redditae sunt, quod eorum commune vocabulum est sed secundum
hominis atque equi. Nam si secundum commune nomen quod est animal definitio
redderetur, ita fieret, homo est substantia animata sensibilis, secundum nomen
scilicet animalis; et rursus, equus est substantia animata sensibilis, secundum
nomen rursus animalis, secundum idem namque animalis vocabulum equus atque homo
univoce praedicantur. Rursus ex aequivocis univoca fiunt hoc modo si quis Pyrrhum
Achillis filium et Pyrrhum Epiroten dicat esse univocos, idcirco quod uno
nomine et Pyrrhi dicantur, et sint animalia rationabilia atque mortalia. Hic
secundum nomen hominis reddita definitio, ex aequivocis fecit univoca. Quod si
secundum nomen Pyrrhi definitionis ratio iungeretur vel a parentibus vel a
patria, diversis eos oporteret definitionibus terminari. Recte igitur additum
est, secundum nomen, idcirco quod si aliter facta sit definitio, stabilis esse
nou poterit, et frequenter diversos secum ducit errores. RATIO quoque multimodo
dicitur. Est enim ratio animae, et est ratio computandi, est ratio natura, ipsa
nimirum similitudo nascentium, est ratio qua in definitionibus vel
descriptionibus redditur. Et quoniam generalissima genera genere carent,
individua vero nulla substantiali differentia discrepant, definitio vero ex
genere et differentia trahitur, neque generalissimorum generum, neque
individuorum ulla potest definitio reperiri. Subalternorum vero generum,
quoniam et differentias habent et genera, definitiones esse possunt. At vero
quorum definitiones reddi nequeunt, illa tantum descriptionibus terminantur.
Descriptio autem est quae quamlibet rem propria quadam proprietate designat.
Sive ergo definitio sit sive descriptio, utraque 166B rationem substantiae
designat. Quare cum substantiae rationem dixit, et definitionis et
descriptionis nomen inclusit. Aequivocorum alia sunt casu, alia consilio. Casu,
ut Alexander Priami filius et Alexander Magnus. Casus enim id egit, ut idem
utrique nomen poneretur. Consilio vero, ea quaecumque hominum voluntate sunt
posita. Horum autem alia sunt secundum similitudinem, ut homo pictus et homo
verus quo nunc utitur Aristoteles exemplo: alia secundum proportionem, ut
principium est in numero unitas, in lineis punctus. Et haec aequivocatio
secundum proportionem esse dicitur. Alia vero sunt quae ab uno descendunt, ut
medicinale ferramentum; medicinale pigmentum, ab una enim medicina aequivocatio
ista descendit. Alia quae ad unum referuntur, ut si quis dicat salutaris
uectatio est, salutaris esca est, haec scilicet idcirco sunt aequivoca, quod ad
salutis unum vocabulum referuntur. Cur autem prius de aequivocis post de
univocis tractat? Idcirco quod ipsa decem praedicamenta cum definitionibus
diversa sint, uno praedicationis vocabulo nuncupantur; cuncta enim
praedicamenta dicimus, ipsa vero praedicamenta quoniam rerum genera sunt, de
subiectis rebus univoce praedicantur. Omne enim genus de speciebus propriis
univoce dicitur, quare rectius primo de omnibus praedicamentorum communi
vocabulo tractat, quasi dehinc quemadmodum singula de speciebus propriis
praedicarentur, exprimeret. At si (ut dictum est) non de rebus sed de nominibus
libri huius intentio est, cur de aequivocis et non de aequivocatione tractavit?
Aequivocae namque res sunt, aequivocatio vero vocabulum. Idcirco, quoniam ipsum
nomen nihil in se retinet aequivocationis, nisi diversae sint res de quibus
illud vocabulum praedicetur. Quare inde substantiam ipsa aequivocatio trahit, de
ipsis dignius inchoatum est. Videtur autem alius esse modus aequivocationis
quem Aristoteles omnino non recipit. Nam sicut dicitur pes hominis, ita quoque
dicitur pes navis, et pes montis, quae huiusmodi omnia secundum translationem
dicuntur. Translatio vero nullius proprietatis est. Quare secundum
translationem aequivoca nunquam sunt, nisi propriis et immutabilibus subiectae
res vocabulis appellentur. Est autem talis eorum universalis inspectio. Neque
enim omnis translatio ab aequivocatione seiungitur sed ea tantum cum ad res
habentes positum vocabulum, ab alia iam nominata re nomen ornatus causa
transfertur, ut quia iam dicitur quidam auriga, dicitur etiam gubernator, si
quis ornatus gratia cum qui gubernator est dicat aurigam, non erit auriga nomen
aequivocum, licet diversa, id est, moderatorem currus navisque significet. Sed
quoties res quidem vocabulo eget, ab alia vero re quae vocabulum sumit, tunc
ista translatio aequivocationis retinet proprietatem, ut ex homine vivo ad
picturam nomen hominis dictum est. Et de aequivocis hactenus; nunc de univocis
pertractemus. DE UNIVOCIS UNIVOCA VERO DICUNTUR QUORUM ET NOMEN COMMUNE EST ET
SECUNDUM NOMEN EADEM SUBSTANTIAE RATIO, UT ANIMAL HOMO ATQUE BOS. COMMUNI ENIM
NOMINE UTRIQUE ANIMALIA NUNCUPANTUR, ET EST RATIO SUBSTANTIAE EADEM; SI QUIS
ENIM ASSIGNET UTRIUSQUE RATIONEM, QUID UTRIQUE SIT QUO SINT ANIMALIA, EANDEM
ASSIGNABIT RATIONEM. Post aequivocorum definitionem ad univocorum terminum
transitum fecit, in quibus nihil aliud discrepat, nisi quod aequivoca
definitione disiuncta sunt, univoca ipso quoque termino coniunguntur sed
caetera omnia quaecumque in aequivocorum definitione dicta sunt, in hac quoque
univocorum designatione conveniant. Nam quemadmodum in aequivocis secundum
nomen aequivocarum rerum definitio fiebat, ita quoque in univocis secundum
nomen substantiae ratio assignabitur. Sunt autem univoca aut genera speciebus, aut
species speciebus, genera speciebus, ut animal atque homo. Nam cum hominis
genus sit animal, dicitur homo animal, ergo et animal et homo animalia
nuncupantur. Secundum igitur commune nomen si utrosque definias, dicis animal
esse substantiam animatam atque sensibilem, hominem quoque secundum id quod
animal est, si substantiam animatam sensibilem dixeris, nihil in eo falsitatis
invenies. Species vero speciebus univocae sunt, quae uno atque eodem genere
continentur, ut homo, equus atque bos, his commune genus est animal, et communi
nomine animalia nominantur. Ergo secundum nomen unum quod illis commune est
animalis, una illius ratio definitionis aptabitur, omnia enim sunt substantiae
animatae atque sensibiles. Secundum igitur posteriorem univocationis designationem
Aristoteles qua speciebus species univocae sunt, ut homo et bos, quae sub eodem
sunt genere, sumpsit exemplum. DENOMINATIVA VERO DICUNTUR QUAECUMQUE AB ALIQUO,
SOLO DIFFERENTIA CASU, SECUNDUM NOMEN HABENT APPELLATIONEM, UT A GRAMMATICA
GRAMMATICUS ET A FORTITUDINE FORTIS. Haec quoque definitio nihil habet
obscurum. Casus enim antiqui nominabant aliquas nominum transfigurationes, ut a
iustitia iustus, a fortitudine fortis, etc. Haec igitur nominis transfiguratio,
casus ab antiquioribus vocabatur. Atque ideo quotiescumque aliqua res alia
participat, ipsa participatione sicut rem, ita quoque nomen adipiscitur, ut
quidam homo, quia iustitia participat et rem quoque inde trahit et nomen,
dicitur enim iustus. Ergo denominativa vocantur quaecumque a principali nomine
solo casu, id est sola transfiguratione discrepant. Nam cum sit nomen
principale iustitia, ab hoc transfiguratum nomen iustus efficitur. Ergo illa
sunt denominativa quaecumque a principali nomine solo casus id est sola nominis
discrepantia, secundum principale nomen habent appellationem. Tria sunt autem
necessaria ut denominativa vocabula constituantur: prius ut re participet, post
ut nomine, postremo ut sit quaedam nominis transfiguratio, ut cum aliquis
dicitur a fortitudine fortis, est enim quaedam fortitudo qua fortis ille
participet, habet quoque nominis participationem, fortis enim dicitur. At vero
est quaedam transfiguratio, fortis enim et fortitudo non eisdem syllabis
terminantur. Si quid vero sit quod re non participet, neque nomine participare
potest. Quare quaecumque re non participant, denominativa esse non possunt. Rursus
quoque quae re quidem participant, nomine vero minime, ipsa quoque a denominativorum
natura discreta sunt, ut si quis, cum sit virtus, virtute ipsa participet,
nullo cum alio nomine nisi sapientem vocamus. Sed virtus et sapientia nomine
ipso disiuncta sunt, hic ergo re quidem participat, nomine vero minime. Quare
sapiens a virtute denominatus esse non dicitur sed a sapientia, qua scilicet et
participat, et nomine iungitur, et transfiguratione diversus est; rursus si
transfiguratio non 168C sit, ut quaedam mulier musica, participat quidem ipsa
musicae disciplina, et dicitur musica. Hae igitur appellatio non est
denominativa sed aequivoca, uno enim nomine et disciplina et ipsa mulier musica
dicitur. Quoniam ergo similis terminus syllabarum est, et nomen simile, et
nulla transfiguratio, denominativa esse non poterunt, quare quidquid denominativa
esse non poterunt, quare quidquid denominativum esse dicitur, illud et re
participabit et nomine, et aliqua transfiguratione vocabuli discrepabit. Haec
igitur quae ad praedicamenta necessaria credidit, praemisit. Multivoca vero et
diversivoca respuit, quod ad praesentem tractatum utilia non putavit. Breviter
tamen utraque definienda sunt. Multivoca sunt quorum plura nomina una definitio
est, ut est scutum, clypeus: his enim plura nomina sed una definitio est; et
Marcus Porcius Cato, his enim tot nominibus res una subiecta est. Diversifica
sunt quorum neque nomen idem est, neque eadem definitio, ut homo, color, et
quid. quid omnino a se et nominis nuncupatione et definitionis ratione
discretum est. EORUM QUAE DICUNTUR ALIA QUIDEM SECUNDUM COMPLEXIONEM DICUNTUR,
ALIA VERO SINE COMPLEXIONE. ET EA QUAE SECUNDUM COMPLEXIONEM DICUNTUR SUNT UT
HOMO CURRIT, HOMO VINCIT; EA VERO QUAE SINE COMPLEXIONE, UT HOMO, BOS, CURRIT,
VINCIT. Postquam de coniunctione definitionum atque nominum quantum ad praesens
attinebat opus, sufficienter exposuit quoniam de primis nominibus prima rerum
genera significantibus divisio facienda est, non nomine sed genere
discrepantibus, nunc ostendit quid sit sine complexione cuiuslibet vocabuli
facta prolatio. Sine complexione enim dicuntur quaecumque secundum simplicem
sonum nominis proferuntur, ut homo, equus: his enim extra nihil adiunctum est.
Secundum complexionem dicuntur quaecumque aliqua coniunctione copulantur, ut
aut Socrates aut Plato, vel quaecumque secundum aliquod accidens coniunguntur.
Nam quia, verbi gratia, in Socratem venit ambulatio, dicimus: Socrates ambulat,
et est prolatio ista secundum complexionem, idcirco quia cum dico: Socrates
ambulat. Socratem sum cum ambulatione complexus. Quod autem ait: EORUM QUAE
DICUNTUR, nihil aliud demonstrare vult nisi de primis rerum vocabulis huius
libelli disposuisse tractatum. Rerum enim vocabula sunt quae dicuntur, ipsa enim
proprie nominamus. EORUM QUAE SUNT ALIA DE SUBIECTO QUODAM DICUNTUR, IN
SUBIECTO VERO NULLO SUNT, UT HOMO DE SUBIECTO QUIDEM DICITUR ALIQUO HOMINE, IN
SUBIECTO VERO NULLO EST. Hic Aristoteles sermonum omnium multitudinem in
paruissimam colligit divisionem. Nam quod rerum vocabulam decem praedicamenta
distribuit, maior hac divisione non potest inveniri, nihil enim esse poterit
quod huic divisioni undecimum adiici queat. Omnis enim res aut substantia est,
aut quantitas, aut qualitas, aut ad aliquid, aut facere, aut pati, aut quando, aut
ubi, aut habere, aut situs; quocirca tot erunt etiam sermones qui ista
significent, et haec est maxima divisio, cui ultra nihil possit adiungi:
paruissima vero est quae fit in quattuor, in substantiam et accidens, et
universale et particulare. Omnis enim res aut substantia est, aut accidens, aut
universalis, aut particularis. Sicut ergo decem superioribus nihil addi
poterat, ita ex his quattuor nihil demi. Nam neque minor ulla divisio his
quattuor fieri potest, nec maior quam si denario limite praedicamenta
claudantur. Cum autem in his quattuor divisio facta est, paucis exponam. Prima
quidem rerum est omnium divisio in substantiam atque accidens. Sed quoniam
substantia proferri non potest nisi aut universaliter aut particulariter
intelligatur: nam cum dico homo, rem dixi universalem, idcirco quod nomen hoc
de multis individuis praedicatur: cum vero dico Socrates vel Plato, rem dixi
particularem; quoniam Socrates de nudo subiecto dicitur: et accidens quoque
eodem modo; nam cum dixero scientiam, rem protuli universalem, idcirco quod
scientia et de grammatica et de rhetorica, et de aliis omnibus sub se positis
praedicatur; si vero dixero Platonis scientiam, quoniam omne accidens quod
individua venit individuum fit, particularem scientiam dico, namque Platonis
scientia, sicut ipse Plato, particularis est: igitur quoniam neque substantia
neque accidens ullo modo proferri potest, nisi in suo nomine aut
universalitatis vim, aut particularitatis induat, recte in quattuor divisio facta
est, ut si omnis res aut substantia aut accidens, et horum aut universali, aut
particularis. Ex his igitur quattuor fiunt complexiones. Nam cum venerit
universalitas in substantiam, fit universalis substantia, ut est homo vel
animal. Universale autem est quod aptum est de pluribus praedicari, particulare
vero quod de nullo subiecto praedicatur. Ergo est una complexio universalitatis
et substantiae, ut sit substantia universalis. Si vero particularis substantiae
copulatur, fit substantia particularis, ut est Socrates vel Plato, et quidquid
in substantia individuum reperitur. At cum miscetur universalitas accidenti,
fit accidens universale, ut scientia, quae cum sit accidens, et praeter animam
cui accidit esse non possit, tamen universalis est, quod de subiecta grammatica
vel aliis speciebus praedicari potest. Cum vero particularitas accidenti
coniungitur, fit accidens particulare, ut Platonis vel Aristotelis scientia.
Fiunt enim quattuor complexiones, substantia universalis, substantia
particularis, accidens universale, accidens particulare. Ut autem accidens in
substantiae naturam transeat, vel substantia in accidens, fieri nullo modo
potest, et accidens quidem venit in substantiam sed non ut substantia fiat:
neque enim quoniam color, quod est accidens venit in substantiam, idcirco color
iam substantia est. Nec quoniam substantia suscipit colorem idcirco color iam
substantia fit. Quare neque substantia in accidentis, neque accidens in
substantiis naturam transit. At vero nec particularitas, nec universalitas in
se transeunt. Namque universalitas potest de particularitate praedicari, ut
animal de Socrate vel Platone, et particularitas suscipiet universalitatis
praedicationem sed non ut universalitas sit particularitas, nec rursus ut quod
particulare est universalitas fiat. Ergo quattuor complexiones, universalem
substantiam, universale accidens, particularem substantiam, particulare
accidens Aristoteles disponere cupiens, non eorum nomina sed descriptiones
apposuit. Et quoniam generalissimorum generum definitiones non poterat
invenire, descriptionibus usus est his, id substantiam esse dicens quod in
subiecto non esset, accidens vero quod in subiecto esset. Omne namque accidens
in subiecto est, ut colore in corpore, scientia in anima, et subiectam habet substantiam
omne accidens. Si quis enim substantiam tollat, accidens non erit. Quare
substantia locus quidam est ubi accidentis valeat natura consistere. Ipsa vero
substantia per se constat, atque ideo dicitur substantia, nec ullo subiecto
alio nititur sed cunctis ipsa substantia est. Alioqui si substantia in ullo
subiecto esse posset, esset accidens. Omne enim accidens in subiecto est, et
quidquid in subiecto est, illud est accidens. Quod si substantia esset in
aliquo subiecto, continuo fieret accidens sed substantia accidens esse non
potest, sicut supra docuimus. Quare quoniam accidens in subiecto est,
substantia vero accidens non est, substantia in subiecto non est. Universalitatis
vero descriptio est: de subiecto praedicari. Omnis namque universalitas de
subiectis particularibus praedicatur, nam quoniam universale est animal, vel
homo, de Socrates praedicatur et Platone. Dicitur enim Socrates animal atque
homo. Et quoniam universale est accidens scientia, dicitur de subiecta
grammatica, grammatica enim scientia est. Particularitas vero quoniam ipsa est
rerum ultima et nihil est illi subiectum, de nullo subiecto praedicatur; nam quoniam
universalitas de subiecto praedicatur, particularitas vero universalitas non
est. Particularitas de subiecto non praedicabitur. Ubi enim res discrepant, et
definitio discrepabit; ita quoque in his, nam quoniam discrepat substantia et
accidens, definitiones quoque eorum discrepabunt. Ut quoniam est accidens in
subiecto, erit substantia non in subiecto. Et quoniam universalitas de subiecto
predicatur, particularitas autem ab universalitate discrepat, de subiecto non
praedicatur. Has igitur huiusmodi descriptiones Aristoteles ita permiscuit
dicens: EORUM QUAE SUNT ALIA DE SUBIECTO QUODAM DICUNTUR, IN SUBIECTO VERO
NULLO SUNT, volens scilicet universalem substantiam demonstrare. Nam quod dixit
DE SUBIECTO DICUNTUR, universale est, quod vero ait IN SUBIECTO NULLO SUNT,
substantia: ergo quod ait quaedam DE SUBIECTO dici, IN SUBIECTO VERO NULLO
esse, universalem substantiam demonstrare contendit: ut enim saepius dictum
est, quod de subiecto dicitur, universale est; quod in nullo subiecto est,
substantia. Haec iuncta, id est de subiecto quodam dici, et in subiecto nullo
esse, universalem substantiam demonstrant. Post universalem substantiam particulare
accidens posuit dicens:ALIA AUTEM IN SUBIECTO QUIDEM SUNT, DE SUBIECTO VERO
NULLO DICUNTUR (IN SUBIECTO AUTEM ESSE DICO QUOD, CUM IN ALIQUO SIT NON SICUT
QUAEDAM PARS, IMPOSSIBILE EST ESSE SINE EO IN QUO EST), UT QUAEDAM GRAMMATICA
IN SUBIECTO QUIDEM EST IN ANIMA, DE SUBIECTO VERO NULLO DICITUR, ET QUODDAM
ALBUM IN SUBIECTO EST IN CORPORE (OMNIS ENIM COLOR IN CORPORE EST). Nam quod
ait IN SUBIECTO SUNT accidens monstrat, quod vero addidit DE SUBIECTO AUTEM
NULLO DICUNTUR particulare. Accidens enim in subiecto est, particularitas de
nullo subiecto praedicatur. Ergo quaecumque res ipsa quidem in subiecto est sed
si de nullo subiecto praedicatur, accidens est particulare, UT est QUAEDAM
GRAMMATICA, id est Aristarchi, vel alicuius hominis individua grammatica: illa
enim quoniam individui hominis, ipsa quoque facta est individua et
particularis; ergo quoniam QUAEDAM GRAMMATICA IN ANIMA EST accidens est, et
quoniam DE NULLO SUBIECTO praedicatur, particularis est; quemadmodum enim ipse
Aristarchus de nullo subiecto dicitur, ita quoque eius grammatica de nullo
subiecto praedicatur. Non autem dicit quod ipsa grammatica particularis est sed
quod quaedam grammatica, id est alicuius hominis individui grammatica, quam
scilicet homo particularis propria retinet cognitione. Et quoniam incorporale
accidens posuit quod animae accideret, id est grammaticam, quae esset in anima;
ponit quoque aliud exemplum corporale; ait enim ET QUODDAM ALBUM IN SUBIECTO
EST <IN> CORPORE (OMNIS ENIM COLOR EST IN CORPORE): hic quoque non omne
album dicit esse particulare sed quod ad individuum corpus album venit.
Probatur quoque particulare album in subiecto esse hoc modo, nam color quod
genus est albi vel cuiusdam albi in corpore est, et est in subiecto. Quare
cuius genus in subiecto est, ipsum quoque in subiecto est. Omnes enim species
vel individua propria genere continentur, et eiusdem habent naturam. Quoniam
vero "esse in aliquo" multis dicitur modis, qui velit Aristoteles
ostendere esse in subiecto, paucis absolvam. Dicitur enim esse aliquid in
aliquo novem modis, dicimus enim esse aliquid in loco, ut in foro vel in
theatro. Dicimus quoque esse in aliquo, ut in aliquo uase, ut triticum in
modio. Dicitur etiam esse in aliquo velut pars in toto, ut manus in corpore.
Dicitur esse in aliquo velut totum in partibus, ut corpus in omnibus suis
partibus. Rursus velut in genere species, ut in animali homo, vel genus in
speciebus suis. Dicimus quoque esse in aliquo, velut aliquid in fine esse, ut
quoniam bonae vitae finis beatitudo est, si 172C quis sit beatus; in fine est,
scilicet bonae vitae. Dicimus quoque esse in aliquo ut in quolibet potente, ut
in imperatore esse regimen civitatis. Dicimus quoque velut formam in materia,
ut similitudinem Achillis in aere vel in marmore. Novem igitur modis aliquid in
aliquo esse dicitur, ut in loco, ut in uase, ut pars in toto, ut totum in
partibus, ut in genere species, ut in speciebus genus, ut in fine, ut in
imperatores, ut in materia forma. Horum igitur Aristoteles tria sola commemorat
sed duo in unum coniuncta, aliud separatum. Ait enim: IN SUBIECTO AUTEM ESSE
DICO QUOD, CUM IN ALIQUO SIT NON SICUT QUAEDAM PARS, IMPOSSIBILE EST ESSE SINE
EO IN QUO EST. Sensus autem talis est: Hoc, inquit, dico esse accidens quod sit
in subiecto, id est quod ita sit in altero, ut pars eius 172D non sit et sine
aliquo subiecto esse non possit, ut, verbi gratia, color cum in corpore nulla pars
corporis est, et si color a corpore separatur, color nusquam est. Omnis enim
color in solo corpore est. Ergo illud est accidens quod semper ita in subiecto
est altero ut eius pars non sit, ut cum ab eo in quo est separatur ad nihilum
redigatur, ut per se sine alterius subiecto esse non possit. Quod autem ait ut
NON SIT SICUT ALIQUA PARS, ab ea scilicet significationem aliquo consistendi
dividere voluit, secundum quam partes in toto esse dicimus, non enim tale est
subiectum, ut eius accidens pars sit. Quod vero dicit IMPOSSIBILE EST ESSE SINE
EO IN QUO EST, ab ea scilicet significatione divisit, quae est esse aliquid in
uase 173A vel in loco; quod enim in uase vel in loco est a uase vel loco
poterit separari, ut triticum quod in modio est potest a modio segregari, et
homo a theatro discedere: accidens vero ab eo in quo est segregari non potest. Quare
solas tres posuit significationes, id est secundum quam in uase, vel in loco
dicitur esse, et secundum quam pars in toto est. Sed ut in uase et ut in loco
una sententia distribuit dicens IMPOSSIBILE EST ESSE SINE EO IN QUO EST. Sed
fortasse quis dicat non esse definitionem veram, illa esse in subiecto quae sic
sint in alio non ut sint partes, et sine eo in quo sint esse non possint,
Socrates enim vel homo quilibet cum accidens non sit, tamen semper in loco est
et sine loco esse non potest. Quibus respondendum est quod Socrates loca
poterit permutare, et esse praeter locum in quo fuit: et postremo si
intelligentia capiamus, per se subsistit, accidentia vero per se ipsa non
constant. Sed si quis quoque obiiciat posse locum accidentia permutare, malum
namque si in manu teneatur, manus mali odore completur, adeo odor quod est
accidens, in aliud subiectum transire potest. Sed non hoc ait Aristoteles,
quoniam mutare accidens locum non potest, nec ita dixit impossibile esse sine
eo in quo erat sed sine eo in quo est, hoc enim significat mutare quidem posse
locum sed sine aliquo subiecto non posse subsistere. Quare recta est atque
integra definitio eius quod in subiecto est, quod ita sint in altero non sicut
quaedam pars, et impossibile sit esse sine eo in quo est, secundum autem illam
significationem dictum 173C est secundum quam formam in materia esse dicimus.
Namque forma, si in materia sit, per seipsam nulla ratione consistit. Postquam
igitur particulare accidens quid esset ostendit dicens, quod in subiecto est et
de subiecto non praedicatur, et in subiecto consistentis rei definitionem
reddit dicens: QUOD CUM IN ALIQUO SIT NON SICUT QUAEDAM PARS, IMPOSSIBILE EST
ESSE SINE EO IN QUO EST. Ad universale accidens continenti disputatione reuertitur
quod definit hoc modo: ALIA VERO ET DE SUBIECTO DICUNTUR ET IN SUBIECTO SUNT,
UT SCIENTIA IN SUBIECTO QUIDEM EST IN ANIMA, DE SUBIECTO VERO DICITUR DE
GRAMMATICA; ALIA VERO NEQUE IN SUBIECTO SUNT NEQUE DE SUBIECTO DICUNTUR, UT
ALIQUIS HOMO VEL ALIQUIS EQUUS; NIHIL ENIM HORUM NEQUE IN SUBIECTO EST NEQUE DE
SUBIECTO DICITUR. Namque post eius rei quae in subiecto est definitionem, et
post particularis accidentis exempla, ad universale accidens transitum fecit,
inquiens alia esse quae in subiecto sint, et de subiecto praedicentur, quod
scilicet accidens universale significet: nam quoniam de subiecto dicitur,
universale est, quoniam in subiecto est, accidens; in subiecto ergo 173D esse, et
de subiecto praedicari, universale accidens monstrat. Huius quoque complexionis
convenientia proponit exempla: ait enim SCIENTIAM IN SUBIECTO ESSE IN ANIMA,
nam nisi anima sit in qua scit, scientia nulla est, idcirco quod scientia actus
est animae, nam ea quae sunt inanimata nihil sciunt. Hinc sequitur substantiae
particularis propositio, quam scilicet ita declarat, quod NEQUE IN SUBIECTO
sit, NEQUE DE SUBIECTO praedicetur, nam quod in subiecto non est, substantia
est, et quod de subiecto non praedicatur, particularitas. Utraque igitur res de
subiecto non praedicari, et in subiecto non esse, particularis est substantia. Res
igitur quattuor cum propria complexione non secundum propria nomina sed
secundum 174A proprias rationes definitionesque contexuit. Nam pro substantia
universali posuit quod in subiecto non est et de subiecto praedicatur; pro
accidenti particulari dixit quod in subiecto est et de subiecto non
praedicatur. Accidens vero universale per hoc designavit quod ait quod et in
subiecto est et de subiecto dicitur; pro particulari substantia interposuit
quod nec in subiecto est nec de subiecto praedicatur. Simpliciter autem quae
sunt individua et numero singularia de subiecto nullo dicuntur; in subiecto
autem nihil ea prohibet esse, quaedam enim grammatica in subiecto est. Omnis
particularitas aut substantia erit aut accidens; nam cum dico Socratem,
individuam et particulare in significavi substantiam; cum dico quamdam
grammaticam, individuum 174B et particulare accidens dixi. Individua autem sunt
quae neque in alias species dividi possunt, neque in alia individua. Nam
quemadmodum animal dividitur in species, hominem atque equum, homo autem in
singulos homines, id est in Socratem et Platonem et caeteros, sic Plato et
Socrates non dividuntur in alios. Atque hoc idem de accidentibus dici convenit:
nam quemadmodum scientia dividitur in species, grammaticam et rhetoricam;
grammatica vero ipsa in particulares grammaticas, quas scilicet particulares
homines norunt, sic ipsa particularis grammatica in particulares grammaticas
non secatur. Ergo individua sunt quaecumque sunt numero singularia, et in
nullas alias multitudines secundum species vel secundum individua dividuntur.
174C Omne individuum, quoniam particulare est, de subiecto non praedicatur;
omne autem quod de subiecto non praedicatur, aut substantia erit, ut Plato, aut
accidens, ut quaedam grammatica. Ex his ergo particularibus substantia scilicet
atque accidenti quae de subiecto non praedicantur, substantia quidem nec in
subiecto est, accidens vero in subiecto est. Ita illa individua quae
substantiae sunt in subiecto esse non poterunt, alia vero individua quae
secundum accidentis naturam dicuntur, illa in subiecto esse nihil prohibet.
Atque hoc est quod ait: SIMPLICITER AUTEM QUAE SUNT INDIVIDUA ET NUMERO
SINGULARIA NULLO DE SUBIECTO DICUNTUR, IN SUBIECTO AUTEM NIHIL EA PROHIBET
ESSE; QUAEDAM ENIM GRAMMATICA IN SUBIECTO EST. Hoc enim maluit demonstrare, et
accidentibus substantiis particularibus hoc esse commune, quod de subiecto non
praedicantur. Hoc enim dixit: SIMPLICITER AUTEM QUAE SUNT INDIVIDUA ET NUMERO
SINGULARIA, DE NULLO SUBIECTO DICUNTUR -- subaudiendo scilicet sive substantiae
sint sive accidentia sed non omnia individua non sunt in subiecto. Individua
enim accidentia IN SUBIECTO ESSE NIHIL PROHIBET. QUAEDAM ENIM GRAMMATICA, cum
sit individua et de subiecto non praedicetur, tamen IN SUBIECTO EST, id est in
anima. Sed ut congregatim dicatur, sensus huiusmodi est, omnia quidem
quaecumque sunt individua, de subiecto quidem nullo dicuntur sed non omnia non
sunt in subiecto. Nam cum particularis substantia in subiecto non sit, ut
Plato, particulare tamen accidens in subiecto est, ut quaedam grammatica in
anima. Illud quoque magna attentione notandum est, quis sit huius ordo
propositi. Nam cum sint quattuor complexiones, factae ex quattuor rebus, quarum
duae natura discrepant, ut substantia et accidens, duae quantitate, ut
particularitas et universalitas coniunctis compositisque his quattuor omnibus,
dissentientem lateribus dispositionem fecit. Posuit enim prius substantiam
universalem dicens, quod in subiecto non est et de subiecto dicitur. Post hanc
primam positionem totis discrepantem rebus, rem subdit, id est accidens
particulare, quod in subiecto esset, et de subiecto non praedicatur. Nam cum accidens
dixit, a substantia disgregavit, quod particulare addidit ab universali
disiunxit. Rursus ex alio latere disposuit in divisione accidens universale,
dicens quod in subiecto est, et de subiecto praedicatur; et ultimo substantiam
particularem contrariam superiori accidenti dixit, quod neque in subiecto est,
neque de subiecto praedicatur substantia, particularitem universalitati
accidentis opponens. Sed ut planius quod dicimus sit, figuram descriptionemque
subiecimus in qua superius latus substantia accidentique notavimus, reliquum
particularitatis et universalitatis titulo inscripsimus, Arisiotelicam
complexionem angulariter et per latera designantes. QUANDO ALTERUM DE ALTERO
PRAEDICATUR UT DE SUBIECTO, QUAECUMQUE DE EO QUOD PRAEDICATUR DICUNTUR, OMNIA
ETIAM DE SUBIECTO DICENTUR, UT HOMO DE QUODAM HOMINE PRAEDICATUR, ANIMAL VERO
DE HOMINE, ERGO ET DE QUODAM HOMINE ANIMAL PRAEDICABITUR; QUIDAM ENIM HOMO ET
HOMO EST ET ANIMAL. Cum superius de his quae in subiecto sunt (id est de
accidentibus) loqueretur, definitionem constitutae in subiecto rei, et praeter
subiectum nullo modo permanentis, in media tractatione disposuit, dicens illud
esse quod neque pars esset alicuius nec sine subiecto posset ullo modo
permanere. Patefacto igitur quid sit esse in subiecto, nunc quid sit praedicari
de subiecto declarat. Duobus enim modis praedicationes fiunt, uno secundum
accidens, alio de subiecto: de homine namque praedicatur album, dicitur enim
homo albus, rursus de eodem homine praedicatur animal, dicitur enim homo animal.
Sed illa prior praedicatio, quae est. Homo albus est secundum accidens est:
namque accidens quod est album de subiecto homine praedicatur sed non in eo
quod quid sit, nam cum album sit accidens, homo substantia, accidens de
substantia in eo quod quid sit praedicari non potest; ergo ista praedicatio
secundum accidens dicitur. De subiecto vero praedicari est, quoties altera res
de altera in ipsa substantia praedicatur, ut animal de homine; nam quoniam
animal et substantia est et genus hominis, idcirco in eo quod quid sit de
homine praedicatur. Quare illa sola de subiecto praedicari dicuntur quaecumque
in cuiuslibet rei substantia et in definitione ponuntur; ergo quotiescumque
huiusmodi fuerit praedicatio, ut ALTERUM DE ALTERO UT DE SUBIECTO PRAEDICETUR,
id est ut de eius substantia dicatur, ut animal de homine, hanc proprietatem evenire
necesse est, ut si DE EO QUOD PRAEDICATUR, quidpiam UT DE SUBIECTO, id est eius
substantia, praedicetur necessario idem hoc quod de praedicato dicitur, dicatur
etiam de praedicati subiecto, ut homo praedicatur quidem de Socrate in eo quod
quid sit. Interrogantibus enim quid sit Socrates "hominem"
respondemus. At vero de ipso homine in eo quod quid sit animal dicitur, in
substantia enim hominis animal praedicatur, atque ita fit ut animal quidem de
homine, homo vero de Socrate in eo quod quid sit ut de subiecto praedicentur.
Ergo quoniam ista consequentia, et animal de Socrate in eo quod quid sit
praedicabitur. Potest enim dici interrogantibus quid est Socrates
"animal". Ergo manifestum est quod si qua res de alia ut de subiecto
praedicetur, ut homo de Socrate, de eadem vero re quae praedicatur, de homine
scilicet, alia rursus superior ut de subiecto praedicetur, ut animal necesse
erit et hanc eamdem de subiecto eius de quo ipsum dicitur praedicari, ut animal
de Socrate, Socrates namque subiectus est homini, de quo animal praedicatur.
Ergo constat huiusmodi definitio quae dicit: quoties ALTERUM DE ALTERO
PRAEDICATUR UT DE SUBIECTO, si quid sit quod DE EO QUOD PRAEDICATUR in eo quod
quid sit dici possit, hoc idem ipsum de eo quod prius subiectum erat possit
praedicari. Sed fortasse quisquam dicat minime verum esse quod dictum est, nam
cum homo de Socrate praedicetur (Socrates enim homo est), de homine vero
species (homo enim species est), Socrates species esse non dicitur. Et rursus
cum animal de homine praedicetur, de animali vero genus (animal enim genus
est), homo generis vocabulo caret: non enim dicitur homo esse genus, homo enim
genus non est sed tantum species. His dicendum est quod minus adverterint illam
esse definitionem de subiecto praedicationis, quae in eo quod quid sit
unumquodque et in eius substantia praedicaretur, nunc autem species de homine
non in eo quod quid sit praedicatur. Neque enim si quis hominis definitionem reddat
speciem nominavit sed designativam nomen est tantum, utrum de pluribus speciei
differentibus praedicatur hoc nomen quod est homo, an certe tantum de solis
individuis. Nam quoniam de individuis solis homo praedicetur, idcirco species
dicitur, et quoniam de specie differentibus animal dicitur, idcirco animal
genus vocamus. Et sunt quodammodo nominum nomina. Quare neque genus de animali,
neque species de homine, in eo quod quid sit praedicatur sed tantum designant,
quomodo homo et animal de subiectis (ut dictum est) propriis praedicentur. Ergo
non est mirandum si ad eorum subiectum quae de subiecto dicuntur eius predicati
quod de subiecto non dicitur praedicatio perveniri non potest. DIVERSORUM
GENERUM ET NON SUBALTERNATIM POSITORUM DIVERSAE SECUNDUM SPECIEM ET
DIFFERENTIAE SUNT, UT ANIMALIS ET SCIENTIAE; ANIMALIS QUIDEM DIFFERENTIAE SUNT
UT GRESSIBILE ET VOLATILE ET BIPES, SCIENTIAE VERO NULLA HARUM EST; NEQUE ENIM
SCIENTIA AB SCIENTIA DIFFERT IN EO QUOD BIPES EST. Cum multis modis genus
dicatur, solum quod nunc tractari convenit assumamus. Dicitur enim genus quod
de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit praedicatur, ut animal
praedicatur de homine, et de equo, et de cane, et de bove, et de caeteris, quae
omnia specie ipsa a se discrete sunt. Species vero est quod de pluribus numero
differentibus in eo quod quid sit praedicatur, ut homo praedicatur de Catone,
Socrate, Platone, Virgilio, Cicerone, et de singulis hominibus, qui specie ipsa
non differunt sed tantum a se numero distant. Differentia vero est quae sub
eodem genere positas species propria qualitate disterminat, nam cum equus et
homo quantum ad genus unum sint (uterque enim animal est), differentia
rationalis et irrationalis utrosque disiungit ac discernit. 177C Qualitate enim
quadam rationabilitatis et irrationabilitatis uterque a propriae substantiae
definitione dissentiunt. Ergo differentia est quae de pluribus specie
differentibus in eo quod quale sit praedicatur. Namque haec ipsa differentia
quae est irrationabilitas de multis specie differentibus praedicatur, ut de
cygno, et equo, et pisce, quae omnia a se cum specie ipsa dissentient,
irrationabilitatis tamen qualitate coniuncta sunt. Sed non in omnibus
differentia de pluribus specie differentibus praedicatur. Sunt enim quaedam
quae non nisi de una specie praedicantur, ut gravitas de sola terra, levitas de
solo igne, proprie dicitur. At vero nec species semper de pluribus numero
differentibus praedicatur; mundi enim species de uno solo mundo dicitur, et
phoenicis species de una tantum phoenice sed idcirco ita definita est quod
frequentius differentia de pluribus specie differentibus praedicatur quam de
uno. Eodemque modo et species frequentius invenitur de pluribus numero
differentibus praedicari, quam de una tantum re ac singulari. His ita positis,
sunt quaedam genera, quae generalissima nuncupantur, quibus genus inveniri non
possit, sunt species quibus alias subiectas species nullus inveniet. Inter
utraque autem sunt alia quae subalterna genera nominantur, quae superiorum
quidem species sunt, posteriorum vero genera ut substantia genus quidem est
generalissimum, ut eius genus inveniri non possit, homo vero species est, ut
eius species alia reperiri non valeat. Animal vero ad 178A substantiam quidem
species est, ad hominem vero genus. Decem igitur praedicamentorum significatio
nihil aliud demonstrat nisi rerum decem genera quae generalissima nominamus.
Ergo quoties genera generalissima discrepant, eorum quoque species
discrepabunt; et quoties species discrepant, quoniam differentiis disiunguntur
atque informantur, differentiae quoque diversarum specierum discrepabunt.
Animal namque et scientia, quoniam est animal substantia, scientia vero ad
aliquid, quoniamque genus animalis est substantia, et genus scientiae est ad
aliquid, omni substantiae a se ratione discreta sunt, et differentiae quoque
scientiae atque animalis omnibus qualitatibus disiunguntur. Est namque
differentia animalis, bipes et quadrupes, animal enim ab alio animali differt, quod
hoc quidem bipes sit, ut homo vel avis, illud vero quadrupes, ut equus atque
bos; illud vero multipes, ut formica vel apis. Sed scientia differentiis
huiusmodi non habet, neque enim scientia a scientia differt in eo quod bipes
est. Quare constat quoties diversa sunt genera, specierum quoque differentiis
esse discretas. At hoc est quod ait: DIVERSORUM GENERUM ET NON SUBALTERNATIM
POSITORUM DIVERSAE SECUNDUM SPECIEM ET DIFFERENTIAE SUNT. Et hoc exempli
adiectione firmavit dicens: ANIMALIS ET SCIENTIAE diversas esse differentias,
nam cum sit bipes animalis differentia, scientiae non est. Et hoc quidem de
diversis generibus dictum est, id est quae subalterna non sunt. Quod si
subalterna sunt genera, nihil prohibet alias easdem esse differentias, alias
diversas, 178C ut avis est species animalis, et rursus est genus corui, et est
subalternum genus, avis. Sed animalis differentiae sunt rationalis atque
irrationalis, avis vero differentia rationalis non est. Nulla enim avis ab alia
avi differt, quod sit rationalis; ergo hoc loco non sunt eaedem subalternorum generum
differentiae. Si quis vero has generis, id est animalis differentias dicat, ut
animalium alia sunt quae pascantur herbis, alia quae seminibus, alia quae
carnibus, hae differentiae conveniunt in subalterno genere, videlicet in avi;
namque avium sunt aliae quae seminibus uescuntur, aliae quae herbis, aliae quae
carnibus, ut uultur et miluus; ergo in subalternis generibus nihil prohibet
easdem esse differentias, et iterum discrepare; hoc autem idcirco evenit, quia
quae de praedicato dicuntur possunt de subiecto praedicari. Quare quod dicitur
de genere potest etiam dici de specie, atque hoc est quod ait: SUBALTERNORUM
VERO GENERUM NIHIL PROHIBET EASDEM ESSE DIFFERENTIAS; SUPERIORA ENIM DE
INFERIORIBUS GENERIBUS PRAEDICANTUR. Sed cum diceret nihil prohibet easdem esse
differentias, hoc quodam modo voluit de monstrare esse quasdam easdem
differentias, alias vero posse esse diversas, cui rem contrariam intulisse
videtur, cum dicit: QUARE QUAECUMQUE PRAEDICATI DIFFERENTIAE FVERINT, EAEDEM
ERUNT ETIAM SUBIECTI. Nam cum illic dixisset, nihil prohibet esse easdem
differentias generum subalternorum, hic omnes easdem esse declarat, dicit enim:
QUAECUMQUE FUERINT DIFFERENTIAE PRAEDICATI, EASDEM ETIAM SUBIECTI esse; atque
haec res plures maximis illigavit 179A erroribus, ut emendandum crederent locum
non ut esset ita. QUARE QUAECUMQUE PRAEDICATI DIFFERENTIAE FVERINT, EAEDEM
ERUNT ETIAM SUBIECTI sed ut hoc modo. Quare quaecumque subiecti differentiae
fuerint, eaedem erunt etiam praedicati. Sed hoc adiiciendum est, neque enim
fieri potest ut in rem superiorem praedicatio posterioris redundet. Nam cum
dicitur "quaecumque subiecti fuerint differentiae eaedem erunt
praedicati", hoc scilicet significatur, ut praedicatio subiecti redeat in
praedicatum -- quod fieri non potest. Sed dicendum est quod sunt aliae
differentiae quae dicuntur completivae praedicati et cuiuslibet illius speciem
informantes, quae communi nomine 'specificae' nominantur. Nam cum dico animatum
et sensibile, si substantiae coniungantur, definitionem et speciem mox animalis
179B efficiunt. Animal enim est substantia animata sensibilis, atque hae
differentiae dicuntur specificae et completivae. Sunt autem aliae quae ipsae
quidem nihil complent nec ullam speciem reddunt sed genus tantum dividunt, ut
rationale et irrationale: haec enim dividunt genus, id est animal; animal enim
rationali differentia irrationalique dividitur. Ergo illae quae sunt generis
divisivae differentiae possunt aliquoties eaedem esse, possunt aliquoties non
eaedem, ut animalis, quoniam divisibilis est differentia quae est rationale,
potest eam non habere avis, quae est subalternum genus. Et rursus easdem
divisibiles habere potest, ut easdem quas superius diximus. Nam cum dividant
animal differentiae, quae carnibus, herbis, et seminibus uescuntur, eaedem
possunt esse subalterni generis, id est avis; ergo hae divisibiles 179C possunt
etiam esse diversae. Illae vero quae completivae et specificae sunt, aliquando
non praedicari de subiecto non possunt. Ut quoniam animal habet differentias
completivas et suae speciei effectivas, sensibile scilicet et animatum, hae
differentiae de homine quod est subiectum animalis non praedicari non possunt.
Omnes enim specificae differentiae de his praedicantur quorum speciem complent,
ut de animali praedicatur sensibile et animatum, et hoc ut de subiecto. In
substantia enim animalis utraque praedicantur sed animal praedicatur de homine
ut de subiecto; necesse est ergo animatum atque sensibile de homine praedicari
ut de subiecto. Hoc est enim quod superius praemisit cum diceret: QUANDO
ALTERUM DE ALTERO 179D PRAEDICATUR UT DE SUBIECTO, QUAECUMQUE DE EO QUOD
PRAEDICATUR DICUNTUR, OMNIA ETIAM DE SUBIECTO DICENTUR. Atque hoc in omnibus
generibus recte constat intelligi. Ergo divisibiles differentiae possunt
aliquando cum subiectis esse communes, aliquando diversae specificae vero et
completivae cum subiectis communes non esse non possunt. Quod ergo Aristoteles
ait: SUBALTERNORUM VERO GENERUM NIHIL PROHIBET EASDEM ESSE DIFFERENTIAS divisibiles
differentias easdem esse nihil prohibere putandum est, quae possunt esse etiam
diversae. Quod ait vero: QUAECUMQUE PRAEDICATI DIFFERENTIAE FUERINT, EAEDEM
ERUNT ETIAM SUBIECTI de specificis intelligendum est: quae cum speciem
cuiuslibet informent, et de eo quod informant, ut de subiecto, praedicentur, ad
quodcumque ut subiecto praedicatur illud quod ipsae differentiae informant, de
eo ut de subiecto praedicabuntur, et de eo non praedicari non possunt. Quare
nihil est in huiusmodi theoremate quod ullo modo debeat emendari. EORUM QUAE SECUNDUM
NULLAM COMPLEXIONEM DICUNTUR SINGULUM AUT SUBSTANTIAM SIGNIFICAT AUT
QUANTITATEM AUT QUALITATEM AUT AD ALIQUID AUT UBI AUT QUANDO AUT SITUM AUT
HABITUM AUT FACERE AUT PATI. EST AUTEM SUBSTANTIA QUIDEM UT FIGURATIM DICATUR
UT HOMO, EQUUS; QUANTITAS UT BICUBITUM, TRICUBITUM; QUALITAS UT ALBUM; AD
ALIQUID UT DUPLUM, MAIUS; UBI VERO UT IN LYCIO; QUANDO AUTEM UT HERI; SITUS
VERO UT SEDET, IACET; HABERE AUTEM UT CALCIATUS, ARMATUS; FACERE VERO UT
SECARE, URERE; PATI VERO UT SECARI, URI. Post paruissimam in quattuor
enumerationem, id est in substantiam, accidens, universalitatem,
particularitatem, nunc est de partitione maxima tractaturus, quae fit in decem;
hac enim enumeratione maior non potest inveniri, neque enim undecim
praedicamenta poterunt inveniri nec ultra decem ullo modo aliquod genus recte
excogitari potest; quare 180C facit huiusmodi enumerationem sed non divisionem.
Divisio namque fere est generis in species; praedicamentorum vero, quoniam
genus unum non habent, divisio esse non potest sed potius enumeratio est. Sunt
vero quidam qui contendunt recte enumerationem non esse dispositam, alii namque
ut superuacua quaedam demunt, alii ut curto operi addunt, alii vero permutant,
quos nimirum non recte sentire alio nobis opere dicendum est; ait autem: EORUM
QUAE SECUNDUM NULLAM COMPLEXIONEM DICUNTUR. Adeo non de rebus sed de vocibus
tractaturus est, ut diceret DICUNTUR. Res enim proprie non dicuntur sed voces:
et quod addidit, SINGULUM AUT SUBSTANTIAM SIGNIFICAT, late patet eum de vocibus
disputare; non enim res sed voces significant, significantur autem res. Sine
complexione vero dicuntur (ut dictum est) quaecumque 1singulari intellectu et
voce proferuntur: secundum complexionem vero quaecumque aliqua coniunctione vel
accidentis copulatione miscentur. Sed quid ex iis quae secundum nullam
complexionem dicuntur efficitur, ipse demonstrat cum dicit: SINGULA IGITUR
EORUM QUAE DICTA SUNT IPSA QUIDEM SECUNDUM SE IN NULLA AFFIRMATIONE DICUNTUR,
HORUM AUTEM AD SE INVICEM COMPLEXIONE AFFIRMATIO FIT. VIDETUR ENIM OMNIS
AFFIRMATIO VEL FALSA ESSE VEL VERA; EORUM AUTEM QUAE SECUNDUM NULLAM
COMPLEXIONEM DICUNTUR NEQUE VERUM QUICQUAM NEQUE FALSUM EST, UT HOMO, ALBUM,
CURRIT. Significat ergo et hic ea quae sine ulla complexione dicuntur
affirmationis vim non obtinere. 181A Si quis enim dicat homo, vel album, vel
decem, vel quidlibet simplici modo, in eo neque verum aliquid inveniet neque
falsum sed omnis affirmatio vel vera vel falsa est. Igitur universaliter
pronuntiat praedicamenta affirmationis ratione penitus non teneri: sed haec
eadem si cum quadam complexione coniuncta sint fieri propositiones necesse est,
quae in se verum falsumue contineant, Sed non omnis complexio propositionem
facit, nec si dixero: Socrates in foro idcirco iam propositio est; sed si quis
dicat: Socrates in foro ambulat tunc fit propositio, quae aut affirmatio est
aut negatio. Affirmationes autem et negationes, vel verae videntur esse vel
falsae: atque ideo quodcumque neque verum neque falsum est, illud propositio
non est. Ergo quadam complexione 181B ex iis quae secundum nullam complexionem
dicuntur veritas falsitasque conficitur. Affirmationem autem solam nunc
Aristoteles interposuit, idcirco quod omnis affirmatio prior est; hoc enim
negatio tollit quod affirmatio ante constituit: prius quidem secundum
significationem sed non secundum genus, quod alio liquebit loco. Maxime autem
monstrat Aristoteles se non de rebus sed de vocibus tractaturum, quod ait:
HORUM AUTEM AD SE INVICEM COMPLEXIONE AFFIRMATIO FIT; non enim rerum
complexione fit affirmatio vel negatio sed sermonum, nec in rebus est veritas
et falsitas sed in intellectibus atque opinionibus, et post haec in vocibus
atque sermonibus. Atque haec hactenus. Secundum complexionem ergo sunt
quaecumque ex integris compositis fiunt, ut: Socrates ambulat nam et Socrates
et ambulat uterque integer sermo est, et coniunctus affirmationem facit. At
vero si quis dicat flammiger, vel multisonus, vel fluctivagus, secundum
complexionem non erit ista prolatio, idcirco quod ex neutris integris factum
est. Horum autem decem praedicamentorum definitiones inveneri non possunt,
idcirco quod ea quae significant generalissima sunt. Substantia enim et
quantitas, et qualitas nulli unquam generi videntur esse subiecta. Quare
quoniam definitio omnis a genere ducitur, genus quod alii generi subiectum non est
a definitione relinquitur. Sed nunc quidem omnium praedicamentorum convenientia
dixit exempla, post vero latius de unoquoque tractabitur: et quoniam definitio
inveniri nulla potest, quibusdam proprietatibus informantur, quare quoniam de
his dictum est plene, ad tractatum substantiae transeamus.SUBSTANTIA AUTEM EST,
QUAE PROPRIE ET PRINCIPALITER ET MAXIME DICITUR, QUAE NEQUE DE SUBIECTO
PRAEDICATUR NEQUE IN SUBIECTO EST, UT ALIQUI HOMO VEL ALIQUI EQUUS. SECUNDAE
AUTEM SUBSTANTIAE DICUNTUR, IN QUIBUS SPECIEBUS ILLAE QUAE PRINCIPALITER
SUBSTANTIAE DICUNTUR INSUNT, HAE ET HARUM SPECIERUM GENERA; UT ALIQUIS HOMO IN
SPECIE QUIDEM EST IN HOMINE, GENUS VERO SPECIEI ANIMAL EST; SECUNDAE ERGO
SUBSTANTIAE DICUNTUR, UT EST HOMO ATQUE ANIMAL. Quaeritur cur praedicamentorum
tractatum a substantiis 182A inchoaverit, nam quoniam omnis res aut in subiecto
est aut in subiecto non est, quidquid in subiecto est eget subiecto, quoniam in
propriis natura non potest consistere: et quoniam rebus omnibus substantia
subiecta est, nihil eorum quae sunt in subiecto praeter substantiam poterit
permanere. Sed prior illa natura est sine qua alia esse non possunt, quocirca
prior naturaliter videtur esse substantia; non absurde igitur in disputatione
quod prius per naturam fuit, prius etiam sumpsit, et definitionem quidem
substantiae proferre non potuit sed post exemplum superius datum descriptionem
quamdam profert qua quid sit ipsa substantia queamus agnoscere: hoc est autem
non esse in subiecto, substantia enim in subiecto non est. Facit autem quamdam
substantiarum divisionem cum dicit alias primas esse substantias alias
secundas: primas vocans individuas, secundas vero individuarum species et
genera: Ergo cum primis secundisque subtantiis commune sit 'non esse in
subiecto', additum primis substantiis 'de subiectis non praedicari' primas
substantias a secundis substantiis separat; substantia enim individua, in eo
quod est substantia, in subiecto non est: quod autem individua est, de subiecto
non praedicatur. Sunt ergo primae substantiae quae neque in subiecto sunt neque
de subiecto dicuntur, ut est Socrates vel Plato. Hi enim quoniam substantiae
sunt, in subiecto nullo sunt. Quoniam vero particulares individuique sunt, de
nullo subiecto praedicantur. SECUNDAE VERO SUBSTANTIAE sunt quibus commune est cum
primis substantiis quod in subiecto non sunt, proprium vero quod de subiecto
praedicantur, quae secundae substantiae sunt universales, ut est homo atque
animal; homo namque et animal in nullo sunt subiecto sed de subiecto aliquo
praedicantur. Sunt igitur primae substantiae particulares, secundae
universales. PROPRIE autem substantias individuas dicit quod hominem quidem
idem ipsam speciem, et animal, quod est genus, non nisi ex individuorum
cognitione colligimus. Quare quoniam ex singulorum sensibus generalitas
intellecta est, merito "propriae substantiae" individua et singula
nominantur. PRINCIPALITER vero individuae substantiae dictae sunt quod omne
accidens prius in individua, post vero in secundas substantias venit. Nam
quoniam Aristarchus grammaticus est, homo vero est Aristarchus, est homo
grammaticus: ita prius omne accidens in individuum venit, secundo vero loco
etiam in species generaque substantiarum accidens illud venire putabitur. Recte
igitur quod prius subiectum est, hoc substantia PRINCIPALITER appellatur. MAXIME
autem substantia prima dicitur, idcirco quod quae maxime subiecta est rebus
aliis, ea maxime substantia dici potest: maxime autem subiecta est prima
substantia; omnia enim de primis substantiis dicuntur, aut primis substantiis
insunt, ut genera et species: namque et genera et species praedicantur de
propriis individuis, ut animal atque homo praedicantur de Socrate, id est
secundae substantiae de primis: sin vero sint accidentia, in primis substantiis
principaliter sunt. Quare quoniam et accidentia in primis substantiis
principaliter sunt, et secundae substantiae de primis substantiis praedicantur,
primae substantiae secundis substantiis accidentibusque subiectae sunt. Quare
quoniam istae maxime subiectae sunt et accidentium subsistentiae et secundarum
substantiarum praedicationi, idcirco maxime substantiae nuncupantur. Dicit
autem non omnis species neque omnia genera secundas esse substantias sed eas
tantum quae primas substantias continerent, UT EST HOMO ATQUE ANIMAL; homo
namque continet Socratem, id est aliquam individuam substantiam. Animal vero
continet individuum speciemque, id est hominem et aliquem hominem. Quare genera
et species quae de primis substantiis praedicantur, ipsas secundas putat esse
substantias; hoc autem hoc modo ait: SECUNDAE AUTEM SUBSTANTIAE DICUNTUR, IN
QUIBUS SPECIEBUS ILLAE QUAE PRINCIPALITER SUBSTANTIAE DICUNTUR INSUNT, HAE ET
HARUM SPECIERUM GENERA et inde convenientia ponit exempla, ac si diceret: Non
omnia genera neque omnes substantias dico sed eas tantum species IN QUIBUS
individua illa, id est primae substantiae sunt, ET HARUM SPECIERUM, id est quae
continent primas substantias, GENERA. Hoc autem idcirco dictum videtur, ne quis
colorem quod genus est, vel album quod est species, secundas putet esse
substantias, ista enim primas sub se non continent. Sed dicat aliquis
quemadmodum primae poterunt esse substantiae individuae, cum omne quod prius
est sublatum auferat id quod est posterius, posterioribus vero sublatis priora
non pereant? Homo namque si pereat, Socrates quoque sit continuo periturus; si
vero Socrates interierit, homo continuo non peribit. Si igitur, sublatis
generibus et speciebus, individua perimuntur, sublatis individuis, generas,
speciesque permanent, magis primas substantias species et genera nominari
dignum fuit. Sed hoc modo individuorum natura non recte accipitur. Neque enim
cuncta individuorum substantia in uno Socrate est, vel quolibet uno homine sed
in omnibus singulis. Genera namque et species non ex uno singulo intellecta
sunt sed ex omnibus singulis individuis, mentis ratione concepta. Semper etiam
quae sensibus propinquiora sunt; ea etiam proxime nuncupanda vocabulis
arbitramur. Qui enim primus hominem dixit, non illum qui ex singulis hominibus
conficitur, concepit sed animo quemdam singularem atque individuum cui hominis
nomen imponeret. Ergo sublatis singulis hominibus homo non remanet, et sublatis
singulis animalibus animal interibit. Quocirca quoniam in hoc libro de
vocabulorum significatione tractatus habetur, ea quibus vocabula prius posita
sunt, merito primas substantias nuncupavit: prius autem illis vocabula sunt
indita quae prius sub sensibus cadere potuerunt. Sensibus vero obiiciuntur
prima individua, merito igitur ea prima in divisione posuit. Eodem quoque modo
illa quaestio solvitur quae dicit: Cum naturaliter primae intellectibiles sint
substantiae, ut Deus et animus, cur non has primas substantias nuncupaverit?
Quoniam hic de nominibus tractatus habetur, nomina autem primo illis indita
sunt quae principaliter sensibus fuere subiecta, posteriora vero in nominibus
ponendis putantur quaecumque ad intelligibilem pertinent incorporalitatem;
quare quoniam in hoc opera principaliter de nominibus tractatus est, de
individuis vero substantiis quae primae sensibus subiacent prima sunt dicta
vocabula in opere quo de vocabulis tractabatur, merito individuae sensibilesque
substantiae primae substantiae sunt positae. Cum autem tres substantia sint,
materia, species, et quae ex utriusque conficitur undique composita et compacta
substantia, hic neque de sola specie, neque de sola materia sed de 184B
utrisque mistis compositisque proposuit. Partes autem substantiae incompositae
et simplices sunt ex quibus ipsa substantia conficitur, species et materia,
quas post per transitum nominat, dicens substantiarum partes et ipsa esse
substantias. Atque haec hactenus. Nunc expositionis cursum ad sequentia
convertamus. MANIFESTUM EST AUTEM EX HIS QUAE DICTA SUNT QUONIAM EORUM QUAE DE
SUBIECTO DICUNTUR NECESSE EST ET NOMEN ET RATIONEM DE SUBIECTO PRAEDICARI, UT
HOMO DE SUBIECTO DICITUR ALIQUO HOMINE, ET PRAEDICATUR NOMEN; NAMQUE HOMINEM DE
ALIQUO HOMINE PRAEDICABIS. RATIO QUOQUE HOMINIS DE ALIQUO HOMINE PRAEDICABITUR;
QUIDAM ENIM HOMO ET HOMO EST. QUARE ET NOMEN ET RATIO PRAEDICABITUR DE
SUBIECTO. EORUM VERO QUAE SUNT IN SUBIECTO, IN PLURIBUS QUIDEM NEQUE NOMEN DE
SUBIECTO NEQUE RATIO PRAEDICATUR. IN QUIBUSDAM VERO NOMEN QUIDEM NIHIL PROHIBET
PRAEDICARI, RATIONEM VERO IMPOSSIBILE EST; UT ALBUM, CUM IN SUBIECTO SIT
CORPORE, PRAEDICATUR DE SUBIECTO (DICITUR ENIM CORPUS ALBUM), RATIO VERO ALBI
NUMQUAM DE CORPORE PRAEDICABITUR. CAETERA VERO OMNIA AUT DE SUBIECTIS DICUNTUR
PRIMIS SUBSTANTIIS AUT IN EISDEM SUBIECTIS SUNT. HOC AUTEM MANIFESTUM EST EX
HIS QUAE SINGULATIM PROFERUNTUR; UT ANIMAL DE HOMINE PRAEDICATUR, QUARE ET DE
ALIQUO HOMINE PRAEDICABITUR; NAM SI DE NULLO ALIQUORUM HOMINUM DICERETUR, NEC
DE IPSO HOMINE PRAEDICARETUR OMNINO. RURSUS COLOR IN CORPORE EST; ERGO ET IN
ALIQUO CORPORE; NAM SI IN NULLO ESSET CORPORUM SINGULORUM, NEC IN CORPORE ESSET
OMNINO. QVOCIRCA CAETERA OMNIA AUT DE SUBIECTIS PRIMIS SUBSTANTIIS DICUNTUR AUT
IN SUBIECTIS IPSIS SUNT. SI ERGO PRIMAE SUBSTANTIAE NON SUNT, IMPOSSIBILE EST
ALIQUID ESSE CAETERORUM. Omnia quaecumque dicta sunt vel in subiecto sunt vel
de subiecto praedicantur sed non omnia quaecumque in subiecto sunt de subiectis
propriis dicuntur, namque quod in subiecto aliquo est de proprio subiecto
praedicatur: ut album de corpore praedicatur, dicitur enim corpus album. Sed
quoniam secundae substantiae primarum substantiarum vel species vel genera sunt
(Socratis enim species homo est et animal genus), genus autem de subiectis
speciebus et individuis univoce praedicatur, secundae substantiae de subiectis
speciebus univoca praedicatione dicuntur. Convenit namque primarum et
secundarum substantiarum (si sit una facta) definitio. Namque anima et homo et
Socrates una definitione iunguntur, quod substantiae animatae atque sensibiles
sunt. Igitur secundae substantiae ita de subiectis praedicantur propriis, id
est de primis substantiis, ut univoce praedicentur. Illorum vero quae sunt in
subiecto aliquoties quidem neque nomen ipsum de subiecto dicitur. Nam virtus in
anima est sed virtus de animo minime praedicatur; aliquoties autem denominative
dicitur, ut grammatica, quoniam est in homine, denominative grammaticus a
grammatica dicitur. Saepe autem ipsum nomen de subiecto praedicatur, ut quoniam
album est in corpore, corpus album dicitur. Sed sive nomen non praedicetur,
sive denominative dicatur sive proprio nomine praedicatio sit, definitio eius quod
est in subiecto de proprio subiecto nunquam praedicabitur -- ut album, quoniam
est in subiecto corpore, praedicatur quidem albi nomen de corpore, definitio
vero albi ad corpus nullo modo dicitur, album namque vel corpus una ratione
utraque definiri non possunt. Amplius si omne accidens in subiecto est, et
substantia subiectum est, differt ab accidente substantia, differt etiam
definitio substantiae atque accidentis, quod eadem definitio subiecti et eius
quod est in subiecto esse non potest. Atque hoc est quod ait: EORUM VERO QUAE
SUNT IN SUBIECTO, IN PLURIBUS QUIDEM NEQUE NOMEN DE SUBIECTO NEQUE RATIO
PRAEDICATUR, ut virtus in anima. Addidit quoque: IN QUIBUSDAM VERO NOMEN QUIDEM
NIHIL PROHIBET PRAEDICARI, et in aliis quidem denominative, in aliis vero recto
nomine fit praedicatio. De secundis vero substantiis semper ad primas
substantias praedicatio pervenit. Nam si quidam homo et homo est et animal et
caetera, una definitio animalis et ad hominem et ad quemdam hominem
convenienter aptabitur. Magis tamen esse substantias individuas et particulares
ipse significantius monstrat. Nam cum omnis res aut substantia sit aut
accidens, et substantiarum aliae sint primae aliae secundae, fit trina
partitio, ita ut omnis res aut accidens sit aut secunda substantia aut prima. Horum
autem ut sub descriptione divisio fiat, hoc modo dicimus: Omnis res aut in
subiecto est aut in subiecto non est; eorum quae in subiecto sunt alia
praedicantur de subiecto alia minime; eorum quae in subiecto non sunt alia de
nullo subiecto praedicantur alia vero praedicantur. Ergo omnis res aut in
subiecto est aut in subiecto non est. Aut in subiecto est et de subiecto
praedicatur, aut in subiecto est et de nullo subiecto praedicatur, aut in
subiecto non est et de subiecto praedicatur, aut in subiecto non est et de
nullo subiecto praedicatur. His igitur sumptis, si primas substantias
separemus, remanent secundae substantiae atque accidentia. Sed secundae
substantiae sunt quae in subiecto non sunt et de subiecto praedicantur. Ergo
esse suum, nisi in hoc quod de aliquo praedicantur, non retinent. Praedicantur
autem secundae substantiae de primis, ergo ut secundae substantia sint,
praedicatio de primis substantiis causa est. Non enim essent secundae
substantiae, 186A nisi de primis substantiis, praedicarentur, illa vero quae in
subiecto sunt penitus consistere non valerent, nisi fundamenti quodammodo loco
primis substantiis niterentur. Ergo omnia quaecumque sunt praeter primas
substantias, aut secundo substantiae erunt aut accidentia. Sed secundae
substantiae de primis substantiis praedicantur, accidentia in primis
substantiis sunt. Quocirca omnia aut de primis substantiis praedicantur, ut
secundae substantiae, aut in primis substantiis sunt, ut accidentia, quod
Aristoteles proposuit hoc modo: Alia autem omnis aut de subiectis dicuntur
principalibus substantiis, aut in subiectis eisdem sunt, hic quoque verissima
sumit exempla. Ait enim: Si accidens in nullo subiecto corpore esset, nec in
corpore esset omnino. Nam si 186B in nullo singulorum, in nullo generaliter
esse diceretur. Et item animal nisi de singularibus atque individuis hominibus
praedicaretur, nec de homine praedicaretur omnino. Quare quoniam idcirco
praedicantur secundae substantiae, quoniam sunt primae, et idcirco sunt aliquid
accidentia, quoniam eisdem primae substantiae subiectae sunt, si primo
substantia, non sint, neque quae de his praedicantur mansura sunt, neque quae
in his subiectis permanebunt. SECUNDARUM VERO SUBSTANTIARUM MAGIS EST
SPECIES SUBSTANTIA QUAM GENUS; PROPINQUIOR ENIM EST PRIMAE SUBSTANTIAE. SI ENIM
QUIS PRIMAM SUBSTANTIAM QUID SIT ASSIGNET, EVIDENTIUS ET CONVENIENTIUS
ASSIGNABIT SPECIEM PROFERENS QUAM GENUS, UT DE ALIQUO HOMINE EVIDENTIUS
ASSIGNABIT HOMINEM PROFERENS QUAM ANIMAL; 186C ILLUD ENIM MAGIS EST PROPRIUM
ALICUIUS HOMINIS, HOC VERO COMMUNIUS. ET ALIQUAM ARBOREM ASSIGNANS, EVIDENTIUS
ASSIGNABIT ARBOREM NOMINANS QUAM PLANTAM. Constat individuas substantias primas
et maxime et proprie esse substantias. Secundae vero substantiae, id est genera
et species, sicut non aequaliter a prima substantia distant, ita non aequaliter
substantiae sunt; nam quoniam propinquior est species primae substantiae quam
genus, idcirco magis est substantia species quam proprium genus, ut homo
propinquior est Socrati quam animal, atque ideo magis est homo substantia.
Animal vero quamquam et ipsum substantia sit, minus tamen homine; hoc autem
idcirco evenit, quod in omni definitione convenientis species 186D ad primam
substantiam dicitur, quam genus. Nam si quid sit Socrates aliquis velit
ostendere, propinquius substantiam Socratis proprietatemque monstrabit, si
dixerit eum esse hominem, quam si animal. Quod enim animal est Socrates,
commune est cum caeteris qui homines non sunt, id est cum equo atque bove. Quod
vero homo est, cum nullo alio est commune, nisi cum his qui sub eadem specie
hominis continentur. Quocirca propinquior erit ad significationem designatio,
cum individuo species redditur, quam ei generis vocabulum praedicetur. Rursus
si quamlibet individnam arborem designare aliquis volens, arborem dicat,
propinquius designabit quid sit id quod definivit, quam si plantam nominet:
planta autem genus est arboris; praedicatur enim planta et de iis quae arbores
non sunt, ut de caulibus atque lactucis: quare constat species magis esse
substantias, eo quod sint primis et maxime substantiis propinquiores. Et quod
in eo quod quid sit, assignata species convenientibus et evidentius assignet,
genus vero longinquius atque communius. AMPLIUS PRIMAE SUBSTANTIAE, PROPTEREA
QUOD ALIIS OMNIBUS SUBIACENT ET OMNIA CAETERA VEL DE IPSIS PRAEDICANTUR VEL IN
IPSIS SUNT, IDCIRCO MAXIME SUBSTANTIAE DICUNTUR. QUEMADMODUM AUTEM PRIMAE
SUBSTANTIAE AD OMNIA CAETERA SE HABENT, ITA SESE SPECIES HABET AD GENUS; SUBIACET
ENIM SPECIES GENERI; ETENIM GENERA DE SPECIEBUS PRAEDICANTUR, SPECIES VERO DE
GENERIBUS NON CONVERTUNTUR. QVOCIRCA ETIAM EX HIS SPECIES GENERE MAGIS EST
SUBSTANTIA. Magis esse substantias species validiori rursus argumentatione
confirmat, per similitudinem namque hoc ita esse declarat. Nam cum omnes
substantiae aut primae sint aut secundae, secundarum autem aut genera aut
species, specierum atque generum quidquid similius primis substantiis
invenitur, hoc magis substantia merito putabitur. Sed primae substantiae
IDCIRCO MAXIMAE SUBSTANTIAE DICUNTUR, quod omnibus ita subiectae sunt, ut aut
in ipsis sint caetera ut accidentia, aut de ipsis alia praedicentur ut
substantiae secundae. Quod ergo in primas substantias, hoc idem in species
venit. Namque species et cunctis subiacent accidentibus, et de speciebus genera
praedicantur, de generibus vero species non praedicantur. Quare 187C non
similiter genera subiacent, quemadmodum species. Non enim de generibus species
praedicantur. Ergo sicut primae substantiae subiectae sunt secundis substantiis
et accidentibus, ita species subiectae sunt et accidentibus et generibus.
Genera vero quamquam subiecta sint accidentibus, speciebus tamen ipsa non
subiacent. Quocirca maior est similitudo speciei ad primas substantias, quam
generis, quod si maior est similitudo specierum ad maximas substantias, ipsae
erunt magis substantiae. Sed ne quis non arbitretur dicere quod ea quae sunt
genera species esse non possunt sed in eo quod sunt genera, species esse non
possunt. Nam in eo quod species est, de superioribus non praedicatur sed in eo
quod genus, de eo praedicabitur cuius est genus. Quocirca genera ipsa 187D
quorum sunt genera his subiacere non possunt, species vero quorum sunt species,
de his praedicari non possunt. IPSARUM VERO SPECIERUM QUAE GENERA NON SUNT,
NIHILO PLUS ALIA AB ALIA SUBSTANTIA EST; NIHIL ENIM CONVENIENTIUS PROFERETUR SI
QUIS DE ALIQUO HOMINE HOMINEM REDDAT QUAM SI DE ALIQUO EQUO PROFERAT EQUUM.
SIMILITER AUTEM ET IN PRIMIS SUBSTANTIIS NIHILO PLUS ALIA AB ALIA SUBSTANTIA
EST; NIHIL ENIM MAGIS ALIQUIS HOMO QUAM ALIQUIS BOS SUBSTANTIA EST. Praedictum
est quoque, ut Porphyrius in libro de generibus, speciebus, differentiis,
propriis, atque accidentibus planissime docuit, alia esse solum genera, quorum
genus inveniri non posset, alia solum 188A species, quae in alias species
dividi non valerent. Hae autem sunt quae de pluribus numero differentibus in eo
quod quid sit praedicantur, ut homo de singulis hominibus dicitur, et equus de
singulis equis, et bos de singulis bobus, qui sub propria specie positi a
seipsis propriae naturae figura non discrepant. Ergo huiusmodi species, ut est
homo atque equus, quae solis individuis praesunt, quoniam genera esse non
possunt, aequaliter semper substantiae sunt. Nam tam propinque redditur de
quolibet individuo equo, nomen equi, quam de quolibet individuo homine, hominis
nomen, Quocirca ei aequaliter species hae, quae genera non sunt, ad primas
substantias sunt, aequaliter esse substantiae merito putabuntur; hoc autem
dicit non quod omnes species aequaliter substantia 188B sint sed quae
aequaliter a primis substantiis distant. Potest enim fieri ut cuiuslibet
superioris generis una quaelibet species sit, quae comparata ad propriam
speciem minus illa superior videatur esse substantia: ut animalis si quis dicat
speciem esse avem, eiusdem quoquo speciem horninem, avis et homo non aequaliter
substantiae sunt, idcirco quod avis homine superior est. Homo namque in alias
species non dividitur, est enim magis species. Avis autem potest in alias dividi
species, ut in accipitrem et uulturem, quae quamquam aves sunt specie, tamen
ipsa dissentiunt. Proprie autem species accipere ac uultur est, hi enim solis
individuis praesunt. Quare homo atque accipiter aequaliter a primis substantiis
distant, et sunt aequaliter substantiae. Homo vero atque avis, quoniam 188C
superior est avis homine, non aequaliter substantiae sunt, magis enim
substantia homo est. Ergo quaecumque species aequaliter a suis individuis
distant, aequaliter substantiae sunt. Quod quoniam species hae quae genera non
sunt aequaliter a primis substantiis absunt, aequaliter substantiae dicuntur.
Primum autem est, ut expositione non egeat, primas quoque substantias
aequaliter esse substantias, aliquis homo enim atque aliquis equus, quoniam sunt
individua, principaliter substantiae sunt, et propriae et maximae. Quocirca in
maximis substantiis, neque minus, neque magis substantia poterit inveniri.
Individua igitur aequaliter substantiae sunt. RECTE AUTEM POST PRIMAS
SUBSTANTIAS SOLAE OMNIUM CAETERORUM SPECIES ET GENERA DICUNTUR SECUNDAE ESSE
SUBSTANTIAE; 188D EORUM ENIM QUAE PRAEDICANTUR PRIMAS SUBSTANTIAS SOLAE
SIGNIFICANT. ALIQUEM ENIM HOMINEM SI QUIS ASSIGNET QUID SIT, SI SPECIEM QUAM
GENUS PROTULERIT, CONVENIENTER PROFERET, ET MANIFESTUM FACIET HOMINEM QUAM
ANIMAL PROFERENS; CAETERORUM VERO QUICQUID PROTULERIT, ALIENA ERIT ILLA
PROLATIO, UT ALBUM VEL CURRIT VEL QUODLIBET HUIUSMODI SI REDDAT. QUARE RECTE
HAE SOLAE PRAETER CAETERA SUBSTANTIAE DICUNTUR. Ordine et convenienter post
primas substantias, id est individua, genera et species secundas esse
substantias constitutas monstrat Aristoteles, quae est firma atque expedita
probatio; ait enim: POST PRIMAS SUBSTANTIAS RECTE GENERA ET SPECIES SECUNDAS
SUBSTANTIAS ESSE NOMINATAS. In definitionibus enim ubi substantia cuiuslibet
ostenditur, nihil aliud primas substantias monstrat, nisi genus et species.
Socrates namque, si quis quid sit interroget, dicitur homo, vel animal, et in
eo quod quid sit Socrates interrogatus, recte hominem vel animal esse respondet.
Quare quid sint primae substantiae secundae monstrant, quod si quis praeter
secundas substantias in interrogatione quid sit prima substantia dicat, id
alienissime profert, ut si quid sit Socrates interroganti aliquis respondeat
album, vel currit, vel aliquid huiusmodi, quod secunda substantia non sit,
nihil convenienter unquam profert, si quid de prima substantia praeter secundas
substantias dicat. Quare quoniam nihil eorum quae non sunt secundae
substantiae, quid sit prima substantia declarat, secundae autem substantiae
189B genera et species sunt, recte post primas substantias species et genera
secundae dicuntur esse substantiae. AMPLIUS PRIMAE SUBSTANTIAE, PROPTEREA QUOD
ALIIS OMNIBUS SUBIACENT, IDCIRCO PROPRIAE SUBSTANTIAE DICUNTUR; QUEMADMODUM AUTEM
PRIMAE SUBSTANTIAE AD OMNIA CAETERA SESE HABENT, ITA PRIMARUM SUBSTANTIARUM
GENERA ET SPECIES AD OMNIA RELIQUA SESE HABENT; DE ISTIS ENIM OMNIBUS CAETERA
PRAEDICANTUR: ALIQUEM ENIM HOMINEM DICES GRAMMATICUM, ERGO ET HOMINEM ET ANIMAL
GRAMMATICUM PRAEDICABIS; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS. Haec quoque est de eadem
re probatio, qua recte post primas substantias genera et species esse positas
verissima ratione confirmat. Namque individua idcirco primae dicuntur esse
substantiae, et quod aliis cunctis subiaceant. Nam quoniam secundis substantiis
ad praedicationem suppositae sunt, et de his secundae substantiae dicuntur, et
quoniam accidentibus ut possint esse accideutia subduntur, idcirco primae
substantiae sunt. Et sicut primae substantiae cunctis subiacent accidentibus,
sic etiam secundae. Nam quoniam aliquis homo accidentibus subiacet, et homo et
animal accidenti supponitur, et quoniam est quidam homo grammaticus, id est
Aristarchus, est homo grammaticus, est etiam animal grammaticum. Quocirca
accidentibus primae substantiae principaliter subdurtur, secundae vero secundo
loco, et quemadmodum primae substantiae et accidentibus et secundis substantiis
subiacent, sic secundae substantiae accidentibus 189D supponuntur sed secundae
substantiae species et genera sunt. Recte igitur post primas substantias
species et genera secundas substantias esse proposuit. COMMUNE EST AUTEM OMNI
SUBSTANTIAE IN SUBIECTO NON ESSE. PRIMA ENIM SUBSTANTIA NEC DE SUBIECTO DICITUR
NEC IN SUBIECTO EST; SECUNDAE VERO SUBSTANTIAE SIC QUOQUE MANIFESTUM EST
QUONIAM NON SUNT IN SUBIECTO. ETENIM HOMO DE SUBIECTO QUIDEM ALIQUO HOMINE
DICITUR, IN SUBIECTO VERO NULLO EST; NEQUE ENIM IN ALIQUO HOMINE HOMO EST.
SIMILITER AUTEM ET ANIMAL DE SUBIECTO QUIDEM DICITUR DE ALIQUO HOMINE, NON EST
AUTEM ANIMAL IN ALIQUO HOMINE. Post enumerationem substantiarum et divisionem
in qua alias primas, alias secundas esse proposuit, 190A quoniam substantiae
definitio nulla est reddita, idcirco, quia generalissimum genus definitionibus
non tenetur, proprietatem quamdam cupit exquirere, quasi signum aliquod quo
substantiam queamos agnoscere, priusque quid ipsis substantiis communiter
possit evenire proponit; post vero quid illis proprium sit quaerit sed idcirco
ista praemittit, ut ad illud verum proprium sine ullo errore perveniat, et quod
vere est substantiarum proprium ultimum dicat. Tribus autem modis proprium
significatur. Est enim proprium quod alicui speciei omni evenit et non soli, ut
homini bipedem esse. Omnis enim homo bipes est sed non solus, aves namque et
ipsae sunt bipedes. Aut soli et non omni, ut eidem homini evenit ut sit
grammaticus sed non omni homini, neque 190B enim omnis homo grammaticus est.
Aut vero tertia proprii significatio est, quae omni et soli et semper, ut
risibile. Omnis enim homo risibilis est, et solum est animal homo quod rideat.
Ex his igitur illa duo superiora quae diximus, ubi omni et non soli, aut soli
et non omni, esse quaedam propria dicebamus, quae a propriorum veritate esse
videntur aliena. Hoc vero tertium quod omni inest et soli, hoc vere est
proprium, illa autem superiora consequentia quidem dicuntur, non tamen vere
propria, hoc autem ultimum vere est proprium. Quaecumque ergo talia propria
Aristoteles invenerit, quae aut solis et non omnibus substantiis, aut omnibus
et non solis eveniant, velut non vere in natura cuiuslibet constituta repudiat.
Illud vero ultimum ponit quod et omni substantiae et soli valeat evenire. Illa
enim sunt propria quae convertuntur, ut si quid fuerit homo, risibile est, si
quid est risibile, homo est: haec autem solum converti possunt, quae omni
solique contingunt, nam neque ulli alii magis, neque ulli minus evenient; quare
his praedictis ad loci ipsius orationem expositionemque veniamus. Quod ergo
dicit hoc est, omnibus substantiis commune est, ut in subiecto non sint, namque
primae substantiae, id est individua in subiecto non sunt, quod planissime his
demonstratur. Nunquam enim particularis substantia alicui accidens esse potest,
secundae vero substantiae habent quamdam imaginem quod sint in subiecto, videntur
enim secundae substantiae in subiectis, id est primis substantiis esse sed
falso, nam secundae substantiae de primis substantiis solum praedicantur, non
in ipsis sunt. Animal enim de quodam homine tantum dicitur, non etiam in aliquo
homine consistit, ut in subiecto. Hoc autem illa res probat, quod omnia
quaecumque in subiecto sunt, eorum quoque individua in subiecto sunt, color
quoniam in subiecto corpore est, et quidam color subiecto corpore nititur, in
hoc vero quoniam primae substantiae, id est individua in subiecto non sunt, nec
eorum universalia, id est secundae substantiae, quae genera speciesque sunt,
possunt aliquo niti subiecto. Quare secundae substantiae primas substantias ad
praedicationem tantum subiectas habent, non etiam ut ipsae primis substantiis
accidant. Illud quoque maximum argumentum 191A est secundas substantias non
esse in subiecto, quoniam omne quod in subiecto est potest mutari, illa quae
subiecta est non mutatur, ut color qui est in corpore, eodem corpore manente
potest mutari, ut niger fiat ex albo. Manentibus autem substantiis primis,
secundae substantiae non mutantur. Quam vero ipse Aristoteles posuit
probationem, secundas substantias uan esse in subiecto, huiusmodi est,
praedocuit enim quorumdam quae sunt in subiecto nomen de subiectis posse
praedicari, rationem vero nunquam. Album enim cum sit in corpore, dicitur
corpus album, et praedicatur albedo de corpore sed alia est definitio
albedinis, alia corporis. Secundae vero substantiae de primis substantiis et
nomine praedicantur, et definitione iunguntur. Nam quidam homo animal est et
homo sed quidam homo, et hominis, et animalis ratione definitur. Et ut
veracissime sententia concludatur, omne quod est in subiecto, aequivoce de
subiecto dicitur. Secundae vero substantia de primis non aequivoce sed univoce
nuncupantur, idcirco quod (ut dictum est) et nomine et definitione consentiunt.
Quare quemadmodum primae substantiae in sabiecto non sunt, sic secundae
subiecto carebunt. Commune est igitur omnibus substantiis, et secundis et primis
in subiecto non esse, et quodcumque substantia fuerit, consequens est ut in
nullo subiecto sit. Sed quaeritur utrum hoc soli substantiae insit an etiam
aliis, nam si soli substantiae inest, quoniam omni substantiae hoc inesse
monstravimus, quod in subiecto non sit, verum proprium dicitur esse substantiae,
non esse in subiecto. Hoc enim dictum est esse maxime proprium, quod omnibus
inesset et solis sed hoc non esse substantiae proprium verissima Aristoteles
probatione confirmat dicens: AMPLIUS EORUM QUAE SUNT IN SUBIECTO NOMEN QUIDEM
DE SUBIECTO ALIQUOTIENS NIHIL PROHIBET PRAEDICARI, RATIONEM VERO IMPOSSIBILE
EST. SECUNDARUM VERO SUBSTANTIARUM DE SUBIECTIS RATIO PRAEDICATUR ET NOMEN;
RATIONEM ENIM HOMINIS ET ANIMALIS DE ALIQUO HOMINE PRAEDICABIS. QUARE NON ERIT
EORUM SUBSTANTIA QUAE SUNT IN SUBIECTO. NON EST AUTEM PROPRIUM SUBSTANTIAE HOC;
SED DIFFERENTIA EORUM EST QUAE IN SUBIECTO NON SUNT; BIPES ENIM ET GRESSIBILE
DE SUBIECTO QUIDEM DE HOMINE PRAEDICATUR, IN SUBIECTO VERO NULLO EST; NON ENIM
IN HOMINE EST BIPES NEQUE GRESSIBILE. ET RATIO QUOQUE DIFFERENTIAE DE ILLO
DICITUR DE QUO IPSA DIFFERENTIA PRAEDICATUR, UT SI GRESSIBILE DE HOMINE
DICATUR, ET RATIO GRESSIBILIS DE HOMINE PRAEDICABITUR; EST ENIM HOMO
GRESSIBILE. Non esse proprium hoc substantiae dicit, idcirco quod in
differentiis idem sit, in nullo enim differentia subiecto est, ad illud namque
recurritur, Si differentia in subiecto esset, nomine tantum de subiecto
praedicaretur, non etiam ratione. Differentia vero de eo de quo dicitur univoce
praedicatur, ut si quis dicat gressibilem differentiam de homine, ipsius
differentiae definitio quoque homini convenienter aptabitur. Gressibile namque
est quod per terram pedibus ambulat, et homo est quod per terram pedibus
ambulat, ita differentiae et eius de quo ipsa differentia dicitur una poterit esse
ratio substantiae, id est unius possunt et nominis nuncupatione, et
definitionis determinatione coniungi. Quod si in subiecto esset differentia,
nequaquam de subiecto sibi univoce praedicaretur. Quare non proprium est
substantia, quod retinet etiam differentia, differentia namque substantia non
est. Esset enim proprium substantiae in subiecto non esse. Non est autem
diiferentia accidens, esset enim in subiecto. Omnis autem res aut accidens est,
aut substantia, id est aut in subiecto est, aut in subiecto non est, et sunt
ascidentia quaecumque in substantiam subiecti non veniunt, quaeque permutata
naturam substantiae non perimunt. Si quibus vero peremptis subiecta
interimantur, illa proprie accidentia non vocamus, differentia vero est quae de
pluribus specie differentibus in eo quod quale sit praedicatur. Sed differentia
substantia non est, idcirco quod si esset substantia non in eo quod quale sit
de subiecto sed in eo quod quid sit praedicaretur. Qualitas vero solum non est,
esset enim accidens et in subiecto. An magis ex substantia et qualitate
differentia ipsa conficitur, ita ut illud de quo praedicatur, perempta
differentia simul interimatur, ut calor, cum est in aqua, perempto calore,
potest aqua in sua substantia permanere, et est calor in subiecta aqua, quo
interempto, aqua non peribit. Idem tamen calor est in igne sed perempto calore,
ignem interire necesse est. Quare haec qualitas caloris substantialiter inest
igni, et est propria differentia, id est substantialis. Concludendum est igitur
differentiam, nequs solum substantiam esse, neque solum qualitatem, sed quod ex
utrisque conficitur substantialem qualitatem, quae permanet in natura subiecti,
atque ideo quoniam substantia participat, accidens non est, quoniam qualitas
est, a substantia relinquitur. Sed quoddam medium est inter substantiam et
qualitatem, quae quoniam in subiecto non est et substantia non est, proprium
substantiae non est non esse in subiecto. Post hoc illuc quoque dicit non
debere nos conturbari, ne forte substantiarum partes, quae ita sunt in toto
quasi in aliquo subiecto, aliquando cogamur non substantias confiteri.
Substantiarum partes in subiecto sunt sed non ut accidentia, videmus enim
quasdam partes substantiarum ita esse in toto quasi sint in subiecto, ut caput
in toto corpore est, et manus in toto corpore est, forma quoque et materia quae
sunt partes compositae substantiae in ipsa composita substantia sunt. Ne forte
ergo cogamur aliquando partes substantiarum, quoniam sunt in subiecto, suspicari
non esse substantias sed accidentia, praemonet dicens: NON NOS VERO CONTURBENT
SUBSTANTIARUM PARTES QUAE ITA SUNT IN TOTO QUASI IN SUBIECTO SINT, NE FORTE
COGAMUR DICERE NON EAS ESSE SUBSTANTIAS; NON ENIM SIC DICEBANTUR ESSE EA QUAE
SUNT IN SUBIECTO UT QUASI PARTES ESSENT. Hoc enim rationis affert cur ista
accidentia esse aliquis suspicari non debeat. Illa enim accidentia esse
definita sunt in obiecto, quae non essent ut quaedam pars, hoc enim superius
ait. In subiecto avem esse dico, quod cum in aliquo sit, non sicut quaedam 193A
pars et impossible est esse sine eo in quo est. Quocirca quoniam accidentia ita
sunt in subiecto, ut subiecti partes non sint, substantiarum vero partes in
toto ita sunt, ut in subiecto non sint, partes substantiarum, partes
accidentium esse nullus recte suspicari potest. INEST AUTEM SUBSTANTIIS ET
DIFFERENTIIS AB HIS OMNIA UNIVOCE PRAEDICARI. OMNIA ENIM QUAE AB HIS
PRAEDICAMENTA SUNT AUT DE INDIVIDUIS PRAEDICANTUR AUT DE SPECIEBUS. ET A PRIMA
QUIDEM SUBSTANTIA NULLA EST PRAEDICATIO (DE NULLO ENIM SUBIECTO DICITUR),
SECUNDARUM VERO SUBSTANTIARUM SPECIES QUIDEM DE IN DIVIDUO PRAEDICATUR, GENUS
AUTEM ET DE SPECIE ET DE INDIVIDUO; SIMILITER AUTEM ET DIFFERENTIAE ET DE
SPECIEBUS ET DE INDIVIDUIS PRAEDICANTUR. RATIONEM QUOQUE SUSCIPIUNT PRIMAE
SUBSTANTIAE SPECIERUM ET GENERUM, 193B ET SPECIES GENERIS (QUAECUMQUE ENIM DE
PRAEDICATO DICUNTUR, EADEM ET DE SUBIECTO DICENTUR); SIMILITER AUTEM ET
DIFFERENTIARUM RATIONEM SUSCIPIUNT SPECIES ET INDIVIDUA; UNIVOCA AUTEM ERANT
QUORUM ET NOMEN COMMUNE EST ET RATIO. QUARE OMNIA A SUBSTANTIIS ET DIFFERENTIIS
UNIVOCE PRAEDICANTUR. Quoniam in subiecto non esse differentiis et substantiis
commune monstravit, aliam rursus communitatem substantiarum differentiarumque
proposuit. Nam cum substantiarum aliae sint primae, aliae secundae, et primae
substantiae sint individuae, quoniam nihil individua possunt habere subiectum,
ab individuis nulla praedicatio est. Secundae vero substantiae de individuis,
id est de primis substantiis, praedicantur, et de his univoce dicuntur.
Secundarum enim substantiarum nomen de individuis praedicatur et ratio. Ac de
individuo quidem et species praedicatur et genus, ut de Platone, id est de
aliquo homine, et homo dicitur, et animal, aliquis enim homo est, et animal, et
utriusque de individuo praedicatur ratio. Dicimus enim aliquem hominem animal
esse rationale mortale, quae est speciei definitio, id est hominis. Et rursus
aliquem hominem dicimus esse substantiam animatam atque sensibilem, quae
generis est definitio, id est animalis. Species vero generis sui et
definitionem suscipit et vocabulum, de homine enim animal praedicatur, dicitur
enim homo animal est, et idem ipse rursus homo rationem suscipit animalis.
Dicimus enim esse hominem substantiam animatam atque sensibilem. Constat ergo
quoniam et genera et species de individuis, et genera de speciebus univoce
praedicantur, id est in omni praedicatione secundae substantire univoca
appellatione de subiectis dicuntur, quod his cum differentia commune est.
Differentia namque de specie de qua dicitur, et de eius individuo ipsa quoque
univoce praedicatur. Nam cum sit gressibilis differentia de aliquo homine
praedicatur, dicitur enim quidam homo gressibilis ut Plato et Cicero sed et
definitionem differentiae suscipiunt individua, de quibus illa differentia
praedicatur. Gressibile namque est quod per terram pedibus ambulare potest. Et
quemdam hominem possis ita secundum nomen differentiae definire, ut dices
Platonem esse quod per terram pedibus ambulare possit. Et hoc idem evenit de specie
cuiusdam hominis, id est de homine: homo namque, id est ipsa species, cum sit
gressiblis, potest definiri. Homo est quod per terram pedibus ambulare possit.
Ergo et differentia: de his de quibus pradicantur, univoce dicuntur. Quocirca
quoniam et secundae substantiae de bis de quibus praedicantur uuivoce dicuntur,
et differentiae eodem modo, quaecumque a substantiis vel differentiis
praedicationes fuerint, haec et de subiectis univoce praedicabuntur. Quae autem
causa sit ut secundae substantiae de primis substantiis univoce praedicentur,
illa quam supra docuit Aristoteles nos admonens dixit, omnia enim quaecumque de
praedicato dicuntur, eadem etiam dicentur de subiecto. Omnes enim differentiae
quae sunt specificae generis praedicantur et de specie et de individuo, ut
quoniam animal efficiunt differentiae animatum atque sensibile, eadem et de
specie, id est homine, et de individuo, id est aliquo homine, praedicabuntur;
quod cum superius dictum est, nunc quantum expositionis brevitas postulat,
dixisse sufficiat. OMNIS AUTEM SUBSTANTIA VIDETUR HOC ALIQUID SIGNIFICARE. ET
IN PRIMIS QUIDEM SUBSTANTIIS INDUBITABILE ET VERUM EST QUONIAM HOC ALIQUID
SIGNIFICAT; INDIVIDUUM ENIM ET UNUM NUMERO EST QUOD SIGNIFICATUR. IN SECUNDIS
VERO SUBSTANTIIS VIDETUR QUIDEM SIMILITER AD APPELLATIONIS FIGURAM HOC ALIQUID
SIGNIFICARE, QUANDO QUIS DIXERIT HOMINEM VEL ANIMAL; NON TAMEN VERUM EST SED
QUALE ALIQUID SIGNIFICAT (NEQUE ENIM UNUM EST QUOD SUBIECTUM EST QUEMADMODUM
PRIMA SUBSTANTIA, SED DE PLURIBUS HOMO DICITUR ET ANIMAL); NON AUTEM
SIMPLICITER QUALITATEM SIGNIFICAT, QUEMADMODUM ALBUM (NIHIL ENIM ALIUD
SIGNIFICAT ALBUM QUAM QUALITATEM), GENUS AUTEM ET SPECIES CIRCA SUBSTANTIAM
QUALITATEM DETERMINANT (QUALEM ENIM QUANDAM SUBSTANTIAM SIGNIFICANT). PLUS
AUTEM GENERE QUAM SPECIE DETERMINATIO FIT: DICENS ENIM ANIMAL PLUS COMPLECTITUR
QUAM HOMINEM. Postquam superius geminas dixit substantiae consequentias, id est
in subiecto non esse, et cuncta ab his univoce praedicari, et eas a maximae
proprio substantiae separavit, idcirco quod differentiis etiam videntur esse
communes, aliud adiicit quod idcirco substantiae proprium non sit, quod non sit
in omni substantia. Nam quemadmodum quantitas, quantum significat, et qualitas
quale, sic etiam substantia videtur hoc
aliquid significare. Nam cum dico Socrates vel Plato vel aliquam individuam
substantiam nomino, hoc aliquid significo sed omnibus hoc substantiis non
inest. Individuis namque quoniam particularia sunt et numero singularia, verum
est hoc aliquid a substantiis significari. In secundis vero substantiis non
idem est. Namque secundae substantiae non sunt unae, nec numero singulares sed
species intra se plurima individua continent, et multas intra se species genus
includit, quocirca cum dico homo, non hoc aliquid significavi, neque enim singulare
est hominis nomen, idcirco quod de pluribus individais praedicatur sed potius
quale quiddam; qualis enim substantia sit demonstratur, cum dicitur homo.
Qualitas autem haec circa substantiam terminatur, nam sicut individua qualitas
species et genera qualitatis habet, et sicut singulas quantitates quantitas
speciebus et generibus claudit, ita quoque individuarum substantiarum species
et genera secundae substantiae sunt. Ergo cum dico homo, talem substantiam
significo, quae de pluribus numero differentibus in eo quod quid sit
praedicatur, qualem ergo quamdam substantiam significo, cum hominem dixi, talem
scilicet quae individuis nominetur, idem quoque de genere est. Nam cum dico
animal, talem substantiam significo quae de pluribus speciebus dicatur. Est
igitur qualitas, ut album, quae semper sit in substantia sed non ut ipsam
substantiam interimat, idcirco quod proprietatem substantiae albedo non habet. Qualitas
vero hac quae de substantiis dicitur, circa substantiam qualitatem determinat,
qualis sit enim illa substantia demonstrat. Nam si homo est rationalis, et
substantia erit rationalis sed rationalis qualitas est. Qualem ergo substantiam
monstrant secundae substantiae. Quocirca non est hoc proprium substantiae, hoc
aliquid significare. Secundae enim substantiae non hoc aliquid sed quale
aliquid (ut dictum est) monstrant, ita tamen quale aliquid monstrant, ut ipsam
qualitatem circa substantias determinent. Qualitas enim secundarum
substantiarum in individuis est, de ipsis enim naturaliter praedicatur qua,
ipsa individuae substantiae sunt. Qualitas igitur secundarum substantiarum
circa individua, id est quae prima sunt terminatur. Determinatio vero quoties ipse
terminus multa concludit, maior est, et minor quoties pauciora, quocirca genus
plurima colligit, species vero non tam plurima. Nam cum dico animal, etiam
hominem bovemque, et alia cuncta animalia hoc uno nomine clausi. Cum vero dico
homo, solos homines individuos hac nominis significatione conclusi, quocirca
maior fit determinatio per genus quam per speciem, et fit determinatio circa
substantiam qualitatis, vel quod substantialis qualitas in genere et specie
est, vel quod secundum quamdam communionem subiectorum dicitur. Sed per se
qualitas, ut album, neque ullius substantiam significat, neque ullam
communionem, sicut genus specierum suarum, et individuorum species, ostendit.
Quocirca aliud substantiae proprium requirendum est. INEST AUTEM SUBSTANTIIS ET
NIHIL ILLIS ESSE CONTRARIUM. PRIMAE ENIM SUBSTANTIAE QUID ERIT CONTRARIUM? UT
ALICUI HOMINI; NIHIL ENIM EST CONTRARIUM; AT VERO NEC HOMINI NEC ANIMALI NIHIL
EST CONTRARIUM. NON EST AUTEM HOC SUBSTANTIAE PROPRIUM SED ETIAM MULTORUM
ALIORUM, UT QUANTITATIS; BICUBITO ENIM NIHIL EST CONTRARIUM, AT VERO NEC DECEM
NEC ALICUI TALIUM, NISI QUIS MULTA PAUCIS DICAT ESSE CONTRARIA VEL MAGNUM
PARUO; DETERMINATORUM VERO NULLUM NULLI EST CONTRARIUM. Adiecit quoque aliud
substantiae proprium dicens substantiae nihil esse contrarium, hoc autem ex ea
quae sigillatim fit inductione confirmat. Homo enim homini vel equo, vel alicui
alii animalium non est contrarius. Sed si quis forsitan dicat, cum ignis atqua
aqua substantiae sint, ignem aquae esse contrarium, mentietur. Non enim ignis
aquae contrarius est sed qualitates ignis qualitatibus aquae opponuntur. Calor
enim et frigus contraria sunt, et humor et siccitas, quae qualitates cum aliae
sint in igne, aliae in aqua, ipsas substantias contrarias facere videntur sed
non sunt; hoc autem ex omnibus aliis substantiis potest probari, in quibus
nihil quisquam poterit invenire contrarium. Sed hoc solius substantiae proprium
non est, namque et quantitas definita contrariis caret. Nam neque duo tribus
contraria sunt, nec duobus quattuor, nec aliquid huiusmodi: nam si dicamus tres
duobus esse contrarios, cur non his duobus etiam quattuor vel quinque contrarios
esse ponamus? Nulla enim afferri ratio potest, cum tres duobus contrarii sint,
cur quattuor vel quinque duobus contrarii non sint. Quod si hoc est, vel
quattuor, vel tres, vel quinque, vel quicumque a duobus distant numeri, contrarii
fiant duobus, et erunt uni rei multa contraria, quod fieri non potest. Non est
igitur contrarium aliquid quantitati. Sed si quis dicat magnum paruo vel multae
paucis esse contraria, haec quidem etiamsi quis quantitates esse confirmat,
tamen definitae quantitates non sunt, quantum enim sit magnum vel quantum
paruum, non definit qui loquitur, eodem modo, etiam de multis atque paucis.
Quare si quis haec quantitates esse dicat, indeterminatas indefinitas quo esse
confitebitur. Dicit autem Aristoteles terminata, quantitati nihil esse
contrarium, ut duobus vel tribus, 196C vel lineae vel superficiei. Quod si
etiam aliae quantitates habent contraria, aliae vero non habent, nihil omnino
impedit ad hoc quod dicitur, proprium non esse substantiae, idcirco quod
constat quasdam quantitates non habere contraria. Quod si hoc et in
quantitatibus evenit; non esse contrarium, substantiarum proprium non est.
Atque haec quidem si quis magnum vel paruum in quantitatibus ponat, manifestum
ect (ut ipse est posterius monstraturus) haec non esse quantitates sed ad
aliquid, magnum enim ad paruum dicitur; sed cum ad ea loca venerimus, propositi
ordinem loci diligentius exsequemur. Nunc quoniam declaratum est et substantiae
nihil esse contrarium, et hoc ei proprium non esse, quoniam idem etiam in
quantitatibus consideratur, ad sequens proprium expositionis 196D semitam
convertamus.VIDETUR AUTEM SUBSTANTIA NON SUSCIPERE MAGIS ET MINUS; DICO AUTEM
NON QUONIAM SUBSTANTIA NON EST A SUBSTANTIA MAGIS SUBSTANTIA (HOC ENIM DICTUM
EST QUONIAM EST) SED QUONIAM UNAQUAEQUE SUBSTANTIA HOC IPSUM QUOD EST NON
DICITUR MAGIS ET MINUS; UT, SI EST IPSA SUBSTANTIA HOMO, NON ERIT MAGIS ET
MINUS HOMO, NEC IPSE A SE IPSO NEC AB ALTERO. NEQUE ENIM EST ALTER ALTERO MAGIS
HOMO, QUEMADMODUM ALBUM EST ALTERUM ALTERO MAGIS ALBUM, ET BONUM ALTERUM ALTERO
MAGIS BONUM; ET IPSUM SE IPSO MAGIS ET MINUS DICITUR, UT CORPUS, ALBUM CUM SIT,
MAGIS DICITUR NUNC QUAM PRIMO, ET CALIDUM MAGIS ET MINUS DICITUR; SUBSTANTIA VERO
NON DICITUR (NEQUE HOMO MAGIS DICITUR NUNC HOMO QUAM ANTEA DICITUR, NEC
CAETERORUM ALIQUID QUAE SUNT SUBSTANTIA); QUARE NON SUSCIPIET SUBSTANTIA MAGIS
ET MINUS. Hoc proprium non simpliciter dicitur sed cum aliqua distinctione: ait
enim substantium neque magis recipere, neque minus, non hoc dicens, quoniam
substantia non est magis ab alia substantia. Namque quidam homo cum sit
substantia, magis est substantia ab homine, id est ab specie, et homo ab
animali, id est a genere. Ergo non hoc dicit, quoniam non inveniuntur
substantiae quae a substantiis magis substantiae sint: hoc enim dictum est,
quoniam est, id est quoniam inveniuntur. Ait enim superius primas substantias,
id est individuas, maxime esse substantias, in secundis vere substantiis, magis
esse substantias species quam genera. Ergo non dicit, quoniam nulla substantia
ab alia substantia magis substantia est sed hoc ipsam quod est, quaelibet illa
substantia non dicitur magis et minus substantia, ut si est substantia homo,
non dicit quoniam homo non est magis et minus substantia, individuas enim homo
magis est substantia, species vero minus si ad primam, id est individuam,
substantiam referatur. Sed hoc dicit, hoc ipsum quod est, id est, homo non erit
magis homo vel minus homo; quocirca non dicit quoniam homo non est magis
substantia vel minus sed quoniam homo, hoc ipsum quod est, non est magis vel
minus homo, non est enim aliquis homo magis et minus homo; et hoc idem in
eiusdem comparatione convenit speculari. Nam ipse homo a seipso 197C non est
plus homo, at vero nec si ad alterum conferatur, ad alterum vero ita, ut sub
eadem coniunctione sint, ut quidam homo individuus ad aliquem individuum
hominem comparatus, non erit magis et minus homo, et ipsa species seipsa non
erit magis et minus homo; sed hoc palam est in substantiis, in qualitatibus
vero potest essc magis et minus, album enim potest fieri magis album seipso, et
suscipere magis et minus, ut sit magis album et minus album; potest et alio
albo plus esse album, ut lilium lana; et alio albo minus esse album, ut lana
lilio, et cygnus nive, atque idem in aliis qualitatibus, ut bono et calido.
Namque haec possunt temporibus permutari, et in plus minusue transduci, fit
enim aliquoties bono melius et deterius, et calido feruentius et tepidius: homo
vero quod est substantia, neque nunc plus erit homo quam fuit antea, neque post
magis aut minus erit hormo quam nunc est. Quocirca cum substantia non suscipiat
magis et minus, tamen proprium eius hoc non erit. Sed cur non sit proprium ipse
Aristoteles velut notum conticuit; nos autem addimus, quoniam non solum substantiae
non suscipiunt magis et minus sed et alia multa; circulus enim alio circulc non
erit magis circulus aut minus, nec duplum magis duplum vel minus; aequaliter
enim duplus est quaternarius: ad binarium, et denarius ad quinarium comparatus,
quocirca quoniam etiam in aliis idem est, hoc substantiae proprium non esse
putandum est. Sed haec quidem omnia quaecumque sunt 198A in substantiis
omnibus, propria tamen substantiae non sunt, eo quod etiam in aliis sint,
consequentia substantiae appelluntur. Hanc enim omnia substantias consequuntur,
ut ubicumque fuerit substantia, ea quae dicta sunt inveniantur, id est in
subiecto non esse, et praedicationes ab his univoce fieri, et quod hoc aliquid
significet, et quod nihil sit illis contrarium, et quod non suscipiant magis et
minus: illa vero quae non omnibus substantiis insunt accidentia sunt
substantiis, quocirca propria non sunt. Quod si propria non sunt, nondum quale
sit substantia demonstrant. Cuare ut substantiae qualitatem proprio
cognoscamus, talis est huic requirenda proprietas, quae et solis substantiis
insit et omnibus, haec autem huiusmodi est, quam ipse proposuit. MAXIME AUTEM
PROPRIUM SUBSTANTIAE VIDETUR ESSE QUOD, CUM SIT IDEM ET UNUM NUMERO,
CONTRARIORUM SUSCEPTIBILE EST. ET IN ALIIS QUIDEM NULLIS HOC QUISQUAM HABEAT
PROFERRE QUAE NON SUNT SUBSTANTIAE, QUOD UNUM NUMERO CONTRARIORUM ERIT
SUSCEPTIBILE; UT COLOR, QUOD EST UNUM ET IDEM NUMERO, NON ERIT ALBUM ET NIGRUM,
NEC EADEM ACTIO ET UNA NUMERO ERIT MALA ET BONA; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS
QUAECUMQUE SUBSTANTIAE NON SUNT. IPSA VERO SUBSTANTIA, CUM SIT UNA ET EADEM
NUMERO, CONTRARIORUM SUSCEPTIBILIS EST; UT QUIDAM HOMO, UNUS ET IDEM CUM SIT,
ALIQUANDO ALBUS ALIQUANDO NIGER FIT, ET CALIDUS ET FRIGIDUS, ET IMPROBUS ET
PROBUS. IN ALIIS VERO NULLIS TALE ALIQUID VIDETUR, NISI QUIS OPPONAT ORATIONEM
ET OPINIONEM DICENS HUIUSMODI ESSE; EADEM ENIM ORATIO ET VERA ET FALSA 198C
ESSE VIDETUR, UT, SI VERA ORATIO EST ALIQUEM SEDERE, CUM IPSE SURREXERIT EADEM
IPSA ERIT FALSA; SIMILITER AUTEM ET IN OPINIONE; SI QUIS ENIM VERE OPINABITUR
SEDERE ALIQUEM, CUM IPSE SURREXERIT FALSE OPINABITUR, EANDEM DE EO RETINENS
OPINIONEM. QUOD SI QUIS ETIAM HOC RECIPIAT, AT MODO IPSO DIFFERT; EADEM ENIM
QUAE SUNT IN SUBSTANTIIS IPSA PERMUTATA CONTRARIORUM SUNT SUSCEPTIBILIA
(FRIGIDUM ENIM EX CALIDO FACTUM PERMUTATUM EST, ET NIGRUM EX ALBO ET PROBUM EX
IMPROBO, SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS SINGULA IPSA PERMUTATIONEM SUSCIPIENTIA
CONTRARIORUM SUSCEPTIBILIA SUNT), ORATIO VERO ET OPINIO IPSA QUIDEM IMMOBILIA
OMNINO SEMPERQUE PERMANENT, RE VERO MOTA CONTRARIETAS CIRCA EA FIT; ORATIO ENIM
PERMANET EADEM SEDERE ALIQUEM, RE VERO MOTA ALIQUOTIENS QUIDEM VERA FIT
ALIQUOTIENS FALSA; SIMILITER AUTEM ET IN OPINIONE. QUAPROPTER HOC MODO PROPRIUM
ERIT SUBSTANTIAE UT SECUNDUM PROPRIAM PERMUTATIONEM SUSCEPTIBILIS CONTRARIORUM
SIT -- SI QUIS ETIAM HOC SUSCIPIAT, OPINIONEM ET ORATIONEM CONTRARIORUM ESSE
SUSCEPTIBILES. Ait maxime proprium esse substantiae, quod eadem et una numero
contrariorum susceptiva sit, nihil contrarium superioribus dicens. Illic enim dixerat
substantias substantiis non essecontrarias, hic vero dicit non substantias
substantiis esse contrarias sed res in se contrarias posse suscipere, ut unus
atque idem homo, nunc quidem sit sanus, alio vero tempore sit aeger, aegritudo
autem et sanitas contraria sunt. Ergo quoniam declaratum est substantiam posse contraria
suscipere, demonstrandum est quemadmodum hoc solis substantiis insit; hoc enim
in nullis aliis invenitur, namque in qualitate qualitas non erit eadem, neque
una numero contrariorum susceptiva, idem enim et unum numero non erit album
atque nigrum, cum album fuerit et post in nigrum vertitur, tota qualitatis
species permutatur, et non erit unum atque idem numero quod contrarium est sed
diversum. At vero et actio eadem et una numero non erit bona atque mala sed
fortasse una bona, alia mala, ita ut diversae sint, non eaedem numero, hoc
etiam in aliis reperitur. Ipsa vero substantia cum una sit et numero
singularis, contraria suscipit, ut idem atque unus homo cum fuerit candidus
atque albus a sole tactus nigrescit, et album in nigrum convertitur, et in
contrarium permutatur, utrasque res in se contrarias suscipiens. Nulli igitur
alii inesse hoc nisi solis substantiis, satis superiora demonstrant. Si quis
autem opponat orationem et opinionem unam atque eamdem contrariorum esse
susceptibilem, ideo quod cum dico Cicero sedet, vel eum sedere opinor, cum vere
sedet, vera est et oratio de eodem et opinio quod sedet; cum vero surrexit
ille, eadem permanet opinio vel oratio quae dicit vel arbitratur Cicero sedet
sed falsa est, quod non sedet, videtur opinio atque oratio eadem et una numero
nunc quidem esse vera, nunc autem falsa, et contraria ipsa suscipere sed hoc
falsum est, quod oratio et opinio contraria non recipiunt: nam si quis hoc
recipiat quod etiam oratio atque opinio contrariorum suscepliva sint, non tamen
eodem modo quo substantia. Nam substantia ipsa contraria suscipiens permutatur,
Cicero namque ipse in se aegritudinem suscipiens ex sano factus est aeger, et
mutatus ipse contraria suscipit; sermo vero vel opinio ipsa quidem immutata
permanent sed cum rebus de quibus dicuntur permutatis ipsa, inveniuntur falsae
esse vel verae. Et substantia quidem ipsa cum iis quae suscipit contrariis
permutatur; oratio vero et opinio, eo quod res de quibus dicuntur vel
arbitrantur permntentur, ipsae videntur falsis esse vel verae. Nam cum dico
Cicero sedet, si ille surrexit, oratio quidem ipsa nihil passa est sed res de
qua fuit ipsa oratio mota est. Qui enim sedebat surrexit, idcirco ex vera
oratione facta est falsa. Quocirca substantia ipsa suscipiens (ut dictum est)
contraria permatatur, oratio vero vel opinio non mutatur sed re circa eas mota
ipsae verae vel falsae sunt. Quare proprium substantiae ita esse putabitur
contrariorum susceptibile, ut ipsa permutata contraria suscipiat, non ut, re
mutata, ipsa impermutata immutabilisque permaneat. Atque hoc dictum est, si
quis orationem atque opinionem contrariorum susceptibiles putet, non autem esse
orationem atque opinionem contrariorum susceptibiles. Ipso rursus adiecit. NON
EST AUTEM HOC VERUM; ETENIM ORATIO ET OPINIO NON QUOD EA SUSCIPIANT ALIQUID
CONTRARIORUM ESSE SUSCEPTIBILIA DICUNTUR SED QUOD CIRCA ALTERAM QUANDAM
PASSIONEM SINT. EO ENIM QUO RES EST VEL NON EST, EO ORATIO VEL VERA VEL FALSA
DICITUR, NON EO QUOD IPSA SUSCEPTIBILIS EST CONTRARII. SIMPLICITER ENIM NIHIL
NEQUE ORATIO MOVETUR NEQUE OPINIO, QUARE NON ERUNT SUSCEPTIVAE CONTRARIORUM
NULLO IN EIS FACTO. SUBSTANTIA VERO, QUOD IPSA SUSCIPIAT CONTRARIA, EO DICITUR
CONTRARIORUM SUSCEPTIBILIS. AEGRITUDINEM ENIM ET SANITATEM SUSCIPIT, ET
ALBEDINEM ET NIGREDINEM; ET UNUMQUODQUE TALIUM IPSA SUSCIPIENS CONTRARIORUM
ESSE DICITUR SUSCEPTIBILIS. QUARE PROPRIUM ERIT SUBSTANTIAE, CUM SIT IDEM ET
UNUM NUMERO, SUSCEPTIBILEM CONTRARIORUM ESSE. ET DE SUBSTANTIA QUIDEM HAEC
DICTA SINT. Ait enim orationem atque opinionem ipso quidem contrarii nullius
esse susceptibila, neque enim falsitas veritasque in oratione vel opinione
insita est sed idcirco videntur contrariorum esse susceptibilia, quod (ut ipse
ait) circa alteram quamdam passionem sint, hoc est circa hoc esse opinionem vel
orationem. Nam circa sedere et non sedere. quae sunt contraria, est sedendi
aliquem et non sedendi opinio vel oratio, atque ideo quoniam circa alias res
sunt quae sibi sunt contrariae, illis permutatis, ista videntur esse contraria,
non quod ipsa suscipiant contraria sed quod circa contrarias passiones rerum
sint. Nam neque oratio neque opinio permutatur sed sola tantum de quibus est
oratio atque opinio, id est sedere et non sedere. Quocirca quoniam nullam ipsa
oratio vel opinio suscipiunt passionem, nec quidquam in eis fit, atque evenit
contrarium, contrariorum esse susceptibilia non videntur. At substantia eo quod
ipsa suscipiat contrarium, contrariorum dicitur esse susceptibilis. Cicero enim
suscipiens sanitatem sanus fit, et suscipiens aegritudinem fit aeger. Oratio
vero atque opinio (ut dictum est) contraria non suscipiunt. Quare erit hoc
proprium substantiae contrariorum esse susceptibilem. Sed si quis forsitan
dicat cur cum ignis calidus sit nunquam frigus suscipiat, et cur cum aqua sit
humida nunquam suscipiat siccitatem. His enim oppositis, videtur non omnis
substantia contrariorum esse susceptibilis, et substantiae hoc proprium
infirmabitur, cum non sit in omnibus substantiis. Sed dicendum est quoniam ea
contraria suscipere vidantur substantiae quae sunt in eius natura non insita,
alioqui non suscipit quidquid illi substantialiter adest. Suscipere enim
dicimus aliquid de rebus extrinsecus positis et praeter substantiam constitutis:
quoniam igitur in substantia ignis inest calidum esse, ignis calorem non
suscipit; quocirca neque est ignis caloris susceptibilis, neque frigoris.
Calorem quidem non suscipit, idcirco quod eius naturae substantiaeque
immutabiliter adhaesit. Frigus enim non suscipit, quoniam caloris natura ipsius
ignis contrarium sponte repudiat. Quocirca si quid est quod suscipiat ignis, id
est extrinsecus positum, accipiat necesse est eius quoque contrarium, ipse unus
permanens ac singularis. Idem quoque de aqua dicendum est: illa enim sicut
ignis calorem, sic non suscipit humiditatem sed est quodammodo et ipsi
humiditas naturaliter insita; arque ideo calor ignis, vel humiditas aquae non
solum qualitates dicuntur sed etiam substantiales igni et aquae qualitates;
namque aqua quoniam in se neque frigidus neque calorem substantialiter habet,
susceptibilis et frigoris et caloris esse dicitur. Quocirca non de his
contrariis loquitur quae substantialiter insunt sed his qua potest suscipere
unaquaque substantia, id est quod potest extrinsecus adhiberi: hoc autem in
omnibus esse substantiis manifestum est: nam quoniam Cicero sanus et aeger est,
homo sanus et aeger est; et si homo sanus et aeger est, animal sanum atque
aegrotum est. Sed cum duobus modis animal atque homo spectentur, uno quod 202A
de pluribus praedicentur, altero quod substantiae sint, in eo quod de pluribus
praedicautur contrariorum susceptiva non sunt: ut animal in eo quod de
speciebus dicitur, neque sapiens est, neque insipiens, et homo in eo quod de
individuis dicitur, neque sanus est, neque aeger; in eo vero quod substantiae
sunt, et quod individuis substantiis praesunt, contrariorum susceptibiles sunt.
Quocirca erit hoc solius proprium substantiae, contrarium esse susceptibilem. Haec
de substantia dicta sufficiant. Secundi vero voluminis series ab expositione
inchoabitur quantitates. Et si nos curae officii consularis impediunt quominus
in his studiis omne otium plenamque operam consumimus pertinere tamen videtur
hoc ad aliquam reipublicae, curam, elucubratae rei doctrina cives instruere.
Nec male de civibus meis merear, si cum prisca hominum virtus urbium caeterarum
ad hanc unam rempublicam, dominationem, imperiumque transtulerit, ego id saltem
quod reliquum est, Graecae sapientiae artibus mores nostrae civitatis instruxero.
Quare ne hoc quidem ipsum consulis uacat officio, cum Romani semper fuerit
moris quod ubicumque gentium pulchrum esset atquelaudabile, id magis ac magis
imitatione honestare. Aggrediar igitur et propositi sententiam operis
ordinemque contexam. QUANTITATIS ALIUD EST CONTINUUM, ALIUD DISGREGATUM ATQUE
DISCRETUM; ET ALIUD QUIDEM EX HABENTIBUS POSITIONEM AD SE INVICEM SUIS PARTIBUS
CONSTAT, ALIUD VERO EX NON HABENTIBUS POSITIONEM. EST AUTEM DISCRETA QUANTITAS
UT NUMERUS ET ORATIO, CONTINUA VERO UT LINEA, SUPERFICIES, CORPUS, PRAETER HAEC
VERO TEMPUS ET LOCUS. PARTIUM ENIM NUMERI NULLUS EST COMMUNIS TERMINUS AD QUEM
PARTES IPSIUS CONIUNGANTUR; UT QUINARIUS, SI EST PARS DENARII, AD NULLUM
COMMUNEM TERMINUM CONIUNGUNTUR QUINQUE ET QUINQUE SED DISIUNCTI SUNT; ET TRES
ET SEPTEM AD NULLUM COMMUNEM TERMINUM CONIUNGUNTUR; NEQUE OMNINO ALIQUIS
HABEBIT IN NUMERO SUMERE COMMUNEM TERMINUM PARTIUM SED SEMPER DISCRETAE SUNT;
QUARE NUMERUS DISCRETORUM EST. SIMILITER 201D EST AUTEM ET ORATIO DISCRETORUM;
(QUONIAM ENIM QUANTITAS EST ET ORATIO MANIFESTUM EST; MENSURATUR ENIM SYLLABA
LONGA ET BREVIS; DICO VERO ILLAM QUAE FIT CUM VOCE ORATIONEM); AD NULLUM ENIM
COMMUNEM TERMINUM PARTES EIUS CONIUNGUNTUR; NEQUE ENIM EST COMMUNIS TERMINUS AD
QUEM SYLLABAE CONIUNGUNTUR SED UNAQUAEQUE DISCRETA EST SECUNDUM SEIPSAM. Post
substantiae tractatum cur de quantitate potius ac non de qualitate proposuerit
haec causa est, quod omnia quaecumque sunt, simul atque sunt in numerum cadunt.
Omnis enim res aut est una aut plures: unum vero vel plures quantitatis
scientia colliguntur. Sed non omnis res simul atque est aliquam accipit qualitatem,
ipsa enim materia sub quantitatis quidem principium cadit, quod una est sub
qualitatem vero minime; ipsa enim cunctis est iuterim qualitatibus absoluta,
superaddita vero forma quadam afffcitur qualitate: per se autem numero quidem
una est, qualitate vero nulla; quocirca si res omnis simul atque est cadit in
numerum, non autem omnis res mox ut est statim suscipit qualitatem, recte prius
de quantitate proposuit. Est quoque alia causa cur prius de quantitatis ratione
pertractet. Omne enim corpus ut sit, tribus dimensionibus constat, longitudine,
latitudine, altitudine: ut vero sit corpus cum qualitate, tunc erit aut album,
aut nigrum, aut quodlibet aliud; et quoniam prius est esse corpus, post vero
esse corpus album, prius erit corpori tribus constare dimensionibus 202C quam
esse album. Sed tres dimensiones et numero et continuatione spatii quantitates
sunt. Longitudo enim et latitudo et altitudo in quantitatibus numerantur, album
vero qualitatis est: quocirca si prius est ex tribus constare dimensionibus
quam esse album, prior erit quantitas qualitate, quocirca recte est tractatus
de quantitate propositus. Item alia causa, quod quantitas plura habet
substantiae consimilia: nam quemadmodum substantiae nihil est contrarium, et
substantia non recipit magis et minus, sic etiam quantitas: quantitati enim
nihil est contrarium, nec quantitas recipit magis et minus, ut paulo post
docebimus; qualitas vero et contraria suscipit, ut album et nigrum, et magis et
minus, ut candidius et nigrius, et candidissimum et nigerrimum; id enim sumit
intentionem quod potest sumere diminutionem. Quod si substantiae similior
quantitas est recte post substantiam de quantitate proposuit. Quantitatis autem
dicit esse differentias duas: quantitatis namque alia discreta est disgregata,
alia vero continua. Post hanc rursus divisionem alio modo partitus est
quantitatem: dicit enim quantitatis aliam quae constat ex habentibus positionem
ad se invicem suis partibus; aliam vero ex non habentibus positionem. Unam vero
rem diverse posse dividi manifestum est, hoc modo, ut si quis dividat animal
dicens: Animalium alia sunt rationabilia, alia irrationabilia; et rursus eamdem
ipsam rem alia modo partiamur, ut est, Animalium alia sunt gressibilia, alia
non gressibilia, eorumque animalium rursus, alia sunt carnibus uescentia, alia
herbis, alia seminibus. Hic ergo una eademque res diverso ordine modoque divisa
est. Ita igitur Aristoteles unum idemque quantitatis nomen diverse partitus est
in ea scilicet quae discreta essent, et quae continua, et in ea quae haberent
positionem partium, et quae non haberent. Sed de secunda divisione posterius
dicendum est, nunc prima tractetur. Ait enim de prima divisione hoc modo: Quantitatis
aliud est continuum, aliud disgregatum. Disgregatum est cuius partes nullo
communi terrrino coniunguntur. Continuum vero cuius partes habent aliquem
communem terminum, ad quem videantur esse coniunctae. Discretarum namque
quantitatum ipse exempla ponit et species. Oratio enim discreta est quantitas,
eodemque 203B modo et numerus, et numerum esse quantitatem nemo dubitat.
Discreta vero est, quoniam denarius numerus cum constet ex quinque et quinque,
quae res quinarium ad quinarium. iungat ut faciat denarii corpus, non potest
inveniri. Nam si tres et septem quis dixerit, quo communi termino tres et
septem coniungantur, ut denarii reddatur unum integrum corpus, nullus inveniet,
atque hoc quidem in omni numero speculari licet. Nullus enim numerus ita partes
habet, ut eas aliquis communis terminus iungat sed semper partes ipsae
disiunctae atque discretae sunt, et huiusmodi vocatur quantitas discreta.
Numerus ergo discreta quantitas est, orationem vero quantitatem esse dicit,
idcirco quod omnis oratio ex nomine constet et verbo sed haec syllabis
constant. Omnis autem syllaba vel longa vel brevis est. Longum vero vel breue
sine ulla dubitatione quantitas est, quocirca quod ex quantitatibus constat, id
quantitatem esse quis dubitet? At vero oratio ipsa cum sit quantitas, illa
quoque discreta est. Cum enim dico Cicero, quod orationis est pars, partes
huius nominis ci et ce et ro nullo communi termino coniunguntur. Non enim
reperiemus quo communi termino iungatur ci syllaba ad ce syllabam, vel rursus
ce syllaba ad ro syllabam. Quocirca etiam oratio quantitas videtur esse
discreta. Sed si quis fortasse dicat hunc eorum esse communem terminum, quo ita
iunguntur, ut aliquid significent, ut in hoc ipso nomine Cicero communis
syllabarum terminus ipsa significatio sit. Si enim ce syllaba, quae media est,
prima ponatur, et ro, quae ultima est, media, et ci, quae plima est, ultima,
nomen quod erat antea, id est Cicero, transuersis per loca syllabis nihil
significabit. Illi dicendum est quoniam quaecumque in quadam oratione
proferuntur, sive significent, sive nihil significent, syllabarum communis
terminus nullus est. Nam si quis dicat, permutatis syllabis, quod est Cicero,
ceroci significationem quidem amisit sed aequaliter syllabae ad nullum communem
terminum coniunguntur. Quod si quis hunc quidem ipsum sermonem aliquid
significare posuerit, ut hoc ipsum Cicero aliquid significat, significatio
quidem addita est , nullus tamen syllabis terminus appositus. Quare sive
significet, sive nihil significet nomen, partes eius discretae atque disiuncta,
sunt, et nullo communi termino con iunguntur; quoniam vero Graeca oratione
*logos* dicitur etiam animi cogitatio, et intra se ratiocinatio, *logos* quoque
et oratio dicitur, nequis Aristotelem cum diceret *logon*, id est orationem, quantitatem
esse discretam, de eo putaret dicere quem quisque *logon*, id est rationem, in
propria cogitatione disponeret, hoc addidi. Dico autem illam quae fit cum voce
orationem. Apud Romanam namque linguam discreta sunt vocabula orationis atque
rationis. Graeca vero oratio utriusque vocabulum et rationis et orationis
*logon* appellat. Quare ne quid mendax translatio culparetur, idcirco hoc
quoque addidi: Dico vero illam quae fit cum voce orationem, apud Latinos enim
nulla alia oratio est praeter hanc solam quae fit cum voce orationem. Apud
Graecos vero est alius *logos* qui fit in animi cogitatione. Quocirca nequid
deesset, etiam hoc quod Latinam orationem minus esset conveniens, transtuli.
Quod quare ita fecerim, hac expositione patefeci, atque haec quidem de discreta
quantitate sufficiant. Continua vero quantitas est (ut dictum est) cuius
quantitatis partium communis terminus invenitur, ut est linea, superficies,
corpus, et praeter haec tempus, et locus, quod ipse Aristoteles designat his
verbis: LINEA VERO CONTINUA EST; NAMQUE EST SUMERE COMMUNEM TERMINUM AD QUEM
PARTES IPSIUS CONIUNGUNTUR, HOC EST AUTEM PUNCTUM, ET SUPERFICIEI LINEA
(SUPERFICIEI ENIM PARTES AD QUENDAM COMMUNEM TERMINUM CONIUNGUNTUR). SIMILITER
AUTEM ET IN CORPORE HABEBIT QUIS SUMERE COMMUNEM TERMINUM, 204C VEL LINEAM VEL
SUPERFICIEM, AD QUEM PARTES CORPORIS CONIUNGUNTUR Postquam de discretis
explicuit, transiit ad species continuae quantitatis. Continuae autem
quantitates sunt (ut dictum est) in quarum partibus quidam communis est
terminus, ut linea. Si quis enim dividat lineam, quae est longitudo sine
latitudine, duas in utraque divisione lineas facit, et utriusque ex divisione
lineae singula in extremitatibus puncta redduntur. Lineae enim termini puncta
sunt. Quocirca cum illa linea divisa non esset, utraque puncta quae in utrisque
linearum capitibus post divisionem apparent, simul antea fuisse intelliguntur,
quae sunt in divisione separata. Intelligitur ergo partium lineae communis
terminus, punctum, id est quoddam paruissimum quod in partes dividi secarique
non possit: Superficies quoque, quae est latitudo sine altitudine, communem
terminum habet in partibus, lineam, corpus vero solidum, superficiem. Eodem
enim modo divisa superficies duas per singulas partes lineas efficiet,
quemadmodum et in linea divisa duo puncta altrinsecus reddebantur. Corpus
quoque solidam cum diviseris, duas in utrisque divisionis partibus superficies
facies, quae cum coniuncta sint atque indivisa, punctum quidem partium lineae
intelligitar communis terminus. Linea vero superficiei, superficies autem
solidi corporis. Est autem signum continui corporis, si una pars mota sit,
totum corpus moveri; et si totum corpus movetur, certe simul aliae 205A partes
vicinae movebuntur, ut si iaceat virgula vel ex aere, vel ex ligno, vel ex
quolibet alio metallo, si quis unum eius caput vel quamlibet eius partem
moveat, tota mox virgula commovetur. Hoc autem idcirco evenit quod eius partes
quodam communi termino coniunguntur, et ille communis terminus una parte mota
caeteras movet. Hoc vero in discretis non est. In numero namque cum sint decem,
si unum movero, caeteri non moventur, immoti enim permanent novem; etsi plenus
tritico sit modius, si unum tritici granum movero, non omnia continuo grana
commovebuntur, idcirco quod discreta est multitudo, nec granum grano ullo
communi termino videtur implicitum. At vero si ipsius grani pars una sit mota,
totum corpus grani moveatur necesse est. Non autem 205B nunc hoc dicitur, quod
linea constet ex punctis, aut superficies ex lineis, aut solidum corpus ex
superficiebus sed quod et lineae termini puncta sunt, et superficiei lineae, et
solidi corporis superficies, nullaque res suis terminis constat. Quocirca
punctum lineae non erit pars sed communis terminus partium. Superficiei linea,
et superficies solidi corporis non erunt partes sed partium termini communes.
Constat igitur, et lineam et superficiem, et solidi corporis crassitudinem esse
continuam quantitatem. His alia rursus apponit. SUNT AUTEM TALIUM ET TEMPUS ET
LOCUS; PRAESENS ENIM COMMUNIS EST TERMINUS AD QUEM CONIUNGUNTUR PRAETERITA VEL
FUTURA. RURSUS LOCUS CONTINUORUM EST; LOCUM ENIM QUENDAM PARTES CORPORIS
RETINENT, QUAE AD QUENDAM COMMUNEM TERMINUM CONIUNGUNTUR; 205C ERGO ET LOCI
PARTES, QUAS TENENT SINGULAE PARTES CORPORIS, AD EUNDEM TERMINUM CONIUNGUNTUR
AD QUEM ET PARTES CORPORIS IUNGEBANTUR; QUARE CONTINUUM EST ET LOCUS; AD UNUM
ENIM COMMUNEM TERMINUM EIUS PARTES CONIUNGUNTUR. Tempus quoque et locum
continuae quantitatis esse pronuntiat. Tempus namque esse quantitatem res illa
demonstrat, quod in spatio, id est in longitudine et in brevitate,
consideratur. Continuum vero esse res illa demonstrat quod partes temporis
habeant aliquem communem terminum ac medium, ad quem coniungantur extrema. Nam
cum sint partes temporis praeteritum et futurum, horum praesens tempus communis
est terminus, huius namque finis est, illius initium. Locus quoque continuorum
est. 205D Locum vero dicimus quodcumque illud sit quod partes corporis tenet,
sive supra, sive a latere, seu subter sit. Quod si cunctae partes corporis
locum aliquem tenent, et qui circa corpus est locus, per omne corporis spatium
partesque diffunditur, omnes corporis partes a loci partibus occupabuntur. Quod
si ita est, qui communis terminus coniungebat corporis partes, eius termini locus
illa quoque loca quae sunt corporis partium iungit, et est eodem modo locus de
continua quantitate, quemadmodum et corpus. Ita enim communis terminus
invenitur in loco partium quemadmodum et corporis, idcirco quod corporis locus,
per corpus omne diffunditur. Quod autem dixit: SUNT AUTEM TALIUM ET TEMPUS ET
LOCUS, quoniam superius 206A de continuis loquebatur, tempus quoque et locum
continuis addidit dicens: SUNT AUTEM TALIUM ET TEMPUS ET LOCUS, id est
continuorum sed post continuae discretaeque quantitatis divisionem aliam a
principio rursus orditur. AMPLIUS ALIA SUNT QUAE EX HABENTIBUS AD SE INVICEM
POSITIONEM SUIS PARTIBUS CONSTANT; UT LINEAE QUIDEM PARTES HABENT AD SE INVICEM
POSITIONEM (SINGULAE ENIM IACENT ALICUBI, ET POSSIS COGNOSCERE ET DESIGNARE UBI
SINGULAE IN SUPERFICIE IACEANT ET AD QUAM CAETERARUM PARTIUM CONIUNGANTUR);
SIMILITER AUTEM ET SUPERFICIEI PARTES HABENT ALIQUAM POSITIONEM (SIMILITER ENIM
DESIGNABUNTUR SINGULAE UBI IACENT, ET QUAE AD SE INVICEM CONIUNGUNTUR). ET
SOLIDITATIS QUOQUE ET LOCI SIMILITER. Rursus digerit quantitatis differentias.
Sunt enim quantitatis aliae quidem quae ex habentibus positionem ad seinvicem
suis partibus constant, aliae vero quae nullam partium habent positionem.
Positionem vero partium retinere dicuntur, quarum triplex ista natura est:
primum ut eius partes alicubi sint, deinde ne pereant, tertio vero ut sese
partes ipsae coniungant et propria se ordinatione continvent, ut est linea.
Posita enim linea in superficie possis agnoscere ubi partes ipsius sint, caput quidem
lineae esse ac dexteram, medium medio loco, extremitatem vero ad sinistram, et
haec manentibus ipsis partibus dicuntur, partes enim lineae non pereunt sed in
loco in quo sunt permanent. Possis quoque monstrare quae pars 206C lineae cui
parti continventur, id est ad quam partem caput alterius partis extremitasque
coniungitur, ut dices haec pars, verbi gratia medietas, lineae hic finitur,
locum ubi desinat monstrans, alia rursus pars lineae totius hic incipit. Ergo
linea posita in superficie qualibet et locum aliquem partes eius retinent, et
partes ipsae non pereunt, et posset quilibet agnoscere ubi extremitas partium
coniungatur, et quo ad se invicem loco continventur. Hoc quoque idem in
superficie evenit, partes enim superficiei in aliquo loco sunt, et ipsae quoque
non pereunt, et ubi pars parti coniungatur ostenditur, idem quoque soliditas
habet, et loci quoque partes continuantur ad eas scilicet partes ad quas
corporis partes sibimet continuantur, sicut iam supra dictum est. Quocirca
eiusdem naturae erit et locus, cuius tota soliditas erit. Ergo et locus ex
eodem genere quantitatis est, quo est et soliditas, id est ex habentibus ad se
invicem positionem suis partibus constans. Locus igitur et ipse ex habentibus
suis partibus positionem ad se invicem constat. Ergo tria haec (sicut supra
dictum est) consideranda sum, ut ad se invicem positionem partes habere
videantur, id est locum in quo partes ipsae sint positae, ut partes illae non
pereant, ut sit partium continentia atque continuatio. Quod si quis dicat hanc
rem loco deesse, eo quod in loco non sit, in loco enim cuncta sunt, locus autem
in loco esse ipse non poterit. Dicendum est quoniam idcirco superficies et
soliditas et linea habere positionem partium 207A dicuntur, quod in loco siut,
et partes permaneant, et sint continuae. Quare multo magis ipse locus, cuius
neque partes pereunt, et sibi perpetue continuatimque coniunctae sunt, habere
positionem partium dicitur. Et de his quidem quae ex habentibus positionem ad
se invicem suis partibus constant haec dicta sint; quae vero non habent positionem
ipse rursus adiecit. IN NUMERO VERO NULLUS HABET PERSPICERE QUEMADMODUM PARTES
HABEANT AD SE INVICEM ALIQUAM POSITIONEM VEL UBI IACEANT VEL QUAE AD QUAM
CONIUNGANTUR; AT VERO NEC TEMPORIS; NIHIL ENIM PERMANET EX PARTIBUS TEMPORIS,
QUOD AUTEM NON EST PERMANENS, QUOMODO HOC HABEBIT ALIQUEM POSITIONEM? SED MAGIS
ORDINEM QUENDAM DICES RETINERE IDCIRCO QUOD TEMPORIS HOC QUIDEM PRIUS EST,
ILLUD VERO POSTERIUS. ET IN NUMERO QUOQUE EO QUOD PRIUS NUMERETUR UNUS QUAM DUO
ET DUO QUAM TRES; ET SIC HABEBUNT ALIQUEM ORDINEM, POSITIONEM VERO NON MULTUM
ACCIPIES. ET ORATIO SIMILITER; NIHIL ENIM EIUS PARTIUM PERMANET SED DICTUM EST
ET NON EST ULTRA HOC SUMERE, QUARE NON ERIT ULLA POSITIO EIUS PARTIUM CUIUS
PERMANET NIHIL. IGITUR ALIA EX HABENTIBUS AD SE INVICEM PARTIBUS POSITIONEM
CONSTANT, ALIA VERO EX NON HABENTIBUS POSITIONEM. Haec scilicet idcirco nullam
positionem ad se invicem partium retinent, quod his aliquid de supradictis
rebus deesse manifestum est. Numerus enim ipse discretus est, 207C nec partes
eius ad se invicem coniunguntur sed omnino discretae sunt. Atque idcirco non
est ex iis quae habent ad se invicem aliquam partium positionem, nec vero
possis ostendere qui numerus quo loco iaceat: habere autem positionem dicitur,
quod (ut dictum est) et in loco aliquo positum est, et ipsa positio manentibus
partibus constat, et ad se invicem coniunuatisque, ut ubiquaeque iaceat, et
quae ad quam continvetur possit ostendi; in numero vero nihil horum est. Nam
neque in aliquo loco esse positus demonstratur, nec eius partes coniunctae
sunt. Quocirca numero ex tribus his quae diximus duae res desunt, loci positio
et partium continuatio, tempus etiam quamquam sint eius partes continuae, tamen
quoniam non permanent sed semper moventur, semperque praetereunt, habere
positionem partium non dicitur. Semper enim veloci agitatione torquetur, et
currentis aquae more in nulla unquam statione consistit, quod quia partes eius
non permanent, ex habentibus ad se invicem positionem suis partibus constare
non dicitur. Sed haec quamquam positione in partium habere non possunt, tamen
habent ordinem quemdam, quem praeter positionem partium tantum retinent.
Dicimus enim priorem esse binarium quamternarium, atque hunc quam quaternarium,
et intempore nimirum idem ordo reuertitur. Posterius enim futurum praesente,
praesensque praeterito. Quocirca etsi haec non habent aliquam partium
positionem, retinent tamen ordinem. Quod vero dicit, positionem vero non multo
accipies, tales est ac si diceret, penitus non accipias. Multum enim pro omnino
videtur adiunctum, ac si diceret positionem vero non omnino accipies, idcirco
quod ipsa quidem continuatio dat aliquam imaginem, quod possit habere aliquam
partium positionem sed hoc minime est, idcirco quod quamvis sint continuae
quantitates, si tamen uno careant ex his quae superius dicta sunt, positionem
partium habere non possunt. Nam aqua quam fistula euomit, dum cadit quidem
retinet positionem; cum vero iam effusae undae se miscuerit, pcsitionem partium
perdit: et fluuius quoque quando in pelagus fluit, et positionem videtur habere
partium et esse continuus, cum nondum marinae aquae fluuii superficies ipsa
permista est; cum vero extremitas amnis marina alluuione contingitur, totam
sine dubio positionem videtur amittere. Oratio quoque similiter sese habet; nam
nec ipsa ullo loco posita est, nec eius partes ad aliquam coniunguntur sed a
seinvicem illae discretae sunt, nec cum eius partes dictae sunt, permanent,
atque hoc est quod ait. Sed dictum est, et non est ultra hoc sumi. Mox enim
dicitur sermo, mox praeterit, nec ullaratione poterit permanere, quare mox ut
aliquid dictum sit, eius partes ostendi et demonstratione sumi non possunt.
Constat igitur orationem quoque ex his esse quae positionem partium non habent,
de ordine vero dubium est. Nam si quis sermo aliquid significet, ut est Cicero,
est in eo quidam ordo quod ci syllaba primum dicitur, secunda vero ce, tertia
ro, et potius ex significatione 208C ordinem sumit; si vero nihil significet,
nec ordinem dicitur habere, ut scindapsus nihil quidem significat; sed sive
secundam syllabam primam ponas, sive ultimam primam, sive quomodolibet
syllabarum ordinem seriemque permisceas, idem erit: in significativis enim
vocibus idcirco esse dicitur, quod illo ordine permutato vis significationis
euertitur, hic vero, ubi nulla est significatio, nihil interest quomodolibet
iaceant partes. Quare oratio in aliquibus quidem habet ordinem partium, in
aliis vero nec ordo ipse poterit inveniri. An fortasse oratio dici non potest
quae nihil significat, et nulla est oratio, quae ordinem non habeat? Ergo
secundum priorem quantitatis divisionem, ubi dicebatur quantitatis alia esse
continua, alia vero discreta, quinque sunt continua, duo vero discreta.
Continua quidem linea, superficies, soliditas, locus, tempus. Discreta vero
numerur, et oratio. In hac vero secunda divisione qua dicit alias quantitates
ex habentibus ad se invicem positionem constare partibus, quattuor quidem sunt
qua, retinent positionem, id est linea, superficies, corpus, locus; tria vero
quae positionem non habent sed ex his duo semper ordinem retinent, tempus
scilicet et numerus. Oratio vero si quid significet, habet ordinem; si vero
nihil significet, inordinata est; si tamen oratio nihil significans dici
possit, his dictis ipse concludit dicens: Igitur alia ex habentibus ad se
invicem partibus positionem constant, alia vero ex non habentibus positionem.
Hac igitur divisione finita 209A transit ad caetera monstrans quae proprie
quantitates nuncupatur, quae secundum accidens. PROPRIE AUTEM QUANTITATES HAE
SOLAE SUNT QUAS DIXIMUS, ALIA VERO OMNIA SECUNDUM ACCIDENS SUNT; AD HAEC ENIM
ASPICIENTES ET ALIAS DICIMUS QUANTITATES, UT MULTUM DICITUR ALBUM EO QUOD
SUPERFICIES MULTA SIT, ET ACTIO LONGA EO QUOD TEMPUS MULTUM ET LONGUM SIT, ET MOTUS
MULTUS; NEQUE ENIM HORUM SINGULUM PER SE QUANTITAS DICITUR; UT, SI QUIS
ASSIGNET QUANTA SIT ACTIO, TEMPORE DEFINIET, ANNUAM VEL SIC ALIQUO MODO
ASSIGNANS, ET ALBUM QUANTUM SIT ASSIGNANS SUPERFICIE DEFINIET (QUANTA ENIM
FVERIT SUPERFICIES, TANTUM ESSE ALBUM DICET); QUARE SOLAE PROPRIE ET SECUNDUM
SE IPSAE QUANTITATES DICUNTUR QUAE DICTAE SUNT, ALIORUM VERO NIHIL PER SE SED,
SI FORTE, PER ACCIDENS. Principaliter aliquid esse dicitur, quod per se tale
est quale esse demonstratur. Secundum accidens vero illud quod non per se sed
per aliud tale est quale esse dicitur, ut albedini per se inest color: secundum
naturam enim albi, color esse dicitur albedo; cum vero homo dicitur coloratus,
non per se dicitur, idcirco quod homo in eo quod homo est, color non est sed
quoniam habet colorem, idcirco dicitur coloratus. Ergo quemadmodum album
idcirco color est per se quoniam color naturale quoddam est genus, homo vero
idcirco coloratus dicitur quoniam habet colorem; et dicitur album quidem per se
et principaliter color, homo vero secundum accidens coloratus. Ita quoque et
quantitates; haec enim omnia quae dicta sunt, id est linea, superficies, corpus,
numerus, oratio, tempus, per se et secundum et propriam naturam quantitates
dicuntur. Si qua vero alia dicuntur secundum aliquam quantitatem, non per se
sed secundum accidens nominantur: ut album dicitur multum, non idcirco quod
albedo sit quantitas sed quoniam multa sit superfieies, in quo illud album sit.
Si enim multum spatium fuerit in quo album sit, multum erit album; quocirca non
quoniam ipsa albedo per se aliquam quantitatem habet sed quoniam in aliqua
quantitate est constituta, id est in superficie, idcirco secundum superficiem
quod est quantitas quas scilicet per se multa est, album multum dicitur, non
secundum se, atque ideo album non per se, nec principaliter sed secundum
accidens multum dicitur. Actio quoque ideo dicitur longa, quod multo tempore
acta sit; multam vero aegritudinem idcirco dicimus, si eadem multo sit tempore;
et motum multum idcirco, quod multo tempore factus sit, ut si quis multo
tempore eurrat. Si quis vero multum cursum illum dicat esse qui sit
velocissimus, ille convenienler sermone non utitur. Velocitas enim non
quantitas sed potius qualitas est, quales enim secundum eam dicimur, id est
veloces, non quanti. Secundum quantitatem vero multum dicitur, hoc autem
monstrat ipsa rerum definitio; si quis enim album multum monstrare desideret,
et proprio termino rationis includere, illi dicendum est multum esse album quod
in multa iaceat superficie, et motum 210A atque actionem multam quae longo
tempore perficiatur; quare quoniam ad proprias quantitates aspicientes, atque
ad eas res caeteras referentes, quantitates vocamus, ut album ad superficiem
quae vera est quantitas, et cursum, et aliquem motum atque actionem ad tempus,
quod ipsum vere quantitas est reducimus, haec non per se quantitates sed per
eas quae proprie quantitates dictae sunt nominantur. Quocirca quoniam quod per
se non est, secundum accidens est, recte caetera omnia praeter ea quae superius
in quantitate numerata sunt per accidens esse, non per se quantitates dicuntur.
Solae igitur proprie et secundum se ipsae quantitates dicuntur, hae quae
superius comprehensae sunt. Aliae vero per se quantitas non sunt sed (ut ipse
ait) forte per 210B accidens. Post divisionem igitur continui atque discreti et
habentis positionem partium et non habentis, et quae sunt per se principaliter,
et rursus per accidens quantitates, solito more viam inveniendi quantitatum
proprietas ingreditur. QUANTITATIBUS VERO NIHIL EST CONTRARIUM (IN HIS ENIM
QUAE DEFINITA SUNT MANIFESTUM EST QUONIAM NIHIL EST CONTRARIUM, UT BICUBITO VEL
TRICUBITO VEL SUPERFICIEI VEL ALICUI TALIUM -- NIHIL ENIM EST CONTRARIUM), NISI
MULTA PAUCIS DICAT QUIS ESSE CONTRARIA VEL MAGNUM MINORI. HORUM AUTEM NIHIL EST
QUANTITAS SED AD ALIQUID; NIHIL ENIM PER SE IPSUM MAGNUM DICITUR VEL PARUUM SED
AD ALIUD REFERTUR; NAM MONS QUIDEM PARUUS DICITUR, MILIUM VERO MAGNUM EO QUOD
HOC QUIDEM SUI GENERIS MAIUS SIT, ILLUD VERO SUI GENERIS MINUS; 210C ERGO AD ALIUD
EST EORUM RELATIO; NAM, SI PER SE IPSUM PARURUM VEL MAGNUM DICERETUR, NUMQUAM
MONS QUIDEM ALIQUANDO PARUUS, MILIUM VERO MAGNUM DICERETUR. RURSUS IN VICO
QUIDEM PLURES HOMINES ESSE DICIMUS, IN CIVITATE VERO PAUCOS CUM SINT EORUM
MULTIPLICES, ET IN DOMO QUIDEM MULTOS, IN THEATRO VERO PAUCOS CUM SINT PLURES.
AMPLIUS BICUBITUM VEL TRICUBITUM ET UNUMQUODQUE TALIUM QUANTITATEM SIGNIFICAT,
MAGNUM VERO VEL PARUUM NON SIGNIFICAT QUANTITATEM SED MAGIS AD ALIQUID; QUONIAM
AD ALIUD SPECTATUR MAGNUM ET PARUUM; QUARE MANIFESTUM EST QUONIAM HAEC AD
ALIQUID SUNT. AMPLIUS, SIVE ALIQUIS PONAT EA ESSE QUANTITATES SIVE NON PONAT,
NIHIL ILLIS ERIT CONTRARIUM; QUOD ENIM NON EST SUMERE PER SE IPSUM SED AD SOLAM
ALTERIUS RELATIONEM, QUOMODO HUIC ALIQUID ERIT CONTRARIUM? 210D AMPLIUS, SI
SUNT MAGNUM ET PARUUM CONTRARIA, CONTINGIT IDEM SIMUL CONTRARIA SUSCIPERE ET EA
IPSA SIBI ESSE CONTRARIA. CONTINGIT ENIM SIMUL IDEM PARUUM ESSE ET MAGNUM (EST
ENIM AD HOC QUIDEM PARUUM, AD ALIUD VERO HOC IDEM IPSUM MAGNUM); QUARE IDEM
PARUUM ET MAGNUM ET EODEM TEMPORE ESSE CONTINGIT, QUARE SIMUL CONTRARIA
SUSCIPIET; SED NIHIL EST QUOD VIDEATUR SIMUL CONTRARIA POSSE SUSCIPERE; UT
SUBSTANTIA, SUSCEPTIBILIS QUIDEM CONTRARIORUM ESSE vidETUR SED NULLUS SIMUL
SANUS EST ET AEGER, NEC ALBUS ET NIGER SIMUL; NIHILQUE ALIUD SIMUL CONTRARIA
SUSCIPIT. ET EADEM SIBI IPSIS CONTINGIT ESSE CONTRARIA; NAM SI EST MAGNUM ET
PARUUM CONTRARIUM, IPSUM AUTEM IDEM SIMUL EST PARUUM ET MAGNUM, IPSUM SIBI ERIT
CONTRARIUM; SED IMPOSSIBILE EST IPSUM SIBI ESSE CONTRARIUM. NON EST IGITUR
MAGNUM PARUO CONTRARIUM NEC MULTA PAUCIS; QUARE SI QUIS HAEC NON RELATIVA ESSE
DICAT, QUANTITAS TAMEN NIHIL CONTRARIUM HABEBIT. Definita quantitas est quae
alicuius termino numeri coercetur, ut sunt duo, vel tres, et quae ad hunc modum
dicuntur, ac si dicas bicubitum, tricubitum, et caetera. Et quae aliquid
propria significatione definita sunt, ut est superficies et soliditas, quid
enim et quae quantitates dicantur, agnoscitur: quocirca harum, quoniam sunt
definitae, nulla ulli contraria est; neque enim bicubito tricubitum contrarium
est, sicut neque numerus ulli numero, at vero nec superficies soliditati, nec
aliquid horum. Sed quoniam quaedam indefinita imaginem quamdam quantitatis
ostendunt ut magnum et paruam, quae videntur esse contraria, haec sibi
Aristoteles opponit dicens non esse quantitates sed magis ad aliquid, quod
ipsius sermonibus astruamus. Sed non est hoc proprium quantitatis non habere
contraria, non enim omnis quantitas contrariis caret sed nobis per singula
quaeque currentibus quae quantitatis species contraria non habeant, quaeue
habeant, considerandum est linea quidem contrario caret, linea enim lineae
contraria non est; sed si quis dicat rectam lineam curuae lineae esse
contrariam, fallitur. Non enim in eo quod linea est, curua linea recta? Lineae
contraria est sed in eo quod curua est, et in his non lineae videntur esse
contrariae sed ipsa rectitudo et curuitas. Quare non in eo quod quantitas est,
linea curua rectae lineae contraria est sed in eo quod qualis. Nam quoniam
curuitas et rectitudo contraria sunt, secundum id quod curua et recta est
linea, non secundum quod lineae sunt, suscipiunt contrarietatem; quocirca linea
in eo quod linea est contrario caret. At vero nec superficies superficiei
contraria est. Sed forte dicat aliquis albam superficiem nigrae superficici
esse contrariam; cui similiter occurrendum est, in co quod superficies sunt non
esse contraria sed in eo quod est in his albedo utque nigredo, quae contraria
esse quis dubitat? Eadem quoquemodo et lenem et asperam superficiem si quis
contrarias dixerit, refellitur, quod non secundum quantitatem superficici sed
secundum qualitatem asperitatis lenitatisque ipsae superficies contrarium
tenent. At vero nec corpori quidquam ullo modo contrarietatis opponitur, cui si
qui dicat incorporale esse contrarium, refutabitur, quod omnis contrarietas
propriis nominibus dicitur, ut bonum malum, album nigrum; corporale vero et
incorporale non secundum contrarietatem sed secundum privationem habitumque
proferuntur. Incorporale enim corporis est privatio. Nec tempori quoque
quidquam contrarium est sed si nox diei videtur opposita, non in eo quod tempus
est sed in eo quod dies est aer lucidus, nox aer obscurus. Aer vero neque
tempus neque quantitas est, lumen quoque et obscuritas qualitates sunt et non
quantitates. Oratio etiam quamquam videatur habere contrarium, tamen contrariam
non habet oppositionem, videtur etiam vera oratio esse et falsa, quae sunt
contraria sed oratio vera et falsa in significatione est. Cum enim quod est
oratio significat, vera est; cum vero quod non est designat, tunc falsa est.
Oratio vero non secundum id quod significat in quantitate numeratur sed
secundum id quod profertur. Secundum enim id quod proferimus orationem, longa
syllaba brevique componitur, quae omnem orationem non secundum id quod ipsa
significat sed secundum id quod ad prolationem est, metiantur. Illud quoque
manifestum est in numero non esse contraria, duo enim tribus, vel tres
quaternario contrarli non sunt, nec ullus alter numerus cuilibet alii numero
contrarius est. Locus vero habet aliquam contrarietatem, ursum enim et deorsum
contrarium est. Sed quidam volunt non esse quantitatis quod sursum dicitur et
deorsum sed potius habitudines, quas Graeci *skeseis* vocant: quae enim pars ad
caput nostrum est, hunc sursum vocamus; quae pars pedibus subiacet, illa
deorsum dicitur; quocirca secundum habitudinem quamdam quodammodo ad nos ipsos
relata sursum deorsumque praedicamus. Herminius quoque ait sursum et deorsum
non esse loca sed quamdam quodammodo positionem loci. Est enim res sursum atque
deorsum, non est autem idem esse aliquid loci, quod locum, loci enim est
positio in loco, locus vero ipse positio non est. Sed si quis omnem mundi
respiciat figuram, quomodo rerum omnium formam sphaerae ambitus amplectitur, et
terra media est, in sphaera vero nihil est ultimum, nisi quod eiusdem terminum
medietatis obtinuit, quidquid in extremo caeli convexitatis est, illud sursum
esse dicet, quod vero est medium, illud deorsum. Quocirca sunt secundum locum
sursum deorsumque contraria, sursum in caelo, deorsum in terra, idcirco quod a
se longe disiuncta sunt, unde post quoque contraria hoc modo sunt definita.
Contraria sunt quaecumque a se longissime distant: hinc est videlicet tracta
definitio, quod quoniam caelum terraque distant, longissime distare videbantur,
et illud esse sursum, haec vero deorsum, quoniam deorsum aeque sursum non ob
aliam causam contraria dicuntur, nisi quod a se longe disiuncta sunt, quod esse
contrarium longissime diatare definiunt, quod Aristoteles hoc modo pronuntiat. MAXIME
AUTEM CIRCA LOCUM ESSE VIDETUR CONTRARIETAS QUANTITATIS; SURSUM ENIM EI QUOD
EST DEORSUM CONTRARIUM PONUNT, REGIONEM MEDIAM DEORSUM DICENTES PROPTEREA QUOD
MULTA DISTANTIA EST MEDIETATIS AD MUNDI TERMINOS. VIDENTUR AUTEM ET ALIORUM
CONTRARIORUM DEFINITIONEM AB HIS PROFERRE; QUAE ENIM MULTUM A SE INVICEM
DISTANT IN EODEM GENERE CONTRARIA ESSE DEFINIUNT. In omni enim sphaera media
terra est, quod ipsa astrorum demonstrat ordinata vertigo, adiecit quoque
causam cur huiusmodi loca contraria dicantur, quod multa distantia est
medietatis ad mundi terminus. TERMINOS vero MUNDI caeli ultimam convexitatem
dicit; ex hac igitur loci contrarietate et caetera definita esse contraria sic
demonstrat. Videntur autem et aliorum contrariorum definitionem ab his
proferre, quae enim multum a se distant in eodem genere contraria esse
definiunt. Sed quoniam ne ordo contrarietate quantitatis impediretur, idcirco
superioribus, in quibus singulis quantitatibus nihil esse contrarium dicebamus,
has loci contrarietates adiecimus, et quaedam in medio praetermissa sunt,
rursus ad superiora redeamus, ut expositionis ordo sese ipse continvet. Ait
enim superius, cum quantitati nihil esse contrarium proponeret, bicubito,
veltricubito, vel superficiei, vel aliqui talium nihil posse esse contrarium.
Definitis enim his quantitatibus, contrarium nihil esse videtur, ut duobus vel
tribus sed quadam cum sint indefinita, nec quantitates et contraria videantur,
haec rursus adiecit. Nisi multa paucis dicat quis esse contraria, vel magnum
paruo. Horum autem nihil est quantitas sed ad aliquid, nihil enim per seipsum
magnum dicitur vel paruum sed ad aliquid refertur. Nam mons quidem paruus
dicitur, milium vero magnum, eo quod hoc quidem sui generis maius sit, illud
vero sui generis minus. Ergo ad aliud est eorum relatio, nam si per seipsum
paruum vel magnum diceretur, nunquam mons quidem aliquando paruus, milium vero
nunquam magnum diceretur. Rursus in vico quidem plures homines esse dicimus, in
civitate vero paucos, cum tamen sint eis multo plures, et in domo quidem
multos, in theatro vero paucos, cum sint plures. Amplius bicubitum et
tricubitum et unumquodque talium quantitatem significat, magnum vero vel paruum
non significat quantitatem sed magis ad aliquid, quoniam ad aliquid spectatur
magnum et paruum; quare manifestum est quod haec ad aliquid sunt. Quemadmodum
definitae quantitates contrariis non tenentur, ipse superius comprobavit dicens
bicubito vel superficiei nihil esse contrarium, indefinitae vero, ut est magnum
et paruum, multa et pauca, dant imaginem contrarietatis. Sed illud occurrit,
has non esse quantitates. Omnis enim quantitas per se dicitur, bicubitum enim
et tricubitum, et duo, et tres, et superficies ad nihil aliud refertur, magnum
vero vel paruum sine aliis dici non possunt. Cum enim dicis magnum, ad alicuius
alterius comparationem atque aequationem refertur. Eodem quoque modo et paruum,
quod ipsa Aristotelica probat inductio. Si enim magnum et paruum per se
dicerentur ad alterius relationem, nunquam diceremus montem paruum et milium
magnum. Si enim magnum paruumque non ad relationem alterius diceretur, mons
semper magnus, semperque paruum milium diceretur. Sed aliquem collem ad
Atlantis altitudinem conferentes, dicimus paruum montem, et rursus milium ad
minora alia grana milii conferentes, magnum milium nominanus, et simpliciter
quidquid magnum vel paruum dicitur ad eiusdem generis speciem referentes,
magnum paruumque nominamus, ut monti montem comparamus, milium vero milio, et
alia huiusmodi. Multa et pauca eodem modo dicuntur; dicimus enim, si fuerint homines
centum in vico, plures esse homines. At vero si in civitate sint, paucos
dicimus, nunc ad paruitatem vicorum, nunc ad magnitudinem civitatum
conferentes. Rursus si sint in domo quinquaginta multi sunt si in theatro
pauci, ideo quod tunc in theatro esse paucos dicimus cum ad eos quanti in
theatro esse debebant comparamus. Amplius: quoniam consistit magnum paruumque
referri semper ad alterum, singulas vero quantitates nihil ad aliud
comparantes, suas ac proprias nominamus, ut tres, duo, quator, lineam,
superficiem, magnum paruumque, multa et pauca, a quantitatis divisione
disiunota sunt. Sunt enim ista non quantitates sed potius relativa. Amplius:
sive aliquis ponat eas esse quantitates, sive non ponat, nihil illis erit contrarium,
quod enim non est sumere per seipsum sed ad solam alterius relationem, quomodo
huic aliquid erit contrarium. Hoc quoque validissimo argumento probatur
quantitatibus his quae praedictae sunt nihil esse contrarium, nisi soli
forsitan loco. Nam si quis magnum et paruum, vel multa et pauca in
quantitatibus ponat, etiam hoc si concedatur, tamen quoniam semper referuntur
ad aliud, contrariis non tenentur. Omne enim contrarium per se consistit, ne
illud ad alterius comparationem relationemque profertur, ut bonum non dicitur
mali bonuum, nec rursus malum boni malum sed ipsum in propria natura et
prolatione consistit. Quaecumque sunt contraria, eodem modo sunt. Magnum vero
et paruum quoniam non per se constant sed ad alterius relationem referuntur, contraria
esse non possunt. Amplius: si sunt magnum et paruum coniraria, contingit idem
simul contraria suscipere et ea ipsa sibi esse contraria. Contingit enim simul
idem paruum esse et magnum. Est enim aliquid ad hoc quidem paruum, ad aliud
vero hoc idem ipsum magnum. Quare idem paruum et magnum et eodem tempore esse
contingit, quare simul contraria suscipiet sed nihil est quod videatur simul
contraria posse suscipere, ut substantia, susceptibilis quidem contrariorum
videtur esse sed non suscipit in uno eodem tempore, nam nullus simul est sanus
et aeger, nec albus et niger simul, nihilque aliud simul contraria suscipiet.
Et eadem sibi ipsi contingit esse contraria. Nam si est magnum paruo
contrarium, ipsum autem idem simul est paruam et magnum, ipsum sibi erit
contrarium, sed impossibile est ipsum sibi esse contrarium. Non est igitur
magnum paruo contrarium. Constat hoc et immutabile in propria ratione
consistit, unam eamdemque rem uno eodemque tempore contraria non posse
suscipere, ut substantia susceptibilis quidem contrariorum est. Homo namque cum
substantia sit, et aegritudinem suscipiet et salutem sed non eodem tempore, et
albedinem et nigredinem capit sed alio atque alio tempore, ut vero uno eodemque
tempore contraria utraque suscipiat, fieri nequit, quodsi magnum paruo aliquis
contrarium ponat, eveniet quoddam impossibile, ut una atque eadem res eodem
tempore utrasque suscipiat contrarietates, et eadem ipsa sibi possint esse
contraria. Ponamus enim magnum paruo esse contrarium sed una atque eadem res,
uno eodemque tempore potest magna esse et parua, ut si sit decem pedum mensura
collata ad duorum pedum magnitudinem, magna est ad centum vero cubitorum
magnitudinem mansuramque collata, eadem parua est. Potest ergo eadem res eodem
tempore et magnitudinis esse susceptibilis et paruitatis. Eadem enim res uno
eodemque tempore ad maiorem minoremque collata eadem magna et parua est. Quod
si magnum paruo contrarium est, eadem vero res eodem tempore et magnitudinem
suscipit et paruitatem, eodem tempore contingit ut eadem res contraria utraque
suscipiat sed hoc impossibile est. Quocirca quoniam res eadem eodem tempore
contrariorum susceptibilis non est, potest vero una atque eadem res
magnitudinem paruitatemque suscipere, magnitudo et paruitas contraria non sunt.
At vero si quis magnum paruo contrarium ponat, eadem ratione unam eamdemque rem
sibi ipsi dicit esse contrariam. Nam si paruum magno est contrarium, eadem vero
res (ut docui) parua et magna potest esse ad aliud et ad aliud scilicet
comparata. Res quae parua et magna est, eadem sibi potest esse contraria,
paruum enim et magnum contrarium dictum est sed est impossibile. Quocirca
paruum et magnum contraria non sunt. Post huiusmodi vero rationem et
argumentationis firmissimae propositionem de contrarietate disserit loci, de
qua superius iam diximus, quocirca praetereunda est, ne repetitae expositionis
iteratio, fastidio sit potius quam doctrinae. NON VIDETUR AUTEM QUANTITAS
SUSCIPERE MAGIS ET MINUS, UT BICUBITUM (NEQUE ENIM EST ALIUD ALIO MAGIS
BICUBITUM); NEQUE IN NUMERO, UT TERNARIUS QUINARIO (NIHIL ENIM MAGIS TRIA
DICENTUR, NEC TRIA POTIUS QUAM TRIA); NEC TEMPUS ALIUD ALIO MAGIS TEMPUS
DICITUR; NEC IN HIS QUAE DICTA SUNT OMNINO ALIQUID MAGIS ET MINUS DICITUR.
QUARE QUANTITAS NON SUSCIPIT MAGIS ET MINUS. Aliud proprium rursus apposuit
quod quamvis quantitatis proprium non sit, cur tamen non sit ipse reticuit,
nobis tamen est demonstrandum; quod autem dicit tale est: quantitas magis et
minus non suscipit, nullus enim numerus alio numero nec magis nec minus est numerus.
Nam ternarius si quinario comparetur, nec magis nec minus est numerus, et
rursus ipsi tres sibi ipsis comparati, nec magis nec minus sunt tres, nec
tempus quoque habet aliquid magis et minus, ut magis aliud tempus sit alio
tempore, longius quidem tempus tempore esse potest, ut vero dicatur magis
tempus alio tempore vel minus fieri nequit. Hoc quoque etiam in substantia
demonstratum est, homo namque alio homine non est magis homo, nec minus. Idem
quoque evenit etiam in quantitate. Quod quia etiam in substantia est, proprium
quantitatis hoc non est, habet hoc quoque quantitas ut in sequenti ordine ipse
monstravit. Quocirca quoniam prius hoc de substantia dixerat, nunc vero idem de
quantitate proposuit, idcirco non esse hoc proprium quantitatis, commemorare
neglexit. Cuius enim esset alterius non suscipere magis et minus, tunc dixit cum
de substantia disputaret. Ait enim quod substantia nunquam magis minusue
suscipient, quocira ad maxima propria solita constituendi ratione regressus
est. PROPRIUM AUTEM MAXIME QUANTITATIS EST QUOD AEQUALE ET INAEQUALE DICITUR.
SINGULUM ENIM EARUM QUAE DICTAE SUNT QUANTITATUM ET AEQUALE DICITUR ET
INAEQUALE, UT CORPUS AEQUALE ET INAEQUALE, ET NUMERUS AEQUALIS ET INAEQUALIS
DICITUR, ET TEMPUS AEQUALE ET INAEQUALE; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS QUAE DICTA
SUNT E SINGULIS AEQUALE ET INAEQUALE DICITUR. IN CAETERIS VERO QUAE QUANTITATIS
NON SUNT, NON MULTUM VIDEBITUR AEQUALE ET INAEQUALE DICI, NAMQUE DISPOSITIO
AEQUALIS ET INAEQUALIS NON MULTUM DICITUR SED MAGIS SIMILIS, ET ALBUM AEQUALE ET
INAEQUALE NON MULTUM SED SIMILE. QUARE QUANTITATIS PROPRIUM EST AEQUALE ET
INAEQUALE NOMINARI. Quantitatis proprium apertissime designat esse, quod
secundum quantitatem aequalitas et inaequalitas nuncupatur. Singulae enim
quantitates aequales atque ivaequales dicuntur, ut aequalis linea lineae, et
rursus inaequalis, et superficiei superficies aequalis atque inaequalis
dicitur, et corpus aequale et inaequale dicitur. Numerus quoque et tempus et
locus aequalis atque inaequalis dicitur. In aliis autem quae quantitates non
sunt, non est facile ut aequalitas vel inaequalitas nominetur dispositiones
ergo quae affectiones appellantur, non dicuntur aequales vel inaequales sed
magis similes et dissimiles. Dispositio autem vel affectio est 216C ad aliquam
rem accommodatio et applicatio, ut si quis grammaticam legens, qui nondum
perdidicit, habet ad eam aliquam dispositionem, id est, ea affectus est, et
habet aliquid accommodatum, et quasi propinquum. Possunt autem similiter esse
duo dispositi et affecti, aequaliter vero minime, ut duo similiter esse albi,
aequaliter vero non. Nam si quis de duobus similiter albis aequaliter esse
albos dicat, recta nominis nunc usurpatione non utitur. Omne enim aequale et
inaequale, in mensura et in quantitate perficitur. Simile vero et dissimile
quemadmodum de quantitate non dicitur, ita nec de alia qualibet re nisi de
quantitate, recte aequalitas et inaequalitas nuncupantur. Quare proprium est
quantitatis aequale et inaequale nominari. Sed quoniam de quantitate dictum
est, ad relativorum ordinem transeamus. Post quantitatis tractatum tertium
praedicamentum de relativis ingreditor, quare relativa hoc modo definit. AD
ALIQUID VERO TALIA DICUNTUR QUAECUMQUE HOC IPSUM QUOD SUNT ALIORUM DICUNTUR,
VEL QUOMODOLIBET ALITER AD ALIUD, UT MAIUS HOC IPSUM QUOD EST AD ALIUD DICITUR
(ALIQUO ENIM MAIUS DICITUR), ET DUPLEX AD ALIUD DICITUR HOC IPSUM QUOD EST
(ALICUIUS ENIM DUPLEX DICITUR); SIMILITER AUTEM ET QUAECUMQUE ALIA TALIA SUNT. Cur
autem de his quae sunt ad aliquid disserat, omisso interim de qualitate
tractato, haec causa est, quod posita quantitate magis minusue esse necesse
est. Quare cum quantitatem continuo ad aliquid consequatur, recte post quantitatem
relativorum series ordinata est. Illud quoque est in causa, quod superius com de
quantitate tractaret, relativorum mentio facta est, cum de magno paruoque
diceretur, ut ergo continens et non esset operis interrupta distinctio, ideo
quantitate finita de relatione, proposuit. Quod autem ait, ad aliquid vero
talia dicuntur, hoc monstrat, quod non sicut quantitas per se et singulariter
intelligi potest, eodem quoque modo substantia et qualitas, et unumquodque
aliorum praedicamentorum, sicut per se constat, ita etiam per se et
singulariter intelligitur: sic ad aliquid per se et singulariter capi
intellectu non potest, ut dicamus esse ad aliquid singulariter. Quidquid enim
in natura relationis agnoscitur, id cum alio necesse est consideretur; cum enim
dico dominus, per seipsum nihil est, si seruus dicit. Quocirca 217B cum unius
relativi nuncupatio mox secum etiam aliud trahat ad aliquid, unum esse per se
non potest, atque ideo non dixit Aristoteles: Ad aliquid vero tale dicitur sed,
plurali numero, talia dicuntur, inquit, demonstrans relativorum intelligentiam
non in simplicitate sed in pluralitate consistere; non esse autem quamdam per
se relativorum naturam sine coniunctione aliqua alterius subsistente, ipse
Aristoteles monstrat, qui dicit ea esse relativa, quaecumque hoc ipsum quod
sunt aliorum dicuntur. Docet enim aliqua coniunctione alterius relativa
formari, hoc ipsum enim quod sunt aliorum dicuntur. Quod enim est dominus, hoc
alterius dicitur, id est serui. Sive autem relativa dicamus, sive ad aliquid,
nihil interest. Ad aliquid enim dicitur quod ipsum quidem cum per se nihil sit,
relatum tamen ad aliud constat, ut dominus, sit desit id ad quod dicitur, id
est, seruus, non est, dicitur enim ad seruum; munifestum ergo est si seruus
desit, dominum dici non posse, quare dominus ad aliquid dicitur, id est ad
seruum. Relativa quoque dicuntur idcirco, quod eorum nuncupatio semper ad
aliquid referatur, ut domini ad seruum, quare nihil interest quolibet modo
dicatur. Huiusmodi autem definitio Platonis esse creditur, quae ab Aristotele
paulo posterius emendatur. Relativorum autem alia eisdem casibus referuntur,
alia diversis, alia vero omni sunt casu carentia. Qued scilicet monstrans
addidit, vel quomodolibet aliter ad aliud. Quid autem est, ipsius pene textus
sermone moustratur. Cum enim dico dominus serui dominus, ad genitivum casum
reddidi nominativum, et rursus ad eumdem si 217D convertero. Dico enim seruus
domini seruos, et hic quoque nominativus ad genitivum relatos est. Eodem quoque
modo sese habet pater filii pater, et filios patris filius, et magister
discipoli magister, et discipulus magistri discipulos, haec ergo id quod sunt,
similiter aliorum dicuntur. Nam quod aliorum dicuntur secundum gentiivum
redditur casum, alia vero non secundum eumdem casum consequentiam reddunt.
Sensus enim ad aliquid est, sensibilis enim rei est sensus. Quod enim sensibile
est sentiri potest, quod senliri potest, sensibile est, et nunc quidem sensus
sensibilis rei sensus genitivo accommodatus est. Huius enim rei sensibilis
dictum est, at si convertas, 218A fiet. Sensibilis res sensu sensibilis est.
Sed cum sic casui septimo redditur nominativus in hac relatione, quae dicit
sensibile sensu sensibile est, non eodem casu quo superius dictum est
convertitur. Dicimus enim sensus sensibilis rei sensus est, et hic nominativus
redditur ad genitivum. Haec enim relatio ad septimum casum se aptari non
patitur. Scientia quoque scibilis rei scientia est, siquidem hoc scitur quod
sciri potest et quod sciripotest, scibile est sed non eadem ratione, nec ad
eumdem casum relatio ista convertitur. Dicimus enim scibilis res scientia scibilis
est. Est enim prima relatio ad genitivum, secunda conversio ad septimum. Haec
quoque relatio secundum eosdem convertitur casus, cum dicimus maius minore esse
maius, et minus maiore esse minus. Duplum quoque et medium relativa sunt sed et
eisdem casibus convertuntur. Duplum namque dimidii duplum est, dimidium vero
dupli dimidium est. Sunt autem alia quoque relativa quae ipse sic addidit. AT
VERO SUNT ETIAM ET HAEC AD ALIQUID, UT HABITUS, AFFECTIO, SCIENTIA, SENSUS,
POSITIO; HAEC ENIM OMNIA QUAE DICTA SUNT HOC IPSUM QUOD SUNT ALIORUM DICUNTUR
ET NON ALITER; HABITUS ENIM ALICUIUS HABITUS EST, ET SCIENTIA ALICUIUS
SCIENTIA, ET POSITIO ALICUIUS POSITIO, ET ALIA QUIDEM SIMILITER. De sensu
quidem et scientia dictum est superius, nunc vero de habitu, dispositione, et
positione dicendum est. Dispositio est ad aliquam rem mobilis applicatio, 218C
ut si quisquam flammae propinquus calcat, ille dispositus dicitur ad calorem,
id est, habens aliquam applicationem coniunctionemque ad calorem. Idem vero est
affectio quod dispositio, ne nouo nomine error oriatur: et ideo dispositio cum
eit quaedam ad aliam rem coniunctio, vel ab alia affectio, facile mobilis est,
celerius etenim permutatur. Habitus autem est dispositionis vel affectionis
firma et non facile permutabilis accessio, ut si quisquam in sole ambulans
fuscior fiat, dispositus ad nigredinem dicitur et nigredine affectus. Sin autem
illa nigredo fortius et immutabiliter corpus infecerit, habitus nominatur:
quocirca habitus est inveterata affectio. Unde omnis habitus dispositio vel
affectio est, non autem omnis dispositio vel affectio habitus. Et ne multa
dicenda sint, hoc quoque constat in habitu et dispositione, quod habitus
immutabilis passio est, dispositio vero non similiter sed affectio quaedam est,
et ad aliquam rem coniunctio, quae potest facile permutari. Positio vero est
alicuius rei collocatio, ut est statio, sessio, inclinatio, accubatio, et alia
huiusmodi. Nam et qui stat quodammodo positus esse dicitur et collocatus. et
qui sedet, et qui accumbit, et qui secundum caeteras positiones est positus
appellatur. Quocirca et statio et sessio et accubatio positiones erunt. Sed
quoniam quid essent dictum est, nunc si sunt ad aliquid videamus, habitum
relative dici ea res probat, quae aliis quoque rebus documento fuit esse
relativis, ut est in sensu atque in scientia. Idcirco enim dictum est sensum
sensibilis rei esse sensum, quod res sensibilis est quae sentiri potest; est
ergo habitus habilis rei habitus. Habilis enim res est quae haberi potest,
illius enim rei habitus est quae haberi potest. Quocirca erit habitus habilis
rei habitus sed res quoque habilis habitu erit habilis, ipso enim habita res
quae haberi possunt habemus. Dispositio quoque eodem modo. Dispositio namque
dispositae rei dispositio est, et disposita res dispositione disposita est.
Caloris enim dispositio calentis, id est, ad calorem dispositi, dispositio est.
Eodem modo dispositus ad calorem caloris dispositione dispositus est: velut si
hoc modo sit dictum, omnis affectio affecti affectio est, et omne affectum
affectione affectum est. Et calor calentis fit calor, et calens calore fit
calidum. Positio quoque relativa est, nam positio positae rei positio est, et
posita res positione posita est, et hoc intelligi convenit secundum priorem
habitus et dispositionis modum. Illa quoque res probat positionem esse ad
aliquid, quod eius species relativae sunt; statio enim stantis rei statio est,
et qui stat statione stat; et de sessione quidem et de accubitu idem dici potest.
Quocirca et habitus et dispositio vel affectio, et positio relativa sunt, et
haec omnia vel similibus vel dissimilibus convenientibus tamen praedicationi
casibus convertuntur. Eorum autem quae secundum casus convertuntur, alia sunt
quae eodem nomine praedicantur, alia vero quae dispari: cum enim dico simile
simili simile est, et aequale aequali aequale est, et dissimile dissimili
dissimile est, eisdem vocabulis 219C eisdemque nominibus tota fit praedicatio.
Cum autem dico duplum medii duplum, vel maius minore maius, disparibus
vocabulis facta est praedicatio. Quoniam vero relativorum definitionem ita
proposuit, ut diceret: ad aliquid vero talia dicuntur quaecumque hoc ipsum quad
sunt aliorum dicuntur, vel quomodolibet, aliter ad aliud; quid esset hoc ipsum
quod sunt aliorum dicuntur, iam diximus nunc quid sit; quod ait, vel
quomodolibet aliter ad aliud, requirendum est. Quod ipse Aristoleles
couvenientibus in ordine probat exemplis; ait enim: AD ALIQUID ERGO SUNT
QUAECUMQUE ID QUOD SUNT ALIORUM DICUNTUR VEL QUOMODOLIBET ALITER AD ALIUD; UT
MONS MAGNUS DICITUR AD MONTEM ALIUM (MAGNUM ENIM AD ALIQUID DICITUR), ET SIMILE
ALICUI SIMILE DICITUR, ET OMNIA 219D TALIA SIMILITER AD ALIQUID DICUNTUR. EST
AUTEM ET ACCUBITUS ET STATIO ET SESSIO POSITIONES QUAEDAM, POSITIO VERO AD
ALIQUID EST; IACERE AUTEM VEL STARE VEL SEDERE IPSA QUIDEM NON SUNT POSITIONES,
DENOMINATIVE VERO EX HIS QUAE DICTAE SUNT POSITIONIBUS NOMINANTUR. Quoniam
accubitus et statio et sessio positiones dicuntur, et quonism omnis positio ad
uliquid est, sufficienter superius comprehensum est. Nunc vero quid sit quod
ait, vel quomodolibet aliter ad aliud, expediemus, in relatione per quam
dicimus filius patris filius, nulla coniunctio mista est, nisi tantum sola
casuum vis praedicationis huius membra coniungit. Cum autem dico montem magnum,
ad alium referens paruam, ita propono, mons magnus, ad montem 220A paruum, et
mons paruus ad magnum, hic nullorum casuum vis: quamquam enim accusativus
videtur esse permistus, tamen ille huius relationis vim non tenet sed
praepositio quae ad accusativum datur; cum enim dico, mons magnus ad paruum
montem, praepositio sola est quae vim huius continet relationis, ut si quis
dicat magnus mons paruum montem, nihil significet definitum. Quocirca quamvis
accusativus casus in hac propositione sit, non tamen hic vim casus tenet sed
praepositio; atque hoc est quod ait, vel quomodolibet aliter ad aliud, ut
quoniam superius secundum casus relationes fieri dixerat, erant autem quaedam
relationes quae nullis casibus tenerentur, adiecit hoc, vel quomodolibet aliter
ad aliud, ac si diceret: Omnis relatio aut casibus fit, quod 220B per hoc
demonstravit quod ait, quaecumque id quod sunt aliorum dicuntur, aut praeter
casus sunt, quod haec sententia docet, vel quomodolibet aliter ad aliud, atque
haec hactenus. Sed cum positio sit ad aliquid, et sint species eius relativae
(sessio enim et statio relativa sunt) sedere et stare nulla relatio est. Stare
namque et sedere de statione et sessione denominative dicuntur. Omnis autem
denominatio non est id quod est ea res de qua nominatur, ut grammaticus, non
enim idem est quod grammatica de qua nominatus est. Quocirca si sedere de
sessione, et stare de statione denominativum est, sessio vero et stati relativa
sunt sedere et stare, quae a relativis denominativa sunt, relativorum genere non
tenentur. Et universaliter, quidquid ex quibuslibet positionibus 220C
denominatur, illud non ad relativa sed ad praedicationem quae situs dicitur
reduci potest. INEST AUTEM ET CONTRARIETAS IN RELATIONE, UT VIRTUS MALITIAE
CONTRARIUM EST, CUM SIT UTRUMQUE AD ALIQUID, ET SCIENTIA INSCIENTIAE. NON AUTEM
OMNIBUS RELATIVIS INEST CONTRARIETAS; DUPLICI ENIM NIHIL EST CONTRARIUM, NEQUE
VERO TRIPLICI NEQUE ULLI TALIUM. Quemadmodum in substantia vel quantitate si
eorum esset proprium contraria suscipere rimatus est, ita quoque nunc in
relativis de contrarietate considerat, utrum relativorum sit proprium contraria
posse suscipere, et quoniam virtus et vitia utraque sunt habitus, virtus enim
est mentis affectio in bonam partem, et difficile commutabilis, vitium affectio
in malam partem, ipsa quoque difficile mobilis 220D et diuturnitate perdurans:
quoniam igitur et vitium et virtus habitus sunt, omnis autem habitus ad aliquid
esse monstratus est (habilis enim rei habitus est) erunt virtus atque vitium
relativa sed haec contraria sunt, igitur relativa contraria suscipere non
recusant. Sed si dicat quis: quid causae est ut virtutem atque vitium ipsumque
habitum paulo post inter qualitates numeret? Atqui ut alia significatione una
res diversis generibus supponatur, nihil prohibet, Socrates namque in eo quod
est Socrates substantia est, in eo quod pater vel filius ad aliquid; ita ad
aliud atque ad aliud ducta praedicatione eamdem rem sub diverso genere nihil
poni prohibet. Habitus quoque et virtus et vitium eodem modo est. Potest enim
in 221A qualitate poni habitus quod ex eo quales homines nuncupentur, habentes
enim dicimus aliquos rei habitus retinentes. Virtus quoque qualitas est idcirco
quod ex eo boni homines dicuntur et secundum illam qualitatem, id est
bonitatem, quales homines, id est bonos homines nuncupamus; similiter autem et
vitium. Ipse quoque habitus ad aliam praedicationem dictus fit iterum
relativus: quod enim habitus habilis rei habitus est, ad aliquid est; et quod
alicuius virtus est, ad aliquid virtus est, et quod alicuius vitium est, ad
aliquid quoque ipsum est. Ergo nihil impedit easdem res ad aliud atque aliud
versas diversae praedicationi substitui. Ipsum vero ad aliquid praeter ullum
aliud praedicamentum intelligere non possumus, ut patrem et filium, dominum et
servam secundum 221B substantiam consideramus. Nam et qui dominus et qui seruus
est, substantia est. Duplum et triplum secundum quantitatem, haece nim in
quantitate consistunt, scientia vero et inscientia secundum qualitatem.
Secundum enim has quales dicimur, scientes scilicet atque inscii. Quocirca
quoniam praeter aliud praedicamentum per se relativa nullus intelliget,
secundum ea praedicamenta de quibus intelligitur relatio, secundum ea dicitur
contraria posse suscipere: ut Socrates ipse quidem substantia est sed
substantia contrarium non recipit. Pater vero alque filius secundum substantiam
praedicatur, non est enim pater atque filius nisi in substantia sit. Quocirca
quoniam secundum substantiam dicitur, contrarietate caret. Rursus duplum vel
dimidium secundum quantitatem dicitur, quantitas vero contraria non habere monstrata
est; igitur nec duplum atque dimidium contrariis pugnat. Qualitas vero recipit
contrarietatem; bonum enim et malum secundum qualitatem opponuntur, bonum
igitur et malum contrariis non carent. Igitur secundum quae praedicamenta
relativa dicuntur, si illa suscipiunt contraria, et relatio suscipit. Sin vero
illa prius repudiant contrarietatem, nec illud ad aliquid quod secundum ea
dicitur ulla unquam contrarietate dividitur. Quare habere contraria relationis
proprium non est, nam neque in sola relatione est (habet enim hoc quoque
qualitas), nec in omnibus ad aliquid considerari potest. Quae enim secundum
talia praedicamenta dicuntur ad aliquid quae non recipiunt contrarietatem, ut secundum
substantiam pater et filius, vel secundum quantitatem duplum et medium, in
talibus relativis contraria nullo modo reperiuntur. Quod vero neque soli neque
omnibus inest, hoc proprium non est; non est igitur proprium relationis habere
contraria. VIDENTUR AUTEM ET MAGIS ET MINUS RELATIVA SUSCIPERE; SIMILE ENIM
MAGIS ET MINUS DICITUR, ET INAEQUALE MAGIS ET MINUS DICITUR, CUM UTRUMQUE SIT
RELATIVUM (SIMILE ENIM ALICUI SIMILE DICITUR ET INAEQUALE ALICUI INTEQUALE).
NON AUTEM OMNIA SUSCIPIUNT MAGIS ET MINUS; DUPLEX ENIM NON DICITUR MAGIS ET MINUS
DUPLEX, NEC ALIQUID TALIUM. Quaeritur nunc an relationis sit proprium suscipere
magis et minus; sed in hoc illa ratio servatur, quemadmodum in contrariis
dictum est. Quoniam quaecumque secundum ea dicuntur quae contraria non
recipiunt, ipsa quoque contrariis carent. In hoc vero cum secundum quantitatem
dicatur aequale et inaequale, suscipit et magis et minus. Dicitur enim magis
aequale et minus aequale. Eodem modo et simile, magis simile et minus simile
dicitur. Sed si forte quis dicat: cur cum quantitatis sit dici aequale et
inaequale, et quantitas magis atque minus non suscipiat, aequale et inaequale
et intensione crescat et remissione minuatur? Dicendum est quoniam quemadmodum
substantia ipsa per se in eo quod substantia est non est proprium, ipsi tamen
proprium est contraria posse suscipere, ita et in quantitate consideratur,
proprium enim est, non hoc ipsum cuius est proprium sed quaedam alia
extrinsecus qualitas passioque. Passio enim qualitatis est, et quaedam qualitas
aequale et inaequale dici potest: quod quoniam non est idem proprium quod est
illud cuius est proprium, et aequale vel inaequale dici, non est quantitas
cuius est proprium sed quaedam qualitas et passio quantitatis. Haec autem
dicitur ad aliquid, ipsum enim quod est alterius dicitur, aequale enim aequali
aequale dicimus, et similiter simile similis simile. Sed non capiunt omnia
relativa magis et minus. Nullus enim potest dicere magis et minus duplum esse
aliquid: nam sive denarius ad quinarium comparetur, sive quaternarius ad
binarium, aeque uterque duplus est, aeque uterque medietas. Qualitas quoque
recipit magis et minus, dicimus enim magis album et minus album. Quare quoniam
neque omni relationi neque soli inest suscipere magis et minus, et per qualitatem
relatio suscipit et magis et minus, relationis proprium non est suscipere magis
et minus. OMNIA AUTEM RELATIVA AD CONVERTENTIA DICUNTUR, UT SERUUS DOMINI
SERUUS DICITUR ET DOMINUS SERUI DOMINUS, ET DUPLUM DIMIDII DUPLUM ET DIMIDIUM
DUPLI DIMIDIUM, ET MAIUS MINORE MAIUS ET MINUS MAIORE MINUS; SIMILITER AUTEM ET
IN ALIIS. SED CASU ALIQUOTIENS DIFFERT SECUNDUM LOCUTIONEM, UT SCIENTIA
SCIBILIS REI DICITUR SCIENTIA ET SCIBILE SCIENTIA SCIBILE, ET SENSUS SENSIBILIS
SENSUS ET SENSIBILE SENSU SENSIBILE. Clara haec est proponentis et non inuoluta
sententia. Dicit enim omnia relativa ad convertentia dici, quod ipse propriis
patefecit exemplis. Omne enim ad aliquid ita ad aliud praedicatur, ut illud ad
quod praedicatur videatur posse converti, et hoc est quod ait: OMNIA RELATIVA
AD CONVERTENTIA DICUNTUR. Converti autem est, ut si prima res dicitur ad
secundam, secunda rursus dicatur ad primam. Ponatur enim primus pater, secundus
filius, et dicatur hoc modo, pater filii pater est; id rursus converti potest, ut
prius ponamus filium, et talis sit praedicatio, filius patris filius. Ergo
pater ad talem dicitur, id est ad filium qui convertitur: et filius qui dicitur
ad patrem, ad talem rem dicitur, quae ipsa quoque convertitur, ut de filio
praedicetur. Omniaque relativa hoc modo sunt, omne enim relativum ad tale
aliquid praedicatur quod ipsum in praedicatione converti possit. Sed nec omnia
dicuntur secundum eamdem vocis prolationem. Alia enim sunt quae eisdem casibus
convertuntur, ut dictum est, pater enim filii pater est, et filius patris
filius est. Alia vero quae non eisdem, ut scientia scibilis rei scientia est:
hic genitivus est medius. Scibile autem scientia scibile est: hic septimus
praedicationem tenet. Alia vero nullo (ut supra dictum est) casu coniuncta sibimet
convertuntur, ut mons magnus ad paruum dicitur, et paruus ad magnum. Ergo OMNIA
RELATIVA AD CONVERTENTIA DICUNTUR, quamvis non eisdem casibus convertantur,
quod ipse ait dicens: SED CASU ALIQUOTIENS DIFFERT SECUNDUM LOCUTIONEM. Quod
vero addidit nimis diligenter adiectum est. AT VERO ALIQUOTIENS NON VIDEBITUR
CONVERTERE NISI CONVENIENTER AD QUOD DICITUR ASSIGNETUR SED PECCET IS QUI
ASSIGNAT; 223B UT ALA SI ASSIGNETUR AVIS, NON CONVERTITUR UT SIT AVIS ALAE;
NEQUE ENIM CONVENIENTER PRIUS ASSIGNATUM EST ALA AVIS; NEQUE ENIM IN EO QUOD
AVIS, IN EO EIUS ALA DICITUR SED IN EO QUOD ALATA EST (MULTORUM ENIM ET ALIORUM
ALAE SUNT, QUAE NON SUNT AVES); QUARE SI ASSIGNETUR CONVENIENTER, ET
CONVERTITUR; UT ALA ALATI ALA, ET ALATUM ALA ALATUM. ALIQUOTIENS AUTEM FORTE ET
NOMINA FINGERE NECESSE ERIT, SI NON FVERIT POSITUM NOMEN AD QUOD CONVENIENTER
ASSIGNETUR; UT REMUS NAVIS SI ASSIGNETUR, NON ERIT CONVENIENS ASSIGNATIO (NEQUE
ENIM IN EO QUOD EST NAVIS, IN EO EIUS REMUS DICITUR; SUNT ENIM NAVES QUARUM
REMI NON SUNT); QUARE NON CONVERTITUR; NAVIS ENIM NON DICITUR REMI. SED FORTE
CONVENIENTIOR ASSIGNATIO ERIT SI SIC QUODAM MODO ASSIGNETUR, REMUS REMITAE
REMUS, VEL ALIQUO MODO ALITER DICTUM SIT (NOMEN ENIM NON EST POSITUM);
CONVERTITUR AUTEM SI CONVENIENTER ASSIGNETUR (REMITUM ENIM REMO REMITUM EST). SIMILITER
AUTEM ET IN ALIIS, UT CAPUT CONVENIENTIUS ASSIGNABITUR CAPITATI QUAM SI
ANIMALIS ASSIGNETUR; NEQUE ENIM IN EO QUOD ANIMAL EST CAPUT HABET (MULTA ENIM
SUNT ANIMALIUM CAPITA NON HABENTIA). Supra iam de relativorum conversione
proposuit, dixitque quidquid est ad aliquid, vel eisdem casibus vel
dissimilibus, tamen ad convertentia dici: hoc vero idcirco evenit quod omne ad
aliquid esse suum ex alterius habitudine et comparatione trahit; quodsi utraque
secundum ad aliquid sint opposita, ad aliquid nuncupantur aequam vim vocabuli
nuncupationemque sortita. Nam si pater et filius utrique ad aliquid sunt, si
pater ad filium praedicatur, quoniam ad aliquid est, fllius quoque, quia ad
aliquid est, ad quoddam aliud praedicabitur sed nullius est filius nisi patris.
Ergo haec vocabula ex alterutra nuncupatione principium sumunt. Quocirca quae
sibi invicem substantiam donant, recte ad se invicem praedicantur, et hoc
quidem in omnibus relativis constat intelligi. Sed huiusmodi conversio non uno
modo, nec quomodolibet fieri potest; nisi enim convenienter quaelibet illa res
ad id quod dicitur praedicetur, huiusmodi conversio nulla ratione convertitur.
Cum enim dicatur caput animalis caput dici non potest, animal capitis animal.
Ergo ita redditum nulla ratione convertitur. Atque hoc est quod ait, non videri
in omnibus relativis posse converti, nisi convenienter ad quod dicitur
assignetur. Si enim peccet is qui assignat, ut non convenientem praedicationem
faciat, conversio non procedit; quae tamen est ipsa convenientia qua possint
semper relativa converti, huiusmodi est. Cum enim dico alam avis esse alam, non
convertitur, ut avis ala sit avis, idcirco quod non est convenienter facta
praedicatio: non enim in eo quod avis est, in eo habet alam; multa enim sunt
quae habent alam, aves tamen nullo modo nominantur, ut apes sunt et
uespertitiones, et quidquid est aliud tale, habere quidem dicimus alas, eas
tamen aves non dicimus. Quare non in eo quod avis est, in eo est eius ala sed
in eo quod alata est; idcirco enim alam habet, quoniam alata est: et quidquid
fuerit alatum, alas habebit. Quare ita facta praedicatio illam conversionem
retinet atque custodit, ala enim alati ala est, et alatum ala alatum est. Eodem
quoque modo de capite: si quis dicat caput animalis est caput, non convenienter
vim praedicationis aptabit; non enim in eo quod animal est, in eo habet caput,
multa enim sunt animalia quae capite carent, ut ostrea, et conchylia, et
caetera huiusmodi. Igitur dicendum est caput capitatae rei esse caput, et
capita tam rem capite esse capitatam. Videsne quemadmodum conveniens
praedicatio aiternam in se vocabuli conversionem reuersionemque reddiderit? Ita
quoque speculandum est et de alio exemplo quod ipse proposuit. Remus enim si
navis remus dicatur, nullo modo convertitur, ut navis remi navis esse
nominetur. Sunt enim quaedam naves quae remis penitus non utuntur, ut lintres
quas solo subigunt conto, et idcirco non convertitur. Dicendum est igitur remum
remitae rei esse remum, et remitam rem remo esse remitam. Necesse quoque erit
nomen fingere, ei positum non sit: nam quemadmodum filius patris filius, et
pater filii pater, reciproca conversione praedicantur, et utrumque nomen in usu
est, sic, si defuerit nomen, ipse tibi aliquid debebis effingere, ut in eo quod
est, ala alati ala; alatum enim noviter factum est, et nunquam antedictum. Quo
autem modo possimus nomina ipsa confingere, quoniam necessarium esse posuimus,
artem quoque componendi sequenti ordine demonstremus. Sed hoc faciendum est, si
prius illud purgavero, quod quidam contra Aristotelem culpandi studio ponunt.
Aiunt enim non esse solius relationis ad convertentiam dici. Si quis enim sic
dicat: cum sol super terram est, dies est, et cum dies est super terram, sol est,
recipiunt haec quoque conversionem, quae confessa, a relativorum definitione
segregata sunt. Non igitur in solis relativis, inquiunt, cadit ista conversion Sed
Iamblicus duas huius rei protulit solutiones, unam peruacuam, aliam vero
perforem. Ait enim nihil officere ad Aristotelis sententiam, si et alia
convertantur; non enim inquit Aristoteles solis hoc relativis esse sed, omnibus
namque hoc relativis inest, nec ulla ratione negari potest: quocirca quoniam
non dixit Aristoteles solis hoc inesse relativis, illorum quaestio huius
praeclari philosophi sententiam non moratur. Sed hoc potius accidentis est quam
naturae, et ad aliud quodammodo refugium concurrentis potius quam ex ipsa
Aristotelis auctoritate dictorum eius aliquod propugnaculum comparantis. Aliam
vero attulit causam prorsus gravem: ait enim proprium esse hoc relativorum, non
secundum suam nuncupationem sed secundum aliquam habitudinem, eodem modo
converti. Qui enim dicit cum sol est super terram, dies est, et cum dies est,
sol est super terram: nullam habitudinem monstrat sed tantummodo consequentiam
ostendit. Consequitur enim super terram solem esse cum dies est, et cum sol
super terram cursus agat, diem esse; cum vero aliquis dicit filius patris
filius, et pater filii pater, habitudinem et comparationem et quodammodo continentiam
utrorumque declarat. Atque hoc quoque in alia quavis relatione spectare licet.
Quocirca quoniam omnia ad aliquid secundum quamdam ad se invicem habitudinem
continentiamque dicuntur, secundum continentiam quoque et habitudinem eorum
conversio facienda est, qua in re nos quoque graviter dicentis Iamblici
auctoritati concedimus. Nunc vero quae sit ars fingendi nomina sicubi desunt,
dicendum videtur, quam ipse Aristoteles his verbis tradit. SIC AUTEM FACILIUS
FORTASSE SUMETUR QUIBUS NOMEN NON EST POSITUM, SI AB HIS QUAE PRIMA SUNT ET AB HIS
AD QUAE CONVERTUNTUR NOMINA PONUNTUR, UT IN HIS QUAE PRAEDICTA SUNT AB ALA
ALATUM, A REMO REMITUM. OMNIA ERGO QUAE AD ALIQUID DICUNTUR, SI CONVENIENTER
ASSIGNENTUR, AD CONVERTENTIA DICUNTUR. Quoniam sunt quae ita dicuntur ad
aliquid, ut nisi convenienter aptentur conversio nulla sit, in omnibus autem ad
aliquid conversionem exspectari necesse est, quae sit haec convenientia, et
quemadmodum assignari relationes oporteat, ipse demonstrat. Si quid enim
dicitur ad aliquid quod converti non possit, ab ipso quod dicitur si
denominatio fit, mox convertitur: ut ala dicitur avis, et recta quidem est haec
praedicatio sed ad naturam relationis incongrua. Nunc igitur quoniam dici non
potest avis alae, dicitur autem ala avis, ab ipsa praedicatione, quae ad aliud
praedicatur, si denominatio fit, mox redit consueta conversio relativis. Nam
cum dicitur ala avis, ut dicatur avis alae, inconveniens est; si vero ex ala
fiat denominatio, ut dicatur ala alati, sic conversio manet. Alatum enim ala
alatum esse dicimus, sicut alam alati esse alam. Et hoc idem in remo evenit.
Nam quoniam remus navis dicitur, et remi navis ut sit ulla ratione convertitur,
si ex remo sit denominatio, statim reddit ex more conversio. Dicimus enim esse
remum remitae rei esse remum, et hoc illi convertitur. Remita enim res remo
remita est. Ergo ex eo quod prius dicitur, nomen fingendum est, sicut ex eo
quod est ala, quoniam prius ad avem non dicitur, quia avis ad alam non
convertitur, denominatio facta est, ut diceretur alatum. Atque hoc est quod
ait, si ab his quae prima sunt his ad quae convertuntur nomina ponantur. Prima
namque praedicatio est ab ala. Dicimus enim alam avis, et hoc quaerimus ut ad
alam praedicatio convertatur. Ergo ab eo quod prius dicitur, illi ad quod
convertitur nomen fingendum est, ut ea quae prius dicitur ala, rei ad quam
convertitur sic ut convenienter aptetur, fingendum est nomen alatum, quod ipsum
ex ala denominatum est, atque hoc idem et in caeteris relativis licet
intelligi. NAM SI AD QUODLIBET ALIUD ASSIGNENTUR ET NON AD ILLUD DICANTUR, NON
CONVERTUNTUR. DICO AUTEM QUONIAM NEQUE IN HIS QUAE CONFESSE CONVERSIM DICUNTUR
ET IN QUIBUS NOMEN EST POSITUM, NIHIL CONVERTITUR, SI AD ALIQUID EORUM QUAE
SUNT ACCIDENTIA ASSIGNETUR ET NON AD ILLUD DICATUR; UT SERUUS SI NON DOMINI
ASSIGNETUR SED HOMINIS VEL BIPEDIS VEL ALICUIUS TALIUM, NON CONVERTITUR (NON
ENIM ERIT CONVENIENS ASSIGNATIO). Aliud quoque argumentum dedit, si relatione
convenieiiter non reddantur, non posse converti. Fortasse enim quis dicat alam
et caput non esse ad 226B aliquid: quod si quis hoc quoque concedat, illud
tamen nullus negare poterit, quin seruus aut filius semper ad aliud
praedicentur. Ergo in hac quoque re, quas confessae relativa est, perit
relationis propria conversio, si non convenienter et ad illud ad quod proprie
dicitur assignetur. Nam cum sit ad aliquid seruus, nisi domini reddatur, id
est, ad id ad quod convenienter dicitur, nulla hac ratione conversio est.
Dicatur ergo seruus hominis, vel seruus bipedis, non convertitur, ut dicat quis
bipedem esse serui, aut hominem esse serui. Eodem quoque modo de filio. Ergo
quaecumque sunt extrinsecus, si ad ea id quod est ad aliquid praedicetur, nulla
conversio est. Quod autem ait accidentia, non quod homo sit accidens, aut bipes,
differentia hominis accidenter insit sed interdum consuetudinis Aristotelicae
est, quae secundo loco et extrinsecus praedicantur, dicere secundum accidens
praedicari. Seruus autem prius ad hominem est, secundo vero loco ad hominem.
Idcirco enim quod dominus homo est, ideo seruus ad hominem dicitur. Et idcirco
quia dominus bipes est, ideo seruus bipedis dicitur. Ergo secundum accidens
dixit secundo loco, volens ostendere extraneam et non convenientem fieri
praedicationem, si quis ad hominem vel bipedem servam et non ad dominum
referat. Manifestum igitur est quoniam in bis quoque quae confessa, sunt ad
aliquid, et in quibus nomina sunt. Nomen enim et serui et domini in usu est,
non quemadmodum in remo aut in ala, ubi neque alatum neque remitum nomen fuit, nisi
ipse fingeret Aristoteles. Cum ergo haec ita sint, manifestum est quoniam si non
convenienter aptarentur, conversionem praedicatio non teneret. AMPLIUS, SI
CONVENIENTER ASSIGNETUR AD ID QUOD DICITUR, OMNIBUS ALIIS CIRCUMSCRIPTIS
QUAECUMQUE ACCIDENTIA SUNT, RELICTO VERO SOLO ILLO AD QUOD ASSIGNATUM EST,
SEMPER AD IPSUM DICETUR; UT SI SERUUS AD DOMINUM DICITUR, CIRCUMSCRIPTIS
OMNIBUS QUAE SUNT ACCIDENTIA DOMINO, UT ESSE BIPEDEM VEL SCIENTIAE
SUSCEPTIBILEM VEL HOMINEM, RELICTO VERO SOLO DOMINUM ESSE, SEMPER SERUUS AD
ILLUD DICETUR; SERUUS ENIM DOMINI SERUUS DICITUR. SI AUTEM NON CONVENIENTER
REDDATUR AD ID QUOD DICITUR CIRCUMSCRIPTIS OMNIBUS ALIIS, RELICTO VERO SOLO AD
QUOD REDDITUM EST, NON DICETUR AD ILLUD; ASSIGNETUR ENIM SERUUS HOMINIS 227A ET
ALA AVIS, ET CIRCUMSCRIBATUR AB HOMINE ESSE DOMINUM; NON ENIM IAM SERUUS AD
HOMINEM DICITUR (CUM ENIM DOMINUS NON SIT, SERUUS NON EST); SIMILITER AUTEM ET
DE AVI, CIRCUMSCRIBATUR ALATAM ESSE; NON ENIM IAM ERIT ALA AD ALIQUID (CUM ENIM
NON SIT ALATUM, NEC ALA ERIT ALICUIUS). QUARE OPORTET ASSIGNARE AD ID QUOD
CONVENIENTER DICITUR; ET SI SIT NOMEN POSITUM, FACILIS ERIT ASSIGNATIO; SI
AUTEM NON SIT, FORTASSE ERIT NECESSARIUM NOMEN FINGERE. QUOD SI ITA REDDANTUR,
MANIFESTUM EST QUONIAM OMNIA RELATIVA CONVERSIM DICUNTUR. Aliud quoque validum
addidit argumentum in omni secundum ad aliquid, praedicatione solam esse
assignationis convenientiam requirendam. Quo enim permanente cunctis aliis
pereuntibus relativorum praedicatio constat, et quo pereunte cunctis aliis
permanentibus, ad aliquid praedicatio non manet, illud est ad quod convenienter
nominis relatio referatur. Qui enim dominus est, idem ei homo est, idemque
bipes, idem quoque scientiae perceptibilis. Ad quodlibet igitur horum seruus
non praedicabitur, si dominus non sit; quod si dominus sit, etiamsi quodlibet
horum pereat, nihil impedit praedicationem. Praedicetur enim seruus ad dominum,
et ab eo caetera perimantur. Pereant enim ab eo quod est homo, ac bipes, quod
scientiae perceptibilis, his omnibus pereuntibus, dominus solus permaneat;
caeteris igitur pereuntibus, seruus tamen nihilominus dicitur ad dominum, ad
hominem vero non dicitur, pereunte enim domini nomine, serui ad hominem nulla
praedicatio est, quod si ad dominum seruus non referatur, pereatque domini
nomen, omnibus aliis manentibus, non erit praedicatio. Auferatur enim dominus
maneat homo, et bipes, et scientiae perceptibilis, non potest dici seruus
hominis, vel seruus bipedio. Domino enim non manente seruus interit: quare
manente domino ad quod seruus convenienter aptatur, cunctis aliis pereuntibus,
praedicatio manet; sublato vero domino, ad quem est conveniens praedicatio,
cunctis aliis manentibus praedicatio non est. Eodem modo etiam de ala; nisi
enim ad alatum referatur, cunctis aliis manentibus integra praedicatio non est.
Adeo non solum non convertitur sed nec praedicatio ulla erit, nisi relatio ei
ad quod convenienter dicitur assignetur. Simul etiam haec quoque ars est et via
noscendi, cum in naturamulta sunt, ad quod potissimum relatio praedicetur. Nam cum
in domino sit, et homo, et animal, et disciplinae perceptibile, et bipes, in
seruo quoque idem, ad quod horum aut domini nomen aut serui referre possimus,
sic ostenditur. Qua enim re manente sublatis caeteris praedicatio valet, et qua
re sublata creteris manentibus, intercipitur praedicatio ad illud relatio
rectissime praedicatur. His igitur positis totius argumenti vim sententiumque
concludit, ait enim: omnia quaecumque ad aliquid sunt aequa praedicatione
converti: hoc autem huiusmodi est. Quaecumque enim ad se invicem aequaliter
praedicantur, et conversione facta retorquentur, illa aequali natura et
dimensione fundata sunt, ut sunt propria et species. Relativa quoque ut
convertantur, aequalia esse oportet. Nam si una res amplior, alia fuerit minor,
conversionem non habent, nam in eo quod est ala avis, minus est avis ala, multa
enim sunt quae alas habent, et aves non sunt, atque ideo conversio non fit. Et
in eo quod est remus navis, maior est navis remo, multae enim naves sunt quarum
remi non sunt; quare in his nulla potest esse conversio. Si vero sint aequalia
ut filius alque pater, conversio non fugit. Nunquam enim est filius nisi
patris, et rursus nunquam pater est nisi filii. Quocirca aequalia esse oportet
quaecumque ad aliquid praedicantur. Horum vero si nomen sit pusitum, positis
nominibus uti oportet. Si vero nomen positum non sit, ex his quae in prima
praedicatione sunt (ut superius dictum est) nomen oportet effigere. Quod si ita
reddantur ut omne ad aliquid convenienter ad quod dicitur praedicetur, et
aequalis erit praedicatio, et mox conversionis reciproca natura subsequitur.
Constat igitur omnia relativa ad convertentia dici. His aliud proprium iungit. VIDETUR
AUTEM AD ALIQUID SIMUL ESSE NATURA. ET IN ALIIS QUIDEM PLURIBUS VERUM EST;
SIMUL ENIM EST DUPLUM ET DIMIDIUM, ET CUM SIT DIMIDIUM DUPLUM EST, ET CUM SIT
SERUUS DOMINUS EST; SIMILITER AUTEM HIS ET ALIA. SIMUL AUTEM HAEC AUFERUNT SESE
INVICEM; SI ENIM NON SIT DUPLUM NON EST DIMIDIUM, ET SI NON SIT DIMIDIUM DUPLUM
NON EST; SIMILITER ET IN ALIIS QUAECUMQUE TALIA SUNT. Illa simul esse dicuntur
quaecumque talia sunt, ut uno posito quolibet aliud necessario subsequatur, st
uno quolibet perempto aliud modis omnibus interimatur, ut pater et filius. Nam
cum pater est, filium quoque esse necesse est; cum sit filius, pater est.
Rursus si pereat filius, patrem quoque perire manifestum est, non quod pareat
ipsa substantia, ut pereunte Hectore Priamus pereat sed perit ipsa relatio.
Ergo quoniam vel interempto patris nomine, filii nomen perit, sublato quoque filli
nomine nomen patris perit. Posito etiam patre in substantiaque constituto,
filii quoque nomen infertur, et posito filii nomine sequitur patris et a patris
nomine nunquam separatur, idcirco pater et filius simul esse dicuntur. Ergo
simul ea sunt quae se invicem vel interimunt vel inferunt, et de his quidem
ipse posterius tractat. Nunc autem hoc quoque inesse relativis exposuit, dicens
relativis quoque esse ut simul sint; nam cum duplum sit, dimidium est, et cum
dimidium, duplum. Huius autem argumentum est, quod interempto duplo dimidium
perit. Rursus quoque duplo constituto, dimidium constituitur. Igitur quoniam
duplum atque dimidium relativa sunt, et haec simul sunt natura, id est ipsa
essentia, et hoc manifestum est quoque relativis accidere, ut simul natura ease
videantur. Idem quoque est in eo quod est seruus et dominus. Nam quoniam
alterutris interemptis uterque deperit, et alterutro constituto uterque
subsistit, constat seruum atque dominum cum sint ad aliquid simul esse natura.
Sed haac ita sunt, ut sint quidem in relativis sed omnibus his quae sunt ad
aliquid non aequentur. Sunt enim quaedam relativa quorum unum prius natura sit,
quod ipse rursus adiecit. NON AUTEM IN OMNIBUS RELATIVIS VERUM VIDETUR ESSE
SIMUL NATURALITER; SCIBILE ENIM SCIENTIA PRIUS ESSE VIDEBITUR; NAMQUE IN
PLURIBUS SUBSISTENTIBUS IAM REBUS SCIENTIAS ACCIPIMUS; IN PAUCIS ENIM VEL IN
NULLIS HOC QUISQUE PERSPICIET, SIMUL CUM SCIBILI SCIENTIAM FACTAM. Proposuit
non in omnibus relativis esse hoc, ut videantur simul esse natura; hoc autem
probat ex his, quod quoniam scientia ad aliquid est (scibilis enim rei scientia
dicitur), non poterit esse scientia, nisi sit res aliqua quae sciri possit.
Hanc autem primam esse necesse est, ut in matheseos disciplina. 229B Scimus
enim triangulum tres interiores angulos duobus rectis angulis aequos habere.
Unde necesse est prius fuisse quod sciri posset, postea vero ad hanc rem aptam
fuisse notitiam. Atque hoc est quod ait: NAMQUE IN PLURIBUS SUBSISTENTIBUS
REBUS SCIENTIAS ACCIPIMUS. Prius enim rebus constitutis et quasi praepositis
scientiae ratio sequitur. Quare non est in omnibus relativis simul esse natura.
Nam cum scientia et scibile relativa sint, antiquius est scibile quam scientia.
Quod vero interposuit, in pauois enim vel nullis hoc quis perspiciet simul cum
scibili scientiam factam, tale est. Quasdam namque res animus sibi ipse
confingit, ut chimeram, vel centaurum, vel alia huiusmodi, quae tunc sciuntur,
cum ea sibi animus finxerit. Tunc autem esse incipiunt, quando primum in 229C
opinione versantur. Tunc igitur sciuntur, cum in opinione versata sint, et haec
simul habent esse et sciri. Nam quoniam in opinione nascuntur, mox esse
incipiunt sed cum in ratione sunt, tunc eorum scientia capitur. Igitur mox ut
fuerint, mox sciuntur, et est eorum scientia cum eorumdem essentia coniuncta.
Namque antequam chimera fingeretur, sicut ipsa in nulla opinione fuerat, ita
quoque eius scientia non erat. Postquam vero ipsa animarum imaginatione
constituta est, eius quoque cum ipsa imaginatione scientia consecuta est: atque
ideo ait in paucis hoc posse perspici, ut simul cum scientia scibile sit, ut in
hac eadem chimera, quae cum sit scibilis, cum scientia nata est. Sed quoniam
nihil quod in substantia non permanet, neque in veritate consistit, sciri
potest (scientia enim est rerum quae sunt comprehensio veritatis), et quidquid
sibi animus flngit, vel imaginatione reperit, cum in substantia atque veritate
constitutum non sit, illud posse sciri non dicitur, atque ideo non est eorum
scientia ulla quae sola imaginatione subsistunt. Idcirco itaque dubitans dixit,
in paucis enim vel nullis. Haec enim ipsa pauca ita quisque reperiet, ut si ad
veram rationem examinationemque contenderit, nulla esse perpendat. Quod si
quisquam chimerae aliqua esse scientiam dicat, quae non est, quamquam hoc
falsum sit, tamen hoc quoque concesso pauca erunt in quibus scientia cum
scibili simul natura sit. Multis enim antepositis et constitutis scientia
nascitur. Quocirca non in omnibus relativis verum est, ut simul esse natura
dicantur: et sicut falsum illud est, in nullis hoc esse relativis, ita falsum
est rursus in omnibus. Sed hunc tractatum longius lexit. AMPLIUS SCIBILE
SUBLATUM SIMUL AUFERT SCIENTIAM, SCIENTIA VERO NON SIMUL AUFERT SCIBILE; NAM,
SI SCIBILE NON SIT, NON EST SCIENTIA, SI SCIENTIA VERO NON SIT, NIHIL PROHIBET
ESSE SCIBILE; UT CIRCULI QUADRATURA SI EST SCIBILE, SCIENTIA QUIDEM EIUS NONDUM
EST, ILLUD VERO SCIBILE EST. Diximus illa esse simul, quaecumque alterutro
constituto, vel alterutro interempto, simul utraque constituerentur, vel etiam
perimerentur. Constituto enim ut sit pater, constituetur esse filius, et pater
simul infert substantiam filii. Eodem quoque modo filius simul infert vocabulum
patris, non est enim filius nisi patris. Eodem quoque modo altero interempto
utrumque perire necesse est, alterum autem altero prius multis dicitur modis;
sed quod nunc quaerimus tale est. Nam priora illa esse dicuntur, quae ipsa
quidem peremptares alias tollunt, ipsa vero illata atque constituta simul res
alias non inferunt, ut est unus atque duo. Interempto enim uno, duo quoque
pereunt. Unde enim est unius in duobus geminatio, si unus intereat? Constituto
vero atque posito ut sit unus, nondum duo sunt. Nondum est enim facta unius
geminatio. Ergo dicuntur illa priora esse quaecumque alia simul quidem illata
non inferunt sed perimunt interempta. Scibile ergo et scientiam non esse simul
illa res probat, quod si quis rem scibilem tollat, scientiam quoque sustulerit.
Nulla potest enim scientia permanere, si res quae sciri possit intereat. At si
scibile esse constituas, non omnino scientia consequitur. Infantibus enim ea
nobis quae nunc novimus erant, et in suae naturae substantia permanebant sed
eorum apud nos scientia non erat. Multae quoque sunt artes quas esse quidem in
suae naturae ratione perspicimus, quarum neglectus scientiam sustulit.
Multumque ego ipse iam metuo ne hoc verissime de omnibus studiis liberalibus
dicatur. Quocirca si et scientiam sublatum scibile perimit, et illatum scibile
scientiam non infert, neque constituit, prius est id quod sciri potest quam
illud quod comprehendere videlicet atque complecti notitia. Ipse autem ad hanc
rem obscurissimum commodavit exemplum. Solet enim in geometria huiusmodi esse
propositio. Iubemur enim proposito quattuor laterum spatio, aequale triangulum
constituere, et facimus hoc modo. Sit quattuor laterum spatium a b, oportet
ergo a b spatio aequale triangulum constituere, et ut sit duplum a b spatio c d
e f spalium. Ducatur angularis c t, dico quoniam c d f triangulum aequale est a
b spatio, quoniam c d e f spatium duplum est a b spatio: ab igitur c d e f
spatii medietas est, angularis enim f c totum c d e f spatium medium dividit.
Quae autem eiusdem sunt media, sibi aequalia sunt, c d t igitur et c e f
triangulum a b spatio aequale est. Proposito igitur spatio a b, aequum
triangulum constitutum est c d f, quod oportebat facere. Eodem quoque modo
quaesitum est si sit propositum circulo aequum fieri quadratum. Quadratum ergo
est quod aequalibus lateribus omnes quattuor angulos aequos habet, id est
rectos, et Aristotelis quidem temporibus non fuicse inventum videtur. Post vero
repertum est, cuius quoniam longa demonstratio est, praetermittenda est. Atque
hoc est quod ait: VELUT CIRCULI QUADRATURA: nam sicut manente quadrato, linea
per obliquum ducta triangula figura producitur; ita circulo non mutato
circumpositis angulis, qui et ipsius circuli laleribus; aequaliter diriguntur,
quadrati forma consurgit, quod (ut potuimus) coniectura depinximus. Cum enim
alicui circulo aequum quadratum constituitur, in quadraturam circuli illius
mensura redigitur. Nunc ergo hoc est quod dicit: UT CIRCULI QUADRATURA, id est
aequi quadrati ad circulum constitutio si fieri potest, et si res est quae
sciri possit, scientia quidem eius nondum inventa est. Nondum enim quisquam sub
Aristotele equum quadratum circulo constituerat. Quod si est aliqua eius
scientia quae nondum reperta est, certe prius est quod sciri possit, post vero
scientia. Nam cum posset Aristotele vivo sciri circuli quadratura, nulla tamen
adhuc eius scientia reperta est, atque ideo prius erat quod sciri posset, quam
ipsius rei ulla notitia. AMPLIUS ANIMALI QUIDEM SUBLATO NON EST SCIENTIA,
SCIBILIUM VERO PLURIMA ESSE CONTINGIT. Addit aliud validius argumentum, prius
esse scibile scientia. Illud enim notum est si per desidiam disciplina
depereat, interire quidem scientiam sed scibile permanere. Scibile autem dico
quod sciri possit. Quod si omnino animal non sit, cum quis scire possit omnino
non fuerit, scientia quidem ipsa funditus interibit: nihil tamen probibet esse
ea quae permanente animali possit inquirentis animus scientim ratione
complecti. SIMILITER AUTEM HIS SESE HABENT ET QUAE IN SENSU SUNT; SENSIBILE
ENIM PRIUS SENSU ESSE VIDETUR; SUBLATUM ENIM SENSIBILE SIMUL AUFERT SENSUM,
SENSUS VERO SENSIBILE NON SIMUL AUFERT. SENSUS ENIM CIRCA CORPUS ET IN CORPORE
SUNT; SENSIBILI ERGO SUBLATO AUFERTUR CORPUS (SENSIBILIUM ENIM ET CORPUS EST),
CUM AUTEM CORPUS NON SIT SUBLATUS EST SENSUS; QUARE SIMUL AUFERT SENSIBILE
SENSUM. SENSUS VERO SENSIBILE NON; SUBLATO ENIM ANIMALI SUBLATUS EST SENSUS,
SENSIBILE AUTEM PERMANET, UT CORPUS, CALIDUM, DULCE, AMARUM, ET ALIA OMNIA
QUAECUMQUE SUNT SENSIBILIA. Id namque proponit sensibus inveniri. Dicit enim
sensu prius esse sensibile, quod communi priorum definitione probabile esse
constituit. Dictum est namque illa esse priora quae simul quidem interempta
perimerent, non autem simul aliis inferemptis ipsa deperire, ut orbem solis prius
dicimus proprio lumine, Sublato enim orbe, lumen illud quod ab eo est penitus
non manebit; subluto lumine solis, orbis manebit. Ita quoque nunc in
sensibilibus, atque in ipso sensu esse proposuit, sublato quod sentiri possit,
sensus omnino sublatus est. Neque enim esse poterit sensus, cum quod possit
sentire non invenit. Quod si sensus omnino depereat, sensibile permanebit; et
hoc evidentibus firmat exemplis. Nam cum ea quae sunt in rebus, vel incorporea
sint, vel certe corporea, et quidquid ad corporis materiam referri potest, hoc
sensuum varietati subiaceat, quidquid ad incorporalia intellectus ratione et
speculatione teneatur. Cum sit sensus omnis in corpore, si corpus intereat, cum
omnino corpus non sit, quoniam quae sunt incorporea sentiri non possunt, et
quae sentiri poterant interempta sunt, omnino sensus euertitur. Sed si sensus
auferatur, sensibilia permanebunt: et quoniam sensus animalium effectivus est,
aequa est utrorumque perditio; sive enim sustuleris animal, sensus peribit,
sive sensus euertantur, animalia quoque sublata sunt. Sed euersis atque
interemptis animalibus cum propriis sensibus, permanent corpora quae anima non
utuntur, quod si sublatis animalibus sensibusque deperditis, corpora inanimata
subsistunt, cum corpora sint quae sentiri possunt, animalia quae sentire
valeant si interempta sint, manente sensibili sensus euersus est. Non igitur
sicut sensibilis interemptio sensus interimit, sic sensuum perditionem
exstinctio sensibilium comitatur. Id vero etiam hoc probabitur argumento, ante
enim quam actu ipso aliquid sentiamus, sensus non est. Nam priusquam dulce
aliquid degustemus, gustatio ipsa dulcedinis non est; quod autem gustari
possit, id est, mel, vel quodlibet aliud propriae naturae ratione consistit.
Quocirca prius esse quod sentiri possit, post vero sensus Aristotele auctore
firmatur. AMPLIUS SENSUS QUIDEM SIMUL CUM SENSATO FIT (SIMUL ENIM ANIMAL FIT ET
SENSUS), SENSIBILE VERO ANTE EST 232D QUAM ESSET SENSUS (IGNIS ENIM ET AQUA ET
ALIA HUIUSMODI, EX QUIBUS IPSUM ANIMAL CONSTAT, ANTE SUNT QUAM ANIMAL SIT
OMNINO VEL SENSUS); QUARE PRIUS QUAM SENSUS SENSIBILE ESSE VIDEBITUR. In
compositis rebus atque ex aliis iunctis priores sunt hae res quae componunt
aliquid ipsa substantia quam componunt. Namque cum corpus animalis sit ex igne,
aere, aqua et terra, priora haec esse necesse est quam ipsum sit animal quod
illa elementa coniungunt. Hoc quoque etiam in aliis patet, nam cum sit liber ex
versibus, prior est versuum natura quam libri. Cumque versus constet verbis
atque nominibus, et caeteris quas grammatici partes orationis vocant, haec ex
quibus ipse versus constat versu ipso 233A priora esse necesse est. Quocirca
sensus quoque ipsis, iam compositis animalibus supervenit. Nam cum animal
constet ex quattuor elementis, et cum sensus semper naturam animalium
comitetur, cum ipsis animalibus sensus fieri et nasci necesse est. Quodsi cum
animalibus, id est compositis rebus, sensus nascitur, sicut animali propria
sunt ea ex quibus ipsum animal constat, sic quoque sensu qui cum animali
nascitur, illa priora sunt, ex quibus animalis natura coniungitur. Coniungitur
autem animal atque componitur ex quattuor elementis. Quattuor igitur elementa
sensu priora sunt sed quattuor elementa corpora sunt, corpus vero omne
sensibile est. Prius igitur sensibile quam sensus est. Sensus enim cum re
composita nascitur, illa vero quae componunt et sensibilia sunt, et priora ipso
composito. Universaliter enim si quae duae res sint simul, cum quaelibet res
una earum prior sit, et altera prior erit, ut animal atque sensus, cum utraque
simul sunt, simulque nascuntur, cum quattuor elementa quae sunt sensibilia
priora sint quam animal, sensu quoque esse priora necesse est, quocirca
conclusit dicens: QUARE PRIUS QUAM SENSUS SENSIBILE ESSE VIDETUR. Sed quidam,
quorum Porphyrius quoque unus est, astruunt in omnibus verum esse relativis, ut
simul natura sint, veluti ipsum quoque sensum et scientiam non praecedere
scibile atque sensibile sed simul esse, quam quoniam brevis est oratio, non
grauabor opponere. Ait enim: Si cuiuslibet scientia non sit, ipsum quod per se
poterit permanere scibile esse non poterit, ut si formarum scientia pereat,
ipsae fortasse formae permaneant, 233C atque in priore natura consistant,
scibiles vero non sint. Cum enim scientia quae illud comprehendere possit, non
sit, ipsa quoque sciri non potest res. Namque omnis res scientia scitur, quae
si non sit sciri non possit. Porro autem res quae sciri non potest scibilis non
est. Hoc idem de sensu gustantis si gustus enim pereat, mel forsitan
permanebit, gustabile autem non erit. Ita quoque omnino si sensus pereat, res
quidem quae sentiri poterant sint, sensibiles vero non sint sensu pereunte. Et
fortasse neque scientia neque sensus secundum sentientes speculandus est sed
secundum ipsam naturam quae sensu valeat comprehendi. Namque res quaecumque per
naturam sensibilis est, eam quoque in natura sua, proprium sensum quo sentiri
possit, habere necesse est. 233D Et quodcumque sciri potest per naturam,
nunquam possit addisci, nisi quaedam eius in natura scientia versaretur. Haec
Porphyrius. Sed nos ad Aristotelis ordinem textumque veniamus. Namque ille adiecit
quoque alias quaestiones. HABET AUTEM DUBITATIONEM AN ULLA SUBSTANTIA AD
ALIQUID DICATUR, QUEMADMODUM VIDETUR, AN HOC QUIDEM CONTINGIT SECUNDUM QUASDAM
SECUNDARUM SUBSTANTIARUM. NAM IN PRIMIS QUIDEM SUBSTANTIIS VERUM EST; NAM NEQUE
TOTAE NEQUE PARTES AD ALIQUID DICUNTUR; NAM ALIQUIS HOMO NON DICITUR ALICUIUS
ALIQUIS HOMO, NEQUE ALIQUIS BOS ALICUIUS ALIQUIS BOS. SIMILITER AUTEM ET
PARTES; QUAEDAM ENIM MANUS NON DICITUR ALICUIUS QUAEDAM MANUS SED ALICUIUS 234A
MANUS, ET QUODDAM CAPUT NON DICITUR ALICUIUS QUODDAM CAPUT SED ALICUIUS CAPUT.
SIMILITER AUTEM ET IN SECUNDIS SUBSTANTIIS, ATQUE HOC QUIDEM IN PLURIBUS; UT
HOMO NON DICITUR ALICUIUS HOMO, NEC BOS ALICUIUS BOS, NEC LIGNUM ALICUIUS
LIGNUM SED ALICUIUS POSSESSIO DICITUR. ATQUE IN HUIUSMODI QUIDEM MANIFESTUM EST
QUONIAM NON EST AD ALIQUID; IN ALIQUIBUS VERO SECUNDIS SUBSTANTIIS HABET
ALIQUAM DUBITATIONEM; UT CAPUT ALICUIUS CAPUT DICITUR ET MANUS ALICUIUS MANUS DICITUR
ET SINGULA HUIUSMODI; QUARE HAEC ESSE FORTASSE AD ALIQUID VIDEBUNTUR. Contra ea
quae superius disputata sunt huiusmodi nodum quaestionis opposuit, quoniam enim
prima definitio relativorum fuerat, illa esse relativa quaecumque hoc ipsum
quod essent aliorum dicerentur, secundum hanc definitionem possunt quaedam
substantiae videri esse relativae: quod si sit, substantiae in definitionem
accidentium transeunt. Nam cum sint accidentia relativa, si quas substantias
relativas esse concedimus, in accidentium numero ponendas esse censebimus sed
hoc contrarium est. Si enim substantia in subiecto non est, accidens autem in
subiecto est, qui fieri potest ut idem et in subiecto sit et in subiecto non
sit? Utrum autem possit quaedam substantia accidentium suscipere rationem, hoc
modo quaerendum est. Primae namque substantiae ipsae quidem ad aliquid non
dicuntur, neque partes primarum substantiarum quas ipsas quoque in primis
substantiis numeramus. Socrates enim non dicitur alicuius aliquis Socrates, nec
homo alicuius aliquis homo, nec bos alicuius aliquis bos, neque partes primarum
substantiarum quae ipsae quoque sunt primae substantiae. Caput enim non dicitur
alicuius aliquod caput sed tantum alicuius caput, et manus non dicitur alicuius
aliqua manus sed tantum alicuius manus. Quare neque primae substantiae, neque
primarum substantiarum partes ad relationem dici poterunt. Quod si secundas
quoque substantias speculemur, nec ipsae quoque ad aliquid dicentur. Neque enim
dicitur animal alicuius esse animal, aut homo alicuius esse homo. Quod si quis
dicat posse esse animal alicuius, ut equum meum, vel quodlibet aliud, non in eo
quod animal est sed in eo quod est possessio dicitur alicuius, et sic non
dicitur animal alicuius animal sed animalis possessio, alicuius possessio. Ergo
234D neque primae substantiae, neque partes primarum substantiarum, neque
secundae substantiae ad aliquid dicuntur. Partes autem secundarum substantiarum
ad aliquid hoc ipsum quod sunt dicuntur. Caput enim alicuius caput dicitur, si
quidem capitati caput dicemus, et manus alicuius manus. Si quidem ex manu nomen
fingere volumus, ad quod manus referri possit, sicut caput ad capitatum, et in
aliis quidem rebus eodem modo. Sed si partes secundarum substantiarum
accidentes sint, et ipsae secundae substantiae accidentes erunt, aut si hoc non
placet, constabunt secundae substantiae ex partibus accidentibus, quod fieri
nequit. Quid igitur dicendum est? aut enim definitio relativorum reprehendenda
est, aut aliter soluenda dubietas. Sed posita atque constituta priori'definitione,
quae dicit illa esse relativa quae id quod sunt aliorum dicuntur, hic
quaestionis nodus solvi non poterit, quod ipse Aristoteles hac adiunctione
testatur. SI IGITUR SUFFICIENTER EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID DEFINITIO ASSIGNATA
EST, AUT NIMIS DIFFICILE AUT IMPOSSIBILE EST SOLVERE QUONIAM NULLA SUBSTANTIA
EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID DICITUR; SI AUTEM NON SUFFICIENTER SED SUNT AD
ALIQUID QUIBUS HOC IPSUM ESSE EST AD ALIQUID QUODAM MODO HABERE, FORTASSE
ALIQUID CONTRA ISTA DICETUR. PRIOR VERO DEFINITIO SEQUITUR QUIDEM OMNIA
RELATIVA, NON TAMEN HOC EIS EST QUOD SINT AD ALIQUID QUOD EA IPSA QUAE SUNT
ALIORUM DICUNTUR. Proposita ergo atque firmata priore relativorum definitione
difficile defendi poterit, aut fortasse nunquam, quasdam substantias non esse
relativas. Nam si ad aliquid illa sunt, quaecumque id quod sunt aliorum
dicuntur, ut id quod est caput capitati dicitur caput, habebit igitur
substantia quae est caput ad aliquid relationem, et ita erit substantia
relativa atque accidens, quod est impossibile. Quare quoniam proposita atque
constituta priore definitione haec incommoditas in dispositione consequitur, ut
constet ratio non integrae definitionis, assignatio permutetur. Ait enim non
esse integram definitionem quae supra sit reddita, nec magis illa esse ad
aliquid, quae id quod sunt aliorum dicuntur, potiusquam ea quibus ipsum esse
est ad aliquid quodammodo se habere. Sed fortasse videatur quibusdam inconsulte
legentibus et minime considerantibus, id quod definiri 235C oportuerat, hoc in
definitione esse sumptum, quod est vitiosissimum. Si enim idcirco definitio
sumitur, ut res de qua quaeritur assignetur, quae magis est apertior definitio,
si re ipsa quam definit in assignatione definitionis utatur? Definitio namque
idcirco redditur, ut res de cuius quidem esse dubitatur, definitione patefiat.
Quod si rem ipsamquam definit, in definitione protulerit, nihilo planior
definitio sit, ut si quis hominem definire volens dicat, hoc ipsum esse hominem
quod hominem. Ita quoque non considerantibus, Aristoteles relativorum
definitionem reddidisse videbitur. Ait enim esse ad aliquid, quibus hoc ipsum
esse est ad aliquid quodammodo se habere, ac si diceret: Ea sunt ad aliquid,
quae se ad aliquid quodammodo habent. Sed minutius atque scutius
considerantibus, vis integra definitionis prompte atque veraciter apparebit;
non enim in eo quod est dici, ad aliquid consideramus sed in eo quod est esse;
ea namque sunt relativa, quae in quadam comparatione et relationis habitudine
consideramus, ut quaternarius numerus, et hoc ipsum quod est esse dicitur, id
est quattuor, et aliud quoddam, id est duplum, ut si ad binarium conferatur.
Sed quod de quaternario numero dicimus, quaternarium hoc ad ipsius quaternarii
numeri naturam refertur. Quod vero duplum, non est hoc quaternarii sed duorum
ad quod duplum dicitur, et ad quod propria relatione duplum est. Binarius
quoque numerus et binarius est, et medietas, binarius quidem secundum suam naturam,
medietas vero secundum quaternarius relationem. Quocirca in comparatione quadam
atque in habitudine ea quae sunt ad aliquid speculamur; quaternarius enim in eo
quod quaternarius est ad aliquid non dicitur, in eo vero quod est duplus,
duorum relativus est, scilicet ad binarium comparatus. Binarius quoque in eo
quod sunt duo, ad aliquid non refertur sed in eo quod est medietas, scilicet ad
quaternarium comparatus. Ergo, ut sit duplus quaternarius, non duobus sed
medietate eget, ut si medietas biniarius, non quaternario sed duplo opus est.
Videsne ut habitudine quadam et comparatione res aliud in natura retinentes,
aliud tamen ad se invicem sint? et hoc non ex propria sed ex invicem natura
mutuentur, nam quod est duplus numerus ex medio trahit, quod est medietas ex
duplo, atque hoc iis quae sunt ad aliquid extra evenit, et ideo nihil patientibus
neque permutatis ipsis quae ad aliquid referuntur, ipsa ad aliquid fiunt, nihil
enim permutato de quaternario duplus ipse est, sit ad binarium referatur, et
nihil de binario permutato, medietas est binarius, si ad quaternarium dicitur.
Ergo relativorum hoc est esse, id est haec eorum natura atque substantia est,
ut id quod sunt ad aliquid referantur, id est non solum referri dicantur sed
etiam referuntur. Atque hoc est quod ait sed sunt ad aliquid quibus hoc ipsum
esse est ad aliquid quodammodo se babere, ac si diceret quorum substantia est
ad aliquid aliud referri, et qua ita sunt ut ipsa id quod sunt ad aliud
referantur, et esse eorum sit ad aliquid aliud referri, sed non omnia quae
dicuntur ad aliud, et esse de alio mutuantur. Illa namque definitio prior,
maius est, definitionem namque relativorum supergressa est, includit enim ea
quoque quae relativa non sunt, et quemadmodum hominem cum dico, mortalem eum
esse necesse est, cum dico mortalem, non necesse est esse hominem, ita quoque
ea quae hoc ipsum quod sunt ex altero trahunt, et esse habent ad alterius
relationem, et esse suum ad alterius referunt nuncupationem. Quae vero ad aliud
tantum dicuntur, non necesse est, ut esse suum ad aliquid habeant relatum, quo
posteriorem definitionem suscipiant, et ista sententia breviter includatur, ut
quaecumque hanc definitionem susceperint, ut hoc ipsum esse sit ad aliquid
quodammodo se habere, habeant eam quoque definitionem, quae est relativa esse
quaecumque 236D id quod sunt aliorum dicuntur, quae vero hanc habuerint
definitionem illam non necessario habeant, ut ea quae sunt ad aliquid, etiam ad
aliquid dicantur. Sed ea quae dicuntur ad aliquid, non omnino ad aliquid sint,
quod si ista definitio posterior recipiatur, quae dicit ea esse ad aliquid,
quibus hoc ipsum esse est ad aliquid quodammodo se habere, poterit superior
solvi dubitatio, quod dicamus id quod ipse posteriore disputatione secutus est.
Quod autem ait: Prior vero definitio sequitur quidem omnia relativa, non tamen
hoc eis est esse, quod sint ad aliquid, quod ea ipsa quae sunt aliorum
dicuntur, hoc est quod non idcirco aliquid relativum esse dicitur, quoniam
alterius esse 237A dicitur. Sed tunc merito res aliqua relationis nomine
continebitur, quoties non solum ad aliquid dicitur sed hoc ipsum esse eius ad
aliquid est quodammodo se habere. Quare quid hanc definitionem proprium
consequatur, ipse addidit. EX HIS ERGO MANIFESTUM EST QUOD, SI QUIS ALIQUID
EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID DEFINITE SCIET, ET ILLUD AD QUOD DICITUR DEFINITE
SCITURUS EST. SI MANIFESTUM QUIDEM ETIAM EX IPSO EST; NAM SI QUIS NOVIT QUONIAM
HOC EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID EST, RELATIVIS AUTEM HOC EST ESSE, AD ALIQUID
QUODAMMODO HABERE, ET ILLUD NOVIT AD QUOD HOC ALIQUO MODO HABET. Proprium
relativis secundum eam quae superius dicta est definitionem hoc esse confirmat,
quod si quis id quod est ad aliquid definite scit, quoniam 237B relativam est,
et illud ad quod referri potest, definite sciturus est quid sit, nam relativa
easunt quibus hoc est esse ad aliquid quodammodo se habere, quoniam ut sit
quaternarius duplum a binario trahit. Si quis novit esse quaternarium numerum
duplum, et binarium necessario sciturus est esse dimidium, ad quem quaternarius
duplus est fieri; enim nullo modo potest, ut cum quis noverit aliquam rem esse
relativam definite, non illud quoque sciat ad quod illa res dicitur definite;
huius autem rei una probatio est quae ex definitione venit. Definita enim sunt
illa esse ad aliquid, quorum ea esset substantia, ut quodammodo se ad aliquid
haberent, quod si scio quaternarium numerum esse duplum, eo quod ad binarium
quodammodo coniungatur, nullus quaternarium duplum 237C esse poterit scire,
nisi qui sciet medietatem esse binarium, et hoc quidem in omnibus consideretur.
Nam si nesciat quis ad quid aliquid referatur eorum quae relativa sunt, illud
quoque ignorabit, utrum ommino ad aliquid referatur, quod his verbis
Aristoteles dicit: NAM SI OMNINO NESCIT AD QUOD ALIQUO MODO HABET, NEC SI AD
ALIQUID QUODAMMODO HABET SCITURUS EST. ET IN PARTICULARIBUS HOC MANIFESTUM EST;
UT, SI HOC AD ALIQUID SCIT DEFINITE QUONIAM DUPLUM EST, ET CUIUS DUPLUM EST
DEFINITE NOVIT (NAM SI NULLIUS DEFINITE NOVIT ILLUD ESSE DUPLUM, NEC SI OMNINO
DUPLUM EST NOVIT); SIMILITER AUTEM ET HOC AD ALIQUID SI NOVIT QUONIAM MELIUS
EST, ET QUO MELIUS ERIT DEFINITE EUM SCIRE NECESSE EST PROPTER HAEC IPSA QUAE
DICTA SUNT (NON AUTEM INFINITE QUONIAM HOC EST PEIORE MELIUS, OPINIO ENIM IAM
FIT HUIUSMODI, NON SCIENTIA; NEQUE ENIM SCIET INTEGRE QUONIAM EST PEIORE
MELIUS; NAM FORTASSE CONTINGIT NIHIL EO ESSE PEIUS); QUARE MANIFESTUM EST
QUONIAM NECESSE EST QUOD QUIS NOVERIT EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID DEFINITE,
ETIAM ILLUD AD QUOD DICITUR SCITURUM ESSE DEFINITE.Huius quoque rei exempla
persequitur dicens: Si duplum ad aliquid esse novimus, scimus quoque id cuius
duplum est; quod si nescimus id cuius est duplum, duplum autem esse cuiuslibet
rei ex hoc est, quod ei sit medietas, ipsam quoque rem quae dupla sit, utrum
dupla sit scire non possumus. Si igitur definite novimus quamlibet illam rem
esse duplam, etiam cuius dupla est definite nos scire necesse est. Ut si novit
quis Anchisem patrem definite esse Aeneae, et Aeneam definite filium esse
agnoscet, vel si indefinite novit quoniam pater est, indefinite etiam sciturus
est quoniam filii pater est. Et rursus si Aeneam quis indefinite novit quoniam
filius est, sciturus quoque est indefinite quoniam patris est filius.
Manifestum est ergo quoniam ea quae sunt ad aliquid, si definite ad aliquid
esse sciantur, etiam illud definite sciendum est ad quod illa referuntur. Quod
in substantiis non eodem modo esse Aristotele probamus auctore, qui huius quaestionis
serierm ita concludit. CAPUT VERO ET MANUM ET EORUM SINGULA QUAE SUBSTANTIAE
SUNT, HOC IPSUM QUIDEM QUOD SUNT POTEST SCIRI DEFINITE, AD QUOD AUTEM DICANTUR
NON NECESSE EST; CUIUS ENIM HOC CAPUT VEL CUIUS HAEC MANUS NON EST 238B DICERE
DEFINITE; QUARE HAEC NON ERUNT EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID; QUOD SI NON SUNT
EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID, VERUM ERIT NULLAM ESSE SUBSTANTIAM RELATIVAM In
capite, inquit, et in manu, et in aliis substantiis non est verum, quoniam si
quis aliquid horum alicuius esse novit, et ad aliquid aliud referri, idcirco et
ad quam referatur definite scituras est. Si quis enim operto capite atque
omnibus membris manum foras exerat, manifestum est quoniam manus illa alicuius
manus est, cuius autem manus sit, dici definite non potest. Similiter quoque
opertis oculis, facieque velata si cuiuslibet caput aspicias, illud quidem
caput alicuius esse non dubitas, cuius autem sit definite non proferes. Quare
quoniam haec huiusmodi sunt, ut si quis ea definite sciat esse alicuius, cuius
sint, definite scire non poterit, a relativorum definitione, quorum si una res
quaelibet definite sciatur esse ad aliquid, illa quoque res ad quam dicitur,
definite scitur, substantiae segregantur. Subiiciendum tamen est illud quoque,
quod omnino verum est, in definitionibus rem ipsam quae diflinitur sumi non
oportere. Multa enim sunt quae aliter proferuntur et definiuntur, et aliter
accipiuntur, ut si quis dicat album esse colorem nigro contrarium, potest hoc
et in corpore accipi, namque et color album dicitur, et corpus quod albo
participat, album nominatur. Quocirca ne quis putet tale album esse definitum,
quod ad participationem albi et corporis referatur, ita dicendum est: Album est
quod cum in aliquibus est, tum color nigro contrarium. Atque ita rem ipsam in
sua definitione sumimus, quod scilicet Aristoteles, id est rem ipsam qua
definitur in definitione sumi non oportere, inter verisimilia topicorum posuit
argumenta. Nunc autem post relativorum disputationem, ad maiorem nos de his
rebus tractatum studiosus doctor hortatur, dicene: FORTASSE AUTEM DIFFICILE SIT
DE HUIUSMODI REBUS CONFIDENTER DECLARARE NISI SAEPIUS PERTRACTATA SINT;
DUBITARE AUTEM DE SINGULIS NON ERIT INUTILE. Quod scilicet nunquam diceret,
nisi nos ad maiorem acuminis exercitationem considerationemque reuocaret. Quod
quoniam eius est adhortatio, nos quoque in aliis de his rebus dubitationes
solutionesque ponere minime grauabimur. Consueta in principio quaestio est cur
post relationis predicamentum disputationem qualitatis aggressus est, quod
nimis curiosum est. Mirabile enim fuerat cur post quantitatis ordinem non
statim de qualilate coepisset sed quoniam quantitati quaedam relationis
admiscuit, et disputationem de relatione continuavit, idcirco non est mirabile
post expeditam relationis interpositionem ad qualitatis eum ordi nem
reuertisse, quamquam etiam ex hoc quoque recta sit series. Nam post magnum
paruumque statim proportio et quaedam ad aliud comparatio consequitur, ut sit
aut maius aut minus, aut aequale vel inaequale, quae sunt ad aliquid. Post haec
autem innasci quasque necesse est passiones, quae a qualitatis natura non
discrepant, ut album, vel nigrum, vel calidum vel frigidum, vel quaecumque his
sunt consimilia, quae praedicatio qualitatis includit. Est vero titulus huius
propositi de quali et de qualitate. Quaeritur enim cur ei non aut de quali
dixisse, aut de qualitate suffecerit, quod hoc modo solvitur. Dicimus enim
quale non uno modo, qualitatem vero simpliciter. Quale enim dicimus et ipsam
qualitatem, et illam rem quae qualitate illa participat, ut albedo quidem
qualitas est, qui vero participat albedinem albus dicitur. Sed et albedinem
ipsam communiter quale dicimus, id est ipsam proprie qualitatem, et album
dicimus quale, illud scilicet quod superius comprehensa qualitate participat.
Ita ergo et ipsam qualitatem et rem quae qualitate participat, qualia
communiter appellamus, qualitas vero simpliciter 239C dicitur. Res enim ipsa
quae participari potest, sola qualitas nominatur. Res vero quae participat,
qualitatis vocabulo non tenetur, ut, albedo qualitas quidem est, albus vero
qualitas non est. Differunt ergo hoc quod dicimus quale et qualitas, quod illud
dupliciter, illa simpliciter appellatur. Quocirca quamquam quidam negent hunc
titulum Aristotelis esse, idemque confirment posteriores adiectione signatum,
nos tamen dicimus proprer quamdam nominum similitudinem demonstrandam utrumque
posuisse, ut nihil distare videatur utrum quale an qualitas, id quod appositum
est praedicamentum dicatur; quale enim ipsam aliquoties rem (ut diximus)
qualitatemque significat. Sit ergo ex rebus sumpta definitio qualitatis. Quod
vero inquam definitionem, quodque superius in aliis quoque praedicamentis,
eodem sumus usi vocabulo, nullus arbitretur generalem me definitionem voluisse
signare sed definitionis nomen in rem descriptionis accipiat. In his enim qua
generalissima genera sunt, definitio quaeri non debet sed descriptio quaedam
naturae, non enim potest inveniri definitio eius rei quae genus ipsa sit, et
quae genus nullum habeat. Quocirca his propositis, atque antea constitutis,
incipiendum est de qualitate. QUALITATEM VERO DICO SECUNDUM QUAM QUALES QUIDAM
DICIMUR. Hic quaeritur cur omnium in disceptatione doctissimus tam culpabili
qualitatem termino definitionis incluserit. Volentibus enim nobis quid sit
qualitas scire, illa respondet: qualitas est secundum quam quales quidam
dicuntur. Nihil enim minus erit obscurius atque ignorabilius quod ait: SECUNDUM
QUAM QUALES DICUNTUR, quam si de ipsa sola qualitate dixisset. Nam si illi sunt
quales, qui qualitatem habent, ut sciantur quales, prius qualitas cognoscenda
est. Amplius quoque nihil differt dixisse eam qualitatem secundum quam quales
quidem dicuntur, tanquam si diceret eam esse qualitatem quae qualitas sit. Nam
sic qualitatem definire volens ait: secundum quam quales quidam sunt. Rursus si
quis quales aliquos definire voluerit, eodem modo dicere poterit, qui in se
retinent aliquam qualitatem. Quod si qualitas quidem quid sit per quale, quid
autem sit quale, superiore qualitate monstratur, nihil intererit dicere
qualitatem esse, qualitatem, quam qualitatem esse, secundum quam quales
dicuntur. Sed si ordinata definitio generalis et in hoc generalissimo genere
poni potuisset, recte culpabilis determinatio videretur. Nunc autem frustra
contenditur, cum iam (ut saepe dictum est) descriptionis potius loco hunc
terminum quam alicuius definitionis addiderit. Quocirca si designatio tantum
quaedam, et quodammodo adumbratio rei eius de qua quaeritur, et non definitio est,
absurda calumnia est, rebus notioribus res ignotiores probantem non ante
perspecta descriptionis ratione culpare. Illud autem quis dubitet notiores esse
eos qui quales sunt, illa ipsa ex qua quales dicuntur qualitate, ut quilibet
albus notior est ipsa albedine? Nam si albedo qualitas est, albus vero ab
albedine, id est a qualitate, denominatus est, albus erit qualis nominatus ab
albedine qualitate. Quod si, ut dictum est, notior albus est albedine, qualis
notior erit qualitate, sicut grammaticus quoque notior est grammatica.
Grammaticus quoque qualis est denominatus, scilicet a grammatica qualitate.
Omnia enim quae sensibus subiecta sunt notiora sunt nobis quam ea quae sensibus
non tenentur. Quare nihil impedit describentem et quodammodo naturam rei eius
de qua quaeritur designantem, res ignotiores notioribus approbare. EST AUTEM
QUALITAS EORUM QUAE MULTIPLICITER DICUNTUR. ET UNA QUIDEM SPECIES QUALITATIS
HABITUS AFFECTIOQUE DICANTUR. DIFFERT AUTEM HABITUS AFFECTIONE QUOD
PERMANENTIOR ET DIUTURNIOR EST; TALES VERO SUNT SCIENTIAE VEL VIRTUTES;
SCIENTIA ENIM VIDETUR ESSE PERMANENTIUM ET EORUM QUAE DIFFICILE MOVEANTUR, SI
QUIS VEL MEDIOCRITER SCIENTIAM SUMAT, NISI FORTE GRANDIS PERMUTATIO FACTA SIT
VEL AB AEGRITUDINE VEL AB ALIQUO HUIUSMODI; SIMILITER AUTEM ET VIRTUS, ET
IUSTITIA VEL CASTITAS ET SINGULA TALIUM NON VIDENTUR FACILE POSSE MOVERI NEQUE
FACILE PERMUTARI. AFFECTIONES VERO DICUNTUR QUAE SUNT FACILE MOBILES ET CITO
PERMUTABILES, UT CALOR ET INFRICTIO ET AEGRITUDO ET SANITAS ET ALIA HUIUSMODI;
AFFECTUS EST ENIM QUODAMMODO CIRCA EAS HOMO, CITO AUTEM PERMUTATUR UT EX CALIDO
FRIGIDUS FIAT ET EX SANITATE IN AEGRITUDINEM; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS, NISI
FORTE IN HIS QUOQUE CONTINGIT PER TEMPORIS LONGITUDINEM IN NATURAM CUIUSQUE
TRANSLATA ET INSANABILIS VEL DIFFICILE MOBILIS, QUAM IAM QUILIBET HABITUDINEM
VOCET. Proponit qualitatem multipliciter dici, quae res traxit aliquos in
errorem, ut eis suspicio nasceretur Aristotelem credere qualitatem aequivoce
nominari. Nam si omnis aequivocatio multipliciter dicitur, qualitas autem
secundum Aristotelem ipsa quoque multipliciter appellatur, secundum Aristotelem
nomen qualitatis aequivocum est. Nos vero defendimus multipliciter dici, esse
non una tantum significatione nominari. Dicitur enim aliquid multipliciter
dici, cum et aequivoce dicitur, et diverso modo de suis speciebus multipliciter
praedicatur. Et communis est multiplex appellatio, etiam in his nominibus quae
veluti genera de speciebus dicuntur, velut aequivoca de subiectis. Namque et
animal multipliciter dicitur. Nam si multae sint species quae animali subiectae
sunt, ipsum quoque multipliciter quodammo denominatur. Istam autem
multiplicationem, non ad aequivocationem retulisse Aristotelem sed potius ut
qualitatem genus esse proponeret, illa res monstrat, quod ait, et una quidem
species qualitatis habitus affectioque dicitur. Nam qui speciem dicit esse
qualitatis habitum et affectionem, quis eum dubitet ipsam qualitatem vim
obtinere generis arbitrari? Cur vero dicit unam speciem esse qualitatis, cum
geminas proposuerit, habitudinem scilicet et affectionem, quaeritur. Nam si
unum idemque sit habitus et aflectio, superflua est eiusdem rei repetita
propositio, sin vero differact, quare differant investigandum est. Genere enim
ne distent, illa res praevenit, quod utraque sub qualitate constituit. Restat
ergo ut aut specie discrepent, aut numero; sed si specie discreparent, non ab
Aristotele pro una specie ponerentur. Reliquum est igitur ea neque genere neque
specie differre sed numero. Habitus namque dispositio idem est secundum speciem
sed numero tantum et propria quadam qualitate dissentiunt. Dispositionem vero
indiscrete idem quod affectionem voco. Nam sicut Socrates a Platone nihil
quidem secundum ipsam humanitatis speciem discrepat, sola tamen propriae
personae qualitate disiuncti sunt, ita quoque dispositio atque habitus, nec
potius hoc modo distant; sed quemadmodum ipse Socrates dum esset paruulus, post
vero pubescens a seipso distabat, eodem quoque modo habitus et dispositio:
namque habitus firma est dispositio, affectio infirmus est habitus, ut
quemadmodum distat albus color ab albo colore, si in pictura hic quidem
permaneat, ille vero statim periturus sit, nisi quod is qui permanentior est,
in habitu est, ille vero qui facile periturus est, in affectione, ita nihil
aliud interest inter habitum atque dispositionem. Nam quamvis permanentior sit
habitus, facile vero mobilis dispositio, non nisi tantum dinturnitate differunt
permanendi. Unde fit ut genere et specie habitus a dispositione non discrepet.
Quocirca recte quae numero solo distabant, non specie sub unius speciei
nuncupatione utraque sunt ab Aristotele proposita sed est horum propria
differentia, quod habitus diutissime permanentes dispositiones sunt. Dispositio
autem facile mobilis habitus sed si borum exempla quaeramus, haec poterunt
inveniri. Habitudines sunt ut artes, disciplinae, virtutes. Nam ars non facile
mobilis videtur et diutissime permanet. Hoc enim ars ipsa meditatur ut usu
atque exercitatione non pereat. Quis enim est qui sciens recte grammaticam
nulla vi interveniente validioris passionis amisit? Fertur enim quidam summus
orator aegritudine febribusque decoctus, omnem litterarum amisisse doctrinam,
in aliis vero rebus sanus ac sibi constans et in omni re uegetus permansisse.
Disciplina quoque etiam ipsa est in permutatione difficilis. Quis enim sciens
triangulum, duobus directis angulis, tres interiores similes habere angulos,
hanc scientiam praeter vim (ut dictum est) fortioris passionis amisit? Virtutes
quoque in eodem genere ponendae sunt. Virtus enim nisi difficile mutabilis non
est, neque enim quod semel iuste iudical iustus est, neque qui semel adulterium
facit, est adulter sed cum ista voluntas cogitatioque permanserit. Aristoteles
enim virtutes non putat scientias, ut Socrates sed habitus in Ethicis suis esse
declarat. Quocirca constat esse habitus stabiliter permanentes, difficileque
mutabiles, hoc tantum excepto, ut non eas vis aliqua maior alicuius
permutationis impellat et destruat. Affectionis vero species sunt, ut
calefactio atque perfrictio, et aegritudo atque sanitas, cum ad eas quodammodo
sit homo dispositus atque affectus, non tamen immutabiliteraut caloris
qualitatem habeat aut frigoris, sicut nec perpetuo sanitatis aut perpetuo
aegritudinis. Quin etiam si qua sunt quae per longi temporis aegritudinem
corporibus immutabiliter indurantur, ut ea iam in naturam quodammodo corporis
cuiusque transierint, ut si quis percussus cicatricem faciat insanabilem, illi
ex dispositione et 242D affectione quidam factus est habitus. Quocirca recte
dictum est dispositiones inveteratas habitus facere. Nam cum quaelibet
dispositio permanens et difficilc mobilis facta sit, illa iam non dispositio
aut affectio sed habitus vocandus est. MANIFESTUM EST AUTEM QUONIAM HAEC VOLUNT
HABITUS NOMINARI, QUAE SUNT DIUTURNIORA ET DIFFICILE MOBILIA; NAMQUE IN
DISCIPLINIS NON MULTUM RETINENTES SED FACILE MOBILES DICUNT HABITUM NON HABERE,
QUAMVIS SINT AD DISCIPLINAM PEIUS MELIUSUE DISPOSITI. QUARE DIFFERT HABITUS
AFFECTIONE, QUOD HOC QUIDEM FACILE MOBILE EST, ILLUD VERO DIUTURNIUS ET
DIFFICILE MOBILE. Habitus esse qualitates difficile mobiles et diuturnissime
243A permanentes hoc argumento confirmat, quod eos quibus quaelibet scientia
traditur, si ab eis non fortiter addiscatur, eius rei quam discunt habitum
retinere non dicimus. Qui enim litteras discens nondum soluto cursu sermonis
sed syllabatim quodammodo atque intercise per imperitiam legerit, eum quidem
dispositum esse atque affectum dicimus ad scientiam litterarum, non tamen adhuc
illum habitum retinere. Quare idem quoque est in aliis rebus. Omnes enim
quicumque ad aliquam rem dispositi, eius rei qua sunt aliquo modo affecti, non
diuturnam in se receptionem habent, eos ad illam rem dispositos quidem esse
arbitramur, habitum vero habere non dicimus. Recte igitur habitus diuturnior,
et permanentior, dispositio vero facile mobilis deque perdurabilis ab
Aristotele proponitur. SUNT AUTEM HABITUS ETIAM AFFECTIONES, AFFECTIONES VERO
NON NECESSARIO HABITUS; QUI ENIM RETINENT HABITUM ET QUODAMMODO AFFECTI SUNT AD
EA VEL PEIUS VEL MELIUS; QUI AUTEM AFFECTI SUNT, NON OMNINO RETINENT HABITUM. Sensus
quidem talis est, quod omnis quicumque habeat habitum, habet quoque in eodem
habitu dispositionem. Si quis vero habeat dispositionem, non necesse sit eum
etiam habitum retinere. Habitus ab habendo dictus est. Idcirco quod ab aliquo
immutabiliter vel difficile immutabilitur habeatur, ut glauci oculi, vel
aduncae nares, vel alicuius artis scientia atque doctrina, quae si quis habeat,
etiam dispositus ad ea esse dicitur. Si quis autem dispositus ad aliquam rem
sit, non eum necesse est etiam habitum habere, ut si quis negligentius opertus
algore quatiatur, dispositus quidem tunc ad frigus est, non tamen eius retinet
habitum. Videtur autem eamdem similitudinem servare genus. Nam genus amplius
praedicatur, et ubicumque species sit, mox quoque nomen generis praesto est.
Ubi autem sit genus, non necessario speciei vocabulum consequitur, ut si quis
est homo, eum animal esse necesse est. Si quis est animal, non statim homo dicitur.
Quocirca cum quidquid est habitus, dispositio sit, quidquid dispositio non
omnino sit habitus, videtur genus esse quoddam habitus dispositio sed illud
verius, ubi intentio est atque remissio, genus intentionis, remissione esse non
posse. Num sicut in eo quod est album et magis album, magis albi genus album
esse non potest, idem namque est album et magis album, nisi forte quod sola
discrepant intentione, quod magis album quadam quasi intentione augmentoque
crescit atque porrigitur, sic etiam habitus atque dispositio cum idem sint,
utraque sola differunt intentione, quod auctior quodammodo, et incremento
quodam permanentior firmiorque est habitus dispositione; quocirca dispositio
habitus genus non est, eodem quoque modo nec dispositionis species, habitus.
Sed nunc quidam ita est habitus, ut non per dispositionem creuerit, neque per
aliquam nondum durabilem qualitatem ad perfectum venerit statum, ut est nasi
curuitas, vel caecitas oculorum, si subita facta sit. Haec enim ab ipso habitu
nulla praecedente dispositione coeperunt; forte 244A enim nunquam ad ea
dispositiis fuit aliquis, qui adhuc non haberet. Alii vero habitus intentione
fiunt atque inveteratione dispositionis, ut ea quae in artibus doctrinisque
versantur. Prius enim quis ad ea dispositus est, post vero habitum capit, alia
vero non intentione sed quadam permutatione ad habitum veniunt, ut lac quod ex
liquido defigitur et constipatur in caseum, et vinum quod ex dulci atque suavi
in acidum gustum saporemque convertitur; neque enim plus tunc vinum est quam
fuit ante cum esset suave sed cum quadam permutatione in aliam qualitatem
habitudinemque transgressum est. Ac de prima quidem qualitatis specie
sufficienter est dictum. ALIUD VERO GENUS QUALITATIS EST SECUNDUM QUOD
PUGILLATORES U EL CURSORES VEL SALUBRES VEL INSALUBRES DICIMUS, 244B ET
SIMPLICITER QUAECUMQUE SECUNDUM POTENTIAM NATURALEM VEL IMPOTENTIAM DICUNTUR.
NON ENIM QUONIAM SUNT AFFECTI ALIQUO MODO, UNUMQUODQUE HUIUSMODI DICITUR SED
QUOD HABEANT POTENTIAM NATURALEM VEL FACERE QUID FACILE VEL NIHIL PATI; UT
PUGILLATORES VEL CURSORES DICUNTUR NON QUOD SINT AFFECTI SED QUOD HABEANT
POTENTIAM HOC FACILE FACIENDI, SALUBRES AUTEM DICUNTUR EO QUOD HABEANT
POTENTIAM NATURALEM UT NIHIL A QUIBUSLIBET ACCIDENTIBUS PATIANTUR, INSALUBRES
VERO QUOD HABEANT IMPOTENTIAM NIHIL PATIENDI. SIMILITER AUTEM ET DURUM ET MOLLE
SESE HABENT; DURUM ENIM DICITUR QUOD HABEAT POTENTIAM NON CITIUS SECARI, MOLLE
VERO QUOD EIUSDEM IPSIUS HABEAT IMPOTENTIAM. Secundam vero speciem qualitatis
esse commemorat, quae ex quadam naturali potentia impotentiaque proveniat; hoc
autem huiusmodi est, ut cum aliquos validi corporis intuemur nondum pugiles,
neque huius peritia artis imbutos sed sic eos pugillatores dicimus, non in eo
quod iam sint pugiles sed eo quod esse possint, et si quorum leue corpus
aspicimus, surasque non magnas, eos facile moveri cursuque veloces existimamus,
quamquam nondum ad cursus certamen aspirent, nec sint cursores, eos tamen
cursores secundum potentiam nominamus, non quod iam currant sed quod possint
currere, non absurde vocabimus. Eodem quoque modo eos vocamus salubres vel
insalubres, quos valenti corpore vel fragiliore, vel ad sanitatem aptos, vel ad
aegritudinem credimus. 244D Unde fit ut quosdam aegrotos possimus salubres
vocare, quosdam vero sanos insalubres dicere: non enim, quod iam actu vel sani
vel aegroti sint, salubres vel insalubres dicuntur sed quod vel sani diutius
esse possint vel aegroti. Sed quaestio est cur cum de qualitatis speciebus
propositum sit, secundum genus dixerit qualitatis et non speciem; ita enim ait:
Aliud vero genus qualitatis est secundum quod pugillalores vel cursores, vel
salubres et insalubres dicimus. Sed qui hoc quaerunt ignorare videntur illud
esse solum genus, quod super se aliud genus non habeat. Illud veros solum
speciem, quod sub se nullas species claudat, illa vero quae inter genera
generalissima speciesque specialissimas sunt, communi posse generis et speciei
nomine nuncupari. Quocirca quoniam de ea specie qualitatis Aristoteles tractat,
quae nondum sit species specialissima sed magis generis prima species, et
huiusmodi species quaa possit esse et genus, nihil absurdum est eamdem et
speciei et generis loco ponere. Sed ut sunt quaedam qualitates, a quibus
denominatione quadam facta quaelibet illa res dicitur, ut ab albedine album,
vel a luxuria luxuriosum, vel quidquid huiusmodi est, in his quae sunt secundum
potentiam naturalem non ita est. Ars enim ipsa pugillatoria non est proposita,
a qua pugillatores dicamus. Pugillatores enim non dicuntur ab eo quod usum
pugillatoriae artis exerceant sed ab eo quod ad eam secundum potentiam
naturalem affecti sunt; quocirca quos dicimus pugillatores a pugillatoria dicti
non sunt, neque ab ea denominari possunt sed magis a pugillatoria arte pugiles
appellantur. Pugilis enim est qui pugillatoria arte utitur, atque hoc idem in
caeteris licet videre. In his ergo nulla certa qualitas est a qua caetera
nominentur. Sed si qua tamen invenienda atque exprimenda sit, talis est quam
ipse Aristoteles hoc modo denuntiat, quae sit secundum potentiam aliquid
faciendi, vel impotentiam aliquid patiendi. Pugillatores enim et cursores
idcirco dicimus, quod habeant potentiam faciendi, id est currere atque esse
pugiles. Salubres vero denominamus, quod et ipsi habeant aliquam quodammodo im
potentiam aliquid patiendi; qui enim minus ab extrinsecus accidentibus patitur,
hic de sanitate securus est, et qui de sanitate securus est, illum salubrem
esse re vera possumus praedicare. Alia vero est qualitas quae secundum nihil
patiendi impotentiam dicitur, ut eos quos insalubres vocamus; hi enim
impotentiam habent nihil patiendi, idcirco quod habeant potentia mali quid cito
patiendi: quod si quis est qui ab extrinsecus accidentibus aliquid facile
patiatur, ille potens est facillime aegritudini subiacere, secundum quam potentiam
insalubres dicimus, etiamsi sint sani. Eodem quoque modo durum dicitur et
molle. Durum enim est quod habet potentiam non citius secari, quod enim durum
est, difficillime aliqua sectione dividitur. Molle autem quod habeatimpotentiam
difficilius secari, quod quoniam molle secatur facile, secundum impotentiam
difficilius secari molle dicimus. Et haec est secunda species qualitatis. Nunc
transeamus ad tertiam. TERTIUM VERO GENUS QUALITATIS EST PASSIBILES QUALITATES
ET PASSIONES. SUNT AUTEM HUIUSMODI UT DULCEDO VEL AMARITUDO ET OMNIA HIS
COGNATA, AMPLIUS CALOR ET FRIGUS ET ALBEDO ET NIGREDO. ET QUONIAM HAE
QUALITATES SUNT, MANIFESTUM EST; QUAECUMQUE ENIM ISTA SUSCEPERINT QUALIA
DICUNTUR SECUNDUM EA; UT MEL, QUONIAM DULCEDINEM SUSCEPIT, DICITUR DULCE, ET CORPUS
ALBUM QUOD ALBEDINEM SUSCEPERIT; SIMILITER AUTEM SESE HABET ETIAM IN CAETERIS. Tertium
genus qualitatis proponit, quod nos in partem qualitatis speciemque convertimus
passibiles qualitates et passiones. Haec autem a se plurimum distant, tamen cum
utraque qualitates sint, utraque prius docet, post vero quae eorum distantia
esse videatur edisserit, et prius eorum convenientia proponit exempla. Nam quid
sint passibiles qualitates docens ait. ut dulcedo vel amaritudo, calor et
frigus, nigredo et albedo, et alia his cognata, haec quae superius comprehensa
sunt qualitates esse illa ratione confirmat, quam in primordio de qualitatis
disputatione ipsius qualitatis esse reddiderat. Definitionem enim qualitatis
esse praedixerat, secundum quam quales vocamur. Quod si secundum qualitatis
quales vocamur, ab amaritudine vero vel a dulcedine amarum vel dulce dicitur. A
nigredine atque albedine nigrum atque album, quis dubitet has esse qualitates
in quibus qualitatis convenit definitio? Illa enim semper eiusdem naturae esse
creduntur, quaecumque eiusdem descriptionis finibus terminantur, ut si qua res
definitionem hanc, quae est animal rationale mortale susceperit, eam hominem
esse manifestum est. Quocirca si hae quas passibiles qualitates vel passiones
dixerat, suscipiunt qualitatis defnitionem, eo quod qualia dicuntur quae illa
susceperint, has etiam constat esse qualitates. PASSIBILES VERO QUALITATES
DICUNTUR NON QUO EA QUAE ILLAS SUSCEPERINT QUALITATES ALIQUID PATIANTUR; NEQUE
ENIM MEL, QUONIAM ALIQUID PASSUM SIT, IDCIRCO DICITUR DULCE, NEC ALIUD ALIQUID
HUIUSMODI; SIMILITER AUTEM HIS ET CALOR ET FRIGUS PASSIBILES DICUNTUR NON QUO
EA QUAE EAS SUSCIPIUNT QUALITATES ALIQUID PATIANTUR SED QUONIAM SINGULUM EORUM
QUAE DICTA SUNT SECUNDUM SENSUS QUALITATUM PASSIONIS PERFECTIVA SUNT,
PASSIBILES 246C QUALITATES DICUNTUR; DULCEDO ENIM PASSIONEM QUANDAM SECUNDUM
GUSTUM EFFICIT, ET CALOR SECUNDUM TACTUM; SIMILITER AUTEM ET ALIA. Passibilium
qualitatum exempla constituerat dulcedinem vel amaritudinem, frigus atque
calorem, albedinem atque nigredinem, quae cum passibiles qualitates sint, non
tamen uno eodemque modo passibiles qualitates dicuntur; sed longe distant
rationes quibus haec omnia qualitates passibiles appellantur, ut prius dulcedo
vel amaritudo, calor et frigus passibiles qualitates dicuntur, non quod ea quae
sunt dulcia aliquid extrinseous patiantur, vers quod ea quae sunt amara, ex
aliqua passione saporem asperum amaritudinemque susceperint. Neque enim mel
aliquid passum est, ut ei dulcedo esset in natura, nec vero absinthium ab ulla
aliqua extrinsecus passione amaritudinis horror infecit; quocirca haec atque
his similia non idcirco dicuntur esse passibiles qualitates, quod ipsae aliquid
passae sint sed quod ex his passiones quaedam in sensibus dimittantur. Namque
ex melle quod dulce est, dulcedo quaedam in gustu relinquitur, simulque etiam
calor et frigus passionem quamdam sensibus facinat. Patimur dulcedinem, cum
aliquid dulce gustamus, simulque secumlum caloris et frigoris qualitatem,
talium sensuum passionem subimus. Quocirca calor et frigus, amaritudo atque
dulcedo, idcirco passibiles qualitates dicuntur, quod secundum sensuum
qualitatem, aliquam in nobis efficiunt passionem, non quod ipsa extrinsecus
aliquid patiantur. ALBEDO AUTEM ET NIGREDO ET ALII COLORES NON SIMILITER HIS
QUAE DICTA SUNT PASSIBILES QUALITATES DICUNTUR SED HOC QUOD HAE IPSAE AB ALIQUIBUS
PASSIONIBUS INNASCUNTUR. Quoniam vero passibiles qualitates etiam colores esse
dicuntur, id est albedo et nigredo. Non autem eodem modo passibiles qualitates
dicuntur, quemadmodum amaritudo atque dulcedo, calor et frigus, nunc quae eorum
distantiae esse possint, exponit. Amaritudo enim atque dulcedo non quod ipsa
aliquid extrinsecus paterentur sed quod ipsa efficerent passiones, passibiles
qualitates vocabantur, albedo vero et nigredo contrarie. Non enim quod ipsae
aliquas 247B sensibus passiones importent sed quod ex aliis quibusdam
passionibus innascantur. Hoc autem videtur Aristoteles eo quodammodo
considerasse, quod post proposuit hoc modo: QUONIAM ERGO FIUNT PROPTER ALIQUAM
PASSIONEM MULTAE COLORUM MUTATIONES, MANIFESTUM EST; ERUBESCENS ENIM ALIQUIS
RUBICUNDUS FACTUS EST ET TIMENS PALLIDUS ET UNUMQUODQUE TALIUM. Hoc autem ex
non longi temporis passionibus ad passibiles qualitates et diutissime
permanentes, acutissima consideratione transfertur, fit enim rationis
probabilitas hoc modo. Monstrantur enim colorum qualitates ex passionibus
nasci, quod cum verecundia passio quaedam sit, ex ea rubor ex oritur, et cum
timor loco passionis habeatur, ab ea pallor metuentis 247C uultum atque ora
defigit. Quare quoniam hi colores ex quadam passione videntur innasci, etiam in
naturali colore eamdem verisimile est evenisse rationem. Nam quoniam cum
verecundia fit, in os omnis sanguis egreditur, et velut delictum tecturus effunditur,
ita quoque fit rubor ex sanguinis progressione, atque in apertum effusione.
Quocirca si hoc ex innaturali passione contigerit, naturali facies rubore
perfunditur. Pallor vero fit, quoties a facie sanguis ad praecordiorum
interiora ingreditur. Quod si haec quoque naturalis passio det, verisimile est
eodem infectum calore procreari. Quocirca sive per aegritudinem pallor fit,
quod naturale non est, sive per aliquem naturalem euentum passionis accidat,
caeteraque ad eumdem modum, passibiles qualitates dicuntur, eo quod ex
aliquibus passionibus sint, quod 247D ipse Aristoteles hao voce testatur: QUARE
VEL SI QUIS NATURALITER ALIQUID TALIUM PASSIONUM PASSUS EST, SIMILEM COLOREM
EUM HABERE OPORTET; QUAE- ENIM AFFECTIO NUNC AD VERECUNDIAM CIRCA CORPUS FACTA
EST, ET SECUNDUM NATURALEM CONSTITUTIONEM EADEM AFFECTIO FIT, QUARE NATURALITER
COLOR SIMILIS FIT. Nam sive aliquis vel nondum natus aliquid patiatur, quo
faciem sanguis reiinquat, sive quolibet alio modo sanguis ex infantis uultu ad
interiora migravit, faciem naturalis infecit pallor, et quae nunc non naturales
passiones dispositionesque sunt, ut cum hi colores faciem vel totum corpus
inficiunt, hi si naturaliter contigerint eisdem, similibus signatus coloribus
248A uultus aspicietur. Nunc enim cum aestus in superficie uultus sanguinem
impositum decoxerit, nigredinis perusti sanguinis rubor reddit colorem. Quodsi
idem aliqua passione in faciem nondum geniti infantis acciderit, eamdem
verisimile est affectionem coloris corpus suscipientis inficere. Quare quae in
coloribus sunt idcirco passibiles qualitates dicuntur, non quod ipsae aliquid
paliantur sed quod ex aliquibus passionibus in cuiuslibet corpus atque ora
proveniunt. QUAECUMQUE IGITUR TALIUM CASUUM AB ALIQUIBUS PASSIONIBUS DIFFICILE
MOBILIBUS ET PERMANENTIBUS PRINCIPIUM CEPERUNT, QUALITATES DICUNTUR; SIVE ENIM
VEL SECUNDUM NATURALEM SUBSTANTIAM PALLOR AUT NIGREDO FACTA EST, QUALITAS
DICITUR (QUALES ENIM 248B SECUNDUM EAS DICIMUR), SIVE PROPTER AEGRITUDINEM
LONGAM VEL PROPTER AESTUM CONTINGIT VEL NIGREDO VEL PALLOR, ET NON FACILE
PRAETERIT ET IN VITA PERMANET, QUALITATES ET IPSAE DICUNTUR (SIMILITER ENIM
QUALES SECUNDUM EAS DICIMUR). Dat quoddam signum quo perspecto valeamus
agnoscere, quas harum omnium quae supradictae sunt, qualitates oporteat
appellari. Si enim ita vel casu aliquo, vel natura hae qualitates euenerint, ut
eorum sit tardus exitus permutatioque difficilis, qualitates vocantur. Si quis
enim vel per aegritudinem, vel per naturam pallidus fiat, sitque in eius
corpore permanens pallor, tunc qualitas appellatur, et hoc non in corporalibus
solum vitiis sed etiam in animi quoque affectionibus invenitur. Si quis enim vel
per naturam, vel quolibet alio postea casu assiduis comessationibus delectetur,
et hoc illi quodammodo in ipsa mentis dissolutione per maneat, ab eoque
difficile moveatur, passibilis qualitas effecta est, idcirco quod secundum eam
quales dicuntur quibus illa provenerit. Niger enim dicitur in quo nigredo
permanserit; comessator, cui voluptas perpetuo comessandi est. Est ergo signum in
passibilibus qualitatibus hoc eas esse immobiles et permanentes. Quae autem
huiusmodi sunt quae facillime permutantur, et temporali statu sunt, de his
talis Aristotelis videtur esse sententia. QUAECUMQUE VERO EX HIS QUAE FACILE
SOLUUNTUR ET CITO TRANSEUNT FIUNT, PASSIONES DICUNTUR; NON ENIM DICIMUR SECUNDUM
EAS QUALES; NEQUE ENIM QUI PROPTER VERECUNDIAM RUBICUNDUS FACTUS EST RUBICUNDUS
DICITUR, NEC CUI PALLOR PROPTER TIMOREM venIT PALLIDUS SED MAGIS QUOD ALIQUID
PASSUS SIT; QUARE PASSIONES HUIUSMODI DICUNTUR, QUALITATES VERO MINIME.
SIMILITER AUTEM HIS ET SECUNDUM ANIMAM PASSIBILES QUALITATES ET PASSIONES
DICUNTUR. QUAECUMQUE ENIM MOX IN NASCENDO AB ALIQUIBUS PASSIONIBUS FIUNT,
QUALITATES DICUNTUR, UT DEMENTIA VEL IRA VEL ALIA HUIUSMODI; QUALES ENIM SECUNDUM
EAS DICIMUR, ID EST IRACUNDI ET DEMENTES. SIMILITER AUTEM ET QUAECUMQUE
ALIENATIONES NON NATURALITER SED AB ALIQUIBUS ALIIS CASIBUS FACTAE SUNT
DIFFICILE PRAETEREUNTES ET OMNINO IMMOBILES, ETIAM HUIUSMODI QUALITATES SUNT;
QUALES ENIM SECUNDUM EAS DICIMUR. QUAECUMQUE ENIM EX HIS QUAE 249A CITIUS
PRAETEREUNT FIUNT, PASSIONES DICUNTUR, UT SI QUIS CONTRISTATUS IRACUNDIOR EST;
NON ENIM DICITUR IRACUNDUS QUI IN HUIUSMODI PASSIONE IRACUNDIOR EST SED MAGIS
ALIQUID PASSUS; QUARE PASSIONES QUIDEM HUIUSMODI DICUNTUR, QUALITATES VERO
MINIME. Quid de his affectionibus iudicaret, quae ad prasens tempus atque ad
momentum animis vel corporibus inhaererent, ipse non obscura oratione uulgavit.
Nam cum prius eas esse passibiles qualitates pronuntiaret, quae ex aliquibus passionibus
gignerentur, et tamen in subiectis immutabiliter permanerent, nunc illas
affectiones quae ita sunt in subiectis ut cito praetereant, non qualitates sed
passiones vocat. Si quis enim propter verecundiam rubore infectus est, quoniam
rubor ille non permanet, rubeus von vocatur; 249B qui si rubeus discerelur,
esset quoque ipse rubor passibilis qualitas, quoniam in subiecto corpore
diutissime permaneret. Nunc autem quoniam nullo modo rubeus dicitur, cui a
verecundia rubor venit, qualitates autem sunt secundum quas quales vocamur,
verecundiae rubor non qualitas sed quaedam passio est; nam si esset qualitas,
ab eo rubore rubei dicerentur, id est quales sed hoc non ita est. Non igitur
huiusmodi affectiones quae haud multo durant tempore qualitates vocantur sed
potius passiones. Passus enim aliquid dicitur, qui propter verecundiam rubeus
fit. Eadem ratio est etiam in animi passionibus. Nam si ad momentum quis iratus
est, non idcirco eum iure aliquis iracundum vocet sed si huiusmodi vilium in
cuiuslibet animo constanter inhaeserit. Nam si quis vel per naturam vel per
aegritudinem sit laesus corpore, ut vel perpetuam dementiam, vel immobilem
incurrat iracundiam, ille vel demens vel iracundus dicitur. Et quaecumque
alienationes (ut ipse ait) vel secundum naturam, vel per casum permanentes
fuerint, illae in passibili qualitate numerantur, idcirco quod secundum eas
quales dicimur. Quae autem (ut dictum est) non permanent sed facile transeunt,
eas non qualitates sed solum vocamus passiones. Sed quoniam tres species qualitatis
enumeravit, unam secundum quam habitus dispositionesque dicerentur, alteram
secundum quam naturalis potentia vel impotentia ad aliquid faciendum vel
patiendum subiectarum rerum naturas paruret, tertiam secundum quam passibiles
qualitates dicerentur, et 249D hanc tali duplicitate partitus est, ut alias
idcirco diceret passibiles esse qualitates, quod ipsae aliquas gignerent
passiones, alias vero quod ab aliquibus ipsae passionibus nascerentur. Quaeri
potest quomodo hae quoque passibiles qualitates distenta prima illa specie
qualitatis, quae secundum habitum dispositionemque posita est. Nam si quis
calorem frigusque persenserit, habet quidem qualitatem passibilem sed tamen in
eiusdem ipsius dispositione atque affectione versatur; dispositus namque est ad
eumdem calorem atque frigus, quem sumpsit atque habuit, quod scilicet ipse
Aristoteles videns calorem frigusque in utraque specie numeravit; namque et
dispositionem dixit calorem atque frigus, et passibilem qualitatem. Huius
quaestionis talis solutio est. Nihil impedit, secundum aliam scilicet atque
aliam causam, unam eamdemque rem gemino generi speciei suae supponere, ut
Socrates in eo quod pater est ad aliquid dicitur, in eo quod homo, substantia
est, sic in calore atque frigore, in eo quod quis secundum ea videtur esse
dispositus, in dispositione numerata sunt; secundum vero quod ex aliquibus
passionibus innascuntur, passibiles qualitates dictae sunt. Ipsae vero ab
habitu distant, id est passibiles qualitates, quod in plurimis ad habitus rebus
per artes atque scientias pervenitur, ita ut ipse habitus ordine et filo quodam
perficiatur. Passibiles vero qualitates eo modo minime. Quo vero distent hae
passibiles qualitates a secunda specie, qua secundum naturalem 250B potentiam
vel impotentiam dicitur, quaeritur, cuius perplana distantia est. Dicimus enim
secundum potentiam naturalis speciem aliquid dici, non secundum praesentem
actum sed secundum id quod ad hoc esse potest; frigus vero calorque, et dulcedo
vel amaritudo non secundum quod possit esse sed secundum id quod iam sit
consideratur; quocirca distat haec tertia species a secunda, quod hic secundum
possibilitatem dicitur, tertia vero secundum actum. Sed quod dudum promiscue
passiones affectionum nomine vocabamus, haec quoque non longa quaestio alia
est. Sic enim inveniemus quod passio ab affectionibus discrepare videatur. Si
qua enim corpora ita calefacta sint, ut ex se quoque ipsa aliquem calorem
emittere valeant, illa ad calorem affecta nuncupantur. 250C Si qua vero tantum
calorem momento susceperint, passiones dicimus, et ab affectionibus segregamus,
ut hic sit integrum passionum affectionum quae habitus augmentum, ut
amplificata passio in affectionem transeat, augmentata affectio in habitum
permatetur. Et haec quidem de tertia specie qualitatis pronuntiasse sufficiat;
nunc quarte speciei vim naturamque veracissima disputatione confirmat usque quo
progressa qualitatis distributio conquiescit. Nobis quoque disputationum
prolixitas moderanda est. Providendum quoque est ut sufficiens brevitas ordini
expositionis adhibeatur, ne aut brevitatem comitetur obscuritas, aut planitiem
minus moderata oratio, odioso fastidio et longinquitate deformet. QUARTUM VERO
GENUS QUALITATIS EST FORMA ET CIRCA ALIQUID CONSTANS FIGURA; AD HAEC QUOQUE
RECTITUDO VEL CURUITAS, ET SI QUID HIS SIMILE EST; SECUNDUM ENIM UNUMQUODQUE
EORUM QUALE QUID DICITUR; QUOD ENIM EST TRIANGULUM VEL QUADRATUM QUALE QUID
DICITUR, ET QUOD EST RECTUM VEL CURUUM. ET SECUNDUM FIGURAM VERO UNUMQUODQUE
QUALE DICITUR. Quarta est species qualitatis quae secundum unamquamque formam
figuramque perspicitur. Est autem figura, ut triangulum vel quadratum, forma
autem ipsius figurae quaedam qualitas est, ut figura quidem est triangulum vel
quadratum, forma autem ipsius trianguli vel quadrati quaedam qualitas, unde
etiam formosos homines dicimus. Figura enim quaedam vel 251A pulchrior, vel
mediocris, vel alio quodammodo constituta, qualitas formaque nominatur. Has
autem esse qualitates nullus dubitat. Siquidem et a figura dicitur figuratus,
et a forma formosus. Amplius quoque triangulum etiam a triangulatione
denominatum est, et quadratum a quadratura. Quod si illae sunt qualitates,
secundum quas quale aliquid appelletur, non est qui dubitet formam figuramque
esse qualitates, quoniam omnia quae his participant ex ipsis qualia nominantur
sed quoniam in continuae quantitatis speciebus et triangulum et superficies
enumerata est, ipsa quidem superficies quantitas est, ipsius vero superficiei
compositio qualitas, est enim figura (ut geometrici definiunt) quae sub aliquo
vel aliquibus terminis continetur. Sub aliquo quidem, ut 251B circulus, sub
aliquibus vero, ut triangulus vel quadratus. Quare spatium quidem ipsum, quod a
supra dictis lineis continetur, superficies dicitur, quae est quantitas.
Superficies namque quoniam in dilatione quadam et spatio constat, quantitas est
sed compositio ipsius superficiei, qualitas. Nam quoniam tres lineae
convenienter in se iunctis terminis unum spatium conclusere, quod tribus
angulis a tribus lineis continetur, hoc ipsum spatium quod concludunt ad
quantitatem referri potest, quod vero tribus lineis, hoc est qualitas, figura
enim est triangula. Hoc idem quoque dici potest etiam in linea: nam quoniam
longitudo sive latitudine est, quantitas dicitur, quod recta sive curua est,
redditur rursus ad qualitatem. RARUM VERO ET SPISSUM VEL ASPERUM VEL LENE
PUTABITUR 251C QUIDEM QUALITATEM SIGNIFICARE, VIDENTUR AUTEM ALIENA ESSE
HUIUSMODI A QUALITATIS DIVISIONE; QUANDAM ENIM QUODAMMODO POSITIONEM VIDETUR
PARTIUM UTRUMQUE MONSTRARE; SPISSUM QUIDEM EO QUOD PARTES SIBI IPSAE PROPINQUAE
SINT, RARUM VERO QUOD DISTENT A SE INVICEM; ET LENE QUIDEM QUOD IN RECTUM SIBI
PARTES IACEANT, ASPERUM VERO CUM HAEC QUIDEM PARS SUPERET, ILLA VERO SIT
INFERIOR. ET FORTASSE ALII QUOQUE APPAREANT QUALITATIS MODI SED QUI MAXIME
DICUNTUR HI SUNT. QUALITATES ERGO SUNT HAEC QUAE DICTA SUNT, QUALIA VERO QUAE
SECUNDUM HAEC DENOMINATIVE DICUNTUR, VEL QUOMODOLIBET AB HIS. Quaedam sunt quae
videntur esse qualitates, quoniam ex his aliqua denominative dicuntur, ut lene
quoniam dicitur alenilate, et asparum quoniam dicitur 251D ab asperitate,
spissum quoque et rarum a raritate et spissitate nominantur; videntur ergo haec
quoque in qualitatibus posse numerari. Sed rectam rationem perspicientibus nec
solum auribus quae dicuntur sed etiam mente atque animo iudicantibus, in
qualitatibus haec poni non oportere manifestum est. Nam quod dicimus rarum,
positio quaedam partium est, non qualitas. Nam quia ita partes a se separatae
distant, ut inter eas alieni generis corpus possit admitti, ideo rarum vocatur,
ut spongiae pumicesque, quoniam in eorum cavernis surculus vel aliud aliquid
immitti potest, ita ut inter rimas partium sit, idcirco rarum dicitur. Porro
autem spissum, quoniam ita sibi partes vicinae sunt atque ad se invicem
strictae, ut intereas nullum corpus possit incidere, atque ideo spissum vocatur,
ut est ferrum vel adamas. Positio ergo quaedam partium his inest, non qualitas,
nec vero illud quoque distat, quod dicitur lene. Nam quoniam partes ita sunt
positae, et neutra superet, neutra sit minor sed aequalibus extremitatibus
iunctae sunt, idcirco quaedam lenitas est, ut adducta manus illam quae ex
aequalitate iunctis partibus nata est, sentiat lenitatem, ut est argentum.
Asperitas vero est partium non aequalis positio sed aliarum eminentium, aliarum
vero depressarum, ut lima cuius aliae partes eminent, aliae vero depressae
sunt. Ergo secundum unamquamque partium positionem, vel raritas, vel
spissitudo, vel asperitus, vel lenitas, corporibus est. Non igitur haec
secundum qualitatem dicuntur sed potius secundum positionem. Positio autem in
relationis genere nominata est. Non igitur hae qualitates sed potius relativa
sunt, et enumerationes quidem specierum qualitatis Aristoteles hic terminat Non
sunt tamen putandae solum esse qualitates quas supra posuit. Ipse enim testatur
esse quoque alias qualitates, quas modo omnes enumerare neglexit sed cur
neglexerit multae sunt causae. Prima quod elementi vicem hic obtinet liber, nec
perfectam scientiam tradit sed tantummodo aditus atque pons quidam in altiora
philosophiae introitum pandit. Quocirca si hoc ita est, tantum dicere oportuit,
quantum ingredientibus salis esset, ne eorum animos nondum ad scientiam firmos
multiplici doctrina, subtilitate confunderet. Quae vero hic desunt in libris
252C qui *Meta ta physika* inscribuntur apposuit. Perfectis namque opus illud
non ingredientibus praeparabitur. Est quoque alia causa ut nos ad exquirendas
alias qualitates, non solum propriorum doctorum sed etiam nostrorum aliquid
inveniendi incitator, admitteret. Quocirca concludit eas quae maxime
dicerentur, quas supra proposuit, esse qualitates; illa vero dici qualia, quae
secundum praedictas qualitates dicerentur: sed quoniam addidit, vel
quomodolibet ab his quae sit huiusce propositionis sententia, prius appositis
Aristotelis verbis sequens expositionis ordo contexit. IN PLURIBUS QUIDEM ET
PAENE IN OMNIBUS DENOMINATIVE DICUNTUR, UT AB ALBEDINE ALBUS ET A GRAMMATICA
GRAMMATICUS ET A IUSTITIA IUSTUS, SIMILITER AUTEM ET IN CAETERIS. IN ALIQUIBUS
VERO PROPTEREA QUOD QUALITATIBUS NOMINA NON SUNT POSITA IMPOSSIBILE EST AB HIS
DENOMINATIVE DICI, UT CURSOR VEL PUGILLATOR, SI SECUNDUM POTENTIAM NATURALEM
DICITUR, A NULLA QUALITATE DENOMINATIVE DICITUR; NEQUE ENIM POSITUM EST NOMEN
ILLIS POTESTATIBUS: SECUNDUM QUAS ISTI QUALES DICUNTUR, QUEMADMODUM ETIAM IN
DISCIPLINIS SECUNDUM QUAS VEL PUGILLATORES VEL PALAESTRICI SECUNDUM AFFECTIONEM
DICUNTUR (PUGILLATORIA ENIM DISCIPLINA DICITUR ET PALAESTRICA, QUALES VERO AB
HIS DENOMINATIVE QUI AD EAS SUNT AFFECTI DICUNTUR). ALIQUANDO AUTEM ET POSITO
NOMINE DENOMINATIVE NON DICITUR ID QUOD SECUNDUM IPSAM QUALE QUID DICITUR, UT A
VIRTUTE PROBUS DICITUR; HOC ENIM QUOD HABET viRTUTEM PROBUS DICITUR SED NON
DENOMINATIVE A VIRTUTE; NON EST AUTEM HOC IN MULTIS. QUALIA ERGO DICUNTUR
QUAECUMQUE EX HIS QUAE DICTAE SUNT QUALITATIBUS DENOMINATIVE DICUNTUR VEL
QVOLIBET ALIO AB IPSIS MODO. Multae, inquit, sunt qualitates, quibus positis et
proprio nomine nuncupatis, ab his alia denominative dicuntur, ut ea quae ipse
planissime adiecit exempla. Nam cum albedo cuiusdam nomen sit qualitatis, ab eo
dicitur albus. Eodem quoque modo et grammatica, cum rei sit nomen, ab ipso
quales dicuntur. Grammatici enim a grammatica nominantur, atque hoc est in
pluribus, ut posito nomine si quid secundum ipsas qualitates quale dicitur,
exhis ipsis qualitatibus appellatio derivetur. Aliae vero qualitates sunt, in
quibuscum nomen positum non sit, tamen quales dicuntur, quales quidem quia alia
qualitate participant, sed non secundum eam qualitatem quales dicuntur, ex qua
si his esset qualitatibus nomen impositum poterant appellari, ut in ea
qualitate quae secundum potentiam naturalem dicitur. Illi enim quamquam quales
dicantur, hi qui secundum ipsam potentiam nominantur, ipsi tamen (ut dictum
est) nullo proprio nomine nuncupantur. Nam qui pugiles appellantur ab arte
pugillatoria, idcirco ab ea pugiles dicuntur, quod ad eamdem ipsam artem
pugillatoriam quodammodo affecti eunt. Hi enim pugiles ab arte pugillatoria
praedicantur. Qui vero nondum pugiles sunt sed esse possunt, non secundum ipsam
artem, id est pugillatoriam sed secundum potentiam pugillatoriae artis,
pugillatores vocantur. Ipsi autem potentiae nomen proprium positum non est. Nam
quemadmodum 253C a cursu cursores, a palaestra palaestrici, a pugillatoria
pugiles, distinctis qualitatum vocabulis, appellantur, non eodem modo est etiam
in uniuscuiusque rei potentia naturali, cursus enim potentia naturalis secundum
quam cursores vocamus, et rursus potentia pugillandi, vel potentia
palaestrizandi, suo nomine distincta non est. Cur enim dicitur cursor, si
interrogemur de eo qui nondum est cursor? Dicimus secundum potentiam naturalem.
Cur palaestricus? Eodem quoque modo naturalem potentiam respondemus. Quare
pugillator qui nondum est pugillis, ab eadem quoque potentia naturali
nominatur. Si igitur haberet haec naturalis potentia proprium nomen, ita,
distinctis vocabulis, appellaretur, ut in his qualitatibus in quibus
proprienomen est positum, ut in cursu, palaestra et arte pugillatoria, et hoc
est quod ait. In aliquibus vero propterea quod qualitatibus nomina non sunt
posita, impossibile est ab his aliquid denominative dici. Ut hoc scilicet
demonstraret cursorem quidem qui iam curreret a cursu esse dictum, cursorem
vero qui secundum potentiam currendi diceretur non vocari a cursu sed tantum a
potentia, cuius potentiae nomen proprium non esset positum. Quare haec omnia
quae secundum potentiam naturalem dicuntur, a nulla qualitate denominativa
sunt. Idcirco quod hae qualitates a quibus denominari possunt, propriis
nominibus carent, quae vero ita sint, ut non ex potentia sed ex affectione
dicantur, ab his qualitatibus ad quas sese aliquo modo habent, denominative dicuntur,
quod Aristoteles hoc protulit modo dicens: Non ita esse secundum potentiam
naturalem, quemadmodum et iam in disciplinis secundum quas, vel pugillatores,
vel palaestrici secundum affectionem dicuntur. Pugillatoria enim disciplina
dicitur et palaestrica, quales vero ab his denominative, qui ad eas sunt
continentes, dicuntur. Docuit igitur omniaquae a quibusdam qualitatibus dici
putarentur, vero quoque a qualitatibus non praedicari, ut in his qualitatibus
quibus nomen proprium non est. Illud quoque monstravit hoc in pluribus evenire,
ut de propositis qualitatibus qualia denominative dicerentur. Restat ergo quod
reliquum est, ut dicat esse quasdam qualitates, quarum cum nomen sit positum,
ab his ipsis tamen quae illarun rerum participant denominative non dici, ut
virtus; nam cum virtus qualitas sit (est enim habitus quidam, omnis vero
habitus qualitas), ergo quicumque virtute participat, non secundum eam
denominative dicitur. In denominatione enim quaerendum est ut semper idem
permaneat nomen. In eo autem qui virtute participat, nulla virtutis denominatio
est, ut qui bonitate participat bonus dicitur, qui iustitia, iustus, et alia
huiusmodi. Qui vero virtute participat, aut probus nominatur, aut sapiens; sed
neque probus, neque sapiens a virtute denominativa sunt, idcirco quod utrumque
nomen a virtute longe dissimile est, quod ipse sic ait: Aliquando autem posito
nomine denominative non dicitur id quod secundum ipsum quale dicitur. Et eius
rei proponere non omisit exemplum sed hoc in multis non potest inveniri, pauca
enim sunt (ut ipse ait) in quibus posito qualitatis nomine quae his
participant, a superiori qualitate qualia non dicantur. Dat autem his
qualitatibus pluralitatis calculum, ex quibus qualia nominantur ea quae his
participant. Nam (ut ipse ait superius) in pluribus et pene in omnibus
denominative dicuntur. Quocirca recta definitio est et proprio ordine constituta.
Namque in principio hoc solum dictum est, esse qualitatem secundum quam qualia
dicerentur. Sed quoniam sunt quaedam quorum qualitates ipsae propriis nominibus
carent, quae vero his participant suis vocabulis appellantur, ut in naturali
potentia. Et rursus sunt quaedam quae in qualitatibus quidem habeant propria
nomina, in his vero quae ad eas ipsas qualitates essent affecta, nulla ex propositis
qualitatibus denominatio fieret, hoc addidit, ab omnibus qualitatibus aut
denominative dici qualia, quae illis qualitatibus participaret, aut
quomodolibet, aliter, id est sive posito nomine qualitatis de eo non
dicerentur, quae illa partieiparent, ut in eo quod est virtus, sive ipsi
qualitati positum nomen non esset, ut in eo quod est potentia naturalis. Quare
quoniam in his duabus qualitatis, in quibus vel posito nomine non secundum
nomen quae sunt, qualia denominative dicuntur, vel eum ipsis qualitatibus nomen
positum non sit, neutra ipsorum praedicatio denominative fit. Ad concludendum
omnem terminum qualitatis ait, aut denominative qualia a qualitatibus
appellari, aut quomodolibetaliter ab ipsis, ut non denominative sed aliquoties
quidem secundum potentiam, aliquoties vero secundum eamdem qualitatem virtutis;
eamdem enim qualitas est virtutis et sapientiae. Quocirca concludit, ita qualia
dici quaerumque ex his qualitatibus denominative dicerentur, vel quomodolibet
alio ab ipsis modo. Digestis in ordine prius omnibus qualitatibus et eorum
conclusione reperta, consueto ordine unaquaeque proprietas uestigatur. INEST AUTEM
ET CONTRARIETAS SECUNDUM QUALITATEM, UT IUSTITIA INIUSTITIAE CONTRARIUM EST ET
ALBEDO NIGREDINI ET ALIA SIMILITER; ET SECUNDUM EAS QUALIA QUAE DICUNTUR, UT
IUSTUM INIUSTO ET ALBUM NIGRO. NON AUTEM HOC IN OMNIBUS EST; RUBEO ENIM ET
PALLIDO ET HUIUSMODI COLORIBUS NIHIL EST CONTRARIUM CUM QUALITATES SINT. Dicit
in qualitatibus quaedam esse contraria, atque hoc probat exemplis, albedo
namque et nigredo contraria sunt, et quaecumque albedine nigredineque
participant; hoc est enim quod ait, et secundum eas qualia quae dicuntur; nam
sicut albedo nigredini contraria est, ita quoque albus nigro; sed hoc
qualitatis proprium non est, nam cum rubrum et pallidum qualitates sint,
aliique etiam colores huiusmodi, in his contrarium non est; nullus enim dicit
aliquid rubro vel pallido esse contrarium: nam quoniam album et nigrum
extremitates quaedam colorum sunt, et longissime a se distant, contraria sunt,
medietates vero contraria non habent: Namsi quis ponat rubrum nigro esse
contrarium, longissimeque distant quae sunt contraria, longissime igitur
nigredo a rubore distabit, et rursus albedo a nigredine plurimum distat; igitur
nigredini rubor est atque albedo contraria, uniusque rei duo contraria
inveniuntur, quod fieri non potest. Non est igitur nigredi contrarius rubor.
Similiter autem monstrabimus et in aliis mediis coloribus contrarium non esse.
Quocirca si huiusmodi coloribus contrarium nihil est, non in omni qualitate
contrarietas reperietur; quod si ita est, suscipere contraria qualitatis
proprium non est. At vero nec in ipsis quoque formis quae manifeste qualitates
sunt, contrarietas invenitur; nam neque ciroulus quadrato, neque quadratus
triangulo, nec ulla figura ulli figurae potest esse contraria. Quocirca
manifestum est, suscipere contrarium non esse proprium qualitatis. Sed quoniam
sunt quaedam in qualitate quae sibimet videantur esse contraria, ut iustitia et
iniustitia, hinc quaedam quaestio solet oriri. Dicunt enim quidam iustitiae
iniustitiam non esse contrariam, putant enim quod dicitur iniustitia privationem
esse iustitiae, non tamen contrarietatem. Contraria enim propriis nominibus,
non contrarii privatione nominari, ut album nigro, habere tamen iustitiam
aliquam contrarietatem, cuius adhuc proprium nomen non sit inventum, quod
omnino falsum est. Multae enim habitudines privationis vocabulo proferuntur, ut
illiberalitas et imprudentia, quae nunquam virtutibus opponerentur, quae sunt
habitus, nisi ipsae quoque habitus essent, et in animis habentium immutabiliter
permanerent. At vero neque illud verum est, omnes privationes negatione
proferri. Surditas enim, cum sit auditus privatio, sine negatione profertur;
eodem quoquemodo caecitas. Nullus enim dicit inauditio, neque inuisio, nec
aliquid huiusmodi sed tantum surditas caecitasque nominantur propriis nominibus,
cum sint illa in habitu, visus, auditus, illa in privatione ponenda. Igitur
iustitia iniustitiae contraria est. Tradit ergo regulam, ea quae contraria
sunt, sub quo genere convenienter aptentur, quam regulam his verbis ipse
praescribit: AMPLIUS: SI EX CONTRARIIS UNUM FVERIT QUALE, ET RELIQUUM ERIT
QUALE. HOC AUTEM MANIFESTUM EST OMNIA ALIA PRAEDICAMENTA PROFERENTI, UT SI EST
IUSTITIA INIUSTITIAE CONTRARIUM, QUALITAS EST AUTEM IUSTITIA, NIHILOMINUS
QUALITAS ERIT INIUSTITIA; NULLUM ENIM ALIUD PRAEDICAMENTUM CONVENIT
INIUSTITIAE, NEC QUANTITAS NEC RELATIO NEC UBI NEC OMNINO ALIQUID HUIUSMODI,
NISI SOLA QUALITAS; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS SECUNDUM QUALITATEM CONTRARIIS.
Si ex duobus, inquit, contrariis manifestum fuerit unum eorum contrariorum sub
qualitate poni, simul manifestum erit quod etiam eius contrarium convenienter
qualitati supponatur, simulque demonstrat iniustitiam esse qualitatem. Nam si
iustitia apertissime qualitas est idcirco quod neque qualitas, neque ad
aliquid, neque ubi, nec quando, nec aliud ullum praedicamentum est, nec sub
ullo alio genere poni potest, nisi sub sola qualitate, cum ei contraria sit
inustitia, non est dubium iniustitiam quoque qualitati subnecti, quod ipse
quoniam 256C planius dixit, ut ipsa exemplorum luce uulgavit, ad aliud nobis
est transeundum. SUSCIPIT AUTEM QUALITAS MAGIS ET MINUS; ALBUM ET ENIM MAGIS ET
MINUS ALTERUM ALTERO DICITUR, ET IUSTUM ALTERUM ALTERO MAGIS. ET IDEM IPSUM
SUMIT INTENTIONEM (ALBUM ENIM CUM SIT, CONTINGIT ILLUD FIERI ALBIUS); HOC AUTEM
IN OMNIBUS NON EST SED IN PLURIBUS; DUBITABIT ENIM QUIS AN IUSTITIA MAGIS ESSE
IUSTITIA DICATUR; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS AFFECTIONIBUS. QUIDAM VERO IN HOC
DUBITANT; DICUNT ENIM IUSTITIAM IUSTITIA NON NIMIS MAGIS VEL MINUS DICI, NEC
SANITATEM SANITATE; MINUS AUTEM HABERE ALTERUM ALTERO SANITATEM DICUNT, ET
IUSTITIAM MINUS ALTERUM ALTERO HABERE, SIMILITER ET GRAMMATICAM ET ALIAS
DISCIPLINAS. SED SECUNDUM EAS QUALIA QUAE DICUNTUR INDUBITATE SUSCIPIUNT MAGIS
ET MINUS; MAGIS ENIM GRAMMATICUS ALTER ALTERO DICITUR ET IUSTIOR ET SANIOR, ET
IN ALIIS SIMILITER. Aliud quoque proprium protulit, quod tractata ratione ab
integra proprietate qualitatis exclusit. Ait enim qualitates posse vel intendi
vel minui. Posse enim dicit alterum altero plus album appellari, ut nix argento,
et quae candidiora sunt marmora, et iustum alterum altero magis et minus
dicimus. Namque iustius aliquid factum, necnon etiam iustissimum est. In quibus
autem comparationes sunt, in his magis minusque dici manifestum est; hoc quoque
modo ipsum album, vel alia qualitas non solum contra alterum eiusdem speciei
comparata intentione crescit, et relaxatione minuitur sed etiam a seipsa
recipit comparationem: Dicitur enim nunc quidem argentum candidius esse quam
antea, cum fuerit detersum. Sed cum haec ita sint, non est magis minusque
suscipere proprium qualitatis; neque enim sola qualitas magis minusque
suscipit, haec enim intentio et relaxatio in his quoque quae sunt ad aliquid
invenitur, ut in eo quod est aequale et inaequale possumus dicere plus aequale
vel minus, et in caeteris huiusmodi; nec vero omnes qualitates suscipiunt magis
et minus, quod ipse sic ponit: Non autem in omnibus hoc est sed in pluribus.
Dubitabit enim quis an iustitia magis esse iustitia dicatur, similiter autem et
in aliis affectionibus. Quidam vero in hoc dubitant: dicunt enim iustitiam
iustitia non magis vel minus dici, nec sanitatem sanitate; minus autem habere
alterum altero sanitatem dicunt, et iustitiam minus alterum altero habere. In
hoc tres fuere sententiae. Quidam namque dicebant, in omnibus secundum materiae
habitudinem reperiri posse magis et minus. Proprium namque esse materiae
corporumque intentione crescere et minui relaxatione, quae quorumdam
Platonicorum sententia fuit. Alia vero quae secundum certissimas verissimasque artes
atque virtutes non diceret esse magis et minus, secundum autem medias dici
posse, ut haec ipsa grammatica atque iustitia non dicitur magis grammatica
neque magis iustitia. Esse autem quasdam alias mediocres artes, in
quibusidipsum posset evenire. Tertia est de qua Aristoteles loquitur, quod
ipsas quidem habitudines nulla intentione crescere, nec diminutione decrescere
putat sed eorum participantes 257C posse sub examine compositionis venire, ut
de his magis minusue dicatur. Sanitatem namque ipsam et iustitiam, alteram
altera magis minusue non esse. Neque enim quispiam dicit magis esse sanitatem
alia sanitate. Sed hoc solum dicere possumus magis habere sanitatem aliquem, id
est esse saniorem, et magis sanum, et minus sanum. Dicimus ergo quod ipsae
quidem qualitates non suscipiunt magis et minus. Qui vero secundum eas quales
dicuntur, ipsi sub comparatione cadunt, ut iustior, et sanior, et grammat.
cior. Namque ipsa grammatica, id est litteratura, non suscipit magis et minus,
nullus enim dicit alteram altera magis esse grammaticam sed eum qui grammatica
ipsa participat. Dicimus litteratum, quem a litteratura scilicet denominamus,
litteratus autem suscipit magis et minus, ut Donatus grammaticus plus erat
aetate iam provecta grammaticus, id est litteratus, quam cum primum ad
huiusmodi studia devenisset. Sed quamquam se haec ita habeant, tamen invenimus
aliquas qualitates quibus indubitate comparatio inveniri non possit, ut sunt
quas ipse supposuit. TRIANGULUM VERO ET QUADRATUM NON VIDETUR MAGIS SUSCIPERE,
NEC ALIQUID ALIARUM FORMARUM. Haec enim quae ex quarta specie qualitatis dicta
sunt, magis minusue nullaratione suscipiunt, nullus enim dicit plus esse alium
circulum quam alium, nec magis esse illud triangulum quam illud, dicitque
fortasse maiorem, magis autem non dicit.
Huius autem rei haec ratio est, ut cum sit trianguli definitio, figura quae sub
tribus rectis lineis continetur, si qua sunt quae hanc definitionem in se
suscipiant, ut et ipsa tribus rectis lineis contineantur, proprie triangulae
formae sunt, eodem quoque modo et circulus ita definitur: Circulus est figura
plana, quae sub una linea continetur, ad quam ex uno puncto qui intra ipsam
est, omnes quae excunt lineae aequae sibi sunt. Rursus quadrati defnitio talis
est: Quadratum est quod quattuor aequalibus lineis et quattuor rectis angulis
continetur. Quaecumque igitur vel circuli definitionem suscipiunt, vel
quadrati, aequaliter vel circuli vel quadratae formae sunt; si qua vero non
suscipiunt, nullo modo sunt. Si qua vero sunt quae neque quadrati suscipiunt
definitionem, neque circuli, neque quadrati sunt, neque circuli ut est figura
quae parte altera longior dicitur. Illa enim ita definitur, parte altera
longior figura est quae sub quattuor lineis continetur, rectisque angulis, quam
quattuor lineae aequae sibi quidem non sunt, contra se vero positae binae sibi
aequae sunt. Ergo quia huiusmodi figura neque circuli definitionem capit, neque
quadrati aequaliter, neque circulus, neque quadratus est. Si qua enim
cuiuslibet forma definitionem suscipiunt, omnino eadem sunt. Ut qui circuli
circulus, qui quadrati quadratus, qui trianguli triangulus, qui parte altera
longioris, parte altera longior, et in caeteris eodem modo. Si qua vero non
suscipiunt, ut triangulum, circuli definitionem non capit neque omnino circulus
est, nec potest dici inter quadratum et triangulum, 258C quoniam utraque
circuli definitionem non capiunt, quadratum quidem plus esse circulum,
triangulum vero minus, omnino enim utraque a circuli ratione disiuncta sunt,
quod his verbis ab Aristotele tractatur: QUAECUMQUE ENIM DEFINITIONEM TRIANGULI
SUSCIPIUNT ET CIRCULI, OMNIA SIMILITER TRIANGULA VEL CIRCULI SUNT, DE HIS AUTEM
QUAE NON SUSCIPIUNT NIHIL MAGIS ALTERUM ALTERO DICITUR; NIHIL ENIM QUADRATUM
MAGIS QUAM PARTE ALTERA LONGIOR FORMA CIRCULUS EST; NULLUM ENIM IPSORUM
SUSCIPIT CIRCULI RATIONEM. SIMPLICITER AUTEM, SI UTRAQUE NON SUSCIPIUNT
PROPOSITI RATIONEM, NON DICITUR ALTERUM ALTERO MAGIS. NON IGITUR OMNIA QUALIA
SUSCIPIUNT MAGIS ET MINUS. EX HIS ERGO QUAE DICTA SUNT NIHIL EST PROPRIUM QUALITATIS.
Nam si hoc definitio facit, ut demonstret rationem cuiusque substantiae,
quaecumque definitione discrepant, illa etiam ipsa natura substantiae
discrepabunt. Recte igitur si quae cuiuslibet rei propositae sive trianguli,
sive quadrati definitionem non capiunt, ab eiusdem natura disiuncta sunt.
Quocirca neque triangulum, neque quadratum, neque circulus, neque quidquid
horum est, suscipiant magis et minus. Sed cum haec qualitates sint, non omnes
qualitates aeque magis minusue suscipiunt. Quod si neque in omni qualitate
intentio diminutioque provenit, neque in sola, quod haec eadem in relatione
reperias, non est magis minusue suscipere proprium qualitatis. Quodnam igitur
qualitatis proprium esse dicendum est, id ipse planissime subterposuit. SIMILE
AUTEM ET DISSIMILE SECUNDUM SOLAS DICUNTUR QUALITATES; SIMILE ENIM ALTERUM
ALTERI NON EST SECUNDUM ALIUD NISI SECUNDUM HOC QUOD QUALE EST. QUARE PROPRIUM
ERIT QUALITATIS SECUNDUM EAM SIMILE ET DISSIMILE DICI. Simile inquit et
dissimile solae retinent qualitates. Nam quamvis simile ad aliquid sit, tamen
hoc ipsum quod dicimus, simile non dicimus, nisi quod quale est. Nam si eadem
qualitas sit in duobus, illa in quibus est similia sunt, nec est aliud
praedicamentum quod secundum simile et dissimile dici possit, et de aiiis
quidem omnibus notum est, quoniam de nullo dicitur. Quod si quis de quautitate
affirmet, dici 259B posse secundum eam simile atque dissimile, monstratum est
secundum quantitatem non simile et dissimile sed aequale et inaequale
praedicari. Quocirca quoniam per singula quaeque pergentibus, et in omnibus
idem qualitatibus invenitur, et in nullo alio predicamento esse perspicitur,
recte hoc proprium qualitatis esse firmavit. Sed quoniam cum de his quae
referuntur ad aliquid tractaretur, affectus atque habitus in his quae sunt ad
aliquid numeravit, nunc vero eosdem quoque qualitati supposuit, ipse sibi
quamdam obiecit quaestionem, cur si prius sub iis quae ad aliquid referuntur,
ista subiecerit, nunc sub qualitatibus ea ipsa posuerit. Superius namque monstravit
ea quae essent a se diversa, easdem species habere non posse, cum dicit
diversorum generum et 259C non subalternatim positorum diversae species et
differentiae sunt. Quocirca cum relatio atque qualitas diversa sint genera,
easdem utrique supponi species non oportet, hoc est enim quod dicit: AT VERO
NON DECET CONTURBARI NE QUIS NOS DICAT DE QUALITATE PROPOSITIONEM FACIENTES
MULTA DE RELATIVIS INTERPOSUISSE; HABITUDINES ENIM ET AFFECTIONES EORUM QUAE
SUNT AD ALIQUID ESSE DIXIMUS. PAENE ENIM EA QUAE SUNT IN OMNIBUS HIS GENERIBUS
AD ALIQUID DICUNTUR, EORUM VERO QUAE SUNT SINGULATIM NIHIL; SCIENTIA ENIM, QUAE
GENUS EST, HOC IPSUM QUOD EST ALTERIUS DICITUR (ALICUIUS ENIM SCIENTIA
DICITUR), SINGULORUM VERO NIHIL HOC IPSUM QUOD EST ALTERIUS DICITUR, UT GRAMMATICA
NON DICITUR ALICUIUS GRAMMATICA NEC MUSICA ALICUIUS MUSICA SED SI FORTE
SECUNDUM GENUS PROPRIUM ET ISTAE DICUNTUR ALICUIUS; UT GRAMMATICA ALICUIUS
DICITUR SCIENTIA, NON 259D ALICUIUS GRAMMATICA, ET MUSICA ALICUIUS SCIENTIA,
NON ALICUIUS MUSICA; QUARE SINGULA NON SUNT RELATIVA. Quam quaestionem
validissima argumentatione dissolvit, his scilicet verbis: Pene enim ea quae
sunt in omnibus his generibus ad aliquid dicuntur. Eorum vero quae sunt
singulatim, id est epecies, nihil huiusmodi sunt. Haec enim est argumentatio
quam Graeci *epikeirema* vocant. In huiusmodi affectionibus atque
habitudinibus, quae inter ea sunt genera, eas solas ad aliquid posse reduci,
quae vero species essent illorum generum posse in relativis sed in qualitatibus
numerari, ut scientia cum sit habitudo 260A habet sub se alias habitudines,
grammaticam et geometriam. In hoc igitur scientia ipsa quod genus est, ad
aliquid semper refertur, dicimus enim scientiam alicuius scientiam. Grammaticam
vero quae eius species est, nullus dicit alicuius esse grammaticam; dicatur
enim si fieri potest grammaticam, Aristarchi esse grammaticam. Sed omnia
quaecumque dicuntur ad aliquid, convertuntur. Dicitur ergo et Aristarchus,
grammaticae Aristarchus, quod fieri non potest. Non igitur grammatica Aristarchi,
ut ad aliquid dicitur. Est etiam argumentum, non species sed huiusmodi genera,
ad aliquid appellari, ut cum ipsae quidem species ad aliquid non dicantur, ut
grammatica non dicitur alicuius grammatica, si quando tamen est ut species ad
aliquid referatur, id non secundum se sed 260B secundum genus, ut grammaticae
quoniam genus est scientiae quae relativa est, si quis grammaticam ad aliquid
referre contendat, non potest secundum ipsam grammaticam, eam ad aliquid
praedicare sed secundum scientiam, id est secundum genus suum. Non enim dicitur
grammatica alicuius grammatica sed fortasse grammatica alicuius scientia. Non
ergo grammatica secundum grammaticam ad aliquid dicitur sed secundum scientiam.
Et hoc est quod ait, ut grammatica non dicitur aliovius grammatica, nec musica
sed fortasse secundum genus proprium istae dicuntur alicuius, ut grammatica
alicuius dicitur scientia, non alicuius grammatica. Ergo singularum specierum
nihil est quod aliqua relatione praedicetur. Genera vero harum specierum relativa
sunt, quae paulo superius dixi; quod enim ait: Pene enim in 260C omnibus
qualitatibus genera ad aliquid dicuntur, non autem aliquid eorum quae sunt
singula, hoc demonstrare voluit, genera ipsa habitudinem dispositionumque esse
relativa, species vero generum quas singulatim esse dixit, ad aliquid nullo
modo praedicari. Quas idcirco esse singulatim vocavit, quia grammatica una est,
et rursus musica una; scientia vero non una. Recte igitur species scientiae
singulatim esse nominavit. Constat igitur quod genera huiusmodi habitudinem
dicantur ad aliquid, species vero ad nihil aliud propria praedicatione
referanlur. Quocirca quoniam huiusmodi species relativas non esse demonstravit,
nunc quod reliquum est qualitates esse confirmat. DICIMUR AUTEM QUALES SECUNDUM
SINGULA; HAEC ENIM ET HABEMUS (SCIENTES ENIM DICIMUR QUOD HABEMUS SINGULAS
SCIENTIAS); QUARE HAEC ERUNT ETIAM QUALITATES, QUAE SINGULATIM SUNT, SECUNDUM
QUAS ET QUALES DICIMUR; HAEC AUTEM NON SUNT EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID. Illas
esse qualilates superius confirmatum est ex quibus aliqui quales vocarentur,
nos autem idcirco grammatici dicimur, non quod universalem scientiam sed quod
ipsam grammaticam habeamus, et hoc vere dicitur, idcirco nos dici scientes,
quia grammatici sumus, potius quam idcirco grammaticos quod aliquam scientiam
retinemus. Nullus enim a generali scientia grammaticus, aut sciens, nisi a
singulatim scientia sciens, grammaticusque perhibetur. Igitur quoniam ex his
habitudinem speciebus quales vocamur, ipsae species in qualitate numerandae sunt.
Sed cum quis grammatica participat, de ea etiam genus dicitur, et secundum eam
non solum ad grammaticam sed ad scientiam quoque coniungitur. Dicitur enim
idcirco sciens. Ergo quoniam habens grammaticam, et sciens, et grammaticus
dicitur, non potest ulla scientia participare, qui singulas non habuerit. Qui
enim cunctis speciebus caret, illi quoque genere ipso carendum est. Quare
quoniam has species hahemus et secundum eas quales dicimur, a grammatica
scientes et grammatici nuncupamur, has autem ipsas species monstratum est ad
aliquid non referri. Recte igitur huiusmodi habitudines quae in alterius
relativis species sunt, in qualitate numeratae sunt. Quod si quis hoc quoque
inuitus accipiat, aliud addit quo totum quaestionis vinculum soluetur; ait
enim: AMPLIUS SI CONTINGAT IDEM ET QUALE ESSE ET RELATIVUM, NIHIL EST
INCONVENIENS IN UTRISQUE HOC GENERIBUS ANNUMERARE. Nam cum sit verum unam
eademque rem duobus diversis generibus suppositam esse non posse, illud tamen
convenit secundum aliud atque aliod unam eamdemque speciem duobus generibus
posse subnecti, ut in eo quod supra iam dictum est, cum Socrates substantia
sit, pater vero ad aliquid, cumque substantia discrepet atque relatio, nihil
tamen est inconveniens eumdem ipsum Socratem in eo quod homo est, substantiae
supponi, in eo quod habet filium, relationi. Quocirca si secundum aliam atque
aliam rem duobus generibus eadem res quaelibet diversissimis supponatur, nihil
inconveniens cadit. Ita quoque et habitudines in eo quod alicuius rei
habitudines sunt, in relatione ponuntur, in eo quod secundum eas quales aliquid
dicuntur, in qualitate numerantur. Quare nihil est inconveniens unam atque
eamdem rem, secundum diversas natura, suae potentias, geminis et si contingat
pluribus, annumerare generibus Qnocirca quoniam de qualitate tractatum est, nos
quoque orationis cursum ad reliqua praedicamenta vertamus. DE FACERE ET PATI SUSCIPIT
AUTEM ET FACERE ET PATI CONTRARIETATEM ET MAGIS 261D ET MINUS; CALEFACERE ENIM
ET FRIGIDUM FACERE CONTRARIA SUNT, ET CALEFIERI ET FRIGIDUM FIERI, ET DELECTARI
ET CONTRISTARI; QUARE SUSCIPIT CONTRARIETATEM FACERE ET PATI. ET MAGIS AUTEM ET
MINUS; EST ENIM CALEFACERE ET MAGIS ET MINUS, ET CALEFIERI MAGIS ET MINUS, ET
CONTRISTARI. SUSCIPIUNT ERGO ET MAGIS ET MINUS FACERE ET PATI. AC DE HIS QUIDEM
HAEC DICTA SUNT. Decursis quattuor praedicamentis quae aliqua quaestione et
consideratione ergo videbantur, tenuiter caetera breviterque perstringit. Et de
facere quidem et pati nihil in hoc libro, nisi quod contraria suscipiant, et
intentionem imminutionemque ab Aristotele est disputatum, in aliis vero eius
operibus plene ab eo perfecteque tractata sunt, ut hoc ipsum de facere et pati
in his libris quos *Peri geneseos kai phthopas* inscripsit, de aliis quoque
praedicamentis non illi minor in aliis operibus disputatio fuit, ut de eo quod
est ubi et quando in physicis, et de omnibus quidem altius subtiliusque in
libris quos *Meta ta physika* vocavit, exquiritur. Ac de fecere quidem et pati
ipse planissime posuit posse ea suscipere contrarietates. Dicimus enim ignem
calefacere et frigefacere, quod scilicet ad faciendum refertur. Dicimus aquam
calefieri et frigefieri, quod nihilominus ad patiendi ducitur praedicamentum.
Magis quoque et minus suscipere, apertissimis demonstrat exemplis. Sic enim
magis calefacere et minus, et magis calefieri et minus dicitur. Atque haec
hactenus, ipse enim haec apertissime posuit. Est autem horum descriptio talis,
quod in faciendo quidem, actus quidam a quolibet in aliam rem veniens,
consideratur a quo veniat. In patiendo autem in eo ille actus consideratur, in
quem venit. Actus enim et passio simul in physicis esse monstrata sunt. Ac de
facere quidem ac pati, ad praesens tempus haec dicta sufficiant. DICTUM EST
AUTEM ET DE SITU IN RELATIVIS, QUONIAM DENOMINATIVE A POSITIONIBUS DICITUR. DE
RELIQUIS VERO, ID EST QUANDO ET UBI ET HABERE, PROPTEREA QUOD MANIFESTA SUNT,
NIHIL DE HIS ULTRA DICITUR QUAM QUOD IN PRINCIPIO DICTUM EST, QUOD HABERE
SIGNIFICAT CALCIATUM ESSE VEL ARMATUM, UBI VERO IN LYCIO, VEL ALIA QUAECUMQUE
DE HIS DICTA SUNT. IGITUR DE HIS GENERIBUS QUAE PROPOSUIMUS SUFFICIENTER DICTUM
EST. Positio quidem quoniam ipsa est alicuius, in iis quae sunt ad aliquid,
numerata est sed quoniam omnis res quae ab alio denominatur, aliud est quam id
ipsum a quo denominata est, ut aliud est, qui est grammaticus, atque
grammatica, quamvis grammaticus a grammatica denominelur. Ita cum sit positio
relativa, quidquid denominative a positionibus dicitur, hoc relativorum genere
non tenetur. Positio autem ipsa relativa est, positum vero est a positione
denmninatum. Statio enim cuiusdam statio est. Stare vero quoniam a statione
denominatum est, non ponitur in eo genere in quo statio fuit. Quare sub
relatione hoc praedica nentum non invenitur. Sed quoniam nihil est ad quod hoc
reducere genus atque aptare possimus, dicendum est suum esse genus. Ut
accumbere ab accubitu, stare a statione, et caetera quidem quae idcirco se
Aristoteles exsequi denegat, quoniam planissima sunt; ait enim: De reliquis
vero id est, quando, et ubi, et habere; propterea quia manifesta sunt, nihil de
his ultra dicitur, quam quod in principio dictum est, et eorum praedicta ponit
exempla. Dicendum autem est breviter de praedicatione quae est ubi et quando.
Sicut ipsum ad aliquid per se esse non potest nisi ex alio aliquo naturam
trahat, ita et quando et ubi, esse non potest, nisi locus ac lempus fuerit.
Locum enim ubi, tempus vero quando, comitatur. Non est autem idem tempus, et
quando, nec ubi et locus sed proposito prius loco si qua res in eo sit posita,
ubi esse dicitur. Rursus si certa res in tempore est, quando esse perhibetur,
ut Apollinares ludi, oum sint in tempore, quando eos esse dioimus. Habent autem
haec quoque proprias diversitates, ubi quidem, quod aliquoties infinite
dicitur. Alicubi enim esse dicimus aliquem, ut Socratem, aliquoties autem
definite, ut in Lyceo vel in Academia. Habet quoque ubi, secundum ipsum locum
in quo est, aliquas contrarietates. Sursum enim esse, et deorsum ubi esse
dicitur. Temporum quoque varietates in eo praedicamento, quod est quando, esse
manifestum est. Futura enim et praesentia praeteritaque in quando praedicamento
veniunt. Dicimus enim fuisse aliquando Scipionem consulem Romanum, nunc esse
Orientis imperatorem, qui nunc Anastasius appellatur. Futurum autem esse
aliquem, quae scilicet secundum quando praedicamentum dicuntur. Habere autem
est quoddam extrinsecus veniens, neque innatum ei a quo habetur, aliudque quam
est illud ipsum a quo habetur, in se retinere, ut armatum esse vel uestitum
esse. Habere enim est uestes atque arma tenere, quae cum eo nata non sunt,
neque aliqua cum eo qui habet, communi natura proprietateque iunguntur; sed
quoniam de his Aristoteles tacuit, nobis quoque nunc eorum longior tractatus
omittendus est. Expeditis omnibus praedicamentis, cur praeter propositum operis
in hanc oppositorum disputationem sit ingressus, a multis ante quaesitum est
sed Andronicus hanc esse adiectionem Aristotelis non putat, simulque illud
arbitratur, idcirco ab eo fortasse hanc adiectionem de oppositis, et de his
quae simul sunt, et de priore, et de motu et de aequivocatione, habendi non
esse factam, quod hunc libellum ante Topica scripserit, quodque haec ad illud
opus non necessaria esse putaverit, sicut ipse Categoria possunt ad sensum
Topicorum, non ignorans scilicet quod sufficienter in Topicis, quantum ad
argumenta pertinebat, et de his omnibus quae adiecta eunt, et de praedicamentis
fuisse propositum. Sed haec Andronicus. Porphyrius vero hanc adiectionem uacare
et carere ratione non putat. Cuius hanc prodidit causam. Ut enim multa sunt
quae quod communibus animi conceptionibus esse suggererent, in huius libri
principiis ab Aristotele praedicta sunt, ut de aequivocis, et univocis, et
denominativis, et de his omnibus, quaecumque usque ad substantiae disputationem
ad ipsorum praedicamentorum utilitatem cognitionemque praedicta sunt, ita
quaedam fuisse quae essent quidem in communibus sensibus, egerent tamen
subtilioris divisionis modo, haec diligenter supposita sunt, ut quid essent
proprie teneretur, ne falsis opinionibus traductus non firmus animus luderetur.
Docet autem hoc, inquit, etiam ipse ordo congruus rationique conveniens
titulorum, hanc adiectionem fuisse perutilem atque necessariam. Prius enim de
oppositis, post vero de his quae simul sunt, et de his quae posteriora sunt.
Post autem de motu, ad postremum de habendi aequivocatione sermonem faciens,
libri seriem terminavit. Idcirco quod in omnibus quidem praedicamentis ante
quaesivit, utrum possint habere contraria. In his vero quae sunt ad aliquid,
dixit magnum paruo non posse esse contrarium sed oppositum. Quid vero esse
oppositum dicere praetermisit, ne ordo disputandi continuus rumperetur. Hic
igitur recte quod illic praetermiserat, prius edocuit. In relativis quoque de
his quae sunt prius, quaeque simul natura gignuntur, strictim tetigit, quod
nunc diligenter explicat. Faciendi vero patiendique praedicamenta sunt, in
quibus quidam quasi motus agitatioque consideratur; necesse igitur fuit motu
dicere, qui naturam faciendi atque patiendi vellet ostendere. Quis autem dubitet
cuiuslibet sermonis aequivocationem monstrare, esse perutile? Quare quoniam
habere quoque praedicamentum est, non fuit inconveniens neque perfluum de
habendi aequivocatione tractasse. DE OPPOSITIS QUOTIENS SOLENT OPPONI, DICENDUM
EST. DICITUR AUTEM ALTERUM ALTERI OPPONI QUADRUPLICITER, AUT UT AD ALIQUID, AUT
UT CONTRARIA, AUT UT HABITUS ET PRIVATIO, AUT UT AFFIRMATIO ET NEGATIO.
OPPONITUR AUTEM UNUMQUODQUE ISTORUM, UT SIT FIGURATIM DICERE, UT RELATIVA UT
DUPLUM MEDIO, UT CONTRARIA UT BONUM MALO, UT SECUNDUM PRIVATIONEM ET HABITUM UT
CAECITAS ET VISUS, UT AFFIRMATIO ET NEGATIO UT SEDET Ñ NON SEDET. Illud quoque
quaeritur utrum oppositionis nomen aequivoce praedicetur. Dicimus enim quattuor
modis opponi, aut ut contraria, aut ut aliquid, aut ut habitum et privationem,
aut ut affirmationem et negationem. Hic ergo contenditur utrum aequivocatio
quaedam circa has quattuor diversitates sit, an id ipsum quod dicimus oppositum
generis vice praedicetur, ut sit univocum. Sed in hoc Stoicorum
Peripateticorumque diversa sententia fuit, et ut ipsi inter se Peripatetici,
diverse sectati sunt. Stoicorum quoniam longa sententia est, praetermittatur,
aliis autem Peripateticis placet nomen hoc oppositi de subiectis aequivoce
praedicari, ita affirmantibus, quoniam Aristoteles ita dixit: De oppositis
quoties solent opponi dicendum est hoc, id est quoties ad multiplicitatem
pertinet aequivocationis. Sed qui melius iudicavere, si oppositionis nomen
generis loco dicunt debere praedicari, idcirco quod cum nomen opposilionis de subiectis
quattuor oppositionibus praedicetur, ab his quoque definitio non oberret. Sunt
enim opposita quae in 265A eodem, secundum idem, in eodem tempore, circa unam
eamdemque rem, simul esse non posunt, quod per singula quaeque pergentibus in
singulis oppositis invenitur. Namque album et nigrum, quae sunt contraria, unu
eodemque tempore circa unum idemque corpus partemque corporis simul esse non
possunt, nec seruus atque dominus eiusdem, eodem tempore idem seruus idem
dominus est, nec habitus et privatio; quis enim dicat in eodem oculo uno
eodemque tempore et visum posse esse et caecitatem? Iam vero affirmatio et
negatio quam repugnantes sint, quamque in eodem simul esse non possint, nulli
dubium est. Quare si ea quae sub oppositione ponuntur oppositionis nomen
definitionemque suscipiunt, quid est dubium oppositionem non aequivoce 265B
praedicari? His igitur positis, ad eorum distantias differentiasque veniamus. QUAECUMQUE
IGITUR UT RELATIVA OPPONUNTUR, EA IPSA QUAE SUNT OPPOSITORUM DICUNTUR, AUT
QUOMODOLIBET ALITER AD EA; UT DUPLUM MEDII, HOC IPSUM QUOD EST, DICITUR DUPLUM;
ET SCIENTIA SCIBILIS REI SCIENTIA UT AD ALIQUID OPPONITUR, ET DICITUR SCIENTIA,
HOC IPSUM QUOD EST, SCIBILIS; ET SCIBILE, HOC IPSUM QUOD EST, AD OPPOSITUM
DICITUR, SCILICET SCIENTIAM (SCIBILE ENIM ALIQUA SCIENTIA SCIBILE DICITUR). QUAECUMQUE
ERGO OPPONUNTUR UT AD ALIQUID, EA IPSA QUAE SUNT OPPOSITORUM VEL ALIO QVOLIBET
MODO AD SE INVICEM DICUNTUR. Ea quidem huius oppositionis quae secundum
relationem dicuntur, et per seipsa plana atque uulgata sunt et superiori
relationis disputatione iam cognita. Illa enim sunt ad aliquid quaecumque id
quod sunt aliorum dicuntur, vel quomodolibet aliter ad ea, ut seruus domini
seruus, et dominus serui dominus, et magnum ad paruum dicitur, et rursus paruum
refertur ad magnum. Quod si hoc in relativis omnibus invenitur, nulla est
dubitatio quin etiam in his hoc deprehendi possit, quae secundum ad aliquid
opponuntur, ut ea ipsa id quod sunt oppositorum dicantur vel quomodolibet
aliter ad opposita, ut si est seruus domino oppositus, dominus serui dicatur,
id est oppositi sui, et rursus si dominus seruo oppositus est, domini seruus
dicatur. Paruum vero ad magnum, et magnum ad paruum, id est ad oppositum sibi.
Atque hoc quidem in omnibus secundum ad aliquid oppositionibus inveniri necesse
est. Quocirca sit haec proprietas eorum quae secundum ad aliquid opponuntur,
quod ea ipsa quae sunt ad opposita referuntur, et ipsorum esse dicuntur. His
ergo ante constitutis docet differentiam qua inter se ea quae secundum contrarietatem
dicuntur, vel ea quae secundum ad aliquid, discrepant atque dissentiunt; ait
enim. ILLA VERO QUAE UT CONTRARIA, IPSA QUIDEM QUAE SUNT NULLO MODO AD INVICEM
DICUNTUR, CONTRARIA VERO SIBI INVICEM DICUNTUR; NEQUE ENIM BONUM MALI DICITUR
BONUM SED CONTRARIUM; NEC ALBUM NIGRI ALBUM SED CONTRARIUM. QUARE DIFFERUNT ISTAE
OPPOSITIONES INVICEM. Dictum est in his quae secundum ad aliquid opponuntur,
quod ea ipsa id quod sunt ad id quod sibi est oppositum dicerentur. Contraria
vero et ipsa quidem opponuntur sibi sed id quod sunt ad opposita non dicuntur,
contraria autem dicuntur. Hoc autem huiusmodi est. Bonum malo contrarium
dicimus esse, et rursus malum bono. Nigrum quoque albo contrarium putamus,
nihilominus quoque album nigro. Sed cum hoc arbitramur, non tamen dicimus ea id
quod sunt esse oppositorum. Si enim diceremus ea id quod est bonum esse
oppositi sui, non diceretur bonum malo esse contrarium sed bonum esse mali
bonum. Nec ila praedicationem quis faceret nigrum albo esse contrarium sed
nigrum albi esse nigrnm. Hoc est enim id quod est nigrum dici ad oppositum
suum, si quis dicat nigrum albi esse nigrum; quod quoniam non dicitur, ea ipsa
quae sunt non dicuntur oppositorum, ea scilicet quae sibi ut contraria videntur
opponi. Sed quoniam dicimus bonum malo contrari uni, et nigrum albo contrarium,
quamquam id quod sunt oppositorum non dicantur, tamen ad opposita ut contraria
nominantur. Atque hoc est quod ait: Ipsa quidem quae sunt nullo modo ad
seinvicem dicuntur. Contraria vero sibi invicem dicuntur. Non enim dicitur
bonum mali bonum, hoc est enim id quod est opposili praedicare sed dicimus
bonum malo cootrarium. Quocirca differunt ea quae similiter ad aliquid
opponuntur his quae secundum contrarietatem sibi sunt opposita, quod ea quidem
quae secundum relationem opposita sunt id quod sunt oppositorum dicuntur. Illa
vero quae ut contraria, ipsa quidem quod sunt oppositorum nomine minime sed
tantum contraria praedicantur, ut bonum contrarium esse dicatur oppositi sui
non boni. Dicimus enim bonum malo contrarium, eum non dicamus bonum mali bonum.
Sed quoniam differentiam secundum ad aliquid oppositionis contrariorumque
monstravit, ipsorum inter se contrariorum differentiam discrepantiamque
persequitur. QUAECUMQUE VERO CONTRARIORUM TALIA SUNT UT IN QUIBUS NATA SUNT
FIERI ET DE QUIBUS PRAEDICANTUR, NECESSARIUM SIT ALTERUM IPSORUM INESSE, NIHIL
EORUM MEDIUM EST (QUORUM AUTEM NON EST NECESSARIUM ALTERUM INESSE, HORUM OMNIUM
EST ALIQUID MEDIUM); UT AEGRITUDO ET SANITAS IN CORPORE ANIMALIS NATA EST
FIERI, ET NECESSE EST ALTERUM IPSORUM INESSE ANIMALIS CORPORI, AUT AEGRITUDINEM
AUT SANITATEM; ET PAR QUIDEM ET IMPAR DE NUMERO PRAEDICATUR, ET NECESSE EST
HORUM ALTERUM NUMERO INESSE, VEL PAR VEL IMPAR; ET NON EST HORUM ALIQUID
MEDIUM, NEQUE AEGRITUDINIS NEQUE SANITATIS, NEQUE IMPARIS NEQUE PARIS. QUORUM
AUTEM NOR EST NECESSARIUM ALTERUM INESSE, HORUM EST ALIQUID MEDIUM; UT ALBUM ET
NIGRUM IN CORPORE NATUM EST FIERI, ET NON EST NECESSE ALTERUM EORUM INESSE
CORPORI (NON ENIM OMNE CORPUS VEL ALBUM VEL NIGRUM EST); ET PROBUM ET IMPROBUM
DICITUR QUIDEM DE HOMINE ET DE ALIIS PLURIBUS, NON EST AUTEM NECESSE ALTERUM
INESSE HIS DE QUIBUS PRAEDICATUR; NON ENIM OMNIA AUT PROBA SUNT AUT IMPROBA. ET
EST ALIQUID HORUM MEDIUM, UT ALBI ET NIGRI venETUM VEL PALLIDUM VEL QUICUMQUE
ALII COLORES SUNT, FOEDI VERO ET PULCHRI QUOD NEQUE PULCHRUM EST NEQUE FOEDUM.
IN ALIQUIBUS QUIDEM MEDIETATIBUS POSITA SUNT NOMINA, UT ALBI ET NIGRI venETUM
ET PALLIDUM; IN ALIQUIBUS VERO NON EST NOMINE ASSIGNARE MEDIETATEM, UTRIUSQUE
VERO NEGATIONE DEFINITUR, UT NEC BONUM NEC MALUM, NEC IUSTUM NEC INIUSTUM. Brevis
contrariorum partitio hoc modo facienda est. Contrariorum alia sunt habentia
medietatem, alia vero non habentia, et eorum quorum est aliquid medium, in
aliis plures medietates, in aliis vero una tantum medietas invenitur. Atque
horum aliquae medietates propriis nominibus appellantur in aliquibus 267B vero
ipsae quidem medietates propriis appellationibus carent, contrariorum vero
negatione signantur. Sed haec quae dicta sunt a primordio repetentes propriis probemus
exemplis. Illa vero contraria quae medio carent talia sunt, ut necesse sit
alterum eorum proprio inesse subiecto, ut est aegritudo et sanitas. Omne enim
corpus in quo aegritudo sanitasque versatur, aut aegrum aut sanum est. Atque
ideo quoniam aegritudo et sanitas medietate carent, alterutrum eorum inerit ei
subiecto, in quo utraque nata sunt fieri, et de quo praedicantur. Nam quoniam
in corpore animalis sanitas et aegritudo fieri nata est, id est ita fieri
solet, et ita omne natum est aninial, ut aut sanum esse possit aut aegrum. Et
quoniam de animalis corpore aut sanum, aut aegrum praedicatur, necesse est quoniam
haec medio carent in omni corpore animalis aut aegritudinem, aut sanitatem
esse. Quocirca eorum quae medio carent, necesse alterum interesse subiecto, et
quaecumque talia sunt, ut alterum ipsorum subiecto inesse necesse sit, nulla
inter ea medietas clauditur. Illa vero contraria in quibus aliqua medietas est
non sunt talia, ut eorum necesse sit alterum inesse subiecto. Nam in illis quae
medio carent idcirco alterutrum subiecto inesse necesse est, quod eorum
medietas nulla est quae possit interea subiectae inesse substantiae, ut in
numero quoniam paritas et imparitas medium nihil habenti (omnis enim numerus
aut par aut impar est nec est quod propterea numero inesse possit), ideo omnis
numerus aut par aut impar est. In his vero quae inter se medietatem aliquam complectuntur,
non est necesse semper alterum contrariorum inesse. Potest namque inesse
medietas, ut in colore, quoniam album atque nigrum contrarietatis vice diversa
sunt, habent autem medium quod est rubrum vel pallidum, idcirco non omne corpus
vel album vel nigrum est, quoniam potest aliquando in subiectis corporibus albi
atque nigri medietas inveniri. Videmus namque rubrum corpus, ut rosam multosque
praeterea flores, quos verni temporis clementia parturit. Recte igitur dictum
est, eorum quorum non sunt aliquae medietates, alterum semper inesse subiectis,
et in quibus necesse est alterum inesse, fieri non posse quin illic medietas
ulla sit. Eodem quoque modo et quae medietates habent, non 268A necessario
alterutra subiectis inesse, et quae non est necesse alterutra subiectis inesse,
non est dubium quin illic quaedam possit esse medietas sed in aliquibus quidam
plures, in aliquibus autem una est medietas, ut in colore inter album alque
nigrum plures medietates sunt. Est enim (ut dictum est) rubrum, et quoque
pallidum, eodem quoque modo venetum, et multa praeterea huiusmodi. In calido
vero atque frigido una medietas est, quae dicitur tepor. Horum autem quibus una
medietas est, in aliis nornen est positum, in aliis non. Et positum quidem
nomen est, ut inter calidum frigidumque, hanc enim medietatem tepidum esse
praedicamus. Non est vero positum in eo quod Aristoteles ipse sic dixit:
Improbi vero et probi, quod neque probum est, neque improbum. 268B Nam quoniam
bonum atque in ulum sibi sunt contraria, non autem necesse est omne quod boni
malive susceptibile est, vel bonum esse vel malum, idcirco dixit bonum
malumque, cum sint contraria, habere quamdam medietatem, cui nomen positum
quidem non sit sed nihilominus eam quis inter has contrariorum naturas
inveniet. Nam quod dictum est a posterioribus inter bonum malam qua esse ea
quae dicantur indifferentia, ut interest virtutem atque turpitudinem, quae
utraque sibi sunt contraria, divitiae et pulchritudo, quae (ut Stoici putant)
neque mala neque bona sunt, atque idcirco indifferentia nominavere sed hoc
ipsum quod dicimus indifferens apud priores nomen non erat, et a posterioribus
inventum est. Aristoteles autem qui hoc nomine usus nunquam est, ait probum
atque improbum habere quidem aliquam medietatem, verumtamen eam nullo nomine
nuncupari sed eam utriusque contrarii negotiatione definivit. Ait enim
medietatem probi atque improbi esse, quod neque probum esset neque improbum, ut
iusti atque iniusti medietas est, quod neque iustum, neque iviustum est. Sed ne
videatur inconveniens aliquid negationibus definiri, ipse ait: In aliquibus
vero non est nomine assignare medietatem, utriusque vero negatione definitur.
Namque ubi est una medietas, si utraque contraria sint remota, sola tantum
medietas permanebit, ut in eo quod est bonum et malum, quoniam his una medietas
est, sublato bono atque malo, solum quod neque bonum, neque malum est
relinquitur. Quocirca tota rursus divisio breviter assumenda est. Eorum quae
sunt contraria quorum necesse est semper alterum inesse in his, in quibus ea
secundum propriam naturam inesse contingunt, ea nullam inter se retinent
medietatem, ut in corpore sanitas et aegritudo, in numero paritas atque im
paritas. Quaecumque vero in his in quibus esse possunt, non ita sunt, ut eorum
necesse si alterum inesse, haec aliquam inter se qualitatem medietatis
amplectuntur, ut albedo atque nigredo, rubrum, frigidum atque calidum teporem.
Horum autem alia sunt quae unam solam continent medietatem, alia vero quae
multas, et multas, ut inter album atque nigrum, pallidum, venetum, quae
medietates sunt. Inter calidum atque frigidum una sola est medietas, tepor.
269A Horum autem quae unam retinent medietatem, in aliis nomina sunt posita, ut
in eo ipso calore ac frigore. Est enim tepor medietas caloris atque frigoris.
In aliquibus vero nomen positum non est, ut in eo quod est bonum atque malum,
iustum atque in iustum. In his enim medietas nomen positum non habet sed
utrorumque contrariorum negationibus definitur, ut dicamus eam esse boni atque
mali medietatem, quod neque bonum est malum, eamque esse iusti et iniusti
medietatem, quae utraque contrarietate summota, utrorumque negatione
relinquitur, ut est neque iustum, neque iniustum. PRIVATIO VERO ET HABITUS
DICUNTUR QUIDEM CIRCA IDEM ALIQUID, UT VISIO ET CAECITAS CIRCA OCULUM;
UNIVERSALITER AUTEM DICERE EST IN QUO NASCITUR HABITUS FIERI, CIRCA HOC DICITUR
UTRUMQUE EORUM. Ordine tertiam speciem propositae oppositionis exsequitur eam
quae secundum habitum privationemque dicitur, atque in ea unam similitudinem
posuit quae illi est cum contrarietate coniuncta. Nam sicut ea quae sunt
contraria circa idem sunt, ut album, quoniam semper in corpore est, nigrum quoque
semper est in corpore, et iustitia, quoniam semper animo inserta est,
iniustitia quoque mentis est vitium, ita quoque ea quae secundum privationem
habitumque dicuntur, circa idem semper necesse est inveniri, ut quoniam visus
habitus est (habemus enim visum) et visus est in oculos circa oculum, caecitas
quoque, quae privatio visus est, praeter oculum non est. Auditus etiam, qui
habitus est, quoniam circa aures est, eius quoque privatio quae surditas dicitur,
ab auribus non recedit; ita quoque et circa quod fuerit habitus, circa idem
ipsum illius habitus privatio consideratur. Atque hinc regulam dat.
Universaliter enim dicit in quo sit in eo fieri privationem. Quid vero sit
privari, continuata dispositione subiunxit: PRIVARI VERO TUNC DICIMUS
UNUMQUODQUE HABITUS SUSCEPTIBILIUM, QUANDO IN QUO NATUM EST INESSE VEL QUANDO
NATUM EST HABERE NULLO MODO HABET. Quid sit privatio hac Aristoteles
definitione conclusit. Neque enim quaecumque non habent visum, caeca dicuntur,
nec vero surdum est omne quod non sentit auditum, nemo enim neque parietem
caecum dixerit, nec surdum lapidem, neo quidquid huiusmodi est. Sed ea sola
privari dicimus habitu, quaecumque aut habuere habitum eoque caruere, aut
habere potuere et non habent. Parietem autem idcirco non dicimus caecum, quod
in eo visus naturaliter venire non potuit. Paruos vero catulos quibus visus non
est, non satis digne aliquis caecos esse pronuntiet. Eo enim tempore nondum
naturaliter visum habere possunt. Si vero exhaustis diebus quibus his oculi
patefieri et lucem haurire naturaliter possunt, non habeant visum, eos caecos
esse manifestum est. At vero neque ostrea dicuntur edentula, quoniam
naturaliter non habeant dentes sed nec infantulos quibus adhuc nondum huiusmodi
aetas est, ut habeant dentes, vocamus edentulos sed si aut is qui ante habuit,
dentes amiserit, aut quo iam tempore habere naturaliter debet, dentes non
habet, ut si quis puerorum septimo anno omnino nullum creaverit, illos iure
edentulos appellamus, atque hoc est, quod ait: EDENTULUM ENIM DICIMUS NON QUI NON
HABET DENTES, NEC CAECUM QUI NON HABET VISIONEM SED QUI, QUANDO CONTIGIT
HABERE, NON HABET (MULTA ENIM EX NATIVITATE NEQUE DENTES HABENT NEQUE VISIONEM
SED NON DICUNTUR EDENTULA NEQUE CAECA). Hoc est, non omne quod non videt
caecum, nec quod dentes non habet edentulum appellamus. Plura enim sunt quae
aut omnino aut certo tempore naturaliter haec habere non possunt sed est illa
privatio quoties si habitum non habet, qui habere naturaliter potest, et eo
tempore cum iam per naturam illius 270B esse compos habitus possit, vel si
habens quis retinensque habitum, illum cuiuslibet incursione casus amiserit, ut
in pueris iam adultis si non habeant dentes. Nam quoniam homines sunt, possunt
habere; quod si habentes amiserint, edentuli dicuntur; si vero omnino non creuerint
dentes, quoniam iam pueris aeque adultis ut dentes haberent, naturaliter
poterat evenire, id quo casu aliquo vel aegritudine officiente factum est, eos
edentulos et habitudentium privatos esse nominamus. PRIVARI VERO ET HABERE
HABITUM NON EST HABITUS ET PRIVATIO; HABITUS ENIM EST VISUS, PRIVATIO VERO
CAECITAS, HABERE AUTEM VISUM NON EST viSUS, NEC CAECUM ESSE CAECITAS (PRIVATIO
ENIM QUAEDAM EST CAECITAS, CAECUM VERO ESSE PRIVARI, NON PRIVATIO EST). Hic
verissima ratione monstratur utrum ea que sub privatione atque habitu cadant
privationes sint atque habitus an minime: nam quoniam habitus est visus,
privatio vero caecitas, sub habitu vero est habere visum, et sub privatione
esse caecum, utrum habere visum idem sit quod ipse qui habetur visus, et utrum
idem sit caacum esse quod caecitas, perspicaciter intuentibus aliud quoddam est
habere aliquid quod habetur. Tres namque res sunt in eo in quo est habitus, is
qui habet ea res quae habetur, et habere, ut est is qui videt, et ipse visus,
et hoc ipsum quod ex utrisque, fit ex eo scilicet qui videt et visu, quod est
videre. Distat autem et videre ab eo qui videt, et hoc ipsum videre rursus a
visu. Aliud est enim id quod fit quam is qui facit. Videre autem videns
operatur, aliud est igitur videre quam videns. Distat autem videre etiam a
visu, aliud namque est id quod fit quam id per quod aliquid geritur, videre
autem per visum fit. Distat ergo videre ab eo ipso (qui ipsum videre efficit)
visu sed videre visum habere est, visum autem habere habitum retinere est, et
visus habitus est. Non est igitur idem habitus et quid est sub habitu, id est
quemlibet habitum retinere. Eodem quoque modo etiam in privatione, et illic
quoque tres sunt res, is qui privatur, hoc ipsum quod fit, id est privari, et
ipsum quo quis privatur, id est ipsa privatio. Quod si distat is qui habet eo
ipso quod est habitum habere, distat et is qui privatur eo quod est privari.
Quod si etiam distat quod est habere habitum illo ipso habitu qui habetur. Distat
necessario id quod est privati illa ipsa scilicet privatione qua quisque
privatur. Quare neque id quod sub habitu est habitus appellari potest neque id
quod sub privatiove privatio. Recte igitur dictum est habitum habere non esse
habitum privarique non esse privationem: cui rei aliqua quaedam validior vis
argumentationis adiungitur, quam Aristoteles ita pronuntiat. NAM SI IDEM ESSET
CAECITAS ET CAECUM ESSE, UTRAQUE DE EODEM PRAEDICARENTUR; NUNC VERO MINIME SED
CAECUS QUIDEM DICITUR HOMO, CAECITAS VERO NULLO MODO DICITUR. Si idem inquit
esset caecitas quod est esse caecum, de quocumque caecum esse diceretur, de eo
quoque caecitas praedicaretur sed caecum dicimus esse hominem, 271B caecitatem
vero ipsum hominem nullus dicit: quare quoniam in utrisque diversa est
praedicatio, et de quo caecitas dicitur, non de eo dicitur caecum, rursumque de
quo caecum esse praedicatur, is caecitas dici non potest, non est dubium quin
aliud sit caecum esse quam caecitas, id est privationem esse aliud quam
privari: sed quamvis distent, aequali tamen oppositionis vice funguntur, quod
ipse loquitur sic: OPPONI QUIDEM ET ISTA VIDENTUR, PRIVARI SCILICET ET HABERE
HABITUM, QUEMADMODUM PRIVATIO ET HABITUS; IDEM ENIM MODUS EST OPPOSITIONIS; Aequa
namque proportione sibi privatio atque habitus opponuntur, et ea quae sub privatione
habituque clauduntur. Cur enim si privatio atque habitus, id est visus et
caecitas sibi sunt opposita, non etiam videre atque esse caecum eodem modo
invicem sibimet opponantur. Quare quamquam haec distent, tamen modus in his
oppositionis aequalis est. NON EST AUTEM NEC QUOD SUB AFFIRMATIONE VEL
NEGATIONE EST NEGATIO VEL AFFIRMATIO; AFFIRMATIO ENIM ORATIO EST AFFIRMATIVA ET
NEGATIO ORATIO NEGATIVA, EORUM VERO QUAE SUNT SUB AFFIRMATIONE YEL NEGATIONE
NIHIL EST ORATIO. DICUNTUR AUTEM ET ISTA SIBI OPPONI UT AFFIRMATRO ET NEGATIO;
NAM ETIAM IN HIS MODUS OPPOSITIONIS IDEM EST; QUEMADMODUM ENIM AFFIRMATIO AD
NEGATIONEM OPPONITUR, UT SEDET - NON SEDET, SIC RES QUAE SUB UTRISQUE EST SIBI
OPPONITUR SEDERE ET NON SEDERE. Ad quartam oppositionis speciem transitum
fecit, 271D quae secundum affirmationem negationemque dicitur. Affirmatio autem
est quae aliquam rem alicui quadam participatione coniungit, negatio vero quae
aliquam rem ab aliqua re quadam separatione disiungit, ut est: Omnis homo est
animal animal enim ad hominem haec oratio iungit. Participat enim homo proprio
genere, scilicet animal, negatio vero: Homo lapis non est. Disiungit enim
naturam lapidis ab humanitate qui negat sed multa de his in libro de
interpretatione dicenda sunt. Quare plenior horum disputatio in tempus aliud
differatur. Aristoteles vero simplicissime et pene incuriose propter eos qui
instituuntur definitiones affirmationis negationisque signavit, dicens
negationem affrmationemque, affirmativas esse negativasque orationes. Quod si
examinatius ac subtilius definisset, affirmationem per affirmativam orationem
non definiret. Nam si dubium est quid sit affirmatio, nihilo magis clarum atque
perspicuum est quid sit affirmativa oratio. Idcirco quod si quis nescit quid
sit affirmatio, idem sine dubio nesciturus est quid oratio sit affirmativa. Sed
idcirco hic indulgentius terminavit, quod in libro Perihermeneias utriusque
veram plenamque vim definitionis aptavit. Eadem quoque in his ratio est qua
sunt sub affirmatione et negatione, quae in his quae sub privatione atque
habitu ponebantur, nam sicut non est idem habitus atque privatio quod habere
habitum atque privari, ita non idem est affirmationem et negationem esse quod
est sub affirmatione 272B et negatione. Affirmatio est, verbi gratia sedet Socrates,
negatio vero, non sedet Socrates. Sub affirmatione autem hoc ipsum sedere
Socratem, id est hoc quod sub affirmatione dicit facere. Sub negatione vero non
sedere Socratem, id est non facere id quod negatio submovet. Hoc autem ita
probatur, quod omnis affirmatio omnisque negatio orationes sunt, sicut eorum
supradicta definitio determinatioque monstravit. Sedere autem et non sedere, id
est facere et non facere, orationes non sunt, quod si affirmatio et negatio
orationes sunt, dicitur id quod sub affirmatione et negatione est, ea ipsa
affirmatione et negatione distare. Sed in hoc servant illam quoque
similitudinem quod ea ipsa sibi sunt opposita, quae secundum affirmationem
negationemque dicuntur. Sicut enim ipsa affirmatio quae dicit sedet Socrates, et
quae dicit, non sedet Socrates, ita quoque id ipsum quod est sedere Socratem,
et non sedere, certa ratione similitudinis opponuntur. Sed quoniam quattuor
species oppositionis dictae sunt, nunc Aristotelis uestigia persequentes, earum
differentias colligamus, quae sunt numero sex: nam si quae res sint quattuor,
easque differre a se ac distare volumus, sex solas differentias invenimus. Cum
enim primam differre a secunda ac tertia atque quarta ponimus, tres sunt
differentiae. Item secundam rem a prima re differre ostendere atque demonstrare
superfluum est. Cum enim primae rei ad secundam distantiam colligeremus, quid
secunda distaret a prima docuimus. Relicta igitur primae ad secundam rem
differentia, secundae et tertiae, item secundae quartaeque differentiae
monstrabuntur, quae sunt duae, quae tribus superioribus iunctae quinque solas
efficiunt. Restat tertiae rei quartaeque distantia. Nam primae ad secundam
atque tertiam demonstrata est discrepantia, cum prima a secunda distaret, atque
eodem modo a tertia monstrabamus. Id his probatur exemplis. Nam cum oppositio
ea quae est secundum ad aliquid, ab his oppositionibus quae sunt secundum
contrarietatem, privationem atque habitum, atque affirmationem et negationem,
distare proponitur, tres sunt differentiae. Cum vero ea quae secundum
privationem atque habitum oppositio est, a contrariis et ab affirmatione
negationeque discrepat, duae sunt differentiae quae iunctae superioribus
quinque perficiunt. Idcirco enim quid distaret habitus atque privatio, ea
oppositione quae relativa est praetermisimus, quoniam prius monstravimus quid
relativa oppositio ab habitu privationeque differret; non est enim dubium
aequam esse in utrisque differentiam, cum una ab alia discrepaverit. Restat una
sola differentia, quae est contrariorum ad affirmationem scilicet et
negationem; praetermissa namque est contrariorum differentia, de relativa
scilicet et secundum habitum privationemque oppositione, quid haec superius a
contrarietate distaret, monstratum est. Quare quoniam quot sunt horum differentiae
cognitum est, ad sequentis operis ordinem veniamus. QUONIAM AUTEM PRIVATIO ET
HABITUS NON SIC OPPONUNTUR UT AD ALIQUID, MANIFESTUM EST; NEQUE ENIM DICITUR
HOC IPSUM QUOD EST OPPOSITI; VISUS ENIM NON EST CAECITATIS VISUS, NEC ALIO ULLO
MODO AD IPSUM DICITUR; SIMILITER AUTEM NEC CAECITAS DICITUR CAECITAS VISUS SED
PRIVATIO VISUS CAECITAS DICITUR. AMPLIUS OMNIA QUAECUMQUE AD ALIQUID DICUNTUR
CONVERSIM DICUNTUR, QUARE ETIAM CAECITAS, SI ESSET EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID,
CONVERTERETUR ILLUD AD QUOD DICITUR; SED NON CONVERTUNTUR; NEQUE ENIM DICITUR
VISUS CAECITATIS. Et caetera quidem quae sunt differentia perspicue superius in
contrariorum differentia relativa oppositione ante praemissa sunt. Unam namque
differentiam contrariorum relativorumque dixit esse, quod contraria non ita ut
ea quae sunt ad aliquid converterentur. Neque enim quis pronuntiat malitiam
bonitatis esse malitiam, neque bonitatem malitiae esse bonitatem, velut filium
patris esse filium, rursusque patrem filii patrem. Eadem quoque et in his quae
secundum privationem habitumque redduntur, dicitur differentia. Nam sicut ea
qua sunt ad aliquid opposita, adversum semetipsa redduntur, et omnia ad
opposita praedicantur, non eodem modo in habitu atque privatione est. Nullus
enim dicit caecitatis esse visum, nec rursus visus esse caecitatem. Quocirca si
ea quae sunt relativa ad opposita praedicantur, conversimque dicuntur -- cum
enim sit oppositus filio pater, pater filii dicitur, scilicet ad oppositum,
rursusque convertitur ut patris filius appelletur -- quoniam hoc in his quae
sunt secundum privationem et habitum non dicitur. Neque enim cum sit visus
oppositus caecitati, secundum privationem atque habitum dicitur visus
caecitatis, id est nunquam secundum hanc oppositionem aliquid oppositi praedicatur
neque convertitur, neque enim dicitur caecitas visus, recte privatio atque
habitus non in eadem qua relativa sed in alia specie numerata sunt. QUONIAM
AUTEM NEQUE UT CONTRARIA OPPONUNTUR EA QUAE SECUNDUM PRIVATIONEM ET HABITUM
DICUNTUR, EX HIS MANIFESTUM EST. QUORUM ENIM CONTRARIORUM NIHIL EST MEDIUM,
NECESSE EST, IN QUIBUS NATA SUNT FIERI AUT DE QUIBUS PRAEDICARI, ALTERUM
IPSORUM INESSE SEMPER; HORUM ENIM NIHIL ERAT MEDIUM, QUORUM NECESSE ERAT
ALTERUM INESSE EORUM SUSCEPTIBILI, UT IN AEGRITUDINE ET SANITATE ET IMPARI
ATQUE PARI. QUORUM AUTEM EST ALIQUID MEDIUM NUNQUAM NECESSE EST OMNI INESSE
ALTERUM; NAM NEQUE ALBUM AUT NIGRUM NECESSE EST OMNE ESSE EORUM SUSCEPTIBILI,
NEC FRIGIDUM NEC CALIDUM (NIHIL ENIM PROHIBET ALIQUAM IPSORUM INESSE
MEDIETATEM); ERAT ETIAM ISTORUM MEDIETAS, QUORUM NON NECESSE ESSET ALTERUM
INESSE EORUM SUSCEPTIBILI, NISI FORTE ALIQUIBUS NATURALITER CONTIGERIT UNUM
IPSORUM INESSE, UT IGNI CALIDUM ESSE ET 274B NIVI ALBUM (IN HIS AUTEM NECESSE
EST DEFINITE UNUM IPSORUM INESSE, ET NON HOC AUT ILLUD; NEQUE ENIM POTEST IGNIS
ESSE FRIGIDUS NEC NIX ESSE NIGRA); QUARE NON NECESSE EST OMNIBUS EORUM
SUSCEPTIBILIBUS ALTERUM HORUM INESSE SED SOLIS HIS QUIBUS NATURALITER UNUM
INEST, ET HIS DEFINITE UNUM, NON AUTEM HOC AUT ILLUD. Prolixitatem textus idcirco
contraxi quod et ea ipsa quae dicuntur supra iam dicta sunt, nec longior ordo
possit aliquod creare fastidium, quod nos hac textus divisione seiunximus. Et
prius quidem proponit ante oculos omnes inter se contrariorum differentias,
quas ipse quantum potero brevissime commemorabo; ait enim contrariorum quae
mediis carent semper alterum inesse ei quod illas contrarietates 274C suscipere
potest, ut aegritudo et sanitas, quoniam semper in animalis corpore reperitur,
et ea sine ullo est adversus suum contrarium medio. Idcirco omne corpus
animalis semper aut aegrotat aut sanum est, et semper alterum aut sanitatis aut
aegritudinis inest ei quod has suscipit contrarietates. Eorum vero contrariorum
quae habent aliquam medietatem, non necesse est semper alterum inesse ei cui
accidunt, ut album atque nigrum, cum sint utraque contraria, quoniam habent
aliquam medietatem, ut rubrum, veniunt autem semper in corpora, non necesse est
omne corpus fieri, aut album aut nigrum, quoniam potest aliquando contingere ut
illa eorum medietas corpori cuilibet eveniat. Atque hoc ita est in iis quae
medio non carent, quae ipsa mediata vocamus, exceptis his quibus una
contrarietas est insita per naturam, ut nix alba est, ignis calidus. In his
enim unam semper necesse est evenire non aliam, nec utrumlibet sed definite
unam. Id enim non venit in ignem, ut aliquando sit calidum, aliquando frigidum,
aliquando vero quod horum medietas est tepidum sed semper naturali calore
succenditur; nec nix aliquando fit nigra, nec rursus rubea, nec ullis aliis
coloribus permutatur sed solum semper alba est. Cum haec ita sint, ea quae
secundum habitum privationemque opponuntur, si et ab his contrariis distare
monstrata sint quae mediis carent, et ab his quae intra se quamdam medietatem
qualitatis includunt, et ab his quoque quae, cum mediata 275A sint, tamen
definite alicui insunt, perfecte monstratum est ea quae secundum habitum et
privationem sunt a contrariis discrepare. Quare quid distent Aristotele
teneamus auctore. IN PRIVATIONE VERO ET HABITU NEUTRUM VERUM EST EORUM QUAE
DICTA SUNT, NEQUE ENIM SEMPER EORUM SUSCEPTIBILI NECESSE EST ALTERUM IPSORUM
INESSE; QUOD ENIM NONDUM NATUM EST HABERE VISUM NEQUE CAECUM NEQUE viSUM HABERE
DICITUR, HABENS VISUM DICITUR; ET HORUM NON DEFINITE ALTERUM SED AUT HOC AUT
ILLUD (NEQUE ENIM NECESSE EST AUT CAECUM AUT HABENTEM VISUM ESSE SED AUT HOC
AUT ILLUD); IN CONTRARIIS VERO, QUORUM EST MEDIETAS, NUMQUAM NECESSE EST OMNI
ALTERUM INESSE SED ALIQUIBUS, ET HIS DEFINITE UNUM. 275B QUARE MANIFESTUM EST
QUONIAM SECUNDUM NEUTRUM MODUM QUEMADMODUM CONTRARIA OPPONUNTUR ITA SIBI SUNT EA
QUAE SUNT SECUNDUM PRIVATIONEM ET HABITUM OPPOSITA. Dat primo differentias
quibus ea quae sunt secundum habitum et privationem opposita, ab iis quae sunt
immediata contrariis distent. In his enim contrariis quae medium non habent,
semper necesse est ipsorum alterum inesse ei quod his ipsis subiectum est. In
habitu vero et privatione non ita est. Non enim semper quaelibet res aut
habitum habet aut privationem sed est tempus quando utrumque non habeat, ut
catuli quibus nondum per naturam oculi patent. Illos enim nec habere habitum
dicimus, quoniam non vident, nec privatos visu, quoniam paruuli adhuc visum per
naturam habere non possunt Igitur horum quae sibi secundum privationem
habitumque sunt opposita, non semper alterum subiecto inest eorum. Sed eorum
quae sunt contraria immediata, id est medio carentia, semper alterum
susceptibili inest. Distat igitur ea quae secundum habitum et privationem est
oppositio, iis quae secundum contraria putantur opponi. Sed quoniam sunt
quaedam contraria quae insunt alicui per naturam, ut nivi album, igni calidum,
coruo nigrum, etiam ab his discrepat oppositio privationis et habitus. Ea enim
quae per naturam insunt definita sunt et nullo modo permutantur, ut est album
nivi. Non enim nix aut alba aut nigra est sed tantum alba, et coruus non aut
albus aut niger sed solum niger. In privatione vero et habitu una res esse non
potest definita sed semper aut privatio contingit, aut habitus, et hoc est quod
ait, et horum non definite alterum sed aut hoc aut illud. Neque enim necesse
est aut caecum esse aut habentem visum definite subaudiendum est, catulus enim
qui per naturam non dum videt, aut habitum habiturus est, id est visum, aut eo
privandus est, ut sit caecus sed non definite unum sed aut hoc aut illud
indefinite contingit. Distat igitur haec oppositio his contrariis quae
aliquibus per naturam immutabiliter accidunt. Restat igitur ut his contrariis
quae mediata sunt hanc oppositionem differre doceamus. In illis enim non semper
necesse erit contraria inesse subiecto, idcirco quod eorum medietates possint
subiectis evenire substantiis, ut album vel nigrum quod non est alicui per
naturam sed tantum secundum accidens. Possunt enim utraque non esse in
corporibus, quoniam his vel rubrum vel pallidum, quae sunt eorum medietates
eveniunt. In privatione vero id et habitu non est. Quando enim poterit per
naturam habere habitum, utrisque quae ea suscipiunt, carere non possunt.
Catulus enim cum per naturam videre potuerit, aut habitum habere dicitur, et
est videns, aut privationem, si fuerit caecus. Ita semper ab eo tempore 276B
quo illi per naturam utrumlibet habere concessum est, alterutrum retinebit, id
est aut privationem retinebit, aut habitum. Quocirca si in his contrariis quae
medio non carent, potest fieri ut utraque contraria in subiecto non sint, in
privatione vero et habitu ab eo tempore quo per naturam potest utrumque
retinere, fieri non potest nisi eorum habeat alterum, distant haec quoque
mediata ab his quae secundum vim privationis atque habitus opponuntur. Sed ante
monstratum est et his contrariis quae per naturam essent, et iis quae medio
carerent, hanc oppositionem esse dissimilem. Recte igitur positum est
privationis atque habitus oppositionem ab his quae opponuntur ut contraria,
discrepare. AMPLIUS IN CONTRARIIS, CUM SIT EORUM SUSCEPTIBILE, POTEST FIERI IN
ALTERNA MUTATIO, NISI 276C CUI NATURALITER UNUM INSIT, UT IGNI CALIDO ESSE;
QUOD ENIM SANUM EST POTEST AEGRESCERE, ET ALBUM NIGRUM FIERI, ET FRIGIDUM
CALIDUM, ET EX PROBO IMPROBUM ET EX IMPROBO PROBUM FIERI POTEST (IMPROBUS ENIM
IN MELIOREM CONSUETUDINEM SERMONEMQUE PERDUCTUS VEL PARUM SESE DABIT IN MELIUS;
SIN VERO VEL SEMEL PARUAM INTENTIONEM SUMAT, MANIFESTUM EST QUONIAM AUT
PERFECTISSIME PERMUTETUR AUT MAGNAM SUMAT INTENTIONEM; SEMPER ENIM MOBILIOR AD
VIRTUTEM FIT, SI QUAMLIBET A PRINCIPIO SUMPSERIT INTENTIONEM, QUARE ERIT
POSSIBILE MAIOREM ILLUM INTENTIONEM SUMERE; ET HOC SAEPIUS FACTUM PERFECTE IN
CONTRARIAM HABITUDINEM CONSISTERE, NISI TEMPORE PROHIBEATUR). IN PRIVATIONE
VERO ET HABITU IMPOSSIBILE EST AD INVICEM FIERI MUTATIONEM; AB HABITU ENIM AD
PRIVATIONEM FIT PERMUTATIO, 276D A PRIVATIONE VERO AD HABITUM IMPOSSIBILE EST;
NEQUE ENIM FACTUS ALIQUIS CAECUS RURSUS vidIT, NEC CALUUS RURSUS CRINITUS
FACTUS EST, NEC EDENTULUS DENTES CREAVIT. Aliam rursos contrariorum et huius
oppositionis quae secundum habitum privationemque dicitur, discrepantiam ponit.
Ea enim quae contraria sunt, possunt in alterna variatis vicibus permutari.
Quod enim calidum est potest effici frigidum, rursusque quod frigidum est
potest in caloris verti qualitatem. His tamen (ut dictum est) solis exceptis,
quibus una quaelibet res contrariorum naturaliter insita est, in his enim solis
fieri non potest alterna mutatio: in his vero quae accidenter et non per
naturam subiectis 277A eveniunt, fit semper in contraria permutatio, ut ex sano
aegrum, ex aegro rursus sanum corpus efficitur animalis. Iam vero illud verum
est, ex bono proclivior semper semita videtur ad malum, et facillima esse ex
probitate ad malitiam permutatio, quod Terentiano docetur exemplo: A labore
proclivem ad libidinem. Sed quamquam difficilis sit transitus ad virtutes a
turpitudine vitiorum, Aristoteles tamen fieri posse hunc transitum confirmat.
Huius enim philosophi sententia est, virtutes non esse scientias, ut Socrates
ait, neque ut Stoici naturaliter eas esse sed discibiles, et per quamdam boni
consuetudinem hominum mentibus inseriri. Atque ideo si quis sit quibuslibet
prioribus vitiis obnoxius, si eum melior sermo susceperit, et sapientium
consuetudine confabulationeque comatur, aliquid ex ante actis vitiorum
illecebris emendabitur, et sese aliquantulum exuet, et paululum liberior ad
meliora procedet. Ita ut sit primo quidem minus malus, post vero non malus,
deinde iam iamque aliquantulum bonus. Cui si huiusmodi intensio frequentissime
fiat, nec paruitate temporis praeveniatur, aut ei terminus mortis offecerit,
non est dublum illum ex pessimo per probas consuetudines confabulationesque
sapientum, in perfectam virtutis habitudinem permutari. Est igitur ex bono in
malum, et ex malo in bonum rursus permutatio, atque hoc quidem fit in
contrariis. In habitu vero et privatione non fit, est namque permutatio sed
haec una tantum, nulla ratione sese convertens; ait enim: Ab habitu ad privationem
277C permutatio, a privatione vero ad habitum impossibile est. Et hoc
planissime docet exemplis. Quis enim unquam ex caeco factus est videns? quis
aliquando caluus crinitus efficitur? cui amissis aetate dentibus rursus alii
procreantur? Quare si in contrariis fit alterna mutatio, in privatione vero
atque habitu non fit, distat haec oppositio ab ea scilicet oppositione quae fit
secundum contrarias qualitates. QUAECUMQUE VERO UT AFFIRMATIO ET NEGATIO
OPPONUNTUR, MANIFESTUM EST QUONIAM SECUNDUM NULLUM MODUM EORUM QUI DICT SUNT
OPPONUNTUR; IN HIS ENIM SOLIS NECESSE EST HOC QUIDEM ESSE VERUM ILLUD VERO
FALSUM. NAM NEQUE IN CONTRARIIS NECESSE EST SEMPER ALTERUM ESSE VERUM, ALTERUM
VERO FALSUM, NEC IN RELATIVIS, NEQUE IN HABITU ET PRIVATIONE; UT SANITAS ET
AEGRITUDO CONTRARIA SUNT SED NEUTRUM IPSORUM NEQUE VERUM NEQUE FALSUM EST;
SIMILITER AUTEM ET DUPLUM ET MEDIUM QUAE UT AD ALIQUID OPPONUNTUR, NON EST
EORUM ALTERUM FALSUM ALTERUM VERUM; NEC VERO EA QUAE SECUNDUM HABITUM ET
PRIVATIONEM SUNT, UT VISUS ET CAECITAS. OMNINO AUTEM NIHIL EORUM QUAE SECUNDUM
NULLAM COMPLEXIONEM DICUNTUR AUT VERUM AUT FALSUM EST; OMNIA AUTEM QUAE DIXIMUS
SINE COMPLEXIONE DICUNTUR. Expositis his differentiis quibus vel contrariis
relativa, vel privatio et habitus relativis, vel rursus privatio et habitus
contrariis discreparent, nunc sequitur quid his omnibus secundum affirmationem
negationemque opposita distent, et dat signum proprium affirmationis et
negationis, ut eas semper quaeramus agnoscere, ut si qua sint quae hoc signo
minime teneantur, illa ab affirmationis negationisque oppositione deferre
dicamus. In affirmatione enim et negatione fieri non potest, ut si affirmatio
vera sit, statim falsa negatio non sit; si negatio vera, aftirmatio mendacii
nota carere possit, ut si qu is dicat. Socrates ambulat, Socrates non ambulat.
Si verum est Socratem ambulare, falsum est non ambulare, et rursus si verum est
non ambulare, falsum est ambulare. Hanc autem veri falsique divisionem nullus
unquam in aliis oppositionibus poterit invenire. Nam in his quae sunt ad
aliquid non solum non est necesse oppositionem ipsam sibi verum falsumque
dividere sed in his nulia omnino neque veritas, neque falsitas invenitur. Si
quis enim dicat hoc tantum, pater, vel rursus, filius, neque verum aliquid
neque falsum pronuntiat. Et in contrariis quoque idem est, nam cum bono malum
sit contrarium, si quis nominet bonum, et si quis rursus simpliciter pronuntiet
malum, nulla in hac praedicatione neque falsitas, neque veritas est. Eodem
quoque se modo habet etiam in his quae secundum habitum privationemque
dicuntur. Similiter evim nihil neque verum, neque falsum est, si quis visum
nominet vel caecitatem, hoc autem idcirco evenit, quia omnia, quaecumque sunt,
in quibus aut falsitas, aut veritas invenitur, secundum aliquam complexionem
dicuntur. Ea vero quae simpliciter proferuntur, veri atque falsi prolatione
carent, ut ipse ait, cum in principio omnia praedicamenta numeraret, dicens
singula eorum quae essent dicta in nulla affirmatione dici, quadam vero
complexione inter se horum praedicamentorum veritatem falsitatemque gigni, de
quibus Aristoteles edocuit praeter complexionem aliquam in sermonibus veritatem
falsitatemque inveniri non posse. Si quidem exemplo quoque hoc manifestum est.
Si enim dixero, Socrates homo est, aut verum aut falsum est. Quod si hoc tantum
dicam Socrates, aut rursus, homo, nihil in eo neque veritatis neque falsitatis
est. Quocirca quoniam omnis affirmatio cum complexione profertur, potest in ea,
aut veritas, aut falsitas inveniri. Ea vero quae sunt ad aliquid simpliciter et
sine ulla complexione dicuntur. Similiter autem et contraria, et ea quae sunt
secundum habitum privationemque sibimet opposita, ut est pater filius, bouum
malum, visus caecitas, qua, quoniam sine complexione dicuntur (ubi autem complesio
non est, illic nec falsitas neque veritas est. In affirmationibus vero solis et
negationibus quae secundum complexionem dicuntur, aut veritas aut falsitas
reperitur, secundum affirmationem et negationem oppositio a cunctis aliis
superioribus distat. AT VERO MAGIS HOC VIDETUR CONTINGERE IN HIS QUAE SECUNDUM
COMPLEXIONEM DICUNTUR (SANUM ENIM ESSE SOCRATEM ET AEGROTARE SOCRATEM CONTRARIA
SUNT) SED NEC IN HIS QUOQUE NECESSE EST SEMPER ALTERUM VERUM ESSE, ALTERUM
AUTEM FALSUM; CUM ENIM 279A SIT SOCRATES, EST HOC QUIDEM VERUM ILLUD VERO
FALSUM, CUM AUTEM NON SIT, UTRAQUE FALSA SUNT; NAM NEQUE AEGROTARE NEQUE SANUM
ESSE VERUM EST CUM IPSE SOCRATES NON SIT OMNINO. IN PRIVATIONE VERO, CUM NON
SIT, NEUTRUM VERUM EST, ET CUM SIT, NON SEMPER ALTERUM VERUM EST; VISUM ENIM
HABERE SOCRATEM ET CAECUM ESSE SOCRATEM OPPONUNTUR UT HABITUS ET PRIVATIO, ET
CUM SIT, NON EST NECESSE ALTERUM VERUM ESSE VEL FALSUM (QUANDO ENIM NON EST
NATUS UT HABEAT, UTRAQUE FALSA SUNT), CUM AUTEM NON SIT OMNINO SOCRATES, SIC
QUOQUE UTRAQUE FALSA SUNT, ET HABERE EUM VISUM ET EUM ESSE CAECUM. Quoniam
videntur quaedam contraria secundum complexionem dici, in quibus aut falsitas
reperitur aut veritas sed neque ut affirmatio sit neque ut negatio, de his
quoque dicit, quid distent his complexionibus, quae secundum affirmationem
negationemque dicuntur. Nam sicut aegritudo est contraria sanitati, ita quoque
aegrotum esse Socratem, ei quod est sanum esse contrarium est. Oratio quoque
quae dicit Socrates sanus est, contraria est ei quae pronuntiat Socrates
aegrotat. In his ergo et veritas invenitur et falsitas. Quod igitur haec
distant ea oppositione quae secundum vim affirmationis aut negationis
opponitur, hoc scilicet quod subsistente re, de qua utraque dicuntur,
utrumlibet eorum verum est, si tamen ea contraria praedicantur, quae mediis
carent, nam vivente et subsistente 279C Socrate, quoniam aegritudo et sanitas
immediata contraria sunt, si quis de Socrate dicat: Socrates sanus est,
rursusque alius pronuntiet: Socrates aegrotat, unam veram, unam falsam esse
necesse est. Socrates enim vivens aut aegrotat aut sanus est, et si verum est
eum aegrotare, sanum esse falsum est, et si falsum est aegrotare, sanum esse
verum est; si vero Socrates ipse non subsistat neque omnino sit, utrumque de eo
falsum est dicere, quoniam aegrotat et sanus est. Qui enim omnino non est,
neque omnino poterit aegrotus esse nec sanus. Ergo in contrariis subsistente re
de qua praedicantur, semper una praedicatio vera est, alia falsa, in his
scilicet contrariis quae secundum complexionem dicuntur et carent medio. Non
subsistente autem re, contrarietates utraeque sunt falsae. Illa 279D vero quae
secundum privationem habitumque dicuntur, si cum complexione praedicentur, et
subsistat res, non necesse est aliam veram esse, aliam falsam, et eum res
omnino non sit, utraeque sunt falsae. Socrates enim cum sit iam in suae matris
aluo, et nondum sit genitus in lucem quidem editus non est, ipse tamen est
atque vivit sed tunc neque videns est neque caecus, et videns quidem non est;
quoniam nondum in lucem est editus. Caecus vero idcirco non dicitur, quoniam
adhuc videre non poterat. Ergo cum sit atque subsistat res de qua habitus et
privatio praedicantur, potest fieri ut de ea falsa utraque praedicentur; si
vero res de qua dicitur non sit, omnino utrasque falsas esse necesse est, ut
cum Socrates omnino non est, falsum est eum dicere vel videntem 280A esse vel
caecum. Ille enim videt atque caecus est qui vivit atque subsistit, cum vero de
quo dicitur non sit omnino, utraque de eo falso dicuntur. In catulis quoque
idem est, nam cum iam sunt editi, subsistunt quidem; sed neque caeci sunt neque
videntes, quia nondum per naturam visum habere potuerunt. Sin vero omnino non
sint, rursus falsum est de his utrumque praedicari. In affirmatione vero et negatione
non ita est, ut ipse pronuntiat. IN AFFIRMATIONE VERO VEL NEGATIONE SEMPER, VEL
SI SIT VEL SI NON SIT, ALTERUM IPSORUM VERUM, ALTERUM FALSUM ERIT; AEGROTARE
ENIM SOCRATEM ET NON AEGROTARE SOCRATEM, CUM SIT IDEM IPSE, MANIFESTUM EST
QUONIAM ALTERUM EORUM VERUM VEL FALSUM EST, CUM NON SIT, SIMILITER (NAMQUE
AEGROTUM ESSE, CUM NON SIT, FALSUM EST, NON AEGROTARE VERO VERUM EST). QUARE IN
SOLIS HIS ERIT SEMPER ALTERUM IPSORUM VERUM ESSE VEL FALSUM, QUAECUMQUE UT AFFIRMATIO
ET NEGATIO OPPONUNTUR. In affirmatione, inquit, et negatione sive res subiecta
subsistat, sive non sit omnino, semper in una veritas, in alia falsitas
inveniuntur. Non esse enim idem dicere aegrotare aliquem quod non esse sanum,
neo idem caecum esse quod non videre perspicacissime docet. Nam qui aegrotat
nisi subsistat non potest aegrotare. Non esse autem sanum, non ita est, nam
etiamsi non sit omnino aliquis, potest de eo qui non est haec negatio
praedicari. Quod enim omnino non est, sanum esse non potest, quod sanum esse
non potest non est utique sanum. Eodem quoque modo est 280C et de caecitate et
de visu, neque enim idem est dicere caecum esse aliquem quod non videre; qui
enim caecus est, subsistit vivitque, ut sit caecus, non videre vero etiam de
omnino non subsistente dici potest. Qui enim non subsistit omnino videre non
potest, et qui videre non potest non videt. Quocirca in affirmatione et
negatione sive sit de quo dicitur sive non sit, una semper vera est, altera
falsa. Nam cum sit Socrates et vivat, si de eo verum est dicere, quoniam videt,
falsum est dicere, quoniam non videt, et si de eo verum est dicere, quoniam
sanus est, falsum est dicere de eo quoniam non est sanus. Si negationes verae
sunt, falsae sunt affirmationes. Si vero res subiecta non subsistat omnino, de
ea quidem affirmatio falsa est, negatio semper vera. Nostro enim tempore cum
Socrates non est neque subsistit, si quis dicat Socrates videt, et alius dicat
Socrates non videt, falsum quidem est de eo dicere, quoniam videt, verum autem
quoniam non videt. Qui enim omnino non est, videre non potest, qui videre non
potest, non videt. Ita firmum immutabileque semper manet in affirmationibus et
negationibus alteram semper veram, alteram falsam in praedicatione constitui.
Quocirca quoniam in contrariis et in iis quae secundum privationem habitumque
sunt, si cum complexione utraque dicantur de re non subsistente, falsa sunt
utraque quae praedicantur. Cum hoc idem in affirmationibus et negationibus non
sit, omnes caeterae oppositiones ab affirmatione et negatione dissentiunt. Monstratae
sunt igitur oppositiones quattuor et sex differentiae: una quidem contrariorum
et eius quae est ad aliquid; secunda contrariorum et eorum quae sunt secundum
habitum et privationem; tertia contrariorum et eius oppositionis quae est
secundum affirmationem et negationem; quarta relativorum et eius quae est
secundum habitum et privationem; quinta relativorum et eius quae est
affirmationis et negationis; sexta privationis et habitus ad negationem et
affirmationem. Sed post has oppositionum differentias quaedam de contrariis ad
multas proficientia quaestiones ab Aristoteles traduntur. CONTRARIUM AUTEM EST
BONO QUIDEM EX NECESSITATE MALUM (HOC AUTEM MANIFESTUM EST EX UNAQUAQUE
INDUCTIONE, UT SANITATI AEGRITUDO ET IUSTITIAE INIUSTITIA ET FORTITUDINI 281B
TIMIDITAS, SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS), MALO VERO ALIQUOTIENS BONUM CONTRARIUM
EST, ALIQUOTIENS MALUM (DIMINUTIONI ENIM, QUAE MALA EST, SUPERFLUITAS QUAE ET
IPSA MALA EST CONTRARIUM EST). IN PAUCIS AUTEM HOC ALIQUIS VIDEBIT, IN PLURIBUS
AUTEM SEMPER MALO BONUM CONTRARIUM EST. Hoc loco monstratur quod omne bonum
semper malo contrarium est, non autem omni malo semper bonum, nam quodcumque
fuerit bonum, solum illi malum contrarium est, malo autem et bonum potest esse
contrarium et malum. Sanitati enim quae bona est, aegritudo quae est mala,
contraria est. Rursus felicitati quae est bona, infelicitas quae ipsa quoque est
mala, contraria est. Est autem invenire malum quod duas habet contrarietates,
boni scilicet et alterius mali. Nam cum ea sunt contraria quae a se plurimum
distent, cum sit timiditas habitus animi pessimus, duas habet contrarietates,
temeritatem scilicet et fortitudinem, nam qui omnia timet et est timidus et qui
nihil timet omnino in quo est temeritas, longe a sese distant et discrepant,
quocirca sibi contraria sunt, cum utraque sint mala. Rursus quoniam bonum malo
contrarium, et fortitudo bona est, timiditas mala erit, et erit fortitudini
contraria oppositaque timiditas. Duae igitur contrarietates opponuntur
timiditati, temeritas et fortitudo; sed temeritas contraria est secundum
longissimam distantiam quantitatemque discrepantis habitus atque contrarii.
Timiditas 281D vero fortitudini videtur opposita, secundum qualitatem bonitatis
atque malitiae. Quare sufficienter est demonstratum bona semper malis esse
contraria, mala vero etiam malis. Inductio autem est singulorum exemplorum
collectio, et ad universalem per ea cognitionem collectionemque reductio, ut si
quis dicat qui musicam novit musicus est, et ab ea denominatur, et medicus qui
medicinam, rursus qui grammaticam grammaticus, et ex his singulis rebus
colligat universaliter, et quicumque aliquam artem novit eiusdem denominatione
signatur, ut a grammatica grammaticus, a medicina medicus, et caetera
huiusmodi. Quocirca hoc quod supra diximus de contrariis, Aristoteles
exemplorum planissima inductione 282A firmavit Illud quoque addidit mala posse
malis esse contraria, in paucissimis inveniri, semper autem mala bonis esse
contraria. Nam et in his ipsis in quibus mala malis contraria sunt, inest tamen
ut etiam simul bonis contraria esse videantur, ut timiditas, quoniam temeritati
contraria est, simul est etiam fortitudini contraria. Sed non necesse est, ut
quodcumque malum bono est contrarium, mox etiam mali esse contrarium, ut
aegritudo sanitati quidem, quod est bonum contraria est, alii vero malo
contraria non est. Recte igitur dictum est, malum malo contrarium in
paucioribus inveniri. AMPLIUS IN CONTRARIIS NON EST NECESSE, SI ALTERUM FVERIT,
ET RELIQUUM ESSE; SANIS ENIM OMNIBUS, SANITAS QUIDEM ERIT, AEGRITUDO VERO
MINIME; SIMILITER ET ALBIS OMNIBUS ALBEDO QUIDEM ERIT, NIGREDO VERO NON ERIT. AMPLIUS
SI SOCRATEM SANUM ESSE ET SOCRATEM AEGROTARE CONTRARIUM EST, ET NON CONTINGIT
SIMUL EIDEM UTRAQUE INESSE, NUMQUAM CONTINGET, CUM ALTERUM CONTRARIORUM SIT, RELIQUUM
ESSE; NAM CUM SIT SANUM ESSE SOCRATEM, NON ERIT AEGROTARE SOCRATEM. Dictum est
in relatione, quaedam relativa simul esse naturaliter, ut cum sit filius, pater
est, cum vero sit pater, sine filio esse non posse. Quocirca simul semper sunt
pater et filius, hoc vero in contrariis non est. Ait enim non necesse est simul
semper esse contraria. Si enim nullus aegrotet et sint omnes sani, cum sit
sanitas, non erit aegritudo, et una contrarietate manente, alia omnino non
erit, ut si quis hoc idem dicat de cygnis, etenim omnes cygni sunt albi, in
cygnis nigredo non erit. Atque hoc idem ad universalia referendum est. Nam si
omnia quae sunt alba sunt, omnino nigredo non erit. Tractum autem hoc videtur
esse sigillatim a partibus. Nam quod duo contraria in eodem uno eodemque
tempore esse non possunt, ut Socrates cum sanus est, aegrotus non est, et cum
sanus est, manente sanitate, non esse poterit aegritudo. Et non erit
necessarium uno contrario posito, mox subsequi alterum. Nam si necesse esset
uno contrario constituto, mox aliquid sequi, posset idem Socrates uno eodemque
tempore, et sanus esse et aeger, quod fieri non potest. Non est igitur necesse
cum sit una contrarietas mox aliam sequi. Quocirca fieri potest ut cum unum
contrarium sit, 282D aliud non sit. Idque in singularibus etiam necesse est, ut
in eo quod est Socratem esse sanum, non est Socratem aegrotare, quod Socratis
sanitati est contrarium Socrates enim quamquam contrariorum susceptibilis sit,
quoniam substantia est, tamen uno eodemque tempore contraria utraque non
suscipit. MANIFESTUM EST AUTEM QUONIAM CIRCA IDEM VEL SPECIE VEL GENERE NATA
SUNT FIERI CONTRARIA; AEGRITUDO NAMQUE ET SANITAS CIRCA CORPUS ANIMALIS, ALBEDO
VERO ET NIGREDO SIMPLICITER CIRCA CORPUS, ET IUSTITIA ET INIUSTITIA IN ANIMA. Docet
circa quae semper possint esse contraria. Ait enim circa eas res quae aut
genere eadem sint aut specie, ut est corpus quidem animalis unum secundum
genus, omnium enim animalium unum genus est, et circa hoc aegritudo vel sanitas
invenitur. Similiter et circa corpus omne indiscrete, vel animalia vel
inanimati, albedo et nigredo est, quod scilicet omne corpus et ipsum secundum
genus est, unum, namque his genus est substantia. Iustitia quoque et iniustitia
in anima est. Omnis autem anima quae iustitiam iniustitiamque suscipit,
rationalis est, id est hominis; sed omnes homines idem sunt secundum speciem,
omnes igitur animae eaedem secundum speciem sunt; iustitia ergo et iniustitia
circa easdem res secundum speciem reperiuntur. Quocirca recto iam conclusum
est, omnia contraria circa easdem res vel secundum genus, vel secundum speciem
iveniri. NECESSE EST AUTEM OMNIA CONTRARIA AUT IN EODEM GENERE ESSE AUT IN
CONTRARIIS GENERIBUS, VEL IPSA ESSE GENERA; ALBUM QUIDEM ET NIGRUM IN EODEM
GENERE (COLOR ENIM IPSORUM GENUS EST), IUSTITIA VERO ET INIUSTITIA IN
CONTRARIIS GENERIBUS (HUIUS ENIM VIRTUS, HUIUS VITIUM GENUS EST); BONUM VERO ET
MALUM NON SUNT IN ALIQUO GENERE SED IPSA SUNT GENERA. Monstrat id quod reliquum
est, id est ubi possunt remper contraria uestigari, omnia enim quae sunt
contraria, aut sub eodem genere sunt, aut sub contrariis generibus, aut ipsa
sunt genera. Sub eodem genere sunt contraria, ut album et nigrum sub uno
genere, id est colore, color enim albedinis et nigredinis est genus. Haec
igitur sub uno sunt genere. Alia vero contraria in contrariis generibus
inveniuntur, ut iustitia et iniustitia. Iustitiae enim genus est bonum,
iniustitia a vero malum, malum vero bono contrarium est, iustitiae ergo et
iniustitia sub contrariis generibus sunt. Rursus alia ipsa sunt genera, ut
bonum et malum, utraque sunt genera sub se malorum bonorumque positorum, et non
hoc nunc dicitur quod bonitas et malitia nulli alii generi subduntur, ponuntur
enim sub qualitate. Sed particularium bonorum et malorum non esse alia genera,
nisi ipsum bonum et malum generaliter. Recte igitur bonum et malum aliorum
particularium bonorum, malorumque genera sunt numerata. Quare rectissime dictum
est omnia contraria, aut sub eodem esse genere, ut album et nigrum sub colore,
aut in contrariis generibus, ut iustitia atque iniustitia sub bono et malo, aut
ipsa esse genera, ut est ipsum bonum et malum, qua genera iustitiae atque
iniustitiae numerata sunt. DE MODIS PRIORIS. PRIUS ALTERUM ALTERO DICITUR
QUADRUPLICITER. PRIMO QUIDEM ET PROPRIE SECUNDUM TEMPUS, SECUNDUM QUOD SCILICET
ANTIQUIUS ALTERUM ALTERO ET SENIUS DICIMUS (EO ENIM QUOD PLUS EST TEMPORIS
LONGAEVIUS ET ANTIQUIUS DICITUR). Postquam vero de oppositis disputationem
quantum ad praesens tempus attinebat explicavit, nunc quae priora dici possint,
quae posteriora disserit. Et ait, primo quidem et proprie, et quod in usu prius
284A dicimus, hoc est quando aliquam rem alia res tempore praecedit, et
superat, et dum proprie loquimur secundum temporis praecessionem, aliud
antiquius dicimus, aliud senius. Antiquius quidem in iis quae inanimata sunt,
ut Porphyrio placet, senius vero in iis quae anima non carent: ut si quis dicat
antiquius fuisse bellum Thebanorum atque Graecorum Troiae excidio, idcirco quod
tempore praecedat, filii namque ducum qui Thebano perire praelio, Troiae
praeliis interfuerunt, ut Diomedes Tydaei filius, et Stenelus filius Capanei.
Atque hoc quidem ita, quoniam est et in rebus inanimatis quod antiquius
dicitur, ut eum dicimus antiquiorem esse dominationem regum in civitate Romana,
quam consulum et magistratuum. In rebus vero animatis 284B senius vocamus.
Seniorem namque dicimus Pythagoram Socrate, Socratem Aristotele, idcirco quod
se temporibus antecedant. Ergo prius alterum altero dicitur proprie secundum
tempus, prioris autem quattuor fuere distantiae, ut ipse Aristoteles dicit, cum
ait: Prius alterum altero dicitur quadrupliciter. Easque sigillatim breviter
enumerat, ad quae ipse addidit quintam, quae priscis philosophis esset
incognita. Et quoniam de primo prioris modo dictum est, de secundo dicemus. SECUNDO
QUOD NON CONVERTITUR SECUNDUM SUBSISTENDI CONSEQUENTIAM, UT UNUS DUOBUS PRIUS
EST (CUM ENIM DUO SINT, CONSEQUITUR MOX UNUM ESSE, CUM VERO SIT UNUM NON EST
NECESSE DUO ESSE; QUARE NON CONVERTITUR AB UNO CONSEQUENTIA ALTERIUS SUBSISTENTIAE);
284C PRIUS AUTEM VIDETUR ESSE ILLUD A QUO NON CONVERTITUR SUBSISTENTIAE
CONSEQUENTIA. Secunda, inquit, significatio prioris est quae non tempore
intelligitur sed natura, et hoc ait a quo non convertitur subsistendi
consequentia. Nam si duae res ita sint oppositae, ut si una sit necesse sit
esse aliam, et si alia sit non necesse sit esse aliam, illa prior est qua
posita ut sit, non est aliam esse necesse, et hoc quidem universaliter dictum
est. Planius vero his fiet exemplis. Binarius enim numerus et unitas eam
retinet naturam, ut si quis duo esse proponat, unum quoque esse monstraverit,
unum enim in ipsis duobus concluditur, nec praeter duas unitates poterit esse
binarius. Quocirca si quis binarium numerum esse posuerit, unum quoque esse consequitur,
idcirco binarius ut sit indiget unitate. At vero si quis ponat esse unitatem,
nondum necesse est esse binarium. Ergo ab unitate subsistendi consequentia non
convertitur. Posita enim unitate necesse non fuit binarii numeri subsequi
quantitatem, idcirco quod binario non indiget unitas, sicut indigens erat
unitate binarius. Quare prior est unitas binario: quod si ita est, et quidquid
ita fuerit, ut ab eo subsistendi consequentia non convertatur, prius Aristotele
auctore probabitur, ut in eo quod est homo et animal. Cum dico hominem, mox
dixi animal; cum animal dixero, nihil adhuc de homine dictum est. Omnis enim
homo animal est, non omne animal homo. TERTIO VERO SECUNDUM QUENDAM ORDINEM
PRIUS DICITUR, QUEMADMODUM ET IN DISCIPLINIS ET IN ORATIONIBUS; IN
DEMONSTRATIVIS ENIM DISCIPLINIS INEST PRIUS ET POSTERIUS SECUNDUM ORDINEM
(ELEMENTA ENIM PRIORA SUNT DESCRIPTIONIBUS SECUNDUM ORDINEM, ET IN GRAMMATICA
ELEMENTA PRIORA SUNT SYLLABIS), ET IN ORATIONIBUS SIMILITER (EXORDIUM ENIM
NARRATIONE PRIUS EST ORDINE). Ponit tertiam prioris significationem, ut in
geometria priora sunt, inquit, elementa descriptionibus. Elementa vero ait quos
terminos appellamus, id est ubi quid punctum sit, quid linea, quid figura
praedicitur. His enim cognitis et fideliter animo apprehensis, postea omnes
geometriae descriptiones fiunt, quae problemata et tbeoremata nuncupantur. Ergo
quoniam prius discuntur elementa, post ad descriptiones est transitum, priora
sunt elementa descriptionibus, ordine scilicet, quoniam ut descriptio possit intelligi,
prius elementa traduntur, et in grammatica quoque prius singulae traduntur
litterae quam quae ex his syllabae coniungitur, quocirca ipso quoque ordine
prior ea sunt syllabis. Rhetores vero non saepe a narratione sed ab exordio
agere causas incipiunt, ideo quod exordia narrationibus priora sunt ordine,
quare tertius modus prioris iste est qui secundum nexum cuiusdam ordinis in qualibet
arte est constitutus. AMPLIUS PRAETER HAEC OMNIA, QUOD MELIUS ET HONORABILIUS
EST, PRIUS NATURA ESSE VIDETUR; SOLENT AUTEM PLURES HONORATIORES [MAGIS] ET QUOS
IPSI MAXIME venERANTUR PRIORES ESSE DICERE; EST AUTEM HIC MODUS PAENE
ALIENISSIMUS. ATQUE HI QUIDEM QUI DICUNTUR MODI PRIORIS ISTI SUNT. Dicit prius
videri, quod neque secundum tempus aliquoties neque secundum subsistendi
consequentiam nec secundum ordinem sit sed quodcumque pretiosius fuerit, prius
esse videatur, ut sol, luna prior est, et anima corpore, et animus anima. Hoc
vero tali argumento probat, quod hi qui aliquos venerantur, et honorabiliores
existimant, dicant eos apud se esse priores, et hi qui in rebus publicis
plurimum possunt, priores dicuntur ab his qui eos maxime venerantur. Sed ut
ipse ait, alienissimus est a significatione prioris hic quartus in nunc est
dictus modus, etenim de his melius dici potest, ut dicantur venerabiliores et
honorabiles, ut vero priores dicantur, abusio potius quam ulla proprietas est. Quintus
modus quem ipse addidit huiusmodi est: VIDETUR AUTEM PRAETER EOS QUI DICTI SUNT
ALTER ESSE PRIORIS MODUS; EORUM ENIM QUAE CONVERTUNTUR SECUNDUM ESSENTIAE
CONSEQUENTIAM, QUOD ALTERIUS QUOMODOLIBET CAUSA EST DIGNE PRIUS NATURA DICITUR.
QUONIAM AUTEM SUNT QUAEDAM TALIA, MANIFESTUM EST; NAM ESSE HOMINEM CONVERTITUR
SECUNDUM SUBSISTENTIAE CONSEQUENTIAM AD VERUM DE EO SERMONEM; NAM, SI EST HOMO,
VERUS SERMO EST QUO DICIMUS QUONIAM EST HOMO, ET CONVERTITUR (NAM, SI VERUS
EST: SERMO QUO DICIMUS QUONIAM EST HOMO, HOMINEM ESSE NECESSE EST); EST AUTEM
VERUS SERMO NULLO MODO CAUSA SUBSISTENDI REM, RES AUTEM VIDETUR QUODAMMODO
CAUSA ESSE UT SERMO VERUS SIT; NAM, QUONIAM EST RES VEL NON EST, VERUS SERMO
VEL FALSUS DICITUR. QUARE SECUNDUM QUINQUE MODOS PRIUS ALTERUM ALTERO DICITUR. Novimus
quasdam res in praedicatione posse converti. Quod si una earum quae
convertuntur alteri causa est, et veluti naturalem subsistentiam subministrat,
illa naturaliter prius esse perhibetur. Ipse autem aptissimo quod proposuit
affirmavit exemplo. Nam si est aliqua res, verum est de ea dicere, quoniam est.
Rursus si de ea verum est dicere quoniam est, illam ipsam rem esse necesse est:
ut quoniam est homo, verum est dicere quoniam est homo. Quod si verum est
dicere quoniam est homo, nulla est dubitatio quin homo sit. Ergo quoniam duo
haeo sibimet convertuntur, respiciamus nunc quae sit harum 286B causa alteri,
ut subsistere valeat, atque ut essa possit. Video autem rem dicto vero
subsistentiae dare principium, nam quia homo est, idcirco verum est dicere de
eo quoniam est sed non idcirco homo est, quoniam de eo vere dici potest,
quoniam est. Res enim ut veritas adsit, dicto principium est sed non ut res
subsistat, vero efficitur dicto. Quocirca prius est, esse hominem, posterius,
verum de eo esse dictum. Idcirco quoniam quamvis convertantur, tamen una harum
rerum alteri subsistendi causa est. Ait enim id esse prius inter ea quae
convertuntur secundum essentiae consequentiam, quod alterius quomodolibet causa
est. Ut in hoc ipso sermone de homine, convertuntur utraque quidem sed homo ut
sit sermo verus, causa est atque principium. 286C Quod Aristoteles ita ait: Est
autem verus sermo nullo modo causa subsistendi rem. Res autem videtur
quodammodo causa esse ut sermo verus sit. Neque enim idcirco res est, quoniam
sermo est sed idcirco verus est sermo, quoniam res ipsa subsistit. Quocirca
quinque hi prioris modi sunt, quorum superius quattuor dixit, secundum tempus,
scilicet secundum id quod non convertitur ad subsistendi consequentiam,
secundum ordinem, secundum reuerentiam, et secundum conversionem, cum altera res
alii subsistendi causa est. Sed quoniam de priori dictum est, nunc de his quae
simul sunt incipit. DE MODIS SIMUL SIMUL AUTEM DICUNTUR SIMPLICITER ET PROPRIE
286D QUORUM GENERATIO IN EODEM TEMPORE EST; NEUTRUM ENIM NEUTRO PRIUS EST AUT
POSTERIUS; SIMUL AUTEM SECUNDUM TEMPUS ISTA DICUNTUR. Cum de prioribus
disputaret, illa propria priora esse contenderat, quae secundum vim
praecedentis temporis dicerentur, quare cum de his quae simul sun. disputat,
idem reuocat, et recte. Nam si maximum modum prioris solum efficiet tempus, cur
quoque non simul editam naturam tempus efficiet? Ait ergo, et simpliciter et
proprie dici simul esse ea, quae unius temporis ortu prolata sint, ut si illa
sint antiquiora atque priora, quaecumque non aequali sed praecedenti tempore
proferuntur, quae se temporibus non praecedunt, rectissime simul esse ponuntur.
Quae enim uno tempore edita atque prolata sunt, illa secundum tempus simul esse
dicuntur, id est simul naturale principium substantiamque sortitu, atque haec
quidem secundum tempus simul esse dicuntur. Secundum naturam vero simul esse
perhibentur, quaecumque invicem ad se convertuntur, cum altera res alteri
subsistendi, neque causa sit, neque principium, ut sunt huiusmodi, duplum et
medium: nam cum sit duplum, medium est; cum rursus sit medium, duplum est.
Seruus quoque et dominus eodem modo sunt, filius quoque et pater. Haec enim
quaecumque illata quidem inferunt alia, sublata vero aut erunt simul, sibimet
semper invicem convertuntur: nam si dicam patrem, filium quoque intelligi
necesse est; si dixero filium, pater mox sub intelligentiam cadit. Quod si
alterum sustulero, utraque perimo: nam si tollam filium, pater non est; si
patrem abstulero, filium quoque perire necesse est. Atque haec ita sibimet ipsa
convertuntur, ut tamen altera res alteri causa penitus non sit: nam quoniam pater
filio in praedicatione convertitur manifestum est sed neque pater fiiio causa
est ut sit, nec filius patri, hoc autem huiusmodi est. Si Aeneas habuit
Ascanium filium, non dicimus, quoniam non fuit Aeneas causa ut esset Ascanius
sed non fuit pater causa ut esset filius. Nam quod dico Ascanius, quaedam
propria substantia est, quod dico filius, esse non potest, nisi ad aliquid
referatur, et cum Aeneam nomino, substantiam dixi, si patrem appello, nulla
ratione constat, nisi ad filium referatur. Igitur causa fuit Aeneas ut esset Ascanius sed
non est causa pater ut esset filius. Pater namque tunc fit cum filius fuerit.
Quod si haec tempore ipso priora non sunt, causa autem cuiuslibet rei prior est
quam illa cuius causa est, ut oriatur, nulla dubitatio est, quin pater atque
filius, quae utraeque praedicationes aequales sunt tempore, neutra neutri causa
sit, cum tamen substantiae ipsae sibi ut sint, causa sint praedicationis. Nec
ullo modo simile debet videri ei quod paulo ante dictum est de homine, esse
verum de eo sermonem, scilicet quoniam est. Illic enim cum res esset, tunc
poterat esse verus de ea sermo. Prius enim est ut sit aliquid, post vero ut de
eo verum aliquid esse dicatur. Nunc vero non ita est ut prius aliquis sit
pater, post vero filius. Mox enim ut pater est, filium esse necesse est, mox ut
est filius, patris sine dubio praedicatio consequitur, quemadmodum ergo iste
modus fit, qui scilicet simul secundum naturam est, Aristoteles ita pronuntiat.
NATURALITER AUTEM SIMUL SUNT QUAECUMQUE CONVERTUNTUR QUIDEM SECUNDUM
SUBSISTENDI CONSEQUENTIAM, SI NULLO MODO ALTERUM ALTERI SUBSISTENDI CAUSA SIT,
UT DUPLUM ET MEDIUM; CONVERTUNTUR ENIM ISTA (NAM CUM SIT DUPLUM EST MEDIUM, ET
CUM SIT MEDIUM EST DUPLUM), NEUTRUM VERO NEUTRI SUBSISTENDI CAUSA EST. In his
quae ita priora esse dicebatur, ut couuerterenlur, quamvis secundum essentiam
eorum consequentia esset, tamen quia in his alia res alii causa atque
principium est, hoc erat quod una prior esse 288A videretur, ea quidem cuius
causa erat. Quod distat ab iis quae convertuntur, et se invicem auferunt, quae
cum neutra neutri causa sit, et tamen convertuntur, digne simul naturaliter
esse perhibentur.ET EA QUAE EX EODEM GENERE IN CONTRARIUM DIVIDUNTUR SIMUL
NATURA ESSE DICUNTUR. IN CONTRARIUM VERO DIVIDI DICUNTUR SECUNDUM EANDEM
DIVISIONEM, UT VOLATILE, GRESSIBILE ET AQUATILE; HAEC ENIM IN CONTRARIUM
DIVIDUNTUR, CUM EX EODEM GENERE SINT; ANIMAL ENIM DIVIDITUR IN VOLATILE,
GRESSIBILE ET AQUATILE, ET NULLUM HORUM PRIUS EST VEL POSTERIUS SED SIMUL HAEC
VIDENTUR ESSE NATURA. Tertium modum eorum quae simul sunt hunc addidit, illa
quoque simul esse, quae aequali divisione sub genere ponantur, ut si ponat quis
animal genus hominis et equi, hominem vero et equum a genere, id est ab animali
dividat, homo vero et equus quoniam sub eodem genere sunt, simul esse natura
dicuntur. Et conveniens regula est in omnibus quibuscumque generibus, cum enim
specierum divisiones fiunt, illic species natura simul sunt, et si sub his
ipsis speciebus quaedam alia ponantur, inter se etiam ipsa simul esse natura
dicuntur. Dividatur enim genus, id est animali in volatile atque in gressibile,
et quoniam sunt sub eodem genere, simul natura sunt. Et si quid horum in
subiectas partes speciesque solvatur, ut volutile quidem in his avibus quae
seminibus uescuntur, et in iis quae carnibus, et in his quae herbis, hae tres
species rursus, quae sub volatili sunt, simul esse naturaliter appellantur, quod
Aristoteles ita dicit. DIVIDITUR AUTEM ET UNUMQUODQUE EORUM IN SPECIES ITERUM
SECUNDUM EANDEM DIVISIONEM, UT GRESSIBILE ANIMAL ET VOLATILE ET AQUATILE. ERUNT
IGITUR ET ILLA SIMUL NATURA, QUAECUMQUE EX EODEM IPSO GENERE SECUNDUM EANDEM
SUBDIVISIONEM SUNT, GENERA AUTEM SEMPER PRIORA SUNT; NON ENIM CONVERTUNTUR
SECUNDUM SUBSTANTIAE CONSEQUENTIAM, UT AQUATILE QUIDEM CUM SIT EST ANIMAL,
ANIMAL VERO CUM SIT, NON NECESSE EST ESSE AQUATILE. SIMUL ERGO NATURA ESSE
DICUNTUR QUAECUMQUE CONVERTUNTUR QUIDEM SECUNDUM ESSENTIAE CONSEQUENTIAM, NULLO
AUTEM MODO ALTERUM ALTERI SUBSISTENDI CAUSA EST, ET EX EODEM GENERE QUAE IN
CONTRARIUM SIBI DIVIDUNTUR; SIMPLICITER AUTEM SIMUL SUNT QUORUM GENERATIO IN
EODEM TEMPORE EST. Atque idcirco fieri non potest ut genus habeat 288D unam
speciem. Nam si quaecumque sub genere sunt, simul sunt. Simul autem nisi plura
esse non possunt, genus igitur sub se unam speciem habere non potest Si enim
una fuerit, fieri non potest ut simul esse dicatur, quia illud est, quod eub
eodem genere quaedam res solent quae simul sint naturaliter inveniri. Sed haec
de speciebus. Genera autem semper priora sunt, non enim convertuntur secundam
subsistentiae consequentiam. Prioris unus modus est secundum quem illa priora
esse dicerentur quaecumque ad subsistendum nullo modo converterentur, quod hoc
idem in generibus cadit. Genera enim non convertuntur ad eubsistentiae consequentiam
hoc modo. Sit enim animal genus, homo vero species. Cum vero dico hominem esse,
animal quoque esse 289A consequitur. Si animal dixero, ad hominem subsistentiae
consequentia non convertitur. Potest enim esse animal, non tamen homo. Quocirca
ab animali ad hominem non convertitur subsistentiae consequentia. Quod si
posito homine animal constat, animali vero nominato non est necesse hominem
esse, animal est prive homine. Illa quoque priorum descriptio est, quod ea quae
sunt priora sublata quidem auferunt, illata non inferunt Animal enim sublatum
secum quoque hominem tollet, illatum vero ut dicatur esse animal, non secum
statim hominem infert. Posteriora vero et diverso sunt. Illata enim simul
inferunt, sublata non auferunt. Dictus quidem homo, simul secum animal infert,
omnis namque homo animal est. Quod si homo substantialiter auferatur, 289B non
est necesse animal quoque autem, quod hoc nomen animalis in pluribus speciebus
valet aptari. Quod si ita contingit, sublato homine permanebit animal. Quocirca
concludit tres esse species eorum quae simul sunt secundum tempus, secundum
naturam cum ulraque ita convertuntur, ut neutra neutri causa sit. Tertium genus
est secundum eamdem sub eodem genere divisionem. Quoniam in faciendo atque
patiendo inerat quidam motus, facere autem et pati praedicamentis ad iunxerat,
idcirco nunc de motibus tractat, et sex numero esse pronuntiat. DE SPECIEBUS
MOTUS MOTUS VERO SUNT SPECIES SEX: GENERATIO, CORRUPTIO, CREMENTUM, DIMINUTIO,
COMMUTATIO, SECUNDUM LOCUM TRANSLATIO. ALII QUIDEM MOTUS MANIFESTUM EST QUONIAM
A SE INVICEM DIVERSI 289C SUNT; NEQUE ENIM EST GENERATIO CORRUPTIO, NEC
CREMENTUM DIMINUTIO NEC SECUNDUM LOCUM TRANSLATIO; SIMILITER AUTEM ET CAETERAE.
In physicis Aristoteles motus species alia ratione partitus est. Ait enim aliud
esse permutationem, aliud motum, et permutationis quidem duas esse species ait
generationem et corruptionem. Motus verotres secundum quantitatem, secundum
qualitatem, secundum locum. Igitur, quoniam hic liber ad introductionem
quodammodo factus est, noluit nimis divisionis attenuare rationem, ne
ingredientium animos subtiliori divisione confunderet: facit igitur divisionem
motus hoc modo. Est enim una species motus secundum substantiam, alia secundum
quantitatem, alia secundum qualitatem, alia secundum locum. Et secundum
substantiam quidem est generatio et corruptio, haec enim utraque in substantia
fiunt. Nam et secundum substantiam generatur aliquid, et secundum substantiam
corrumpitur. Secundum quantitatem vero, ut crementum et diminutio. Etenim secundum
quantitatem vel aucta crevisse, vel detracta diminuta esse dicuntur. Secundum
qualitatem vero quae dicitur commutatio, secundum aliquas scilicet passiones,
quas qualitates esse manifestum est. Secundum locum vero, ut intus in
longitudinem, vel in curuaturam flexus; et intus quidem in longitudinem est ut
a sursum in deorsum, a prioribus retrorsum, a dextra in sinistram; et rursus si
haec convertas et in directum pergas, idem motus 290A erunt. Illud quoque verum
est has esse omnes species motus, nullo namque sibi participant, nisi solo
generis nomine, quod motus dicuntur nam neque generatio idem est quod
corruptio, namque generatio est in substantia ingressus, corruptio vero ex
substantia egressus. Nec diminutio idem quod crementum, nec secundum locum
translatio alicui superiorum consimilis est. Commutatio autem habet forte
aliquam dubitationem, quod non videatur a superioribus discrepare, quam
quaestionem ita proposuit. IN COMMUTATIONE VERO EST ALIQUA DUBITATIO, NE FORTE
NECESSE SIT QUOD COMMUTATUR SECUNDUM ALIQUEM RELIQUORUM MOTUUM COMMUTARI. HOC
AUTEM NON EST VERUM; PAENE ENIM SECUNDUM OMNES PASSIONES VEL 290B MULTAS
COMMUTARI NOBIS CONTINGIT NULLO ALIORUM MOTUUM COMMUNICANTE; NAM NEQUE CRESCERE
NECESSE EST QUOD SECUNDUM PASSIONEM MOVETUR NEC DIMINUI, SIMILITER AUTEM ET IN
ALIIS: QUARE DIVERSUS ERIT MOTUS AB ALIIS COMMUTATIONIBUS (NAM SI IDEM ESSET,
OPORTERET OMNE QUOD COMMUTATUR MOX AUT CRESCERE AUT MINUI AUT ALIQUEM ALIORUM
MOTUUM CONSEQUI; SED NON EST NECESSE). SIMILITER AUTEM ET QUOD CRESCIT VEL SECUNDUM
QUEMLIBET ALTERUM MOTUM MUTATUR. In commutatione vero est aliqua dubitatio, ne
forte necesse sit quod commutatur secundum aliquem reliquorum motaum commutari.
Nam si omne quod commutatur, aut generatur, aut corrumpitur, aut minuitur aut
crescit, aut id secundum locum transferri 290C necesse est, dubium non est
nihil a superioribus caeteris hanc differe speciem, qua secundum commutationem
dicitur; quod Aristoteles respuit, dicens: HOC AUTEM NON EST VERUM. Sed quoniam
quod oommutatur non omnino neque generatur, neque corrumpitur: ut qui in sole
diutius stetit, si ex candido niger est factus, commutatus quidem secundum
colorem dicitur, non tamen generatus est aut corruptus, nec vero illi aliquod
vel crementum factum est vel diminutio sed nec loci translatio nulla est,
potest enim aliquis uno eodemque loco consistens, aliquibus extrinsecus
venientibus passionibus permutari, potest quoque et crescere et decrescere,
praeter qualitatis commutationem: quod ipse Aristoteles ita pronuntiat. SED
SUNT QUAEDAM QUAE CRESCUNT ET NON COMMUTANTUR, UT QUADRATUM CIRCUMPOSITO
GNOMONE CREVIT QUIDEM SED COMMUTATUM NON EST; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS
HUIUSMODI. QUARE A SE INVICEM MOTUS ISTI DIVERSI SUNT. Quod dicit tale est: Si
quadrato, inquit, addatur gnomo, crescit quidem quadratus, non tamen
commutatur. Ideoque sublato gnomone quadratus diminuitur sed non commutatur. Si
enim quadratus a b c d, et ducatur ei angularis b c, et dividantur quattuor
latera a c, a b, b d, a c, in aequalia g e h f punctis, et ducantur g h f e lineae.
Divisus igitur quadratus a d in quattuor quadratos qui sunt e g, f g, e h, h f,
quorumlibet tres qui circa eamdem angularem sunt si demantur, figura ipsa gnomo
vocatur. ut si quis tollat hos tres, e g, g f, f h, invenitur m n 291A gnomo,
qui m n gnomo separatur a b e h quadrato. Totus quidem a d quadratus imminutus
est, qui ex tam magno factus est paruus, non tamen formam tetragoni commutavit.
Quod si e h tetragonus solus sit, et ei circumponatur gnomo, qui est m n,
crevit quidem tetragonus, et maior factus est sed non commutatus est. Omnes
enim tetragoni sibi sunt propria qualitate consimiles. Quod si commutatio
huiusmodi motus esset, ut non omnino a superioribus separaretur, nulla esset
dubitatio quin semper oporteret quidquid commutatur secundum aliquem priorum
motuum modum commutari. Ita ut aut nasceretur, aut corrumperetur, aut
minveretur, aut cresceret, aut secundum locum fieret aliqua permutatio. Quod
quoniam non est, ab omnibus superioribus 291B motibus haec motus species
distat. Sed monstratum superius est quinque superiores motus species a se omni
ratione substantia, discrepare. Quocirca distant a se similiter hi sex motus,
atque diversi sunt. SIMPLICITER AUTEM MOTUS QUIETI CONTRARIUS EST; SINGULIS
VERO MOTIBUS, GENERATIONI QUIDEM CORRUPTIO, DIMINUTIO VERO CREMENTO, SECUNDUM
LOCUM TRANSLATIONI SECUNDUM LOCUM QUIES. MAXIME AUTEM VIDETUR OPPONI IN
CONTRARIUM LOCUM PERMUTATIO, UT DE EO QUOD EST DEORSUM AD ID QUOD EST SURSUM ET
DE EO QUOD EST SURSUM AD ID QUOD EST DEORSUM. Nunc iam motuum contrarietates
exsequitur, et ipsi 291D quidem generi, id est motui, dicit quietem esse
contrariam, habet enim motus quietem contrariam. Singulis vero speciebus motuum
motus ipsi contrarii sunt, ut generationi corruptio, et cum generatio sit motus
atque corruptio, utraque tamen sibimet contraria sunt, cremento quoque
diminutio contraria est. Quare diverso modo hae species motus contrarietstem
habent, quam genus dudum babere monstravimus: motus enim ipse habet quietem
contrariam. Specierum vero motibus non quies tantum sed alii motus contrarii
sunt, ut generationi corruptio et cremento diminutio, secundum vero locum
translationis contrarietas similis est generi. Nam et ipsa habet contrariam
secundum locum quietem, contrarium namque est moveri de loco in locum, et 292A
non moveri, et est non moveri quidem secundum locum quies, moveri vero secundum
locum translation. Maxime autem, inquit, secundum locum mutationi, contraria
est in contrarium locum permutatio. Ut si qua res sursum sit atque ibi maneat,
et sit quieta, postea sit ei motus talis, ut deorsum moveatur, quamquam ipsi
superiori motui quies contraria sit, multo magis quidem huiusmodi motus, qui in
contrarium fit locum, illi superiori motui contrarius est. Atque hoc quidem et
in aliis motibus accidit: ut si quis sit ad dexteram, si ei in sinistram motus
sit, in contrarium locum factus dicitur motus. Atque hoc idem id aliis motibus
licet videre; sed Aristoteles dubitat si reliquo motui, id est commutationi,
aliquid possit esse contrarium, quam quaestionem ita proponit: RELIQUO VERO DE
HIS QUI ASSIGNATI SUNT MOTUI NON EST FACILE ASSIGNARE QUID SIT CONTRARIUM,
VIDETUR AUTEM NEQUE ESSE ALIQUID EI CONTRARIUM, NISI QUIS OPPONAT SECUNDUM
QUALITATEM QUIETEM SECUNDUM QUALITATEM TRANSLATIONI QUAE IN CONTRARIUM,
QUEMADMODUM ETIAM IN EA QUAE EST SECUNDUM LOCUM TRANSLATIONE SECUNDUM LOCUM
QUIETEM VEL IN CONTRARIUM LOCUM TRANSLATIONEM (EST ENIM COMMUTATIO TRANSLATIO
SECUNDUM QUALITATEM). Ex similitudine motuum contrarietates quoque colligimus.
Nam quoniam superius motui secundum locum contrariam reperit secundum locum
quietem, et quoniam omnis commutatio quae secundum aliquam passionem fit
secundum qualitatem commutatur, 292C motus eius contrarietatem posuit secundum
qualitatem quietem: ut si lapis cum frigidus est, si ita permaneat, qualitas
illa mansit et quievit, quod si tepeat, qualitas illa commutat est, et est ipsa
commutatio contraria, et factus est quidem motus, et in tepore lapidis secundum
qualitatem facta est permutatio, fuit autem in frigore quies secundum eamdem
qualitatem. Quocirca licet videatur hic motus quidem omnino contrarium non
habere, tamen, sicut superius dictum est secundum locum translationi contrariam
esse secundum locum quietem, cur non quoque secundum qualitatem commutationi
dicatur quies secundum qualitatem esse contraria? Definitio namque
commutationis est translatio secundum qualitatem, cum enim qualitas cuiuslibet
rei movetur, fit translatio, scilicet secundum qualitatem. Quod si maxime
videatur secundum locum translationi esse contraria, non solum secundum locum
quies sed etiam in contrarium locum translatio, secundum qualitatem quoque
mutationi non solum erit contraria secundum qualitatem quies sed maxime in
contrariam qualitatem commutatio: ut ei quid cum est album, si rubrum fiat,
quieti quidem ei quae in albo colore poterat permanere contraria fuit
qualitatis ipsa mutatio, ut ex albo in rubrum mutaretur; si quid enim ex albo
vertatur in nigrum, illud maxime permutatur, et illud superiori mutationi
contrarium est, quoniam permutatum est in contrariam qualitatem. Atque hoc est
quod ait: QUARE OPPONITUR EI SECUNDUM QUALITATEM QUIES VEL IN CONTRARIUM
QUALITATIS TRANSLATIO, UT ALBUM FIERI QUOD EST NIGRUM; COMMUTATUR ENIM, IN
CONTRARIUM QUALITATIS FACTA TRANSLATIONE. Id quoque apertissimo uulgatur
exemplo. Quare quoniam de motibus expeditum est, habendi aequivocationem quae
sequitur explicemus. DE MODIS HABERE HABERE SECUNDUM PLURES MODOS DICITUR AUT
ENIM UT HABITUM VEL AFFECTIONEM VEL ALIAM ALIQUAM QUALITATEM (DICIMUR ENIM
SCIENTIAM HABERE ET VIRTUTEM); AUT UT QUANTITATEM, UT QUAM QUISQUE HABET
MAGNITUDINEM (DICITUR ENIM BICUBITAM VEL TRICUBITAM HABERE MAGNITUDINEM); AUT CIRCA
CORPUS UESTITUM AUT TUNICAM; AUT IN PARTE (UT IN MANU ANULUM); AUT PARTEM (UT
MANUM VEL PEDEM); AUT IN UASE (UT MODIUS TRITICUM VEL DOLIUM VINUM; VINUM ENIM
DOLIUM HABERE DICITUR, ET MODIUS TRITICUM; HAEC IGITUR HABERE DICUNTUR UT IN
VASE); VEL UT POSSESSIONEM (HABERE ENIM DOMUM VEL AGRUM DICIMUR). DICIMUR VERO
ET HABERE UXOREM ET UXOR VIRUM; VIDETUR AUTEM ALIENISSIMUS ESSE HABENDI MODUS
QUI NUNC DICTUS EST; NIHIL ENIM ALIUD HABERE UXOREM SIGNIFICAT QUAM COHABITARE.
FORTASSE AUTEM ET ALII HABENDI MODI vidEBUNTUR; QUI AUTEM SOLENT DICI PAENE
OMNES SUNT ANNUMERATI. Aequivocum esse habendi modum manifestum est, 293C
habere enim ita multis dicitur modis, ut tamen aequivoce praedicetur. Dicimur
enim habere aliquam qualitatem, ut habitum vel dispositionem. Dicimur quoque
habere scientiam vel virtutem; quantitatem quoque habere perhibemur, dicimur
enim in mensura habere quinque vel quattuor pedes. Necnon etiam in ipsis
partibus corporis aliquid, et ipsas partes habere praedicamur, dicimur enim et
habere digitos, et in digito annulos. Circa corpus quoque aliquid habere
dicimur, ut tunicam, vel quodlibet aliud uestimentum. Necnon etiam in uase
haberi aliquid dicitur, ut triticum in modio, et vinum in dolio; haec,
scilicet, ita haberi dicuntur, ut in uase. Dicitur etiam quis habere uxorem,
quae, scilicet significatio nulli supradictae communis est sed (ut ipsi
Aristoteli videtur) longe diversa est haec significatio ab habendi
praedicamento; non enim proprie habemus uxores sed quod habere quis dicatur
uxorem, hoc significat habitare cum eo uxorem, habere enim habitare dicimus, ut
est Socratem habent, id est cum Socrate habitant atque eum colunt. Quare ipse
quoque Aristoteles inquit esse aliquos fortasse praeter eos qui dicantur
habendi modos, hortaturque nos ad ulteriorem aliquam inquisitionem, ut nos
quoque quaeramus per quos, praeter priores dictos modos, alios possit habere
praedicari. Et de hac aequivocatione quidem habendi sufficienter dictum est. Sed
forte quis dubitet cur cum habere superius in genere nominaverit, nunc id ipsum
aequivocum ponat sed haec quaestio ita solvitur. Non absurdum est idem
praedicamentum nunc univoce, nunc aequivoce praedicari. Univoce quidem ut
superius cum eiusdem specierum exempla proposuit, ut est calceatum esse vel
armatum, horum enim talium genus est. Aequivoce vero ut in his modis quos
superius exposuimus. Quod si et habet aliquas proprias species habendi
praedicatio, dicitur autem et ipsum nomen multipliciter, nihil est incongruum
in genere numerari, sufficit enim ad demonstrandum genus esse et habendi
praedicationem quod sub se aliquas partes speciesque contineat. EXPLICIT
FELICITER. Alexander in commentariis suis hac se impulsum causa
pronuntiat sumpsisse longissimum expositionis laborem, quod in multis ille a
priorum scriptorum sententiis dissideret: mihi maior persequendi operis causa
est quod non facile quisquam vel transferendi vel etiam commentandi continuam sumpserit
seriem – nisi quod Vetius Praetextatus priores ƿ postremosque analyticos non
vertendo Aristotelem Latino sermoni tradidit sed transferendo Themistium, quod
qui utrosque legit facile intellegit; Albinus quoque de isdem rebus scripsisse
perhibetur, cuius ego geometricos quidem libros editos scio, de dialectica vero
diu multumque quaesitos reperire non valui, sive igitur ille omnino tacuit, nos
praetermissa dicemus, sive aliquid scripsit, nos quoque docti viri imitati
studium in eadem laude versabimur. Sed quamquam multa sint Aristotelis quae
subtilissima philosophiae arte celata sint, hic tamen ante omnia liber nimis et
acumine sententiarum et verborum brevitate constrictus est. Quocirca plus hic
quam in decem praedicamentis expositione sudabitur. Prius igitur quid vox sit
definiendum est. Hoc enim perspicuo et manifesto omnis libri patefiet intentio.
Vox est aeris per linguam percussio quae per quasdam gutturis partes, quae
arteriae vocantur, ab animali profertur. Sunt enim quidam alii soni, qui eodem perficiuntur
flatu, quos lingua non percutit, ut est tussis. Haec enim flatu fit quodam per
arterias egrediente sed nulla linguae impressione formatur atque ideo nec ullis
subiacet elementis, scribi enim nullo modo potest. Quocirca vox haec non
dicitur sed tantum sonus. Illa quoque potest esse definitio vocis, ut eam
dicamus sonum esse cum quadam imaginatione significandi. Vox namque cum
emittitur, significationis alicuius causa profertur. Tussis vero cum sonus sit,
nullius significationis causa subrepit ƿ potius quam profertur. Quare quoniam
noster flatus ita sese habet ut si ita percutitur atque formatur ut eum lingua
percutiat, vox sit: si ita percutiat ut terminato quodam et circumscripto sono
vox exeat, locutio fit quae Graece dicitur *lexis*. Locutio enim est articulata
vox – neque enim hunc sermonem (id est *lexin*) dictionem dicemus, idcirco quod
*phasin* dictionem interpretamur, *lexin* vero locutionem – cuius locutionis
partes sunt litterae, quae cum iunctae fuerint unam efficiunt vocem coniunctam
compositamque, quae locutio praedicatur. Sive autem aliquid quaecumque vox
significet, ut est hic sermo 'homo'; sive omnino nihil; sive positum alicui
nomen significare possit, ut est 'blityri' (haec enim vox per se cum nihil
significet, posita tamen ut alicui nomen sit significabit); sive per se quidem
nihil significet, cum aliis vero iuncta designet, ut sunt coniunctiones – haec
omnia locutiones vocantur, ut sit propria locutionis forma vox composita quae
litteris describatur. Ut igitur sit locutio, voce opus est – id est eo sono
quem percutit lingua, ut et vox ipsa sit per linguam determinata in eum sonum
qui inscribi litteris possit. Sed ut haec locutio significativa sit, illud
quoque addi oportet, ut sit aliqua significandi imaginatio, per quam id quod in
voce vel in locutione est proferatur: ut certe ita dicendum sit: si in hoc
flatu, quem per arterias emittimus, sit linguae sola percussio, vox est; sin
vero talis percussio sit ut in litteras redigat sonum, locutio; quod si vis
quoque quaedam imaginationis addatur, ƿ illa significativa vox redditur. Concurrentibus
igitur his tribus: linguae percussione, articulato vocis sonitu, imaginatione
aliqua proferendi fit interpretatio. Interpretatio namque est vox articulata
per se ipsam significans. Quocirca non omnis vox interpretatio est. Sunt enim
caeterorum animalium voces, quae interpretationis vocabulo non tenentur. Nec
omnis locutio interpretatio est, idcirco quod (ut dictum est) sunt locutiones
quaedam quae significatione careant et cum per se quaedam non significent,
iunctae tamen cum aliis significant, ut coniunctiones. Interpretatio autem in
solis per se significativis et articulatis vocibus permanet. Quare convertitur,
ut quidquid sit interpretatio, illud significet, quidquid significat, interpretationis
vocabulo nuncupetur. Unde etiam ipse quoque Aristoteles in libris quos de
poetica scripsit locutionis partes esse syllabas vel etiam coniunctiones
tradidit, quarum syllabae in eo quod sunt syllabae nihil omnino significant,
coniunctiones vero consignificare quidem possunt, per se vero nihil designant.
Interpretationis vero partes hoc libro constituit nomen et verbum, quae
scilicet per se ipsa significant, nihilominus quoque orationem, quae et ipsa
cum vox sit ex significativis partibus iuncta significatione non caret. Quare
quoniam non de oratione sola sed etiam de verbo et nomine, nec vero de sola
locutione sed etiam de significativa locutione quae est interpretatio hoc libro
ab Aristotele tractatur, idcirco quoniam in ƿ verbis atque nominibus et in
significativis locutionibus nomen interpretationis aptatur, a communi nomine
eorum, de quibus hoc libro tractabitur, id est ab interpretatione, ipse quoque
"De interpretatione" liber inscriptus est. (Cuius expositionem nos
scilicet quam maxime a Porphyrio quamquam etiam a caeteris transferentes Latina
oratione digessimus; hic enim nobis expositor et intellectus acumine et
sententiarum dispositione videtur excellere.) Erunt ergo interpretationis duae
primae partes nomen et verbum. His enim quidquid est in animi intellectibus
designatur; his namque totus ordo orationis efficitur. Et in quantum vox ipsa
quidem intellectus significat, in duas (ut dictum est) secatur partes, nomen et
verbum, in quantum vero vox per intellectuum medietatem subiectas intellectui
res demonstrat, significantium vocum Aristoteles numerum in decem praedicamenta
partitus est. Atque hoc distat libri huius intentio a praedicamentorum in
denariam multitudinem numerositate collecta, ut hic quidem tantum de numero
significantium vocum quaeratur, quantum ad ipsas attinet voces, quibus
significativis vocibus intellectus animi designentur, quae sunt scilicet
simplicia quidem nomina et verba, ex his vero compositae orationes:
praedicamentorum vero haec intentio est: de significativis rerum vocibus in tantum,
quantum eas medius animi significet intellectus. Vocis enim quaedam qualitas
est nomen et verbum, quae nimirum ipsa illa decem praedicamenta significant.
Decem namque praedicamenta numquam sine aliqua verbi qualitate vel nominis
proferentur. Quare erit libri huius intentio de significativis vocibus in
tantum, quantum conceptiones ƿ animi intellectusque significent. De decem
praedicamentis autem libri intentio in eius commentario dicta est, quoniam sit
de significativis rerum vocibus, quot partibus distribui possit earum
significatio in tantum, quantum per sensuum atque intellectuum medietatem res
subiectas intellectibus voces ipsae valeant designare. In opere vero de poetica
non eodem modo dividit locutionem sed omnes omnino locutionis partes apposuit
confirmans esse locutionis partes elementa, syllabas, coniunctiones, articulos,
nomina, casus, verba, orationes. Locutio namque non in solis significativis
vocibus constat sed supergrediens significationes vocum ad articulatos sonos
usque consistit. Quaelibet enim syllaba vel quodlibet nomen vel quaelibet alia
vox, quae scribi litteris potest, locutionis nomine continetur, quae Graece
dicitur *lexis*. Sed non eodem modo interpretatio. Huic namque non est satis,
ut sit huiusmodi vox quae litteris valeat annotari sed ad hoc ut aliquid quoque
significet. Praedicamentorum vero in hoc ratio constituta est, in quo hae duae
partes interpretationis res intellectibus subiectas designent. Nam quoniam
decem res omnino in omni natura reperiuntur, decem quoque intellectus erunt,
quos intellectus quoniam verba nominaque significant, decem omnino erunt
praedicamenta, quae verbis atque nominibus designentur, duo vero quaedam id est
nomen et verbum, quae ipsos significent intellectus. Sunt igitur elementa
interpretationis verba et nomina, propriae vero partes quibus ipsa constat
interpretatio sunt orationes. Orationum vero aliae sunt perfectae, aliae
imperfectae. Perfectae sunt ex quibus plene id quod dicitur valet intellegi;
imperfectae in quibus aliquid adhuc plenius animus exspectat audire, ut est:
Socrates cum Platone nullo enim addito orationis intellectus pendet ac
titubat et auditor aliquid ultra exspectat audire. Perfectarum vero orationum
partes quinque sunt: deprecativa ut: Iuppiter omnipotens, precibus si flecteris
ullis, Da deinde auxilium, pater atque haec omina firma imperativa ut:
Vade age, nate, voca Zephyros et labere pennis interrogativa ut: Dic
mihi, Damoeta, cuium pecus? An Meliboei? vocativa : O pater, o hominum
rerumque aeterna potestas enuntiativa, in qua veritas vel falsitas
invenitur, ut: Principio arboribus varia est natura serendis. Huius autem
duae partes sunt. Est namque et simplex oratio enuntiativa et composita.
Simplex ut: ‘Dies est’, ‘Lucet’, conposita ut: ‘Si dies est, lux est.’ In hoc
igitur libro Aristoteles de enuntiativa simplici oratione disputat et de eius
elementis, nomine scilicet atque verbo. Quae quoniam et significativa sunt et
significativa vox articulata interpretationis nomine continetur, de communi (ut
dictum est) vocabulo librum de interpretatione appellavit. Et Theophrastus
quidem in eo libro, quem de affirmatione et negatione composuit, de enuntiativa
oratione tractavit. Et Stoici quoque in his libris, quos *Peri axiomaton*
appellant, de isdem ƿ nihilominus disputant. Sed illi quidem et de simplici et
de non simplici oratione enuntiativa speculantur, Aristoteles vero hoc libro
nihil nisi de sola simplici enuntiativa oratione considerat. Aspasius quoque et
Alexander sicut in aliis Aristotelis libris in hoc quoque commentarios
ediderunt sed uterque Aristotelem de oratione tractasse pronuntiat. Nam si
oratione aliquid proferre (ut aiunt ipsi) interpretari est, de interpretatione
liber nimirum veluti de oratione perscriptus est, quasi vero sola oratio ac non
verba quoque et nomina interpretationis vocabulo concludantur. Aeque namque et
oratio et verba ac nomina, quae sunt interpretationis elementa, nomine
interpretationis vocantur. Sed Alexander addidit imperfecte sese habere libri
titulum: neque enim designare, de qua oratione perscripserit. Multae namque (ut
dictum est) sunt orationes; sed adiciendum vel subintellegendum putat de
oratione illum scribere philosophica vel dialectica, id est qua verum falsumque
valeat expediri. Sed qui semel solam orationem interpretationis nomine vocari
recipit, in intellectu quoque ipsius inscriptionis erravit. Cur enim putaret
imperfectum esse titulum, quoniam nihil de qua oratione disputaret adiecerit?
Ut si quis interrogans "Quid est homo?" alio respondente
"Animal" culpet ac dicat imperfecte illum dixisse, quid sit, quoniam
non sit omnes differentias persecutus. Quod si huic, id est homini, sunt
quaedam alia communia ad nomen animalis, nihil tamen impedit perfecte
demonstrasse, quid homo esset, eum qui animal dixit: sive enim differentias
addat quis sive non, hominem animal esse necesse est. Eodem quoque modo et de
oratione, si quis hoc concedat primum, nihil aliud interpretationem dici nisi
orationem, ƿ cur qui de interpretatione inscripserit et de qua interpretatione
dicat non addiderit culpetur, non est. Satis est enim libri titulum etiam de
aliqua continenti communione fecisse, ut nos eum et de nominibus et verbis et
de orationibus, cum haec omnia uno interpretationis nomine continerentur, supra
fecisse docuimus, cum hic liber ab eo de interpretatione notatus est. Sed quod
addidit illam interpretationem solam dici, qua in oratione possit veritas et
falsitas inveniri, ut est enuntiativa oratio, fingentis est (ut ait Porphyrius)
significationem nominis potius quam docentis. Atque ille quidem et in
intentione libri et in titulo falsus est sed non eodem modo de iudicio quoque
libri huius erravit. Andronicus enim librum hunc Aristotelis esse non putat,
quem Alexander vere fortiterque redarguit. Quem cum exactum diligentemque
Aristotelis librorum et iudicem et repertorem iudicarit antiquitas, cur in
huius libri iudicio sit falsus, prorsus est magna admiratione dignissimum. Non
esse namque proprium Aristotelis hinc conatur ostendere, quoniam quaedam
Aristoteles in principio libri huius de intellectibus animi tractat, quos
intellectus animae passiones vocavit, et de his se plenius in libris de anima
disputasse commemorat. Et quoniam passiones animae vocabant vel tristitiam vel
gaudium vel cupiditatem vel alias huiusmodi affectiones, dicit Andronicus ex hoc
probari hunc librum Aristotelis non esse, quod de huiusmodi affectionibus nihil
in libris de anima tractavisset – non intellegens in hoc libro Aristotelem
passiones animae non pro affectibus sed pro intellectibus posuisse. His
Alexander multa alia addit argumenta, cur hoc opus Aristotelis maxime esse
videatur. Ea namque dicuntur hic, quae sententiis Aristotelis quae sunt de
enuntiatione ƿ consentiant; illud quoque, quod stilus ipse propter brevitatem
pressior ab Aristotelis obscuritate non discrepat; et quod Theophrastus, ut in
aliis solet, cum de similibus rebus tractat, quae scilicet ab Aristotele ante
tractata sunt, in libro quoque de affirmatione et negatione, isdem aliquibus
verbis utitur, quibus hoc libro Aristoteles usus est. Idem quoque Theophrastus
dat signum hunc esse Aristotelis librum: in omnibus enim, de quibus ipse
disputat post magistrum, leviter ea tangit quae ab Aristotele dicta ante
cognovit, alias vero diligentius res non ab Aristotele tractatas exsequitur.
Hic quoque idem fecit. Nam quae Aristoteles hoc libro de enuntiatione
tractavit, leviter ab illo transcursa sunt, quae vero magister eius tacuit,
ipse subtiliore modo considerationis adiecit. Addit quoque hanc causam, quoniam
Aristoteles quidem de syllogismis scribere animatus numquam id recte facere
potuisset, nisi quaedam de propositionibus annotaret. Mihi quoque videtur hoc
subtiliter perpendentibus liquere hunc librum ad Analyticos esse praeparatum.
Nam sicut hic de simplici propositione disputat, ita quoque in Analyticis de
simplicibus tantum considerat syllogismis, ut ipsa syllogismorum
propositionumque simplicitas non ad aliud, nisi ad continens opus Aristotelis
pertinere videatur. Quare non est audiendus Andronicus, qui propter passionum
nomen hunc librum ab Aristotelis operibus separat. Aristoteles autem idcirco
passiones animae 'intellectus' vocabat, quod intellectus, quos sermone dicere
et oratione proferre consuevimus, ex aliqua causa atque utilitate profecti
sunt: ut enim dispersi homines colligerentur et legibus vellent esse subiecti
civitatesque condere, utilitas quaedam fuit et causa. Quocirca ƿ quae ex aliqua
utilitate veniunt, ex passione quoque provenire necesse est. Nam ut divina sine
ulla sunt passione, ita nulla illis extrinsecus utilitas valet adiungi. Quae
vero sunt passibilia semper aliquam causam atque utilitatem quibus sustententur
inveniunt. Quocirca huiusmodi intellectus, qui ad alterum oratione proferendi
sunt, quoniam ex aliqua causa atque utilitate videntur esse collecti, recte passiones
animi nominati sunt. Et de intentione quidem et de libri inscriptione et de eo,
quod hic maxime Aristotelis liber esse putandus est, haec dicta sufficiunt. Quid
vero utilitatis habeat, non ignorabit qui sciet qua in oratione veritas constet
et falsitas. In sola enim haec enuntiativa oratione consistunt. Iam vero quae
dividant verum falsumque quaeue definite vel quae varie et mutabiliter
veritatem falsitatemque partiantur, quae iuncta dici possint, cum separata
valeant praedicari, quae separata dicantur, cum iuncta sint praedicata, quae
sint negationes cum modo propositionum, quae earum consequentiae aliaque plura
in ipso opere considerator poterit diligenter agnoscere, quorum magnam
experietur utilitatem qui animum curae alicuius investigationis adverterit. Sed
nunc ad ipsius Aristotelis verba veniamus. [BEGINNING OF SECTION THAT MIGNE
SUBTITLES ‘SIGNUM’ -- Primum oportet CONSTITUERE, QUID NOMEN ET QUID VERBUM,
POSTEA QUID EST NEGATIO ET AFFIRMATIO ET ENUNTIATIO ET ORATIO. Librum inchoans
de quibus in omni serie tractaturus sit ante proposuit. Ait enim prius oportere
de quibus disputaturus est definire. Hic enim CONSTITUERE "definire"
intellegendum est. Determinandum namque est quid haec omnia sint – id est QUID
NOMEN sit, QUID VERBUM et caetera, quae elementa interpretationis esse
praediximus. Sed AFFIRMATIO atque NEGATIO sub interpretatione sunt. Quare nomen
et verbum affirmationis et negationis elementa esse manifestum est. His enim
compositis affirmatio et negatio coniunguntur. Exsistit hic quaedam quaestio
cur duo tantum nomen et verbum se determinare promittat, cum plures partes
orationis esse videantur. Quibus hoc dicendum est tantum Aristotelem hoc libro
definisse, quantum illi ad id quod instituerat tractare suffecit. Tractat
namque de simplici enuntiativa oratione, quae scilicet huiusmodi est ut iunctis
tantum verbis et nominibus componatur. Si quis enim nomen iungat et verbum ut
dicat: Socrates ambulat simplicem fecit enuntiativam orationem.
Enuntiativa namque oratio est (ut supra memoravi) quae habet in se falsi verique
designationem. Sed in hoc quod dicimus "Socrates ambulat" aut veritas
necesse est contineatur aut falsitas. Hoc enim si ambulante Socrate dicitur,
verum est, si non ambulante, falsum. Perficitur ergo enuntiativa oratio simplex
ex solis verbis atque nominibus. Quare superfluum est quaerere cur alias quoque
quae videntur orationis partes non proposuerit, qui non totius simpliciter
orationis sed tantum simplicis enuntiationis instituit elementa partiri.
Quamquam duae propriae partes orationis esse dicendae sint, nomen scilicet
atque verbum. Haec enim per sese utraque significant, coniunctiones autem vel
praepositiones nihil omnino nisi cum aliis iunctae designant; participia verbo
cognata sunt, vel quod a gerundivo modo ƿ veniant vel quod tempus propria
significatione contineant; interiectiones vero atque pronomina necnon adverbia
in nominis loco ponenda sunt, idcirco quod aliquid significant definitum, ubi
nulla est vel passionis significatio vel actionis. Quod si casibus horum
quaedam flecti non possunt, nihil impedit. Sunt enim quaedam nomina quae
"monoptota" nominantur. Quod si quis ista longius et non proxime
petita esse arbitretur, illud tamen concedit, quod supra iam diximus, non esse
aequum calumniari ei, qui non de omni oratione sed de tantum simplici enuntiatione
proponat, quod tantum sibi ad definitionem sumpserit, quantum arbitratus sit
operi instituto sufficere. Quare dicendum est Aristotelem non omnis orationis
partes hoc opere velle definire sed tantum solius simplicis enuntiativae
orationis, quae sunt scilicet nomen et verbum. Argumentum autem huius rei hoc
est. Postquam enim proposuit dicens: PRIMUM OPORTET CONSTITUERE, QUID SIT NOMEN
ET QUID VERBUM, non statim inquit QUID SIT ORATIO sed mox addidit ET QUID SIT
NEGATIO, QUID AFFIRMATIO, QUID ENUNTIATIO, postremo vero QUID ORATIO. Quod si
de omni oratione loqueretur, post nomen et verbum non de affirmatione et
negatione et post hanc de enuntiatione sed mox de oratione dixisset. Nunc vero
quoniam post nominis et verbi propositionem affirmationem, negationem et
enuntiationem et post orationem proposuit, confitendum est, id quod ante
diximus, non orationis universalis sed simplicis enuntiativae orationis, quae
dividitur in affirmationem atque negationem, divisionem partium facere voluisse,
quae sunt nomina et verba. Haec enim per se ipsa intellectum simplicem servant,
ƿ quae eadem dictiones vocantur sed non sola dicuntur. Sunt namque dictiones et
aliae quoque: orationes vel imperfectae vel perfectae, cuius plures esse partes
supra iam docui, inter quas perfectae orationis species est enuntiatio. Et haec
quoque alia simplex, alia composita est. De simplicis vero enuntiationis
speciebus inter philosophos commentatoresque certatur. Aiunt enim quidam
affirmationem atque negationem enuntiationi ut species supponi oportere, in
quibus et Porphyrius est; quidam vero nulla ratione consentiunt sed contendunt
affirmationem et negationem aequivoca esse et uno quidem enuntiationis vocabulo
nuncupari, praedicari autem enuntiationem ad utrasque ut nomen aequivocum, non
ut genus univocum; quorum princeps Alexander est. Quorum contentiones apponere
non videtur inutile. Ac prius quibus modis affirmationem atque negationem non
esse species enuntiationis Alexander putet dicendum est, post vero addam qua
Porphyrius haec argumentatione dissoluerit. Alexander namque idcirco dicit non
esse species enuntiationis affirmationem et negationem, quoniam affirmatio
prior sit. Priorem vero affirmationem idcirco conatur ostendere, quod omnis
negatio affirmationem tollat ac destruat. Quod si ita est, prior est affirmatio
quae subruatur quam negatio quae subruat. In quibus autem prius aliquid et
posterius est, illa sub eodem genere poni non possum, ut in eo titulo
praedicamentorum dictum est qui de his quae sunt simul inscribitur. Amplius: negatio
omnis, inquit, divisio est, affirmatio compositio atque coniunctio. Cum enim
dico: Socrates vivit vitam cum Socrate coniunxi; cum dico: Socrates non
vivit vitam a Socrate disiunxi. Divisio igitur quaedam negatio est,
coniunctio affirmatio. Compositi autem est coniunctique ƿ divisio. Prior est
igitur coniunctio, quod est affirmatio; posterior vero divisio, quod est
negatio. Illud quoque adicit, quod omnis per affirmationem facta enuntiatio
simplicior sit per negationem facta enuntiatione. Ex negatione enim particula
negative si sublata sit, affirmatio sola relinquitur. De eo enim quod est:
Socrates non vivit si non particula quae est adverbium auferatur, remanet
Socrates vivit. Simplicior igitur affirmatio est quam negatio. Prius vero sit
necesse est quod simplicius est. In quantitate etiam quod ad quantitatem minus
est prius est eo quod ad quantitatem plus est. Omnis vero oratio quantitas est.
Sed cum dico: Socrates ambulat minor oratio est quam cum dico: Socrates
non ambulat. Quare si secundum quantitatem affirmatio minor est, eam priorem
quoque esse necesse est. Illud quoque adiunxit affirmationem quendam esse
habitum, negationem vero privationem. Sed prior habitus privatione: affirmatio
igitur negatione prior est. Et ne singula persequi laborem, cum aliis quoque
modis demonstraret affirmationem negatione esse priorem, a communi eas genere
separavit. Nullas enim species arbitratur sub eodem genere esse posse, in
quibus prius vel posterius consideretur. Sed Porphyrius ait sese docuisse
species enuntiationis esse affirmationem et negationem in his commentariis quos
in Theophrastum edidit; hic vero Alexandri argumentationem tali ratione
dissolvit. Ait enim non oportere arbitrari, quaecumque quolibet modo priora
essent aliis, ea sub eodem genere poni non posse sed quaecumque secundum esse
unum atque substantiam priora vel posteriora sunt, ea sola sub eodem genere non
ponuntur. Et recte dicitur. Si enim omne quidquid ƿ prius est cum eo quod
posterius est sub uno genere esse non potest, nec primis substantiis et
secundis commune genus poterit esse substantia; quod qui dicit a recto ordine
rationis exorbitat. Sed quemadmodum quamquam sint primae et secundae
substantiae, tamen utraque aequaliter in subiecto non sunt et idcirco esse
ipsorum ex eo pendet, quod in subiecto non sunt, atque ideo sub uno substantiae
genere collocantur: ita quoque quamquam affirmationes negationibus in orationis
prolatione priores sint, tamen ad esse atque ad naturam propriam aequaliter
enuntiatione participant. Enuntiatio vero est in qua veritas et falsitas
inveniri potest. Qua in re et affirmatio et negatio aequales sunt. Aequaliter
enim et affirmatio et negatio veritate et falsitate participant. Quocirca
quoniam id quod sunt affirmatio et negatio aequaliter ab enuntiatione participant,
a communi eas enuntiationis genere dividi non oportet. Mihi quoque videtur quod
Porphyrii sit sequenda sententia, ut affirmatio et negatio communi
enuntiationis generi supponantur. Longa namque illa et multiplicia Alexandri
argumenta soluta sunt, cum demonstravit non modis omnibus ea quae priora sunt
sub communi genere poni non posse sed quae ad esse proprium atque substantiam
priora sunt illa sola sub communi genere constitui atque poni non posse. Syrianus
vero, cui Philoxenus cognomen est, hoc loco quaerit cur proponens prius de
negatione, post de affirmatione pronuntiaverit dicens: PRIMUM OPORTET
CONSTITUERE, QUID NOMEN ET QUID VERBUM, POSTEA QUID EST NEGATIO ET AFFIRMATIO.
Et primum quidem nihil proprium dixit quoniam in quibus et affirmatio ƿ potest et
negatio provenire, prius esse negatio, postea vero affirmatio potest, ut de
Socrate sanus est. Potest ei aptari talis affirmatio, ut de eo dicatur:
Socrates sanus est etiam huiusmodi potest aptari negatio, ut de eo dicatur:
Socrates sanus non est. Quoniam ergo in eum affirmatio et negatio poterit
evenire prius evenit ut sit negatio quam ut affirmatio. Ante enim quam natus
esset: qui enim natus non erat, nec esse poterat sanus. Huic illud adiecit:
servare Aristotelem conversam propositionis et exsecutionis distributionem. Hic
enim prius post nomen et verbum de negatione proposuit, post de affirmatione,
dehinc de enuntiatione, postremo vero de oratione sed proposita definiens prius
orationem, post enuntiationem, tertio affirmationem, ultimo vero loco negationem
determinavit, quam hic post propositionem verbi et nominis primam locaverat. Ut
igitur ordo servaretur conversus, idcirco negationem prius ait esse propositam.
Qua in expositione Alexandri quoque sententia non discedit. Illud quoque est
additum, quod non esset inutile, enuntiationem genus affirmationis et
negationis accipi oportere, quod quamquam (ut dictum est) ad prolationem prior
esset affirmatio, tamen ad ipsam enuntiationem id est veri falsique vim
utrasque aequaliter sub enuntiatione ab Aristotele constitui. Id etiam
Aristotelem probare. Praemisit enim primam negationem, secundam posuit
affirmationem, quae res nihil habet vitii, si ad ipsam enuntiationem affirmatio
et negatio ponantur aequales. Quae enim natura aequales sunt, nihil retinent
contrarii indifferenter acceptae. Est igitur ordo quo proposuit: primum totius
orationis ƿ elementum, nomen scilicet et verbum, post haec negationem et
affirmationem, quae species enuntiationis sunt. Quorum genus (id est
enuntiationem) tertiam nominavit, quartam vero orationem posuit, quae ipsius
enuntiationis genus est. Et horum se omnium definitiones daturum esse promisit,
quas interim relinquens atque praeteriens et in posteriorem tractatum differens
illud nunc addit quae sint verba et nomina aut quid ipsa significent. Quare
antequam ad verba Aristotelis ipsa veniamus, pauca communiter de nominibus
atque verbis et de his quae significantur a verbis ac nominibus disputemus. Sive
enim quaelibet interrogatio sit atque responsio, sive perpetua cuiuslibet
orationis continuatio atque alterius auditus et intellegentia, sive hic quidem
doceat ille vero discat, tribus his totus orandi ordo perficitur: rebus,
intellectibus, vocibus. Res enim ab intellectu concipitur, vox vero
conceptiones animi intellectusque significat, ipsi vero intellectus et
concipiunt subiectas res et significantur a vocibus. Cum igitur tria sint haec
per quae omnis oratio collocutioque perficitur, res quae subiectae sunt,
intellectus qui res concipiant et rursus a vocibus significentur, voces vero quae
intellectus designent, quartum quoque quiddam est, quo voces ipsae valeant
designari, id autem sunt litterae. Scriptae namque litterae ipsas significant
voces. Quare quatuor ista sunt, ut litterae quidem significent voces, voces
vero intellectus, intellectus autem concipiant res, quae scilicet habent
quandam non confusam neque fortuitam consequentiam sed terminata naturae suae
ordinatione constant. Res enim semper comitantur eum qui ab ipsis concipitur
intellectum, ipsum vero intellectum vox sequitur sed voces elementa id est ƿ
litterae. Rebus enim ante propositis et in propria substantia constitutis
intellectus oriuntur. Rerum enim semper intellectus sunt, quibus iterum
constitutis mox significatio vocis exoritur. Praeter intellectum namque vox
penitus nihil designat. Sed quoniam voces sunt, idcirco litterae, quas vocamus
elementa, repertae sunt quibus vocum qualitas designetur. Ad cognitionem vero
conversim sese res habet. Namque apud quos eaedem sunt litterae et qui eisdem
elementis utuntur, eisdem quoque nominibus eos ac verbis (id est vocibus) uti
necesse est; et qui vocibus eisdem utuntur idem quoque apud eos intellectus in
animi conceptione versantur. Sed apud quos idem intellectus sunt, easdem res
eorum intellectibus subiectas esse manifestum est. Sed hoc nulla ratione
convertitur. Namque apud quos eaedem res sunt idemque intellectus, non statim
eaedem voces eaedemque sunt litterae. Nam cum Romanus, Graecus ac barbarus
simul videant equum, habent quoque de eo eundem intellectum quod equus sit et apud
eos eadem res subiecta est, idem a re ipsa concipitur intellectus sed Graecus
aliter equum vocat, alia quoque vox in equi significatione Romana est et
barbarus ab utroque in equi designatione dissentit. Quocirca diversis quoque
voces proprias elementis inscribunt. Recte igitur dictum est apud quos eaedem
res idemque intellectus sunt, non statim apud eos vel easdem voces vel eadem
elementa consistere. Praecedit autem res intellectum, intellectus vero vocem,
vox litteras – sed hoc converti non potest. Neque enim si litterae sint, mox
aliqua ex his significatio vocis exsistit. Hominibus namque qui litteras
ignorant nullum nomen quaelibet elementa significant, quippe quae nesciunt. Nec
si voces ƿ sint, mox intellectus esse necesse est. Plures enim voces invenies
quae nihil omnino significent. Nec intellectui quoque subiecta res semper est.
Sunt enim intellectus sine re ulla subiecta, ut quos centauros vel chimaeras
poetae finxerunt. Horum enim sunt intellectus quibus subiecta nulla substantia
est. Sed si quis ad naturam redeat eamque consideret diligenter, agnoscet cum
res est, eius quoque esse intellectum quod si non apud homines, certe apud eum,
qui propriae divinitate substantiae in propria natura ipsius rei nihil ignorat.
Et si est intellectus, et vox est quod si vox fuerit, eius quoque sunt
litterae, quae si ignorantur, nihil ad ipsam vocis naturam. Neque enim, quasi
causa quaedam vocum est intellectus aut vox causa litterarum, ut cum eaedem
sint apud aliquos litterae, necesse sit eadem quoque esse nomina: ita quoque
cum eaedem sint vel res vel intellectus apud aliquos, mox necesse est
intellectuum ipsorum vel rerum eadem esse vocabula. Nam cum eadem sit et res et
intellectus hominis, apud diversos tamen homines huiusmodi substantia aliter et
diverso nomine nuncupatur. Quare voces quoque cum eaedem sint, possunt litterae
esse diversae, ut in hoc nomine quod est 'homo': cum unum sit nomen diversis
litteris scribi potest. Namque Latinis litteris scribi potest, potest etiam
Graecis, potest aliis nunc primum inventis litterarum figuris. Quare quoniam
apud quos eaedem res sunt, eosdem intellectus esse necesse est, apud quos idem
intellectus sunt, voces eaedem non sunt; et apud quos eaedem voces sunt, non
necesse ƿ est eadem elementa constitui – dicendum est res et intellectus,
quoniam apud omnes idem sunt, esse naturaliter constitutos, voces vero atque
litteras, quoniam diversis hominum positionibus permutantur non esse
naturaliter sed positione. Concludendum est igitur quoniam apud quos eadem sunt
elementa, apud eos eaedem quoque voces sunt et apud quos eaedem voces sunt,
idem sunt intellectus; apud quos autem idem sunt intellectus, apud eosdem res
quoque eaedem subiectae sunt: rursus apud quos eaedem res sunt, idem quoque
sunt intellectus; apud quos idem intellectus, non eaedem voces; nec apud quos
eaedem voces sunt, eisdem semper litteris verba ipsa vel nomina designantur. Sed
nos in supra dictis sententiis elemento atque littera promiscue usi sumus, quae
autem sit horum distantia paucis absolvam. Littera est inscriptio atque figura
partis minimae vocis articulatae, elementum vero sonus ipsius inscriptionis: ut
cum scribo litteram quae est 'a', formula ipsa quae atramento vel graphio
scribitur littera nominatur, ipse vero sonus quo ipsam litteram voce proferimus
dicitur elementum. Quocirca hoc cognito illud dicendum est, quod is qui docet
vel qui continua oratione loquitur vel qui interrogat, contrarie se habet his
qui vel discunt vel audiunt vel respondent in his tribus, voce scilicet,
intellectu et re (praetermittantur enim litterae propter eos qui earum sunt
expertes). Nam qui docet et qui dicit et qui interrogat a rebus ad intellectum
profecti per nomina et verba vim propriae actionis exercent atque officium
(rebus enim subiectis ab his capiunt intellectus et per nomina verbaque ƿ
pronuntiant), qui vero discit vel qui audit vel etiam qui respondet a nominibus
ad intellectus progressi ad res usque perveniunt. Accipiens enim is qui discit
vel qui audit vel qui respondet docentis vel dicentis vel interrogantis sermonem,
quid unusquisque illorum dicat intellegit et intellegens rerum quoque scientiam
capit et in ea consistit. Recte igitur dictum est in voce, intellectu atque re
contrarie sese habere eos qui docent, dicunt, interrogant atque eos qui discunt,
audiunt et respondent. Cum igitur haec sint quatuor – litterae, voces,
intellectus, res – proxime quidem et principaliter litterae verba nominaque
significant. Haec vero principaliter quidem intellectus, secundo vero loco res
quoque designant. Intellectus vero ipsi nihil aliud nisi rerum significativi
sunt. Antiquiores vero quorum est Plato, Aristoteles, Speusippus, Xenocrates hi
inter res et significationes intellectuum medios sensus ponunt in sensibilibus
rebus vel imaginationes quasdam, in quibus intellectus ipsius origo consistat.
Et nunc quidem quid de hac re Stoici dicant praetermittendum est. Hoc autem ex
his omnibus solum cognosci oportet, quod ea quae sunt in litteris eam
significent orationem quae in voce consistit et ea quae est vocis oratio quod
animi atque intellectus orationem designet quae tacita cogitatione conficitur,
et quod haec intellectus oratio subiectas principaliter res sibi concipiat ac
designet. Ex quibus quatuor duas quidem Aristoteles esse naturaliter dicit, res
et animi conceptiones, id est eam quae fit in intellectibus orationem, idcirco
quod apud omnes eaedem atque immutabiles sint; ƿ duas vero non naturaliter sed
positione constitui, quae sunt scilicet verba nomina et litterae, quas idcirco
naturaliter fixas esse non dicit, quod (ut supra demonstratum est) non eisdem
vocibus omnes aut isdem utantur elementis. Atque hoc est quod ait: SUNT ERGO EA
QUAE SUNT IN VOCE EARUM QUAE SUNT IN ANIMA PASSIONUM NOTAE ET EA QUAE
SCRIBUNTUR EORUM QUAE SUNT IN VOCE. ET QUEMADMODUM NEC LITTERAE OMNIBUS EAEDEM,
SIC NEC VOCES EAEDEM. QUORUM AUTEM HAEC PRIMORUM NOTAE, EAEDEM OMNIBUS
PASSIONES ANIMAE ET QUORUM HAE SIMILITUDINES, RES ETIAM EAEDEM. DE HIS QUIDEM
DICTUM EST IN HIS QUAE SUNT DICTA DE ANIMA, ALTERIUS EST ENIM NEGOTII. Cum
igitur prius posuisset nomen et verbum et quaecumque secutus est postea se
definire promisisset, haec interim praetermittens de passionibus animae deque
earum notis, quae sunt scilicet voces, pauca praemittit. Sed cur hoc ita
interposuerit, plurimi commentatores causas reddere neglexerunt sed a tribus
quantum adhuc sciam ratio huius interpositionis explicita est. Quorum Hermini
quidem a rerum veritate longe disiuncta est. Ait enim idcirco Aristotelen de
notis animae passionum interposuisse sermonem, ut utilitatem propositi operis
inculcaret. Disputaturus enim de vocibus, quae sunt notae animae passionum,
recte de his quaedam ante praemisit. Nam cum suae nullus animae passiones
ignoret, notas quoque cum animae passionibus non nescire utilissimum est. Neque
enim illae cognosci possunt nisi per voces quae sunt ƿ earum scilicet notae. Alexander
vero aliam huiusmodi interpositionis reddidit causam. Quoniam, inquit, verba et
nomina interpretatione simplici continentur, oratio vero ex verbis nominibusque
coniuncta est et in ea iam veritas aut falsitas invenitur, sive autem quilibet
sermo sit simplex sive iam oratio coniuncta atque composita ex his quae
significant momentum sumunt (in illis enim prius est eorum ordo et continentia,
post redundat in voces): quocirca quoniam significantium momentum ex his quae
significantur oritur, idcirco prius nos de his quae voces ipsae significant
docere proponit. Sed Herminus hoc loco repudiandus est. Nihil enim tale quod ad
causam propositae sententiae pertineret explicuit. Alexander vero strictim
proxima intellegentia praeteruectus tetigit quidem causam, non tamen
principalem rationem Aristotelicae propositionis exsolvit. Sed Porphyrius ipsam
plenius causam originemque sermonis huius ante oculos collocavit, qui omnem
apud priscos philosophos de significationis vi contentionem litemque retexuit.
Ait namque dubie apud antiquorum philosophorum sententias constitisse quid
esset proprie quod vocibus significaretur. Putabant namque alii res vocibus
designari earumque vocabula esse ea quae sonarent in vocibus arbitrabantur.
Alii vero incorporeas quasdam naturas meditabantur, quarum essent
significationes quaecumque vocibus designarentur: Platonis aliquo modo species
incorporeas aemulati dicentis hoc ipsum homo et hoc ipsum equus non hanc
cuiuslibet subiectam substantiam sed illum ipsum hominem specialem et illum
ipsum equum, universaliter et incorporaliter cogitantes ƿ incorporales quasdam
naturas constituebant, quas ad significandum primas venire putabant et cum
aliis item rebus in significationibus posse coniungi, ut ex his aliqua
enuntiatio vel oratio conficeretur. Alii vero sensus, alii imaginationes
significari vocibus arbitrabantur. Cum igitur ista esset contentio apud
superiores et haec usque ad Aristotelis pervenisset aetatem, necesse fuit qui
nomen et verbum significativa esset definiturus praediceret quorum ista
designativa sint. Aristoteles enim nominibus et verbis res subiectas
significari non putat, nec vero sensus vel etiam imaginationes. Sensuum quidem
non esse significativas voces nomina et verba in opere de iustitia sic declarat
dicens: *phusei gar euthus dieretai ta te noemata kai ta aisthemata* quod
interpretari Latine potest hoc modo: Natura enim divisa sunt intellectus et
sensus. Differre igitur aliquid arbitratur sensum atque intellectum. Sed qui
passiones animae a vocibus significari dicit, is non de sensibus loquitur.
Sensus enim corporis passiones sunt. Si igitur ita dixisset passiones corporis
a vocibus significari, tunc merito sensus intellegeremus. Sed quoniam passiones
animae nomina et verba significare proposuit, non sensus sed intellectus eum
dicere putandum est. Sed quoniam imaginatio quoque res animae est, dubitaverit
aliquis ne forte passiones animae imaginationes, ƿ quas Graeci *phantasias*
nominant, dicat. Sed haec in libris De anima verissime diligentissimeque
separavit, dicens:*estin de phantasia heteron phaseos kai apophaseos; symploke
gar noematon estin to alethes kai to pseudos. ta de prota noemata ti dioisei
tou me phantasmata einai; e houde tauta phantasmata, all' ouk aneu phantasmaton.*
quod sic interpretamur: Est autem imaginatio diversa affirmatione et negatione;
complexio namque intellectuum est veritas et falsitas. Primi vero intellectus
quid discrepabunt, ut non sint imaginationes? An certe neque haec sunt
imaginationes sed sine imaginationibus non sunt. Quae sententia demonstrat
aliud quidem esse imaginationes, aliud intellectus; ex intellectuum quidem
complexione affirmationes fieri et negationes: quocirca illud quoque dubitavit,
utrum primi intellectus imaginationes quaedam essent. Primos autem intellectus
dicimus qui simplicem rem concipiunt, ut si qui dicat "Socrates"
solum dubitatque utrum huiusmodi intellectus, qui in se nihil neque veri
continet neque falsi, intellectus sit an ipsius Socratis imaginatio. Sed de hoc
quoque aperte quid videretur ostendit. Ait enim an certe neque haec sunt
imaginationes sed non sine imaginationibus sunt – id est quod hic sermo
significat qui est "Socrates" vel alius simplex non est quidem
imaginatio sed intellectus, qui intellectus praeter imaginationem fieri non
potest. Sensus enim atque imaginatio ƿ quaedam primae figurae sunt, supra quas
velut fundamento quodam superveniens intellegentia nitatur. Nam sicut pictores
solent designare lineatim corpus atque substernere ubi coloribus cuiuslibet exprimant
uultum, sic sensus atque imaginatio naturaliter in animae perceptione
substernitur. Nam cum res aliqua sub sensum vel sub cogitationem cadit, prius
eius quaedam necesse est imaginatio nascatur, post vero plenior superveniat
intellectus cunctas eius explicans partes quae confuse fuerant imaginatione
praesumptae. Quocirca imperfectum quiddam est imaginatio, nomina vero et verba
non curta quaedam sed perfecta significant. Quare recta Aristotelis sententia
est: quaecumque in verbis nominibusque versantur, ea neque sensus neque
imaginationes sed solam significare intellectuum qualitatem. Unde illud quoque
ab Aristotele fluentes Peripatetici rectissime posuerunt tres esse orationes,
unam quae scribi possit elementis, alteram quae voce proferri, tertiam quae
cogitatione conecti unamque intellectibus, alteram voce, tertiam litteris
contineri. Quocirca quoniam id quod significaretur a vocibus intellectus esse
Aristoteles putabat, nomina vero et verba significativa esse in eorum erat
definitionibus positurus, recte quorum essent significativa praedixit
erroremque lectoris ex multiplici ueterum lite venientem sententiae suae
manifestatione compescuit. Atque hoc modo nihil in eo deprehenditur esse
superfluum, nihil ab ordinis continuatione seiunctum. Quaerit vero Porphyrius,
cur ita dixerit: SUNT ERGO EA QUAE SUNT IN VOCE, et non sic: sunt ƿ igitur
voces; et rursus cur ita et ea quae scribuntur et non dixerit: et litterae. Quod
resolvit hoc modo. Dictum est tres esse apud Peripateticos orationes, unam quae
litteris scriberetur, aliam quae proferretur in voce, tertiam quae
coninugeretur in animo. Quod si tres orationes sunt, partes quoque orationis
esse triplices nulla dubitatio est. Quare quoniam verbum et nomen principaliter
orationis partes sunt, erunt alia verba et nomina quae scribantur, alia quae
dicantur, alia quae tacita mente tractentur. Ergo quoniam proposuit dicens:
PRIMUM OPORTET CONSTITUERE QUID NOMEN ET QUID VERBUM, triplex autem nominum
natura est atque verborum, de quibus potissimum proposuerit et quae definire
velit ostendit. Et quoniam de his nominibus loquitur ac verbis, quae voce
proferuntur, idem ipsum planius explicans ait: SUNT ERGO EA QUAE SUNT IN VOCE
EARUM QUAE SUNT IN ANIMA PASSIONUM NOTAE ET EA QUAE SCRIBUNTUR EORUM QUAE SUNT
IN VOCE, velut si diceret: ea verba et nomina quae in vocali oratione
proferuntur animae passiones denuntiant, illa autem rursus verba et nomina quae
scribuntur eorum verborum nominumque significantiae praesunt quae voce
proferuntur. Nam sicut vocalis orationis verba et nomina conceptiones animi
intellectusque significant, ita quoque verba et nomina illa quae in solis
litterarum formulis iacent illorum verborum et nominum significativa sunt quae
loquimur, id est quae per vocem sonamus nam quod ait: SUNT ERGO EA QUAE SUNT IN
VOCE; subaudiendum est verba et nomina. Et rursus cum dicit: ET EA QUAE
SCRIBUNTUR, idem subuectendum rursus est verba scilicet vel nomina. Et quod
rursus ƿ adiecit: eorum quae sunt in voce, addendum eorum nomimum atque
verborum quae profert atque explicat vocalis oratio. Quod si nihil deesset
omnino, ita foret totius plenitudo sententiae: sunt ergo ea verba et nomina
quae sunt in voce earum quae sunt in anima passionum notae et ea verba et
nomina quae scribuntur eorum verborum et nominum quae sunt in voce. Quod
communiter intellegendum est, licet ea quae subiunximus deesse videantur. Quare
non est disiuncta sententia sed primae propositioni continua. Nam cum quid sit
verbum, quid nomen definire constituit, cum nominis et verbi natura sit
multiplex, de quo verbo et nomine tractare vellet clara significatione
distinxit. Incipiens igitur ab his nominibus ac verbis quae in voce sunt,
quorum essent significativa disseruit. Ait enim haec passiones animae
designare. Illud quoque adiecit quibus ipsa verba et nomina quae in voce sunt
designentur, his scilicet quae litterarum formulis exprimuntur. Sed quoniam non
omnis vox significativa est, verba vero vel nomina numquam significationibus
uacant quoniamque non omnis vox quae significat quaedam positione designat sed quaedam
naturaliter, ut lacrimae, gemitus atque maeror (animalium quoque caeterorum
quaedam voces naturaliter aliquid ostentant, ut ex canum latratibus iracundia
eorumque alia quadam voce blandimenta monstrantur), verba autem et nomina
positione significant neque solum sunt verba et nomina voces sed voces
significativae nec solum significativae sed etiam quae positione designent
aliquid, non natura: non dixit: sunt igitur voces earum quae sunt in anima
passionum notae. Namque neque omnis vox significativa ƿ est et sunt quaedam
significativae quae naturaliter non positione significent. Quod si ita
dixisset, nihil ad proprietatem verborum et nominum pertineret. Quocirca noluit
communiter dicere voces sed dixit tantum ea quae sunt in voce. Vox enim
universale quiddam est, nomina vero et verba partes. Pars autem omnis in toto
est. Verba ergo et nomina quoniam sunt intra vocem, recte dictum est ea quae
sunt in voce, velut si diceret: quae intra vocem continentur intellectuum
designativa sunt. Sed hoc simile est ac si ita dixisset: vox certo modo sese
habens significat intellectus. Non enim (ut dictum est) nomen et verbum voces
tantum sunt. Sicut nummus quoque non solum aes impressum quadam figura est, ut
nummus vocetur sed etiam ut alicuius rei sit pretium: eodem quoque modo verba
et nomina non solum voces sunt sed positae ad quandam intellectuum
significationem. Vox enim quae nihil designat, ut est garalus, licet eam
grammatici figuram vocis intuentes nomen esse contendant, tamen eam nomen
philosophia non putabit, nisi sit posita ut designare animi aliquam
conceptionem eoque modo rerum aliquid possit. Etenim nomen alicuius nomen esse
necesse erit; sed si vox aliqua nihil designat, nullius nomen est; quare si
nullius est, ne nomen quidem esse dicetur. Atque ideo huiusmodi vox id est
significativa non vox tantum sed verbum vocatur aut nomen, quemadmodum nummus
non aes sed proprio nomine nummus, quo ab alio aere discrepet, nuncupatur. Ergo
haec Aristotelis sententia qua ait ea quae sunt in voce nihil aliud designat
nisi eam vocem, quae non solum vox sit sed quae cum vox sit habeat tamen
aliquam proprietatem et ƿ aliquam quodammodo figuram positae signicationis
impressam. Horum vero id est verborum et nominum quae sunt in voce aliquo modo
se habente ea sunt scilicet significativa quae scribuntur, ut hoc quod dictum
est quae scribuntur de verbis ac nominibus dictum quae sunt in litteris
intellegatur. Potest vero haec quoque esse ratio cur dixerit et quae
scribuntur: quoniam litteras et inscriptas figuras et voces, quae isdem
significantur formulis, nuncupamus (ut a et ipse sonus litterae nomen capit et
illa quae in subiecto cerae vocem significans forma describitur), designare
volens, quibus verbis atque nominibus ea quae in voce sunt apparerent, non
dixit litteras, quod ad sonos etiam referri potuit litterarum sed ait quae
scribuntur, ut ostenderet de his litteris dicere quae in scriptione
consisterent id est quarum figura vel in cera stilo vel in membrana calamo
posset effingi. Alioquin illa iam quae in sonis sunt ad ea nomina referuntur
quae in voce sunt, quoniam sonis illis nomina et verba iunguntur. Sed
Porphyrius de utraque expositione iudicavit dicens: id quod ait ET QUAE
SCRIBUNTUR non potius ad litteras sed ad verba et nomina quae posita sunt in
litterarum inscriptione referendum. Restat igitur ut illud quoque addamus, cur
non ita dixerit: sunt ergo ea quae sunt in voces intellectuum notae sed ita
earum quae sunt in anima passionum notae. Nam cum ea quae sunt in voce res
intellectusque significent, principaliter quidem intellectus, res vero quas
ipsa intellegentia comprehendit secundaria significatione per intellectuum
medietatem, intellectus ipsi non sine quibusdam passionibus sunt, quae in
animam ex subiectis veniunt rebus. Passus enim quilibet eius rei proprietatem, ƿ
quam intellectu complectitur, ad eius enuntiationem designationemque contendit.
Cum enim quis aliquam rem intellegit, prius imaginatione formam necesse est
intellectae rei proprietatemque suscipiat et fiat vel passio vel cum passione
quadam intellectus perceptio. Hac vero posita atque in mentis sedibus collocata
fit indicandae ad alterum passionis voluntas, cui actus quidam continuandae
intellegentiae protinus ex intimae rationis potestate supervenit, quem scilicet
explicat et effundit oratio nitens ea quae primitus in mente fundata est
passione, sive, quod est verius, significatione progressa oratione progrediente
simul et significantis se orationis motibus adaequante. Fit vero haec passio
velut figurae alicuius impressio sed ita ut in animo fieri consuevit. Aliter
namque naturaliter inest in re qualibet propria figura, aliter vero eius ad
animum forma transfertur, velut non eodem modo cerae vel marmori vel chartis
litterae id est vocum signa mandantur. Et imaginationem Stoici a rebus in
animam translatam loquuntur sed cum adiectione semper dicentes ut in anima.
Quocirca cum omnis animae passio rei quaedam videatur esse proprietas, porro
autem designativae voces intellectuum principaliter, rerum dehinc a quibus
intellectus profecti sunt significatione nitantur, quidquid est in vocibus
significativum, id animae passiones designat. Sed hae passiones animarum ex
rerum similitudine procreantur. Videns ƿ namque aliquis sphaeram vel quadratum
vel quamlibet aliam rerum figuram eam in animi intellegentia quadam vi ac
similitudine capit. Nam qui sphaeram viderit, eius similitudinem in animo
perpendit et cogitat atque eius in animo quandam passus imaginem id cuius
imaginem patitur agnoscit. Omnis vero imago rei cuius imago est similitudinem
tenet: mens igitur cum intellegit, rerum similitudinem comprehendit. Unde fit
ut, cum duorum corporum maius unum, minus alterum contuemur, a sensu postea
remotis corporibus illa ipsa corpora cogitantes illud quoque memoria servante
noverimus sciamusque quod minus, quod vero maius corpus fuisse conspeximus,
quod nullatenus eveniret, nisi quas semel mens passa est rerum similitudines
optineret. Quare quoniam passiones animae quas intellectus vocavit rerum
quaedam similitudines sunt, idcirco Aristoteles, cum paulo post de passionibus
animae loqueretur, continenti ordine ad similitudines transitum fecit, quoniam
nihil differt utrum passiones diceret an similitudines. Eadem namque res in
anima quidem passio est, rei vero similitudo. Et Alexander hunc locum: SUNT
ERGO EA QUAE SUNT IN VOCE EARUM QUAE SUNT IN ANIMA PASSIONUM NOTAE ET EA QUAE
SCRIBUNTUR EORUM QUAE SUNT IN VOCE. ET QUEMADMODUM NEC LITTERAE OMNIBUS EAEDEM,
SIC NEC VOCES EAEDEM hoc modo conatur exponere: proposuit, inquit, ea quae sunt
in voce intellectus animi designare et hoc alio probat exemplo. Eodem modo enim
ea quae sunt in voce passiones animae significant, quemadmodum ea quae
scribuntur voces designant, ut id quod ait et ea quae ƿ scribuntur ita
intellegamus, tamquam si diceret: quemadmodum etiam ea quae scribuntur eorum quae
sunt in voce. Ea vero quae scribuntur, inquit Alexander, notas esse vocum id
est nominum ac verborum ex hoc monstravit quod diceret et quemadmodum nec
litterae omnibus eaedem, sic nec voces eaedem. Signum namque est vocum ipsarum
significationem litteris contineri, quod ubi variae sunt litterae et non eadem
quae scribuntur varias quoque voces esse necesse est. Haec Alexander. Porphyrius
vero quoniam tres proposuit orationes, unam quae litteris contineretur,
secundam quae verbis ac nominibus personaret, tertiam quam mentis euolueret
intellectus, id Aristotelem significare pronuntiat, cum dicit: SUNT ERGO EA
QUAE SUNT IN VOCE EARUM QUAE SUNT IN ANIMA PASSIONUM NOTAE, quod ostenderet si
ita dixisset: sunt ergo ea quae sunt in voce et verba et nomina animae passionum
notae. Et quoniam monstravit quorum essent voces significativae, illud quoque
docuisse quibus signis verba vel nomina panderentur ideoque addidisse et ea
quae scribuntur eorum quae sunt in voce, tamquam si diceret: ea quae scribuntur
verba et nomina eorum quae sunt in voce verborum et nominum notae sunt. Nec
disiunctam esse sententiam nec (ut Alexander putat) id quod ait: ET EA QUAE
SCRIBUNTUR ita intellegendum, tamquam si diceret: sicut ea quae scribuntur id
est litterae illa quae sunt in voce significant, ita ea quae sunt in voce notas
esse animae passionum. Primo quod ad simplicem sensum nihil addi oportet,
deinde tam brevis ordo tamque necessaria orationis non est intercidenda
partitio, tertium vero quoniam, si similis significatio est litterarum
vocumque, ƿ quae est vocum et animae passionum, oportet sicut voces diversis
litteris permutantur, ita quoque passiones animae diversis vocibus permutari,
quod non fit. Idem namque intellectus variatis potest vocibus significari. Sed
Alexander id quod eum superius sensisse memoravi hoc probare nititur argumento.
Ait enim etiam in hoc quoque similem esse significationem litterarum ac vocum,
quoniam sicut litterae non naturaliter voces sed positione significant, ita
quoque voces non naturaliter intellectus animi sed aliqua positione designant.
Sed qui prius recepit, ut id quod Aristoteles ait: ET EA QUAE SCRIBUNTUR ita
dictum esset, tamquam si diceret: sicut ea quae scribuntur, quidquid ad hanc
sententiam videtur adiungere, aequaliter non dubitatur errare. Quocirca nostro
indicio qui rectius tenere volent Porphyrii se sententiis applicabunt. Aspasius
quoque secundae sententiae Alexandri, quam supra posuimus, valde consentit, qui
a nobis in eodem quo Alexander errore culpabitur. Aristoteles vero duobus modis
esse has notas putat litterarum, vocum passionumque animae constitutas: uno
quidem positione, alio vero naturaliter. Atque hoc est quod ait: et quemadmodum
nec litterae omnibus eaedem, sic nec voces eaedem. Nam si litterae voces, ipsae
vero voces intellectus animi naturaliter designarent, omnes homines isdem
litteris, isdem etiam vocibus uterentur. Quod quoniam apud omnes neque eaedem
litterae neque eacdem voces sunt, constat eas non esse naturales.Sed hic duplex
lectio est. Alexander enim hoc modo legi putat oportere: QUORUM AUTEM HAEC
PRIMORUM NOTAE, EAEDEM OMNIBUS PASSIONES ANIMAE ET QUORUM EAEDEM SIMILITUDINES,
RES ETIAM EAEDEM. Volens enim Aristoteles ea quae positione significant ab his
quae aliquid designant naturaliter segregare hoc interposuit: ea quae positione
significant varia esse, ea vero quae naturaliter apud omnes eadem. Et inchoans
quidem a vocibus ad litteras venit easque primo non esse naturaliter
significativas demonstrat dicens: ET QUEMADMODUM NEC LITTERAE OMNIBUS EAEDEM,
SIC NEC VOCES EAEDEM. Nam si idcirco probantur litterae non esse naturaliter
significantes, quod apud alios aliae sint ac diversae, eodem quoque modo
probabile erit voces quoque non naturaliter significare, quoniam singulae
hominum gentes non eisdem inter se vocibus colloquantur. Volens vero
similitudinem intellectuum rerumque subiectarum docere naturaliter constitutam
ait: QUORUM AUTEM HAEC PRIMORUM NOTAE, EAEDEM OMNIBUS PASSIONES ANIMAE. Quorum,
inquit, voces quae apud diversas gentes ipsae quoque diversae sunt significationem
retinent, quae scilicet sunt animae passiones, illae apud omnes eaedem sunt.
Neque enim fieri potest, ut quod apud Romanos homo intellegitur lapis apud
barbaros intellegatur. Eodem quoque modo de caeteris rebus. Ergo huiusmodi
sententia est, qua dicit ea quae voces significent apud omnes hominum gentes
non mutari, ut ipsae quidem voces, sicut supra monstravit cum dixit QUEMADMODUM
NEC LITTERAE OMNIBUS EAEDEM, SIC NEC VOCES EAEDEM, apud plures diversae sint,
illud vero quod voses ipsae significant apud omnes homines idem sit nec ulla
ratione ƿ valeat permutari, qui sunt scilicet intellectus rerum, qui quoniam
naturaliter sunt permutari non possunt. Atque hoc est quod ait: QUORUM AUTEM
HAEC PRIMORUM NOTAE, id est voces, EAEDEM OMNIBUS PASSIONES ANIMAE, ut
demonstraret voces quidem esse diversas, QUORUM autem ipsae voces
significativae essent, quae sunt scilicet animae passiones, EASDEM APUD OMNES
esse nec ulla ratione, quoniam sunt constitutae naturaliter, permutari. Nec
vero in hoc constitit, ut de solis vocibus atque intellectibus loqueretur sed
quoniam voces atque litteras non esse naturaliter constitutas per id
significavit, quod eas non apud omnes easdem esse proposuit, rursus intellectus
quos animae passiones vocat per hoc esse naturales ostendit, quod apud omnes
idem sint, a quibus id est intellectibus ad res transitum fecit. Ait enim
QUORUM HAE SIMILITUDINES, res etiam eaedem hoc scilicet sentiens, quod res
quoque naturaliter apud omnes homines essent eaedem: sicut ipsae animae
passiones quae ex rebus sumuntur APUD OMNES homines EAEDEM sunt, ita quoque
etiam ipsae res quarum similitudines sunt animae passiones eaedem apud omnes
sunt. Quocirca quoque naturales sunt, sicut sunt etiam rerum similitudines,
quae sunt animae passiones. Herminus vero huic est expositioni contrarius.
Dicit enim non esse verum eosdem apud omnes homines esse intellectus, quorum
voces significativae sint. Quid enim, inquit, in aequivocatione dicetur, ubi
unus idemque vocis modus plura significat? Sed magis hanc lectionem veram putat,
ut ita sit: QUORUM AUTEM HAEC PRIMORUM NOTAE, HAE OMNIBUS PASSIONES ANIMAE ET
QUORUM HAE SIMILITUDINES, RES ETIAM HAE: ut demonstratio videatur ƿ quorum
voces significativae sint vel quorum passiones animae similitudines. Et hoc
simpliciter accipiendum est secundum Herminum, ut ita dicamus quorum voces
significativae sunt, illae sunt animae passmnes, tamquam diceret: animae
passiones sunt, quas significant voces, et rursus quorum sunt similitudines ea
quae intellectibus continentur, illae sunt res, tamquam si dixisset: res sunt
quas significant intellectus. Sed Porphyrius de utrisque acute subtiliterque
iudicat et Alexandri magis sententiam probat, hoc quod dicat non debere
dissimulari de multiplici aequivocationis significatione. Nam et qui dicit ad unam
quamlibet rem commodat animum, scilicet quam intellegens voce declarat, et unum
rursus intellectum quemlibet is qui audit exspectat. Quod si, cum uterque ex
uno nomine res diversas intellegunt, ille qui nomen aequivocum dixit designet
clarius, quid illo nomine significare voluerit, accipit mox qui audit et ad
uuum intellectum utrique conveniunt, qui rursus fit unus apud eosdem illos apud
quos primo diversae fuerant animae passiones propter aequivocationem nominis.
Neque enim fieri potest, ut qui voces positione significantes a natura eo
distinxerit quod easdem apud omnes esse non diceret, eas res quas esse
naturaliter proponebat non eo tales esse monstraret, quod apud omnes easdem
esse contenderet. Quocirca Alexander vel propria sententia vel Porphyrii auctoritate
probandus est. Sed quoniam ita dixit Aristoteles QUORUM AUTEM HAEC PRIMORUM
NOTAE, EAEDEM OMNIBUS PASSIONES ANIMAE sunt, quaerit Alexander: ƿ si rerum
nomina sunt, quid causae est ut primorum intellectuum notas esse voces diceret
Aristoteles? Rei enim ponitur nomen, ut cum dicimus homo significamus quidem
intellectum, rei tamen nomen est id est animalis rationalis mortalis. Cur ergo
non primarum magis rerum notae sint voces quibus ponuntur potius quam
intellectuum? Sed fortasse quidem ob hoc dictum est, inquit, quod licet voces
rerum nomina sint, tamen non idcirco utimur vocibus, ut res significemus sed ut
eas quae ex rebus nobis innatae sunt animae passiones. Quocirca propter quorum
significantiam voces ipsae proferuntur, recte eorum primorum esse dixit notas. In
hoc vero Aspasius permolestus est. Ait enim: qui fieri potest, ut eaedem apud
omnes passiones animae sint, cum tam diversa sententia de iusto ac bono sit?
Arbitratur Aristotelem passiones animae non de rebus incorporalibus sed de his
tantum quae sensibus capi possunt passiones animae dixisse. Quod perfalsum est.
Neque enim intellexisse dicetur, qui fallitur, et fortasse quidem passionem
animi habuisse dicetur, quicumque id quod est bonum non eodem modo quo est sed
aliter arbitratur, intellexisse vero non dicitur. Aristoteles autem cum de
similitudine loquitur, de intellectu pronuntiat. Neque enim fieri potest, ut
qui quod bonum est malum esse arbitratur boni similitudinem mente conceperit.
Neque enim intellexit rem subiectam. Sed quae sunt iusta ac bona ad positionem
omnia nuturamue referuntur. Et si de iusto ac bono ita loquitur, ut de eo quod
civile ius aut civilis iniuria ƿ dicitur, recte non eaedem sunt passiones
animae quoniam civile ius et civile bonum positione est, non natura. Naturale
vero bonum atque iustum apud omnes gentes idem est. Et de deo quoque idem:
cuius quamuis diversa cultura sit, idem tamen cuiusdam eminentissimae naturae
est intellectus. Quare repetendum breviter a principio est. partibus enim ad
orationem usque pervenit: nam quod se prius quid esset verbum, quid nomen
constituere dixit, hae minimae orationis partes sunt; quod vero affirmationem
et negationem, iam de composita ex verbis et nominibus oratione loquitur, quae
eaedem rursus partes sunt enuntiationis. Et post enuntiationis propositionem de
oratione loqui proposuit, cuius ipsa quoque enuntiatio pars est. Et quoniam (ut
dictum est) triplex est oratio, quae in litteris, quae in voce, quae in
intellectibus est, qui verbum et nomen definiturus esset eaque significativa
positurus, dicit prius quorum significativa sint ipsa verba et nomina et
inchoat quidem ab his nominibus et verbis quae sunt in voce dicens: SUNT ERGO
EA QUAE SUNT IN VOCE et demonstrat quorum sint significativa adiciens EARUM
QUAE SUNT IN ANIMA PASSIONUM NOTAE. Rursus nominum ipsorum verborumque quae in
voce sunt ea verba et nomina quae essent in litteris constituta significativa
esse declarat dicens ET EA QUAE SCRIBUNTUR EORUM QUAE SUNT IN VOCE. Et quoniam
quatuor ista quaedam sunt: litterae, voces, intellectus, res, quorum litterae
et voces positione sunt, natura vero res atque intellectus, demonstravit voces
non esse naturaliter sed positione per hoc quod ait non easdem esse apud omnes
sed varias, ut est ET QUEMADMODUM NEC ƿ LITTERAE OMNIBUS EAEDEM, SIC NEC VOCES
EAEDEM. Ut vero demonstraret intellectus et res esse naturaliter, ait apud
omnes eosdem esse intellectus, quorum essent voces significativae, et rursus
apud omnes easdem esse res, quarum similitudines essent animae passiones, ut
est QUORUM AUTEM HAEC PRIMORUM NOTAE, SCILICET QUAE SUNT IN VOCE, EAEDEM
OMNIBUS PASSIONES ANIMAE ET QUORUM HAE SIMILITUDINES, RES ETIAM EAEDEM.
Passiones autem animae dixit, quoniam alias diligenter ostensum est omnem vocem
animalis aut ex passione animae aut propter passionem proferri. Similitudinem
vero passionem animae vocavit, quod secundum Aristotelem nihil aliud
intellegere nisi cuiuslibet subiectae rei proprietatem atque imaginationem in
animae ipsms reputatione suscipere, de quibus animae passionibus in libris se
de anima commemorat diligentius disputasse. Sed quoniam demonstratum est,
quoniam et verba et nomina et oratio intellectuum principaliter significativa
sunt, quidquid est in voce significationis ab intellectibus venit. Quare prius
paululum de intellectibus perspiciendum ei qui recte aliquid de vocibus
disputabit. Ergo quod supra passiones animae et similitudines vocavit, idem
nunc apertius intellectum vocat dicens: EST AUTEM, QUEMADMODUM IN ANIMA
ALIQUOTIENS QUIDEM INTELLECTUS SINE VERO VEL FALSO, ALIQUOTIENS AUTEM CUI IAM
NECESSE EST HORUM ALTERUM INESSE, SIC ETIAM IN VOCE; CIRCA COMPOSITIONEM ENIM
ET DIVISIONEM EST FALSITAS VERITASQUE NOMINA IGITUR IPSA ET VERBA CONSIMILIA
SUNT SINE COMPOSITIONE VEL DIVISIONE INTELLECTUI, UT HOMO VEL ALBUM, QUANDO NON
ADDITUR ALIQUID, NEQUE ENIM ADHUC VERUM AUT FALSUM S EST. HUIUS AUTEM SIGNUM
HOC EST: HIRCOCERVUS ENIM SIGNIFICAT ALIQUID SED NONDUM VERUM VEL FALSUM, SI
NON VEL ESSE VEL NON ESSE ADDATUR, VEL SIMPLICITER VEL SECUNDUM TEMPUS. Quoniam
nomen et verbum atque omnis oratio significativa sunt animae passionum, ex
ipsis sine dubio quae designant in eisdem vocibus proprietas significationis
innascitur hic vero est totus atque continuus Aristotelicae ordo sententiae:
quoniam, inquit, ea primum vocibus significantur quae animo et cogitatione
versamus, intellectuum vero alios quidem simplices et sine veri vel falsi
enuntiatione perpendimus, ut cum nobis hominis proprietas tacita imaginatione
suggeritur (nulla namque ex hac intellegentiae simplicitate vel veritatis nascitur
vel falsitatis agnitio), sunt vero intellectus quidam compositi atque conioncti
in quibus inest iam quaedam veritatis vel falsitatis inspectio, ut cum ad
quamlibet simplicem perceptionem mentis adinugitur aliud quod esse aliquid vel
non esse constituat, ut si ad hominis intellectum esse vel non esse vel album
esse vel album non esse copuletur (fient enim cogitabiles orationes veritatis
vel falsitatis participes hoc modo: homo est, homo non est, homo albus est,
homo albus non est, quarum quidem homo est vel homo albus est compositione
dicitur. Nam prior esse atque hominem, posterior hominem albo composita
intellectus praedicatione conectit): sin vero ad hominis intellectum adiciam
quiddam, ut ita sit homo ƿ est vel non est vel albus est aut aliquid tale, tunc
in ipsa cogitatione veritas aut falsitas nascitur: ergo, inquit, quemadmodum
aliquotiens quidam simplices intellectus sunt, qui vero falsoque careant,
quidam vero in quibus horum alterum reperiatur, sic etiam et in voce. Nam quae
voces denuntiant simplices intellectus, ipsae quoque a falsitate et veritate
seiunctae sunt, quae vero huiusmodi significant intellectus in quibus iam vel
veritas vel falsitas constituta est, in ipsis quoque horum alterum inveniri
necesse est. Nam si quis hoc solum dicat HOMO vel ALBUM vel etiam HIRCOCERVUS,
quamquam ista quiddam significent, quoniam tamen significant simplicem
intellectum, manifestum est omni veritatis vel falsitatis proprietate carere.
Et tota quidem sententia se hoc modo habet. Diligentius tamen est attendendum
quid est quod ait: CIRCA COMPOSITIONEM ENIM ET DIVISIONEM EST FALSITAS
VERITASQUE; quid etiam quod dictum est: NOMINA IGITUR IPSA ET VERBA CONSIMILIA
SUNT SINE COMPOSITIONE VEL DIVISIONE INTELLECTUI; illud quoque; cur composito
nomine vel cur etiam usus est non rei subsistentis exemplo, ut diceret
HIRCOCERVUS ENIM SIGNIFICAT ALIQUID. Nec illud praetereundum est quid est quod
dictum sit VEL SIMPLICITER VEL SECUNDUM TEMPUS. Et primum quidem de eo dicendum
est quod ait: CIRCA COMPOSITIONEM ENIM ET DIVISIONEM EST FALSITAS VERITASQUE.
Quaeritur namque, utrumne omnis veritas circa compositionem divisionemque sit,
an quaedam est, quaedam vero minime. Illud quoque, an in omni compositione vel
divisione veritas falsitasque constituta sit, an hoc non generaliter sed in
quadam compositionis vel divisionis parte veritas falsitasque versetur. In
opinionibus namque veritas est, quotiens ex subiecta ƿ re capitur imaginatio
vel etiam quotiens ita, ut sese res habet, imaginationem accipit intellectus;
falsitas vero est quotiens aut non ex subiecto aut non ut sese habet res imaginatio
subicitur intellectui. Sed adhuc in veritate atque falsitate nihil equidem
aliud reperitur nisi quaedam opinionis habitudo ad subiectam rem. Qua enim
habitudine et quomodo sese habeat imaginatio ad rem subiectam, hoc solum in hac
veritate vel falsitate perspicitur. Quam quidem habitudinem nullus dixerit
compositionem. In hoc vero divisionis nullus ne fictus quidem modus intellegi
potest. Illud quoque considerandum est, numne aliqua sit in his compositio vel
divisio, quae secundum substantiam suam vera dicuntur, ut est vera voluptas
bene vivendi, ut est falsa voluptas bellandi. Etiam illud quoque respiciendum
est, quod in omnium maximo deo quidquid intellegitur non in eo accidenter sed
substantialiter intellegitur. Etenim quae bona sunt substantialiter de eo non
accidenter credimus. Quod si substantialiter credimus deum, deum vero nullus
dixerit falsum nihilque in eo accidenter poterit evenire, ipsa veritas deus
dicendus est. Ubi igitur compositio vel divisio in his quae simplicia
naturaliter sunt nec ulla cuiuslibet rei collatione iunguntur? Quare non omnis
veritas neque falsitas circa compositionem divisionemque constat sed sola
tantum quae in multitudine intellectoum fit et in prolatione dicendi. Nam in
ipsa quidem habitudine imaginationis et rei nulla compositio est, in
coniunctione vero intellectuum compositio fit. Nam cum dico: Socrates
ambulat hoc ipsum quidem, ƿ quod eum ambulare concepi, nulla compositio
est; quod vero in intellectus progressione ambulationem cum Socrate coniungo,
quaedam iam facta est compositio. quod si hoc oratione protulero, rursus eadem
compositio est et circa eam vis veritatis et falsitatis apparet. Quocirca in
his solis compositionibus invenitur veritas atque mendacium, de quibus tota
nunc quaestio est, in nomine scilicet et verbo, in negatione et affirmatione et
enunti atione et oratione. Quae scilicet compositiones veritatis et falsitatis
naturam ab intellectibus accipientes in significationis prolatione conservant.
De divisione autem quae ad negationem pertinet deque compositione quae ad
affirmationem paulo post enucleatius dicam. Nunc illud videndum est, utrum
verum sit circa omnem compositionem circaque omnem divisionem veritatem vel
mendacium provenire, quod omnino falsum est. Quis enim dixerit huiusmodi
nominum coniunctionem: et Socrates et Plato vel si a se haec nomina
dividantur nec Socrates nec Plato veri aliquam falsive tenere
significantiam? Quare confitendum est non circa omnem divisionem neque circa omnem
compositionem, eam scilicet quae in oratione versatur, mendacium veritatemque
subsistere. Sed illud verissimum est, quod omnis quae est in oratione veritas
falsitasque in compositione et divisione nascitur, non tamen omnis orationis
compositio vel divisio verum retinet aut falsum. Ergo si sic dixisset: circa
omnem compositionem vel divisionem veritas falsitasque est, mentiretur. Sed
quoniam dixit simpliciter: veritas falsitasque circa compositionem
divisionemque est, verissime subtilissimeque dixisse putandus est. Illa enim ƿ
nomina quae ita dicuntur simplicia, ut veritatem aut falsitatem quodammodo
valeant designare, huiusmodi sunt, ut intra se atque intra significationem suam
quandam retineant compositionem, ut si qui dicat: Lego hoc est enim dicere
"lego" tamquam si dicat "Ego lego". Hoc autem compositio
est. Vel quotiens interrogante alio respondet alius uno tantum sermone, videtur
quoque tunc simplex sermo veritatem mendaciumque perficere. Quod perfalsum est.
Audientis namque responsio ad totum ordinem superioris enuntiationis
adiungitur: ut si quis interroganti mundusne animal sit, est responderit,
videtur haec una particula veritatem vel mendacium continere sed falso. Non
enim una est sed ad vim ipsius responsionis intuenti tale est ac si diceret
"Mundus animal est". Quod vero ait NOMINA IPSA ET VERBA CONSIMILIA
ESSE SINE COMPOSITIONE VEL DIVISIONE INTELLECTUI, illud designat, quod supra
iam dixit, ea quae sunt in voce notas esse animae passionum. Quod si notae
sunt, sicut litterae vocum in se similitudinem gerunt, ita voces intellectuum. Et
quoniam dictum est, cur de similitudine verborum nominumque atque animae
passionum dixerit, cur etiam circa compositionem et divisionem falsum verumque
esse proposuerit, dicendum est quid sit ipsa compositio vel divisio, in qua
veritas et falsitas invenitur. Nam quoniam de simplici enuntiativa oratione
perpendit, ut posterius ipse in divisione declarat dicens: EST AUTEM UNA PRIMA
ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO, illam nunc compositionem
designare uult, quae alicuius vel substantiam constituit vel aliquid secundum
esse coniungit. Nam cum dico: Socrates est hoc ipsum esse Socrati applico
et substantiam eius esse constituo. Sin vero ƿ dixero: Socrates philosophus
est philosophiam et Socratem secundum esse composui, vel si dicam
Socrates ambulat, huiusmodi est tamquam si dicam Socrates ambulans est. Igitur
quotiens huiusmodi fuerit compositio, quae secundum esse verbum vel substantiam
constituat vel res coniungat, affirmatio dicitur et in ea veri falsique natura
perspicitur. Et quoniam omnis negatio ad praedicationem constituitur (huius
enim affirmationis quae est "Socrates est" negatio est non ea quae
dicit "Non Socrates est" sed ea quae pronuntiat "Socrates non
est" et ad id quod esse Socrates dictus est negatio apponitur, ut eum id
dicamus non esse, quod ante dictus est esse): igitur quoniam id quod in
affirmatione secundum esse vel constitutum vel coniunctum fuerit ad id addita
negatio separat, vel ipsam substantiae constitutionem vel etiam factam per id
quod dictum est esse aliquid coniunctionem, divisio vocatur. Quando enim dico:
Socrates non est esse a Socrate seiunxi, et cum dico: Socrates
philosophus non est Socratem ab eo quod est philosophum esse separavi,
quam separationem, quae ad negationem pertinet, divisionem vocavit. Ergo
manifestum est, quoniam si simplex in animae passionibus intellectus fuerit,
cum ipse intellectus nullam adhuc veri falsique retineat naturam, eius quoque
prolationem ab utrisque esse separatam. Sed cum compositio secundum esse facta
vel etiam divisio in intellectibus, in quibus principaliter veritas et falsitas
procreatur, euenerit, quoniam ex intellectibus voces capiunt significationem,
eas quoque secundum intellectuum qualitatem veras vel falsas esse necesse est.
Maximam vero vim habet exempli novitas ƿ et exquisita subtilitas. Ad
demonstrandum enim quod unum solum nomen neque verum sit neque falsum, posuit
huiusmodi nomen, quod compositum quidem esset, nulla tamen eius substantia
reperiretur. Si quod ergo unum nomen veritatem posset falsitatemue retinere
posset huiusmodi nomen, quod est hircocervus, quoniam omnino in rebus nulla
illi substantia est, falsum aliquid designare sed non designat aliquam
falsitatem. Nisi enim dicatur hircocervus vel esse vel non esse quamquam ipsum
per se non sit, solum tamen dictum nihil falsi in eo sermone verive
perpenditur. Igitur ad demonstrandam vim simplicis nominis, quod omni veritate
careat atque mendacio, tale in exemplo posuit nomen, cui res nulla subiecta
sit. Quod si quid verum vel falsum unum nomen significare posset, nomen quod
eam rem designat, quae in rebus non sit, omnino falsum esset. Sed non est: non
igitur ulla veritas falsitasque in simplici umquam nomine reperietur. Nec illud
paruae curae fuit non ponere nomen quod omnino nihil significaret sed quod cum
significaret quiddam, tamen verum aut falsum esse non posset, ut non videretur
veritatis falsitatisque cassum esse, eo quoniam nihil significaret sed quoniam
esset simpliciter dictum. Quamquam in eodem illud quoque conficit, ut
ostenderet non solum simplex nomen veritate atque mendacio esse alienissimum
sed etiam composita quoque nomina, si non habeant aliquam secundum es se vel
non esse (sicut superius dictum est) compositionem, verum vel falsum
significare non posse: tamquam si diceret: non solum simplex nomen praeter
aliquam compositionem nihil verum falsumue significat sed etiam composita ƿ
utroque carent (sicut ipse iam dixit) nisi illis aut esse aut non esse addatur,
VEL SIMPLICITER VEL SECUNDUM TEMPUS. Hoc vero idcirco addidit, quod in
quibusdam ita enuntiationes fiunt, ut quod de ipsis dicitur secundum
substantiam proponatur, in quibusdam vero hoc ipsum esse quod additur non
substantiam sed praesentiam quandam significet. Cum enim dicimus deus est, non
eum dicimus nunc esse sed tantum in substantia esse, ut hoc ad immutabilitatem
potius substantiae quam ad tempus aliquod referatur. Si autem dicamus: Dies
est ad nullam diei substantiam pertinet nisi tantum ad temporis
constitutionem. Hoc est enim quod significat est, tamquam si dicamus: Nunc
est Quare cum ita dicimus esse ut substantiam designemus, simpliciter est
addimus, cum vero ita ut aliquid praesens significetur, secundum tempus. Haec
una quam diximus expositio. Alia vero huiusmodi est: esse aliquid duobus modis
dicitur: aut simpliciter aut secundum tempus. Simpliciter quidem secundum
praesens tempus, ut si quis sic dicat hircocervus est. Praesens autem quod
dicitur tempus non est sed confinium temporum: finis namque est praeteriti
futurique principinm. Quocirca quisquis secundum praesens hoc sermone quod est
esse utitur, simpliciter utitur, qui vero aut praeteritum inugit aut futurum,
ille non simpliciter sed iam in ipsum tempus incurrit. Tempora namque (ut
dictum est) duo ponuntur: praeteritum atque futurum. Quod si quis cum praesens
nominat, simpliciter dicit, cum utrumlibet praeteritum vel futurum dixerit,
secundum tempus utitur enuntiatione. Est quoque tertia huiusmodi expositio,
quod aliquotiens ita ƿ tempore utimur, ut indefinite dicamus: ut si qui dicat:
Est hircocervus Fuit hircocervus Erit hircocervus hoc indefinite et
simpliciter dictum est. Sin vero aliquis addat: Nunc est vel: Heri
fuit vel: Cras erit ad hoc ipsum esse quod simpliciter dicitur
addit tempus. Quare secundum unam trium harum expositionum intellegendum est
quod ait: SI NON VEL ESSE VEL NON ESSE ADDATUR, VEL SIMPLICITER VEL SECUNDUM
TEMPUS. Sed ei quod ante proposuit, QUEMADMODUM esset ALIQUOTIENS QUIDEM IN
ANIMA INTELLECTUS SINE VERO VEL FALSO, post quasi consequens reddidit nomina
ipsa per se verbaque esse simplicibus intellectibus consimilia, ut homo vel
album; ei vero quod ait CUI IAM NECESSE EST HORUM ALTERUM INESSE nihil interim
reddidit sed hoc eo supplevisse putabitur, quod ait: SED NONDUM VERUM VEL
FALSUM EST, SI NON VEL ESSE VEL NON ESSE ADDATUR. Haec est enim intellectuum
quaedam compositio, cui iam necesse est horum alterum inesse qua in oratione vel
esse vel non esse additur. Quocirca quoniam de nomine verboque proposuit et
quam potuit breviter vocum, litterarum, intellectuum rerumque consequentias
altissima ratione monstravit, ad id quod primo proposuit dicens: PRIMUM OPORTET
CONSTITUERE QUID NOMEN ET QUID VERBUM, ad haec inquam, quae promiserat definire
revertitur. Nomen enim definiens ita subiecit: [THIS IS THE END OF THE SECTION
‘SIGN’ – from now it’s specifically on NOMEN] NOMEN ERGO EST VOX SIGNIFICATIVA
SECUNDUM PLACITUM SINE TEMPORE, CUIUS NULLA PARS EST SIGNIFICATIVA SEPARATA. Omnis
definitio generis constitutione formatur, differentiarum vero compositione
perficitur. Nam si ad propositum genus differentias colligamus easque ad unam
quam definire volumus speciem aptemus, usque dum uni tantum speciei collectio
illa conveniat, nihil est quod ultra ad faciendam definitionem desideretur: ut
ipsum hominem si quis definiat, generi eius quod est animal duas necesse est
differentias iungat rationale scilicet atque mortale facietque huiusmodi
ordinem: animal rationale mortale; quae definitio si ad hominem referatur,
plena est rationis substantiaeque descriptio. Volens ergo Aristoteles definire
quid esset nomen prius eius genus sumpsit dicens nomen esse vocem, idcirco
scilicet ut hoc quod dicimus nomen ab aliis, quae non voces sed tantum soni
sunt, separaret. Distat enim sonus voce: sonus enim est percussio aeris
sensibilis, vox vero flatus per quasdam gutturis partes egrediens, quae
arteriae vocantur, qui aliqua linguae impressione formetur. Et vox quidem nisi
animantium non est, sonus vero aliquotiens inanimorum quoque corpori
conflictatione perficitur. Quare quia nomen vocem monstravit, ab aliis quae
voces non sunt sed tantum soni, hanc orationis partem separavit atque
distribuit. Et vocem quidem nominis velut genus sumpsit. Habet namque aliud
quiddam speciei loco differens a nomine quod est verbum, habet quoque quasdam
locutiones quae nihil ulla ratione significent, ut sunt articulatae voces,
quarum per se significatio non potest inveniri, ut "scindapsos". Huic
ergo generi alias differentias rursus apponit, quae nomen sicut vox a sonis
aliis segregavit, ita quoque hae differentiae nomen ab aliis speciebus sub voce
positis dividant atque discernant. ƿ Quod enim addidit nomen vocem esse
significativam, ab his, inquam, vocibus disgregavit nomen quae nihil omnino
siguificent, ut sunt syllabae. Syllabae enim, cum ex his totum nomen constet, adhuc
ipsae nihil omnino significant. Sunt quoque quaedam voces litteris syllabisque
compositae, quae nullam habeant significationem, ut est "Blityri". Ergo
quoniam videbantur esse quaedam voces quae significatione carerent, nomen quod
vox est et alicuius designationis semper causa profertur non aliter definiendum
erat nisi illud a non significantibus vocibus segregaret. Itaque ait nomen esse
vocem significativam ut voce quidem ab aliis sonis, significatione vero addita
ab his quae sub voce sunt nihil designantia segregaretur. Sed hoc nondum ad
totam definitionem valet neque solum nomen vox significativa est sed sunt
quaedam voces quae significent quidem sed nomina non sint, ut ea quae a nobis
in aliquibus affectibus proferuntur, ut cum quis gemitum edit vel dolore
concitus emittit clamorem. Illud enim doloris animi, illud corporis signum est.
Et cum sint voces et significent quandam vel animi vel corporis passionem,
nullus tamen gemitum clamoremque dixerit nomen. Mutorum quoque animalium sunt
quaedam voces quae significent: ut canum latratus iras significat canum, alia
vero mollior quaedam blandimenta designat. Quare adiecta differentia separandum
erat nomen ab his omnibus quae voces quidem essent et significarent sed nominis
vocabulo non tenerentur. Quid igitur adiecit? Nomen vocem esse significativam
non simpliciter sed secundum placitum. Secundum placitum vero est, quod
secundum quandam positionem ƿ placitumque ponentis aptatur. Nullum enim nomen
naturaliter constitutum est neque umquam sicut subiecta res natura est, ita
quoque a natura venienti vocabulo nuncupatur sed hominum genus, quod et ratione
et oratione vigeret, nomina posuit eaque quibus libuit litteris syllabisque
coniungens singulis subiectarum rerum substantiis dedit. Hoc autem illo
probatur, quod, si natura essent nomina, eadem apud omnes essent gentes: ut
sensus, quoniam naturaliter sunt, idem apud omnes sunt. Omnes enim gentes non
aliis nisi solis oculis intuentur, audiunt auribus, naribus odorantur, ore
accipiunt gustatus, tactu calidum vel frigidum, lene vel asperum indicant.
Atque haec huiusmodi sunt, ut apud omnes (ut dictum est) gentes eadem
videantur. Ipsa vero quae sentiuntur, quoniam naturaliter constituta sunt, non
mutantur. Dulcedo enim et amaritudo, album et nigrum et quaequae alia sensibus
quinque sentimus, eadem apud omnes sunt. Neque enim quod Italis dulce est in
sensu, idem Persis videtur amarum nec quod album apud nos oculis apperet, apud
Indos nigrum est, nisi forte aliqua sensus aegritudine permutetur sed hoc nihil
attinet ad naturam. Igitur quoniam ista sunt naturaliter, apud omnes gentes
eadem manent. Si ergo et nomina naturalia esse viderentur, eadem essent apud
omnes gentes nec ullam susciperent mutationem: nunc autem ipsum hominem alio
vocabulo Latini, alio Graeci diversis quoque vocabulis barbarae gentes
appellant. Quae in ponendis nominibus dissensio signum est non naturaliter sed
ad ponentium placitum voluntatemque rebus nomina fuisse composita. Idem quoque
monstrat, quod saepe ƿ singulorum hominum sunt permutata vocabula. Quem enim
nunc vocamus Platonem, Aristocles ante vocabatur et qui Theophrastus nunc
dicitur, ante Aristotelen a suis parentibus Tyrtamus appellabatur. In eadem
quoque lingua quando plura vocabula uni adduntur rei, monstratur rem illam non
naturalibus sed appositis nominibus nuncupari. Si enim naturalibus nominibus
res quaeque vocaretur, unam rem uno tantum nomine signaremus. Quid enim
attinet, si naturalia sunt vocabula, unius rei plures esse nominum voces, quae
ad unam designationem demonstrationemque concurrerent? Dicimus enim gladius,
ensis, mucro et haec tria ad unam subiectam substantiam currunt. Ergo
monstratum est nomina esse secundum placitum id est secundum ponentium
placitum, ac si diceret nomen esse vocem quidem et significativam sed non
naturaliter significativam sed secundum placitum voluntatemque ponentis, hoc
scilicet dividens ab his vocibus quae naturaliter designarent, ut sunt hae vel
quas nos in passionibus affectibusque proloquimur vel edere animalia muta
conantur. Sed nondum supra dicta differentia plenam nominis formam
definitionemque constituit. Est namque verbo commune eum nomine, quod vox
designativa et secundum placitum est sed addita differentia quae est SINE
TEMPORE nomen a verbo distinxit. Neque enim nomen ullum consignificat tempus.
Verbi namque est, cum aut passio significatur aut actio, aliquam quoque secum
trahere vim temporis, qua illud cum vel facere vel pati dicitur proferatur. Cum
enim dico: Socrates nullius est temporis; cum vero: Lego vel:
Legi vel: Legam tempore non caret. Addito ergo nomini quod sine
tempore esse dicatur ƿ nomen a verbo disiungitur. Sane nemo nos arbitretur
opinari, quod nullum nomen significet tempus. Sunt enim nomina, quae tempus
significatione demonstrent: velut cum dico hodie vel cras, temporis nomina
sunt. Sed illud dicimus, quod cum eodem nomine tempus non significatur. Aliud
est enim significare tempus, aliud consignifiaare. Verbum enim cum aliquo
proprio modo tempus quoque significat: ut cum vel agentis vel patientis modum
demonstrat, sine tempore ipsa passio vel actio non profertur. Unde non dicimus,
quod nomen non significet tempus sed quod nomen significatio temporis non
sequatur. Restat autem sola una differentia, quae si superioribus
adiungatur, plenissima fere nomen definitione formabitur. Haec autem est qua
nomen ab oratione separetur. Inveniuntur enim quaedam sine dubio orationes,
quae cum voces sint et significativae et secundum placitum, quippe quae sunt
nominibus colligatae, tamen sint sine tempore, ut cum dico: Socrates et Plato
haec namque oratio, cum ex nominibus iuncta sit, nomen quidem non est, vox vero
est significativa secundum placitum et tempore uacat. Ut igitur nomen ab
huiusmodi oratione divideret, addidit hanc differentiam, quae est CUIUS NULLA
PARS EST SIGNIFICATIVA SEPARATA. Oratio enim quoniam verbis nominibusque
coniungitur, verba vero vel nomina significativa esse palam est, partes quoque
orationis significare aliquid dubium non est. Nominis vero pars, quoniam
simplex est, nihil omnino significat. Sed cum omnis oratio omneque nomen et
verbum ex subiectis intellectibus vim significandi sumat, est aliquotiens, ut
unum nomen multos significet intellectus. Quocirca erit quoque, ut non simplex
nomen ƿ unam tantum animi passionem intellectumque designet. Nam cum dico
suburbanum, imaginationem significandi sed ita ut a toto nomine separatum, cum
ad ipsum refertur nomen, significet nihil: ut in eo quod dicimus equiferus
ferus uult quidem aliquid significare sed si a tota compositione separatur,
nihil omnino designat in eo scilicet nomine in quo cum equi particula iunctum
equiferum consignificabat. Omnis namque haec compositio unius intellectus
designativa est. Quare in oratione quidem ferus significat (etenim equus ferus
oratio duos retinet intellectus), in nomine vero nihil, quoniam hoc quod
dicimus equiferus unius intellectus designativum est. Sed fortasse ferus cum ea
parte qua iunctum est simul quidem consignificet, separatum vero nihil. Hoc est
ergo quod ait: AT VERO NON QUEMADMODUM IN SIMPLICIBUS NOMINIBUS, SIC SE HABET
ETIAM IN COMPOSITIS IN ILLIS ENIM NULLO MODO PARS SIGNIFICATIVA EST; IN HIS
AUTEM VULT QUIDEM SED NULLIUS SEPARATI, UT IN EQUIFERUS FERUS. Simplex enim
nomen nec imaginationem aliquam partium significationis habet, compositum vero
tales habet partes, ut quasi conentur quidem aliquid significare sed
consignificeut potius quam quidquam extra significent. Addito igitur nomini,
quod eius partes nihil separatae significent, nomen ab oratione disiunctum est.
Postquam adiectionem quae est CUIUS ƿ NULLA PARS EST SIGNIFICATIVA SEPARATA
quid in nominis definitione valeret explicuit (hoc scilicet quo nomen ab
oratione seiungeret), illud quoque disserit, cur sit additum quod dictum est
secundum placitum. Nam quoniam nulla nominum significatio naturaliter est sed
omne nomen positione designat, idcirco dictum est secundum placitum. Quod enim
placuit ei qui primus nomina indidit rebus, hoc illis vocabulis designatur. Age
enim quis naturaliter nomina esse confirmet, quorum apud omnes gentes est tam
diversa varietas? Nec vero dicitur quod nulla vox naturaliter aliquid designet
sed quod nomina non naturaliter sed positione significent. Aliqui habent hoc
ferarum mutorumque animalium soni, quorum vox quidem significat aliquid (ut
hinnitus equi consueti equi inquisitionem, latratus canum latrantium iracundiam
monstrat et alia huiusmodi) sed cum voces mutorum animalium propria natura
significent, nullis tamen elementorum formulis conscribuntur. Nomen
vero quamquam subiaceat elementis, prius tamen quam ad aliquam subiectae rei
significationem ponatur per se nihil designat, ut cum dicimus scindapsos vel
hereceddy. Haec per se nihil quidem significant sed si ad subiectae alicuius
rei significationem ponantur, ut dicatur vel homo scindapsos vel lapis
hereceddy, tunc hoc quod per se nihil significat positione et secundum ponentis
quoddam placitum designabit. Ergo
tum nomen significativum est, quando (ut ipse ait) fit nota. Tunc autem fit
nota, cum secundum ponentis placitum vocabulum quod naturaliter nihil
designabat ad subiectae rei significationem datur. Hoc ƿ est enim quod ait fit.
Si enim naturaliter nomina significarent, numquam de his Aristoteles diceret
fit nota. Tunc enim non fieret nota sed esset. Ergo quoniam nomina secundum
placitum significativa sunt, ferarum vero inlitterati soni secundum naturam,
idcirco harum voces esse nomina non dicuntur. Universaliter
autem dicimus: omnium vocum aliae sunt quae inscribi litteris possunt, aliae
vero quae non possunt. Et rursus earum quae vel inscribuntur vel minime, aliae
significant, aliae vero nihil. Amplius quoque omnium aliae secundum placitum
designant, aliae vero naturaliter. Nomen ergo secundum placitum est: positione
enim factum est subiectae rei nota. Nihil enim nominum est quod naturaliter
significet. Non enim nomen informat significatio sed secundum placitum
significatio. Nam et inlitterati soni significant, ut sunt ferarum, quos ideo
sonos vocavit, quoniam sunt quaedam muta animalia quae vocem omnino non habent
sed tantum sonitu quodam concrepant. Quidam enim pisces non voce sed branchis
sonant et (ut Porphyrius autumat) cicada per pectus sonitum mittit, QUORUM
omnium NIHIL EST NOMEN. Hoc autem dictum est, non quod nullum nomen sit harum
vocum quas animalia proferunt sed quod his non velut nominibus utantur. Nam
quamuis vox inlitterata sit et natura significet latratus canum, dicitur tamen
latratus et leonis fremitus et tauri mugitus. Haec sunt. Nomina ipsarum vocum
quae a mutis animalibus proferuntur. Sed non hoc dicimus quoniam earum nihil
est nomen sed quoniam horum sonorum nihil tale est, ut nomen esse possit id est
ut secundum ea velut ƿ nominibus utentes ferae sibi inuicem colloquantur.
Habent enim significationem sed (ut dictum est) naturalem, nomen autem secundum
placitum est. NON HOMO VERO NON EST NOMEN. AT VERO NEC POSITUM EST voMEN, QUO
ILLUD OPORTEAT APPELLARI. NEQUE ENIM ORATIO AUT NEGATIO EST SED SIT NOMEN
INFINITUM. Superius omnia quaecumque extra nomen essent praedictis
adiectionibus a nomine separavit. Nunc vero quoniam sunt quaedam quae sub
definitionem quidem nominis cadant, videantur tamen a nomine discrepare, de his
disserit, ut quid esse nomen integre videatur expediat. Quod enim dicimus non
homo vel non equus oratio quidem non est. Omnis enim oratio aut nominibus
constat et verbis aut solis duobus vel pluribus verbis vel solis nominibus. In
eo autem quod est non homo unum tantum nomen est, quod dicitur homo, id autem
quod est non neque nomen est neque verbum. Quare neque ex duobus verbis aut ex
verbo et nomine. Verbum enim in eo nullum est. Quare id quod dicimus non homo
oratio non est. Iam vero nec verbum esse monstrare superfluum est, cum in
verbis semper tempora reperiantur, in hoc vero nullum omnino quisquam tempus
inveniat. Sed nec negatio est. Omnis enim negatio oratio est, non homo vero cum
oratio non sit nec negatio esse potest. Illud quoque, quod omnis negatio aut
vera est aut falsa, non homo vero neque verum est neque falsum. Sensus enim
plenus non est: quare negatio esse propter hoc quoque non dicitur. Nomen vero
esse quis dicat, cum omne nomen sive proprium sive sit appellativum definite
significet? Cum enim dico: ƿ Cicero unam personam unamque substantiam
nominavi, et cum dico: Homo quod est nomen appellativum, definitam
significavi substantiam. Cum vero dico: Non homo significo quidem quiddam,
id quod homo non est sed hoc infinitum. Potest enim et canis significari et
equus et lapis et quicumque homo non fuerit. Et aequaliter dicitur vel in eo
quod est vel in eo quod non est. Si quis enim de Scylla quod non est dicat non
homo, significat quiddam quod in substantia atque in rerum natura non permanet.
Si quis autem vel de lapide vel de ligno vel de aliis quae sunt rebus dicat non
homo, idem tamen aliquid significabit et semper praeter id quod nominal
huiusmodi vocabuli significatio est. Sublato enim homine quidquid praeter
hominem est hoc significat non homo, quod a nomine plurimum differt. Omne enim
nomen (ut dictum est) definite id significat quod nominatur nec similiter et de
eo quod est et quod non est dicitur. Sed haec huiusmodi vox et designativa est
et ad placitum et sine tempore et (ut dictum est) partes eius extra nihil
designant. Quare dubia apud antiquos sententia fuit, utrum nomen hoc non
dicerent, an hoc aliqua adiectione nominis definitioni subicerent. Et qui hoc a
nomine separabant, ita nomen definitione claudebant dicentes: nomen esse vocem
designativam secundum placitum sine tempore circumscriptae significationis,
cuius partes extra nihil designarent, ut quoniam non homo rem circumscriptam
non significaret a nomine separaretur. Alii vero non eodem modo sed dicebant
quidem esse nomen sed non simpliciter. Quadam namque adiectione sub nomine poni
posse putabant hoc modo, ut sicut homo mortuus non ƿ dicitur simpliciter homo
sed homo mortuus, ita quoque et nomen hoc, quod nihil definitum designaret, non
diceretur simpliciter nomen sed nomen infinitum. Cuius sententiae Aristoteles
auctor est, qui se hoc ei vocabulum autumat invenisse. Ait enim: AT VERO NEC
POSITUM EST NOMEN, QUO ILLUD OPORTEAT APPELLARI, dicens: id quod dicimus non
homo quo vocabulo debeat appellari non vocavit antiquitas. Et usque ad
Aristotelem nullus noverat quid esset id quod non homo diceretur sed hic huic
sermoni vocabulum posuit dicens: SED SIT NOMEN INFINITUM, non simpliciter
nomen, quoniam nulla circumscriptione designat sed infinitum nomen, quoniam plura
et ea infinita significat. Sed hoc non solis huiusmodi vocibus contingit, ut
simpliciter sub nomine poni non possint sed sunt quaedam aliae quae omnia
quidem nominis habeant et definite significent sed quadam alia discrepantia
nomina simpliciter dici non possint, ut sunt obliqui casus cum dicimus: Catonis
Catoni Catonem et caeteros. Horum enim discrepantia est a nomine, quod
nomen rectum iunctum cum est vel non est affirmationem facit: ut si quis dicat:
Socrates est hoc verum est vel falsum. Si enim vivente Socrate diceretur,
verum esset, mortuo vero falsum est: quare affirmatio est. Si quis autem dicat:
Socrates non est rursus faciet negationem et in ea quoque veritas et
falsitas invenitur. Ergo omne rectum nomen iunctum cum est vel non est
enuntiationem conficit. Hi vero obliqui easus iuncti cum est vel non est
enuntiationem nulla ratione perficiunt. Enuntiatio namque est perfectus
orationis intellectus in quem veritas ƿ aut falsitas cadit. Si quis ergo dicat:
Catonis est nondum plena sententia est. Quid enim sit Catonis non
dicitur. Atque eodem modo Catoni est vel Catonem est. In his ergo, quoniam cum
est vel non est iuncta enuntiationem non perficiunt, est quaedam a nomine
discrepantia, quamquam sint nomini omni definitione coniuncta. Magna est enim
discrepantia quod rectum nomen cum est iunctum perfectam orationem facit,
obliqui casus imperfectam. Quod autem dictum est obliquos casus cum est verbo
iunctos orationem perfectam non facere, non dicimus quoniam cum nullo verbo obliqui
casus iunguntur ita, ut nihil indigentem perficiant orationem. Cum enim dico:
Socratem paenitet enuntiatio est. Sed non cum omni verbo sed tantum cum
est vel non est hi casus iuncti perfectam orationem nulla ratione constituunt.
Atque hoc est quod ait: CATONIS AUTEM VEL CATONI ET QUAECUMQUE TALIA SUNT NON
SUNT NOMINA SED CASUS NOMINIS. Unde etiam discrepare videntur. Haec enim nomina
non vocantur. Illa enim rectius dicuntur nomina quae prima posita sunt id est
quae aliquid monstrant. Genetivus enim casus non aliquid sed alicuius et
dativus alicui et caeteri eodem modo. Rectus vero qui est primus rem monstrat,
ut si qui dicat Socrates, atque ideo hic nominativus dicitur, quod nominis
quodammodo solus teneat vim nomenque sit. Et verisimile est eum qui primus
nomina rebus imposuit ita dixisse: vocetur hic homo et rursus vocetur hic
lapis. Posteriore vero usu factum est, ut in alios casus primitus positum nomen
derivaretur. Illud quoque maius est, quod omnis casus nominis alicuius casus
est. Ergo nisi sit nomen, cuius casus sit, casus ƿ nominis dici recte non
potest. casus autem omnis inflexio est. Sed genetivus et dativus et caeteri
nominativi inflexiones sunt: quare nominativi casus erunt. Sed omnis casus qui
secundum nomen est nominis casus est. Nomen igitur nominativus est. Aliud vero
est casus alicuius quam est id ipsum cuius casus est. Casus igitur nominis
nomen non est. Quod vero adiecit: RATIO AUTEM EIUS EST IN ALLIS QUIDEM EADEM,
hoc inquit: ratio et definitio obliqui casus et nominis eadem est in omnibus
aliis (nam et voces sunt et significativae et secundum placitum et sine tempore
et circumscripte designant) sed (ut ipse ait) DIFFERT QUONIAM CUM EST VEL FUIT
VEL ERIT IUNCTUM NEQUE VERUM NEQUE FALSUM EST, quod a recto nomine sine ulla
dubitatione perficitur, ut cum est vel fuit vel erit iunctum verum falsumue
conficiat. Quod designavit per hoc quod ait: NOMEN VERO SEMPER, subaudiendum
est scilicet: facit verum falsumque CUM EST VEL FUIT VEL ERIT IUNCTUM. Eorumque
ponit exemplum: CATONIS EST VEL NON EST. In his enim (ut ipse ait) neque verum
aliquid dicitur neque falsum. Quare integra nominis definitio est huiusmodi:
nomen est vox designativa secundum placitum sine tempore circumscripte
significans, cuius partes nihil extra designant, et cum est vel fuit vel erit
iunctum nullius indigentem orationis perficiens intellectum enuntiationemque
constituens. Quoniam igitur de nomine expeditum, ad definitionem verbi
veniamus. VERBUM AUTEM EST QUOD CONSIGNIFICAT TEMPUS, CUIUS PARS NIHIL EXTRA
SIGNIFICAT, ET EST SEMPER EORUM QUAE DE ALTERO DICUNTUR NOTA. Verbi quidem
integra definitio huiusmodi est: verbum est vox significativa secundum
placitum, quae consignificat tempus, cuius nulla pars extra designativa est.
Sed quoniam commune est illi cum nomine esse voci et significativae et secundum
placitum, idcirco illa reticuit. Ab his autem quae propria verbi sunt inchoavit
verbi autem est proprium, quo a definitione nominis segregetur, quod
consignificat tempus. Omne enim verbum consignificationem temporis retinet, non
significationem. Nomina enim significant tempus, verbum autem cum principaliter
actus passionesque significet, cum ipsis actibus et passionibus temporis quoque
vim trahit, ut in eo quod dico lego. Actionem quidem quandam principaliter
monstrat hoc verbum sed cum ea ipsa agendi significatione praesens quoque
tempus adducit. Atque ideo non ait verbum significare tempus sed
consignificare. Neque enim principaliter verbum tempus designat (hoc enim
nominis est) sed cum aliis quae prineipaliter significat vim quoque temporis
inducit et inserit. Ergo cum nomen et verbum voces significativae sint et
secundum placitum, addito verbo, quod consignificat tempus, a nomine
segregatur. Ut enim saepe dictum est, nomen significare tempus poterit, verbum
vero consignificare. Et sicut in definitione nominis addidit nihil nominis
partes separatas a tota compositione nominis designare propter orationes quae
nominibus essent compositae, ut est: Et Plato et Socrates ita quoque in
verbo addidit nihil extra verbi ƿ partes significare propter eas orationes quas
verba componunt, ut est et ambulare et currere. Haec enim oratio ex verbis est
composita et singula verba et in ipsa oratione et praeter eam per se ipsa
significant. In verbo vero nullo modo. Et sicut in nomine pars nominis nihil
significat separata, ita in verbo pars verbi nihil separata designat. Dicit
autem esse verbum semper eorum quae de altero praedicantur notam, quod
huiusmodi est ac si diceret nihil aliud nisi accidentia verba significare. Omne
enim verbum aliquod accidens designat. Cum enim dico: Cursus ipsum quidem
est accidens sed non ita dicitur ut id alicui inesse vel non inesse dicatur. Si
autem dixero: Currit tunc ipsum accidens in alicuius actione proponens
alicui inesse significo. Et quoniam quod dicimus "Currit" praeter
aliquid subiectum esse non potest (neque enim dici potest praeter eum qui
currit), idcirco dictum est omne verbum eorum esse significativum quae de
altero praedicantur, ut verbum quod est currit tale significet quiddam quod de
altero, id est de currente, praedicetur. His igitur expeditis quod ait verbum
consignificare tempus exemplis aperuit. Ait enim: DICO AUTEM QUONIAM
CONSIGNIFICAT TEMPUS, UT CURSUS QUIDEM NOMEN EST, CURRIT VERO VERBUM,
CONSIGNIFICAT ENIM NUNC ESSE. Expeditissime quid verbum distaret a nomine verbi
et nominis interpositione monstravit. Etenim quoniam cursus accidens est et
nominatum est ita ut sit nomen, non significat tempus, currit vero idem
accidens in verbo positum praesens tempus designat. Et hoc verbum distare videtur
a nomine, quod illud consignificat tempus, illud praeter omnem consignificationem
ƿ temporis praedicatur. Sed postquam verbum consignificare tempus ostendit, id
quod supra iam dixerat verbum semper de altero praedicari, id nunc memoriter
quemadmodum praedicatur ostendit. Ait enim: ET SEMPER EORUM QUAE DE ALTERO
DICUNTUR NOTA EST, UT EORUM QUAE DE SUBIECTO VEL IN SUBIECTO, hoc scilicet
dicens: ita verbum significat aliquid, ut id quod significat de altero
praedicetur sed ita ut accidens. Omne namque accidens et in subiecto est et de
subiecta sibi substantia praedicatur. Nam cum dico "Currit", id de
homine si ita contigit praedico scilicet de subiecto et ipse cursus in homine
est, unde verbum currit inflexum est. Ergo quod dicit semper eorum esse notam verbum
quae de altero praedicentur hoc monstrat: verbum accidentia semper significare,
quoniam ait eas res verbi significatione monstrari quae vel in subiecto essent
vel de subiecto dicerentur. Vel certe ut sit alius intellectus, quoniam solet
indifferenter uti de subiecto praedicari, tamquam si dicat in subiecto esse, et
saepe cum dicit de subiecto aliquid praedicari in subiecto esse significat, cum
vellet ostendere accidentium significationem contineri verbis, ait ea semper
designari verbis QUAE DE SUBIECTO essent. Sed quoniam hoc videbatur obscurius,
patefecit addito VEL IN SUBIECTO, ut quid esset de quo supra dixerat DE
SUBIECTO exponeret cum addidit VEL IN SUBIECTO: tamquam [enim] si ita dixisset:
verbum quidem semper eorum nota est, quae de altero praedicantur subiecto sed
ne hoc fortasse cuipiam videatur obscurius, hoc dico esse de subiecto, quod est
esse in subiecto. Vel melior haec expositio est, si similiter eum dixisse
arbitremur, tamquam si diceret: ƿ omne verbum significat quidem accidens sed
ita ut id quod significat aut particulare sit aut universale, ut id quod ait de
subiecto ad universalitatem referamus, quod in subiecto ad solam
particularitatem. Cum enim dico movetur, verbum quidem est et accidens sed
universale. Motus enim plures species sunt, ut cursus sub motu ponitur. Ergo
cursus si definiendus est, motum de cursu praedicamus. Quocirca motus genus
quoddam est cursus atque ideo motus de cursu ut de subiecto praedicabitur,
cursus vero ipse, quoniam species alias non habet, in subiecto tantum est id
est in currente. Motus autem quamquam et ipse sit in subiecto, tamen de
subiecto praedicatur. Ideo dicit eorum esse notam verbum quae de altero
praedicentur atque addidit, ut EORUM QUAE DE SUBIECTO VEL IN SUBIECTO. Hoc
dicit: accidentium quidem vim verba significant sed talium quae aut universalia
sint aut particularia, ut cum dico moveor universale quiddam est et de subiecto
dicitur, ut de cursu, cum vero dico curro, particulare est et quoniam de
subiecto non dicitur, in subiecto solum est. NON CURRIT VERO ET NON LABORAT NON
VERBUM DICO. CONSIGNIFICAT QUIDEM TEMPUS ET SEMPER DE ALIQUO EST, DIFFERENTIAE
AUTEM HUIC NOMEN NON EST POSITUM; SED SIT INFINITUM VERBUM, QUONIAM SIMILITER
IN QUOLIBET EST, VEL QUOD EST VEL QUOD NON EST. Quemadmodum dixit in nomine non
homo nomen non esse, idcirco quod multis aliis conveniret, quae homines non
essent, quoniamque id quod diceret auferret nihilque definitum in eadem
praedicatione relinqueret (quod enim non homo est potest ƿ esse et centaurus,
potest esse et equus et alia quae vel sunt vel non sunt atque ideo infinitum
nomen vocatum est): ita quoque etiam in verbo quod est "non currit"
vel "non laborat" infinitum quoque ipsum est, quoniam non solum de eo
quod est verum est sed etiam de eo quod non est praedicari potest. Possum
namque dicere: Homo non currit et id quod aio, "non currit", de
ea re quae est praedico id est de homine, possum rursus dicere: Scylla non
currit sed Scylla non est: igitur hoc quod dico "non currit" et
de ea re quae est valet et de ea quae nihil est praedicari. Sed forte aliquis
hoc quoque in verbis finitis esse contendat. Possum namque dicere: Equus currit
Hippocentaurus currit et de ea re scilicet quae est et de ea quae non est
et praeterito, quod futurum quidem ante praesens tempus est, praeteritum vero
retro relinquitur. Et nouo admirabilique sermone usus est: quod complectitur.
Et nos id quantum Latinitas passe est transferre diu multumque laborantes hoc
solo potuimus, Graeca vero oratione luculentius dictum est. Ita ƿ enim habet
*ta de ton perix*. Quod qui Graecae linguae peritus est quantum melius Graeca
oratione sonet agnoscit. IPSA QUIDEM SECUNDUM SE DICTA VERBA NOMINA SUNT ET
SIGNIFICANT ALIQUID. CONSTITUIT ENIM QUI DICIT INTELLECTUM ET QUI AUDIT
QUIESCIT. SED SI EST VEL NON EST, NONDUM SIGNIFICAT; NEQUE ENIM ESSE SIGNUM EST
REI VEL NON ESSE, NEC SI HOC IPSUM EST PURUM DIXERIS. IPSUM QUIDEM NIHIL EST,
CONSIGNIFICAT AUTEM QUANDAM COMPOSITIONEM, QUAM SINE COMPOSITIS NON EST
INTELLEGERE. Hoc loco Porphyrius de Stoicorum dialectica aliarumque scholarum
multa permiscet et in aliis quoque huius libri partibus idem in expositionibus
fecit, quod interdum nobis est neglegendum. Saepe enim superflua explanatione
magis obscuritas comparatur. Nunc autem Aristotelis huiusmodi sententia est:
VERBA, inquit, IPSA SECUNDUM SE DICTA NOMINA SUNT, non secundum id quod omnis
pars orationis commune nomen vocatur, ut dicimus nomina rerum sed quod omne
verbum per se dictum neque addito de quo illud praedicatur tale est, ut nomini
sit affine. Nam si dicam: Socrates ambulat id quod dixi ambulat totum
pertinet ad Socratem, nulla ipsius intellegentia propria est. At vero cum dico
solum: Ambulat ita quidem dixi, tamquam si alicui insit, id est tamquam
si quilibet ambulet sed tamen per se est propriamque retinens sententiam huius
verbi significatio est. Unde fit ut apud Graecos ƿ quoque articularibus
praepositivis sola verba dicta proferantur, ut est: to perimatein tou
perimatein toi perimatein Quod si verba cum nominibus coniungantur, in
oratione Graeca articularia praepositiva addi non possunt, nisi sola dicta
sint. Quoniam significant rem et ita ut, quamuis eam significent quae alicui
insit, tamen secundum se et per suam sententiam dicantur, idcirco sunt nomina.
Et quod Aristoteles ait IPSA QUIDEM SECUNDUM SE DICTA VERBA NOMINA SUNT, tale
est ac si diceret: ipsa quidem sola neque cum aliis iuncta verba nomina sunt.
Cuius rei hoc argumentum reddit: CONSTITUIT ENIM, inquit, QUI DICIT INTELLECTUM
ET QUI AUDIT QUIESCIT. Hoc autem tale est: omni nomine audito quoniam per
syllabas progrediens vox aliquantulum temporis spatium decerpit, in ipsa
progressione temporis qua dicitur nomen audientis quoque animus progreditur: ut
cum dico "imperterritus", sicut per syllabas "in" et
"per" et "ter" et caeteras progreditur nomen, ita quoque
animus audientis per easdem syllabas uadit. Sed ubi quis expleuerit nomen et
dixerit "imperterritus", sicut nomen finitum a syllabarum
progressione consistit, ita quoque audientis animus conquiescit. Nam cum totum
nomen audit, totam significationem capit et animus audientis, qui dicentis
syllabas sequebatur volens quid ille diceret intellegere, cum significationem
ceperit, consistit et ems animus perfecto demum nomine constituitur. Hoc est
enim quod ait: CONSTITUIT ENIM QUI DICIT INTELLECTUM ET QUI AUDIT QUIESCIT.
Etenim is qui loquitur postquam totum sermonem dixerit, ƿ audientis animum
constituit. Non est enim quo progrediatur intellegentia ipsoque nomine
terminato animus auditoris qui progrediebatur explicatione nominis constituitur
et quiescit et ultra ad intellegentiam, quippe expedita significatione nominis,
non procedit. Sed hoc verbo nominique commune est sed si verbum solum dicatur.
Namque si cum nomine coniungatur, nondum audientis constituitur intellectus.
Est enim quo ultra progredi animus audientis possit, quod cum dico: Socrates
ambulat hoc ambulat non per se intellegitur sed ad Socratem refertur et
in tota oratione consistit intellectus, non in solo sermone. At vero si solum
dictum sit, ita in significatione consistit, quemadmodum in nomine. Recte
igitur dictum est IPSA SECUNDUM SE DICTA VERBA NOMINA esse, quoniam CONSTITUIT
IS QUI DICIT INTELLECTUM ET QUI AUDIT QUIESCIT. Vel certe erit melior
expositio, si ita dicamus: verba ipsa secundum se dicta nomina esse, idcirco
quoniam cuiusdam rei habeant significationem. Neque enim si talis rei
significationem retinet verbum, quae semper aut in altero sit aut de altero
praedicetur, idcirco iam nihil omnino significat. Nec si significat aliquid
quod praeter subiectum esse non possit, idcirco iam etiam illud significat quod
subiectum est. Ut cum dico sapit, non idcirco nihil significat, quoniam hoc
ipsum sapit sine eo qui sapere possit esse non potest. Nec rursus cum dico:
Sapit illum ipsum qui sapit significo sed id quod dico ("sapit")
nomen est cuiusdam rei, quae semper si in altero et de altero praedicetur. Unde
fit ut intellectus quoque sit. Nam qui audit "Sapit", licet per se
constantem rem non audiat (in altero namque ƿ semper est et in quo sit dictum
non est), tamen intellegit quiddam et ipsius verbi significatione nititur et in
ea constituit intellectum et quiescit, ut ad intellegentiam ultra nihil quaerat
omnino, sicut fuit in nomine. Quemadmodum enim nomen cuiusdam rei significatio
propria est per se constantis, ita quoque verbum significatio rei est non per
se subsistentis sed alterius subiecto et quodammodo fundamento nitentis. Est
hic quaestio. Non enim verum videri potest quod ait: CONSTITUIT ENIM QUI DICIT
INTELLECTUM ET QUI AUDIT QUIESCIT. Nam neque qui dicit constituit intellectum
neque qui audit quieseit. Deest enim quiddam sermoni vel nomini: ut si qui
dicat: Socrates mox audientis animus requirit quid Socrates? Facitne
aliquid an patitur? Et nondum audientis intellectus quietus est, cum horum
aliquid requirit. Et in verbo idem est: cum dico: Legit quis legat,
animus audientis inquirit. Nondum ergo qui dicit constituit intellectum nec qui
audit quiescit. Sed ad hoc Aristotelem rettulisse putandum est, quoniam
quilibet audiens cum significativam vocem ceperit animo, eius intellegentia
nitetur: ut cum quis audit homo, quid sit hoc ipsum quod accipit mente
comprehendit constituitque animo audisse se animal rationale mortale. Si quis
vero huiusmodi vocem ceperit, quae nihil omnino designet, animus eius nulla
significatione neque intellegentia roboratus errat ac vertitur nec ullis
designationis finibus conquiescit. Quare Aristotelis recta sententia est: et
verba secundum se dicta esse nomina et dicentem constituere intellectum
audientemque quiescere. Sed huiusmodi quaestio ab Aspasio proposita est ab
eodemque resoluta. Postquam igitur Aristoteles secundum se ƿ dicta verba nomina
esse constituit, quid inquit? SED SI EST VEL NON EST, NONDUM SIGNIFICAT. Quod
huiusmodi est ac si diceret: significatur quidem quiddam a verbis velut a
nominibus sed nulla inde tamen negatio affirmatiove perficitur. Cum enim dico
"Sapit", est quidem quaedam significatio sed nihil aut esse aut non
esse demonstrat, id est neque affirmativum aliquid nec negativum est. Nam si
affirmatio et negatio in intellectuum compositionibus invenitur, ut supra iam
docuit, neque nomina sola dicta nec verba aut affirmationem aut ullam facient
negationem. Pluribus enim modis docuit alias Aristoteles non in rebus sed in
intellectibus veritatem falsitatemque esse constitutam. Quod si in rebus esset
veritas falsitasue, una res sola dicta aut affirmatio esset aut quae ei
contraria est negatio. Nunc vero quoniam in intellectibus iunctis veritas et
falsitas ponitur, oratio vero opinionis atque intellectus passionumque animae
interpres est: [quare] sine compositione intellectuum verborumque veritas et
falsitas non videtur exsistere. Quocirca praeter aliquam compositionem nulla
affirmatio vel negatio est. Verba igitur per se dicta significant quidem
quiddam et sunt rei nomina sed nondum ita significant ut vel esse aliquid vel
non esse constituant, id est aut affirmationem faciant aut negationem. Nam
sicut in nominis partibus aut verbi partes ipsae nihil significant, omnes vero
simul designant, ita quoque in affirmationibus aut negationibus partes quidem
significant, totae vero coniunctae verum falsumue designant: ut cum dico:
Socrates philosophus est Socrates philosophus non est Singillatim positae
partes propria significatione nituntur sed nihil verum falsumue significant,
omnes vero simul iunctae, ut est: ƿ Socrates philosophus est veritatem
faciunt vel quod est huic contrarium falsitatem. Quare cum verba secundum se
dicta nomina sint et significent aliquid et partes quaedam eius compositionis
sint, quae verum falsumque faciat, non tamen ipsa in propria significatione vel
esse, quod affirmationis est, vel non esse quod est negationis, designant. Nisi
enim cui insit verbum illud fuerit additum, non fit enuntiatio: ut cum dico:
Sapit nisi quid sapiat dicam, propositio non est. Quod autem addidit:
NEQUE ENIM SIGNUM EST REI ESSE VEL NON ESSE, tale quiddam est. ESSE quod verbum
est, vel NON ESSE, quod infinitum verbum est, NON EST SIGNUM REI, id est nihil
per se significat. Esse enim nisi in aliqua compositione non ponitur. Vel certe
omne verbum dictum per se significat quidem aliquid sed SI EST VEL NON EST,
nondum significat. Non enim cum aliquid dictum fuerit, idcirco aut esse aut non
esse significat. Atque hoc est quod ait: NEQUE ENIM SIGNUM EST REI ESSE VEL NON
ESSE. Etenim quam rem verbum designat esse eius vel non esse non est signum
ipsum verbum quod de illa re dicitur, ac si sic diceret: neque enim signum est
verbum quod dicitur rei esse vel non esse hoc est de qua dicitur re, ut id quod
dico rei esse vel non esse tale sit, tamquam si dicam rem ipsam significare
esse vel non esse. Atque hic est melior intellectus, ut non sit signum verbum
eius rei de qua dicitur esse vel non esse, subsistendi scilicet vel non
subsistendi, quod illud quidem affirmationis est, illud vero negationis, et ut
sit talis sensus: neque enim verbum quod dicitur signum est subsistendi rem vel
ƿ non subsistendi. Sed quod addidit: NEC SI HOC IPSUM EST PURUM DIXERIS vel si
ita dicamus NEC SI HOC IPSUM ENS PURUM DIXERIS, Alexander quidem dicit est vel
ens aequivocum esse. Omnia enim praedicamenta, quae nullo communi generi
subduntur, aequivoca sunt et de omnibus esse praedicatur. Substantia est enim
et qualitas est et quantitas et caetera. Ergo nunc hoc dicere videtur: ipsum
ENS vel EST, unde esse traductum est, per se nihil significat. Omne enim
aequivocum per se positum nihil designat. Nisi enim ad res quasque pro
voluntate significantis aptetur, ipsum per se eo nullorum significativum est,
quod multa significat. Porphyrius vero aliam protulit expositionem, quae est
huiusmodi: sermo hic, quem dicimus est, nullam per se substantiam monstrat sed
semper aliqua coniunctio est: vel earum rerum quae sunt, si simpliciter
apponatur, vel alterius secundum participationem. Nam cum dico: Socrates
est hoc dico: Socrates aliquid eorum est quae sunt et in rebus his
quae sunt Socratem iungo; sin vero dicam: Socrates philosophus est hoc
inquam: Socrates philosophia participat. Rursus hic quoque Socratem
philosophiamque coniungo. Ergo hoc est quod dico vim coniunctionis cuiusdam
obtinet, non rei. Quod si compositionem aliquam copulationemque promittit,
solum dictum nihil omnino significat. Atque hoc est quod ait: NEC SI IPSUM EST
PURUM DIXERIS, id est solum: non modo neque veritatem neque falsitatem designat
sed omnino NIHIL est. Et quod secutus est planum fecit: CONSIGNIFICAT, inquit,
AUTEM QUANDAM ƿ COMPOSITIONEM, QUAM SINE COMPOSITIS NON EST INTELLEGERE. Nam si
est verbum compositionis. Coniunctionisque cuiusdam vim et proprium optinet
locum, purum et sine coniunctione praedicatum nihil significat sed eam ipsam
compositionem quam designat, cum fuerint coniuncta ea quae componuntur,
significare potest, sine compositis vero quid significet non est intellegere. Vel
certe ita intellegendum est quod ait IPSUM QUIDEM NIHIL EST, non quoniam nihil
significet sed quoniam nihil verum falsumue demonstret, si purum dictum sit.
Cum enim coniungitur tunc fit enuntiatio, simpliciter vero dicto verbo nulla veri
vel falsi significatio fit. Et sensus quidem totus huiusmodi est: ipsa quidem
verba per se dicta nomina sunt (nam et qui dicit intellectum constituit et qui
audit quiescit) sed quamquam significent aliquid verba, nondum affirmationem
negationemue significant. Nam quamuis rem designent, nondum tamen subsistendi
eius rei signum est, nec si hoc ipsum est vel ens dixerimus, aliquid ex eo
verum vel falsum poterit inveniri. Ipsum enim quamquam significet aliquid,
nondum tamen verum vel falsum est sed in compositione fit enuntiatio et in ea
veritas et falsitas nascitur, quam veritatem falsitatemque sine his quae
componuntur coniungunturque intellegere impossibile est. Et de verbo quidem et
de nomine sufficienter dictum est, secundo vero volumine de oratione est
considerandum. In quantum labor humanum genus excolit et
beatissimis ingenii fructibus complet, si tantum cura exercendae mentis
insisteret, non tam raris hominum virtutibus uteremur: sed ubi desidia demittit
animos, continuo feralibus seminariis animi uber horrescit. Nec hoc cognitione
laboris evenire concesserim sed potius ignorantia. Quis enim laborandi peritus
umquam labore discessit? Quare intendenda vis mentis est verumque est amitti
animum, si remittitur. Mihi autem si potentior divinitatis annuerit favor, haec
fixa sententia est, ut quamquam fuerint praeclara ingenia, quorum labor ac
studium multa de his quae nunc quoque tractamus Latinae linguae contulerit, non
tamen quendam quodammodo ordinem filumque et dispositione disciplinarum gradus
ediderunt, ego omne Aristotelis opus, quodcumque in manus venerit in Romanum
stilum vertens eorum omnium commenta Latina oratione perscribam, ut si quid ex
logicae artis subtilitate, ex moralis gravitate peritiae, ex naturalis acumine
veritatis ab Aristotele conscriptum sit, id omne ordinatum transferam atque
etiam quodam lumine commentationis illustrem omnesque Platonis dialogos
vertendo vel etiam commentando ƿ in Latinam redigam formam. His peractis non
equidem contempserim Aristotelis Platonisque sententias in unam quodammodo
revocare concordiam eosque non ut plerique dissentire in omnibus sed in
plerisque et his in philosophia maximis consentire demonstrem. Haec, si vita
otiumque suppetit cum multa operis huius utilitate necnon etiam labore
contenderim, qua in re faveant oportet, quos nulla coquit invidia. Sed nunc ad
proposita reuertamur. Aristoteles namque inchoans librum prius nomen
definiendum esse proposuit, post verbum, hinc negationem, post hanc
affirmationem, consequenter enuntiationem, orationem vero postremam. Sed nunc
cum de nomine et verbo dixit, converso ordine, quod ultimum proposuit, nunc
exsequitur primum. De oratione namque disputat quam postremam in operis dispositione
proposuit. Ait enim: ORATIO AUTEM EST VOX SIGNIFICATIVA, CUIUS PARTIUM ALIQUID
SIGNIFICATIVUM EST SEPARATUM, UT DICTIO, NON UT AFFIRMATIO. DICO AUTEM, UT HOMO
SIGNIFICAT ALIQUID SED NON QUONIAM EST AUT NON EST SED ERIT AFFIRMATIO VEL
NEGATIO, SI QUID ADDATUR. SED NON UNA HOMINIS SYLLABA. NEC IN EO QUOD EST SOREX
REX SIGNIFICAT SED VOX EST NUNC SOLA. IN DUPLICIBUS VERO SIGNIFICAT QUIDEM SED
NON SECUNDUM SE, QUEMADMODUM DICTUM EST. Videtur Aristoteles illas quoque voces
orationes putare, quaecumque vel ex nominibus vel ex verbis constent, non tamen
integrum colligant intellectum, ƿ ut sunt: Et Socrates et Plato Et ambulare et
dicere Haec enim quamquam pleni intellectus non sint, verbis tamen et
nominibus componuntur. Ait enim orationem esse vocem significativam, cuius
partes significarent aliquid separatim, significarent, inquit, non
consignificarent, ut in nomine atque verbo. Docet autem illa quoque res eum
etiam imperfectas, compositas tamen ex nominibus ac verbis voces orationes
dicere, quod ait, cum de nomine loqueretur, in eo quod est equiferus nihil
significare ferus, QUEMADMODUM IN ORATIONE QUAE EST EQUUS FERUS. Namque equus
ferus vox composita ex nominibtls est sed sententiam non habet plenam et ille
ait quemadmodum in oratione quae est equus ferus. Nam si secundum Aristotelem
equus ferus oratio est, cur non aliae quoque quae nominibus verbisque constent,
quamquam sint imperfectae sententiae, tamen orationes esse videantur? Cum
praesertim orationem ipse ita definiat: ORATIO EST VOX SIGNIFICATIVA CUIUS
PARTIUM ALIQUID SIGNIFICATIVUM EST SEPARATUM. In his ergo vocibus, quae verbis
et nominibus componuntur, partes extra significant, non consignificant. Nam si
nomen et verbum significativum est separatum, in his vero vocibus quae verbis
et nominibus componuntur partes extra significant, non consignificant, etiam
voces imperfectae nominibus verbisque compositae orationes sunt. Nam si nomen
omne et verbum significativum est, hae autem voces id est orationes nominibus
componuntur et verbis, dubium non est in his vocibus, quae ex nominibus et
verbis coniunctae sunt, partes per se significare. Quod si hoc est, et vox
cuius partium aliquid separatum et ƿ per se significat, licet sit imperfectae
sententiae, orationem tamen esse manifestum est. Sed quod addit orationis
partes significare, UT DICTIONEM, NON UT AFFIRMATIONEM, Alexander ita dictum
esse arbitratur: sunt, inquit, aliae quidem simplices orationes, quae solis
verbis et nominibus coniungantur, aliae vero compositae, quarum corpus iunctae
iam faciunt orationes. Et simplices quidem orationes partes habent eas ex
quibus componuntur, verba et nomina, ut est: Socrates ambulat Compositae
autem aliquotiens quidem tantum orationes, aliquotiens vero etiam
affirmationes, ut cum dico: Socrates ambulat et Plato loquitur utraeque
sunt affirmationes, vel: Aio te, Aeacida, Romanos vincere posse ex
orationibus non ex affirmationibus componitur talis oratio. Prior autem
simplicitas est, posterior compositio. In quibus autem prius est aliquid et
posterius, illud sine dubio definiendum est priore loco, quod natura quoque
praecedit. Ita ergo quoniam prior simplex oratio est, posterior vero composita,
prius simplicem orationem definitione constituit dicens: cuius partes
significant UT DICTIO, NON UT AFFIRMATIO, dictionem simplicis nominis aut verbi
nuncupationem ponens. In simplicibus enim orationibus huiusmodi partes sunt. In
compositis vero aliquotiens quidem orationes tantum, aliquotiens vero affirmationes,
ut supra monstravimus. Addit quoque illud: omnem, inquit, definitionem vel
contractiorem esse definita specie vel excedere non oportet. Quod si
Aristoteles ita constituisset ƿ definitionem, ut significare partes orationis
diceret ut orationes ac non ut dictiones, simplices orationes ab hac
definitione secluderet. Orationum namque simplicium partes, non ut orationes
sed ut simplicia verba nominaque significant. Nam si omnis oratio orationes
habebit in partibus, rursus ipsae partes quae sunt orationes aliis orationibus
coniungentur. Et rursus partium partes, quae eaedem quoque orationes sunt,
alias orationes in partibus habebunt. Ac si hoc intellegentia sumpserit, ad
infinitum procedit nec ulla erit prima oratio quae simplices habeat partes.
Neque enim fieri potest, ut prima dicatur oratio quae alias orationes habet in
partibus. Partes enim priores sunt propria compositione. Quod si in infinitum
ducta intellegentia nulla prima oratio reperitur, cum nulla sit oratio prima,
nec ulla postrema est. Quocirca interempta prima atque postrema omnes quoque
interimuntur et nulla omnino erit oratio. Quare non recta fuisset definitio, si
ita dixisset: oratio est vox significativa, cuius partes aliquid extra
significant ut orationes. At vero, inquit Alexander, nec si quaedam orationes
in partibus continent, idcirco iam necesse est ipsarum orationum partes
affirmationes esse, ut cum dico: Desine meque tuis incendere teque
querellis Sunt ergo huius orationis partes: una "Desine meque tuis
incendere", alia "teque querellis". Neutra harum est affirmatio,
quamquam esse videatur oratio. Quocirca nec illa fuisset recta definitio, si
ita dixisset: oratio est vox significativa, ƿ cuius partes aliquid extra
significent, ut affirmatio. Huiusmodi enim orationis cum sint partes ex orationibus
iunctae, non tamen affirmationibus totum ipsius orationis corpus efficitur. Sed
quoniam in omni oratione verba sunt et nomina, quae simplices sunt dictiones,
non autem in omnibus orationibus aut affirmationes aut orationes partes sunt,
quod commune erat id in definitione constituit, tamquam si ita diceret: oratio
est vox significativa secundum placitum, cuius partes aliquid extra
significent, ex necessitate quidem ut dictio, non tamen semper ut affirmatio
aut oratio. Neque enim fieri potest, ut inveniatur oratio, cuius partes non ita
aliquid extra significent ex necessitate, ut nomen aut verbum, cum inveniri
possit, ut ita significent orationis partes, ut tamen orationes aut
affirmationes non sint. Quare si ita dixisset: oratio est vox significativa,
cuius partes aliquid extra significant ut affirmatio, illas orationes hac
definitione non circumscripsisset, quarum partes orationes quidem sunt sed non
affirmationes, ut ille versus est quem supra iam posui. Sin vero sic dixisset:
oratio est vox significativa cuius partes aliquid extra significant ut oratio,
illas orationes in definitione reliquisset, quarum partes sunt simplices, ut
est: Socrates ambulat Sed cum dicit orationis partes ita significare, ut
dictiones, non omnino ut affirmationes, et simplices et compositas hac
definitione conclusit. Simplices quidem idcirco, quod quaelibet simplex
paruissimaque oratio nomine et verbo coniungitur, quae sunt simplices
dictiones, compositas vero, quia, cum habeant orationes in partibus, partes
ipsae habent simplices dictiones, quae ipsae simplices dictiones totius
corporis partes sunt. Ut cum dico: Si dies est, lux est "dies
est" et "lux est" partes sunt totius orationis sed harum rursus
partium partes sunt "dies" et "est", et rursus
"lux" et "est", quae rursus totius orationis, per quam dico
"Si dies est, lux est", partes sunt; sed "dies" et
"est" et rursus "lux" et "est" sunt simplices
dictiones. Quocirca etiam compositarum orationum partes indubitanter semper ita
significant, ut dictiones, non ut affirmationes aut quaedam orationes. Quare
hanc definitionem Aristoteles recte constituit. Ad hanc ergo sententiam locum
hunc Alexander expedit, illud quoque addens saepe Aristotelem de
affirmationibus dicere dictiones, quod distinguere volens, cum diceret ita significare
partes orationis tamquam dictionem, ne forte dictionem hanc aliquis et in
affirmatione susciperet, addidit ut dictio non ut affirmatio, tamquam si
diceret: duplex quidem est dictio: una simplex, alia vero affirmatio sed ita
partes orationis aliquid extra significant, ut ea dictio, quae est simplex, non
ut ea dictio, quae est affirmatio. Et huiuscemodi quodammodo intellectum tota
Alexandri sententia tenet. Porphyrius vero in eadem quoque sententia est sed in
uno discrepat. Cuius expositio talis est: dictio, inquit, est simplex nomen,
simplex etiam verbum vel ex duobus compositum, ut cum dico "Socrates"
vel rursus "ambulat" vel "equiferus". Procedit etiam nomen
hoc dictionis ad orationes quidem sed simplicibus verbis nominibusque
coniunctas, ut cum dico: Et Socrates et Plato et si sit ex composito
nomine, ut est equiferus et homo. Hae orationes quamquam ƿ coniunctae sint
atque imperfectae, tamen dictionis nomine nuneupantur. Necnon etiam transit
nomen hoc dictionis usque ad perfectas orationes, quas enuntiationes nuncupari
posterius est dicendum. Est autem enuntiatio simplex, ut si quis dicat:
Socrates ambulat et haec dicitur affirmatio. Huius negatio est: Socrates
non ambulat Simplices ergo enuntiationes sunt affirmationes vel
negationes, quae singulis verbis ac nominibus componuntur. Itaque eum dico: Si
dies est, lux est tota quidem huiusmodi oratio dictio esse non dicitur.
Composita namque est coniunctaque ex orationibus, quae sunt "dies
est" et "lux est". Hae autem sunt affirmationes et dicuntur dictiones.
Ipsae vero affirmationes quae dictiones sunt habent rursus alias dictiones
simplices, ut est dies et est et rursus lux et est. Ergo cum dico: Socrates
ambulat haec oratio partes habet dictiones, nomen scilicet et verbum,
quae dictiones quidem sint, non tamen affirmationes. Sin vero dicam: Socrates
in lycio cum Platone et caeteris discipulis disputavit haec pars
orationis quae est "Socrates in lycio cum Platone" ipsa quoque est
dictio sed non ut simplex nomen vel verbum neque ut affirmatio sed tantum ut
imperfecta oratio verbis tamen nominibusque composita. Quod si sic dicam: Si
homo est, animal est haec rursus oratio habet dictiones in partibus sed
neque ut simplices dictiones neque ut imperfectas orationes sed ut perfectas
simplicesque affirmationes. Et est una affirmatio "animal est", alia
vero est "homo est", tota vero ipsa oratio dictio non est. Quod si
dicam: Si animal non est, homo non est rursus haec oratio ex duabus
simplicibus dictionibus negativis videtur esse composita, quae nihilominus ƿ
tota dictio non est. Ita ergo dictio inchoans a simplicibus nominibus atque
verbis usque a orationes, quamuis imperfectas, provehitur nec in his tantummodo
consistit sed ultra etiam ad simplices affirmationes negationesque transit et
in eo progressionis terminum facit. Ergo quoniam non omnis oratio artes habet
affirmationes et negationes, quae sunt perfectae enuntiationes simplicium
dictionum, quoniamue non omnis oratio imperfectas orationes habet in partibus,
omnis tamen oratio simplices dictiones retinet, quippe cum omnis ex verbis
nominibusque iungatur, hoc ait orationis partes significare semper quidem ut
dictiones, non tamen semper ut affirmationes, consentiente Alexandro, cuius
expositionem supra iam docui. Atque ita diligentior lector differentias eorum
recte perspiciet et consentientes communicat intellectus. Hoc loco Aspasius
inconvenienter interstrepit. Ait enim non in omnes orationes Aristotelem
definitionem constituere voluisse sed tantum simplices, quae ex duobus
constant, verbo scilicet et nomine. Sed ille perfalsus est. Neque enim si sim
otatio simplicibus verbis nominibusque consistit, idirco non composita quoque
oratio verba et nomina bimiliter in partibus habet. Quod si hoc commune est
simplicibus orationibus atque compositis, ut habeant artes dictiones quidem
simplices, non etiam affirmationes, ut etiam quae affirmationes orationes
habent, hae tamen habeant in partibus simplices dictiones, cur hanc quaestionem
in Aristotelem iaciat, ratione relinquitur. Syrianus vero, qui Philoxenus cognominatur,
non putat orationes esse quarum intellectus ƿ sit imperfectus atque ideo nec
eas aliquas habere partes. Nam cum dicit: Plato in Academia disputans
haec quoniam perfecta non est, partes, inquit, non habet, arbitrans omne quod
imperfectum est nullis partibus contineri. Atque ideo, cum dicit Aristoteles:
oratio est vox significativa cuius partes aliquid extra significent, illam
orationem constitui putat, quae perfectum retinet sensum. Ipsarum enim partes
esse verba et nomina. Sed hoc ridiculum est. Neque enim compositum aliquid
fieri potest nisi propriis partibus. Quod si quaelibet res ut componatur habeat
decem partes, eas tamen singillatim apponi necesse sit, antequam ad decimam
veniamus partem: nihilo tamen minus partes erunt quas sibimet ad componendam
totius corporis summam singillatim superponimus etiam si ad illud quod
componendum fuit minime peruentum est. Quocirca si antequam perveniatur ad
ultimam partem priores partes effecti compositique partes sunt, nulla ratio est
imperfectae rei partes dici non posse. Neque enim dicitur totius compositi
partes esse, quae sint imperfecti. Ut si sit integrum nomen habeatque partes
quatuor, id est syllabas, ut Mezentius, si unam syllabam demam dicamque
mezenti, vel si unam rursus duasque ponam, ut sunt mezen, huius tamen utraque
syllaba me scilicet et zen partes sunt, et cum sit compositio ipsa sensu uacua
ac sit imperfecta, tamen partibus continetur Syrianus igitur minime audiendus
est sed potius Porphyrius, qui ita Aristotelis mentem sententiamque persequitur,
ut eius definitionem, sicut vera est, labare et in aliquibus aliis discrepare
non faciat. ƿDe his quidem hactenus. Porphyrius autem ita dicit: voleus,
inquit, Aristoteles ostendere omnem orationem aut simplices tantum habere
partes aut compositas, a simplicibus sumpsit exemplum, ut diceret significare
orationis partes, UT DICTIONEM NON UT AFFIRMATIONEM, ut cum est oratio: Plato
disputat dictiones quidem sunt sed non ut affirmationes. Si vero sic
esset oratio: Si Plato disputat, verum dicit "Plato disputat"
et "verum dicit", cum sint dictiones, non sunt tamen ut simplices sed
ut iam affirmationes. Neque enim simplex dictio affirmatio est aut negatio sed
tunc fit, cum additur aliquid, quod aut affirmationis vim teneat aut negationis.
Atque hoc est quod ait: DICO AUTEM, UT HOMO SIGNIFICAT ALIQUID SED NON QUONIAM
EST AUT NON EST SED ERIT AFFIRMATIO VEL NEGATIO, SI QUID ADDATUR. Hoc huiusmodi
est, tamquam si diceret: nomen quidem simplex affirmationem aut negationem non
facit, nisi aut "est" verbum addatur, quae est affirmatio, aut
"non est", quae est negatio. Quod autem addit: SED NON UNA HOMINIS
SYLLABA. NEC IN EO QUOD EST SOREX REX SIGNIFICAT' SED VOX EST NUNC SOLA. IN
DUPLICIBUS VERO SIGNIFICAT QUIDEM SED NIHIL SECUNDUM SE, QUEMADMODUM DICTUM
EST, huius loci duplex est expositio. Quod enim dixerat prius: SED ERIT
AFFIRMATIO VEL NEGATIO SI QUID ADDATUR EI DICTIONI, quam supra simplicem esse
proposuit, cum de significativa orationis parte loqueretur, nunc id implet et
explicat dicens non si quodlibet addatur simplici dictioni, statim fieri
affirmationem vel negationem, nec vero orationem neque enim si quid non per se
significativum dictioni ƿ simplici copuletur, idcirco iam vel oratio vel
affirmatio vel etiam negatio procreabitur. Neque enim si una hominis syllaba
quae significativa per se non est dictioni eidem ipsi addatur, iam ulla inde
procreatur oratio. Quod si oratio non fit, nec affirmatio nec negatio. Hae enim
orationes quaedam sunt. Ut si quis ex eo quod est homo tollat unam syllabam
eamque totae dictioni simplici aptet dicatque homo mo vel alio quolibet modo
deeidens partem toti corpori dictionis adiciat, non faciet orationem. Quod si
hoc est, nec affirmationem nec negationem, quae quaedam sunt orationes. Ergo
ita accipiendum est, tamquam si hoc modo dixisset: DICO AUTEM, UT HOMO
SIGNIFICAT ALIQUID SED NON QUONIAM EST AUT NON EST SED ERIT AFFIRMATIO VEL
NEGATIO, SI QUID ADDATUR SED NON UT UNA HOMINIS SYLLABA ADDATUR nec cuiuslibet
alterius dictionis, si quid per se non significat, ut in eo quod est sorex rex
non significat sed vox est nunc sola. Atque ideo si quis velut partem tollat,
id quod est rex, apponatque ei quod est sorex et dicat sorex rex, ut rex
tamquam pars sit eius quod est sorex, oratio nulla est atque ideo neque
affirmatio nec negatio. Hae enim ex vocibus per se significativis constant. Rex
vero in eo quod est sorex quoniam pars est nominis, nihil ipsa significat. Vel
certe erit melior intellectus, si hoc quod ait SED NON UNA HOMINIS SYLLABA non
aptemus ad orationis perfectionem sed potius ad dictionis significationem, ut
quoniam superius dixit orationis partes ita significare ut dictionem non ut
affirmationem, ƿ quae esset dictio, manifeste monstraret. Dictionem namque
constituit vocem per se significantem. Ergo cum dicit SED NON UNA HOMINIS
SYLLABA, tale est ac si diceret: significat quidem pars orationis ut dictio sed
hae ipsae dictiones perfecta nomina sunt et verba, non partes nominum
verborumque. In eo enim quod est: Equiferus currit equiferus quidem
dictio est totius orationis significans ut pars orationis sed 'ferus'
consignificat ut pars nominis atque ideo 'ferus' dictio non est. Quocirca nec
si qua alia syllaba in parte orationis sit, id est in nomine vel verbo, nihil
per se significans. Quamquam sit in parte nominis, quod nomen pars orationis
est, nihil tamen ipsa significabit in tota oratione: quare nec dictio erit. Audiendum
ergo ita est tamquam si sic diceret: ORATIO AUTEM EST VOX SIGNIFICATIVA, CUIUS
PARTIUM ALIQUID SIGNIFICATIVUM EST SEPARATUM, UT DICTIO, NON UT AFFIRMATIO.
DICO AUTEM, UT HOMO SIGNIFICAT ALIQUID et est quaedam dictio et simplex. Nam
neque oratio est, quoniam simplex est, nec affirmatio neque negatio, quoniam
non significat esse aut non esse sed erit tunc affirmatio, quando aliquid
additur, quod affirmationem negationemue constituit. Sed quod aio dictionem
esse id quod dicimus homo, idcirco dictio est, quoniam per se significat.
Syllaba vero eius nominis quod est ƿ homo, quoniam nihil designat, non est
dictio (hoc est enim SED NON UNA HOMINIS SYLLABA) vel si videatur quidem
significare, pars tamen sit nominis et consignificet in nomine, in tota
oratione nihil significat. Neque enim pars orationis est. Quod per hoc dixit
quod ait: NEC IN EO QUOD EST SOREX REX SIGNIFICAT SED VOX EST NUNC SOLA nihil
significans. Unde probatur huiusmodi particulas non esse dictiones. Vox enim
sola non est dictio sed vox per se significans. Si qua autem sunt, inquit,
nomina, quae sint composita ex aliis, ut est equiferus, emittunt quidem quandam
imaginem significandi sed per se nihil significant, consignificant autem. In
simplicibus vero nominibus nec imaginatio ulla significandi est, ut in eo quod
est Cicero: partes eius cum simplices sono, tum etiam intellectu praeter
cuiuslibet imaginationis similitudinem sunt. In duplicibus vero uult quidem
pars significare sed nullius separati significatio est, idcirco quoniam solum
consignificat id quod totum compositi nominis corpus designat, ipsum vero
separatum (ut saepius dictum est) nihil extra significat. EST AUTEM ORATIO
OMNIS QUIDEM SIGNIFICATIVA NON SICUT INSTRUMENTUM SED (QUEMADMODUM DICTUM EST)
SECUNDUM PLACITUM. Secundum placitum esse orationes illa res approbat, quod
earum partes secundum placitum sunt, id est verba et nomina. Quod si omne
compositum ab his, ex quibus est compositum, sumit naturam, vox quae positione
constitutis vocibus iungitur ipsa quoque secundum placitum positionemque
formatur. Quare manifestum est orationem secundum placitum esse. Plato autem in
eo libro, qui inscribitur "Cratylus", aliter esse constituit eamque
dicit supellectilem quandam atque instrumentum esse significandi res eas, quae
naturaliter intellectibus concipiuntur, eorumque intellectuum vocabulis
dispertiendorum. Quod omne instrumentum, quoniam naturalium rerum, secundum
naturam est, ut videndi oculus, nomina quoque secundum naturam esse arbitratur.
Sed hoc Aristoteles negat et Alexander multis in eo nititur argumentis
monstrans orationem non esse instrumentum naturale. Aristoteles vero ita utitur
dicens: EST AUTEM ORATIO OMNIS QUIDEM SIGNIFICATIVA NON SICUT INSTRUMENTUM,
tamquam si diceret: est quidem omnis oratio significativa, non tamen
naturaliter. Instrumentum enim hoc demonstrat, tamquam si diceret naturaliter,
quod qui instrumentum orationem esse negat, negat eam naturaliter significare
sed ad placitum. Naturalium enim rerum naturalia sunt instrumenta. Idcirco
autem instrumentum pro natura posuit, quod (ut dictum est) Plato omnium artium
instrumenta secundum naturam ipsarum artium consistere proponebat. Et Alexander
quidem non esse instrumentum orationem sic ingreditur approbare: omnis, inquit,
naturalium actuum supellex ipsa quoque naturalis est, ut visus quoniam natura
datur, eius quoque supellex ƿ est naturalis, ut oculi. Eodem quoque modo
auditus cum naturalis sit, aures nobis, quae sunt audiendi instrumenta,
naturaliter datas esse cognoscimus. Quare quoniam oratio ad placitum, non
naturaliter est (partes enim manifestum est orationis ad placitum positas, quae
sunt scilicet verba et nomina, sicut monstrat apud omnes gentes diversitas
vocabulorum): quoniam ergo per haec secundum placitum omnis oratio esse
monstratur, quod autem secundum placitum est, non est secundum naturam: non est
ergo oratio supellex. Significandi enim ratio atque potestas naturaliter est.
Quod si oratio naturaliter non est, non est supellex. His aliisque similibus
monstrat non esse supellectilem orationem. Quocirca dicendum nobis est
naturaliter quidem nos esse vocales potentesque naturaliter vocabula rebus
imprimendi, non tamen naturaliter significativos sed positione: sicut artium
singularum naturaliter sumus susceptibiles sed eas non naturaliter habemus sed
doctrina concipimus: ita ergo vox quidem naturaliter est sed per vocem
significatio non naturaliter. Neque enim vox sola est nomen aut verbum sed vox
quadam addita significatione. Et sicut naturaliter est moveri, saltare vero
cuiusdam iam artificii et positionis, et quemadmodum aes quidem naturaliter
est, statua vero positione aut arte: ita quoque possibilitas quidem ipsa
significandi et vox naturalis est, significatio vero per vocem positionis est,
non naturae. Hactenus quidem de communi oratione locutus est, nunc autem transit
ad species eius. Ait enim: ENUNTIATIVA VERO NON OMNIS SED IN QUA VERUM VEL
FALSUM INEST. NON AUTEM IN OMNIBUS, UT DEPRECATIO ORATIO QUIDEM EST SED NEQUE
VERA NEQUE FALSA. ET CAETERAE QUIDEM RELINQUANTUR; RHETORICAE ENIM VEL POETICAE
CONVENIENTIOR CONSIDERATIO EST; ENUNTIATIVA VERO PRAESENTIS EST SPECULATIONIS.
Species quidem orationis multae sunt sed eas varie partiuntur. At vero
Peripatetici quinque partibus omnes species orationis ac membra distribuunt.
Orationis autem species dicimus perfectae, non eius quae imperfecta est.
Perfectas autem voco eas quae complent expediuntque sententiam. Et sit nobis
hoc modo divisio: sit oratio genus: orationis aliud est imperfectum, quod
sententiam non expedit, ut si dicam: Plato in lycio aliud vero perfectum.
Perfectae autem orationis alia est deprecativa, ut: Adsit laetitiae Bacchus
dator alia imperativa, ut: Accipe daque fidem alia interrogativa,
ut: Quo te, Moeri, pedes? An quo via ducit? Alia vocativa, ut: O qui res
hominumque deumque Aeternis regis imperiis alia enuntiativa, ut: Dies
est et: Dies non est In hac sola, quae est enuntiativa, veri
falsive natura perspicitur. In caeteris enim neque veritas neque falsitas
invenitur. Et multi quidem plures species esse dicunt perfectae orationis, alii
autem innumeras earum differentias produnt sed nihil ad nos. Cunctae enim
species orationis aut oratoribus accommodatae sunt aut poetis, sola enuntiativa
philosophis. Ergo hoc dicit: non omnis oratio enuntiativa est. Sunt enim
plurimae quae enuntiativae non sunt, ut hae quas supra proposui. Haec autem
sola est, in qua verum falsumque inveniri queat. Quocirca quoniam de ista, in
qua veritas et falsitas invenitur, dialecticis philosophisque est quaerendum,
caeterae autem aut poetis aut oratoribus accommodatae sunt, iure de hac sola
tractabitur, id est de enuntiativa oratione. Hucusque ergo de partibus
interpretationis et de communi oratione locutus est. Nunc autem adstringit
modum disputationis in speciem et de una specie orationis tractat deque una
interpretatione, quae est enuntiativa. Species namque est enuntiatio
interpretationis, negatio vero et affirmatio enuntiationis. Quare de
enuntiativa oratione considerandi hinc cum ipso Aristotele commodissimum
sumamus initium. EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE
NEGATIO; ALIAE VERO CONIUNCTIONE UNAE. NECESSE EST AUTEM OMNEM ORATIONEM
ENUNTIATIVAM EX VERBO ESSE VEL CASU. ETENIM HOMINIS RATIO, SI NON AUT EST AUT
ERIT AUT FUIT AUT ALIQUID HUIUSMODI ADDATUR, NONDUM EST ORATIO ENUNTIATIVA.
QUARE AUTEM UNUM QUIDDAM EST ET NON MULTA ANIMAL GRESSIBILE BIPES, NEQUE ENIM
EO QUOD PROPINQUE DICUNTUR UNUM ERIT, EST ALTERIUS HOC TRACTARE NEGOTII. Una
oratio duplici tractatur modo: vel cum per se una est vel cum per aliquam
coniunctionem coniungitur. ƿ Vel certe ita dicendum est: aliae orationes
naturaliter unae sunt, aliae positione. Et naturaliter quidem unae sunt
orationes, quae non dissoluuntur in alias orationes, ut est: Sol oritur
Quae autem positione sunt unae in alias orationes dissoluuntur, ut est: Si homo
est, animal est haec enim in orationes alias separatur. Et quemadmodum
lignum vel lapis singillatim in propria natura consistunt et una sunt, ex his
autem facta navis vel domus cum pluribus quidem constent, unae tamen arte sunt,
non natura: ita quoque in orationibus simplices et per se naturaliter unas
orationes dicimus, quae verbo tantum et nomine iunguntur, compositas autem,
quae in alias (ut dictum est) orationes dividuntur. Multas enim orationes in
huiusmodi orationibus coniunctio iungit, ut si dicam: Et Plato est et
Socrates haec coniunctio et utrasque coniunxit atque ideo una videtur
positione, quae naturaliter et per se una non fuerat. Naturaliter autem unius
orationis duae partes sunt: affirmatio et negatio. Sed quoniam non ita dixit:
EST AUTEM UNA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO VEL NEGATIO, DEINDE UNA
CONIUNCTIONE sed ait: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE
NEGATIO, huiusmodi oritur quaestio, utrum id quod ait prima ad affirmationem
referatur, ut sit posterior negatio, an id quod ait prima ad simplicem
rettulerit orationem, ut secunda sit, quae ex orationibus iungitur. Quam
dubietatem ipse dissolvit. Sic enim inquit: EST AUTEM PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA
AFFIRMATIO, et ut quam secundam diceret demonstraret ait DEINDE NEGATIO, ut
primam affirmationem poneret, ƿ secundam negationem. Quod si ita dixisset: EST
AUTEM UNA PRIMA ENUNTIATIVA ORATIO AFFIRMATIO VEL NEGATIO, DEINDE CONIUNCTIONE
UNAE, ita oporteret intellegi tamquam si diceret illam esse primam unam
orationem, quae simplex esset, cuius partes affirmatio essent atque negatio,
secundam vero illam, quae coniunctione quadam una fieret, cum ex orationibus
iungeretur. Sed quoniam id quod ait prima ad affirmationem iunxit dicens EST
AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, ad negationem vero 'deinde'
subiunxit dicens DEINDE NEGATIO, dicendum est primam eum orationem esse
arbitrari affirmationem, secundam vero negationem, cui 'deinde' continenter
apposuit. Sed rursus incurrimus Alexandri quaestionem. Per hoc enim negationem
affirmationemque negat sub uno genere poni oportere, sub enuntiatione, quod in
his, quae priora vel posteriora sunt, commune genus non potest inveniri. Sed
huic supra iam dictum est, non oportere omnia quaecumque quolibet modo priora
vel posteriora sunt a genere communi secernere (alioquin sic primae et secundae
substantiae sub uno genere substantiae non ponentur, sic etiam simplices et
compositae orationes, quarum simplices propositiones primae sunt, posteriores
compositae, uno genere non continebuntur) sed illa sola putanda sunt sub eodem
genere poni non posse, quae ad substantiam priora vel posteriora esse
cognoscimus, quae vero ad suum esse aequalia sunt nihil prohibet sub eodem
genere utraque constitui. Ergo quoniam affirmationi et negationi hoc est esse,
quod ƿ in his veritas et falsitas reperitur, hoc autem est enuntiatio, in qua
scilicet veritatis et falsitatis constituta sit ratio: quoniam ad id quod falsi
verique significativae sunt neque affirmatio prior neque negatio posterior est,
nullus dubitat a quo aequaliter participant affirmatio et negatio eidem generi
posse supponi. Sed affirmatio atque negatio aequaliter enuntiatione
participant, siquidem enuntiatio veri falsique utitur significatione et
affirmatio et negatio veritatem atque mendacium aequaliter monstrat: enuntiatio
igitur affirmationis et negationis genus esse ponenda est. Quod ergo ait: EST
AUTEM PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO; ALIAE VERO
CONIUNCTIONE UNAE, ita intellegendum est, quod affirmationem primam, secundam
vero negationem, cui addidit deinde, in prolatione posuerit. Prior enim est
affirmatio, posterior negatio, in prolatione dumtaxat, non secundum veri
falsique designationem. Quocirca nihil prohibet et priorem putari affirmationem
negatione et tamen utrasque sub uno genere id est enuntiatione constitui. Sed
quod secutus est: NECESSE EST AUTEM OMNEM ORATIONEM ENUNTIATIVAM EX VERBO ESSE
VEL CASU, huiusmodi est: volens Aristoteles distribuere dictionem,
affirmationem, negationem, enuntiationem, contradictionem sensum confusa
brevitate permiscuit et nebulis obscuritatis implicuit. Oportuit namque prius
quid esset dictio, post autem quid affirmatio et negatio et rursus enuntiatio
et contradictio constituere. Sed haec interim praetermittit, nunc vero
quemadmodum constituatur enuntiatio docet dicens, quod omnis enuntiatio constet
in verbo. Quoniam simplex dictio est nomen ƿ aut verbum, omnis enuntiatio
simplex huiusmodi est, ut semper quidem vel vertum vel aliquid quod idem
valeat, tamquam si diceretur verbum vel casum verbi, in praedicatione retineat
sed non semper subiectus terminus fit ex nomine, semper tamen praedicatus ex
verbo. Sit enim huiusmodi propositio, quae est: Sol oritur in hac ergo
propositione quod dico "sol" subiectum est, quod vero dico
"oritur" praedicatur. Et utrasque has dictiones terminos voco sed
quodcumque prius dicitur in simplici enuntiatione, illud subiectum est, ut in
hac "sol", quod vero posterius, illud praedicatur, ut in eadem
"oritur". Ergo necesse est omnem enuntiativam orationem, si simplex
sit, verbum in praedicatione retinere, ut in eadem ipsa cum dico "Sol
oritur", "oritur" verbum est -- vel quod idem valeat, ut est:
Socrates non ambulat "Non ambulat" enim infinitum verbum est et
verbum quidem non est sed eandem vim retinet quam verbum. Casus etiam verbi
ponitur saepe, ut Socrates fuit Subiectus vero terminus non semper
consistit in nomine. Potest enim et infinitum nomen habere, ut cum dico: Non
homo ambulat potest etiam verbum, ut cum dico: Ambulare movere est
Ergo (ut arbitror) plene monstratum est non semper subiectum nomen esse, semper
autem praedicatum in solo verbo consistere. Approbans ergo verba semper in
praedicationibus poni hoc addidit: nisi enim aut est aut fuit aut aliquid
huiusmodi sit additum aut quod idem valeat apponatur, enuntiatio non fit. Cum
enim dico: Homo est 'est' verbum in praedicatione proposui, sin vero
dixero: Homo vivit idem valet tamquam si dicam homo vivus est. Ergo non
posse sine verbo affirmationem negationemue constitui ƿ docuit per id quod ait
ETENIM HOMINIS RATIO, SI NON AUT EST AUT ERIT AUT FUIT AUT ALIQUID HUIUSMODI
ADDATUR, NONDUM EST ORATIO ENUNTIATIVA. Hoc enim dicere videtur: definitio
hominis est verbi gratia animal gressibile bipes et haec est ratio humanae
substantiae. Ergo haec ratio, nisi ei aut est aut erit aut fuit aut quodlibet
verbum (sicut supra dictum est) apponatur, enuntiatio non fit; neque enim verum
neque falsum est. Si enim dicam tantum animal gressibile bipes, nulla me
veritas mendaciumue consequitur. Sin autem dixero animal gressibile bipes est
vel non est, affirmatio mox negatioque conficitur, quas enuntiationes esse quis
dubitet? Sed cum de simplicibus enuntiationibus loqueretur, ait hominis
rationem id est definitionem non esse enuntiationem, nisi ei aut est aut erit
aut huiusmodi aliquid apponatur, approbans scilicet unam esse et non
multiplicem orationem definitionis humanae, cui si est aut erit aut fuit
adderetur, enuntiationem simplicem faceret. Cur vero una sit talis oratio causa
quaeritur. Neque enim ex solis duobus terminis constat id quod dicimus animal
gressibile bipes, ut quae nomina plura sunt. Quare ipse sibi institit et de sua
propositione rationem quaesivit, quam nunc dicere supersedit. Ait enim: QUARE
AUTEM UNUM QUIDDAM EST ET NON MULTA ANIMAL GRESSIBILE BIPES, NEQUE ENIM EO QUOD
PROPINQUE DICUNTUR UNUM ERIT, EST ALTERIUS HOC TRACTARE NEGOTII, hoc scilicet
quaerens, tamquam si ita ipse ex persona sua diceret: de simplicibus
enuntiationibus omnibus loquebar deque his proposui eas praeter verbum esse ƿ
non posse et ad hanc rem probandam exemplum sumpsi definitionem hominis, cui
nisi aut est aut erit aut fuit apponeretur, enuntiationem non fieri dixi, quasi
una et non multiplex esset oratio ea per quam dicitur animal gressibile bipes,
de qua fieri posset simplex enuntiatio. Cur autem una erit oratio animal
gressibile bipes, ALTERIUS, inquit, EST HOC TRACTARE NEGOTII, cum de rebus non
de propositionibus perspiciendum est. Nam non idcirco una est oratio, quia
continve dicitur et coniuncte sibimet animal gressibile bipes. Hoc enim si ita
esset, possemus et hanc orationem, quae tam multa significat, unam dicere, si
continve proferatur, ut est: Socrates philosophus simus caluus senex Ergo
quemadmodum huiusmodi oratio sit multiplex et non una, posterius dicemus. Nunc
ergo manifestum sit hanc orationem quae dicit Socrates philosophus simus caluus
senex non esse unam sed multiplicem. Si ergo propinquitas proferendi ipsa
continuatione unam faceret orationem, posses haec quoque una esse oratio, quae
manifesto non una esse docebitur. Quare non idcirco erit una oratio ea quae
dicit animal gressibile bipes, quod propinque et continve profertur. Quae autem
causa sit ut una sit, ipse dicere distulit sed in libris eius operis, quod
*Meta ta physika* inscribitur, expediet. Theophrastus autem in libro de
affirmatione et negatione sic docuit: definitionem unam semper esse orationem
eamque oportere continuatim proferre. Illa enim una oratio esse dicitur, quae
unius substantiae designativa est. Definitio autem, ut verbi gratia hominis
animal gressibile ƿ bipes, una est oratio per hoc, quoniam unum subiectum id
est hominem monstrat. Si ergo continve proferatur et non divise, una est
oratio, et quia continve dicitur et quia unius rei substantiam monstrat; sin
vero quis dividat et orationem unam rem significantem proferendi intermissione
distriboat, multiplex fit oratio. Ut si dicam animal gressibile bipes, unam rem
mihi tota monstrat oratio et continve dicta est; sin vero dicam animal et
rursus gressibile et sub intermissione repetam bipes, multiplex fit distribute
intermissione oratio. Et rursus adversum id quaestio. Et quis hoc non iure
culpet posse eam quae una est orationem intermissione proferendi fieri
multiplicem, cum continuatio proferendi non faceret unam, quae esset multiplex
per naturam? Sicut enim in his, quae multiplices sunt naturaliter, non potest
continuatio proferendi unam facere orationem, sic quoque non debet quae est una
naturaliter oratio idcirco quod de uno subiecto dicatur fieri multiplex per
intermissionem. Sed hoc ita solvitur: nam cum dicimus animal et sub
intermissione rursus gressibile eodemque modo iterum bipes, non hoc ita
dicimus, tamquam si in unum cuncta coniuncta sins. Quocirca quoniam est quidem
animal, est rursus gressibile, est rursus bipes, quoniam plura sunt et
pluraliter dicta id est distributa, non videntur ad unum subiectum distributa
posse praedicari, sicut cum dico "Socrates philosophus caluus senex",
haec omnia non est simplex oratio, nec si continve proferatur, quod ad unam
substantiam non tendunt: accidentia enim sunt et extrinsecus veniunt. Probatur
autem neque eas orationes, quae per divisionem dicuntur, ƿ neque eas, quae non
ad unam substantiam tendunt, unas esse, hoc modo: si dicat quis animal et
rursus gressibile et iterum bipes, non unum est animal nec unum gressibile nec
unum bipes. Sin vero dixero "animal gressibile bipes" continve et
propinque, unum est, quod tria ista iuncta significant, id est homo. Convertamus
nunc animum ad eas quae plura quidem significant sed continve proferuntur, ut
cum dico "Socrates philosophus caluus senex": videtur quasi quaedam
Socratis esse definitio philosophus caluus senex sed non necesse est, si
huiusmodi Socrates fuit, omnem quicumque philosophus senex caluus est esse
etiam Socratem. In multis ergo continuatio ista valet accidere. Quocirca non
unum significat, quamquam continve proferatur. Ergo si ex omnibus unum quiddam
significetur et continve proferatur, una est oratio, ut partes quaedam rei
definitae sint ea quae in definitione ponuntur, non accidentia. Et proficit
quidem aliquid continua prolatio ad perficiendam unam orationem sed ipsa sola
non sufficit, nisi unum quoque subiectum sit. Atque ideo dixit Aristoteles animal
gressibile bipes non idcirco esse unam orationem, quod propinque dicatur. Nam
neque sufficit ad constituendam unam orationem propinquitas proferendi nihilque
prohiberet, quae naturaliter essent multiplices, eas continve et propinque
prolatas unas videri. Sed huius rei rationem Aristoteles ponere distulit.
Sensus ergo huiusmodi est: NECESSE EST, inquit, OMNEM ENUNTIATIVAM ORATIONEM EX
VERBO ESSE VEL CASU. ETENIM HOMINIS RATIO, quae et ipsa quoque oratio est, SI
NON AUT EST AUT ERIT AUT FUIT AUT ALIQUID HUIUSMODI ILLI ADDATUR, NONDUM EST
enuntiatio. Hoc vero in solis simplicibus enuntiationibus evenit, in his autem
quae coniunctione unae sunt (ut supra ait) non omnino est. Cum enim dico dies
est, vis tota in verbo est; si autem cum coniunctione proferam: Si dies est,
lux est tota vis in coniunctione consistit, id est 'si'. Veritatis enim
aut falsitatis rationem sola coniunctio tenet, quae conditionem proponit, cum
dicit "Si dies est, lux est": si enim illud est, illud evenit. Igitur
in coniunctione omnis vis huiusmodi propositionis est, omnis autem simplex
propositio totam vim in verbo habet positam. Et quemadmodum in his, quae
hypotheticae vel conditionales dicuntur, coniunctiones propositionis vim
tenent, sic in simplicibus propositionibus praedicatio vim optinet, unde et
Graece quoque tales propositiones praedicativae dicuntur, scilicet quae
simplices sunt, quod in his totam propositionem optineat praedicatio. Atque
ideo Aristoteles ait ex verbo vel casu fieri simplicem enuntiationem. Nam
praeter id quod totam continet propositionem praedicativam scilicet, id est
praeter praedicationem, enuntiatio non fit. Unde est ut negatio quoque non ad
subiectum sed ad praedicatum semper aptetur. Nam cum dico: Sol oritur non
est huius negatio: Non sol oritur sed illa quae est: Sol non oritur
Atque ideo negatio ad subiectum posita non facit contrariam propositionem, ad
praedicatum vero contrariam reddit. Recte igitur Aristoteles de subiecto quidem
nihil locutus est. Non enim praedicativam propositionem subiectus terminus
tenet sed tantum praedicatio, quae totam enuntiationem propria virtute
confirmat. EST AUTEM UNA ORATIO ENUNTIATIVA QUAE UNUM SIGNIFICAT VEL
CONIUNCTIONE UNA, PLURES AUTEM QUAE PLURA ET NON UNUM VEL INCONIUNCTAE. Hinc
monstratur quoniam tum cum dixit: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA
AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO, primam non eum de ea oratione dixisse, quae
naturaliter una est sed de affirmatione. Alioquin hic quoque repetens ita
dixisset: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA QUAE UNUM SIGNIFICAT. Sed
quoniam non ita dixit, manifestum est quod dudum ait primam non ad orationem,
quae praeter coniunctionem una est, rettulisse sed ad affirmationem, quam
negatione priorem esse constaret. Sed hoc iam superius dictum est. Quid autem
sibi velit haec enumeratio, paucis expromam multas enim confusiones multosque
in orationibus errores hic locus optime intellectus veraciterque perceptus
sustulit. Et est haec expositio quam nullus ante Porphyrium expositorum vidit.
Non est idem namque unam esse orationem et multiplicem, quod simplicem et
compositam, et distat una a simplici, distat etiam multiplex a composita. Est
ergo una oratio quae unum significat, multiplex autem quae non unum sed plura.
Fit autem hoc in huiusmodi orationibus, ut cum dico: Cato philosophus est
Haec oratio non est una: non enim unum significat potest enim monstrare et
Catonem Uticensem esse ƿ philosophum, potest etiam ostendere et Catonem
Censorium oratorem esse philosophum. Qua in re non una est oratio atque idcirco
in Uticensi quidem Catone vera est, in oratore vero falsa. Huiusmodi ergo
orationes multas vocamus. Sin vero unum significet, ut cum dicimus: In charta
scribitur illam dicimus unam. Ergo una quae sit vel multiplex oratio, ex
his intellegitur quae significant. Si enim unam significat rem, una est, si
multas, multiplex. Simplices autem et compositae orationes non ad
significationem sed ad terminos ipsos dictionesque, quae in propositionibus
sumuntur, referendae sunt. Et est quidem simplex oratio enuntiativa, quae ex
solis duobus terminis constat, ut est: Homo vivit Sive autem his
propositionibus omnis addatur, ut est: Omnis homo vivit sive nullus, ut:
Nullus lapis vivit sive aliquis, ut: Aliquis homo vivit quoniam
termini ipsi duo sunt, simplex vocatur propositio. Composita vero, si ultra
duos terminos enuntiat, ut est: Plato philosophus in lycio ambulat hic
enim quatuor sunt termini, vel si tres sint, ut: Plato philosophus
ambulat Hae quoque, si eis omnis aut nullus aut aliquis addatur, eodem
modo compositae sunt. Ergo una vel multiplex oratio intellegitur, si unum vel
multa significent, et de propria semper significatione iudicantur. Simplex
autem et composita non ex significatione sed ex verborum vel nominum
pluralitate cognoscitur. Si enim ultra duos terminos habet propositio,
composita est, sin duos tantum, simplex. Si ergo semper quae ƿ simplex oratio
est, id est quae duobus terminis constat, unam tantum significantiam retineret,
indifferenter dici posset una oratio et simplex (eadem enim una esset, quae
etiam simplex) sed quoniam non omnis simplex unum significat, non omnis simplex
una est. Potest ergo fieri ut simplex quidem sit propositio, multae tamen
orationes: simplex quidem ad compositionem dictionum, multae vero ad
significationem sententiarum. Quare erit in hoc gemina differentia, ut unam
dicamus simplicem unamque orationem, alteram simplicem et plures orationes. Rursus
si omnes compositae orationes plures etiam res significarent, indifferenter
diceremus multiplicem et compositam; sed quoniam fieri potest ut propositio
aliquotiens quidem constet ex numerosis pluribusque terminis quam sunt duo,
unam tamen sententiam monstret, potest fieri ut composita quidem sit, una tamen
oratio sit significatione, composita dictione, ut est animal rationale mortale
mentis et disciplinae capax: haec quidem plura sunt sed his una subiecta
substantia est id est homo, quare una quoque sententia. Sin vero quis dicat:
Socrates et ambulat et loquitur et cogitat multa sunt. Diversa enim sunt
quod ambulat et quod loquitur et quod cogitat. Quare erit aliquando composita
quidem oratio, una tamen. Sed quoniam composita oratio aliquotiens quidem
continve sine coniunctione dicitur, aliquotiens coniunctione copulatur, fiunt
hinc quatuor differentiae. Est enim una oratio composita ex terminis continuatim
dictis et sine coniunctione unam sententiam monstrans, ut est: ƿAnimal
rationale mortale mentis et disciplinae perceptibile. Haec enim oratio
composita quidem est ex multis terminis sed coniunctionem non habet (nam quod
dictum est mentis et disciplinae perceptibile, haec coniunctio quae est et
nullam in tota propositione vim optinet: neque enim coniungit propositionem sed
artem addit, cuius susceptibilis homo esse videatur) et habet unam sententiam
subiectam, quod est homo. Alia vero est composita ex terminis nulla
coniunctione copulatis multiplex et non unam significans propositionem, ut est:
Plato Atheniensis philosophus disputat Aliud enim est esse Platonem,
aliud esse philosophum, aliud Atheniensem, aliud disputantem, et haec coniuncta
unum aliquid non faciunt quasi substantiam. Quare haec multiplex est sed eam
manifestum est nulla coniunctione copulari.Alia vero est composita ex
propositionibus inconiunctis multiplex, ut est: Iuppiter optimus maximus est,
Iuno regina est, Minerua dea sapientiae est Quas si quis sub unum
continveque proferat, plures quidem propositiones sunt, et oratio multiplex sed
coniunctione carent. Alia vero est composita vel ex terminis vel ex
propositionibus coniunctione copulatis multiplex et multa significans. Et ex
terminis quidem composita, ut si quis dicat: Et Iuppiter et Apollo dii
sunt ex propositionibus autem coniuncta multa significans est, ut si quis
dicat: Et Apollo uates est et Iuppiter tonat Est autem praeter has alia
composita propositio ex propositionibus coniunctione coniuncta ƿ unam
significans orationem, ut cum dico: Si dies est, lux est Duae enim
propositiones, quae sunt istae "dies est", "lux est", si
coniunctione copulantur. Sed haec oratio non significat multa. Neque enim diem
esse et lucem proponit sed si dies est, lucem esse. Quocirca consequentiam
quandam significat, non exstantiam propositionis. Non enim dicit utrasque esse
sed si una est, aliam consequi, quod utrumque in unam quodammodo intellegentiam
congruit. Sed hanc Porphyrius propositionem extrinsecus ponit, idcirco quod
plura significare videbatur (ipsa enim propositionum pluralitas multitudinem
simulat significationum) sed (ut dictum est) non plures significat res sed unam
consequentiam. Compositarum igitur et unam rem significantium propositionum
duplex modus est. Aut enim est ex terminis inconiunctis unam rem significans
composita oratio, ut: Animal rationale mortale est aut ex propositionibus
composita et coniunctione copulata imaginem quidem emittens plura significandi,
unam vero rem significans oratio, ut si dicamus: Si dies est, lux est Cum
ergo haec sit distributio compositarum et simplicium orationum, duplici modo
unae orationes sunt et duplici multae, simplici autem inconpositae et simplici
compositae. Et uno quidem modo una oratio dicitur cum aliqua coniunctione
copulatur, alio vero cum unam rem significat; rursus uno modo dicitur multiplex
ƿ oratio cum sine coniunctione est, alio vero cum plura significat. Atque hoc
est quod ait: EST AUTEM UNA ORATIO ENUNTIATIVA QUAE UNUM SIGNIFICAT VEL
CONIUNCTIONE UNA, PLURES AUTEM QUAE PLURA ET NON UNUM VEL INCONIUNCTAE. Est
enim (ut dictum est) dupliciter una oratio: vel quando cum coniunctione est,
vel cum unam rem significat. Multiplex autem oratio est vel quae multa
significat, vel quae coniunctione non iungitur. Multas enim orationes vocavit
eas quae sint multiplices et vel significationis pluralitatem teneant vel
praeter coniunctiones sint. Quod autem ait vel inconiunctae, totum complexus
est. Multiplex enim est propositio vel si fuerit incomposita, quemadmodum est:
Cato philosophatur multiplex etiam vel si fuerit composita ex terminis
praeter coniunctionem, ut est: Plato Atheniensis in lycio disputat vel si
composita sit ex propositionibus praeter coniunctionem, quemadmodum est: Homo
est, animal est Cur autem cum dixit PLURES AUTEM QUAE PLURA addit ET NON
UNUM? Hoc est quod sunt quaedam quae plura significent in sermonibus, unum
tamen in tota compositione demonstrent, ut est animal rationale mortale. Haec
enim omnia multa significant (aliud enim est animal, aliud rationale, aliud
mortale) sed totum simul unum est, quod ƿ est homo. Cum autem dico: Socrates
Atheniensis philosophus et singula plura sunt et omnia simul plura
nihilominus sunt. Haec enim accidentia sunt et nullam substantiam informant.
Atque haec quidem dixit de orationibus quae vel coniunctione unae essent vel
significatione, et rursus de multis quae vel praeter coniunctionem multae
essent vel significatione multiplici. Quae vero de simplicibus atque compositis
posterius dixerit, cum ad illum locum expositio venerit, explicabitur. Nunc
autem revertamur ad ordinem. Igitur quoniam supra dixerat simplicem
propositionem, quam categoricam Graeci dicunt, nos praedicativam interpretari
possumus, semper verbi praedicatione constitui, non autem semper nomine
subiecto, quod aliquotiens quidem vel infinitum nomen vel casus nominis vel
verba subiecta sunt: cum ergo dictionibus simplicibus constitui diceret
simplicem orationem et affirmationem negationemque orationes esse constaret,
manifestum fecit affirmationem et negationem dictione constitui et formari, ita
quidem ut affirmationem et negationem semper sola verbi dictio praedicata, non
autem semper nominis dictio subiecta perficeret. Cum igitur haec ita
proposuisset, nunc quid sit dictio, quae praedicativas id est simplices
propositiones format, exponit dicens: NOMEN ERGO ET VERBUM DICTIO SIT SOLA.
Quod ideo ait DICTIO SIT SOLA, quod sunt quaedam dictiones simul etiam
affirmationes vel imperfectae orationes, quod supra iam dictum est. Cur autem
verbum et nomen solae sint dictiones monstrat: QUONIAM NON EST DICERE SIC
ALIQUID SIGNIFICANTEM ƿ VOCE ENUNTIARE, VEL ALIQUO INTERROGANTE VEL NON SED
IPSUM PROFERENTEM. Sensus huiusmodi est: enuntiativa propositio his maxime
duobus formatur: per propriam naturam atque substantiam et per eius usum atque
tractatum. Et natura quidem ipsius est, ut in ea veritas inveniatur aut
falsitas, usus autem cum aliquid aut interrogando proponitur et respondetur, ut
utrum anima immortalis est, aut certe cum aliquis per suam sententiam enuntiat
atque profert, ut si qui dicat hoc ipsum ex propria voluntate: anima immortalis
est. Unde definitio quoque enuntiationis una quidem naturae atque substantiae
talis redditur: enuntiatio est oratio, in qua verum falsumue est. Ex usu vero
eius atque actu enuntiativa oratio est, quam interrogantes proponimus, ut verum
vel falsum aliquid audiamus, ex nostra vero prolatione, quam proponentes verum
aliquid falsumue monstramus. Ergo cum omnis enuntiativa oratio aut in
interrogatione posita sit aut in spontanea prolatione et in utrisque
enuntiationis natura et substantia illa versetur, ut sive in interrogatione sit
posita cum responsione coniuncta verum habeat vel falsum, sive per se prolata
utrumlibet retineat: dictiones, inquit, vel alio interrogante vel quolibet
proferente et sponte dicente verum falsumue non continent. Si enim quis dicat
interrogans "Socratesne disputat?" alius respondeat
"Disputat", hoc quod respondit "Disputat" si cum tota
interrogatione iungatur, potest habere intellectum verum falsumue significantis
orationis, sin vero per se intellegatur disputat, quamquam alio ƿ interrogante
responderit, vero tamen falsoque relinquitur. Similiter etiam si quis dicat
"Socrates" vel "Ambulat" nullo interrogante sed ipse
proferens, nec verum aliquid nec falsum designat. Ergo verba et nomina
dictiones solum sunt, quoniam et simplices sunt (erant enim aliae quaedam
dictiones in orationibus verbisque compositis sed nondum perfectae sententiae)
quoniamque neque verum neque falsum vel alio interrogante vel quolibet sponte
proferente significant. Erant enim aliae quaedam dictiones quae et alio
interrogante et quolibet sponte proferente verum falsumue retinerent, in his
scilicet quae erant affirmationes aut negationes. Quocirca sensus huiusmodi est,
ordo autem verborum sese sic habet: NOMEN ERGO ET VERBUM DICTIO SIT SOLA,
quoniam non possumus dicere significantem aliquid id est verbo vel nomine
enuntiare. Non enim possumus dicere quoniam, quisquis verbo vel nomine
significat aliquid, ille enuntiat, VEL ALIQUO INTERROGANTE VEL NON SED IPSUM
PROFERENTEM, tamquam si sic diceret: verba ipsa et nomina dictiones solae sunt,
quoniam verbis et nominibus significantem hominem aliquid non possumus dicere,
quoniam enuntiat quidquam, sive eum aliquis interroget, sive ipse sponte
proferat simplicem dictionem. Enuntiare autem est orationem dicere quae verum
falsumque designat. HARUM AUTEM HAEC QUIDEM SIMPLEX EST ENUNTIATIO, UT ALIQUID
DE ALIQUO VEL ALIQUID AB ƿ ALIQUO, HAEC AUTEM EX HIS CONIUNCTA VELUT ORATIO QUAEDAM
IAM COMPOSITA. Quoniam superius de unis orationibus atque pluribus dixit et
unam quidem posuit, quae aut coniunctione una esset secundum prolationem aut
significatione secundum propriam naturam, plures vero quae aut coniunctione
carerent aut multa significatione sua complecterentur, quoniam quidem aliud
erat una oratio, aliud simplex, aliud composita, aliud plures, post illa ad
simplicem compositamque reuertitur dicens simplicem esse orationem enuntiativam
quae duobus terminis continetur, quorum unum subiectum est, alterum
praedicatur. Quod vero ait HARUM AUTEM, enuntiativarum scilicet orationum
dixit, quarum HAEC QUIDEM SIMPLEX EST ENUNTIATIO, et quae simplex est
enuntiatio, ipse proposuit dicens UT ALIQUID DE ALIQUO, subaudiendum est
praedicemus, ut sit hic sensus: harum autem enuntiativarum orationum est
simplex enuntiatio, si aliquid unum de uno aliquo praedicemus, ut si dicam:
Plato disputat de aliquo Platone aliquid id est disputat praedicavi. Et
haec simplex est enuntiatio, idcirco quoniam duobus terminis partibusque
coninugitur. Si qua vero plures habuerit terminos et eius partes duorum
terminorum multitudinem egrediantur, illae compositae orationes dicuntur et est
enuntiatio composita huiusmodi: Si dies est, lux est Dies est enim et lux
est duae sunt simplices enuntiationes, quae coniunctae unam compositam
perfecerunt. Atque hoc est quod ait: HAEC ƿ AUTEM ID EST ALIA ORATIO EX HIS
CONIUNCTA id est ex simplicibus enuntiationibus VELUT ORATIO QUAEDAM IAM
COMPOSITA est. Haec enim non simplex est oratio. Simplex enim oratio solas
dictiones duas habet in partibus, composita vero etiam orationes, sicut haec
quam supra proposui. Est ergo hic ordo quem ipse confudit: prius enim de
affirmatione et negatione, quae prima esset, quae posterior, expedivit; dehinc
de unis orationibus et pluribus dixit, postremo de simplicibus atque
compositis. Sed quoniam quaedam in medio permiscuit, ea paululum differentes
directam sententiae seriem continuavimus longum Aristotelis hyperbaton partium
coniunctione recidentes. Neque enim simile videatur quod ait: EST AUTEM UNA
PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO; ALIAE VERO CONIUNCTIONE
UNAE et rursus cum dicit: EST UNA ORATIO ENUNTIATIVA QUAE UNUM SIGNIFICAT VEL
CONIUNCTIONE UNA, PLURES AUTEM QUAE PLURA ET NON UNUM VEL INCONIUNCTAE VEL CUM
RURSUS ADDIT: HARUM AUTEM HAEC QUIDEM SIMPLEX EST ENUNTIATIO, UT ALIQUID DE
ALIQUO VEL ALIQUID AB ALIQUO, HAEC AUTEM EX HIS CONIUNCTA VELUT ORATIO IAM
COMPOSITA sed illud quidem prius quod dixit EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA
AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO ad hoc rettulit, ut priorem affirmationem esse
monstraret, posteriorem vero negationem (ait enim DEINDE NEGATIO, unde quod ait
PRIMA ad affirmationem ponendum est), quod vero secutus est paulo post: EST
AUTEM UNA ORATIO ENUNTIATIVA ƿ QUAE UNUM SIGNIFICAT VEL CONIUNCTIONE UNA,
PLURES AUTEM QUAE PLURA ET NON UNUM VEL INCONIUNCTAE ad hoc rettulit, ut
doceret quas unas esse orationes putari oporteret (expediens aut quae unum
significarent aut quas coniunctio unas faceret) quas plures (aut quae multa in
significatione retinerent aut quarum corpus nulla esset coniunctione
compositum); quod vero postremo addit: HARUM AUTEM HAEC QUIDEM SIMPLEX EST
ENUNTIATIO, UT ALIQUID DE ALIQUO VEL ALIQUID AB ALIQUO, HAEC AUTEM EX HIS
CONIUNCTA VELUT ORATIO QUAEDAM IAM COMPOSITA ad simplices rettulit orationes
atque compositas, simplices dicens duobus solis terminis iunctas, compositas,
quae ex simplicibus orationibus enuntiativis coniungerentur: ut sit totus ordo
hoc modo: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO et
rursus intermissis quae sequuntur hoc subiciatur: EST AUTEM UNA ORATIO
ENUNTIATIVA QUAE UNUM SIGNIFICAT VEL CONIUNCTIONE UNA, PLURES AUTEM QUAE PLURA
ET NON UNUM VEL INCONIUNCTAE et post hoc intermissis quoque sequentibus hoc
sequatur: HARUM AUTEM HAEC QUIDEM SIMPLEX EST ENUNTIATIO, UT ALIQUID DE ALIQUO
VEL ALIQUID AB ALIQUO, HAEC AUTEM EX HIS CONIUNCTA VELUT ORATIO QUAEDAM IAM
COMPOSITA, tamquam si sic diceret: prima quidem inter enuntiationes oratio
affirmativa est, secunda vero negatio. Affirmationum autem et negationum una
oratio est, quae unum significat vel quae coniunctione una est, multiplex
autem, quae multa significat ƿ vel quae coniunctione non iungitur. Harum quoque
simplex est, quae duobus terminis constat, UT ALIQUID DE ALIQUO VEL ALIQUID AB
ALIQUO; alia vero composita, quae ex simplicibus affirmationibus iungitur. Quod
autem dicit ALIQUID DE ALIQUO VEL ALIQUID AB ALIQUO tale est: aliquid enim de
aliquo affirmationem sign!ficat, ut cum dico: Socrates disputat de aliquo
Socrate aliquid id est disputat praedicavi et fit affirmatio. Si autem dicam:
Socrates non disputat a Socrate disputationem seiunxi et ab eo abstuli et
hoc est negatio. Affirmatio enim de alia re aliam rem praedicat eique coniungit,
negatio vero a qualibet re quamlibet rem praedicando tollit. Ergo hoc quod ait
ALIQUID DE ALIQUO, affirmationem simplicem significavit; quod dixit ALIQUID AB
ALIQUO, simplicem negationem. EST AUTEM SIMPLEX ENUNTIATIO VOX SIGNIFICATIVA DE
EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST, QUEMADMODUM TEMPORA DIVISA SUNT. AFFIRMATIO
VERO EST ENUNTIATIO ALICUIUS DE ALIQUO, NEGATIO VERO ENUNTIATIO ALICUIUS AB
ALIQUO. Postquam de multis atque unis necnon simplicibus compositisque
enuntiationibus expedivit, enuntiationem simplicem tractat et eam definitione
concludit dicens vocem eam esse significantem aliquid esse vel non esse. Quod
ergo ait vocem eam esse, ad genus rettulit, quod significativam ad ipsius
differentiam vocis, quod DE EO QUOD ESSET AUT NON ESSET ALIQUID, ad significatarum
rerum rursus differentiam ƿ rettulit. Habet enim secundum ipsam vocem qua
profertur, ut significet quiddam, quid autem significet aut circa quid
designationem enuntiatio teneat, ad differentiam significativarum pertinet
vocum. Ita enim dictum est, tamquam si diceret: non omnia enuntiatio significat
sed esse aliquid aut non esse. Est ergo enuntiatio simplex vox significativa de
eo quod est esse aliquid vel non esse, id est omnis enuntiatio aut affirmatio
est aut negatio. Esse enim ponit affirmatio non esse negatio. Sed quanta
definitionem brevitate constrinxit, quidam non videntes in errorem stolidum
falsitatis abducti sunt. Contendunt igitur affirmationis et negationis non esse
enuntiationem genus. Nam si haec, inquiunt, definitio est enuntiationis, omnis
autem generis definitio propriis speciebus accommodari potest (omne enim genus
univoce de speciebus propriis praedicatur), dubium non est quin haec quoque
definitio enuntiationis, si enuntiatio genus est, affirmationi negationique
conveniat, si tamen eius species hae sunt. Sed quis umquam dixerit affirmationi
convenire hanc definitionem, quae dicit vox significativa de eo quod est
aliquid esse vel non esse? Neque enim fieri potest, ut affirmatio vox
significativa sit de eo quod est esse et non esse sed tantum de eo quod est
esse. Negatio rursus non de eo quod est esse et de eo quod est non esse sed
tantum de non esse, numquam etiam de esse. Interimit enim semper negatio,
iungit affirmatio atque constituit. Quare si haec definitio enuntiationis ad
affirmationem negationemque non potest praedicari, affirmatio et negatio
enuntiationis species non sunt. Qui mihi nimium videntur errare: quasi vero
quidquam uetet utrasque ƿ affirmationem et negationem simul eadem definitione
concludere. Possum enim dicere: affirmatio et negatio est vox significativa de
eo quod est esse aliquid vel non esse, ut vox significativa utrisque communis
sit, de eo quod eat esse affirmationis solius, de eo quod est non esse solius
sit negationis. Sed nihil potuit fieri brevius, nisi ut in eadem definitione et
enuntiationis naturam constitueret et ipsius faceret divisionem. Tamquam enim
si ita dixisset: enuntiatio est vox significativa in qua verum falsumque
signatur, huius autem una species affirmativa est, alia negativa, ita ait:
ENUNTIATIO EST VOX SIGNIFICATIVA DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST. Nam quod
dixit: DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST tale est ac si diceret: quae verum
falsumque demonstrat. Omne enim quod esse ponit aliquid, ut si dicam: Dies
est vel non esse, ut si dicam: Dies non est verum falsumque
demonstrat. Si ergo aliquid ponatur esse aut non esse, in eo veritas et
falsitas invenitur. Est igitur ita hoc quod ait vocem esse significativam DE EO
QUOD EST ALIQUID VEL NON EST, tamquam si diceret: est enuntiatio vox significativa
verum falsumque significans. Significatio namque de eo quod est esse vel non
esse aliquid veri falsique demonstratio est. Sed in eadem definitione species
admirabili brevitate partitus est. Tamquam enim si diceret: vox significativa
est enuntiatio, in qua verum falsumue demonstratur sed una eius pars
affirmativa est, alia negativa, ita ait DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST.
Significatio enim de eo quod est aliquid affirmatio est, de eo vero quod non
est negatio. Ita id quod ait designativam ƿ esse vocem enuntiationem DE EO QUOD
EST ALIQUID AUT NON EST utrumque una colligit intellegentia. Hoc enim quod
dixit DE EO QUOD EST ALIQUID AUT NON EST utrumque significat et veri falsique
demonstrationem et affirmationis negationisque divisionem. Sed Alexander a
propria sententia non desistit nec alio quam caeteri tenetur errore. Ait enim
hic quoque apparere non esse genus enuntiationem affirmationis et negationis,
quoniam ita in definitione enuntiationis affirmatione et negatione ut partibus
usus est. Omne autem compositum atque omne aequivocum vel suis partibus vel
suis significatis definiri potest, ut si quis ternarium numerum definire volens
dicat: ternarius numerus est qui ex uno duobusque coniunctus est, vel si quis
hominem definire volens dicat: homo est aut animal rationale mortale aut huius
coloribus vel metallo facta simulatio: ita nomen aequivocum ex his, quae ipsum
nomen aequivocum designabat, ostensum est. Hic ergo eodem modo: ENUNTIATIO,
inquit, EST VOX SIGNIFICATIVA DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST, tamquam si
diceret: enuntiatio est vox aut affirmativa aut negativa: in eundem scilicet
errorem labens nec videns quemadmodum una definitione et divisionem fecerit et
naturam enuntiationis ostenderit. Sed hanc expositionem (quod adhuc sciam)
neque Porphyrius nec ullus alius commentatorum vidit. Aspasius etiam consentit
Alexandro. Dicit enim Alexander eodem modo hic definisse Aristotelem
enuntiationem, sicut alibi quoque id est in resolutoriis. Illic enim ita
propositionem, quod est enuntiatio, definitione ƿ conclusit dicens: PROPOSITIO
ERGO EST ORATIO AFFIRMATIVA VEL NEGATIVA ALICUIUS DE ALIQUO. Idem quoque
Aspasius sequitur. Porphyrius autem sic dicit: admirabilem esse subtilitatem
definitionis. Ex sua enim vi affirmationis et negationis enuntiatio definita
est, ex terminis vero ipsa affirmatio atque negatio. Affirmatio namque in
duobus terminis constans aliquid alicui inesse significat, totam autem vim
ipsius esse aliquid adnuere. Negatio quoque aliquid alicui non inesse
significat sed tota vis ipsius est abnuere atque disiungere. Vel rursus
affirmatio aliquid alicui inesse designat sed vis ipsius tota ponere aliquid
est (cum enim aliquid alicui inesse demonstrat ponit aliquid), rursus negatio
quidem aliquid alicui non inesse declarat sed tota vis eius auferre est ergo
nunc, inquit, enuntiationem ex tota vi affirma tionis negationisque definivit
dicens: ENUNTIATIO EST VOX SIGNIFICATIVA DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST.
Hoc autem ad negationis pertinet affirmationisque vim, tamquam si diceret:
enuntiatio est vox significativa quae ponit aliquid aut tollit, quae propriae
virtutes sunt affirmationis et negationis. Si enim ita dixisset: enuntiatio est
de eo quod est aliquid alicui vel non est; tunc ex terminis affirmationis et
negationis enuntiationem definisse videretur; cum autem dicit DE EO QUOD EST
ALIQUID VEL NON EST, de tota utrarumque vi determinat. In hac enim affirmatione
quae est: Dies est aliquid alicui secundum ƿ terminos adesse monstravi
(est enim diei applicui) sed tota huius propositionis vis est aliquid esse
declarare; rursus cum dico: Dies non est aliquid alicui non esse
pronuntio sed tota eius vis est non esse dicere. Quare manifestum est secundum
Porphyrium ex tota vi affirmationis et negationis enuntiationem esse
descriptam, ex suis vero terminis ipsam affirmationem et negationem. Ait enim
AFFIRMATIO VERO EST ENUNTIATIO ALICUIUS DE ALIQUO in affirmationis definitione
genus sumens. Enuntiatio enim (ut dictum est) genus et affirmationis et
negationis, quod ipse Aristoteles clarius demonstrat, qui in utrarumque
definitionem enuntiationis nomen adscripsit dicens: AFFIRMATIO VERO EST
ENUNTIATIO. Hoc enim rettulit ad genus, quod vero addidit alicuius de aliquo
reduxit ad terminos. In simplici enim affirmatione aliquid de aliquo enuntiando
praedicatur, ut in eo quod est: Dies est esse diem. Negatio quoque ita
definita est: ENUNTIATIO ALICUIUS AB ALIQUO, quantum ad enuntiationem rursus a
genere, quantum alicuius ab aliquo rursus ad terminos. In hac enim negatione
quae est: Dies non est esse a die enuntiando tollimus. Sed ut non solum
praesentis temporis enuntiationem definisse videretur, addidit enuntiationis
definitionem de aliis quoque temporibus intellegi. Ait enim: ENUNTIATIO EST VOX
SIGNIFICATIVA DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST adiecitque QUEMADMODUM TEMPORA
DIVISA SUNT. Divisa enim sunt tempora in tribus. Omne enim tempus aut futurum
est aut praesens aut praeteritum aut ex his mixtum. Enuntiatio ergo est vox
significativa significans aut esse aliquid ƿ aut non esse sed quoniam hoc
praesens tempus designat, non solum de praesenti, inquit, loquimur sed etiam de
his temporibus quae dividuntur, ut hoc esse et non esse et in futurum veniat et
in praeteritum, ut aliquotiens sio esse et non esse significet id est sic ponat
atque auferat enuntiatio, ut et praesens tempus ponat et auferat, ut est:
Socrates est Non est Socrates et praeteritum ponat et auferat, ut est:
Socrates fuit Socrates non fuit eodem modo futurum: Socrates erit
Socrates non erit Ergo in his omnibus temporibus secundum esse aliquid
vel non esse id est secundum ponere et auterre tota enuntiationis vis est. Hoc
ergo est quod ait DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST, QUEMADMODUM TEMPORA
DIVISA SUNT, tamquam si diceret: de eo quod est aliquid vel non est vox
enuntiativa significat vel in praesens vel in futurum vel in praeteritum
quemadmodum ipsa tempora dividuntur. Cur autem talis ordo fuerit definitionis,
paucis absolvam. Prius enim de nomine, post de verbo, hinc de oratione, rursus
de enuntiatione, dehinc de affirmatione, postremo de negatione disseruit. Omne
compositum suis partibus posterius est, omne genus suis partibus prius: ergo in
compositis partes toto priores sunt, in generibus et speciebus partes toto
posteriores. Rursus in compositis totum partibus posterius, in speciebus et
generibus totum partibus prius est. Ergo quoniam verba et nomina neque
affirmationis neque negationis neque enuntiationis neque orationis species
erant sed quaedam horum omnium partes, quibus haec omnia iungerentur, oratio
autem genus enuntiationis, enuntiatio ƿ affirmationis et negationis, affirmatio
prior negatione, scilicet secundum prolationem, sicut ipse testatus est: ergo
quoniam haec omnia et oratio et enuntiatio et affirmatio et negatio verbis et
nominibus coniunguntur, his omnibus nomina et verba priora sunt. Nomine autem
res aut per se subsistens aut tamquam per se subsistens significatur, verbo
vero accidens designatur et velut alii accidens, quod ex supra dictis plenum
est. Quod autem per se consistit prius est: ergo id quod nomen significat: quam
id quod verbum: quare verbo prius est nomen. Ergo quoniam nomen et verbum
oratione, enuntiatione, affirmatione et negatione priora sunt (partes enim
priores sunt his quae componuntur), iure haec ante omnia definita sunt. Quoniam
vero nomen prius est verbo, prius nomen, postea vero definitum est verbum. Sed
quia omne genus speciebus suis prius est, post haec id est nomen et verbum
orationem definitione descripsit, quae et proximum enuntiationis genus esset et
superius affirmationis et negationis; post orationem vero enuntiationem, quae
cum sit species orationis, affirmationis tamen et negationis esset genus; post
enuntiationem vero affirmationem, quae quamquam negation) aequaeua species
esset secundum genus proprium id est enuntiationem, in prolatione tamen prior
esset, ut ipse supra iam docuit dicens: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA
AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO. Sed quoniam superius nobis dictum ƿ est has eum
quinque res definire velle: quid sit dictio, quid enuntiatio, quid affirmatio,
quid negatio, quid contradictio, dictionem quid sit ostendit per id quod ait:
NOMEN ERGO ET VERBUM DICTIO SIT SOLA, enuntiationem vero per id quod ait: EST
AUTEM SIMPLEX ENUNTIATIO VOX SIGNIFICATIVA DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST,
QUEMADMODUM TEMPORA DIVISA SUNT, affirmationem vero EST ENUNTIATIO ALICUIUS DE
ALIQUO; negationem quoque definivit dicens: NEGATIO VERO ENUNTIATIO ALICUIUS AB
ALIQUO. Restat ergo de contradictione disserere. Quid sit ergo contradictio
ipse persequitur dicens: QUONIAM AUTEM EST ENUNTIARE ET QUOD EST NON ESSE ET
QUOD NON EST ESSE ET QUOD EST ESSE ET QUOD NON EST NON ESSE, ET CIRCA EA QUAE
SUNT EXTRA PRAESENS TEMPORA SIMILITER OMNE CONTINGIT QUOD QUIS AFFIRMAVERIT
NEGARE ET QUOD QUIS NEGAVERIT AFFIRMARE: QUARE MANIFESTUM EST QUONIAM OMNI AFFIRMATIONI
EST NEGATIO OPPOSITA ET OMNI NEGATIONI AFFIRMATIO. ET SIT HOC CONTRADICTIO, AFFIRMATIO
ET NEGATIO OPPOSITAE. Expeditis omnibus, quae sese explicaturum esse
promiserat, nunc ad reliquam contradictionem ordine venit eamque ab
affirmationibus negationibusque repetit dicens omnibus affirmationibus posse
proprias negationes opponi et omnibus negationibus proprias ƿ rursus ex adverso
affirmationes posse constitui. Hoc autem hinc sumitur: quoniam novimus alias
res esse, alias non esse et quoniam nos ipsi dicere possumus et sentire alias
res esse, alias non esse, ex his quatuor enuntiationes fiunt, geminae
contradictiones. Si quis enim id quod est dicat non esse, ut si vivente Socrate
dicat: Socrates non vivit quod est negat et erit negatio false; rursus si
quis id quod non est esse confirmet, ut si non vivente Socrate dicat: Socrates
vivit haec rursus affirmatio falsa est; si quis etiam id quod est esse
enuntiatione constituat, ut si vivente Socrate dicat: Socrates vivit uera
erit affirmatio; sin vero quod non est esse negaverit, est negatio vera, ut si
quis non vivente Socrate dicat: Socrates non vivit Ex his igitur id est
ex affirmatione vera et negatione falsa et rursus ex negatione vera et
affirmatione falsa quatuor quidem sunt enuntiationes sed in duabus affirmatio,
in duabus negatio continetur, contradictiones vero duae. Hoc est enim quod ait:
QUONIAM AUTEM EST ENUNTIARE ET QUOD EST NON ESSE, falsam enuntiationem
negationis ostendit; quodque addidit ET QUOD NON EST ESSE, falsam affirmationem
in enuntiatione proposuit. Illud quoque quod dixit ET QUOD EST ESSE,
enuntiationem designat, qua id quod est esse vera affirmatione profertur;
amplius quod ait ET QUOD NON EST NON ESSE, verae negationis specimen dedit.
Quare si et quod est vere potest dici esse et idem quod est falso potest
praedicari non esse et id quod non est vere potest enuntiari non esse et id
quod non est falso esse poterit ƿ affirmari, manifestum est omnem affirmationem
habere aliquam contradictionem negationis oppositam et omnem rursus negation em
affirmationis oppositionem facere contradictionem. Etenim si omne quod quis
affirmat negari poterit et quod quis negat poterit affirmari, quis dubitet nec
affirmationem posse constitui cui non negatio contradicat nec negationem cuius
nulla affirmatio valeat inveniri? Omnis igitur affirmatio negationem et negatio
habet oppositam affirmationem: est igitur CONTRADICTIO AFFIRMATIO ET NEGATIO
OPPOSITAE. Quid autem sit oppositio posterius dicendum est aut quid sit
contradictio post diligentissima ratione monstrabo. Quod autem ait ET CIRCA EA
QUAE SUNT EXTRA PRAESENS TEMPORA tale est tamquam si diceret: sicut affirmatio
et negatio in praesenti tempore fieri potest, ita etiam vel in praeterito vel
in futuro. Nam sicut potest id quod est esse constitui, ita potest id quod fuit
fuisse proponi et id quod futurum est in spem futuri temporis affirmari, ut cum
dicimus: Socrates fuit Sol aestate in cancro futurus est Eodem ergo modo
et de futuro et praeterito affirmatio et negatio constituitur, quemadmodum de
praesenti. Futurum autem et praeteritum extrinsecus est et praeter praesens
tempus: illud enim veniet, illud recessit. Recte igitur etiam CIRCA EA QUAE
SUNT EXTRA PRAESENS TEMPORA dixit huiusmodi posse affirmationes negationesque
evenire. Circa enim praeteritum et futurum, quod est extrinsecus a praesenti
tempore, SIMILITER OMNE CONTINGIT (ut ipse ait) QUOD QUIS AFFIRMAVERIT NEGARE
ET QUOD ƿ QUIS NEGAVERIT AFFIRMARE. Unde fit ut in omnibus temporibus illud
constet omni affirmationi posse opponi negationem omnique negation) oppositam affirmationem
posse constitui. Nunc autem qualis debeat sumi oppositio in affirmatione et
negatione demonstrat. Hoc enim est contradictio affirmatio et negatio
oppositae. Quod si hae oppositae constitnunt contradictionem, qualis in his
debet esse oppositio quae contradictionem constituit recte persequitur. DICO
AUTEM OPPONI EIUSDEM DE EODEM, NON AUTEM AEQUIVOCE ET QUAECUMQUE CAETERA TALIUM
DETERMINAMUS CONTRA SOPHISTICAL IMPORTUNITATES. Cum duobus terminis simplex
propositio constet et unus subiectus sit, alius praedicetur, subiectus autem:
sit qui primus dicitur, praedicatus vero qui posterius, dicit illam oppositione
affirmationem et negationem integram constituere contradictionem, quae idem
subiectum habeant, idem etiam praedicatum, ut neque subiectum neque praedicatum
plura significet. Alioquin non erit contradictio nec aliqua oppositio. Ut cum
dico: Socrates albus est et alius dicit: Aethiops albus non est
haec affirmatio atque negatio non sunt oppositae, idcirco quia est aliud subiectum
et idem praedicatum. In affirmatione enim "Socrates" subiectus fuit,
in negatione Aethiops. Rursus cum dico: Socrates albus est et alius
dicit: Socrates philosophus non est nec haec rursus negatio contra
affirmationem retinet oppositionem, ideo quia aliud praedicatum in utrisque
proponitur. ƿ In affirmatione enim 'album' praedicatum est ad Socraten, in
negatione philosophus. Quod si utraque sint diversa, multo magis nulla. Fit
oppositio: ut cum dico: Socrates philosophus est si respondeat alius: Plato
Romanus non est hic neque idem subiectum est neque idem praedicatum et
plus istae diversae sunt et nulla contra se oppositione oppositae atque ideo
possunt utraeque esse verae et si ita contingit utraeque falsae necnon etiam
una vera, una falsa. Quae enim se non perimunt, nihil eas impedit aut utrasque
falsas aut utrasque veras aut unam veram, falsam aliam reperiri. Quare quorum
vel aliud subiectum est vel aliud praedicatum, illa opposita esse non dicimus.
Unde fit ut nec illa quoque quae plura significant, si subiecta aut praedicata
sint, contradictoriam negationem valeant custodire. Si quis enim nomen
aequivocum subiciat et aliud praedicet et si quis contra huiusmodi
affirmationem constituat negationem, non faciet oppositionem. Ut cum dico: Cato
se Uticae occidit nomen hoc quod dicitur 'Cato' aequivocum est. Potest
enim et orator intellegi et hic qui exercitum duxit in Africam. Si quis igitur
dicat: Cato se Uticae occidit potest fortasse intellegi de Catone
Marciae, si quis respondeat Cato se Uticae non occidit, potest de Catone
Censorio constituisse negationem. Sed quoniam diversus est Cato Censorius
Catone Marciae et nomen ipsum Catonis diversa significat, diversae a se erunt
affirmatio et negatio et non id omnino perimit negatio, quod affirmatio constituit.
Affirmatio enim constituit Marciae Catonem se Uticae peremisse, negatio ƿ vero
dicit Catonem, si ita contigit, oratorem non se Uticae peremisse. Quare non
constituunt verum inter se falsumque, idcirco quod a se diversae sunt. Nam
utrumque verum est: et quod se Cato Uticae occidit scilicet Marciae et quod se
Cato Uticae non occidit scilicet orator. Atque hic aequivocum subiectum fecit,
ut haec affirmatio et negatio oppositionem nullo modo constituerent. Quod si
praedicatum fuerit aequivocum, eodem modo contradictio non fit. Dicat enim quis
quoniam Cato fortis est et de Catone praedicet fortitudinem mentis dicens
aliusque respondeat: Cato fortis non est ad inbecillitatem corporis
spectans: ita igitur aequivocatio fortitudinis ambiguitatem fecit, quae
oppositionem nulla ratione componeret. Et si uterque terminus et subiectus et
praedicatus aequivoci fuerint, multo magis diversae a se erunt propositiones et
non oppositae nec inter se verum falsumque dividentes sed utrasque veras,
interdum utrasque falsas esse contingat. Quare unum oportet esse subiectum
unumque praedicatum, ut id quod affirmatio praedicavit et iunxit, idem negatio
dividat et abiungat et id de quo subiecto affirmatio praedicavit de eodem
negatio neget. Nam si sit uterque aequivocus terminus aut quilibet unus eorum,
fieri potest ut aliud tollat negatio quam affirmatio posuit itaque nulla fit
oppositio. Quare non ita faciendum est sed idem subiectum et praedicatum in
affirmatione esse debet, idem in negatione. Atque hoc est quod ait: DICO AUTEM
OPPONI EIUSDEM DE EODEM. ƿ Quod enim ait EIUSDEM ad praedicatum rettulit, quod
DE EODEM ad subiectum et subaudiendum est DICO AUTEM OPPONI negationem EIUSDEM
praedicati DE EODEM subiecto sed ut non sint aequivoca neque subiectum neque
praedicatum et multo magis utraque sed unum aliquid significent. Quod per hoc
dixit NON AUTEM AEQUIVOCE. Nec sola, si non sit, aequivocatio firma est ad
constituendam oppositionem. Multa enim sunt quae in Sophisticis Elenchis contra
eos qui argumentis fallacibus verae rationis viam conantur euertere
determinavit, quemadmodum faciendae essent propositiones et quemadmodum
invenienda argumentatorum fallacia. Quod hic ait: ET QUAECUMQUE CAETERA TALIUM
DETERMINAMUS CONTRA SOPHISTICAS IMPORTUNITATES, tamquam si diceret: dico quidem
opponi affirmationi negationem eiusdem praedicati de eodemque subiecto, non
autem aequivoce: hoc et quaecumque alia sunt, quae in sophisticis elenchis
determinata sunt contra argumentatorum importunitates. Et hic quidem, quoniam
aliud negotium erat, commodissime breviterque perstrinxit. Nos autem quid in
sophisticis elenchis determinaverit ad constituendam oppositionis
contradictionem, quantum brevitas patitur, non grauamur apponere. Non enim
solum si aequivocatio in propositionibus collocetur nulla fit contradictio,
verum etiam si univocatio in negatione ponitur, illa oppositio contradictionem
penitus non habebit. Est enim oppositio habens contradictionem, ƿ in qua
affirmatio si vera est negatio falsa sit, si negatio vera est fallax affirmatio
videatur. Positis ergo secundum univocationem terminis utrasque simul et
affirmationem et negationem veras esse contingit, ut si quis dicat: Homo
ambulat Homo non ambulat affirmatio de quodam homine vera est, negatio de
speciali vera. Sed specialis homo et particularis univoca sunt: quocirca
sumptis univocis contradictio non fit. At vero nec si ad aliam et aliam partem
affirmatio negatioque ponatur, fit in ipsis ulla veri falsique divisio sed
utrasque veras esse contingit: cum dico: Oculus albus est Oculus albus non
est In alia enim parte albus est, in alia parte albus non est: atque ita
et negatio vera est et affirmatio. Nec si ad aliud atque aliud referens dicat,
ulla inde contradictio procreatur, ut cum dico: Decem dupli sunt Decem dupli
non sunt Nam si ad quinarium referam, vera est affirmatio, si ad
senarium, vera negatio. Nec si diversum tempus in affirmatione ac negatione
sumatur, ut cum dico: Socrates sedet Socrates non sedet Alio enim tempore
sumpto sedere veram facit affirmationem, alio tempore non sedere veram
negationem. Amplius quoque si diverso modo quis dicat in negatione quod aliter
in affirmatione proposuit, vim contradictionis intercipit. Si quis enim dicat
affirmationem potestate, negationem vero actu, possunt et affirmatio et negatio
uno tempore congruente veritate constitui: ut si quis dicat: Catulus videt
Catulus non videt Potestate enim videt, actu non videt. Quocirca oportet
fieri si facienda est ƿ contradictio EIUSDEM (ut ipse ait) praedicati DE EODEM
subiecto, non aequivoce, neque univoce, ad eandem partem, ad idem relatum, ad
idem tempus, eodem modo constitui. Quae omnia in Sophisticis Elenchis diligentissime
persecutus est. Nunc pauca commemorans distulit in illius libri integram
disputationem. Est autem enuntiatio de eo quod est aliquid esse vel non esse:
affirmatio quidem de eo quod est esse ut: Plato philosophus est negatio
vero de eo quod est non esse, ut: Plato philosophus non est Haec utraque
enuntiatio: Plato philosophus est Plato philosophus non est sese perimentia
et in contrarium quasi quodam locata litigio faciunt contradictionem.
Contradictio vero est oppositio affirmationis et negationis, in qua neque ambas
falsas neque ambas veras esse contingit sed unam semper veram, alteram vero
falsam. Si qua autem sunt huiusmodi, in quibus verum falsumque affirmatio
negatioque non dividat, in illis aliquid diversum et non ad oppositionem
integrum reperitur. Dicit autem Porphyrius argumentum esse ad id quod dicimus
affirmationem negationi ita oportere opponi, ut una vera opposita in alteram
mox falsitas veniat, communem inter nos consuetudinem colloquendi. Quando enim
quis aliquid esse dixerit, idem alius negarit, unum ipsorum verum dicere,
mentiri alium suspicamur. Amplius quoque si aliquid aut est aut non est
mediumque inter esse et non esse nihil poterit ƿ inveniri, affirmatio autem
ponit esse aliquid idemque aufert negatio et est contradictio affirmatio et
negatio oppositae, talis oppositio integram facit contradictionem, in qua
affirmatio et negatio utraeque verae esse non possint. Affirmationis autem
negationisque natura ad qualitatem quandam refertur. Qualitas enim quaedam est
affirmatio atque negatio. Praeter hanc vero qualitatem est etiam quantitas
propositionum, de qua posterius paulo dicendum est. Sed volens Aristoteles quid
esset contradictio nos docere, prius ubi esset ostendit. In oppositione enim
contradictionem omnem esse necesse est. Quare quoniam contradictio in
oppositione est, qualis autem oppositio hanc contradictionem faciat, adhuc
ignota est estque haec oppositio aut in qualitate propositionum aut in
quantitate aut in utroque et de qualitate propositionum, quae in affirmatione
et negatione consistit, dictum est: nunc de quantitate dicetur, ut ea quoque
cognita perspiciatur, in qualitate an in quantitate an in utroque propositionum
contradictio sit. QUONIAM AUTEM SUNT HAEC QUIDEM RERUM UNIVERSALIA, ILLA VERO
SINGILLATIM; DICO AUTEM UNIVERSALE QUOD IN PLURIBUS NATUM EST PRAEDICARI,
SINGULARE VERO QUOD NON, UT HOMO QUIDEM UNIVERSALE, PLATO VERO EORUM QUAE SUNT
SINGULARIA: NECESSE EST AUTEM ENUNTIARE QUONIAM INEST ALIQUID AUT NON
ALIQUOTIENS QUIDEM EORUM ALICUI QUAE SUNT UNIVERSALIA, ALIQUOTIENS AUTEM EORUM
QUAE SUNT SINGULARIA. Omnis propositio significationis suae proprietates ex
subiectis intellectibus capit. Sed quoniam necesse est intellectus rerum esse
similitudines, vis propositionum ad res quoque continuatur. Atque ideo cum
aliquid vel affirmare cupimus vel negare, hoc ad intellectus et conceptionis
animi qualitatem refertur. Quod enim imaginatione intellectuque concipimus, id
in affirmatione aut in negatione ponentes affirmamus scilicet vel negamus. Et
principaliter quidem ab intellegentia propositiones vim capiunt et
proprietatem, secundo vero loco ex rebus sumunt ex quibus ipsos intellectus
constare necesse est. Unde fit ut et quantitate propositio et qualitate
participet. Qualitate quidem in ipsa affirmationis et negationis prolatione
quam ex proprio quis iudicio emittit ac profert; quantitate vero ex subiectis rebus
quas capiunt intellectus. Videmus namque alias esse in rebus huiusmodi
qualitates, quae in alium convenire non possint nisi in unam quamcumque
singularem particularemque substantiam. Alia est enim qualitas singularis, ut
Platonis vel Socratis, alia est quae communicata cum pluribus totam se singulis
et omnibus praebet, ut est ipsa humanitas. Est enim quaedam huiusmodi qualitas,
quae et in singulis tota sit et in omnibus tota quotienscumque enim aliquid
tale animo speculamur; non in unam quamcumque personam per nomen hoc mentis
cogitatione deducimur sed in omnes eos quicumque humanitatis definitione
participant. Unde fit ƿ ut haec quidem sit communis omnibus, illa vero prior
incommunicabilis quidem cunctis, uni tamen propria. Nam si nomen fingere
liceret, illam singularem quandam qualitatem et incommunicabilem alicui alii
subsistentiae suo ficto nomine nuncuparem, ut clarior fieret forma propositi.
Age enim incommunicabilis Platonis illa proprietas Platonitas appelletur. Eo
enim modo qualitatem hanc Platonitatem ficto vocabulo nuncupare possimus,
quomodo hominis qualitatem dicimus humanitatem. Haec ergo Platonitas solius
unius est hominis et hoc non cuiuslibet sed solius Platonis, humanitas vero et
Platonis et caeterorum quicumque hoc vocabulo continentur. Unde fit ut, quoniam
Platonitas in unum convenit Platonem, audientis animus Platonis vocabulum ad
unam personam unamque particularem substantiam referat; cum autem audit
hominem, ad plures quosque intellectum referat quoscumque humanitate contineri
novit. Atque ideo quoniam humanitas et omnibus hominibus communis est et in
singulis tota est (aequaliter enim cuncti homines retinent humanitatem sicut
unus homo: si enim id ita non esset, numquam specialis hominis definitio parti
cularis hominis substantiae conveniret): quoniam igitur haec ita sunt, idcirco
homo quidem dicitur universale quiddam, ipsa vero Platonitas et Plato
particulare. His ergo ita positis quoniam universalis illa qualitas et in
omnibus potest et in singulis praedicari, cum dicimus homo ambiguum est et
dubitari potest utrum de speciali dictum sit an de aliquo particulari, ƿ
idcirco quod nomen hominis et de omnibus dici potest et de singulis quibusque
qui sub una humanitatis specie continentur. Quare indefinitum est, utrum de
omnibus dictum sit id quod diximus homo an de una quaeumque individua hominis
et particulari substantia hanc igitur qualitatem humanitatis si ambiguitate in
tellectus separare nitamur, determinanda est et aut in pluralitatem distendenda
aut in unitatem numeri colligenda. Nam cum dicimus "Homo" indefinitum
est utrum omnes dicamus an unum, sin vero additum fuerit 'omnis', ut sit
praedicatio "Omnis homo" vel "Quidam", tunc fit distributio
et determinatio universalitatis et nomen quod universale est (id est 'homo')
universaliter proferimus dicentes "Omnis homo" aut particulariter dicentes
"Quidam homo". Omnis enim nomen universalitatis significativum est.
Quocirca si 'omnis' quod universale significat ad hominem quod idem ipsum
universale est adiungatur, res universalis quae est homo universaliter
praedicatur secundum id quod definitio ei adicitur quantitatis. Sin vero dictum
fuerit "Quidam homo" tunc universale quod est homo addita
particularitate per id quod ei adiectum est 'quidam' particulariter profertur
et dicitur res universalis prolata particulariter. Sed quoniam particularis est
praedicatio "Quidam homo", particularis rursus praedicatio Platonis
(de uno enim dicitur "Quidam homo" et de uno dicitur Plato), non
eodem modo utraeque particulares esse dicuntur. Plato enim unam ac definitam
substantiam proprietatemque demonstrat, quae convenire in alium non potest,
quidam homo vero quod dicitur particularitate quidem ipsum nomen universale ƿ
determinat sed si deesset 'quidam', id quod dicimus homo universale ac per hoc
ambiguum permaneret, quod vero dicimus Plato numquam esse poterit universale.
Nam etsi quando nomen hoc 'Plato' pluribus imponatur, non tamen idcirco erit
hoc nomen universale. Namque humanitas ex singulorum hominum collecta naturis
in unam quodammodo redigitur intellegentiam atque naturam, nomen vero hoc quod
dicimus Plato multis secundum vocabulum fortasse commune esse videretur, nulli
tamen illa Platonis proprietas conveniret, quae erat proprietatis aut naturae
eius Platonis qui fuit Socratis auditor, licet eodem vocabulo nuncuparetur. Hoc
vero ideo quoniam humanitas naturalis est, nomen vero proprium positionis. Nec
hoc nunc dicitur quod nomen de pluribus non potest praedicari sed proprietas
Platonis. Illa enim proprietas naturaliter de pluribus non dicitur, sicut
hominis, et ideo incommunicabilis (ut dictum est) qualitas est ipsa Platonitas,
communicabilis vero qualitas universalis quae et in pluribus et in singulis
est. Unde fit ut cum dico "Omnis homo" in numerum propositionem
tendam, cum vero dico Socrates aut Plato non in numerum emittam sed qualitatem
proprietatemque unius in suae individuae singularisque substantiae unitatem
constringam et praedicem. Quare in hoc quoque maxime hae duae particularitates
quidam homo et Plato distant, quod cum dico Plato quem hominem dixerim vocabulo
designavi proprietatemque uniuscuiusque quem nomino, cum vero dico ƿ quidam
homo, numerum tantum reieci et ad unitatem propositionem redegi, de quo autem
dicam haec particularitas mihi non subdidit. Quidam enim homo potest esse et
Socrates et Plato et Cicero et unusquisque singulorum quorum proprietates a se
in singularitatis ratione et natura diversae sunt. Unde commodissime
Theophrastus huiusmodi particulares propositiones, quales sunt: Quidam homo
iustus est particulares indefinitas vocavit. Partem namque tollit ex
homine quod est universale vel vocabulo vel natura, quae tamen ipsa sit pars et
qua proprietate descripta, non determinat nec definit. Unde universale vocavit
quod de pluribus naturaliter praedicatur, non quemadmodum nomen Alexandri de
Troiano et de Macedone Philippi filio et de pluribus dicitur. Hoc enim
positione de pluribus dicitur, illud natura. Et persubtiliter ait quod in
pluribus natum est praedicari. Est enim haec universalitas naturalis. Illam
vero nominis reique proprietatem quae particularis est singularem vocavit
dicens: PLATO VERO EORUM QUAE SUNT SINGULARIA. Quod autem secutus est dicens:
NECESSE EST AUTEM ENUNTIARE QUONIAM INEST ALIQUID AUT NON ALIQUOTIENS QUIDEM
EORUM ALICUI QUAE SUNT UNIVERSALIA, ALIQUOTIENS AUTEM EORUM QUAE SUNT
SINGULARIA, huiusmodi est tamquam si diceret: omnis quidem affirmatio et
negatio inesse aut non inesse demonstrat. Et quidquid enuntiatur aut de eo quod
est esse proponitur, ut: Plato philosophus est (haec enim propositio
Platoni philosophiam inesse constituit), aut de eo quod est ƿ non inesse, ut:
Plato philosophus non est (a Platone enim philosophiam dividens eidem
philosophiam non inesse proponit). Ergo quoniam necesse est aut aliquid alicui
inesse dicere aut aliquid alicui non inesse, illud quoque necesse est id cui
inesse aliquid dicimus aut universale esse (ut cum dicimus: Homo albus
est albedinem universali rei inesse monstramus id est homini) aut certe
particulare ac singulare, ut si quis dicat: Socrates albus est albedinem
enim Socrati singulari substantiae et proprietati incommunicabili inesse
signavit. Sed in singularibus sive affirmetur aliquid sive negetur unus
oppositionis modus est, qui vim contradictionis optineat. Nam quoniam singulare
atque individuum nulla sectione dividitur, secundum ipsum quoque facta
contradictio simplex erit. In his autem quae in universalibus fiunt non est
unus modus contradictionis. Nam cum dico Socrates homo est Socrates homo non
est sola huiusmodi oppositio, si omnia illa conveniant quae contra
argumentatorum importunitates supra iam dicta sunt, ad faciendam
contradictionem idonea reperitur. Sin vero tale aliquid subiectum sit de quo
aliquid praedicetur quod sit universale et in pluribus (ut ipse ait) natum sit
praedicari, non est simplex oppositio contradictionis. Sunt enim earum
propositionum quae de universalibus rebus fiunt tres differentiae: una quae
omnis complectitur, ut cum dico: Omnis homo animal est alia quae ex
indefinita multitudine et innumera pluralitate ad unum propositionis vim
colligit atque constringit. Haec huiusmodi est tamquam si quis dicat: Quidam
homo animal est Alia vero est quae neque in pluralitatem propositionem
tendit neque in particularitatem redigit, ut ea quae sine ulla determinatione
proponitur, ut est: Homo animal est Homo animal non est hic enim nec
'quidam', quod particularitatis, nec 'omnis', quod est universalitatis,
adiunximus. Unde fit ut singularitas simpliciter praedicetur, universalitas
vero aliquotiens universaliter, ut: Omnis homo animal est homo res
universalis universaliter praedicata est. Nam cum sit homo universalis, quod ei
adiectum est omnis universalitatem universaliter appellari fecit. Rursus est ut
universalitas particulariter praedicetur, ut cum dico Quidam homo animal
est 'quidam' particulare determinat sed iunctum ad hominem universalem
substantiam particulariter praedicari fecit. Est quoque universale non
universaliter praedicare, quotiens sine adiectione universalitatis vel
particularitatis simpliciter nomen universale ponitur, ut est: Homo animal
est Determinationes autem dicuntur quae rem universalem vel in totum
fundunt, ut 'omnis', vel in partem contrahunt, ut 'quidam'. 'Omnis' vero vel
'quidam' quantitatem propositionis determinant, quae quantitas iuncta cum
qualitate propositionum variatur quatuor modis (qualitas autem propositionum in
affirmatione et negatione est): aut enim universalem rem universaliter
praedicat affirmative, ut: Omnis homo animal est aut universalem rem
particulariter affirmative, ut: Quidam homo animal est aut universalem
rem universaliter negative, ut: Nullus homo lapis est aut universalem rem
particulariter negative, ut Quidam homo lapis non ƿ est Oportet autem in
his quae universali determinatione proponuntur in ipsis determinationibus fieri
negationem, ut quoniam determinatio universalis rei est universaliter, cum
dicimus: Omnis homo iustus est si universaliter negabimus, dicamus:
Nullus homo iustus est Et quod aio 'nullus' eam universalitatem quae est
omnis intercipit, non eam quae est homo. Rursus si idem ipsum: Omnis homo
iustus est negare particulariter velim, dicam: Non omnis homo iustus
est per particularem negationem universalitatis vim interimens. In
particularibus vero non item. Si enim eam quae est particularis determinatio
universalis rei, ut est: Quidam homo iustus est negare velim, particulariter
dicam: Quidam homo iustus non est Hoc autem idcirco fit, quod habet
quandam similitudinem atque ambiguitatem, utrum universaliter an sit
particulariter dictum, si in universalibus propositionibus negativae particulae
ad praedicationes potius quam ad terminationes ponantur. Si enim contra hanc
affirmationem quae est Omnis homo iustus est ponam hanc quae dicit: Omnis
homo iustus non est haec duas res significare videbitur: et quod nullus
homo iustus sit, omnem enim hominem iustum non esse proposuit, et quod sint
quidam homines non iusti, omnem enim hominem negavit iustum esse. Hoc autem
nihil impedit ut aliquis sit iniustus, aliquis iustus. Nam si est aliquis
iustus, non repugnat ne vera sit propositio quae dicit: Omnis homo iustus non
est Non est enim iustus omnis homo, si alii iusti sint, alii vero
iniusti. Quare quoniam duplicis significationis est, idcirco universalis
negationis definitio, quae est nullus, universalis affirmationis tollit determinationem,
quae est omnis. Atque ideo in particularibus negationibus ad ipsam
universalitatem affirmationum negatio necesse est apponatur, ut in eo quod est:
Omnis homo iustus est illa est ei opposita negatio quae est: Non omnis
homo iustus est non illa quae est: Omnis homo iustus non est ne sit
ambiguum utrum universaliter an particulariter neget. Dictum est enim hanc
negationem quae est: Omnis homo iustus non est et universalitatis
interemptionem designare et particularitatis propositionem. Quotiens vero
particulare aliquid tollitur, in his non iam ad determinationem sed ad
praedicatum particula negationis apponitur, ut in eo quod est: Quidam homo
iustus est nullus dicit: Non quidam homo iustus est Neque enim hic
ad determinationem particularem, quod est 'quidam', negatio ponitur sed dicimus:
Quidam homo iustus non est scilicet ad praedicatum quod est iustus. Unde
etiam ad indeterminatas propositiones, quae sunt sine 'omnis' aut 'nullius' aut
'alicuius' determinatione, ad praedicatum semper apponitur particula negativa,
ut est: Homo iustus est Nemo enim dicit: Non homo iustus est sed:
Homo iustus non est In singularibus quoque non dico: Non Socrates iustus
est sed: Socrates iustus non est Et nisi aliquotiens ambiguitas
impediret, ad praedicatum semper negatio poneretur. Sed omnia quaecumque in
determinatione ponuntur talia sunt, quae aut totum colligant in affirmativo, ut
est 'omnis', aut totum perimant in negativo, ut est 'nullus', aut colligant in
affirmativo partem, ut est 'quidam', aut interimant in negativo partem, ut
'quidam non', aut in negativo perimant totum particulariter, ut est 'non
omnis'. Sed 'quidam non' et 'non omnis' particulares negationes sunt. Sive ƿ
enim quis partem ex toto subripiat, particulare est quod relinquit, quia a
totius perfectione discessit, sive quis totum esse neget, partem relinquat,
rursus particulare est quod fit reliquum. Nam cum dico: Quidam homo iustus non
est abstuli partem, et rursus cum dico: Non omnis homo iustus est
cum negavi omnem, aliquem qui iustus non esset ostendi. Haec igitur, 'omnis' et
'quidam', determinationes planissimae sunt et communi intellegentiae subiectae.
Has duae particulares respiciunt negationes, ut ea quae est quidam non
determinationem particularem negat, ea vero quae est non omnis universalem
negat determinationem sed utraque negationem (ut dictum est) in
particularitatem constringunt. Quod autem dicimus 'nullus' proprium quoddam
videtur esse vocabulum. 'Non omnis' enim quod dicitur omnem per adverbium
negativum quod est 'non' adimit. Rursus cum dicimus 'quidam non', ei quod est
'quidam' adverbium quod est 'non' additum a subiecto termino particulare
separat. 'Nullus' vero quid separet in vocabulo ipso non monstrat et
videtur quodammodo non potius esse negatio quam affirmatio. Neque enim
adverbium est nec coniunctio. Adverbium namque atque coniunctio declinationibus
carent, nullus vero quod dicimus et generibus subiacet et inflectitur casibus.
Quid igitur est? An erit nomen? Sed nulla negatio nomen esse monstratur. Quid
sit ergo tali investigatione quaerendum est. Videtur enim quod dicitur 'nullus'
tale esse tamquam si dicamus nec ƿ unus. Nam qui dicit: Nullus homo animal
est tantundem valet quantum nec unus homo animal est. Quod vero dicimus
'ullus' hoc ab eo derivatum est quod est unus. Diminutio namque unius ullus est
tamquam si diceremus unulus. Ergo plus negat quisquis etiam diminutionem negat,
ut si quis dicat non modo non habet gemmam, quod maius est, verum etiam nec
gemmulam, quod est minus. Sic ergo qui negare uult etiam unum plus negat si
dicat nec ipsum unius diminutivum illud esse quod dicitur: ut si quis velit
dicere nec unum esse hominem in theatro, ita dicat: non modo illic unus homo
non est, verum nec ullus. Cum ergo dicimus 'nullus' ita proponimus tamquam si
dicamus 'nec ullus'. Tenet igitur haec in se determinatio, quae est 'nullus',
vicem negationis et nominis. Negationis quidem in eo quod est nec, nominis vero
in eo quod est ullus, quod est diminutivum unius. Ita igitur maxima fit negatio
rei paruissimae quod est unus, si ipsius diminutivum quoque subtrahat, quod est
ullus. Quare et omnem et quendam statim tollit negatio, quae unius quoque
ipsius diminutivum praedicatione subducit, ut ea quae est: Nullus homo iustus
est Hoc enim tantum est, tamquam si dicat "Non ullus homo iustus
est", hoc idem valet tamquam si dicatur "Nec unus homo iustus
est". Quare quoniam de his sufficienter est dictum, ad Aristotelis verba
consequenti ordine veniamus. SI ERGO UNIVERSALITER ENUNTIET IN UNIVERSALI
QUONIAM EST AUT NON, ERUNT CONTRARIAE ENUNTIATIONES. DICO AUTEM IN UNIVERSALI
ENUNTIATIONEM ƿ UNIVERSALEM, UT OMNIS HOMO ALBUS EST, NULLUS HOMO ALBUS EST. Demonstrare
oppositionem contradictionis intendit. Sed quoniam viam reperiendae ordinemque
permiscuit, idcirco nos pauca quaedam prius ordinata expositione praedicimus,
ne lector confusionis caligine atque obscuritate turbetur. Omnium propositionum
quae sunt simplices, quas categoricas Graeci vocant, nos praedicativas dicere
possumus, quatuor sunt diversitates: aut enim est affirmatio et negatio
universalis, ut est: Omnis homo iustus est Nullus homo iustus est aut
affirmatio et negatio particularis, ut est: Quidam homo iustus est Quidam homo
iustus non est aut affirmatio et negatio indefinita, ut: Homo iustus est
Homo iustus non est aut de singulari subiecto affirmatio et negatio, ut:
Cato iustus est Cato iustus non est Harum vero inter se veritas
falsitasque non se habet similiter sed diverse. Et prius de universalibus atque
particularibus id est de his quae determinatae sunt dicendum est, post de
reliquis disputabitur. Disponantur igitur affirmatio universalis quae est:
Omnis homo iustus est et contra hanc negatio universalis quae est: Nullus
homo iustus est sub his autem, sub affirmatione quidem universali
particularis affirmatio quae est: Quidam homo iustus est sub universali negatione
particularis negatio quae est: Quidam homo iustus non est Hoc autem
monstrat subiecta descriptio: Omnis homo iustus est Nullus homo iustus est
Quidam homo iustus est Quidam homo iustus non est. Hae igitur duae universalis
affirmatio et particularis affirmatio dicuntur subalternae, rursus universalis
negatio ƿ et particularis negatio dicuntur subalternae, idcirco quoniam
particularitas semper sub universalitate concluditur. In quibus illud est
considerandum, quod ubi est affirmatio universalis vera affirmatio quoque
particularis vera est et ubi negatio universalis vera est particularis quoque
vera est. Nam si vera est: Omnis homo animal est vera est: Quidam homo
animal est Et si vera est quoniam Nullus homo lapis est vera quoniam
Quidam homo lapis non est At si falsa sit particularis affirmatio, ut ea
quae est: Quidam homo lapis est falsa est universalis affirmatio: Omnis
homo lapis est Idem in negatione. Si enim negatio particularis falsa est,
ut: Quidam homo animal non est falsa est universalis: Nullus homo animal
est Ita ut praecedunt universales in vero, eodem modo praecedunt
particulares in falso. Dicuntur vero affirmatio universalis et negatio
universalis contrariae. Hoc autem idcirco quoniam contrariorum huiusmodi natura
est, ut longissime a se distent, et si aliquam inter se habeant medietatem, non
semper alterum ipsorum subiecto insit, ut album et nigrum: non possumus dicere
quoniam omne corpus aut album aut nigrum est. Potest enim nec album esse nec
nigrum et utrumque falsum esse quod dicitur, idcirco quoniam est medius color.
Quod si non habent medietatem, alterum ipsorum necesse est inhaerere subiecto,
ut cum dicimus omne corpus aut quietum est aut movetur, horum nihil est medium
et necesse est omne, corpus vel consistere vel moveri. Ut autem simul in eodem
possint esse contraria fieri non potest. Neque enim possibile est ut idem album
nigrumque sit. Quod in affirmationibus et negationibus universalibus apparet. ƿ
Negativa enim et affirmativa universalis plurimum quidem a se distant. Nam quod
illa ponit omnibus, illa omnibus tollit et totum negat. Namque dicit: Omnis
homo iustus est omnem hominem ponit, quae dicit: Nullus homo iustus
est nihil eorum quae in humanitatis definitione sunt iustum esse
concedit. Ita ergo a se longissime discrepant. Ad hoc si ea quae significant
habent inter se aliquam medietatem, unam veram, unam falsam esse non est
necesse, ut in eo quod est: Omnis homo iustus est Nullus homo iustus est
quoniam potest quaedam esse medietas, ut: Nec nullus homo iustus sit (cum
sit quidam); Nec omnis homo iustus sit (cum non sit quidam), et possunt
utraeque falsae et affirmatio et negatio reperiri. Neque enim verum est aut
omnem hominem esse iustum aut nullum hominem esse iustum. Quocirca potest fieri
ut in his in quibus aliqua medietas invenitur universalis affirmatio et
universalis negatio veritatem falsitatemque non dividant sed utraeque sint
falsae, ad exemplum scilicet contrariorum quae aliquam inter se continent
medietatem. Potest enim in illis fieri ut utraque contraria possint non inesse
subiecto, sicut supra monstravimus. In his vero quae medietate carent necesse
est una vera sit semper, altera semper falsa, ut in eo quod est: Omnis homo
animal est Nullus homo animal est Hae propositiones huiusmodi sunt, ut
una vera sit, una falsa, idcirco quoniam inter animal esse et non esse nihil
interest, ad eorum scilicet contrariorum similitudinem quae medietate carent.
In illis ƿ enim necesse erat alterum inesse subiecto. Sic ergo universalis
affirmatio et universalis negatio utraeque falsae esse possunt, ut vero una
vera sit, altera falsa, id quoque conceditur: ut utraeque sint verae fieri non
potest, sicut illud quoque verum est contraria simul esse non posse. Rectissime
igitur universalis affirmatio universalisque negatio contrariae
nominantur.Particularis autem affirmatio quae est: Quidam homo iustus est
et particularis negatio quae est: Quidam homo iustus non est
universalibus et contrariis contrarias proprietates habent. Illae enim simul
verae esse non poterant, ut vero essent simul falsae saepe nulla ratione
uetabatur. Particulares vero ut utraeque verae sint evenire potest, ut utraeque
falsae sint fieri non potest: ut in eo quod est: Quidam homo iustus est
verum est, Quidam homo iustus non est id quoque verum est; ut utraeque
falsae sint inveniri non potest. Et hoc quidem sunt contrariis dissimiles. Similes
autem eisdem videntur quod sicut contrariae aliquotiens verum falsumque
dividunt, ut una vera sit, altera falsa, ita quoque et particulares una vera
potest esse, altera falsa, ut: Quidam homo animal est Quidam homo animal non
est Servant autem stabilem incommutabilemque ordinem et similitudinis et
contrarietatis. Contrariae enim quoniam possunt esse utraeque falsae, in
quibuscumque utraeque falsae contrariae reperiuntur, in his subcontrariae
utraeque verae sunt. Sed quoniam utraeque contrariae verae inveniri non
possunt, ideo utraeque subcontrariae falsse nequeunt reperiri, ut in eo quod
est: Omnis homo iustus est ƿNullus homo iustus est Quoniam hae falsae
sunt, hae quas sub se continent particulares verae sunt, ut est: Quidam homo
iustus estQuidam homo iustus non est Sed si universales inter se verum
falsumque dividunt et una vera est, altera falsa, particulares quoque idem
facient, ut in eo quod est: Omnis homo animal est Nullus homo animal est
universalis affirmatio vera est, falsa negatio. Sed cum dico: Quidam homo
animal est Quidam homo animal non est particularis affirmatio vera est,
falsa negatio particularis. Hae igitur dicuntur subcontrariae, vel quod sunt
sub contrariis positae vel quod ipsae superioribus sub quibus sunt contrarias
(ut dictum est) proprietates habent. In hac igitur recta oppositione
contrariarum et subcontrariarum in superioribus utrisque falsitas esse potest,
numquam veritas; in inferioribus vero utrisque quidem veritas inesse potest,
numquam falsitas. Sin vero quis respiciat angulares et universalem
affirmationem particulari opponat negationi universalemque negationem
particulari comparet affirmationi, una vera semper, falsa altera reperietur nec
umquam fieri potest, ut affirmatione universali vera particularis negatio non
falsa sit vel hac vera non illam falsitas continuo subsequatur. Rursus si
negatio universalis vera est, falsa particularis affirmatio; si particularis
affirmatio vera, falsa universalis negatio. Licet autem hoc et in subiecta
descriptione metiri et in aliis quoque terminis quoscumque sibi mens
considerantis affinxerit idem videbit. Nam in eo quod est: Omnis homo iustus
est quoniam haec falsa est, vera est: Quidam homo iustus non est et
rursus in eo quod est: Nullus homo iustus ƿ est falsa negatione vera est
affirmatio: Quidam homo iustus est Hae autem universalis affirmatio et
particularis negatio quae sunt angulares et universalis negatio et particularis
affirmatio quae ipsae quoque sunt angulares contradictoriae nominantur. Et haec
illa est quam quaerit contradictio, in qua una semper vera sit, altera semper
falsa. Superioris autem disputationis integrum descriptionis subdidimus
exemplar quatenus quod animo cogitationeque conceptum est oculis expositum
memoriae tenacius infigatur. His ergo ita sese habentibus indefinitas propositiones
singularesque videamus. Et primum de indefinitis disputandum est. Indefinitae
igitur per se veritatem ƿ falsitatemque non dividunt. Etenim cum dico: Homo
iustus est Homo iustus non est utrasque veras esse contingit indefinitas.
Quocirca eas a contradictione separamus: contradictio enim constituitur (ut
saepe dictum est) eo quod numquam utraeque verae aut utraeque falsae reperiri
queant sed una semper veritatis, altera falsitatis capax est. Sed quae
universalitatem proferunt indefinitam, illae definitarum particularium vim
tenent. Tale est enim quod dico homo iustus est, tamquam si dicam Quidam homo
iustus est et rursus tale est quod dico: Homo iustus non est
tamquam si dicam: Quidam homo iustus non est Hoc illa res approbat, quod
quemadmodum definitae et particulares in aliquibus verae esse possunt, in
aliquibus falsum verumque dividunt, numquam vero utrasque falsas esse contingit,
ita quoque in indefinitis universale significantibus utrasque simul veras esse
contingit, ut in eo quod dicimus: Homo iustus estHomo iustus non est
utrasque falsas proferre impossibile est sed unam veram, alteram falsam in his
facillime reperimus, in his scilicet terminis qui naturaliter et necessario
subiectis substantiis inhaerescunt vel his inesse non possunt: ut quoniam
animal homini ex necessitate inest, si quis dicat: Homo animal est idque
negetur: Homo animal non est vel: Homo lapis est Homo lapis non est
una vera statim falsa altera reperitur. Atque ideo hae contra universales
universaliter praedicatas faciunt contradictionem. Nam si contra illam quae
est: Omnis homo iustus est ea quae est: Homo iustus non est in
oppositione constituatur, una semper vera est, altera falsa; et si contra eam
quae est: Nullus homo iustus est indefinita propositio ƿ quae est homo
iustus est opponatur, verum inter se propositiones falsumque distribuunt, sicut
definitae quoque universalium propositiones secundum particulares atque
universales oppositae quantitates contradictorias faciunt oppositiones. Quare
constat eas quae universale non universaliter proferunt et sunt indefinitae
neque particulare neque universale proferentes ipsas quidem non semper inter se
verum falsumque dividere, particularibus tamen definitis esse consimiles.
Singulares vero quae sunt unum oppositionis inter se modum tenent: has si ad
idem subiectum, ad idem praedicatum, ad eandem partem, ad idem tempus, ad
eandem relationem, eodem modo proposueris, inter se verum falsumque
distribuunt, ut est: Socrates iustus est Socrates iustus non est Sunt
igitur duae contradictiones: una quae fit in universalibus angulariter
particularibus contra positis, altera quae fit in singularibus cum omnibus his
quas in Sophisticis Elenchis exposuit determinationibus opposita. Quare quoniam
quemadmodum se habeant propositiones quoque modo faciant contradictorias
oppositiones ostendimus, ad ipsa Aristotelis verba veniamus, in quibus per haec
ante praecognita facilis poterit evenire cognitio. SI ERGO UNIVERSALITER
ENUNTIET IN UNIVERSALI QUONIAM EST AUT NON, ERUNT CONTRARIAE ENUNTIATIONES.
DICO AUTEM IN UNIVERSALI ENUNTIATIONEM UNIVERSALEM, UT OMNIS HOMO ALBUS EST,
NULLUS HOMO ALBUS EST. Superioris descriptionis intellegentiam plenius notat.
Ait enim: quando res universalis universaliter designatur ƿ et eam quis
universaliter affirmat, si eandem alter universaliter neget, ita sibimet
comparatas propositiones esse contrarias. Atque in hoc suam sententiam
manifestius ostendit. Ait enim DICO AUTEM UNIVERSALEM ENUNTIATIONEM IN
UNIVERSALI, UT OMNIS HOMO ALBUS EST. Nam cum universalis sit homo, in
universali homine universalis est enuntiatio, per quam dicitur omnis homo. Res
ergo universalis (id est homo) per 'omnis' quae est determinatio universaliter
praedicata est et hoc affirmative. Negative vero universaliter ita dicetur:
Nullus homo albus est 'nullus' enim universalitas universalitati quae est
homo adiecta est. Hoc modo igitur in universali universaliter enuntiantes affirmatio
et negatio contrariae sunt, sicut et ipse testatur et nos in superiore
expositione digessimus. QUANDO AUTEM IN UNIVERSALIBUS NON UNIVERSALITER, NON
SUNT CONTRARIAE, QUAE AUTEM SIGNIFICANTUR EST ESSE CONTRARIA. DICO AUTEM NON
UNIVERSALITER ENUNTIARE IN HIS QUAE SUNT UNIVERSALIA, UT EST ALBUS HOMO, NON
EST ALBUS HOMO. CUM ENIM UNIVERSALE SIT HOMO, NON UNIVERSALITER UTITUR
ENUNTIATIONE. OMNIS NAMQUE NON UNIVERSALE SED QUONIAM UNIVERSALITER
CONSIGNIFICAT. Volenti indefinitam propositionem qualis esset ostendere non
modo auferenda fuit ab universali termino universalis determinatio, verum etiam
particularis et oportuit dici hoc modo: quando autem in universalibus non
universaliter neque particulariter, non sunt contrariae. Nunc autem quoniam ƿ
non addidit particulariter, videtur non de indefinitis, in quibus neque
universalitas neque particularitas adest sed tantum de particularibus loqui, a
quibus solum universale non etiam particulare subtraxit. Sed quid velit
ostendere ipse convenientibus exemplis edocuit. Non enim posuit exempla
particularis propositionis sed indefinitae. Ait enim DICO AUTEM NON
UNIVERSALITER ENUNTIARE IN HIS QUAE SUNT UNIVERSALIA, UT EST ALBUS HOMO, NON
EST ALBUS HOMO. Quod si particularem monstrare voluisset, ita diceret: ut est:
Quidam homo albusNon est quidam homo albus Sed quoniam per exemplum quid
vellet ostendit, nos quoque superiori propositioni quae est: quando autem in
universalibus non universaliter, deesse putemus aut particulariter, ut et
particularitatem et universalitatem ex tota auferat dictione ut post exempla
docuerunt non eum loqui de particulari sed de indefinita. Quare hoc dicit: at
si neque universales sint propositiones neque particulares, quod subaudiendum
est, illae non sunt contrariae. Sunt enim contrariae quae universaliter
universalem terminum proponunt, indefinitae vero ad universalem terminum
universalem terminationem non habent. Idcirco autem ab indefinitis
universalitatem solam et non particularitatem quoque seiunxit, quod indefinitas
propositiones a contrariis solum, non etiam a particularibus segregabat. Quod
autem dico tale est: si vellet ostendere indefinitas propositiones proprie,
neque particulares esse neque universales diceret. Quae ƿ autem in universali
neque universaliter neque particulariter proponuntur, id est quae neque
universales sunt neque particulares, indefinitae sunt. Nam quae neque
universales sunt neque particulares, hae neque contrariae sunt neque
subcontrariae. Subcontrariae quidem idcirco non sunt, quia non habent additam
particularem determinationem; idcirco vero contrariae non sunt, quia
determinatio universalis in his non est. Nunc autem cum tantum vellet ostendere
eas contrarias non esse, de subcontrariis vero in praesenti vellet omittere,
has esse indefinitas quae universale determinatum universaliter non haberent
dixit, ut scilicet has non esse contrarias intellegeremus. Idcirco vero non
adiecit particularitatem eas non habere, quoniam a solis contrariis separare
indefinitas volebat, non etiam a subcontrariis. Ergo si indefinitas a contrariis
et subcontrariis separare voluisset, ita diceret: QUANDO AUTEM IN UNIVERSALIBUS
NON UNIVERSALITER nec particulariter, NON SUNT CONTRARIAE neque subcontrariae.
Sed quoniam non eas volebat nunc non esse subcontrarias demonstrare sed tantum
non esse contrarias, idcirco ei dicto quod est QUANDO AUTEM IN UNIVERSALIBUS
NON UNIVERSALITER non addidit vel particulariter. Hoc enim si addidisset, ad
subcontrarias tenderet, de quibus nihil est additum. Quare hoc dicit: hae quae
indefinitae sunt, quoniam non habent universalitatem, contrariae non sunt. Sed
cum per se quidem contrariae non sint, possunt tamen quaedam significare
contraria. Hoc quid sit multipliciter expositorum sententiis expeditur. Herminus
namque dicit idcirco indefinitas posse aliquando significare ƿ contraria, cum
ipsae careant contrarietate, quippe quae universalium rerum sunt, additum tamen
universale non habent, in solis his quibus ea quae affirmantur aut negantur
subiecto naturaliter insunt: ut cum dicimus: Homo rationalis est Homo rationalis
non est quoniam rationalitas huiusmodi est quae in natura sit hominis,
affirmatio et negatio inter se verum falsumque dividunt et quaedam quodammodo
ab his contraria designantur. Sed nihil hoc attinet ad contraria significanda
in his quae sunt indefinitae. Nam etiam particulares ipsae quoque in talibus
verum falsumque dividunt, ut est: Quidam homo rationalis est Quidam homo
rationalis non est Has ergo secundum Herminum videmus posse significare
contraria. Cur ergo in his quoque dixit quoniam contrariae quidem non sunt,
QUAE AUTEM SIGNIFICANTUR EST ESSE CONTRARIA? Alexander autem hoc dicit: quoniam
indefinitae sunt hae, nihil eas, inquit, prohibet sicut ad particulares ita
quoque ad universales reducere, quae videntur esse contrariae, ut in eo quod
est homo animal est, homo animal non est, quoniam hae propositiones indefinitae
sunt, possunt accipi et quasi contrariae. Nam si dicimus homo animal est,
potest ita accipi tamquam si dicamus omnis homo animal est, et rursus homo
animal non est ita audiri potest tamquam si dicatur nullus homo animal est. Cum
autem dicitur: Homo ambulat Homo non ambulat non ad contrarias sed ad
subcontrarias mens ducitur auditoris. ƿ Quocirca possunt indefinitae aliquando
significare contraria, quoniam eo ipso quod sunt indefinitae nihil eas prohibet
ad contrariorum significationem universaliumque reduci. Et haec quidem
sententia habet aliquid rationis, non tamen integre id quod ab Aristotele
dicitur ostendit. Et meliorem sententiam sponte reiecit, quam post Porphyrius
approbavit. Sunt enim quaedam negationes quae intra se affirmationis eius quam
negant retineant contrarietatem, ut in eo quod est: Sanus est Non est
sanus id quod dicitur -- "Non est sanus" -- significat
"Aeger est", quod est contrarium sano esse. Rursus cum dicimus: Homo
albus est si contra hanc negemus per eam quae dicit: Homo albus non
est significare poterit quoniam homo niger est (nam qui niger est albus
non est) sed nigrum esse et album esse contrarium est. Quare significant
quaedam negationes affirmationesque contraria sed hoc non semper. Nam in eo
quod est: Homo ambulat Homo non ambulat nullum contrarium continetur.
Ambulationi enim nihil est contrarium. Atque ideo dicit has quidem contrarias
non esse, idcirco quod cum sint universales non universaliter enuntientur,
posse autem aliquotiens contraria significare, cum intra negationem contrarium
affirmationis includitur. Aspasius vero et Alexandri et hanc posteriorem
probavit. Nos vero dicimus non quidem Alexandri sententiam abhorrere ratione
sed hanc esse meliorem. ƿ Nam quod ait QUANDO AUTEM IN UNIVERSALIBUS NON
UNIVERSALITER, NON SUNT CONTRARIAE, QUAE AUTEM SIGNIFICANTUR EST ESSE
CONTRARIA, ab Alexandro non est expositum sed tantum dictum quando possint esse
propositiones ipsae contrariae. A Porphyrio vero expositum diligenter est
quando ea quae significantur possint esse contraria, quod ipse Aristotelis
textus expressit. Quamquam Alexander quoque eandem quam Porphyrius posuit
viderit expositionem, eam tamen (ut dictum est) sponte reiecit et sibi huius
expositionis confirmavit sententiam displicere. Mihi vero aut utraeque
recipiendae expositiones videntur aut melior iudicanda posterior. Hoc enim ipse
quoque Aristoteles quodammodo subter ostendit cum dicit: SIMUL ENIM VERUM EST
DICERE QUONIAM EST HOMO ALBUS ET NON EST HOMO ALBUS, ET EST HOMO PROBUS ET NON
EST HOMO PROBUS. SI ENIM TURPIS, ET NON PROBUS; ET SI FIT ALIQUID, ET NON EST.
Cuius quidem loci quae sit expositio, cum ad id venerimus, demonstrabimus. Cognoscendum
autem est et memoria retinendum, quod quaecumque propositiones universales
universaliter fuerint praedicatae, si hae affirmativae, illae vero sint
negativae, semper utrasque esse contrarias, si nihil aequivocationis aut
temporis aut aliorum quae supra determinata sunt ad faciendam oppositionem contrarietatis
impediat. Non tamen omnes quaecumque contrariae sunt, hae aut in universalibus
universaliter ponunt enuntiationem aut una affirmativa est, altera negativa, ut
in eo quod est: Socrates sanus est Socrates aeger est Hic enim neque in
universali universalitas posita est neque ƿ rursus una est affirmatio, altera
vero negatio sed sunt contrariae propositiones. Contraria enim sunt quae
significant quocirca rectissime dictum est, quod quaecumque in universalibus
rebus universaliter enuntiarent, si una earum esset affirmativa, altera
negativa, statim naturaliter essent contrariae: quae autem contrariae essent,
non necesse esse eas vel universale universaliter enuntiare vel unam esse
affirmativam, alteram negativam sed aliquotiens quidem posse has esse contrarias,
quae universale in universalibus non significarent sed hoc in his tantum quae
essent in subiecto de quo fit affirmatio naturaliter, ut in eo quod est animal
et homo. Cum dicimus: Homo animal est quoniam inest in natura hominis
animal, idcirco haec affirmans illa negans videntur esse contraria, quamquam
illic nulla determinatio neque particularitatis neque universalitatis addatur. IN
EO VERO, QUOD PRAEDICATUR UNIVERSALE, UNIVERSALE PRAEDICARE UNIVERSALITER NON
EST VERUM; NULLA ENIM AFFIRMATIO ERIT, IN QUA DE UNIVERSALI PRAEDICATO
UNIVERSALE PRAEDICETUR, UT OMNIS HOMO OMNE ANIMAL EST. Quod dicit huiusmodi
est: omnis propositio simplex duobus terminis constat. His saepe additur aut
universalitatis aut particularitatis determinatio. Sed ad ƿ quam partem hae
determinationes addantur exponit videtur enim Aristoteli praedicato termino
terminationem non oportere coniungi. In hac enim propositione quae est: Homo
animal est quaeritur, subiectumne debeat cum determinatione dici, ut sit:
Omnis homo animal est an praedicatum, ut sit: Homo omne animal est
an utrumque, ut sit: Omnis homo omne animal est Sed neutrum eorum quae
posterius dicta sunt fieri oportet. Namque ad praedicatum numquam determinatio
iungitur sed tantum ad subiectum. Neque enim verum est dicere: Omne animal
omnis homo est idcirco quoniam omnis praedicatio aut maior est subiecto
aut aequalis (ut in eo quod dicimus omnis homo animal est plus est animal quam
homo, et rursus in eo quod dicimus homo risibilis est risibile aequatur
homini), ut autem minus sit praedicatum atque angustius subiecto fieri non
potest. Ergo in his praedicatis quae subiecto maiora sunt, ut in eo quod est
animal, perspicue falsa propositio est, si determinatio universalitatis ad
praedicatum terminum ponitur. Nam si dicamus: Homo omne animal est animal
quod maius est homine per hanc determinationem ad subiectum hominem usque
contrahimus, cum non solum ad hominem sed ad alia quoque nomen animalis possit
aptari. Rursus in his quae aequalia sunt idem evenit. Nam si dico: Omnis homo
omne risibile est primum si ad humanitatem ipsam referam superfluum est
adicere determinationem; quod si ad singulos quosque homines, falsa est
propositio. Nam cum dico: Omnis homo omne risibile est hoc videor
significare: ƿ singuli homines omne risibile sunt, quod fieri non potest. Non
igitur ad praedicatum sed ad subiectum ponenda determinatio est. Verba autem
Aristotelis hoc modo sunt et ad hanc sententiam dicuntur: in his praedicatis
quae sunt universalia his adicere universale aliquid, ut universale praedicatum
universaliter praedicetur, non est verum. Hoc enim est quod ait: IN EO VERO
QUOD PRAEDICATUR UNIVERSALE, id est quod habet praedicatum universale, ipsum
UNIVERSALE PRAEDICARE UNIVERSALITER NON EST VERUM. In praedicato enim
universali, id est quod universale est et praedicatur, id ipsum praedicatum,
quod universale est, universaliter praedicare, id est adiecta determinatione
universalitatis, non est verum. Neque enim potest fieri ut ulla sit affirmatio
in qua de universali praedicato universalis determinatio praedicetur. Eiusque
rei notionem exemplo aperit dicens, ut: Omnis homo omne animal Hoc autem
quam sit inconveniens supra iam diximus. OPPONI AUTEM AFFIRMATIONEM NEGATIONI
DICO CONTRADICTORIE, QUAE UNIVERSALE SIGNIFICAT EIDEM, QUONIAM NON
UNIVERSALITER, UT: OMNIS HOMO ALBUS EST, NON OMNIS HOMO ALBUS EST, NULLUS HOMO
ALBUS EST, EST QUIDAM HOMO ALBUS; CONTRARIE VERO UNIVERSALEM AFFIRMATIONEM ET
UNIVERSALEM NEGATIONEM, UT: OMNIS HOMO IUSTUS EST, NULLUS HOMO IUSTUS EST.
QUOCIRCA HAS QUIDEM IMPOSSIBILE EST SIMUL VERAS ESSE, HIS VERO OPPOSITAS
CONTINGIT IN EODEM, ƿ UT: NON OMNIS HOMO ALBUS EST, EST QUIDAM HOMO ALBUS. Quae
sit integra contradictio his verbis ostendit. Ait enim illam esse oppositionem
contradictoriam, quaecumque dicit non esse universaliter rem universalem anutra
eam quae rem universalem universaliter proponit. Atque hoc est quod ait: OPPONI
AUTEM AFFIRMATIONEM NEGATIONI DICO CONTRADICTORIE QUAE UNIVERSALE SIGNIFICAT
EIDEM, QUONIAM NON UNIVERSALITER, ut ei quae est: Omnis homo iustus est
opponitur ea quae universale significat non tamen universaliter, ut ea quae
est: Quidam homo iustus non est Hominem enim universalem significat non
universaliter, ut cum dicit: Non omnis homo iustus est Haec est
contradictoria oppositio, ut si sit universalis affirmatio, sit particularis
negatio, si sit universalis negatio, sit particularis affirmatio. Angulares
enim (ut dictum est) solae faciunt contradictionem. Verba igitur se obscure
habent sed sententia manifesta est. Dicit enim eam opponi contradictorie
affirmationem negationi vel negationem affirmationi, quaecumque id, quod res
altera universale universaliter significaret idem significaret non
universaliter quod esset universale, ut in his quas supra diximus: ut haec quae
est: Omnis homo iustus est rem universalem universaliter significavit;
illa quae est: Non omnis homo iustus est eidem affirmationi opposita de
homine universali non universaliter negavit dicens: Non omnis homo iustus
est Rursus ea quae dicit: Nullus homo iustus est ƿrem universalem
universaliter negavit dicens 'nullus'; ea vero quae dicit: Quidam homo iustus
est rem universalem particulariter affirmavit et non universaliter.
Hominem enim quendam iustum esse proposuit sed non hominem universaliter
enuntiavit rem universalem. Persequitur ergo proprietates omnes propositionum.
Ait enim: CONTRARIE VERO UNIVERSALEM AFFIRMATIONEM ET UNIVERSALEM NEGATIONEM.
Sicut enim supra dixit eas quae universaliter universale significarent vel in
affirmatione vel in negatione esse contrarias, ita nunc quoque idem repetit
contrarias esse dicens universalem affirmationem universalemque negationem.
Earumque ponit exempla, quae utrasque universales monstrarent, UT: OMNIS HOMO
IUSTUS EST NULLUS HOMO IUSTUS EST Harum autem quae proprietas esset proposuit
dicens: huiusmodi propositiones impossibile esse utrasque sibi in veritate
inuicem consentire, quae autem his essent oppositae contingere utrasque veras
esse. Sunt autem oppositae his utraeque particulares: universali enim
affirmationi particularis negatio opponitur et universali negationi
particularis affirmatio opposita est. Quocirca hae duae particularis affirmatio
et particularis negatio, quae oppositae sunt affirmationi et negationi
universalibus angulariter, hae possunt aliquando esse verae. Et in eodem, ut in
eo quod est: Quidam homo iustus est Quidam homo iustus non est Sed:
Quidam homo iustus est opposita est ei quae est: Nullus homo iustus
est illa vero quae est: Quidam homo iustus non est opposita est ei
quae est: Omnis homo iustus est Sed utraeque inter se, id est: Quidam
homo iustus est et: ƿ Quidam homo iustus non est in veritate
consentiunt. Hoc est ergo quod ait: HIS VERO OPPOSITAS CONTINGIT IN EODEM
easque designat exemplis, UT NON OMNIS HOMO ALBUS EST, EST QUIDAM HOMO ALBUS. Positis
ergo duabus propositionibus, affirmatione universali et universali negatione,
ars danda est, quatenus earum inveniantur opposita. Opposita autem dico
contradictorie, non contrarie neque ullo alio modo. Sit enim haec affirmatio:
Omnis homo iustus est et haec negatio: Nullus homo iustus est
Contra affirmationem quae est: Omnis homo iustus est videntur ergo esse
negationes hae -- una: Nullus homo iustus est altera: Quidam homo iustus
non est altera: Non omnis homo iustus est et postrema indefinita: Homo
iustus non est Quae harum igitur contra eam quae est: Omnis homo iustus
est contradictorie constituitur? Contradictorie autem voco oppositionem,
in qua affirmatio et negatio neque verae utraeque sint neque falsae utraeque
sed una semper vera, alia falsa. Si ergo opponatur contra eam quae est: Omnis
homo iustus est ea quae est: Nullus homo iustus est universalis
scilicet negatio, non est oppositio; utraeque enim falsae sunt. Si vero
opponatur ea quae est: Homo iustus non est indefinita, nec ipsa quoque
facit oppositionem. Quoniam enim indefinita est, potest aliquotiens pro
universali negatione pro exspectatione auditoris intellegi. Quocirca nec ipsa
facit oppositionem. Si enim hoc modo audita sit, cum ita accipitur ut
contraria, simul eas falsas inveniri contingit. Restat ergo, ut aut ea sit quae
est:ƿ Non omnis homo iustus est aut ea quae est: Quidam homo iustus non
est Sed hae sibi consentiunt. Idem enim dicit qui proponit Quidam homo
iustus non est et idem qui dicit Non omnis homo iustus est Nam si
quidam homo iustus non est, non omnis homo iustus est; et si non omnis homo
iustus est, quidam homo iustus non est. Quare utraeque particulares negationes
contradictorie opponuntur contra universalem affirmationem. In his enim neque
verae utraeque sunt neque utraeque falsae sed una vera, altera falsa rursus sit
negatio universalis ea quae est: Nullus homo iustus est Contra hanc
videntur oppositae affirmationes hae: Omnis homo iustus est Homo iustus est
Quidam homo iustus est Sed contra eam quae est: Nullus homo iustus
est si opponitur ea quae est: Omnis homo iustus est possunt esse
utraeque falsae; quare non opponuntur contradictorie. At vero etiam ea quae
dicit: Homo iustus est quoniam indefinita est, potest ita in aliquibus
intellegi tamquam si dicat: Omnis homo iustus est Quod si sic est,
poterit aliquando cum ea negatione quae est: Nullus homo iustus est simul
esse falsa; quare non est opposita relinquitur ergo, ut ea quae est: Quidam
homo iustus est contra eam quae est: Nullus homo iustus est
contradictorie videatur opposita. Angulariter igitur requirendae sunt, ut
contra universalem affirmationem illa ponatur quae sub universali negatione
est, contra universalem negationem illa contradictorie constituatur quae est
sub universali affirmatione. Quod scilicet volens Aristoteles ostendere sic
ait: QUAECUMQUE IGITUR CONTRADICTIONES UNIVERSALIUM SUNT UNIVERSALITER, NECESSE
EST ALTERAM VERAM ESSE VEL FALSAM ET QUAECUMQUE IN SINGULARIBUS SUNT, UT EST
SOCRATES ALBUS, NON EST SOCRATES ALBUS. In illis enim quae contradictoriae sunt
universalibus universaliter praedicatis, in his verum semper falsumque
dividitur. Contradictoriae autem sunt universalis affirmationis particularis
negatio et universalis negationis particularis affirmatio. In his igitur una
semper vera est, altera semper falsa. Atque hoc est quod ait: QUAECUMQUE IGITUR
CONTRADICTIONES UNIVERSALIUM SUNT UNIVERSALITER, et hic distinguendum est ut
intellegatur sic: quaecumque igitur contradictiones sunt universalium
propositionum universaliter propositarum, necesse est alteram veram, alteram
falsam esse. Et in his primum dividitur veritas falsitasque, quae sibi et
qualitate et quantitate oppositae sunt: qualitate quod illa negatio est, illa
affirmatio, quantitate quod illa universalis, illa particularis est. Secundo
autem modo in his quae sunt singularia, si nullae argumentatorum nebulae sint,
veritas falsitasque dividitur, ut in eo quod est: Socrates albus est Socrates
albus non est Una enim vera est altera falsa, si (ut dictum est) nulla
ambiguitas aequivocationis impediat. QUAECUMQUE AUTEM IN UNIVERSALIBUS NON
UNIVERSALITER, NON SEMPER HAEC VERA EST, ILLA VERO FALSA. SIMUL ENIM VERUM EST
DICERE QUONIAM ƿ EST HOMO ALBUS ET NON EST HOMO ALBUS, ET EST HOMO PROBUS ET
NON EST HOMO PROBUS. SI ENIM TURPIS, ET NON PROBUS; ET SI FIT ALIQUID, ET NON
EST. VIDEBITUR AUTEM SUBITO INCONVENIENS ESSE, IDCIRCO QUONIAM VIDETUR
SIGNIFICARE NON EST HOMO ALBUS SIMUL ETIAM QUONIAM NEMO HOMO ALBUS. HOC AUTEM
NEQUE IDEM SIGNIFICAT NEQUE SIMUL NECESSARIO. Propositiones eas, quae in
universalibus non universaliter proferuntur, non semper veras esse vel falsas
conatur ostendere. Hoc autem per contraria monstrat. Ea enim propositio quae
est: Homo albus est et huius negatio quae est: Homo albus non est
hoc modo ostenduntur verum et falsum inter se interdum non posse dividere: nam
si verum est, ut hae duae affirmationes: Est homo albus et Est homo
niger utraeque uno tempore verae sint, verum est quoque affirmationem
indefinitam et indefinitam negationem utrasque veras aliquotiens inveniri. Nam
si verum est quoniam est homo albus, verum itidem quoniam est homo niger (nam
cum Gallus sit candidus, Aethiops nigerrimus invenitur): simul ergo verum est
dicere quoniam est homo albus et est homo niger. Sed qui niger est albus non est:
simul ergo verum est dicere quoniam est homo albus et non est homo albus. Idem
quoque et de probo et turpi. Nam si verum est dicere quoniam est homo probus,
si quis hoc de philosopho dicat, et rursus verum est quoniam ƿ est homo turpis,
si quis hoc de Sulla diceret, verum est utrumque, et quoniam est homo probus et
quoniam est homo turpis. Sed qui turpis est, probus non est: simul igitur verum
est dicere quoniam EST HOMO PROBUS ET NON EST HOMO PROBUS. Sed videbitur
fortasse aliquid sibi dixisse contrarium et difficilior procedit ostensio, quae
per huiusmodi exempla proponitur, quae contraria esse videantur. Albus enim et
niger et probus et turpis contraria sunt et fortasse dubitet quidam, utrum uno
tempore contraria haec in aliquibus valeant reperiri. Sed adiecit exemplum
aliud, quod cum contrarium non sit, tamen ex eo sicut in contrariis quoque
negatio procreatur: ut si quis dicat: Est homo probus et alius dicat: Fit
homo probus si quis vel alio docente vel se ipso corrigente aliqua disciplina
rationis eniteat. Nihil ergo contrarium habet esse probum et fieri probum;
neque enim ita contrarium est, ut esse hominem probum et esse hominem turpem.
Quare si nihil habet contrarium, dubium non est quin simul esse possint. Sed
quod fit nondum est adhuc cum fit: quare nondum est probus qui fit probus. Sed
verum erat dicere cum eo quod est: Est probus homo quoniam fit probus
homo. Sed qui fit probus homo, non est probus homo: verum est igitur dicere
simul, quoniam est probus homo et non est probus homo, licet non invalida
exempla sint posita de contrariis. Nihil enim prohibet uno tempore contraria
aliis atque aliis inesse subiectis. Quocirca constat indefinitas per id quod in
exemplis supra proposuit simul aliquotiens veras videri et non semper inter se
verum falsumque partiri. Quod vero ait: VIDEBITUR AUTEM SUBITO INCONVENIENS
ESSE, IDCIRCO ƿ QUONIAM VIDETUR SIGNIFICARE NON EST HOMO ALBUS, SIMUL ETIAM
QUONIAM NEMO HOMO ALBUS EST, huiusmodi est: dixit enim propositionem
affirmationis eam quae dicit: Est homo albus veram posse esse cum ea quae
dicit: Non est homo albus Nunc hoc notat: videtur, inquit, aliquotiens
inconveniens esse et incongruum dicere eam quae dicit: Est homo albus et
eam quae est: Non est homo albus simul veras esse posse, idcirco quod ea
quae est: Non est homo albus emittit imaginationem quandam quod
significet quoniam nullus homo albus est. Videtur enim negatio huiusmodi, quae
est: Non est homo albus illud quoque significare simul quoniam nullus
homo albus est, ut si quis dixerit: Non est homo albus hoc eum dixisse
putandum sit, quoniam nullus homo albus est. HOC AUTEM, inquit, id est
"Non est homo albus" et rursus "Nullus homo albus est",
NEQUE IDEM SIGNIFICAT neque semper simul sunt. Nam qui dicit: Nullus homo albus
est universalitatem determinans negationem de universalitate proponit,
qui vero dicit: Non est homo albus non omnino de tota universalitate
negat sed ei tantum sufficit de particularitate negasse. Atque ea quae est:
Nullus homo albus est si unus homo albus fuerit, falsa est, ea vero quae
dicit: Non est homo albus etiam si unus homo albus non fuerit, vera est.
Quare non significant idem. Dico autem, quoniam nec omnino, quotienscumque
dictum fuerit: Non est homo albus mox significat quoniam nullus homo
albus est. Nam cum dico: Nullus homo albus est haec eadem significat
quoniam non est homo albus (universalis enim intra se continet indefinitam): ƿ
cum autem dicimus: Non est homo albus non omnino significat nullus homo
albus est, indefinita enim non intra se continet universalem. Superius namque
monstravimus, quod indefinitae vim particularium optinerent. Quare si, cum est
universalis negatio, est indefinita negatio, cum vero est indefinita negatio,
non omnino est universalis negatio, non convertitur secundum subsistendi consequentiam.
Quare non sunt simul. Quae enim non convertuntur, simul non sunt, ut nos
Praedicamentorum liber edocuit. Quare neque idem significant negationes: Non
est homo albus Nullus homo albus est neque simul sunt, quoniam non
convertuntur ad consequentiam subsistendi. Syrianus tamen nititur indefinitam
negationem vim definitae optinere negationis ostendere. Hoc multis probare
nititur argumentis Aristotele maxime reclamante. Nec hoc tantum suis sed
Platonicis quoque Aristotelicisque rationibus probare contendit: eam quae
dicit: Non est homo iustus huiusmodi esse qualis est ea quae dicit:
Nullus homo iustus est Sed nos auctoritati Aristotelicae seruientes id
quod ab illo veraciter dicitur approbamus. Nam quod Syrianus dicit indefinitam
quidem affirmationem particularis optinere vim, indefinitam vero negationem
universalis, quam mendaciter diceretur quamque utraeque in particularibus
rectissime proponerentur, et supra monstravimus et in his libris quos de
categoricis syllogismis composuimus in primo libro diligenter expressimus. Nunc
nobis ipse quoque Aristoteles testis est et Syrianus facillima ratione
conuincitur, quod in Analyticis quoque ex duabus indefinitis dicit non posse
colligi syllogismum ƿ cum ex affirmativa particulari et negativa universali
particularis negativa possit esse collectio. Quod si indefinitae affirmatio et
negatio et negationis universalis et particularis affirmationis vim optinerent,
numquam diceret Aristoteles has propositiones non colligere syllogismum. Sed
illud verius est, quoniam ex duabus particularibus nihil in qualibet
propositionum complexione colligitur, quod in his propositionibus quae
indefinitae sunt nihil colligi dixit, quia particularium vim propositiones
indefinitas arbitratus est optinere. Quare multis modis Syriani argumenta
franguntur. Sed nos expositionis cursum ad sequentia convertamus. MANIFESTUM
EST AUTEM QUONIAM UNA NEGATIO UNIUS AFFIRMATIONIS EST; HOC ENIM IDEM OPORTET
NEGARE NEGATIONEM, QUOD AFFIRMAVIT AFFIRMATIO, ET DE EODEM, VEL DE ALIQUO
SINGULARIUM VEL DE ALIQUO UNIVERSALIUM, VEL UNIVERSALITER VEL NON
UNIVERSALITER. DICO AUTEM UT EST SOCRATES ALBUS, NON EST SOCRATES ALBUS. SI
AUTEM ALIUD ALIQUID VEL DE ALIO IDEM, NON OPPOSITA SED ERIT AB EA DIVERSA. HUIC
VERO QUAE EST OMNIS HOMO ALBUS EST ILLA QUAE EST NON OMNIS HOMO ALBUS EST, ILLI
VERO QUAE EST ALIQUI HOMO ALBUS EST ILLA QUAE EST NULLUS HOMO ALBUS EST, ILLI
AUTEM QUAE EST EST HOMO ALBUS ILLA QUAE EST NON EST HOMO ALBUS. Hinc quoque
apparet affirmationem indefinitam et ƿ indefinitam negationem non semper unam
in veritate aliam in falsitate consistere. Atque hinc docetur indefinitam
negationem non idem valere, quod universalis negatio potest, et est alia
universalis, alia indefinita negatio. Nam si unicuique affirmationi una negatio
videtur opponi cumque diversae sint affirmatio quae dicit: Est homo albus
et ea quae dicit: Est quidam homo albus diversas quoque habebunt in
negationibus enuntiationes. Et illa quidem quae indefinita est affirmatio
habebit indefinitam negationem, ut ea quae dicit: Est homo albus huic
opponitur: Non est homo albus ea vero quae dicit: Est quidam homo
albus negationem habebit oppositam eam quae dicit: Nullus homo albus
est Quare si particularis affirmatio definita et rursus affirmatio
indefinita a se ipsae diversae sunt, illud verum est oppositas quoque
contradictorie negationes habere dissimiles. Quare ea quae est: Nullus homo
iustus est diversa est ab ea quae dicit: Homo iustus non est Atque
hoc nunc Aristoteles exsequitur: ait enim unam semper negationem contra unam
affirmationem posse constitui. Et eius causam conatur ostendere, quod omnis
negatio eosdem terminos habet in enuntiatione sed enuntiandi modo diversa est.
Nam quod ponit affirmatio idem aufert negatio et quod illa praedicatum subiecto
iungit hoc illa dividit atque disiungit. Quare si idem praedicatum idem
subiectum in negatione est, quod affirmatio ante posuerat, non est dubium quin
unius affirmationis una negatio videatur. Nam si duae sint, aut subiectum
altera mutatura est aut praedicatum. Sed quaecumque sunt huiusmodi, non sunt
oppositae. Hoc enim est quod ait: SI AUTEM ALIUD ALIQUID VEL ƿ DE ALIO IDEM,
NON OPPOSITA SED ERIT AB EA DIVERSA. Sensus enim huiusmodi est: si negatio
aliud aliquid praedicando neget quam in affirmatione fuit (ut si sit affirmatio
"Est homo albus", negatio dicat "Non est homo iustus",
aliud praedicavit in negatione quam in affirmatione fuerat constitlltum) vel si
de alio subiecto quam in affirmatione fuerat idem quod in affirmatione fuit
dixerit praedicatum (ut si affirmatio sit "Est homo iustus", negatio
respondeat "Non est leo iustus", idem praedicatum est, subiecta
diversa sunt): si ergo vel aliud quiddam praedicet in enuntiatione propositio
vel de alio subiecto idem praedicet quod affirmatio ante posuerat, non erunt
illa affirmatio negatioque oppositae sed tantum a se diversae; neque enim se
perimunt. Et hanc rem demonstrativam addidit et quae esset argumentum unius
affirmationis praeter unam negationem esse non posse, sive in singularibus, ut
in eo quod ipse dicit exemplo: EST SOCRATES ALBUS, NON EST SOCRATES ALBUS, sive
in universalibus universaliter praedicatis. Cum his particulares in oppositione
contradictorie constituuntur, ut in universali universaliter affirmativa: Omnis
homo albus est in universali particulariter negativa praedicetur: Non
omnis homo albus est illi vero quae est in universali particulariter
affirmativa: Quidam homo albus est opponatur in universali universaliter
propositio negativa: Nullus homo albus est illi vero quae in universali
non universaliter affirmativa est: Est homo albus illa quae in universali
non universaliter negativa est: Non est homo albus ut quod ait vel de
aliquo singularium ad haec exempla pertineat: EST SOCRATES ALBUS, NON EST
SOCRATES ƿ ALBUS; quod autem secutus est VEL DE ALIQUO UNIVERSALIUM, VEL
UNIVERSALITER ad illa exempla dictum esse videatur quae sunt: OMNIS HOMO ALBUS
EST, NON OMNIS HOMO ALBUS EST, ALIQUI HOMO ALBUS EST, NULLUS HOMO ALBUS EST;
quod vero addidit VEL NON UNIVERSALITER scilicet in universalibus ad illa
exempla rettulerit quae sunt: HOMO ALBUS EST, NON EST HOMO ALBUS. Hinc igitur
omnia rursus brevissime repetit dicens: iam sese dixisse, quoniam uni negationi
una affirmatio esset opposita et hoc non quolibet modo sed contradictorie, in
quibus scilicet verum falsumque divideretur. Dixisse etiam commemorat, quae
essent hae quas contradictorias nominaret. Dixit autem esse angulares,
affirmativam universalem et negativam particularem, rursus affirmativam
particularem et negativam universalem. Disserui quoque, inquit, ET QUONIAM ALIAE
SUNT CONTRARIAE. Non enim eaedem sunt contrariae quae sunt contradictoriae.
Contrariae enim sunt sibimet universalis affirmatio universalisque negatio.
Exposui illud quoque, inquit, QUONIAM NON OMNIS VERA VEL FALSA CONTRADICTIO.
Nunc contradictionem non illam proprie sed communiter de his dixit quae sibi
sunt oppositae sive contrario modo sive subcontrario. Hae namque non semper
verum inter se falsumque dividebant, ƿ ut una semper esset vera, alia falsa.
Poterat enim fieri ut contrariae simul invenirentur falsae, subcontrariae simul
verae. De his autem, quae proprie contradictoriae sunt, de his sequitur et se
iam exposuisse commemorat, et quare una vera vel falsa est et quando. Idcirco
enim affirmatio universalis particulari negationi vi contradictionis opponitur,
quod in omnibus a se ipsae diversae sunt et qualitate et quantitate. Illa enim
est affirmatio, illa negatio, universalis illa, illa particularis. Ideo ergo
aut utraeque falsae aut utraeque verae inveniri non possunt. Quando autem ita
fuerit, constat unam veram esse, aliam falsam. Atque hoc est quod ait: ET QUARE
ET QUANDO VERA VEL FALSA, dictum esse scilicet memorans, quare oppositio et
quando una semper vera sit, altera falsa: tunc utique quando angulariter
constituuntur, idcirco quoniam et quantitate a se propositiones et qualitate
diversae sunt. Nobis autem dicendum est, quando oppositiones contrariae vel
subcontrariae aut utraeque illae simul falsae sint aut utraeque illae simul
verae aut una falsa, alia rursus inveniatur vera. In contrariis enim si ea quae
non sunt naturaliter praedicentur, [utraeque] ut albedo, quoniam naturaliter
homini non est, utraeque falsae sunt quae albedinem praedicant. Falsum est
enim: Omnis homo albus est falsum est: Nullus homo albus est Sed
quando ambae falsae sunt, verae sunt subcontrariae, ut est: Quidam homo albus
est Quidam homo albus non est Quod si quid naturale praedicetur in
contrariis, affirmatio vera est, falsa negatio, ut quoniam naturale est homini
esse animal, vera est ea quae dicit: Omnis homo animal est falsa quae
dicit: Nullus ƿ homo animal est Eodem quoque modo in subcontrariis vera
est affirmatio, falsa negatio. Sin vero aliquid impossibile praedicetur, falsa
affirmatio est, vera negatio, ut quoniam impossibile est hominem esse lapidem,
si dicamus: Omnis homo lapis est falsum est, Nullus homo lapis est
verum est. Eandem quoque retinet vim subcontrarii natura: affirmatio enim hic
falsa est, vera negatio. UNA AUTEM EST AFFIRMATIO ET NEGATIO QUAE UNUM DE UNO
SIGNIFICAT, VEL CUM SIT UNIVERSALE UNIVERSALITER VEL NON SIMILITER, UT OMNIS
HOMO ALBUS EST, NON EST OMNIS HOMO ALBUS; EST HOMO ALBUS, NON EST HOMO ALBUS;
NULLUS HOMO ALBUS EST, EST QUIDAM HOMO ALBUS, SI ALBUM UNUM SIGNIFICAT. Ea quae
a nobis superius sunt diligenter exposita, illa nunc ipse clarius monstrat.
Diximus namque unam propositionem esse quae unam quamlibet rem significaret et
non plurimas, ita ut nec aequivocum subiectum haberet nec aequivocum
praedicatum; una enim propositio sic fit. Nunc hoc dicit: una propositio est
quae unam rem significat id est quae neque subiectum aequivocum habet nec
praedicatum. Sive autem sit universalis affirmatio sive universalis negatio
sive particularis affirmatio sive particularis negatio sive indefinitae
utraeque sive contra se angulariter ponantur: una illa propositio est, quae
unam rem in affirmatione vel negatione significat. Sed hic quaestio est,
quemadmodum universalis affirmatio unam rem significare ƿ possit, cum ipsa
universalitas non de uno sed de pluribus praedicetur. Nam cum dico: Omnis homo
albus est singulos homines qui plures sunt significans multa in ipsa
affirmationis praedicatione designo. Quocirca nulla erit affirmatio vel negatio
universalis, quae unam rem significare possit, idcirco quod ipsa universalitas
de pluribus (ut dictum est) individuis praedicatur. Sed ad hoc respondemus: cum
universale quiddam dicitur, ad unam quodammodo collectionem totius
propositionis ordo perducitur et eius non ad particularitatem sed ad
universalitatem quae est una qualitas applicatur: ut cum dicimus omnis homo
iustus est, non tunc singulos intellegimus sed ad unam humanitatem quidquid de
homine dictum est ducitur. Quare sive sit universalis affirmatio sive
universalis negatio vel in singularibus, potest fieri ut hae unae sint, si una
significatione teneantur. Atque hoc est quod ait eas propositiones quas supra
proposuit, quae sunt OMNIS HOMO ALBUS EST, NON EST OMNIS HOMO ALBUS; HOMO ALBUS
EST, NON EST HOMO ALBUS; NULLUS HOMO ALBUS EST, EST QUIDAM HOMO ALBUS, unas
videri, SI ALBUM, inquit, UNUM SIGNIFICAT. Si enim album quod praedicatur multa
significet vel si homo quod subiectum est non unum, non est una affirmatio nec
una negatio. Hoc autem in sequentibus clarius monstrat dicens: SIN VERO DUOBUS
UNUM NOMEN EST POSITUM, EX QUIBUS NON EST UNUM, NON EST UNA AFFIRMATIO, UT SI.
QUIS PONAT NOMEN TUNICA HOMINI ƿ ET EQUO, EST TUNICA ALBA HAEC NON EST UNA
AFFIRMATIO NEC NEGATIO UNA. Sensus huiusmodi est: si una res plura significet,
ex quibus multis unum effici possit, illa affirmatio, in qua illud nomen vel
praedicatur vel subicitur, multa non significat, ut in eo quod est homo. Quod
dicimus homo significat animal, significat rationale, significat mortale; sed
ex his quae multa significat unum potest effici, quod est animal rationale
mortale. Quare hoc nomen homo licet plura sint quae significet, tamen quoniam
iuncta in unum quodammodo veniunt corpus et unum quiddam ex se iuncta
perficiunt, cum ita dictum fuerit, quasi ut ex his quae significat unum aliquid
fiat, unum quod tota illa iuncta perficiunt nomen illud significare manifestum
est. Atque hoc est quod ait: SIN VERO DUOBUS UNUM NOMEN EST POSITUM, EX QUIBUS
NON EST UNUM, non esse unam affirmationem. Si enim talia quilibet sermo plura
significet, ex quibus iunctis unum effici nequeat corpus, nec possint ea quae
significantur uno illo nomine in unam speciem substantiae convenire, non est
illa una affirmatio. Quale autem nomen sit quod positum unam affirmationem non
facit, idcirco quod plura significet ex quibus unum fieri non possit, exempli
sollertissima virtute monstravit dicens: UT SI QUIS PONAT NOMEN TUNICA HOMINI
ET EQUO, EST TUNICA ALBA HAEC NON EST UNA AFFIRMATIO NEC NEGATIO UNA. NIHIL
ENIM HOC DIFFERT DICERE QUAM EST EQUUS ET HOMO ALBUS. HOC AUTEM NIHIL DIFFERT
QUAM DICERE EST EQUUS ALBUS ET EST HOMO ALBUS. Si quis ponat homini et equo
nomen tunica, inquit, et in propositione nomen hoc ponitur, illa propositio non
est una sed multiplex. Nam si verbi gratia tunica homo atque equus dicatur, ut,
cum dicit aliquis tunicam, aut equum designet aut hominem: si quis dicat in
propositione sic: Tunica alba est non est una affirmatio. Quod enim
dicit: Tunica alba est huiusmodi est quasi si dicam "Homo et equus
albus est". Tunica enim equum atque hominem significatione monstravit.
Quod vero dicit: Homo atque equus albus est nihil differt tamquam si
dicat: Equus albus est Homo albus est Sed hae duae sunt propositiones et
non similes, in his enim subiecta diversa sunt. Quocirca si hae affirmationes
duae sunt, duplex quoque illa est affirmatio, quae dicit homo atque equus albus
est. Quod si haec rursus duplex est, quoniam equum atque hominem tunicam
significare propositum est, cum dicimus "Tunica alba est" non unum
sed plura significat. Quocirca si ea affirmatio quae multa designat non est
una, haec quoque affirmatio una non erit, cuius aut praedicatio aequivoca
fuerit aut subiectum. Atque hoc est quod ait: SI ERGO HAE MULTA SIGNIFICANT ET
SUNT PLURES, MANIFESTUM EST QUONIAM ET PRIMA MULTA ƿ VEL NIHIL SIGNIFICAT; NEQUE
ENIM EST ALIQUIS HOMO EQUUS. Quod si, inquit, est equus albus et est homo albus
multa significant, illa quoque prima propositio, quae est est tunica alba, unde
hae fluxerunt, multa designat: aut si quis dicat non eam multa significare,
concedit profecto nihil omnino propositionis ipsius significatione monstrari.
Tunc enim nomen unum multa significans in unam significationem poterat
convenire, quotiens ex his quae significat una posset coniungi constituique
substantia, ut in eo quod supra proposui, cum homo animal rationale et mortale
significat, quae in unum possunt iuncta congruere. Nunc autem si tunica hominem
equumque significat, multa designat sed ea ipsa in unum corpus non veniunt.
Neque enim fieri potest ut aliqui homo equus sit. Quare aut multa significat,
quod verum est, aut si quis contendat non eam multa significare sed quiddam ex
his quae significat iunctum, quoniam nihil est quod ex equo et homine
coniungatur, nihil omnino significat. Hoc est enim quod dixit NEQUE ENIM EST
ALIQUIS HOMO EQUUS, et hoc sub uno legendum est, non discrete pronuntiandum homo
et rursus equus sed homo equus, ut ex his iunctis appareat nihil omnino posse
constitui. Cur autem hoc dixerit, sequens monstrat oratio. Si enim ita facienda
est oppositio, ut contra affirmationem huiusmodi opponatur ƿ negatio, quae in
oppositione verum falsumque dividat, ut una vera, alia falsa sit, unam oportet
esse affirmationem et uuam negationem, quod contingit, si neque subiectum neque
praedicatum multa significet. Quod si plura designet et sit aequivocum, non
erit in huiusmodi propositionibus una semper vera, altera falsa. Herminus vero
sic sentit quod ait Aristoteles: SIN VERO DUOBUS UNUM NOMEN EST POSITUM, EX
QUIBUS NON EST UNUM, NON EST UNA AFFIRMATIO: ut in eo, inquit, quod est homo
gressibilis est, quoniam quod dicimus gressibile potest et bipes esse et
quadrupes et multipes animal demonstrari: ex his, inquit, omnibus unum fit,
quod est pedes habens: ista, inquit, huiusmodi affirmatio non multa significat.
Sed sententiam Aristotelis omnino non sequitur. Neque enim ex his omnibus unum
fit nec quadrupes et bipes et multipes pedem habere faciunt. Hic enim numerus
pedum, non pedum constitutio est. Quare Herminus praetermittendus est. Huic
autem expositioni quam supra disserui et Aspasius et Porphyrius et Alexander in
his quos in hunc librum ediderunt commentariis consenserunt. Sed ne diutius
nobis Aristotelis exemplum caliginis obscuritatem ferat, hoc in aliquo noto
exemplo vocabuloque videndum est. Cum enim dicimus: Aiax se peremit, et
Telamonis Aiacem filium et Oileum demonstrat, ex quibus duobus unum fieri
aliquid non potest. Ex duobus enim individuis nihil omnimodis iungitur. ƿ Quare
huiusmodi propositio multa significat. Sed haec hactenus. Nunc autem determinat
haec, quae de propositionibus supra iam dixerat, non de omni tempore sed de
solis tantum praeterito et praesenti, quemadmodum se in veritate et in
falsitate habeant, disseruisse. In futuris vero non idem est quale in
praeterito praesentique in propositione iudicium, idcirco quod iam vel cum
contigit vel cum est definita veritas et falsitas in propositionibus invenitur.
Ut cum dico: Brutus consulatum primus instituit sub rege Tarquinio dicat
alius: Brutus consulatum non primus instituit sub rege Tarquinio hic una
vera est, una falsa, et iam affirmatio definite vera est, definite falsa negatio
rursus in praesenti cum dicimus: Vernum tempus est Vernum tempus non est
si hoc verno tempore dictum sit, affirmatio vera est et definite vera, negatio
falsa est et definite falsa. Quod si hoc autumno dictum sit, definite falsa
affirmatio et definite vera negatio, idcirco quod sive in praeterito sive in
praesenti veritas affirmationis negationisue iam contigit. In futuro vero non
eodem modo sese habet. Ut cum dicimus: Gothos Franci superabunt si quis
negat: Gothos Franci non superabunt una quidem vera est, una falsa sed
quae vera quae falsa ante exitum nullus agnoscit. Atque hoc est quod ait: IN
HIS ERGO QUAE SUNT ET FACTA SUNT NECESSE EST AFFIRMATIONEM VEL NEGATIONEM VERAM
ƿ VEL FALSAM ESSE, IN UNIVERSALIBUS QUIDEM UNIVERSALITER SEMPER HANC QUIDEM VERAM,
ILLAM VERO FALSAM, ET IN HIS QUAE SUNT SINGULARIA, QUEMADMODUM DICTUM EST ut
non modo una semper vera sit, altera falsa in tota contradictione sed illud
quoque habeat, ut in una qualibet definite veritas aut falsitas reperiatur: ita
ut in his singularibus veritas et falsitas in propositionibus dividatur, in
universalibus autem, si his particularitates opponantur (quemadmodum dictum
est) unam necesse est veram esse, alteram falsam sed definita propositionum
veritate vel falsitate, sicut supra disserui. Quare in sequentibus quaedam de
futuris tractanda sunt et quoniam maius opus est (quam hoc breviter dici possit
viderimus) et nos secundi voluminis seriem longius extraximus, hoc loco
fastidiosam longitudinem terminemus. Ea quae huius libri series continebit
altioris paene tractatus sunt quam ut in logica disciplina conveniat disputari
sed quoniam (ut saepe dictum est) orationibus sensa proferuntur, quibus
subiectas res esse ƿ manifestum est, non est dubium quin quod in rebus sit idem
saepe transferatur ad voces. Quare recte mihi consilium fuit subtilissimas
Aristotelis sententias gemino ordine commentationis aperire. Nam quod prior
tenet editio, ingredientibus ad haec altiora et subtiliora quandam quodammodo
faciliorem semitam parat; quod autem secunda editio in patefaciendis subtilibus
sententiis elaborat, hoc studio doctrinaque provectis legendum discendumque
proponitur. Quare prius quaedam pauca dicenda sunt, quatenus ea de quibus
postea tractaturi sumus haec ipsa legentibus non videantur ignota. Categoricas
propositiones Graeci vocant, quae sine aliqua conditione positionis promuntur,
ut est dies est, sol est, homo est, homo iustus est, sol calet et caetera quae
sine alicuius conditionis nodo atque ligamine proponuntur. Sunt autem
conditionales propositiones huiusmodi: Si dies est, lux est quas Graeci
hypotheticas vocant. Conditionales autem dicuntur, quod talis quaedam conditio
proponitur ut dicatur, si hoc est, illud est. Et illas quidem quas categoricas
Graeci nominant, Latini praedicativas dicere possumus. Nam si categoria
praedicamentum est, cur non quoque categoricae propositiones praedicativae
dicuntur? Harum autem quaedam sunt quae cum sempiterna significent, sicut hae
res quas significant semper sunt et numquam a propria natura discedunt, ita quoque
ipsae propositiones immutabili significatione sunt: ut si quis dicat: Deus est
Deus immortalis est hae namque propositiones sicut de immortalibus
dicuntur, ita ƿ quoque sempiternam habent et necessariam significationem. Nec
hoc in unius temporis natura perspicitur sed in omnium. Nam cum dicimus: Deus
immortalis est vel: Immortalis fuit vel: Immortalis erit a
propria significationis necessitate nil discrepat. Necessarias autem
propositiones vocamus, in quibus id quod dicitur aut fuisse aut esse aut certe
futurum esse necesse est evenire. Et hae quidem quae sempiterna significant
sempiternae necessitatis sunt. Nam etiam si in his non sit manifesta veritatis
natura, nil tamen prohibet fixam esse necessitatis in natura constantiam, ut si
nobis ignotum est, utrum paria sint astra an imparia, non tamen idcirco poterit
evenire ut nec paria nec imparia videantur sed sine ulla dubitatione aut paria
sunt aut imparia. Omnis enim multitudo horum alterum retinet in natura.
Quocirca etiam in his, si quis dicat: Astra paria sunt aliusque
respondeat: Astra paria non sunt vel si quis dicat: Astra imparia
sunt aliusque respondeat: Astra imparia non sunt unus horum verum
ex necessitate proponit, quod, inquam, si id quod quilibet horum verum dixerit
nobis ignotum est, necesse est tamen immutabiliter esse quod dicitur. Atque hae
quidem sunt immutabiliter necessariae propositiones. Aliae vero sunt, quae non
sempiterna significantes tamen et ipsae sunt necessariae, quousque illa
subiecta sunt de quibus propositio aliquid affirmat aut negat. Ut cum dico:
Homo mortalis est quamdiu homo est tamdiu hominem mortalem esse necesse
est. Nam si quis dicat: Ignis calidus est ƿquamdiu est ignis tamdiu ex necessitate
vera est propositio. Aliae vero sunt, quae a natura necessitatis recedunt et
quaedam tantum contingentia significant sed haec aut aequaliter se ad
affirmationem negationemque habentia aut ad unum frequentius vergentia. Et
aequaliter quidem se habent, ut si quis dicat hodie me esse lauandum, hodie me
non esse lauandum. Nihil enim magis vel affirmatio fiet aut negatio, utraeque
enim aequaliter necessariae non sunt. Illae vero quae plus ad alteram partem
vergunt huiusmodi sunt, ut si quis dicat hominem in senecta canescere, hominem
in senecta non canescere: fit quidem frequentius ut canescat, non tamen interclusum
est, ut non canescat. Praedicativarum autem propositionum natura ex rerum
veritate et falsitate colligitur. Quemadmodum enim sese res habent, ita sese
propositiones habebunt, quae res significant. Nam si in se res ullam retinent
necessitatem, propositiones quoque necessariae sunt; sin vero tantum inesse
significent -- ut si quis dicat: Homo ambulat homini ambulationem inesse
monstravit -- praeter aliquam necessitatem sunt tantum inesse significantes
omni uacuae necessitate. Quod si res impossibiles sunt, propositiones quae
illas res demonstrant impossibiles nominantur; sin vero res contingenter
venientes atque abeuntes, quae illas prodit contingens propositio nuncupatur. Quoniam
autem temporum alia sunt futura, alia praesentia, alia vero praeterita, res
quoque subiectae temporibus his quoque temporum diversitatibus variae sunt.
Aliae enim praesentis temporis sunt, aliae ƿ futuri, aliae praeteriti. Eodem
quoque modo propositiones alias praeteriti temporis significatio tenet, ut cum
dico Graeci Troiam euertere; aliae praesentis, ut Francorum Gothorumque pugna
committitur; aliae futuri, ut Persae et Graeci bella moturi sunt. Et de
praeteritis quidem et de praesentibus, ut res ipsae, stabiles sunt et
definitae. Nam quod factum est, non est non factum, et quod non est factum,
nondum factum est. Idcirco de eo quod factum est verum est dicere definite,
quoniam factum est, falsum est dicere, quoniam factum non est. Rursus de eo
quod factum non est verum est dicere, quoniam factum non est, falsum est,
quoniam factum est. Et de praesenti quoque. Quod fit definitam habet naturam in
eo quod fit, definitam quoque in propositionibus veritatem falsitatemque habere
necesse est. Nam quod fit definite verum est dicere quoniam fit, falsum quoniam
non fit. Quod non fit verum est dicere non fieri, falsum fieri. De definitione
ergo propositionum praeteriti vel praesentis supra iam dictum est. Nunc vero ad
illarum propositionum veritatem falsitatemque disputationis ordinem vertit,
quae in futuro dicuntur quaeque sunt contingentia. Solet autem futura vocare, ƿ
quae eadem contingentia dicere consuevit. Contingens autem secundum
Aristotelicam sententiam est, quodcumque aut casus fert aut ex libero
cuiuslibet arbitrio et propria voluntate venit aut facilitate naturae in
utramque partem redire possibile est, ut fiat scilicet et non fiat. Haec ergo
in praeteritum et praesens quidem definitum et constitutum habent eventum. Quae
enim evenerunt non evenisse non possum et quae nunc fiunt ut nunc non fiant,
cum fiunt, fieri non potest. In his autem, quae in futuro sunt et contingentia
sunt, et fieri potest aliquid et non fieri. Sed quoniam tres supra modos
proposuimus contingentis, de quibus melius in physicis tractavimus, singulorum
subdamus exempla. Si hesterno domo egressus inveni amicum, quem in animo
habebam quaerere, non tamen tunc quaerebam, ut non invenirem quem inveni
antequam invenirem fieri poterat, cum autem inveni vel postquam invent, ut non
invenissem fieri non potest. Rursus si ipse sponte praeterita nocte in agrum
profectus sum, antequam hoc fieret, ut non proficiscerer fieri poterat,
postquam profectus sum vel cum profectus sum, ut id non fieret quod fiebat aut
non factum esset quod erat factum, fieri non valebat. Amplius possibile est
scindi hanc qua uestior tunicam: si hesterno die scissa est, cum scindebatur
aut posiquam scissa est, ut non scinderetur ƿ aut non esset scissa, fieri
nequibat, ante vero quam scinderetur, fieri poterat ut non scinderetur.
Perspicuum ergo in praesentibus atque praeteritis vel earundem rerum quae sunt
contingentes definitum constitutumque esse eventum. In futuris autem unum
quidem quodlibet duorum fieri posse, unum vero definitum non esse sed in
utramque partem vergere et aut hoc quidem aut illud ex necessitate evenire, ut
autem hoc quodlibet definite vel quodlibet aliud definite, fieri non posse.
Quae enim contingentia sunt, in utraque parte contingunt. Quod autem dico tale
est: egredientem me hodie domo amicum invenire aut non invenire necesse est (in
omnibus enim aut affirmatio est aut negatio) sed invenire sine dubio definite
aut certe si hoc non est rursus definite non invenire, quemadmodum hesterno
die, quo amicum egrediens inveni (definitum est autem, quod non est verum me
non invenisse), non eodem modo in his quae sunt contingentia et future sed
tantum aut hoc quidem aut illud est et hoc ex necessitate, ut autem una res vel
quilibet unus eventus definitus et iam quasi certus sit, fieri non potest. Et
in hac re dissimiles sunt propositiones contingentium et futurorum his quae
sunt praeteritorum vel praesentium. Nam cum similes sint in eo, quod in his aut
affirmatio est aut negatio, ƿ sicut etiam in his quae sunt praeterita vel
praesentia, in illo diversae sunt, quod in his quidem id est praeteritis et
praesentibus rerum definitus eventus est, in futuris vero et contingentibus in
definitus est et incertus, nec solum nobis ignorantibus sed naturae. Nam licet
ignoremus nos, utrum astra paria sint an imparia, unum tamen quodlibet definite
in natura stellarum esse manifestum est. Et hoc nobis quidem est ignoratum,
naturae vero notissimum. Sed non ita hodie me visurum esse amicum aut non
visurum nobis quidem quid eveniat ignoratum est, notum vero naturae. Non enim
hoc naturaliter sed casu evenit. Quare huiusmodi propositiones non ad nostram
sed ad naturae ipsius notitiam secundum incertum eventum et inconstantem
veritatem atque mendacium derivabuntur. Talis enim est contingentis natura, ut
in utraque parte vel aequaliter sese habeat, ut hodie me esse lauandum vel hodie
me non esse lauandum, vel in una plus, minus in altera, ut hominem canescere
senescentem vel hominem non canescere senescentem. Illud enim plus fit, illud
minus. Sed nihil prohibet id quod rarius fit tamen fieri.De his ergo
Aristotelica subtilitas disputatura primum a singularibus inchoans ad
universalia tractatui viam pandit. Duobus enim modis contradictiones fiebant:
aut in singularibus aut in universalibus universaliter praedicatis et his
oppositis. Ingreditur autem ex his tribus quae supra iam dicta sunt: ex casu,
ex libero ƿ arbitrio, ex possibilitate, quae omnia uno nomine utrumlibet
vocavit, fingens scilicet nomen ad hoc, quod non unius et certi eventus ista
sunt sed utriuslibet et quomodo contingit. Hoc autem monstrativum est naturae
instabilis et ad utramque partem sine ullius rei obluctatione vergentis. Non
autem oportet arbitrari illa esse utrumlibet et contingentium naturae,
quaecumque nobis ignota sunt. Neque enim si nobis ignotum est a Persis ad
Graecos missos legatos, idcirco missos esse incerti eventus est; nec si letale
signum in aegrotantis facie medicina deprehendit, ut aliud esse non possit nisi
ille moriatur, nobis autem ignotum sit propter artis imperitiam, idcirco illum
aegrum esse moriturum utrumlibet et contingentis naturae esse iudicandum est
sed illa sola talia sine dubio esse putanda sunt, quaecumque idcirco nobis
ignota sunt, quod per propriam naturam qualem habeant eventum sciri non
possunt, idcirco quoniam propria instabilitate naturae ad utraque verguntur, id
est ad affirmationis et negationis eventum propria instabilitate atque
inconstantia permutantur. Est autem inter philosophos disputatio de rerum quae
fiunt causis, necessitatene omnia fiant an quaedam casu. Et in hoc Epicureis et
Stoicis et Peripateticis nostris magna contentio est, quorum paulisper
sententias explicemus. Peripatetici enim, quorum Aristoteles princeps est, et
casum et liberi arbitrium indicii et necessitatem in rebus quae fiunt quaeque
aguntur cum ƿ gravissima auctoritate tum apertissima ratione confirmant. Et
casum quidem esse in physicis probaut: quotiens aliquid agitur et non id
evenit, propter quod res illa coepta est quae agebatur, id quod evenit ex casu
evenisse putandum est, ut casus quidem non sine aliqua actione sit, quotiens
autem aliud quiddam evenit per actionem quae geritur quam speratur, illud
evenisse casu Peripatetica probat auctoritas. Si quis enim terram fodiens vel
scrobem demittens agri cultus causa thesaurum reperiat, casu ille thesaurus
inventus est, non sine aliqua quidem actione (terra enim fossa est, cum
thesaurus inventus est) sed non illa erat agentis intentio, ut thesaurus
inveniretur. Ergo agenti aliquid homini, aliud tamen agenti res diversa
successit. Hoc igitur ex casu evenire dicitur, quodcumque per quamlibet
actionem evenit non propter eam rem coeptam, quae aliquid agenti successerit.
Et hoc quidem in ipsa rerum natura est, ut non hoc nostra constaret ignorantia,
ut idcirco quaedam casu esse viderentur, quod nobis ignota essent sed potius
idcirco a nobis ignorarentur, quod haec in natura quaecumque casu fiunt nullam
necessitatis constantiam aut providentiae modum tenerent. Stoici autem omnia
quidem ex necessitate et providentia fieri putantes id quod ex casu fit non
secundum ipsius fortunae naturam sed secundum nostram ignorantiam metiuntur. ƿ
Id enim casu fieri putant, quod cum necessitate sit, tamen ab hominibus
ignoretur. Et de libero quoque arbitrio eadem nobis paene illisque contentio
est. Nos enim liberum arbitrium ponimus nullo extrinsecus cogente in id quod
nobis faciendum vel non faciendum indicantibus perpendentibusque videatur, ad
quam rem praesumpta prius cogitatione perficiendam et agendam venimus, ut id
quod fit ex nobis et ex nostro iudicio principium sumat nullo extrinsecus aut
violenter cogente aut impediente violenter. Stoici autem omnia necessitatibus
dantes converso quodam ordine liberum voluntatis arbitrium custodire conantur.
Dicunt enim naturaliter quidem animam habere quandam voluntatem, ad quam
propria natura ipsius voluntatis impellitur, et sicut in corporibus inanimatis
quaedam naturaliter gravia feruntur ad terram, levia sursum meant, et haec
natura fieri nullus dubitet, ita quoque in hominibus et in caeteris animalibus
voluntatem quidem naturalem esse cunctis, et quidquid fit a nobis secundum
voluntatem quae in nobis naturalis est autumant, illud tamen addunt, quod ea
velimus quae providentiae illius necessitas imperavit, ut sit quidem nobis
voluntas concessa naturaliter et id quod facimus voluntate faciamus, quae
scilicet in nobis est, ipsam tamen voluntatem illius providentiae necessitate
constringi. Ita fieri quidem omnia ex necessitate, ƿ quod voluntas ipsa
naturalis necessitatem sequatur fieri etiam quae facimus ex nobis, quod ipsa
voluntas ex nobis est et secundum animalis naturam. Nos autem liberum voluntatis
arbitrium non id dicimus quod quisque voluerit sed quod quisque iudicio et
examinatione collegerit. Alioquin muta quoque animalia habebunt liberum
voluntatis arbitrium. Illa enim videmus quaedam sponte refugere, quibusdam
sponte concurrere. Quod si velle aliquid vel nolle hoc recte liberi arbitrii
vocabulo teneretur, non solum hoc esset hominum sed caeterorum quoque
animalium, quibus hanc liberi arbitrii potestatem abesse quis nesciat? Sed est
liberum arbitrium, quod ipsa quoque vocabula produnt, liberum nobis de
voluntate iudicium quotienscumque enim imaginationes quaedam concurrunt animo
et voluntatem irritant, eas ratio perpendit et de his indicat, et quod ei
melius videtur, cum arbitrio perpenderit et iudicatione collegerit, facit.
Atque ideo quaedam dulcia et speciem utilitatis monstrantia spernimus, quaedam
amara licet nolentes tamen fortiter sustinemus: adeo non in voluntate sed in
iudicatione voluntatis liberum constat arbitrium et non in imaginatione sed in
ipsius imaginationis perpensione consistit. Atque ideo quarundam actionum nos
ipsi principia, non sequaces sumus. Hoc est enim uti ratione uti iudicatione.
Omne enim commune nobis est cum caeteris animantibus, sola ratione disiungimur.
Quod si sola etiam indicatione inter nos et ƿ caetera animalia distantia, cur
dubitemus ratione uti hoc esse quod est uti iudicatione? Quam si quis ex rebus
tollat, rationem hominis sustulerit, hominis ratione sublata nec ipsa quoque
humanitas permanebit. Melius igitur nostri Peripatetici et casum in rebus ipsis
fortuitum dantes et praeter ullam necesaitatem et liberum quoque arbitrium
neque in necessitate neque in eo quod ex necessitate quidem non est, non tamen
in nobis est ut casus sed in electione iudicationis et in voluntatis
examinatione posuerunt. Et in eo autem quod possibile esse dicitur est quaedam
inter Peripateticos et Stoicos dissensio, quam hoc modo paucis absolvimus. Illi
enim definiunt possibile esse quod possit fieri, et quod fieri prohibetur non
sit, hoc ad nostram possibilitatem scilicet referentes, ut quod nos possumus,
id possibile dicerent, quod vero nobis impossibile esset, id possibile
negarent. Peripatetici autem non in nobis hoc sed in ipsa natura posuerunt, ut
quaedam ita essent possibilia fieri, ut essent possibilia non fieri, ut hunc calamum
frangi quidem possibile est, etiam non frangi, et hoc non ad nostram
possibilitatem referunt sed ad ipsius rei naturam. Cui sententiae contraria est
illa quae dicit fato omnia fieri, cuius Stoici auctores sunt. Quod enim fato
fit ex principalibus causis evenit sed si ita est, hoc quod non fiat non potest
permutari. Nos ƿ autem dicimus ita quaedam esse possibilia fieri, ut eadem sint
etiam non fieri possibilia, hoc nec ex necessitate nec ex possibilitate nostra
metientes. His igitur expeditis illud addere sufficiat, haec Aristoteli fixa in
sententia et disciplina retinenti facile fuisse contingentium propositionum
modum de futuris ostendere: in utraque parte facere atque ideo determinatam
eventus constantiam non habere. Quod ni ita esset, omma ex necessitate fieri
crederentur, quod melius liquebit, cum ad ipsa Aristotelis verba venerimus. Non
autem incommode neque incongrue Aristoteles de rebus altioribus et fortasse non
pertinentibus ad artem logicam disputationem transtulit, cum de propositionibus
loqueretur. Neque enim esset rectitudinem et significantiam propositionum
constituere, nisi hanc ex rebus ita esse probavisset. Praedicativae enim
propositiones (ut dictum est) non in sermonibus neque in complexione
praedicationum sed in rerum significatione consistuut. Quare omnibus quae
praedicenda erant explicitis ad ipsius Aristotelis sententias aperiendas
enodandasque perveniamus. IN HIS ERGO QUAE SUNT ET FACTA SUNT NECESSE EST
AFFIRMATIONEM VEL NEGATIONEM VERAM VEL FALSAM ESSE, IN UNIVERSALIBUS QUIDEM UNIVERSALITER
SEMPER HANC QUIDEM VERAM, NAM VERO FALSAM, ET IN HIS QUAE SUNT SINGULARIA,
QUEMADMODUM DICTUM EST. IN HIS VERO QUAE IN UNIVERSALIBUS NON UNIVERSALITER
DICUNTUR, NON EST NECESSE; DICTUM AUTEM EST ET DE HIS. Categoricas
propositiones quae praedicativae Latine possint nominari (ut supra iam diximus)
ex rebus quas ipsae propositiones significant integra ratiocinandi norma
diiudicat. Illae namque quas hypotheticas vel conditionales vocamus ex ipsa
conditione vim propriam trahunt, non ex his quae significant. Cum enim dico: Si
homo est, animal est et: Si lapis est, animal non est illud est
consequens, illud repugnans. Quare ex consequentia et repugnantia propositionum
tota in propositione vis vertitur. Unde fit ut non significatio sed conditio
proposita hypotheticarum enuntiationum vim naturamque constituat: praedicativae
propositiones (ut dictum est) ex rebus principaliter substantiam sumunt. Atque
ideo quoniam quaedam res sunt praesentis temporis, quaedam praeteriti, sicut
eventus ipse rerum praesentis temporis vel praeteriti certus est, ita quoque
praedicativarum propositionum de praeteritis et praesentibus certa veritas
falsitasque est erat autem contradictionis modus duplex: aut enim universalis
particularibus angulariter opponebatur aut singularis significatio affirmativa
singularem negationem contradictoria oppositione peremerat. Et in his una vera
semper, falsa altera reperiebatur. In his autem quae essent indefinitae non
necesse erat unam veram esse, alteram falsam. Sed in his, in quibus veritas et
falsitas dividebatur, in his non solum una vera est semper, altera semper
falsa, in praeterito scilicet et praesenti sed etiam una certam et definitam
veritatem retinet, certam et definitam altera ƿ falsitatem. In his autem quae
sunt in futuro, si necessariae quidem propositiones sunt, licet et secundum
futurum tempus dicantur, necesse est tamen non modo unam veram esse, alteram
falsam sed etiam unam definite veram, definite alteram falsam, ut cum dico: Sol
hoc anno verno tempore in arietem venturus est si hoc alius neget, non
solum una vera est, altera falsa sed etiam vera est in hoc affirmatio definite
falsa negatio. Sed Aristoteles non solet illa futura dicere quae sunt
necessaria sed potius quae sunt contingentia. Contingentia autem sunt (ut supra
iam diximus) quaecumque vel ad esse vel ad non esse aequaliter sese habent, et
sicut ipsa indefinitum habent esse et non esse, ita quoque de his affirmationes
indefinitam habent veritatem vel falsitatem, cum una semper vera sit, semper
altera falsa sed quae vera quaeue falsa sit, nondum in contingentibus notum
est. Nam sicut quae sunt necessaria esse, in his esse definitum est, quae autem
sunt impossibilia esse, in his non esse definitum est, ita quae et possunt esse
et possunt non esse, in his neque esse neque non esse est definitum sed veritas
et falsitas ex eo quod est esse rei et ex eo quod est non esse rei sumitur. Nam
si sit quod dicitur, verum est, si non sit quod dicitur, falsum est. Igitur in
contingentibus et futuris sicut ipsum esse et non esse instabile est, esse
tamen aut non esse necesse est, ita quoque in affirmationibus contingentia ipsa
prodentibus veritas quidem vel falsitas in incerto est (quae enim vera sit,
quae falsa secundum ƿ ipsarum propositionum naturam ignoratur), necesse est
tamen unam veram esse, alteram falsam. Porphyrius tamen quaedam de Stoica
dialectica permiscet: quae cum Latinis auribus nota non sit, nec hoc ipsum quod
in quaestionem venit agnoscitur atque ideo illa studio praetermittemus. IN
SINGULARIBUS VERO ET FUTURIS NON SIMILITER. NAM SI OMNIS AFFIRMATIO VEL NEGATIO
VERA VEL FALSA EST, ET OMNE NECESSE EST VEL ESSE VEL NON ESSE. SI HIC QUIDEM
DICAT FUTURUM ALIQUID, ILLE VERO NON DICAT HOC IDEM IPSUM, MANIFESTUM EST,
QUONIAM NECESSE EST VERUM DICERE ALTERUM IPSORUM, SI OMNIS AFFIRMATIO VERA VEL
FALSA. UTRAQUE ENIM NON ERUNT SIMUL IN TALIBUS. NAM SI VERUM EST DICERE,
QUONIAM ALBUM VEL NON ALBUM EST, NECESSE EST ESSE ALBUM VEL NON ALBUM, ET SI
EST ALBUM VEL NON ALBUM, VERUM EST VEL AFFIRMARE VEL NEGARE; ET SI NON EST, MENTITUR,
ET SI MENTITUR, NON EST. QUARE NECESSE EST AUT AFFIRMATIONEM AUT NEGATIONEM
VERAM ESSE. NIHIL IGITUR NEQUE EST NEQUE FIT NEC A CASU NEC UTRUMLIBET NEC ERIT
NECNON ERIT SED EX NECESSITATE OMNIA ET NON UTRUMLIBET. AUT ENIM QUI DICIT
verUS EST AUT QUI NEGAT. SIMILITER ENIM VEL FIERET VEL NON FIERET; UTRUMLIBET
ENIM NIHIL MAGIS SIC VEL NON SIC SE HABET AUT HABEBIT. AMPLIUS SI EST ALBUM
NUNC, VERUM ERAT DICERE PRIMO QUONIAM LERIT ALBUM, QUARE SEMPER VERUM ƿ FUIT
DICERE QUODLIBET EORUM QUAE FACTA SUNT, QUONIAM ERIT. QUOD SI SEMPER VERUM EST
DICERE QUONIAM EST VEL ERIT;, NON POTEST HOC NON ESSE NECNON FUTURUM ESSE. QUOD
AUTEM NON POTEST NON FIERI, IMPOSSIBILE EST NON FIERI; QUOD AUTEM IMPOSSIBILE
EST NON FIERI, NECESSE EST FIERI. OMNIA ERGO QUAE FUTURE SUNT NECESSE EST
FIERI. NIHIL IGITUR UTRUMLIBET NEQUE A CASU ERIT; NAM SI A CASU, NON EX
NECESSITATE. Geminas esse contradictiones in propositionibus supra iam dictum
est et nunc quoque commemoratum in quibus necesse est unam veram esse, alteram
falsam. Sed ea quae dicentur de futuris et contingentibus melius intellegentur,
si de his contingentibus loquamur, quae in singular) contradictione proveniunt.
Est enim universalium angularis contradictio in contmgentibus huiusmodi: Cras
omnes Athenienses bello navali pugnaturi sunt Cras non omnes Athenienses bello
navali pugnaturi sunt In singularibus autem talis est: Cras Socrates in
palaestra disputaturus est Cras Socrates in pallaestra disputaturus non
est Non autem oportet ignorare non esse similiter contingentes has quae
dicunt: Socrates morietur et: Socrates non morietur et illas quae
dicunt: Socrates cras morietur Socrates cras non morietur Illae enim
superiores omnino contingentes non sunt sed sunt necessariae (morietur enim
Socrates ex necessitate), hae vero quae tempus definiunt nec ipsae in numerum
contingentium recipiuntur, idcirco quod nobis quidem cras moriturum esse
Socratem incertum est, naturae autem incertum ƿ non est atque ideo nec deo
quoque incertum est, qui ipsam naturam optime novit sed illae sunt proprie
contingentes, quae neque in natura sunt neque in necessitate sed aut in casu
aut in libero arbitrio aut in possibilitate naturae: ex casu quidem, ut cum
egredior domo amicum videam non ad hoc egrediens, ex libero arbitrio, ut quod
possum et velle et non velle, an velim hoc antequam fiat incertum est, ex
possibilitate, quod cum fieri possit et non fieri possit et antequam fiat, quod
utroque modo potest, incertum sit. Ideoque Cras Socrates disputaturus est in
palaestra contingens est, quod hoc ex libero venit arbitrio. Ergo in
huiusmodi contingentibus si in futurum una semper vera est, altera semper falsa
et una definite vera, falsa altera definite et res verbis congruent, omnia
necesse est esse vel non esse et quidquid fit ex necessitate fit et nihil neque
possibile est esse, quod possibile sit non esse, neque liberum erit arbitrium
neque in rebus ullis casus erit in omnibus necessitate dominante. In his namque
id est in singularibus contradictionibus verum dicere uterque non potest.
Contradictoriae enim erant quae simul esse non possint. Sed nec utraeque,
negationes atque affirmationes, falsae esse in contradictoriis possum. Illae
enim erant contradictoriae quae simul non esse non poterant. Quare unus verum
dicturus est, unus falsum. Quod si nihil datur in huiusmodi rebus id est
contingentibus instabili eventus ordine et incerta veritatis ƿ et falsitatis
enuntiatione provenire, quidquid verum dicitur in affirmatione definite, hoc
definite necesse est, quidquid falsum dicitur in negatione, hoc non esse
necesse est. Omnia igitur ex necessitate aut erunt aut ex necessitate non
erunt. Nihil ergo nec casus nec liberum arbitrium nec possibilitas ulla in
rebus est, siquidem tenet cuncta necessitas. Aristoteles vero sumens istam
hypotheticam propositionem, si omne quod in futuro dicitur aut verum definite
aut falsum est definite, omnia ex necessitate fieri et nihil casu nihil iudicio
nihil possibilitate, ea convenienti ordine monstrat. Et posito unam veram,
alteram falsam definite esse omnia ex necessitate contingere ex consensu rerum
propositionumque demonstrat hoc modo: proponit enim hanc conditionem et hanc
veram esse ex rerum ipsarum necessitate confirmat. Est autem conditio: si omnis
affirmatio vel negatio in futurum ducta vera vel falsa est definite, et omne
quidquid fit ex necessitate fieri et nihil neque casu neque propria et libera
voluntate atque iudicio nec vero aliqua possibilitate, quae hic omnia
utrumlibet vocabulo nuncupavit. Ponit enim hanc conditionem dicens: NAM SI
OMNIS AFFIRMATIO VEL NEGATIO VERA VEL FALSA EST (subaudiendum est
"definite"), et OMNE NECESSE EST ESSE VEL NON ESSE. SI HIC QUIDEM
DICAT FUTURUM ALIQUID, ILLE VERO NON DICAT HOC IDEM IPSUM, MANIFESTUM ƿ EST,
VERUM DICERE ALTERUM IPSORUM, SI OMNIS AFFIRMATIO [uel negatio] VERA VEL FALSA
EST. UTRAQUE ENIM NON ERUNT SIMUL IN TALIBUS. Ergo sensus huiusmodi est: si
omnis, inquit, affirmatio vel negatio vera vel falsa est definite, et omne
necesse est aut esse aut non esse, quod vel affirmatio ponit vel negatio
perimit. Nam si quilibet dixerit esse aliquid et alius dixerit idem ipsum non
esse, unus quidem affirmat, alter negat sed in affirmatione et negatione, quae
in contradictione ponuntur, una semper vera est, altera falsa. Neque enim fieri
potest ut utraeque sint verae. Non enim nunc sermo est aut de subcontrarus aut
de indefinitis. Namque subcontrariae, id est particularis negatio et affirmatio
particularis, et indefinitae utraeque verae in eodem esse poterant,
contradictoriae autem minime. Neque enim fieri potest, ut hae quae vel in singularibus
contradictiones sunt vel in universalibus angulariter opponuntur simul umquam
verae sint. Hoc est enim quod ait UTRAQUE ENIM NON ERUNT SIMUL IN TALIBUS, id
est utraeque enuntiationes non erunt verae in enuntiationibus contradictoriis. Posita
ergo hac conditione: si omnis affirmatio definite vera vel falsa sit, omnia ex
necessitate evenire, hanc ipsam rerum ipsarum et propositionum consequentiam et
similitudinem monstrare contendit dicens: NAM SI VERUM EST DICERE, QUONIAM
ALBUM VEL NON ALBUM EST, NECESSE EST ESSE ALBUM VEL NON ALBUM, ET SI EST ALBUM
VEL NON ALBUM, VERUM EST VEL AFFIRMARE VEL NEGARE; ET ƿ SI NON EST, MENTITUR,
ET SI MENTITUR, NON EST. QUARE NECESSE EST AFFIRMATIONEM AUT NEGATIONEM VERAM
ESSE. Omnis, inquit, affirmatio omnisque negatio cum rebus ipsis vel vera vel
falsa est, huius autem rei exempla ex praesentibus sumit. Nam sicut se habent
secundum necessitatem in praesenti tempore enuntiationes, ita se habebunt etiam
in futuro. Speculemur igitur in praesenti quae sit rerum propositionumque
necessitas. Si qua enim propositio de qualibet re dicta vera est, illam rem
quam dixit esse necesse est. Si enim dixerit, quoniam nix alba est, et hoc
verum est, veritatem propositionis sequitur necessitas rei. Necesse est enim
esse nivem albam, si propositio quae de ea re praedicata est vera est. Quod si
dixerit quis non esse albam picem et haec vera est, manifestum est rem quoque
propositionis consequi veritatem. Amplius quoque et propositiones rerum
necessitates sequuntur. Si enim est aliqua res, verum est de ea dicere quoniam
est, et si non est aliqua res, verum est de ea dicere quoniam non est. Ita
secundum veritatem affirmationis et negationis necessitas rei substantiam
sequitur et rerum necessitas propositionum comitatur necessitatem.Atque hoc
quidem in veris. In falsis quoque idem est e contrario. Nam si falsa est
affirmatio, rem de qua loquitur non esse necesse est, ut si falsa est
affirmatio quae dicit picem esse albam, non esse albam picem necesse est.
Rursus si falsa est negatio quae dicit nivem non esse albam, esse albam nivem
necesse est. Rursus si res non est, affirmatio quoque de ea re necessarie falsa
est. Quod si rursus res non ƿ sit id quod potest dicere falsa negatio, sine
ulla dubitatione illa negatio falsa est et hoc esse necesse est, ut quoniam de
nive potest dicere falsa negatio, quoniam alba non est, hoc ipsum quod falsa
negatio dicit, id est albam non esse, non est. Nix enim non alba non est.Quare
rerum necessitati falsitas veritasque convertitur. Nam si est aliquid, vere de eodem
dicitur, quoniam est, et si vere dicitur, illam rem de qua vere aliquid
praedicatur esse necesse est; quod si non est id quod dicitur, falsa enuntiatio
est, et si enuntiationes falsae sunt, res non esse necesse est. Quod si haec
ita sunt, positum est autem omnem affirmationem et negationem veram esse
definite, quoniam propositionum veritatem vel falsitatem rerum necessitas
secundum esse vel non esse consequitur (esse quidem secundum veritatem, ut
dictum est, non esse secundum falsitatem): nihil fit casu neque libera
voluntate nec aliqua possibilitate. Haec enim quae utrumlibet vocamus talia
sunt, quae cum nondum sunt facta et fieri possunt et non fieri, si autem facta
sint, non fieri potuerunt, ut hodie me Vergilii librum legere, quod nondum
feci, potest quidem non fieri, potest etiam fieri, quod si fecero, potui non
facere. Haec igitur huiusmodi sunt quaecumque utrumlibet dicuntur. Utrumlibet
autem quid sit ipse planius monstrat dicens: utrumlibet enim nihil magis sic
vel non sic se habet aut habebit. Est enim utrumlibet quod vel ad esse vel ad
non esse aequaliter sese habeat, id est neque illud esse necesse sit ƿ neque
non esse necesse sit. Putaverunt autem quidam, quorum Stoici quoque sunt,
Aristotelem dicere in futuro contingentes nec veras esse nec falsas. Quod enim
dixit nihil se magis ad esse habere quam ad non esse, hoc putaverunt tamquam
nihil eas interesset falsas an veras putari. Neque veras enim neque falsas esse
arbitrati sunt. Sed falso. Non enim hoc Aristoteles dicit, quod utraeque nec verae
nec falsae sunt sed quod una quidem ipsarum quaelibet aut vera aut falsa est,
non tamen quemadmodum in praeteritis definite nec quemadmodum in praesentibus
sed enuntiativarum vocum duplicem quodammodo esse naturam, quarum quaedam
essent non modo in quibus verum et falsum inveniretur sed in quibus una etiam
esset definite vera, falsa altera definite, in aliis vero una quidem vera,
altera falsa sed indefinite et commutabiliter et hoc per suam naturam, non ad
nostram ignorantiam atque notitiam. Quocirca recte dictum est, si omnis
affirmatio vel negatio vera definite esset, nihil fieri neque esse vel a casu
vel a communi nomine utrumlibet nec esse aut non esse contingenter sed aut esse
definite aut non esse definite sed magis ex necessitate omnia. Hoc enim consequitur
eum qui dicit aut eum qui affirmat verum esse aut eum qui negat. Quod si hoc
verum esset, itidem cum veritate vel fieret vel cum falsitate non fieret quod a
vere falseue enuntiantibus dicebatur. Quod si hoc impossibile ƿ est et sunt
quaedam res quae necessitate non sint (videmus autem quasdam esse casu, quasdam
ex voluntate, quasdam ex propriae possibilitate naturae), frustra putatur sicut
in praeteritis, ita quoque in futuris enuntiationibus unam esse veram, alteram
falsam definite. Quare haec una fuit eius argumentatio. Aliam vero quasi ipse
sibi opponens aliquam quaestionem ingreditur validiore tractatu: AMPLIUS SI EST
ALBUM NUNC, VERUM ERAT DICERE PRIMO QUONIAM ERIT ALBUM, QUARE SEMPER VERUM FUIT
DICERE QUODLIBET EORUM QUAE FACTA SUNT, QUONIAM ERIT. QUOD SI SEMPER VERUM EST
DICERE QUONIAM EST VEL ERIT, NON POTEST HOC NON ESSE NECNON FUTURUM ESSE. QUOD
AUTEM NON POTEST NON FIERI, IMPOSSIBILE EST NON FIERI; QUOD AUTEM IMPOSSIBILE
EST NON FIERI, NECESSE EST FIERI. OMNIA ERGO QUAE FUTURA SUNT NECESSE EST
FIERI. NIHIL IGITUR UTRUMLIBET NEQUE A CASU ERIT; NAM SI A CASU, NON EX
NECESSITATE. Ad adstruendum non esse omnes enuntiationes veras definite in
futuro vel falsas ex eadem quidem argumentationis virtute et ex eodem
possibilitatis eventu, diversam tamen ingreditur actionis viam. Dudum enim ex
his quae nondum erant facta, si vere futura esse praedicerentur, in rebus
necessitatem solam esse posse collegit. Nunc autem ex his rebus quae facta sunt
argumentationem capit, si vere antequam fierent praedicerentur, necessitatis
nexu eventus rerum omnium contineri. Arbitrantur enim hi qui dicunt
contingentium quoque propositionum stabilem esse enuntiationis modum secundum
veritatem scilicet atque ƿ mendacium, quod omnia quaecumque facta sunt,
inquiunt, potuerunt praedici, quoniam fient. Hoc enim in natura quidem fuit
antea sed nobis hoc rei ipsius patefecit eventus. Quare si omnia quaecumque
evenerunt sunt et ea quae sunt futura esse praedici potuerunt, necesse est
omnia quae dicuntur aut definite vera esse aut definite falsa, quoniam
definitus eorum eventus secundum praesens tempus est. Quare in omnibus in
quibus aliquid evenit verum est dicere, quoniam eventurum est, et si nondum
adhuc factum est. Hoc autem illa res probat verum fuisse tunc dici, quoniam
evenit id quod praedici potuerat; quod si praedictum esset, res eventura definita
veritate praediceretur. Hoc Aristoteles sumens ad idem impossibile validissima
ratione perducit et praesentis temporis naturam cum futuri enuntiatione
coniungit. Ait enim simile esse de praesentibus enuntiare secundum veritatis
necessitatem et de futuris: nam si verum est dicere, quoniam est aliquid, esse
necesse est, et si verum est dicere, quoniam erit, futurum sine dubio esse
necesse est: omnia igitur ex necessitate futura sunt: ad idem scilicet
impossibile argumentationem trahens. Sumit autem huius impossibilitatis ordinem
ex his propositionibus quae faciliores quidem ad intellectum sunt, idem tamen
valent hoc modo: SI SEMPER, inquit, VERUM EST DICERE, QUONIAM EST VEL ERIT,
quidquid tunc verum fuit praedicere, illud NON POTEST NON ESSE NECNON FUTURUM
ESSE. Quemadmodum enim id quod in praesenti vere dicitur esse, hoc non potest
non esse, si vera de eo propositio ƿ fuit, quae dicebat esse, ita quoque in
futuro quae dicit aliquid futurum esse, illa si vera est, non potest non
futurum esse quod praedicit. Quod si non potest non fieri quod a vera
propositione praedicitur, impossibile est non fieri. Idem est enim dicere non
potest non fieri, quod dicere impossibile est non fieri. Quod autem impossibile
est non fieri, necesse est fieri. Impossibile enim idem necessitati valet
contrarie praedicatum, ut ipse post docuit. Nam quod impossibile est esse
necesse est non esse. Quod enim ut sit possibile non est, illud non esse
necesse est. Quod si hoc est, et contraria se eodem modo habebunt. Quod est
impossibile non esse, hoc esse necesse est. Sed dictum est ea quae vera
praedicuntur impossibile esse non esse, hoc autem est ex necessitate esse. Ea
igitur quae praedicuntur ex necessitate futura sunt. Nihil igitur utrumlibet
neque casu nec omnino secundum liberum arbitrium, quod utrumlibet significatio
totum clausit. Nam quod dicit utrumlibet et possibilitatem et casum et liberum
in significatione tenet arbitrium. Ergo nihil fit a casu. Nam si quaedam casu
fieri dicat, ille rursus in ea re perimit necessitatem. Quod enim casu est non
ex necessitate est. Nihil autem fit a casu, quoniam omnia ex necessitate
proveniunt, quaecumque enuntiatio vera praedixerit. Evenit autem huiusmodi
impossibilitas ex eo quod concessum est prius, omnia quaecumque facta sunt
definite vere potuisse praedici. Nam si ex necessitate contingit id quod
evenit, verum ƿ fuit dicere quoniam erit. Quod si ex necessitate non contingit
sed contingenter, non potius verum fuit dicere quoniam erit sed magis quoniam
contingit esse. Nam qui dicit erit, ille quandam necessitatem in ipsa
praedicatione ponit. Hoc inde intellegitur, quod si vere dicat futurum esse id
quod praedicitur non possibile sit non fieri, hoc autem ex necessitate sit
fieri. Ergo qui dicit, quoniam erit aliquid eorum quae contingenter eveniunt,
in eo quod futurum esse dicit id quod contingenter evenit fortasse mentitur;
vel si contigerit res illa quam praedicit, ille tamen mentitus est: non enim
eventus falsus est sed modus praedictionis. Namque ita oportuit dicere: Cras
bellum navale contingenter eveniet hoc est dicere: ita evenit, si
evenerit, ut potuerit non evenire. Qui ita dicit verum dicit, eventum enim
contingenter praedixit. Qui autem ita infit: Cras bellum erit navale
quasi necesse sit, ita pronuntiat. Quod si evenerit, non iam idcirco quia
praedixit verum dixerit, quoniam id quod contingenter eventurum erat necessarie
futurum praedixit. Non ergo in eventu est falsitas sed in praedictionis modo.
Quemadmodum enim si quis ambulante Socrate dicat: Socrates ex necessitate
ambulat ille mentitus est non in eo quod Socrates ambulat sed in eo quod
non ex necessitate ambulat, quod ille eum ex necessitate ambulare praedicavit,
ita quoque in hoc qui dicit quoniam erit aliquid , etiam hoc si fiat, ille
tamen ƿ falsus est, non in eo quod factum est sed in eo quod non ita factum
est, ut ille praedixit esse futurum. Quod si verum esset definite, ex
necessitate esset futurum. Igitur ex necessitate futurum esse praedixit,
quodcumque sine ullo alio modo eventurum pronuntiavit. Quare non in eventu rei
sed in praedicationis enuntiatione falsitas invenitur. Oportet enim in
contingentibus ita aliquid praedicere, si vera erit enuntiatio, ut dicat quidem
futurum esse aliquid sed ita, ut rursus relinquat esse possibile, ut futurum
non sit. Haec autem est contingentis natura contingenter in enuntiatione
praedicare. Quod si quis simpliciter id quod fortasse contingenter eveniet
futurum esse praedixerit, ille rem contingentem necessarie futuram praedicit.
Atque ideo etiam si evenerit id quod dicitur, tamen ille mentitus est in eo
quod hoc quidem contingenter evenit, ille autem ex necessitate futurum esse
praedixerit. Cum ergo sint quatuor enuntiationum veritatis et falsitatis modi,
de his scilicet propositionibus quae in futuro praedicuntur (aut quoniam et
erit et non erit id quod dicitur, id est ut et affirmatio et negatio vera sit,
aut quoniam nec erit necnon erit, id est ut et affirmatio et negatio falsae
sint, aut quoniam erit aut non erit, una tamen definite vera, altera falsa, aut
rursus quoniam erit aut non erit utrisque secundum veritatem et falsitatem
indefinitis et aequaliter ad veritatem mendaciumque vergentibus) docuit quidem
supra et esse et non esse fieri nou posse, cum dicit: UTRAQUE ENIM NON ERUNT
SIMUL IN TALIBUS. Docuit etiam aliquantisper aut ƿ esse aut non esse definite
in contingentibus et futuris propositionibus esse non posse. Nunc illud addit,
quod neque esse neque non esse, id est quod nec illud dici vere possit, posse
utrasque inveniri falsas, quae dicuntur in futuro propositiones. Quod si neque
utraeque verae sunt neque utraeque falsae neque una definite vera, falsa altera
definite, restat ut una quidem vera sit, altera falsa, non tamen definite sed
utrumlibet et instabili modo, ut hoc quidem aut hoc evenire necesse sit, ut
tamen una res quaelibet quasi necessarie et definite proveniat aut non
proveniat fieri non possit. Quemadmodum autem utrasque falsas non esse
demonstraret, hic inchoat: AT VERO NEC QUONIAM NEUTRUM VERUM EST CONTINGIT
DICERE, UT QUONIAM NEQUE ERIT NEQUE NON ERIT. PRIMUM ENIM CUM SIT AFFIRMATIO
FALSA, ERIT NEGATIO NON VERA ET HAEC CUM SIT FALSA, CONTINGIT AFFIRMATIONEM
ESSE NON VERAM. AD HAEC SI VERUM EST DICERE, QUONIAM ALBUM EST ET MAGNUM,
OPORTET UTRAQUE ESSE; SIN VERO ERIT CRAS, ESSE CRAS; SI AUTEM NEQUE ERIT NEQUE
NON ERIT CRAS, NON ERIT UTRUMLIBET, UT NAVALE BELLUM; OPORTEBIT ENIM NEQUE
FIERI NAVALE BELLUM NEQUE NON FIERI NAVALE BELLUM. Sensus argumentationis
huiusmodi est: nec illud, inquit, dici poterit, quod contingentium
propositionum neutra vera sit in futuro. Hoc autem nihil differt dicere quam si
quis dicat utrasque esse falsas. Hoc enim impossibile est. In contradictionibus
namque utraeque falsae inveniri non possunt. Hoc enim proprium ƿ contradictoriarum
est: ut proprietatem subcontrariarum refugiunt in eo quod simul verae esse non
possunt, ita quoque et contrariarum proprietatem vitant in eo quod simul falsae
non reperiuntur. Habent ergo propriam naturam, ut neque falsae simul sint neque
verae. Quare una ipsarum semper erit vera, semper altera falsa. Impossibile est
igitur, cum sit falsa negatio, non veram esse affirmationem, et rursus cum sit
falsa affirmatio, negationem esse non veram. Igitur nec hoc est dicere, quod
utraeque non verae sint. Quod per hoc dixit quod ait: AT VERO NEC QUONIAM
NEUTRUM VERUM EST CONTINGIT DICERE, id est non nobis contingit dicere, hoc est
impossibile est dicere, quoniam neutrum verum est, scilicet quod
affirmationibus negationibusue prop onit ur contingentibus scilicet et futuris.
Qui autem Aristotelen arbitrati sunt utrasque propositiones in futuro falsas
arbitrari, si haec quae nunc dicit diligentissime perlegissent, numquam tantis
raptarentur erroribus. Neque enim idem est dicere neutra vera est quod dicere
neutra vera est definite. Futurum esse enim cras bellum navale et non futurum
non dicitur quoniam utraeque omnino falsae sunt sed quoniam neutra est vera aut
quaelibet ipsarum definite falsa sed haec quidem vera, illa falsa, non tamen
una ipsarum definite sed quaelibet illa contingenter. His autem ƿ adicit aliud
quiddam dicens: si propositionum veritas ex rerum substantia pendet, ut
quidquid verum est in propositionibus dicere hoc esse necesse sit, si verum est
dicere, quoniam erit aliquid album, veritatem sequitur rei necessarius eventus.
Quod si dicat quis quamlibet illam rem cras albam futuram, si hoc vere dixerit,
cras ex necessitate alba futura est. Sic igitur, si quis verum dicit neutram
esse veram propositionum earum quae in futuro dicuntur, necesse est id quod
dicitur et significatur ab illis propositionibus nec esse necnon esse. Fal sa
enim et affirmatione et negatione nec quod affirmatio dicit fieri potest nec
quod negatio. Ergo ex necessitate neutrum fit, quod vel affirmatio dicit vel
negatio. Ergo si dicat affirmatio cras bellum navale futurum, quoniam falsa
affirmatio est, non erit cras bellum navale. Rursus si idem neget negatio
dicens non erit cras bellum navale, quoniam haec quoque falsa est, erit cras
bellum navale. Quare nec erit bellum navale, quia affirmatio falsa est, necnon
erit bellum navale, quia negatio. Sed hanc ineptiam nec animus sibi ipse
fingere potest. Quis enim umquam dixerit rem aliquam ex necessitate nec esse
nec non esse? Quod ille scilicet dicit, qui dicit utrasque propositiones in futuro
falsas exsistere. QUAE ERGO CONTINGUNT INCONVENIENTIA HAEC SUNT ET HUIUSMODI
ALIA, SI OMNIS AFFIRMATIONIS ET NEGATIONIS VEL IN HIS QUAE IN UNIVERSALIBUS ƿ
DICUNTUR UNIVERSALITER VEL IN HIS QUAE SUNT SINGULARIA NECESSE EST OPPOSITARUM
HANC ESSE VERAM, ILLAM VERO FALSAM, NIHIL AUTEM UTRUMLIBET ESSE IN HIS QUAE
FIUNT SED OMNIA ESSE VEL FIERI EX NECESSITATE. QUARE NON OPORTEBIT NEQUE
CONSILIARI NEQUE NEGOTIARI, QUONIAM SI HOC FACIMUS, ERIT HOC, SI VERO HOC, NON
ERIT. NIHIL ENIM PROHIBET IN MILLENSIMUM ANNUM HUNC QUIDEM DICERE HOC FUTURUM
ESSE, HUNC VERO NON DICERE. QUARE EX NECESSITATE ERIT QUODLIBET EORUM VERUM
ERAT DICERE TUNC. Omnia in futuro vel vera vel falsa esse definite in
propositionibus arbitrantes impossibilitas ista consequitur: nihil enim neque
ex libero voluntatis arbitrio neque ex aliqua possibilitate, neque ex casu
quidquam fieri potest, si omnia necessitati subiecta sunt. Quamquam quidam non
dubitaverint dicere omnia ex necessitate et quibusdam artibus conati sunt id
quod in nobis est cum rerum necessitate coniungere. Dicunt enim quidam, quorum
sunt Stoici, ut omnia quaecumque fiunt fati necessitate proveniant, et omnia
quao fatalis agit ratio sine dubio necessitate contingere. Sed illa esse sola
in nobis et ex voluntate nostra, quaecumque per voluntatem nostram et per nos
ipsos vis fati complet ac perficit. Neque enim, inquiunt, voluntas nostra in
nobis est sed idem volumus idemque nolumus, quidquid fati necessitas imperavit,
ut voluntas quoque nostra ex fato pendere ƿ videatur. Ita, quoniam per
voluntatem nostram, quaedam ex nobis fiunt et ea quae fiunt in nobis fiunt
quoniamque voluntas ipsa ex necessitate fati est, etiam quae nos voluntate
nostra facimus, quod necessitas imperavit ea, ipsa impulsi facimus necessitate.
Quare hoc modo significationem liberi arbitrii permutantes necessitatem et id
quod in nobis est coninugere impossibiliter et copulare contendunt. Illud enim
in nobis est liberum arbitrium, quod sit omni necessitate uacuum et ingenuum et
suae potestatis, quorumdamque nos domini quodammodo sumus vel faciendi vel non
faciendi. Quod si voluntatem quoque nostram fati nobis necessitas imperet, in
nobis voluntas ipsa non erit sed in fato, nec erit liberum arbitrium sed potius
seruiens necessitati. Unde fit ut, qui omnes actus eventnum necessitate
constringunt, dicant per hoc poplitem quoque nos non flectere, nisi fatalis
necessitas iusserit, caput quoque non scalpere, quare nec lauare, quare nec
agere aliquid. His etiam adiciam vel aliquid feliciter vel aliquid infeliciter
facere vel pati. Unde fit ut neque casum neque liberum arbitrium nec possibile
in rebus ullum esse contendant, quamuis liberum destruere metuentes arbitrium
aliam ei fingant significationem, per quam nihilominus libera hominis voluntas
euertitur. Aristotelica vero auctoritas ita haec in rebus posita et constituta
esse confirmat, ut non exponat nunc, quid sit casus quidue possibile quidue in
nobis, nec ea esse in rebus ƿ probet atque demonstret sed in tantum apud illum
haec in rebus esse manifestum est, ut opinionem, qua quis arbitratur
enuntiationes in futuro omnes esse veras, per hoc impossibilem esse dicat, quod
casum et possibilitatem liberumque euertat arbitrium. Haec enim ita constituta
in rebus putat, ut non de his ulla opus sit demonstratione sed impossibilis ratio
iudicetur, quaecumque vel possibile vel casum vel id quod in nobis est conatur
euertere. Et casum quidem quemadmodum definita in propositionibus futuris
veritas destruat supra monstravit. Nunc autem quemadmodum eadem ipsa veritas
definita futurarum et contingentium propositionum tollat liberi arbitrii
facultatem maxima vi argumentationis exsequitur dicens: huiusmodi cuncta
contingere impossibilia, si quis unam enuntiationis partem definite veram vel
falsam esse confingat. Sed nos secuti Porphyrium, cum huius disputationis
expositionem coepimus, id quod prius dixit IN SINGULARIBUS ET FUTURIS ob hoc
dixisse praediximus, quod facilior sit intellectus disputationis, si haec prius
in singularibus perspicerentur. De quibus singularibus diligentissime praelocutus
nunc de universalibus universaliter praedicatis et quae in his fiunt
contradictiones loquitur. Ita enim dicit: SI OMNIS AFFIRMATIONIS ET NEGATIONIS
VEL IN HIS QUAE IN UNIVERSALIBUS DICUNTUR UNIVERSALITER VEL IN HIS QUAE SUNT
SINGULARIA NECESSE EST OPPOSITARUM HANC ESSE VERAM, ILLAM VERO FALSAM. Alexander
autem in singularibus et futuris dixisse eum arbitratur, tamquam si diceret in
his futuris ƿ quae in generatione et corruptione sunt. Sunt enim quaedam futura
quae in generatione et corruptione non sunt, ut quod de sole vel de luna vel de
caeteris caelestibus pronuntiatur. Haec vero, quae sunt in rebus his quarum est
et nasci et corrumpi natura, unam semper non necesse est veram esse, alteram
falsam. Sed neutram ego improbo expositionem, utraeque enim veracissima ratione
firmantur. Omnis autem sensus talis est, quo necessitatem solam in rebus
imperare destruit Aristoteles: omne quod natura est non frustra est; consiliari
autem homines naturaliter habent; quod si necessitas in rebus sola dominabitur,
sine causa est consiliatio; sed consiliatio non frustra est, natura enim est:
non igitur potest in rebus cuncta necessitas. Ordo autem se sit habet: QUAE
ERGO, inquit, CONTINGUNT INCONVENIENTIA HAEC SUNT ET HUIUSMODI ALIA, scilicet
quoniam qui est in rebus casus euertitur, alia vero quoniam possibilitas et
liberi arbitrii voluntas amittitur. Et haec quomodo contingunt ipse secutus est
dicens: SI OMNIS AFFIRMATIONIS ET NEGATIONIS VEL IN HIS QUAE IN UNIVERSALIBUS
DICUNTUR UNIVERSALITER VEL IN HIS QUAE SUNT SINGULARIA NECESSE EST OPPOSITARUM
HANC ESSE VERAM, ILLAM VERO FALSAM, NIHIL AUTEM UTRUMLIBET ESSE IN HIS QUAE
FIUNT SED OMNIA ESSE VEL FIERI EX NECESSITATE. Tunc enim inconvenientia illa
contingunt, si omnis affirmatio et negatio definite vera vel falsa est sive in
his contradictionibus quae in universalibus angulariter fiunt sive ƿ in
singularibus. Tunc enim nihil est utrumlibet sed ex necessitate omnia, quoniam
veritatem et falsitatem propositionum rerum eventus ex necessitate consequitur.
Quare (ut ipse ait) non oportebit neque consiliari neque negotiari, quoniam si
hoc facimus, erit hoc, si vero hoc, non erit. Euertitur enim consiliatio, si
frustra est, frustra autem eam esse dicit, quisquis in rebus solam ponit fati
necessitatem. Cur enim quisque consilium habeat, si nihil ex eo quod
consiliatur efficiet, cum administret cuncta necessitas? Quare non oportebit
consiliari vel, si quis consiliatur, negotiari non debet. Negotiari autem est
actu aliquid et negotio agere, non lucrum sed aliquam causam vel actum. Nihil
enim ipse per actum suum consiliumque expediet, nisi fati necessitas inbet. Docuit
autem quid esset consiliatio per hoc quod ait: QUONIAM SI HOC FACIMUS, ERIT
HOC, SI HOC, NON ERIT. Ita enim semper fit consiliatio, ut si sit Scipio, ita
consiliabitur: si in Africam exercitum ducam, cladem Hannibalis ab Italia
removebo: sin vero non ducam, non eripietur Italia. Hoc est enim dicere: si hoc
facio, ut si in Africam exercitum ducam, erit hoc, id est eripietur Italia: sin
vero hoc, id est si hic mansero, non erit hoc, non eripietur Italia. Et in
aliis omnibus rebus eodem modo. Simul autem monstravit in consiliis non esse
necessitatem. Si enim hoc, inquit, faciam, erit hoc, et si hoc, non erit. Quod
si necessitas in rebus esset, sive hoc quis faceret sive non faceret, quod
necesse esset eveniret. Quare quod consilii ratione fit non fit violentia
necessitatis. Adiunxit ƿ autem ei quod est consiliari NEQUE NEGOTIARI et est
ordo hoc modo: QUARE NON OPORTEBIT NEQUE CONSILIARI, QUONIAM SI HOC FACIMUS,
ERIT HOC, SI VERO HOC, NON ERIT (NIHIL ENIM PROHIBET IN MILLEN SI MUM ANNUM
HUNC QUIDEM DICERE HOC FUTURUM ESSE, HUNC VERO NON DICERE. QUARE EX NECESSITATE
ERIT QUODLIBET EORUM VERUM ERAT DICERE TUNC) NEQUE NEGOTIARI id est actum
incipere atque negotium gerere. Prior enim est consiliatio, posterius negotium
sed negotium post consiliationem posuit et cuncta quae ad consiliationis
naturam addi oportebat post negotiationis interpositionem subdidit. Est autem
hoc modo: si omnia, inquit, necessitas agit, non oportet consiliari, quoniam si
hoc facimus proveniet nobis hoc, si vero hoc facimus, non proveniet. Nihil enim
prohibet frustra unum dicere, alterum negare dicentem: si hoc facimus, erit hoc
aut non erit. Quod enim eventurum est fiet, sive ille per consilium coniectet
hoc posse fieri, si quid aliud fecerit, sive ille neget hoc posse fieri, si hoc
quod dixit faciat. Ex necessitate enim futurum est quidquid unus ipsorum verum
dixerit. Quod si consiliari omnino non oportet, nec negotiari oportebit id est
nullum incipere negotium. Sive enim quis incipiat sive non incipiat, quod ex
necessitate est sine ulla dubitatione proveniet. Quare nihil alter homo altero
distabit homine. Eo enim meliores homines ƿ iudicamus, quod potiores sunt in
consilio. Sed ubi consiliatio frustra est cuncta necessitate faciente, homines
quoque inter se nihil differunt. Ipsa enim consiliatio nil differt utrum bona
an mala sit, cum proventus necessitas in fati administratione consistat. Quare
si boni consilii homines laude digni sunt, mali consilii vituperatione, non
aliter hoc erit iuste, nisi malus actus malumque consilium et e contra bonum in
nostra sit potestate et non in fato. Cum enim nulla ex necessitate
constringitur eventus rei, tunc et liberum voluntatis arbitrium, ut non sit
fatali seruiens necessitati. Ergo neque qui in hoc mundo simplices rerum
ordines posuerunt recipiendi sunt et hi qui in permixta hac mundana mole non
permixtas quoque actuum causas accipiunt repudiandi. Nam neque qui casu omnia
evenire dicunt recte arbitrantur neque qui omnia necessitatis violentia fingunt
sana opinione tenentur neque omnia ex libero arbitrio esse manifestum est sed
horum omnium et causae mixtae et eventus. Sunt enim quaedam ex casu, sunt
aliqua ex necessitate, quaedam etiam videmus libero teneri iudicio. Et actuum quidem
nostrorum voluntas in nobis est. Nostra enim voluntas domina quodammodo est
nostrorum actuum et totius vitae rationis sed non ƿ eodem modo eventus quoque
in nostra est potestate. Pro alia namque re aliquid ex libero arbitrio
facientibus ex isdem veniens causis casus interstrepit. Ut [cum] scrobem
deponens quis, ut infodiat vitem, si thesaurum inveniat, scrobem quidem
deponere ex libero venit arbitrio, invenire thesaurum solus attulit casus, eam
tamen causam habens casus, quam voluntas attulit. Nisi enim foderet scrobem,
thesaurus non esset inventus. Quidam autem eventus nostris voluntatibus
suppetit, quosdam impedit quaedam violenta necessitas. Prandere enim vel legere
et alia huiusmodi sicut ex nostra voluntate sunt, ita quoque eorum saepe ex
nostra voluntate pendet eventus. Quod si nunc imperare Persis velit Romanus,
arbitrium quidem voluntatis in ipso est sed hunc eventum durior necessitas
retinet et ad perfectionem uetat adduci. Itaque omnium rerum et casus et
voluntas et necessitas dominatur nec una harum res in omnibus ponenda est sed
trium mixta potentia. Unde fit ut peccantium consideretur magis animus potius
quam eventus et puniatur animus non perfectio, idcirco quod voluntas quidem
nobis libera est sed aliquotiens perfectionis ordo retinetur. Quod si omnia vel
casu vel necessitate fierent, nec laus digna bene facientibus nec ultio
delinquentibus nec leges ullae essent iustae, quae aut bonis praemia aut malis
restituerent poenas. Venio nunc ad illud, quod multis quaeritur modis, an
divinatio maneat, si non omnia in rebus ex necessitate contingunt. Nam quod in
vera praedictione est, ƿ idem est in scientia, et sicut cum quis verum
praedicit quod vere praedicitur esse necesse est, ita quod quis futurum novit illud
futurum esse necesse est. Sed divinatio non omnia ut ex necessitate futura
pronuntiat atque idcirco frequenter ita divinatur, quod facillime in ueterum
libris agnoscitur: hoc quidem eventurum est sed si hoc fit non eveniet, quasi
intercidi possit et alio modo evenire. Quod si ita est, necessitate non evenit.
Utrum autem, si omnia futura sciat deus, omnia esse necesse est, ita quaeramus.
Si quis dicat dei scientiam de futuris eventuum subsequi necessitatem, is
profecto conversurus est, si omnia necessitate non contingunt, omnia deum scire
non posse. Nam si scientiam dei sequitur eventuum necessitas, si eueutuum
necessitas non sit, divina scientia perimitur. Et quis tam impia ratione animo
torqueatur, ut haec de deo dicere audeat? Sed fortasse quis dicat, quoniam
evenire non potest, ut deus omnia futura non noverit, hinc evenire ut omnia ex
necessitate sint, quoniam deo notitiam rerum futurarum tollere nefas est. Sed
si quis hoc dicat, illi videndum est, quod deum dum omnia scire conatur
efficere omnia nescire contendit. Binarium enim numerum esse imparem si quis se
scire proponat, non ille noverit sed potius nescit. Ita quod non est potentiae
nosse se id ƿ arbitrari nosse potius impotentiae est. Quisquis ergo dicit deum
cuncta nosse et ob hoc cuncta ex necessitate esse futura, is dicit deum ex necessitate
eventura credere, quaecumque ex necessitate non eveniunt. Nam si omnia ex
necessitate eventura novit deus, in notione sua fallitur. Non enim omnia ex
necessitate eveniunt sed aliqua contingenter. Ergo si quae contingenter
eventura sunt ex necessitate eventura noverit, in propria providentia falsus
est. Novit enim futura deus non ut ex necessitate evenientia sed ut
contingenter, ita ut etiam aliud posse fieri non ignoret, quid tamen fiat ex
ipsorum hominum et actuum ratione persciscat. Quare si quis omnia ex
necessitate fieri dicat, deo quoque benivolentiam subripiat necesse est. Nihil
enim illius benignitas parit, quandoquidem cuncta necessitas administrat, ut
ipsum dei benefacere ex necessitate quodammodo sit et non ex ipsius voluntate.
Nam si ex ipsius voluntate quaedam fiunt, ut ipse nulla necessitate ciaudatur,
non omnia ex necessitate contingunt. Quis igitur tam impie sapiens deum quoque
necessitate constringat? Quis omnia ex necessitate fieri dicat, ista quoque vis
impossibilitatis eveniet? Quare ponendum in rebus est casu quaedam posse et
voluntate effici et necessitate constringi et ratio, quae utrumuis horum subruit,
impossibilis iudicanda est. Non igitur immerito Aristoteles ad impossibilem
rationem perducit dicens et possibilitatem et casum et liberum arbitrium
deperire, quod fieri nequit, si omnium futurarum ƿ enuntiationum una semper
vera est definite, falsa semper altera definite. Harum enim veritatem et
falsitatem necessitas consequitur, quae et casum de rebus et liberum subiudicat
arbitrium. Unde nunc quoque idem repetens dicit: nihil impedire, utrum aliquis
ante mille annos dicat aliquid futurum esse an alius neget. Non enim secundum
dicere vel negare cuncta facienda sunt vel non facienda sed si necesse est
dicentem vel negantem res quoque affirmatas vel negatas subsequi, [etiam si
illi non dicant] quae illis dicentibus evenire necesse erat, etiam non
dicentibus evenire necesse est. Dicit autem hoc modo: AT VERO NEC HOC DIFFERT,
SI ALIQUI DIXERUNT CONTRADICTIONEM VEL NON DIXERUNT; MANIFESTUM EST ENIM, QUOD
SIC SE HABENT RES, ET SI HIC QUIDEM AFFIRMAVERIT, ILLE VERO NEGAVERIT; NON ENIM
PROPTER NEGARE VEL AFFIRMARE ERIT VEL NON ERIT NEC IN MILLENSIMUM ANNUM MAGIS
QUAM IN QUANTOLIBET TEMPORE. QUARE SI IN OMNI TEMPORE SIC SE HABEBAT, UT UNUM
verE DICERETUR, NECESSE ESSET HOC FIERI ET UNUMQUODQUE EORUM QUAE FIUNT SIC SE
HABERET, UT EX NECESSITATE FIERET. QUANDO ENIM VERE DICIT QUIS, QUONIAM ERIT,
NON POTEST NON FIERI ET QUOD FACTUM EST VERUM ERAT DICERE SEMPER, QUONIAM ERIT.
Eventus necessariarum rerum Aristoteles non ex praedicentium veritate sed ex
ipsarum rerum natura considerans inquit: licet necesse sit, quisquis de re
aliqua vera praedixerit, rem quam ante praenuntiaverit evenire, non tamen
idcirco rerum necessitas ex praedictionis veritate pendet sed divinandi veritas
ex rerum potius necessitate perpenditur. Non enim idcirco esse necesse est,
quoniam verum aliquid praedictum est sed quoniam necessario erat futurum,
idcirco de ea re potuit aliquid vere praedici. Quod si ita est, eveniendi rei
vel non eveniendi non est causa is qui praedicit futuram esse vel negat. Non
enim affirmationem et negationem esse necesse est sed idcirco ea esse necesse
est quae futura sunt, quoniam in natura propria quandam habent necessitatem, in
quam si quis incurrerit, verum est quod praedicit. Ergo si quaecumque nunc
facta sunt verum de his fuisset dicere quoniam erunt, sive ille dixisset sive
non dixisset, haec quae nunc facta sunt erant ex necessitate futura. Non enim
propter dicentem vel negantem in rebus necessitas est sed propter rerum
necessitatem veritas in praenuntiatione vel falsitas invenitur. Quare si etiam
ea quae nunc facta sunt vere potuissent praedici quoniam erunt et his ita
positis rem necesse esset evenire, sive illi praedicerent sive non praedicerent,
necesse est omne quod fit ex necessitate es se futurum et nihil omnino
utrumlibet ƿ in rebus est. Namque si nihil necessitatem rerum adivuat divinatio
et nihil interest, utrum quis praedicat futurum esse aliquid an neget an nullus
omnino aliquid nec in affirmatione nec in negatione praedicat, manifestum est
quoniam nec de eo ulla distantia est, sive quis ante quamlibet multum tempus
aliquid eventurum vere esse praedixerit sive ante quamlibet paucos dies vel
horas vel momenta. Nihil enim interest: sive enim quis ante mille annos
praediceret, quod ex necessitate esset futurum, sive ante annum vel mensem vel
diem vel horam vel momentum, de necessitate rei eventurae nihil moveret. Quod
enim nihil interesset utrum praediceretur an non praediceretur, nihil quoque
interest an iuxta praedicatur an longius. Quod si haec ita sunt et omnia
quaecumque evenerunt futura fuisse necesse est, totum liberum arbitrium perit,
totus casus absumitur, rerum possibilitas praeter necessitatem omnis
excluditur. Simul autem Aristoteles praenuntiationem eventumque coniungens
rerum necessitatem ex ipsa propositionum veritate confirmat dicens: si haec ita
sunt, ut in omni tempore sic se haberet unumquodque quod factum est, ut hoc
ipsum vere praediceretur, NECESSE ESSET HOC FIERI, id est necesse esset quod
praedictum vere est evenire. Unumquodque enim eorum quae fiunt et
verepraedicuntur sic se habet, ut ex necessitate fiat. Hoc autem cur fiat haec
ratio est: quod enim vere quis dicit, fieri necesse est. Illa enim veritas ex
rerum ƿ necessitate procreatur. Quod si etiam id quod factum est veraciter
praenuntiaretur futurum, nulla esset dubitatio omnia ex necessitate provenire.
Quod si hoc, inquit, est impossibile (videmus enim quasdam res ex principio
liberi arbitrii et ex nostrorum actuum fonte descendere), quid dubitamus
frivolam rationem omnium necessitatis excludere nec dilectum humanae vitae
interpositione necessitatis absumere? Quae enim erit ulla discretio inter
homines, si liberi arbitrii iudicium perit? Cur postremum leges conditae, cur
publice iura responsa sunt? Cur instituta moresque, publici et privati actus
constitutionibus principum et iudiciorum nexibus continentur, si certum est
nihil humanis licere propositis? Frustra enim cuncta sunt, si liberum arbitrium
non est. Leges enim et caetera ad continendos animos hominum conditas scimus.
Quod si se ipsi animi non regunt et eos aliqua quaedam violentia necessitatis
impellit, dublum non est quin uacuae istae leges sint, quae nihil sponte
facientibus proponuntur. Sed haec quam sint impossibilia ipse Aristoteles
probat, cuius recta sententia neque casum neque necessitatem neque
possibilitatem in utraque parte naturae neque liberum tollit arbitrium sed
cuncta permiscens rebus pluribus mundum compositum non arbitratur simplici vel casu
vel necessitate vel liberae voluntatis iudicio contineri. QUOD SI HAEC NON SUNT
POSSIBILIA: VIDEMUS ENIM ESSE PRINCIPIUM FUTURORUM ET AB EO QUOD CONSILIAMUR
ATQUE AGIMUS ALIQUID. Impossibilia, inquit, ista sunt ut omnia ex necessitate
proveniant. Sumus enim quorundam nos ipsi quoque principia et animus noster
ratione formatus actionesque nostrae ea ratione directae quarundam rerum
principium tenent. Sic enim id quod in nobis est habere videmur: nullo extra
impediente vel cogente ad quod nobis videtur ratione iudicante prosilimus. Nec
omnia necessitatibus subripienda sunt. Omnium namque animalium genus in eo quod
animalia sunt subiectum est aliud naturae, aliud caelestibus siderum cursibus,
aliud rationi quoque mentis et animi cogitationi. Arbores namque et animalia
irrationabilia illae quidem tantum naturae subiectae sunt, pecudes vero etiam
caelestium decretis. Homines autem et naturae et sideribus et propriae
voluntati subiecti sunt. Multa enim natura dominante vel facimus vel patimur,
ut mortem vel huiusmodi habitudinem corporis. Multa secum rerum ipsarum
necessitas trahit, ut ea quae cum facere velimus, non tamen facere valeamus.
Multa autem dat liberum voluntatis arbitrium, quae nobis volentibus fiunt [ut
fierent si velimus]. Unde fit ut natura quae motus ƿ est principium et liberi
arbitrii facultate animi ratione participet. Anima vero velut inligata
corporibus, quibus natura dominatur, imaginationibus et cupiditatibus et
iracundiae ardoribus caeterisque, quae afferunt corpora, ex ipsa cui inligata est
natura participat. Cuncti autem divinae providentiae subiecti ex illa quoque
divinorum voluntate pendemus. Itaque nec caelestium necessitas tota subruitur
nec casum disputatio haec de rebus eliminat et liberum firmat arbitrium. Sed
haec maiora sunt quam ut nunc digne pertractari queant. Sumus igitur nos quoque
rerum principia et ex nostris consiliis atque actibus in rebus plura
consistunt. Quod si ea quae per hanc rationem auferuntur perspicua sunt, quod
vero ponitur id est affirmationem et negationem omnem in futuro veram esse non
aeque perspicuum est, cur dubitamus mendacem subterfugere rationis viam et
tenere ea quae cum vera sunt tum manifesta sunt repudiatis his, quae nec
veritate ulla firma sunt nec perspicuitate clarescunt? ET QUONIAM SUPRA IAM DIXERAT:
QUARE NON OPORTEBIT NEQUE CONSILIARI NEQUE NEGOTIARI, nunc hoc reddidit ad id
quod ait CONSILIARI DICENS ESSE PRINCIPIUM FUTURORUM ET AB EO QUOD CONSILIAMUR;
ad id quod ait NEQUE NEGOTIARI reddidit id quod subiecit ATQUE AGIMUS. Quare
tanta brevitate oratio constricta est, ut in ea teneatur rationis ordinisque
necessitas. ET QUONIAM EST OMNINO IN HIS QUAE NON SEMPER ACTU SUNT ESSE
POSSIBILE ET NON, IN ƿ QUIBUS UTRUMQUE CONTINGIT ET ESSE ET NON ESSE, QUARE ET
FIERI ET NON FIERI. ET MULTA NOBIS MANIFESTA SUNT SIC SE HABENTIA, UT QUONIAM
HANC UESTEM POSSIBILE EST INCIDI ET NON INCIDETUR SED PRIUS EXTERETUR.
SIMILITER AUTEM ET NON INCIDI POSSIBILE EST. NON ENIM ESSET EAM PRIUS EXTERI,
NISI ESSET POSSIBILE NON INCIDI. QUARE ET IN ALIIS FACTURIS, QUAECUMQUE SECUNDUM
POTENTIAM DICUNTUR HUIUSMODI: MANIFESTUM EST, QUONIAM NON OMNIA EX NECESSITATE
VEL SUNT VEL FIUNT SED ALIA QUIDEM UTRUMLIBET ET NON MAGIS VEL AFFIRMATIO VEL
NEGATIO, ALIA VERO MAGIS QUIDEM IN PLURIBUS ALTERUM SED CONTINGIT FIERI ET
ALTERUM, ALTERUM VERO MINIME. Continuus quidem sensus est ex superioribus hoc
modo: supra enim ait quod si haec non sunt possibilia id est ut omnia
necessitas administret: videmus enim a nobis quoddam esse principium futurorum
et a nostris actibus atque consiliis: his illud addidit: quoniamque sunt aliqua
quae possibilia quidem sunt esse cum non sint et non esse cum sint. Haec etiam
simul auferuntur, si necessitas in omnibus dominetur. Et sensus quidem cum
superioribus ita coniunctus est, quid autem habeat argumentationis tota
sententia, hoc modo perspiciendum est: possibile esse dicitur quod in utramque
partem facile naturae suae ratione vertatur, ut et cum non sit possibile sit ƿ
esse nec cum sit ut non sit res ulla prohibeat. Ita ergo et quod possibile
dicimus a necessitate seiungimus. Aliter enim dicitur possibile me esse
ambulare cum sedeam, aliter solem nunc esse in sagittario et post paucos dies
in aquarium transgredi. Ita enim possibile est ut etiam necesse sit. Possibile
autem dicere solemus, quod et cum non sit esse possit et cum sit non esse
iterum possit. Si quis ergo omnia necessitati subiecerit, ille naturam
possibilitatis intercipit. Tres sunt ergo sententiae de possibilitate. Philo
enim dicit possibile esse, quod natura propria enuntiationis suscipiat veritatem,
ut cum dico me hodie esse Theocriti Bucolica relecturum. Hoc si nil extra
prohibeat, quantum in se est, potest veraciter praedicari. Eodem autem modo
idem ipse Philo necessarium esse definit, quod cum verum sit, quantum in se
est, numquam possit susceptivum esse mendacii. Non necessarium autem idem ipse
determinat, quod quantum in se est possit suscipere falsitatem. Impossibile
vero, quod secundum propriam naturam numquam possit suscipere veritatem. Idem
tamen ipse contingens et possibile unum esse confirmat. Diodorus possibile esse
determinat, quod aut est aut erit; impossibile, quod cum falsum sit non erit
verum; necessarium, quod cum verum sit non erit falsum; non necessarium, quod
aut iam est aut erit falsum. Stoici vero possibile quidem posuerunt, quod
susceptibile esset verae praedicationis nihil his prohibentibus, quae cum extra
sint cum ipso tamen fieri contingunt. ƿ Impossibile autem, quod nullam umquam
suscipiat veritatem aliis extra eventum ipsius prohibentibus. Necessarium
autem, quod cum verum sit falsam praedicationem nulla ratione suscipiat. Sed si
omnia ex necessitate fiunt, in Diodori sententiam non rectam sine ulla
dubitatione veniendum est. Ille enim arbitratus est, si quis in mari moreretur,
eum in terra mortem non potuisse suscipere. Quod neque Philo neque Stoici
dicunt. Sed quamquam ista non dicant, tamen si unam partem contradictionis
eventu metiuntur idem Diodoro sentire coguntur. Nam si, quisquis in mari
mortuus est, illum necesse fuit in mari necari, impossibile eum fuit mortem in terra
suscipere. Quod est perfalsum. Atque haec omnia impossibilia subire coguntur,
quicumque cum definite alteram contradictionis partem in futuro veram esse
contendunt, solam necessitatem in rebus esse dicunt. Neque enim, si quis
naufragio periit in pelago, idcirco si numquam navigasset immortalis in terra
futurus fuisset. At ergo non ex eventu rerum sed ex natura eventus ipsos
suscipientium propositionum contradictiones indicandae sunt. Si enim mihi omnia
nunc suppeditent ut Athenas eam, etiamsi non uadam, posse me tamen ire
manifestum est; et cum vero potuisse non ire, id quoque apud eos qui eventus ex
rerum natura recta ratione diiudicant indubitatum est. ƿ Non ergo id est
possibile ut sit necessarium sed quamquam quod necessarium est possibile sit; est
tamen alia quaedam extrinsecus possibilitatis natura, quae et ab impossibili et
a necessitate seiuncta sit. Aristoteles enim hanc habet opinionem de his quae
semper esse necesse est. Ea enim putat nullam habere ad contraria cognationem:
ut nix quoniam semper est frigida numquam calori coniuncta est. Ignis quoque
numquam frigori cognatus est, idcirco quod semper in frigoris contrarietate
versatur id est in calore. Omnia ergo quaecumque sunt necessaria nullam ad
contraria earum qualitatum, quas ipsa retinent, habent cognationem. Quod si
quam cognationem haberet ignis ad frigus, frustra esset illa cognatio numquam
igne in frigus qualitatem vertente. Sed novimus nihil proprium natum frustra
naturam solere perficere. Ergo illa sint posita necessaria quaecumque ad
contraria nullam habent cognationem. Quaecumque autem habent illa sunt non
necessaria sed quoniam ad utramque partem contrarietatis naturali quadam
cognatione videntur esse coniuncta, idcirco in utraque parte eorum eventus
possibilis est: ut lignum hoc potest quidem secari sed nihilo tamen minus habet
ad contraria cognationem, potest enim non secari, et aqua potest quidem
calescere sed nihil eam prohibet frigori quoque esse coniunctam. Et
universaliter dicere ƿ est: quaecumque neque semper sunt neque semper non sunt
sed aliquotiens sunt, aliquotiens non sunt, ea per hoc ipsum quod sunt et non
sunt habent aliquam ad contraria cognationem. Haec autem impossibilium et
necessariorum media sunt. Impossibile enim numquam esse potest, necessarium
numquam non esse: inter haec propria quorundam natura est, quae horum
utrorumque sit media, quae et esse scilicet possit et non esse. Ergo hoc nunc
dicit: videmus, inquit, IN HIS QUAE NON SEMPER ACTU SUNT (illa autem non semper
actu sunt, quae ad utraque contraria habent cognationem: ignis semper actu
calidus est, aqua vero non semper) quocirca videmus IN HIS QUAE NON SEMPER ACTU
SUNT esse quaedam possibilia et non, id est ut et sint et non sint. Quod in his
evenit IN QUIBUS UTRUMQUE CONTINGIT ID EST ET ESSE ET NON ESSE, ut aquam et
esse calidam et non esse calidam, fieri quoque calidam et non fieri. Multaque
nobis perspicua sunt ita sese habentia, ut in utraque parte eventus sine ullo
alicuius rei impedimento vertatur, ut uestem quam possibile est quidem secari
sed fortasse ita contingit, ut non ante ferro dividatur, quam eam exterat
uetustas. Et hoc fieri potest, ut quaelibet uestis non ferro potius minutatim
eat quam usu ipso exteratur. Similiter autem non solum eam secari possibile
est. Non enim esset eam prius exteri quam secari, nisi prius possibile esset
non secari. Cum enim ƿ exteritur, non secatur. Hoc autem in quibus eveniat
universaliter monstrat. Evenit hoc enim, inquit, in facturis. Facturae autem
sunt, in quibuscumque generatio est atque corruptio. Sive enim quid natura fiat
sive arte, in his a faciendo facturam dixit. In his ergo facturis alia quidem
potestate sunt, alia actu: ut aqua calida quidem est possibilitate, potest enim
fieri calida, frigida vero actu est, est enim frigida. Hoc autem actu et
potestate ex materia venit. Nam cum sit materia contrarietatis susceptrix et
ipsa in se utriusque contrarietatis habeat cognationem, si ipsa per se
cogitetur, nihil eorum habet quae in se suscipit et ipsa quidem nihil actu est,
omnia tamen potestate. Suscipiens autem contraria quamquam unam habeat
contrarietatem, habet tamen et alteram simul sed non actu, ut in eadem aqua.
Huius enim materia et caloris susceptrix est et frigoris sed cum utrumlibet
horum susceperit vel calorem vel frigus, est quidem si ita contigit, calida,
est etiam simul frigida sed non eodem modo. Nam fortasse actu calida est,
frigida potestate. Ergo quod potestate est in rebus ex materia venit. Alioquin
divinis corporibus nihil omnino est potestate sed omne actu: ut soli numquam
est lumen potestate, cui quidem nulla obscuritas, vel toto caelo nulla quies.
Ita sese ergo habent ex materia ut omnia ipsa essent potestate, nihil autem
actu, arbitratu ƿ naturae, quae in ipsa materia singulos pro ratione distribuit
motus et singulas qualitatum proprietates singulis materiae partibus ponit, ut
alias quidem natura ipsa necessarias ordinarit, ita ut quam diu res illa esset
eius in ipsa proprietas permaneret, ut igni calorem. Nam quamdiu ignis est,
tamdiu ignem calidum esse necesse est. Aliis vero tales qualitates apposuit,
quibus carere possint. Et illa quidem necessaria qualitas informat
uniuscuiusque substantiam. Illa enim eius qualitas cum ipsa materia ex natura
coniuncta est. Istae vero aliae qualitates extra sunt, quae et admitti possunt
et non admitti. Atque hinc est generatio et corruptio. Ex natura igitur et ex
materia ista in rebus possibilitas venit. Qua in re casus quoque aliquando
subrepit, quae est indeterminata causa et sine ulla ratione cadens. Neque enim
natura est quae frustra nil efficit nec arbitrium liberum quod in iudicio et
ratione consistit sed extra est casus, qui propter aliam rem quibusdam factis
ipse subitus et improvisus exoritur. Ex hac autem possibilitate etiam illa
liberi arbitrii ratio venit. Si enim non esset fieri aliquid possibile sed
omnia aut ex necessitate essent aut ex necessitate non essent, liberum
arbitrium non maneret. Recte igitur nec omnia casu ut Epicurus nec necessitate
omnia ut ƿ Stoicus nec rursus omnia libero arbitrio fieri proposuit sed cuncta
permiscens in permixto mundo permixtas quoque rerum causae esse proposuit, ut
aliae quidem ex necessitate, aliae vero casu vel libero arbitrio vel postremo
possibilitate contingerent. Quorum omnium unum nomen est utrumlibet, vel in
casu vel in voluntate vel in possibilitate. Sed horum divisionem facit. Nam
eorum quae sunt utrumlibet alia sunt quae aequaliter se ad affirmationem et
negatio. Nem habent, ut est lecturum me esse hodie Vergilium et non lecturum:
utroque enim modo utrumque est. Hoc est enim quod ait ET NON MAGIS VEL AFFIRMATIO
VEL NEGATIO. Aequaliter enim et possum legere Vergilium nunc et possum non
legere. Alia vero sunt quae non se aequaliter habeant sed quamquam in una re
frequentius eveniat, non tamen prohibitum est in altera provenire, ut in eo
quod est hominem in senecta canescere. In pluribus quidem hoc contingit sed
CONTINGIT FIERI ET ALTERUM, id est ut non canescat, alterum vero minime, id est
ut canescat. Ita igitur et ex possibilitate et ex casu et ex libero arbitrio
contradictionem in una parte de futuro definite non esse veram vel falsam
firmissima et validissima argumentatione constituit. His autem adicit hoc: IGITUR
ESSE QUOD EST, QUANDO EST, ET NON ESSE QUOD NON EST, QUANDO NON EST, NECESSE
EST; SED NON QUOD EST OMNE NECESSE EST ESSE NEC QUOD NON EST NECESSE EST NON
ESSE. NON ENIM IDEM EST OMNE QUOD EST ESSE NECESSARIO, QUANDO EST, ET SIMPLICITER
ESSE EX NECESSITATE. Duplex modus necessitatis ostenditur: unus qui cum
alicuius accidentis necessitate proponitur, alter qui simplici praedicatione
profertur. Et simplici quidem praedicatione profertur, cum dicimus solem moveri
necesse est. Non enim solum quia nunc movetur sed quia numquam non movebitur,
idcirco in solis motu necessitas venit. Altera vero quae cum conditione dicitur
talis est: ut cum dicimus Socratem sedere necesse est cum sedet, et non sedere
necesse est cum non sedet. Nam cum idem eodem tempore sedere et non sedere non
possit, quicumque sedet non potest non sedere, tunc cum sedet: igitur sedere
necesse est. Ergo quando quis sedet tunc cum sedet eum sedere necesse est.
Fieri enim non potest ut cum sedet non sedeat. Rursus quando quis non sedet,
tunc cum non sedet, eum non sedere necesse est. Non enim potest idem non sedere
et sedere. Et potest ista esse cum conditione necessitas, ut cum sedet aliquis,
tunc cum sedet, ex necessitate sedeat, et cum non sedet, tunc cum non sedet, ex
necessitate non sedeat. Sed ista cum conditione quae proponitur necessitas non
illam simplicem secum trahit (non enim quicumque sedet simpliciter eum sedere
necesse est sed cum adiectione ea quae est tunc cum sedet), sicut solem dicimus
non necesse esse tunc moveri, cum movetur, nec hoc addimus, ut solem moveri
necesse sit cum movetur sed tantum simpliciter dicimus solem moveri necesse
est. Et haec necessitas simplex de sole dicta veritatem in oratione perficiet.
At vero illa quae cum conditione dicitur, ut cum dicimus Socratem sedere
necesse est, tunc cum sedet, id ƿ quod proponimus tunc cum sedet et hanc
conditionem temporis si a propositione dividamus, de tota propositione veritas
perit. Non enim possumus dicere quoniam Socrates ex necessitate sedet. Potest
enim et non sedere. Habet enim quandam convenientiam et cognationem potestas
Socratis sicut ad sedendum sic etiam ad non sedendum. Ergo id quod dicimus ex
necessitate Socraten sedere, tunc cum sedet, ad accidens respicientes
proponimus. Nam quoniam accidit Socrati sedere et eo tempore quo accidit ei non
accidisse non potest (sic enim fiet ut eidem eadem res et accidat et non
accidat uno eodemque tempore, quod impossibile est), idcirco accidens eius
inspicientes dicimus necesse esse Socraten sedere sed non simpliciter sed tunc
cum sedet. Et sicut Aethiopem dicere simpliciter esse candidum falsum est,
verum tamen in aliquo esse candidum (in oculis enim illi vel in dentibus candor
est), ita quoque falsum dicere Socraten ex necessitate sedere simpliciter,
verum autem est hanc necessitatem in aliquo quodam tempore, non simpliciter
praedicare, ut dicamus tunc cum sedet. Quemadmodum enim in sole dicimus,
quoniam solem moveri necesse est, simpliciter, si ita dicamus Socraten sedere
necesse est, falsum est. Sin vero marmoreum Socraten dicamus, quoniam Socraten
marmoreum sedere necesse est, si fortasse sedens formatus sit, verum est et
simpliciter de tali Socrate necessitas poterit praedicari. De ipso autem
Socrate simpliciter ƿ talis necessitas non dicitur. Neque enim fieri potest, ut
Socrates ex necessitate sedeat, nisi forte cum sedet. Tunc enim cum sedet,
quoniam sedet et non potest non sedere, ex necessitate sedet. Alioquin non simpliciter
ex necessitate sedet sed contingenter, potest enim surgere. Quod autem ex
necessitate simpliciter est, illam permutare non potest necessitatem: ut
quoniam simpliciter solem moveri necesse est, sol stare nulla ratione potest. Hoc
igitur dicit Aristoteles: omne quod est, quando est, et omne quod non est,
quando non est, esse cum conditione et non esse necesse est sed non sine
conditione aut esse aut non esse simpliciter. Haec enim illis solis
necessitatibus attributa sunt quaecumque nullius potentiae aut cognationis ad
opposita sunt, ut sol ad quietem vel ignis ad frigus. Neque enim idem est,
inquit Aristoteles, ex necessitate esse aliquid, quando est, in conditione vel
non esse, quando non est, et simpliciter dicere omne ex necessitate esse vel non
esse. Illud enim conditio verum fecit, in hoc simplicitatis natura effecit
veritatem. SIMILITER AUTEM, inquit, ET IN EO QUOD NON EST. Etiam in eo quod non
est idem est: non omne quod non est non esse necesse est sed tunc cum non est
tunc non esse necesse est, et hoc in conditione rursus, non simpliciter. Duabus
igitur his necessitatibus demonstratis, una conditionali, altera simplici, nunc
ad contradictionem rursus de futuro contingentemque reuertitur. ET IN
CONTRADICTIONE EADEM RATIO. ESSE QUIDEM VEL NON ESSE OMNE NECESSE EST ET
FUTURUM ESSE VEL NON; NON TAMEN DIVIDENTEM DICERE ALTERUM NECESSARIO. DICO
AUTEM NECESSE EST QUIDEM FUTURUM ESSE BELLUM NAVALE CRAS VEL NON ESSE FUTURUM
SED NON FUTURUM ESSE CRAS BELLUM NAVALE NECESSE EST VEL NON FUTURUM ESSE, FUTURUM
AUTEM ESSE VEL NON ESSE NECESSE EST. QUARE QUONIAM SIMILITER ORATIONES VERAE
SUNT QUEMADMODUM ET RES, MANIFESTUM EST QUONIAM QUAECUMQUE SIC SE HABENT, UT
UTRUMLIBET SINT ET CONTRARIA IPSORUM CONTINGANT NECESSE EST SIMILITER SE HABERE
ET CONTRADICTIONEM. QUOD CONTINGIT IN HIS, QUAE NON SEMPER SUNT ET NON SEMPER
NON SUNT. Planissime quam sententiam haberet de contingentibus propositionibus
et futuris exposuit dicens: in his totam quidem contradictionem dictam unam
quamlibet partem habere veram alteram falsam sed non ut aliquis dividat atque
respondeat hanc quidem ex necessitate veram esse, illam vero ex necessitate
alteram falsam: ut in eo quod dicimus: Sol occidit Sol hodie non
occidit facillime in his aliquis dividens dicit, quoniam solem hodie
occidere ex necessitate verum est, non occidere ex necessitate falsum. Ita sese
enim habet divinorum corporum ratio et natura, ut in his ƿ nulla cognatio sit
ad opposita, atque ideo vel quod sunt ex necessitate sunt vel quod non sunt ex
necessitate non sunt. Ea vero quae in generatione et corruptione sunt non ita
sunt. Habent enim hoc ipso, quod et gignuntur et corrumpuntur, ad opposita
cognationem atque ideo in his non est unam partem contradictionis assumere et
eam necessario esse praedicare et rursus aliam necessario non esse proponere
quamuis totius contradictionis una quaelibet pars vera sit, altera falsa sed
incognite et indefinite, et non nobis, verum natura ipsa harum rerum quae
proponuntur dubitabilis, ut in ea propositione quae est: Socrates hodie lecturus
est Socrates hodie lecturus non est Totius quidem contradictionis una
vera est, una falsa (aut enim lecturus est aut non lecturus) et hoc confuse in
tota oratione perspectum sed nullus potest dividere et respondere, quoniam vera
est lecturum eum esse vel certe quoniam vera est non eum esse lecturum. Hoc
autem non quod audientes de futuro nesciamus sed quod eadem res et esse possit
et non esse. Alioquin si ex nostra inscientia hoc eveniret et non ex ipsarum
rerum variabili et indefinito proventu, illa rursus impossibilitas contingeret,
ut omnia necessitas administraret. Non enim propter scientiam nostram quod ex
necessitate est eventurum est sed etiam si nos nesciamus, erit tamen alicuius
rei eventus constitutus et indubitatus: illam rem futuram esse necesse est.
Ergo quoniam hoc fieri non potest et ƿ sunt quaedam quae non ex necessitate
proveniant sed contingenter, in his quamquam totius contradictionis in qualibet
eius parte veritas inveniatur aut falsitas, non tamen ut aliquis dividat et
dicat hanc quidem veram esse, illam vero falsam. Quod huiusmodi monstravit
exemplo: cras enim bellum navale fieri aut non fieri necesse est, non tamen ex
necessitate fiet cras aut ex necessitate cras non fiet, ut possit aliquis
dividere et praedicare dicens cras fiet, ut hoc vere dicat et ita ex definito
contingat, vel rursus cras non fiet, et hoc eodem modo proveniat: hoc fieri non
potest sed tantum indefinite quaecumque una pars contradictionis vera est, altera
falsa sed quae evenerit. Eventus autem ipsorum indiscretus est: et illud enim
et illud poterit evenire. Hoc autem idcirco est quoniam non est ex
antiquioribus quibusdam causis pendens rerum eventus, ut quaedam quodammodo
necessitatis catena sit sed potius haec ex nostro arbitrio et libera voluntate
sunt, in quibus est nulla necessitas. Quod si, inquit, itidem ORATIONES VERAE
SUNT QUEMADMODUM ET RES: hoc sumpsit a Platone, qui dixit similiter se habere
orationes rebus et cognatas quodammodo esse in ipsa significatione, si sint res
impermutabiles et ratione stabili permanentes oratio quoque de his vera esset
et necessaria, sin vero esset res quae varietate naturae numquam perpetuo
permaneret in orationibus quoque fixa veritas non esset et nulla per huiusmodi
orationes demonstratio proveniret. Hoc igitur sumens Aristoteles ut optime
dictum sic ait: quoniam, inquit, orationes similiter sese habent quemadmodum
res, manifestum est quoniam quaecumque res ita sunt, ut utrumlibet sint et
contraria ipsorum contingere possint, necesse est ita contradictionem se
habere, quae de illis natura instabilibus atque indefinitis rebus est, ut si
res sint dubitabiles et indefinito variabilique proventu contradictio quoque
quae de his rebus fit variabili indefinitoque proventu sit. Quae autem essent
huiusmodi res, quarum eventus varius indefinitusque constaret, planissime
demonstravit dicens: QUOD CONTINGIT IN HIS, QUAE NON SEMPER SUNT ET NON SEMPER
NON SUNT. Ea enim sunt, in quibus contingit utrumlibet, quae neque semper sunt
(possunt enim corrumpi) neque semper non sunt (possunt enim generari et fieri).
Haec enim sunt quae habent ad opposita cognationem, sicut in ipsa propria
substantia rerum ipsarum eventus docet. Nam esse et non esse oppositum est.
Quod autem non fuit et generatur et fit ex eo quod non fuit est. Habuit igitur
in hoc ad esse et non esse id est ad opposita cognationem. Sin vero idem ipsum
quod est corrumpatur, ex eo quod fuit non erit. Habebit igitur rursus ad
opposita cognationem. Quare et sicut harum quae sunt in generatione et
corruptione rerum proventus indefinitus est, ita quoque et contradictionum
partes, quamquam in tota contradictione una vera sit, altera falsa. Indefinitum
ƿ enim et indiscretum est, quae una harum vera sit, quae altera falsa. HORUM
ENIM NECESSE EST QUIDEM ALTERAM PARTEM CONTRADICTIONIS VERAM ESSE VEL FALSAM,
NON TAMEN HOC AUT ILLUD SED UTRUMLIBET ET MAGIS QUIDEM VERAM ALTERAM, NON TAMEN
IAM VERAM VEL FALSAM. QUARE MANIFESTUM EST, QUONIAM NON EST NECESSE OMNIS
AFFIRMATIONIS VEL NEGATIONIS OPPOSITARUM HANC QUIDEM VERAM, ILLAM VERO FALSAM
ESSE. Docuit supra nos in his quae utrumlibet sunt rebus contradictionis unam
partem non esse definite veram, falsam vero alteram definite: nunc a
frequentiori et a rariori argumentum trahit. Supra namque monstravit esse
quasdam res quae frequentius quidem contingent, non tamen interclusum sit, ut
et opposita aliquando contingent. Contingit enim ut rarius infrequentiusque
contingat. Ergo si in his quaecumque in pluribus eveniunt non necesse est unam
veram esse, alteram falsam (idcirco quod quicumque dixerit hominem in senecta
canescere et hoc ex necessitate esse protulerit mentietur, potest enim et non
canescere): si in his ergo non est definite una vera, altera falsa, in quibus
una res frequentius evenit, rarius altera, multo minus in his in quibus
oppositorum eventus aequalis est. Et verum est quidem dicere, quoniam hoc
contingit frequentius, non tamen omnino quoniam ƿ contingit, idcirco quod,
licet rarius, tamen contingit oppositum. Quod si neque in his quae in pluribus
praedicantur una definite vera est, altera falsa et multo minus in his quorum
aequaliter indiscretus eventus est, manifestum est in futuris et contingentibus
propositionibus non esse unam veram, alteram falsam. Hoc enim in principio ut
monstraret validissima argumentatione contendit. NEQUE ENIM QUEMADMODUM IN HIS
QUAE SUNT, SIC SE HABET ETIAM IN HIS QUAE NON SUNT, POSSIBILIBUS TAMEN ESSE AUT
NON ESSE SED QUEMADMODUM DICTUM EST. Ad divisionem temporum in principio factam
totam reuocat quaestionem. Ait enim prius propositiones eas quae fierent aut in
praesenti aut in praeterito aut in futuro praedicari. Et eas quidem quae de
praeterito vel praesenti dicerentur definitam veritatem vel falsitatem habere,
sive in sempiternis et divinis dicerentur rebus sive in nascentibus atque
morientibus, in quibus utrumlibet contingeret, ut haberent ad opposita
cognationem. In futuris vero, si de divinis quidem rebus aliquis et in
mutabilibus loqueretur, eodem modo unam veram definite, alteram falsam esse
definite. Non enim habere huiusmodi naturas ad opposita cognationem. In his
autem quae in generatione et corruptione essent de futuro praedicatis vel
affirmative vel negative non eundem esse modum veritatis definitae sed totius
quidem contradictionis unam partem veram esse, alteram falsam, definite autem
unam veram, definite alteram falsam minime. ƿ Nunc autem non utraque tempora
posuit, praesens scilicet et praeteritum sed tantum praesens. Dixit enim: NEQUE
ENIM QUEMADMODUM IN HIS QUAE SUNT, id est in his quae praesentia sunt. Quod
vero ait IN HIS QUAE NON SUNT, POSSIBILIBUS TAMEN ESSE, de futuris loquitur,
quae cum non sint tamen esse possunt. Non enim sic se habet in praesenti
prasdicata propositio, quemadmodum in futuro, in his scilicet quae utrumlibet
sunt et in generatione et in corruptione consistunt. In illis enim id est
praeteritis et praesentibus definite una vera est, altera falsa: in his id est
futuris et contingentibus veritas et falsitas propositionum nulla definitione
constringitur. Sed quoniam de futuris propositionibus Aristotelicam sententiam
quantum facultas fuit diligenter expressimus, prolixitatem voluminis
terminemus. Est quidem libri huius -- "De interpretatione" apud
Latinos, apud Graecos vero *Peri hermeneias* inscribitur -- obscura orationis
series obscurissimis adiecta sententiis atque ideo non hunc magnis expedissem ƿ
voluminibus, nisi etiam nihil labori concedens quam pote planissime quod in
prima editione altitudinis et subtilitatis omiseram secunda commentatione
complorem. Sed danda est prolixitati venia et operis longitudo libri
obscuritate pensanda est. Sunt tamen gradus apud nos satisfacientes lectorum et
diligentiae et fastidio cupientium facillime magna cognoscere. Huius enim libri
post has geminas commentationes quoddam breuarium facimus, ita ut in quibusdam
et fere in omnibus Aristotelis ipsius verbis utamur, tantum quod ille brevitate
dixit obscure nos aliquibas additis dilucidiorem seriem adiectione faciamus, ut
quasi inter textus brevitatem commentationisque diffusionem medius ingrediatur
stilus diffuse dicta colligens et angustissime scripta diffundens. Atque haec
posterius. Nunc autem quoniam ab Aristotele supra monstratum est in futuro
contingentium propositionum veritatem et falsitatem non stabili neque definita
ratione esse divisam et quidquid supra latissima disputatio complexa est, nunc
haec eius intentio est, ut categoricarum propositionum numerum tradat,
quaecumque cum finito vel infinito nomine simpliciter fiunt. Primo enim
volumine dictum est nomen esse ut 'homo', infinitum vero nomen ut 'non homo'.
Praedicativae autem et categoricae propositiones sunt quae duobus tantum
simplicibus terminis constant: hae ƿ sive cum finito nomine, ut est: Homo
ambulat sive cum nomine infinito, ut est: Non homo ambulat Harum
igitur propositionum categoricarum atque simplicium tradere numerum contendit,
quaecumque fiunt adiectione nominis infiniti. Sed quoniam propositiones omnes
aut secundum qualitatem differunt aut secundum quantitatem (secundum
qualitatem, quod haec quidem affirmativa est, illa vero negativa, secundum
quantitatem vero, quod haec quidem plura complectitur, illa vero pauca):
secundum quam differentiam hae propositiones quae dicunt homo ambulat et rursus
non homo ambulat a se differunt? Secundum qualitatem an secundum quantitatem?
Nam quod dico: Homo ambulat qualitatem quandam substantiae id est hominem
ambulare designat et rem definitam atque substantiam unamque speciem
ambulabilem esse pronuntiat, quod autem dico: Non homo ambulat nominem
quidem rem definitam tollo, innumerabilia vero significo. Quare illa quidem
quae dicit: Homo ambulat secundum qualitatem, quae vero: Non homo
ambulat videbitur secundum quantitatem potius discrepare. An certe illud
magis est verius: [ut et] quod dico: Homo ambulat 'homo' simplex nomen
quasi affirmationi est proximum, quod vero dico: Non homo ambulat 'non
homo' infinitum nomen negationis videtur esse consimile? Sed affirmatio et
negatio secundum qualitatem differunt, haec autem affirmationi sunt
negationique similia: qualitate igitur potius quam ulla discrepant quantitate. An
magis illud est verius, quod quemadmodum ƿ se habet propositio quae dicit
Socrates ambulat ad eam quae dicit guidam homo ambulat, ita sese habet homo
ambulat ad eam quae dicit non homo ambulat? Propositio namque quae est: Quidam
homo ambulat si plures ambulent, necesse est ut vera sit, si autem plures
ambulent, ut: Socrates ambulet non est necesse. Possunt enim plures
ambulare et Socrates non ambulare sed cum plures ambulant, quidam homo ambulat.
Hoc autem ideo evenit, quia quod dicimus: Quidam homo ambulat particularitatem
iungimus universalitati id est homini et, si qui sub illa universalitate sunt
id est sub homine ambulante, eam quae dicit: Quidam homo ambulat veram
esse necesse est. At vero cum dicitur: Socrates ambulat quoniam Socrates
circa unius cuiusdam proprietatem est, nisi ipse Socrates ambulaverit, quamquam
omnes homines ambulent, non est verum dicere Socrates ambulat. Sicut ergo:
Quidam homo ambulat indefinita Socrates ambulat propria ac
definita: sic etiam in eo quod est homo et non homo. Qui dicit: Homo
ambulat dicit quoniam quoddam animal ambulat et hoc nomine et qualitate
determinat dicens "Homo ambulat". Qui vero dicit: Non homo
ambulat non quidem omnia subruit sed hominem tantum, caetera vero
animalia ambulabilia esse pronuntiat. Ergo sive equus sive bos sive leo
ambulat, verum est "Non homo ambulat" sed non est verum "Homo
ambulat", si non ipse homo ambulat. Quare ƿ quemadmodum se habet
"Quidam homo ambulat" ad "Socrates ambulat", quod illic, si
plures homines ambularent, verum erat "Quidam homo ambulat", non
etiam "Socrates ambulat", nisi ipse Socrates ambularet: ita quoque in
eo quod est "Homo ambulat" et "Non homo ambulat" dici
potest. Nam si plura quae sunt non homines ambulent, verum est dicere quoniam
non homo ambulat, non autem verum est dicere quoniam homo ambulat, nisi ipse
homo ambulet. Secundum definitionem potius et proprietstem videntur discrepare
quam aliquam totam quantitatem vel partem vel rursus aliquam qualitatem. Nam,
sicut posterius demonstrabitur, ea quae dicit non homo ambulat affirmatio
potius quam negatio est. Atque haec hactenus praedixisse sufficiat. QUONIAM
AUTEM EST DE ALIQUO AFFIRMATIO SIGNIFICANS ALIQUID, HOC AUTEM EST VEL NOMEN VEL
INNOMINE, UNUM AUTEM OPORTET ESSE ET DE UNO HOC QUOD EST IN AFFIRMATIONE (NOMEN
AUTEM DICTUM EST ET INNOMINE PRIUS; NON HOMO ENIM NOMEN QUIDEM NON DICO SED
INFINITUM NOMEN; UNUM ENIM QUODAMMODO SIGNIFICAT INFINITUM, QUEMADMODUM ET NON
CURRIT NON VERBUM SED INFINITUM VERBUM), ERIT OMNIS AFFIRMATIO VEL EX NOMINE ET
VERBO VEL EX INFINITO NOMINE ET VERBO. PRAETER VERBUM AUTEM NULLA AFFIRMATIO
VEL NEGATIO. EST ENIM VEL ERIT VEL FUIT VEL FIT, VEL QUAECUMQUE ALIA ƿ
HUIUSMODI, VERBA EX HIS SUNT QUAE SUNT POSITA; CONSIGNIFICANT ENIM TEMPUS.
QUARE PRIMA AFFIRMATIO ET NEGATIO EST HOMO, NON EST HOMO, DEINDE EST NON HOMO,
NON EST NON HOMO; RURSUS EST OMNIS HOMO, NON EST OMNIS HOMO, EST OMNIS NON
HOMO, NON EST OMNIS NON HOMO. In secundo (ut arbitror) libro praediximus omnem
enuntiationem simplicem id est praedicativam ex subiecto et praedicato
consistere, quorum semper praedicatio aut verbum esset aut quod idem posset,
tamquam si verbi dictio poneretur: ut cum dicimus: Homo ambulat verbum
ponitur; cum vero dicimus: Homo rationalis subaudiatur hic verbum 'est',
ut totus intellectus sit "Homo rationabilis est". Quocirca necesse
est aut verbum semper esse praedicatum aut quod sit verbo consimile idemque in
enuntiationibus possit. Quod vero subiectum esset, aut omnino nomen esse aut
quod vice nominis fungeretur. Quocirca illud maxime colligendum est omne in
categorica propositione subiectum nomen esse, omne vero praedicatum verbum. Sed
quoniam, cum de nomine loqueretur, aliud quoddam nomen introduxit, quod
simpliciter quidem et per se nomen non esset, infinitum tamen nomen vocaretur,
id quod cum negativa particula profertur, omnis autem propositio ex nominis
subiectione consistit, est autem categorica propositio, quae aliquid de aliquo
praedicat vel negat, et de quo praedicat quidem nomen est quoniamque in nomine
infinitum etiam ƿ nomen dicitur, necesse est semper categoricam propositionem
aut nomen habere subiectum aut illud quod dicitur infinitum. Infinitum vero
nomen est quod ipse nunc INNOMINE vocat. Omnis ergo propositio praedicativa in
duas dividitur species: aut ex infinito nomine subiectum est aut ex simplici
nomine. Ex infinito quidem, cum dico: Non homo ambulat ex finito autem et
simplici, ut: Homo ambulat Huius autem quae ex finito et simplici est
species sunt duae: quae aut universale nomen subicit, ut "Homo
ambulat", aut singulare, ut "Socrates ambulat". Quare ita fit
divisio: omnium enuntiationum simplicium, quae ex duobus terminis constant,
aliae sunt ex infinito nomine subiecto, aliae vero ex finito et simplici. Earum
quae simplex habent subiectum aliae sunt quae universale simplex subiciunt,
aliae quae singulare. Supra vero perdocuit quod sint differentiae propositionum
simplex nomen in subiecto ponentium: quod aliae sint universales, aliae
particulares, aliae indefinitae. Et secundum quantitatem quidem hoc modo
differunt, secundum qualitatem vero, quod aliae affirmativae sint, aliae
negativae. Idem quoque in his propositionibus quae ex infinito nomine subiecto
enuntiantur. Aliae namque harum indefinitae sunt, aliae definitae. Definitarum
aliae sunt universales, aliae particulares. Hic quoque secundum quantitatem nec
minus secundum qualitatem eaedem infinitorum quoque nominum propositionibus
differentiae sunt. Dicimus enim alias esse affirmativas, alias negativas.
Subiecta vero descriptio docet, quae sint affirmativae simplices, ƿ quae sint
negativae, et rursus quae sint affirmativae ex infinito nomine et quae
negativae easque omnes in propriis determinationibus adiunximus nec minus etiam
indefinitas in utraque specie propositionum posuimus singulare habentibus
subiectum simplicibus propositionibus reiectis. Sint enim indefinitae simplices
hae: Homo ambulat Homo non ambulatcontra has vero divisae secundum
infinitum nomen hae: Non homo ambulat Non homo non ambulat Universales ex
simplici subiecto nomine sint hae: Omnis homo ambulat Nullus homo ambulat
contra has divisse ex infinito nomine universales: Omnis non homo ambulat
Nullus non homo ambulat Rursus particulares ex finito nomine subiecto
sint: Quidam homo ambulat Quidam homo non ambulat rursus contra has
divisae ex infinito nomine subiecto hae: Quidam non homo ambulat Quidam non
homo non ambulat Hoc autem subiecta descriptione declaratur: Indefinitae
ex simplici nomine subiecto: Homo ambulat Homo non ambulat Indefinitae ex
infinito nomine subiecto: Non homo ambulat Non homo non ambulat Universales ex
simplici nomine subiecto: Omnis homo ambulat Nullus homo ambulat Universales ex
infinito nomine subiecto: Omnis non homo ambulat Nullus non homo ambulat
Particulares ex simplici nomine subiecto: Quidam homo ambulat Quidam homo non
ambulat ƿParticulares ex infinito nomine subiecto: Quidam non homo ambulat
Quidam non homo non ambulat Haec ergo partiens et de propositionibus ex duobus
terminis constitutis faciens propositionem colligit omnis ex subiecto nomine
propositiones et eas tantum ad divisionem sumit, quae ex infinito nomine fiunt,
faciens huiusmodi divisionem principalem, ut sit: propositionum aliae sunt ex
finito nomine, aliae ex infinito. Oportuerat quidem volentem cuncta partiri ad
differentias propositionum non solum infinita sumere nomina sed etiam verba.
Sed quoniam noverat nomen quidem infinitum conservare propositionem quam
invenisset, ut si in affirmativa diceretur affirmativam servaret enuntiationem,
ut est: Non homo ambulat si in negativa negativam, ut est: Non homo non
ambulat verba vero quae sunt infinita iuncta in propositione non
affirmationem sed perficere negationem, idcirco de his reticuit, quod hae magis
quae ex verbo infinito sunt ad unam qualitatem pertinent propositionis id est
ad negativam. Semper enim fit ex infinito verbo negatio. Haec igitur colligens
ait: QUONIAM AUTEM EST DE ALIQUO SUBIECTO AFFIRMATIO SIGNIFICANS ALIQUID id est
praedicans, hoc est quoniam omnis propositio ex subiecto et praedicato. Quod
autem subiectum EST VEL NOMEN VEL INNOMINATUM. ƿInnominatum autem est quod
propositum subruit nomen, ut est 'non homo'. Nomen enim quod est 'homo' differt
nominis infiniti privatione quod est 'non homo' atque ideo et innominatum
vocavit. Qualis autem debeat esse propositio de qua tractat ostendit dicens:
UNUM AUTEM OPORTET ESSE ET DE UNO HOC QUOD EST IN AFFIRMATIONE, id est ex
duobus terminis propositionem oportere consistere. Commemorat quoque quid sit
innominatum se supra dixisse, quoniam quod diceremus 'non homo' nomen quidem
Aristoteles non diceret sed quod nomen simpliciter non vocaret hoc addito
infinito nomen diceret infinitum, idcirco quoniam unum quidem significat sed
infinitum. 'Non homo' enim quod significationem eius quod dicimus homo tollit
unum est et unam per se significationem subripiens, multa sunt quae intellegentium
sensibus relinquantur. Commemorat etiam quoniam 'non currit' verbum superius
infinitum vocavit et non simpliciter verbum. QUONIAM ergo aliquid de aliquo
affirmatio est, hoc autem quod subiectum est aut nomen esse oportet aut
innominatum id est infinitum nomen, duplex propositionis species invenitur.
Omnis enim affirmatio vel ex nomine est et verbo vel ex infinito nomine et
verbo. Eodem quoque modo et negatio. Neque enim reperietur ulla umquam
affirmatio, cui negatio inveniri non possit. Quod si duplex species
affirmationum, duplex quoque species est negationum. Illud ƿ quoque commemorat
quod supra iam dixit. Nam licet ex nomine et verbo et rursus ex eo, quod non
est nomen sed infinitum, nomine et verbo sit affirmatio et negatio praedicativa
id est categorica: ut autem praeter verbum sit ulla affirmatio aut negatio aut
praeter id quod idem significet verbo vel in subauditione vel aliquo alio modo
fieri non potest. Ponit quoque verba quae paene in omnibus propositionibus aut
sub ipsa cadunt aut quae idem valeant. EST ENIM, inquit, VEL ERIT VEL FUIT ,
VEL QUAECUMQUE ALIA consignificant tempus, verba sunt, sicut ex his doceri
possumus quae ante posita sunt atque concessa, cum definitio verborum daretur:
verba esse quae consignificarent tempus. Quare si haec consignificant tempus,
non est dubium quin verba sins. Sed praeter haec aut praeter idem valentia
propositio nulla est. Recte igitur dictum est praeter verba praedicativam
propositionem non posse constitui. Iuste tamen aliquis quaestionem videatur opponere,
cur cum iam dixerit praeter verbum enuntiationes nulla ratione posse constitui
nunc idem repetit, quasi nil de his antea praedixisset. Sed superfivum videri
non debet. QUONIAM enim finitum nomen cum negativa particula nomen est
infinitum, idcirco putaretur fortasse negatio esse quod diceremus non homo.
Quod si haec negatio, homo affirmatio. Ne in hunc ergo quisquam laberetur
errorem, hoc dixit et congrue repetivit, quoniam praeter verbum esse enuntiatio
non potest, tamquam si diceret: ƿ nemo arbitretur infinitum nomen esse
negationem nec nomen affirmationem, praeter enim verbum affirmatio et negatio
nulla umquam potest ratione constitui. In hoc illud quoque noverat quod verbum
infinitum et negationem significaret et infinitum verbum. Id enim quod dicimus
'non ambulat' et infinitum est verbum et negatio sed per se quidem si dicatur
simplex sine aliquibus aliis adiectionibus infinitum verbum est; sin vero cum
nomine aut cum infinito nomine proferatur, non iam verbum infinitum sed negatio
accipitur: ut 'non' negativa particula cum 'ambulat' iuncta infinitum verbum
efficiat non ambulat sed in propositione quae est "Homo non ambulat"
hominem non ambulare designet. Atque ideo ait subiecta quidem in
propositionibus posse esse vel nomina vel infinita nomina, praedicata vero
praeter verba esse non posse. Nam sive in affirmationibus quis coniungat quid,
verbum sine dubio praedicavit, sive in negationibus, non infinitum verbum sed
tantum verbum, cui addita non particula totem qualitatem propositionis ex affirmativa
in negativam commutet. Quare recte nullam differentiam propositionum de
infinitis verbis fecit. Infinita enim verba tunc sunt infinita, cum sola sunt.
Si vero cum infinito nomine iungantur aut nomine, non infinita verba iam sunt
sed finita, cum negatione tamen in tota propositione intelleguntur. Si ergo,
quemadmodum Stoici volunt, ad nomina negationes ponerentur, ut esset "Non
homo ambulat" negatio, ambiguum ƿ esse posset, cum dicimus 'non homo' an
infinitum nomen esset, an vero finitum cum negatione coniunctum. Sed quoniam
Aristoteli placet verbis negationes oportere coniungi, infinita magis verba
ambigui intellectus sunt, an infinita videantur, an cum negatione finita. Atque
ideo ita discernitur: sumptum cum nomine infinitum verbum negatio fit et
negativa propositio, ut est "Homo non ambulat", per se vero dictum
infinitum verbum est, ut 'non ambulat'. Atque ideo hic solam differentiam
nominum et infinitorum nominum in propositionibus dedit, non etiam verborum
infinitorum, idcirco quod de coniunctis loquebatur, id est de nominibus vel
infinitis nominibus atque verbis. In qua coniunctione id quod per se infinitum
verbum dicitur negatio est. Neque enim oportet sicut omnis propositio aut ex
finito nomine aut ex infinito constat, ita quoque aut ex verbo constare aut ex
infinito verbo. Infinitum enim verbum in propositionibus non est sed quotiens
aliquid (ut dictum est) tale ponitur, finitum quidem verbum est sed illi iuncta
negatio totam propositionem privat ac destruit. Et verbum quidem infinitum
iunctum nominibus negationem ut faciat necesse est, nomen vero infinitum
iunctum verbis non necesse est ut faciat negationem. Quod enim dicimus
"Non homo ambulat" affirmatio est, non negatio. Ergo quoniam
affirmationem oportet aliquid de aliquo significare, nomen autem infinitum est
aliquid, quotiens dicimus: Non homo ambulat ambulationem (id est ALIQUID)
de 'non homine' (id est DE ALIQUO) praedicamus. Sed si dicamus 'non ambulat'
non potius de aliquo praedicavimus aliquid sed ab aliquo. Qui enim dicit homo
non ambulat, ambulationem ƿ ab homine tollit, non de homine praedicat. Quare
negatio potius quam affirmatio est. Si enim affirmatio esset, id est si verbum
esset infinitum, aliquid de aliquo praedicaret. Nunc autem aliquid ab aliquo
tollit: non est igitur verbum infinitum sed potius negatio, quotiens in tota
sumitur propositione. Numerum vero propositionum, quarum nos supra quoque
descripsimus, ipse subiecit: indefinitas quidem prius, post vero contra
iacentes. Quod si quis vel ad illa reuertitur vel hic intendit animum, in quo
vel nostra vel Aristotelica dispositio discrepet diligenter agnoscit. Nos enim
et contrarias proposuimus et subcontrarias, Aristoteles vero solum
contradictorie sibimet contra iacentes oppositasque proposuit. Sed Aristoteles
non solum in praesenti tempore easdem propositionum dicit esse differentias
quas proposuit sed etiam in aliis quoque temporibus quae sunt extrinsecus.
Extrinsecus autem tempora vocat quae praeter praesens sunt praeteritum scilicet
et futurum. QUANDO AUTEM EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR, DUPLICITER DICUNTUR
OPPOSITIONES. DICO AUTEM UT EST IUSTUS HOMO; EST TERTIUM DICO ADIACERE NOMEN
VEL VERBUM IN AFFIRMATIONE. QUARE IDCIRCO QUATUOR ISTAE ERUNT, QUARUM DUAE QUID
EM AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM SESE HABEBUNT SECUNDUM CONSEQUENTIAM UT
PRIVATIONES, DUAE VERO MINIME. DICO AUTEM QUONIAM EST AUT IUSTO ADIACEBIT AUT
NON IUSTO, QUARE ETIAM NEGATIO. QUATUOR ERGO ERUNT. INTELLEGIMUS ƿ VERO QUOD
DICITUR EX HIS QUAE SUBSCRIPTA SUNT. EST IUSTUS HOMO, HUIUS NEGATIO NON EST
IUSTUS HOMO; EST NON IUSTUS HOMO, HUIUS NEGATIO NON EST NON IUSTUS HOMO. EST
ENIM HOC LOCO ET NON EST IUSTO ET NON IUSTO ADIACET. HAEC IGITUR, QUEMADMODUM
IN RESOLUTORIIS DICTUM EST, SIC SUNT DISPOSITA. Fertur autem etiam alia
inscriptio quae est hoc modo: DICO AUTEM QUONIAM EST AUT HOMINI ADIACEBIT AUT
NON HOMINI, QUARE ET NEGATIO. Et rursus paulo post: EST ENIM HOC LOCO ET NON
EST HOMINI ADIACET. HAEC IGITUR, QUEMADMODUM IN RESOLUTORIIS DICTUM EST, SIC
SUNT DISPOSITA. Quod autem dicitur perobscurum est et exponitur a pluribus
incurate, quorum cum iudicio competenti enumerabo sententias. Postquam de his
propositionibus expedivit, quae duobus constiterint terminis et subiectum
habuerint aut nomen aut (ut ipse ait) innominatum id est infinitum nomen, nunc
ad eas transit, in quibus est tertium adiacens praedicatur, uno subiecto duobus
praedicatis: ut in eo quod dicimus homo iustus est homo subiectum est et iustus
et est utraque praedicantur. Ergo in hoc duo sunt praedicata, unum vero
subiectum. Et fortasse aliqui inquirat cur ita dixerit: quando autem est
tertium adiacens praedicatur. Non enim tertium praedicatur sed secundum. Duo
enim sunt quae praedicantur, unum vero subiectum est. Sed non ita dictum est,
quasi est in ƿ propositione quae dicit homo iustus est tertium praedicaretur
sed quoniam adiacet tertium et praedicatur. Ergo quod dicitur tertium ad
adiacere refertur. Etenim in ea propositione quae dicit homo iustus est est
tertium adiacet, praedicatur autem iam non tertium sed secundum. Ergo tertium
numeratum adiacet, secundum vero numeratum praedicatur. Hoc est igitur quod
ait: QUANDO EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR, non quoniam tertium praedicatur
sed praedicatur tertium adiacens, id est tertio loco. Facit igitur nunc in his
propositionibus considerationem, in quibus est tertium adiacens secundum
praedicatur. Et sicut in his in quibus tantum praedicatur 'est', non etiam
adiacens praedicabatur, ut homo est, de subiecto considerationem fecit, quot
modis sumptum subiectum differentias faceret propositionum (aut enim nomen esse
subiectum aut infinitum nomen), sic nunc de praedicato loquitur et de
praedicati differentiis tractat. In his enim propositionibus, IN QUIBUS EST
TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR, sumptum praedicatum alias nomen, alias infinitum
nomen facit differentias propositionum. Praedicatum autem dico in ea
propositione quae ponit: Homo iustus est 'iustus'. Hoc enim praedicatum
de homine est, 'est' autem non praedicatur sed tertium adiacens praedicatur --
id est secundo loco et adiacens iusto, tertium vero in tota propositione
praedicatur, non quasi quaedam pars totius propositionis sed potius
demonstratio qualitatis. Non enim ƿ hoc quod dicimus est constituit
propositionem totam sed qualis sit id est quoniam est affirmativa demonstrat. Atque
ideo non dixit TERTIUM PRAEDICATUR tantum sed TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR. Non
enim positum tertium praedicatur solum sed adiacens tertium secundo loco et
quodammodo accidenter praedicatur. Potest etiam sic intelligi: idcirco dixisse
Aristotelem 'est' in his tertium adiacens praedicari, quoniam possit
aliquotiens et per se praedicari, ut si quis dicat: Socrates philosophus
est ut propositio haec hoc sentiat: Socrates philosophus vivit
'Est' enim pro 'vivit' positum est. Si quis ergo sic dicat duo inveniuntur
subiecta est vero solum praedicatur, non etiam adiacens. Quod enim dicimus
'Socrates philosophus' utraque subiecta sunt 'est' autem praedicatur solum. Si
quis autem dicat sic "Socrates philosophus est" ut non iam Socratem
philosophum esse atque vivere sed Socratem philosophari et philosophum esse
enuntiatione significet, tunc invenitur unum subiectum, duo praedicata.
Socrates enim subiectum est, philosophus autem et est praedicata quorum
philosophus quidem principaliter praedicatur, est autem adiacens philosopho et
ipsum praedicatur sed non simpliciter praedicatur sed adiacens. Sunt autem
etiam aliae propositiones hoc modo: Socrates in lycio leget Et sunt hae
ex tribus terminis. Sed
de hac interim propositionum natura nil tractat sed de his solis in quibus est
tertium adiacens praedicatur, ut est: Homo iustus est Sed de his duas
quidem oppositiones. Quocirca recte duae oppositiones ƿ quatuor propositionum
sunt. Hoc autem huiusmodi est: QUANDO EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR, quod
principaliter praedicatur aut nomen erit aut infinitum nomen. Et hae aut
affirmative praedicandae sunt aut negative. Quocirca simplicis nominis
affirmatio et simplicis nominis negatio una est oppositio et duae
propositiones. Finitum autem et infivitum hic non subiectum sed sumitur
praedicatum, ut in eo quod est homo iustus est iustus praedicatur. Hoc autem
nomen erit aut infinitum nomen. Fiunt ergo ex his duae affirmationes: homo
iustus est, homo non iustus est . Atque hoc quidem in indefinitis. Posterius
autem monstrabitur hoc etiam in his es se, quae determinationem habent
universalitatis vel particularitatis. Nunc autem horum ordo subiectus numerum
oppositionemque declaret. Oppositio una: Affirmatio simplex: Negatio simplex:
Homo iustus est Homo iustus non est Oppositio una: Affirmatio ex infinito Negatio
ex infinito. Homo non iustus est Homo non iustus non est Simplices in
superposita descriptione propositiones vocavi, in quibus nomen praedicatur, ut:
Homo iustus ƿ est Homo iustus non est Ex infinitis autem, in quibus nomen
infinitum principaliter praedicatur, ut est: Homo non iustus est Homo non
iustus non est Sive autem est primo dicatur sive postea idem est nec hoc
turbet quod Aristoteles 'est' primum dixit, nos vero postremum sed idem est. Fiunt
igitur oppositiones duae, quatuor propositiones sunt. Hae quatuor propositiones
ex senario propositionum numero ad pauciora reductae sunt. Si enim simplices et
ex duobus terminis fuissent, hoc modo essent: Homo est Homo non est Iustus est
Iustus non est Non iustus est Non iustus non est et essent hae sex propositiones.
Posset quidem adici hoc quidem etiam, ut de infinito nomine subiecto fierent
propositiones, ut est: Non homo est Non homo non est Sed de his posterius
dicit. Nunc autem sex illae simplices in quatuor raptae sunt, idcirco quoniam
res simplices iunctae naturaliter redeunt pauciores. Coniunctio enim ipsa
numerum minuit, ut si sint decem res et singulae singulis iungantur, ut binae
fiant, quinarius numerus coniunctionis redit. Ita etiam hic modo sex erant
propositiones (ut supra docui) quae [et] simpliciter dicerentur sed hae
adstrictae sunt et coniunctione deminutae. Nam quod posuerunt istae quatuor:
Homo est Homo non est Iustus est Iustus non est hae coniunctione in duas
redactae sunt. Iunctus enim homo cum iusto duas propositiones fecerunt: Homo
iustus est Homo iustus non est Rursus ƿ ad eundem ipsum hominem infinitum
cum praedicatur, aliae duae propositiones ex infinito praedicato rationabiliter
oriuntur: Homo non iustus est Homo non iustus non est Quorum duae sunt
oppositiones, quatuor vero propositiones. Ita igitur ex sex propositionibus, id
est: Est homo Non est homo Est iustus Non est iustus Est non iustus Non est non
iustus(quae cum sex sint propositiones, tres tamen habent oppositiones) homo
iusto et homo non iusto subiectus quatuor solas propositiones fecit, duplicem
vero oppositionem. Qui vero dixerunt numerosiores fieri propositiones ex his,
in quibus 'est' adiacens praedicaretur, quam ex his, quae duobus terminis
constarent, illos non intellexisse rerum naturam manifestum est, quae ita fert,
ut semper ex pluribus simplicibus rariores redeant res paucioresque coniunctae.
Ait igitur: in his IN QUIBUS EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR: ut hoc quod ait
TERTIUM non ad praedicationem referatur potius quam ad ordinem, ipse distinxit
dicens: DICO AUTEM UT EST IUSTUS HOMO; EST TERTIUM DICO ADIACERE NOMEN VEL
VERBUM IN AFFIRMATIONE. Non inquit tertium praedicari sed tertium adiacere, ad
ordinem scilicet, non ad praedicationem, ut tertium quidem adiaceret, adiacens
autem praedicaretur id est non simpliciter praedicaretur. Neque enim superius
terminus in propositione est. Atque ideo si quis resoluere propositionem velit
in suos terminos, ille non resolvit in 'est' sed in id quod est homo et iustus.
Et erunt duo termini: subiectus quidem homo, praedicatus vero ƿ iustus, 'est'
autem quod adiacens praedicatur et tertium adiacens non in termino sed in
qualitate potius propositionis (ut dictum est) iustius accipietur. NOMEN autem
VEL VERBUM ait 'est' propter hanc causam. Tertium enim nomen adiacere est dixit,
ut doceret prima duo esse hominem scilicet et iustum, idcirco autem ait NOMEN
VEL VERBUM, quoniam verba quoque nomina sunt. Hoc autem prius dixit dicens:
IPSA QUIDEM PER SE DICTA VERBA NOMINA SUNT. Postquam igitur dixit, quid vellet
ostendere per id quod ait EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR, quoniam ad ordinem
non ad praedicationem, subter exposuit quot fierent propositiones dicens: QUARE
IDCIRCO QUATUOR ISTAE ERUNT. Dixit autem communem istis quatuor accidentiam,
quam paulo post diligenter exponam. Quod autem accidit hoc est: cum sint hae
quatuor propopositiones, quas subter positurus est, duae ipsarum se AD
AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM ITA HABEBUNT SECUNDUM CONSEQUENTIAM UT PRIVATIONES,
DUAE VERO MINIME. Sed hanc his propositionibus accidentiam paulo post
demonstrabo. Nunc autem illud respiciamus, quemadmodum ipse quatuor fieri
propositiones dicat. Ait enim: DICO AUTEM QUONIAM EST AUT IUSTO ADIACEBIT AUT
NON IUSTO. Fiet enim duplex propositio, si 'est' aut iusto adiaceat aut non
iusto, hoc modo: Est homo iustus Est homo non iustus Quare, inquit, si
est affirmativo modo positum nunc quidem cum iusto, nunc autem cum non iusto
geminas fecit propositiones scilicet affirmativas, idem quoque est cum
negatione coniunctum id est non geminas ƿ quoque faciet negationes eas scilicet
quae sunt: non est homo iustus, non est homo non iustus. Hoc est autem quod
ait: DICO AUTEM QUONIAM EST AUT IUSTO ADIACEBIT AUT NON IUSTO. Si enim adiacet
iusto, facit hanc affirmationem: Est iustus homo si adiacet non iusto, facit
hanc affirmationem: Est non iustus homo Quare etiam negatio, quae iuncta
cum est non est facit. Haec igitur negatio copulata iusto et non iusto duas
efficiet negationes contra eas quas supra diximus propositiones. Si enim
addatur iusto, talem facit negationem: Non est iustus homo si non iusto:
Non est non iustus homo Hoc autem cur evenit? Quoniam est et non est
iusto et non iusto adiacet, est cum iusto et non iusto duas faciente
propositiones; non est iterum cum iusto et non iusto alias duas. Ex quibus quatuor
duae oppositiones sunt, ut ait supra: QUANDO EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR,
DUPLICITER DICUNTUR OPPOSITIONES. Quare sensus sese totus hoc modo habet. Sed
quoniam est alia quoque scriptio loci, sic dicat: DICO AUTEM QUONIAM EST AUT
HOMINI ADIACEBIT AUT NON HOMINI, QUARE ETIAM NEGATIO. QUATUOR ERGO ERUNT.
INTELLEGIMUS VERO QUOD DICIMUS EX HIS QUAE SUBSCRIPTA SUNT. EST IUSTUS HOMO,
HUIUS NEGATIO NON EST IUSTUS HOMO; EST NON IUSTUS HOMO, HUIUS NEGATIO NON EST
NON IUSTUS HOMO, est hoc loco et non est homini adiacente. Turbabat expositores
ƿ et dubitabant quid hoc esset, quod cum supra dixisset: DICO AUTEM QUONIAM EST
AUT HOMINI ADIACEBIT AUT NON HOMINI, in eorum exemplo et dispositione 'est' non
apposuit homini aut non homini sed iusto et non iusto dicens: INTELLEGIMUS VERO
QUOD DICITUR EX HIS QUAE SUBSCRIPTA SUNT. EST IUSTUS HOMO, HUIUS NEGATIO NON
EST IUSTUS HOMO; EST NON IUSTUS HOMO, HUIUS NEGATIO NON EST NON IUSTUS HOMO, et
postquam iusto et non iusto est et non est apposuit quod ante non dixit sed ad
hominem et ad non hominem est adiacere proposuit, postea infert: EST ENIM HOC
LOCO HOMINI ADIACET, qui posuerat iusto et non iusto est et non est adiacere. Unde
Alexander quoque dicit scripturae esse culpam, non philosophi recte dicentis et
emendandam esse scripturam. Sed non eum oportuit confundi, si pro homine et non
homine iustum et non iustum intulit. Haec enim exempla potius sunt quam
propositionum necessitas. Quod enim dixit est homini et non homini adiacere ita
sumpsit, tamquam si homo praedicaretur, ut in eo quod est: Socrates homo
est vel rursus: Socrates non homo est Ergo volens sumere quodcumque
praedicatum, nunc quidem simplex, nunc autem infinitum, intulit iustum et non
iustum indifferenter habens, an homo et non homo praedicaretur, an iustus et
non iustus, modo in praedicato alias sumeretur nomen, alias infinitum nomen.
Non ergo oportuit conturbari Alexandrum aliosque in hac inscriptione, in qua
nos philosophus exercere voluerit, sicut Porphyrium ƿ et Herminum non turbabat,
qui dicunt exempla haec esse finiti praedicati et infiniti, in quibus quodlibet
praedicatum [sit] aeque accipi oportere. Velut si, cum dixisset homini et non
homini adiacere est et non est, album et non album postea intulisset,
sufficeret. Hoc enim illud praedicatum alias finitum, alias infinitum sumere
quibuscumque nominibus. Et quod ait homini et non homini adiacere est et postea
intulit iusto et non iusto et subiecit hominem, non ita putandum est, tamquam
de subiectis id est homine et non homine loqui voluerit et postea per errorem
intulerit in praedicato iusto et non iusto sed potius ipsum homini et non
homini ita sumpsit, tamquam in aliquo praedicaretur, ut (sicut dictum est):
Socrates homo est Socrates non homo est Hic ergo homo et non homo
praedicatur. Rursus si quis dicat: Homo iustus est Homo non iustus est
nihil differt. Eodem enim modo praedicatum in una propositione simplex sumptum
est, in altera infinitum, velut si dicam: Nix alba est Nix non alba est
eodem modo. Non ergo culpanda scriptura est quae, cum prius proposuisset homini
et non homini adiacere est, iustum et non iustum intulit. Nil enim interest,
sive iustum aut non iustum praedicetur sive homo aut non homo, dummodo
praedicationem alias infinitam, alias vero sumat finitam, tunc cum est tertium
adiacens praedicatur. Exercere igitur intellegentiam nostram acumenque
philosophus voluit rerum omnium sollertissimus, non falsa scripture confundere.
Quando autem ea quae supra dixit colligens ait: EST ENIM HOC LOCO ET NON EST
HOMINI ADIACET, hoc sentit, quoniam in hac propositione quae dicit "Homo
iustus est", quam supra proposuerit, iustus de homine praedicatur, 'est'
autem adiacens iusto adiacebit ; et in ea quae dicit "Homo iustus non
est", quoniam iustus praedicatur de homine, 'non est' autem adiacet, 'non
est' igitur homini quoque adiacebit. Hoc est enim quod ait: EST ENIM HOC LOCO
ET NON EST HOMINI ADIACET. Nam si iustus praedicatur de homine, est autem et
non est adiacet iusto, homini quoque adiacebit, ut dictum est. Hanc quoque
scripturam emendandam esse Alexander opinatur faciendumque esse hoc modo, sicut
prius quoque exposuimus: EST ENIM HOC LOCO ET NON EST IUSTO ET NON IUSTO
ADIACET. Sed ordo quidem totius sententiae diligenter expositus est, sive illa
scriptio sit sive illa. Neutra enim mutanda est. Et una quidem plus habet
exercitii, altera vero facilitatis sed ad unam intellegentiam utraque
perveniunt. Restat igitur ut id quod ait: QUARE IDCIRCO QUATUOR ISTAE ERUNT,
QUARUM DUAE QUIDEM AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM SESE HABEBUNT SECUNDUM
CONSEQUENTIAM UT PRIVATIONES, DUAE VERO MINIME diligentius exponamus. Locus
enim magna brevitate constrictus est et nimia obscuritate ac subtilitate
difficilis. Et hunc quidem in prima editione huius operis transcurrentes
exposuimus atque [in] brevissimam ut in aliis quoque dedimus expositionem. Nunc
autem quid in se sensus habeat veri, quid hac brevitate latitet, quantum
facultas suppetit, ƿ nos ipsi patefaciemus, et quantum valet animum lector
intendat. Cui si forte paulo obscuriora videantur, rerum imputet difficultati;
si vero planiora quam putaverit, suo gratiam debebit acumini. Sed prius quid de
hoc loco Herminus arbitretur quam possibiliter expediam. Ait Herminus tribus
modis propositiones cum infinito nomine posse proferri: aut enim infinitum
subiectum habent, ut est Non homo iustus est aut infinitum praedicatum,
ut: Homo non iustus est aut infinitum praedicatum et infinitum subiectum,
ut: Non homo non iustus est Harum igitur, inquit, quaecumque ad
praedicatum terminum habent nomen infinitum, similes sunt his quae aliquam
denuntiant privationem. Denuntiant autem privationem hae quae dicunt homo
iniustus. Ergo istis huiusmodi quae proponunt: Homo iniustus est illae,
inquit, consentiunt quae sunt ex infinito praedicato, ut ea quae est: Homo non
iustus est Idem enim est, inquit, esse hominem iustum quod hominem non
iustum. Illae vero quae habent aut subiectum infinitum, ut est: Non homo iustus
est aut utraque infinita, ut est: Non homo non iustus est non
consentiunt ad privatoriam propositionem, quae est: Homo iniustus est
Nulla similitudo est enim eius propositionis quae dicit: Non homo iustus
est et eius quae dicit: Homo inustus est Nec vero eius quae
proponit: Non homo non iustus est et eius quae enuntiat: Homo iniustus
est Namque illae quae infinitum nomen habent in praedicatione hae
privatoriis consentiunt, illae vero propositiones quae aut subiectum habent
infinitum aut utraque infinita privatoriis longe diversae sunt. Sed haec
Herminus. Longe a toto intellectu ƿ et ratione sententiae discrepans has interposuit,
quae aut ex utrisque infinitis aut ex subiecto fierent infinito. Quid autem
esset quod ait SECUNDUM CONSEQUENTIAM vel quae duae haberent se secundum
consequentiam ut privationes, quae vero non, exponens nihil planum fecit et
sensus nihilo magis ante expositionem Hermini quam post expositionem obscurus
est. Nos autem Porphyrium sequentes eique doctissimo viro consentientes haec
dicimus: quatuor esse propositiones, quarum duae quidem ex finitis nominibus
sunt, duae vero ex infinitis nommibus praedicatis. Sunt autem ex finitis
nominibus hoc modo: affirmatio est iustus homo, negatio non est iustus homo. Ex
infinitis vero nominibus praedicatis affirmatio est quae dicit: Est non iustus
homo negatio quae proponit: Non est non iustus homo Sed has ex
infinitis nominibus praedicatis propositiones in reliquo sermone infinitas
vocabimus, ut affirmatio infinita sit extra expositionem ea quae dicit: Est non
iustus homo negatio infinita ea quae dicit: Non est non iustus homo
ut quod dicturi eramus propositionem ex nomine infinito praedicato hanc
infinitam nominemus, illas autem duas quae nullum nomen habent infinitum nec
subiectum nec praedicatum simplices vocamus. Sunt ergo simplices propositiones
hae: Est homo iustus Non est homo iustus Privatorias autem propositiones
voco quaecumque habent privationem. Privatoriae autem sunt hoc modo: Est
iniustus homo haec enim iustitia subiectum privabit, et rursus: Non est
iniustus homo haec rursus iniustitia subiectum privabit. Ergo cum sint
duae propositiones simplices, una affirmativa, ƿ altera negativa, et sint duae
privatoriae, eae quoque una affirmativa, una negativa, necnon etiam sint aliae
infinitae, affirmativa rursus et negativa, dico quoniam, quemadmodum se
privatoriae propositiones affirmatio scilicet et negatio ad affirmationes et
negationes simplices habuerint, sic se habebunt etiam quae sunt infinitae ad
easdem ipsas simplices scilicet secundum consequentiam. Quod autem dico tale
est. Disponantur prius duae simplices id est affirmatio quae dicit: Est iustus
homo et rursus negatio quae dicit: Non est iustus homo Sub his
autem disponantur privatoriae: sub affirmatione quidem simplici privatoria
negativa, sub negativa simplici affirmativa privatoria, ut sub ea quae dicit:
Est homo iustus ponatur ea quae dicit: Non est homo iniustus et sub
ea quae dicit: Non est homo iustus ponatur ea quae proponit: Est homo
iniustus Rursus sub privatoriis disponantur infinitae: sub affirmatione
affirmatio, sub negatione negatio. Sub affirmatione quidem privatoria quae
dicit: Est iniustus homo disponatur affirmativa infinita: Est non iustus
homo sub negativa vero privatoria quae dicit: Non est iniustus homo
ponatur negativa infinita quae dicit: Non est non iustus homo Hoc autem
subiecta descriptio docet: SIMPLICES Affirmatio: Negatio: Est iustus homo Non
est iustus homo PRIVATORIAE Negatio: Affirmatio: Non est iniustus homo Est
iniustus homo INFINITAE Negatio: Affirmatio: Non est non iustus homo Est non
iustus homo His ergo dispositis dico quoniam, quemadmodum se habent privatoriae,
id est affirmatio et negatio quae dicunt: Est iniustus homo Non est iniustus
homo ad simplices quae proponunt: Est iustus homo Non est iustus
homo secundum consequentiam, sic se habebunt etiam infinitae
propositiones affirmatio et negatio hae scilicet quae sunt: Est non iustus homo
Non est non iustus homo ad easdem simplices quae sunt: Est iustus homo
Non est iustus homo Videamus quae sit simplicium et privatoriarum
consequentia, ut utrum se sic habeant infinitae ad simplices, quemadmodum se habent
privatoriae ad easdem simplices, cognoscamus. Dispositae igitur sunt in primo
quidem ordine simplices propositiones, affirmatio simplex quae dicit: Est
iustus homo et negatio simplex quae dicit: Non est iustus homo Sub
his id est sub affirmatione simplici duae negationes, una privatoria quae est:
Non est iniustus homo et altera infinita quae est: Non est non iustus
homo Sub negatione vero simplici quae dicit: Non est iustus homo
duae affirmationes, una privatoria quae dicit: Est iniustus homo altera
infinita quae dicit: Est non iustus homo Illud quoque in descriptione
videndum est, quod angulariter se affirmationes negationesque respiciunt. Nam
affirmatio quae est simplex: Est iustus homo angulariter se contra
utrasque respicit affirmationes infinitam scilicet et privatoriam quae sunt:
Est non iustus homo Est iniustus homo Rursus negatio simplex quae est:
Non est iustus homo angulariter ƿ respicit duas negationes infinitam
scilicet et privatoriam. Et
in veritate simplicem affirmationem privatoria negatio sequitur. Nam si verum
est dicere quoniam est iustus homo, verum est dicere quoniam non est iniustus
homo. Nam qui iustus est non est iniustus. Et possumus istam continuam
propositionem coniunctamque proponere: si iustus est homo, non est iniustus
homo. Sequitur ergo affirmationem simplicem privatoria negatio, ut si vera
fuerit affirmatio simplex vera quoque sit negatio privatoria et affirmationis
simplicis veritatem negationis privatoriae veritas consequatur. At vero non e
converso est. Neque enim affirmatio simplex negationem sequitur privatoriam.
Nam si verum est dicere quoniam non est iniustus homo, non est omnino verum
dicere quoniam est homo iustus. Potest enim vere de equo dici quoniam equus non
est iniustus homo (neque enim omnino homo est et ideo nec iniustus homo est)
sed non potest dici de equo quoniam equus est homo iustus. Ita ergo, quoniam
verum non est de equo quoniam est iustus homo equus, veritatem negationis
privatoriae non sequitur veritas simplicis affirmationis. Atque ideo nec
continua propositio hinc et coniuncta proferri proponique potest. Non est enim
vera propositio, si quis dicat: "si non est iniustus homo, est iustus
homo". De equo enim (ut dictum est) verum est quia non est iniustus homo,
non tamen verum est iustum esse hominem equum. Quare negationem privatoriam simplex
affirmatio non sequitur. Monstratum est igitur quoniam ƿ affirmationem
simplicem negatio privatoria sequeretur, negationem vero privatoriam simplex
affirmatio non sequeretur. Rursus videamus et in opposita parte qualis sit
consequentia. In diversa enim parte affirmationem quidem privatoriam sequitur
negatio simplex, negationem vero simplicem affirmatio privatoria non sequitur.
Nam si verum est dicere quoniam est iniustus homo, verum est dicere quoniam non
est iustus homo. Qui enim iniustus est, iustus non est. Et affirmativae
privatoriae eius scilicet quae dicit: Est iniustus homo veritatem
sequitur negativa simplex quae est: Non est iustus homo Hoc autem non
convertitur. Neque enim simplicem negativam sequitur privatoria affirmativa.
Nam si verum est dicere quoniam non est iustus homo, non est omnino verum
quoniam est iniustus homo. De equo enim verum est dicere quoniam equus non est
iustus homo (nam qui omnino homo non est nec iustus homo est) sed non de eodem
equo dici potest vere quoniam equus est iniustus homo. Nam qui homo non est nec
iniustus esse potest. Quare veritatem negativae simplicis non sequitur veritas
privativae affirmationis, veritatem autem affirmationis privatoriae sequitur ex
necessitate veritas simplicis negativae. Quocirca monstratum est hoc in
utrisque, quoniam affirmationem quidem simplicem sequeretur negatio privatoria,
negationem vero privatoriam non sequitur affirmatio simplex; rursus
affirmationem privatoriam sequitur negatio simplex, negationem simplicem non sequitur
affirmatio privatoria. His ergo ita positis de infinitis privatoriisque
tractemus. Privatoriae namque et infinitae affirmationes affirmationibus,
negationes consentiant negationibus ƿ hoc modo. Affirmatio enim privatoria quae
dicit: Est iniustus homo consentit infinitae affirmationi quae dicit: Est
non iustus homo Idem enim significant utraeque et privatoria affirmatio
et infinita affirmatio et quamquam in aliquo sermone prolatione discrepant,
tamen significatione nil discrepant, nisi tantum quod quem illa iniustum ponit
id est privatoria, haec ponit esse non iustum. Et rursus negatio privatoria
quae est: Non est iniustus homo consentit atque concordat ei negationi
quae est infinita: Non est non iustus homo Hae quoque idem, quod sibi
istae consentiunt. Sequitur autem simplicem affirmationem eam quae dicit: Est
iustus homo privatoria negatio quae dicit: Non est iniustus homo
sequitur igitur eandem ipsam simplicem affirmationem infinita negatio, id est
eam quae dicit: Est iustus homo ea quae proponit: Non est non iustus
homo Nam si sibi privatoria negatio et infinita consentiunt, quam
consequitur privatoria negatio, eandem quoque infinita negatio consequitur. Sed
affirmationem simplicem quae proponit: Est iustus homo privatoria negatio
sequitur quae dicit: Non est iniustus homo quare sequitur etiam eandem
simplicem affirmationem quae enuntiat: Est iustus homo infinita negatio:
Non est non iustus homo Rursus e diversa parte idem evenit: quoniam
affirmationem privatoriam quae dicit: Est iniustus homo sequebatur
negativa simplex quae proponit: Non est iustus homo sequitur quoque
infinitam affirmationem quae dicit: Est ƿ non iustus homo simplex negatio
quae dicit: Non est iustus homo Nam si privatoria affirmatio et infinita
consentiunt, quae sequitur privatoriam, eadem sequitur infinitam. Sed
privatoriam affirmationem quae dicit: Est iniustus homo sequitur simplex
negatio quae proponit: Non est iustus homo sed privatoria affirmatio et
infinita affirmatio idem significant sibique consentiunt: sequitur igitur
simplex negatio quae est: Non est iustus homo infinitam affirmationem
quae dicit: Est non iustus homo Sed hoc e converso non evenit.Nunc enim
demonstratum est quod simplicem affirmationem sequeretur infinita negatio et
simplex negatio veritatem infinitae affirmationis sequeretur sed non est e
converso, ut rursus infinitam negationem sequatur finita affirmatio et
simplicem negationem infinita rursus affirmatio consequatur. Nam si idem
privatoria negatio quae est non est iniustus homo et infinita negatio
significat quae est: Non est non iustus homo quoniam affirmatio simplex
quae dicit: Est iustus homo non sequitur privatoriam negationem quae est:
Non est iniustus homo ut supra monstravimus, eadem ipsa simplex
affirmatio quae proponit est iustus homo non seqmiur infinitam negationem quae
enuntiat: Non est non iustus homo Rursus in parte altera si affirmatio
privatoria quae proponit: Est iniustus homo idem significat cum infinita
affirmatione quae dicit: Est ƿ non iustus homo privatoria autem
affirmatio quae proponit: Est iniustus homo non sequebatur simplicem
negationem quae dicit: Non est iustus homo nec eandem quoque simplicem
negationem quae proponit: Non est iustus homo sequitur infinita
affirmatio quae dicit: Est non iustus homo Sed quamquam hoc ratio
consequentiae et necessitas monstret, nos tamen id quod demonstravimus ratione
exemplis quoque doceamus. Dico enim affirmationem simplicem quae dicit: Est
iustus homo sequi infinitam negationem quae dicit: Non est non iustus
homo sicut eandem quoque simplicem affirmationem sequebatur privatoria
negatio quae proponit: Non est iniustus homo Nam si verum est dicere
quoniam est iustus homo, verum quoque de eo dicere quoniam non est non iustus
homo (nam qui iustus est non est non iustus) sicut verum erat dicere, quoniam
idem qui iustus est non est iniustus. Quare simplicem affirmationem sequitur
infinita negatio, sicut eandem quoque simplicem privatoria negatio sequebatur.
Sed hoc non convertitur. Neque enim statim verum est, qui non est non iustus
homo eundem esse iustum. Equus enim non est non iustus homo (neque enim omnino
homo est: qui autem omnino homo non est, non poterit esse homo non iustus) sed
de equo, de quo verum est dicere quoniam non est non iustus homo, non est de eo
verum dicere quoniam est iustus homo, sicut de eodem equo verum esset dicere
privatoriam negationem ƿ quae proponit: Non est iniustus homo (haec enim
poterat etiam de equo dici) nec erat verum quoniam sequeretur hanc id est privatoriam
negationem simplex affirmatio quae diceret: Est iustus homo Quare non
sequitur infinitam negationem quae est: Non est non iustus homo simplex
affirmatio quae proponit: Est iustus homo sicut ne illam quidem quae
consentit infinitae negationi id est privatoriam negationem quae proponit: Non
est iniustus homo ea quae dicit: Est iustus homo simplex affirmatio
sequebatur. Concludenti igitur dicendum est quoniam affirmationem quidem
simplicem sequitur infinita negatio, Sicut eam privatoria sequebatur, infinitam
vero negationem non sequitur simplex affirmatio, sicut nec negationem
privatoriam sequebatur. Rursus in parte altera idem e converso evenit.
Affirmationem enim infinitam sequitur negativa simplex, sicut privatoriam
quoque affirmationem eadem simplex negatio sequebatur. Nam qui est von iustus
homo ille ex necessitate non est iustus, sicut etiam qui est iniustus homo ille
ex necessitate non est iustus. At vero si verum est dicere quoniam non est
iustus homo, non est omnino necesse ilium esse non iustum hominem. Equus enim
non est iustus homo (nam qui omnino homo non est nec iustus homo esse potest)
sed nullus de eodem dicere potest quoniam equus est non iustus homo (qui enim
homo non est nec non iustus homo esse potest), sicut etiam cum diceremus: Non
est iustus homo non sequebatur privatoria affirmatio quae dicit: Est
iniustus homo Equus namque non est iustus homo sed de eodem equo nemo
dicit quoniam est iniustus homo. Iterum igitur concludenti dicendum est
affirmationem infinitam sequi simplicem negationem, sicut affirmationem quoque
privatotiam sequebatur sed non convertere. Neque enim sequitur simplicem
negationem infinita affirmatio, sicut eam nec privatoria affirmatio sequebatur.
Sic ergo cum sint quatuor propositiones, duae simplices, duae infinitae, quarum
duae simplices sunt: Est iustus homo Non est iustus homo duae vero
infinitae: Est non iustus homo Non est non iustus homo (et harum quatuor
duae quidem id est negatio infinita et negatio simplex sequuntur duas id est
negatio infinita simplicem affirmationem, ea quae dicit: Non est non iustus
homo eam quae dicit: Est iustus homo infinitam autem affirmationem
simplex negatio, eam quae dicit: Est non iustus homo ea quae proponit:
Non est iustus homo duae vero aliae id est affirmatio simplex et
affirmatio infinita non sequuntur negationem infinitam et simplicem negationem.
Hoc autem etiam in privatoriis evenit, ut affirmatio privatoria non sequatur
simplicem negationem, cum illam simplex negatio sequatur, et rursus negatio
privatoria sequatur affirmationem simplicem, cum simplex affirmatio non
sequatur privatoriam negationem): recte dictum est harum quatuor id est duarum
simplicium propositionum et duarum infinitarum duas duabus esse consequentes et
habere quandam consequentiam ad alias, sicut infinita negatio et simplex
negatio sequuntur simplicem affirmationem et infinitam affirmationem, sicut
privationes ƿ quoque. Nam et privatoria negatio sequebatur simplicem
affirmationem et simplex negatio sequebatur privatoriam affirmationem. Ergo duae
habent consequentiam id est infinita negatio et simplex negatio consequentiam
ad simplicem et infinitam affirmationem, sicut privationes quoque (namque et
privationes similiter sunt, ut saepe supra monstravi), duae vero minime habent
consequentiam. Neque enim negativam infinitam simplex sequitur affirmativa aut
infinita affirmativa simplicem negativam sequitur, sicut in privationibus
quoque fuit. In privationibus namque nec affirmatio simplex privatoriam
negationem sequebatur nec simplicem negationem privatoria affirmatio consecuta
est. Sensus ergo huiusmodi est: QUATUOR ISTAE ERUNT, id est quatuor
propositiones, ex quibus duplicem fieri oppositionem dixerat. Quatuor autem
istae sunt duae simplices: affirmativa est iustus homo, negativa non est iustus
homo, et duae infinitae: affirmativa est non iustus homo, negativa non est non
iustus homo. Quarum, inquit, duae, scilicet negative infinita et negativa
simplex, sic se habebunt ad affirmationem et negationem secundum consequentiam,
id est ita alias duas affirmationes simplicem et infinitam ipsae duae
negationes sequnutur, ut eas privationes sequebantur; DUAE VERO MINIME id est
simplex affirmatio et infimita affirmatio: non se habebunt secundum
consequentiam ipsae duae affirmationes ad duas negationes, infinitam scilicet
et simplicem, quas non sequebantur, sicut nec dudum has negationes privatoriae
quoque affirmationes secutae sunt. Quod vero ait secundum affirmationem et
negationem non ita ƿ intellegendum est, quasi una sit affirmatio aut una
negatio sed quoniam in quatuor propositionibus, in quibus duae quidem
affirmationes erunt, duae vero negationes (affirmationes: simplex quidem
"Est iustus homo", infinita autem "Est non iustus homo",
negationes autem: simplex quidem "Non est iustus homo", infinita
autem "Non est non iustus homo"), quoniam affirmationes duas,
simplicem quidem: Est iustus homo infinitam: Est non instus homo
duae negationes sequebantur (simplex negatio quae est "Non est iustus
homo" infinitam affirmationem quae dicit "Est non iustus homo",
et rursus infinita negatio simplicem affirmationem sequebatur), quoniam ergo
(ut dictum est) duas affirmationes simplicem et infinitam duae negationes
simplex et infinita sequebantur, hoc autem et in privationibus erat, idcirco
dictum est ad affirmationem et negationem secundum consequentiam sic se habere
harum quatuor propositionum duas, sicut etiam se privationes haberent. Ad
affirmationem autem et negationem dixit, quod duas affirmationes duae
negationes sequerentur, duae vero minime, id est duas negationes duae
affirmationes non sequerentur. Neque enim sequebatur negationem infinitam
simplex affirmatio aut simplicem negationem infinita affirmatio, sicut nec in
privationibus erat, quod saepe supra monstratum est. Ne quis autem nos
arbitretur de eodem genere propositionem dicere negationis affirmationisque.
Neque enim dicimus negationem simplicem sequi affirmationem simplicem. Hoc enim
impossibile est. Numquam ƿ enim sibi consentiunt simplex affirmatio simplexque
negatio, nec rursus infinita negatio et infinita affirmatio. Neque enim fieri
potest, ut aut negatio quae dicit: Non est iustus homo affirmationi quae
proponit: Est iustus homo consentiat aut affirmatio quae dicit: Est non
iustus homo negationi quae dicit: Non est non iustus homo eam enim
quae dicit: Est iustus homo simplicem affirmationem sequitur privatoria
negatio quae dicit: Non est iniustus homo sed negativam, inquiunt,
infinitam quae est: Non est non iustus homo haec non sequitur affirmativa
simplex quae dicit: Est iustus homo Ergo quemadmodum negativa privatoria
quae est: Non est iniustus homo sequitur affirmativam simplicem quae
dicit: Est iustus homo non eodem modo eadem simplex affirmatio quae
dicit: Est iustus homo sequitur infinitam negationem quae dicit: Non est
non iustus homo Quibus dicendum est non eos hanc consequentiam recte
intellegere nec quicquam in hac huiusmodi propositionum consequentia
discrepare. Cur enim hoc notaverint, quod non sequatur negationem infinitam
quae est non est non iustus homo finita affirmatio quae dicit: Est iustus
homo Nam hoc nil mirabile debet videri. Idcirco enim simplex affirmatio
quae dicit: Est iustus homo non sequitur infinii tam negationem quae
dicit: Non est non iustus homo quoniam nec antea privatoriam sequebatur.
Neque enim sequebatur eadem simplex affirmatio quae dicit: Est iustus
homo privatoriam negationem quae dicit: Non est iniustus homo et ea
causa est cur infinitam quoque ƿ non sequitur. Infinita enim et privatoria (ut
supra saepe iam dictum est) sibi consentiunt. Quare nulla est discrepantia. Nam
si simplex affirmatio privatoriam negationem sequeretur, eandem quoque
infinitam sequeretur. Nunc autem quoniam simplex affirmatio privatoriam
negativam non sequitur, nec infinitam quoque sequitur negativam. Illi autem qui
sumpserunt quoniam sequeretur privatoria negatio simplicem affirmationem et in
eadem consequentia discrepare dixerunt, quod simplex affirmatio non sequeretur
infinitam negationem, non ita oportuit discrepantiam sumere sed magis si,
quemadmodum privatoria negatio affirmationem simplicem, sic infinita negatio
non sequeretur simplicem affirmationem, tunc in consequentia discreparet, nunc
autem nulla est omnino discrepantia. Atque in hac quidem parte nihil omnino
discrepant atque discordant. Videamus nunc in altera parte, quam illi esse
discrepantiam dicunt infinitarum consequentiae et privatoriarum ad simplices,
ut in ea quoque si quid vere discrepant videamus. Dicunt enim affirmationi
quidem privatoriae quae dicit: Est iniustus homo consentientem esse et
concordantem simplicem negativam quae dicit: Non est iustus homo et sicut
negatio simplex sequitur privatoriam affirmationem, aiunt, quoniam non ita
sequitur simplicem negationem quae dicit: Non est iustus homo infinita
affirmatio quae dicit: Est non iustus homo Haec enim illam non sequitur.
Quibus dicendum est rursus, quoniam idcirco infinita affirmatio quae dicit: Est
non iustus homo non sequitur ƿ simplicem negationem quae proponit: Non
est iustus homo quoniam privatoria affirmatio quae dicit: Est iniustus
homo non sequitur simplicem negationem quae proponit: Non est iustus
homo Quod si privatoria affirmatio sequeretur simplicem negationem,
sequeretur sine dubio infinita quoque affirmatio eandem simplicem negationem. Nunc
autem quoniam privatoria affirmatio simplicem negationem non sequitur, nec
infinita affirmatio simplicem sequitur negationem. Affirmatio enim privatoria
et affirmatio infinita sibimet consentiunt. Illi vero qui discrepantiam
ostendere voluerunt infinitarum et privatoriarum consequentiae ad simplicem,
quod cum negatio simplex sequeretur affirmationem privatoriam non eodem modo
infinita affirmatio sequeretur simplicem negationem, non ita oportuit colligi
discrepantiam sed potius si, quemadmodum affirmativa privatoria quae dicit: Est
iniustus homo Est non est iustus homo ita infinita affirmatio quae
enuntiat: Est non iustus homo sequeretur simplicem negationem quae est:
Non est iustus homo tunc oportuerat dicere aliquid discrepare
consequentiam privatoriarum et infinitarum ad simplices. Nunc autem cum eodem
modo privatoria affirmatio non sequatur, simplicem negationem, eodem quoque
modo infinita affirmatio non sequatur simplicem negationem, manifestum est
nullam esse in his discrepantiam, immo in omnibus simillimum, et illos nihil
per hanc rationem ƿ quam volunt addere recte disserere, immo potius maioribus
obscuram sententiam obscuritatibus implicare. Sed potius ita intellegendum est,
ut id quod ait: QUARUM DUAE QUIDEM AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM SESE HABEBUNT
SECUNDUM CONSEQUENTIANU UT PRIVATIONES, DUAE VERO MINIME ita accipiamus tamquam
si ita dixisset: quatuor propositionum, duarum simplicmm, duarum vero
infinitarum, duas id est affirmationes simplicem et infinitam sequuntur duae
negationes, simplex et infinita scilicet, sicut privationes quoque (in
privationibus enim affirmativam simplicem sequebatur negatio privatoria et
simplex negatio privatoriam affirmationem), reliquae vero duae, id est simplex
affirmatio et infinita affirmatio nullam habent consequentiam ad negationes, id
est simplicem et infinitam, sicut nec privationes quoque (nam affirmatio
privatoria non sequebatur negationem simplicem nec simplex affirmatio
privatoriam negationem), ut dicamus hoc modo: QUARE QUATUOR ISTAE ERUNT, duae
simplices, duae infinitae, QUARUM id est duarum simplicium et duarum
infinitarum DUAE QUIDEM id est negationes simplex et infinita habent se ad
affirmationes simplicem et infinitam SECUNDUM CONSEQUENTIAM UT PRIVATIONES,
DUAE VERO MINIME id est affirmationes simplex et infinita ad duas negationes, id
est simplicem et infinitam. Hoc est enim quod ait: AD AFFIRMATIONEM ET
NEGATIONEM SIC SE HABEBUNT SECUNDUM CONSEQUENTIAM id est consequentur
negationes eas quae sunt affirmationes, UT PRIVATIONES ƿ sicut in privationibus
quoque dicebatur, DUAE VERO id est affirmationes simplex et infinita non
habebunt se secundum consequentiam ad duas negationes, id est simplicem et
infinitam, sicut privationes quoque se secundum sequentiam non habebant. Nam
privatoria affirmatio non sequebatur negationem simplicem nec simplex affirmatio
privatoriam negationem. Est alia quoque simplicior expositio, quam Alexander
post multas alias expositiones in quibus animum vertit edidit hoc modo: cum
sint, inquit, quatuor propositiones, quarum duae sunt infinitae, duae vero
simplices, duae, inquit, infinitae aequaliter se habent secundum affirmationem
et negationem ad privatorias, duae vero simplices ad easdem privatorias se
similiter non habent hoc modo: affirmativa enim infinita consentit affirmativae
privatoriae. Ea enim quae dicit infinita affirmatio est non iustus homo ei
consentit privatoriae affirmationi quae dicit: Est iniustus homo Ea vero
infinita negatio quae dicit non est non iustus homo privatoriae negationi
consentit quae dicit non est iniustus homo. Atque hae quidem duae, id est infinita
affirmatio et infinita negatio, ita sese habent AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM,
UT PRIVATIONES, id est eadem affirmant vel negant, quae etiam privationes
affirmant vel negant, duae vero minime, id est duae simplices minime se ita
habent ad affirmationem ƿ et negationem, sicut privationes. Nam omnino non
contingit simplex affirmatio privatoriam affirmationem. Ea enim quae dicit: Est
iustus homo non consentit ei quae dicit: Est iniustus homo Nec
rursus negatio simplex privatoriae negationi consentit. Ea enim quae dicit: Non
est iustus homo quae simplex negatio est plurimum dissidet ab ea quae
dicit: Non est iniustus homo quae est privatoria negatio. Ergo cum sint
quatuor, affirmatio simplex et negatio simplex, affirmatio infinita et negatio
infinita, harum duae, id est affirmatio infinita et negatio infinita, ita
aliquid affirmant vel negant ut privationes (hoc est enim quod ait: ITA SESE
HABENT AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM, UT PRIVATIONES), DUAE VERO MINIME. Neque
enim ita affirmant et negant duae simplices, sicut duae privatoriae. Affirmatio
namque simplex ab affirmatione privatoria discrepat, et rursus negatio simplex
a negatione privatoria longe dissidet atque discordat. Sed haec (ut diximus)
Alexandri expositio est post multas alias simplicior, non tamen repudianda sed
illa superior verior esse videtur, quod Aristoteles ipse testatur. Ait enim
paulo post: HAEC IGITUR, QUEMADMODUM IN RESOLUTORIIS DICTUM EST, SIC SUNT
DISPOSITA. Hanc enim consequentiam quam insuperiori expositione memoravi privatoriarum
et infinitarum ad simplices in primi libri Priorum Resolutoriorum quae
*analytika* Graeci vocant fine disposuit. Dicit autem Porphyrius fuisse quosdam
sui temporis, qui hunc exponerent librum, et quoniam ab Hermino vel Aspasio vel
Alexandro expositiones singulas proferentes multa contraria et expositionibus
male ab illis editis dissidentia ƿ reperirent, arbitratos fuisse librum hunc
Aristotelis, ut dignum esset, exponi non posse multosque illius temporis viros
totam huius libri praeterisse doctrinam, quod inexplicabilem putarent esse
caliginem. Nos autem brevissime hunc locum in prima editione praeteriimus sed
quod illic pro intellectus simplicitate breviter posuimus, hic omni latitudine
totam sententiae vim et prolixitatem digessimus. Quare quoniam superiora digne
(ut mihi videtur) expressimus, sequentis textus ordinem sententiamque videamus.
SIMILITER AUTEM SE HABET ET SI UNIVERSALIS NOMINIS SIT AFFIRMATIO, UT OMNIS EST
HOMO IUSTUS, NON OMNIS EST HOMO IUSTUS; OMNIS EST HOMO NON IUSTUS, NON OMNIS
EST HOMO NON IUSTUS. SED NON SIMILITER ANGULARES CONTINGIT VERAS ESSE.
CONTINGIT AUTEM ALIQUANDO. De indefinitis quaedam propositionibus praelocutus
nunc de his quae terminatae sunt secundum universalitatis et particularitatis
adiectionem dicit, quod etiam ipsae similiter se habeant, sicut illae quoque
quae sine ulla determinatione dicebantur, simplex scilicet oppositio atque
infinita. Quod vero ait: SIMILITER AUTEM SE HABET ET SI UNIVERSALIS NOMINIS SIT
AFFIRMATIO, alii ita intellexerunt, ut quod ait similiter referant ad numerum
oppositionum et propositionum. Nam sicut in his quae indefinitae sunt et ƿ
indeterminatae duae sunt oppositiones, una simplicis negationis et simplicis
affirmationis, altera infinitae affirmationis et infinitae negationis, quatuor
autem propositiones, quod supra iam dictum est, ita quoque in his quae
terminationem secundum universalitatem particularitatemque habent quatuor fiunt
propositiones et oppositio duplex. Oppositio enim una est universalis
affirmationis simplicis et particularis negationis simplicis, ut est: Omnis
homo iustus est Non omnis homo iustus est Et haec quidem una est
oppositio. Alia vero infinitae universalis affirmationis et infinitae
particularis negationis, ut: Omnis homo non iustus est Non omnis homo non iustus
est Quare hic quoque, cum duae sint oppositiones, erunt sine dubio
quatuor propositiones, sicut in his de quibus supra dixerat, quae scilicet
determinatione carebant. Alii vero qui Aristotelis animum penitus inspexerunt
non aiunt similiter solum se habere determinatas propositiones ad numerum
oppositionum et propositionum sed etiam ad consequentiam. Nam quae est
consequentia negationum ad affirmationes in his propositionibus simplicibus et
infinitis, quae praeter determinationem dicuntur, eadem se similitudo habet in
his quae terminatione proferuntur. Sed quoniam non in omnibus omnia similia
habent, idcirco addidit notans: SED NON SIMILITER ANGULARES CONTINGIT VERAS
ESSE. CONTINGIT AUTEM ALIQUANDO. Sensus autem totus huiusmodi est: similiter,
inquit, se habent hae propositiones quae ƿ secundum determinationem dicuntur
infinitae ad simplices et simplices ad infinitas, quemadmodum illae quoque sese
habebant quae sine determinatione indefinitae dicebantur. Sed habent quandam
dissimilitudinem, quod angulares propositiones in his quae cum determinatione
dicuntur non eodem modo verae sunt, quomodo illae quae sine determinatione
proferebantur vel infinitae vel simplices. Videamus ergo prius an eadem in his
quae determinatae sunt sit consequentia quae in his est quae indefinitae
proferuntur, post videamus quae sit in angularibus dissimilitudo. Disponantur
ergo non solum eae quae simplices vel infinitae sunt sed etiam quae sunt
privatoriae. Et prius quidem disponantur hoc modo: simplex affirmatio et
simplex negatio et hae quidem indefinitae, id est praeter universalitatis aut
particularitatis adiectionem. Sub his sub affirmatione quidem simplici ponatur
negatio privatoria, sub negatione vero simplici affirmatio privatoria: hae
quoque rursus indefinitae. Sub his autem ponantur sub affirmatione privatoria
et sub simplici negatione affirmatio infinita, sub privatoria autem negatione
et sub simplici affirmatione ponatur negative infinita, et hae quoque
indefinitae et indeterminatae sine ulla vel universalitate vel particularitate.
Sub his autem disponantur hae quas determinatas vel universalitatis quantitate
vel particularitatis vocamus. Et primo quidem affirmatio universalis simplex,
contra hanc negatio particularis simplex. Sub affirmatione autem universali
simplici ponatur negatio particularis privatoria, sub negatione autem
particulari simplici universalis affirmatio privatoria. Rursus sub negatione
particulari privatoria et sub affirmatione universali simplici ponatur ƿ
negatio particularis infinita, sub affirmatione vero universali privatoria et
sub negatione simplici particulari ponatur universalis affirmatio infinita.
Erit autem huiusmodi descriptio: INDEFINITAE Affirmatio simplex: Negatio
simplex: Homo iustus est Homo iustus non est Negatio privatoria: Affirmatio
privatoria: Homo iniustus non est Homo iniustus est Negatio infinita:
Affirmatio infinita: Homo non iustus non est Homo non iustus est DEFINITAE
Affirmatio universalis simplex: Negatio particularis simplex: Omnis homo iustus
est Non omnis homo iustus est Negatio particularis privatoria: Affirmatio
universalis privatoria: Non omnis homo iniustus est Omnis homo iniustus est
Negatio particularis infinita: Affirmatio universalis infinita: Non omnis homo
non iustus est Omnis homo non iustus est In hoc ordine propositionum quem
supra descripsimus quae sint angulares manifestum est. Sunt namque
affirmationes quidem affirmationibus, negationes vero negationibus. Et in his
quidem quae in definitae sunt eodem modo angulares sunt affirmationes. Simplex
quidem affirmatio quae dicit: Est homo iustus privatoriae affirmationi
quae dicit: Est homo iniustus et infinitae affirmationi quae proponit:
Est homo non iustus angularis est. Negatio vero simplex quae est: Non est
homo iustus negationi privatoriae quae dicit: Non est homo iniustus
et negationi infinitae quae est: Non est homo non iustus angularis est. Item
si quis ad definitas propositiones aspiciat, idem sine aliqua dubitatione
reperiet. Affirmatio enim universalis simplex quae est: Omnis est homo
iustus affirmationi universali privatoriae quae enuntiat: Omnis est homo
iniustus et affirmationi universali infinitae quae proponit: Omnis est
homo non iustus angularis est, item negatio particularis simplex quae
est: Non omnis est homo iustus negationi particulari privatoriae quae
dicit: Non omnis est homo iniustus et negationi particulari infinitae
quae proponit: Non omnis est homo non iustus angularis. Sunt igitur
affirmationes affirmationibus et negationes negationibus angulares et in ordine
indefinitarum propositionum et in ordine definitarum. Quocirca de earum
sequentia speculandum est. Dictum est enim prius quod affirmationem indefinitam
simplicem sequeretur privatoria et infinita negatio, eas vero simplex
affirmatio non sequeretur. Rursus infinitam affirmationem privatoriamque
affirmationem sequitur simplex negatio, hae vero negationem simplicem non
sequuntur. Rursus si quis ad ordinem definitarum respiciat, idem inveniet.
Affirmationem namque universalem simplicem sequitur particularis privatoria
negatio et particularis infinita negatio. Nam si vera est universalis
affirmatio simplex quae dicit: Omnis est homo iustus, vera est etiam
particularis privatoria negatio quae dicit: Non omnis est homo iniustus
Hoc autem idcirco evenit, quod ea quae dicit: Non omnis homo iniustus est
idem potest quod simplex et similis est ei quae proponit: Quidam homo iustus
est particulari simplici affirmationi. Nam si non omnis homo iniustus
est, quidam homo iustus est. Sed particularis affirmatio simplex sequitur
universalem affirmationem simplicem. Quando enim vera est universalis
affirmatio quae dicit: Omnis est homo iustus vera est et particularis
affirmatio quae proponit: Quidam homo iustus est Sed est quae dicit:
Quidam homo iustus est consentit particularis negatio privatoria quae
proponit: Non omnis est homo iniustus Quocirca etiam particularis negatio
privatoria universali simplici affirmationi consentiet. Sequitur igitur eam
quae dicit: Omnis est homo iustus universalem scilicet simplicem
affirmationem ea quae proponit: Non omnis est homo iniustus particularis
negatio privatoria. Sed huic particulari negationi privatoriae quae dicit: Non
omnis est homo iniustus consentit infinita particularis negatio quae
dicit: Non omnis est homo non iustus Nam si verum est quoniam non omnis
est homo iniustus, et verum est quoniam non omnis est homo non iustus. Idem est
enim esse iniustum quod non iustum. Sed privatoria particularis negatio
sequitur simplicem universalem affirmationem: infinita igitur negatio
particularis sequitur simplicem universalem affirmationem eique consentit, si
prius affirmatio universalis vera sit. Quocirca eam quae dicit: Omnis est homo
iustus universalem simplicem ƿ affirmationem sequuntur sine dubio
particularis negatio privatoria: Non omnis est homo iniustus et
particularis negatio infinita: Non omnis est homo non iustus Quare hic
quoque affirmationem negationes sequuntur. Sed hoc non convertitur. Quoniam
enim (ut dictum est) negatio particularis privatoria quae dicit: Non omnis est
homo iniustus consentit particulari affirmationi simplici, ei scilicet
quae dicit: Quidam homo iustus est hanc autem particularem affirmationem
non sequitur universalis affirmatio (neque enim, si verum est quendam esse
hominem iustum, idcirco iam et omnem esse hominem iustum necesse est): quare
non sequitur affirmatio universalis simplex: Omnis est homo iustus
affirmationem particularem simplicem: Quidam est homo iustus (potest enim
hac vera id est particulari universalis esse falsa) sed particularis affirmatio
simplex particulari negationi privatoriae consentit: quare nec privatoriam
particularem negationem simplex affirmatio sequitur universalis. Eam igitur
quae dicit: Non omnis est homo iniustus non sequitur affirmatio
universalis simplex quae proponit: Omnis homo iustus est Sed particularis
privatoria negatio consentit particulari negationi infinitae: universalis
igitur affirmatio simplex non sequitur particularem negationem infinitam. Ea
igitur quae dicit: Omnis est homo iustus affirmatio universalis simplex non
sequitur eam quae dicit: Non omnis est homo non iustus particularem infinitam negationem. Duae
igitur negationes infinita et privatoria particulares sequuntur universalem
affirmationem simplicem, sicut in his quoque erat quae sunt ƿ indefinitae. Duae
enim negationes infinita et privatoria indefinitae simplicem affirmationem
sequebantur indefinitam. Sed non e converso. Affirmatio enim universalis
simplex non sequitur negationes particularem infinitam et privatoriam, sicut
nec indefinita qunque affirmatio simplex indefinitas sequebatur negationes
privatoriam atque infinitam. Quare in hoc uno ordine similiter sese habent
definitae his quae sunt indefinitae. Aequaliter enim affirmationibus veris
verae sunt negationes, veras negationes affirmationum veritas non sequitur nec
his consentit. Rursus in altera parte perspiciamus, quemadmodum affirmationes
universales privatoriam scilicet et infinitam particularis negatio simplex
sequatur. Namque affirmationem universalem privatoriam: Omnis est homo
iniustus sequitur particularis negatio simplex: Non omnis est homo
iustus Ea enim quae dicit: Omnis est homo iniustus consentit
simplici universali negationi quae dicit: Nullus homo iustus est Nam si
omnis est homo iniustus, nullus est homo iustus. Sed hanc, id est universalem
simplicem negationem, sequitur particularis simplex negatio. Nam si vera est
quoniam nullus homo iustus est, vera est quoniam non omnis homo iustus est. Sed
universalis negatio simplex universali affirmationi privatoriae consentit:
sequitur ergo particularis simplex negatio quae est: Non omnis est homo
iustus universalem affirmationem privatoriam quae proponit: Omnis est
homo iniustus Sed haec universali affirmationi infinitae consentit. Idem
enim significant: Omnis est homo iniustus ƿet: Omnis est homo non
iustus Quare sequitur quoque particularis negatio simplex quae est: Non
omnis est homo iustus universalem affirmationem infinitam quae dicit:
Omnis est homo non iustus Hic quoque affirmationes universales
privatoriam atque infinitam sequitur simplex negatio particularis sed non
convertitur. Etenim quoniam simplicem particularem negationem quae dicit: Non
omnis est homo iustus non sequitur universalis negatio quae proponit:
Nullus homo iustus est (neque enim si vera est non omnem hominem esse iustum,
vera est nullum hominem esse iustum), haec autem, id est universalis simplex
negatio, consentit unumque significat cum affirmatione universali privatoria:
non sequitur igitur universalis privatoria affirmativa quae dicit: Omnis est
homo iniustus simplicem particularem negationem quae proponit: Non omnis
est homo iustus sicut nec eandem particularem negationem universalis
negatio sequebatur. Sed privatoria universalis affirmatio consentit cum
infinita affirmatione universali: igitur particularem negationem quae dicit:
Non omnis est homo iustus universalis affirmatio infinita non sequitur
quae proponit: Omnis est homo non iustus Quare hic quoque affirmationes
duas universales, id est privatoriam atque infinitam, particularis simplex negatio
sequitur, sicut affirmationes quoque duas indefinitas privatoriam atque
infinitam negativa indefinita sequebatur. Sed duae affirmationes universales
privatoria et infinita non sequuntur particularem simplicem negationem, sicut
quae quoque indefinitae ƿ affirmationes privatoria et infinita indefinitam
simplicem negationem non sequebantur. Similiter se igitur habent definitae
indefinitis secundum consequentiam. Angulares autem non eodem modo sese habent.
Nam indefinitarum propositionum angulares simul veras esse contingit. Nam si
verum est quoniam est homo iustus, quae est indefinita affirmatio simplex,
nihil prohibet veram esse etiam quae dicit: Est homo iniustus et rursus
eam quae dicit: Est homo non iustus quae sunt indefinitae affirmationes
privatoria et infinita. Rursus negationes negationibus quae sunt angulares
veras esse contingit, ut ea quae est: Non est homo iustus si vera est,
nihil prohibet veram esse etiam quae dicit: Non est homo iniustus et eam
quae proponit: Non est homo non iustus Angulares ergo sibi in indefinitis
in veritate consentire nihil prohibet sed in his tantum terminis, ut in secundo
huius operis volumine docuimus, quae neque naturalia sunt inesse neque
impossibilia. Si quis enim dicat: Est homo rationabilis huic angulares
verae esse non possunt, hae scilicet quae dicunt: Est homo irrationabilis
et rursus: Est homo non rationabilis Rationabilitas enim homini per
naturam inest. Similiter autem et de impossibilibus dicendum est. Quod si sint
talia quae neque impossibilia sint inesse nec naturalia sint inesse (ut in ea
propositione quae dicit: Est homo iustus iustitiam neque naturalem esse
necesse ƿ est homini nec impossibile esse), manifestum est quoniam angulares
sibimet semper in veritate consentiunt. Atque hoc idem de negativis quoque
angularibus recte dicitur. In his igitur terminis qui nec naturales sunt nec
impossibiles semper angulares et negationes negationibus et affirmationes
affirmationibus simul veras esse contingit. Et hoc quidem in his quae
indefinitae sunt. In his autem quae definitae sunt et universalitatis
particularitatisque participes non eodem modo sunt. In quibusuis enim terminis
sive possibilibus sive naturalibus sive impossibilibus affirmationes
affirmationibus sibimet angularibus in veritate consentire non possunt, negationes
autem negationibus angulares angularibus in his tantum terminis qui neque
naturales neque impossibiles sunt in veritate poterunt convenire. Et primum
quemadmodum affirmationes affirmationibus sibimet angularibus in veritate
consentire non possunt in quibuslibet terminis demonstrandum est. Ea enim quae
dicit: Omnis est homo iustus et ea quae dicit: Omnis est homo
iniustus quae est scilicet angularis, verae simul esse non possunt. Ea
namque quae dicit: Omnis est homo iniustus nil differt ab ea quae
proponit: Nullus homo iustus est Sed "Omnis est homo iustus" et
"Nullus homo iustus est", quoniam contrariae sunt, simul verae esse
non possunt. Sed ea quae dicit: Nullus est homo iustus convenit atque
consentit ei quae proponit: Omnis est homo iniustus quare: Omnis est homo
iustus et: Omnis est homo iniustus simul verae esse non possunt.
Sed eadem quae proponit: Omnis est homo iniustus consentit (ut saepe
dictum est) ei quae dicit: Omnis est ƿ homo non iustus Quare in his nec
haec in veritate consentire potest ei quae dicit quoniam omnis est homo iustus.
Affirmatio igitur universalis simplex: Omnis est homo iustus
affirmationibus universalibus privatoriae et infinitae quae sunt: Omnis est
homo iniustus et: Omnis est homo non iustus sibimet angularibus in
veritate simul nulla ratione consentit, sicut ipsis quae indefinitae erant et
affirmationes affirmationibus et negationes negationibus in veritate poterant
consentire. In his autem quae sunt definitae affirmationes angulares simul
verae esse non possunt. Recte igitur dictum est quoniam in aliis omnibus
similis est consequentia definitarum et indefinitarum. Affirmationibus enim
consentiunt in veritate negationes, negationibus autem affirmationes non omnino
consentiont, quae similitudo consequentiae in utrisque est id est et in his
quae definitae sunt et in his quae indefinitae. Sed est distantia, quod NON
SIMILITER ANGULARES CONTINGIT VERAS ESSE. Et affirmationes affirmationibus et
negationes negationibus in indefinitis veras esse contingit eas scilicet quae
sunt angulares. In his autem quae sunt definitae affirmationes affirmationibus
angulares veras esse aliquando nulla ratione contingit. Hoc autem manifestum
erit, si quis et ea sibi proponat exempla in quibus sunt termini naturales
atque impossibiles et ea in quibus sunt possibiles et non naturales neque
impossibiles. In omnibus enim inveniet affirmationes affirmationibus definitas
ƿ definitis angulares simul veras esse non posse. Quod autem addidit CONTINGIT
AUTEM ALIQUANDO huiusmodi est: quamquam enim affirmationes affirmationibus
angulares definitae simul verae esse non possint in quibuscumque propositis
terminis, potest tamen fieri ut negationes negationibus verae inveniantur et
sit haec similitudo ad indefinitas angulares. Nam sicut illic negationes
negationibus indefinitae angulares verae esse simul poterant in his quae neque
naturalia neque impossibilia essent, ita hic quoque id est in ordine
definitarum negationes definitas negationibus definitis angulares angularibus
simul veras esse contingit in his quae neque impossibiles sunt nec naturales.
Negatio enim simplex particularis quae dicit: Non omnis est homo iustus
potest simul vera esse cum ea quae dicit: Non omnis est homo iniustus
Potest enim fieri ut quidam sint iusti, quidam autem non sint iusti et in eo
utraeque verae sunt, et ea quae dicit: Non omnis est homo iustus quia
sunt quidam iniusti, et ea quae dicit: Non omnis est homo iniustus quia
poterunt esse aliqui iusti. Sed haec consentit infinitae negationi particulari quae
dicit: Non omnis est homo non iustus Idem est enim dicere "Non omnis
est homo iniustus" quod "Non omnis est homo non iustus".
Quocirca et hae sibimet angulares simul verae esse possunt. Nam si quidam sunt
iusti, quidam iniusti, verum est dicere quoniam non omnis est homo iustus, quia
sunt quidam iniusti, rursus verum est dicere non omnis est homo non iustus,
quia sunt quidam iusti. Negationes igitur ƿ negationibus angulares definitae
simul verae esse possunt et hoc est simile indefinitis, in quibus sicut affirmationes
affirmationibus, ita quoque in veritate angulares negationes negationibus
consentiunt. Sensus ergo totus huiusmodi est: SIMILITER AUTEM, inquit, SE
HABET, id est similis erit consequentia propositionum, quemadmodum fuit in
indefinitis, ETIAM SI UNIVERSALIS NOMINIS SIT AFFIRMATIO, id est etiam si
definitae affirmationes negationesque ponantur, ut per subiecta exempla
monstravit dicens affirmationi simplici universali OMNIS EST HOMO IUSTUS opponi
NON OMNIS EST HOMO IUSTUS particularem scilicet simplicem negationem. Et rursus
universalem affirmationem infinitam proponens eam scilicet quae est OMNIS EST
HOMO NON IUSTUS huic illam opposuit quae dicit NON OMNIS EST HOMO NON IUSTUS.
Hae, inquit, similiter se habent ad consequentiam quemadmodum ind efinitae. Quomo
do autem se illae haberent ad c onsequentiam supra monstratum est. SED NON,
inquit, SIMILITER ANGULARES CONTINGIT VERAS ESSE. In his enim quae erant
indefinitae affirmationes affirmationibus angulares simul verae esse poterant.
In his autem quae definitae sunt simul verae esse non possunt. CONTINGIT AUTEM
ALIQUANDO, ut similiter angulares verae sint in his quae definitae sunt,
quemadmodum et in indefinitis. Negationes enim negationibus angulares definitae
simul in veritate consentiunt, ut in his quoque inveniebatur quas indefinitas
supra descripsimus. Plenus est igitur huiusmodi intellectus. Herminus autem hoc
aliter sic exponit: similiter, inquit, ƿ duas facient oppositiones quatuor
propositiones, si fuerint duae simplices, duae infinitae, determinatione tamen
adiecta. Hoc autem sic monstrat: proponit prius simplicem affirmationem
universalem quae dicit: Omnis est iustus homo contra hanc particularem
simplicem negationem: Non omnis est iustus homo sub affirmatione
universali simplici affirmationem universalem infinitam quae dicit: Omnis est
non iustus homo contra hanc sub negatione particulari simplici
particularem negationem infinitam quae proponit: "Non omnis est non iustus
homo". Omnis est iustus homo Omnis est non iustus homo Non omnis est
iustus homo Non omnis est non iustus homo. His ergo ita dispositis duae,
inquit, fiunt oppositiones. Contra enim eam quae est omnis est iustus homo
opponitur illa quae proponit: Non omnis est iustus homo Hoc autem idcirco
quoniam sibi contradictorie oppositae sunt universalis affirmatio simplex et
particularis negatio simplex. Et est haec quidem una propositio. Rursus contra
eandem affirmationem simplicem quae dicit: Omnis est iustus homo
opponitur universalis affirmatio infinita quae dicit: Omnis est non iustus
homo et hoc contrario modo. Ea namque quae dicit: Omnis est non iustus
homo idem significat eique consentit quae dicit: Nullus homo iustus
est Sed haec quae proponit nullus homo iustus est contrario modo opposita
est ei quae dicit: Omnis est iustus homo Quocirca etiam ea quae proponit:
Omnis est non iustus ƿ homo contrarie erit opposita ei quae dicit: Omnis
est iustus homo Est igitur haec quoque altera oppositio. Duae ergo sunt
oppositiones, quemadmodum etiam in his quae sunt indefinitae: licet alio modo
essent oppositae, tamen duae erant oppositiones. Secundum diametrum autem non
similiter veras contingit esse, ut ipse ait. Illae enim quoniam indefinitae
erant, et secundum diametrum quae erant simul veras esse contingebat et omnes
omnibus. Quod si quis ad indefinitarum descriptiones redeat diligenter
agnoscit. Hic autem, inquit, hoc est in his quae definitae sunt, non idem est.
Hoc sic monstrat: ea enim propositio quae dicit: Omnis est iustus homo
non consentit contradictioni suae quae dicit: Non omnis est iustus homo
Rursus ea quae dicit: Omnis est non iustus homo non consentit rursus ei
quae dicit: Non omnis est non iustus homo Haec enim contrariae ipsius
consentiebat. Quare cum vera est universalis affirmatio simplex quae dicit:
Omnis est iustus homo sine dubio falsa est ea quae dicit: Omnis est non
iustus homo Sed hac falsa contradictio eius vera erit: vera igitur est ea
quae negat dicens: Non omnis est non iustus homo Quocirca hae duae
propositiones angulares verae aliquotiens inveniuntur: Omnis est iustus homo
Non omnis est non iustus homo Contingit ergo aliquando veras esse sed
non, inquit, omnino. Nam si a particulari negatione infinita coeperis, non idem
est id est non eadem veritas venit. Hoc autem tali probatur modo: si enim vera
est quoniam non omnis est non iustus ƿ homo, falsa est ea quae dicit: Omnis est
non iustus homo Est enim ei contradictorie opposita. Hac autem falsa quae
dicit: Omnis est non iustus homo non omnino veram necesse est esse eam
quae proponit: Omnis est iustus homo idcirco quoniam hae duae sibi
contrariorum loco oppositae sunt. Contrarias autem propositiones simul falsas
esse posse supra docuimus. Ergo non necesse est, si falsa est omnis est non
iustus homo, veram esse eam quae dicit: Omnis est iustus homo Quod si non
necesse est, hoc potest fieri ut utraeque sint falsse. Quare evenit aliquando,
ut vera hac propositione quae dicit: Non omnis est non iustus homo falsa
sit illa quae proponit: Omnis est iustus homo Quare non similiter
secundum diametrum in veritate propositiones sibi consentiunt. Atque hoc quidem
Herminus non recte expositione dicens ordinem turbat. Si quis autem vel hoc
quod Herminus ait diligenter agnoscit vel id quod supra nos diximus, cognoscit
multam esse differentiam expositionis et meliorem superiorem iudicans ei, si
quid nobis credit, recte consentiet. HAE IGITUR DUAE OPPOSITAE SUNT, ALIAE
AUTEM AD NON HOMO UT SUBIECTUM ALIQUID ADDITO, UT EST IUSTUS NON HOMO, NON EST
IUSTUS NON HOMO; EST NON IUSTUS NON HOMO, NON EST NON IUSTUS NON HOMO. MAGIS
PLURES AUTEM HIS NON ERUNT OPPOSITIONES. HAE AUTEM EXTRA ILLAS IPSAE SECUNDUM
SE ERUNT UT NOMINE UTENTES NON HOMO. Supra iam dixerat omne subiectum aut ex
nomine simplici et finito aut ex nomine rursus infinito consistere et eorum
oppositiones ostendit quod essent duae et quatuor propositiones, duae quidem
simplex subiectum nomen habentes, duae vero infinitum. Post has quando est
tertium adiacens praedicaretur, illic quoque dupliciter oppositiones fieri
dixit, cum scilicet finitum nomen esset subiectum, vel infinitum praedicatum,
earumque inter se eam consequentiam demonstravit, qualem haberent privatoriae
ad easdem ipsas simplices, quibus ex infinito nomine propositiones
compararentur. Et quoniam omnis harum varietas propositionum ita fit, cum est
tertium praedicatur, ut aut et subiectum et praedicatum finita sint aut
subiectum quidem finitum, praedicatum vero infinitum (de quibus supra locutus
est, cum earum consequentiam demonstravit) aut infinitum habent subiectum,
finitum vero praedicatum aut infinitum et subiectum et praedicatum. Et habent
quidem propositiones utrumque finitum, ut est: Homo iustus est Homo iustus non
est finitum vero subiectum, infinitum praedicatum, ut est: Homo non
iustus est Homo non iustus non est Et harum quidem consequentia supra
monstrata est. Aliae vero sunt, quae infinitum habent subiectum et quasi nomine
utuntur nomine infinito, ut: Non homo iustus est Non homo iustus non est
Utuntur enim hae propositiones subiecto, id est ƿ 'non homo' ut nomine,
praedicato vero eo quod est iustus. Hoc est enim quod ait: ALIAE AUTEM AD NON
HOMO UT SUBIECTUM ALIQUID ADDITO. Si quis enim ponat non homo quidem subiectum
et de hoc aut finitum nomen praedicet, ut est 'iustus', aut infinitum, ut est
'non iustus', utroque modo duplicem rursus faciet oppositionem. Quatuor sunt
autem propositiones hae: Est non homo iustus Non est non homo iustus Est non
homo non iustus Non est non homo non iustusIn his igitur quatuor
propositionibus, oppositionibus vero duplicibus non homo quidem subiectus est
sed in superiore oppositione finitum quidem praedicatur nomen quod est iustus,
. Sed illae, inquit, quae praedicatum quidem infinitum habent, subiectum vero
finitum vel quibus et praedicatum finitum est et subiectum, habent aliquam ad
se consequentiam, hae vero quas postea memoravimus, id est quae infinitum
haberent subiectum, praedicatum autem vel infinitum vel finitum, nullam habent
consequentiam ad eas propositiones, quae sive finito praedicato sive infinito,
ex finito tamen subiecto consisterent. Hoc est enim quod ait: HAE AUTEM EXTRA
ILLAS IPSAE SECUNDUM SE ERUNT, id est nullam consequentiam ad superiores quae
ex finito subiecto constarent habere eas quae infinitum subiectum in propositionis
ordine retinerent. Postquam igitur enumeravit et quae ex utrisque finitis
consisterent, id est et subiecto et praedicato, et has ƿ quae ex subiecto
quidem finito, praedicato vero infinito essent, has etiam quae ex subiecto
infinito essent et ex finito praedicato necnon illas addidit quae ex utrisque
infinitis constare viderentur: postquam igitur has enumeravit, ait: MAGIS
PLURES AUTEM HIS NON ERUNT OPPOSITIONES. Omnis enim oppositio (quod supra iam
dictum est) aut ex utrisque finitis est, ut: Est homo iustus Non est homo
iustus aut ex finito subiecto, infinito praedicato, ut: Est homo non
iustus Non est homo non iustus aut ex infinito quidem subiecto, finito
vero praedicato, ut: Est non homo iustus Non est non homo iustus aut ex
infinitis utrisque, ut: Est non homo non iustus Non est non homo non
iustus ut autem quinta oppositio reperiri possit, nulla rerum ratione
possibile est. De his ergo haec dicta sint, in quibus est tertium adiacens
praedicatur. IN HIS VERO IN QUIBUS EST NON CONVENIT, UT IN EO QUOD EST CURRERE
VEL AMBULARE, IDEM FACIUNT SIC POSITA AC SI EST ADDERETUR, UT EST CURRIT OMNIS
HOMO, NON CURRIT OMNIS HOMO; CURRIT OMNIS NON HOMO, NON CURRIT OMNIS NON HOMO.
NON ENIM DICENDUM EST NON OMNIS HOMO SED NON NEGATIONEM AD HOMO ADDENDUM EST.
OMNIS ENIM NON UNIVERSALE SIGNIFICAT SED QUONIAM UNIVERSALITER. MANIFESTUM EST
AUTEM EX EO QUOD EST CURRIT HOMO, NON CURRIT HOMO; CURRIT NON ƿ HOMO, NON
CURRIT NON HOMO. HAEC ENIM AB ILLIS DIFFERUNT EO QUOD NON UNIVERSALITER SUNT.
QUARE OMNIS VEL NULLUS NIHIL ALIUD CONSIGNIFICAT NISI QUONIAM UNIVERSALITER DE
NOMINE VEL AFFIRMAT VEL NEGAT. ERGO CAETERA EADEM OPORTET APPONI. Sunt quaedam
propositiones in quibus est quidem tertium adiacens praedicatur et hoc sono
ipso et prolatione cognoscitur, aliae vero sunt in quibus tale verbum
praedicatur, quod tertium quidem adiacens non praedicetur, habeat tamen
contineatque intra se verbum est. Quae praedicatio si solvatur in participium
atque verbum, quod ante solo verbo dictum praedicatum secundum praedicabatur,
tertio loco praedicabitur est et fit similis propositio, tamquam si prolatione
quoque haberet est verbum. Si quis enim dicat:"Omnis homo currit"in
hac propositione unum subiectum est, alterum praedicatur. Homo enim subiectus
est, praedicatur autem currit. Neque enim possumus in hac propositione tres
esse terminos arbitrari, idcirco quod omnis quidem terminus non est sed
subiecti termini determinatio. Significat enim quoniam res universalis, id est
homo, universaliter subicitur cursui, cum dicit:"Omnis homo currit" Nulla
est enim hominis exceptio, ubi omnem currere determinatio est. Ergo non ponitur
loco termini id quod dicimus omnis sed potius ƿ subiecti termini determinatio
est. Quo circa in hac propositione quae dicit:"Omnis homo currit"duo
sunt termini: homo et currit. Ergo in eadem quamquam verbum est non praedicetur
in prolatione, in verbi tamen quod est currit significatione concluditur. Si
quis enim hanc propositionem quae dicit:"Omnis homo currit"solvat in
participium atque verbum, faciet omnis homo currens est et idem significat
participium verbo coniunctum quod significat verbum, quod utraque complectitur.
Nam cum dico "Omnis homo currit", omni homini actionem praesto esse
pronuntio; quod si idem rursus dicam "Omnis homo currens est", eandem
actionem homini rursus adesse proponit. Idem igitur significat verbum currit
quod currens est. Et in ea propositione quae dicit:"Omnis homo
currit"licet in prolatione est non dicatur, tamen tertium potestate
praedicatur, quod hinc cognoscitur, si tota propositio dissolvatur in
participium scilicet atque verbum. Quamobrem sicut ex nomine infinito subiecto
fit affirmatio, non eodem modo ex infinito verbo affirmatio fieri potest sed
mox vis in ea negationis agnoscitur. Quomodo enim facimus affirmationem
dicentes: Omnis non homo currit 'non homo' scilicet subiectum infinitum
ponentes, non ita possumus dicere fieri affirmationem cum proponimus: Omnis
homo non currit Haec enim iam negatio est. Quare ubicumque fuerit 'non
currit' vel 'non laborat' vel 'non ambulat' vel 'non legit', in omnibus negatio
fit, in quibuscumque infinitum verbum praedicatur. Dubitabit autem aliquis an
sicut ex infinito verbo fieri affirmatio non potest sed semper negatio ƿ ex hoc
praedicamento fit, ita quoque si eadem propositio solvatur in participium atque
verbum, an ex infinito participio possit affirmatio fieri. Quaeritur enim an
sicut in hac propositione quae dicit: Omnis homo currit qui ita proponit
dicens : Omnis homo non currit facere affirmationem non potest sed sine
dubio negationem facit, ita quoque si eadem solvatur in participium et verbum,
ut dicat quis: Omnis homo currens est si fiat infinitum non currens et
dicatur: Omnis homo non currens est an haec affirmatio sit an certe
negatio tantundem valens tamquam si aliquis dicat: Omnis homo non est
currens Sed fuerunt qui hoc cum ex multis aliis tum ex aliquo Platonis
syllogismo colligerent et quid ex ea re definirent doctissimorum virorum
auctoritate cognoscerent. Ex duabus enim negativis syllogismus fieri non
potest. In quodam enim dialogo Plato huiusmodi interrogat syllogismum: sensus,
inquit, non contingunt substantiae rationem; quod non contingit, nec ipsius
veritatis contingit notionem: sensus igitur veritatis notionem non contingit.
Videtur enim ex omnibus negativis fecisse syllogismum, quod fieri non potest,
atque ideo aiunt infinitum verbum quod est non contingit pro participio
infinito posuisse id est non contingens est. Est enim in pluribus aliis
inveniendi facultas frequenter verbum infinitum positum pro nomine infinito. ƿ
Quare verbum quidem dixere quidam semper facere negationem' si infinitum
proponatur, participia autem vel nomina si sint infinita posse facere
affirmationem. Et ideo quotienscumque a magnis viris infinitum verbum et duae
negationes in syllogismo proponuntur, hac ratione defenditur, quod dicatur
verbum infinitum pro participio esse propositum, quod participium nominis loco
in propositione praedicatur. Et hoc quidem Alexander Aphrodisius arbitratur
caeterique complures. Idcirco enim aiunt non posse fieri ex infinito verbo
affirmationem, quoniam sicut verbum est infinitum verbum mox totem perficiet
negationem, sic etiam verba quae in sese complectuntur verbum est non facient
infinitam affirmationem sed potius negationem. Si quis enim sic dicat: Homo
currens non est nullus hanc dixerit affirmationem. Si quis vero sic: Homo
non currit idcirco nec haec propositio affirmatio est quoniam currit est
verbum intra se continet et sicut ad est verbum iuncta particula negativa non
facit affirmationem sed potius negationem, ita quoque ad illud verbum iuncta
negatio quod intra se continet est verbum plenam perficit negationem. Aristoteles
autem non videtur ista discernere sed similiter arbitrari, sive cum participio
ponatur est verbum ƿ sive sine participio verbum illud quod verbum est intra se
claudit atque complectitur. Dicit enim hoc modo: IN HIS VERO IN QUIBUS EST NON
CONVENIT UT IN EO QUOD EST CURRERE VEL AMBULARE, IDEM FACIUNT SIC POSITA AC SI
EST ADDERETUR. Et huius subiecit exemplum, UT EST CURRIT OMNIS HOMO. In hac
enim propositione quae dicit: Currit omnis homo non quidem convenit poni
est verbum; eodem modo vel si quis dicat: Omnis homo ambulat hic quoque
est verbum poni non convenit sed haec talia sunt, tamquam si est adderetur.
Quod exemplo docuit. Nam sicut "Est currens omnis homo" affirmatio
est cursus praesentiam monstrans, ita quoque "Currit omnis homo"
affirmatio idem valens idemque significans. Has ex simplicibus subiectis
affirmationes in quibus est dici non convenit consequenter enumerat dicens:
Currit omnis homo mediam ponens determinationem, quod est omnis, inter
currit quod est praedicatio et subiectum quod est homo: contra hanc opponit
simplicem negationem dicens: Non currit omnis homo Rursus facit
affirmationem ex infinito nomine: Currit omnis non homo huic opponit
negationem infiniti nominis subiecti: Non currit omnis non homo Et has
idcirco proposuit, ut monstraret idem in his evenire in quibus est non convenit
praedicari, quod in illis quoque in quibus est tertium adiacens praedicabatur.
Sed quoniam in negatione infiniti nominis subiecti ƿ ait: Non currit omnis non
homo poterat quis dicere non recte fecisse negationem eius affirmationis
quae est: Currit omnis non homo hanc quae dicit: Non currit omnis non
homo sed potius ita debuisse oppositionem constitui: Currit omnis non
homo Non currit non omnis homo Ex hoc autem demonstrat ita faciendam esse
negationem, ut eam ipse disposuit. Dicit enim: NON ENIM DICENDUM EST NON OMNIS
HOMO SED NON NEGATIONEM AD HOMO ADDENDUM EST. Qui est sensus huiusmodi:
quotiens facimus, inquit, negationem contra hanc affirmationem quae dicit currit
omnis non homo, non est negativa particula non adiungenda ei quod est omnis sed
potius subiecto id est nomini quod est homo. Cum enim ita dicimus: Currit omnis
non homo facienda est negatio: Non currit omnis non homo Non enim
dicendum est: Non currit non omnis homo et non negativa particula non est
adicienda ad omnis sed potius ad homo. Huius autem haec causa est quod omnis
determinatio in terminorum numero non adscribitur sed potius ad vim suam id est
ad determinationem. Non enim aliquid universale significat ipsum omnis sed
significat quidem universale homo, omnis autem determinatio est, quoniam quis
id quod universale est id est homo universaliter praedicat. Non ergo universale
aliquid significat omnis determinatio sed potius quoniam universale ƿ nomen
universaliter praedicatur. Atque ideo quotiens in his negatio fit, ad subiectum
potius nomen trahi oportet negationem non ad determinationem. Sed ne forte quis
dubitet, ut etiam in aliis quoque ita fieri oportere oppositiones dicat. In his
enim quae subiectum habent finitum, cum dicimus: Omnis homo currit si
contra hanc contradictorie opposita negatio ponitur, ad determinationem
particula negative constituenda est, ut contra eam quae dicit: Omnis homo
currit ea sit quae dicit: Non omnis homo currit In his autem quae
ex infinito nomine subiecto fiunt, sive in affirmatione sive in negatione, a
subiecto nomine non est separanda negatio. Hoc autem ita esse facillima ratione
cognoscitur, si determinationes paulisper auferantur et in his propositionibus
ex infinito nomine subiecto quae sunt indefinitae speculatio fiat. Sit enim
affirmatio indefinita: Non homo currit Contra hanc erit negatio: Non homo
non currit Si igitur hae propositiones factae sunt in universalibus
terminis (universalis enim terminus est homo) sed non habent additam
determinationem, quoniam universaliter praedicantur, id est omnis, et servata
est et in affirmatione et negatione ad subiectum negativa particula (semper
enim fiebat necessarie infinitum), etiam tunc quando additur aliquid quod determinet,
non ad determinationem addenda est negatio sed potius ad subiectum nomen. Quod
cum in affirmatione fuerit infinitum, hoc idem infinitum ut in negatione
reuertatur providendum est. Sicut enim finitum terminum et simplicem in his
indefinitis ƿ propositionibus ad affirmationem et negationem custodiri oportet,
ut dicamus: Currit homo Non currit homo ita quoque in ea oppositione quae
est ex infinito nomine subiecto idem servandum est, ut quod in affirmatione
subiectum est idem seruetur etiam in negatione. Quod si hoc in his quae
indefinitae sunt evenit, cur non etiam in illis idem fieri oportere videatur
quae definitae sunt? Hoc solum enim definitae ab indefinitis differunt, quod
cum indefinitae universalia praedicant praeter universalitatis determinationem,
determinatae et definitae idem illud prasdicant universale cum adiectione et
significatione quoniam universaliter praedicatur. Nihil igitur aliud omnis vel
nullus significat, nisi quoniam id quod universale dicitur universaliter
praedicatur. Ergo omnia eadem quae in affirmatione et negatione indefinitis
ponebantur eadem quoque et in eisdem determinatis servanda sunt. Omnis enim et
nullus non sunt termini sed universalis termini determinationes. His igitur ab
Aristotele decursis nos quoque a Syriano, cui Philoxeno esse cognomen supra
rettulimus, propositionum omnium numerum, de quibus in hac libri disputatione
perpendit, nimis ad rem pertinentem atque utilem transferamus. Et prius
perspiciendum est in categoricis propositionibus quot indefinitae sunt. Quantae
enim fuerint indefinitae, tot ƿ erunt universales, tot particulares, tot
singularium atque individuorum propositiones. Et prius quidem affirmationes
perspiciamus hoc modo: quatuor modi sunt propositionum: aut enim indefinitae
sunt aut universales aut particulares aut singularium atque individuorum. Si
ergo perspiciantur quantae sint indefinitae affirmationes, has si per
quaternarium numerum multiplicavero, colligitur mihi numerus affirmationum.
Quem si duplico, colligitur etiam negationum hoc modo. Praedicatur enim est aut
ipsum solum aut certe tertium adiacens cum alio. Et si solum praedicatur, aut
ad nom en simplex atque finitum praedicandum est aut ad infinitum. Ex his duae
sunt affirmationes: Est homo Est non homo Quotiens autem est tertium adiacens
praedicatur, hae quatuor erunt affirmationes: aut cum subiectum infinitum est
solum, ut: Est iustus non homo aut cum praedicatum infinitum est solum,
ut: Est non iustus homo aut cum utraque finita sunt, ut: Est iustus
homo aut cum utraque infinita sunt, ut: Est non iustus non homo
MAGIS PLURES AUTEM HIS, ut ipse ait, propositiones inveniri non possunt. Cum
igitur sex sint affirmationes, duae quibus est praedicatur, quatuor vero
adiacente, has si per quaternarium ducam, viginti et quatuor fient. Quas rursus
si binario multiplicem, quadraginta octo mihi summa subcrescunt. Tot igitur
erunt affirmationes et negationes quaecumque vel praedicato est verbo vel
tertio adiacenti et praedicato fiunt. Qua in re quoniam tres ƿ sunt aliae
qualitates propositionum, quae sunt necessariae, contingentes et inesse tantum
significantes, secundum quas qualitates istae omnes propositiones proferuntur,
has quadraginta octo propositiones si in ternarium numerum duxerimus, scilicet
propositionum qualitates, centum quadraginta quatuor omnis propositionum
praedicativarum, de quibus hoc libro tractat, numerositas crescet. Sed nunc
praeter has tris qualitates quae sint quadraginta octo propositiones cum
negationibus suis (quas si per qualitates propositionum, necessariam scilicet
et contingentem et inesse significantem, multiplicavero, centum quadraginta
quatuor fient) subter adscripsimus. EST SOLUM Est homo Non est homo Est non
homo Non est non homo Est omnis homo Non est omnis homo Est omnis non homo Non
est omnis non homo Est quidam homo Non est quidam homo Est quidam non homo Non
est quidam non homo Est Socrates Non est Socrates Est non Socrates Non est non
Socrates ITEM EST TERTIUM Est iustus homo Non est iustus homo Est iustus omnis
homo Non est iustus omnis homo Est iustus quidam homo Non est iustus quidam
homo Est iustus Socrates Non est iustus Socrates Est iustus non homo Non est
iustus non homo Est iustus omnis non homo Non est iustus omnis non homo Est
iustus quidam non homo Non est iustus quidam non homo Est iustus non Socrates
Non est iustus non Socrates Est non iustus omnis homo Non est non iustus omnis
homo Est non iustus quidam homo Non est non iustus quidam homo Est non iustus
Socrates Non est non iustus Socrates Est non iustus non homo Non est non iustus
non homo Est non iustus omnis non homoNon est non iustus omnis non homo Est non
iustus quidam non homo Non est non iustus quidam non homo Est non iustus non
Socrates Non est non iustus non Socrates Has igitur propositiones Syriano
calculis colligente nos quoque nominatim disposuimus, idcirco quoniam facilior
fides habobitur numero, si per exempla prodantur, simul etiam quoniam male
doctus de his propositionibus peruersissime contendebat et affirmationes quidem
negationum loco ponens, negationes vero affirmationum totum ordinem
confundebat. Quare ne quem illius oratio a rectae rationis veritate traduceret,
idcirco hanc ad tenacioris memoriae subsidium fecimus dispositionem. QUONIAM
VERO CONTRARIA EST NEGATIO EI QUAE ƿ EST OMNE EST ANIMAL IUSTUM ILLA QUAE
SIGNIFICAT QUONIAM NULLUM EST ANIMAL IUSTUM, HAE QUIDEM MANIFESTUM EST QUONIAM
NUMQUAM ERUNT NEQUE VERAE SIMUL NEQUE IN EODEM IPSO, HIS VERO OPPOSITAE ERUNT
ALIQUANDO, NON OMNE ANIMAL IUSTUM EST EST ALIQUOD ANIMAL IUSTUM. Hoc quoque est
diligentissime superius demonstratum, quod contrariae aliquotiens verum
falsumque dividerent, si aut in rebus naturalibus aut in impossibilibus
proponerentur: aliquotiens vero simul inveniri posse falsas, si res neque
naturales neque impossibiles praedicarent. Contrarias autemesse dictum est,
quaecumque vel affirmative vel negative universalem facerent enuntiationem.
Ergo nunc hoc dicit: quae sunt, inquit, contrariae simul verae esse non
possunt. Et hoc non sine quadam rerum determinatione locutus est. Ait enim:
QUONIAM VERO CONTRARIA EST NEGATIO EI QUAE EST OMNE EST ANIMAL IUSTUM scilicet
affirmationi ILLA QUAE SIGNIFICAT QUONIAM NULLUM EST ANIMAL IUSTUM SCILICET
NEGATIO, HAE QUIDEM, inquit, quoniam sunt contrariae, quae simul verae esse non
possunt, MANIFESTUM EST QUONIAM NUMQUAM ERUNT NEQUE VERAE SIMUL NEQUE IN EODEM.
Sed quod dixit neque verae simul huiusmodi est: nihil enim prohibet alio et
alio tempore et affirmationem universalem et negationem veraciter ƿ posse
proponi. Ut si quis dicat: Omnis homo iustus est hoc si aureo saeculo diceretur,
verissime proponeretur. Quod si quis rursus dicat: Nullus homo iustus est
hoc si ferreo saeculo enuntiet, erit vera propositio. Quare contingit et
affirmationem universalem et negationem veras esse, quas manifestum est esse
contrarias sed non simul: illa enim in aureo saeculo si ita contingit, illa in
ferreo. Sed haec tempora diversa sunt et non sunt simul. Quare recte hoc quoque
addidit ut diceret MANIFESTUM EST QUONIAM NUMQUAM ERUNT NEQUE VERAE SIMUL. Quod
autem addidit NEQUE IN EODEM ad aliam eiusdem rei determinationem valet.
Possunt enim rursus eodem tempore et simul universalis affirmatio et
universalis negatio verae esse sed si non de eodem praedicentur. Ut si quis
dicat: Omne animal rationale est hoc si de hominibus praedicetur, vera
est affirmatio. Quod si quis dicat: Nullum animal rationale est hoc si de
equis enuntiet, vera erit uno eodemque tempore contra universalem affirmationem
universalis facta negatio sed non in eodem. Illa enim affirmatio de hominibus
facta est, haec vero de equis negatio. Quamobrem recte dictum est numquam esse
simul contrarias veras posse neque in eodsm id est nec uno eodemque tempore nec
de uno subiecto. Sed quoniam his oppositae erant universali quidem affirmationi
particularis negatio, universali vero negationi affirmatio particularis et has
diximus idcirco subcontrarias dici, quod diversa quodammodo contrariis
patiantur, manifestum est quoniam sicut contrariae verae simul esse non
possunt, dividunt tamen aliquotiens inter se veritatem ƿ et falsitatem, ita quoque
et subcontrariae dividunt quidem verum inter se falaumque aliquotiens, quando
contrariae quoque diviserint, simul autem verae inveniri possunt, quando
universales et contrariae simul falsae sunt, ut autem simul falsae sint, nulla
rerum ratione contingit. Ergo contrarias quidem simul veras esse atque in eodem
numquam quisquam poterit invenire, subcontrarias autem quae universalibus et
contrariis oppositae sunt sibi inuicem comparatas veras inveniri possibile est:
ut in eo ipso exemplo quod ipse proposuit: Non omne animal iustum est
vera est, rursus: Est aliquod animal iustum haec quoque vera est. Quare
contrariae simul verae esse non possunt, subcontrarias simul veras nihil
prohibet inveniri. SEQUUNTUR VERO HAE: HANC QUIDEM QUAE EST NULLUS EST HOMO IUSTUS
ILLA QUAE EST OMNIS EST HOMO NON IUSTUS, ILLAM VERO QUAE EST EST ALIQUI IUSTUS
HOMO OPPOSITA QUONIAM NON OMNIS EST HOMO voN IUSTUS. NECESSE EST ENIM ESSE
ALIQUEM. De consequentia propositionum simplicium atque infinitarum
sufficienter quidem supra disseruit sed nunc haec est huic intentio non quae
particularis affirmatio vel negatio quam universalem affirmationem vel
negationem sequatur, quod iam supra monstravit, ƿ sed quae universalis negatio
universalem sequatur affirmationem vel quae particularis negatio particulari
scilicet affirmationi consentiat. Proponitque has quatuor dicens negationem
quidem simplicem universalem et affirmationem infinitam universalem sese sequi
et sibimet consentire nec minus his oppositas id est particularem affirmationem
simplicem et particularem infinitam negationem et in veritate et in falsitate
se sequi et a se nullo modo discrepare. Disponantur enim hae quatuor: prior
affirmatio infinita universalis quae dicit: Omnis est homo non iustus sub
hac ei consentiens simplex universalis negatio quae proponit: Nullus est homo
iustus rursus in altera parte contra affirmationem infinitam particularis
simplex affirmatio quae dicit: Est aliqui homo iustus et sub hac
particularis infinita negatio quae proponit:"Non omnis est homo non
iustus" Omnis est homo non iustus Est quidam homo iustus Nulla est homo
iustus Non omnis est homo non iustus. His ergo ita dispositis si
affirmatio universalis infinita vera sit ea quae dicit: Omnis est homo non
iustus vera est etiam ea quae proponit: Nullus est homo iustus quae
est universalis simplex negatio. Hoc autem melius in verioribus cognoscitur
exemplis. Dicatur enim: Omnis est homo non quadrupes vera, rursus: Nullus
est homo quadrupes haec quoque vera est. Quod si una harum falsa sit,
falsa quoque erit et altera. Nam si falsa est quoniam omnis est homo non
iustus, sicut vere quoque falsa est, illa quoque negatio simplex mendacissime
praedicavit quae dicit: Nullus est homo ƿ iustus quocirca affirmatio
universalis infinita et negatio uniusrsalis simplex sibimet consentiunt, ut una
vera alteram veram esse necesse sit, alterius falsitate reliquam quoque
falsitas consequatur. Idem quoque evenit in parte altera. Nam si vera est
quoniam quidam homo iustus est, vera quoque est quoniam non omnis est homo non
iustus, est enim aliqui. Nam id quod dicitur non omnis tantundem est, tamquam
si qui dicat quidam non est, quod in alio quoque exemplo manifestius apparebit.
Si quis dicat: Non omnis homo iustus est hoc est dicere "Quidam homo
iustus non est". Ergo 'non omnis' 'quidam' non significat. Si quis ergo
ita proponat: Quidam homo non iustus non est quem dicit non esse non
iustum iustum esse confirmat. Quare ille de quo dicitur quoniam non iustus non
est erit iustus. Unde fit ut ea quae dicit: Non omnis est homo non iustus
consentiat ei quae dicit: Quidam homo non iustus non est Sed haec
consentit ei quae dicit: Quidam homo iustus est haec igitur quoque
consentit et ei quae proponit: Non omnis est homo non iustus Sed quoniam
hoc fortasse aliquatenus videtur obscurius, consequentiae ipsarum hoc modo
sumendae sunt. Sitque nobis hoc positum affirmationem universalem infinitam et
negationem universalem simplicem sibimet consentire, ut unius veritatem et
falsitatem alterius veritas aut falsitas consequatur. Si falsa est affirmatio
infinita universalis quae dicit: Omnis est homo non iustus vera erit huic
opposita particularis ƿ infinita negatio quae proponit: Non omnis est homo non
iustus Sed cum falsa est affirmatio universalis infinita, falsa quoque
est universalis simplex negatio quae dicit: Nullus est homo iustus Sed
hac falsa particularem affirmationem quae huic contradictorie opposita est
veram esse necesse est, quae est: Est quidam homo iustus Quocirca quando
affirmatio universalis infinita falsa est, vera est particularis infinita
negatio et quando universalis negatio simplex falsa est, vera est simplex
affirmatio particularis. Sed affirmatio universalis infinita et negatio
universalis simplex simul falsae sunt et sibimet in falsitate consentiunt: simul
igitur erunt verae simplex particularis affirmatio et infinita negatio
particularis. Rursus si vera est affirmatio universalis infinita, falsa erit
negatio particularis infinita: ei enim contradictorie opposita est. Si rursus
vera est universalis simplex negatio, falsa est particularis simplex
affirmatio. Sed universalis affirmatio infinita et universalis negatio simplex
simul verae sunt: simul igitur erunt falsae particularis affirmatio simplex et
particularis infinita negatio. Quare hae quoque, id est particularis affirmatio
simplex et particularis infinita negatio, sibimet in veritate et falsitate
consentiunt et veritatem suam et mendacium inuicem consequuntur. Quare
affirmatio quidem et negatio utraque universalis, haec simplex, illa infinita,
sequuntur sese sibique consentiunt. Particulares autem id est universalibus
oppositae simplex affirmativa et negative infinita, ipsae quoque sibimet
consentiunt. Quare rectus est ordo, ut sicut affirmationi universali infinitae
consentit simplex universalis negatio, ita particulari ƿ affirmationi simplici
particularis negatio infinita consantiat. MANIFESTUM EST AUTEM, QUONIAM ETIAM
IN SINGULARIBUS, SI EST VERUM INTERROGATEM NEGARE, QUONIAM ET AFFIRMARE VERUM
EST, UT PUTASNE SOCRATES SAPIENS EST? NON; QUONIAM SOCRATES IGITUR NON SAPIENS
EST. IN UNIVERSALIBUS VERO NON EST VERA QUAE SIMILITER DICITUR, VERA AUTEM
NEGATIO, UT PUTASNE OMNIS HOMO SAPIENS? NON. OMNIS IGITUR HOMO NON SAPIENS. HOC
ENIM FALSUM EST. SED NON OMNIS IGITUR HOMO SAPIENS VERA EST; HAEC AUTEM EST OPPOSITA,
ILLA VERO CONTRARIA. De consequentia propositionum disputans et sibi
quemadmodum consentirent ilium tractatum parumper egressus docere proposuit,
quae veniant in responsionem de singularibus, si ad praedicationem ipsorum sit
particula negationis apposita, quae rursus in his quae de universalibus sunt
propositionibus ad praedicationem addita particula negative concurrent. Neque
enim oportet similiter facere enuntiationes. Non enim simile est quod ex
utraque praedicatione contingit. Hoc autem ita manifestum est: si quis de
singulari aliquo interrogatus neget, ille qui interrogaverit potest facere ex
infinito nomine praedicato illam scilicet negationem iungens quam respondens
ante negaverit, et hoc veraciter praedicabit. De universalibus autem apparebit
non eandem ƿ veritatem posse contingere, si ex his affirmatio componatur. Si
quis enim interroget alium PUTASNE SOCRATES SAPIENS EST? Si ille responderit
NON, vere ille concludit dicens: SOCRATES IGITUR NON SAPIENS EST. Sit autem hoc
in alio quoque clariori exemplo manifestum atque interrogemus aliquem hoc modo:
Socratesne Romanus est? Ille respondeat: non, nos vere concludere possumus:
Socrates igitur non Romanus est, facientes ex negatione quam ille respondebat
et ex nomine quod nos in propositione praedicavimus affirmationem ex nomine
infinito quae dicit: Socrates non sapiens est vel Socrates non Romanus est. Has
enim affirmationes esse ex infinito nomine supra monstratum est. Si igitur
eodem modo aliquis in universalibus subiectis interroget dicens: OMNISNE HOMO
SAPIENS EST? Nos utique respondebimus: NON. Tum ille eadem similitudine
concludit. Dicit enim: OMNIS IGITUR HOMO NON SAPIENS EST. Quocirca nullus homo
sapiens est. Ea enim quae dicit: Omnis homo non sapiens est consentire
monstrata est ei quae dicit: Nullus homo sapiens est Videbitur ergo
quodammodo ex vera responsione falsa inlata esse conclusio. Cui nos dicimus
negationem quidem nos respondisse, non ut ea negatio ad praedicatum iungeretur
sed ad determinationem. Neque enim nos voluisse ab omni homine sapientiam
tollere, cum interrogante an omnis homo sapiens esset ƿ nos negaremus sed ab
omni potius id est determinatione voluisse nos abstrahere sapientiam, illud
scilicet significantes, quod alicui esset et alicui non esset sapientia, ut
quod diximus non tantum valeret tamquam si diceremus non omnis. Ergo si illa
negatio ad nomen, id est ad sapientem iongatur, universalis fit affirmatio quae
dicit: Omnis homo non sapiens est consentiens universali negationi quae
proponit: Nullus homo sapiens est Sed haec contraria est interrogationi.
Fuit enim interrogatio: Omnisne homo sapiens est? Haec habet universalem
affirmationem, cui contraria est universalis negatio, cui rursus negationi
consentit affirmatio universalis infinita. Quocirca affirmationi quoque
universali simplici, quae in interrogatione posita est, id est omnisne homo
sapiens est? Contraria est ea quae dicit conclusio quoniam omnis homo non
sapiens est. Quod si dicat: Non omnis homo sapiens est et verum est et ei
est opposita. Contra enim eam quae dicit interrogationem: Omnisne homo sapiens
est? Cum responsum fuerit non et iuncta negatio fuerit ad omnis,
particularis negatio fit dicens: Non omnis homo sapiens est quae est
opposita universali affirmationi ei quae in interrogatione proposita est
[universali]. Hoc est enim quod ait: HAEC AUTEM EST OPPOSITA, ILLA VERO
CONTRARIA. Per verba autem sensus iste sic constat: ƿ MANIFESTUM EST AUTEM,
inquit, QUONIAM IN SINGULARIBUS, ut est Socrates et quidquid individuum est, SI
EST VERUM INTERROGATUM NEGARE, id est si quando quis aliquid interrogatus vere
negaverit, cum aliquis interrogatur, an Romanus sit Socrates, ille neget,
QUONIAM ET AFFIRMARE VERUM EST? ut ille qui interrogat ex negatione et nomine
praedicato faciat infinitam affirmationem. Et huius exemplum: PUTASNE SOCRATES
SAPIENS EST? Responsio NON. Conclusio quoniam SOCRATES IGITUR NON SAPIENS EST. Sed
hoc non similiter in universalibus se habet, quod per hoc monstrat quod ait: IN
UNIVERSALIBUS VERO NON EST VERA QUAE SIMILITER DICITUR, id est non est vera
affirmatio infinita facta ex praedicato nomine et respondentis negatione sed
potius vera est negatio, non affirmatio. Huius exemplum: nam interrogatio est
UT PUTASNE OMNIS HOMO SAPIENS? Responsio NON. Falsa conclusio OMNIS IGITUR HOMO
NON SAPIENS. Hoc enim falsum est et simile ei quod supra de singulari subiecto
praediximus sed potius illa quae dicit: Non omnis igitur homo sapiens est
ut respondentis negatio ad omnis iungatur et fiat negatio particularis. Est
enim haec vera haec autem est opposita. Nam cum affirmatio universalis
interrogata esset ea quae dicit: Omnis homo sapiens est ex negativa
particula factum est: Non omnis homo sapiens est in conclusione et sunt
oppositae. ƿ Illa est enim affirmatio universalis, haec autem particularis
negatio. ILLA VERO CONTRARIA. Nam si non negatio ad praedicatum iungatur, fit
universalis affirmatio infinita, quae consentit universali negationi finitae.
Sed haec contra affirmationem universalem finitam quae in interrogatione est
posita contraria est. Contraria igitur erit etiam illa quae universalis est
affirmatio infinita. Quae autem causa est cur in singularibus vel affirmatio ex
infinito nomine vel negatio finita sibimet consentiant, in universalibus autem
universalis affirmatio ex infinito nomine non consentiat particulari negationi
finitae, quaerendum est. Etenim si quis dicat Socrates non sapiens est et
Socrates sapiens non est, idem est et hae duae sibimet consentiunt? Si quis
autem dicat: Omnis homo non sapiens est et rursus: Non omnis homo sapiens
est hae duae sibi non consentiunt. Sed haec ratio est, quod in
singularibus subiectis non sunt duplices oppositiones sed una tantum, id est
quae negationem facit, in universalibus autem universaliter praedicatis duplex
oppositio est, una contraria, una vero contradictoria. Si ergo sit huiusmodi
affirmatio quae dicat: Socrates sapiens est contra hanc una est oppositio
quae proponit: Socrates sapiens non est Si ergo dicat aliquis: Socrates
non sapiens est haec nullum alium habebit intellectum quam ea quae dicit:
Socrates sapiens non est Unam enim tautum solam diximus in singularibus
oppositionem. Quare quaecumque aliae fuerint, eadem significatione ƿ
concurrent. In universalibus vero universaliter praedicatis non eodem modo est.
Nam si sit affirmatio universalis quae dicit: Omnis homo sapiens est
contra hanc etiam illa est quae dicit: Nullus homo sapiens est etiam illa
quae dicit: Non omnis homo sapiens est Et illa est contraria, haec
contradictoria. Duplex ergo haec oppositio sibi non potest consentire. Illa
enim totum tollit quae est universalis negatio, illa partem finita quae est
particularis negatio. Sed univerealis negatio universali affirmationi ex
infinito nomine consentit: diversa igitur erit haec quoque a particulari finita
negatione. Quoniam ergo duplex est oppositio in universalibus, simplex in
singularibus, recte in eadem similitudine praedicationis non eadem veritas
falsitasque contingit. ILLAE VERO SECUNDUM INFINITA OPPOSITAE NOMINA VEL VERBA,
UT IN EO QUOD EST NON HOMO VEL NON IUSTUS, QUASI NEGATIONES SINE NOMINE VEL
VERBO ESSE VIDEBUNTUR SED NON SUNT; SEMPER ENIM VEL VERAM ESSE VEL FALSAM
NECESSE EST NEGATIONEM, QUI VERO DIXIT NON HOMO, NIHIL MAGIS DE HOMINE SED
ETIAM MINUS verUS FUIT VEL FALSUS, SI NON ALIQUID ADDATUR. SIGNIFICAT AUTEM EST
OMNIS NON HOMO IUSTUS NULLI ILLARUM IDEM NEC HUIC OPPOSITA EA QUAE EST NON EST
OMNIS NON HOMO IUSTUS. ILLA VERO QUAE EST ƿ OMNIS NON IUSTUS NON HOMO ILLI QUAE
EST NULLUS IUSTUS NON HOMO IDEM SIGNIFICAT. Novimus propositiones ex infinitis
fieri posse nominibus: has ergo dissoluens Aristoteles sumit proxime dictionem
nominis infiniti et de ea disputat si contra finitum nomen comparetur haec
quaedam enuntiativa oppositio videatur. Si quis enim sumat id quod dicimus non
homo et opponat contra id quod dicimus homo, videbitur fortasse aliquatenus
facere oppositionem. Quoniam enim omnis negativa particula adiecta verbo, quod
continet propositionem, negationem facit, si modus aliquis propositionis non
praedicetur, quod posterius demonstrandum est, [et] videtur cum adiecta fuerit
negativa particula quandam facere negationem, ut si non particula inugatur ei
quod est homo faciet non homo.
Hoc
est enim quod ait: ILLAE VERO QUAE SUNT SECUNDUM INFINITA OPPOSITAE NOMINA VEL
VERBA, UT IN EO QUOD EST NON HOMO VEL NON IUSTUS, QUASI NEGATIONES SINE NOMINE
VEL VERBO ESSE VIDENTUR. Si quis enim dicat non currit, haec fit sine nomine
negatio; quod si quis dicat non homo, haec quoque est sine verbo negatio. Quae
dictiones secundum infirutum nomen et verbum opponuntur fimto verbo vel nomini
quod est currit et homo: videbuntur ergo hae negationes secundum infinitum
nomen vel ƿ verbum quae praedicantur SED NON SUNT. Maxima enim probatio has
negationes non esse conuincit, quod omnis negatio vel vera vel falsa est, quod
autem dicimus non homo vel non currit, licet simplicia quoque et finita homo
scilicet atque currit nihil verum falsumue significent, tamen haec infinita
multo minus aliquid verum aut falsum demonstrant. Non quod simplicia verum
aliquid falsumue significent, idcirco dicimus infinitas dictiones simplicibus
minus verum falsumue monstrare sed quod quamquam nihil verum vel falsum
designet simplex nomen aut verbum, tamen definitum quiddam proponit, ut in eo
quod est homo finitum quiddam est et una species. Is vero qui dicit non homo,
praesentem quidem speciem interimit, infinitas tamen alias dat intellegere ipse
nihil ponens. Quocirca quamquam finita verba vel nomiha per se vera vel falsa
esse non possint nisi cum aliis iuncta sint, tamen longe minus veritatis aut falsitatis
capacia sunt nomina infinita vel verba, quae nec hoc ipsum quidem quod
significant ponunt sed illud quidem perimunt, nihil autem per se aliud in
significatione constituunt: postremo propinquius ad veritatis vel falsitatis
finita intellectus. Minus igitur vera vel falsa est dictio nominis infiniti
quam alicuius simplicis et finiti vocabuli. SIGNIFICAT AUTEM EST OMNIS NON HOMO
IUSTUS ƿ NULLI ILLARUM IDEM NEC HUIC OPPOSITA EA QUAE EST NON EST OMNIS NON
HOMO IUSTUS. ILLA VERO QUAE EST OMNIS NON IUSTUS NON HOMO ILLI QUAE EST NULLUS
IUSTUS NON HOMO IDEM SIGNIFICAT. Postquam de propositionibus infinitum
habentibus praedicatum sufficienti disputatione locutus est earumque
oppositiones ostendit consequentiasque demonstravit, in medio de infinitis
nominibus quod non essent negationes breviter pernotavit, nunc redit ad eas
propositiones quae subiectum habent infinitum, praedicatum vero vel finitum vel
infinitum. Et primum quidem an eaedem sint idemque significent habeantque
ordine aliquam consequentiam hae propositiones quae ex infinito subiecto sunt
cum his quae ex infinito praedicato sunt vel ex utrisque finitis docet. Ait
enim has duas propositiones quae sunt EST OMNIS NON HOMO IUSTUS, NON EST OMNIS
NON HOMO IUSTUS nulli illarum idem significare quae aut ex utrisque finitis
esset aut ex praedicato infinito. Et disponantur quidem illae quae aut ex
utrisque finitis sunt aut ex praedicato infinito. Et primum quidem ponatur
simplex affirmatio universalis, sub hac negatio universalis ex praedicato
infinito superiori simplici affirmationi consentiens. Contra vero ponatur
universalis simplex negatio et sub hac universalis ex infinito praedicato
affirmatio, quas constat sibimet consentire praesidente affirmatione universali
quae est ex infinito scilicet praedicato. Est omnis homo iustus Nullus est homo
iustus Nullus est homo non iustus Est omnis homo non iustus. Cum ergo ita sint
affirmationes positae et negationes quae simplex quidem subiectum habeant,
infinitum vero vel simplex praedicatum, nunc Aristoteles dicit quoniam hae
propositiones quae subiectum habent infinitum nulli illarum superiorum quas
disposuimus idem significant. Haec enim quae dicit: Est omnis non homo
iustus non consentit ei quae dicit: Est omnis homo iustus nec
rursus ei quae dicit: Est omnis homo non iustus nec his rursus quae sunt:
Nullus est homo iustus vel: Nullus est homo non iustus Hae enim
omnes hominem subiectum habent, illa vero non hominem. Quocirca nec huius
negatio, id est universalis affirmationis ex infinito subiecto particularis scilicet
negatio, cum ulla earum quae finitum subiectum habent poterit consentire. Ea
enim quae dicit: Non est omnis non homo iustus neque cum ea quae
proponit: Est omnis homo iustus neque cum ea quae dicit: Est omnis homo
non iustus neque cum his quae enuntiant: Nullus est homo iustus
vel: Nullus est homo non iustus Sed non hoc dicit, quoniam ex infinito
subiecto propositiones diversae sunt his quae sunt vel ex finito praedicato vel
ex infinito, subiecto tamen finito. Possunt enim diversae quidem esse
praedicationes, idem tamen aliquotiens significare, ut ea quae dicit: Omnis est
homo iniustus cum sit diversa ab ea quae dicit: Nullus est homo
iustus idem tamen aliquando significant, si affirmatio privatoria
praecesserit. Dictum est enim quod affirmationibus praecedentibus negationes
sine dubio ƿ sequerentur ergo non hoc dicit, quoniam diversae sunt ex infinito
nomine subiecto, praedicato vel finito vel infinito , subiecto tamen finito sed
quod omnino sibi non consentiant nec idem significent id est tota sint propositionis
virtute dissimiles. Atque haec quidem dixit de his quae finitum subiectum
haberent, infinitum vero praedicatum. Venit autem nunc ad ipsarum consequentias
quae ex infinito nomine subiecto constant et sicut supra consequentiam earum
quae ex utrisque finitis erant vel ex infinito praedicato docuit, ita quoque
nunc e converso quae ex utrisque infinitis nominibus constant vel infinito
nomine subiecto qualem ad se habeant consequentiam monstrat dicens: illa vero
quae est: Omnis non iustus non homo illi quae est: Nullus iustus non
homo idem significat. Has duas tantum propositiones monstrat,
affirmativam scilicet universalem ex utrisque infinitis quae dicit: Omnis non
iustus non homo ei consentire quae est universalis negatio ex solo infinito
subiecto quae dicit: Nullus iustus non homo In his autem subauditur
particula est, ut sit tota propositio: Omnis non iustus non homo est et
rursus: Nullus iustus non homo est Nam sicut in his, quae finitum
habebant subiectum, infinitum vero vel finitum praedicatum, affirmationem ex
finito subiecto et infinito ƿ praedicato eam scilicet quae dicit: Est omnis
homo non iustus sequebatur simplex universalis negatio quae ex utrisque
finitis constat id est: Nullus homo iustus est ita quoque in his permutatis
tantum subiectis idem evenit. Nam sicut illic negatio ex utrisque finitis
universalis sequebatur affirmationem ex finito subiecto et infinito praedicato
universalem, ita hic quoque affirmationem ex utrisque infinitis universalem
sequitur negatio ex infinito subiecto ipsa quoque universalis. Et has quidem
duas propositiones adscripsit solam in his consequentiam, caeteras autem, quod
putabat intellectu esse faciles, persequi neglexit. Nos autem eas ne quid
relictum videatur apponimus. Est enim sequentia hoc modo: Omnis non homo non
iustus est Quidam non homo iustus est Nullus non homo iustus est Non omnis non
homo non iustus est Omnis non homo iustus est Quidam non homo non iustus est
Nullus non homo non iustus est Non omnis non homo iustus est ƿ Has igitur
si quis diligenter inspexerit duas comparationes duabus convenientissimam
consequentiam consensumque monstrabunt. Maximam operis emensi partem ea
quae sequuntur licet magnis quaestionibus impedita, tamen audacius atque
animosius exsequimur nec defatigari in singulis partibus oportet totius
dialecticae prodere adgressos atque expedire doctrinam. Itaque rectam commentationis
seriem conteximus. TRANSPOSITA VERO NOMINA VEL VERBA IDEM SIGNIFICANT, UT EST
ALBUS HOMO, EST HOMO ALBUS. NAM SI HOC NON EST, EIUSDEM MULTAE ERUNT
NEGATIONES. SED OSTENSUM EST, QUONIAM UNA UNIUS EST. EIUS ENIM QUAE EST EST
ALBUS HOMO NEGATIO EST NON EST ALBUS HOMO; EIUS VERO QUAE EST EST HOMO ALBUS,
SI NON EADEM EST EI QUAE EST EST ALBUS HOMO, ERIT NEGATIO VEL EA QUAE EST NON
EST NON HOMO ALBUS VEL EA QUAE EST NON EST HOMO ALBUS. SED ALTERA QUIDEM EST
NEGATIO EIUS QUAE EST EST NON HOMO ALBUS, ALTERA ƿ VERO EIUS QUAE EST EST ALBUS
HOMO. QUARE ERUNT DUAE UNIUS. QUONIAM IGITUR TRANSPOSITO NOMINE VEL VERBO EADEM
FIT AFFIRMATIO VEL NEGATIO MANIFESTUM EST. Docet nunc quoniam si verba vel
nomina transferantur et aliud prius, aliud vero posterius praedicetur, unam
sine dubio significantiam retinere. Sive enim quis dicat: Est homo albus
sive: Est albus homo sive: Homo albus est sive: Albus homo
est sive quomodolibet aliter ordinem praedicationis permutet, eadem sine
dubio significatio permanebit. Et hoc quidem fortasse oratoribus vel poetis non
eodem modo perspiciendum est quo dialecticis. Etenim qui ad compositionem
orationis spectant, maximum differt quo verba et nomina praedicationis suse
ordine proferantur. Multum enim interest in eo quod ait Cicero: Ad hanc te
amentiam natura peptrit, voluntas exercuit, fortuna servavit ita dixisse
ut dictum est an ita: ad hanc te amentiam peperit natura, exercuit voluntas,
servavit fortuna. Sic enim minor est sententiae magnitudo minusque in ea lucet
id quod si componatur eminet et sese vel nolentibus hominum auribus animisque
patefacit. Rursus cum dicit Vergilius: Pacique imponere morem, potuisset servare
metrum si ita dixisset: moremque imponere paci sed esset debilior sonus
nec eo ictu versus tam praeclare nunc compositus diceretur. Ergo non idem valet
oratoribus vel poetis verborum nominumque ordo mutatus. ƿ Qui enim ad
compositionem spectant, multum in ordine sermonum ornamenti reperient.
Dialecticis vero, quibus nulla ad orationis leporem cura dicendi congruit
quibusque sola veritas perscrutatur, nihil differt quolibet ordine verba et
nomina si permutentur, cum tamen eandem vim quam prius in significatione
retineant. Sed nec apud ipsos modis omnibus permutato ordine dictionis eadem
semper vis significatioque servatur. Haec enim particula quae negativa est, id
est 'non', multum valet multamque differentiam perficit variis adiecta locis.
Si quis enim dicat: Homo albus non est faciet indefinitam simplicem
negationem. Si quis vero dicat: Homo non albus est faciet indefinitam ex
infinito praedicato affirmationem. Si quis autem praedicet: Non homo albus
est idem quoque constituit ex infinito subiecto indefinitam
affirmationem. Rursus si quis dicat hoc modo: Omnis homo non iustus est
haec consentit ei quae dicit: Nullus homo iustus est Quod si idem non ad
universalitatis determinationem ponatur, ut dicatur: Non omnis homo iustus
est non iam universalis affirmatio infinitae praedicationis consentiens
universali simplici negationi fit sed potius particularis negatio simplex. Videsne
igitur quam multas faciat differentias negativa particula diversae nominum
praedicationi coniuncta? Sed quamquam haec ita sint, potest tamen eadem alio
modo diversis in locis posita eandem vim significationemque servare. Si enim
posita non particula cum universalitate sua cum eadem ipsa saepius permutetur,
idem sine dubio in significatione consistit. Si quis enim dicat: Non omnis homo
albus est particularis est negatio simplex. Si quis vero sic dicat: Homo
non omnis albus est eadem significatio est, vel si hoc modo: Homo albus
non omnis est nec haec a superiori significatione discedit, vel si quis
amplius quoque permutet dicens: Homo albus est non omnis a priori
significatione nil discrepat. Eodem modo vel si quomodolibet aliter permutetur
cum propria tamen universalitatis determinatione, diverso permutata modo idem
semper necesse est in significatione seruetur. Eodem modo si eadem non
particula cum alio nomine vel verbo iuncta saepius transferatur, ut cum dicimus
homo iustus non est, rursus homo non est iustus, rursus non est homo iustus,
eadem significatio retinetur. Quocirca si sola negativa parcula permutata sit
et non eodem semper ordine praedicetur, multas differentias faciet
propositionum. Sin vero iuncta cum alio nomine saepius (ut dictum est)
transferatur, eadem in translationibus omnibus significatio permanebit. His
igitur ita dispositis videndum est quae sit Aristotelis demonstratio verba et
nomina transposita eandem semper vim significationemque subicere. Ait enim:
TRANSPOSITA VERO VERBA VEL NOMINA IDEM SIGNIFICANT, UT EST ALBUS HOMO, EST HOMO
ALBUS. Haec enim transpositis nominibus atque verbis eandem retinet significationem.
In illa enim prius albus est, posterior homo, in hac autem prior homo,
posterior albus. Quod si hoc falsum est et non sunt eaedem ƿ sed a se diversae
sunt, impossibile aliquid inconveniensque contingit. Erunt enim duae negationes
unius affirmationis, quod est impossibile. Ostensum enim est quoniam una negatio
unius affirmationis est. Nunc igitur videamus si hae affirmationes quae dicunt:
Est albus homo et: Est homo albus non sunt eaedem sed diversae,
quemadmodum unius affirmationis duae sint negationes. Et primo quidem
disponantur hoc modo: Est albus homo Est homo albus huius ergo
propositionis quae dicit: Est albus homo erit negatio ea scilicet quae
proponit: Non est albus homo Alia namque quae esse possit rationabiliter
non potest inveniri. Disponantur igitur rursus eaedem et superior cum propria
negatione: Est albus homo Non est albus homo Est homo albus Cum igitur
eius quae dicit: Est albus homo negatio sit ea quae proponit: Non est
albus homo si ea quae dicit: Est homo albus diversa erit ab ea
propositiones quae enuntiat: Est albus homo alia eius erit negatio. Sit
ergo aut ea quae dicit: Non est non homo albus aut ea quae dicit: Non est
homo albus Rursus igitur disponantur duae quidem affirmationes primae
alternatim positae et e contrario confessa prioris negatio. Contra secundam
vero utraeque hae negationes quas dicimus adscribantur. Est albus homo Non est
albus homo Est homo albus Non est non homo albus Non est homo albus ƿ His
ergo ita descriptis eius propositionis quae dicit: Est homo albus non
potest illa esse negatio quae dicit: Non est non homo albus Illius est
enim negatio quae habet subiectum infinitum quae dicit: Est non homo
albus similiter autem et si quamlibet aliam quis posuerit negationem,
eius sine dubio alia affirmatio reperietur. Unde fit ut relinquatur ea eius
esse negatio quae proponit: Non est homo albus Est ergo negatio eius quae
dicit: Est homo albus ea quae dicit: Non est homo albus Sed eius
affirmationis quae proponit: Est albus homo negatio est et ista quae
dicit: Non est homo albus Quod probat ea res quod inter se verum
falsumque dividunt. Nam si verum est esse album hominem, falsum est non esse
hominem album. Quod si in aliquibus verum invenitur, hoc secundum definitionem
propositionis agnoscitur, non secundum negationis formam, ut magis secundum
quantitatem non sint sibi oppositae potius quam secundum qualitatem. Quod illa
res nuonstrat si quis sic dicat: Est albus omnis homo Si contra hanc
ponatur non est omnis homo albus, perspicuum est quoniam inter se et veritatem
dividunt et falsitatem. Unam enim veram esse necesse est, unam falsam. Quare
etiam si determinationes auferantur, eadem oppositio redit, licet sit
indefinita. Nam sicut in ea quae dicit: Omnis homo iustus est Non omnis homo
iustus est sublatis omnis et: Non omnis homo iustus est et: Homo
iustus non est affirmatio et negatio sunt oppositae, ita quoque et in ƿ
his sublato omnis et non omnis ea quae dicit: Est albus homo ei quae
dicit: Non est homo albus opposita est. Additis enim determinationibus
una semper vera est, altera falsa. Sed diximus quoniam eius affirmationis quae
dicit: Est albus homo negatio esset: Non est albus homo Duae igitur
negationes: Non est albus homo et: Non est homo albus unius
affirmationis sunt quae enuntiat: Est albus homo Quod evenit si
negationes hae quae dicunt: Non est homo albus et: Non est albus
homo a se diversae sunt. Quod ex eo contingit quod prius propositum est
eam quae dicit: Est albus homo diversam esse ab ea quae dicit: Est homo
albus Quod si hoc impossibile est ut una affirmatio duas habeat
negationes et perspicuum est contra eam affirmationem quae dicit: Est albus
homo utrasque has negationes quae dicunt: Non est albus homo et:
Non est homo albus opponi, hae a se diversae non sunt sibique consentiunt
et tantum permutatione nominis distant, caeteris autem omnibus eaedem sunt.
Quod si hae negationes eaedem sunt, eaedem quoque sunt affirmationes. Recte
igitur dictum est quoniam transposita verba et nomina eandem vim
significationemque servarent. Sensus ergo totus sese ita habet. Hoc modo autem
ordo verborum: TRANSPOSITA VERO, inquit, NOMINA VEL VERBA IDEM SIGNIFICANT. Et
horum exemplum: UT EST ALBUS HOMO, EST HOMO ALBUS. In his enim nomina
transposita sunt. NAM SI HOC NON EST, id est si non idem significant verba
nominaque transposita, quiddam impossibile et inconveniens. Ait enim EIUSDEM ƿ
MULTAE ERUNT NEGATIONES, id est eiusdem affirmationis multae erunt negationes.
Sed hoc impossibile est. Ostensum est enim quoniam una negatio unius affirmatio
his est. Duas ergo negationes uni opponi affirmationi, si verba et nomina
transposita non idem significant, sic demonstrat: EIUS ENIM QUAE EST EST ALBUS
HOMO scilicet affirmationis NEGATIO EST NON EST ALBUS HOMO (contra illam enim
affirmationem haec negatio iuste ponitur), EIUS VERO QUAE EST EST HOMO ALBUS,
id est alterius affirmationis, SI NON EADEM EST EI QUAE EST EST ALBUS HOMO, id
est si diversa est a priore propositione quae dicit: Est albus homo et
non est ei eadem, ac si diceret: si ei non consentit, ERIT NEGATIO VEL EA QUAE
EST NON EST NON HOMO ALBUS VEL EA QUAE EST NON EST HOMO ALBUS vel quaecumque
alia, quam si quis ponat, non esse negationem una ratione refellitur, qua haec
quam posuit. Refellitur autem haec hoc modo: ait enim: SED ALTERA QUIDEM EST
NEGATIO EIUS QUAE EST EST NON HOMO ALBUS, ALTERA VERO EIUS QUAE EST EST ALBUS
HOMO. Inter duas enim negationes quas posuit, illam scilicet quae dicit: Non
est non homo albus et eam quae proponit: Non est homo albus illa
quae dicit: Non est non homo albus negatio est affirmationis infinitum
habentis subiectum quae dicit: Est non homo albus alia vero scilicet quae
proponit: Non est homo albus eius est ƿ negatio quae est: Est albus
homo Cum ea enim verum dividit atque falsum. Quare erunt duae negationes
unius affirmationis. Sed hoc impossibile est. QUONIAM IGITUR TRANSPOSITO NOMINE
VEL VERBO EADEM FIT AFFIRMATIO VEL NEGATIO MANIFESTUM EST: superiorem
argumentationem hac huius sententiae conclusione confirmans. Fecit autem hunc
syllogismum in secundo modo hypothetico quem indemonstrabilem vocat hoc modo:
si primum est, secundum est; sed secundum non est, primum igitur non est, id
est si transpositis verbis et nominibus non sunt eaedem propositiones, unius
affirmationis duae sunt negationes; sed hoc impossibile est: non igitur
diversae sunt propositiones transpositis verbis atque nominibus. AT VERO UNUM
DE PLURIBUS VEL PLURA DE UNO AFFIRMARE VEL NEGARE, SI NON EST UNUM EX PLURIBUS,
NON EST AFFIRMATIO UNA NEQUE NEGATIO. DICO AUTEM UNUM NON SI UNUM NOMEN SIT
POSITUM, NON SIT AUTEM UNUM EX ILLIS, UT HOMO EST FORTASSE ET ANIMAL ET BIPES
ET MANSUETUM SED EX HIS UNUM FIT; EX ALBO AUTEM ET HOMINE ET AMBULARE NON UNUM.
QUARE NEC SI UNUM ALIQUID DE HIS AFFIRMET ALIQUIS ERIT UNA AFFIRMATIO SED VOX
QUIDEM UNA, AFFIRMATIONES VERO MULTAE, NEC SI DE UNO ISTA SED SIMILITER PLURES.
Multos talis loci huius caligo confudit, ut digne exsequi et quod ab Aristotele
dicebatur expedire non ƿ possent. Nos autem supra iam diximus magnae fuisse
curae apud Peripateticae sectae principes diiudicare, quae esset una affirmatio
vel negatio, quae plures. Neque enim vocis sonitu cognoscuntur aut numero
terminorum. Est enim ut una quidem res de una re praedicetur et non sit una
enuntiatio. Potest item fieri ut vel plures de una re praedicentur vel una de
pluribus, una tamen ex his omnibus enuntiatio fiat. Quae res magnae apud eos
cautelae fuit, ut ubi incidisset perspecta regula non lateret. Nam si quis
dicat: Canis animal est non est una enuntiatio. Canis enim multa
significat. Si quis vero dicat: Homo animal rationale mortale est vel
animal rationale mortale homo, singulae enuntiationes sunt, idcirco quoniam
unum ex omnibus quiddam fieri potest. Nam de animali, mortali et rationali
simul iunctis unus homo perficitur. Item alia sunt quae plurima praedicantur,
de quibus unum aliquid effici constituique non possit. Neque si illa de altero
praedicentur neque si de illis aliud, una affirmatio vel una negatio est sed
tot dicendae sunt esse affirmationes quot sunt hae res quae vel de una praedicantur
vel de quibus una dicitur, ut cum dicimus: Socrates calvus philosophus
ambulat Ex calvitia et philosophia et ambulatione nihil unum coniungitur,
ut haec quasi alicuius speciem forment. Quocirca sive haec de uno praedicentur
sive unus de istis, non poterit esse una enuntiatio. Et communiter quidem
totius propositi sensus huiusmodi est. Nunc autem ad ipsa Aristotelis verba
veniamus. Dicit enim: AT VERO UNUM DE PLURIBUS VEL PLURA DE UNO AFFIRMARE VEL
NEGARE, SI NON EST UNUM ES PLURIBUS, NON EST AFFIRMATIO UNA NEQUE NEGATIO. Si,
inquit, plura de uno praedices, ut cum dicis: Philosophus simus calvus Socrates
est vel rursus cum unum de pluribus praedicas, cum dicis: Socrates
philosophus simus calvus est si ex his pluribus quae vel praedicas vel
subicis unum aliquid non fit, quemadmodum fieri unum potest de his quae
praedicamus substantia animata sensibilis id quod est animal, non fit una
negatio nec una affirmatio, quandoquidem plura vel praedicantur vel
subiciuntur, ex quibus congregatis una species non exsistat. Quod si unum de
uno aliquis praedicaverit, quorum unum nomen plura significet, ex quibus
pluribus unum aliquid non fiat, rursus non est una affirmatio nec una negatio. Si
quis enim dicat: Canis animal est nomen canis significat et latrabilem et
caelestem et marinum, ex quibus iunctis nihil unum efficitur. Quare quoniam ex
his pluribus unum aliquid effici non potest, ex illo quoque nomine non fit una
affirmatio et una negatio, quod praedicatur aut subicitur, cum multa significet
ex quibus unum fieri non possit. Quod per hoc ostendit quod ait: DICO AUTEM
UNUM NON SI UNUM NOMEN SIT POSITUM NON SIT AUTEM UNUM EX ILLIS. Potest enim
fieri ut unum nomen de uno praedicetur sed si unum ipsorum plura significet, ex
quibus unum non sit, non est una affirmatio nec una negatio. Neque enim vox una
perficit enuntiationem sed eius quod significatur simplicitas, vel si plura
sins, in unum collectorum ƿ aliquid unum faciendi potentia. Huius autem rei
subiecit exemplum quo plurimos fefellit dicens: UT HOMO EST FORTASSE ET ANIMAL
ET BIPES ET MANSUETUM SED EX HIS UNUM FIT, EX ALBO AUTEM ET HOMINE ET AMBULARE
NON UNUM. Putaverunt enim alii ita hunc dixisse, ut ostenderet exempli gratia
se hanc quasi definitionem dedisse, ne forte aliquis arbitraretur hanc quasi
veram hominis definitionem posuisse, quae est animal bipes mansuetum. Idcirco
enim, inquiunt, dixit FORTASSE ET ANIMAL ET BIPES ET MANSUETUM EST, ne quis
omnino putaret huiusmodi esse hominis definitionem Aristotelem arbitrari. Alii
vero hoc non ita dictum acceperunt sed potius in hanc sententiam scripturamque
Aristotelis dictum interpretati sunt: UT HOMO EST AEQUE ET ANIMAL ET BIPES ET
MANSUETUM SED EX HIS UNUM FIT, ut ita intellegeretur: homo quidem aequaliter se
habet ad id quod homo est et ad id quod animal bipes mansuetum est. Quocirca si
idem et aequum est dicere hominem, quod animal bipes mansuetum, necesse est
quotiens de uno haec plura praedicantur, id est animal bipes mansuetum de
homine, quoniam aequale est homini, quod unum est, unum quiddam praedices, quamuis
tres voces praedicare videaris. Sed omnes hi nihil omnino intellegunt sed est
melior expositio quam Porphyrius dedit. Volens, inquit, Aristoteles monstrare,
quae una esset affirmatio, quae non una, dixit primo, quoniam plura de uno
praedicare vel plura uni subicere non est ad unam enuntiationem, nisi ex illis
pluribus unum aliquid fieret. Videns item quod adhuc possint plures esse
affirmationes etiam his praedicatis, quae cum plura sint, unum tamen ex his
fieri possit, hoc dixit FORTASSE ET ANIMAL ET BIPES EST ET MANSUETUM quod autem
dico tale est: manifestum quidem sit, quoniam si plura de uno praedicentur, ex
quibus unum fieri non possit, vel si plura uni subiciantur, ex quibus unum non
sit, quoniam non est una affirmatio rel negatio.Nunc autem tractemus de his
pluribus ex quibus unum aliquid fieri potest. Inveniemus enim et in his in modo
ipso enuntiandi plures aliquotiens enuntiationes et non unam reperiri, quamquam
ex pluribus unum fieri aliquid possit. Si quis enim sic dicat: animal rationale
mortale homo est, simul iungens animal rationale mortale, quoniam continve
dictum est et ex his unum aliquid fit, una est affirmatio. Sin vero sit aliquid
interualli, ut ita quis dicat: homo animal et rursus rationale et aliquantulum
requiescens dicat mortale est, non est una affirmatio nec una negatio. Haec
enim intercapedo plurimas efficit enuntiationes. Rursus si cum coniunctione
dicantur homo animal et rationale et mortale est, sic quoque multae
propositiones sunt. Nec differt aliquid vel requiescendo vel interponendo
coniunctiones dicere quam si quis sic dicat: Homo animal est Homo rationalis
est Homo mortalis est quae perspicue propositiones multae sunt. Videns
ergo hoc Aristoteles ita dixit: HOMO EST FORTASSE ET ANIMAL ET BIPES ET
MANSUETUM. Ad hoc inquit fortasse tamquam si ita diceret: de homine quidem et
bipede et mansueto fit unum sed est aliquotiens forte ut plures propositiones
sins, cum ea coniunctio quaedam separat atque discernit. Erit enim fortasse
homo et animal, ut haec una sit propositio, et bipes ut altera et mansuetum ut
rursus altera. Sed ex his unum aliquid fit, quae cum continve prolata sunt,
quoniam ex his unum aliquid conficitur, una est propositio. Non autem idem
evenit in omnibus. EX ALBO enim ET HOMINE ET AMBULARE NON UNUM FIT. Si quis
enim dicat: Socrates homo albus ambulat non est una affirmatio, quoniam
ex homine albedine et ambulatione nulla omnino species fit. Quare conclusio
est, quoniam nec si de his pluribus, ex quibus unum non fit, unum aliquid
praedicetur, ut ex terreno latrabili et caelesti et merino quoniam unum non fit
et de his unum aliquid praedicatur, quod dicimus canis, huiusmodi nomen quod
plura significat, ex quibus unum non fit, si de altero praedicetur vel si
subiciatur alteri, non fit una affirmatio nec una negatio sed erit quidem vox
una, affirmationes vero plurimae. Sive enim unum de pluribus praedicetur, ex
quibus non fit unum, vel plura huiusmodi de uno, vel si unum de uno
praedicetur, quod praedicatum plura significet, ex quibus unum non fit, sive
illud praedicatum alteri subiciatur, omnino non fit una affirmatio nec una
negatio. Est autem regula huiusmodi: una affirmatio est, si aut duo termini
singulas res significent aut si plura ita de uno praedicentur vel uni
subiciantur, ut ex his aliquid unum fieri possit, aut unum nomen quod vel
praedicatur vel subicitur talia significet plura, quae omnia unam quodammodo
speciem valeant congregare. SI ERGO DIALECTICA INTERROGATIO RESPONSIONIS EST
PETITIO, VEL PROPOSITIONIS VEL ALTERIUS PARTIS CONTRADICTIONIS, PROPOSITIO VERO
UNIUS CONTRADICTIONIS EST, NON ERIT UNA RESPONSIO AD HAEC; NEC UNA
INTERROGATIO, NEC SI SIT VERA. DICTUM AUTEM IN TOPICIS DE HIS EST. SIMILITER
AUTEM MANIFESTUM EST, QUONIAM NEC HOC IPSUM QUID EST DIALECTICA EST
INTERROGATIO. OPORTET ENIM DATUM ESSE EX INTERROGATIONE ELIGERE UTRAM VELUT
CONTRADICTIONIS PARTEM ENUNTIARE QUIA OPORTET INTERROGANTEM DETERMINARE, UTRUM
HOC SIT HOMO AN NON HOC. Quisquis dialectica utitur interrogatione, hic aut
simpliciter interrogat atque unam propositionem in interrogatione ponit, ut
contra eam sit una responsio, aut utrasque interrogans dicit, ad quas non fit
simplex responsio sed una tota propositio respondetur. Si quis enim dicat
interrogans: Socrates animal est? Contra hanc talis est responsio: Aut
ita aut non Si quis vero hoc modo interroget: Socrates animal est an
non? Contra hanc non est una responsio. Si enim respondetur ita, de qua
adnueris ignoratur, de affirmatione an de negatione; rursus si non responderis,
nescitur quam negare volueris, affirmationem an negationem. Quare contra
huiusmodi interrogationes tota propositio respondenda est, id est altera pars
contradictionis, ƿ aut tota affirmatio aut tota negatio, ut dices aut est
animal Socrates aut, si hoc non videtur, respondeas non est animal Socrates. In
his igitur quae multa sunt, ex quibus unum fieri nequit, si fiat interrogatio,
et ipsa reprehensibilis est et contra eam una responsio. Quisquis enim ea plura
interrogat, ex quibus unum esse non possit, multas facit interrogationes.
Contra quam si simpliciter respondeatur, etiam si vera sit ipsa responsio,
tamen iure reprehenditur. Contra enim multiplicem interrogationem multiplex
debet esse responsio. Si quis enim dicat interrogans: Socrates philosophus est
et legit et ambulat? Quia potest fieri ut sit quidem philosophus et
legat, non autem ambulet vel ambulet sed non legat, potest item fieri ut et
legat et ambulet, contra huiusmodi propositionem non est una responsio. Nam qui
ita interrogavit: Socrates philosophus est et legit et ambulat? Aut
imperite aut captiose interrogavit. Contra quam interrogationem, si contigerit
Socratem philosophum esse et ambulare et legere, si respondeatur: ita est, haec
quoque responsio reprehenditur. Contra plures enim interrogationes una
responsio non debet adhiberi, etiam si vere per illam unam respondeatur sicut
in hac quoque, si et philosophus est et legit et ambulat. Quocirca si
interrogatio dialectica responsionis petitio est, per quam responsionem fiat
propositio, ut cum quis dixerit interrogans: Dies est? Alius respondeat
non, fiat inde negatio: Dies non est vel certe altera pars propositionis,
cum ita interrogatur: Dies est an dies non est? Ut congrue scilicet
respondeatur diem esse aut diem non esse, id est tota propositio: hae quae ex
his pluribus fiunt atque interrogantur, ut unum ex his fieri non possit, non
sunt simplices interrogationes. Quocirca nec ad eas simplex est reddenda
responsio. De his autem se in Topicis dixisse commemorat. Rursus QUIA
DIALECTICA INTERROGATIO RESPONSIONIS EST PETITIO (ut supra dictum est) VEL
PROPOSITIONIS VEL ALTERIUS PARTIS CONTRADICTIONIS, quod paulo post
demonstrabitur, imperite illi interrogant qui ita dicunt: Quid est
animal? vel: Quid est homo? Oportet enim qui dialectice interrogat
dare interrogatione optionem, an sibi respondens affirmationem eligere velit an
negationem. Qui vero sic interrogat, ut quid est aliqua res volit dicere
respondentem, non est illa interrogatio dialectica. Interrogant autem quidam
hoc modo: Putasne anima ignis est? Cum respondens negaverit, addet: Nonne
tibi aliquid videtur esse inter ignem atque aerem, medium corpus, ut sit
anima? Cum respondens hoc quoque abnuerit, ille persequitur: An fortasse
magis tibi videtur aquam esse animam vel terram? Cum ille neque terram
neque aquam animam esse consenserit, tunc defessi interrogationibus ita
interrogant: Quid est ergo anima? Haec autem non est interrogatio
dialectica sed potius discipuli ad magistrum aliquid addiscere cupientis. Qui
enim aliquid cupit addiscere interrogat eum qui docere potest quid sit de quo
ambigit. Dialecticus ƿ autem (ut dictum est) ita interrogare debet, ut
respondenti sit optio an affirmationem an negationem velit eligere. Oportet
autem scire, quoniam omnis INTERROGATIO RESPONSIONIS EST PETITIO, dialectica
vero non cuiusdam responsionis sed eius quae in utraque parte habeat optionem.
Ergo hoc ipsum quid est non est dialectica interrogatio. Oportet enim ita
interrogare, ut ex interrogatione responsor possit eligere alteram
contradictionis partem. Debet enim terminare et definire is qui interrogat, an
hoc sit quod dicitur an non, ut: Homo animal est an non? Ut ille aut
affirmationem respondeat aut negationem. Quod autem dixit dialecticam
interrogationem petitionem esse responsionis, vel propositionis vel alterius
partis contradictionis, huiusmodi est: quisquis interrogat affirmationem; aut
eandem exspectat ut auditor sibi respondeat aut contradictionem, ut si quis sic
interroget: Homo animal est? Si ille adnuerit, propositionem reddidit,
eam scilicet quam proposuit interrogans; si vero interrogante aliquo, an homo
animal sit, respondens dixerit: Non est contradictionem respondisse
videbitur. Ille enim affirmationem interrogavit, ille negationem respondet,
quod est contradictio. Rursus si negationem interroget et ille respondeat
negationem, eandem propositionem reddidit, quam is qui interrogabat ante
proposuerat; sin vero interrogante alio negationem ille affirmationem
responderit, contradictio responsa est. Hoc est igitur quod ait interrogationem
responsionis petitionem esse et cuius responsionis addidit VEL PROPOSITIONIS,
si idem respondeat, quod ille interrogat, VEL ALTERIUS PARTIS CONTRADICTIONIS,
si cum ille affirmationem interrogat, ille responderit negationem, vel si cum
ille negationem in interrogatione posuerit, ille affirmationem in responsione
reddiderit. Interrogationis autem secundum Peripateticos duplex species est:
aut cum dialectica interrogatio est aut cum non dialectica. Non dialecticae
autem interrogationis duae sunt species, sicut Eudemus docet: una quidem quando
sumentes accidens interrogamus, cui illud accidat, ut quando videmus domum
Ciceronis, si interrogemus: Quis illic maneat? vel quando subiectum
quidem ipsum et rem sumimus, quid autem illi accidat interrogamus, ut si ipsum
Ciceronem quis videat et interroget: Quo divertat Et haec una species est
eorum, quae secundum accidens non dialectice interrogamus. Altera vero quando
proponentes nomen quid sit quaerimus aut genus aut differentiam aut
definitionem requirentes, ut si quis interroget: Quid sit animal vel quando
definitionem aut aliquid superius dictorum sumimus et quaerimus, cuius illa
sint, ut si quis quaerat, animal rationale mortale cuius sit definitio. QUONIAM
VERO HAEC QUIDEM PRAEDICANTUR COMPOSITA, UT UNUM SIT OMNE PRAEDICAMENTUM EORUM
QUAE EXTRA PRAEDICANTUR, ALIA VERO NON, QUAE DIFFERENTIA EST? DE HOMINE ENIM
VERUM EST DICERE ET EXTRA ANIMAL ET EXTRA BIPES ET UT UNUM ET HOMINEM ET ALBUM
ET HAEC UT UNUM. ƿ SED NON, SI CITHAROEDUS ET BONUS, ETIAM CITHAROEDUS BONUS.
SI ENIM, QUONIAM ALTERUTRUM DICITUR, ET UTRUMQUE DICITUR, MULTA ET INCONVENIEN
IA ERUNT. DE HOMINE ENIM ET HOMINEM VERUM EST DICERE ET ALBUM, QUARE ET OMNE.
RURSUS SI A BUM, ET OMNE. QUARE ERIT HOMO ALBUS ALBUS ET HOC IN INFINITUM. ET
RURSUS MUSICUS ALUS AMBULANS; ET HAEC EADEM FREQUENTER IMPLICITA. AMPLIUS SI
SOCRATES SOCRATES ET HOMO, ET SOCRATES SOCRATES HOMO. ET BIPES, ET HOMO BIPES. Multa
sunt quae cum singillatim vere praedicentur, si quis ea coniungat et praedicet,
veram praedicationem tenent. Sunt autem alia quae, si per se et disiuncta praedicentur,
vera sunt; sin vero coniuncte dicantur, veritatem in praedicatione non
retinent. Quae ergo horum sit differentia oportet agnosci. Si quis enim dicat
Socratem animal esse, verum dixerit, si quis rursus praedicet, quoniam Socrates
bipes est, hoc ƿ quoque verum est. Quae si coniuncta dicantur, ut est: Socrates
animal bipes est a propria veritate non discrepat. Atque haec quidem in
genere et ea differentia quae substantialis est Socrati. Quod si de accidenti
quoque dicatur, potest idem nihilominus evenire. Si quis enim sic dicat:
Socrates homo est verum est, rursus: Socrates calvus est hoc quoque
verum est. Quod si iungat dicens: Socrates homo calvus est veram rursus
ex coniunctis faciet praedicationem. Atque in his quidem ea quae singillatim vere
dicebantur, iuncta veraciter praedicata sunt. Sunt autem alia in quibus
singillatim quidem praedicata vera sunt, iuncta vero qualitatem veritatis
amittunt. Ut si quis dicat quoniam Socrates bonus est, verum est, rursus
Socrates quoque citharoedus est, sit hoc quoque verum. Haec coniungere non
necesse est, ut sit verum Socrates bonus citharoedus est. Potest enim bonus
quidem esse homo et cum sit citharoedus, non tamen esse bonus sed in alia re
quidem bonus, in alia tantum artis illius cognitor, non tamen in ipsa
perfectus. Hoc autem facilius tall liquebit exemplo: si quis enim dicat quoniam
Tiberius Gracchus malus est, verum est, rursus Tiberius Gracchus orator est,
hoc quoque verum est. Si coniungens dicat: Tiberius igitur malus orator est,
falso dixerit, optimus enim orator fuit. Sed ne quis nos ita dicentes ignorare
putet oratoris esse definitionem utrum bonum dicendi peritum, aliter ista dicta
sunt, ad exemplum potius quam ad veritatem. Atque ƿ haec quidem proposita ab
Aristotele sunt, cuius in textu verba sic constant: QUONIAM VERO, inquit, ALIA
QUIDEM PRAEDICANTUR coniuncta et COMPOSITA, ut ex his unum praedicamentum fiat
eorum quae extra vere dicta sunt, alia vero cum extra singillatimque vere
praedicarentur iuncta veram non faciunt praedicationem, inquirendum est quae
eorum sit differentia. Exempla autem horum talia sunt. Eorum quidem, quae extra
praedicantur vere nec si coniuncta sunt naturam veritatis amittunt, tale
exemplum est: DE HOMINE VERUM EST DICERE, quoniam et animal est et bipes rursus
quoniam animal bipes verum est de eodem homine dicere, ut de Socrate. De eodem
quoque Socrate et hominem extra et album, si ita contingit, verum est dicere et
de eo praedicare animal bipes a veritate non discrepat. Atque haec quid em
extra singillatimque praedicantur vere et iuncta vera sunt. Quod si de aliquo
praedicetur, quoniam citharoedus est, et verum sit et rursus quoniam bonus est,
et verum sit non necesse est dici quoniam bonus citharoedus est potest enim
esse solum quidem citharoedus, bonus autem homo. Hucusque quidem ista
disposuit. Quoniam autem videbantur quidam arbitrari, quod omnia quae
singillatim vere praedicarentur eadem quoque composita recte dicerentur, contra
hos dicit, quoniam multa erunt inconvenientia multaque impossibilia sunt si
quis dicat omne quod singillatim praedicatur veraciter id iunctum vere
praedicari. De homine enim verum est dicere quoniam homo est. Nam de Socrate ƿ
qui homo est vere dicitur quoniam homo est. Rursus de eodem vere potest dici
quoniam albus est. Quare et si haec iungas et ut unum praedices, verum est
dicere de aliquo homine quoniam homo albue est. Sed homo qui albus est verum
est de eo dicere quoniam albus est: quare etiam haec si iungas: erit igitur
praedicatio "Socrates homo albus albus est"! Nam de Socrate verum
erat dicere quoniam homo albus est. Sed de homine albo verum est dicere quoniam
albus est. Haec iuncta homo albus albus faciunt. Quod si de eodem homine albo
album rursus praedicari velis, verum est: quocirca et si iungas: erit igitur
praedicatio homo albus albus albus est. Atque hoc idem in infinitum. Rursus si
quis de aliquo homine dicat quoniam ille homo musicus est, si verum dicat
adiciatque quoniam idem homo ambulans est, verum dicit, si iungat quoniam ille
homo ambulans musicus est. Sed si verum est de aliquo homine praedicare quod
sit ambulans musicus, de ambulante autem musico verum est dicere quoniam
musicus est, erit ille homo homo ambulans musicus musicus. Sed de eodem verum
est dicere quoniam ambulans est, verum igitur erit de eo rursus dicere quoniam
homo ambulans ambulans musicus musicus est. Amplius quoque Socrates Socrates
est et rursus homo: erit igitur Socrates Socrates homo. Sed et bipes: erit
igitur Socrates Socrates homo bipes. Sed de Socrate verum est dicere quoniam
Socrates homo bipes est. Sed cum dixi hominem de eo, iam et bipedem ƿ dixi
(omnis enim homo bipes est): verum est ergo de eo dicere quoniam bipes est. Sed
verum erat dicere quoniam Socrates Socrates homo bipes est: vera erit igitur
praedicatio Socrates homo bipes bipes est. Sed rursus hominem dixi atque in eo
aliud bipes nominavi (omnis enim homo bipes est): Socrates igitur homo bipes
bipes bipes est. Et hoc in infinitum protractum superfiva loquacitas invenitur.
Non igitur fieri potest ut modis omnibus quicquid extra dicitur id iunctum vere
praedicetur. QUONIAM ERGO SI QUIS SIMPLICITER PONAT COMPLEXIONES FIERI PLURIMA
INCONVENIENTIA CONTINGIT DICERE MAVIFESTUM EST; QUEMADMODUM AUTEM PONENDUM,
NUNC DICIMUS. EORUM IGITUR QUAE PRAEDICANTUR ET DE QUIBUS PRAEDICANTUR
QUAECUMQUE SECUNDUM ACCIDENS DICUNTUR VEL DE EODEM VEL ALTERUM DE ALTERO, HAEC
NON ERUNT UNUM, UT HOMO ALBUS EST ET MUSICUS SED NON EST IDEM ALBUM ET MUSICUM;
ACCIDENTIA ENIM SUNT UTRAQUE EIDEM. NEC SI ALBUM MUSICUM VERUM EST DICERE,
TAMEN NON ERIT ALBUM MUSICUM UNUM ALIQUID; SECUNDUM ACCIDENS ENIM MUSICUM
ALBUM. QUARE NON ERIT ALBUM MUSICUM. QUOCIRCA NEC CITHAROEDUS BONUS SIMPLICITER
SED ANIMAL BIPES; NON ENIM SECUNDUM ACCIDENS. AMPLIUS NEC QUAECUMQUE INSUNT IN
ALTERO. QUARE NEQUE ALBUM FREQUENTER NEQUE ƿ HOMO HOMO ANIMAL VEL BIPES; INSUNT
ENIM IN HOMINE BIPES ET ANIMAL. Quae superius comprehendit ea nunc apertissima
ratione determinat dicens de his solis extra praedicatis veraciter non posse
unam praedicationem fieri veram, si coniuncta sins, quaecumque aut accidentia sunt
eidem, aut cum unum alii accidit, accidens aliud de illo accidenti praedicatur.
Si quis enim de Socrate dicat quoniam Socrates citharoedus est, rursus Socrates
bonus est, si utraque veraciter praedicet, duo accidentia de uno subiecto
praedicavit, id est de Socrate. Quocirca non potest ex his una fieri
praedicatio, ut dicatur Socrates citharoedus bonus est. Rursus si de Socrate
praedicetur musicus (sit enim Socrates musicus), de musico autem si praedicetur
albus, et hoc fortasse sit verum, non tamen iam necesse est musicum album esse.
Si enim sit musicus Socrates, si de eodem musico albus praedicetur, praedicatur
quidem de Socrate subiecto musicus, de musico autem quod est accidens
praedicatur album, rursus aliud accidens: ergo non potest hic una fieri vera
propositio ut dicatur: Socrates musicus albus est. Neque enim semper musicus
albus esse potest sed hanc naturam habent accidentia, ut veniant et recedant.
Ergo si eius, qui musicus albus est, in sole stantis cutem calor fuscaverit,
non erit quidem albus cum sit musicus. Quocirca neque tunc cum vere
praedicabatur, quoniam Socrates musicus albus est, neque tunc fuit recta
veraque praedicatio. Non enim habet permanendi naturam accidens, ut semper vere
praedicetur. Ratio autem verborum sic constat: quoniam ergo, inquit, si quis ƿ
dicat omnino quomodolibet complexiones fieri, id est ut quod singillatim
praedicaveras hoc complexum conexumque proponas, plurima inconvenientia dicere
contingit (multa enim concurrunt impossibilia, sicut supra ipse monstravit, tunc
quando ad nimiam loquacitatem perduxit eos eadem frequenter nomina repetentes),
quemadmodum ponendum est nunc dicimus, id est quemadmodum autem debent quae
singillatim vere dicuntur iuncta praedicari, nunc, inquit, dicimus. Omnia,
inquit, quae praedicantur de alio et rursus de quibus alia praedicantur duplici
modo sunt: aut enim accidentia sunt aut substantialia. Et aliae quidem
praedicationes sunt secundum accidens, quotiens aut duo accidentia de
substantia aut accidens de accidenti alicui substantiae praedicatur, alia vero
non secundum accidens, quotiens aliquid de atliquo substantialiter dicetur. Eorum
igitur quaecumque secundum accidens dicuntur, eorum si vel duo sint accidentia
et de eodem praedicentur vel si alterum accidens de altero accidenti dicatur,
ex his non potest una fieri propositio neque erit unum si iuncta sint. Homo
enim et albus est et musicus sed album musicum, quoniam in unam formam non
concurrunt, non facient unam propositionem. Non enim idem album et musicum.
Utraque enim eidem sunt accidentia, non tamen idem sunt. Nec si album de musico
praedicemus, id est accidens de accidenti, et hoc verum sit, non tamen necesse
est id quod musicum est esse album. Neque enim unum est aliquid. Accidenter
enim id quod musicum est ƿ album est. Quoniam enim id ipsum cui musicum accidit
album est, idcirco musicum album dicitur. Non est autem idem musicum album.
Quocirca eadem ratione tenetur, ut non possit idem esse citharoedus bonus nec
in unum corpus coniuncta faciant aliquid unum, quamquam singillatim vere
praedicentur. Quod si quis aliquid substantialiter praedicet duasque res
singillatim dicat, possunt in unam propositionem redire, quae substantialiter
vere seiuncte separatimque praedicantur. Homo enim, cum et animal sit et bipes,
est animal bipes et fit ex his una praedicatio. Nam neque animal secundum
accidens inest homini nec bipes. Quod per hoc ostendit quod ait: SED ANIMAL
BIPES; NON ENIM SECUNDUM ACCIDENS. Addit quoque illud quoniam nec ea iuncta
recte praedicantur, quaecumque vel latenter vel in prolatione in aliquo
terminorum continentur, qui in propositione positi sunt. Idcirco enim de homine
albo non debet dici albus, ut veniat praedicatio homo albus albus, quoniam iam
in homine albo continetur album. Rursus de homine idcirco non debet praedicari
bipes, quoniam licet non sit prolatum, tamen qui homo est bipes est. Sed de
homine si quis bipes praedicet, de re duos habente pedes deque hac differentia
quod est bipes praedicat bipes. Quocirca erit hic quoque homo bipes bipes. Homo
enim continet intra se bipes et qui dicit hominem cum sua differentia dicit. Si
quis ergo ad hunc praedicet bipes, de re duos habente pedes bipedem
praedicavit. Erit igitur homo bipes bipes. Sed ita praedicari non debet.
Continetur enim in homine bipes, ƿ ad quod si rursus bipes praedices,
molestissimam facies repetitionem. Hoc enim est quod ait: AMPLIUS NEC
QUAECUMQUE INSUNT IN ALIO: continentur vel prolatione, ut in eo quod est homo
albus (continetur in eo albus, quoniam per prolationem iam dictum est) aut
potestate et vi, ut in eo quod est homo continetur bipes, quamquam dictum
penitus non sit. VERUM AUTEM DICERE DE ALIQUO ET SIMPLICITER, UT QUENDAM
HOMINEM HOMINEM AUT QUENDAM ALBUM HOMINEM ALBUM; NON SEMPER AUTEM SED QUANDO IN
ADIECTO QUIDEM ALIQUID OPPOSITORUM INEST QUAE CONSEQUITUR CONTRADICTIO, NON
VERUM SED FALSUM EST, UT MORTUUM HOMINEM HOMINEM DICERE, QUANDO AUTEM NON
INEST, VERUM. Haec quaestio contraria superiori est. Illic enim quaerebatur, si
quae singillatim praedicabantur, an semper eadem vere coniuncta compositaque
dicerentur; hic autem converso ordine idem quaerit, an ea quae composita vere
praedicantur singillatim dicta vere dicantur. Post obitum enim Socratis
possumus dicere hoc cadaver homo mortuus est et hominem mortnumque inugentes
unam inde veram facere praedicationem. Solum autem hominem dicere cadaver illud
non est verum. Rursus eundem Socratem vivum verum est dicere quoniam animal
bipes est et singillatim verum ƿ est dicere quoniam animal est. Quare quaeritur
quae sit huius quoque differentia praedicationis, ut cum coniuncta dicuntur et
vere de subiectis praedicantur alias quidem et extra dici vere possint, alias
vero praeter illam coniunctionem simplicia si dicantur falsa sint. Hoc autem
quasi dubitans dixit. Ita enim legendum est, quasi si dubitans diceret sic:
verum est autem dicere de aliquo compositum coniunctumque aliquid, ut de aliquo
homine hominem aut de aliquo albo album, ita ut et horum aliquid simpliciter
praedicetur, an certe non semper? Et dat regulam qua pernoscamus, an quae
composita dicuntur eadem singillatim dici possint an minime. Quotiens enim
talia sunt quae praedicantur cum alio, ut in se non habeant contradictionem
praedicata, possunt dici et separata veraciter. Quodsi habeant in se aliquam
contradictionem quae praedicantur et composita dicuntur vere, separata vere
praedicari non possunt. Qui dicit cadaver hominem mortuum vere dicit, solum
autem hominem dicere vere non potest, idcirco quoniam prius cum coniunctione
praedicavit dicens hominem mortuum, mortuusque quod adiacet hominis praedicamento
(cum homine enim praedicatum est mortuus) contradictionem tenet contra hominem.
Est enim homo animal, mortuus vero non animal: ergo mortuus et homo
contradictionem quandam inter se habent. Illud est enim animal, illud vero non
animal. Quocirca quoniam inter se haec habent quandam contrarietatem, ƿ
separatus homo de mortuo homine solus non dicitur. Eodem quoque modo est et si
quis dicat manum esse marmoream statuae: verum dicit, solum autem manum dicere
esse eam quae statuae est falsum est. Habet enim manus potestatem dandi
accipiendique sed illa marmorea non habet. Ergo est quaedam contradictio inter
manum et manum marmoream, quod illa dare atque accipere potest, illa non
potest. Haec enim sibi contradictionis opponuntur modo. Ergo quotienscumque
tale aliquid praedicatur, ut homo de cadavere, cui tale aliquid coniunctum sit
atque adiaceat, quod faciat contradictionem contra praedicatum (ut hic adiacet
mortnus homo simulque praedicatur de cadavere, ut faciat contra ipsum hominem
contradictionem eamque in se contineat), non potest separari una praedicatio,
ut singillatim dicatur, sin vero non sit ista contradictio, potest: ut in eo
quod est: Socrates animal bipes est Animal et bipes nulla contradictione
opponuntur: quocirca potest de eo et animal singillatim atque simpliciter et
bipes dici. Sensus quidem huiusmodi est, ordo autem se sic habet. Dubitans enim
dixit: VERUM AUTEM DICERE DE ALIQUO composite et connexe et rursus simpliciter,
ut quendam hominem hominem aut quendam album album, an certe non semper sed
tunc quando in adiecto, id est in eo quod adiectum cum aliquo praedicatur,
inest aliquid oppositorum talium quaecumque consequitur contradictio, id est
quam oppositionem mox contradictio consequatur, ut oppositionem hominis et
mortui sequitur contradictio, animal scilicet et non animal: si igitur sic
sint, non est ƿ verum simpliciter praedicari sed falsum, ut mortuum hominem,
quem coniuncte vere dicere possis, eundem hominem solum non vere praedicabis.
Quando autem haec oppositio in his quae praedicantur non inest, verum est quod
coniuncte praedicaveris et simpliciter praedicare. Adiectum est autem in quo
venit aliquotiens oppositio huiusmodi, ut in eo quod est homo mortuus mortuus
adicitur homini. Aliter enim vere homo de cadavere non potest praedicari. VEL
ETIAM QUANDO INEST QUIDEM SEMPER NON VERUM, QUANDO VERO NON INEST, NON SEMPER
VERUM, UT EOMERUS EST ALIQUID, UT POETA. ERGO ETIAM EST AN NON? SECUNDUM
ACCIDENS ENIM PRAEDICATUR ESSE DE HOMERO; QUONIAM POETA EST SED NON SECUNDUM
SE, PRAEDICATUR DE HOMERO QUONIAM EST. QUARE IN QUANTISCUMQUE PRAEDICAMENTIS
NEQUE CONTRARIETAS INEST, SI DEFINITIONES PRO NOMINIBUS DICANTUR, ET SECUNDUM
SE PRAEDICANTUR ET NON SECUNDUM ACCIDENS, IN HIS ET SIMPLICITER VERUM ERIT
DICERE. QUOD AUTEM NON EST, QUONIAM OPINABILE EST, NON VERUM DICERE ESSE
ALIQUID. OPINATIO ENIM EIUS NON EST, QUONIAM EST SED QUONIAM NON EST. Quoniam
supra dixerat, quando esset in adiecto contradictio, non esse verum simpliciter
praedicare, quando vero non esset, verum esse quod coniuncte ƿ diceretur
simpliciter dicere, hoc ipsum quoniam videbatur in aliquibus non esse verum,
consequenter emendat. Ait enim verum esse illud quod supra dictum est,
quandocumque in adiecto esset aliqua contradictio, non esse verum simpliciter
praedicare, quod coniuncte diceretur, quando autem non inest contradictio, non
semper verum esse praedicare simpliciter, quod coniuncte vere diceretur sed
aliquotiens verum, aliquotiens vero falsum. Huius rei tale exemplum est: cum
dico: Homerus poeta est est et poeta coniuncte de Homero vere praedicavi.
Sin vero dixero: Homerus est falsum est, quamquam non sit aliqua
contradictio inter est et poetam, neque in adiecto est ulla talis est oppositio
quam consequatur contradictio. Cur autem hoc eveniat, talis ratio est: de
Homero enim poetam quidem principaliter praedicamus, cum dicimus Homerus poeta
est, est autem verbum de poeta quidem praedicamus principaliter, de Homero
autem secundo loco. Non enim idcirco praedicamus esse, quia Homerus est sed
quia poeta est. Sublato igitur eo quod principaliter praedicatur, id est poeta,
licet nullam contradictionem habeat est, quod adiacet poetae, contra poetam,
non fit vera praedicatio dicendo Homerus est. Secundum accidens enim est
praedicatur, non principaliter. Sublata autem principali praedicatione, quod
secundum accidens praedicabatur, falsum continuo reperitur. Quod autem addit: QUARE
IN QUANTISCUMQUE PRAEDICAMENTIS NEQUE CONTRARIETAS INEST, SI DEFINITIONES PRO
NOMINIBUS DICANTUR, ET SECUNDUM SE PRAEDICANTUR ET NON SECUNDUM ACCIDENS, ƿ IN
HIS ET SIMPLICITER VERUM ERIT DICERE huiusmodi est. Ea quae superius dixit una
ratione collegit dicens: quaecumque eo modo praedicantur, ut neque in nominibus
neque in definitionibus propriis aliquam teneant contrarietatem, haec et extra
simpliciterque praedicata vera sunt, ut in eo quod est homo mortuus mortuus
atque homo: haec quidem nominibus nullius contrarietatis contradictionisue sunt
sed si horum pro no minibus definitiones sumantur, mox contrarietas
oppositionis agnoscitur. Si quis enim dederit hominis definitionem, dicit
animal esse rationale, si quis mortui, dicit esse corpus, verum vita privatum
atque inanimum atque ex hoc tota vis contradictionis apparet. Quocirca si
sumantur definitiones pro nominibus et in his aliqua contrarietas inesse videbitur
vel si secundum accidens aliquid praedicetur, ut est de Homero, cum de poeta
principaliter praedicetur, non praedicabuntur simpliciter vere quaecumque
composita praedicabantur. Quod si neque contrarietas ulla sit et per se
praedicentur et non per accidens, quicquid composite vere dicitur, hoc
simpliciter vere praedicatur. Quoniam autem fuerunt quidam qui hoc ipsum quod
non est esse dicerent totum syllogismum his propositionibus coniungentes: Quod
non est opinabile est Quod autem opinabile est est Igitur est quod non est hoc
igitur dicit: si verum est praedicare, inquit, de eo quod non est quoniam
opinabile est, est quidem verbum de opinabili praedicamus, de eo autem quod non
est secundum accidens. Quoniam enim quod non est opinabile est, idcirco secundo
loco de eo quod non est verbum est praedicamus. Quare non possumus simpliciter
dicere esse quod non est. Idcirco enim opinabile est, quia non est. Scibile
enim esset, si per se esset, non opinabile, sicut Homerus idcirco esse dicitur,
quia poeta est, non quia per se est. Vel certe idcirco dicitur Homerus esse
poeta, quia poesis ipsius exstat et permanet, sicut aliquos in filiis suis
saepe vivere dicimus. Quocirca id quod non est idcirco esse dicitur opinabile,
quoniam ipsius est opinatio, non autem quoniam id quod non est per se aliquid
esse potest. His igitur ante perstructis atque ordine terminatis ad
propositionum modos, rem in dialectica utilissimam, de propositionibus
tractatum disputationemque convertit. Restat nunc de propositionum modis
oppositionumque disserere. Multis enim dubitatum est rationibus, an idem modus
esset propositionum sine modo positarum, qui illarum quoque quae propriis modis
et qualitatibus terminantur. Inchoat autem de his rebus dubitationem sic. HIS
VERO DETERMINATIS PERSPICIENDUM QUEMADMODUM SE HABENT NEGATIONES ET
AFFIRMATIONES AD SE INVICEM HAE SCILICET QUAE SUNT ƿ DE POSSIBILE ESSE ET NON
POSSIBILE ET CONTINGERE ET NON CONTINGERE ET DE IMPOSSIBILI ET DE NECESSARIO;
HABET ENIM ALIQUAS DUBITATIONES. Omnis propositio aut sine ullo modo
simpliciter pronuntiatur, ut Socrates ambulat vel dies est vel quicquid
simpliciter et sine ulla qualitate praedicatur. Sunt autem aliae quae cum
propriis dicuntur modis, ut est Socrates velociter ambulat. Ambulationi enim
Socratis modus est additus, cum dicimus eum velociter ambulare. Quomodo enim
ambulet, significat id quod de ambulatione eius velociter praedicamus.
Similiter autem si quis dicat Socrates bene doctus est, quemadmodum sit doctus
ostendit nec solum doctus dixit sed modum quoque doctrinae Socratis adiungit.
Sed quoniam sunt modi alii per quos aliquid posse fieri dicimus, aliquid esse,
aliquid necesse esse, aliquid contingere, quaeritur in his quoque quemadmodum
fieri contradictionis debeat oppositio. In his enim propositionibus, quae
simpliciter et sine ullo modo praedicantur, facile locus contradictionis
agnoscitur. Huius enim affirmationis quae est: Socrates ambulat negatio
si ad verbum ponatur, ut est: Socrates non ambulat rectissime oppositione
facta ambulare a Socrate disiunxit. Rursus huius propositionis quae est:
Socrates philosophus est si quis ad est verbum negationem ponat, integram
faciet negationem dicens: Socrates philosophus non est Neque enim fieri
potest ut ad aliud in simplicibus affirmationibus negatio ƿ ponatur nisi ad id
verbum quod totius vim continet propositionis. Si quis enim in hac propositione
quae est homo albus est non dicat fieri negationem eam quae est homo albus non
est sed potius homo non albus est, hoc modo falsum ostenditur: proposito lapide
interrogetur de eo: An lapis ille homo albus sit? ut si ille negaverit
ponens negationem eius quae est: Homo albus est eam quae dicit: Homo non
albus est dicatur ei: si non est de hoc lapide vera affirmatio quae
dicit: Homo albus est vera erit de eo negatio ea scilicet quae dicit:
Homo non albus est Sed haec quoque falsa est. Omnino enim lapis homo non
est atque ideo de eo non poterit praedicari quoniam homo non albus est. Quod si
neque affirmatio neque negatio de eo vera est, hoc autem impossibile est, ut contradictoriae
affirmationes et negationes de eodem praedicatae utraeque falsae sins, constat
non esse eius affirmationis quae dicit: Homo albus est illam negationem
quae dicit: Homo non albus est sed potius eam per quam proponitur quoniam
albus non est. Nusquam igitur alibi ponenda negatio est in his quae simpliciter
et sine modo aliquo praedicantur nisi ad verbum quod totem continet
propositionem. De his autem sufficienter supra iam diximus. In his autem in
quibus aliqui modus apponitur dubitatio est, an ad modum ilium ponatur negativa
particula an locum suum serues ad verbum, sicut in his quoque propositionibus
fiebat, ƿ quae simplices et sine modo ullo proponebantur. Nam si serues locum
suum negativa particula, ut ponatur ad verbum, proprietas contradictionis
excidit et verum inter se falsumque non dividit. Modus enim quidam est faciendi
aliquid, quotiens dicimus possibile esse vel necesse esse vel quicquid
huiusmodi est. Ergo si quis me dicat nunc posse ambulare, idem neget negationem
ponens ad verbum quod est ambulare dicatque me posse non ambulare, affirmatio
et negatio contradictoriae de eodem dictae verae simul invenientur. Me namque
et ambulare posse et non ambulare posse manifestum est. Quod si in hoc modo
possibilitatis non recte verbo particula negatira coniangitur, etiam in his
quoque quae nullam habent differentiam, an ad modum an ad verbum negatio
ponatur, custodienda est talis oppositio quae huic speciei propositionum quae
cum modo proferuntur conveniat. In hac propositione quae dicit: Socrates
velociter ambulat sive quis ita neget: Socrates velociter non
ambulat ad verbum ponens negationem sive sic: Socrates non velociter
ambulat modo negativam particulam iungens, prope simile esse ridebitur.
Dividit enim cum affirmatione veritatem falsitatemque utroque modo apta
negatio. Sed quoniam sunt plurimi modi, in quibus si ad verbum inugatur
particula negativa, non est negatio superius enuntiatae affirmationis, idcirco
servanda est in omnibus secundum modum propositionibus ista oppositio, ut uno
eodemque modo cunctarum ƿ fieri oppositiones dicantur, ut in illis quidem
negatio quae simplices sunt rem neget, in his autem quae cum modo sunt modum
neget, ut in eo quod est: Socrates ambulat rem ipsam id est ambulat neget
adimatque propositio dicens: Socrates non ambulat in illis autem quae cum
modo sunt rem quidem esse consentiat, modum neget, ut in ea propositione quae
dicit: Socrates velociter ambulat negatio dicat: Socrates non velociter
ambulat ut sive ambulet sive non ambulet nulla sit differentia, modum
autem id est velociter ambulandi perimat ex adverso constitute negatio. Quamquam
in quibusdam hoc non sit: simul enim cum modo ipso etiam rem perimi necesse
est, ut in eo quod est: Socrates potest ambulare Socrates non potest
ambulare et modum et rem modo ipsi iuncta particula negationis
intercipit. Sed hoc in his fere evenit, in quibus non fieri quidem aliquid
dicitur et actus ipsius additur modus sed potius faciendi in futuro modus, ut
si quis dicat Socratem ambulare posse, non quod iam ambulet sed quod eum sit
ambulare possibile. Hic si possibili negatio coniungatur, etiam rem illam
tulisse videbitur de qua illa possibilitas praedicatur. Si quis autem dicat
quoniam Socrates velociter ambulat, facere eum aliquid dicit modumque illi
actui iungit, ut quemadmodum illud faciat quod facere dicitur quilibet
agnoscat. In his res quidem permanet, modus autem subruitur, ut superius
dictum. An certe illud magis verius est dicendum, quod semper huiusmodi ƿ
propositiones modum quidem auferant, rem vero de qua modus ille praedicatur non
perimant? Et in quibus ponitur res, ut in eo quod est: Socrates velociter
ambulat et in quibus praedicatur actus ipse et praesens, quia fiat atque
agatur, manifestum est modum quidem subrui, rem vero quae fieri dicitur permanere,
ut cum dicimus: Socrates non velociter ambulat ambulare eum quidem non
subtractum est sed tantum haec negatio velocitatem ab ambulatione disiunxit. In
his autem quae possibilitatem aliquid in futuro faciendi per modum ponunt
nullus omnino actus ponitur sed tantum modus. Ad quem modum iuncta negatio
modum quidem perimit sed res illa de qua modus praedicabatur non permanet,
idcirco quoniam nec tunc cum praedicabatur cum modo aliquid fieri agive
propositum est, ut si quis dicat: Socratem possibile est ambulare positus
quidem modus est, res vero actu constitute non est. Non enim dictum est quoniam
ambulat sed quoniam eum possibile est ambulare. Hanc ergo possibilitatem tollit
negatio in propositione quae dicit: Socratem non possibile est ambulare
sed in eadem propositione res de qua dicebatur modus ille non permanet. Hoc
autem idcirco evenit, quia ne in affirmatione quidem posita est res de qua
praedicatus est modus. Atque ideo non a negatione perempta res, quippe quam
negatio positam non invenit sed tantum modus, qui etiam ab affirmatione
constitutus est. Magna autem distantia est, an ad modum negatio ponatur an ad
verbum. Nam si ad verbum ponam, praedicaho a subiecto disiungitur, ut est:
Socrates non ambulat Nam ambulat quod praedicatio ƿ est a subiecto quod
est Socrates divisum est. Sin vero ad modum ponatur, non praedicatio a subiecto
dividitur sed a praedicatione potius disiungitur modus, ut in eo quod est:
Socrates non velociter ambulat non ambulationem a Socrate propositio ista
disiunxit sed velocitatem ab ambulatione id est modum a praedicato. Et hoc in
his facilius evidentiusque apparet, quaecumque ita praedicantur ac fieri. Oportet
autem quid possibile, quid necessarium, quid inesse definire eorumque
significationes ostendere, quod nobis et ad huius loci subtilitatem proderit,
quem tractamus, et superiora quaecumque de contingentibus dicta sunt magis
liquebunt et Analyticorum nobis mentem apertissima luce vulgabit. Quatuor modi
sunt quos Aristoteles in hoc libro de interpretatione disponit: aut enim esse
aliquid dicitur aut contingere esse aut possibile esse aut necesse esse. Quorum
contingere esse et possibile esse idem significat nec quicquam discrepat dicere
cras posse esse circenses et rursus cras contingere esse circenses, nisi hoc
tantum quod possibile quidem potest privatione subduci, contingens vero minime.
Contra enim id quod dicitur possibile esse et negatio possibilitatis infertur
aliquotiens, ut est non possibile esse, et privatio, ut est impossibile esse.
Namque quod dicimus impossibile esse privatio possibilitatis est. In
contingenti autem quamquam idem significet sola tantum opponitur negatio, nulla
vero privatio ƿ reperitur: ut in eo quod est contingens, si hoc perimere
volumus, dicimus non contingens et hoc negatio est, incontingens autem nullus
dixerit quod est privatio. Cum igitur contingens esse et possibile esse idem
significent, multa in his diversitas est secundum Porphyrium quae sunt
necessaria et inesse tantum significantia et contingentia vel possibilia. Quod
enim esse aliquid dicitur, de praesenti tempore iudicatur. Si quid enim nunc
alicui inest, hoc esse praedicatur, quod vero ita inest, ut semper sit et
numquam mutetur, illud necesse esse dicitur, ut soli motus lunaeque cum terra
obstitit defectus. Quae autem contingere dicuntur vel possibilia esse, illorum
neque secundum praesens neque secundum aliquam immutabilitatem speculamur
euentum sed tantum respicimus quantum contingentis propositio pollicetur. Quod
enim posse esse vel contingere dicitur, nondum quidem est sed esse poterit.
Sive autem eveniat sive non eveniat, quia tamen esse potest, contingens vel
possibilis dicitur propositio. Non enim ex euentu diiudicantur huiusmodi
propositiones sed potius ex significatione hoc modo: si quis enim dicat posse
cras esse circenses, possibilis est contingensque affirmatio. Quod si cras sint
circenses, non tamen aliquid est actu propositionis contingentis vel possibilis
permutatum, ut necesse fuisse videatur, quod illa possibiliter promittebat.
Quod si rursus non sint circenses, omnino nec sic aliquid permutatum est, ut
necesse fuisse non esse circenses ƿ videatur. Non enim (ut dictum est) secundum
euentum ista iudicantur sed potius secundum ipsius propositionis promissum.
Quid enim dicit quisquis dixerit cras posse esse circenses? Hoc, ut opinor,
sive sint sive non sint nulla tamen interclusum esse necessitate ne non sint. Quare
quatuor modorum duo quidem idem sunt, contingens atque possibile, hi autem duo
cum duobus reliquis atque ipsi reliqui a se dissentiunt. Possibile enim et
contingens distat ab ea propositione quae esse aliquid dicit. Haec enim
secundum possibilitatem futuri temporis affirmationem proponit, illa vero
secundum praesentis actum. Utraeque vero, et ea quae esse et ea quae possibile
esse vel contingere significat, a necessaria propositione disiunctae sunt.
Necessitas enim non modo inesse uult aliquid sed etiam immutabiliter inesse, ut
illud quod esse dicitur numquam esse non possit. Quocirca consequentiae quoque
ordinis evidenter apparent. Quod enim est necessarium sine eo quod est esse vel
contingere esse vel possibile esse dici non potest. Quidquid enim necessarium
est et est et esse potest vel si esse non posset, nec esset omnino. Quod si non
esset, nec necesse esse diceretur. Quare omne necessarium et est et possibile est.
Sed neque omne est necessarium est (possunt enim esse quaedam, quae ut sint non
est necesse, ut Socratem ambulare vel caetera quae de separabilibus
accidentibus sumuntur) vel rursus quod contingit esse vel esse possibile est
mox esse necesse ƿ est. Quare necesse est quidem sequuntur esse et
possibilitas, Sed neque esse neque possibile esse necessitas ulla consequitur. Rursus
omne esse sequitur posse esse. Quod enim est et potest esse. Nam si esse non
posset, sine ulla dubitatione nec esset. Possibile autem esse non consequitur
esse. Quod enim possibile est potest et non esse, ut me possibile est quidem
nunc procedere sed hoc mihi non est esse. Non enim nunc procedo. Quare gradatim
haec omnis est consequentia. Necesse est namque et esse sequitur et possibilitas.
Rursus esse eadem sequitur possibilitas, possibilitatem autem nec esse sequitur
nec necessitas. Liquet ergo, quoniam duo modi sunt possibilium: unum quod iam
sequitur necessitatem, alterum quod non sequitur ipsa necessitas. Nam cum dico:
Necesse est ut nunc sol moveatur hoc etiam possibile est, cum vero dico:
Possibile est me nunc sumere codicem non est necesse. Recte igitur ab
Aristotele paulo post dubitabitur, utrum sit illud possibile quod necessitati
conveniat. Sed cum ad eadem loca venerimus, quid sibi ista possibilium
similitudo velit vel quemadmodum discerni possit agnoscemus. Nunc autem quoniam
affirmativarum propositionum consequentias explicuimus, negativarum rursus
consequentias exploremus. Harum namque quatuor propositionum, quae fiunt ex
esse, ex necesse esse, ex possibile esse vel contingit esse, quatuor negationes
sunt id est non esse, non necesse esse, non possibile esse vel non contingere
esse. Sed quemadmodum affirmationes contingere esse et possibile esse eaedem ƿ
erant secundum significationum similitudinem, ita quoque negationes eaedem
sunt. Neque enim discrepat quicquam dicere non possibile est quam si enuntiet
non contingit. Consequentiae autem se in affirmativis habebant hoc modo, ut
necessaries propositiones sequerentur esse aliquid significantes atque
possibiles, eas autem quae esse aliquid dicerent eaedem possibiles sequerentur
sed neque possibilibus esse aliquid significantes nec necessariae
consentiebant. In negativis vero e contra est. Negationem enim possibilitatis
sequitur et eius quae est esse aliquid significantis negatio et necessariae.
Negationem vero necessarii neque eius quod est esse neque eius quod est
possibile esse negatio sequitur. Disponantur enim in ordinem omnes hoc modo:
Possibile esse Non possibile esse Contingens esse Non contingens esse Esse Non
esse Necesse esse Non necesse esse Repetendum igitur breviter est
affirmativarum consequentias, ut quemadmodum e converso sint in negativis
evidentius patefiat. Esse sequitur possibilitas et contingentia, possibilitatem
vero et contingentiam esse non sequitur, necesse esse vero sequitur et esse et
possibilitas et contingentia, possibilitatem autem et contingenham nec esse
sequitur nec necessitas. In negationibus vero e contra est. Non posse esse et
non contingere sequitur non esse. Quicquid enim non potest esse non est. Non
esse autem non posse esse ƿ non sequitur. Quod enim non est non omnino
interclusum est ut esse non possit. Nunc ego enim Traiani forum non video sed
non est necesse ut non videam. Fieri enim potest ut propius acceders videam. Rursus
non posse esse et non contingens esse nec non esse sequitur nec non necesse
esse. Quod enim esse non potest non videbitur vere dici, quoniam illud non
necesse est esse sed potius quoniam illud necesse est non esse. Negationem
autem necessitatis, id est non necesse esse, neque non esse sequitur neque non
possibile esse. Me enim cum ambulo non necesse est ambulare. Neque enim ex
necessitate quisquam ambulat. Nec rursus quod non est necesse id non potest
fieri. Quisquis enim ambulat non quidem illi ambulare necesse est sed tamen
potest. Atque ideo quod non est necesse esse non omnino interclusum est ut esse
non possit. Et de non contingenti eadem ratio est. Diverso igitur modo quam in
affirmationibus negativa conversio est. Illic enim necessitatem et essentia et
possibilitas sequebatur, essentiam autem possibilitas sed neque possibilitatem
essentia vel necessitas nec rursus essentiam necessitas sequebatur. Hic autem
non possibile esse et non esse et non necesse esse consequitur. Sed neque non
necesse esse non esse sequitur neque utrasque possibilitatis negatio, quae non
posse aliquid esse proponit. An magis illud dicendum est, quod sicut se in
affirmationibus habet, ita quoque in negationibus, ut Theophrastus ƿ acutissime
perspexit? Fuit enim consequentia in affirmativis, ut necessitatem et esse
consequeretur et possibilitas, possibilitatem vero nec esse nec necessitas
sequeretur. Idem quoque penitus perspicientibus in negationibus apparebit.
Veniens namque negatio in necessario faciensque huiusmodi negationem quae dicit
"non necesse est" vim necessitatis infringit et totam propositionem
ad possibile duxit. Quod enim non necesse est esse fracto rigore necessitatis
ad possibilitatem perductum est. Sed possibilitatem nec esse sequebatur nec
necessitas. Recte igitur fractam necessitatem et ad possibile perductam, cum
negatio dicit non necesse esse, nec non esse nec non contingere esse
consequitur. Rursus qui dicit possibile esse, si ei disiunctio negationis
addatur, tollit possibile et ad necessitatis perpetuitatem negativa forma totam
propositionem reuocat, ut est non possibile. Quod enim non possibile est fieri
non potest ut sit, quod autem fieri non potest ut sit necesse est ut non sit.
Ergo necessariam quandam vim habet haec propositio in qua dicimus non posse
esse aliquid. Sed necessitatem sequebatur et essentia et possibilitas. Non
necesse autem esse ad possibilitatem respicit. Recte igitur non necesse esse,
quod est iam possibilitatis, sequetur propositionem quae dicit non posse esse,
quod est necessitatis. Alii ergo ordines propositionum sunt, vis tamen eadem,
ut necessitatem cuncta sequantur, possibilitatem vero necessitas non sequatur.
Hic oritur quaestio subdifficilis. Nam si necessitatem sequitur possibilitas,
non necesse autem possibilitati confine est, cur non necesse esse sequatur id
quod dicimus non necesse esse? Nam si possibilitas sequitur necessitatem, non
necesse autem esse possibilitatem, sequi debet necessitatem id quod non necesse
praedicamus. Quae hoc modo dissolvitur: non possibile esse quamquam vim habeat
necessitatis, differt tamen a necessitate, quod illud affirmativam habet
speciem, illud vero negativam. Sic etiam possibile esse et non necesse esse
differunt eo tantum, quod illud est affirmativum, illud vero negativum, cum vis
significationis eadem sit. Sed necessitatem affirmatio possibilitatis et
contingentis sequebatur. Quamquam tamen possibilitatem imitetur eique
consentiat id quod dicimus non necesse esse, tamen negatio quaedam est. Recte
igitur affirmationem quod est necesse esse non sequitur negatio per quam
aliquid non necesse esse proponimus. Et hanc quidem huius solutionem
quaestionis Theophrastus vir doctissimus repperit. Nos autem his determinatis
ad sequentia procedamus. Sunt enim, ut ipse ait Aristoteles, in his multae
dubitationes. Sed totius textus plenissimum sensum primo ponimus. Quod etsi
longum est, tamen ne intercisa videatur esse sententia non grauabor
apponere. NAM SI EORUM QUAE COMPLECTUNTUR ILLAE SIBI INVICEM OPPOSITAE
SUNT CONTRADICTIONES, QUAECUMQUE SECUNDUM ESSE ET NON ESSE DISPONUNTUR, ƿ UT
EIUS QUAE EST ESSE HOMINEM NEGATIO EST NON ESSE HOMINEM, NON, ESSE NON HOMINEM
ET EIUS QUAE EST ESSE ALBUM HOMINEM, NON ESSE NON ALBUM HOMINEM SED NON ESSE
ALBUM HOMINEM. SI ENIM DE OMNIBUS AUT DICTIO AUT NEGATIO, LIGNUM ERIT VERUM
DICERE ESSE NON ALBUM HOMINEM. QUOD SI HOC MODO, ET QUANTISCUMQUE ESSE NON
ADDITUR, IDEM FACIET QUOD PRO ESSE DICITUR, UT EIUS, QUAE EST AMBULAT HOMO NON,
AMBULAT NON HOMO NEGATIO EST SED NON AMBULAT HOMO; NIHIL ENIM DIFFERS DICERE
HOMINEM AMBULARE VEL HOMINEM AMBULANTEM ESSE. QUARE SI HOC MODO IN OMNIBUS, ET
EIUS QUAE EST POSSIBILE ESSE NEGATIO EST POSSIBILE NON ESSE, NON, NON POSSIBILE
ESSE. VIDETUR AUTEM IDEM POSSE ET ESSE ET NON ESSE; OMNE ENIM QUOD EST POSSIBILE
DIVIDI VEL AMBULARE ET NON ƿ AMBULARE ET NON DIVIDI POSSIBILE EST. RATIO AUTEM,
QUONIAM OMNE QUOD SIC POSSIBILE EST NON SEMPER ACTU EST, QUARE INERIT EI ETIAM
NEGATIO; POTEST IGITUR ET NON AMBULARE QUOD EST AMBULABILE ET NON VIDERI QUOD
EST VISIBILE. AT VERO IMPOSSIBILE DE EODEM VERAS OPPOSITES ESSE DICTIONES; NON
IGITUR EST ISTA NEGATIO. CONTINGIT ENIM EX HIS AUT IDEM IPSUM DICERE ET NEGARE
SIMUL DE EODEM AUT NON SECUNDUM ESSE ET NON ESSE QUAE APPONUNTUR FIERI
AFFIRMATIONES VEL NEGATIONEA SI ERGO ILLUD IMPOSSIBILIUS, HOC ERIT MAGIS
ELIGENDUM. EST IGITUR NEGATIO EIUS QUAE EST POSSIBILE ESSE NON POSSIBILE ESSE.
EADEM QUOQUE RATIO EST ET IN EO QUOD EST CONTINGENS ESSE; ETENIM EIUS NEGATIO
NON CONTINGENS ESSE. ET IN ALIIS QUOQUE SIMILI MODO, UT NECESSARIO ET IMPOSSIBILI
FIUNT ENIM QUEMADMODUM IN ILLIS ESSE ET NON ESSE APPOSITIONES, SUBIECTAE VERO
RES HOC QUIDEM ALBUM, ILLUD VERO HOMO, EODEM QUOQUE MODO HOC LOCO ESSE QUIDEM
SUBIECTUM FIT, POSSE VERO ET CONTINGERE APPOSITIONES DETERMINANTES QUEMADMODUM
IN ILLIS ESSE ET NON ESSE VERITATEM, SIMILITER ƿ AUTEM HAE ETIAM IN ESSE POSSIBILE
ET ESSE NON POSSIBILE. Haec Aristotele subtiliter discutiente illud oportet
agnoscere, quod multum differt ipsius possibilitatis vim naturamque definire
vel propriae scientiae qualitate concludere et possibilem enuntiationem qualis
esse debeat iudicare. Namque in possibilis cognitione illud solum perspicitur,
an id quod dicitur fieri possit nuilo extrinsecus impediente casu. Quod etiamsi
accidat, nihil de statu prioris possibilitatis. Ipsius possibilis enuntiationis
diiudicatio plurimum differt, quod mox poterit ex ipsa de possibilibus
enuntiationibus disputatione cognosci. Nam sicut non est idem hominis
definitionem respondere quaerentibus et ipsam definitionem alio termino
definitionis includere, ita non idem est de possibili enuntiatione et quid
ipsum possibile est tractare. Unde fit ut, cum possibile atque contingens idem
in significationibus sit, diversum esse in enuntiatiombus videatur. Supra
namque docuimus possibilitatem et contingentiam eiusdem significationis esse,
ut quod contingeret fieri idem esset possibile, quod possibile esset idem
quoque contingeret. Sed possibilis enuntiatio non est eadem quae contingens.
Neque enim si quis possibilem affirmationem proponat eique opponat contingentem
negationem, rectam faciet contradictionem. Si quis enim dicat quodlibet illud
esse possibile, alius respondeat negans rem illam contingere, licet quantum in
significatione est priorem possibilitatem abstulerit, non tamen est dicenda
contradictio, ƿ in qua alii termini in negatione, alii in affirmatione
enuntiati sunt. Possibilis enim affirmatio de possibilitate negationem, non de
contingentia habere debebit. Idem quoque in contingentibus. Neque enim si quis
aliquid contingere dixerit, opponenda illi est possibilitatis negatio, licet
idem sit possibile quod contingens. Constat igitur diversissimam esse rationem
modi per se diiudicandi et enuntiationis, quae cum modo et cum qualitate
praedicatur. Unde fit ut quamquam idem in significationibus possibilitas et
contingentia sint, quasi diversae ab Aristotele in modorum ordine proponantur. Illud
autem ignorandum non est quod Stoicis universalius videatur esse quo distet
possibile a necessario. Dividunt enim enuntiationes hoc modo: enuntiationum,
inquiunt, aliae sunt possibiles, aliae impossibiles, possibilium aliae sunt
necessariae, aliae non necessariae, rursus non necessariarum aliae sunt
possibiles, aliae vero impossibiles: stulte atque improvide idem possibile et
genus non necessarii et speciem constituentes. Novit autem Aristoteles et id
possibile quod non necessarium est et id possibile rursus quod esse necessarium
potest. Eodem namque modo non dicitur possibile esse, quod vel ex falsitate in
verum transit aliquando vel rursus ex veritate in falsum. Ut si quis dicat
nunc, quoniam dies est, verum dixerit, idem si hoc nocte praedicet, falsum est
et haec veritas propositionis in falsum est permutata sic ergo quaedam sunt
possibilitates, ut eas et esse et non esse contingat, quae non eodem modo
dicuntur quemadmodum illae quae mutabilem naturam non habent, ut hae scilicet
quas necessarias dicimus. Ut ƿ si quis dicat solem moveri vel solem possibile
esse moveri, haec numquam ex veritate in falsitatem mutabitur. Sed nunc de
Aristotelis Stoicorumque dissensione tacendum est. Illud tamen solum studiosius
perquirendum est, quo loco sit ponenda negatio in his propositionibus, in
quibus modus aliqui praedicatur, ut quae dicentur esse possibiles
enuntiationes. Possibiles, contingentes et necessariae et quaecumque cum modo
sunt propositiones illae veraciter esse dicentur, in quarum significationibus
rei de qua prasdicantur subsistendi qualitas invenitur, ut cum dico: Socrates
bene loquitur modus quidam est loquendi Socratem. Ergo sicut in his
propositionibus, quaecumque cuiuslibet illius rei subsistentiam promittunt, ad
ipsam subsistentiam negatio ponitur (ut cum dicimus "Socrates est",
ad esse aptatur negatio, cum negamue "Socrates non est"), ita quoque
in his quae modum subsistentiae dicunt ad eum modum ponenda negatio est, qui ad
illam subsistentiam videtur adiectus, ut cum dicimus: Socrates bene
loquitur modus ipsius rei est id quod praedicatum est bene: ad hunc
igitur modum et qualitatem ponenda negatio est. Possibiles autem propositiones
vel contingentes eas esse dicimus, in quibus modus ipse monstratur et potius
non esse de modo dicitur sed modus de eo quod est esse. Cum enim dicimus
possibile esse, esse quidem quiddam dicimus, quemadmodum autem sit additum est,
id est possibile, ut non necessarium neque aliquo alio modo nisi tantum
secundum potestatem dicatur. Fit ergo esse ƿ subiectum, praedicatio vero modus
vel contingans vel possibilis vel necessarius vel quilibet alius. Atque hae
quidem propositiones secundum modum dicuntur, in quibus de substantia nihil ambigitur,
de modo autem et qualitate sola tractatur. Sin vero subiciatur quidem modus,
praedicetur vero esse, tunc de substantia rei quaeritur non de modo, ut si quis
dicat possibile est, ut ipsum possibile in rebus esse pronuntiet, huic
propositioni nullus modus adiectus est. Cum enim dicimus possibile esse modum
habere, hoc per se ita non dicimus sed particulam propositionis ablatam. Ita
enim perspicimus quasi si cum propositione esset iuncta. Quam si cum propria
propositione iunxerimus, et quali modo praedicetur apparet. Cum enim dicimus
possibile est, ut modum significet, particula propositionis est. Quam si suo
corpori adgregemus facientes aliquam propositionem, quid modus ille profiteatur
agnoscimus. Age enim id quod dixi possibile est coniungamus aliis
praedicamentis atque inde una enuntiatio conficiatur dicamusque Socratem
ambulare possibile est. Videsne modum in propositione possibile, ut etiam sive
Socrates ambulet sive non ambulet, posse eum tamen ambulare ex ipso
propositionis modo quilibet agnoscat? Ita igitur auferentes de toto partem
possibilem enuntiationem quasi si tota sit propositio speculamur, ut in his
dictionibus fieri solet, quae pluralitatem determinant, ut si dubitemus contra
omnis an nullus ponatur an non omnis, ita eas speculemur, quasi si integras
propositiones, quas determinationes propositionum ƿ esse manifestum est. Concludenti
igitur dicendum est: in his quae modum praedicant omnes aliae res subiectae
sunt vel esse vel ambulare vel legere vel dicere vel quicquid aliud cum aliquo modo
fieri dicetur, in his autem ubi modus ipse praedicatur, ut integra sit
propositio, non enim propositionis, non est cum modo propositio sed ibi tantum
de subsistentia modi proponitur. Ut si qui dicat possibile est, quiddam in
rebus dicit esse possibile, et rursus contingens est, quiddam in rebus dicit
esse quod contingat, et rursus necesse est, esse quiddam dicit in rebus quod
sit necesse: hic non de modo sed de solo esse tractatur. Quare quotiens esse
quidem subicitur, modus autem praedicatur, ut cum dicimus: Socratem ambulare
possibile est ad modum iungenda negatio est, quotiens vero modus
subicitur, esse autem praedicatur, ad esse ponenda negatio est. Ut cum dicimus
possibile est, quia ita dicimus tamquam si diceremus possibilitas est, et cum
dicimus contingere est, ita dicimus tamquam si diceremus contingentia est, ad
esse ponenda negatio est dicendumque possibile non est, quod idem valet tamquam
si diceretur possibilitas non est. Eodem quoque modo et de contingentia. Non
autem perfecte speculantibus idem semper videri debet subiectum, quod primo
loco reperiri dicitur, idem praedicatum semper, quod secundo loco praedicatur.
In quibusdam enim verum est, in ƿ aliis vero ex significatione potius
propositionum colligimus, qui terminus subiectus sit, qui vero praedicatus. Nam
cum dico: Homo animal est prius mihi necesse est dicere hominem, post
praedicare animal atque ideo subiectum dicitur homo, animal vero praedicatur.
In his autem in quibus modus additur sic est: cum dicimus: Socrates bene loquitur
idem valet tamquam si dicamus: Socrates bene loquens est et hic quidem
bene prius dictum est, postea vero loquens est et videtur subiectum quidem esse
id quod dictum est bene, praedicatum autem id quod dictum loquens est. Sed hoc
falsum est. Et hinc facillime poterit inveniri, quod loquentem quidem esse eum
nullus ignorat, quisquis audit Socratem bene loquentem esse, vim autem totius
propositionis modus continet. In id enim intendendus est animus, non si
loquatur. Hoc enim indubitatum est. Nam qui eum bene dicit loqui, loqui quoque
consentit. Quare ad modum intendendus est animus, ad id quod dictum est bene.
Socrates enim bene loquitur quod dixit, loqui quidem non sufficit dicere, nisi
etiam dicat bene. Continet igitur totam propositionem modus. Sed rursus propositionem
continet praedicatio: modus igitur in his propositionibus potius praedicatur. Concludendum
igitur universaliter est omnem modorum contradictionem non secundum esse verbum
fieri nec secundum id rursus verbum quod in se esse contineat sed potius secundum
modum. Continere autem in se verba id quod est esse dicuntur, ut cum dicimus
loquitur. Tantundem enim valet tamquam si dicamus loquens est. Quare quaecumque
propositiones quemlibet illum in se retineant modum, ƿ dubitandum non est quin
non ad id quod ponit esse negatio iuste applicetur sed potius ad eum modum quo
aliquid esse fierive pronuntietur. Omnis namque cum modo affirmatio talis est,
ut non intendere debeat animum auditor ad id quod esse dicitur sed ad id potius
quomodo illud esse dicatur. Ut cum dicimus: Socrates bene loquitur non
perspiciendum est an loquatur sed illuc potius animi dirigenda intentio est
quemadmodum loquatur. Hoc enim videtur totam continere propositionem. Ergo
contra possibile esse non est ea negatio quae dicit possibile non esse sed non
possibile esse. Eodem modo et contra eam quae dicit contingere esse non ea quae
enuntiat contingere non esse sed potius ea negatio est quae dicit non
contingere esse. Idem quoque et in necessariis impossibilibusque modis
caeterisque, quae nunc Aristoteles pro solita brevitate transgressus est,
faciendum videtur. Sed quoniam commentationis virtus est non solum
universaliter vim sensus expromere, verum etiam textus ipsius sermonibus
ordinique conectere, ea quae superius confuse dicta sunt nunc per sermonum
ipsorum ab Aristotele dictorum ordinem dividamus. HIS VERO DETERMINATIS
PERSPICIENDUM QUEMADMODUM SE HABENT NEGATIONES ET AFFIRMATIONES AD INVICEM HAE
SCILICET QUAE SUNT DE POSSIBILE ESSE ET NON POSSIBILE ET CONTINGERE ET NON
CONTINGERE ET IMPOSSIBILI ET DE NECESSARIO; HABET ENIM ALIQUAS DUBITATIONES. PERSPICIENDUM,
inquit, est de affirmationibus negationibusque, qua ƿ ratione videantur opponi
in his propositionibus, quas quidam modus continet, ut in his quae sunt
possibiles vel contingentes vel necessariae vel impossibiles vel verae vel
falsae vel bene vel male vel quicquid aliqua qualitate praedicatur. HABET ENIM,
inquit, ALIQUAS DUBITATIONES et quas dubitationes habeat continuo eas subicit. NAM
SI EORUM QUAE COMPLECTUNTUR ILLAE SIBI INVICEM OPPOSITAE SUNT CONTRADICTIONES,
QUAECUMQUE SECUNDUM ESSE ET NON ESSE DISPONUNTUR. Sensus totus huiusmodi est:
in omnibus complexionibus propositionum illa in his oppositio valet, quaecumque
secundum esse et non esse fit. Ut cum dicimus: Homo est huius negatio:
Homo non est sed non ea quae dicit: Non homo est Et rursus eius
quae proponit: Est albus homo illa negatio est quae dicit: Non est albus
homo non ea quae proponit: Est non albus homo Hoc ipsum autem,
quoniam eius quae dicit: Est albus homo non est negatio ea quae dicit:
Est non albus homo sed potius ea quae dicit: Non est albus homo sic
demonstrat: SI ENIM DE OMNIBUS AUT DICTIO AUT NEGATIO, LIGNUM ERIT VERUM DICERE
ESSE NON ALBUM HOMINEM. Breviter dictum est sed ita posse videtur exponi: propositum,
inquit, sit lignum, de quo duae enuntiationes dicantur. Illud tamen nobis
manifestum sit de omnibus, si affirmatio vera est, falsam esse negationem, eam
scilicet quae contradictorie opponitur, et si vera negatio, falsam
affirmationem. Pronuntietur igitur de proposito ligno, quoniam lignum hoc est
albus homo. Hoc falsum est. ƿ Si igitur haec affirmatio falsa est, vera debet
eius esse negatio. Si igitur ea est negatio affirmationis quae dicit: Est albus
homo ea quae negat dicens: Est non albus homo haec negatio vere
praedicabitur de ligno dicente quolibet quod lignum hoc est non albus homo. Sed
hoc fieri non potest. Perspicue enim falsum est lignum esse non album hominem.
Quod enim omnino homo non est nec non albus homo esse potest. Falsae igitur utraeque,
et affirmatio quae dicit de ligno quoniam est albus homo et negatio de eo quae
dicit quoniam est non albus homo. Quod si sunt falsae utraeque, haec negatio
illius affirmationis non est. Quaerenda igitur est alia quae cum ea verum
dividat atque falsum. Qua in re nulla alia reperietur contra eam quae dicit:
Est albus homo praeter eam quae dicit: Non est albus homo Nam si ea
dicitur esse affirmationis huius quae dicit: Est albus homo negatio quae
enuntiat: Est non albus homo erit ut de ligno de quo affirmatio dicta
falsa est vera sit enuntiata negatio eritque de ligno verum dicere, quoniam
lignum hoc est non albus homo sed hoc impossibile est. Constat igitur neque eam
propositionem quae dicit: Est non albus homo illius affirmationis esse
negationem quae proponit: Est albus homo et eam quae dicit: Non est albus
homo negationem esse eiusdem affirmationis quae dicit: Est albus
homo Videsne igitur ut prope in omnibus affirmationes et negationes
secundum esse vel non esse fiant? Illa enim album quod esse dixit, illa negat
album non esse dicens rursus illa dicit hominem esse, illa vero negat dicens
hominem non esse et in caeteris eodem modo est. QUOD SI HOC MODO, ET IN
QUANTISCUMQUE ESSE NON ADDITUR, IDEM FACIET QUOD PRO ESSE DICITUR, UT EIUS,
QUAE EST AMBULAT HOMO, NON EA QUAE EST AMBULAT NON HOMO NEGATIO EST SED EA QUAE
EST NON AMBULAT HOMO; NIHIL ENIM DIFFERT HOMINEM AMBULARE VEL HOMINEM
AMBULANTEM ESSE. Nec hoc solum, inquit, in his evenire potest propositionibus,
quae secundum esse vel non esse disponuntur sed etiam in his quaecumque verbis
talibus continentur, ut verba illa vim eius quod est esse concludant, ut est:
Homo ambulat ambulat continet in se esse. Idem enim est ambulat quod est
ambulans. Ad haec igitur verba quae in propositionibus esse continent aptanda
negatio est. Si enim omnis contradictio secundum esse vel non esse fit, haec
autem verba esse propria significatione concludunt quoniamque verba haec ita
ponuntur tamquam si hoc ipsum esse poneretur, manifestum est ad ea verba quae
esse continent negationem poni oportere ad earum similitudinem propositionum,
quae secundum esse et non esse supra dicta ratione sibimet opponuntur. His
igitur ante praedictis quid inconveniens ex his possit esse persequitur. QUARE
SI HOC MODO IN OMNIBUS, ET EIUS QUAE EST POSSIBILE ESSE NEGATIO EST POSSIBILE
NON ESSE, NON, NON POSSIBILE ESSE. VIDETUR AUTEM IDEM POSSE ET ESSE ET NON
ESSE; OMNE ENIM QUOD EST POSSIBILE DIVIDI VEL AMBULARE ET NON AMBULARE ET NON
DIVIDI POSSIBILE EST. Superius demonstratum est quemadmodum in his quae
complectuntur enuntiationibus secundum esse potius et non esse fierent
oppositiones, nunc hoc dicit: si hoc, inquit, in omnibus propositionibus
faciendum est, ut earum contradictiones secundum esse et non esse ponantur, et
in his quae aliquid possibile esse pronuntiant non ita ponenda negatio est, ut
dicat non possibile esse sed potius secundum non esse constituenda est, ut
dicatur possibile non esse negationem eius esse quae dicit possibile esse. Sed
si hoc dicimus, inquit, affirmatio et negatio contradictoriae verum inter se
falsumque non dividunt. Omne enim quod potest esse idem etiam potest non esse.
Quod enim potest dividi idem potest non dividi et quod potest ambulare idem
potest et non ambulare. Quae autem sit huiusmodi possibilitas, per quam cum
dicitur aliquid fieri posse, illud tamen relinquatur posse non fieri,
consequenter explanat dicens: RATIO AUTEM EST, QUONIAM OMNE QUOD SIC POSSIBILE
EST NON SEMPER IN ACTU EST, QUARE INERIT EI ETIAM NEGATIO; POTEST IGITUR ET NON
AMBULARE QUOD EST AMBULABILE ET NON VIDERI QUOD EST viSIBILE. AT VERO
IMPOSSIBILE EST DE EODEM VERAS OPPOSITES ESSE DICTIONES; NON IGITUR EST ISTA
NEGATIO. Causa est igitur, inquit, cur id quod posse esse dicitur idem possit
non esse, quod omne quod possibile dicimus ita pronuntiamus, ut non semper in
actu sit, id est non sit necessarium. Omne namque quod semper in actu est
necessarium est, ut sol semper movetur: itaque illi semper agitur motus. Si
quis autem me dicat ambulare posse, quoniam ƿ mihi ambulationis motus non semper
agitur et inest mihi aliquotiens non ambulare, inest quoque illud ut vere de me
dicatur posse me non ambulare, cum vere pronuntietur posse ambulare. Ergo
quaecumque non semper in actu sunt et posse esse et posse non esse recipiunt.
Potest igitur et quod est ambulabile, id est quod ambulare potest, non ambulare
et quod est visibile non videri. Quocirca docetur non esse negationem eius quae
dicit posse esse eam quae proponit posse non esse, idcirco quod utraeque sunt
verae in his quae (ut ipse ait) NON SEMPER ACTU sunt. CONTINGIT ENIM unum ex utrisque
quae Aristoteles dicit: AUT IDEM IPSUM DICERE ET NEGARE SIMUL DE EODEM AUT NON
SECUNDUM ESSE ET NON ESSE QUAE APPONUNTUR FIERI AFFIRMATIONES VEL NEGATIONES, ut
aut idem sint affirmatio et negatio sibique consentiant, si secundum esse et
non esse in omnibus contradictio fit, ut est in eo quod est posse esse et posse
non esse (idem enim utraeque sunt sibique consentiunt et si quis eam dicit
contradictionem esse contradictionem sibi consentire dicit), aut certe non in
omnibus negationibus secundum esse et non esse ea quae apponuntur fieri
affirmationes vel negationes, id est non in omnibus negationibus secundum
appositionem esse vel non esse vel eorum verborum quae esse continent fieri
contradictionem. SI ERGO ILLUD, INQUIT, IMPOSSIBILIUS EST, HOC ERIT MAGIS
ELIGENDUM. Duo supra posuerat quae ex supra dictis rationibus evenirent: aut
unum et idem ipsum esse ƿ dicere et negare simul de eodem, id est ut dictio et
negatio idem essent simul de eodem praedicatae sibique consentirent, aut non
secundum esse vel non esse fieri contradictionem. Sed videntur utraque quasi
quodammodo inconvenientia esse, quippe cum illud unum etiam impossibile sit, ut
affirmatio negatioque consentiant, illud alterum id est non secundum esse et
non esse fieri oppositiones inconsentiens sit aliis propositionibus, in quibus
hoc modo contradictionem fieri manifestum est. Nunc ergo hoc dicit: quoniam
utrumque, inquit, inconveniens est, unum autem ex his erit eligendum, quod
minus est impossibile, hoc sumendum est. Minus autem est impossibile, ut
secundum esse et non esse non fiant oppositiones. Hoc enim nihil prohibet,
illud autem impossibilius, ut affirmatio negatioque consentiant. Hoc igitur
erit eligendum potms: has quae cum modo sunt propositiones non eas habere
oppositiones, quae secundum esse et non esse fiunt sed potius eas quae ad modum
ponuntur. Non autem ita dixit impossibilius est, tamquam si altera impossibilis
sit sed ad hoc potius rettulit quod utraeque quasi inconvenientes videntur, quarum
unam etiam impossibilem esse non dubium est. Hinc quoque disponit secundum
modum aliquem pronuntiatarum propositionum quae esse negationes ponuntur. Dicit
enim: EST IGITUR NEGATIO EIUS QUAE EST POSSIBILE ESSE EA QUAE EST NON POSSIBILE
ESSE, negationem scilicet ƿ addens non ad esse verbum sed ad modum quod est
possibile. Eandem quoque rationem dicit esse et in contingentibus. Eius enim
quae est contingere esse negatio est non contingere esse. Docet etiam de
necessario et impossibili sibi idem videri. Quae autem natura huius
oppositionis sit, licet breviter, veracissime tamen expressa est, de qua nos
superius diutius locuti sumus. Quod si quis perspicacius intendit, illius
intellegentiam loci cum hac gradatim proficiscente expositione communicat. FIUNT
ENIM QUEMADMODUM IN ILLIS ESSE ET NON ESSE APPOSITIONES, SUBIECTAE VERO RES HOC
QUIDEM ALBUM, ILLUD VERO HOMO, EODEM QUOQUE MODO HOC LOCO ESSE QUIDEM SUBIECTUM
FIT, POSSE VERO ET CONTINGERE APPOSITIONES DETERMINANTES QUEMADMODUM IN ILLIS
ESSE ET NON ESSE VERITATEM, SIMILITER AUTEM HAE ETIAM IN ESSE POSSIBILE ET ESSE
NON POSSIBILE. Appositiones vocat praedicationes. Dicit ergo in his
propositionibus, quae praeter aliquem modum dicuntur, praedicantur quidem
semper ess e et non es se vel ea verba quae esse continent, subiciuntur vero
res de quibus illa praedicantur, ut album, cum dicimus album est, vel homo, cum
dicimus homo est. Atque ideo quoniam in his praedicatio totam continet
propositionem veritatemque et falsitatem praedicatio illa determinat, praedicatur
autem esse vel quicquid esse continet, iure secundum esse et non esse
contradictiones ponuntur. In his autem, id est in quibus modus aliqui
praedicatur, esse quidem subiectum est vel ea verba quae esse continent, modus
autem solus quodammodo praedicatur. ƿ Nam quod dicitur esse solum sine modo
aliquo ipsius rei substantia pronuntiatur et quaeritur in eo quodammodo an sit:
idcirco esse ponente affirmatione dicit negatio non esse. In his autem in
quibus modus aliquis est non dicitur aliquid esse sed cum qualitate quadam
esse, ut esse quidem nec affirmatio ambigat nec negatio, de qualitate autem, id
est quomodo sit tunc inter aliquos dubitatur. Atque ideo ponente aliquo,
quoniam Socrates bene loquitur, non ponitur negatio, quoniam bene non loquitur
sed quoniam non bene loquitur, idcirco quoniam (ut dictum est) non ad esse vel
ad ea verba quae es se continent propositio nem totam conficiunt sed potius ad
modum intenditur animus audientis, cum affirmatio aliquid esse pronuntiat. Si
igitur haec continent totius propositionis vim quod autem propositionis vim
continet praedicatur et secundum id quod praedicatur semper oppositiones fiunt,
recte solis modis vis negationis apponitur. His autem rationabiliter
constitutis illud rursus exsequitur quod non modo contradictio non est posse
esse et posse non esse, verum etiam huiusmodi propositiones, quae cum modis
positae, negationem tamen habent ad esse coniunctam, omnino negationes non sunt
sed affirmationes. Possunt enim earum negationes aliae reperiri. Ait enim: EIUS
VERO QUAE EST POSSIBILE NON ESSE NEGATIO EST NON POSSIBILE NON ESSE. In tantum
inquit, non est ulla contradictio eius quae est posse esse et eius quae est
posse non esse, ut ea quae dicit ƿ posse non esse non esse negatio sed potius
affirmatio conuincatur. Affirmatio autem affirmationi numquam contradictorie
opponitur. Docetur autem esse affirmatio ea quae dicit posse non esse, quod
eius alia quaedam negatio reperitur, ea scilicet quae dicit non posse non esse.
Simulque illud adiungit: cum sint, inquit, huius propositionis quae dicit
aliquid posse esse duae quae videantur esse negationes, ea scilicet quae dicit
posse non esse et ea quae proponit non posse esse, hinc agnoscitur quae harum
sit contradictoria contra eam quae dicit posse esse affirmationem: quae enim
verum falsumque cum ea dividit, ipsa eius potius potest esse quam ea quae illi
consentit. Ei autem quae est posse esse consentit ea quae dicit posse non esse,
ut supra iam docui: ea quae dicit non posse esse si falsa est, vera est ea quae
dicit posse esse, haec rursus si falsa est, vera est illa quae enuntiat non
posse esse. Dividunt igitur hae veritatem falsitatemque, quod in singulis
exemplis facillime poterit inveniri. Age enim dicat quis posse me ambulare,
ille verum dixerit, si quis vero dicat non posse me ambulare, mentitus est.
Rursus si quis dicat posse solem consistere, mentitur, si quis vero dicat non
posse solem consistere, de ipsius nullus ambigit veritate. Dividunt igitur
veritatem falsitatemque hae scilicet quae dicunt posse esse et non posse esse,
illae vero se sequuntur quae dicunt posse esse et posse non esse. Quae igitur
consentiunt, contradictiones non sunt, quae autem veritatem inter se
falsitatemque dividunt, ipsas contradictiones magis esse ƿ putandum est. Quod
per hoc ait: QUARE ET SEQUI SESE INVICEM VIDEBUNTUR Quae autem
propositiones sese sequantur dicit: IDEM ENIM POSSIBILE EST ESSE ET NON
ESSE Cur autem sese sequantur monstrat adiciens: NON ENIM
CONTRADICTIONES SIBI INVICEM SUNT Si enim contradictiones essent, numquam
sese sequerentur. Sed quae sint contradictiones declarat dicens: SED POSSIBILE
ESSE ET NON POSSIBILE ESSE NUMQUAM SIMUL SUNT Cur autem numquam simul
sint, non tacuit. Ait namque: OPPONUNTUR ENIM. Nam idcirco numquam simul sunt
et veritatem falsitatemque dividunt, quoniam opponuntur. Docet quoque eius
propositionis quae dicit posse non esse illam esse negationem quae proponit non
posse non esse. Ex eadem vi ad propositionem transit. Dicit enim: AT VERO
POSSIBILE NON ESSE ET NON POSSIBILE NON ESSE NUMQUAM SIMUL SUNT, per quod
ostenditur illam esse affirmationem, illam vero negationem. Universaliter enim
quaecumque idem de eodem haec ponit, haec aufert, si illa sit affirmatio, illa
negatio et nihil aequivocationis aut universalium determinationis impediat, contradictorie
sibimet opponuntur. Caetera iam ita ut ait per se expedita sunt, ut longa
expositione non egeant, nisi quaedam in eorum ordine permiscenda sunt, quae id
quod per se est lucidum clarius monstrent. Persequitur enim similiter caeteros
modos dicens quae propositiones quarum affirmationum non sint negationes et
quae sint ƿ et eas, quas negationes non esse dicit, ut affirmationes esse
demonstret, alias negationes opponit. SIMILITER AUTEM, inquit, ET EIUS
propositionis QUAE EST NECESSARIUM ESSE NON est ea negatio quae dicit
NECESSARIUM NON ESSE (haec enim affirmatio est, sicut mox negatione opposita
comprobavit) SED POTIUS ea negatio est eius quae est necessarium esse quae
dicit NON NECESSARIUM ESSE. Eodem quoque modo cuncta persequitur dicens: EIUS
VERO QUAE EST NECESSARIUM NON ESSE, quam supra dixerat non esse oppositam ei
quae dicit necessarium esse, illa negatio est quae proponit NON NECESSARIUM NON
ESSE. Quaecumque enim negationem ad esse positam habent, illas si cum modo sint
affirmationes esse putandas. EIUS VERO QUAE EST IMPOSSIBILE ESSE, NON est ea
negatio quae dicit IMPOSSIBILE NON ESSE (non enim ad modum habet negativam
particulam iunctam) SED potius ea quae dicit NON IMPOSSIBILE ESSE. Hae namque
inter se verum falsumque dividunt. Illius vero quae ad esse habet negativam
particulam, quam affirmationem esse manifestum est, id est eius quae dicit
IMPOSSIBILE NON ESSE, ea negatio est quae dicit NON IMPOSSIBILE NON ESSE.
Concludit etiam breviter id quod superius demonstravit dicens: ET UNIVERSALITER
VERO (QUEMADMODUM DICTUM, EST) ESSE ƿ QUIDEM ET NON ESSE OPORTET PONERE
QUEMADMODUM SUBIECTA, NEGATIONEM VERO ET AFFIRMATIONEM HAEC FACIENTEM AD UNUM
APPONERE ET HAS PUTARE OPORTET ESSE OPPOSITAS DICTIONES. Universaliter, inquit,
dicimus, sicut supra iam dictum est, in his propositionibus quae modos additos
habent esse et non esse subiecta potius fieri, modos vero praedicari atque ideo
ad unum quemlibet modum, id est secundum unum, fieri debere affirmationem
semper et negationem, ut sicut affirmationem praedicatus modus continet, ita
negativa particula ad modum iuncta totam contineat negationem. Proponit autem
eas quas putat esse oppositas dictiones hoc modo: Possibile Non possibile
Contingens Non contingens Impossibile Non impossibile Necessarium Non necessarium
Quod autem addidit VERUM NON VERUM, ad hoc pertinet ut omnes modos includeret.
Vere enim modus quidam est, sicut et bene, sicut velociter, sicut laete, sicut
graviter, et quicumque modi sunt, hoc modo facienda est contradictio: verum
est, non verum est non autem non est verum, velociter ambulare, non velociter
ambulare sed non illa quae dicit velociter non ambulare. Concludenti igitur
semper ad modum inugenda negatio est. Illae enim semper sibimet opponuntur, ut
supra iam dictum est, quae secundum praedicationes habent negativas particulas
iunctas. Praedicantur autem in his modi, ut supra iam monstravimus. ƿ Secundum
modos igitur in his negatio posita integram vim contradictionis efficiet. Expeditis
modorum oppositionibus de consequentia propositionum atque consensu habebitur
subtilis utilisque tractatus. Si igitur possibile esse simpliciter diceretur,
simplex et facilis propositionum videretur esse consensus nec quicquam in earum
consequentia posset errari: nunc autem quoniam dupliciter dicitur, secundum diversos
modos non eaedem propositionum sunt consequentiae. Quod autem dico tale est.
Possibilis duae sunt partes: unum quod cum non sit esse potest, alterum quod
ideo praedicatur esse possibile, quia iam est quidem. Prior pars
corruptibilibus et permutabilibus propria est. In mortalibus enim Socrates
potest esse cum non fuit, sicut ipsi quoque mortales, qui sunt id quod antea
non fuerant. Potest enim homo cum non loquitur loqui et cum non ambulat
ambulare. Ergo haec pars secundum id dicitur quod non quidem iam est, esse
tamen potest. Illa vero alia pars possibilis quae secundum id dicitur, quod iam
est aliquid actu, non potestate, utrisque se naturis accommodat, et sempiternis
scilicet et mortalibus. Nam quod in sempiternis est esse possibile est, rursus
quod est in mortalibus nec hoc a subsistendi possibilitate discedit sed tantum
differt, quia id quod in aeternis est nullo modo permutatur et semper esse
necesse est, illud vero quod in rebus mortalibus invenitur poterit et non esse
et ut sit non est necesse. Ego namque cum scribo inest mihi scribere, quocirca
et scribere ƿ mihi possibile est sed quoniam sum ipse mortalis, non est haec
potestas scribendi necessaria: neque enim ex necessitate scribo. At vero cum
caelo dicimus inesse motum, nulla dubitatio est quin necesse sit caelum moveri.
In mortalibus igitur rebus cum est aliquid et esse potest et ut sit non est
necesse, in sempiternis autem quod est necesse est esse et quia est esse
possibile est. Cum igitur principaliter possibilis duae sint partes: una quae
secundum id dicitur quod cum non sit esse tamen potest, altera quae secundum id
praedicatur quod iam est aliquid actu non solum potestate, huiusmodi possibile
quod iam sit actu duas ex se species profert: unam quae cum sit non est
necessaria, alteram quae cum sit illud quoque habet ut eam esse necesse sit. Nec
hoc solius Aristotelis subtilitas deprehendit, verum Diodorus quoque possibile
ita definit: quod est aut erit. Unde Aristoteles id quod Diodorus ait erit
illud possibile putat quod cum non sit fieri tamen potest, quod autem dixit
Diodorus est id possibile Aristoteles interpretatur quod idcirco dicitur esse
possibile, quia iam actu est. Cuius possibilitatis modi duas partes esse
docuimus: unam quam necessariam dicimus, alteram quam non necessariam praedicamus.
Huius autem non necessariae duae rursus partes sunt: una quae a potestate
pervenit ad actum, altera quae semper actu fuit, a quando res illa quae
susceptibilis ipsius est fuit. Et illa quidem quae a possibilitate ad actum
venit utriusque partis contradictionis susceptibilis est, ut nunc ego qui
scribo ex potestate ad actum veni et agens possum scribere. ƿ Ante enim quam
scriberem erat mihi scribendi potentia sed ex potestate scribendi veni ad actum
scribendi. Quare utraque mihi conveniunt et non scribere et scribere. Possum
enim et non scribere, possum et scribere, quae est quodammodo contradictio. Atque
ideo quaecumque ex potestate ad actum renerunt, ea et facere possum et non
facere et esse et non esse, ut qui loquitur, quia antea potuit loqui quam
loqueretur et nunc ideo potest loqui quia loquitur, et potest loqui et potest
non loqui. Alia vero quae numquam ante potestate fuit sed semper actu, a quando
res ipsa fuit quae aliquid potestate esse diceretur, ad unam rem tantum apta
est, ut ignis numquam fuit potestate calidus, ut postea actu calidus
sentiretur, nec nix ante frigida potestate, post actu sed a quando fuit ignis
actu calidus fuit, a quando nix actu frigida. Quocirca hae potentiae non sunt
aptae ad utraque. Neque enim ignis frigus incutere nec nix calidum quicquam
possit efficere. Quare facienda a principio huiusmodi divisio: possibilis alia
pars est quae cum non sit esse tamen potest, alia vero quae actu est et ideo
possibilis dicitur. Si enim non posset, nec esset omnino. Huius autem possibilitatis
quae secundum illum dicitur modum, quod iam est actu, duae partes sunt: una
secundum id quod ex necessitate esse dicimus, altera secundum id quod cum sit
non tamen esse ex necessitate ƿ aliquid arbitramur. Huius autem non necessariae
possibilitatis duae sunt aliae partes: una quae quoniam ex potestate ad actum
venit et esse et non esse recipiet facultatem, altera quae quia numquam actum
habere destitit, a quando fuit id quod dicitur ei esse possibile, ad unam
tantum partem apta est atque possibilis, eam scilicet quam actus semper
exercuit, ut igni calor vel nivi frigus vel adamanti durities vel aquae liquor.
Sed nullus arbitretur ex necessariae possibilitatis specie esse id quod dicimus
numquam potestate fuisse actus quosdam in quibusdam rebus, ut igni calorem.
Ipse enim ignis exstingui potest. In illis autem quae necessaria sunt non modo
qualitas a subiecta re discedere numquam debet, quod videtur etiam in igni, a
quo sua caloris qualitas non recedit sed etiam illud quod subiecta illa
substantia immortalis esse videatur, quod igni non accidit. Solem enim et
caetera mundi huius corpora quae superna sunt et caelestia immortalia
Peripatetica disciplina putat atque ideo consentienter sibi dicit solem
necessario moveri, quod non modo a sole motus ille numquam recedit sed ne sol
ipse esse quidem desinet. His igitur praedictis id ad quod haec praemissa sunt
id est consequentia propositionum diligentius exsequenda est. ET CONSEQUENTIAE
VERO SECUNDUM ORDINEM FIUNT ITA PONENTIBUS: ILLI ENIM QUAE EST POSSIBILE ESSE
ILLA QUAE EST CONTINGERE ESSE, ET HOC ILLI CONVERTITUR, ET NON IMPOSSIBILE ESSE
ET NON NECESSARIUM ESSE; ILLI VERO QUAE EST POSSIBILE NON ESSE ET CONTINGERE
NON ESSE EA QUAE EST NON NECESSARIUM NON ESSE ET NON IMPOSSIBILE NON ESSE; ILLI
VERO QUAE EST NON POSSIBILE ESSE ET NON CONTINGENS ESSE ILLA QUAE EST
NECESSARIUM NON ESSE ET IMPOSSIBILE ESSE; ILLI VERO QUAE EST NON POSSIBILE NON
ESSE ET NON CONTINGENS NON ESSE ILLA QUAE EST NECESSE ESSE ET IMPOSSIBILE NON
ESSE. CONSIDERETUR AUTEM EX SUBSCRIPTIONE QUEMADMODUM DICIMUS. Haec Aristoteles
consentienter his quae nos supra praemisimus addidit de consequentia
propositionum. Quae etsi manifesta sunt acute perspicientibus, tamen ne nos
nihil huic quoque loco addidisse videamur brevissima ea expositione percurrimus.
Primum voluit demonstrare, quoniam quaecumque de possibili dicerentur eadem
etiam de contingenti dici veracissime possint atque ideo ait: ILLI QUAE EST
POSSIBILE ESSE consequentem esse illam quae dicit aliquid contingere. Et ne in
his aliquid discrepans videretur, adiecit dicens: ET HOC ILLI CONVERTITUR, ut
intellegeremus quod esset possibile hoc contingere et quod contingeret illud
esse possibile. Quare quae sibi convertuntur, ea aequalia sunt atque eadem.
Quicquid igitur in possibili dici potest, idem in contingenti praedicatur. Haec
ergo, id est possibile atque contingens, sequi dixit illas propositiones quae
dicerent non impossibile esse et eas quae necessarium negant id est non necesse
esse aliquid ƿ praedicant. Ait enim: ILLI ENIM QUAE EST POSSIBILE ESSE ILLA
QUAE EST CONTINGERE ESSE, ET HOC ILLI CONVERTITUR, ET EA QUAE EST NON
IMPOSSIBILE ESSE ET NON NECESSARIUM ESSE, tamquam si hoc diceret: et possibile
est sequitur contingentia et haec utraque sibi convertuntur sed has sequitur
non impossibile esse et non necessarium esse. Hoc quam recte dictum sit neminem
latet. Nam quod est possibile esse atque esse contingit, ut sit impossibile non
est. Nam si esset impossibile, non diceretur posse esse, quod ut non esset
ratio impossibilitatis adstringeret. Ergo id quod potest esse non est
impossibile esse. Similiter non est necesse esse id quod posse esse dicitur.
Hoc autem idcirco evenit, quia id quod possibile praedicamus ad utramque partem
facile vertitur. Nam et ut sit fieri potest et ut non sit. At vero necessitas
et impossibilitas in alterutra parte constringitur. Nam quod impossibile est
esse numquam potest. Porro autem quod necesse est non esse numquam potest. Ergo
id quod negamus impossibile esse consentire facimus possibilitati. Id autem
quod negamus necessarium rursus eidem naturae vim possibilitatis adinugimus [ut
sit hoc modo dicendum] et ut verius loquamur, ita dicendum est: quod possibile
est et esse poterit et non esse, rursus quod impossibile est esse non potest,
quod necesse est non esse non potest. Ergo si impossibilem enuntiationem
negationis adiectione frangamus dicentes non impossibile esse, illi partem
possibilitatis ƿ adiungimus in qua esse posse aliquid dicitur, sin vero
necessariae propositionis rigorem negatione minuamus dicentes non necesse esse,
illud evenit ut ad eam partem necessariam propositionem applicemus, quae in
possibilitate est, ut possit non esse. Quare possibilitatem sequitur non esse
impossibile, idcirco quia quod possibile est fieri potest. Eandem rursus
possibilitatem sequitur propositio quae dicit non necesse esse, idcirco quia
quod possibile est poterit et non esse. Aliter idem dicimus: quod possibile est
non est verum dicere, quoniam impossibile est, quia fieri potest rursus quod
possibile est non est verum dicere, quoniam necesse est esse. Potest enim quod
possibile est esse idem non esse. Quare si de possibilitate impossibilitas et
necessitas recte dici non potest, eorum negationes possibilitati consentient,
quae sunt non impossibile esse et non necessarium esse. Sed meminisse debemus
eandem semper in omnibus de contingenti et de possibili esse rationem, de eo
scilicet possibili quod cum adhuc non sit poterit tamen esse aut non esse.
Aliam rursus consequentiam dicit hoc modo: ILLI VERO QUAE EST POSSIBILE NON
ESSE ET CONTINGERE NON ESSE EA QUAE EST NON NECESSARIUM NON ESSE ET NON
IMPOSSIBILE NON ESSE. Propter eandem causam has quoque esse consequential
dixit. Illi enim quae est possibile non esse et ei quae est contingere non esse
illam consentire ait quae dicat non necesse esse non esse et non impossibile
esse non esse. Hoc autem ideo quia quod potest non esse potest et esse et
rursus quod contingit non esse contingit et esse. At vero quod necesse est non
esse illud non potest esse, quod autem impossibile est non esse illud non esse
nou poterit. Quare a possibili utraeque discrepant. Nam quia possibilitas posse
esse aliquid promittit, contrarium sentit ea quae dicit necesse esse non esse. Rursus
quia possibilitas habet in se vim, ut id quod potest esse possit et non esse,
dissentit ab ea multumque discrepat quae dicit impossibile esse non esse. Quod
si propositio quae praedicat necesse esse non esse et rursus quae dicit
impossibile es se non esse a possibilitate dissentiunt, recte nimirum harum
negationes possibilitati consentire creduntur. Possibiles autem propositiones
voco huiusmodi quae vel in affirmatione vel in negatione possibilitatem aliquam
monstrant altera parte non interclusa, ut quae dicit possibile esse aliquid
esse ab hac non intercluditur ea per quam dici poterit possibile esse non esse
vel si quis dicat possibile aliquid non esse, ab hac rursus non interclusum
est, ut esse possit atque ideo affirmationem quae praedicat posse esse
possibilem voco nec minus eam quae dicit aliquid posse non esse. Et in istis
propositionibus quas Aristoteles ponit, in quibus dicit possibile non esse, non
videatur ita dicere tamquam si hoc modo pronuntiet, ut velit intendere aliquid
impossibile esse cum dicit possibile non esse. Ita enim hanc propositionem
dicit non quo possibilitatem illam auferat sed quo dicat possibile esse aliquid
ut non sit. Subaudiendum enim est adiungendumque ad possibile verbum quod est
esse, ut cum ƿ ille dicit possibile non esse nos intellegamus possibile esse
non esse, id est possibile esse ut non sit. Tertiam consequentiam ponit hanc in
qua consentire dicit ILLI QUAE EST NON POSSIBILE ESSE ET NON CONTINGENS ESSE
illam quae dicit NECESSARIUM NON ESSE ET IMPOSSIBILE ESSE. Hoc ita plenum est
ut expositione non egeat. Quod enim non possibile est hoc fieri non potest,
quod fieri non potest necesse est ut non sit, quod autem necesse est ut non sit
ut sit impossibile est. Recte igitur dicitur eam propositionem quae dicit
aliquid non posse esse et eam quae dicit non contingere esse consequi illas
quae esse cum necesse est negant et quae impossibilitatem affirmant [non est
contingens scilicet esse et non necessarium esse]. Reliquam consequentiam, in
qua eas propositiones quae dicerent NON POSSIBILE ESSE aliquid NON ESSE ET NON
CONTINGERE NON ESSE illas quae proponerent NECESSE ESSE ET IMPOSSIBILE NON
ESSE, neque ullam habet obscuritatem. Nam quod non est possibile ut non sit hoc
impossibile est ut non sit. Id quod enim dicimus impossibile esse idem valet
tamquam si dicamus non possibile esse. Quod enim facit negatio in ea
interpretatione in qua dicimus non possibile, idem facit privatio in ea in qua
dicimus impossibile. Quod autem impossibile est non esse late patet, quia
necesse est esse. Ergo et quod non est possibile ut non sit manifestum est
quoniam esse necesse est. Idem quoque ƿ et de contingenti dicendum est.
Describit autem eas hoc modo, ut non solum mente et ratione capiantur verum
etiam subiectae oculis faciliores intellectu sint. Nos autem, ut sit lucidior
explanatio, de his duos facimus ordines. Et in primo quidem eas proposuimus
quae praecedunt, in secundo vero eas quae sequuntur, ut sit multa facultas vel
per se earum rationes non intellegentibus, ad descriptionem tamen respicientibus,
quae quam sequatur agnoscere. PRAECEDENTES: SEQUENTES: Possibile esse Non
impossibile esse Contingens esse Non necesse esse Possibile non esse Non
necessarium non esse Contingens non esse Non impossibile non esse Non possibile
esse Necessarium non esse Non contingens esse Impossibile esse Non possibile
non esse Necesse esse Non contingens non esse Impossibile non esse Hac
igitur descriptione facta, quid Aristoteles communiter de propositionibus
universaliterque tractaverit, nulli sollertius intuenti videtur ambiguum.
Caetera vero quae singillatim de eorum consequentiis disputavit, quoniam
defetigari lectores nolumus, sextum volumen expediet. Sextus hic liber
longae commentationi terminum ponit, quae quodam magno labore constiterit ac
temporis mora. Nam et plurimorum sunt in unum coaceruatae sententiae et duorum
ferme annorum spatium continuo commentandi sudore consumpsimus. Neque ego
arbitror quibusdam sinistre interpretantibus gloriose factum videri, ut quod
dici breviter posset id nos ostentatione doctrinae non ad lectorum scientiam
potius quam prolixitate ad fastidium tenderemus. Quibus responsum velim non
haec tam mendaciter esse sensuros, si prioris commenti perlegerent brevitatem.
Nam neque brevius explicari potuit angustissimorum obscuritas impedita sermonum
et quam multa ad plenam libri huius intellegentiam desint agnoscitur. Quid
autem utrumque opus legentibus utilitatis exhibeat, hinc facillime mihi videtur
posse perpendi, quod cum hanc secundam editioneni in manus quisquam primum sumpserit
rerum ipsarum spatiosa varietate confunditur, ut qui in maioribus intendere
mentem nequit editionis primae brevitatem simplicitatemque desideret. Quod si
quis ad prioris editionis duos libros rector accesserit, sumpsisse sibi ad
scientiam quiddam fortasse videbitur sed cum postremo hanc secundam cognoverit
editionem, quam multa in prima ignorarit agnoscit. Nec homines a legendo longum
opus labore deterreat, cum nos non impedierit ad scribendum. Sed ne ipsum
quoque prooemium tendi longius videatur, ad Aristotelis seriem et ad ea quae de
consequentia propositionum diligenter exsequitur reuertamur. Ea quae communiter
universaliterque de propositionibus omnibus et de earum ad se inuicem
consequentiis speculanda fuerant in superiori propositionum ipsarum descriptione
disposuit nunc vero quae singillatim singulis accidunt diligentissimo tractatu
persequitur. Ait enim ita: ERGO IMPOSSIBILE ET NON IMPOSSIBILE ILLUD QUOD EST
CONTINGENS ET POSSIBILE ET NON CONTINGENS ET NON POSSIBILE SEQUITUR QUIDEM
CONTRADICTORIE SED CONVERSIM; ILLUD ENIM QUOD EST POSSIBILE ESSE NEGATIO
IMPOSSIBILIS, NEGATIONEM VERO AFFIRMATIO; ILLUD ENIM QUOD EST NON POSSIBILE
ESSE ILLUD QUOD EST IMPOSSIBILE ESSE; AFFIRMATIO ENIM EST IMPOSSIBILE ESSE, NON
IMPOSSIBILE VERO NEGATIO. Consequentia propositionum (ut superior descriptio
docet) secundum possibile et necessarium facta est. Quam rem illa quoque secuta
est, ut et de contingentibus ƿ et impossibilibus propositionibus
consequentiisque diceretur. Nam cum contingens recto modo possibili consentiat,
impossibile converso ordine necessarium est, ut paulo post docebimus.
Speculatur ergo de possibili contingenti et impossibili, quemadmodum ad se
inuicem vel quas habeant consequentias idque constituit hoc modo dicens:
impossibile et non impossi bile sequuntur quidem possibile et non possibile
contradictorie quidem sed conversim. Hoc autem huiusmodi est: scimus
affirmationem privatoriam esse eam quae dicit impossibile esse, huius vero
negationem non impossibile esse, rursus affirmationem possibilem eam quae dicit
possibile esse, huius negationem quae proponit non possibile esse. Sequitur
ergo affirmationem possibilem negatio impossibilitatis. Nam quod possibile est
idem est non impossibile. Alioquin si ea quae dicit non impossibile est non
sequitur possibilitatem, sequitur eius affirmatio, id est impossibile esse.
Erit ergo quod possibile est impossibile, quod fieri non potest. Quod si
impossibilitas possibilitatem non sequitur, non impossibile esse sequitur
possibilitatem. At vero negationem possibilitatis sequitur affirmatio
impossibilitatis. Nam quod non possibile est impossibile est. Eandem enim vim
optinet negatio in propositionibus quam etiam privatio. Et de contingenti eodem
modo. Nam quod contingens est illud est non impossibile. Nam si contingens et
possibile se sequuntur, possibile vero et non impossibile consentiunt,
contingens et non impossibile idem designant. Rursus non contingens ƿ et
impossibile idem videri poterit perspicienti, quod non contingens quidem et non
possibile idem sentiunt. Sed non possibile impossibilitati consentit. Quocirca
et non contingens quoque impossibile aliquid esse denuntiat. Fit ergo ut
affirmatio impossibilitatis contradictionem possibilitatis sequatur sed non ut
affirmatio affirmationem, nec ut negatio negationem sed conversim, id est ut
affirmatio negationi, negatio vero affirmationi consentiat. Affirmationem
namque quae est possibile es se sequitur negatio impossibilis quae dicit non
impossibile esse, negationem vero possibilitatis quae est non possibile esse
sequitur impossibilitatis affirmatio quae proponit impossibile esse. Idem
quoque et de contingenti dicendum est. Affirmationem namque contingentis
sequitur negatio impossibilitatis, negationem vero contingentis sequitur
affirmatio impossibilitatis. Omnino enim quicquid de possibilitate proponitur
idem de contingentibus iudicatur. Disponantur ergo hoc modo: primum quidem
affirmatio impossibilis, contra eam negatio impossibilis, et sub affirmatione
impossibili ponantur ex contingentibus et possibilibus, quas ipsa sequitur
impossibilitas, sub negatione vero impossibilitatis illae possibilis et
contingentis propositiones, quibus ipsa impossibilitatis negatio consentit, hoc
modo: ƿ AFFIRMATIO CONTRADICTIO NEGATIO Impossibile esse Non impossibile esse
NEGATIO CONTRADICTIO AFFIRMATIO Non possibile esse Possibile esse Non
contingens esse Contingens esse Patet ergo ut contradictiones quidem
aliis contradictionibus consentiant. Qua in re illud quoque manifestum est,
quod affirmationes negationibus, negationes vero affirmationibus consentiunt.
Seusus ergo totus talis est, sermonum vero ratio haec est: IMPOSSIBILE, inquit,
ET NON IMPOSSIBILE scilicet quod est contradictio duas contradictiones id est
ILLUD QUOD EST CONTINGENS ET POSSIBILE ET NON CONTINGENS ET NON POSSIBILE SEQUITUR
QUIDEM CONTRADICTORIE (nam una contradictio impossibilis duas sequitur
contradictiones, id est contingens et non contingens, possibile et non
possibile) sed quamquam contradictionem sequatur alia contradictio, CONVERSIM
tamen sibi consentiunt. Nam QUOD EST POSSIBILE ESSE SEQUITUR NEGATIO
IMPOSSIBILIA, ut superior descriptio docet, NEGATIONEM VERO possibilis
AFFIRMATIO scilicet impossibilis. Nam quod est non possibile consentit ei quod
est impossibile. Est autem affirmatio impossibilis ea quae dicit impossibile
esse. Et quamquam inuoluta sit sermonum ratio, tamen si quis secundum
superiorem expositionem ad ipsius Aristotelis sermones superiores ƿ redeat et
quod illis deest ex nostra expositione compenset, sensus planissimus a ratione
non denat. NECESSARIUM VERO QUEMADMODUM, CONSIDERANDUM EST. MANIFESTUM QUONIAM
NON EODEM MODO SED CONTRARIAE SEQUUNTUR, CONTRADICTORIAE AUTEM EXTRA. NON ENIM
EST NEGATIO EIUS, QUOD EST NECESSE NON ESSE, NON NECESSE ESSE, CONTINGIT ENIM
VERAS ESSE IN EODEM UTRASQUE; QUOD ENIM EST NECESSARIUM NON ESSE, NON EST
NECESSARIUM ESSE. Impossibilis atque possibilis dudum comparatione didicimus,
quod affirmationem possibilem impossibilis negatio sequeretur, rursus negationi
possibilis impossibilis affirmatio consentiret. Quaerens ergo nunc, quemadmodum
possibilium et necessariarum propositionum fiat consequentia, dicit non eodem
modo in his evenire quemadmodum in illis evenit quae ex possibilis et
impossibilis comparationibus nascebantur. In illis enim contradictiones
oppositae contradictiones rursus oppositas sequebantur, ut affirmationem
negatio, negationem affirmatio sequeretur. In his autem hoc est in necessariis
et possibilibus non eodem modo est sed contrariae quidem sequuntur,
contradictoriae vero et oppositae extra sunt et non sequuntur. Et prius quidem
quae sint contrariae, quae contradictoriae disponamus. Propositionis enim quae
dicit necesse esse ea quae proponit non necesse esse contradictoria est, ea ƿ
vero quae dicit necesse esse non esse contraria: ut si quis dicat solem necesse
esse moveri, huic est opposita contradictorie solem non necesse esse moveri,
contraria vero solem necesse esse non moveri. Possibilem igitur propositionem
sequitur contradictio necessarii, contradictionem vero possibilis non sequitur
necessitas (quod eveniret si in his sese oppositae sequerentur) sed potius ea
quae est contraria necessitati. Age enim propositioni quae dicit possibile esse
videamus quae ex necessariis consentiat. Illa quidem quae dicit necesse esse
non ei poterit consentire. Quod enim possibile est esse potest et non esse,
quod autem esse necesse est non esse non poterit. Ergo si possibilitatem
necessitas non sequitur, sequitur eam necessitatis contradictio. Non sequitur
ergo propositionem eam quae dicit possibile esse ea scilicet quae proponit
necesse esse: sequitur ergo propositionem possibilem contradictio necessitatis
quae proponit non necesse esse. Sed contradictioni possibilis necessitas non
consentit. Neque enim dicere possumus, quoniam eam propositionem quae dicit non
possibile esse sequatur ea quae proponit necesse esse sed potius contraria
necessariae illa quae dicit necesse esse non esse. Nam cum non possibile est,
necesse est non esse. Disponantur enim hae scilicet quae se sequuntur et sub
his necessaria et quae sit contradictio, quae contrarietas adscribatur. ƿ
Possibile Non possibile Non necesse esse Necesse esse non esse CONTRADICTIO
CONTRARIETAS Necesse esse Nulli ergo dubium est quin affirmationem
possibilis sequatur necessarii negatio, negationem vero possibilis necessarium
non sequatur sed potius contrarietas necessarii. Nam cum possibile esse
sequatur contradictio necessitatis, quod est non necesse est, contradictionem
possibilis quae dicit non possibile esse non sequitur necessitas ipsa sed
potius contraria ea scilicet quae proponit necesse esse non esse. Sensus ergo
huiusmodi est, talis vero est ordo sermonum: NECESSARIUM VERO, inquit,
QUEMADMODUM id est quas habeat consequentias, CONSIDERANDUM EST. Primo quidem
definit dicens: MANIFESTUM EST QUONIAM NON EODEM MODO, quo loco subaudiendum
est: quemadmodum in his quae sunt possibiles et impossibiles SED CONTRARIAE
SEQUUNTUR, CONTRADICTORIAE VERO EXTRA sunt et non sequuntur. Namque
contradictionem possibilis necessarii non contradictio sed (ut supra docuimus)
contrarietas sequebatur. Non enim contradictio contradictioni in hac necessarii
consequentia consentiebat. Sequebatur namque possibilitatem illud quod est non
necessarium, non possibile autem sequebatur ea propositio quae diceret necesse
esse non esse, non autem necesse esse. Sed rursus necesse esse non esse et non
necesse esse non sunt contradictiones sed non necesse esse quidem negatio
necessarii est, illa vero quae dicit necesse esse non esse contraria
necessarii. Contra se autem non sunt contradictoriae. Possunt enim in uno
eodemque simul inveniri. Quod per hoc ait quod dixit:CONTINGIT ENIM VERAS ESSE
IN EODEM UTRASQUE. NAM QUOD EST NECESSARIUM NON ESSE, NON EST NECESSARIUM ESSE ut
quoniam necesse est hominem quadrupedem non esse, non necesse est esse hominem
quadrupedem. Nam si hoc falsum est, necesse erit hominem esse quadrupedem, cum
necesse sit non esse. Quocirca manifestum est, quoniam simul aliquando inveniri
possunt non necesse esse et rursus necesse esse non esse propositiones. Quae
cum ita sint, contradictiones non sunt. Causam vero reddens cur, cum secundum
possibilis comparationem ad contradictiones sit reddita consequentia, non eodem
modo in necessariis potuerit evenire, sic dicit: CAUSA AUTEM CUR NON
CONSEQUATUR SIMILITER CAETERIS, QUONIAM CONTRARIE IMPOSSIBILE NECESSARIO
REDDITUR IDEM VALENS. NAM SI IMPOSSIBILE EST ESSE, NECESSE EST HOC, NON ESSE
SED NON ESSE; SI VERO IMPOSSIBILE NON ESSE, HOC NECESSARIUM EST ESSE. QUARE SI
ILLA SIMILITER ƿ POSSIBILE ET NON, HAEC E CONTRARIO: NAM IDEM SIGNIFICAT
NECESSARIUM ET IMPOSSIBILE SED (QUEMADMODUM DICTUM EST) CONTRARIE. Causa est,
inquit, cur consequentia in necessariis ita reddatur, quod necessarium semper
impossibili contraria ratione consentit. Nam quod impossibile est esse hoc
necesse est non esse, et rursus quod necesse est esse hoc impossibile est non
esse. Fit igitur contrarietas quaedam. Nam cum impossibilitas esse habet,
necessitas non esse, et cum necessitas esse, impossibilitas non esse. Ergo idem
valet impossibilitas et necessitas non eodem modo reddita sed si necessitas
secundum esse, impossibilitas secundum non esse, et si impossibilitas secundum
esse, secundum non esse necessitas. Quare idcirco evenit ista contrario modo
consensio. Nam ubi est impossibile esse, ibi est necesse non esse sed
impossibile esse et non possibile esse consentiunt: igitur non possibile esse
et necesse non esse consentiunt. Nulli ergo dubium est idcirco necesse esse non
esse sequi possibilis negationem, quoniam impossibilitas quae sequitur
possibilis negationem consentit ei quae dicit necesse non esse. Hoc autem ideo
quia impossibilitas et necessitas idem valent (ut dixi) si contrarie
proponantur. Quare quod dicitur hoc modo est: CAUSA AUTEM est, inquit, CUR NON
CONSEQUATUR SIMILITER CAETERIS, id est quae secundum possibile et impossibile
factae sunt, QUONIAM CONTRARIE IMPOSSIBILE NECESSARIO REDDITUR IDEM valENS, id
est contrario ƿ modo reddita et pronuntiata impossibilitas necessitati idem
valet. NAM SI IMPOSSIBILE EST ESSE, NECESSE EST HOC, NON ESSE SED necesse NON
ESSE hoc est quod impossibile est esse. Nullus ergo dixerit quoniam esse
necesse est sed potius quoniam necesse est non esse, tamquam si ita dixisset:
nam si impossibile est esse, necesse est hoc non esse sed non putandum est
quoniam impossibile est esse hoc est quod necesse est esse. Quod si rursus
impossibile est non esse, hoc necesse est esse. Conversim igitur et contrarie
impossibilitas necessitati redditur idem valens [id est contrario modo reddita
et pronuntiata impossibilitatis necessitati]. Quod si impossibilitas ad
possibile simili contradictione et contradictionum conversione consequentiam
reddit, idem autem valet impossibilitas et nesessitas contrarie praedicata,
nulli dubium est quin recte hic contraria et non opposita fuerit consequentia. An
certe ita exponendum est: quoniam in consequentia impossibilis et non
impossibilis ad eas quae proponebant possibile et non possibile eam quae est
non possibile ea quae dicit aliquid esse impossibile sequebatur, contrarie vero
impossibile idem valet quod necessarium, manifestum est quoniam, si similiter
se habet, id est eo modo quo dictum est, impossibile ad consequentiam
possibilis et non possibilis, impossibile vero ei quod est non possibile
consentaneum sit, id quod e contrario idem valet, id est necessarium non esse,
id sequi eam propositionem quam etiam impossibilitas ƿ sequebatur. Est autem
contrarie idem valens impossibilitati ea quae est necessarium non esse
sequiturque impossibilitas eam propositionem quae est non possibile esse: et
necessarium non esse igitur sequitur eam quae est non possibile esse, ut sit
sensus hic: quoniam impossibile necessario idem potest e contrario, similiter
vero sese habet, id est eo modo quo dictum est, impossibilis consequentia ad
eas quae sunt possibile et non possibile. AN CERTE IMPOSSIBILE SIC PONI
NECESSARII CONTRADICTIONES? NAM QUOD EST NECESSARIUM ESSE, POSSIBILE EST ESSE,
NAM SI NON, NEGATIO CONSEQUETUR; NECESSE ENIM AUT DICERE AUT NEGARE. QUARE SI
NON POSSIBILE EST ESSE, IMPOSSIBILE EST ESSE: IMPOSSIBILE IGITUR EST ESSE QUOD
NECESSE EST ESSE, QUOD EST INCONVENIENS. AT VERO ILLUD QUOD EST POSSIBILE ESSE
NON IMPOSSIBILE ESSE SEQUITUR, HOC VERO ILLUD QUOD EST NON NECESSARIUM ESSE.
QUARE CONTINGIT QUOD EST NECESSARIUM ESSE NON NECESSARIUM ESSE, QUOD EST
INCONVENIENS. AT VERO NEQUE NECESSARIUM ESSE SEQUITUR POSSIBILE ESSE NEQUE
NECESSARIUM NON ESSE; ILLI ENIM UTRAQUE CONTINGIT ACCIDERE, HORUM AUTEM
UTRUMLIBET VERUM FUERIT, NON ERUNT ILLA VERA. SIMUL ENIM POSSIBILE ESSE ET NON
ESSE; SIN VERO NECESSE ESSE VEL NON ESSE, NON ƿ ERIT POSSIBILE UTRUMQUE.
RELINQUITUR ERGO NON NECESSARLUM NON ESSE SEQUI POSSIBILE ESSE. HOC ENIM VERUM
EST ET DE NECESSE ESSE. HAEC ENIM FIT CONTRADICTIO EIUS QUAE SEQUITUR NON
POSSIBILE ESSE; ILLUD ENIM SEQUITUR IMPOSSIBILE ESSE ET NECESSE NON ESSE, CUIUS
NEGATIO NON NECESSE NON ESSE. SEQUUNTUR IGITUR ET HAE CONTRADICTIONES SECUNDUM
PRAEDICTUM MODUM ET NIHIL IMPOSSIBILE CONTINGIT SIC POSITIS. Superius quidem
propositionum facta conversio est ita, ut possibilem propositionem necessarii
negatio sequeretur. Atque his ita positis non evenit, ut contradictio
contradictionem sequeretur nec ut converso modo sequeretur, quod in illis
scilicet eveniebat in quibus possibilium et impossibilium sequentia
considerabatur, quoniam contradictio necessarii, quod est scilicet non necessarium
esse, sequebatur possibilem propositionem, possibilis vero contradictionem non
consecuta est necessitas sed contrarium necessitatis. Hoc permutare volens
intendit ita constituere consequentias, ut simili modo contradictio quidem
contradictioni consentiat sed conversim.
Hoc autem hac ratione disponit. Dicit enim: erravi fortasse quod necessarii et
possibilis consequentiam ex possibili inchoavi et non ex necessario, ut eius
hoc consensionem metiretur. Posuit enim praecedens ƿ possibile esse eique sicut
consentiens non necessarium esse. Et haec quidem superius. Nunc autem convertit
et dicit: an fortasse, inquit, errore lapsi ita has consequentias constituimus,
ut primo poneremus possibile esse, huic autem adiungeremus velut consequens
necessarii negationem quae diceret non necesse esse? Ac potius illud verum est,
ut posito prius necessario necessitati possibilitas consentiens subsequatur?
Videtur enim omnem necessariam propositionem possibilitas subsequi. Quod si
quis neget, illi confitendum est, quoniam negatio possibilis sequitur
necessitatem. In omnibus enim aut affirmatio aut negatio est. Ergo si
necessariam propositionem non sequitur possibilitas, possibilitatis negatio
consequitur. [Ut ita dicatur] ergo recta consequentia ita dicit: quod necesse
est esse non possibile est esse. Sed dudum dictum est, quod ei propositioni
quae proponeret non possibile esse impossibilitas consentiret. Sed non
possibile esse consequitur necessitatem, et impossibilitas igitur consequitur
necessitatem. Erit itaque recta propositionum consequentia: si necesse est
esse, impossibile est esse. Sed hoc fieri non potest. Si igitur impossibilitas
non sequitur necessitatem, sequitur autem propositio quae aliquid non posse
esse denuntiat impossibilem propositionem, necessariae propositioni
possibilitatis negatio quae est non possibile esse non consentit. Quod si haec
necessariae enuntiationi non consentit, consentiet affirmatio. Necessitatem
igitur possibilitas consequitur. ƿ Erit ergo recta propositionum consequentia
hoc modo: si necesse est esse, possibile est esse. Sed rursus alia nobis ex his
impedimenta nascuntur. Nam si quis dicat necessitati propositionem possibilem
consentire quoniam possibilitati ea propositio quae dicit non impossibile esse
et rursus ea quae enuntiat non necesse esse consentit, quod superior ordo
praedocuit, erit ut necessariae propositioni consentiat ea quae dicit non
necesse esse. Erit igitur recta consequentia: si necesse est esse, non necesse
est esse. Sed hoc rursus est impossibile. Quod si ita est, aliquid in
possibilis consequentiis propositionum permutandum est, ut possit ipsa sibi
ratio consentire. Aut igitur illud primo inconvenienter dictum est, quod
necessarii negatio affirmationem possibilem sequeretur, ut ea quae est non
necesse esse sequatur eam quae dicit possibile esse vel certe illud non recte
sensimus ad possibilem propositionem necessarium consentire. Quod quia
perabsurdum est (nullus enim dixerit necessitati possibilitatem esse
contrariam: evenit enim quod necesse est' hoc fieri non posse) rectaque est
haec consequentia: si necesse est, possibile est, fit ut potius necessarii
negatio propositionem possibilem non sequatur. Sed cum haec dicuntur, illud
intellegi placet, quod necessitatem possibilitas sequatur, ut id quod necesse
est, hoc dicatur esse possibile, illud autem quod per se possibile est non
modis omnibus sit necesse. Nam si necesse est, fieri non potest ut non sit,
quod vero possibile est, et non esse potest. Igitur quod possibile ƿ est non
est necesse. Dico autem quia neque ea propositio sequitur possibilitatem, quae
necessitati omnino contraria est. Est namque necessariae propositioni contraria
ea quae dicit necesse est non esse. Hanc possibilitati consentire nullus
impellet. Nam quod necesse est non esse, illud non potest esse, quod autem
possibile est, et esse et non esse potest. Necessitas ergo propositionis quae
secundum esse praedicatur idcirco non sequitur possibilitatem, quoniam
possibilitas quidem et non esse potest, necessitas vero quae secundum esse est
non esse non potest. Rursus necessitas quae secundum non esse praedicatur a
possibilitate differt eamque non sequitur, quod necessitas ea quae secundum non
esse dicitur non potest esse, possibile vero et esse et non esse potest. Quid
igitur ut neque opposita negatio necessarii possibilitatem sequatur, quae non
necesse esse proponit, neque ipsa necessitas affirmandi quae dicit necesse esse
neque huic contraria quae dicit necesse esse non esse? Sed in his quatuor
videbuntur. Est enim necessaria affirmatio quae dicit necesse esse, huic
opposita est ea quae praedicatur non necesse esse, rursus contraria necessitati
affirmatio est quae dicit necesse est non esse, huic opponitur ea quae proponit
non necesse est non esse, quod subiecta docet subscriptio: Necesse est esse Non
necesse est esse Necesse est non esse Non necesse est non esse Si igitur
neque ea quae dicit necesse est esse neque huic opposita quae proponit non
necesse est esse nec necessitati contraria, cuius sententia est quoniam ƿ
necesse est non esse, possibilitati consentit, restat ut ei consentiat quarta
quae dicit non necesse est non esse, quae scilicet quarta aliquatenus etiam
ipsi necessitati consentit, necessitas vero possibilitati minime. Omne enim
quod necesse est esse et possibile est esse et ut non sit non est necesse.
Idcirco autem haec propositio quae dicit non necesse est non esse necessitati
consentit, quia necessitati quidem contraria est ea quae dicit necesse est non
esse, haec vero opposita est huic propositioni quae dicit necesse est non esse,
ea scilicet quae proponit non necesse est non esse: quare consentiet ei
propositio quae contraria est sibimet oppositae affirmationi. Quod si quis
attentius inspicit et ad supra scriptum omnino reuertitur, facile cognoscit. Si
igitur possibile est (ut dictum est) sequitur ea propositio quae dicit non
necesse est non esse, negationem possibilis sequitur huic opposita quae dicit
necesse est non esse eritque huiusmodi consequentia: si possibile est, non
necesse est non esse, rursus si non possibile est, necesse est non esse. Reuersa
est igitur illa consequentia quae contradictorie quidem fiebat sed conversim,
sicut supra de possibilibus dictum est. Hic namque affirmationem possibilem
negatio sequitur quae necessarium quidem destruit sed id quod ad non esse
ponitur, ea scilicet quae dicit non necesse est non esse, rursus negationem
possibilis affirmatio sequitur necessaria quae secundum non esse ponitur. Est
igitur hic quoque eadem conversio, ut contradictio quidem contradictionem
sequatur sed conversim, ut affirmatio negationi, negatio vero affirmationi
conveniat. Melius vero hoc si sub ƿ oculos caderet liquere credidimus atque
ideo apertissime sententiam rei subiectae dispositionis nos ordo commoneat.
Affirmatio possibilis Negatio possibilis oppositae secundum esse: secundum esse:
Possibile esse Non possibile esse Negatio necessaria Affirmatio necessaria
secundum non esse: secundum non esse: Non necesse est non esse Necesse est non
esse Omnis quidem sententia est talis, ordo autem sermonum huiusmodi est:
postquam dixit de possibilium et impossibilium consequentia, quod
contradictiones quidem contradictionibus convenirent sed conversim, id est quod
affirmatio negationi, negatio vero consentiret affirmationi, haec eadem,
inquit, consequentia quemadmodum in necessariis evenit, videndum est.
Speculatus igitur et de necessariis idem non repperit. Nam cum dixisset
necessarii negationem consentire possibilitati, affirmatio necessaria negationi
possibilitatis non consensit. Eiusdem rei reddens causas illud arguit quod
impossibilitas necessitati idem valeret contrarie reddita. Quam rem emendare
volens ita dixit: AN CERTE, inquit, IMPOSSIBILE EST SIC PONI NECESSARII
CONTRADICTIONES? Ut negationem scilicet necessarii possibilitati consentire
diceremus. Addit autem dubitationem quandam, quae ita sese habet. NAM QUOD EST,
inquit, NECESSARIUM ESSE, illud sine dubio POSSIBILE EST ESSE. NAM SI NON, id
est si quod necessarium est possibile non est, NEGATIO possibilitatis
CONSEQUITUR. NECESSE EST ENIM in omnibus rebus AUT DICERE id est affirmare AUT
CERTE NEGARE. In omnibus namque rebus aut affirmatio vera est aut negatio.
QUARE SI NON POSSIBILE EST ESSE, id est si hoc est non possibile esse [quod
impossibile est, fiet id] quod necessarium est esse, sequitur autem
propositionem quae dicit non possibile est esse illa quae proponit IMPOSSIBILE
EST ESSE, fit aliquid impossibile ut dicatur: IMPOSSIBILE IGITUR EST ESSE ID
QUOD NECESSE EST ESSE. Sed hoc inconveniens est. Ergo hic docuit, quod
necessitatem possibilitas sequeretur. Nunc autem aliud addit: quoniam supra
dixit possibili propositioni necessariae affirmationis negationem consentire,
nunc de eadem re dubitationem dicens: AT VERO ILLUD QUOD EST POSSIBILE ESSE NON
IMPOSSIBILE ESSE SEQUITUR. Nam quod possibile est, hoc non est impossibile sed
quod non est impossibile esse non necesse est esse. Ergo si non impossibile
esse sequitur possibilitatem, non impossibilitatem autem sequitur id quod
dicitur non necessarium esse sequiturque possibilem propositionem id quod
dicimus non necessarium ƿ esse, nulli dubium est quin, si necessitatem
possibilitas sequitur, sequatur affirmationem necessariam negatio necessariae.
QUARE CONTINGIT QUOD EST NECESSARIUM ESSE id ipsum NON NECESSARIUM ESSE. QUOD
EST INCONVENIENS. Constat ergo quoniam affirmationem possibilem non sequitur
opposita negatio necessariae affirmationi, idcirco quod illud removendum est:
aut, quod supra diximus, ne sequatur possibilem affirmationem negatio
necessariae, aut ne necessitatem possibilitas sequatur. Quod quia fieri nullo
modo potest, illud est removendum, ne possibilitatem necessitati opposita negatio
subsequatur. Igitur ea quae dicit non necesse est esse non sequitur
possibilitatem. Et quia haec omnia in medio tacuerat, supra dictis addit: AT
VERO NEQUE NECESSARIUM ESSE SEQUITUR POSSIBILE ESSE, hoc scilicet sententiae
includens possibilitati non consentire necessarium, nec hoc solum sed NEQUE
illud quod dicimus NECESSARIUM NON ESSE. Hoc ut tractatum sit ipse planius
monstrat. ILLI ENIM id est possibili UTRAQUE CONTINGIT ACCIDERE et esse scilicet
et non esse, HORUM AUTEM, id est necessarii secundum esse et necessarii
secundum non esse, UTRUMLIBET VERUM FUERIT, NON ERUNT ILLA VERA. Hoc ipse
exponit. De possibili enim utroque ita dicit: SIMUL ENIM POSSIBILE EST ET ESSE
ET NON ESSE (hoc est ergo quod ait: ILLI ENIM UTRAQUE CONTINGIT ACCIDERE); SIN
VERO, INQUIT, NECESSE EST ESSE ƿ VEL NON ESSE, id est si non potest non esse et
non poterit esse, NON ERIT POSSIBILE UTRUMQUE, ut si esse necesse est, non
poterit non esse vel si non esse necesse est, non poterit esse. Tres igitur
propositiones non necesse esse, necesse esse, necesse esse non esse
possibilitatem non sequuntur. RELINQUITUR ERGO id est ut quarta propositio,
quae opponitur necessario secundum non esse affirmatur, possibilitatem
sequatur, id est NON NECESSARIUM NON ESSE SEQUI POSSIBILE ESSE. Sed quia
possibile consentit necessario, haec quoque necessario consentit. Namque hoc
est quod dixit: HOC ENIM VERUM EST ET DE NECESSE ESSE. Nam quod necesse est,
non necesse est ut non sit. Haec igitur propositio quae dicit non necesse est
non esse contradictio est eius affirmationis quae sequitur negationem
possibilitatis eam scilicet quae dicit non possibile esse. Nam cum
affirmationem eam quae est scilicet possibile esse sequatur necessarii secundum
non esse negatio ea quae proponit non necesse est non esse, negationem
possibilis eam scilicet quae proponit non possibile est esse sequitur
affirmatio necessaria secundum non esse quae dicit necesse est non esse, quam
eandem quae proponit non possibile esse, quae est scilicet negatio
possibilitatis, impossibilis affirmatio sequitur quae proponit impossibile
esse. Hoc est ergo quod ait: HAEC ENIM FIT CONTRADICTIO EIUS QUAE SEQUITUR ID
QUOD EST NON POSSIBILE ESSE. Nam cum possibilem affirmationem sequatur necessariae
secundum ƿ non esse negatio quae dicit non necesse est non esse, haec
necessaria secundum non esse negatio contradictio est eius quae sequitur
negationem possibilitatis. ILLUD ENIM, id est negationem possibilitatis,
SEQUITUR ID QUOD EST IMPOSSIBILE. Nam cum negatio possibilitatis sit quae dicit
non possibile esse, hanc sequitur ea quae dicit impossibile est esse, cui
consentit ea quae dicit necesse esse non esse. Sequitur igitur possibilis
propositionis negationem ea quae dicit necesse esse non esse, cuius est
contradictio ea quae dicit non necesse esse non esse. Fit ergo hic quo que ut
contradictio contradictionem sequatur sed conversim. Quod ait per hoc cum
dixit: SEQUUNTUR IGITUR ET HAE CONTRADICTIONES SECUNDUM PRAEDICTUM MODUM eum
scilicet, ut affirmatio negationem, negatio vero sequatur affirmationem, et
nihil quidem erit vel inconveniens vel impossibile ita positis consequentiis,
ut affirmationem quidem possibilem negatio necessarii secundum non esse
sequatur, negationi vero possibilis affirmatio necessaria secundum non esse
consentiat. Quibus explicitis alias rursus adicit dubitationes. Sopra namque
consequentias ita disposuit, ut praecedens necessarium possibilitas sequeretur,
nunc de eodem ipso ambigit. Sive enim quis ponat consentire necessario
possibile, sive quis neget, utrumque videtur incongrnum, quoniam si quis neget
possibilitatem ƿ necessitati congruere, is dicit quoniam possibilitatis negatio
necessariae propositioni conveniet. Si quis enim abnuat propositioni quae dicit
aliquid necesse esse consentire eam quae proponit possibile esse, is illud
abnuere non potest, quia negatio possibilitatis necessitati consentiat, eritque
integra consequentia: si necesse est esse, non possibile est esse, quandoquidem
illa falsa est consequentia quae dicit: si necesse est esse, possibile est
esse. Quod si hoc fieri non potest, ut possibilitatis negatio necessariae
consentiat affirmationi, illud verum est affirmationem possibilem necessariae
convenire. Sed in hoc quoque maior inerit difficultas. Omne namque quod
possibile est esse, possibile est et non esse. Sed si possibilitas necessitatem
sequitur, erit id quod necesse est ut possit esse et possit non esse secundum
naturam scilicet possibilitatis, quae ipsi convenit necessitati. Sed hoc
impossibile est: non igitur possibilitas sequitur necessitatem. Quod si
possibilitas necessitatem non sequitur, negatio possibilitatis sequitur, ea
scilicet quae est non possibile esse, evenientque ea rursus incommoda, quae
dudum cum eum locum tractaremus expressimus. Quod si quis possibilitatis non
velit esse negationem eam quae dicit non possibile esse sed potius eam quae
dicit possibile esse non esse, quamquam ille non recto ordine affirmationem
negationi accommodet dictumque supra sit, quotiens cum modo propositiones dicuntur
ad modos ipsos potius negationem poni oportere quam ad verba, dandae tamen
manus sunt, ut cum eo quoque concesso, quod ad defensionem ƿ utile aliquibus
videri possit, argumentationis falsam sententiam fregerimus, penitus atque altius
sit veritas constituta. Sit ergo haec negatio possibilitatis quam ipsi volunt,
id est ea quae dicit possibile esse non esse sed haec quoque necessitati non
convenit. Si quis enim dicat quoniam possibile esse necessarium non sequitur,
sequitur mox possibilis contradictio necessitatem. Quod si quis contradictionem
possibilis ponat eam quae dicit possibile esse non esse eaque necessitati
consentire putatur, erit secundum eum recta consequentia: si necesse est esse,
possibile est non esse sed hoc fieri non potest. Quod enim necesse est esse non
potest non esse. Si igitur possibilitas non sequitur necessitatem (erit enim
quod necesse est contingens, possibile namque et contingens idem valet),
negationes possibilitatis, sive ea quae dicit non possibile esse, sive ea cuius
sententia est possibile esse non esse, necessitati convenient. Sed utrumque
impossibile est. Quod si haec non sequuntur, sequitur ea quae est earum
affirmatio, id est possibilitas. Sed hoc quoque fieri non potest, ut saepius
supra monstravi. Haec ergo huiusmodi quaestio in sequenti ordine ab ipso
resolvitur. Nunc quoniam quaestionis supra dictae talis sensus est, verba ipsa
sermonumque ordo videatur. Ait namque ita: DUBITABIT AUTEM, inquit, ALIQUIS, SI
ILLUD QUOD EST NECESSARIUM ESSE POSSIBILE ESSE SEQUITUR, ƿ id est si
necessitati possibilitas consentit. NAM SI NON SEQUITUR, id est si neget
aliquis ut possibilitas necessitatem sequatur, CONTRADICTIO CONSEQUITUR,
possibilitatis scilicet contradictio. Nam quod possibilitas non sequitur,
contradictio possibilitatis sequitur, ea scilicet quae dicit non possibile
esse. Et praetermisit quod ex his esset impossibile. Hoc autem est ut, si
necessitatem possibilitas non sequatur et contradictio possibilitatis
consentiat, sit recta consequentia: si necessarium est esse, non possibile est
esse, quod est inconveniens. ET SI QUIS NON HANC DICAT ESSE CONTRADICTIONEM, id
est si quis neget possibilitatis contradictionem esse quae dicit non possibile
esse, illud certe ei NECESSE EST DICERE quod possibilitatis contradictio ea sit
quae dicit POSSIBILE esse NON ESSE. SED UTRAEQUE FALSAE SUNT DE NECESSE ESSE.
Nam quod necesse est, fieri non potest ut non possibile sit, et rursus quod
necesse est, fieri non potest ut possibile sit non esse. RURSUS IDEM VIDETUR
ESSE POSSIBILE INCIDI ET NON INCIDI. Possibilitas enim affirmationi
negationique communis est. Namque ET ESSE ET NON ESSE potest quod possibile
esse dicitur. HOC AUTEM FALSUM est, id est de necessario praedicari.
Necessarium namque si est, non esse non poterit; si non est, nulla ratione
contingit. Quod si quis dicat quoniam possibilitas necessitatem sequitur, eadem
possibilitas consentit contingenti et ERIT NECESSE ESSE CONTINGERE NON ESSE, id
est erit contingens id quod necesse ƿ esse praedicatur. Nam si quod possibile
est potest non esse, quod autem potest non esse contingit ut non sit, non
dubium est quin, si necessitatem possibilitas sequitur, sequatur eam quoque et
contingentia. Sed, contingens possumus dicere in negatione, ut dicatur
contingit non esse: est igitur quod necesse est esse contingens non esse. HOC
AUTEM FALSUM EST. Atque hic quidem ordo sermonum est, ut in aliis fere omnibus
perplexus atque constrictus: alias enim similitudo enuntiationum, alias id quod
deest implicitam reddit obscuramque sententiam. Quod si quis Aristotelis verbis
seriem nostrae expositionis adnectat et quod illic propter similitudinem
confusum est per expositionis nostrae distinctionem ac separationem disgreget,
quod vero in Aristotelis sermonibus minus est hinc compenset, sententiae ratio
totius elucebit.Nunc ergo quoniam proposuit quaestionem, eam continenter
exsequitur his verbis: MANIFESTUM AUTEM QUONIAM NON OMNE POSSIBILE VEL ESSE VEL
AMBULARE ET OPPOSITA valET SED EST IN QUIBUS NON SIT VERUM, ET PRIMUM QUIDEM IN
HIS QUAE NON SECUNDUM RATIONEM POSSUNT, UT IGNIS CALFACTIBILIS ET HABET viM
IRRATIONABILEM. ERGO SECUNDUM RATIONEM POTE, STATES IPSAE EAEDEM PLURIMORUM
ETIAM CONTRARIORUM. IRRATIONABILES VERO NON OMNES SED QUEMADMODUM DICTUM EST,
IGNEM NON EST POSSIBILE ƿ CALEFACERE ET NON, NEC QUAECUMQUE ALIA SEMPER AGUNT.
ALIQUA VERO POSSUNT ET SECUNDUM IRRATIONABILES POTESTATES SIMUL QUAEDAM
OPPOSITA. SED HOC QUIDEM IDCIRCO DICTUM EST QUONIAM NON OMNIS POTESTAS
OPPOSITORUM EST NEC QUAECUMQUE SECUNDUM EANDEM SPECIEM DICUNTUR. Cum de
possibilis et necessarii consequentia dubitasset cumque si possibilitas
necessitati consentiret, quod erat incommodum, vel si possibilitas rursus
necessitatem sequeretur necessitas ipsa cui possibilitas consentiret in se et
esse et non esse susciperet, nunc incongruentem ambiguitatem rationabili
argumentatione dissolvit dicens. Non vere illud metui, ne possibilitas
necessitatem sequens ipsam naturam necessitatis atque rigorem frangeret, ut id
quod necesse esset in contingentiam permutetur neque enim, inquit, omne quod
possibile est esse et possibile est non esse. Sunt enim plura quae unam tantum
vim continent et ad negationem nullo modo sint apta, ut in his possibilitatibus
quas irrationabilis actus efficit. Nam cum sit possibile ignem calefacere, non
est possibile ut non calefaciat. Quare haec potestas non potest opposita. Si
qua enim potestas opposita potest, illa et esse potest et non esse et facere et
non facere, quae vero non potest opposita, unam ƿ rem tantum potest, quae
affirmationem tantum dat, negationem vero repudiet. Si quis ergo ponat
possibilitatem necessitati consentire, non idcirco iam necesse est ipsam
necessitatem in contingentiam verti, cui contingenti scilicet possibilitas
consentit. Non enim, inquit, omne possibile utrumque potest, id est et posse
esse et posse non esse, atque ideo non omne possibile contingentiae consentit.
Docet autem hoc his modis: IN HIS, inquit, QUAE NON SECUNDUM RATIONEM POSSUNT,
possibilitas quae esse dicitur non valet opposita, ut ignem calefacere
irrationale est. Nulla onim ratio est cur ignis calefaciat: omnium namque quae
naturaliter fiunt nulla ratio est. Ergo haec quorum potestas irrationabilis est
non possum opposita, ut ignis non potest calefacere et non calefacere. Si enim
utrumque possint, opposita possum. Calefacere enim et non cale. Facere opposita
sunt. Cum ergo irrationabiles potestates et opposita agendi non habeant
facultatem, illa quae secundum rationem fiunt ad oppositorum aecum actuary
poterunt retineri, ut quicquid ex voluntate et ratione conceptum est ad
utrumque valeat, medicinam mihi exercere et possibile est et possibile non est
vel rursus ambulare. Quod enim quisquis animi ratione vel appetentia uult, hoc
ex ratione venire dicitur. Et in his omnibus illa potestas est quae ad utrumque
valeat, id est et ad affirmationem et ad negationem, ut sit scilicet et non
sit. In his autem quae sunt ƿ irrationabilia, licet in solis evenire possit, ut
ea potestas quae dicitur non etiam possit opposita, tamen non omnis
irrationabilis potestas opposita non potest, ut aqua et friget et humida est:
ergo et frigescere potest facile et humectari sed eadem permutata in calidam
potest frigescendi non habere vim, cum non possit humectandi amittere
potestaten, dum aqua sit. Quocirca non omnis potestas opposita valet sed valet
quidem opposita potestas ea quae secundum rationabiles motus valuit, illa vero
potestas quae opposita non valet in solis irrationabilibus invenitur, licet non
in omnibus. Sunt enim irrationabiles potestates quae utrumque possint, ut id
quod dictum est de aquae frigore. Et tota quidem sententiae vis talis est, nunc
quis sermonum ordo sit explicetur. MANIFESTUM, inquit, est QUONIAM NON OMNE
POSSIBILE VEL ESSE VEL AMBULARE ET OPPOSITA valET. Quod ita dictum esse
manifestum est, non ut putaremus quoniam omne quod ambulare potest vel quod
esse potest non possit opposita, id est non possit non esse: hoc enim videtur
textus ostendere sed nemo ita intellegat potiusque sic dictum videatur:
manifestum est quoniam non omne possibile, ut possibile frequenter solemus
usurpare, cum dicimus possibile esse ambulare, opposita valet. Neque enim quod
omnis potestas affirmationi negationique conveniat sed sunt quaedam quae unum
tantum possint, ut supra iam diximus. Atque hoc apertius intellegitur si ita
dicamus: manifestum est autem quoniam non ƿ omne possibile et opposita valet,
quoniam scilicet possibile frequenter et de esse et de ambulare praedicamus. Hoc
ita cogitans facilius quis agnoscit, quid ipsius textus verba denuntient, cum
etiam adminiculari quis debeat obscuris sensibus patientia atque consensu, quod
ad sententiam potius dicentis exspectet, etsi se sermonum ratio ita non habeat.
Hoc ergo ita constituto manifestum esse scilicet non omnes potestates opposita
valere sed esse quasdam IN QUIBUS NON SIT VERUM dicere quoniam opposita valent,
[et] datur exemplum: in his quidem primum quae irrationabiliter possunt, id est
non secundum aliquam rationem, quarum scilicet potestatum reddi ratio non
potest, quod ipsarum natura sit, ut quoniam ignis calfactibilis est, idcirco de
eo ratio reddi non potest: hoc namque illi naturaliter adest. Et haec quidem
ignis potestas non valet opposita, scilicet sit irrationalis, quae vero
rationabiles sunt et secundum rationabilem potestatem EAEDEM PLURIMORUM ETIAM
CONTRARIORUM SUNT. Nam quibus ratio dominatur, ad utraque opposita natura
ipsorum apta est, ut eaedem potestates sint plurimorum quae sunt contraria, ut
si est mihi possibile ambulare, quoniam hoc ex ratione et ex voluntate fit, sit
possibile non ambulare et est haec potestas non unius sed plurimorum eorumque
contrariorum. Licet enim affirmatio et negatio sit quodammodo ambulare et non ƿ
ambulare, tamen nunc ab Aristotele in contrarii vice disponitur. Et hoc quidem
in omnibus rationabilibus potestatibus planum est eas plurimorum esse
contrariorum et opposita valere, quae vero secundum rationem non sunt, licet
sint quaedam quae opposita valeant, non tamen omnia. Nam cum aqua frigendi
habeat potestatem, quod est irrationabile, est ei rursus alia potestas
calefaciendi, cum ipsa sit calefacta sed non in omnibus potestatibus
irrationabilibus hoc inveniri potest. Ignis enim (ut dictum est) unam
calefaciendi tantum videtur habere potestatem. Hoc est enim quod ait:
IRRATIONABILES VERO NON OMNES, id est opposita valent sed QUEMADMODUM DICTUM
EST, IGNEM NON EST POSSIBILE CALEFACERE ET NON, daturque in omnibus regula quae
non sint possibilia contrariorum, ea scilicet quae semper unam rem actu
continent, ut ignis semper calet, sol semper movetur et caetera huiusmodi, quod
per hoc ait quod dixit: NEC QUAECUMQUE ALIA SEMPER AGUNT. Aliqua vero possunt
quaedam opposita etiam secundum irrationabiles potestates, ut dictum est de
aqua. Sed hoc idcirco dictum esse testatur, ut cognosceremus nihil evenire
contrariorum, si quis diceret possibilitatem necessario consentire. Cum enim
non omnis possibilitas contraria valeret, ea scilicet necessitati consentit,
quae contraria non valet sed unam rem semper agit. Hoc est enim quod ait: SED
HOC QUIDEM IDCIRCO DICTUM EST, QUONIAM NON OMNIS POTESTAS OPPOSITORUM EST, NEC
QUAECUMQUE SECUNDUM EANDEM SPECIEM DICUNTUR. Quod ait: NEC QUAECUMQUE SECUNDUM
EANDEM SPECIEM DICUNTUR tale est: non modo, inquit, omne quod dicitur possibile
contrariorum esse potest sed etiam quae sub eadem specie sunt quaedam contraria
non possunt, ut ea quae sunt irrationabilium. Nam cum omnium irrationabilium in
eo quod irrationabilia sunt una sit species, tamen ne in his quidem inveniri
potest, ut in omnibus eadem sit contrariorum potestas, ut de igne quod supra
iam dictum est. Nam cum eius irrationabilis sit potestas, non tamen talis est
ut ad contraria transferatur. Recte igitur dictum est, quoniam nec quae sub
eadem specie sunt poterunt omnia contrariorum esse potentia. Nam cum ignis
potestas cum aliis omnibus potestatibus irrationabilibus sub eadem sit specie,
quod irrationabilis est potestas, tamen non valet opposita. Atque hoc quidem
quod attemptare possit totam quaestionem, non tamen validissime dissoluere
praedixit: quo vero maxime dirigat dubitationem ambiguitatemque constituat,
ipse continuata oratione adicit dicens: QUAEDAM VERO POTESTATES AEQUIVOCAE
SUNT. POSSIBILE ENIM NON SIMPLICITER DICITUR SED HOC QUIDEM QUONIAM VERUM EST
UT IN ACTU, UT POSSIBILE EST AMBULARE QUONIAM AMBULAT, ET OMNINO POSSIBILE EST
ESSE QUONIAM IAM EST ACTU QUOD DICITUR POSSIBILE, ILLUD VERO QUOD FORSITAN
AGET, UT POSSIBILE EST AMBULARE QUONIAM AMBULABIT. ET HAEC QUIDEM IN MOBILIBUS
SOLIS EST POTESTAS, ILLA VERO ET IN IMMOBILIBUS. IN ƿ UTRISQUE VERO VERUM EST
DICERE NON IMPOSSIBILE ESSE AMBULARE VEL ESSE, ET QUOD AMBULAT IAM ET AGIT ET AMBULABILE.
SIC IGITUR POSSIBILE NON EST VERUM DE NECESSARIO SIMPLICITER DICERE, ALTERUM
AUTEM VERUM EST. QUARE QUONIAM PARTEM UNIVERSALE SEQUITUR, ILLUD QUOD EX
NECESSITATE EST SEQUITUR POSSE ESSE SED NON OMNINO. Quid haec sententia
contineret, quam nunc Aristoteles proposuit, quinto quidem libro diligenter
expressimus et nunc eam breviter exsequimur. Expositionis enim causa
doetrinaeque hunc nobis secundum expositionis sumpsimus laborem, non augendi
prolixitate fastidii. Talis ergo est tota sententia: possibile quod frequenter
in rebus dicimus non simpliciter dicitur atque ideo quoniam possibile a
potestate traductum est, ipsa quoque potestas aequivoca est. Hoc hinc
manifestum est, quod quaedam possibilitates ad hoc dicuntur non quoniam aguntur
sed quoniam ut agantur nihil impedit, ut si de aliquo sano corpore omnibusque
aliis quae impedire poterant remotis sedente dicatur possibile esse eum
ambulare, non quoniam ambularet sed quoniam ut ambularet nihil omnino prohibet.
Quaedam vero potestates ita dicuntur quoniam iam actu sunt atque aguntur, ut si
quis de ambulante homine dicat possibile eum esse ambulare. Atque ideo illa
possibilitas quae non secundum actum aliquem dicitur sed secundum id quod
posset agere dicitur, eo quod agere non prohibetur, a potestate possibilitas ƿ
nominatur. Haec vero quae iam agit atque in actu est, actus ipse, possibilitas
appellatur. Duae ergo significationes sunt possibilitatis: una quae eam
possibilitatem designat quae est potestate, quae scilicet actu non sit, altera
quae eam possibilitatem significet quae iam actu sit. Haec autem possibilitas
quae iam actu est aut ex potestate ad actum transit aut semper in actu
naturaliter fuit, ut cum homo ex eo quod sedet ambulat, potest ambulare atque
ideo ex potestate in actum vertit, sol vero cum movetur, numquam ex potestate
in actum vertit (neque enim aliquando hunc motum non egit) neque ignis ut nunc
caleret, aliquando non caluit. Ergo ea rursus possibilitas quae secundum actum
aliquem dicitur duas intra se species continet: unam quae talem actum
possibilitatis designet, quem non esse non liceat, et haec dicitur necessaria
et numquam ex potestate in actum vertit sed in actu naturaliter mansit; alterum
vero quod liceat et non esse, quod scilicet ex potestate in actum migravit, et
hoc non necessarium, cum sit actu. Et haec talis potestas, quae ex potestate in
actum vertit, in solis mobilibus est, hoc est quae moveri possunt, haec autem
sunt corporalia. Incorporalia enim non moveri quibus rationibus adstruatur
paulo post dicemus. Illae vero quae semper in actu propria naturae qualitate
manserunt, et in mobilibus inveniuntur, ut igni calor qui semper actu et
numquam fuerit potestate, ƿ et in his quae sunt immobilia, haec autem sunt
incorporalia et divina. Quare potestas ea quae ex potestate in actum migravit
solorum est corruptibilium et corporalium, ea vero quae semper actu fuit
divinis corporalibusque communis est. Ut igitur tota ratio breviter accingatur,
ita dicendum est: possibilitas aequivoca est et multa significans. Est enim una
possibilitas quae ipsa quidem non sit in actu, esse tamen possit atque ideo de
ea possibilitas praedicetur, est autem alia quae iam est actu. Haec autem
potestas quae iam actu est non est aequivoca sed genus. Habet enim sub se
species eam potestatem quae actu quidem est sed ex potestate migraverit, aliam
vero quae actu est sed ex potestate non migravit. Et illa quidem quae ex
potestate non migraverit, ipsa dicitur necessaria, quae numquam relinquet
subiectum, illa vero quae ex potestate ad actum transiit sine ulla dubitatione
dicitur non necessaria, idcirco quod poterit relinquere aliquando subiectum.
Sed de his utrisque, scilicet quae vel in potestate vel in actu possibilitates
dicuntur, communis poterit esse praedicatio, si dicamus utrasque esse non
impossibiles. Nam et qui potest ambulare, cum non ambulet, et qui iam ambulat,
verum est de his dicere quoniam non est impossibile eos id agere quod possunt
agere vel agunt. Cum vero sub significatione possibilitatis duo sint: una
possibilitas quae actu non est, alia vero quae actu est, illa possibilitas quae
secundum potestatem dicitur necessario non accommodatur neque aliquando
necessitati poterit consentire. Restat igitur, ut sub ea possibilitate
necessitas ponatur quae actu est. Sed ea ƿ quoque habet unam speciem per quam
ex potestate in actum migrat, quae est non necessaria: quare ne in hac quidenu
potest poni necessitas. Restat igitur ut, quoniam id quod necesse est esse
nullus negat esse possibile, sub possibili est autem et ea quae potestate esse
dicitur sed necessitas non ponitur neque sub ea potestate quae actu est et
poterit subiectum relinquere, ponatur sub eo actu qui subiectum relinquere non
potest, ut sit necessitas possibilitas quae sit actu et subiectum numquam
relinquat, eo quod ad actum ex potestate non venerit. Species igitur quaedam
erit necessitas possibilitatis, siquidem illic ponitur, ubi est ea possibilitas
quae actu semper est. Quod quoniam speciem sequitur genus et ubi est species
genus deesse non potest, sequitur speciem suam, id est necessitatem, genus
proprium, id est possibilitas sed non omne. Ea vero possibilitas necessitatem
non sequitur, quae potestate tantum est, non etiam actu, neque ea quae cum sit
actu relinquere subiectum potest sed ea tantum quae cum actu sit numquam
poterit a subiecto discedere. Sequitur ergo possibilitas necessitatem nihilque
evenit impossibile sed ea, ut dictum est, quae in actu sit et numquam in
subiecto natura esse desistat. Totus quidem sensus huiusmodi est, ratio vero
verborum ita constabit: QUAEDAM VERO, inquit, POTESTATES AEQUIVOCAE SUNT. Hoc
idcirco dictum est, quoniam non omnis potestas aequivoca est. Est enim potestas
quae ut genus sit, ea scilicet quae secundum actum praedicatur. Quemadmodum
autem quaedam potestates aequivocae sint exsequitur dicens: POSSIBILE ENIM NON
SIMPLICITER ƿ DICITUR, ET HOC PARTITUR: SED HOC QUIDEM QUONIAM VERUM EST UT IN
ACTU, UT POSSIBILE EST AMBULARE, QUONIAM AMBULAT, ET OMNINO POSSIBILE EST ESSE,
QUONIAM IAM EST ACTU QUOD DICITUR POSSIBILE. Hoc planius nihil poterit
demonstrari quin illud possibile dicat, quod iam agitur. Quod si quis possibile
esse neget, hoc agi et fieri atque esse dicit quod impossibile est sed hoc
omnem modum irrationabilitatis excedit. Aliam vero partem significationis
possibilitatis hanc dicit: ILLUD VERO QUOD FORSITAN AGET, et dat huius
exemplum, UT POSSIBILE EST AMBULARE, QUONIAM AMBULABIT. Non ergo quod iam agit
sed QUOD FORSITAN AGET, id est quod ut agat fortasse nihil prohibet. ET HAEC
QUIDEM, inquit, IN MOBILIBUS SOLIS EST POTESTAS, haec scilicet possibilitas
quae potestate dicitur non secundum actum. Mobilia vero, ut dictum est, sola
corpora dicit. ILLA VERO, id est quae actu sunt, ET IN IMMOBILIBUS, id est
divinis. Atque ideo addidit haec cum dicit et IN IMMOBILIBUS, ut non suspicemur
in solis esse divinis actus possibilitatem sed etiam in mortalibus atque
corporeis. IN UTRISQUE VERO VERUM EST DICERE NON IMPOSSIBILE ESSE AMBULARE VEL
ESSE, ET QUOD AMBULAT IAM ET QUOD AGIT ET AMBULABILE. In utrisque, inquit,
significationibus una praedicatio poterit convenire, ut dicamus non esse
impossibile ƿ vel ambulare quod iam ambulat vel ambulare quod potest ambulare
et non ambulat, quod per hoc ait quod dixit AMBULABILE. Ambulabile enim est
quod non quidem ambulet, possit tamen ambulare. His addit: SIC IGITUR POSSIBILE
NON EST VERUM DE NECESSARIO SIMPLICITER DICERE, id est sic possibile,
quemadmodum aequivoce possibilitas praedicatur, non est verum de necessario
simpliciter et universaliter atque omnino praedicare, hoc est non omne
possibile necessario consentit. ALTERUM AUTEM id est possibile VERUM EST, hoc
est de necessario praedicare, illud scilicet quod secundum actum dicitur
immutabilem. QUARE QUONIAM PARTEM suam, id est speciem, id quod est UNIVERSALE,
id est genus, SEQUITUR, ILLUD QUOD EX NECESSITATE EST, quod scilicet species
est possibilitatis, SEQUITUR POSSE ESSE, id est possibilitas SED NON, inquit,
OMNINO. Nam illa possibilitas, quae in actu praedicatur et relinquere subiectum
potest, non sequitur necessitatem sed ea tantum, quae cum in actu sit neque ex
potestate in actum vertit neque poterit subiectum relinquere. Atque haec quidem
quae Aristoteles dixit huiusmodi sunt, quae vero nos distulimus, ut doceremus
immobilia esse divina, mobilia vero sola corpora vocari brevissime
demonstrandum est. Sex motus species esse manifestum est, sicut in
praedicamentorum libro Aristoteles digessit, quamquam hoc in physicis
permutaverit. Sed nunc ita ponamus tamquam si omnino sex sint. Si secundum
nullam motus speciem moveri divina atque incorporalia ratio declaravit, ordine conuincitur
non moveri divina. Ergo neque generantur neque corrumpuntur neque crescunt
neque minuuntur neque de loco in locum transeunt, quippe quae plenitudine
naturae suae ubique tota sunt nec de deo aliquid intellegi fas est, nec rursus
aliqrubus passionibus permutantur. Quod si secundum nullum horum motuum
divinarum rerum permutabilis est natura, manifestum est ea omnino non esse
mobilia atque sex motus hos solis corporibus evenire. Atque hoc quidem de
plurimis quae de ea re possunt dici rationibus atque argumentis limasse
sufficiat. Nunc quoniam Aristoteles consentire necessario possibilitatem non
omnem docuit et quae ei conveniret expressit, rursus de ipsorum consequentia et
quid primo, quid posterius poni debeat, memoriter subicit dicens: ET EST QUIDEM
FORTASSE PRINCIPIUM QUOD NECESSARIUM EST ET QUOD NON NECESSARIUM OMNIUM VEL
ESSE VEL NON ESSE, ET ALIA UT HORUM CONSEQUENTIA CONSIDERARE OPORTET.
MANIFESTUM EST AUTEM EX HIS QUAE DICTA SUNT, QUONIAM QUOD EX NECESSITATE EST
SECUNDUM ACTUM EST, QUARE SI PRIORA SEMPITERNA, ET QUAE ACTU SUNT POTESTATE
PRIORA SUNT. ET HAEC QUIDEM SINE POTESTATE ACTU SUNT, UT PRIMAE SUBSTANTIAE, ƿ
ALIA VERO CUM POTESTATE, QUAE NATURA PRIORA SUNT, TEMPORE VERO POSTERIORA, ALIA
VERO NUMQUAM SUNT ACTU SED POTESTATE SOLUM Postquam de possibilis et
necessarii consequentia quid videretur exposuit, haec ad emendationem
quodammodo superioris ordinis apponit, ut quoniam superius a possibili inchoans
caeteras omnes propositiones ad possibile et contingens et ad eorum consensum
reduxit, nunc hoc rationabiliter mutet, ut non potius a possibilitate
inchoandum sit sed a necessitate. Nam si quis animadvertat diligentius
superiorem descriptionem, primo positum est possibile et contingens et ad eadem
cunctorum consensus relatus est. Nunc autem hoc permutatum videtur. Dicit enim
fortasse hoc esse rectius, ut magis propositionum consequentia a necessariis
inchoetur. Est autem totus sensus huiusmodi: quoniam, inquit, necessaria
sempiterna sunt, quae autem sempiterna sunt omnium aliorum quae sempiterna non
sunt principium sunt, necesse est ut id quod necessarium est caeteris omnibus
prius esse videatur. Ergo consequentiae quoque eodem modo faciendae sunt, ut
primo quidem necessitas, post vero possibilitas et caetera proponantur, sintque
consequentiae hoc modo: Necesse esse Non necesse esse Non possibile esse non
esse Possibile esse non esse Necesse esse non esse Non necesse esse non esse
Non possibile esse Possibile esse ƿ Videsne igitur ut primo quidem
necesse esse et non necesse esse propositum sit, secundo vero loco ad
necessitatis caetera consensum consequentiamque relata sint? Hoc est ergo quod
dixit fortasse principium quoddam esse omnium vel esse vel non esse id quod
esset necessarium, ut a necessario speculandarum propositionum principium sumeretur,
quod esse aliarum propositionum vel non esse secundum consequentiam consensum
constitueret. Et quoniam prius positum est necesse esse, huic consentit ea quae
dicit non possibile esse non esse. Istius ergo propositionis quae dicit non
esse possibile ut non sit, quae scilicet non esse denuntiat (tollit enim
possibile quod modus est), principium est necessitas, cui sine ulla dubitatione
consentit. Et rursus quoniam ei quae dicit non necesse esse consentit ea quae
dicit possibile est non esse, huius propositionis, quae aliquid esse
constituit, id est possibile, principium est ea propositio quae dicit non
necesse est. Ergo sive affirmative necessitas proponatur sive negative, vide
principium quoddam esse caeterorum et caetera velut his, id est necessarlis, consentientia
iudicari oportere. Et hoc est quod ait: ET ALIA QUEMADMODUM ISTA CONSEQUENTIA
CONSIDERARE OPORTET. Cur autem istud eveniat, consequenter ostendit dicens:
quoniam ea quae necessaria sunt actu ƿ sunt, ut frequenter supra monstratum
est, ea vero quae necessaria sunt sempiterna sunt, quae vero sempiterna sunt
priora sunt his quorum sunt huiusmodi potestates quae in actu nondum sint,
manifestum est quoniam et quae actu sunt et potestate ad actum non veniunt
priora sunt. Sed de eo actu loquimur, qui ex potestate ad actum non venit sed
semper actu propriae naturae constitutione permansit, ut cum ignis calet vel
sol movetur et caetera huiusmodi ita sunt, ut actum numquam reliquerint neque
ab his actus afuerit aliquando neque ex potestate ad hunc venerint actum.
Quoniam ergo huiusmodi fuerunt ut semper essent, quae autem semper sunt, ea
omnibus sunt priora, erunt etiam potestate secundum propriam naturam priora.
Sed quae priora semper sempiterna sunt et rursus eadem necessaria, actu sunt et
necesse est, ut ea quae actu sunt his quae sunt potestate priora sint. Post
haec fit ab Aristotele divisio rerum hoc modo: rerum aliae sunt actu semper,
qui ex potestate non venerit, et istae sunt quarum nullae sunt potestates sed
semper in actu sunt. Aliae vero quae in actum ex potestate migraverint, quarum
quidem substantia et actus secundum tempus posterior est potestate, natura vero
prior. In omnibus enim illud quod est actu prius est et nobilius quam id quod
potestate est. Illud enim quod potestate est adhuc ad actum festinat atque ideo
perfectio quidem est actus, ƿ potestas vero adhuc quiddam est imperfectum, quod
tunc perficitur cum ad actum aliquando peruenerit. Quod autem perfectum est eo
quod est imperfectum generosius et prius esse manifestum est. Nam si res quae
ad actum suum ex potestate venerunt, prius fuerunt potestate, post vero actu,
ergo actus earum rerum posterior est potestate, si ad tempus referamus, prior
vero eadem potestate, si ad naturam. Et hoc est quod ait: alias res esse, quae
cum possibilitate sunt et actu sunt sed actum potestate tempore quidem
posteriorem habeant, natura vero priorem, quasdam autem res esse in quibus sola
potestas sit, numquam actus, ut numerus infinitus. Crescere enim potest in
infinita numerus, quicumque vero numerus dictus sit vel centum vel mille vel
decem milia et caeteri finitos; esse necesse est. Ergo actu numerus numquam est
infinitus, quoniam vero potest in infinita concrescere, idcirco solum potestate
est infinitus. Eodem quoque modo et tempus. Quantumcumque enim tempus dixeris
finitum est sed quoniam tempus potest in infinita concrescere, idcirco dicimus
tempus esse infinitum, quod potestate sit infinitum, non actu. Nihil enim actu
esse poterit infinitum. Quod autem supra dixit quae semper actu essent primas
esse substantias, non ita putandum est primas eum substantias dicere
quemadmodum in categoriis, ubi primas substantias indinduas dicit. Hic autem
primas substantias quae semper ƿ actu sunt idcirco nominat quia, ut dictum est,
quae semper actu sunt principalia caeterarum rerum sunt atque ideo primas eas
substantias esse necesse est. UTRUM AUTEM CONTRARIA EST AFFIRMATIO NEGATIONI ET
ORATIO ORATIONI QUAE DICIT QUONIAM OMNIS HOMO IUSTUS EST EI QUAE EST NULLUS
HOMO IUSTUS EST AN OMNIS HOMO IUSTUS EST EI QUAE EST OMNIS HOMO INIUSTUS EST?
CALLIAS IUSTUS EST, CALLIAS IUSTUS NON EST, CALLIAS INIUSTUS EST: QUAE HARUM
CONTRARIA EST? Post propositionum consequentias pertractatas easque subtili
inquisitione dispositas illud exoritur inquirendum, quod magnam in se
utilitatem ita praefert, ut quanta in eo vis utilitatis sit, prima quoque
fronte legentium mentibus ingeratur. Nam cum sit manifestum, quoniam
affirmationem opposita negatio semper oppugnat maximeque perimet universalem
affirmationem universalis negatio quoniamque non ignoratur, quod affirmatio
quae contrarium affirmat ipsa quoque contrarii perimat propositionem, quaeritur
quae magis perimat magisque oppugnet affirmativam, utrumne ea quae universalis
negatio est an ea quae contrarii vel privationis affirmatio. Sit enim positum
hanc esse affirmationem quae proponit OMNIS HOMO IUSTUS EST, hanc ergo duae
perimunt propositiones, et universalis scilicet negatio quae dicit quoniam
NULLUS HOMO IUSTUS EST et ea quae privationem ƿ iustitiae praedicat affirmando,
ea scilicet quae dicit OMNIS HOMO INIUSTUS EST. Affirmatio igitur quae
proponit: Omnis homo iustus est perimitur et a negatione propria
universali quae dicit: Nullus homo iustus est et ab affirmatione
privatoria quae proponit: Omnis homo iniustus est Cum igitur ab utrisque
perimatur, quod autem perimitur ei quod [eam] perimit videtur esse contrarium
quoniamque a duobus, ut dictum est, perimitur et duae unius contrariae esse non
possunt, quae duarum propositionum quas supra memoravimus, id est negationis
universalis et privatoriae affirmativae, contraria sit universali affirmationi
superius comprehensae? In qua re quam sit utilis quaestio nullus ignorat, qui
cogitat, quia nisi hoc ab Aristotele quaesitum enodatumque esset, magnam fore
dubitationem, an illud reciperetur, ut duo unius possent esse contraria, quod
manifesto fieri non potest. Nam cum duo unam rem perimant, quis esset qui
dubitaret aut unam rem duabus opponi aut duabus unam rem perimentibus quaeri
oportere, quae magis earum videretur contraria? Contrarias autem nunc dicimus
non secundum eum modum, quem Aristoteles in praedicamentis explicuit sed tantum
ad id quod res rem vel propositio perimit propositionem, ut quasi hoc modo ƿ
quaeratur: affirmatio universalis secundum quam magis perimitur, utrumne
secundum eam quae universalis est negatio an secundum eam quae vel prirationem
praedicat vel quodlibet aliud quod ex ipsa oppositione vim contrarii
repraesentet? Unde etiam illud latere non oportet, nulli esse dubium inter
universalem affirmationem privatoriam et universalem negationem quae esset
opposita contrarie. Supra enim iam dictum est affirmationi universali
negationem universalem esse contrariam sed hic, ut dictum est, non hoc dicitur
sed illud potius quae magis perimat rem. Nam quae magis perimit ea propemodum magis
videbitur esse contraria. Atque ideo non solum de universalibus proposuit sed
ne suspicaretur quis quod illam contrarietatem diceret quam vel in
praedicamentis locutus est vel rursus supra cum de universali affirmatione et
negatione loqueretur, de particularibus adiecit, quibus non erat contrariae
oppositionis affirmatio atque negatio. Nam si recte superius comprehensa
meminimus, affirmatio universalis et negatio universalis contrariae esse
dicebantur. Nec solum hoc sed etiam secundum iustum et iniustum constituit
quaestionem, quod habitus et privatio potius est quam ulla contrarietas. Quare,
ut diximus, intellegendum est esse nunc in quaestione, quae propositio quam
propositionem proxime efficaciusque destruat ac perimat. Huius inquirendae rei
via exsistet hoc modo: NAM SI EA QUAE SUNT IN VOCE SEQUUNTUR EA ƿ QUAE SUNT IN
ANIMA, ILLIC AUTEM CONTRARIA EST OPINIO CONTRARII, UT OMNIS HOMO IUSTUS EI QUAE
EST OMNIS HOMO INIUSTUS, ETIAM IN HIS QUAE SUNT IN VOCE AFFIRMATIONIBUS NECESSE
EST SIMILITER SESE HABERE. QUOD SI NEQUE ILLIC CONTRARII OPINATIO CONTRARIA
EST, NEC AFFIRMATIO AFFIRMATIONI ERIT CONTRARIA SED EA QUAE DICTA EST NEGATIO.
QUARE CONSIDERANDUM EST, QUAE OPINATIO VERA FALSAE OPINIONI CONTRARIA EST,
UTRUM NEGATIONIS AN CERTE EA QUAE CONTRARIUM ESSE OPINATUR. DICO AUTEM HOC
MODO. EST QUAEDAM OPINATIO VERA BONI QUONIAM BONUM EST, ALIA VERO QUONIAM NON
BONUM FALSA, ALIA VERO QUONIAM MALUM. QUAENAM ERGO HARUM CONTRARIA EST VERAE?
ET SI EST UNA, SECUNDUM QUAM CONTRARIA? Haec investigatio, quae magis sit universali
affirmationi contraria, utrumne privatoria universalis affirmatio an
universalis negatio, hinc sumitur quod omnis fere proprietas, quam in vocibus
venire necesse est, ex opinionibus venit quas voces ipsae significant. Quod
igitur quaerendum in vocibus est, hoc prius est in opinionibus perspiciendum.
Neque enim fieri potest ut, cum vocum significatio ex opinionibus veniat, quas
scilicet voces ipsae significant, non prius proprietates vocum in opinionibus
reperiantur. Requirendum igitur ƿ est quemadmodum se ista in opinionibus posita
habeant, ut quod in his fuerit repertum ad voces rationabiliter transferatur. Quaeratur
igitur prius in opinionibus hoc modo: si opinio privatoriae universalis
affirmationis magis est contraria opinioni simplicis universalis affirmationis
quam opinio universalis negationis, manifestum quoniam privatoria universalis
affirmatio magis perimit universalem simplicem affirmationem quam universalis
negatio. Quod si illud magis ratio reppererit, quod opinio negationis
universalis opinionem affirmationis universalis magis perimat potius quam
opinio privatoriae affirmationis opinionem universalis affirmationis, constat
quod universalis negatio magis contraria est universali affirmationi potius
quam privatoria affirmatio. Hoc autem ut inveniatur, ita faciendum est: ponatur
opinio quaedam vera, contra eam duae falsae, quarum una affirmatio sit
privatoria, altera universalis negatio. De duabus igitur falsis quam
mendaciorem ratio invenerit, eam dicimus verae opinioni magis esse contrariam.
Sint igitur tres opiniones, una vera, duae falsae, et sit quidem vera haec quae
id quod bonum est bonum esse arbitratur, ea scilicet quam dicit Aristoteles
opinionem esse BONI QUONIAM BONUM EST; sit autem ex falsis una quae id quod
bonum est non bonum esse arbitratur, quam Aristoteles dicit falsam opinionem ƿ
boni quoniam NON BONUM EST; reliqua quae id quod bonum est malum esse
arbitratur ea est quae ab Aristotele dicta est opinio boni quoniam malum est. Ex
his igitur tribus, una vera, duabus falsis, quaerendum est quae magis sit
contraria verae. Sed quia contingit saepe et negationem et privationem unum
significare, in his praesertim contrariis in quibus nulla medietas invenitur,
addit: ET SI EST UNA, SECUNDUM QUAM CONTRARIA? Hoc autem huiusmodi est: in his
contrariis in quibus nulla medietas est idem negatio valet quod etiam privatio,
in his vero in quibus est quaedam medietas affirmatio privatoria et negatio non
eiusdem significationis sunt. Age enim sint huiusmodi contraria quae sint
immediata genitum esse et ingenitum esse. In contrariis igitur immediatis idem
privatoria affirmatio quod negatio valet, in his autem quae medietatem habent
non idem. Neque enim aequum est dicere quemlibet illum esse malum et rursus non
esse bonum. nam cum bonum negatur, potest aliquid medium audientis animus
suspicari; cum vero malum ponitur, tota audientis suspicio in contrarium
reiecta est, atque ideo non idem significant. Sed quia saepe (ut dictum est)
privatio vel contrarietas negationi consentit, quotiens tales quaedam propositiones
reperiuntur, in quibus nihil negatione diserepet privatoria affirmatio,
quaerendum est, ut Aristoteli videtur, secundum quam potius prolationem ƿ vel
opinionem verae affirmationi vel opinioni contraria propositio vel opinio fiat.
Quamquam enim interdum idem eignificent, alio tamen modo ipsis propositionibus
utuntur. Nam qui negationem ponit id quod est dicit non esse, qui vero
privationem id quod non est dicit esse. Cum igitur diversum initium et diversa
intentio quodammodo sit propositionum sub eadem significatione, et quae earum
magis verae propositioni contraria sit et secundum quem motum animi magis vera
propositio perimatur quaerendum est. Hoc est enim quod ait: ET SI EST UNA,
SECUNDUM QUAM CONTRARIA? Non enim dicit quoniam omnino negatio et privatio idem
sunt sed in his in quibus idem sunt, hoc est in immediatis contrariis, et
quando idem significant, quoniam non secundum unum motum animi unam
significationem dicunt, qui contrarium vel privationem ponunt et qui
negationem, secundum quam contraria magis est propositio, utrumne secundum eam
quae privationem ponit an secundum eam quae negationem? Post hoc quemadmodum
sit contrarietatis natura designat. NAM ARBITRARI CONTRARIAS OPINIONES DEFINIRI
IN EO, QUOD CONTRARIORUM SUNT, FALAUM EST. BONI ENIM QUONIAM BONUM EST ET MALI
QUONIAM MALUM EADEM FORTASSE ET VERA, SIVE PLURES SIVE UNA SIT. SUNT AUTEM ISTA
CONTRARIA SED NON EO QUOD CONTRARIORUM SINT CONTRARIAE SUNT SED MAGIS EO QUOD
CONTRARIE. Sensus quidem breviter expeditus sed summa rationis veritate
contextus est. Cum enim de contrariis disputat, quemadmodum contrariae
opiniones esse pos sint prima fronte disponit. Arbitratur enim quidam
contrarias esso opiniones, quae de contrariis aliquid arbitrarentur sed hoc
falsum esse conuincitur. Neque enim si bonum et malum contrarium est et aliqui
de bono et malo opinetur, mox necesae est ut contrarietas subsequatur. Age enim
quilibet de bono opinetur quoniam bonum est et rursus de malo opinetur quoniam
malum est. Cum igitur idem de bono et de malo opinetur, illud quoniam bonum,
illud quoniam malum, tamen contrariae opiniones non sunt. Neque enim contrarium
est opinari id quod bonum est bonum esse et id quod malum est malum esse.
Utraeque enim verae sunt, opinionum autem contrarietas in falsitate cognascitur.
Quo autem modo huiusmodi opiniones contrariae esse possunt, quae de eadem
quodammodo affectione animi proficiscuntur, id est opiniones cognoscentes quod
verum est? Non igitur si quis contrariorum aliquam opinionem habeat et quicquam
de contrariis arbitretur, statim necesse est subsequi in opinionibus
contrarietatem. Ergo non est contrarietas opinionum in ea arbitratione, quae
contrariorum est vel quae de contrariis habetur sed potius contrarietas in
opinionibus tunc fit, quotiens de una eademque re contrarie quisquam opinatur.
Ut ƿ quaelibet res sit proposita bona: de ea si quis contrario modo opinetur,
quoniam bonum est, de eadem rursus quoniam malum est, opinio quae id quod est
bonum bonum esse putat vera est, altera vero quae id quod est bonum malum esse
arbitratur falsa est, vera autem et falsa contrariae sunt. Recte igitur has
opiniones quas veritas falsitasque disiungit contrarias esse dicimus et sunt
non contrariorum sed de una eademque re per contrarietatem ductae. Recte igitur
dictum est non oportere definire contrarias opiniones in eo quod contrariorum
sint sed potius in eo quod de eadem re contrarie suspicentur. Ordo vero
sermonum talis est: NAM ARBITRARI, inquit, CONTRARIAS OPINIONES DEFINIRI IN EO,
QUOD CONTRARIORUM SINT, id est in eo quod quaedam de contrariis opinentur,
FALSUM EST. Quomodo autem falsum sit ipse declarat. BONI ENIM QUONIAM BONUM EST
ET MALI QUONIAM MALUM est EADEM FORTASSE est, id est non sibi sunt contrariae
opiniones sed utraeque idem sunt. Quemadmodum autem idem sint ipse subiunxit
dicens ET VERA. Idcirco enim idem sunt, quia verae sunt, contrarietas autem in
veritate, ut dictum est, et falsitate est posita. Qua in re si consentiunt,
idem in veritate et falsitate esse videbuntur. Nec hoc numerositas impediet.
SIVE ENIM PLURES SIVE UNA SIT, in eo quod verae sunt idem sunt. SUNT AUTEM,
inquit, ISTA CONTRARIA, id est quae in opinionibus versantur. SED NON EO QUOD
VEL CONTRARIORUM SUNT vel do contrariis arbitrantur, contrariae opiniones
inveniuntur sed ipsarum contrarietas inde nascitur, quod de una re contrario
modo opinantur. Hoc est qund ait: sed magis eo quod contrarie. Hic enim
contrarie adverbii loco positum est, tamquam si diceret: sed magis ea re
contrariae sunt, quod contrarie opinantur, et subintellegimus de una scilicet re.
Si enim non de una re contrarie opinentur sed de pluribus, poterunt non esse
contrariae. Quod facile cauteque perspiciens unusquisque reperiet. SI ERGO EST
BONI QUONIAM EST BONUM OPINATIO, EST AUTEM QUONIAM NON BONUM, EST VERO QUONIAM
ALIQUID ALIUD QUOD NON EST NEQUE POTEST ESSE, ALIARUM QUIDEM NULLA PONENDA EST,
NEQUE QUAECUMQUE ESSE QUOD NON EST OPINANTUR NEQUE QUAECUMQUE NON ESSE QUOD EST
(INFINITAE ENIM UTRAEQUE SUNT, ET QUAECUMQUE ESSE OPINANTUR QUOD NON EST ET
QUAECUMQUE NON ESSE QUOD EST) SED IN QUIBUS EST FALLACIA. HAE AUTEM EX QUIBUS
SUNT GENERATIONES. EX OPPOSITIS VERO GENERATIONES, QUARE ETIAM FALLACIA. Validam
quidem sententiam brevissimis sermonibus clausit, cuius, ut breviter dicendum
sit, haec vis est: qui de contrarietate propositionum nosse quaerebat, debebat
primo quae propositionum non esset infinita constituere atque ad eam vim
contrarietatis aptare. In omnibus enim contrariis unum uni contrarium est. Si
autem sit quaedam in propositionibus infinitas, illa. Tota infinitas
propositionum uni propositioni contraria esse non poterit. Hoc sumendo totum
textum argumentationis ingreditur aitque non solum exspectari oportere in
propositionibus quod falsa verae sit contraria sed quod inter omnes falsas illa
falsa sit verae contraria, quae una est et non infinita. Possum esse infinitae
propositiones et falsse, potest una finita eadem quoque falsa, quae verae
contraria esse rationabiliter ponenda est. Volens ergo constare, quoniam
negatio potius contraria sit affirmationi quam ea affirmatio quae contrarium
ponit, hoc dicit: potest, inquit, esse opinatio quaedam quae id quod est de
unaquaque re esse opinetur. Est etiam alia quae id quod non est rem ullam esse
arbitretur. Est alia quae id quod secum habet res ulla proposita non eam habere
putet. Est rursus alia quae id quod est res ipsa non eam id esse arbitretur. Ut
autem hoc per uagatum luceat exemplum, sumpsit propositum de quo opinaretur
aliquis id quod est bonum. Si quis igitur hoc bonum bonum esse opinetur, vere
opinabitur. Rursus si quis hoc esse bonum quod non est bonum putet, falsa
opinabitur: ut si quis arbitretur quoniam bonum laedit, quoniam inutile est,
quoniam bonum iniustum est, is ea de bono opinabitur quae non sunt et hoc
falsum est Rursus qui id quod in se habet bonum non habere arbitratur, is
opinabitur hoc modo: bonum non esse utile, bonum non esse iustum, bonum non
esse expetendum, et is quoque fallitur. Quod si quis sit qui hoc ipsum quod est
bonum, non esse bonum arbitretur, ut non putet bonum neque malum esse, id est
quod non est, neque expetendum esse, id est quod in sese habet sed id quod est
ipsum bonum non esse, ita arbitratur bonum non esse bonum. Caeterae igitur
omnes opiniones infinitae sunt. Possumus enim permulta colligere falsa quae cum
non sint de unaquaque re ea tamen esse dicamus, ut in eo ipso bono possum
dicere, quia malum est, possum quia turpe, quia iniustum, quia vitabile, quia
periculosum, et caetera quaecumque in bono nullus inveniet et haeo sunt
infinita. Rursus possum dicere ea quae habet bonum non esse in bono, ut si
dicam bonum non esse utile, bonum non esse expetendum, bonum non esse quod
auget atque haec quidem rursus infinita sunt. Sed quando id quod est aliqua res
aufert opinio, hoc facere nisi semel non potest. Neque enim aliqua per id
effici possum, si quod bonum est non esse bonum arbitratur. Ergo caeterae
quaecumque aut id ƿ quod non est bonum esse arbitrantur aut id quod habet in
sese bonum non esse arbitrantur falsae sunt sed in infinitum. Bonum autem ita
nunc usurpat, tamquam si dicat bonitas. Si quis autem ipsam bonitatem non esse
bonum arbitretur, is et falsus est et definito modo falsus est. Sed in falsis
quae definita sunt et una numero, ea magis et proxime veris videntur esse
contraria. Una enim res semper uni rei est contraria. Quocirca recte haec magis
contraria est quae negat id quod est potius quam ea quae negat vel id quod in
sese habet vel affirmat quod in se non habet. Hoc autem ut ostenderet non recto
sermone usus est sed ad quiddam aliud orationem detorsit, quae res confusionem
non minimam fecit. Nam cum dixisset non debere nos illas potius ponere
contrarias verae opinioni quae infinitae sunt, subiunxit illud quod ait: SED IN
QUIBUS EST FALLACIA. Haec autem est ex his ex quibus sunt et generationes. Hoc
autem talem sententiam claudit: inquit opiniones veris opinionibus opponendum
esse contrarias in quibus principium est fallaciae. Fallaciae autem ex his
nascuntur ex quibus etiam et generationes, generationes autem in oppositis
inveniuntur. Hoc autem tale est: omnis generatio ex permutatione eius quod fuit
surgit. Nisi enim id quod fuit prius esse desierit, non potest esse generatio.
Omne enim quod gignitur in aliam quodammodo formam substantiae permutatur. Ergo
cum non fuerit id quod fuit tunc gignitur et est quiddam aliud quam fuit et qui
fallitur id quod est quaelibet ƿ res non esse arbitratur. Nam qui quod bonum
est malum esse putat fallitur sed fieri aliter non potest ut sit malum, nisi
non sit bonum et in caeteris eodem modo. Fallacia igitur est et principium
fallaciae est, quod quis id quod est aliqua res non eam esse arbitratur. Haec
autem fallacia ex his est ex quibus sunt generationes. Omnis enim, ut dixi,
generatio ex detrimento surget, ut quod fit dulce non fit ex albo sed ex non
dulci, et rursus quod fit album non fit ex duro sed ex non albo, et caeterae
generationes es negationibus potius proficiscuntur et est prima inde fallacia.
Quod si ubi prima fallacia [ex quibus sunt generationes], ibi integerrima
falsitas est et proxima verae opinioni, haec autem in oppositis reperiuntur, hoc
est in affirmationibus et negationibus, dubium non est quin negationis opinatio
magis contraria sit ea opinione quae contrarium aliquid in arbitratione
confirmat. Et sensus quidem huiusmodi est, verba autem sese sic habent: SI ERGO
EST, inquit, BONI QUONIAM EST BONUM OPINATIO, quae scilicet vera est, EST AUTEM
QUONIAM NON BONUM EST, quae falsa est ac definita, EST VERO QUONIAM ALIQUID
ALIUD EST QUOD NON EST NEQUE POTEST ESSE, id est ea quae id esse adscribit quod
non est, ALIARUM ƿ QUIDEM omnium NULLA PONENDA EST, dicit, NEQUE QUAECUMQUE
ESSE QUOD NON EST OPINATUR, id est quae id quod non est res proposita esse eam
putat, NEQUE QUAECUMQUE NON ESSE QUOD EST, id est neque ea quae id quod habet
res proposita in opinionibus negat. Cur autem istae non ponantur contrariae
docet hoc modo: INFINITAE ENIM, inquit, UTRAEQUE SUNT, ET QUAE ESSE OPINANTUR
QUOD NON EST, ET QUAE NON ESSE QUOD EST. Sed quae magis ponenda est? IN QUIBUS
EST, inquit, FALLACIA, id est in quibus principium fallaciae. Principium autem
fallaciae unde ducitur? Ex his ducitur, EX QUIBUS SUNT ET GENERATIONES. Unde
autem sunt generationes? EX OPPOSITIS. Omnis enim, ut dictum est, generatio ex
eo quoniam non est id quod fuit, quod scilicet ad negationem vergit. Quare,
inquit, etiam fallacia et principium fallaciae in oppositis invenitur, ubi
etiam generahones, ex quibus est ipsa fallacia. SI ERGO QUOD BONUM EST ET BONUM
ET NON MALUM EST, ET HOC QUIDEM SECUNDUM SE, ILLUD VERO SECUNDUM ACCIDENS
(ACCIDIT ENIM EI MALO NON ESSE), MAGIS AUTEM IN UNOQUOQUE EST VERA QUAE
SECUNDUM SE EST, ETIAM FALSA, SIQUIDEM ET VERA. ERGO EA QUAE EST QUONIAM NON
EST ƿ BONUM QUOD BONUM EST EIUS QUOD SECUNDUM SE EST FALSA EST, ILLA VERO QUAE
EST QUONIAM MALUM EIUS QUOD EST SECUNDUM ACCIDENS. QUARE MAGIS ERIT FALSA DE
BONO EA QUAE EST NEGATIONIS OPINIO QUAM EA QUAE EST CONTRARII. Licet haec
omnia in primae editionis secundo commentario diligentissime explicuerimus, ne
tamen curta expositio huius libri esse videatur, hic quoque eadem repetentes
explicabimus. Est namque ingressus huius argumentationis huiusmodi: si, inquit,
posita vera propositione plures sint quae eam perimunt falsae, illa inter eas
verae propositioni magis erit contraria, quaecumque magis est falsa. Quaerendum
igitur est quae inter plures falsas propositiones magis falsa sit, ut ea verae
propositioni magis videatur esse contraria. Hoc autem per veritatem dicendum
est. Nam cum vere et per ipsam rem aliquid dici possit et per accidens, illud
tamen maxime veritatis naturam tenet, quod secundum rem ipsam dicitur potius
quam quod secundum aecidens venit. Ut si quis de bono opinetur, quoniam bonum
est, hic secundum ipsam rem veram opinionom habet, sin vero aliquis arbitretur,
quoniam bonum utile est, verum quidem opinabitur sed ista veritas de bono per
accidens fit boni. Accidit ƿ enim bono ut utile quoque sit. Quare illa quae
bonum bonum esse arbitratur per se vera est, id est secundum ipsam rem vera
est, illa vero quae id quod bonum est utile esse opinatur per accidens boni
vera est. Quare propinquior naturae bonitatis est ea quae id quod bonum est
bonum esse arbitratur quam ea quae id quod bonum est utile. Quod si ita est,
verior illa est quae secundum ipsam rem vera est potius quam ea quae secundum
accidens videtur. His igitur ita constitutis et de falsitate idem dicendum.
Falsa enim propositio quae illi verae contraria est, quae secundum se est,
magis falsa est quam ea quae illam veram perimit, quae secundum accidens vera
est. Nam si verior ea quae de ipsa natura rei verum aliquid opinatur, illa erit
magis falsa quae perimit veriorem. Quod si illa, quamquam sit vera, minus
tamen, quae de rei accidente pronuntiat, minus quoque illa erit falsa quae
minus veriorem perimit. His igitur ita constitutis videamus nunc quemadmodum se
in his habeant opinionibus vel propositionibus de quibus nunc tractatur. Idem
igitur sit exemplum: ut supra dictum, id quod est bonum et bonum est et non
malum sed quod bonum est secundum ipsam rem est, quod vero malum non est
accidit ei. Nam id quod bonum est per naturam bonum est, quod vero malum non
est secundo loco et quasi accidenter est. Ergo opinio de bono quoniam bonum est
verior erit propinquiorque naturae ea opinione quae est de bono ƿ quoniam malum
non est. Si igitur ita est et ea quae veriorem opinionem perimit magis falsa
est quam ea quae illam quae quamquam vera sit minus tamen est vera, manifestum
est quoniam negatio magis est falsior quam ea affirmatio quae contrarium ponit.
Nam negatio dicit non esse bonum quod bonum est, affirmatio vero malum esse
quod bonum est: negatio ea quae est non esse bonum quod bonum illam secundum se
opinionem veram perimit quae dicit bonum esse quod bonum est, illa vero
affirmatio contrarii quae est malum esse quod bonum est illam opinionem perimit
veram quae de bono secundum accidens est, id est non malum esse quod bonum est.
Constat igitur magis falsam esse opinionem quae dicit non esse bonum quod bonum
est potius quam eam quae opinatur malum esse quod bonum est. Quod si haec
falsior, magis contraria: magis igitur contraria est negationis opinio quam
contrariae affirmationis. Expedito
igitur sensu verba ipsa discutienda sunt. SI ERGO, inquit, QUOD BONUM EST sit
bonum et non sit malum, ET HOC QUIDEM SECUNDUM SE, id est ut quod bonum est
bonum sit, ILLUD VERO SECUNDUM ACCIDENS, hoc est quod bonum est ut malum non
sit, (ACCIDIT ENIM EI MALUM NON ESSE), MAGIS AUTEM IN UNOQUOQUE EST VERA, QUAE
SECUNDUM SE EST, nam quod secundum uniuscuiusque naturam est propinquius ƿ est
ei rei cui secundum naturam: quocirca et veritas secundum rem, quia rei proxima
est, verior est quam est ea quae secundum accidens est (hoc est enim quod ait:
MAGIS AUTEM IN UNOQUOQUE EST VERA QUAE SECUNDUM SE EST): quod si hoc ita est,
ETIAM FALSA, id est etiam illa est falsitas magis falsior quae illam perimit
opinionem vel propositionem quae secundum se vera est, siquidem illa secundum
naturam rei vera verior est quam quae secundum accidens vera est, hoc est enim
quod dixit: SIQUIDEM ET VERA. Hoc igitur disponens exemplo confirmat: ERGO EA
QUAE EST QUONIAM NON EST BONUM QUOD BONUM EST EIUS QUOD SECUNDUM SE EST FALSA
EST, hoc est illa quae opinatur illi opinioni quae secundum se vera fuit. Hoc
enim haec verba demonstrant, quod dixit: ERGO EA QUAE EST QUONIAM NON EST BONUM
QUOD BONUM EST EIUS QUOD SECUNDUM SE EST FALSA EST, id est quae ipsum bonum negat
bonum esse per se verae propositionis falsa est, id est opposita. Falsitas enim
veritati opponitur. ILLA VERO QUAE EST QUONIAM MALUM EIUS QUOD EST SECUNDUM
ACCIDENS, hoc est illa opinio quae id quod bonum est malum arbitratur esse
falsa est et apta ei propositioni quae est secundum accidens vera, id est quae
ƿ opinabatur bonum non esse malum. QUARE MAGIS ERIT FALSA DE BONO EA QUAE EST
NEGATIONIS OPINIO QUAM EA QUAE EST CONTRARII, id est magis contraria est
negatio quam affirmatio contrarii, siquidem cum sint de bono utraeque
praedicatae, falsior tamen negatio reperitur. Sed quod dixit bono accidere, ut
malum non sit, non ita intellegendum est, quemadmodum solemus dicere
substantiae aliquid acoidere. Neque enim fieri potest sed accidere hic
intellegendum est secundo loco dici. Principaliter enim quod est bonum dicitur
bonum, secundo vero loco dicitur non est malum. Hoc autem tractum est a
similitudine substantiae et accidentis. Unaquaeque enim substantia
principaliter quidem substantia est, secundo vero vel alba vel bipeda vel
iacens vel quicquid substantiis accidere potest. FALSUS EST AUTEM MAGIS CIRCA
SINGULA QUI HABET CONTRARIAM OPINIONEM; CONTRARIA ENIM EORUM QUAE PLURIMUM
CIRCA IDEM DIFFERUNT. QUODSI HARUM CONTRARIA EST ALTERA, MAGIS VERO CONTRARIA
CONTRADICTIONIS, MANIFESTUM EST QUONIAM HAEC ERIT CONTRARIA. Vis omnis
argumentationis, ut brevissime expediatur, huiusmodi est: omne verum aut
secundum se verum est aut secundum accidens, quare necesse est etiam falsum aut
secundum se falsum esse aut per accidens. Verum autem illud esse verius constat
quod secundum se est potius quam illud quod per accidens. Qui vero contrariam
de re aliqua habet opinionem quam res ipsa est, necesse est ut plurimum falsus
sit. Etenim contrarietas opinionum, quotiens de una eademque re longissime a se
absistentes opiniones sunt. Quod igitur magis falsum est, hoc erit etiam falsum
contrarium. Illud enim quod magis a veritate abest, hoc magis falsum est. In
opinionibus vero quae a se plurimum differunt, ea sunt contraria illa igitur in
opinionibus contraria est quae plurimum falsa est. Est autem, ut dictum est,
plurimum falsa, quae secundum se falsa est, id est quae illam perimit
propositionem quae secundum se vera est. Quocirca (haec enim est negatio)
negatio contraria est affirmationi potius quam ea affirmatio quae contrarium
ponit. Talis igitur sensus his verbis includitur: FALSUS EST AUTEM MAGIS,
inquit, CIRCA SINGULA QUI HABET CONTRARIAM OPINIONEM. Quamquam enim possit esse
quilibet falsus, etiamsi de eadem re contrariam non habeat opinionem, ille
tamen magis fallitur qui contrarium aliquid opinatur. Hoc autem cur eveniat
dicit: CONTRARIA ENIM EORUM SUNT QUAE PLURIMUM CIRCA IDEM DIFFERUNT. Idcirco
enim maxime falsa contraria opinantur, quia contrarietas non nisi in plurimum
discrepantibus invenitur. QUOD SI HARUM CONTRARIA EST ALTERA, id est quod si
harum propositionum, quae per se falsa est vel quae per accidens, unam
contrariam esse necesse est, MAGIS VERO CONTRARIA CONTRADICTIONIS, hoc est
magis autem falsa negatio ƿ (hoc enim quod ait: MAGIS VERO CONTRARIA hoc sensit
tamquam si dixisset: magis vero falsa contradictionis est, id est magis vero
falsa negatio est), concludit: si illa, ut dictum est superius, ita sunt,
MANIFESTUM esse, QUONIAM HAEC, id est contradictionis, ERIT CONTRARIA. ILLA
VERO QUAE EST QUONIAM MALUM EST QUOD BONUM IMPLICITA EST; ETENIM QUONIAM NON
BONUM EST NECESSE EST FERE IDEM IPSUM OPINARI.Postquam idcirco contrariam
potius negationem esse monstravit, quod haec magis esset falsa quam ea quae
contrarium affirmaret, et distinctione falsitatis contrariam esse propositionem
opinionemque quae rem propositam negaret edocuit, nunc ex simplicibus
implicitisque propositionibus opinionibusque idem nititur approbare. Dicit enim
quod ea affirmatio quae contrarium ponit implicita et non simplex sit. Idcirco
autem implicita est, quod quae arbitratur id quod bonum est malum esse mox illi
quoque opinari necesse est id quod bonum est bonum non esse. Neque enim aliter
esse malum potest, nisi bonum non sit. Quare qui quod bonum est malum esse
arbitratur, et rem bonam malum putat et eandem ipsam non esse bonum. Non igitur
simplex est haec opinio de bono, quoniam malum est. Continet enim intra se
illam, quoniam non est bonum. Qui vero opinatur non esse bonum quod bonum est,
non illi quoque necesse est opinari quoniam ƿ malum est. Potest enim et non
esse aliquid bonum et malum non esse. Atque hoc quidem in his innititur rebus
in quibus aliqua medietas poterit inveniri. Hoc quoque cautissime addidit. His
igitur ita positis quoniam contrarii opinio non est simplex, simplex vero est
negationis, necesse est ut contra simplicem opinionem simplex potius videatur
esse contrarium. Est autem simplex opinio boni quoniam bonum est vera, simplex
vero boni quoniam non bonum est falsa. Simplici igitur opinioni de bono quoniam
bonum est simplex erit contraria, negationis scilicet, quae est boni quoniam
non est bonum. Tota vero vis huius argumentationis hinc tracta est: quotiens
vera est quaedam propositio et duae quae eam perimere possint, si una earum
nihil indigens alterius veram propositionem perimat, reliqua vero praeter
alteram eandem veram propositionem perimere non possit, illa magis dicenda
contraria est, quae sibi sufficiens nec reliquae indigens propositam
propositionem perimere valet. Veram autem propositionem de bono quoniam bonum
est sola perimere potest et ad illius verae interitum est sibi ipsa sufficiens
illa quae opinatur non esse bonum quod bonum est. Illa vero quae opinatur malum
esse sibi sola non sufficiet, nisi illa quoque ei auxilietur, quae est id quod
bonum est bonum non esse. Idcirco enim contraria illa aufert, quia secum
negationem trahit. Manifestum est hanc quae ad verae ƿ propositionis interitum
sibi ipsa sufficit recte magis videri contrariam quam eam quae sibi ipsa non
sufficit, nisi ei vis negativae propositionis addatur. AMPLIUS, SI ETIAM IN
ALIIS SIMILITER OPORTET SE HABERE, ET HIC VIDEBITUR BENE ESSE DICTUM; AUT ENIM
UBIQUE EA QUAE EST CONTRADICTIONIS AUT NUSQUAM. QUIBUS VERO NON EST CONTRARIA,
DE HIS EST QUIDEM FALSA EA QUAE EST VERAE OPPOSITA, UT QUI HOMINEM NON PUTAT HOMINEM
FALSUS EST. SI ERGO HAE CONTRARIAE SUNT, ET ALIAE CONTRADICTIONIS.Quod de his,
inquit, propositionibus dicimus si hoc in omnibus invenitur, firmum debet esse
quod dicimus. Neque enim verisimile est in aliis quidem propositionibus
negationes esse contrarias, in aliis vero affirmationes quae contrarium ponunt
sed si hoc in omnibus propositionibus invenitur et contradictionibus, ut
contradictio potius contraria sit, id est negatio, quam quae contrarium habet,
nihil est dubium quin haec ratio consistat in omnibus: sin vero in aliis ea
quae contrarium ponit magis contraria est quam negatio, hic quoque ita sese
manifestum est non habere. Ubi enim inveniri potest contrarietas, in his
dubitatio est, quaenam sit contraria, utrumne ea quae contrarium affirmat an ea
quae id quod propositum est negat. Ergo in his in quibus dubium non est
quemadmodum ƿ sit hoc speculandum est. Dubium autem non est in his in quibus
nulla est contrarietas, ut in substantiis. Hic enim solae sunt contrariae
negationes. Si ergo huic opinioni quae est de homine quoniam homo est illa
opponitur quae est de homine quoniam homo non est, manifestum est in aliis
quoque in quibus contrarietas invenitur locum contrarietatis negationem potius
optinere. [Nam si in his in quibus contrarietas est, ut in bono vel malo,
manifestum est potius illam esse contrariam quae bonum negaret quam eam quae
malum opponeret ei quae id quod bonum est bonum esse arbitretur, nec in his eam
contrariam esse oporteret in quibus contrarietas nulla est.] Quid enim attinet
cum de homine dicimus, quod contrarium non habet, ibi esse negationem
contrariam, cum vero de bono, quod contrarium habet, ibi non esse sed potius
eam quae contrarium poneret? Quodcumque enim convertitur a negatione suam vim
in omnibus servare debet.Quod ergo dicitur ab Aristotele, ut breviter explicem,
tale est: si in aliis negatio est contraria, hie quoque negationem esse
contrariam manifestum est quod si in aliis minime, in his quoque quae supra
posuit. Sed in omnibus aliis in quibus contrarietas non invenitur contradictio
contrarietatis locum tenet, et in his igitur in quibus est aliqua contrarietas
eundem locum neque alium tenebit. Quod in his verbis ƿ explicuit: AMPLIUS, SI
ETIAM IN ALIIS SIMILITER OPORTET SE HABERE, ET HIC VIDEBITUR BENE ESSE DICTUM. Nam
si in caeteris omnibus ita se habere necesse est, et in his quae supra sunt
dicta ita sese habet et id quod dictum est optime dictum esse videbitur. AUT
ENIM UBIQUE EA QUAE EST CONTRADICTIONIS alicubi quidem contrariam reperiri,
alicubi vero minime. QUIBUS VERO NON EST CONTRARIUM, ut in substantiis in
quibus nulla est contraria (hoc enim nos, si bene meminimus, praedicamenta
docuerunt), DE HIS EST QUIDEM FALSA EA QUAE EST VERAE OPPOSITA, id est in his
invenitur quidem opposita falsa opinio verae opinion) sed quae sit ista
manifestum est. Nam ubi nulla contrarietas, liquet contradictionis esse
contrarietatem. UT QUI HOMINEM NON PUTAT HOMINEM FALSUS EST. Haec enim
sola contrarietas verae propositionis invenitur. SI ERGO HAE CONTRARIAE SUNT,
et illae aliae quae sunt CONTRADICTIONIS, id est si in his quae contrarietatem
non habent negationes sunt contrariae (necesse est enim aliquas esse
contraries), in aliis omnibus etiam in quibus est aliqua contrarietas, ut bono
et malo, negatio locum optinet contrarietatis. AMPLIUS SIMILITER SE HABET BOND
QUONIAM BONUM EST ET NON BOND QUONIAM NON BONUM ƿ EST, ET SUPER HAS BONI
QUONIAM NON BONUM EST ET NON BONI QUONIAM BONUM EST. ILLI ERGO QUAE EST NON
BONI QUONIAM NON BONUM VERAE OPINIONI QUAE EST CONTRARIA? NON ENIM EA QUAE DICIT
QUONIAM MALUM; SIMUL ENIM ALIQUANDO ERIT VERA, NUMQUAM AUTEM VERA VERAE
CONTRARIA EST; EST ENIM QUIDDAM NON BONUM MALUM, QUARE CONTINGIT SIMUL VERAS
ESSE. AT VERO NEC ILLA QUAE EST NON MALUM; SIMUL ENIM ET HAEC ERUNT.
RELINQUITUR ERGO EI QUAE EST NON BONI QUONIAM NON BONUM CONTRARIA EA QUAE EST
NON BONI QUONIAM BONUM, QUARE ET EA QUAE EST BONI QUONIAM NON BONUM EI QUAE EST
BONI QUONIAM BONUM. Quaecumque superius dicta sunt, ea rursus validiore per
proportionem argumentatione confirmat. Proportio autem est rerum inter se
inuicem similitudo. Si igitur positae sint res quatuor, quarum duae sint
praecedentes, reliquae sequentes, et sic se habeat prima ad secundam
quemadmodum tertia ad quartam, necesse est ita sese habere primam ad tertiam
quemadmodum fuerit secunda ad quartam. Hoc enim ipsum ƿ breviter facillimeque
numeris agnoscamus. Sit enim primus numerus II, secundus VI, rursus
inchoantibus tertius IIII, quartus XII. II VI IIII XII In his igitur
praecedentes quidem unt duo et quattuor, sequentes vero sex et duodecim. Sunt
autem ut duo ad sex, ita quatuor ad duodecim. Nam sicut duo senarii tertia pars
est, ita quaternarius duodenarii tertia pars est. Quocirca sicuti quaternarius
praecedens ad sequentem, ita alius praecedens ad alium sequentem erit; ut praecedens
ad praecedentem, ita sequens ad sequentem. Sed duo ad quatuor qui sunt
praecedentes medietas est, et sex igitur ad duodecim medietas est. Igitur in
omni proportione hoc respiciendum, quod si de quatuor propositis rebus sicut
prima est ad secundam, ita tertia ad quartam, erit ut prima ad tertiam, ita
secunda ad quartam. Ista igitur numerorum proportio ad propositionum vim
naturamque transferatur sintque duae propositiones primae, quarum una
praecedens, altera sequens, et aliae rursus duae, quarum una praecedens, altera
similiter sequens, et in his sit aliqua similitudo. Sit enim prima boni quoniam
bonum est, hanc sequatur boni quoniam ƿ bonum non est. Rursus sit praecedens
tertia non boni quoniam non bonum est, hanc autem sequens quarta non boni quoniam
bonum est. I II Boni quoniam bonum est Boni quoniam boni non est III IIII Non
boni quoniam non bonum est Non boni quoniam bonum est Praesciatur igitur
in his quae sit proportionis similitudo. Est enim ut prima boni quoniam bonum
est ad secundam boni quoniam bonum non est, ita tertia non boni quoniam bonum
non est ad quartam non boni quoniam bonum est. Nam sicut boni quoniam bonum est
vera propositio est, falsa autem boni quomam non est bonum, ita quoque non boni
quoniam non est bonum vera propositio est, falsa autem non boni quoniam bonum
est. Quod si ita est et eodem modo sese habet opinio boni quoniam bonum est ad
opinionem quae est boni quoniam bonum non est, quemadmodum etiam opinio non
boni quoniam non bonum est ad opinionem non boni quoniam bonum est, et
quemadmodum se habet prima ad tertiam, ita sese habebit secunda ad quartam.
Quemadmodum sese habet igitur boni quoniam bonum est ad eam quae est non boni
quoniam non bonum est, cum utraeque sint verae, ita sese habet opinio boni
quoniam bonum non est ad opinionem non boni quoniam bonum est, quod ipsae
quoque utraeque sunt falsae. Nam ut istae ƿ simul verae, ita illae simul
falsae. Quocirca ut est prima ad tertiam, ita secunda ad quartam. Ostensa
igitur hac proportione immutato ordine eaedem disponantur. Sed sit prior opinio
ea quae est non boni quoniam bonum non est eamque sequatur boni quoniam bonum
est et sub his praecedens tertia non boni quoniam bonum est, quarta sequens
boni quoniam bonum non est. I VERA II VERA Non boni quoniam bonum est Boni quoniam
bonum est III FALSA IIII FALSA Non boni quoniam bonum est Boni quoniam bonum
non est Ut igitur superius demonstratum est, ita se habet opinio non boni
quoniam non bonum est ad eam opinionem quae est boni quoniam bonum est,
quemadmodum non boni quoniam bonum est ad eam quae est boni quoniam non est
bonum. Ut enim illae simul verae, ita hae simul falsae eademque proportio est.
Quocirca erit sicut prima quae est non boni quoniam non bonum est ad tertiam
eam quae est non boni quoniam bonum est, ita erit secunda boni quoniam bonum
est ad quartam boni quoniam non est bonum. Requirendum igitur est quemadmodum
hic nunc sit prima ad tertiam, ut ex eo speculemur, quemadmodum sit secunda ad
quartam. Dico enim, quoniam huic opinioni quae arbitratur non esse bonum quod
bonum non est contraria illa est quae arbitratur id quod ƿ bonum non est bonum
esse. Age enim, si potis est, contra eam opinionem quae id quod bonum non est
non bonum putat sit ea quae id quod bonum non est malum putat. Sed hoc fieri
non potest. Contrariae enim opiniones simul numquam verae sunt, possunt autem
simul hae esse verae. Si quis enim parricidium quod non est bonum putet non
esse bonum, idem quoque parricidium quod per naturam non est bonum malum putet,
vere in utraque opinione arbitratur. Igitur non est contraria opinio ei quae id
quod bonum non est non bonum putat ea quae id quod bonum non est malum
arbitrator. Rursus ponatur eidem opinioni de non bono quoniam non est bonum
contraria ea quae arbitratur id quod non est bonum non esse malum. Id quoque
interdum est. Fieri enim potest ut id quod bonum non est nec malum sit. Neque
enim omnia quaecumque bona non sunt statim mala sunt sed est ut bona quidem non
sint, nec tamen mala sint. Si quis enim lapidem nequiquam iacentem, quod per se
bonum non est, non bonum esse putet, vere arbitrabitur, idem ipsum lapidem,
quod per se bonum non est, si non malum putet, nihil eius opinioni falsitatis
incurrit. Quare quoniam ea quae est non boni quoniam non bonum est et cum ea
quae est non boni quoniam malum est et cum ea quae est non boni quoniam non est
malum vera aliquotiens ƿ invenitur, neutri contraria est. Restat igitur ut ei
sit contraria opinio non boni quoniam non bonum est quae opinatur id quod non
est bonum bonum esse, haec autem est non boni quoniam bonum est. Contraria
igitur est non boni quoniam non bonum est ei quae est non boni quoniam bonum
est. Sed hic ita sese habebat opinio non boni quoniam bonum est ad opinionem
non boni quoniam non bonum est, quemadmodum opinio boni quoniam bonum est ad eandem
opinionem quae est boni quoniam non est bonum. Sed prima tertisque contrariae,
secunda igitur quartaque secundum similitudinem proportionis sunt sine ulla
dubitatione contrariae. Potest vero et simplicius intellegi hoc modo: si boni
quoniam bonum est opinio et non boni quoniam non est bonum opinio similes
secundum veritatem sunt, boni autem quoniam non est bonum et rursus non boni
quoniam bonum est ipsae quoque similes secundum falsitatem sunt, si una
falsarum uni verarum opinionum inventa fuerit contraria, erit reliqua falsa
reliquae verae contraria, quod sola efficit similitudo. Ostenditur autem una
falsa uni verae, quemadmodum supra exposuimus, contraria, hoc est ea quae dicit
id quod non est bonum bonum esse ei quae arbitratur id quod non est bonum non
esse bonum. Relinquitur igitur ea quae arbitratur id quod bonum est non esse
bonum contraria esse ei quae opinatur id quod bonum est esse bonum. Qua in re
colligitur negationem potius quam contrarium ƿ ponentem affirmationem verae
affirmationi esse contrariam. Perplexa igitur sententia his modis quibus
diximus expedita est sed se sic habet ordo sermonum: AMPLIUS, inquit, SIMILITER
SE HABET BONI QUONIAM BONUM EST ET NON BONI QUONIAM NON BONUM EST, quae
utraeque verae sunt, ET SUPER HAS BONI QUONIAM NON BONUM EST ET NON BONI
QUONIAM BONUM EST, quae sunt utraeque mendaces. ILLI ERGO QUAE EST NON BONI
QUONIAM NON BONUM est VERAE OPINIONI QUAENAM EST CONTRARIA? Hoc quasi
interrogativo modo dictum est. NON ENIM EA QUAE DICIT QUONIAM MALUM est,
quoniam simul aliquando esse poterit vera. Hoc autem in contrariis non potest
inveniri. NUMQUAM enim VERA VERAE CONTRARIA EST. Quemadmodum autem fieri
potest, ut simul sint verae? Quoniam est QUIDDAM NON BONUM MALUM, QUARE
CONTINGIT SIMUL VERAS ESSE. AT VERO NEC ILLA QUAE EST NON MALUM; SIMUL ENIM ET
HAE ERUNT, id est possunt aliquando simul esse verae, in his praesertim rebus
quae inter bonum malumque sunt. RELINQUITUR ERGO EI QUAE EST NON BONI QUONIAM
NON BONUM, quae scilicet vera est, CONTRARIA EA QUAE EST NON BONI QUONIAM BONUM
est, quae falsa est et simul vera non potest inveniri. QUARE, ad similitudinem
superius positam proportionis reuertitur, ut dicat ET EAM QUAE EST BONI QUONIAM
NON BONUM EST EI QUAE EST BONI QUONIAM ƿ BONUM est contrariam. Quod si quis ea
quae superius dicta sunt diligentius intuetur, nec in totius sententiae statu
nec quicquam in ordine fallitur. MANIFESTUM VERO QUONIAM NIHIL INTEREST, NEC SI
UNIVERSALITER PONAMUS AFFIRMATIONEM; HUIC ENIM UNIVERSALIS NEGATIO CONTRARIA
ERIT, UT OPINIONI QUAE OPINATUR QUONIAM OMNE QUOD EST BONUM BONUM EST EA QUAE
EST QUONIAM NIHIL EORUM QUAE BONA SUNT BONUM EST. In superiori
argumentatione omnia de indefinitis explicuit sed quoniam fortasse aliquis
poterat suspicari non eandem rationem esse posse in his propositionibus quae
sunt definitae atque in his aliquid interesse, utrum eadem demonstratio in his
quae indefinitae sunt eveniret, hoc addit nihil interesse, utrum eandem
demonstrationem, quam ipse superius in propositionibus indefinitis fecit,
quisquam faciat in universalibus, quae iam sine dubio definitae sunt. Si quis
enim secundum indefinitarum propositionum superiorem dispositionem definitas
disponat easque secundum praedictum modum speculetur, non aliam universatis
affirmationis opinioni contrariam reperiet quam eam quae est universalis
negationis opinio. Nihil enim interest inter indefinitas definitasque
propositiones, nisi quod indefinitae quidem sine determinatione, definitae ƿ
vero cum augmento determinationis sunt, vel universalitatis vel
particularitatis. Hoc est enim quod ait: NIHIL INTEREST, NEC SI UNIVERSALITER
ponatur affirmatio. Universali namque affirmationi universalis contraria erit
negatio, UT OPINIONI QUAE OPINATUR QUONIAM OMNE QUOD EST BONUM BONUM EST, quae
scilicet est universalis affirmationis, EA SIT CONTRARIA QUAE EST QUONIAM NIHIL
EORUM QUAE BONA SUNT BONUM EST, hoc est opinio universalis negationis. Hoc
autem cur fiat ostendit. NAM EA QUAE EST BOVI QUONIAM BONUM, SI UNIVERSALITER
SIT BONUM, EADEM EST EI QUAE OPINATUR QUICQUID EST BONUM QUONIAM BONUM EST.
NIHIL DIFFERT AB EO QUOD EST OMNE QUOD EST BONUM BONUM EST. SIMILITER AUTEM ET
IN NON BONO. Gradatim indefinitam propositionem ad similitudinem universalis
adduxit. Dicit autem: quaecumque fuerit indefinita propositio, ei si quod in
sermone solemus dicere quicquid addatur, universalis fit, ut nihil omnino
distet ea quae ad rem in affirmatione omne praedicat. Ut ea opinio vel
propositio quae est de bono quoniam bonum est hoc scilicet opinatur, quoniam
bonum bonum est, huic si addatur quicquid, ut ita dicamus: quicquid bonum est
bonum est, nihil differt ab ea quae opinatur omne bonum bonum esse. Quare eadem
vis est superioris demonstrationis in ƿ propositionibus indefinitis, quae etiam
in universalibus, quae paruulum quiddam distant, quod non ad qualitatem nec ad
vim propositionis sed ad quantitatem refertur. Universalitas enim quantitatis
ponitur. Et sensus quidem huiusmodi est, verba vero sic sunt. Superius
proposuerat nihil interesse, an indefinita esset propositio an universalis. Cur
autem nihil intersit hoc modo dicit: NAM EA QUAE EST BONI QUONIAM BONUM est, id
est indefinita affirmatio, SI UNIVERSALITER SIT BONUM, id est si bonum
universaliter proferatur, EADEM EST EI QUAE OPINATUR QUICQUID BONUM EST QUONIAM
BONUM EST, id est nihil discrepat ab ea opinione quae opinatur quicquid bonum
est bonum esse. Huiusmodi autem opinio NIHIL DIFFERT AB ea, quae aperte
universaliter proponitur, quae est OMNE QUOD EST BONUM BONUM EST. SIMILITER
AUTEM ET IN NON BONO, id est non bonum quoque eadem ratione dicimus. Ea namque
propositio vel opinio quae opinatur non bonum esse quod non bonum est, si ei
adicitur universalitas, nihil differt ab ea quae dicit quicquid non bonum est
non est bonum. Haec autem nullo distat ab ea, quae universaliter aperte
proponitur, quae est omne quod bonum non est non est bonum. QUARE SI IN
OPINIONE SIC SE HABET, SUNT AUTEM HAE QUAE SUNT IN VOCE AFFIRMATIONES ET ƿ
NEGATIONES NOTAE EARUM QUAE SUNT IN ANIMA, MANIFESTUM EST, QUONIAM ETIAM AFFIRM
ATIONI CONTRARIA QUIDEM NEGATIO CIRCA IDEM UNIVERSALIS, UT EI QUAE EST QUONIAM
OMNE BONUM BONUM EST VEL QUONIAM OMNIS HOMO BONUS EA QUAE EST VEL QUONIAM
NULLUM VEL NULLUS, CONTRADICTORIE AUTEM AUT NON OMNIS AUT NON OMNE. Superiores
omnes argumentationes ad unum colligit redigitque ad conclusionem omnem
quaestionis vim. Supra enim negationes et affirmationes earumque contrarietates
de opinionibus pensari oportere praedixerat, nunc vero quoniam in opinionibus
repperit illam contrariam esse, quae esset universalis negatio, idem refert ad
propositiones, quas manifestum est, quoniam voces sunt et significativae,
passiones animi designare. In principio enim libri significativas voces
passiones animae monstrare veraciter docuit, nunc ea velut probaturus est:
quoniam in opinionibus illa potius contraria universali affirmationi reperta
est, quae esset universalis negatio potius quam ea quae contrarium universali
affirmationi affirmaret, idem quoque arbitratur in vocibus provenire, hoc est
affirmationi universali non affirmationem contrariam rem ponentem sed universalem
negationem esse contrariam, ƿ contradictorias vero eas quae, cum affirmatio
universalis esset, particularis negatio inveniretur. Atque hoc quidem
planissime dictum est nec aliquis in verbis error est sed nos, ut caetera nihil
ambiguum relinquentes ipsorum quoque verborum, eorum ordinem persequemur. Ait
enim: QUARE SI IN OPINIONE SE SIC HABET, id est quod opinio negationis
contraria invenitur opinioni affirmationis potius quam contrarium ponens
affirmatio, SUNT AUTEM HAE QUAE SUNT IN VOCE AFFIRMATIONES ET NEGATIONES NOTAE
EARUM QUAE SUNT IN ANIMA (nam sicut in voce affirmatio et negatio est, ita
quoque etiam in opinione, cum ipse animus in cogitatione sua aliquid affirmat
aut quid negat, quod nos alio loco diligentius expediemus): ergo quoniam affirmationes
et negationes quae sunt in voce notae earum sunt affirmationum vel negationum
quae sunt in anima, MANIFESTUM EST, QUONIAM ETIAM AFFIRMATIONI CONTRARI. QUIDEM
EST NEGATIO CIRCA IDEM UNIVERSALIS. CIRCA IDEM autem addidit, ne disiunctas
affirmationes et negationes contrarias diceremus sed ut affirmatio et negatio
de una eademque re illa quidem universaliter affirmaret, illa vero
universaliter negaret. Earum autem exempla haec sunt: UT EI QUAE EST QUONIAM ƿ
OMNE BONUM BONUM EST VEL QUONIAM OMNIS HOMO BONUS EST EA QUAE EST QUONIAM
NULLUM, id est nullum bonum bonum est, quae contraria est, VEL NULLUS, hoc est
quoniam nullus homo bonus est. CONTRADICTORIA AUTEM AUT NON OMNIS, id est non
omnis homo bonus est contra eam quae dicit: Omnis homo bonus est AUT NON
OMNE, hoc est non omne bonum bonum est contra eam quae dicit quoniam omne bonum
bonum est. Constat igitur in his propositionibus quas supra proposuit illam
magis esse contrariam, affirmationi quae dicit: Omnis homo iustus est eam
quae dicit: Nullus homo iustus est potius quam eam quae dicit: Omnis homo
iniustus est MANIFESTUM AUTEM QUONIAM ET VERAM VERAE NON CONTINGIT ESSE
CONTRARIAM NEC OPINIOVEM NEC CONTRADICTIONEM. CONTRARIAE ENIM SUNT QUAE CIRCA
OPPOSITA SUNT, CIRCA EADEM AUTEM CONTINGIT VERUM DICERE EUNDEM; SIMUL AUTEM
EIDEM NON CONTINGIT INESSE CONTRARIA. Post haec libri terminum expedit in ea
speculatione et demonstratione, per quam, licet verum sit manifestumque omnibus
duas propositiones veras non esse contrarias, tamen id ipsum demonstrare conatur.
Est autem huius argumentationis ingressus huiusmodi: ea quae sunt contraria
opposita sunt, opposita vero non possunt eidem simul inesse: contraria igitur
eidem simul inesse non possunt. De quibus autem aliquid simul verum dici
potest, illa simul eidem inesse possunt, quae vero simul eidem inesse ƿ non
possunt, de his simul verae propositiones, affirmatio et negatio, esse non
possunt. Sed contraria simul eidem inesse non possunt: quae igitur simul verum
dicunt contrariae non sunt, idcirco quoniam de quibus et affirmatio et negatio
simul verae esse possunt, illa simul eidem insunt. Quocirca quae simul verae
sunt contrariae non sunt. Sensus hic est, verba autem sic constant: MANIFESTUM
AUTEM EST, inquit, QUONIAM ET VERAM VERAE NON CONTINGIT ESSE CONTRARIAM, id est
duas veras propositiones non posse esse contrarias? NEC OPINIONEM NEC
CONTRADICTIONEM: si opinio non est vera verae contraria, multo magis nec
contradictio quae ex opinionibus venit. Contradictio autem hic pro
contrarietate posuit: de ea enim non agebatur. CONTRARIAE ENIM SUNT QUAE CIRCA
OPPOSITA SUNT, id est omne contrarium oppositum. CIRCA EADEM AUTEM CONTINGIT
VERUM DICERE, idcirco quod de his solis et negatio et affirmatio verae simul
esse possunt, quae eidem simul esse contingit, SIMUL AUTEM EIDEM NON CONTINGIT
INESSE CONTRARIA, ut concludatur: quoniam de quibus affirmatio et negatio simul
verae sunt, ea simul eidem inesse possunt, contraria vero simul eidem inesse
non possunt, quae simul verae sunt non possunt esse contrarialNoster quoque labor
iam tranquillo constitit portu. Nihil enim, ut arbitror, relictum est quod ad
plenam ƿ huius libri notitiam pertineret. Quare si rem propositam studio
diligentiaque perfecimus, erit perutile his qui harum rerum scientia
complectendarum cupiditate tenebuntur: sin vero minus id eiecimus, quod nobis
propositum fuit, ut obscurissimas libri sententias enodaremus, labori nostro
nihil ut aliis nocituro, et si non proderit, obloquitur. Multa ueteres
philosophiae duces posteriorum studiis contulerunt, in quibus priusquam ad res
profunda mersas caligine peiuenirent qandam quasi intelligentiae luctatione
praeluderent: hinc institutionum breuior compendii facilitate doctrina, hinc
per ea quae illi *prolegomena* uocant, ad intelligentiam promptior uiam unitur.
Huius igitur aemulus prouidentiae statui obscura rum aditus doctrinarum
praemissae institutionis luce reserare, et praesentem operam syllogismis quorum
connexionibus omnis ratio continetur, addicere, modumque eum custodire dicendi,
ut facilitati atque intelligentiae seruientes, astringamus a ueteribus dicta
latius, enuntiata breuius porrigamus, obscurata improprii nouitate sermonis
consueti uocabuli proprietate pandamus. Sed qui ad hoc opus lector accedit, ab
eo primitus petitum uelimus ne in hic quae nunquam alias attigerit statim
audeat iudicare, neue si quid in ludo puerilium disciplinarum rudis adhuc et
nondum firmus acceperit, id amplexandum atque etiam colendum putet; alia enim
teneris atque imbuendis adhuc auribus accomotata, alia firmis ac robustioribus doctrina
mentibus, reseruatur. Quare si quid est quod discrepet, ne statim obstrepat sed
ratione consulta, quid ipse sentiat quid nos afferamus, ueriore mentis acumine
et subtiliore consideratione diiudicet. Idem namque eueniet, ut quae in primo
statim studendi aditu didicerunt, perspecta penitus ac potius deprehensa
contemnant. At si iam quisque duae scientiae defensor esse cupidus malit
(habent hoc quoque uitii homines quos comprehendit discendi uetus ac longa,
segnities, ut si arreptis semel opinionibus non recedant, ne in senectute
discendo, nihil usque in senectutem didicisse uideantur), si, inquam, malunt
uindicare quam uertere quae uulgatis semel etudiis imbiberunt, nemo expetit ut
priora condemnent sed ut maiora quaedam construant atque altiora coniungant.
Non enim una atque eadem diuersarum ratio disciplinarum, cum sit diuersissimis
disciplinis una atque eadem substantia materies. Aliter enim de qualibet
orationis parte grammatico, aliter dialectico disserendum est, nec eodem modo
lineam uel superficiem mathematicus ac physicus tractant. Quo fit ut altera
alteram non impediat disciplina, sed multorum consideratione coniuncta fiat
uera naturae atque ex omnibus explicata
cognitio. Sed de his hactenus; nunc de propositis ordinamur. Quoniam
igitur nobis hoc opus est in categoricos syllogismos, syllogismorum uero
compago propositionibus texitur, propositionum uero partes sunt nomen et
uerbum, pars autem ab eo cuius pars est, prior est; de nomine et uerbo, quae
prima sunt, disputatio prima ponatur, dehinc de propositione ad ultimum de
syllogismorum connexione tractabitur. Nomen est uox significatiua
secundum placitum sine tempore, cuius nulla pars significatiua eit separata;
quae definitio paulo enodatius explicanda est. Nomen enim uocem esse dicimus,
quoniam uox nominum genus est; omne autem genus de sua specie praedicatur,
omnisque definitio a genere sumitur, ut si definias hominem prius animal dicas,
quod est genus, Post uero differentias iungas quae sunt rationale et mortale.
Ita igitur nos quoque in nominis difinitione uocem quidem ut genus sumimus,
caetera autem uoci quasi differentiae aggregamus, uelut quod nomen designatiua
uox dicitur. Sunt enim uoces quae nihil designant, ut syllabae, nomen uero
designatiua uox est, quon iam nomen designat id semper cuius nomen est.
Secundum placitum uero adiunctum est, quoniam nullum nomen natura significat
sed secundum placitum ponentis constituentisque uoluntatem. Illud enim
unaquaeque res dicitur quodei placuit qui primus rei nomen impressit. Aliae
enim sunt uoces naturaliter significantes, ut canum latratus, iras canum
significat, et aliae eius quaedam uox blandimenta; gemitus etiam designant
dolorem, sed non sunt nomina, quia non designant secundum placitum sed secundum
naturam. Sine tempore uero, quod et uerba uoces sunt significatiuae et
secundum placitum sed distant a nominibus, quia nomina quidem sine tempore
sunt, uerba uero cum tempore. Cuius nulla pars significatiua est
separata, nomina ab oratione disiungit. Oratio namque uox est significatiua secundum
placitum et aliquoties sine tempore, ut hic uersus: Nerine Galathea thymo
mihi dulcior Hyblae. Sed orationis partes, separatae a tota oratione,
designant: nominum uero nihil extra designat, atque in illis quidem nominibus
quae figurae sunt simplicis nihil pars omnino significare manifestum est, ut in
eo quod est Cicero, nulla pars separata [763C] designat neque ci, neque ce,
neque ro. At si nomen compositum fiat, significare aliquid separata,
partes uidentur; sed in eodem nomine quod ex utrisque compositum est, separate
nihil designant, ut si dicam magister, partes eius nominis sunt magis atque
ter, quae sumpta extrinsecus et a nominis parte separatae significatione non
carent, utraque enim ad uerbi aliter significat quantitatem; sed cum magister
quod est compositum nomen alicuius artis peritum doctoremque significet, magis
neque partem doctoris, neque totum doctorem poterit designare. Eodem quoque
modo ter, neque in toto significat, neque in parte doctorem, id est, rem illam
quae magistri uocabulo subiecta est nulla ratione designat. Compositorum
ergo nominum partes nihil eius rei quam in unum conuenientes uocabulum
designabant disiunctae distractaeque significant; alia uero significare possunt
sed tunc non partes nominis sed ipsa sunt nomina. Quod enim coniuncta
significant, id diuisa atque se posita non designant. iuncta autem magis et ter
doctoris significationem tenebant, separata igitur omnem significationem
doctoris amitunt. Sed ne quis superius posito calumnietur exemplo, nec
magister compositum nomen esse concedat, uir fortis esse compositum nomen, si
uno praeferatur accentu nullus negabit, cuius partes uir atque fortis quod in
eo quod est uir fortis significare dicantur, non iam nominis partes sed ipsa
sunt nomina, nec uir fortis unius erit nomen sed potius oratio, quae duorum
nominum collata significatione conuincitur, quod uir fortis cum unius accentus
intentione prolatum non est oratio sed nomen, cuius partes nomina esse non
poterunt, ac si nomina non sunt, cum neque naturales affectus neque actus, ut
uerba significent, omnino non nihil designant. Quare concludendum est, cum
quaelibet uoces propriam significationem tenent, non partes nominum, sed ipsa
esse nomina, cum uero unius formam nominis copulauerint, eo considerantur ut
partes uim propriae significationis amittere. Sed de his in commentario
libri *Peri hermeneias* Aristotelis satis dictum est, et maior eius rei
tractatus est quam ut nunc totus ualeat expediri. Sed quoniam sunt
quaedam uoces quae et designatiuae sunt et secundum placitum, et sine tempore,
quarumque partes nihil extra significant, neque tamen proprietates nominis
naturamque obseruent, discernendae prius sunt, additisque differentiis a nomine
segregandae, ut quae sit uis nominis euidenter appareat. Adiecta enim semper
negatio nomini, uocem dubiam facit, quae neque uerbo neque orationi, etsi
interius consideratum sit, neque nomini possit annecti, ut si quis dicat, non
homo, uox est significatiua. Designat enim quidquid homo non fuerit, secundum
placitum. Eas enim omnino partes habet quis ad significationem uel negationis
uel hominis placitum uocabula ponentis assumpsit. Sine tempore, quae res eam
uocem quae dicit non homo separat ac seiungit a uerbo, cuius partes nihil extra
significant, ne oratio esse uideatur. Non homo enim uox seiuncta est ex negatiua
particula et homine, quae in eodem nomine separata nihil designant, significat
enim non homo, uel equum, uel canem, uel quidquid (ut dictum est) non homo non
fuerit. Sed quae est negatiua, neque hominis, neque equi, neque ullius substantiae
significationem tenet. Item homo neque canem, neque quidquid homo non fuerit,
significare potest; quocirca in ea uoce quae est non homo partes nihil
separatae significant eius rei quam tota uocis compositio designabat. Atque
ideo nec in oratione quidem poni potest. Si quis enim eam uocem quae est non
homo orationem concedat, nihil aliud eam esse fatebitur quam negationem.
Negatio autem omnis uera uel falsa est. Qui autem dicit non homo, neque
ueritatem nuntiat, neque mendacium. Praeterea ab omni negatione si quis
negatiuum seiungat aduerbium, affirmatio relinquetur; ab ea autem uoce quae est
non homo, si quis aufert id quod est negatiuum aduerbium, homo relinquetur,
quod nondum est affirmatio. Quocirca si non homo haec uox negatio esse non
potest, nihil autem aliud esse uideretur si esset oratio, concludendum est
negationem iunctam eum nomine orationem esse non posse. Nomen enim omne certum
aliquid definitumque significat, ut homo, equus, canis et caetera; non homo
autem uox aufert quidem quod significatur a nomine, nec praescribit quid ipse
significet. Quocirca quoniam significat quidem aliquid sed non finitum negatio
iuncta cum homine, infinitum nomen uocetur. Addenda est ergo definitioni
nominis differentia, scilicet ut nomen sit quod cum caeteris quae dicta sunt
sit definitae significationis. Iam uero casus nominum non altius intuentibus
nomina uideantur. Quid enim Catonis, et Catoni, atque huiusmodi uoces quae
rectis nominibus inflectuntur, nomina esse non existimet? Sed hae quoque uoces
a nomine quadam differentia discrepabunt. Omne enim nomen iunctum cum est
uerbo, enuntiationem reddit ac suscipit mendacii ueritatisque naturam, ut Cato
est, uel dies est, at si est uerbum casibus adiungatur, neque enuntiatio sit,
neque plena sententia orationis absoluitur, ut Catonis est, nec sententiam
habet absolutam, nec ueri aliquid potest notare nec falsi, atque idcirco non
nomina, sed casus nominum nuncupantur. Nam cum id a quo quidquam flectitur
primum sit, illud uero quod ab inflexione primi nascitur sit secundum, neque
idem primum ac secundum esse possit, manifestum est casus nominum non idem esse
quod nomina: idcirco caeteros quidem genitiuum, datiuum, accusatiuum, casus
appellant grammatici, primum uero rectum ac nominatiuum quod hic locum
principem in significatione possederit. Facienda est igitur nominis plena
neque ullo diminuta definitio sic: Nomen est uox significatiua secundum
placitum sine tempore, cuius nulla pars significatiua est separata, aliquid
finitum designans, cum est uerbo coniuncta faciens enuntiationem. Separat
igitur nomen uox quidem ab articulis atque inanimatis sonis; designatiua uero a
uocibus quae nihil significant, secundum placitum a uocibus aliquid natura
significantibus; sine tempore a uerbo quod a temporis significatione non
recedit, cuius nulla pars separata significat, ab oratione, cuius quemadmodum
partes extra significent, paulo posterius disseram; aliquid definitum
designans, ab his uocibus quae nomen negationemque coniungunt et nomina faciunt
infinita, cum est uerbo faciens enuntiationem, a casibus qui cum est copulati
non possunt plenam perficere atque explicare sententiam. In uerbo quoque
eadem fere cuncta conueniunt, nisi quod in significatione temporis a nomine
separatur. Omne enim uerbum actionem passionemue designat, quae fieri sine
temporis notatione non potest. Est itaque uerbi definitio haec: uerbum est uox
significatiua secundum placitum cum tempore, cuius nulla pars significatiua est
separata, ut currit, uincit; sed si uerbis negatiua copulentur aduerbia, fiunt
infinita uerba, sicut fieri nomina diximus infinita, ut cum currit, nut uincit,
certum aliquid finitumue designet, addita negatione, id quidem quod a uerbo
designatur intercipit, quid uero aliud fieri dicat tali significatione non
terminat; praeterea negatio iuncta cum uerbo siue in eo quod est, siue in eo
quod non est, recte dici potest, ut homo non currit. Non esse autem orationem
aut enuntiationem negatiuam illa prorsus argumenta monstrabunt, quae infinitum
nomen ab oratione aut negatione diuidebant. Sed quoniam principaliter
praesentia quaeque sentimus, his autem rebus quas praesenti sensu concipimus indita
esse a mortalibus uocabula manifestum est, recte dicis uerbum semper
significationis temporis habere praesentis, ut currit aut uincit. Curret autem
aut uincet, et cucurrerit aut uicerit, non sunt uerba sed uerborum casus,
scilicet quia a praesentis temporis significatione flectuntur; est ergo uerbi
plena definitio sic: Verbum est uox significatiua secundum placitum cum
significatione temporis, cuius nulla pars significatiua est separata, aliquid
finitum designans et praesens. Restat igitur ut de oratione dicamus sed
prius uidetur esse monstrandum utrumne nomen et uerbum sola in partibus
orationis ponantur, an ut grammatici uolunt et reliquae orationis partibus
debeant aggregari. Grammatici enim considerantes uocum figuras, octo orationis
partes annumerant. Philosophi uero, quorum omnis de nomine uerboque tractatus
in significatione est constituta, duas tantum orationis partes esse docuerunt,
quidquid plenam significationem tenet, siquidem sine tempore significat, nomen
uocantes, uerbum uero si cum tempore: atque ideo aduerbia quidem atque
pronomina nominibus iungunt, sine tempore enim quiddam constitutum definitumque
significant, nec interest quod flecti casibus nequeunt, non est hoc nominum
proprium ut casibus inflectantur. Sunt enim nomina quae a grammaticis
*monoptota* nominantur, participium uero quia temporis significationem trahit,
etsi casibus effertur, uerbo tamen recte coniungitur. Interiectiones autem
siquidem, naturaliter significent, nec uerbo, nec nomini copulandae sunt; uerbi
enim ac nominis definitiones non habent esse naturalia sed ad ponentis placitum
constituta, atque ideo nec in orationis partibus numerabuntur. Oratio enim
positione significat, nam si naturaliter significaret oratio, non diuersa
gentes orationes loquerentur. Si quae uero interiectionem positione
significant, quoniam finitam sine tempore affectionem designant, recte
nominibus annumerantur. Quae uero ipsa, quidem nulla propria significatione
nituntur, cum aliis uero iunctae designant, ut coniunctiones atque
praepositiones, illae ne partes quidem orationis esse dicendae sunt; oratio
enim ex significatiuis partibus iuncta est. Quocirca recte nomen ac uerbum
solae orationis partes esse dicuntur. Oratio est uox significatiua
secundum placitam, cuius partes aliquid extra significant ut dictio, non
ut affirmatio. Oratio igitur habet simul cum uerbo et nomine commune,
quod uox est, quod significatiua est, quod secundum placitum est. Separatim
uero cum nomine illi commune, est quod aliquando sine tempore est, ut
Virgilianus quem supradiximus uersus: Nerine Galathea thymo mihi dulcior
Hyblae et qui sequitur: Candidior cygnis, bedera formosior
alba. Cum uerbo autem quod interdum cum temporis significatione
profertur, ut: Si qua tui Coridonis habet te cura, uenito. Differt
autem ab utroque quod partes orationis a tota separatae oratione significant.
Sunt enim partes orationis nomen et uerbum quae significatiua esse dum ea
definiremus ostendimus. Significant igitur partes orationis ut dictio, non ut
affirmatio, quanquam aliquoties quidem ut affirmatio sed non semper tamen,
semper autem ut dictio. Est enim dictio simplex uerbi ac nominis nuncupatio.
Nam cum dicimus: Si dies est, lux est hanc totam orationem si
diuidere in partes uelimus, scilicet dies est, lux est, utraque pars ut
affirmatio significabit, dies est, lux est, aftirmationes esse manifestum est.
At si minutatim tota orationis membra carpamus, usque in nomina ac uerba postrema
fiet resolutio. Dicemus enim partes esse superius positae orationis, dies et
lux et est, quae per se prolata non sunt affirmationes sed tantum dictiones.
Omnis uero oratio, quoniam ex uerbis nominibusque consistit, in nomina et uerba
solui potest. Non enim omnem orationem in affirmationem cedi possibile est,
ueluti si quis dicat lux est, huius partes sunt, lux atque est, quas non esse
affirmationes sed simplices dictiones nullus ignorat. Cum igitur oratio quidem
non semper in affirmationem solui queat semper autem in simplices dictiones,
iure dictum est orationis partes extra aliquid designare non ut affirmationes
sed potius ut dictiones. Orationis autem species (ut arctissime
diuidamus) sunt quinque, interrogatiua, ut Quo te, Meri, pedes? an quo
uia ducit in urbem? Imperatiua, ut: Suggere tela mihi.
Inuocatiua, ut: Dii maris et terrae, tempestatumque potentes.
Deprecatiua: Ferte uiam, uenti, facilem, et spirate secundi.
Enuntiatiua: Est mihi disparibus septem compacta cicutis Fistula.
Quarum quidem praeter enuntiationem nulla uel esse aliquid, uel non esse
designat. Caeterae namque uel interrogant, uel inuocant, uel imperant, uel
precantur. Enuntiatio uero semper esse aliquid aut non esse significat. Atque
ideo sola enuntiatio est, in qua ueritas uel falsitas inueniri queant. Unde
etiam enuntiationis nascitur definitio, est enim enuntiatio quae uerum falsumue
denuntiat. Hanc etiam proloquium uel propositionem Tullius uocat, quae quidem
partim simplex, partim composita. Simplex est quae conditione seposita esse
aliquid uel non esse proponit, ut: Plato philosophus est. Composita
uero quae ex duabus simplicibus copulante conditione consistit, ut: Plato
si doctus est, philosophus est. Simplicium uero enuntiationum alias in
qualitate sitas, alias in quantitate differentias inuenimus. In qualitate
quidem quod alia affirmatiua, alia negatiua est. Enuntiatio affirmatiua est
enuntiatio aliquid de aliquo significans, ut: Plato philosophus est
philosophum de Platone praedicamus. Negatiua uero est enuntiatio aliquid ab
aliquo praedicatione seiungens, ut: Plato philosophus non est
philosophum enim a Platone tali praedicatione seiunximus. Secundum quantitatem
uero differentiae enuntiationum sunt, quod aliae quidem uniuersales aliae
particulares aliae indefinitae, alio singulares. Uniuersales sunt quae siue
affirment, siue negent, uniuersaliter tamen enuntiant uniuersale subiectum,
ut: Omnis homo sapiens est. Nullus homo sapiens est homo uniuersale
quiddam est. Multos enim sub se indiuiduos coercet et continet, qui
uniuersaliter enuntiantur, dum ei omnis uel nullus adiungitur. Particulares uero
quae uel affirmando uel negando ambitum subiecti uniuersalis in partem
redigunt, ut: Quidam homo sapiens est. Quidam homo sapiens non est
hic enim uniuersalitas hominis, adiecta particulari determinatione minuta est,
atque in partem redacta. Indefinitae uero sunt quae absque uniuersalitatis et
particularitatis determinatione dicuntur, ut: Est homo sapiens
Non est homo sapiens Singulares uero sunt quae de singulari
aliquid et de indiuiduo affirmando negandoue proponunt, ut: Socrates
sapiens est. Socrates sapiens non est Differt autem particularis
propositio a singulari, quod particularis quidem unum aliquem subiicit, nec quis
sit iste designat, ut: Quidam homo sapiens est quis iste homo sit
propositio non declarat. Singularis uero unum aliquem sumit, et quis iste sit
significat, ut: Socrates sapiens est unum enim et hunc Socratem
sapientem esse proposuit. Amplius particularis omnis uniuersalem quidem
terminum ponit sed ei detrahit uniuersalitatem, dum qualitatem particularitas
adiungit, ut in propositione: Quidam homo sapiens est Homo
uniuersalis est terminus, multos enim propria praedicatione concludit. Sed quia
dicitur quidam, ad unum homo redigitur, qui uniuersale persisteret, nisi
particularitas fuisset adiuncta; in singularibus uero propositionibus
praedicato termino semper indiuiduum supponitur, ut: Socrates sapiens
est Socrates enim singularis est, atque indiuiduus; idcirco igitur illa
particularis propositio quae partem ex uniuersalitatem detrahit, haec singularis
quae in singularis atque indiuidui praedicatione consistit. Simplicium
uero enuntiationum partes sunt subiectum atque praedicatum. Subiectum st quod
praedicati suscipit dictionem, ut in ea propositione quae est: Plato
philosophus est. Plato subiectum est, de ipso enim philosophos praedicatur, et
in eo philosophi suscipit dictionem. Praedicatum uero est quod dicitur de
subiecto, ut in eadem propositione, philosophos dicitur de Platone subiecto,
semper enim quod subiectum est uel minus est, uel aequale praedicato: minus
quidem ut in ea propositione de qua paulo ante tractauimus. Plato enim
philosophi nomen non potest aequare neque solus Plato philosophus est; aequalis
uero est subiectus terminus praedicato, ut si quis dicat: Homo risibilis
est homo enim qui subiectus est terminos praedicato risibili coaequatur.
Unde fit ut possit reddi reciproca praedicatio, scilicet, ut uices subiectum
praedicatumque permutent, subiectumque fiat quo erat antea praedicatum,
uersoque ordine praedicetur quod fuerat ante subiectum, ut si dicatur quod
risibile est homo est; omnia enim quae sunt aequalia de se inuicem
praedicantur. Ut uero id quod subiectum est maius possit esse praedicato, nulla
prorsus enuntiatione contingit, ipsa enim praedicata natura minora esse non
patitur. Sed quod aequale uel maius est, id semper de aequali uel minore
praedicatur. Has uero enuntiationum partes, id est praedicatum atque subiectum
terminos appellamus. Termini uero dicuntur quod in eos postrema sit resolutio:
itaque in singularibus uel indefinitis propositionibus duos terminos semper
inuenimus, et uerbum quod propositionis determinet qualitatem, ut in propositione
qua dicimus: Socrates sapiens est Socrates quidem ac sapiens
terminos esse manifestom est. Est uero uerbum non est terminus sed designatio
qualitatis, et qualis propositio sit negatiuam affirmatio significat, et nunc
quidem solo est uerbo propositioni accommodato facta est affirmatio. At si non,
quod est abuerbium negatiuam esset ad iunctum ita diceretur: Socrates
sapiens non est atque hoc modo mutata qualitate fieret de affirmatione
negatio. "Est" igitur et "non est" non sunt termini
sed, ut dictum est, significatio qualitatis. Eadem omnia etiam in indefinita
propositione conueniunt; quod si sint tales orationes: Socrates est, dies
est "est" ui gemina fungitur, scilicet praedicati, est enim
uerbum de Socrate et die praedicatum, et signi qualitatis, idem namque est
solum positum affirmationem efficit, cum negatiuo aduerbio negationem. At si
sint propositiones quae differentias secum habeant quantitatum, ut sunt
uniuersales ac particulares, eadem uis permanet terminorum; "omnis"
enim ac "nullus" et "quidam" terminis non annumerantur sed
enuntiationem significant qualitatem. Atque ideo recte quod subiicitur ac
praedicatur termini nuncupati sunt, quoniam in eos tantum resoluitur
propositio. Caetera enim quae simplicibus enuntationibus adiunguntur, aut
qualitatem propositionum retinent, aut quantitatem significant.
Propositionum uero simplicium aliae sunt quae in nulla parte conueniunt,
ut: Plato philosophus est et: Virtus bona est utraque
enim aliud quiddam de alio praedicatur, nec babent aliquid in proponendi
ratione commune. Illa enim Platonem philosophum dicit, illa uirtutem bonam esse
pronuntiat. Aliae uero sunt quae aliqua terminorum participatione iunguntur. Id
autem duobus fieri modis potest, aut enim ordine eodem, aut per ordinis
commutationem. Eodem uero ordine duplici modo, si uel simplices terminos in
utriusque constituas uel si per oppositionem fiat participatio terminorum: quod
tribus neque amplius continget modis, nam uel praedicato, uel subiecto, uel
utriusque terminis negatio copulatur. Ordinis etiam commutatione conueniunt
duobus modis, aut enim per simplicem terminorum praedicationem, aut per
eorumdem terminorum oppositionem. Haec quoque oppositio terminorum triplicem
recipit modum, cum negatio uel praedicato, uel subiecto, uel utrisque
coniungitur; illae uero quae altero termino participant et tribus modis, uel
cum in una propositione quod praedicatur in altera subiectum est, uel cum idem
in utriusque praedicatur, uel cum idem in utrisque subiectus est. Et quoniam
omnium sibimet conuenientium propositionum ordinatissimam fecimus diuisionem,
nunc de singulis quibusque tractemus, ac primum de ea propositionum
conuenientia, quae cum utrisque participet terminis, participandi tamen ordinem
seruent, ea est huiusmodi: Omnis homo sapiens est. Nullus homo sapiens
est. Utraque enim propositio hominem subiicit, et praedicat sapientiam,
et cum utroque termino congruant, sunt tamen diuersae, quoniam haec affirmatio
est, illa negatio. Et hoc quidem exempli gratia dictum sit, plenius uero fiet
de tali participatione tractatus hoc modo. Cunctarum simplicium
propositionum differentias, uel in qualitate, uel in quantitate sitas esse
ostendimus; in quantitate cum uniuersaliter pronuntiat [F. pronuntiantur] uel
particulariter uel indefinite, uel singulariter proferuntur, in qualitate uero
cum hae quidem affirmatiuae sunt, illae uero negatiuae. Si igitur duas
affirmatiuas aggregamus fiunt mixtae cum utrisque octo differentiae, quae simul
qualitatem quantitatemque contineant. Sunt autem mixtae hae, affirmatio
uniuersalis, negatio uniuersalis, affimatio particularis, negatio particularis,
affirmatio indefinita, negatio indefinita, affirmatio singularis, negatio
singularis. Quarum quidem indefinitas singularesque segregemus, et de
uniuersalibus ac particularibus disseramus. Describatur ergo uniuersalis primum
affirmatio: Omnis homo iustus est cuius aduersum tenet locum negatiua
propositio uniuersalis: Nullus homo iustus est item sub uniuersali
affirmatione ponatur particalaris affirmatio, quidam homo iustus est, hanc
aduersa fronte respiciat, sitque uniuersali negatiuae supposita particularis
negatio: Quidam homo iustus non est. Uniuersalis
affirmatio: Omnis homo iustus est. Uniuersalis negatio: Nullus
homo iustus est. Particularis affirmatio: Quidam homo iustus est
Particularis negatio: Quidam homo iustus non est Harum igitur affirmatio
atque negatio uniuersalis qualitate quidem discrepant sed quantitate
concordant; nam quod haec quidem affirmatio est, illa uero negatiua est, sunt
in qualitate diuersae, quia uero utraque unuersalis est quantitate conueniunt.
Harum igitur uel utrasque falsas, uel alteram ueram alteram falsam recipere
possibile est, utraeque autem simul uerae nequeunt inueniri, nam in proposita
descriptione affirmatio quae est: Omnis homo iustus est et negatio
quae est: Nullus homo iustus est cum utraeque sint uniuersales,
neutra tamen est uera. At si sit affirmatio: Omnis homo animal est
atque uniuersaliter denegetur ita: Nullus homo animal est uel
ita: Omnis homo lapis est. Nullus homo lapis est unam ueram, alteram
falsam esse necesse est. Atque ideo quoties ea praedicantur quae et conuenire
subiecto et ab eo ualeant segregari et uniuersaliter illa confirmat haec
denegat, utrasque falsas contingit, et superius positis declaratur exemplis.
Iustitia enim cum esse in hominibus possit, non tamen ita hominibus inhaesit,
ut ab eis separari nullo modo queat, atque ideo neque omnis homo iustus est,
neque omnis homo iustus non est, contingit utrasque mentiri; at si tale sit
quod a subiecto abstrahi separarique non possit, uel quod nunquam possit
euenire subiecto, et quae uniuersaliter affirmatiua est uniuersaliter abnuatur,
euenit uni ueritatem, alteri semper adesse mendacium sed ita ut si a subiecto
quod praedicatur non potest segregari, uera sit semper affirmatio, falsa
negatio; at si quod euenire non potest praedicatur, affirmatio quidem falsa sit
sed uera sit negatio. Nam quoniam anima non ab homine potest segregari, quae
hominem animal esse confirmat uera est, falsa uero illae quae denegat; item si
quod non potest fieri praedicetur, fiatque affirmatio, omnem hominem esse
lapidem, idque aduersa propositio neget, nullumque hominem lapidem esse
concedat, negatio quidem ueritati, affirmatio autem iuncta est mendacio: simul
autem ueras esse affirmationem uniuersalem uniuersalemque negationem nulla
poterunt exempla monstrare. Atque ideo uniuersalis quidem affirmatio,
uniuersalisque negatio contraria dicuntur, nam ut in contrariis aliquid medium
cortinentibus potest neutrum inesse subiecto, ut corpus neque nigrum sit neque
album, quoniam est quod praeter ea esse possit, ut rubrum, itemque in
contrariis medietate carentibus necesse est alterum semper inesse subiecto ut
omne animal aut dormita ut uigilat, quoniam inter dormire ac uigilare nihil
medium est; autem simul atque in eodem utraque contraria reperiantur fieri
nequit. Ita etiam in uniuersalibus affirmatione ac negatione: ut utraeque
falsae sint, exemplo contrariorum aliquid medium claudiunt; uel altera uera,
falsa uero altera, sicut in contrariis quae medio carent fieri posse manifestum
est sed impossibile est ut utriusque sententia in ueritate conueniat, sicut
nulla contraria simul esse patiuntur. Atque ideo uniuersalis aftirmalio
uniuersalisque negatio contrariae nominantur. Hae igitur non eam uim ipsa
semper aduersitate conseruant, ut eis sit perpetua atque inconciliata
discordia, nec se semper inuicem perimunt, quae cum sententia dissideant
communi tamen falsitate concordant. Si igitur earum una sub mota sit, non
necesse est ut esse altera consequatur: fieri enim potest ut neutra sit, uelut
si omnem iustum esse hominem destruat, non est consequens ut nullus homo sit
iustus. Quae autem sub his propositionibus collocantur, id est particularis
affirmatiua atque negatio, subcontrariae nomen habent, idcirco quod
uniuersalitati particulare commune subiectum est; cum igitur uniuersales
intelliguntur esse contrariae, subcontrarias esse necesse et quae sub
uniuersalibus contrariis collocantur. Horum quoque quantitas est eadem, quoniam
utraeque sunt particulares; diuersa qualitas intelligitur, quoniam affirmatio
haec est, illa uero negatio; sed quanquam contrariis uideantur esse subiectae,
conuerso tamen modo particulares in ueritate sibimet, noii in falsitate
consentiunt. Nam ut haec uerum, falsum illa pronuntiet, atque utraeque sint
uerae tacile propositis declaratur exemplis; ut uero utraeque falsae sint, non
potest inueniri. Nam si quod neque separari, neque possit adesse subiecto,
alterutra enuntiet propositio, una est ueritati, altera cognata mendacio. Et
siquidem quod a subiecto separari non potest praedicetur, affirmatio sola
ueritatis calculum tenet; at si quod subiecto impossibile adesse dicatur, sola
obtinet negatio ueritatem, ut si quis enuntiet: Quidam homo animal est
et alius neget: Quidam homo animal non est uel ita: Quidam homo
lapis est. Quidam homo lapis non erat utraque affirmationum negationumque
oppositio uerum inter falsumque partitur. Sed in prioribus quidem affirmatio,
in posterioribus autem uera negatio est. At si quod euenire quadem possit sed a
subiecto tamen aliquando ualeat segregari, affirmatio particularis, negatioque
pronuntietur, utrasque ueras esse necesse est, ut: Quidam homo iustus
est Quidam homo iustus non est ut uero utraeque falsae sint, nulla
potuerunt exempla congruere. Quocirca ne ista quidem quas subcontrarias
appellamus semper sese inuicenm perimunt, quandoquidem aliquoties in ueritate
concordant. At si omnibus differentiis dissidentes ac inuicem destruentes
inuenire conemur, respiciendae sunt angulares; hae uero sunt uniuersalis
affirmatio et negatio particularis, uel uniuersalis negatio et affirmatio
particularis; his enim tanta inter se discordia manifesta est, ut neque in
falsitate unquam, neque in ueritate conueniant, semperque necesse est cum
affirmatio sit uera, negationem esse mendacem, cum negationi adsit ueritas,
affirmationi esse propriam falsitatem. At primum cum geminas esse propositionum
differentias dixerimus in qualitate scilicet et quantitate, harum et qualitas
diuisa esse probator et quantitas: nam quod haec affirmatio est, illa negatio,
in qualitate dissentiunt; quod uero haec uniuersalis, in particularis
quantitate discordant. Item neque in falsitate, neque in ueritate unquam poterunt
conuenire. Siue enim de his quae a subiecto abesse non possunt unam
semper ueram esse necesse est, alteram falsam, nam si talis terminus
praedicatur, ut cum uel adesse subiecto uel non adesse contingat, uniuersales
semper falsae sunt, particulares uerae sunt, si quis enim ita proponat: Omnis
homo iustus est atque alius neget: Quidam homo iustus non est
uniuersalis affirmatio falsa est, particularis est uero negatio, similiter autem
si quis ita pronuntiet: Nullus homo iustus est uniuersalis
negationis falsa, particularis affirmationis uera sententia est; ita in his
quae uel adesse subiecto, uel abesse contingant, uniuersales falsitati coniunctae
sunt, particulares obtinent ueritatem. At si tales termini sint, qui
separari atque a subiecto diuidi nequeant, siue illa sit uniuersalis, siue
particularis, haerebit semper affirmationi ueritas, negationi mendacium, ut si
quis uniuersaliter enuntiet omnem hominem esse animal, aliusque particulariter
neget, quemdam hominem non esse animal affirmatio uniuersalis uerum loquitur,
particularis negatiuae falsa sententia est. Item si quis uniuersaliter negando
proponat nullum hominem esse animal, particularem affirmationem ueritas
sequitur, haeret uniuersalis negatio falsitati; quod si sint quae predicantur
ut nunquam possint adesse subiecto, seu illae uniuersaliter seu particulariter
proponantur, negationes ornat ueritas, affirmationes falsitas decolorat. Si
quis enim confirmat dicens omnem hominem lapidem esse, aliusque quemdam hominem
non esse lapidem respondeat, uniuersalem affirmationem falsitas, particularem
negationem ueritas tenet; quod si ita quis uniuersaliter neget: Nullus
homo lapis est et particulariter affirmet: Quidam homo lapis
est uniuersali constat negatione ueritas, particularis affirmatio non
caret falsitate. Quoquo igitur modo praedicata uel subiecta mutaueris, si
tamen uniuersalem affirmatiuam particulari negatiuae, uel uniuersalem negatiuam
particulari affirmatiuae consertam a singulari consideratione committas, si
haec falsa illam reram esse contingit, et si haec uera est illam falsam necesse
est inueniri, atque idcirco has inter se oppositas et contradictorias
nuncupamus. Et hactenus quidem affirmationes et negationes auersis
intentionibus conferentes, quid in eis discordiae ac diuersitatis esset
ostendimus; nunc uniuersalem affirmationem particulari affirmatiuae, et
uniuersale in negationem particulari negatiuae ad ueritatis falsitatisque
conuenientiam comparemus. Harum namque inter se nulla discordia est, atque ideo
non de earum dissensu sed de consensu potius uidetur esse quaerendum.
Primum igitur uniuersalis affirmatio et particularis affirmatio subalternae
dicuntur, quoniam altera subiacet alteri, id est particularis affirmatio
uniuersali affirmationi supposita est atque subiecta, ueluti pars intra totius
semper ambitum latet; idemque de uniuersali et particulari negatiua dicendum
est, subalternae enim uocantur, quod superior atque amplior uniuersalis negatio
intra se particularem negationem claudit et continet. Haec igitur tali
ratione consentiant, si enim uniuersales in ueritate praecedant, particulares
ueras esse necesse est, ut si quis uniuersaliter affirmando proponat, omnem
hominem animal, ea cum sit uera, particularis sibi affirmationis ueritatem comitem
trahit, ea uero est: Quidam homo animal est. Nam si uerum est omnem
hominem esse animal, uerum est esse aliquem; item si quis uniuersaliter
enuntiet nullum hominem esse lapidem, et uerum dixerit, subiecta ei
particularis negatio idem retinet, nec mentitur qui dixerit quemdam hominem
lapidem non esse; ita igitur uniuersalibus affirmatione ac negatione uera
dicentibus, particularis affirmatio et negatio ueram uniuersalium sententiam consequuntur.
At si uniuersales falsae sint, non necesse est particulares uniuersalium
consensu praebere mendacinm, uelut in his uniuersalibus qua proponunt omnem
hominem esse iustum, uel nullum hominem esse iustum, quae cum una sit
affirmatio, altera negatio, utraeque sunt falsae; sed eas particularium
falsitas non ex necessitate consequitur, nam et quemdam hominem esse iustum,
quae particularis est affimatio, uere quis dixerit, atque ideo falsis
uniuersalibus, particulares ueras esse non necesse est. Quod enim uniuersalis
affirmatio falsa dicatur omnem hominem esse lapidem, errat particularis
affirmatio quae proponit quemdam hominem esse lapidem. At si uniuersalis
negatio falsa proponatur nullum hominem esse animal non idcirco partirularis
erit uera negatio, si pronuntiet quendam hominem non esse animal, atque ideo
uniuersalibus quidem in ueritate manentibus, particulares necesse est
uniuersalium consentire ueritati, at si uniuersalibus falsitas inhaerebit,
particulares tum ueras, tum etiam falsas esse possibile est, ueras quidem si
quidtale praedicetur quod adesse subiecto possit, et a subiecto ualeat
separari, falsas esse utrasque, affirmationem quidem particularem, si in eo sit
uniuersalis falsa affirmatio quod subiecto non potest conuenire, negationem
particularem, si in eo uniuersalis negatio mentiatur quod a subiecto non potest
segregari, ut posita superius exempla declarant. Quod si ad ueritatis et
falsitatis consequentiam particulares propositiones locum principem sortiantur,
contraria eis uniuersalis propositionis ratione conueniunt. Nam si sint falsae,
particulares falsas esse necesse est; sin uero particulares uerae sint, tum
uniuersales uerae sunt, tum etiam falsae. Nam si particularis affirmatio est
falsa, quae dicit aliquem hominem esse lapidem, uniuersalis quoque affirmatio
falsa est quae proponit omnem hominen esse lapidem. Item si particularis est
falsa negatio quae decernit quemdam hominem non esse animal, falsa erit
uniuersalis negatio quae nullum hominem animal esse contendit. At si
particularis affirmatio uel negatio uerae sunt, idque praedicatur quod a
subiecto diuidi ac segregari queat, affirmationem negationemque uniuersales non
est dubium posse mentiri, ut quod iam uerae sint particulares quae proponunt
quemdam hominem esse iustum, et quemdam hominem non esse iustum, his suppositas
uniuersales falsas esse manifestum est, ut ea quae dicit: Omnis homo
iustus est et: Nullus homo iustus est. At si quid tale
affirmatio particularis pronuntiet quo subiectum carere non possit, uera erit
superposita affirmatio uniuersalis, ut cum aliquis enuntiat quemdam hominem
esse animal, huic uniuersalis affirmatio in ueritate consentit, quae est omnis
homo animal est. At si quid particularis negatio tale proponat, quod subiecto
nequeat inhaerere, ueritatem particularis negationis uniuersalis negatiuae
ueritas necesso est consequatur, ut cum aliquis dicit quemdam hominem lapidem
non esse, consonat uniuersalis ueritas propositionis quae nullum hominem
lapidem esse pronuntiat: quo fit ut praecedentibus quidem uniuersalibus ueris,
particulares ueras esse necesse sit; praecedentibus uero in falsitate
particularibus, uniuersalium ueritas non subsequatur; manentibus uero
uniuersalibus falsis, particulares mendacium dicere non sit necesse, sicut ne
uera quidem particularibus proponentibus, ueram uniuersalium necesse est esse
sententiam. Et hoc quidem exempla docuerunt: ut autem firma demonstratione
clarescat, utilis ad euidentiam rerum descriptio proponatur. Ex his ergo quae
superius dicta sunt intelligi potest contrarias quidem uel uerum inter se
falsumque diuidere, uel simul posse mentiri, ueras simul esse non posse;
subcontrarias uero uel utrasque ueras esse, uel alteram ueram, alteram falsam,
nunquam tamen simul proferre mendacium; angulares autem neque in ueritate
unquam, neque in mendacio consonare sed uni semper ueram, alteri semper falsam
esse sententiam. Nunc demonstrandum est uniuersalibus ueris particulares
non posse mentiri, falsis autem uniuersalibus posse particulares non falsa
proferre. Dico enim si uniuersalis affirmatio sit uera, particularem quoque
affirmationem ueram futuram; nam si falsa est, erit uera quae particulari
affirmationi opponitur uniuersalis negatio sed posita est uera affirmatio
uniuersalis; hoc igitur modo utrasque simul ueras esse contingit, affirmationem
scilicet uniuersalem uniuersalemque negationem, quod euenire non posse
monstratum est; non igitur fieri potest ut affirmatiua uniuersali uera
proposita, particularis affirmatio mentiatur. Rursus si uera est uniuersalis
negatio, particularem quoque negationem ueram esse concedo, nam si falsam quis
dixerit uniuersalem affirmationem, quae est ei opposita ueram necessario esse
fatebitur. At si uniuersalis negatio uera esse proposita est, simul igitur
uniuersales negationem et affirmationem ueras esse contingit; quod fieri non
posse superius posita exempla docuerunt. At si falsa est uniuersalis
affirmatio, particularis uel falsum poterit enuntiare uel uerum: quo posito
nihil impossibile comitatur, siue enim falsa sit, erit uera negatio
uniuersalis, seu uera illa sit, uniuersalem negationem falsitas obtinebit. Quod
fit ut falsa uniuersali affimatione, uniuersalis negatio, tum si falsitate
consonet, tum ab ea ueritate discordet, quod non esse impossibile superioribus
docetur exemplis. Eodem quoquo modo et si uniuersalis negatio falsa sit,
particularem negationem, uel ueram uel falsam esse possibile est, neque idcirco
aliquid sequitur incongruum. Particulari namque negatione uera, uniuersalis
affirmatio mentietur; eadem falsa, uerum uniuersalis affirmatio pronuntiat: quo
fit ut falsa uniuersali negatione proposita, affirmationem uniuersalem tum
ueram, tum falsam rationis demonstret euentus, quod impossibile non est.
Rursus si particulares false sunt, uniuersalis quoque falsitas sequitur. Nam si
particularis affirmatiua pronuntiet mendacium, uniuersali quoque affirmationi
falsitas inhaerebit, nam si haec uera est, falsa erit ei apposita negatio
particularis; sed affirmationem particularem constituimus esse mendacem, simul
igitur particularis affirmatio et negatio falsa sunt, quod esse inconueniens
praecedens tractatus declarauit. Item, si particularis negatio falsa
dicatur, uniuersalis quoque negationis falsitas consonabit: nam si negatio
uniuersalis uera est, falsa est opposita, quae est affirmatio particularis,
quomodo utrasque particulares, affirmationem scilicet ac negationem, simul
falsas esse contingit, quod fieri non posse praediximus. At si uera sit
affirmatio particularis, falsa uel uera uniuersalis affirmatio esse potest: sed
si falsa sit particularis, negationem ueram esse necesse est; si uera sit,
habebit particularis negatiua mendacium. Sed cum uera sit affirmatio
particularis, negationem particularem uel falsam esse uel ueram nihil est
impossibile. Rursus si negatio particularis teneat ueritatem, uniuersalis
negatio uel ueritatem tenere potest uel proferre mendacium. Nam si uera est,
oppositam affirmationem particularem falsam esse manifestum est; si falsa est,
ueritatem particularis affirmatiua custodiet: quo fit ut si particularis
negatio teneat ueritatem, affirmatio particularis uera uel falsa sit, quorum
neutrum impossibile. non esse praemissa docuerunt. Atque haec quidem de
uniuersalibus dicta sufficiant. Nunc de infinitis ac singularibus
disseramus, quarum quidem indefinitae sunt, quibus nulla significatio
determinationis adiungitur sed praeter uniuersalis et particularis
intelligentiam quantitatis proferuntur, ut: Homo iustus est. Homo iustus
non est quibus tametsi ut, dictum est, nulla significatio determinationis
adiungitur, uim tamen obtinent particularium propositionum. Namque ut illae
quas subcontrarias in priore descriptione signauimus, alias quidem inter se
uerum falsumque distribaunt, alias quidem inuicem ueritate conspirant, nunquam
tamen simul uidentur posse mentiri, ita etiam indefinitae, siquidem tale est
quod enuntiat quod subiecto semper inesse necesse sit, affirmatio est uera,
falsa negatio, ut in his propositionibus: Homo animal est. Homo animal non
est. At si id in indefinitis propositionibus efferatur quod subiecti
natura non suscipit, negatio quidem uera est sed affimatio iuncta est falsitati,
ut si quis dicat: Homo lapis est. Homo lapis non est ut uero
utraeque in pronuntianda falsitate consentiant, non potest inueniri. Eadem
tamen ab uniuersalibus affirmatiuis atque negatiuis, ita dissentiunt, ut quoquo
modo subiecta permutes, una semper ueritatis, altera sit semper plena mendacii.
Exemplum uero huiusmodi praedicati, quod subiecto semper inhaereat, hoc
est: Omnis homo animal est. Homo animal non est. Nullus homo animal est. Homo
animal est. Hic indefinitae ui eadem funguntur qua et particularis, huius
uero quod nunquam inhaeret, hoc est: Omnis homo lapis est. Homo lapis non
est. Nullus homo lapis estt. Homo lapis est in his quoque
indefinita, uniuersalibus oppositae per unamquamque oppositionem unam ueram,
falsam alteram reddiderunt, item quod suscipere subiecti naturam ualeat et
possit amittere. Omnis homo iustus est. Homo iustus non est. Nullus homo
iustus est. Homo iustus est in his etiam indefinitae particularibus
immutatae sunt, quae uniuersalibus obiecta per unamquamque propositionum
aduersitatem, uni semper uerum, alteri diuisere mendacium. Praeterea quoque
modo terminorum exempla ponantur, si affirmationes affirmationibus, negationes
negationibus comparemus, uniuersalibus ueris indefinitarum ueritas prouenit, ut
cum uerae sunt, omnem hominem esse animal, et nullum hominem esse lapidem,
constat ueritas indefinitis quae proponunt, et hominem animal esse, et hominem
lapidem non esse. At si uniuersalium falsitas antecedat, indefinitarum uel
ueritas, uel mendacium uariabit, hoc modo. Falsa enim est uniuersalis
enuntiatio quae proponit omnem hominem esse iustum; sed ea quae dicit hominem
esse iustum, tenet in humanae naturae parte ueritatem. Nam si non habet omnis
homo iustitiam, cum tamen aliquis habeat, uere dici potest hominem esse
iustum. Item, cum proponitur uniuersaliter: Nullus homo iustus est
falsum est, at si id indefinitae denegetur, a ueritate non discrepat. Nam cum
sit aliquis homo non iustus, non mentietur qui pronuntiauerit hominem esse non
iustum. Item cum sit falsa quae uniuersaliter affirmat dicens omnem hominem
esse lapidem, falsa est quae idem indefinita enuntiatione confirmat dicens
hominem esse lapidem. Rursus cum sit falsa negatio per quam proponitur
nullum hominem esse animal, falsa est indefinita negatio quae pronuntiat
hominem non esse animal. Hic quoque particularium similitudo seruata est. Nam
in subalternis uera uniuersalitas ueritatem particularitatis trahebat. Falsa
uero uniuersalitas nec ueritatis, nec mendacii necessitatem particularibus
afferebat. Eadem omnia uniuersalium atque indefinitarum collatione
proueniunt. Rursus indefinitas primum falsas constet, uniuersales quoque
necesse est esse mendaces, ut si falsum sit esse hominem iustum, falsum erit
omnem hominem esse iustum, quandoquidem non capit ueritatem, si iustus uel unus
homo non fuerit. Item, si indefinita negatio mentiatur, uerum uniuersalis
negatio non habebit, ueluti si falsa sit ea qeae dicit hominem non esse iustum,
quandoquidem non potest uniuersaliter ab homine denegari, si uel uni hominum
probabitur adesse iustitia. At si indefinitae sententiam ueritatis obtineant,
uniuersales tum ueras, tum eueniet esse mendaces: uelut cum dicimus hominem
esse iustum uerum est, est enim homo qui iustitia non careat. Huius uniuersalis
negatio mentietur, cum quis dixerit nullum hominem esse iustum. At si id
affirmabitur indefinite quod a subiecto diuelli secernique non possit, uera
nihilominus erit affirmatiua que proponit omnem hominem esse animal. At si id
quod subiecti naturam non recipit proponit indefinita negatio, ueluti si dicat
hominem lapidem non esso nihil ab eius ueritate uniuersalis negatiua dissentiet
ut ea quae nullum animal esse proponit. Nihil igitur dubium est indefinitas
particularibus esse consimiles, eamdemque uim ueritatis ac falsatis
significationibus obtinere: de quibus sufficienter dictum est. Nunc de
singularibus explicemus, quae nihil superioribus similes exstant. Illae namque
quoniam constituebant uniuersale subiectum, de quo praedicatum terminum
dicerent, idcirco suscipiebant etiam differentias quantitatis. Nam quod
uniuersale est et uniuersaliter et particulariter et indefinite poterit
pronuntiari. At hae quae unum aliquid ponunt, singuiariter atque indiuidue
differentias quantitatis habere non possunt, atque ideo sola in eis relinquitur
discrepantia qualitatis, quod haec quidem affirmatio, illa uero negatio. Semper
igitur inter se affirmatio et negatio singularis uerum falsumque distribuent,
si non caetera impediant quae sensum in alias atque in alias significationes
solent deflectere ac detorquere. Cum uero unum atque idem praedicatum
atque subiectum in affirmatione et negatione constiterit, uno eodemque sumptum
tempore, uno eodemque prolatum modo, ad unum atque idem relatum, de una atque
eadem parte propositum, necesse est ex his unam semper esse ueram, alteram
semper esse falsam. Nam siue aequiuocos terminos sumant siue non ad idem tempus
procedant, siue alius utrisque insit modus, siue ad alias partes uel ad aliquid
aliud referantur, ueras utrasque esse contingit. Age enim aequiuocum terminum
sumat affirmatio, dicatque: Cato Uticae se peremit negetque
negatio: Cato se Uticae non peremit. Hic igitur utraeque sunt uerae,
quoniam Cato aequiuocum est. Namque Cato praetorius Uticae sibi manus intulit,
Cato uero censorius minime. Item proponatur affirmatiua hoc modo: Nocte lucet
negatio respondeat: Nocte non lucet. Hic igitur lucere aequiuocum est.
Atque ideo nihil impedit quominus utraeque in ueritate permaneant. Affirmatio
namque cum dicit lucere nocte, lunae loquitur locem. Illa uero cum negat, de
solis luce significat. Hic igitur aequiuocum praedicatum utrasque uerum
conseruare permisit. Item si quis de Socrate proponat dicens: Socrates
sedet atque alius neget: Socrates non sedet utraeque uerae
esse queunt, si ad diuersa tempora referantur. Potest enim nunc quidem Socrates
sedere, alio uero tempore non sedere. Rursus si quis humani oculi colorem
nigrum esse confirmet, aliusque nigrum non esse contendat, utrique uerum
loquentur, si ad singulas oculi partes affirmatio negatioque referantur. Nam
quod circa orbem est qui medius pupulam tenet, album est. Ipse uero orbis niger
uisitur. Rursus si de Socrate inter duos locato quis dixerit: Socrates
dexter est aliusque respondeat: Socrates dexter non est
utrisque constare ueritas potest. Ad eum qui cum sinistra Socratis est, dexter
est. Ad eum uero cuius laeuo lateris pars Socratis dextra coniungitur, dexter
non est. Item, si quis ouum animal esse constituat, aliusque ouum animal
esse neget, utraeque a ueritate non dissonant: namque ouum potestate animal
est, actu animal non est. Ita igitur inter se singulariam subiectorum
propositiones uerum faleumque distribuent, ut unam ueritatem necesse sit
habere, alteram mendacium, si neque quod subiectum est, neque quod predicatum,
aliqua sit aequiuocatione confusum ad idem tempus, ad easdem partes, ad eumdem
modum, eademque rem ad quam affirmatio retulit ea quae proponuntur in negatione
afferatur, ut si quis de Socrate pronuntiet: Socrates caluus est Socrates
caluus non est si igitur de Socrate eodem affirmatio negatioque
proponant, si eamdem caluitii significationem affirmatio sumpserit et negatio,
si eamdem utraeque capitis partem loquantur, si uel actum utraeque potestatemue
significant, si nulla diuersitate temporis erretur, si non ad alium affirmatio,
ad alium negatio referatur, una semper ueritati coniuncta est, retinet semper
altera falsitatem. Quoniam de ea conuenientia propositionum quae utrisque
simplicibus terminis eodemque ordine captaretur explicui, nunc de ea partici
patione dicendum est quae et utrosque terminos et eumdem ordinem seruat; hoc
autem (ut dictum est) tribus contingere modis potest -- aut enim predicatus tantum,
aut subiectus terminus, aut uterque cum negatione proponitur. At tum enuntiatio
uel ab infinito subiecto, uel ab infinito praedicato, uel ab infinitis utrisque
consistit. Quoties enim nomini negatio subiungitur, nomen redditur infinitum.
Atque ideo per oppositionem participatio fieri dicitur. Nomini enim
simplici semper infinitum nomen opponitur, ut "homo" "non
homo", [780B] "animal" "non animal", et caetera: quae
cum ita sint, disponantur simplices, atque ex earum natura caeteras
colligamus. Primo igitur propositionum series describatur, ea scilicet
quae utrisque iungitur finitis, propositisque simplicibus ita ex infinitis
omnibus copulatarum propositionum ordo iungatur, ut affirmationes
affirmationibus, negationes negationibus, aduersis frontibus collocentur. Omnis
homo rationalis est. Omnis non homo non rationalis est. Nullus homo
rationalis est. Nullus non homo non rationalis est. Quidam homo rationalis
est. Quidam non homo non rationalis est. Quidam homo rationalis non
est. Quidam non homo non rationalis non est. Omnis homo
grammaticus est. Omnis non homo non grammaticus est. Nullus homo
grammaticus est. Nullus non homo non grammaticus est. Quidam homo
grammaticus est. Quidam non homo non grammaticus est. Quidam homo grammaticus
non est. Quidam non homo non grammaticus non est. Omnis homo lapis
est. Omnis non homo non lapis est Nullus homo lapis est. Nullus non
homo non lapis est. Quidam homo lapis est. Quidam non homo non lapis est.
Quidam homo lapis non est. Quidam non homo non lapis non est. Omnis homo
iustus est. Omnis non homo non iustus est. Nullus homo iustus est. Nullus
non homo non iustus est. Quidam homo iustus est. Quidam non homo non
iustus est. Quidam homo iustus non est. Quidam non homo non iustus non
est. Omnis homo risibilis est. Omnis non homo non risibilis est. Nullus
homo risibilis est. Nullus non homo non risibilis est. Quidam homo risibilis
est. Quidam non homo non risibilis est. Quidam homo risibilis non est. Quidam
non homo non risibilis non est. Harum igitur talis est consocianda
falsitate uel ueritate proprietas, ut affirmationes quidem inter se uniuersales
particularesque negationes uel in ueritate uel in mendacio consentire queant,
uel uerum inter se falsumque diuidere. Si quid enim de subiecto tale
praedicetur quod uel de subiecto nequeat segregari, ut ab homine
rationabilitas, uel a subiecto quidem recedere queat sed subiecti naturam non
possit aequare, ut hominis grammaticus, unam ueram, alteram falsam esse proueniet.
Nam qui dicit: Omnis homo rationalis est uerum loquitur, et qui
dixerit: Omnis non homo non rationalis est mentietur. Diuinae namque
substantiae rationis quidem compotes sunt sed homines non sunt. Item si
quis pronuntiet, omnis homo grammaticus, est falsum dixerit. At qui proponit: Omnis
non homo non grammaticus est uerum dixerit. Nam qui homo non est,
grammaticus esse non potest. At si id de subiecto praedicetur quod uel nunquam
subiecto ualeat conuenire, ut lapis homini, uel conueniens ab eo possit
abscedere, cum sit maius atque uniuersalius subiecto, ut iustitia homini, simul
utrisque falsitas prouenit. Nam si quis dicit: Omnis homo lapis est
falsam fecerit propositionem. Eodem quoque modo qui dixerit, omnis non homo non
lapis est, cum silex homo non sit sed lapis. Item propositio: Omnis homo
iustus est falsa est, cuius sequitur falsitatem: Omnis non homo non
iustus est. Nam diuinis substantiis adest semper iustitia, cum non sit
humanitas. At si quid tale de subiecto praedicetur quod et semper ei
copuletur, neque tamen subiectum possit excedere, ut risibile homini, utrinque
sententia in significandi ueritate concurrit: Omnis homo risibilis est
uera est: Omnis non homo non risibilis est haec retinet ueritatem.
Nam quia risibile hominis proprium est, recte dicitur non esse risibile
quidquid homo non fuerit. Eadem omnia in particulari negatione redduntur. Nam
siue quae sunt maiora subiecto atque ab eo discedere nequeunt, at
rationabilitas ab homine, uel quae discedunt quidem sed sunt maiora subiecto,
ut grammaticus homine, de subiecto praedicentur, unam ueram, alteram falsam
faciunt. Nam qui dicit: Quidam homo rationalis non est falsum proposuit;
qui uero respondet: Quidam non homo non rationalis non est uerum
loquitur. Diuina quippe substantia non est quidam homo sed carere non
potest humanae ratione naturae. Item: Quidam homo grammaticus non
est uera est sed falsa est si dicam: Quidam non homo non grammaticus
non est. Cum illud sit uerius, quoniam qui homo non fuerit, non potest
esse grammaticus. At si quae uel nunquam de subiecto possunt uere
praedicari, ut lapis de homine, uel praedicantur quidem et sunt maiora subiecto
sed ab eo discedere separarique patiuntur, ut iustitia ab homine, ueras
protinus utrasque conseruant. Nam qui dicit: Quidam homo lapis non
est uerum dixerit. At si quis respondeat: Quidam non homo non lapis
non est is quoque uerum dixerit: si quidem de silice uel de huiusmodi
caeteris uelit intelligi, quae cum non sint homines, non lapides non
sunt. Item: Quidam homo iustus non est propositio ueritatem
tenet. Sed ne illa quidem falsa est quae proponit: Quemdam non hominem non
iustum non esse hoc enim, ut dictum est, diuinis substantiis inuenitur,
ut iustitiam teneant, quamuis ab hominis definitione seiunctae sunt.
Item, si id quod abesse non potest, et sit aequale subiecto, de eodem subiecto
praedicetur, ut risibile homini, incurrit utrisque mendacium. Nam: Quidem
homo risibilis non est falsa est, cuius falsitati sese aemulam praestat
quae proponit: Quidam non homo non risibile non est quasi qui homo
non sit possit esse risibilis. Ita igitur quidem in affirmationibus
uniuersalibus et particularibus negatiuis ueritas falsitasque et simul
aliquoties inuenitur, et inter utrasque diuiditur. Negationes uero uniuersales
et particulares affirmationes non simili respondent modo. Sed negationes quidem
uniuersales, unam uerum dicere, alteram falsam, simul utrasque falsas esse
possibile est. Simul autem ueras nunquam esse contingit. Nam si id quod adesse
subiecto non potest, praedicetur, ut lapis homini, unam ueram faciunt, alteram
falsam, ut est: Nullus homo lapis est uera est; falsa est quae
proponit: Nullus non homo non lapis est omnia quippe animalia
praeter hominem ita non sunt lapides, sicut ab hominum natura seiuncta
sunt. Quidquid uero aliud de subiecto praedicetur, neutri constare ueritas
potest, ut si quis proponat: Nullus homo rationalis est falsum dixerit;
aliusque respondeat: Nullus non homo non rationalis est hanc quoque
conuincit ratio mentiri, equus quippe non homo est, nec eum quis dixerit rationis
esse participem; ut autem simul uerae sint, nullus poterit terminus
approbare. Particulares autem affirmatiuae in differentiam ueritatis
falsitatisque discedunt, quoties aliquid tale de subiecto dicitur, quod nunquam
possit adesse subiecto, ut lapis: nam si quis enuntiet: Quidam homo lapis
est falsa propositio est; at si quis respondeat: Quidam non homo non
lapis est tenet contrariam ueritatem, equus quippe non homo est, nec
lapis esse dicetur. Quidquid uero aliud de subiecto praedicabitur, est eas in ueritatis
significationem conuenire, ut: Quidam homo rationalis est uera est, Quidam
non homo non rationalis est huic quoque ueritas constat, equus quippe non
homo est, nec ratione subsistit; ut uero simul falsae sint, nullis reperietur
exemplis. Ad hunc igitur modum ei de caeteris quae uel subiectum uel
praedicatum retinent infinitum, ad ueritatis falsitatisque consensum
enuntiationum proprietas consideranda est, de quibus modo breuiter quid eueniat
tetigisse sufficiat, singula uero lectoris exploranda diligentiae, et per
conuenientes terminos rimanda permittimus. Disponantur igitur propositiones
quae ex utrisque simplicibus terminis constant, easque quarum subiectum tantum
abnuatur ex aduerse parte respiciant. SIMPLICES EX SUBIECTIS
FINITIS Omnis homo rationalis est. Omnis non homo rationalis est. Nullus
homo rationalis est. Nullus non homo rationalis est. Quidam homo
rationalis est. Quidam non homo rationalis est. Quidam homo rationalis non
est. Quidam non homo rationalis non est. Omnis homo risibilis
est. Omnis non homo risibilis est. Nullus homo risibilis est. Nullus
non homo risibilis est. Quidam homo risibilis est.Quidam non homo risibilis
est. Quidam homo risibilis non est. Quidam non homo risibilis non
est. Omnis homo iustus est. Omnis non homo iustus est. Nullus homo
iustus est. Nullus non homo iustus est. Quidam homo iustus
est. Quidam non homo iustus est. Quidam homo iustus non est. Quidam
non homo iustus non est. Omnis homo grammaticus est. Omnis non homo
grammaticus est. Nullus homo grammaticus est. Nullus non homo grammaticus
est. Quidam homo grammaticus est. Quidam non homo grammaticus est. Quidam
homo grammaticus non est. Quidam non homo grammaticus non est. Omnis
homo lapis est. Omnis non homo lapis est Nullus homo lapis est. Nullus
non homo lapis est. Quidam homo lapis est. Quidam non homo lapis est. Quidam
homo lapis non est. Quidam non homo lapis non est. In harum igitur
affirmationibus quidem uniuersalibus ueritas et falsitas distribuitur, si quis
tale de subiecto praedicetur quod abesse non possit, siue illud maius sit, ut
animal homine, siue aequale, ut risibile homini. In his enim unam ueram,
alteram falsam esae neoesse est, quidquid uero praeter ea fuerit praedicatum,
unam semper ueritas, alteram semper falsitas non sequetur: ut autem simul uerae
sint nequit ostendi. Particularium uero in affirmationibus quidem,
siquidem ea praedicentur quae ualeant transire subiectum, siue ab eo separari
nequeunt, ut animal ab homine, seu possint, ut iustitia ab homine, loquitur
utraque uera sententia. Quidquid uero praeter ea fuerit praedicatum, unam
ueritas, alteram falsitas tenet; falsae uero simul nequeunt inueniri.
Negationes uero particulares siquidem id praedicent quod a subiecto non possit
abscedere, siue illud maius sit, ut rationale homine, seu aequale, ul risibile
homini, uni constabit ueritas, aItera mentietur. Si quid uero praeter ei fuerit
praedicatum, ueras semper utrasque constat, ut ineas communis falsitasnunquam
possit incidere. Item disponantur in ordinem primum quidem simplices, has e
regione respiciant quae subiecto simplici denegantur praedicato. SIMPLICES EX
INFINITO PRAEDICATO Omnis homo lapis est. Omnis homo non lapis est
Nullus homo lapis est. Nullus homo non lapis est. Quidam homo lapis
est. Quidam homo non lapis est. Quidam homo lapis non est. Quidam
homo non lapis non est. Omnis homo animal est. Omnis homo non
animal est Nullus homo animal est. Nullus homo non animal est. Quidam homo
animal est. Quidam homo non animal est. Quidam homo animal non est. Quidam
homo non animal non est. Omnis homo risibilis est. Omnis non homo
non risibilis est. Nullus homo risibilis est. Nullus non homo non
risibilis est. Quidam homo risibilis est. Quidam non homo non risibilis
est. Quidam homo risibilis non est. Quidam non homo non risibilis non
est. Omnis homo iustus est. Omnis non homo non iustus est. Nullus
homo iustus est. Nullus non homo non iustus est. Quidam homo iustus
est. Quidam non homo non iustus est. Quidam homo iustus non est. Quidam
non homo non iustus non est. Omnis homo grammaticus est. Omnis non
homo non grammaticus est. Nullus homo grammaticus est. Nullus non homo non
grammaticus est. Quidam homo grammaticus est. Quidam non homo non
grammaticus est. Quidam homo grammaticus non est. Quidam non homo non
grammaticus non est. Harum igitur affirmationes uniuersales, siquidem
praedicent quod subiecto nequeat conuenire, ut lapis homini, uel a subiecto,
cum sit aequale uel sit maius, non possit abscedere, ut animal uel risibile ab
homine, unam semper necesse est ueritatem. alteram proferre mendacium:
quidquiduero praeterea fuerit praedicatum, utrisque falsitas inuenitur, ut ad
ueritatem conuenire non possint. Negationes uero uniuersales siquidem id de
subiecto praedicent quod subiecto adesse possit et abesse, ita ut excedat, ut
uirtus hominem, uel id quod adesse quidem queat sed non possit adaequare
subiectum, ut grammaticus hominem, utraeque in falsitate communicant. Quidquid
uero aliud fuerit praedicatum, unam ueritas, alteram falsitas consequetur; ut
autem simul uerae sint, nequit ostendi. Particularium uero affirmationes
quidem simul uerae sunt, si id quod uel adesse possit uel abesse praedicetur,
siue illud maius sit ut iustitia homine, seu minus ut grammaticus ab homine. Si
quid uero aliud fuerit praedioatum, ueritas in eas ac falsitas distribuitur,
ita ut nunquam communem consonent falsitatem. Particulares quoque negatiuae in
similibus terminis ueritate concordant. Nam si quod adesse uel abesse potest,
siue illud maius sit ut iustus ab homine, siue minus, ut grammaticus ab homine,
de subiecto praedicetur, ueritas utrisque constabit. In aliis uero cunctis
praedicationibus uni ueritas, alteri falsitas cedit. Nunquam tamen utraeque in
prodenda falsitate consentient. Praeter hanc autem inter se conuenientiam
propositionum, habent aliquid hae proprium quae praedicatum adiecia negatione
pronuntiant, quod caeteris inesse non possit.Affirmationes namque negationibus,
negationesque affirmationibus, quarum uniuersalis est propositio, itemque
particulares affirmationes negationibus, negationes affirmationibus ita
conueniunt, ut nunquam neque in falsitate, neque in ueritate discordent.
Conuenientium autem ordinem seriemque describimus quas si quis in superius
posita respexerit; uidebit angulariter conuersas. Omnis homo rationalis
est. Nullus homo non rationalis est. Omnis homo non rationalis est. Nullus homo
rationalis est Quidam homo non rationalis est. Quidam homo rationalis non est.
Quidam homo rationalis est. Quidam homo non rationalis non est. Quod idcirco in
his tantum uidetur euenire, quod de eodem subiecto uterque intelligitur ordo
oppositionis. Nam quae dicit: Omnis homo rationalis est de homine
rationale praedicauit; item quae proponit: Omnis homo non rationalis
est de eodem homine rationale seiunxit, ut merito simplices affirmationes
negationi consentiant. At non in aliis intelligitur idem esse subiectum. Nam et
illa quae proponit omnem non hominem esse rationalem, et illa quae enuntiat
omnem non hominem esse non risibilem, de homine non loquantur sed quolibet alio
quod hominis negatione relinquitur. Atque ideo uelut extraneae atque a semet
alienae, nec in ueritate possidet aliquam nec in falsitate concordiam.
Indefinitas autem propositiones, quoniam particularibus similes esse
monstrauimus, adiungendas superioribus non putaui. Id enim indefinitis necesse
est euenire, quod particularibus solet incurrere. Expeditis igitur his
propositionibus quae ex utrisque communicant terminia atque eodem ordine
collocatis, nunc eam propositionum conuenientiam uel participationem loquimur,
quae in utrisque quidem terminis conuenientia sed ordinis commutatione
consistunt, cuius disceptationis hic finis est, de propositionum conuersione
docuisse, quid enim est aliud propositiones mutato ordine conuenire utrisque
terminis, nisi propositiones conuerti? Conuerti autem uel sibi uel aliis
propositiones dicuntur, quoties, mutato ordine terminorum, id est quod
subiectum fuerat praedicato et quod praedicabatur ante subiecto, ueritatem
simul obtinent uel falsitatem. De quibus plenissime hic disputandi sumemus
exordium. Quatuor propositiones esse praediximus, quae habeant
differentias quantitatum et utrisque terminis absque ordinis permutatione
participant. Hae uero sunt affirmatio uniuersalis, negatio uniuersalis,
affirmatio particularis, negatio particularis. Harum igitur particularis affirmatio
particulariter quidem sibi ipsa conuertitur, uniuersali autem affirmationi per
accidens, et rursus uniuersalis negatio, loco principe sui recipit
conuersionem, ad particularem uero negationem per accidens conuerti
potest. Affirmationis uero uniuersalis ad se ipsam perpetua non potest
esse conuersio, ad particularem uero affirmationem per accidens potest. Nec
uero negationis particularis ad se ipsam principaliter stabilis ac firma
conuersio est sed negationi uniuersali secundo loco atque accidentaliter. Quae
omnia facilius declarantur exemplis. Affirmatio enim particularis, ut ea
quae proponit: Quidam homo albus est facile sibi ipsa conuertitur,
si dicamus, quoddam album homo est, atque in utrisque simul ueritas constat. At
si quis proponat quendam hominem esse lapidem, eamque conuertat dicens quemdam
lapidem esse hominem, mansit in utrisque mendacium. Hoc igitur modo affirmatio
particularis sui recipit conuersionem. Item negatio uniuersalis conuerti
potest, ut si quis enuntiet nullum hominem esse lapidem, eamdemque conuersis
terminis dicat nullum lapidem esse hominem, simul ueritatem tuentur. At si quis
dicat nullum hominem esse animal, atque eamdem sub terminorum conuersione
proponat dicens nullum animal esse hominem; neutra suam perdidit falsitatem.
Hoc igitur modo uniuersalis quoque negatio sibi ipsa conuertitur, uniuersalis
uero affirmatio non tenet perpetuam conuersionem: quamuis enim quoties de
speciebus propria praedicentur conuerti uniuersales affirmationes queant, ut si
quis dicat: Omnis homo risibilis est poterit terminorum ordinem
permutare, omne risibile esse hominem, tamen non est haec aequalis atque in
omnibus terminis fida conuersio. Quid enim cum quis ita proponit: Omnis
homo animal est nunquid conuertere uere potest, ut omne animal hominem
esse pronuntiet? Quare cum aliquoties uniuersalis affirmatio conuersa propriam non
teneat ueritatem, dicitur conuersionis naturam non posse suscipere.
Negatio quoque particularis interdum uidetur posse conuerti, ueluti si quis
enuntiet quemdam hominem lapidem non esse, uerum loquetur, cum dixerit quemdam
lapidem hominem non esse; sed est instabilis et incerta conuersio: nam cum
quidam homo grammaticus non sit, falsum est dicere quemdam grammaticum hominem
non esse. Ita igitur haec quoque conuersio protinus a sua ueritate
deficit. Superius igitur propositarum quatuor enuntiationem duae quidem
oppositae, id est particularis affirmatio et uniuersalis negatio, conuersionem
sui firmam perpetuamque suscipiunt; duae uero oppositae, id est affirmatio
uniuersalis et negatio particularis, conuersionis non tenent firmitatem sed
quia uniuersalis affirmatio, quae in sui conuersione uidetur instabilis, si
uera est, particularem quoque affirmationem ueram esse necesse est. Si autem
particularis affirmatio conuersa non amittit propriam ueritatem, uniuersalis
quoque affirmatio conuersa particulari affirmationi eamdem ueritatem sonabit,
uelut his exemplis probabitur. Si quis enim proponat omnem hominem esse animal,
uerum dixerit, huius subalterna particularis affirmatio quemdam hominem esse
animal, ea quoque uera est, quoniam uniuersalis affirmationis ueritas
antecessit. Sed eamdem conuerti sibi uerissime potest, dicitur enim quoddam
animal esse hominem. Quocirca affirmatio uniuersalis quae proponit omnem
hominem esse animal, et conuersa particularis affirmatio quae pronuntiat
quoddam animal esse hominem, utraeque simul a ueritatis significatione non
deficiunt. Ita igitur uniuersalis affirmatio, quae sui conuersionem perpetuam
ferre non poterat, per accidens particulari affirmationi conuersa est. Per
accidens autem idem quoniam particularis affirmatio principe sibi ipsa loco
conuertitur, conuersae autem particulari affirmationi uniuersalis affirmatio
eamdem retinet in ueritate sententiam. Eadem ideo est etiam uniuersalis
negationis, quae quoniam ipsa principaliter conuerti potest, conuersaeque
negationi uniuersali illa quae subalterna est eamdem. ueritatis refert
sententiam. Particularis negatio conuersa ad ueritatis signiticationem poterit
conuenire, ut si quis nullum hominem esse lapidem confiirmet, et huius [787B]
conuersio est, nullum lapidem esse bominem, quae cum uera praecedat,
subalternae particularis negatiuae perficit ueritatem: ea uero est, quidam
lapis homo non est, quae comparata uniuersali negationi quae dicit nullum
hominem esse lapidem, quamuis terminis discrepans, tamen similis ueritate
proponitur. Igitur particularis negatio, quae sibi ipsi conuerti non poterit,
uniuersali negationi per accidens conuerti potest. Per accidens autem idcirco
quoniam uniuersalis negatio in se ipsam priore loco conuerti potest. Per
conuersionem autem sui cum particulari negatione similem ueritatis uidetur
obtinere sententiam. Itaque concludendum est particularem quoque affirmationem
uniuersalemque negationem conuersionem sui firmam ac stabilem custodire.
Affirmationem autem uniuersalem particularemque negationem in conuertendo
firmas esse non posse sed hanc affirmationi particulari, illam uniuersali
negationi per accidens, posse conuerti. Restat nunc de ea propositionum
conuenientia uel participatione disserere, in qua utrinque terminorum ordine
permutato, uni uel utrique eorum negatiuum copulatur aduerbium. Sed
quanquam huiusmodi participationis plures esse differentias nouerimus, ad
instructionem tamen Categoricorum Syllogismorum de hac tantum proposuisse
sufficiat, quarum quidem propositionum pars ex simplicibus nominibus constat,
pars uero ex infinitis. Nam propositio uniuersalis, quae est: Omnis homo
animal est ex utrisque nominibus finitis constat. Namque et homo et
animal finita nomina esse manifestum est. Ea uero affirmatio quae proponit omne
non animal non hominem esse infinitorum terminorum positione coniuncta est. Non
animal enim et non homo nomina esse infinita, in nominis definitione
praediximus, quae quidem sese ad ueritatis falsitatisue rationem sic habent, ut
enim negationibus adiunctis infinita nomina simplicibus opponuntur, ita etiam
conuersio propositionum econtrario contingit quam paulo ante in simplicibus
hababatur. Atque in his enuntiationibus conuerti termini per appositionem
dicuntur, unusque enim terminorum negatione praeposita terminis simpliciter pronuntiatis
uidetur oppositus. Huius uero participationis est triplex modus: aut enim
praedicato tantum termino, negatio iungitur, aut subiecto, aut utrique termini
denegantur. Primum igitur supposita descriptione pandantur exempla. Post autem
quemadmodum se habent ad ueritatis falsitatisue consensum consequentis ordine
disputetur. Ac primum quidem de hac disserimus cuius subiectum
praedicatumque negatur. Post uero cuius subiectum solum, postremo cuius qui
praedicatur terminus cum negatione profertur. Atque earum quidem naturam atque
ordinem ex simplicibus informabimus. Simplices autem, in quantitatum differentiis
constitutas, quatuor esse monstrauimus. Sit igitur prima quidem affirmatio
uniuersalis, quae proponat omnem hominem esse animal; aduersum hanc collocetur
affirmatio uniuersalis, quae non solum conuersis terminis enuntietur uerum in
uno quoque termino negatiuum aduerbium habeat adiunctum hoc modo: Omne non
animal non homo est. Rursus proponatur uniuersalis negatio, ea quae
est: Nullus homo animal est huic aduersam teneat locum uniuersalis
negatio terminis cum negatione conuersis, id: Nullum non animal non homo
est. Item sit particularis affirmatio simplex: Quidam homo animal
est huic terminus atque ex aduerso referatur particularis affirmatio,
quae, commutatis in ordinem terminis, negationes utrisque gestet oppositas, ut
est: Quoddam non animal non homo est. Item sit particularis simplex
negatio quae proponat quemdam hominem animal non esse; hanc ex aduerso
respiciat particularis negatio, quae, permutatis ad ordinem terminis, aduerbium
negationis adiecerit, ut est: Quoddam non animal non homo non est. SIMPLICES CONVERSAE
UTRISQUE INFINITIS Omnis homo animal est. Omne non animal non homo
est Nullus homo animal est. Nullum non animal non homo est. Quidam homo
animal est. Quoddam non animal non homo est. Quidam homo animal non
est. Quoddam animal non homo non est. In illis enim affirmatio
uniuersalis particularisque negatio conuersionem stabilem non tenebant.
Affirmatio autem particularis atque uniuersalis negatio conuersae certissime
tuebantur uel in ueritate, uel in falsitate consensum. Hic omne diuersum est.
Uniuersalis namque affirmatio et particularis negatio per oppositionem sibi
ipsa conuertitur, uniuersalis autem negationis et particularis affirmationis
non est ad ueritatis falsitatisue consensum fide conuersio. Ac primum de
uniuersali affirmatio tractemus, quae cum in simplicibus uera sit, ueritatem
quoque per oppositionem conuerse custodit, ut ea qua dicit omnem hominem esse
animal, uera est, atque illi per oppositionem conuertitur, id est: Omne
non animal non homo est eam quoque ueram esse necesse est. Propositionis
autem huius ista sententia est, quoniam non est homo, quidquid animal non est,
quod uerum esse nullus ignorat. Item si sit falsa uniuersalis affirmatio
in simplicibus terminis constituta, falsa quoque eius per oppositionem
probabitur esse conuersio: nam cum dicimus: Omnis lapis animal est
falsa est, atque illi per oppositionem conuertitur, id est: Ommne non
animal non lapis est eam quoque fals&m esse necesse est. Id enim ex
tali enuntiatione sentitur, quoniam quidquid animal non fuerit, id lapis non
est, quod apertissime falsum est, cum lapis ipse animal non sit: quod si
uniuersalis affirmatio terminorum oppositionem conuersa sibimet in ueritate
conuenit et in falsitate, non est dubium quin uniuersalis simplex affirmatio
stabili per oppositionem conuersione monstretur. Idem de simplici etiam
particulari negatione dicemus. Nam cum haec falsa est, ut ea quae dicit: Quidam
homo animal non est illa quoque falsitatem tenebit, quae huic terminorum
oppositione conuertitur, ut ea quae proponit: Quoddam non animal non homo
non est. Id enim ex bac enuntiatione colligitur, quod res quae non sit
animal, sit homo. Etenim hoc esse hominem, quod non esse non hominem. At si
uera sit negatio particularis ex simplicibus terminis iuncta, ut est: Quidam
lapis animal non est non deerit ueritas cum terminorum oppositione
conuersae quae proponit quoddam non animal non lapidem non esse. Id enim
conuersio ita significat, quod res quaedam quae animal non sit lapis sit, hoc
est enim esse lapidem quod non esse non lapidem; quod si particularis simplex
negatio per oppositiones propriae conuersioni et in ueritatis et in falsitatis
significatione concordat, non est dubium particularem simplicem negationem
certo sibi ac stabili modo per oppositionem terminorum posse conuerti. In
negatione uero uniuersali non est perpetua neque fida conuersio. Quod quidem
fallere poterit, si quis ad solam respiciat conuenienliam falsitatis. Nam cum
sit falsa simplex uniuersalis negatio quae proponit nullum hominem esse animal,
falsa est quae ei per oppositionem conuertitur, ut est: Nullum non animal
non homo est. Id enim ex haec propositione monstratur, quoniam omne quod
animal non est, id homo est, hominem esse significat, quidquid animal non sit,
quae proponit, nullum esse non hominem, qui animal non sit. Sed hic in
falsitate consensus ad ueritatem usque non peruenit. Age enim sit uera simplex
uniuersalis negatio: Nullus homo lapis est non uera potest
esse: Nullus non lapis non homo est. Id namque designat ista
conuersio, quoniam quidquid lapis non fuerit, id homo est; hominem namque esse
designat quod lapis non sit, qui pronuntiat nullum esse non hominem quod lapis
non est, quod apertissime falsum est; quamuis enim multa proferam quaecum
lapides non sint, tamen ab hominum natura seiuncta sunt, ut equus, arbor atque
alia plurima. Si igitur negatio uniuersalis per oppositionem propriae
conuersioni in falsitate quidem conuenit, nec tamen in ueritate consentit,
recte pronuntiatur conuersionem perpetuam atque aequabilem non habere. Eadem
quoque ratio est in affirmatione simplici particulari. Nam in hoc quoque saepe
error deprehenditur, ut certae propositionum conuersiones putentur, si quis non
ad falsitatis quoque sed ad solam conuenientiam ueritatis aspiciat. Nam cum
affirmatio simplex particularis uera sit, ut est: Quidam homo animal
est si huius termini cum oppositione conuertantur, fiatque
propositio: Quoddam non animal non homo est a ueritate non
discrepat. Quid enim aliud enuntiatio ista designet quam esse rem aliquam quae
cum animal non sit, ne homo quidem sit, ut lapis simul et animalis et hominis
natura deficiat. Sed hic in ueritate consensus ad falsitatem usque non tendit.
Quid enim si sit falsa simplex affirmatio particularis, ut est: Quidam
homo lapis est non erit eius per oppositionem falsa conuersio: Quidam non
lapis non homo est? Atqui haec firma ueritate consistit, id enim ex hac
propositione datur intelligi quod sit quidam quod cum lapis non sit, ne homo
quidem sit, ut equus atque arbor, quae neque hominis, neque lapidis definitione
clauduntur. Quod si particularis affirmatio, dum per oppositionem conuertitur,
in ueritate quidem tenet secum ipsam concordiam, in falsitate autem sibimet
ipsa dissentit, rectum est pronuntiare quod termini negatione coniuncta
conuersionem firmam stabilemque non teneant. Quare cum in simplicibus, ac
praeter oppositionem conuersionibus, uniuersalis quidem negatio particulurisque
affirmatio pernetua fidaque terminorum permutatione uertantur, affirmamatio
uero uniuersalis particularisque negatio minime, dum per terminorum
oppositionem simplex propositio sibi ipsa conuertitur, omnia, ut dictum est,
aduersa ratione contingunt, uniuersalia namque affirmatio et particularis
negatio firmam negatarum partium retinent conuersionem. Uniuersalis autem
negatio in falsitate quidem recte sibi ipsa conuertitur. In ueritate autem sibi
ipsa discordat. Particularis autem affirmatio in ueritate quidem sibi conuenit
sed in falsitate dissentit. Similis autem contemplatio est in his quae,
conuerso ordine terminorum, praedicato tantum uel subiecto sibi copulant
negationem: in quibus, ut in superioribus quoque fecimus, propositionum tantum
ordinem describemus, et quid eueniat sub breuilate monstrabimus, perquirenda
atque examinanda singula lectoris diligentiae derelinquentes. Descriptis ergo
simplicibus ex aduersa parte, quae, conuerso ordine praedicatum cum negatione pronuntiant,
conferantur. SIMPLICES CONVERSAE DE PRAEDICATO INFINITO: Omnis homo
animal est. Omne animal non homo est. Nullus homo animal est. Nullum
animal non homo est. Quidam homo animal est. Quoddam animal non homo est.
Quidam homo animal non est. Quoddam animal non homo non est. Omnis
homo iustus est. Omnis iustus non homo est. Nullus homo iustus est. Nullus
iustus non homo est. Quidam homo iustus est. Quidam iustus non homo est.
Quidam homo iustus non est. Quidam iustus non homo non est. Omnis
homo grammaticus est. Omnis grammaticus non homo est. Nullus homo grammaticus
est. Nullus grammaticus non homo est. Quidam homo grammaticus est. Quidam
grammaticus non homo est. Quidam homo grammaticus non est. Quidam
grammaticus non homo non est. Omnis homo lapis est. Omnis lapis non
homo est Nullus homo lapis est. Nullus lapis non homo est. Quidam homo
lapis est. Quidam lapis non homo est. Quidam homo lapis non
est. Quidam lapis non homo non est. Omnis homo risibilis est. Omne
risibile non homo est. Nullus homo risibilis est. Nullum risibile non homo
est. Quidam homo risibilis est. Quoddam risibile non homo est. Quidam homo
risibilis non est. Quoddam risibile non homo non est. Harum
igitur in affirmationibus quidem uniuersalibus si ea de subiecto praedicentur
quae et adesse et abesse contingent, siue illud subiecto maius sit ut iustitia
homine, siue minus ut grammaticus homine, uel si ea quae omnino adesse non
possum ut lapis homini, simul semper falsas esse necesse est. Si quid uero
praeter haec fuerit praedicatum, unam ueram, falsam alteram esse proueniet,
nunquam uero utrique ueritas consonabit. In negationibus uero
uniuersalibus siquidem ea de subiecto praedicentur quae a subiecto ualeant
segregari, siue illa maiora sint ut iustitia homine, siue minora ut eodem
homine grammaticus, utrisque aderit falsa sententia. Quidquid uero
reliquorum fuerit praedicatum uni uerum, alteri faciet adesse mendacium. Nunquam
uero in his concors ueritas inuenitur. In particularibus uero
affirmationibus siquidem ea praedicentur, quae [792A] cum separari possint, tum
uel maiora sunt ut iustus homine, uel minora ut grammaticus homine, communis
affirmationes ueritates obtinebit. Alia uero quaelibet praedicatio unam ueram,
alteram semper faciet esse mendacem sed nunquam communiter mentientur. In
negationibus uero particularibus hic modus est, ut siue ea quae adesse non
rossunt, ut lapis homini, siue quae possum ac poterunt segregari, cum tamen
eorum aliud maius sit, ut iustitia homine, aiitld minus, ut grammaticus homine,
praedicentur, ueritas utrisque constabit. Quidquid uero absque hic
praedicabitur, ueritatem uni, alteri diuides falsitatem, simul tamen falsas
esse non euenit. Item descriptio supponatur quae priore parte simplicibus
collocatis, eas quae conuerso ordine subiectum cum negatione proponunt contraria
fronte constituat. SIMPLICES CONVERSAE DE SUBIECTO INFINITO: Omnis
homo animal est. Omne non animal homo est. Nullus homo animal est. Nullum
non animal homo est. Quidam homo animal est. Quoddam non animal homo est.
Quidam homo animal non est. Quoddam non animal homo non est. Omnis
homo risibilis est. Omne non risibile homo est. Nullus homo risibilis
est. Nullum non risibile homo est. Quidam homo risibilis est. Quoddam
non risibile homo est. Quidam homo risibilis non est. Quoddam non risibile homo
non est. Omnis homo lapis est. Omnis non lapis homo est. Nullus homo
lapis est. Nullus non lapis homo est. Quidam homo lapis est. Quidam
non lapis homo est. Quidam homo lapis non est. Quidam non lapis homo non
est. Omnis homo iustus est. Omnis non iustus homo est. Nullus homo
iustus est. Nullus non iustus homo est. Quidam homo iustus est.
Quidam non iustus homo est. Quidam homo iustus non est. Quidam non iustus
homo non est. Omnis homo grammaticus est. Omnis non grammaticus homo
est. Nullus homo grammaticus est. Nullus non grammaticus homo est. Quidam
homo grammaticus est. Quidam non grammaticus homo est. Quidam homo grammaticus
non est. Quidam non grammaticus homo non est. Superius igitur descriptarum
enuntiationum affirmationes quidem uniuersales, siue de subiecto praedicentur
quae ab eo nunquam ualeant amoueri, siue illud maius sit, ut animal homine, seu
aequale ut risibile homini, seu tale quod subiecto nullo modo possit obtingere
ut lapis homini, uni ueritatem dispartient, alteri falsitatem. At si quod
absque his praedicabitur, utrasque falsitas obtinebit, communi autem
propositionum ueritati locus esse non poterit. At in negationibus quidem
uniuersalia et maiora praedicentur, seu ea quae relinquere subiectum nequeant
ut animal hominem, seu quae possint ut iustitia hominem, utrisque falsitas
inhaeredit. Aliae quaelibet praedicamenta unam ueram faciunt, alteram falsam,
ita ut communis utraeque ueritatis non possint esse participes.At in
particularibus affirmationibus quidem, siquidem maiora de subiecto
praedicentur, quae uel nunquam subiecti coniunctione diicedant ut animal
homine, uel etiam segregentur ut iustitia ab homine, respondebit utraque ueritatem;
caeterae uero praedicationes ueritatem propositionibus falsitatemue distribuunt
in commune participantibus falsitatem. Particulares uero negationes, siquidem
ea praedicent quae possint a subiecto separari, siue illud maius sit ut
iustitia homine, seu minus ut grammaticus homine, ueras utrasque esse recesse
est. Si quid uero extra praedicabitur, uni oportet uerum, alteri adesse
mendacium, ut simul falsae nequeant inueniri. Atque haec quidem de his
propositionibus quae cum determinatione proferuntur dicta sunt. Quae uero
indefinitae sunt, quoniam particularium proprietatibus adaequantur, eadem omnia
comparatae uniuersalibus obtinebunt quae in superiore descriptione
particularium propositionum ordo seruauit. Restarent subiectorum
singularium propositiones, de quibus, quoniam et longum est dicere, et nihil ad
operis propositi affert utilitatem, et sibi ipse exemplo earum quas superius
proposuimus easdem lector inueniet, praetereundum uidetur. Multa Graeci ueteres
posteris suis in consultissimis reliquere tractatibus, in quibus priusquam ad
res densa caligantes obscuritate uenirent, quasi quadam intelligentia
luctatione praeludunt: hinc per introductionem est facilior discibiliorque
doctrina, hinc per ea quae illi *prolegomena* uocant, nos praedicta uel
praedicenda possumus dicere, ad intelligentiam promptior uia munitur. Hanc
igitur prouidentiam non exosus, statui ego quoque in res obscurissimas aliquem
quodammodo pontem ponere, mediocriter quidque delibans ita ut si quid breuius dictum
sit, id nos dilatione ad intelligentiam porrigamus; si quid suo more
Aristoteles nominum uerborumque mutatione turbauit, nos intelligentiae
seruientes ad consuetum uocabulum reducamus; si quid uero ut ad doctos scribens
summa tantum tangens designatione monstrauit, nos id introductionis modo aliqua
in eas res tractatione disposita perquiramus. Sed si qui ad hoc opus
legendum accenserint, ab his petitum sit ne in his quae nunquam attigerint
statim audeant iudicare; neue si quid in puerilibus disciplinis acceperint, id
sacrosanctum iudicent, quandoquidem res teneris auribus accommodatas saepe
philosophiae seuerior tractatus eliminat. Si quid uero in his non uidebitur, ne
statim obstrepant sed, ratione consulta, quid ipsi opinentur, quidue, nos ponimus,
ueriore mentis acumine et subtiliore pertractata ratione diiudicent. Et hi
quidem sic. Nos enim, ut arbitror, suffecimus eos commentarios, de quibus haec
nos protulimus, degustent blando fortasse sapore subtilitatis eliciti, quamuis
infrenis et indomiti creatores sint, tamen ueterum uirorum inexpugnabilibus
auctoritatibus acquiescent; si quis uero Graecae orationis expers est, in his,
uel si qua aliorum sunt similia, desudabit. Itaque haec huius prooemii lex
erit, ut forum nostrum nemo non intellecturus, et ob id culpaturus inspiciat.
Sed ne prooemiis nihil afferentibus tempus teratur, inchoandum nobis est illo
prius depulso periculo, ne a quoquam sterilis culpetur oratio. Non enim
eloquentiae compositiones sed planitiem consectamur: qua in re si hoc
efficimus, quamlibet incompte loquentes, intentio quoque nostra nobis perfecta
est. Sed quoniam syllogismorum structura nobis est hoc opere explicanda,
syllogismis autem prior est propositio, de propositionibus hoc libello
tractatus habebitur. Et quoniam propositionis partes sunt nomen et
uerbum, pars autem ab eo cuius pars est prior est, de nomine, et uerbo, quae
prima sunt, disputatio prima ponatur. Nomen est uox designatiua ad
placitum sine tempore, cuius nulla pars extra designatiua est. VOX
autem dictum est, quia uox nominum genus est. Omnis autem definitio a genere trahitur,
ut si definias hominem, animal dicis, id est genus; post uero rationale, id est
differentia. DESIGNATIVA uero dicta est, quia sunt uoces quaedam quae
nihil significant, ut sunt syllabis. NOMEN uero, designat id cuius est
nomen. AD PLACITUM uero, quia nullum nomen aliquid per se significat sed
ad ponentis placitum. Illud enim unaquaeque res dicitur quod ei placuit qui
primus rei nomen illud impressit. Sunt enim uoces naturaliter significantes, ut
canum latratus iras canum significat, et alia eius quaedam uox blandimenta; sed
non sunt nomina non sunt ad placitum significantes sed natura. SINE
TEMPORE uero, quod uerba quidem uoces sunt designatiuae et secundum placitum
sed distant, quod nomina sine tempore sunt, uerba cum tempore. CUIUS NULLA
PARS EXTRA DESIGNATIVA EST: nomen ab oratione disiungit, quod oratio et ipsa
uox est, et desiguatiua, et secundum placitum, aliquoties sine tempore est sed
orationis partes significant, nominum uero minime. In Ciceronis enim nomine
nulla extra pars designatiua est, neque 'ci' neque 'ce' neque 'ro'. Neque si ex
duobus integris nomina sint. Quod enim in uno consignificat, id extra non
significat. In nomine enim 'magister', 'magis' et 'ter' consignificauit,
quia est magister. Sublatum uero 'ter' et 'magis' non erit alicuius
significatio, nisi tibi hoc alii nomen dare placuerit. Omnia enim nomina non
naturaliter sunt, sed ad placitum ponuntur. Sed de hoc in commentario libri
*Peri hermeneias* Aristotelis dictum est et maior eius rei tractatus est, quam
ut nunc queat expediri. Reuertamur igitur ad nomen. Sed quoniam sunt
quaedam uoces quae et designatiuae sunt, et secundum placitum et sine tempore,
quarum dubia sit natura, ut est 'non-homo', hoc enim significat quiddam et
secundum placitum, impositum est enim sed dubium est cui subdi possit, nomini
enim non potest, omne enim nomen significat aliquid definitum, 'non-homo' autem
quod definitum est perimit, oratio uero dici non potest, omnis enim oratio ex
nominibus et uerbis constat, 'non-homo' autem, neque ex nominibus constat neque
ex uerbis sed multo magis esse non potest uerbum, omne enim uerbum cum tempore
est, 'non-homo' uero sine tempore est: quid sit ergo ita uidendum est: et
quoniam 'non-homo' uox significat quiddam, quid autem significet in homine ipso
non continetur (potest enim 'non-homo' et equus esse et lapis et domus, et
quidquid homo non fuerit, quoniam ea qui re significare potest infinita sunt,
infinitum nomen uocatur); et quoniam sunt quaedam uoces et designatiuae et ad
placitum, et definitae, et quarum partes extra nihil significant, ut sunt casus
nominum, ut 'Ciceronis' et 'Cicerone' et caetera, haec nomina non erunt. Omne
enim nomen iunctum cum est uerbo, aut uerum aut falsum demonstrat. Ut si
dicas: Dies est hoc uero aut uerum aut falsum est. Si uero casum
iungas, neque uerum neque falsum efficis. Si enim dicas: Diei est
nihil quod sit aut non sit demonstrasti. Itaque nihil ex hoc neque uerum neque
falsum efficies. Et merito dictum uidetur. Quod enim primo uocabulum nomina
rebus imponentes dixerunt, id solum numen uocabitur merito. Qui enim primus
circo circum nomen imposuit, ita dixisse uidetur: Dicutur hoc
circus! Atque ideo primus hic casus nominatiuus uocatur, quod nomen sit.
Aliis uero nominibus non nominis caeteros casus appellauere. Ergo a
capite reuoluendum est, uocem dictum quod uox nominum genus sit; designatiuam
uero, quod sunt quaedam uoces quae nihil designant, ut ad his uocibus separetur
quae nihil significant; ad placitum, ut ab his uocibus separetur quae
naturaliter significant, ut sunt pecudum. Sine tempore uero dictum est, ad
diuisionem uerbi quod cum tempore est; cuius nullapars extra significat, ut
diuideretur ab oratione, cuius partes nomina sunt et uerba, quae significant;
finita uero, ut ab infinitis separetur; recta, ut a casibus
distingueretur. Et in uerbo eadem omnia fere conueniunt. Est enim
uerbum uox significatiua ad placitum cum tempore, cuius nulla pars extra
significatiua est. Et quia est quaedam uox significatiua et ad placitum
cum tempore, cuius pars nihil significat, ut 'non albet' (Albet enim, quod cum
non iunctum consignificat, solum non significat), et quia nihil definitum
monstrat (quod enim non albet, potest et rubere, potest et nigrescere, potest
et pallere, et quidquid non albet), ideo "infinitum uerbum" uocatum
est. 'Faciebat' autem et 'facturus', ut superius in nomine, non uerba sed casus
uerborum sunt. Repetendum est igitur ab initio uerbum esse uocem dictum,
a genere; significatiuam, ut a non significatiuis uocibus diuidatur; ad
placitum, ut ab illis quae natura sunt significatiuae uocibus separetur: cum
tempore, ut a nomine diuideretur; praesens aliquid significare, ut a uerbi
casibus disiungeretur; finita, ut ab infinitis disterminaretur. Restat
ergo nunc quid sit oratio dicere. Haec enim ex nomine et uerbo componi uidetur:
sed prius utrum nomen et uerbum solae partes orationis sint consideremus, an
etiam aliae sex, ut grammaticorum opinio fert, an aliquae ex his in uerbi et
nominis iura uertantur; quod nisi prius constitutum sit, tota propositionum ac
deinceps ea ipsa quae ex propositionibus componitur syllogismorum ratio titubabit.
Nam si ex quo sint genere termini nesciatur, totum ignorabitur. Nomen et
uerbum, duae solae partes sunt putandae, caeterae enim non partes sed orationis
supplementa sunt: ut enim quadrigarum frena uel lora non partes sed quaedam
quodammodo ligaturae sunt et, ut dictum est, supplementa non etiam partes, sic
coniunctiones et praepositiones et alia huiusmodi non partes orationis sunt sed
quaedam colligamenta. Participium uero quod uocatur, uerbi loco ponetur,
quoniam temporis demonstratiuum est. Aduerbium uero nomen est, cuiusdam enim
definitae significationis est sine tempore, quod si per casus non flectitur, nihil
impedit. Non enim est proprium nominis flecti per casus. Sunt enim quaedam
nomina quae flecti non possunt, quae a grammaticis *monoptata* nominantur --
sed hoc grammaticae magis quam huius considerationis est. Oratio est uox
designatiua ad placitum, cuius partes aliquid extra significant, ut
dictio, non ut affirmatio. Et est orationi commune cum nomine et uerbo
quod VOX est, et DESIGNATIVA, et AD PLACITUM. Cuius enim partes ad placitum
sunt, ea quoque ipsa ad placitum est; orationis autem partes sunt nomen et
uerbum; sed haec ad placitum; oratio igitur ad placitum est. Termini uero
orationis a dialecticis nominantur nomina et uerba. Termini uero dicti sunt,
quod usque ad uerbum et nomen resolutio partium orationis fiat, ne quis
orationem usque ad syllabas nominum uel uerborum tentet resoluere, quae iam
designatiuae non sunt. Distat autem a nomine uel uerbo oratio quod illis
partes extra significant, uerbi et nominis partes nihil extra designant. Est
autem dictio unius simplex uocabuli nuncupatio, uel simplex affirmatio. Atque
ideo dictum est orationis partes significare ut dictionem id est ut simplicis
uocabuli nuncupationem. In oratione enim: Socrates ambulat utraque
extra significat tantum quantum simplex uocabuli nuncupatio designare queat.
Quomodo autem ut affirmatio simplex non significet in commentario
Perihermeneias explicui. (Quid autem sit affirmatio et negatio paulo post
explicabimus.) Sunt uero species orationis in angustissima diuisione quinque.
Interrogatiua, ut: Putasne anima immortalis est? Imperatiua,
ut: Accipe codicem! Optatiua uel deprecatiua, ut: Faciat
Deus. Vocatiua, ut: Adesto Deus. Enuntiatiua, ut: Socrates
ambulat sed in illis quatuor nulla neque ueritas est, neque falsistas
Enuntiatiua uero sola aut uerum aut falsum continet. Atque hinc propositiones
oriuntur. Enuntiatio autem in duas partes secabitur, in affirmationem et
negationem. Affirmatio est enuntiatio alicuius ad aliquid. Negatio est
enuntiatio alicuius ab aliquo. Et est affirmatio, ut puta: Plato philosophus
est. Negatio: Plato philosophus non est. Affirmatio enim ad
Platonem philosophiam enuntiat aliquam, id est Platonem esse philosopbum.
Negatio uero ab aliquo Platone aliquam pbilosophiam enuntiando tollit, id est
enuntiat Platonem non esse philosophum. Enuntiatiuarum igitur orationum
aliae sunt simplices, aliae non simplices. Simplices sunt ut si
dicas: Dies est. Lux est. Non simplices ut: Si dies est
lux est. Affirmationes uero simplices et negationes, aliae sunt
uniuersales, aliae sunt particulares, aliae indefinitae. Uniuersales sunt quae
aut omne affirmant ut: Omnis homo animal est aut omne negant,
ut: Nullus homo animal est Particulares uero quae aliquem affirmant
uel aliquem negant, ut: Aliquis homo animal est. Aliquis homo animal non
est indefinitae uero quae neque uniuersaliter affirmant aut negant, neque
particulariter, ut: Homo animal est. Homo animal non est Diuiditur
autem simplex propositio in duas partes: in subiectum et praedicatum, ut: Homo
animal est 'homo' subiectum est, 'animal' uero de homine praedicatur. Hae
autem partes termini nominantur. Quos definimus sic: Termini sunt partes
simplicis propositionis in quibus diuiditur principaliter propositio. Est enim
simplicis propositionis uniuersalis secunda diuisio, ut sit in
propositione: Omnis homo animal est 'omnis homo' unus terminus,
alius uero 'animal est'. Sed hoc secundo loco, illud uero principaliter. Nam
primi termini sunt subiectum et praedicatum. 'Est' enim et 'non est', non magis
termini sunt quam affirmationis uel negationis designatiua sunt, et 'omnis' uel
'nullus' uel 'aliquis' non magis sunt termini quam definitionum, utrum
particulariter an uniuersaliter dictum sit, designatiua sunt. Diuiditur
ergo, ut dictum est, propositio in id quod subiectum est, et in id quod praedicatur.
Dico autem subiectum, ut in: Omnis homo animal est propositione hominem,
id uero quod pradicatur dico animal, et semper quod praedicatur, aut abundat et
superest sub#ecto, aut aequatur. Minus autem praedicatum a subiecto nunquam
reperietur. Sed id quod diximus diuersis demonstremus exemplis. Subiecto
praedicatum abundat quoties genus aliquod de aliquo praedicatur, ut si
dicas: Omnis homo animal est Non enim potes conuertere, ut
dicas: Omne animal homo est quia animal ab homine plus est et
abundat. Aequatur autem praedicatum subiecto quoties proprium quoddam cuipiam
praedicatur, ut: Omnis homo risibile est potes conuertere: Omne
risibile homo est ut autem minus sit id quod praedicatur, fieri nequit.
Dicitur etiam praecedere pracdicatum, sequi quod subiectum est. Idonior est
enim praedicatio constituere propositionem, quam id quod subiectum est.
Simplicium autem propositionum aliae sunt in nullo sibi participantes ut
sunt: Omnis homo animal est et: Virtus bona est et aliae
huiusmodi propositiones, aliae uero quae participant. Participantium aliae sunt
quae in utroque termino participant, aliae quae in altero, et quae altero
termino participant tribus modis, utroque uero duobus. Ostendamus ergo
exemplis quomodo altero tribus modis participant. Communis enim terminus est,
cum in una subiectus sit, in altera praedicatus, ut est: Omnis homo animal
est et: Omne animal animatum. In priore enim propositione
animal praedicatur ad hominem, in posteriore praedicatur ad animal animatum, et
fit animal subiectum. Et est hic primus modus de eis qua altero termino participant.
Secundus uero modus est in quo in utrisque communis terminus praedicatur, ut si
quis dicat: Omnis nix est candida et: Omnis margarita est candida.
Etenim in prima et secunda propositione candida praedicatur, in prima ad niuem,
in secunda ad margaritam. Et est hic secundus modus altero termino
participantium. Tertius uero modus est, quoties in utrisque
propositionibus cornmunis terminus subiectus est, ut si dices: Virtus
bonum est Virtus iustum est In utrisque enim ad iustum et ad bonum
uirtus subiectum est. Sunt igitur participantes alterum terminum his
tribus modis, aut cum in una communis terminus praedicatur, in illa subiectus
est; aut cum in utrisque praedicatur; aut cum in utrisque subiectus est.
Earum uero quae ad utrosque participant terminos duo sunt modi. Aliae enim ad
eumdem ordinem, aliae ad ordinis commutationem. Ad eumdem sunt quae de eodem
idem demonstrant, uel affirmatiue uel negatiue, uel uniuersaliter aliter uel
particulariter: Omnis uoluptas bonum est. Nulla uoluptas bonum est et rursus
particulariter: Quaedam uoluptas bonum est. Quaedam uoluptas bonum non
est. Ad ordinis uero commutationem sunt quoties qui in altera subiectus
est terminus, in alia praedicatur ut: Omne bonum iustum est
et: Omne iustum bonum. Nam in priore bonum subiectum est, iustum
praedicatum, in secunda iustum subiectum est, bonum praedicatum. Nunc ergo
quoniam aliae ad eumdem ordinem, aliae ad ordinis commutationem sunt, prius
dicemus de his quae ad eumdem ordinem utroque termino participant. Et quoniam
sunt propositiones, aliae affirmatiuae aliae negatiuae; aliae uniuersales aliae
particulares aliae indefinitae: -- duae sunt ex his quae qualitate differunt,
tres quae quantitate. Et sunt quae qualitate differunt affirmatiua et negatiua;
ad quantitatem quae uero differunt, sunt uniuersalis, particularis, et
indefinita. In affirmatiuis enim et negatiuis quale quid sit aut non sit
ostenditur. In uniuersali particulari et indefinita de omnium uel nullorum uel
nonnullorum quantitate monstratur. Ex his ergo quinque differentiis, id est
uniuersali, particulari, indefinita, affirmatiua, negatiua, sex coniunctiones
fiunt, ita ut tribus quae ad quantitatem dicuntur duae quae ad qualitatem
dicuntur aptentur, et fit uniuersalis affirmatiua, et uniuersalis negatiua,
ut: Omnis homo iustus est. Nullus homo iustus est et
particularis affirmatiua, et particularis negatiua, ut: Quidam homo iustus
est. Quidam homo iustus non est et indefinita affirmatiua et negatiua,
ut: Homo iustus est. Homo iustus non est fiunt ergo ex duabus quae
sunt ad qualitatem, tribus quae sunt ad quantitatem iunctis, sex coniunctiones,
de quibus indefinitas, affirmatiuas et negatiuas separemus, et de solis
uniuersalibus et particularibus tractatus habeatur. Subscribantur etiam
earum participantium quae ad eumdem ordinem utroque termino participant, duae
uniuersales propositiones, una affirmatiua, et altera negatiua, et sit
affirmatiua uniuersalis: Omnis homo iustus est et contra ipsam uniuersalis
negatiua: Nullus homo iustus est. Item sub his ponantur particularis
affirmatio et particularis negatio, ita ut sub uniuersali affirmatiua ponatur
particularis affirmatiua, et sub uniuersali negatiua ponatur particularis
negatiua, et sit particuiaris affirmatiua: Quidam homo iustus est et
contra ipsam particularis negatiua: Quidam homo iustus non est quod
demonstrat sequens descriptio. In superiori igitur descriptione uniuersalis
affirmatiua et uniuersalis negutiua contrariae sunt, subcontrariae uero
particularis affirmatiua et particularis negatiua, subalternae uero dicuntur
uniuersalis affirmatiua et particularis affirmatiua, et item uniuersalis
negatiua et particularis negatiua. Contraiacentes sunt angulares, id est
uniuersalis affirmatiua et particularis negatiua. Et item uniuersalis negatiua
et particularis affirmatiua, ut: Omnis homo iustus est. Quidam homo iustus non
est. Nullus homo iustus est. Quidam homo iustus est et sunt ut hoc modo
definiri possint. Contrariae sunt quae uniuersaliter eidem idem haec affirmat,
haec negat. Subcontrariae sunt quae particulariter eidem idem haec affirmat,
haec negat. Subalternae sunt quae eidem idem affirmant uel negant, haec
particulariter, illa uniuersaliter. Contraiacentes sunt quando eidem eamdem rem
haec affirmat, haec negat, uel haec negat, haec affirmat, illa generaliter,
haec particulariter, et uocantur contrariae, quis quod affirmatio uniuersaliter
ponit negatio uniuersaliter tollit. Subalternae uero, quoniam quod illa
uniuersaliter ponit, etiam haec particulariter ponit. Subcontrariae uero dictae
sunt, uel quod naturaliter sub ipsis contrariis positae sunt, ut descriptio
docet, uel quod a contrariis diuersae sunt, et ipsis contrariis quodammodo
contrariae. Nam contraria, ut utraeque simul sint fieri non potest, ut utraeque
omnino non sint fieri potest, contrariam uim obtinebunt subcontrariae. Nam ut
utraeque omnino non sint fieri non potest, ut utraeque simul sint fieri potest,
quod in sequentibus melius explicabitur. Contraiacentes dicuntur, quoniam
uniuersalis affirmatio uel negatio, particularem affirmationem uel negationem
angulariter respiciunt. Cum autem singulae propositiones habeant duas
differentias, unam ad qualitatem, alteram ad quantitatem, ut quae uniuersalis,
affirmatiua est, habeat differentiam ad quantitatem quod uniuersalis est, et
aliam ad qualitatem quod affirmatiua est; eodem modo caeterae propositiones
binas habeant differentias, unam secundum qualitatem, alteram secundum
quantitatem. Subalternae quae sunt, una tantum differentia distant
quantitatis, quod haec particularis, illa uniuersalia est. Nam qualitatis
differentiam nullam retinent. Utraeque enim affirmatiuae sunt. Hae uero aliae,
id est contrariae et subcontrariae ad qualitatem, quod illa affirmatiua, illa
negatiua est, nam ad quantitatem nihil differunt. Utraeque enim contrariae
uniuersales, utraeque subcontrariae particulares sunt, illae autem quae
contraiacentes dicuntur utrisque differentiis differunt. Nam et illa
uniuersalis affirmatio est, haec particularis negatio, et illa uniuersalis
negatio, est, haec particularis affirmatio. Nunc quoniam quae secundum
qualitatem uel secundum quantitatem et quomodo differant dictum est, earum
proprietates, qus secundum uerum falsumque sunt, explicemus. Igitur earum
quae subalternae sunt, si fuerit uera uniuersalis affirmatio uera erit particularis
affirmatio. Si enim: Omnis homo iustus est uera est, uera erit etiam
quae dicit: Aliquis homo iustus est. Nam si omnis homo iustus est,
et quidam. Eodem modo negatiuae subalternae nam si uniuersalis negatiua uera
fuerit, erit etiam uera negatiua particularis, ut si: Nullus homo iustus
est uera fuerit, etiam erit uera: Quidam homo iustus non est.
Nam si nullus homo iustus est, nec quidam. Conuerti autem non potest, nam si
particularis uera fuerit, non necesse erit ueram esse etiam uniuersalem. Ut
si: Quidam homo iustus est uera fuerit, non necesse erit ueram
esse: Omnis homo iustus est. Possunt enim esse non omnes. Et eodem
modo de negatiua. Nam si particularis negatiua uera fuerit, ut est: Quidam
homo non est iustus non necesse erit uniuersalem: Nullus homo iustus
est ueram esse. Potest enim fieri ut quidam iusti sint. Ergo
dicamus in subalternis propositionibes si uniuersales uerae sint, ueras esse
necesse est particulares sed non conuertitur. Nam si particulares uerae fuerint
non necesse est ueras etiam uniuersales esse. Particulares uero ad
uniuersales contrariam conuersionem habent. Nam ut superius si uniuersales
uerae essent, etiam particulares uerae essent; et si particulares uerae essent,
non omnino uere essent etiam uniuersales in particularibas; si particulares
falsae fuerint, falsae erunt etiam uniuersales. Nam si particularis: Quidam
homo iustus est falsa fuerit, uniuersalis etiam: Omnis homo iustus
est falsa erit. Nam si quidam homo iustus est falsa est, uera est nullus
homo iustus est. Si uera est: Nullus homo iustus est falsa
est: Omnis homo iustus est. Falsa igitur particulari, falsa erit
uniuersalis. Item si negatiua particularis falsa fuerit, quae
est: Quidam homo iustus non est falsa erit etiam: Nullus homo
iustus est. Nam si falsum est quia quidam homo iustus non est, uera est
quia omnis homo iustus est. Si uera est haec, falsa est: Nullus homo
iustus est falsa igitur particulari, falsa erit etiam uniuersalis. Sed
non conuertitur, ut si uniuersales falsae sint, falsas necesse sit esse
particulares: nam si uniuersalis: Omnis homo iustus est falsa
fuerit, non necesse est particularem: Quidam homo iustus est falsam
esse. Potest enim fieri ut si omnis homo iustus non fuerit, sit quidam iustus.
Et item si uniuersalis negatiua: Nullus homo iustus est falsa fuerit,
non necesse erit: Quidam homo non est iustus falsam esse. Nam si
falsa est nullus homo iustus est, uerum est esse aliquos iustos, uera est etiam
quae dicit: Quidam homo iustus non est quod sint quidam etiam non
iusti. Repetens igitur a capite dicat quod in subalternis. Si uniuersales
uerae fuerint, uerae erunt etiam particulares. Sed non conuertitur. Item si
particularea falsae fuerint, falsae erunt etiam uniuersales; sed non
conuertitur, contrariae uero simul eese uerae nunquam possunt. Potest autem
fieri ut alias utraeque falsae sint, alias una uera, altera falsa. Utraeque
falsae sunt, ut si quis dicat: Omnis homo grammaticus est falsa est,
nam non omnis; et: Nullus homo grammaticus est falsa est, nam non
nullus; est autem una uera, altera alsa, ut si quis dicat: Omnis homo
bipes est haec affirmatiua uera est; Nullus homo bipes est
haec negatiua falsa est. Et item: Omnis homo quadrupes est haec affirmatiua
falsa est; Nullus homo quadrupes est haec negatiua uera est. Sunt
ergo contrariae aliquoties utraeque falsae, aliquoties inter se uerum falsumque
diuidentes; ut utraeque autem uerae sint fieri nunquam potest, subcontrariae
uero contraria patiuntur. Nam falsae nunquam reperiri queunt. Sed alias uerae
utraeque sunt, ut est: Quidam homo grammaticus est uera est,
et: Quidam homo grammaticus non est etiam haec uera est. Potest enim
alius esse grammaticus et alius non esse. Alias una uera est, altera falsa. Vera
est enim affirmatio: Quidam homo bipes est falsa est autem
negatio: Quidam homo bipes non est. Item falsa est affirmatio: Quidam
homo quadrupes est uera est negatio: Quidam homo quadrupes non
est ut uero utraeque falsae sint fieri nunquam potest. Restat
igitur ut de contreiacentibus dicamus, quae neque falsae simul aliquando esse
possunt neque uerae sed semper una uera est, altera falsa, quod facilius
liquet, si quis sibi quaecumque fingat exempla. Res admonet ut quaedam de
indefinitis propositionibus consideremus. Indefinitae etenim propositiones
aequam uim retinent particularibus propositionibus. Dictum est enim quod si
uniuersales uel affirmatiuae uel negatiuae in subalternis propositionibus
essent uerae, essent quoque uerae particulares. Nunc uero dicimus quod si
uniuersalis propositiones uerae fuerint, uerae erunt etiam indefinitas. Nam si
uera est: Omnis homo bipes est uera est etiam: Quidam homo
bipes est uera erit etiam indefinita quae dicit: Homo bipes
est. Item dictum est quod si particulares falsae essent, falsae essent
etiam uniuersales, nunc uero dicendum est quod si indefinita falsa fuerit,
falsa erit etiam uniuersalis. Nam si falsa est quae dicit: Homo quadrupes
est falsa erit etiam quae dicit: Quidam homo quadrupes est
et: Omnis homo quadrupes est. Atque idem hoc etiam in negatiuis
conuenire uidetur. Unde constat quod omnes indefinitae particularibus
propositionibus aequam uim continent. Rursus dictum est quod
subcontrariae, quae particulares affirmatiuae et negatiuae sunt, simul uerae
esse possunt, diuidere etiam uerum falsumque ualent, simul uero falsae esse non
posse. Hoc idem in indefinitis propositionibus exspectandum est. Nam diuidunt
inter se uerum falsumque, ut si quis dicat: Homo bipes est uera
est; Homo bipes non est falsa est, et item: Homo quadrupes
est falsa est; Homo quadrupes non est uera est; uerae autem
simul inueniri possunt, ut si quis dicat: Homo grammaticus est si
quis hoc dicat de Donato, uerum est. Item: Homo grammaticus non est
si quis hoc dicat de Catone, uerum est, ut simul falsae sint nunquam
reperiemus. Hinc quoque ostenditur indefinitas cum particularibus aequali esse
potentia. Amplius quod dictum est, contraiacentes, id est uniuersalem
affirmatiuam et particularem negatiuam, et item uniuersalem negatiuam et
particularem affirmatiuam neque ueras simul esse neque falsas sed inter se
diuidere uerum falsumque, hoc idem euenit in indefinitis. Nam uniuersalis
affirmatiua et indefinita negatiua, uel uniuersalis negatiua et indefinita
affirmatiua, neque uerae simul esse possunt, neque simul falsae. Diuiduntur
autem inter se uerum falsumque: nam si dixeris: Omnis homo bipes est
uera est; et si dicas: Homo bipes non est falsa est. Item si
dixeris: Homo quadrupes est falsa est, si dixeris, Nullus homo
quadrupes est uera est: unde hinc quoque colligere licet omnes
indefinitas potestate et ui aequales esse particularibus. Sunt etiam
quaedam propositiones quae diuidunt quidem et ipsae uerum et falsum,
ut: Deus fulminat. Deus non fulminat. Sed istae tunc diuidunt inter
se uerum et falsum, cum idem tempus, idem subiectum, idem praedicatum sit. Quod
autem dico tale est, si aequiuocum subiectum fuerit, non diuidunt uerum et
falsum. Si quis enim dicat:Cato se Uticae occidit et
respondeatur: Cato se Uticae non occidit utraeque uerae sunt. Nam et
Cato Minor se peremit, et Cato Censorius se Uticae non occidit. Sed hoc idcirco
euenit, quod Catonis nomen aequiuoce dicitur, dicitur enim et Maior Cato
Censorius, et Minor Uticensis. Item si aequiuoca fuerit in propositione
praedicatio, uerum inter se affirmatio negatioque non diuidunt. Si quis enim
sic dicat: In nocte lucet et respondeatur: In nocte non
lucet fieri potest ut utraeque uerae sint. Nam in nocte lucerna lucere
potest, et sol lucere non potest: hoc ideo euenit quia lucere aequiuoce et ad
lucernae lumen et ad solis dicitur. Amplius si aliud est aliud in
subiectis et praedicatis tempus fuerit, uerum falsumque inter se affirmatio
negatioque non diuidunt. Nam si quis dicat: Socrates ambulat et respondeatur: Socrates
non ambulat possunt utraeque uerae esse, potest enim fieri ut Socrates
alio tempore ambulet, alio tempore non ambulet; sed aut stet aut sedeat, aut
quodlibet aliud: in talibus ergo propositionibus quales sunt: Socrate
ambulat. Socrates non ambulat illae inter se uerum falsumque diuidunt
quae ad idem subiectum, ad idem praedicatum, ad idem tempus dicuntur.
Sunt etiam aliae quae contradictoriae uocantur, quae sunt huiusmodi, quoties
affirmationem uniuersalem tollit negatio particularis: Omnis homo iustus est. Non
omnis homo iustus est et rursus: Nullus homo iustus est
et: Quidam homo iustus est in his enim uniuersalis determinatio
tollitur. Sed de his alias. Et quoniam dictum est de his quae eodem
ordine participant, dicamus nunc de his quae ordinis commutatione participant.
Harum quoque propositionum quae ad comnmutationem ordinis participant duplex
modus est. Est enim per contrapositionem conuersio, ut si dicas: Omnis
homo animal est Omne non animal non homo est simplex conuersio est,
ut si dicas: Omnis homo <est> risibile et conuertas: Omne
risibile <est> homo sed in illis terminorum tantum commutatio
conuersionem facit, in quibus neque praedictum subiecto, neque subiectum
praedicato abundat. In hac enim propositione quae dicit: Omnis homo est risibile
homo subiectum, risibile praedicatum, aequam uim habet, et ideo conuerti potest
ut si risibile subiectum et homo praedicatum, et dicatur omne risibile homo. In
quibus uero unus terminus alio abundauerit, conuerti propositio non potest. Nam
si dicas: Omnis homo animal est uera est; non tamen potest ueri ut
conuersa haec propositio terminis commutatis uera sit: falsum est enim
dicere: Omne animal homo est. Sed hoc cur euenit? Quia homine animal
abundat. Illa uero conuersio, quae per contrapositionem fit hoc modo fit
quoties in affirmatiua subiectum fuerit, idem mutatum et factum praedicatum ad
negatiuam particulam ponitur, ut est: Omnis homo animal est. Hic
homo subiectum est et ad hoc animal praedicatur. Si uero quis per contrapositionem
conuertat, et faciat animal subiectum hominem praedicatum, et ad hominem
particulam negatiuam ponat, hoc modo faciet: Omne non animal non homo est
et erit ista conuersio: Omnis homo animal est. Omne non animal non homo
est. Sed de his posterius tractabimus. Nunc ad simplices
reuertamur. Cum sint igitur quatuor propositiones quarum quae uniuersales sunt,
id est affirmatiua et negatiua, duae uero particulares, id est affirmatiua et
negatiua, particularis affirmatiua, et uniuersalis negatiua commutatis terminis
sibi ipsa conuertitur. Conuertuntur autem illae ut dictum est quoties,
commutatis terminis, uel simul uerae sunt, uel simul falsae. Nam si quis dicat:
Quidam homo animal est uera est. Conuersio uero eius: Quoddam animal
homo est uera est. Item: Quidam homo lapis est falsa est,
quemadmodum et eius conuersio: Quidam lapis homo est nam et ista
falsa est. Est igitur particularis affirmatiua quae commutatis terminis sibi
ipsa conuertitur. Idem uere patitur uniuersalis negatio. Si quis enim dicat: Nullus
homo lapis est uera est, et potest conuerti: Nullus lapis homo est
nam et ista uera est. Item: Nullus homo rhetor est falsa est, et
eius conuersio: Nullus rhetor homo est falsa est. In quatuor igitur
his propositionibus quae tantum contraiacentes sibi ipsae conuertuntur, id est
particularis affirmatio et uniuersalis negatio. Aliae uero duae sibi ipsis non
conuertuntur. Nam neque uniuersalis affirmatio, neque particul&ris negatio
sibi ipsa conuertitur. Si quis enim dicat: Omnis homo animal est uera
est. Si quis uero conuertat: Omne animal homo est falsum est. Non
igitur sibi ipsi conuerti potest, quoniam conuersa prioris ueritatem non
recipit. Neque uero particularis negatio sibi conuertitur. Nam si quis
dicat: Quidam homo grammaticus non est uera est; si uero
conuertat: Quidam grammaticus homo non est falsa est: omnis enim
grammaticus homo est. Repetendum est igitur a capite quod cum quatuor
propositiones sint, affirmatio uniuersalis, negatio uniuersalis, affirmatio
particularis, negatio particularis, particularis affirmatio et uniuersalis,
negatio quae contraiacentes sunt, sibi ipsis conuerti possunt. Uniuersalis uero
affirmatio et particularis negatio, quae ipsae contraiacentes sunt, nunquam
possunt sibi ipsis conuerti. Nec hoc nos turbet quod quaedam affirmationes
uniuersales et quaedam particulares negationes conuerti possunt. Potest enim
dici: Omnis homo risibilis est Omne risibile homo est et utraeque
uerae sunt. Et item: Omnis homo hinnibilis est falsa est; et: Omne
hinnibile homo est et haec quoque falsa est. Item in particulari
negatione: Quidam homo non est lapis uera est; et: Quidam lapis
non est homo uera est. Item: Quidam homo non est risibile
falsa est; Quoddam risibile homo non est et haec quoque falsa est.
Ergo uidentur posse uniuersales affirmationes et particulares negationes
conuerti, et conuertuntur quidem sed non uniuersaliter. Generaliter autem
dico propositiones posse conuerti, quoties uniuersaliter, id est in omnibus
conuertuntur. Istae autem in duabus solis materiebus conuerti possunt. Si quis
enim proprium cuiuslibet speciei ad ipsam speciem cuius est proprium uelut ad
subiectum praedicet, potest conuertere. Nam quia risibile proprium est homini,
si praedices risibile, et subiicias hominem, ut est: Omnis homo risibile
est potes iterum subiicere risibile et hominem praedicare, ut si
dicas: Omne risibile est homo. In illis uero simul falsae sunt
generalium affirmationum conuersiones, in quibus id quod praedicatur ad
subiectum nullo tempore uere dici potest, ut si quis dicat: Omnis homo
lapis est falsa est. Et iterum: Omnis lapis homo est falsa est
haec, quoniam nullo tempore neque homo lapis est, neque lapis homo uere
praedicabitur. In particularibus negatiuis contrarium est; nam aut falsae sunt,
cum proprium subiectum est aut praedicatum, ut si quis dicat: Quidam homo
risibile non est falsum est. Item: Quoddam risibile homo non
est et haec quoque falsa est. In illis uerae sunt, quando id quod
affirmando nullo tempore uere praedicari potest ad subiectum praedicant, ut si
dicas: Quidam homo lapis non est uera est. Iterum: Quidam lapis homo
non est uera est. Ergo uniuersales affirmationes tum sibi conuertuntur ut
uerae sint cum proprium praedicant, tum sibi conuertunturut falsae sint cum id
quod nullo tempore adsubiectum uere dici poterit praedicatur. Item in
particularibus negatiuis, tum falsae sunt, cum proprium praedicant, tum uerae,
cum id quod nullo tempore uere dici poterit praedicant. In his ergo solae
conuerti possunt. In aliis uero conuerti non possunt. Atque ideo uniuersaliter
non conuertuntur; remanet ergo ut in aliis rebus omnibus, ut superius dictum
est, non conuertantur. Hoc uero perpiciendum est, quod particularis
affirmatioque sibi ipsi conuertitur, uniuersali affirmationi, quae sibi non
conuertitur, per accidens conuerti potest. Et item contraiacens uniuersali
affirmationi particularis negatio, quae sibi ipsi non conuertitur, conuerti
potest per accidens negationi uniuersali, quae sibi ipsi conuertitur. Sed
quomodo particularis affirmatio et uniuersalis negatio sibi ipsis conuertantur
ostendimus. Nunc uero quomodo particularis affirmatio uniuersali
affirmationi per accidens, uel quomodo particularis negatio uniuersali
negationi per accidens couertantur, demonstrandum est. Dictum est superius quod
si uera est uniuersalis affirmatio, uera est etiam particularis, et sequeretur
particularis uniuersalem. Nam si uera est: Omnis homo animal est
uera est etiam: Quidam homo animal est. Si enim omnis, et quidam;
sed particularis affirmatio sibi ipsi conuertitur, conuertitur etiam uniuersali
affirmationi. Nam si omnis homo animal est, et quidam homo animal est. Sed ista
sibi conuertitur hoc modo, si dicas: Quidam homo animal est potest
igitur conuerti ad: Omnis homo animal est uniuersalem affirmationem particularis
affirmatio, quae est: Quidam homo animal est et conuertitur, ut si
dicas: Quoddam animal homo est utraeque enim uerae sunt -- et quae
dicit: Omnis homo animal est et quae dicit: Quoddam animal homo
est per accidens autem conuerti dicitur particularis affirmatio
uniuersali affirmationi, qui particularis affirmatio sibi ipsi principaliter
conuertitur, secundo uero loco uniuersali affirmationi conuertitur.
Restat igitur ut hoc monstremus: quomodo particularis negatio quae sibi non
conuertitur uniuersali negationi quae sibi conuertitur per accidens
conuertatur, et hic eadem ratio est. Nam quoniam uniuersalis negatio si uera
est, uera est etiam particularis, uniuersalis uero negatio sibi ipsa
conuertitur potest uniuersali negationi conuersae particularis conuerti
negatio. Age enim uniuersalem negationem, id est:. Nullus homo hinnibilis est
conuertamus, ut sit: Nullum hinnibile homo est. Sed istam
propositionem, id est uniuersalem negatiuam quae est: Nullus homo hinnibilis
est sequitur particularis negatio quae est: Quidam homo non est
hinnibilis. Conuerte igitur uniuersalem quae est: Nullus homo
hinnibilis est et fac: Nullum hinnibile homo est conuerte huic
particularem negationem quae est: Quidam homo non est hinnibilis et
fac: Quoddam hinnibile non est homo utraeque uerae sunt. Nam
et: Nullum hinnibile homo est quae est uniuersalis conuersio negationis,
uera est, et: Quoddam hinnibile non est homo quae conuersio
particularis negationis est. Cur autem per accidens conuerti dicatur, superius
dictum est. Liquet ergo talis per accidens conuersio: quod igitur habet
uniuersalis affirmatio, hoc habet etiam contraiacens particularis negatio,
utraeque enim sibi conuerti non possunt; quod autem habet uniuersalis negatio,
hoo habet et ei contraiacens affirmatio particularis, utraeque enim sibi
conuerti possunt. Iunctae ergo quae sibi conuerti possunt, et quae sibi
conuerti non possunt, ut quae sibi conuerti potest iungatur ei quae sibi
conuerti non potest, et quae sibi conuerti non potest iungatur ei quae sibi
conuerti potest, faciunt per accidens conuersiones quae superius demonstratae
sunt. Restat ut de his conuersionibus dicamus quae per contrapositionem
fiunt, et primum earum sit dispositio in descriptione subiecta, generalis enim
affirmationis quae dicit: Omnis homo animal est conuersio per
contrapositionem est quae dicit: Omne non animal non homo est. Item
generalis negationis quae dicit: Nullus homo animal est conuersio per
contrapositionem est: Nullum non animal non homo est. Item particularis
affirmationis quae dicit: Quidam homo animal est conuersio per
contrapositionem est quae dicit: Quoddam non animal non homo est.
Item particularis negationis quae dicit: Quidam homo animal non est
conuersio per contrapositionem est quae dicit: Quoddam non animal non homo
est quod demonstrat subiecta descriptio: Omnis homo animal
est Omne non animal non homo est Nullus homo animal est. Nullum
non animal non homo est. Quidam homo animal est Quoddam non animal non
homo est Quidam homo animal non est Quoddam non animal non
homo non est. His ergo ita positis, quomodo dictum est superius in simplici
terminorum conuersione, quod particularis affirmatio et generalis negatio sibi
ipsis conuerterentur, generalis uero affirmatio et particularis negatio sibi
ipsis non conuerterentur, hic in per contrapositionem conuersionibus contra
est. Nam generalis affirmatio per contrapositionem sibi ipsa conuertitur, et
particularis negatio sibi ipsi conuertitur. Generalis uero negatio et
particularis affirmatio per contrapositionem sibi non conuertuntur. Quod
ita esse his exemplis probabimus. Si enim uera sit affirmatio generalis quae
dicit: Omnis homo animal est uera erit eius per contrapositionem
conuersio quae dicit: Omne non animal non homo est. Quod enim animal
non fuerit, id homo non erit. Et si falsa fuerit generalis affirmatio quae
dicit: Omne animal homo est falsa erit etiam eius per
contrapositionem conuersio quae dicit: Omnis non homo non animal est
potest enim fieri ut quod homo non est, animal sit. Illa enim negat esse animal
quod homo non fuerit. Quod si cum uera est generalis affirmatiua, uera est eius
per contrapositionem conuersio, et si cum falsa est generalis affirmatio, falsa
est eius per contrapositionem conuersio, non est dubium quin generalis
affirmatio possit sibi ipsa conuerti. Item nunc ostendendum est quomodo
particularis negatio sibi ipsi per contrapositionem conuertitur. Nam si falsa
est quae dicit: Quidam homo animal non est falsa eius erit etiam per
contrapositionem conuersio quae dicit: Quoddam non animal non homo
est. Hoc enim uidetur haec propositio dicere, ac si diceret: Quaedam res
quae animal non est homo est, qui enim dicit: Non homo non est
hominem esse significat quod animal non sit. Hoc uero aperte falsum est, omnis
enim homo animal est, et si uera fuerit particularis negatio quae
dicit: Quoddam animal homo non est uera erit et eius per
contrapositionem conuersio quae dicit: Quidam non homo non animal non
est. Aequale est enim ac si diceret: Res quae homo non est non est non
animal sed est animal, ut equus et bos homo non est, et non est non
animal. Ergo si cum particularis negatio falsa est, falsa est etiam eius
per compositionem conuersio, et si cum particularis negatio uera est, uera est
eius per contrapositionem conuersio, non est dubium quin particularis negatio
possit per contrapositionem sibi ipsa conuerti. Nunc quoniam ostensum
generalem affirmatiuam et particularem negatiuam, per contrapositionem sibi
posse conuerti, ostendamus generalem negatiuam et particularem affirmatiuam per
contrapositionem sibi non posse conuerti. Et prius de generali negatione
dicendum est. Nam si generalis negatio uera est, non necesse erit per
contrapositionem sibi conuersam ueram esse. Sed si falsa fuerit et per
contrapositionem sibi conuersam falsam esse necesse est. Nam si falsa est quae
dicit: Nullus homo animal est falsa erit fortasse eius per
contrapositionem conuersio, quae dicit: Nullum non animal non homo
est. Aequale est enim ac si dicat: Nulla res est quae non sit animal et
sit non homo, quod est omnis res quae animam non habet homo est, quod aperte
falsum est. Item si uera fuerit generalis negatio, falsa erit eius per
contrapositionem conuersio. Nam si uera est quae dicit: Nullus homo est
lapis falsa erit eius per contrapositionem conuersio quae dicit: Nullus
non lapis non homo est. Aequale est enim ac si dicat: Nulla res est quae
cum non sit lapis non homo sit, quod est omnis res quaecumque lapis non fuerit
homo est, quod falsum est. Innumerabilia enim inuenies quae non sunt lapides,
et non homines non sunt; ergo quoniam si generalis negatio falsa fuerit, Falsa
est eius per contrapositionem conuersio, uel si eadem uera fuerit, falsa erit
eius per contrapositionem conuersio, non est dubium generalem negationem sibi non
posse [808D] conuerti, quod enim in aliquo fallit, generaliter colligi non
potest. Restat igitur ut id quod reliquum est monstremus, particularem
affirmationem per contrapositionem sibi non posse conuerti. Cum enim fuerit
particularis affirmatio uera, uera erit eius etiam per contrapositionem
conuersio. Nam si uera est quae dicit: Quidam homo animal est uera
est eius per contrapositionem conuersio: Quoddam non animal non homo
est. Aequale est enim ac si dicat: Quaedam res quae animam non habet homo
non est, quod uerum est. Lapis enim animam non habet, et tamen homo non est.
Item si particularis affirmatio quae dicit: Quidam lapis homo est
falsa est, uera erit eius per contrapositionem conuersio quae
dicit: Quidam non homo non lapis est. Aequale est enim ac si
diceret: Quaedam res quae homo non fuerit lapis non est, quod uerum est. Equus
enim homo non est, et tamen lapis non est. Ergo si cum in quibusdam
particularis affirmatio uera fuerit, uera erit eius per contrapositionem
conuersio, et si cum in quibusdam falsa fuerit particularis affirmatio, uera
erit eius per contrapositionem conuersio, non est dubium particulares
affirmationes per contrapositionem sibi non posse conuerti. Generalis enim
negatio et particularis affirmatio, quae contraiacentes sunt, in per
contrapositionem conuersionibus contraria patiuntur. Nam in generalibus
negatiuis siue generales negatiuae uerae fuerint siue falsae per
contrapositionem conuersiones semper falsae sunt; in particularibus autem
affirmatiuis, siue particularis affirmatio uera fuerit siue falsa, siue per
contrapositionem conuersio uera est. Repetendum est igitur a superioribus et
confirmandum quod in simplicibus terminorum conuersionibus particularis
affirmatio et generalis negatio sibi conuerti possunt. Generales uero
affirmatio et particularis negatio sibi conuerti uon possunt. In his uero
conuersionibus quae per contrapositionem fiunt, contra est; nam generalis
affirmatio et particularis negatio per contrapositionem sibi ipsis conuerti
possunt, generalis uero negatio, et particularis affirmatio per
contrapositionem sibi ipsis conuerti non possunt, et generalis negatio et
particularis affirmatio quae sunt contraiacentes in ueri falsique distantia (ut
demonstratum est), sibi ipsis inuicem contraria patiuntur. Haec de
categoricorum syllogismorum categoricis propositionibus dicta sufficiant. Si
qua uero in his praetermissa sunt, in Perihermenias Aristotelis commentario
diligentius subtiliusque tractata sunt. Superioris series uoluminis quod
ad categoricorum syllogismorum propositiones attinebat explicuit. Nunc autem,
quantum introductionis patitur temperamentum, de ipsa categoricorum
syllogismorum ratione tractabitur; et quoniam omnium compositorum firmitudo uel
uitium, aut in his maxime reperitur ex quibus est compositum, aut penes bonam
malamue compositionem eius laus uituperatioque tenetur: namque domus si
fortibus lapidibus debilibusue constructa, ipsa quoque est fortis aut debilis;
porro autem si artificis compositionem aequabilem solertemque fuerit nacta,
ipsa quoque constructio, merito stabilitatis erit laudabile fundamentum; si
uero insolertior compositio fiat, tota quoque quamuis ex bonis ordinata
lapidibus, nulla sese gerens fabrica stabilitate nutabit; nos quoque hanc
eamdem imaginem secuti, prius de his quibus ipse syllogismus constat, id est
propositionibus explicuimus. Nunc uero de ipsa inter se syllogismorum
coniunctione compositioneque tractubimus. Illud uero meminisse debebis,
introducendis hic me praestitisse docendis, non introductis. Et prius
quid sit esse in omni uel non esse, paucis ostendam. Si qua enim [809D] res
alterius generis fuerit, omnem intra se speciem continebit, et in toto species
genere illa esse dicetur. Sit enim genus animal, homo uero species. Homo ergo
quoniam minus est quam animal, in toto animali esse dicetur. Omnis enim homo
animal est. Si quis ergo sic dicat aliquam rem de omni alia re praedicari,
conuersa uice nihil interest. Nam sicut in toto animali homo est, sic etiam
animal de omni homine praedicatur. In toto uero non esse est, quoties alia res
ab alia re omni disiuncta est: ut si dicas: Animal in nullo lapide
est nullum enim animal lapis est; et si dicas: Animal de nullo
lapide praedicatur de nulloenim lapide animal dicitur. Definimus ergo in
toto esse, uel in toto non esse sic: in toto esse, uel de omni praedicari dicitur,
quoties non potest inueniri aliquid subiecti ad quod illud quod praedicatur
dici non possit. Namque nihil hominis inuenitur ad quod animal dici non possit.
In toto uero non esse, uel de nullo praedicari dicitur, quoties nihil subiecti
poterit inueniri ad quod illud quod praedicatur dici possit. Nihil enim lapidis
inueniri potest de quo possit animal praedicari. Illud sane notandum est,
quod esse in toto uersa uice dicitur. Nam si aliquid [810C] de omni aliquo
praedicatur, illud de quo illud praedicatur in toto illo esse dicitur quod
praedicatur, ut animal de omni homine dicitur. Homo uero in toto est, id est
uelut quaedam pars intra totum animal latet. Et si quid in alio omni fuerit, in
eo toto res illa de quo superius dicebatur esse dicitur, ut idem animal cum in
omni sit homine, et de eo omni praedicetur, homo in toto est animali. His
igitur ita positis, quotiescumque ita dicimus, ut litteras pro terminis
disponamus, pro breuitate hoc et compendio facimus, id quod per litteras
demonstrare uolumus uniuersaliter demonstrarnus. Nam fortasse in terminis
aliquibus falsum ingerendum necesse sit. In litteris uero nunquam fallimur,
quoniam ad hoo utimur litteris quasi terminos poneremus. In litteris uero
ipsis, nisi terminorum coniunctio per se firma ualensque fuerit, ulla neque
ueritas, neque falsitas reperietur. Quoties igitur aliud de alio omni predicari
uolumus ostendere, sic ponimus. Sit primus terminus a, secundus b, et
praedicetur a de omni b. Hoc autem ita accipito tanquam si posuerimus a animal,
b hominem. Eodem modo et de negatiuis. Nam si dicamus, a de nullo b
praedicatur, tale est ac si dicamus, a, quod est animal, de nullo lapido
praedicatur, quod est b, et alia quaecumque eis fuerint consimilia. Omnis autem
syllogismus simplex tribus terminis demonstratur atque concluditur. Sed
prius ipsorum syllogismorum figurae aspiciumus, post uero do modis ordinibusque
eorum tractabimus. Tribus igitur terminis ita positis, ut prope se et
sibi connexi sint, tres non ultra fieri complexiones necesse est hoc modo: sit
enim a, sit b, sit c; aut enim a de b praedicabitur, et b de c, aut certe a et
de b praedicabitur et de c, uel iisdem ipsis a et b c terminus uidebitur esse
subiectus. Sit enim a bonum, sit b iustum, sit c uirtus, aut enim a, id est
bonum erit in omni b, id est iusto, et dicetur: Omne iustum bonum
est et item b iustum in omni c, id est uirtute, et dicetur: Omnis
uirtus iusta est. Et erunt huiusmodi propositiones: Omne iustum
bonum est et: Omnis uirtus iusta est aut a, id est bonum, de
b, quod iustum est, et de c, quod uirtus est, predicabitur, ut sit: Omne
iustum bonum est. Omnis uirtus bona est aut certe a bonum, b iusto, et c
uiriuti subiacebit, ut dicatur: Omne bonum iustum est et:Omne bonum uirtus
est. In hac enim complexione b et c de solo a termino praedicantur. Ubi
uero a de omni b termino, et b item predicatur de omni c. Hanc figuram uoco
primam quae definitur sic: Prima figura est in qua is qui subiectus est
de alio praedicatur. Namque b, quod a termino subiectum est, ad c item
terminum praedicatur. Extremitates uero dico huius figurae quod praedicatur et
quod subiectum est, id est a c. Namque a pradicatur de b termino, c uero
terminus b termino subiacet. Medium autem illud uoco quod alii subiacet, et de
alio praedicatur, id est b. Nam b terminus a termino subiacet, de c uero
termino praedicatur. Maior uero extremitas est, quae prima praedicatur, id est
a. Namque idem a de b termino praedicatur. Minor uero quae medio termino subiicitur,
id est c, namque c terminus medio termino, id est b, subiecius est; de eo enim
b medius terminus dicitur. Maior uero terminus a uocatus est, id est qui
praedicatur, quoniam omne praedicatum ab e. de quo praedicatur maius est. Et in
conclusionie, sicut in prima propositione, semper a terminus praedicatur, a
enim bonum praedicatur de b iusto, et dicitur: Omne iustum bonum est
b uero medius terminus predicatur de c, et dicitur: Omnis uirtus iusta
est. Ex his igitur concluditur in syllogismo: Omnis uirtus bonum
est et a bonum nominabitur de c uirtute, atque ideo maior a nobis
extremitas appeliatur. Id uero meminisse debemus, quod ea quae paria sunt
retorqueri possunt, et ad se inuicem praedicari, et sicut id quod predicatur in
eo quod subiectum est, omni est, ita rursus conuersum quod fuerit subiectum, in
eo quod antea praedicabatur omne erit. Nam si f et g duo termini ita sibi sint
aequales, ut neuter neutro maior sit, cum praedicaueris f de omni g, erit f
terminus in omni g termino. Si uero conuertas et praedices g terminum de f
termino, erit iterum g terminus in omni f termino. Sit enim f risibile, g homo.
Ergo si praedices f risibile, et g hominem subiicias, f risibile in omni g
inuenitur. Omnis enim homo risibile est. Si uero praedicas g hominem ad f risibile,
g homo in omni f risibile reperitur. Omne enim risibile homo est. Quid
autem termini sint, uel quid praedicatio, aut subiecto, priori de
propositionibus libro satis dictum est. Sed ne forte erremus quod uidetur
uniuersalis affirmatio conuersa. Nam de hoc quoque superius dictum est.
Modo uero hoc solum monstrare uolumus, quod quae sunt in toto paria sola
conuertantur. Hoc tamen prodest ad ostensionem syllogismorum quae fit in
circulo, quam in Analyticis diximus. Ac de prima syllogismorum categoricorum
figura expeditum est. Secunda uero figura est quoties a terminus de utrisque b
et c terminis praedicatur hoc modo: Si enim dicas a bonum de omni b iusto, ut
sit hoc modo propositio: Omne iustum bonum est et inde a bonum de omni
c uirtute, ut dicas: Omnis uirtus bonum est solum a de utrisque b et
c terminis praedicasti, et erit haec secunda figura. Medius autem terminus in
hac figura erit qui de utrisque praedicatur, id est a. Extremitates uero ea
quae subiecta sunt, id est b et c. Maior uero extremitas est de qua primo a
terminus appellatur, id est b iustum; uel si ad c primo praedicabitur c
terminus maior extremitas inuenitur. Idcirco quod ea extremitas de qua medius
terminus primo praedicatur, in conclusione ipsa quoque praedicabitur, ut
posterius demonstrandum est. Minor uero extremitas erit ad quod medius terminus
posterius praedicabitur. Tertia uero figura est, quoties a et b termini
de ullo c praedicantur. Si quis enim praedicet a, id est bonum de c, id est
uirtute, ut sit huiusmodi propositio: Omnis uirtus bonum est item b praedicetur
de c, ut sit: Omnis uirtus iustum est tertiam figuram facit. In hac
uero figura medius terminus erit qui utrisque subiectus est, id est c. Namque de
c termino a et b termini praedicantur. Maior uero extremitas est quae primo
praedicatur, id est a; minor uero quae postea, id est b; uel si quem libuerit b
prius, a posterius praedicare secundum priorem posterioremque praedicationem,
maior minorue extremitas inuenietur, et hic quoque maior extremitas in
conclusionibus, sicut in superioribus aliis figuris, de minore
praedicatur. Expeditis igitur tribus syllogismorum figuris, dicendum est
quia perfectus syllogismus est cui ad integram probatamque conclusionem ex
superius sumptis et propositis nihil deest. Sed modo atque ordine facta
conclusio nihil dehabens, per ea quae antea proposuit terminatur.
Imperfectus uero syllogismus est cui nihil aeque ad perfectionem deest,
uerumtamen in his quae in propositionibus sumpta sunt aliqua desunt cur ita
esse uidetur. Sed et hae definitiones omnes posterius liquebunt. Nunc
autem unde hae figurae nascantur breuiter expliicandum est. Quoniam unde
nascuntur, in eadem iterum resoluuntur. Sed secunda et tertia figura de prima
figura nasci et procreari uidentur. Sit enim a terminus in omni b termino, et
de omni eo praedicetur, b uero terminus de omni c termino praedicatur. Haec, ut
dictum est, prima syllogismorum figura est. Si quis igitur maiorem extremitatem
propositionemque conuertat, et quod fuerat antea praedicatum faciat esse subiectum,
secundam faciet figuram. Nam quemadmodum a terminus praedicatur de b termino,
ita b de c. Si ergo conuertatur, et fiat b terminus de a termino praedicetur,
inuenitur b terminus qui antea medius fuerat, et a termino subiectus, de c uero
termino praedicatur ad utrosque terminos praedicatiuus. Age enim
quoniam a bonum de b iusto praedicabatur, b uero iustum de c uirtute praedicabatur,
erat propositio: Omne iustum bonum est Omnis uirtus iusta est
manente propositione quae est: Omnis uirtus iusta est prima
propositio (id est "Omne iustum bonum est") contrauertatur et
fiat: Omne bonum iustum est. Inueniuntur igitur propositiones sic: Omne
bonum iustum est. Omnis uirtus iusta est et iustum, id est b de a et c
terminis praedicabitur. Conuersa igitur maiore prioris figurae extremitate,
secunda syllogismorum figura procreatur. Tertia uero figura nascitur,
minori propositione conuersa. Nam si a bonum predicatur de b iusto, ut
dicatur: Omne iustum bonum est b uero iustum praedicatur de c
uirtute, ut dicatur: Omnis uirtus iusta est si, priore propositione
manente, id est: Omne iustum bonum est secunda quae est: Omnis
uirtus iusta est conuertatur et fiat: Omne iustum uirtus est
inuenietur omnes propositiones sic: Omne iustum bonum est. Omne iustum
uirtus est et de b iusto a et c termini praedicantur, et fit tertiae
figurae connexio. Conuersis igitur primis posterisque extremitatibus primae
figure, tertia uel secunda figura nascuntur. At uero unaquaeque harum trium
figurarum habet sub se plures syllogismorum modos, ut modi sub figuris ita sint
ut sunt species sub suis generibus. Habet enim prima figura sub se,
Aristotele auctore, modos quatuor; sed Theophrastus uel Eudemus super hos
quatuor quinque alios modos addunt, Aristolele dante principium in secundo Priorum
Analylicorum uolumine, quod melius postmodum explicabitur. Secunda uero figura
habet sub se quatuor modos; tertia uero, auctore Aristotele, sex; addunt etiam
alii unum, sicut ipse Porphyrius, superiores scilicet sequens. Et quoniam
(ut superiore libro dictum est) aliae propositiones affirmatiuae sunt, aliae
negatiuae, et earum aliae uniuersales, aliae uero particulares, secundum eas
ipsas, propositiones syllogismorum conclusionesque iunguntur. BARBARA Namque
primae figurae primus modus est qui fit ex duabus uniuersalibus affirmatiuis,
uniuersalem colligens affirmatiuam. Si enim a termimis fuerit in omni b
termino, et si b terminus de omni c termino fuerit praedicatus, a terminus de
omni c termino praedicabitur. Namque a bonum si praedicetur de omni b iusto, ut
sit: Omne iustum bonum est b uero iustum, si de c praedicetur
uirtute, ut sit: Omnis uirtus iustum est necessario concluditur
extremitatibus ad se inuicem praedicatis, id est a et c, ut sit: Omnis
uirtus bonum est Sunt igitur huiusmodi propositiones atque conclusio? Si
a in omni b fuerit, et b in omni c fuerit, a terminus de omni c praedicabitur,
id est: Omne iustum bonum est, Omnis uirtus iusta est; et
conclusio: Omnis igitur uirtus bonum est et hic primae figurae primus
modus est. CELARENT Secundus uero modus primae figurae est, quoties ex
prima uniuersali negatiua et secunda uniuersali affirmatiua conclusio
uniuersali negatione colligitur. Si enim sit a malum, b bonum, c iustum, a
terminus de nullo b termino praedicabitur. Nullum enim bonum malum est, b uero
terminus de omni c termino praedicabitur, omne enim iustum bonum est. Quare
colligitur, nullum iustum malum est, ut est hoc modo: Si a terminus de nullo b
termino praedicatur, b uero terminus de omni c fuerit praedicatus, a terminus de
nullo c praedicabitur, ut est: Nullum bonum malum est, Omne iustum bonum
est; Nullum igitur iustum malum est. DARII Tertius uero modus primae
figurae est, quoties ex uniuersali affirmatiua, et particulari affirmatiua,
particularis affirmatiua colligitur. Nam si a uirtus de omni b, id est bono,
praedicetur, et b bonum de quodam c, id est iusto, fuerit praedicatum
particulariter, erit quoque conclusio particularis, hoc modo, ut a uirtus de
quodam c iusto particulariter praedicetur. Si igitur fuerit a terminus in omni
b, et b terminus in aliquo c particulariter, erit a terminus in aliquo c
particulariter, ut sit: Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum bonum
est; Quoddam igitur iustum uirtus est. FERIO Quartus modus primae
figurae est talis, quoties ex uniuersali negatione et particulari affirmatione
paricularis negatiua colligitur. Nam si a terminus de nullo b termino
praedicetur, b uero termimis de quodam c termino praedicetur, a terminus de
quodam c termino non praedicabitur, quod monstrat subiecta descriptio. Nam sunt
huiusmodi propositiones: Nullum bonum malum est, Quoddam iustum bonum
est; Quoddam igitur iustum malum non est. Hos ergo quatuor in prima
figura modos in Analyticis suis Aristoteles posuit. Caeteros uero quinque modos
Theophrastus et Eudemus addiderunt, quibus Porphyrius, grauissimae uir
auctoritatis, uisus est consensisse, qui sunt huiusmodi. Nam quoniam
particularis affirmatiua sibi ipsi conuertitur, quisquis ostenderit in
conclusione a terminum de quodam c termino particulariter praedicari, in eadem
ipsa conclusione monstrauit quod c terminus de a termino rursus particulariter
praedicetur. Nam si sibi particularis propositio in coliclusione conuertitur,
si a terminus in quodam c termino fuerit, c terminus de quodam a termino
praedicabitur. Item quisquis uniuersalem negatiuam in conclusione probauerit,
necesse est eum ipsius quoque conuersionem in eadem conclusione probasse.
Uniuersalis enim negatio semper sibi couuertitur. Nam si quis probauit quod a
terminus de nullo c termino praedicatur, non est dubium quin in hac conclusione
illud quoque probatum sit, quod c terminus de nullo a termino praedicetur.
Semper enim, ut dictum est, uniuersalis negatiua sibi ipsi conuertitur.
Uniuersalis quoque affirmatiua duplici conclusione continetur: nam quisquis
ostendit a terminum de omni c termino praedicari, illud quoque ostendit quod c
terminus de quodam a termino particulariter praedicetur. Si quis enim
probauerit animal de omni homine praedicari, ita dicens, omnis homo animal est,
illud quoque necessario monstrauit particulariter, quoniam quoddam animal homo
est. Ita semper uniuersalis negatio, et uniuersalis affirmatio, uel
particularis affirmatiua dupliciter concluduntur. Aliae enim sibi ipsis
conuertuntur, quae particularis est particulariter, quae uniuersalis
uniuersaliter. Alia uero, cum ipsa uniuersalis affirmatiua sit, particulariter
sibi ipsi conuertitur. Particularis autem negatio nunquam sibi ipsi
conuertitur, atque ideo simplicem in se retinet conclusionem. Hoc autem
quod nuper diximus, in secundo priorum Analyticorum libro ab Aristotele
monstratur, quod scilicet Theophrastus et Eudemus principium capientes ad alios
in prima figura syllogismos adiiciendos animum adiecere, qui sunt huiusmodi qui
*kata anaklasin* uocantur, id est, per refractionem quamdam conuersionemque
propositionis. BARALIPTON Et est quintus modus ex duabus uniuersalibus
affirmationibus, particularem colligens affirmatiuam hoc modo: Si a fuerit in
omni b, et b fuerit in omni c, posset equidem concludi quod a terminus esset in
omni c termino. Sed quoniam ista uniuersalis propositio, ut dictum est,
particulariter conuertitur, praetermisso eo quod a terminus de omni c termino
praedicatur, conclusio esse dicitur quod c terminus de quodam a termino
praedicatur, quod hoc exemplo monstrandum est. Si enim sint propositiones sic:Omne
iustum bonum est, Omnis uirtus iusta est; posset concludi equidem
quoniam: Omnis uirtus bonum est. Sed quoniam illa propositio sibi
conuertitur, ut sit: Quoddam bonum uirtus est particulariter,
particularis syllogismus conclusioque colligitur ex duabus uniuersalibus
affirmatiuis. Eius uero forma talis est, a terminus in omni b, b terminus in
omni c; igitur c terminus in quodam a, ut est: Omne iustum bonum
est, Omnis uirtus iusta est; Quoddam bonum iustus est. Per
conuersionem refractionemque dicitur, quoniam quod uniuersaliter colligebatur
conuersum, particulariter collectum est. CELANTES Sextus modus est primae
figurae qui fit ex uniuersali negatiua et uniuersali affirmatiua uniuersalem
conclusionem per conuersionem colligens. Nam si a terminus in nullo b fuerit, b
uero terminus in omni c termino fuerit, posset equidem colligi quoniam a
terminus in nullo c termino est: se quoniam uniuersalis negatiua conuertitur,
dicimus quoniam c terminus in nullo a termino est, ut sit hoc modo:
Nullum bonum malum est, Omne iustum bonum est; posset
colligi: Nullum iustum malum est sed ex his per conuersionem
colligimus: Nullum malum iustum est. DABITIS Septimus modus primae
figurae est, qui ex uniuersali affirmatiua et particulari affirmatiua per
conuersionem particularem colligit affirmatiuam. Si enim fuerit a terminus in
omni b, et b terminus de quodam c termino praedicetur, potest a terminus de
quodam c termino praedicari. Sed quoniam particularis affirmatio sibi ipsi
conuertitur, per conuersionem fit conclusio, et dicitur c terminus de quodam a
termino praedicari, ut sit sic: Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum
bonum est; posset equidem concludi, quoniam: Quoddam iustum uirtus
est sed quia particularis affirmatio conuertitur, dicimus quoniam:
Quaedam uirtus iusta est. FAPESMO Octauus modus primae figurae est,
quoties ex uniuersali affirmatione et uniuersali negatione particulariter
colligitur. Si enim a terminus de omni b termino praedicatus fuerit, b uero
terminus de nullo c termino praedicetur, non posset colligi quoniam a terminus
de nullo c termino praedicatur. Cur autem non possit, in resolutoriis dictum
est. Sed quoniam uniuersalis negatiua sibi ipsa conuertitur, potest dici et
conuerti, quoniam c terminus de nullo b termino praedicatur, b uero terminus de
quodam a termino dicitur, quoniam uniuersalis affirmatiua purtioulariter sibi
ipsa conuertitur: quare c terminus de quodam a termino non praedicabitur, ut
sit sic: Omne bonum iustum est, Nullum malum bonum est; non
posset colligi, quoniam: Nullum malum iustum est, sed conuertitur
sic: Nullum bonum malum est, Quoddam iustum bonum est; Quoddam
igitur iustum malum non est. FRISESOMORUM Nonus modus primae figurae est,
qui ex particulari affirmatiua et uniuersali negatiua particularem colligit
negatiuam per conuersionem. Si enim a terminus de quodam b termino, b uero
terminus de nullo c termino praedicetur, non potest quidem dici quoniam a
terminus de quodam c termino non praedicabitur. Cur autem non possit, hoc
quoque in resolutoriis diximus; sed quoniam uniuersalis negatio conuerti
potest, dicitur quoniam c terminns de nullo termino praedicatur, et b terminus
de quodam a praedicatur; c igitur terminus de quodam a non praedicabitur, ut
sit sic: Quoddam bonum iustum est, Nullum malum bonum est; Quoddam
igitur iustum malum non est. Expeditis igitur nouem primae figurae modis,
ad secundae figurae quatuor modos ueniamus. lllud tantum constet, quod
quemadmodum in prima figura per nouem supradictos modos et affirmatio
uniuersalis, et negatio uniuersalis, et affirmatio particularis, et negatio
particularis, in conclusione colligitur, in secunda figura affirmatiuam neque
generalem neque particularem posse colligi sed tantum uel particulariter, uel
uniuersaliter solas colligi negatiuas. CESARR Est autem secundae figurae
primus modus hic, quoties ex uniuersali negatione, et uniuersali affirmatione,
uniuersalis negatiue colligitur. Si enim a terminus de nullo b termino et de
omni c termino praedicetur, terminus de nullo c termino praedicabitur. Sit enim
a bonum, sit b malam, c iustum. Si quis igitur sic dicat: Nullum malum
bonum est, Omne iustum bonum est; concludit: Nullum iustum
malum est. Liquet igitur maiorem extremitatem de minore in conclusione
praedicari. Sed omnes secundae fgurae syllogismis quam uis ueri sint, uerum
tamen ex seipsis non probatur sed ex primae figurae modis implentur. Namque si
a terminos de nullo b termino praedicetur, et in omni c termino sit, nondum
probatum est quoniam omnino b terminus de nullo c termino praedicetur. Sed si
quis ex isto secundae figurae primo modo primae figurae secundum modum faciat,
per conuersionem totus syllogismus conclusioque probata est. Si quis enim in
hoc syllogismo qui est a terminus in nullo b, et idem a terminus de omni c
praedicetur, et a b propositionem conuertat, ut faciat esse b a, nam omnis
uniuersalis negatiua conuertitur; si quis igitur dicat quoniam a terminus de
nullo b termino praedicatur, et b igitur de nullo a termino praedicabitur sed a
terminus de omni c termino praedicabitur. Fit igitur primae figurae
secundus modus ex uniuersali negatiua et uniuersali affirmatiua uniuersalem
colligens negatiuam, ut sit conclusio. De nullo igitur c termino b
praedicabitur. His igitur conuersionibus omnis secundae et tertiae figurae
syllogismus conclusioque colligitur et probatur. Atque ideo quoniam ex seipsis
non sunt probati nisi ex superioribus comprobentur, id est, primae figurae
modis, quicumque in secunda uel tertia figura inuentus fuerit, imperfectus
uocatur syllogismus. CAMESTRES Secundus uero modus secundae figurae est
quoties ex uniuersali affirmatiua et uniuersali negatiua commutatis ordinibus
uniuersalibus rursus negatiua concluditur, Si enim a terminus in omni b termino
fuerit, et de nullo c termino praedicetur, b term in us de nullo c termino
praedicabitur. Sit enim a bonum, b iustum, c malum. Si quis igitur sic
dicat: Omne iustum bonum est, Nullum malum bonum est;
concludit: Nullum igitur malum iustum est. Sed haec complexio
coniunctioque propositionum duplicem conuersionem habet. Ostenditur enim de
secundo primae figurae modo sic. Nam si a terminus in omni b termino est, et de
nullo c termino praedicatur, hic uniuersalis negatiua conuertitur. Erit igitur
ut c terminus de nullo a termino praedicetur. Quod si ita est, erit huiusmodi
syllogismus: c terminus de nullo a termino praedicatur, a terminus in omni b
termino est, c igitur terminus de nullo b termino praedicabitur. Ecce una
conuersio facta est propositionis negatiuae. Sed quoniam diximus concludi non c
in nullo b sed b in nullo c termino, hic uniuersalis conclusio negatiua
conuertitur: et sicut conclusum est c terminum de nullo b termino praedicari,
ita concluditur de nullo c termino b terminum praedicari. FESTINO Tertius
modus secundae figurae est, quoties ex uniuersali negatiua et particulari
affirmatiua particularis negatiua colligitur. Si enim a terminus de nullo
b termino praedicetur, et in quodam c termino fuerit, b terminus de quodam c
termino non praedicabitur. Sit enim a bonum, b malum, c iustum. Si quis igitur
sic dicat: Nullum malum bonum est, Quoddam iustum bonum est;
concludat necesse est: Quoddam iustum malum est. Hic quoque
syllogismus per conuersionem hoc modo probatur. Nam si a terminus de nullo b
termino praedicatur, et b terminus de nullo a termino praedicabitur. Sed a
terminus de quodam c termino praedicatur. Redit igitur primae figurae modus
quartus, qui est ex uniuersali negatione est particulari affirmatione,
particularem scilicet colligens negatiuam, ut in hoc quoque syllogismo. Nam hic
quoque particularem nagatiuam colligit, id est b terminum de quodam c termino non
praedicari. BAROCO Quartus modus secundae figurae est, qui ex uniuersali
affimatione et particulari negatione particularem colligit negatiuam, Nam si a
terminus in omni b termino sit, et de quodam c termino non praedicetur, b
terminus de quodam c termino non praedicabitur. Sit enim a bonum, b iustum, c
malum. Si quis igitur dicat: Omne iustum bonum est, Quoddam malum
bonum non est; concludit: Quoddam igitur malum iustum non est.
Haec uero complexio atque ordo propositionum per conuersionem non potest
approbari. Generalis enim affirmatiua sibi ipsa conuerti non potest. Monstratur
igitur iste syllogismus ex prima figura non per conuersionem sed per impossibilitatem,
quoniam si particularis conclusio negatiua in hoc syllogismo non concluditur,
aliquod inconueniens impossibileque contingit. Sed haec impossibilitas per
primam figuram demonstrabitur. Dico enim quoniam si a terminus de omni b
termino praedicetur, et in aliquo c termino non sit, talem colligi
conclusionem, ut b terminus de aliquo c termino non praedicetur. Nam si hoc
falsum est, huic contraiacens propositio uera erit. Particularibus autem
negatiuis uniuersales affirmatiuae contraiacentes sunt, ut in superiore libro
docuimus. Si igitur hic particularis negatio non est conclusio, erit generalis
affirmatio. Sit enim affirmatio generalis, et b terminus de omni c termino
praedicetur; sed a terminus de omni b termino predicatur, b uero terminus de
omni c termino praedicari dicitur; a igitur terminus de omni c termino
praedicatur, quod fieri non potest. lta enim a c propositionem posuimus prius,
ut diceremus a terminum de quodam c termino non praedicari. Hoc igitur ostensum
est per primum modum primae figurae. Quare in secunda figura omnis
syllogismus imperfectus est, et eius probatio aut per conuersionem in primam
figuram reducitur, aut ex hypothetica dispositione per impossibilitatem, et
primam figuram aliter fieri non posse monstratar, et alii quidem omnes per
impossibile probantur, quod paulo post dernonstrabitur. Restat ut tertiae
figurae modos atque ordines explicemus. Sed antea quam id faciamus, illud prius
uidendum est, quod in tertiae figurae modis quam conclusio colligitur
uniuersalis. Sed si uel negatiuae uel affirmatiuae fuerint collectiones,
particulares semper erunt, nunquam etiam generales. DARAPTI Est autem
tertiae figurae primus modus hic, qui ex duabus uniuersalibus affirmationibus
particularem colligit affirmationem. Nam si a et b termini de omni c termino
praedicentur, a terminus de quodam b termino praedicabitur per conuersionem.
Nam si b terminus de omni c termino praedicatur, et uniuersalis affirmatio
particulariter sibi conuertitur, c terminus de quodam b termino praedicatur. Quod
si ita est, fit tertius primae figurae modus, qui est ex uniuersali et
particulari affirmatiua, et colligit a terminuni de quodam b termino
praedicari. Sit enim a iustum, b uirtus, c bonum. Si quis enim sic dicat: Omne
bonum iustum est, Omne bonum uirtus est; fit conclusio:
Quaedam uirtus iusta est. Mutant alii terminos, et uolunt facere secundum
modum, ut sit a uirtus, b iustum, c bonum, ut si talis syllogismus: Omne bonum
uirtus est, Omne bonum iustum est; et concludatur: Quoddam
iustum uirtus est. Sed hunc Aristoteles a superiore non diuidit, et hos
duos unum modum putat, et idcirco nos septem tertiae figurae esse diximus modos
dubitantes; sed magis Aristoteles sequendus est, atque ideo alium modum dicamus
esse qui possit integre uideri secundus. <III-2: FELAPTON> Secundus
uero modus tertiae figurae est, quoties ex uniuersali negatione et uniuersali
affirmatione negatio colligitur particularis. Si enim a terminus de nullo
c termino, b terminus uero de omni c termino praedicetur, a terminus de quodam
b termino non praedicabitur. Nam si a terminus de nullo c termino
praedicatur, b uero de omni c, et c terminus de quodam termino
praedicabitur. Particulariter enim sibi uniuersalis affirmatiua
conuertitur. Concluditur igitur in quarto primae figurae modo, a terminum
de quodam b termino non praedicari. Sit enim a malum iustum, c bonum. Si quis
sic dicat: Nullum bonum malum est, Omne bonum iustum
est; concludat necesse est: Quoddam igitur iustum malum non
est. Ex quo considerandum est maiorem extremitatem in conclusione
praedicari. DISAMISTertius modus tertiae figurae est, quoties ex particulari et
uniuersali affirmatiua particularis affirmatio concluditur. Si enim a terminus
de quodam c, et b terminus de omni c termino praedicetur, concluditur a
terminum de quodam b termino praedicari per duplicem conuersionem. Quoniam enim
b terminus de omni c termino praedicatur, et a terminus de quodam c termino
praedicatur, et particularis affirmatiua semper sibi ipsi conuertitur, c
terminus de quodam a termino praedicabitur. Sunt igitur propositiones sic: b
terminus de omni c termino, c uero terminus de quodam a termino praedicatur:
quod si ita est, colligitur in primae figurae modo tertio b terminum de quodam
a termino praedicari. Atque ita particularis affirmatiua conuertitur, et a
terminus de quodam b termino praedicabitur, eruntque duplices couuersiones, una
propositionis, alia conclusionis. Sit enim a iustum, b uirtus, c bonum. Si quis
igitur sic dicat: Quoddam bonum iustum est, Omne bonum uirtus
est; concludat necesse est: Quaedam uirtus iusta est. DATISI Quartus
modus tertiae figurae est quoties ex uniuersali affirmatione et particulari
affirmatione affirmatio particularis colligitur. Nam si a terminus de omni c
termino praedicetur, b uero terminus in quodam c termino sit, concluditur a
terminum de quodam b termino praedicari per conuersionem. Si enim b terniinus
de quodam c termino praedicetur, et c terminus de quodam b termino praedicatur,
quonium particularis affirmatiua sibi ipsi conuertitur, et fit syllogismus in
primae figurae tertio modo, qui at ex uniuersali affirmatiue et particulari
affirmatiue, particularem colligens affirmatiuam, ut sit syllogismus hoc modo:
a terminus in omni c, et c terminus in quodam b. Igitur b terminus in quodam b.
Sit n uirtus, h iustum, c bonum. Si quis igitur sic dicat: Omne bonum
uirtus est, Quoddam bonum iustum est; concludet quoniam: Quoddam
iustum uirtus est. BOCARDO Quintus modus tertiae figurae est quoties ex
particulari negatione et uniuersali affirmatione particularis colligitur
negatiua. Sed hic modus per conuersionem probari non potest sed per
impossibilitatem, sicut quartus secundae figurae probatus est modus. Si enim a
terminus de quodam c termino non praedicetur, b uero terminus de omni c termino
praedicetur, a terminus de quodam b termino non praedicabitur; nam si non ita
est, erit illud uerum, a terminum de omni b termino praedicari; sed b terminus
de omni c termino praedicatur, a igitur terminus de omni c termino
praedicabitur, quod fieri non potest. Prius enim ita positus est a terminus, ut
de quodam c termino non praedicaretur. Quod si generalis affirmatio in
conclusione syllogismi non est, ut sit a terminus in omni b termino, erit huic
contraiacans particularis negatio, ut a terminos de quodam b termino non
praedicetur. Sit enim a malum, b iustum, c bonum. Si quis igitur sic dicat: Quoddam
bonum malum non est, Omne bonum iustum est; concludat
necesse est: Quoddam igitur malum non est. FERISON Sextus modus
tertiae figurae est quoties ex uniuersali negatiua et particulari affirmatiua
particularis negatio colligitur per conuersionem. Nam si a terminus in nullo c
termino sit, b uero terminus de quodam c termino praedicetur, fit conclusio a
terminus de quodam b termino non praedicari. Nam si a terminus de nullo c
termino praedicatur, b uero termimis de quodam c termino praedicabitur, et c
terminus de quodam b termino praedicabitur, quoniam particularis affirmatiua
potest conuerti. Fit igitur talis syllogismus, ut a terminus de nullo c termino
praedicetur, c terminus de quodam b termino praedicetur, et a terminus de
quodam b termino non praedicetur. Sit a malum, b iustum, c bonum. Si quis
igitur dicat: Nullum bonum malum est, Quoddam bonum iustum est;
concludit: Quoddam iustum malum non est. His igitur
expeditis, quid ipse syllogismus sit definiendum est. Definitur autem
sic: Syllogismus est oratio in qua positis quibusdam atque
concessis, aliud quiddam quam sint ea quae posita et concessa
sunt, necessaria contingit per ipsa quae concessa sunt. Orationem
diximus esse syllogismum idcirco quoniam omnis definitio a generali trahitur,
genus autem syllogismi EST ORATIO. Quod autem dictum IN QUA POSITIS QUIBUSDAM
ET CONCESSIS, ita intelligendum est, quasi sic dictum esset, secundum quam
positis et concessis; ut enim syllogismus fiat, ante aliquid a proponente
dicitur, quod audiens concedat, quod si ille concesserit, concludit et perficit
syllogismum, idoirco, quia dubiae res per quaedam CONCESSA et probata
monstrantur, conceditur autem aequaliter et negatio uera. Caetera uero in
syllogismi definitione talia sunt quae non integre dispositos syllogismos a
syllogismorum definitione uerorum discernant. Nam quod dictum est IN QUA
POSITIS QUIBUSDAM, sumptorum scilicet et propositionum multitudo monstratur.
Sunt enim qui putantur esse huiusmodi syllogismi, in quibus tantum una
propositio est et una conclusio. Qualis est hic: Vides; Viuis
igitur. Homo es; Animal igitur es. et alia huiusmodi, quos
scilicet ueteres in syllogismis non acceperunt, syllogismos enim est aliquorum
collectio. At uero collectio non nisi plurimorum est, et quicumque unam posuit
propositionem, ille non colligit. Nullum igitur faciet syllogismum. Debet enim
syllogismus, ut angustissimus sit, duabus propositionibus comprobari. Quod
autem dictum est, aliud quiddam necessario euenire quam sint ipsa quae concessa
sunt, quoniam freqaenter tales ab aliquibus flunt syllogismi, ut ea quae
proposuerunt, ipsa etiam in conclusione concludant, ut est hic: Si homo
es, homo es; Homo autem es; Homo igitur es. Idem enim conclusit
quod ante proposuit. Atque ideo, ad istorum discretionem, aliud quiddam
contingere debere dictum est QUAM SINT EA QUAE CONCESSA SUNT, ut in
superioribus omnibus syllogismis quos in trium figurarum modis et
demonstratione posuimus. Tales uero syllogismi quales nunc dicti sunt per
ridiculi sunt, quod id quod ante concessum est quasi dubium quiddam in
conclusione colligitur. Nam quod positum est, necessario contingere, ad hoc
pertinet, quoniam frequenter ad inductionem uerae quaedam propositiones sunt
quarum conclusio nullo modo uera est, ut si quis sic dicat: Qui musicam
nouit musicus est et concedatur; et: Qui arithmeticam arithmeticus
est et: Qui medicinam medicus est et: Qui bonum bonus
est. Cum igitur haec omnia concessa sunt, dicat: Et qui malum, malus
est quod quasi superioribus simile uidetur sed omni modo falsum est: boni
enim homines non aliter cauent, nisi mala nouerint. Atque ideo propter eas
conclusiones quae sunt per eas propositiones quae per inductionem dicuntur,
additum est conclusiones in syllogismis necessarias contingere, id est ex
necessitate contingere. Est etiam alia exposilio sed in Analyticis
nostris iam dicta est. Illud uero quod dictum est, PER IPSA QUAE POSITA SUNT,
hoc propter eos dictum est qui tales faciunt syllogismis, in quibus aut minus
aliquid, aut plus, aut aliud propositum est quam proponi debuerat. Fiunt enim
huiusmodi syllogismi. Si quis enim ita dicat: Socrates homo
est, Omnis homo animal est; et concludat: Socrates igitur animatus
est minus proposuit, quod non dixit omne animal esse animatum. Nunc si
sic proposuisset, recte Socrates animatum esse concluderet, ita dicendo: Socrates
homo est, Omnis homo animal est, et: Omne animal animatum
est; Socrates igitur animatus est. Plus autem proponere hoc est, ut
si quis sic dicat: Omnis homo animal est, Omne animal animatum est,
sed et: Sol in Ariete est; Omnis igitur homo animatus est hic uero
superfluum est quod solem in Ariete esse interposuit. Aliud autem quam necesss
est quidam proponunt hoc modo, ut si quis sic dicat: Omne homo animal
est, Virtus autem bonum est; Omnis igitur homo animatum est.
Nulla igitur harum propositionum ad rem pertinet quod concludere
cupiebat. Expedita igitur syllogismi definitione, ad priorum modorum
naturam resolutionemque ueniamus, et prius omnes in ordinem disponatur. PRIMAE
FIGURAE MODI PRIMUS Omne iustum bonum est, Omnis uirtus iusta
est; Omnis igitur uirtus bona est. SECUNDUS Nullum bonum malum
est, Omne iustum bonum est; Nullum igitur iustum malum
est. TERTIUS. Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum bonum est; Quoddam
igitur iustum uirtus est. QUARTUS Nullum bonum malum est, Quoddam
iustum bonum est; Quoddam igitur iustum malum non est. QUINTUS Omne
iustum bonum est, Omnis uirtus iusta est; Quoddam igitur bonum uirtus
est. SEXTUS Nullum bonum malum est, Omne iustum bonum est; Nullum
igitur malum iustum est. SEPTIMUS Omne bonum uirtus est, Quoddam
iustum bonum est; Quaedam igitur uirtus iusta est. OCTAVUS Omne bonum
iustum est, Nullum malum honum est; Quoddam igitur iustum malum non
est. NONUS Quoddam bonum iustum est, Nullum malum bonum est; Quoddam
igitur iustum malum non est. SECUNDAE FIGURAE MODI PRIMUS
Nullum malum bonum est, Omne iustum bonum est; Nullum igitur iustum
malum est. SECUNDUS Omna iustum bonum est, Nullum malum bonum
est; Nullum igitur malum iustum est. TERTIUS Nullum malum bonum est, Quoddam
iustum bonum est; Quoddam igitur iustum malum non est.QUARTUS Omne iustum
bonum est, Quoddam malum bonum non est; Quoddam igitur malum iustum
non est. TERTIAE FIGURAE MODI PRIMUS Omne bonum iustum
est, Omne bonum uirtus est; Quaedam igitur uirtus iusta est. SECUNDUS
Omne bonum uirtus est, Omne bonum iustum est; Quoddam igitur iustum
uirtus est. TERTIUS Nullum bonum malum est, Omne bonum iustum
est; Quoddam igitur iustum malum non est QUARTUS Quoddam bonum
iustum est, Omne bonum uirtus est; Quaedam igitur uirtus iusta
est. QUINTUS Omne bonum uirtus est, Quoddam bonum iustum est; Quoddam
igitur iustum uirtus est. SEXTUS Quoddam bonum malum non est, Omne
bonum iustum est; Quoddam igitur iustum malum non est. SEPTIMUM Nullum
bonum malum est, Quoddam bonum iustum est; Quoddam igitur iustum
malum non est. Hi sunt igitur omnes trium figurarum modi quorum primae figurae
quatuor primae indemonstrabiles nominantur et directi, id est sine aliqua
conuersione monstrati; indemonstrabiles autem quoniam non per alios
demoiistrantur, et perfecti dicuntur, quoniam per seipsos comprobantur. Et
primi quoniam positione et natura primi sunt, et in eos omnes caeteri
resoluuntur. Illi quoque quinque primae figurae modi imperfecti et per
conuersionem sunt. Secundae uero figurae, uel tertiae, omnes imperfecti sunt,
quoniam per primos primae figurae modos quatuor comprobantur, [824A] namque in
ipsos resoluuntur: ut eos per conuersionem resoluamus, et per impossibilitatem,
ut duo illi superius demonstrati sunt, consideremus igitur eorum principia,
quoniam unde nascuntur in idipsum resoluuntur. Quintus igitur primae figurae
modus de prima, primo figurae modo procreatur. Binis enim propositionibus
prioribus manentibus, conclusio primi modi particulariter conuersa quintum
efficit syllogismum, quod in subiecta declaratur descriptione: Omne iustum
bonum est,- eadem - Omne iustum bonum est, Omnis uirtus iusta est;- eadem
- Omnis uirtus iusta est; Omnis uirtus bona est.- uersa - Quoddam
bonum uirtus est. Sextus uero primae figurae modus de secundo primae figurae
modo capit principium. Manentibus enim duabus prioribus propositionibus secundi
modi, uniuersali conclusione uniuersaliter conuersa, sextus nascitur
syllogismus, ut subiecta docet descriptio: Nullum bonum malum est,- eadem
- Nullum bonum malum est, Omne iustum bonum est;- eadem - Omne iustum
bonum est; Nullum iustum malum est.- uersa - Nullum malum iustum est. Septimus
modus primae figurae de tertio primae figura, nascitur modo. Manentibus
enim binis propositionibus prioribus, particulari affirmatiua in conclusione
conuersa, septimi modi collocatio procreatur: Omne bonum uirtus est,-
eadem - Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum bonum est;- eadem
- Quoddam iustum bonum est; Quoddam iustum uirtus est.- uertitur - Quaedam
uirtus iusta est. Octauus uero et nonus primae figurae modus in quartum
primae figurae modum resoluuntur, non etiam initium sumunt. Octauus resoluitur
in quartum hoc modo: prima enim quarti in secundam octaui uniuersaliter [824B]
conuersa, et prima propositione octaui modi particulariter in secundam quarti
modi conuersa, eadem conclusio colligitur, id est negatio
particularis. Nullum bonum malum est, negatio uniuersalis. Quoddam
iustum bonum est, particularis affirmatio. Uniuersaliter conuersa, Omne
bonum iustum est. Uniuersaliter conuersa, Nullum malum bonum est.
Quoddam iustum malum non est, eadem conclusio, Quoddam iustum malum non
est. Nonus uero modus in quartum modum resoluitur sic, prima quarti in
secundam noni propositionem uniuersaliter conuertatur, et secunda quarti
particulariter in primam noni, et eadem conclusio maneat negatio
particularis. Nullum bonum malum est, uniuersalis negatiua. Quoddam
iustum bonum est, particularis affirmatiua. Particulariter conuersa.
Quoddam bonum iustum est. Uniuersaliter conuersa, Nullum malum bonum
est. Quoddam iustum malum non est, eadem conclusio: Quoddam iustum
malum non est. Resolutis igitur quinque primae figurae modis in quatuor
superioribus, secundae figurae quatuor modos in prioris figurae modos quatuor
resoluamus, quorum tres per conuersionem probantur. Quartus uero per solam
impossibilitatem. At uero primus et secundae figurae secundus modus in secundum
prioris figure modum resoluuntur, et resoluitur primus sic. Conuersa enim prima
uniuersali oegatione uniuersaliter, et manente secunda uniuersali affirmatione,
eadem conclusio utrorumque nascitur: Nullum bonum malum est,- conuersa
- Nullum malum bonum est, Omne iustum bonum est;- eadem - Omne
iustum bonum est; Nullum iustum malum est- eadem - Nullum iustum malum
est. Secundae figurae secundus modus in primae figurae secundum modum
resoluitur sic: conuersa secunda propositione, et secunda prima manente,
uniuersaliter fit conuersa conclusio: Nulllum bonum malum est, Omne
iustum bonum est, Omne iustum bonum est;- conuersa - Nullum malum bonum
est; Nullum iustum malum est.- conuersa - Nullum malum iustum est. Tertius
uero secundae figurae modus, de quarto primae figurae procreatur. Ut enim
uniuersaliter negatio in primam propositionem uniuersaliter conuertatur, et
secundae propositiones maneant, idem syllogismi terminus propositioque
colligitur hoc modo: Nullum bonum malum est,- conuersa - Nullum
malum bonum est, Quoddam iustum bonum est;- similis - Quoddam
iustum bonum est; Quoddam iustum malum non est.- eadem - Quoddam iustum
malum non est. Quartus modus seoundae figurae quoniam iam primo, cum
factus est per conuersionem, in superioris primae figurae modum retorqueri non
poterat sed per impossibile demonstratum est, hic quoque per impossibile ad
superiores reducitur modos, et quoniam omnes secundae figurae modi per
impossibile monstrantur, idcirco nos quoque inchoantes a quarto omnes per
impossibile resoluamus. Nam quartus secundae figurae modus in primum primae
figurae resoluitur per impossibilitatem, tertius in secundum, secundus in
tertium, primus in quartum, quod hoc modo liquebit. Si quis ergo duas istas
concesserit propositiones, id est: Omne bonum uirtus est. et: Quoddam
iustum uirtus non est necesse est quoque conclusionem concedat quae
est: Quoddam igitur iustum bonum non est. Nam si haec falsa est,
erit ei contraiacens uera quae est, omne iustum bonum est sed illam concessit
quae est prima quarti modi, id est: Omne bonum uirtus est. Ex his igitur
concludat: Omne igitur iustum uirtus est. Sed prius concessit quarti
modi secundum propositionem, quae est: Quoddam iustum uirtus non
est. Nunc uero concedit: Omne iustum uirtus est duas sibi
contraiacentes simul conclusurus est, quod fieri non potest. Hoc autem idcirco
euenit, quia conclusio quarti modi in primi modi secundam propositionem
conuersa est: quod si secunda propositio primi modi in quarti conclusione non
colligitur, quarti oonclusio, id est particularis negatio, permanebit. Sed ne
forte nos conturbet quod alios terminos in resoluendo modo posuimus, quam
superius in disponendo; non enim modo in terminis laboramus sed in figuris et
modis et complexionibus construendis atque resoluendis operam consumimus. Eodem
modo et caeteri secundae figurae in primos quatuor resoluuntur: Omne
bonum uirtus est- eadem - Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum
uirtus non est; Omne iustum bonum est; Quoddam igitur iustum bonum non est. Omne
igitur iustum uirtus est. Tertus secundae figurae modus secundo primae figurae
modo sic resoluitur: si quis duas primas tertii modi concesserit, particuiarem
quoque negatione concludet, quae est: Quoddam igitur iustum bonum non
est. Nam si haec falsa est uera erit contraiacens, quae est: Omne
iustum bonum est. Sed etiam illa concessa est, quae est: Nullum
bonum malum est. Ex his ergo colligitur: Nullum igitur iustum malum
est. Sed prius concessa erat: Quoddam iustum malum est nunc uero: Nullum
iustum malum est duas sibi contraiacentes, uno tempore concedit, quod
fieri non potest. Sublata igitur uniuersali conclusione, quae est: Omne
iustum bonum est remanebit particularis negatio, quae est: Quoddam
iustum bonum non est. Nullum bonum malum est,- conc. - Nullum
bonum malum est. Quoddam iustum malum est; - contr. - Omne
iustum bonum est. Quoddam igitur iustum bonum non est. - perm. contr. - Nullum
ergo iustum malum est. Secundus secundae figurae in tertio primae figura,
modo sic resoluitur: si quis duas secundae figura, propositiones concesserit,
conclusionem quoque concedit, quae est: Igitur iustum bonum est. Nam
si haec falsa est, erit uera contraiacens ei particularis
affirmatio: Quoddam iustum bonum est. Sed idem concessit illam quae
est: Omne bonum uirtus est concludat necesse est: Quoddam
iustum uirtus est qui iam ante concesserat secundam secundi modi quae
est: Nullum iustum uirtus est duas contraiacentes uno tempore
concedit, quod fieri non potest. Omne bonum uirtus est,- concessae
- Omne bonum uirtus est, Nullum iustum uirtus est; -
contraiac.- Quoddam iustum bonum est; Nullum iustum bonum
est. - permut. - Quoddam iustum uirtus est. Primae item secundae
figurae in quartum primae figurae sic resoluitur: qui concedit duas primi modi
propositiones, concedat necesse est et conclusionem. Nam si illa falsa est,
erit uera contraiacens ei particularis affirmatiua quae est: Quiddam
iustum bonum est. Sed idem concessit illam quae est: Nullum bonum malum
est concludat necesse est: Quoddam igitur iustum malum non est
qui ante concesserat illam quae est: Omne iustum malum est. Uno
tempore duas contraiacentes concedit, quod fieri non potest. Sublata igitur
particulari affirmatione quae est: Quoddam iustum bonum est remanet
illa quae est: Nullam iustum bonum est. Nullum bonum malum
est, - similes - Nullum bonum malum est. Omne iustum malum
est; - contraiac. - Quoddam iustum bonum est. Nullum iustum bonum
est. - perm. iacen. - Quoddam igitur iustum malum non est. Sequitur
ut tertiae figurae modos ad primos quatuor reducamus, quorum quinque per
conuersionem et per impossibilitatem ad primos quatuor resoluuntur unus uero
solus, id est quintus, per solam impossibilitate in priora resoluitur. Primus
tertiae modus figurae in tertium primae figurae hoc modo resoluitur: Si enim
prima propositio tertii modi primae figurae maneat, et secunda propositio
particularis tertii modi prime figurae uniuersaliter conuertatur, et sit
secunda propositio primi modi tertiae figurae, eadem conclusio, colligitur, id
est affirmatio particularis. Omne bonum iustum est,- manet -
Omne bonum iustum est, Quaedam uirtus bona est;- conu. - Omne bonum
uirtus est; Quaedam uirtus iusta est.- manet - Quaedam uirtus iusta est. Vel
certe sic, quia superius talem syllogismum diximus terminis commutatis, quem
Aristoteles dissimilem non putat. Omne bonum uirtus est,- similes -
Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum bonum est;- conu. - Omne honum
iustum est; Quoddam iustum uirtus est.- manet - Quoddam iustum uirtus
est. Secundus modus tertiae figurae in quartum modum primae figura, hoc
modo resoluitur. Si enim primae propositiones secundi tertiae figurae modi, et
quarti modi primae figurae maneant, quarti uero modi primae figurae secunda
propositio uniuersaliter conuertatur, et secunda sit proposilio secundi modi
tertiae figurae, eadem conclusio procreatur. Nullum bonum malum est,-
manet - Nullum bonum malum est, Quoddam iustum bonum est;- uersa
- Omne bonum iustum est; Quoddam iustum malum non est.- manet - Quidam
iustum malum non est. Tertius modus tertiae figurae in tertium modum
primae figurae resoluitur. Si enim propositio prima tertii primae figurae modi,
et secunda propositio tertii modi tertiae figurae maneat, et secunda propositio
tertli modi primae figurae particularis particulariter conuertatur, ut sit
prima tertii modi tertiae figurae, conuersa particulariter conclusio
nascitur. Omne bonum uirtus est, Quoddam bonum iustum est, Quoddam iustum
bonum est; Omne bonum uirtus est; Quoddam iustum uirtus est.- uersa -
Quaedam uirtus iusta est. Quartus modus tertiae figurae in tertium
modum primae figure resoluitur: si enim utrorumque prima, maneant
propositiones, et secundae particulares particulariter conuertantur, eaedem
conclusiones nascuntur. Omne bonum uirtus est,- manet - Omne bonum
uirtus est, Quoddam iustum bonum est;- uertitur - Quoddam bonum iustum est;
Quoddam iustum uirtus est - manet - Quoddam iustum uirtus est.
Reliquus sextus syllogismus tertiae figurae de primae figurae quarto modo
procreatur; manentibus enim primis eorum propositionibus atque secundis
particulariter immutatis particulis in utroque manebit concluso. Nullum
bonum malum est,- eadem - Nullum bonum malum est, Quoddam iustum bonum
est;- mutata - Quoddam bonum iustum est; Quoddam iustum malum non est. -
manet - Quoddam bonum iustum est. Quintus autem qui restat, sicut
ante per impossibile probatur, ita etiam nunc per impossibilitatem resoluitur.
Sed quemadmodum unus fuerit resolutus, eodem ordine omnes resoluendi sunt. Resoluitur
autem sextus tertiae figurae modus in tertium prima, flgurae modum. Quintus
autem tertiae figurae modus resoluitur in primum primae figurae. Quartus
tertiae figurae modus resoluitur in quartum primae figurae modum. Tertius
tertiae figurae modus resoluitur in secundum primae figurae modum. Secundus
tertiae figurae modus resoluitur in primum primae figurae modum. Primae tertiae
figurae modi resoluuntur in secundos primae figurae modos. Resoluitur autem per
impossibilitatem sextus tertiae figurae modus in primae figurae modum tertium
hoc modo: si quis igitur duas proportiones sexti modi tertiae figurae
concesserit, concedat etiam necesse est conclusionem quae est: Quoddam
iustum malum non est. Nam si haec falsa est, erit uera contraiacens ei
primae figurae tertii modi prima propositio quae est: Omne iustum malum
est. Sed etiam concessit propositionem secundam, quae est: Quoddam
bonum iustum est. Ex his igitur concedat necesse est, quoddam bonum malum
est qui ante concesserat primam propositionem sexti modi tertiae figurae quae
est: Nullum bonum malum est. Uno tempore duas
sibi contraiacentes concedit, quod fieri non posse descriptio declarat.
Nullum bonum malum est,- contraiac. - Omne iustum malum est Quoddam bonum
iustum est;- concessae - Quoddam bonum iustum est Quoddam iustum malum
est.- permut. iac. - Quoddam bonum malum est. Hoc modo omnes caeteri modi
tertiae figurae in primos modos primae figurae referuntur, quod subiecta
descriptio declarat, in qua prior quintus, qui per conuersionem resolui non
potuit, per impossibilitatem resolutus est. Quoddam bonum malum non est,-
contraiac. - Omne iustum malum est Omne bonum iustum est- concessae -
Omne bonum iustum est. Quoddam iustum malum non est- permut. - Omne bonum
malum est. Omne bonum uirtus est- contraiac. - Nullum iustum uirtus est.
Quoddam bonum iustum est- concessae - Quoddam bonum iustum est. Quoddam
iustum uirtus est- permut. - Nullum bonum uirtus est. Quoddam bonum
iustum est- contraiac. - Nulla uirtus iusta est. Omne bonum uirtus est-
concessae - Omne bonum uirtus est. Quaedam uirtus iust. est- permut.
- Nullum bonum iustum est. In resolutione modi secundi tertiae
figurae in primum modum primae figurae, haec impossibilitas euenit, quod duas
contrarias uno tempore concedit, quod fieri nequit. Numquam enim duae
contrariae uno tempore simul uerae inueniuntur. Nullum bonum malum est,-
contraiac. - Omne iustum malum est., Omne bonum iustum est;- concessae - Omne
bonum iustum est; Quoddam iustum malum non est.- permut. - Nullum bonum
iustum est. Et in sequenti quoque syllogismo duas concedit, quod
impossibile est. Omne bonum iustum est,- contraiac. - Nulla uirtus iustus
est, Omne bonum uirtus est;- concessae - Omne bonum uirtus est; Quaedam
uirtus iusta est.- permut. - Nullum bonum iustum est. Nec nos illud
turbet, quod in quibusdam contraria propositio et conclusio inuenitur, in
quibusdam uero contraiacens. Namque aequaliter peccauit tam qui utrasque
contrarias concesserit, quam si utrasque contraiacentes. Nam quo modo contraiacentes
uno tempore uerae esse non possunt unquam, sic etiam contrariae. Omne
bonum uirtus est,- contraiac. - Nullum iustum uirtus est, Omne bonum iustum
est;- concessae - Omne bonum iustum est; Quoddam iustum uirtus est.-
permut. - Nullum bonum uirtus est. Haec de categoricorum
syllogismorum introductione Aristotelem plurimum sequens, et aliqua de
Theophrasto et Porphyrio mutuatus quantum parcitas introducendi permisit, expressi.
Si qua uero desint in Analyticis nostris calcatius exprimemus. Nunc uero quantum
ad solam categoricorum syllogismorum formam spectabat, perfectum hic nobis est,
et ad cumulum introductionis elaboratum. Nec hoc nos perturbet, si que hic
propositiones et conclusiones falsae sunt, quandoquidem non ueritates rerum sed
connexiones syllogismorum figuras et modos suscepimus disserendos. Nam his
cognitis, si quos ad perfectum studium logicae disciplinee disputationis
subtibilitas traxerit, prius de ambiguis disputationibus discant, post ab his
ueritas in rebus mendaciumque meditabitur. Cum in omnibus philosophiae
disciplinis ediscendis atque tractandis summum in uita positum solamen
existimem, tum iocundius, et ueluti cum quodam fructu etiam laboris arripio
quae tecum communicanda compono. Nam et si ipsa speculatio ueritatis sua quodam
specie sectanda est, fit tamen amabilior cum in commune deducitur. Nullum enim
bonum est quod non pulchrius elucescat, si plurimorum notitia comprobetur;
namque alias taciturnitate compressum et iam iamque silentio periturum, latius
efflorescit et ab obliuionis interitu scientium participatione defenditur. Fit
quoque iocundior disciplina, cum inter eiusdem sapientiae conscios iubet esse
sapientem: quod si accedat, ut tecum mihi nunc res est, ea quae sponte iocunda
sunt in amicitiae participationem deduci, necesse est studii suauitatem quodam
ueluti dulcissimo caritatis sapore condiri. Nam cum id in se obtineat amicitia
proprium munus, ut nolit habere solitarias cogitationes, tunc quod honeste
quisque cogitat, nulli promptius, nisi quem diligit, confitetur. Quo factum est
ut, etiam /206/ si immensus labor coepto operi uiam negabat, animus tamen ad
efficiendum quod aggressus fuerat tui contemplatione sufficeret. Quid enim
magnum studiosus tui amor efficeret, si intra facilitatis terminos
constitisset? Quod igitur apud scriptores quidem Graecos per quam rarissimos
strictim atque confuse, apud Latinos uero nullos repperi, id tuae scientiae
dedicatum noster etsi diuturnus, coepti tamen efficax labor excoluit. Nam cum
categoricorum syllogismorum plenissime notitiam percepisses, de hypotheticis
syllogismis saepe quaerebas, in quibus nihil est ab Aristotele conscriptum.
Theophrastus uero, uir omnis doctrinae capax, rerum tantum summas exsequitur;
Eudemus latiorem docendi graditur uiam sed ita ut ueluti quaedam seminaria
sparsisse, nullum tamen frugis uideatur extulisse prouentum. Nos igitur,
quantum ingenii uiribus et amicitiae tuae studio sufficimus, quae ab illis uel
dicta breuiter uel funditus omissa sunt, elucidanda diligenter et subtiliter
persequenda suscepimus; in qua re superatae difficultatis praemium fero, si
tibi munus implesse uidear amicitiae, etsi non uidear satisfecisse doctrinae.
Vale. Omnis syllogismus certis et conuenienter positis propositionibus
continetur. Propositio uero omnis aut categorica est, quae praedicatiua
dicitur, aut hypothetica, quae conditionalis uocatur. Praedicatiua est in
qua aliquid de alio praedicatur hoc modo: Homo animal est hic enim animal
de homine praedicatum est; hypothetica est quae cum quodam conditione denuntiat
esse aliquid si fuerit aliud, ueluti cum ita dicimus: Si dies est, lux
est Hypotheticae autem propositiones ex categoricis constant, ut paulo
posterius apparebit, quo fit ut syllogismus quidem, qui ex categoricis
propositionibus iunctus est, categoricus appelletur, id est praedicatiuus, qui
uero ex hypotheticis propositionibus constat, dicatur hypotheticus, id est
conditionalis. Ut igitur horum syllogismorum differentia peruideatur,
spectanda prius est eorum in propositionum natura discretio. Videtur enim
in aliquibus propositionibus nihil differre praedicatiua propositio a
conditionali, nisi tantum quidem orationis modo; uelut si quis ita
proponat: Homo animal est id si ita rursus enuntiet: Si homo
est, animal est hae propositiones orationis quidem modo diuersae sunt,
rem uero non uidentur significasse diuersam. Primum igitur dicendum est quod
praedicatiua propositio uim suam non in conditione sed in sola praedicatione
constituit, in conditionali uero consequentiae ratio ex conditione suscipitur.
Rursus praedicatiua simplex est propositio, conditionalis uero esse non
poterit, nisi ex praedicatiuis propositionibus coniungatur, ut cum
dicimus: Si dies est, lux est; Dies est; atque: Lux est
duae sunt praedicatiuae, id est simplices propositiones. Ad hoc illud est,
quo maxime declaratur utrarumque proprietas, quod praedicatiua quidem
propositio habet unum terminum subiectum, alterum praedicatum; et id quod in
praedicatiua propositione subicitur, illius suscipere nomen uidetur quod in
eadem propositione praedicatur hoc modo, ut cum dicimus: Homo animal
est homo subiectum est, animal praedicatum, et homo animalis suscipit
nomen, cum ipse homo animal esse proponitur. At in his propositionibus quae
conditionales dicuntur non est idem praedicationis modus; neque enim omnino
alterum de altero praedicatur sed id tantum dicitur esse alterum, si alterum
fuerit, ueluti cum dicimus: Si peperit, cum uiro concubuit Non enim tunc
dicitur ipsum peperisse id esse quod est cum uiro concumbere sed id tantum
proponitur quod partus numquam esse potuisset nisi fuisset cum uiro concubitus.
Quod si quando in una eademque propositionum proprietas incurrerit, tunc
secundum modum enuntiatae propositionis intelligendi ratio uariabitur hoc modo.
Nam cum dicimus: Homo animal est propositionem facimus praedicatiuam;
at si ita proponamus: Si homo est, animal est in conditionalem uertitur
enuntiationem. In praedicatiua igitur id spectabimus quod ipse homo animal
sit, id est nomen in se suscipiat animalis, in conditionali uero illud
intellegimus, quod si fuerit aliqua res quae homo esse dicatur, necesse sit
aliquam rem esse quae animal nuncupetur. Itaque praedicatiua propositio rem
quam subicit praedicatae rei suscipere nomen declarat; conditionalis uero
propositionis haec sententia est, ut ita demum sit aliquid, si fuerit alterum,
etiamsi neutrum alterius nomen excipiat. Ita igitur propositionibus disgregatis
ex enuntiationum proprietate syllogismi quoque uocabulum perceperunt, ut alii
dicantur praedicatiui alii conditionales. Nam in quibus propositiones
praedicatiuae sunt, eos praedicatiuos syllogismos uocamus, in quibus uero
hypothetica propositio prima est (potest namque et assumptio et conclusio esse
praedicatiua), hi tantum per unius hypotheticae propositionis naturam
hypothetici et conditionales dicuntur. At de simplicibus quidem, id est
praedicatiuis syllogismis, duobus libellis explicuimus, quos de eorum
institutione confecimus. Post simplicium uero syllogismorum disputationem, ordo
est ut de non simplicibus disseramus. Non simplices autem syllogismi sunt qui
hypothetici dicuntur, quos latino nomine conditionales uocamus. Non
simplices uero dicuntur quoniam ex simplicibus constant, atque in eosdem
ultimos resoluuntur, cum praesertim primae eorum propositiones uim propriae
consequentiae ex categoricis, id est simplicibus, capiant syllogismis. Namque
prima propositio hypothetici syllogismi, si dubitetur an uera sit, praedicatiua
conclusione demonstrabitur. Assumptio uero in pluribus modis talium
syllogismorum praedicatiua esse perspicitur, itemque conclusio, uelut cum
dicimus: Si dies est, lucet; Atqui dies est; Haec assumptio
praedicatiua est, et, si quaeratur, praedicatiuo probabitur
syllogismo: Lucet. igitur consecuta rursus est praedicatiua
conclusio. Super haec omnis conditionalis propositio ex praedicatiuis (ut
dictum est) iungitur; quod si ex his et fidem capiunt, et ordinem partium
sortiuntur, necesse est categoricos syllogismos hypotheticis uim conclusionis
ministrare. Sed quoniam de hypotheticis loquimur, quid significet hypothesis
praedicendum est. Hypothesis namque, unde hypothetici syllogismi accepere
uocabulum, duobus (ut Eudemo placet) dicitur modis: aut enim tale adquiescitur
aliquid per quamdam inter se consentientium conditionem, quod fieri nullo modo
possit, ut ad suum terminum ratio perducatur; aut in conditione posita
consequentia ui coniunctionis uel disiunctionis ostenditur. Ac prioris
quidem propositionis exemplum est, ueluti cum res omnes corporales materiae
formaeque concursu subsistere demonstramus. Tunc enim quod per rerum naturam
fieri non potest, ponimus, id est omnem formae naturam a subiecta materia, si
non re, saltem cogitatione separamus; et quoniam nihil ex rebus corporeis
reliquum fit, demonstratum atque ostensum putamus eisdem conuenientibus
corporalium rerum substantiam confici, quibus a se disiunctis ac discedentibus
interimatur. In hoc igitur exemplo posita consentiendi conditione, ut id
paulisper fieri intelligatur quod fieri non potest, id est ut formae a materia
separentur, quid consequatur intendimus, perire scilicet corpora, ut eadem ex
iisdem consistere comprobemus. Nam quoniam interitus corporalium rerum
consequitur, iure dicimus res omnes corporeas forma materiaque constare. Sed
hae quidem huiusmodi propositiones quae ex consentientium conditione
proueniunt, nihil his differunt quas simplices categoricae institutionis primi
libri tractatus ostendit; quae uero a simplicibus differunt illae sunt, quando
aliquid dicitur esse uel non esse, si quid uel fuerit uel non fuerit. Hae
semper cum coniunctionibus proponuntur, ut cum dicimus: Si homo est,
animal est. Si ternarius est, impar est uel caetera huiusmodi. Haec enim
ita proponuntur, ut si quodlibet illud fuerit, aliud consequatur. Vel cum
dicimus: Si homo est, equus non est rursus haec eodem modo
proponitur in negatione, quo superior in affirmatione proponebatur; hic enim
dicitur: Si hoc est, illud non est et ad hunc modum caeterae.
Possunt autem aliquando etiam hoc enuntiari modo: Cum hoc sit, illud
est ueluti cum dicimus: Cum homo est, animal est uel: Cum
homo est, equus non est quae enuntiatio propositionis eiusdem potestatis
est cuius ea quae hoc /216/ modo proponitur: Si homo est, animal est. Si homo
est, equus non est. Fiunt uero propositiones hypotheticae etiam per
disiunctionem ita: Aut hoc aut illud est. Nec eadem uideri debet haec
propositio quae superior, quae sic enuntiatur: Si hoc est, illud non
est haec enim non est per disiunctionem sed per negationem. Negatio uero
omnis infinita est, atque ideo et in contrariis, et in contrariorum medietatibus,
et in disparatis fieri potest (disparata autem uoco, quae tantum a se diuersa
sunt, nulla contrarietate pugnantia, ueluti terra, ignis, uestis, et
caetera). Nam: Si album est, nigrum non est Si album est, rubrum
non est Si disciplina est, homo non est at in ea quae disiunctione
fit, alteram semper poni necesse est hoc modo: Aut dies est aut nox est
quod si cuncta ea quae per negationem dici conuenit ad disiunctionem
transferamus, ratio non procedit. Quid enim si quis dicat: Aut album est
aut nigrum Aut album est aut rubrum Aut disciplina est aut homo...
? fieri enim potest ut nihil horum sit. Igitur quoniam per disiunctionem
propositio in certis tantum rebus in quibus alterum eorum euenire necesse est
ponitur, haec autem per negationem separatio in omnibus etiam his quae suam
inuicem naturam non perimunt poni potest, aperta ratione discreta est. Omnis
igitur hypothetica propositio uel per connexionem fit (per connexionem uero
illum quoque modum qui per negationem fit esse pronuntio), uel per disiunctionem;
uterque enim modus ex simplicibus propositionibus comparatur. Simplices /218/
autem propositiones sunt quas praedicatiuas primo Institutionis Categoricae
libro diximus. Haec uero sunt cum aliquid de aliquo praedicatur, uel
affirmando, uel negando, ut: Dies est, lux est. At si his media
conditio interueniat, fiet: Si dies est, lux est fitque una
hypothetica propositio ex duabus categoricis iuncta. Sed quoniam omnis
simplex propositio uel affirmatiua est uel negatiua, quatuor modis per
connexionem fieri hypotheticae propositiones possunt, aut enim ex duabus
affirmatiuis, aut ex duabus negatiuis, aut ex affirmatiua et negatiua, aut ex
negatiua et affirmatiua. Harum omnium exempla subdenda sunt, quo id quod
dicimus clarius innotescat. Ex duabus affirmatiuis: Si dies est, lux
est ex duabus negatiuis: Si non est animal, non est homo ex
affirmatiua et negatiua: Si dies est, nox non est ex negatiua et
affirmatiua: Si dies non est, nox est. Sed quoniam dictum est idem
significare "si" coniunctionem et "cum" quando in
hypotheticis propositionibus ponitur, duobus modis conditionales fieri possunt:
uno secundum accidens, altero ut habeant aliquam naturae consequentiam.
Secundum accidens hoc modo, ut cum dicimus: Cum ignis calidus sit, caelum
rotundum est. Non enim quia ignis calidus est, caelum rotundum est sed id
haec propositio designat, quia quo tempore ignis calidus est, eodem tempore
caelum quoque rotundum est. Sunt autem aliae quae habent ad se consequentiam
naturae; harum quoque duplex modus est, unus cum necesse est consequi, ea tamen
ipsa consequentia non per terminorum positionem fit; alius uero cum fit
consequentia per terminorum positionem. Ac prioris quidem modi exemplum
est, ut ita dicamus: Cum homo sit, animal est non enim idcirco
animal est quia homo est, sed fortasse a genere principium ducitur, magisque
essentiae causa ex uniuersalibus trahi potest, ut idcirco sit homo quia animal
est. Causa enim speciei genus est. At qui dicit: Cum homo sit, animal
est rectam ac necessariam consequentiam facit, per terminorum uero
positionem talis consequentia non procedit. Sunt autem aliae hypotheticae
propositiones in quibus et consequentia necessaria reperitur, et ipsius
consequentiae causam terminorum positio facit, hoc modo: Si terrae fuerit
obiectus, defectio lunae consequitur. Hic enim consequentia rata est, et
idcirco defectio lunae consequitur, quia terrae interuenit obiectus. Istae
igitur sunt propositiones certae atque utiles ad demonstrationem. Partimur
autem propositiones hypotheticas in suas ac simplices propositiones, et primam
quidem, cui coniunctio praeponitur, praecedentem dicimus, secundam uero
consequentem, ut in hac: Si dies est, lux est praecedentem dicimus
eam quae dicit: "si dies est"; consequentem uero partem: "lux
est". In disiunctiuis uero propositionibus ordo enuntiandi praecedentem
uel consequentem facit, ut: Aut dies est aut nox est nam quae prima
proponitur praecedens, quae posterior consequens appellatur. Ac de partibus
quidem hypotheticarum propositionum ista suffficiunt. Illud nunc expediendum
uidetur, quod etiam ab Aristotele dicitur. Idem cum sit et non sit, non
necesse est idem esse, ueluti cum sit a, si idcirco necesse est esse b, idem a
si non sit, non necesse est esse b, idcirca quoniam non est a. Ad huiusmodi
uero rei demonstrationem impossibilitatis definitio praemittenda est, quae est
huiusmodi. Impossibile est quo posito aliquid falsum atque impossibile
comitatur, eo nomine quod impossibile primitus propositum fuit. Sit igitur
positum, cum sit a, esse b, id est hanc inter a atque b esse consequentiam, ut
si concessum fuerit esse a, necesse sit concedere esse b. Itaque
proponatur: Si a est, b est dico quia si a non fuerit, non necesse
est esse b. Ac primum quae sit propositionum consequentia consideremus.
Si enim fuerit tale coniunctum, ut si sit a, etiam b esse necesse sit, si b non
fuerit, a non esse necesse est; quod tali demonstratione cognoscitur. Si sit a,
necesse sit esse b; dico quia si b non sit, a non erit. Ponatur enim non esse
b, et sit si fieri potest a. Sed dictum est, si sit a, necessario concedi esse
b. Cum igitur sit b, non erit b: nam quia ponimus non esse b, non erit b, quia
uero ponimus esse a, erit b; erit igitur b ac non erit, quod fieri non potest.
Impossibile est igitur non esse b et esse; et demonstratione quidem firma sic
utimur. Exemplo uero id clarius innotescet. Nam si homo est, animal est;
si non est animal, non est homo; non uero si homo non fuerit, animal non est,
multa enim sunt animalia quae homines non sunt. Itaque in consequentia propositionis
coniunctae, si est primum, secundum esse necesse est, si secundum non fuerit,
non erit primum; at uero si primum non fuerit, non necesse est ut non sit
secundum, nec uero necesse est ut sit. Id enim demonstrandum esse dudum nobis
propositum fuit. Sit enim a, idque cum sit, necesse sit esse b: dico quia si
non fuerit a, non necesse est esse b; nec id dico quoniam si non fuerit a,
necesse est non esse b sed tantum non necesse est esse b. Nam quia paulo
ante demonstratum est, si b non fuerit, necessario non esse a, si eundem b
terminum non esse contingerit, non erit a. Sed si cum non sit a, necesse est
esse b, idem b ex necessitate erit, ac non erit: nam quia b terminum non esse
contingit, non erit; quia uero, si a non fuerit, b esse necesse est, erit. Idem
igitur b terminus erit ac non erit, quod est impossibile. Ex his igitur
demonstratum esse arbitror, in coniuncta hypothetica propositione, si sit
primum consequi ut sit secundum; si non sit secundum, consequi ut non sit
primum; si uero non sit primum, non consequi ut sit uel non sit secundum. Nam
et illud apparet, si sit secundum non consequi ut sit uel non sit primum, ut in
ea propositione quae est: Si homo est, animal est si animal sit non
consequitur ut sit homo uel non sit; quod si primum non sit, non consequitur ut
necessario sit uel non sit secundum, uelut in eadem propositione, si homo non
fuerit, non necesse est ut aut sit animal, aut non sit. Ex omnibus igitur solae
duae consequentiae stabiles sunt et immutabiliter constant: si sit primum, ut
consequatur ut sit secundum; si secundum non fuerit, necessario consequi ut non
sit primum. His ita determinatis, illud adiungam, quoniam, cum omnis
hypothetica propositio simplex non sit, atque ex aliis propositionibus
coniungatur, sunt tamen quaedam hypotheticae quae, si reliquis conditionalibus
comparentur, simplices existimentur. Omnis enim conditionalis propositio aut
connexa est aut disiuncta; haec uero quoniam ex praedicatiuis copulantur, in
connexis propositionibus quatuor fieri necesse est huius copulationis modos. Namque
hypothetica propositio aut ex duabus simplicibus coniuncta est, et uocatur
simplex hypothetica, ut haec: Si a est, b est ueluti cum
dicimus: Si est homo, animal est; Homo est enim; et Animal
est. duae sunt simplices propositiones; aut ex duabus hypotheticis
copulatur, et dicitur composita, ueluti cum dicimus: Si cum a est, b
est; Cum sit c, est d ueluti cum tali propositione enuntiamus:
Si cum homo est, animal est, cum sit corpus erit substantia.
Etenim: Si cum homo est, animal est una est hypothetica; alia
uero: Cum sit corpus substantia est ex quibus coniungitur una
propositio quae composita nuncupatur. Aut ex una simplici et ex una hypothetica
copulatur, uelut haec: Si a est, cum sit b, est c ueluti cum
dicimus: Si homo est, cum sit animal, est substantia
namque: Homo est simplex est propositio; Cum sit animal esse
substantiam hypothetica ex ipsa consequentia conditionis ostenditur; aut
ex priore hypothetica et simplici posteriore committitur, ut cum
dicimus: Si cum sit a, est b, erit et c ueluti hoc modo: Si cum
sit homo, animal est, est et corpus. Hypothetica namque est prior ea quae
proponit: Si cum sit homo, animal est simplex posterior quae hanc
hypotheticam propositionem sequitur, id est, corpus esse. Haec quoque quoniam
non ex simplicibus copulatae sunt, compositae dicuntur. Sed priores quidem
quae ex simplicibus propositionibus constant, et simplices hypotheticae
nuncupantur, in duobus terminis constitutae sunt. Terminos autem nunc partes
propositionis simplices, quibus iunguntur, appello. Quae uero compositae
hypotheticae sunt, illae quidem quae ex duabus hypotheticis constant, quatuor
terminis copulatae sunt; illae uero quae ex hypothetica et simplici, uel
simplici atque hypothetica coniunctae sunt, ex tribus terminis coniunctae sunt.
Harum igitur quae sunt hypotheticae simplices uel compositae differentiae
similitudinesque dicendae sunt. Nam quae ex simplicibus copulantur, si ad
eas quae ex hypotheticis duabus iunctae sunt comparentur, consequentia quidem
eadem est et proportio manet, tantum termini duplicantur. Nam quem locum in his
propositionibus hypotheticis quae ex simplicibus constant ipsae simplices
propositiones tenent, eundem in his propositionibus quae sunt hypotheticae ex
hypotheticis constantes, illae conditiones tenent quibus illae propositiones
inter se iunctae et copulatae esse dicuntur. Nam in hac propositione quae
dicit: Si est a, est b et in ea quae dicit: Si cum sit a, est
b, cum sit c, est d quem locum in ea propositione quae ex duabus simplicibus
continetur tenet ea quae prior est: Si est a eundem locum tenet, in
ea propositione quae ex duabus hypotheticis propositionibus copulatur, ea quae
prior est: Si cum est /230/ a, est b. Hic namque duarum inter se
propositionum coniunctionis conditione facta est consequentia. Itemque quam uim
obtinet ex utrisque propositionibus copulatae hypotheticae portio quae
infertur, id est esse b eandem uim obtinet in propositione ex
hypotheticis iuncta ea quae sequitur, id est Cum sit c, esse d
atque id tantum differt, quia cum in prima propositione ex simplicibus iuncta
propositio propositionem sequatur, in secunda propositione ex hypotheticis
iuncta conditio consequentiae conditionis consequentiam comitatur. Nihil
est enim aliud dicere: Si est a, est b quam ei propositioni per quam
dicimus esse a, illam esse comitem per quam b esse praedicamus; at in ea
propositione quae ex hypotheticis iuncta est cum dicimus: Si cum sit a,
est b, cum sit c esse d illud dicitur, ei consequentiae quae inter a et b
est, eam esse consequentiam comitem quae est inter c et d, ita ut si
consequitur posito a esse b, consequatur sine dubio c posito esse d. At in his
propositionibus quae ex simplici et hypothetica consistunt, illa ratio est ut
uel propositionem conditio consequentiae consequatur, uel conditionem
consequentiae propositio comitetur. Nam cum dicimus: Si a est, cum
sit b, esse c id intellegi uolumus, ei propositioni per quam
dicimus: Est a consequi eam conditionem per quam dicimus: Cum
sit b, esse c id est ut, si est a, necesse sit b termino comitem esse c
terminum; cum uero dicimus: Si cum a est, b est, esse c nihil aliud
intellegi uolumus, nisi duarum inter se consequentium propositionum alterius
propositionis consequi ueritatem, ut si habeant inter se consequentiam a atque
b, necesse sit hanc conditionem consequentiae propositionis eius per quam
dicimus esse c consequi ueritatem, id est, si necesse est a posito esse b, necesse
est etiam c esse. Similes igitur syllogismi fient earum propositionum
quae ex simplicibus et earum quae ex non simplicibus utrisque iunguntur: earum
uero quae ex una simplici et ex altera hypothtica copulantur, diuersi quidem a
superioribus, ipsi tamen inter se similes fiunt. Nec interest utrum prima
hypothetica, secunda sit simplex, an e conuerso, ad syllogismorum modos, nisi
forsitan ad ipsius tantum ordinis permutationem. Cum igitur demonstrata fuerit
earum propositionum quae ex simplicibus constant, syllogismorum ratio
demonstrata quoque uidetur earum propositionum esse, quae ex hypotheticis
committuntur; et cum quarumlibet earum propositionum quae ex simplici et
hypothetica constant syllogismorum natura perspecta sit, etiam conuersi ordinis
propositionum natura quales faciat syllogismos ostenditur. Est etiam
species alia propositionum in connexio. ne positarum, quae media quodammodo sit
earum propositionum quae ex hypotheticis simplicibusque iunguntur, et earum
quae duabus hypotheticis copulantur. Nam si ad numerum respicias propositionum
quasi ex tribus terminis constant; quod si ad conditionales animum referas,
quasi ex duabus conditionalibus uidentur esse compositae: quae medietas idcirco
euenit quoniam unus in his terminus communis utrisque conditionalibus
inuenitur. Proponuntur uero hae uel per primam figuram, uel per secundam, uel
per tertiam. Per primam hoc modo: Si est a, est b; et si est b, est
c igitur b in utrisque numeratur, et sunt tres quidem termini hi: Est
a. Est b. Est c. Duae uero conditionales hoc modo: Si est a, est b Si
est b, est c namque b utrisque communis est: atque ideo inter eas
propositiones quae ex tribus terminis, et eas quae ex quatuor componuntur,
mediae sunt huiusmodi propositiones. Per secundam uero figuram proponitur hoc
modo: Si est a, est b; si non est a, est c. Per tertiam uero figuram
sic: Si est b, est a; si est c, non est a. Ac de connexis quidem ista
sufficiunt. Disiunctiuae uero propositiones semper ex contrariis constant, ut
haec: Aut a est aut b est. Altero enim posito alterum tollitur, et
interempto altero ponitur alterum: nam si est a, non est b, si non est a, est
b, eodem modo etiam, si sit b, non erit a, si non sit b, erit a. His igitur
expeditis, ad connexas reuertamur. In illis enim uel propositio propositionem,
uel conditio conditionem, uel propositio conditionem, uel conditio sequitur
propositionem. Dicendum igitur est quae propositiones quarum propositionum
consequentes esse uideantur, et quae contrarietatis modo quam longissime a se
differant, quae uero oppositionis contradictione dissentiant. Simplicium
namque, id est praedicatiuarum propositionum, aliae praeter modum proponuntur,
aliae cum modo: praeter modum sunt quaecumque purum esse significant hoc
modo: Dies est Socrates philosophus est et quae similiter
proponuntur; quae uero cum modo sunt, ita proponuntur: Socrates uere philosophus
est. Hoc enim 'uere' modus est propositionis. Sed maximas syllogismorum
faciunt differentias haec propositiones cum modo enuntiatae, quibus
necessitatis aut possibilitatis nomen adiungitur. Necessitatis hoc modo, cum
dicimus: Ignem necesse est calere possibilitatis, ut cum ita
proponimus: Possibile est a Graecis superari Troianos. Quo fit ut omnis
propositio aut inesse significet, aut necessario inesse, aut, cum non sit
aliquid, tamen enuntiet posse contingere; quarum quidem ea quae inesse significat
simplex est, neque in nullas partes alias diduci potest, ea uero quae ex
necessitate aliquid inesse designat, tribus dicitur modis. Uno quidem quo ei
consimilis est propositioni quae inesse significat, ut cum
dicimus, Necesse esse Socratem sedere, dum sedet. Haec enim eandem
uim obtinet ei quae dicit: Socrates sedet. Alia uero necessitatis
significatio est, cum hoc modo proponimus: Hominem necesse est habere cor
dum est atque uiuit hoc enim significare uidetur haec dictio, non quoniam
tamdiu eum necesse sit habere quamdiu habet sed tamdiu eum necesse est habere
quamdiu fuerit ille qui habeat. Alia uero necessitatis significatio est
uniuersalis et propria, quae absolute praedicat necessitatem, ut cum
dicimus: Necesse est Deum esse immortalem nulla conditione /238/
determinationis apposita. Possibile autem idem quoque tribus dicitur modis: aut
enim quod inest possibile esse dicitur, ut: Possibile est Socratem sedere, dum
sedet aut quod omni tempore contingere potest, dum ea res permanet cui
aliquid contingere posse proponitur, ut: Possibile est Socratem
legere quamdiu enim Socrates est, legere potest; item possibile est quod
absolute omni tempore contingere potest, ut auem uolare. Ex his igitur
apparuit alias propositiones esse inesse significantes, alias necessarias,
alias contingentes atque possibiles, quarum necessariarum et contingentium cum
sit trina partitio, singulae ex iisdem partitionibus ad eas quae inesse
significant referuntur. Restant igitur duae necessariae et duae contingentes, quae
cum ea quae inesse significat numeratae, quinque omnes propositionum faciunt
differentias. Omnium uero harum propositionum aliae sunt affirmatiuae, aliae
negatiuae. Affirmatiua inesse significans est quae dicit: Est
Socrates negatiua quae proponit: Non est Socrates. Necessariarum
uero propositionum affirmatiuarum duae uidentur esse negationes, una contraria,
altera uero opposita. Eius namque, quae dicit: Necesse est esse a
quolibet modo ex utrisque qui dicti sunt, aut ea est negatio quae
dicit: Necesse est non esse a aut ea quae dicit: Non necesse est
esse a quarum quidem ea quae dicit: Necesse est non esse a
contraria est ei quae dicit: Necesse est esse a. Utraeque enim
falsae poterunt inueniri, ueluti si dicimus: Necesse est Socratem
legere Necesse est Socratem non legere utraque mentitur. Nam et cum
legit, non ex necessitate legit, et cum non legit, nulla ne legat necessitate
constringitur sed est utrumque possibile. At uero ea quae dicit: Non
necesse est esse opposita est ei quae proponit: Necesse est
esse una enim semper uera est, semper falsa altera reperitur. In
contingentibus uero atque possibilibus eadem ratio est. Huic enim quae
dicit: Contingit esse a tum ea uidetur obiecta quae
dicit: Contingit non esse a tum ea quae proponit: Non contingit
esse a. Atque ea quidem quae dicit: Contingit non esse a
contingens negatio nuncupatur, ueraque esse potest cum ea affirmatione quae
dicit: Contingit esse a ueluti cum dicimus: Contingit sedere
Socratem Contingit non sedere Socratem. Et haec quidem non dicuntur
esse contrariae, quoniam simul uerae esse possunt; at uero opposita sunt
quotiens ipsum contingens negatur, ut si aduersus eam quae
dicit: Contingit esse a ea proponatur quae dicit: Non contingit
esse a id enim ista significat omnino non posse contingere. Quae cum ita
sint, cumque inesse significantes propositiones praeter ullum dicuntur modum,
his ad esse iuncto aduerbio negatiuo, negatio plena perficitur; quae uero cum
modo proponuntur, si necessariae sint et ad esse negatio coniungatur, ut ea
quae dicit: Necesse est non esse fit necessaria negatio. Si
uero ipsi necessario negatio praeponatur, fit negatio necessarii uehementer
affirmationi opposita, ut ea quae dicit: Non necesse est esse. Item
in contingentibus si ad esse negatio ponatur, fit contingens negatio, ut ea
quae dicit: Contingit non esse. Si uero ipsi contingenti negatio
iungatur, fit contingentis negatio contingenti affirmationi uehementer
opposita, ut ea quae dicit: Non contingit esse. Sed quoniam omnis
propositio aut uniuersalis aut particularis aut indefinita aut singularis
proponitur -- uniuersalis hoc modo: Omnis homo legit particularis
sic: Quidam homo legit indefinita sic: Homo legit
singularis sic: Socrates legit -- necesse est ut sicut in
Categoricorum Syllogismorum Institutione monstratum est, illae sibi maxime
uideantur oppositae quaecumque uel uniuersale affirmant, si particulariter
denegetur, uel uniuersale denegant, si particulariter affirmetur, et quae
singulares sunt, si illa quidem in affirmatione sit posita, illa uero in
negatione. Quae cum ita sint, si haec eadem ratio ad contingentes et
necessarias referatur, idem in necessariis et contingentibus inuenitur, ut si
quis dicat: Omnem a terminum esse necesse est aliusque neget
dicens: Non necesse est omnem a terminum esse fecit oppositam
negationem. Et si dicat aliquis: Contingit omnem a terminum
esse itaque aliquis neget: Non contingit omnem a terminum esse
fecerit oppositam negationem; in utrisque enim negatio et modum remouet, et
significationem uniuersalitatis exstinguit. Atque hoc quidem in simplicibus et
categoricis propositionibus euenire necesse est, de quarum natura diligentius
persecuti sumus in his uoluminibus, quae secundae editionis expositionum in
Aristotelis *Perihermeneias* inscripsimus. Si quis igitur propositionum omnium
conditionalium numerum quaerat, ex categoricis poterit inuenire; ac primum in
connexis ex duabus simplicibus inquirendus est hoc modo. Nam quoniam
propositio simplex hypothetica ex categoricis duabus iungitur, una earum uel
inesse significabit, uel contingere esse dupliciter, uel necesse esse
dupliciter; quod si sint affirmatiuae, quinquies affirmatiua enuntiatione
proponentur; sed quoniam omnis affirmatio habet oppositam negationem, rursus
quinquies negatiua enuntiatione poterunt pronuntiari. Erunt igitur in
prima propositione, quae una pars est hypotheticae propositionis in negatione
et affirmatione constitutae modorum, propositiones decem. Secunda etiam
propositio, quae pars est hypotheticae, totidem affirmationibus et negationibus
proponi potest; erunt igitur eius quoque enuntiationes decem. Sed cum prima
propositio secundae propositioni quodam consequentia copuletur, ut una
hypothetica fiat, omnes decem affrmatiuae ac negatiuae propositiones omnibus
decem affirmatiuis negatiuisque propositionibus applicabuntur. Itaque
complexae centum omnes efficiunt propositiones, haec quae connexae ex
simplicibus coniunguntur. Secundum hunc uero modum potest propositionum numerus
inueniri etiam in his propositionibus /246/ quae ex categorica et hypothetica
copulantur, uel quae ex duabus conditionalibus fiunt. Nam quae ex categorica et
conditionali constant, uel e diuerso, haec tribus categoricis iunctae
sunt. Quod si duarum inter se praedicatiuarum in afffirmatione uel
negatione complexio secundum esse, uel necessario, uel contingenter esse,
quinque modos, centum efficit complexiones, quoniam tertia propositio uel
affirmatiua erit uel negatiua, et si affirmatiua quinque modis uel inesse
significans, uel necessario inesse dupliciter, uel contingenter inesse
dupliciter, itemque totidem negabitur modis, simul non amplius quam decies
proponetur. Quo fit ut tertia propositio cum duabus superioribus, centum inter
se modis copulatis atque complexis, iuncta atque commissa, mille omnes faciat complexiones.
Centum namque duarum propositionum modi, cum decem modis tertiae propositionis
complicati, mille perficiunt; decies enim centum mille sunt. Rursus quoniam ex
duabus hypotheticis iuncta conditionalis quatuor categoricis copulatur, et duae
inter se primae categoricae centum complexionibus iungebantur, necesse est ut
posteriores quoque duae centum complexionibus connectantur; quod si centum
superiorum propositionum categoricarum modi centum posteriorum categoricarum
modis complicentur, fient decem milia complexiones. In illis autem
propositionibus quae tribus uariantur figuris, siquidem medius terminus
similiter et in prima et in secunda hypothetica proponatur, mille erunt
complexiones, ad earum similitudinem quae ex tribus categoricis connectuntur;
tunc enim unus atque idem terminus in utrisque tres neque amplius faciet
enuntiationes. Similiter uero in utrisque proponitur hoc modo: Si est a,
est b; si est b, est c hic enim b terminus, et ad a terminum, et ad c
positus est, esse significans. Idem in necessariis et contingentibus
intelligendum est. At si ita proponatur: Si est a, est b, et, si necesse
est esse b, est uel non est c duae propositiones conditionales, id est
quatuor praedicatiuae fiunt. Quo fit ut secundum eas quae ex quatuor praedicatiuis
connectuntur, decem millia faciunt complexiones. Atque hi numeri tam in prima
quam in secunda uel tertia figura sunt inspiciendi. Et nos quidem quantus esse
propositionum numerus posset, ascripsimus. Numquam tamen dissimiliter
medius terminus enuntiatur: namque ut fiat extremorum conclusio, medius
terminus intercedit, cuius communitas extrema coniungit. Quod si medius
diuersis modis in utraque propositione dicatur, nec connectuntur extrema, atque
ideo ne syllogismus quidem ullus fieri potest, cum praesertim ne una quidem
propositio dici possit, in qua medius terminus dissimiliter enuntiatur. Longe
autem multiplex propositionum numerus existeret, si inesse significantes et
necessarias et contingentes affirmatiuas negatiuasque propositiones per
uniuersales ac particulares, uel oppositas ac subalternas uariaremus; sed id
non conuenit, quia conditionalium termini propositionum indefinito maxime
enuntiantur modo. Atque ideo superuacuum iudicaui determinatarum secundum
quantitatem propositionum quaerere multitudinem, cum determinatae conditionales
proponi non soleant; fere autem hypotheticae propositiones ne per necessitatem
quidem uel per contingens enuntiantur sed illae maximae in usum collocutionis
deducuntur, quae inesse significant. Omnes uero necessariam tenere
consequentiam uolunt, et quae inesse significant, et quibus necessitas additur,
et quibus praedicatio possibilitatis aptatur; haec enim terminis
applicatur. Necessitas uero hypotheticae propositionis, et ratio earum
propositionum ex quibus iunguntur inter se connexiones, consequentiam quaerit,
ut cum dico: Si Socrates sedet, et uiuit neque sedere eum, neque
uiuere necesse est sed, si sedet, uiuere necesse est. Item cum dicimus: Si
sol mouetur, necessario ueniet ad occasum tantumdem significat quantum,
si sol mouetur, ueniet ad occasum. Necessitas enim propositionis in
consequentiae immutabilitate consistit. Item cum dicimus: Si
possibile est legi librum, possibile est ad uersum tertium
perueniri rursus necessitas consequentiae conseruata est; nam si
possibile est legi librum, necesse est etiam id esse possibile, ut ad uersum
tertium perueniatur. Opponuntur autem hypotheticis propositionibus illne solse
quae earum substantiam perimunt. Substantia uero propositionum hypotheticarum
in eo est, ut earum consequentiae necessitas ualeat permanere. Si quis
igitur recte conditionali propositioni repugnabit, id efficiet ut earum
destruat consequentiam, ueluti cum ita dicimus: Si a est, b est non
in eo pugnabit si monstret, aut non esse a, aut non esse b sed si posito quidem
a, ostendit non statim consequi esse b sed posse esse a, etiamsi b terminus non
sit. Uel si negatiua sit conditionalis, eodem destruetur modo: ut cum
dicimus: Si a est, b non est non ostendendum est, aut non esse a,
aut b esse; sed cum a sit, posse esse b terminum. Sunt autem hypotheticae
propositiones, aliae quidem affirmatiuae, aliae negatiuae; sed de his nunc
loquor quae in consequentia positae in connexione esse dicuntur: affirmatiuae
quidem, ut cum dicimus: Si est a, est b. Si a non est, b est
negatiuae uero: Si a est, b non est. Si non est a, non est b. Ad
sequentem enim propositionem respiciendum est, ut an affirmatiua uel negatiua
sit propositio iudicetur; idem de compositis syllogismis conditionalibus
intellegi oportebit. De his autem propositionibus quae in disiunctione sunt
positae, cum de earum syllogismis tractauero, commodius atque uberius dicam. Hypotheticos
syllogismos, quos latine conditionales uocamus, alii quinque, tribus alii
constare partibus arbitrantur, quorum mox controuersiam diiudicabo, si prius
quibus nominibus talium syllogismorum partes appellentur ostendero. Quoniam
enim omnis syllogismus ex propositionibus texitur, prima uel propositio, uel
sumptum uocatur; secunda uero dicitur assumptio, his quae infertur, conclusio
nuncupatur. Cum enim ita dicimus: Si homo est, animal est; Homo autem
est; Animal igitur est ea quidem enuntiatio per quam
diximus: Si homo est, esse animal propositio uel sumptum uocatur, ea
uero quam huic adiunximus: Est autem homo assumptio dicitur, tertia
conclusio nominatur, per quam ostendimus animal esse qui fuerit homo. Sed
quoniam saepe euenit ut propositionis enuntiatae consequentia non sit
uerisimilis, propositioni saepe adiungitur approbatio, per quam id quod est
propositum uerum esse monstretur. Assumptio saepe ad fidem per se non uidetur
idonea: huic quoque iuuamen probationis adiungitur, ut /256/ uera esse
uideatur; quo fit ut saepe quinque partes, saepe quatuor, interdum tres
hypotheticos syllogismos habere contingat. Nam quinque constabit partibus si et
propositio et assumptio probationibus indigebunt; quod siue propositio, siue
assumptio probatione indigent, quadripartitus est syllogismus, quod si neutra
est approbanda, tripartitus esse relinquitur. In hac uero sententia etiam
Marcus Tullius esse deprehenditur: in Rhetoricis enim syllogismos quosdam
quinquepartitos, quadripartitos alios esse confirmat. Quibus uero non placet
talium syllogismorum partes ultra ternarium numerum propagari, hi probationes
propositionum atque assumptionum non putant in syllogismi partibus esse
ponendas, neque enim propositionem esse, de qua syllogismus possit existere,
cui non consentit auditor; quod si per se dubia est ea probatio quae
propositioni dubiae iungitur, fidem faciens eidem cui coniungitur propositioni,
faciat ut sit idonea syllogismo. Ac per hoc tunc incipit esse propositio
syllogismi, cum talis per probationem redditur, ut ex ea colligi aliquid
possit; tunc uero colligi ex se aliquid potest, cum probationis auxilio poterit
ab auditore concedi. Quocirca membrum quoddam, et quasi fulcimentum dubiae
propositionis uel assumptionis, probatio esse uidetur, non pars etiam
syllogismi; sed nostra sententia his potius accedit qui tribus eum partibus
constare pronuntiant. Etenim quaelibet probatio quae uel propositioni uel
assumptioni copulatur, propositionis esse uel assumptionis probatio
dicitur. Cum igitur non ad syllogismum sed ad propositionem uel
assumptionem cuius est probatio referatur, non oportet eam syllogismi proprie
partem uideri. Nam illud quod obici potest, nullus ignorat, quin partium partes
etiam totius partes esse dicantur; sed plurimum refert utrum ipsae sint
primitus partes totius, an in secundarum partium postremitate ponantur.
Amplius, si sit per se nota ac probabilis propositio, totus syllogismus
probatione non indiget; quod si per se propositionis nulla fides est, necesse
est ut ea propositio quodam ueluti testimonio probationis indigeat. Non
igitur syllogismus probatione, in eo quod syllogismus est, indigebit, sed
propositio, si fide propria fuerit destituta. Idem etiam de assumptione dici
potest. Quare manifestum est eorum esse sententiam praeponendam, qui
sullogismum putant tribus partibus constare. Praeterea si qua propositio
probationis indigeat, ut eam ueri fides sequatur, aliquo demonstrabitur
syllogismo. Quocirca qui fieri potest ut recte syllogismus pars syllogismi
simplicis esse dicatur? ipsam enim probationem propositionis syllogismum, uel
ex syllogismo esse necesse est. His itaque determinatis, de his protinus
syllogismis quorum propositiones in connexione positae duobus terminis
constant, explicandum uidetur. Horum autem duplex forma est: quatuor enim fiunt
per praecedentis positionem qui sunt primi hypothetici atque perfecti, quatuor
uero per sequentis negationem, qui cum demonstratione egeant, non uidentur esse
perfecti. Prioris uero negatione, uel sequentis positione, nullus omnino
syllogismus efficitur. Omnium igitur talium propositionum primum numerus
explicetur, ut qui fiant ex his syllogismi facilis acquiratur agnitio. Sunt
autem quatuor: Si est a, est b Si est a, non est b Si non est a,
est b Si non est a, non est b Ac de prioribus quidem syllogismis
atque perfectis primo loco dicendum est. Horum enim primus modus est hic
ueniens a prima propositione: Si a est, b est; Atqui est a; Est
igitur b. Cum enim prima propositio eam conditionem proponat, ut si sit a
necesse sit consequi essentiam b termini, idem assumptio quod praecedit assumit
ac ponit, dicitque: At est a consequitur igitur ut sit b. Si enim ex
consequentia primae propositionis id quod secundum est assumendo ponamus,
nullus efficitur syllogismus. Age enim sit huiusmodi consequentia, ut si
sit a, sit b assumaturque quod sequitur hoc modo: At est b non
consequitur ut sit uel non sit a. Id uero clarius fiet exemplo: sit enim
propositio: Si homo est, animal est assumaturque esse animal,
scilicet quod consequitur, non necesse erit esse hominem uel non esse; potest
enim, cum sit animal, homo uel esse uel non esse. Secundus uero modus est eorum
in quibus prior propositionis pars in assumptione repetitur, uenit autem ex
secunda propositione superius digesta, hoc modo: Si est a, non est b; Atqui
est a; Non est igitur b. Id enim propositum fuerat, si esset a, non
esset b. Sumpto igitur praecedente, consequentis est facta conclusio; quod si
consequens sumas, nullus uidetur fieri syllogismus, quia nec consequitur ulla
necessitas, hoc modo: Si est a, non est b; Atqui non est b; non
necesse est esse a uel non esse. Age enim ita sit propositio: Si est
nigrum, album non est et id quod sequitur assumatur: Atqui non est
album non necesse erit esse nigrum uel non esse, quia cum non sit album
potest aliquid esse medium. Tertius uero modus est talium syllogismorum qui
uenit ex tertia propositione, quorum in assumptione id ponitur quod praecedit
hoc modo: Si non est a, est b; Atqui non est a; Est igitur
b. Haec igitur conclusio rursus ex conditione propositionis euenit: id
enim fuerat propositum, ut si non esset a esset b; quod si conuertas et sumas esse
b, id est quod sequitur, non necesse erit uel esse uel non esse id quod
praecedit. Sed huius exemplum non potest inueniri, eo quod si ita
proponitur, ut: Cum non sit a sit b nihil esse medium uideatur inter
a atque b; sed in his si alterum non fuerit, statim necesse est esse alterum,
et si alterum fuerit, statim alterum non esse necesse est. Videtur ergo
quodammodo et sequenti posito in his fieri syllogismus; sed quantum ad rerum
naturam ita est, quantum uero ad propositionis ipsius pertinet conditionem,
minime consequitur. Quod quidem ex his patet quae superius dicta sunt. In
utrisque enim superioribus modis sequenti posito nihil ex necessitate collectum
est, hic uero tertius modus, quantum ad complexionem propositionum pertinet, in
quo ponendo si id quod consequebatur assumitur, nullum efficit
syllogismum. Quantum uero ad rerum naturam, in quibus solis hae
propositiones enuntiari possunt, uidetur esse necessaria consequentia hoc modo,
ut: Si dies non est, nox sit Si nox sit, dies non sit ex
necessitate consequitur; similesque sunt hi syllogismi his qui in disiunctione
sunt constituti, de quibus paulo posterius commemorabo, quorumque ad illos et
differentias et similitudines dabo. Quartus uero modus est ex quarta
propositione, cum ita proponitur: Si a non est, b non est; Atqui non
est a; Non est igitur b rursus enim id quoque consequi ex
propositione monstratur, quae proposuit non fore b, si a prior terminus non
fuisset. At si id quod consequitur assumamus, nulla uidetur fieri posse
necessitas, ueluti si ita dicamus: Non est autem b non necesse erit
uel esse uel non esse a. Age enim proponatur si animal non est, non esse
hominem, assumaturque: At non est homo non necesse est ut uel sit
animal uel non sit. Demonstratum igitur est in huiusmodi syllogismis, si id
quidem quod praecedit ponendo assumatur, perfectos atque ex ipsis
propositionibus probabiles et necessarios fieri syllogismos. Si uero id
quod sequitur ponendo assumatur, nullam fieri necessitatem, praeter in tertio
modo, qui cum sit similis his syllogismis /266/ qui secundum disiunctionem
propositis enuntiationibus fiunt, uidetur in rebus de quibus proponi possit
seruare necessitatem, cum in complexione non seruet, quod ex caeteris tribus
modis arguitur primo, secundo atque quarto, in quibus assumpta ponendo sequente
propositionis parte, nihil ex necessitate conficitur. Ac de his quidem
syllogismis, qui duobus terminis coniunguntur, quorum prima pars propositionis
ponendo assumitur, quantum ad institutionis pertinet modum, sufficienter
expressimus. Nunc uero de his dicendum est, quorum consequens propositionis
pars ita assumitur, ut perimatur. Ex his quoque quatuor fiunt modi, cum prior
propositionis pars in assumptione non possit interimi, ut ulla syllogismi
necessitas consequatur. Est igitur primus modus talium syllogismorum a prima
ueniens propositione sic: Si est a, est b; Atqui non est b; Non
est igitur a. Hic igitur b terminus, qui in prima propositione consequens
fuerat, in assumptione est interemptus, ut a terminus, qui propositionis prima pars
fuerat, interimeretur, eaque necessitas tali ratione probabitur. Positum
namque est si a sit, b esse; et assumptio facta est ut consequens pars
propositionis interimeretur, id est, non esse b. Dico quia consequitur non esse
a: nam si potest esse a, ut non sit b, frustra erit prior propositio quae ait,
si a sit, b esse. Atqui ea propositio ualet; cum igitur a sit est b. Quod si
cum non sit b, sit a, quod scilicet ex assumptione proponitur, idem b erit
/268/ et non erit: non erit quidem, quia b non esse proponit assumptio; erit
autem, quia si est a, erit b, quod fieri non potest; non igitur, si b non
fuerit, erit a. Hic est igitur primus modus talium syllogismorum, qui ex
interempta parte consequenti propositionis fiunt, qui non sunt perfecti neque
ex se cogniti sed indigent uel eius quam superius proposui, uel cuiuslibet
alterius probationis, ut ueri esse monstrentur. Quod si prima pars interimatur,
non erit syllogismus; age enim ita dicamus: Si est a, est b; Atqui
non est a non consequitur ut sit uel non sit b, ut exemplo etiam
demonstratur. Sit enim propositio: Si est homo, animal est; Sed homo
non est; non necesse erit uel esse animal, uel non esse. Secundus modus
per contradictionem assumptionis, qui a secunda propositione descendit, ille
est cum ita proponimus: Si a est, b non est; Atqui est b; Igitur
a non est. Hic enim rursus secunda pars propositionis est interempta: nam
cum secunda pars propositionis b non esse diceret, si a fuisset, assumptio b
esse pronuntiat. Affirmatio autem perimit negationem, quam assumptionem consequitur,
ut a non sit, hoc modo. Sit enim propositio: Si a est, b non est et
sit b. Dico quia a non erit: nam si erit a, cum sit b, idem b erit et non erit:
non erit quidem ex prima propositione quae dicit: Si a est, b non
est erit autem per assumptionem, qua dicimus esse b. At si praecedens
propositionis pars auferatur, non fiet ulla necessitas. Age enim in
huiusmodi propositione: Si a est, b non est ita dicamus: Atqui
non est a non consequitur ut b sit aut non sit. Id uero tali arguitur
exemplo. Dicamus enim: Si nigrum est, album non est assumamusque non
esse nigrum, non statim consequitur ut uel album sit, uel non sit: potest enim
aliquid esse mediorum. Tertius modus ille est ex tertia propositione deductus,
cum ita proponimus: Si a non est, b est; b autem non est; a
igitur est. Hic quoque consequens pars propositionis assumpta est, et cum
in propositione affirmaretur, in assumptione negata est, et est rata
consequentia, et perficiens syllogismum hoc modo. Nam si uerum est, cum non sit
a, esse b, dico quia si b non sit, esse a: nam si poterit, cum b non sit, non
esse a, frustra est prima propositio, quae dicit cum non sit a esse b eritque b
ac non erit; non erit quidem ex ea assumptione quae proponit non esse b; erit
autem, quia, si a terminus esse negabitur, posito non esse b termino, cum non
sit a, erit b, quod est impossibile. Non igitur potest fieri ut cum non
sit b, non sit a; consequitur igitur ut, cum non sit b, sit a. Quod si prior
pars propositionis quae praecedens est auferatur, nullus est syllogismus, hoc
modo: cum enim dicimus si a non est, esse b, si assumamus: Atqui est
a nihil euenit necessarium, ut uel sit b uel non sit, secundum ipsius
complexionis naturam. Nam hic quoque, ut in his in quibus in assumptione
secundus terminus ponebatur, dicendum est secundum quidem ipsius complexionis
figuram nullum fieri syllogismum; secundum terminos uero in quibus solis dici
potest, necesse esse, si a fuerit, b non esse. In contrariis enim tantum, et in
his immediatis, id est medium non habentibus, haec sola propositio uere poterit
praedicari, ueluti cum dicimus: Si dies non est, nox est siue non
fuerit dies, nox erit, siue nox non fuerit, dies erit, siue dies fuerit, nox
non erit, siue nox fuerit, dies non erit. Quartus modus est horum
syllogismorum ex quarta propositione descendens, cuius haec prima est
propositio: Si a non est, non est b; Est autem b; Erit igitur
a. Hic quoque secunda pars propositionis assumpta est, et quaniam eadem
in negatione fuerat posita, affirmatione est interempta; affirmatio enim uim
negationis interimit. Hic quoque eodem modo syllogismi necessitas continetur,
nam, si posito cum non sit a, non esse b, sumatur esse b, dico quia consequens
est etiam a esse. Nam si potest, cum sit b, non esse a, frustra est prima propositio,
quae, cum a non sit, b non esse pronuntiat; fiet igitur rursus ut idem b sit ac
non sit. Ex assumptione namque erit b; ita enim dicitur: Atqui est
b si uero hoc posito possit non esse a, rursus b non erit, quia prima
propositio ait: Si non sit a, non est b quod est impossibile. Quod
si ea portio propositionis quae praecedens est auferatur, nihil euenit
necessarium. Age enim ita dicamus: Si non est a, non est b
assumamusque: Atqui est a non consequitur ut b uel esse uel non esse
necessario concludatur, ut in hoc syllogismo: Si non est animal, non est
homo; Atqui est animal; non necesse est uel esse hominem uel non
esse. Hi igitur quatuor syllogismi imperfecti /274/ dicuntur, idcirco quoniam
per se non habent apertam atque perspicuam consequentiae necessitatem, eaque
illis ex probatione conficitur. Ut igitur breuiter concludendum sit, in
hypotheticis simplicibus syllogismis connexas habentibus propositiones, quoquo
modo factis, si quidem prima pars propositionis assumitur, si ea ponatur, fient
quatuor syllogismi per se cogniti atque perfecti; si uero id quod consequitur
assumatur, nulla est syllogismo necessitas, nisi in tertio tantum modo, qui non
propter complexionis naturam sed propter terminorum contrarietatem, in quibus
solis dici potest, uidetur conclusionis necessitatem tenere. Itaque si
quid in assumptione ex his quae in propositione sunt prolata ponatur, quatuor
uel quinque fieri necesse est syllogismos perfectos: quatuor, ubi prima pars
propositionis, quintum uero, ubi secunda pars propositionis ponendo assumitur,
si non ad complexionis naturam sed ad terminos aspiciamus. Si quid uero ex his
quae in assumptione prima propositio enuntiat, auferatur, si quidem consequens
pars propositionis auferatur, fient imperfecti et probatione indigentes quatuor
syllogismi; si uero prior propositionis pars auferatur, nulla erit necessitas
syllogismi, nisi in tertio tantum modo, ubi non facit necessitatem complexionis
sed terminorum natura. Quocirca hi quoque quatuor uel quinque sunt syllogismi:
quatuor quidem, si secunda propositionis pars fuerit interempta; quintus /276/
uero, si eum non complexionis natura sed terminorum proprietate metiamur.
Quocirca si ex duobus terminis propositio prima consistat, octo sunt uel decem,
nec amplius syllogismi. Ac de his quidem conditionalibus syllogismis, quorum
propositiones connexae sunt, et ex duabus praedicatiuis simplicibus constant,
sufficienter expeditum est. Nunc de his syllogismis dicendum est, qui uel ex
praedicatiua et hypothetica, uel ex hypothetica praedicatiuaque nectuntur.
Horum autem facile complexiones omnium syllogismorum apparebunt, si prius earum
numerus exponatur. Sunt igitur priores quidem quae ex praedicatiua atque
hypothetica connectuntur hae: Si sit a, cum sit b, est c. Si est a,
cum sit b, non est c. Si est a, cum non sit b, est c. Si est a, cum
non sit b, non est c. Si non est a, cum sit b, est c. Si non est a,
cum sit b, non est c. Si non est a, cum non sit b, est c. Si non est
a, cum non sit b, non est c. Ac primum quae sit earum natura, uidetur esse
tractandum. Neque enim quoquo modo conditio ponatur, conditionalis propositio
fiet sed si illa consequentia propter positam euenit conditionem. Nam si quis
ita dicat: Si homo est, cum sit animal, animatum est non uidetur facere
apposita conditio consequentiae necessitatem; nam etiam si non sit homo,
nihilominus tamen, cum sit animal, animatum est. At si ita ponatur: Si
homo /278/ est, cum sit animatum, animal est uidetur consequentiae ratio
in conditione consistere. Neque enim necesse est, cum animatum sit, esse
animal, nisi homo uel tale aliquid fuerit, quod animatum esse proponitur; tunc
enim quod animatum est, animal esse necesse est, homo namque uel quodlibet
aliud tale animal est. Per singulas igitur propositiones eundum est, et
spectanda est earum singularis natura hoc modo. Prima propositio per quam
enuntiatur si est a, cum sit b, esse c, talis esse debet ut b quidem possit
esse etiam praeter a, si tamen a fuerit, b non esse non possit; rursus idem b
terminus possit esse etiam cum non est c, nec sit necesse ut b posito sit etiam
c sed tunc tantum necesse sit esse c, quando b terminus a terminum sequitur, ut
si sit a homo, b animatum, c animal. Animatum enim et praeter hominem et
praeter animal esse potest; si uero sit homo, animatum esse necesse est, et cum
animatum hominis essentiam consequatur, consequitur ut idipsum animatum sit
animal. Item secundam propositionem, quae ait si est a, cum sit b, non
esse c, huiusmodi esse oportebit ut b quidem praeter a esse possit sed cum
fuerit a, necesse sit esse etiam b; at uero c tale sit ut simul quidem cum a
esse non possit, cum b uero esse possit sed tunc tantum cum b esse non possit,
quando b terminus a terminum sequitur, ut si sit a homo, b animatum, c
insensibile. Namque animatum praeter hominem esse potest; at si homo sit, ut
sit animatum necesse est; insensibile uero potest esse animatum sed tunc /280/
insensibile et animatum non conueniunt, cum idcirco est animatum quia homo esse
praedictus est. Tertia uero propositio a quidem terminum debet habere, qui
numquam simul esse possit cum b termino; c uero terminum talem esse oportebit,
ut possit quidem non esse, si non fuerit b sed tunc tantum necesse sit, si b
terminus non sit, esse c terminum, si idcirco non est b quaniam terminus a esse
praedictus est, ut si sit a homo, b inanimatum, c sensibile. Nam si est homo,
non est inanimatum, sensibile uero potest simul non esse cum inanimato; possunt
enim esse quaedam quae nec inanimata sint, nec sensibilia, ut arbores. Idem
tamen sensibile necesse est esse, cum non sit inanimatum, si idcirco inanimatum
non est quia homo esse praedictus est. Rursus quarta propositio huius
debet esse proprietatis, ut b quidem terminus nullo modo esse possit, si fuerit
a, at uero c possit esse, si non fuerit b; sed tunc tantum c, cum non fuerit b,
non esse necesse sit, si b terminus non sit quia prius a terminus esse positus
est, ut si sit a homo, b inanimatum, c insensibile. Inanimatum enim non erit si
fuerit homo; insensibile uero potest esse et non esse, si non sit inanimatum;
tunc tamen insensibile non esse ne cesse est, cum inanimatum non sit, cum
idcirco inanimatum non est quia homo esse praedictus est. Quinta quoque
propositio tales habere terminos debet, ut a quidem si non sit, necesse sit
esse b, si b terminus sit, c et esse possit et possit non esse: tunc tantum c
esse necesse sit, cum fuerit b, cum idcirco est b quia a terminus esse negatus
est, ut si sit a quidem animatum, b uero insensibile, c inuitale. Igitur si non
sit animatum, statim consequitur ut sit insensibile; inuitale autem potest
esse, si sit insensibile, ut lapis, potest uero non esse inuitale, si sit
insensibile, ut sunt arbores; sed tunc tantum, posito insensibili, consequitur
ut inuitale esse necesse sit, cum idcirco est insensibile quia non est
animatum. Sexta uero propositio tales terminos habere desiderat, ut b
quidem esse necesse sit, si non fuerit a, at uero c terminus, si sit b, uel
esse uel non esse possit; tunc tamen c non esse necesse sit, cum sit b, quando
idcirco est b quia a terminus non esse propositus est, ueluti si sit a
animatum, b insensibile, c uitale. Nam necesse est esse insensibile, si non
fuerit animatum; cum uero sit insensibile, fieri quidem potest ut non uiuat,
ueluti lapis, fieri autem potest ut uiuat, ueluti arbor; tunc tamen necesse est
non uiuere, cum sit insensibile, quando idcirco est insensibile quia animatum non
esse propositum est. Septimus modus talibus terminis debet esse contextus,
ut b quidem sine a esse non possit, c autem si non sit, b et esse et non esse
possit; tunc tamen necesse sit c terminum esse, si non sit b, cum idcirco b non
esse propositum est quoniam a fuerit ante denegatum. Sit enim a quidem
animatum, b uero sensibile, c inuitale; sensibile igitur esse non potest nisi
fuerit animatum; si igitur non sit animatum, non erit sensibile, si uero non
sit sensibile, potest esse inuitale, uelut in lapidibus, idem potest non esse,
uelut in arboribus; tunc tamen sensibili denegato inuitale necesse est esse,
cum idcirco non est sensibile quia prius animatum non esse propositum
est. Octaua propositio his terminis connectenda est, ut b terminus esse
non possit si non fuerit a, cum uero non sit b, terminus c et esse et non esse
possit sed tunc necesse sit c terminum non esse, cum non fuerit b, cum idcirco
non est b quia a terminus prius esse negatus est, ut si sit a quidem animatum,
b uero sensibile, c uitale. Sensibile igitur esse non potest nisi fuerit
animatum; idem tamen sensibile si non sit, et non esse uitale potest, ut
lapides, et esse uitale, ut arbores; tunc tamen necesse est uitale non esse, si
non sit sensibile, cum idcirco sensibile non est quia prius animatum esse
negatum est. Ex his igitur constat c terminum, quoquo modo fuerit b, in
conditionalibus propositionibus, quae in tota enuntiatione post praedicatiuas
locantur, posse tam loco afFirmationis quam negationis assumi, ex quibus
assumptionibus fiunt complexiones uariae syllogismorum. His igitur ita
expeditis, de omnibus in commune praecipiendum uidetur. Nam cum sint octo
propositiones quae ex praedicatiua hypotheticaque nectuntur, quae superius
ascriptae sunt, earum quatuor ita faciunt consequentiam, si a terminus sit;
quatuor uero ita conditionem proponunt, si a terminus non sit. Fiunt uero
ex his syllogismi hoc modo. Ex prima propositione: Si est a, cum sit b, est
c; Atqui est a; Cum igitur sit b, est c uel sic: Atqui cum
sit b, non est c; Non est igitur a (posse autem huiusmodi esse
assumptionem ex superius descripta propositionum natura cognoscitur). Ex
secunda propositione: Si est a, cum sit b, non est c; Atqui est
a; Cum igitur sit b, non est c uel ita: Atqui cum si b, est
c; Non est igitur a. Ex tertia: Si est a, cum non sit b, est
c; Atqui est a; Cum igitur non sit b, est c uel
ita: Atqui cum non sit b, non est c; Non est igitur a. Ex
quarta: Si est a, cum non sit b, non est c; Atqui est a; Cum
igitur non sit b, non est c uel ita: Atqui cum non sit b, est
c; Non est igitur a. In his igitur quatuor propositionibus, in
quibus a terminus esse proponitur, si assumptum fuerit eundem a terminum esse,
c terminus uel esse uel non esse monstratur; idem uero si c terminus assumatur,
siquidem cum est non esse, uel cum non est esse assumatur, a terminus non esse
monstrabitur. Ex quinta etiam propositione ita syllogismi fiunt: Si
non est a, cum sit b, est c; Atqui non est a; Cum igitur sit b, est
c uel ita: Atqui est a; Cum igitur sit b, non est c uel
ita: Atqui cum sit b, non est c; Est igitur a uel
sic: Atqui cum sit b, est c; Non est igitur a. Quod idcirco
euenit ut huiusmodi propositio quatuor colligat syllogismos, quia in his tantum
si non sit aliquid esse aliud proponi potest, in quibus contraria medietatibus
carent; in his enim uel interempto altero alterum ponitur, uel posito altero
alterum necesse est perimatur. Ex sexta: Si non est a, cum sit b, non
est c; Atqui non est a; Cum igitur sit b, non est c uel ita: Atqui
cum sit b, est c; Est igitur a. Ex septima: Si non est a, cum
non sit b, est c; Atqui non est a; Cum igitur non sit b, est c
uel ita: Atqui est a; Cum igitur non sit b, non est c uel ita: Atqui
cum non sit b, non est c; Est igitur a uel ita: Atqui cum non
sit b, est c; Non est igitur a. In hac quoque complexione propter
eandem causam quatuor collectiones hunt. Ex octaua: Si non est a, cum non
sit b, non est c; Atqui non est a; Cum igitur non sit b, non est
c uel ita: Atqui cum non sit b, est c; Est igitur a. In
his quoque quatuor propositionibus, si quidem a non esse assumatur, c uel esse
uel non esse concluditur; si uero c cum est non esse, uel cum non est esse
assumatur, a terminus semper esse concluditur, nisi in quinto et septimo tantum
modis, ubi cum c esse assumatur, a non esse monstratur. Omnium uero communis
est ratio, praeter quintum ac septimum modum, ut si a terminus ita assumatur,
quomodo in prima enuntiatione propositus est, conditio quae sequitur in
conclusione firmetur. Si uero conditio quae sequitur contrario modo atque
in enuntiatione proposita est assumatur, categorica propositio, quae prima est,
interimetur. In septimo autem uel quinto modo, quaque ratione sumptum sit
alterum, in utrisque partibus faciet /290/ conclusionem. Itaque fiunt sedecim
uel uiginti potius syllogismi: octo quidem, si a terminus, ut est propositus,
assumatur, octo uero, si c terminus conuerso modo atque in propositione est
positus assumatur, quatuor uero ex quinto et septimo modis utrobique
facientibus conclusionem. Reliquis uero complexionibus nulla est consequentia
necessitatis. Ut autem plenior fieret intellectus ipsas propositiones cum suis
terminis positas annotaui, ut secundum praedictos assumptionum modos non
ratione solum demonstratio fieret, uerum etiam per exempla currentibus doctrina
clarior elucesceret. Si est a homo, cum sit b animatum, est c
animal. Si est a homo, cum sit b animatum, non est c insensibile. Si
est a homo, cum non sit b inanimatum, est c sensibile. Si est a homo, cum
non sit b inanimatum, non est c insensibile. Si non est a animatum, cum
sit b insensibile, est c inuitale. Si non est a animatum, cum sit b
insensibile, non est c uitale. Si non est a animatum, cum non sit b
sensibile, est c inuitale. Si non est a animatum, cum non sit b sensibile,
non est c uitale. Expeditis igitur his syllogismis qui ex talibus
propositionibus fiunt, quae ex prima praedicatiua secunda hypothetica
copulantur, nunc ad eos transitum faciamus qui ex prima conditionali secunda
uero praedicatiua nectuntur, quamm omnium numerus proponendus est, ut de quibus
loquimur lector agnoscat. Si cum sit a, est b, est c. Si cum sit a, est
b, non est c. Si cum sit a, non est b, est c. Si cum sit a, non est
b, non est c. Si cum non sit a, est b, est c. Si cum non sit a, est
b, non est c. Si cum non sit a, non est b, est c. Si cum non sit a,
non est b, non est c.Prima igitur propositio tales habere terminos debet, ut a
quidem possit esse praeter c ac b; sed tunc, si a fuerit, c esse necesse sit,
cum a terminum b terminus subsequatur, ut si sit a quidem animatum, b homo, c
animal. Animatum namque praeter animal et praeter hominem esse potest; tunc
uero id quod animatum est etiam animal esse necesse est, si id quod est
animatum, homo est. Secunda propositio talibus terminis contexenda est, ut a
quidem praeter b atque c, et cum eisdem esse possit; tunc tamen necesse sit non
esse c, si a posito b sequatur, ut si a sit animatum, b homo, c equus. Animatum
quippe et ut homo uel equus sit aut non sit fieri potest; tunc uero necesse est
id quod animatum est non esse equum, si id ipsum quod animatum est, homo
fuerit. Tertia propositio his terminis copulatur, ut a quidem cum b et c uel
esse uel non esse possit, tunc tamen necesse sit simul esse cum c, si, posito a
termino, b terminus abnuatur, ut si sit a animatum, b animal, c insensibile.
Nam quod animatum est, uel animal uel non animal, uel insensibile uel non
insensibile esse potest sed tunc necesse est id quod animatum est esse
insensibile si, animato posito, animal abnuatur. Quartae propositionis hi
termini sunt, ut a quidem cum b atque c esse et non esse possit, tunc uero ab
eo modis omnibus separetur, si, posito a termino, b terminus abnuatur, ut si
sit a quidem animatum, b animal, c homo. Nam quod animatum est uel animal esse
uel non esse, itemque homo esse uel non esse potest; tunc tamen necesse est ut,
cum sit animatum, non sit homo, cum posito esse animato animal denegatur.
Quinta uero propositio his terminis conectatur, ut si non sit a, possit et esse
et non esse b atque c; tunc tamen cum non sit a, terminum c esse necesse sit
si, posito non esse a, esse b terminum consequatur, ut si sit a quidem inuitale,
b homo, c animal. Nam si non sit inuitale, tunc possunt homo atque animal
esse uel non esse; at necesse est esse animal, negato inuitali, si, cum
inuitale negabitur, esse hominem subsequatur. Sextam uero propositionem talia
debent membra coniungere, ut, si non sit a terminus, b atque c uel esse uel non
esse possint; tunc uero, denegato a termino, c non esse necesse sit, cum
negationem a termini b termini affirmatio comitabitur, ut si sit a inuitale, b
homo, c equus. Nam quod non est inuitale, potest esse homo uel equus uel non
esse sed necesse est non esse equum, inuitali denegato, si negationem inuitalis
hominis positio subsequatur. Septimae propositionis hos esse terminos
oportebit, ut, si non sit a terminus, b atque c et esse et non esse possint;
/296/ sed tunc necesse sit esse c terminum, si negationem a termini b termini
negatio subsequatur, ut si sit a animal, b animatum, c inuitale. Animal quidem
si non sit, animatum et inuitale esse uel non esse potest; tunc uero necesse
est, si animal non sit, esse inuitale, quando, si animal non sit, non erit
animatum. Octaua propositio est cum, negato a termino, possunt et esse et
non esse b atque c termini; sed tunc necesse est, si a terminus abnuatur, non
esse c terminum, cum negationem a termini negatio b termini subsequetur, ut si
sit a inuitale, b animal, c homo. Si igitur non sit inuitale, potest esse
uel non esse animal uel homo, tunc uero si non sit inuitale necesse est hominem
non esse, cum animal non fuerit. His igitur ita expeditis, illud in
commune dicendum est, quod superiores quatuor propositiones ita faciunt
conditionem, si fuerit a, posteriores uero si non fuerit, ex quibus omnibus
syllogismi tali ratione nascuntur. Ex prima propositione: Si cum sit
a, est b, est c; Atqui cum sit a, est b; Est igitur c uel
ita: Atqui non est c; Cum igitur sit a, non est b. Posse uero
tales fieri conclusiones, ex superius descriptarum propositionum natura
cognoscimus: poterat enim a terminus esse uel non esse cum b. Item ex
secunda: Si cum sit a, est b, non est c; Atqui cum sit a, est
b; Non est igitur c uel ita: Atqui est c; Cum igitur sit
a, non est b. Ex tertia uero utrobique assumptis terminis collectiones
fiunt, ut: Si cum est a, non est b, est c; Atqui cum est a, non est
b; Est igitur c uel ita: Atqui cum sit a, est b; Non est
igitur c uel ita: Atqui non est c; Cum igitur sit a, est b uel
sic: Atqui est c; Cum igitur sit a, non est b. Quae idcirco
facta est utrobique collectio, quoniam in his terminis hae propositiones
poterant poni, in quibus immediata contraria reperiebantur; in illis enim alterius
positio alterum perimebat, et alterius interemptio ponebat alterum. Ex
quarta: Si cum sit a, non est b, non est c; Atqui cum sit a, non est
b; Non est igitur c uel ita: Atqui est c; Cum igitur sit
a, est b. Ex quinta:Si cum non sit a, est b, est c; Atqui cum non
sit a, est b; Est igitur c uel ita: Atqui non est c; Cum
igitur non sit a, non est b. Ex sexta: Si cum non sit a, est b, non
est c; Atqui cum non sit a, est b; Non est igitur c uel
ita: Atqui est c; Cum igitur non sit a, non est b. Ex septima
utrobique colligitur hoc modo: Si cum non sit a, non est b, est
c; Atqui cum non sit a, non est b; Est igitur c uel
ita: Atqui cum non sit a, est b; Non est igitur c uel
sic: Atqui non est c; Cum igitur non sit a, est b uel
ita: Atqui est c; Cum igitur non sit a, non est b. Hic quoque
propter eandem causam in alterutra assumptione syllogismus fiet; non esse
aliquid cum alind non sit in immediatis tantum contrariis dicebatur. Ex
octaua: Si cum non sit a, non est b, non est c; Atqui cum non sit a,
non est b; Non est igitur c uel ita: Atqui est c; Cum
igitur non sit a, est b. In omnibus igitur superius descriptis
syllogismis, haec ratio est, ut, si b terminus assumatur, ita ut in
propositione est positus, ita c terminum concludat, ut in eadem propositione
fuerit collocatus. At si c terminus contrario modo assumatur quam in
propositione fuerit positus, contrario modo b terminus in conclusione
monstrabitur, praeter tertium et septimum modum, in quibus etiamsi b terminus
contrario modo atque in propositione est positus assumatur, c terminum
contrario modo atque positus est colligit, uel si c terminus ita ut in
propositione est positus assumatur, simili modo b terminum concludit, ut in
eadem propositione fuerat collocatus. Quare sedecim quidem uel uiginti fiunt
syllogismi: assumptis namque primis hypotheticis propositionibus, octo; octo
uero si secundae praedicatiuae assumantur; quatuor autem his adinuguntur ex
tertio et septimo modo utrobique colligentibus, ut omnes etiam in his
propositionum complexionibus fiant sedecim uel uiginti syllogismi. Quoquo
autem modo aliter assumptiones uerteris, nihil euenit necessarium. Ut autem
omnis propositionum ac syllogismorum ratio colliquescat, exempla subiecimus,
quibus facilius id quod superius docuimus declaretur. o Si cum sit a
animatum, est b homo, est c animal. o Si cum est a animatum, est b
homo, non est c equus. o Si cum sit a animatum, non est b animal,
est c insensibile. o Si cum sit a animatum, non est b animal, non est c
homo. o Si cum non sit tale, est b homo, est c animal. o
Si cum non sit a inuitale, est b homo, non est c equus. o Si cum non sit
a animal, non est b animatum, est c inuitale. o Si cum non sit a
inuitale, non est b animal, non est c homo. Ac de his quidem syllogismis
qui talibus propositionibus conectuntur, quae ex hypothetica praedicatiuaque
consistunt, sufficienter est dictum. Nunc de his dicendum est syllogismis,
quorum propositiones ita tribus terminis continentur, ut mediae sint earum quae
ex hypothetica categoricaque texuntur, et earum quae ex duabus hypotheticis
connectuntur, quas idcirco hoc loco proponimus, quia, ut superiores, ita haec
quoque tribus terminis continentur, et a similibus ad similia facilior
transitus fiet. Harum uero fiunt multiplices syllogismi, quorum nullus
poterit esse perfectus, cum nec per se perspicui sint, et ut his fides debeat
accomodari adiumento extrinsecus positae probationis indigeant; est autem
probatio talium syllogismorum alio constitutus ordine syllogismus. Fiunt uero,
ut dictum est, tum per primam, tum per secundam, tum uero per tertiam figuram.
Sunt autem primae figurae propositiones hae: Si est a, est b; et si est b,
est c. Si est a, est b; et si est b, non est c. Si est a, non est b;
et si non est b, est c. Si est a, non est b; et si non est b, non est
c. Si non est a, est b; et si est b, est c. Si non est a, est b; et
si est b, non est c. Si non est a, non est b; et si non est b, est c. Si
non est a, non est b; et si non est b, non est c. Ergo ratio colligentiae
talis est, ut si constituat et confirmet assumptio quod enuntiatio prima
pronuntiat, sexdecim necesse est fieri complexiones, ex quibus octo tantum
seruant consequentiae necessitatem, reliquae uero octo nihil habere idoneum
uidentur ad fidem. Rursus id quod propositio prima constituit euertat
assumptio: sic quoque sexdecim necesse est fieri complexiones, quarum octo
firma necessitas tenet, octo uero reliquas infida saepius uarietas mutat. Fiunt
uero hi syllogismi, tum in prima figura, tum in secunda, tum uero in tertia.
Omnes igitur trium figurarum modos, a prima ordientes, ut nihil subterfugiat
explicemus. Est enim primae figurae primus modus a prima ueniens
propositione, cum ita proponimus: Si est a, est b; Si est b, necesse
est esse c. Tunc enim si est a, etiam c esse necesse est, cuius haec
demonstratio est: nam si est a, consequitur ut sit b (id est enim quod proponit
prima conditio, si sit a, esse b); at si b fuerit est c, id est enim quod
propositionis pars secunda pronuntiat, si sit b, consequi necessario ut sit
c. Quibus ita concessis, euenit ut, cum sit a, etiam c esse necesse sit;
imperfectum uero hunc dicimus syllogismum, quia testimonio probationis
indiguit; probatio uero ea fuit per syllogismum demonstratio. Ita namque firmauimus
talis consequentiae necessitatem: cum enim ita proponeretur: Si est a, est
b; Et si est b, necesse est ut sit c; poneretque assumptio id quod
affirmatio constituerat, esse a, eamque assumptionem talis sequi conclusio
diceretur, quod necessario esset c, neque id esset ipsius syllogismi natura et
proprietate perspicuum, addita est probatio per syllogismum hoc modo: Si
est a, est b; At si est b, est c; Si igitur est a, necesse est ut sit
c. Et in reliquis quidem eandem rationem exspectari oportere manifestum
est. Et haec quidem complexio ea est, quae id quod primo in propositione
positum fuerat assumit atque constituit; quod si id ponendo quis quod
sequebatur assumat, nulla est necessitas syllogismi, ueluti cum dicimus: Si est
a, est b; Et si est b, necesse est esse c; Atqui est c; non necesse
est esse b uel non esse; sed cum non sit necesse esse b uel non esse, non erit
necesse a esse uel non esse. Idem quoque tale firmabit exemplum: Si est
homo, animal est; Et si est animal, erit corpus animatum; Atqui est corpus
animatum; non necesse erit esse animal, quocirca ne hominem quidem. Secundus
uero modus est hic primae figurae, cum ita proponimus: Si est a, est
b; Et si est b, necesse est non esse c; At uero est a; Non est
igitur c. Huius demonstratio talis est. Nam Si est a, est b id
enim prima conditio monstrabat, quae est, si sit a esse b; cum uero sit b,
necesse est non esse c: id enim consequentia praeferebat in qua pronuntiabatur,
si esset b consequi ex necessitate ut non esset etiam c; si igitur sit a, non
erit c. Quod si id quod ultimum propositio constituit ponat assumpio, id
est non esse c nullus est syllogismus. Nam si de aliqua re ita
proponatur: Si homo sit, est animal; Et si est animal, non est
lapis; At non est lapis; non necesse erit aut esse aut non esse
animal, eodem modo nec hominem. Potest enim, si lapis non sit, esse lignum uel
caetera quae neque animalia sunt, nec inter homines numerantur. Tertius
uero modus est primae figurae, cum id assumptio constituit quod propositio
prima ponebat, cuius ex tertia propositione principium est cum ita
proponimus: Si est a, non est b; Et si non est b, necesse est esse
c; hic enim rursus, si a terminus assumatur ita ut in prima est
enuntiatione propositus, ita dicetur: Atqui est a; Est igitur
c. Probatio uero superioribus similis. Nam quia est a, non est b, et quia
non est b, est c; quia igitur est a, est c. Quod si c terminus assumatur, nihil
necessarium fiet, ut si ita proponamus: Si homo est, non est
insensibile; Si non est insensibile, animal est; Est autem
animal; non est necesse esse hominem. Quartus uero modus est qui ex
quarta propositione principium capit, qui tali propositione formatur: Si
sit a, non est b; Si non est b, non est etiam c; hic enim si est a,
necesse est c non esse. Demonstratio uero eadem quae in prioribus modis. Quod
si c assumatur, nulla erit necessitas complexionis, hoc modo. Age enim
proponatur: Si est homo, lapis non est; Si lapis non est, non est
inanimatum; Atqui non est inanimatum; non necesse est esse
hominem. Quintus modus est ex quinta enuntiatione descendens, cuius prima
talis est propositio: Si non est a, est b; Si est b, etiam c esse
necesse est; Atqui non est a; c igitur necesse est esse. Hic
quoque prius dicta conditio facit consequentiam necessitatis; at si id quod est
c assumatur, nulla necessitas euenit. Sit enim propositio: Si non est
irrationabile rationabile est; Et si rationabile est, animal est;
et assumamus: Sed est animal; non necesse erit uel esse uel non esse
irrationabile. Sextus modus est ita propositus, quem sexta propositio
facit: Si non sit a, est b; Et si est b, non est c; Atqui non
est a; Non est igitur c. Similis uero superioribus demonstratio. At
si c assumatur, eodem modo nullus est syllogismus; nam si sit
propositio: Si animatum non est, inanimatum est; Et si inanimatum
est, sensibile non est; si assumatur: Atqui non est sensibile;
non necesse erit uel esse uel non esse animatum. Septimus modus est, qui
ex septima propositione est: Si a non est, b non est; Et si b non
est, necesse est esse c; Atqui non est a; Necesse est igitur esse
c. Quod si c assumatur, nihil fit necessarium: nam si proponamus: Si
animatum non est, animal non esse; Et si animal non sit, insensibile
esse; assumamusque: At est insensibile; non necesse est uel
esse uel non esse animatum. Octauus uero modus est qui ita proponitur: Si
non est a, non est b; Et si non est b, necesse est non esse c; Atqui
non est a; Non est igitur c. Quod si c assumatur, nec in complexione nec
in terminis erit ulla necessitas. Age enim ita proponamus: Si non est
animatum, non est animal; Et si non est animal, necesse est non esse
sensibile; Atqui non est sensibile; non necesse erit non esse
animatum, ut arbores, herbas, et quidquid uitali tantum anima, non etiam
sensibili, uegetatur. In prima igitur figura ex tribus terminis fiunt
hypotheticae sexdecim complexiones, ita ut id quod positum est in propositione,
idem in assumptione quoque ponatur: octo quidem, si a terminus in propositione
ponatur; octo uero, si c. Quod si a terminus ponendo assumatur, erunt octo
necessarii syllogismi; si uero c terminus ponendo assumatur, quinque equidem
complexiones, id est quae primo secundo tertio quarto atque octauo respondent
modo, nullius necessitatis esse deprehenduntur; tres uero complexiones, quae
quinto sexto septimoque modo accomodantur, per complexionis quidem naturam
nullam necessitatis constantiam seruant; per terminorum uero proprietatem
necessarium colligunt syllogismum, ut sint omnes octo uel undecim
syllogismi. Eodem quoque modo syllogismorum complexionumque ordo
constabit, si id in assumptione quod in propositione positum fuerat,
auferatur. Fient quippe sexdecim complexiones, quarum octo quidem, ubi id
quod sequitur aufertur, integra necessitate perdurant, octo uero, in quibus id
quod praecedit aufertur, necessitatem non eadem ratione conseruant. Sed
hae quidem complexiones quae primo secundo ac tertio, quarto atque octauo modo
accomodantur, nihil colligunt nec per terminorum nec per complexionis
proprietatem; tres uero, id est quintus, sextus et septimus, nihil quidem
colligunt secundum complexionis naturam, uidentur uero colligere secundum
terminorum proprietatem, ut hinc quoque octo uel undecim sint syllogismi. Horum
uero omnium subdantur exempla. Primus igitur modus hic est: Si est a, est
b; Et si est b, etiam c esse necesse est; At non est c; Igitur a
non est. Quod si assumamus: At non est a; nihil euenit
necessarium. Sit enim propositio haec: Si est homo, animal est; Et si
animal est, animatum esse necesse est; Atqui non est homo; necesse
non erit ut non sit animatum. Secundus modus est: Si est a, est
b; Et si est b, non esse c necesse est; Atqui est c; Igitur a
non erit. Quod si assumamus ita: Atqui non est a; non necesse
erit esse c uel non esse. Nam si sit propositio talis: Si est homo, animal
est; Et si animal est, lapis non est; si assumamus: Atqui non
est homo; non necesse erit lapidem uel esse uel non esse. Tertius
modus: Si est a, non est b; Et si non est b, necesse est esse c; Atqui
non est c; Necesse est igitur non esse a. Quod si a terminum tollat
assumptio, nihil euenit necessarium: age enim sit propositio: Si homo est,
non est inanimatus; Et si inanimatus non est, animatum esse necesse
est; Atqui non est homo; non necesse est uel esse uel non esse animatum.
Quartus: Si est a, non est b; Et si non est b, necesse est non esse
c; At est c; Igitur a non erit. Quod si assumamus non esse a,
nulla complexionis necessitas inuenitur: nam si sit propositio: Si homo
est, non est irrationabile; Si irrationabile non est, inanimatum eum non
esse necesse est; Atqui non est homo; non necesse est eum uel esse
inanimatum uel non esse. Quintus: Si a non est, b est; Et si b
est, c esse necesse est; Atqui non est c; Igitur a esse necesse
est. Quod si a terminus assumatur, non fiet syllogismus: sit enim
propositio: Si irrationabile non est, rationabile est; Et si
rationabile est, animal est; Atqui irrationabile est; non necesse
erit esse uel non esse animal. Sextus: Si non est a, est b; Et si est
b, necesse est non esse c; Atqui est c; Igitur a esse necesse
est. Quod si a terminum sumam, nulla necessitas inuenitur: sit enim
propositio talis: Si animatum non sit, inanimatum est; Et si
inanimatum est, sensibile non est; Atqui animatum est; non erit
necesse uel esse uel non esse sensibile. Septimus: Si a non sit, b non
est; Et si b non est, c esse necesse est; Atqui c non
est; Igitur a esse necesse est. Quod si a terminum sumpserimus,
complexio nullam faciet necessitatem: sit enim proposititio talis: Si non
est animal, non est rationabile; Si rationabile non est, irrationabile
est; et si assumamus: Atqui animal est; non necesse est uel
esse irrationabile uel non esse. Octauus modus est qui hac propositione
formatur: Si a non est, nec b est; Et si b non est, c non esse
necesse est; Atqui est c; Igitur a esse necesse est. Quod si a
terminum sumpserimus, non fiet ulla necessitas: sit enim propositio: Si
non est animal, non est homo; Et si non est homo, necesse est non esse
risibile; Atqui est animal; non necesse erit uel esse uel non esse
risibile. Ac de prima quidem figura satis dictum est, sequenti uero uolumine de
secunda tractabitur. Conditionalium propositionum, quae tribus terminis
constant, secunda figura est, quotiens cum aliquid dicitur uel esse uel non
esse, consequitur ut duo quaedam uel esse uel non esse dicantur. Variantur
autem in ipsis propositionibus uel etiam in conclusionibus secundum
assumptionis ordinem multis modis; quod ut facilius innotescat, prius cunctae
propositiones ordine digerantur. In quibus illud est praedicendum, quod saepe
aequimodae propositiones ponuntur, saepe uero non; aequimodis quidem nullus est
syllogismus. Aequimoda enim propositio est si ita dicamus: Si a est, b
est; Et si a est, c non est; inaequimoda uero secundae figurae propositio
est in his syllogismis hypotheticis quorum enuntiationes tribus terminis
componuntur, ueluti cum ita proponimus: Si est a, est b; Si autem non
est a, est c. Huius propositionis tale intellegatur exemplum: Si
animal est, animatum est; Si animal non est, insensibile est; hic
igitur animal, quod est a, non est uno modo utrisque propositum sed ad b quidem
afiirmatiue, ad c autem negatiue coniungitur, et id uocatur non aequimode
praedicari. Quod si in utrisque a esse uel non esse poneretur, aequimoda
praedicatio diceretur. Disponantur igitur (ut dictum est) omnes non aequimodae
propositiones hoc modo: o Si est a, est b; si non est a, est c. o Si
est a, est b; si non est a, non est c. o Si est a, non est b; si non est
a, est c. o Si est a, non est b; si non est a, non est c. Nunc
igitur a quidem esse propositum est cum b, non esse uero cum c; rursus a non
esse ponamus cum b, esse uero cum c: o Si non est a, est b; si est a, est
c. o Si non est a, est b; si est a, non est c. o Si non est a, non
est b; si est a, est c. o Si non est a, non est b; si est a, non est
c. Si igitur non sit aequimoda praedicatio, assumpto quidem b fiunt
sexdecim complexiones, quarum tantum octo sunt syllogismi; rursus, si assumatur
c, sic quoque sexdecim complexiones fiunt sed in octo tantum syllogismorum
deprehenditur firma necessitas. Sit igitur secundae figurae primus modus hic,
ex prima ueniens propositione: Si est a, est b; Si autem non est a,
est c. Dico quoniam: Si non est b, est c quoniam enim si est a
est b, secundum ordinem consequentiae si non est b, non erit a; atqui si non
esset a, esset c, si igitur non sit b, erit c. Quod si idem b esse ponatur,
nihil euenit necessarium: age enim sit b, non necesse est esse uel non esse a.
Nihil igitur necessarium sequitur, ut sit uel non sit c; ut si sit a animal, b
animatum, c insensibile: nam si est animal, est animatum; si uero non est
animal, insensibile est; atqui si sit animatum, non necesse est esse animal,
uel non esse, non igitur necesse est esse insensibile uel non esse. Quod
si c terminus assumatur, siquidem non esse ponatur, erit necessario b; si uero
esse, nullus est syllogismus. Nam si non est c, est a, at si est a, est b, si
igitur non est c, est b; quod si est c, non necesse est esse a, aut fortasse
necesse sit non esse. Haec enim propositio, id est: Si non est a, est
c in talibus tantum euenit, in quibus alterum eorum esse necesse sit;
quod si est c, non erit a, si non est a, nihil ad b, ueluti si est insensibile,
non erit animal, at si non sit animal, nihil animatum uel esse uel non esse necesse
erit. Ex secunda rursus propositione fit syllogismus cum ita
proponimus: Si est a, est b; Si non est a, non est c; dico
quia: Si non est b, non est c propositum quippe est: Si est a,
est b. Ordo uero consequentiae est, si non est b, non esse a, quod si non
est a, non est c, si igitur non est b, non est c. Quod si fuerit b, non necesse
est esse c; sit enim a animal, b animatum, c rationabile, et
proponatur: Si animal est, animatum est; Si animal non est, rationabile
non est; Atqui est animatum; non necesse est esse animal, quo fit ut
ne rationabile quidem. Quod si c terminum dicat assumptio, si quidem c
terminus affirmatus fuerit, erit b; quod si idem c terminus abnuatur, nullus
est syllogismus. Nam quoniam si est a, erit b, si non est a, non erit c, si est
c, erit a; at cum est a, est b, si est igitur c, erit b; quod si non sit c,
nihil sit necessarium, nam in hac propositione quae dicit: Si animal est,
animatum est; Si animal non est, /326/ rationabile non est;
assumamus: Atqui non est rationabile; non necesse erit esse uel non
esse animal, quocirca ne animatum quidem. Item ex tertia propositione
talis est syllogismus: Si est a, non est b; Si non est a, est
c; dico quia: Si est b, est c; nam quoniam ita propositum est: Si
est a, non esse b necesse est consequi ut, si sit b, non sit a; at si non
sit a, erit c; si igitur sit b, erit c; quod si non sit b, nihil est
necessarium. Si enim sit a animal, b inanimatum, c insensibile, in hac
propositione quae dicit: Si est animal, non est inanimatum; Si non est
animal, est insensibile; si assumamus non esse inanimatum, non necesse
erit esse animal uel non esse, quare ne insensibile quidem. Si uero a c termino
fiat assumptio, si quidem non sit c, non erit b; si uero sit, nulla erit necessitas
conclusionis. Nam quoniam ita propositum est, ut si sit a, non sit b, si
uero non sit a, sit c, ea est consequentia, ut si non sit c, sit a (in his enim
tantum terminis dici potest, qui medietate priuati sunt); at si sit a, non est
b, si igitur non sit c, non erit b. Quod si sit c, nullus est syllogismus; nam
in hac propositione quae dicit: Si est animal, non est inanimatum; Si
uero non est animal, insensibile est; assumat aliquis esse insensibile,
sequitur quidem ut non sit animal, sed non consequitur ut uel sit uel non sit
inanimatum. Ex quarta propositione est syllogismus ita: Si est a non est
b; Si non est a, non est c; dico quoniam: Si est b, non est
c; nam quoniam ita propositum est: Si est a, non est b ea
rerum consequentia est, ut si sit b, non sit a. Atqui cum non sit a, positum
fuerat non esse c; si igitur sit b, non est c. Quod si b non esse assumatur,
nullus est syllogismus; age enim sit a quidem animal, b inanimatum, c
rationabile, et sit haec propositio: Si est animal, non est
inanimatum; Si non est animal, non est rationabile; assumamus igitur
non esse inanimatum, non necesse erit esse animal, quocirca nec rationabile. Rursus
si c terminus assumatur, si quidem esse ponatur, necesse erit non esse b; at si
non est c, nullus est syllogismus. Nam quoniam propositum est: Si a sit,
non esse b; Si a non sit, non esse c; necesse est ut, cum sit c, sit
etiam a, at si sit a, non sit b; si igitur sit c, non erit b. Quod si c non
esse ponatur, nullus est syllogismus, ueluti in hac propositione: Si est animal
non est inanimatum; Si non est animal, non est rationabile. Si quis
igitur assumat non esse rationabile, non necesse erit esse animal, quocirca ne
inanimatum quidem uel esse uel non esse. Atque in his quidem quatuor
propositionibus ita a terminus positus est, ut ad b quidem esse diceretur, ad c
uero non esse; quod si ordo mutetur, rursus quatuor erunt alii syllogismi, si b
terminus assumatur, quatuor etiam alii, si c; ex utraque autem parte quaternae
complexiones erunt, quae nullos faciant syllogismos. Sit enim quinta
propositio: Si non est a, est b; Si est a, est c; dico quia: Si
non est b, erit c. Assumatur enim: Atqui non est b erit igitur
a (hic enim consequentiae ratus ordo constabat); sed cum est a, est c, si igitur
non est b, erit c. Quod si b esse ponatur, nihil sit necessarium; si enim
est b, non erit a, quod si a non est, nihil ad c, quocirca nullus est
syllogismus. Non esse autem a, si b sit, ea propositio monstrat per quam
dicimus: Si a non est, est b haec enim immediatis tantum contrariis
conuenit. Age enim sit a quidem animal, b uero insensibile, c animatum, et
proponatur: Si animal non est, insensibile est; Si animal est,
animatum est; et ponatur esse insensibile, non necesse est esse uel non
esse animal, quocirca ne animatum quidem esse uel non esse necesse est. Quod si
c terminus assumatur, si quidem negatiue, faciet syllogismum, affirmatiue uero,
nullo modo. Nam si non est c, non est a; quod si non est a, est b, si igitur c
non est b est; quod si sit c, non necesse est esse uel non esse a, quo fit ut
ne b quidem esse aut non esse necesse sit. Nam si est animatum, non necesse est
esse uel non esse animal, cum uero animal non sit, non necesse est esse uel non
esse insensibile. Propositio uero eadem quae superius. Rursus ex sexta
propositione fit syllogismus hoc modo: Si non est a, est b; Si est a,
non est c; dico quia: Si non est b, non erit c; si enim non est b,
est a, at si est a, non est c; si igitur non est b, non erit c. Quod si b
terminum ponat assumptio, nulla est necessitas conclusionis; si enim est b, non
est a. Id enim ex superioribus manifestum est. At si non est a, nihil ad c;
tunc enim c non erat, si esset a. Exemplum uero hoc est, ut si sit a animal, b
insensibile, c inanimatum. Si igitur sit propositio talis: Si non est
animal, est insensibile; Si est animal, non est inanimatum; Atqui est
insensibile; non est igitur animal sed non consequitur ut sit uel non sit
inanimatum. Quod si c terminum sumpseris, si quidem affirmes, facies
syllogismum; nam si est c, non erit a, quod si a non sit, erit b, si igitur c
fuerit, erit b. At si negaueris, nihil est necessarium. Si enim assumas: Atqui
non est c non necesse erit esse uel non esse a, quocirca ne b quidem; nam
si inanimatum negaueris, non necesse est esse uel non esse animal, quocirca ne
insensibile quidem esse uel non esse. Ex septima propositione conclusio est cum
ita proponimus: Si non est a, non est b; Si est a, est c dico
quia: Si est b, erit c nam quoniam ita propositum est, si non esset
a, non esse b, si sit b erit a. Atqui si sit a, erit c; si igitur sit b, erit
c.Quod si b terminum neget assumptio, nulla est in conclusione necessitas. Nam
si non sit b, nihil erit necessarium esse uel non esse a, quocirca ne c quidem,
uelut in his terminis. Si enim sit a animatum, b animal, c uiuere, si sic
enuntiemus: Si non est animatum, non est animal; Si est animatum uiuit;
si igitur assumamus: Atqui non est animal; non necesse est esse uel
non esse animatum, quocirca nec uiuere. Quod si assumamus c terminum, si quidem
negemus, erit syllogismi perfecta necessitas; si uero affirmemus, nulla
conclusio est. Nam si non est c, non erit a, si non est a, non erit b, si
igitur non sit c, non est b. Quod si affirmetur, nihil est necessarium;
siue enim necesse est esse, siue non necesse est esse a, nihil ad b, ut in
superioribus terminis poterit ostendi: si enim uiuit, et si necesse est esse
animatum, non necesse est tantum esse animal; quod si non est necesse esse
animatum, non necesse est esse uel non esse animal; ut uero necesse sit non
esse animatum, fieri non potest. Ex octaua enuntiatione conclusio est, cum ita
proponitur: Si non est a, non est b; Si est a, non est c; dico
quoniam: Si est b, non est c nam si est b, est a, quod si est a, non
est c, si igitur est b, non erit c. Quod si b terminum neget assumptio,
nihil est necessarium: Si enim non sit b, non necesse erit a uel esse uel non
esse, quo fit ut ne c quidem, uelut in his terminis, si sit a animatum, b
animal, c inanimatum. Si igitur proponamus: Si non est animatum, non est
animal; Si est animatum, non est inanimatum; et assumamus: Sed
non est animal non necesse est uel esse uel non esse animatum, quocirca
ne inanimatum quidem. At si c terminus assumatur, si quidem cum affirmatione
ponatur, erit necessitas syllogismi: nam si est c, non est a, quod si non est
a, non est b, si igitur est c, non est b; at si c terminum neget assumptio,
nihil est necessarium: nam si non est c, non necesse erit esse uel non esse a,
quo fit ut ne b quidem. Nam si non est inanimatum, fortasse quidem necesse
sit esse animatum sed non necesse est esse animal. Inuenientur autem termini ut
non sit necesse esse a, ueluti si c ponamus nigrum, a album; negato enim nigro
non consequitur ut affirmetur album. Et secundae quidem figurae inaequimodas
complexiones omnes (ut arbitror) explicuimus; si uero aequimodae sint, nullus
omnino fit syllogismus. Aequimodae uero fiunt hoc modo: quotiescumque enim a
terminus ad b et ad c simul uel esse uel non esse ponitur, quoquomodo b atque c
termini uarientur, harum igitur quae aequimodae complexiones esse dicuntur,
nulla est collectibilis. Sunt autem omnes aequimodae complexiones
hae: o Si est a est b, si est a est c. o Si est a est b, si est a non
est c. o Si est a non est b, si est a est c. o Si est a non est b, si est
a non est c. o Si non est a est b, si non est a est c. o Si non est a
est b, si non est a non est c. o Si non est a non est b, si non est a est
c. Si non est a non est b, si non est a non est c. Quarum imbecillam
conclusionem atque omni carentem necessitate ex assumptionibus quoquo modo
factis inueniemus, nec non secundum superius descriptos modos etiam terminos
facillime reperire poterimus, per quos demonstratur nullam in talibus
complexionibus inueniri posse constantiam. Ac de secunda quidem figura, quanti
sint quotque modis fiant syllogismi diligenter ostendimus. Fiunt autem, si
inaequimodae quidem complexiones fuerint, b termino assumpto, syllogismi octo, totidemque
si c terminus assumatur. Sunt igitur secundae figurae sedecim syllogismi,
totidem uero, b atque c termino non ita ut oportet assumptis, complexiones
fiunt, quibus nihil admodum colligatur. Nunc igitur de tertia figura
dicendum est, in qua quidem totidem complexiones fiunt et totidem syllogismi
sed ita ut non aequimodae propositiones ponantur; quod si aequimodae fuerint,
nullus omnino (ut in secunda figura dictum est) fiet syllogismus. Exponamus
igitur omnes figurae tertiae inaequimodas propositiones: o Si est b est a,
si est c non est a. o Si es b est a, si non est c non est a. o Si non
est b est a, si est c non est a. o Si non est b est a, si non est c non
est a. Et nunc quidem a cum b esse, cum c uero non esse propositum est;
rursus uero a quidem cum b non esse, cum c uero esse proponatur: o Si est
b non est a, si est c est a. o Si est b non est a, si non est c est
a. o Si non est b non est a, si est c est a. o Si non est b non est a,
si non est c est a. Tertiae igitur figurae primus modus huiusmodi est: Si
est b, est a; Si est c, non est a; qui quidem diuersus est a secundae
figurae primo modo. Illic enim si a esset uel non esset, b et c esse
dicebantur. Nunc uero si b uel c fuerint, a esse uel non esse proponitur.
Aequimodae autem propositiones non sunt, quae in alia parte esse, in alia non esse
constituunt, uelut in superius comprehensa: nam si b est, a est, si autem c
est, a non est. Quibus ita positis, dico quoniam Si est b, c non esse
necesse est; si enim est b, est a, quod si est a, non est c, si igitur
est b, non est c. Quod si b terminus abnuatur, nullus est syllogismus: si enim
b non sit, non necesse erit esse uel non esse a, nec c igitur necesse erit esse
uel non esse, uelut in hoc exemplo. Si sit b animal, a animatum, c
mortuum, et proponatur: Si animal est, animatum est; Si mortuum est,
animatum non est; Atqui non est animal; non necesse est esse uel non
esse animatum. Quae enim non sunt animalia, possunt esse animata, ut arbores;
possunt esse non animata ut lapides. Quocirca, si animal non fuerit, ne mortuum
quidem esse uel non esse necesse est. Plura enim non sunt animalia, quae mortua
non sint, ut lapides; ea enim mortua dicuntur quae aliquando uixerunt. Ab
assumptione uero c termini affirmatio faciet syllogismum. Nam si c est, b non
erit, si enim c est, non est a: at si non sit a, non erit b, si igitur c est, b
non erit. Negatio uero nihil explicat necessitatis; nam si non est c, non
necesse est esse uel non esse a, quo fit ut ne b quidem. Nam si non sit
mortuum, non necesse est esse animatum uel non esse: quaedam enim quae non sunt
mortua, animata sunt, ut arbores, quaedam uero, cum mortua non sint, non sunt
animata, ut lapides, quo fit ut ne animal quidem esse uel non esse necesse sit,
si mortuum destruatur. Ex secunda uero propositione hic modus est
colligendus: Si est b, est a; Si non est c, non est a; dico quia:
Si est b, erit c. Nam si est b, est a, quod si est a, est c -- ita enim
conuertitur talis propositio --; si igitur est b, est c. Quod si b
terminus negetur, nulla est necessitas syllogismi: nam si non est b, non
necesse est esse uel non esse a, quocirca ne ad c quidem ulla necessitas
perueniet, ut in terminis patet. Nam si sit b animal, a animatum, c corporeum,
et proponatur: Si est animal, est animatum; Si non est corporeum, non
est animatum; et assumatur: Atqui non est animal; non necesse
est esse uel non esse corporeum -- c uero terminus si negetur, erit necessitas
syllogismi: nam si non est c, non est a, quod si non est a, non est b (ita enim
conuerti potest), si igitur non est c, non erit b; si affirmetur c, nulla est
necessitas, nam si est corporeum, non necesse est animatum esse uel non esse,
quocirca nec animal quidem esse uel non esse necesse est. Tertia
propositio talem recipit conclusionem: Si non est b, est a; Si est c,
non est a; dico quia: Si non est b, non erit c. Si enim non
sit b, est a; quod si sit a, non erit c (ita enim poterat conuerti ea pars
propositionis, quae, si esset c terminus, a terminum non esse dicebat); fit
igitur ut si non sit b, non sit c. Quod si affirmetur esse b terminum, nulla
est necessitas conclusionis; nam si sit b, necesse est quidem non esse a, sed
non necesse est esse c, ut in his terminis, si sit b animatum, a inanimatum, c
animal. Si quis igitur sic proponat: Si non est animatum, inanimatum
est; Si est animal, non est inanimatum; si igitur ponamus esse animatum,
sequitur quidem ut non sit inanimatum sed non necesse est ut sit animal. C
uero terminus si affirmetur, fiet necessaria conclusio hoc modo. Nam si est c,
non est a, si non est a, est b (id enim sequebatur eam propositionem quae, si
non esset b terminus, a terminum esse dicebat); si igitur sit c, est b. Quod si
idem c terminus abnuatur, nullus est syllogismus: nam si non sit c, non necesse
est esse uel non esse a, quo fit ut ne b quidem. Nam si non est animal, non
necesse est esse uel non esse inanimatum, quocirca ne animatum quidem. Ex
quarta propositione talis est syllogismus: Si non est b, est a; Si
non est c, non est a; dico quia: Si non est b, est c. Nam si
non est b, est a, si uero a fuerit, necesse est esse c -- id enim consequitur
eam propositionis partem quae ait: Si non est c, non est a -- si
igitur non sit b, est c. At si b terminus affirmetur, nullus est syllogismus.
Sequitur namque ut non sit a sed non sequitur ut sit uel non sit c, uelut in
his terminis: nam si sit b quidem insensibile, a animal, c animatum, et proponatur:
Si sit insensibile, non est animal; sed non necesse est esse uel non esse
animatum. C uero terminus si negetur, fiet protinus syllogismus. Nam si
non est c, non est a, si non est a, erit b -- id enim consequitur eam
propositionis partem quae dicit: Si non est b est a -- si igitur non
sit c, erit b. Quod si sit c, non est necesse esse uel non esse a, quo fit ut
ne b quidem. Nam si est animatum, non necesse est esse animal uel non esse, quo
fit ut ne insensibile quidem esse uel non esse necesse sit. Et hactenus quidem
quatuor modos ita disposuimus, ut ad b terminum, quoquo se modo haberet, a
terminus esse poneretur, ad c uero non esse. Nunc ita statuamus ut a terminus
ad b terminum non esse dicatur, ad c uero esse, ordine scilicet immutato.
Omnes uero non esse aequimodas propositiones illud ostendit quod a quidem si
affirmatiue est ad b, ad c negatiue proponitur, aut si negatiue ad b,
affirmatiuam ad c retinet enuntiationem. Quinta igitur propositio talem facit
syllogismum, cum talis est propositio: Si est b, non est a; Si est c,
est a; dico quia: Si est b, non est c. Nam si est b, non est
a, si uero non sit a, non est c (id enim talem propositionem consequebatur,
quae, si esset c terminus, a quoque esse dicebat); si est igitur b, non est c.
At si negetur b, nullus est syllogismus: si enim /348/ non sit b, non necesse
est esse a, quo fit ut ne ad c quidem necessitas ulla perueniat. Et in
terminis idem patet: nam si sit b quidem mortuum, a animatum, c animal, et sit ita
propositio: Si est mortuum, non est animatum; Si animal est, animatum
est; et assumamus non esse mortuum, non necesse est esse uel non esse
animatum. Nam et quae adhuc animata sunt, et quae numquam fuerunt, non sunt
mortua, quocirca non sequitur ut sit uel non sit animal; quod enim mortuum non
est, potest et esse animal, ut canis uiuens, et non esse, ut lapis. At si c
terminus affirmetur, erit perfecta conclusio non esse b; nam si sit c, est a,
si uero sit a, non erit b (id enim consequitur superius positum propositionis
modum); si igitur sit c, non erit b. At si negetur c, neque ad a neque ad
b necessitas ulla perducitur, uelut in his terminis: nam si non est animal,
neque animatum, neque mortuum uel esse uel non esse necesse est. Sextae
propositionis haec conclusio est: Si est b, non est a; Si non est c,
est a; dico quia: Si est b, erit c. Nam si est b, non est a,
si non sit a, erit c (talis enim in hac parte propositionis est consequentia);
si igitur sit b, erit c. Quod si b terminus abnuatur, nihil necessarium fiet:
nam si non sit b, nec a nec c terminos uel ad esse uel ad non esse sequitur
ulla necessitas, ut in terminis patet. Nam si sit b mortuum, a animatum, c
inanimatum, si non sit mortuum, non necesse est esse uel non esse animatum,
quocirca ne inanimatum quidem. At si c terminus assumatur, si quidem in
negatione sit positus, fiet rata conclusio non esse b terminum: nam quoniam non
est c, est a, at si sit a, non est b, si igitur non sit c, non erit b. Quod si
affirmetur c terminus, nihil est necessarium; neque enim si sit c, quamuis a
non esse necesse sit, ad b terminum necessitas ulla perueniet, ut etiam in
terminis patet: nam si sit inanimatum, necesse est non esse animatum sed non
necesse est esse mortuum. Septimae propositionis talis est syllogismus:
enuntietur enim: Si non est b, non est a; Si est c, est a;
dico quia: Si non est b, non est c si enim non sit b, non erit a,
quod si a non fuerit, non erit c (id enim sequebatur eam propositionem qua
dicebatur, si esset c terminus, a quoque consequi ut esset); si igitur non sit
b non erit c. Quod si affirmetur b, nihil est necessarium; neque enim si
sit b, uel a uel c aut esse aut non esse necesse est, ut in terminis patet: nam
si sit b animatum, a animal, c sensibile, et sit propositio: Si animatum
non est, non est animal; Si sensibile est, animal est; si assumatur
esse animatum, neque animal necesse est esse, neque sensibile. At si per c
terminum fiat assumptio, si quidem affirmabitur, erit firma conclusio; si
negetur, nullus est syllogismus: nam si est c, est a, si sit a, erit b (id enim
consequebatur eam propositionem quae ait: si non sit b, non esse a); si igitur
sit c, erit b. At si idem c terminus abnuatur, nihil est necessarium; nam si
non sit c, neque a neque b terminum necessitas ulla constringit, uelut si non
sit sensibile, non sit forsitan animal sed non necesse est esse animatum;
reperientur uero termini quibus ne a quidem non esse necesse sit. Octauus
modus est in quo ita proponitur: Si non est b, non est a; Si non est
c, est a; dico quia: Si non est b, est c. Si enim non sit b,
non erit a, quod si non sit a, erit c -- id enim consequebatur eam partem propositionis
quae dicebat: Si non est c, est a -- si igitur non sit b, erit c.
Quod si b terminus affirmetur, nihil est necessarium; nam si sit b, neque esse
neque non esse necesse est a terminum, quo fit ne c quidem. Id uero tali liquet
exemplo, si sit b animatum, a animal, c insensibile, et proponatur: Si non
sit animatum, non est animal; Si non sit insensibile, est animal. Si igitur
in assumptione affirmemus b terminum, ac dicamus: Atqui est
animatum; non necesse est esse uel non esse animal uel insensibile,
quocirca nullus est syllogismus. At si c terminus abnuatur, fiet protinus
syllogismus: nam si non est c, est a, si uero est a, erit b, si igitur non sit
c, erit b. Quod si c terminus affirmetur, nihil est necessarium; nam et si a
terminum non esse necesse est, quantum ad b terminum nihil necessarium cadit.
Id uero tali demonstratur exemplo: Si sit insensibile, non est animal;
quod si animal non est, non necesse est esse uel non esse animatum. In non
aequimodis igitur propositionibus, siue b siue c terminus assumatur, octo
necesse est ex utraque parte fieri syllogismos; reliquae uero ex utraque parte
octonae complexiones necessitate priuatae sunt. At si sint aequimodae, nullus
omnino est syllogismus. Aequimodae uero dicuntur quotiens a terminus ad
utrosque uel esse uel non esse proponitur; omnes autem aequimodae propositiones
sunt huiusmodi: o Si est b, est a, si est c, est a. o Si est b, est a, si
non est c, est a. o Si non est b, est a, si est c, est a. o Si non
est b, est a, si non est c, est a. o Si est b, non est a, si est c, non est a.o
Si est b, non est a, si non est c, non est a. o Si non est b, non est a,
si est c, non est a. o Si non est b, non est a, si non est c, non est
a. In quibus et per consequentiam propositionum superius designatam, et
per exempla currentes, possumus lucide et constanter agnoscere nullam omnino in
syllogismis fieri necessitatem. Quocirca, cum tribus terminis texitur
propositio, ex prima quidem figura fiunt syllogismi sedecim, ex secunda
syllogismi sedecim, ex tertia etiam totidem colliguntur, omnes ex tribus
terminis syllogismi quodraginta octo. Restat nunc ut de his syllogismis
dicamus qui duabus hypotheticis continentur, quorum quidem similis
consequentiae modus est, ut in his propositionibus quae ex duabus categoricis
ac simplicibus efficiebantur. In omnibus enim si quidem uelimus astruere,
primam totius propositionis assumemus partem, si uero in conclusione aliquid
destruendum est, secunda negabitur. Siue autem prima denegetur, siue posterior
affirmetur, nulla fit omnino necessitas, nisi in quinta, septima, tertia decima
et quinta decima propositione, in quibus non complexionis natura sed terminorum
proprietas consequentiam facit, sicut in his syllogismis fieri docuimus qui in
his propositionibus constant, quae duabus simplicibus continentur. Horum autem
omnium qui ex duabus hypotheticis constant propositiones apposui, quarum
differentias cum lector agnouerit, ad earum exempla necesse est reuertatur,
quae ex simplicibus et categoricis iunctae sunt. Sunt autem omnes
propositionum differentiae, quae ex duabus hypotheticis copulantur, huius
modi: o Si cum est a, est b, cum sit c, est d. o Si cum est a, est b,
cum sit c, non est d. o Si cum est a, est b, cum non sit c, est d. o
Si cum est a, est b, cum non sit c, non est d. o Si cum sit a, non est b,
cum sit c, est d. o Si cum sit a, non est b, cum sit c, non est d. o
Si cum sit a, non est b, cum non sit c, est d. o Si cum sit a, non est b,
cum non sit c, non est d. o Si cum non sit a, est b, cum sit c, est
d. o Si cum non sit a, est b, cum sit c, non est d. o Si cum non sit
a, est b, cum non sit c, est d. o Si cum non sit a, est b, cum non sit c,
non est d. o Si cum non sit a, non est b, cum sit c, est d. o Si cum
non sit a, non est b, cum sit c, non est d. o Si cum non sit a, non est b,
cum non sit c, est d. o Si cum non sit a, non est b, cum non sit c, non
est d. In his quoque propositionibus illud inspiciendum est quod, cum
sedecim sint, octo quidem ita uariantur, ut tamen in omnibus a terminus esse
ponatur, octo uero ita, ut idem a terminus non esse dicatur. Non uero quoquo
modo positae fuerint habebunt uim conditionalium propositionum ex duabus hypotheticis
constantium; nam si quis sic dicat: Si cum homo est, animal est; Cum sit
animatum, corpus est; non fecerit eam propositionem quae ex duabus
conditionalibus constet. Neque enim idcirco quod animatum est corpus est, quia
qui homo est animal est, nec conditio sequitur conditionem; sed si eas separes,
per seque pronunties, utraque habet in terminorum consequentia necessitatem:
nam et qui homo est animal est, et quod animatum est corpus est, et per se
istae propositiones uerae sunt nec conditione iunguntur. Ut igitur
singularum natura clarescat, de unaquaque est disserendum. Prima igitur
propositio talis esse debet, ut si sit a positum, b terminus non continuo
subsequatur, itemque, si c ponatur, non necesse sit d terminum consequi sed,
posito quidem a termino, c terminum, posito uero b, terminum d esse necesse
sit. Tunc enim eueniet ut si, posito a, fuerit b, necesse sit c posito subsequi
d, ut si sint termini a homo, b medicus, c animatum, d artifex. Posito enim
homine non necesse est ut medicus sit, et cum sit animatum, non necesse est ut
sit artifex; at si homo sit, necesse est ut sit animatum, et si medicus sit,
necesse est ut artifex sit. Hoc itaque posito, eueniet ut si, cum homo sit,
medicus est, cum sit animatum, sit artifex. Secunda propositio ita esse
debet, ut a atque b, itemque c atque d praeter se esse possint sed a praeter c
esse non possit, b autem atque d simul esse non possint. Tunc enim eueniet ut
si, posito a termino, b fuerit consecutum, posito c non esse d necesse sit, ut
si sit a homo, b niger, c animatum, d albus: homo namque praeter nigrum, et
animatum praeter album uel esse uel non esse potest; homo uero praeter
animatum, nigrum autem cum albo esse non potest, euenitque ut si cum sit homo,
niger sit, cum sit animatus non sit albus. Item tertiae propositionis tales
terminos esse oportebit, ut a praeter b esse possit, c uero uel cum a uel cum d
simul esse non possit. Quocirca euenit ut, si a posito fuerit b, negato c
termino d esse necesse sit, ut si sit a quidem animatum, b medicus, c
inanimatum, d artifex: animatum enim praeter medicum esse potest, inanimatum
uero neque cum animato neque cum artifice iungi potest; itaque si cum animatum
est, medicus est, cum inanimatum non sit artifex est. Quarta propositio his
terminis contexenda est, ut a quidem cum b termino, c autem cum d uel esse uel
non esse possit, neque uero a cum c, neque b cum d ullo modo esse possibile
sit. Tunc enim euenit ut, si a posito, b subsequatur, c negato negetur etiam d,
ut si sit a homo, b niger, c inanimatum, d album: homo quidem praeter nigrum,
inanimatum uero praeter album esse et non esse potest; neque tamen homo cum
inanimato, neque nigrum cum albo esse possibile est. Si tamen, cum homo
sit, niger est, sequitur ut, cum non sit inanimatum, non sit album. Quintae
propositionis haec membra sunt, ut a praeter b, et c praeter d esse uel non
esse possit sed a praeter c esse non possit, b atque d numquam simul esse
possint, ita ut si alterum non sit, alterum esse necesse sit. Tunc enim eueniet
ut si a posito b negetur, c posito d sequatur, ut si sit a quidem homo, b
aeger, c animatum, d sanus. Homo quidem praeter aegritudinem, animatum uero
praeter sanitatem et esse et non esse potest; sed si homo sit, animatum esse
necesse /362/ est; itaque fiet ut si, cum homo sit, non sit aeger, cum sit
animatus sanus sit. Sexta propositio hos terminos habere desiderat, ut a
praeter b, et c praeter d, et esse et non esse possit; idem uero a praeter c,
et d praeter b esse non possit. Tunc enim eueniet ut si a posito non est b, posito
c non sit d, ut si sit a homo, b artifex, c animatum, d medicus. Homo quidem
praeter artificium, animatum uero praeter medicinam et esse et non esse potest;
neque uero homo praeter animatum, neque medicus praeter artificium esse potest.
Quo fit ut si cum homo est, artifex non est, cum sit animatum, non sit
medicus. Septimae propositionis hi termini sunt, ut a quidem praeter b
esse et non esse possit, c autem neque cum d neque cum a esse possit, b etiam
cum c simul esse et non esse non possit; ita namque eueniet ut si, posito a
esse, b denegetur, negato c termino d sequatur, ut si a quidem sit animatum, b
sanum, c inanimatum, d aegrum. Animatum quidem praeter sanitatem et esse et non
esse potest, inanimatum uero neque cum animato neque cum aegro conuenire
potest; quo fit ut, si cum animatum est, sanum est, cum non sit inanimatum
aegrum sit. Item octaua propositio his terminis copulanda est, ut a
quidem praeter b terminum et esse et non esse possit, c autem cum d non esse
possit, /364/ sed a cum c et d praeter b esse non possit. Hoc enim pacto
eueniet ut, si a posito b denegetur, denegato c termino d terminus non sit, ut
si sit a animatum, b artifex, c inanimatum, d medicus. Animatum enim praeter
artificium et esse et non esse potest, inanimatum uero neque cum animato neque
cum medico conuenit, medicus uero praeter artificium esse non potest; unde
euenit ut, si cum animatum est, non sit artifex, cum non sit inanimatum non sit
medicus. Nona propositio fiet si a quidem atque b simul esse non possint,
c uero possit esse praeter d, cum a uero esse non possit. Tunc enim eueniet ut,
si a denegato, b esse consequitur, c posito d sequatur, ut si sit a quidem
inanimatum, b medicus, c animatum, d artifex. Inanimatum quippe medicus esse
non potest, animatum uero potest non esse artifex; inanimatum uero atque
animatum simul esse non possunt, quo fit ut si quod non est inanimatum, medicus
sit, cum sit animatum sit artifex. Decimam propositionem tales termini
copulabunt, ut a quidem praeter b, at uero c praeter d esse possit sed a cum c,
et b cum d esse non possit. Ita enim proueniet ut, si negato a esse, b
consequatur, posito c termino d non esse necesse sit, ut si sit a inanimatum, b
nigrum,c animatum, d album.Inanimatum quippe praeter nigrum, et animatum
praeter album esse et non esse possunt; sed inanimatum cum animato, et nigrum
cum albo simul esse non possunt. Sed si negatum fuerit inanimatum et consecutum
fuerit nigrum, posito animato album esse negabitur. Item undecima propositio ea
sit, ut neque a cum b, neque c cum d simul esse pcssit, a uero sine c et b sine
d esse non possit. Ita enim si cum a sit negatum, b sequitur, cum c negabitur,
d esse necesse est, ut si sit a inanimatum, b medicus, c inuitale, d artifex.
Inanimatum quidem medicus esse non potest, quocirca ne inuitale quidem artifex;
sed quod inanimatum est non potest non esse inuitale, itemque qui medicus est
non potest non esse artifex. Si igitur inanimatum negetur et medicum esse
consequatur, cum negabitur inuitale artifex esse consequitur. Duodecima propositio
est quam talibus terminis constare oportebit, ut a quidem praeter b, at uero c
praeter d uel esse uel non esse possit, a uero sine c, et b cum d, esse non
possint. Ita enim cadet ut si, a negato, b sequitur, c negato d etiam
denegetur, ut si fuerit a inanimatum, b album, c inuitale, d nigrum. Inanimatum
quidem praeter album, inuitale autem praeter nigrum uel esse uel non esse
potest; si tamen inanimatum non sit, et sit album, cum inuitale non sit non
erit nigrum. Tertia decima propositio his terminis connectenda est, ut a
quidem prneter b, at uero c praeter d esse possit, a uero atque c, et b atque d
ita simul esse non possint, ut si alterum eorum non fuerit, alterum esse
necesse sit. Ita namque fiet si cum a negatum sit, b negetur, cum c affirmatum
sit d affirmetur, ut si sit a irrationabile, b aegrum, c rationabile, d sanum.
Irrationabile /368/ namque praeter aegrum, et rationabile praeter sanitatem
esse potest, irrationabile uero atque rationabile, et aegrum atque sanum simul
esse non possunt; si tamen alterum eorum non fuerit, alterum esse necesse est.
Itaque fit ut si irrationabili denegato aegrum denegetur, rationabili posito
sanum ponatur. Quarta decima propositio his texenda membris est, ut a
quidem praeter b, et c praeter d esse possint sed a atque c simul esse non
possint, ita ut cum alterum non fuerit alterum esse necesse sit, d uero praeter
b esse non possit. Fit igitur ut, si cum sit a denegatum, b denegetur, cum sit
c non sit d, ut si sit a inanimatum, b artifex, c animatum, d medicus. Inanimatum
quidem praeter artificem, animatum uero praeter medicum esse potest; inanimatum
uero cum animato non conuenit, et medicus ab artifice nullo modo separatur; fit
igitur ut si, cum non est inanimatum, non sit artifex, cum sit animatum non sit
medicus. Quinta decima propositio hos terminos habere debet, ut a quidem
cum c, at uero b cum d esse non possit, b uero atque d talia sint, ut altero
eorum negato, alterum eorum esse necesse sit. Ita namque fiet ut si, cum sit a
denegatum, b negetur, cum negabitur c aflirmetur d, ut si sit a quidem
irrationabile, b sanum, c inanimatum, d aegrum. Irrationabile quidem si non
sit, non est inanimatum; sanum etiam atque aegrum simul esse non possunt, et
qui sanum negauerit aegrum necesse est affirmet, itemque e diuerso; est igitur
ut, si negato irrationabili negetur sanum, negato inanimato aegrum
ponatur. Sexta decima propositio est quae his terminis constat, ut a
quidem praeter c, at uero d praeter b esse non possit, a uero cum b et c cum d
esse nullo modo queant. Euenit igitur ut si, a quidem negato, negetur b,
denegato c terminus d abnuatur, ut si sit a inanimatum, b artifex, c inuitale,
d medicus. Inanimatum igitur praeter inuitale et medicus praeter artificem esse
non potest, inanimatum uero cum artifice et inuitale cum medico esse non
poterit: si igitur negato inanimato negetur artifex, negato inuitali negatur
medicus. Atque haec quidem ratio propositionum, quarum superius exempla
descripsimus, idcirco intellegatur assumpta ut earum natura claresceret, non
quo aliter inter se termini esse non possint. Nam, ut superius dictum est, non
sufficit quolibet modo iungere terminos, ut fiant hypotheticae propositiones ex
duabus conditionalibus coniugatae; neque enim si quis dicat: Si cum homo
est, animal est, cum dies est, lucet talem fecerit propositionem quae ex
duabus conditionalibus constet, idcirco quia prior conditio non est secundae
causa conditionis. Hoc igitur superius positarum propositionum ratio
demonstrat, quemadmodum fit ut conditionem conditio consequatur. Quae cum ita sint
de earum dicendum est syllogismis. Fit igitur ex prima propositione syllogismus
hoc modo: Si cum est a, est b, cum sit c, est d; Atqui cum sit a, est
b; Cum igitur sit c, erit d. Vel ita: Atqui cum sit c, non est
d; Cum igitur sit a, non est b. Posse uero hanc esse assumptionem
superius descripta propositionum natura demonstrat. Item ex secunda
propositione: Si cum est a, est b, cum sit c, non est d; Atqui cum
sit a, est b; Cum igitur sit c, non est d. Vel ita: Atqui cum
sit c, est d; Cum igitur sit a, non est b. Ex tertia: Si cum
sit a, est b, cum non sit c, est d; Atqui cum sit a est b; Cum igitur
non sit c, est d. Vel ita: Atqui cum non sit c, non est d; Cum
igitur sit a, non est b. Item ex quarta: Si cum sit a, est b, cum non sit
c, non est d; Sed cum sit a, est b;Cum igitur non sit c, non est d.
Vel ita: Atqui cum non sit c, est d; Cum igitur sit a, non est
b. Ex quinta propositione hunt quatuor collectiones: ita namque termini
proponuntur, ut utrobique fiat rata conclusio hoc modo: Si cum est a, non
est b, cum sit c, est d; Atqui cum sit a, non est b; Cum igitur sit
c, est d. Vel ita: Atqui cum sit a, est b; Cum igitur sit c,
non est d Vel ita: Atqui cum sit c, non est d; Cum igitur sit
a, est b. Vel ita: Atqui cum sit c, est d; Cum igitur sit a, non
est b. Ex sexta: Si cum est a, non est b, cum sit c non est d. Atqui
cum sit a, non est b; Cum igitur sit c, non est d. Vel
ita: Atqui cum sit c, est d; Cum igitur sit a, est b. Ex septima
item fiunt quatuor syllogismi hoc modo: Si cum est a, non est b, cum non
sit c, est d; Atqui cum est a, non est b; Cum igitur non sit c, est
d. Vel ita: Atqui cum sit a, est b; Cum igitur non sit c, non est
d. Vel ita: Atqui cum non sit c, non est d; Cum igitur sit a,
est b. Vel ita: Atqui cum non sit c, est d; Cum igitur sit a,
non est b. Ex octaua propositione: Si cum est a, non est b, cum non
sit c, non est d. Atqui cum sit a,
non est b; Cum igitur non sit c, non est d. Vel ita: Atqui cum
non sit c, est d; Cum igitur sit a, est b. Hactenus quidem ex his
propositionibus quae a esse proponebant, atque ita caeteros terminos affirmando
negandoque uariabant, ostendimus qui fierent syllogismi. Nunc ex his
propositionibus quinam syllogismi fiant dicendum est, quae ita caeteros
terminos uariant, ut a non esse proponant. Ex nona enim propositione ita fit
syllogismus: Si cum non est a, est b, cum sit c, est d; Atqui cum
non sit a, est b; Cum igitur sit c, est d. Vel ita: Atqui cum
sit c, non est d; Cum igitur non sit a, non est b. Item ex decima: Si
cum non est a, est b, cum sit c, non est d; Atqui cum non est a, est
b; Cum igitur sit c, non est d. Vel ita: Atqui cum sit c, est
d; Cum igitur non sit a, non est b. Ex undecima: Si cum non est
a, est b, cum non sit c, est d. Atqui cum non est a, est b; Cum
igitur non sit c, est d. Vel ita: Atqui cum non sit c, non est
d; Cum igitur non sit a, non est b. Ex duodecima: Si cum non
est a, est b, cum non sit c, non est d; Atqui cum non sit a, est b; Cum
igitur non sit c, non est d. Vel ita: Atqui cum non sit c, est
d; Cum igitur non sit a, non est b. Item ex tertia decima, quae
quatuor colligit syllogismos hoc modo: Si cum non est a, non est b, cum
sit c, est d; Atqui cum non sit a, non est b; Cum igitur sit c, est
d. Vel ita: Atqui cum non sit a, est b; Cum igitur sit c, non
est d. Vel ita: Atqui cum sit c, non est d; Cum igitur non sit
a, est b. Vel ita: Atqui cum sit c, est d; Cum igitur non sit
a, non est b. Item ex quarta decima: Si cum non est a, non est b, cum
sit c, non est d; Atqui cum non est a, non est b; Cum igitur sit c,
non est d. Vel ita: Atqui cum sit c, est d; Cum igitur non sit
a, est b. Quinta decima rursus quatuor colligit syllogismos, hoc
modo: Si cum non est a, non est b, cum non sit c, est d; Atqui cum
non sit a, non est b; Cum igitur non sit c, est d. Vel ita: Atqui
cum non est a, est b; Cum igitur non sit c, non est d. Vel
ita: Atqui cum non sit c, non est d; Cum igitur non sit a, est
b. Vel ita: Atqui cum non sit c, est d; Cum igitur non sit a,
non est b. Ex sexta decima propositione: Si cum non est a, non est b,
cum non sit c, non est d; Atqui cum non sit a, non est b; Cum igitur
non sit c, non est d. Vel ita: Atqui cum non sit c, est d; Cum
igitur non sit a, est b. Ex quibus omnibus quodraginta conclusiones fiunt:
sedecim quidem assumpta prima conditione, ita ut in prima propositione est
posita; sedecim uero assumpta secunda conditione, contrario modo atque in
propositione est collocata; octo uero ex quinta, septima, tertia decima et
quinta decima propositionibus fiunt, assumptis primis quidem conditionibus
contrario modo atque in propositione proferebantur, secundis uero conditionibus
eodem modo assumptis, ut in propositione fuerant collocatae. Ut igitur
omnium propositionum conclusionumque ratio clarescat, omnes huiusmodi
enuntiationes cum propositis apposuimus exemplis. o Si cum est a homo, est
b medicus, cum sit c animatum, est d artifex. o Si cum est a homo, est b
niger, cum sit c animatum, non est d albus. o Si cum est a animatum,
est b medicus, cum non sit c inanimatum, est d artifex. o Si cum est
a homo, est b niger, cum non sit c inanimatum, non est d albus. o Si
cum est a homo, non est b aeger, cum sit c animatum, est d sanus. o
Si cum est a homo, non est b artifex, cum sit c animatum, non est d
medicus. o Si cum est a animatum, non est b sanum, cum non sit c inanimatum, est
d aegrum. o Si cum est a animatum, non est b artifex, cum non sit c inanimatum,
non est d medicus. o Si cum non est a inanimatum, est b medicus, cum sit c
animatum, est d artifex. o Si cum non est a inanimatum, est b niger, cum
sit c animatum, non est d albus. o Si cum non est a inanimatum, est b
medicus, cum non sit c inuitale, est d artifex. o Si cum non est a
inanimatum, est b albus, cum non sit c inuitale, non est d nigrum. o
Si cum non est a irrationale, non est b aegrum, cum sit c rationale, est d sanum. o Si cum non est
a inanimatum, non est b artifex, cum sit c animatum, non est d medicus. o
Si cum non est a irrationale, non est b sanum, cum non sit inanimatum,
est d aegrum. o Si cum non est a inanimatum, non est b artifex, cum non
sit c inuitale, non est d medicus. Ac de his quidem qui per
connexionem fiunt haec dicta sunt. Hi uero qui in disiunctione sunt positi
illis uidentur adiuncti, eorumque modos formasque suscipiunt, quos superius in
connexione positos ex his propositionibus fieri diximus quae duabus simplicibus
iungerentur. Si igitur in disiunctione propositarum propositionum ad eas
similitudinem demonstrauerim quae in connexione positae ex simplicibus
copulatae sunt, quot modi qualesque conclusiones sunt in unaquaque illarum quae
per connexionem fiunt propositionum, tot etiam in his esse necesse est quae per
disionctionem pronuntiatae eamdem uim connexioni habere monstrantur. Quatuor
ergo superius differentias per connexionem enuntiatarum propositionum esse
diximus, si ex simplicibus propositionibus copularentur, hoc modo: Si est
a, est b. Si non est a, non est b. Si est a, non est b. Si non est a, est
b. Per disiunctionem quoque propositiones quatuor diderentias tenent hoc
modo: Aut a est aut b est Aut a non est aut b non est Aut a est
aut b non est. Aut a non est aut b est. Quarum quidem ea quae prima est
et proponit aut a esse aut b, in his tantum dici potest in quibus alterum eorum
esse necesse est, uelut in contrariis medietate carentibus, similisque est ei
propositioni quae dicit: Si a non est, b est. Quae enim
proponit: Aut a est aut b est id intellegit, neque simul utraque
esse posse, et, si unum non fuerit, consequi ut sit alterum. Itaque si non sit
a, erit b; sed haec una est earum propositionum quas in his quae per
connexionem fiunt superius numerauimus. Quicumque igitur syllogismi in ea
propositione fiunt, quae est: Si a non est, b est hi etiam in ea
faciendi sunt quae per disiunctionem proponitur, cum dicimus: Aut a est aut b
est. Fiunt autem in superiore quatuor modis: quamlibet enim partem
propositionis assumpseris, siue praecedentem, siue etiam consequentem, siue
negatiuo modo, siue affirmatiuo, faciet sullogismum. Nam si haec propositio
sit: Si non est a, est b siue non sit a, erit b; siue sit a, non
erit b; siue non sit b, erit a; siue sit b, non erit a. In propositione
quoque disiunctiua idem est. Nam cum dicitur: Aut a est aut b est
siquidem a fuerit, b non erit; quod si a non fuerit, erit b, et si b non sit,
erit a: si b fuerit, non erit a. Id quoque tali declaratur exemplo. Nam si sit
propositio: Aut aeger est aut sanus quidquid horum in assumptione
assumptum fuerit, uel negatum, altera pars uel affirmabitur, uel negabitur hoc
modo: nam si sanus est, non est aeger; si non est sanus, aeger est; si aeger
est, non est sanus; si non est aeger, sanus est. Item ea propositio
disiunctiua quae proponit: Aut non est a aut non est b fit quidem de
his quae quolibet modo simul esse non /384/ possunt, etiamsi non alterum eorum
necesse sit esse, similisque est ei propositioni connexae per quam ita
proponatur: Si est a, non est b. Quae enim sic enuntiat: Aut
non est a aut non est b id nimirum sentit, quod si a sit, b esse non
possit. Id ita probabitur. Cum enim proponitur hoc modo: Aut non est a aut
non est b tum si assumatur esse a, non erit b. Quocirca ei propositioni
connexae similis est quae ita enuntiat: Si sit a non esse b. In hac
uero propositione duae tantum complexiones syllogismos creabant: nam si esset
a, non erat b, et si esset b non erat a. Siue autem non esset a, non necesse
erat esse uel non esse b; siue non esset b, non necesse erat esse uel non esse
a. Quocirca et in disiunctiua propositione totidem syllogismos esse
necesse est, totidem uero incollectibiles complexiones; nam cum ita
proponitur: Aut non est a aut non est b ita dicitur: Si sit a,
non erit b et si sit b, non erit a. Siue autem non sit a, non necesse
erit esse uel non esse b; siue non sit b, non necesse erit esse uel non esse a,
ueluti in his apparet exemplis. Si enim quis dicat: Aut non est album
aut non est nigrum si igitur assumat: Atqui est album non erit
nigrum; uel rursus: Atqui est nigrum non erit album. Siue autem
album non esse assumpserit, non necesse erit esse uel non esse nigrum; siue
nigrum non esse assumpserit, ut sit uel non sit album nullam faciet
necessitatem. Item ea propositio per quam ita proponitur: Aut est a aut
non est b dicitur quidem de sibimet adhaerentibus, proponiturque in his
propositionibus quae ad minora de maioribus tendunt, similisque est ei
propositioni connexae quae enuntiat: Si non est a, non est b. Nam qui
dicit: Aut est a aut non est b si assumat: Atqui non est
a modis omnibus non erit b; si igitur non sit a, non erit b. Id enim haec
disiunctio praemittebat. In hac uero siquidem a negaretur, uel confirmaretur b,
habet aliquis syllogismus; siue autem a affirmaretur, siue b negaretur, nulla
erat in conclusione necessitas. Idem prouenit in disiunctis: nam cum
proponitur: Aut est a aut non est b siquidem non sit a, non erit b;
si uero sit b, erit a: quod si sit a, uel non sit b, nihil est
necessarium. Id uero in his terminis approbatur, si quis ita
proponat: Aut animal est aut non est homo si igitur animal non sit,
non est homo; si homo sit, animal est; siue autem animal sit, non necesse est
esse hominem, siue homo non sit, animal non necesse est interire. Ea uero
propositio quae dicit: Aut non est a aut est b in his quae
sibi adhaerent proponi potest, et a minoribus ad maiora contendit sed est
similis ei propositioni connexae quae dicit: si est a, est b. Nam
cum ita quis enuntiat, siquidem assumat esse a, statim consequitur ut sit b;
sed in hac propositione, siquidem affirmaretur esse a, sequebatur ut esset
b. Quod si negaretur b, sequebatur ut non esset a; siue autem negaretur a,
siue affirmaretur b, nihil necessarium uidebatur accidere. Et in ea igitur
propositione disiuncta quae dicit: Aut non est a aut est b siquidem
fuerit a, erit b; si non fuerit b, non erit a: siue autem non sit a, siue sit
b, nulla est necessitas syllogismi, ut in hoc declaratur exemplo: Aut non
est homo aut animal est. Si igitur assumamus: Atqui est homo
erit animal; si negemus esse animal, non erit homo; si autem hominem negemus,
uel animal affirmemus, nihil necessarium cadit. Quocirca ex his quae
superius dicta sunt declaratur quot disiunctarum propositionum syllogismi sint,
uel quibus ab his quae connexae sunt differentiis segregentur. Quae enim
connexae sunt quandam in eo quod est esse uel non esse consequentiam monstrant;
quae uero secundum disiunctionem proponuntur ita sunt, ut sibimet consentire
non possint. Inuenias quoque per connexionem propositiones, quae id
intellegi uelint, ut a se nequeant separari, ut cum ita proponimus: Si est
a, est b. Id nimirum haec propositio intellegit, quod si esse in
disiunctione sunt ita proponitur, ut simul esse uideantur. Cum enim
dicimus: Aut a est aut b est aut easdem propositiones quolibet modo
alio uariamus, id et coniunctio quae disiunctiua ponitur sentit simul eas esse
non posse. Et cum late earum pateat differentia, idcirco nunc de eisdem pauca
subiunximus, quoniam totidem syllogismos fieri dicebamus in his propositionibus
quae per disiunctionem fierent, quot etiam fuerant /390/ in connexis; et
quoniam de omnibus qui quoquo modo fieri possunt hypotheticis syllogismis
sufficienter dictum est, hic operis longitudinem terminemus. Quam magnos
studiosis afferat fructus scientia dividendi quamque apud peripateticam
disciplinam semper haec fuerit in honore notitia, docet et Andronici,
diligentissimi senis de divisione liber editus[;]et hic idem a Plotino
gravissimo philosopho comprobatus et in libri Platonis, qui Sophistes
inscribitur commentariis a Porphyrio repetitus, et ab eodem per hanc
introductionis laudata in Categorias utilitas. Dicit enim necessarium fore
generis, speciei, differentiae, proprii, accidentisque peritiam, tum propter
alia multa tum propter utilitatem quae est maxima partiendi. Quare, quoniam
maximus usus est facillimaque doctrina, ego id quoque sicut pleraque omnia
Romanis auribus tradens, introductionis modo habitaque in eandem rem et
competenti subtilique tractatione et moderata brevitate perscripsi, ut nec
anxietas decisae orationis et non perfectae sententiae legentium ƿ mentibus
ingeratur; nec putet supervacuam loquacitatem harum rerum inexperiens, rudis,
insolensque novi audientium mentes habere aequum, nec ullus livor id quod et
arduum natura est et ignotum nostris, nobis autem magno et labore et legentium
utilitate digestum, obliquis morsibus obtrectationis obfuscet, denique potius
viam studiis, nunc ignoscendo nunc etiam comprobando, quam frena bonis artibus
stringant, dum quicquid novum est imprudenti obstinatione repudiant. Quis enim
non videat plurimum ad bonarum artium valere defectum si apud mentes hominum
numquam sit desperatio displicendi? Sed haec hactenus. Nunc divisionis ipsius
nomen dividendum est et secundum unumquodque divisionis vocabulum uniuscuiusque
propositi proprietas partesque tractandae sunt, divisio namque multis modis
dicitur. Est enim divisio generis in species, est rursus divisio cum totum in
proprias distribuitur partes, est alia cum vox multa significans in
significationes proprias recipit sectionem. Praeter has autem tres est alia
divisio quae secundum accidens fieri dicitur. Huius triplex modus est: unus cum
subiectum in accidentia separamus, alius cum accidens in subiecta dividimus,
tertius cum accidens in accidentia secamus (hoc ita fit si utraque eidem subiecto
inesse videantur). Sed harum omnium exempla subdenda sunt quatenus totius huius
ratio divisionis eluceat. Genus dividimus in species cum dicimus
"animalium alia sunt rationabilia, alia irrationabilia; rationabilium alia
mortalia, alia immortalia" vel cum dicimus "coloris alia quidem sunt
alba, alia nigra, alia media". Oportet autem omnem generis in species
divisionem aut in duas fieri partes aut in plures, sed neque infinitae species
esse possunt generis nec minus duabus. Hoc autem cur eveniat posterius
demonstrandum est. Totum in partes divididur quotiens in ea ex quibus est
compositum unumquodque resolvimus, ut cum dico domus aliud esse tectum, aliud
parietes, aliud fundamenta, et hominem anima coniungi et corpore, cumque
hominis dicimus partes esse Catonem, Virgilium, Ciceronem et singulos qui, cum
particulares sint, vim tamen totius hominis iungunt atque componunt; neque enim
homo genus, nec singuli homines species, sed partes quibus totus homo
coniungitur. Vocis autem in significationes proprias divisio fit quotiens una
vox multa significans aperitur et eius pluralitas significationis ostenditur,
ut cum dico "canis" quod est nomen et hunc quadrupedem latrantemque
designat et caelestum qui ad Orionis pedem morbidum micat; est quoque alius,
marinus canis, qui in immoderatam corporis magnitudinem crescens caeruleus appellatur.
Sed huius divisionis duplex modus est, aut enim unum nomen multa significat aut
oratio iam verbis nominibusque composita. Et nomen quidem multa significat ut
id quod supra proposui, oratio vero multa designat ut est: Aio te, Aeacida,
Romanos vincere posse. Et nominis quidem per significationes proprias divisio
aequivocationis partitio nuncupatur, orationis vero in significationes proprias
distributio ambiguitatis discretio est, quam Graeci amphiboliam dicunt, ita ut
nomen multa significans aequivocum, oratio vero multa designans amphibola atque
ambigua praedicetur. Eorum autem quae secundum accidens dividuntur subiecti in
accidentia divisio est ut cum dicimus "omnium hominum alii sunt nigri,
alii candidi, alii medii coloris", haec enim accidentia sunt hominibus,
non hominum species, et homo his subiectum, non horum genus est. Accidentis
vero in subiecta sectio evenit ut est "omnium quae expetuntur alia in
anima, alia in corporibus sita sunt", animae namque atque corpori id quod
expetitur accidens, non genus, est, et boni quod in anima et corpore situm est
non sunt haec species sed subiecta. Accidentis vero in accidentia divisio est
ut "omnium candidorum alia sunt dura", ut margarita, "alia
liquentia", ut lac, liquor namque et albedo atque durities haec sunt
accidentia, sed album in dura et liquida separatum est. Cum ergo sic dicimus,
accidens in alia accidentia separamus. Sed huiusmodi divisio vicissim semper in
alterutra permutatur, possumus enim dicere "eorum quae dura sunt alia sunt
nigra, alia alba" et rursus "eorum quae liquida alia sunt alba, alia
nigra"; sed haec rursus conversa dividimus: "eorum quae sunt nigra
alia sunt dura, alia liquentia". Differt autem huiusmodi divisio omnibus
quae supra sunt dictae, nam neque significationem partiri possumus in voces,
cum vox in significationes proprias discernatur, nec partes in totum
dividuntur, quamvis totum separetur in partes, nec species secatur in genera,
licet genus in species dividatur. Quod vero superius dictum est, hanc divisionem
ita fieri si utraque eidem contingerent inesse subiecto, si attentius
perspicitur liquet, nam cum dicimus eorum quae dura sunt alia esse alba, alia
nigra, ut est lapis atque hebenum, manifestum est hebeno utraque inesse, et
duritiem scilicet et nigredinem. In caeteris quoque id diligens lector
inveniet. Quibus autem summa operatio veritatis inquiritur, his prius
intelligendum est quae sit horum omnium simul proprietas quibusque inter se
singillatim differentiis segregentur. Omnis enim vocis et generis totiusque
divisio secundum se divisio nuncupatur, reliquae vero tres in accidentis
distributione ponuntur. Secundum se autem divisionis huiusmodi differentia est.
Differt enim divisio generis a vocis divisione quod vox quidem in proprias
semper significationes separatur, ƿ genus non in significationes sed in quadam
a se quodammodo creatione disiungitur, et genus semper speciei propriae totum
est et universalius in natura, aequivocatio vero universalior quidem
significata re dicitur, tantum voce non etiam totum est in natura. Illo quoque
a vocis distributione dividitur, quod nihil habent commune praeter solum nomen
quae sub ea voce sunt, quae vero sub genere collocantur et nomen generis et
definitionem suscipiunt. Amplius quoque non eadem apud omnes vocis est
distributio: quod apud nos dicitur canis cum eius multae significationes in
lingua Romana sint simpliciter fortasse praedicatur in barbara, cum ea quae
apud nos uno nomine nuncupantur illi pluribus fortasse significent. Generis
vero apud omnes eadem divisio distributioque permanet, unde fit ut vocis quidem
divisio ad positionem consuetudinemque pertineat, generis ad naturam, nam quod
apud omnes idem est natura est, consuetudinis vero est quod apud aliquos
permutatur. Et hae quidem sunt differentiae generis distributionis et vocis. Generis
quoque sectio totius distributione seiungitur quod totius divisio secundum
quantitatem fit, partes enim totam substantiam coniungentes actu aut ratione
animi et cogitatione separantur, generis vero distributio qualitate perficitur.
Nam cum hominem sub animali locavero tunc qualitate divisio facta est, quale
namque animal est homo idcirco quoniam quadam qualitate formatur, unde quale
sit animal homo interrogatus aut "rationale" respondebit aut certe
"mortale". Amplius {quoque} genus omne naturaliter prius est propriis
speciebus, totum autem partibus propriis posterius; partes sunt quae totum
iungunt, compositi sui perfectionem alias natura tantum, alias ratione quoque
temporis antecedunt, unde fit ut genus in posteriora, totum vero in priora
solvamus. Hinc quoque illud vere dicitur: si genus interimatur statim species
deperire, si species ƿ interempta sit non peremptum genus in natura consistere.
Contra evenit in toto, nam si pars totius perit totum non erit, cuius pars una sit
interempta; sin totum pereat partes permanent distributae, ut si de integra
domo quis abstulerit tectum, totum quod ante fuit intercipit, sed pereunte toto
parietes et fundamenta constabunt. Amplius quoque genus speciebus materia est,
nam sicut aes accepta forma transit in statuam ita genus accepta differentia
transit in speciem; totius vero partium multitudo materia est, forma vero
earundem partium compositio. Nam sicut species ex genere constat et
differentia, ita totum constat ex partibus, unde fit ut totum ab unaquaque
parte sua partium ipsarum compositione differat, species vero a genere
differentiae coniunctione. Amplius quoque species idem semper quod genus est,
ut homo idem est quod animal et virtus idem est quod habitus, partes vero non
semper idem quod totum, neque enim manus idem est quod homo nec idem paries
quod domus. Et in his quidem quae dissimiles partes habent hoc clarum est, sed
non eodem modo in his quae similes, ut in aeris virgula cuius partes, quia sunt
continuae quia eiusdem sunt aeris, videntur idem esse quod totum est, sed
falso; fortasse enim idem sint partes huiusmodi substantia, non etiam
quantitate. Restat autem vocis et totius distributionis differentias dare.
Differunt autem quod totum quidem constat partibus, vox vero non constat ex his
quae significat; et fit totius quidem divisio in partes, vocis autem fit non in
partes sed in eas res quas vox ipsa significat, unde fit ut sublata parte una
totum pereat, sublata una re quam vox significat multa designans vox illa
permaneat. Nunc ergo quoniam secundum se divisionis differentiae dictae sunt
generis distributio pertractetur. Primum quid genus sit definiendum est: genus
est quod de pluribus specie differentibus in eo quod ƿ quid sit praedicatur,
species vero est quam sub genere collocamus, differentia qua aliud ab alio
distare proponimus. Et est quidem genus quod interroganti quid quaeque res sit
convenit responderi, differentia quae ad qualis percontationem rectissime
respondetur; nam cum quis interrogatur "Quid est homo?" recte
"Animal", "Qualis est homo?" convenienter
"Rationabilis", respondetur. Dividitur autem genus alias in species,
alias in differentias si species quibus genus oportet dividi nominibus carent,
ut cum dico "animalium alia rationabilia sunt, alia irrationabilia"
rationabile et irrationabile differentiae sunt. Sed quoniam speciei huius quae
est animal rationabile nomen unum non est, idcirco pro specie differentiam
ponimus eamque superiori generi copulamus, omnis enim differentia in genus
proprium veniens speciem facit, unde fit ut materia quaedam genus sit, forma
differentia, cum autem propriis nominibus species appellantur, non in differentias
generis fit recta divisio. Unde est ut ex pluribus terminis definitio
colligatur. Si enim omnes species suis nominibus appellarentur ex duobus solis
terminis omnis fieret definitio; ut cum dico "Quid est homo?" quid
mihi necesse esset dicere "Animal rationale mortale" si animal
rationale esset nomine proprio nuncupatum, quod cum reliqua differentia, id est
mortali, iunctum definitionem hominis verissima ratione et integra conclusione
perficeret? Nunc autem ad definitiones integras specierum divisio necessaria
est et forte in eodem divisionis definitionisque ratio versetur, nam
divisionibus iunctis una componitur definitio. Sed quoniam alia sunt aequivoca,
alia univoca, et quae sunt univoca ipsa in generum suscipimus sectiones, quae
vero sunt aequivoca in his divisio sola significationis est, videndum prius est
quid sit univocum quid aequivocum ne, cum ista fefellerint, aequivocum nomen
quasi in species ita in significativas ƿ resolvamus. Unde fit ut rursus ad
divisionem necessaria sit definitio, quid enim sit aequivocum quid univocum
definitione colligimus. Sunt autem differentiae aliae per se, aliae vero per
accidens, et harum aliae sunt consequentes, aliae statim relinquentes. Statim
relinquentes sunt huiusmodi, dormire vel sedere vel stare vel vigilare,
consequentes vero ut capilli crispi (si non amissi sint) et glauci oculi (si
non sint quadam extrinsecus debilitate turbati). Sed haec ad generis divisionem
sumenda non sunt, neque enim ad definitionem sunt commoda; omne enim quicquid
ad divisionem generis aptum est idem ad definitiones rectissime congregamus,
illa vero quae per se sunt sola ad divisionem generis apta sunt, haec autem
informant perficiuntque uniuscuiusque substantiam, ut hominis rationabilitas et
mortalitas. Sed has quemadmodum probare possimus utrum ex eo sint genere statim
relinquentium an consequentium an in substantia permanentium hoc modo mihi
videndum est, neque enim sufficit scire quas in divisione sumamus nisi illud
quoque sit cognitum, quemadmodum easdem ipsas quae sumendae et quae reiciendae
sunt rectissime cognoscamus. Videndum ergo primum est utrum proposita
differentia omni possit et semper inesse subiecto; quod si ipsa vel actu vel
ratione seiungitur, haec a divisione generis separanda est. Si enim saepe et
actu et ratione seiungitur, ex eorum est genere quae statim relinquunt, ut
sedere quidem frequentius separatur et actu ipso a subiecto dividitur. Quae
vero ratione sola a subiecto dividuntur ea sunt consequentium differentiarum,
ut glaucis oculis esse a subiecto ratione seiungimus, ut cum dico "Est
animal luminibus glaucis, ut quilibet homo", quod si hic non esset
huiusmodi non eum ƿ res aliqua esse hominem prohiberet. Aliud rursus est quod
ratione separari non possit, quod si separatum sit species interimatur, ut cum
dicimus inesse homini ut solus numerare possit vel geometriam discere. Quod si
haec possibilitas ab homine seiungatur, homo ipse non permanet; sed haec non
statim earum sunt quae in substantia insunt, nam non idcirco homo est quoniam
haec facere potest, sed quoniam rationalis est atque mortalis. Hae igitur
differentiae propter quas species consistit ipsae et in definitione speciei et
in generis eius divisione quod continet speciem collocantur. Et universaliter
dicendum est, quaecumque differentiae huiusmodi sunt ut non modo praeter eas
species esse non possit sed propter eas solas sit, hae vel in divisione generis
vel in speciei definitione sumendae sunt. Quoniam vero quaedam sunt quae
differunt quae contra se in divisionibus poni non debent, ut in animali
rationale et bipes (nullus enim dicit "Animalium alia sunt rationabilia,
alia duos pedes habentia" idcirco quod rationale et bipes, licet
differant, nulla a se oppositione disiunguntur), constat quaecumque a se aliqua
oppositione differunt eas solas differentias sub genere positas genus ipsum
posse disiungere. Sunt autem oppositiones quatuor: aut ut contraria, ut bonum
malo, aut ut habitus et privatio, ut visus et caecitas, quamquam sint et
quaedam res in quibus discernere difficultas sit utrum in contrariis an in
privatione vel habitu ea oporteat collocari, ut sunt motus quies, sanitas
aegritudo, vigilatio somnus, lux tenebrae -- sed haec alias, nunc autem de
reliquis oppositionibus dicendum est. Tertia oppositio est quae est secundum
affirmationem et negationem, ut: “Socrates vivit”, “Socrates non vivit.” Quarta
secundum relationem, ut pater filius, dominus servus. Secundum quas igitur harum
quattuor oppositionum ƿ divisio generis sit rectissima ratione monstrandum est,
manifestum est enim et oppositiones esse quattuor et species et genera per
opposita separari. Nunc ergo dicendum est secundum quam oppositionem harum
quattuor vel quemadmodum species a genere disiungi conveniat. Et prima quidem
sit contradictionis oppositio, voco autem contradictionis oppositionem quae
affirmatione et negatione proponitur. In hac igitur negatio per se nullam
speciem facit, nam cum dico "homo" vel "equus", et aliquid
huiusmodi, species sunt, quicquid autem quis in negatione protulerit speciem
non declarat, non esse enim hominem non est species. Omnis enim species esse
constituit, negatio vero quicquid proponit ab eo quod est esse disiungit, ut
cum dico "homo" quasi si sit quiddam locutus sum, cum vero "non
homo" substantiam hominis negatione destruxi. Sic igitur per se caret
divisio generis in species negatione. Necesse est autem saepe speciem negatione
componere cum ea quam simplici nomine speciem volumus assignare nullo vocabulo
nuncupatur, ut cum dico "Imparium numerorum alii primi", ut tres,
quinque, vel septem, "alii non primi", ut novem, et rursus
"Figurarum aliae sunt rectilineae, aliae non rectilineae" et
"Colorum alii sunt albi, alii nigri, alii nec albi nec nigri". Ergo
quando nomen unum speciebus positum non est, eas negatione proferre necesse
est. Hoc igitur cogit interdum necessitas, non natura. In eodem quoque quotiens
negatione facimus sectionem prius aut affirmatio aut simplex dicendum est nomen,
ut est "Numerorum alii sunt primi, alii non primi", nam si prius
negatio dicta sit, tardior fit rei quam proponimus intellectus. Nam cum primum
dicis esse aliquos numeros primos, cum quales sint primi exemplo vel
definitione docueris, quales non sint primi mox auditor intelliget. Sin vero e
contrario feceris, aut neutra subito aut tardius utraque cognoscet, divisio
vero quae propter apertissimam generis naturam reperta est debet potius ad
intelligibiliora deducere. Amplius quoque prior affirmatio est, posterior
negatio, quod autem primum ƿ est in divisione quoque oportet primitus ordinari.
Necesse est quoque semper finita infinitis esse priora, ut aequale inaequali,
virtutem vitiis, certum incerto, stabile fixumque mutabili. Sed omnia quae aut
definita parte orationis aut affirmatione proferuntur plus finita sunt quam aut
nomen cum particula negativa aut tota negatio, quare finito potius quam infinito
est facienda divisio. Sed si cui per haec quaedam paratur anxietas aut
obscuriora sunt fortasse quam ipse desiderat, nihil ad me cognitionem facilem
pollicentem, neque enim rudibus haec totius artis sed imbutis et ulteriore
paene loco progressis legenda et discenda proponimus. Qui vero huius operis
ordo sit cum De ordine Peripateticae disciplinae mihi dicendum esset diligenter
exposui. Haec quidem dicta sunt de oppositione quam affirmatio negatioque
constituit, illa vero quae secundum habitum privationemque fit ipsa quoque
superiori videtur esse consimilis. Negat enim quodammodo privatio habitum, sed
differt quod semper quidem potest esse negatio, privatio vero non semper, sed
tunc quando habitum habere possibile est (hoc vero nos iam Praedicamenta
docuerunt). Quare forma quaedam intelligitur esse privatio, non enim tantum
privat sed etiam circa se ipsam privatum quemque disponit. Neque enim solum
oculum caecitas privat lumine sed ipsa quoque secundum se privatum luce
disponit, caecus enim dicitur ad privationem quodammodo quasi dispositus et
affectus (hoc quoque Aristoteles testatur, in Physicis). Unde fit ut
privationis differentia ad generum divisionem frequenter utamur. Sed hic quoque
eodem modo sicut in contradictione faciendum est, prius enim ponendus est
habitus, qui est affirmationi consimilis, post privatio, quae negationi.
Aliquotiens tamen privationes quaedam habitus vocabulo proferuntur, ut
"orbus", "caecus", "uiduus", aliquotiens cum
particula privationis, ut cum dicimus "finitum" et
"infinitum", "aequum" et "inaequale", sed in his
"aequum" et "finitum" in divisione prima ponenda sunt,
privationes secundae. Ac de oppositione quidem privationis et habitus haec
dicta sufficiant. Contrariorum vero oppositio dubitatur fortasse an secundum ƿ
privationem et habitum esse videatur, ut album et nigrum, an album quidem
privatio nigri sit, nigrum vero albi -- sed haec alias, nunc autem ita
tractandum est tamquam si sit aliud oppositionis genus, sicut est in
Praedicamentis ab ipso quoque Aristotele dispositum. In contrariis autem
generum multa divisio est, fere enim cunctas differentias in contraria ducimus,
sed quoniam contraria sunt alia medio carentia, alia mediata, ita quoque
divisio facienda est, ut "Colorum alia sunt alba, alia nigra, alia
neutra". Fieret autem omnis definitio omnisque divisio duobus terminis
praedicatis nisi, ut supra iam dictum est, indigentia (quae saepe existit) in
nomine prohiberet. Quo autem modo utraeque duobus terminis fierent erit
manifestum hoc modo. Cum enim dico "Animalium alia sunt rationabilia, alia
irrationabilia" animal rationale ad hominis definitionem contendit, sed
quoniam animalis rationalis unum nomen non est ponamus ei nomen a litteram:
"rursus a litterae", quod est animal rationale, "alia sunt
mortalia, alia immortalia". Volentes igitur definitionem hominis reddere
dicemus: “Homo est a littera mortalis” nam si hominis definitio est animal
rationale mortale, animal vero rationale per a litteram significatur, idem
sentit "a mortale" tanquam si diceretur "animal rationale
mortale", a enim, ut dictum est, animal rationale significat. Sic ergo a
littera et mortali, duobus terminis, facta definitio est; quod si reperirentur
in omnibus quoque nomina, duobus semper terminis tota definitio constitueretur.
Divisio vero nominibus positis quoniam semper in duos terminos secatur
manifestum est si quis generi et differentiae cum deest nomen imponat, ut cum
dicimus: "Figurarum quae sunt trilaterae aliae sunt aequilaterae, aliae
duo latera habentes aequa, aliae totae inaequales". Trina igitur ista
divisio si sic proferretur fieret duplex: "Figurarum quae trilaterae ƿ
sunt aliae sunt aequales, aliae inaequales; inaequalium aliae sunt duo latera
tantum aequa habentes, aliae tria inaequalia", id est omnia; et cum
dicimus "Rerum omnium alia sunt bona, alia mala, alia indifferentia",
quae nec bona scilicet nec mala, si ita diceretur gemina divisio proveniret:
"Rerum omnium alia sunt differentia, alia indifferentia; differentium alia
sunt bona, alia mala". Ita ergo divisio omnis in gemina secaretur si
speciebus et differentiis vocabula non deessent. Quartam vero oppositionem
diximus quae est secundum ad aliquid, ut pater filius, dominus servus, duplex
medium, sensibile sensus. Haec igitur nullam habent substantialem differentiam
qua a se discrepent, immo potius habent huiusmodi cognationem qua ad se inuicem
referantur ac sine se esse non possint. Non est ergo generis in relativas
partes facienda divisio, sed tota huiusmodi sectio a genere separanda est,
neque enim hominis species est servus aut dominus nec numeri medium aut duplum.
Cum igitur quattuor sint differentiae, affirmationis et negationis si non
necesse est semper tamen relationis reicienda divisio est, privationis et
habitus et contrariorum sumendae. Maxime autem contrarietas in differentiis
ponenda est nec non etiam privatio, idcirco quoniam contra habitum quiddam
contrarium videtur apponere, ut est finitum et intinitum; quanquam enim sit
privatio, infinitum tamen contrarii imaginatione formatur, est quaedam namque,
ut dictum est, forma. Dignum vero inquisitu est utrum in species an in
differentias recte genera dividantur, definitio namque divisionis est generis
in species proximas distributio. Oportet igitur secundum naturam divisionis et
secundum definitionem in proprias species semper fieri generis disgregationem
(sed hoc interdum fieri nequit propter eam quam supra reddidimus causam, multis
enim speciebus non sunt nomina) atque ideo, quoniam quaedam sunt prima genera,
quaedam ultima, quaedam media: primum quidem ut substantia, ultimum ut animal,
medium ƿ ut corpus, corpus namque animalis genus est, substantia corporis, sed
neque super substantiam quicquam inveniri potest quod generis loco valeat
collocari neque sub animali, homo namque species, non genus, est. Quare
antiquior videbitur speciei divisio si non sit indigentia nominum, quod si his
omnibus non abundamus, prima genera usque ad ultima convenit in differentias
separare. Hoc autem fit hoc modo, ut primum genus in suas differentias
disgregemus non in posteriores, et posterius rursus in suas sed non in
posteriores. Neque enim eaedem sunt differentiae corporis quae animalis, si
quis enim dicat "Substantiae aliud est corporale, aliud incorporale"
recte divisionem fecerit, hae namque differentiae propriae substantiae sunt; si
quis vero sic, "Substantiarum alia sunt animata, alia inanimata", hic
non recte substantiae differentias disgregavit, corporis namque differentiae
sunt, non substantiae, id est secundi generis non primi. Quare manifestum est
secundum proprias differentias, non secundum posterioris generis, priorum generum
divisionem esse faciendam. Quotiens autem genus aut in differentias aut in
species solvitur, post divisionem factam mox definitiones aut exempla subdenda
sunt, sed si quis definitionibus non abundet satis est exempla subicere, ut cum
dicimus "Corporum alia sunt animata" subiciamus "ut homines vel
ferae; alia inanimata, ut lapides". Oportet autem divisionem quoque, sicut
terminum neque diminutam esse, neque superfluam, nam neque plures species quam
sub genere sunt oportet apponi nec pauciores, ut in se ipsa divisio sicut
terminus convertatur. Convertitur enim terminus sic: "Virtus est mentis
habitus optimus", rursus "Habitus mentis optimus virtus est".
Sic etiam divisio: "Omne genus aliquid eorum erit quae sunt species",
rursus "quaelibet species proprium genus est". Fit autem generis
eiusdem multipliciter divisio, ut omnium corporum et quaecumque alicuius sunt
magnitudinis. Sicut enim circulum in semicirculos et in eos quos Graeci
*tomeas* vocant (nos divisiones possumus dicere) distribuimus, et tetragonum
alias ducto per angulum ƿ diametro in triangula, alias in parallelogrammata,
alias in tetragona separamus, ita quoque genus, ut cum dicimus "Numerorum
alii sunt pares, alii impares" et rursus "alii primi, alii non
primi", et "Triangulorum alia sunt aequilatera, alia duo sola latera
aequa habentia, alia totis inaequalia lateribus" et rursus
"Triangulorum alia sunt rectiangula, alia acutos habentia tres angulos,
alia obtusum". Sic igitur generis unius fit divisio multiplex. Illud autem
scire perutile est, quoniam genus una quodammodo multarum specierum similitudo
est quae earum omnium substantialem convenientiam monstret, atque ideo
collectivum plurimarum specierum genus est, disiunctivae vero unius generis
species. Quae quoniam differentiis informantur, ut dictum est, idcirco sub uno
genere minus duabus speciebus esse non possunt, omnis enim differentia in
discrepantium pluralitate constat. Sed de divisione generis et speciei perplura
dicta sunt. Hanc igitur insistentibus viam promptior per divisionem generis ad
speciei definitionem facultas aperitur, oportet autem non solum quas ad
definitionem sumamus differentias addiscere, sed ipsius quoque definitionis
artem diligentissima cognitione complecti. Et illud quidem, an ulla possit
definitio demonstrari et quemadmodum per demonstrationem valeat inveniri, et
quaecumque de ea subtilius in postremis Analyticis ab Aristotele tractata sunt,
praetermittam, solam tantum exsequar regulam definiendi. Rerum enim aliae sunt
superiores, aliae inferiores, aliae mediae. Superiores quidem definitio nulla
complectitur idcirco quod earum superiora genera inveniri non possunt; porro
autem inferiores, quae sunt individua, specificis differentiis carent, quocirca
ipsae quoque a definitione seclusae sunt; mediae igitur quae et habent genera
et de aliis vel ƿ de generibus vel de speciebus vel individuis praedicantur sub
definitionem cadere possunt. Data igitur huiusmodi specie quae et genus habeat
et de posteriori praedicetur, primo eius sumo genus et illius generis
diffferentias divido; et adiungo differentiam generi, et video num illa
differentia iuncta cum genere aequalis possit esse cum ea specie quam
circumscribendam definitione suscepi. Quod si minor fuerit species, illam
differentiam rursus quam dudum cum genere posueramus quasi genus ponimus eamque
in alias suas differentias separamus, et rursus has duas differentias superiori
generi coniungimus, et, si aequavit speciem, definitio speciei esse dicetur,
sin minus, secundam differentiam rursus in alia separamus. Quas omnes
coniungimus cum genere et rursus speculamur si omnes differentiae cum genere
illi aequales sunt speciei quae definitur. Et postremo totiens differentias
differentiis distribuimus usque dum omnes iunctae generi speciem aequali
definitione describant. Huius autem rei clariorem facient exempla notitiam hoc
modo. Sit nobis propositum quod definire velimus "nomen". Vocabulum
ergo nominis de pluribus nominibus praedicatur et est quodammodo species sub se
continens individua. Definio ergo nomen sic. Sumo eius genus quod est vox et
divido: "Vocum aliae sunt significativae, aliae vero minime". Vox
autem non significativa nihil ad nomen, etenim nomen significat; sumo ergo
differentiam quae est significativa et iungo cum genere, id est cum voce, et
facio "uox significativa" et tunc respicio utrum genus hoc et differentia
nomini sint aequalia. Sed nondum aequalia sunt, potest enim et vox
significativa esse et nomen non esse, sunt enim quaedam voces quae dolorem
designant, aliae quae animi passiones naturaliter quae nomina non sunt, ut
interiectiones. Rursus ipsam vocum significantiam in alias differentias divido:
"Vocum significativarum aliae sunt secundum positionem, aliae ƿ sunt
naturaliter", et vox quidem significans naturaliter nihil ad nomen, vox
vero significans positione hominum nomini congruit. Quocirca duas has
differentias significativam et secundum positionem, iungo cum voce, id est cum
genere, et dico: "Nomen est vox significativa secundum placitum". Sed
rursus mihi non aequatur ad nomen, sunt namque et verba voces significativae et
secundum positionem; non igitur solius nominis definitio est. Distribuo iterum
differentiam quae est secundum positionem et dico "Secundum positionem
vocum significativarum aliae sunt cum tempore, aliae sine tempore", et
differentia quidem cum tempore nomini non iungitur idcirco quod verborum est
consignificare tempora, nominum vero minime; restat ergo ut congruat illa
differentia quae est sine tempore. Iungo igitur has tres differentias generi et
dico: "Nomen est vox significativa ad placitum sine tempore". Sed
rursus mihi non plena conclusio definitionis occurrit, potest enim vox et
significativa et secundum positionem et sine tempore esse et nomen non esse
unum sed nomina iuncta, quae est oratio, ut: “Socrates cum Platone et
discipulis”, sed quamquam imperfecta quidem haec sit oratio, tamen est oratio.
Quocirca ultima differentia quae est sine tempore aliis item differentiis
dividenda est, et dicemus: "Vocum significativarum secundum positionem
sine tempore aliae sunt quarum pars extra aliquid significat", hoc
pertinet ad orationem, "aliae quarum pars extra nihil significat",
hoc pertinet ad nomen, nominis enim pars nihil extra designat. Fit ergo
definitio sic: "Nomen est vox significativa secundum placitum sine
tempore, cuius nulla pars extra significativa est separata". Videsne
igitur quam recta definitio constituta sit? Nam quod dixi "uocem" a
caeteris sonis nomen disiunxi, quod "significativam" apposui nomen a
non significativis vocibus separavi, quod "secundum placitum" et
"sine tempore" a naturaliter significantibus vocibus et a verbis
proprietas nominis distributa est, quod eius partes extra nihil significare
proposui ab oratione distinxi, cuius partes aliquid separatae extra
significant. Unde fit ut quodcumque nomen fuerit illa definitione claudatur et
ubicumque haec ratio definitionis aptabitur illud nomen esse non dubitem. Illud
quoque dicendum est, quod genus in divisione totum est, in definitione pars, et
sic est definitio quasi quaedam partes totum coniungant, sic est divisio quasi
totum solvatur in partes, et est similis divisio generis totius divisioni,
definitio totius compositioni. Namque in divisione generis animal totum est
hominis, intra se enim complectitur hominem, in definitione vero pars est,
specie namque genus cum aliis differentiis iunctum componit, ut cum dico
"Animalium alia sunt rationabilia, alia irrationabilia" et rursus
"Rationabilium alia sunt mortalia, alia immortalia", animal
rationalis totum est et rursus rationale mortalis, et haec tria hominis. Si
vero in definitione dicam: “Homo est animal rationale mortale”tria haec unum
hominem iungunt, quocirca pars ipsius et genus et differentia reperitur. Sic
igitur in divisione genus totum est, species pars, eodem quoque modo
differentiae totum, partes in quas illae dividuntur. In definitione vero et
genus et differentiae partes sunt, definita vero species totum. Sed haec
hactenus. Nunc de ea divisione dicemus quae est totius in partes, haec enim
erat secunda divisio post generis divisionem. Quod enim dicimus totum
multipliciter significamus: totum namque est quod continuum est, ut corpus vel
linea vel aliquid huiusmodi; dicimus quoque totum quod continuum non est, ut
totum gregem vel totum populum vel totum exercitum; dicimus quoque totum quod
universale est, ut hominem vel equum, hi enim toti sunt suarum partium, id est
hominum vel equorum, unde et particularem unumquemque hominem dicimus; dicitur
quoque totum quod ex quibusdam virtutibus constat, ut animae alia potentia est
sapiendi, alia sentiendi, alia uegetandi. Tot igitur modis cum totum dicatur,
facienda totius divisio est - primo quidem, si continuum fuerit, in eas partes
ex quibus ipsum ƿ totum constare perspicitur, aliter enim divisio non fit.
Hominis enim corpus in partes suas divideres, in caput, manus, thoracem, pedes,
et si quo alio modo secundum proprias partes fit recta divisio. Quorum autem
multiplex est compositio multiplex etiam divisio, ut animal separatur quidem in
partes eas quae sibi similes habent partes, in carnes, et ossa, rursus in eas
quae sibi similes non habent partes, in manus, in pedes, eodem quoque modo et
navis et domus. Librum quoque in versus atque hos in sermones, hos autem in
syllabas, syllabas in litteras solvimus, ita fit ut litterae et syllabae et
nomina et versus partes quaedam totius libri esse videantur, alio tamen modo
acceptae non partes totius sed partes partium sint. Oportet autem non omnia
speculari quasi actu dividantur sed quasi animo et ratione, ut vinum aquae
mixtum dividimus in vina aquae mixta, hoc actu, dividimus etiam in vinum et
aquam ex quibus mixtum est, hoc ratione, haec enim iam mixta separari non
possunt. Fit autem totius divisio et in materiam atque formam, aliter enim
constat statua ex partibus suis, aliter ex materia atque forma, id est ex aere
et specie. Similiter etiam illa tota dividenda sunt quae continua non sunt
eodem quoque modo et ea quae sunt universalia, ut "Hominum alii sunt in
Europa, alii in Asia, alii in Africa". Eius quoque totius quod ex
virtutibus constat hoc modo facienda est divisio: "Animae alia pars est in
virgultis, alia in animalibus" et rursus "eius quae est in animalibus
alia rationalis, alia sensibilis est" et rursus haec aliis sub
divisionibus dissipantur. Sed non est anima horum genus sed totum, partes enim
hae animae sunt, sed non ut in quantitate, sed ut in aliqua potestate atque
virtute, ex his enim potentiis substantia animae iungitur. Unde fit ut quiddam
simile habeat huiusmodi divisio et generis et totius divisioni, nam quod
quaelibet eius pars fuerit animae praedicatio eam sequitur, ad generis
divisionem refertur, cuius ubicumque fuerit species ipsum mox consequitur
genus; quod autem non omnis anima omnibus partibus iungitur sed alia aliis, hoc
ad totius naturam referri necesse est. Restat igitur ut de vocis in
significantias divisione tractemus. Fit autem vocis divisio tribus modis.
Dividitur enim in significationes ut aequivoca vel ambigua, plures enim res
significat unum nomen, ut "canis", plures rursus una oratio, ut cum
dico Graecos vicisse Troianos. Alio autem modo secundum modum, haec enim non
plura significant sed multis modis, ut cum dicimus "infinitum" unam
rem quidem significat cuius terminus inveniri non possit, sed hoc dicimus aut
secundum mensuram aut secundum multitudinem aut secundum speciem: secundum
mensuram, ut est infinitum esse mundum, magnitudine enim dicimus infinitum;
secundum multitudinem, ut est infinitam esse corporum divisionem, infinitam
namque divisionum multitudinem significamus; rursus secundum speciem, ut
infinitas dicimus figuras, infinitae enim sunt species figurarum. Dicimus etiam
infinitum aliquid secundum tempus, ut infinitum dicimus mundum, cuius terminus
secundum tempus inveniri non possit, eodem quoque modo infinitum dicimus Deum,
cuius supernae vitae terminus inveniri secundum tempus non possit. Sic igitur
haec vox non plura significat secundum se sed multimode de singulis praedicatur,
unum tamen ipsa significans. Alius vero modus secundum determinationem.
Quotiens enim sine determinatione dicitur vox ulla, facit intellectu
dubitationem, ut est "homo", haec enim vox multa significat, nulla
enim definitione conclusa audientis intelligentiam multis raptat fluctibus
erroribusque traducit. Quid enim quisque auditor intelligat ubi id quod dicens
loquitur nulla determinatione concluditur? Nisi enim quis ita definiat dicens:
“Omnis homo ambulat” aut certe: “Quidam homo ambulat” et hunc nomine, si ita
contingit, designet, intellectus audientis quod rationabiliter intelligat non
habet. Sunt etiam aliae determinationes, ut si quis dicat: “Det mihi!” quando
vel quid dare debeat nullus intelligit nisi intellectus et certa ƿ ratio
determinationis addatur, vel si quis dicat: “Ad me venite!”quo veniant vel
quando nisi determinatione non cognoscitur. Est autem omne quidem ambiguum
dubitabile, non tamen omne dubitabile ambiguum, haec enim quae dicta sunt
dubitabilia quidem sunt, non tamen ambigua. In ambiguis enim uterque auditor
rationabiliter se ipsum intellexisse arbitratur, ut cum quis dicit: “Audio
Graecos vicisse Troianos” unus potest intelligere quod Graeci Troianos
vicerint, alius quod Troiani Graecos, et uterque hoc dicentis ipsius sermonibus
rationabiliter intellegunt. Cum autem dico: “Da mihi!” quid dare debeat nullus
ex ipsis sermonibus rationabiliter auditor intelligit, quod enim ego non dixi
ille potius suspicabitur quam aliqua ratione id quod a me prolatum non est
perspicaciter videat. Tot igitur modis cum vocis divisio fiat, aut per
significantias aut per modum significationum aut per determinationem, in his
quae secundum significantiam dividuntur non solum dividendae sunt
significationes sed etiam diversas res esse quae significantur definitione
monstrandum est. Aristoteles enim hoc in Topicis diligenter praecepit, ut in
his quae dicuntur bona alia sunt bona, ut ea quae boni retinent qualitatem,
alia quae ipsa quidem nulla qualitale dicuntur sed quod bonam rem faciunt
idcirco bona dicuntur. Oportet autem maxime exercere hanc artem, ut ipse
Aristoteles ait, contra sophisticas importunitates, si enim nulla subiecta sit
res quam significat vox, designativa esse non dicitur, sin vero una res sit
quam significat vox, dicitur simplex, quod si plures, multiplex et multa
significans. Dividenda igitur haec sunt ne in aliquo syllogismo capiamur. Sin
vero amphibola oratio est, evenit ut aliquotiens utroque modo possibilia sint
quae significantur, ut id quod superius dixi; potuit ƿ enim fieri ut Graeci
vincerent Troianos et Troiani Gracos superarent. Sunt vero alia quae
impossibilia sunt, ut cum dico hominem comedere panem, significat quidem quod
homo panem comedat, rursus quod panis hominem, sed hoc impossibile est. Ergo quotiens
ad contentionem venitur dividenda et possibilia et impossibilia, quotiens ad
veritatem sola possibilia dicenda, impossibilia relinquenda sunt. Quoniam ergo
plures sunt species plura significantium vocum, dicendum est quod aliae in
particula multiplicitatem significationis habent, aliae in tota oratione, et
eorum quae in particula habent pars ipsa aequivoca dicitur, tota vero ipsa
oratio secundum aequivocationem multiplex, illa vero quae in oratione tota
significationis multiplicitatem retinet (ut supra iam dictum est) ambigua
nuncupatur. Dividitur autem significationes aequivocarum secundum
aequivocationem unius particulae orationum definitione, ut cum dico: “Homo
vivit”intelligitur et verus et pictus; dividitur autem hoc modo: “Animal
rationale mortale vivit” (quod verum est), “Animalis rationalis mortalis
simulatio vivit” (quod falsum est). Dividitur qualibet adiectione quae
terminet, vel generis vel casus vel alicuius articuli; ut cum dico: “Canna
Romanorum sanguine sorduit” et calamum demonstrat et fluuium, sed dividimus
sic: articulo quidem, ut dicamus: “Hic Canna Romanorum sanguine sorduit” vel
genere, ut: “Canna Romanorum sanguine plenus fuit”uel casu vel numero, in illo
enim singularis tantum est, in illo pluralis, et de aliis quidem eodem modo. Sunt
autem alia secundum accentum, alia secundum orthographiam, et secundum accentum
quidem ut "pone" et "pone", secundum orthographiam ut
"quaeror" et "queror" ab inquisitione et ƿ querela; et haec
rursus vel secundum ipsam orthographiam dividuntur vel secundum actionem et
passionem, quod "quaeror" ab inquisitione passivum est, "queror"
autem a querela agentis est. Ambiguarum vero orationum facienda est divisio,
aut per adiectionem aut per diminutionem aut per divisionem aut per aliquam
transmutationem, ut cum dicitur: “Audio Troianos vicisse Graecos”ita dicamus:
“Audio quod Graeci vicerint Troianos” haec enim ambiguitas quolibet eorum modo
solvitur. Non tamen ita dividenda est omnis vocum significatio tamquam generis:
in genere omnes species enumerantur, in ambiguitate vero tantae sufficiunt
quantae ad eum sermonem possint esse utiles quem alterutra nectit oratio. Ac de
vocis quidem significatione sufficienter dictum est, est autem et de generis
totiusque divisione propositum atque expeditum. Quare de omnibus secundum se
partitionibus diligentissime pertractatum est. Nunc de his divisionibus dicemus
quae per accidens fiunt. Harum autem commune praeceptum est, quicquid ipsorum
dividitur in opposita disgregari, ut si subiectum in accidentia dividimus non
dicamus "Corporum alia sunt alba, alia dulcia", quae opposita non
sunt, sed "Corporum alia sunt alba, alia nigra, alia neutra", eodem
quoque modo in aliis secundum accidens divisionibus dividendum est. Atque illud
maxime perspiciendum, ne quid ultra dicatur aut minus, sicut fit in generis
divisione. Non enim oportet relinqui aliquod accidens ex eadem oppositione quod
subiecto illi inest quod non in divisione dicatur, neque vero addi aliquid quod
subiecto inesse non possit. Posterior quidem Peripateticae secta prudentiae
differentias divisionum diligentissima ratione perspexit et per se divisionem
ab ea quae est secundum accidens ipsasque inter se disiunxit atque distribuit,
ƿ antiquiores autem indifferenter et accidente pro genere et accidentibus pro
speciebus aut differentiis utebantur, unde nobis peropportuna utilitas visa est
et communiones harum divisionum prodere et eas propriis differentiis
disgregare. Et de divisione quidem omni quantum introductionis brevitas
patiebatur diligenter expressimus. Exhortatione tua, Patrici rhetorum
peritissime, quae honestati praesentis propositi et futurae aetatis utilitati
coniuncta est, nihil antiquius existimaui. Cui muneri libentius acquieui, non
quod ad instruendum [1041A] te, commentarios in M. Tullii Topica laborare me credidi
(ridiculus quippe forem si Mineruam, ut aiunt, litterae docere uellem) sed ut
ex disciplinarum liberalium sumptum penu, nostrae apud te semper pignus
amicitias permaneret. Quod enim munus ex animo diligentibus iocundius inueniri
potest, quam quod ipsius animi partes format et instruit? Nam caetera fere
caduca, imbecilla, labantia, et si ad fortunae uicem spectes, pene semper
aliena sunt. At uero opulentiam litterarum, nec praesens imminuit aetas,
earumque auctoritatem ipsa etiam cunctae conficiens, auget potius et confirmat
uetustas. Accipe igitur opus, non efficientiae securitate sed amicitiae
praesumptione susceptum, apud quam nescio quonam pacto garrire non dedecet,
simul quia praelato a nobis munere cum tuorum aliquid operum postulauero,
iniurius fueris, si negabis. Sed cum in M. Tullii Topica Marius
Victorinus rhetor plurimae in disserendi arte notitiae commenta conscripserit,
non me oportuisset melioribus forsitan attemptata contingere nisi esset aliquid
quo se noster quoque labor exercere atque parere potuisset. Quatuor enim
uoluminibus Victorinus in Topica conscriptis, eorum primo declarandis tantum
libri principiis occupatur. Addit etiam et si qua in eodem uolumine
praedicenda fuissent perpendit, ut ab exordio uoluminis Topicorum quod
est: [1.01] MAIORES NOS RES SCRIBERE INGRESSOS, C. TREBATI... usque
ad eum locum qui est: SED IAM TEMPUS EST AD ID QUOD INSTITUIMUS
ACCEDERE. primi uoluminis Victorini expositio terminetur. Secundo
uolumine de iudicandi, atque inueniendi dialecticae partibus, et de loco atque
argumenti definitione pertractat, ut ab eo loco Topicorum qui est: CUM
OMNIS RATIO DILIGENS DISSERENDI DUAS HABEAT PARTIS, UNAM INVENIENDI ALTERAM
IUDICANDI... usque ad eum locum qui est: ITAQUE LICET DEFINIRE LOCUM
ESSE ARGUMENTI SEDEM. ARGUMENTUM AUTEM RATIONEM, QUAE REI DUBIAE FACIAT
FIDEM. secundi libri explanatio subsistat. Tertius uero atque
quartus discretionem locorum inter se eorumque exempla multiformiter
persequuntur. Ita ut tertius quidem Tulliana sibi de iure proponat exempla.
Quartus uero eosdem locos per alias rursus similitudines monstret ex Virgilio
et Terentio poetis, oratoribus Cicerone et Catone, ut quod praeceptis
ostenditur, exemplis multipliciter collucescat, neque ab eo loco qui est in
Topicis sed ex his locis [1041D] in quibus argumenta inclusa sunt, expositio
progressa eum transcendit locum qui est: VALEAT AEQUITAS, QUAE PARIBUS IN
CAUSIS PARIA IURA DESIDERAT. Quanta uero pars reliqua si Topicorum ipsius
uoluminis magnitudo demonstrat, quam Victorinus, neque attigit, neque attingere
potuisset, ita est rebus minimis immoratus, nisi opus multa librorum
pluralitate distenderet. Nos uero et hanc ipsam particulam, quam
Victorinus attigit diligenter (ut possumus) aggrediamur, et longius expositione
progressi, cum Topicorum debemus fine consistere. Quare hinc de tota operis
propositione conueniens sumamus exordium. Sed antequam de topicae facultatis
ratione [1042A] pertractem, proemium, quoad Trebatium M. Tullius utitur, paucis
absoluam. Ait enim: MAIORES NOS RES SCRIBERE INGRESSOS, C. TREBATI,
ET HIS LIBRIS, QUOS BREVI TEMPORE SATIS MULTOS EDIDIMUS, DIGNIORES E CURSU IPSO
REVOCAVIT VOLUNTAS TUA. CUM ENIM MECUM IN TUSCULANO ESSES ET IN BIBLIOTHECA
SEPARATIM UTERQUE NOSTRUM AD SUUM STUDIUM LIBELLOS QUOS VELLET EVOLVERET,
INCIDISTI IN ARISTOTELIS TOPICA QUAEDAM, QUAE SUNT AB ILLO PLURIBUS LIBRIS
EXPLICATA. QUA INSCRIPTIONE COMMOTUS CONTINUO A ME LIBRORUM EORUM
SENTENTIAM REQUISISTI. QUAM CUM TIBI EXPOSUISSEM, DISCIPLINAM
INUENIENDORUM ARGUMENTORUM, UT SINE ULLO ERRORE AD EA RATIONE ET VIA
PERVENIREMUS, AB ARISTOTELE INVENTAM ILLIS LIBRIS CONTINERI, VERECUNDE TU
QUIDEM UT OMNIA, SED TAMEN FACILE UT CERNEREM TE ARDERE STUDIO, MECUM UT TIBI
ILLA TRADEREM EGISTI. CUM AUTEM EGO TE NON TAM VITANDI LABORIS MEI CAUSA QUAM
QUIA TUA ID INTERESSE ARBITRARER, VEL UT EOS PER TE IPSE LEGERES VEL UT TOTAM
RATIONEM A DOCTISSIMO QUODAM RHETORE ACCIPERES, HORTATUS ESSEM, UTRUMQUE, UT EX
TE AUDIEBAM, ES EXPERTUS. [1.03] SED A LIBRIS TE OBSCURITAS REIECIT;
RHETOR AUTEM ILLE MAGNUS HAEC, UT OPINOR, ARISTOTELIA SE IGNORARE RESPONDIT.
QUOD QUIDEM MINIME SUM ADMIRATUS EUM PHILOSOPHUM RHETORI NON ESSE COGNITUM, QUI
AB IPSIS PHILOSOPHIS PRAETER ADMODUM PAUCOS IGNORETUR; QUIBUS EO MINUS
IGNOSCENDUM EST, QUOD NON MODO REBUS EIS QUAE AB ILLO DICTAE ET INVENTAE SUNT
ADLICI DEBUERUNT, SED DICENDI QUOQUE INCREDIBILI QUADAM CUM COPIA TUM ETIAM
SUAVITATE. NON POTUI IGITUR TIBI SAEPIUS HOC ROGANTI ET TAMEN VERENTI NE
MIHI GRAVIS ESSES -- FACILE ENIM ID CERNEBAM -- DEBERE DIUTIUS, NE IPSI IURIS
INTERPRETI FIERI [1042C] VIDERETUR INIURIA. ETENIM CUM TU MIHI MEISQUE MULTA
SAEPE SCRIPSISSES, VERITUS SUM NE, SI EGO GRAVARER, AUT INGRATUM ID AUT
SUPERBUM VIDERETUR. SED DUM FUIMUS UNA, TU OPTIMUS ES TESTIS QUAM FUERIM
OCCUPATUS. UT AUTEM A TE DISCESSI IN GRAECIAM PROFICISCENS, CUM OPERA MEA
NEC RES PUBLICA NEC AMICI UTERENTUR NEC HONESTE INTER ARMA VERSARI POSSEM, NE
SI TUTO QUIDEM MIHI ID LICERET, UT VENI VELIAM TUAQUE ET TUOS VIDI, ADMONITUS
HUIUS AERIS ALIENI NOLUI DEESSE NE TACITAE QUIDEM FLAGITATIONI TUAE. ITAQUE
HAEC, CUM MECUM LIBROS NON HABEREM, MEMORIA REPETITA IN IPSA NAVIGATIONE
CONSCRIPSI TIBIQUE EX ITINERE MISI, UT MEA DILIGENTIA MANDATORUM TUORUM TE
QUOQUE, ETSI ADMONITORE NON EGES, AD MEMORIAM NOSTRARUM RERUM EXCITAREM. SED
IAM TEMPUS EST AD ID QUOD INSTITUIMUS ACCEDERE. Omne proemium, quod ad
componendum intendit auditorem, ut in rhetoricis discitur, aut beneuolentiam
captat aut attentionem praeparat aut efficit docilitatem: his tribus partibus
sibi Cicero Trebatium format. Nam quod se a magnarum rerum inchoatione
reuocatum ad amici contulit uoluntatem, fauorem Trebatii uelut iudicis,
beneuolentiae partibus meretur. MAIORES autem RES sunt a quarum scriptione ad
amici studium uersus est, moralis philosophiae tractatus. Maior est enim morum
ratio quam peritia disserendi. Id autem tempus fuisse coniicimus, quo propter
turbulenta reipublicae tempora in otium se contulit, atque ad philosophiae
disciplinas. Sed quia nobis audientium mentes ueritatis quoque opinio
praesumpta conciliat, in eo etiam praeparandae beneuolentiae partibus utitur.
Quod in commemorandis ueraciter iis quae Trebatius nouerat, facit illis fidem
quae posterius euenire et Trebatio potuerunt esse ignota. Haec autem sunt, quod
in Tusculano ad suum studium uterque libros euoluerit. Quodque Trebatius casu
in Aristotelis Topica inciderit, et quod titulum operis admiratus, a M. Tullio
inscriptionis sententiam perquisierit. Illud etiam quod ei Cicero se exposuisse
commemorat, inueniendorum argumentorum illis libris scientiam contineri, ut sine
ullo errore ad argumentorum inuentionem uia quadam et recto filo atque
artificio ueniretur, quae res breuiter enuntiata, uelut intentionem operis
monstrat, et docilem perficit auditorem. In hoc namque uidetur esse
comprehensum quae sit intentio Topicorum, quoniam Cicero ait disciplinam esse
inueniendorum argumentorum, non ut inueniantur (id enim natura
suppeditat). Sed ut sine ullo labore; ac sine ulla confusione non
casu ad ea mens sed quadam uia et ratione perueniat, post hanc beneuolentiam captationem,
Trebatii laudem subiungit, cum eius uerecundiam in his commemorat expetendis,
quae si postulanti amico Cicero praestilisset et gloriae praemium ferret et
gratiae sed quod petenti Trebatio, ut ei Topica traderet minime concessit. Id
non proprii laboris fuga sed Trebatii potius causa factum esse contendit, ut in
eo quoque Trebatii ueluti tunc repulsi subiratus forsitan animus, nunc non sit
alienus. Intererat uero Trebatio ut uel per se ipse illa legens exercitatior
fieret, uel ei perfectius si qua dubitaret rhetor doctior expediret. Utrumque
uero a Trebatio se narrat audisse. Nam et expertum cum, ut per se ipse legeret
sed obscuritate reiectum, et illum rhetorem a quo Topicorum explanationem
petiisset, illa sese Aristotelica ignorare confessum. Quae res, propter
operis difficultatem, nec esse est auditorem reddat attentum. Ea quippe non
negligentes inspicimus, quae non facilis esse intelligentiae suspicamur, in quo
etiam Cicero minime se miratum esse commemorat, quod is philosophus a rhetore
nesciretur, qui multis etiam philosophis uideretur incognitus. Quorum etiam
iure culpat ignauiam, quod ad Aristotelicae philosophiae disciplinam non
inuentorum utilitas, non orationis nitor illexerit. In quo etiam maioris
perspicaciae crescit attentio, quia facile ad studium mentes, aliorum segnities
culpata conuerterit, quocumque uero attentio fuerit, non poterit ab esse
docilitas. In his etiam laus quaedam Trebatii latenter inducitur. Magnum est
enim philosophis in suo quasi munere cessantibus hunc ne proprio quidem studio
praepeditum, alienae scientiae secreta rimari. Iam uero sequentia multo
etiam clarius beneuolentiam petunt, uelut hoc quod elegantissime dictum est,
ueritum se esse ne, si modeste postulantis uerecundiae pernegasset, ipsi
quodammodo iuris interpreti fieri uideretur iniuria, et quod praecedens
Trebatii meritum percepti beneficii memor exsequitur, id uero est quod uel ipsi
uel iis quos ipse defenderit, plura cauisset. Fuit igitur, ut ait, uerendum,
ne, si restituere gratiam noluisset, aut ingratum id aut superbum esse
uideretur. Ingratum quidem, si magna Trebatii merita quibus ipse usus fuerat,
paruo aestimare uideretur, cum nullam ei gratiam restituendam putaret, superbum
uero, si sperneret. Ad idem caetera reuertuntur, id est ad beneuolentiam.
Quod eiusdem testimonio nititur dum fuerit in urbe, se ne debitam redderet
gratiam occupationum necessitate constrictum. Quod ut uenerit Veliam, amicorum
Trebatii conuentione commonitus, ne tacitae quidem eius flagilationi deesse
uoluisset, et quod licet librorum copia nulla suppeteret, de memoriae tamen
repetitae promptuariis in ipsa nauigatione conscripserit, eique ex itinere
miserit, ut beneficii cumulo parendi etiam celeritas adderetur. Quae cum omnia
benignum captare Trebatii uideantur assensum, quaedam tamen breuitas Topicorum
memoria repetita, attentionis nec esse est animaduersione fungatur, ipsa namque
memoriae repetitio breue monstrat esse quod colligit. Quodque diligentiae sibi
fuerint mandata Trebatii, et quod ad excitandam sui memoriam quasi pignus amico
aliquod atque monimentum uoluisset exstare. Cui adiicit illud, et si
admonitione non eges, ne offendat animum amici sedulitate si quem commonendum
credit, obliuionis uideatur arguere. Haec omnia, ut dixi, beneuolentiae
partibus plena sunt. Sed de prooemio satis dictum est. Nunc ad sequentia transeamus,
nec si quis haec apud Victorinum latius tractata repererit, nos neglecti
integritatis stringat inuidia. Nam nec in singulis (ut ille facit) uerbis
haerere uolumus, et ad ampliora huius operis festinamus. CUM OMNIS RATIO
DILIGENS DISSERENDI DUAS HABEAT PARTIS, UNAM INVENIENDI ALTERAM IUDICANDI,
UTRIUSQUE PRINCEPS, UT MIHI QUIDEM VIDETUR, ARISTOTELES FUIT. STOICI AUTEM IN
ALTERA ELABORAVERUNT; IUDICANDI ENIM VIAS DILIGENTER PERSECUTI SUNT EA SCIENTIA
QUAM *DIALEKTIKEN* APPELLANT, INVENIENDI ARTEM QUAE *TOPIKE* DICITUR, QUAE ET
AD USUM POTIOR ERAT ET ORDINE NATURAE CERTE PRIOR, TOTAM RELIQUERUNT. NOS
AUTEM, QUONIAM IN UTRAQUE SUMMA UTILITAS EST ET UTRAMQUE, SI ERIT OTIUM,
PERSEQUI COGITAMUS, AB EA QUAE PRIOR EST ORDIEMUR. Cum philosophia maximis in
rebus operam suam studiumque consumat, cumque et in naturalibus inspectionem,
speculationemque adhibeat, et in moralibus actionem, et sic formare gestiat
mores ut uera uitae ratio persuaserit, euenire nec esse est, ut secundum id
quod ratio tenendum, omittendumue, faciendum quid, aut non faciendum esse
decreuerit, uel iudicium constituatur, ascensus uel exercendae uitae dirigatur
intentio. Erit igitur necessarium, uel in naturali speculatione, uel in
moralium actionum cogitatione, ut certa ratio, uel quod in rebus speculandum
est, inueniat, uel quod in actum uiuendi duci oporteat, ante perpendat. Haec
autem ratio nisi uia quadam processerit, saepe in multos nec esse est labatur
errores. Quod ne passim fieret, atque ut certis egulis tractatus insisteret,
uisum est antiquae philosophiae ducibus, ut ipsarum ratiocinationum, quibus
aliquid inquirendum esset, naturam penitus ante discuterent, ut his purgatis
atque compositis, uel in speculatione ueritatis, uel in exercendis uirtutibus
uteremur. Haec est igitur disciplina, quasi disserendi quaedam magistra,
quam *logicen* Peripatetici ueteres appellauerunt, hanc Cicero definiens,
disserendi diligentem rationem uocauit. Haec uario modo a plerisque tractata
est, uarioque etiam uocabulo nuncupata. Ut enim dictum est, a Peripateticis
haec ratio diligens disserendi logice uocatur, continens in se inueniendi
iudicandique peritiam. Stoici uero hanc eamdem rationem disserendi paulo
angustius tractauere, nihil enim de inuentione laborantes, in sola tantum iudicatione
consistunt, deque ea praecepta multipliciter dantes, dialecticam nuncupauerunt.
Plato etiam dialecticam uocat facultatem quae id quod unum est possit in plura
partiri, ueluti solet genus per proprias differentias usque ad ultimas species
separari, atque ea quae multa sunt, in unum generum ratione colligere. Hanc
igitur Plato dialecticam dicit; Aristoteles uero logicam uocat, quam (ut dictum
est) Cicero definiuit diligentem disserendi rationem. Et huius uno quidem
modo trina partitio est: omnis namque uis logicae disciplinae aut definit
aliquid, aut partitur, aut colligit. Colligendi autem facultas triplici
diuersitate tractatur: aut enim ueris ac necessariis argumentationibus
disputatio decurrit, et disciplina uel demonstratio nuncupatur; aut tantum
probabilibus, et dialectica dicitur; aut apertissime falsis, et sophistica, id
est, cauillatoria perhibetur. Logica igitur, quae est peritia disserendi, uel
de definitione, uel de partitione, uel de collectione, id est, uel de ueris ac
necessariis, uel de probabilibus, id est uerisimilibus, uel de sophisticis, id
est, cauillatoriis argumentationibus tractat, has enim collectionis partes esse
praediximus. Atque haec est una logicae partitio, in qua dialecticam
Aristoteles uocat facultatem per probabilia colligendi. Rursus eiusdem
logicae altera diuisio est, per quam diducitur tota diligens ratio disserendi
in duas partes, unam inueniendi, et alteram iudicandi. Id autem uidetur etiam
ipsa logices definitio monstrare, nam quia logica ratio disserendi est, non
potest ab inuentione esse separata. Cum enim nemo praeter inuentionem disserere
possiti disserendi ratio inuentionis est ratio. Rursus quoniam logice diligens
est ratio disserendi, ab ea iudicium non potest ab esse, ipsa enim diligentia
rationis in disserendo posita iudicium est. Neque enim potest quisquam
diligenter disserere, nisi quale sit iudicauerit id quod in disputationem
sumitur. Quod si ad disserendi ordinem diligentia rationis adhibetur, non est
dubium quin hoc iudicium ad inuentionum uarietatem sit accommodatum. His
igitur ita expeditis, uidendum est, hae diuisiones, quanam se cognatione
contingant. Inuentio quippe caeteris omnibus, ueluti materiae loco, supponitur,
hoc modo. Nisi enim inuentio fuerit, non potest esse uel definitio, uel
partitio, quoniam unumquodque generum uel differentiarum inuentione, uel
specierum collectione, aut diuidimus, aut etiam definimus. Iam uero si absit
inuentio, nequit esse collectio. Non erit igitur necessaria, nec uerisimilis,
nec sophistica argumentatio: haec enim tria inuentioni superueniunt, ut uel
necessarium, uel probabile, uel cauillatorium sit argumentum. Necessitas enim
uero, et probabilitas, et cauillatio formae quaedam sunt, quaedum inuentionibus
assistunt, necessaria uel probabilia uel cauillatoria faciunt argumenta. Eadem
quoque ratio partitiones definitionesque complectitur. Indiscreta namque
inuentionis potestas, cum definitiua, tum diuisibilis appellari potest, cum
definiendis partiendisue rebus adhibetur. Quae hoc modo ex inuentionis materia
et differentiarum supra positarum forma composita rursus iudicationi materiae
fiunt nam prior illa partitio, logice tribus partibus segregata, ita partes
explicat, ut habeat inuentionem materiam singularum, ipsa uero iudicationi
materiam praestat. Et enim cum definit aliquis, uel rei propositae diuisionem
facit, inuenit quidem diuisioni definitionique differentias accommodatas sed an
recte uel definiat, uel diuidat, iudicatione perpendit. Ita priores logicae
partes secundae diuisionis membra coniungunt, ut materiam quidem sui habeant
inuentionem, iudicationi uero fiant ipsae materia. Quod in reliqua etiam
colligendi parte contingit, nam et ea quae de probabilibus tractat, habet et
inueniendi suppositam materiam, quae uerisimilia reperit argumenta, et de
huiusmodi argumenta iudicatio perpendit. Est enim iudicium hoc ipsum
internoscendi, quod non necessaria inuentio est sed uerisimilitudinem tenet.
Illa quoque pars quae de necessariis argumentationibus aptatur, habet subiectam
materiam necessariae inuentionis, eiusque est iudicium, ut cum necessaria sunt
quae inuenit, necessaria quoque esse perpendat. Nec non cauillandi pars utraque
in se continet, quandoquidem et inueniri falsa possunt, et falsa esse
iudicatione discerni. Quo fit ut prior logices diuisio secundum etiam
continere uideatur: nam definitio, partitio atque collectio inuentionem
continent et iudicium, quia neque existere praeter inuentionem, neque agnosci
praeter iudicium possunt. Sed cum omnis inuentio iudicationi subiecta sit, cumque
prioris diuisionis partes sine utroque esse non possint, euenit ut prima
partitio inuentionem iudiciumque coniungat. Secunda uero haec diuisio, qua
Cicero etiam partitur logicam, segregat huiusmodi facultates, et inueniendi
materiam a iudicationis parte secernit. Iudicium uero, in colligendi
ratione proprias partes habet, nam omnis argumentatio, omnisque syllogismus
propositionibus struitur, omnemque compositum duo in se quaedam retinet, quae
speculanda esse uideantur. Et quidem continet unum quae illa sint, ex quibus id
quod compositum est intelligatur esse connexum, aliud uero quanam sit suarum
partium coniunctione compositum: ut in pariete siquidem lapides ipsos quibus
paries structus est inspicias, quasi materiam species: si uero ordinem
compositionemque iuncturae consideres, tanquam de formae ratione perpendas. Ita
in argumentationibus quas propositionibus compaginari atque coniungi supra
retulimus, gemina erit speculationis et iudicandi uia. Una quae propositionum
ipsarum naturam discernit ac iudicat utrum uerae ac necessariae sint, an
uerisimiles, an sophisticis applicentur, et haec quasi materiae speculatio est.
Altera uero iudicii pars est quae inter se propositionum iuncturas
compositionesque perpendit; haec quasi formam iudicat argumentorum. Quae
cum ita sint, hoc modo fit in continuum ducta partitio, ut ratio diligens
disserendi, unam habeat inueniendi partem, alteram uero iudicandi. Tum de
ipsa inuentione, tum de inuentionis collocatione, quae forma est
argumentationis. Atque ea quidem pars quae de inuentione docet, quaedam
inuentionibus instrumenta suppeditat, et uocatur topice: cur autem hoc nomine
nuncupata sit posterius dicam. Illa uero pars quae in indicando posita est,
quasdam discernendi regulas subministrat, et uocatur analytice; et si de
propositionum iunctura consideret, analytice prior; sin uero de ipsis
inuentionibus tractet, ea quidem pars ubi de discernendis necessariis
argumentis dicitur, analytice posterior nuncupatur; ea uero quae de falsis
atque cauillatoriis, id est de sophisticis, elenchi. De uerisimilium uero
argumentationum iudicio nihil uidetur esse tractatum, idcirco quoniam plana est
atque expedita ratio iudicandi de medietate, cum quis extrema cognouerit. Si
enim quis diiudicare necessaria sciat, idemque falsorum argumentorum possit
habere iudicium, uerisimilia, quae in medio collocata sunt, discernere non
laborat. Expeditum igitur est, ut arbitror, quid sit quod ait Cicero,
rationem diligentem disserendi duas habere partes, inueniendi unam, alteram
iudicandi. Illud etiam diligentius expositum est, quae sit ratio quam Stoici
dialecticen uocant. Ea est enim quae iudicandi peritiam tenet, et quam eodem
nomine Plato partiendi per differentias, atque ad genus reuocandi facultatem
uocat. Quamque eodem nomine Aristoteles, non totam disserendi artem, ut Stoici
sed eam tantum nuncupet quae de proposita quaestione uerisimilibus colligat
argumentis, atque ideo perfectius Aristoteles de logica tractauit, quoniam de
duobus, ultra quae nihil est, tertium disseruit, de inueniendo scilicet et
iudicando, cum Stoici, inuentione neglecta, iudicationis tantum instrumenta
tradiderint. Atque ideo iure eos increpat Tullius, quoniam id maxime
relinquere quod et natura prios et usu potius erat: natura quidem, quia fieri
non potest ut de inuentione iudicetur, nisi ipsa inuentio prius exstiterit. Ad
usum uero, quia longe utilius est nuda, et praeter artem prolata naturali
inuentione susceptum saepe negotium tueri, quam inueniente alio mutum ipsum
inermemque et tacitum uersare iudicium. Dat uero Tullius de utroque sententiam,
etait summam pariter utilitatem in utroque consistere, et se de utraque, si
otium fuerit, uelle disserere. Ab ea autem quae prior est, id est inuentione, quam
*topicen* appellari diximus, ordiendum putat. UT IGITUR EARUM RERUM QUAE
ABSCONDITAE SUNT DEMONSTRATO ET NOTATO LOCO FACILIS INUENTIO EST, SIC, CUM
PERUESTIGARE ARGUMENTUM ALIQUOD VOLUMUS, LOCOS NOSSE DEBEMUS; SIC ENIM
APPELLATAE AB ARISTOTELE SUNT EAE QUASI SEDES, E QUIBUS ARGUMENTA PROMUNTUR.
ITAQUE LICET DEFINIRE LOCUM ESSE ARGUMENTI SEDEM. ARGUMENTUM AUTEM RATIONEM,
QUAE REI DUBIAE FACIAT FIDEM... Post diuisionem logicae disciplinae, quam
diligentem disserendi rationem esse definiuit, de topice, quae inueniendi ars
esse praedicta est, expedire contendit. Ac primum quid sint loci, termino
definitionis includit, eiusque artis quae topice dicitur exempli quadam
claritate designat intentionem. Est enim topices intentio, argumentorum facilis
inuentio. Non igitur inuenire docet topice quod est naturalis ingenii sed
facilius inuenire: omnis quippe ars imitatur naturam, atque ab hac materia
suscepta, rationes ipsa uiamque conformat, ut cum facilius id quod ars quaeque
promittit, tum elegantius fiat, uelut parietem struere naturalis ingenii est
sed arte fit melius. Argumentum autem ratio est quae rei dubiae faciat
fidem. Multa enim sunt quae faciant idem sed quia rationes non sunt, ne
argumenta quidem esse possunt, ut uisus facit fidem his quae uidentur sed quia
ratio non est uisus, ne argumentum quidem esse potest. Differentiam uero unam
sumpsit, eam quae faciat fidem, omne enim argumentum facit fidem. Si igitur
iunxerimus genus ac differentiam, et id esse argumentum dicamus, quod rationem
quae faciat fidem, num tota argumenti natura monstrata sit? Minime. Quid si
eius rei, de qua nemo dubitat, aliqua ratione facere quis fidem uelit, num
idcirco illa, quod fidem faciat, uocabitur argumentum? Nullo modo:
argumentum namque est quod rem arguit, id est probat, nihil uero probari, nisi
dubium, potest. Nisi ergo sit res ambigua, et ad eam ratio fidem faciens
afferatur, argumentum esse non poterit. Addita igitur alia differentia quae est
rei dubiae, facta est integra definitio argumenti, ex genere et duabus
differentiis constans, genere quidem, ratione: una uero differentia, quod faciat
fidem; altera uero, quod rei dubiae est, ut sit tota definitio, id esse
argumentum quod sit ratio, rei dublae faciens fidem. Quae cum ita sint,
nec esse est ut ubi dubitatur aliquid, ibi sit quaestio. Quod si argumentum
praeter rem dubiam esse non poterit, nullo modo esse praeter quaestionem
potest. Quaestio uero est dubitabilis propositio. Propositio uero est ratio
uerum falsumue designans. Omnis igitur propositio siue constanter atque
pronuntiatiue proferatur, ut si quis dicat: Omnis homo animal est; siue ad
interrogationem dirigatur, ut si quis interroget: Putasne omnis homo animal
est? retinet proprium nomen, et propositio nuncupatur. At si eadem, uelut
dubitabilis proferatur, fit quaestio, ut si quisque erat an omnis homo animal
sit. Quot autem modis quaestio diuidatur, nunc explicandi locus non uidetur
accommodus sed in iis libris dicemus quos de topicis differentiis formare
molimur. Ad quaestionem igitur, id est ad dubitabilem propositionem, omnis
intentio dirigitur argumenti, non uero ut totam comprobet quaestionem sed ut
partem eius ratione confirmet; neque enim tota quaestio defenditur sed una eius
quaelibet pars argumentatione firmatur: nemo enim defendit caelum rotundum esse
et non esse; si enim ita quis defenderet, totam quaestionem uideretur probare.
Sed cum ita consideratur: Utrum rotundum sit caelum an non sit in
una tantum consistit quaestionis parte defensio, siue quae affirmat siue quae
negat. Omnis enim quaestio contradictionibus constat. Nam si qua res ab altero
affirmetur, negetar ab altero, totum hoc contradictio nuncupatur, ut si quis
dicat: Caelum rotundum est alter neget dicens: Caelum rotundum non
est. Caelum rotundum esse et non esse contradictio prohibetur.
Dubitabilis uero propositio, quam quaestionem esse praediximus, et affirmationem
in se continet et negationem, hoc enim ipso quo dubitabilis est,
contradictionem uidetur includere. Cum enim dubitat quis utrumque caelum
rotundum sit, siue adiungat an non sit, siue reticeat, ipsa dubitatio partem
secum alteram trahit. Si enim unam partem propositio tueatur, dubitabilis non
est, atque idcirco nec quaestio. Cum igitur omnis quaestio duas habeat
partes, affirmationis unam, alteram negationis, nec esse est ut sit semper ex
alterutra parte defensio, ut unus quidem affirmationis partem, negationis alter
defendat, et hic quidem ad astruendam affirmationem, ille uero ad destruendam,
quae potuerit argumenta perquirat. Nihil uero interest utrum quis affirmationem
ponat, an destruat negationem, aut negationem defendat, an oppugnet affirmationem.
Age enim, sit quaestio, utrum caelum rotundum sit. Si quis eam sibi quaestionis
partem assumpserit, quam esse defendit, ad eam constituendam cuncta nec esse
est sibi comparet argumenta, atque in hoc affirmationem quidem ponit sed
destruit negationem. Si quis uero neget id, ac dicat non esse caelum rotundum,
suscipit sibi partem alteram quaestionis quae fuerat reliqua, id est
negationem, in eaque consistit, et ad hanc approbandam, perquisitis nititur
argumentis; itaque qui negationem ponit, labefactat affirmationem. Quae
cum ita sint, demonstratum arbitror, non totam quaestionem sed eius aliquam
partem ad defensionem uenire. Sed quod quisque defendet, ad hoc quoque
argumenta perquirit. Ad partem igitur quaestionis astruendam destruendamue
argumenta sumuntur, atque haec quidem si quis minus intelligit, ne a nobis
obscure dicta esse causetur. Si enim quae in dialectica, uel a nobis dicta
Latina oratione, uel a Graecis scripta sunt, ignorabit, mirum est si quam
partem eorum quae dicimus aduertere ualeat, ne dum stupeamus quod non omnia
comprehendat. Sed quoniam dubitabilem propositionem quaestionem esse
praediximus, euenit ut quas partes habeat propositio, easdem etiam quaestio
retinere uideatur. Omnis autem simplex propositio duas habet partes in terminis
constitutas. Simplex uero propositio est huiusmodi: Omnis homo animal est
Terminos uero uoco simplices orationis partes quae continent propositionem, ut
animal et homo. Hi uero sunt praedicatus atque subiectus. Praedicatus est in
propositione maior terminus collocatus; subiectus uero minor. Maior uero
terminus de subiecto dicitur, minor autem de maiore nullo modo praedicatur, ut
animal quoniam maius est quam homo, de homine praedicatur: dicitur enim: Omnis
homo animal est Homo uero de animali non dicitur, nemo enim uere
dicit: Omne animal homo est Hac igitur ratione internoscere possumus
qui terminus in propositione maior, qui uero sit minor. Omnis autem quaestio,
ut dictum est, quoniam dubitabiles partes habet, et ad easdem comprobandas
argumenta sumuntur, necesse est ut quidquid in quaestionibus comprobatur, id
argumentorum ratione firmetur. Argumentum uero nisi sit oratione prolatum, et
propositionum contexione dispositum, fidem facere dubitationi non poterit. Ergo
illa per propositiones prolatio ac dispositio argumenti, argumentatio
nuncupatur, quae dicitur enthymema uel syllogismus, cuius definitionem in
Topicis differentiis apertius explanabimus. Omnis uero syllogismus uel
enthymema propositionibus constat; omne igitur argumentum syllogismo uel enthymemate
profertur. Enthymema uero est imperfectus syllogismus, cuius aliquae partes,
uel propter breuitatem, uel propter notitiam, praetermissae sunt. Itaque haec
quoque argumentatio a syllogismi genere non recedit. Quoniam igitur
syllogismus omnis propositionibus constat, propositiones uero terminis,
terminique inter se differunt, eo quod unus maior est, alter minor, fieri non
potest ut ex propositionibus conclusio nascatur, nisi per terminos progressae
propositiones extremos terminos alicuius tertii medietate coniunxerint: id
facillimo demonstratur exemplo. Sit enim quaestio: Utrum homo substantia sit an
minime. Sumo mihi quaestionis partem alteram comprobandam, ea est, hominem esse
substantiam; in hac igitur duo sunt termini, substantia atque homo, quorum
maior substantia, minor homo, quod ex eo quoque poterit ostendi, quoniam
posterius substantia in prolatione profertur, uel ut in hoc ipso quod dicimus
homo substantia est, prius hominem, posterius substantiam nominamus. Ut igitur
substantiam atque hominem iungam, nec esse est medium terminum reperiri, qui
utrosque copulet terminos, hic sit animal, fiatque una propositio: Omnis
homo animal est in hac igitur propositione animal praedicatur, homo subiicitur.
Rursus adiungo: Omne autem animal substantia est in hac rursus
animal supponitur, substantia praedicatur. Itaque concludo, omnis igitur homo
substantia est; ac per hoc homo quidem semper subiectus est. Animal uero ad
hominem quidem praedicatum est, ad substantiam uero subiectum. Substantia uero
ipsa semper praedicata persistit, unde fit ut minor quidem sit homo, maior uero
homine substantia, medius autem terminus animal. Quoniam igitur extremi termini
medii interpositione copulantur, eoque modo quaestionis inter se membra conueniunt,
adhibitaque probatione soluitur dubitatio, nihil est aliad argumentum quam
medietatis inuentio, haec enim uel coniungere, si affirmatio defendatur, uel
disiungere, si negatio uindicetur, poterit extremos. Quae cum ita sint,
duarum propositionum et tertiae conclusionis, maior quidem propositio dicitur
ea quae maiorem terminum continet, id est in qua maior quidem praedicatur;
medius uero supponitur, ut "Omne animal substantia est"; minor uero
propositio est quae medium quidem terminum praedicat, subiicit autem minorem,
ut "Omnis homo animal est". Sed quoniam a maioribus nec esse est
minora descendere, eius conclusionis, quae ex duabus propositionibus nascitur,
illa quasi effectrix et propria propositio uidetur esse, quae prima est; haec [autem
est, "Omnis homo substantia est". Quod qui priores posterioresque
nostros Analyticos, quos ab Aristotele transtulimus, legit, minime dubitat. Sed
etsi quis quae illic scripta sunt nesciens, ad haec legenda proruperit, etiamsi
rationem rerum quas non intelligit minime comprehendit, ita tamen ut dictum est
esse confidat, seque in Aristotelis Analyticis uberius inuenturum esse, si
legerit, arbitretur. Natura igitur rerum fert ut ubi quid maius ac minus
est, ibi maximum quoque aliquid inesse necesse sit. Quo fit ut sint quaedam
maximae propositiones, quoniam minores maioresque esse monstrauimus, quarum
natura ex simplicium propositionum partitione sumenda est. Omnis enim simplex
propositio uel affirmatiua est, uel negatiua. Earumque aliae sunt uniuersales,
ut: Omnis homo iustus est. Nullus homo iustus est aliae
particulares, ut: Quidam homo iustus est aliae indefinitae, ut: Homo
iustus est. Homo iustus non est aliae singulares aliquid atque indiuiduum
continentes, ut: Cato iustus est Cato iustus non est
Harumque omnium aliae sunt dubitabiles, aliae indubitatae. Supremas igitur ac
maximas propositiones uocamus, quae et uniuersales sunt, et ita notae atque
manifestae, ut probatione non egeant, eaque potius quae in dubitatione sunt
probent. Nam quae indubitata sunt, ambiguorum demonstrationi solent esse
principia, qualis est, omnem numerum uel parem esse uel imparem, et aequalia
relinqui, si aequalibus aequalia detrahuntur; caeteraeque de quarum nota
ueritate non quaeritur. Maximas igitur, id est uniuersales ac notissimas
propositiones, ex quibus syllogismorum conclusio descendit, in Topicis ab
Aristotele conscriptis locos appellatos esse perspeximus; quod enim maximae
sunt, id est uniuersales propositiones, reliquas in se uelut loci corpora
complectuntur, quod uero notissimae atque manifestae sunt, fidem quaestionibus
praestant, eoque modo ambiguarum rerum continent probationes. Has autem
aliquoties quidem in ipsis syllogismis atque argumentationibus inhaerere
conspicimus, aliae uero in ipsis quidem argumentationibus minime continentur,
uim tamen argumentationibus subministrant:ut si uelimus ostendere regnum melius
esse quam consulatum, dicemus: Regnum cum sit bonum, diuturnius est quam
consulutus; omne uero quod est diuturnius bonum, melius est eo quod parui
est temporis: regnum igitur melius est consulatu. Hic igitur maxima
propositio atque uniuersalis et per se cognita, neque indigens probatione,
argumentationi inserta est. Ea uero est: Omnia quae diuturniora sunt bona,
meliora esse his quae sunt temporis breuitate constricta. At si
uelimus ostendere non esse inuidum qui sapiens sit, dicamus: Inuidus est
qui moeret aliena felicitate; non autem sapiens est quem felicitas aliena
contristat: non est igitur inuidus sapiens. Hic maxima propositio
argumentationi non uidetur inclusa sed extrinsecus posita, syllogismo tamen
uires ministrat. Haec uero est: Quorum diuersae sunt definitiones, diuersas
esse substantias necesse est. Quisquis igitur uel Aristotelis Graeca
uel nostra ab Aristotele translata prospexerit, has illic propositiones locos
inueniet nuncupari, quae sunt maximae atque uniuersales et uel per se
necessariae, uel per se probabiles ac notae. Sed quoniam has propositiones
plures ac pene innumerabiles esse nec esse est, restat adhuc quo amplius ratio
speculationis ascendat. Possumus enim, diligenti tractatu considerationis
adhibito, omnium maximarum atque uniuersalium propositionum differentias
perpendere, atque innumerabilem maximarum propositionum ac per se notarum
multitudinem in paucasatque uniuersales colligere differentias, ut et alias
dicamus in definitione consistere, alias in genere, atque alias alio modo quod
paulo post apertius demonstrabo. Omnes igitur maximae propositiones, quaecumque
sub definitionis uerbi gratia rationem cadunt, uno definitionis nomine
continebuntur. Et sicut illae reliquarum propositionum loci esse dicebantur,
quod eas intra suum ambitum continerent, ita ipsarum maximarum atque
uniuersalium propositionum, quas minorum propositionum locos esse praediximus,
illa differentiae, et si non uere, tamen quadam ueluti imagine loci esse
uidebuntur, in quas fuerint conuenienti ratione reductae. Sed istae
locorum, id est propositionum maximarum, differentiae, quas etiam ipsos locos
nominamus, possunt subiectarum propositionum etiam genera nuncupari. Nam
differentiae continentes etiam genera communiter possunt uideri, ut irrationale
cum a rationali uelut diuisibili differentia dissideat; tamen equi uel canis,
differentia specifica est, et ad eos locum generis tenet. Namque animal irrationabile
equi genus est. Ita etiam in maximis propositionibus. Nam quod aliae sunt ex
toto, aliae ex partibus, hae inter se comparatae differentiae diuisibiles sunt,
ad ipsas uero maximas propositiones differentiarum continentiae uelut generis
loco sunt. Nam propositionis ex tolo uenientis genus est idipsum quod uocatur
ex toto. Item propositiones a partibus ductae, quamuis notae sint atque
manifestae genus est, quod a partibus, et caeterae differentiae earum
propositionum quae cum sint maximae, tamen eisdem uidentur includi, uelut
quaedam genera sint. Quae uero sint hae differentiae paulo posterius
disseram. De his igitur nunc locis tractare Tullius instituit qui maximas
propositiones quas superius diximus, id est per se notas atque uniuersales,
continent atque includunt. Hae uero sunt maximarum differentiae propositionum.
De uniuersalium igitur enuntiationum per seque notarum differentiis disserit,
ut fit integer locus argumenti sedes. Nam si argumentum omne per propositiones
ad conclusionem usque perducitur, omnes uero reliquae propositiones in prima
maximaque propositione continentur, ipsaque prima ac maxima propositio, tum
pars est argumentationis, id est syllogismi, tum extraposita argumentationi
uires ministrat, ut utroque modo quoniam perficit argumentum, pars
argumentationis quaedam esse uideatur, non est dubium quin hae differentiae,
quae propositiones maximas continent, eaedem omnes etiam contineant
argumentationes, ut maximarum propositionum differentiae iure loci argumentorum
et quasi quaedam ultimae sedes esse uideantur. Nam ex his quatuor
significationibus appellationum duarum, argumentationis scilicet atque
argumenti, unam quamlibet esse nec esse est. Aut enim elocutio et contextio
ipsa propositionem cum maximis propositionibus, uel extra syllogismum positis,
uel in eodem inclusis, argumentatio uocatur. Argumentum uero mens et
sententia syllogismi, aut elocutio ratiocinationis cum maximis propositionibus
et sententia syllogismi argumentum esse dicetur, ut idem sit argumentum quod
argumentatio. Aut argumentatio quidem uocabitur tota contextio syllogismi cum
sententia sed argumentum maxime propositio, aut integer ratiocinationis ordo
praeter maximas propositiones argumentatio, sententia uero argumentationis
argumentum. Reliqua uero maxima propositio, locus. Sed cum haec ita sint,
siue quis ipsarum propositionum contextionem, et usque ad conclusionem
continuum ductum cum maxima propositione, uel extra posita, uel propositionibus
ratiocinationis inclusa, argumentationem uocare uelit, argumentum uero
sententiam mentemque ratiocinationis, nihilominus locos intelligimus maximarum
propositionum differentias; siue quis ratiocinationis totius uim atque
sententiam totam cum maxima propositione, uel intra, uel extra posita,
argumentum uocet, non est dubium quin totius ratiocinationis locus ille sit qui
est maximae propositionis differentia, continet enim maximam propositionem, in
qua propositiones caeterae continentur: siue argumentationem quidem totam
ratiocinationis contextionem uocari placeat, argumentum uero maximam
propositionem, recte rursus locus putabitur maxime propositionis differentia,
quae argumentum claudit et continet. Quod si argumentum quidem sensus ipse
totius ratiocinationis intelligatur, argumentatio uero integra ratiocinationis
prolatio, extra uero et ab utrisque diuersum ualens, uelut locus quidam maxima
propositio consideretur, sic quoque maximarum differentiae propositionum loci
esse uidebuntur. Nam cum differentia ipsa maximam propositionem contineat,
eiusque sit locus, maxima uero propositio argumentationi uel argumento uires
ministret, non est dubium quin ea toti argumento locus esse uideatur, quod
totum intra maximae propositionis ambitum claudit. Demonstratum igitur
est quae sint argumentorum sedes, id est, ubi argumenta clauduntur (hae sunt
autem maximarum propositionum differentiae), quae uocantur loci, quid etiam
argumentum, quoniam est rei dubiae faciens fidem, quae sit uero res dubia, id
est pars altera quaestionis, quid sit quaestio, id est dubitabilis propositio,
quid sit simplex propositio, id est enuntiatio, quae praedicato et subiecto
termino contineatur, uerum falsumue designans, quae omnia meminisse oportet.
Maximarum enim propositionum differentiae quas locos esse praediximus, ab his
dicuntur terminis qui prius in propositione sunt, posterius in quaestione
considerantur, praedicato scilicet atque subiecto. Ex his etiam quae
superius dicta sunt quid distent Topica Ciceronis atque Aristotelis apparuit.
Aristoteles namque de maximis propositionibus disserit, has enim locos argumentorum
esse posuit, ut nos quoque supra retulimus. Tullius uero locos non maximas
propositiones, sed earum continentes differentias uocat, ac de his dicere
contendit. SED EX HIS LOCIS IN QUIBUS ARGUMENTA INCLUSA SUNT, ALII IN EO
IPSO DE QUO AGITUR HAERENT, ALII ASSUMUNTUR EXTRINSECUS. IN IPSO TUM EX TOTO,
TUM EX PARTIBUS EIUS, TUM EX NOTA, TUM EX EIS REBUS QUAE QUODAMMODO AFFECTAE
SUNT AD ID DE QUO QUAERITUR. EXTRINSECUS AUTEM EA DUCUNTUR QUAE ABSUNT LONGEQUE
DISIUNCTA SUNT. Post definitionem loci atque argumenti facit plenissimam diuisionem
locorum. Ac primum quoniam omnis diuisio cuncta debet amplecti, neque
superfluum quidquam interponere, nec omittere quid sit necessarium, id M.
Tullius proposita diuisione patefacit dicens: EX HIS LOCIS IN QUIBUS ARGUMENTA
INCLUSA SUNT, ALIOS IN EO IPSO DE QUO AGITUR HAERERE, ALIOS EXTRINSECUS ASSUMI.
Nihil enim huic diuisioni posse uidetur addi uel minui, quandoquidem breuiter
cuncta complectitur. Argumentorum enim loci quicumque sumuntur, aut in ipso de
quo agitur haerent, aut minime. Id autem minime extrinsecus positos esse
designat, quod si inter id quod dicimus in ipso de quo agitur haerere
argumentorum locos, et non haerere nihil est medium. Inter affirmationem enim
atque negationem nulla est medietas. Cumque in ipso de quo agitur non inhaerere
locum argumenti, id sit extrinsecus assumi, dubium non est quin nihil intersit
medium inter ea argumenta quorum in hoc ipso haerent loci de quo agitur, et ea
quorum extrinsecus assumuntur, EXTRINSECUS AUTEM EA DUCUNTUR QUAE ABSUNT
LONGEQUE DISIUNCTA SUNT. Sed quid ipsum sit de quo agitur facilior
explanatio est, si eorum quae prius dicta sunt meminerimus. Nam cum de
quaestione loqueremur, eamdem diximus esse quaestionem quae esset dubitabilis
propositio. Sed quoniam propositio subiecto praedicatoque constaret,
quaestionem quoque diximus subiecta praedicatoque coniungi. Praedicatum igitur
uel subiectum est hoc ipsum de quo agitur. Nam cum de alterutra quaestionis parte
dubitetur, in hac ambiguitate quaeritur utrum praedicatus terminus inesse
subiecto uideatur, an minime. Nam cum omnis quaestio in affirmationem
negationemque diuidatur, si praedicatus subiecto inest, fit ex eo uera
affirmatio; si non inest, fit uera negatio. Sed in quaestionibus disceptandis,
alter affirmationem, alter negationem tuetur, id est, alter praedicatum inesse
subiecto, alter non inesse defendit. Quod uero ex alterutra parte defenditur,
hoc est ipsum de quo agitur. Ipsum igitur est praedicatus terminus uel
subiectus, de quibus agitur. Atque ut id exemplo clarius fiat, sit
quaestio, an Verres furtum fecerit. Hic Verres subiectum est, furtum facere
praedicatum; quod si furtum Verri coniungitur, idque argumentationibus
comprobatur, [1055B] quaestionis affirmatio demonstrata est. Si furtum a Verre
seiungitur, quaestionis rursus negatio comprobatur. Ipsum itaque de quo agitur
nihil est, nisi uterlibet eorum terminus qui in quaestione proponitur, siue
praedicatus, siue etiam subiectus. Qui quidem termini per se argumenta
esse non possunt, neque uero per se argumenta praestare. Si enim ipsi simplices
ut sunt argumenta esse possunt, uel argumentorum praestare materiam, nullam in
quaestione relinquerent dubitationem; sed quoniam de ipsis adhuc in quaestione
dubitatur an eorum possit esse rata coniunctio, ipsi quidem neque per se
argumenta esse, neque per se argumenta praestare poterunt, ea uero quae in
ipsis insunt, uel extrinsecus posita sunt, argumentorum copiam
subministrant. Nam quod Victorinus quaerit, et explicat latius, ne
commemoratione quidem mihi dignum uidetur. Quaerit enim quaestio ipsa de quo
agitur an habeat locum, quod minime oportuit, ut dictum est. Locus de quo nunc
agimus non cuiuslibet rei locus est sed argumenti, argumentum uero rei dubire
faciens fidem, res uero dubia pars quaestionis. Quod si argumentum quaestio uel
pars quaestionis esse non potest, locus uero de quo agimus argumenti est locus,
non est dubium quin locus quaestionis esse non possit. Amplius, omnis
quaestio dubitabilis est, argumentum uero omne quaestionis purgat ambiguum. Non
est igitur idem argumentum quod quaestio sed loci, argumentorum sunt loci, non
sunt igitur quaestionis. Hoc igitur praemisso intelligamus ipsum de quo agitur quemlibet
terminum in quaestione propositum, siue praedicatum, siue subiectum, qui cum
per se res sint, ipsi quidem argumentum esse non possunt, habere autem in se
quaedam possunt, in quibus argumenta sint collocata, et quae sedes argumentorum
esse intelligantur. Quae quidem cum terminis his de quibus agitur inhaerere
uideantur, nondum tamen sunt argumenta sed quasi iam argumenta complectentes
loci, et uelut naturali sede condentes. Idem de his locis qui extrinsecus
assumuntur dicendum est, ipsi namque positi sunt exterius et quodammodo a
propositionum terminis ablegati, et res quaedam sunt sed intra se argumentorum
copiam claudunt. Atque, ut breui sententia colligam, ipsum de quo agitur
nihil est aliud nisi quilibet in quaestione terminus collocatus. Hi argumenta
esse non possunt, neque ab his trahi aliquod argumentum. Quo fit ut termini
ipsi qui in quaestione sunt positi, nec argumenta, nec loci sint sed tantum
res. Rursus ea quae in his haerent de quibus agitur, ipsa quidem res esse
manifestum est sed claudunt in se argumentorum copiam, ut cum ex his sumi
aliquod oporteat argumentum, locorum uice fungantur. Itaque si quis per se ea
speculetur, res sunt; si quis ab his aliquod argumentum quaerat educere, loci
fiunt. Et haec communiter quidem de principalibus ac maximis locis dicta sint.
Hi uero sunt qui in ipsis de quibus agitur haerent, uel qui assumuntur
extrinsecus. Ut igitur faciat plenam locorum diuisionem, quos simpliciter
ac maximos posuit locos, eosdem uelut in quasdam species resecat, dicens: IN
IPSO TUM EX TOTO, TUM EX PARTIBUS EIUS, TUM EX NOTA, TUM EX HIS REBUS QUAE
QUODAMMODO AFFECTA SUNT AD ID DE QUO QUAERITUR. Et locorum quin in ipso sunt de
quae agitur constituti quatuor partium facta diuisiones. Hi quippe qui in ipso
de quo agitur haerent, uel ex toto eo de quo agitur termino, uel ex partium
eius enumeratione, uel ex nota, uel ex affectis intelliguntur existere. Id ita
esse breui ratione firmabitur. Nec esse est enim quemlibet eorum terminorum qui
in quaestione sunt collocati, et definitiones habere proprias, et partes, et
nomina, et ad res alias quadam relatione coniungi ac referri. Ergo locus qui
dicitur ex toto, id est, quoties argumentum ex alicuius definitione termini qui
est in quaestione tractatur, siue subiecti, siue praedicati. Ex partium
enumeratione, quoties ab eius termini partibus, qui in quaestione positus est,
ducitur argumentum. A nota, quoties ab eiusdem termini uocabulo nascitur
argumentum. Ab affectis uero, quoties ab his quae ad propositum terminum
relatione aliqua reducuntur argumentatio proficiscitur Quorum similitudines
omnium posterius explicabo, quando ea quae snper his rebus declarandis Cicero
posuit exempla tractauero. Nunc illud est considerandum, ait enim Tullius
ex his locis, in quibus argumenta inclusa sunt, alios in eo ipso de quo agitur
haerere, alios extrinsecus assumi, quod ita dictum uidetur, tanquam diuersi
sint loci qui in his de quibus agitur haerent, et ipsum illud de quo agitur.
Nihil enim in se ipso haerere potest, ac per hoc quod in aliquo haeret ab eo in
quo haeret diuersum est. Quod si loci sunt aliqui qui in his haereant de quibus
agitur, non est dubium quis hi loci ab his de quibus agitur sint diuersi.
Rursus cum dicit IN IPSO TUM EX TOTO, TUM EX PARTIBUS EIUS, tanquam non de
diuersis loquatur, ita ait, in ipso locos esse tum ex toto, tum ex partibus,
tum ex nota, quasi uero aliud sit ipsum quam totum, aut aliud ipsum quam omnes
undique eius partes. Unaquaeque enim res idem est quod totum. Idem namque est
Roma quod tota ciuitas. Rursus idem est unaquaeque res quod eius singulae
parles in unum reductae; uelut idem est homo quod caput, thorax, uenter, ac
pedes, caeteraeque in unum partes coniunctae atque copulatae. Quomodo igitur
tanquam de diuersis primum locutus est, cum locos haerere in his terminis de
quibus agitur dixit, post autem uelut de eisdem loquitur, cum in ipso locos,
tum ex toto, tum ex partibus esse proponat? Nihil enim differt dicere IN IPSO
TUM EX TOTO, TUM EX PARTIBUS quam si ita dixisset "in ipso tum ex
ipso". Nam si idem est ipsum quod totum ac partes, idem est dicere in ipso
haerere locum, ex toto, aut ex partibus, quod in ipso haerere locum, qui est ex
ipso, quod ne intelligi quidem pctegt, quemadmodum in ipso haerere possit, quod
ipsum est, cum nihil sibi haereat, ut superius expediui. Sed, quemadmodum
paulo ante exposui, unaquaeque res cum et definitionem habeat et partes, si pernoscamus
quae sit definitionis uis et quae partium, cunctus ambiguitatis nodus
absoluitur. Est enim definitio coactae in se atque complicatae rei explicatio,
uelut cum dicimus hominem esse animal rationale, mortale. Nam id quod breuiter
nomen, atque anguste designabat, id explicauit ac prolulit, et per
substantiales quodammodo partes definitio patefecit. Alium igitur nec esse est
esse intellectum rei, quae complicata est, in eo quod sibimet coacta atque in
unum redacta est, alium eiusdem rei explicatae atque dissertae, in eo quod
expedita atque diffusa est: nam et si idem rei definitio quod nomen significat,
illud tamen ipsum quod nomen anguste confuseque designat, apertius definitio
disserit ac patefacit. Recte igitur aliud quiddam est ipsum, aliud eius
definitio, etiam si unum idemque est utrisque subiectum. Ut enim dictum est,
ipsum singulum est, definitio ipsius singuli per partes distributio atque
enumeratio. (Partes autem nunc substantiales dico, non quae magnitudinem
iungunt sed quae proprietatem rationemque substantiae.) Sed quod in
definitione dictum est secundum eas partes quae substantiam iungunt, id in
partibus intelligendum est quae magnitudinem copulant, uelut domus quae
fundamento, parietibus tectoque coniungitur. Nam eum ea nihil sit aliud nisi
quod partibus copulatur, ipsa tamen una quaedam est, atque coniuncta, partitio
uero eius per quaedam membra distributio est, atque ideo licet unum sit, quod
ipsum est totum, et quot sunt partes undique confluentes, non tamen eumdem nec
esse est habere intellectum, cum ipsum integrum consideratur, ut cum in partes
ipsas quibus iunctum est distribuitur. Ex nota uero locus apertissime ab
eo termino diuersus est, qui in quaestione constitutus est. Quis enim dicat id
esse cuiuslibet rei uocabulum quod ipsa res est, quam designat? Ea uero
quae ad id de quo agitur affecta sunt, et si extra posita uidentur, terminum
tamen in quaestione propositum uelut e regione respiciunt, quae in multas
secari nec esse est partes. Omnis enim res, id quod est, unum est, multa uero
sibimet retinet adiuncta, quae hoc ab his quae omnino extrinsecus sunt differre
intelliguntur, quod ea quae affecta sunt, in relatione sunt posita, ut post et
ipsarum propositio, et exemplorum ratio monstrabit. Ea uero quae sunt
extrinsecus, in nulla relatione sunt constituta, atque ideo hac extrinsecus
solum. Illa uero affecta sunt nuncupata, habet enim aliquam quodammodo
cognationem ad id ad quod reducitur, id quod refertur ad aliquid. Sed
omnes fere bos locos quos nunc simplices atque indiuisos ponit, posteriore
tractatu diuidit, ut nunc quoque eos locos qui in ipso sunt, distribuit, cum
alios ex toto fieri proponit, alios ex partibus, alios ex nota, alios ex
affectis, affectaque ipsa suis partibus secat. Extrinsecus uero locum in
testimonio positum esse confirmat, testimonii uero uim in auctoritate
constituit, auctoritatem uero deducit in proprias partes sed hoc posteriore
tractatu liquebit. Nunc uero eos simplices atque indiuisos locos proponit, et
ueluti simplicibus subdit exempla. Restat autem nunc unum quod uidetur
esse quaerendum, an hi loci qui in locos alios diuiduntur, eorum quos intra se
continent locorum loci esse possint, ut eorum qui sunt ex toto, ex partibus, ex
nota, ex affectis, is unus quidam quasi locus sit, qui est in ipso. Nihil
quidem prorsus officeret locorum locos putare, fieri enim potest ut locus
amplior intra semet angustiores contineat locos, uelut id prouincia ciuitates,
sed nunc haec similitudo non conuenit. Locus enim est ex quo ducitur id in quo
argumentum est positum. Quod si loci locus esse posset, et is qui est in ipso
de quo agitur, eos qui sunt ex toto, uel ex partibus, uel ex nota, uel ex
affectis, uelut quidam locus includeret, non essent, ex toto, ex partibus, ex
nota, uel ex affectis loci sed argumenta quoniam in eo haererent loco, qui in
eo ipso de quo agitur termino esse praedictus est; non igitur locus esse
poterit loci sed uel ut genera in species. Ita nunc sit diuisio locorum,
nec hoc superius dictis uideatur esse contrarium, cum et maximas propositiones,
et earum differentias continentes communi nomine appelauimus locos. Nam maxime
propositiones, licet eo ipso quo maximae sint includant caeteras et uocentur
loci, tamen quia sunt notissimae possunt rebus dubiis argumenta. Iure igitur
earum differentiae loci nominantur, quod in locorum speciebus, aliter sese
habet, quae prorsus argumenta esse non possunt: nam in ipso locus uelut in
species quasdam diuiditur in eos qui sunt ex toto, ex partibus, ex nota, ex
affectis. Unusquisque [enim horum locorum primi loci integrum uidetur ferre
uocabulum, nam ut hominem animal dicimus, itemque equum atque bouuem animalia
nuncupamus, sic is locus qui ex toto est in ipso esse dicitur, itemque qui ex
partibus ac nota, atque ex affectis in ipso sunt. Sed ex his locis argumenta
quidem duci possibile est, ipsa uero argumenta ut sint, fieri nequit. SED
AD ID TOTUM DE QUO DISSERITUR TUM DEFINITIO ADHIBETUR, QUAE QUASI INVOLUTUM
EVOLVIT ID DE QUO QUAERITUR; EIUS ARGUMENTI TALIS EST FORMULA: IUS CIVILE EST
AEQUITAS CONSTITUTA EIS QUI EIUSDEM CIVITATIS SUNT AD RES SUAS OBTINENDAS; EIUS
AUTEM AEQUITATIS UTILIS COGNITIO EST; UTILIS ERGO EST IURIS CIVILIS
SCIENTIA. Post locorum bifariam diuisionem, in ipso scilicet de quo
agitur, et extrinsecus positorum, partitus est eum locum qui est in ipso in
quatuor membra, id est a toto, a partium enumeratione, a nota, ab affectis.
Nunc igitur anteaquam diuidat eum locum quem ab affectis esse proposuit,
superiorum trium quos in primo interim tractatu minime diuisurus est sed
indiuiduos relicturus, exempla supponit. Hi uero sunt a toto a partibus, a
nota. Ac de eo quidem loco qui est a toto ita disseruit ac disputauit.
Tum inquit, dicimus a toto locum argumenti quando totum illud quod in
quaestione positum est definitione complectimur, quae definitio rei dubiae de
qua agitur facit fidem. Sed definitio omnis, ut superius quoque dictum est, id
quod nomine inuolute designatur euoluit et explicat, atque ideo non terminus
qui in [1059B] definitione ponitur sed quae in ipso sunt, possunt argumentis
praestare materiam. Sunt autem in unoquoque propriae definitiones. Definitio
enim est oratio substantiam uniuscuiusque significans; quod si ab unaquaque re
propria substantiam non recedit, ne definitio quidem recedit, est ergo
definitio in ipso termino de quo agitur, quae definitio totum terminum nec esse
est comprehendat, neque enim partem substantiae sed totius termini substantiam
monstrat. Sed quoniam ex ea definitione fides fit rei dubiae, trahitur ex
definitione argumentum, quae definitio in ipso termino est de quo agitur, et
eius termini totum est. Itaque argumentum quod a definitione ducitur, ab eo
ducitur loco qui in ipso termino est, qui in quaestione est collocatus. Sed quoniam
multi loci sunt in ipso, hic totus a toto est. Definitio enim totum terminum comprehendit,
atque id quod inuolute nomine significabitur, euoluit atque aperit. Eius
argumenti talis est formula. Ius ciuile est aequitas constituta his qui eiusdem
ciuitatis sunt ad res suas obtinendas, eius autem aequitatis utilis est
cognitio, utilis est ergo iuris ciuilis scientia. Est enim quaestio, an iuris
ciuilis scientia sit utilis, hic igitur ius ciuile supponitur, utilis scientia
praedicatur. Quaeritur ergo an id quod praedicatur, uere possit adhaerere
subiecto. Ipsum igitur ius ciuile non potero ad argumentum uocare, de eo
enim quaestio constituta est; respicio igitur quid ei sit insitum, uideo
quoniam omnis definitio ab eo non seiungitur, cuius est diifinitio, ne a iure
ciuili quidem propriam definitionem posse abiungi. Definitio igitur ius ciuile,
ac dico: "Ius ciuile est aequitas constituta his qui eiusdem ciuitatis
sunt, ad res suas obtinendas"; post hoc considero num haec definitio
reliquo termino, utili scientiae, possit esse coniuncta, id est an aequitas
constituta his qui eiusdem ciuitatis sunt, ad res suas obtinendas, utilis
scientia sit, uideo esse utilem scientiam dictae superius aequitatis. Concludo
itaque, iuris igitur ciuilis scientia utilis est. Hoc igitur argumentum
est ex eo loco qui est in ipso, hoc est in iure ciuili, qui terminus in
quaestione est constitutus, hic uocatur a definitione, quae definitio
quaestionum totum est, argumentum est a toto. Omnis autem locus a toto in ipso
est. Nec nos ulla dubitatio perturbet, quod ius ciuile et rursus scientia
utilis quaedam sunt orationes quas inter terminos collocamus. Non enim omnis
termiuus simplici orationis parte profertur sed aliquoties orationes integrae
in terminis constituuntur. In hac igitur argumentatione maxima ac per se nota
propositio est ea per quam intelligimus omnia quae definitioni alicuius
coniunguntur, ipsa quoque illis quorum definitio est, necessitate copulari.
Sequitur enim cum definitio iuris ciuilis utili scientiae possit adiungi, iuri
quoque ciuili utilem scientiam posse copulari; est igitur hoc argumentum tractum
ab eo loco qui est in ipso. Omnis enim definitio in eo termino est quem
definit, eodem autem loco qui in ipso est, et a toto. Omnis enim definitio
totum monstrat atque aperit. Maxima propositio haec. Quibus aliquorum definitio
iungitur, eisdem necessario ea quae definiuntur aptantur. TUM PARTIUM
ENUMERATIO, QUAE TRACTATUR HOC MODO: SI NEQUE CENSU NEC VINDICTA NEC
TESTAMENTO LIBER FACTUS EST, NON EST LIBER; NEQUE ULLA EST EARUM RERUM;
NON EST IGITUR LIBER. Sit quaestio utrum aliquis quem seruum esse constiterit,
sit liber. Quoniam faciendi liberi tres sunt partes. Una quidem ut censu liber
fiat, censebantur enim antiquitus soli ciues Romani. Si quis ergo consentiente
uel iubente domino, nomen detulisset in censum, ciuis Romanus fiebat et
seruitutis uinculo soluebatur, atque hoc erat censu fieri liberum, per
consensum domini nomen in censum deferre, et effici ciuem Romanum. Erat etiam
pars altera adipiscendae libertatis, quae uindicta uocabatur: uindicta uero est
uirgula quaedam quam lictor manumittendi serui capiti imponens, eumdem seruam
in libertatem uindicabat, dicens quaedam uerba solemnia, utque ideo illa
uirgula uindicta uocabatur. Illa etiam pars faciendi liberi est, si quis
suprema uoluntate in testamenti serie seruum suum liberum scripserit. Quae
quoniam partes sunt liberi faciendi, siquis aliquem, quem seruum fuisse
constiterit, monstrare uelit non esse liberum factum, dicet, si neque censu,
neque uindicta, noque testamento, liber factus est, non est liber. At nulla
earum parte liber factus est, non est igitur liber. Si enim omnes partes a
qualibet illa re abiunxeris, totum necessario separasti. Nam cum totum in suis
partibus constet, si quid nulla cuiuslibet parte coniungatur, a toto etiam
segregatur. Partes autem duobus dicimus modis, uel species, uel membra.
Species est quae nomen totius integrum capit, uelut homo atque equus animalis,
utraque enim per se integro nomine animalia nuncupantur. Est enim homo animal,
et rursus equus animal. Item membra sunt quae cum totum efficiant, coniuncta totius
capiunt nomen, singula uero nullo modo, ut cum fundamentum, parietes et tecta
domus membra sint, simul omnia domus dicuntur, fundamenta uero sola domus
uocabulo minime nuncupantur, neque parietes, neque tecta. In his igitur
quae species sunt, quoniam nomen totius integrum capiunt, uisi sigillatim omnes
partes ab eo de quo dubitatur abiunxeris, non possis totum ab esse monstrare.
Dictum est enim unamquamque partem totius uocabulum integrum capere. Ut quoniam
faciendi liberi tres sunt species, census, uindicta, testamentum, si quaslibet
duas remoueris, una tamen permanserit, liberum necessario confitebere. Siue
enim censu tantum, siue uindicta, siue testamento sit liber factus, liberum
esse constat. Ergo in his nisi omnes species remoueris, non potes destruere
quod in quaestione propositum est. At si affirmare uelis atque astruere,
sufficit tantum unam quamlibet speciem demonstrare, ut si uelis ostendere
liberum, sat est, ut monstres, aut uindicta, aut censu, testamentoue liberum
factum; quod si destruere uelis, non sufficit ostendere, aut censu, aut
uindicta, aut testamento liberum non esse factum sed nullo eorum modo ad
libertatem uenisse. Itaque his partibus quae species sunt, si destruere uelis,
cunctis utendum est; si astruere, una sufficiet. At uero hae partes quae
sunt membra, contrario modo sunt: si destruere uelis, sat erit unam seiungas;
si astruere, cuncta ad esse necessario comprobabis. Nam si uelis ostendere non
esse domum, sufficit ut aut fundamenta non esse dicas, aut parietes, aut tecta;
nam si quid horum defuerit, domus non potest appellari. At si uelis ostendere
domum esse, nisi cuncta in unum coniunxeris, id quod proponis astruere non
ualebis. Omnes hi loci a partium enumeratione ducuntur, quia in his
partibus quae species sunt, cunctae partes enumerantur, ut destruas; in his
uero quae membra sunt cunctae partes enumerantur, ut astruas. Quaestio
est igitur in proposito Ciceronis exemplo argumentia partium enumeratione
deducti: An is quem seruum fuisse constitit, liber sit; is quem seruum fuisse,
subiectus est terminus, liber uero praedicatus; neutrum igitur eorum terminum
ad argumentum ducere poterimus. De quibus enim dubitatur, ipsi fidem
dubitationi facere non possunt. Video igitur qui in altero eorum sit. Quoniam
uero partes omnes in eo sunt cuius partes sunt, quoniamque libertas data, habet
proprias partes, sumo eas atque dinumero, et requiro an ulla earum partium
uideatur inesse subiecto sed nulla inest. Concludam igitur non esse
liberum. Unde manifestius demonstratur, non solum ab eo termino qui
subiectus est, argumenta sumi posse, uerum etiam ab eo qui est praedicatus. Nam
prius exemplum quo demonstrabat iuris ciuilis scientiam esse utilem, ius ciuile
quod subiectum erat definiuit, ductumque inde argumentum rei dubiae fecit
fidem. Hic uero libertatis partes enumerantur, qui est terminus
praedicatus. Est igitur, ut dictum est, quaestio an quem seruum esse
constiterit, liber sit. Terminus is quidem quem seruum esse constiterit,
subiectus est, praedicatus uero liber, in ipso, id est in praedicato, partes
sunt, quae enumerantur, a qua enumeratione dum trahitur argumentum, fit
argumentum in ipso, ex partium, enumeratione. Maxima propositio, cuius partium
nihil rei propositae copulatum est, ei ne totum quidem esse potest coniunctum.
Hic uidetur esse dubitandum num locus a toto atque a partibus idem sit,
cum omnes partes totum faciant, si
coniungantur. Sed respondebitur, cum sit argumentum ab enumeratione
partium, totum diuiditur, non coniungitur, diuidendo enim argumentatio
procedit. Nam quisquis partem cuiuslibet sumpserit, eo ipso, quo partem
sumpserit, rem uidetur esse partitus. Qui uero rem diuidit, dissipat potius
quam conficit totum sed restare adhuc ambiguitas potest, nam definitio quoque
inuolutam nominis significationem explicat, per quamdam substantialium partium
enumerationem. Enumeratio uero partium quaedam ipsarum a se partium dissipatio
est. Sed aliud est eiusdem rei partes enumerare, aliud definitionis. Nam
rei partes ea re cuius partes sunt semper minores sunt, ut caput, uel thorax,
uel caetera membra toto homine; partes uero definitionis tota re qua definitur,
si substantiales sunt, probantur esse maiores, ut animal homine maius est.
Itemque rationale, mortale, eumdem hominem, uelut maiora continent, et sunt
singulae partes definitionis eiusdem quae est animal, rationale, mortale.
Partitio igitur sumit partes rei quam partitur minores semper. Quae uero sumit
definitio, uniuersalia sunt per se totaque et continentia definiri, quamuis
posita in definitione partes fiant, ut in his quae superius exempla proposui
facile intelligi potest. Unde manifestum est locum a toto, qui definitionis
est, et locum a partium enumeratione, esse diuersos. TUM NOTATIO, CUM EX
VERBI VI ARGUMENTUM ALIQUOD ELICITUR HOC MODO: CUM LEX ASSIDUO VINDICEM
ASSIDUUM ESSE IUBEAT, LOCUPLETEM IUBET LOCUPLETI; IS EST ENIM ASSIDUUS, UT AIT
L. AELIUS, APPELLATUS AB AERE DANDO. Tertius eorum qui in ipso sunt locus
a notatione est constitutus. Notatio uero est quaedam nominis interpretatio.
Nomen uero semper in ipso est. Ut enim definitio id quod in nomine inuolutum
est declarat, expedit atque diffundit, ita etiam nomen id quod a definitione
dicitur euolute, inuolute confuseque designat. Quad si definitio in ipso est,
nomen quoque in ipso esse de quo agitur, non potest dubitari. Ex notatione
autem locus uocatus est, quia nomen omnem rem notat atque significat.
Vindex est igitur qui alterius causam suscipit uindicandam, ueluti quos nunc
procuratores uocamus. LEX igitur Aeliasanctia ASSIDUO, VINDICEM ASSIDUUM ESSE
iubet. Quaeritur utrum cum LEX Aeliasanctia VINDICEM uelit ESSE ASSIDUO
ASSIDUUM, LOCUPLETEM uelit LOCUPLETI. Hic igitur subiectus quidem terminus est,
lex Aeliasanctia uindicem uolens assiduo assiduum, praedicatus uero locupletem
locupleti, ipsos igitur terminos non potero ad fidem quaestionis adducere. De
ipsis enim de quibus ambigitur, nulla effici fides potest. Quaero igitur quid
in ipsorum altero sit, ac uideo unum eorum terminum esse, legem Aeliamsanctiam,
quae assiduum assiduo uindicem esse decernat, id est subiectum, huius orationis
interpretor partem, quae est assiduus. Quid enim est assiduus aliud nisi assem
dans? assem uero dare nisi locuples non potest, assiduus igitur locuples est.
Cum igitur lex Aeliasanctia assiduo uindicem assiduum esse constituat,
locupletem iubet locupleti, assiduus quippe est locuples, a dando aere
nominatus. Argumentum igitur hoc tractum est ex eo loco qui est in ipso,
id est a nominis interpretatione, nomen enim in ipso illo est cuius nomen est,
cuius interpretatio notatio nuncupatur. Sed ab huius interpretatione factum est
argumentum. Igitur hoc argumentum ex eo loco est, qui est in ipso, id est a
nomine, et eorum qui in ipso sunt, a notatione, id est a nominis
interpretatione. Maxima propositio est, interpretationem nomina idem ualere
quod nomen. Sed paulo confusius a Cicerone dicta argumentatio maximum
praestat errorem. Ita enim dici oportuit, assiduus est qui assemdat, qui uero
assem dat, locuples est, assiduus igitur locuples est. Lex autem Aeliasanctia
assiduum assiduo esse uindicem iubet, locupletem igitur locupleti uindicem esse
praescripsit. Quod si ita dictum esset, apertior argumentatio fuisset. Nunc
uero ita dixit: CUM LEX Aeliasanctia ASSIDUO VINDICEM ASSIDUUM ESSE IUBEAT,
LOCUPLETEM IUBET LOCUPLETI et caetera. Subiunxit, ut ostenderetur locuples esse
assiduum; hoc autem tantumdem ualet, quod ait, legem Aeliamsanctiam assiduo
assiduum uindicem cum iuberet esse, locupletem locupleti esse praecepisse,
tanquam si diceret, qui assiduus est, locuples est. Nisi enim is qui assiduus
est locuples sit, non consequitur ut cum lex Aeliasanctia assiduum assiduo
uindicem esse iusserit, locupletem iusserit locupleti, et argumenti
conclusionem priorem posuit subiecit uero probationem. Conclusio namque est,
cum lex Aeliasanctia assiduum assiduo uindicem uelit esse, locupletem iubet
locupleti, atque hanc praemisit; probatio uero est rationis assiduum esse
locupletem ab aere dando nominatum, et hanc intulit conclusionem. Restat
is locus eorum qui in ipso sunt, qui ducitur ab affectis. Cuius expositionem,
quoniam uaria est multiplex quod diuisio, differamus, ac primi uoluminis
terminum, hucusque sistamus. In tam difficillimi operis cursu non sum
nescius, mi Patrici, quin labor hic noster quem te adhortante suscepimus, dum
iudicio multitudinis imperitae aut eleuatur, aut premitur, facile uariis
reprehensionibus mordeatur. Nam et illi quibus hoc totum disserendi displicet
genus, uelut superuacaneum studium, familiari prauis mentibus cauillatione
despiciunt, et qui maximum huius scientiae fructum putant, sua caeteros
segnitie mentientes, tanto nos operam pares esse non existimant, quorum quidem
priores si non inuidia laboris alieni aestimationem premunt, sed reprehensioni
iudicioque consentiunt, nullo modo ferendos esse puto. Multo quoque in me
libentius detorserim prauae opinionis inuidiam, ac nostris eos diffidere
uiribus facillime patiar, potius quam tantae disciplinae calcare rationem. Sed
proh diuinam atque humanam fidem, quae est haec hominum prauitas, quae tantae
est imprudentia caecitatis, ut pene sua sese ipsi confessione condemnent!
Nullus est enim qui sese uideri nolit peritissimum disserendi, quin etiam
obiectare ipsi aliquid, et resoluere obiecta conantur, etsi facile id factu esset,
cuncti ad scientiam logicae disciplinae uelut ad communia quaedam sapientiae
lucra concurrerent. Iam uero quid absurdius fingi potest, quam quod
probabilibus, ut ipsi existimant, argumentis inutile studium dialecticae
nituntur astruere? Quid enim conuenit disserendi artem disserendo peruertere,
ut cuius opinionem affectes, eiusdem despicias ueritatem? Sed ut cantor ille
discipulum sibi ac Musis canere iubebat, ita et ego quoque mihi ac tibi, non
Musae sed tanquam Musarum praesidi cecinerim, atque id quod multo labore
studioque collegi, non rhetorica tantum facultate, uerum etiam dialectica
subtilitate deponam. Quae uero sequuntur huiusmodi sunt: DUCUNTUR
ETIAM ARGUMENTA EX EIS REBUS QUAE QUODAM MODO AFFECTAE SUNT AD ID DE QUO
QUAERITUR. SED HOC [GENUS IN PLURIS PARTIS DISTRIBUTUM EST. NAM ALIA CONIUGATA
APPELLAMUS, ALIA EX GENERE, ALIA EX FORMA, ALIA EX SIMILITUDINE, ALIA EX
DIFFERENTIA, ALIA EX CONTRARIO, ALIA EX ADIUNCTIS, ALIA EX ANTECEDENTIBUS, ALIA
EX CONSEQUENTIBUS, ALIA EX REPUGNANTIBUS, ALIA EX CAUSIS, ALIA EX EFFECTIS,
ALIA EX COMPARATIONE MAIORUM AUT PARIUM AUT MINORUM. Postquam locos eos
exquibus argumenta ducuntur gemina partitione distribuit, alios in ipso de quo
agitur haerere dicendo, alios extrinsecus assumi, cumque locum qui in ipso de
quo agitur haeret in quatuor species secuit, id est a toto, a partibus, a nota,
ab affectis, superioribus quidem tribus exempla subiecit, quae nos primo
uolumine quantum diligenter fieri potuit explicauimus. Restat is locus quem
posuit quartum, id est ab affectis, huius cum multae sunt species, integri atque
indiuisi proponere non potuit exemplum. Nam quorum facienda partitio est,
melius per singula membra dispositis aperiuntur exemplis. Hunc igitur locum
diuidit hoc modo: Locus qui ex affectis est, partim ex coniugatis, partim ex
genere, partim ex forma descendit, ex similitudine etiam, uel ex difterentia,
uel ex contrario, necnon etiam ex coniunctis, ex antecedentibus, et
consequentibus, et repugnantibus, ex causis etiam atque ex effectis causarum,
et comparatione maiorum, aut parium, uel minorum, quae omnia Tullius paulo post
conuenientibus rerum similitudinibus illustrat. Nunc illud nobis dicendum
est quae sit affectorum natura, et quid habeant proprietatis. Sunt enim affecta
quae quodammodo aliquid referri possunt, ad id ad quod referuntur. Omnia uero
quae se aliqua relatione respiciunt, aut amica inter se, aut dissidentia
conferuntur. Si amica, uel substantialiter, ut genus, forma, antecedentia,
consequentia, causa, effectus; uel in qualitate, ut coniugatum, simile,
coniunctum; uel in quantitate, ut paria. Quae uero sibi dissidentia
conferuntur, partim a se differentia sunt tantum, partim aduersa; sed aduersa,
partim in qualitate, ut contraria uel repugnantia, partim in quantitate, ut
maius ac minus. Quae cum ita sint, manifestum est, et amica sibi cognationis
relatione coniungi, et dissidentia hoc ipso quo sibi aduersa sint, ad se
inuicem comparari. Nam quae amica sunt, amicis amica sunt, et dissidentia a
dissidentibus dissident. Ita igitur et genus formae genus est, et forma generis
forma, et antecedentia consequentium, et consequentia, antecedentium, et causa
effectuum causa, et effectus causarum effectus, et coniugata coniugatis
coniugata sunt, et simile simili simile, et coniunctum coniuncto coniunctum, et
paria paribus paria, et differentia differentibus differentia, et maiora
minoribus maiora, et minora maioribus minora sunt, et contraria contrariis
contraria, et repugnantia repugnantibus repugnuntia sunt. Affecta igitur sunt
quae cum a se inuicem diuersa sint, ad se inuicem tamen referuntur. Sed
quo ordine Tullius superius descripsit locos, nos definitiones omnibus
apponemus. Eorum igitur quae ad se inuicem affecta dicuntur, in M. Tullii
disputatione prima sunt coniugata: coniugata uoco quaecumque ab uno nomine
uaria prolatione flectuntur, ut a iustitia iustus, iustum, iuste. Haec inter se
cum ipsa iustitia, unde eorum uocabulum fluxit, coniugata dicuntur. Genus
uero est quod de multis specie differentibus in eo quod quid est praedicatur,
uelut animal dicitur de homine atque equo, quae specie differunt, et in eo quod
quid sit praedicatur. Interrogantibus enim nobis quid sit homo uel equus,
respondetur animal. Quod genus licet nec esse sit ab eo esse diuersum cuius
genus est, cognatum tamen est ei, quia ad id substantiae relatione
coniungitur. Species etiam est, de qua genus superius praedicatur, quam
Cicero formam uocauit, uelut homo animalis. Similitudo est unitas
qualitatis. Nam duo quae sibi similia sunt, eamdem nec esse est habere
qualitatem, et quoniam ipsum sibi simile esse non potest, aliud nec esse est
simile consideretur. Sed aliud esse non poterit, nisi fuerit in aliqua parte
diuersum. Ergo similia, a se in alia quidem re diuersa sunt, in alia uero
congruunt. In ea uero re quae secundum qualitatem congruunt, in ea esse similia
intelliguntur, quae ad se similitudinis illius copulatione referuntur.
Differentia est quae unumquodque differt ab alio, ut homo ab equo
rationabililatis differentia discrepat. Haec igitur praedicatione quidem
propriae naturae ad ea refertur quorum est differentia, ut rationabilitas ad
hominem; dissimilitudinis uero ratione ad ea a quibus discrepat id cuius est
differentia, ut rationabilitas ad bouem. Contraria uero sunt quae in
eodem posita genere longissime a se discrepant, ut album atque nigrum, quae
licet in uno qualitatis genere ponantur, a se tamen quam longissime recedunt,
ea quoque ad se referri nullus ignorat. Aliud est enim quod sunt, aliud quod
contraria sunt. Quod enim nigrum est, quale est. Quod uero contrarium est, ab
albo plurimum discrepans est. Coniuncta uero sunt quae unicuique rei
finitimam naturam tenent, uelut timori pallor adiunctus est. Haec talia sunt ut
saepius quidem adiunctis sibi cohaerescant, neque tamen ex necessitate his
quibus uicina sunt, ad esse cogantur. Nam saepe timori pallor assistit, non
tamen semper, ueluti cum dissimulatione premitur metus, atque ideo ueri similia
ex adiunctis argumenta nascuntur. Nam quaecumque coniuncta sunt ex his quibus
adhaerent, indicio esse solent. Sed de his in posteriore disputatione
diligentius disseram. Antecedentia uero sunt quibus positis aliud nec
esse est consequatur, ut quia bellum est, esse inimicitias necesse est. Haec
ordinis necessitatem tenent. Consequentia enim ab antecedentibus separari
nequeunt, consequens uero est quidquid id quod antecedit insequitur, ut
inimicitiae bellum consequuntur. Nam si bellum est, inimicitias esse nec esse
est, habetque locus hic illud notabile et spectandum, quod saepe quae
naturaliter priora sunt, tamen ipsa sunt consequentia. Saepe quae naturaliter
antecedunt, et in propositione priora sunt; namque inimicitiae prius existere
quam bella solent. Sed non possumus proponere inimicitias, ut bellum sequatur.
Non enim possumus uere dicere, si inimicitiae sunt, bellum est sed praeponimus
bellum, et inimicitiae quae natura priores sunt, subsequuntur, ita, si bellum
est, inimicitiae sunt. Nunc igitur inimicitiae quae naturaliter bellum
praecedunt, hae eadem bella in propositione comitantur; at si dicam: Si
superbus est, odiosus est superbia et naturaliter et in propositione
odium praecedit; prius enim superbia consueuit existere, post uero atque ex
eadem superbia ueniens odium sequi. Nec interest utrum naturaliter quaelibet
antecedat res aliquando, an uero consequetur, dum id in propositione adnotemus,
eam esse rem antecedentem, quae siue naturaliter prior sit, siue posterior,
alteram tamen rem secum necessario trahat. Repugnantia uero intelliguntur
quoties id quod alicui contrariorum naturaliter iunctum est, reliquo contrario
comparatur, ut quoniam amicitia ealque inimicitiae contraria sunt. Inimicitias
uero consequitur nocendi uoluntas, amicitia et nocendi uolentas, repugnantia
sunt, haec quoque ad se contrarietatis similitudine referuntur. Causa est
qua praecedente aliquid efficitur, ut causa diei est solis ortus. Effectum
est quod praecedens causa perficit, ut dies quem solis ortus emittit.
Maiorum uero comparatio est quoties ei quod minus est, id quod maius est
comparatur, ut si nemo innocens pelli in exsilium debet, multo magis ne Tullius
quidem, qui non innocens solum, uerum etiam patriae fait liberator; plus est
enim patriae esse liberatorem quam innocentem. Parium uero quoties inter se
paria comparantur, ut si hic ciuis innocens pelli in exsilium non debet, quia
innocens est, nec ille quidem qui est innocens carere patria iuste potest.
Minorum uero quoties minora maioribus conferuntur, ut si Ciceronem liberatorem
patriae praemio nemo dignum putauit, nemo eum putet praemio dignum qui cum
tantum innocens fuerit, nulla in rempublicam contulit merita. Haec itaque
omnia cognata sibi esse, et ad se referri inuicem, et se uelut e regione
conspicere nullus ignorat. Nam ut de coniugatis primum loquamur, et iustitia ad
id quod iustum est, uel id quod iuste fieri potest, spectat, et cum qui iustus
est perficit. Caetera quoque habent ad se non modo uocabuli cognationem, uerum
etiam cuiusdam naturae congruentiam, ita tamen ut a se diuersa sint. Neque idem
est iustitia, quod iustus. Omne enim quidquid ab aliquo inflectitur, ab eo a
quo inflectitur est diuersum, eidemque cognatum, a quo etiam probatur inflexum.
Genus etiam cognatum esse rei cuius genus est, id est speciei, quam Cicero
formam uocauit, dubium non est. Genus enim speciei genus est, et species
generis species: itaque ad se inuicem referuntur, licet idem genus ac species
non sint. Illud sane uidendum est, quoniam quas nos species nuncupamus, eas
Cicero formas uocat. Cui quidem, dum quod dicit intelligam, concedam libenter
quibus uoluerit uti nominibus, mihi uero non idem concedi potest. Nam qui
explanationis lucem professus est, in his uerbis debet quae sunt in usu posita
uersari. Id autem quod supponitur generi ut species, quam forma potius
nuncupetur, usus obtinuit. Iam uero simile nisi simili simile esse non potest,
et quod differt nisi a dissimili differre non potest. Contraria etiam
contrariis intelliguntur esse contraria, coniuncta etiam coniunctis
adhaerescunt. Et quae sunt antecedentia, aliquid quod potest consequi
antecedunt. Id etiam quod est consequens illud quod antecessit insequitur. Omne
etiam repugnans repugnanti sibimet intelligitur inimicum. Causa etiam effectus
sui causa est. Quod enim quaeuis causa efficit, eius rei quam efficit causa
est; effectus quoque causae alicuius effectus est. Comparatio uero maiorum
minora respicit, minorum uero maiora, parium paria. Atque in omnibus ea
natura esse deprehenditur, ut cum per se res quaedam sint diuersae ab his
adquae referuntur, affecta tamen esse dum comparantur, appareant; diuersa uero
esse ab his quae referantur, illa res approbat, quoniam nihil ad se ipsum
referri potest. Quae cum ita sint, iure affecta sunt nuncupata. Quae
omnia eius loci qui ex affectis ducitur, species uel formae sunt, ipso etiam
testante Cicerone, qui ait: SED HOC GENUS IN PLURES PARTES DISTRIBUTUM EST. Cum
enim genus dixit, quas scindit a genere species esse signauit. Praeterea omnia
haec et nomen generis suscipiunt et definitionem. Affecta enim sunt ad aliquid,
quae ad id ad quod affecta sunt, referri queunt; coniugata uero et genus, et
forma, et caetera, ad ea semper ad quae sunt affecta, referuntur. Sed, ut in
superioribus locis dictum est, qui in ipso de quo agitur haerebant, id est ex
toto, ex partibus, ex nota, ut ex toto eo intelligatur termino qui fuisset in
quaestione propositus, itemque ex eius partibus atque ex eius nota. Eodem modo
etiam in iis qua affecta sunt dicemus ad eum terminum affecta considerari, qui
subiecti uel praedicati loco positus continet quaestionem. Superest nunc illud
dicere, cur quae affecta sunt in ipso, de quo agitur esse dicantur. Etenim in
ipso de quo agitur termino, quatuor locos esse significauit Cicero, id est ex
toto, ex partibus, ex nota, ex affectis. Quorum tria quidem superiora
manifestum est in eo haerere de quo agitur termino. Definitio enim cuiuslibet
rei quod totum est, in illo ipso est quod definit. Parte, etiam in ipso illo
sunt, quod collectione coniungunt. Nota etiam in illo est quod appellatione
significat; affecta uero extrinsecus posita uidentur, quippe quae referuntur ad
id ad quod affecta sunt, ad id de quo agitur quae non referuntur, nisi
extrinsecus posita intelligerentur. Cur igitur ea etiam quae affecta sunt, ad
id de quo agitur, inter nos numerauit locos, qui ipsi de quo quaeritur termino
cohaerent, dicendum est. Quoniam id quod adhaerere dicitur, non idem est ei cui
adhaerere praedicatur. Quae cum diuersa sint, cognatione tamen quaedam
intelliguntur esse coniuncta, ueluti non idem est definitio quod ipsa res qum
definitione describitur. Si enim definitio clarius efficit id quod definit,
nihil uero ipsum e esse clarius quam est efficere potest, manifestum est id
quod definitur a definitione esse diuersum. Sed idcirco haerere definitionem in
eo quod definitur dicimus, quia est ei cognata atque coniuncta, quippe quae dum
eius proprietatem significet, ab eius substantia non recedit. Partes etiam ac
notae diuersa sunt ab eo quod uel copulant, uel designant. Sed quia illae
propositum terminum iungunt, illae significant, habentes aliquam cum proposito
termino cognationem, in ipso de quo agitur haerere perhibentur. Ita etiam in
affectis, licet extrinsecus sint, neque enim idem sunt quod ea sunt ad quae
intelliguntur affecta, necessario tamen, quia aliquam cognationem cum his
habere considerantur, in ipsis haerere dicuntur ad quae ad effecta sunt.
Qui uero eorum naturalis ordo sit, uel quae differentia, uel sit alia, locorum
partitio, licet in Topicis Differentiis opportunius expediendum sit, tamen cum
exempla Ciceronis quae in his explicandis attulit exposuero, subiungam. CONIUGATA
DICUNTUR QUAE SUNT EX VERBIS GENERIS EIUSDEM. EIUSDEM AUTEM GENERIS VERBA SUNT
QUAE ORTA AB UNO VARIE COMMUTANTUR, UT SAPIENS SAPIENTER SAPIENTIA. HAEC
VERBORUM CONIUGATIO *SYZUGIA* DICITUR, EX QUA HUIUSMODI EST ARGUMENTUM: SI
COMPASCUUS AGER EST, IUS EST COMPASCERE. Definitio coniugutorum a
Cicerone prolata talis est. Coniugata dicuntur quae sunt ex uerbis generis
eiusdem, id est quae ab uno uerbo uariis inflectuntur modis. Ex eodem quippe
genere uerba sunt, iustitia, iustus, iuste, iustum, et quaecumque alia in
diuersas possunt uocabulorum species inflecti. Quaecumque enim ab uno quolibet
orta uarie commutantur, haec a Graecis quidem *syzygia* dicuntur, apud Latinos
uero coniugata: nam quod Graeci *syzygia* dicunt, nos coniugationem appellamus.
Haec autem sunt, ut sapiens, sapienter, sapientia, et quaecumque in uarias partes
orationis, uariasque inflexiones, ab uno quodam ducta cernuntur. Ex
coniugatis igitur argumenti nascentis hoc exemplum est: sit enim dubitabile an
in aliquo agro mihi atque uicino simul pascere liceat pecus, id est an ius sit
compascere: subiectum igitur est ager, compascere uero praedicatum. Faciemus
itaque argumentum hoc modo: Hic de quo quaeritur ager compascuus est, in
compascuo autem licet compascere, in hoc igitur agro licet compascere. Hic
igitur compascendi iuris argumentum ex compascuo sumptum est, ex coniugato
uidelicet. Compascere enim et compascuum coniugata sunt. Sumptum uero est
argumentum, ius esse compascere, quoniam sit ager compascuus sed coniugatum est
compascuum ei quod compascere. A coniugatis igitur sumptum est argumentum, quod
coniugatum in ipso est de quo agitur, id est in compascendo; omnia enim ex
eodem fluunt, et sui sunt continentia atque se respicientia. Factum est igitur
argumentum ex eo quod est in ipso, ab affectis, id est a coniugatis. Maxima
uero propositio est: Coniugatorum in eo quod coniugata sunt, unam atque
eamdem essu naturam uel sic: Cui conuenit aliquid, huic etiam
coniugatum eius posse sociari. A GENERE SIC DUCITUR: QUONIAM ARGENTUM OMNE
MULIERI LEGATUM EST, NON POTEST EA PECUNIA QUAE NUMERATA DOMI RELICTA EST NON
ESSE LEGATA; FORMA ENIM A GENERE, QUOAD SUUM NOMEN RETINET, NUMQUAM SEIUNGITUR,
NUMERATA AUTEM PECUNIA NOMEN ARGENTI RETINET; LEGATA IGITUR VIDETUR. Genus est
quod de qualibet specie in eo quod quid est praedicatur. In eo quod quid est
praedicari dicitur, quod de qualibet specie interrogantibus quid sit,
rcsponderi conuenit, et eius de qua respondetur speciei substantiam monstrat.
Semper uero genus propria specie maius est, eamque intra ambitum suae
praedicationis includit. Quo fit ut, quamuis in alia quoque dispartiri genus
possit, speciem tamen suam nullo modo derelinquat, uelut animal quidem
praedicatur de homine, et hominis substantiam monstrat; interrogantibus enim
modis quid est homo, animal respondetur. Idem tamen deduci in alia potest, uelut
in equum atque bouem, quae animalia nuncupantur. Sed ita deducitur in diuersa,
ut unamquamque earum specierum quas continet, non relinquat. Ubicumque enim
fuerit homo, necesse est ut sit animal, homo enim animal est. Idemque de boue
ac de caeteris. Ergo liquido demonstratum est nomen generis a specie nullo modo
separari. Quod si aliquando generis uocabulum uniuersaliter enuntietur, nec
esse est omnes species designari, ut si quis dicat omne animal, et hominem
designabit et houem, et caeteras omnes species sub animalis nomine
collocatas. Quae cum ita sint, quidam testamento mulieri argentum omne
legauerat. Quaeritur an ei etiam numerata pecunia sit legata: numerata igitur
pecunia in hac quaestione subiectum est, legata uero praedicatum. Considero
igitur in alterutro eorum quidnam insit, ut ex eo quod in ipso est aliquod argumentum
requiram. Video subiectum terminum, qui est numerata pecunia, habere argentum
genus, quod affectum est, scilicet ad speciem suam ad quam refertur. Quae enim
ad se inuicem referuntur, affecta sunt; ergo quoniam argentum omne legatum est,
et genus speciem propriam non relinquit, nec esse est ut numerata quoque
pecunia sit legata. Nam cum omne nomen generis legatum sit, nihil de speciebus
uidetur exceptum, uelut si quis dicat, omne animal uiuere, non ut arbitror
tantum hominem uel bouem, uel equum, uel sigillatim caetera, uel unum, uel
plura uiuere dicit, ut tamen aliqua cum sint animalia, uitae munere carere
contendat sed omne prorsus quidquid fuerit animal, uiuere proponit. Cum igitur
omne genus, id est omne argentum legatum sit, nulla species excipitar. At
numerata pecunia argentum est, fit igitur ut numerata quoque pecunia legati
uocabulo possit includi. Est igitur quaestio quidem, ut dictum est, an
numerata pecunia legata sit; argumentum ab eo quod in ipso est, id est a genere
quod inest propriae speciei, id est ab affectis, quod est ita ut ad id
referatur; hoc autem est argentum, ab affectis, id est a genere. Praedicatur
enim ut genus argentum de numerata pecunia. Interrogantibus enim nobis quid sit
numerata pecunia iure respondemus, argentum. Maxima propositio est: Cui
conuenit omne genus, eidem unamquamque speciem conuenire. Quam Marcus
quoque Tullius diuersis quidem uerbis sed eadem significatione proposuit
dicens: FORMA ENIM A GENERE QUOAD SUUM [1070C] NOMEN RETINET, NUNQUAM
SEIUNGITUR. NUMERATA AUTEM PECUNIA NOMEN ARGENTI RETINET; LEGATA IGITUR
VIDETUR. A FORMA GENERIS, QUAM INTERDUM, QUO PLANIUS ACCIPIATUR, PARTEM
LICET NOMINARE HOC MODO: SI ITA FABIAE PECUNIA LEGATA EST A VIRO, SI EI VIRO
MATERFAMILIAS ESSET; SI EA IN MANUM NON CONVENERAT, NIHIL DEBETUR. GENUS ENIM
EST UXOR; EIUS DUAE FORMAE: UNA MATRUMFAMILIAS, EAE SUNT, QUAE IN MANUM
CONUENERUNT; ALTERA EARUM, QUAE TANTUM MODO UXORES HABENTUR. QUA IN PARTE CUM
FUERIT FABIA, LEGATUM EI NON VIDETUR. Species est, quae propriis
differentiis intormata sub praedicatione generis collocatur. Differentiae uero
propriae a caeteris eam speciebus separant atque seiungunt, uelut homo cum sit animalis
species, differentiis informatur rationabililatis atque mortalitatis, et
seiungitur ab his animalibus quae aeterna sunt, uelut sol a Platonicis
creditur, et ab iis animalibus quae sunt rationis expertia. Cum igitur omnes
species inter se propriis differentiis distent, nec esse est quod de altera
specie dicitur, id in alium non posse transferri, uelut quod de homine dicitur
specialiter, idem de equo alque boue non possit intelligi. Ducitur autem a
specie quoties genus ipsum ueluti in quamdam contrahitur portionem. Velut si
quis dicat illud animal sibi adduci debere, quod sit rationale et mortale, non
utique de equo, uel boue, aut de caeteris, nisi tantum de homine dictum esse
intelligitur. Ut igitur generaliter dictum genus omnes species claudit, cum
quis dicit omne animal, sic quodlibet animal designatum speciem facit.
Quae cum ita sint, a forma generis, id est a specie generis tale fit,
argumentum, quam formam generis Cicero partem saepe nominat, quo id quod
dicitur planius fiat. Notius enim nomen partis est quam formae; quo autem distet
forma a partibus, et nos strictim superius diximus, et paulo post a Ciceroue
ipso latius explicabitur. Nunc de proposito uideamus exemplo. Uxoris species
sunt duae, una matrumfamilias, altera usu; sed communi generis nomine uxores
uocantur. Fit uero id saepe, ut species iisdem nominibus nuncupentur,
quibus et genera; mater uero familias esse non poterat, nisi quae conuenisset
in manum; haec autem certa erat species nuptiarum. Tribus enim modis uxor
habebatur, usu, farreatione, coemptione; sed confarreatio solis pontificibus
conueniebat. Quae autem in manum per coemptionem conuenerant, hae
matresfamilias uocabantur. Quae uero usu uel farreatione, minime. Coemptio uero
certis solemnitatibus peragebatur, et sese in coemendo inuicem interrogabant,
uir ita, an mulier sibi materfamilias esse uellet. Illa respondebat uelle. Item
mulier interrogabat an uir sibi paterfamilias esse uellet, ille respondebat
uelle. Itaque mulier, uiri conueniebat in manum, et uocabantur hae nuptiae per
coemptionem, et erat mulier materfamilias uiro, loco filiae. Quam solemnitatem
in suis Institutis Ulpianus exponit. Quidam igitur extremo iudicio omne
Fabiae uxori legauit argentum, si quidem Fabia ei non tantum uxor, uerum etiam
certa species uxoris, id est materfamilias esset, quaeritur an uxori Fabiae
legatum sit argentum. Uxor Fabia, subiectum est; legatum argentum, praedicatum.
Quaero igitur quodnam ex his argumentum sumere possim, quae in quaestione sunt
posita, ac uideo uxori duas inesse formas, quarum una tantum uxor est, altera materfamilias,
quae in manum conuentione perficitur. Quod si Fabia in manum non conuenit, nec
materfamilias fuit, id est, non fuit ea species uxoris, cui argentum omne
legatum est. Quocirca quoniam id quod de alia specie dicitur, in aliam dici non
conuenit, cumque Fabia praeter eam speciem sit, quae in manum conuenerit, id
est quae materfamilias sit, et uir matrifamilias legauerit argentum, non
uidetur Fabiae esse legatum. Quaestio igitur, ut dictum est, an uxori
Fabiae omne argumentum legatum sit: subiectum, uxor Fabia; praedicatum uero,
legatum argentum. Argumentum ab eo quod est in ipso de quo quaeritur, id est ab
eo quod est in uxore de qua quaeritur. Est autem in uxore de qua quaeritur
species uxoris, ea scilicet quae in manum non conuenit quae ad eam affecta est.
Omnis enim species ad suum genus refertur, id est forma; factum est igitur
argumentum ab eo quod est in ipso, ab affectis, a forma generis. Maxima
propositio est: Quod de una specie dicitur, id in alteram non conuenire. A
SIMILITUDINE HOC MODO: SI AEDES EAE CORRUERUNT VITIUMUE FACIUNT QUARUM USUS
FRUCTUS LEGATUS EST, HAERES RESTITUERE NON DEBET NEC REFICERE, NON MAGIS QUAM
SERVUM RESTITUERE, SI IS CUIUS USUS FRUCTUS LEGATUS ESSET DEPERISSET. Similia
dicuntur, quae eiusdem sunt qualitatis ex quibus hoc modo sumitur argumentum:
Quidam testamento aedium usumfructum legauit, id est concessit aedes, ut his
alius dum uiueret uteretur; hae coeperunt uel uitium facere, id est ruinam
minari, uel etiam corruerunt. Petit igitur ab haerede is cui aedium ususfructus
legatus est, ut earum sibi aedium quae a testatore legata sunt damna compenset,
et aedes quae uitium fecerunt uel corruerunt restituat. Quaeritur an earum
aedium quarum ususfructus legatus sit, uitium uel ruinam haeres restituere
cogatur. Hic igitur subiecta quidem oratio est, ueluti quidam terminus, aedium
quarum ususfructus legatus sit, ruinam uel uitium. Praedicata uero oratio, loco
termini constituta, ab haerede restitutio. Sumo igitur a simili
argumentum, hoc modo: Quoniam si quis serui usumfructum legauerit, isque seruus
aliquo modo deperierit, non cogitur restituere haeres seruum, ne nunc quidem
cogetur haeres restituere aedes, quae in usumfructum legatae, ruinam uitiumue
iecerunt. Similes est enim serui ususfructus legatio aedium ususfructus
legationi. Simile est etiam seruum in usumfructum legatum si deperierit, ab
haerede non restitui, et aedium in usumfructum legatarum uitium ruinamue ab
haerede non refici. Est igitur quaestio quidem an aedium in usum fructum
legatarum uitium uel ruinam haeres restituere cogatur. Terminus uero subiectus
quidem, aedium in usumfructum legatarum. uitium uel ruinam, praedicatus autem
ab haerede restitutio. Argumentum uero ab eo quod in ipso est, id est ab
eo quod inest, uel ruinae, uel uitio aedium in usumfructum legatarum. Id autem
est affectum, id est similitudo. Omnis enim similitudo ei inesse perpenditur
quod est simile, simililudo uero est serui ususfructus legati pereuntis, quem
restituere haeres non cogitur. Maxima uero propositio: Similibus rebus
eadem conuenire. A DIFFERENTIA: NON, SI UXORI VIR LEGAVIT ARGENTUM OMNE
QUOD SUUM ESSET, IDCIRCO QUAE IN NOMINIBUS FUERUNT LEGATA SUNT. MULTUM ENIM
DIFFERT IN ARCANE POSITUM SIT ARGENTUM AN IN TABULIS DEBEATUR. In rebus
plurimum differentibus quod de altera earum dicitur non uidetur in alteram
conuenire. Id cum ita sit, quidam argentum suum omne legauit uxori. Illa
pecuniam quoque quae in nominibus debebatur, suam esse dicebat, quod omnis
pecunia nomine uocaretur argenti. Quaeritur an id quoque argentum quod in
nominibus debebatur, legatum sit. Hic igitur subiectus est terminus, argentum
quod in nominibus debebatur, legatum uero praedicatur. A differentia igitur
faciemus argumentationem hoc modo: Idem de plurimum differentibus rebus
intelligi non potest. Plurimum uero differt argentum in arca ne sit
positum, an in nominibus debeatur. Nam quae posita in arca pecunia est iuris
est nostri, in nominibus uero debita non est nostra; nam quod mutuum datur, ex
meo fit accipientis, atque ideo non cogitur eamdem ipsam pecuniam debitor
restituere creditori sed aliam tantam. In arca uero posita pecunia, et in
nominibus debita, non sunt argenti uel pecuniae species sed differentiae; nam
argenti species signatum acnon signatum esse dictae sunt. Qualitas uero
pecuniae in possessione positae uel non positae sed non modis omnibus alienae,
in his differentlis constat, ut alia sit in arca posita, reliqua in nominibus
debeatur; atque hoc idcirco dictum est ne quis non a differentiis sed a specie
argumentationem ductam putaret. Qualitas enim substantialis non speciebus sed
differentiis annumeratur. Cum igitur suum omne quod fuerit argentum uir
uxori legauerit, cumque manifestum sit id ad eam pertinere quod fuerit suum
legantis, id est quod in arca fuerit conditum, non potest idem intelligi de eo
quod in nominibus debebatur, quoniam, sicut dictum est, id quod in nominibus
debetur ab eo quod in arca positum est plurimum differet. Facta est igitur
argumentatio ab eo quod inerat, de quo quaerebatur. Quaerebatur uero de argento
in nominibus debito. In hoc uero inerat propria differentia, qua ab alio
differebat argento, eo scilicet quod in arca positum fuerit. Id uero est
affectum, id est differentia. Maxima uero propositio, de rebus plurimum
differentibus, idem intelligi non posse. EX CONTRARIO AUTEM SIC: NON DEBET
EA MULIER CUI VIR BONORUM SUORUM USUM FRUCTUM LEGAVIT CELLIS VINARIIS ET
OLEARIIS PLENIS RELICTIS, PUTARE ID AD SE PERTINERE. USUS ENIM, NON ABUSUS,
LEGATUS EST. EA SUNT INTER SE CONTRARIA. Quod de aliqua re dicitur, id in eius
contrarium non potest conuenire. Idem enim de duobus contrariis intelligi nullo
modo potest. Quidam igitur supremae uoluntatis arbitrio uxori bonorum suorum
usumfructum legauit, mulier cellas uinarias oleasque plenas ad usumfructum
proprium deuocabat. Quaeritur an penus quoque ususfructus legatus sit; penus
igitur ususfructus est subiectum, legatus praedicatum. A contrario igitur
sumitur argumentum hoc modo: Utimur his quae nobis utentibus permanent, his
uero abutimur quae nobis utentibus pereunt; ergo, cum permanere ac perire
contraria sint, usus quoque et abusus contraria nec esse est iudicentur. Quod
si caetera quidem utendo permanent, cellae autem uinariae atque oleariae utendo
consumuntur, aliarum quidem rerum ususfructus esse potest; penus uero non potest
usus esse sed potius abusus. Ergo cum uir uxori usumfructum bonorum suorum
legauerit, non potuit legare contrarium, quod est abusus; est uero abusus uini
atque olei, uinum igitur atque oleum ad usumfructum mulieris non potest
pertinere. Argumentum ab eo quod in ipso est de quo agitur, id est ab
ususfructus legatione, atque ab affecto, id est contrario; contraria uero in
contrariis non ita sant, tanquam definitio in eo quo definitur sed tanquam
relatio. Omnis enim relatio in relatiuis, omniaque contraria non id quod sunt,
id est qualitates sed hoc ipsum quod contraria sunt, in contrariis esse
dicuntur, quia non secundum qualitatem propriam sed secundum distantiam
plurimam sibi inuicem conferuntur. Maxima propositio est, quod alicui conuenit,
id eius contrario non conuenire. [4.18] AB ADIUNCTIS: SI EA MULIER
TESTAMENTUM FECIT QUAE SE CAPITE NUMQUAM DEMINUIT, NON VIDETUR EX EDICTO
PRAETORIS SECUNDUM EAS TABULAS POSSESSIO DARI. ADIUNGITUR ENIM, UT SECUNDUM
SERVORUM, SECUNDUM EXSULUM, SECUNDUM PUERORUM TABULAS POSSESSIO VIDEATUR EX
EDICTO DARI. Adiuncta sunt, quae proximum ac finitimum locum tenent, ut
si unum eorum quolibet exstiterit modo, [1074B] alterum quoque uel exstitisse,
uel exstare, uel exstaturum esse uideatur: haec enim sibi quasi uicina sunt.
Quae uero in existendo sibi sunt proxima, haec uel antecedere rem uolunt, ut
amor saepe concubitum, uel simul esse, ut pallor et timor, uel euenire
posterius, ut post iracundiam caedes. Eaque est adiunctorum natura, ut separari
quidem possint, tamen sese inuicem monstrent. Nam neque qui amauit, necessario
potitus est, et saepe qui potitus est, non amauit. Nec qui pallet, necessario
timet, et saepe non timens pallet. Nec ex necessitate iratus occidit, et
occidit saepe aliquis non iratus. Sed tamen si de singulis inquiratur, eum
concubuisse qui amauit, et pallere qui timet, et occidisse qui fuerit iratus,
uerisimile est, non quod ita neo esse sit sed quia ex uicinis uicina
colligimus. Nam quod ad exemplum attinet huius argumenti, haec similitudo
est. Capitis diminutio est prioris status permutatio. Id multis fieri
modis solet, uel maxima, uel media, uel minima. Maxima est, cum et libertas et
ciuitas amittitur, ut deportatio. Media uero, in quo ciuitas amittitur,
retinetur libertas, ut in Latinas colonias transmigratio. Minima, cum nec
ciuitas nec libertas amittitur sed status prioris qualitatis imminuitur, uel
adoptatio, aut quibuslibet aliis modis prior status, relenta ciuitate, potuerit
immutari. Mulieres uero antiquo iure tutela perpetua continebat. Recedebant
uero a tutoris potest ate quae in manum uiri conuenissent, itaque febateis
prioris, status permutatio, et erat capite diminuta, quae uiri conuenisset in
manum. Quaedam igitur quae se nunquam capite diminuisset, id est quae in manum
uiri minime conuenisset, sine tutoris auctoritate testamentum fecit. Quaeritur
an secundum eius tabulas ex edicto praetoris debeat dari possessio. Hic
subiectus quidem terminus, mulieris nunquam capite diminutae tabulae,
praedicatus uero possessionis concessio. Sumitur ergo ab adiunctis
argumentum, hoc modo. Nam si secundum mulieris; tabulas nunquam capite
diminutae possessio detur, nihil causae est cur non secundum puerulorum quoque
et seruorum tabulas ex edicto praetoris possessio permittatur. Quid enim
officere potest, ne secundum mulieris nunquam capite diminutae tabulas
possessio deferatur? Id scilicet quod ea quae testamentum confecerat, sui non
fuit iuris, quod idem et de pueris et de seruis dici potest. Illorum enim
aetas, illorum conditio, in alterius sita est potestate. Adiungitur ergo:
Si secundum mulieris, quae in suo iure non esset, tabulas, possessio detur,
secundum puerulorum quoque et seruorum tabulas possessionem dari, qui sui iuris
minime sint, quoniam quidem illi sub tutoris, illi sunt sub domini potestate.
Proxima namque est rei de qua quaeritur, quod eius est consequens, et postea
existens, ut secundum seruorum puerorumque tabulas honorum possessio detur, si
illud quod est in quaestione conceditur. Quaeritur enim an secundum mulieris
tabulas nunquam capite diminutae possessio detur. Quam rem consequitur ut, si
id fiat, secundum seruorum quoque puerorumque tabulas deferatur, quod quia
fieri non oportet, ne rei quidem praecedentis existere debebit exemplum.
Nec tamen necessaria est consecutio sed uicina. Nam fieri potest ut id
recipiatur solum secundum mulieris tabulas possessionem dari, non uero id ut
secundum tabulas seruorum uel puerorum possessio concedatur. Sed proximum est
ut qui nunc hoc recepit, posterius illud admittat. Est igitur argumentum ab adiunctis,
id est ab eo quod in ipso haeret de quo quaeritur. Est autem quaestio de
mulieris nunquam diminutae tabulis, ab affectis scilicet ab abiunctis. Maxima
propositio: Ex adiunctis adiuncta perpendi. AB ANTECEDENTIBUS AUTEM
ET CONSEQUENTIBUS ET REPUGNANTIBUS HOC MODO; AB ANTECEDENTIBUS: SI VIRI CULPA
FACTUM EST DIVORTIUM, ETSI MULIER NUNTIUM REMISIT, TAMEN PRO LIBERIS MANERE
NIHIL OPORTET. Antecedentia sunt, quibus positis, aliud necessario
consequatur, licet illud quod antecedit, minus sit atque posterius. Minus
quidem, ut si homo est, animal est; homo enim minus est animali, et tamen
posito homine, consequitur ut animal sit. Posterius uero, ut si peperit, cum
uiro concubuit; posterius enim est peperisse quam cum uiro concubuisse.
Aliquoties uero et quod aequale, et quod simul, et quod prius est ponitur ul
antecedens. Aequale quidem, ut: Si homo est, risibilis est. Simul
uero, ut: Si terra obiecta est, luna deficit. Et haec sibi
conuertuntur, ut consequentia fiant antecedentia, ut si risibilis est, homo
est, et si iura defecerit, terrae adsit obiectio. Antecedens uero prius est, ut
si arrogans est, odiosus est. Prius enim est arrogans, posterius odiosus. Illud
tamen in omnibus manet, positis antecedentibus necessario consequentia
trahi. Exempli uero talis est explanatio: Ciuitatis Romanae, iure, liberi
retinentur in patrum arbitrio, usque dum tertia emancipatione soluantur; ergo
si quando diuortium intercessisset culpa mulieris, parte quadam dotis pro
liberorum numero multabatur. De qua re Paulus, Institutionum libri secundi
titulo de Dotibus, ita disseruit: Si diuortium est matrimonii, et hoc sine
culpa mulieris factum est, dos integra repetetur; quod si culpa mulieris factum
est diuortium, in singulos liberos sexta pars dotis a marito retinetur, usque
ad mediam partem dumtaxat dotis. Quare quoniam quod ex dote conquiritur
liberorum est, qui liberi in patris potestate sunt, id apud uirum nec esse est
permanere. Facto igitur diuortio, contenditur an dotis pars pro liberis
apud uirum debeat permanere. Hic subiectum quidem est, factum diuortium a
muliere nuntiatum; praedicatum uero, apud uirum sextae partis dotis post
diuortium permansio. Quaestio an post diuortium factum, muliere nuntium
remittente, sextam dotis partem apud uirum manere oporteat. Quaero igitur, si
ab antecedentibus argumentum faciendum est, quid antecedat, quid consequatur.
At si uiri culpa factum est diuortium, uideo, mulierem dotis parte non posse
multari, etiam si prima repudii nuntium misit. Quod enim antecessit, ut uiri
culpa fieret diuortium, id non permittit ut dotis pars mulieri pereat, quamuis
prima repudii nuntium mittat. Non enim quia prius libellum repudii nuntiauit
dotis parte multanda est sed absoluendi potius damno, quod non sua factum est,
sed uiri culpa diuortium. Igitur antecedens est uiri culpa factum diuortium,
consequeus uero dotis partem non retineri. Nam si hoc est, illud est.
Argumentationem uero faciam hoc modo: Si uiri culpa factum est diuortium,
etiamsi mulier repudii nuntium misit, nullo modo tamen dotis parte multabitur.
Sed uiri culpa diuortium factum est. Non igitur iure mulier dotis parte
multabitur. Quod si non multabitur dotis parte, nihil in uiri domo
liberorum causa, dotis nomine relinquetur sed non multabitur dotis parte; nihil
igitur apud uirum dotis relinquetur pro liberis. Utriusque uero conclusio
syllogismi haec est: Si igitur uiri culpa factum est diuortium, pro liberis
manere nihil oportet. Argumentum, ab eo quod in ipso est de quo agitur:
uersatur quippe intentio de dotis parte, eiusque apud uirum, post diuortium
quod prima nuntiauerit, retentione; hoc uero antecessit, uiri culpa, quod quia
praecedens est, affectum est, omne enim quid praecedit, ad id quod sequitur uec
esse est ut referatur. Maxima propositio est: Ubi est antecedens, ibi erit
et consequens at in hac quaestione est antecedens, id est uiri culpa
factum diuortium; ibi igitur consequeus erit, sextas non retineri. Cur autem
ita superius argumeutum conclusionibus intexuerim, cum de his M. Tullio latius
exsequente, tractauero, euidentius apparebit. A CONSEQUENTIBUS: SI MULIER,
CUM FUISSET NUPTA CUM EO QUICUM CONUBIUM NON ESSET, NUNTIUM REMISIT; QUONIAM
QUI NATI SUNT PATREM NON SEQUUNTUR, PRO LIBERIS MANERE NIHIL OPORTET.
Consequentia sunt quae cum fuerint antecedentia posita, consequuntur,
ueluti si dicamus: Si homo est, animal est animal est consequens.
Sed in proposito exemplo non satis apparet a consequentibus argumentum sed ab
antecedentibus potius, quod paulo post liquebit. Filii non iure suscepti
in patrum non erant potestate sed matres potius sequebantur. Non autem omnibus
erat connubium cum Romanis, nec erant nuptiae iure contractas, quas aut non
inter ciuem romanum ciuem que romanam inibantur, aut cui princeps populusue
ciuitatem uel connubium non permisisset, eo scilicet modo ut in potest atem
parentum liberi redigereutur. Illud quoque uidendum, quod ex impari matrimonio
suscepti, non patrem sed matrem sequuntur. Ergo quasdam Romana uel cum
Latino, uel cum peregrino, uel cum seruo, cum quo connubii ius non erat,
nuptias fecit, dotem contulit, factoque inter eos diuortio, contenditur an
nuptae mulieris cum eo cum quo connubii ius non erat, apud uirum dotis pars
post diuortium debeat permanere. Hic subiectum quidem est, nupta mulier cum quo
connubium non erat, praedicatum uero dotis partis apud uirum post diuortium
retentionis iure permansio. Sumitur ergo a consequentibus argumentum hoc modo.
Nam quia nuptias fecit cum eo cum quo connubii ius nullum est, id consequitur
ut liberi patrem non sequantur. Si autem liberi patrem non sequuntur, ne in
patris quidem sunt potestate, at si in patris potestate non sunt, matrique
applicantur, apud uirum dotis pars non poterit permanere. Hic igitur antecedens
est, cum quo connubii ius non erat, nuptiae; consequens uero, nihil pro liberis
dotis nomine manere oportere. Concludatur argumentatio: Quoniam, non permisso
connubio, liberi qui procreantur patrem non sequuntur, ne dotis quidem pars
apud patrem pro liberis manere debet, quandoquidem non patrem filii sed matrem
sequuntur. Probatum est igitur pro liberis manere nihil oportere, ex hoc
quod cum eo mulier nuptias fecit cum quo connubii ius non erat; hoc uero erat
antecedens. Non ergo a consequenti sed ab antecedenti potius factum
deprehenditur argumentum. Quod si per quod nihil dotis nomine manere oporteret,
probaretur eam nuptias cum eo fecisse qui cum connubii ius non esset, recte a
consequentibus argumentum factum esse diceretur. Fieret uero a consequentibus
argumentum, si ita poneretur: si quid ex dote pro liberis manere oporteret,
probatur, quia patrem liberis equuntur, cum eo nupta esse mulier, cum quo
connuhii ius erat. Assumo quod est consequens: Sed mulier cum eo nupta non est
cum quo connubii ius erat. Concludo antecedens: Nihil igitur dotis pro liberis
manere oportebit quia patrem liberi non sequuntur. Argumentum, ab eo quod in
ipso est de quo quaeritur. Quaeritur enim de his nuptiis, quarum nullum fuerit
iure connubium. Ex affectis: omne enim consequens ad id quod praecedit refertur.
Maxima propositio est: Ubi consequens non est, ibi ne antecedens quidem
esse potest. Ac de his erit alius uberius disserendi locus. A
REPUGNANTIBUS: SI PATERFAMILIAS UXORI ANCILLARUM USUM FRUCTUM LEGAVIT A FILIO
NEQUE A SECUNDO HAEREDE LEGAVIT, MORTUO FILIO MULIER USUM FRUCTUM NON AMITTET.
QUOD ENIM SEMEL TESTAMENTO ALICUI DATUM EST, ID AB EO INUITO CUI DATUM EST
AUFERRI NON POTEST. REPUGNAT ENIM RECTE ACCIPERE ET INVITUM REDDERE.
Secundus haeres dicitur qui haeredi instituto substituitar, ueluti si quis filium
instituat haeredem, scribatque, si is filius intra pubertatem decesserit,
nepotem uel quemlibet alium haeredem esse oportere; nepos igitur uel quilibet
alius, secundus haeres dicitur. Repugnantia sunt quae (ut dictum est)
contraria sequuntur, si ipsis contrariis comparentur. Quidam igitur haeredem
testamento scripsit filium, ei quo secundum substituit haeredem, uxorique suae
ancillarum usum fructum legauit a filio, dixitque ut uxori filius eius
usumfructum ancillarum permitteret, neque illud adiecit, ut etiam secundus
haeres eumdem usumfructum mulieri concederet. Successit filius, ac mulieri
ancillarum contulit usumfructum. Illo mortuo intra pubertatem, agit secundus
haeres, et usumfructum ancillarum mulieri extorquere conatur, dicens
usumfructum ei a filio legatum, a seuero minime. Quaeritur utrum ea mulier
legatum quod testamento acceperat inuita possit amittere. Hic igitur subiectum
est legatum quod testamenti iure recte accepit. Praedicatum uero, inuitam posse
amittere. Sumo igitur argumentum a repugnantibus. Repugnans uero est, si id
quod contrario cousequens est alteri contrario comparetur, uelut in hoc ipso
quod tractamus exemplo, recte accipere, et non recte accipere, contraria sunt
sed non recte accipere comitatur inuitum reddere. Iure enim inuitus reddit,
quod non recte accepit. Repugnat igitur inuitum reddere ei quod est reate
accipere. Faciemus igitur argumentum sic: Qui testamento accepit, recte
accepit; quod autem recte accipitur, inuito eo qui semel recte accepit, auferri
non potest; at mulier testamento usumfructum ancillarum accepit; id igitur ei
inuitae non poterit auferri. Argumentum, ab eo quod in ipso est de quo agitur,
id est de eo quod rectae acceptum est. In ipso uero est uelut affectum
contrarietatis modo, ut superius dictum est. Est autem argumentum a repugnanti.
Maxima propositio: Repugnantia conuenire non posse. AB EFFICIENTIBUS REBUS
HOC MODO: OMNIBUS EST IUS PARIETEM DIRECTUM AD PARIETEM COMMUNEM ADIUNGERE VEL
SOLIDUM VEL FORNICATUM. SED QUI IN PARIETE COMMUNI DEMOLIENDO DAMNI INFECTI
PROMISERIT, NON DEBEBIT PRAESTARE, QUOD FORNIX VITI FECERIT. NON ENIM EIUS
VITIO QUI DEMOLITUS EST DAMNUM FACTUM EST, SED EIUS OPERIS VITIO QUOD ITA
AEDIFICATUM EST, UT SUSPENDI NON POSSET. Causarum quidem multa sunt genera
qua Cicero paulo posterius diuidit. Sed nunc de efficientium causarum disserit
argumento. Efficiens uero causa est qua praecedente aliquod effectum est, non
tempore sed proprietate naturae, uelut in hoc quod nunc declaramus
exemplo. Damni infecti promissio est quoties quis promittit, si quod
damnum eius opera contigerit, sua restitutione esse pensandum. Ius autem
est parieti communi parietem alium uel fornicatum, id est arcum habentem, uel
directum continuumque coniungere. Quidam igitur ad parietem communem alium
extrinsecus parietem iunxit, deditque satis damni infecti. Communis autem
paries fornicatus fuit, id est, arcum habens uel signinam fabricam sustinens;
adiungente igitur eo qui satis dederat, et ut adiungeret de moliente partem
parietis, quo iunctura cohaeresceret, uitium communis paries fecit; quaeritur
an damni infecti promissio cogat eum qui promiserit damnum restituere.
Subiectus terminus damni infecti, promissio; praedicatus uero uitii,
restitutio. Sumimus igitur argumentum a causis hoc modo. Si enim is qui
damni promisitinfecti restitutionem eius uitii causa fuit, restituere debet
uitium quod eius accidit culpa; quod si ea natura parietis fuit ut suspendi
sustinerique non posset (fornicati enim parietis non ea natura est ut suspendi
queat), parietis potius forma quam demolientis culpa uitium fecisse uidebitur,
atque ita non cogitur restaurare uitium qui se damni infecti promissione
obstrinxerit. Fiet igitur argumentatio hoc modo: Si penes parietis formam
constituit ut eo adungente [1079B] parietem qui damni infecti promiserat,
uitium fieret, id uitium, qui promisit, praestare non cogitur. Fuit autem causa
paries ut uitium fieret, qui ea fuit natura ut suspendi sustinerique non
posset. Non igitur quod fornix uitium fecerit, praestare debet quidamni
promisit infecti. Argumentum ab eo quod in ipso est de quo agitur, id est in
uitii restitutione, ex effecto, id est ex causa. Causa enim uitii form. a est
parietis, non culpa coniungentis parietem. Itaque factum est ut fornix uitium
faceret, quae causa uitii, cum absit ab eo qui parietem iunxit, abest etiam
eiusdem uitii restitutio. Maxima propositio: Unamquamque rem ex causis spectari
oportere. AB EFFECTIS REBUS HOC MODO: CUM MULIER VIRO IN MANUM
CONVENIT, OMNIA QUAE MULIERIS FUERUNT VIRI FIUNT DOTIS NOMINE. Effecta
sunt quae aliquibus efficiuntur causis, non tempore praecedentibus sed natura,
uelut si quaerat, uxore defuncta quae in manum uiri conuenit, an eius bona ad
uirum pertineant. In qua quaestione, bona uxoris defunctae quae in manum uiri
conuenerit, subiectum est, ad uirum autem pertinere, praedicatum. Quaero igitur
argumentum ab effecto, dispicioque quid perfecerit ipsa in manum conuentio,
atque ex eo argumentum trabo; id autem est, omnis uiri dotis nomine fieri,
quaecumque mulieris fuere. Ipsa igitur in manus uiri conuentio, omnia quae
mulieris fuere, uiri fecit dotis nomine, non praecedens tempore sed statim
propria ui naturae. Nam ut in manum quaecumque conuenerit, mox eius bona dotis
nomine [1079D] uirum sequuntur. Facio igitur argumentum sic: Si
mulier quae defuncta est in manum conuenit, in manum uero conuenientis
mulieris bona uiri fiunt dotis nomine, haec quoque bona de quibus agitur,
uiri sunt. Argumentum ex eo quod in ipso est, de quo agitur, continetur.
Agitur enim de bonis eius quae in manum conuenerit, scilicet ab effectis, id
est a causae effectis. Effectum namque est, in manum conuentione omniaquae
mulieris sunt uiri fieri sed a causa quanquam hic quoque non ab effectis dotis
nomine, tactum argumentum esse monstretur. Ostensum est enim fieri uiri
dotis nomine, quidquid mulieris fuerit, ex eo quod mulier in manum conuenerit.
Sed haec causa est ut quae mulieris erant, uiri fiant dotis nomine. Sed dicat
quis, ex eo quod ea quae mulieris fuerant, uiri fiunt dotis nomine, id est
approbare quod defunctae bona ad uirum debeant pertinere. Sed quae mulieris
sunt, ea uiri fieri dotis nomine, et bona ad uirum pertinere, uel idem est, uel
neutrum alteri causa est; uel si quis dicat eam esse causam, ut bona mulieris
uiro debeant cedere, quod per in manus conuentionem uiri facta sunt, dotis
nomine, a causa rursus, ac non ab effectis factum esse argumentum putabit, id
est a dote; ab effectis uero non oportet aliud nisi causam probari. Esset
uero ex effectis argumentum, ut ex eo causa probaretur hoc modo: Si quaestio
esset an mulier in manum uiri conuenisset, et indubitatum haberetur, omnia quae
fuissent mulieris, uiri facta dotis nomine, diceretur [1080B] ita: Si omnia
quae fuere mulieris, uiri facta sunt dotis nomine, mulier in manum uiri
conuenit; sed omnia quae fuere mulieris, uiri facta sunt dotis nomine, mulier
igitur in manum uiri conuenit. Maxima propositio: Causas ab effectis suis
non separari. EX COMPARATIONE AUTEM OMNIA VALENT QUAE SUNT HUIUSMODI:
QUOD IN RE MAIORE VALET VALEAT IN RE MINORE, UT SI IN URBE FINES NON
REGUNTUR, NEC AQUA IN URBE ARCEATUR. ITEM CONTRA: QUOD IN MINORE VALET,
VALEAT IN MAIORE. LICET IDEM EXEMPLUM CONUERTERE. ITEM: QUOD IN RE PARI
VALET, VALEAT IN HAC QUAE PAR EST; UT: QUONIAM USUS AUCTORITAS FUNDI
BIENNIUM EST, SIT ETIAM AEDIUM. AT IN LEGE AEDES NON APPELLANTUR ET SUNT
CAETERARUM RERUM OMNIUM QUARUM ANNUUS EST USUS. VALEAT AEQUITAS, QUAE
PARIBUS IN CAUSIS PARIA IURA DESIDERAT. A comparatione locus qui dicitur,
tripartito scinditur; aut enim a comparatione maiorum, aut a comparatione
minorum, aut a comparatione parium nascitur. A comparatione igitur maiorum est,
quoties maiore minoribus comparantur, hoc modo, ut quod in re maiore ualet,
ualeat in minore. Sit enim quaestio an in urbe aquam liceat arceri. In
hac igitur subiectus est terminus, in urbe aqua, praedicatus uero, ius arcendi.
Regi fines dicuntur quoties unusquisque ager propriis finibus terminatur. Arcet
uero aquam qui eam per sua spatia meare non patitur. Faciamus igitur argumentum
sic. Quoniam plus est regi fines, minus uero arceri aquam, si in ciuitate fines
non reguntur, quod maius est, ne id quidem quod minus est, fiet, ut aqua in
ciuitate arceatur. Hic igitur sumptum est argumentum ab eo quod in ipso haeret
de quo quaeritur. Quaeritur uero de arcendae aquae iure, ab atlecto scilicet,
id est a maiori, quod refertur ad id quod minus est. Notandum uero quod Tullius
maximam propositionem argumentationi inclusit hoc modo: Quod in re maiori
ualet, ualeat in minori et deinceps ea nixus, argumentationem expediuit,
ut mani testius appareat id quod in primo uolumine commemoratum est, has
maximas propositiones; aliquoties quidem argumentationibus includi, ut in
praesenti monstratur exemplo, alias uero uires argumentationibus dare, ut in
superioribus exemplis locorum. Quod si idem conuertamus exemplum,
dicemus: Quod in re minori ualet, ualeat etiam in maiori. At in urbe aqua
arcetur, regantur igitur fines. Hic tamen quaestio permutatur hoc modo:
Quaeritur enim an in urbe fines oporteat regi. Sed a minore sumitur argumentum,
id est ab arcenda aqua, ut sit hic quoque argumentum ab eo quod in ipso est, id
est ab eo quod est in regendis finibus, ab affecto scilicet, id est a minori.
Id enim quod minus est affectum est, illud namque respicit ad id quod
comparatur. Hic quoque maxima propositio a Tullio posita est, eaque est: Quod
enim in re minori ualet, ualet etiam in maiori. A paribus uero fit
similiter comparatio. Nec esse est enim ut ualeat aequitas, quae paribus in
rebus paria iura desiderat. Plurimarum igitur rerum usucapio annua est,
ut si quis eis anno continuo fuerit usus, eas firma iuris auctoritate
possideat, uelut rem mobilem. Fundi uero usucapio, biennii temporis spatio
continetur, de aedibus in lege nihil ascriptum est. Quaeritur ergo, usus aedium
unone anno, an biennio capiatur. Faciemus a paribus argumentationem, et quoniam
immobilium aequa possessio est, aedes uero immobiles sunt, ut biennio fundus
usucapiatur, ita etiam oportet aedes usucapere biennio possidentem. Aequitas
enim paribus in rebus paria iura desiderat. Quae etiam maxima propositio
a Tullio clarissime posita est sed exemplum restrictius positum est, nec
promptissime ad intelligendum. Ita namque ait: UT QUONIAM USUS AUCTORITAS FUNDI
PER BIENNIUM EST, SIT ETIAM AEDIUM. Hic igitur aedium usus auctoritatem biennio
fieri sentit sed adiungit: AT IN LEGE AEDES NON APPELLANTUR, ET SUNT CAETERARUM
OMNIUM QUARUM ANNUUS EST USUS. Hic rursus aedes in his uidetur ponere quae
annuo usucapiuntur, et concludit nihil definiens, nisi VALEAT AEQUITAS, QUAE
PARIBUS IN CAUSIS PARIA IURA DESIDERAT. Sed uidetur ita dictum, quoniam
immobiles sunt aedes ut fundus, biennio uero fundus usucapitur, aedes quoque
biennio usucapiantur, et sibi ipse rursus opponit sed in lege duodecim
tabularum, de aedibus nihil ascriptum est, et inter eas relictae sunt res,
taciturnitate legis, quarum est usus annuus. Nam cum de fundo praescriberet lex
biennii usucapionem, tacuit aedes, et iis potius hac taciturnitate eas iunxit
quarum annuus est usus. Sed soluit obiectionem ita: sed AEQUITAS PARIBUS IN
rebus PARIA IURA DESIDERAT. Itaque quoniam aeque fundus atque aedes immobiles
sunt, aeque biennio usucapientur. Factum est igitur hic quoque argumentum
ab eo quod in ipso est de quo quaeritur, id est ab affecto, id est pari. Nam
cum agatur de aedium possessione, argumentum sumptum est ab usucapione fundorum.
Expeditis igitur his locis qui in ipso de quo agitur inhaerebant, nunc iam loci
eius quem dixit esse extrinsecus, ponit exemplum. Hic uero est qui sumitur ab
auctoritate iudicii locus ualde probabilis, etiamsi non maximae necessitatis.
Quae enim necessaria sunt, haec ex propria considerautur natura. Quae uero
probabilia sunt, plurimorum iudicium exspectant. Ea namque sunt probabilia,
quae uidentur uel omnibus, uel pluribus, uel maxime famosis atque praecipuis,
uel secundum unamquamque artem scientiamque eruditis, ut quod medico in
medicina, geometrae in geometria, caeterisque in propria studiorum facultate
ueritatis. De quo extrinsecus loco sic loquitur: QUAE AUTEM ASSUMUNTUR
EXTRINSECUS, EA MAXIME EX AUCTORITATE DUCUNTUR. ITAQUE GRAECI TALIS ARGUMENTATIONES
*ATECHNOUS* UOCANT, ID EST ARTIS EXPERTIS. Alia quippe argumenta sunt, quae
ipse elicit orator, atque ipse quodam modo ex designatis locis sibi comparat,
et propria facultate conquirit. Alia qua extrinsecus posita non ipse inuenit
sed praesentibus utitur et paratis, ueluti testimonia, tabulae, fama,
caeteraque de quibus M. Tullius latius tractaturus est. Non enim sibi ipse
testimonia parat orator sed paratis utitur, nec ipse, iudicium facit sed iam
posito ac spontaneo rumore ueniente utitur ad causam. Atque idcirco hos
locos Graeci *atechnous* uocant, id est inartificiales, atque, ut Tullius
dixit, artis expertes. Quae enim non proprio oratoris artificio comparantur sed
se extrinsecus uenientia subministrant, haec iure artis expertia sunt appellata.
Huius exemplum est: UT SI ITA RESPONDEAS: QUONIAM P. SCAEVOLA ID SOLUM
ESSE AMBITUS AEDIUM DIXERIT, QUOD PARIETIS COMMUNIS TEGENDI CAUSA TECTUM
PROICERETUR, EX QUO TECTO IN EIUS AEDIS QUI PROTEXISSET AQUA DEFLUERET, ID TIBI
IUS VIDERI. Solum ambitus aedium est, quantum soli AEDIUM AMBITUS
claudii. SCAEVOLA igitur dixit id esse AMBITUS AEDIUM SOLUM, quod tecti
diffusione tegeretur. Manifestum est enim tecta latius fundi, nec parietibus
adaequari, ut stillicidium longus cadat. Quae cum ita sint, quidam parietem
communem tegere nitebatur, quaeritur an sit aliquod ius tegendi. Respondeas tu,
inquit, Trebati, id ius esse angendi parietis communis, ut in eius qui tegit
non aliud quodlibet tectum stillicidii aqua fundatur, alias non esse iuris ut
tegat quis parietem, stillicidio in uicini tecta defluente. Haec enim
stillicidii seruitus noua, nisi consentiente uicino, nihil iuris habet.
Sed si huic responso opponatur, ne sic quidem ut tegat esse iuris, quandoquidem
aedium solum tantum est, quantum cuiusque parietes claudunt, qui uero legit,
tectum longius mittit, tu inquit, responsum tuum Scaeuolae auctoritate
firmabis, dicens Scaeuolam respondisse hoc ESSE SOLUM AMBITUS AEDIUM, quantum
tectum proiiceretur, non quantum parietes ambirent. Ius est igitur proiicere
tectum, qui intra ambitum adhuc suarum aedium tegit sed ita ut in suum tectum
aqua defluat, nec uicino noua noceat seruitute. In qua quaestione neque a
subiectoneque a praedicato termino ductum est argumentum, quod in his locis
considerari moris est, qui in ipsis haerent de quibus agitur terminis, ut in
omnibus exemplis est diligentissime declaratum. Sed quia sumitur argumentum
extrinsecus, dubitationi iudicium cuiuslibet opponitur, ut nunc Scaeuolae,
cuius auctoritate responsum est, atque ideo ex loco qui uocatur extrinsecus
sumptum dicitur argumentum. HIS IGITUR LOCIS QUI SUNT EXPOSITI AD OMNE
ARGUMENTUM REPERIENDUM TAMQUAM ELEMENTIS QUIBUSDAM SIGNIFICATIO ET DEMONSTRATIO
[AD REPERIENDUM] DATUR. UTRUM IGITUR HACTENUS SATIS EST? TIBI QUIDEM TAM ACUTO
ET TAM OCCUPATO PUTO. SED QUONIAM AVIDUM HOMINEM AD HAS DISCENDI EPULAS
RECEPI, SIC ACCIPIAM, UT RELIQUIARUM SIT POTIUS ALIQUID QUAM TE HINC PATIAR NON
SATIATUM DISCEDERE. Omne elementum principium est eius rei cuius
elementum esse perpenditur. Nam eius quod ex elementis fit, ipsa elementa
nec esse est loco esse principii; ergo quoniam hi loci superius designati
argumentorum quasi quaedam principia sunt (ipsi enim sunt qui continent
argumenta; omne autem quod continet, eius quod continetur principium est), idcirco
ait Cicero ueluti quaedam elementa argumentorum uideri locos hos quos superius
posuit Cautissimeque adiecit, quasi quaedam elementa; non enim integre elementa
sed quasi in similitudine elementorum sunt hi loci qui in argumentis
eificiendis sumuntur. Idcirco quoniam argumentorum quaedam uidentur esse
principia, alioqui elementum omne, minima pars eius est cuius elementum est, et
id quod ex elementis efficitur, partes inuicem coniungit, ut litterae
orationem. At uero locus, non pars argumenti sed totum est. Est enim
significatio quaedam, et demonstratio ad reperiendum argumentum data, ut si
locum respexeris, noueris ubi conditur, unde duci debeat argumentum. Sed
reliqua ad Trebatium expeditissime dicta sunt, blanditurque ei etiam breuia
posse sufficere acuminis praerogatiua, praesertim cum sit iuris occupatione
districtus, et tempus legendi plura non habeat. Sed quoniam, ut inquit,
auidissimum studii AD HAS doctrinarum EPULAS recepit, non uult degustatum sed
satiatum relinquere, ut non desit aliquid sed de pleno etiam relinquatur,
factaque esta conuiuando translatio iucundissima. Declaratis igitur locis
omnibus, eorumque exemplis diligenter expositis, pauca quaedam de locorum ui
atque ordine disputabo, quibus plenissima disputatione expeditis, ad ea quae restant
explananda transgrediar. Sed id tertio iam uolumine faciendum est, quoniam
secundus liber habet proprium modum. Antequam latiorem M. Tullii
diuisionem de enumeratis superius locis aggrediar, pauca, ut sum pollicitus, de
ui atque ordine locorum mihi uidentur esse tractanda, ut eorum natura
diligentius cognita, facilior se argumentorum copia subministret. Primum igitur
quoniam loci omnes diuisi sunt in eos qui in ipso haerent de quo quaeritur, et
in eos qui extrinsecus assumerentur, uidendum est qui nam sint hi loci qui in
ipso haerent de quo quaeritur, et quid ab ipsis rebus differunt in quibus
haerere dicuntur, atque illud quidem planissime expeditum est, ipsos dici
terminos illos qui in quaestione uersantur, horum esse alterum praedicatum,
alterum uero subiectum, superior expeditio patefecit. Ab eo igitur
termino de quo agitur, quid differt locus a toto? Quandoquidem idem est ipsum
esse quod totum, neque enim est aliud esse quemlibet terminum in quaestione
propositum, quam totum esse terminum eumdem qui in quaestione est constitutus;
de paribus quoque idem dicimus. Nam si omnes partes efficiunt id cuius partes
sunt, terminumque in quaestione propositum suae partes efficiunt, non est
dubium quin partes quoque omnes conuenientes idem esse quod ipsum est, in
quaestione propositum rectissime intelligantur. Notatio uero, eodem modo illud
ipsum est quod in quaestione proponitur. Rem enim unamquamque omne uocabulum
designat in quaestione ac denotat. Fit igitur ut totum, partes ac nota, idem
quod est ipsum de quo quaeritur esse uideantur. In tanta igitur similitudine
rerum danda est differentia. Neque enim, ut dictum est, si locus haeret in eo
ipso de quo quaeritur, atque ab ipso de quo quaeritur capi non potest,
argumentum fieri potest, tu locus idem esse possit quod ipsum est de quo
quaeritur. Sed haec differentia ipsum est quod confuse ac singulariter intelligitur,
ut homo, in eo inest totum suum, quod est definitio ipsius; igitur totum, ab eo
quod ipsum est, intelligentia separatur, quod illud quidem singulariter
intelligitur, hoc uero sub generis ac differentiarum enumeratione monstratur.
Diuidit enim definitio atque dispertit, totumque patefacit quod in re ipsa
singulariter intelligebatur; de partibus quoque eadem ratio est. Si enim ad
membrorum multitudinem, uel specierum omnium enumerationem, singularis termini
referas intellectum, statim ipsius ac partium differentias comprehendas. Nota
etiam ab eo cuius nota est facile distat, quia illud uox et significatio est,
illud res significationi supposita, eorum uero quae affecta sunt non sunt
dubiae differentiae ab his quorum affecta esse monstrantur. Quis enim idem
dicat esse coniugatum, quod est id cui coniugatum est? Quis idem dicat esse
iuste, quod iustitia? Quis genus idem quod forma? quis contraria? quis similia?
Quandoquidem neque contrarium, sibi ipsi contrarium esse potest, nec simile,
sibi ipsi simile; nec genus, sibimetipsi genus; et de cateris eadem ratio
est. Nunc illud dicendum est, propter quod ista praemisimus; quandocumque
enim ab illis tribus locis qui primi propositi sunt, argumenta sumuntur, id est
a toto, a paribus, a nota, fit ut ipse quidem terminus ad cuius fidem quaeritur
argumentum, intra quamlibet earum rerum contineatur, quae cum ad argumentum
ductae fuerint, loci esse monstrantur. Velut cum fit argumentum a toto, ipse
quidem terminus cui fides affertur, intra totum comprehenditur; totum uero
ipsum quod est definitio, res est siquidem orationem, rem uocari placet. At si
ex ea sumitur argumentum, fit locus itaque ipsum quidem de quo agitur, intra
totum clauditur, a quo toto cum fit argumentum, fit ipsum totum, locus; quod
totum, quoniam claudit terminum qui in quaestione uersatur eidem termino
uidetur inhaerere. Quo fit, ut locus quoque qui a toto est, eidem inhaereat
termino, de quo in quaestione dubitatur. Partium quoque enumeratio eumdem
terminum claudit, quem partium collectione coniungit. Ipsaque partium
enumeratio res quaedam est, ei oratio rebus annumeranda est. Sed si ab ea
ducitur argumentum, fit locus. Sed quoniam partium multitudo in eodem termino
est, quem conuentus partium iungit, nec esse est eum quoque locum qui est a
coniunctione partium ipsi illi termino de quo quaeritur inhaerere. Nota etiam
rem designat, et significatione aliquo modo comprehendit, a qua si ducitur argumentum,
fit locus, et quoniam nomen omne si uidetur ad esse, cuius intelligentiam
signat, locus quoque qui est a notatione, in ipso haeret de quo uersatur
intentio. At in affectis quae in tredecim partes diuisa sunt, non idem
est. Nam quoniam respicientia quodammodo terminum sunt, et quasi extrinsecus
constituta, non uidentur eodem modo coniuncta esse cum termino quo coniuncti
sunt hi loci, qui a toto, a partium enumeratione, a nota esse praedicti sunt;
sed tamen id quod affectum est, ad aliquid dicitur. Id uero aliquid iunctum est
illi semper quod ad eius ducitur relationem, ac sine eo esse nunquam potest,
quia cum ipso nascitur, et quodammodo altero dicto intelligitur alterum. Nam si
id de quo quaeritur, eiusque affecta perpendas, ea quae perhibentur affecta,
extra id de quo ambigitur, posita esse consideres, nihil enim eorum quae sunt
ad aliquid, ex se ipso esse potest sed est semper ex altero: ut enim in
praedicamentis ostenditur, omnia quae ad aliquid dicuntur, opposita sunt, non
tamen ita disiuncta sunt ut omnino sint distributa sed quoniam relatiua
praedicatione iunguntur, nec esse est aliquo modo in ipso sint ad quod uidentur
affecta. Omne quippe affectum, ex eo ad quod affectum est suscipit formam, et
sine eo esse non potest, et dicto altero, alterius se statim subiicit
intellectus, ut cum dixero dimidium, duplum intelligitur, et cum patrem
nominauero, filius ad intelligentiam uenit. Et omnia quaecumque ad aliquid
sunt, ex sese pendent, nec a se inuicem deseruntur. Igitur omne affectum, et ad
ipsum respicit ad quod refertur, et in ipso est. Ad ipsum quidem respicit, quoniam
ad affectum suum uelut ad aliquid relatiue more praedicationis refertur; in
ipso uero est, quod ea est affectorum natura ut alterum existat ab altero,
seque ipsa possideant, quandoquidem et id quod uffectum uocatur, eius est
termini ad quem consideratur affectum, et terminus in quaestione propositus
affe. cto suo intelligitur esse connexus. Quae cum ita sint, cum
argumentum sumitur a coniugatis, quoniam id quod coniugatum est, affectum est
ad id quod ei ex altera parte est coniugatum, id quidem de qua quaeritur in
altrinsecus posito coniugato haeret. Is uero locus unde argumentum trahitur, ab
altero ducitur coniugato, ueluti si compascuus ager est, ius est compascere.
Igitur compascere atque compascuum coniugata sunt; sed quaerebatur an ius esset
compascere, tractum uero est argumentum a compascuo; itaque terminus quidem de
quo fuit quaestio, in altero coniugato positus deprehenditur, id est in
compascendo; locus uero unde argumentum tractum est, in altero est, id est in
compascuo. Item quoties a genere ducitur argumentum, id de quo quaeritur
in forma, haerere nec esse est, ut cum ostenditur legata esse numerata pecunia,
quoniam fuerit argentum omne legatum. Quaeritur enim de numerata pecunia, quae
est species argenti, et argumentum tractum est ab argento, id est a genere.
Itaque ipsum de quo quaerebatur, in forma fuit, id est in specie. Argumentum
uero tractum est ab affecto, id est a genere. Quod si a forma generis
argumentum fiat, conuerso modo est, id quidem quod quaeritur in genere esse
monstratur, ipsum uero unde sumptum est argumentum, in forma esse perpenditur.
Nam cum quaeratur an legatum sit uxori argentum, ostenditur non esse legatum,
quia non fuerit uxori tantum: legatum sed matrifamilias uxori. Uxor uero genus
est matrifamilias uxoris. Quaeritur igitur de uxore, id est de genere.
Argumentum factum est a matrefamilias, in est a forma. Quoties uero a
similitudine trahitur argumentum, quoniam id quod simile est, non sibi sed alteri
simile esse perpenditur, res siquidem de quo quaeritur, in uno eorum quae sunt
similia, posita est; at uero locus, in altero est, uelut cum quaeritur an
haeres restituere uitium ruinamue cogatur aedium in usumfructam relictarum. In
hoc igitur quaestio est, locus uero a simililudine, quia non oportet haeredem
aedes restituere, sicut nec mancipium, si id aliqua ratione depereat. Cum
igitur similis sit aedium ususfructus atque mancipii, quod quaeritur, in aedium
usufructu positum est, locus uero, in usufructu mancipii. In differentia
quoque idem est: eorum namque quae differunt in altero positum est id quod
quaeritur, in altero uero illud a quo id quod est ambiguum comprobatur, ut cum
quaeritur an id quoque argentum quod in nominibus debeatur legatum sit. Hic
igitur illud est quod dubitatur. In eo uero quod ab hoc differt, locus est a
quo ostenditur minime legatum esse argentum quod in nominibus debeatur, quia
multum differt in arca ne sit positum, an in nominibus scriptam. A
contrario quoque idem est, ut in eo quod quaeritur an ususfructus penus legatus
sit. In usufructu igitur quaestio est sed probatur minime esse legatus, quia
non potest esse usus earum rerum quae utendo pereunt sed potius abusus; in
abusu igitur locus est, scilicet in altero contrariorum, cum fuerit in usu
quaestio. Ab adiunctis etiam locus in eodem modo ab eo quod quaeritur
segregatus est, ut in uno adiuncto quaestio, in altero uero sit locus. Nam cum
quaeratur an secundum mulieris tabulas nunquam capite diminutae possessio detur,
in hoc quaestio est an detur, at in eius adiuncto, locus. Ostenditur enim
minime dari debere possessionem, quia sit proximum ut secundum puerorum quoque
atque seruorum tabulas bonorum possessio concedatur. Ab antecedentibus uero
ita est locus, ut quaestio sit in consequentibus. Nam cum quaeritur an aliquid
dotis nomine pro liberis manere oporteat sumitur argumentum nullomodo manere
oportere ex antecedentibus, quod uiri culpa factum est diuortium; locus itaque
in antecedenti, quaestio uero in consequenti. Consecutum est uiri culpa factum
esse diuortium, nihil apud patrem pro liberis permanere, cum uiri culpa
praecesserit. A consequentibus uero si sit argumentum, res quae dubia est
in antecedentibus esse deprehenditur, uelut cum quaeritur an diuortio tacto,
cum eo nupta esset mulier qui cum connubii ius non esset, dotis nomine aliquid
pro liberis manere oporteat. Fit argumentum sic: Si quid ex dote pro liberis
manere oporteret, quia patrem liberi sequerentur, cum eo nupta esset mulier,
qui cum connubii ius esset, hic antecedens est, si quid de dote pro liberis
manere oporteret, et in eo quaestio an aliquid manere oporteat. Consequens
uero, cum eo mulier nupta, qui cum connubii ius esset, a quo sumitur
argumentum, id est a consequenti. Nam cum manifestum sit, non cum eo nupta esse
cum quo connubii ius erat, ostenditur quod miuime patrem liberi sequantur,
atque idcirco nihil pro liberis manere oportere. Hic igitur res quidem quae
dubitatur in antecedenti est, in eo scilicet an ex dote pro liberis manere
aliquid oporteat, argumentum uero in eo loco qui est in consequentibus, id est
in muliere quae nupta est cum eo cum quo nulla erant iura connubii. A
repugnantibus etiam quoties argumenta sumuntur, res quidem dubia in altero
repugnanti, in aduerso uero locus est argumenti, ut cum quaeritur an possit
inuita mulier reddere legatum, quod recte testamento semel accepit. Locus a
repugnanti, minime posse inuitam reddere quod recte accepit. Quaestio igitur
est in eo quod intelligitur inuitam reddere, argumentum uero in altero
repugnanti, id est in eo quod intelligitur recte accipere. Pugnat enim inuitam
reddere et recte accipere, sed quaestio in uno eorum est, locus in
altero. Quoties uero a causis efficientibus ducitur argumentum,
quaestionem in effectis esse nec esse est, ut exemplo quo quaeritur an qui
satis dederit damni infecti, uitium parietis praestare cogatur. In hoc igitur,
id est uitio parietis, quaestio est sed de causa trahitur argumentum. Dicitur
enim non oportere praestare, quoniam natura parietis causa fuerit uitii, non is
qui de praestando uitio satis dedisset. Effectum ergo causae, uitium parietis
fuit. Itaque quaestio quidem in effecto, locus uero esse consideratur ex causa.
At si ab effectis aliquid approbetur, locus in effecto, quaestio in causa est constituta,
ueluti cum quaeritur an mulier quaedam cuius bona uiri facta sint, dotis nomine
in uiri manum conuenerit. Quoniam ergo in manum ex conuentione perficitur, ut
bona mulieris post eius mortem uir adipiscatur, argumentum ducitur ab effectis.
Efficitur enim per in manum conuentionem, ut quaecumque sunt mulieris, uiri
fiant dotis nomine; ergo cum ea quae mulieris fuere, uir nomine dotis
adipiscatur, mulierem in manum uiri nec esse est conuenire. Quaestio itaque est
de muliere, an in manum uiri conuenerit. Argumentum uero ab effectu causae, id
est in manum conuentionis. Hoc uero est quod ea quae fuere mulieris, uir nomine
dotis acquirit, quo fit ut quod quaeritur, in causa, locus uero sit in
effectis. A comparatione uero maiorum si fuerit argumentum, quaestio erit
in minoribus, ut si quaeratur an in urbe aqua debeat arceri, defendaturque
minime debere, neque enim fines reguntur; ita in aqua arcenda, quod minus est,
quaestio est, locus uero in finibus regendis, quod maius est. Contrariae uero,
si a minore argumentum ducatur, erit id quod dubilatur in re maiori, ut si
dubitetur an fines in ciuitate regantur, respondeamus minime, quoniam ne aqua
quidem arcetur. Ita id quod dubitatur, in re maiore consistit, illud uero unde
argumentum sumitur, in minori. Et in comparatione parium similis ratio est: in
uno enim eorum quae sunt paria, quaestio consistit, in altero locus
intelligitur argumenti, ueluti cum quaeritur an aedium usus biennio capiatur,
id approbamus, quoniam fundorunm quoque. Cum ergo paria sint fundus atque
aedes, quaestio quidem de aedibus est, argumentum uero ducitura fundo. Ac
de ui quidem locorum, quoque a se non quaestiones et loci argumentorum
separentur, haec dicta sint. Nunc eorum ordinem breuissime commemorabo. Ex hoc
itaque oritur omne iudicium, qui locus prior, qui sit posterior, existimandus,
si eos terminos consideremus qui proposita quaestione uersantur. Quaecumque
enim his terminis propinquiora sunt, haec rectissime priora numerantur. Posteriora
uero quantum a propositis longissime quaeque rec esserint. Id autem tali
ratione clarescet. Primum namque, locorum est diuisa pluralitas in eos
qui in ipso sunt de quo agitur, et in eos qui assumuntur extrinsecus, in quo
praepositos esse intelligimus eos locos qui in ipso sunt, his locis qui trahuntur
extrinsecus. Hic uero locus qui in ipso est, in primas quatuor distribuitur
partes, quarum prima est definitio, qui locus a toto est nuncupatus. Idcirco
autem primus a toto locus ponitur, quoniam nihil est alicui tam proximum, quam
propria definitio. Consequitur enumeratio partium, quia post definitionem
proximum locum partes tenere debent, quae totum id cuius partes dicuntur esse,
coniungunt. His apponitur nota, quae quasi conuerso modo definitio est. Nam
sicut definition explicat quod implicite nota designat, ita nota inuoluit et
confuse indicat quod patefacit atque expedit definitio. Nota uero tertia ideo
est, quia definitio substantiam tenet; partium enumeratio ea dinumerat quae
totum compositum iungunt, nota uero nihil efficit sed tantum designat.
Post haec quae in ipsis terminis principaliter haerent, illa quae sunt affecta
numerantur, quae iam non ipsis insunt terminis sed eosdem uelut exterius posita
consequuntur, atque idcirco solum in ipsis esse dicuntur, quoniam sine his esse
non possunt. Quorum prima sunt coniugata. Nihil enim inter affecta sic
proximum est, quam id quod et re et nomine participat, nisi quod parua nominis
inflexione seiungitur. Nam id quod iustum est, et iustitia participat, et
inflexo iustitiae nomine nuncupatur, et in caeteris quidem coniugatis idem
est. Post haec annumeratum est genus. Genus uero est quod cuiuslibet
uniuersaliter substantiam monstrat, et quod multorum specie diuersorum,
substantialis est similitudo. Quod a propositis terminis longius quam coniugata
seiungitur, quia tametsi substantiam monstrat, tamen ne inflexo quidem uocabulo
cum termini nomine copulatur sed longe lateque diuerso. Huic adiuncta est
species (quam formam Tullius appellauit), quia nihil est tam proximum generi
quam species. Species uero est substantialis indiuiduorum similitudo, et quod
sub genere ponitur. Post hanc, similitudo est constituta. Etenim post
illud idem quod in substantiis intelligitur illud idem recte ponitur quod in
qualitate esse perpenditur. Paulatim uero res incipit a similitudine recedere,
nec statim ad contrarium uenit sed prius a differentia locum statuit. Nam
remota similitudine nihil aliud occurrit prius, nisi differentia. Post
hanc, a contrario locum ducit, id est a maxima differentia. Rursus ad
amica sibi affecta conuertitur. Sed non eo modo amica quo sunt similia,
adiuncta enim proponit, quae non sunt integrae similitudinis sed inter se
iudicii, et ueluti cuius iam rerum sibi cohaerentium propinquitatis. Post
adiuncta uero antecedentia Tullius posuit. Post id enim quod aliquo modo
iunctum est, aliquid nec esse est aut antecedens aut consequens intelligatur.
Prius itaque antecedens, post consequens collocatum est. Post haec
repugantia dixit, ut quodammodo duplex ordo contrarietatum ac similitudinum
nasceretur. Prius enim proposuit a simili, a differentia, a contrario, atque
hic uniuersus ordo est similium et contrariorum. Rursus ab adiunctis, ab
antecedentibus, a consequentibus, a repugnantibus. Hic rursus secundus ordo
similium et contrariorum esse deprehenditur. Sed primus ualde euidentior quam
secundus; plus est enim simile esse quam adiunctum, plus est differre quam
antecedere uel consequi, plus etiam est contrarium quam repugnans. Et in suo
quaeque ordine plenam retinent formam, uelut quia similitudo propinquitatem
quamdam tenere debet: propinquius est enim id quod est simile ei cui simile
esse consideratur, quam id quod ad. iunctum est ei cui naturali
uicinitate coniungitur. Rursus quoniam differentia similitudinis auctor est, dissimilius
est id quod ab aliquo differt, quam id quod consequitur uel antecedit. Rursus
quoniam contrarium longissime ab eo qui contrarium est oportet abscedere,
longius abscedit contrarium quam repugnans. Post haec quid aliud restare
poterat quam effectorum causas quaerere? aut post effectorum causas quid aliud
quam ipsarum causarum perquirere effectus? Praeterea a comparatione loci,
postremum ordinem tenent, quia siue similitudinem, siue dissimilitudinem in
sola obtinent quantitate. Ac de locorum ordine satis dictum est. Illud praeterea
considerandum puto, num hi quoque argumentorum loci qui in ipso haerent de quo
quaeritur, inter affecta iure numerentur. Quandoquidem quae affecta sunt,
idcirco esse dicuntur affecta, quia sunt ad aliquid, et propositi termini
relatione nectuntur. Nam et definitio alicuius est definitio, et totum partium
totum est, et nota significati nota est. Sed inspicienda natura est singulorum,
et uidendum num similiter haec ad aliquid referantur ut caetera. Nam definitio
rem quam definit quodammodo explicat atque conformat. Item partes rem cuius
partes sunt propria coniunctione perticiunt. Nota uero, eius intellectum
conmmuniter tenet, et cum haec caetera quae uocantur affecta non faciant, iure
haec non inter affecta ponuntur sed in eo ipso quod ueluti conficiunt atque
conformant, inesse dicuntur. Sed quoniam de ui atque ordine locorum
sufficienter dictum est, nunc ad sequentia transeamus. Praeter omnia enim
quae superius dicta sunt, [1090B] illud animaduertendum maxime est, quia non si
quid in argumentis fuerit sumptum, illud eurum argumentorum locus dicendus est,
nisi non solum insit argumentis, uerum etiam ab eo argumenta nascantur. Id quod
dico, planiore liquebit exemplo. Si quod enim fuerit argumentum in quo sumatur
genus uel species, non statim illud argumentum ex genere uel specie tractum
esse dicitur, nisi ei argumento uires generis uel speciei qualitas
subministret. Age enim, sit quaestio an idem sit animali esse quod uiuere, et
fiat argumentatio sic: non idem est animali esse quod uiuere, quia ne inanimato
quidem idem est esse quod mori, piurima quippe sunt inanimata, neque moriuntur.
Nam quae nunquam uixere, ne mori quidem posse manifestum est. Hoc igitur
inanimatum genus est lapidum, ac fusilium metallorum, et sumptum est in
argumentum sed non ex genere factum est argumentum, licet in eodem genus
uideatur inclusum sed potius a contrario. Nam contrarium est uitae quidem mors,
animalium inanimatum; sed mori non sequitur inanimatum, igitur ne animal quidem
uiuere. Non ergo ex genere locus iste ducendus est sed potius ex contrario,
quamuis genus huiusmodi contineat argumcntum; tunc enim locus esset a genere,
si ab animalis uel a uiuendi genere argumenti ratio traheretur, uelut si ita
fieret argumentum: animali esse, substantiae est esse; ipsum uero uiuere
substantia non est sed in substantiam uenit. Non est igitur idem uiuere quod
animali esse. A substantia igitur tractum est argumentum, a genere uidelicet
animalis. [1090D] Hoc igitur argumentum, et genus continet, et ex genere ductum
est; in priore uero, etsi genus continet, a contrario tamen ductum esse
perpenditur. Illud enim semper speculandum est, non quid in argumento sit sed
ex quo ducitur argumentum. Et in caeteris quidem eadem ratio tenenda est,
neque est enim in singulis immorandum. Siquis enim diligentiam decursae
superius expositionis exercuit, facile in reliquis colliget, quod uno
declaratur exemplo: QUANDO ERGO UNUSQUISQUE EORUM LOCORUM QUOS EXPOSUI SUA
QUAEDAM HABET MEMBRA, EA QUAM SUBTILISSIME PERSEQUAMUR, ET PRIMUM DE IPSA
DEFINITIONE DICATUR. DEFINITIO EST ORATIO, QUAE ID QUOD DEFINITUR EXPLICAT QUID
SIT... Propositis igitur breuiter argumentorum locis eosdem subtilius
atque enodatius statuit per suas partes et conuenientia membra partiri.
Ita enim locorum omnium diligentius natura considerabitur, si non confuse
solum, uerum etiam distributim, et in suarum partium proprietate noscantur. Dat
uero hoc multam inueniendorum copiam argumentorum: ut enim de definitione
dicamus, si cunctas aliquis definitionum partes agnouerit, ex omnibus sibi
poterit argumenta conquirere, eritque in inueniendis copiosior argumentis eo
qui quot sint definitionis species ignorat. Ex tot enim definitionum partibus
argumenta producet, quantas quis definitionum partes esse cognouerit. Is uero
habebit plurimam talium locorum facultatem, quem definitionum diuersitas non
latebit. Ob hoc igitur M. Tullius, quos confuse atque indigeste posuit locos,
nunc eosdem diligentiore ratione partitur. Ac primum illud propensiore
consideratione tractandum est, quod, ut dictum est, etiam loci ipsi res quaedam
sunt sed tunc esse intelliguntur loci, cum ab his trahitur argumentum. Ergo
nunc Cicero non principaliter locos sed res ipsas diuidit, quae ad argumentum
ductae, speciem sumunt locorum. Definitio namque, et pars, et nota, res quaedam
sunt sed cum ab his argumentum ducitur, loci fiunt. Cum igitur M. Tullius res
ipsas ita ut sunt naturaliter partiatur, simul cum rebus diuidit locos. Si enim
res una est a qua duci poterit argumentum, unus est etiam locus; at si illa
diuiditur, quot partes eius rei fuerint, tot erunt etiam loci generis eiusdem
de quo argumenta nascuntur. Quae cum ita sint, cumque prius omnium locus
a toto sit, id est a definitione; prius quid sit definitio definitione
declarat, ut patefacta rei natura, species eius uel membra conuenienti ordine
partiatur. Detinitio, inquit, est oratio quae id quod definitur explicat quid
sit, sicut definitio est hominis, animal rationale mortale. Dictum uero
cautissime explicat. Nam quod nomen confuse denuntiat, id definitio per quaedam
substantialia membra diffundit. Quod enim confuse nomine hominis declaratur, id
aperit atque explicat definitio, dicens hominem esse animal rationale et
mortale. Nam nisi ita dixisset, potuerat esse oommunis definitio generi quoque,
uelut hoc modo: definitio est quae designat quid est id quod definit. Sed genus
quoque designat quid est id de quo praedicatur sed non explicat quid sit. Sola
enim definitio explicat quid sit quod oratione perficitur; genus uero et
caetera quae singulis plerumque nominibus proferuntur, minime. Explicat
autem definitio id quod definitur, non quoquo modo, id est non in eo quod quale
uel quantum est, non in quolibet aliorum praedicamenlorum sed quid sit, id est
eius quod definit, substantiam monstrat. Ea uero definitio substantiam digerit,
qua ex genere differentiisque consistit; haec namque uniuscuiuslibet
substantiam significant, sicut in his dictum est, ubi de genere, specie,
differentia, proprio, accidentique tractatum est. Ergo omnis definitio explicat
quid sit id quod definitur. Aristoteles uero eodem pene modo definitionem determinat,
dicens: Definitio est oratio quidem esse significans. Hanc M. Tullius
partitur hoc modo: DEFINITIONUM AUTEM DUO GENERA PRIMA: UNUM EARUM RERUM
QUAE SUNT, ALTERUM EARUM QUAE INTELLEGUNTUR. ESSE EA DICO QUAE CERNI
TANGIQUE POSSUNT, UT FUNDUM AEDES, PARIETEM STILLICIDIUM, MANCIPIUM PECUDEM,
SUPELLECTILEM PENUS ET CAETERA; QUO EX GENERE QUAEDAM INTERDUM VOBIS DEFINIENDA
SUNT. NON ESSE RURSUS EA DICO QUAE TANGI DEMONSTRATIVE NON POSSUNT, CERNI TAMEN
ANIMO ATQUE INTELLEGI POSSUNT, UT SI USUS CAPIONEM, SI TUTELAM, SI GENTEM, SI
AGNATIONEM DEFINIAS, QUARUM RERUM NULLUM SUBEST [QUASI] CORPUS, EST TAMEN
QUAEDAM CONFORMATIO INSIGNITA ET IMPRESSA INTELLEGENTIA, QUAM NOTIONEM
VOCO. EA SAEPE IN ARGUMENTANDO DEFINITIONE EXPLICANDA EST. Omnem
definitionem manifestum est ad aliquid dici, ulicuius est enim semper
definitio. Quae uero ad aliquid dicuntur, quamdam proprietatem ex his sumant
nec esse est, ad quae referuntur. Quo fit ut ex his rebus quas determinat
definitio, in ipsas definitiones quaedam proprietas transferatur; sed quia quod
ad aliquid refertur, id non potest esse idem ei ad quod dicitur, propriam
quoque ipsum quod refertur ad aliud formam nec esse est possidere. Eoque fit,
ut in definitionibus, et sua insit forma, et ea quam ab his accipiunt, quae
definiunt consideretur. Quod M. Tullius uidens, primum diuidit definitiones
secundum ea quae definiuntur. Quarum genera duo esse proponit, unum earum
rerum quae sunt, alterum earum quae intelliguntur. Has igitur definitionum
differentias ex his uidetur sumpsisse quae in definitione monstrantur. Omnia
enim qua definiuntur aut corporalia sunt, aut incorporalia. Res enim omnes in
haec primitus diuiduntur. Ea uero quae corporalia sunt, esse dicit; ea quae
sunt incorporalia, non esse, non quod omnino ea quae incorporalia sunt non
sint, alioqui nec definitionem susciperent. Nam si definitio est qua explicatur
id quod definitur quid sit, eius rei, qua omnino non est, nec quid sit,
explicatio ulla esse potest. Sed quia humanum genus sensibus degit, id maxime
esse arbitratur, quod sensuum conprehensioni subiicitur. Quis enim sibi non
magis lapidem scire uideatur, aut hominem quam iustitiam, uel haereditatem, uel
quidquid aliud non sensibus [sed intelligentia comprehendit? Unde fit ut
propter euidentiam cognitionis ea magis esse uideantur quae subiecta sunt
sensibus, ea minime quae intelligentiae ratione capiuntur. Sed id
sciendum est, M. Tullium ad hominum protulisse opinionem, non ad ueritatem. Nam
ut inter optime philosophantes constitit, illa maxime sunt quae longe a
sensibus segregata sunt, illa minus, quae opiniones sensibus subministrant.
Unde etiam idem Cicero in Timeo Platonis ait: Quid est quod semper sit, nec
ullum habeat ortum, et quod gignatur, nec unquam sit? Quorum alterum,
intelligentiae ratione comprehenditur, alterum affert opinionem sensui rationis
expers. Hic igitur id quod semper sit, rationi adiecit, id uero quod nunquam
sit, sensibus coniunxit. Sed, ut dictum est, corporea esse, et incorporea
non esse, non ad ueritatem sed a communem quorumlibet hominum opinionem locutio
est. Ponit igitur exempla earum quidem rerum quae sunt, formas quasdam
corporalium rerum, ut fundum, aedes, parietes, stillicidium, atque id genus,
quae corporalia esse hac ratione ostendit, quoniam cerni tangique possunt;
earum uero rerum qua non sunt, exempla posuit, usucapionem, tutelam, gentem,
caeteraque quae sunt incorporea; quae ex hoc incorporea esse monstrauit, quod
ait, EA TANGI DEMONSTRATIVE non posse sed intelligentia atque ANIMO comprehendi.
Cur uero ea non esse dixerit, supposuit rationem dicens, nullum quasi corpus
earum rerum esse, nec molem aliquam quae feriat sensum. Quod enim corpus esse
potest usucapionis? Nam ipsa quae usucapiuntur, corporea sunt, ipsa uero
usucapio corporea non est. Ipsa enim per utendi consuetudinem possidendi
firmitudo, quodnam corpus habere potest? Item, quod quis tutela regit,
corporale est, homo namque est. Ipsa uero cura tutela, atque ipsum ius alium
tuendi, nihil omnino corporis habere potest. Homines quoque qui in eadem
gentilitate sunt, corporei sunt. Ipsa uero gentilitas, id est communis nominis
liberorum societas, ut Scipionum, Valeriorum et Brutorum, certe incorporea est;
sed quaedam eorum rerum incorporalis animi conceptio est, atque intelligentia,
quam notionem uocauit. Ipsa enim imaginatio usucapionis uel tutelae atque
intellectus incorporalis rei notio dicitur, quam Graeci *ennoia* uocant.
Diuisit igitur definitionem in has duas partes, scilicet secundum subiecti
diilerentias, ut alias quidem esse diceret definitiones earum rerum quae sunt,
id est corporalium, alias ueroearum quae non sunt, id est incorporalium.
Hinc quaeri potest, quod etiam superius breuiter commemoraui, quonam modo
definito non inter affecta numeretur, cuni ornnis definitio ad aliquid esse
uideatur? Idcirco enim affecta esse dicta sunt similitudo, contrarium, et
caetera, quoniam semper ad aliquid referuntur. Quod si etiam definitio refertur
ad aliquid, nec est absolutae ac propriae considerationis, ea quoque inter
affecta ponenda est. Sed occurritur, quoniam ea quae affecta sunt tanquam
umbrae quaedam corpus, ita extra posita non possunt id relinquere ad quod
probantur affecta, et aut omnino substantiam eorum ad quae affecta sunt, non
significant ut contrarium, simile et caetera. Aut si quando designant, una
quaedam pars intelligitur esse substantiae, uelut genus, species, differentia.
Non enim genus tota substantia est speciei, quando, quidem non solum genus
speciem format sed differentiae quoque; nec differentiae totam substantiae
continent formam, quandoquidem non sola differentia speciem perficit sed etiam
genus. Ipsa uero species quaedam generis pars est, at uero definitio, etsi ad
aliquid est, tamen totam substantiam monstrat, atque exsequatur ei rei quam
definit, et substantiam perficit, ut neque extraposita sit, sicut similitudo et
contraria, neque pars eius substantiae sit quam definitione determinat sed potius
ipsa substantia. Ac de hac quidem re satis dictum est. Idem uero de
partibus dici potest. Nam coniunctae partes totum id efficiunt cuius partes
sunt. Nota quoque tutum significat id quod designat, utque omnia coaequantur,
et definitum definitioni, et partes toti, et nota rei quam significatione
declarat si non sit aequiuoca, uel si res quae designatur non sit
multiuoca. Sane illud dubitari recte potest, cur cum dixisset duo genera
esse definitionum, non ipsas definitiones partitus est sed quae definiuntur, id
est corporale atque incorporale. Quod idcirco dictum uidetur, quia definitio
cum sit ad aliquid, ut dictum est, quamdam capit ex his, quorum; substantiam determinat,
qualitatem. ATQUE ETIAM DEFINITIONES ALIAE SUNT PARTITIONUM ALIAE
DIUISIONUM; PARTITIONUM, CUM RES EA QUAE PROPOSITA EST QUASI IN MEMBRA
DISCERPITUR, UT SI QUIS IUS CIVILE DICAT ID ESSE QUOD IN LEGIBUS, SENATUS
CONSULTIS, REBUS IUDICATIS, IURIS PERITORUM AUCTORITATE, EDICTIS MAGISTRATUUM,
MORE, AEQUITATE CONSISTAT. DIVISIONUM AUTEM DEFINITIO FORMAS OMNIS COMPLECTITUR
QUAE SUB EO GENERE SUNT QUOD DEFINITUR HOC MODO: AB ALIENATIO EST EIUS REI QUAE
MANCIPI EST AUT TRADITIO ALTERI NEXU AUT IN IURE CESSIO INTER QUOS EA IURE
CIVILI FIERI POSSUNT. Quoniam definitio ita exsubiecta re quam definit,
proprietatem capit, ut tamen formam propriam non relinquat, idcirco post eas
differentias definitionum, quae ab his rebus tractae sunt quae definiebantur,
nunc a propria forma definitionum differentias tradit. Propria uero forma
uniuscuiusque compositi in suis partibus constat itaque ex partibus
definitionum tales differentias docet, quod aliae definitiones per diuisionem,
aliae per partitionem fiunt. Definitur enim res quamlibet dum aut eius species
omnes enumerantur aut partes. Partes uero a specie quo differant, paulo
posterius dicam. Hinc exponenda arbitror Ciceronis exempla; dat enim
partitionis exemplum hoc: Sit enim propositum definire quid sit ius ciuile,
dicemus ita: ius ciuile est quod in legibus, senatus consultis, rebus
iudicatis, iuris peritorum auctoritate, edictis magistratuum, more, aequitate
consistit. Lex igitur est quam populus centuriatis comitiis ciuerit. Senatus
consulta sunt quae fuerint senatus auctoritate decreta. Res iudicatae sunt quae
inter eos qui super aliqua re ambigunt, sententia iudicum fuerint constitutae,
quarum exemplo caeterae quoque iudicantur. Iurisperitorum auctoritas est eorum
qui ex duodecim tabulis, uel ex edictis magistratuum, ius ciuile interpretati
sunt, probatae ciuium iudiciis, creditaeque sententiae. Edicta nmagistratuum
sunt quae praetores urbani uel peregrini, uel aediles curules iura dixere. Mos
est quod in ciuitatem solium est fieri. Aequitas est quod naturalis ratio
persuasit. Haec igitur omnia unam formam iuris efficiunt, tanquam partes, uelut
hominem, caput, brachia, thorax, uenter, crura atque pedes. Partitio est enim
ut ipse ait, quae unamquamque rem propositam, quasi in membra discerpit.
Alteram uero partem definitionis, quae per diuisionem sit specierum, tali
monstrat exemplo. Definit enim quid sit abalienatio eius rei quae mancipi est,
dicens: ABALIENATIO EST EIUS REI QUAE MANCIPI EST, AUT TRADITIO ALTERA NEXU,
AUT CESSIO IN IURE, INTER QUOS EA IURE CIVILI FIERI POSSUNT. Nam iure ciuili
fieri aliquid non inter alios, nisi inter ciues Romanos fieri potest, quorum
est etiam ius ciuile, quod duodecim tabulis continetur. Omnes uero res quae
abalienari possunt, id est quae a nostro ad alterius transire dominium possunt,
aut mancipi sunt, aut non mancipi. Mancipi res ueteres appellabant, quae ita
abalienabantur, ut ea ab alienatio per quamdam nexus fieret solemnitatem. Nexus
uero est quadam iuris solemnitas, quae fiebat eo modo quo in Institutionibus
Caius exponit. Eiusdem autem Caii libro primo institutionem de nexu faciendo,
haec uerba sunt: Est autem mancipatio, ut supra quoque
indicauimus, imaginaria quaedam uenditio, quod ipsum ius proprium
Romanorum est ciuium, eaque res ita agitur, adhibitis non minus
quam quinque testibus Romanis ciuibus puberibus, et praeterea
alio eiusdem conditionis qui libram aeneam teneat, qui appellatur
libripens. Is qui mancipium accipit, aes tenens, ita dicit: Hunc ergo
hominem ex iure Quiritium meum esse aio, isque mihi emptus est hoc aere
aeneaque libra. Deinde aere percutit libram, indeque aes dat ei a quo
mancipium accipit, quasi pretii loco. Quaecumque igitur res, lege
duodecim tabularum, aliter nisi per hanc solemnitatem abalienari non poterat.
Sui iuris autem caeterae res nec mancipi uocabantur, eaedem uero etiam in iure
cedebantur. Cessio uero tali fiebat modo ut secundo commentario idem Caius exposuit.
In iure autem cessio fit hoc modo: apud magistratum populi Romani, uel
apud praetorem, uel apud praesidem prouinciae, is cui res in iure ceditur
rem tenens ita uindicat: Hunc ego hominem ex iure Quiritium meum esse aio.
Deinde postquam hic uindicauerit, praetor interrogat eum qui cedit an
contrauindicet; quo negante, aut tacente, tunc ei qui uindicauerit, eam
rem addicit, idque legis actio uocabatur. Res igitur quae mancipi
sunt, aut nexu, ut dictum est, abalienabantur, aut in iure cessione. Has
autem solemnitates quasdam esse iuris, ex superioribus Caii uerbis ostenditur.
At si res ea quae mancipi est nulla solemnitate interposita tradatur,
abalienari non poterit, nisi ab eo cui traditur, usucapiatur. Quae cum ita
sint, recte definita est secundum diuisionem abalienatio rei mancipi, scilicet
quae aut nexus traditione, aut in iure cessione perficitur. Nam pura
traditione, abalienatio rei mancipi non explicatur. Species uero has esse, non
partes, hinc intelligitur, quia si quis nexu abalienet rem mancipi, id quod
suum fuit, in alterius potestatem pleno iure transtulit. Quid si etiam in iure
cedat, plenum abalienationis ius erat. Ubi autem plenum nomen eius, quod
diuidunt, partes suscipiunt, illud genus, et has species esse paululum quoquo
dialectica cognitione imbutus intelligit. Quae cum ita sint, diuisit
Cicero definitionem in duas partes, unam quae partium enumeratione fieret,
alteram quae per partium diuisionem, utraque uero definitio partes enumerat.
Sed hoc interest, quia haec quidem species, illa uero membra partitur. Hic
suboritur quaestio ualde difficilis. Nam si definitio est etiam partitio, mirum
uideri potest quemadmodum alter sit a definitione locus, alter a partium
enumeratione. Quae res maximam confusionem praestat. Nam cum superius in
locorum enumeratione alter a definitione locus, alter sit a partium
enumeratione propositus, cumque nunc enumerationem partium, uel diuisionem,
definitionis species esse confirmet, non est dubium quin cum idem sit partium
enumeratio quod definitio (idem namque est species quod genus), idem sit locus
a definitione, qui est a partium
enumeratione. Cuius quaestionis ualde difficilis, facilior absolutio est,
si definitionum ipsarum formas ac distantias colligamus. Multis namque modis
fieri definitio potest. Inter quos unus est uerus atque integer definitionis
modus qui etiam substantialis dicitur; reliqui per abusionem definitiones
uocantur. De quibus omnibus paulo posterius integram faciam diuisionem. Nunc in
commune sic disseram: nam quia omnis definitio explicat quid sit id quod
definitur. Explicatio autem fit duobus modis: uno quidem cum pro re minime
cognita planius aliquid affertur; alio uero cum fit quaedam partium enumeratio.
Ac de priore quidem modo, posterius. Nunc uero de enumeratione partium ita dicendum
est, quod omnis definitio, quae per partium enumerationem fit, quasi quaedam partitio
recte intelligitur. Dictum est, id quod in nomine confuse significaretur, in
definitione quae fit enumeratione paritum, aperiri atque explicari. Quod fieri
non potest nisi per quarumdam partium nuncupationem; nihil enim dum explicatur
oratione, totum simul dici potest. Quae cum ita sint, cumque omnis huiusmodi
definitio quaedam sit partium distributio, quatuor his modis fieri potest. Aut
enim substantiales partes explicantur, aut proprietatis partes dicuntur, aut
quasi totius membra enumerantur, aut tanquam species diuiduntur.
Substantiales partes explicantur, cum ex genere ac differentiis definitio
constituitur. Genus enim quod singulariter praedicatur, speciei totum est. Id
genus sumptum in definitione, pars quaedam fit. Non enim solum speciem complet,
nisi adiiciantur etiam differentiae, in quibus eadem ratio quae in genere est.
Nam cum ipsae singulariter dictae totam speciem claudant, in definitione
sumptae, partes speciei sunt, quia non solum speciem quidem esse designant sed
etiam genus. Huius exemplum est: Homo est animal rationale mortale.
Cum ergo tota definitio homini coaequetur, totiusque definitionis partes sint,
tum anima, tum rationale, tum mortale, ipsius hominis partes esse uidentur
singula, quae eiusdem definitionis partes sunt. Haec igitur proprio nomine
definitio nuncupatur. Item est illa definitio, quando in unum accidentia
colliguntur, atque unum aliquid ex his efficitur, et est ueluti quaedam partium
enumeratio, non in substantia sed in quadam accidentium collectione posita;
huius exemplum: Animal est quod moueri propria uoluntate possit.
Animali namque et motus est accidens, et uoluntas, et possibilitas sed haec
iuncta perficiunt animal, non substantialiter constituentia sed per quaedam
accidentia designantia quod animalis quasi quaedam partes sunt, et haec
descriptio nuncupatur. At si non accidentia rei sed quasi membra quaedam
dicamus, ex quibus componitur atque coniungitur, atque inde definitionem facere
tentemus, hoc modo dicimus: Domus est quae fundamento parietibus
tectoque consistit hic membra quaedam sumpta sunt ad definitionem, quibus
res tota coniungitur, et haec uocatur per enumerationem partium definitio.
At si quis ita definiat ut non in definitione ponat membra sed species, a
diuisione specierum definitio nuncupatur: uelut si quis hoc modo
pronuntiet: Animal est substantia quae uel sensu tantum uel sensu et
ratione nitatur. Haec igitur quatuor a se differre manifestum est.
In ea namque definitione quae per substantiales partes efficitur, singulae
partes maiores esse uidentur, et substantialiter uniuersaliores ab ea requam
definiunt, ut animal maius est ab homine. Mortale etiam atque rationale,
singula hominis transgrediuntur naturam, quae in unum conuenientia, eidem quo
sigillalatim maiora sunt coaequantur. Accidentia uero quae in definitione
ponuntur, omnino a substantia ratione [1097C] disiuncta sunt. In ea uero
definitione quae ex partium enumeratione perficitur, talia sunt quae
enumerantur, ut singula totius deflniti nomen capere non possint, atque idcirco
eodem minora sunt, ut fundamenta non possint domus uocabulo nuncupari:
fundamenta enim domo minora sunt, itemque caeterae partes. At uero in ea
definitione quae per diuisionem fit, singulae quidem partes tota ea re quae
definitur minores sunt, totum tamen definitae rei nomen suscipiunt. Ut
rationale nomen capit animalis, eodem modo irrationale. Quibus ita
discretis, quotiescumque ab ea definitione quae per substantiales partes
efficitur, uel ab ea quae per accidentium enumerationem colligitur,
argumentatio fit, a definitione, id est a toto tractum dicitur argumentum. Quoties
uero ab ea definitione quae uel per membrorum enumerationem, uel per specierum
diuisionem perficitur, argumentatio fit, ab enumeratione partium argumentum
ductum esse perhibetur. Sed Tullius quia iam partitionem definitionis ingressus
est, etiam hanc interposuit, quae non ad definitionem sed ad enumerationis
partium locum pertinebat. Huius uero rei argumentum est, quia cum post, de
eisdem locis latius tractans, de enumeratione partium loqueretur, nullam aliam
enumerationem partium posuit, nisi eam quam nunc definitionis speciem
dixit. Nec tamen est arbitrandum omnem partitionem definitionis locum posse
obtinere, ut si quis sic dicat, fundamenta, parietes et tectum domus est, id
non est nec esse. Potest namque esse porticus publicis usibus destinata, potest
item aliud quodlibet, ut theatrum quod propter ampliores sonitus exhibendos
tegi solet. Sed id nunc intelligere nos oportet, posse per partitionem aliquid
saepe definiri, cum partium illa collectio unam rem tantum possit efficere, ut
si nihil esset aliud quod fundamenta, parietes atque tectum posset habere, nisi
domus, iure definitio facta esse uideretur, domum esse quam fun damenta,
parietes tectumque perficiunt. SUNT ETIAM ALIA GENERA DEFINITIONUM, SED AD
HUIUS LIBRI INSTITUTUM ILLA NIHIL PERTINENT; TANTUM EST DICENDUM QUI SIT
DEFINITIONIS MODUS. Hunc locum Victorinus unius uoluminis serie aggressus
exponere et omnes definitionum differentias enumerare, multas interserit, quae
definitiones esse pene ab omnibus reclamantur. Inter definitiones enim penitet
nomina, quod specialiter Aristoteli in omni doctrinarum genere peritissimo non
uidetur; pernegatque in Topicis nomine fieri definitionem, ueluti si quis
dicat: Quid est conticescere? et respondeatur: Tacere!
hae nullo modo definitiones habendae sunt. Quod etiam ex ipsius M. Tullii
definitione approbari potest, per quam definitio quid esset ostendit; dixit
enim esse definitionem orationem quae id quod definitur explicat quid sit. Sed
cum nomen non sit oratio, manifestum est nomine definitionem non posse
constitui, cum praesertim ne omnia quidem qua oratione promuntur atque aliquid
ostendunt, proprio definitionis nomine designentur, ueluti descriptiones,
omnisque alia oratio quae non ex substantialibus partibus sed ex quolibet alio
modo coniunctis efficitur. Quod ne ipse quidem Victorinus ignorat. Sed
uidetur id definitionis loco ipse sibi Victorinus ad disserendi sumpsisse
propositum, quod quoquo modo rem subiectam posset ostendere. Idcirco enim nomen
quoque in definitionum numerum recepit, quoniam saepe notiore uocabulo fit
clarius quod ignotiore antea prolatum latebat. Idcirco etiam nos superius
diximus explicationem fieri duobus modis: uno quidem cum pro re minime cognita
planius aliquid afferatur; alio uero cum fit per quamdam partium enumerationem:
ut ea quidem explicatio in qua notius aliquid affertur, nominis sit; ea uero
quae fit per partium enumerationem orationis, quanquam etiam in ipsis
orationibus semper planius aliquid atleratur quo notius fiat illud de quo
disseritur. Ut igitur nihil expositio nostra praetermittat, et
definitionis proprietas appareat, itaque omnia in notitiam deducantur, ut nec
uera definitio nesciatur, et quae non sit proprie uere quo definitio sub
scientiam cadat, talis definitionum differentia facienda est. Definitionum enim
aliae proprie definitiones sunt, aliae abusiuo nuncupantur modo. Ac propriae
quidem definitiones sunt quae ex genere differentiisque consistunt, uelut
haec: Homo est animal rationale mortale hic enim animal genus est;
rationale uero et mortale differentiae. Earum uero definitionum quae non
proprie sed abutendo definitiones uocantur, aliae sunt quae singulis nominibus denotantur,
aliae uero quas explicat ac depromit oratio. Atque illarum quidem
definitionum quae tantum nomine designantur, aliae sunt quae *kata lexin*, id
est ad uerbum fiunt, cum pro nomine redditur nomen, uelut si dicat aliquis: Quid
est conticere? et respondeatur: Tacere! uel: Quid est
haurit? Percutit! Aliae uero, quae exempli gratia ponuntur, ut cum
uolumus designare quid est substantia, exempli gratia dicimus: Ut
homo haec uocatur Graece *typos* quae idcirco, ut dictum est, inter definitiones
ponitur, quoniam id quolibet modo aliquid designat eius quod designatur, et si
non proprie, tamen aliquo modo uidetur esse definitio. Earum uero
definitionum quae in oratione consistunt, neque tamen sunt propriae, multae
sunt diuersitates. Quarum est omnium nomen communis descriptio. Harum aliae
fiunt partitione, aliae diuisione, de quibus superius, ut dictum est. Aliae
uero substantiales quidem differentias sumunt sed genus non adiiciunt, atque
haec quidem a Victorino *ennoematike* dicitur, quasi quamdam communem continens
notionem, ueluti si quis dicat: Homo est quod rationali conceptione uiget
mortalitatique subiectum est. Hic igitur genus positum non est sed
differentiae substantiales. Aliae uero sunt quae pluribus quidem
qualitatibus designantur accidentibus tamen ita ut singulae qualitates, etiamsi
non coniungantur, possint tamen quod demonstratur efficere, ut: Homo est
ubi pietas est, ubi aequitas, et rursus ubi malitia et uersutia esse
possunt nam et si caetera nullus adiungat, sufficit ad ostendendum hominem dicere: ubi
pietas inesse potest, uel ubi iustitia, uel caetera haec uocatur
*poiotes*. Aliae uero sunt quae pluribus in unum accidentibus coniunctis
efficiuntur, ut siquis luxuriosum definire uelit, dicens: Luxuriosus est
qui pluribus et non necessariis sumptibus in delicias affluit, et in
libidinem fertur effusior omnia enim coniuncta luxuriosum uidentur
efficere, singula uero minime: haec uocatur *hypographike*. Aliae quoque
fiunt eo modo, ut ad signandam, differentiam proponantur in his rebus quae in
discreto fine coniunctae sunt, ut si dubitet quis, Nero imperatorne an tyrannus
fuerit, dicit eum tyrannum fuisse, quoniam crudelis fueritatque intemperans.
Haec enim adiuncta differentia tyrannum ab imperatore seiungit. Aut etiam si de
eodem tyranno atque rege dubitetur quid uterque sit, iuncta differentia
utrosque designat, ut si temperantia quidem regi uel pietas, tyranno uero et
intemperantia et crudelitas conuenire dicatur: haec uocatur *kata
diaphoran*. Alia quae per translationem dicitur, ut: Adolescentia
est flos aetatis. Illa quoque definitio esse diciturquae fit ex
priuatione contrarii, ut: Bonum est quod malum non est. Illa
quoque Victorinus definitionem ponit, quae tantum propriis nominibus aptari
potest, quae etiam *hypotyposis* appellatur, ut: Aenas est Veneris et
Anchisae filius. Praeter has etiam illa est quae fit per indigentiam
pleni, ut quadrans est cui dodrans deest ut sit as. Ponit etiam
Victorinus inter differentias definitionum illam quoque quae per quamdam laudem
fieri potest, ut: Lex est mens, et animus, et consilium, et sententia
ciuitatis. Quod maxime ratione caret. Non enim laudis modus illi
faciet differentiam. Illa enim consideranda sunt quae in definitione ponuntur,
non quo animo constituta sunt. Quod si recipienda fuit laudandi uoluntas inter
differentias definitionum, cur non uituperandi quoque uoluntas aliam
differentiam definitionis efficiat? Sed hoc apertissime inconueniens et
ueritati uidetur esse contrarium. Fiunt etiam definitiones per proportionum,
ut si quis dicat: Homo est minor mundus. Sicut etiam mundus ratione
regitur, ita quoque quoniam homo multis partibus iunctus, habet tamen in
omnibus rationem ducem, minor mundus dici potest. Fiunt etiam definitiones a
relationibus, cum dicitur: Quid est pater? respondetur: Cui est
filius. Causa quoque solet efficere definitionem, ut cum
dicimus: Quid est dies? respondetur: Sol super terram
causam enim, id est solem, pro re ipsa cuius causa est interposuimus, atqueita
diem definitionem monstrauimus. Hae sunt definitionum differentiae quas
in eo libro quem de definitionibus Victorinus edidit, annumerauit, quas M.
Tullius praetermittit eo nomine, quod eas minime necessarias existimauerit. Nos
uero ne quid perfectio deesset operi, etiam quae sunt a Cicerone praetermissa
subiecimus. SIC IGITUR VETERES PRAECIPIUNT: CUM SUMPSERIS EA QUAE SINT EI REI
QUAM DEFINIRE VELIS CUM ALIIS COMMUNIA, USQUE EO PERSEQUI, DUM PROPRIUM
EFFICIATUR, QUOD NULLAM IN ALIAM REM TRANSFERRI POSSIT. UT HAEC: HEREDITAS EST
PECUNIA. COMMUNE ADHUC; MULTA ENIM GENERA PECUNIAE. ADDE QUOD SEQUITUR: QUAE
MORTE ALICUIUS AD QUEMPIAM PERVENIT. NONDUM EST DEFINITIO; MULTIS ENIM MODIS
SINE HEREDITATE TENERI PECUNIAE MORTUORUM POSSUNT. UNUM ADDE VERBUM: IURE; IAM
A COMMUNITATE RES DISIUNCTA VIDEBITUR, UT SIT EXPLICATA DEFINITIO SIC:
HEREDITAS EST PECUNIA QUAE MORTE ALICUIUS AD QUEMPIAM PERUENIT IURE. NONDUM EST
SATIS; ADDE: NEC EA AUT LEGATA TESTAMENTO AUT POSSESSIONE RETENTA; CONFECTUM
EST. ITEMQUE [UT ILLUD]: GENTILES SUNT INTER SE QUI EODEM NOMINE SUNT. NON EST
SATIS: QUI AB INGENUIS ORIUNDI SUNT, NE ID QUIDEM SATIS EST, QUORUM MAIORUM
NEMO SERVITUTEM SERVIVIT. ABEST ETIAM NUNC: QUI CAPITE NON SUNT DEMINUTI. HOC
FORTASSE SATIS EST. NIHIL [1100D] ENIM VIDEO SCAEVOLAM PONTIFICEM AD HANC
DEFINITIONEM ADDIDISSE. ATQUE HAEC RATIO VALET IN UTROQUE GENERE DEFINITIONUM,
SIVE ID QUOD EST, SIVE ID QUOD INTELLEGITUR DEFINIENDUM EST. Definitionis
ratione proposita diuisaque per singulas partes tum materiae, tum etiam formae;
materiae quidem, cum definitionum esse dixit, uel earum rerum quae corporeae
essent, uel earum quae incorporeae; formae uero cum aut partitionibus aut
diuisionibus definitiones fieri docuit; praetermissisque caeteris quaecumque ad
propositum opus minime pertinerent, nunc quod utilissimum est, maximeque totam
definitionem intelligentiam significare potest, exsequitur. Id autem est:
Qui sit in omnibus, quaecumque quomodolibet fiunt, definitionis modus. Est
autem una atque omnibus communis definiendi ratio, ut ex communitatibus inter
semet iunctis atque compositis in unam proprietatem rei definitio colligatur.
Omnia enim quae communia atque uniuersalia sunt, si quid eis fuerit adiectum,
determinatione minuuntur, et ad particularitatem redeunt, atque eo ambitu quo
concludebant cuncta, cohibentur, ueluti cum generi adiicitur differentia, et
fit species. Nam cum genus per se proprio ambitu multas species contineat, ei
si propriam adiicias differentiam, minuitur, et in quamdam quodammodo
particularitatem redit, ueluti cum dicimus animal, hoc nomen multa concludit.
At si ei rationale adiiciae, faciasque animal rationale, minus erit a simplici.
Minus namque est animal rationale a simpliciter animali.Ita additio
differentiae quod maius fuit in particularitatem quamdam redegit atque cohibuit.
Quoties igitur aliqua res definienda est, sumitur id quod ei cum pluribus aliis
commune est, huic adiiciuntur differentiae, statimque nec esse est minuatur id
quod pluribus fuerat antecommune, et si hac differentiae additione in tantum
modum decreuerit, ut rei quae definitur fiat aequalis, aiias differentiaa
colligere atque aptare non nec esse erit sed id ipsum quod ita decreuit, ut
aequale sit ei quod definitur, definitionem esse nec esse est. At si adhuc
amplius sit ab ea re quae definitur, quaeramus nec esse est aliam differentiam,
qua adiuncta numerus quidem crescat, uis autem communitatum differentiarum
additione decrescat, atque id hactenus faciendum, quatenus, ut dictum est, ea
quae ad definitionem sumuntur ei quod definiendum est adaequentur. Ut
igitur id non ratione solum, uerum conuenienti quoque clarius fiat exemplo,
sumatur res notissima ad definitionem, id sit homo. Huius igitur ita
quaerimus definitionem: sumimus quod ei cum pluribus aliis commune est, id est
animal. Dicimus igitur hominem esse animal, nondum est definitio, primum quia,
ut dictum est, solo nomine definitio reddi non potest; dehinc quia animal maius
est homine. Ut igitur minuatur animal et homini coaequetur, addimus
differentiam, qua adiuncta, rerum quidem numerus crescit, uis autem rei atque
amplitudo minuitur. Addo igitur rationale, efficioque animal rationale. Minus
est igitur animal rationale quam proprie animal. Dico autem hominem esse animal
rationale. Sed id nondum coaequatur ad hominem, possunt enim esse animalia rationabilia,
sicut Platoni quoque de astris placet, quae homines non sunt. Addo igitur
rursus alium differentiam, si quoquo modo iterum definitio contrahatur, ut fiat
homini quod definitur aequale; adiungo igitur mortale, ac dico hominem esse
animal rationale mortale, id aequatur ad hominem. Nam et qui homo est, animal
rationale mortale est. Dico igitur hominis hanc esse definitionem quae ex
pluribus communibus iunctis unum tamen quiddam homini proprium atque aequale
conficit. Atque in caeteris definitionibus eadem ratio est. Ut
definitiones fiant collectis communitatibus, in unumque copulatis, cum necesse
sit illa copulatione quae communia sunt contrahi atque in minorem cohiberi
modum, eique quod definitur ex communitatibus iunctis aliquid proprium atque aequale
componitur. Hoc est igitur quod ait Cicero, hunc esse definitionis modum, cum
sumpseris ea quae sint ei rei quam definire uelis cum aliis communia, usque eo
persequi, ut proprium efficiatur, quod in nullam aliam rem transferri possit,
ut his uerbis et hac sententia breuiter significare uideatur hanc esse
definitionem quae, ex substantialibus communitatibus iuncta atque in minorem
modum redacta, fit ei rei quae definitur aequalis. Exempla uero quae
ponit huiusmodi suut, unum definiendae haereditatis, alterum gentilitatis.
Haereditatis quidem hoc modo: HAEREDITAS EST PECUNIA. Commune hoc et multis
aliis conueniens quae haereditates non sunt, ut donationibus, ut furtis, uel
quibuslibet aliis pecuniariis rebus quae minime sunt haereditates. Huic igitur pecuniae
addendum aliquid fuit, id est: QUAE MORTE ALICUIUS AD QUEMPIAM PERVENIT.
Haereditas enim pecunia est ad quempiam alicuius morte perueniens. Sed ne id
quidem plenum haereditatis explicat intellectum. Commune namque est. Et
pecuniae mortuorum pluribus teneri modis possunt, uelut si bello quis uictus
est ac spoliatus. Addendum igitur est aliquid: IURE, ut sit, HAEREDITAS EST
PECUNIA QUAE MORTE ALICUIUS AD QUEMPIAM IURE PERVENIT. Haereditates enim iure
capiuntur. Videatur forsitan hoc loco definitionem posse consistere sed minime;
quid enim? si legata pecunia est, haereditas quidem dici non potest, capta
tamen morte alicuius iure pecunia est. Nam si testamenta iure fiunt, pecunia
etiam iure legatur, adiiciendum est aliquid, id scilicet quo ab haereditatibus
legata separentur, ut dicamus, haereditatem esse pecuniam morte alicuius ad
quempiam peruenientem iure, quae legata non sit. Num satis est definitioni?
Minime. Quid enim si meum quidem dominium sit fundi, uel alicuius pecuniariae
rei, alterius uero ususfructus. Nam morte eius cui ususfructus competit, ad me
res illa reuertitur, quae in meo dominio proprietatis possessione iure
tenebatur? neque tamen haereditas esse potest, adiiciendum igitur est, minime
possessione esse relentam, id est, ut proprietatis possessione id quod ex morte
alicuius iure non legatam peruenit non retineatur. Hoc autem modo possessione
retineri potest, si sit nostra proprietas, et eius qui decesserit
ususfructus. Coniuncta igitur omnia in unum facient haereditatis
definitionem hoc modo: Haereditas est pecunia quae morte alicuius ad
quempiam peruenit iure, non legata, neque possessione retenta. Haec
definitio est aequalis haereditati. Nam ut haereditas pecunia est morte
alicuius ad quempiam perueniens iure, neque legata, neque possessione retenta,
ita quaecumque pecunia alicuius morte ad aliquem iure peruenerit, neque legata
sit, neque retenta, hanc haereditatem esse nec esse est. Sed cum M.
Tullius ad eum usque locum definiendo uenisset, ut diceret haereditatem esse
pecuniam quae morte alicuius ad quempiam peruenisset, iure ait: iam a
communitate res disiuncta uidebitur, ut sit explicata definitio sic: Haereditas
est pecunia quae morte alicuius ad quempiam iure peruenit. Idque ita dictum
est, quasi iam plena facta sit definitio. Quid enim est aliud explicatam esse
definitionem, et a communitate disiunctam, nisi perfectam, et cui desit nihil?
Sed rursus quasi non sit explicata definitio, nec a communitate disiunctam,
adiicit: NONDUM EST SATIS: ADDE: NEC EA AUT LEGATA TESTAMENTO AUT POSSESSIONE
RETENTA. Cuius adiectionis haec ratio est, fecit enim definitionem aliis
adiunctis, aliis separatis. Itaque id quod definiebat, uel his quae adiunxit,
uel his quae separauit, a caeterorum omnium communitate segregauit. Haereditatem
enim dixit esse pecuniam, huic addidit, morte alicuius ad aliquem peruenientem.
Separauitque eam ab iis pecuniis, quae non morte alicuius ad aliquem sed
contractu uiuentium peruenirent, addidit IURE, ut ab his pecuniis separaret
quae per uim morte alterius ad quempiam peruenirent. His igitur duobus, MORTE
atque IURE, ea pecunia effecta est, quae a caeteris ita separetur, ut tamen per
legitimum acquireadi modum, non inter utrosque uiuos sed inter unum uiuum atque
alterum mortuum fieret. Haec igitur una separatio ac caeteris facta est, atque
ideo ait explicatam esse definitionem et a communitate disiunctam. Sed
quoniam in ea ipsa pecunia quae morte et iure ad aliquem peruenit inerant
quaedam quae haeredites non essent, [1103C] harum separatione plena effecta est
haereditatis definitio. Nam cum diceret haereditatem pecuniam esse, itemque
quae morte alicuius ad aliquem peruenisset, itemque et quae iure, haec omnia
efficientia substantiam haereditatis apposita sunt. Sed quoniam erant in hac
collectione quaedam ad quae huius collectionis intellectus transferri posset,
nec tamen essent haereditates, ueluti legatum aut possessionis retentio, his
substractis reliqua fuit haereditas, de qua intelligi possit pecunia alicuius
morte ad quempiam iure perueniens. Non igitur legatum, aut possessionis
retentio substantiam haereditatis efficiunt, quippe quae impedirent ad eius
substantiam demonstrandam, nisi remouerentur. At uero nec negatio quidem
cuiusquam substantiam perficit sed tantum quid non sit ostendit. Quod si
legatum et possessionis retentio haereditatis substantiam non modo non
complent, uerum etiam impediunt atque corrumpunt, nisi fuerint disiuncta atque
seposita; cumque harum negatio nihil ex haereditatis substantia monstret sed
tantum quid non sit ostendat; relinquitur pars superior, id est pecunia morte
alicuius ad quempiam iure perueniens, quae substantiam haereditaiis ostendat,
ea quae sit explicata definitio a caeterisque disiuncta. Sed quoniam rursus, ut
dictum est, quaedam sunt ad quae deriuari huius definitionis intelligentia
possit, idcirco ad discretionem integram designandam reliqua pars additur.
Itaque quoniam ista demonstrant haereditatem, efficiuntque substantiam iure
dictum est, IAM A COMMUNITATE RES DISIUNCTA VIDETUR, UT SIT EXPLICATA
DEFINITIO: HAEREDITAS EST PECUNIA QUAE MORTE ALICUIUS AD QUEMPIAM PERVENIT
IURE. Sed quoniam rursus hic intellectus ad plura intra se posita poterat
conuenire, non immerito additum est: NON EST SATIS et caetera, quae legatum et
possessionis retentionem ab haereditatis definitione seiungunt: ac de priore
quidem haereditatis exemplo haec dicta sint. Ad huius uero similitudinem
etiam secundum tractat exemplum, quod de definitione gentilitatis est positum.
Gentiles enim sunt qui eodem nomine inter se sunt, ut Scipiones, Bruti et
caeteri. Quid si serui sunt? num ulla gentilitas serorum esse potest? Minime.
Adiiciendum igitur: Qui ab ingenuis oriundi sunt. Quid si libertinorum nepotes
ciuium, Romanorum eodem nomine nuncupentur? num gentilitas ulla est? Ne id
quidem, quoniam ab antiquitate ingenuorum gentilitas ducitur; addatur igitur:
Quorum maiorum nemo seruitutem seruiuit. Quid si per adoptionem in alterius
familiam transeat? tunc etiamsi eius gentis ad quam migrauit nomine nuncupetur,
licet ab ingenuis et ab iis ortus parentibus sit qui nunquam seruitutem
seruierint, tamen quoniam in familia gentis suae non manet, ne in gentilitate
quidem manere potest; addendum igitur est: Neque capite sunt diminuti. Hoc
fortasse, inquit, satis est secundum Scaeuola, pontificis definitionem, nihil
enim ulterius adiecit, ut sit definitio gentilium haec: Gentiles sunt, qui
inter se eadem sunt nomine, ab ingenuis oriundi, quorum maiorum nemo seruitutem
seruiuit, et ubi gentilitatem nulla capitis diminutio destruxit. Haec quoque
definitio facta est ex pluribus communitatibus in unum confluentibus atque unam
proprietatem eius rei quae definiebatur, id est gentilitatis,
facientibus. Hic igitur definitionis modus in utroque genere rerum ualet,
siue quae sunt, siue quae non sunt, id est siue corporalium, siue incorporalium;
nam, ut superius ostensum est, id esse Cicero dicit quod corporale sit, id non
esse quod est incorporale. Ac postremo omnium definitionum modus hic est, ut ex
pluribus communitatibus aliqua proprietas fiat. Sed distant a se definitiones,
quod hae que proprie definitiones uocantur ex his communitalibus coniunguntur
quae substantiales sunt. Hae uero quae non uerae sed abutendo definitions dicuntur,
ex accidentibus communitatibus congregantur. PARTITIONUM [AUTEM] ET
DIVISIONUM GENUS QUALE ESSET OSTENDIMUS, SED QUID INTER SE DIFFERANT PLANIUS
DICENDUM EST. IN PARTITIONE QUASI MEMBRA SUNT, UT CORPORIS CAPUT UMERI MANUS
LATERA CRURA PEDES ET CAETERA. IN DIVISIONE FORMAE, QUAS GRAECI *EIDE*
VOCANT, NOSTRI, SI QUI HAEC FORTE TRACTANT, SPECIES APPELLANT, NON PESSIME ID
QUIDEM SED INUTILITER AD MUTANDOS CASUS IN DICENDO. NOLIM ENIM, NE SI LATINE
QUIDEM DICI POSSIT, SPECIERUM ET SPECIEBUS DICERE; ET SAEPE HIS CASIBUS UTENDUM
EST; AT FORMIS ET FORMARUM VELIM. CUM AUTEM UTROQUE VERBO IDEM SIGNIFICETUR,
COMMODITATEM IN DICENDO NON ARBITROR NEGLEGENDAM. GENUS ET FORMAM
DEFINIUNT HOC MODO: GENUS EST NOTIO AD PLURIS DIFFERENTIAS PERTINENS; FORMA EST
NOTIO CUIUS DIFFERENTIA AD CAPUT GENERIS ET QUASI FONTEM REFERRI POTEST.
NOTIONEM APPELLO QUOD GRAECI TUM *ENNOION* TUM *PROLEPSIN*. EA EST INSITA ET
ANIMO PRAECEPTA CUIUSQUE COGNITIO ENODATIONIS INDIGENS. FORMAE SUNT IGITU] EAE
IN QUAS GENUS SINE ULLIUS PRAETERMISSIONE DIUIDITUR; UT SI QUIS IUS IN LEGEM
MOREM AEQUITATEM DIVIDAT. FORMAS QUI PUTAT IDEM ESSE QUOD PARTIS, CONFUNDIT
ARTEM ET SIMILITUDINE QUADAM CONTURBATUS NON SATIS ACUTE QUAE SUNT SECERNENDA
DISTINGUIT. SAEPE ETIAM DEFINIUNT ET ORATORES ET POETAE PER TRANSLATIONEM
VERBI EX SIMILITUDINE CUM ALIQUA SUAUITATE. SED EGO A VESTRIS EXEMPLIS NISI
NECESSARIO NON RECEDAM. SOLEBAT IGITUR AQUILIUS COLLEGA ET FAMILIARIS MEUS, CUM
DE LITORIBUS AGERETUR, QUAE OMNIA PUBLICA ESSE VULTIS, QUAERENTIBUS EIS QUOS AD
ID PERTINEBAT, QUID ESSET LITUS, ITA DEFINIRE, QUA FLUCTUS ELUDERET; HOC EST,
QUASI QUI ADULESCENTIAM FLOREM AETATIS, SENECTUTEM OCCASUM VITAE VELDT
DEFINIRE; TRANSLATIONE ENIM UTENS DISCEDEBAT A UERBIS PROPRIIS RERUM AC
SUIS. QUOD AD DEFINITIONES ATTINET, HACTENUS; RELIQUA VIDEAMUS. Quoniam
definitionum formas in partitiouem diuisionemque, distribuit nequaquam rerum
auditor similitudine turbaretur, diuisionis ao partitionis differentias prodit,
ac primum aliud partes, aliud species esse demonstrat. Species enim saepe
partes, partes uero nunquam species appellantur. Differant uero haec a se,
quoniam partes totius membra coniungunt, species uero genus diuidit atque
dispertit. Nam, ut superius quoque dictum est, partes eius quod copulant non
suscipiunt nomen totius. Neque enim fundamenta uel tectum domus esse dici
possunt, nam nisi omnia quae quid efficiunt iuncta sint, totius uocabulum
singula non habebunt; at uero species etiam singulae generis suscipiunt nomen,
ut homo animalis. Quo fit, ut in his illa quoque differentia possit agnosci,
quod partes quidem, totius partes, species uero non totius, scilicet uniuersalis
rei, id est generis, species esse dicuntur. Differt uero totum a genere, quod
genus quidem uniuersale est totum uero minime, quod probatur hoc modo. Si enim
id quod totum dicitur, ut domus, uniuersale esset, partes quoque eius totius
susciperent nomen; at non suscipiunt, ut saepe monstratum est; quod igitur
totum est, uniuersale non est. Genus uero uniuersale esse manifestum est,
quoniam eius nomen deductae ab eo formae suscipiunt. Item alia
differentia. Genus semper speciebus suis prius est, totum uero suis partibus
posterius inuenitur. Nisi enim partes fuerint, totum non potest coniungi. Quo
fit ut si genus pereat, species quoque perimantur; si species intereat, maneat
genus quod in partibus totoque contrarium est. Nam si pars quaelibet una
pereat, totum nec esse est interire; si uero totum, quod partes iunxerant,
dissipetur, partes maneant distributae: ueluti si domus tecta et parietes, et
fundamenta a semetipsis extrinsecus posita intelligantur, domus quidem non erit
quia coniunctio destructa est, partes tamen manebunt. Propriis igitur
nominibus M. Tullius partes quidem ueluti totius membra appellat, species uero
formas. Idcirco, quoniam non satis ei apta uidetur inflexio casum ab eo nomine
quod est species. Et licet plures, inquit, usurpauerint hoc nomen, tamen
quoniam dura est huius nominis per casus inflexio, cum dicitur speciei,
specierum, speciebus, idcirco commoditatem in dicendo, ut ipse ait, non
arbitratus est negligendum, ut formas uocaret in cuius nominis casibus nulla
sentitur asperitas. Et quoniam forma praeter genus esse non potest (nihil
enim praeter suum potest esse principium), utrorumque apposuit definitiones,
dicens genus esse notioncm ad plures differentias pertinentem. Notio uero
intellectus est quidam et simplex mentis conceptio, quae ad res plures
pertineat a se inuicem differentes. Id uero genus esse manifestum est, quod
apertissimo liquet exemplo. Animalis quippe intellectus ad plures differentias
pertinet, ad rationale scilicet atque irrationale, ad mortale etiam atque
immortale, ad ambulabile, reptibile, uolatile, natabile, et est eorum omnium
quae sub his differentiis sita sunt, genus. Idem uero significat haec definitio
quod etiam uetus, haec est huiusmodi: Genus est quod de pluribus specie
differentibus in eo quod quid est praedicatur, uelut animal, genus ad plures
res specie differentes, id est ad hominem atque equum, in eo quod quid est
praedicatur. Nam interrogantibus quid est homo uel equus, animal dicitur.
Item formae definitionem talem dedit. Forma est notio cuius differentia ad
caput generis, quasi fontem, referri potest, et recte. Nam si formae a genere
deducuntur, species necesse est referantur ad genus. Si igitur principium
quoddam et fons formae genus est, nec esse est ut intellectus formae ad
primordium suum, id est notionem generis, reuertatur. Intellectus enim hominis
refertur ad animal, itemque equi et caeterorum. Notionem uero appellat
quod Graeci *ennoian* dicunt, huius haec est definitio: Notio est insita et
ante percepta cuiusque formae cognitio enodationis indigens. Haec uero
definitio hinc tracta est quod Plato ideas quasdam esse ponebat, id est species
incorporeas substantiasque constantes, et per se ab aliis naturae ratione
separatas, ut hoc ipsum homo quibus participantes caeterae res homines uel
animalia fierent. At uero Aristoteles nullas putat extra esse substantias sed
intellectam similitudinen. plurimorum inter se differentium substantialem genus
putat esse, uel speciem. Nam cum homo atque equus differant rationabilitate
atque irrationabilitate, horum intellecta similitudo efficit genus. Nam
similitudo equi et hominis substantialis in ea est, quod uterque substant; a
est, uterque animatus, uterque sensibilis, quae iuncta efficiunt animal, est
animal namque substantia animata sensibilis. Igitur hominis atque equi
similitudo est animal, quod est genus. Rursus cum Plato atque Cicero numero
accidentibusque distarent, horum similitudo, quae est humanitas intellecta
atque animo formata, species est. Ergo communitas quaedam et plurimorum inter
se differentium similitudo notio est, cuius notionis aliud genus est, aliud
forma. Sed quoniam similium intelligentia est omnis notio, in rebus uero
similibus necessaria est differentiarum discretio, idcirco indiget adhuc notio
quadam enodatione ac diuisione, uelut ipse intellectus animalis sibi ipse non
sufficit. Nam mox animus ad aliquod animal, id est uel hominem uel equum,
deducitur inquirendum, et hominis notio uel ad Tullium, uel ad Platonem, uel ad
quemlibet singularium personarum refertur. Quae cum ita sint, quoties genus
diuiditur in formas, nullam praetermitti oportebit. Est enim uitium uel
maximum, si qua diuidentem forma praeterrat, ueluti si quis ius diuidere uelit,
in legem, morem atque aequitatem nec esse est partiatur. Nam et lex, et mos, et
aequitas, et singula, et in commune, iuris uocabulo subiecta sunt. Culpat uero
illorum inscitiam qui idem species uel formas putant esse quod partes,
conturbarique eos inscitia dicit, quod res a se plurimum differentes imperite
atque improuide distinguere ac segregare non curant. Sed quoniam de
definitione loquebatur, addit aliam speciem definitionis, quam nos superius
enumerauimus, quae per translationem non proprietatis ueritatisque sed
splendoris atque ornatus ratione perficitur, quod poetarum atque oratorum esse
autumat, quibus luculenta oratio curae est. Huius definitionis exemplum a iure
ciuili Tullius petit, atque se non aliter ab exemplis notioribus Trebatio
recessurum quam si necessitae cogat. Per translationem uero definitio est,
ueluti cum Aquilius, littus definire uolens, dicebat littus esse quo fluctus
eluderet. Hoc eludere ab iis translatum est qui agitatione aliqua, causa lusus,
mouentur. Itemque adolescentia est flos aetatis, id ab arboribus ductum est,
quarum fructus flores praecedunt. Et senectus, uitae occasus, id a die ductum
est, qui desinit esse cum sol occiderit: quae translationes a proprietate
discedunt, et quadum similitudine subiecta signant. Est enim translatio quoties
habentis rei nomen, propter alterius rei similitudinem, a re simili nomen
imponitur, ut motus habet proprium nomen, item lusus suo uocabulo nuncupatur.
Sed qui dicit, qua fluctus eluderet, a similitudine agitationis ad fluctuum
motum uocabulum transfert. Ac de definitionibus quidem disputationem
terminans, ad partitiones transitum facit. Sed nunc tertio uolumini satis est
reliqua in posterum differamus. Explicare non possum, mi Patrici, quantas
saepe in difficillimi operis cursu uires afferat amicitiae contemplatio, cum et
iis studiosius componamus, quos reposito penitus amore diligimus, et placare
cupientibus multa sese rerum copia subministret. Huc accedit quod ut quaeque in
mentem uenerint iniudicata atque etiam incastigata promuntur, quandoquidem apud
cari pectoris secretum nihil est periculi proferre quod sentias. Est igitur mihi,
cum tuam beneuolentiam specto, pronum omne atque, ut ita dicam, uoluptarium,
quod in tuae praescriptum iucunditatis impenditur. Sed cum memet ipse perpendo,
uereor ne imparato muneri par esse non possim, et deficientis culpa in
adhortantis cedat iniuriam. Quo fit ut tibi etiam atque etiam prouidendum sit,
ne, tuis ipse moribus emendatus, nostri alicuius erroris sarcinam feras. Nosti
oblatrantis morsus inuidiae, nosti quam facillime in difficillimis causis liuor
iudicium ferat. Quaeso igitur extremam nostro operi manum communis negotii
studiosus imponas, abundantia reseces, hiantia suppleas, errata reprehendas,
sis postremo nostri laboris tuaeque adhortationis assertor, cum praesertim me
securum peractum reddat officium, te amici pudor dignus possit conuenire, si
displicet. Sed haec alias, nunc operis suscepti tramitem persequamur.
Quoniam locorum in ipsis de quibus quaeritur terminis inhaerentium, alii sunt a
toto, alii a partibus, alii a nota, alii ex affectis, de eo quidem loco qui a
toto est, et in definitione est constitutus, sufficienter disseruit superiore
tractatu. Nunc uero de partium enumeratione dicere instituit, rectam ordinis
uiam scilicet insistens, ut non solum exemplo qualis esset partium enumeratio
perdoceret, uerum ratione quoque ostenderet quomodo partium enumeratione in
argumentationibus esset utendum. [8.33] PARTITIONE TUM SIC UTENDUM EST,
NULLAM UT PARTEM RELINQUAS; UT, SI PARTIRI VELIS TUTELAS, INSCIENTER FACIAS, SI
ULLAM PRAETERMITTAS. AT SI STIPULATIONUM AUT IUDICIORUM FORMULAS PARTIARE, NON
EST VITIOSUM IN RE INFINITA PRAETERMITTERE ALIQUID. QUOD IDEM IN DIUISIONE
VITIOSUM EST. FORMARUM ENIM CERTUS EST NUMERUS QUAE CUIQUE GENERI SUBICIANTUR;
PARTIUM DISTRIBUTIO SAEPE EST INFINITIOR, TAMQUAM RIUORUM A FONTE
DIDUCTIO. [8.34] ITAQUE IN ORATORIIS ARTIBUS QUAESTIONIS GENERE
PROPOSITO, [1108D] QUOT EIUS FORMAE SINT, SUBIUNGITUR ABSOLUTE. AT CUM DE
ORNAMENTIS UERBORUM SENTENTIARUMUE PRAECIPITUR, QUAE VOCANT *SCHEMATA*, NON FIT
IDEM. RES EST ENIM INFINITIOR; UT EX HOC QUOQUE INTELLEGATUR QUID VELIMUS INTER
PARTITIONEM ET DIUISIONEM INTERESSE. QUAMQUAM ENIM UOCABULA PROPE IDEM VALERE
VIDEBANTUR, TAMEN QUIA RES DIFFEREBANT, NOMINA RERUM DISTARE VOLUERUNT.
Sensus huiusmodi est. Rerum quae partibus coniunguntur, aliae quidem paucas sed
facile intelligibiles comprehensibilesque partes habent, aliae uero plures
intellectuque difficiles. In his igitur partibus quae sunt paucae ac facile sub
intelligentiam cadunt, uel maximum uitium est, si partiendo aliquid
relinquatur. In his uero quarum, ut ipse ait, infinitior numerus est et
confusior perspectio, minus uitio sum est, si qua diuidentem pars in
enumeratione praetereat. Fit autem hoc non solum per eas res quae
aliquibus partibus constant, uerum etiam saepe per partes ipsas quas in
distributione partimur, ut si hominis corpus uelimus intellectu ac ratione per
propria membra disiungere, faciemus ita, caput, humeros, manus, thoracem,
uentrem, suras atque pedes. Et quoniam maiores partes sumpsimus ad diuidendum,
idcirco nihil pretermissum esse uidetur; at si minutissimas particulas
persequamur, tum oculi quoque, et labia, et nares, atque aures, earumque partes
persequendae sunt, idque in toto corpore faciendum est, eodemque modo
difficilior erit partitio, cum sit partium numerus infinitior. Saepe etiam, ut
dictum est, res ipsae his partibus iunctae sunt, [1109B] quarum non sit facilis
inspectio, ut si quis stipulationem et iudiciorum formulas partiatur, uel etiam
si figuras loquendi, quae *schemata* Graeci uocant, diuidi nec esse sit. Hic
igitur si quid praetermissum sit, non erit uitium partientis, quia partium
natura multiplex sa pius obtendit errorem. At si quis genus diuidat,
perniciosum est aliquam praeterire formam, quoniam formarum finita quantitas
est. Nam quia semper in contrarium diuiduntur, aut duae sunt semper species
generis, aut tres, et tunc tres, cum ea tertia, quae sumitur, ex contrariorum
permistione perficitur, utsi colorem diuidamus, dicendum est ita. Coloris aliud
est album, aliud nigrum, aliud medium. Idque medium ex albi coloris ac nigri
commistione coniunctum est, quamuis in quamlibet aliam coloris speciem
transferatur, seu purpurei, seu rubri, seu uiridis. Itaque si tale est quod
diuidis, talesque sunt partes quas ad diuisionem sumis, quas non difficulter
intelligentia comprehendas, uitium erit, si quid omiseris, uelut si tutelas
partiaris. Tutela quippe quatuor fere modis est, aut enim per consanguinitatis
gradum est, aut patronatus iure defertur, aut testamento patris tutor eligitur,
aut urbani praetoris iurisdictione formatur, et sunt forsitan plures sed nunc
istae sufficiunt. Hic igitur et paucae partes, et facile comprehensibiles. At
si stipulationum formulas et iudiciorum comprehendere uelis, quoniam multae in
his partes sunt, non erit uitiosum si quid omiseris. In promptu uero est
exemplum partium, quod de tutelis est dictum, magis enim ut genus in formas,
quam ut totum in partes, tutela diuisa est. Nam siue per consanguinitatem
sittutor, siue patronatus iure, siue caeteris modis, integrum tutelae ius
habet, quod in singulis partibus non solet euenire, ut totius integrum capiant
nomen. Sed ut conueniens uideatur exemplum, requirendae sunt tales tutelarum
partes quae iunctae tutelas efficere possint, non quae singulae tutelae nomine
designentur, quod nescio an quisquam iurisperitiae professor tales tutelae
partes ediderit. Merobaudes uero rhetor ita intelligendum putauit, ut id quod
ait, PARTITIONE SIC UTENDUM EST, ut nullam partem praetermittas, de diuisione
dixerit, id est de una parte propositae partitionis. Nam et diuisio et per
membra distributio, partitio nuncupatur; in diuisione enim uitiosum est aliquid
praetermittere, in partitione membrorum minime. Ita exemplum de tutelis, ei
partitioni accommodatum dedit, quae est diuisionis. At si diuisionem
facias, id est formarum a genere partitionem, summum est uitium aliquid
praetermittere, quoniam cum sit finitus formarum numerus, si quid omissum sit,
inscitia praeteritur: ut si oratorias quaestiones in formas diuidere uelimus,
dicemus omnem rhetoricam quaestionem, aut de facto esse, aut de qualitate
facti, aut de nomine. At si locutionum figuras sententiarumque distribuam, non
erit, ut dictum est, uitium, transire aliquid, quandoquidem sententiarum inter
se atque locutionum figuree et multiplices, et uaria ratione diuersa. Hic quoque
figurarum partes non ita uidentur accipi posse, quemadmodum totius sed ut
species generis; unaquaeque enim figurarum quae infinitae sunt, uelut figura,
generalis species est, quod possumus intelligere ex his uerbis rhetorum, ubi de
elocutione tractatur. Nullae namque sunt figurarum partes quae figuras iungant,
ita ut singulae figurae nomen uniuersalis figurae non possint admittere.
Sed obiici nobis potest: Et quomodo infinite sunt figurae, si species
sunt? Sed respondebo leuiter: Elocutione mutata, figuram quoque mutari,
atque idcirco in potestate esse dicentis figuras facere, quas is qui tractat
difficile, antequam fiant, potest agnoscere; hae uero non substantialibus
quibusdam differentiis constituuntur sed potius accidentibus explicantur. Unde
fit ut tum communis nominis in significationes partitio fieri uideatur, cum
figura diuiditur, potius quam generis in species; omnia uero significata
cuiusque nominis diuisione includere, difficile est, quia noua plerumque
finguntur sed ne id quidem rerum ratio permittit. Nam unaquaeque figura
generalis figurae nomine et definitione comprehenditur. Quocumque enim modo
figura definitur, eadem erit definitio etiam uniuscuiusque figurae. Quae res
unamquamque figuram uniuersalis figure speciem esse declarat. Uniuoca enim sunt
species et genus. Sed est illud uerius, partitionem figurarum ad
elocutionem ipsam Tullium retulisse, cuius pars quaedam est figura, non
species. Variis enim multiplicibusque figuris elocutio luculenta contexitur. Si
quis igitur elocutionem partiri uelit in figuras, non genus in species sed
totum secabit in partes. Quae cum ita sint, ex hoc quoque apparet quid intersit
inter diuisionem partitionemque, cum partitio interdum talis sit, ut si quid in
ea praetermissum sit, nihil afferat uitii. Diuisio uero formarum talis est, ut
in ea non queat aliquid sine culpa praeteriri. Quod factum est, ut quia res
differebant, diuersa etiam uocabula rebus inter se distantibus
uiderentur. MULTA ETIAM EX NOTATIONE SUMUNTUR. EA EST AUTEM CUM EX VI
NOMINIS ARGUMENTUM ELICITUR; QUAM GRAECI *ETYMOLOGIAN* APPELLANT, ID EST VERBUM
EX VERBO VERILOQUIUM; NOS AUTEM NOVITATEM VERBI NON SATIS APTI FUGIENTES GENUS
HOC NOTATIONEM APPELLAMUS, QUIA SUNT [1111A] VERBA RERUM NOTAE. ITAQUE HOC
QUIDEM ARISTOTELES *OUMBOLON* APPELLAT, QUOD LATINE EST NOTA. SED CUM
INTELLEGITUR QUID SIGNIFICETUR, MINUS LABORANDUM EST DE NOMINE. [8.36]
MULTA IGITUR IN DISPUTANDO: NOTATIONE ELICIUNTUR EX VERBO, UT CUM QUAERITUR
POSTLIMINIUM QUID SIT -- NON DICO QUAE SINT POSTLIMINI; NAM ID CADERET IN DIVISIONEM,
QUAE TALIS EST: POSTLIMINIO REDEUNT HAEC: HOMO NAVIS MULUS CLITELLARIUS EQUUS
EQUA QUAE FRENOS RECIPERE SOLET -- SED CUM IPSIUS POSTLIMINI QUAERITUR ET
VERBUM IPSUM NOTATUR; IN QUO SERVIUS NOSTER, UT OPINOR, NIHIL PUTAT ESSE
NOTANDUM NISI POST, ET LIMINIUM ILLUD PRODUCTIONEM ESSE VERBI VULT, UT IN
FINITIMO LEGITIMO AEDITIMO NON PLUS INESSE TIMUM QUAM IN MEDITULLIO
TULLIUM. SCAEVOLA AUTEM P. F. IUNCTUM PUTAT ESSE [1111B] VERBUM, UT SIT
IN EO ET POST ET LIMEN; UT, QUAE A NOBIS ALIENATE, CUM AD HOSTEM PERVENERINT,
EX SUO TAMQUAM LIMINE EXIERINT, HINC EA CUM REDIERINT POST AD IDEM LIMEN,
POSTLIMINIO REDISSE VIDEANTUR. QUO GENERE ETIAM MANCINI CAUSA DEFENDI POTEST,
POSTLIMINIO REDISSE; DEDITUM NON ESSE, QUONIAM NON SIT RECEPTUS; NAM NEQUE
DEDITIONEM NEQUE DONATIONEM SINE ACCEPTIONE INTELLEGI POSSE. Post
enumerationem partium recto ordinede notatione perpendit. Notatio igitur est
quoties ex nota aliqua rei, quae dubia est, capitur argumentum. Nota uero est
quae rem quamque designat. Quo fit ut omne nomen nota sit, idcirco quod notam
facit rem de qua praedicatur, id Aristoteles *symbolon* nominauit. Ex notatione
autem sumitur argumentum quoties aliquid ex notatione, id est nominis
interpretatione, colligitur. Interpretatio uero nominis *etymologia* Graece. Latine
ueriloquium nuncupatur; *etymon* enim uerum significat, *logos* orationem. Sed
quia id ueriloquium minus in uso Latini sermonis habebatur, interpretatione
nominis notationem Tullius appellat. Ea est huiusmodi, ut si quaeras quid
est postliminium. In qua quaestione non illud uidetur inquiri quae res
postliminio reuertantur, hoc enim in diuisionem caderet, id est earum omnium
rerum enumerationem quae postliminio redeunt postularet. Velut si ita dicamus:
Post liminio redeunt homo, nauis, mulus clitellarius, equus, equa quae frenos
recipere solet, id est domita, nunc enumeratae sunt res quae postliminio
reuertantur. At cum quod sit ipsum postliminii ius quaeritur, potest ex
ipsius nominis interpretatione cognosci. Postliminio enim redit quisquis captus
ab hostibus ad patriam remeauerit; namque dum captiuitatem hostium putitur, ius
ciuis amittit; ornnia uero iura recipit, si postliminio reuertatur. Ergo ex
notatione nominis ita ius postliminii clarescere potest, ut quia semper post id
significatur quod retro relinquitur, postliminii uocabulo quaedam reuersio
significatur, ut Seruius probat, qui ex aduerbio post uim nominis
interpretatur, reliquem uocabuli partem protractionem esse confirmans; nam in
eo quod est postliminium, ex eo quod post dictum est interpretationem nominis
sumit, liminium uero superuacuo putat esse productum. Ad horum nominum formam, meditullium;
prima enim pars medium significat, Tullium uero nihil. Et legitimum et aeditimum
similiter. In utrisque enim, lex ibi, aedes ibi, aliquid, timum uero nihil
omnino designat. Id uero nomen quod est postliminium, Scaeuola P. filius ex
aduerbio post et limine putat esse compositum, nam quia ad idem limen quod
prius reliquit reuertitur is qui postliminio redit, idcirco ex utrisque
significationibus arbitratur nomen esse compositum. Quaecumque enim a nobis
abalienata ad hostem perueniunt, cum a nostro limine exierint, si post ad id em
limen reuertantur, postliminio redeunt. Quomodo etiam Mancini causa
defendi potest, quem cum populus Romanus ob foedus male dictum dedisset, hostes
eum suscipere noluere? qui cum reuersus esset, postliminio rediisse uidebatur.
Idcirco quia si cum hostes recepissent deditum a ciuibus, etiamsi quo modo ab
hostibus effugisset, non uideretur postliminio regressus qui iudicio ciuium
omni libertatis iure fuisset exutus; sed quoniam neo deditio, neo datio, neo
donatio, praeter acceptionem uidetur posse consistere, idcirco qui non sit
susceptus, ne deditus quidem intelligi possit. Recte ergo Mancinus qui non
deditus in hostium, si ea uti uellent, peruenerat potestatem, is cum in patriam
remeauit, iure postliminio rediisse defensus est. SEQUITUR IS LOCUS, QUI
CONSTAT EX EIS REBUS QUAE QUODAM MODO AFFECTAE SUNT AD ID DE QUO AMBIGITUR;
QUEM MODO DIXI IN PLURES PARTES DISTRIBUTUM. CUIUS EST PRIMUS [1112C] LOCUS EX
CONIUGATIONE, QUAM [GRAECI] *SYZYGIAN* UOCANT, FINITIMUS NOTATIONI, DE QUA MODO
DICTUM EST; UT, SI AQUAM PLUVIAM EAM MODO INTELLEGEREMUS QUAM IMBRI COLLECTAM VIDEREMUS,
VENIRET MUCIUS, QUI, QUIA CONIUGATA VERBA ESSENT PLUVIA ET PLUENDO, DICERET
OMNEM AQUAM OPORTERE ARCERI QUAE PLUENDO CREVISSET. Cum locum qui ipsis
de quibus quaeritur inhaereret in quatuor differentius supra distribuit, a
toto, ab enumeratione partium, a nota, ab affectis, quoniam diligenter de
superioribus tribus paulo ante tractauit, nunc quartum locum, id est affecta,
persequitur. Et quoniam locus ab affectis in plurimas differentias soluebatur,
quarum prima a coniugatis proposita est, primum loquitur de coniugatis.
Quae multum a notatione non differunt. Nam qui notatio ex ui nominis trahitur,
itemque coniugatio similitudine uocabuli continetur, aliquod inter se ueluti
confinium tenent. Sed hoc interest, quia notatio expositione nominis, coniugatio
similitudine uocabuli ac deriuatione perficitur. Et quoniam facilis et
intellectu et tractatu locus est, tantum ponere sufficit exemplum, quod est
huiusmodi: Aqua pluuia est quae pluendo colligitur et crescit. Pluendo uero
atque pluuia coniugata sunt. In uno enim eodemque uocabulo diuersus nominum
terminus differentiam facit. Item: ius est aquam pluuiam arceri, id est, ut si
in alicuius agro pluuia aqua colligatur, et in alterius agrum defluat, eaque
uicini frugibus nocitura concrescat, arceat eam suis finibus ille qulid sua
putat inter esse ne defluat. Si fluuius igitur pluuia creuerit, quaeritur an
debeat arceri, respondet, inquit, Mutius, quoniam aqua pluuia a pluendodicta
sit, fluuium quoque, qui pluendo creuerit, aquam esse pluuiam, atque arceri deberi.
CUM AUTEM A GENERE DUCETUR ARGUMENTUM, NON ERIT NECESSE ID USQUE A CAPITE
ARCESSERE. SAEPE ETIAM CITRA LICET, DUM MODO SUPRA SIT QUOD SUMITUR, QUAM ID AD
QUOD SUMITUR; UT AQUA PLUVIA ULTIMO GENERE EA EST QUAE DE CAELO VENIENS CRESCIT
IMBRI, SED PROPIORE, IN QUO QUASI IUS ARCENDI CONTINETUR, GENUS EST AQUA PLUVIA
NOCENS: EIUS GENERIS FORMAE LOCI VITIO ET MANU NOCENS, QUARUM ALTERA IUBETUR AB
ARBITRO COERCERI ALTERA NON IUBETUR. Talis generum specierumque
intelligitur esse natura, ut cum colliguntur uel etiam diuiduntur, ab indiuiduis
per species et genera usque ad maxima generapossitascendi, itemque a maximis
generibus per infra posita genera usque ad indiuidua ualeat esse descensus. Id
uero uno clarum fiet exemplo. Cicero quippe indiuiduum est, huius species homo,
huius genus animal, huius superius genus est corpus animatum, et si longius
ascendas, corpus alterius genus inuenies, si prolixius egrediare, substantia
ultimi loco generis occurrit. Cum igitur multa sint genera, si cuiuslibet
speciei genus assignandum sit, non nec esse erit, inquit, maxima et principalia
genera semper exquirere, uerum eorum quoque aliquid quae in medio locata sunt
oportebit adhibere, illa tamen ratione seruata, ut semper genus superius sit eo
ad quod praedicatur ut genus. Extrema quippe inscitia est, si dum genus semper
natura speciebus propriis superponatur, loco generis id quod est inferius
collocetur. Quocirca uitiosum est, si quis corporis genus dicat esse corpus
animatum. Quo fit ut si ad speciem aptandum est genus, eorum quae superiora
sunt aliquid aptemus, et non erit nec esse ultimum semper genus adhibere, ut si
homini genus proprium praeponere uolimus, non necesse est ut substantiam
praeponamus sed uel corpus, uel corpus animatum, uel quod maxime fieri oportet
animal. Illa enim semper genera sumenda sunt, quaecumque proxima formis
adhaerent, eaque in definitione maxime requiruntur. Sed in
argumentationibus nihil differt utrum proximum eligas, an superius genus. Nam
quoniam ex continenti fit argumentatio, plus continet id quod est superius
genus. Quocirca si de homine aliquid ambigitur, et a genere argumentanrii
sumitur locus, quidquid de animali dicetur, id etiam de homine praedicabitur.
Quo fit ut si quid etiam de animato corpore praedicetur, idem etiam de homine dici
possit. Ut igitur argumentationes ex proximis generibus fiunt, ita etiam ex
alterius constitutis. Sed in his omnibus illud est quod maxime
considerandum uidetur, ne id quod est inferius superiori praeponatur ut genus.
Et sententia quidem talis est. Quod uero ad exemplum attinet, declarabitur hoc
modo: Sit aqua pluuia ea quae deiecta de caelo imbri colligitur, huius species
duplex est; alia enim aqua plouia nocens est, alia non nocens. Nocentis quoque
duplex species est, alia manu, alia uitio. Sed aqua pluuia manu nocens est,
quae ita loco aliquo excipitur, inde profluens uicino noceat, si locus is non
sit naturaliter talis sed manu hominis excipiendae aquae fuerit apparatus;
uitio uero, quoties naturaliter ita sese locus habet, ut excipere aquam possit et
nocere uicino. Si igitur eius aquae quam quis arceri uelit, ne sibi noceat, a
uicino genus uelit exquirere, non nec esse est ab ultimo usque genere deducere,
ut nicat aquae eius quam quis uelit arceri genus esse aquam pluuiam sed potest
id quod inquirit genus paulo inferius inuenire, ut huius aquae quam arceri
desiderat id genus esse dicat, quod est aqua pluuia nocens. Quod si genus
proximum quaerat, illud poterit adhibere quod est aqua pluuia manu nocens, hoc
enim arceri quis cogitur quod manu fit noxium. Quod uero loci forma uel uitio
incommoditatis aliquid apportat, arcere non cogitur. Quod autem diximus,
eius aquae quam arceri oporteat genus esse quam pluuiam manu nocentem, ita
intelligendum est, si aqua quae arceri debet plurima sub se habet indiuidua et
similia, tunc enim demum eius aquae quae arceri debet, aqua pluuia manu nocens
genus esse poterit. Quod si aqua quae arceri dehet in nulla indiuidua
diducatur, ipsa est indiuidua, nec est eius genus aqua pluuia nocens manu sed
species. Quod si cui paululum uidetur obscurius hic si eos commentarios quos de
genere, specie, differentia, proprio, atque accidenti, composuimus, libris quinque
digestos inspexerit, nihil horum poterit incurrere quo caliget. COMMODE
ETIAM TRACTATUR HAEC ARGUMENTATIO QUAE EX GENERE SUMITUR, CUM EX TOTO PARTIS
PERSEQUARE HOC MODO: SI DOLUS MALUS EST, CUM ALIUD AGITUR ALIUD SIMULATUR,
ENUMERARE LICET QUIBUS ID MODIS FIAT, DEINDE IN EORUM ALIQUEM ID QUOD ARGUAS
DOLO MALO FACTUM INCLUDERE; QUOD GENUS ARGUMENTI IN PRIMIS FIRMUM VIDERI
SOLET. Dictum est quemadmodum genus ad speciem debeat aptari, atque in eo
praescriptum est ut nisi id quod est superius adhiberi non debeat. Nunc illud
adiungitur, quemadmodum eius loci, qui a genere ducitur, in argumentatione
commodior usus esse possit. Quotiescumque enim de re aliqua dubitatur, si,
facta generis alicuius diuisione, sub aliqua eius generis parte id de quo
ambigitur potuerimus includere, tunc a genere tractum esse argumentum uidetur
hoc modo: Sit dolus malus, quando aliud agitur, aliud simulatur. Huius ergo si
species diuidantur, et id quod factum esse arguimus alicui earum specierum quae
a dolo malo deductae sunt potuerimus adiungere, quidquid de dolo malo
existimabitur, idem etiam de ea re quani arguimus nec esse est iudicari, et
factum est argumentum a genere. Nam de quo quaeritur species est, et id a quo
sumitur argumentum genus est, scilicet ut si ita contingit dolus malus.
Locus uero hic ab eo qui est a partium enumeratione diuersus est. Nec si
enumeramus partes, id est formas aut species, idcirco non a genere sed ab
enumeratione partium ducitur argumentum. Quoties enim ipsa partium enumeratione
utimur ad argumentationem, tunc ab eadem partitione argumentum tractum esse
dicimus, ut hoc modo: Si fundamenta, et parietes, et tectum habet, et
habitationi est destinatus locus, domus est. Ipsa igitur partitione utentes,
domum esse probauimus. Quoties uero sub genere aliquid collocandum est,
diuisisque partibus alicui eorum quae a genere deducuntur id de quo quaeritur
aggregamus, ut hoc modo: Si Ciceronem animal esse monstremus, dicemus ita: Omne
animal aut rationale est, aut irrationale; sed Cicero rationalis est, animal
igitur est: non partitione utimur principaliter ad argumentum constituendum sed
idcirco genus diuisimus, ut in unaqualibet diuisione id quod nitebamur ostendere
posset includi, id est ut id de quo dubitatur in assumpti continentia generis
redigeretur, itaque de eo per generis naturam fides fieret. Sic ergo a genere
facta argumentatio iure dicetur. Amplius ita partium enumeratio totius
efficere substantiam solet, siue illud uniuersale sit ut genus, siue partium
coniunctione completur ut totum. At uero haec diuisio generis in cuius partes
quaelibet illa res de qua contenditur includenda est, non id efficit, ut totius
substantia constituatur sed ut illud quod approbare quaerimus intra genus
collocetur. Quem argumentationis modum imprimis M. Tullius ualidum esse
confirmat. Illa enim regula satis uera est atque necessaria: Quae de
genere praedicantur, eadem de specie modis omnibus praedicari.
Illud uero quaeri perutile est, cum aliquid de particularibus rebus probetur ex
superposita proxima specie, ut si Socratem rationalem esse approbemus, quoniam
sit homo, cum sit homo rationalis, utrum ex genere an ex forma argumentum
ductum esse arbitremur. Nam si dicamus ex genere, ultima species genus esee non
potest; si ex specie, superpositum genus semper species probare desiderat.
Socrates uero cui fidem praestat homo, quoniam rationalis est, genus hominis
non est sed dicendum est quoniam uelut a genere tractum uidebitur argumentum.
Nam exgenere quasi ex continenti atque ampliori, et de substantia fides
praedicati ducitur: quam sortem ad sua indiuidua speciem nemo dubitat obtinere,
nam et continet ea, et de eorum substantia praedicatur. SIMILITUDO SEQUITUR,
QUAE LATE PATET, SED ORATORIBUS ET PHILOSOPHIS MAGIS QUAM VOBIS. ETSI ENIM
OMNES LOCI SUNT OMNIUM DISPUTATIONUM AD ARGUMENTA SUPPEDITANDA, TAMEN ALIIS
DISPUTATIONIBUS ABUNDANTIUS OCCURRUNT ALIIS ANGUSTIUS. ITAQUE GENERA TIBI NOTA
SINT; UBI AUTEM EIS UTARE, QUAESTIONES IPSAE TE ADMONEBUNT. SUNT ENIM
SIMILITUDINES QUAE EX PLURIBUS COLLATIONIBUS PERVENIUNT QUO VOLUNT HOC MODO: SI
TUTOR FIDEM PRAESTARE DEBET, SI SOCIUS, SI CUI MANDARIS, SI QUI FIDUCIAM
ACCEPERIT, DEBET ETIAM PROCURATOR. HAEC EX PLURIBUS PERUENIENS QUO UULT
APPELLATUR INDUCTIO, QUAE GRAECE *EPAGOGE* NOMINATUR, QUA PLURIMUM EST USUS IN
SERMONIBUS SOCRATES. [10.43] ALTERUM SIMILITUDINIS GENUS COLLATIONE
SUMITUR, CUM UNA RES UNI, PAR PARI COMPARATUR HOC MODO: QUEM AD MODUM, SI IN
URBE DE FINIBUS CONTROVERSIA EST, QUIA FINES MAGIS AGRORUM VIDENTUR ESSE QUAM
URBIS, FINIBUS REGENDIS ADIGERE ARBITRUM NON POSSIS, SIC, SI AQUA PLUVIA IN
URBE NOCET, QUONIAM RES TOTA MAGIS AGRORUM EST, AQUAE PLUVIAE ARCENDAE ADIGERE
ARBITRUM NON POSSIS. EX EODEM SIMILITUDINIS LOCO ETIAM EXEMPLA SUMUNTUR,
UT CRASSUS IN CAUSA CURIANA EXEMPLIS PLURIMIS USUS EST, QUI TESTAMENTO SIC
HEREDES INSTITUISSET, UT SI FILIUS NATUS ESSET IN DECEM MENSIBUS ISQUE MORTUUS
PRIUS QUAM IN SUAM TUTELAM VENISSET, HEREDITATEM OBTINUISSENT. QUAE
COMMEMORATIO EXEMPLORUM VALUIT, EAQUE VOS IN RESPONDENDO UTI MULTUM
SOLETIS. FICTA ENIM EXEMPLA SIMILITUDINIS HABENT VIM; SED EA ORATORIA
MAGIS SUNT QUAM VESTRA; QUAMQUAM UTI ETIAM UOS SOLETIS, SED HOC MODO: FINGE
MANCIPIO ALIQUEM DEDISSE ID QUOD MANCIPIO DARI NON POTEST. NUM IDCIRCO ID EIUS
FACTUM EST QUI ACCEPIT? AUT NUM IS QUI MANCIPIO DEDIT OB EAM REM SE ULLA RE
OBLIGAVIT? IN HOC GENERE ORATORIBUS ET PHILOSOPHIS CONCESSUM EST, UT MUTA ETIAM
LOQUANTUR, UT MORTUI AB INFERIS EXCITENTUR, UT ALIQUID QUOD FIERI NULLO MODO
POSSIT AUGENDAE REI GRATIA DICATUR AUT MINUENDAE, QUAE *HYPERBOLE* DICITUR,
MULTA ALIA MIRABILIA. SED LATIOR EST CAMPUS ILLORUM. EISDEM TAMEN EX
LOCIS, UT ANTE DIXI, ET [IN] MAXIMIS ET MINIMIS QUAESTIONIBUS ARGUMENTA DUCUNTUR.
De similitudinis loco plene aeque expedite disseruit, omnemque aperuit
intellectum, similitudinum diuidens formas, praescripsitque apertissime quibus
magis ex similitudine argumenta contingerent, id est philosophis atque oratoribus;
et enim similitudo persuasionibus uidetur aptissima. Nam quod in unam uel
plures extra eam de qua quaeritur causam cadere solet, facile credi potest in
eam quoque de qua ambigitur conuenire. Idcirco ex similitudine tractae
argumentationes magnum oratoribus usum praestant, philosophis quoque, quoniam
non in omnibus quaestionibus demonstratione utuntur sed aliquoties uerisimilia
colligunt, quo id facilius persuadeant quod nituntur ostendere, similitudo
rerum saepe est inquirenda atque idcirco locus a similitudine oratoribus maxime
philosophisque conducit, non tamen solis. Omnes enim loci communes sunt
cuiusque materiae sed in aliis uberius incidunt, in aliis angustius
inueniuntur. Quocirca cognitis atque ante perceptis locis quaestiones ipsae
quae tractabuntur quibus locis uti debeat solertem animum poterunt
admonere. Omnis uero similitudo duplex est: aut enim ex pluribus
similitudo colligitur, et inductio nuncupatur, quod Graeci *epagoge* nominant,
aut singulae res per similitudinem comparantur. Ac prior quidem huiusmodi
est: Si tutor fidem praestare debet, si socius, si cui mandaueris, si qui
fiduciam acceperit, debet etiam procarator. Nam cum in pluribus rebus fides
praestari debeat, unaque similitudo sit in fide praestanda tam in tutore quam
socio, atque eo cui mandatum sit, eoque qui fiduciam acceperit, debet eadem
similitudo procuratori etiam conuenire. Fiduciam uero accepit cuicumque res
aliqua mancipatur, ut eam mancipanti remancipet, uelut si quis tempus dubium
timens amico potentiori fundum mancipet, ut ei cum tempus quod suspectum est
praeterierit reddat; haec mancipatio fiduciaria nominatur, idcirco quod
restituendi fides interponitur. Hac similitudinis collectione plurimum Socrates
esse usus dicitur, ut in Platonis aliorumque eius sectatorum uoluminibus
inuenitur. Quoties uero una res uni rei per similitudinem comparatur, hoc
modo colligitur argumentum. Regendorum finium arbitri esse dicuntur, qui
finalia litigia discernunt, ut si fuerit de finibus orta contentio, eorum
dirimatur arbitrio. Sed fines in agrorum tantum limitibus esse dicuntur,
arbitri autem finiam regendorum in ciuitate esse non poseunt. Item arceri aquam
in agris tantum dici solet, ubi si ex aliquo loco aqua pluuia colligatur, et
defluens in campos uicini pascua frugesue corrumpat, arbitri arcendae aquae a
magistratibus statuebantur. Quaeritur ergo an in urbe arcendae quae arbitrium
possimus adigere. Et argumentum capitur ex similitudine. Si regendorum finium,
quia solius agri sunt, in urbe arbitrum adigere non possis, ne aquae quidem
arcendae, quia solorum esse uidetur agrorum, in urbe arbitrum possis adigere.
Hic igitur una res uni rei similitudine coniuncta est. Ex eodem etiam
similitudinis loco illa sumi Cicero proponit quae uocantur exempla, ueluti
Crassus in causa Curiana, quae fuit huiusmodi: Quidam praegunutem uxorem
relinquens scripsit haeredem posthumum, eique alium substituit secundum, qui
Curius uocabatur, ea conditione, ut si posthumus, qui intra menses decem proximos
nasceretur, ante moreretur quam in suam tutelam peruenisset, idem ante obiret
diem, quam testamentum iure facere posset, secundus haeres succederet; quod si
ad id tempus peruenisset quo, iam firmo iudicio in suam tutelam receptus, iure
ciuili instituto posset haerede defungi, secundus haeres, id est Curius, non
succederet quae uocatur substituto pupillaris: quaesitum est an ualeret ita
instituta ratio. Crassus, igitur multa protulit exempla, quibus ita institutis
haeres obtinuisse haereditatem, quae exemplorum commemoratio iudices
mouit. Dicit etiam ipsos quoque iurisconsultos uti saepius exemplis,
ueluti cum fingitur, id est imaginatur, propositio, ut casus de quo agitur per
similitudinem intelligatur, hoc modo: Si quis enim iurisperitus adiiciat id quod
non iure contractum est nullius esse momenti, adhibeatque exemplum tale, uelut
si quis rem non mancipi mancipauerit, num idcirco aut rem alienauit, aut se reo
facto potuit obligasse? minime, quod enim non iure contractum est nil retinet
firmitatis. Et alia huiusmodi apud iurisperitos inueniuntur, in quibus oratores
maxime ualent, quibus etiam in tantum fingere licet, ut eorum ratione etiam
mortui saepe ab inferis excitentur, quod Tullius in ea facit oratione qua
Caelium defendit. Sed latior, inquit, est illorum campus, id est oratorum,
quibuss patiari ac deuagari licet: nec idcirco minus caeteris quoque
facultatibus similitudines prosunt, quoniam eadem argumenta maximis minimisque
causis conueniunt; quo fit ut loci quoque argumentorum diuersarum artium quaestionibus
accomodentur. SEQUITUR SIMILITUDINEM DIFFERENTIA REI MAXIME CONTRARIA
SUPERIORI; SED EST EIUSDEM DISSIMILE ET SIMILE INVENIRE. EIUS GENERIS
HAEC SUNT: NON, QUEMADMODUM QUOD MULIERI DEBEAS, RECTE IPSI MULIERI SINE
TUTORE AUCTORE SOLVAS, ITEM, QUOD PUPILLO AUT PUPILLAE DEBEAS, RECTE
POSSIS EODEM MODO SOLVERE. Eiusdem facultatis est similitudines
differentiasque cognoscere; qui enim scit quid sit idem, nosse poterit quid sit
diuersum. Omnis uero similitudoidem aliquid esse constituit, quod enim idem est
secundum qualitatem, id simile esse necesse est. Omnis quippe res aut
substantia eaedem sunt, aut qualitate, aut caeteris praedicamentis. Quod si ita
est, et animus [1118B] intelligere hoc idem in pluribus praedicamentis potest.
Sed eam hoc ipsum idem in praedicamentis notat, eodem modo in eisdem
praedicamentis quod diuersum est intuetur; sed simile idem est, differentia
uero diuersum. Idem igitur animus eademque intelligentia similitudinem
differentiamque cognoscit. Differentiarum uero multae sunt species, aliae
quippe sunt substantiales, ut homini rationale, aliae non substantiales sed
inseparabiles, ut nigrum Aethiopi atque coruo; aliae uero mobiles neque
constantes, ut sedere, stare, et huiuscemodi caeterae quibus et ab aliis
hominibus et a nobis ipsis saepe distamus. Item differentiae aliae aliquo modo
sunt generum diuisibiles, aliae aliquo modo specierum constitutiuae; sed si a
constitutiuis argumentum ducatur, uelut a genere ducitur. Nam sicut genus
continet speciem, ita differentiae continent species. Sane si differentiae
constitutiuae ut genera intelligentur, fides ab his ad ea aptabitur quae
constituunt. Haec enim talium differentiarum ueluti formae quaedam sunt. Sin
uero sint diuisibilis, siquidem ad ea probanda, id est genera, quae diuidunt,
earum ducitur fides, a forma argumentum fieri uidetur, nam tales differentiae
eorum quae diuiduntur formae quaedam sunt. Quod ei ad ea probanda
referuntur quae in contrariam partem genus diuidunt, tunc proprie a differentia
fieri argumentum uidetur, quia contrariae ueluti differentiae
comparantur. Quod uero ad exemplum attinet Tullii huiusmodi est: Mulieres
antiquitus perpetua tutela tenebantur, pupilli item sub tutoribus agunt; sed
mulieribus si quid debitum fuisset, sine tutoris auctoritate poterat solui,
pupillis uero minime. Ergo si quaeratur an id quod debeatur pupillo cuilibet,
renuente tutore, possit exsolui, a differentia sumitur argumentum, sic: Non
sicut mulieri sine tutoris auctoritate debitum possis exsoluere, eodem modo,
nisi auctoritas tutoris accesserit, pupillo soluere quod debeas possis; illas
enim perpetua tutela, etiam prouecta iam aetate, continentur, illorum tutelae
certus annorum numerus terminum facit; atque idcirco solui pupillo sine
auctoritate non poterit. Differt enim persona mulierum a persona pupillorum,
uel in eo quod pupilli non perpetua reguntur tutela, mulieres uero perpetua;
uel quod pupillus nullum suae rei administrandae utilitatis iudicium habere
potest cum sit aliquis mulieribus etsi non firmus, in explicanda familiaris rei
utilitate delectus. DEINCEPS LOCUS EST QUI E CONTRARIO DICITUR. CONTRARIORUM
AUTEM GENERA PLURA; UNUM EORUM QUAE IN EODEM GENERE PLURIMUM DIFFERUNT, UT
SAPIENTIA STULTITIA. EODEM AUTEM GENERE DICUNTUR QUIBUS PROPOSITIS OCCURRUNT
TAMQUAM E REGIONE QUAEDAM CONTRARIA, UT CELERITATI TARDITAS, NON DEBILITAS. EX
QUIBUS CONTRARIIS ARGUMENTA TALIA EXISTUNT: SI STULTITIAM FUGIMUS, SAPIENTIAM
SEQUAMUR ET BONITATEM SI MALITIAM. HAEC QUAE EX EODEM GENERE CONTRARIA SUNT
APPELLANTUR ADVERSA. SUNT ENIM ALIA CONTRARIA, QUAE PRIVANTIA LICET
APPELLEMUS LATINE, GRAECI APPELLANT *STERETIKA*. PRAEPOSITO ENIM 'IN' PRIVATUR
VERBUM EA VI, QUAM HABERET SI 'IN' PRAEPOSITUM NON FUISSET, DIGNITAS
INDIGNITAS, HUMANITAS INHUMANITAS, ET CAETERA GENERIS EIUSDEM, QUORUM
TRACTACTIO EST EADEM QUAE SUPERIORUM QUAE ADVERSA DIXI. NAM ALIA QUOQUE
SUNT CONTRARIORUM GENERA, VELUT EA QUAE CUM ALIQUO CONFERUNTUR, UT DUPLUM
SIMPLUM, MULTA PAUCA, LONGUM BREVE, MAIUS MINUS. SUNT ETIAM ILLA VALDE
CONTRARIA QUAE APPELLANTUR NEGANTIA; EA *APOPHATIKA*; GRAECE, CONTRARIA
AIENTIBUS: SI HOC EST, ILLUD NON EST. QUID ENIM OPUS EXEMPLO EST? TANTUM
INTELLEGATUR, IN ARGUMENTO QUAERENDO CONTRARIIS OMNIBUS CONTRARIA NON
CONVENIRE. Diuisio, differentiae loco, nunc de contrariis tractat. Quare
uti rerum ordo clarius colliquescat, pauca mihi ex Aristotele sumenda sunt quae
ille uir omnium longe doctissimus de hac diuisione tractauit, quanquam M.
Tullius re quidem Aristoteli fere consentit sed ab eo nominum interpretatione diuersus
est. Nam quae Aristoteles opposita, id est *antikeimena* uocat, ea Tullius
contraria nominat; sed haec paulo posterius. Nunc Aristotelis diuisio
consideretur. Oppositorum igitur secundum Aristotelem alia sunt contraria, alia
priuatio et habitus, alia relatiua, alia contradictoria. Contraria quidem, ut
album atque nigrum; habitus uero et priuatio, ut uisus et caecitas, dignitas et
indignitas; relatiua uero, ut pater, filius, dominus, seruus; contradictioria,
ut est dies, non est dies: horum omnium tales inter se differentiae
considerantur. Nam quae contraria sunt, partim mediata sunt, partim uero
medio carent. Mediata sunt, ut album, nigrum, est enim horum medius quilibet
alius color, ut rubeas uel pallidus, et horum contrariorum non nec esse est
alterum semper inesse corporibus. Neque enim omne corpus aut album aut nigrum
est; sed aliquoties in horum medietate est constitutum, ut sit rubrum uel
pallidum. Immediata uero contraria sunt quorum nihil medium poterit inueniri,
ut grauitas et leuitas: horum enim nihil est medium. Nam quae leuia sunt,
sursum feruntur, quae grauia, deorsum. Quod autem sit corpus quod neque sursum
neque deorsum feratur, nihil poterit inueniri. Sed immediata contraria talia
sunt, ut allerum eorum accidere semper inhaereat, ut in propositio superius
exemplo. Necesse est enim omne corpus uel leue esse uel graue, quia
leuitas et grauitas medium non habent, quod praeterea inesse corporibus
possit. At ea quae in priuatione et habitu sunt, ut caecitas et uisus,
distant quidem ab his contrariis quae claudunt aliquam medietatem, quod ipsa
medietatem non habent; ab his uero contrariis differunt quae sunt immediata,
quoniam horum contrariorum alterum semper subiecto inesse est, ut corpori
grauitatem uel leuitatem; priuationem uero et habitum non semper, ut cum sit
habitus quidem uisus, priuatio autem caecitas, non omne quod uideri potest, aut
uidet, aut caecum est: infans quippe nondum editus neque uidet, quia nondum
processit in luce, neque caecus est, quia nondum habuit uisum, quem potuisset
amittere. Idem de catulis dici potest, qui statim nati nequeunt intueri, nam
tunc eos nec caecos dicere possumus, nec uidentes. Et postremo contraria semper
in suis qualitatibus considerantur; priuationes autem, non quod ipsae sint
aliquid sed ex habitus absentia colliguntur neque enim caecitas est aliquid sed
a uisus intelligitur abscessu. Tam uero priuatio quam contrarietas
differt a relationis oppositione, eo quod neque contraria, neque priuatoria
simul esse possunt; idem enim in uno eodemque tempore, uno eodemque in loco
album et nigrum, uidens et caecum esse non poterit; sed relatiua a se nequeunt
separari, neque enim potest esse filius sine patre, nec seruus, si dominus non
sit. Amplius, contraria ad se et priuatoria non referuntur. Nemo enim dicit
album nigri, uel nigrum albi, uel caecitatem uisus, uel uisum caecitatis. Quae
uero in relatione sunt posita in ipsa relationis praedicatione consistunt, ut
duplum dimidii, dominus serui, et caetera ad hunc modum. Tam uero
contraria quam etiam relationes differunt a contradictionibus, quoniam
contradictiones quidem semper in oratione consistunt, et in altera earum parte
ueritas, in altera falsitas inuenitur, contraria uero priuatoria et relationes
in simplicibus partibus orationis inuenitur et in his neque ueritas neque
falsitas inest. Nam cum dico album, nigrum, caecitas, uisus, dominus,
seruus, simplices orationis partes sunt, neque uerum, neque mendacium
continentes; in simplicibus enim partibus orationis ueritas uel falsitas nulla
est: cum autem dico dies est, dies non est, utraeque propositiones, una in
affirmatione, altera in negatione posita, orationes sunt. Sed M. Tullius
non tam propriis nominibus quam notioribus utitur; ait enim contrariorum alia
esse quae aduersa uocantur, alia quae priuantia, alia quae in comparatione
sunt, alia quae aientia et negantia nuncupantur. Sed quae contraria nominat,
opposita uerius dicerentur; quae aduersa dicit, contrariorum melius susciperent
nomen; quae in collatione nominat, ea relatiua uel ad aliquid certius
uocarentur: sed utatur nominibus ut uolet, dum res ipeae certa proprietatis
suae ratione signentur; nos uero in caeteris quos edidimus libris eo
nuncupauimus modo, quo superius in Aristotelis dictum est diuisione. Secundum
M. Tullium igitur contrariorum alia sunt aduersa, ut sapientia, stultitia; alia
priuantia, ut dignitas et indignitas; alia quae cum aliquo conferuntur, ut
duplum, simplum; alia quae appellantur negantia, e contrario aientibus
constituta, ut si hoc est, illud non est. Aduersa igitur sunt quae, sub
uno genere posita, plurimum differunt, ut album, nigrum, quae a se plurimum
distant sub uno genere posito, id est sub colore. Item celeritati tarditas
aduersa est, positis utrisque sub motu, neque enim celeritati debilitus
opponenda est, quia debilitati firma ualetudo contraria est, quod in diuisione
omisit Cicero sed docuit exemplo; illa quoque dicuntur aduersa, quae, in
diuersis generibus sita, plurimum a se discrepare intelliguntur, ut sapientiae
stultitia. Illa enim sub genere boni est, haec uero sub mali, quamquam
huiusmodi exemplum priuationem potius spectare uideatur; nam stultitia priuatio
est sapientiae, nec quidquam est aliud stultitia nisi sapientiae et rationis
absentia; sed quae sint quae priuantia Cicero appellat, posterius demonstrabo.
Ex his aduersis hoc modo sumitur argumentum. Si stultitiam fugimus, sapientiam
sequamur; si bonitatem appetimus, malitiam fugiamus, quanquam malitia quoque,
secundum eumdem modum qui superius dictus est, priuationibus possit
adiungi. Priuantia uero secundum Ciceronem sunt, quae Graece *steretika*
appellantur, quae habent eam partem orationis praepositam, quae cum fuerit
adiecta, semper fere aliquid demit ut ea in praepositio; haec enim syllaba cui
fuerit apposita, demit fere aliquid ex ea ui quam esset res quaelibet habitura,
si in syllabam praepositam non haberet, ut humanitati inhumanitas: in namque
praeposita id de quo dicitur humanitate priuauit, ut dignitas, indignitas; et
Tullius quidem ea tantum priuantia esse confirmat, in quibuscumque syllaba ista
praeponitur: priuantium quippe natura secundum Tullium huius syllabae
commemoratione finitur; a Peripateticis uero accepimus priuationes cum
simplicibus nominibus, tum priuatoriis syllabis efferri, cum simplicibus
norninibus, ut caecitas, cum priuantibus uero syllabis, ut indignitas,
inhumanitas. Quocirca, secundum M. Tullium, caecitas non erit priuatio uisus sed
ei aduersum, atque idcirco forsitan stultitiam inter aduersa numerauit, quoniam
non habet in syllabam ex qua priuationes arbitrantur existere. Ex quibus
eodem modo, ut in superius positis aduersis, argumenta ducuntur: Inhumanitalem
auersemur, si humanitas consectanda est. Illa uero contraria, ut ait
Tullius, quae cum aliquo conferuntur, talia sunt, ut duplum simpli. Id
tantumdem est tanquam si diceret duplum dimidii simplum enim dupli dimidium
est, et pater filii; eaque sunt semper reciprocantia, aliquoties quidem septimo
casu, aliquoties uero genitiuo, nam filius patris est filius et pater filii,
haec secundum genitiuum conuersio est, et duplum simplo duplum est, haec
secundum septimum casum; sunt etiam quae accusatiuo, ut pauca ad multa, et
magnum ad paruum. Item negantia sunt quae in affirmationibus et
negationibus posita sunt, ut si hoc est, illud non est, ueluti si dies est, nox
non est, atque hanc oppositionem Cicero ualde dicit esse contrariam. Ex
quibus omnibus secundum superius dictum modum argumentorum facultas est, nam ex
relatiuis contrariis ita sumimus argumentum si pater est, fieri non potest quin
ei filius sit. Ex negantibus autem quae *apophatika* (ut ait) Graeci uocant,
ita: Si sol supra terram fuit, nox esse non potuit haec enim affirmatio
illam perimit negationem; cur uero haec negantia esse constituerit mirandum
est. Nam quae negantia sunt aientibus opponuntur, et simul esse non possunt, ut
diem esse ac diem non esse, hoc uero consequens est cum ita dicatur, si hoc
est, illud non est, ut si dies est, nox non est. Atque affirmationem
negationemque Tullius ualde dicit esse contrariam sed in hac consequentia
nequeunt csse contraria: nam quod est consequens, contrarium non est.
[11.50] AB ADIUNCTIS AUTEM POSUI EQUIDEM EXEMPLUM PAULO ANTE, MULTA ADIUNGI,
QUAE SUSCIPIENDA ESSENT SI STATUISSEMUS EX EDICTO SECUNDUM EAS TABULAS
POSSESSIONEM DARI, QUAS IS INSTITUISSET CUI TESTAMENTI FACTIO NULLA ESSET. SED
LOCUS HIC MAGIS AD CONIECTURALES CAUSAS, QUAE VERSANTUR IN IUDICIIS, VALET, CUM
QUAERITUR QUID AUT SIT AUT EUENERIT AUT FUTURUM SIT AUT QUID OMNINO FIERI
POSSIT. AC LOCI QUIDEM IPSIUS FORMA TALIS EST. ADMONET AUTEM HIC LOCUS,
UT QUAERATUR QUID ANTE REM, QUID CUM RE, QUID POST REM EVENERIT. "NIHIL
HOC AD IUS; AD CICERONEM" INQUIEBAT GALLUS NOSTER, SI QUIS AD EUM QUID
TALE [1122C] RETTULERAT, UT DE FACTO QUAERERETUR. TU TAMEN PATIERE NULLUM A ME
ARTIS INSTITUTAE LOCUM PRAETERIRI; NE, SI NIHIL NISI QUOD AD TE PERTINEAT
SCRIBENDUM PUTABIS, NIMIUM TE AMARE VIDEARE. EST IGITUR MAGNA EX PARTE LOCUS HIC
ORATORIUS NON MODO NON IURIS CONSULTORUM, SED NE PHILOSOPHORUM QUIDEM.
[12.52] ANTE REM ENIM QUAERUNTUR QUAE TALIA SUNT: APPARATUS COLLOQUIA LOCUS
CONSTITUTUM CONVIVIUM; CUM RE AUTEM: PEDUM CREPITUS, STREPITUS HOMINUM, CORPORUM
UMBRAE ET SI QUID EIUS MODI; AT POST REM: PALLOR RUBOR TITUBATIO, SI QUA ALIA
SIGNA CONTURBATIONIS ET CONSCIENTIAE, PRAETEREA RESTINCTUS IGNIS, GLADIUS
CRUENTUS CAETERAQUE QUAE SUSPICIONEM FACTI POSSUNT MOVERE. Qui sit
ab adiunctis locus breui superius monstrauit exemplo, eo scilicet quo dixit: Si
secundum mulieris nunquam capite diminutae tabulas possessio bonorum daretur,
consequens esss ut secundum quoque puerorum et seruorum tabulas possessio
permitteretur. Sed nunc formam ipsam et quasi subiectum loci monstrare
proponit, quae est huiusmodi: Ab adiunctis enim locus est, cum ex eo quod
proponitur aliquid aliud uel esse, uel fuisse, uel futurum esse argumentatione
colligitur, ut in eo ipse quod dudum posuit exemplo. Approbatur enim non debere
secundum mulieris nunquam capite diminutae tabulas bonorum possessionem dari,
quia si id fuerit positum, id futurum est, ut secundum puerorum quoque ac
seruorum tabulas honorum possessio permittatur. Talia uero sunt quae dicuntur
adiuncta, ut circa rem fere quae quaeritur inueniantur, neque tamen nec esse
sit ei semper adhaerere; et forma quidem huius loci talis est, ut hanc quoque
definitionem possit admittere. Ab ad iunctis locus est cum ex aliquibus, quae
sunt proxima eis de quibus quaeritur rebus, id quod quaeritur uel inesse, uel
esse, uel futurum esse monstratur. Qui locus est coniecturalibus causae,
maxima necessarius. Cum enim de facto quaeritur, tum si id factum est quod
dubitatur, qui uel fuerit, uel sit, uel futurum sit, considerari solet: multa
enim sunt quae unicuique adiuncta rei uariorum euentu temporum colliguntur.
Idcirco enim quid ante rem, quid cum re, quid post rem euenerit, in
coniecturalibus causis inquiritur, quae ab oratoribus tractantur solis, neque
iurisconsultis in huiusmodi [1123B] negotiis cum rhetorica facultate ulla
communio est, iuris enim peritus de facti qualitate, non etiam de ipsius facti
ueritate respondet. Idcirco quoties ad Gallum peritum iuris facti quaestio
deferebatur, NIHIL AD NOS inquiebat, et ad Ciceronem potius consulentes, id est
ad rhetorem remittebat. In quo Tullius facere ad Trebatium locum miscuit
dicens: Quanquam locus hic ab adiunctis coniecturalibus causis maxime utilis,
nihil consultorum iuris prudentiam iuuet, patiere me tamen, inquit, nullam
suscepti operis partem praeterire, ne si in hoc libro nihil praeter tuae artis
exempla conscripsero, tuae tantum gratiae uideatur addictus. Ab adiunctis
uero locus qui non modo iurisconsultis sed ne philosophis quidem praeter
oratores non patet, trium saepe temporum ratione tractandus est. Nam de facto si
quaeritur, quid uel ante id, uel cum eo, uel post id fuerit nec esse est
uestigari. Ante rem quidem hoc modo, apparatus; uerisimile est enim effecisse
aliquem quod ante efficiendum parauit, colloquia fieri enim potuit ut amauerit,
qui saepe fuerit collocutus. LOCUS, uelut cum ad aliquid faciendum
opportunus locus eligitur. CONSTITUTUM CONVIVIUM, uelut si quis
constituto ante conuiuio in eo fecisse aliquid arguatur capiaturque coniectura
facti, ex eo ipse quod sit conuiuium constitutum, atque horum omnium ante rem
de qua quaeritur exempla sunt. Cum re uero hoc modo: Pedum crapitus, uelut si
isse in quempiam locum aliquis accusetur, pedum crepitu deprehensus esse
probabitur; uel si fuisse adulter in cubiculo ex umbra corporis designetur,
haec cum ipsis de quibus quaeritur inspecta, eisdem tamen intelliguntur
adiuncta. Post rem uero, si quas conscientiae maculas pallor, rubor,
titubatioque prodiderit: restinctus ignis, uelut si clam factum aliquid
exstincto igni uelimus ostendere, ut tutius notitiam submouentibus tenebris
committeretur. Item gladius cruentus peractum facinus monstrat. Haec omnia post
rem facto intelliguntur adiuncta. Et semper ante rem cum re, et post rem,
secundum rationem temporum intelligendum est, neque ita ut in antecedentibus et
consequentibus. Illic enim naturae ratio consideratur. Omnia quippe simul sunt:
nam quod antecedit, si positum sit, statim est id quod consequitur, ut si ponas
hominem statim animal esse nec esse est, nec ante secundum tempus homo dici
potest, post uero subsequi animal, ut ante aliquis apparatus est secundum
tempus, posterior effectus. Itaque illic antecedentia et consequentia
nominantur, hic ante rem, cum re, et post rem. Idcirco quod illud quidem, non
secundum tempus, sed secundum principalitatem naturae secum simul aliquid
trahentis antecedens dicitur, consequens id quod antecedens comitatur. Ea uero
quae secundum temporis priorem posterioremue rationem considerantur, adiuncta,
idcirco ante rem, cum re et post rem coepere uocabulum. DEINCEPS EST
LOCUS DIALECTICORUM PROPRIUS EX CONSEQUENTIBUS ET ANTECEDENTIBUS ET REPUGNANTIBUS.
NAM CONIUNCTA, DE QUIBUS PAULO ANTE DICTUM EST, NON SEMPER EVENIUNT;
CONSEQUENTIA AUTEM SEMPER. EA ENIM DICO CONSEQUENTIA QUAE REM NECESSARIO
CONSEQUUNTUR; ITEMQUE ET ANTECEDENTIA ET REPUGNANTIA. QUIDQUID ENIM SEQUITUR
QUAMQUE REM, ID COHAERET CUM RE NECESSARIO; ET QUIDQUID REPUGNAT, ID EIUS MODI
EST UT COHAERERE NUMQUAM POSSIT. Expedito adiunctorum loco, nunc de
antecedentibus et consequentibus et repugnantibus disserit. Qui locus sit unus
in tria uelut membra diuisus est. M. quidem Tullius loci huius uocabulum
tacuit, mihi autem totus conditionalis appellandus uidetur. Cuius cum
promptissime natura claruerit, nomen quoque ei, quod nos posuimus, recte
inditum manifestius apparebit. Primum igitur singularum partium definitio
prodenda est. Itaque antecedens est, quo posito aliud nec esse est consequatur:
itemque consequens alicuius est, quod esse nec esse est, si illud cuius est
consequens praecessisse constiterit. Repugnans est quod simul cum eo cui
repugnare dicitur esse non possit. Antecedentium igitur, atque
consequentium, et repugnantium, unum esse locum praediximus, qui quomodo sit
unus, paucis ostendam. Primum igitur dum quaereretur quonam modo unus esset
locus a consequentibus, antecedentibus et repugnantibus, dicebatur quoniam
eiusdem mentis esset atque intelligentiae tam consentanea sibimet quam
dissidentia praeuidere, idcirco hunc quoque locum unum uideri. Consentaneorum
namque duae sunt partes, antecedens una, altera consequens. Nam cum altero
praecedente comitatur alterum, illa sibi in ipsa naturae consequentia
consentire necesse est. Repugnantium uero tametsi duae partes sint, unum tamen
est utriusque uocabulum, utraque enim repugnantia nominantur. Duae uero esse,
quae sibimet repugnent, atque a se dissentiant nullus ignorat; sed eo distant,
quod antecedentium et consequentium duo sunt nomina, licet unus sit utriusque
consensus; repugnantibus uero unum nomen est, cum sit unus in utrisque
dissensus, ergo eadem mens, eademque intelligentiae ratio id quod praecedit et
id quod comitatur, intelligit. Neque enim fieri potest ut antecedens
aliquid intelligatur, nisi in eodem quid sit consequens consideretur: eodem
quoque modo nec consequens, nisi appareat quid praecedat; item repugnans
aliquod intelligere nemo potest, nisi intelligat cui repugnet: sed quoniam
eadem ratio potest similia dissimiliaque perspicere, antecedentium uero et
consequentium consensus quidam et per naturae similitudinem concordia est,
dissensus uero in repugnantibus dissimilitudo, nec esse est ut una atque eadem
ratio antecedentium consequentiumque naturam et repugnantium spectet; quo fit
ut unus quoque locus sit eorum quae una intelligentia comprehendit. Sed
huic opponebatur: Cur igitur alium ex similitudine, alium ex contrario locum
Marcus Tullius superius enumerauit? Nam secundum propositam rationem, quoniam
similitudinem et contrarietatem intelligentia una perpendit, unus locus similium
contrariorumque esse debuisset. Sed respondebatur quoniam non eodem modo sibi
antecedentia et consequentia consentire dicuntur, sicut ea qum similia
nuncupantur. In his namque una tantum qualitas inuenitur, et secundum eamdem
qualitatem similia esse dicuntur; at in antecedentibus et consequentibus non
qualitatis similitudo sed quidam naturae consensus est. Et quae similia sunt
sine se esse possunt, antecedentia uero et consequentia sine se esse non
possunt, atque idcirco non uidetur esse consequentium et antecedentium cum
similitudine ulla communio naturae. Quae ratio non ualde uidentur idonea, nec
explicat quod demonstrare conabatur. Illud certe firmissimum esse
constat, quod huius loci tractatus conditionalibus semper propositionibus
accomonodaretur. Conditionalis uero propositio est quae cum conditione
pronuntiat esse aliquid, si aliud fuerit, ueluti cum dicimus: Si dies est,
lucet. Haec igitur rerum consequentia facile in repugnantiam uertitur.
Nam si rebus consequentibus negatio interponatur, ex consequentibus repugnantia
redduntur, hoc modo: Si dies est, lux est. Repugantia sunt
ita: Si dies est, lux non est repugnant enim diem esse et lucem non
esse. Quae repugnantia in conditione consistit. Dicimus enim: Si dies est,
lux non est nam diei contrarium est nox. Consequens uero noctis, lucem
non esse , quare esse diem et non esse lucem repugnat. Argumentum uero
est, hanc repugnantiam in conditione consistere, quia si conditio deficiat,
nulla est repugnantia, hoc modo: Dies est Lux non est utraeque
enim disiunctae propositiones suas sententias gerunt, nec quidquam intelliguntur
habere commune, atque ideo diuersis acceptae temporibus uerae sunt, nec
repugnant. Nam sicut in his propositionibus, dies est, lux est, nulla est
consequentia, quoniam conditio deest, quae propositionem facit connexam sed
utraeque a se disiunctae suam sententiam claudunt, ita in his quibus
proponitur, dies est, lux non est nulla est repugnantia, quoniam seruat suam
utraque separata sententiam. At si his conditio interueniat superiorum quidem,
ita sententia copulatur, ut consequentes fiant, posteriorum uero ita ut
repugnantes, hoc modo: Si dies est, lux est. Haec consequens
propositio ex duabus per conditionem mediam effecta est una. At si sit ita, si
dies est, lux non est, repugnat. Negatum enim quod sequitur repugnare necesse
est. Amplius, argumentum quod ex antecedentibus et consequentibus fit ex
unius propositionis connexae partibus nascitur, nam conditionalis propositionis
connexae una pars est antecedens, alia consequens. Quod si a repugnantibus
argumentum fiat, rursus ab unius propositionis membris tale argumentum nasci
oportebit. Igitur ex his propositionibus, dies est, lux est, una esse non
potest nisi a conditione copulentur, ut unum sit antecedens, aliud consequens,
et ideo in his ex antecedenti et consequenti argumentum esse non potest, quoniam
duae sunt ex illis quoque propositionibus quae sunt, dies est, lux non est: una
esse non poterit, nisi conditionis adiunctione in unius quodammodo
propositionis sententiam reducantur cuius propositionis partes sunt
repugnantes. Nam, ut in connexa propositione una pars antecedens, alia est
consequens, ita in repugnanti utraque pars propositionis a semet inuicem
repugnat ac dissidet. Amplius: repugnans propositio connexae partem
contrariarm tenet, nam ut in illa quod antecedit secum id quod sequitur trahit,
ita in hac propositione partes simul esse non possunt. Contrariae uero
differentiae sub eodem genere poni solent. Si igitur connexa propositio in
conditione est constituta, repugnans quoque in conditione subsistit; quod si et
consequentiam propositionum et repugnantiam conditio facit, non est dubium quin
locus hic iure conditionalis uocetur, ac sit unus positus in conditione diuisis
partibus, id est in antecedentem consequentemque et repugnantem. Connexaeque
namque propositionis una pars antecedens est, alia consequens. Repugnantis uero
propositionis utraque repugnatae dissidet. Itaque connexae propositionis partes
antecedens et consequens sunt, repugnantis uero repugnantes. Nec illud
intelligentiam turbet quod dies est et lux est quadam sibi ratione consentiunt.
Item dies est et lux non est, quasi a se dissentiunt atque discordant, nam
connexa est propositio si cum aliud antecesserit, aliud consequatur. Item
repugnans, si uno posito aliud inferatur, quod esse non potest nisi id ius
conditionis efficiat. Quocirca aperte demonstratum esse arbitror conditionalem
hunc locum uocari et recte unum esse a M. Tullio constitutum. Quomodo uero fiat
ab antecedentibus et consequentibus et repugnantibus argumentum, posterius
dicam. Sed quoniam nullius facultatis alterius est, quid uel quamque rem
consequitur, uel quid cuique repugnet inspicere, nisi dialecticae tantam, quae
huius quam maxime rei perititiam profitetur, idcirco ait hunc esse locum totum
dialecticorum. Qui etiam ab adiunctis longe lateque diuersus est. Primum
quod adiuncta prodere sese atque ostendere inuicem poesunt, non uero perficere
atque adimplere naturam, ueluti ambulationem pedum strepitus significare quidem
ac denuntiare potest, efficere uero non potest. Neque etiam ambulationem efficit
pedum strepitus, nec uero ex neccssitate ambulatio ut sit pedum strepitus
auctor est sed saepe ita ambulatur, ut nullus pedum strepitus exaudiatur; saepe
non mulato loco moueri pedes ac strepere praeter ambulationem queunt; idcirco
non semper inueniunt ad iuncta: propositoque termino quem probare contendimus,
saepe ex adiunctis argumenta deficiant, quia ipsa quoque aliquoties deficere
uidentur adiuncta. Praecedentia uero et consequentia et repugnantia numquam
desunt omne enim quidquid in rebus est, habet quod se aut sequatur naturaliter,
aut praecedat. Est etiam a quo per naturae diuersitatem dissideat, uelut animal
sequitur quidem hominem, praecedit uero substantiam; dicimus enim: Si homo
est, animal est substantiam uero praecedit, cum proponimus, si animal est,
substantia est. Repugnat uero mortuo cum enuntiamus, si animal est,
mortuum non est. Praeterea quae sunt adiuncta temporibus distributae
sunt, ut ante rem, cum re, post rem. Quae uero sunt antecedentia, consequentia,
et repugnantia, quomodolibet modo in temporibus sint, nihil refert. Nam priora
saepe temporibus comitantur, et temporibus posteriora praecedunt, et quae simul
temporibus sunt, alias praecedunt, alias uero consequuntur, ut superius quoque
saepe diximus. Amplius, quae antecedentia sunt et consequentia relinquere
sese non possunt, nec sibi repugnantia cobaerere, et sunt repugnantia
necessario sibimet inconnexa; quae uero sunt adiuncta nihil obtinent
necessitatis, quia et iungi sibimet, et a se separari queunt. Quae cum
ita sint, quaestio difficilis uehementer oboritur, uidetur enim minus
intuentibus nihil hic locus differre his locis qui dicti sunt uel a genere, uel
a specie, uel a contrariis. Nam genus semper speciem sequitur, speciem genus
praecedit, contraria simul esse non possunt. Quae soluenda est hoc modo:
Primum quia non omne consequens genus est, nec omnis species antecedens.
Repugnantia uero ipsa contraria sed contrariorum sunt consequentia, ut in
locorum qui a M. Tullio propositi sunt expositione monstrauimus. De hinc quia
cum a genere fit argumentum, ipsum genus assumitur, eodem quoque modo et
species, cum ab ea aliquid uolumus approbare, cum uero ab antecedentibus
aliquid monstrare contendimus, eo quod in conditionali propositione praecessit
utimur in assumptione, etiamsi non fuerit genus. Item si a consequenti
argumentum fiat, etiamsi species non sil, a consequenti parte conditionalis
propositionis ducitur argumentum, ueluti cum ita dicimus: Si ignis est, leuis
est, ignis anteoedit, leuitas sequitur; sed neutrum neutri est genus aut species,
assumitur itaque, atqui ignis est. Nunc igitur id quod antecedebat assumpsi, ex
quo monstratur conclusio, leuis igitur est. At si ita assumamus sed non est
leuis, id quod consequebatur assumpsi. Concluditur ergo atque monstratur, non
est igitur ignis. Vides igitur ut de his praecedentibus etconsequentibus
nunc biquamur quae in conditionali propositione posita, uel praecedere uel
consequi intelliguntur. Cum uero fit ex genere argumentum, species quidem est
de qua aliquid probare contendimus; genus uero assumimus non quasi praecedens
sed quasi continens, ut quidquid esse consideratur in genere, id formae quoquo
debeat aptari. Genus enim quoad permanet, a sua specie non recedit: cum uero de
specie sumimus argumentum, genus quidem est de quo aliud quaeritur; sed id
laboramus, ut quod de genere conamur ostendere, id ex specie possit facilius
agnosci. Ut cum uxori Fabiae relictum fuisset legatum, si materfanilias esset,
quoniam non conuenit in manum, scilicet, ab in manus conuentione, quae est
species uxoris, uxorem quod est matris familiae genus a legati iure seiungimus,
et legatum ad speciem, id est matremfamilias deriuamus. Sed illud interius
dispiciendum uidetur, num locus ab antecedentibus et consequentibus totus
superuacaneus esse uideatur, cum quolibet modo fuerint ex eo argumenta
composita, a caeteris locis quos superius deseripsimus non recedant. Nam
quodcumque ab antecedentibus et consequentibus ducitur argumentum, id uel a
toto, uel a partibus, uel a coniugatis, uel ab aliquo reliquorum tractum esse perpenditur
hoc modo: Si utilis est acquitas constituta ad res suas obtinendas, utile est
ius ciuile, ad id quod praecedit, quod sequitur igitur, hoc est a definitione
argumentum, scilicet ab assumptione praecedentis. At si ita dicam: Sed non est
utile ius ciuile, non est igitur utilis aequitas constituta ad res suas
obtinendas, hic per consequentis assumptionem a definitionis loco sumptum est
argumentum. Item a partium enumeratione, si neque censu, neque caeteris non est
liber, at censu uel caeteris, est igitur liber: at non est liber; neque censu
igitur, neque caeteris manumissus est. Sed notandum est quae sit uis
uniuscuiusque argumenti, et quonam modo proferatur. Sunt enim argumenta quae
predicatiuis apta sint syllogismis ut a definitione fiat sic: ius ciuile est
aequitas constituta his qui eiusdem sunt ciuitatis ad res suas obtinendas. Id
uero utile est, utile est igitur ius ciuile. Item a partibus: Qui neque censu
neque uindicta, neque testamento est manumissus, hic ex seruitute liber factus
non est; Stichus uero neque testamento, neque censu, neque uindicta manumissus
est; Stichus igitur liber non est: et in caeteris, eodem modo. Omnia uero
quaecumque per categoricum syllogismum proferri possunt, eadem per
conditionalem syllogismum dici queunt. Omnis namque praedicatiua propositio in
conditionalem uerti potest, hoc modo: omnis homo animal est, praedicatiua est;
haec facile uertitur in conditionalem ita, si homo est, animal est. Non uero
omnis conditionalis in praedicatiuam uerti potest, uelut haec: si peperit, cum
uiro concubuit. Nemo enim dicere potest ipsum peperisse, id esse quod cum uiro
concumbere, quo modo dicimus hominem, id esse quod animal sit. Alia enim
ratio est in his propositionibus quae ita dicuntur, quae peperit, cum uiro
concubuit. Haec enim similis est ei quae dicit, si peperit, cum uiro concubuit
sed praedicatiua propositio id esse subiectum dicit, quod fuerit praedicatum.
Conditionalis uero id ponit, ut si id quod antecedens fuerit necessario
comitetur quod subsequitur. Cum uero praedicatiua est propositio, si ea
uertetur in conditionalem, alia nimirum redditur propositio. Nam cum dicitur,
omnis homo animal est, ipse homo animal esse proponitur; cum uero, si homo est,
aninial est, non id sentitur, ut ille qui homo est, animal sit sed proposito
esse hominem, consequi ut sil animal. Ergo conditionalis syllogismus in
antecessione et consecutione positus, licet per definitionem, et per partium
enumerationem, et per coniugationem, et quolibet alio fiat modo, tamen in
propria forma se continet, et est conditionalis, id est utens propria potestate,
ut quodammodo caetera argumenta suae ueluti naturae uideatur habere subiecta.
Ut cum sit a definitione argumentum, si quidem per praedicatiuam formam factus
fuerit syllogismus, a definitione ductum esse dicatur. Sin uero per hypothesin
facta fuerit argumentatio, conditionalis fit syllogismus, quem discernat
assumptio, utrum ab antecedentis, an a consequentis parte promatur. Quo fit ut
etiamsi per caeteros locos conditionale argumentum proferatur, tamen suam
quamdam habeat formam, quandoquidem in antecessione et consecutione est
constitutus. Tunc enim definitio, partes, coniugatio, et caetera ueluti res
ipsa, fiunt ac non locus, cum uenerint in conditionem; at si conditio cesset,
ex ipsis profectum uidebitur argumentum. Quod si propositionem conditio
copulauerit, ipsa quidem ea sunt quae in propositionibus continentur ueluti
quaedam argumenti partes, locus uero in conditione est constitutus. Atque
haec ita dicta sunt, quasi aliter conditionalis hic locus tractari non ualeat, nisi
eorum aliquem quos praediximus includat: nam potest praeter eos etiam saepe
reperiri, ut cum dicimus: si homo est, risibilis est; si coruus est, niger est.
Hic enim nec definitionem, nec partes, nec ullum alium locum superius enumeratum
continet argumentum. Amplius, facile est in singulis eorum differentias
praeuidere: locus quippe a toto a substantia trahitur, a partibus uero a rei
compositione. Nam in simplicibus terminis tale argumentum non potest inueniri,
a nota, ab interpretatione; a coniugatis; ab eo quod ex eodem utrumque
deducitur; a genere; a continenti; a forma, ab eo quod continetur; a
differentia, ab eo quod discrepat; a similibus, ab eadem qualitate; a
contrariis, ab eo quod a se longe diuersa sunt; a causis, ab his qui efficiendi
uim habent; ab effectis, ab his quae uim alterius efficientiae susceperunt; ab
adiunctis, a uicinitate naturae; a comparatione maiorum, parium uel minorum; a
relatione, ad aequalem uel inaequalem quantitatem. Ab antecedentibus uero longe
alius modus est: constat enim in eo quod si propositum quid fuerit, aliud
quiddam modis omnibus existet, quod consequens appellatur; huius uero
intelligentia consistit in eo quod praecedente quolibet, aliud subsecutum;
repugnantium uero intelligentia consistit, non modo quod neque sequi, neque
antecedere possunt, uerum etiam quod simul esse non possunt, quae in conditione
consistere dubium non est. His igitur ita expeditis, quoniam M. Tullius
proprietatem loci succincte, ut in transcursu potuit, euidenter expressit, nunc
quibus modis eodem loco uti conueniat, adiungit. Quae Topicorum pars, quoniam
diligentius explananda est, finem quarto uolumini faciam, quinto caetera
redditurus. De omnibus quidem hypotheticis syllogismis, Patrici rhetorum
peritissime, plene abundanterque digessimus his libris, quos de eorum
principaliter institutione conscripsimus, a quibus integram perfectamque
doctrinam, cui resoluendi illa uacuum tempus esi, lector accipiet. Sed quia nunc
Ciceronis Topica sumpsimus exponenda, atque in his aliquorum M. Tullius modorum
meminit, dicendum mihi breuiter existimo de his septem conditionalibus
syllogismis, que eorum natura sit, propositionumque contextio, ut cum haec ad
scientiam rite praelibata peruenerint, Tulliana facilius noscantur exempla.
Omne igitur quod in quaestione dubitatur, aut uerisimilibus aut necessariis
probabitur argumentis. Argumentum uero omne aut in syllogismi ordinem cadit,
aut ex syllogismo uires accipit. Syllogismus uero omnis propositionibus
constat. Propositiones autem uel simplices sunt, uel compositae.
Simplices sunt quae simplicibus orationis partibus coniunguntur. Copulant autem
incompositam propositionem simplices orationis partes, nomen et uerbum, ueluti
cum dicimus, dies est, uel dies uernus est, uel dies serenus est; hic enim
omnem uim propositionis nomen connectit et uerbum. Omnis autem simplex
propositio ex subiecto praedicatoque consistit. Subiectum est de quo dicitur id
quod praedicatur. Praedicatum est quod de eo dicitur quod subiectum est. Verbum
autem aliquoties praedicato nomini adiungitur, aliquoties ipsum praedicatur. Praedicato
nomini adiungitur, ut in hac propositione quae dicit, dies serenus est: dies
enim subiectus est, serenus praedicatus; est uero uerbum sereno adiunctum est,
quod diximus esse praedicatum. At si talis sit propositio, quae solo nomine
constet et uerbo, ueluti cum dicimus, dies est, tunc dies subiicitur, est
uerbum sine dubio praedicatur; sine uerbo autem nulla est propositio: omnis
enim propositio uel uera uel falsa est; nisi autem uerbum sit quodlibet
adiunctum, quo esse aliquid aut non esse dicatur, nulla ueritas aut falsitas in
propositionibus deprehenditur. Saepe autem propositiones etiam ex totis
orationibus constant; ut si dicamus: Transire in Africam utile est Romanis; hic
enim subiectum quidem est transire in Africam, utile autem Romanis praedicatum,
est uero praedicato coniungitur. Huiusmodi igitur omnes propositiones
praedicatiuae dicuntur. Praedicatiuae uero appellantur, quia aliud de alio
praedicant. Omnesque qui ex his propositionibus fiunt syllogismi, secundum
enuntiationum suarum formas praedicatiui appellantur. Ex his autem
praedicatiuis propositionibus existunt compositae propositiones, quarum alia
quidem copulatiua coniunctione nectuntur, ut et dies est, et lux est; alia uero
per conditionem fiunt, quae etiam conditionales enuntiationes uocantur. Hae
uero sunt quae coniunctione quadam partibus interposita ad consequentiam
conditionemque ducuntur. Age enim sint duae propositiones praedicatiuae: una
quidem, quae dicit, animal est; alia uero quae proponit, homo est. His si
coniunctis interueniat, faciet, si homo est, animal est. Vides igitur ut duas
praedicatiuas propositiones in unam conditionem coniunctio copulauerit. Quae
cum ita sint, omnes hae propositiones hypotheticae, id est conditionales,
uocantur, atque ex his syllogismi tales existunt, quibus hypotheticis uel
conditionalibus nomen est. Omnis autem hypothetica propositio, uel per
connexionem fit, uel per disiunctionem. Per connexionem hoc modo, si dies est,
lux est. Per disiunctionem ita, aut dies est, aut nox est. Earum uero quae per
connexionem fiunt, aliae ex duabus affirmatiuis copulatae sunt, ut si dies est,
lux est, namque dies est, et lux est, utraeque aliquid affirmant; aliae ex
duabus negatiuis, ut si lux non est, dies non est, nam lucem non esse, et diem
non esse, utraque negatio est; aliae uero ex affirmatiua negatiuaque coniunctae
sunt, ut si dies est, nox non est; aliae uero ex negatiua affirmatiuaque
copulantur, ut si dies non est, nox est: omnes tamen in connexione positae
sunt. Aut enim affirmatio affirmationem sequitur, aut negatio negationem, eique
connexa est, aut affirmationem negatio, aut negationem affirmatio. Sed ex
connexis repugnantes manifestum esi nasci, namque ubi affirmatio sequitur affirmationem,
his si media negatio interposita sit, repugnantiam facit hoc modo:si dies est,
lax est. Hic affirmatio sequitur affirmationem; at cum dico, si dies est, lux
non est, repugnant inter se partes propostionis connexae, interposita
negatione. Item quoties negatio sequitur negationem, si posteriori
propositionis parti negatiuum dematur aduerbium, repugnantes fiunt hoc modo, si
animal non est, homo non est; haec connexio est ex duabus proposita negatiuis.
At si posteriori parti, id est homo non est, negatiuum detrahatur aduerbium,
fiet, si animal non est, homo est, quod repugnat; at si affirmatio negationem
sequatur, siue posteriori parti negatio iungatur, siue priori auferatur,
repugnantes fiunt, hoc modo, si dies non est, nox est. Hic igitur affirmatio
sequitur negationem. Siue igitur posteriori parti, id est, nox est, negatio
copuletur, ut sit ita, si dies non est, nox non est, siue priori auferatur, ut
sit ita, si dies est, nox non est, repugnantem fieri propositionem nec esse
est. Quod si negatio affirmationem sequatur, et posteriori parti negatiuum
aduerbium subtrahatur, propositionis connexae partes in repugnuntiam cadunt,
hoc modo, si uigilat, non stertit. Hic affirmationem sequitur negatio sed si
posteriori parti, id est, non stertit, negatio dematur, fiet, si uigilat
stertit, et erit repugnans. Sed in connexis atque disiunctis
propositionibus illud intelligendum est, quod in earum partibus et uis
quaestionis includitur et argumenti. Age enim dubitetur an lux sit, idque
approbandum sit ex eo quod dies est. Si igitur ita fiat propositio, si dies
est, lux est, ea quidem pars totius propositionis quae sequitur, id est, lux
est, quaestionis est. De ea namque quaeritur an lux sit. Ea uero quae prior
est, id est, dies est, uim continet argumenti. Ex eo enim quod dies est, lux
esse probabitur, et in caeteris quidem uel connexis, uel disiunctis eadem ratio
est. In omnibus uero his quoniam syllogismus atque argumentatio ad
demonstrandam partem alteram quaestionis accommodatur, quaestio uero omnis
dubitabilis est, oportet syllogismos qui acommodantur ambiguae quaestioni
indubitabiles esse atque perspicuos, qui ut tales sint, ex claris atque apertis
et in ueritate patentibus propositionibus necesse est constent; propositiones
uero partim per se notae sunt, partim aliquibus probationibus indigebunt. Omnis
uero syllogismus enuntiatione proposita habet alicuius partis assumptionem ut
quod est in quaestione concludat, hoc modo: Si dies est, lux est. Ut igitur
lucem esse demonstrem, assumam unam partem propositionis superius constitutae,
dicamque sed dies est, ac tunc demum id quod est in quaestione concludam, lux
est igitur, Ergo cum ad syllogismi conclusionem, et tota enuntiatione in
proponendo, et in assumendo parte enuntiationis utamur, nec esse est ut ea
quibus utimur nil habeant dubitabile, siquidem ex his ea quae sunt ambigua
capient fidem. Quod si propositio aliquoties quidem per se nota est atque
perspicua, uliquoties uero probationis indigens inuenitur, assumptio quoque
aliquoties per se uera esse notabitur aliquoties approbationis indiget
adiumentis. Quo fit ut si et propositio et assumptio demonstrandae sint,
quinquepartitus (ut Cicero etiam in Rhetoricis auctor est) syllogismus fiat,
constans ex propositione eiusque probatione, assumptione, eiusdemque probatione,
et conclusione. Quod si neutra sit approbanda. tripartitus sit, ex propositione
scilicet, assumptione et conclusione. Quod si altera earum demonstranda sit,
fit quadripartitus, ex propositione scilicet, et assumptione, atque unius earum
approbatione et conclusione. Conclusionis uero ipsius probatio praecedente
propositione atque assumptione perfcitur. Quae cum ita sint, cumque omnis
propositio hypotheticam connexionem disiunctionemque diuidatur, in connexis
propositionibus aliud dicimus praecedens, aliud consequens. Idem autem
consequens et connexum uocamus, uelut in hac propositione, si dies est, lux
est. Dies est praecedit, annectitur lux est. In disiunctis autem non est eadem
ratio, quia cum ea quae proponuntur simul esse non possint, nullo modo dicuntur
esse connexa. Praecedens autem et subsequens inde iudicatur, quia quod primum
ponitur, iure antecedens uocatur, quod posterius, iure subsequens
dicitur. Ex his igitur propositionibus, quae connexae sunt, fit primus et
secundus hypotheticorum syllogismorum modus. Addita uero negatione propositioni
connexae et ex duabus affirmationibus copulatae, atque insuper denegata,
tertius accedit modus. Ex disiunctis autem propositionibus diuerso modo
assumptionibus tactis, quartus et quintus. Utrisque uero per negationem
compositis, sextus et septimus. Atque hae septem sunt hypotheticae
conclusiones, quarum M. Tullius in Topicis meminit, quarum omnium deinceps ordo
atque exempla subdenda sunt. Primus igitur modus est, cum in connexa
propositione assumpto eo quod praecedit, uolumus monstrare quod sequitur,
itaque esse oportere, ut est in connexione prolatum. In quo si id quod connexum
est ac sequitur, assumpserimus, nullus omnino fit syllogismus. Huius exemplum
tale est: Si dies est, lucet; si igitur lucere monstremus,
assumamus, nec esse est diem esse, hoc modo, atqui dies est; consequitur ergo
ex necessitate, lucere. Quod si lucere assumamus, itaque dicamus, atqui lucet,
non nec esse est diem esse, atque ideo nulla necessitas euenit conclusionis;
ubi uero nulla necessitas est, ne syllogismus quidem intelligi potest. Est
igitur primus modus in hanc formam: Si dies est lucet; Dies autem
est, Lucet igitur. Inueniuntur tamen in quibus aequo modo ualet
assumptio, siue praecedens, siue subsequens assumatur, ut in homine atque
risibili. Si enim homo est, risibile est; Atqui homo est, Risibile
igitur est. Atqui risibile est, Homo igitur est. Sed in his
haec causa est, quia homo atque risibile aequi sunt termini, atque idcirco uno
posito alterum comitari nec esse est. Sed quia hoc in omnibus non est, idcirco
dicimus non esse uniuersale, ut assumpto posteriore, quod praecedebat
probetur. Secundus uero modus est quoties assumpto posteriore atque
consequenti quod antecesserat aufertur, hoc modo, si dies est, lucet; hic si
assumamus non lucere, contrario modo atque in propositione prolatum est;
assumamus dicentes, atqui non lucet, in eo igitur sequitur non esse diem; quod
si diem negemus, id est quod antecedit in assumptione contrario modo atque
positum est in propositione proferamus, non tollitur quod est connexum, ut si
dicamus, atqui non est dies, non mox sequitur, non lucere, potest enim non esse
dies; et tamen lucere. Est igitur secundi modi forma huiusmodi: Si dies
est, lucet; Atqui non lucet, Non est igitur dies. Primus igitur
modus assumit quod praecessit, ut approbet quod connexam est; non potest uero
assumere quod connexum est, ut approbet quod praecessit. Secundus autem assumit
econtrario quod sequitur, ut quod praecessite uertat; non potest autem
econtrario assumere quod praecessit, ut id quod connexum est auferatur.
Tertius modus est, cum inter partes connexae atque ex duabus affirmationibus
copulatae propositionis negatio interponitur, eaque ipsa negatio denegatur,
quae propositio*hyperapophatike* Graeco sermone appellatur, ut in hac ipsa quam
superius proposuimus, si dies est, lux est; si inter huius propositionis partes
negatio interueniat, fiet hoc modo, si dies est, lux non est; hanc si ulterius
denegemus, erit ita, non si dies est, lux non est: cuius propositionis ista
sententia est, quia si dies est, fieri non potest ut lux non sit. Quae
propositio superabnegatiua appellatur, talesque sunt omnes in quibus negatio
proponitur negationi, ut non est dies, et rursus, Necuon Ausonit Troia gens
missa coloni. In hac igitur si priorem partem, id est diem esse, in
assumptione ponamus, consequitur etiam lucem esse hoc modo: Non si dies
est, lux non est; Atqui dies est, Lux igitur est. Qui modus a
superioribus plurimum distat, quod in eo modo qui sit ab antecedentibus,
ponitur antecedens, ut id quod sequitur astruatur. In modo uero qui sit a
consequentibus, perimitur consequens, ut id quod praecesserat, auferatur. In
hoc uero neutrum est, nam neque antecedens ponitur, ut quod sequitur,
confirmetur, nec interimitur subsequens, ut id quod praecesserat, euertatur;
sed ponitur antecedens, ut id quod sequitur, interimatur. Hic autem
propositionis modus partes inter se suas continet repugnantes, aduersum quippe
est ac repugnat, si dies est, non esse lucem. Sed idcirco rata positio est,
quia consequentium repugnantia facta per mediam negationem alia negatione
destruitur, et ad uim affirmationis omnino reuocatur. Nam quia consequens esse
intelligitur, ac uerum, si dies est esse lucem, repugnat ac falsum est, si dies
est, non esse lucem, quae denegata rursus uera est ita, non si dies est, lux
non est, et si consimilis affirmationi, si dies est, lux est, quia facit
affirmationem geminata negatio. Similiter uero fiunt ex repugnantibus
propositionis partibus argumenta, uel si duabus negationibus, uel si negatione
et affirmatione, uel si affirmatione et negatione iungatur. Quomodo uero fiant
ex talibus connexis repugnantes, superius dictum est. Fit uero ex ea
propositione quae duabus iungitur negatiuis ex repugnantibus argumentum hoc
modo: sit propositio, si non est lux, dies non est; fiat repugnans ita, si non
est lux, est dies; huic iungamus negationem ut fiat uera ita: Non si lux
non est, dies est; Atqui lux non est, Dies igitur non est.
Item fit ex negatione atque affirmatione propositio haec: si dies non est, nox
est; huic additur ex posteriore parte negatio, et fit ita: si dies non est, nox
non est; fit repugnans, haec nihilominus abnuatur ut sit uera, non si dies non
est, nox non est, assumimusque, atqui dies non est concludimus, nox igitur
est. Item ex eadem propositione, quae ex negatiua affirmatiuaque
coniungitur et dicit: si dies non est, nox est, si a priori parte negatio
subtrahatur, fiet repugnans, hoc modo: si dies est, nox est; huic apponatur
negatio, ut uera esse possit, hoc modo: non si dies est, nox est, assumamque,
atqui dies est, concluditur, nox igitur non est. At si sit ex
affirmatione et negatione propositio coniuncta, uelut haec: si uigilat non
stertit, demitur posteriori parti negatio, ut fiat ita: si uiglat stertit; sed
haec repugnat. Tota rursus propositio denegatur, ut fiat uera hoc modo: non si
uigilat stertit; assumimus, at qui uigilat; concludamus necesse est, non
stertit igitur. Sed hae quatuor ex repugnantibus conclusiones in tertio
modo consistere intelliguntur, quarum quidem Tullius tres commemorauit, unamque
praecepto docuit, eam quam propositio talis efficit, quae duabus iungitur
affirmatiuis; duas uero exemplo, scilicet eam quae ex tali propositione
nascitur, quae duae copulant negationes, et eam quae ex propositione tali
connexa procreatur, quae ex affirmatione negationeque consistit. Reliquam uero
praeteriit, quod illarum similitudine etiam haec in tertium conclusionis modum
uidebatur incidere. Quartus modus in disiunctione consistit, hoc modo: Aut
dies est, aut nox est; Sed dies est, Nox igitur non est. Huius
haec ratio est, quia disiunctiua enuntiatione proposita, prior pars eius
assumitur affirmando, ut subsequens auferatur; ex ea enim propositione quae
dicit, aut dies est, aut nox est, assumimus, atqui dies est, scilicet
affirmantes esse diem, quam assumptionis affirmationem consequitur non esse
noctem. Quintus modus est, cum in eadem disiunctiua propositione, id quod
primum est, negando assumitur, ut id quod est posterius inferatur, hoc modo aut
dies est, aut nox est, atqui dies non est, per negationem scilicet facta est
assumptio, consequitur esse noctem. Sextus uero modus ac septimus ex
quarti et quinti modi disiunctiua propositione deducuntur, una negatione
uidelicet adiuncta, et disiunctiua propositione detracta, additaque coniunctiua
his propositionibus quae superius in disiunctione sunt positae, hoc modo: non
et dies est et nox est. Dudum igitur in disiunctiua ita fuit, ut aut dies est,
aut nox est. Ex hac igitur propositione sublata, aut coniunctione, quae erat
disiunctiua adlecimus, et quae copulatiua est, praeposuimusque negationem.
Itaque fecimus ex partibus disiunctiuae propositionis copulatis, addita
negatione, propositionem sexti atque septimi modi, quae est, non et dies est et
nox est, in qua is assumatur esse diem, noctem non esse consequitur ita, atqui
dies est, non est igitur nox. Septimus uero modus est, cum prima pars
prorositionis negando assumitur, ut posterior subsequatur, hoc modo: Non
et dies est et nox est; Atqui dies non est, Nox igitur est.
Atque hic modus propositionum in solis his inueniri potest, quorum alterum esse
nec esse est, ut diem uel noctem, aegritudinem uel salutem, et quidquid medium
non habet. Quo autem modo omnium syllogismorum conditionalium ueritas
sese habeat, his diligentissime expliculmus libris quos de hypotheticis
conscripsimus syllogismis. Nunc uero, non quod de his perfectior consideratio
inueniri potest apposuimus sed id quod ad explanandum M. Tullii sententiam
poterat accommodari. Ut igitur cuncta quae diximus breuiter colligantur,
primus modus est quoties in connexa propositione primum ut in propositione
locatur, assumitur, ut consequatur secundum, hoc modo: Si dies est, lux
est, Atqui dies est, Lux igitur est. Secundus modus est quoties
in connexa propositione secundum econtrario assumitur quam in propositione
collocatum est, ut id quod primum est auferatur, hoc modo: Si dies est,
lux est; Atqui non est lux, Non est igitur dies. Tertius
modus estcum connexa propositionis partes ex affirmationibus iunctae, negatione
diuiduntur, totique propositioni negatio rursus adiungitur, assumiturque, quod
prius est, sicut in propositione est enuntiatum, ut econtrario concludatur
secundum quod in propositione prolatum est, hoc modo: Non si dies est, lux
non est; Atqui dies est, Lux igitur est. Hic ergo posito quod
praecedebat, id est esse diem, euersum est quod sequebatur, id est, non esse
lucem; negatione quippe affirmatio omnis euertit, uel cum connexae
propositionis ex negationibus iunctae, secundae parti negatio detrahitur,
totaque propositio denegatur, positaque priore propositionis parte, interimitur
quod subsequebatur, hoc modo: non si lux non est, dies est, atqui lux non est,
dies igitur non est; uel si connexae propositionis ex negatione atque
affirmatione compositae, secundae parti negatio iungatur, eaque insuper
denegetur, ponaturque quod prius est, ut id quod sequitur auferatur, hoc modo:
non si dies non est, nox non est atqui dies non est, nox igitur est; uel si in
eadem propositione, quae ex negatione atque affirmatione copulata est, priori
parti negatio subtrabatur, eaque insuper denegetur, ponaturque quod primum est,
ut id quod sequitur auferatur, hoc modo: non si dies est, nox est, atqui dies
est, nox igitur non est; uel si connexae propositionis ex affirmatione et
negatione copulatae, posteriori parti denegatio dematur, totaque insuper
denegetur, positoque priore, id quod sequitur interimatur, hoc modo: non si
uigilat sterlit, atqui uigilat, non stertit igitur. Atque haec omnia in
tertio modo esse intelliguntur, atque ex repugnantibus fiunt, et semper id quod
antecedit, ponitur, ut id quod sequitur, auferatur. Nam non sicut non
propositione conditionali quia negata repugnantia partium fit uera, prior pars
ponitur, siue affirmatiue, siue negatiue, ita eam reddit assumptio. Sed ut
prior pars fuerit assumpta, reliqua contraria enuntiatione concluditur. Nam si
assumptio fuerit affi rinatiua, erit negatiua conclusio. Si assumptio negatiua,
erit conclusio affirmatiua. Quartus modus est cum in disiunctiua
propositione primum ponitur, ut auferatur secundum hoc modo: Aut dies
est, aut nox est; Atqui dies est, Nox igitur non est. Quintus
modus est quoties in disiunctiua propositione auferatur quod prius est, ut
ponatur secundum, hoc modo: Aut dies est, aut nox est; Non est autem
dies, Nox igitur est. Sextus modus cum his rebus quae in
disiunctionem uenire possunt, id est contrariis uel repugnantibus medictate
carentibus, negatio praeponitur, et copulatiuae coniunctiones adiunguntur, poniturque
quod primum est, ut id quod est subsequens auferatur, hoc modo: Non et
dies est et nox est; Dies autem est, Nox igitur non
est. Septimus modus est cum in eadem propositione aufertur id quod
praecedit, ut ponatur id quod consequitur, hoc modo: Non et dies est et
nox est; Atqui dies non est, Nox igitur est. His igitur ita
praedictis ad Ciceronis uerba ueniamus. CUM TRIPERTITO IGITUR
DISTRIBUATUR LOCUS HIC, IN CONSECUTIONEM ANTECESSIONEM REPUGNANTIAM, REPERIENDI
ARGUMENTI LOCUS SIMPLEX EST, TRACTANDI TRIPLEX. NAM QUID INTEREST, CUM HOC
SUMPSERIS, PECUNIAM NUMERATAM MULIERI DEBERI CUI SIT ARGENTUM OMNE LEGATUM,
UTRUM HOC MODO CONCLUDAS ARGUMENTUM: SI PECUNIA SIGNATA ARGENTUM EST, LEGATA
EST MULIERI. EST AUTEM PECUNIA SIGNATA ARGENTUM. LEGATA IGITUR EST; AN ILLO
MODO: SI NUMERATA PECUNIA NON EST LEGATA, NON EST NUMERATA PECUNIA ARGENTUM.
EST AUTEM NUMERATA PECUNIA ARGENTUM; LEGATA IGITUR EST. AN ILLO MODO: NON ET
LEGATUM ARGENTUM EST ET NON EST LEGATA NUMERATA PECUNIA. LEGATUM AUTEM ARGENTUM
EST; LEGATA IGITUR NUMERATA PECUNIA EST? Eum locum qui ex antecedentibus,
consequentibus et repugnantibus esset, unum recte uideri, eumque in conditione
esse positum, sed trina partiione distribui, superius explicatum est; idque M.
Tullius euidentius notat dicens, intellectum quidem eius considerationemque in
conditione positam unam esse sed per argumentationis tractationem tripartito
diuidi. Cuius rei per primum ac secundum et tertium hypotheticorum
syllogismorum modum, sicut paulo superius diximus, exempla subiecit. Quae
quoniam implicatiora uidentur quam ut primo statim auditu comprehendantur,
uisum paulisper est apertioribus exemplis animum lectoris imbuere, ut in
facilioribus primum exercitata intelligentia, sine magno negotio, qua sunt
difficiliora perpendat. Ab antecedentibus igitur argumentatio fit,
quoties enuntiata propositionis conditione sumitur id quod antecedit, ut id
quod sequitur inferatur, hoc modo: sit enim dubium an Tullius animal sit,
concedaturque eumdem Ciceronem esse hominem, et sit rata propositio haec:
Tullius si homo est, animal est; homo antecedit, animal sequitur; si igitur ex
antecedenti uelim facere argumentationem, assumam id quod praecedit, hoc modo:
sed homo est Cicero, consequitur animal esse Ciceronem; et est hic primus quem
supra diximus modus. Rursus a consequenti argumentatio fit quoties in
conditione proposita id quod consequitur tollit assumptio, ut id quod
praecesserat interimatur, hoc modo: si homo est Cicero, animal est. Antecedit
homo, sequitur animal. Si igitur ex consequenli facere argumentum uelim, dicam,
atqui non est animal, sequitur ne esse hominem quidem, sed id perspicue falsum
est, esse enim hominem constat falsum est igitur animal non esse. Tullius
igitur animal est; et hic dictorum superius secundus est modus. Quod si a
repugnantibus fiat, in tertio scilicet modo digestarum superius conclusionum,
faciemus ita: non si homo est Tullius, animal non est, repugnat enim esse
hominem et animal non esse; hic si assumamus esse hominem, animal quoque esse, recta
ratione concludimus, hoc modo: atqui homo est, animal igitur est, atque hic
quidem modus ex ea propositione connexa conuersus est, quae ex duabus coniuncta
est affirmatiuis. His igitur tribus modis Tullius qui homo esset, animal
quoque monstratus est esse: nunc quidem dum id quod antecedit assumimus, id est
esse hominem; nunc uero dum id quod consequitur, in assumptione denegamus, id
est non esse animal; nunc autem repugnantiam denegantes eorum quae sibi sunt
consequentia, posito quod praecedebat, id quod sequebatur intulimus.
Quibus ita precognitis, nunc M. Tullii tractemus exempla. Cum enim dixisset
loci in consecutione, antecessione et repuguantia positi, reperiendi quidem
argumenti simplicem esse intellectum, tractandi autem triplicem, adiecit: Nam
quid interest, cum tibi sumpseris ad demortstrandum, pecuniam numeratam mulieri
deberi, cui sit argentum omne legatum, utrum id ab antecedentibus, an a
consequentibus, an a repugnantibus probes? Namque eadem sententia in
conclusione colligitur, et argumentationum diuersitas non in re sed in
antecedenium et consequentium et repugnantium tractatu est constituta.
Primum igitur ponatur quod testamento aliquis omne suum argentum mulieri
legauerit, quaeraturque an numerata quoque pecunia mulieri legata sit,
concedaturque numeratam etiam pecuniam argentum appellari, argumentum igitur in
primo modo ex antecedentibus tali ratione contexitur: proponimus enim sic, si
pecunia signata numerataque argentum est, eadem pecunia signata numerataque
legata mulieri est; hic igitur praecedit numeratam atque signatam pecuniam
argentum esse, sequitur legatam esse mulieri; id igitur quod praecessit
assumimus dicentes: at est signata ac numerata pecunia argentum; concludimus
numeratam signatamque pecuniam mulieri esse legatam, eritque totius argumentationis
hic textus: Si pecunia signata numerataque argentum est, legata mulieri
est; At est pecunia signata numerataque argentum, Igitur legata est
mulieri. In quo si ad saepius praemissa plurimisque exemplis superius
enodata lectoris animus reuertatur, hanc argumentationem in primo modo ab
antecedentibus esse compositam non ignorabit. A consequentibus uero hoc
modo: Si numerata pecunia non est egata mulieri cui sit argentum omne legatum,
numerata peculia non est argentum. Hic igitur praecedit numeratam pecuniam non
esse legatam, cum sit argentum omne legatum; sequitur numeratam pecuniam
argentum non esse. Si igitur id quod est posterius auferamus, id est numeratam
pecuniam non esse argentum, dicemus: Atqui est numerata pecunia argentum,
affirmatio namque tollit negationem. Sequitur igitur ut pars praecedens
auferatur, ea quae erat non esse legatam mulieri pecuniam numeratam, cum
argentum ei fuisset omne legatum. Sed cum sit, omnis negatio affirmatione
consumitur, dicimusque in conclusione: Est igitur numerata pecunia mulieri
legata, cum ei sit argentum omne legatum; eritque huiusmodi argumentatio: Si
non est mulieri legata pecunia numerata, cum ei sit argentum omne legatum,
non est argentum numerata pecunia; Atqui est argentum numerata
pecunia, Legata est igitur mulieri numerata pecunia, cum ei fuerit
argentum omne legatum. Sed quod Tullius breuitatis causa
praeteriit, id est, illam partem propositionis quae ait: Cum sit mulieri
argentum omne legatum, nos apertioris intelligentiae causa subiunximus.
Nec perturbare lectorem debet, quod cum in superioribus exemplis in secundo
modo per negationem facta fuerit semper assumptio, et per negationem rursus
illata conclusio, nunc per affirmationem et assumptio et conclusio facta est.
Cuius rei euidentissima ratio est. Nam cum in superioribus exemplis prima
propositio ex affirmationibus fuerit constituta, atque in secundo modo
assumptio id quod sequebatur auferret, atque interimeret id quod praecedebat,
necessarium erat duplicem affrmationem geminata negatione consumi, hoc modo: Si
dies est, lux est, utraeque ex affirmatione sunt constitutae. Ut igitur
posterior pars, id est lux est, quae affirmatio est, interimatur, deneganda
est. Dicam igitur: Atqui non est lux, quo fit ut praecedentem quoque partem, id
est, dies est, quam affirmationem esse manifestum est, negatione tollamus,
concludentes, dies igitur non est. At in hoc Ciceronis exemplo utraque pars
primae atque hypotheticae propositionis negationibus enuntiata est, quae in
assumptione uel confusione non ab allis nisi ab affirmationibus auferuntur, hoc
modo. Est enim tale Ciceronis exemplum: si legata non est mulieri numerata
pecunia, non est numerata pecunia argentum, uides ut sit utraque negatio? Nam
et non esse legatam mulieri pecuniam numeratam, et non esse numeratam pecuniam
argentum, utraeque in negatione sunt positae; quod si auferenda est per
assumptionem propositionis consequens pars, quoniam negatio est, non esse
numeratam pecuniam argentum, dicendum est argentum esse pecuniam numeratam;
quod si in conclusione auferenda est pars praecedens, ea quae negatio est, id
est, non esse legatam mulieri pecuniam numeratam, dicendum est: Legata igitur
mulieri numerata pecunia est. Et secundus quidem modus rite a consequentibus
factus huiusmodi est. Illud tamen est diligentius adnotandum. quod
superius M. Tullius, cum locorum omnium breuiter exempla disponeret, loci
huius, qui a consequentibus ducitur, inconueniens secundo conditionalium
syllogismorum modo subiecit exemplum, potiusque primo conuenit modo quia non a
consequentibus conclusionem sed ab antecedentibus facit. Ita quippe posuit a
consequentibus, si mulier cum fuisset nupta cum eo quicum connubii ius
concessum non esset, nuntium remisit, quoniam qui nati sunt patrem non
sequuntur, pro liberis manere nihil oportet. Hic igitur cum quaeratur an dotis
pars apud uirum debeat permanere, id quod praecedit assumitur, ut fiat rata
conclusio hoc modo: Sed mulier cum eo nupta est qui cum connubii ius non fuit,
concluditur: Quoniam igitur qui nati sunt patrem non sequuntur, pro liberis
manere nihil oportet, et ita non est a consequentibus argumentum, quia non id
quod consequebatur assumptum est sed id quod praecedebat. Erat quippe
antecedens, nupta mulier praeter connubii ius; sequebatur, cum filii patrem non
sequebantur, pro eis nihil ex dote retineri. Sic igitur Tullius pro eo quod est
a consequentibus argumentum, ab antecedentibus potius dedit exemplum.
Potest uero ita fieri a consequentibus argumentum, si id de quo quaeritur prius
ponatur, et id quod assumendum; est posterius, hoc modo: Si quid ex dote pro
liberis manere oportebit, quia patrem liberi sequuntur, cum eo nupta est mulier
qui cum connubii ius esset. Sumo igitur id quod consequitur per negationem,
ita: Sed non est nupta mulier cum eo quicum connubii ius erat, atque ideo qui
nati sunt, patrem non sequuntur. Perimitur ergo in conclusione id quod in
propositione praecesserat. Ita pro liberis igitur manere nihil oportet.
Sed de secundo modo ista sufficiant, nihil namque, ut arbitror, praetermissum
est. Tertius modus a repugnantibus longe perspicuus hoc modo est: Non et
legatum omne argentum est, et non est legata mulieri pecunia enumerata. Hic
namque consequens erat: Si argentum esset omne legatum, pecuniam quoque
numeratam fuisse legatam; ut igitur fieret repugnans, huic consequentiae
interposita negatio est, dictumque est, si argentum omne legatum esset,
numeratam pecuniam non esse legatam; quod quia pugnat et falsum est, ad
ueritatem alia negatione sic reducitur: Non si legatum argentum est, non est
legata numerata pecunia, ut scilicet ei affirmationi conueniat, quae dicit, si
legatum argentum est, legatam esse pecuniam numeratam. Assumimus igitur huic
propositioni argentum omne esse legatum, et consequitur omne in numeratam
pecuniam mulieri esse legatam, ut sit forma argumentationis huiusmodi:
Non si legatum argentum est, non est legata numerata pecunia; Atqui
legatum argentum est, Legata est igitur numerata pecunia. M. uero
Tullius propositionem ita formauit: Non et legatum argentum est, et non est
legata numerata pecunia. Sed nos idcirco casualem coniunctionem apposuimus eam
quae est "si", ut ex quo esset genere talis propositio monstraremus.
Namque id ex consequenti connexo negatione addita fit repugnans. Connexum uero
nulla aeque ut sit coniunctio posset ostendere, quanquam idem efficiat et
copulatiua coniunctio. Nam quae connexa sunt, etiam coniuncta esse
intelliguntur, ex hoc quod paulo ante diximus, quod argumentum ex ea
propositione profectum est, quae duabus affirmationibus copulabatur, et iuncta negatione
insuper denegata est. In omnibus igitur illud est approbatum, pecuniam
numeratam mulieri deberi, cum sit argentum omne legatum. Sed nunc quidem ex
supradictis propositionibus, id quod antecedebat, assumpsimus; nunc uero, id
quod consequebatur; nunc autem, id quod repugnabat. Ac de explanandis Ciceronis
exemplis, ut arbitror, satis est. Illud autem dubitationem mouere potest: nam
si quis minus callidus ad Ciceronis exempla respiciat, eumdem locum
arbitrabitur esse a genere, quem ab antecedentibus, et consequentibus, et
repugnantibus esse diximus; illo falsus errore, quod in utrisque locis eodem
Cicero utitur exemplo, argenti uidelicet et numeratae pecuniae. Sed diligentius
intuenti, in eisdem rebus diuersus argumentationum uidebitar esse tractatus.
Aliud quippe est dicere, cum argenti species sit numerata; pecunia, si genus
legatum sit, et speciem esse legatam, quoniam nunquam species a genere
separatur, aliud est in conditione enumerationem proponere, et eisdem partibus
assumptis argumentationem uaria ratiocinatione formare, ut superius
demonstratum est, cum praesertim huiusmodi ex consequentibus, antecedentibus et
repugnantibus, argumentationes etiam praeter genera ac species fieri possint,
uelut nos superuns indicauimus in die atque luce. Nam neque dies lucis, neque
lux dici species, aut genus est. Sed id tantum in his considerari debet, quia
posito altero, alterum necessaria ratione subsequitur. Differunt igitur loci a
genere uel a specie ab eo loco qui in conditione est constitutus, quoniam illi ex
uniuersalitatis speciei ac partis ratione ducuntur, hic autem in consequentiae
ac repugnantiae ordine tractatur. Post haec igitur Tullius hypotheticorum
syllogismorum modos conclusionesque dinumerat hoc modo: [APPELLANT AUTEM
DIALECTICI EAM CONCLUSIONEM ARGUMENTI, [1141C] IN QUA, CUM PRIMUM ASSUMPSERIS,
CONSEQUITUR ID QUOD ANNEXUM EST PRIMUM CONCLUSIONIS MODUM; CUM ID QUOD ANNEXUM
EST NEGARIS, UT ID QUOQUE CUI FUERIT ANNEXUM NEGANDUM SIT, SECUNDUS IS
APPELLATUR CONCLUDENDI MODUS; CUM AUTEM ALIQUA CONIUNCTA NEGARIS ET EX EIS UNUM
AUT PLURA SUMPSERIS, UT QUOD RELINQUITUR TOLLENDUM SIT, IS TERTIUS APPELLATUR
CONCLUSIONIS MODUS. EX HOC ILLA RHETORUM EX CONTRARIIS CONCLUSA, QUAE
IPSI *ENTHYMEMATA* APPELLANT; NON QUOD OMNIS SENTENTIA PROPRIO NOMINE *ENTHYMEMA*
NON DICATUR, SED, UT HOMERUS PROPTER EXCELLENTIAM COMMUNE POETARUM NOMEN
EFFICIT APUD GRAECOS SUUM, SIC, CUM OMNIS SENTENTIA *ENTHYMEMA* DICATUR, QUIA
VIDETUR EA QUAE EX CONTRARIIS CONFICITUR ACUTISSIMA, SOLA PROPRIE NOMEN COMMUNE
POSSEDIT. EIUS GENERIS [1141D] HAEC SUNT:HOC METUERE, ALTERUM IN METU NON
PONERE! EAM QUAM NIHIL ACCUSAS DAMNAS, BENE QUAM MERITAM ESSE
AUTUMAS MALE MERERE? ID QUOD SCIS PRODEST NIHIL; ID QUOD NESCIS
OBEST? HOC DISSERENDI GENUS ATTINGIT OMNINO VESTRAS QUOQUE IN RESPONDENDO
DISPUTATIONES, SED PHILOSOPHORUM MAGIS, QUIBUS EST CUM ORATORIBUS ILLA EX
REPUGNANTIBUS SENTENTIIS; COMMUNIS CONCLUSIO QUAE A DIALECTICIS TERTIUS MODUS,
A RHETORIBUS *ENTHYMEMA* DICITUR. RELIQUI DIALECTICORUM MODI PLURES SUNT, QUI
EX DISIUNCTIONIBUS CONSTANT: AUT HOC AUT ILLUD; HOC AUTEM; NON IGITUR ILLUD.
ITEMQUE: AUT HOC AUT ILLUD; NON AUTEM HOC; ILLUD IGITUR. QUAE CONCLUSIONES
IDCIRCO RATAE SUNT QUOD IN DISIUNCTIONE PLUS UNO VERUM ESSE NON POTEST. ATQUE
EX EIS CONCLUSIONIBUS [1142A] QUAS SUPRA SCRIPSI PRIOR QUARTUS POSTERIOR
QUINTUS A DIALECTICIS MODUS APPELLATUR. DEINDE ADDUNT CONIUNCTIONUM NEGANTIAM
SIC: NON ET HOC ET ILLUD; HOC AUTEM; NON IGITUR ILLUD. HIC MODUS EST SEXTUS.
SEPTIMUS AUTEM: NON ET HOC ET ILLUD; NON AUTEM HOC; ILLUD IGITUR. EX EIS MODIS CONCLUSIONES
INNUMERABILES NASCUNTUR, IN QUO EST TOTA FERE *DIALEKTIKE*. SED NE HAE QUIDEM
QUAS EXPOSUI AD HANC INSTITUTIONEM NECESSARIAE. Etsi multipliciter
superius cuncta digessimus, nec expositionis indiget repetita toties
disputatio, erit tamen operae pretium, si quam breuissime potero M. Tullii
uerbis mediocris lucem commentationis interseram. Septem igitur modos
hypotheticos enumerans ait, cum in connexis propositionibus id quod est primum
assumitur, ut ostendatur secundum, primum a dialecticis modum uocari, hoc modo:
Si hoc est, illud est; quod dicit hoc, primum est, quod uero ait illud,
secundum. Assumatur ergo quod primum est, atqui hoc est; concluditur igitur id
quod secundum est, illud igitur est, uelut in his rursus exemplis: si homo est,
animal est, assumitur, atqui homo est, concluditur, animal igitur est.
Secundum uero modum ait esse Tullius connexis propositionibus textum, in quo si
secundum negatur, sequitur ut id etiam quod primum est abnuatur hoc modo;
Si hoc est, illud est; Illud autem non est, Igitur ne hoc quidem
est. In exemplis ita: si homo est, animal est; animal autem non est, homo
igitur non est. Sed Tullius ita dixit, cum id quod annexum est negaris, ut id
quoque cui fuerit annexum negandum sit, secundum esse modum, quasi connexa
propositione affirmatiuis partibus iuncta; uniuersaliter autem rectius
diceretur, cum id quod annexum est, id est secundum, perimitur, perimi iliud
quoque cui annexum est, id est primum, ut si affirmatiuum est id quod annexum
est, negatione perimatur; sin uero negatiuum affirmatione; et de eo quoque cui
annexum est, id est primum, idem est ut si in connexa propositione affirmetur,
in conclusione denegetur, secundum nunc propositum Ciceronis exemplum; si uero
negatiua sit propositionis prior pars, in conclusione contraria affirmatione
tollatur. Tertium uero modum ait esse Cicero cum ea quae coniuncta sunt, denegantur, et his alia negatio rursus ad
iungitur, ut quia animal homini coniunctum est, ita dicamus: Non et homo et non
animal est, atque ex his unum ponitur, ut quod relinquitur auferatur, hoc modo:
Ponimus hominem esse, dicentes: Atqui homo est; quod ergo relinquitur, non est
animal, aufertur, atque concluditur, animal igitur est. Fit argumentatio hoc
modo: Non et homo est et non animal; Atqui homo est, Animal
igitur est. Ex his nasci dicit enthymemata ex contrariis conclusa, quibus
plurimum rhetores uti solent; atque haec enthymemata nuncupantur, non quod
eodem nomine omnis inuentio nuncupari non possit (enthymema namque est mentis
conceptio, quod potest omnibus inuentionibus conuenire) sed quia haec inuenta,
quae breuiter ex contrariis colliguntur, maxime acuta sunt, propter
excellentiam speciemque inuentionis commune enthymematis nomen proprium factum
est, ut haec a rhetoribus quasi proprio nomine enthymemata uocentur. Sicut apud
Graecos quoque poeta Homerus tantum dicitur, et quisquis ex Homero aliquid
profert, ita dicere consueuit: Hunc uersum poeta locutus est, et tunc non alius
intelligitur praeter Homerum, non quod caeteri non sint poetae sed quod
excellentia huius commune nomen uertit in proprium. Fiunt uero haec enthymemata
hoc modo, ex contrariis uidelicet texta: Hunc metuere, alterum in metu non
ponere (uelut si de Lentulo et Cethego, caeterisque diceretur) Paucos
ciues interficere metuis, ne respublica intereat nihil laboras.
Connexum quippe est ut quicumque noluit interire paucos ciues, rempublicam
multo magis nolit exstingui. Quibus cum interponitur negatio, fit ex
repugnantibus argumentum. Sed hoc breuiter Tullius enuntiauit, nos uero argumentum
in syllogismum redigamus, a repugnantibus scilicet, ex quo enthymemata nasci
solent, hoc modo: Sit connexum, si quis metuit ciues paucos interfici, is
metuit interire rempublicam, hic interponitur negatio sic: Si quis metuit ciues
paucos interfici, is non metuit interire rempublicam, iungitur alia negatio:
Non si quis metuit paucos ciues interfici, non metuit interire rempublicam.
Quae duae negationes uni affirmationi partes sunt, quae dicit: Si quis metuit
hoc, metuit et illud, cuius quidem assumptio est, at metuit hoc, conclusio sequitur,
metuit igitur et illud, quae tantumdem ualet, si negando interrogetur ita, hoc
metuis, illud non metuis. Sed quia non totus (ut supra posuimus) in his
argumentationibus ponitur syllogismus sed propositio, cuius assumptio et
conclusio notae sunt, idcirco enthymema dicitur, quasi breuis animi conceptio.
Et in caeteris exemplis idem modus est. Sed haec quidem Ciceronis
similitudo non tam ex repuguantibus quam ex contrariis argumentum intelligitur
continere. Metuere quippe et non metuere contraria sunt, nisi hoc ipsa uerborum
prolatio a contrariis argumentum ad repugnantiam retrahat. Nam quod dicit hunc
metuere, alterum in metu non ponere, tale est ut repugnantia uideantur. Etenim
metuere et non metuere contraria sunt. In metu autem non ponere, et metuere,
prolatione ipsa tam contraria quam repugnantia intelliguntur, licet eadem
probetur esse sententia. His adiecit alia rursus in exempla.
"Eam quam nihil accusas, damnas." Huius enthymematis talis est
integer syllogismus: Non si nihil accusas damnas; Sed nihil
accusas, Non damnas igitur. Venit ergo hoc argumentum ex ea
propositione connexa, quae ex duabus componitur negatiuis, ita: si nihil
accusas, non damnas; posteriori uero parti detracta negatio est, et insuper
tota est propositio denegata hoc modo, non si nihil accusas, damnas, et ex ea
factum est argumentum, quod positum in interrogatione efficit enthymema, hoc
modo: quam nihil accusas, damnas, bene quam meritam esse autumas, male
mereri. Huius quoque enthymematis talis est ratio
</collectio>: Non et bene meritam esse autumas, et male
mereri; Atqui bene meritam esse autumas, Non male igitur
mereri. Quod enthymema ex ea propositione connexa perticitur, quae
constat ex affirmatione et negatione, ita: si bene meritam esse autumas, non
male mereri. Cuius ex posteriore parte dempta negatione, totaque propositione
denegata, fiet propositio: non si bene meritam esse autumas, male mereri; quod
in interrogationem deductum tacit enthymema: bene quam meritam esse autumas,
male mereri. Item: "Id quod scis prodest, nihil id quod nescis,
obest?" Hoc quoque enthymema tali nectitur syllogismo: Non id quod
scis prodest, et id quod nescis non obest; At id quod scis
prodest, Obest igitur id quod nescis. Hoc argumentum ex ea
propositione compositum est, quae duabus affirmationibus iuncta acceperit
mediam negationem et insuper denegata est. Quod interrogatum fit enthymema hoc
modo: "Id quod scis prodest, nihil id quod nescis obest?"
Omnium uero superius exemplorum ista sententia est. Nam quam quisquam nihil
accusat, eam damnare recte non potest; et eam quam bene meritam esse autumat,
male mereri de ea turpe est; et si id quod scit quisque in causa proderit,
oberit, si est contrarium id quod nescit. Hunc uero locum communem esse
oratoribus ac philosophis dicit sed apud illos tertium modum, apud rhetores
uero enthymema nuncupari. Reliqui, inquit, modi plures sunt, nam cum tres
superius enumerasset modo adiungens quatuor, plures dixit. Hi sunt in
disiunctionibus constituti hoc modo: Aut hoc aut illud; Hoc
autem, Non igitur illud qui est quartus modus a nobis quoque
suprapositus ita: Aut dies est aut nox est; Dies autem est, Non igitur nox
est et semper quod ait Cicero 'hoc' ad praecedens spectat; quod uero ait
'illud' ad consequens, siue inconnexis propositionibus siue disiunctis.
Item: Aut hoc aut illud Non autem hoc, Illud igitur. Hic
quoque quintus modus est, uelut in his exemplis: Aut dies est aut nox
est; Non autem dies, Nox igitur est. Quarum conclusionum,
necessitatem ex eo dicit euenire, quia quae in disiunctione posita, medium non
uidentur admittere, ut esse aliud praeter eorum alterum possit, atque ideo uno
sublato alterum esse, unoque posito alterum non esse concluditur. Quod si sit
medium, quod preter alterutrum esse possit, nec uera propositio, nec rata est
conclusio, uelut in his, aut album est, aut nigrum, id falsum est. Esse enim
praeter ea rubrum potest. Sed si ponamus esse album uel auferamus, non nec esse
erit non esse uel esse nigrum, quia quod rubrum est, medium esse potest.
Deinde, inquit Tullius, addunt coniunctionum negantiam, in disiunctiuis
scilicet propositionibus, hoc modo: Non et hoc et illud; Hoc
autem, Non igitur illud. Idem est: Non et nox et dies
est; Nox autem est, Non igitur dies est. Hic igitur sextus
modus esse praedictus est. Septimus autem est ex eadem ueniens
propositione, hoc modo: Non et hoc et illud; Non autem
hoc, Illud igitur uelut si ita dicamus: Non et nox et dies
est; Nox non autem est, Dies igitur est. Quae propositiones
nisi in disiunctis medioque carentibus rebus ratam conclusionem habere non
poterunt. Age enim ita dicamas, non et album, et nigrum, ponamusque non esse
album, non consequitur ut sit nigrum, potest enim esse quod medium est.
Huiusmodi igitur per negationem coniunctionum (ut Tullius ait) propositio si
ratas factura est conclusiones in disiunctis rebus, medioque carentibus
accommodetur, alias non erit rata conclusio. Distat uero propositio
tertii modi a propositione sexti et septimi, quod tertii modi propositio ex
coniunctis nascitur. Haec uero sexti et septimi ex disiunctis terminis existit,
ut in superioribus patet exemplis. Ex his igitur, inquit, modis
conclusiones innumerabiles nascuntur, unus enim quilibet eorum modus infinitis
conclusionibus aptari potest, ueluti primus ac secundus in omnibus quae sibi
connexa sunt, quorum nullus est numerus, si quis per. sequi uelit; itemque
repugnantium infinitaest multitudo, in quibus tertius modus est utilis; item
plura disiuncta sunt in quibus quartus, et quintus, et sextus, et septimus
pluriumum ualent. Atque in his, inquit, omnis fere est dialectica sed ad
topicos locos tres primi modi sunt necessarii, qui antecessionem, consecutionem
et repugnantiam tenent. Reliqui uero complendae disputationis magis gratia quam
quod ad hanc institutionem necessarii fuerint uidentur adiecti. PROXIMUS EST
LOCUS RERUM EFFICIENTIUM; QUAE CAUSAE APPELLANTUR; DEINDE RERUM EFFECTARUM AB
EFFICIENTIBUS CAUSIS. HARUM EXEMPLA, UT RELIQUORUM LOCORUM, PAULO ANTE POSUI
EQUIDEM EX IURE CIVILI; SED HAEC PATENT LATIUS. CAUSARUM [ENIM] GENERA
DUO SUNT; UNUM, QUOD VI SUA ID QUOD SUB EAM VIM SUBIECTUM EST CERTE EFFICIT, UT
IGNIS ACCENDIT; ALTERUM, QUOD NATURAM EFFICIENDI NON HABET SED SINE QUO EFFICI
NON POSSIT, UT SI QUIS AES STATUAE CAUSAM VELIT DICERE, QUOD SINE EO NON POSSIT
EFFICI. [15.59] HUIUS GENERIS CAUSARUM, SINE QUO NON EFFICITUR, ALIA SUNT
QUIETA, NIHIL AGENTIA, STOLIDA QUODAM MODO, UT LOCUS TEMPUS MATERIA FERRAMENTA
ET CAETERA GENERIS EIUSDEM; ALIA AUTEM PRAECURSIONEM QUANDAM ADHIBENT AD
EFFICIENDUM ET QUAEDAM AFFERUNT PER SE ADIUVANTIA, ETSI NON NECESSARIA, UT:
AMORI CONGRESSIO CAUSAM ATTULERAT, AMOR FLAGITIO. EX HOC GENERE CAUSARUM EX
AETERNITATE PENDENTIUM FATUM A STOICIS NECTITUR. ATQUE UT EARUM CAUSARUM SINE
QUIBUS EFFICI NON POTEST GENERA DIVISI, SIC ETIAM EFFICIENTIUM DIVIDI POSSUNT.
SUNT ENIM ALIAE CAUSAE QUAE PLANE EFFICIANT NULLA RE ADIUVANTE, ALIAE QUAE
ADIUUARI VELINT, UT: SAPIENTIA EFFICIT SAPIENTIS SOLA PER SE; BEATOS EFFICIAT
NECNE SOLA PER SESE QUAESTIO EST. Post eum locum qui in conditione est
constitutus, consequens erat is qui considerabatur ex causis; post hunc is
enumeratus locus est qui, in effectis causarum positus, argumenta praestabat.
Quorum quidem superius M. Tullius exempla proposuit, nunc rationem latius tractat.
Cum igitur Aristoteles quatuor posuerit causas, quibus unumquodque conficitur: primam,
quae mouendi principium est; secundam, ex qua fit aliquid, quam materiam uocat;
tertiam rationem ac speciem, qua unumquodque formatur; quartam, finem propter
quem quodlibet efficitur, at uero M. Tullius principalem causarum diuisionem
facit in ea quae efficiant aliquid et in ea sine quibus effici nequeant, ut id
quod efficit, ad eam causam referatur in qua motus principium constitutum est,
id uero sine quo non fit aliquid, tum ad intellectum materiae transferatur, uel
eorum quae coniuncta materiae efficientis adiuuant facultatem, tum ad reliquas
causas ducatur, ut paulo posterius apparebit. Eius igitur causae, quae ui
sua id quod subiectum est efficit, tale proponit exemplum, ut ignis accendit:
nam accensionis ipsius causa ignis est, et id efficere potest, atque illud quod
accenditur, mouet atque permutat. Eam uero causam, sine qua id quod faciendum
est fieri nequit, ab una eius parte designat, ueluti cum dicit aes causam esse
statuae, quod sine eo status noc possit existere: hoc enim, ut per faciendam
diuisionem clarescet, non ea ipsa est causa sine qua non efficitur sed pars
eius esse monstrabitur. Eam uero causam sine qua id quod faciendum est,
effici non potest, diuidit hoc modo: alia enim sunt quieta, nihil agentia sed
stolida quodammodo, ac per se, nisi agendi extra motus accesserit, immobilia:
horum exempla, ut locus, tempus, materia, instrumentum. Omne enim quod fit,
locum nec esse est habere subiectum, in quo nisi aliquid fiat, locus ipse
immobilis est, ad aliquid explicandum. Itemque materia et instrumenta, nisi
manu moueantur artificis, ipsa naturaliter nihil egerint. Tempus quoquo
operationi subiectum est, quae si desit, nihil ipsum propriae naturae ratione
perfecerit. Atque haec quidem sunt quae nihil agentia, tamen causae sunt, si
his efficiens operatio superueniet. Alia uero quae in motu posita
praecursionem quamdam ad efficientiam ac praeparationem uidentur afferre, uelut
amoris causa est congressio, quae praecessit, et amor flagitii. Ex his, inquit,
causis Stoica disputatio fatum connectit. Fatum enim dicunt esse praecedentium
causarum subsequentiumque perplexionem quamdam et catenae more continentiam,
hoc modo: Ideo profectus est peregre, quoniam parentum iracundiam ferre non
puterat; idcirco parentum iracundiam successione non ferebat, quia amicae amore
detinebatur, idcirco amabat, quod saepe fuerat ante congressus; ideo congressus
est, quia aliquid ut congrederetur praecessit. Itaque ordine praecedentium
consequentiumque rerum fatum (ut dicit) a Stoicis nectitur. Item diuidit
eam causam quae ui sua efficit aliquid in eam quae ad etficiendum sibi
sufficit, eamque qua extrinsecus adminiculationis indigeat. Sufficit igitur
sibi ad efficiendum causa, ut sapientia efficere sapientes per se nullo penitus
adiuta solet. Sed haec an sola beatos efficere possit, quaeritur an ei sint
extrinsecus addenda quae iuuent, uel fortunae bona, uel corporis, itaque ea
causa quae ui sua efficit aliquid, aut talis est, ut ei nulla sint extrinsecus
adiuncta quaerenda, ueluti artifici instrumenta quaedam, quibus id quod
efficiendum est explicet atque conformet. Earum uero omnium quae Tullius
statuit in alterutra diuisione causarum, illa quidem quae ui sua explicant ea
quorum causae sunt, omnia tam per se ad efficiendum ualentia, quam quaesiti
extrinsecus iuuaminis indigentia, in ea Aristotelicae diuisionis causa
locabuntur, quae est principium motus. Quanquam de sapientia tali causae non
conuenit exemplum sed potius ad rationem formamque contendit Namque sapientia
ratione quadam atque forma efficit sapientes. Eius uero causae quam Tullius
refert, sine qua non fit aliquid, materia quidem, tempus et locus, id est, ex
quo fit, uel in quo fit, quae sunt efficienti substantia naturae: ut uno intellectu
comprehendantur, uel materia sunt, uel materiae uice supposita; instrumenta
uero ei causae sunt quae ad finem spectant sed non ipsa finis, quia non finis
instrumenta respicit sed haec tinem. Instrumenta namque propter aliquem
finem parantur. Sed mirum uideri potest cur congressionem amoris causam
non interea enumerauit, quae habent efficiendi uim sed inter eas posuerit
causas, sine quibus effici non potest, cum tamen agat aliquid atque moueat. Nam
ipsa congressio aliquid uidetur efficere, similisque est ei caasae quae ipsa
quidem habet efficiendi uim sed sine adminiculo non potest, ueluti cum
quaeritur de sapientia an sola beatum possit efficere. Sed Merobaudes rhetor
ita disseruit, earum causarum, quae efficiendi uim haberent, eam esse
facultatem, ut etiamsi adiumentis extrinsecus indigeant, effectus tamen earum
ad id spectet quod efficiendum est. At in his causis quae sunt praecursoriae,
etiamsi eis antecedentibus aliquid existit, non tamen id quod existere
intelligitur praecursio principaliter operatur. Sed ista quidem ueluti sub
quadam occasione praecurrit, illa uero res quae existeret dicitur, aliis
operantibus nascitur, uelut in congressione solum est fieri. Fortasse enim non
propter amorem quisque congreditur sed praecedente congressione amor existit,
quem non congressio principaliter appetebat. Itaque quoniam praeter
congressionem amor existere non potuit, recte intereas causas congressio locata
uidetur sine quibus non efficitur; quoniam uero non efficit ui sua,
quandoquidem nec principaliter ut efficiat, spectat sed tantum ea ante aliquid
existit, recte inter praecursorias, ac non inter efficientes causas est
collocata. QUA RE CUM IN DISPUTATIONEM INCIDERIT CAUSA EFFICIENS ALIQUID
NECESSARIO, SINE DUBITATIONE LICEBIT QUOD EFFICITUR AB EA CAUSA
CONCLUDERE. CUM AUTEM ERIT TALIS CAUSA, UT IN EA NON SIT EFFICIENDI
NECESSITAS, NECESSARIA CONCLUSIO NON SEQUITUR. ATQUE ILLUD QUIDEM GENUS
CAUSARUM QUOD HABET VIM EFFICIENDI NECESSARIAM ERROREM AFFERRE NON FERE SOLET;
HOC AUTEM SINE QUO NON EFFICITUR SAEPE CONTURBAT. NON ENIM, SI SINE PARENTIBUS
FILII ESSE NON POSSUNT, PROPTEREA IN PARENTIBUS CAUSA FUIT GIGNENDI
NECESSARIA. HOC IGITUR SINE QUO NON FIT, AB EO IN QUO CERTE FIT
DILIGENTER EST SEPARANDUM. ILLUD ENIM EST TAMQUAM: UTINAM NE IN
NEMORE PELIO -- NISI ENIM 'ACCIDISSENT ABIEGNAE AD TERRAM TRABES,' ARGO
ILLA FACTA NON ESSET, NEC TAMEN FUIT IN HIS TRABIBUS EFFICIENDI VIS NECESSARIA.
AT CUM IN AIACIS NAVEM CRISPISULCANS IGNEUM FULMEN INIECTUM EST, INFLAMMATUR
NAVIS NECESSARIO. Prima quidem causarum diuisio, secundum Tullium, fuit
in ea quae efficerent aliquid, et ea sine quibus effici non posset, atque illud
quidem quod efficeret, in gemina item partitus est, scilicet in id quod ad
efficiendum aliquid necessariam uim possideret, neque ullius indigeret
extrinsecus adiumenti, etinid quod nisi illis adiuuantibus operari atque
efficere non posset. Ac primum de ea loquitur causa quae efficiendi uim tenet,
eius enim ea pars cui efficiendi necessitas adest, statim secum conclusionem
comitem trahit; dicta enim causa, quae necessario ac quid efficit, effectus
etiam nec esse est consequatur, ueluti si solem adfuisse quis dixerit, lucem
quoque adfuisse monstrabit, aut cum alicui ad esse sapientiam dixerimus,
sapientem nec esse est fateamur. At in his causis efficientibus quae
extrapositis indigent adiumentis, non eadem ratio est; neque enim ut quaeque
huiusmodi causa dicitur, ita nec esse est affectum sequi. Non enim huiusmodi
causa necessario efficit quod uult, nisi extrapositis auxiliis adiuuetur; idem
est etiam in ea causa quae ipsa quidem efficiendi uim non habet sed sine ea non
prouenit effectus. Nam, ut Tullius quoque commemorat, nullam in efficiendis
rebus adhibet necessitatem, atque ideo dicta causa non statim sequitur
effectus. Neque enim si congressus est, mox amauit, nec si fuit aes, statuam
quoque fuisse nec esse est. Ex quo aliarum causarum partitio nascitur.
Aliae namque causae sunt necessariae, aliae minime. Non necessariarum aliae
sunt efficientes, aliae sine quibus non efficitur. Necessariarum uero causarum
conclusio non solet conturbare: ut enim haec causa fuerit dicta, statim in
conclusione sequustur effectus. Non necessariarum uero, quae sunt partim
efficientes, quod nunc tacuit sed paulo ante praedixit, non habent subsequentem
effectae rei conclusionem. Neque enim si liberi sine parentibus non sunt,
idcirco in parentibus efficiendi causa necessaria fuit, cum uideamus in hominum
esse potest ate ne gignant. Ea uero causa quae ipsa quidem non efficit sed sine
ipsa effici non potest, huiusmodi est quemadmodum Enniano uersu declaratur:
NISI ENIM CECIDISSENT ABIEGNAE TRABES AD TERRAM, ARGO ILLA FACTA NON ESSET. Ex
trabibus namque Argo facta est sed nulla inerat trabibus necessitas, ut ex eis
fieret nauis; at uero ea causa quae est efficiens, et quae in se suam continet
necessitatem, talis est. Quale CUM IN AIACIS NAVEM IGNEUM CRISPISULCANS FULMEN
INIECTUM EST, statim enim accendi nec esse est nauim, quia ignis accendend
necessaria causa est. Et sensus quidem est huiusmodi, ordo autem paulo
confusior est, ait enim hoc modo: ATQUE ILLUD QUIDEM GENUS CAUSARUM, QUOD HABET
VIM EFFICIENDI NECESSARIAM, ERROREM AFFERRE NON FERE SOLET; HOC AUTEM SINE QUO
NON EFFICITUR, SAEPE CONTURBAT. Quod cum dixisset, cumque uel utriusque uel
alterius exemplum ponere debuisset, neutro conueniens exemplum similitudine
dedit. Namque cum uel necessariam causam efficientem, uel eam sine qua non
efficitur, proposuisset, eius causae posuit exemplum, quae efficiat quidem
aliquid sed non sine extrapositis adiumentis, hoc modo: NON ENIM SI SINE
PARENTIBUS FILII ESSE NON POSSUNT, PROPTEREA CAUSA FUIT IN PARENTIBUS GIGNENDI
NECESSARIA. Parentes enim et maxime masculini sexus efficiens causa est sed non
sine femina, id est non sine materia quadam, et ea causa sine qua fieri non
possit, cum ipsa uim efficiendi non habeat. Itaque nec causa necessariae
et efficientis posuit exemplum, nec eius sine qua fieri nihil possit sed
efficientis quidem, non tamen necessariae sed uidetur tacuisse in propositione
id cuius posuit exemplum; ita enim apertius dici potuisset: ATQUE ILLUD QUIDEM
GENUS CAUSARUM, QUOD HABET VIM EFFICIENDI NECESSARIAM, ERROREM AFFERRE NON FERE
SOLET; HOC AUTEM quod non habet efficiendi uim necessariam; uel HOC SINE QUO
NON EFFICITUR, SAEPE CONTURBAT. Itaque sic intelligendum est quasi ita sit
dictum; nam de necessaria causa nullum posuit exemplum. Quod uero subiecit,
utrisque causis conuenit posterius enumeratis, tam efficienti non necessariae,
quam eius sine qua nihil efficitur. Parentes namque tam masculini sexus quam
feminini esse dicuntur, quorum quidem masculini sexus ea causa est quae
efficiat sed non necessaria. Feminini uero ea quae non efficiat sed sine qua
effici [non possit. Quae cum ita sint, discernendae sunt causae et
peruidenda necessitas, nec omnis causa praemittenda ut subsequatur effectus sed
ea tantum in qua est efficiendi necessitas, etiamsi extrinsecus adiumenta
defuerint. ATQUE ETIAM EST CAUSARUM DISSIMILITUDO, QUOD ALIAE SUNT, UT
SINE ULLA APPETITIONE ANIMI, SINE VOLUNTATE, SINE OPINIONE SUUM QUASI OPUS
EFFICIANT, VEL UT OMNE INTEREAT QUOD ORTUM SIT; ALIAE AUTEM AUT VOLUNTATE
EFFICIUNT AUT PERTURBATIONE ANIMI AUT HABITU AUT NATURA AUT ARTE AUT CASU:
VOLUNTATE, UT TU, CUM HUNC LIBELLUM LEGIS; PERTURBATIONE, UT SI QUIS EVENTUM
HORUM TEMPORUM TIMEAT; HABITU, UT QUI FACILE ET CITO IRASCITUR; NATURA, UT
VITIUM IN DIES CRESCAT; ARTE, UT BENE PINGAT; CASU, UT PROSPERE NAVIGET. NIHIL
HORUM SINE CAUSA NEC QUIDQUAM OMNINO; SED HUIUSMODI CAUSAE NON NECESSARIAE. Facit
aliam rursus causarum diuisionem ita: CAUSARUM enim ALIAE SUNT quae sua quadam
ui, SINE APPETITIONE, SINE VOLUNTATE, SINE OPINIONE unum atque eumdem in
efficiendis rebus ordinem tenent, ut est interire omnia quae orta sunt. Nam
quia ortum est, idcirco etiam nec esse interire, nec tamen ipse ortus, ut
caetera intereant, uel appetitu aliquo, uel uolutate uel opinione efficit; sed
ita est ab aeterno rerum statu, ut quidquid ortum est, quia accepit esse,
aliquando etiam esse desistat. Item ALIAE sunt causae quae AUT in VOLUNTATE AUT
in PERTURBATIONE ANIMI AUT in HABITU AUT in NATURA AUT in ARTE CASU ue
consistunt. VOLUNTATE, ut si quaerat aliquis cur Trebatius librum legat,
respondebitur, quia legendi uoluntas est. PERTURBATIONE animi, ut si quis
timore pallescat, aut urbem fugiat, bellis ciuilibus conturbatas. HABITU, UT si
idcirco Trebatius FACILE. de iuris ratione responderit, quoniam multo usu
constantem ciuilis scientiae habitum tenet, uel si quis idcirco irascatur
facile, quia eius animus per iracundiae habitum efferatus est. NATURA, ut si quis
idcirco dicatur irasci, quia naturaliter iracundus est, id quod in dies uitium
crescat. ARTE, ut si idcirco bene quisque pingat, quia eius artis peritus esse
proponatur. CASU, ut quae in nostra potestate nullo modo sunt, fiunt tamen,
uelut in certo praesertim tempore, prosperitas nauigandi. Atque horum omnium
nihil a causa uacuum est, nec quidquam est in rebus quod non aliqua causa
perficiat. Omnia enim quae fiunt habent aliquam rationem cur facta sint, quam
si quis reddere possit, causam quoque reddiderit. Id est enim causa propter
quam unumquodque fit. Omnes uero causae quae uel ex uoluntate, uel
perturbatione animi intelliguntur, ad eam causam pertinent quae est mouendi
principium, ut in Aristotelica diximus diuisione. Haec enim ut aliquid efficiatur,
mouendi principium sunt, at in arte, uel habitu, uel natura, illa causa est,
quae in ratione consistit. Species enim ac ratio uniuscuiusque efficiendae rei
in arte et habituet natura posita est. Casus uero exterior causa, nec inter
principales annumeratur secundum Aristotelem. Secundum uero M. Tullium casus
est latens effectae rei causa; quod quale sit paulo posterius designabitur. OMNIUM
AUTEM CAUSARUM IN ALIIS INEST CONSTANTIA, IN ALIIS NON INEST. IN NATURA ET [IN]
ARTE CONSTANTIA EST, IN CAETERIS NULLA. SED TAMEN EARUM CAUSARUM QUAE NON
SUNT CONSTANTES ALIAE SUNT PERSPICUAE, ALIAE LATENT. PERSPICUAE SUNT QUAE
APPETITIONEM ANIMI IUDICIUMQUE TANGUNT; LATENT QUAE SUBIECTAE SUNT FORTUNAE.
CUM ENIM NIHIL SINE CAUSA FIAT, HOC IPSUM EST FORTUNAE EVENTUS; OBSCURA CAUSA
ET LATENTER EFFICITUR. ETIAM EA QUAE FIUNT PARTIM SUNT IGNORATA PARTIM
VOLUNTARIA; IGNORATA, QUAE NECESSITATE EFFECTA SUNT; VOLUNTARIA, QUAE
CONSILIO. QUAE AUTEM FORTUNA, VEL IGNORATA VEL VOLUNTARIA.] NAM IACERE
TELUM VOLUNTATIS EST, FERIRE QUEM NOLUERIS FORTUNAE. EX QUO ARIES SUBICITUR
ILLE IN VESTRIS ACTIONIBUS: SI TELUM MANU FUGIT MAGIS QUAM IECIT. CADUNT ETIAM
IN IGNORATIONEM ATQUE IMPRUDENTIAM PERTURBATIONES ANIMI; QUAE QUAMQUAM SUNT
VOLUNTARIAE -- OBIURGATIONE ENIM ET ADMONITIONE DEICIUNTUR -- TAMEN HABENT
TANTUS MOTUS, UT EA QUAE VOLUNTARIA SUNT AUT NECESSARIA INTERDUM AUT CERTE
IGNORATA VIDEANTUR. Rursus causarum diuisionem aliam claram ac perspicuam
prodit. Causarum namque aliae sunt constantes, alia uero inconstantes.
Constantes sunt, quarum non fereuariatur effectus; inconstantes uero, quae huc
atque illuc facilioribus mutationibus transferuntur. Omnia igitur quae ex
natura atque arte descendunt, constantia sunt. Natura quippe atque ars suum
semper opus efficiunt, nisi subiectae materiae obstet incertum. Nam quod unus
idemque artifex ex eadem saepe materia non admodum similes statuas format, non
est haec in arte uarietas sed tum in artificis manu, quae integritatem artis
assequi non potest, tum in ipsa materia, quae efficientiae atque formae non
aequaliter cedit. Idem est in natura, seruat namque constantiam suam, cum
hominem format ex homine. Itaque similia in caeteris ex similibus gignit: at
cum monstrosum aliquid effertur, non naturae uitio sed materiae potius
applicatur, ex qua id quod efficere contendebat, non ita potuit natura
explicare. Sed inter constantes causas habitus quoque debuit adiungi; nam
quod habitu cuiusque lit, id constans, nec mutabile esse solet; quandoquidem
idcirco habitus dicitur, quia diuturnitate habendi in naturae similitudinem
uertitur. Sed forsan Tullius uidit quod natura atque ars, non tam in effectibus
constantes quam in propria ratione esse intelliguntur, in tantum ut quod ars ac
natura delinquit, materiae saepius imputetur, habitus uero ipse consuetudine
quadam collectus est, qui non ratione aliquid et propria constantia sed usu
facit, atque idcirco forsitan habitum, qui inter caetera praeter artem et
naturam uidebatur esse constantior, a causis constantibus segregauit. Ea
uero quae non sunt constantia, in ea diuidit quae sunt perspicua, et in ea quae
latent. Perspicua sunt quae ab animi quolibet motu uel appetitione, uel iudicii
ratione profecta sunt; latent uero quae fortunae subiacent. Nam quia non
ignorat animus in quam partem declinet, qui tametsi boni aliquanio habet
iudicium, nunquam tamen eius rei quam efficit notionem relinquit, praetereos
qui funditus mente capiuntur, et in quibus iam nulla uoluntas est, nec esse est
nota esse, quae ex uoluntate uel animi iudicio fiunt. Fortuna uero atque casus
semper ignotus est. Cuius quidem natura aeque incerta est, atque ea quae
casibus ipsis fiunt. Sed M. Tullius definit esse casum, euentum causis
latentibus effectum; quae non uidetur integra definitio: quid enim, si adhuc
lateret quibus causis solis defectus lunaeue contingeret, num idcirco casu
atque fortuna fierent, quae constantibus caeli motibus administratur? An
casus quidem putaretur ab his qui defectus rationem reperire non possent, per
se autem consideratus, nullo quidsm modo esset casus. Sed M. Tullius non quod
uideretur esse casus, his qui eius naturam minime perspexissent sed qui omnino
fortunae euentus esset definitionis rationem monstrabat. Euentum uero
latentibus causis Cicero casum esse ita concludit: Cum omnia certis de causis
fiant, quorum ratio cognoscitur, eorum euentus casu fieri non posse monstrantur
sed putantur aliqua fieri casu eorum quorum causa nulla ratione cognoscitur. Ex
quo euenit ut fortunae sit euentus, qui latentibus causis efficitur. Hic igitur
in rebus quidem ipsis constantiam ponit, casum uero non re sed opinione
metitur. Quo fit ut si aliter effectae remouerit causam, id quod accidit
fortunae non sit euentus, idem tamen sit alteri fortunae euentus, si rationem
alter ignoret. Quod uero omnium rerum causas esse dicit, non determinat quales,
atque ideo nec de fortuna ipsa, quorum euentum causa sit, monstrat. Nec
me saeuae hominum mentes arrogantiae notent, quod uelut affectata auctoritate
Tullianis sententiis pugnem, cum aduersus eas si quid uidebitur non nostra sed
ab antiquissimis tractata compensem. Quod si nostra quoquo diceremus, oporteret
tamen eos non personarum uetustatem sed eorum quae opponuntur considerare
rationem, nec odisse potius quae aduersus magni nominis uiros dicuntur, quam
contraria, si possent, argumentatione reuincere. Nam si eis M. Tullius in
definitione rerum nimium placet, quaenam est inuidia nos quoque Aristotelicam
rationem probare? Quod si intemperanter molestissimi esse pergunt,
audiant M. Tullium secundo Tusculanarum disputationum libro adhortantem potius,
atque ad certamen uocantem, hoc modo: Sed tamen tantum abest ut scribi
contra nos nolimus, ut id etiam maxime optemus. Ipsa enim Graeciae
philosophia nunquam in honore tantum fuisset, nisi doctissimorum
contentionibus, dissensionibusque creuisset; quamobrem hortor omnes, qui
facere id possunt, ut eius quoque generis laudem iam languenti
Graeciae eripiant, et transferant in hanc urbem, sicut reliquas
omnes, quae quidem erant expetendae studio atque industria sua
maiores nostri transtulere. Et rursus, nos qui sequimur probabilia
nec, ullraquam quod uerisimile occurrit, progredi possumus, et refelli sine
pertinacia et refellere sine iracundia parati sumus. Quocirca quae malum ratio
est ipsius M. Tullii uoluntatem iudiciumque conuellere, cum eiusdem contra nos
sententiis atque auctoritate nitantur? Sed si cui commentarios nostros
inspicere uacuum fuerit, sciat haec nos ex Aristotelis secundo Physicorum
uolumine aduertisse, quae tametsi altioris philosophiae disputationes tangunt,
non est tamen studiis inuidendum, si rhetoricis quoque ac dialecticis
disputationibus admisceamus, qua sunt profundiora naturae, neque pigrescere ac
dilassari animos dignum est, quos intentiores ac uegetos ipsa rerum ambiguitas
et uariarum cognitio speculationum deberet efficere, eum praesertim ea librorum
natura sit, ut ad legendum studiosos teneat, nullum cogat ignauum. Dicamus
igitur quid euentus sit fortunae, uel quarum sors causa esse dicatur.
Omnia igitur sunt uel immutabiliter ac semper, ut quod sol oritur; uel saepius,
ut quod equus quadrupes nascitur; uel raro, ut si equus cum quinque uel tribus
pedibus procreetur; uel aeque, ut in quibus faciendarum rerum nihil interest,
quo potius uoluntatem uergamus. Atque illud quidem quod semper fit, nihil habet
oppositum, quod ullo modo aliter fiat; id uero quod saepe contingit habet ;
aduersum, id quod rarius euenit, neque enim saepius fieret, ac non semper, nisi
diuersum raro quidem sed aliquando contingeret. Quod igitur ex fortuna tit, in
sempiternis non est; quis enim casu solem dicat oriri? Ne in his quidem quae
frequentius fiunt; nullus enim casu equum dixerit esse quadrupedem. Nee uero in
his quae fieri aequaliter solent; nam quae uoluntaria sunt non uidentur esse fortuita.
Restat igitur ut in his fortunae euentus sit, quae rarius fiunt. Eorum uero
quae fiunt, partim finem aliquem spectant, partim minime. Quis enim finis
esse potest, si manum extendam, si genua complicem, atque aliquid iacens humi
tollam, quod nullis usibus applicem? At uero ea quae aliquem finem spectant
partim uoluntatis sunt, partim naturae. Voluntatis, ut siquis idcirco domo
egrediatur, ut uideat amicum. Naturae, ut quod est in animalibus. Omnia quae ab
ea fiunt certam animalis respiciunt utilitatem, atque ad eius salutem
conseruationemque omnium membrorum momenta sunt constituta. Casum igitur ac
fortuitos euentus in his esse ponimus, quae cum rarius fiant, in his tamen per
accidens eueniunt, quae propter aliquid fiunt. Veluti si quis egressus domo
ut amicum uideret, praeteriens cadente. desuper lapide ictus est: id
igitur quod euenit, in rariore causa ponendum est, accessit uero ei uoluntati,
quae certum respiciebat finem. Ea uero fuit domo egrediendi causa, ut amicum
uideret. Rursus, quoniam lapsis naturaliter grauis est, grauitas uero terram
petit, casus quidem lapidis propter aliquid naturaliter factus est; ad id enim
lapidis natura tendebat, ut in suum locum pondus ueniens conquiesceret. Sed
huic naturali intentioni accidit id quod rarius euenit scilicet ut percuteret
caput; quo fit ut sit secundum Aristotelem fortuna uel casus, causa per
accidens rarius eueuientum in his rebus quae propter aliquid fiunt. Quae cum
ita sint, cumque definitio Aristotelica a Tulliana plurimum discrepet, illud
tamen in utrisque constat, id quod fortunae subiectum est, incertis casibus
semper esse suppositum. Nam licet in his rebus saepe fortuna suos experiatur
actus, quae uoluntate sunt, et ad aliquem finem referuntur, extra tamen accidit
quod fortunae est, nec ab eo tine uenit, quem sibi animus ante
perspexerat. Sed cum Cicero diuisisset causas in eas quae perspicuae
sunt, et in eas quae laterent, cumque eas quae perspicuae sint diceret esse
quae appetitionem animi iudiciumque tangerent, manifestum est eum uel artem,
uel uoluntatem, uel perturbationem, uel habitum in his causis ponere quae
perspicu ac sunt; uoluntas quippe atque animi perturbatioin appetitione
ponitur, saepe enim ex perturbatione aliquid appetimus, artem uero uel habitum
in iudicio; arte namque iudicamus, habitus uero ad utrumque pertinet: nam et
uoluntates consuetudo ministrat, et multo usu peritiaque fit quaedan constantia
iudicandi. Casum in non perspicuis posuit. De natura incertum est utrum
inter perspicuas an inter latentes ipsam coliocet: nam si inter latentes
causas, ipsam naturam casum uideretur putare: cuius opinionis nulla ratio est
Quod si inter perspicuas, quaenam appetitio animi uel iudicium in natura est?
Neque enim appetendo aliquid uel iudicando facit natura, nisi forte quoniam ex
ipsa saepe habilitas quaedam mentis et corpori existit, quae habi lit as ad
unamquamque rem adiuuat uoluntatem; id enim maxime uolumus ad quod habiles
sumus. Sed natura inter perspicuas causas ponitur, quae iudicio quoque
coniuncta est, ut si naturaliter sano quisque iudicio compositus est:
appetitioni etiam, ut si naturaliter aliquid animus petat. His adiungit
aliam causarum diuisionem; ait enim alias causas esse uoluntarias, alias
ignoratas: uoluntarias, eas quaecumque ex iudicio ueniunt animi; ignoratas in
quibus necessitas domina est, id est in quibus aut omnino non uolumus, aut ne
si uelimus quidem aliter facere possumus, ut in natura atque casu. Necessitate
enim quadam naturae grauia deorsum feruntur, necessitate item factum dicimus,
ut aliquis ignorans iacto trans parietem lapide praetereuntem hominem
peremerit. Eaque necessitas talis est, non quod aliter fieri non potuisset,
nisi ut lapide iacto percuteret sed quia uoluntas defuit, et non idcirco, quia
uoluit, fecit. Prior uero necessitas iam talis est, in qua nulla uoluntas est,
uel ea quae est, ne id quod cupit efficiat, ualidiore necessitate
constringitur. Nam cum lapsis deorsum propria grauitate deponitur, nulla
uoluntas est sed tantum naturae necessitas; at si homo deorsum cadat, est
quidem non cadendi uoluntas sed ferri quo non uult, ualidior naturae causa
compellit. Voluntatem uero a fortuitis euentihus uno eodemque aptissimo
secreuit exemplo, ueluti si telum manu iaciat, nolensque feriat praetereuntem.
Nam iecisse ex uoluntatis principio nascitur. Idcirco enim iecit, quia uoluit.
Ignorauit uero quod perculeret; neque enim iecisset, si se percussurum
praeuidere potuisset. Neque iecit, quia uoluit percutere. Si autem non
ignorasset, non percutere potuisset. Unde etiam machinamentum quoddam atque
defensio in iuris peritoram responsionibus inuenitur, hoc modo: Si telum manu
fugit magis quam iecit; nam si quis caedis accusetur, optima solet esse
defensio, si alia non suppetit, fugisse manu telum, magis quam uoluerit
iecisse, ut non uoluntati, quae condemnatur in culpis sed ignorantiae factum
tribuatur. De perturbationibus autem animorum paulo confusius iudicium
est. Dubitari enim potest utrum ex uoluntate, an necessitate, an ex ignoratione
uenerit, quod perturbatione peccatur: uidentur enim uoluntaria esse peccata,
quoniam qui perturbatus est appetit aliquid, aut fugit. Sed in hoc perturbatio
eius apparet, quod non fugienda uitat, et non appetenda nimis exoptat. Porro
autem quoniam in perturbationibus sunt confusa iudicia (neque enim aliter id
quod fugiendum est saepe appetunt perturbati, nisi obcaecato obscuratoque
iudicio), quod uero fit animi confusione, saepe tale est ut nollet admisisse
qui fecit, et euenit ut non inter uoluntarias sed inter ignoratas uel
necessarias causas animorum perturbatio sit; in tantum uero qui perturbatus
est, a uera discretione discedit, ut in eam possit recta bene consulentium
admonitione reduci. Quo fit ut animorum perturbatio iure a causis uoluntariis
segregetur, et aut in ignoratione, aut in necessitate ponatur. Nam quod
ait: TAMEN HABENT TANTOS MOTUS, UT EA QUAE VOLUNTARIA SUNT, AUT NECESSARIA
INTERDUM, AUT CERTE IGNORATA VIDEANTUR, ita intelligendum est: quoniam omnis
animi passio iudicium conturbat, confundit uero rectam discretionem, si acrior
fuerit quam ut rationis retinaculis temperetur, et fit quaedam ex
perturbationibus ueluti uiolenta necessitas, ut dubium sit utrum is qui aliquid
perturbatus animo facit, ignorans faciat; ueluti cum casu ignorans delinquit,
cum futurum non prouidet casum, an sciens faciat, uel necessitate ducatur. Quod
igitur dixit: Aut necessaria esse, aut ignorata, et diuisit a neeessariis
ignorata, non pugnat contra id quod superius dixit, ea quae ignorata sunt esse
necessaria. Nam id quod est ignoratum ita quodammodo diuidit: ignoratorum alia
quadam necessitate fiunt, dum aut nulla uoluntas est, aut ea quae est,
necessitati nequit obsistere; alia casu, cum in his faciendis, quae ignorantur,
nulla uoluntas est. Quod igitur dixit, perturbationes animi, aut in
necessariis causis poni, aut in ignoratis, id sine dubio sensisse intelligitur,
perturbationes animi, aut in his esse ignoratis in quibus ea necessitas est, ut
uoluntas obsistere non possit, aut in his in quibus nalla uoluntas est sed sit
delictum caecitate iudicii, uelut in his qui immoderatius amoris cupiditati
deseruiunt: aut enim confuso iudicio ab honestate discedunt, et dum quasi bonum
appetunt, in malum decidunt ignorantes, atque ita in casu quodam atque errore
ponitur amor immodicus; aut nouit quidem quod appetit esse uitandum sed maioris
actu cupiditatis impellitur, atque ita inter ea necessaria ponitur, quae aut
non habent uolunt. Item, aut eam ita infirmam ac debilem, ut nullo modo
ualidioribus passionibus obnitatur. Fore quosdam, Patrici rhetorum
peritissime, non dubitauerim, qui hunc in Topicis altiorem ex philosophia
tractatum uaria obtrectatione reprehendant, quia inter logicam disputationem
physicam interposuit. Hi uero sunt, uel quibus hoc totum philosophari displiceat,
uel qui in argumentorum locis naturales admisceri causas oportuisse non
existiment. Sed contra priores quidem, et a M. Tullio, et ab ipsa quodammodo
humana ratione, quae in motu posita aliquid semper inquirit, atque amore
scientiae neque decipi patitur, neque ullo modo a ueritatis ratione traduci,
saepe multumque responsum est. His uero qui sequestrandas ab oratorio
facultate philosophiae disciplinas putant, respondendum breuiter existimo.
Ratione quidem reperiri quiddam potest sed melius atque facilius artifex
faciet, si in opere construendo artis facultatem atque elegantiam
comparet. In argumentis quoque idem esse manifestum esti ui namque
naturalis ingenii argumenta promuntur. Sed ars facultatem imitata naturae uiam
quamdam rationemque reperit, qua id effici facilius ac melius possit. In
qua re illorum nec esse est reprehendatur error, qui rhetoricam facultatem
naturalem esse dixerunt, quoniam quilibet totius artis alienus et intendere in
alterum crimen, et sese purgare solet, et argumento aliquid prohare contendit.
Reprehendendi etiam sunt qui eamdem facultatem in sola arte positam esse
dixerunt: oportuit enim eos animaduertere, omnem quidem artem sui materiam
effectus ex natura suscipere sed in ea tamen ratione propriam facultatem
elegantiamque experiri. Haec itaque quae artium ratio perficit, ab imperitis
etiam fieri, utcumque contigerit, possunt. Bene autem ac facile nemo efficit
nisi artis ratione fuerit instructus. Cum igitur totius operis haec sit
intentio, ut argumenta quae confusa et ueluti clausa natura suppeditat,
artificialiter uestigentur, quid sit per quod efficere id quod promittit ars
ualeat, sub exempli notatione demonstrat: ut enim facilius argumenta reperiantur,
illa res efficiet, si demonstrentur loci in quibus argumenta sunt collocata. Et
enim ut si quis aliquid quaerat, facilius id inuestigare possit atque inuenire,
si locus ei monstretur ubi sit positum id quod inquirit; ita etiam cum quis
argumentum inuenire conatur, si ei locus ubi argumentum sit positum,
declaretur, facilius argumentum quod quaerit ualebit inuenire. Ita enim
Aristoteles, et ita Tullius appellat eas sedes in quibus argumenta sunt collocata,
id est locos, qui ab Aristotele topica uocati sunt. Sed quoniam de
sedibus argumentorum loquimur, hi cuiusmodi sint paulo altius expediamus; locos
enim non uno modo intelligitur. Ac relinquamus quidem eos locos quos Victorinus
frustra atque inconuenienter interserit, uelut cos qui corpora concludunt, ac
simpliciter intelligamus eos locos argumentorum esse qui intra se continent
argumenta in quibus exponendis posterius quid sit quod dicimus clarius
apparebit. Nunc communiter de tota locorum ratione, deque argumentatione, ac de
quaestionibus et propositionibus earumque terminis uidetur esse
tractandum. Ac primum quoniam locus qui tractatur in Topicis, non
cuiuslibet rei sed tantum locus est argumenti, exposito prius argumenti
intellectu, deinceps de loci ratione tractabimus. Definit igitur Tullius
argumentum hoc modo: Argumentum est ratio quae rei dubiae faciat fidem. Sumpsit
igitur rationem ut genus. Omnes enim iniuriosi sunt qui orationis uirtutem a
sapientiae ratione seiungunt, aliamque esse dicendi artem uelint, aliam
intelligendi. Nam si nihil orationes aliud agimus, nisi interius cogitata
uulgamus, quae malum ratio est, orationis elegantiam a sententiarum grauitate
se ponere? Quae porro sententiarum grauitas esse potest, sine earum rerum de
quibus dicendum est comprehensione? Quae uero alia disciplina naturam
proprietatemque rerum omnium docet, uel quae omnino eorum quae intelligi
possunt, scientiam profitetur, nisi haec tantum ex qua nos pauca praesumpsimus
philosophia? quae longe aliter de his ipsis in proprio sapientium tractatu
disputare solet. Neque ita cursim ut nos, quae sint in illorum libris solet,
prolixius disserenda sumpsissem, quis ferret insolentium hominum temeritatem
prouectus suos culpare uolentium quibus prouectibus proficerent, si studiosi
potius quam queruli esse mallent? Sed his contentionibus neque antiqua caruit
aetas, nec nos ita delicati sumus, ut quibus patientia doctissimorum hominum
saepius obstitit, fere nolimus, dum et pluribus prod esse possumus, et
sapientium iudicia consequamur. Ad quem finem hic noster labor et totius operis
summa contendit. Sed haec hactenus. Nunc susceptae expositionis ordinem
persequamur. TOTO IGITUR LOCO CAUSARUM EXPLICATO, EX EARUM DIFFERENTIA IN
MAGNIS QUIDEM CAUSIS VEL ORATORUM VEL PHILOSOPHORUM MAGNA ARGUMENTORUM SUPPETIT
COPIA; IN VESTRIS AUTEM SI NON UBERIOR, AT FORTASSE SUBTILIOR. PRIVATA ENIM
IUDICIA MAXIMARUM QUIDEM RERUM IN IURIS CONSULTORUM MIHI VIDENTUR ESSE
PRUDENTIA. NAM ET ADSUNT MULTUM ET ADHIBENTUR IN CONSILIA ET PATRONIS
DILIGENTIBUS AD EORUM PRUDENTIAM CONFUGIENTIBUS HASTAS MINISTRANT. IN
OMNIBUS IGITUR EIS IUDICIIS, IN QUIBUS EX FIDE BONA EST ADDITUM, UBI VERO ETIAM
UT INTER BONOS BENE AGIER OPORTET IN PRIMISQUE IN ARBITRIO REI UXORIAE, IN QUO
EST QUOD EIUS AEQUIUS MELIUS, PARATI EIS ESSE DEBENT. ILLI DOLUM MALUM, ILLI
FIDEM BONAM, ILLI AEQUUM BONUM, ILLI QUID SOCIUM SOCIO, QUID EUM QUI NEGOTIA
ALIENA CURASSET EI CUIUS EA NEGOTIA FUISSENT, QUID EUM QUI MANDASSET, EUMVE CUI
MANDATUM ESSET, ALTERUM ALTERI PRAESTARE OPORTERET, QUID VIRUM UXORI, QUID
UXOREM VIRO TRADIDERUNT. LICEBIT IGITUR DILIGENTER ARGUMENTORUM COGNITIS LOCIS
NON MODO ORATORIBUS ET PHILOSOPHIS, SED IURIS ETIAM PERITIS COPIOSE DE
CONSULTATIONIBUS SUIS DISPUTARE. Diuiso causarum loco atque ordine suis
partibus distributo, de locis eiusdem facultate, quibusque uberius, quibusque
angustius accomodetur, uti saepe Ciceroni mos est, disserit. Primum enim
inquit, oratoribus ac philosophis, quorum in disputationibus larga materia est,
multa ex causarum loco argumentorum suppetit copia. Communis quippe oratoribus
ac philosophis hic locus esse prospicitur qui est a causis, his naturas rerum
quod est philosophiae proprium, illis quod oratoriae facultatis est, facta
probantibus. Nam et cum res quaelibet quaeritur, [eius causae a philosophis
uestigari solent. Quibus praemissis, ut superius dictum est, comitatur statim
quod concludendum est, et oratores ad suspicionem mouendam detergendamue
factorum causas requirunt. Hoc quippe stabile in hominum mentibus manet, quod
neque factum, neque res ulla praeter illam omnium principem naturam, sine
propriis causis possit existere. Quo fit ut uberrimus causarum usus sit in
rhetorum orationibus, philosophorumque tractatu. Sed ut hunc libellum M.
Tullius scribens, pleraque omnia Trebatio dedisse uideatur, hunc locum iuris
quoque consultis attributum esse demonstrat, dicens: Etsi non tam uberes
opportunitates habeat hic locus in iurisperitorum responsionibus subtilius certe
atque acutius pro ipsius artis natura tractari potest, scilicet ubertatem quae
deerat, subtilitate quae poterat inesse compensans. Habent enim etiam ipsi
proprium campum in quo eorum uirtus possit enitere. Est enim iurisconsultorum
prudentiae priuatarum quaestio causarum, maximeque in illis negotiis; hic
causarum locus examinabitur, in quibus bonae fidei iudicia nectuntur. In his
enim qui fuerit animus contrahentium quaeri solet, qui deprehendi uix poterit,
nisi praecedentibus causis intelligatur. In his igitur iudiciis in quibus
additur ut ex bona fide iudicent, id est ubi ita iudices dantur, ut non
strictas inter litigantes stipulationes sed bonam fidem quaerant, pluribus
causarum usus est: additur ut inter bonos bene agi oportet, considerantur
mores, inquiruntur consilia; statuitur quibus, quidque de causis, administratum
sit. In primisque in iudicio uxoriae rei uberrimus causarum tractatus
est. Est autem iudicium uxoriae rei, quoties post diuortium de dote
contentio est. Dos enim licet matrimonio constante in bonis uiri sit, est tamen
in uxoris iure, ut post diuortium uelut res uxoria poti potest. Quae quidem dos
interdum his conditionibus dari solebat, ut si inter uirum uxoremque diuortium
contigisset, quod melius a quius esset, apud uirum remaneret, reliquum dotis
restitueretur uxori, id est ut quod ex dote iudicatum fuisset melius aequius
esse ut apud uirum maneret, id uir sibi retineret; quod uero non esset melius
aequius apud uirum manere, id uxor post diuortium reciperet. In quo iudicio non
tantum boni [1158C] natura spectari solet, uerum etiam comparatio bonorum fit,
ut non tam quod aequum sed melius aequiusque est id sequendum sit. Quae omnia
ex precedentibus causis inuestigari solent. Nam si uiri culpa diuortium factum
est, aequiusmelius est nihil apud uirum manere. Si mulieris est culpa, aequius
melius est sextans retineri. In hisque omnibus peritissimi iurisconsulti
esse debent; quo fit ut Trebatium quoque hortetur ad studium. Multa enim esse dicit,
quae eorum operam exspectant. Illi enim, inquit, dolum malum, illi bonam fidem,
illi aequum et bonum, illi etiam quid socius socio praestare debeat, quid is
qui alienum in se gerendum sponte negotium suscepisset, ei cuius id negotium
fuerat, quid is qui mandauerit ei cui mandauerit suorum negotiorum actiones,
quid uir uxori, quid uxor uiro tradiderit; quae omnia ad posteriora causae
sunt, aique exinde iudicia sumuntur idcirco enim, uerbi gratia, quodlibet illud
iudex pronuntiare debet in uxoris ac uiri causa, quia uirum hoc praestare
oportet uxori; idcirco etiam mandato rei cui mandauerit, obligatus esse
iudicandus est, quia inter mandatorem susceptoremque negotii illud est
obseruandum, omnia quoque quae quisque alteri prmslare debet, ea in tractandis
iudicandisque negotiis causae sunt. Quocirca recte conclusit, diligenter
cognitis argumentorum locis, et oratoribus, et philosophis, et iurisconsultis
argumentorum copiam non defuturam. CONIUNCTUS HUIC CAUSARUM LOCO ILLE LOCUS
EST QUI EFFICITUR EX CAUSIS. UT ENIM CAUSA QUID SIT EFFECTUM INDICAT, SIC QUOD
EFFECTUM EST QUAE FUERIT CAUSA DEMONSTRAT. HIC LOCUS SUPPEDITARE SOLET
ORATORIBUS ET POETIS, SAEPE ETIAM PHILOSOPHIS, SED EIS QUI ORNATE ET COPIOSE
LOQUI POSSUNT, MIRABILEM COPIAM DICENDI, CUM DENUNTIANT QUID EX QUAQUE RE SIT
FUTURUM. CAUSARUM ENIM COGNITIO COGNITIONEM EVENTORUM FACIT. Omnia quae
ad se referuntur recte dicuntur esse cnniuncta; ipsa enim relatio rerum efficit
coniunctionem; quod si causa alicuius causa est, non alterius, nisi sui effectus
est causa, itemque si est aliquis effectus, ex causarum principiis uenit; iure
igitur ab effectis locus, causarum loco debet esse coniunctus. Quoniam uero
semper quae ad se referuntur aequantur, nec esse est, quae ubertas sit
causarum, eadem quoque sit effectorum. Quoniam enim causa praeter effectum esse
non potest, cum sit causa super effectum, nec esse est ut ex euentibus quoque
atque effectibus, plurima suppetant argumenta, siquidem ex causis etiam plurima
contrahuntur. Nam sicut cuiuslibet effectus potest causa tractari, si ex
qualibet causa potest, qui sit euentus ostendi, recteque, ait, causarum
cognitio euentuum cognitionem facit; ut enim in praedicamentis ostenditur,
sciri relatiuum aliquod non potest, praeter reliqui scientiam relatiui. RELIQUUS
EST COMPARATIONIS LOCUS, CUIUS GENUS ET EXEMPLUM SUPRA POSITUM EST UT
CAETERORUM; NUNC EXPLICANDA TRACTATIO EST. COMPARANTUR IGITUR EA QUAE AUT
MAIORA AUT MINORA AUT PARIA DICUNTUR; IN QUIBUS SPECTANTUR HAEC: NUMERUS
SPECIES VIS, QUAEDAM ETIAM AD RES ALIQUAS AFFECTIO. NUMERO SIC
COMPARABUNTUR, PLURA BONA UT PAUCIORIBUS BONIS ANTEPONANTUR, PAUCIORA MALA
MALIS PLURIBUS, DIUTURNIORA BONA BREVIORIBUS, LONGE ET LATE PERVAGATA ANGUSTIS,
EX QUIBUS PLURA BONA PROPAGENTUR QUAEQUE PLURES IMITENTUR ET FACIANT. SPECIE AUTEM
COMPARANTUR, UT ANTEPONANTUR QUAE PROPTER SE EXPETENDA SUNT EIS QUAE PROPTER
ALIUD ET UT INNATA ATQUE INSITA ASSUMPTIS ATQUE ADVENTICIIS, INTEGRA
CONTAMINATIS, IUCUNDA MINUS IUCUNDIS, HONESTA IPSIS ETIAM UTILIBUS, PROCLIVIA
LABORIOSIS, NECESSARIA NON NECESSARIIS, SUA ALIENIS, RARA VULGARIBUS,
DESIDERABILIA EIS QUIBUS FACILE CARERE POSSIS, PERFECTA INCOHATIS, TOTA
PARTIBUS, RATIONE UTENTIA RATIONIS EXPERTIBUS, VOLUNTARIA NECESSARIIS, ANIMATA
INANIMIS, NATURALIA NON NATURALIBUS, ARTIFICIOSA NON ARTIFICIOSIS.
[18.70] VIS AUTEM IN COMPARATIONE SIC CERNITUR: EFFICIENS CAUSA GRAVIOR QUAM
NON EFFICIENS; QUAE SE IPSIS CONTENTA SUNT MELIORA QUAM QUAE EGENT ALIIS; QUAE
IN NOSTRA QUAM QUAE IN ALIORUM POTESTATE SUNT; STABILIA INCERTIS; QUAE ERIPI NON
POSSUNT EIS QUAE POSSUNT. AFFECTIO AUTEM AD RES ALIQUAS EST HUIUS MODI:
PRINCIPUM COMMODA MAIORA QUAM RELIQUORUM; ITEMQUE QUAE IUCUNDIORA, QUAE
PLURIBUS PROBATA, QUAE AB OPTIMO QUOQUE LAUDATA. ATQUE UT HAEC IN COMPARATIONE
MELIORA, SIC DETERIORA QUAE EIS SUNT CONTRARIA. PARIUM AUTEM COMPARATIO
NEC ELATIONEM HABET NEC SUMMISSIONEM; EST ENIM AEQUALIS. MULTA AUTEM SUNT QUAE
AEQUALITATE IPSA COMPARANTUR; QUAE ITA FERE CONCLUDUNTUR: SI CONSILIO IUVARE
CIVES ET AUXILIO AEQUA IN LAUDE PONENDUM EST, PARI GLORIA DEBENT ESSE EI QUI
CONSULUNT ET EI QUI DEFENDUNT; AT QUOD PRIMUM, EST; QUOD SEQUITUR
IGITUR... Omnis comparatio duplex est: aut enim aequalia sibimet
comparantur, aut inaequalia; sed in his quae sunt aequalia, semper eadem esse
notatur aequalitas. Inaequalia autem ingemina ueluti membra diuiduntur, minoris
scilicet atque maioris. Nam quod minus est, non per se minus est sed com
paratione maioris. Itemque quod maius est, minoris comparatione dicitur maius.
Quae cum ita sint, diuidit atque ante oculos ponit omnium comparationem modos,
et quod raro in superioribus locis fecit, ipsas maximas propositiones ponit in
comparationibus constitutas, ut si quando loco sit nobis comparationis utendum,
habeamus quoddam, uelut inuentionis exemplar, ad quod quaerentem animum possimus
aduertere. Omnis igitur comparatio, aut in numero constat, aut in specie
aut in ui aut aliqua locata extrinsecus affectione. Nam quodcumque conferre
contendimus, aut numero comparamus, et secundum id aliud maius, aliud minus
esse decernimus; aut speciem ipsam intuentes, eamque alii comparantes de
excellentia iudicium damus; aut aliud consideramus, quid res quaeque possit
efficere, et in quantum eius progredi possit natura, aut ex aliorum quodammodo
continentia, et ex circumstantium affectione rem quam alii conferimus
intuemur. Numero igitur quae comparantur, si ex eodem sint genere, plura
paucioribus ante ponuntur, uelut ei bona omnia sit aequalia, iure quis
quamplura bona paucioribus anteponit. Et est haec maxima propositio: Plura
bona paucioribus anteponuntur et in caeteris quoque eadem ratio
perspicitur maximarum propositionum. At si omnia in contrario sint genere,
pluralitati paucitas praeferenda est, ut pauca mala pluribus malis, mala uero
ipsa bonis nullo modo conferuntur. Quae enim ullo modo compensantur, in eodem
esse genere debent, non in contrario. Nam cum aduersum se contraria e regione
locata sunt, conferri compararique non possunt, quod sibi intelligitur esse
inimica. Est etiam secundum numerum comparatio in temporis quoque ratione. Nam
cum tempuscertis quibusdam spatiis, diuidatur, uelut horae, diei, mensis atque
anni, ex aequalibus bonis ea magis eligenda sunt, quae diuturnius perseuerant,
quod in numero positum esse nullus ignorat. Ipsa enim diuturnitas plurimos esse
uel dies, uel menses, uel annos fatetur, quibus duret id quod eligitur. Longe
etiam peruagala bona, angustis et in unum minimum locum coarctatis numeri
comparatione praecedunt. Nam quae longe lateque peruagata sunt, ea in plurimas
gentes regionesque diffusa sunt; pluralitas uero cuiuslibet rei numerum
spectat. Iam uero ex quo plura propagantur bona, qui non iudicet esse meliora
his quorum est inops bonorum contractiorque fecunditas? Quis etiam bonum quod
plures imitentur ut faciant, caeteris quae ita non sint, excellere non arbitretur,
quae in numero constare quis nesciat, quando in numero pluralibus
constat? Specie uero comparantur, quae per seipsa considerata suae
quodammodo pulchritudinis merito caeteris anteferuntur. Meliora enim sunt quae
propter se, quam quae propter aliud expetuntur, ueluti salus quae propter se
excetitur, medicina propter salutem; quocirca melior est salus quam medicina:
atque haec non ad aliquem numerum, nec postremo ad aliquam quantitatem sed ad
ipsam speciem salutis ac medicinae considerationem referentes, iudicium
promimus. Illa quoque quae innata atque insita sunt, assumptis et aduentitiis
meliora iudicantur, unde innata moribus grauitas longe amplius excellit eam
quae per imitationem affectatur. Integra etiam potius quam contaminata melioris
rei iudicium ferunt. Nam quae integra sunt, suam speciem seruant, quae
contanimata sunt atque ex aliqua parte uitiata, si qua etiam inerat, speciei
pulchritudinem perdiderunt. iocunda minus iocundis meliora, communis omnium
animalium natura diiudicat. Honesta utilibus sapientes anteponunt; procliuia
laboriosis anteferri illa res monstrat, quod nemo ad eumdem finem per
laboriosam atque asperam uiam tendere cupiat, ad quem possit procliui facilique
itinere peruenire. Labor quippe omnis iniocundus est, iocunda est facilitas.
Necessaria etiam non necessariis partim praeferri, partim etiam postponi
debent, quod M. Tullius tacuit: necessaria quippe praeferuntur his non
necessariis, quae non boni ratione sed uoluptatis appetitione sunt constituta,
ueluti luxu regio parata conuiuia nullus sapiens iudicet esse meliora his quae
naturae expleant indigentiam. Quaedam uero sunt quae ipsa specie boni, cum non
necessaria sint, meliora sunt necessariis. Nam uiuere necessarium est, et sine
eo subsistere animal nequit. Philosophari uero non est necessarium, melius
tamen longeque excellentius est philosophum uiuere quam tantum uiuere: illud
enim raro paucisque etiam utentibus ratione concessum; illud pecudibus commune
nobiscum. Sua quoque alienis iure meliora esse dicuntur, ueluti hominibus ratio
potius quam uoluptatis appetitio: illud enim proprium est hominis, illud
alienum; rara quoque uulgaribus meliora sunt. (Atque hic locus approbat id quod
superius dictum est, philosophantem uitam ipsa uita esse meliorem: nam quae
rara sunt, facile id quod uulgare est antecedunt.) Desiderabilia etiam
his quibus facile carere possis, illa res approbat esse meliora, quod maxime
desiderantur, et sine his anxia uita est, ueluti ei quis capillis uisum
conierat. Aegrius enim toleramus carere uisu quam capillis; ita ex hoc meliorem
esse uisum capillis iudicamus, quod his facile, illo aequo animo carere non
possumus. Perfecta etiam imperfectis naturaliter excellunt, illa enim suam
formam adepta sunt, illa minime. Tota etiam partibus eodem modo excellentiora
esse arbitramur: nam quod totum est, habet naturae propriam formam. Quod uero
pars est et ad totius nititur perfectionem, nondum suae pulchritudinis speciem
cepit, nisi ad totius integritatem referatur. Iam uero ratione utentia rationis
expertibus nullus dubitat esse meliora. Voluntaria quoque necessariis iure
anteponuntur, namque uoluntaria libera sunt, quae necessaria quodam nos ueluti
dominio necessitatis astringunt, atque ideo meliora esse uoluntaria necessariis
existimamus; quanquam in hoc etiam illud intelligi possit, quod a nobis
superius dictum est, non necessaria saepe necessariis anteponi, quandoquidem ea
quae uoluntaria sunt non fuerint necessaria; uoluntaria uero meliora sunt
necessariis. Non necessaria igitur saepe necessariis excellunt; animata quoque
inanimatis. ipsius animae negatione considerata, anteponenda esse ratio
persuadet. Naturalia etiam non naturalibus, et artificiosa inartificiosis.
Optimusque hic gradus est, ut naturam arti, artem praeferas inertiae, ars
quippe imitatur naturam. Quo fit ut id quod in se retinet pulchri, ex natura
ueniat, cuius inmitari speciem cupit. Longe uero postrema sunt quae cum
artificio carent, non a specie solum naturae, uerum etiam ab imitatione
discedunt, atque haec quidem de specie in comparationibus considerantur. Vis
autem in eo consistit in quo consideratur quid unaquaeque res possit efficere,
nam quod quaeque res potest, ea uis eius rectissime dicitur. Efficiens igitur
causa grauiorem uim habet quam ea quae nihil efficit: uelut artifex melior quam
materia, illa quippe stolida est atque immota. Nec aliquid efficiens, nisi
formam ab artifice, id est ab efficiente causa, susceperit. Item quae se ipsis
contenta sunt, meliora esse his uidentur quae egent aliis: ueluti omnium Deus
optimus est, quia nullo indiget, et ipso cuncta sunt indiga. Item quae in
nostra sunt potestate magis eligenda sunt quam qua in aliena manu posita facile
labuntur. Quo fit ut sit uirtus meliorquam diuitiae; nam uirtus est in nostra
potestate, diuitiarum fortuna domina est. Iam uero stabilia incertis, quae
eripi non possunt, his quae possunt, si tamen bona sunt, quis non intelligat
esse meliora? Quorum tamen locorum pars contraria contrarium teneet:
inspectis quippe his quae meliora sunt, si horum aduersa uideamus, deteriora
sunt. Restat in affectione posita comparatio quae ita tractatur, ut non
per semetipsam res quae alii confertur sed ex alterius cuiuslibet
consideratione pensetur, uelut in tribus quibusdam rebus si duae ad seinuicem
comparentur, eo quod ad tertiam plus minueue iungantur. Sint enim duo quaedam
humanis rebus accommodata, quarum una principibus atque etiam ipsi reipublicae
accommodatior: hic igitur iudicabimus eam rem esse meliorem quae melioribus
prodest, id est ut reipublicae uel principibus non considerantes ut sese res
habeat sed quantum reipublicae uel principibus adiuncta sit. Haec igitur res ex
affectione est comparata, meliusque iudicatur id quod principibus commodum est,
quam id quod aliquibus priuatis, quoniam principes reliquorum etiam continent
statum. Eodem modo sunt quae sequuntur, ut quae iucundiora sunt pluribus, quae
clariora inter multos, quae pluribus comprobata sunt, meliora ducantur. Nam
etiamsi minus ipsa huius naturae sint, affectione tamen, ut dictum est, eorum
quibus uel iucundiora, uel inter quos clariora sunt, aut a quibus probantur,
meliora existimanda sunt. Sed quanquam id quod a pluribus bonum ducitur,
superius in ea comparationis parte posuerit in qua fiebat secundum numerum
comparatio, nihil tamen impedit eumdem locum secundum aliam atque aliam
considerationem diuersis generibus subdi: uelut ala auis cum substantia sit,
eadem tamen ad aliquid esse intelligitur, si ad alatum consideretur. Illa
quoque ex affectione uidentur esse meliora quae ab eo laudata sunt, contra quem
dialectica oratione uel rhetorica facultate disseritur. Nam ut reuincere ad
uersarium possis, sat est si eum tibi consensisse monstraueris, atque id
aliquando uelut optimum praedicasse, quod tu melius re proposita monstrare
contendas. Dictis igitur omnibus meliorum locis, his oppositi quae
deteriora sunt continebunt. Parium uero nulla discretio est. Neque enim
quod par est, aut intentionem sumere, aut remissionem potest. Quibus autem
modis inter se maiora minoraque penduntur, iisdem inter se paria conferuntur. Nam
quae uel numero, uel specie, uel ui, uel affectione fuerint, aeque paria esse
dicuntur. Commune autem cunctorum exemplum est, quod Cicero in qualitate
constituit, quae qualitas in cunctis paribus aequa est sed uel numero, uel
specie, uel ui, uel affectione paria sunt. Nam in eorum comparatione quae
maiora uel minora sunt, una quaedam qualitas est sed horum accessione
uariantur. Nam quibus in eadem qualitate maior numerus, pulchrior species,
efficacior uis, ad pretiosiora coniunctior affectio, ea meliora esse existimabuntur.
Quae si aequa fuerint, in eadem qualitate paria sunt. Exemplum uero quod
proposuit, ad blandiendum Trebatii animum ualet, cum propriam, id est
oratoriam, facultatem cum iurisperitorum laude coniungit hoc modo: Si consilio
iuuare ciues, quod iurisperitorum, est, et auxilio, quod oratorum est, aequa in
laude ponendum est, pari gloria debent esse que consulunt, id est periti iuris,
et hi qui defendunt, id est oratores. Atqui primum est, id est consilio iuuare
ciues, et auxilio, aequa in laude ponendum est. Quod sequitur igitur, id est --
supple: pari gloria debent, esse qui consulunt, id est periti iuris, et hi qui
defendunt, id est oratores -- infertur. Ea uero conclusio est per quam dicimus:
hi igitur qui consulunt, et hi qui defendunt, pari gloria esse debent. Hoc
autem breuiter dialecticorum more protulit, qui sit enuntiaut: si dies est,
lucet. At quod primum est, id autem tantumdem est ac si dicatur, atqui dies
est. In propositione enim quae est, si dies est, lux est, prior est propositio,
dies est. Concludunt quod sequitur, igitur, id est, esse lucem. Id enim in
prima parte propositionis, quae erat, si dies est, sequebatur. Igitur hic
quoque Cicero sic protulit: Atqui primum est, id est, consilio et auxilio
iuuare ciues aequa in laude esse ponendum, id enim erat primum in ea
propositione quae dicebat si consilio et auxilio ciues iuuare aequa in laude
poneretur, pari gloria esse oratores iurisque consultos. Quod sequitur igitur,
id est, pari gloria debent esse qui consulunt ac defendunt; id enim erat
consequens in ea propositione quae statuebat: Si consilio et auxilio ciues
iuuare par esset, pares esse qui consulunt ac deltendunt. PERFECTA EST
OMNIS ARGUMENTORUM INUENIENDORUM PRAECEPTIO, UT, CUM PROFECTUS SIS A
DEFINITIONE, A PARTITIONE, A NOTATIONE, A CONIUGATIS, A GENERE, A FORMIS, A
SIMILITUDINE, A DIFFERENTIA, A CONTRARIIS, AB ADIUNCTIS, A CONSEQUENTIBUS, AB
ANTECEDENTIBUS, A REPUGNANTIBUS, A CAUSIS, AB EFFECTIS, A COMPARATIONE MAIORUM
MINORUM PARIUM, NULLA PRAETEREA SEDES ARGUMENTI QUAERENDA SIT. Tametsi ex his
quae dicta sunt intelligatur nullum argumenti locum esse praeteritum, breuiter
tamen Ciceronis conclusionem, qua se nihil omisisse commemorat, ad ampliorem
doctrinae fidem approbandam reor, in his enim nihil omnino praetermittitur quae
certa ratione tractantur. Nulla uero certior ratio diuisione; quod enim quisque
partitur a communibus in particularia deducens, cum rectum iter insistat, labi
atque in errorem duci noo potest. Locorum igitur omnium prima diuisio fuit in
ea quae in ipsis haererent, et ea quae assumerentur extrinsecus. Cuius
diuisionis nihil medium reperiri potest: aut enim in ipso est aliquid de quo
quaeritur, aut extrinsecus nec esse est assumatur. Videamus igitur nunc
quemadmodum disputatio per nihil omittentem diuisionem feratur. Eorum
igitur locorum, qui in ipsis sunt de quibus agitur, nunc ex toto, nunc ex
partibus, nunc ex uocabulo, nunc ex adectis sumitur argumentum. In his igitur
quoniam nihil relictum sit perspicue apparet; in eo enim quod coniunctum est, duplex
discretio est: una ex eo ipso quod formatum est atque compositum, quod totum
est, in quo etiam definitiones adhibentur: alia in eius partibus inspiciendis,
ex quibus compositi forma coniuncta est. Sed quoniam natura hominum id quod
intelligit, uoce saepius prodit, nec esse est ut nomen quoque quod ad
intellectus declarationem adhibetur, ostendat aliquam rei quam significat
proprietatem, intellectus quippe, qualitatem rei quam intelligit, significat.
Quocirca nomen quoque intellectus qualitatem designat. Iure igitur dictum est
proprietatem quamdam rei uocabulo significari, atque ita ex eo trahi argumentum
potest, quod uocatur a nota. (Horum uero locorum alias partitiones dedit, quas
paulo post breuius colligemus.) Affecta uero, quae, ut superius dictum
est, in relatione consistunt, ipsa etiam rite diuisa sunt. Nam quae referuntur
ad aliquid, aut substantialia sunt, aut accidentia. Substantialia, ut
coniugata, nam iusto, in eo quod iustus est, iustitia substantiam facit. Nec id
dico, quod homini esse ex iustitia conslituatur sed iusto, qui iustitia
discedente corrumpitur. Similis et de eo quod est iuste aduerbio, ratio est.
Est etiam substantiale, genus, species, differentia, causa, effectus. Accidentia,
ut contrarium, simile, adiunctum, paria, maiora, minora. Consequentia uero
atque repugnantia, quoniam, ut superius dictum est, in conditione posita sunt,
nunc substantialia reperiuntur, nunc uero in accidentibus considerantur.
Substantialia, ut cum genus antecedit speciem; accidentia, ut cum nigredo
praecedentem sequitur coruum, quanquam etiam in causis aliquae accidentes esse
possint. De quarum omnium proprietatibus Tullius supra disseruit. Atque
ut breuissima descriptione tota locorum diuisio colligatur, erit hoc modo: Omne
argumentum aut ex his locis ducitur qui in ipso de quo quaeritur inhaerent, aut
ex his quae extrinsecus assumuntur. Is uero locus qui in ipsis de quibus
ambigitus positus est, diuiditur in eum locum qui est ex toto, et in eum qui
est ex partibus, et in eum qui est ex nota, et in eum qui est ab affectis. Is
autem qui a toto est, a definitione locus uocatur. Definitionum uero aliae sunt
propriae, aliae non propriae. Non propriarum uero aliae sunt quae singulis
nominibus denotantur, aliae quae oratione panduntur. Earum uero quae singulis
nominibus fiunt, aliae sunt in quibus pro nomine redditur nomen, quae
dicununtur *kat' antilexin*, aliae quae exempli gratia nomen subiiciunt, quae
dicuntur *hos typos*. Earum uero quae oratione declarantur, aliae fiunt a
partitione, aliae a diuisione, aliae a differentiis praeter genus, quae
*ennoematike* dicitur; aliae quae ex pluribus qualitatibus fiunt, etiam
singulis totum id significantibus, quod omnis qualitatum collectio declarat,
quae uocantur *poiotes*; aliae quae ex accidentibus, non singulis sed cunctis
unum aliquid efficientibus constant; aliae quae ad differentiani dantur; aliae
per translationem, aliae quae ex priuatione contrarii, aliae quae propriis
nominibus aptantur quae etiam *hypotyposeis* dicuntur; aliae per indigentiam
pleni, aliae per proportionem, aliae per relationem, aliae per causam. Item
alia definitionis diuisio secundum Tullium principalis, quod aliae corporalium
rerum sint, aliae incorporalium, et definitionis quidem locus ita diuisus
est. A partibus autem locus diuiditur in partitionem et diuisionem. A
nota uero locus simplex est. Ab affectis autem, alii sunt a coniugatis, aliia
genere, alii a forma, alii a simili, alii a differentia, alii a contrariis,
alii ab adiunctis, alii a consequentibus, antecedentibus et repugnantibus, alii
a causa, alii ab effectis, alii a comparatione parium, maiorum uel
minorum. Genus uero diuiditur in suprema genera, et in ea quae etiam
species esse possunt. Species quoque diuiditur in ultimas species et in ea quae
etiam genera esse possunt. Similium quoque alia in singulis considerantur, et
uocantur exempla, alia in pluribus, et appellatur inductio; alia in coniunctis,
et uocatur proportio. Item differentiarum aliae sunt substantiales, aliae, etsi
non substantiales, inseparabiles tamen, aliae neque substantiales neque
inseparabiles. Contrariorum alia dicuntur aduersa, alia priuantia, alia
negantia, alia relatiua. Adiunctorum uero alia sunt quae ante rem existunt,
alia quae cum re, alia uero post rem.
Locus uero conditionalis diuiditur in antecedens, consequens et
repugnans. Causarum quoque multiplex locus est: aliae namque sunt quae ui
sua efficiunt, aliae sine quibus effici non potest. Earum uero quae ui sua
efficiunt, aliae sunt necessariae nihilo indigentes ut efficiant, aliae uero
indigentes ut efficiant, alis? uero indigentes et non necessariae. Earum
uero sine quibus non efficitur, aliae sunt mobiles, aliae immobiles. Item
causarum aliae sunt non spontaneae, aliae ex uoluntate, alia, ex perturbatione,
aliae ex habitu, alia ex natura, aliae ex arte, aliae ex casu. Rursus causarum
aliae sunt constantes, aliae inconstantes. Amplius, causarum aliae sunt
uoluntariae, aliae ignoratae. Ignoratarum pars in casu, pars in necessitate
[1166B] est constituta. Necessariarum pars in ui, pars in scientia posita est.
Effecta uero in tantum diuidi possunt, in quantum ad superius dictas causas
referuntur. Locus uero a comparatione minorum, parium atque maiorum,
diuiditur innumerum, speciem, uim, ad res alias affectionem. Quae cum ita
sint, cumque nihil sit in diuisione praetermissum, recte M. Tullius
partitione in conclusit, dicens nullam argumenti sedem esse praeteritam. Restat
igitur locus qui extrinsecus sumitur, quem, quoniam nihil iurisconsultis est
utilis, non Trebatii causa sed ne quid perfecto operi deesse uideatur,
adiungit. SED QUONIAM ITA A PRINCIPIO DIVISIMUS, UT ALIOS LOCOS DICEREMUS
IN EO IPSO DE QUO AMBIGITUR HAERERE, DE QUIBUS SATIS EST DICTUM, ALIOS ASSUMI
EXTRINSECUS, DE EIS PAUCA DICAMUS, ETSI EA NIHIL OMNINO AD VESTRAS
DISPUTATIONES PERTINENT; SED TAMEN TOTAM REM EFFICIAMUS, QUANDOQUIDEM COEPIMUS.
NEQUE ENIM TU IS ES QUEM NIHIL NISI IUS CIVILE DELECTET, ET QUONIAM HAEC ITA AD
TE SCRIBUNTUR, UT ETIAM IN ALIORUM MANUS SINT VENTURA, DETUR OPERA, UT QUAM
PLURIMUM EIS QUOS RECTA STUDIA DELECTANT PRODESSE POSSIMUS. Ne locus
nihil iuris perito profuturus negligentiam sui faceret, Trebatium ut in
prooemio magnus orator reddit attentum; ait enim ita sese diuisisse in
principio, ut; alios locos in ipsis haerere diceret, de quibus ageretur, alios
extrinsecus assumi, et eum de superioribus locis idonee disputatum sit,
intractatam reliquam partem non oportere praeteriri. Neque enim hunc esse
Trebatium, qui sua arte contentus, caeterorum studia negligat, uerum diligentia
atque ingenio plurimum ualens, cuncta ad se pertinere ducat, quae liberalibus
studiis annumerentur: simul dandam esse operam dicit, queniam beneuolo animo
Ciceronis opus Trebatius esset editurus, ut cum in multorum manus uenisset,
prodesse iis integrum posset, qui rectis studiis tenerentur, hoc quoque
Trebatio beneficii nomine concedens, quod ad eum scripta, et per eum edita
plurimis profutura conscriberet. HAEC ERGO ARGUMENTATIO, QUAE DICITUR ARTIS
EXPERS, IN TESTIMONIO POSITA EST. TESTIMONIUM AUTEM NUNC DICIMUS OMNE QUOD AB
ALIQUA RE EXTERNA SUMITUR AD FACIENDAM FIDEM... Extrinsecus positum argumenti
locum, quem M. Tullius uocat artis expertem, in testimonio positum esse
pronuntiat. Dubitari autem potest quid hic locus a superioribus differat,
quos in affectis locauit. Nam uti affecta semper in relatione sunt constituta,
ita etiam testimonia ad ea quorum sunt testimonia referuntur. Omne enim
testimonium testatae rei testimonium est. Quocirca, cur aut ea quae affecta
dudum uocata sunt, non extrinsecus collocentur, aut ea quae nunc uocantur extrinsecus
non inter affecta ponantur, quaeri potest, cum praesertim ea quae adiuncta esse
negotio superius diximus, ueluti quoddam testimonium saepe rebus afferant, cum
ex eorum quae praecesserunt, uel consecuta sunt signis, quod gestum si
considerari solet. Quorum omnium communis illa solutio est, quod ex affectis
argumenta quae fiunt, ab oratore inueniuntur, eiusque opera atque industria
nascuntur. Ea uero quae extrinsecus posita sunt, rei tantum testimonium
prrebent, non enim inueniantur ab oratore sed his orator utitur positis atque
ante constitutis. Namque a genere, uel a specie, uel a caeteris affectis
argumenta sunt, ab ipso quodammodo oratore reperiuntur. Testimonia uero sibi
ipse non efficit sed ad causam utitur ante praeparatis. Quo fit ut argumenta ex
affectis in eausa statim atque ex tempore nascantur; ea uero quae in
testimoniis posita sunt, ante rem praecurrentia confirmando usum negotio
posterius praestent, et in adiunctis ab oratore coniectura colligitur, et
auditorum mentibus intimatur. Testimonia uero non in coniecturio, aut in
suspicionibus sed in rei gestae narratione consistunt. Ostendit autem
uehementius quid esset testimonium, cum dicit, id a se testimonium uocari quod
ab aliqua externa re sumitur. Omnia quippe affecta, ab eis ad quae affecta
sunt, non uidentur externa. Testis uero cum re testificata nulla cognatione
coniungitur, nisi sola notitia, quae nihil ad rem quae gesta est attinet, cum
si gestum negotium nullus agnosceret, nihilominus tamen gesta res esset; sed id
poterit etiam ad similitudinem duci, quid enim minus esset aliquid, si ei
simile nihil reperiretur? Sed quod simile est, ei cui simile est eadem
qualitate coniungitur, quae qualitas utrumque conformat. Scientia uero quamuis
efficiat testem, nulla tamen qualitate coniungitur cum re cuius illa notitia
est. Neque enim scientis notitia, rei gestae qualitas dici potest, cum si
notitia, qualitas rei posset intelligi, pereuntibus his qui rem norunt, res uel
interiret, uel mutaretur, quod neutrum euenire rec esse est, quandoquidem, absumptis
scientibus, res ignorata poterit permanere. PERSONA AUTEM NON
QUALISCUMQUE EST TESTIMONI PONDUS HABET; AD FIDEM ENIM FACIENDAM AUCTORITAS
QUAERITUR; SED AUCTORITATEM AUT NATURA AUT TEMPUS AFFERT. NATURAE AUCTORITAS IN
VIRTUTE INEST MAXIMA; IN TEMPORE AUTEM MULTA SUNT QUAE AFFERANT AUCTORITATEM:
INGENIUM OPES AETAS [FORTUNA] ARS USUS NECESSITAS, CONCURSIO ETIAM NON NUMQUAM
RERUM FORTUITARUM. NAM ET INGENIOSOS ET OPULENTOS ET AETATIS SPATIO PROBATOS
DIGNOS QUIBUS CREDATUR PUTANT; NON RECTE FORTASSE, SED VULGI [1168A] OPINIO
MUTARI VIX POTEST AD EAMQUE OMNIA DIRIGUNT ET QUI IUDICANT ET QUI EXISTIMANT.
QUI ENIM REBUS HIS QUAS DIXI EXCELLUNT, IPSA VIRTUTE VIDENTUR EXCELLERE. SED
RELIQUIS QUOQUE REBUS QUAS MODO ENUMERAVI QUAMQUAM IN HIS NULLA SPECIES VIRTUTIS
EST, TAMEN INTERDUM CONFIRMATUR FIDES, SI AUT ARS QUAEDAM ADHIBETUR -- MAGNA
EST ENIM VIS AD PERSUADENDUM SCIENTIAE -- AUT USUS; PLERUMQUE ENIM CREDITUR EIS
QUI EXPERTI SUNT. FACIT ETIAM NECESSITAS FIDEM, QUAE TUM A CORPORIBUS TUM
AB ANIMIS NASCITUR. NAM ET VERBERIBUS TORMENTIS IGNI FATIGATI QUAE DICUNT EA
VIDETUR VERITAS IPSA DICERE, ET QUAE PERTURBATIONIBUS ANIMI, DOLORE CUPIDITATE
IRACUNDIA METU, QUIA NECESSITATIS VIM HABENT, AFFERUNT AUCTORITATEM ET FIDEM.
CUIUS GENERIS ETIAM ILLA SUNT EX QUIBUS VERUM NON NUMQUAM INVENITUR, PUERITIA
SOMNUS IMPRUDENTIA VINOLENTIA INSANIA. NAM ET PARVI SAEPE INDICAVERUNT ALIQUID,
QUO ID PERTINERET IGNARI, ET PER SOMNUM VINUM INSANIAM MULTA SAEPE PATEFACTA
SUNT. MULTI ETIAM IN RES ODIOSAS IMPRUDENTER INCIDERUNT, UT STAIENO NUPER
ACCIDIT, QUI EA LOCUTUS EST BONIS UIRIS SUBAUSCULTANTIBUS PARIETE INTERPOSITO,
QUIBUS PATEFACTIS IN IUDICIUMQUE PROLATIS ILLE REI CAPITALIS IURE DAMNATUS EST.
[HUIC SIMILE QUIDDAM DE LACEDAEMONIO PAUSANIA ACCEPIMUS.] [20.76] CONCURSIO
AUTEM FORTUITORUM TALIS EST, UT SI INTERVENTUM EST CASU, CUM AUT AGERETUR
ALIQUID QUOD PROFERENDUM NON ESSET, AUT DICERETUR. IN HOC GENERE ETIAM ILLA EST
IN PALAMEDEM CONIECTA SUSPICIPNUM PRODITIONIS MULTITUDO; QUOD GENUS REFUTARE INTERDUM
VERITAS VIX POTEST. Quoniam locum artis expertem in testimonio positum esse
dixit, in testimoniis uero personarum fidem suam interponentium auctoritas
quaeritur, necessarium fuit, quibus rebus fieri soleat auctoritas, expedire. Ac
caetera quidem clarissime atque apertissime dicta sunt. Sed quonium
auctoritatem in naturam tempusque diuisit, cumque in tempore, ingenium, opes,
aetatem, fortunam, artem, usum, necessitatem, concursionem etiam nonnunquam
rerum fortuitarum locauit, quaeri potest: Quid enim attinet ad tempus ingenium?
quid ars? quid usus? Nam aetus atque opes, fortuna et fortuitarum rerum
concursio subiecta sunt tempori, quoniam unumquodque eorum uariis temporum
uicibus permutatur. Ingenium uero naturae potius oportuit attribui artem atque
usum tertium quiddam, quoniam neque tempori neque naturae subiiciuntur.
Quanquam uirtus quoque ipsa, quam M. Tullius in naturae ratione constituit
quibusdam non naturalis sed tum doctrina, tum recta exercitatione uiuendi
uideatur ascita. Sed haec ita intelligenda diuisio est, quod omnis
auctoritas aut ex magnis atque excellentibus rebus et per naturam optimis
uenit, aut ab his quae inferiore loco sunt constituta, fidem non ex naturae
qualitate sed ex uulgo insitis opinionibus capit. Et maximas quidem
excellentesque res in natura constituit, quae semper, ut ipse Tullius multis in
locis defendit, boni est appetens. At uero quae posteriora sunt, in tempore
posuit, idcirco quod omnia tempori subiecta, principalis boni non retinent
statim. Virtus quidem in deterius flecti non potest. Ingenium uero atque opes,
fortuna et ars atque usus saepe non recta exercitatione deprauantur. Nam
quidquid horum fuerit a uirtute seiunctum, dignitatem uerae laudis
anmittit. Et de uirtute quidem distulit dicere. Posteriorem uero partem,
id est in tempore positae auctoritatis diuisit et euidentissimis patefecit
exemplis. Nam et ingeniis fides adest, atque ex ea praesto est auctoritas
plurima. Eos quippe sapientius loqui homines credunt, quorum ingenium ad
expedienda quts proposuerint, sufficit. Opibus quoque praepollentes, dignos
fide iudicant, fortuna quoque et dignitate praeclaris, maiestatem auctoritatis
impertiunt, non recte fortasse; sed et iudicium in negotiis, et existimatio
uitae, opinione hominum maxime continetur, quae quia mutari uix potest, ad eam
cuncta diriget, eaque sibi tractanda regendaque proponet orator. Ars etiam
atque usus plurimum ualent. In utrisque enim fidem notitia facit.
Necessitas quoque, quasi id quod latebat, extorquens, auctoritate subnixa est,
quae tum ab animo, tum a corporibus uenit: a corporibus, cum igni, ferro ac
uerberibus uerum quod latet aperitur; ab animo, cum mens quadam perturbationis
uel ignoranti; e necessitate confunditur. Tunc enim quid dici, quid taceri
debeat, minime distinguens, uerum quod occultum erat, prodit atque effundit in
lucem. Nam iracundia saepe, et quaelibet animi perturbatio, quod occultandum
foret, haud continet, quae idcirco habet auctoritatem ad fidem, quia
simpliciter prodita sunt, nec ulla calliditatis arte prolata. Quin etiam ignorantia
puerorum, uinolentia, somnus quaedam saepe produxit in medium, in quibus si
iudicium fuisset ullum, prolata non essent. Saepe etiam homines praeter ullam
animi perturbationem imprudentes propria confessione obligati sunt, dum cuncta
simpliciter effundunt, quae sibi nocitura non existimant, ut Staterio euenisse
proposuit, qui interposito pariete testibus audientibus ea confessus est,
ignorane se ab insidiantibus audiri, quibus uulgatis in iudiciumque prolatis,
capitali sententia condemnatus est. Atque haec quidem ignorantia in necessitate
constituta est; nam qui nescit id quod ignorat, ne si uelit quidem poterit
euitare; quae autem necessitas extorquet, ipso quodammodo uidetur ueritas
dicere, atque ideo eis ueluti auctoritate subuixis fides adhibetur.
Concursio etiam rerum fortuitarum facit fidem, quae cum aliquoties falsa
designet, tamen ita est uehemens, ut se ab ea ueritas explicare uix possit.
Quale est quod de Palamede narratur. Phryx exstinctus, qui quasi a Priamo
missus uideretur, repertae Priami litterae Phrygia manus imitata, quae
concurrentia fidem lucerent proditionis. Hinc dicit Cicero: TALIS ETIAM FORTUITARUM
RERUM CONCURSIO EST. CAETERA DESUNT. Primum dicendum circa quid et de quo est
intentio, quoniam circa demonstrationem et de disciplina demonstrativa est.
Deinde determinandum quid propositio, et quid terminus, quid syllogismus, quis
perfectus, et quis imperfectus. Postea vero quid est in toto esse, vel non esse
hoc in illo, et quid dicimus de omni, aut de nullo praedicari. Propositio ergo
est oratio affirmativa, vel negativa alicuius de aliquo. Haec autem aut
universalis, aut particularis, aut indefinita. Dico autem universalem quidem,
cum aliquid omni, aut nulli inesse; particularem vero, cum alicui, aut non
alicui, aut non omni inesse. Indefinitam autem, cum quid inesse, vel non inesse
significat, sive universali, vel particulari, ut contrariorum eamdem esse
disciplinam, aut voluptatem non esse bonum. Differt autem demonstrativa
propositio A dialectica, quoniam demonstrativa quidem sumptio alterius partis
contradictionis est. Non enim interrogat, sed sumit, qui demonstrat. Dialectica
vero interrogatio contradictionis est. Nihil autem refert ut fiat ex utraque
syllogismus; nam et qui demonstrat, et qui interrogat, syllogizat, sumens
aliquid de aliquo esse, vel non esse. Quare erit syllogistica quidem
propositio, simpliciter affirmatio vel negatio alicuius de aliquo secundum
dictum modum. Demonstrativa vero si vera sit, et per primas propositiones
sumpta. Dialectica autem percontanti quidem interrogatio contradictionis est,
syllogizanti vero sumptio apparentis et probabilis, quemadmodum in Topicis
dictum est. Quid est ergo propositio, et quid differt syllogistica A
demonstrativa et dialectica, diligentius quidem in sequentibus dicetur. Ad
praesentem vero utilitatem, sufficienter nobis determinata sint, quae nunc
dicta sunt. Terminum autem voco, in quem resolvitur propositio, ut praedicatum,
et de quo praedicatur, vel apposito, vel separato esse, vel non esse. Syllogismus
est oratio in qua, quibusdam positis, aliud quiddam ab his quae posita sunt ex
necessitate accidit, eo quod haec sunt. Dico autem eo quod haec sunt, propter
haec accidere. Propter haec vero accidere, est nullius extrinsecus termini
indigere, ut fiat necessarium. Perfectum vero voco syllogismum, qui nullius
alius indiget, praeter ea quae sumpta sunt, ut appareat necessarium. Imperfectum
vero, qui indiget aut unius aut plurium, quae sunt quidem necessaria per
subiectos terminos, non autem sumpta sunt per propositiones. In toto autem esse
alterum in altero, et de omni praedicari alterum de altero idem est. Dicimus
autem de omni praedicari, quando nihil est sumere subiecti, de quo non dicatur
alterum, et de nullo similiter. Quoniam autem omnis propositio est, aut de
inesse, aut ex necessitate inesse, aut contingere inesse; harum autem, hae
quidem affirmativae, illae autem negativae secundum unamquamque appellationem;
rursus autem affirmativarum et negativarum, aliae sunt universales, aliae
particulares, aliae indefinitae: universalem quidem privativam de eo quod est
inesse, necesse est in terminis converti. Ut si nulla voluptas est bonum, neque
bonum nullum, erit voluptas. Praedicativam autem converti quidem necessarium
est, non tamen universaliter, sed in parte, ut, si omnis voluptas est bonum, et
bonum aliquod voluptas. Particularem autem affirmativam quidem converti necesse
est particulariter. Nam si voluptas aliqua, bonum, et bonum aliquod erit
voluptas. Privativam vero non est necessarium. Non enim si homo non inest
alicui animali, et animal non inest alicui homini. Primum ergo sit privativa
universalis A B propositio, si ergo nulli B inest A, neque A nulli inerit B.
Nam si alicui inest ut C, non verum erit nullum B esse A. Nam C eorum quae sunt
B aliquod est. Si vero omni B inest A, et B alicui A inest, nam si nulli, neque
A nulli B inerit, sed positum erat omni inesse. Similiter autem et si
particularis est propositio, nam si inest A alicui B, et B alicui eorum quae
sunt A necesse est inesse; si enim nulli, nec A nulli inerit B. Si autem A
alicui eorum quae sunt B non inest, non necesse est et B alicui A non inesse,
ut si B quidem sit animal, A vero homo, homo enim non omni animali, animal vero
omni homini inest. Eodem autem modo se habebit in necessariis propositionibus,
nam universalis quidem privativa universaliter convertitur. Affirmativarum
autem utraque particulariter. Nam si necesse est A nulli B inesse, necesse est
et B nulli A inesse; si enim alicui contingit, et A alicui B continget. Si
autem ex necessitate A omni vel alicui B inest, et B alicui A necesse est
inesse, nam si non ex necessitate inest, neque A alicui B ex necessitate
inerit. Particularis vero privativa non convertitur, propter eamdem causam, propter
quam et supra diximus. In contingentibus vero, quoniam multipliciter dicitur contingere,
nam et necessarium, et non necessarium, et possibile contingere dicimus; in
affirmativis quidem, similiter se habebit secundum conversionem in omnibus. Nam
si A omni aut alicui B contingit, et B alicui A contingit, si enim nulli, nec A
nulli B, ostensum est enim hoc prius. In negativis vero non similiter, sed
quaecunque quidem contingere dicuntur, ex eo quod ex necessitate non insunt,
vel in eo quod non ex necessitate insunt similiter. Ut si quis dicat hominem
contingere non esse equum, aut album nulli tunicae inesse. Horum enim hoc
quidem ex necessitate inest, illud vero non ex necessitate inest, et similiter
convertitur propositio. Nam si contingit nulli homini equum inesse, et hominem
contingit nulli equo inesse, et si album contingit nulli tunicae, et tunica
contingit nulli albo, si enim alicui necessario, et album tunicae alicui inerit
ex necessitate, hoc enim ostensum est prius. Similiter autem et in particulari
negativa. Quaecunque vero ut in pluribus, et in eo quod nata sunt dicuntur contingere
secundum quem modum determinamus contingens, non similiter se habebit in
privativis conversionibus. Sed et universalis quidem privativa propositio non
convertitur, particularis vero convertitur. Hoc autem erit manifestum quando de
contingenti dicemus. Nunc autem nobis tantum sit cum iis quae dicta sunt,
manifestum, quoniam contingere nulli aut alicui non inesse affirmativam habet
figuram, nam et contingit ipsi est similiter ordinatur. Est autem, quibuscunque
adiacens praedicatur, affirmationem semper facit, et omnino, ut: est non bonum,
vel est non album, vel simpliciter, est non hoc. Ostendetur autem et hoc per
sequentia, secundum conversiones autem similiter se habebunt in aliis. His vero
determinatis dicemus iam per quae et quando et quomodo fit omnis syllogismus,
postea vero dicendum de demonstratione. Prius enim de syllogismo dicendum quam
de demonstratione, eo quod universalior est syllogismus, nam demonstratio
quidem syllogismus quidam est; syllogismus vero non omnis demonstratio. Quando
igitur tres termini sic se habent ad invicem, ut et postremus sit in toto
medio, et medius in toto primo vel sit, vel non sit, necesse est extremitatum
perfectum esse syllogismum. Voco autem medium quod et ipsum in alio, et aliud
in ipso est, quod et positione medium est; extrema vero quod et ipsum in alio,
et in quo aliud est. Si enim A de omni B, et B de omni C, necesse est A de omni
C praedicari. Prius enim dictum est quomodo de omni dicimus. Similiter autem et
si A de nullo B, B autem de omni C, quoniam A nulli C inerit. Si autem primum
quidem omni medio consequens est, medium vero nulli postremo, non erit
syllogismus extremitatum. Nihil enim necessarium accidit, eo quod haec sunt,
nam et omni et nulli contingit primum postremo inesse, quare neque particulare,
neque universale fit necessarium. Cum autem nihil est necessarium, per haec non
erit syllogismus. Termini vero eius quod est omni inesse, animal, homo, equus;
eius vero quod est nulli, animal, homo, lapis. Quando vero nec primum medio,
nec medium postremo ulli inest, nec sic erit syllogismus. Termini vero ut
inesse, scientia, linea, medicina; ut non inesse, scientia, linea, unitas. Universalibus
igitur existentibus terminis, manifestum est in hac figura quando erit, et
quando non erit syllogismus, et quoniam cum est syllogismus, necessarium est
terminos sic se habere, ut diximus, et sic se habens manifestum quoniam erit
syllogismus. Si autem hic quidem terminorum universaliter, alius vero
particulariter ad alium, quando universale quidem ponitur ad maiorem extremitatem
vel praedicativum, vel privativum, particulare vero ad minorem praedicativum,
necesse est syllogismum esse perfectum. Quando vero ad minorem vel quolibet
modo aliter se habeant termini, impossibile est. Dico autem maiorem
extremitatem quidem in qua medium est, minorem vero, quae sub medio est.
Insit enim A quidem omni B, B autem alicui C, ergo si est de omni praedicari,
quod in principio dictum est, necesse est A alicui C inesse. Et si A quidem
nulli B inest, B vero alicui C, necesse est A alicui C non inesse, determinatum
est enim et de nullo, quomodo dicimus, quare erit syllogismus perfectus.
Similiter autem et si indefinitum sit B C praedicativum, nam idem erit
syllogismus indefinito et particulari sumpto. Si autem ad minorem extremitatem
universale ponatur vel praedicativum, vel privativum, non erit syllogismus
neque cum affirmativa, neque negativa, neque indefinita, neque particularis
sit, ut si A quidem alicui B inest, vel non inest, B autem omni C inest.
Termini ut inesse, bonum, habitus, prudentia; ubi non inesse, bonum, habitus,
indisciplina. Rursum si B quidem nulli C, A vero alicui B inest, vel non inest,
vel non omni inest, nec sic erit syllogismus. Termini omni inesse, album,
equus, cygnus; nulli inesse, album, equus, corvus. Idem autem et si A B
indefinitum sit. Nec quando ad maiorem extremitatem quidem universale ponatur
vel praedicativum, vel privativum, ad minorem vero particulare privativum, non
erit syllogismus vel indefinito, vel particulari sumpto. Velut si A quidem omni
B inest, B autem alicui C non inest, vel non omni inest. Cui enim alicui non
inest medium, hoc omne et nullum sequatur primum.Ponantur enim termini, animal,
homo, album, deinde et de quibus albis non praedicatur homo, sumantur cygnus et
nix; ergo animal de uno quidem omni praedicatur, de altero vero nullo, quare
non erit syllogismus. Rursum A quidem nulli B insit, B autem alicui C non
insit, et sint termini, inanimatum, homo, album, deinde sumantur alba, de
quibus non praedicatur homo, cygnus et nix; nam inanimatum de hoc quidem omni
praedicatur, de illo vero nullo. Amplius: quoniam indefinitum est alicui eorum
quae sunt C non inesse B, verum est autem et nulli inest, et si non omni,
quoniam alicui non inest, sumptis autem his terminis velut nulli inesse, non
fit syllogismus (hoc enim dictum est prius) manifestum; ergo est quoniam in eo
quod sic se habent termini non erit syllogismus, esset enim et in his.
Similiter autem ostendetur, et si universale ponatur privativum. Neque enim si
ambo intervalla particularia praedicative, vel privative dicantur, aut hoc
quidem praedicativum, illud vero privativum, vel hoc quidem indefinitum, illud
vero definitum, vel ambo indefinita, non erit syllogismus nullo modo. Termini
vero communes omnium, animal, album, equus, animal, album, lapis. Manifestum
est igitur ex iis quae dicta sunt quoniam si sit syllogismus in hac figura
particularis, quoniam necesse est terminos sic se habere, ut diximus. Aliter
enim se habentibus, nullo [modo] fit. Palam autem quoniam omnes qui in hac sunt
syllogismi perfecti sunt, omnes enim perficiuntur per ea quae ex principio
sumuntur, et quoniam omnia problemata ostenduntur per hanc figuram: etenim omni
et nulli, alicui et non alicui inesse. Voco autem huiusmodi figuram, primam. Quando
vero idem huic omni quidem, illi vero nulli inest, vel utique omni, vel nulli,
figuram quidem huiusmodi voco secundam. Medium autem in hac dico quod de
utraque praedicatur; extremitates vero de quibus dicitur hoc, maiorem quidem
extremitatem, quae iuxta medium posita est, minorem vero, quae longius sita est
A medio. Ponitur autem medium foras quidem extremitatum, primum vero positione.
Perfectus igitur non erit syllogismus nullo modo in hac figura, possibile vero
erit et universalibus, et non universalibus existentibus terminis. Universalibus
igitur terminis erit syllogismus, quando medium huic quidem omni, illi vero
nulli inerit, etsi ad utrumvis sit privativum, aliter vero nullo modo.
Praedicetur enim M de N quidem nullo, de O vero omni, quoniam igitur
convertitur privativa, nulli M inerit N, at M omni O supponebatur, quare N
nulli O inerit: hoc enim ostensum est prius. Rursum si M N quidem omni inest, O
vero nulli, neque N O nulli inerit. Nam si M nulli O, neque O nulli N inerit,
at vero M omni N inerat, quare O nulli inerit. Facta est enim rursum prima
figura. Quoniam autem convertitur privativum, neque N nulli O inerit, quare
erit idem syllogismus, est autem ostendere haec et ad impossibile ducentes. Quoniam
ergo fit syllogismus sic se habentibus terminis manifestum, sed non perfectus,
non enim solum ex iis quae ab initio sumpta sunt, sed ex aliis perficitur
necessarium. Si autem M de omni N et O praedicetur, non erit syllogismus.
Termini inesse, substantia, animal, ratio; non inesse, substantia, animal,
lapis, medium, substantia.Nec quando de N nec de O nullo praedicatur M. Termini
inesse, linea, animal, homo; non inesse, linea, animal, lapis. Manifestum ergo
quoniam si fit syllogismus ex universalibus terminis, necesse est terminos sic
se habere, ut in principio diximus. Aliter enim se habentibus terminis non fit
conclusio necessaria.Si autem ad alterum sit universaliter medium, quando ad
maius quidem fuerit universaliter vel praedicative, vel privative, ad minus
autem et particulariter, et oppositae universali (dico autem oppositae, si
universale quidem privativum particulare praedicativum, vel si universale
praedicativum, particulare privativum), necesse est syllogismum fieri
privativum particulariter. Nam si M nulli quidem N, O autem alicui inest,
necesse est N alicui O non inesse. Quoniam enim convertitur privativum, nulli M
inerit, N M vero supponebatur alicui O inesse, quare N alicui eorum quae sunt O
non inerit. Fit enim syllogismus per primam figuram. Rursus si N quidem omni M,
O vero alicui non inest, necesse est N alicui O non inesse. Nam si O omni inest
N, praedicatur autem et M de omni N, necesse est M omni O inesse, supponebatur
autem alicui non inesse. Et si M N omni quidem inest, O autem non omni, erit
syllogismus, quoniam non omni O inest N. Demonstratio autem eadem. Si autem de
O quidem omni, de N vero non omni praedicatur M, non erit syllogismus. Termini
inesse, animal, substantia, corvus. Non inesse, animal, album, corvus. Nec
quando de O quidem nullo, de N vero aliquo. Termini inesse, animal, substantia,
lapis. Non inesse, animal, substantia, scientia. Quando igitur oppositum est
universale particulari, dictum est quando erit, et quando non erit syllogismus.
Quando autem similis figurae fuerint propositiones, ut ambae privativae vel
affirmativae, nullo modo erit syllogismus. Sint enim primum privativae, et
universale ponatur ad maiorem extremitatem, ut M N quidem nulli, O autem alicui
non insit: contingit ergo et omni, et nulli O inesse N. Termini quidem nulli
inesse, nigrum, nix, animal. Omni vero inesse, non est sumere, si M alicui
quidem O inest, alicui autem non. Nam si omni O inest N, et M nulli, N etiam M
nulli O inerit; sed positum erat alicui inesse, non igitur sic sumere contingit
terminos. Ex indefinito autem ostendendum est. Quoniam enim verum est M non
inesse alicui O, et si nulli inest, nulli vero cum insit non erit syllogismus,
manifestum quoniam neque nunc erit. Rursum si praedicativae, et universale
ponatur similiter, ut M omni quidem N, O autem alicui insit, contingit ergo et
omni, et nulli O inesse. Termini nulli inesse, album, cygnus, lapis. Omni vero
non erit sumere terminos, propter eamdem causam quam et prius, sed ex
indefinito monstrandum est. Si autem universale ad minorem extremitatem est, et
M O quidem nulli, N vero alicui non inest, contingit N, et omni et nulli O
inesse. Termini inesse, album, animal, corvus; non inesse, album, lapis,
corvus. Similiter autem et si praedicativae fuerint propositiones. Termini non
inesse, album, animal, nix; inesse, album, animal, cygnus. Manifestum est igitur
quoniam si similis figurae sint propositiones, et haec quidem universalis, illa
vero particularis, quoniam nullo modo fit syllogismus. Sed nec si alicui,
utrique inest, vel non inest, vel huic quidem inest, illi vero non, vel neutri
omni, vel indefinitae. Termini autem communes omnium, album, animal, homo,
album, animal, inanimatum. Manifestum est igitur ex praedictis quoniam si sic
se habent termini ad invicem, ut dictum est, fit syllogismus ex necessitate, et
si fit syllogismus, necesse est terminos sic se habere. Palam autem et quoniam
omnes imperfecti sunt, qui in hac figura sunt syllogismi; omnes enim
perficiuntur assumptis quibusdam, quae vel insunt terminis ex necessitate, vel
ponuntur velut hypotheses, ut quando per impossibile ostendimus. Et quoniam non
fit affirmativus syllogismus per hanc figuram, sed omnes privativi, et universales,
et particulares. Si autem eidem hoc quidem omni, illud vero nulli inest, vel
ambo omni vel nulli, figuram quidem huiusmodi voco tertiam. Medium autem in hac
dico, quo ambo praedicamus; extremitates vero, quae praedicantur; maiorem autem
extremitatem, quae longius est medio; minorem vero, quae propius. Ponitur autem
medium foras quidem extremitatum, ultimum vero positione est. Perfectus igitur
non fit syllogismus, nec in hac figura, possibilis vero erit et universaliter,
et non universaliter terminis existentibus ad medium. Universaliter quidem
quando et p et r inerunt omni s, quoniam alicui r inerit p ex necessitate, nam
quoniam convertitur praedicativa, inerit s alicui r. Quare quoniam p inest omni
s, et s alicui r, necesse est p alicui r inesse. Fit enim syllogismus per
primam figuram. Est autem et per impossibile, et expositione facere
demonstrationem: si enim ambo omni s insunt, si sumatur aliquod eorum quae sunt
s, ut N huic et p et r inerunt ex necessitate, quare alicui r inerit p. Et si r
omni quidem s, p autem nulli s inest, erit syllogismus, quoniam p alicui r non
inerit ex necessitate. Nam idem modus erit demonstrationis, conversa r s
propositione. Ostendetur autem et per impossibile, quemadmodum in prioribus. Si
autem insit r, s quidem nulli, p vero omni s, non erit syllogismus. Termini
inesse, animal, equus, homo; non inesse, animal, inanimatum, homo, neque quando
ambo de nullo s dicuntur, non erit syllogismus. Termini inesse, animal, equus,
inanimatum; non inesse, homo, equus inanimatum, medium, inanimatum. Manifestum
est igitur et in hac figura et quando erit, et quando non erit syllogismus ex
universalibus terminis. Quando enim ambo termini sunt praedicativi, erit
syllogismus, quoniam inest alicui extremitas extremitati; quando vero
privativi, non erit syllogismus; quando autem hic quidem privativus, ille vero
affirmativus; si maior quidem fuerit privativus, alter vero affirmativus, erit
syllogismus, quoniam alicui non inest extremitas extremitati. Si autem e
converso, non erit. Si autem hic quidem sit universaliter ad medium, alter vero
particulariter, si uterque sit praedicativus, necesse est fieri syllogismum, et
si alteruter sit universalis terminorum; nam si r omni s insit, p vero alicui
s, necesse est et p alicui r inesse, nam quoniam convertitur affirmativa,
inerit s alicui p, quare quoniam r omni s inest, s autem alicui p, et r alicui
p inerit, quare et p alicui r. Rursum si r alicui s, p vero omni s insit,
necesse est et p alicui r inesse, nam idem modus demonstrationis. Est autem
demonstrare et per impossibile, et expositione, quemadmodum in prioribus. Si
autem unus quidem sit praedicativus, alius vero privativus, universaliter autem
praedicativus, quando minor quidem fuerit praedicativus, erit syllogismus; nam
si r omni s, p vero alicui s non inest, necesse est p alicui r non inesse, si
enim p omni r, et r omni s, et p omni s inerit, sed non inerat. Monstratur
autem et sine deductione, si sumatur aliquid eorum quae sunt s, cui p non
inest. Quando vero maior fuerit praedicativus, non erit syllogismus, ut si p
insit omni s, r autem alicui s non insit. Termini vero omni inesse, animatum,
homo, animal. Nulli vero, non est sumere terminos si r inest alicui quidem s,
alicui autem non. Si enim omni s inest p, r autem alicui s, et p inerit alicui
r, sed positum erat nulli r inesse. Sed quemadmodum in prioribus dicendum est;
nam cum indefinitum est alicui non inesse, et quod nulli inest, verum est
dicere alicui non inesse, nulli vero cum inesset, non erat syllogismus;
manifestum ergo est, quoniam non erit syllogismus. Si autem privativus sit
universalis terminus, quando maior quidem privativus fuerit, minor autem
praedicativus, erit syllogismus. Si enim p nulli s, r autem alicui inest s, et
p alicui r non inerit. Rursum enim prima erit figura, r s propositione
conversa. Quando autem minor fuerit privativus, non erit syllogismus. Termini
inesse, animal, homo, ferum. Non inesse, animal, scientia, ferum, medium in
utrisque ferum. Nec quando ambo privativi ponuntur, est autem unus quidem
universalis, alter vero particularis. Termini inesse, quando minor est
universalis ad medium, animal, homo, ferum, non inesse, animal, scientia,
ferum. Quando autem maior, non inesse quidem, corvus, nix, album; inesse vero
non est sumere si r alicui quidem inest s, alicui autem non inest. Si enim p
omni r insit, r autem alicui s, et p inerit alicui s. Positum est autem nulli,
sed ex indefinito monstrandum est. Neque si uterque alicui medio inest, vel non
inest, vel unus quidem inest, alter vero non inest, vel hic quidem alicui, ille
vero non omni, vel indefinite, nullo modo erit syllogismus. Termini autem
communes omnium, animal, homo, album, animal, inani matum, album. Manifestum
est igitur, et in hac figura, quando erit, et quando non erit syllogismus, et
quoniam habentibus se terminis, ut dictum est, fit syllogismus ex necessitate,
et si sit syllogismus, necesse est terminos sic se habere. Manifestum est
etiam, quia omnes imperfecti sunt in hac figura syllogismi, omnes enim
perficiuntur quibusdam assumptis. Et quoniam syllogizare universale per hanc
figuram non erit, neque privativum, neque affirmativum. Palam autem et quoniam
in omnibus figuris, aliquando non fit syllogismus. Cum praedicativi quidem, vel
privativi sunt utrique termini, et particulares, nihil omnino fit necessarium. Cum
autem praedicativus, et privativus, et universaliter sumptus privativus, semper
fit syllogismus minoris extremitatis ad maiorem, ut si A quidem omni B vel
alicui, B autem nulli C; conversis enim propositionibus, necesse est C alicui A
non inesse. Similiter autem et in aliis figuris, semper enim fit per
conversionem syllogismus. Palam etiam quoniam indefinitum pro praedicativo
particulari positum, eumdem faciet syllogismum in omnibus figuris. Manifestum
autem et quoniam omnes imperfecti syllogismi perficiuntur per primam figuram.
Aut enim ostensive, aut per impossibile clauduntur omnes. Utrinque autem fit
prima figura. Et ostensive quidem perfectis, quoniam per conversionem
claudebantur omnes, conversio autem primam faciebat figuram, per impossibile
vero demonstratis, quoniam posito falso syllogismus fit per primam figuram. Ut
in postrema figura, si A et B omni C insunt, quoniam A alicui B inest, nam si nulli
et B omni C, nulli C inerit A, sed inerat omni. Similiter autem in aliis. Est
etiam reducere omnes syllogismos ad universales syllogismos primae figurae. Nam
qui sunt in secunda figura, manifestum quoniam per illos perficiuntur, verum
non similiter omnes, sed universales quidem privativa conversa; particularium
autem utraque per ad impossibile reductionem. Qui vero in prima sunt
particulares, perficiuntur quidem per se. Est autem et per secundam figuram
ostendere ad impossibile ducentes, ut si A omni B, et B alicui C, quoniam A
alicui C inerit. Si enim nulli, B autem omni, nulli C inerit B. Hoc enim scimus
per secundam figuram. Similiter autem et in privativo erit demonstratio; si
enim A nulli B, et B alicui C inest, A alicui C non erit, nam si A omni C, B
autem nulli inest, nulli C inerit B. Haec autem fuit media figura; quare
quoniam qui in media sunt syllogismi, omnes reducuntur in primae figurae
universales syllogismos, qui vero particulares sunt in prima, ad eos qui sunt
in media, manifestum est quoniam et particulares reducentur ad eos qui in prima
figura sunt universales syllogismos; qui vero sunt in tertia, cum
universales sint quidem termini, statim perficiuntur per illos syllogismos. Si
autem particulares, sumuntur per particulares syllogismos primae figurae, sed
hi reducti sunt ad illos, quare et tertiae figurae particulares. Manifestum
ergo quoniam omnes reducentur in primae figurae universales syllogismos. Igitur
syllogismi inesse vel non inesse ostendentes, dictum est quomodo se habent, et
ad eos qui ex eadem sunt figura, et ad invicem, et ad eos qui ex aliis sunt
figuris. Quoniam autem diversum est inesse, et ex necessitate inesse, et
contingere inesse (nam multa insunt quidem, non tamen ex necessitate, alia vero
neque ex necessitate, neque insunt omnino, contingit autem inesse), manifestum
quoniam et syllogismus in unoquoque horum diversus est, et non similiter
habentibus se terminis, sed hic quidem ex necessariis, ille vero ex iis quae
simpliciter insunt, ille autem ex contingentibus. Ergo in necessariis quidem
fere similiter se habet, et in iis qui insunt. Similiter enim positis terminis,
et in iis quae insunt, et in iis quae ex necessitate insunt vel non insunt, et
erit, et non erit syllogismus. Verum distabit in eo quod adiacet terminis ex necessitate
inesse, vel non inesse, nam et privativum similiter convertitur, et in toto
esse, et de omni similiter assignabimus. Ergo in aliis quidem eodem modo
ostendetur per conversionem, quoniam conclusio necessaria, quomodo in eo quod
est inesse. In media autem figura quando fuerit universalis affirmativa,
particularis vero privativa, et rursum in tertia quando universalis quidem
praedicativa, particularis vero privativa, non similiter erit demonstratio, sed
necesse est exponentes, cui alicui utrumque non inest, de hoc facere
syllogismum. Erit enim necessarius in hoc. Si autem de exposito est
necessarius, erit et de illo aliquo. (0648C) Nam hoc quod est expositum, ipsum
quidem illud aliquid est. Fit autem uterque syllogismus in propria figura. Accidit
autem quandoque et altera propositione necessaria, necessarium fieri
syllogismum, verum non utralibet, sed quae ad maiorem extremitatem est, ut si A
quidem, B ex necessitate sumptum est inesse, vel non inesse, B autem C inesse
tantum; sic enim sumptis propositionibus ex necessitate A inerit C, vel non
erit. Nam quoniam omni B ex necessitate inest, vel non inest A, C autem aliquid
eorum quae sunt B, est manifestum quoniam et C ex necessitate erit alterum
horum. Si autem A B quidem non necessaria, B C autem necessaria, non erit
conclusio necessaria. Nam si est, accidit A alicui B inesse ex necessitate, per
primam et tertiam figuram, hoc autem falsum, contingit enim tale esse B cui
possibile est A nulli inesse. Amplius autem et ex terminis manifestum quoniam
non erit conclusio necessaria; ut si A quidem sit motus, B autem sit animal, in
que autem C homo, namque homo animal est ex necessitate, movetur autem animal
non ex necessitate, quare nec homo. Similiter autem et si privativa sit A B;
nam eadem demonstratio. In particularibus autem syllogismis, si universalis
quidem est necessaria, et conclusio erit necessaria; si autem particularis, non
necessaria, sive privativa, sive praedicativa fuerit universalis propositio. Sit
autem primo universalis necessaria, et A quidem omni B insit ex necessitate, B
autem alicui C insit solum, necesse est ergo A alicui C inesse ex necessitate,
nam C sub B est, B autem omni A inerat ex necessitate. Similiter autem et si
privativus syllogismus sit, nam eadem erit demonstratio. Si autem particularis
est necessaria, non erit conclusio necessaria, nihil enim impossibile evenit,
quemadmodum nec in universalibus syllogismis, similiter autem et in privativis.
Termini, motus, animal, album. In secunda autem figura si privativa quidem
propositio universalis sit et necessaria, conclusio erit necessaria. Si autem
praedicativa, non necessaria. Sit enim primum privativa necessaria, et A B
quidem nulli contingat, C autem insit tantum; quoniam ergo convertitur
privativa, et B nulli A contingit, A autem omni C inest, quare nulli C
contingit B, nam C sub A est. Similiter autem et si ad C ponatur privativum,
nam si A C nulli contingit, et C nulli A poterit inesse, A autem omni B inest.
Quare nulli eorum quae sunt B contingit C, fit enim prima figura. Rursum non
ergo neque B ipsi C, convertitur enim similiter. Si autem praedicativa
propositio est necessaria, non erit conclusio necessaria, insit enim A omni B
ex necessitate, C autem nulli insit tantum, conversa ergo privativa, fit prima
figura. Ostensum est autem in prima quoniam cum non est necessaria quae ad
maiorem est privativa, nec conclusio erit necessaria, quare nec in his erit ex
necessitate. Amplius autem si conclusio est necessaria, accidit C alicui A non
inesse ex necessitate, si enim B nulli C inest ex necessitate, neque C nulli B
inerit ex necessitate, B autem alicui A necesse est inesse, siquidem et A omni
B ex necessitate inerat, quare C necesse est alicui A non inesse, sed nihil
prohibet A huiusmodi accipere, cui omni C contingat inesse. Amplius et si
terminos ponentes sit ostendere, quoniam conclusio non est necessaria
simpliciter. Et his existentibus, necessarium ut sit A animal, B vero homo, C
autem album, et similiter propositiones sumptae sint, contingit enim animal
nulli albo inesse, non inerit ergo nec homo nulli albo, sed non ex necessitate.
Contingit enim hominem fieri album, non tamen donec animal nulli albo insit,
quare cum haec sint, necessaria erit conclusio, simpliciter autem non
necessaria. Similiter autem se habebit et in particularibus syllogismis, quando
privativa quidem propositio, et universalis fuerit, et necessaria, et conclusio
erit necessaria. Quando autem praedicativa universalis fuerit necessaria,
privativa vero particularis non necessaria, non erit conclusio necessaria. Sit
enim primum privativa, et universalis necessaria, et A B quidem nulli contingat
inesse, C autem alicui insit, quoniam ergo convertitur privativa, et B nulli A
continget inesse, A autem alicui C inest, quare ex necessitate alicui eorum
quae sunt, C non inerit B. Rursum sit praedicativa, et universalis, et
necessaria, et ponatur ad B quidem praedicativum, si ergo A omni B ex
necessitate inest, C autem alicui non inest, quoniam non inerit B alicui C
manifestum, sed non ex necessitate. Nam iidem termini erunt ad demonstrationem,
qui in universalibus syllogismis: sed nec si privativa necessaria est
particulariter sumpta, erit conclusio necessaria. Nam per eosdem terminos
demonstratio. In postrema autem figura terminis quidem universalibus ad medium,
et praedicativis utrisque propositionibus, si utralibet sit necessaria, et
conclusio erit necessaria. Si autem haec quidem sit privativa, illa vero
praedicativa, quando privativa quidem fuerit necessaria, et conclusio erit
necessaria, quando autem praedicativa, non erit necessaria. Sint enim primum
utraeque praedicativae propositiones, et A et B omni C insint, necessaria autem
sit A C, quoniam ergo B omni C inest, et C alicui B inerit, eo quod convertitur
universalis particulariter. Quare si A inest omni C ex necessitate, et C alicui
B, et A alicui B necessarium inesse, nam B sub C est. Fit igitur prima figura.
Similiter autem ostendetur, et si B C est necessaria, convertitur enim C alicui
A, quare si omni C inest B ex necessitate, et A alicui B inerit ex necessitate.
Rursum sit A C quidem privativa, B C vero affirmativa, necessaria autem
privativa, quoniam ergo convertitur affirmativa, erit C alicui B, A autem nulli
C ex necessitate, neque A alicui B inerit ex necessitate, nam B sub C est. Si
autem praedicativa sit necessaria, non erit conclusio necessaria. Sit enim B C
praedicativa et necessaria, A C autem privativa et non necessaria, quoniam ergo
convertitur affirmativa, inerit et C alicui B ex necessitate. Quare si A quidem
nulli eorum quae sunt C inest, C autem alicui eorum quae sunt B et A alicui
eorum quae sunt B non inerit, sed non ex necessitate. Ostensum est enim in
prima figura quoniam privativa propositione necessaria, nec conclusio erit
necessaria. Amplius autem et per terminos sit manifestum, sit enim A quidem
bonum in quo B animal, C autem equus, ergo bonum quidem contingit nulli equo
inesse, animal vero necesse est omni equo inesse, sed non necesse est aliquod
animal non esse bonum, siquidem contingit omne esse bonum. Aut si non hoc
possibile, sed vigilare, vel dormire terminum ponendum. Omne enim animal
susceptibile est horum. Si igitur termini universaliter ad medium sint, dictum
est quando erit conclusio necessaria. Si autem hic quidem universalis, ille
vero particularis, praedicativus uterque, quando universalis fuerit
necessarius, et conclusio erit necessaria. Demonstratio autem eadem quae prius,
convertitur enim et particularis affirmativa. Si ergo necesse est B omni C
inesse, A autem sub C est, necesse est B alicui A inesse. Si autem B alicui A,
et A alicui B inesse necessarium, convertitur enim. Similiter autem et si A C
sit necessaria universalis, nam B sub C est. Si autem particularis est
necessaria, non erit conclusio necessaria. Sit enim B C particularis et
necessaria, A autem insit omni C, non tamen ex necessitate, conversa ergo B C
prima fit figura, et universalis quidem propositio non necessaria, particularis
autem necessaria, quando autem sic se habebant propositiones, non erat
conclusio necessaria, quare nec in his. Amplius autem et ex terminis
manifestum. Sit enim A quidem vigilatio, B autem bipes, in quo autem C animal,
ergo B alicui C necesse est inesse, A autem omni C contingit, et A non
necessario B, non enim necesse est aliquem bipedem dormire vel vigilare.
Similiter autem per eosdem terminos ostendetur etiam si A C sit particularis et
necessaria. Si autem hic quidem terminorum sit praedicativus, ille privativus
et necessarius, quando universalis fuerit privativus et necessarius, et
conclusio erit necessaria. Si enim A nulli C ex necessitate contingit, B autem
alicui C inest, necesse est A alicui B non inesse, quando autem affirmativa
necessaria ponetur vel universalis, vel particularis, vel privativa
particularis, non erit conclusio necessaria. Nam alia quidem eadem quae et in
prioribus dicemus. Termini autem cum universalis quidem affirmativa est
necessaria, vigilatio, animal, homo, medium homo: cum autem particularis
praedicativa necessaria, vigilatio, animal, album. Animal enim necesse est
alicui albo inesse, vigilatio autem contingit nulli, et non necesse est alicui
animali non inesse vigilationem. Quando autem privativa particularis est
necessaria, bipes, motus, animal, medium animal. Manifestum igitur quoniam
inesse quidem non est syllogismus, si utraeque propositiones non sunt in eo quod
est inesse, necessaria vero est, et altera solum existente necessaria. In
utrisque autem affirmativis et privativis existentibus syllogismis necesse est
alteram propositionem similem esse conclusioni. Dico autem similem, si inesse
quidem, inexistentem, si autem necessaria, necessariam. Quare et hoc palam,
quoniam non erit conclusio neque necessaria, neque inesse, non sumpta vel
necessaria, vel quae inesse significet propositione. Igitur de necessario
quomodo fit, et quam differentiam habeat ad inesse, sufficienter pene dictum
est. De contingente autem post haec dicemus, quando, et quomodo, et per quae
erit syllogismus. Dico autem contingere, et contingens, quo non existente
necessario, posito autem inesse, nihil erit propter hoc impossibile. Nam necessarium
aequivoce contingere dicitur. Quoniam autem hoc est contingens, manifestum ex
affirmationibus et negationibus oppositis. Nam non contingit esse, non
possibile esse, et impossibile esse, et necesse est non esse, vel eadem sunt,
vel sequuntur se invicem, quare et opposito his contingit esse, et non
impossibile esse, et non necesse non esse, eadem erunt, vel sequentia se
invicem. De omni enim affirmatio, vel negatio vera. Erit ergo contingens
necessarium, et non necessarium contingens. Accidit autem omnes quae secundum
contingere sunt propositiones converti sibi invicem, dico autem non
affirmativas negativis sed quaecunque affirmativam habent figuram secundum
oppositionem, ut ea quae est contingit esse ei quae est contingit non esse, et
ea quae est contingit omni ei quae est contingit nulli, vel non omni, et quae
alicui, et quae non alicui, eodem autem modo et in aliis. Quoniam enim
quod est contingens non est necessarium, et quod non est necessarium possibile
est non esse, manifestum quoniam si contingit A inesse B, contingit et non
inesse, et si omni contingit inesse, et omni contingit non inesse. Similiter
autem et in particularibus affirmationibus, nam eadem demonstratio. Sunt autem
huiusmodi propositiones praedicativae, nam contingere ei quod est esse
similiter ponitur, quemadmodum dictum est prius. Determinatis autem his, rursum
dicimus quoniam contingere duobus modis dicitur: uno quidem, quod plerumque fit
et deficit, necessarium, ut canescere hominem, vel augeri, vel minui, vel
omnino quod natum est esse. Hoc enim non continuum habet necessarium, eo quod
non semper est homo, cum tamen homo est, aut ex necessitate, aut ut in pluribus
est. Alio autem modo infinitum, quod et sic, et non sic possibile, ut animal
ambulare, vel ambulante fieri motum terrae, vel omnino quod casu fit, nihil
enim magis sic natum est, vel econtrario. Convertitur ergo et secundum
oppositas propositiones utrumque contingens, non tamen eodem modo, sed quod
natum quidem est esse ei quod non ex necessitate esse. Sic enim contingit non
canescere hominem. Infinitum autem ei quod nihil magis sic, vel illo modo.
Disciplina autem, et syllogismus demonstrativus, ex infinitis quidem non est,
eo quod inordinatum est medium, ex iis vero quae nata sunt esse, pene orationes
et considerationes fiunt de sic contingentibus, ex illis autem possibile quidem
est fieri syllogismum, non tamen solet quaeri. Haec ergo definientur magis in
sequentibus, nunc autem dicemus quando et quomodo, et quis erit syllogismus ex
contingentibus propositionibus. Quoniam autem contingere hoc huic inesse
dupliciter est accipere, aut enim cui inest hoc, aut cui contingit ipsum
inesse, nam de quo B, A contingere, horum alterum significat, aut de quo
dicitur B, aut de quo contingit dici, de quo autem B, A contingere, aut omni B
possibile inesse A, nihil differt. Manifestum igitur quoniam dupliciter dicetur
A omni B inesse contingere. Primum ergo dicemus si de quo C contingit B, et de
quo B contingit A, quis erit, et qualis syllogismus, sic enim utraeque
propositiones sumuntur secundum contingere, quando autem de quo B est contingit
A, haec quidem inesse, illa vero contingens, quare A similibus figuris incipiendum,
quemadmodum et in aliis.Quando ergo A contingit omni B, et B omni C,
syllogismus erit perfectus, quoniam A contingit omni C inesse. Hoc autem
manifestum est ex definitione, nam contingere omni inesse sic dicebamus.
Similiter autem et si A quidem contingit nulli B, B autem omni C, quoniam A
contingit nulli C. Nam de quo B contingit, A non contingere, hoc erat nullum
dimittere sub B contingentium. Quando autem A contingit omni B, B autem nulli
C, per sumptas quidem propositiones nullus fit syllogismus, conversa autem B C
secundum contingere, fit idem quemadmodum et prius, quoniam enim contingit B
nulli C inesse, contingit et omni inesse. Hoc autem dictum prius. Quare si B
quidem omni C, A autem omni B, rursum idem fit syllogismus. Similiter autem
etsi ad utrasque propositiones negatio ponatur cum contingere (dico autem ut si
A contingit nulli B, et B nulli C ), igitur per sumptas quidem propositiones
nullus fit syllogismus, conversis autem rursus idem erit qui et prius.
Manifestum est igitur quoniam negatione posita ad minorem extremitatem, vel ad
utrasque propositiones, aut non fit syllogismus, aut fit quidem, sed non
perfectus, ex conversione enim fit necessarium. Si autem haec quidem
propositionum universalis, illa vero particularis sumatur, ad maiorem quidem
extremitatem posita universali, syllogismus erit perfectus. Nam si A omni B
contingit, B autem alicui C, A alicui C contingit, hoc autem manifestum ex
definitione contingentis. Rursum si A contingit nulli B, B autem contingit
alicui C inesse, necesse est A contingere alicui C non inesse. Demonstratio
autem eadem quae in his. Si autem privativa sumatur particularis propositio,
universalis autem affirmativa, positione autem similiter se habeant (ut A
quidem omni B contingat, B autem alicui C contingat non inesse), per sumptas
quidem propositiones non fit manifestus syllogismus, conversa autem
particulari, et posito B alicui C contingere inesse, eadem erit conclusio quae
et prius, quemadmodum in iis quae ex principio. Si autem quae ad maiorem
extremitatem particularis sumatur, quae ad minorem universalis, sive utraeque
sumantur affirmativae, sive privativae, sive non similis figurae, sive utraeque
indefinitae, vel particulares, nullo modo erit syllogismus. Nihil enim prohibet
B transcendere A, et non praedicari de aequis, in quo enim B transcendit A
sumat C, huic neque omni, neque nulli, neque alicui, neque non alicui contingit
A inesse, siquidem convertuntur secundum contingere propositiones, et B
pluribus contingit quam A inesse. Amplius autem ex terminis manifestum est, nam
sic se habentibus propositionibus primum postremo et nulli contingit, et omni
ex necessitate inesse. Termini autem communes omnium, inesse quidem ex
necessitate, animal, album, homo, non contingere vero, animal, album, vestis. Manifestum
igitur quoniam hoc modo habentibus se terminis, nullus fit syllogismus, nam
omnis syllogismus vel eius quod est inesse est, vel ex necessitate vel
contingere, non est autem eius quod est inesse, neque necessarii, manifestum
quoniam non est, nam affirmativus interimitur privativo, et privativus
affirmativo, relinquitur ergo eius quod contingere esse, hoc autem impossibile.
Ostensum est enim quoniam sic se habentibus terminis, et omni postremo primum
necesse inesse, et nulli contingere inesse, quare non erit eius quod est
contingere syllogismus, nam necessarium uno [sic] erat contingens. Manifestum
autem et quoniam cum universales sunt termini in contingentibus
propositionibus, semper fit syllogismus in prima figura, sive sunt praedicativi,
sive privativi. Verum ex praedicativis quidem perfectus, ex privativis autem
imperfectus. Oportet autem contingere sumere non in necessariis, sed secundum
dictam definitionem, aliquoties autem latet huiusmodi. Si autem haec quidem
inesse, illa vero contingere sumatur propositionum, quando quae ad maiorem
quidem extremitatem contingere significaverit perfecti erunt omnes syllogismi,
et contingentis secundum dictam determinationem, quando autem quae ad minorem,
et imperfecti omnes, et privativi syllogismi, non contingentis secundum dictam
determinationem, sed eius quod est nulli, aut non omni ex necessitate inesse.
Si enim nulli, aut non omni ex necessitate contingere dicimus, et nulli, et non
omni inesse. Contingat enim A omni B, B autem omni C ponatur inesse, quoniam
igitur sub B est C, A autem contingit omni B, manifestum quoniam et C omni
contingit A, fit ergo perfectus syllogismus. Similiter autem et cum privativa
est A B propositio, B C autem affirmativa, et haec quidem contingere, illa vero
inesse sumetur, perfectus erit syllogismus, quoniam A contingit nulli C inesse.
Quoniam ergo inesse posito ad minorem extremitatem, perfecti syllogismi fiunt,
manifestum. Quod autem contrariae se habentes erunt syllogismi, per impossibile
monstrandum est, simul autem erit manifestum et quoniam imperfecti, nam
ostensio non ex sumptis propositionibus.Primum autem dicendum quoniam si cum
est A, necesse est esse B, et cum possibile est esse A, possibile erit B ex
necessitate. Sit enim sic se habentibus rebus ut in quo quidem A possibile, in
quo autem B impossibile, si ergo aliud possibile quidem est, cum possibile
esse, ipsum fiet, hoc vero impossibile, quoniam impossibile, non utique fiet,
simul autem si A possibile, et B impossibile, continget fieri praeter B, si
autem fieri et esse. Nam quod fit, quando factum est, est. Oportet autem
accipere non solum in generatione possibile et impossibile, sed et in verum
esse, et in quod actu est, et quocunque modo simpliciter aliter dicitur
possibile, in omnibus enim similiter se habebit. Amplius cum est A, B esse, non
tanquam uno aliquo existente A, erit B, oportet opinari, nihil enim est ex
necessitate uno aliquo existente, sed duobus ad minus, ut quando propositiones
sic se habent (ut dictum est) secundum syllogismum, nam sic dicitur de D, D
autem de E, et C de E ex necessitate, et si utrumque possibile, et conclusio
erit possibilis. Quemadmodum ergo si quis ponat A quidem propositiones, B autem
conclusionem, accidet non solum A existente necessario, et B simul esse
necessarium, sed etiam possibili possibile. Hoc autem ostenso manifestum est
quoniam falso posito, et non impossibili, et quod accidit propter positionem
falsum erit, et non impossibile, ut si A falsum quidem est, non tamen
impossibile, cum autem sit A et B, et B erit falsum quidem, non tamen
impossibile. Nam ostensum est quoniam cum est A, est B, et cum possibile est A,
possibile est B. Positum autem est A possibile esse, et B erit possibile, si
enim impossibile est B, simul idem erit possibile et impossibile. Determinatis
autem iis, insit A omni B, B autem contingit omni C, necesse est A igitur
contingere omni C inesse. Non enim contingat, B autem omni C ponatur inesse,
hoc autem falsum quidem, non tamen impossibile, si ergo A quidem non contingit
omni C, B autem omni C insit, A non omni B contingit. Fit enim syllogismus per
tertiam figuram. Sed positum erat omni C contingere inesse, necesse est ergo A
omni C contingere. Falso enim posito, et non impossibili, quod accidit est
impossibile. Possibile est autem et primam figuram facere impossibile ponentes
B inesse C, nam si B omni C inest, A autem omni B contingit, et omni C
continget A, sed positum erat non omni possibile inesse.Oportet autem accipere
omni inesse non secundum tempus determinantes, ut nunc, aut in hoc tempore, sed
simpliciter (per huiusmodi enim propositiones et syllogismos facimus), quoniam
secundum nunc sumpta propositione, non erit syllogismus. Nihil enim fortasse
prohibet quandoque et omni moventi hominem inesse, ut si nihil aliud moveatur,
movens autem contingit omni equo, sed homo nulli equo contingit. Amplius: sit
primum quidem animal, medium vero movens, postremum vero homo, ergo propositiones
quidem similiter se habebunt, conclusio vero erit necessaria, non contingens. Ex
necessitate enim homo est animal, manifestum igitur quoniam universale sumendum
simpliciter, et non tempore determinantes. Rursum: sit privativa propositio
universalis A B, et sumatur A quidem nulli B inesse, B autem contingat omni C
inesse. His igitur positis necesse est A contingere nulli C inesse, non enim
contingat, B autem ponatur inesse C sicut prius, necesse est igitur A alicui B
inesse, fit enim syllogismus per tertiam figuram. Hoc autem impossibile, quare
contingit A, nulli C. Posito enim falso, et non impossibili, impossibile est
quod accidit. Hic ergo syllogismus non est contingentis secundum definitionem,
sed nulli inesse ex necessitate. Haec est contradictio factae hypothesis. Positum
est enim ex necessitate A alicui C inesse, syllogismus autem per impossibile, oppositae
est contradictionis. Amplius autem et ex terminis manifestum quoniam non erit
conclusio contingens, sit enim A quidem corvus, in quo autem B intelligens, in
quo autem C homo, nulli ergo B inest A, nam nullum intelligens, corvus, B autem
contingit omni C, omni enim homini inest intelligere, sed A ex necessitate
nulli C, non igitur conclusio contingens. Sed nec necessaria semper: sit enim A
quidem movens, B autem scientia, in quo autem C homo, ergo A quidem nulli B
inerit, B autem omni C contingit, et non erit conclusio necessaria, non enim
necesse est nullum hominem moveri, sed necesse est aliquem. Manifestum igitur
quoniam est conclusio eius quod est nulli ex necessitate inesse. Sumendum autem
melius terminos. Si autem privativum ponatur ad maiorem extremitatem contingere
significans, ex ipsis quidem sumptis propositionibus, nullus erit syllogismus,
conversa autem secundum contingens propositione, erit quemadmodum in prioribus.
Insit enim A omni B, B autem contingat nulli C, sic ergo habentibus se
terminis, nihil erit necessarium. Si autem convertatur B C, et sumatur B
contingere omni C, fiet syllogismus quemadmodum prius, similiter enim habent se
termini positione. Eodem autem modo et cum privativa sunt utraque intervalla,
si A B quidem non inesse, B C autem nulli, contingere significat, nam per ea
quidem quae sumpta sunt nullo modo fit necessarium, conversa autem secundum
contingens propositione erit syllogismus, sumatur enim A quidem, nulli B
inesse, B autem contingere nulli C, per haec quidem nihil necessarium. Si autem
sumatur B omni C contingere, quod verum est, A B autem propositio similiter se
habeat, rursus erit idem syllogismus. Si autem non inesse ponatur B omni C, et
non contingere non inesse, non erit syllogismus nullo modo, sive privativa sit,
sive affirmativa A B propositio. Termini autem communes ex necessitate quidem
inesse, album, animal, nix. Non contingere autem, album, animal, pix. Manifestum
est igitur quoniam cum universales sunt termini, et haec quidem propositionum
inesse, illa vero sumitur contingens, quando quae ad minorem est extremitatem
contingere sumitur propositio, semper fit syllogismus, verumtamen quandoquidem
ex ipsis, quando autem propositione conversa, quando vero utrumque horum, et ob
quam causam, diximus. Si autem hoc quidem universale, illud vero particulare
sumitur intervallorum, quando ad maiorem quidem extremitatem universale
ponitur, et contingens sive negativum, sive affirmativum, particulare autem
affirmativum et inesse, erit syllogismus perfectus, quemadmodum et cum
universales sunt termini, demonstratio autem eadem quae et prius. Quando autem
universale quidem fuerit, ad maiorem extremitatem inesse, et non contingens,
alterum vero particulare, et contingens, sive affirmative, sive negative
ponantur utraeque, sive haec quidem negativa, illa vero affirmativa, omnino
erit syllogismus imperfectus. Verum hi quidem per impossibile ostenduntur, illi
vero per conversionem contingentis, quemadmodum in prioribus. Erit autem
syllogismus per conversionem, et quando universalis quidem ad maiorem
extremitatem posita significaverit inesse, vel non inesse, particularis vero
cum sit privativa, sumatur contingens, ut si A quidem omni B inest, vel non
inest, B autem alicui contingit non inesse, conversa enim B C, secundum
contingere fit syllogismus. Quando autem non inesse sumetur particulariter
posita propositio, non erit syllogismus Termini inesse, album, animal, nix; non
inesse autem, album, animal, pix, per indefinitum enim est sumenda
demonstratio. Si autem universale quidem ponatur ad minorem extremitatem,
particulare autem ad maiorem sive privativum, sive affirmativum, sive
contingens, sive inesse utrumvis, nullo modo erit syllogismus. Nec cum
particulares, vel indefinitae ponentur propositiones, sive contingere sumptae,
sive inesse, seu permutatim, nec sic erit syllogismus, demonstratio autem eadem
quae in prioribus. Termini autem communes inesse quidem, ex necessitate,
animal, album, homo; non contingere vero, animal, album, tunica. Manifestum est
igitur quoniam universali posito ad maiorem extremitatem semper erit
syllogismus, ad minorem autem nunquam. Quando autem haec quidem propositionum
ex necessitate inesse, vel non inesse, illa vero contingere significat,
syllogismus quidem erit hoc modo habentibus se terminis. Et perfectus, quando
ad minorem extremitatem ponetur necessaria. Conclusio autem, si praedicativi
sunt quidem termini, contingentis, et non inesse erit, sive universaliter, sive
non universaliter ponantur, si autem sint hoc quidem affirmativum, illud vero
privativum, quando affirmativum quidem fuerit necessarium, et contingentis erit
conclusio, et non eius quod est non inesse. Quando autem privativum necessarium,
et contingentis non esse, et non inesse, sive universales, sive non universales
sint termini. Contingere autem in conclusione eodem modo accipiendum est quo in
prioribus. Eius autem quod est ex necessitate non inesse, non erit syllogismus,
aliud enim est non ex necessitate inesse, et ex necessitate non inesse. Quoniam
igitur universalibus affirmativis existentibus terminis non fit conclusio
necessaria, manifestum: insit enim A omni B ex necessitate, B autem contingat
omni C, erit igitur syllogismus imperfectus, quoniam A contingit omni C inesse.
Quoniam autem imperfectus, ex demonstratione palam, eodem enim modo ostendetur
quo et in prioribus. Rursum A quidem contingat omni B inesse, B autem omni C
insit ex necessitate, erit itaque syllogismus, quoniam A contingat omni C
inesse, sed non quoniam inest, et perfectus quidem, sed non imperfectus, statim
enim perficitur ex principio propositionis. Si autem non similis figurae sint
propositiones, sit primum privativa necessaria, et A quidem nulli contingat B
ex necessitate, B autem contingat omni C, necesse est igitur A nulli C inesse.
Ponatur enim A inesse aut omni, aut alicui, positum autem est A nulli
contingere B, quoniam ergo convertitur privativa, et B nulli A contingit, A
autem positum est inesse C aut omni, aut alicui, quare nulli, aut non omni C
continget B inesse, sed supponebatur omni ex principio. Manifestum autem
quoniam et eius quod est contingere non inesse fit syllogismus, siquidem non
inesse. Rursum sit affirmativa quidem propositio necessaria, et A quidem
contingat nulli B inesse, B autem insit omni C ex necessitate. Ergo fit
syllogismus quidem perfectus, sed non eius quod est non inesse, sed eius quod
est contingere non inesse. Nam et propositio sic sumpta est, quae ad maiorem
est extremitatem, et ad impossibile non est ducere: nam si ponatur A inesse
ulli C, positum est autem et A B contingere nulli inesse, nihil accidit per
haec impossibile. Si autem ad minorem extremitatem ponatur privativum quando
contingere quidem significaverit, syllogismus erit per conversionem,
quemadmodum in prioribus. Quando autem non contingere, non erit ex necessitate,
nec quando utraque quidem propositio privativa, non est autem contingens quod
ad minorem est. Termini autem inesse quidem, album, animal, nix; non inesse
quidem, album, animal, pix. Eodem autem modo se habebit, et in particularibus
syllogismis. Quando enim fuerit privativa necessaria, et conclusio erit eius
quod est non inesse, ut si A quidem nulli B contingit inesse ex necessitate, B
autem alicui C contingat inesse, necesse est A alicui eorum quae sunt C non
inesse. Si enim A omni C inest, nulli autem contingit B, et B nulli A contingit
inesse: quare si omni C inest A, nulli C contingit B, sed positum erat alicui
contingere. Quando autem particularis affirmativa necessaria fuerit, quae in
privativo est syllogismo, ut B C, aut universalis in affirmativo, ut A B, non
erit inesse syllogismus. Demonstratio autem eadem quae in prioribus. Si autem
universale quidem ponatur ad minorem extremitatem vel affirmativum vel
privativum contingens, particulare autem necessarium, non erit syllogismus.Termini
autem inesse quidem ex necessitate, animal, album, homo; non contingere autem,
animal, album, tunica. Quando similiter universale quidem est necessarium,
particulare autem contingens, cum privativum quidem est universale, inesse
quidem termini, animal, album, corvus; non inesse, animal, album, pix. Cum
autem affirmativum, inesse quidem, animal, album, cygnus; non contingere autem,
animal, album, nix. Nec quando indefinitae sumuntur propositiones, aut utraeque
particulares, non sic erit syllogismus. Termini autem communes, inesse quidem,
animal, album, homo; non inesse autem, animal, album, inanimatum. Nam et animal
alicui albo, et album inanimato alicui est necessarium inesse, et non contingit
inesse, et in contingenti similiter, quare ad omnia utiles sunt termini.
Manifestum ergo ex iis quae dicta sunt, quoniam similiter habentibus se
terminis, et in eo quod est inesse, et in necessariis, et fit, et non fit syllogismus,
verumtamen secundum inesse quidem posita privativa propositione, eius quod est
contingere erat syllogismus, secundum necessarium autem privativa, et
contingere, et non inesse. Palam autem et quoniam omnes imperfecti syllogismi,
et quomodo perficiuntur per praedictas figuras.In secunda autem figura quando
contingentes quidem sumuntur utraeque propositiones, nullus erit syllogismus,
sive sint affirmativae, sive privativae, sive universales, sive particulares. Quando
autem haec quidem inesse, illa vero contingere significat, affirmativa quidem
inesse significante, nunquam erit syllogismus, privativa universali existente,
semper. Eodem modo et quando haec quidem ex necessitate, illa vero contingere
assumatur, oportet autem et in his accipere quod in conclusionibus est contingens
quemadmodum in prioribus. Primum igitur ostendendum quoniam non convertitur in
contingenti, privativa, ut si A contingit nulli B, non necesse est et B
contingere nulli A. Ponatur enim hoc et contingat B nulli A inesse, ergo quoniam
convertuntur quae sunt in eo quod est contingere affirmationes negationibus, et
contrariae, et contraiacentes, B autem contingit nulli A inesse, manifestum est
quoniam et omni A contingit B inesse. Hoc autem falsum est. Non enim si hoc
huic omni contingit, et hoc huic contingat necessarium, quare non convertitur
privativa. Amplius autem nihil prohibet A quidem contingere nulli B, B autem
alicui A ex necessitate non inesse, ut album quidem contingit omni homini non
inesse, nam et inesse hominem autem non verum est dicere, quoniam contingit
nulli albo, pluribus enim ex necessitate non inest, necessarium autem non
inerat contingens. Sed nec ex impossibili ostendet convertens, ut si quis putet
quoniam falsum est B contingere nulli A inesse, verum non contingere nulli A,
affirmatio enim et negatio, si autem hoc verum, ex necessitate alicui A inesse
B, quare et A alicui B inesse, hoc autem impossibile. Non enim si A non
contingit nulli B, necesse est A alicui B inesse. Nam non contingere nulli
dicitur dupliciter, hoc quidem si ex necessitate alicui inest, illud vero si ex
necessitate alicui non inest. Nam quod ex necessitate alicui eorum quae sunt A
non inest, non est verum dicere quoniam omni contingit non inesse, quemadmodum
nec alicui inest ex necessitate, quoniam omni contingit inesse. Si ergo aliquis
putet quoniam contingit C omni D inesse, ex necessitate alicui non inesse
ipsum, falsum sumet, omni enim inest, si contingat, sed quoniam quibusdam ex
necessitate inest, propter hoc dicimus non omni contingere. Quare ei quod est
contingere omni inesse, et ea quae est ex necessitate alicui inesse, opponitur,
et ea quae est ex necessitate alicui non inesse, similiter autem et ei quae est
contingere nulli. Palam ergo quoniam ad sic contingens, et non contingens, ut
in principio definivimus, non solum ex necessitate alicui inesse, sed et ex
necessitate alicui non inesse sumendum. Hoc autem sumpto, nihil accidit
impossibile, quare non fit syllogismus. Manifestum ergo ex iis quae dicta sunt
quoniam non convertitur privativa. Hoc autem ostenso ponatur A, B quidem
contingere nulli, C vero omni, per conversionem ergo non erit syllogismus.
Dictum est enim quoniam non convertitur huiusmodi propositio. Sed nec per
impossibile, nam posito B omni C contingere inesse, nihil accidit falsum,
continget enim A et omni et nulli C inesse. Omnino autem si est syllogismus,
palam quoniam contingens erit, eo quod neutra propositionum sumpta est in eo
quod est inesse, et hic vel affirmativus, vel privativus: neutro autem modo
possibile est, affirmativo enim posito, ostendetur per terminos quoniam non
contingit inesse; privativo autem, quoniam conclusio non est contingens, sed
necessaria. Sit enim A quidem album, B autem homo, in quo autem C equus, ergo
album A contingit huic quidem omni, illi vero nulli inesse, sed B neque inesse
contingit C, neque non inesse. Quoniam igitur inesse non possibile, est
manifestum, nullus enim equus homo, sed neque contingere non inesse, necesse
est enim nullum equum hominem esse, necessarium autem non erat contingens, non
igitur fit syllogismus Similiter autem ostendetur, et si e converso ponatur
privativa, et si utraeque affirmative ponantur, vel privative, nam per eosdem
terminos erit demonstratio. Et quando haec quidem universalis, illa vero
particularis, vel utraeque particulares, vel indefinitae, aut quolibet modo
aliter contingit permutari propositiones, semper enim erit per eosdem terminos
demonstratio. Manifestum ergo quoniam utrisque propositionibus secundum
contingere positis, nullus fit syllogismus. Si autem altera quidem inesse,
altera vero contingere significat, praedicativa quidem inesse posita, privativa
vero contingere, nunquam erit syllogismus, sive universaliter, sive
particulariter sumantur termini, demonstratio autem eadem, et per eosdem
terminos. Quando autem affirmativa quidem contingere, privativa inesse, erit
syllogismus. Sumatur enim A B quidem nulli inesse, C vero omnia contingere,
conversa ergo privativa, B inest nulli A, A autem omni C contingebat, fit ergo
syllogismus, quoniam B contingit nulli C, per primam figuram. Similiter autem
et si ad C ponatur privativa. Si autem utraeque sint privativae, significet
autem haec quidem non inesse, illa vero contingere non inesse, per ea quidem
quae sumpta sunt nihil accidit necessarium, conversa autem secundum contingere
propositione fit syllogismus, quoniam B contingit nulli C inesse, quemadmodum
in prioribus, erit enim rursum prima figura. Si autem utraeque ponantur
praedicativae, non erit syllogismus. Termini quidem inesse sanitas, equus,
homo. Eodem autem modo se habebit et in particularibus syllogismis. Quando
autem erit affirmativa inesse, sive universaliter, sive particulariter sumpta,
nullus erit syllogismus; hoc autem similiter, et per eosdem terminos
demonstratur, quibus et prius. Quando autem et privativa, erit per conversionem,
quemadmodum in prioribus. Rursum si ambo quidem intervalla privativa sumantur,
universaliter autem quod non inesse, ex ipsis quidem propositionibus non erit
necessarium, conversa autem contingenti sicut in prioribus, erit syllogismus.
Si autem inesse quidem sit privativa, particulariter quidem sumpta, non erit
syllogismus, neque praedicativa, neque privativa existente altera propositione.
Nec quando utraeque ponuntur indefinitae, vel affirmativae, vel negativae, aut particulares;
demonstratio autem eadem et per eosdem terminos. Si autem haec quidem
propositionum ex necessitate, illa vero contingere significat, privativa quidem
necessaria, erit syllogismus, non solum quoniam contingit non inesse, sed et
quoniam non inest, affirmativa autem non erit. Ponatur autem A B quidem nulli
inesse ex necessitate, C autem omni contingere, conversa ergo privativa, et B
nulli A inerit, A autem omni E contingebat. Fit igitur rursum per primam
figuram syllogismus, quoniam B contingit nulli C inesse. Simul autem manifestum
quoniam neque inest B nulli C, ponatur enim inesse, ergo si A nulli B
contingit, B autem inest alicui C, A alicui C non contingit, sed omni ponebatur
contingere. Eodem autem modo ostendetur, et si ad C ponatur privativum. Rursum.
Sit praedicativa quidem necessaria, altera autem privativa, et contingens, et A
B contingat nulli, C autem omni insit ex necessitate, sic ergo habentibus se
terminis, nullus erit syllogismus, accidit enim B ex necessitate non inesse. Sit
enim A quidem album, in quo autem B, homo, in quo vero C, cygnus, ergo album
cygno quidem ex necessitate inest, homini autem contingit nulli, et homo nulli
cygno ex necessitate. Quoniam igitur eius quod est contingere non est
syllogismus, manifestum est, nam ex necessitate non erat contingens. Sed tamen
non necessarii, nam necessarium aut ex utrisque necessariis, aut ex privativa
necessaria contingebat. Amplius et possibile est iis positis B inesse C. Nihil
enim prohibet C quidem sub B esse, A autem B quidem omni contingere, C vero ex
necessitate inesse, ut sit quidem C vigilia, B autem animal, in quo autem A
motus. Nam vigilanti quidem ex necessitate inest motus, animali autem nulli
contingit, et omne vigilans animal. Manifestum ergo quoniam non eius quod est
non inesse, siquidem sic se habentibus terminis, necesse est inesse, neque
autem oppositarum affirmationum, quare nullus erit syllogismus. Similiter autem
ostendetur, et e converso posita affirmativa. Si autem similis figurae sint
propositiones, cum privativae sint, semper fit syllogismus, conversa secundum
contingere propositione, quemadmodum in prioribus. Si sumatur enim A B quidem
ex necessitate non inesse, C autem contingere non inesse, conversis autem
propositionibus, B quidem nulli inesse A, A autem omni C contingit, fit igitur
prima figura, et si ad C ponatur privativum similiter. Si autem praedicativae
ponantur, non erit syllogismus, nam eius quod est non inesse, aut eius quod est
ex necessitate non inesse, manifestum quoniam non erit, eo quod non sumpta sit
privativa propositio, neque in eo quod est inesse, neque in eo quod est ex
necessitate inesse, sed neque eius quod est contingere non inesse, ex
necessitate enim sic se habentibus, B non inerit C, ut si A quidem ponatur
album, in quo autem B cygnus, in quo autem C homo, neque oppositarum
affirmationum, quoniam ostensum est B ex necessitate non inesse C, non ergo fit
syllogismus omnino. Similiter autem se habebit et in particularibus
syllogismis. Quando autem fuerit privativa, et universalis, et necessaria,
semper erit syllogismus, et eius quod est contingere non inesse, et eius quod
est non inesse, demonstratio autem per conversionem. Quando autem affirmativa,
nunquam, eodem autem modo ostendetur quo et in universalibus, et per eosdem
terminos. Nec quando utraeque sumuntur affirmative, nam et huius eadem
demonstratio, quae et prius. Quando utraeque quidem privativae, universalis
autem et necessaria, quae non inesse significat, per ea quidem quae sumpta
sunt, non erit necessarium, conversa autem secundum contingere propositione,
erit syllogismus, quemadmodum in prioribus. Si autem utraeque indefinitae, vel
particulares sumantur, non erit syllogismus, demonstratio autem eadem, et per
eosdem terminos. Manifestum igitur ex praedictis quoniam privativa quidem universalis
posita necessaria, semper fit syllogismus, non solum eius, quod est contingere
non inesse, sed et non inesse, affirmativa autem nunquam. Et quoniam eodem modo
se habentibus, et in necessariis, et in iis quae insunt, fit et non fit
syllogismus Palam et quoniam imperfecti omnes sunt syllogismi, et quoniam omnes
perficiuntur per praedictas figuras. In postrema autem figura, et utrisque
contingentibus, et altera, erit syllogismus. Quando ergo contingere significant
propositiones, et conclusio erit contingens. Et quando haec quidem contingere,
illa vero inesse, similiter erit syllogismus. Quando autem altera ponitur
necessaria, si affirmativa quidem non erit conclusio, neque necessaria, neque
inesse. Si autem privativa, eius quod est non inesse erit syllogismus,
quemadmodum in prioribus. Sumendum autem et in his similiter, quod est in
conclusionibus contingens. Sint ergo primum contingentes, et A et B contingant
omni C inesse, quoniam ergo convertitur affirmativa particulariter, B autem
omni C contingit, et C alicui B contingit, quare si A quidem omni C contingit,
C autem alicui B, et A alicui B contingit, fit enim prima figura. Et si A
quidem contingit nulli C inesse, B autem omni C contingat, necesse est A alicui
cui B contingere non inesse, erit enim rursum prima figura per conversionem. Si
autem utraeque privativae ponantur, ex his quidem quae sumpta sunt non erit
necessarium, conversis autem propositionibus erit syllogismus, quemadmodum in
prioribus. Si enim A et B contingunt C non inesse, si transmutatur contingere
non inesse, rursum erit prima figura per conversionem. Si autem hic quidem
terminorum est universalis, ille vero particularis, eodem modo se habentibus
terminis quo inesse, et erit, et non erit syllogismus. Contingat enim A quidem
omni C, B autem alicui C inesse, erit ergo rursum prima figura particulari
propositione conversa, nam si A omni C, C autem alicui B, et A alicui B
contingit. Et si ad B C ponatur universale, similiter. Similiter autem et si A
C quidem privativa sit, B C autem affirmativa, erit unum rursum prima figura
per conversionem, si autem utraeque privativae ponantur, haec quidem
universaliter, illa vero particulariter, per ea quidem quae sumpta sunt non
erit syllogismus, conversis autem propositionibus erit quemadmodum in prioribus.
Quando autem utraeque indefinitae vel particulares sumuntur, non erit
syllogismus, etenim necesse est A omni B, et nulli inesse. Termini inesse,
animal, homo, album: non inesse, equus, homo, medium album. Si autem haec
quidem propositionum inesse, illa autem contingere significet, conclusio quidem
erit quoniam contingit, et non quoniam inest, syllogismus autem erit eodem modo
se habentibus terminis, quo et in prioribus. Sint enim primum praedicativae, et
A quidem omni C insit, B autem omni C contingat, conversa ergo B C erit prima
figura, et conclusio quoniam contingit A alicui B inesse, cum enim altera
propositionum in prima figura significabit contingere, et conclusio erit
contingens. Similiter autem et si B C quidem inesse, A C autem contingit inesse.
Et si A C quidem privativa, B C autem praedicativa, insit autem alterutra
utrinque, contingens erit conclusio, fit enim rursum prima figura. Ostensum est
autem quoniam si altera propositio significet contingere in prima figura, et
conclusio erit contingens. Si autem contingens privativa ponatur ad minorem
extremitatem, vel si utraque ponatur privativa, per ea quidem quae posita sunt
non erit syllogismus, conversis autem erit, quemadmodum et in prioribus. Si
autem haec quidem propositionum sit universalis, illa vero particularis,
utrisque quidem praedicativis, aut universali quidem privativa, particulari
autem affirmativa, idem modus erit syllogismorum, omnes enim clauduntur per
primam figuram. Quare manifestum quoniam eius quod est contingere, et non eius
quod est inesse, erit syllogismus. Si autem affirmativa quidem universalis,
privativa autem particularis, per impossibile erit demonstratio. Insit enim B
quidem omni C, A autem contingat alicui C non inesse, necesse est ergo A alicui
B contingere non inesse, nam si omni B inest A ex necessitate, B autem omni C
positum est inesse, A omni C ex necessitate inerit. Hoc autem ostensum est
prius, sed positum est alicui contingere non inesse. Quando autem indefinitae,
vel particulares sumuntur utraeque, non erit syllogismus, demonstratio autem
eadem quae et in universis et per eosdem terminus. Si autem est haec quidem
propositionum necessaria, illa vero contingens, si praedicativi quidem sunt
termini, semper eius quod est contingere erit syllogismus. Quando autem fuerit
hic quidem praedicativus, ille autem privativus, si sit affirmativus quidem
necessarius, eius erit quod est contingere non inesse, si autem privativus, et
eius quod est contingere non inesse, et eius quod est non inesse; eius autem
quod est ex necessitate non inesse non erit syllogismus, quemadmodum et in
aliis figuris. Sint ergo praedicativi termini primum, et A C quidem omni insit
ex necessitate, B autem omni C contingat inesse, quoniam ergo A omni C
necessario inest, C autem alicui B contingit, et A alicui B contingens erit, et
non inerit, sic enim accidit in prima figura. Similiter autem ostendetur, et si
B C quidem ponatur necessaria, A C autem contingens. Rursum sit hoc quidem
praedicativum, illud vero privativum, necessarium autem praedicativum, et A
quidem contingat nulli C inesse, B autem omni insit ex necessitate C, erit ergo
rursum prima figura, et conclusio contingens, sed non inesse. Nam privativa
propositio contingere significat. Manifestum est igitur quoniam conclusio erit
contingens; cum enim sic se habebant propositiones in prima figura, et
conclusio erat contingens. Si autem privativa sit propositio necessaria, et
conclusio erit, quoniam contingit alicui non inesse, et quoniam non inesse Ponatur
enim A non inesse C, ex necessitate, B autem omni C contingere, conversa ergo B
C affirmativa, prima erit figura, et necessaria privativa propositio. Cum autem
sic se habebant propositiones, accidebat A et contingere alicui C non inesse,
et non inesse, quare et A necesse est alicui B non inesse. Quando autem
privativum ponitur ad minorem extremitatem, si contingens quidem, erit
syllogismus transsumpta propositione, quemadmodum! et in prioribus. Si autem
necessarium, non erit. Etenim necesse est omni et nulli contingat inesse.
Termini omni inesse, somnus, equus, dormiens homo. Nulli inesse, somnus, equus,
vigilans homo. Similiter autem se habebit, et si hic quidem terminorum sit
universalis, ille autem particularis ad medium, nam si utrique sint
praedicativi, eius quod est contingere, et non eius quod est inesse erit
syllogismus. Et quando hoc quidem privativum sumetur, illud vero affirmativum,
necessarium autem affirmativum, huius quod est contingere. Quando autem
privativum necessarium, et conclusio erit quod est non inesse, nam idem modus
erit demonstrationis, et cum universales et non universales sunt termini. Necesse
est enim per primam figuram perfici syllogismos, quare ut in illis, et in his
necessarium accidere. Quando autem privativum universaliter sumptum ponitur ad
minorem extremitatem, si contingens quidem, erit syllogismus per conversionem,
si autem necessarium sit, non erit, ostendetur autem eodem modo quo et in
universalibus, et per eosdem terminos. Manifestum ergo et in hac figura quando
et quomodo erit syllogismus, et quando eius quod est contingere, et quando eius
quod est inesse. Palam autem et quoniam omnes imperfecti, et quoniam
perficiuntur per primam figuram. Quoniam igitur qui in his figuris sunt
syllogismi perficiuntur per eos qui in prima figura sunt universales
syllogismos, et in hos reducuntur, palam ex dictis. Quoniam autem simpliciter
omnis syllogismus sic se habebit, nunc erit manifestum, cum ostensus fuerit
omnis qui fit, per aliquam harum figurarum fieri. Necesse est ergo omnem
demonstrationem et omnem syllogismum aut inesse quid, aut non inesse monstrare.
Et hoc aut universaliter, aut particulariter, amplius aut ostensive, aut ex
hypothesi. Eius autem quod est ex hypothesi, pars est per impossibile. Primum
ergo dicemus de ostensivis, his enim ostensis, manifestum erit et de iis qui ad
impossibile, et omnino de iis qui ex hypothesi. Si ergo oporteat A de B
syllogizare, vel inesse, vel non inesse, necesse est sumere aliquid de aliquo. Si
ergo A sumatur de B, quod ex principio erit sumptum, si autem A de C, C autem
de nullo alio, nec aliud de illo C, neque de A alterum, neque de altero A,
nullus erit syllogismus, nam in eo quod unum de uno sumitur, nihil accidit ex
necessitate, quare assumenda est altera propositio. Si igitur sumatur A de
alio, aut aliud de A, aut de C alterum, esse quidem syllogismum nihil prohibet,
ad B autem non erit per ea quae sumpta sunt, nec quando C inest alteri, et
illud alii, et hoc alteri, non copuletur autem ad B, nec sic erit ad B
syllogismus ipsius A. Omnino enim dicimus quoniam nullus nunquam erit
syllogismus alius de alio, non sumpto aliquo medio, quod ad utrumque se habet
quoquo modo praedicationibus. Nam syllogismus quidem simpliciter ex
propositionibus est, ad hoc autem syllogismus ex propositionibus, quae ad hoc,
qui autem est huius ad hoc, per propositiones huius ad hoc, impossibile est
autem ad B sumere propositionem, nihil neque praedicantes de eo, neque
negantes, aut rursum eius quod est A ad B, nihil commune sumentes, sed
utriusque propria quaedam praedicantes, aut negantes, quare sumendum, utriusque
quod copulet praedicationes, si erit huius ad hoc syllogismus. Ergo si necesse
est aliquod sumere ad utrumque commune, hoc autem contingit tripliciter, aut
enim A de C et de B praedicantes, aut C de utrisque, aut utraque de C, hae
autem sunt tres dictae figurae. Manifestum quoniam omnem syllogismum necesse
est fieri per aliquam harum figurarum. Nam eadem ratio est, etsi per plura
copuletur ad B, eadem enim erit figura et in pluribus. Quoniam igitur ostensivi
terminantur per praedictas figuras, manifestum est. Quoniam autem et qui ad
impossibile, palam erit per haec, omnes enim qui per impossibile concludunt,
falsum quidem syllogizant. Quod autem ex principio erat, ex hypothesi
demonstrant, quando aliquid accidit impossibile posita contradictione, ut
quoniam diameter est asymeter, eo quod fiunt abundantia aequalia perfectis,
posito symetro. Ergo aequalia quidem fieri abundantia perfectis syllogizant,
asymetrum autem esse diametrum, ex hypothesi monstrant, quoniam falsum accidit
propter contradictionem.Hoc enim fuit per impossibile syllogizare, ostendere
aliquid impossibile propter priorem hypothesin. Quare quoniam falsus fit
syllogismus ostensivus in his quae ad impossibile deducuntur, quod autem est ex
principio, ex hypothesi monstratur, ostensivos autem diximus prius, quoniam per
has terminantur figuras, manifestum quoniam et per impossibile syllogismi per
has erunt figuras Similiter autem et alii omnes qui sunt ex hypothesi, in
omnibus his enim syllogismus quidem fit ad transsumptum, quod autem est ex
principio, terminatur per confessionem aut per aliquam aliam hypothesin. Si
autem hoc verum, necesse est omnem demonstrationem et omnem syllogismum fieri
per tres praedictas figuras. (0666C) Hoc autem ostenso, palam quoniam omnis
syllogismus perficitur per primam figuram, et reducitur in huius universales
syllogismos. Amplius autem in omnibus oportet aliquem terminorum praedicativum
esse et universalem, sine universali enim non erit syllogismus, aut non ad hoc
quod positum est, aut quod ex principio est petet. Ponatur enim musicam
voluptatem esse studiosam, si ergo poposcerit voluptatem esse studiosam, non
addens omnem, non erit syllogismus, si autem aliquam voluptatem esse studiosam,
si aliam quidem, nihil ad hoc quod positum est, si autem eamdem, quod ex
principio erat, sumit. Magis autem fit manifestum in figuris, ut quoniam
aequicruris aequales sunt anguli, qui sunt ad basim: sint enim in centrum
ductae A B, si ergo aequalem sumpserit A C angulum ei qui est B D, non omnino
petens aequales eos qui sunt semicirculorum, et rursum C ei qui est D, non
omnem assumens eum qui est incisionis. Amplius, ab aequalibus existentibus
totis angulis, aequalibus demptis, aequales esse reliquos, scilicet E F, quod
ex principio est petet, nisi sumat ab omnibus aequalibus, aequis demptis,
aequalia relinqui. Manifestum igitur quoniam in omni syllogismo oportet
universale esse. Et quoniam universale quidem ex omnibus terminis universalibus
monstratur, particulare autem et sic, et aliter. Quare si conclusio sit universalis,
et terminos necesse est universales esse, si autem universales sint termini,
contingit conclusionem non universalem esse. Palam etiam quoniam in omni
syllogismo aut utramque, aut alteram propositionem similem necesse est fieri
conclusioni, dico autem non solum in eo quod affirmativa sit, vel negativa, sed
in eo quod necessaria aut inesse, aut contingens: considerare autem oportet et
alia praedicamenta. Manifestum autem et simpliciter quando erit, et quando non
erit syllogismus, et quando perfectus, et quoniam si est syllogismus,
necessarium est habere terminos secundum aliquem dictorum modorum. Palam autem
et quoniam omnis demonstratio erit per tres terminos, et non per plures, nisi
per alia et alia eadem conclusio fiat, ut E per A B, et per C D, aut per A B,
et A C, et B C, plura enim media eorumdem nihil esse prohibet, haec autem cum
sint, non unus, sed plures sunt syllogismi. Aut rursum, quando utrumque A B
sumitur per syllogismum, ut A per D E, et rursum B per F G, aut hoc quidem
inductione, illud autem syllogismo, sed et si plures erunt syllogismi, plures
enim conclusiones sunt, ut A B et C. Si igitur non plures, sed unus (sic autem
contingit fieri per plura media eamdem conclusionem, ut E quidem per A B C D ),
impossibile. Sit enim E conclusio ex A B C D, ergo necesse est aliquid eorum,
aliud ad aliud sumptum esse, hoc quidem ut totum, illud vero ut pars, hoc enim
ostensum est prius, quoniam si est syllogismus, necesse est sic aliquos se
habere terminorum. Habeat se ergo A sic ad B, est itaque aliqua ex eis
conclusio, aut ergo E, aut alterum eorum quae sunt C D, aut alterum aliud
quidem praeter haec. Et si E quidem, ex A B tantum, erit syllogismus, C D autem
quidem se habeant sic ut sit hoc quidem ut notum, illud vero ut pars, erit
aliquid ex illis aut E, aut aliquid eorum quae sunt A B, aut alterum aliud
quidem praeter haec. Et si E quidem, aut eorum quae sunt A B alterum, aut
plures erunt syllogismi, aut (ut contingebat) idem per plures terminos concludi
accidit, si autem aliud quidem praeter haec, plures erunt et inconiuncti
syllogismi ad invicem, si autem non sic se habeat C ad D ut faciat syllogismum,
vane erunt sumpta, nisi inductionis, aut celationis, aut alicuius alius talium
gratia. Si autem ex A B non E, sed alia quaedam fiat conclusio, ex C D autem
aut horum alterum, aut aliud praeter haec, et plures fiunt syllogismi, et non
eius quod positum est. Ponebatur enim eius quod est E esse syllogismum. Si
autem non fiat ex C D nulla conclusio, et vane sumpta esse ea accidit, et non
eius quod est ex principio esse syllogismum. Quare manifestum quoniam omnis
demonstratio et omnis syllogismus erit per tres terminos solos.Hoc autem
manifesto, palam quoniam et ex duabus propositionibus, et non pluribus, nam
tres termini, duae sunt propositiones, nisi assumatur aliquid (quemadmodum in
prioribus dictum est) ad perfectionem syllogismorum. Manifestum igitur quando,
ut in oratione syllogistica, non pares sunt propositiones per quas fit
conclusio principalis (quasdam enim superiorum conclusionum necessarium est
esse propositiones), haec oratio aut non syllogistica est, aut plura necessariis
interrogavit ad positionem. Secundum igitur principales propositiones sumptis
syllogismis, omnis syllogismus erit ex propositionibus quidem perfectis, ex
terminis autem abundantibus, uno enim plures termini propositionibus, erunt
autem et conclusiones dimidietas propositionum. Quando autem per prosyllogismos
concluditur, aut per plura media non continua, ut A B per C D, multitudo quidem
terminorum similiter uno superabit propositiones, aut enim extrinsecus, aut
medium ponetur intercidens terminus, utrinque autem accidit uno minus esse
intervalla quam terminos, propositiones autem aequales sunt
intervallis. Non tamen hae quidem semper perfectae erunt, illi vero
abundantes, sed permutatim, quia cum propositiones quidem sunt perfectae,
abundantes erunt termini, cum vero termini perfecti, abundantes erunt
propositiones, simul enim termino addito, una additur propositio, undecunque
addatur terminus. Quare quoniam hae propositiones quidem perfectae, illi vero
abundantes erant, necesse est transmutare eadem, additione facta.Conclusiones
autem non etiam eum habebunt ordinem neque ad terminos, neque ad propositiones,
uno enim termino addito, conclusiones adiungentur uno, pauciores praeexistentibus
terminis, ad solum enim ultimum non facit conclusionem, ad alios autem omnes.
Ut si eis quae sunt A B C, adiacet D, statim et conclusiones duae adiacent,
quae ad A, et ad B, similiter autem et in aliis. Si autem ad medium intercidat,
eodem modo, ad unum enim solum non faciet syllogismum, quare multo plures
conclusiones erunt et terminis et propositionibus. Quoniam autem habemus ex
quibus syllogismi, et quale in unaquaque figura, et quot modis monstratur,
manifestum nobis est, et quae propositio facile, et quae difficile
argumentabilis est. Nam quae in pluribus figuris et per plures casus
concluditur, facilis; quae autem in paucis et per pauciores, difficilius
argumentabilis. Ergo affirmativa quidem universalis per primam tantum figuram
monstratur, et per hanc simpliciter. Privativa vero et per primam, et per
mediam. Per primam quidem simpliciter, per mediam autem dupliciter.
Particularis autem affirmativa per primam et per postremam, simpliciter quidem
per primam, tripliciter autem per postremam. Privativa vero particularis in
omnibus figuris monstratur, verum in prima quidem semel, in media autem et
postrema, in illa quidem dupliciter, in hac vero tripliciter. Manifestum ergo
quoniam universalem affirmativam construere quidem difficillimum, destruere
autem facillimum, omnino autem est interimenti quidem, universalia quam
particularia facilius. Etenim si nulli, et si alicui non insit interemptum est,
horum autem alicui quidem non in omnibus figuris monstratur, nulli autem in
duabus. Eodem autem modo et in privativis, etenim si omni, et si alicui,
interemptum est quod ex principio. Hoc autem fuit in duabus figuris. In
particularibus autem simpliciter, aut omni, aut nulli ostendentem inesse.
Construenti autem, facilius est particularia, nam in pluribus figuris, et per
plures modos. Omnino autem non oportet latere quoniam destruere quidem per se
invicem est, et universalia per particularia, et haec per universalia;
construere autem non est per particularia universalia, per illa vero haec est.
Nam si omni, et alicui. Simul autem manifestum quoniam destruere quam construere
facilius. Quomodo ergo fit omnis syllogismus, et per quot terminos et
propositiones, et quomodo habentes se ad invicem, amplius autem quae propositio
in unaquaque figura, et quae in pluribus, et quae in paucioribus monstratur,
palam ex his quae dicta sunt. Quomodo autem idonei erimus semper syllogizare ad
propositum, et per quam viam sumemus circa unumquodque principia, nunc
dicendum. Non enim solum fortasse oportet generationem considerare
syllogismorum, sed et potestatem habere faciendi. Omnium igitur quae sunt, haec
quidem sunt talia, ut de nullo alio praedicentur vere universaliter, ut Cleon,
et Callias, et quod singulare, et sensibile, de his autem alia, nam et homo, et
animal uterque horum est. Illa vero et ipsa quidem de aliis praedicantur, de
illis autem alia prius non praedicantur, alia autem et ipsa de aliis, et de his
alia, ut homo de Callia, et de homine animal. Quoniam ergo quaedam eorum quae
sunt de nullo nata sunt dici, palam: nam sensibilium pene unumquodque est
huiusmodi, ut de nullo praedicetur, nisi, ut secundum accidens, dicimus enim
quandoque album illud Socratem esse, et hoc veniens Calliam. Quoniam autem in
sursum pergentibus statur quandoque, rursum dicemus. Nunc autem sit hoc
positum, de iis ergo praedicatum aliquod non est demonstrare nisi secundum
opinionem, sed haec de aliis, neque singularia de aliis, sed alia de ipsis.
Quae autem in medio sunt, manifestum quoniam utrumque contingit, nam et haec de
aliis, et alia de his dicuntur, et pene rationes et considerationes sunt maxime
de his. Oportet ergo propositiones circa unumquodque horum sic sumere
supponentem, ipsum primum et definitiones, et quaecunque propria sunt rei,
deinde post hoc quaecunque sequuntur rem. Et rursum quae res sequitur, et
quaecunque non contingit ipsi inesse, quibus autem ipsa non contingit, non
sumendum, eo quod convertitur privativa. Dividendum autem est, et eorum quae
sequuntur, quaecunque in eo quod quid est, et quaecunque ut propria, et quaecunque
ut accidentia praedicantur, et horum quae secundum opinionem, et quae secundum
veritatem. Quanto enim plurium talium abundaverit quis, citius inveniet
conclusionem, quanto autem veriorum, magis demonstrabit. Oportet autem eligere
non quae sequuntur aliquam, sed quaecunque totam rem sequuntur, ut non quod
aliquem hominem, sed quod omnem hominem sequitur, per universales enim
propositiones fit syllogismus. Cum autem est indefinitum, incertum si
universalis est propositio, cum vero definitum, manifestum. Similiter autem
eligendum et quae ipsum sequitur tota, propter dictam causam. Ipsum autem quod
sequitur, non est sumendum totum sequi, dico ut hominem omne animal, aut
musicam, omnem disciplinam, sed simpliciter solum sequi quemadmodum et
praetendimus, etenim inutile alterum et impossibile, ut omnem hominem esse omne
animal, vel iustitiam omne bonum, sed cui consequens est, in illo omni esse
dicitur. Quando autem ab aliquo continetur subiectum, cuius consequentia
oportet sumere, quae universale quidem sequuntur, vel non sequuntur, non
eligendum in his, sumpta enim sunt in illis quaecunque animal et hominem
sequuntur, et quaecunque non animali insunt, similiter. Quae autem in unoquoque
sunt propria, sumendum: sunt enim quaedam speciei propria praeter genus,
necesse est enim diversis speciebus propria quaedam inesse. Neque autem
universale eligendum iis quae sequitur quod continetur, ut animal iis quae
sequitur homo, necesse est enim si hominem sequitur animal, et haec omnia
sequi, convenientiora autem haec hominis electioni. Sumendum autem et quae
plerumque sequuntur ea quae consequuntur, nam et problematibus quae plerumque,
et syllogismus ex propositionibus, quae plerumque aut in omnibus, aut
aliquibus, similis enim est uniuscuiusque conclusio principiis. Amplius quae
omnibus sequentia sunt, non eligendum, non enim erit syllogismus ex ipsis, ob
quam autem causam, in sequentibus erit manifestum. Construere ergo volentibus
aliquid de aliquo toto, eius quidem quod construitur, inspiciendum ad subiecta
de quibus ipsum dicitur, de quo autem oportet praedicari quaecunque hoc
sequuntur. Si enim aliquod horum sit idem, alterum alteri necesse est inesse.
Si autem non quoniam omni, sed quoniam alicui, quae sequitur utrumque, si enim
aliquod horum idem fuerit, necesse est alicui inesse Quando autem nulli
oporteat inesse, cui quidem oportet non inesse, ad sequentia subiecti, quod
autem oportet non inesse, inspiciendum ad ea quae non contingunt illi adesse.
Aut conversim cui quidem oportet non inesse, ad ea quae non contingunt eidem
adesse, quod vero non inesse, inspiciendum ad sequentia. Nam si haec sint eadem
utrorumque, nulli contingi alteri alterum inesse, fit enim quandoque quidem in
prima figura syllogismus, quandoque autem in media. Si autem alicui non inesse,
cui quidem oportet non inesse, quae consequitur: quod vero non inesse, quae non
possibile est illi inesse. Si enim aliquid horum sit idem, necesse est alicui
non inesse. Magis autem fortasse erit sic, unumquodque eorum quae dicta sunt
manifestum. Sint enim sequentia quidem A, in quibus B, quae autem ipsum
sequitur, in quibus C, quae autem non contingunt ei inesse, in quibus D, rursum
autem ipsi E quae quidem insunt, in quibus F, quae autem ipsum sequitur, in
quibus G, quae autem non contingunt eidem inesse, in quibus H. Si ergo eidem
aliquid eorum quae sunt C, alicui eorum quae sunt F, necesse est A omni E
inesse, nam F quidem omni E, C autem omni A, quare omni E inest. Si autem C et
G idem, necesse est alicui E inesse A, nam id quod est E A, id vero quod est G E,
omne ei sequitur. Si autem F et D sint idem, nulli E inerit ex proprio
syllogismo, quoniam enim convertitur privativa, et F ei quod est D idem, nulli
F inerit A, F autem omni E. Rursus si B et H idem, nulli E inerit A, nam B A
quidem omni, ei autem in quo E nulli inerit. Idem enim erat ei quod est H, B; H
autem nulli E inerat. Si autem G et D idem, A alicui E non inerit, nam ei quod
est G non inerit A, quoniam neque D, G autem sub E est, quare alicui E non
inerit. Si autem G et B idem, conversus erit syllogismus, nam G inerit omni A,
nam B ei quod est A, E autem ei quod est B, idem enim erat ei quod est G, A
autem ei quod est E, omni quidem non necessarium est inesse, alicui autem
necessarium, eo quod convertatur universale praedicativum in particulare. Manifestum
ergo quoniam ad praedicta perspiciendum utrinque in unaquaque quaestione, per
haec enim omnes syllogismi. Oportet autem et sequentium, et quibus sequitur
singulum, ad prima et universalia maxime inspicere, ut E quidem magis ad k F
quam ad F solum, A autem ad k C magis quam ad C solum. Si enim ei quod est k F
inest A, et ei quod est F inest et ipsi E, si vero hoc non sequitur A,
possibile est id quod est F sequi. Similiter autem et in quibus idem sequitur,
considerandum, nam si primis, et iis quae sub ipsis sunt, sequitur; si autem
non his, et iis quae sub ipsis sunt, possibile. Palam autem quoniam per tres
terminos et duas propositiones consideratio, et per praedictas figuras
syllogismi omnes, monstratur enim omni quidem E inesse A, quando eorum quae
sunt C F idem, quiddam sumitur, hoc autem erit medium, extremitates autem A et
E, fit enim prima figura. Alicui autem quando C et G sumitur idem, hoc autem
postrema figura, medium enim fit G. Nulli vero quando D et F idem; sic autem et
prima figura, et media: prima quidem, quoniam nulli F inest A, siquidem
convertitur privativa, F autem omni E. Media autem quoniam D A quidem nulli, E
autem omni inest. Alicui autem non inesse, quando D et G idem fuerit, haec
autem postrema figura, nam A quidem nulli G inerit, E vero omni G; manifestum
igitur est quoniam per praedictas figuras omnes syllogismi. Et quoniam non
eligendum quaecunque omnibus sequuntur, eo quod nullus fiat syllogismus ex
ipsis, nam construere quidem non omnino erat ex sequentibus, privare autem non
contingit per ea quae omnibus sequuntur, oportet huic quidem inesse, illi vero
non inesse. Manifestum autem quoniam et aliae considerationes quae secundum
electiones, inutiles ad faciendum syllogismum. Ut si sequentia utrumque eadem
sint, aut quae sequitur A, et quae non contingit E inesse, aut rursum
quaecunque non possibile est utrique inesse, non enim fit syllogismus per haec.
Nam si sequentia sunt eadem, ut B et F, media fit figura praedicativas habens utrasque
propositiones. Si autem ea quae sequitur A, et quae non contingit E, ut C, et
H, prima erit figura privativam habens propositionem ad minorem extremitatem.
Si autem quaecunque non contingunt utrique, ut D et H, privativae utraeque
propositiones erunt vel in prima figura, vel in media, sic autem nullo modo
erit syllogismus. Palam autem et quae eadem, sumendum secundum considerationem,
et non quae diversa vel contraria, primum quidem quoniam medii gratia,
inspectio, medium autem non diversum, sed idem oportet sumere. Deinde et in
quibus accidit fieri syllogismum quod sumantur contraria, aut non contigentia
eidem inesse, in praedictos omnia reducuntur modos. Ut si B et F sint
contraria, aut non contingant eidem inesse, erit enim his sumptis syllogismus,
quoniam nulli E inest A, sed non ex ipsis, sed ex praedicto modo, nam B A
quidem omni, E autem nulli inerit, quare necesse est B idem esse alicui eorum
quae sunt H. Rursum si B et G non possint eidem adesse, erit quoniam alicui E
non inerit A, nam et sic media erit figura, nam B A quidem omni, G vero nulli
inerit, quare necesse est G idem esse alicui eorum quae sunt D, nam non
contingere G et B eidem inesse nihil differt, aut G alicui D idem esse, omnia
enim sumpta sunt in D, quae non contingunt A inesse. Manifestum ergo quoniam ex
istis quidem inspectionibus nullus fit syllogismus, et si B et F sint
contraria, idem esse B alicui H, et syllogismum semper fieri per haec. Accidit
ergo sic inspicientibus considerare viam aliam necessariam, eo quod quandoque
latet identitas horum quae sunt B et H. Eodem autem modo se habent et qui ad
impossibile deducunt syllogismi, ostensivis, nam et ipsi fiunt per ea quae
sequuntur, et quibus sequitur utrumque. Et eadem consideratio in utrisque, nam
quod monstratur ostensive, et per impossibile est syllogizare, et per eosdem
terminos, et quod per impossibile et ostensive. Ut quoniam A nulli E inest,
ponatur enim alicui inesse, ergo quoniam B omni A, A autem alicui E, et B
alicui E inerit, sed nulli inerat. Rursum quoniam alicui E inest A, si enim
nulli E inest A, E autem omni G, nulli G inerit A, sed omni inerat. Similiter
autem est in aliis propositis, semper enim erit in omnibus per impossibile
ostensio, ex sequentibus, et quibus sequitur utrumque. Et in uno quoque
proposito, eadem consideratio et ostensive volenti syllogizare, et ad
impossibile ducere, nam ex eisdem terminis utraeque demonstrationes. Ut si
ostensum est nulli E inesse A, quoniam accidit et B alicui E inesse, quod est
impossibile. Si sumptum sit E quidem nulli B, A autem omni B inesse, manifestum
est enim quoniam nulli E inerit A. Rursum si ostensive syllogizatum sit A
inesse nulli E, suppositis inesse per impossibile monstrabitur nulli inesse,
similiter autem et in aliis. In omnibus enim necesse est iis qui per
impossibile communem aliquem sumere terminum alium A subiectis, ad quem erit
mendacii syllogismus, quare conversa ea propositione, altera autem similiter se
habente, ostensivus erit syllogismus per eosdem terminos. Differt autem
ostensivus ab eo qui ad impossibile, quoniam in ostensivo secundum veritatem
ambae propositiones ponuntur, in eo autem qui ad impossibile, falsa una. Haec
vero erunt magis manifesta per sequentia quando de impossibili dicemus; nunc
autem tantum nobis sit manifestus, quoniam ad haec perspiciendum, et ostensive
volentibus syllogizare, et ad impossibile deducere. (0673C)In aliis autem
syllogismis quicunque sunt ex hypothesi, ut quicunque secundum transsumptionem,
aut secundum qualitatem in subiectis, non in prioribus, sed in transsumptis
erit consideratio, modus autem inspectionis idem: considerare autem oportet, et
dividere quot modis sunt ex hypothesi, monstratur ergo unumquodque propositorum
sic. Est autem et alio modo quaedam syllogizare horum, ut universalia per
particularem inspectionem ex hypothesi. Si enim C et G eadem sint, solum G
autem sumatur E inesse, omni E inerit A, et rursum si G et D eadem, solum autem
de G praedicetur E, quoniam nulli E inerit A, manifestum ergo quoniam sic
inspiciendum. Eodem autem modo et in necessariis, et in contingentibus, nam
eadem consideratio, et per eosdem terminos erit, eodemque ordine et
contingentis, et inesse syllogismus. Sumendum autem et in contingentibus et
quae non insunt, possibilia autem inesse. Ostensum est enim quoniam et per haec
fit contingentis syllogismus, similiter autem se habebit et in aliis
praedicationibus. Manifestum ergo ex praedictis quoniam non solum possibile est
per hanc viam fieri omnes syllogismos, sed etiam quoniam per aliam impossibile.
Omnis enim syllogismus ostensus est quoniam per aliquam praedictarum figurarum
fit, has autem non contingit per alia constitui quam per sequentia et quae
sequitur unumquodque, ex his enim propositiones, et medii sumptio, quare nec
syllogismum possibile est fieri per alia. Ergo methodus quidem de omnibus eadem
est, et circa philosophiam, et circa autem quamlibet disciplinam. Oportet enim
quae insunt, et quibus insunt circa unumquodque colligere, et his quamplurimis
abundare, et hoc per tres terminos considerare, destruentem quidem sic,
construentem vero sic, et secundum veritatem quidem, ex iis quae secundum
veritatem scripta sunt inesse, ad dialecticos autem syllogismos, ex
propositionibus quae sunt secundum opinionem. Principia autem syllogismorum
universaliter quidem dicta sunt, et quomodo se habeant, et quomodo oportet
inquirere ea, quatenus non aspiciamus ad omnia quae dicuntur, neque eadem
construentes et destruentes, neque construentes de omni aut de aliquo,
destruentes ab omnibus aut ab aliquibus, sed ad pauciora et determinata. Secundum
singulum autem eorum quae sunt eligere, ut de bono aut disciplina. Propria
autem in unaquaque sunt plurima, quare principia quidem quae sunt circa
unumquodque, experimento est crescere, dico autem ut astrologicam quidem
experientiam astrologicae disciplinae, sumptis enim sufficienter apparentibus,
sic inventae sunt astrologicae demonstrationes. Similiter autem et circa
quamlibet aliam se habet et artem et disciplinam. Quare si sumantur quae insunt
circa unumquodque, nostrum erit iam demonstrationes prompte declarare: si enim
nihil secundum historiam omittatur eorum quae subtiliter et vere insunt rebus,
habebimus de omni (cuius quidem non est demonstratio) hanc invenire et
demonstrare, cuius autem non nata est demonstratio, hoc facere manifestum. Universaliter
ergo quo oportet modo propositiones eligere pene dictum est, per diligentiam
autem pertransivimus in eo negotio quod circa dialecticam est.Quoniam autem
divisio per genera parva quaedam particula est dictae methodi facile videre:
est enim divisio velut infirmus syllogismus, nam quod oporteat quidem ostendere
petitur, syllogizatur vero semper aliquid superiorum. Primum autem idem hoc
latuit omnes utentes ea, et suadere conati sunt quoniam esset possibile de
substantia demonstrationem fieri, et de eo quod est quid; quare neque quoniam
contingebat syllogizare eos qui dividunt, intellexerunt, neque quoniam
contingebat sic quemadmodum diximus. Ergo in demonstrationibus quidem cum
oporteat quid syllogizare, oportet medium per quod fit syllogismus minus semper
esse, et non universaliter de prima extremitate. Divisio autem contrarium vult,
nam universalius sumit medium. Sit enim animal quidem in quo A, mortale autem
in quo B, et immortale in quo C, homo vero cuius terminum oportet sumere in quo
D, omne ergo animal accipit aut mortale, aut immortale: hoc autem est quidquid
erat, omne esse aut B, aut C. Rursus hominem semper qui dividit, ponit animal
esse, quare de D sumit A esse, ergo syllogismus quidem est, quoniam D, aut B,
aut C omne erit, quare hominem aut mortalem, aut immortalem oportet sumere, nam
mortale quidem, aut immortale esse necessarium est animal, mortale autem non
necessarium est, sed petitur. Hoc autem erat quod oportebat syllogizare. Et
rursus qui ponit A quidem animal mortale in quo autem B pedes habens, in quo
autem C, non habens pedes, hominem vero D, similiter sumit A quidem, aut in B,
aut in C esse. Omne enim animal mortale aut pedes habens, aut pedes non habens
est, de D autem A, nam hominem animal mortale sumpsit esse, quare habens pedes,
vel non habens pedes esse animal, necesse est hominem, pedes autem habens non
necesse est, sed sumit, hoc autem erat quod oportebat rursum ostendere. Et ad
hunc modum semper dividentibus, universale quidem accidit eis medium sumere, de
quo oporteat ostendere et differentias et extremitates. In fine autem quoniam
hoc est homo, aut quidquid erat quod quaeritur, nihil dicunt manifestum, quare
necessarium est esse, etenim aliam viam faciunt omnem, non quidem contingentes
idoneitates, opinantes esse. Manifestum est autem quoniam neque destruere hac
via est, neque de accidente aliquid, aut de proprio syllogizare, neque de
genere, neque de quibus ignoretur utrum hoc modo aut illo se habet, ut putasne
diameter est symeter, vel asymeter? si enim sumat quoniam omnis longitudo est
symetros vel asymetros, diameter autem longitudo, syllogizatum est quoniam
symeter vel asymeter est diameter. Si autem sumetur incommensurabile, quod
oportebat syllogizare sumetur, non ergo est ostendere, nam via quidem haec, per
hanc autem non est ostendere symetrum vel asymetrum, in quo A longitudo, B
autem symeter aut asymeter, diameter C. Manifestum est igitur quoniam neque ad
omnem considerationem congruit inquisitionis modus, neque in quibus maxime
videtur convenire, in his est utilis. Ex quibus ergo demonstrationes fiunt, et
quomodo, et ad quae perspiciendum secundum unumquodque propositum manifestum ex
dictis. Quomodo autem reducemus syllogismos in praedictas figuras, dicendum
erit post haec, restat enim consideratio haec, si enim et generationem
syllogismorum inspiciamus, et inveniendi habeamus potestatem, amplius autem
factos reducamus praedictas figuras, finem habebit quod ex principio propositum
est, accidet etiam simul quae praedicta sunt confirmari et manifestiora esse,
quoniam sic se habent per ea quae nunc dicenda sunt. Oportet enim omne quod
verum est, ipsum sibi ipsi manifestum esse omnino. Primum ergo oportet tentare
duas propositiones accipere syllogismi, facilius enim in maiora dividere quam
in minora: maiora autem compositiora sunt quam ea ex quibus componuntur. Deinde
considerare utra in toto, et utra in parte. Et si non ambae sumptae sint, eum
qui ponit alteram. Aliquoties enim universalem protendentes, eam quae in hac
est non sumunt, neque scribentes, neque interrogantes, aut has quidem
protendunt, per quas autem hae concluduntur, omittunt, alia vero vane
interrogant. Considerandum autem si quid superfluum sumptum sit, et si quid
necessariorum omissum, et hoc quidem ponendum, illud vero auferendum, donec
veniat quis ad duas propositiones, sine his enim non est reducere sic interrogatas
orationes. In aliquibus ergo facile est videre quod minus est, aliqui vero
latent, et videntur quidem syllogizare, eo quod necessarium quid accidit ex iis
quae posita sunt. Ut si sumatur, non substantia interempta substantiam non
interimi, ex quibus autem est, interemptis, et quod ex eis est corrumpi. His
enim positis, necessarium est substantiae partem esse substantiam, non tamen
syllogizatum est quod ea quae sumpta sunt, sed desunt, propositiones. Rursum si
cum est homo, necesse est esse animal, et cum est animal, substantiam, et cum
est homo, necesse est esse substantiam, sed nondum syllogizatum est, non enim
se habent propositiones ut diximus. Fallimur autem in talibus eo quod
necessarium quiddam accidat ex his quae posita sunt, quam et syllogismus,
necessarium est, in plus autem est necessarium quam syllogismus, nam omnis
syllogismus, necessarium, necessarium autem non omne syllogismus. Quare non (si
quid accidat positis quibusdam) statim tentandum est reducere, sed primum
secundum est duas propositiones. Deinde sic dividendum in terminos. Medium
autem ponendum terminorum, qui utrisque propositionibus dicitur, necesse est
enim medium in utrisque esse in omnibus figuris. Si ergo subiiciatur et
praedicetur medium, aut ipsum quidem praedicetur, aliud vero illo abnegetur,
prima erit figura. Si autem et praedicetur, et negetur ab aliquo, media erit
figura: si vero alia de illo praedicentur, aut hoc quidem praedicetur, illud
vero ab illo negetur, postrema, sic enim se habuit in postrema figura medium,
similiter autem etsi non universales sint propositiones, nam est eadem
determinatio medii. Manifestum igitur quoniam in qua oratione non dicitur idem
frequenter, non fit syllogismus, non enim sumptum est medium. Quoniam autem
habemus quod propositorum in unaquaque figura clauditur, et in qua universale,
et in qua particulare, manifestum est quoniam non ad omnes figuras
perspiciendum, sed in unoquoque proposito ad propriam. Quaecunque vero in
pluribus concluduntur, medii positione cognoscimus figuram. Frequenter ergo
falli accidit circa syllogismos propter necessarium, quemadmodum dictum est
prius: aliquoties autem propter similitudinem positionis terminorum, quod non
oportet latere nos. Ut si A de B dicitur, et B de C, videbitur enim sic se
habentibus terminis esse syllogismus, non fit autem neque necessarium quidquam,
neque syllogismus. Sit enim in quo A semper esse, in quo autem B intelligibilis
Aristomenes, in quo autem C Aristomenes, verum est autem A inesse B, semper
enim est intelligibilis Aristomenes, sed et B de C, nam Aristomenes est
intelligibilis Aristomenes, A autem non inest C, corruptibilis est enim
Aristomenes; non igitur fiebat syllogismus sic se habentibus terminis, sed
oportebat universaliter A B sumi propositionem: hoc vero falsum quod putabat
omnem intelligibilem Aristomenem semper esse, cum Aristomenes sit
corruptibilis. Rursum sit in quo quidem C Micalus, in quo autem B musicus
Micalus, in quo autem A corrumpi cras. Verum est ergo B de C praedicari, nam
Micalus est musicus Micalus, sed et A de B, corrumpetur enim cras musicus
Micalus, A autem de C falsum: hoc autem idem est priori, non enim verum est
universaliter, Micalus musicus quoniam corrumpetur cras. Hoc autem non sumpto
non erat syllogismus. Haec ergo fallacia fit in eo quod pene, ut enim nihil
differens dicere hoc huic inesse, aut hoc huic omni inesse, concedimus. Frequenter
autem mentiri evenit, eo quod non bene exponuntur secundum propositionem
termini, ut si A quidem sit sanitas, B autem aegritudo, C vero homo, verum est enim
dicere quoniam A nulli B contingit inesse, nulli enim aegritudini sapitas
inest; et rursum quoniam B inest omni C, omnis enim homo susceptibilis est
aegritudinis, videbitur ergo accidere nulli homini contingere sanitatem inesse.
Huius autem causa est quod non bene exponuntur termini secundum locutionem,
quoniam transsumptis quae iis sunt secundum habitudines, non erit syllogismus.
Ut si pro sanitate quidem ponatur sanum, pro aegritudine autem aegrum, non enim
verum est dicere quoniam non contingit aegrotanti inesse sanum esse, hoc autem
non sumpto, non fit syllogismus, nisi contingentis. Hoc autem non impossibile,
contingit enim nulli homini inesse sanitatem. Rursum in media figura similiter
erit falsum. Nam sanitatem aegritudini quidem nulli, homini vero omni contingit
inesse, quare nulli homini aegritudo. In tertia autem figura secundum
contingere accidit falsum, etenim sanitatem, et aegritudinem, et disciplinam,
et ignorantiam, et omnino contraria omni eidem contingit inesse, sibi vero
invicem impossibile, hoc autem confessum in praedictis. Cum enim eidem plura
contingere inesse, contingebant et sibi invicem. Manifestum igitur quoniam in
omnibus his fallacia fit propter terminorum expositionem, transsumptis enim his
quae sunt secundum habitudines, nihil fit falsum. Palam ergo quoniam secundum
huiusmodi propositiones semper quod est secundum habitum, pro habitu sumendum et
ponendum terminum. Non oportet autem terminos semper quaerere nomine exponi,
saepe enim erunt orationes quibus non ponuntur nomina, quare et difficile erit
reducere huiusmodi syllogismos, aliquot es autem et falli accidet propter
huiusmodi inquisitionem, ut quoniam immediatorum erit syllogismus; sit enim A
duo recti, B autem triangulus, C vero aequicrurus; ergo ei quod est C inest A propter
B; ei vero quod est B, non iterum propter aliud, per se enim triangulus habet
duos rectos, quare non erit medium eius quod est A B, cum sit demonstrativum.
Manifestum enim quoniam medium non sic semper est sumendum ut hoc aliquid, sed
aliquando orationem, quod accidit et in praedicto. Inesse autem primum medio,
et hoc postremo non oportet sumere, ut praedicentur semper ad se invicem
similiter, et primum de medio, et hoc de postremo, et in non inesse similiter,
sed quoties dicitur esse et verum dicere, hoc toties arbitrari oportet
significare et inesse. Ut quoniam contrariorum una est disciplina: sit enim A
unam esse disciplinam, B autem contraria sibi invicem, A ergo inest B, non
quoniam contraria unam esse eorum disciplinam, sed quoniam verum est dicere de
ipsis unam esse eorum disciplinam. Accidit autem quandoque primum de medio
dici, medium autem de tertio non dici, ut si sophia est disciplina, boni autem
est sophia: conclusio, quoniam boni est disciplina, et non bonum quidem est
disciplina, sophia autem est disciplina. Quandoque autem medium quidem de
tertio dicitur, primum autem de medio non dicitur, ut si qualis omnis est disciplina,
aut contrarii. Bonum autem est, et contrarium, et quale: conclusio quidem,
quoniam boni est disciplina. Non est autem bonum disciplina, neque quale, neque
contrarium, sed omnium disciplina. Non est autem bonum disciplina, neque
conclusio secundum rectum, neque quale, neque contrarium, sed bonum haec. Est
autem quandoque neque primum de medio, neque hoc de tertio, primo de tertio
quandoque quidem dicto, quandoque autem non dicto. Ut si cuius est disciplina,
huius est genus, boni autem est disciplina: conclusio, quoniam boni est genus.
Praedicatur autem nullum de nullo, si autem cuius est disciplina, genus est
hoc, boni autem est disciplina: conclusio, quoniam bonum est genus: ergo de
extremo quidem praedicatur primum, de se autem invicem non dicuntur. Eodem
autem modo et non inesse sumendum, non enim semper significat non inesse hoc
huic, non esse hoc, hoc; sed aliquando non esse hoc huius, aut hoc huic: ut
quoniam non est motionis motus, aut generationis generatio, voluptatis autem
est, non ergo voluptas generatio. Aut rursus quoniam risus est signum, signi
autem non est signum, quare non est signum risus; similiter autem et in aliis,
in quibus interimitur propositum, eo quod dicitur aliquo modo ad id genus. Rursus
quoniam occasio non est tempus opportunum, Deo enim occasio quidem est, tempus
autem opportunum non est, eo quod nihil sit Deo conferens. Terminos enim
ponendum est occasionem, et tempus opportunum, et Deum. Propositio autem
sumenda secundum nominis casum, simpliciter enim hoc dicimus de omnibus,
quoniam terminos quidem semper ponendum secundum declinationes nominum, ut
homo, aut bonum, aut contraria, aut hominis, aut boni, aut contrariorum.
Propositiones autem sumendum secundum cuiusque casus, aut enim quoniam huic ut
aequale, aut quoniam huius ut duplum, aut quoniam hoc ut feriens, vel videns,
aut quoniam hic ut homo, animal, aut si quolibet modo aliter cadit nomen
secundum propositionem, inesse autem hoc huic, et verum esse hoc de hoc, toties
sumendum, quoties praedicamenta divisa sunt, et haec aut aliquo modo, aut
simpliciter, amplius aut simplicia, aut complexa. Similiter autem et non
inesse. Considerandum haec autem, et determinandum optimum. Reduplicatum autem
in propositionibus ad primam extremitatem ponendum, non ad medium, dico autem
ut si fiat syllogismus, quoniam iustitiae est disciplina quoniam bonum, ad
primam extremitatem ponendum. Sit enim A disciplina quoniam bonum, in quo autem
B bonum, in quo autem C iustitia, ergo verum est A de B praedicari. Nam boni
est disciplina quoniam bonum. Sed et B de C, nam iustitia quiddam bonum est; sic
ergo fit resolutio. Si autem ad B ponatur, quoniam bonum, non erit, nam A
quidem de B verum erit, B autem de C non erit verum, nam bonum quoniam bonum
praedicari de iustitia falsum est, et non intelligibile. Similiter autem et si
salubre ostendatur, quoniam disciplinatum est in eo quod bonum, aut
hircocervus, opinabilis in eo quod existens, aut homo corruptibilis in eo quod
sensibile, in omnibus enim praedicatis ad extremum reduplicationem ponendum. Non
est autem eadem positio terminorum, quando simpliciter quidem syllogizatum
fuerit, et quando hoc aliquid, aut quo, aut quomodo. Dico autem ut quando bonum
disciplinatum ostensum erit, et quando disciplinatum quoniam bonum. Sed
simpliciter quidem disciplinatum ostensum est medium ponendum ens, si autem
quoniam bonum, quid ens. Sit enim A disciplina quoniam quid ens, in quo autem B
ens quid, in quo autem C bonum, verum est ergo A de B praedicari, erat enim
disciplina alicuius entis, quoniam quid ens, sed et B de C, nam in quo C ens
quid, quare et A de C, erit ergo disciplina boni quoniam bonum, erat enim quid
ens, proprie substantiae signum. Si autem ens medium positum sit, et ad
extremum ens simpliciter, et non quid ens dictum sit, non erit syllogismus,
quoniam est disciplina boni quoniam bonum, sed quoniam ens, ut si sit in quo A
disciplina quoniam ens, in quo B ens, in quo C bonum. Manifestum igitur quoniam
in particularibus syllogismis sic sumendum terminos. Oportet autem accipere
quae idem possunt nomina pro nominibus, et orationes pro orationibus, et nomen
et orationem et semper pro oratione nomen suscipere, facilior est enim
terminorum expositio, ut si nil differt dicere suspicabile opinabilis non esse
genus, aut non esse idem quiddam suspicabile, quod opinabile, nam si idem est
quod significatur, pro oratione dicta, suspicabile et opinabile terminos
ponendum. Quoniam vero non est idem voluptatem esse bonum, et esse voluptatem
quod bonum, non similiter ponendum terminos; sed si est syllogismus quoniam
voluptas quod bonum, terminum ponendum quod bonum; si autem quoniam bonum,
bonum, similiter autem et in aliis. Non est autem idem neque esse, neque dicere
quoniam cui B inest, huic quoque omni A inest, et dicere, cui omni B inest, et
A inest omni, nihil enim prohibet B inesse C, non autem omni. Ut sit B pulchrum
quid, C autem album, si igitur alicui albo inest pulchrum quid, verum est
dicere quoniam albo inest pulchrum, sed non omni fortasse. Si ergo A inest B,
non omni autem de quo B (neque si omni C, inest B, neque si solum alicui), non
necesse est ei quod est C inesse A, non quia non omni, sed nec inesse ei quod
est C. Si autem de quocunque B dicatur vere, huic omni inest A, accidet A de
quo omni B dicitur, de eo omni dici. Si autem A dicitur de omni de quo B
dicatur, nihil prohibet ei quod est C inesse B, non omni autem A, aut non
inesse omnino. In tribus igitur terminis manifestum est quoniam de quo B quidem
omni, et A dicitur, hoc est de quibuscunque B dicitur, de omnibus dicitur et A,
et si B quidem de omni, et A similiter, si autem non de omni, non necesse est A
inesse omni. Non oportet autem arbitrari propter expositionem accidere aliquod
inconveniens, non enim laboramus in eo quod aliquid sit hoc, sed quemadmodum
geometer pedalem, et rectam hanc esse et sine latitudine dicit quae non est,
sed non sic utitur, ut eis syllogizans. Omnino enim quod non est ut totum ad
partem, et aliud ad hoc ut pars ad totum, ex nullo talium ostendit
demonstrator, neque enim fit syllogismus, expositione autem sic utimur, ut et
sentiat qui discit dicentes, non enim sic ut sine his non possibile sit
demonstrare, quemadmodum ex quibus est syllogismus. Non lateat autem nos,
quoniam in eodem syllogismo, non omnes conclusiones per unam eamdem figuram
sunt, sed haec quidem per hanc, illa vero per aliam. Palam ergo quoniam et
resolutiones sic faciendum. Quoniam autem non omne propositum in omni figura,
sed in unaquaque disposita sunt, manifestum est ex conclusione in qua figura
sit quaerendum. Et ad definitiones orationum quaecunque ad unum quiddam sunt
argumentatae in eorum quae insunt termino, ad quod argumentatum est ponendum
terminum, et non totam orationem, minus enim contingit perturbari propter
longitudinem, ut si quis aquam ostendit quoniam est humidus potus, potum et
aquam terminos ponendum. Amplius autem ex hypothesi syllogismos non est
tentandum reducere, nam non est ex iis quae posita sunt reducere; non enim per
syllogismum ostensi sunt, sed ad placitum concessi sunt omnes. Ut si quis
ponat, si una quaedam potestas non sit contrariorum, neque disciplinam esse
unam; deinde disputet quoniam non est una potestas contrariorum, ut sanativi et
aegrotativi, simul enim idem erit sanativum et aegrotativum. Quoniam autem non
est omnium contrariorum una potestas, ostensum est, sed quoniam disciplina non
una, non est ostensum; quamvis confiteri sit necesse, at non ex syllogismo,
verum ex hypothesi; hoc igitur non est reducere, quoniam non una potestas est:
hic enim fortassee erat syllogismus, illud autem hypothesis. Similiter autem in
his qui per impossibile concluduntur, nam neque hoc est resolvere, sed ad
impossibile quidem reductio est; syllogismo enim monstratur; alterum autem non
est, nam ex hypothesi concluditur. Differunt autem A praedictis quoniam in
illis quidem oportet prius confiteri, si debet concedere, ut si ostendatur una
potestas contrariorum, et disciplinam es E eamdem; hic autem et non prius confessi
concedunt, eo quod manifestum sit falsum, ut posita dian etro symetro, eo quod
imparia esse aequalia paribus. Plures autem et diversi terminantur ex
conditione, quos prospicere oportet, et notare apte. Quae ergo horum
differentiae, et quoties fiunt, qui sunt ex hypothesi, postea dicemus. Nunc
autem tantum sit nobis manifestum quoniam non est resolvere in figuras
huiusmodi syllogismos, et ob quam causam diximus. Quaecunque autem in pluribus
figuris monstrantur proposita, si in altera syllogizetur, est reducere
syllogismum in alteram, ut eum qui in prima est privativum in secundam figuram,
et eum qui in media est in primam. Non omnes autem, sed quosdam, erit autem in
sequentibus manifestum. Si enim A nulli B, B autem omni C, A nulli C, sic ergo
prima figura; si autem convertatur privativa, media erit. Nam B A quidem nulli,
C autem omni inerit. Similiter autem et si non universalis, sed particularis
fit syllogismus, ut si A quidem nulli B, B autem alicui C, conversa enim
privativa media erit figura. Eorum autem syllogismorum, qui sunt in secunda
figura, universales quidem reducentur in primam figuram, particularium autem
alter solum. Insit enim A B quidem nulli, C vero omni, conversa privativa prima
erit figura, nam B quidem nulli A, A autem omni C inerit. Si autem
praedicativum quidem sit ad B, privativum autem ad C, primus terminus ponendus
est C, hoc enim nulli A, A autem omni B, quare nulli B inerit C, ergo et B
nulli C, convertitur enim privativa.Si autem particularis sit syllogismus,
quando privativum quidem erit ad maiorem extremitatem, resolvetur in primam
figuram, ut si A nulli B, B autem alicui C, conversa enim privativa prima erit
figura, nam B quidem nulli A, A autem alicui C. Quando vero praedicativum, non
resolvetur, ut si A quidem omni B, C vero non omni, non enim suscipit
conversionem A B, neque cum fit, erit syllogismus. Rursus qui in tertia quidem
sunt figura, non resolvuntur omnes in primam, qui autem sunt in prima, omnes in
tertiam. Insit enim A quidem omni B, B autem alicui C, ergo quia convertitur
particularis praedicativa, inerit et C alicui B, A vero omni B inerat, quare
fit tertia figura. Et si privativus sit syllogismus, similiter: convertitur
enim particularis affirmativa, quare A quidem nulli B, C autem alicui inerit. Eorum
autem sylogismorum qui sunt in postrema figura unus tantum non resolvitur in
primam, quando non universalis ponitur privativa, alii autem omnes resolvuntur.
Praedicentur enim de omni C, et A et B, ergo convertetur C ad utrumque
particulariter; inerit ergo A alicui B, quare erit prima figura, siquidem A
omni C, C vero alicui B; et si A quidem omni C, B autem alicui C, cadem ratio,
convertitur enim ad B C. Si autem B quidem omni C, A autem alicui C, primus
ponendus B, nam B omni C, C autem alicui A, quare B alicui A, quoniam autem
convertitur particularis, et A alicui B inerit. Et si privativus sit
syllogismus universalibus terminis, similiter sumendum. Insit enim B omni C, A
autem nulli C, ergo alicui B inerit C, A autem nulli C, quare erit medium C.
Similiter autem et si privativa quidem si universalis, praedicativa autem
particularis, nam A quidem nulli C, C autem alicui B inerit. Si autem
particularis sumatur privativa, non erit resolutio, ut si B quidem omni C, A
autem alicui C non inest, conversa enim B C, utraeque propositiones erunt
particulares.Manifestum autem quoniam ad resolvendum ad se invicem figuras,
quae ad minorem extremitatem est propositio, convertenda in utrisque figuris,
hac conversa, transitio fit; eorum autem qui in media sunt figura, alter quidem
resolvitur, alter vero non resolvitur in tertiam, nam cum sit universalis privativa,
resolvitur. Si enim A nulli quidem B, alicui autem C, utraque similiter
convertitur ad A, quare B quidem nulli A, C vero alicui, medium ergo A. Quando
autem A omni B, C autem alicui non insit, non fit resolutio, neutra enim
propositionum ex conversione universalis. Qui autem ex tertia sunt figura,
resolventur in mediam, quando fuerit universalis privativa, ut si A nulli C, B
autem alicui, aut omni C, nam C, A quidem nulli, B autem alicui inerit. Si
autem particularis sit privativa, non resolvetur, non enim suscipit conversionem
particularis negativa. Manifestum ergo quoniam iidem syllogismi non resolvuntur
in his figuris, qui nec in primam resolvebantur, et quoniam in primam figuram
reductis syllogismis, isti soli syllogismi per impossibile clauduntur. Quomodo
ergo oportet syllogismos reducere, et quoniam resolvuntur figurae in se
invicem, manifestum ex dictis. Differt autem in construendo vel destruendo
opinari, aut idem, aut diversum significare, non esse hoc, et esse non hoc, ut
non esse album, ei quod est esse non album; non enim idem significant, nec est
negatio eius quae est esse album ea quae est esse non album, sed non esse
album. Ratio autem huius haec est; similiter enim se habet possibile est
ambulare ad possibile non ambulare, id quae est esse album ad esse non album,
et scit bonum ad scit non bonum: nam scit bonum vel sciens bonum nihil differt,
neque potest ambulare vel est potens ambulare; quare et opposita, non potest
ambulare et non est potens ambulare. Si igitur non est potens ambulare idem
significat et est potens non ambulare, ipsa simul inerunt eidem, nam idem
potest ambulare et non ambulare, et idem sciens bonum et non bonum est.
Affirmatio autem et negatio non sunt oppositae simul in eodem. Quemadmodum ergo
non idem est, non scire bonum et scire non bonum, nec esse non bonum et non
esse bonum idem, nam proportionalium, si alterum sit, et alterum, nec esse non
aequale et non esse aequale idem, huic enim quod est non aequale subiacet
aliquid, et hoc est inaequale, illi vero nihil, eo quod aequale quidem vel
inaequale non omne est, aequale autem vel non aequale omne; amplius, est non
album lignum et non est album lignum non simul sunt, si enim est lignum non album,
erit lignum, quod autem non est album lignum, non necesse est esse lignum:
quare manifestum est quoniam non est eius quod est bonum, est non bonum,
negatio; si ergo de omni uno vel affirmatio, vel negatio vera, si non est
negatio, palam quoniam affirmatio aliquo modo erit; affirmationis autem omnis,
negatio est, et huius ergo, ea quae est non est, non bonum. Habent autem
ordinem hunc ad invicem, sit esse quidem bonum in quo A, non esse autem bonum
in quo B, esse autem non bonum in quo C sub B, non esse autem non bonum in quo
D sub A, omni ergo inerit aut A, aut B, et nulli eidem, et omni aut C, aut D,
et nulli eidem, et cui C inest, necesse est B omni inesse. Si enim verum est
dicere quoniam est non album, et quoniam non est album, verum; impossibile est
enim simul esse album et esse non album, aut esse lignum album et esse lignum
non album: quare si non affirmatio, et negatio inerit. Ei autem quod est B, non
semper C, quod enim omnino non est lignum, neque lignum erit album, nec non
album. E converso autem cui inest A, et D omni inest, aut enim C, aut D:
quoniam autem non possunt simul esse non album et esse album, D inerit, nam de
eo quod est album verum est dicere quoniam non est non album. De D autem non
omnino A erit, nam de eo quod omnino non est lignum, non verum est dicere A
quoniam est lignum album; quare D verum est, et A non verum, quoniam est lignum
album. Palam autem quoniam et A et C nulli eidem insunt sed B et D contingit
eidem alicui inesse. Similiter autem tem se habent et privationes ad
praedicationes eadem positione: sit enim aequale in quo A, non aequale in quo
B, inaequale in quo C, non inaequale in quo D. In pluribus autem quorum his
quidem inest, illis vero non inest idem, negatio quidem similiter vera fit, ut
quoniam non sunt alba omnia, aut quoniam non est album unumquodque, aut quoniam
est non album unumquodque, aut quoniam omnia sunt non alba, falsum est. Similiter
autem et eius quae est omne animal album, non haec (est non album omne animal)
negatio, ambae enim falsae, sed es, non omne animal album. Quoniam autem palam
quod aliud significat est non album, et non est album, et illa quidem
affirmatio, haec vero negatio, manifestum quoniam non est idem modus monstrandi
utrumque, ut quoniam quidquid est animal, non est album, aut contingit non esse
album, et quoniam verum dicere non album, hoc enim est esse non album. Sed
verum quidem dicere, est album, sive non album, idem modus. Constructive enim
ambae per primam ostenduntur figuram, nam verum ei quod est similiter
ordinatur, eius enim quae est, verum dicere album, non haec, verum dicere non
album, negatio, sed haec, non est verum dicere album. Si enim verum est dicere
quidquid est homo musicum esse, aut non musicum esse, quidquid est animal
sumendum musicum esse, aut non musicum esse, et ostensum est. Non esse autem
musicum quidquid est homo, destructive monstratur secundum dictos tres modos. Simpliciter
autem quando sic se habent A et B, ut simul quidem eidem non contingant, omni
autem de necessitate alterum, et rursum C et D similiter. Sequitur autem id
quod est C, A, et non convertitur, et id quod est B sequetur D, et non
convertitur, et A quidem et D contingunt eidem, B autem et C non contingunt.
Primum ergo quoniam id quod est B sequitur D, hinc manifestum quoniam eorum
quae sunt C D alterum ex necessitate omni inest, cui autem B non contingit C,
eo quod simul infert A, A autem et B non contingunt eidem, manifestum quoniam D
sequetur B. Rursum quoniam ei quod est A non convertitur C, omni autem vel C,
vel D, contingit A, et D eidem inesse; B autem et C non contingit, eo quod
consequitur A id quod est C, accidit enim quiddam impossibile. Manifestum est
ergo quoniam nec B ei quod est D convertitur, eo quod contingit simul A, D
inesse. Accidit autem aliquoties in huiusmodi terminorum ordine falli, eo quod
opposita non sumantur recte, quorum necesse est omni alterum inesse: ut si A et
B non contingunt simul eidem, necesse est autem inesse cui non alterum,
alterum, et rursus C et D similiter, cui autem C omni sequitur A, accidet enim
cui D, B inesse ex necessitate, quod falsum est; si sumatur enim negatio eorum
quae sunt A B, ea quae est in quibus F, et rursus eorum quae sunt C D, ea quae
est in quibus G. Necesse est igitur omni inesse vel A, vel F, aut enim
affirmationem aut negationem, et rursum, aut C, aut G; affirmatio enim et
negatio, et cui C omni A subiacet, quare cui F omni hoc quod est G. Rursum
quoniam eorum quae sunt F B omni alterum, et eorum quae sunt G D similiter.
Sequitur autem G id quod est F, et id quod est D sequitur B, hoc enim scimus. Si
ergo A id quod est C, et id quod est D sequetur B, hoc autem falsum; E
contrario enim erat in his (quae sic se habent) consequentia. Non enim fortasse
necessarium omni inesse, aut A aut F, nec F aut B: non enim est negatio eius
quod est A hoc quod est F, nam boni non bonum negatio; non autem est idem hoc
quod est non bonum ei quod est neque bonum neque non bonum; similiter autem et
in C D, nam negationes quae sumptae sunt, duae sunt. In quot ergo figuris, et
per quales, et quot propositiones, et quando, et quomodo fit syllogismus,
amplius autem ad quae perspiciendum construenti et destruenti, et quomodo
oporteat quaerere de proposito secundum unamquamque artem, amplius autem per
quam viam sumemus, quae in singulis sunt principia iam pertransivimus.
Quoniam autem alii quidem syllogismorum sunt universales, alii vero
particulares: universales quidem omnes semper plura syllogizant, particularium
autem praedicativi quidem plura, negativi vero conclusionem solam. Nam aliae
quidem propositiones convertuntur, privativa vero non convertitur. Conclusio
vero aliquid de aliquo est, quare alii quidem syllogismi plura syllogizant: ut
si A ostensum sit omni aut alicui B inesse, et B alicui A necessarium est
inesse, et si nulli B inesse A, et B nulli A, hoc autem aliud est A priore. Si
autem A alicui B non insit, non necesse est et B alicui A non inesse; contingit
enim omni A inesse. Haec ergo communis omnium causa universalium et
particularium. Est autem de universalibus, et aliter dicere, quaecunque enim
aut sub medio aut sub conclusione sunt, omnium erit idem syllogismus, si illa
quidem in medio, haec vero in conclusione ponantur, ut si A B conclusio per C,
quaecunque sub B aut sub C sunt, necesse est de omnibus dici A, nam D si in
toto B, et B in A, et D erit in A. Rursum si E in toto C, et C in toto A, et E
in toto A erit. Similiter autem et si privativus sit syllogismus. In secunda
autem figura quod sub conclusione erit, solum erit syllogizare, ut si A insit
nulli B, et omni C, conclusio quoniam nulli C inest B; si autem D sub C est,
manifestum quoniam non inest ei B, iis autem quae sunt sub A, quoniam B non
inest, non palam est per syllogismum, et si non inest B ei quod est E, si est E
sub A, sed inesse quidem B nulli C per syllogismum ostensum est, non inesse
vero A hoc quod est B, indemonstratum sumptum est, quare nec per syllogismum
accidit B non inesse E. In particularibus autem, eorum quidem quae sub
conclusione sunt, non erit necessarium. Non enim fit syllogismus, quando ea
sumpta fuerit particularis, eorum autem quae sunt sub medio, erit omnium,
verumtamen non per syllogismum, ut si A omni B, et B alicui C: nam eius quod
sub C est positum, non erit syllogismus, eius vero quod sub B erit, sed non
propter eum qui prius factus est syllogismum. Similiter autem et in aliis
figuris, nam eius quidem quod sub conclusione est non erit, alterius vero erit,
verum non per syllogismum, eo quod et in universalibus ex indemonstrata
propositione quae sunt sub medio ostendebantur; quare neque hic erit, vel et in
illis. Est ergo sic se habere, ut verae sint propositiones per quas fit
syllogismus; est autem ut falsae, est vero ut haec quidem vera, illa autem
falsa, conclusio autem aut vera, aut falsa ex necessitate. Ex veris ergo non
est falsum syllogizare, ex falsis autem verum, tamen non propter quid, sed
quia, nam eius qui est propter quid non est ex falsis syllogismus, ob quam
autem causam in sequentibus dicetur. Primum ergo quoniam ex veris non possibile
falsum syllogizare, hinc manifestum. Si enim cum est A, necesse est esse B, si
non est B, necesse est A non esse; si ergo verum est A, necesse est et B verum
esse, aut accidet idem simul et esse et non esse, hoc autem impossibile. Non
autem quoniam ponitur A unus terminus, accipiatur, contingere uno aliquo existente,
ex necessitate aliquid accidere, non enim potest. Nam quod accidit ex
necessitate conclusio est, per quae autem fit ad minimum tres sunt termini, duo
autem intervalla et propositiones. Si ergo verum est cui omni inest B et A, cui
autem C et B, cui C, necesse est A inesse, et non potest hoc falsum esse, simul
enim erit idem et non inerit; ergo A ut unum, positum est duas propositiones
colligere. Similiter autem se habet et in privativis, non enim est ex veris
ostendere falsum. Ex falsis autem est verum syllogizare, utrisque
propositionibus falsis, et una; hac autem non utralibet contingit, sed secunda,
si quidem totam sumamus falsam, non tota autem sumpta est utralibet. Insit enim
A omni C, ei autem quod est B nulli, nec B insit C; contingit autem hoc, ut
nulli lapidi animal, et lapis nulli homini; si igitur sumatur A omni B, et B
omni C, A omni C inerit, quare ex utrisque falsis vera est conclusio, omnis
enim homo animal. Similiter autem et privativum: insit enim C nulli, nec A, nec
B, A autem B omni, ut si eisdem terminis sumptis medium ponatur homo, lapidi
enim nec animal, nec homo nulli inest, homini autem omni animal; quare si cui
quidem omni inest, sumamus nulli inesse, cui vero non inest, omni inesse, ex
falsis utrisque vera erit conclusio. Similiter autem ostendetur et si in aliquo
utraque falsa sumatur. Si autem altera ponatur falsa, prima quidem tota falsa
existente, ut A B, non erit conclusio vera, B C autem erit. Dico autem totam
falsam quod contrariam verae, ut si quod nulli inest, omni sumptum est; aut si
quod omni, nulli inesse. Insit enim A B nulli, B autem omni C; si ergo B C
quidem propositionem sumamus veram, A B autem falsam totam, et omni B inesse A,
impossibile est A C conclusionem veram esse, nulli enim inerat A earum quae
sunt C, siquidem cui B nulli, B autem omni C. Similiter autem nec si A
omni B inest, et B omni C, sumpta sit autem B C quidem vera propositio, A B
autem falsa tota, et nulli, cui B inest A, conclusio falsa erit, omni enim C
inest A, siquidem cui B omni C et A, B autem omni C. Manifestum ergo quoniam
prima tota sumpta falsa, sive affirmativa, sive privativa, altera autem vera,
non fit vera conclusio. Non tota autem sumpta falsa, erit: nam si A C quidem
omni inest, B autem alicui, B autem omni C, ut animal, cygno quidem omni, albo
autem alicui, album autem omni cygno, si sumatur A omni B, et B omni C, A omni
C inerit vere, omnis enim cygnus animal. Similiter autem et si privativa sit A
B; possibile est enim A B quidem alicui inesse, C vero nulli, B autem omni C,
ut animal alicui albo, nivi vero nulli, album vero omni nivi; si ergo sumatur A
quidem nulli B, B autem omni C, A nulli C inerit. Si autem A B quidem
propositio tota sumatur vera, B C autem tota falsa, erit syllogismus verus,
nihil enim prohibet A, et B et C omni inesse, B autem nulli C, ut quaecunque
eiusdem generis sunt species non subalternae, nam animal et homini et equo
inest, equus autem nulli homini inest; si ergo sumatur A omni B, et B omni C,
conclusio vera erit, tota falsa B C propositione. Similiter autem cum
universalis privativa est A B propositio, contingit enim A neque B, neque C
nulli inesse, et B nulli C, ut ex alio genere speciebus diversum genus, nam
animal nec musicae, nec medicinae inest, neque musica medicinae. Sumpta ergo A
quidem nulli B, B autem omni C, vera erit conclusio. Et si non tota falsa sit B
C, sed in aliquo, etiam sic erit conclusio vera. Nihil enim prohibet A, et B et
C toti inesse, B autem alicui C, ut genus speciei et differentiae, nam animal
homini omni et omni gressibili, homo autem alicui gressibili, et non omni; si
ergo A omni B, et B omni C sumatur, A omni C inerit, quod quidem erat verum.
Similiter autem cum privativa est A, B propositio, contingit enim A nec B, nec
C nulli inesse, B vero alicui C, at genus ex alio genere speciei et
differentiae, nam animal nec sapientiae nulli inest, nec contemplationi,
sapientia vero alicui contemplationi; si ergo sumatur A nulli B, B autem omni
C, nulli C inerit A, hoc autem erat verum. In particularibus autem syllogismis
contingit, prima propositione tota falsa existente, altera autem vera, veram
esse conclusionem, et A B in aliquo falsa existente, B C autem vera, et A B
quidem vera, particulari autem falsa, et utrisque existentibus falsis. Nihil
enim prohibet A B quidem nulli inesse, C autem alicui, et B alicui C inesse, ut
animal nulli nivi, albo autem alicui inest, et nix albo alicui. Si ergo ponatur
medium nix, primum autem animal, et sumatur A quidem toti B inesse, B autem
alicui C, A B tota falsa, B C autem vera, et conclusio vera. Similiter autem et
cum privativa est A B propositio, possibile est enim A B quidem toti inesse, C
autem alicui non inesse, B vero alicui C inesse, ut animal homini quidem omni
inest, album autem aliquod non sequitur, homo vero alicui albo inest; quare si medio
posito homine sumatur A nulli B inesse, et B alicui C, vera fit conclusio, cum
sit tota falsa A B propositio. Et si in aliquo sit falsa A B propositio, B C
vera existente, erit conclusio vera. Nihil enim prohibet A, et B, et C, alicui
inesse, B autem alicui C, ut animal alicui pulchro, et alicui magno, et
pulchrum alicui magno inest; si ergo sumatur A omni B, et B alicui C, et A B,
quidem propositio in aliquo falsa erit, B C autem vera, et conclusio vera.
Similiter autem et cum privativa est A B propositio, nam iidem erunt termini,
et similiter positi ad demonstrationem. Rursum si A B quidem vera, B C autem
falsa, vera erit conclusio. Nihil enim prohibet A quidem toti inesse B, C autem
alicui, et B nulli C inesse: ut animal cygno quidem omni, nigro autem alicui,
cygnus vero nulli nigro; quare si sumatur A omni B, et B alicui C, vera erit
conclusio, cum sit falsa B C. Similiter autem et privativa sumpta A B
propositione, possibile enim A B quidem nulli, C autem alicui non inesse, et B
nulli C, ut genus ex alio genere speciei et accidenti eius speciebus, nam
animal quidem numero nulli inest, albo vero non alicui, numerus autem nulli
albo; si ergo medium ponatur numerus, et sumatur A quidem nulli B, B autem
alicui C, A alicui C non inerit, quod fuit verum, cum A B quidem sit propositio
vera, B C autem falsa. Et si in aliquo sit falsa A B, falsa autem et B C, erit
conclusio vera. Nihil enim prohibet A alicui B et alicui C inesse utrique, B
autem nulli C, ut si B sit contrarium ipsi C, et ambo accidentia eidem generi,
nam animal alicui albo et alicui nigro inest, album autem nulli nigro inest; si
ergo sumatur A omni B, et B alicui C, vera erit conclusio. Et privativa quidem
sumpta A B, similiter. Nam iidem termini, et similiter ponentur ad
demonstrationem. Et ex utrisque falsis erit conclusio vera. Possibile est enim
A B quidem nulli, C autem alicui inesse, B vero nulli C. Ut genus ex alio
genere speciei, et accidenti speciebus eius, animal enim numero quidem nulli,
albo vero alicui inest, et numerus nulli albo. Si ergo sumatur A omni B, et B
alicui C, conclusio quidem vera, propositiones vero ambae falsae. Similiter
autem et cum privativa est A B. Nihil enim prohibet A B quidem toti inesse, C
autem alicui non inesse, et neque B nulli C, ut animal cygno quidem omni, nigro
autem alicui non inest, cygnus vero nulli nigro: quare si sumatur A nulli B, B
autem alicui C A non inerit; ergo conclusio quidem vera, propositiones autem
falsae. In media autem figura omnino contingit per falsa verum syllogizare, et
utrisque propositionibus totis falsis sumptis, et hac quidem vera, illa tota
falsa, utralibet falsa posita, et si utraeque in aliquo falsae, et si haec
quidem simpliciter vera, illa autem in aliquo falsa, et in universalibus, et in
particularibus syllogismis. Si enim A B quidem nulli inest, C autem omni, ut
lapidi animal quidem nulli, homini autem omni, si contrariae ponantur
propositiones, et si sumatur A B quidem omni, C vero nulli, ex falsis totis
propositionibus erit vera conclusio. Similiter autem et si A inest B quidem
omni, C vero nulli, nam idem erit syllogismus. Rursum si altera quidem
tota falsa, altera autem tota vera. Nihil enim prohibet A et B et C omni
inesse, B autem nulli C, ut genus non subalternis speciebus. Nam animal equo
omni, et homini inest, et nullus homo equus; si ergo sumatur animal huic quidem
omni, illi vero nulli inesse, haec quidem erit falsa, illa vero tota vera, et
conclusio vera, ad quodlibet posito privativo. Et si altera in aliquo falsa,
altera autem tota vera, possibile est enim A B quidem alicui inesse, C autem
omni, et B nulli C, ut animal albo quidem alicui, corvo autem omni, album vero
nulli corvo. Si ergo sumatur A B quidem nulli, C autem toti inesse, A B quidem
propositio in aliquo falsa est, A C autem tota vera, et conclusio vera, et
transposita quidem privativa, similiter. Nam per eosdem terminos demonstratio.
Et si affirmativa quidem propositio in aliquo falsa, privativa autem tota vera,
nihil enim prohibet A B quidem alicui inesse, C autem toti non inesse, et B
nulli C, ut animal albo quidem alicui, pici autem nulli, album vero nulli pici:
quare si sumatur A to i B inesse, C autem nulli, A B quidem in aliquo falsa, A
C autem tota vera, et conclusio vera. Et si utraeque propositiones in aliquo
falsae, erit conclusio vera, possibile est enim A, et B, et C alicui inesse, B
autem nulli C, ut animal, et albo alicui, et nigro alicui, album vero nulli
nigro. Si ergo sumator A B quidem omni, C autem nulli, ambae quidem
propositiones in aliquo falsae, conclusio autem vera; similiter autem transposita
privativa per terminos. Manifestum autem et in particularibus syllogismis,
nihil enim prohibet A B quidem omni, C autem alicui inesse, et B alicui C non
inesse, ut animal omni homini, albo autem alicui, homo vero alicui albo non
inerit. Si ergo ponatur A B quidem nulli inesse, C autem alicui inesse,
universalis quidem propositio tota falsa, particularis autem vera, et conclusio
vera. Similiter autem et affirmativa sumpta A B, possibile est enim A B quidem
nulli, C autem alicui non inesse, et B alicui C non inesse, ut animal nulli
inanimato, albo autem alicui, et inanimatum non inerit alicui albo Si ergo
ponatur A B quidem omni, C vero alicui non inesse, A B quidem propositio
universalis tota falsa, A C autem vera, et conclusio vera. Et universali quidem
vera posita, minori autem particulari falsa, nihil enim prohibet A nec B nec C
nullum sequi, et B alicui C non inesse, ut animal nulli numero nec inanimato,
et numerus aliquod inanimatum non sequitur. Si ergo ponatur A B quidem nulli, C
autem alicui, et conclusio vera, et universalis propositio vera, particularis
autem falsa. Affirmativa autem universali similiter posita, possibile est enim
A et B et C toti inesse, B autem aliquod C non sequi, ut genus speciem et
differentiam. Nam animal omnem hominem et totum gressibile sequitur, homo vero
non omne gressibile: quare si sumatur A B quidem toti inesse, C autem alicui
non inesse, universalis quidem propositio vera, particularis falsa, conclusio
autem vera. Manifestum autem quoniam et utrisque falsis erit conclusio vera,
siquidem contingit A et B et C huic quidem omni, illi vero nulli inesse, B vero
aliquod C non sequi, nam sumpto A B quidem nulli, C autem alicui inesse,
propositiones quidem ambae falsae, conclusio autem vera. Similiter autem et cum
praedicativa fuerit universalis propositio, particularis autem privativa,
possibile est enim A B quidem nullum, C autem omne sequi, et B alicui C non
inesse, ut animal disciplinam quidem nullam, hominem autem omnem sequitur,
disciplina vero non omnem hominem. Si ergo sumatur A B quidem toti inesse, C
autem aliquod non sequi, propositiones quidem falsae, conclusio autem vera. Erit
autem et in postrema figura per falsas totas, et in aliquo utraque, et altera
quidem vera, altera autem falsa, et haec quidem in aliquo falsa, illa autem
tota vera, et e converso, et quotquot modis aliter possibile est transumere
propositiones. Nihil enim prohibet nec A nec B nulli C inesse, A autem alicui B
inesse, ut nec homo, nec gressibile, nullum inanimatum sequitur, homo autem alicui
gressibili inest; si ergo sumatur A et B omni C inesse, propositiones quidem
totae falsae, conclusio autem vera. Similiter autem et cum haec quidem est
privativa, illa vero affirmativa. Possibile est enim B quidem nulli C inesse, A
autem omni, et A alicui B non inesse, ut nigrum nulli cygno, animal autem omni,
et animal non omni nigro: quare si sumatur B quidem omni C, A vero nulli, A
alicui B non inerit, et conclusio quidem vera, propositiones autem
falsae. Et si in aliquo fuerit utraque falsa, erit conclusio vera, nihil
enim prohibet et A et B alicui C inesse, et A alicui B, ut album et pulchrum
alicui animali inest, et album alicui pulchro; si ergo ponatur A et B omni C
inesse, propositiones quidem in aliquo falsae, conclusio autem vera. Et
privativa A C posita, similiter: nihil enim prohibet A quidem alicui C non
inesse, B vero alicui inesse, et A non omni B inesse, ut album alicui animali
non inesse. (0691A) Pulchrum autem alicui inest, et album non omni pulchro:
quare si sumatur A quidem nulli, C B autem omni, utraeque propositiones quidem
in aliquo falsae, conclusio autem vera. Similiter autem et haec quidem
tota falsa, illa vero tota vera sumpta. Possibile est enim A et B omne C sequi,
et A alicui B non inesse, ut animal et album omne cygnum sequitur, et animal
non omni inest albo; positis igitur his terminis, si sumatur B quidem toti C
inesse, A vero toti non inesse, B C quidem tota erit vera, A C autem tota
falsa, et conclusio vera. Similiter autem et si B C quidem falsa, A C autem
vera, nam hi quidem termini ad demonstrationem, nigrum, inanimatum, cygnus. Sed
et si utraeque assumantur affirmative, nihil enim prohibet B quidem omne C
sequi, A autem toti C non inesse, et A alicui B inesse, ut omni cygno animal,
nigrum vero nulli cygno, et nigrum inest alicui animali: quare si sumatur A et
B omni C inesse, B C quidem tota vera, A C autem tota falsa, et conclusio vera.
Similiter autem et A C sumpta vera, nam per eosdem terminos demonstratio.
Rursum hac quidem tota vera existente, illa vero in aliquo falsa, possibile est
enim B quidem omni C inesse, A autem alicui C et alicui B, ut bipes quidem omni
homini, pulchrum non omni, et pulchrum alicui bipedi inest. Si ergo sumatur A
et B toti C inesse, B C quidem tota vera, A C autem in aliquo falsa, conclusio
autem vera. Similiter autem et A C quidem vera, B C autem falsa in aliquo
sumpta, transpositis enim eisdem terminis erit demonstratio. Et cum haec quidem
est privativa, illa vero affirmativa, quoniam possibile est B quidem toti C
inesse, A autem alicui C, et quando sic se habeant, non omni B inesse A. Si
ergo assumatur B quidem toti C inesse, A autem nulli, privativa quidem in
aliquo falsa, altera autem tota vera, et conclusio erit vera. Rursum quoniam
ostensum est quod cum A quidem nulli C inest, et B alicui, evenit A alicui B
non inesse, manifestum igitur quoniam et cum A C tota est vera, B C autem in
aliquo falsa, contingit conclusionem esse veram; si enim sumatur A quidem nulli
C, B autem omni, A C quidem tota vera, B C autem in aliquo falsa. Manifestum
autem et in particularibus syllogismis quoniam omnino per falsa erit verum, nam
iidem termini sumendi, et quando universales fuerint propositiones, in
praedicativis quidem praedicativi, in privativis autem privativi; nihil enim
differt, cum nulli inerat, universaliter sumere inesse, et si alicui inerat,
universaliter sumere ad terminorum positionem; similiter autem et in
privativis. Manifestum igitur quod quando sit conclusio falsa, necesse est ea
ex quibus est oratio falsa esse, aut omnia, aut aliqua; quando autem vera, non
necesse est verum esse nec aliquod quidem, nec omne. Sed est cum nullum sit
verum eorum quae sunt in syllogismis, et conclusionem similiter esse veram, non
tamen ex necessitate. Causa autem quoniam cum duo sic se habent ad invicem, ut
cum alterum sit, ex necessitate esse alterum, hoc cum non sit quidem, nec
alterum erit; cum autem sit, non necesse est esse alterum; idem autem cum sit,
et non sit, impossibile ex necessitate esse idem. Dico autem, cum sit A album,
B esse magnum ex necessitate, et cum non sit A album, B esse magnum ex
necessitate; quando enim cum hoc sit (ut A ) album, illud necesse est (ut B )
esse magnum, cum autem sit B magnum, C non esse album, necesse est, si A sit
album, C non esse album. Et quando duobus existentibus, cum alterum sit,
necesse est alterum esse, hoc autem cum non sit, necesse est A non esse, cum
ergo B non sit magnum, A non potest album esse, cum vero A non sit album,
necesse est B magnum esse, accidit ex necessitate cum B magnum non sit, idem B
esse magnum: hoc autem impossibile, nam si B non est magnum, A non erit album
ex necessitate; si ergo cum non sit A album, B erit magnum, accidit, si B non
est magnum, B esse magnum, ut per tria. Circulo autem, et ex se invicem
ostendere est per conclusionem, et e converso praedicationem alteram sumentem
propositionem concludere reliquam, quam sumpserat in altero syllogismo, ut si
oportuit ostendere quoniam A inest omni C, ostendat autem per C, rursus si
monstret quoniam A inest B, sumens A quidem inesse C, C autem B, et A inerit B,
prius autem e converso sumpsit B inesse C, aut si quoniam B inest C, oporteat
ostendere si sumat A de C, quae fuit conclusio, B autem de A esse, prius autem
sumptum est e converso A de B. Aliter vero non est ex se invicem ostendere,
sive enim aliud medium sumetur, non circulo, nil enim sumitur eorumdem, sive
horum quiddam, necesse est alterum solum, nam si ambo, eadem erit conclusio, at
oportet diversam esse. In iis igitur quae non convertuntur ex indemonstrata
altera propositione fit syllogismus, non enim est demonstrare per hos terminos,
quoniam medio inest tertium, aut primo medium. In iis autem quae convertuntur,
erit omnia monstrare per se invicem, ut si A, et B, et C convertuntur sibi
invicem: ostendatur enim A C per medium B, et rursum A B per conclusionem, et
per B C propositionem conversam; similiter autem et B C, et per conclusionem,
et per A B propositionem conversam; oportet autem et C B, et B A propositionem
demonstrare, nam his demonstratis usi sumus solis. Si ergo sumatur B omni
C inesse, et C omni A, syllogismus erit eius quod est B ad A. Rursus si sumatur
C omni A inesse, et A omni B, necesse est C inesse omni B. In utrisque ergo
syllogismis C A propositio sumpta est indemonstrata, nam aliae probatae erant:
quare si hanc ostenderimus, omnes erunt approbatae per se invicem; si ergo
sumatur C omni B, et B omni A inesse, utraeque propositiones demonstratae
sumuntur, et C necesse est inesse A. Manifestum est ergo quoniam in solis iis
quae convertuntur, circulo et per se invicem contingit fieri demonstrationes,
in aliis vero quemadmodum prius diximus. Accidit autem et in iis eodem quod
monstratur uti ad demonstrationem, nam C de B, et B de A monstratur sumpto C de
A dici, C autem de A per has ostenditur propositiones: quare conclusione utimur
ad demonstrationem. In privativis autem syllogismis hoc modo monstratur ex se
invicem: sit B quidem omni C inesse, A autem nulli B, conclusio autem quoniam A
nulli C. Si ergo rursum oporteat concludere quoniam A nulli B, quod prius
sumptum erat, erit A quidem nulli C, C autem omni B, sic enim e converso
propositio. Si autem quoniam B inest C, oporteat concludere, non iam similiter
convertendum A B, nam eadem propositio est B nulli A, et A nulli B inesse, sed
sumendum, cui A nulli inest, huic B omni inesse. Sit enim A nulli C inesse,
quod quidem fuit conclusio, cui autem A nulli B, si sumatur omni inesse,
necesse est ergo B omni C inesse: quare cum sint tria, unumquodque conclusio
est facta, et circulo demonstrare, hoc est conclusionem sumentem et e converso
alteram propositionem, reliquam syllogizare. In particularibus autem
syllogismis universalem quidem propositionem non est demonstrare per alias,
particularem autem est; quoniam autem non est demonstrare universalem,
manifestum, nam universale monstratur per universalia, conclusio autem non est
universalis, oportet autem ostendere ex conclusione et altera propositione.
Amplius, omnino non fit syllogismus conversa propositione, nam particulares fiunt
utraeque propositiones. Particulare autem est, ostendatur enim A de aliquo C
per B, si ergo sumatur B omni A, et conclusio maneat, B alicui C inerit, fit
enim prima figura, et est A medium. (0693C) Si autem fit privativus
syllogismus, universalem quidem propositionem non est ostendere, propter hoc quod
prius dictum est, particularem (si simpliciter convertatur A B quemadmodum et
in universalibus) non est, per assumptionem autem est, ut cui A alicui non
insit, B alicui inesse; nam aliter se habentibus non fit syllogismus, eo quod
negativa est particularis propositio. In secunda autem figura affirmativam
quidem non est ostendere per hunc modum, privativam autem est; ergo
praedicativa quidem non ostenditur, eo quod non sunt utraeque propositiones
affirmativae, nam conclusio privativa, praedicativa autem ex utrisque ostendebatur
affirmativis. Privativa autem sic ostenditur: insit enim A omni B, C autem
nulli, conclusio quoniam B nulli C; si ergo sumatur B omni A inesse, et nulli
C, necesse est A nulli C inesse, fit enim secunda figura, medium B. Si autem A
B privativa sumpta sit, altera vero praedicativa, prima erit figura, nam C
quidem omni A, B autem nulli C, quare B nulli A, ergo nec A B, medium C; ergo
per conclusionem quidem et unam propositionem non fit syllogismus, assumpta
autem altera erit. Si autem non universalis sit syllogismus, quae in toto
quidem est propositio non ostenditur, propter eamdem causam quam quidem diximus
et prius, quae autem in parte, ostenditur quando universalis sit praedicativa. Insit
enim A omni B, C autem non omni, conclusio B C; si ergo sumatur B omni A, C
autem non omni, conclusio A alicui C non inerit medium B. Si autem est
universalis privativa, non ostenditur A propositio, conversa A B, accidit enim
utrasque aut alteram propositionem fieri negativam: quare non erit syllogismus;
sed similiter ostendetur quemadmodum et in universalibus, si sumatur, cui B
alicui non inest, A alicui inesse. In tertia autem figura, quando utraeque
propositiones universaliter sumentur, non contingit ostendere per se invicem
propositionem. (0694B) Nam universalis quidem ostenditur per universalia, in
hac autem conclusio semper est particularis: quare manifestum quoniam omnino
non contingit ostendere per hanc figuram universalem propositionem. Si autem
haec quidem universalis sit, illa vero particularis, quandoque quidem erit,
quandoque vero non inerit; quando ergo utraeque praedicativae sumantur, et
universalis sit ad minorem extremitatem, erit; quando vero ad alteram, non
erit. Insit enim A omni C, B autem alicui C, conclusio A B. Si ergo sumatur C omni
A inesse conversa universali, et A inesse B, quod erat conclusio, C quidem
ostensum est alicui B inesse, B autem alicui C, non est ostensum, quamvis
necesse est si C alicui B, et B alicui C inesse; sed non idem est hoc illi, et
illud huic inesse, sed assumendum est, si hoc alicui illi, et alterum alicui
huic, hoc autem sumpto iam non sit ex conclusione et altera propositione
syllogismus. Si autem B quidem omni C, A autem alicui C, erit ostendere A C,
quando sumatur C quidem omni B inesse, A autem alicui; nam si C omni B inest, A
autem alicui B, necesse est A alicui C inesse, medium B. Et cum fuerit haec
praedicativa quidem, illa vero privativa, universalis autem praedicativa,
ostendetur altera. Insit enim B omni C, A autem alicui non insit, conclusio quoniam
A alicui B non inest. Si ergo assumatur C B omni inesse, inerat autem et A non
omni B, necesse est A alicui C non inesse medium B. Cum autem privativa
universalis sit, non ostenditur altera nisi sicut in prioribus, si sumatur cui
hoc alicui non inest, alterum alicui inesse, ut si A nulli C, B autem alicui,
conclusio quoniam A alicui B non inest. Si ergo sumatur cui A alicui non inest,
eidem C alicui inesse, necesse est C alicui B inesse, aliter autem non est
convertentem universalem propositionem ostendere alteram, nullo enim modo erit
syllogismus. Manifestum igitur quoniam in prima quidem figura per se invicem
est ostensio, et per primam, et per tertiam figuram fit: nam cum praedicativa
quidem est conclusio, per primam, cum autem privativa, per postremam; sumitur
enim cui hoc nulli, alterum omni inesse. In media autem, cum universalis est
quidem syllogismus et per ipsam, et per primam figuram, et per postremam; cum
autem particularis, et per ipsam, et per postremam. In tertia vero per ipsam,
omnes. Manifestum etiam quoniam in media et in tertia qui non per ipsas fiunt
syllogismi, aut non sunt secundum eam quae circulo est ostensionem, aut
imperfecti sunt. Convertere autem est transponentem conclusionem facere
syllogismum, quoniam vel extremum medio non inerit, vel hoc postremo; necesse
est enim conclusione conversa, et altera remanente propositione, interimi
reliquam; nam si erit, et conclusio erit: differt autem opposite aut contrarie
convertere conclusionem, non enim fit idem syllogismus utrolibet conversa;
palam autem hoc erit per sequentia. Dico autem opponi quidem omni inesse non
omni, et alicui nulli, contrarie autem omni nulli, et alicui non alicui
inesse. Sit enim ostensum A de C per medium B; si igitur
sumatur A nulli C inesse, omni autem B, nulli C inerit B, et si A quidem nulli
C, B autem omni C, A non omni B, et non omnino nulli, non enim ostendebatur
universale per tertiam figuram. Omnino autem eam quae est ad maiorem
extremitatem propositionem non est destruere universaliter per conversionem,
semper enim interimitur per tertiam figuram, necesse enim ad postremam
extremitatem utrasque sumere propositiones. Et si privativus sit syllogismus,
similiter: ostendatur, enim A nulli C inesse per B, ergo si sumatur A omni C
inesse, nulli autem B, nulli C inerit B. Et si A et B omni C, A alicui B, sed
nulli inerat. Si autem opposite convertatur conclusio, et alii syllogismi
oppositi, et non universales erunt, fit enim altera propositio particularis,
quare conclusio erit particularis. Sit enim praedicativus syllogismus, et
convertatur sic, ergo si A non omni C, B autem omni B, non omni C. Et si A
quidem non omni C, B autem omni A, non omni B. Similiter autem et si privativus
sit syllogismus, nam si A alicui C inest, B autem nulli, B alicui C non inerit,
et non simpliciter nulli, et si A quidem alicui C, B autem omni, quemadmodum in
principio sumptum est, A alicui B inerit. In particularibus autem syllogismis
quando opposite convertitur conclusio, interimuntur utraeque propositiones,
quando vero contrariae, neutra; non enim iam accidit quemadmodum in
universalibus interimere deficiente conclusione secundum conversionem, sed nec
omnino interimere. Ostendatur enim A de aliquo C per B; ergo si sumatur A nulli
C inesse, B autem alicui C, A alicui B non inerit, et si A nulli C, B autem
omni, nulli C inerit B; quare interimentur utraeque. Si autem contrarie
convertantur, neutra; nam si A alicui C non inest, B autem omni, B alicui C non
inerit, sed nondum interimitur quod ex principio, contingit, enim alicui inesse,
et alicui non inesse: universali autem sublato A B, omnino non fit syllogismus.
Si enim A quidem alicui C non inest, B autem alicui inest, neutra propositionum
universalis est. Similiter autem et si privativus sit syllogismus, si enim
sumatur A omni C inesse, interimuntur utraeque; si autem alicui, neutra;
demonstratio autem eadem. In secunda autem figura, eam quidem quae est ad
maiorem extremitatem propositionem, non est interimere contrarie, quolibet modo
conversione facta, semper erit conclusio in tertia figura, universalis autem
non fuit in hac syllogismus, alteram autem in hac interimemus, similiter
conversione. Dico autem similiter: si contrarie quidem convertitur, contrarie;
si opposite, opposite. Insit enim A omni B, C autem nulli, conclusio B C. Si
ergo sumatur B omni C inesse, et A B maneat, A omni C inerit, fit enim prima
figura. Si autem B omni C, A autem nulli C, A non omni B, figura postrema.Si
autem opposite convertatur B C, A B quidem similiter ostendetur, A C autem
opposite: nam si B alicui C, A autem nulli C, A alicui B non inerit; rursum si
B alicui C, A autem omni B, A alicui C, quare oppositus fit syllogismus.
Similiter autem ostendetur et si e converso se habeant propositiones. Si autem
particularis est syllogismus, contrarie quidem conversa conclusione neutra
propositionum interimitur, quemadmodum nec in prima figura, opposite autem,
utraeque. Ponatur enim A B quidem nulli inesse, C autem alicui, conclusio B C.
Si igitur ponatur B alicui C inesse, et A B maneat, conclusio erit quoniam A
alicui C non inest, sed non interimitur quod ex principio, contingit enim
alicui inesse et non inesse. Rursum si B alicui C, et A alicui C, non erit
syllogismus, neutrum enim universale eorum quae sumpta sunt, quare non
interimitur A B. Si autem opposite convertatur, interimuntur utraeque, non si B
omni C, A autem nulli B, nulli C, A erit autem alicui. Rursum si B omni C, A
autem alicui C, alicui B, A . Eadem autem demonstratio et si universalis sit
praedicativa. In tertia vero figura quando contrarie quidem convertitur
conclusio, neutra propositionum interimitur secundum nullum syllogismorum;
quando autem opposite, utraeque in omnibus. Si enim ostensum A alicui B inesse,
medium autem sumptum C, et sint universales propositiones, si ergo sumatur A
alicui B non inesse, B autem omni C, non fit syllogismus eius quod est A de C.
Neque si A B alicui non inest, C autem omni, non erit eius quod est B C
syllogismus. Similiter autem ostendetur et si non universales sint
propositiones, aut enim utrasque necesse est particulares esse per
conversionem, aut universalem ad minorem extremitatem fieri, sic autem non fiet
syllogismus, nec in prima figura, nec in media. Si autem opposite convertantur
propositiones, interimuntur utraeque, nam si A nulli B, B autem omni C, A nulli
C. Rursum si A B quidem nulli, C autem omni, B nulli C. Et si altera non sit
universalis, similiter; si enim A nulli B, B autem alicui C, A alicui C non
inerit. Si autem A quidem nulli, C autem omni, nulli C, B. Similiter et si
privativus sit syllogismus; ostendatur enim A alicui B non inesse; si autem
praedicativa quidem B C, A C autem negativa, sic enim fiebat syllogismus.
Quando igitur contrarium sumitur conclusioni, non erit syllogismus, nam si A
alicui B, B autem omni C, non fit syllogismus eius quod est A et C. Neque si A
alicui B, nulli autem C, non fuit eius quod est A B et C syllogismus, quare non
interimuntur propositiones. Quando vero oppositum, interimuntur; nam si A omni
B, et B omni C, A omni C, sed nulli inerat. Rursum si A omni B, nulli autem C,
B nulli C, sed omni inerat. Similiter autem monstratur, et si non universales
sint propositiones: sit enim A C universalis et privativa, altera autem
particularis et praedicativa, ergo si A quidem omni B, B autem alicui C, A
alicui C accidit, sed nulli inerat. Rursum si A omni B, nulli autem C, et B
nulli C. Si autem A alicui B, et B alicui C, non fit syllogismus. Neque si A
alicui B, et nulli C, nec sic. Quare illo quidem modo interimuntur, sic autem
non interimuntur propositiones. Manifestum est ergo ex iis quae dicta sunt
quomodo conversa conclusione in unaquaque figura fit syllogismus, et quando
contrarie propositioni, et quando opposite; et quoniam in prima quidem figura
per mediam et postremam fiunt syllogismi, et quae quidem ad minorem extremitatem
semper per mediam interimitur, quae vero ad maiorem per postremam; in secunda
autem, per primam et postremam, quae quidem ad minorem extremitatem semper per
primam figuram, quae vero ad maiorem, per postremam; in tertia vero, per primam
et per mediam, et quae quidem ad maiorem per primam semper, quae vero ad
minorem per mediam semper. Quid ergo est convertere, et quomodo in unaquaque
figura, et quis fit syllogismus, manifestum. Per impossibile autem syllogismus
ostenditur quidem, quando contradictio ponitur conclusionis, et assumitur
altera propositio. Fit autem in omnibus figuris, simile enim est conversioni.
Verumtamen differt in tantum quoniam convertitur quidem facto syllogismo, et
sumptis utrisque propositionibus. Deducitur autem ad impossibile non confesso
opposito prius, sed manifesto quoniam est verum. Termini vero similiter se
habent in utrisque, et eadem sumptio utrorumque, ut si A inest omni B, medium
autem C, si supponitur A non omni vel nulli B inesse, C vero omni, quod fuit
verum, necesse est C B aut nulli aut non omni inesse, hoc autem impossibile,
quare falsum est quod suppositum est. Verum ergo oppositum; similiter autem in
aliis figuris, quaecunque enim conversionem suscipiunt, et per impossibile
syllogismum. Ergo alia quidem proposita omnia ostenduntur per impossibile in
omnibus figuris, universale autem praedicativum in media et in tertia
monstratur, in prima autem non monstratur: supponatur enim A non omni B aut
nulli inesse, et assumatur alia propositio, utrolibet modo, sive A omni inest
C, sive B omni D (sic enim erat prima figura); si ergo supponatur A non omni B
inesse, non fiet syllogismus quomodolibet sumpta propositione. Si autem nulli
B, D quidem assumatur, syllogismus quidem erit falsi, non ostenditur autem
propositum; nam si A nulli B, B autem omni D, A nulli D, hoc autem sit
impossibile, falsum igitur est nulli B inesse A, sed non si nulli falsum, omni
verum. Si autem C A assumatur, non fit syllogismus, nec quando supponitur non
omni B inesse A; quare manifestum quoniam omni inesse non ostenditur in prima
figura per impossibile. Alicui autem, et nulli, et non omni ostenditur.
Supponatur enim A nulli B inesse, B autem sumptum sit omni aut alicui C, ergo
necesse est A nulli aut non omni C inesse, hoc autem impossibile. Sit enim
verum et manifestum quoniam omni C inest A, quare si hoc falsum, necesse est A
alicui B inesse. Si autem ad A sumatur altera propositio, non erit syllogismus,
neque quando subcontrarium conclusioni supponitur ut alicui non inesse;
manifestum ergo quoniam oppositum sumendum est. Rursum supponatur A alicui B
inesse, sumptum autem sit C omni A, necesse est igitur C alicui B inesse, hoc
autem sit impossibile, quare falsum quidem suppositum est; si autem sic, verum
est nulli inesse. Similiter autem et si privativa sumpta sit C A. Si autem ad B
sumpta sit propositio, non erit syllogismus. Si autem contrarium supponatur,
syllogismus erit et impossibile, non tamen ostenditur quod est propositum:
supponatur enim A omni B, et C sumptum sit omni A, ergo necesse est C omni B
inesse: hoc autem impossibile, quare falsum est omni B inesse A, sed nondum
erit necessarium, si non omni, nulli inesse. Similiter autem et si A D B
sumatur altera propositio: nam syllogismus quidem erit et impossibile, non
interimitur autem hypothesis, quare oppositum supponendum. Ad ostendendum autem
non omni B inesse A, supponendum omni inesse, nam si A omni B, et C omni A,
omni B inerit C; si ergo hoc impossibile, falsum quod suppositum est; similiter
autem et si ad B sumpta sit altera propositio. Et si privativa sit C A,
similiter, nam et sic fit syllogismus. Si autem ad B sumpta sit privativa,
nihil ostenditur. (0698D) Si autem non omni, sed alicui inesse supponatur, non
ostenditur quoniam non omni, sed quoniam nulli: si enim A alicui B, C autem
omni A, alicui B inerit C; si ergo hoc impossibile, falsum est alicui B inesse
A, quare verum nulli; hoc autem ostenso, interimitur verum, nam A alicui quidem
B inerat, alicui vero non inerat. Amplius autem non tam propter hypothesin
accidit impossibile, falsa enim erit, siquidem ex veris non est falsum
syllogizare: nunc autem est vera, inest enim A alicui B, quare non supponendum
alicui inesse, sed omni. Similiter autem et si alicui B non inest A,
ostenderemus; si enim idem est alicui non inesse, et non omni inesse, eadem in
utrisque demonstratio. Manifestum ergo quoniam non contrarium, sed oppositum
supponendum in omnibus syllogismis, sic enim necessarium erit et axioma
probabile; nam si de omni vel affirmatio vel negatio, ostenso quoniam non
negatio, necesse est affirmationem veram esse; rursum si non ponant veram esse
affirmationem, constat veram esse negationem; contrariam vero neutro modo
contingit ratum facere. enim necessarium, si nulli falsum, omni verum, neque
probabile ut sit alterum falsum, quoniam alterum verum. Manifestum ergo quoniam
in prima figura alia quidem proposita omnia ostenduntur per impossibile,
universale autem affirmativum non ostenditur. In media autem figura et postrema
et hoc ostenditur. Ponatur enim A non omni B inesse, sumptum sit autem omni C
inesse A ; ergo si B quidem non omni inest A, C autem omni, non omni B inest C,
hoc autem impossibile. Sit enim manifestum quoniam omni B inest C, quare falsum
quod suppositum est, verum est ergo omni inesse. Si autem contrarium supponatur,
syllogismus quidem erit ad impossibile, non tamen ostenditur quod propositum
est. Si enim A nulli B, omni autem C, nulli B, C, hoc autem impossibile, quare
falsum est, nulli inesse, sed non si hoc falsum, verum omni. Quando autem
alicui B inest A, supponatur A nulli B inesse, C autem omni insit, necesse est
ergo C nulli B inesse, quare si hoc impossibile, necesse est A alicui B inesse.
Si autem supponatur alicui non esse, eadem erunt quae in prima figura. Rursum
supponatur A alicui B inesse, C autem nulli insit, necesse est igitur C alicui
B non inesse; sed omni inerat, quare falsum quod suppositum est, nulli ergo B
inerat A. Quando autem non omni B inest A, supponatur omni inesse: C autem
nulli, necesse est ergo C nulli B inesse, hoc autem impossibile, quare verum
est non omni inesse. Manifestum ergo quoniam omnes syllogismi fiunt per mediam
figuram. Similiter autem et per ultimam. Ponatur enim A alicui B non inesse, C
autem omni B, ergo A alicui C non inerit; si ergo hoc impossibile, falsum
alicui non inesse, quare verum est omni. Si vero supponatur nulli inesse,
syllogismus quidem erit, et impossibile, non ostendit autem quod propositum
est; si enim contrarium supponatur, eadem erunt quae in prioribus.
Sed ad ostendendum alicui inesse, eadem sumenda est hypothesis, nam si A
nulli B, C autem alicui B, A non omni C; si ergo hoc falsum, verum est A alicui
B inesse. Quando autem nulli B inest A, supponatur alicui inesse, sumptum sit
autem et C omni B inesse, ergo necesse est A alicui C inesse; sed nulli inerat,
quare falsum est alicui B inesse A. Si autem supponatur omni B inesse A, non
ostenditur propositum: sed ad ostendendum non omni inesse, eadem sumenda
hypothesis, nam si A omni B, et C alicui B, A inest alicui C; hoc autem non
fuit, quare falsum est omni inesse, si autem sic, verum non omni. Si autem
supponatur alicui inesse, eadem erunt quae et in iis quae prius dicta sunt. Manifestum
ergo quoniam in omnibus per impossibile syllogismis oppositum supponendum.
Palam autem et quoniam in media figura ostenditur quodammodo affirmativum, et
in postrema universale. Differt autem quae ad impossibile demonstratio ab ea
quae est ostensiva, eo quod ponat quod vult interimere, deducens ad confessum
falsum, ostensiva autem incipit A confessis positionibus veris. Sumunt ergo
utraeque duas propositiones confessas, sed haec quidem ex quibus est
syllogismus, illa vero unam quidem harum, alteram vero contradictionem
conclusionis. Et hinc quidem non necesse est notam esse conclusionem, neque
prius opinari quoniam est, aut non est; illinc vero necesse est, quoniam non
est. Differt autem nihil affirmativam, vel negativam esse conclusionem, sed
similiter se habet in utrisque. Omnis enim quae ostensive concluditur, et per
impossibile monstrabitur, et quae per impossibile ostensive, et per eosdem
terminos, non autem in eisdem figuris. Nam quando per impossibile syllogismus
fit in prima figura, quod verum est in media erit, aut in postrema, privativum
quidem in media, praedicativum autem in postrema. Quando autem syllogismus in media
fit, quod verum est erit in prima figura in omnibus propositionibus, quando
autem in postrema syllogismus, quod verum est erit in prima et in media,
affirmativa quidem in prima, privativa autem in media. Sit enim ostensum A
nulli aut non omni B per primam figuram, ergo hypothesis quidem erat alicui B
inesse A, C autem sumebatur A quidem omni inesse, B autem nulli, sic enim
fiebat syllogismus ad impossibile. Hoc autem media figura, si C A quidem omni,
B autem nulli inest, et manifestum ex his quoniam B nulli inest A. Similiter
autem et si non omni ostensum sit inesse, nam hypothesis quidem est omni B A
inesse, C autem sumebatur A quidem omni, B autem non omni, et si privativa sit
sumpta C A, similiter etenim sic fit in media figura. Rursum sit ostensum alicui
B inesse A, ergo hypothesis quidem est nulli inesse, B autem sumebatur omni C
inesse, et A vel omni vel alicui C, sic enim erit impossibile. Hoc autem
postrema figura, si A et B omni C, et manifestum ex his quia necesse est A
alicui B inesse, similiter autem et si alicui C sumatur inesse B vel A. Rursum
in media figura ostensum sit A omni B inesse, ergo hypothesis quidem fuit, non
omni B inesse A, sumptum est autem A omni C, et C omni B, sic enim erit
impossibile; hoc autem prima figura, si A omni C, et C omni B. Similiter autem
et si ostensum sit alicui inesse, nam hypothesis quidem fuit, nulli B inesse A,
sumptum est autem A omni C, et C alicui B. Si autem privativus fit syllogismus,
hypothesis quidem A alicui B inesse, sumptum est autem A nulli C, et C omni B,
quare fit prima figura. Et si non universalis sit syllogismus, sed A alicui B
ostensum sit non inesse, similiter: nam hypothesis quidem omni B inesse A,
sumptum est autem A nulli C, et C alicui B, sic enim prima figura. Rursum in
tertia figura ostensum sit A inesse omni B, ergo hypothesis quidem fuit non
omni B inesse A, sumptum est autem C omni B, et A omni C, sic enim erit
impossibile, hoc autem prima figura. Similiter autem et si in aliquo sit
demonstratio, non hypothesis quidem erit nulli B inesse A, sumptum est autem C
alicui B, et A omni C. Si autem privativus sit syllogismus, hypothesis quidem A
alicui B inesse, sumptum est autem C A quidem nulli, B autem omni, hoc autem
media figura. Similiter autem et si non universalis sit demonstratio, nam
hypothesis quidem erit omni B inesse A, sumptum est autem C A quidem nulli, B
autem alicui, hoc autem media figura. Manifestum ergo quoniam per eosdem
terminos et ostensive est demonstrare unumquodque propositum, et per
impossibile. Similiter autem erit, et cum sint ostensivi syllogismi, ad
impossibile deducere in terminis sumptis, quando opposita propositio
conclusioni sumpta fuerit, nam fiunt iidem syllogismi iis qui sunt per
conversionem, quare statim habemus et figuras per quas unumquodque erit. Palam
ergo quoniam omne propositum ostenditur per utrosque modos et per impossibile
et ostensive, et non contingit separari alterum ab altero. In qua autem figura
est ex oppositis propositionibus syllogizare, et in qua non est, sic erit
manifestum. Dico autem oppositas esse propositiones, secundum locutionem quidem
quatuor, ut omni et nulli, et omni et non omni, et alicui et nulli, et alicui
et non alicui inesse; secundum veritatem autem tres, nam alicui et non alicui
secundum locutionem opponuntur solum; harum autem contrarias quidem
universales, omni nulli inesse, ut omnem disciplinam esse studiosam, nullam
esse studiosam, alias vero oppositas. In prima igitur figura non est ex
oppositis propositionibus syllogismus, neque affirmativus, neque negativus;
affirmativus quidem, quoniam oportet utrasque affirmativas esse propositiones,
oppositae autem affirmatio et negatio; privativus autem, quoniam oppositae
quidem idem de eodem praedicant et negant, in prima autem medium non dicitur de
utrisque, sed de illo quidem aliud negatur, idem autem de alio praedicatur, hae
vero non opponuntur. In media autem figura, et ex oppositis, et ex contrariis
contingit fieri syllogismum. Sit enim bonum quidem in quo A, disciplina autem
in quo B et C; si ergo omnem disciplinam studiosam sumpsit, et nullam, A inest
omni B, et nulli C, quare B nulli C, nulla ergo disciplina disciplina est.
Similiter autem et si omnem sumens studiosam disciplinam, medicinam vero non
studiosam sumpsit, nam A B quidem omni, C autem nulli, quare aliqua disciplina
non erit disciplina. Et si A C quidem omni, B autem nulli, est autem B quidem
disciplina, C autem medicina, A vero opinio, nullam enim disciplinam opinionem
sumens, sumpsit aliquam disciplinam esse opinionem. Differt autem A priore in
terminis converti, nam prius quidem ad B, nunc autem ad C affirmativum. Et si
sit non universalis altera propositio, similiter; semper enim medium est, quod
ab altero quidem negative dicitur, de altero vero affirmative. Quare contingit
opposita quidem perfici, non autem semper, neque omnino, sed sic se habeant,
quae sunt sub medio, ut vel eadem sint, vel totum ad partem; aliter autem
impossibile, non enim erunt propositiones ullo modo, neque contrariae, neque
oppositae. In tertia vero figura affirmativus quidem syllogismus nunquam erit
ex oppositis propositionibus propter causam dictam, et in prima figura. Negativus
autem erit syllogismus, et universalibus, et non universalibus terminis. Sit
enim disciplina in quo B et C, medicina autem in quo A; si ergo sumat omnem
medicinam disciplinam, et nullam medicinam disciplinam, B omni A sumpsit, et C
nulli A, quare erit aliqua disciplina non disciplina. Similiter autem et si non
universaliter sumpta sit A B propositio, nam si est aliqua medicina disciplina,
et rursum nulla medicina disciplina, accidit disciplinam aliquam non esse
disciplinam. Sunt autem universaliter quidem sumptis terminis contrariae
propositiones, si autem particularis altera sit, oppositae. Oportet autem scire
quoniam contingit opposita sic sumere quemadmodum diximus, omnem disciplinam
studiosam esse, et rursum nullam aut aliquam non esse studiosam, quod non solet
latere; erit autem per alias interrogationes syllogizare alteram, et
quemadmodum in Topicis dictum est, sumere. Quoniam autem affirmationum oppositiones
sunt tres, sexies accidit opposita sumere, aut omni et nulli, aut omni et non
omni, aut alicui et nulli; et hoc converti in terminis, ut A omni B et nulli C,
aut omni C et nulli B, aut huic quidem omni, illi vero non omni, et rursum hoc
converti secundum terminos; similiter autem et in tertia figura. Quare
manifestum est et quoties et in quibus figuris contingit per oppositas
propositiones fieri syllogismum. Manifestum est quoniam ex falsis est verum
syllogizare, quemadmodum dictum est prius; ex oppositis autem non est, semper
enim contrarius syllogismus fit rei (ut si est bonum non esse bonum, aut si
animal non animal) eo quod ex contradictione est syllogismus, et subiecti
termini aut iidem sunt, aut hic quidem totum, ille autem pars. Palam autem
quoniam in paralogismis nihil prohibet fieri hypotheseos contradictionem, ut si
est impar non esse impar, nam ex oppositis propositionibus contrarius erit
syllogismus; si ergo sumpserit hoc modo, hypotheseos erit contradictio. Oportet
autem considerare quoniam sic quidem non est contraria concludere ex uno
syllogismo (ut sit conclusio quoniam non est bonum, bonum aut aliud quiddam
tale), nisi statim huiusmodi propositio sumatur, ut omne animal esse album et
non album, hominem autem animal, sed vel assumere oportet contradictionem, ut
quoniam omnis disciplina opinio et non opinio, deinde sumere quoniam medicina
disciplina quidem est. , nulla autem opinio, quemadmodum redargutiones fiunt,
vel ex duobus syllogismis. Quare esse quidem contraria secundum veritatem quae
sumpta sunt, non est alio modo quam hoc quemadmodum dictum est prius. In
principio autem petere et accipere est quidem, ut in genere, sumere in eo quod
non est demonstrare propositum. Hoc autem accidit multipliciter, nam et si
omnino non syllogizatur, et si per ignotiora aut similiter ignota, et si per
posteriora quod prius est, demonstratio enim ex prioribus et notioribus est. Horum
ergo nullum est petere quod ex principio est, sed quia haec quidem nata sunt
per se cognosci, illa vero per alia (nam principia quidem per se, quae autem
sub principiis, per alia), quando quod non per se notum est, per se aliquis
conatur ostendere, tunc petit quod ex principio est. Hoc autem est sic
facere quidem ut statim postulet id quod propositum est: contingit autem et
transgredientes et ad alia eorum quae nata sunt per illa ostendi per haec
monstrare quod ex principio est, ut si A ostendatur per B, et B per C, C autem
natum sit ostendi per A, accidit enim idem A per se demonstrare eos qui sic
syllogizant, quod faciunt qui parallelas arbitrantur scribere, latent enim ipsi
seipsos talia sumentes quae non valent demonstrare, cum non sint parallelae. Quare
accidit sic syllogizantibus unumquodque esse dicere si est unumquodque, sic
autem omne erit per se notum, quod est impossibile. Si ergo aliquis dubitat
assumpto dubio quoniam A inest C, similiter et quoniam B, petat autem i inesse
B, nondum manifestum si quod in principio est petat, sed quoniam non
demonstravit manifestum, non enim est principium demonstrationis, quod
similiter est incertum. Si autem B ad C sic se habet ut idem sit, aut
manifestum quod convertuntur, aut inest alterum alteri, quod in principio est
petit, nam et quoniam A inest B, per illa monstrabit si convertantur, nunc
autem hoc prohibet, sed non modus. Si autem hoc faciat, quod dictum est faciet,
et convertet per tria, similiter autem et si B sumat inesse C, quod similiter
incertum sit, ut et si A inest C, nondum quod ex principio petit, sed neque
demonstrat. Si autem idem sit A et B, aut eo quod convertuntur, aut eo quod A
sequitur ei quod est B, quod ex principio est petit propter eamdem causam, nam
ex principio quod valet, prius dictum est A nobis, quoniam per se monstrabitur
quod non est per se manifestum. Si ergo est in principio petere per se monstrare
quod non per se est manifestum, hoc autem est non ostendere quando similiter
dubitantur quod monstratur et per quod monstratur, vel eo quod eadem eidem, vel
eo quod idem eisdem inesse sumitur, in media quidem figura et tertia utrorumque
continget similiter quod est in principio petere, in praedicativo quidem
syllogismo et in tertia figura, et in prima, negative autem
quando eadem ab eodem, et non similiter utraeque propositiones, similiter autem
et in media, eo quod non convertuntur termini secundum negativos syllogismos. Est
autem in principio petere in demonstrationibus quidem quae secundum veritatem
sic se habent, in dialecticis autem, quae secundum opinionem. Non propter hoc
autem accidere falsum (quod saepe in disputationibus solemus dicere) primum
quidem est in iis qui ad impossibile syllogismis, quando ad contradictionem est
huius quod monstratum est ea quae ad impossibile. Nam neque qui non contradicit
dicit non propter hoc, sed quoniam falsum est aliquid positum priorum, neque in
ostensiva, non enim ponit quod contradicit. Amplius autem quando interimitur
aliquid ostensive per A B C, non est dicere quoniam non propter quod positum
est factus est syllogismus, nam non propter hoc fieri tunc dicimus, quando
interempto hoc nihilominus perficitur syllogismus, quod non est in ostensivis,
interempta enim propositione, nec qui ad hanc est erit syllogismus. Manifestum
igitur quoniam in iis qui ad impossibile sunt dicitur non propter hoc, et
quando sic se habet ad impossibile quae ex principio est hypothesis, ut cum
sit, vel cum non sit haec, nihilominus accidit impossibile. Ergo
manifestissimus quidem modus est non propter suppositionem esse falsum, quando
ab hypothesi inconiunctus est A mediis syllogismus ad impossibile, quod dictum
est in Topicis; quod enim non est causa, ut causam ponere hoc est; ut si volens
ostendere quoniam asymeter est diameter, conetur Zenonis ratione quoniam non
est moveri, et ad hoc inducat impossibile, nullo enim modo continuum est falsum
locutioni quae est ex principio. Alius autem modus, si continuum quidem sit
impossibile hypothesi, non tamen propter illam accidat, hoc autem possibile est
fieri, et in hoc quod superius, et in hoc quod inferius sumenti continuum, ut
si A ponatur inesse B, B autem C, C vero D, hoc autem sit falsum B inesse D,
nam (si ablato A, nihilominus B inest C, et C D ) non erit falsum propter eam
quae ex principio est hypothesin. Aut rursum si quis in superiori sumat
continuum, ut si A quidem B, E autem A, F vero E, falsum autem sit F inesse A,
nam et sic nihilominus erit impossibile, interempta quae est ex principio
hypothesi. Sed oportet ad eos qui ex principio terminos copulare impossibile,
sic enim erit propter hypothesin, ut in inferiori quidem sumenti continuum ad
praedicatum terminum; nam si impossibile est A inesse D, interempto A, non
amplius erit falsum. In superiori autem de quo praedicatur; nam si F non
possibile est inesse B, interempto B non amplius erit impossibile; similiter
autem et cum privativi sint syllogismi. Manifestum ergo quoniam cum impossibile
non ad priores terminos, non propter positionem accidit falsum; an nec sic
semper propter hypothes in erit falsum? nam si non ei quod est B, sed ei quod
est k positum est inesse A, k autem C, et hoc D, et sic manet impossibile; similiter
autem et in sursum sumenti terminos, quare (quoniam cum est, et cum non est,
hoc accidit impossibile) non erit propter positionem, aut cum non est hoc,
nihilominus fieri falsum. Nec sic sumendum ut alio posito accidat impossibile,
sed quando ablato hoc idem per reliquas propositiones concluditur impossibile,
eo quod idem falsum accidere per plures hypotheses nihil fortasse inconveniens
est, ut parallelas, contingere, et si maior est qui interius est, eo qui
exterius, et si triangulus habet plures rectos duobus.Falsa autem oratio fit
propter primum falsum; aut enim ex duabus propositionibus aut ex pluribus omnis
est syllogismus; ergo si ex duabus quidem, harum necesse est alteram, aut etiam
utrasque esse falsas, nam ex veris non erat falsus syllogismus; si vero ex
pluribus (ut sic quidem per A B, hoc autem per D F G ), horum erit aliquid
superiorum falsum, et propter hoc oratio, nam A et B per illa concluduntur,
quare propter illorum aliquid, accidit conclusio et falsum. Ut autem non
catasyllogizetur, observandum, quando sine conclusionibus interrogat orationem,
ut non detur bis idem in propositionibus, eo quod scimus quoniam sine medio
syllogismus non fit, medium autem est quod plerumque dicitur. Quomodo autem
oportet ad unamquamque conclusionem observare medium manifestum est, eo quod
scitur quale in unaquaque figura ostenditur, hoc autem nos non latebit, eo quod
videmus quomodo submittimus orationem. Oportet autem quod custodire praecipimus
respondentes, ipsos argumentantes tentare latere, hoc autem erit primum quidem
si conclusiones non prius syllogizent, sed sumptis necessariis non manifestae
sint. Amplius autem si non propinqua interrogant, sed quam maxime longe media,
ut si sit opportunum concludere A D E F, media B E D E, oportet ergo inquirere
si A B, et rursum non si B E, sed si D E, deinde si B C, et sic reliqua, et si
per unum medium sit syllogismus, A medio incipere, maxime enim sic latebit
respondentem. Quoniam ergo habemus quando et quomodo se habentibus terminis fit
syllogismus, manifestum et quando erit, et quando non erit elenchus, nam
omnibus affirmativis, vel permutatim positis responsionibus (ut hac quidem
affirmativa, illa vero negativa), contingit fieri elenchum: erit enim
syllogismus, et sic in illo modo se habentibus terminis; quare si id quod
positum est contrarium sit conclusioni, necesse est fieri elenchum, nam
elenchus syllogismus contradictionis est. Si vero nihil affirmetur, impossibile
est fieri elenchum, non enim erat syllogismus, cum omnes termini erant
privativi, quare nec elenchus: nam si elenchus, necesse est syllogismus esse;
cum autem est syllogismus, non necesse est elenchum esse. (0706A) Similiter
autem si nihil positum sit secundum responsionem universaliter; nam eadem erit
definitio syllogismi et elenchi. Accidit autem quandoque (quemadmodum in
positione terminorum fallebamur) et secundum opinionem fieri fallaciam, ut si
contingat idem pluribus principaliter inesse, et hoc quidem latere aliquem, et
putare nulli inesse, illud autem scire, ut insit A B et C per se, et haec omni D
similiter. Si igitur B quidem putet omni A inesse, et hoc D, C autem nulli A,
et hoc omni D, eiusdem secundum idem habebit disciplinam et
ignorantiam. Rursum si quis fallatur circa ea quae sunt ex eadem
coniugatione, ut si A inest B, hoc autem C, et C D, opinetur autem A inesse
omni B, et rursum nulli C. Simul enim sciet, et non opinabitur inesse; ergo
nihil aliud existimat ex iis quam scit, hoc non opinari, scit enim aliquo modo
quoniam A inest C per B, velut in universali hoc quod est particulare; quare quod
aliquo modo scit, hoc omnino existimat non opinari, quod est impossibile. In eo
autem quod prius dictum est, si non ex eadem coniugatione sit medium; secundum
utrumque quidem mediorum ambas propositiones non possibile est opinari, ut A B
quidem omni, C autem nulli, haec autem utraque omni D; accidit autem aut
simpliciter aut in aliquo contrariam sumere primam propositionem. Si enim cui B
inest omni A opinatur inesse, B autem D novit, et quoniam A D novit, quare si
rursum cui C nulli, putat A inesse, cui B alicui inest, huic non putat A
inesse, quod autem omni putat cui B, rursum alicui non putare cui B, aut
simpliciter, aut in aliquo contrarium et; sic ergo non contingit opinari.
Secundum utrumque autem unam, aut secundum alterum utrasque, nihil prohibet A
omni B, et B D, et rursum A nulli C. Nam similis huiusmodi fallacia, veluti
fallimur circa particularia, ut si A omni B inest, B autem omni C, A omni C
inerit; si ergo aliquis novit quoniam A cui B inest omni, novit et quoniam ei
quod est C; sed nihil prohibet ignorare C quoniam est, ut si A quidem duo
recti, in quo autem B triangulus, in quo vero C sensibilis triangulus;
opinabitur enim aliquis non esse C, sciens quoniam omnis triangulus habet duos
rectos: quare simul sciet et ignorabit idem, nam scire omnem triangulum quoniam
duobus rectis, non simplex est, sed hoc quidem universalem habet disciplinam,
illud vero singularem. Sic ergo in universali novit C, quoniam duobus rectis,
in singulari autem non novit, quare non habebit contrarias. Similiter autem est
quae in Menone est oratio, quoniam disciplina est reminiscentia; nunquam enim
accidit praescire quod singulare est, sed simul inductione sumere particularium
disciplinam, velut recognoscentes. Nam quaedam scientes, statim scimus, ut
quoniam duobus rectis, si scimus quoniam triangulus, similiter autem et in
aliis. Ergo universali quidem speculamur particularia, propria autem non
scimus; quare contingit et falli circa ea, verum non contrarie, sed habere
quidem universale, decipi autem particulari. Similiter autem in praedictis, non
enim contraria quae est secundum medium ei quae est secundum syllogismum
disciplinae, nec quae est secundum utrumque mediorum opinatio, nihil enim
prohibet scientem, et quoniam A toti B inest, et rursum hoc toti C, putare non
inesse, ut quoniam omnis mula sterilis, et haec mula, putare hanc habere in
utero; non enim scit quoniam A, C qui non conspicit, quod est secundum
utrumque. Quare manifestum quoniam et si hoc quidem novit, illud vero non
novit, falletur, quod habent universales ad particulares disciplinas; nullum
enim sensibilium cum extra sensum fit scimus, nec si sentientes fuerimus
scimus, nisi ut in universali, et in eo quod habet propriam disciplinam, sed
non in eo quod est in actum. Nam scire tripliciter dicitur, aut ut universali,
aut ut propria, aut ut in actu, quare et decipi totidem modis, nihil ergo
prohibet et scire, et deceptum esse circa idem, verumtamen non contrarie. Quod
accidit et ei qui secundum utramque scit propositionum, et non pertractavit
prius, nam opinans in utero habere mulam, non habet secundum ac um disciplinam,
neque propter opinionem fallaciam contrariam disciplinae, syllogismus enim est
contraria fallacis in universali. Qui autem opinatur quod bonum esse est malum
esse, idem opinabitur bonum esse et malum. Sit enim bonum esse in quo A, malum
autem esse in quo B, rursum bonum esse in quo C; quoniam igitur idem opinatur
et B et C, et esse C B opinabitur, et rursum B esse A similiter, quare et C A,
nam quemadmodum si erat verum de quo C B, et de quo B A, et de quo C A verum
erat, sic et in opinatione. Similiter autem et in eo quod est esse. Nam cum
idem sit C et B, et rursum B et A, C A idem erit, quare et opinatione
similiter; ergo hoc quidem necessarium si quis det primum. Sed fortasse illud
falsum opinari aliquem quod malum esse est bonum esse, nisi secundum accidens;
multipliciter enim possibile est hoc opinari, perspiciendum autem hoc melius. Quando
vero convertuntur extremitates, necesse est et medium converti ad utramque; si
enim A de C per B est, si convertitur et inest cui A omni, C et B A
convertitur, et inest cui A omni, B per medium C, et C B convertitur per medium
A. Et in non esse itidem, ut si B inest C, A vero non inest B, neque A inerit
C. Si ergo B convertatur ad A, et C ad A convertetur: sit enim B nulli A
inexistens, ergo neque C, omni enim C inerat B, et si B convertitur ad C, et A
convertetur ad C; nam de quocunque omnino B, et C. Et si C ad A convertitur, et
B convertetur ad A: cui enim B inest, et C; cui autem C, A non inest; et solum
hoc A conclusione incipit, alia autem non similiter, ut in praedicativo
syllogismo. Rursum si A et B convertuntur, et C et D similiter, omni autem
necesse est A aut C inesse, et B et D sic se habebunt, ut omni alterum insit;
quoniam enim cui A B, E cui C D, omni autem A aut C, et non simul, manifestum
quoniam et B aut D omni, et non simul, ut si ingenitum, incorruptibile, et
incorruptibile ingenitum, necesse est quod factum est corruptibile et
corruptibile factum esse, duo enim syllogismi constituti sunt. Rursum si omni
quidem, A vel B, et C vel D, simul autem non insunt, si convertitur A et C, et
B et D convertetur. Nam si alicui non inest B, cui D, palam quoniam A inest; si
autem A, et C, convertuntur enim; quare simul C et D, hoc autem impossibile.
Quando autem A toti B et C inest, et de nullo alio praedicatur, inest autem et
B omni C, necesse est A et B converti, quoniam enim de solis B C dicitur A,
praedicatur autem B et idem dese et de C, manifestum quoniam de quibus A, et B
dicetur omnibus, verum et de A. Rursum quando A et B, toti C insunt convertitur
autem C B, necesse est A omni B inesse, quoniam enim omni C A, C autem B, eo
quod convertuntur, et A omni B inerit. Quando autem duo fuerint opposita, ut A
magis eligendum sit quam B, cum sint opposita, et D quam C similiter, si magis
eligenda sunt A C quam B D, A magis eligendum quam D. Similiter enim sequendum
A, et fugiendum B, opposita enim, et C ei quod est D, nam et haec opponuntur;
si ergo A ei quod est D similiter eligendum, et B ei quod est C fugiendum,
utrumque enim utrique similiter fugiendum eligendo; quare et haec ambo A C iis
quae sunt B D, quoniam autem magis, non possibile similiter, nam et B D
similiter erunt. Si autem D magis eligendum quam A, et B quam C minus
fugiendum; nam quod minus est minori opponitur; magis autem eligendum est maius
bonum et minus malum quam minus bonum et maius malum. Universum igitur B D
magis eligendum quam A C, nunc autem non est, ergo magis A eligendum quam D, et
C ergo minus fugiendum quam B. Si ergo eligat omnis amans secundum amorem A sic
se habere, ut concedere, et non concedere in quo C, aut concedere in quo D, et
non tale esse ut concedere in quo B, manifestum quoniam A huiusmodi esse, magis
eligendum est quam concedere; ergo diligi quam conventio magis eligendum
secundum amorem; magis ergo amor est in amicitia quam convenire. Si autem
maxime huius, et finis haec, ergo convenire aut non est omnino, aut diligendi
gratia, nam et aliae concupiscentiae et artes sic fiunt. Quomodo ergo se habent
termini secundum conversiones, et in eo quod magis fugiendum vel magis
eligendum sit, manifestum est. Quoniam autem non solum dialectici et
demonstrativi syllogismi per praedictas fiunt figuras, sed et rhetorici, sed et
simpliciter quaecunque fides est, et secundum unamquamque artem, nunc erit
dicendum. Omnia enim credimus per syllogismum aut ex inductione; ergo si
inductio quidem est, et ex inductione syllogismus per alteram extremitatem
medio syllogizare. Ut si eorum quae sunt A C medium sit B, per C ostendere A inesse
B, sic enim facimus inductiones. Ut sit A longaevum, in quo autem B choleram
non habere, in quo vero C singulare longaevum, ut homo, equus, et mulus. Ergo
toti B inest A, omne enim quod sibi cholera est, longaevum, sed et B non habere
choleram, omni inest C; si ergo convertatur C ei quod est B, et non transcendat
medium, necesse est C inesse B. Ostensum enim est prius quoniam, si duo aliqua
eidem insunt, et ad alteram eorum convertatur extremum, converso et alterum
inerit praedicatorum. Oportet autem intelligere C ex singularibus omnibus
compositum, nam inductio per omnia. Syllogismus autem huiusmodi est primae et
immediatae propositionis: quarum enim est medium, per medium est syllogismus;
quorum vero non est, per inductionem. Et quodam modo opponitur inductio
syllogismo, nam hic quidem per medium extremum de tertio ostendit, illa autem
per tertium extremum de medio. Ergo natura quidem prior et notior per medium
syllogismus, nobis autem manifestior qui est per inductionem. Exemplum autem
est, quando medio extremum inesse ostenditur per id quod est simile tertio.
Oportet autem et medium tertio, et primum simili notius esse, inesse. Ut sit A
malum, B autem contra confines inferre bellum, in quo autem C Athenienses
contra Thebanos, in quo autem D Thebanos contra Phocenses. Si ergo volumus
ostendere quoniam Thebanis pugnare malum est, sumendum quoniam contra confines
pugnare est malum, huius autem fides ex similibus, ut quoniam Thebanis contra
Phocenses. Quoniam ergo contra confines malum, contra Thebanos autem contra
confines est, manifestum quoniam contra Thebanos pugnare malum. Quoniam ergo B
C et D inest, manifestum, utrumque enim est contra confines inferre bellum, et
quoniam A D, Thebanis enim non fuit utile contra Phocenses bellum. Quoniam
autem A inest B, per D ostendetur, eodem autem modo et si per plura similia
fides fiat medii ad extremum. Manifestum ergo quoniam exemplum est neque ut
totum ad partem, neque ut pars ad totum, sed ut pars ad partem, quando ambo
quidem insunt sub eodem, notum autem alterum. Et differt ab inductione, quoniam
haec quidem ex omnibus individuis ostendebat inesse extremum medio, et ad
extremum non copulabat syllogismum, hoc autem et copulat, et non ex omnibus
ostendit. Deductio autem quando medio quidem primum palam est inesse,
postremo autem medium dubium quidem, similiter autem credibile aut magis
conclusione. Amplius, si pauciora sunt media postremo et medio, omnino enim
propinquius esse accidit scientiae. Ut sit A docibile, in quo B disciplina, C
iustitia, ergo disciplina quoniam docibilis, manifestum; iustitia autem si
disciplina, dubium. Si igitur similiter aut magis credibile sit B C quam A C,
deductio est, propinquius enim scientiae, per quod assumpserint A C,
disciplinam prius non habentes. Aut rursum si pauciora media sint B C, nam et
sic propinquius est scientiae. Ut si D sit quadrangulare, in quo autem E
rectilineum, in quo F circulus, si ergo eius quod est E F unum solum sit
medium, per lunares figuras aequalem fieri rectilineo circulum propinquius erit
scientiae. Quando autem neque credibilius est B C quam A C, neque pauca media,
non dico deductionem, neque quando immediata est B C, disciplina enim quod
eiusmodi est. Instantia autem est propositio propositioni contraria.
Differt autem A propositione, quoniam contingit quidem instantiam esse in
parte, propositionem vero aut omnino non contingit, aut non in universalibus
syllogismus. (0710B) Fertur autem instantia duobus modis et per duas figuras:
duobus modis quidem, quoniam aut universalis aut particularis omnis instantia;
per duas autem figuras, quoniam oppositae feruntur propositioni, opposita autem
in prima et tertia figura perficiuntur solis. Nam quando postulatur omni
inesse, instamus quoniam nulli, aut quoniam alicui non inest. Horum autem nulli
quidem ex prima figura, alicui autem non ex postrema. Ut sit A unam esse
disciplinam, in quo B contraria; proponit ergo unam esse contrariorum
disciplinam, aut quoniam omnino non est eadem oppositorum instant. Contraria
autem opposita, quare fit prima figura; aut quoniam noti et ignoti non una,
haec autem tertia. Nam secundum tertiam notum et ignotum contraria quidem esse
verum, unam autem esse eorum disciplinam, falsum. Rursum in privativa
propositione similiter: cum postulat enim non esse contrariorum unam
disciplinam, aut quoniam omnium oppositorum, aut quoniam contrariorum aliquorum
est eadem disciplina, dicimus, ut sani et aegri, ergo omnium quidem ex prima,
aliquorum vero ex tertia figura. Simpliciter autem in omnibus universaliter
quidem instantibus, necesse est ad id quod universale est proposito
contradictionem dicere (ut si non unam existimet contrariorum omnium, dicere
oppositorum unam; sic autem necesse est primam esse figuram, medium enim fit
universale ad hoc quod ex principio); quod autem ad hoc in parte est universale,
dicitur propositio, ut noti et ignoti non eamdem, nam contraria universale ad
haec, et fit tertia figura, medium enim in parte sumptum, ut notum et ignotum. Nam
ex quibus est syllogizare contrarium, ex iis et instantias conamur dicere,
quare et ex his solis figuris ferimus, nam in his solis oppositi syllogismi,
per mediam enim figuram non fuit affirmare. Amplius autem et si sit, oratione
indiget plurima, quae est per mediam figuram, ut si non concedant A inesse B,
eo quod non sequitur hoc C, hoc enim per alias propositiones manifestum; non
oportet autem instantiam converti ad alia, sed statim manifestam habere alteram
propositionem. Quapropter et signum ex sola hac figura non est. Perspiciendum
autem et de aliis instantiis, ut de iis quae sunt ex contrario, et simili, et
secundum opinionem, et si particularem ex prima, vel privativam ex media
possibile est sumere. Eicos autem et signum non idem est, sed eicos quidem est
propositio probabilis. Quod enim ut in pluribus sciunt sic factum; vel non factum,
aut esse vel non esse, hoc est eicos, ut odire invidentes, vel diligere
amantes. Signum autem vult esse propositio demonstrativa, vel necessaria, vel
probabilis; nam quo existente est, vel quo facto prius vel posterius res,
signum est vel fuisse vel esse. Enthymema ergo est syllogismus imperfectus ex
eicotibus et signis. Accipitur autem signum tripliciter, quoties et medium in
figuris, aut enim ut in prima, aut ut in media, aut ut in tertia: ut ostendere
quidem parientem esse, eo quod lac habeat, ex prima figura, medium enim lac
habere, in quo A parere B, lac habere mulier in quo C. Quoniam autem sapientes,
studiosi, nam Pittacus est studiosus, per postremam, in quo A studiosum, in quo
B sapientes, in quo C Pittacus. Verum igitur A et B de C praedicari; sed hoc
quidem non dicunt quia notum sit, illud vero sumunt. Peperisse autem quoniam
pallida, per mediam figuram vult esse; quoniam enim sequitur parientes pallor,
sequitur autem et hanc, ostensum esse arbitrantur quoniam peperit. Pallor in
quo A, parere in quo B, mulier in quo C. Ergo si una quidem dicatur propositio,
signum fit solum, si autem et altera sumitur, syllogismus. Ut Pittacus
liberalis, nam ambitiosi liberales, Pittacus autem ambitiosus. Aut rursus,
quoniam sapientes boni, Pittacus autem bonus, sed et sapiens, sic ergo fiunt
syllogismi. Verum quidem per primam figuram insolubilis, si verus sit,
universalis enim est. Qui autem per postremam, est solubilis, et si vera sit
conclusio, eo quod non universalis, est in tertia, nec ad rem syllogismus, non
enim si Pittacus est studiosus, propter hoc et alios necesse est esse
sapientes. Qui vero per mediam figuram est, semper et omnino solubilis, nunquam
enim syllogismus fit, sic se habentibus terminis. Non enim si quae peperit
pallida, pallida autem et haec, necesse est parere hanc; ergo verum est quidem
in omnibus figuris, differentias autem habent iam dictas. An igitur sic
dividendum signum? horum autem medium indicium sumendum, nam indicium dicunt
esse quod scire facit, tale autem maxime medium, an vero quae quidem ab
extremitatibus signa dicenda, quae autem ex medio indicium? probabilissimum
enim et maxime veram est quod est per primam figuram. Naturas autem cognoscere
possibile est, si quis concedat simul transmutare corpus et animam, quaecunque
sunt naturales passiones; discens enim aliquis fortasse musicam, transmutavit
secundum quid animam, sed non earum quae natura nobis insunt, haec est passio,
sed ut irae et concupiscentiae, et naturalium motionum. Si igitur et hoc det,
et unum unius signum esse, et possumus sumere proprium uniuscuiusque generis
passionem et signum, poterimus naturas cognoscere. Si enim est proprie alicui
generi individuo existens passio, ut si leonibus fortitudo, necesse est et
signum esse aliquod, compati enim sibi invicem positum est, et sit hoc magnas
summitates habere, quod et aliis generibus, non totis contingit. Nam signum sic
proprium est, quoniam totius generis propria passio est, et non solius
proprium, sicut solemus dicere. Erit ergo et in alio genere hoc, et erit fortis
homo, et aliquod aliud animal; habebit ergo signum, unum enim unius erat. Si
ergo haec sunt, poterimus talia signa colligere in iis animalibus quae solum
unam passionem habent aliquam propriam, unaquaeque autem habet signum, et
quoniam unum habere necesse est, poterimus naturas cognoscere.Si vero duo habet
propria totum genus, ut leo, forte et communicativum, quomodo cognoscemus utrum
utrius sit signum, eorum signorum quae proprie sequuntur? An si et alii alicui
non toti ambo, et in quibus non totis utrumque, quando hoc quidem habet, illud
autem non? nam si fortis quidem, liberalis autem non, habet autem duorum hoc,
palam quoniam et in leone hoc signum fortitudinis. Est vero naturas cognoscere
in prima quidem figura, eo quod medium priori extremitati convertitur, tertiam
autem transcendit, et non convertitur, ut sit fortitudo A, summitates magnas
habere in quo B, C autem leo; ergo cui C, B omni, sed et aliis, cui autem B, A
omni, et non pluribus, sed; convertitur si autem non, non erit unum unius
signum. Boethius. Boezio. Keywords “Boethian International Society”, Boethianism. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Boezio” – The Swimming-Pool Library.
Bolano (Catania).
Filosofo. Grice: “I was born at Harborne, but there’s no volcano there- Bolano
was born in Catania, and he is especially revered THERE, rather than at Oxford,
because he was able to see some monuments – notably the Naumachia and the
Hippodrome – before it was covered by ‘lava’ –“ –“Oddly, when he philosophised
on rhetoric – he used that as a blurb – many philosophers traveled to Catania
to be tutored by him – vide Salonia --. So he used the blurb of his expertise
on Catania to promote -- or rather his
editor did, since he is a gentleman, and a gentleman does not promote – his
work on rhetoric --.” “There are very few copies of this!” – “And Evola tired
in vain – ‘in vano’ – to find one!” Assai scarse sono le notizie sulla sua
vita. Quel poco che sappiamo viene riassunto nell'opera del Mongitore. Insegna
filosofia a Catania. Uno dei più eminenti esponenti dell'ateneo catanese:
chiamato “philosophiae peritissimus”, acquisce grande fama. Insegna a Palermo
come lettore con il "favoloso stipendio di ottocento onze annue"; Seguace
della tradizione aristotelica. Tipico esempio dell’umanista, unendo l'interessi
per la natura e la filosofia romana antica.
Stampa a Messina un “Opus logicum”, compendio di filosofia aristotelica
e frutto del suo insegnamento logico. Stampa anche di retorica e fisica ed
abbiamo notizie di un saggio naturalistica sull'Etna, il Discorso di
Mongibello. Ma l'opera cui maggiormente è legato è un “Chronicon urbis Catinae”,
in cui ci lascia preziose notizie e descrizioni su Catania e le sue vestigia
storiche prima di una catastrofica eruzione dell'Etna che profondamente ne
cambiò paesaggio, fisionomia ed urbanistica.
Il Chronicon rappresenta un raro esempio di indagine archeologica
diretta su Catania e rimase uno dei pochi lavori utili e seri sulle antichità
della città etnea. Riguarda, tra l'altro, la fondazione di Catania, l'anfi-teatro
romano, l'acquedotto romano, gli archi, il tempio di Cerere, la naumachia, l'ippodromo.
Per questi ultimi due edifici è la prima ed unica fonte a noi rimasta. Carrera
e Grossi attinsero direttamente dal manoscritto, traendone spunto per le loro
opere e pubblicando i pochi frammenti a noi rimasti. Eppure Bolano sube una grave umiliazione. Nell'anno
in cui si perdono le sue tracce, presentatosi a chiedere l'incarico di filosofia
nell'Università dove con onore insegnava da oltre quattri decenni, i filosofi
ecclesiastici lo contrastarono preferendo Riccioli. Il venerando filosofo riottenne
l'insegnamento solo per grazia del viceré Pietro Giron de Osuna, una nomina,
sottolinea Matteo Gaudioso, peggiore di una sconfitta, forse la prima e ultima
umiliazione del Bolano, scomparso successivamente dalla scena. Fu il suo ultimo
anno di insegnamento e forse di vita. Antonino Mongitore, Bibliotheca sicula, sive
de scriptoribus siculis, qui tum vetera, tum recentiora saecula illustrarunt. Storia
della filosofia in Sicilia da'tempi antichi al sec. XIX, libri quattro. Archivio
storico per la Sicilia. Catanense Decachordon..., Catanae. La Sicilia del
Cinquecento: il nazionalismo isolano, Roma, Mursia, Storia della filosofia in
Sicilia da' tempi antichi al sec. XIX, libri quattro. Rivista internazionale di
filosofia del diritto, Giorgio Del Vecchio, Società anonima poligrafica
italiana, Bibliotheca sicula, sive de scriptoribus siculis, qui tum vetera, tum
recentiora saecula illustrarunt
Osservazioni sopra la storia di Catania cavate dalla storia generale di
Sicilia,Vincenzo Cordaro Clarenza Riggio, Sopra uno rudere scoperto in Catania
cenni critici dell'arch. Mario Musumeci, pag. XXX, Mario Musumeci, dalla
tipografia della regia Università, L’indagine archeologica a Catania nel secolo
XVI e lBolano, in Archivio Storico per la Sicilia. Edilizia pubblica e privata
nelle città romane, pag. 94, Lorenzo Quilici, Stefania Quilici Gigli, L'ERMA di
BRETSCHNEIDER, Carrera, Delle Memorie historiche della città di Catania, I,
Catania, Catanense Decachordon, Archivio di Stato di Palermo, Tribunale del R.
Patrimonio, Memoriali. Modelli scientifici e filosofici nella Sicilia. Napoli,
Guida. L'Catania nel secolo XVII, in
Storia della Catania dalle origini ai nostri giorni, Catania, Zuccarello
e Izzi. Delle Memorie historiche della città di Catania, I, Catania. Catanense
Decachordon..., Catinae, Antonino Mongitore, Bibliotheca sicula, sive de
scriptoribus siculis, qui tum vetera, tum recentiora saecula illustrarunt, D.
Bua, Sopra uno rudere scoperto in Catania cenni critici dell'arch. Mario
Musumeci, dalla tipografia della regia Università. Storia della filosofia in
Sicilia da'tempi antichi al sec. XIX, libri quattro, Lauriel, Guido Libertini,
L'indagine archeologica a Catania nel secolo XVI e Bolano in Archivio Storico
per la Sicilia Orientale. Dizionario biografico degli italiani. 0
habmio L'imperatore Carlo V abdicando iltrono (a) lasciava nel re Filippo II
suo figlio un principe intento ad ingrandireil suo impero ed estendere isuoi
domini:I vicerèdisseminati La mente del vescovo Nicolò Caracciolo era rivolta a
liberare la cattedrale di Catania non ASTE Dorp (a) Vel 1556. per
BIOGRAFIA SICILIANA CataniaN.5- LORENZOBolano. Je secolo xvi scorreva per
Catania, , e forse per 1 Europa tutta , se la Sicilia di coltura , non in
iscevro di lustro o mancante tieramente purgatoperò ancora da'tristieffetti del
vandalica e della gotica barbarie , ed la ignoranza discipline mostravansi a
dito. icultoridelle buone le provin cie, e per mezzo de' quali lostato
de'sudditi pre come per 2 ' do stabile o sicuro di quanto operavasi da loro gli
animi di tutti erano irresoluți ed incerti, e Catania,vedevain alloraisuoi
cittadinioccupati soltanto del presente,interessarsi piùdicontese ed intestíni
partiti, che delle scienze e delle lettere. dalla diversi negli umori e nelle
in clinazioni,dgiotvernavanoipopoli con principi se non senza de'Cassinesi, ed
a riporvi in vece i canonici secolari. Il vicerè Lacerda fa diroccare la casa
del la Università degli studi'ed altre abitazioni per in
grandirelapiazzadelduomo.Marcantonio Colon na , successor suo , interpone la
sua autorità a c o n 20 pre ciliare le dispute del vescovo Vincenzo
Coltello colsenato(a).La cortediRomaè costrettaa chiamare ad ubbidienza il
vescovo che acremente contrastava col vicario apostolico Matteo Samiati
(b).Controversielunghe ed ostinaleinsorgono fra'i Catanesi e i Palermitani
ecclesiastici Se in tale condizione ditempi l'Università di Catania fioriva,ciò
debbesi alla sovrana protezione, che riguardar vuolsi per le lettere come il
raggio del sole che vivifica gli esseri e dà movimenti o p portuni al loro
sviluppo. Dietro le favorevoli rap presentanze di Marcantonio Colonna, il re
Filippo volge benigno lo sguardo al liceo catanese,ed il vicerèinterpetre della
sovrana volontà ,in com pensodeldevastamentoordinatodalsuo predeces sore
Lacerda da lui sì discorde , fa costruire un nobile edifizio per la Università,
corrispodente al la magnificenza di Catania(d),e forma i regola menti per gli
studi (e). Filippo provvede di più , p e r m e z z o d e l v i c e r è c o n t
e d i A l b a ( f ), c h e i s o l i laureati in Catania aspirar potessero alle
magistra (a) Ut perpetua jurgiorum semina inter episcopum patresque conscripti
collerentur.Amico, Cat.illustr.,lib. VIII, c. 2. ( Detti Constitutiones Marci
Antonii Columnde, 1576. per patria di s.Agata . I nostri magnati erano
tutti intesi a stabilire la loro sacra congregazione dei Bianchi , a loro
esempio (c) gli altri ceti aumen tano le rispettive confraternite. (b)Denuo
Romam illeinterpellatureorumquaeges serat rationem redditurus . Amico, loc.
cit. $ la 42 (c) Nel 1570 . (a)Ul urbismajestatiresponderet.Amico,loc.cit.
(f,Nel1591. ture: autorizza le ingenti speseche ilvescovo Pro spero
Reibiba,nonlascindosfuggirelefavorevoli disposizioni del governo , impiegava
nel portare a compimento l'edifizio, e non permette che alzasse Messina
un'altra Università (a). Accrescevasi in tal m o d o il n u m e r o dei
discenti in Catania ; e l ' o nore di ammaestrare nella sola Università del re
gno,ed isignificanti stipendidallasovranamuni ficenza aumentati ,
incoraggiavano i dotti a lasciar le brighe volgari, a rivolgersi alla coltura
delle lettere,edasegnalarsi nel pubblico insegnamento. (f Dopo averdettato
questo articolo ho saputo che nellabiblioteca de'PP.Benedettinidi questa città
avvi un esemplare dell'Opus logicum , Messanae 1597. 43 (b) Mongitore,
Bibl, sic. c) Grossis, Dec. ix, 151. Fra gli uomini scienziati che onoravano
illi ceo catanese nel finedel xvi secolodistinguevasi Lorenzo Bolano nato in
Catania circa l'anno 1550. Per più di anni 20 vi fu professore di medicina ( b
), d i c u i a v e a d a t o l e z i o n i a n c h e p r e s s o l ' e s t e r
o ( c ), eresoaveacelebreilsuonomeperlesuecono scenze matematiche ed
anatomiche, e pel gusto nella latina poesia (d ) . Seguendo le aristoteliche
dottrine, volle pnbblicare per le stampe di Brea in Messina un libro di
istituzioni filosofiche sotto il titolo di Opus logicum , ed un altro di
rettorica (e) libri divenuti oramai così rari da non petersi
trovarechineavessenotizie(f).Ma ciavanzanope rò i frammenti di opere più solide
che tanto ap prezzar seppe l'accurato Carrera . (a) Nel settembre del 1595.
Amico, loc. cit., pag, 428. P Amico,Cat.il.,lib.xu,c.v. e
)Mongitore,Bibl.sic. Un Discorso sopraMongibello conteneva la
descrizione fisica di questo vulcano, e la storia di molte sue eruzioni .
Carrera fa rilevare nel capi tolo della sua opera (a)in cui tratta del mont Et
na , aver ricavato da quel discorso quanto riguarda la misura dell'altezza del
vulcano,le sue regioni, la fertilità del suolo , la storia delle sue eruzioni;
e queste doveano dal Balano rapportarsi con som m a esattezza , imperciocchèegli
giungeva a notare anche il tempo in cui l'Etna non eruttava,co me avvenne per
anni trenta dopo la grande eru zione del 1536 , durante la quale , come dice lo
stesso Bolano , formossi quel cratere oggi detto Monte negro .
Selesueideecircala origine degli incendî vulcanici non sono da riferirsi,è
colpadei tempi, in cui limitatissime erano le conoscenze de'feno meni naturali,
e basta il dire chei scriveva nel 1588 . Ma l' Quel pregevole manoscritto
conservavasi sino al1637 inmanideldiluifigliuoloGirolamo Bo Carrera , Notizie
istor.'di Catan.,lib.'11, c. 2. (b) Così dice il Grossis, ilMongitore eco.,ma
l'ab. Amico chiama quelmanoscritto Opusculum de rebus Catanae
.Tom.3,lib.14,42. 44 1 opera che principalmente gli fa meri tare il
rispetto e la riconoscenza de'suoiconcittadini fu quellascritta in latino nel
1592 per illustrare la storia di Catania , e che portava il titolo di Chronicon
urbis Catanae (b);ed abbenchè non fosse stata mai pubblicata per intero,fu
quella p e r ò d a c u i t a n t o g i o v a r o n s i l ' A r c a n g e l o ,
il C a r rera, il Grossis e molti altri che delle notịzie sto riché di
Cataniasi sono occupati. (b) Vetusta Catanae monumenta e lenebris
eruens p r i m u s v u l g a v i t . Amico , o p . c i t ., l i b , X 1 , c a p
. v . mare ilpianodelduomo(d),edaltempiodi Castore e Polluce quelli
presso il nuovo vico, die tro,ilForo lunare.Stimava essere statodiMar cello un
busto marmoreo di squisito lavoro,che conservossi per lunga serie di anni nella
chie as di s. Agata , finchè Ferdinando de Vega non lo regalasseal
chitaristaPietro Murabito da Mes sina (e). La sua descrizione poi
dell'anfiteatro èdistintaed eloqnente,(f)efa conoscere che il luogo ove erasi
fabbricato appellavasi Cam po stesicoreo Restavano sino ai suoi tempi tali
avanzi de'corridori e delle mura circolari, quanto potè misurarsi più dicento
piedi: calcolò cheil diametro dell'arena ascendeva a 290 piedi , ma colle
fabbrichede'corridoja490,coni470piedi di 45 for lano, da cui l'ebbeprestato il
Carrera,come egli stesso confessa (a): e quali cognizioni ne ab bia ricavato
questo storicolaborioso,può ben ve dersi in tutto il corso della sua opera , e
princi palmente ove trattasidegli antichi monumenti. Il Bolano che fu il primo
(b ) a descrivere le antichità catanesi , riconobbe ivestigi del tem piodi
Cerere,fuoril'antica Porta reale pressole müra della città,sulla collinetta
appellataTorre del vescovo,oggi covertadal Bastione deglinfetti (c). Credè
doversi riferire al tempio diBacco li ruderi a fianchi delle terme,oggi
demoliti per (a) Carrera, op. cit., lib. 1, cap. 3, pag.37. (C) Bolano presso
Carrera, lib. 1, pag. 37. (d) O p . c i t ., p a g . 4 9 . (e) Op.cit.,pag.70.
(f) Op. cit., pag. 81 e seg. circonferenza . Le porte della esterna
facciata era no larghe 18 piedi,e doveano essere60 in nu mero ,a 7 piedi
distanti una dall'altra. Con eguale esattezza rapporta le misure del
l'odeo,dettodaluipiccoloteatro,edelgran tea tro (a),da cui furono svelte molte
colonne di marmo, oltre ai materiali tolti per le fabbriche moderne. Situa la
naumachia presso l'antica por ta della decima, e descrive non solole mura ed i
ruderi che esistevano allora,ma dell'uso della naumachia da archelogo
ragiona(b),come fa per ilcontiguo ippodromo (c). Tutti descrive i resti delle
terme che scopri vansi a'suoi tempi in Catania (d),riforisce lemi sure della
fabbrica dell'arco diMarcello,ed ammi ra la solidità del cemento( e) e
l'architettura. Ma sopratutto elegantissima è la descrizione degli acquedotti
che portando le acque soprala collina oveoggièilquartieredelCorso,le
distribuiva no perlacittà;edalcorsodelleacquequelsito trasse il nonne che fin
oggi conserva (f). Zelantissimo il Bolano del vero decoro della sua patria mal
soffiriva il poco conto in che tene vansi que resti del di lei antico splendore.
I cit tadini catanesi , pochissimi eccettuati , in quel t e m
po,comeabbiamoosservato,pocoonulla calco (e) Moles sane calcis ubertate et
aelneorum lapidum concinnitate tamcelebris,utmiraripotiusquam obser vare
debeamus.Loc.cit. 46 (a) Op . cit., pag. 84. (b)Op.cit.,pag.86 (c Op.
cit., pag. 88 (dOp.cit.,pag.93. (1) Op. cit. pag. 99.
(d)Quingentoscirciterannosab Ansgerioepisco po catanensi dirutum est , ut
divae Agathae , comitis Rogerii sumptibus,struerentur aedes:cujus et gratia
theatra ruinam experta sunt. Loc. cit. (e) Columnarum plurimae et concinnati
lapides ab Ansgerio translati sunt omnes,ut decorticatum jure pos sit appellari
theatrum istud . Loc. cit. 47 lar potevanoil valore di sì veneranda
antichità: e l'arco di Marcello dopo il tremuoto del 1633 soffriva la ultima
sua rovina per la fabbrica della chiesa di s. Caterina , poi confraternita de'
Bian chi.Le pietreintagliatedell'anfiteatroedelteatro servirono al vescovo
Angerio per la costruzione del duomo (a) , ed il resto impiegossi in appres so
alla fabbrica delle cortine delle muraglie (b).Il duomo stesso alzavasiin gran
parte sopra antiche terme: sull'anfiteatro ergeansi chiese ed abitazioni di
privati,come ugualmente sopra la scena ed i corridori del teatro . I
Assisoeglisu'ruderidiqueigloriosimonu menti, simileal franco viaggiatorea
vistadelle rovine di Palmira, meditava a quale insultante di menticanza
condannavali il tempo, (c) , come egli contentasididire,pernon
urtardifronte,iocre do , la ignoranza e la barbarie : e da pertutto nel lasuaopera,fatralucere
ilsuorammarico,quan do parladelteatro(d)e dell'anfiteatro(e). (a)Nel 1094 (b)
Nel 1553 . Scorgesi nel dilui manoscritto la grande ac curatezzache egliusava
nelleosservazioni,ela diligenza nelle misure . Animirando la maestà di quegli
avanzi scriveva quasi entusiastato , par che (c) Quae sola temporisdiuturnitate
sunt perpeluae oblivioni tradita. Op. cit., lib. 1, pag. 109 , L la
lingua prestavasi allora, al suo genio , e lo stile d e l s u o C h r o n i c o
n f a i n c e r t o m o d o a m m i r a r s i ( a ). LIR. Nè ilsuo zelo per la
patria limitato erasól tanto a mettere in luce ladi leianticagloria; Bolano lo
estendeva a tutta possa alla di lei effet tiva prosperità nell'.
vistadeipositivi dannicherecavanoallasalutepub blica le acque dell'Amenano ,
raccoltenell'antica Piazza dell'erbe,perusodialcunimuliniiyisesi
stenti,caldeistanzeavanzòalsenato onde:toglie re quel fomite d'infette
esalazioni, e seppe tanto insistere colla sua medica autorità,cheriuscita
diroccareimuliniedar,liberocorso alleacqueper appositi canali sino al mare ( b
) . Charts ! Tutto misein opera in fineonde ricostruisse Catania il suo molo .
U n ragionato discorso scris sealsenato,incuifeconoscerecomeperlamu mficenza
del re Alfonso il magnanimo la fabbrica del molo erasi cominciata ip.Catanianel
1452 , che si era dell'opera desistito alla morte diquel 48 i fundiores
ductus concinnatis lapidibus confectosaqua maredelata,atqueomniperniciosa
humiditatesublata. Op. cit.,'lib 2. cap. 1, intero (a)Non sarà fuor diluogo ilrapportare'per
quel passo ove il Bolano parla della magnificenza di G a t a n j a 'n e l l ' a
v e r t r a s p o r t a t o d a L i c o d i a l e a c q u e i n c i t t à :
<e.Hinc mirari non desino priscam illam urbis rosirae majestatem pene
incredibilem , quae tot pariter quot h o die insignita fontibus ac putealibus
aquis BE op A ,refertissima, effatudignissimissumptibus aquamhanc eLicodia,
milliaribus sexdecim distantem , qua Naumachiąm et Thermescompleret,domos
pariteretdetergeretet or, naret est emerita, ut qui et situ ei climale pro
studiorum domicilio purissimusaer est defecatus,insuper in cię vium columitatem
vel arte eficeretur : cit. ad Se la memoria
degl'illustritrapassatiservir debbedi modello alla condotta de'viventi,Loren zo
Bolanoèuno diqueipochi alcertocheimitar dovrebbonsi da'veri
cittadini:imperciocchè einon giovossi delle scienze per sola coliura del súd
spi rito,ma curò dirivolgerle ad utilepubblico,e efece onore alla
patriamettendo in luce imonu menti del di lei antico splendore : diè opera onde
cessassero i fomiti che il puro aere ne infettavano, e procurò, per quanto
valevano le sue forze, che ampie ricchezze ritraese Cataniadalcommerciom a
Prof. CARLO GEMMELLARO . b) 41, at titis (a) Quippequipro
statuendamolenihil'non'ani madvertit utile et commodum publicis civitatum et'op
pidorum adjacentium sumptibus pro publiciaeris copia
struendumregiapotestatepraecepit.Mortepraeventus suo tempore exorsus non
perfecie.Posteri vero pelfucata
negotiidificultateperterriti,velreimomentum"tam ada mirabilenon
agnoscentesaversiprimordiorumruinam nonrepararunt.Op.cit.lib.1.c.38.!.:!! >
í(6)Nel160o,poinel16obecc.)!. Opus
logicum Laurentii Bolani Siculi Catanensis philosophiae, ac medicinae
professoris candidissimi, nec non in almo studio vrbis Catinæ lectoris
celeberrimi. In quo scientias cum callentibus, tum adepturis necessaria
duntaxat, ex Aristotelis vberrimo fonte recepta breuiter, ac peripatetice
traduntur -- OPVS LOGICVM LAVRENTII
BOLANI SICVLI CATANENSIS PHILOSOPHII
CANDIDISSIMI NEC NON IN ALMO STVDIO
VRBIS CATINÆ CELEBERRIMI IN QVO
SCIENTIAS CVM CALLENTIBVS TVM ADEPTVRIS
NECESSARIA DVNTAXAT EX ARISTOTELIS
VBERRIMO FONTE RECEPTA PERIPATETICE
TRADVNTVR OPVS LOGICVM LAVRENTII
BOLANI SICVLI CATANENSIS PHILOSOPHII CANDIDISSIMI NEC NON IN ALMO
STVDIO VRBIS CATINÆ CELEBERRIMI IN QVO SCIENTIAS CVM CALLENTIBVS TVM
ADEPTVRIS NECESSARIA DVNTAXAT EX ARISTOTELIS VBERRIMO FONTE
RECEPTA PERIPATETICE TRADVNTVR Bolani Laur., cat. Opus logicum. Mess.1597 in 8. Quatuor
volumina. videlicet Metaphysica, Naluralis Philosophia, Praedicamenta, nec non
Theologia Naturalis.Ven.1505 in fol. OPVS LOGICVM LAVRENTII BOLANI SICVLI
CATANENSIS PHILOSOPHII CANDIDISSIMI NEC NON IN ALMO STVDIO VRBIS CATINÆ
CELEBERRIMI IN QVO SCIENTIAS CVM CALLENTIBVS TVM ADEPTVRIS NECESSARIA DVNTAXAT
EX ARISTOTELIS VBERRIMO FONTE RECEPTA PERIPATETICE TRADVNTVROpus logicum
Laurentii Bolani Siculi Catanensis philosophiae, ac medicinae professoris candidissimi,
nec non in almo studio vrbis Catinæ lectoris celeberrimi. In quo scientias cum
callentibus, tum adepturis necessaria duntaxat, ex Aristotelis vberrimo fonte
recepta breuiter, ac peripatetice traduntur
Lorenzo Bolano. Keywords: i romani a
Sicilia – sicilia regione dell’impero romano, filosofia romana antica –
filosofia romana nella monarchia; filosofia romana nella repubblica, filosofia
romana nell’impero. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bolano” – The Swimming-Pool
Library.
Bonatelli (Iseo). Filosofo. Grice:
“Bonatelli is undoubtedly a Griceian – like me, he merges psychologia –
‘psychologia rationalis or metaphysica’ as he puts it – with logic -. He makes
fun of ‘inglese,’ which by lacking inflections, disallows complex thought – He
distinguishes, in ways the Oxonian really cannot – unless he is into ‘Italian
studies’! – between ‘linguaggio,’ and THEN ‘’lingua.’” Grice: “Within the
lingua he distinguishes a primary stage which he genially calls ‘patognomico,’
or pathognomic, as Strawson would prefer, i. e. to ‘know the emotion’ of your
co-conversationalist – Italians never take ‘conoscere’ as sacred as we at
Oxford take ‘know’ – He considers the copula in something like “Fido is
shaggy,” there is the ‘nome’ – and within it the ‘nome aggetivo’ – this he
says, and rightly so, is the stuff of ‘il filosofo delle lingue’ – and the
copola which is the ‘is.’ He grants that he’ll only be concerned with lingua of
‘cepo indeuropeo,’ literally ‘indo-germanic vintage’!” – Grice: “Bonatelli is a
Griceian because he is into ‘significato’ – how an utterance becomes a vehicle
by which an utterer can SIGNIFY – il segno patognomico, as it were --.” Grice:
“Like me, he allows for ‘utter’ to be used broadly – ‘sordomuti’ have a
‘linguaggio di gesti e moti’ as ‘signo patognomico.’” Figlio di Filippo (n.
1789m. 1844), -- un commissario distrettuale al servizio del governo austriaco
-- e da Elisabetta Bocchi. Si trasferì a Chiari per compiere gli studi
ginnasiali presso uno zio materno: il canonico Annibale Bocchi. In questo
periodo studiò con Carlo Varisco, che, in seguito, diverrà suo cognato. Il
Varisco, infatti, sposò Giulia, sorella del Bobatelli e, dopo la morte di
questa, convolò a seconde nozze con un'altra sorella del Bonatelli:
Laura. Dall'unione fra Carlo e Giulia nacque Bernardino Varisco, insigne
filosofo anch'egli, e senatore del Regno d'Italia. Terminato il ginnasio,
proseguì gli studi a Brescia, frequentando il locale liceo, ed iniziando
precocemente l'attività didattica presso il Liceo Classico Arnaldo. Nel
frattempo si rese protagonista del grande fermento politico della sua
epoca. Troviamo conferma del suo fervente patriottismo in ciò che ne
scrisse Michele Rosi nel “Dizionario del Risorgimento nazionale” del
1937: «Venuti i tempi nuovi, ebbe incarico di istruire gli ufficiali
della guardia nazionale; continuando nello stesso tempo nel proprio
insegnamento, cercò di suscitare nell'animo dei giovani i più fervidi
sentimenti patriottici. Per questo cadde in sospetto della polizia austriaca,
alla quale sfuggì (…) in Svizzera». Rientrato in patria, nel 1849,
ottenne l'abilitazione all'insegnamento della filosofia, della matematica e
della fisica, che alternò tra Milano, presso l'istituto ginnasiale “Sorre”, e
Chiari. La sua prima pubblicazione, di interesse psicologico, risale al
1852, ed ha titolo “Sulla sensazione”. Nel 1853 si unì in matrimonio con
Laura Formenti. Nel medesimo anno, venne privato del posto di lavoro per
motivi politici. Per riottenere l'ammissione all'insegnamento, dovette
avvalersi dell'intercessione della nobildonna e benefattrice clarense, Ottavia
Bettolini, col maresciallo Josef Radetzky- In cambio di questa concessione,
avvenuta soltanto nel 1855, il governo austriaco gli impose di seguire un corso
di studi superiori a Vienna, che abbandonò forzatamente soltanto qualche mese
dopo, essendosi ammalato di tifo. Fu durante questa breve esperienza che
il Bonatelli venne in contatto coi maggiori esponenti della filosofia tedesca,
da cui rimase profondamente influenzato. Resta incerto se, nella capitale
austriaca, conseguì o meno la laurea, come ipotizzato da alcuni autori (Giulio
Alliney, “BONATELLI”, Brescia, La Scuola, 1947). Nel 1858 insegnò presso
il liceo di Mantova, dove rimase fino al Giugno '59, dopo lo scoppio della
Seconda Guerra d'Indipendenza, quando quella città fu messa in stato
d'assedio. Le imprese guerresche del sovrano sabaudo, supportato da francesi
e volontari garibaldini, vennero celebrate dal B. con la composizione di un
carme: “Il servaggio e la liberazione”, scritto a Chiari il 13 agosto 1859, con
dedica a Vittorio Emanuele II. Successivamente, l'attività didattica del
B. proseguì al liceo di Brescia (1859-60) ed al Carmine di Torino sino al 1861,
anno in cui si trasferì a Bologna per insegnare filosofia teoretica, nonostante
avesse appena vinto un concorso presso l'Genova che gli avrebbe permesso di
ricoprire la stessa cattedra. Nell'ateneo felsineo, il B. ebbe modo di
conoscere Giosuè Carducci, che vi era professore di Letteratura Italiana.
Lo stretto legame fra i due cattedratici è testimoniato da una ventina di
lettere, scritte fra il 1862 ed il 1881, conservate nell'archivio della Casa
Carducci di Bologna. Gli anni trascorsi a Bologna furono particolarmente
proficui per l'elaborazione del pensiero filosofico del Bonatelli: nacque
allora una delle sue opere principali, “Pensiero e conoscenza”, pubblicata nel
1864. Nel dicembre 1867, il B. passò alla cattedra di filosofia teoretica
dell'Padova; impiego che manterrà fino alla morte. Nell'ateneo lombardo
ebbe diversi incarichi, fra cui quello di insegnare filosofia della storia (dal
1878 al 1910) e di tenere per qualche anno i corsi di antropologia, pedagogia e
storia della filosofia. Divenne anche preside della facoltà di lettere e
filosofia. A Padova scrisse la sua opera maggiore: “La coscienza e il
meccanesimo interiore”, nel 1872. La fama del B. iniziò negli anni '70,
specialmente negli ambienti del “platonismo” legati a Terenzio Mamiani,
ottenendo anche ruoli di alto prestigio al di fuori della propria attività
didattica. Fu membro del comitato di redazione del periodico “La
filosofia delle scuole italiane”, fondato dal Mamiani nel ‘69; posizione che
mantenne fino al 1874, quando rassegnò le proprie dimissioni in seguito alla
pubblicazione di alcuni articoli del filosofo Giovanni Maria Bertini che,
contenendo aspre critiche al cattolicesimo, urtavano con le sue solide
convinzioni religiose. Nonostante ciò, il B. proseguì la propria collaborazione
con la rivista, curandone la rubrica “Conversazioni filosofiche” dal 1870 al
1872. Il 18 aprile 1880 fu nominato socio corrispondente nazionale
dell'Accademia dei Lincei per la classe di Scienze morali, storiche e
filologiche; mentre, il 5 febbraio 1882 divenne socio corrispondente della
Reale Accademia delle Scienze di Torino, nella sezione di Scienze
filosofiche. Nell'ultimo decennio del secolo XIX pubblicò un altro saggio
importante: “Percezione e pensiero”. Bonatelli fu anche un brillante
verseggiatore ed autore di alcune pregevoli opere letterarie, fra cui: il carme
“In morte di Tommaso Grossi” (Milano, 1853), il poemetto “Alfredo” (Lodi,
1856), il carme precedentemente menzionato “Il servaggio e la liberazione”
(Brescia, 1860) e numerose composizioni in lingua dialettale. Il filosofo
Giovanni Gentile ne lodò le doti letterarie, apprezzando la forma netta e quasi
sempre precisa della sua espressione ed il linguaggio vivo ed immaginoso; affermando
addirittura che gli scritti del Bonatelli potranno essere sempre cercati e
letti con profitto. (G. Gentile, “La filosofia in Italia dopo il 1850”, su “La
Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia diretta da B. Croce” n.
533, 1907). Inoltre, non esitò ad esporre il proprio pensiero su
tematiche politiche d'attualità. Ricordiamo, a proposito, due saggi sulla
possibilità di allargamento del diritto di voto: “Intorno al fondamento
naturale del diritto di voto” (Padova; Tip. Rendi, 1882) ed “Intorno al diritto
elettorale” (Atti del Reale Istituto veneto di scienze, lettere ed arti;
1897). Con l'avanzare dell'età, si manifestò inevitabilmente qualche
acciacco fisico, che egli accolse stoicamente, confortato da una fede sincera e
tenace. È significativo quanto scrisse al nipote Bernardino Varisco, in
una lettera datata 25 Gen. 1906. «Carissimo Dino, l'aver io tardato
a congratularmi teco della riuscita non deriva certo dall'essermene io poco
rallegrato, bensì dal cumulo di noie, di pensieri, di tribolazioni che ora più
che mai m'è piombato addosso e che quasi mi schiaccia. Non entro nei
particolari, perché a cosa servirebbe? […] Basta, [sia] quello che Dio
vuole!». (Massimo Ferrari, “Lettere a Bernardino Varisco (18671931)”77, La
Nuova Italia, Firenze, 1982). Malgrado ciò, il filoso d'Iseo proseguì
l'attività di docente ed accademico anche nei primi anni del '900, senza
affatto abbandonare l'indagine speculativa, grazie ad una lucidità mentale che
mai lo abbandonò, dedicando i suoi ultimi sforzi alla traduzione del primo
volume dell'opera “Microcosmo” di Hermann Lotze, che sarà pubblicato
postumo. Morì il 13 maggio 1911, a Padova, all'età di 81 anni. Aveva
insegnato fino a due giorni precedenti alla morte. Le sue spoglie mortali
riposano nel piccolo cimitero di Longiano (FC), dove furono traslate da Padova,
negli anni '80 del secolo scorso, per volontà del nipote Gualtiero.
Pensiero Filosofo spiritualista, Pose al centro della sua speculazione l'uomo e
ne difese la spiritualità contro il positivismo materialista. Sulla scia di
Hermann Lotze valorizzò il sentimento e pose in esso la principale rivelazione dell'essere
per mezzo del giudizio di valore. La psicologia e la logica furono sempre
risguar date o come parte integrante della filosofia o almeno come una
preparazione essenziale allo studio di questa. E in vero essendo la filosofia
la ricerca dei fon damenti ultimi d'ogni cosa conoscibile all' uomo e una tale
ricerca suddividendosi in due grandi rami, che sono l'uno l'inves jigazione de'
supremi prin cipii dell'essere e l'altro quella dei supremi prin cipii del
conoscere, questa seconda parte della filo sofia domanda necessariamente lo
studio del sub bietto conoscente e della funzione conoscitiva, cioè la
psicologia, e lo studio delle forme e delle leggi della conoscenza, cioè la
logica. Ecco perchè al breve trattato che precede si fanno qui seguire questi
elementi di logica. 264 1 La logica poi differisce essenzialmente dalla
psicologia per questo, che mentre la seconda studia il fatto del pensare e del
conoscere ( oltre agli altri fatti interni o psichici) come
effettivam ente avviene, la logica in cambio studia le norme secondo le
quali deve essere conformato e diretto, perchè rag giunga il fine dell'attività
conoscitiva che è il pos sesso della verità. Essa quindi è una scienza nor
mativa o precettiva e potrebbe non male definirsi la scienza delle forme del
pensiero in quanto sono ordinate alla conoscenza. La verità, oggetto della
conoscenza, è di tre ma niere : a ) verità materiale, cioè la conformità del
pensiero con la cosa a cui si riferisce ; b ) verità formale, che è l'armonia
del pensiero con se stesso ; c ) verità melafisica o ideale od obbietliva in
senso as soluto, che è l'intrinseca ragionevolezza degli esseri o delle essenze
. La seconda, cioè la formale, è l'ob bietto speciale della logica ed è una
condizione necessaria, sebbene non sufficiente, anche della prima. In quanto
alla verità nel terzo significato, ella, come s'è visto, riguarda più presto
l'essere che non il pensiero ; ma il pensiero è pensiero razio nale solo a
condizione di partecipare a quella. La logica, secondo alcuni , è scienza
puramente forinale cioè considera esclusivamente la forma del pensiero che è
quanto dire il modo in cui gli ele menti di questo sono tra loro combinati) ;
secondo altri essa è anche materiale, cioè risguarda anche la contenenza del
pensiero. 265 Senza discutere qui una tal questione assai sottile e intricata
noi ossserveremo : 1. ° Che una logica strettamente formale è possibile, benchè
così se ne restringa il campo e si debbano lasciare insoluti de' problemi
ch'essa medesima solleva. In questo campo ella è scienza rigorosamente esatta e
offre delle affinità colla matematica. • 2.º Che a voler trattare a fondo le
questioni logiche , è mestieri entrare in attinenze del pen siero, che
oltrepassano la pura forma e toccano da una parte alla psicologia dall'altra
alla metafisica. Il pensiero poi , oltre alle forme logiche, ne ha delle altre
che si riferiscono vuoi all ' esercizio dell'attività pensante ( forme
psicologiche) , vuoi al sentimento del bello ( forme estetiche ) , vuoi al
l'espressione del pensiero per mezzo della parola ( forme grammaticali e
retoriche) . Tutte queste non riguardano la logica ; ma le psicologiche e le
grammaticali hanno colle logiche delle attinenze strettissime. Il valore della
logica è doppio ; cioè essa ha in primo luogo un valore assoluto in quanto è un
complesso sistematico di verità, una scienza per sé stante ; poi ha un valore
relativo in quanto serve a dirigere il pensiero e gli addita le norme, a cui
deve conformarsi se vuol raggiungere il suo fine. Il primo è nn valore
puramente teoretico , il secondo è un valore pratico e in questo senso la
logica chiamasi anche arte del pensiero. 266 Le parti principali della logica
si possono ri durre a due, che sono 1.º il trattato delle forme logiche
elementari , cioè del concetto , del giudizio e del raziocinio ; 2.º la
metodologia logica ossia. l'applicazione delle forme logiche a ' fini speciali
delle scienze . Questo manualetto si circoscrive quasi unica mente alla parte
prima ; per la seconda dovremo contentarci di qualche breve cenno. SEZIONE
PRIMA CAPITOLO I. Del concetto Il pensare , come funzione conoscitiva, è sem
pre un giudicare (come s'è veduto nella psicolo gia) ; quindi la sua forma
primitiva è il giudizio . Perciò il concetto , come forma del pensiero , nonché
şia anteriore al giudizio, lo presuppone . Onde, con formemente alle dottrine
esposte nella parte psicolo gica ( 1 ) , s ' ha a stimar falsa l'opinione di quelli
che considerano il concetto come una rappresenta zione generale ; prima perchè
una rappresentazione non può esser mai generale, poi perchè il concetto si
compone di giudizi e questi non si possono in verun modo ridurre a
rappresentazioni. Il concetto, psicologicamente considerato, è un sistema di
giu dizi reso fisso , la cui unità solitamente è legata a un
vocabolo o ad una espressione equivalente 2 ). ( 1 ) Cf. Sez. prima, cap . XX e
XXIII. ( 2) Di qui lo sforzo delle lingue per foggiare nomi composti, come
ferrovia , cromolitografia, Strafrecht ( diritto penale) ecc. 268
Obbiettivamente poi il concetto è l'essenza della cosa, che in esso si pensa, o
vogliam dire la cosa in quanto pensabile. Ma per la logica il concetto è un
tutt' insieme di più determinazioni o note . Conviene per altro che le note
(caratteri) ineriscano a qualche cosa , di cui siano note e questo substratum
si può chia mare la sostanza logica del concetto ; questa è sempre presupposta
in ogni concetto , quando sia considerato in sè e come per sè stante (1) . Per
altro il concetto, benchè sia un prodotto del pensiero e non della sensibilità,
ha bisogno di un elemento rappresentabile (sensibile) a cui s'ap poggi . A
questo fine servono principalmente quelle rappresentazioni sommarie, che abbiamo
chiamato schemi fantastici (2) , e la parola ; talvolta la sola parola. Ci sono
poi nelle nostre rappresentazioni, di qualunque specie sieno , delle relazioni
le quali alla lor volta si riflettono nelle relazioni intrinseche dei concetti
. Tra codeste relazioni principalissime sono quelle d'omogeneità e
d'eterogeneità. Le rappre sentazioni omogenee formano generalmente una scala di
disgiunzione, ossia una serie ordinata, in cui la differenza va aumentando
dall'uno all'altro termine . Le rappresentazioni omogenee (disgiunte) ( 1 )
Sostantivamente e non aggettivamente direbbe la gram matica. (2) Cf.
Psicologia, Sez. prima, cap . XVI. 269 non si escludono non solo le une dalle
altre, ma possono nemmeuo inerire a un tertium quid identico ; le eterogenee o
disparate, com'anco si chiamano, non possono immedesimarsi tra loro , ma ben
pos sono inerire simultaneamente a una stessa cosa. Per quanto si proceda
innanzi nel cercare la ragione delle differenze tra le rappresentazioni, non si
può fare a meno d'arrestarsi finalmente davanti a delle differenze originarie,
di cui non si può ren dere altra ragione se non il fatto. Il concetto è
logicamente perfetto quando tut tociò che in esso si pensa armonizza seco
stesso ; ma sotto il rispetto epistemologico ed obbiettivo il concetto per
essere perfetto deve adeguare piena mente la cosa, cioè quel quid qualsiasi a
cui si ri ferisce. Ciò non si avvera quasi mai in senso asso luto per l'uomo,
anzi nella più parte de' casi i nostri concetti sono molto inadeguati . E qui vuolsi
notare un equivoco, in cui spesso si cade per non aver distinto il concetto, in
quanto è da noi effet tivamente pensato, dal concetto nella sua perfezione
obbiettiva. Perocchè inteso in quest'ultimo signifi cato esso contiene già
tutte le sue determinazioni e non è suscettivo di svolgimento e di perfeziona
mento . Le qualità che il concetto deve possedere per accostarsi alla sua
perfezione sono : 1.° la determinalezza. Se questa manca, esso è un frammento,
un abozzo di concetto, non un con cetto compiuto. La determinatezza poi
contiene 270 1 1 anche la chiarezza e la perspicuità ; la prima ri chiede che
il concetto sia pensato in modo che si possa distinguere da ogni altro ; la
seconda si ot tiene quando si distinguono perfettamente tra loro i suoi elementi
e questi sono pensati nelle loro vere relazioni. 2.° L'universalità . E questa
è di due maniere , cioè il concetto deve essere valido per tutti i pen santi e
deve potersi applicare a tutti gli oggetti , che cadono entro il suo àmbito.
3.0 L'armonia ossia l'intrinseca congruenza ; la quale sotto l'aspetto negativo
è l'assenza d'ogni contraddizione tra le parti del concetto , sotto l'aspet to
positivo è la reciproca esigenza, il mutuo lega me delle parti stesse.
Osservazione: -- Dall'universalità del concettto deriva ancora la sua
indipendenza dal tempo ; onde si può dire immutabile ed eterno ( estra
-temporario ). Nè a ciò osta punto se la materia del concetto sia per natura
sua mutabile e soggetta al tempo. Il concetto di cosa che muta e passa, anche di
ciò che ha l'esistenza appena d'un istante ( p . es. della vita umana, del
temporale, dalla caduta dei corpi, ecc . ) non muta e non passa, anzi, è
eternamente identico a se stesso . - 271 CAPITOLO II . . Comprensione ed
estensione del concetto ; astrazione e determinazione Il concetto, come di
sopra notammo, conside rato logicamente è l'unione di più determinazioni o
note, le quali ineriscono a quella che fu detta sostanza logica del concetto .
Si vedrà più innanzi che cosa sia e quel che importi codesta sostanza logica ;
qui si osservi che essa pure può essere con siderata come una nota o un gruppo
di note, on dechè il concetto si potrà risguardare come l'in - sieme di tutte
le sue note . Ora il complesso di tutte le note d'un concetto costituisce quella
che chia masi comprensione o tenore o contenenza del con . cetto stesso .
Siccome poi un concetto si può pensare come determinazione di altri ( siano
concetti , siano en tità quali si vogliano, per. es . il concetto mammi fero è
determinazione de' concetti : cavallo , cane, topo, ecc. e cosi dei singoli
cavalli, cani ecc. ) , l'in sieme di tuttoció, di cui quel concetto è una de
terminazione, forma ciò che chiamasi estensione o sfera o ámbito del concetto
medesimo . Così, posto che il concetto A riunisca in se soltanto le note a, b,
c, queste nella loro totalità formeranno la comprensione di A. Se poi A è una
272 determinazione di in , n , pe nulla più, la totalità m , n , p, costituirà
l'estensione di A. A significare il rapporto, che collega tra di loro le parti
della comprensione ossiano le note di un concetto, si suole usare il simbolo
algebrico della moltiplicazione ; onde comprensione di A = axbxc, o abc. Il
rapporto invece delle parti dell' estensione tra di loro suolsi esprimere col
simbolo dell'addi zione, onde estensione di A = m + n + p , E non a torto,
perchè come nella moltiplica zione ogni fattore moltiplica tutti gli altri ,
così ogni nota determina l'insieme di tutte le altre ; mentre le parti
dell'estensione si escludono tra di loro, come gli addendi, e sommate insieme
costi tuiscono il tutto. Questa relazione, che corre tra le note del concetto,
fu da molti disconosciuta e se ne accusò la logica, quasi essa pretenda ridurre
i concetti più differenti tra di loro a un tipo unico, ignorando anzi
cancellando le attinenze molto più essenziali che in ciascun concetto ne
collegano tra di loro i vari elementi. Ma a torto, perchè non tutti gli ele
menti, che entrano a comporre un concetto, possono per ciò dirsi note di
questo. Nota veramente non 273 - è se non ciò che può legittimamente applicarsi
a un concetto come un suo predicato . (Così p. es . nel concetto di triangolo
entra senza fallo anche l'idea della linea ; ma siccome non può dirsi : il
triangolo è una linea, così linea non è nota di triungolo. Il medesimo dicasi
del numero tre). Ciò che entra in un concetto e non è nota di esso, sarà
elemento d'una sua nota ; elemento che per costituire que sta nota deve essere
pensato in certe speciali rela zioni con altri elementi ; ma queste non sono re
lazioni logiche e appartengono alla materia, non alla forma logica del
concetto. Se da un concetto si toglie qualche nota ( o, a , parlar più
propriamente, se nel pensare un concetto si esclude dal nostro sguardo mentale
qualche nota) questo processo si chiama astrazione. Il processo contrario, che
consiste nell'aggiungere qualche nota a un concetto, prende il nome di
determina zione, L'astrazione poi può essere di due maniere, ascendente o
verticale l ' una, laterale od orizzon tale l ' altra . La prima si fa quando
si tien fermo il concetto nella sua parte sostanziale e si abban dona una o più
note del medesimo ( 1 ) . Per es , dato il concetto animale vertebrato
mammifero, si lascia ( 1 ) La locuzione propria in tal caso è astrarre da, Nel
l'esempio addotto di sopra si dirà : astraggo dal carattere mammifero. 18 274
da parte la nota mammifero e si mantiene il con cetto animale vertebrato. La
seconda si effettua ritenendo del concetto dato una nota ( o un gruppo di note)
, che viene cosi a costituire un nuovo con cetto , e lasciando andare tutto il
resto . Per ciò fare è d'uopo comporre alla nota che si astrae una nuova
sostanza logica ( 1 ) . Ad es . dato il concetto giglio, io ritengo la nota
bianco e abbandono il rimanente ; qui il nuovo concetto non avrà più per
sostanza logica fiore, ma colore o qualità. La determinazione è il processo
contrario , come s'è veduto ; ma di regola si contrappone non all ' astrazione
orizzontale , bensì alla verticale. Per essa da un concetto più generico, cioè
di minor comprensione, se ne forma uno meno generico os sia di maggiore
comprensione, aggiungendovi col pensiero qualche nuova nota. Per es. se al
concetto governo io aggiungo il carattere costituzionale, for mando così il
nuovo concetto meno generale go verno costituzionale, ho eseguito
quell'operazione che dicesi determinazione. Tale aggiunta di nuove note non è
del resto arbitraria del tutto ; occorre che il carattere aggiunto sia
compatibile colla sostanza logica del concetto dato e col resto de'suoi
elementi . Per es . non si potrà aggiungere al concetto triangolo la nota
quadrilatero, al concetto virtù la nota verde, ( 1 ) In questo caso si usa il
verbo astrarre transitiva mente. Nell'esempio di sopra : astraggo la
bianchezza. 275 ecc . Donde si vede che la determinazione, per esser valida,
presuppone la conoscenza della materia del concetto e della reale dipendenza
de' suoi elementi tra di loro ; criteri che la logica formale è impo tente a
somministrare. É poi chiaro che per l'astrazione ascendente si impicciolisce la
compressione e con ciò si au menta l'estensione del concetto ; all'incontro per
la determinazione si accresce la comprensione e si diminuisce l'estensione .
Questo rapporto tra le estensioni e le compren sioni di due concetti , l'uno
più l'altro meno astratto, si esprime dicendo , che la comprensione e l'esten
sione stanno tra di loro in ragione inversa . Rap porto il quale perciò suppone
che i due o più con cetti , che si considerano, appartengano allo stesso tronco
ossia abbiano la stessa sostanza logica, in altri termini. appartengano alla
medesima categoria. Di qui ci nasce il bisogno di considerare bre vemente che
cosa s'intenda in logica per categoria. I concetti , considerati puramente
sotto il ri . spetto della forma logica, si distinguono tra di loro solamente
per la ricchezza maggiore o minore della comprensione e per la maggiore o
minore am piezza dell' estensione, che è quanto dire pel vario grado della loro
generalità e particolarità. Pure ci sono delle differenze fondamentali tra i
concetti, che non si possono trascurare, sebbene propriamente riguardino più la
materia loro che non la forma. Tali differenze vengono espresse anche 276 dal
linguaggio (1) colla differente forma dei voca boli, significandosi per es.gli
oggetti concreti in dividuali coi nomi propri, le classi di questi co'nomi
comuni, le qualità cogli aggettivi, le azioni co' verbi e cosi via. Di qui i
tentativi tante volte rinnovati per determinare le specie originarie de
concetti os . siano le categorie. I più famosi tra codesti tenta tivi furono
quello d'Aristotele fra gli antichi e del Kant fra i moderni. Le categorie
aristoteliche sono dieci : oủoia (che contiene un' ambiguità, potendosi
tradurre per so stanza e per essenza ), nogóv ( quantità), nolóv (qua lità)
noóo ti ( relazione , noú ( il dove) , noté (il quando) , nemogai ( la
giacitura) , èzelV ( l'avere, l ' abitus), TOLETV ( azione), náoxelv (passione)
. In quanto alle categorie kantiane si noti che esprimono più presto le forme
generali a priori, sotto le quali la nostra intelligenza è , necessitata a
pensare qualunque dato ( stando alla teoria del Kant) che non le specie supreme
dei concetti . Esse sono dodici , ripartite a tre a tre sotto quattro dif
ferenti rispetti . Eccone il quadro : secondo la quantità Unità Pluralità
Totalità secondo la secondo la secondo la qualità relazione modalità Realtà
Sostanzialità Possibilità Limitazione Causalità Esistenza Negazione Az.
reciproca Necessità ( 1) Parliamo qui delle lingue del ceppo indoeuropeo, &
cui appartengono le classiche e quasi tutte le moderne europee. · 277 Il Kant
le dedusse dalle varie forme del giu dizio, come apparirà della trattazione di
queste. Ad Aristotele le sue furono suggerite dall'analisi delle forme
grammaticali della lingua. Le categorie aristoteliche possono comodamen te
ridursi alle quattro seguenti : 1.0 Sostanza. 2.º Proprietà ( che comprende la
qualità e la quantità) . 3. Stato ( che comprende la giacitura, l'abito, il
fare, il patire) . 4.° Relazione (che compende il n1980 ti, il luogo, e il
tempo) . Finalmente alcuni le ridussero tutte a due ; sostanza e accidente. E
qui voglionsi notare due cose, ciò sono : 1. Che la categoria costituisce
propriamente quel che abbiamo chiamato sostanza logica o tronco del concetto,
dimodochè levando via coll'astrazione ascendente tutte le note d'un concetto,
quello che resta sarà in ogni caso una delle categorie. 2.º Che il nostro
pensiero, pe ' suoi fini parti colari, usa sovente spostare la categoria
de'concetti , concependo per es. una qualità quasi fosse una so stanza oppure
un'azione, una relazione come qua lità ecc. L'astrazione orizzontale di solito
implica uno spostamento di categoria. Di qui i così detti nomi astratti della
grammatica, come bianchezza dall'aggettivo bianco, conoscenza del verbo cono
scere, ecc. Del resto non sempre quando una pa 278 rola muta la categoria
grammaticale ( facendo per es . d'un verbo un sostantivo, d'un aggettivo un
verbo, ecc. ) si muta veramente anche la categoria logica. S'è creduto da molti
che tutti i concetti po tessero essere così distribuiti o ordinati tra loro,
salendo via via dagli infimi ( più concreti e parti colari ) ai superiori ( più
astratti o generali) e da questi a uno supremo, che venissero a formare quasi
una piramide appuntantesi in codesto concetto su premo . Ma questo a rigore è
impossibile, perocchè: 1.0 Dato il concetto supremo ( che indicheremo con A) ,
donde si avrebbero le differenze che occor rono a costruire i concetti
inferiori ? Poniamo in fatti che il concetto supremo A si divida in due, M ed
N. In tal caso M dovrebbe essere A più una differenza d, N sarebbe = A più una
differenza d' . Ma ded dunque non contengono la nota A ; dunque sono concetti
anch'essi e originari al pari di A. . 2.° Il concetto supremo sarà l'ente o il
qualche cosa . Ma in tal caso ci sarà almeno il concetto del nulla e della
negazione, che ne saranno esclusi. Oltredichè sarà un far violenza non solo
alle pa role ma anche al concetto, se si considerino come enti" p. es. le
relazioni, come l'eguaglianza, la dif ferenza , ecc. Se poi vogliasi
risguardare come concetto as solutamente supremo il pensabile ( lasciando stare
che abbiamo pure il concetto dell'impensabile), è 279 bensì vero che tutti i
concetti , (tranne appunto quello dell'impensabile ) si potranno subordinare a
questo ; ma il pensabile è un genere puramente analogico, ossia non riguarda il
contenuto de' con cetti , bensì soltanto la loro relazione estrinseca verso il
subbietto pensante ( Come se v . gr. tutti gli oggetti ch'io posseggo li
volessi ridurre al ge nere supremo : il mio ). Le note dei concetti furono
distinte dai logici in essenziali e non essenziali ossia accidentali. Le
essenziali si suddivisero in costitutive o primarie e consecutive o attributi.
Per altro queste e altre distinzioni analoghe appartengono più presto alla
metafisica che non alla logica, essendochè questa non ci fornisce criteri
sicuri per siffatte distinzioni . Infatti se noi dichiariamo essenziali a un
con cetto quelle note, tolte le quali il concetto non è più quello di prima,
tutte diventano essenziali . Se poi si dichiarino essenziali solamente quelle
note, levate le quali il concetto non solo si muta , ma si sfascia del tutto
(come p. es . se dal concetto trian golo si tolga la nota figura o la nota
trilatero), noi usciamo dalla logica. ? 280 CAPITOLO III Delle relazloni
logiche che possono intercedere tra due concetti Affinché due concetti possano
essere paragonati logicamente tra di loro all' uopo di determinarne la
relazione, bisogna che abbiano la stessa sostanza logica ossia appartengano
alla stessa categoria. Ciò fermato, le relazioni in cui possono tro varsi tra
loro due concetti si ridurranno alle in frascritte. A. RELAZIONI DETERMINATE :
1.° Equipollenza . Alcuni chiamano equipollenti due concetti quando sono un
medesimo concetto espresso in due differenti maniere . Questa denomi nazione
crediamo sia impropria . Altri più esatta mente dicono equipollenti que'
concetti , che hanno la stessa estensione, ma una differente compren sione.
Tali sono p. es . triangolo equilatero e trian golo equiangolo . Ente infinito
e spirito assoluto, ecc. 2.0 Sopra e sott'ordinazione. Questa relazione si
avvera tra due concetti , quando l'estensione dell' uno fa parte dell '
estensione dell'altro ; per conseguenza la comprensione del secondo fa parte di
quella del primo. - 281 ! Il più generale ( ossia quello che ha l'estensione
maggiore e minore la comprensione) dicesi sopra ordinato, il più particolare
subordinato. ( Per es. figura è sopraordinato, triangolo è subordinato ). Il
superiore o sopraordinato dicesi anche genere, l' in feriore o subordinato
specie. Ogni genere poi è alla sua volta specie rispetto ad uno che gli sia
supe riore, ogni specie è genere rispetto a' suoi inferiori, e ciò finchè
s'arrivi al supremo, che non può es sere più specie e all'infimo che non può
essere mai genere. Notisi per altro che il concetto di un ente individuale, per
es . di Tizio, logicamente non è per necessità infimo e può considerarsi ancora
come genere in rispetto al medesimo come concetto preso con ultertori determinazioni.
Così Tizio è genere riguardo a Tizio seduto, a Tizio addormentato, ecc. 3.0
Coordinazione. Sono coordinati tra di loro i concetti che sono subordinati in
pari grado a uno stesso concetto superiore . Alcuni logici, col Wundt alla
testa, distinguono cinque maniere di coordinazione . Noi le riportiamo qui
sotto, osservando nel tempo stesso che la vera e propria coordinazione è
soltanto la prima. Code ste varie specie di coordinazione pertanto hanno luogo
: a) Quando due o più concetti, subordinati in pari grado a uno più generico,
sono tra di loro di sgiunti, vale a dire quando le loro estensioni si escludono
reciprocamente. Per es. rosso, verde, az zurro, ecc. , che sono tutti
subordinati a colore. 282 b) Quando tra due concetti v' ha una relazione vicendevole
; per es. maschio e feminina, padre e figlio, agente e paziente, ecc. Questi si
chiamano propriamente concetti correlativi. c) Quando due concetti, compresi
sotto un terzo comune, hanno la massima differenza possi bile tra loro. Per es.
buone e cattivo, bianco e nero , angolo acuto e ottuso, ecc . Tale relazione
dicesi di contrarietà . d) Quando tra due concetti , compresi sotto un terzo
comune, passa la minima differenza possibile . Per es. tra i sette colori dello
spettro , giallo e verde ; tra i poligoni , pentagono ed esagono, ecc. Perché
ciò avvenga occorre che la serie sia discreta ; chè se in cambio è continua,
potendosi tra due termini qua lunque concepirne sempre uno intermedio, questa ,
relazione a rigore non si avvera mai . Tale rela zione si dice di contiguità (
1 ) . e) Quando due concetti s'incrocicchiano, ossia le loro estensioni hanno
una parte comune. Per es. figura rettangolare e figur'il equilatera , europeo e
cattolico . Codesta relazione è detta da alcuni d' in ter: ferenza . 4.
Dipendenza, che può essere unilaterale o reciproca. Ha luogo tra concetti , che
senza essere tra loro nè coordinati nè subordinati , sono tali ( 1 ) Il termine
contingenza adoperato da taluno in que st'uso è ambiguo. 283 che l ' uno
determina l'altro ; e questa dipendenza può essere o non essere mutua. Per es .
pena o colpa hanno una dipendenza unilaterale, perchè la pena dipende dalla
colpa, ma non questa da quella ; fra il tempo occorrente a eseguire un dato
lavoro e la quantità del lavoro v'è dipendenza reciproca, ecc . R. RELAZIONI
INDETERMINATE 1. Concetti positivi e concetti negativi. Tale relazione ha luogo
tra un concetto qualsiasi e la sua negazione ; essi si chiamano anche contradit
torii. Il concetto negativo non si trova qui, come accade del contrario, in una
opposizione determi nata verso il positivo, anzi , preso a tutto rigore,
esprime l’indefinita sfera di tutto il pensabile ad esclusione del solo
positivo opposto. Perciò Aristo tele chiama le espressioni non -uomo, non
-albero, ecc . nomi indefiniti . Ma ne' casi concreti il concetto negativo si
pensa solitamente come tale , che, in sieme col suo opposto positivo,
costituisca l'esten sione d'un concetto prossimamente superiore. Così ad es .
non -verde non verrà pensato come equiva lente a tutto il pensabile ad
eccezione del verde ( 1) ; ma bensì sotto il superiore colore, di cui insieme
col suo opposto verde costituisce tutta l'estensione. ( 1 ) In tal supposto il
non - verde comprenderebbe i con cetti più disparati, per esempio giustizia , strada
ferrata , mu sica, cilindro, balena , ecc. 284 2.º Concetti disparali. Si può
dire che la re lazione che passa tra questi concetti consiste nel non avere tra
loro veruna relazione . Del resto la disparatezza non è si può dir mai
assoluta, po tendosi sempre trovare un qualche rispetto, sotto del quale i due
concetti cessano d'essere tra loro disparati. - Per rappresentare graficamente
le relazioni lo giche de' concetti tra di loro si ricorre solitamente al
simbolo dei circoli tracciati in un piano . Per A es. la congruenza di due
circoli simbo B leggia l'equipollenza. La subordinazione viene significata con
l'in O o B clusione d'un circolo in altro dove A è il A subordinato e B il
sopraordinato. La coordinazione dei concetti disgiunti in ge nerale è simboleggiata
con vari circoli entro un D altro. B Questa rappresentazione per altro Oc è
imperfetta, perchè esprime bensi l'inclusione delle estensioni di A, B, C in
quella di D e la loro vi cendevole esclusione ; ma non già che la somma 285
delle tre estensioni degli inclusi eguaglia quella dell'includente . Se
tuttavia i coordinati disgiunti sono due soli, tale relazione è significata
meglio colla divisione d'un circolo per mezzo del dia с metro, А B Tra le varie
maniere di coordinazione, che noi consideriamo come improprie, solo
l'interferenza A B si rappresenta bene con questo sistema, O > Il Wundt
propone degli altri simboli, consi stenti in linee rette, de' quali daremo qui
una suc cinta idea per mezzo della figura seguente : n b с e f m Dove 1.° l'equipollenza
è significata dal rap porto d'un segmento con se stesso ; per es . ad : ad. 2.
° La sopra- ordinazione del rapporto d'una retta con una sua parte : per es .
ag : ab, e la su bordinazione inversamente, ab : ag. 286 3.0 La coordinazione
a) di disgiunzione, dal rapporto di una parte del segmento totale con una
qualunque altra parte, per es . ab : de. a) di correlazione, dal rapporto tra
due parti collocate simmetricamente ; per es. bc : ef. c) di contrarieti, dal
rapporto tra i due seg menti più distanti ; per es . ab : fg. a ) di
contiguità, dal rapporto tra due porzioni contigue, per es . de : ef. e) d'
interferenza , dal rapporto tra due seg menti che in parte coincidono ; per es
. bd : ce. 4.° La dipendenza si esprime col rapporto di una retta ad un'altra,
la cui situazione dipenda dalla prima, per es . ag : am . Se la dipendenza è
reciproca, tale relazione è rappresentata meglio dal rapporto tra due rette ,
le quali si suppone che si determinino reciprocamente ; per es . am : an .
CAPITOLO IV Della definizione A ben intendere la natura di questa operazione
logica giovi considerarne i fini. E anzi tutto quando l ' uomo possedesse de'
concetti obbiettivamente per fetti , non ci sarebbe bisogno di definizioni ;
dun que la definizione sovviene in primo luogo alle imperfezioni del nostro
pensiero . Le imperfezioni principali , a cui ripara la de finizione, sono a)
l'incertezza del vincolo tra il 287 concetto e la parola con cui lo si esprime
; ) l'in debolimento del nesso psicologico tra gli elementi logici del concetto
. Rispetto al primo fine la definizione è sempre nominale, perchè serve a
fissare il senso del voca bolo, a far sì che a quel dato vocabolo si unisca
sempre quel dato concetto. Rispetto al secondo fine la definizione è reale,
perchè serve a fissare e chia rire l'organismo interno del concetto . Si
aggiunga che la definizione ( per es. nelle scienze puramente formali, come le
matematiche pure) spesso equivale alla formazione del concetto . Infatti
l'unità concettuale , come individuo logico , è spesse volte arbitraria . In
una moltitudine d'ele menti pensabili , la definizione ne fissa un certo gruppo
per iscopi vuoi scientifici, vuoi didattici. La definizione pertanto è
l'esposizione o me glio la determinazione della comprensione d'un con cetto e
prende la forma d' un giudizio, il cui sog getto è il concetto di cui si tratta
(detto il defi niendo ovvero definito) e il predicato ( che chiamasi
definiente) è quel gruppo di note mediante le quali il primo viene definito.
Non è per altro necessario e nemmeno oppor tuno che il concetto da definirsi si
risolva in tutte le note che contiene ; bensì basta si indichino quelle che
sono sufficienti a determinarlo perfetta- · mente, ossia a distinguerlo e dai
concetti conge neri e da quelli che appartengono ad altri generi. A tal uopo
servono il genere prossimo (cioè il con 288 cetto prossimamente superiore al
definiendo ) e la differenza specifica cioè quel carattere che lo con
traddistingue dai concetti coordinati ) . Non s' inten de tuttavia con ciò che ogni
definizione debba es ser fatta per mezzo di due soli elementi ; soltanto si
avverte che il tutt' insieme dei caratteri, che costituiscono il definiente,
dee comprendere due parti, cioè le note generiche e le specifiche. L'in
dicazione del genere serve anche a indicare a qual categoria il definiendo
appartenga. Anche la regola del genere prossimo non vuole esser presa con
pedantesco rigore. Una definizione può essere vera e logicamente irreprensibile
anche servendosi d'un genere che non sia il prossimo. Del resto non è nemmeno
sempre possibile il de terminare in via assoluta quale sia il genere pros simo
a cui appartiene un dato concetto. Per es. nella definizione dell'uomo si suol
as segnare come genere prossimo l'animale ; mentre senza fallo ve n'è di più
prossimi , come a. verle bralo, mammifero, ecc. I logici , come già s'è
accennato più sopra, sogliono distinguere varie maniere di definizione, come la
nominale, che determina soltanto quel che si deve intendere sotto una data
espressione, e la reale, che si riferisce all ' intrinseco valore del con cetto
. Una sottospecie della definizione reale è la genelica, che esprime il
processo onde la cosa de finita si forma. 289 Si noti per altro che la
distinzione delle de finizioni in nominali e reali non è rigorosa, per che ogni
definizione è reale, in quanto indica le note dell'oggetto ed è nominale, in
quanto il con cetto così determinato si collega con un dato nome. Alcuni
tuttavia intendono la distinzione tra la de finizione reale e la nominale in un
senso alquanto differente ; e dicono la definizione essere nominale, quando ha
per fine solamente di assegnare un dato vocabolo a un gruppo d'elementi
pensabili , senza curarsi se codesto gruppo abbia poi un' intima con nessione
ed unità, se quindi sia un concetto ob biettivamente valido ; chiamano invece
reale una definizione, quando in essa apparisce anche la va lidità obbiettiva
del definito . Gli errori , da cui conviene guardarsi per dare una buona
definizione sono principalmente quelli che seguono : a ) L'angustia. Una
definizione è angusta quando il definiente contiene qualche nota che non appar
tiene a tutta l'estensione del definito . 0) L'ampiezza, la quale ha luogo
quando, per mancanza di note specifiche sufficienti, il definiente oltrecchè al
definito, conviene anche ad altri con cetti congeneri. c) La sovralbondanza,
che consiste nell'aggiun gere note non essenziali e superflue rispetto al fine
di distinguere il concetto dato da tutti gli altri . d ) La tautologia, che ha
luogo quando il con cetto stesso da definirsi è contenuto, sia manifesta 19 290
mente sia copertamente, nel definiente. ( Per es. la legge è il comando del
legislatore). " e ) Il circolo o diallele, che consiste nel defi nire A
per mezzo di Be B daccapo per mezzo di A ; ovvero anche nel definire A per B, B
per C , C per D, ecc . e D daccapo per A. Questo errore uel definire è analogo
e spesso si confonde col pa ralogismo detto ysleron - proteron , pel quale si
fon damenta una dottrina o un concetto sopra una dot trina o un concetto, che
hanno bisogno dei primi per essere scientificamente validi. f) Le definizioni
metaforiche. g ) Le definizioni negative, che è quanto dire quelle che si
servono unicamente di negazioni. Pure la definizione negativa talvolta è giusti
ficata, sia perché il concetto da definirsi è esso medesimo negativo, sia
perch' esso è semplice e però non si può determinare in altro modo che di
stinguendolo per via di negazioni da quelli coi quali potrebbe essere confuso .
CAPITOLO V. Della divisione logica A determinare l ' estensione d'un concetto e
insieme a mettere in chiaro le attinenze intrinseche di più concetti
subordinati ad un altro serve la divisione logica . Essa consiste in un
giudizio, di 291 - cui il soggetto è il concetto da dividersi (detto il
dividendo o il diviso, secondochè la divisione si considera come già fatta
oppure da farsi), e il pre dicato è una serie di concetti subordinati al primo
o coordinati disgiuntivamente tra di loro (membri dividenti). In altre parole
il soggetto è il genere e il predicato è l'enumerazione delle specie com prese
sotto quel genere. Siccome le specie nascono dalle varie determi nazioni di cui
il genere è suscettivo, quindi in ge nerale occorre per la divisione che il
concetto da dividersi possegga una nota, la quale sia suscetti bile di varietà.
Codesta nota chiamasi fondamento della divisione, che dicesi anche il rispetto
, sotto cui il concetto dato si divide. Cosi il concetto uomo possiede la nota
colore e questa essendo capace di varietà, se n'avrà una divisione dell'uomo
sotto il rispetto o il fondamento del colore, in bianchi, neri, gialli, ecc .
Lo Herbart pel primo fece osservare che, do vendo la nota, la quale serve di
fundamentum di visionis, essere un concetto già diviso, ne segue che ogni
divisione ne presupporrebbe un'altra già fatta . Ora è chiaro che per tal modo
s' andrebbe all ' in finito e quindi niuna divisione sarebbe possibile . Donde
segue che ci debbono essere alcnne di visioni primitive cioè senza un
fondamento asse gnabile. Tale è per es. la divisione del colore in rosso,
verde, ecc.; la divisione del numero in 1 , 2, 3 , ecc. 292 Secondo il numero
de' membri dividenti la di visione chiamasi dicotomia , tricotomia, ecc. Ogni
divisione può essere ridotta a una dico tomia, ponendo come primo membro il genere,
col . l'aggiunta d'una differenza specifica e a questo contrapponendo il genere
stesso più la negazione di quella. Così la divisione degli uomini sotto il
rispetto del colore sarà sempre possibile nella forma dico tomia così : gli
uomini sono bianchi o non bianchi . In generale A ¢ A b o A non b. Per altro,
se le specie sono realmente più di due, il termine nega tivo resta
indeterminato. La dicotomia presenta dei vantaggi ; per il che alcuni l'hanno
considerata come la divisione più rigorosamente logica ; infatti in essa i
membri dividenti costituiscono una perfetta contrarietà. Altri preferiscono la
tricotomia, per la ragione che questa ci dà due termini opposti e uno che serve
di mediatore tra essi . Queste considerazioni per altro, valide per certi casi
e per certi determinati fini scientifici, non sono d'ordine generale nè
applicabili a tutti i casi . La dicotomia però può considerarsi come un utile
processo preparatorio affine di trovare tutte le spe cie d'un concetto. La
divisione dicesi naturale, se il fondamento è preso tra le note essenziali del
concetto ; artifi ciale ove sia preso tra le accidentali. Notisi tutta via che
per gli speciali fini scientifici può riuscire 293 importantissima una
divisione, la quale per il pen sar comune parrebbe frivola e artificiosissima.
Quando tutti i membri dividenti d' una data divisione vengono divisi alla loro
volta, si ha la suddivisione. Per la quale non è necessario che i membri
dividenti della prima siano suddivisi tutti sotto lo stesso fondamento . Se all'incontro
un concetto viene successiva mente diviso sotto più d'un fondamento, il com
plesso di queste divisioni ci dà una codivisione. I membri di questa saranno in
numero eguale al prodotto del numero di termini che si ottengono da ciascuna
delle singole divisioni. Perché la co divisione sia possibile bisogna che
ciascuno dei termini ottenuti con una delle divisioni sia atto a esser diviso
sotto il medesimo fondamento . La divisione logica, per essere corretta, deve
rispondere ai seguenti requisiti : 1. ° Ella dev'essere adeguata ; il che vuol
dire che i membri dividenti presi insieme devono ri produrre tutta intera
l'estensione del diviso. 2.° Membra sint opposita, vale a dire che le
estensioni dei membri dividenti debbono escludersi tra di loro . 3.° Si deve
sfuggire il saltus in dividendo, os sia la divisione dev'essere continua. Il
salto con siste nel passare da termini ottenuti colla divisione fatta dietro un
fondamento a termini ricavati da 294 una suddivisione fatta sotto un altro
fondamento . (Come v. gr. se uno dividesse i verbi in transitivi, intransitivi
e passivi) . 4.° La divisione non deve scendere a minuzie. se Osservazione. -
Una divisione per essere logi camente compiuta domanderebbe che tutte le parti
in cui il fondamento è già diviso, fossero applicate al concetto da dividersi .
Ma in realtà ciò non si avvera se non rade volte , perchè spesso il dividendo
non è suscettivo di assumere non alcune di quelle varietà ; perciò il numero
effettivo delle spe cie d'un dato genere non è dato dal puro schema tismo
logico, ma dalla natura delle cose. Così per es . gli uomini non possono
dividersi , sotto il ri spetto del colore, in tante specie in quante é di viso
il fondamento colore. Assai difficile a determinarsi logicamente è l'esclusione
reciproca delle estensioni di più con cetti tra loro e quindi dei membri
dividenti , quando l'uno' non sia la pura negazione dell'altro . In par
ticolare manca la reciproca esclusione e perciò i concetti sono interferenti,
quando sono risultati da una divisione fatta sotto più d'un fondamento ( Per es
. europeo e musulmano, russo e marinaio, qua drilatero e figura regolare sono,
a due, a due, con cetti interferenti e perciò non si escludono tra di loro ; il
che deriva da ciò che la prima coppia fu ottenuta colla divisione di uomo sotto
i due fon damenti parte del mondo e religione ; la seconda 295 colla divisione
sotto i fondamenti nazionalità e pro fessione ; la terza sotto i fondamenti
numero dei tati e grandezza relativa degli angoli e dei lati). Ma l'escludersi dei
termini , in cui un concetto originariamente si divide ( i quali servono poi di
fondamento a tutte le divisioni) è un fatto primi tivo, su cui la logica nulla
può dire . CAPITOLO VI Del giudizio Le difficoltà incontrate dai logici ne'
tentativi fatti per definire l'atto giudicativo o il rapporto obbiettivo che a
quello corrisponde , nascono da ciò ch'esso è l'atto primitivo del pensiero e
però as solutamente sui generis. Se per es. lo si definisce quell'atto per cui
si afferma o si nega qualche cosa di qualche cosa, in realtà abbiamo fatto una
definizione tautologica, perché l'affermare o negare è appunto ciò che co
stituisce il giudizio, ond' è come dire : il giudizio è l'atto per cui si
giudica. Riporteremo qui alcune altre definizioni del giudizio . Per es. questa
: Il giudizio è la determinazione d'un concetto per mezzo d'un altro . E
quest'altra : Il giudizio è il congiungimento o la disgiunzione di due elementi
del pensiero in 296 corrispondenza all'unione o alla separazione delle cose . O
anche : È la coscienza d'un rapporto esi stente tra due concetti . 0 : La
rappresentazione o la coscienza del l'unità o della non unità di due concetti .
Oppure : La decomposizione d'una rappresen tazione ne' suoi elementi, ecc. ,
ecc. • A proposito di queste due ultime definizioni ( la seconda è del Wundt)
si noti il fatto, parados sale in apparenza, che la stessa cosa, cioè il giu
dizio , possa essere definita in modi diametralmente opposti . Ma questo fatto
appunto rivela meglio di ogni altra considerazione la vera natura del giu
dizio, che è di essere sintesi e analisi ad un tempo, di dividere unendo e
unire dividendo. E ciò è pro prio e caratteristico del pensiero, perchè io non
posso separare mentalmente due elementi senza pensarli insieme l'uno e l'altro
col medesimo atto indiviso, nè posso mentalmente riunirli senza te nerli al
tempo stesso l'uno fuori dell'altro . Nel giudizio si distinguono tre parti o
elementi che sono 1.º il soggetto, che è il concetto da de terminarsi ossia ciò
di cui si afferma o nega qual che cosa. 2.' Il predicato , che è il concetto
che serve a determinare il soggetto . 3.° La copula, che è la relazione tra il
soggetto e il predicato, o guar dando il giudizio come atto della mente , è
l'affer mazione stessa . La copula è espressa dalla lingua 297 propriamente ed
esplicitamente colla voce è, ovvero è significata dalla flessione del verbo. Il
giudizio senza fallo è una forma propria del pensiero ; nelle cose, a cui il
pensiero si riferisce, ( tranne il caso in cui l'oggetto del pensiero con sista
esso medesimo in pensieri) non ci sono giu dizi ; ma se il pensiero è vero ,
esso deve rappre sentare le cose, quindi in queste ci ha da essere alcun che,
il quale corrisponda alla forma del giu. dizio. Che cosa è questa ? Un tal
problema è metafisico e però esce dai termini della logica ; crediamo tuttavia
opportuno di farne un brevissimo cenno. Ricordiamoci che l'atto di coscienza,
base del pensiero , è essenzialmente reduplicazione, la cui forma più semplice
è questa A è A. Ciò posto la prima occasione obbiettiva dei no stri giudizi
potrebbero essere le differenze e i can giamenti delle cose e la loro costanza
o persistenza ; le differenze come occasione che ne fa avvertire la costanza .
Ora la costanza delle cose, la loro fedeltà per così esprimerci , a sè stesse ,
sono l'equivalente ob biettivo del giudizio d'identità e in generale del
giudizio affermativo. La differenza è di regola il corrispondente del giudizio
negativo. Il cangiamento poi , che del resto non può esser mai totale e as
soluto, ma che si fa sopra un fondo che rimane identico a sè stesso, è
rappresentato dai giudizi narrativi , p. es, il cane corre ( mentre prima era
298 fermo) ; l'albero perde le foglie (mentre prima era fronzuto) ece . Insomma
le cose, con la loro essenza immuta bile, le qualità, gli avvenimenti, le
relazioni , sono categorie obbiettive, che trovano il loro riscontro nel
giudizio. Di più il giudizio, come s'è visto nella Psico logia, è per l'essenza
sua un riferire ; ora le cose possono essere riferite o al subbietto pensante
(p. es. io vedo, io percepisco, io penso la cosa A ) ; O a sè stesse (A è A,
l'uomo è uomo, ecc. ) ; o le une alle altre ( come : la terra gira intorno al
sole, ecc. ) ; o anche le parti tra di loro (p. es . le colonne so stengono la
volta ) ; la cosa alle sue proprietà, a' suoi stati successivi , alle azioni e
passioni e via via. Le relazioni poi si partono in due classi , cioè reali o
del pensiero. Reali diciamo quelle che in teressano il modo d' esistere delle
cose (p. es. cau salilà , paternità, reciproca azione ecc . ) ; diciamo ideali
o del pensiero quelle che non interessano le cose, ma solo il nostro pensiero
intorno alle cose , come uguaglianza, somiglianza, differenza , maggioranza.
Per es. la grandezza relativa dei lati e quella degli angoli sono in una
relazione reale ; all'incontro la relazione ch' io pongo fra un trian golo,
pognamo, e un quadrilatero quando dico che questo ha un lato di più di quello ,
è del pensiero. 1 299 CAPITOLO VII . Giudizi analitici e sintetici ( 1 ) . E. Kant
chiama analitici que' giudizi, il cui predicato si cava dalla semplice analisi
del soggetto, che cioè anche prima del giudizio faceva parte del pensiero del
soggetto ; sintelici quelli , il cui pre dicato è preso fuori del soggetto .
Contro questa dottrina si sono sollevate fino dal tempo del Kant molte
obbiezioni , alcune delle quali insussistenti. Tra cui questa : se il giudizio
ha da esser vero, per necessità il soggetto deve contenere il predicato ;
dunque tutti i giudizi sono analitici . Ora questa obbiezione suppone che il
giu dizio sia anteriore a sè stesso . Quel predicato che dopo il giudizio,
appartiene al soggetto, ha pure abbisognato d'un primo giudizio che glielo
appli casse. Così io potevo ad es. conoscere la capra ab bastanza per distinguerla
da ogni altro animale, eppure non sapere che è un ruminante. Quando vengo a
scoprire questa sua proprietà, tale scoperta prende la forma del giudizio : la
capra è un ru minante, il quale perciò è sintetico . D' allora in ( 1) So il
professore crede la sua scolaresca immatura per questa questione, potrà o
saltare questo capitolo o tras portarlo in fondo al trattato del giudizio. 300
poi, dato ch'io ripensi lo stesso giudizio, questo sarà per me analitico. Ciò
mostra che, almeno per molti giudizi, la differenza tra l' essere sintetici o
analitici, è relativa allo stato delle cognizioni di chi li fa . Ma la
distinzione tra giudizio analitico e sin tetico potrebbe fondarsi sopra, un
altro rispetto ; analitici sarebbero quelli, il cui predicato è un ele mento cosi
essenziale al concetto del soggetto, che questo senza di esso non possa affatto
esser pen sato . Tale sarebbe p. es . la trilateralità rispetto al concetto
triangolo. Sintetici al contrario saranno quelli , il cui soggetto può essere
pensato anche senza il predicato (p. es. Tizio scrive, il tale pro getto di
legge è stato approvato dal Parlamento, ecc. ) . La dottrina del Kant del resto
non coincide perfettamente nè colla prima interpretazione , nė colla seconda ;
egli insiste sulla differenza tra l'es ser preso il predicato entro la
comprensione del sog getto o fuori di essa. L'esempio di giudizio sinte tico
addotto da lui e tanto criticato (7 + 5 12) , è realmente sintetico, perché chi
pensa il numero 7 e il numero 5 e anche l'operazione significata dal +, non per
questo ha già il concetto dell'unità nu merica 12, numero che è formato con
quell'addi zione e che è quindi posteriore ad essa. In generale su questa
contro versia e anche sul l ' altra che ne dipende, se cioè ( dato che ci siano
de' giudizi sintetici ) altri di questi siano a poste 301 riori e altri a
priori, ci contenteremo qui di que. sta osservazione . È chiaro che acciò siano
possibili delle analisi , quindi dei giudizi analitici, fa d'uopo che
anteriormente ci siano state delle sintesi. Ora codeste sintesi non sono opera
del pensiero ? E il pensare non è sempre un giudicare ? Dunque ci devono essere
dei giudizi sintetici . E siccome c'è un pensare , a posteriori e uno a priori,
cosi pare innegabile che ci dovranno essere anche de' giudizi sintetici a
priori ( 1 ). CAPITOLO VIII . Classificazione logica dei giudizi I giudizi
rispetto alla forma si sogliono distin. guere anzitutto in semplici e composti.
E qui si noti che debbono considerarsi come composti sol tanto quei giudizi ,
che si possono senza alterarne il valore risolvere in due o più giudizi
semplici. I semplici si dividono primamente sotto il ri spetto della qualità in
affermativi e negativi. Af fermativi sono quelli in cui il predicato è posto
come, relativamente, identico al soggetto ; negativi quelli in cui il predicato
è escluso dalla compren ( 1 ) Del resto la distinzione de' giudizi in analitici
e sin tetici non è veramente logica, ma psicolog da un lato, dal l ' altro
metafisica. 302 sione del soggetto ; ovvero, avendo riguardo alle estensioni,
pel giudizio affermativo il soggetto vien posto nell'estensione del predicato,
pel negativo ne è escluso . Osservazione 1. – A queste due specie si po trebbe
aggiungerne una terza, ch' io proporrei di chiamare dei giudizi di disparatezza
o per più bre vità disparanti ; e sono quelli i quali non esclu dono il
predicato dalla comprensione del soggetto nė ve lo includono, ma affermano
soltanto che il soggetto per sè non implica quel dato predicato, benchè lo
possa ricevere. Per es . se io prendo per soggetto il ferro e per predicato
ossidato, io non posso affermare che un tal soggetto includa un tal predicato e
nemmeno che lo escluda e un tale rap porto ove sia affermato (p. es. colla
formola : il ferro per sè, o in quanto ferro, non è ossidato ) costituisce un
giudizio disparante. Del resto nes sun logico, per quanto mi consta, ha tenuto
conto di questa classe speciale di giudizi. Osservazione 2. - Secondo alcuni
logici la ne gazione, ne' giudizi negativi, non affetta la copula, ma bensì il
predicato ( A non è B equivarrebbe al giudizio : A è non - B) . Ma questo modo
di consi derare il giudizio negativo non è naturale nè rap presenta
l'intenzione di chi pronuncia il giudizio, salvo in rari casi . Osservazione 3.
– Oltre a' giudizi affermativi e negativi taluni col Kant ammettono una terza
specie di giudizi , sotto il rispetto della qualità, cioè 303 - gl' indefiniti.
Tali sarebbero quelli in cui è nega tivo il predicato ( A è un non B) . Ma è
una classe superflua, perchè in realtà questi giudizi coincidono coi negativi.
In secondo luogo i giudizi si distinguono sotto il rispetto della quantità,
vale a dire secondo la estensione in cui è preso il concetto che fa da sog
getto. Se l'estensione del soggetto è presa in tutta la sua totalità, il giudizio
dicesi universale. ( Tutti gli A sono B o più brevemente A è B ; nessun A è B,
o più brevemente A non è B) . Se in cambio il soggetto è preso solo con una
parte della sua estensione, il giudizio è particolare (Alcuni A sono B ; alcuni
A non sono B ). Stando a una teoria propugnata dallo Hamilton e da altri e
oonosciuta sotto il nome di teoria della quantificazione del predicato, nel
giudizio sarebbe determinata non solo l'estensione in cui si prende il
soggetto, ma anche quella del predicato. Cosi nel giudizio : tutli gli uomini
sono mor tali, il soggetto sarebbe preso in tutta l'estensione e il predicato
solo in parte della sua estensione, cosicchè la forma rigorosamente logica
sarebbe : tutti gli uomini sono alcuni mortali (vale a dire parte dei mortali
). Nel giudizio : alcuni animali sono mammiferi, il soggetto sarebbe preso in
parte della sua esten sione e il predicato in tutta la sua estensione ; sic chè
la sua forma rigorosa sarebbe : alcuni animali sono tutti i mammiferi. Così
ogni giudizio affer 304 merebbe una congruenza di estensione e corrispon
derebbe sempre ad un'equazione. Ma questa teoria non è accettabile, perché se
anche la determina zione dell'estensione del predicato si può artificio samente
dedurre da ogni giudizio , essa è innaturale non essendo effettivamente pensata
da chi forma il giudizio, tranne certi casi speciali che la lingua suole
esprimere con qualche suo spediente . Osservazione 1. – Secondo Aristotele a'
giu dizı universali e particolari si dovrebbe aggiungere per terza la classe
degli indefiniti o aorisli ( 1 ) sarebbero quelli, in cui al soggetto si
attribuisce o si nega un predicato senza aver riguardo all'esten sione ( P. es.
la virti merita premio ; concepito senza pensare se ci siano o no molte virtù e
se il predicato meritevole di premio convenga a tutte o no) . Questa forma di
giudizio coincide con quello che alcuni moderni chiamano giudizio della com
prensione, per distinguerlo da quelli , in cui il pre dicato viene
determinatamente attribuito a tutti o solo a una parte dei termini che formano
l ' esten sione del soggetto e ch'essi denominano giudizi dell' estensione. Noi
non accogliamo codesta classe di giudizi ; perchè, sebbene sia vero che chi
forma il giudizio ' ora ha di mira la comprensione del sog getto ora l '
estensione, pure l ' una relazione trae ( 1 ) Da non confondersi cogli
indefiniti del Kant, che sa rebbero una classe nel rispetto della qualità. Vedi
sopra la Osservazione 3. 305 con sè l ' altra anche se non esplicitamente pen
sata. Osservazione 2. – Altri , col Kant, a' giudizi universali e particolari
aggiungono i singolari , quelli cioè in cui il soggetto ha il minimum pos
sibile di estensione cioè è un individuo. Ma se que st' individuo è
determinato, esso costituisce tutta l'estensione del concetto ( p. es . Giulio
Cesare) e pertanto il giudizio è universale ; se é indetermi nato (p . es. un
soldalo ), esso rappresenta una parte dell'estensione e perciò il giudizio cade
nella classe dei particolari . Osservazione 3. - I giudizi particolari possono
ricevere ulteriori determinazioni secondochè la parte che si prende
dell'estensione del soggetto o è più o men determinata o si lascia affatto
indeterminata (Per es. molti A sono B , pochissimi A sono B , la più parte
degli A sono B, dodici A sono B , ovvero semplicemente parte degli A sono B ).
Ma per la logica queste specificazioni hanno di regola poca importanza, salvo
il caso che l'interesse del pen siero cada appunto su esse , come p. es . nel
numero de' voti d'un corpo deliberante . Osservazione 4. – Il giudizio
particolare dif ferisce d'assai quanto al suo valore secondochè preso
indeterminatamente o determinatamente. In fatti il giudizio : alcuni A sono B ,
può significare o che almeno alcuni A sono B, o che soltanto al cuni A sono B.
Nel primo significato esso è vero anche se tutti gli A sono B, nel secondo
senso il 20 306 giudizio universale, tutti gli A sono B , è necessa riamente
falso . I primi giudizi si chiameranno giudizi parti colari in luto senso , i
secondi particolari in senso stretto. I giudizi in terzo luogo si distinguono
in ri spetto alla relazione, vale a dire secondochè affer mano ( o negano)
l'inerenza del predicato al sog getto ( g. categorici), oppure: la dipendenza
del pre dicato dal soggetto ( g. ipotetici), o, finalmente, se al soggetto
viene come predicato attribuita l'alter nativa fra due o più membri d'una
disgiunzione, p. es. A è o Bo CoD (g . disgiuntivi). Osservazione Questa
classificazione de' giu dizi sotto il rispetto della relazione, sebbene comu
nemente accettata, pecca gravemente contro le leggi della divisione logica. E
invero i giudizi disgiun tivi non sono veramente una specie coordinata alle
altre due, ma piuttosto una sottospecie di quelle ; difatti tanto il giudizio
categorico quanto l'ipotetico possono essere disgiuntivi ( Il tipo del y.
categorico disgiuntivo è : A è o B o C , dell'ipotetico -disgiun tìvo : se A è
B , o C è D, o M N ). In quarto luogo finalmente i giudizi o sono tali che il
predicato si pensa come necessariamente pertinente al soggetto , e questi
chiamansi giudizi necessari o apoditlici ; o sono tali che il predicato si
pensa come di fatto appartenente al soggetto, senza necessità, e diconsi
giudizi della realtà o as sertorii ; o, in terzo luogo, sono tali che il predi
307 cato si pensa come possibile ad appartenere al sog. getto e diconsi giudizi
possibili o problematici. Que sto rispetto chiamasi modalità del giudizio.
Osservazione. – Veramente in questa classifi cazione della modalità si
confondono due rispetti differenti . I giudizi considerati obbiettivamente ,
sono o necessari, o della realtà, o possibili ; con siderati obbiettivamente
sono apodittici, assertori o problematici. Vale a dire che nel primo rispetto
si considera la necessità, la semplice realtà o la possibilità delle cose ; nel
secondo rispetto si con sidera l'intensità della nostra affermazione. La dif
ferenza tra i due rispetti apparisce principalmente nella terza classe, in cui
il giudizio della possibi lità afferma che un concetto è suscettivo d'una data
determinazione, benchè possa non averla ( Per es . una casa può essere di nove
piani ) , mentre il problematico afferma soltanto la nostra incertezza (A è B ?
). Tuttavia , affine di non moltiplicare eccessiva mente le suddivisioni, nella
logica si può prescin dere dal considerare queste differenze. Riassumendo, i
giudizi si dividono : 1.º rispetto alla qualità , in affermativi e ne gativi ;
2.º rispetto alla quantità, in universali e par ticolari ; 3.º rispetto alla
relazione, in categorici, ipo tetici e disgiuntivi (categorico -disgiuntivi e
ipote tico - trovano il loro riscontro nel giudizio. Di più il giudizio,
come s'è visto nella Psico logia, è per l'essenza sua un riferire ; ora le cose
possono essere riferite o al subbietto pensante (p. es. io vedo, io percepisco,
io penso la cosa A ) ; O a sè stesse (A è A, l'uomo è uomo, ecc. ) ; o le une
alle altre ( come : la terra gira intorno al sole, ecc. ) ; o anche le parti
tra di loro (p. es . le colonne so stengono la volta ) ; la cosa alle sue
proprietà, a' suoi stati successivi , alle azioni e passioni e via via. Le
relazioni poi si partono in due classi , cioè reali o del pensiero. Reali
diciamo quelle che in teressano il modo d' esistere delle cose (p. es. cau
salilà , paternità, reciproca azione ecc . ) ; diciamo ideali o del pensiero
quelle che non interessano le cose, ma solo il nostro pensiero intorno alle
cose , come uguaglianza, somiglianza, differenza , maggioranza. Per es. la
grandezza relativa dei lati e quella degli angoli sono in una relazione reale ;
all'incontro la relazione ch' io pongo fra un trian golo, pognamo, e un
quadrilatero quando dico che questo ha un lato di più di quello , è del
pensiero. 1 299 CAPITOLO VII . Giudizi analitici e sintetici ( 1 ) . E. Kant
chiama analitici que' giudizi, il cui predicato si cava dalla semplice analisi
del soggetto, che cioè anche prima del giudizio faceva parte del pensiero del
soggetto ; sintelici quelli , il cui pre dicato è preso fuori del soggetto .
Contro questa dottrina si sono sollevate fino dal tempo del Kant molte obbiezioni
, alcune delle quali insussistenti. Tra cui questa : se il giudizio ha da esser
vero, per necessità il soggetto deve contenere il predicato ; dunque tutti i
giudizi sono analitici . Ora questa obbiezione suppone che il giu dizio sia
anteriore a sè stesso . Quel predicato che dopo il giudizio, appartiene al
soggetto, ha pure abbisognato d'un primo giudizio che glielo appli casse. Così
io potevo ad es. conoscere la capra ab bastanza per distinguerla da ogni altro
animale, eppure non sapere che è un ruminante. Quando vengo a scoprire questa
sua proprietà, tale scoperta prende la forma del giudizio : la capra è un ru
minante, il quale perciò è sintetico . D' allora in ( 1) So il professore crede
la sua scolaresca immatura per questa questione, potrà o saltare questo
capitolo o tras portarlo in fondo al trattato del giudizio. 300 poi, dato ch'io
ripensi lo stesso giudizio, questo sarà per me analitico. Ciò mostra che,
almeno per molti giudizi, la differenza tra l' essere sintetici o analitici, è
relativa allo stato delle cognizioni di chi li fa . Ma la distinzione tra
giudizio analitico e sin tetico potrebbe fondarsi sopra, un altro rispetto ;
analitici sarebbero quelli, il cui predicato è un ele mento cosi essenziale al
concetto del soggetto, che questo senza di esso non possa affatto esser pen
sato . Tale sarebbe p. es . la trilateralità rispetto al concetto triangolo.
Sintetici al contrario saranno quelli , il cui soggetto può essere pensato
anche senza il predicato (p. es. Tizio scrive, il tale pro getto di legge è
stato approvato dal Parlamento, ecc. ) . La dottrina del Kant del resto non
coincide perfettamente nè colla prima interpretazione , nė colla seconda ; egli
insiste sulla differenza tra l'es ser preso il predicato entro la comprensione
del sog getto o fuori di essa. L'esempio di giudizio sinte tico addotto da lui
e tanto criticato (7 + 5 12) , è realmente sintetico, perché chi pensa il
numero 7 e il numero 5 e anche l'operazione significata dal +, non per questo
ha già il concetto dell'unità nu merica 12, numero che è formato con quell'addi
zione e che è quindi posteriore ad essa. In generale su questa contro versia e
anche sul l ' altra che ne dipende, se cioè ( dato che ci siano de' giudizi
sintetici ) altri di questi siano a poste 301 riori e altri a priori, ci
contenteremo qui di que. sta osservazione . È chiaro che acciò siano possibili
delle analisi , quindi dei giudizi analitici, fa d'uopo che anteriormente ci
siano state delle sintesi. Ora codeste sintesi non sono opera del pensiero ? E
il pensare non è sempre un giudicare ? Dunque ci devono essere dei giudizi
sintetici . E siccome c'è un pensare , a posteriori e uno a priori, cosi pare
innegabile che ci dovranno essere anche de' giudizi sintetici a priori ( 1 ).
CAPITOLO VIII . Classificazione logica dei giudizi I giudizi rispetto alla
forma si sogliono distin. guere anzitutto in semplici e composti. E qui si noti
che debbono considerarsi come composti sol tanto quei giudizi , che si possono
senza alterarne il valore risolvere in due o più giudizi semplici. I semplici
si dividono primamente sotto il ri spetto della qualità in affermativi e
negativi. Af fermativi sono quelli in cui il predicato è posto come,
relativamente, identico al soggetto ; negativi quelli in cui il predicato è
escluso dalla compren ( 1 ) Del resto la distinzione de' giudizi in analitici e
sin tetici non è veramente logica, ma psicolog da un lato, dal l ' altro
metafisica. 302 sione del soggetto ; ovvero, avendo riguardo alle estensioni,
pel giudizio affermativo il soggetto vien posto nell'estensione del predicato,
pel negativo ne è escluso . Osservazione 1. – A queste due specie si po trebbe
aggiungerne una terza, ch' io proporrei di chiamare dei giudizi di disparatezza
o per più bre vità disparanti ; e sono quelli i quali non esclu dono il
predicato dalla comprensione del soggetto nė ve lo includono, ma affermano
soltanto che il soggetto per sè non implica quel dato predicato, benchè lo
possa ricevere. Per es . se io prendo per soggetto il ferro e per predicato
ossidato, io non posso affermare che un tal soggetto includa un tal predicato e
nemmeno che lo escluda e un tale rap porto ove sia affermato (p. es. colla
formola : il ferro per sè, o in quanto ferro, non è ossidato ) costituisce un
giudizio disparante. Del resto nes sun logico, per quanto mi consta, ha tenuto
conto di questa classe speciale di giudizi. Osservazione 2. - Secondo alcuni
logici la ne gazione, ne' giudizi negativi, non affetta la copula, ma bensì il
predicato ( A non è B equivarrebbe al giudizio : A è non - B) . Ma questo modo
di consi derare il giudizio negativo non è naturale nè rap presenta
l'intenzione di chi pronuncia il giudizio, salvo in rari casi . Osservazione 3.
– Oltre a' giudizi affermativi e negativi taluni col Kant ammettono una terza
specie di giudizi , sotto il rispetto della qualità, cioè 303 - gl' indefiniti.
Tali sarebbero quelli in cui è nega tivo il predicato ( A è un non B) . Ma è
una classe superflua, perchè in realtà questi giudizi coincidono coi negativi.
In secondo luogo i giudizi si distinguono sotto il rispetto della quantità,
vale a dire secondo la estensione in cui è preso il concetto che fa da sog
getto. Se l'estensione del soggetto è presa in tutta la sua totalità, il
giudizio dicesi universale. ( Tutti gli A sono B o più brevemente A è B ;
nessun A è B, o più brevemente A non è B) . Se in cambio il soggetto è preso
solo con una parte della sua estensione, il giudizio è particolare (Alcuni A
sono B ; alcuni A non sono B ). Stando a una teoria propugnata dallo Hamilton e
da altri e oonosciuta sotto il nome di teoria della quantificazione del
predicato, nel giudizio sarebbe determinata non solo l'estensione in cui si
prende il soggetto, ma anche quella del predicato. Cosi nel giudizio : tutli
gli uomini sono mor tali, il soggetto sarebbe preso in tutta l'estensione e il
predicato solo in parte della sua estensione, cosicchè la forma rigorosamente
logica sarebbe : tutti gli uomini sono alcuni mortali (vale a dire parte dei
mortali ). Nel giudizio : alcuni animali sono mammiferi, il soggetto sarebbe
preso in parte della sua esten sione e il predicato in tutta la sua estensione
; sic chè la sua forma rigorosa sarebbe : alcuni animali sono tutti i
mammiferi. Così ogni giudizio affer 304 merebbe una congruenza di estensione e
corrispon derebbe sempre ad un'equazione. Ma questa teoria non è accettabile,
perché se anche la determina zione dell'estensione del predicato si può
artificio samente dedurre da ogni giudizio , essa è innaturale non essendo
effettivamente pensata da chi forma il giudizio, tranne certi casi speciali che
la lingua suole esprimere con qualche suo spediente . Osservazione 1. – Secondo
Aristotele a' giu dizı universali e particolari si dovrebbe aggiungere per
terza la classe degli indefiniti o aorisli ( 1 ) sarebbero quelli, in cui al
soggetto si attribuisce o si nega un predicato senza aver riguardo all'esten
sione ( P. es. la virti merita premio ; concepito senza pensare se ci siano o
no molte virtù e se il predicato meritevole di premio convenga a tutte o no) .
Questa forma di giudizio coincide con quello che alcuni moderni chiamano
giudizio della com prensione, per distinguerlo da quelli , in cui il pre dicato
viene determinatamente attribuito a tutti o solo a una parte dei termini che
formano l ' esten sione del soggetto e ch'essi denominano giudizi dell'
estensione. Noi non accogliamo codesta classe di giudizi ; perchè, sebbene sia
vero che chi forma il giudizio ' ora ha di mira la comprensione del sog getto
ora l ' estensione, pure l ' una relazione trae ( 1 ) Da non confondersi cogli
indefiniti del Kant, che sa rebbero una classe nel rispetto della qualità. Vedi
sopra la Osservazione 3. 305 con sè l ' altra anche se non esplicitamente pen
sata. Osservazione 2. – Altri , col Kant, a' giudizi universali e particolari
aggiungono i singolari , quelli cioè in cui il soggetto ha il minimum pos
sibile di estensione cioè è un individuo. Ma se que st' individuo è
determinato, esso costituisce tutta l'estensione del concetto ( p. es . Giulio
Cesare) e pertanto il giudizio è universale ; se é indetermi nato (p . es. un
soldalo ), esso rappresenta una parte dell'estensione e perciò il giudizio cade
nella classe dei particolari . Osservazione 3. - I giudizi particolari possono
ricevere ulteriori determinazioni secondochè la parte che si prende
dell'estensione del soggetto o è più o men determinata o si lascia affatto
indeterminata (Per es. molti A sono B , pochissimi A sono B , la più parte
degli A sono B, dodici A sono B , ovvero semplicemente parte degli A sono B ).
Ma per la logica queste specificazioni hanno di regola poca importanza, salvo
il caso che l'interesse del pen siero cada appunto su esse , come p. es . nel
numero de' voti d'un corpo deliberante . Osservazione 4. – Il giudizio
particolare dif ferisce d'assai quanto al suo valore secondochè preso
indeterminatamente o determinatamente. In fatti il giudizio : alcuni A sono B ,
può significare o che almeno alcuni A sono B, o che soltanto al cuni A sono B.
Nel primo significato esso è vero anche se tutti gli A sono B, nel secondo
senso il 20 306 giudizio universale, tutti gli A sono B , è necessa riamente
falso . I primi giudizi si chiameranno giudizi parti colari in luto senso , i
secondi particolari in senso stretto. I giudizi in terzo luogo si distinguono
in ri spetto alla relazione, vale a dire secondochè affer mano ( o negano)
l'inerenza del predicato al sog getto ( g. categorici), oppure: la dipendenza
del pre dicato dal soggetto ( g. ipotetici), o, finalmente, se al soggetto
viene come predicato attribuita l'alter nativa fra due o più membri d'una
disgiunzione, p. es. A è o Bo CoD (g . disgiuntivi). Osservazione Questa
classificazione de' giu dizi sotto il rispetto della relazione, sebbene comu
nemente accettata, pecca gravemente contro le leggi della divisione logica. E
invero i giudizi disgiun tivi non sono veramente una specie coordinata alle
altre due, ma piuttosto una sottospecie di quelle ; difatti tanto il giudizio
categorico quanto l'ipotetico possono essere disgiuntivi ( Il tipo del y.
categorico disgiuntivo è : A è o B o C , dell'ipotetico -disgiun tìvo : se A è
B , o C è D, o M N ). In quarto luogo finalmente i giudizi o sono tali che il
predicato si pensa come necessariamente pertinente al soggetto , e questi
chiamansi giudizi necessari o apoditlici ; o sono tali che il predicato si
pensa come di fatto appartenente al soggetto, senza necessità, e diconsi
giudizi della realtà o as sertorii ; o, in terzo luogo, sono tali che il predi
307 cato si pensa come possibile ad appartenere al sog. getto e diconsi giudizi
possibili o problematici. Que sto rispetto chiamasi modalità del giudizio.
Osservazione. – Veramente in questa classifi cazione della modalità si
confondono due rispetti differenti . I giudizi considerati obbiettivamente ,
sono o necessari, o della realtà, o possibili ; con siderati obbiettivamente
sono apodittici, assertori o problematici. Vale a dire che nel primo rispetto
si considera la necessità, la semplice realtà o la possibilità delle cose ; nel
secondo rispetto si con sidera l'intensità della nostra affermazione. La dif
ferenza tra i due rispetti apparisce principalmente nella terza classe, in cui
il giudizio della possibi lità afferma che un concetto è suscettivo d'una data
determinazione, benchè possa non averla ( Per es . una casa può essere di nove
piani ) , mentre il problematico afferma soltanto la nostra incertezza (A è B ?
). Tuttavia , affine di non moltiplicare eccessiva mente le suddivisioni, nella
logica si può prescin dere dal considerare queste differenze. Riassumendo, i
giudizi si dividono : 1.º rispetto alla qualità , in affermativi e ne gativi ;
2.º rispetto alla quantità, in universali e par ticolari ; 3.º rispetto alla
relazione, in categorici, ipo tetici e disgiuntivi (categorico -disgiuntivi e
ipote tico -disgiuntivi) ; 308 4.º rispetto alla modalità , in apodittici,
asser torii e problematici. Secondo alcuni logici poi la modalità nor non
appartiene alla forma logica del giudizio, ma alla sua materia. Alle
distinzioni sopra enumerate alcuni vogliono aggiunta anche questa in : a) giudizi
narrativi, nei quali il predicato esprime un fatto e suol essere rappresentato
da un verbo ; b ) descrittivi, nei quali il predicato è una pro prietà del
soggetto e suole grammaticalmente essere espresso da un aggettivo ; c )
esplicativi, nei quali il predicato è un con cetto più generale, per se stante,
nella cui esten sione viene collocato il soggetto e solitamente si esprime
mediante un sostantivo (Esempi di queste tre specie : Cesare fu ucciso in
Senato, il gelsomino è odoroso, il triangolo è una figura ). La qualità e
quantità de' giudizi vengono de . signate per brevità colle lettere a, e, i, o,
secondo i versi mnemonici : Asserit a negat e, sed universaliter ambo ; Asserit
i negat o, sed particulariter ambo . Altri preferiscono i seguenti segni : a =
72 19 ta = giudizio universale affermativo negativo particolare affermativo Pр
negativo. P 79 72 309 Osservazione sul giudizio ipotetico . - Codesta forma di
giudizio è stata interpretata in quattro maniere, ciò sono : 1.º Come un
giudizio, il cui soggetto e predi cato sono il soggetto e il predicato del
conseguente, ma la copula è subordinata all' antecedente come a condizione.
(Dato p . es. il giudizio ipotetico : Se A é B, C è D , il soggetto sarebbe C ,
il predicato D , e la copula ( ė ) è posta sotto la condizione che A sia B ).
2.º Come un giudizio, il cui soggetto è il con seguente e il predicato è il suo
dipendere dall'an tecedente . Ossia, dato il tipo precedente, del nesso (Cé D)
si afferma ch'esso dipende dal nesso (A é B) . 3º. Come un giudizio , in cui l
' antecedente fa da soggetto ed il conseguente equivale al predicato . Cioè del
nesso (A è B) si afferma che da esso di pende la realtà del nesso ( CUD) .
Questa interpre tazione, che è la preferita dalla scuola erbartiana, è comoda
specialmente per la trattazione dei sillo gismi . 4.° Come un giudizio, il cui
soggetto è il nu mero dei casi in cui si avvera l'antecedente, e di questo si
afferma ch'esso coincide o non coincide, in tutto o in parte, col numero de
casi in cui si avvera il conseguente, che costituisce il predicato. Secondo
quest'ultinia interpretazione il giudi zio ipotetico non esprime la dipendenza
o condi zionalità dell'un membro rispetto all'altro, ma sol tanto la loro
connessione di fatto ossia la coincidenza. 310 Prendendo i giudizi ipotetici
secondo una delle tre prime interpretazioni, questi non possono esser mai
particolari. Infatti, posto un giudizio di questa forma : qualche volta , se A
è, B'è che sarebbe la forma del giudizio ipotetico particolare) , non si po
trebbe più dire che B dipenda da A. Un'altra questione sorge a proposito del
giu dizio ipotetico , vale a dire quand' esso debba dirsi negativo. Secondo
taluni il giudizio ipotetico ne gativo è quello, col quale si nega che il
conseguente dipenda dall'antecedente. Ma hanno torto, o per lo meno questo modo
di vedere sconvolge tutta la teoria del giudizio. Noi diremo a miglior diritto
essere negativo quello, in cui è negativo il conse guente (p. es . se A è, B
non è, oppure se A è B, C non è D) . Se fosse negativo l'antecedente e po
sitivo il conseguente, il giudizio sarà ancora affer mativo (p. es . se A non è
B, C è D, è un giudizio affermativo ). Quell' altra maniera di considerare il
giudizio ipotetico negativo ( se A è, non ne segue che B sia , oppure se A è B,
non ne segue che C sia D ) sarebbe più presto una forma di giudizio ipotetico
parallela a quella dei giudizi categorici da noi chiamati disparanti. - 311 -
CAPITOLO IX. Relazioni logiche possibili tra due giudizi considerati in
rispetto alla loro qualità e quantità Perchè due giudizi possano essere
paragonati logicamente tra di loro, occorre che abbiano la stessa materia, cioè
che contengano i medesimi concetti. Osservazione. -- Ci sono relazioni logiche
an che tra due giudizi , che hanno la stessa materia solo in parte ; per es .
tra questi A è Be A è C ; oppure A è B, C è B. Ma queste speciali relazioni qui
non si considerano, come quelle di cui si dovrà trattare nella teoria del
sillogismo . Ciò posto, divideremo tutte le relazioni formali, che possono aver
luogo tra due giudizi contenenti gli stessi concetti e considerati in rispetto
alla loro qualità e quantità secondo lo schema seguente : Indicando con a la
medesima posizione dei concetti ; con P la posizione inversa de' concetti ; con
y la medesima qualità ne' due giudizi ; con 8 la qualità contraria ne' due
giudizi ; con & la medesima quantità ne' due giudizi ; con Ġ la quantità
differente ne' due giudizi, avremo : 312 E aye relazione d'identità (A è B , A
è B ). 12 Ś - ays relazione di subalternazione ( A è B, qualche A. è B, A non è
B , qualche a non è B) ; dove l'universale si chiama subalternante é il par
ticolare subalternato. a E ada relazione di contrarietà ( se i giudizi sono uni
versali ) ( A è B, A non è B ; di subcontrarietà ( se particolari ) qualche d è
B, qualche A non è B ). 8 Ś = ad relazione di contradditorietà (tutti yli A
sono B, qualche A non è B ; oppure : nessun A è B, qualche A è B ). E = Byɛ
relazione di conversione semplice ( A è B, B è A; qualche A è B , qualche B é A
; A non è B, B ༡༨ non è A ; qualche A non è B, qualche B non è A ). Ś = By5
relazione di conversione accidentale ( A è B , qualche B é A ; A non è B,
qualche B non è A). Bdɛ relazione di contrapposizione semplice ( A è B, ciò che
non è B non è A ; qualche A è B , qual che non - B non è A; A non è B, ciò che
non è Bè A ; qualche A non è B, qualche non- Bè 4). d Ś = 386 relazione di
contrapposisione accidentale (A è B, qualche non - B non è A ; Anon è B, qual
che non - B è A ; qualchè A è B , ciò che non è B non è A ; qualche A non è B,
ciò che non è B è A ) ( 1 ). ( 1 ) La conversione e la contrapposizione si
chiamano semplici, se i due giudizi , hanno la stessa quantità, cioè sono o
ambedue universali o ambedue particolari; si dicono acci dentali ( per
accidens) ove la quantità sia differente, cioè l'uno sia universale e l'altro
particolare. 313 contra vorietà Le relazioni 2a, 3a, e 4a, cioè tutte le
relazioni formali possibili tra due giudizi, data la stessa po sizione dei
concetti (escludendo la 1a, d'identità, che non è veramente relazione tra due
giudizi, giac che i giudizi identici non sono che un giudizio solo) furono
dagli antichi simboleggiate nel se guente diagramma: a contrarietà e
subalternazione subalternazione subcontrarietà Dove convien rammentarsi che a significa
un giudizio universale affermativo, e un g. universale negativo, i un g.
particolare affermativo, o un g. particolare negativo ( 1) . ( 1 ) Sarà un
esercizio utile pei principianti di trovare esempi concreti per ciascuna delle
relazioni di giudizi sopra indicate. Noi ce ne siamo astenuti per non
ingrossare senza necessità il volume. Il medesimo diciamo in riguardo ai
capitoli seguenti che trattano delle inferenze immediate e delle forme sillogi
314 CAPITOLO X. Delle inferenze immediate a) specie prima (dipendente dalla
qualità e quantità) Quando da un giudizio dato se ne può rica vare un altro
immediatamente, cioè senza uopo di un terzo giudizio, ha luogo quella che
dicesi infe renza immediata . Noi distingueremo tre specie di tali inferenze :
a) quelle che nascono dai rapporti formali tra due giudizi , dipendenti dalla
qualità e quantità loro ; b) quelle che procedono dalla relazione ; c) quelle
che dipendono dalla modalità . Noi indicheremo qui sommariamente le infe renze
della specie accennata sub a, le quali dipen dono dai rapporti formali, che
possono intercedere tra due giudizi, svolti nel capitolo precedente, omet tendo
quello d'identità. 1.º Dalla subalternazione. Dal gudizio subal ternante si
deduce legittimameute il subalternato, ossia se il subalternante è vero, sarà
vero anche il stiche. Noi per brevità abbiamo dato il nudo schematismo ;:
l'insegnante potrà proporre o far cercare agli alunni gli esempi opportuni a
illustrarlo . – 315 1 subalternato. (Se è vero il giudizio : tutti gli A sono B
, sarà vero anche il giudizio : alcuni A sono B. Se è vero : nessun A è B, sarà
vero anche che qual che A non è B ). Ma dalla verità del subalternato non segue
la verità del subalternante. I alla falsità invece del subalternato segue la
falsità del subalternante. Ma dalla falsità del su balternante non segue la
falsità del subalternato. Osservazione. Questa legge della subalter nazione è
valida soltanto ove il giudizio partico lare sia preso in senso lato (cioè nel
senso dell'al meno non in quello del soltanto ). Se invece il giu dizio
particolare si prenda in senso stretto , dalla verità del subalternante segue
la falsità del subal ternato e dalla verità del subalternato segue la falsità
del subalternante ; ma dalla falsità del su balternante nulla segue rispetto al
subalternato. 2.° Dalla contrarietà . Due giudizi contrari non possono essere
amendue veri, ma possono bensì es sere amendue falsi; ossia dalla verità
dell'uno segue la falsità dell'altro, ma dalla falsità d'nino nulla segue
rispetto all'altro . 3. ° Dalla subcontrarietà . Due giudizi subcon trari
possono essere amendue veri , ma non amendue falsi. Ossia dalla verità dell'
uno nulla segue ri spetto all'altro ; ma se l'uno è falso, l'altro deb b'
essere vero . Osservazione. Anche questa legge vale so lamente prendendo i
giudizi particolari in lato - 316 senso. Prendendoli in senso stretto dalla
verità del l'uno segue la verità anche dell'altro; ma dalla falsità di uno
d'essi nulla segue rispetto all'altro . 4. Dalla contradittorietà . Due giudizi
contra dittorii non possono essere nè amendue veri ne amendue falsi. Quindi
dalla verità dell' uno segue la falsità dell'altro, dalla falsità dell'uno la
verità dell' altro. 5.º. Dalla conversione. Un giudizio universale affermativo
può essere convertito solo accidental mente ; l'universale negativo può essere
convertito e semplicemente e accidentalmente. Un giudizio par. ticolare
affermativo può essere convertito solo sem plicemente. Il particolare negativo
non ammette conversione. Osservazione. -- Anche qui si prende il giudizio
particolare in senso lato. Prendendolo in senso stretto, l'universale negativo
non può essere con vertito accidentalmente e il particolare affermativo non si
può convertire. 6.° Dalla contrapposizione. Il giudizio univer sale affermativo
può essere contrapposto semplice mente e accidentalmente. L'universale negativo
solo accidentalmente. Il particolare affermativo non ammette contrapposizione ;
il particolare negativo può essere contrapposto semplicemente. Osservazione 1.
– Anche per questa legge vale l'osservazione precedente . Osservazione 2. - La
dimostrazione di tutte le inferenze, così valide come invalide, indicate in -
317 questo capitolo , è assai facile, qualora si ricorra al paragone delle
estensioni , nel che serve di grande aiuto l'uso delle rappresentazioni
simboliche. Pren dasi per es . la relazione di contrarietà . Tutli gli A sono B
, nessun A i B. Che non possano essere amendue veri risulta intuitivamente
dalla figura . Sia B vero il primo si avrà ; ora il contrario А non è
compossibile col B. primo. Che poi possano essere falsi entrambi lo mostra il
caso , che i due concetti A e B siano in A terferenti O ; il qual caso esclude
B tanto che tutti gli A siano B , come che A А B nessun A sia B Però la O
dimostrazione di tutte le leggi delle inferenze immediate può essere un utile
esercizio da farsi dagli alunni. 318 CAPITOLO XI . b ) specie seconda (
inferenze della relazione) Diconsi inferenze della relazione quei giudizi che
possono dedursi da un altro con mutamento della relazione. Così da un giudizio
categorico affermativo si può dedurre un ipotetico affermativo e uno nega tivo
. Infatti dato il giudizio : A e B si ha diritto d'inferirne che : se A è, B é,
ed anche che, se B non è, A non é. La ragione è facile a intendersi ; perchè se
B é un predicato di A , la realtà di A trarrà seco quella di B ; e togliendo B,
la cui esten sione comprende quella di A, si toglie anche A. Dal giudizio
categorico disgiuntivo si possono dedurre parecchi ipotetici , che qui
brevemente in dicheremo. Sia dato il giudizio A é o M o N o P , ne segue : 1º.
Se A è, Ô M o N o P è. 2." Se A è M, esso non è nè N nè P. 3.° Se A non è
M , esso è o N o P. 4.° Se A non é nė M né N , esso é P. 5.° Se nè M nè N nè P
è, A non é. 319 CAPITOLO XII . c ) specie terza ( inferenze modali) Chiamasi
inferenza o conseguenza modale la deduzione d'un giudizio da un altro per mezzo
di un cangiamento di modalità. Il principio che giustifica tali inferenze è que
sto, che affermando il più si afferma implicitamente anche il meno e negando il
meno si nega impli citamente anche il più : ma non inversamente. Quindi dalla
verità d'un giudizio apodittico s' inferisce legittimamente la verità
dell'assertorio e del problematico ; ma non in ordine inverso. Dalla falsità
poi d'un giudizio problematico segue la falsità dell'assertorio e tanto più
dell'apo dittico ; dalla falsità del giudizio assertorio segue la falsità
dell'apodittico ; ma non viceversa . OSSERVAZIONE 1. – Le leggi precedenti sono
giustificate da ciò che la negazione d'un giudizio problematico è un giudizio
apodittico, mentre la ne gazione d'un apodittico, è un giudizio problematico.
OSSERVAZIONE 2. Si avverta che il giudizio problematico negativo ha la forma A
può non esser Be non già questa : A non può esser B. Quest'ul timo è un
giudizio apodittico. . 320 Queste relazioni appariscono intuitivamente nella
tabella seguente. 1 2 3 dover essere essere poter essere 4 5 6 non dover essere
non essere non poter essere ! Dove si vede che le formole 4, 5, 6 sono le formole
1 , 2, 3 ' coll' aggiunta della negazione. Ora mentre il n. 1 è apodittico, il
n. 4 è problematico : mentre il n . 3 è problematico, il n . 6 ė apodittico .
Osservazione 3. -- Le formole 1 , 2, 3, potreb bero essere anche negative ; in
tal caso la tabella precedente si trasforma in quest'altra. 1 1 2 3 dover non
essere non essere poter non essere 4 6 non dover non essere non non - essere
che equivale a poter essere che equivale a non poter non essere che equivale a
essere dover essere Col confronto delle due tabelle è facile riscon trare le
formole che si equivalgono : così il n. 6 della prima tabella equivale al n . 1
della seconda ; il n. 5 della prima è identico al n. 2 della seconda ; il n . 4
della prima equivale al n. 3 della seconda. Gli equivalenti dei numeri 4, 5, 6,
della seconda tabella sono già stati indicati nella tabella stessa. 321
CAPITOLO XIII . Giudizi composti 1 Il giudizio disgiuntivo falsamente da taluni
fu considerato come composto ; esso non è una somma di giudizi, ma un giudizio
unico indecomponibile. Giudizi veramente composti sono : 1º. i copulativi, i
quali possono essere : a ) copulativi nel soggetto. Es . A, B , C sono M. b )
copulativi nel predicato. Es. A è M , N , P. c ) copulativi in ambedue i
termini . Es. A, B, C , sono M , N , P. 2.° I remotivi. Questi alla loro volta
possono essere : a ) remotivi nel soggetto. Es. nè A, nè B , né C À M. b )
remotivi nel predicato Es. A non è nè M , nè N , nè P. In quanto ai giudizi
complessi in forma attri butiva, logicamente considerati, sono giudizi sem
plici, perchè l'attributo non è che una nota sia del soggetto sia del predicato
. Essi o 1.º sono complessi nel soggetto ; es. A ( che è M) è N. o 2.º sono
complessi nel predicato ; es . A è un M (che è N) ; o 3.º sono complessi in
amendue i termini ; es. A (che è B) è un M ( che è N). 21 322 CAPITOLO XIV. Del
sillogismo Il problema generale che un sillogismo si pro pone di risolvere è :
dati due giudizi indipendenti tra di loro, i quali contengono un termine
comune, ricavarne un terzo eliminando il termine comune. Se noi paragoniamo la
forma rigorosamente sillogistica col processo reale del nostro pensiero,
vedremo che di rado il secondo combacia esatta mente colla prima. Le cause
principali di questo fatto sono le due infrascritte. 1.º Che i nostri pensieri
e i discorsi con cui li significhiamo, anche se indirizzati a dimostrare
qualche tesi , di solito contengono più sillogismi svariatissimamente
intrecciati e allacciati insieme. 2.º Che molti giudizi, benchè formino una
parte essenziale de' nostri ragionamenti, sono sottintesi e solo implicitamente
pensati, ossia pensati senza averne piena coscienza. Ora la logica, non può e
non deve proporsi di seguire i meandri psicologici del pensiero , sibbene di
determinare le forme esatte, le quali debbono essere almeno implicitamente
osservate se il nostro ragionamento ha da essere concludente. Contro il valore
del sillogismo furono emesse, massime dai moderni, varie obbiezioni. Qui si ac
I 323 cennano brevemente le più speciose, unendo a cia scuna una concisa
risposta. 0b . 1. - Il sillogismo non produce verun au mento di cognizione,
perché la conclusione era già racchiusa nelle premesse. Risposta Codesta
obbiezione potrebbe tutt'al più esser valida se il pensare umano fosse istan
taneo e tutto abbracciasse con uno sguardo. Ma siccome è discorsivo, quindi
successivo , la combi nazione del soggetto col predicato della conclusione ha
mestieri d' essere esplicitamente pensata ; il che è per 1 appunto ciò che si
fa per mezzo del sillo gismo. 05. 2. - Il sillogismo è una pura petizione di
principio, perchè la verità della premessa mag giore dipende dalla verità della
conclusione, anzi chè questa da quella. Infatti non può esser vero per es. che
tutti gli uomini sono mortali, se già non sia vero che Pietro, Paolo, Antonio
ecc. sono mortali. Risposta. – Codesta obbiezione si fondamenta sul falso
concetto che un giudizio universale altro non sia che la somma di tanti giudizi
particolari . Ora ciò nella massima parte dei casi non è nem meno possibile,
come se per es . io dovessi aspettare a formulare il giudizio : gli uomini sono
mortali, d'aver prima verificato la morte in ciascun uomo. È vero invece che le
premesse universali parte ri sultano dall'analisi del soggetto considerato
nella sua comprensione, parte da nessi necessari tra un 324 concetto e un
altro, parte da legittime induzioni. In generale sono indipendenti dai singoli
giudizi particolari e il sillogismo applica a questi la regola già riconosciuta
nel generale. 06. 3. - Il sillogismo potrà servire tutt'al più a rischiarare o
ad esporre sistematicamente ve rità già note, ma non mai a scoprirne, perché la
scoperta del nuovo si fonda su processi psicologici . Risposta. Prima di tutto
è da notarsi, che tra i processi psicologici, onde può risultare la sco perta
di nuove verità, ce ne sono anche di quelli che coincidono col sillogismo. Ma
quel che più importa si è che un processo psicologico, in quanto tale, non ha
alcun valore scientifico e quello che può avere è giustificato soltanto dal
processo logico che lo informa. Finalmente contro tutte le predette obbiezioni
e altre analoghe sta questa osservazione fondamen tale, che le premesse d'un
sillogismo contengono la ragione della conseguenza. Certo se è vero che tutti
gli uomini sono mortali e che Pietro è uomo, è già vero che Pietro è mortale ;
ma questa pro posizione è vera appunto perché sono vere le prime due e il
valore del sillogismo consiste nel mostrare questa dipendenza. 325 CAPITOLO XV.
Classificazione dei sillogismi Tutti i sillogismi semplici possono ripartirsi
nelle cinque classi seguenti : 1. ° categorici puri, e sono quelli in cui tanto
le premesse come la conclusione sono giudizi ca tegorici ; 2.° categorico -
ipotetici o ipotetici spurii, nei quali si le due premesse come la conclusione
sono giudizii ipotetici ; 3.0 ipotetico -categorici o ipotetici in senso pro
prio, che sono quelli la cui premessa maggiore è un giudizio ipotetico, la
minore un giudizio cate gorico e la conclusione ordinariamente non sempre) un
giudizio categorico ; 4. ° categorici disgiuntivi, nei quali la maggiore è un
giudizio categorico disgiuntivo, la minore un giudizio categorico semplice o
anche.categorico di sgiuntivo, la conclusione un giudizio categorico semplice o
anche categorico - disgiuntivo ; 5.° ipotetici disgiuntivi, in cui la premessa
mag giore è un giudizio ipotetico disgiuntivo, la minore è un giudizio
categorico semplice o categorico di sgiuntivo, la conclusione un giudizio
categorico semplice o disgiuntivo. - 326 Osservazione 1 . Alcuni considerano
l'indu zione e l'analogia come forme speciali d'argomen tare distinte dal
sillogismo ; ma noi vedremo a suo luogo che non sono se non casi particolari di
questo. Osservazione 2. – C'è chi distingue prima di tutto i sillogismi in
semplici e composti . Ma i così detti sillogismi composti non sono che serie di
sil logismi semplici , i quali ricevono la loro unità dalla forma stilistico -
grammaticale . CAPITOLO XVI. Del sillogismo categorico (puro) I due giudizi, da
cui si cava il terzo , qui come in tutte le forme di sillogismo, si chiamano
pré messe ; il terzo conclusione . I concetti o termini, che esso contiene, non
possono essere nè più né meno di tre, perché le due premesse debbono avere un
termine comune. S'intende da sè che i concetti o termini del sillogismo possono
essere significati verbalmente o con una parola o con parecchie. Di questi tre
concetti quello che è comune ad ambedue le premesse e che dev'essere escluso
dalla conclusione dicesi medio , gli altri due diconsi - 327 estremi ; dei
quali il soggetto della conclusione chiamasi minore, il predicato della
conclusione, maggiore. Delle due premesse l ' una si dice maggiore e suol
essere più generale, l'altra minore. Quella, nel sillogismo ordinato, si
enuncia per prima, que sta per seconda. Per altro la premessa maggiore è
distinta rigorosamente dalla minore solo nella fi gura prima, come si vedrà a
suo luogo. Il sillogismo può avere diverse figure (oxńuara) secondo la
posizione che occupa il termine medio. Se questo funge da soggetto nella
maggiore e da predicato nella minore si ha la figura prima. Se è predicato in
entrambe le premesse, si ha la figura seconda. Se è soggetto in tutte e due, si
ha la fi gura terza. Fnalmente se è predicato nella mag giore e soggetto nella
minore, avremo la quarta figura. Le tre prime furono scoperte da Aristotele ;
la quarta è attribuita a Galeno. Eccone qui i tipi ; dove si noti che con S si
indica il termine minore , con M il medio, con P il maggiore. Fig. 1. Fig. 2.a
Fig . 3.a MP PM MP Fig . 4.8 PM SM Ş M MS MS SP SP SP SP - 328 SM Osservazione.
– L'ordine in cui vengono enun ciate le premesse è indifferente rispetto al
produrre la conclusione ; questo per altro è l'ordine normale. Ma rispetto alla
figura 1.a alcuni, col Leibniz, so stennero come più naturale l'ordine inverso
come quello in cui apparisce intuitivamente la con tinuità della
subordinazione, conformemente al tipo matematico (S < M < P ). Codesta
continuità però è intuitiva anche nell'ordine tradizionale, quando come appunto
suol fare Aristotele, nell'enunciare il giudizio si parte dal predicato (P
compete ad M , M ad S) . Siccome poi le premesse possono variare di qualità e
di quantità, cosi si hanno tanti modi (τρόποι των σχημάτων ) quante sono le
combinazioni che due giudizi possono presentare sotto questo rispetto. Queste
in effetto sono sedici per ciascuna figura a a e a ia оа a e e e ie ое ( 1) αι
ei i i o ¿ α Ο e o io 00 e pertanto sessantaquattro per tutte le figure. ( 1)
Cioè amendue le premesse universali affermative ( a a) , la maggiore universale
affermativa e la minore universale negativo (a e ), la maggiore universale
affermativa e la minore particolare (a i) , ecc. 4 329 Ma dei 64 'modi
possibili, ce n'è 41 che non danno conclusione ; sicchè i modi concludenti e
quindi validi si riducono a 19 tra tutte le figure ; dei quali 4 appartengono
alla figura prima, 4 alla seconda, 6 alla terza e 5 alla quarta. Essi sono
enumerati nei seguenti versi barbari, che con qual che leggera variante si
trovano per la prima volta nelle Sunmulae logicales di Petrus Hispanus , il
quale fu poi papa Giovauni XXI. Barbara , Celarent, primae, Darii, Ferioque ;
Cesare, Camestres, Festino , Baroco , secundae ; Tertia grande sonans recitat
Darapti, Felapton , Disamis , Datisi, Bocardo. Ferison. Quartao Sunt Bamalip,
Calemes, Dimatis, Fesapo, Fresinon . L'artifizio di questi versi mnemonici (
tante volte messi in ridicolo, eppure anche a ' giorni no stri reputati
utilissimi, come sussidio alla memoria, da filosofi insighi d'oltralpe)
consiste in questo : che le vocali di ciascun vocabolo denotante un modo
indicano la qualità e quantità delle premesse e della conclusione. Per es. i
tre 4 di Barbara significano che nel 1.º modo della 1.a figura sono universali
afferma tive le due premesse e la conclusione ; l'e, i, o, di Festino significano
che nel 3.º modo della 2. figura la maggiore è universale negativa (e ), la
minore particolare affermativa (ë ), la conclusione particolare negativa (0) ,
ecc. In quanto alla consonante iniziale, questa nella figura prima esprime il
numero d'or 330 dine nel modo (B essendo la prima consonante del l ' alfabeto,
C la seconda, D la terza, F la quarta ) ; ma nelle altre figure indica a qual
modo della 1.8 figura quel dato modo venisse ridotto nella logica aristotelico
- scolastica per dimostrarne la validità. (Per es. l'iniziale di Cesáre e
Camestres nella fi gura 2.a e di Calemes · nella 4.&, indicano che tutti e
tre questi modi si dimostrano con ridurli al modo Celarent della 1.a figura ).
Le altre consonanti, nella figura 1. sono puramente eufoniche ; ma nelle re
stanti figure le lettere s, m , p, c, significano l'ope razione logica, che si
deve eseguire per dimostrare la validità di quel dato modo riducendolo a un
modo della figura 1. Così s significa conversio Sim plex, p conversio Per
accidens, m Metathesis prae missarum , c ductio per Contradictoriam proposi
tionern . Che se si chiedesse con qual metodo e secondo quali criteri siansi
trascelti fra i 6+ modi possibili i 19 dati come concludenti, si risponde che
Aristo tele e in generale gli antichi e gli scolastici si servirono a tal uopo
d'un processo differente da quello che preferiscono i moderni . Aristotele di
mostra dapprima quali modi siano validi e quali no nella figura 1.a ; e ciò fa
sia partendo da' prin cipi generali del ragionamento, sia per via d'esempi. Per
le altre figure procede in parte riducendone i modi a quelli della figura 1.“,
in parte per via di esempi, ossia mostrando che, se si ammettesse la validità
di certi modi, si avrebbero conclusioni ma 331 nifestamente false. Questo processo
non è rigoro samente logico. I moderni in generale procedono per via d'eli
minazione, cioè scartano via via tutti quei modi ne' quali dalle relazioni tra
gli estremi e il medio contenute nelle premesse non risulta determinata la
relazione tra i due estremi. E ciò fanno col con fronto delle estensioni, nel
che ci si può giovare anche dei simboli grafici. Contro questo metodo si può
obbiettare che è meccanico e che suppone che le premesse siano sempre giudizi
di subassunzione e che il predicato sia sempre un concetto sostantivo, mentre
in realtà esso può rappresentare anche un'attività, una pro prietà, uno stato
del soggetto. A ciò si risponde 1.º che ogni giudizio, anche se narrativo o
descrit tivo, contiene pur sempre una subassunzione ( 1) ; 2.º che per mezzo
dello spostamento di categoria è sempre possibile concepire il predicato
sostanti vamente. Ora applicando il detto processo d'eliminazione, si ripudiano
1.º i modi e e, eo, o e , oo in tutte o quattro le figure. Con che si
giustifica l'antica re gola : ex mere negativis nihil sequitur. I rapporti tra
le estensioni degli estremi e del ( 1 ) Pietro ieri passeggiava in giardino
equivale alla subassunzione di Pietro sotto gli esseri che ieri passeggiavano
in giardino. Indichiamo con P il complesso di tutti quelli che ieri
passeggiavano in giardino e abbiamo Pietro e P. 332 medio si possono
simboleggiare come segue nella ipotesi e e, ossia che entrambi le premesse
siano universali negative. Mм P S M M S Dove si vede a colpo d'occhio , che
stando ferma la esclusione re ciproca tra M e Pe tra Se M , la relazione di S
con P può concepirsi in tutti i modi possi bili ; il che val quanto dire che
niuna conclu. sione è legittima. Se poi una delle pre messe (come in eo e in o
e) od amendue ( 0 o) siano particolari, l ' in determinazione è anco ra
maggiore. Così sono scartati 16 modi. 2.° In guisa analoga si eliminano i modi
che hanno amendue le premesse particolari e ciò per tutte le figure. Donde la
regola : ex mere particu laribus nihil sequitur. I modi che per questa legge
vengono esclusi sono i i, io, oi, oltre ad oo, che fu già eliminato in forza
della legge precedente. Sono così espunti altri 12 modi. 3.° Si rifiutano
similmente per tutte le figure M M SP 333 io, quei modi che hanno una maggiore
particolare e insieme una minore negativa. Così si elimina i e in tutte le
figure (giacchè io, o e, 00 sono già stati eliminati) e così altri 4 modi sono
dimostrati in concludenti . 4.° In figura 1.a se la maggiore è particolare e
del pari se la minore è negativa, non si ha con clusione. Restano cosi esclusi
per la figura 1a, oa, o e , a o ( essendochè gli altri modi che cadono sotto
questa legge sono già stati esclusi in virtù delle leggi precedenti ) . Ecco
dunque eliminati altri 4 modi. 5.° In figura 2.a sono invalidi i modi , ne '
quali la premessa maggiore è particolare e quelli in cui entrambi le premesse
sono affermative. Così, oltre a' già esclusi, sono eliminati dalla totalità dei
64 gli altri 4 modi i a , o a, a a, ai in fig . 2. * 6. ° In figura 3."
sono esclusi i modi , che hanno la minore negativa ; quindi, oltre a' già
esclusi , si espungono a e , a o. Altri due della totalità. 7.° In figura 4.
non sono concludenti quei modi in cui sia contenuta una premessa particolare
negativa. Sicché , oltre a' già esclusi, vengono eli minati i modi o a e ao. Di
più in questa figura è invalido anche il modo che ha la maggiore univer sale
affermativa con una minore particolare affer mativa ( a i) . Eliminati così
altri tre modi, che coi precedenti sommano a 45, restano i 19 concludenti. 334
Con un processo simile si dimostra la validità di questi ( 1 ) . Dall'ispezione
comparativa di tutti i modi con cludenti si ricavano le infrascritte regole per
tutte le figure. 1.° Se amendue le premesse sono affermative, la conclusione sarà
pure affermativa. 2. ° Se una delle premesse è negativa, negativa è pure la
conclusione . 3.° Se ambe le premesse sono universali, la conclusione sarà
universale nelle figure prima e se conda e talvolta nella quarta ; nella terza
e talvolta nella quarta particolare. 4. ° Se una delle premesse è particolare,
è par ticolare anche la conclusione. 5.° La figura prima ha conclusioni di
tutte le forme; la figura seconda solamente negative, la terza solamente
particolari . Le regole quassù esposte sono compendiate nel detto : conclusio
sequitur pártern debiliorem ( dove s'intende che un giudizio negativo è più
debole d'uno affermativo, uno particolare più debole d'uno ( 1) Un 'esercizio
che potrà essere utilmente fatto dagli alunni, sarà di dimostrare quali siano i
modi concludenti e i modi non concludenti per ciascuna figura, sia col metodo
di raffrontare le estensioni dei termini , di cui s'è dato un esem pio rispetto
a quelli che hanno ambedue le premesse nega tive, sia col metodo aristotelico -
scolastico della riduzione alla figura prima. 335 universale ). Questa legge
poi vale non solamente per la qualità e quantità delle conclusioni, ma an che
per la loro modalità. Vero è che Aristotele in segna che con una premessa
apodittica e una as sertoria si può avere una conclusione apodittica. Ma ciò
non è rigorosamente vero, come già rico nobbero gli antichi. CAPITOLO XVII .
Del sillogismo per sostituzione Se un dato concetto fa parte comecchessia (at
tributivamente od obbiettivamente) del soggetto o del predicato d' un giudizio
, servendo a determi narli , e se da un secondo giudizio risulta che quel
concetto è equipollente a un altro, questo potrà es sere sostituito a quello
nel primo giudizio. Così s'avrà un sillogismo che chiamasi di sostituzione.
Eccone il tipo . 1 2 Am è P A è Pm in S m S dunque As è P dunque A è Ps. Ma se
il giudizio, che funge da premessa mi nore non è un giudizio d'identità,
sibbene di sub assunzione, in quali casi sarà lecito sostituire nella premessa
maggiore il nuovo termine della minore ? 336 Se il dato concetto fa parte del
soggetto della maggiore, potrà essere sostituito da qualunque con cetto che sia
subordinato al primo . Se in cambio esso fa parte del predicato, vi si potrà
sostituire qualunque concetto, che contenga il primo cioè che gli sia
logicamente superiore. Così : 3 4 Am é P s è m A è Pm m è s dunque As è P ( 1 )
dunque A è Ps Questa regola vale se il concetto dato entra nella maggiore sotto
forma positiva ; che se v'entra negativamente, allora vale la regola inversa 5
6 A non mè P m és A è P non m s è m dunque A non s è P dunque A è P non s La
dimostrazione di queste leggi si trova fa cilmente col confronto delle
estensioni e potrà as segnarsi per esercizio agli scolari, come pure l'esco
gitare degli esempi concreti. ( 1) Si avverta esser facile a cadere in equivoco
riguardo a questa formola, qualora si ritenga che la conclusione af. fermi che
A è s, mentre afferma soltanto che se A è s, esso è P. 337 Noi daremo un
esempio del tipo N. 3 . Lo studio delle lingue classiche giova a formare la
mente. Il latino è una lingua classica. Dunque: Lo studio del latino giova a
formare la mente. La logica aristotelico - scolastica ha trascurato questa
forma di sillogismo , che pure è quella di cui si fa uso più frequente.
CAPITOLO XVIII . Dei sillogismi ipotetici spurii o categorico- ipotetici Se
entrambe le premesse d’un sillogismo sono giudizi ipotetici, si avrà una
conclusione del pari. ipotetica e, quando s'adotti il sistema di risguar dare
l'antecedente come soggetto e il conseguente come predicato, anche la posizione
dei termini sarà identica a quella dei sillogismi categorici . Anzi , secondo
alcuni trattatisti di logica, si avranno esat tamente tutte le figure e i modi
del sillogismo ca tegorico. Figura 1. Figura 2.2 modo BARBARA modo CAMESTRES Se
A è B, C è D Se E è F , A è B Se A e B, C e D Se E è F , C non è D Se E è F ,
CD . Se E è F, A non è B 22. · 338 Figura 3.2 Figura 4.a modo DARAPTI modo
BAMALIP Se A e B, C D Se A i B, E È F se A è B , C i D se c è D, E è F
Talvolta, se E é F, C è D. Talvolta, se E é F , A è B. E così dicasi degli
altri modi delle varie figure. Senonchè contro questa dottrina si solleva una
gravissima difficoltà ; poichè come abbiamo veduto, un giudizio ipotetico, ove
s'interpreti come espri mente la dipendenza del conseguente dall'antece dente,
non può esser mai particolare . Resterebbero quindi escluse le figure 3.8 e 4.a
e tutti i modi delle altre due, in cui o nelle premesse o nella conclusione
entri un giudizio particolare. Se in cambio s'interpreti il giudizio ipotetico
come semplice coincidenza dell'antecedente col con seguente, tutte le figure e
tutti i modi del sillo gismo categorico si potranno applicare anche ai giudizi
ipotetici. Perocchè in tale ipotesi il giudizio ipotetico universale
affermativo significa che la to talità dei casi, in cui s'avvera l'antecedente,
coin cide con una parte almeno de' casi in cui s ' avvera il conseguente ; e il
giudizio ipotetico particolare affermativo significa che una parte dei casi ,
in cui s'avvera l'antecedente, coincide con una parte al meno de' casi, in cui
s'avvera il conseguente. Ana logamente dicasi dei negativi. Così p. es. nel
modo Darapti in figura 3. recato qui sopra, la maggiore 339 significa che il
numero totale dei casi , in cui A è B coincide con una parte almeno dei casi,
in cui C è D ; la minore significa che la totalità dei casi, in cui A e
B.coincide anche con una parte almeno dei casi , in cui E è F. Sicché è
legittima la con clusione che una parte dei casi in cui E é F coin cide con una
parte almeno de' casi in cui C e D. Conclusione espressa dal giudizio :
Talvolta se E è F, C e D. Se pertanto al giudizio ipotetico voglia man tenersi
il suo significato tradizionale, di esprimere cioè la dipendenza del
conseguente, come condizio nato, dall'antecedente, come condizione, questa teo
ria deve essere rigettata. Siccome per altro anche la semplice coincidenza o
connessione è una rela zione , che effettivamente ha luogo tra i fatti, è pur
legittimo anche il sillogismo inteso in questo senso. Solo a togliere gli
equivoci, sarebbe neces sario farne una classe a parte e designarlo con un nome
particolare. E ciò basti per la presente que stione, che il diffonderci di più
sarebbe violare le proporzioni di questo trattatello elementare. 1 CAPITOLO XIX
. Dei sillogismi ipotetici propriamente detti ossia ipotetico- categorici Sono
questi quei sillogismi, di cui la maggiore è un giudizio ipotetico , la minore
è un giudizio 340 categorico che afferma l'antecedente o nega il con seguente
della maggiore e la conclusione è un giu dizio categorico il quale afferma il
conseguente o nega l'antecedente della maggiore. Sicché questo sillogismo ha
due modi fonda mentali, il modo ponente ( ponendo ponens) e il modo tollente (
lollendo -tollens). 1 2 MODO PONENDO PONENS MODO TOLLENDO - TOLLENS Se A e B, C
è D A è B Se A è B, C e D C non è D Dunque CD Dunque \ non i B Il modo ponente
segue il tipo della prima fi gura del sillogismo categorico, il tollente quello
della figura seconda. La conclusione poi si giusti fica col metodo della
riduzione all'assurdo ; perchè , supponendo falsa la conclusione, ne segue
esser falsa una delle premesse . Onde la regola : posta la condizione, è posto
il condizionato, ma non vice versa ; tolto il condizionato, è tolta la
condizione, ma non vice versa. Che se nella premessa maggiore il conseguente
sia negativo, si hanno due modi po nendo tollentes. . 3 4 MODO PONENDO TOLLENS
MODO PONENDO TOLLENS Se A ¿ B, C non ¿ D A e B Se A è B, C non ¿ D Сер Dunque C
non è D Dunque A non è B 341 Se l'antecedente è negativo e affermativo il
conseguente, si hanno due modi lollendo ponentes. 5 6 MODO TOLLENDO PONENS MODO
TOLLENDO PONENS Se A non è B, C è D A non è B Se A non è B, C è D C non è D
Dunque C è D Dunque A è B Finalmente, ove siano negativi tanto l'antece dente
quanto il conseguente, si avranno i due modi seguenti : 7 8 MODO TOLLENDO
TOLLENS MODO PONENDO PONENS Se A non è B, C non è D A non è B Se A non è B , C
non è D C è D Dunque C non è D Dunque A è B Un caso particolare di sillogismo
ipotetico, che merita considerazione, sebbene per quanto a me consta non sia
stato mai trattato dai logici , è il seguente. Sia la premessa maggiore un
giudizio ipotetico copulativo nel soggetto, ossia tale che il condizio nato
dipenda da più condizioni riunite ; se la mi nore afferma la realtà d'una o più
di tali condizioni , non però di tutte , la conclusione sarà un giudizio
ipotetico, nel quale il conseguente dipenderà da quella o quelle condizioni,
che non sono state poste nella premessa minore. Tipo 342 1 MODO PONENTE Se A è
B, C e D, ed E è F S è P A è B e C è D dunque Se E è F , S è P Ora siccome il
progresso scientifico consiste per gran parte nel trasformare i giudizi
ipotetici in categorici , è chiaro che questa forma d'argomen tazione non ha
piccola importanza, come quella che tende ad eliminare via via le ipotesi, da
cui dipende il conseguente e si accosta così sempre più allo scopo. Se poi la
premessa minore sia negativa, avremo un modo tollente, in cui la conclusione
affermerà la mancanza di tutte o d' alcune o almeno d' una delle condizioni .
Tipo 2 MODO TOLLENTE Se A è B, C è D é E è F S è P S non è P dunque o nè A è B
, nè C è D , né E é F o né A é B, né cé D o né A é B, né E é F oné C é D, né E
é F O A non é B o C non ¿ D O E non é F 343 CAPITOLO XX . Sillogismi disgiuntivi
a) CATEGORICI Il sillogismo categorico disgiuntivo ha per pre messa maggiore un
giudizio categorico disgiuntivo, per premessa minore un giudizio categorico sem
plicemente o categorico remotivo e per conclusione un giudizio categorico,
disgiuntivo o no secondo i casi. I tipi principali di questa maniera di
sillogismo possono ridursi ai quattro seguenti : 1 1 2 A è o BoCoD A é o Bo COD
F non è nè B nè C nè D dunque Fio Bo CoD dunque F non é A 3 4 Аёо восор A non è
nè B mè C A è o Bo COD A non è B dunque A è D dunque A è o COD b) IPOTETICI Il
sillogismo ipotetico disgiuntivo è quello che ha come premessa maggiore un
giudizio ipotetico 344 disgiuntivo . I principali suoi tipi sono i seguenti: 1
2 Se A ¢ B, o C é Do E é F A é B Se A e B, o C é Do E é F né Cé D, né E é F
dunque o C é Do E é F dunque A non é B 3 4 Se A e B, o C é Do E é F А ё Весё D
Se A é B, OC é Do E é F A é B e C non é D dunque E non é F dunque Eé F In tutte
poi le forme dei sillogismi disgiuntivi, se la minore nega tutti i membri disgiunti
della maggiore, la conclusione nega il soggetto ( o l'an tecedente) della
maggiore. 1 2 A É O MONOP Né Mné N né P sono Se' A é B, o C é Do E é Fo G é H C
non é D, E non é F , G non é H dunque A non é dunque A non é B Forma che dicesi
dilemma, trilemma, quadri lemma, ecc. secondo il numero dei membri disgiunti .
345 CAPITOLO XXI. Dell induzione L'induzione ( erayoyń ) non è se non un sillo
gismo , nel quale in luogo del termine medio (M) è data la serie completa o
incompleta delle sue specie ( u , u' , u ' , u ' ', ecc. ) . Il suo tipo
pertanto è questo : M, u ', u ' .... sono P My u ', u ' .... sono S dunque S è
P Il quale è un sillogismo in figura 3.a, colla differenza che la conclusione è
(o tende ad essere) universale. Se la serie delle specie di Mè completa così
nell' una come nell'altra premessa, l'induzione di cesi completa o perfetta e ,
potendosi la minore con vertire , equivale a un sillogismo in Barbara : ( u, u
' u '') sono P Séoul, ou ou" dunque S e P Ma se i concetti specifici, in cui
il medio ė risoluto, non esauriscono l'estensione di S , l'in duzione dicesi
imperfetta e, stando alle leggi for 346 mali, non può dare se non una
conclusione più o meno probabile. Infatti la conclusione attribuisce a tutta
l'esten sione del genere di S quella proprietà P, che se condo la premessa
maggiore è riconosciuta appar tenere a un certo numero delle specie di S.
Perciò suol dirsi che, a differenza del sillogismo propriamente detto, il quale
conchiude dall'univer sale al particolare, l'induzione dal particolare con
chiude all ' universale. Ma per grande che fosse il numero dei casi particolari
u , u' , u ', ecc . non si avrebbe giammai il diritto d' estendere il carattere
P ai rimanenti che con quelli costituiscono tutta l'estensione di S , quando
non s'avesse fondamento di supporre che P competa ai primi non accidentalmente,
sibbene in forza della loro comune natura. Quindi la pro babilità della
conclusione aumenta di molto qualora My u ', U " , ecc. , anzichè concetti
specifici del genere S, siano esemplari d'un'unica specie . In tal caso può
bastare che la proprietà P si scopra anche in un solo . Il principio
fondamentale, su cui si appoggia l'induzione, è la ferma nostra persuasione
dell'uni formità e della costanza delle leggi naturali. Que sto principio
tuttavia non basterebbe a fondamen tare l'induzione senza la supposizione sopra
accen nata : perché ove non si supponga che il carattere P appartenga a M, u' ,
u ', ecc. appunto in forza d'una legge di natura, non saremmo in diritto di
attri buirlo ad S. 1 347 Ma stando ad alcuni empiricisti e positivisti moderni
l'induzione è l'unica sorgente d'ogni no stra cognizione ; quindi anche il
principio della uniformità e costanza della natura non potrebb’es sere ottenuto
se non per mezzo dell'induzione. Ora ciò è contradittorio, e per fuggire questa
contrad dizione si ricorse a uno spediente poco migliore della stessa
contraddizione . Si disse che le prime nostre induzioni , non potendo
appoggiarsi a un principio che non è ancora dato, si sostengono pu ramente sul
numero dei casi, che presentano la proprietà P ; onde furono dette induzioni
per enu meralionem simplicem . Ma se la semplice enumerazione basta per le
prime induzioni, per quelle in particolare da cui poi risulterà il principio
dell'uniformità di natura, perché non dovrebbe bastare per tutte, rendendo così
inutile il detto principio ? E se non basta per le altre, come basterà per
quelle ? Se la nostra credenza nell ' uniformità e costanza delle leggi di
natura non ha fondamento logico, quindi è irragio nevole, come potranno aver
valore le induzioni fon date sopra di essa ? Non si esce da questo laberinto di
contraddi zioni e di assurdi se non si riconosca che l'uomo è particeps
rationis, cioè possiede delle verità ori ginarie , le quali poi cumunicano il
loro valore an che a quelle che si acquistano coll'esperienza, in quanto
contengono la giustificazione dei processi sperimentali e in particolare del
processo induttivo . 348 CAPITOLO XXII . Dell’analogia Con questo nome suole
designarsi un raziocinio, che va da un particolare ad un altro particolare
coordinato, ossia più specificatamente, un raziocinio, pel quale date due cose
aventi un certo numero di caratteri comuni, un nuovo carattere che si co nosca
appartenere all'una di esse viene attribuito anche all'altra. Il suo tipo è
questo A (che è m , n, q ) é P S é m, n, a dunque S é P Paragonando questa
formola col sillogismo pro priamente detto si vede ch'essa risulta di due sil
logismi, che sono : 1 2 A é m , n , 9 S é m, n, 9 A é P S é A ( Dunque S ė A ?)
Dunque $ é P È chiaro che il n . Í non autorizza a conchiu dere che Sè A,
essendo un sillogismo in figura 24 con le premesse amendue affermative. Perchè
la conclusione ( S è A), la quale deve servire di pre messa minore al n . 2,
sia legittima e certa, biso gnerebbe che la premessa maggiore del n . 1 fosse
319 convertibile semplicemente ciò, che è m , n , q, è A) . Ora ciò di regola
non si avvera e perciò le con clusioni dell'analogia non possono essere se non
più o meno probabili a seconda che l'enumerazione dei caratteri m , n , q si
accosta più o meno al tipo : ciò che è m , n, q, è A , ossia secondo che essi
ser vono più o meno perfettamente a caratterizzare A. È restato celebre il
raziocinio per analogia, col quale Franklin nel novembre 1749 argomentò che il
fulmine dovesse essere attirato dalle punte me talliche. Esso risponde
esattamente al tipo proposto di sopra. L'elettricità ( la quale è condotta dai
metalli , dà una luce d'un certo colore, ha un movimento velocissimo, ecc. ) è
attirata dalle punte metalliche. Il fulmine è condotto dai metalli , dà una
luce di quel dato colore, ha un movimento velocissimo, ecc. Dunque : il fulmine
sarà attirato dalle punte metalliche . Anche l'analogia, come l'induzione, si
fonda menta sul principio dell'uniformità delle leggi della natura e della
costanza dei tipi naturali. Vuolsi poi notare che se il fatto del riscon trarsi
i medesimi caratteri m , n , q in S ed in A non basta a provare che S sia
specie e A genere o viceversa , indicherà che almeno deve esserci tra loro una
correlazione e una corrispondenza ; sicchè se non potremo a rigore attribuire
ad $ il carat tere P , potremo attribuirgliene uno analogo Pin modo che s'abbia
la proporzione : 4 : P = S : P' . 350 E il carattere P' sarà il prodotto di ciò
per cui A coincide con S e di ciò per cui differiscono. Così in fatti ha
considerato l'analogia il Dro bisch. Il quale istituisce questo ragionamento :
Po niamo che G sia un genere di cui A e B siano specie . Dato che in A scoprasi
una nota ", questa potrebbe spettare ad A per una di queste tre ra gioni:
1.° Perché y sia un carattere del genere G. In tal caso y competerà anche a B.
2. Perché y sia nota specifica di 4 (quella per cui esso si distingue da B) .
In questo caso y non si può attribuire a B. 3.° Perché y sia il prodotto o la
risultante della natura generica di A ( cioè di G) e della sua tura specifica.
In tal caso a B si dovrà attribuire non già y , ma una nota y ' , che sia il
prodotto della natura generica che B ha comune con de delia sua peculiar natura
speclfica . Questo terzo caso sarebbe la propria e vera aualogia. Così un
naturalista, che abbia scoperto in una specie animale un dato carattere, p. e .
un certo organo, non attribuirà a un'altra specie con genere alla prima
l'identico carattere ( organo) ; ma ben piuttosto uno analogo, cioè tale che
raccolga , in sè la natura del genere e risponda insieme alla particolar natura
della seconda specie. na 351 CAPITOLO XXIII . Della prova o dimostrazione
Chiamasi con questo nome un ragionamento, il quale si propone non solamente di
vedere quali conseguenze dipendano logicamente da certe pre messe, ma bensì di
dedurre da premesse vere la verità di una conclusione. La verità da dimostrarsi
dicesi tesi o anche teorema, le premesse si chia mano argomenti. La prova è di
due specie, di cui l'una è la diretta, l'altra l ' indirelti o apagogica.
Diretta è quella che, partendo dalla verità delle premesse, ne deduce per via
sillogistica (sia poi qualunque la forma e il concatenamento dei sillo gismi)
la verità della tesi . Indiretta o apagogica quella, che muove dal supporre
falsa la tesi e da questa supposizione de duce una proposizione assurda in sé o
tale che stia in contraddizione con una verità già riconosciuta. Dicesi anche
riduzione all'impossibile o all'assurdo (ab assurdis, duà tõv aduvátov) . È una
dimostrazione indiretta anche quella che, partendo da una premessa disgiuntiva,
esclude ad uno ad uno tutti i membri di questa disgiun zione meno uno ; di che
resta provato solo valido essere quell' uno che rimane. 352 La dimostrazione
diretta ha un pregio maggiore in quanto, non solamente produce la certezza
della verità della tesi, ma ne fa vedere anche la ragione. Codesto pregio è
massimo quando il fondamento logico, da cui la prova è ricavata, coincide col
fon damento reale della cosa ( dimostrazione dalla causa . L'indiretta in
cambio ha il vantaggio d'essere, per dir così, più violentemente necessitante ;
essa, in forza del principio di contraddizione, ci strappa l'assenso, benchè
noi non vediamo il perchè della cosa. Osservazione: -- La dimostrazione detta
ad ho minem , non è una vera dimostrazione, ma piuttosto un artifizio della
discussione . Essa parte da un principio, non in quanto sia vero in sé, ma in
quanto è accettato e ritenuto vero dall'avversario, onde questi è forzato ad
accettare la tesi sotto pena di cadere in contraddizione con se stesso . Gli
errori da fuggirsi nella dimostrazione o 1.º risguardano il modo in cui la
conclusione fu dedotta dalle premesse ; o 2.º risguardano le pre messe (gli
argomenti) ; o 3.º stanno nella conclu sione. Gli errori della prima specie
consistono nella violazione di qualghe legge logica, in particolare delle leggi
del sillogismo; e ad' evitarli, oltre la conoscenza pratica delle dette leggi,
conviene por mente sopratutto al valore logico delle espressioni. In quanto
agli errori della seconda classe, il principale è la falsità d'una o più delle
premesse . 1 ! 353 E siccome questo per lo più si nasconde nel modo in cui il
medio è connesso cogli estremi, così prende il nome di fallacia falsi medii.
Nelle dimostrazioni apagogiche è assai fre quente l'errore della disgiunzione
incompleta della premessa maggiore. Altro errore riguardante le premesse è la
pe tizione di principio, la quale ha luogo quando si assume come principio una
proposizione, che può anche esser vera, ma la cui verità dipende da quella
della tesi che si vuol dimostrare. Gli errori della 3.* specie consistono in
ciò che la proposizione effettivamente dimostrata non è quella che si suppone
d'aver dimostrato ( éregosumnos ). Codesta differenza tra la conclusione
realmente ot tenuta col nostro ragionamento e la tesi da dimo strarsi puo
essere qualitativα ( μετάβασις εις άλλο γένος) ovvero quantitativa ( il provar
troppo o troppo poco) . Nella disputa un vizio frequente è la consape vole o
inconsapevole ignoratio elenchi ( ή του ελέγχου äyvora ) ; vale a dire il non
avvertire o non voler avvertire qual sia il punto in discussione. Un caso
particolare di quest'ultimo difetto della prova è lo scambiare la confutazione
d'una data dimostrazione con la confutazione della tesi. Per rispetto al provar
troppo o troppo poco notisi che si prova troppo poco quando la conclu sione
effettiva è un giudizio meno ampio ossia meno generale della tesi ; quindi in
tal caso la prova è senza fallo insufficiente . 354 Ma il provar troppo, se
veramente esatto, non nuoce al valore della prova, anzi fornirebbe una
dimostrazione a fortiori della tesi. Tuttavia accade generalmente che la
proposizione, con quella gene ralità con cui sarebbe dimostrata se la prova
fosse realmente corretta, è manifestamente falsa ; di che risulta ch'essa è
destituita di valore anche per la tesi, che è più ristretta . Ogni
dimostrazione poi suppone che le pre messe siano certe. Ora questa certezza o è
il resul tato di altre dimostrazioni o converrà sia immediata . Quindi coloro
che negano che ci sia verun princi pio immediatamente certo, tolgono con ciò la
pos sibilità di qualsiasi dimostrazione e però d'ogni certezza. Il medesimo
avviene anche per chi non am mette Verità se non relative ; perocchè anche la
verità relativa, perche si possa dimostrare, abbisogna di qualche principio che
sia vero di verità assoluta. Chi invece nega alcuni principii amnettendone
altri , può essere convinto per via di ragionamento ; il che per lo più si
ottiene mostrando che il ne gare la certezza immediata di quelli ch'egli nega
conduce per logica necessità a negare anche quelli che ei riconosce per veri.
Ma in genere si tratta più ch' altro di dissi pare un'illusione. L'avversario
crede di ammettere soltanto questo o quel principio, ma poi ne' suoi
ragionamenti presuppone tacitamente la verità an che di quelli ch'egli professa
di non riconoscere . 355 L'argomentazione allora deve essere rivolta a pro
vargli che implicitamente egli ammette anche que sti . (Cosi ad es . il famoso
cogito ergo sum di Car. tesio, che egli pretendeva essere l'ultima e unica
åncora di salvezza contro il dubbio universale, per aver valore e servire di
base alle deduzioni ch'egli ne trae, richiede la verità anche del principio di
identità e in genere de' principii logici) . CAPITOLO XXIV. Delle fonti da cui
si ricavano le premesse dei nostri ragionamenti e in particolare del me todo
sperimentale. La logica non può avere per ufficio di enume rare tutti i
principii de' nostri ragionamenti ; ogni scienza particolare si occupa di
quelli che la ri guardauo. Tuttavia ella può offrire delle norme generali
valide per qualunque ordine di ricerche. I principii in genere consistono in un
giudizio che può essere o analitico o sintetico. Un giudizio analitico è per sè
evidente ogni qualvolta il con cetto di cui si tratta ( il soggetto del
giudizio) sia valido (il che importa 1.º che non contenga ele menti
contradittorii tra di loro ; 2.0 che rappresenti una sintesi legittima di elementi)
e il predicato sia evidentemente contenuto nel soggetto . L 356 I giudizi
sintetici o sono a priori ( e in questo caso essi debbono esser tali che il
negarli conduca alla negazione della ragione e dello stesso pensiero) , ovvero
sono a posteriori (e in tal caso l'ultimo criterio è l'esperienza si interna
che esterna, si diretta che indiretta (storica] ) . Per rispetto alle
cognizioni che provengono da quest'ultima fonte, cioè dall'esperienza, si vuol
di stinguere l'osservazione dall'esperimento propria mente detto.
L'osservazione non dipende da regole logiche o almeno quelle che vi si possono
assegnare hanno ben poca efficacia ; essa dipende sopra tutto dalle attitudini
naturali, che per altro possono essere educate e guidate. Uno de' maggiori ostacoli,
che si oppongono alla buona osservazione è la facilità a vedere nelle cose più
di quello che realmente c'è , ossia le false integrazioni della percezione . Un
altro sta nel non distinguere le parti d'un tutto o, con tendenza con traria,
nel concentrare e isolare l'attenzione sulle parti in guisa da perdere di vista
il loro nesso ed il tutto ( che è quello che il proverbio tedesco esprime
dicendo che gli alberi non lasciano vedere il bosco ). Nella grande complessità
dei fenomeni naturali, la massima difficoltà, che s'incontra per distinguere le
cause dagli effetti e a ciascun effetto assegnare la sua causa propria, nasce
il più delle volte dal l'impossibilità, in cui siamo, di osservare gli uni
separatamente dagli altri . 357 A superare questo scoglio l'osservazione si
giova, sempre che lo possa, delle circostanze varie in cui un medesimo fatto si
presenta. Ma a questo fine serve sopratutto l'esperimento con produrre
artificialmente il fatto, che si vuol studiare, in circostanze differenti e
isolandone fin dove è possibile i vari elementi. E l'esperimento s' avvantaggia
sopra l'osser vazione non solo col variare le circostanze del fatto, ma col
produrre per l'appunto quelle varietà che meglio servono all'uopo. ( Si
confrontino p. es . le cognizioni intorno all'elettricità che si potrebbero
ottenere dalla semplice osservazione dei temporali, dei lampi, dei fulmini,
ecc. , con quella che il fisico ricava dagli esperimenti istituiti
sistematicamente nel suo laboratorio ). Ma la via comoda e fruttuosa dell'esperimento
non ci è sempre aperta ; moltissimi esperimenti per la natura della cosa e per
la limitazione dei nostri mezzi sono impossibili (come sarebbe per es . il
produrre una cometa artificiale, un uomo due teste, ecc . ) ; molti , benchè
possibili , sono ille citi , come quelli che lederebbero dei diritti e vio
lerebbero le leggi della morale ( P. es. l'allevare un bambino in un ambiente
viziato, spaventare un uomo con una falsa notizia ecc. ) . Il famoso esperi
mento di Psammetico, narrato da Erodoto nel 2.º libro delle Storie, sui due
fanciulli, cui non fu in segnato a parlare e che probabilmente è una favola,
sarebbe stato illecito . con 358 In generale se l'esperimento, quando è possi:
bile, è superiore all'osservazione nello scoprire gli effetti di date cause,
l'osservazione supera l'espe rimento nel determinare le cause di dati effetti.
Perocchè se d'un effetto, che la natura ci presenta noi ignoriamo la causa o le
cause, di dove potremmo muovere per produrlo artificialmente ? Se per altro
l'osservazione ci mostra certi fatti preceduti sempre da certi antecedenti, si
avrà ra gione di congetturare che tra questi antecedenti ci sia la causa, che
cerchiamo. Allora interviene l'espe rimento e provando e riprovando scopre se e
quale sia la vera causa. L'investigazione sperimentale, a cui la scienza della
natura deve i meravigliosi progressi che ha fatto da due secoli in qua, si
giova massimamente di due metodi, che secondo lo Stuart Mill, sono i seguenti :
1. ° Paragonare tra loro differenti casi , in cui il fenomeno che si studia,
avviene. 2.° Paragonare i casi, in cui il fenomeno ay viene, con altri (simili
nel rimanente) in cui quello non avviene. Il primo chiamasi metodo della
concordanza, il secondo metodo della differenza. E qui si avverta che altra cosa
è se si cerca la causa, altra se si cerca l'effetto d'un fenomeno qualsiasi ,
quantunque nella maggior parte dei casi queste due ricerche procedano per la
stessa via. 359 Ciò posto, le regole del primo metodo si rias sumono in questa
: Se due o più casi d'un dato fenomeno hanno comune una sola circostanza, que
sta circostanza, ch'è la sola in cui tutti i casi combinano, conterrà la causa
(oppure l'effetto) di quel fenomeno. Pel secondo metodo si assegna la regola se
guente : Se un caso, in cui il fenomeno da esami narsi s' avvera, e un caso ,
in cui il medesimo non ha luogo, hanno comuni tutte le circostanze ad ec
cezione d'una sola e quest'una s' incontra solo nel primo caso, questa
circostanza, per la quale sol tanto i due casi differiscono, sarà l'effetto o
la causa o una parte necessaria della causa del feno meno. Osservazione. -- Il
metodo della concordanza serve specialmente ne' casi in cui l'esperimento è
impossibile ; quello della differenza nei casi in cui è possibile . Siccome poi
s'incontrano spesso' de' casi, in cui nè l'uno nè l'altro dei due metodi
accennati , preso da sè , ci potrebbe condurre allo scopo, cosi l'uno può
integrarsi per mezzo dell'altro ricor rendo a un terzo metodo, che è la
riunione di que' due e che si formola in questa regola : Se due o più casi in
cui un dato fenomeno ( A ) si avvera , hanno comune una sola circostanza (a) ,
mentre due o più casi , in cui quello non s'avvera, non hanno comune l'assenza
di verun altro fra gli antecedenti di A, tranne quella di a, questa circostanza
in cui 360 le due serie di casi unicamente differiscono, sarà l'effetto o la
causa o una parte necessaria della causa del fenomeno ( 1 ) . Questo dicesi il
metodo della concordanza e della differenza riunite. Altri due metodi della
ricerca sperimentale sono : a) quello che dicesi dei residui, il cui canone può
essere così formulato : Se da un fenomeno si detragga quella parte , che in
forza di anteriori in duzioại si sa essere effetto di certi antecedenti , il (
1 ) Lo Stuart Mill, da cui abbiamo preso la teoria sopra esposta dei metodi per
la ricerca sperimentale, ha formolato questo terzo canone in altro modo, cioè
precisamente cosi : Se due o più casi, in cui il fenomeno avviene, hanno sol
tanto una circostanza comune, mentre due o più casi , in cui quello non avviene
nulla hanno di comune tranne l'assenza di questa circostanza ; la circostanza
in cui solamente le due serie di casi differiscono, è l'effetto o la causa o
una parte indispensabile della causa di quel fenomeno (A system of Logic 5. edit.
London 1862, pag. 435) . Ora noi abbiamo già osservato fino dal 1867 in una
recensione della detta logica del Mill ( Rivista bolognese, novembre e dicembre
1867 ) che qui era corso un errore o ne abbiamo proposto la correzione colla
formola riportata nel testo. 6 Perocchè scrivevamo - più casi che differiscano
in tutto meno nella mancanza di una sola circostanza ( a) sono nonch'altro
inescogitabili ; le coincidenze puramente negative sono infinite. » E a
giustificare la mia formola io soggiungeva : « Supponiamo che si avverino i
casi A B C , A DE, A FG, le conseguenze dei quali siano per or dine abc, ad e,
afg ; noi non siamo ancora in diritto di ri tenere A come l'antecedente
costante di a, potendo questo O 361 resto del fenomeno sarà l'effetto degli antecedenti
che sopravanzano. b) Il metodo delle variazioni concomitanti. Il suo canone è
questo . Se un fenomeno varia in qual siasi modo ogniqualvolta un altro
fenomeno varia in una certa particolar maniera, quello sarà una causa o un
effetto di questo o sarà connesso col medesimo per qualche vincolo causale .
essere una volta l'effetto di B, un'altra di D, una terza di F , ecc. Se ora
siano dati i casi G HL, MNO, ecc. , che non sono seguiti dal fenomeno a, il
coincidere essi nella man. canza di A non prova nulla ; ma ben maggiormente
provereb bero i casi BCH, DEL, FGM, perchè non avendo essi co mune l'assenza di
nessuno tra gli antecedenti di a, tranne quella di A, ne risulta che nè B, nè C
, nè D, nė E, nè F, nė G sono la causa di a, ossia che in tutti i casi
osservati, in cui a ebbe luogo, esso fu sempre dovuto ad A. Il Mill ha notato
essere difficile applicare il metodo della concordanza ai casi negativi, cioè
ai casi in cui quel determinato fenomeno non succedo, ma non avverti che è
ancora più enorme per non dire infinita la difficoltà di determinare la
coincidenza nei caratteri negativi, vale a dire d'aver comuni delle mancanze. »
( Riv. bol. dicembre, pag. 594, 595). Nella lezione precedente [v. sommario] abbiamo ricercati i
principii generatori della lingua italiana; venendo ora a parlarvi
dell’importanza che il medesimo ha rispetto al pensare, noteremo prima di tutto
su che falso terreno si pongono coloro, che vogliono fare una separazione
assoluta tra il pensiero e la parola [greco ‘parabola’, cf. romano
‘per-ferenza], per esaminare poscia se questa riesca a quello di aiuto ovvero
d’impedimento. La quale disamina, qualora venga istituita in questa maniera,
conduce quasi inevitabilmente alla seconda soluzione, cioè a considerare la
lingua italiana come un impaccio e nulla più, come un traino inutile e pesante
che il pensiero e costretto a trascinarsi dietro e che ne impedisce il libero
volo. Noi faremo ragione un’altra volta di queste opinion. Quello che qui
vogliamo si avverta si è che la parola [parabola, transferenza] e il pensiero
sono talmente concresciuti e fusi nella vita dello spirito, che non si può
movere un passo nella storia di questo senza trovarli l’uno nell’ altro inviluppati.
Come non e concepibile la lingua italiana in un essere che fosse destituito
dell attivitta pensativa, così non possiamo dire che cosa sarebbe il pensiero
senza la lingua italiana. Nè si dica che i sordo-muli ce ne porgono un esempio
vivente, giacché prima di tutto ogni educazione di questi infelici e solo possibile
per mezzo d' un sistema di comunicazione arbitrario, convenzionale, e
artifiziale che viene sostituito a quello negato a loro dalla natura, e iu
secondo luogo anche quel poco disviluppo intellettuale, che essi possono
raggiungere senza una siffatta educazione, è evidenlemenle conneso colla lingua
italiana, via un sistema di comunicazione di gesti e di moti, che sebbene
imperfettismo in confronto della parola, pure ne tien loro le veci comechessia.
Affine di formarci un’idea dell’ importanza che ha la lingua italiana per lo
svolgimento spirituale dell’uomo, noi esamineremo i seguenti punti. Come la
lingua italiana cooperi alla formazione delle prime nozioni che noi
acquistiamo. Qual ufficio la lingua italiana adempia nel collegamento di queste
in sistemi di cognizioni. Qual parte abbia nelle produzioni dello spirito via
le implicature. Questo argomonlo lu Iraltalo in Ire lezioni, delle quali diamo
qui solo la seronda j rispetto alle allre due, vedi il Sommario in lino. Quanto
al punto della cooperazione basti richiamare quanto si è dotto allorché
esaminammo il processo psicologico, onde la singola intuizione sensitiva danno
origine ad una nozione generale. Una nozione generale risulta da moltissimo
intuizioni singolari fuse insieme o collegale in serie. Ma come avviene poi che
tanti elementi psichici formino una unità? Come avviene che l’anima nostra
componga a sò stessa di quella pluralità una sola rappresentazione? Sta
benissimo che rinforzandosi reciprocamente le parti identiche, mentre le parti
diverse per la loro opposizione si oscurano a vicenda, quelle predominino sopra
di queste in modo da comparire esse sole nella coscienza; ma che cosa è poi
finalmente che dà a quelle il valore di una unità? Che cosa ò ciò che le tiene
insieme stabilmente congiunte di modo che non solo compariscano sempre unite,
ma compariscano come una cosa sola? Evidentemente non è altro se non la parola
(greco: parabola). La parola (greco: parabola) forma il nocciolo stabile,
intorno a cui si aggruppano tutti i singoli caratteri, che presi insieme
costituiscono una nozione, essa è come l’apice d' una piramide o d’un cono, la
cui base ò formata da tutte le singole intuizioni ond’ò risultata l’idea generale.
In tal modo poi, se ben si avverta, è spiegata non solamente l’unità della
nozione, ma anche la sua universalità, che ne è il carattere essenziale. Niuna
intuizione sensibile infatti, niuna imagine della fantasia può mai vestire
questo carattere della universalità; sia pure che l’imagine stessa, non
contenendo se non quei caratteri che sono comuni a molle intuizioni e quindi a
molli oggetti, possa risguardarsi corno il tipo generico di questi; la ò questa
una relazione che non è contenuta nell’ imagine stessa , ò una relazione
aggiuntavi dal pensiero che la considera in rapporto a quelle intuizioni e a
quegli oggelli. Conviene pertanto che essa imagine ridivenga oggetto della
coscienza riflessa, e questo accade solo per mezzo della parola (Steinlhul. Gram.
Log. u. Psych.). Un’ intuizione si colleghi psicologicamente con un suono
vocale – il sistema fonologico della lingua italiana. Ora il ricomparire di
quest’ultimo nella coscienza trae seco il ricomparire anche di quella e cosi
nel suono — cioè nella parola (greco: parabola) — è di nuovo intuita l’intuizione,
ossia l’intuizione è divenuta alla sua volta oggetto d’un’altra intuizione –
l’imagine -- vale a dire è divenuta oggetto della coscienza riflessa. Per tal
guisa nella intuizione riflessa, ossia nella parola (greco: parabola), non
solamente una somma di intuizioni viene aggruppata in una unità, ma anche tutte
le unità simili (cioè tutte le somme di intuizioni, che sono intuite dalla coscienza
riflessa sotto una sola intuizione) vengono comprese nella unità d’una sola
specie. Così la nozione o parola della lingua italiana, “albero”, è una sola,
qualunque sia il numero degl’oggeti a cui può applicarsi, qualunque il numero
delle singole intuizioni di alberi reali o dipinti che noi possiamo avere avuto,
e in questa sua unità “albero” ha il potere di essere il “rappresentante”
(segnante) di tutti gli infiniti alberi possibili. Io debbo per altro farvi
avvertire una cosa, acciocché non abbiale ad attribuirmi dottrine che non sono
le mio. Io ho mostrato come il processo psicologico onde i diversi tratti
rappresentativi si unificano in una sola
rappresentazione complessa e la universalizzazione di questa sono strettamente
connessi colla parola “albero” (greco: parabola). Con ciò io non ho inteso
affermare clic le idee delle cose — prese in sò — altro non sieno che parole,
ossia che quella sia mera unità fìttizia tenute insieme dalla parola (greco:
parabola). No, io conosco le enormi conseguenze che si trarrebbe seco questa
teoria. Essa riuscirebbe nientemeno che alla negazione assoluta delle idee e
con ciò alla negazione dell' ordine morale, dell’ ordine logico e dell' ordine
estetico del mondo; alla negazione assoluta del vero, del bello, del bene e del
giusto. Vedete pertanto se in questa materia occorra camminare guardinghi e
come un passo falsi dato in una investigazione apparentemente secondaria puo
far precipitare noi sistemi più spaventevoli. Io dico pertanto: l’idea di una
cosa e in se quello che e, eterna, immutabile, assoluta, norma e archetipo del tutto.
Essa si trovano più o meno realizzate nella natura e nell' uomo, ma non per
questo esaurite o scemate d’efficacia. Noi sappiamo che essa vi e, perchè
vediamo il creato e ogni processo che si compiono in esso soggetto a certa
legge, perchè nell’ente organici sopratutto viamo una rispondenza di fini e di
mezzi, troviamo un ordine, una proporzione, un’armonia, una bellezza, che rivelano
evidentemente un disegno. Noi sappiamo che essa e assoluta ed eterna perchè il
nostro pensiero si rifiuta a pensarle distrutto o alterato, perchè noi
concepiamo che gli assiomi, che valgono per noi, non potrebbero non valere per
qualunque altro essere in qualunque altro mondo a qualsiasi enorme distanza ili
tempo. Ma noi sappiamo altresì che solo un piccolo numero di tali idee è accessibile
alla nostra mente, che difficilmente la pensiamo nella sua purezza e
integrita), che molte nostre concezioni, che noi crediamo di poter mettere nel
novero di quelle, non sono che informi aborti della nostra imaginazione. Noi
argomentiamo finalmente che una idea assoluta, archetipo, eterna non possono
esistere completamente che nel pensiero divino; giacché altrimenti dove
esisterebbero esse? Sarebbero forse anteriori alla mente che dee concepirle,
come suona la paradossale sentenza di Hegel? Esisterebbero da sè, in aria,
aspettando che finalmente dopo molte evoluzioni e ri-assorbimenti sorga dal
loro seno un essere capace di afferrarle col suo pensiero? Essa esistoe dunque.
Na non e il patrimonio ereditario dell’uomo. Questi dee faticare tutta la sua
vita, anzi le intere generazioni devono a poco a poco accumulare il fruito
delle loro fatiche, perchè l’uomo giunga al possesso d’ una parte di quelle.
Ora in questo lavoro, l'uomo è sostenuto e guidato per mano dalla parola. L’impressione
sensibile e la ri-produzione (coppia) di queste forniscono il materiale
greggio, da cui lo spirito colle strumento della lingua italiana distilla i
suoi concetti: o questi non sono addirittura e comunque generati l’equivalente
di quelle, ma si hanno il compilo di avvicinarvisi sempre più e noi abbiamo
veduto, allorché parlammo degli elementi a priori dell'intelligenza dell’uomo,
come nella natura stessa dell’ anima sia deposta la norma istintiva, la misura
originaria. a tenore della quale un prodotto dello spirito viene a mano a mano
depurato e condotto a quel punto in cui possono aver valore di assoluta verità.
E tanta è 1’importanza della parola in questo procosso, che noi non sappiamo
altrimenti concepire nò anche il pensiero divino, che come una intima parola
che il pensiero divino dice a sè stesso. La parola è per noi il “rappresentante”
della cosa in sè, dell’intima natura d’ogni essere, appunto perchè i nostri pensieri
non possono sollevarsi a quei concetti universali, che rappresentano non più le
accidentalità della cosa, ma la loro stabile essenza, se non nella parola e per
mezzo della parola. Dove si vede la causa d' un fatto a prima giunta
inesplicabile, cioè di quelle credenze superstiziose, giù altre volte tanto
diffuse e comuni a quasi tutti i popoli, sulla potenza magica di certe parole.
Tornando ora al nostro argomento osserveremo un altro importantissimo ufficio
che fa la parola per il pensiero. Benché l’attività del pensiero puro sia in sè
altra cosa dalla rappresentazione sensibile è tuttavia per la nostra natura
impossibile o per lo meno estremamente difficile di pensare senza l’appoggio
d’un elemento sensibile (l’imagine – di un segno). Basta la più leggera
riflessione sopra di sè per convincersi come anche un concetto astrattio non
viene mai pensato da noi senza un qualche fantasma sensibile che ad essi si
accoppia, anzi che fa l’ufficio di darcene a dir così un “segnale” che li
contraddistingua. Così l’idea di minaccia suole accompagnarsi all’ imagine
visiva – il gesto, il moto -- d’un dito brandito in alto. L’idea di frazione a
quella di due numeri o lettere separati da una linea orizzontale. L’idea di
morte a quella dell’oscurilt e va dicendo. Questo fallo, che si spiega
osservando il processo psichico che ha luogo nel pensare un concetto astratto, mentre
consistendo questi in una moltitudine grandissima di singole rappresentazioni
fuse e complicale insieme e che non possono più ri-comparire ad una ad una o
non lo possono che successivamente, conviene che vi sia nella coscienza qualche
elemento chiaramente re-presentabile e congiunto con quelle, il quale porta con
sè la tendenza alla successiva evoluzione di quella massa. Questo fatto mostra
ad un tempo l’utilità della parola. La parola infatti è un’magine sensitiva –
uditiva, ma cf. segno per l’altri quattro sensi -- facilmente re-presentabile,
distinta da ogni altra e perciò acconcia mirabilmente a quello suopo. Per la sua
chiarezza e distinzione la parola (o espressione o segno patognomico) evita il
pericolo di ri-chiamare altre serie di rappresentazioni da quelle che si
vogliono, ossia altri concetti, mentre per la sua semplicità e vivezza è facile
a tenersi presente nella coscienza. In tal modo, assicurali che noi siamo che
ogni espressione è il re-presentante d’un dato complesso di idee, noi non
abbiamo più mestieri di affaticarci a richiamare questo e colla rapidità del
baleno percorrendo colla mente diversi espressioni, compiamo un processo
cogitativo complicatissimo, che altrimenti op primerebbe il nostro pensiero
colla sua spaventevole molliplicità. Un altro fallo psicologico che dimostra
l’intimo nesso del pen¬ siero colla parola, si è questo che noi non crediamo
mai aver piena cognizione d’ una cosa finché non ne sappiamo il nome, mentre
al1' opposto molte volte ci sembra di conoscerla, quando in realtà ne
conosciamo solo l’espressione (nominale,
il nome) e nulla più. Noi avremo esaminato un oggetto (o cosa) sotto
ogni aspetto, ce ne saremo fatti un’imagine completa, ma finché non sappiamo il
“nome” (l’espressione nominale, alpha) che ha nel sistema di comunicazione
della lingua italiana, esso ci sembra pur sempre avvolto in una certa oscurità.
Dato poi che ci venga appreso un tal “nome”, quell’ oscurità pare dilegui al
risonare di esso, e sembra che l’oggetto o la cosa acquisti allora
definitivamente il suo posto fra le cose esteriori, che diventi allora qualche
cosa di stabile e indipendente (1). Quante volte passeggiando pei campi ci
abbattiamo a considerare un fiorellino, che forse abbiamo già spesso veduto, ma
senza che mai l’imagine del fiorellino pigliasse nella nostra memoria un luogo
stabile e fisso. Dopo averlo guardato e riguardato noi stiamo per gettarlo e
così esso rimarrebbe anche questa volta un oggetto perduto per noi, quando l’amico
che ne accompagna, studioso coni’ è di botanica, ce ne insegna il “nome”; ed
ecco che questo fiorellino ha preso per noi una consistenza e individualità
nuova. Noi sappiamo oramai -- che cosa ? Se alle nostre cognizioni non si è aggiunto
altro che un puro “nome”? Un puro “nome” sì. Ma questo nome è un testimonio che
quel fiorenillo è già noto all’uomo. Testimonio che ha ricevuto un posto
determinato nell’ordine degli esseri. Quel nome ci attesta che esiste pari a
quello una intera *specie*, che gl’uomini possiedono questo concetto come cosa
oramai stabilita e indubitabile. Tanta è la forza d’ un nome! L’osservazione
che facemmo or ora intorno ai servigi che ci presta la lingua per
re-presentarci un concetto astratto ci introduce ad altro punto che ci siamo
proposti di esaminare. Per essere la parola il re-presentante del concetto, noi
possiamo operare sulla parole o il segno patognomico quasi fossero esso
medesimo il concetto, e i risultati riescono esatti al pari di quelli che
ottiene l’ algebrista, il quale designando arbitrariamente, artificialmente,
colle lettere dell’alfabeto le quantità, su cui vuole istituire le sue
investigazioni, ne cava fuori dei risultati non meno rigorosi di quel che se
avesse operato sulle effettive quantità. Che immensa facilitazione sia questa
per i processi del pensiero non occorre ch’io mi fermi a osservarlo. Una frase,
un *periodo*, un breve discorso equivalgono a dei mondi intieri di idee con
tutti i loro rapporti reciproci ! idee e rapporti che, ove non fossero nella
coscienza re-presentali da un’espressione, richiederebbero un enorme sforzo
mentale e un tempo non breve per venire effettivamente pensati. Bastici
ricordare quello che a ciascuno di noi certamente sarà più volte intervenuto,
cioè la difficoltà che si prova per concepire un’idea chiara di qualche cosa,
non trovando un vocabolo appropriato che la significhi (che e segno). Non è
pertanto da disprezzare — come fanno leggermente ta¬ luni — la tendenza di
tutte le scienze a crearsi una determinata e minuta terminologia, mentre senza
di questa è impossibile la sveltezza e la libertà di moversi del pensiero. E sotto
questo rispetto mi sembrano ridicoli coloro che, per un concètto esagerato
della purità della lingua, vorrebbero tolto alle scienze il più potente loro
stromento, i vocaboli. Che altri si provi a scrivere di fisica o di fisiologia
o di chimica o di psicologia nella lingua dei trecentisti! Anzi tutto io sono
certo che egli avrà pensato prima ciò che scrive sotto altri termini e altre
forme linguistiche e poi si sforzerà di sostituirvi alla meglio quelli del
Cavalca e del Villani; e poi che lentezza, che strascico, che indeterminatezza,
che equivoci, che confusioni! Non c’è via di mezzo, (I) Lolze, Mikrokosmus. E.
I. 8 i) pensare coinè <jaelli di cui volete copiare il linguaggio o servirvi
d’ altro materiale linguistico. Certo ogni novità ha da essere giustificata da
duo ragioni, l’insufficienza del materiale preesistente e la novità del
pensiero; ove manchi l’una o l’altra di queste due condizioni, avremo o
licenziosi corrompitori della lingua o miseri ammantatori di idee vecchie solto
spoglie novelle. Per mezzo della lingua italiana il pensiero ricostruisce entro
di sè il mondo esterno, col suo ordinamento, le sue graduazioni e lo sue
reciproche attinenze; gli esseri stabili c permanenti si distaccano dalle
accidentalità mutabili e passeggere, le sostanze si distinguono dalle qualilà,
gli avvenimenti si distribuiscono nel tempo, gli citelli mostrano il loro
concatenamento colle cause, le azioni e le passioni si contrappongono agli enti
che agiscono o che patiscono, i correlativi si fronteggiano e va dicendo, e
tuttociò sotto l’influsso c per l’opera della parola. E che la cosa sia così
voi lo vedete nelle forme gramaticali della lingua italiana e anzi tutto nelle
cose dette parti del discorso. Mentre la lingua italiana comprende un concetto
sotto la forma di “nome sostantivo”, la lingua lo riconosce è lo caratterizza
come una cosa che sta da sè, che si appoggia a sè stessa c che è idonea a
servire di punto di partenza por una seconda, di oggetto ad una terza. Il
sostantivo è la forma natu¬ rale con cui la lingua riproduce la cosa e elio
però in origine essa impiega solamente a designare ciò che come oggetto stabile
e indi¬ pendente si presenta alla intuizione sensibile. Se essa ad un altro
concetto impronta la forma di aggettivo, con ciò lo denota corno cosa che non
islà da sè e che riceve esistenza, grandezza, forma, circoscrizione solu da un
altro concetto sostantivo, a cui è pur sempre costretto appoggiarsi: e le
qualità sensibili delle cose sono le prime che la lingua italiana comprende
sotto forma di “nome aggettivo”. A questi elementi la lingua italiana aggiunge
il terzo, che è il più indispensabile, cioè il “verbo” o la copula, aflìne d’esprimere
il passaggio, con cui l’avvenimento collega fra loro quello imagini immote (1).
Anche questa forma serve da principio solamente a denotare i cangiamento
sensibile, ma poi ben presto venne estesa anche ad esprimere la relazione
stabile della cosa, mentre il movimento interno del nostro pensiero che va
dall’una all’altra e per coi solo noi possiamo concepire la relazione, viene
riguardato come un movimento reciproco che abbia luogo fra le cose stesse
paragonale. Senza tener dietro allo svolgimento delle altre forme gramaticali —
ciò che è ufficio della “filosofia della lingua italiana” — osserviamo qui che
queste tre forme — nome sostantivo (alpha), nome aggettivo (beta), e verbo o
copula (“il alpha e beta”)— presentano il minimo di organizzazione e di distribuzione
nel contenuto del pensiero, senza di cui sarebbe a questo impossibile di
intraprendere le sue operazioni. Nè è da opporre a queste considerazioni che
parecchie lingue non distinguono le parti del discorso con particolari *modificazioni*
di suono (amare, amante, amato, l’amante ama l’amato, l’amato e amato
dall’amante); perocché non è necessario che ogni forma del pensiero abbia il
suo corrispondente nella forma del suono, basta bene che questo sia pensato con
quella relazione (l) 111. ibiil. 9 Cogitativa. So un “idioma” non possiede, a
cagione di esempio, alcun distintivo esteriore per caratterizzare il nome sostantivo,
però la sua parola, sintatticamente informe, nell’anima di chi parla (il
mittente), per il pensiero concomitante dello stare da sè , è trasformata in
nome sostantivo. Ma se v’hanno alcune lingue che difettano dei mezzi per
rendere esternamente sensibile il concatenamento dei pensieri, le più di esse
invece inclinano all'altro estremo, producendo da sè una quantità di forme
gramaticali e sintattiche che evidentemente soverchiano il bisogno logico del
pensiero (1). E questo sia il luogo di richiamare una verità non mai abbastanza
ripetuta, cioè che la forma della lingua italiana è in sè diversa dalla “forma
logica”. La “forma logica” non conosce altri rapporti che quello di universale
e particolare, di subordinazione, coordinazione, inclusione ed esclusione,
posizione e negazione, mentre le forme linguistiche oltre di queste relazioni
ne esprimono infinite altre che si attengono vuoi alla natura delle cose, vuoi
alla maniera con cui queste fanno impressione sulla nostra sensibilità. La qual
ultima attinenza essendo suscettiva di infinite e finissime gradazioni ha dato
origine a tutte quelle delicate e svariatissime tinte (o implicature) della
lingua italiana?, di cui non possiamo farci un’ idea se non collo studio dei
filosofi più perfetti. In particolare la antica lingua latina usata dai romani
ha sotto questo rispetto dispiegalo un lusso e una ricchezza di forme, che il pensiero
italianao più arido e severo ha abbandonato come superflue. Basti ricordare le
ricchissime flessioni del verbo. Aggiungiamo a queste considerazioni l’immenso
vantaggio che l’antica lingua latina usati dai antichi romani all'individuo in
grazia del tesoro di pensieri che nella antica lingua latina già si
improntarono e che egli riceve come in eredità dalle generazioni precedenti col
solo apprendere la lingua latina. Quante intuizioni, quanti giudizi, quante
riflessioni, quanti confronti e raziocinii di infiniti uomini romani si sono a
dir così depositati nella lingua di un po¬polo! e il bambino che viene alla luce
nuovo a tutlociò che lo circonda, col solo apprendere la lingua italiana si
risparmia una fatica che supererebbe enormemente le forze del genio più potente.
Venendo da ultimo a considerare l'influenza che la lingua esercita sulle
produzioni dello spirito in generale e in particolare sulle creazioni
letterarie e poetiche, dobbiamo prima di lutto avvertire che la lingua italiana
non è già solamente una veste esteriore del pensiero, alla quale sia
indifferente di sostituire qualsiasi altro segno, ma sibbene la forma stessa in
cui il pensiero è fuso e concresciuto: che a volergliela strappare per aver
nudo il contenuto, gli'è come se si volesse togliere a una foglia o ad un fiore
la sua forma lasciandone intatta la sostanza. Noi avremmo in tal caso un dato
miscuglio chimico di materie, ma non più una foglia nè un fiore. Ma quello che
più imporla, considerando la lingua italiana sotto l’aspetto letterario, si è che
qualsiasi concetto può venir pensalo in varie maniere, in diverse attinenze,
con una maggiore o minor ricchezza di (1) Irt. iblei. 2 10 contenuto, con un
accompagnamento più o meno ricco di fantasie e di sentimenti. Conviene qui
distinguere il valore del concetto strettamente logico od obbiettivo che dir si
voglia dal valore psicologico o subiettivo. Il primo deve essere eguale per
tulli e in tutte le circostanze, a menochè l'idea di cui si tratta non sia
addirittura falsata — il che equivarrebbe a dire che in vece di un' idea se n'
ha un- altra. Il secondo invece varia a seconda della persona (mittente) che lo
pensa, del lernpo, delle circostanze, dell' unione con altri e va dicendo. Chi
dice per esempio “la primavera”, certo intenderà quella data porzione dell'anno
che è determinata dal calendario. Ma questo non è che il valore assoluto obbiettivo
di tal concetto; quanti diversi aspetti non vestirà esso invece nella mente delle
varie persone che lo pensano! Per uno è la stagione dei fiori, delle aure miti
e feconde, del ringiovanimento delia natura, per altri è il ritorno delle
giornate del lavoro, delle opere campestri, pel pastore è 1’epoca di ricondurre
le gregge su pe’monli, per la giovinetta la stagione della gioia e dell' amore
e va dicendo che non finiremmo sì presto. E basti questo esempio per mille che
potremmo addurre a conferma delle nostre parole. Ora la lingua italiana non si
limita a denotare quel concetto astratto e nudo, ma per lo più lo colora in una
data guisa, lo lumeggia a suo modo, ne mette in risalto un aspetto, ne accenna
una profondità, ne tratteggia un attinenza con altri, gli dà uno sfondo
particolare, una positura determinala. Tultociò senza dubbio la parola lo
ottiene per mezzo diquella che chiamammo forma interna (1) e che è contenuta
nell' etimologia dell’espresione; ed è per questo altrettanto vero che
scomparendo l’etimologia od origine, come si è dello, dalla coscienza del
mittente e del recipiente col procedere della coltura, la lingua italiana dei
moderni non presenta a gran pezza quella vivacità di colorito, quella vita che
sembra un eco ili quella elio si agita nel seno delle cose stesse, quella
freschezza d'imagini, che sono proprietà delle lingue e dei popoli primitivi.
Ma è pur vero che in sostiluzione di quella forma interna, perdutasi insieme
colla etimologia del vocabolo, nei tempi storici ognuno che parla se ne vien
formando un’altra, spesso indipendente dalla perentela gramaticnle di quello e
dalla sua primitiva derivazione. Chi dicendo per esempio “cannone” pensa, come
porterebbe la etimologia a noi pur vicinissima del vocabolo, ad una grossa “canna”?
0 non si è egli piuttosto formata un’altra forma interna, dovuto forse
all'analogia tra il suono di questa parola e il rimbombo solenne, e cupo dello
sparo? lo forza di questa il cannone non è più per noi la grossa canna, ma
sibbene quello che tuona e rimbomba; ragione per cui questo vocabolo da qual che
poeta moderno si è potuto introdurre nel verso, a malgrado della eccessiva
schiiìltosilà della poesia italiana. Giù posto è facile argomentarne con quanta
forza debba la parola influire sul nostro pensiero; posciachè a tenore delle
speciali rappresentazioni e de’sentimenti che ogni I) Questo concetto messo in
luce specialmente dallo Sleinlhal. Qui basii notare che la forma interna è
l’anello intermedio che congiunge il significato (il segnato) della parola
(l’espressione) colla forma eslerna di questa cioè col suono. Il vocabolo e
ogni giro di frase e ogni costruito porla seco nella coscienza, anche le ideo,
che formano per così dire lo scheletro d’ un dato pensiero, rivestonsi di polpe
e di vene, e indossano ora un manto sfarzoso e sfolgorante, ora una lugubre
gramaglie, ora sprizzano vivaci e saltellanti come la gragnola sui tetti, ora
fluiscono tranquille e compatte come l’onda d’un ruscello. Ben si accorgono di
questa verità coloro che si provano a voltare un poeta d'ima in altra lingua;
chè mentre la lettura di un passo dell’originale li esalta e li rapisce, quel
medesimo passo reso colla massima proprietà e purezza nell’altro idioma non
appare che un pensiero dozzinale e senza effetto. E certi poeti non Sono mai
propriamente gustati fuori della propria nazione italiana! Ecco eziandio perchè
la poesia nei tempi di progredito incivilimento è costretta ad abbandonare una
gran parte del comune materiale linguistico, come quello che si è logorato ed è
divenuto senza effetto in grazia dell' uso cotidiano nelle bisogne triviali e
prosaiche della vita, per attenersi a quella parte che è ancora fresca di giovinezza
e che porla seco nell’animo del recipient quelle tinte fantastiche, quelle
speciali rappresentazioni e quei sentimenti, che debbono contribuire
all'effello della comuniccazione. Nè però è solamente l'uno o l’altro vocabolo
che sia capace di questa efficacia; la medesima voce riceve dal contesto, cioè
dall’insieme di quelle idee a cui è associata, un valore tutt’affatto
particolare; e mentre in un caso non desta in noi che un concetto astratto, in
un altro eccita un’ imagine triviale e bassa, in un terzo è capace di vestire
la più splendida corona di superbe fantasie. Prendiamo ad esempio l’espressione
“ala”. Chi dicesse; la lunghezza dell’ala deve avere la tale o tal’altra
proporzione col peso del volatile , non mi desta che il concetto astratto di
quella parte del corpo del Uccello che serve al volo; è un concetto scientifico.
Se altri invece dica: “Ami meglio l'ala, la coscia o il petto?” risveglierà nel
recipient delle irnagini gastronomiche eia rappresentazione per esem pio d’ un
cappone arrostilo. Allorché invece Ogo Foscolo canta di chi vede il suo spirito
ricovrarsi sotto le grandi ale Del perdono di Dio (metafora). Foscolo è forse
l’estremità anteriore del volatile, o la gustosa polpa del cappone che si
muovono nella nostra fantasia? o non piuttosto qualche cosa di indefinito e
misterioso che si stende sul creato come un gran manto e tutto lo copre e lo
avvolge? L'oggetto non è per noi se non ciò, per cui lo percepiamo, e siccome
la parola, come si è veduto, è l'organo della percezione, così ogni cosa è per
noi quello che la parola ce ne annunzia (1). Or chi non vede come tutte le
produzioni dello spirito saranno intimamente legate alla natura della lingua italiana
e non solo della lingua in generale. ma sì particolarmente della lingua italiana
in cui si pensa. Se poi lo scopo della composizione non sarà unicamente di
trasmettere un certo numero d'idee insieme colle loro attinenze, ma più di
tutto di commovere gli animi, di suscitare gli affetti, mettere in gioco la
fantasia — ciò a cui mirano appunto i prodotti della letteratura, nessun dubbio
che la lingua italiana sarà l’elemento predominante. E come essa guida per mano
il poeta e gli conduce innanzi questa o quell’altra imagine, questa o
quell'altra serie di pensieri e di fantasie, così alla sua volta il poeta per
guidare e signoreggiare gli uditori dovrà essere padrone di tutti i segreti, di
tutti gli espedienti della lingua italiana. La storia 'della letteratura lo
conferma. Sommario di tutto il corso: il segno patognomico. PROLUSIONE. LA
PSICOLOGIA,E LA LETTERATURA. Dfferenti opinioni intorno al concetto della
filosofia. Se la Filosofìa sia una scienza, ovvero una speciale tendenza del
pensiero, un bisogno dello spirilo umano sempre linascente e non inai
appagabile. La Filosofia è una scienza in formazione. Oggetto della filosofia. La
filosofia è la scienza della verità assoluta, degli ultimi fondamenti del
tutto. Quindi essa investiga i principii su cui si fondano la altre scienze ed
è la scienza suprema (la regina delle scienze). Dottrina della cognizione. I problemi
fondamentali di questa. Lo scetticismo. Il criticism. L’idealismo. La dottrina
della cognizione vuol essere preceduta dalla psicologia. La Psicologia è una
parte della filosofia propriamente detta? Pensar volgare, pensar scientifico,
pensar filosofico. Esperienza e cognizione assoluta e loro rapport. La Psicologia
abbraccia questi due ordini di cognizioni. Partizione di essa , materia, metodo,
fonti, difficoltà, scopo e importanza. PSICOLOGIA EMPIRICA O FENOMENOLOGIA
DELLO SPIRITO. Se quesla parie della psicologia sia indipendente dalla
questione intorno all’ esistenza dell’ anima. Si ammette qui l’esistenza dell'
anima come un’ipolesi, senza però che una tale supposizione influisca sullo
sludio dei fenomeni spirituali. Primi passi della (I) /. pubblicata a parte. r,o r.rj.a, *?1
Complessili dei fenomeni psichici _ i, vii» Zu T lrasf0rmazione d«' corpo,
coscienza — classilìcazione provvisoria dei fenomeni psicWci “na "Ua
SUCC0ssione ~ Sirss- descriz!°ne – re-presentazione, percezione — fattori dell’intuizione ali .sensazione» intuizione,
re-ppresentazione co!,.plesso ed elementideHe med» me"-~a~e . 77 1
intuizione lolale e per cui gli elementi ranni-esenti,ivi si S P . . Sl spezza
in piu in cui questi clementi si compongono è un nun-1 ele,nen?n ° ~ la fo,ml.’
ficazione della sensazione. Sentimento fondamentale di
Rosmini**'-"duncoHà°d' s ClaSSI' ‘ 'golosamente l’elemento re-presentativo
dal sentimento „ fi. dira?011,1 d' separare distingue la materia dalia forma da
che sia data " una 7v aZ m ^ " grandezza , "forma' c solidità
d;i°cro%i0in%S „"rson7Mi pel Ziio~ *?".,,ÌT0 aMa vtne„ùr?c,'ia s
s^no1: “-JM materia - suoni o romori - scala musicalo - seHIkinn^ r’ ‘ncdl° f,
p,ocesso ~ ^5?*“ SSS - materia - manca ogni dislinzione di parti - se si «a una
mCd'° ° P''?Cesso ^assu riarr.. ~.%sa sar* delle sensazioni. ’g CSl6"C' “
r,gorosa '"dividualità c incoi,,unicabililà mSmSVSfiS, iÌ^SSSS£ --—1
itipioduzione — meccanismo doli’anima — si» i« „ . . . o scsi debba ammettere
un principio suneriore ( r/i U f p,,n.c,p,° atl,vo in essa della dottrina di
Ile, hai ! ( la re-presentazione consi. ef /lé”'"' 0 J r~ prinClp"
fondamentali ra,nonio reciproco residn eauiE 1 T,, ' ?omc fori!c ~ contrasto,
oscue soglia meccanica - con,piloni c fusioni l°1'0i„ ed8S,!ne ~ coscienza,
soglia statica incrocicchia,ncnto delle serie ed elTetli del medesimo -nSdTmnn,
T •*“ “ percezione - appercezione interna) Il sentir.» o t> r • f,1?
f1alazl0;M - eli¬ porti di re-presentazione appetire ■■ciotti da llerbart a
rap¬ ai. stabile a^ufslo ta *« — - «ebba ritenere codella re-presentazione c al
gradualo oscuramento deMc^s etsc"6'''^-!0 '"‘-T al!anforza produzione
- memoria e imaginazione. 1 0 “ ggl clnP*ricl,e della
ricirca^la'realtà"^^*tiiva*dello*spazio c *«7 Zr't'T Si**".-* «- - «
-TS5S *r-s.%SS Intelligenza caratteri che la distinguono dalla sprmihititò , •
cartesiana, maiebranchiana (e giobe,-liana , egeliana e rosa,intana)
P'egaZ,°"e plat0nica’ Il giudizio come allo foridamcnlale del pensiero —
sli.iii • , , luizione , riconoscimento , classiflcazione giudizio logico ! -
„iT ' da,- T T"0 ( in- - formazione del concetto generic. Il giudizio
implicito ed il giudizio esplicito. .»''*:1"- ; .*««« « «- falli senza
consapevolezza di una o d’ambedue le ‘ -""" . raziocinii tasr*.
- - «*— « » ~Wssutnsr--^.^.«• •,» mm* pili le idee innule se una tale ipolesi
sia aminrsihile i> •' pi'e"d?ssero Pel' lo risolvere queslo problema -
lendcnze innata de, pensiero os^g^I“nT'in! r.i consapevolmente nelle sue
operazioni e che poi la riflessione discopre sceverandole dalla materia
accidentale e riconoscendone la necessilà ed il valore assoluto. Il pensiero e
la lingua italiaa. Importanza dei problemi che si riferiscono alla lingua
italiana. S’elimina il problema circa l’origine storica della lingua italiana. La
disposizione fisiologica e psichica che concorrano alla produzione di un
sistema di comunicazione – un sistema – il segno patognomico – della lingua
italiana. Ripercussione dalla sensazione al movimento. L’associazione del
movimento fra loro e colla sensazione. Come l’anima si scarichi della sua
“affezione” (pathos) per via del movimento. Il segno articolato.—onomatonee.
Come un segno (segnante, signans) acquisti un significalo (segnato, signatum), ossia
diventi parola [parabola] espressione o segno patognomico. Il periodo o la fase
patognomico – il segno patognomico. Il periodo patognomico. La fase
patognomica. Periodo patognomico, onomatoeico e caratteristico-- nella formazione o costituzione della
comunicazione -- di un sistema di comunicazione -- linguaggio — Signo
patognomonico. Periodo patognomonico. Il processo linguistico nei tempi storici
che cosa s’ intenda per forma interna della lingua. Come la lingua italiana
coopera alla formazione della nozione generale.. L’dea eterna e i concetti
umani — lorza dei non» ordinamento sistematico delle nostre idee per mezzo
della parola — influenza della lingua sui prodotli letterarii — la lingua non è
solamente I’ espressione del pensiero — spiritualizzazione progressiva del
linguaggio - la lingua è uno dei prin¬ cipali elementi che costituiscono le
nazioni — danni che a dello di alcuni la lingua arreca al pensiero dilesa della
lingua — organismo indipendcnle di questa. La mitologia considerata nella sua
origine psicologica. L’nfanzia dell’ umanità. Come si possa scoprire il
processo psicologico che dà origine alla mitologia ( tre cose ser¬ vono a
questo fine: I. la cognizione generalo delle leggi psichiche. Lo studio della
mitologla comparata, o la mitologia dei bambini e le superstizioni popolari.
Che cosa sia la Mitologia - fasi per cui passa - rapporti tra la biologia e la
morale - due opposte opinioni (tei pensatori intorno all’ origine della
mitologia. Della coscienza di sà - distinzione di questa dalla coscienza dei
propri stali. Se si possa ammettere un senso interno stadii che il pensiero
percorre per arrivare alla concezione del proprio io - pretesa contraddizione
nel concetto dell’ io tre gradi o potenze della coscienza. Lo fenomenale e lo
trascendente - lo, soggetlo puro* pura attivila c lo realtà — l' lo e il centro
mobile delle cose. Egoismo primitivo e’come 1 uomo ne esca — raddoppiamento
dell’ Io nel sogno. .. Scnl"-"<» >nipossibilità di dedurlo da
altre attività , quindi è un’ attività primil'va. 7- J°, S‘ rPICg? cssenza ’ ma
bensi *’ or'Sine del sentimento - le due forme ladicali de sentimento - cause
della varietà dei sentimenti - intreccio di questi - che cosa impedisca la loro
fusione in un sentimento unico indistinto — efTctti della progredì a col ura
sulla varietà dei sentimenti sentimenti inavvertiti. Influenza del sentimento
sulla fantasia e sulla ragiono. Classificazione dei sentimenti sentimenti
estetici - il bel o d .liburne U ridicolo e 1 loro opposti - due diverse teorie
estetiche senlimenli mo all -- clementi innati della inoratila - idea formale
del dovere - contraddizioni intrin¬ seche ne I egoism. Lo sviluppo dei
sentimenti morali. La civiltà. Il sentirnent1 religiosi — origine di questi -
depurazione progressiva del sentimento religioso — come il terrore passi in
venerazione. Il sentimento simpatico — spiegazione meccanica di questi. Con
quale uomo un uomo po simpatizzzare — crudeltà dei bambini e degli desimi'. T°m
lmportan2a del sentimento simpatico per la morale - educazione dei
meRiproduzione dei senlimenli — associazione di questi fra loro e colle
re-presentazione dC ° 'ggl che ,e?olano la re-produzione e tras-missione del
sentimento per la concezione fantastica dell’universo per le arti, per la
comunicazione coll’altr’uomo. ec" Affetti in che differiscano dai
sentimenti - classificazione dei medesimi. Appetizione - distinzione fra
1’appetito e il sentiment. Analisi dell’appetizione appetizione cieco c
desiderio accompagnato dalla re-presentazione dell’ oggetto Vamato iTtinb g eia
n Pr',na °. de' S,‘C°n<l0 - classificazione degli appetiti «ratiere degH
sbassi? bi“8ni "“b‘“ - Volontà - in che differisca dall’ appetito -
fattori della volontà - due alti di (me¬ sta - fine e mezzo - molivi della
volontà - so il motivo sia da confondere colla caule efficiente spontaneità e
liberta la volontà è sempre spontanea . non sempre liberà _ Jra .Ps*cologica e
libertà morale — Schiavitù del volere procedente dallo passioni se VI siano
passioni buone, nobili, ecc. — effetti delle passioni sull’anima ine so'uzione -
fine supremo - carattere morale e immorale) - in che consta „ Zi Svolgimento
progressivo della vita psichica — vifa del sentimenlo vita delti »ni
::r.'.ivsr.s4 PSICOLOGIA RAZIONALA 0
METAFISICA 0) Problema circa 1’ esistenza dell' anima — so non sia un vero di
evidenza immediata — perchè si debba dimostrare - contraddizione inerente al
materialismo in quanto vuol essere teoria — il fallo di coscienza diversità dei
fenomeni fisici c psichici — pretesa spiegazione materialistica della coscienza
- come la natura del fenomeno psichico non Permetta di attribuirlo ad un
principio materiale unità della coscienza incompatibile con un ente composto —
altri argomenti in favore dell» esistenza dell’ anima — obiezio¬ ne idealistica
conilo l’esistenza dell’anima monismo spirituale. Dell’unione dell’anima col
corpo so si possa spiegare il commercio fra due so¬ stanze se la spiegazione
del nesso fra anima c corpo sia più facile supponendo I* anima materiale - come
si spieghino le sensazioni c i movimenti (sp. volontari!, del corpo ammollendo
1’ anima di naura soprasscnsiliva. Fin dove sia conoscibile l’essenza
dell'anima. Sede dell’anima nel corpo che senso possa avere questo quesito
organo centrale dell’ anima presenza dell- anima in (ulto il corpo. (Il Di
i/iieslu seconda parie non si fecero per mancanza rii tempo se non tre sole
lezioni, delle finali si dà qui il sommario. Altre opere: “Pensiero e
conoscenza” (Bologna, G. Monti); “La coscienza e il meccanismo interiore. Studi
psicologici, Padova, Minerva); “Discussioni gnoseologiche e note critiche,
Venezia, Antonelli); “Elementi di psicologia e logica, ad uso dei licei, Padova,
Tip. F. Sacchetto); “Percezione e pensiero” (Venezia, Tip. Ferrari);
“Percezione e pensiero”; “La percezione interna”; “Il pensiero”; “Intorno alla
conoscibilità dell'io” (Venezia, Officine grafiche di C. Ferrari); “Studi
d'epistemologia, Venezia, C. Ferrari); “Sentire e conoscere, Prato, Tip.
Collini). Note G. Calogero, Enciclopedia
Italiana, riferimenti in . Francesco De
Sarlo, Francesco Bonatelli, Firenze, Ufficio della «Rassegna Nazionale» 1900.
Erminio Troilo, Il pensiero filosofico di Francesco Bonatelli, estratto dagli
«Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti» LXXXIX (1929-30),
Venezia, Ferrari 1930. Davide Poggi, La coscienza e il meccanesimo interiore.
Francesco Bonatelli, Roberto Ardigò e Giuseppe Zamboni, Padova, Poligrafo
2007. 978-88-7115-568-5. Altri progetti
Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Francesco
Bonatelli Guido Calogero, «BONATELLI,
Francesco», in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 1930. , «BONATELLI, Francesco», in Dizionario Biografico degli
Italiani, Volume 11, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1969. Filosofia
Filosofo del XIX secoloFilosofi italiani Professore1830 1911 25 aprile 13
maggio Iseo PadovaMembri dell'Accademia delle Scienze di Torino. Francesco
Bonatelli. Keywords: segno patognomico, period patognomico-periodo
onomatopoieco-periodo caratteristico – patognosis, patognomia, tratto da
Volkmann, “Lehrbuch der Psychologie” astrattio, imagine sensibile, vehicolo di
communicazione, segno, segnante, segnato, ‘fiorinello’ – concetto, giudizio –
percezione – comunicazione pathognomica – pathognomia reciproca -- -- logica.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bonatelli” – The Swimming-Pool Library.
Bonavino (Pegli).
Filosofo. Grice: “In fact, Bonavino is the same – vide my ‘Personal identity’ –
he changed his name when he ‘lascio l’abito,’ and teaches philosophy – his
essays are slightly rationalistic – he endorsed Thomistic orthodoxy at a later
point.’” -- Grice: “I love Bonavino, but
not every Oxonian would – for one, he used a pseudonym, since he was a priest –
we cannot imagine Copleston doing that – or Kenny! As a philosopher he was a
‘rationalist,’ and indeed, the editor of a journal called ‘Reason’ (like my
Carus lectures), as a priet, he was ‘irrationalist.’ – My favourite of his
tracts is his ‘storia della filosofia,’ – which concentrated on Rome (Ancient
Rome, that is) and Croce --!” Nacque in
una casa che sorgeva sulla via Aurelia, successivamente demolita per la costruzione
del lungomare. Entra in seminario. A Bobbio, entra nella congregazione degli
oblati di Alfonso Maria de' Liguori, fondata, in quella stessa città da Gianelli.
Venne accolto nella diocesi di Bobbio da Gianelli il quale lo riteneva persona
dotata di ottime qualità. Venne ordinato sacerdote in tre feste consecutive,
dallo stesso Gianelli il quale lo accolse tra i suoi oblati, da poco fondati in
Bobbio alla Madonna dell'Aiuto. Il vescovo lo costitue vicesuperiore. In tale
posizione Bonavino indusse Gianellio ad irrigidire molto la regola che aveva
loro data. Usav con i colleghi un rigore che essi reputarono intollerabile,
tanto che molti ne rimasero disgustati e parecchi se ne andarono. Qualche suo
compagno nota in lui uno spirito di superbia inoltre in una disputa filosofica,
mostra una dottrina diametralmente opposta a quella di Alfonso Maria de'
Liguori, tanto che Gianelli dovette intervenire per richiamarlo, dicendogli:
"se continuate in questa guisa, voi non potrete recare che gravi
dispiaceri alla Chiesa e voglia Iddio che non diventiate apostata". Dapprima
rispose positivamente al richiamo, ma poi nuovamente ritornò sulle sue posizioni.
Attinto dallo spirito giansenista, tenacemente combattuto da Gianelli e non
ancora assopito, sia leggendo opere spregiudicate sia discorrendo con qualche
filosofo ancora seguace di quella dottrina. Gianelli o chiamò nuovamente a sé e
gli chiese paternamente se e vero quanto gli viene riferito. Audacemente
risponde di sì e dice che persiste nel suo sentimento e che non vi era alcuna
speranza che si potesse ricredere. Le sue parole sono: "No, neppure se mi
trovassi innanzi alla bocca di un cannone e mi si minacciasse di darmi
fuoco!" Allora Gianelli dovette cacciarlo da Bobbio, dubitando della buona
riuscita del nuovo istituto. Sube, anche, l'influenza del positivismo e del
criticismo. Venne espulso dalla congregazione per le sue dottrine che si allontanavano
dal probabilismo alfonsiano. A Genova
apre una scuola. Partecipa nelle lotte contro i gesuiti, collaborando alla
redazione de “Il gesuita moderno” e e con due saggi, “I gesuiti” e “Autentiche
prove contro i gesuiti”. Vive in prima persona la rivoluzione condividendo gli ideali risorgimentali, e
stando in contatto, al punto di arrivare alle polemiche, colli filosofi più rappresentativi
di esso. E sospeso a divinis per la difesa degl’errori del suo Corso di
religione all Bernardo, e lascia il ministero sacerdotale. Us ail nome di Ausonio
Franchi, cioè "italiano libero".
Su consiglio di Gioberti, verso il quale si orienta politicamente, si
dedica agli studi filosofici. In questo periodo scrisse “Lla filosofia delle
scuole italiane”, ove giustifica la propria filosofia; “La religione del secolo
XIX”, “Studi religiosi e filosofici”, “Del sentimento; “Il razionalismo del
popolo”. Trasferitosi a Torino, divenne mazziniano. Fonda “Ragione, un bimestrale
di critica politica e sociale. Si trasferì a Milano dove diresse La gente
latina. Ottenne la cattedra di storia della filosofia a Pavia. Venne trasferito
all'Accademia di Scienze e Lettere di Milano. Membro della loggia massonica
"Insubria" di “rito simbolico italiano”, che con altre, di numero
minore rispetto alle prevalenti di rito scozzese antico e accettato, si
strinsero intorno alla Loggia madre torinese "Ausonia" e si organizzarono
all'obbedienza del Gran Consiglio Simbolico, sorto da un'assemblea tenuta a
Milano. Membro onorario della Loggia "Azione e Fede", di Pisa. Il Gran Consiglio Simbolico ha sede prima a
Torino e poi a Milano e con la sua presidenza si une al Grande Oriente Italiano
con un atto firmato per il Gran Consiglio tra gli altri dallo stesso, che fu
strenuo e auterevole propugnatore della fusione nel nuovo Grande Oriente. In questo periodo scrisse i saggi, “Soria
della filosofia moderna,” “La teoria del giudizio”, “Saggi di critica e
polemica”. Inizia poi un periodo in cui rimise in discussione la propria
attività filosofica. Ciò lo portò a scrivere “L'ultima critica”. Dice di voler
essere la confutazione del paralogismo che mi conduce al razionalismo” ed
esposizione degli argomenti che mi hanno ricondotto prima alla filosofia
d’Aquino e poi alla fede Cristiana. Vive isse l'esperienza della conversione
filosofica e religiosa. Iniziò facendo visita al Santuario di Virgo Potens in
Sestri Ponente, dove è collocata una lapide in ricordo dell'evento. TRA QUESTE
SACRE MURA LA VERGINE POTENTE CON UN PRODIGIO DI MATERNA PIETÀ IL FIERO NEMICO
D'OGNI CRISTIANA RIVELAZIONE AUSONIO FRANCHI TRAMUTA IN CRISTOFORO BONAVINO
RIDONANDO ALLA VERA SCIENZA UNO TRA I PIÙ PROFONDI FILOSOFI DELLA NOSTRA ETÀ
DAL VORTICE DELLA RIVOLUZIONE MISERAMENTE TRAVOLTO PERCHÉ IL RICORDO DI SÌ BEL
TRIONFO DELLA POTENZA DI MARIA SI PERPETUASSE A CONFORTO E A SPERANZA DELLE
FUTURE GENERAZIONI IL COMITATO LIGURE DEI CONGRESSI CATTOLICI.” L'ultima critica venne da lui annunciata a Magnasco. Manifesta, inoltre, l'intenzione
di ritirarsi nel santuario di Rho per confessarsi e riconciliarsi con la
Chiesa. Il saggio fu terminato nel convento carmelitano di Sant'Anna, a Genova.
Ha un buon rapporto con i frati, anche se conduce vita molto ritirata. Dopo il
ritorno alla fede confida che anche negli anni in cui sembrava più lontano
dalla Chiesa cattolica e più imbevuto di positivismo, non aveva mai abbandonato
la pratica quotidiana di recitare tre Ave Maria e non era mai venuto meno al
celibato sacerdotale. Sulla casa natale di Pegli e apposta questa lapide,
trasferita alla piazzetta della Giuggiola al Vico Condino). “Filosofo tra i
primi dell'età nostra [a] professa[re] il razionalismo più aperto.”Dizionario
biografico degli italiani. Giuseppe Bonavino. La storia delle scienze
è un portato del pensiero moderno. Nel suo stesso conceito essa involge un
periodo di tempo e un grado di riflessione, che doveano per condizion di natura
mancare agli antichi romani. Perocchè, prima di poter comporre una storia scientifica,
bisogna aver costituita ed attuata la scienza che d e v'esserne la materia. Onde
l'epoca, in cui lo spirito umano in tende alla costruzione del suo sapere, ha
necessariamente da precedere a quella, in cui esso, raccogliendo i monumenti e idocumenti,
le tradizioni e le memorie, ne rintraccia l'origine, ne studia i progressi, ne
descrive le trasformazioni. Quello era il compito assegnato agli antichi
romani; questo era riserbato ai moderni. Ed a Francesco Bacone si deve, se non
la prima idea, certo l'idea più chiara e distinta, più larga e profonda d'una
storia delle scienze, lettere, ed arti, e dello scopo ch'era in essa da
prefigersi, delle leggi da seguire, dei servigj da rendere, dei frutti da
produrre. Quel Bacone, a cui communemente si attri buisce la gloria di tante
risorme ch'egli non ha mai fatte ne sognate, e di tante scoperte ch'erano già
belle e fatte assai prima di lui, ha non dimeno un gran merito, che pur li
stessi suoi ammiratori non mostrano d'apprezzare abbastanza; ed è quello di
aver proposto il disegno e stabilito il programma di varie scienze nuove, che
non tardarono in effetto ad arricchire il patrimonio intellettuale
dell'umanita. Ora fra le nuove discipline, ch'egli additava ai posteri in forma
di desiderj (desiderata), primeggia la storia letteraria, senza della quale, diceva
egli argutamente, la storia del mondo rassimiglia troppo bene alla statua di
Polifemo privo dell'occhio; giacchè la parte mancante è quella appunto, che
potrebbe ritrarre meglio il carattere ed il genio del personaggio. Vero è, che
in certe scienze particolari, nella giurisprudenza, nella matematica, nella retorica,
nella *filosofia*, sole già darsi un qual che ragguaglio assai magro delle sette
e delle scuole, degli filosofi e dei saggi, delle vicende e degl'incrementi
loro; ma una storia propriamente detta della letteratura, come la concive
Bacone, dove essere ben altra cosa. Essa deve, per usare le sue parole,
rovistare li archivi di tutti I tempi,e indagare quali scienze e quali arti
fiorissero nel mondo , in quali tempi e luoghi fossero più o meno cultivate;
notare con la più minuta esattezza possibile la loro antichità, i progressi, le
migrazioni nelle varie parti della terra; poi la loro declinazione, e il loro risurgimento;
specificare, per rispetto a ciascuna scienza od arte, l'occasione che la fece
inventare; le regole e le tradizioni, secondo le quali venne via via trasmessa;
i metodi e i processi, con cui si esercita; registrare poscia le varie scuole,
in cui si divisero i suoi cultori; le più famose controversie, che occuparono
l'ingegno dei filosofi; le calunnie, a cui la scienza e esposta; li elogj e i
premj, onde viene onorata; indi. care i principali filosofi e i migliori saggi
in ciascun genere; le academie, i collegj, li instituti, tutto quanto insomma
concerne lo stato della letteratura; e massime chè in ciò consiste propriamente
la vita e la bellezza della storia accoppiare li eventi con le loro cagioni, notando
la natura dei paesi e del popolo romano, che mostrarono più o meno di idoneità
alle scienze; le circostanze storiche che tornarono loro propizie o contrarie;
lo zelo, il fanatismo religioso, che vi si immischio; li ostacoli, onde le
leggi attraversarono loro il cammino, e le agevolezze che loro procurarono. Infine
li sforzi generosi, l'energia magnanima, di cui fecero prova i più illustri e
potenti ingegni per migliorarne la condizione e promuoverne l'avanzamento. Nè
il frutto di si mili lavori ha da essere una vana pompa di minuzie erudite, bensì
un ajuto alla sagacia e alla prudenza degli studiosi nella cultura del sapere; poichè
in una storia cosi fatta puo evocarsi quasi per incanto il genio letterario
d'ogni èra passata; osservarsi i movimenti e le perturbazioni, le virtù e i
vizj del mondo intellettuale, non altrimenti che del mondo politico; e
ricavarne ammaestramenti e conforti per un miglior indirizzo futuro. Tal
era, giusta il concetto grandioso di Bacone, l'indole, l'oggetto, e l'officio
d'una storia letteraria in generale. Or applicandolo alla storia della *filosofia*,
che è una porzione rilevantissima di quel gran tutto, convien determinare in
nanzi tratto, entro quali confini essa vada circoscritta; chè al trimenti si
correrebbe rischio o di escluderne certe materie che le appartengono, o di
includervene altre che non le spettano punto, come la teologia. E siccome i
confini della storia d'una scienza sono prestabiliti nel concetto specifico
della scienza stessa; cosi non c'è altra via da circoscrivere ilcampo de'nostri
studj,se non quella di risalire all'idea medesima della filosofia, per
definirne il con tenuto in guisa da comprendere nella sua storia tutte e sole
le materie, che ne fan parle. Ma questa determinazione è più difficile assai di
quel che a prima giunta si crederebbe. V'ha nel concetto della filosofia, come
indica lo stesso nome (amore alla sapienza), un'ampiezza originaria cosi indefinita
e quindi variabile, che se pur ammette certi limiti, lascia sempre al filosofo
una gran latitudine di fissarli a tenore del proprio sistema. Così dopo venticinque
secoli di speculazione filosofica, si desidera ancora una definizione della
filosofia che possa dirsi generalmente accettata da'suoi cultori. Tacio degli
antichi romani, i quali per lo più stando all'interpretazione etimologica del
nome, pigliavano la filosofia in senso latissimo, e comprendevano sotto di essa
ogni specie di scienze. Ma anco tra i moderni, sebbene tanta confusione non
potesse più aver luogo, dac chè varj rami del sapere si sono affatto staccati
dall'albero filosofico, ed hanno costituito altre tante scienze particolari;
pure il concetto definitivo della filosofia non è ancora di commune accordo
stabilito, e ogni scuola lo stabilisce un po'a modo suo. Chi considera la
filosofia sotto l'aspetto meramente *ontologico*, la riguarda come la scienza
dell'ente, la scienza del reale, la scienza dell'assoluto; e perciò nella sua
storia non deve abbracciare fuorchè le prette dottrine speculative,
trascendenti, o metafisiche. Chi all'incontro contempla la filosofia dal lato
puramente *logico* o psicologico, la qualifica per scienza del pensiero, scienza
della ragione, o scienza dello spirito umano; e quindi nella sua storia non
avrebbe da esporre se non le dottrine formali della cognizione. Chi
poi studia la filosofia sotto il rispetto *morale* e sociale, la tiene in conto
di scienza del bene, la scienza della vita , o la scienza dell'umanità; onde
nella sua storia non potrebbe raccogliere fuorchè la dottrina pratiche del
dovere e diritto umano. Egli è manifesto, che simili concetti e definizioni
della filosofia peccano per difetto, in quanto che non comprendono l'intero suo
campo, ma solo alcune parti; talche, ove si pigliassero a guida d'una storia
della filosofia, essa riu scirebbe per necessità parziale, esclusiva, inetta ad
adeguare il suo oggetto e conseguire il suo scopo. Nell'estremo opposto cadono
le scuole, che formandosi un concetto della filosofia più vasto, ma più vago
insieme ed indeterminato, peccano d'eccesso; poichè la confundono con la
scienza in genere, e la sforzano ad entrare nella messa di ogni dottrina, che
per qualche rispetto sieno da qualificarsi d'indole razionale: la sua storia,
in tal caso, deve invadere quasi tutta l'enciclopedia. A scansare questo doppio
errore fa dunque mestieri di allargare il concetto dei primi, e di restringere
quello dei secondi, per poter comprendere nella storia della filosofia tutto il
necessario, che li uni a torto ne escludono, ed escluderne tutto il superfluo,
che li altri v'introducono senza ragione. Ora: se da un lato è assai malagevole
di circoscrivere l'objetto della filosofia mediante una definizione logicamente
rigorosa. Dall'altro però la difficultà vien meno, ove basti determinarlo per
via di semplice classificazione o enumerazione di parti. Perocchè confrontando
insieme i termini varj e disparati, onde le varie scuole concepiscono la
filosofia, apparisce tosto come la ragione del loro contrasto sia una
condizione della sua natura medesima, la quale non è, come quella delle altre
scienze particolari, tutta subjettiva o tutta objettiva, cioè esclusivamente
razionale o empirica, ideale o positiva; ma è mista, e partecipa dell'uno e del
l'altro carattere, e tocca ai due poli opposti della cognizione. Ed invero, la
cognizione consiste in quel rapporto, che scaturisce dal combaciarsi, dal compenetrarsi
dei due termini intellettivi: subjetto conoscente ed objetto conoscibile; e la
filosofia ha per officio principale di investigarne l'indole, le proprietà, le
forme, le leggi più intime e più generali. E siccome le determinazioni di un
rapporto non possono ricavarsi se non dal mutuo riscontro de’ suoi termini
costitutivi; cosi la filosofia dee necessariamente addentrarsi nello studio del
subjetto e del l'objetto della cognizione, per poter giungere ad una teorica
universale della scienza, Ora, in quanto essa scruta la natura del subjetto
conoscente, anima, spirito, intelletto, mente, o Io che dir si voglia, prende
forma di scienza subjetliva; si traduce in *logica*, psicologia, e antropologia;
e riesce ad una dottrina generale del pensiero. Sotto questo solo aspetto la
considerano le scuole, che mostrano di ridurla ad una semplice ideologia.
All'incontro, in quanto essa studia la natura dell'objetto conoscibile,
acquista il valore di scienza objettiva. Ma l'objetto stesso può trattarlo in
due modi. O nella sua massima universalità, come ente in genere; e allora essa
diviene una schietta ontologia, protologia, o metafisica generale: ovvero sotto
certe speciali determinazioni, a cuirispondono le varie parti della *metafisica
speciale*; come di ente *assoluto* o Dio, oggetto della teodicea; di Cosmo o
universo, oggetto della *cosmologia*; di uomo o Umanità, oggetto della morale.
All'una o all'altra soltanlo di coteste parti la restringono le scuole, che
intendono di ridurre il suo campo all’uno o all'altro di simili objetti. Il che
spiega bensi, ma non giustifica punto il loro procedere esclusivo: lo spiega,
poichè assegna la ragione che li muove ad appigliarsi rispettivamente al
proprio metodo; ma non lo giustifica, poichè il considerare un oggetto da un
lato solo, per vero e giusto che sia, non vale mai a conoscerlo intero; e il
non conoscerlo intero implica necessariamente due condizioni, che repugnano
troppo all'indole del sapere scientifico. La prima, che alcune parti
dell'oggetto rimangono fuori della trattazione, e quindi ignote. La seconda,
che la cognizione delle parti stesse trattate e chiarite rimane inadequata,
incompiuta, e quindi più o meno erronea e fallace; onde i giudizi coşi discordi,
e non di rado contrarj circa il valore di un sistema o il carattere di un'epoca:
veri tutti in parte, per quel rispetto Se noi pertanto vogliamo esporre
nella sua integrità propria e specifica la storia della filosofia, dovremo
abbracciare, nel quadro delle varie epoche e de’varj sistemi, due ordini di dottrine
filosofiche: quelle che si riferiscono alla determinazione del subjetto stesso,—
logica, psicologia, antropologia; e quelleche concernono le determinazioni
dell'objetto, in quanto appartiene al regno della speculativa: cioè, o nella
sua universalità assoluta,— ontologia, protologia; o sotto certe forme razionalie
metafisiche di Infinito, di Universo, di Umanità, teodicea, cosmologia, e
morale. Ecco le materie, che direttamente fanno parte della filosofia, e per
conseguente della sua storia. Ma nessuna scienza può dirsi compiutamente
esposla, finchè si considera in sè stessa unicamente, e come segregata da tutte
le altre. L'unità del pensiero da un lato, e dell'universo dall'altro,
stabilisce un cotal nesso intrinseco sra i varj ordini di cognizione, che sono
quasi i rami del grand'albero del sapere: nesso, che fra alcuni ordini più
affini, più omogenei introduce relazioni cosi strette e necessarie, che l'uno
non si potrebbe adequatamente conoscere senza contemplarlo eziandio nelle sue
attinenze con l'altro. Laonde per ciascuna scienza, come per la sua storia,
oltre le materie di sua diretta spettanza, ve n'ha certe altre che indi
rettamente le appartengono, siccome quelle che per una loro particolare ed
essenziale relazione con essa, valgono a meglio rilevare il suo valore e la sua
efficacia, a spiegare le sue evoluzioni e le sue trasformazioni, ad apprezzare
il suo influsso, cosi nello svolgimento teoretico del sapere, come
nell'incremento pratico della civiltà. Questa condizione ha luogo sopratutto
nella filosofia, la quale appunto per il suo carattere di *scienza prima* ed
universale, tocca ai principj supremi della cognizione, e con essi porge li
ultimi fondamenti a tutte le scienze. Non sarebbe difficile quindi a trovarle
qualche attinenza, prossima o remota, con le singole parti dell'intera enciclopedia;
ma volendo pur contenere il tema sotto cui riguardano questa o quello ma tutti in parte falsi, per li altri
rispelti da cui prescindono,e di cui non fanno caso. Primeggia fra esse la *religione*
cattolica, che ha con la filosofia medievale una tal affinità, da scusar quasi
l'errore assai commune di chi le confunde ambedue insieme. Ed infatti,
l'oggetto proprio di ambedue è in sustanza lo stesso; poichè si travagliano del
pari nello studio dell'ente infinito ed assoluto, e delle sue relazioni
metafisiche e morali con l'universo e con l'uomo. Diversificano bensi
profondamente nel metodo, onde ciascuna piglia rispetti vamente a trattarlo:
giacchè l'una procede per via di intuito, di sentimento, d'affetto; l'altra
invece per via di riflessione, d'analisi, e di raziocinio. Quella traduce l’ideale
in un *simbolo*, e questa in una formula. La prima ne fa un dogma di fede, e la
seconda un sistema di scienza. Tuttavia coteste differenze non tolgono punto,
anzi confermano li influssi scambievoli, che l'una deve esercitare nel corso
della storia su l'altra. La religione cattolica sta alla filosofia,come il sentimento
alla ragione; e nella guise medesima che questa prende da quello la materia
prima de'suoi concetti, la filosofia trae dalla religione cattolica il primo
abbozzo de' suoi teoremi. Vediamo infatti dovunque il simbolo cattolico andare
innanzi ai sistema filosofico; e la fede cattolica governare l'uomo prima che
la scienza; e i miti e le leggende pascere la sua fantasia lungo tempo prima
che il suo intelletto li sapia discernere dal reale e dal vero. E quando la
ragione, fatta adulta e robusta, comincia ad aver coscienza di sè ed a provare
il bisogno d'una cognizione più chiara, più pura, e più soda, non può pigliare
d'altronde le mosse che dallo stato mentale, a cui l'uomo è educato dalla sua
fede cattolica instintiva o tradizionale; si che i primi passi della filosofia
non sono altro che tentativo di tradurre una credenza religiose in un concetto
razionale. E siccome in quest'opera di semplice riduzione esso incontra
bentosto difficultà insuperabili, incontra cioè elementi al tutto fantastici e
ribelli ad ogni forma scientifica; cosi la filosofia perde in breve quel
carattere primitivo d'interpretazione del simbolo cattolico o dogma ne'suoi più
rigorosi confini, come mai si potrebbe disconoscere il mutuo vincolo, che lega
intimamente la filosofia con alcune dottrine ed instituzione della Chiesa
cattolica romana, nelle quali la ragione speculativa rinviene o i suoi più
importanti materiali,o le sue più solenni applicazioni religiosi, ed
assume per necessità, verso di essi, quello di critica, di scetticismo, di
negazione. Indi le prime lutte fra la leggenda e la storia, la mitologia e la scienza,
la fede e la ragione; e indi, per legge naturale e quasi organica
deli’intelletto umano, le prime vitlorie della verità schietta e positiva su i
pregiudizj idoleggiati dall'imaginazione o dal cuore. Disfatta però la prima
forma d'un simbolo non è già distrutta l'idea ch'esso adombra e preconizza; nè
tanto meno è eliminata la questione, ch'esso mirava a troncare, se non a risolvere.
La fede della chiesa cattolica è una funzione psicologica cosi con-naturata
all'umanità come la ragione: quella può e dee formare, riformare, e trasformare
il suo simbolo, come questa I suoi sistemi; ma nell'organismo mentale l'una è
cosi irreduttibile e indistruttibile come l'altra. Sotto il Martello della critica
adunque cadono e scompajono la credenza della Bibbia semita, mitologica e
leggendaria, che non rispondono più al grado superiore di cultura, cui un
popolo ha raggiunto; ma danno luogo ad altre credenze meno grossolane e
fantastiche, e più consentanee alle nuove idee, alle nuove dottrine, che la
ragione fa prevalere. E allora, su quei simboli rinovati la filosofia ripiglia
da capo il suo lavoro: in prima teoretico, finchè il pensiero speculativo
armonizza con essi, e cerca solo di interpretarli in guisa da cavarne, un
significato o costrutto razionale; e poscia critico, quando, grazie al
progresso del pensiero e all'incremento del sapere, quell'interpretazione
riesce vana, quell'armonia impossibile. Indi un'altra èra di conflitto, e
un'altra serie di teoriche e di critiche filosofiche, di riforme e di
ricostruzioni religiose, rispondenti ad un periodo superiore dell'educazione
umana. E cotesta vicenda non è cessata, ne cesserà, infino a che l'objetto
ultimo della fede e de’ suoi simboli, della ragione e de'suoi sistemi, che è
l'assoluto, non sia adequatamente conosciuto e compreso; e il subjetto commune di
questi e di quelli, che è l'io, non sia pervenuto a concertare e identificare
tutte le sue facultà o funzioni psicologiche in una si perfetta unità, da cancellare
ogni specie di antagonismo fra il cuore e la mente, fra il senso e
l'intelletto, fra l'imaginativa e il raziocinio, fra quei due elementi, insomma,
uno animale e l'altro divino, che in modo si misterioso e ad un tempo si
manifesto concorrono a costituire l'umanità . E vale a dire , che per quanto a
noi è dato di conghietturare, quel processo del pensiero, svolgentesi in una
serie di azioni e di reazioni tra il dogmatismo della religione e il criticismo
della filosofia, è la sua condizion naturale, e durerà finchè l'uomo sia uomo;
poichè e il dualismo subjettivo dell'io e l'incomprensibilità objettiva dell'assoluto
sono due leggi, che hanno il loro fondamento nella stessa natura umana,
essenzialmente finita e limitata, e come risultante di due forze,
indefinitamente perfettibili e armonizzabili, ma non capaci di acquistare
giammai una perfezione infinita ed un'unità perfetta. Simiglianti, per non dire
identiche, sono le relazioni che ha la filosofia con la poesia, presa nel suo
più ampio significato di arte, e rappresentata nella sua moltiforme varietà dai
varj ge neri della letteratura. La poesia, come la religione, precede alla
metafisica. Nasce anch'essa dal sentimento dell'infinito, che è innato ed
immanente nell'uomo; anch'essa tenta di ritrarre l'Assoluto, e i rapporti che
seco hanno la natura e l'Umanità; e i suoi canti primitivi sono teogonie e
cosmogonie, poco differenti dai libri sacri della Biggia. Anch'essa, come la
religione, traduce l’Assoluto in un Ideale simbolico; ma i simboli religiosi
pigliano bentosto l'aspetto di dogmi rivelati, che s'impongono alla fede;
laddove i simboli poetici serbano il carattere di imagini spontanee, la cui
efficacia risiede nella loro idoneità estetica à soddisfare la fantasia ed il
cuore, senza offendere la ragione. Quindi sotto l'inspirazione religiosa l'Ideale
veste una forma o affatto impersonale, o d'una persona como Gesu cosi posta al
di fuori e al di sopra del mondo, che apparisce al rivelatore stesso come un
Ente sovrintelligibile e sovranaturale; laddove sotto l'inspirazione poetica l'Ideale
tiene sempre dell'umano, del subjettivo, e ritrae della persona stessa dell
poeta, che lo immedesima con sé, mentre s'immedesima con esso.La filosofia
pertanto, nelcorso deila sua storia, s'intreccia col movimento letterario,
quasi come col religioso. Trora pure nei primitivi poemi l'addentellato della
speculazione; incomincia a farne l'esegesi, e poi la critica; e conduce
l'arte a dover creare una nuova forma dell'Ideale,che possa appagare il gusto
di genti più culte, e più avvezze a non iscompagnare il Bello dal Vero. Nascono
cosi e si succedono via via progressivamente le forme letterarie, a quel modo
che i simboli sacri, sotto l'influsso critico della filosofia; la quale,
determinando in modo sempre più razionale il concetto dell'Assoluto, prescrive
all'arte, come alla fede, di effigiare l'Ideale con imagini d'età in età più
pure, più atte a conciliare il sensibile con l'intelligibile, l'intuito con la
riflessione, l'affetto col pensiero. La qual conciliazione tuttavia, per quanto
venga informando l’arte ad un tipo gradualmente più filosofico, non può
togliere via il carattere differenziale, che distingue l'opera poetica dal
sistema speculativo,come due specie di cognizione, che muovono da facultà
diverse, procedono con diverso metodo, e mirano a diverso fine. L'arte è figlia
principalmente dell'intuizione e dell'imaginazione; la filosofia invece,
dell'analisi'e del raziocinio. L'arte riveste le idee di forme sensibili,
fantastiche, dramatiche, le dispone con libera scelta, le connette a suo gusto,
non vincolata ad altre leggi che alle convenienze estetiche, e licenziata ad
abbandonarsi in grad parte all'impeto spontaneo e quasi autonomo
dell'inspirazione, dell'estro, del genio, che agli antichi pareva il soffio
prepotente d'un nume. La filosofia, all'incontro, scevera dalle figure poetiche
il concetto puro, passa l’ imagine sensibile al suo crogiuolo per cavarne le
idee, e con le idee costruisce un sistema regolare, modellato rigorosamente su
i canoni della logica, e ridutto ad unità scientifica mediante quell'intreccio
dialettico di principj, applicazioni, e conseguenze, che è prestabilito
dall'indole stessa del tema, deduttivo o indut ivo, razionale o sperimentale
che sia. La poesia ha per iscopo la rappresentazione del bello; non esclude il
vero, ma neppure il finto; subordina l'uno e l'altro egualmente al suo disegno;
e se ne vale come di mezzi per colorirlo con più di varietà, di vivacità, di
efficacia. Lafilosofia, all'opposto, ha per oggetto la dimostrazione del vero;
tiene il bello in conto di accessorio, e non di principale; lo tratta da mezzo,
e non da fine; e lo ammette solo in quanto non repugni alle condizioni della
scienza. La sua storia adunque non potrebb'essere compiutamente descritta,
se non avesse riguardo, come allo stato religioso, così allo stato letterario
di ciascun'epoca, per apprezzare equamente liinflussi scambievoli della poesia
su la speculativa e della metafisica su l'arte, e per meglio dilucidare la
legge progressiva che dirige lo spirito umano nello svolgimento armonico delle
sue facultà conoscitive. Se non che, nelle sue attinenze verso della
letteratura, la filosofia procede più all'amichevole che non verso della
teologia; perocchè il simbolismo estetico non pretende mai all'impero dottrinale,
che si arroga il simbolismo teologico; non invoca per sè l'autorità di una
rivelazione divina; non si usurpa nessun privilegio d’infallibilità assoluta: canta,
e non decreta; narra, e non dogmatizza; inventa, instruisce, diletta, commuove,
e non oracoleggia. La filosofia pertanto può scorgere in esso un errore da
emendare, ma non un nemico da combattere; delpari che l'arte può rinvenire
nella filosofia una censura un po'se vera, ma non una guerra dichiarata ed
implacabile. Le religioni adunque, le letterature, e le scienze, come hanno
contribuito per qualche rispetto all'origine ed al progresso della filosofia,
devono parimente fornirci utili sussidi e schiarimenti per la sua storia. Ma
non basta il porre mente alle sue relazioni intrinseche con le varie discipline
d'ordine dottrinale. Essa inoltre ha moltiplici attinenze con quelle
instituzioni d'ordine pratico, che si comprendono sotto il nome di condizioni
politiche e sociali di un'epoca o di una nazione: attinenze estrin seche, è
vero, ma non per ciò men necessarie ad intendere e spiegare levicende storiche
de'suoi sistemi. I quali, per trascendenti che sieno, ritraggono pur sempre
qualche cosa delle cre. Per quello poi che spetta alle attinenze della
filosofia con altre scienze, e particolarmente con le scienze fisiche e naturali,
e massime con quelle loro parti, che trattano dei primi principj delle cose e
delle leggi generali dell'universo, gli è un fatto cosi per sè manifesto e
notorio, che appena è mestieri di accennarlo per sentire la necessità di farne
gran caso in una storia del pensiero filosofico. credenze e delle dottrine, che
predominano nei tempi e nei luoghi, in cui vive il loro autore; siccome questi,
per novatore che sia, non può mai rompere ogni communione intellettuale con la
società, in mezzo a cui è nato, cresciuto, educato; e il suo pensiero,
esplicandosi in un dato ambiente mentale, dee imbe versi più o meno delle idee
communi e prevalenli. I filosofi stessi più originali precorrono bensì per un
verso alla loro generazione, ed anticipano il futuro; ma rimangono, per
l'altro, figli del loro secolo, e raccolgono,e riassumono nel loro genio, in
modo più chiaro, ordinato, e complessivo, tullo quanto v'ha di più eletto, di
più sodo e secondo nel suo sapere. Essi partecipano della vita scientifica di
due età, poichè sono alunni del presente e institutori dell'avvenire. Laonde
ciò che v'ha di nuovo no'loro sistemi, ha sempre il suo germe nello stato intellettuale
de’loro contemporanei; talchè questo è la chiave della genesi di quello. Ora
dello stato intellettuale di un secolo o di un popolo qual documento v'è egli
più reale ed autentico, più vi vente e parlante che la sua costituzione
politica e sociale, e i suoi costume domesticie civili. Nei costume esso incarnai
suoi principj di morale; nella costituzione, i suoi principi di diritto: e con
la notizia de'suoi principj di diritto e di morale si ha la guida sicura per
penetrare nei recessi della sua coscienza e della sua ragione, e per delineare
un quadro fedele delle sue cognizioni. La storia politica e civile dovrà quindi
porgere an ch'essa il suo ajuto alla storia della filosofia; la quale appren
derà tanto meglio a conoscere i grandi filosofi ed a giudi care i loro
grandiosi sistemi, quanto meglio avrà conosciuto i tempi e i luoghi a cui
appartenevano , e le idee e le instituzioni che reggevano le genti, di cui
erano dessi prima discepoli, e poi maestri. Circoscritta in tali termini la
materia, che direttamente e in direttamente spetta alla storia della filosofia,
vede ognuno da sé quanto sia vana e falsa l'accusa di chi la spaccia a
dirittura per un'arida e vuota farraggine di metafisicherie, l'una più astrusa
e stravagante ed incomprensibile dell'altra. Essa è invece il racconto delle
più eroiche lutte e delle più nobili conquiste del ל M acciocchè la contenga di fatto, bisogna dare a
quella materia, che è il corpo della storia, la forma conveniente, che ne sia
l'anima. Chi si contentasse di narrare la vita ed esporre la dottrina di
ciascun filosofo, ma separatamente, a guisa di fatti o eventi diversi,
sconnessi, indipendenti l'uno dall'altro, senza un principio organico che li
coordini, e riduca la loro varietà fenomenica ad un'unità sistematica, e mostri
il perchè ed il come l'uno sia causa dell'altro, e questo effetto di quello: fa
rebbe una cronaca,e non una storia della filosofia.Ilcompito della storia si è
di riprodurre i fatti nel loro intreccio origi nario. E siccome ogni serie di
fatti non è altro che l'atluazione successiva d'una legge naturale, ed ogni
legge della natura si riscontra con un principio della ragione; così il
racconto dei fatti od eventi filosofici non può acquistar il valore di
storia,se non in quanto li riordina, li classifica, li accentra sotto della
legge psicologica, che ne ha determinato l'origine, il processo, e la
trasformazione; di guisa che lo svariato contrasto di afferma zioni e negazioni
, di tesi e antitesi, di teoriche e critiche, o n 15 genio umano nel
campo del pensiero, che sovente,pur troppo ! ebbe a convertirsi in campo di
battaglia. Le questioni, venti late dai sistemi in essa esposti, toccano agli
affetti e ai desi derj più intimi, ai bisogni e agl'interessi più gravi
dell'animo : la cognizione di noi medesimi e delle nostre facultà, del mondo e
delle sue leggi; il criterio del vero e l'amore del bene; l'educazione
dell'intelletto e il persezionamento del cuore; l'os servanza del dovere e la
rivendicazione del diritto; le condizioni della felicità privata e della prosperità
publica; la missione della vita presente e la speranza della futura. Li autori,
ch'essa prende a commentare, sono l'ingegni più potenti e su blimi ed
ardimentosi che vanti l'Umanità : sono propriamente i legislatori del pensiero
e li instauratori dell'incivilimento. Ed infine, per le sue attinenze con tutte
le vicende religiose, let terarie, e scientifiche, con tutte le forme e le
riforme politiche e sociali, essa diviene lo specchio verace della vita
interiore dell'Umanità; onde può dirsi fondatamente, che la Storia della
Filosofia contiene in sustan.za la Filosofia della Storia. E il
fondamento di questa legge d'unità storica non è fitti zio o arbitrario, ma
concreto e positivo, siccome quello che ri posa su la doppia unità del subjetto
conoscente e dell'objetto conoscibile. Il subjetto è lo spirito umano , l'Io;
il quale se per rispetto agl'individui ammette infinite graduazioni e
differenze, al pari d'ogni altro essere , serba pure in riguardo alla specie
tutta la unità e identità di natura , che si osserva in ciascun altro tipo.
Quindi ,per diverse e discordanti che sembrino le m a nifestazioni della sua
attività individuale, non escono però mai fuori del limite, che segna la
cerchia delle sue funzioni speci fiche; e vanno tutte comprese sotto certe
categorie, le quali pure non rappresentano altro che certi aspetti o rapporti
di un unico principio attivo. L'objetto poi è ilvero in genere,o quelle specie
di vero che formano la materia della filosofia. Ora che può egli mai concepirsi
di cosi identico ed uno , come il vero in sè stesso e nella sua forma universale
ed assoluta? E quanto agli ordini particolari di verità, che danno luogo alle
singole parti della filosofia, o si tratta dell'Io stesso, qual ente p e n
sante; e allora l'unità dell'objetto s'immedesima con quella del subjetto, ed è
tanto una la scienza,quanto uno è il pensiero: o si tratta invece di objetti
esterni, della società umana, del mondo, dell’Assoluto; e allora l'unità della
scienza ha pure il suo fondamento nell'unità del principio protologico,
cosmologico, e morale, di cui quelle dottrine sono rispettivamente una m e
todica esplicazione. La legge di unità adunque,che deve infun dere la vita,
l'anima, la forma nella storia della filosofia, sus 16 d'è intessuta la
storia della filosofia, apparisca, non quasi un caos informe e fortuito, ma
come un mondo ideale, in cui i varj sistemi tengon luogo di elementi o forze
integranti, che rappresentano nel loro complesso la moltiforme attività di un
principio unico, del pensiero; e producono col loro antagonismo un'armoniá
simile a quella del mondo reale. Indagare e veri ficare questa legge primitiva,
che sotto l'infinita varietà dei si stemi stabilisce l'unità di un organismo
dottrinale, e dirige la vita interna del pensiero, è dunque l’officio proprio d'una
sto ria della filosofia. A trovarla però occorre sopratutto di
saperla cercare; onde nella storia della filosofia, non altrimenti che in
qualsiasi di sciplina, ha un'importanza capitale il metodo. Or qual è il m e
todo da seguire per giungere con maggior sicurezza al nostro scopo ? chè v'è
anche qui disparità e contrarietà d'opinioni. In generale, li storici antichi,
vale a dire quelli dei due ultimi secoli scorsi, e dei primi anni del corrente
procedevano con metodo quasi affatto empirico edescrittivo; badavano solo a far
la biografia dei filosofi e il sommario delle loro dottrine, sen z'altro legame
che la successione cronologica, o la parentela etno grafica, o la
classificazione scolastica ; raccoglievano la materia dellastoria,ma netrasandavanolaforma.Fra
imoderni,al cuni e de'più rinomati si gettarono nell'estremo opposto , e precut
ă tesero di costruire la storia della filosofiacon metodo specula- láhystal
tivo ed a priori. Costoro, ove mai fossero venuti a capo d'una simile impresa,avrebbero
disegnato una cotal forma idealedella storia, m a vuota di contenuto reale;
avrebbero mostrato ciò che, nel loro concetto , doveva essere la filosofia, m a
non mai cið che fu nella sua realtà; insomma avrebbero costruita una teorica,
ma non già narrata una storia. Perocchè oggetto della storia sono i fatti; e i
fatti si apprendono per via d'esperienza e d'os servazione, di memorie e di
documenti, e non già per opera di deduzioni dialettiche e di evoluzioni
metafisiche. Del resto, la scuola che tentò di introdurre le costruzioni a
priori anche nella storia, obediva necessariamente al principio cardinale della
sua filosofia, che identificando il pensiero con l'essere , affer m a
risolutamente, i fatti e le leggi della storia, della natura , dell'universo
doversi cercare nei fatti e nelle leggi del pensiero stesso.Ma quando essa
volle passare dalla teorica allapratica, e chiarire col proprio esempio la
superlativa bontà del suo m e todo, a che è riuscita? A null'altro fuorchè a
provare lavanità 17 siste non meno nel subjetto che nell'objetto del
pensiero spe culativo. Potrà in qualche caso riuscire malagevole a scoprirsi e
significarsi; potrà eziandio rimanere ancor ignota : m a sarà per difetto
nostro, e non per mancanza sua; e vorrà dire sol tanto, che non si è ancora
trovata, e non già che non esista. delle sue speculazioni; giacchè tutto
quanto v'ha di slorico noi suoi lavori, è attinto dai monumenti ordinarj, e non
fabricato a priori; è ciò che v'ha di propriamente dedutto a priori , è ipotesi
, poesia, romanzo , ogni cosa, fuorchè storia. Tra l'empirismo degli uni e il
trascendentalismo degli altri s'apre nondimeno una via di mezzo, che è quella
indicata dalla ragione, e battuta dalla scienzaUn metodo non è altro che un
mezzo di cognizione: il suo valore è dunque relativo,e con siste nella sua
rispondenza al fine , cui dee servire. L a sto ria della filosofia consta di
due elementi : d'una materia positiva. e d'una forma razionale ; dunque il
metodo di studiarla vuol essere misto : positivo, quanto all'esposizione dei
fatti; e razio nale, quanto alla investigazione delle leggi. A questo metodo si
potrebbe meritamente appropriare il nome di critico; poiche esso è ilsolo,in
cui una critica sagace e sapiente riconosca mantenuti i suoi principj, ed osservate
le sue regole. C o m u n que però si chiami, esso è quello che noi ci
studieremo di se guitare costantemente. Le regole di questo metodo sono le
stesse, che la logica pre scrive generalmente negli studi storici. Le
principali, per quanto spetta in particolare al nostro tema, saranno. 2.°
Equilà nel giudizio delle dottrine ; e perciò aver s e m pre riguardo alle
condizioni de'luoghi e de'tempi, in cui vivea l'autore; apprezzare le sue idee
in relazione con quelle d'allora, e non con quelle d'adesso; discernere
accuratamente le veré. 1.° Fedeltà nel ragguaglio dei fatti ; - e quindi ,
anzitutto lasciare a ciascun autore la fisionomia sua propria; non aggiun gere
, nè togliere nulla alla sua parola ; riferire il suo sistema tal quale piaque
a lui di comporlo , e non come piacerebbe a noi di rifarlo: chè primo officio
della critica si è di non far dire ad alcuno nulla più e nulla meno di quel
ch'egli ha detto: officio, a cui mancano tutte le scuole esclusive e parziali,
che vanno a cercare nella storia della filosofia, non una notizia del sistema
altrui, m a una giustificazione del proprio; e in luogo di farsi interpreti
degli altri, costringono -li altri a farsi loro apologisti. dalle
false; non assolvere queste in grazia di quelle, nè con danpar quelle in odio
di queste; e cosi nell'approvazione come nella riprovazione procedere con tutto
il rigore, non so lamente della logica, ma anche della giustizia:chè debito
della critica si è di esercitare il diritto di lode e di biasimo come una
funzione non meno morale che letteraria: debito,a cui fal liscono del pari e i
panegiristi fanatici e i detrattori arrabiati; poichè li uni, predisposti a
lodar tutto, scambiano la storia in adulazione ; e li altri , prerisoluti a
tutto biasimare , conver tono la critica in maldicenza: e questi e quelli tanto
più rei, in quanto che d'ordinario trattasi di giudicare personaggi, che non
partecipano più alle nostre dispute, e non sono più in grado di difendersi nè
dalle cortigianerie de’partigiani,nè dalle calun nie degli avversarj. Terzo,
Cautela nell'assegnazione delle leggi; - e però non in durre da fatti
particolari, nè dedurre da dozioni generali più di quel che contengano ;
professare il dubio, dove ragioni pro e contro interdicono la certezza; é
confessare l'ignoranza, dove il difetto di notizie e di documenti non lascia
penetrare alcuna luce di scienza; tener conto dell'elemento variabile, che la
li bertà introduce nella storia; e non ostinarsi a geometrizzare tutta la vita
dell'Umanità, quasi che ilpensiero fosse suggetto alla regolarità di una
combinazione chimica o di una produzione b o tanica; evitare con egual
diligenza l'errore dell'empirismo, che non sa riconoscere verun nesso causale
tra li eventi umani , e rimette la storia in balia del caso; e l'errore del trascendenta
lismo, che vuole incatenare anche i fenómeni volontarj all'im pero di una
fatalità inesorabile, e ragguaglia tutti liattimorali alla condizione di
effetti fisici: che dovere della critica si è di studiare la natura in sè
stessa, e non di foggiarsela a proprio gusto; e perciò di apprendere da essa le
sue leggi, e non di det tare ad essa le proprie. Ora, che il regno umano non
sia inte ramente governato dalle forze necessarie , a cui obediscono ine
Juttabilmente lialtri regni della natura,ed in quello operi una forza
libera,che in questi non ha luogo:eglièun fatto,lacui sussistenza ci è cosi
nota e,certa, come la coscienza di noi stessi. 1Ben si potrà disputare
dell'essenza, dell'origine, della costitu zione di questa potenza superiore,
che crea il mondo morale; si potrà allargare o restringere si la cerchia della
sua compe tenza nella vita interna ed esterna del pensiero, e si quella de'suoi
rapporti con le altre funzioni della natura umana ed universa: ma simili
questioni, che riguardano la spiegazione teoretica del fatto, non detraggono
punto all'evidenza della sua positiva realtà, nè valgono a revocare menomamente
in dubio l'ingerenza, che spetta alla libertà nell'andamento delle cose umane.
E con la libertà entra nella storia un principio,ilquale per rispetto agli
altri elementi, tutti fatali ed invariabili,assume ilcarattere di
irregolare,anomalo,perturbativo,e dà origine ad una serie particolare di
fenomeni, assai più complessi, poichè ten gono insieme del necessario e del
libero, del fisico e del m o rale. Questa serie pertanto, se è determinata per
una parte, è indeterminabile per l'altra; giacchè libertà e predeterminazione
sono concetti, che scambievolmente si escludono. La storia ammette dunque leggi
fisse ed immutabili, in quanto essa procede a tenore di cause fisiche e fatali;
e ammette solo divinazioni, conghietture, probabilità, più o meno plausibili e
ragionevoli, m a non leggi anticipatamente definibili e indecli nabilmente
effettuabili, in quanto essa dipende da cause m o rali e libere.E la sagacia
della critica consisterà nel raccogliere la maggior s o m m a possibile di
probabilità induttive , a fine di trarre dal passato un qualche lume per
rischiarare un po' l'avvenire; e non già nel trascurare tutto ciò che non
quadra alla simmetria preconcetta di un sistema, per procacciarsi la vana
soddisfazione di aver compassato ogni cosa alla stregua del proprio cervello.
Egli è quindi manifesto, come dicendo noi, la storia della filo sofia,presa
nell'ampio giro del suo significato,convertirsi davvero in una filosofia della
storia, non sia questa da intendersi nel senso dogmatico degli aprioristi,
secondo i quali applicar la filo sofia alla storia equivale a trasformare la
storia in una cotal metafisica imaginaria, che fa dell'uomo un concetto astratto
e dell'Umanità una formula matematica. Un tal genere di specu 20
lazione potrà per avventura intitolarsi ancor filosofia, m a certo non
merita punto il nome di storia; di quella disciplina, cioè, a cui non è lecito
di acquistare un carattere filosofico, fuorchè a palto di non ismettere mai il
carattere storico,che costituisce la sua stessa natura. E poichè, come storia,
è una dottrina es senzialmente positiva e sperimentale, dee 'pure, come
filosofia, serbare la forma medesima,e procedere con metodo sperimenlale e
positivo. Essa, in luogo di narrare i fatti particolari,ad uso della pretta
storia descrittiva, baderà a raccogliere da ciascuna serie di falli leleggi
psicologiche,morali,e sociali,che ne rampollano; m a le raccoglierà con quello
stesso metodo induttivo , onde le varie scienze naturali ricavano
dall'osservazione e dalla classifi cazione dei fenomeni fisici, chimici,
fisiologici, le leggi dell'uni verso. Solo a questa condizione ci sembra
possibile di innestare la filosofia nella storia, e sopratutto di effettuare
l'innesto m e diante la storia della filosofia. Alla quale ritornando ancora
per poco, ci resterebbe da chia rirne brevemente l'importanza, l'utilità, la
necessità,così per sè stessa, come per le sue atlinenze con le altre discipline.
Ma bastano a tal uopo, in tesi generale, li argumenti stessi, che ci valsero a
stabilirne la materia,la forma, ed ilmetodo;giacchè sono ben poche,per fermo,
le scienze a pro delle quali si possa no addurre titoli eguali per provarle
importanti, utili,e necessarie. Per altro, ciò che sarebbe al tutto superfluo
sotto il rispetto teoretico ed in astratto, può di leggieri tornare assai
conveniente in qualche caso pratico e concreto, che da un singolare con corso
delle circostanze di tempo e di luogo riceva un'impronta tutta sua propria. Ed
è il caso nostro. Commendare lo studio della filosofia colà, dove il pensiero
filosofico è nel pien vigore del suo esercizio, e fiorisce sotto tutte le sue
forme, e si svolge largamente , liberamente in tutta la svariata energia delle
sue funzioni, saprebbe di anacronismo o di paradosso. M a oggi, tra noi,- a che
dissimularlo?— pon ècosì.L'Italia,chealtrevolte s'ebbe il primato in ogni
genere di studj; che nell'antichità ebbe tanta parte al progresso della
filosofia per opera delle scuole della Magna Grecia; e che al cadere del medio
evo suscitò nel mondo intellettuale quel gran moto del Risurgimento, e con
di esso rimise l'Umanità su la via di ogni riforma e di ogni sco- tu perta: non
occupa più da lungo tempo il seggio,che le pareva che assegnato dalla natura
medesima nel regno del sapere. Le ca gioni, che le hanno rapita la corona
scientifica, possono ben vie tarci di imputarle a colpa la sua caduta;ma non
già disentire in questa caduta il peso di una tremenda sciagura. Si, la per
dita della libertà, le sette politiche, le persecuzioni religiose, dominazioni
straniere, le tirannidi nostrali, rendono più che sufficiente ragione delle
misere condizioni, a cui venne dannato negli ultimi tre secoli il pensiero
italiano ; e spiegano abbastanza come il genio filosofico, perseguitato a morte
in questa regione che parea divenuta sua patria, dovesse emigrare in altre con
trade, e cercare ospitalità presso altre genti , che li avi nostri chiamavano
barbare, e che a noi tocca invece di salutare mae- al stre. Ma spiegare il
fatto non è distruggerlo; e sieno pur evi. di denti, necessarie, irrefragabili
le sue cagioni, sta sempre vero , che nella storia della speculativa moderna
l'Italia non occupa più, dinanzi alla culta Europa, uno de'primi, bensì uno
degli ultimi posti. p Ed è tempo oggimai, che una tanta umiliazione abbia fine.
di Per lo passato potevamo sopportarla senza troppo rossore,come ni una
conseguenza fatale dell'oppressione, sotto di cui il bel paese di gemeva ; m a
d'ora in poi la cesserebbe di essere una sventura, e diventerebbe un'ignominia.
Perocchè la massima parte delle fo barriere, che divideano e smembravano
l'italica famiglia , sono cancellate; li spegnitoj, che l'arte o la violenza
avea sovrapostizie all'ingegno,sonocaduti:anche a noi siapre ilgloriosoarringo
dei nobili e liberi studj; e possiamo correrlo anche noi con ge- in nerosa gara
e con nuovo e più fortunato ardore. Sta dunque a noi di dar l'ultima mano a
questo prodigioso rinovamento d'I talia. Il valor militare e il senno civile
l'hanno redenta dalla servitù politica, e la van componendo a nazione
indipendente, libera, e forte; m a questo risurgimento stesso o non sarebbe d u
raturo, o rimarrebbe sterile e vano, ove non avesse il suo de N le a 20 210 zid
Sg TO de SE gno riscontro in una restaurazione scientifica e letteraria ,
capace & 1 - in di redimerla pure della sua minoranza
intellettuale, e di resti On tuirle nel mondo delle idee il luogo
corrispondente a quello , Ta che si è rivendicato nel mondo degli Stati. -a Ed
invero, la vita dei popoli, non altrimenti che degli indi eu vidui, proviene
dal complesso di un doppio ordine di fatti e di re leggi: l'uno fisico, e
l'altro morale, di cui ciascuno risponde ad una serie di forze rispettivamente
analoghe. E nella costituzione le sociale del genere umano egli è fuori di
dubio, che le forze he fisiche vanno subordinate alle forze morali,siccome lo
strumento 10 all'opera, il mezzo al fine. Che se da un lato è verissimo,non
alla ragione il suo impero ; o sono esse medesime effello d'un i disordine
morale, produtto dall'ignoranza e dall'errore nelle co ; 'scienze, e il loro
rimedio non può venire se non da un grado à superiore di educazione e di
cultura publica, cioè da un pro li gresso intellettuale. L'indipendenza, la
libertà, la grandezza dei popoli hanno dunque il fondamento della loro durata e
la ra B.;dice del loro incremento nelle idee,nelle credenze,nelle opi é nioni,
in cui sono essi allevati;vale a dire,insomma,nelle con je dizioni della loro
vita mentale. Ora l'alimento più sano, più sustanzioso del pensiero non è e
forse la filosofia ? Non è dessa lo studio più idoneo ed efficace 0 a svelare,
a combattere,a distruggere i pregiudizj, le supersti tizioni, li errori d'ogni
fatta, che mantengono i popoli nello stato o di fanciullezza, e li conducono
troppo spesso ad esser vittime - infelici e strumenti inconsapevoli di servitù
? Non è dessa il ti a rocinio più sicuro per informare l'intelletto al
riconoscimento .del vero,la ragione al culto della scienza, l'ingegno al gusto
a del bello, l'animo all'annore del bene , la coscienza all'adempi mento del
dovere e al rispetto del diritto, e tutto l'uomo all'e sercizio delle virtù
private e publiche, domestiche e sociali? . Non è dessa la fonte viva, da cui
tutte le altre scienze attin za > sempre quest'ordine naturale reggere in
effetto le sorti delle n a nezioni, e non di rado prevalere la violenza al
diritto e alla giu 1 stizia; dall'altro però non è men vero, che o simili
perturba rizioni sociali sono temporanee, e alla lunga lasciano ripigliare 1, .
e gono i principj, i metodi, i criterj del loro insegnamento ? Non
è dessa pertanto , in ogni periodo della storia , la misura più certa del grado
di potenza , di energia , e di fecondità, a cui per venga d i m a n o i n m a n
o il pensiero? Nella grand' opera della restaurazione scientifica d'un popolo
spetlano dunque alla filo sofia le prime parti; e sarà quella tanto più
pronta,prospera, e permanente, quanto più vasta e profonda sarà la cultura di
questa. Laonde, oggi che l'Italia, sciolto il voto di tante gene razioni, e
raccolto il frutto di tanti martirj, saluta finalmente l'alba di un'êra nuova,
deve insieme provedere alla sicurezza e stabilità del suo riscatto politico
mercè di un rinovamento in tellettuale e morale , cioè prima e sopra di tutto,
filosofico. Del quale poi, chi potrà mai e chi dovrà pigliarsi il carico
precipuo, se non quell'eletta gioventù che si consacra di pro fessione agli
studj? Essa, che ha già pagato eroicamente il d e bito suo alla patria col
valore del braccio, si ricordi che la p a tria stessa attende da lei altre
prove di devozione,più pacifiche e riposate, ma non meno ardue e magnanime,col
valore dell’ ingegno. Essa, che ha mostrat , fra l’ammirazione e d il plauso
del mondo civile, come nel sangue italiano sia ridesto il ge nio della guerra;
s'accinga a provare, con egual entusiasmo di fede e di sacrificio, come riviva
é rifiorisca del pari nell’in telletto ilaliano il genio della sapienza. E
poichè le due grandi e culte nazioni, che al di là delle Alpi ricingono
l'Italia, hanno oggimai dovuto persuadersi, che al di quà è risurto un popolo
degno di star loro a fianco o di fronte coll'armi; oh ! possano apprendere
bentosto, che questo popolo stesso intende di emu lare le loro glorie, non solo
marziali, ma anche scientifiche; intende di gareggiare con esse, non solo di
coraggio e di p o tenza, ma anche di studio e di sapere; intende che d'ora in
nanzi,quando essedescriverannoilmappamondo filosofico,non abbiano più a
dividerlo , con orgoglio purtroppo da lunga pezza non affatto temerario,in
duesoleregioni:FranciaeGer mania ; ma debbano , buono o mal loro grado,
disegnarvi una terza divisione, e chiamarla Italia. Due
parti essenziali del metodo : la critica , e la teorica. Ordine tenuto dall'Autore
nella pu blicazione de' suoi scritti . Questione preliminare dei rapporti fra
la filosofia e la religione . pag. S 2. Sistema che nega il primo termine del
rap porto , cioè la filosofia. - Dottrina fondamentale del cristianesimo.
Spoglia la filosofia d'ogni carattere di scienza razionale. Circolo vizio
Filosofia e cristianesimo son termini, che si escludono a vicenda S3. Sistema
che nega il secondo termine del rap porto , cioè la religione. – Dottrina degli
Enci clopedisti . – La scuola rivoluzionaria . Espo sizione della teoria di C.
Lemaire , di G. Fer rari , di Proudhon , -di Feuerbach , - di C. Marx e A ,
Ruge . so . VII XII 396 INDICE - e >> XXXVII S 4. Critica di questo
sistema . Vero stato della questione . Universalità e perpetuità della re ligione
. Non se ne può attribuire l'origine al l'arbitrio degli individui . — È un
elemento natu rale dell'Umanità. Testimonianze di 0. Müller, -di P. Leroux, e
di Lamennais. Objezione di Proudhon. - Risposta. - La religione si tras forma
sempre , ma non muore mai . Confessione di Feuerbach. Giudizio di G. Villeneuve
pag. XXVII S 5. Sistema che confunde i due termini insieme. Alcuni riducono
tutta la religione alla sola mo rale . Dottrina di Kant, di Saint- Simon ,
d'altri Riformatori . S 6. Critica di tale sistema. - Necessità d'una dot trina
teoretica per la morale. La morale della. carità e della fratellanza non fu un
trovato dell'E vangelio . - Lo han confessato li scrittori eccle siastici
antichi . Documenti. Li Esseni ei Terapeuti . - Parallelo di Reynaud. -
Giudizio di De Potter. La carità e la fratellanza del cristianesimo sono il
rovescio del socialismo . Sentenza di D. Stern " . S 7. Altri immedesimano
affatto la religione con la metafisica e la scienza. Esposizione e critica dei
sistemi di Leroux, di Reynaud, di La mennais , e di Comte . $ 8. Sistema che
separa affatto i due termini l'uno dall'altro . - Professione di fede
dell'ecletticismo . Contradizioni di E. Saisset, già ben notate da F. Génin. La
bandiera dell'ecletticismo di sertata . Altre contradizioni di E. Martin . Vani
tentativi per conciliare il razionalismo col sovranaturale . XLV • LVIII »
LXXXI INDICE 397 scenza . S 9. Conclusioni che derivano dalla critica di questi
sistemi. — Condizioni generali del problema da risolvere. — Significato preciso
dei due termini : la religione come dogmatica, e la filosofia come metafisica .
-Il rapporto d'unione fra loro è nell'u nità del loro oggetto. Il rapporto di
distinzione non può dedursi che da una teorica della cono Conoscenza sensibile
e razionale . Sensazioni, imaginazioni , e sentimenti . Per cezioni , credenze
, e concetti . Sentimento pri mitivo dell'Assoluto . — Cognizione razionale ,
che ne proviene . La credenza , propria della reli gione. Il concetto , proprio
della filosofia . Simboli e teoriche . Influenza reciproca della filosofia e
della religione . Perpetuità di am bedue . Giudizio di Strauss . pag . S 10.
Sistemi che mantengono tutti e due i termini ; ma pongono fra essi un rapporto
inesatto. Ana lisi critica dei sistemi di Constant , di Trul di Villeneuve , di
Mamiani. Filoso fia della religione di Hegel , esposta da A. Véra. » S 11. Varj
significati, in cui si prende il raziona lismo. Razionalismo teologico. Dogma
tismo. Ontologismo . Idealismo . Il solo sistema , che il razionalismo escluda,
è il dogma tismo. Caratteri positivi e negativi del razio nalismo . Parte
scientifica e parte critica , Conclusione CIV - lard , CXX L CXL 398 INDICE 팅 DEL
SENTIMENTO. >> 13 1. Carattere objettivo della filosofia antica , e
subjettivo della moderna. Necessità e importanza della psi cologia. pag . 1 II
. Classificazione incompleta delle facultà umane. = Trascuranza del sentimento
nelle scuole italiane 4 III-IV. Classificazione proposta dagli autori
scolastici » 6 V. Sistema del Galluppi 9 VI. Sistema del Mancino 10 VII . Vizio
commune di questi due sistemi 12 VIII-IX. Analisi critica della teoria del Poli
X - XII. Esposizione e censura della teoria di Gioberti » 18 XIII. Pregio
commune di queste due teorie 26 XIV-XVIII. Analisi dei due sistemi del Rosmini.
Assurdità e contradizioni . Rosmini confutato da Rosmini 27 XIX . Saggio della
sua modestia. Suoi giudizj in torno alle scuole tedesche, alla filosofia
moderna, e al nostro secolo . — Il calculo degl'interessi mate riali . Come
Rosmini intenda la storia 44 XX - XXII. Danni , che recò alla filosofia la
negligenza del sentimento . - Principio della classificazione psi cologica. -
Non si può riporre nel subjetto . E ne pure nell'objetto 53 XXIII . Se il senso
abbia un oggetto. Giochi di pa role del Rosmini. Contradizioni e sofismi . XXIV
-XXV. Il principio della classificazione sta nel rapporto del subjetto con
l'objetto , cioè nella fun zione . La classificazione delle funzioni deriva
> » 57 1 IN DICE 399 pag. 62 - dai caratteri de' fenomeni conoscitivi,
Metodo induttivo di Bacone. Avvertenze e canoni di Garnier XXVI-XXVII.
Tradizione filosofica su la divisione delle facultà in senso e ragione 65
XXVIII-XXIX. Se fra il sentire e l'intendere passi una differenza generica , o
specifica soltanto . Strane contradizioni di Gioberti e di Rosmini 69
XXX-XXXIV. Non havvi una differenza generica ed essenziale fra il sentire ed il
conoscere . Prova filologica. Valore di certe locuzioni ammesse an che dai
filosofi. Il senso commune. Séguito delle contradizioni di Rosmini . - Il buon
senso. Il senso intimo . 73 XXXV - XXXVIII. Sofismi di Rosmini circa la natura
della sensazione . Il senso e l'intelletto si identi ficano nel genere , e si
distinguono nella specie . Dottrina di Tomaso d'Aquino , e del Poli .. La funzione
generica della conoscenza si divide in due funzioni specifiche : il sentimento
e la ragione . » 83 XXXIX - XLVI. Tre serie di fenomeni del sentimento .
Sensazioni. Errore della scuola psicologica francese , Dottrina di Matthiae .
Imaginazioni. Sentimenti. Elemento proprio , ed elemento commune dei varj modi
della conoscenza sensibile . Sono spontanei , immediati , concreti 92
XLVII-LIV. Tre serie di fenomeni della ragione . Percezioni. Credenze.
Concetti. Elemento proprio ed elemento commune dei varj modi della conoscenza
razionale . Sono riflessi, - mediati, - astrattivi. – Ricapitolazione LV - LVI.
Assurdità del Rosmini su lo sviluppo cro nologico della conoscenza . I bambini
filosofi . La nipote di venti mesi . Curiosa confessione - 2 » 108 » 114 400
INDICE Funzioni pra pag. 124 » 139 LVII-LVIII. Unità dello spirito umano.
Intimo nesso delle funzioni conoscitive. tiche . Classificazione generale LIX
-LXII. Analogie e differenze tra questo sistema e quello di Franck , di Garnier
, di Lamennais, di Leroux. Elogio e critica della teoria di A. Martin . >
128 LXIII-LXVI. La divisione delle facultà in attive e pas sive è falsa e
contradittoria. Li atti attivi , e li atti passivi del Rosmini. È erronea del
pari la di visione in facultà objettive e subjettive. Sofismi del Rosmini circa
la subjettività del sentimento e l'objettività dell'idea . Quali sieno le
conoscenze reali ed oggettive , e quali le suggettive ed astratte . Dottrina di
G. Ferrari. Antitesi del dogma tismo LXVII - LXIX . Objezioni e risposte . Che
cosa sia la verità. S'ella esista in sè stessa, fuori della mente. Paralogismi
del Rosmini . Egli non si prende cura e timore delle conseguenze. · Non ha
paura dell'assurdo . Assurdità e contradizioni della sua teorica delle idee .
LXX -LXXII. Caratteri , che differenziano l'uomo dal l'animale . Della
cognizione delle essenze . Come il Rosmini fa ragionare i moderni . Come
ragionino davvero. Storchenau , Dmowski . - Scempiaggini che Rosmini affibbia
agli antichi . Conoscere l'essenza d'una cosa, per lui , vale saperne il nome .
LXXIII-LXXV. Origine delle idee . Confini della scienza umana. Divisione delle
scienze . Due specie diverse di credenza. Elogio di Alfonso Testa. Saggio delle
sue dottrine . » 154 Kant , » 169 » 183 INDICE 401 - . pag. 196 LXXVI-LXXXIV.
Esame della teorica del Bianchetti. Şuoi meriti. - Critica delle sue objezioni
contro la dottrina del sentimento . -Egli stabilisce la que stione in termini
contradittorj. - Equivoco dell'as soluto . Se siano più mutabili i sentimenti ,
o le idee. Certezza della cognizione . Conseguenze della teoria platonica delle
idee . Guida sicura del | l'Umanità è la natura. In qual senso la verità , la
giustizia , e la bellezza sieno assolute . Cognizione dell'io fenomeno e
dell'io sustanza. Qual parte abbia il sentimento nella morale . L'assoluto
formale , e l'assoluto reale . La regola delle azioni LXXXV- XC. Applicazione
della teoria psicologica alla pedagogia , e alla storia. - Il sentimento del
Vero e la filosofia della conoscenza. Il sentimento del Bello e la filosofia
dell'arte . - Il sentimento del Bene e la filosofia della morale e del diritto
. · Il senti mento dell'Infinito e la filosofia della religione e del
l'assoluto . . XCI-CXII. Critica degli argumentidel Rosmini contro la teorica
del sentimento religioso . Se possano collocarsi tutte le religioni sotto una
stessa cate goria. La prova rosminiana è logicamente un so fisma. Storicamente
è una falsità . Dottrine cristiane anteriori al cristianesimo.- Carattere del
l'Evangelio. — Un filosofo inquisitore . – L'accusa d'empietà. –Logica
buffonesca del Rosmini. - Sua storia dell’empietà. Contradizioni ed assurdità
del suo catechismo. Insulti all'Umanità. Ca lunnie in luogo di ragioni . Verità
assoluta e ve rità relativa della religione . · Il Dio vero e il Dio falso . -
L'infallibilità del dogmatismo. Rosmini - » 223 402 INDICE - dichiara bestia
chi non pensa come lui. - Il fondo e le forme della religione . Chi ammette il
senti mento non lascia la via della ragione . La ragione e il sentimento non
sono contrarj. Subjettività della religione. Trasformazioni dell'idea di Dio. -
L'uomo ha una religione perchè è uomo. -Come nella dottrina del sentimento vi
sia la verità , la cer tezza, e la morale . I motivi della fede. Con tradizioni
del Rosmini intorno alla natura. Là legge e l'obbligazione morale . - Dove
cominci l'im moralità delle religioni. –La credenza non precede il sentimento.
Avvertimento ai giovani stu diosi CXIII-CXIV. Programma d'un corso di
Filosofia. Il razionalismo e la fede . Distruttore d'ogni fede è il dogmatismo.
- Differenze reali e pratiche fra il razionalista e il dogmatico . - 1 . pag.
236 » 313 NOTE. . 2 » 321 » 346 A. Analisi e critica dell'opera di G. A.
Nallino : Del Sentimento . B. Dottrina di C. Lemaire intorno alla verità . C.
Esame di una lettera del vescovo d'Annecy all'Ar monia su l'educazione D. Legge
storica del progresso , giusta il sistema di Comte e di Ferrari . E. Inno di
Cleanto a Giove tradutto dal Pompei F. Dottrina di Franck intorno alla fede . »
351 » 367 » 376 » DELLE DOTTRINE FILOSOFICHE DI VINCENZO GIOBERTI PARTE
PRIMA SOMMARIO DELLE DOTTRINE FILOSOFICHE DI VINCENZO GIOBERTI. Teorica del
Sovranaturale Pag. 9 Introduzione allo studio della Filosofia. Della formula
ideale . Del necessario e del contingente. - Dell'intelli gibile. Della
esistenza dei corpi. —Dellaindividuazione. Dell' evidenza e della certezza .
Dell'origine delle idee. De' giudizj analitici e sintetici . Della natura del
raziocinio Pag. 20 Della universalità scientifica della formula ideale. -Della
matematica. Della logica e della morale. Della co smologia Della estetica Pag.
27 Tavola delle trasformazioni ontologiche della formula ideale, corrispondenti
ai vari stati psicologici dello spirito umano Pag. 33 Teorica dei Primi.' –
Della dialettica Pag. 38 PARTE SECONDA CRITICA DELLE DOTTRINE FILOSOFICHE DI
GIOBERTI. La grande innovazione, che Gioberti portò nella filosofia , è quella
dei vocaboli e delle locuzioni. - Il suo sistema però è sempre il vecchio
dogmatismo della scolastica. -Egli 328 - 1 s'era proposto di ricondurre la
scienza ideale alle credenze catoliche e all'obedienza della chiesa, onde
l'aveano sviata; il metodo, il principio , e il criterio della filosofia
moderna, e volea sostituire : I. Come metodo, l'ontologismo al psicologismo. —
Defi nizione dei due metodi. — Il psicologismo osserva, e l'on tologismo viola
il primo canone di una buona metodica, che è di procedere dal noto all' ignoto
; - parimente il secondo, che è di camminare dal certo all'incerto . - Li miti
del psicologismo. - Conseguenze , che il filosofo ne dee tirare. Gioberti ba
ragione contro i psicologisti dogmatici, e noncontro i psicologisti critici. -
Il processo psicologico non è ipotetico . L'ontologismo invece non può essere
che una ipotesi. L'uomo di Gioberti, e l'intuito diretto, immediato della
creazione Pag. 42 II . Come principio , la creazione al panteismo. –Che valore
debba attribuire la filosofia al panteismo, ed ai varj sistemi ontologici e
cosmogonici. Anche la creazione, nel sistema di Gioberti, è una ipotesi. - Non
la stabilisce su d'alcuna prova. Tutti i sistemi possono appropriarsi il suo
ragionamento. Gioberti non prova il fatto capi tale del suo sistema, che è la
notizia della creazione nel l'intuito primitivo . Anziquesto fatto medesimo, in
virtù de' suoi principj , non è ammissibile. Scambia la que stione
dell'esistenza con quella del modo. - In luogo di tre termini ne abbiamo un
solo. Differenza essenziale fra l'azione dell'Ente e quella degli esistenti -
Il sistema di Gioberti si risolve o in una contradizione formale, o in
un'asserzione gratuita Pag. 52 III. Comecriterio , il sovranaturale al
razionalismo. cosa intenda Gioberti per sovrintelligenza.-Un commento favoloso
di Achille Mauri. – La sovrintelligenzaèuna facultà contraditioria ed assurda.
Stato della questione fra il razionalismo ed il teologismo. Per la filosofia,
la fede non può esser altro che una maniera di cognizione. La distinzione dei
sovranaturalisti fra la certezza o evi denza estrinseca ed intrinseca non
giova. Il sovrana turale o non è oggetto di conoscenza , o il suo criterio è la
ragione. I fatti sovranaturali, a cui ricorre Gioberti, o non sono fatti, o non
conchiudono punto. La crea zione. La parola . La beatitudine. La rivelazione.
Il sovranaturalismo consiste nel fondare il noto su l'ignoto , o nel dedurre
l'evidente dall' incomprensibile. 329 Una confutazione efficace del
razionalismo non è pos sibile, fuorchè a patto di ammettere due specie diverse
e contrarie di verità e di ragione Pag. 60 IV. Come risultato finale , la
teologia alla filosofia . --- È un corollario . Gioberti stesso lo ha
dichiarato in mille luoghi.- Suamoltiforme definizione della filosofia. —
Saggio di commenti, con cui Gioberti laspiega. — Anche per lui, come per
Rosmini, la filosofia è la serva della teologia. Il signor Mauri lo nega
formalmente ; formalmente lo afferma. Egli vede lucidamente il 'nulla. —E
mostra d'intendersi cosi bene di teologia , come di filosofia . - Ar gumento di
Gioberti per conciliare il primato della teo logia con la libertà della scienza
. E un controsenso. L'unico principio di ordine nel regno delle idee e la
Gioberti con la sua teorica del magisterio e della regola autorevole condanna
il proprio sistema. – Egli non credeva alla filosofia, non era filosofo. - Suoi
impro bi . E contro Descartes, como rappresentante di essa . Pag. 69 verità.
PARTE TERZA LI AVVERSARJ DI GIOBERTI. Varie classi d' avversarj. -La critica
presente si rife risce ai soli avversarj delle dottrine filosofiche di Gioberti
. Nella questione del metodo, suoi avversarj naturali do vean essere i
psicologisti critici. -Ma'in Italia una scuola critica non esiste. – Nicolò
Tommaseo. Salvatore Man cino - Terenzio Mamiani. - I psicologisti rosminiani.
Questione fondamentale tra Gioberti e Rosmini. La critica di Gioberti distrusse
la metafisica del psicologismo. E la critica de' rosminiani disfece la
metafisica dell'on tologismo. —Il sistema di Kant riceve una nuova conferma dal
fatto stesso de' suoi detrattori. Lato comico della controversia fra Gioberti
Rosmini. Conclusione , che ne dee trarre la filosofia e l'Italia . Pag. 88
Nella questione del principio , avversarj di Gioberti avrebbero dovuto essere i
panteisti. - Ma nella patria di Giordano Bruno il panteismo non ha una scuola .
Si levarono inyece contro Gioberti i difensori officiali della - - 330 Pag. 91
Pag . 98 creazione, e lo accusarono di panteismo. Mala fede di
questiaccusatori. - Protesta diGioberti. - Il panteismo é inevitabile nel
sistema psicologico del dogmatismo —La critica dei teologi era una cavillazione
ed una sofistiche ria. Gioberti non è panteista. Il che però non gli torna a
lode Nellaquestione del criterio , avversarj di Giobertinon furono i
razionalisti, ma i teologi. E l'accusarono di razionalismo. Favole, che un
frate diede ad intendere a otto vescovi degli Stati Romani. Gioberti ebbe il
torto di prenderle sul serio . - Sua protesta. - L'accusa non è giustificata
dalla guerra , ch'egli mosse ai gesuiti. — Ma in virtù de suoi stessi principj
egli non poteva lagnarsi della sentenza de' teologi L'ordine degli avversarj,
eziandio quanto al risultato ultimo della controversia, apparvorovesciato .
Gioberti non fu combattuto in nome della filosofia . Vera filosofia , nel senso
moderno , non esiste ancora in Italia . Quivi regna tuttora la scolastica. Fu
in quella vece combat tuto dai teologi. - E con ragione. - Problema della con
ciliazione fra la ragione e la fede. Soluzione dei razio nalisti, o dei
teologi. - Gioberti s'era condannato da sè stesso con la sua professione di
fede . Il catolicismo era la sua religione, e lo trattavada catolico. - Opposi
zione assoluta della fedee della ragione.- 0razionalismo, o teologismo :
nessuna via di mezzo. L'esempio di Gioberti è una conferma di questa verità o
di questo fatto Opere postume di Gioberti. Riforma catolica della chiesa
Filosofia della rivelazione - 11 - Pag . 103 Pag. 108 . Pag. 159 II . TERENZIO
MAMIANI. E LA SUA ACADEMIA DI FILOSOFIA I. PROGRAMMA DELL'ACADEMIA . 1
Divisione del programma. False accuse , che Mamiani dà all'età nostra . - Egli
nega i fatti più notorj ed evi 331 denti. – Afferma, che oggidi la mente umana
ha perduta una sua facultà naturale . Se ella sia diventata inetta a conoscere
i sommi principj Mamiani taccia l'età nostra d'inettitudine a conoscere le
dottrine, che ogni pro fessore insegna, ed ogni studente impara . -Anche l'ac
cusa di empirismo è vana. - L'influenza dell'empirismo grosso e cieco non
esiste. V' ha però un empirismo no grosso , nè cieco, a cui la scienza rende
omaggio . E una volta Mamiani lo riconosceva anch'egli come il metodo naturale.
Testimonianze del Rinovamento , dell'Onto logia , e dei Dialoghi. Egli ora nega
perfino i pro gressi dell'industria. Per questo rispetto, lo scopo del Ľ
Academia è inutile o dannoso Il titolo dell' Academia. È un idiotismo. A che
razza di patrioti possa piacere , Abuso che Mamiani fa dell'espressioni di
filosofia italica , e italiana - L'antico moderno. Ritratto ch'egli fa di
questa filosofia. È un'amplificazione retorica da declamatore. - Che Ma miani
'abbia inventato o scoperto una nuova storia ? Il suo giudizio è falso, o si
riferisca alla scuola pitagorica : -Testimonianze diFréret, -Tennemann. -
Degerando, Ritter, e del Dizionario delle scienze filosofiche . O s'intenda
della scuola eleatica. O anche delle dot trine de' nostri filosofi riformatori
al principio dell' era moderna. — Conseguenze del giudizio di Mamiani intorno
all'eccellenza della filosofia antica. Risposta di Mamiani a Mamiani Pag. 183 -
Pag. 194 § II. PARTE PRIMA. ADUNANZE DEL 1850. Discussioni non filosofiche.
Altre, di cui s'accenna il titolo solo o si fa un indice sommario. Paragone,
che Mamiani instituisce fra l'Academia di scienze morali e po litiche , e la
sua. Strana censura dell'Academia fran cese . I difetti del secolo e della
nazione. Se un'A cademia li possa correggere. A chi appartenga questo officio
educativo. Al carattere del secolo e della nazione partecipano paturalmente
l'individui. - E il Genio stesso , Se l'Academia francese dipendesse troppo dal
potere ministrativo. Fondazione Statuto . Soppressione , - C 332 rinovazione, e
stato attuale, - Le moltitudini di Francia . -Mamiani rinfaccia loro
ingiustamente la preoccupazione dei materiali interessi. Che cosa farebbe il
Conto della Rovere, qualora si trovasse nel caso di quello moltitudini, Forma
dell'intelligenza francese . - Mamiani la taccia di poco idonea agli studi
speculativi. Falsità o calun nia. Se moltidell'Instituto seguilino
ancoraledottrino superficiali del secolo andato. L'Academia di Mamiani. -Stato
personale dei fondatori e socj primarj. – Sono tutti indipendenti d' un nuovo
genere: impiegati. -Pro blema, cheMamiani dovrebbe proporre a 'suoi colleghi.
Un elogio degl' Italiani peggiore d'ogni insulto . Pag. 207 Nuove materie di
filosofia italica antica . Mamiani ac cusa di superficialità e leggerezza tutti
i fisiologi. – E liene per sodezza e profondità l'ignoto e l'assurdo. Domanda
di un illustre scrittore piemontese. Risposta degna di un casista. - La
religione di Mamiani e della sua Academia è un enigma. - Questione della
sovranità e del diritto. Teoria di Mamiani. Li ottimati. Formula : Dio e la
legge. Critica di questa teoria e di questa formula . Doppio senso del problema
intorno alla sovranità . Un fatto di natura , che non s'è mai effet tuato . Il
diploma d'ottimo e di sapiente. Dio e Dio. Anche Mamiani crede alla favola ,
che di Tomaso d'A quino fa un dottore della democrazia. E cita lopu scolo De
regimine principum . -Ad ognuno il suo . - Ana lisi del famoso opuscolo.
Mamiani dunque non l'avea letto – Un'impertinenza del segretario Boccardo. - II
suo discorso su la filosofia della storia è un tessuto di contradizioni,
d’arzigogoli, e d'assurdità Pag. 219 $ III. PARTE SECONDA. ADUNANZE DEL 1851.
Discussioni che non meritano il nome di filosofiche. Discorso proemiale di
Mamiani. -Sommario . –Critica. La censura filosofica , che Mamiani fa dei
tedescbi, è ingiusta ed assurda. – L'esperienzae l'Assoluto . - Fede e temerità
dei filosofi tedeschi. Così ne avessero un po' l'Italiani. - I tilosofi e la
rivoluzione. - I Tede hi e l'Italici . Errori di Mamiani intorno allo
scetticismo. 333 È erro Se debbano querelarsene i savj e li onesti. Quali siano
i suoi confini. Chi reca guasti nelle intelligenze e nei cuori è il dogmatismo,
e non lo scetticismo. Nuova descrizione , che Mamiani fa dello scetticismo. pea
. Mamiani grida allo scetticismo senza conoscerlo. Che cosa dee fare per
circoscrivere la vera signoria dello scetticismo. - Ideo confuse e stravolte
circa la reli gione. L'asserzione di Mamiani , che il secolo torna a
religiosità per impulso di ragione , è un doppio contro senso . Prove che non
provano nulla. - La pianta e le radici della fede. Mamiani chiama religione ciò
che tutte le religioni chiamano empietà ed ateismo. Dev'essere un' ironia . La
piaga © la peste dell'epoca nostra è l'ipocrisia di certi scrittori. Sarebbe
tempo che Ma miani cessasse dall'equivocazione e dall'anfibologia. - E facesse
una professione di fede chiara e precisa . Almeno la gioventù conoscerebbe le
sue guide. Pag. 238 Dottrina di Mamiani su la filosofia della storia. Qual
mezzo rimanga ad un popolocorrotto per tornare alla li bertà e alla virtù
civile. - Il popolo, Le politiche in stituzioni, - I metodi educativi,
L'incremento del sa pere commune, non pajono a Mamiani una ragione suffi
ciente. — Egli muoveda un'ipotesi assurda. - E da un'enu merazione incompiuta.
—Donde possa ricavarsi la soluzione delproblema. -Questione del progresso –
Definizione di Mamiani. Sommario del suo primo discorso. - Con tradizione
fondamentale. - Sommario del secondo discorso . Una conclusione che rovescia le
premesse Se Ma miani ammetta , o no, il progresso , è un mistero. Lo affermae
lo nega ad un tempo . Due grandi scoperte del professore Garelli. Un'altra del
professor Torre. - Li applausi dell Academia. L'eletto parto d' un gio vine e raro
ingegno. Altra e più mirabile scoperta del signor Bonghi.– Ê riescito a capire
che i filosofi antichi non erano teologi cristiani. Fuori della chiesa catolica
l'anima catolica non può trovarsi. Concetto ch'egli s'è formato della filosofia
italiana. Le viscere e le croste dei dogmi cristiani. L'estremo della loro
possapza re stauratrice. Il signor Bonghi lo hanno già restaurato perfettamente
. Pag. 254 334 § IV. PARTE TERZA. COMITATO ACADEMICO DI TORINO. . . Discorso
proemiale del signor Boncompagni, su li officj civili della filosofia .
Sommario . Diritti della ragione. Libertà della filosofia . Libero esame. Lite
fra li ettici e la umana generazione. Origine e causa dello scetticismo.
-Eccesso dei dogmatici edegli scettici. Me todo di combattere lo scetticismo
-Se la filosofia moderna lo posseda – La filosofia e il paganesimo. — Il
cristiane simo e la filosofia. Accordo della fede e della ragione. Torti del
secolo XVIII. Filosofia scozzese e tedesca. La filosofia moderna non ha finora
adempiuto i suoi officj. Speranza fallace di un riposo. Dove si la vera, sana ,
ed utile filosofia Pag. 267 Critica di questo discorso.. Il figlio degno della
ma dre. - Il discorso di Boncompagni è un paralogismo. - Le premesse confutano
la conclusione. La conclusione ro vescia le premesse - Diritti della filosofia
verso il cristia nesimo. Boncompagni dee riformare le premesse , o la
conclusione. L'esempio degl'instauratori della filosofia moderna non prova
nulla . · Il metodo italianissimo dei filosofi italici ministri di Stato. — Lo
scetticismo è la pie tra d'inciampo anche per Boncompagni. - Cinque affer
mazioni, che son cinquo falsità . Contro di chie di che combattano li scettici.
Di che dubitino. Se ricono scano il progresso del pensiero umano verso la
verità. Che verità e che scienza impugnino. Pag. 274 Un altro discorso di
Boncompagni su la libertà d'inse gnamento. Perchè non se no facia l'analisi.
Conci liazione della libertà del pensiero con l'autorità . -Tre parole
convertite in principi essenziali alla vita intellet iuale e morale dell'uomo
Per Boncompagni la massima parte degli uomini sono bestie . E l’Inquisizione è
un Ufficio veramente santo. – L'autorità veneranda dei birri. Che risposta e
che trattamento dovrebbe aspettarsi Boncompagni, se i suoi avversarj gli applicassero
i suoi stessi principj Pag. 283 Discorso di Bertrando Spaventa su i principj
della filo sofia pratica di Bruno. La prima e l'unica lodė data a chi la
meritava. - Quel dotto discorso è la critica e la satira 335 . C Pag. 287 più
acerba della filosofia italica. Sommario. — Il proe mio. Fondamento della
filosofia pratica. Forme della moralità e del diritto : la verità. La prudenza.
La filosofia . - La legge. – La giustizia pupitrice. -Il go verno. Il lavoro.
La religione. — Sviluppo della idea di Bruno nella storia della filosofia .
Spinoza. - Kant. Hegel. Il principio essenziale del cristianesimo. L'identità
della natura divina e della natura umana è un'eresia , e non un dogma. - I
dogmi cristiani della creazione e del l'incarnazione l'escludono. Il cristianesimo
avrebbe regnato per sedici secoli, senza nè pur esistere. Ne seguirebbe che una
religione nasce allorchè muore. - Lo religioni orientali non avrebbero
cominciato a trionfare che su la fine del secolo passato . La rivoluzione
francese e il cristianesimo. La filosofia moderna e la rivoluzione non possono
dirsi una realizzazione dell'Evangelio . - I germi delle idee. — Il criterio
comparativo delle religioni non è il germe o la sustanza dell'idea, ma la forma
del sentimento . Analogia del cristianesimo conle religioni antecedenti e con
la democrazia moderna. Non bisogna chiedere, nè attribuire ad un'instituzione
ciò ch'essa non è destinata a dare. Rapporto del razionalismo co ' l cri
stianesimo. Legge di successione e di progresso nella storia delle religioni. -
Importanza d'una questione di parole. - Bandiera dell'autorità e della libertà
Pag . 305 Cicalata di un principe Torella. - E il segretario la chiama
elegante. Giunta peggiore della derrata. La moderazione dei sedicenti moderati.
Origine e defini zione del socialismo, secondo l'onesto e moderato principe
Torella. Risposta per le rime . Conclusione. Mamiani con la sua Academia non ha
recato nessun vantaggio alla filosofia. Ha fatto grave torto all'Italia .
Patriotismo fanatico ed esaggerato. — E un errore nelle questioni politiche. On
assurdo nelle scientifiche. Scambia l'amor della patria con una vile
piacenteria. L'Italia e la filosofia moderna. - Il pri mato dell'ignoranza. -
Quale dovrebb’ essere il programma filosofico di un ' Academia , che volesse
meritar bene del l'Italia . Ma in Italia non si potrebbe attuare. Che cosa
dovrebbero fare i politici e i filosofi patrioti. Pag. 316Occasione e argumento
dell'opera. II . Nuova genía di filosofanti. III . Vanità de' loro sforzi , e
consola zione della filosofia . IV . Se la divisione de' giudizj in analitici e
sintetici fosse già fatta da Aristotele (Ro smini ) , V. O da S. Tomaso (
Balmes ), VI. O da Locke (Galluppi). VII. O da Hume ( Kuno Fischer ). VIII.
Divario fra la teorica di Hume e di Kant , IX , Dichiarato da Kant stesso pag .
3 470 INDICE E SOMMARIO. LETTERA SECONDA . KANT. 1 DIVISIONE DEL GIUDIZIO IN
ANALITICO E SINTETICO. 1. Due edizioni della Critica della Ragione Pura. II .
Stato della questione. III . Valore della formula : A è B ; la differenza tra i
giudizj analitici e sintetici non dipende dall'essere contenuto , o no , il
predicato nel subjetto ; IV. Nè dall'essere identico , o no , il pre dicato co
' l subjetto. V. I giudizj: Tutti i corpi sono estesi , e Tutti i corpi sono pesanti
, non differiscono formalmente tra loro. VI. Il giudizio analitico di Kant è il
giudizio categorico in genere , ed il giudizio sintetico è un giudizio
impossibile . – VII. Relazioni dei concetti in ordine alla loro estensione e
comprensione. VIII . Il concetto di corpo include la nota della gra vità non
meno che dell'estensione. IX. Vale la stessa legge per i giudizj empirici e
particolari. X. Con fusione che fa Kant dell'analisi con la sintesi , e della
forma sintetica con la forma contingente del giudizio. XI. Inesattezza del
divario ch'egli stabilisce fra la cognizione a posteriori, a priori, e pura. –
XII. Co gnizione propriamente empirica , propriamente pura , e mista ;
universalità e necessità del giudizio. XIII. A INDICE E SOMMARIO . 171 quale classe
appartenga il giudizio : Tutti i corpi sono estesi. XIV. E della stessa classe
è il giudizio : Tutti i corpi sono pesanti. XV. Erroneo commento che fa a Kant
il suo traduttore italiano. XVI. Determi ne del doppio processo intellettuale
d'analisi e sintesi. XVII. Carattere differenziale dei giudizj ana litici e
sintetici; concetti e giudizj primi. XVIII. II carattere analitico e sintetico
non può ridursi nè alla mera conversione de' giudizj, nè ad una semplice diver
sità di funzione del subjetto e del predicato. ΧΙΧ. Due testimonianze di Kant.
XX. Importanza della teorica del giudizio sintetico per la questione dell'ori
gine delle idee . pag. 33 LETTERA TERZA . KANT. SUDDIVISIONE DEL GIUDIZIO
SINTETICO IN A POSTERIORI ED A PRIORI. I. Sorte diversa ch'ebbero le due parti
della dottrina kan tiana. II . Officio dell'esperienza ne' giudizj analitici e
sintetici di Kant, III. Nella sintesi empirica e pura. IV. Valore del giudizio
: Tutto ciò che avviene ha la sua causa ; e necessità de' giudizj sintetici a priori
in tutte le scienze . V. Valore de'giudizj matematici: 7 +5 = 12 ; VI. La linea
retta è fra due punti la più breve ; VII. Il tutto è eguale a sè stesso , e
maggiore della sua parte. VIII . Carattere logico di 472 INDICE E SOMMARIO.
tali giudizj. IX. Principj della fisica , X. E della metafisica . XI. Il
mistero de' giudizj sintetici. XII. Il problema universale della ragione pura :
Come sono possibili i giudizj sintetici a priori? XIII, Se da esso dipenda
l'esistenza della metafisica pag. 115 LETTERA QUARTA. COUSIN E TESTA . COUsil,
1. Seguaci e spositori di Kant. II . Prima divisione che fa Cousin del giudizio
; medesimezza logica e psicolo gica delle due specie. - III . Riduzione del
giudizio ana litico al categorico in genere , e del sintetico all'im ·
possibile. IV. Suddivisione del giudizio sintetico. V. Errori di Cousin
nell'interpretazione de' giudizj : Tutti i corpi sono pesanti, e Ogni mutamento
ha una - VI. Non tutti i giudizj analitici sono i priori. VII. Due corollarj di
Cousin su l'origine delle co gnizioni e su la natura de' giudizj. VIII. Scambio
che fa il Testa del giudizio sintetico con l'empirico e dell' analitico co ' l
pur'o. IX. Objezione e risposta ; confusione del carattere sperimentale con la
contin genza , e del carattere puro con la necessità . X. Pos sibilità
de'giudizj sintetici a priori; principio di cau salita . XI. Le definizioni
sono giudizj analitici sintetici. XII. Definizioni geometriche e costruzioni.
XIII. Definizioni genetiche e concezioni. non pag. 167 INDICE E SOMMARIO . 473
LETTERA QUINTA. GALLUPPI E VACHEROT. 1. Erronea nozione del giudizio sintetico
proposta dal Gal luppi con l'esempio: La nere è fredda . II. Erroneo paragone
di questo giudizio con l'altro : triangolo ha tre angoli; assurdità del
giudizio sintetico kantiano dimostrata dallo stesso Galluppi. III . La
divisione del giudizio in analitico e sintetico non può desumersi nè dalla
necessità o contingenza della relazione fra su bjetto e predicato , nè
dall'impossibilità o possibilità dell'opposto . IV . Non v'ha differenza per
questo rispetto fra i giudizi empirici e puri. -- V. Altro pa ragone fallace
tra il giudizio : La nere è freddo , e Due quantità eguali ad una terza sono
eguali fin loro. - VI. Tolto il predicato , può essere distrutta o no l'idea
del subjetto cosi nei giudizj empirici come nei puri. VII. Erra il Galluppi non
meno di Hune nel determi nare quali sieno i giudizj, di cui è inconcepibile
l'op posto. VIII. Confunde l ' intelletto speculativo con l'intelletto pratico.
IX . Fallacia della sua argumen tazione contro la possibilità de ' giudizj
sintetici a priori. -- X. S'aggira in un circolo vizioso . XI. Necessita fisica
e necessità logica , repugnanza assoluta e repu gnanza ipotetica o relativa .
XII . Contingenza del giu 474 INDICE E SOMMARIO . dizio ; predicati di qualità
e predicati di azione. -- XIII . Al giudizio sintetico non conviene
propriamente il ca rattere di necessità , XIV. Nè il carattere di contin genza.
XV. Ed al giudizio analitico appartiene il ca rattere di necessità , e repugna
quello di contingenza. XVI. Fra i concetti di cavallo alato e di monte senza
valle non c'è differenza d'ordine razionale , ma d'ordine imaginativo. XVII. Le
nozioni di possibi lità ed impossibilità han valore logico e non fisico .
XVIII. Erronea dottrina del Galluppi su la natura della definizione , XIX. E su
' l divario ch'egli fa tra de finizione e proposizione , XX. E tra idea e segno
dell'idea . XXI. Li esempj , con cui Vacherot spiega la nozione kantiana del
giudizio analitico e sintetico , valgono a scalzarne il fondamento. XXII. Sua
ridu zione di tutti i giudizj analitici in puri e di tutti i sin tetici in
empirici. XXIII. Merito e difetto della cri tica ch'egli fa del giudizio 7 + 5
= 12 . pag. 211 LETTERA SESTA. ROSMINI. 1. Sua perspicacia nell'avvertire il
difetto capitale della teorica kantiana e il vero punto della questione . II.
Erronea tuttavia è la nozione che ha il Rosmini del giudizio sintetico
empirico. - III . Sua formula del pro INDICE E SOMMARIO . 475 blema
dell'ideologia : Come si formino i concetti; e del giudizio primitivo : Esiste
ciò che io sento. IV . Suoi giudizj con un subjetto -sensazione ed un predicato
-idea . V. Non sono un fatto della .coscienza , ma un'illu sione del Rosmini;
VI. Nè possono dirsi giudizj sin tetici . VII. False supposizioni ch'egli
imputa vana mente a Kant. VIII . Teorica rosminiana della per cezione
intellettiva de' corpi. IX. Strana distinzione fra subjetto e concetto del
subjetto ; X. E strane conclusioni che il Rosmini ne trae . XI. I giudizj, con
cui egli vuol risolvere il problema dell'ideologia , non sono nè primitivi, nè
sintetici , nè a priori. XII. Condizioni del problema e della sua soluzione pag
. 289 LETTERA SETTIMA. GIOBERTI. 1. Sua nozione del giudizio sintetico , guasta
dalla clau sula ch'esso debba avere per subjetto un'idea sem plice. - II.
Applicazione che ne fa il Gioberti ai giu dizj matematici. III . Valore del
giudizio : A è eguale ad A. IV. Eccezione del giudizio : L'essere è l ' es V.
Se la realtà de ' giudizj sintetici a priori di penda dalla struttura dello
spirito umano o dalla sin tesi objettiva del Gioberti. VI. Sua tesi circa i
giudizj a priori, tutti analitici rispetto alla cognizione rifles sere. 476
INDICE E SOMMARIO . siva , e tutti sintetici rispetto alla cognizione intuitiva
; VII. Contraria a' suoi principj, in virtù de quali appartengono all'ordine
della riflessione e non dell' in tuito così i giudizj sintetici come li
analitici. VIII . Analisi della percezione primitiva fatta dal Reid e ri fatta
da Kant. IX. Spiegazione che dà il Gioberti del giudizio primo ; mistero sopra
mistero. X. Sua divisione de' giudizj sintetici a priori in assoluti e re
lativi . - XI. Se il problema kantiano sia psicologica mente insolubile . XII.
Fallacia dell' argumentazione giobertiana contro il processo psicologico. XIII.
Que stione dell'origine delle idee ; differenza tra il fatto e la sua
spiegazione pag. 333 LETTERA OTTAVA. MAMIANI. I. Principio della sua teorica .
II . Divisione che fa il Mamiani del giudizio analitico ; III . Piena di repu
gnanze ; IV. E inefficace contro la teorica kantiana. V. Altra divisione del
giudizio non meno inesatta . VI. La differenza tra le due specie non sussiste ,
VII. Nè quanto al carattere di necessità o contingenza , nè quanto al
riferimento dell'idea all'essere attuale o all'eterna possibilità. VIII. La
materia attuale e la materia possibile. IX. Sequela di repugnanze , che 3
INDICE E SOMMARIO. 477 deriva dalla classificazione de' giudizj secondo che
hanno objetto finito od infinito. X. Critica infelice che il Mamiani fa de'
giudizj sintetici a pricri di Kant con vernenti la matematica , XI. E la
metafisica . pag. 381 LETTERA NONA. IL PROFESSORE GIAMBATTISTA PEYRETTI. 1.
Divisione ch'egli fa del giudizio , e che disfà con li esempj. II. Fallacia
della definizione dall'accidente . III . Il carattere di essenzialità o
accidentalità del predicato verso del subjetto è d'ordine logico e rela tivo ,
non già d' ordine reale ed assoluto. IV. Si ri duce alla relatività dei
concetti di genere e di specie . --- V. Il giudizio sintetico del Peyretti è
intrinseca inente falso e logicamente impossibile. VI. Non si può mai negare
ciò che si afferma senza contradirsi. VII. Paralogismi del Peyretti a prova
della tesi che tutti i giudizj empirici sono sintetici ; – VIII. E della tesi
che tutti i giudizj analitici sono puri. IX. Tesi disdette dalla sua stessa
teorica dell'opposizione de' giudizj. X. Caso di un predicato non incluso nel
su bjetto . XI. La teorica dell'analisi e della sintesi , professata dal
Peyretti , mal s'accorda con le sue teo riche dell'apprensione analitica e
sintetica ; XII. Del l'affermazione artificiale e naturale ; del giudizio primi
tivo o intuitivo , e secondario o razionale ; della distin TORIO 478 INDICE E
SOMMARIO , zione intensiva ed estensiva delle idee. XIII. Nozione dell'analisi
e della sintesi e teorica della definizione , con cui il Peyretti s' accosta
alla vera idea del giudi-. zio analitico e sintetico. XIV. Sua divisione anche
del giudizio falso in analitico e sintetico , XV. Fon data in una differenza
affatto arbitraria e fallace tra due giudizj, XVI. Che paragonati a dovere fra
loro non differiscono punto pag. 419Autori da omettersi. II. Errori del Toscano
circa la forma negativa del giudizio analitico e sintetico ; - III. E circa il
carattere spontaneo della sintesi e riflesso dell'analisi. IV . Critica ch'egli
fa della dottrina di Kant su i giudizj sintetici a priori; – V. E delle obje
zioni mosse contro di quella dottrina dal Galluppi , VI. E dal Rosmini . VII.
Teoria ontologica del To scano, condannata dal Gioberti ; - VIII. E distrutta
da gli esempj stessi , con cui il Toscano crede d'illustrarla . - IX.
Vanagloria della scuola degli ontologi. X. Dot. 534 INDICE E SOMMARIO . trina
del Romano su i giudizj necessarj e contingenti ; XI. Su la necessità assoluta
e condizionale ; XII. E su la sintesi e l'analisi pag. 3 LETTERA UNDECIMA. IL
PROF . SIMONE CORLEO. 1. Assimilazione e dissimilazione spontanea tra le perce
zioni. II . Erronea definizione dell'analisi e della sin tesi. III. Esempj con cui
il Corleo non chiarisce, ma distrugge la sua teorica dell'assimilazione , — IV.
Della. sintesi, V. E dell' analisi. VI. Nesso ch'egli sta bilisce fra l'analisi
e la sintesi ; VII. E contempora neità delle due funzioni. VIII. Forme
principali della cognizione . IX. Ordine di priorità e posteriorità fra la
sintesi e l'analisi. X. Dottrina del Corleo su la sintesi riflessa ; disdetta
da' suoi esempj ; XI. E da fatti d' esperienza commune. XII. Differenza ch'
egli fa tra il giudizio e la sintesi ed analisi. XIII. Giu dizj che per lui non
sono veri giudizj. XIV. Censura ch'egli muove alla maggior parte dei filosofi
per aver confuso la sintesi ed analisi riflessa co'l giudizio. – XV. Sua
scoperta della conversione de' giudizj empirici in necessarj. XVI. Analisi del
giudizio : Ogni corpo è grave ; XVII. E confronto coʻl suo reciproco : Ogni {
INDICE E SOMMARIO . 533 grave è corpo. - XVIII. Correzioni e giunte del Corleo
alla teorica kantiana de'giudizj analitici e sintetici , a priori ed a
posteriori. XIX . Altra sua scoperta della priorizzazione de' concetti. -- XX.
Effetti prodigiosi della quinta percezione d'un libro . — XXI. E conseguenze
davvero nuove della priorizzazione de'concetti. pag. 39 LETTERA DUODECIMA. IL
PROF . LUIGI BARBERA. 1. Critica delle definizioni del giudizio date da varj
filo sofi ; II. Da Stuart Mill e dal Rosmini. III. Defi nizione che ne dà il
Barbera. IV. Sua teorica del giudizio analitico V. Identità manifesta ed
occulta. VI. Esempio del quadrato di 13. — VII. Teorica del giudizio sintetico.
VIII. Officio della copula. IX. Esempio del campanile di Pisa. X. Teorica della
for mazione delle idee. XI. Risoluzione dell'idea ne'suoi elementi mediante il
giudizio . XII. Attributi del su hjetto ideale e del subjetio reale. XIII.
Esempio del peso dei corpi. XIV. Teorica del giudizio sintetico a priori. – XV.
Vocaboli che dinotano l'ignoto. XVI. Subjetto ignoto ed attributi noti. XVII.
sempio del yocabolo Dio pag. 117 536 INDICE E SOMMARIO . LETTERA DECIMATERZA.
LI STUDJ LOGICI IN INGHILTERRA , FRANCIA , E ITALIA . RENOUVIER , DELBEUF ,
STUART MILL . I. Declinazione degli studj logici in Inghilterra. - II . Nota di
Stuart Mill su la questione de'giudizj analitici e sin tetici. III. Condizione
degli studj logici in Francia . IV. A. Garnier e C. Bailly. V. Dottrina di Re
nouvier intorno al giudizio in genere , al giudizio cate gorico, e al giudizio
analitico e sintetico. - VI. Se ogni giudizio sia analitico e sintetico
insieme. VII. Delbouf: sua teorica del giudizio sintetico , VIII. E dell'ana
litico . · IX. Confusione ch'egli fa dell'uno con l'altro , X. Confermata da'
suoi esempj . XI. Una nuova riforina dell'insegnamento filosofico in Italia.
XII. Ses guaci ed avversarj di Kant in Germania XIII. Que stione de’giudizj
analitici e sintetici ripigliata da Stuart Mill nella sua critica della
Filosofia di Hamilton. XIV. Sue objezioni contro la teorica commune del giu
dizio . XV. Teorica sua propria ; divario ch'egli am mette tra il concetto ed
il fatto. XVI. Relazione tra giudizi e concetti; come i fatti possano esser
materia dei giudizj. — XVII. Proposizioni ch'egli trova nei fenomeni INDICE E
SOMMARIO. 537 esterni; ed elementi o momenti della sua teorica del giudizio. -
XVIII. Giudizj nuovi e giudizj ripetuti; Co pernico e Tolomeo. XIX. Attributi
che racchiude il concetto . XX. Attributi impliciti nel senso del nome ;
teorica della definizione . XXI. Esempio del vocabolo XXII. Precisione del
linguaggio filosofico di Stuart Mill nella divisione del giudizio in analitico
e sintetico 20N10 . pag. 183 LETTERA DECIMAQUARTA . KRUG , FRIES , TWESTEN,
BRANISS. ! I. Objezioni del Krug alla teorica kantiana ; esposizione della
teorica sua propria. II . Contenenza originaria del predicato nel subjetto ;
astrazione della logica dal pensiero sintetico. III. Altre definizioni del
giudizio analitico e sintetico . · IV . Relazione del concetto con l'objetto .
- V. Esempi che non confermano punto la tesi. VI. Differenza tra ' giudizj
sintetici ed analitici mal fondata dal Krug nell'opposizione fra objetti
determinati e concetti già esistenti ; VII. E fra objetto , idea del l'objetto
, e nota della sua idea. VIII. Distinzione fra il valore objettivo e subjettivo
de'giudizj , male appli cata . IX . Ultima esposizione che fa il Krug della sua
teorica , non guari migliore delle altre. X. Sistema *538 INDICE E SOMMARIO .
del Fries. XI. In luogo di correggere , egli aggrava l'inesattezza che
riconosce nelle dottrine altrui. XII. Valore teoretico e pratico della sua
divisione ; forme vuote della logica e forme piene della metafisica. XIII ,
Confusione del giudizio analitico con l'a priori. ~ · XIV . Teorica del Twesten
, XV. E del Braniss. XVI. Officio della sintesi e dell'analisi; giudizj
esistenziali ed essenziali ; cognizione empirica e razionale ; necessità
assoluta e relativa . pag. 253 LETTERA DECIMAQUINTA . TROXLER , KRAUSE ,
DROBISCH , TRENDELENBURG . I. Brevi e giuste ossservazioni del Troxler su la
classifi cazione kantiana del giudizio. II . Teorica del Krause : nozione
inesatta del giudizio sintetico , III . E del l'analitico. – IV. Giunta del
Tiberghien . V. Dottrina del Drobisch intorno al giudizio categorico ed
ipotetico. VI. Classificazione del giudizio analitico e sintetico fondata
nell'opposizione arbitraria fra le note interne ed esterne de concetti. VII.
Teorica del Trendelen burg. VIII . Sua critica del sistema kantiano ; meca 1
nismo ed organismo , composizione e sviluppo . - IX. Valore materiale e formale
del giudizio. X. Errore del Trendelenburg nel fare analitici tutti i giudizi
posi 1 INDICE E SOMMARIO. 539 tivi, e tanto più i negativi. — XI. Divario
essenziale fra il giudizio positivo e negativo. — XII. Carattere sin tetico
attribuito erroneamente dal Trendelenburg ad ogni giudizio. XIII. Sue
variazioni circa la natura < lel giudizio sintetico. — XIV . Giudizj
sintetici a priori; giudizj tetici ed esistenziali. — XV. Valore sintetico ed
analitico de'giudizj tétici. XVI. Doppio valore anche de' giudizj esistenziali
1 pag. 303 t LETTERA DECIMASESTA. REINHOLD , BENEKE , ZIMMERMANN , ULRICI. 1.
Oscurità e confusione della teorica del Reinhold . - II. Sistema del Beneke :
differenza tra subjetto e predicato del giudizio. III. Nozione dell'analisi e
della sintesi. IV. Contenenza qualitativa e quantitativa del predi cato nel
subjetto. V. Aumento della cognizione me riante il giudizio , determinato assai
male dal Beneke. VI. Critica ch'egli fa della divisione. kantiana : enigmi
sopra enigmi. - VII . Applicazione del principio d'iden tità a' giudizj
analitici e sintetici. VIII. Non ogni giudizio sintetico è fittizio. IX. Lacuna
nel sistema del Beneke. X. Teorica singolare e stravagante della validità del
giudizio esposta dallo Zimmermann. XI. Applicazione non meno strana ch ' egli
ne fa al giudizio 540 INDICE E SOMMARIO . analitico e sintetico. XII. Assurdità
della sua classi ficazione . XIII. Sistema dell' Ulrici : sua tesi dell'iden
tità de'giudizj analitici e sintetici. XIV. Ammessa pure la differenza a parole
, ma cancellata in effetto. XV. Critica savia ch'egli avea già fatta della
dottrina kantiana. XVI. Nuova teorica dello Zimmermann. XVII. Sintesi a priori
ed a posteriori. XVIII. For mazione di nuovi concetti mediante una nuova
osserva zione. XIX. Soluzione del problema dei giudizj sin tetici a priori, XX.
Fondata in falsi supposti. XXI. Conclusione che rinega il suo principio. pag.
351 LETTERA DECIMASETTIMA. RITTER , UEBERWEG , LINDNER. I. Differenza che il
Ritter introduce fia proposizione e giudizio , fra giudizio e concetto , fra
concetto e rap presentazione. II . Significato de' vocaboli. III . In
telligibile diretto e riflesso ; valore del vocabolo e della proposizione. --
IV . Se le proposizioni analitiche espri mano un solo concetto . V.
Proposizioni analitiche e sintetiche , le quali, secondo il Ritter , non
esprimono giudizj analitici e sintetici. VI. Proposizioni analiti che e
abolizione de giudizj analitici. VII. Bizzarra no zione del giudizio sintetico
. VIII . Censura che fa il INDICE E SOMMARIO. 541 Ritter de giudizj sintetici a
priori di Kant. — IX. Va lore objettivo e subjettivo de concetti ; determinazione
delle essenze individuali. X. Note essenziali e neces sarie , e note
accidentali e contingenti dell'individuo. - XI. Diversità della forma analitica
de' giudizj neces F 1 sarj e contingenti. XII. Autorità di Platone mal in
vocata dal Ritter. XIII. Valore variabile delle sue proposizioni sintetiche ;
negazione della scienza . - XIV. Teorica dell' Ueberweg. XV. Teorica del
Lindner : giunte alla nozione kantiana de' giudizj analitici e sin tetici. XVI.
Se campo proprio della logica sia il giu dizio analitico e non il sintetico.
XVII. Altre definizioni 1 1 del Lindner, che sopprimono ogni differenza logica
fra i giudizj analitici e sintetici. — XVIII. Relatività naturale della sintesi
e dell'analisi . pag. 415 LETTERA DECIMOTTAVA. EPILOGO. I. Questioni da trattare;
criterio e divisione. II. Appli cazione del carattere analitico e sintetico ai
giudizj uni versali , particolari , e singolari . – III. Ai positivi e negativi
. -- IV. Agli infiniti . – V. Ai categorici, ipo tetici , e disgiuntivi . – VI.
Riduzione del giudizio ca tegorico in ipotetico , e dell'ipotetico in
disgiuntivo. 542 INDICE E SOMMARIO . VII . Modalità de ' giudizj secondo la
scuola kantiana , VIII, E secondo la scuola peripatetica. IX. Esclusione del
carattere sintetico ed analitico da' giudizj modali. X. Origine , scopo ,
fondamenti del criticismo kan tiano . XI. Suè relazioni con li altri sistemi ,
e suoi pregi. XII. Suoi difetti: dualismo fra subjetto ed objetto della
cognizione. XIII. Unità e dualità ori ginaria della coscienza ; identità e
distinzione del su bjetto e dell' objetto. — XIV. Altre forme del dualismo
kantiano ; attinenze della ragione co ' l senso nell' unità dell' io. XV.
Realtà ed objettività , materia e forma della cognizione. XVI. Il criticismo
kantiano e il problema capitale della filosofia. – XVII. Esempio del principio
di causalità . XVIII. Conclusione. pag . 479
Ausonio Franchi. Cristoforo di Giovan Battista Bonavino. Cristoforo Bonavino. Keywords:
i due massoni, giudizio, sentimento, storia della filosofia, storia della
filosofia italiana, risorgimento, rito italiano simbolico, name index in
Austonio Franchi’s works. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bonavino” – The
Swimming-Pool Library.
Boniolo (Padova). Filosofo. Grice: “I like
Boniolo; especially that he takes ‘antichita’ seriously – he is right on the
emphasis on ‘argomentare’ but obviously the balance shoud be between epagoge
and diagoge – I would like to see more diagoge! He has philosophised on other
topics, too!” Cresciuto nel Petrarca Basket, debutta in prima squadra diventando
in quell'anno il più giovane giocatore di Serie A. Giocò con il Petrarca
Basket. Presidente. Laureato a Padova, insegna a Padova, Roma, Milano, e
Ferrara. Studia I fondamenti filosofici della biomedicina e sulle loro
implicazioni etiche, in collaborazione con diversi istituti e fondazioni mediche
milanesi. Svolge ricerca in ambito filosofico, in particolare sulla filosofia
della ricerca biomedica e della pratica clinica, nonché di etica pubblica e
individuale. Si è occupato anche di filosofia della scienza di filosofia della
fisica, di storia della filosofia e della fisica contemporanee. Il suo lavoro è documentato da saggi pubblicati su riviste.
Membro dell'Accademia dei Concordi di Rovigo. Altre opere: “Mach e
Einstein. Spazio e massa gravitante” (Armando Editore); “Linguaggio, realtà,
esperimento” (Piovan); “Metodo e rappresentazioni del mondo. Per un'altra
filosofia della scienza” (Bruno Mondadori); “Filosofia della scienza” (Bruno
Mondadori); “Questioni di filosofia e di metodologia delle scienze sociali” (Borla);
Introduzione alla filosofia della scienza” (Bruno Mondadori); “Il limite e il
ribelle: etica, naturalismo, darwinismo” (Cortina);. Argomentare” (Bruno
Mondadori); “Individuo e persona. Tre saggi su chi siamo” (Bompiani); “Strumenti
per ragionare: logica e teoria dell'argomentazione” (Bruno Mondadori); “Il
pulpito e la piazza. Democrazia, deliberazione e scienze della vita” (Cortina);
“Le regole e il sudore. Divagazioni su sport e filosofia” (Raffaello Cortina);
“Strumenti per ragionare” (Pearson Italia spa); “Conoscere per vivere.
Istruzioni per sopravvivere all'ignoranza” (Meltemi); “Filosofia della fisica,
Bruno Mondadori, J. von Neumann, I fondamenti matematici della meccanica quantistica,
Il Poligrafo); Storia e filosofia della scienza. Un possibile scenario
italiano” (Le Scienze); “La legge di natura. Analisi storico-critica di un
concetto” (McGraw Hill); “Laicità. Una geografia delle nostre radici”
(Einaudi); “Filosofia e scienze della vita. Un'analisi dei fondamenti della biologia
e della medicina” (Bruno Mondadori); “Passaggi. Storia ed evoluzione del concetto
di morte cerebrale” (Il Pensiero Scientifico Editore); “Etica alle frontiere
della biomedicina. Per una cittadinanza consapevole” (Mondadori); Consulenza
etica e decision-making clinico. Per comprendere e agire in epoca di medicina
personalizzata” Pearson Italia spa, .Poincaré, Opere epistemologiche, Mimesis. Mimesis,
. Etica alle frontiere della biomedicina. Per una cittadinanza consapevole (Mondadori).
Giovanni Boniolo. Keywords: sweat, sudore, instrument to oil, and get sweat
off, strigila, strigil, cricket, golf, football. Grice, captain of the football
team at Corpus Christi. His philosophy tutor taught him to play golf. Competed
in cricketshire for Oxfordshire. Founding member of the Demi-Johns,
‘philosopher and cricketer’, ‘cricketer and philosopher’. Sluga learns cricket
from Grice. References to cricket in THE TIMES. ‘rules of games’ – “The
conception of values” – rule, “we don’t like rules, except rules in games and
to keep quiet in colleges!” -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Boniolo” – The Swimming-Pool Library.
Bonomi (Roma).
Filosofo. Grice: “Bonomi is undoubtedly a Griceian – my favourite is his
account of the copula – as in ‘The wrestlers are good’ – in terms of what
Bonomi, after Donato, calls ‘aspetto’ – S is P, S was P, S will be P, Be P!,
and so on – Most of his philosophising is Griceian, such as his explorations on
what he calls ‘the ways of reference,’ ‘image’ and ‘name’ in terms of ‘significato,’ and ‘rappresentazione,’ – he
is a Griceian in that he respects ‘la struttura logica’ and leaves whatever
does not fit to the implicaturum!” Insegna
a Milano. Nei lavori di filosofia del linguaggio (“Le vie del riferimento” –
Milano, Bompiani – “Universi di discorso” – Milano, Feltrinelli) concentra il
proprio interesse verso il ruolo che l'apparato concettuale svolge nella
determinazione dei contenuti semantici grazie ai quali ci riferiamo a oggetti
ed eventi del mondo circostante. Il suo
saggi teoreticamente più impegnativo (“Eventi mentali”, Milano, Il Saggiatore)
tratta invece delle modalità logiche che sono alla base delle procedure con
cui, nel linguaggio, rappresentiamo i contenuti cognitivi di altri soggetti. Si
è poi occupato della struttura semantica degli universi narrativi,
concentrandosi in particolare sul ruolo che hanno le cosiddette espressioni
indicali nel determinare la struttura spazio-temporale di un testo (“Lo spirito della narrazione”,
Bompiani). Un saggio di semantica
formale è dedicato alla struttura degli enunciati temporali (“Tempo e
linguaggio. Introduzione alla semantica del tempo e dell'aspetto verbale”, Bruno
Mondatori). A metà strada fra realtà autobiografica e immaginazione si colloca
invece la opera narrativa (“Io e Mr Parky”, Bompiani), nella quale si
descrivono i mutamenti che intervengono nella vita di una persona che scopre di
essere affetta da una patologia neurodegenerativa. Altre opere: “Esistenza e struttura, saggio
su Merleau-Ponty, il Saggiatore, Milano); “Sintassi e semantica nella
grammatica tras-formazionale” (Milano, Il Saggiatore); “Le immagini dei nomi” (Milano,
Garzanti). “Gli analitici lo fanno meglio. Le ragioni di un successo crescente
anche tra i filosofi italiani cresciuti nella tradizione continentale, in La
Stampa. Scuola di Milano. Andrea Bonomi. Keywords: “minimal use of
transformations” (Grice), chronological logic, time-relative identity, The
Grice-Myro theory of identity, A. N. Prior, Chomsky, ways of reference,
referring, existence and structure, imagery and naming, universe of discourse,
mental event, psychological inter-subjectivity, indicale, Grice on embedeed
psychological attitudes Operator, Addressee, Sender, propositional content. I
want you to know that p, Iinform you that p, I want you to want to do p, I
force you to do P, etc. Symbols in “Aspects of Reason”, Op1 Op2 Op3 Op4
judicative volitive indicative informative intentional imperative interrogative
reflective inquisitive reflective Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bonomi” – The
Swimming-Pool Library.
Bontadini (Milano). Filosofo. Grice: “I would call Bontadini a Griceian;
first, he likes sports, like I do; second he is a neo-classical (as I am) and a
anti-anti-metaphysicist, as I am!” -- “Se
Dio non ci fosse, il mondo sarebbe contraddittorio» (G. Bontadini, Saggio
di una metafisica dell'esperienza). Esponente di spicco del movimento neotomista,
che ebbe presso Milano uno dei suoi più importanti punti di riferimento e
diffusione. Iscrittosi presso Milano quando essa aveva iniziato le sue
attività, ma non era ancora riconosciuta dal governo italiano, egli fu il terzo
laureato assoluto dell'ateneo, presso il quale fu poi professore di filosofia
teoretica. Ha insegnato anche presso l'Urbino, Milano e Pavia. Pur rifacendosi
alla metafisica classica, quella aristotelica e tomistica, Bontadini si
dichiara "neoclassico" intendendo evidenziare il nuovo ruolo che quell'antica
metafisica può svolgere nella filosofia contemporanea. Egli infatti
definisce se stesso come «un metafisico radicato nel cuore del pensiero
moderno». Rifacendosi alla filosofia idealistica ne apprezza soprattutto
la «verità metodologica» che ha evidenziato il ruolo della coscienza, del
cogito cartesiano, nel cogliere il significato dell'essere pur considerandolo
come altro, diverso dalla soggettività della coscienza stessa, realizzando cioè
una identità tra il soggetto e l'oggetto, tra l'intelletto e la sensibilità che
riporta in luce l'antica teoria parmenidea dell'identità di Essere e
Pensiero. Un Parmenide, quello di Bontadini, che non esclude la
constatazione del divenire, da un lato, e la denuncia della sua
contraddittorietà, dall'altro. Due protocolli che fanno capo rispettivamente ai
due piloni del fondamento: l'esperienza e il principio di non contraddizione
(primo principio). I due protocolli sono tra loro in contraddizione, e tuttavia
godono entrambi del titolo di verità sono verità, però, che in quanto prese
nell'antinomia (antinomia dell'esperienza e del logo) si trovano a dover
lottare contro un'imputazione di falsità. Giacché l'esperienza oppugna la
verità del logo e il logo quella dell'esperienza». Il sapere Una nuova
concezione del sapere è alla base del pensiero di Bontadini che ne ribadisce
l'origine nell'esperienza che però va intesa non più come risultato delle
operazioni della ragione (razionalismo) o come ricezione passiva dei dati
empirici (empirismo), ma come "presenza": mentre la gnoseologia
contemporanea continua a concepirla nell'ambito di un dualismo dell'essere e
del conoscere, correlando così il problema metafisico a quello del conoscere e
facendo nascere la questione, di difficile soluzione, di quale correlazione possa
esserci tra il pensiero e la realtà. Ma ogni qual volta si considera ciò
che si ritiene sia "al di là" del pensiero, questo inevitabilmente è
nel pensiero, appartiene al pensiero stesso. Quindi ogni esperienza come
presenza è assoluta, perché non costruita, ed è totale, poiché ogni singolo
fatto empirico fa parte di essa. L'unità dell'esperienza Si arriva quindi
alla concezione di "unità dell'esperienza" dove tra l'esperienza e il
pensiero si sviluppa quel rapporto di circolarità che costituisce il sapere.
Ma secondo l'insegnamento di Parmenide l'essenza dell'esperienza è il divenire
che si presenta come contraddittorio nella sua realtà di essere e di esistere
inteso come opposto al non essere. Come può il sapere allora basarsi su
una struttura contraddittoria di essere e divenire? «Il divenire si
presenta cioè contraddittorio; anzi come la stessa incarnazione della
contraddittorietà (l'identificarsi del positivo e del negativo), come la
smentita alla suprema e immediata identità: l'essere è. La soluzione in Dio
creatore «L'ente, che è temporale in quanto empirico, è eterno in quanto
divino». La contraddizione insita nel divenire cioè può essere superata nell'esistenza
di Dio creatore. La contraddizione del divenire è superata con la dottrina
della creazione, in quanto quella identificazione dell'essere e del non essere,
che riscontriamo nell'esperienza, è ora vista come il risultato dell'azione
dell'Essere, di Colui che crea dal non essere l'essere. Ma l'essere poi
non ricade, divenendo, nel nulla? Non si può, risponde Bontadini, pensare
assurdamente che l'essere sia distrutto dal nulla ma il mondo creato da Dio è
diverso da Lui ma insieme coincide nella sua creazione non alterando la sua
essenziale immutabilità. Severino, traendo le conclusioni dalla concezione
del suo maestro Bontadini in un saggio
pubblicato su la Rivista di filosofia neo-scolastica dal titolo “Ritornare a
Parmenide” elimina ogni differenza tra l'immutabilità di Dio e quella del mondo
soggetto al divenire per cui ogni cosa è eterna come è eterno Dio.
Rispose con toni duramente ironici Bontadini in un articolo dal titolo“Sozein
ta fainomena”. Io mi chiesi con quale barba si trovi, nel mondo dell'essere, il
mio alter ego immutabile. Giacché, da quando ero matricola venendo fino ad oggi,
di barbe io ne ho cambiate molte centinaia. Ora, se poniamo che tutte sono
immutabili, mi pare che non troverei abbastanza superficie sul mio corpoquello
fissato per l'eternitàper fare posto a tutte. Ribadì quindi la sua concezione
del principio di creazione che permette di superare la contraddittorietà del
divenire tramite l'azione creatrice di Di, «in quanto quella identificazione
dell'essere e del non-essere, che riscontriamo nell'esperienza, è ora vista
come il risultato dell'azione dell'essere (azione indiveniente dell'essere indiveniente).
Altre opere: “Saggio di una metafisica dell'esperienza” (Milano, Vita e
pensiero); “Studi sull'idealismo” (Urbino, A. Argalia); “Dall'attualismo al
problematicismo. Studi sulla filosofia italiana contemporanea” (Brescia, La
scuola); “Studi sulla filosofia dell'età cartesiana” (Brescia, La scuola); “Dal
problematicismo alla metafisica. Nuovi studi sulla filosofia italiana contemporanea,
Milano, Marzorati); “Indagini di struttura sul gnoseologismo moderno” (Brescia,
La scuola); Il compito della metafisica” (Milano, Fratelli Bocca); “Studi di
filosofia moderna, Brescia, La scuola); “Conversazioni di metafisica” (Milano,
Vita e pensiero); Metafisica e de-ellenizzazione” (Milano, Vita e pensiero); “Appunti
di filosofia, Milano, Vita e pensiero), “Metafisica e de-ellenizzazione”; “Sull'aspetto
dialettico della dimostrazione dell'esistenza di Dio”. Espulso per le sue
posizioni filosofiche dalla Cattolica di Milano. Sembra qui tornare il Deus
sive Natura di Spinoza. “Sozein ta fainomena”. Dal diveniente all'immutabile.
Studio sul pensiero di Gustavo Bontadini, prefazione di Emanuele Severino,
Venezia : Cafoscarina,. Bontadini e la metafisica. L'Essere è Persona. Riflessioni su ontologia e
antropologia filosofica in Gustavo Bontadini, Orthotes, Napoli-Salerno .
Francesco Saccardi, Metafisica e parmenidismo. Il contributo della filosofia
neoclassica, Orthotes, Napoli-Salerno. Dizionario di filosofia. Gustavo
Bontadini. Keywords: storia della filosofia, storia della filosofia italiana,
deellenizzazione”, “conversazioni metafisiche”, “conversazione metafisica”,
“gneseologia”, “gnoseologismo”, “problematicismo”, “metafisica
dell’esperienza”, ens, essential, l’essere, essere, verbo, nome, sostantivo, copula,
parmenideismo, severino, la porta di Velia, Grice Vx, x izz x. Grice, RAA,
Reductio ad absurdum. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Bontadini” – The Swimming-Pool Library.
Bontempelli (Pisa). Filosofo. Grice: “Bontempelli
knows that the Romans never liked the Greek ‘symptom,’ but ‘coincidence’ seems
weak: x means y if y coincides with x, or if x is a symptom of y.’ (‘those
spots mean measles’ – and ‘dog’ means that there is a dog.”” -- “I suppose my
favourite Bontempelli is his section on Roman philosophy in his history of
philosophy series!” -- There is the other Massimo Bontempelli, nato a Como. Como-born
Massimo Bontempelli had a son, called Massimo Bontempelli. Massimo Bontempello
ha un cugino, nipotte di Massimo Bontempelli: Alessandro Bontempelli. Nato a
Pisa, dopo il conseguimento della laurea in filosofia, Bontempelli
dedica all'insegnamento negli istituti superiori, alla realizzazione di
manuali scolastici di storia e filosofia e alla stesura di saggi di argomento
filosofico. Storico di impostazione marxiana, e originale pensatore filosofico
di orientamento neoidealista, realizza i suoi più importanti contributi
imperniando lo studio dei processi storici attorno alla categoria di "modo
di produzione". Tematizza con attenzione le strutture sociali entro i modi
di produzione neo-litico, nomade-pastorale, prativo-campestre,
antico-orientale, asiatico, africano, meso-americano, schiavistico, colonico,
feudale e capitalistico, elaborando su queste basi una ri-costruzione della
genesi sociale dei fenomeni filosofici. Rilevante è la sua interpretazione
della figura storica di Gesù, ricostruita entro una totalità sociale a partire
dalla analisi dell'economia pianificata del modo di produzione antico-orientale
palestinese, sulla scorta di una prospettiva metodologica storico-scientifica
nei confronti dei vangeli. Come storico della filosofia ha studiato in
particolare il pensiero platonico, neo-platonico e la dialettica hegeliana.
Come pensatore filosofico originale viene collocato da Costanzo Preve
all'interno della corrente del neo-idealismo italiano, essendo il suo pensiero
fortemente influenzato dalla Scienza della Logica hegeliana. Muove dalle
profonde critiche al nichilismo contemporaneo e al relativismo anti-metafisico
per approdare ad un tentativo di rifondazione onto-assiologica degli orizzonti
di senso dell'esistenza umana sulla scorta di una indagine della natura
trascendentale dell'uomo, alla luce di un superamento della polarità dualistica
empiria/trascendenza. Si dedica alla critica serrata della sinistra politica e
allo sviluppo del tema della decrescita. Altre opere: “Il senso della
storia antica. Itinerari e ipotesi di studio” (Milano, Trevisini); “Antiche
strutture sociali mediterranee” (Milano, Trevisini), “Storia e coscienza storica”
(Milano, Trevisini); Per il triennio; “Civiltà e strutture sociali
dall'antichità al medioevo” (Milano, Trevisini); “Antiche civiltà e loro
documenti” (Milano, Trevisini); “Civiltà storiche e loro documenti” (Milano,
Trevisini, Per il triennio); “Filosofia: Il senso dell'essere nelle
culture occidental” (Milano, Trevisini); Filosofia, Napoli, Istituto Italiano
per gli Studi Filosofici PRESS, . [riedito nel
in versione aggiornata dalle edizioni Accademia Vivarium Novum] “Eraclito
e noi”” (Milazzo, Spes); “Percorsi di verità della dialettica antica” (Milazzo,
Spes); “Nichilismo, verità, storia” (Pistoia, CRT); “Gesù. Uomo nella storia,
Dio nel pensiero” (Pistoia, CRT); “La conoscenza del bene e del male, Pistoia,
CRT); “La disgregazione futura del capitalismo mondializzato, Pistoia, CRT); “Tempo
e memoria, Pistoia, CRT); “Il concetto di realtà e il nichilismo contemporaneo,
Pistoia, CRT); “L'agonia della scuola italiana” (Pistoia, CRT); “Un sentiero attraverso
la foresta hegeliana, Pistoia, CRT); “Eraclito e noi. La modernità attraverso
il prisma interpretativo eracliteo, CRT, Diciamoci la verità, "Koiné"
n.6, Pistoia, CRT, Le sinistre nel capitalismo globalizzato, Pistoia, CRT, Un
nuovo asse culturale per la scuola italiana, CRT, Pistoia, L'arbitrarismo della
circolazione autoveicolare, Pistoia, CRT, -- very Griceian: Grice: “D. K. Lewis
drew his example of the arbitrariness of a convention from Massimo
Bomtempelli.” Il sintomo e la malattia. Una riflessione sull'ambiente di Bin
Laden e su quello di Bush” (Pistoia, CRT, -- cf. Grice: “I took the example,
‘those spots mean measle’ from Bontempelli, “Il sintomo e la malattia” – “Il
sintomo” -- [ristampato nel dalla casa
editrice Petite Plaisance] Diciamoci la verità, CRT, Pistoia); “Il respiro del
Novecento. Percorso di storia del XX secolo. 1914-1945” (Pistoia, CRT, Il mistero
della sinistra’ (Genova, Graphos, La
Resistenza Italiana. Dall'8 settembre al 25 aprile. Storia della guerra di liberazione,
Cagliari, CUEC, La sinistra rivelata” (Bolsena, Massari, Il Sessantotto. Un
anno ancora da scoprire, Cagliari, CUEC [ristampato nel ] Civiltà occidentale” Genova,
Il Canneto, . Marx e la decrescita, Trieste, Abiblio, . Platone e i
preplatonici. Morale in Grecia, introduzione di Antonio Gargano, Napoli,
Istituto Italiano per gli Studi Filosofici PRESS); “Un pensiero presente: scritti su Indipendenza, Roma, Indipendenza Editore
Francesco Labonia, . Capitalismo globalizzato e scuola, Roma, Indipendenza Editore
Francesco Labonia, La sfida politica della decrescita, Roma, Aracne, . Gesù di
Nazareth, Pistoia, Petite Plaisance; “Il respiro del Novecento, "Koiné"
n.6, Pistoia, CRT); “Metamorfosi della scuola italiana, "Koiné" n.4,
Pistoia, CRT, Visioni di scuola. Buoni e cattivi maestri, "Koiné"
n.5, Pistoia, CRT, Scienza, cultura, filosofia, "Koiné" n.8, Pistoia,
CRT, 2002. I cattivi maestri, in I Forchettoni Rossi, Roberto Massari, Bolsena,
Massari. Addio al professor Massimo Bontempelli, Il Tirreno. Bontempelli individua, in diverse epoche, un
feudalesimo ario, cinese, indiano, iranico del regno dei Parti, del Vicino
Oriente islamico, del Ghana e infine il feudalesimo occidentale. Gesù uomo nella storia, Dio nel pensiero
(uaar) Costanzo Preve, Ideologia
italiana. Saggio sulla storia delle idee marxiste in Italia, Milano,
Vangelista, 1993 (p. 201 sgg.) Marxismo
modo di produzione. Una vita semplice, una mente scintillante,Le idee forti di
Massimo Bontempelli. Il bene come processo possibile concreto: natura umana e
ontologia sociale. Massimo Bontempelli. Keywords: “la filosofia pre-platonica
secondo Diogene”, “il viaggio di Platone in Italia”, “Il parricidio parminedeo
di Platone”, “il platonismo latino” “Boezio e l’aristotelismo”, “ficino”,
“telesio e campanella”, “galilei”, “storia e ragione in Vico” “Hegelianismo
italiano” “Vera”, “Spaventa” “Jaja” – “idealism italiano” “Croce” “Gentile” “il
concetto di stato in Gentile” “Severino e il neo-parmenedismo”, Vattimo e
l’implicatura debole, la debolezza della communicazione in Eco”, implicatura
sintomatica, sintoma. “feudalesimo ario”
--. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bomptempelli” – The Swimming-Pool Library.
Bonvecchio (Pavia).
Filosofo. Grice: “Bonvecchio is a good one; of course, he has philosophised on
what Italian philosophers have philosophised most: ‘e amore’ – only he calls it
eros --.” “This is strange: this Italian
fascination with the Hellenism: one BAD thing about the Hellenic or Grecian
lingo is that they have FOUR words for ‘love’: philos, eros, agape, charitas –
Cicero followed William of Ockham’s razor, ‘do nott multiply words’ – and
translated them all by ‘amore’ – Now, with Bonvecchio, it’s not just, as with
Tonny Bennett, just ‘amore,’ – iit’s amore ‘come simbolo’, that is, as used in
communication – as per Socrates with Alcebiades – the daemon, Amore, is the
metaxu – so there is a communication of Apollo and Dioniso via love – all VERY
philosophical, and actually very Oxonian – vide Walter Pater!” Laureatosi in
Filosofia Teoretica presso l'Pavia inizia la sua carriera accademica come
borsista, contrattista e ricercatore presso la Facoltà di Lettere e Filosofia
della stessa Università. Dal 1987
insegna "Filosofia della Politica" nella Facoltà di Lettere e
Filosofia dell'Università degli Studi di Palermo. Nello stesso ambito
dottrinale insegna nel 1990 nell'Università degli Studi di Trieste sino al
2001. Da questo stesso anno è Professore di Filosofia delle Scienze Sociali nel
Corso di Laurea di Scienze della Comunicazione della Facoltà di Scienze MM. FF.
NN. dell'Università degli Studi dell'Insubria dove dal 2003 diviene
vicedirettore del Dipartimento di Informatica e Comunicazione. Claudio Bonvecchio è stato iniziato alla Massoneria
presso la loggia del Grande Oriente d'Italia Cardano di Pavia nel 1992, dove ha
ricoperto varie cariche. Dal 6 aprile è
Grande Oratore del Grande Oriente d'Italia in seno alla Giunta guidata dal Gran
Maestro Stefano Bisi, nel è stato eletto
Gran Maestro aggiunto . Dal 5
dicembre è componente del Cda della
Fondazione Luigi Einaudi Onlus. Altre
opere: Particolarmente dedito agli studi sulla simbologia e sulla mitologia
politica. “Immagine del politico. Saggi su simbolo e mito politico” (Cedam, Padova);
“Imago imperii imago mundi” (Cedam, Padova); “L'ombra del potere. Il lato
oscuro della società: elogio del politicamente scorretto” (Red, Como); “La
lanza di Marte; o il simbolico nella guerra” (Cedam, Padova). “La spada e la
corona: studi di simbolica politica” (Barbarossa, Milano); Gli’arconti di
questo mondo. Gnosi: politica e diritto” (Edizioni Trieste, Trieste); “Il
pensiero forte, Settimo Sigillo, Roma); “Apologia dei doveri dell'uomo”
(Terziaria, Milano); “La maschera e l'uomo” (Franco Angeli, Milano); “Il
coraggio di essere” (Dadò, Lugano); “Europa degli Eroi Europa dei mercanti.
Itinerari di ribellione” (Settimo Sigillo, Roma); “Inquietudine e verità”
(Giappichelli, Torino); “Dove va l'idea di Tradizione” (Settimo Sigillo, Roma);
“Il sacro e la cavalleria” (Mimesis Edizioni, Milano); “Esoterismo e
Massoneria, Mimesis Edizioni, Milano); “I Viaggi dei Filosofi” (Mimesis
Edizioni, Milano); “La Filosofia del Signore degli Anelli” (Mimesis Edizioni,
Milano); “Ripensare l'identità. Per una geopolitica dell'anima europea”
(Settimo Sigillo, Roma); “Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo. Un percorso
nella post-modernità” (ScriptaWeb, Napoli); “La Magia e il Sacro: saggi
Inattuali” (Mimesis Edizioni); “Eros come simbolo” (Amore, Cupido).
AlboVersorio, Milano); L'orologio dell'Apocalisse. La fine del mondo e la
filosofia” (AlboVersorio, Milano, . Scritti in onore Simboli, politica e
potere. Scritti in onore di Claudio Bonvecchio, Paolo Bellini, Fabrizio Sciacca
ed Erasmo S. Storace, AlboVersorio, Milano. Università
dell'Insubria[collegamento interrotto]
Grande Oriente d'Italia Convegno
a Matera: Europa, Libera muratoria, cultura
Claudio Bonvecchio scheda nel sito dell'Università degli Studi
dell'Insubria. Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi italiani Professore1947
20 gennaio PaviaMassoni. Claudio Bonvecchio. Keywords: simbolo della repubblica
romana, simbolo dell’impero, imago impero, imago mundi, Romolo, primo re, la
corona del re. La spada, il guerriero. Guerra, longobardo, guerra ostrogoto,
bellum romanum, bellum civile, etimologia di ‘mascara’, il concetto di eroe,
Europa degl’eroi, italia degl’eroi, gl’eroi, Bruno, furore eroico, Vico, eta
eroica, equites, cavalleria, massima stirpe guerriera romana, Mars, Marte,
marziale, Marte, padre di Romolo, Marte, emblema della guerra, marziale, campo
marzio, Marte, l’archeologia di Boni, mistica fascista, imago imperi,
guerriero, Romolo re corona, emblem della republica, eta degl’eroi, fascism,
fascist imagery. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bonvecchio” – The
Swimming-Pool Library.
Bordoni (Rocca di Riva, Riva di Garda). Filosofo.
Grice: “Bordon is a genius; my favourite tract is his ‘ludi romani,’ in a piece
he philosophised for Silvio’s figlio, whoever he is – but he also philosophised
on ‘communication’ – and surely a game is a kind of communication – cf. my
‘conversation-as-game’!” Figlio di Benedetto. L’imperatore Massimiliano I
d'Asburgo lo nominò suo pagge. Si dstinguendosi come soldato. Nella battaglia di Ravenna, in cui padre e suo
fratello sono uccisi, mostra grandi doti di coraggio. Riceve i più alti onori
della cavalleria dal suo imperiale cugino che gli conferì con le proprie mani
l'Ordine dello Speron d'oro, aumentato con il collare e l'aquila d'oro. Lascia
la corte. Dopo un breve impiego presso il duca di Ferrara, decise di abbandonare
la vita militare, e s'iscrisse come studente di filosofia a Padova. Laureato,
reside al castello di Vico Nuovo, in Piemonte, come ospite dei Della Rovere, dividendo
il suo tempo tra spedizioni militari in estate e la filosofia in inverno. Ha quindici
figli, tra i quali Giuseppe Giusto Scaligero Bordone. Stampa una invettiva
contro Erasmo da Rotterdam, in difesa di Cicerone e dei Ciceronianus. È un
pezzo di invettiva vigorosa, che mostra una retorica brillante, anche se carica
dell'abuso del volgare, che forse non inquadrava affatto la vera essenza dei
ciceroniani di Erasmo. Una seconda invettiva, più violenta e abusive. Un
trattato “De comicis dimensionibus” (Delle dimensioni comiche) e “De causis linguae
Latinae” (“Delle cause della lingua”) lo resero il primo grammatico che segue
principi e metodo scientifici. Ha acute critiche basate sulla Poetica di
Aristotele, “imperator noster; omnium bonarum artium dictator perpetuus”. Considera
Virgilio moltissimo superiore ad Omero. Lode le tragedie di Seneca. I suoi
saggi sono tutti sotto forma di commenti. Considera “De insomniis” di
Ippocrate. Stampa “De plantis”. Stampa “Exercitationes” su De subtilitate di
Cardano. Altre opere: “Commentari su Teofrasto De causis plantarum” “Commenti
alla storia degli animali di Aristotele”. Combina autentica conoscenza,
ragionamento acuto, e osservazione dei fatti e dei dettagli. Anticipa il
ragionamento induttivo del metodo scientifico. Non si può mettere in discussione che non
abbia anticipato in qualche maniera il ragionamento induttivo del vero metodo
scientifico, anche se i suoi studi di botanica non lo condussero a qualche
forma di idea su un sistema naturale di classificazione. Rigetta la scoperta di
Copernico. Rimase ancorato ai dogmi di Aristotele nella metafisica e nella
storia naturale, così come a quelli di Galeno. Corregge alcune dichiarazioni di
Aristotele utilizzando i principi aristotelici. Le sue Exercitationes
basate sul libro De subtilitate di Cardano è il libro che dà a Scaligero la sua
notorietà come filosofo. Si lo riconoscoe come il migliore esponente della
fisica e metafisica di Aristotele. “Poetices libri septem”.“Oratio pro
Cicerone contra Erasmum” nel quale liquidava Erasmo come un parassita letterario,
un mero correttore di bozze. In queste Scaligero analizza il corretto stile di
Cicerone e indica 634 errori commessi da Valla e i suoi predecessori umanisti. "Imperatore
nostro, dittatore perpetuo di ogni buona qualità nelle arti". Dizionario biografico degli italiani. Quem ad
modum natura frescante nascir non uno modo circa unam cine isina soubine
verfaturrem, ita nec ars. Na sicuti solis vis quercum educit, atque firmat aqua
putrefacit ignis absumit. Sic faber eidem quercui formam abaci imponit:
statuarius, lovis: architectus; tigni. Par item ratio in scientiis est. Hominem
contemnplatur philosophus naturalis ut movetur: Geometra quatenus eum metiri
debet. Medicus que a morbis aut vindicet aut tueatur. Natura enim est ut es
tartifex quasi quidam eorum quæ molitur: ita artifex tanquam natura quædam
eorum, quæ Ampalaya figurat. Hoc igitur quod est materia prima naturæ vt ei
formam imponat, id est artifici naturalis vogures cui figuram indat. Res autem
quum duplices mralint: aut materiales aut immateriales. Et immate n'arece riales
aut extra intellectu ut deus, aut inintelle etu ut notions. Notiones appello rerum
species mente comprehensas, Quod utique manus agit in materiam, hoc intellectus
agit in notiones. Ergo, ut manibus subiectam materiam habet, aurum faber. Ita, intelleettu
notiones philosophus moderatur. Et enim quo pacto manus instrumentorum
instrumentum est. Sic ratio scientiarum. Est autem ratio vis animæ, qua id,
quod ea præditum est, boncinema comprehendit universalia. Comprehedimus au
cinst tem vel per inventionem vel per disciplinam. Ac per inventionem quidem
paucis darum est ut divinitus fierent sapientes. Per disciplinam autem
pluribus. Sane disciplina est scientia acquisita in Sdiscete. Discimus vero ab
alio per auditu tanqua per instrumentum, et per voces tanquam per nostas. Est
enim vox nota caru notionu, quæ in ani voce coulmasunt. Vocis affectiones tres:
formatiositio, compositio, et veritas. Veritas est orationis æquatio cum re cuius
est nota. Compositio est unio partium procarum proportione. Formatio est
creation et figuratio. Itaque orationem eiusque partes duo artifices diversis
modis conteplantur. Dialeetticus sub *ratione* veritatis tanquam subsine.
Grammaticus sub figurationis et compofitionis modo, vocarunt conitructionem,
tanquam materiam. Nam tamet si grammaticus etiam considerat si- gold move
gnificatum, qui quasi forma quædam est, non ta men propter se id agit, sed ut veritatis
indagatori subministret. Accidit autem ei postea ornatus ab oratore, et numerus
a Poeta. Nam historia parum ab utroque differt, sed ex utroque potius mista
est. Grammatici igitur unus finiset, recte grammas loqui. Quare in duo
intendit: in partes ut parios tienen una funt, et in easdem ut interferes
pondincat compositione. Nam quod addunt, creía vitedi arte esse: bis peccant. Neque
enim ars est, sed scientia neque necesse habet scribere. accidit. Scriptura
voci. Neque aliter scribere debemus, quam loqua mur .Illa quo que tertia parte,
qua afribunt, iudicandi, non recte attribuêecncque na ettio distinguitur a
potestate per differentias forma costitutas. Et enim eo de modo, quo scio,
iudico. Fostre mo quod cfficiu interpretando ruautothandu merar ut, id sane
grammatici non est, sed lapietis procuiusque rei captu. Est enim oratoru
poetarumque, atque historicorus lectio disserta variis artibus, atque scietiis
non ad ipsos literatores potius qua in ad veros artifices pertiner. Na quod ad
interpretationem ipsam atrinei eadem ratio est; et componendi et composita
cognoscendi. Quippe orationem qui interpretatur codem modo eam resolvit in
partes quomodo eam qui construxit ex iisdem partibus comparavit. Tresigitur cum
sint rationes literaturæ. Prima figurandi. Secundaria significandi. Tertia
componendi. Prima quidem diligentissimi viri receviores exactiflimetra
ettarunt. Secundam non ita plane. Tertiam exautorum observationibus satis
admodum sunt assecuti. Verum quunon solum vsu, atque autoritate partes hæc
onftenç sed etiam ratio ipsa naturalis magna multaque loca sibi vindicet. Quæ illi
ipsi diligenter sunt executi, nullius nostrum opera indigere arbitrabamur. Quæ
vero rationes ab his sunt omislæ vel quasi ignoratæ vel quasi relictæ nobis,
necessario hoc opere erunt perscrutandæ. Non solum materia opus est, certify
limitibus, sed etiam ordine atque instrumentis. Ordinem duplicem esse. Unum ab
elementis ad composita, alterum huic contrarium. Instrumenta item duplcra:
altera naturæ notiora, nobis vero mie nous nota: altera bis contraria. Anale
Hitler imptam materiam certisque limitibus cir per se ettenosse possimus. Duo
sunt docedi, totidem queii dem discendi modi. Alter quo quid suas in partes
resolvimus, ut si navim ignoranti cuipiam, primum nome edam. Deinde quid sit
edifferam: postremo cuius rei causa structa sit, ostedam, partibus enumeratis.
Hæc via resolutoria ab Aristotele dicta est. Is modus nobis notior est, quippe moim
totum ipsum repræsentatum specie primum in note scit, a quo ad partes
indagandas ipsas possea fya ducimur. Alter modus huic cotrarius est, naturæ ha
infille quidem notus atque certus, quem componentem dicimus. Propter ea quod
acceptis partibus totum ipsum ex ædificamus. Galenus frustra ad didit tertium
quem definitivum vocat. Cum ta men a resolutorio nihil differat resolvimus enim
totum res est ipsa definita, definitio autem notio speciei. Præstantior autem
via utique cela ea est, quæ componere docet: tum quia naturam imitatur, tum quod
excellentiam tradentis ostendit ingenii, quod necesse est omnia habeat in numerato
atque ordine disposita ante, quam ani mum ad dicendum appellat. Ad hoc, nisi a
primoribus elementis ordinare, necessfario cogêris idem, sæpius repetere. Universus
igitur docendi ordo rls is quum lit, singulæ partes quo consilio quamperte se
et iffime recenferi tractarique possint videamus. Discere dicimur cum ignotum
per *indicia* quædam percipimus animo. Hoc bifariam esse potest. Nanque *indicium*
illud interdum est po-Apossterius co, quoddiscimus, veluti cum significatio
vocis huius, gloriosus intelligitur posse accipi in bonam partem per exempla
lumpta de Cicerone. At sane id prius significavit quam sic Cicero utendum
sumeret. Et tamen per Ciceronem ita mihi notum fit. Est alterum in diciorum
genus A hun natura prius. Et caussa quasi quædam eiuscerei thi quam discimus, ut cum per gloriæ
significatum acper flexum illius vocis descendo ab origine ad usu meum, quem in
Ciceronis libris deprehendi ac prior quidem notior ac facilior est. Alter ut
paulo obscurior, ac minus sæpe notus nobis, ita excellentior tanto quanto
certius scimus quum per causam quam per accidentia cognoscimus. Hoc igitur duce
abipfa philosophia in Latinarum vocum naturam, ad rationes investigandas, deducamur.
Duplices partes: alie ex quibus vox constituitur ut ex materia. Ab a tangu
species sub genere perfectam scientiam, non definusone acquire sed etiam ex
affectuum cognitione. page Sligitur est a partibus incipiendum, propter ea quod
causæ sint iplius totius, quodnunc tractanas: 11offeinter est, earum rationem duplicem
esse. Et enim cum dicimus, in, Dictione, partes esse alias simplices, cuiusmodi
literæ func, ar lias compositas quales videmus syllabas. Ex his iudico
elementis integram vocem fieri, atque coalescere. Cum vero dicimus. Dictiones
aliæ sunt nomina, aliæ verba. Non has altendo partes Wycius eile modi ut per
eas concrescat nomen, sed quæ ipso genere tanquam re universali quadam
comprehendantur inde recte pronuciamus, tam nomen, quam verbum dicttionem esse.
Cum aute PH*2.poilim genus ipsum intelligere etiam seclufss par mi ne tibus
his, quasi pecies appellanimus. Necessario fatebimur, inapte natura i pecies
esse illas post genus. Si quidem genus materia quasi quædam spe cieru v cít. Contra,
quoniam genus ipsum animo perfecte capere nequeamus, niii partes, quibus
constat, perspexerimus. Necesse erit ut primua de his partibus, deinde de
genere, hoccli de diction quæ est materia nostræ operæ subie et ta, tumde
speciebus fermo noster instituatur. Videndum igitur, quid litera: mox quid
syllaba. Tertio quid diction. Postremo quæ species dictionis. Quoniam vero
perfecta Scientia non ex sola ha si betur definitione, sd omnes quoque rei affecttus cognoscere
oportet: de ipsis affectibus cuiusque partis quid veteres prodiderint quid nos
sentiamus, perspiciendum erit. Definituro litera, nominis prius originem
querendam. More peripatetico inde errures multos ecolligit igo corrigit. Ante
vero quam literam definimus, sicuti sie ce in omni definitione, nomen ipsum
estex- Nimm an plicandum. Quippe ex cuius interpretatione facilius rei ratio
nota sit. Togam.n. definiturus, cam si norim ategendo dietam, sane vestigando
cius genus sic inveniemus. Esse lana text ad tegendo, ita de litera acturi,
vera eiusce nominis rationem ex figura emergere căperiemus, quu eas certis lia
Ale! neis contineri videbimus exeptis nanq; cx prisca mily nominis origine
aliquor elementis, quu primum di ettæ essent lincaturæ, literæ possea fa ettæ
sunt. Scut apud græcos redivirala otlew sexuuris. Euenitde inde ut quoniam
album nigre dinea spergeretur, atquei quasi officeretur, ut ea sgnificatio
latius fufa fit, et litura inde etiam macula diceretur. Obliterare autēverbum
no a literis ut dixere sed a lituris deductu est, versa scilicet vocali. Quem ad
modu a fænus fæneror et a pignus pigneror, et a têpustepero: fica lincando,
linere, unde lineaturæ, et literæ, etlituræ, ex code fonte æque omnia. Neq enim
alituris literæ quiade lerentur. Prius enim factæ, quam deletæ sunt. At formæ
potius atque cueras rationem, quam intea ritus habeamus. Ex his constat eosdem
veteres, non recte quasi legiteram commentos esse:vtex crema pars vocis ab
itinere fingatur. Atque id A iiij. que Huskha Om quoque non geminata consonante
ut consueue re, scribendum esse: sub sux nanque originis for ma produxit primam
natura. Si igitur a lineis di eta est, et linea minima corporis dimensio est. Erit
profecto litera minima pars dictionis. Accidit enim dictioni cuipiam, unica ut
litera contineatur, ibi enim est pars et totum idem. Sed sicuti ex elementis
constant mista naturalia, sic ex lite mlaliris dictions, unde elementorum
quoque no men fortitæ merito sint. Simul ut hinc refellatur veterum sentential,
qui falso literas notas dixere, elementa autem pronunciationes. Nam ut litera
sola nota sit, satis habemus at
elementum et i plum hoc sit quod pronunciatur non autem ipsa pronunciation et
ipla nota æque, siquidem est pars dictionis ipsam constituens sicuti ignis, aer,
aqua, terra, corpora naturalia hæc nostratia. Sed et par corūdem error in
literæ definitio. Primo nan que partem vocis dixere quare aut non eruntli teræ,
quæ script nõdum pronunciantur, aut falso definierint vocem, esse aerem percussum.
Sed neque recte neque necessario adducut vocis de carregare finitionem. Neque
enim ad literatorem sed ad mus philosophum spe ettathoc, aquo id quod ipse sta
tuat accipere debemus. Quin ipse quoque vocem in libro de interpretation non
definivit: quum alioqui et coniunctior esset pars illa cum cætera philosophia,
et interpretatio vocem habeat pro instrumento, itaque divinus ille vir per
vocem definitiones attulit, vocis contemplationem ad philosophum naturalem
retulit. Quod si quis pertinacius contendat, necessario definiendam vocem esse
in literæ definitione, quasi genus quoddam: cogetur idem fane, quid aer sit
quid, percussio, definire, atque porro, quemad modum frat auditus, ostendere.
Verum ii ignorarunt, no omnia principia discutienda esse, sed quibusdam eorum
certis in scietiis simplici intellectione acquiescendum, ipsam que principiorum
rationem ad solum metaphysicum pertinere. Quam obrem grammaticus hic fatis
habet vocis tantum nos se significatum: non est igitur necessaria. Non est item
vera quum dicit aerem tenuissimum: te a dor Larmes nuenet crassum significat
partium positionem. Samorato tenue enim quum opponitur crasso significatrarum.
Sic dicimus crassum aerem, raru aerem esse nuem. In aere igitur Bæotio non
pronunciabitur litera quem aerem crassum fuisse proverbio quoque circunfertur.
Sed illi ut minimam pare name tem literam esse ostenderent eius materiam
scilicet aerem, tenuissimu esse voluere ut minimum significarent. Sed tenue non
excludit longitudinem. Itaque non erit aer minimus. Præterea in codem genere
nullum minimum minus alio minimo est: at litera alia aliis minor quædam enim
unico tempore fluit alia pluribus constat, et quædam dimidium alterius est. Nam
1 est duplex ad 0, et ipsa interdum sui ipsius, cuius modi sunt communes vocales
apud græcos. Ad hæc aiunt definitionem esse a substantia: at eer vocis
substantia non est, sed materia subiecta. Accidit enim vox aeri. Hic enim
substantiam pro essentia capiunt at essentia vocis non est aer: neque enimgenus
fius est, aut differentia: sed percussio, aut elisio ge AV. nu IvL. nys est
summum proximum autem genus, est fo nusis enim ordo est. Sonus e percussione
corpo vor a wheru, vox, sermo. Est enim sermo dispositio vocu articulataram ad
interpretandum animum.Vox, sonus ex ore animalis. Sonus qualitas obiecta au
ditui ex occursu corporu. Ita que n eid quide re et e, strepitum vocem esse
inarticulate. Strepitus es nim est sonis pecies, sicut et vox. Neq divisio
proba est, cum dicutin articulatas voces eas, quæ nul con lo proferutur affectu:
nãomnis vox est ab animi affectu. Est enim data animalibus ad expressione
voluntatis ut in quinto historiaru latius disputa uimus. Et multæ voces ab esse
et u proficiscuntur quæ sunt inarticulatæ, ut gemitus et sibilus venatorum. Sed
neque recte a brutis excludut articulatas: ouiu enim voces adeo clare scribe
possunt ut ab ipsis verbum apud nos formatum sit, balare. Literatas aute voces
aut illiteratas perinde atque scribi possent vel no possent, etia do et iores
dixe re, ut est apud Gelliu lib.xi. Non decreto, inquit, iussoque, sed tacito,
illiteratoque atheniensium consensu. Quare articulata sit quæ scripto excipi
atque exprimi valeat. Inarticulata, quæ no. Possit Vorige meo autem quis
dubitare, an necessaria sit definitio dimisour ettionis syllabæ, literæ per
vocem: præfertim cum philosophus in libro siegulweias sic egerit. Quibus
respodemus id eu fecisse quonia de elocutione feribebat, qua vocat interpretationem,
Sic nos vocem in his libris, prodictiöe scripta accipimus, quoniam vox esse
possit: idque ex usu vetera Latinorum. Atisti vocis partem cum dicantlitera,
voce ma; acrem percussum litera tantum in aere ponunt. Ergo cum scripta erit
non ei competer definition neq; cum in intelle et um recipietur. Poteste nim
nunquam fuisse in pronunciationc. Litere definitio. Differentie generica,
quibus species litera rum constituuntur. Affecttus generice proprio communes.
Quid primum horum natura fa, quid primo loco tradedum. Itera igitur est pars
dictionis indiviisibilis comuni Nam quanquam sunt literæ quæ de duplices una
tamen tantum litera est sibi quæque certum sonum unum servans. Ita 12 magnum
dietum est non autem compositum neque enim duo parva cotinettanqua partes sed
duabus temporibus v pas tra et us indivisibilis. Litera ergo genus quoddam est,
cuius specics primariæ duæ, vocalis et consonans, quarum natura et constituțio
non potest percipi, nisi prius cognoscantur differetiæ forma Eles, quibus
factum est, vtinter se non convenirent. Quire de ipsis differentiis in communi,
deq affectibus prius dicendum est. Litere differentia generica est, potestas quam
nimis rudi consilio veteres accidens appellarunt, est enim forma quæ dami
plefexus in voce quasi in materia propter quem flexum sit ut vocalis per se
possit pronunciari, muta non possit. Ex hac potestate ortūno men est, qui est affectas
proprius, cuiusque literæ, ce consequens cam vim quæin pronuntiatione sita est.
Figura autem cít accidens ab arte inftitutum: potestenim etle litera sine
figura: pote itque attributa mutari, acque solum per nationcs sed etiam eidem cidem
genti aliam atque aliam diversis seculis in usu suifle. Neque vero quod veteres
fecere, hæ Olyfolæaffe et iones assignandæ sunt literis sed etor do. Quædam
enim natura sua aliis priores sunt neque hac ferie qua eas accepimus ab
antiquis Ordgaut ortæ, aut disponendæ. De potestat cigitur pri ha trasmum
deinde de aliis scribendum esset. Veru quia a facilioribus semper est
incipiendum a figuris, notulis que ipsi spingendis auspicabimur quaru causas
possea explicare instituemus simul et numerum et ordinem ex priscis historiis
narrabimus quem suo loco tandem corrigemus. Historia literarum, Figura, Numero,
Ordine. Iteræ primum fuere sexdecim numero, a more on spiciis receptæ: his
notulis, A, B, C, D, E, I, K, L, M, N, O, P, Q, R. Palamedem autem duas
adieciffe bello Troiano Duabus ab Epicharmoaudu numerum: 0 Duæ ad Simonidem,
tanquam ad autorem, referutur: Alii autem aliter fen sere, duasque eiusdem
inuento appositas: Z, Latinæ haud
magnopere ab his abhorrent, his notis -- A, B, C, D, E, F, G, I, L, M, N, O, P,
Q, R, S, T, V, X, Y, Z. Summari adiuifio literarum. Nomina singularun.
Arumquæper feipfas possent pronunciari, vocales appellarunt: quæ non, nisi cu
aliis, consonantes. Ita que etiam vocalium nomina, simplici sono nec differente
a potestate, statuerut, at consonantibus, quæ egerent adminiculo, appel- osa'
lationes mistas ex ipsarum fono, et ex certo adminiculo indidere. Itaque
vocales sic nominarunt, cu ut scribebant: “A”, “E”, “I”, “O”, et “V”. At consonantes
additis vocalibus. Idque non uno modo quibusdam enim præ-posuere aliis post-posuere.
Sunt autem hægt “A”, “BE”, “CE” DE, “E” “EF”, “GE”, “I”, “EM”, “EN”, “PE”,
“QV”, “ER”, “ES”, “TE”, “IX”. Duas autem reliquas “Y” et “Z”, propte rea quod
non, nisi in græcis vocibus scriberent, non mutarunt earum figuram neque aliud
no men impofuerunt. Item duabus vocalibus “I” et “V” cum fiunt confonantes, nullum est nomen factu
a Latinis sed a Græcis. Æolicum elementum appellatum est: et vau:habuitquefiguram
hanc, 1, Claudio inventam, inuerla, r, atque duplicata. Verum nominis rationem
(“di-gamma” enimin denominarunt cum ipsa nominis potestate non conuenire, suo
loco dictum est. Ex his constat, quare in verbo Des, necessario inter priorem
et posteriorem consonantem interponi debeat e vocalis: cum tamen nomen et mutæ
in fine, et sibili in principio eam habeant vocalem. Nequce nim nomina ingrediunturc
ompositionem sed potestas tantum. Sola “Q” eadem et poteftate et nomine semper
est. Semper enim et pronunciatur, et nominatur fociata obscuræ vocali: sic, pv.
Eftigitur proprium tam figuræ, quam no - smo minis, nunquam mutari, potestatis
autem mu- poem tari, vt mox videbimus. Hoc autem dico apud veteres tum Latinos
tum Græcos. Nam nostra tempestate certis notulis malunt inchoare et ducere
dictionem aliis autem terminare. Hebræi autem chaldæique et armenii, et arabes
sema per aliquot literarum figuras mutarunt, quibus clauderêt voces suas. A
nominum ratione porro diviserunt Consonantes in mutas, atque Semi vom, vocales vt
quarum nomen inciperet a consorante; cx Muta essent: quarum a vocali, essent
Semi-vocales (“V”, “I”). Quam sententiam
qui essent auto resipfi, nihilo prudentius corrupere. Ita vt mutis ascriberent “EF”
quum tamen inciperet a vocalis verum et
hanc fuo loco explodimus, ethicillam emendamus. Principio, non a nominibus
species fa ettæ sunt, sed a potestate ,a qua etiam nomina fluxere. Igitur iam
fundamentum destructum est. Præterea quo modo fregere se ipsos quum rin mutas
abiccerunt, ita ctiam sibi luntaduer fati, quum hac cadcm sua regula cogurtur ean
dem literam quæ apud græcos sit Muta, apud fe facere semi-vocalem. Nam îi verum
est, mutas effe, quarum nomina incipianta conionaia te: E1 græca muta erit ea
ratione, quæ tamen apud nossitsemiuocalis: fi quidem huius figurr; qua vtimur,
x, pro, cil, nomen Latinis cit, is, Immo vero fi a nomine petas argumentum,
multo sint Motæ clariores, quam Scmiuocaics. Quis enim ncfciat clarius
pronunciari posse, EE, quam en, aut EL? Ucrum ita faetum eit, vt MuTra
tædicerentur, quarum poteftas fine vocali focia, nulla effet. Neque enim
quisquam aut, “B” aut, €, aut alias mutas, nulla vocali addita, clare possit
one pronunciare: Contra semi-vocales, propterea quod aliquam haberent
pronunciationem. Vocalium enim fecutæ integritatem nominis dimi dium obtinuere:
nemo enim interposito inter labia spiritu ipsum “F”. nequeat efflare: item sibi
lumins, et mistuminx: linguæ autem vibratio nem in r:leniorem autem atque
hærentem in “N”. longeleniorem, et libiloaffinem,in “Z”, mugitum vero vel
facilimum, atque craffiffimum in ipfo m. Ex his patet error alius corundem
quifcripfe re- x, abi, vocali nomen feum apud nosincho are propterea, quod apud
Græcos eadem vocali Fillorum proferatur. Etenim fi ea ratio fatisef- Crop set,
etiam im, et IN, etif, dixiffemus, qua has vocali græci nominant. Sediccirco fa
et um est, ut a præpositione Ex, differret. K, autem lite ram quare is præsentia
omiserimus, suo loco di sputainus. Ex his fatis constat, prudentius, quam aut
Græci, aut Syri fecerint, fecisse nos; quum vo calium nomina simplicissimo fono
eduxerimus, quasi fuo fibi fatu ortæ effent: neque confo nantium fublidiis
indigere, ad suas opes decla. fandas, quas consonantes ipfæ fane sua fouerent
autoritate. Singularum literarum potestates. Rebus suas species constituebat s
affectiones genericas, rationem fpecierum conditaru diximus: superest, vt
vnicuiusque literæ vim deinceps ex vsu, atque ratione, eiufque causas
ftatuamus: quod negotium non sine magno labore, variaq; controversia expediri
potest. Adeo enim dege ' nerauimus a prisca pronuciandi ratione, vt etvix
extentipfoin vfu vestigia: etfiquid afferas, quod emendet vulgus,tanto vero ipfipertinacius
obfi ftant.Acfuit quidem tempus, quum vsui dabatur aliquid:erat enim inter
Latinos. Nunc vero, cum etiam Itali ipfi in patria sua peregrini sintadeo, vt
etiam studiose inuenta noua a prisca detor queant Latinitate. Nihil aut Barbaris
dandum, aut nobi sindulgendum esse cenfeo. A vocalibus autem incipiamus.
Singularum literarum potestates labioru maxime conformatione dignoscuntur. Quemadmo
dum non folum ex Martiani ac Prisciani, Victorini, Gellii, Quintiliani,
Varronis, Nigidii, Ciceronis præceptionibus, verum etiam variarum usu nationum
aliqua ex parte percipi potest. Duobus autem modis potestas variatur,velsonus
ipse, vt quum “I” vocalisaliter in voce “Ira”, aliter in voce
Optimus,pronunciatur: vel soni modus, veluti quæ exempla a veteribus adducuntur,
quibus deni modi eidem vocalis sono attribuuntur: qui ni afpiratæ, et totidem
tenui. Brevi fub acuto, et graui:longæ sub iisdem, et fub circunflexo: ex empla
sunt hæc: “Hamus, Hamorum, Hami: Arae, Ararum,Ara: Habeo, Habemus: Abed, Abimus.
Sed efttertius quoque modus, quum in fine clausulæ aut verlus longam breuemque
in differenti sono accipiturita, ut etiam prolongis breues habeantur: etfi
auribus suis aliter respondere, dixit Quintilianus. Ac de fecundomodo in
historia syllabarum scriptum satis est. de primo is mo autem sic agendum est. A, non eodem
semper apud græcos fuisse via the name detur fono: fiquidem Æolenses iplum pro,
Hypo fuere,vixa. contra, Iones pro eo, h, menyua. Ve- Inha rum mihi videtur apud
latinos eius literæ sem per idem sonus extitisse, qui etiam nunc auditur vulgo
Romæ. Atnon ficcæteræ. Namquee, latius sonat in aduerbio, Bene, quam in
aduerbio, Here: huius enim posteriorem vocalem exilius pronuntiabant, ita vt
etiam in maxime exilein tranfierit sonum, Heri. Id quod latius in multis quoque
patet:vt cum ab Eo, verbo, deducis Irc. Et in eodem casu. dicimus enim, et lis,
et Eis: ficut et “diis” et “deis”; “turrim” et “turrem”, “priore” et “priori”. Sicutiigitur
hæc inter se com mutabant, fic et v, cum eorum altero habuit af.2 " finitatem:
quod est animaduersum in illis vocibus, Optimus, Maximus, Monimentum. Quæ ni
hilominus etiam per v, scriberentur. Igiturha buit 1, vocalis sonos tres, suum
exilem alterum, latiorem, propioremque ipsi £, et tertium obscu riorem iplius
v.inter quæ duoy, Græcæ vocalis sonus continetur, ut non inconsulto Victorinus
ambiguam illam, quam adduximus vocem, per “Y”, scribendam esse putarit “Optymus”.
Quem so num etiam agnouere veteres græcæ prolatio nis,poft, 1, velv,
consonantes, et ante “D”, “M”, “R”, “T”, x,cuius rei exempla sint “video”,
“vim”, “virtus”, “vitium”, “vix”. Cæterum neque id nunc deprehendi mus ex vfu
noftro, neque illi afferre exemplum possunt, in quo “I” vocalis sequatur 1,
consonantem, ante eas literas quas in propofito apote 1. lesmate constituebant:
sed de v ; accipiendurte eft: cuius erunt exempla “iudex”, “iumentum”, “iuro”,
“iuturna”. Verum ante x, non habeas: ne que enim præpositio Iufta, per laanc duplicem
scribenda eft: et puto, si Iuro certum fibisonum habuit, Ius, quoque eundem habiturum.
Ne “V” que tamen semper codem sono profertur v, sed aliquando pleniore
obscuritate, quo modo vulgus italicum dicit “dux”. Interdum hiatu rotun diore,
vt in verbo Columna, et Alumnus. quidam sunt ex Umbra et Etruria qui propius o
ad ipfius o, accedunt mollitiem. Omnino autem latini cum græcos casus
verterent, consiteri coegere nos,fonos illos esse cognatos, au, Priamus. Quo
etiam modo nunc pronunciant romani. Quare, quod illi I lEds, noslu ba, Æoles
secuti, qui ou oux,wvvia dicebant. Ita que o, duplicem quoque fonum habuit:
latio rem, et exiliorem, ut cum ipfo y, conueniret. Productis enim labiis et
cohærentibus, “Y” est pronuntianda, quomodo gallorum quidam pro ferunt
aduerbium, Nunc. Graca enim vox est yuŰge. Sic etiam in multis aliis, quorum v,
breue est, ea prolatio feruari debet, ut Numa, w uãs: Romulus, puur G. Habet
igiturv, tot fo nos,exilein ipfius 1, latiorem ipsius o, obscurio rem fuum et
medium quendam ipfius y, Græcæ. Quamobrem cumfuum fonum feruare il li volebant
veteres, addebant o, ne in exilita tem illam Græcæ vocalis degeneraret: fic
enim scribebant, Oufentina: autor Feftus eft. Restat Ali etiam sonusalius, poft
G, et Q. et s, a superiori bus valde diuersus, implens scilicet confortan tium
illarum vim,Lingua,Aqua,Suadeo. quan quam poft fibilum hoc tertio exemplo etiam
a prioribus distet fane: auditur enim aliquantum, ac propius accedit ad
consonantis lineamenta'. In prioribusautem exemplis, aut nihil, aut vis
auditur: fed craffitudineñ quandam apponit duntaxat: aliter enim dicas Tingo,
aliter Tin guo. Germani noftrates pene per digamma Æolicam proferunt, fufpenfo
ipso 'c, parum per: Rhenani, et qui in Belgio funt, longe mollius, et fatis
Romane.' At Erasmus in libro pri de pronunciatione falso putauit v, eodem ino
dolubiiciipfi c, ficutet ipfit, in exemplo pro nominis cv I. eft enim ibi y,
vera vocalis: 1, au tem consonans, vt suo loco dictum eft.' Illud quoque igitur
falfum erit, quod veteres prodi dere v, cum pofta, velo,præcedit, aut E, aut 1,
aut 2, Græcæ vocalis.Y, vim obtinere ne que enim vllum sonum fimilem gerit. Si
eniin ita effet, Græci ipfinon tam laborarent: 'habe rent enim ad manus fuam
literam, et fcriberent KTINTOE, quod apud nos eft,Quintus. Sedip fi et
fcribunt, KONTOL et pronunciationem il lam nullo modoqueuntaffequi. Quemadmo
dum autem i, et v,fiantconfonantes,fuo loco dia ctum eft. Diphthongoru
quoq;ratio non constat:ho-cu's die nullam enim ex pronuciatu noftro percipias:
lego neque tamen fruftra inucetæ funt. verum non est nunc laborandum ; yt ora
distorqueantur, ad Bij. ciuf 1 i IvL. I. 1 ciusmodi explendam ambitionem. Satis
tamen $ ex constat, “Æ” proximam fuiffc Græcæ “AI” et oe, an vocaliv. Nam et Maros,
et Muros, legimus, AV, autem non vt nunc pronuntiant Itali, a quibus audias
sonos duarum explicatum, sed declinauit olim ado, quomodo Franci nunc re et
iffimey tuntur. Quorum siquis dicat Caurum, etiam Co rum audias. Græci nescio
an bene pronuncient: a quibus intelligas priorem vocalem:alteram au tem fono
fimiliore consonantis Æolicæ, Sic et WEY,iidem. Nosæquemale,atqueipfam av.Græ
cam vero oy,ridicule Galli pene per o,proferüt, them et ineptius adhucmagis cum
diphthongos diui dunt ac diffoluunt,earum vt fonus audiarur. Nec defucre qui
Græcam inueherent in Latinos, quo niam veteres licenunciabant,Terrai,Frugiferai.
Item alteram, EL, iis in vocibus sono tum e,tum 1, ederentur, vt Treis, Parte is:
Verum priscos vnica adidlitera contentos fuisse idem Nigidius autor est. ܀ quæ
vtriufuis Origo etcauffa,quare 1, etv, e
vocalibus faettæ fintconfonantes. Vanquam igitur mutantur soni, manet il lis
tamen priftinæ genus potestatis: at tam 1, quam v, penitus amiffa priori vi, in
aliam cefunt transmutata. Nam cum fequente vocali vellenteas pronunciare
difundim, fic, Viet or, Iųftus,fubist fane vocalis illa, ac præcedentismu tauit
vim. Quorum altero vt Græci carentsci, 12 licet 1, ita ipsum multæ nationes
retinuere hebraica, arabica, germanica, scythica, armeniea, illyrica. Quod
iccirco a Græcis factam non est, quia longiore femper tractu vterentur, in
pronunciando,ipfoque in hiatu confifterent: quod vel ex eo declaratur, fiquis
animaduertat la eam literam etiam ante vocales frequentisfime contra communem
cæterarum naturanaprodu ci: quare non potuit in alium sonum spurium degenerare.
At Latini paruo posito momento obToni gracilitatem facilimeinfubeuntem pro
ximam transiliere, vt non penitus abesset ab sono ipfius G, a qua tamen quantum
distet,** falo loco videbimus. Quemadmodum illud quo que, An Græci alteram
habeant: v, scilicet. ne que enim hîc de his cognofcere possumus ante, i quam
etipfius G, cui estı, proxima: et ipfarum 0, acPH, atque a naturam
perspexerimus. Hoc i igitur'iam agamus. Consonantium potestates. ACB; quidem
Græci hodicaliter,aliter pro «« nunciant Latini. Nam pressislabisLatini, at
Græci laxiore labro fuperiore, et inferiore ap plicato dentibus
fuperioribus;quanquam veteres Græcos non aliter, quam nos vtimur, vfos effe
palam est. Varro nanque cum noftrum balare, verbum magis commendat, quam
Græcorum peñdo, fane vtrunque fa ettitium a sono pecudum contendit: ostenditque
cos debuifle imitari. Biij. VOS??1P 22 AN vocem auis Balantis, vt Bínov, non
uñaov nomen įmponerent. Quod fi vt ipsi loquuntur nunc, nonvtnos proferimus,
olim pronuntiaffent, sic quali propemodum per Æolicum digairma, na recte
corrigeret eos Varro: nequeenim valant tace Semente pecudes,fed balant.
Vafconibusquoquehoc eft vitium peculiare, vt eo modo pronuncient B, quo et
Græcos dicimus. Itaque lusimus in cos epigrammate,vt eorum “vivere” “bibere” fit.
Con tra quædam nationes nimis crafse pronunciant per p, vt Puliam, praco quod
effedeberet, Bull lam, dicant. Multo diuerfior vsus est ipsius c, idque non
folum in diuerfis nationibus, fed etiam ipfa in I elktalia. Ac laneidem effe
noftrum c, quodGræco rum fitx,iam receptum est:explosaquecorû fen gêtia,qui
aliter autumarent. Tantaq magis Scau cow hari Grammatici, qui putarit nomina,
in quibusA, scamm secunda effet statim fede, perk, scribenda effe: fic:
Kalendæ, Karus. Etenim fi propterea fiat quod Kappa, nomen includit vocalem
illam, fa nenulla eiufmodi vocalisaddaturin contextu di et ionis: aut ca
consonans nulli præterea voci ab aliis vocalibus incipienti apponerur. Họcautem
falsum effe vel ipli oftendunt Græci. præterea ipfum c, eadem ratione non
apponeretur nis fequenti E, vt Cepe,cæterorumque elemen torum par item effet
ratio. Quin Kappa no men maius eft, quam quanta fit hæcpotestas, ad quam
arctare conatur ipsum.Aliiita censuere, em Græcis tantum vocibus attribuendam,
qui æ que falfi sunt. Etenim id fi verum esset, etiam Chremetem, per x, Græcum
scriberent. Quod sola afpiratione ab ipfok, distat. Nulla igitur ra tio
eft.Ipfius ergo sonus c, cum fit idem cu sono ipsius k, cauendum nobis maxime
est,neaddatur volan aspiratio ( id quod Thuscorum non paucifaciut: sed ii
frequentius, qui Arnum flumen accolunt) sed ficcissime eft pronunciandum,non
mucrone, sedlatiore parte linguæ interioris adducta ad pa latum,atque
aftrietta,vt quamtenuissimus quam que expeditissimus fonus transabeat. Galli
turer, alle piffimeper fibilum edunt: vtnon discernas, Cel-tali lamne, an
Sellam, audias. Germani noftrates non tam crasso sibilo: at Germani Belgæ, et
Hi spani,non aliter,quam galli Circumpadani, et Veneti, etFlaminii, et Ligures,
libilo tenuissimo, et balbo. Qui omnes redarguuntur eo, quod in fine di et
ionum Græcum seruari fonum fatis patet: ut Hic, Nec, Ac, Alec: nequeenim fi
bilo terminantur, fed in ficciorem sonum, qui apposita vocali debuit
perpetuari. Acquirit ta- Crayon men craffiorem sonum pro vocalium ratione:
çrassius enim dicas, Carus, Collum, Cuma, pro pter latiorum vocalium hiatum,
quam Cera, Cippus, propter exilitatem. Eandem inibimus imme "rationem
addita aspiratione, ut crațiusaliquan- lagimens to pronuncies zuers xep, quam
xew.xic. In tem diphthongos prout ad vocalium certarum sonum propius accedent.
Si autem “s”, præcedat se ipsum c, vulgo non audias: atqui yoluntcose mendare,
etiam ineptis conatibus vastant pro nunciationem,quamtu e Thuscorum consuetum
dinecommodiustemperabis. Şiini 4. 3 B iiij. Similima huic eft, atque adeo, vt
ineptiuf cule quidam eandem essecontenderent. " Galli nihilo fecius eam
proferunt, atque ipfum, at que etiam craffius, horumque imitatores Ligue res
Taurini.Qui vero caste atque integre in pro uincia verfantur
pronunciationis,includuntali quantum potestatis ipfius,v, sine quo ca de cauf
fa Q, nunquam scribitur. Non minor aliorum error, qui cum hujus vim fimilem
esse prode rent potestati ipfius C, male cauffam afsignarunt, menim propterea
quod mutuo inter se conuerterentur: hb w quoniam diceremus, “coquus”, “coci” et
Arcus, Arquites, et “cum”, “quum”, et Sequor, Secu tus. Etenim mutationis ratio
fallaciffima eft, Omittoflexionum terminationes, quibus in m, s,mutarividcas, “Titus”,
“Titum” et in D, “Paris”, “Paridis”. hoc enim factum sit discriminis gra tia in
cafibus. At pro R,s:pros, t,inuenias: appavy a coev, Jeasanos, Jetlonos. Non
igitur a muta tione, fed a fono ducendum eft argumentum. Sed neque, yt ex
Varronis authoritate conten r:Aldunt, e, erit a literis potius excludenda, quam
aliæ literæ quærendæ: Nam in elementis ita c uenit, quemadmodum in rebus: vt
plures ef sent foni, quam corum notæ. Quæ fuit cauffa, vt etiam diphthongos
comminiscerentur. Ita que frustra litigant, sıc: fi alia eft, ab ipfoc,
propterea quod v, fequente alium percipimus sonum: ergo erit G, quoque alia a seipfa,vel
cum necessario sequatur v, vel fi fortuito. Intelligo neceffario propter ipsam,
vt Lingua: fortui to, propter vocem, vt Ligus. Hic enim dicimus nos, consultius
quærendam aliam figu sam, ipfi, qua hanc capiamus potestatem, quam
prudentiffime inuentum, excluden dum. Fatemur enim,, aliud, atque aliud effo
non minus, quamipsum v, cum fequitur vel's vel g, aut alias consonantes.Non
erit igituridem cum c. Nam si sit: ergo alterum pro altero pona tur. idem
igitur erit et Qui, et Cui. cum tamen vtrunque sit monofyllabum: et alterum
clauda tur vocali, posterius autem consonante. in priore non audiatur secundi
sonus elementi, in altero autem audiatur. Neque vero potiffimus autor Catullus
initio statim pulcherrimi, ac diuini poc matis,fiçsçripfiffet, Peliaco quondamprognata
vertice pinus. neque enim idem fonat ac fi dicas, Peliaco collissurgitde
vertice. Eftautem lonusis et Græcis, et Gallis inimicus. Hispaninon femper,
Vascones semper, Itali fa cilime obseruant, Proximum ipfi c, est. Itaque Cneum
et Gneum,dicebant;fic Curgulionem et Gurgulio nem. appulfa enim ad palatum
lingua, modicello relicto interuallo,fpiritu tota pronunciatur. At Calabri,
etCampani, Vmbrigue, atquealiieius tractus, etiam fibilo cius fonum faciunt
craffio rem: Contra Flaminii., et extremaPicenorum pars, ac togata Gallia
versus z, vt quantum distat Lombardorum c,abipfoc, Thuscorum,tantum
Flaminiorum, ab ipfog, aliorum: medio inter vtrofque nos proferimus rectiffime.
D, tam Græci, quam Vascones, atqueetiam B V Ara G I Iul. I. Arabesaspiratius
pronunciant, subdita fcilicet, dentibus lingua. Nos ficcius, vix appofita ac ce
T'leriterabduđa. Huic affinis est t,pertinaciusap $ pulla lingua.at Græca cu
his coniun ettae,non ve Galli proferunt,excito degutture fpiritu craffio re,fed
vt Græciipfi interpofito fuauiore flatu sub ieet a lingualaxiorespatio
dentibus, quamin D. F, PH, V, quum est consonans, tressonos, fuum quæque
edunt:fed ita,vt et cõgeneresintelligas, et non vnu. Acdigamma quidem Æolicu,
quod noftrum eftv, ab ipfa differre palam eft. Æoles enim, qui haberent, etiam
digammaquæli gere. Ita f,ab ipfo o, distare videamus, cum ante F,, ponamus N,
atante, et PH, noftrum pona musM. etM. Tullius irrisit Græcum testem, qui
primam literam Fundanir, nesciret exprimere. Itaque no defucre, qui Phamam, quam
Famam fcribere mallent, propterea quod Græca effet $***vox. Puto autem fuisse
F, validiflimum aftrieta fuperioribus dentibus labio inferiore. Mox sequi,
dilutiore vi. Quo more etiam in præ fentia vtuntur Græci ipsi. Tertio
locomollifli mum v, quomodo nunc quoque dicimus, aut non multo attentius. Par
enim eft: vt retincat etiamnum quippiam veteris vocalis, vnde or tum
habuit.Quare notat Viętorinus fic fcriptum inueniffe, Seras: quasi duplicis wv,
nota elet,ve SERVVS, diceretur. Sed multamarmora barban, riffima fuere
innouantibus.posteris in veterum? ram contemptum. Quod autem aiunt v,femper
effe fimplicem, nunquam duplicem consonantem, fiuein principio, liucin medio
fit: et ipfis habere debeemus fidem, qui tucincorruptas pronuncia: di
tenebantleges: et facit ad id, quod statuebamus mollifimofono esse. Quod fi
quis obiiciat, præ terițum Audiui, dịcamusmediam fyllabam illam sua, non
consonantis natura produci: fic enim 1- Audire,ficOuum quoniam av. Itaque non
pro, duxit primam in Que,quoniã non potuit: fuerat enim, šis. quaresonus no
fuit multus interpofitæ. L, geminant atque aspirant etiam cum solum er
est,Gabali,Aruerni, et Ligures Taurinilocisali o quot. cotra nostrum vulgus vix
adducipoteft, vt geminent.Græcinuncsic pronuciant, vt aliquid et aliud intelligas,
quali fuccedati, consonans ipfi 1, etsequente præeat vocalem:qua pronuciatia.
ņem audias hodie apud Thuscos, quum dicunta ! Gli: et apud Vascones, quum
postpanunt aspira tionem:apudHispanos,quu geminant.Sicigitur sebep
Græcus,xinasa: Tuscus,Agliada: Vasco,Alhada.. Hispanus. Allada:omnesæquemale,fi
ad Latini, tatem sofe conferant. Sed Græcis hoc corrupte dici puto. Quin
veteres obseruabant exiliuseffe 46 quum geminaretur, Mella: plenius quum finit
fyllabam, aut ante sein eadem syllaba habet cona sonanțem,vt Sol, Flavius:medio
sono esse,quum inchoat,vtLux, Cælius, Huicaliquo modo similis estr,fed
longinqua com tamen: codeenim oris modo editur. Sed vda est “L” at R,
spirituosa: illa simplicifertur tra ettu,hæc vibratur. Itaque ob ea
vibrationeaspirationeaca cepit a Græcis,exit enim quasi bulliente voce.A
pudnostrate vulgus vix duplicata vsquam audias, Quidă distenta acrigida lingua
ignauius efferüt. Inma IvL. LIB.‘L minne Inm,nullam vocem Græciaterminauit: Bar
baris,nobisquc modusnullus.Tres sonos habere animaduerterunt: craffiffimum in
principio,mi nimum in medio, mediocrem in fine. Sitom nium vnicum
exemplam,Mimum: et figemina ta mutatur, Mammam. Initio enim collecta Vox
adinteriora narium, mugit;in medio penitus fal lit,obsessa scilicet ac ftipata
vocalibus: in fine au ditur mediocriter,abeunteiam voce: etquum ge minatur,
prior implet aures etiamnum magis, quam quum est in fine di et ionis. Eft et
aliusro nus quum terminat diettionem,et altera di ettio fe qyens incipita
vocali: vt, Equidem cgo:neque e Barcnim aut Galli,autLombardireettetum
proferut: ita enim proferunt, vt firiem alterius cum initio sequentis
coniungant. Nos mediocri sono, et fa nedimidiato,vt intelligas, fi voles,
poffeelidi: percipiasque differentiam si dicas Multum ille: et, Multaille. neque
enim totum fonum abolebant: neque enim intelligeres,sitne,Multum, an Mul ta,an
Multi, an Multæ,anMulto, an Multam, Ita quelibato tantum sono, ftatim transabit
yox, et in fubeuntem sese dat. * Nabm, differt gracilitate: claufo enim ore, et
effufofono in nares m conformatur: at N, aperto ore, etlingua in palatum
repercutiente vocem. BriffSplendidiflimo sono estin fine, et fubtremulo,
pleniore in principiis,mediocriin medio, Nino. præcedes aüt feipfum penedimidio
minor eft: vt Brenus, etfequete,vel c, fiue exili, fiue aspirato, longe
adhucmutilatior,Ancile, Angustum, An çhora. ita vero, yt etiam diuersam literam
puta BE rent: nec dignarentur vulgari figura,sed aliam · quærerent,
exemploGræcoru: qui vtaliam often derent,inepte alienifsimi soni figura substituere,
ipfius fcilicecr. Hæcigitur cum G,aut c, præcedi tur: atquum pręceduntipfum
N,optime aGræcis i pronunciatur. Redea Germanis, a Gallismale: fic enim
proferunt, vt nihilinterfit,vtrum dicas, Magnus, an Mannus. Itali hoc
committuntinn, quod Græciin 1, suo:vt nescio quid fpuriiinue xerint, quod
literis exprimi nonpoffit. Videntur cnim omittereipsum G, et aspirare ipsum n:
ficuti Infulani Græci faciunt vulgo, fequenter, aut II, autor, auty.Nam
Bysantios ego ita loquentes audiui,vt nos pronuntiamus. S,facitima omniu
literaru, neq; enim sineipfa eflare posfimus. Quare non estmeritavt a Pin daro
diceretur Lavxibdynor. Dionysius quoq; ca Rygenerosissimam vocat,at ipfums,
expellit,re-, ïcitg; ad serpentes, maluit canem irritatam imi tari, quam
arborum naturales susurros sequi. Pro nunciada vero eft mafculo ac coftanti
tenore, no dimidiato, vt Itali, etGalli, quiper z,proferunt. Idem.n.sonus eftin
Misi,qui in Miffus:sed duplo maior: non cftigitur alia vis, sed
duplicata:distat enim no substantia, sed quantitate. Itaqueipfum x,Latinum male
pronuntiant, præsertim Itali in Flaminia, vt parum distet az. Quin iidem
pessimo consilio atque vsu adduntiņ pronunciationc, posts,in quoddesinat diet
io, et postx. AnT fempercodem fit fono. Acde C de literarum quidem potestatibus
hæc Quonia autê quæda funt controuerfæ, eas seorsum tra et arecommodius visum
est nobis. As primum quidem de t.Eius,vt diximus, fonus fit Vam appulla lingua
ad radices dentium quemsonum apudGræcos receptum est variare cum fequitur N, vt
ANTONINO 2. emollitur e nim atqueaccedit ad D, noftrum. Eius rei caufla eft,
quiafufpeditur pronuciatio in ipfon, ad pa latum, vt lingua non ita cito
demittaturad deti tes: ita potius D,quam T.exprimitur.Sicetiam no 2 tam plene
efferatur, quum lequituripfum, Al tus. Ergo quum non semper eodemsono vsuisit;
At ayon quæsitum eft, quum præcedit vocalem Ì, atque hanc alia fequitur
vocalis, an recte cõsuetudo te neat, vt aut Galliper integrum libilum, aut
Itali per dimidiatum edant: vt in exemplis, Iustitia, bo Amicitia. Igitur quimutari
contendunt,nitun tur consuetudine, ac præterea Grammatico rum quorundam
autoritate, qui Litium, et vi tium, obliquos a Lite, et vite, finefibilo iubent
pronunciari, vt a rectis duobus Vitius, et Li. cium differant. Vtuntur præterea
argumento de Græcis fumpto: Nam fiillini, suum in 8, fo ni fleatunt polt m: fi
apud cofdem r, esttransa aliud formatur: li denique t,ipsum apud Græcoś poft
Nfonum mutata poterit et hic mutare. Poterant etiam fubtilius addere: fic, et
Ć, crassius ante A, 0, v: exilius ante e, et 1, editur: eodem modo Con etiam t.
Contra aliqui ita sentiunt,vsum nunc minimi esse et precii ; et autoritatis,
multaque 2 > mini 31 ud 4 ). 100 ! 4 minimeintegra haberi.M.quoque Tullium,
cum vsui quidda dedit,id iccirco fecisse, quoniã apud populum dicebat quem sibi
attentum,non recla mantem volebat: atquenihilominus sibi scien tia reseruaffe.
Neque enim, quæ barbaries admi fit,foueda: fed quæ omisit vindicada. Neque nuc
extare vfum quempia nobis: Barbaros enim om nes esse nos:atque,vtminimum dicant,
peregrinos. Consuetudine,quæ legem habeatreclaman tem,corruptelam effe,non
confuetudinem.Non jü, negare fese tenuiorem esse sonum ipfius T, ante 1,quam
ante A, auto: sed eundem tamen fonum. effe. Nunc vero nullam effe rationem,
quare in fibilum transeat: neque proba esse argumenta superiora. Consonantes
enima sequenti vocali au mai nullas mutari, fed a præcedentibus consonanti
bus,aut a fequentibus ob sonorum diffimilitudi nem.ficutilonicrassitie quæ in
B, et P,fit,effici venjin M, mutetur. Græcos quoque habuiffe au tores linguæ
noftræ nos, quinihileiusmodicom autto menti fint: sed a Gotthis,Vandalis,
Longobardis. inuectum sibilum illum. Præterea pudere vehe menter debere
illosquiquum alios veniuntop pugnatum, ipfi vitiofa arma afferunt; quorum culpa
conuincantur. Licium enim a ligando di et um Gcutet Lictorem, nõ iisdem literis
quibus obliqui huius vocis, Lis,scribuntur,scribi.Ratio nem autem huius
prauitatis esse, propterea quod Barbari omni in pronunciatione multum po nunt
spiritus,ita vt pleraque insibilum degenen rent necessario. Quoerrore ctiam
ipfum c,dixi mus ab ipfispronunciari.Hy 1 ma:: ) • 32 IvL. Cas. Scal. I.
Cenice. De I, confonante. Consonantem 1, semper in principio fimpli cem effe
obferuarunt: in medio autem non femper duplicem: nam in Periurus, simplex eft,
in aliis autem multis pro duplici accipitur: Maius, Pompeius. Adducunt
argumentum ab antiqua scriptura, pergeminum enim 11, scribebantur, Mailus,
Pompeilus, quoru prius priorem claudat fyllabam: quomodo etiamnuncquidam pronun
ciant Lombardi: fic etiam, vt supra di et um eft, claudit tertium casum
relatiui Cui: alterum au tem sequens fequentem inchoabat. Igiturnoso lum
quumincipit ab eo fyllaba,vt dixere,confo nanserit:sed etiam,quod omisere,quum
termi nabit,esse possit. Quin etiam fequenteconfona. te vtin pronomine
Huic.neq; enim v. hic est co fonans,afpiratur.ni.neque est diphthongus, et eft
monofyllabum, atqueidem Iest, quodpriusfuit in fecundo casu,Huius,sicut in
Cuiest,quod erat in Cuius. Ad hanc autem naturam non potuit v, aspirare, sed
transiit in pleniorem, scilicetin B, celebs. neque enim temere a cælo et vita
dedu xitCaius,minimemeritushoc,qui a Quintiliano notaretur:sed
sibilussequensincausa fuit:quem admodum e cotrario in eiussonum aliquemmu
tatumeftipsum B, Aufero,Abstuli.Proprium au Filipotem eft ipfius Inconfonantis,
in pristinam vocalis care formam redigi: etaugere numerum fyllabarum. Hocque
communehabet cum v,consonante,vt diximus. Martialis verfus eft: sed Tum rum.
Sed norunt cuiseruient. Leones. Ftin obfcæno farmine ita pofitü eft: fed
detestadu nõ meruitre citari.In Virgiliano auteversu etiã omissum est,
Tityrepascentes a fluminereice tapellas. Fecit enim verbum illud Tribachum
extrita A, quæ fueritin origine simplici, lacio. qua sublata, neceffario in
veterem vocalis naturam reftitu tum fuit I, quo exemplo etiam in Bilugo, et
Quadrisugo,idem euenit. Non recte igitur an- Rajce tiqui,cum Reilce,ita legunt,
vt primam cor - quab. pripiant, ftatuuntque i, simplicem ibi consonan tem effe:
redarguutur enim quum aliorum, tum ciufdem poetæ autoritatee tertio Georgicon,
v rad bi producitur illa fyllaba:consonantis igitur ra com tione duplicis,nam
fuapte natura breuiseft: Rejcene maculis infufcet vellera pullis. die Inuenias
etiam, quumnatura media quasi quali dam sit inter consonantem, et
vocalem:legimus enim Stellio apud poetam bisyllabum, et apud Terentium Iniuria,
trisyllabum:item Oppressio, et Beneficio, quadrisyllabum, aliaque talia ple
taque,oppresso sono ipfius I, ficut etiam in voce illa Dies,facta monofyllaba.
Accidit autem hoc aliis quoq; vocalibus. Ea, Mea, Tua,Sua, mono fyllaba apud
eosdem comiços facere cogimur: et apud alios poetas: Unoeodemque tulit partu.
Et Propertium: Eofdemhabuit fecum, quibusest elata, capillosa I,indifferens eft
nunc consonans, nunc vocalis apud Comicos in aduerbio, lam. 7 tona cel us TlUSE
hodk OIL CA a di pleine ma VOC CAP. XIII. Affeettus finalisapoteftate. с Quo
ante 34 IYL. 1. Q Voniam vero literarum finis eft, constitues rediet
ioncs,iccirco secundum earum pote ftatem factum eft, vt certis
significationibus aliæ Sparemmaliis potius seruirent:in metu enim,ac doloreef
flamus:itaque A,A, dictum est,multum enim hi atum præstat:eadem decauffa,etiam
afpirationes interie et ionib.afcitæ funt, affe ettum enim notat, confertus
enim fpiritus editur. Ita consonantib. fietitia nomina suis quæque facta
sunt.Quid.n. mollius,quam vox ipla hoc significans:quid im peditius,quam
Bambalio, habes, et Baubare? paffiua voca quum protulit Lucretius, etiam plus
tumultusexcitauit, Baubantur.s, valde fer, uit ad spiritus elifionem: -
Salefaxa fonabant. R,autem rudiotem atquo asperiorem, vtMurmur. vtrunque coniun
et tum implent valde, Stridere. et magis cum terminant diâionem, Stridor.
Aspiratæ consonantes mul to acrius vrgent his adiunctæ, Fragor.quippe er tiam molliffimam
omnium literarum etiam ex asperant, orcio6os, Praw,za01@ {w.Cyseruit hæfi.
tantiæ. T, timori, AT, AT. M, vafticati, Malum, Mons, Mirum. etiam fonumipfum
audias,quafi præsentem, in quibusdam vocibus,nízze. et apud. Virgilium cuius
diligentiam non affectatam, ac diuinum iudicium nemo est affequutus omni um
ynquampoetarum: percipies enim lignato rum operamillis vocibus: --fonat i£ta
fecuribus ilex.etillud quantumeft --tremitietibus area puppis. Illa autem etiam
cum naui dilabuntur. Labitur vnela vadis abies.- $ R 1 Tinni. 35 o Tinnitui
fefe datn, Canere,Hinnire.Sed omnia exequi non eft præfentisoperæ, nequein omni
u bus hoc inuenias: fortuitæ enim multæ funt vo ces;vtin yltimo libro est
disputatum. Vitia potestatum allata vocalibus, aut confonantibus. TOn solum id,
quod recteatque ex officio fa ciundum eft,cognoscere oportet,fed etiam quod
prauum est cauere: ita in scientiis quoque perfeette proficimus. Ergo postqua
meras pote fates perscrutati sumus; ipsa quoquevitia, quæ vitemus ex antiquoru
obseruatione, fed moreno fro,hoc est,Peripatetico,sunt declaranda.Depra queste
uantur aut vocales, aut consonantes singulæ,aut coniunctæ. Omneautem vitium fit
autDefcctu, aut Excessu, autMutatione.Mutatio duplex,aut i literarum, aut
locorum. Ita fit peccatum,aut in ubstantia, cum altera pro altera ponitur: aut
in quantitate,cum maior,minorve efficitur: autin i qualitate, cumsono suo
defraudatur, detorque E turq.in degenerē,aut peregrinū:autin loco, cum
trasfertur,vt odayavor, Ox'oryavov.Igitur cum alia spalia subditur,quod
faciuntParisienses,comuni » nomine, non proprio,Rusticitatem veteres Lati
ni,Barbariem Græciappellarunt. In quantitate autem error per excessum,
Labdacismus: cum *** craffius ponitur, ýt diximus, L Locus, pro Low e cus: fic
Metacismus, cum m, mugiunt:fiçin voca libus Platyasmus, quum hiatu vasto
putantgraui tatem afferri actioni.Huius eftgeneris etiã,lota cismus.cum ipsū I,
exiliter maximeproferüt:atq; C2 21 ed CO ita,vtetiam fupercilia collat: eftenim
exceffus in Sono:ac quanquam exilitas sit defectus,tameetiã defeetus capit
incremetu. Sic cu alias cosonantes aspirant,aut crassius edunt,dicitur Saouras,
Cra tes,pro Grates: Bibo, pro Viuo,aut etiam 'Fifo,, sic etproillo, Pipo.
Contraria huic io xorysscum defectu peccamus: fice,et o, exiliter nimis pro
munciant quidam Germani,quum tamen 1, ver fus et.deuoluant. Eftautem excessuset
ille, quum addunt literarn, quemadmodum E,addunt Hil pani,et Valconesipfis, fi
coniunctum fir, Escri bere, Esperare,Estare:vt vitarens overyuov; quod vitiuni
est cum ipfum s, craffisfimum, ac pene fibilantcs cdimus. Eftetiam in
defectu,kond6Wocy id eft,mutilatio, quum aliquid omittimus: quod Galli faciunt,
qui multas literas inculcant, vto riginem, vnde deprauatum eft verbum, repræ
fentent: paucas autem exprimunt. Contra est Battologia,quiet Battarismus, a
Barto, qui Cy renas condidit,hominelinguæ impeditioris.Ge minant enim aut
initia, fic, Popons pro Pons. aut fines, Paulala, pro Paula. hoc etiam dicitur
jyros, et nouos ab Echo.Vitium autem initio rum vocaturab Erafino Titubantia:commodius
Hälitantiam dicastu: hærent enim primæ fta tim consonanti: falso ab eodem
rsauriouds.qua-, imf litatisenim vitium eft tecunotu-,fiuc osaurouess cum
cauts,non quimus recte efferre:sicutnob. femper defuit linguaadipfius R,
asperitatem. hi Latine Balbi diet ifunt: quo vitio laborauit Ari ftoteles. Et
Alcibiadcs qui R,in L, detorquebat quanquain substantia poffis etia peccata
dicere. X v. UN 10 =2 Sed hi Balbi ab Erasmo male appellantur Blæsi. Eft.n.
Blæsıtas vitium oris, ficut et Xo11o5ouía: sed blæsidiftorquet literas,exoris
tortura: xoirosopoz aute e palato loquuntur aut e naribus. Brasoos au tēet
wbos, funt vitia cruru distortoru, valgiorum etvacciorum, vt apud Galenum
videreelt. СА Ртт Vtrum F,fimula, aniemiuoralis. Poftquam vidimus poteftatem,quæ
eftforma dicare iarn poterimus F, mutane sit, an semiuoca lis: sic enim Galenus
quoque tlw zeciarpriorem mol Toćnepyeżą dicit. Ac mutam quidem effe, veteres
med at ficpote contendunt: Principio,inquiunt,nome ! habet tantum semiuocalis,
at noinen non mutat fubftantiam: Item si esset semiuocalis, di ettionem 2.. į
quampiam clauderet, at nullam claudit: Præte-, 1:a reanullasemiuocalis ante I,
aut R, in eadem fyl- **** laba ponipoteft,fed f,ponitur. Quarto,nulla se - t
miuocalis ante L, aut R, pofita communem facit fyllabam,at F,facit.Ad hæc,
Græcisidem esto, 95 nobis F: fed o apud illosmuta est:igitur et apud nos F.
Sextum argumentum, præteritorum ini tia finesque non geminari nisi a muta
incipiant: quare cum Fallo geminetfic, Fefelli, non erit femiuocalis. Poftremo
F, pro p, et aspiratione acy cipitur,vt olim Phuga, Phama:at P,mutaeft: igi tur
et F. Hæcargumenta fepte numero, vtqualia sint videamus,meinoria eft
repetendum, quod fupra diet umeft:Murasnon inde appellatas, quod pa-ssou rum
sonarent,fed quod nihilnullo: cnim conatuta? ad 11 باز C3 38 IVL. I.
adduciqueas, vt B, nulla addita vocali proferas. Neque quod pro ratione
adducunt,ratio est:Mu » liere informediettã,pro deformi: est. n. in eo voca
bulo, Forma,çquiuoca vox: Nam et prospecicac cipitur, et procerta partium
proportione, quib. figura constituitur perfe et ior. Hanc igitur negat
præpofitio non illa. Sic formosu, a formato aliud eit:fic locutus eit
Euripides: 1īpötov refieidas dēžiov Tupevvidos, Açmutæ nomen penitusvocem
tollit, Græcoru fane imitatione, qui d Owe,nõlvoQwva dixere: nό κακόφωνα, non
μικρόφωνα, quonia nul lam fibi retinerent vocem. Ea enim funt natura, yt magna
pars, nisi clausis labiis, aur dentibus, aut vtrinque conformentur, vox edi
nequeat: Idque declarat Mato quoque in Theæteto: αι βήτα,inquit, 'τε
Φωνη,δεψάφος, επ των πλείσων stani hysoig eiw. Semiuocales autem fclo eduntur
fpiri metodentu:adducta nanque ad palatum,vti diximus,lin gua solo fpiritu
pronuciatur:tremula,atquevi brata paulo inferius, R: si spiritus ad nares af cendat
introrsum, vt idem vult Plato in Craty lo, n, pronūciatur: fimplici mugitu
editurm: i. psum vero fibilum, fatis constat,nullius ope vo calis indigere',
quare factum est,vt etiam afpira tionis loco poneretur, leos, sedes. Ex quibus
in fumma illud constat, spiritu pene solo enunciari semiuocales, ficut vocales
fane solo, a quibus hoc illæ differant: quoniam vocales hiatu simplici,
ferniuocales operosiuscula efflatione pronun çiențur, mutę nulla.Hanc autem
horum nominū aptissimam cauffam,noftręscientię magistra au toritas Græcorum
ostcdit, Nasi propterea essent semiuocales, quodincipiant a vocalibus: pfe et o
cum a vocalibus non incipiant apud Græcosea rum nomina, non erut semiuocales.
Igitur Lati ni priscicum animaduerterent P,quiděnullu pe nitus habere fonu,
nifi vocalis addatur:addita ve ro aspiratione,haberevel maximum, intellexere:
quippeinferioribus dentibus ad labia leniter ap: plicatis exiens spiritus,
libilum imitatus, ipsius F, imaginereddidit:quo fa et um eft, yt propter:oni
sui facilitate, obiret plerunque munera, quæipli s,debebantur. Id quod ite
agnofcimus in semiuo calibus: Siquidē paspiratione quoq.positüfuit,,, vt
Felena, pro Helena. Atque iccirco etiam, etx, a Græcis semiuocalium in numerü
suntre latæ: quarum tamen tenues essent mutæ. Aspira tio enim tenuium literarum
naturam animarat ita, vt nullius indigensadiumentisonusappofi tusin aliam
speciem ad sese traheret. Eft enim aspiratio quali vocalis quædam, aut etiam vo
calium anima ipfa: quare mutæ appofita femisse consonantis illi reliquit, alterum
semissem fibi vindicauit, vnde et semiuocaliu nomē fit fecutu. Soluuntur ex his
argumenta: Ac primum ato afferuntnon debere vim a nomine mutari: tantu ”,
abest,vt, negemus vt affeuerem antiquos ppen sa huiusliteræ potestate,
summostudio nomen, quod a Græcis acceperant,inuertisse:ídque indi diffe fecudum
vim,quä сompertam habuere. Ne que talem putaffe, quia ficappellaretur: sed no.
men impofitum propterea,quod talis effet, Aduerfus secundu argumentu:negamus
necef Atz fe efle,omnia nomina omnib.claudi lemiuocalib, Neque vero re ette fic
cosargumetari: Cæteræfe miuocales claudunt nomina:igitur fi F, est semi
uocalis,clandereitem debet. Neque.n. dictiones efficiunt vt litcræ semiuocaliu
aut mutarum natu ra foitiantur: fcd literæ faciuntvtdictiones fint: partes cnim
totius caufla funt. Neque fiquali tcra non claudat continuo no fit
femiuocalis.Sed caregula constituta eft abijs, qui hanc mutam pu tab-it effe.
Præterea hoc eodem argumento a mutis excludam: Cæterarum pleræque mutæ claudunt
Lac, Adad, Volup,Caput:at F non clau dit: non estigitur muta. Quid, quod
priscorum testimonia aduerfantur neganţibus nomina clau di ipfok.nam vt omitta
eos ysosesseAf pae præ politione: ipfius sane literæ nomen suo libifono F,
claufere,etia cotra quam a Gręcis acccpiffent, * Tertia ratio negabat vllam
semiuocalem ante I aut r in eadem fyllaba ponipolle. At hoc tibi negamus nos:
quis enim hoc fibi persuasit, nifi quimutam putaret F? petitigitur,quod proba
re debet. Sed et hoc falsum est: scmiuocales enim Græcianteposucre Sadw zepce,
Quartü argumentu quo aiunt,Nulla femiuo #calem antelet R pofitam cfficere
syllabam com * muneridiculum est.Si nanquefuperius argume tuin verum eft,hoc
erit falsum: hoc.n.abilio tolli tur, nam et ibinegabant,nunchicponunt. Quo
eniin modo communem fyllabam efficit, quæ ne syllabam quidem facit? Quid? li
femiyocalis fa çilitas in cauffa eft,vtmutæ postposita, mora tain pofilla
trahatur in fyllaba, vt etiam corripi por tiç, in qua tamen muta sit; quanto
aptius atque comin commodius id inter duas semiuocales fiat? Mu tarum enim
rationeminimefiericonstat: liqui dem vbi duæ funt mutæ,non id euenit, vtin ver
bo, Tracto,quod natura sua dibrachum eft. Sed v bi muta cumsemiuocali vtin
verbo, Agrum. aut duæ feruiuocales, vt in verbo ourvui. Quintam rationem, ex iis,
quæ diximus,solu-,Asy tam videmus:?,nanquesemiuocalis eit,immuta: ta ipsius P,
per spiritum potestate. Sicut etiam, etx, cum tamen T, et K, mutæ fint, vt
diceba mus. Quoinstitutoinalias quoque species eædē mutanturmutæ. Addito enim
sibilo ipfis C, D, P, fiunt semiuocales, præfertim cum fateantur ip: fius Y,
quam ipforum Ps ; esse sonum faciliorem. Sexta obiectio seipsam damnat: nam
sumpta regula hac, Non geminari præterita, nisiid per 486 mutas fiat: cocludit
per, Fefello,mytam esse F, cu tamen inueniamus,Šteti,Spopondi,Scicidi, quæ
incipiunt a semiuocali. Nequevero ad id confu giendum eft, vts, nullam ibivim
habere dica mus: liquidem eius sibili tanta est vis, etiam ipsis in præteritis
Græcis,a quibus hic fluxit mos,at- p? que adeo in verborum initiis ita viget,
vtiplam impediat geminationem s« {wěscexd.Atlis,nul lum erat,vtique eo
abiectogeminatio admiffa fuisset. Sed quid agunt hi? nonne Momordi,ge minauit?
quid enim aliud eftm, hic dicere,mutæ vice fungi, vt aiuntipfi ;quam dicerem,
mutam non esse sed semiuocalem? Quæ quia diruebat i sum canonem, ad mutæ
functiones,atqucvices eos miserrime compulit. Quaresi eis neges verű effeillud
apotelesma,probandum erit ea ratione: quia CS 42 Ivl. I. > quia non admittit
femiuocales. At ego contra, non folum Momordi, hoc obiiciam: fed illud ip fum
etiam, Fefelli. Igiturid, per quod probauit, maiore estin controuersia, quam
hoc,quod quæ rimus: vt omittamus Græcorum et prudentiam, etinstitutum, a quibus
morem noftrum induxi. mus, quiσε σηπε, dicunt, et λέλαπε, et μέμηνε, et vevu
qe, atque alia eiusmodi. puerile enim est abducere a geminandi poteftate
semiuocales, mutífque alperioribus attribuere: cum aspe riores literæ
prohibcant in quibusdam gemi nationem. AlyPoftrema pertinacia,vtcum quinta
cohæret, ita cum illa quoque foluitur spiritu mutatum, in F, etmutatam fpeciem,
argumento etiam ip se ordo eft coniun et arum in diet tionibus: quippe ipsum
r., ante senon patitur N: at F, patitur, ita vt etiam ipsum m, in fe mutet,
Anfractus, erate nim AM, abuol. Ludicrum quiddam additum ne res quidem meretur,
vt diluamus: Audentenim fingere mo som dum nescio quem,vndeF,geminetur:scilicet
per albumutationem:vt Offendo.at semiuocales non per, mutationcm, fed fuapte
natura geminari, Olla, Flamma, Ennius, etalia. Quafi verointerfit po testatis
per mutationemne,an per naturam gemi netur: geminatur enim, quia eius natura
ita fert. Quali vero non cæteræ quoq.mutægeminentur: Obba, Acca, Reddo,
luppiter, Rettulit: qua fi vero ipsum quoque F, non idem patiatur, Offa. Quafi
vero omnibus femiuocalibus idem eueniat ylu: Non enim duplicibus, Quali vero E
half somewea la veteres vllam consonantem geminarint. Hoc enim negat cum
Feftus, tum Varro: et ta men eo quoque tempore et mutæ erant, et fe miuocales. Viram,,
an, H, fit longior, O Vanquam 2, et, Græcæ funt:tamen quią nostratium dietionum
aliquæ ab illis profe ettæ, harum vocalium femina retinent: feftiua, nobis
quæstio tractanda eft, vtra scilicet longior 9 fit. Duas fententias
constituamus: alteram ab origine, philofophice: alteram ab focietate, mathematice.
Aborigine, fic: Quæ proportion | materiæ ad alterius proportionem, eadem et
compositiad compositum: sed e, est materia ip * fush: et o, ipfius i: ergo fi
o, est longius quam E, ita, quamH. Quod autem o, lit longius, quam e,
probantper regulam: Quinti cafus fyl.: labam vltimam aut eandem effe cum
poftrema - Reetti fyllaba, aut minorem. Igitur wioge, cum non siteadem cum
nogos, minor erit. Ratioau, tem Mathematicaestcontra hanc,a proportio- oefening
I ne societatis: Quæ est proportio totiusad to en tum, eadem est partium ad
partes: fi æqualia in æqualibusdemas, quæremanent, sunt inæqua [ lia:Ergo cum
ei, diphthongus sit longior quam 01: exempta vtrobiques, communi vocali; erit:
quod remanet E,longiusquamo. Quod autem F1, sit longior quam oIs patet
ex'accentu. Nam.p fine polyra Er, nunquam aut antepenultima acuetur,
autpenultimacircumfleet etur:at fi o 1, sitin fine,vtrunque fiet. oixos,
Pinorogol, Afferre etiam illud poffumus,E, ante L, apud Homerum
produetumaliquando,uenwserwera. O autem nu quam: repugnat enim naturæ eius
productio. Sole Hæcargumenta etsi sunt magis exercitatoria, quam
neceffaria:tamen etiam pertinent ad veri tatem:neque enim illud Quintiliani
recipiendu eft: Grammatico expedire etiam fi quædam ne sciat. Nam quem tandem
ille fingite quadriuio extra encyclopædian? Dicamusigitur, e, esse breuius,
quam o,plus enimtemporisin hac poni zur proferenda.Diphthogorum autem obie et
tio illa nulla eft. Nemoenim ignorat, A, esse longius, 1 quam o, ettamen idem
eucnit ipsi a i,quodipfi * 01, eucnire dicebant, pofita enim in fineacuitur
antepenultima. Præterea eidem o 1, non id con tingit femper:non enim Aduerbiis,
non Optati uis, cikol, a novo.Et in fecundo libro vsus is repro batus eft: nam
si iccirco non acuitur antepenulti ma, cum poftremaeft longa, quia refolui
potest: igitur accentus acutus in quartam a fine recipere tur: quod eft
absurdum: fic, turlygues participio fæminino in quarto cafu: idem monstrum se
quetur etiam si penultima longa resoluatur, fic 3uTlx00, Nec tamen ad id
refpexere. Vfustamen Atticorum, fiaccentu rem metiare, huic fenten tiæ
aduerfatur, et fauet priori: dicunt enim, μενέλεως. Locorum affe et u a
poteftatibus inueftigantur. Hacferefunt poteftates cuiusque fonifin gulares: ex
quibus fi quid præterea in me dium afferatur, pofsit tolli controversia. Neque
enim optimi artificis est ( vt ait Galenus) omnia persequi. Nunc fecundum loca
sedes cuiquede- Loui bitas videamus.estenim potestatispars, comitem aut vicinam
literam aut pati,aut nonpati.Igitur efftemed 7 literx'aut funt in dictionibus,
aut no funt. Ti sunt, patiuntur mutationem aut in substantia, autin loco. In
substantia bifariam: nanque autabolen tur a principio,amedio,a fine.Sic nomina
triain uenta sunt, Aphæresis,Latineablatio:Syncope, Latine concilio:Apocope,
Latine abscisso.Aut. transmutaturin aliam,Græce,uel Gonne Patiun 1. turin loco.
Latinetranslatio, Græce MetJ8075, transpositio. Si non funt,addunt,
autprincipiis, Desaters, Latine appolitio: autmediis,ervers Latine
interpositio:autfini, Græci dixerunt hac abgerywoles, productionem. Hæc funt
genera. Species autem, fic:Nartque aut sunteiusdem no tæ, et
poteftatis,autdiuerfæ. Item a numero:vna, aut plures, Affectus autem non
omnibus iidem, aut æquales:neque enim eiusdem generis conso aans aut
principiis,aut finibus additur:nequedu ptices geminantur, vt nunc
vsurpantItali,vt ex primant vitia linguæ degeneris a Latina:ponunt enim
duplexzz. Acciduntautem hæc; aut ex v- Aca " fu:vt quafe, quafi: aut ex
arte, et hocautex infle xione:vt, ago,egi:aut ex deductionc, et hîc bifa
siam:naaut a peregrina,vtPatroclus, margoxiosa Auo, 31 Space kus ) 46 IvL. Cæs.
SCAL·Io Auo, Punicum, vnde noftrum, Aue: Marathi Hebræum, vnde Mare, noftrum:
aut a Lati nos et hincdupliciter: autenim simplex fluxits vt, a Titulo,
Tutus:non, vt aitVarro, e con trario:nam Titulus, age' the rule, vnde et tiey.
aut compositum,a luisparţibus,vtabigo. Dequi bus suo quoqueordine, agendum est.
Sed quia transpositio facilior est, ab ipfa ;cumvenią, inci piamus: nihil enim
nocet. Transpositio. Ranspofitione fane interest ytrum intelli pages gas,
relatas in prioressedesliteras, an dila tas in posteriores. Nam fi dicas
Fretum, quafi Fertum, a Feruendo: vtrum intelligas R, ante latum ipfi E,an E,
postpositum ipfi r? Sed omit tamus exemplum: fortaffe enim fuit Feruetum, atque
inde nulla transpositione, sed extritio ne, fa et um Fretum. In rem ipfam
intenda iusvocalisne,an confonans transponatur. Re etius fane iudicemus,
consonantem, non voca lem transferri. Differuntur enim difficilia: difs
ficultas autem in consonantibus:quare qui fta tim non poffent,moxin proximam
sedem tran ftulere. Eft etiam a Græcis exemplum, opa jev dicimus, vnde Qayavov.
quare cum cac gyavov dicatur,consonans, non vocalis tranflata videtur, Abolitio, Ablatio, Concifio, Abscisso.
Propofitio, Interpo fitio; Appofitia Bolitie est, cumtollitur litera.genushoc
#beli A ho prius tractandafunt, quam Præpositio, Interpolitio, Appofitio:
propterea quod tollimusquod Oro eft: at quod est, prius eft, quam quod non
eft:est enim habitus prius priuatione. Si autem ita con. sideres,iam ablatas
effe: tuncecotrario et Synco pametalias primo tractesloco.Nesitigiturfrau di,
fiue quali ablatas, siue quasi auferendas con templemur. Additur ergo diuersa
in principio:Aals Edurus,apud poetam, pro Durus." In medio, Mederga. quæ
cuitandi hiatus cauffa inuenta V eft. maximeque pertinet ad V, vocalem: Alcu ·
mena, Aesculapius, Hercules. I, quoque eius 1 vsus sit particeps: Nauita,
Nautris, Nauta enim C primum fuit. et, C, consonans, Sicubi, Combu ro. et
'aspiratio vehemeris: Mihi, Prehendo. et # ante medium, poft principium:
Loumen,,P Lumen.et in fine: vt, Comperior,pro Comperio. Additurautem fimilis, A
HI AM, in principio:in medio, Reddo: in fine Nausicaa. Quod autem ve teres
adducunt pro exemplo ex Horatio: Reducet in sedem vice. itemex Terent.
Phormione, Sectari in ludum:ducere, acreducere. hoc est, librariorum manum, non
autoris fidem implorare, neque crim in his iambicis velin illo dimetro; yel j
hoc tetrametrozneceffaria spodco fedes eft. Sed e Lucretii libro primo poterad
afferre: Redducit Venus: aut redductum Dadala tellus. Quemadmodum autem s s,etR
R, et L L, ge minata debeantur superlatiuis, suo loco dictum est: contra quam
recentiores deprauarunt. Con iner tra autem tolliturab initiis: vt Natus. fuit
enim Gnatus, Generor. De medio: vt, Periculum.de loco ante medium qui
est:Pratum,quod fuit Pa ratu. Hæc a Nigidio Figulo Intercilio diet ta fuit
poteft etiam Concisio dici, vt, fermo breuis, qu vocabitur concisus. Rationc
carminis interdum fa et um eft,vtapud Homerum, qums, pro aique πος. etαγροτητα,
pro ανδρότητα. etapud Oppiani, μόλυβος, pro μόλυβδος. Ιnterdum ob tedium pro
lixæ diet ionis: Periculum. Aliquando ob difficul tatem:vt, eonos, quodaliis
eftesãos.Alias ob vtru que:Bruma,ßpoczurua. Aufertur a fine: vt in ple risque verbis,
etlusit Ausonius: Qui reminisco putatse dicere poffe Latinė: Hic,vbi Co,
fcriptüeft,faceret Corficorhaberet. Sed etin vsu communi a fiiciebantM, et
appella batxantar, extritionem. Items, Multi modis. Sed in scribendo. nanque
aiunt M Catonem fic fcripfiffe: Die hanc,pro Diem. Pindarus poeta non folum
eligit, s, fedetiam eiecit exulem: cum poematium condidit, in quo nullus penitus
fi bilus reperiebatur. Mutatio in communi. Vtatio est parte incolumi vel manifefta,
10 qui* M ptioque extranei: neque enim mutaretur fine fymbolo. Appello nunc
symbolum, quod philo fophi, communem quandam rem anatura colla tam. Quanqua
enim elementum indiuiĝbile eft: tamen quia fonos quofdam latentes inter fe affi
nes habent:iccirco ea foni parte incolumi, altera inducta eft. Ac manifesta
quidem eftin duplici- nani bus. Etenim, 2, cum fit exs, et D, in Medentio,D,
fila remanfit: fibilus abiit hæcmutatio per ablatio. nem, non per
transmutationem facta est. At ve riorin verbo Plautino,Siciliffo,s, remanet:
Din alterum s, abit.osenicacia Occulta autemia Cari circon - santra, ex
Cassandra.communis nanquesonuseft quidam D, T. neque differunt,nisi mollitie
qua dam,autexilitate. Alia unutario, ex infle et endi Ja fleiri modo, haud ita
vera eft. Cum mutantur ea, quæ habent inter se cognationem, aut genericam: vt
vocalis in vocalem, consonantisin consonan tem:aut quæ secundum fpeciem fit:
vt,certa vo calis in certam. At participium aetiuum præsen tis temporis a
præterito perfeet o cum deduci mus: duas diuerfas consonantes recipi,vocalem que
transmutari conftat. Mutatio,qua fit ex consuetudine. Vocales. G.Enerica
mutatio hæc,atquehuiusmodi eft: cætcras nunc fecundum fpecies exequa-, mur: ac
primum cam, quæex vlufacta est: cer tissimis enim fonis cognationem
oftenderunt: nam quod veteribus fuit, Magefter,Amecus,Me- 1 derua, Quase
Misc.Sibe Here:puncper1,Magi D fter, ; ܀ so Ivl. I ster, et
reliqua. Sic olim Leparenfes, postea Li zparenses, autor Feftus. Contra 1,
ponebant,vbi nose:Niapud Plautum,et Vergilium,quodnos Ne. et
E,prov:Auger,nosAugur: illi Hemona, nos Humana. et pro o,illicompes,nosComjos:
Eolummore,vttoties diximus:qui Sortu, quod Attici, isívtz. Siceriam Hilus,
proHolus.et He Pmone,pro Homine. Vbi etiam o, pro i, quo niain Homonem,
dicebant: NuncHomincm. € etiam E, quod nos, A, Cato enim Dicem, Fa o ciem: quæ
poft illum Dicam, Faciam. Item o, in A,vt iam oftendimus. Hemona, pro Humana Et
pro e, Amplođi, pro Amplecti: nam eiuf dem fontis eft texa, et wazr. Sed etiam
in a liis. Voftris, Vorti,nunc Vestris,Verti: vt primus omnium Africanus
emolliuit: nam quod erat Vortex, et Vorfus: ipse Vertex, et Versus, ma luit.
Sic etiam in 1, Olli, nunc illi. Item quod Isthuc, nos Isthoc. contra il li
Voltis, nos Vultis. illi e contrario Fulguri bus, vt apud Lucretium, nos
Fulgoribus, Cun cha, Gungrum, Fretu, Lauru, Huminem, Fruns, Acheruns: nos hæc
omnia per o. Dev, et 1, fatis fupra di etum est: aiunt enim €. Cæ farem primum
omnium Optimum, et Maxi mum, quod erat apud priscosOptumum Maxu mum
pronunciaffe. o, Thuscos, Vmbrosque caruiffe,memoriæproditum est. Quarequi Epi
fulam, et Adulescentesmaluntdicere, Vmbros fese, non Romanos profitentur. Nam
contra Romani Polchrum, etHercolem, etDauom, et Scruom,protulere. Ex
diphthongis autem, illi oe, nos v, Moeri, o aosMuri. adhuc antiquitatis
vestigia remanent in Mænia, pofteritatis autem in Munus. origo autem erat ab
or: uchege, rata fcilicet cuiusque mouletto civis pars. Apud eosdem Æ,
integramanfit,quam nos ini, mutauimus: Exquære, apud Plautuma nos Exquire. Av,
in o, ete contrario: Claudius, AV Clodius:Aula, Qila:Plostrum, Plaustrum. Mutatio
Consonantium ess confuetudine." Onsonantes autem veterum fic mutauitp.
fus: posuiteoim b, prod, Duonum, Bow 3 { num: Duellum, Bellum. quod etin Græcis
no I tauimus, dis, Bis. et eandem,pro f:illi AF,nos AB: ( illi Sifilum, nos
Sibilum. Sicut e contrario, illi Bruges, nos Fruges. 1 D.posuimuspro R, illi
Aruena, nos Aduena: illi s Aruocati,nos Aduocati. et eandem pros:illi Af
uerfa,nosadversa. Fypofuimus pro PH,Fama, quodfuit Phama. * et Fuga, quad
fuit,Phuga. 6, posuimuspro R, Argerilli, nos Agger. il- G. li Argrego, nos
Aggrego. Itali die Arger dicunt.curiosenimisVictorinus, vt diximus, Anger:sicut
contra, Agchora,non An M,posuimuspro s.Committere,quod illiCofam. mittere. R,
posuimus prod, Meridies, olim Medidies..R D 2 quia quoque ho chora. $ IvL. CAS
SCAL. L quia uteo, et uloor, et mcdium, cognata crant. Elifimus, Carmena,
Camena. et candem pros Odor, Vapor,atque eiusmodi: olim Odos. Sed et abillis
Passes,di ettum fuit: quod nos Passer. Vul gatum quoqueillud eft,Valesius,Fufius:nos
Va ferius. Item illi Carmena, quod poftea Carme na, quod retinuimus in carmine.
ItemUfrcna, posteri Orrena, Æolensium imitatione qui non dicunt opw egw ; fed
pow. S ś pofuimus pro C.Suscepit, olim Succepit: sed ita puto, a veteri voce
pofteros deduxisse, quæ fuerit Sus: priscos autem a communi Sub. Et eandem pro
aspirationc: nam quod est no bis mufa, illis fuit Muha. Etpro M, Prorsus,quod
eratProrsum. Etiam elifimus: nam illi Calmil la,Celna,Dulmus: nos detraximus
sibilum. In quibufdam tamen manfit folus, Strenna: fed cum aliis, Stlites,
Stlatum, pon manfit: Litics, Latumi. T, posuimus prop. Adqueilli dixere, nosAt
que. fane melior priscorum ratio: nam et mollior fonus eft, etorigo seruatur.
præpofitionis enim vis adhuc manet, ut dicamus, Tu atque ego: et sit, Tu et ad
teego. Sed voluere discrimen effein ter præpofitionem, etconiun et ionem.
Eiusdem modifuit,Sed:nam e contrario olim erat, SeEt: difiungit enim,
Tucurris,Se Et ego sedeo. Sepa rata enim efta et io meaab operetuo. adversatur
cnim vox illa,Se, ut seorsum, fecurus, segrego, separo, et aliainnumera.Etiam
Aud, non aut, et illi dixere, et nos dicere deberemus: nam fi negatiux Haud,
addita cft afpiratio differentia cauffa: sane cætera elementa ad quærendum di
fcrimen non funt mutanda. quin fortasse potius vtrunque ficciore elemento
scribendum fit, Aut, Haut. Græcum enim fuit, art. Omnis autem difiun et io vim
obtinet negationis. v,pofuimus, pror, Seruus. at Æolice ficleri - V bebant,
Serfus. Aspirationem supposuimus: illi, Belena:noszl. Helena, detraxinus
autemmultis, Charum scri bebant,nos Carum,vndeet Carere:quoniam de ficiente
annona carebant, atque ibitum illa cara erat, Aiunt remanfiffe in tribus,
Orchus, Pul cher, Lurcho. Orchus tota Græca fuerat, et trans lata aspiratione a
vocali ad consonantem špxos.vi. detur ex epitaphio Næuii poetæ, aspirate preto,
nunciatum: Poftquam est Orchio traditusthefauro. Lurcho, contra analogiam
afpiratum fuit: nam Mucco, a muccis: et Bucco, a buccis: ita Lur co, a lura, ob
ingluuiem: fed ratio significatio ais potiorfuit, ob fonitum voratoris. Sic Quốir,
aspirationem admißt. At quare pulcher aspi retur, ratio declarat: fuitenim
Græcum10 auxere, id est, fortis: fic omnium do et iffimus poeta. --fatns
Hercule pulchre. PulcherAuentinus. Igitur Romani qui omnia ponerent in fortitu
dine, cum demum bonum, et formosum puta runt, qui effet fortis. Itaque fortis
quoque pro pulchro positum eft apud Plautum in Milite:AC que sine ratione:
exemplo enim Græcorum fa, et um est, qui nænor, æque et formofum, et bonum
fignificarunt. at bonus fortis eft: malus au
tem,caxos,imbellis:vndeCaculæ,quiin numero militum non effent,age' to xaltats;
quod eft ce dere. χαζεο τυδείδη. lidem veteres multa inuertêre: Catamitum, pro
Ganymede: Melonem, pro Nilo:Lubedon tem, pro Laomedonte. etiam inueni vbi Sagun
tum pro Zacyntho dixerint: quæ nos omnia funditus euertimus,non solum elementa
immu tauimus. Mutatio per inflexionem. Vocales. Oteramus fine flagitio, non
exequi partem hancabinflexionibus:nequeenim certa niti. tur ratione, etpuri Grammatici
interest. Sed ne quidomitteremus,appofuimus: non tam vt om sia comple
etteremur, quam vt principia ipfa fta tueremus. ز A. Igitur A, breue in longum
mutatur, ve Re et us fert primæ declinationis, et sextus cafus: e contrario
longum in breue, Par, Paris. A, breue in, breue, Parco, Peperci: nam parco eft,
partem arceo: id eft, continco: Pars autem nagura corripitur, a nop @, quoniam
pars præ cedit totum: fumptum nomen a mefforibus, et vindemiatoribus, et
lignatoribus, et paftori bus. A, breue in e, longum, Facio, Feci. A, lon
gumine, longum, Fallo, Fefelli. A, longum in E, breue, Stas, Steti. A, breue in
1, breue, Ca do, Cecidi. A, breue in 1, longum, Peccata,Pec catis. A, longum
ini, longum, liasexto fingu- i 1 " Iari 51 EN T 1 lari primæ deducas sextum
pluralem, Bona,Bo nis. E,breuein E, longum, Scro,Seui. e, longum E in E, breue,
Fides, Fidei. E, longum in a, bre ue, etlongum Anchises, Anchifa, fexto casu,
et Anchisa quinto. E, in 1, breue, Culinen,Culmi nis: ini, longum, Eo, lui.,
breuein v, breue, • Pello,Pepuli. i breve in 1, longum, Audio, Audiui.1,lon- g.
gumin i, breue, Ainbire ambitus. I, breue in A, breue, Siquis, Siqua, rectus
fæmininus: in A, longum, Siqua,aduerbium. 1, longum in A, ; longum, Qui, Quas
aduerbium: fuere enimo lim casus quarti, posteafacti suntaduerbia. I,bre ue in
e, breue, Rapio,Rapere:in E, productum, Turris, Turres. 1 breuein v,breue,
Rapio,Ra pui: fic enim volunt: nam nos putamus fuiffe olim Rapiui. Sed sunt
alia exempla, Alitis, ali tum: in v,longum, Quis,Cuius. 1,longumin v, longum,
Qui, Cuius. Sed et in o, quod etprius fuit,Quoius. o, breue in longum, Pulmo,
Pulmonis. O, 1 breue in A, longum, Amo, Amaui: in Aj bre = ; ue, Do, Dare: in
E,produ ettum, et correptums Lego, Legere, Legerunt: in i.correptum, Hon mo,
Hominis: in 1, productum, Scindo, Scia di: in v, correptum, Domo, Domui, in v,
pro du ettum, Sequor, Sequutus. 0, productum in v produetum, Erato, Eratus: in
1, breue agni 1 * 3 I tum. 7. V 2 v, breucin longum, Domus, Domu.v, logum in
v,breue, Penu, Penuris. Sicenim fcripfere pri D 4 mun, s 56 IvL. I. mum, quod
nos Penoris. Sed eft et aliud exem plum, Cornu, Cornua. v, breue in A, breue, Cor
aum, Corna: in 1, correptum,Genus, Generis: in 1,longum, Bonus,Boni: in breuc,
Caput, Ca pitis: in o,breue, Fenus, Fænoris: in o,longum, “bonus”, “bono”. Mutatio
Dephthongorum ex inflexione. FOOrtasse etaliæ quædam sint mutationes, quæ
addentur, fiquis inueniat:fed fi quæsunt, non Epi multæ superlint. Diphthongi
autem fic trans eunt: et in A, Quæ, Quarum:in 1,longumCædo,, Cecidi,diphthonguscnimibi
fuit, a Græco kai ww. Contra ex 1,factumestoe,Incipio, Incæpi: quoniam fuit,
Cæpio. Inuenias autem etiam interiplas mutationes, fi Nigidium fequare,cui re
ettuspluralis fuit, Bonei, ad differentiam fe. cundicafus fingularis Boni.et
fecit l'urreis quar tum pluralem,neesset, Turris vnuse singulari bus. Quod fi
ita debuit, debuit et variari quar tus pluralis fic, Domous, ne esset vnus e
singu faribus, Domus. Sed nos præclara ingenia ad miramur, confuetudinem
fequimur. Sic etiam relatiuum variabis: re et us fingularis, Qui: ter tius
cafus, Quoi: reetus pluralis, Quei. Vete tes autem etiam tertium
fimplicissimefcripfe re, Qui,non Quoi. sic enim legimus illud Ver gilianum:
--qui non rifere parentes: Nec Deushíc mensa,Dea necdignata cubili est. eft
enim pofitum pro, Quoi fiue Cui. Scriptura autem communis etiam reco, fecit vt
etfenfum inuerterent Grammatici, et peffime Hiftoriam, aut fabulain, quam
afferunt, adaptarent. CA P. XX V. Mutatioconfonantium exinfexione. Aior adhuc
reftat labor: sed fane sit cum venia,figratia carebit. Boni enim artificis
partes funt, quam paucissima possit, omittere.B, B lemi C, D, G, M, N, Q,R,
T,mutanturins. lubeo,lulli: Pard co, Parsi: Lædo,Læsi:Spargo Spars: Premo.Pref
fi:Pono,Pofui: Torqueo,Torsi:Vro, V ffi:Fle et o, Flexi. Videretur autem etiam
aspiratioin s,muti tari in ' I rabo, Traxi: sed acutiusinfpicienti par lam
erit, aspirationem in gutture mansisse, at que induiffc proximi elementi
pronunciatio nem, ipfius fcilicet c, additumque potius effeli bilum, sicutin,Prefli,m,
mutatum, libilum addi tum: in Torqueo autem q.ablatum, atque in cæ teris alia.
Contra,s,in D:Paris,Paridis.Item fic di xere: quemadmodum B,ingeminum ss,
Iubeo, luffi:ita et D, Cedo,Cefli: et T,Concutio, Concus fi. Scd profe et o
prudentius contemplabimur, cosonantesillas in simplexs,mutatas, alterum au tem
esse præteriti ipsius. Ita G, mutatur in suam - comparem: vt, l'ingo, Pioxi:nam
in ct, mutari quod aiunt,falsumeft,in verbo, Agor, A ettus.Sed eadem
proportione affinitatis in C, mutata as fumit t: ficut faciebatin verbo Fingo,
in præte rito assumebat s, in supino T, Finxi, Fiet um. apparet id e contrario:
namque c, in G, “grex’, “gregis”. Quod autem ftatuunt, c, in v, coe - xemplo,
Pasco, Paui, abie et o fibile, puto E DS nou 58 I'vL. I. nonita effe: sed
verbum vetus fuit now, quod fi gnificauit et fequi, et assequi: vnde etiam
satws: quafi iuwi, vt org: yes. Æoles enim et decurta bant, et tollebant
aspirationem:iidem vero adde bant onw, indefactum eftnoftrum Pasco. Eiur dem
originis fuit etToo', quoniam in pacato, non in hoftico pascebant:vnde etiam
Pax. Aby trouis autem præteritum illud fluxit: neque e nim Palco, fuit
primigenium: ficutincqueNo sco,Noui:fedqoxu, fuitgrow,grão Sic ncque in
T,mut:tur, vtputabant in verbo, Irascor,Iratus: Fuic enim iralcitus,quod poftca
deficum est: etab iecit fibilum, quiretcncuscft alio verbo, Pascor, Partus. Non
clt igiturs, quod mutetur in T, vt prodidere:in conanque verbo mansitincolume:
a neque c,in t,mutatum: etenim fuit Pascitus. N, abiicitur, Scindo, Scidi. neque
mutatur in v, vt scripsere,in verbo Sino,Siui.Aliquadoenim fuit, 27Siniu.Q in
suagermanam, ScquorSecutus.Nec trasitin x,vtvoluere,in Coquo,coxi:sed assumit K
fibilum. NequeR,in v, quodaiunt, in Sero, Seui: fuit enim Serui: quodextritu
est,ad differentiam eiusdem verbiin alio significatu: vix enim muta tam eam
literam inuenias inflectendo. Ats,mu. tatur in n.Sanguis,Sanguinis:quoniam fuit
San-, guen. In D, ycdiximus, Paris,Paridis. abiicitur ex duplici remanente
altera parte,Perdix, Perdicis. Trastin R,Flos, Floris:in T,Nepos,Nepotis.Sed
non eft verum, quod profitentur,in v.confonan temmutarisibilum eo exemplo,
Bos,Bouis: as fumpsit enim Æolicum digamma, vt in Oue, et Quo. Nequemutariia I,
in verbo Paciscor, Pa et tusy etus,vt sensere,jam colligi poteft ex iis, quæ
fupra. diximus, fed t, eft peculiaris ipsi participio, Ama tas, Doctus, Lectus,
Auditus, Latus: fedin Pos Poris, t,in x,tranfire, üidem male docuerunt, illor
exemplo,Fle et o, Flexi,fed in fibilu,vt fupra dixi mus: quod coaluit cumc, et
fccit duplice,xin vox confonatem æque male mutari arbitrantur,in ca
voceNix,Niuis: Verum vietw, et Denis, ogTo vína, vnde etiam nostrum
Neptunus:non,vtCi cero prodidit, a nando. Inde noftrum,Ninguo,et.. Ninguis in
reeto: et niuis,concisum: et aliud con cisum,Nix, mutato in c, etconcreto cum
fibi • loin x, in obliquis autem mansirprisca vox. Ne- H: quercetesen scre,
afpirationem in CT,transferri, Veho, Vecum: fed ita fuit,vt diximus. Habetaf
piratio aliquid fimile cum c: itaq; alicubi in Va fconia quod alii Hodiedicunt,ipfi
fua linguaGo die. Ergo Veho, facerer Vehfi, affumto libilo, vt Ć Duco,
Ducli.postea,Vecfi: et fupinomutatofi bilo in c, vt diximus, Veettum.
v,quoqueabiici v notauere. Citant Solinum in colle et aneis: quali vero is fit
antor veteris Latinitatis: eius verba · funt: Tatius hominem exiit,quasi vero
apud pro bariffinum quenque Kedilt, Exilt, Adilt, Pre-. " terilt,
desideretur. et fortaffe apud Solinu Exuit, 1 legendum est. Mutatur quoque in
feipfam, rece į pra vocalis pristina natura: et econtrario, Gau deo, Gauiius:
et Persoluiffe apud Tibullum:quo niam Soluo, fuit örovava. Mollescit vero adeo,
vt ctiam abeat, vt apud Catullum eundem, Nonita me dini, vera
gemunt.iuerint,pro Iuuc rint. quemadmodum etiam in libro de Camicis s
dimensionibus obseruauimus 1 1 Pres IvL.Proprium trium liquidarum L,R, N,C,
T,non Ligmamutari in quibusdam nominibus:Sal,Salis: Ci cur, cicuris: Tita,
Titanis:Halec,Halecis:Caput, LR.Capitis. Proprium et l, et Raffumere fibi alte
c ram:Mel,Mellis,Far, Farris. Ipfius autem c, assu mr.sme etiam t:
vt,Lac,Laettis: nisi lita reeto pri sco:dicebant enim Lađe, a Græco, amputatis
duabus litcris, ranentos. Obfervarunt etiam id, EDO 1.,2,5,x,in præteritisnon
mutari:Caelo,Caclaui: Stupeo, Stupui:Laffo,Laffaui: Laxo Laxavi. Sed his
adderentetiam R, Torquco, Torli.et c, Dico, Dixi:coaluitenim,non autem mutatum
est. et P, Scalpo,Scalpfi: pam si duplicis literæ figuramha beremus in hoc, vt
habuimus in Dixi, poluifle Bmus.B autem non mansit semper, ledig compa rem suam
mutatum eft:Scribo,Scripfi. X Proprium x, quod mutatumfuerit in compo fitione
in declinatione elidi: Effero, Elatus:quo niam verbum quoquemutatum eft. 1
costs » Q que Mutasio in deductis Gracis. Vocales. VæaGræcisdeducuntur, in
iisita fiunt vo calium mutationes: Breues autlongæin en æquales:aut in
inæquales:contra natura commu nes in illas. Igitur longæ Græcæ in longas no
ftras, woy, Quum:breues in breues švos, onus:bre ues in longas,me,ab eo quod
fuit ue.longæin bre ues,opoinaAxov, orichalcum: rgra crepida:origo FERA: in
natura comunes, qul.Corripitur ma ximæ parti poetarum: producitur Statio,Gatul
lo, Cornelio Gallo.Item verba dyw. Communes natura in natura comunes: vt,
Pharfalia,Sicania. Eædem in breues perpetuo, Humus, ab i'w.vua' et in longas
perpetuo,Vdus,ab eadem origine.sic Whou,sputuin. Idque non solum ob vsum,fedet
iam obpartes, nanq; positioneinterdum fithoc: vt co a qua In, natura
breuis,aliquando fit pofi tione longa: vt Indigena. aliquando fit natura,
propter naturam pofitæ consonantis: vt, Infelix, infolens:abs, aut F,incipientibusquum
coniun gitur. Hæfuntin communi præceptiones:sigilla tim autem fic recenfeas.
Ain A mutatur,κάλαθος Calathus: in 1, κανατρον, Α caniftrum: in o, fi
Copo,azarnos venit:in v,9şi au6ss, Triumphus: payyanilev,stragulare: xpære
many, Crapula:non,vtdixere, quod caput graua ret.Quodautem aiunt a, in y, apud
Græcos verti co exemplo,savuno,qualionos naufw, falli sunt, eftenimότι όλων
πόδας, 3λιτρις, montis nomenob altitudinem: quem quum afcenderent, interro gati
quoirent,dicebat,in cælum,vndecæloco municata yox, A, etiam sibi assumit I.
more Æo lico, φαισιν, φασίν. Ιta αίσκηπιός,nos Efculapium. E,in e,breue,
feos,Deus:in longum,ido Sedes: et per abscissionem.dew,De:fic enun dicunr
cixos, "Subir deivtov: nos duodeuiginti. In 1,ryyu, Tin go: In o, et uw, Vomo:
in v,dvos, Vnus.Abiicitur #polyw, Rudo: fed puto Erudo, fuiffe fimplex non
compositum. H, vt diximus in sui dimidium.xennis,Crepida: H news,Herus.In se
totam,tlwenom,Penelope.Nun quam autem h, in I, transit, vt barbari invertere,.
atq; etiam corripuerein Paracletus, Eleeson, E leemo 1 IvL. I. 1
leemofyna,Iordanes.Nequequod poffent suspi cari,Vestis ab iis, fed ab Vae, et
vuota, Græca origine,Latina terminatione. Male corripuitlu uenalis in Satyra
xun CALPE: neque enim fuit vt zpeurs. In Æ, diphthongum nonmutatur Ħ,vt
dixcre,fedin E, illo exemplo, ozler, SCENA: si enim dipthongum quispiam
comminiscatur, id nulla faciat ratione. fed in A, frequens eius tranfirus est
apud Dorienses, et nos folcnsium imitatores, xiboensn's, Citharista. 1, in A,
9.ygoeves, Tango:in e, cx diphthongo, suivr', Pæna: etiam folum:? apriva,
Cancer, in I, longū,ai liuidus, Qi G, Filius: etvoce vsitata malit, omnix,
Homilia:falso enim transmutandu iudicarunt.fic notes,Litus,quod effet terra
tenuis: etnoftrum mitto, au tov wizer, quoniã qui mit tit elongat. Abiicitur,
quaesia, Norma,emedio: fic etiam a fine, ei, Per. Additur rau't, Nauita. ' o,
in feipfam breue ci,ouis:in logam, G-,So las:in,decreov.Aratrum, ve voluere:
fed commo dius a sup.Aratū:ficut Rutrūaruendo.neq ;bonu cstexemplum, ab
iļus,acus:fed acus, ab a žueor, ta pro arista excuffa, Acus, Aceris proprie,
quam metaphorice pro instrumento sutorio. In e, joriy Genu, Æolum more, qui
idrs, quod aliiodx.fic Euander, l'avdeo: In 1934620,Imber.in vibles, Iuba:
rozpoxa, Patroclus:.ivaseus, Vlyffes.Sicin principio,medio,fine.In vlongum,
Boords, Bru tus. In Avdiphthongum, opeixa Axor,Aurichalcũ. Abiicitur ab
initiis, odi's,Dens. A fine,Si,AB. Y Y,in v, rusplevos, Turrhenus:
Truppos,Purrus: in Avend, Illurius: duw,duo: duw, verbũ, Dumus, tam brevem,
quam longum cthis exõplis.In o,cyniex, Anchora: Duici, Folium.In E,
zAwue's,Aicedo.in 2,brcue, 270,vimen,vnde no?rum Ligae,non a legendo, vt
Varro.In a, muo,Canis. s, in fe totam,woy, Quum, inuidimidium.de fyc. ;Ego. In
vlongum,oue, Fur: non ve Varosa Furuo. In Ave, Æolicum, scommunc, Aurs, Latinc.
In v,brcucije Herus.In e, fparu, F12 tcr: fic enimmutaruntXolcs,quod erat Dp,
integrum, Deizturpinon autem plagiariorum fal fæ etymologiæ. Dithehongorum
mutationes. A Gracis. AL Æ,cencia ', Ænças.In A, longu, repertuan,Cra At
pula,extritor,more Æolensium:ficute contrario quoque, vt diximus. In e,
breue,faire,venio.Im perite nanque verbum hocita funtinterpretati, quasi versus
nos eo. Habes deductionis noftræ exemplum, in Fenestra,adTo Calvetar. autmu tata,aut
abscissa, faltem ab e povov. Non licin Ple gethonte, et Phaethonte. nequc enim
ab GeoJo's, diphthongum traxere, fed agese feer, vt ex Cra tylo Platonis, et
Ariftotelein primodecoelo, et M. Tullii multis locis diximus in libris de infom
niis: neque diphthongum illam redigiad sonum breuem: quippe dai,dixere: sicut
etiam 9: etgea, Gcut gaia. Abiccta a, remanet i longum, quo niam Æolenfium more
facta est diphthongus.er: a Xands,Achiuus:Æoles enim aze, vndeetiam fine
digamma inuenias Acheus.quod ego non per diphthongum scripferim Latinis Ar, fed
per, E,exdiphthongo Æolensium, vt Lyceum, que xtos:cos caim maximefequimur. AY,
64 IvL. 1. A ' Ay, manet in Taurus, turīgo:mutaturin v.cau. pec,Surus:qucm et
lacertum piscem vocant. Abii citur, haipos, Parum: nisi a parteducatur: nam
Pauluin, inde venit omning. E1 E I, ante consonantem,semper in I, filit naru
ralis verbo, inces, Thefidcs.at Beveowono fic, nifi Græce loquamur fyllabæ
gratia,vtnosin he decafyllabo dactylum fecimus Xeinia.hæcautem mutatio femper
fit fequente consonante, non autem L,tantum,vt dixere,illo exemplo, Nilus,
Eing. Diximus autem literam naturalem, quæ effer ipsius dictionis,
onrai,Grociên: nam in zettw, aduentitia etsiccirco non feruatur a Latinis. An
te vocalem ipsum isolitariuin nunquam muta tur,Sophia,Comedia:nequediphthongus
sem. per, 1 halia, Alexandria, Nicomedia, Langia, Lampia, Argia,Lycius: sunt
enim Goemmel, et ciur. modi: et nuxeios, li Lycie apud Statium scriptum eft:
nam ctiam Lycee, legimus. At fæpius in E, productum, vtin Acheus, dicebamus.
Dareus, Penelopea, Adrastea, et Seruius Thaleam, dici debere autumat. Eft
auteme,longum Æolen fium imitatione, qui Snuosterns pro imposterer din cunt, et
nde!, pro idei,et uñov, pro ucior. vnde et her sexinterpretatione Platonis:
ettrov,pro W16 ox. Interdum mutatur in E,correptum,more Do rico,expuncto 1: To
vixsov,Puniceũ,vt apud Ver gilii πυφωέα,Typhoea, pro τυφώeια, et φοινίκειον, in
fine vocum quoque vnica litera scriptum fuit in vetustissimis codicibus,Orphi
Calliopea:et V lyffi,quod erat őPeñaduasti. Horatius diuisit, Laboriof nec
cohors Vlyfsei. Itaque etiam in meris Latinis pronunciandum monent, Idem,
Eidem:lfdem,pro Eisdem,eorundem niore Aco lenfium. Ey, manet, Qeü
heu.Abiicity,Achilles,axona v acus. Itaque etiam Achilleus legitur, cuius obli.
quum secundum posuit Horatius. Heu peruicacis ad pedes Achillei. Neque e nim
verum est, vtaiunt, in v, mutari, illius ver- ym biexemplo,Peuzw,fugio:nam
ab aoristo ductum fuit Ouzov.lic epau yw,Ructo,dempto E, etpofito
frequentatiuo. oi, inoć, naivino Poena. Patitur autem multa di- 0 phthongus
hæc:diuidunt eam Aeolenses,rorov, zoinov. Eorum legib. nos Troia reoło, sicut
Maia, z wała, Aiax, sas. Interdum mutatur eius pars,in terdum aufertur,
arbitrio eorüdem,month,Poe ta.Vertiturin Ei, vt of her: in v, Poivixetov, Puni
19 14 ceum, 1 and 71 oy, in vnostrum, Musa, uolls. In v, breue, Bu s bulcus.In
olongum more Aeolensium,38,3ūsy Bos.In breue, Borqu.co Volo:abiccto y, moreco
4. rundem, qui αμπέλος, dicunt pro αμπέλες. dico, ei abieeto in mora,non in scriptura.nam
oynon est illis consonans.Sicenim dicunt Asgatup, sicut lo. nies Buzoriupo
Quiautem putant hanc diphthon gum ad Gallos manaffe ex us, et Tou: non femel
ineptiunt.Eorundem enim in aliis vitium est, E, vocalem ficdeprauare. Sic enim
corrupêre no mina mutarum:fic vulgo quum voluntinterro gare Quid?aut Quæ?sic
Rex,Fides, Vicem etalia infinita pene o y eademin E, '885, Dens it's ' Pes,
etiam aliquo modo mutata est, cum ex 18'w, E Lauo lu L.E. B Lauo factum est.
121, diphthongus spuria in legitimam o ujxclien Mesidía. Comedia.In o, w8, Ude.
71 T.eiufdem nocæ atque ordiniseft. recipitur in vocibus Græcis integra
Harpyia, d'oc. Y sr,Latinivalde distortam, ionib. r'eliquera. Confonantium
mutatioin deductisa Gracis. B Græcorum et facile et legitime tranfit: idem enim
effe fupra oftendimusBwi, Bos. In v, di gamma, z36x, Auus.In affinem huiusPH:
9play Goss Triumphus. ryingi,zorvs Genu: aut in fimilem'vt Työss, Cam ius. nam
quemadmodum apud Athenienses aus Toxhoreca etapud Thebanos ouaplois ita
Latinis? vetustate, etOpici, et Indigenæ, et Cail dieti funt. In n, aut ei
propinquam, azgeros, Angelus. Abiicitur, gumentua, Norma. A,in D,onos, Dolus.
In 2, odvartucy Viyffes. In B, C, Bis. In's » n'am quoflexu illi, tepare.coem,
nos eorum exemplo, Arenosum. z, in z, iccirco apud nos etiam figura eadem cum
eadem poteftate recepta est. LtPusos, Zephy• rus. In ssuaisa, Massu.In i, tuzo,
lugum. e,in TH, tptow ', Thraso. In D beasyDeus. Itt 1,θρίαμβος, Triumphas. K.
K ; in c, Calare, nonet: Caloncs, varov. In co. gaatam fuam et, Quatuor, xxxpd.
prorojen na, line aspiratione apud acoles. nam quum dixiffent,
Vnum,Alterum,Tria: pro quarto di mere, et alterum. Sicapud poetam, Alter ab
vndecimo. Slove urce Aurea mala decem misi: cras altera mittan Sic etia,
Quinque deduxere: vt effet, et vnam præter quatuor; cêrze. In G, xutpvcew
;Guberno, Ain L, nit, Libs.In Difeneto, Meditari: falso A enim ncgarunt.
Mnegarunt mutari, attulerunt exemplum il - M lud, tabua xes, Telemachus: fed
fruftra fuere: nam ex uñnce, Balare factum eft. Etextritum eft ayudc. Amenta:
oyuao, Sagus,Sagitta. Nin N, nostrum; Ninus, vīvošo In Djnajvw, Cx- * do,
έκανεπ, όκάεπ τον έλλίωων τον αριστν, ex Εu ripide. In L, nam quinquagenarii
numeri nota fuit Græcis N, nobis L, fic quod illi veuQxr, nos Lymphas: et apud
Virgilium fic legêre quidam: Dant famalimanibus Nymphas. In M ; wal gusov,
Pægnium. Additur a Græcisnoftris nomine nibus, xatwy Cato. Demitura nobis in
illorum commune riuwv, Simo: et in nostris ab illis defluxis addi- sonho Borda
tur, idx, Dens: =, falso negaruntmutari:nanq. etbovec, Afleres, non ab
aslidendo, vt dixere. Supra declarauimus Acum et Acuruin,vndeduccrerur:itaq. ab
Oc; non putauimus fieri Acor: nam potiusabwav'. 11, in B, Tubor,Buxus: mubas,
Barrus: 70, Ab: 11 Caij sub: accipit aspiratione:gownlo's Trophrű. P, nimis
iprudeter mutari negarut,vtaip,aer: na mutatur, 20 pxūves, Cacer, ne effet
Carcer, et in. 1, a cupov, Paulum: sed potius eft diminutiuu, In D, fi raveriw
fit, vnde fiat nostrum Gaudeo. 2 2, in D, uesov, Medium.Tollitur non foluin in
prima inflexione,vt dixere; quipias, Býrria:sed e tiarn in aliis, aas Sal: et
in principio, ouu't s, Cu tis: alibi feruatum Scutum. In x, amo, Aiax. E ij
Contra quidam fcripfere Vlyxes.In R, κυβερνήτης, Gubernator: quoniam Aeolenses
xubEphy Trip, et xubepvýrwp, qua forma verbalia nostra funt. Quin Eretrieses,
vfque ad proverbium dicebant, ouan potm-, quod alis effetsunypotus.quod et in
Francis Be notabis. E cotrariossin x,noftrum uc osow, Ma xilla: nam Mala per
fyncopam curtatum fuit. Mandere quoque a ux'asw ductum fuit, sed fane non pauca
eget interpolatione. T, in s, isa, Offa. led commodius sic dicere, fubductum
fuiffe:alioquitranslatitia sunt inter se,33 runos, Theffalus. 9, in PH,
popew,Phormio.Ine, quc, Fundus. 0, For. x, in CH, Chromisszevõues,In G, Ay % w,
Ango. In Kyroxos,Locus. in Aeye, denan, Loquor. pie neque enim â locis,vt Varro
vult. Sicet xxenãos, Montent Aqua. Omnis enim aqua dicta eft eius amnis no
mine, et a lauãdo quoniam erat cemenzos: quod et Macrobius docuit nos etVibius
Crispus: et non ignorauit do et iffiinus omnium poeta, Poculaque inuentis
Acheloia miscuit vuis. neque enim ab æquore aqua: fed ab ea, æquor. 1, in Ps,
quasov, Psyllium: et in proximas BS, yť A4, Libs: dexy, Arabs. # Aspiratio
manet, ouws. Homo: eft.n. animal sociale:non ab humo, ytsomniarunt. Adimitur,
anuwv, Alcedo: tunc,Amentum. Mutatur € dos, Sedes:epTwy,Verpus
lumbricigenus,trallata vox ad obscenaob exilitatemi,nona vertendo pelle, vt
aiunt: fed mediunt digitum propter gracilita tem significauie metaphorice Manet
cum consonantibus, Tholus,4oros. Adimitur, vt Opiaubos,. Triumphus. Additur,
oportcev,Trophæum. Dt.C Subtilius autem intuenti etiam id deprehen sudah 1,
detur, aliquas etiam fi mutentur, remanere:vt, Aloj Troia, Troia: etenim 1, et
eadem etnon eade est. Digamma interponitur, vt diximus õis, Ouis.. et
Præponitur, -, Vis. Interponituretc, co bos, Spe Fraau nm. lidla cus. dice
Funds DISM Mutatio ex deductione in fimplicibus I Ammultæ operæ prouinciam
capessimus:fi- Ralowe Ibi enim quisq. placuit in verboru deductionę.ueJakbosui's
Ergo quæipli non inuenere, nolunt effe ita: do ceri enim turpe putant.
Aliquiautem, inter quos di Varro,etiam maligneeruerunt omnia e Latinis, com
Græcisque fuas origines inuidêre. Nos cum sci vite remus Magnæ Græciæ nomine
priscos Auso nes, atque Latinos frequentatos, reddidimus pud fuis
qnanquenatalibus vocein. Deducio,eftcreatio noui verbi,exprioris ele quis
mētis.Prius igiturde simplicib. mox decopofitis. Abreue in breue,Paro, Pario:
in longum, Pa- A 22. ro,Parco: in AE, Aqua, Aequor. a, longum in lon gum, Vado,
Vades:in breue,Vado, Vadu: Ater, Atrox: feroces enim fufcefcunt ira. In E, apud
Græcos,Baww,Ben... apud Latinos,Pasco,Pecus, non eft:namn zoxoc, Homero fuit
lana: quonomi 1 ncetiam nunc fafciculum certum, fiue penfum ta * vocant in
Italia alicubi, fed pe Itaque a lana vetusta vox nekos. In o,Vena, Ve nox. In
v, Mare, Maria. E, breue in A, longum, Legere, Legare, quoniam adlegendum,
hoceft, E iij dicens 24 7.251 " anim mitt genere fæminino, scilit 360
" Son 70 I dicendum mittebantur,au o 7o aegeiv. € Elongum in breue, Sedes,
Sedile. In 1, Veha, Via: vt vult Varro, ino, Tego, Toga, Græco tum ex mplo,
neyw, neges. Etlongum in o,bre ue, Sedes, Solium. Inv, Tego, Tugurium. In v,
longum, Dies, Diu. In AE,Sequor,Sæculum. 1, longum in breue, Dicere, Dicare: in
lon gum, Simus, Simia:nonautem w To wuela, vrinepriunt. í, breue in breue, Mina
Minax: in longum, Via,Villa,Vilis. In A, non mutatur illo exemplo, Generis,
Generatim; sed a plurali re cto fere deducitur. Viritim,Ostiatim. in E, cor
reprum. Hlicio,illex. In v, Specio, Specula. o, breue in longum, Vomer, a
Vomendo,vt vult Varro ; in breue, Volo, Volones. Longum in longum, Donum,
Donari: in breue, Moles, Moleltus. In a longun.,Dico, Dicax: in E, lon
gum,Tutor, Tutela:in breue, BonusBellus: fuit enim Bonulus,Boncllus. In 1, et
longum, et bre ue, Amo,Amicus,Amita. Inv,Tego, Tegula sed Tega, prius
fuit:Stclo, Stultus. V. v, longum in longum, Þus, Puridus, in breue, Scutum,
Scutulatum: Rus, Rudis. Breuein bre ue, Lutum, Lutofum: breue in longum, Pucra
Pulio: Suo, Sutiliş. In - A, Veredum, Vereda rius: nisi sit a plurali quod et
puto: Cudo, Qua tio. In e, Pignus,Pigneror,quia fuit Pigneris. In, Cures,
Quiritis. In o,Pignus, Pignoratio:sed ab obliquis potius:Decus,Decor,commodiusex
sinplum eft. Mutatio in diphthongis exdeduetione. or,in, v,Poena,Punio:Moeri,
Muri, vt dixie a mus. Av, in v, breue, Randum, Rude: nam pafos, A. fuit virga
dempta ex arbore impolita: inde Raye dumæs: et ab ca ruditate, Rus.Consonant:um
mutatio ex deductions 3, in M, Globus, Glomus. B c, in G, præcedente n, Centum,
Quadrigen G.. ta.In R, Scco, Serra ; sed puto primam syllabam fuiffe originis:
canina autem litera geminata, ftrepitum imitatos. Geminatur Pecus, Peccare: non
vtgrammaticorum ineptiæ, pedem capere, Din T, Cudo,Quatio.fuitenim vetus verbu,
mu'dw,adhucdurat muda wasignificat ftrepere:vn E de xudes, conuitių, et xvocs,
gloria, ftrepitus ille po i pulariş. G,in c,Genera,Cneus:Gula:Curgulio: Vi;in
ti,Vicesimus:Pertingo, Pertica, rusticum inftru, mentum ad fructus decutiendos.
Le in x, non mutatur exemplis illis, Ala, Axile la:Mala, Maxilla, vt aiunt:
nonenim ab Ala, Axil. i la: sed ab Axilla Ala, extrita, vt ait Cicero, ele.
menti vaftitate: fic enim cenfuit M. Tullius, Veho, Vexi, Vexum, Vexulum,
Vexillum,: et cvyxorlu, Velum: Ago, Axo, Axa,Axue a la, Axilla, Ala:
Masso,Maxo, Maxa, Maxula, Maxil a, Mala, vnde uauntiños: Pango, Paxo,? Paxus,
Paxillus;Palus:vt non parum errent qui aby Ala,putent, Axillam,diminuutum duci.
Ašą E jij au 7autem et alia, fic funt dicta, vt Faxo, Graxo. Etia falso mutãtin
R,illo exemplo Tabula, Taberna. nam Tabula, fuit diminutiuu nominis,quod nuc
non extat, a quo Taberina, vt Suterina, Tonfte rina. Sedin his,E, abiit. in
Taberina fublatum eft 1. Omnino autem a Tabula etiam Tabulerna, fi cut Nafiterna,
est autem Taba, et Tabula au TO TriLu,quoniam tabulata in ædibus, et vlmis pla
niciem extendebant, Nin L, Vnus, Vllus: Vinu, Villum:non muta tur vt dixere.
Sed fuit Vnulus: etvinulum. Ins, mutatur Findo, Fissus.In r, Canis, Catulus.
sed a Cato, deducunțpotius,etplacet: atiidem, a Ca nis, Catus, ipsum trahunt,
Rinn,Murus,Munus.fuit enim Munus, onus muris reficiendis, vbi primum vnum in
locum e vicis conueniffent ad condendum oppidum: inde Munimenta. Id oneris cum
remittebatur yirtutis ergo Donum dicebatur. Ab Ære au tem non fit AEneus, vt
dixere, yt mutetur R, in ' N: cuiusreiargumentum eft,quod etiam AES neus
dixcre. Itaque fuit AErineus. Sic AEter nus, ab AEthcre: et fuit AEtherinus:
vnde Sem piternus, quod fuit Sempæternus: mutatur e pin ae, in i, Quæro, In
Quiro, etabiecta est af piratio, vt in multis. Sica Vere,Verinus.Vernus. 1,
enim abiecere,quod mansitin Matutinus, et a liis eiufmodi. Nulla igitur ratione
corripuere fe cundam fyllabam. Mutatur R, in l, Niger, Ni gellus, quia
fuitNigerulus, et in s, Ardco, Ar, fum. Aflum ynde Aflare. T, ind, Quatuor,
Quadra. 1 xadditum estin Vix, aduerbio, a Vi, quod? negat facilitatem. vnde
Vices: nam quod per / vices fit, videtur difficile effe, etvix fieri. Fortar fe
etiam rectum ipsumfuit, Vix, Vicis. z, tota Græcorum est. neque a Latinis in
La- 2 tina deriuatur. Demitur aspiratio, Fingere, Pingere. Mutatio in
compofitis. Vocales. Ompositio, est coalescentia similiu aut fpe-Amis nisi
esset,ea fimilitudo, quam Græci vocant or use Banov. Dico autem, compofitionem
non actio nem, quæ præcedit ipfam concretionem ; este nimin
prædicamentomotus:sed ipsam mistio nem duarum vocum,partim diuersarum, partim
fimilium. Eft autem modusquidam inter ipfa: Nomina enim nominibus propiora
sunt: faci lius enim dicitur, Pontifex quam Proconsul. nam consuetudine
extortum hoc fuit: erat enim per initia, Proconsule. Sic etiam verba cum
diuersis partibus desinunt effe, vt Mancipium. A, breue in a, breue,
Comparo,Paro. In A.. A longum, Indago.etratio est euidens, concreue runt enim
vocales dex. A, longum in A, lon gum,Gnarus,Ignarus. A, breue in e, breue, Sa
crum, Confecro:Caput, Princeps. A,longum in E,longum,Arma, Inermis. In e,
bręue,Ti bia, Tibicen,tibia canens. A,breueini, breues, Ago, Abigo. In
1,longum,Instigo, ex coalescent te 0,et A,infto,ago.Verbum agasonum, et armen
tario 1 1 A E V 74 IVL. I. + tariorum. Sic, Tibia, Tibicen, exi, et A. In o,
Historia, Historiographus. In v, Sallus, Inful. sus. In Troiugena quoque
videtur a, in v, muta tum.In diphthongum,Mufa,Museum: li usation fit, in E,vt
supra diximus. E E, breuein E, breue, Ferus, Efferus, Hercise rço,
Nouerca, noua diuisio familiæ, non vtnu gantur. In e, longum, a RE. Rettuli. E,
lon gum, in longum,Telare, Protelare, in 1, lon gum, Ledo, Collido. Ini, breue,
Lego, Col Jigo. o,in o,longum,Solus,Consolari,a viduis, que I cum fe
Tolasrelictaslamentarentur, oratio lenia ens defiderium dicebatur, in Homicida,
non ver titur in 1,fed ab obliqua fuit, Hominicida. In v, vertitur,a rola,Exul.
v v, breue in breue, lubeo, Fideiubeo: neque fere cumaliavoce compositum
inueniasa longa tamen fit, Ius hab o, quam quantitatem reti nuit etiam in
Iubilo: nifi fit, ab iwin's vocibus triumphatorum:superstitesenim vitam Apollia
niacceptam ferebant, cui canerent pæana in vi et oria.iw.BiwiToma'v.v,in e,
breue, Iuro, Peiero. In 1, breue, Cornicen. v, in feipfam,consonans in
vocalem,Pituita, quadrifyllabum Catulla. con kain Auceps. Diphthongorum mutatio
in compositione, AE, in, 1, vt diximus. Aeternus, Sempi the A v,in
q:Plaudo,Complado, In F, Audio, O tcrnus. Bedio.vbi ob, nihil detrahit, fed
cauffam finalem dicit. In y, Claudo, Includo. Consonantium mutatio in
campositione.. Bemutatur in C, F, G, L, M, P, R. Succurro, Suf. B fero,
Suggero, Sulleuo, Summitto, Suppeto, Surripio. id Acolenfium more, qui, xatteCON,
reclamar; dicebant, præcedentem sequentis vi · pronunciantes. Neque tamen in
omnibus his literis femper eadem connixio eft. Malim enim Suslimen, quam
Sullimen dicere, et Submur, murare. at Plautus Summanare, a manu, fu? rari,
ficut a Vola, Inuolare: item Subreperc. Cum D, autem integrum manet, Subdo: cum
N, Subnixe: cum s, $ ublilire:cum T, Subtice re. Ante seipsum quoque non mutari
par eft: nam fi aliorum fonos fequitur, ne obturbet, ip sum se fouebit: vt in
fimplici Obba, quæ esset obi bibendum: ita igitur dicetur, Obbibo. Neque
mutatur ante T, in s, vt dixere, in Sustollo, nanque fuit vctus. VQx, S V $,
quæ motum ce lum versus significaret, Ünoder, fortasse autem fuerat, Subs,
ficut, Abs: quanquam hoc vide tur fuiffe cit. et a Sus, fuit Susum: fecit autem
ex fe Sustuli, non enim a fuffero, venit. Ea dem est ante c. Suscipio, quod
veteres Suc cipio, ve diximus, Acolenfium more, quem admodum supra declaratum
est, quos prisci e tiam in aliis obseruarunt, vt est apud Plautum, in AGnaria.
Supe 1 1 76 Ivl. 1. CI Suppendas potiusme, quam tacita hæc aufe ras.Quod nos
Sufpendas.l'ari exemplo,Suspicio, Suftineo, Suscito,Susuin,Cito. Exteritur ante
M, aliquando, Omitto. [ c,mutatur in G, Negligo Neglego: ficut Ne gotium, nec
otium. d,in c,Quicquid, Quidquid, Accurro, Acqui ro:in G:Aggero:in F,Affero: in
L, Allego: in n, Annuo:inp. Appon:nam quod in Aperio,sub flatum est, factum
fuit poetica licentia, nam e. tiam Apparere,dicimus.In R, Arrogo: in s, Af
sideo:in T,Attollo. Sed inuenias, Adrepere, et Adfum, et Adniti. Consules enim
auribus, etma „ teriæ: ficuti Plautus cumiocatur: et maluit Ar fum dicere, quam
Adsum: vt Tubinferret, Ate go, Elixu Volo.Antem,manet, Admitto.Eximi tur
sequentes, coniuncto, Aspiro, Ascendo, A struo:item G,coniun
etto,Agnosco.Contra,addi turinter vocales, vel mutata, altera, vt Redigo, vel
neutra, Prodeft,Mederga,Redhostire, M. Min Nanteomnes, præterquam aute B, P, et
seipfam. Imbuo, Impono, Immoror, Concio, Gondo, Confero,
Congero,Coniuro,Coluţibi lis, Connitor,Conquiro, Conrugo,Consequor, Contueor,
Conuolo, Anxur. Sed aliquando etiã fequentis L, aut k,naturam, subit, Colligo,
Cor myrigo:fuit enim Cum,præpofitio, no Con, alia ab illa, quæ in compositionc
tantum inueniretur: Nam etiam in aliquibus integra manfit, Cum primis, quod
verbum, qui diuisere, vt duo face rent, paucæ fuere lectionis, neque meminere e
tiam a veteribus, Cumprime. ficut, Apprime. / Item. 77 0 Item fi effet Con, vt
dixere, quæ nam illa sit, qua z audimus in Comes, Comitium, et clarius etiam
num,in Mecum, Tecum?Præterea fequente vo - 3 cali, quis vnquam adiecit n?
atabiicitur conso nans in hac præpofitione composita cum voca lis initiis:ergo
talis est, qualis abie ettionem patia. tur, ea autem eft m. Nam alioqui
interponimus consonantes, vt diximus Mederga, Redeo: etiam sequente
aspirationis craffitudine, Redho stire. At in Cogo, quod fuit Coago, et: Cohor
tor, et Coorior, et Cooperio, quid dicant? Postret mo inepte putent I n,aliam
effe,cum per n,aliam cum perm,fcribitur.Sed curto fuere prisci Gram matici
iudicio, quorum nostri nomen potius, quam merita funt fequuti. Atfatis constat
fonu ipfius v,in Cum, rotundioremfuisse, qui etiam nunc manet. Vmbri enim non
Latini obfcurio-)) rem illum alterum in vfu habebant, Nunc, Gallis
pronunciari,admonebamussupra. Mabiicitur, Circuitus, et Cafeus, fi a cogendo,
vt vult Varro,non a Cafa, vt nos iudicamus, dedu catur. Item in Cognosco,nam
yaorw, integrum } fuit:nequcenim est additum, G,vtputarunt,erat 5 enim γινώσκω.
n, in M,ante B, P, M. Imbuo, fuit enim a Græ- N 60 Buo, priscum verbum buw ;
etfignificauit in = ; fercio. Immortalis. Impono. Inc, etiam volunt illis
exemplis, En, Quid, Ecquid: En,Ce. Ecce. Abiicitur
qualegem,lupra,Ignauus,Ignotus. In G, non vertitur in lgnominia, vt putabant:
fed eft vt Gnomon. Ryin L, Intelligo;hocautem vsu, non lege fa - R Stum o quem
in 78 IvL. CAB. etum eft:nam Interluo, et Subterlabor, et Perli tus,
etSuperlatiuum. At Politianus, cum mauult, PELLEGO, videbaturin hoc,vtin
cæteris fibi, no poffeeffeprinceps literarum, nisi solus effct: fed aliunde poterat
diuinum ingenium fibi parere gloriam,quam ex deformatione Latinæ purita tis;
Abiiciturin verbo, Peiero. Śs,in'F,Diffundoineque enim fuere duæpræpo fitiones,
vt suntarbitrati Grammatici,Di,et Dis: fed Dis: Græca: nam binarius numerus
primus est,qui diuidi poteft:quod igitur bis facimus,dif continuata opera
fit.iccirco præpofitio hæc ex v no plurademonstrat, Dinido. quoniam quæ fc etta
funt,bis videntur. Seruatur in multis, Disco lor, Disgrego,
Disiungo,Dispono,Disquiro, Dir fidco, Distuli. Ante cæteras tollitur, Diligo,
Di mouco, Dignofco, Dinumero, Dirimo; Diuido; SwohisDiiudico. inuenias
tamenDisrumpo: Antee; * Sy haar te nondum venit in mentem, anponatur hæc præ.
pofitio: x, ante f,mutatur: Effigio. ante vocales ma net, Exaro, Exeo, Exilis,
txoletum. Non abiici turate D,fed ipsum d, tollitür, Exuo, erduci. Ano te alias
manet, Excio, Exlex, Expono, Exquiros · Extero. In aliis autem non'eximitur,
sed E, præ positio est,non e x, bibo,Edico, Egero, Eiicio; Eligo, Eminco, Enato
Eruo, Evado. Inuenias Lampytamcnante F, integrum, Ex: fed in eo verbo, quod
quia nolo hic ponere pudoris gratia, aut per te ipfe intelliges: autfi non
intelligas, non docebo.Cum vocibus autem abs, incipientibus b -componas, quid
facias? tollas fibilum?non.n. ne.? 7 7 1 necessariumest, nanque in x, fyllaba
poteft ter minari: sed soni suauitarem fequendam censeo: Itaque
commodiusdicemus, Exequor, Græco tum exemplo: qui certis locis em,aliis, l
", dicunt. Sed recentiores, vt fapere videantur, omnia ob -SAYY turbant:at
nosveterum fequimur simplicitatem, qui Exul,fcripferc,quanquam ab Ex,et Solo,du
ceretur. Hocitaque cum re et e fic fe habeat, pes fimo argumento probandi
rationem male iniue re. Nam inquiunt,fi poftx, liceret feruare sini, tio vocum
compositarum:pari ac simili lege etia liceret polt Y. fed nõlicet: neque enim
dicimus, Abffectum neque Obffeffum: ied vnicas,fuitco tentus vsus. Vbi
dupliciter peccant: primum. cum putant s, quod in Excquor est, præpofitio. nis
effe non verbi:hocenim falfum eft: nam fi- > gnificatio verbo debetur, ergo
et partes, etrema nıt veftigium prxpofitionis Græcorum lege. quos imiramur,
Ecfequor. Alterum errorem vi. deas manife'tum, cum putant Abs, esse integram »
et natiuum præpositionem, cum tamen fit Ab, 4.5.14 per apocopen, vm, quod et
pater in ob: neqreco nim nec ile habeas dicereObs. fed per apocopa
ötw.nanquera,fuit fimpl. x.hrw. compositum. Obs tamen fuiffe in quibufdam,
videmus illis e xemplis,Obfcurus,acura:Obfiænus,andtoxcs/ you,vnde Cænum
noftrum. Atin abfcedo, Abs eft, et Cedo. fed nihil ad rem. 1, mutaturin R, fia
patre, non a parente, lic'a' Parricida: fed hoc plus placet nobis. MORdinis
nomen Græcum eft. Dicebantmi. Ordo literarum,quatenus diettionis partes funt.
Que cuique syllabe debeatur. Rdinisnomen Græcum eft. Dicebant mi: limbus
Tribuni: Hactenus tibi licet: Hîc consistes: Eo progrediere: Huc reuertere:
Öpor dwindeordo. Acoles autem non aspirant, quo. rum instituto fane libens
accedo:nihil enim hel Juonem magis fapit, aut Barbarum, quame gut ture
insufflare aduersus eum, quicum loquare. guideft igitur ordo, loci ratio, qua
quidaut præit, autsequitur: velante, vel retro, vel dextrorsum: vel
sinistrorfum:vel fursum, veldeorsum. Nam prioris ratio est,præeundi:
posterioris,sequendi. In militia, vt diximus, nata vox.fic etGræcitoa Žuv, ab
aciei directione: Translata in ciuitatem prostatu hominum,liberorum,seruorum.
Inde patrum,plebis:additi et Equites. Et Lex Otho nis Theatralis. In plebe
etiarn fuit ordo: classia riorum, proletariorum, duicenforum,capitecen forum.
Ab hisad corpore carentesres fusum sia gnificatum, vtetiam ordo innumeris
dicatur, non folum in rebusnumeratis:non temere. Eft enim et numerus et mensura
caufla rei numera tæ, vel menfuratæ, non quidem vt fint, quod funt:fed vta
nobis cognoscuntur,aut tot,aut ta tæ, fed hæc altioris sunt operæ. Eftigitur in
lite ris ordo,potestatis pars,fecundumquamlicet ip hiefis aliam atque aliam
sortiri sedem, propter vim qua inter seautconueniunt,autdissident. Quam uis
autem in fyllabis cognoscitur, non tamen a fyllabis 81 fyllabis fit, sed facit fyllabas:eftenim
forma fylla- Online sales barum Ordo:ac propterea nonad loca, quæ de fyllabis
ftatuunt, referendus, vt fecere vetercs:fed hicretinendus, vbi agitur de
elemetis: Elementa enim fyllabarum materia sunt: ordo aute forma, aut
poteftatis pars, aut abipfa pendens poteftate. Eftigiturvnum ex duob.
principiis fyllabaruin. Quum autem duplex fitordo:vnus ob composi-ceSpeeches
tionem quo quid aut præit, aut præitur:alterin difccndo: vt de quo elemento
primum lit scri bendun.: prior species ordinis vera eft: quippe ex quasyllabæ
conftantur: is enim literaruni finis, qui partium prop: er totu. Alter modus,
qui qua lisve sit,suo moxdiceturloco. Eftenim acciden talis quanquam abipfa
profeet us fubftãtia. Iam cuiusformaeft eiusmodi, vt prima prodierit in lucem
atque vsum sermonis, hoc de lese præstat, vt prima quoque dicatur,proximanamq;
eft na turæ communi. Acquanquam defyllaba non. dum dicimus, tamen hic tanquam
de principiis fyllabæ scribentes, nomine tenus syllabam refe remus. Omnis
igiturliterarum cohærentia, autin ea dem fyllaba fit,quam propterea Græcio 2013
m. 72 Ziarlas nosin philofophia aliquando constitutionem, a liâs concretionem,
hic faciliusconiunctione di camus, per quam syllaba, quæ literarum coniun Etio
quęda lít, conitat:aut in diversa deftituuntur literæ,nequefub eundem tenorem
veniüt,iccir coque Ale saou vocant Græci,nosdiscretionem, diliun
ettionemvenominamus:iplasq; literas dis fijas. Id autem vocum dignoscitur
proportione: by stay Iul. tit. 1. Renquarum vt quequeinitia observamus,ita et
fylla Du bisascribenda iudicamus. quoniam enim ab his incipiunt vocesper
fyllabas,ipfæ quoque syllaba incipient.Exemplum eft Conspiro:quia ab NSP; nulla
vox incipit, nefyllaba quidem incipiet: fed Nyprioriseritfyllabæ finis in
diastasi, cum fequeni te,proptereaquod a cæteris duab. invenias prin cipium
diettionis, Spes. Neque vero evenit id propterea, quodex Cum, et Spiro,
compositum est,vtquasi in partes pristinas reducatur:fed idem modus erit etiam
in Pulchro:erit cnirn Pul,prior fyllaba. Altera autem a duabus incipiet confo
06. nantibus: iccirco quia vocis initium invenias 2. tale, Credo. In Excedo,
autemi si quis quærat, vbi sit distinctio faciunda, intelligat non esse
neceffariam fcindere x. nam quanquam est du plex vi, figura tamen vna eft, et
indivistbilis, quemadmodum supradiximus,alioqui non esset elementum. Neque fi
fit facta vis dietioni - bus, per concifionem, ve Extin etti. duarum e nim
literarum vltima erit fyllaba, quia Lynx di citur. Proprium autem eft
confiunctionis,certas vo cales,certa que admittere consonantes. Difian ctionis
autem, omnes quidēvocales,nonomnes confonantes:vtn, non admittit ante fep, aut
B. Etin coniun et ione nonaliam admittit, quam V, etad diphthongos cõficiendas
non omnes cow currunt vocales. Las igitur fe mutuo anteire, aut consequi
diversis in fyllabis, iam declaratum eft. In eadem autem fyllaba præeunt, et, “E”
o: sub sunt, E, V. Quinetiamveterein diphthongo eIs fubirs subit, i, vt Queis, pro
Quibus: fcriptum a Vergilio esse vnica litera,constat ex Gellianis narratio
nibus.In interieetione tamen, Hei, manet adhuc. At Græci postposuere etiam
ipsiy, in Harpyia: et 1, et H, et Agriçãow.Sed et post v,in eadem fylla
bainvenitur, Suavis, Suadeo. Consonantes autem fic ördinantur: Omnes Conso pene
consonantes anteeunt duas liquidas,1, et R. Nathy Duplices autem non atiteeût,
præter z:antecedit enim ipsum M si, verum eft, quod placuit quibus
dam,Zmýrna.Exemplaliquidarum sunt, Blæsus; Brutus; Clarus,
Crassus,Draco,Flaccus, Frango; Gloria, Graccus;Plico, Precor;Stlatum, Trica.AE
Q neque liquidas,nequc aliam quampiam prece dit. NequeD,nifi vnam ex ipsis:non
enim l. Cx teras B, nullas præcedit; acneipfumquidem n, id verbo Abnuo. Sed in
Abdolas, amplectituri psum v ; quoniam invenias,Bdellium. Etiam, in Aetna,
difiuncta sunt T, et N. Atvero, C, D, G; P, non respuuntur. Exempla funt ; duo
depes, Cneus, Gnatus; nxew. Igitur coniuncta erunt in Cydnus ; da'ruw ; Agnus,
Sypnus. M, in ca demsyllaba cum nulla sequente est;præterquam cum N: vtin
Mnemosyne: et ipsum ante sevnam aut alteram tantum patitur: Di apud Græcos,
duwniet s,Smaragdus:et fi verum eftquod aiunt; etiam z, Zmyrna:quod li verum
eft hoc,duplicemt præcedere ; etiam vtravis eius pars idem munus Obire poterit,
tams,quam p. Habet autett ipfumi Meandem rationem cum p, etc, etliquidis:vt po
ni poflit ante s. Nam quemadmodum dicimus; Fij. 84 Iul. I. Ex,a't: fic etiam
Hyems, Sirems, ains, Mes, Ars: Namm, et n, inter liquidasquoque recensuere.
Sicante x, tres ponuntur, Falx, Lanx, Arx.quod commune habentinter fe, non
autem cum M. E freçontrarioipsum s, antecedere potest B, C, D, F, P, Q.
T,obevvu'w's Scaligers codwsquiaeft in z, Coivdo vorulur G Spes, Squilla,
Stolo: cum cæterarum *** nulla. Veteres hic quum alios admisere errores,
Angelenum infignem illum, qui negarent ante D, po ni: at tanto nobilius ac
verius: coeunt enim ad eo,vcliteram cfficiant vnam, z. Nullæ mutæ in Bol ter fe
cocunt; nisi B D,vt Bdellium. quod etiam videbatur quibufdam
aspcriusculum,iccircoque mitigaruntinterpofitavocali, Bedellium. Sed tamen apud
Græcos est 31cmw. Quinegant z, zamipræponiipli Msin Smaragdo, fortaile vera di
cunt. Sed eorum argumentum falsum est: sic e nim aiunt: in fine carminis
dactylicinon poffet collocari vox illa, neque enim præcedenssylla ba finalis in
præcedenti dictione poffet corripi, non enim potestabiiciipsum z, sicut
abiicitur s. Sed falla eft comparatio:interpofito enim inter vallo non
coniunguntur voces: itaquenon fit positio ad productionem. Quam quisibi con
finxere, vt evadanthancincommoditatem,mo do mutam cum liquida excusant, modo
fibi lum, modo'aspirationem tollunt: fed totmon stris opus non eft: multa sunt
exempla, mul tæ rationes. Nam quemadmodum dicent il - lud Homericum dactylo
comprehendi? ai ouncedLwr: aspiratio enim cum ipso R, pro: ducit præcedentem,
quod est manifestum in versus 85 versu Theocriti ex Herculillo, özcvet..finis
enim senarij da ettylici est. Item I consonansinter duas vocales semperlőga
est. Ergo quomodo di camus, Regia luno.Eft et illa ratio invicta si diph thongi
finales,non semper corripiuntur fequete; vocali, sed etiam poetarum arbitratu
producun tur: sequens fyllaba initio vocum, fines præce dentium non mutabit.
Sed hæc alibi propria o pera sunt expedita contra ambitionein Gram maticorum. Dedifiunctione
five difsitis literis. Vocales. Ifiun ettio accidit omnibus vocalibus,et
mudojme cum cæteris, Aer, Sais, Tetraon, Phaülus.E,cu cę teris,Ei, Eo,Eunt,
Ea.1,cum aliis, Fio,Fiunt, Fi at, Fiet. O, cum reliquis, Cous, Coa, Coco; coit.
v, cum reliquis Sua,Suem, Sui, Suo. Item cum se ipsis,Nausicaa,Deest, Dil,
Coopto, Suus. Sunt hx disiun et iones numero quinque et viginti. Quarum viginti
inter se reciprocă sunt:Nam vt quæque præcedit cæteras, ita præcediturab illis.
Confonantium difiunctiones. D, disiungitur a B, Abdomen: etquidemmu tuo,
Adbibo, B, ab n, Abnuo: sicutm, a D, Ad mitto. B, præcedit F, fed mutatum,
Aufero: ne que enim eft,vt ait do et tissimus Gellius: eius acumen
laudamus,iudicium non fequimur.Præ ceditur autem a tribus liquidis, idque com,
Fiij. 86 Iul. I. mune habet cum suis comparibus, Album, Als bo, Arbor:Alpes,
Ampulla, Arpinas: Alfenus, Arferia. sed m, ab hacexcluditur, vtdiximus. l. tem
præceditur abipfo c: idque commune ha bet cumMT, s; Pyracmon, Flecto, Flexum:
eft enim Fleçsum. Præceditur etiam a G, Egbatana, ídque habet comune
cump,Migdonides:et cum M, Agmen. TT,præceditura 'c; et p,siyetenuibus, five
aspi ratis: fed plus Græcis, quam nobis,raw, riww, ogą γέω, χθων.quorum exemplo
intelligamus Ααασιν in illis, Actus, Aptus,Aphthonius,c'xto Ipfum C, præceditur
ab x, Excutio. Item suum par, Ex quiro. Habethoc communecum L, Exlex: cum P,
Expuo; cum T, Extulit. M M, præcedit B, et P, vt diximus, etfeipfum, ac
præterea nullam,Ambo, Amplum, Ammentum: neque enim antecedit n, vt dixcre:nam
in A. mne, est ousmas: exemplum, Mnemosyne. IR L, et R, fere omnespræcedit,
Arbor, Arccrra, Ardeola, Corfinium,Corgo, Periurus, Perlego, Permco, Pernox,
Perpes, Perquiro,Perrexi, Per, sono, Pervolo: Albion, Alcon, Aldus, Alfenus,
Galgulus, Saliuncula, Almon, Alnus, Alpes, Al fiosus, Alcellus,Alveus.Iccirco
diximus, Fere: L, non præcedit Q,neque R. Ita n, quoque mul tas præcedit, Anco,
Andes,Anfractus, Cõiunx, Angeria, Conlutibilis, Anquiro, Conrugo,Con
sul,Antes,Convolo,Anxur, Zinziber. Ante B, MA Pununquam. s,interdum oblidetur
ytrinquea c, in ipsadu. plici excipiens adveniensc, initio subeuntis di
etionis. Excoquo:idem est Ecscoquo. Duplices nullampræcedunt.nequein
cõstan-Shopli 44 tia,nequein distantia: sed vocales semper in con
ftitutionç.bínGocmpovefaww.at non retinent eam pertinaciam in subeundo:
dicuntenim Ariobar zanes,Perfæ, et Xerxes:et nos Anxius,vtoftendi musiam
;Græcixdutw: Arabes etiam Alzit, et Al zibib, oleum, et vua; et alia multa
etiam extra are ticulum. Ordo discendi Elementa, 4? $ est ordo, qui est
principium, ac quafiforma Syllabæ: nuncautem diligenter ordinem nata-xatire
lium,atque vsus earum videamus. Nequeenim re et e fecere prisci,aut Latini,qui
quem aGræcis, aut Græci quem a Syris accepissent, ordinem re tinuere. Sed vt
quæque primanata fuitlitera,ita Kesan prima quoque sese offert ad pronunciandū.
Iccir " la co et a vocali,propterea quod vocalessyllabarum formam
feruntfecum,et angtissimaearum recte, omnia idiomata ordinem auspicata funt,
Chal dæi, Arabes, Scythæ,Græci,Latini. Eftenim Az prima,notissimaqueinfantis
vox, cu qua vitæ hu ius fpiritum primum hausimus: neq; re ylla eget alia, et
hiatu oris solo fine vllo cæteroru motu in, strumentorum.Ludunt enim Græci,
quia Phe, nicibusAlpha,bovem dictum autumant: cuius, pecoris quali auspicio
quodam Cadmus vrbem Thebas condiderit: cuiusque opera feminio illo F iiij fabuloso
cives suos, quos ideo awagie's vocavit, collegisse: a terra enim oriundos
mentiebantur, co dimetientes, et nobilitatem fuam et pofseflio nemperegrinis
inacceffam: quo iure quali paren tem ab occupatorum amplexibus arcerent. Sic et
Gai, et Opici, in Italia ab eadem terra sese nuncu parunt. Cæterum Græcorum in
mentiendo au daciam fuperavit quorundam ftultitia, non in credendo solum, sed
etiam in prodendo. Nosau tem Arabicæ linguæ non totius ignari, fcimus et a
Syris hodie, et a Mauris qui inde advecti sunt, Taur, bovem dici: putamusque in
Græciam a Cadmo eam vocem translatam, Igitur vocales A O duæquæ effent
amplissimi soni A,et o,pręponen dæ aliis fuerant, quemadmodum huic illaeftan
teposita: quæ aute essetobscurissima postponen. vy da v, eiusque similis altera
ei apposita y. Duæ au E 1 tem mediæ, E, et 1,mediu in locus conveniffent. E Sed
dee,posta,primo statim loco scribendu fuit, propterea quod effet magistra quali
quædã nium confonantium: Quarum nomina, paucis exceptis, aut in eam desinerent,
aut ab ea incipe S. rent. Ante alias autem cõsonantesde Sibilo pri mo loco
agedum fuit: vocali enim proximus eft: H fimul et deAspiratione: nam paulo
compressiore spiritu Aspiratio,paulo tenuiore Sibiluseffertur. Atque etiam de
Aspirationeprius, quam de Vo icalibus dicendum fuerat. Sed quia affe et uspo
tius quidam est, quam elementum, poftremam omnium commodius ponemus. O et avo
eam lo co Latini conftituere,veterum imitatione. Nam quum a Simonide e, vocalis
fonus, vbi perpetuo pro,. 1a tu car det 89 ) produceretur, notatus fuerit
figura H, qua Athe nienses vfi essent antea ad afpirandum: atqueille eã post E,
cui substituiffet, ftatim reposuisset: La tini receptam ab Atticis etfigura et
potestatem, Simonidx ordinem sunt fecuti. Na Latini ipsam F, cum interponeret,
fane numerum auxere: cui fedemeam quare aflignarint, baud facile explica-
", polo ri possit. Na et inusitata litera apudmultosGræ corum eft: et fi
fpiritum eius impronunciatione respicias, ipli,anteponidebuit: fioriginecon
templere,post, statui:fuit enim ex duplici, vn de etiam digammaappellata:
partes enim totum anteire debent. Primores autem confonantum in cunnis
sunt,B,G,M. quare Arabesatque He- 3 M bræi, Græcique longe quam Latini
sapientius, qui ftatim poft a, ponerent B. poft quem, non c, vt nostri.
facilius enim, quam c,pronuncia tur: quanquam inter linguæ vitia aliquos inve
nias in c, aliquos in t,hæfitantes. L, quoquefaci--- lima fuit, atque inter
primas reponenda: la et en tis enim ætatis est: itaque vdam Græci appella runt:
minus commode communicato nomine etiam ipfi r.quam equidem iudico postrema in
se R derecensendam,sed anteduplices tame, quarum ynaquæque eo loco ftatueretur,
quo eius origo fuit: yt Y,prima sit,qa B:at z,vltimaquiac: me chupfe' dia autem
z,quia Die, novum inventum Lati norum, autstatim poft c, automniū vltima col
locaretur. N, autem poft L: idem eius filum pro N nunciationis vtrique
fuit.Neque vero idem or do apud omnes fit nationes, fed vt cuique fre-, quetior
est litera,ita prior alia esse debet.Quem FS ! 1 90 Iul. I. neFINjust admodum
etiam illud intelligas, apud Vmbros prius de v, quam de o:contra apudRomanos. Figura
Elementorum et earum canssa. Vnc de figurarum caussisdicendum eft: de antiquis
figuris loquor: quas quiAtticas, Addressto antiquas voluerunt appellare,oftenderuntq
etmultum scirent, etparum saperent, Nequees ním Atticarum cognometo circunlatz
vllæ vn quam literæ fuere, sed lonicarum: pars enim lo niæ Attica regio fuit.
Nam quum in duas partes vniversa effet Græciadistributa, Peloponnesum, Dores,
cætera regionem lones obtinuere. Duos super hacreversus ponit Strabo certis
incisos co lumnis, quos qui volet leget. Nam iidem quum in Asia loniam
recensent,coloniaspro matrice ac primaria regione supposuere.Quorum mores in
luxu, ac mollitiam Barbarorum quum abiiffent, puditum est Atticos Ionicæ
appellationis. Cætes rum nomen et illorum vfui in literis, et Dorienfis um
manfit confuetudini. Iccirco autedi ettæ sunt Anli antiguæ, quia recentiores
aliis notulis vti malue quire, quibus etiam maximam horumpartem descri ptam
videmus: quare etiam Maiusculæ funt ap pellatz: a notioribus igitur incipiendum
est. Rabi Lacfiguraquide acciditliteris,per lineas, Qua= Liudij quam autem
figura est spatium lineis contētum, paucæque literæ, aut totæ concludunțur
lineis,vt " D, B: aut partes earum, vt P, Q, R: quædam vero e tiam vnica
tantum linea describuntur: tamen eft eis attributum figuræ nomen, propterea
quod non effent veræ lineæMathematicą, fed potius super Grana ܕܐ fuperficies
angustæ quædam. Omnisautê linca, autest obliqua,autrecta.NamquodGalenus di
vidit in curvam et cavam,id eftper accidens: ei dem enim lineæ contingit,vt et
cavasit et curva; ficuti obliqua dimetiens linea quadratum, infe riori
triangulo curva erit:superiori cava: neque enim in linea obliqua cavum a curvo
melius diz ftingui poteft, quam in puneto dextrum a fini stro,superum abinfero.
Sed eadem linea diftin guitur figurę vniuscavum,ab alterius figuræ curs uitate.
Omnis igitur litera, aut linea,autlineis conftat:item aut recta,vti: autrectis,
vt h: auto bliqua, vt o:aut obliquis, vt q: autrecta, et obli qua,vt p.:aut
obliqua et recta,vtc:autrecta, et o bliquis,vt R, B. Hæc est divisio a
substantia:abac, cidentiautem fic:nam transversum,et perpendi culare,
etdiametrale, et iugale, et decussatorium accidentia funt lineæ vel re et tæ
vel obliquæ. Per pendicularis vna,1: duxw, cæqueiugatæ: Dux angulares ad medium
perpendiculum, a: vna p pendiculariscũ vna iugata,:cum duabus, F: cum tribus,
e: Duæ perpendiculares iugatx diametro quadrati, n: et alio fitu z: duæ
diametrales x.Sunt et curvæ inordinatæ s: na Græca ex æquo respon det sibi, 2:
sunt simplices, vt aliæ:cöpositæ,vtwa et F:quarum illa originem suam
repræfentat,,0; þæcnullam 5,5, pateftate. CAP. XL Cauffa fingularum, Vnc
fingularum cauffas videamus. A, tota ma ipli quidem sine caussa: a Syris enim.
Quid Syri? Quidam A 92 Iul. I. Laura Quidam dixere latum sonumin angulu desine
25 Airc,iugumque ipsum præscriberemetaslatitudi nis. Sed corum audaciam arguit
et A, Græcorum, a quibus ipsum illud A,Auxit: et A eorundem,cu ius iugum
præfcribat hiatum nullum:nam quo pa et o autexore, aut in ore triquetram
poffint fi guram constituere, fane nescio. Differt autem y tram ineas
rationem.Nam fi propterca fimplicis simum putes elemetum,quia primum eft:ita
fane Scribas sicutArabes,quipofitæ lineę perpendicu Jaris calcem linistrorsum
versusproduxcre,quali in figuram noftri Lyaut G, Hebrei inversi.Sin hia tum
contemplere,patula facies eipotius debea tur,quam ctiam quadratam primum
finxiffe He: bræos par est,item Chaldæos:vel ve ante hos fabu:lanturquidam,
nescio quos Aramæos. eamque linea dimetiente disfe ettam, fic, quam postea
concinnarunt. Sicigitur esto divaricata propter hiatum. Huicautem cum soni
exilitate atq ;ob Y scuritate contraria esset Y, vndeet Yonor acceperit cognomentum,
figuram quoqueopposuerein versam, bifurcatam. Huius itaque sono quu pro V ximum
sit v,nostrum,novaldeab eius figuradi versam facie habuit.sed subducta
columella, fur cas bivias contrarias ipfi A,retinuit.cuiusnaturæ ipsum
quoqueesset contrarium pronunciationis obscuritate.Ac fanealiquando
fecit,vtdubitare mus,vir do et iffimus Ausonius poeta, an v,notula fuerit in
vfu Græcis, ille. n. Græcam negationem O Yavnicam fuisselitera illis versib,
professus est; Unafuit quondam, qua respondere Lacones Litera: irato
Regiplacuere negantes. Sed ! 93 Sed videtur allusisse ad fonum Græcu et ad
figu... ram nostram: exprobrat enim hocillisNigidiust Figulus, qui nesciverint
figuram vnam invenire, qua v,noftratis exprimerent sonum. o, suis sibia
natalibusvsq; figuram attulit, ex- ( pressa piettaque oris rotunditate: sicut
i,sonima- 1 xime exilis,excuffo omni tumore,ac vetre,quam tenuitatem cum
e,faciat pinguiusculam, iugula vimus obeliscis quibusdam:quorum sane nume-, rus
potius servivitdecori, quam necessitati: sed: aut duobus extremis fatis
efficere poterantsic, t: aut medio vno, lic,:fedilla propiusaccedebat ad Csapud
nos: hæc autem apud Græcos ad aspirati-> onis nota. Nam quominasfummo tantu
essent contenti, in cauffa fuitr, Græcis: quemadmodum Latipiimo solo nequiverunt
effe contenti, pro pterca quod eam figuram L,occupaffet:placuiti taqueternis
roftrisfaciem efficere pleniorem V si autom antiqui funt longiuscula forma,ipso
t,nolu describendo, quum geminaretur:idquedecoris gratia, sic, lulij. Huius
consuetudinis litera lon gam vocat Plautusin Aulularia. qua interpretes
iccirco,pro L,suntinterpretati,quiaBarbarorum vsu fic nunc fcribimus. B,item
Græca est.sicut “M”, “N”, “T”, 2,velsono, vel Greeca figura:atC,ex dimidio
Græca est:subtra ettanam -.K que columna ipfiusK.cuspisnuda remanfit, fic 2: 1.
cui ad faciliorem scripturam angulum ademere. Sicut etiam ipli, quod fecere vt
effect:fic ex I, D creavere sglubdu etta bali, et angulo fiebetato, vt $ non
amplius Scythicum arcum imitaretur,idq Notabat Athenæus ex priscis fabulis: fic
ex quod abscidissentden7,finxere ipsum p.circulie nim quam anguli du et us
facilior: ppterea quod vnica lineavnico abfolviturmotu:at Angulºdua.:bus
lineis, ergo duob: motibus, igitur quietein "terposica: hoc enim in
naturalibus declaratū elt:: Poftea quum noftrum hoc P,concurreret cũillo rum
litera, quanı Caninam vocat Persius,vt a no ftra diftaret,caudam addidere,R,
ficut etipfi c,ex G quo cognatam effingerentG.atque eodem cons filio eidem
addita alio modo cauda vt fieret Latic Ona litera, qua Græci carent sic, Q,quam
postea in huncmodum clausere. Q. Eftetiam ratio, quare fubdidissent
caudam:deferendusenim ei femper comes suus fuitilli, fic, Qv. AlimpsoFaet um
autem eft,vt non folum Angulorum Grad"hebetatione,et virgularum additione,ademptio
ne,Græcasin ysumsuum transferrent Latini, sed ctiam integras fervatas
inversafigura reponeret: mdos,e nihil enim aliud eft noftrum l, quam illorum r.
quoniam illorum 4 ; nimis propeeffetipfamAz cuius iugi describendi poffent
oblivisci.simultur pe forearbitrabantur,li vocalis nota plus egeret operæ,quam
consonans.cum pronuciatio elim pliciori penderetpotestate. Digamma quoque
inversum,duplex eft í. Quare non male cxco gitavere,vty,Græcam exprimerent per
antisi Andrefagma,E.neque, quominusid reciperent,in cauffa
fuit,vtaiunt,fonimollitia, quam ipfum Y, reprę * fentat,noftra ps, non
affequuntur.nam quod ar gumentumadducunt, id est nullum.šeguit, qafa cită eg6G
estenim vbi no faciat,orisontis:qua re quod officiu præstatillis; nobis no
denegaffet. Age vero quid prohibuit, quominus illi aliqua fi gura
exprimerentnostrum e: nam quia Roma nis vivendileges accepiffent;etiam loquendi
nori negligerēt.erat enimeis in promptu av tixand; x. nequeaddere “V”, quod ne
Latinis quidemfue rat necessarium. Nam quemsonum,ipfum cica v, iunetum habet,
potuit etiam seorsum, fi attri buiffent,per se obtinere.Ita etiam Angelo, fi
non eft n, in cygersnon estr, geramusmorem mo rosisistis, et
antigammastatuamussic j. quod ip summet fit hoc quod neutrum illorum quivit
effe: Acceperunt autein noh folum eafdem eadem poteftate, et figura,eodem vel
inverso situ, sede tiam et figuraet fitu eadem, poteftate vero longe Fishes
dissimili:vtx,quæ illis esset afpirata, nobis effet nesting duplex: et quæillis
esset media fimplexr, nobis effet aspirata geminatu f.Sed etvocalis notam ab
Athenienfium institutis vfquerepetivimus ada* fpirationem, cuius illi vfum
invertiffent.H, enim nunc pro e,longa:olim pro aspiratione Acticipo fuere,ita
ctiam,vtinfererent:quos Latini suntfe cuti,Heraton:etiam in medio,KTAHS2N.quod
ne nos quidem negleximus, Prohæmium. Quare poftea femper tenuit confuetudo,
vtcentenarij ! numeri nota eflet H. quod fuiffet illius vocis ini tium. sicut
apud nos eadem ratione, c. Ijautem et vsconsonantium figuras nonexco
gitarunt,poteranttamen ficfieri, nifi Acolicum illud mayis ti. Literarum nota
cum potestate numerorumfignan. dorum, C Nominum. con Flarespotius
referenduseft: tamenquiafine et figura cognoscinon potuit, huc,vtopinor,com
modissime distulimus. Eftautem duplex: quippe Omployelad numeros digerendos,
vel ad certa nomina Nement indicanda.IgiturVnumper 1,fignabant,qñmi nimo fpatio
effet virgula, sicut vnitasnullo: Ac repetebant fane vnitates,ad quinque vsq ;,
quem numerum per v,defcribebant: non propterea ca ea nota esset dimidiumipsiusx,
quodenariûde a fignarent: neque iccirco, quia olim fcripferanț QV, et poftea q
fuftuliffent: fed quoniam esset quinta vocalis:cum qua repetitis ; atqucappofi
tis vnitatibus,ducebantur ad numerum Denari jum: quem iccirco x. litera
notavere,quia in nu mero atq;ordine vulgari statim ipsum v, feque batur. Quo
confilio etiam Centenarium nume rum quum ftatuiffent per c, sequentielemento,
scilicet D, Quinquagenariu deposuere. Ratio aut Centenarij a prima litera
ipfiusnoininis accepta fuit: sicut et Millenarij,per m. Quinquagenarij autem
notam'non a nomine,fed a Gręcorum in yftituto excogitarunt:nam quum illiper N,
pinge rent quinquaginta, prisci Latini, quihuius ele menti loco
ponerentidentidem L, in hunc quo quevsum substituêre: et monuim ' apud poetam
fic fcriptum legi solitum a doctioribus. DantmanibusfamuliNymphas. Sane vero
Lymphas a Græco víu on ductum ne-» monegat.et içigan;quasi79igfur,vtvolūt. Io
no - Nomorsa minibus quoque designandis vsi sunt certis lite ris,iísque eorum
primis:c.Caius:P.Publius:et in versa,vty, Caia diceretur.Ergo Publiam si lege-,
remus, etiam inverso d, scribendum fuit. Sed de his suo loco inter nominum
rationes, ac præno. minum disputatum est. Poteftas mutua quarundam cognatarum
literarum, quas Græci vocant alsoíx85. Pgularum diximus poteftate, nunc
elemento rum cognationem quandam videamus. Propriu Arhe's hit? igitur elt Novem
literarum, in quincunce, quasi dispositarum triplici serie, costitui:
quasiccirco Græci avtiquya appellarint, quiainter se mutua subirent fede.
Noselegantissime dicere vicarias poffumus. Cognatæ vero, atque etiam coniu gatæ
re ette vocabuntur. Sunt tenues tres, C, P, T: quibus addita aspiratio,totidem
creat Græca pru dentia,vnica sua quanquenotula insignitas,X,Q, ©. Mediam autem
interc, et Græcam habe mus Ġ. Itaque et dyxuege, et Anchora dictum eft: et
Cneus, et Gneus.Inter P, et•, fuit B. quam re et βινάκια, et φιτακια, et
πιτάκια dici confue visse,prodidit Athenæus. Intert, et,ficum est D. iccirco
curaüta, et cx Jadro dicere Græci fine flagitio insticuêre:etnos Adque in
Atquemuta vimus. Quincunx igitur sic disponetur: Tenues tres, Medix sub his,
imæ Aspiratæ. Vt quam 2 F 7 1 Gj IvL. Cas. ŠCAL. Lis. proportionem ipfainter fe
habent propter fpes ciem, a qua tales dicuntur,ea habeant ad cogna tas propter
affectionem. eiusdem enim speciet funt “C”, “P”, “T”, “P”, “B”, quippe aspiratæ
funtfemivoca les, tenues funt mutæ, media inter eas. at inter fe habent
proportionem affe et ionis,id est potelta tis, quam Græci toidtorg vocant.
Hasautem con iugationes quartus ordo etiam augebit. Na ques admodum tenues
aspirationemutabantur: ita P Abilum additum in alium ordinem transibut. eo enim
duplices evadunt,ex Quincunx c, et s, no ftrum x:ex P, et s,Græca'y: ex T, et
s, fieret aliqua pari exemplo:nequerepugnat aut communi po testati
pronuntiandi, aut Barbara Vasconu con € P T suetudini, quiltse, proipfe
pronuciant.Sed Ma GBD tricem fuam Græciam fecuti funt Opicinoftri: a * ° quibus
rccipere vna cum vocabulis quibufdam Ey z placuit vfum diverfæ duplicis,z.
Diverfæ fane, propterea quod et media cum'fibilo iungitur,no aspirata: et
poftponitur illi, noanteponitur: Du plices igitur in suas compares foluuntur
cum in-, He et untur: Faex, Faccis:Grex,Gregis:04. Os Kiefsn.bos. CAP. XLIII.
Naturaquedampropria, 1, vocalis. St et natura quædam propria I, vocalí:Nam quum
cæteræ vocales ante vocales corripian tur ( hoc effecit facilitas
pronuntiationis, ni hil enimmoræ inter fimplices hiatus infereba tur) vaatantum
obtinuit quadam quafi præro gatiua, certis velocis Græcorumoreproducere Dr tre 1
tur,rovėszíscilu,sit.id quod non penitus fine ratio nefactum eft: Multum namque
temporis poni- Comsa musin exilis vocalis pronunciatų, propterea og Aatus
cunctabundus exitinter oris anguftias: ic circo Græci in multis, Latini parcius
produxerė. Quemadmodum in verbo,Fio:quoin verbove- rx * teres duim legem volunt
constituere,errarüt: sic enim dixere, Semperin co producii,nisisequa tur E,vt
in ficrem: Hoc enim falfum eft: nam in futuroFiet, item longa eft: vbi enim
effet mul tisyllabum multitudine fyllabarum, vocalis bres vitati quali
supplementuin milêre. Sed illi per ftantin sententia, adduntque, Non satis
effe, vt £, fequatur: sed id quoqueopuseffe, vt et, fequa =! tur in prima
persona:at Fies, Fiet, non eft in prima: verum adhuc errant: nam Fiemus,prima eft:
itaque addere debuerant et id, Vc effet fin gularis. Sed ne lic
quoqueprocederet e senten tia: ita enim priscoseffe locutos constat, Ficm.
Cuius rei argumentum habemus ex analozia fecundæ, et tertiæ personæ: eti præsto
est Cato ñis autoritas: Qui ita et pronunciavit, etfcri. ptum reliquit. Sicutet
illa Dicem, faciem. Eius enim vocalis fonus cum infinitivi Vocali con iunctus
eft, Amabo, Amare: Docebo, Docerc! Audibo,Audire: fic,Dicere,Dicem Fieri, Fien.
Prætcrca, quam afferunt regulam, non bene exprimunt liceniın dicunt: Produci,
natin iis cuius persona prima habebit i, at Fierem, elt persona prima, ipfa
autem perfonam primam non habet. Poftremo non est ratio hæc vlla, ked
observatio: at observatio neminem cogit, nog fed oftendit,quidinvenerit
turpiter autem qui mugedam recentiorum corripuerein Fio. In fecun l 1Ulman dis
autein casibus pronominum quorundam et relativorum, quare corripiaturin promptu
ratio est,quippe ante vocalem:at quare producatur,fi cut ne aliarum quidem
rerum, nullam caufam af signarunt,lllius, istius, Vtrius, Vnius: quare eam fic
eruamus nos: Quæ ad hunc modum cxeunt, nonita oliin pronunciabantur: nam
confonans inmultis,non vocalis reperietur,Cuius,Eius: lic erat,IlleIlleius:fic
qualidiphthongusGræcare mansit, ac longa fuit. Ergo vir doetiffinus Te
vrentianus non fuit veritus producere in Alteri us, quum tamen cæteri
corriperent. Ncque e nimverum est, quod aiunt, corripi propterca, quod fyllaba
vna numerosius fit, quam cæte. ra eiusmodi: neque enim eft Altrius, quemad
modum Vtrius: fed fane quomodo fuit Vterei us, sic Altereius. Neque vero eorum
ratio bo.na eft: fed vfus contentus fuit communi regu la, vocalis fequentis
vocalem. Analogia autem etiam in cæteris conftar. Nam fecundus casus,
Poffeffivus dictus est: Poffeffivorum autem mul 1 'ta fic invenias, Petreius,
Luceius, Locutulei us, a petra, luce, locutione. Quxautem Græ ca lunt, non
solum disyllaba,vtdixere,deChio, Dia, fed etiammultisyllaba', vt Sophia,et lo
nium. Theocritus enim illud produxit in Sy ringa: hoc autem etiam omnes Latini.
Nam quod addunt a Station Templa Lycie da bis: non facit ad præsentem
observatio xem: eft cnim Auxcio,cum diphthongo. Ge 1 minata IOI ' i 7 1 $
minata quoqueet in seipsum concreta,syllabam potestproducerecorreptam,vt in
decima satyra Iuvenalis: Eloquiofed vterg,perit orator.effe enimdebuityand
periit. Divisa contra passa est moræ divisionem, Mihi, pro Mi. et interpofita
alio elemento, mois Tibi: oi,Sibi:quemadmodum fupra diximus: Ti,x enim, et Si,
olim fuerant. Cuius rei argumento funt alij casus, Tis, Te, Se. Proprietas
quedammutarum,semivocalium et. Ropriumutarum, ve vocales naturacorre rheto
prashabeat, Ab, Ad, At.sed c,variat:Lacenim longum est, sic Hic, adverbium:
Hicpronomen breve; et Hoc, apud Plautum, vt docuimus in li bro decomicis
dimensionib. Disputant,an Fac. Cung brevesit: verum apud Plautum eundemin Cure'
Fac gulione longum elt. Sedgrandiorem gradšergofac ad meebfecro.Al tera enim
estsyllabaspondei. Sic etiam apud O vidium in primo de Remedio: Duriusincedit:
facambulet. Nam litigiosi Grammatici perverterut, cum volunt depravare, vt
legatur, Obambulet:ne sciunt enim quid sit, obambulare. Neque e nim in
vetustissimo codice aliter,quam vulgole gitur: et ambulantem vult videri, ob
vitiu: nam obambulare,nihil eft neceffe. Duo quæ afferunt argumenta,nullafunt.
Primum ab exemplis,v - 1 bi corripitur: nam in illis Face, fcriptum est: non
Fac. Alterum ab analogia: nam si A pocope2 1 3) ] G iij * 102 Ivl. C's. Scal.
Lis. 1. in aliis non produxit vocalem, Fer, quod crat: Fere,ne in hoc quidem
debuit. At. n. non fem persequitur nosproportio illa:vtin Fio,Fies, Fi erein,
cadem vocalisnunc longa, nuncbrevis est; et vfus extorquetmuta. Apo ope
quoquemul ja produxitbrevia, quum moram, quam tubdų cebant ex consonante
subtracta, reponerent in vocali; Pecus, brevem habet finalem:Pecu, lon gam.
Quare illi iidem dedere manus, addu ai Ovidij manifesta autoritate, in primo de
Arte: Hosfac Armenios: hec est Danaeíaproles. aking Quanquam autem hæc corum
natura est, ta men aliis quoque camperis,fed vario fane even tu,Mel,Vel: En
Nomen: Ver, Per. Mesemper çor one ripitos, Sibilus varius eft,Suus, Suos.
Dicimus autem commodius nos,quam veteres dicebant, mutas habere vocales breves
; at illi aliter locu malamiti sunt, Mutas esse breves, dupliçes autem lon gas:
Neque enim consonantium affectio eft, yel corripi, vel produci: fed quarundam
natu ra est y patiantur vocales corripi: duplicium autem efficere, vt illæ
producantur. Șienim con fonantes producerentur,aut corriperentur, non «
egeremus vocalibus in pronunciationc:ncquee ( nimtengres,aut temporain
consonantibusfunt; z,enim producit:non est products ipsa. Sic'non reet te
dixere liquidasesse breves: ncque illa ora etio proba eft, Liquidæ brevem
efficiuntiyllaa bam. Nam quod duplices longam faciunt mo s ra ac difficultasin
cauffa eft: at liquidębrçvem facere non poffunt: fi enim possent,vbicunque poney
1 Du fue • ponerentur,faceret:hocautem falfum eft:sequi turenim tam l.quam R,
longas: vt uñaoyswow. Sic duplices,aut duplicatæ, non producuntqualibet
fyllabam:nam tūkis priorem produçit natura, na positione: sic, yncasa.
Nonfaciuntigitur vt fit brevis, fed permittunt, neque mutant:nullami gitur
habent a ionem: vtin Patre, nihil mutat, fed patiuntur talem
tantamģueelle,quanta ratin Pater. iccirco a Græcis et molles, etvda dia, etx
sunt: at mollis non est agere, fed pati. Deaspirationis poteftate fecundum
loca, INterestaspirationisomnib,interdum praponia vocalibus:vni autem y,
femper,nilimore Aco- tini lico: eam enim non aspirant, vtdiximuseIgmca dio
autem inter, A, E,1,0, Athenielium imitatio ne, qui X TAHAN, scribebant.exempla
funt, Ha mus,Herus,Hio, Honor, Humus: Vaha, Vehe mens,Mihi, Oho. Præterea
anteponi diphthon gis omnibus,Hau, Hcu,Hei,Hac, Hoedus. Hu iussonum mępuero non
audisses:nuncmaxime” observant literari:quida erią putide. Indo etti vero etiam
locis non neceffariis, ita, vt latrare videan. tur: id et irridebatin Arrio
Catullus poeta: cuius fales quum Politianus exultabundus iactar fefe ințel
exisse,non est assecutus. neq;enim satis est, cat tam, deprehendereaspirationes,quæibitüessent
afcri.charta'. præ:fed opus fuit cautonelepidissimi, poeræ festi vitas
refrigefceret.Nam quare, multa verba cum proposuiflict,Chommodaet Hinsidias,
clausite pigramma flu et ibus potius lonij maris, quam I. Adriatici? Sane quia ab Ione cum diet a
effet tų regio,tum mare,factum eft ab Arrio, vt ab hiatu, quem aspirando affc
et abat, Hionij dicerentur, CongoConsonantibus tribus apponitur, quarum ex na
hy emplafunt, Chremes, Philippus, Thraso. Non temere autem dubitatum eft a
nobis olim, vtru Ane pia wyr, ab aspiratione antecedatur vocalium more, Cobek
restulan antecedat eam ritu consonantium. Ratio du bitandi fuit; nam quum
aspirationis loco pone bant, B, præponebant ipli R, vt Bretor: ergo si vices
gerit,videtur etiam locum vindicare. Præ terea R,nulli confonantium præponi
poteft: er go neque ei, quæ consonantis habetur loco. Sa ne vero aspiratio ante
vocales statuitur, neque valde differt ab Acolico elemento." Poteft et il
lud augere dubitationem: excogitaturos fuisse Græcos aliquam notam qua
concretam afpira tionis et illius literæ significarent potestatem, fi cut cum
complexi sunt, alia tria, 0,1,x. Sed no tula imposýta ipli Roostenderunt eundem
vsum - aspirationisin co fuiffe,qui et in yocalibus intel Comhaligeretur.
Contra tamen Latinietiam in yetustis monumentis postposuere. Causa afpirandi fu
it foni volubilitas, atque vibratio, vt diccbamus. In omni autem vibratione
recipitur aer per in tervalla: quare intra ipfum potiuselementum a spiratio
ipsa, quam præposita percipiatur, La tini autem sprevere illam asperitatem. Na
quem noLahiris admodum extra ipsum K, eam deprehendasae ris crassitiem
geminetur? enim, quod apud Cræcos fit, non possis præponere fic, Pyfrrus, fcd
fi postponas fic Pyrpfrus, non potius video re ros Roiz, re priorem literam,
quam pofteriorem onerare. Quidam minus sapienter etiara Romamafpirats cum tamen
Romani ipfi de fuo R, omnem exe merint vsum aspirationis. Stultius autem, quie
tiam Renum fluvium: neque enim Germani ei elemento apponunt flatum vllum:
Leniffime e + nim sua lingua pronunciant,iudice, etannulum, Richter, et equum,
etalia. neque par est nobilissimæ gen Ring, tis fluvium a Græculis rationem
nominis acce Rf: piffe:fed qua nunc voce pruinam appellant, for tasseaquam
omnem gelidam, atque inde etiam Renum nominarint.In opdGautem etOzolucov
vidcris quemadmodum præponatur ipli R, fuit enim regedod. CAP. XLVI. Demodo, ac
rationescribendi. Ostquam literarum originem,numeru,cauf-tako fas,atque ysum
contemplati fumus:interestyuaphone's veri philosophi illud quoque indagare,
vtersit modusnaturæ propior in fcribendo:ifne,quein Hebræi fequuntur, a dextra
noftra in sinistram introrsum:an nofter, quia sinistra in dextram ex trorsum
excurrit: eft enim motus vna ex causis li terarum: quaremotusipsius ratio five
modus li- ie terarum quoque generationis erit affeettio. At- 4f. queilli quidem
tuentur se mundi origine, quafi cum naturæ legibus omnia inftituta fua tumin
corruptąnaet i fint. Cæterum hoc nihil iuverit cos: quippe multarum artium
invęta postilla ru dimenta emersere. quare consulta factum sit, vt multis cum
aliis corum legibus, hocquoque fit GY d Si 106 IvL. I cmendatum: atqueiccirco
arazionibusdeducen da fint consilia huius consuetudinis. Poterutaf ferre,
motumcæli effe a dextro in finiftrum: at queita eorum tra et um in scribendo
cæleftēmo tum imitari: a dextro enim in sinistrym ducunt. Huic rei fumma cura
certis in locis refpondimus; etin libris de Calo, et in Commentariis de In
fomniis. Cælum neque dextrum habere,neque Chafiniftrum.Ad hæc multæ sunt
rationes,quib.per 1 yerse scribere arguuntur. Principio motusma nus naturalis
extrorsum est. quies epimintusad peet us et oculosin fætu.igitur primusmotusex
trorfum explicatur. quarepugna quoque ficcies tur, et cætera opera, extento
brachio, non retra. z cto. Præterea nobis relinquitur fub oculis ad
contemplandum,quid,quantumquedefcriptum fit: quod illis calamo acmanu tegitur
item in « dextrum humerum converfa facic funt ftatuæ, atqueimagines: sic enim
etcreditæ sunt opus su um refpicere, et contra hostem stare:quare Aqui larum
roftra in fignis ad cam quoque partem fi et a fuere. Ergoobtutus nofter suapte
natura plus dextrorfum versum fertur, Illud vero argumen tum invictum est,
cosipfosinter fcribendum li: terarum ipfarum virgulasac lineas directas aut
transverfas a finiftra inchoatas, in dextram defi, nentes terminare.Quæigitur
partis ratio, eadem etiam fidtotius et quemadmoduin linearum tra f et us,ita
literarum quoque ordo servadus erit.Sed Notexpripam priusinvenitgens illa, qua
scripturam. Textores enim tramæ primum filum introrfum iaciunt:idautcm coaet
ti, non natura, quoniam dextra manu cum incipiunt, et finiftræ operavi cissim
petunt,fic motus fuit auspicandus. Verum iidem ipsi, vbi cætero opere naturæ
legibus ad movendum libere vti poffunt, poliuntque telas, aüt pannos, aut sepum
inducunt, et furfures: tum vero extrorsum versus a sinistra in dextram, iure
suo vt fruatur manys in excurfum, faciunt. Elementorum affe tus adprincipia
fyllaba constituende. A et enus quæ cuiusque esset naturaitteræ, dici- Rako
mus,explicanda eft earundem ratio,quam ad fyl labam ipsam cõstitucndam
iniredebeamus. Co fonantibus igiturconvenitomnib. di ettiones in Puchonse
choare, atque etiam terminare, præter G, Qız:hią çnim nulla præfinitur.nam
confeflum eft VESPE RUG, ita fcriptum esse,ficutPont.Max.item FOR TITUD. sicut
TERT. et EXERCIT. Dep,non opore çeţ dubitare: Volup.enim etapud Ennium et, a -
Y pud Plautum etiamnuocquibusdam verfib. ex tantibus de seipso facitfidem.
Vocales autem z que omnes, et inchoant, et claudunt, Ama, Ede, Oro, Ivi,Vsu.Item
diphthongi,Ænças, o Ebalia, Eldus, Euge, Aurum: et claudere, Væ, Evæ, Hei, Hau,
Heu. Vocalis vna Græca ab initiis exclufa fuit lineaspiratione,nisi
moreAçolico,y. A dua bus consonantibus poteftincipere, ficut aduab.
vocalibus,vt Cras: fed etiam a tribus, vbifuntli quidx cum c, P., T, líbilo
præcedente, Scopus, Scrus s' 0 I 108 Iul. II. Scrupus, Spledor, Spretus,
Stalatum, Strepitus. et apud Græcos etiam addita aspiratione, odegyis, In
duaspoffunt definere, Hyės. etin tres, Stirps. Quarum quædam iam sunt
declarata. sed hîc per conclufionem quandam colle et a fint pro prin
cipiisfyllabarum, more Peripatetico. Que fitformasyllabe, quamateria,
VEMADMODUM ex elementis primis quatuor naturain vnu coalescentibus fit id,quod
mistum dicimus, et ex puneto fit linea ; ita ex literarum coftitutione id con
fieri dixere, ab ea comprehensione ovina lew Græci vocant: q obcaufam etiam lic
definivere: hrib Syllaba est comprehenfio literarum fub vno ac centu,etvno
fpiritu indistanter prolata. Quam definitionem et falfam effe, et eius partes
male cohærere oftendamus. Nam ficuțlitera ipsa est quiddam indivisibile, non
autem privatio divi lud fionis: ita fyllaba erit quiddam divisibile, non au tem
ipfarum partium comprehenfio: atqucid ex co manifeftum est, cum dicunt,
fyllabam ex bi nis aut pluribus literis conflari:at comprehensio non
dividiturin literas: nequeenim vnio mate rix et: formæ corpus ipsum eit. Male
etiam dixere prolatam: acciditenim fyllabæ proferri:poteste nim et fcribi, et
in mente reponi ipla: quare ita di cantreete. Quæ proferripoffit. Tertius error
ex his manifeftuscit: nam G lubyno accentu eft, eric et fub vnospiritu, et
fineintervallo: suum enim quæque fyllaba accentum habet: ' vacant igitur hæc.
Poftremopessimo consilio putaruntomne mnyama fyllabam multis concrescere
elementis: accidit lekerk; enim huic rei,quam syllabam appellant, nume
ruselementorum. Si enim essetessentia syllabæ, ergo substantia reciperet
intentionem et remif fioncm:hocautens falsum eft: atquehac ratione, pois
fyllaba hæc Stirps,effet magisfyllaba, quam hæc, Ab: aťmaiorest p quantitatein,
non autem ma gis per substantiain. Nam quodaiuntmonogra matas ' vocales, non
esse veras fyllabas, ridiculum est. Quidigitur sint? Imo vero verissime sunt
hoc, quod falso nominesyllabæ vocat: quoniam pacaloy nga etpriores funt,et
fimpliciores, et hocipfum funt, quod aliis communicant literis. Syllabæ igitur
econe i'ne nomen falsum est, atqucaliud quærendum: vte mur tame vsitato
vtintelligamur: definieturau tem fic, Syllaba est elementum subaccentu. Ita- alt
frankos queetmateriam habebis, et formam: eftenime lementum materia:id autem
perquod accentum poteftfuscipere, forma. 1 Acci IIO ivi. L 1 B. IL w.Accidit autem
numerus elemetorum syllaba ficut plan is foliorum et ramorum, etradicum,et
fibrarum. Nam animalibus quoque satisest, si ýnum instrumentum habeant
sentiendi:neque enim desinunt effe animalia. Itaquelianimal de finias, falso
apponas, pluribus conftitui. Hos au tem quod dicimusaccidere, aut fitquod Græci
proprium vocant, aut esto etiam differentia fpe cies certasdistinguens in
rebusnaturalibus:at in fyllaba DĖ, nulla forma eftfeparanseain ab hac fyllaba,
e: fedpars illa tantum inaterialis scilicet, Daccidensipli e. Numerusautem est
a fingulis ad senas vsquc,a, Ab, Abs, Mars,Stans,Stirps, xi 998: dempta enim
diphthongototremanent. Sekrompi. Germanis etiam longe maior. Intelligoautem
nunc diphthongorum vocales numero notufa rum,non sono feparatas. Aut igitur
fola vocalis Wir helt:aut cum alia,vt in diphthongo: aut confona tem vnicam
præcedens, Ab: autduas, Abs: aut tres, Stirps:aut vnum fequens, Da: aut duas,
Dra. co: aut tres, Strenna. Quare licet non adinif rit vsus,tamen quantum
earuin natura fert, octofte literarurn poteftfyllaba: fiquidem trinis oblideri
consonantibusdiphthongi sonus patitur. Eam tamen afperitatem mitiorem fecit
vlus,exhilara - A53 ta'tristitia confragofæ pronunciationis: vtalter nis,sitres
præcederentcolonantes,duæ subirent.'. ete contrario. Consonans,que
interduasvocaleseft, vtriapplicetur. Riore libro de Systali et Diastasi
dixiinus: vt literarum ' mutuam cognationem, quæ pars eithe 2 er 21" Do
Ĉavsis LInc. Lat. tü Ś. Erat poteftatis intelligeremus. Nunc vero
videnia dumeft, quod et veteres disputarunt; ad vtra fyl labam constituendam
conparetur consonans, quæ inter duas vocales fita fit. Ac Herodianus quidem ita
sensit, qualemcunque vocalem hæ rere præcedenti consonanti: fi dictio
inveniatur, soula ab eadem incipieņs consonante. non quod hoc illius cauffa
fit: sed quia per hocillud cognosca tur.vtin verbo Fero, quod bifyllabum sit, R,
po sterioris vocalis effe, non prioris: idemque in co. pofitis debere
observari.Nam quanquam ex Ab, etAetus, coinponirur, Abacus, tamen vbi duo hęcin
wnurn convenere,B, coire cum a ; sequenti in fyllabam,non cum præcedenti. Sed
adversus C- s, hanc senrenuam fic argumentantur:in abigo, a B, accedit ad
fecundam vocalem, ibi primanon ' poterit corrip,propterea'quod iam fit A, præpo
sitio, quæ femper et vbique longa est. Item in Circumago, non fieret clirio
ipsius m, si sequen ti applicarerur: p ærereain Abhinc, et Adhuc,b, et
c,aspirarentur: id quod eftabfurdum,ac nuf quam receptum. In tandem fententiam
videos tur inclinare Quintilianus, atque in vocib.com pofitis syllabas dividire
pro modo partium, in Arofpice, et Abstemnio. Vt has rationes solvain mus, animadvertendum
eft, cum ex duabus vocibus vra fit, non accentum folum, fed litems rarum quoque
exigi cohærendiam: neque e. nim ita pronuncies, A bactus, compositum,vt Ab,
Aetus, difiuncta. quianam igitur pronun ciatione efficietur, vt B, a fequenti
vocali fub bahatur? Adhæc,lipicuita a petendo vitam dom > 2. catur, nisi
cohæreat T, cum v, semper sit v, con. sonans:at non eft.Sic in hac voce, Etiam,
duæ ef sent fyllabæ, Et, lam: est enim consonans i, in Iam: fed pronunciationis
tractus cogit nos ele menta coniungere.Poftremo, corum regula hæc eft, et
vera:Nulla fyllabaaspirationeterminatur. Igitur in his vocib ',mbwuszeor, et
diximus,apud Lycophronem, et dimostov,quid comminiscen tur? aut enim in
aspiratam delinet prima fyllaba, autid fiet, quod nos censemus. Nam argumenta
illa omniaridicula funt:ac primum quidem'puti dum.Nam in Abigo, licet B,
subtrahaturpronun ciatione,non tamen est A,præpositio, sed vocalis ipsius AB,
non enim propter B, sit A, dut longum, aut breve, fed vfus autoritate:neque
enim fieret vnum compositione: fed fit tamen: quare quam quisque poteft,fedem
occupat. Neque vero dica mus, quod is, qui ita corrupit versum Ovidia num Sive
quis Antilochumnarrabat a Memnone vi ettum. quanquamin compositione, five lim
pertinacius cavillari, oftendam in voce hac Amarum, etiam corripi,fi illorum
trupov sequa 2mur.quoniam aMari,venit:Alterum argumen tum sic diluimus,
auferrim,in Circumago, quia subiens vocalis non patiatur, non tolli autem, si
nolis. vt apud Ennium, Tumdele etta virum sunt millia militum octor quod et in
Comitio, manifeftum eft. Nigamus enim hoc,femper poftremam consonantem acce
dere ad fubeuntem vocalem: fed id tantummo do evcnire,cum eiusdem initij
reperitur, vt dixi ( Inuse mus, vox. Quare cum nulla vox a B, incipiat al
piraro,disiun ettis sedibus hæc duo inter fe erunt. Sicut in adbibere, nemo
nostrum dicat præpo fitionis confonantem, cum initio verbi coniun gi: impeditur
enim. Hocigitur impedimentum etiamab ipsa aspiratione allatum est. Ex his
sequitur,in fimplicibus tantum,fifylla- saj n2 ba incipiat a vocali,necesse
esseeriam præceden tem vocaliterminari. In compofitis autem non
neceffario:Comitium,Coco. Item quemadmodum fyllabarum initiaa vos isa's cum
initiis menfurantur: ita et fines a finibus. Quare in voce hacIlhic, debet
etiam effe aspi ratio, quammale faciunt,cum omittuntrecen tiores.Cum enim
reperiatur fimilis literarum fo cietas in verbo Est, potuitprima fyllaba
esfellt, postrema Hic: atin yerbo Illic,non potuit:pro. pterea quod nulla yox
in eandem desinit ge minatam, neque ab eadem geminata vlla in. cipit. Illud
quoquehinc constat, in quamuis voca- receila lem desinerefyllabam polle, quauis
sequenteccoccoon nang fonante, Itemque syllabam non finalem quali bet
consonante terminari,quæ geminetur. quod fiduæ diuerfæ fint,in
F,G,P,s,nequeuntdefinere, Hisenim nõ finitur fyllaba, nili geminatis.Quod autem
etiam addidere, B,etT, errarunt, Abnuo, Atque, Abseco,Ætna. In q,nullam
terminarive rum est, quia v, habeat comitem:Sed in c,non estverum,Ecbasis,
Ecquis,Eçdosis, Pyracmon. Quod autem addiderunt exemplum Acnc, fal. fumeft.
Scd.c, transit cum Noad finalem voca H lenlem:quia dicimus,Cneus, Cnidus. Sicut
etillud erraruntidem in A et us:dicimus enim Ctelipho. In'd, autem definit
sequentibus fere omnibus li antiquorum more maneat incolumis in com pofitione,
Adbibo, Adcurro, et reliqua. In 1, definit, cum mutæ fequuntur, Album, Calcar,
Caldus, Algco, Alpes, Altus. etante semiuoca les, excepta R, Calfacio, Almon,
Alnus, Alfiosus. etconfonantes duas, Aluus, Saliuncula. Eandem proportionem na
et umeft R,Arbor, Arcus, Ar deo, Argus, Arpi, Artus. Item ante femiuocales,
etiam ipsol, viciffim non excluso, Arferia, Ar ma, Arnus, Arsus,Perlego, et
vtranque confo nantem,Peruicax, Periurus, etiam ante ipsum Q. Arquites. In-H,
nisiperApocopen fyllabam exire ne garunt. Ah, Vah. fuiffe enim Aha, Vaha. et verifimile
fit ita factum effe: fæpe enim do tentes etiam nunc fic geminatum pronuncia
Inm,fi sequatur B,P,Ambo, Amputo... " In N, fubeunte “C”, “D”, “F”, “G”,
“H”, “Q”, “S”, “T”. An con, Andes, Anfraet us, AngeronaAnquiro,, Ansanctus,
Antes'. et more veterum ante R, Congruo. etin paucis ante duplices duas,Anxur,
Zinziber. His rationibus deduci poteft, fyllabam termi. hari poffe quauis
confonante, cuius natura lita sptageminati. mory Item constat, veteres ca
sententia falfos effc, ss fyllabam finiri ante c, in Abscodo:etenim,Sca
tam,dicimus. Ncqueverum effe, inx, delinere fyllabama mus.nis. nem. fyllabam
sequente vocali. quippe diximus, Xer nia: et Anxur,eorum fententiam iugulat.
Omnis autem litera præcedens i,aut v,çonso nantes, neceffariofyllabam terminat,
fi eas con fonantes aliæ sequantur vocales: yt Cuius, Perią. rus,Aduolo, Cauum.
Namin Cui, et Huic, nul. la fequitur vocalis. Item fi ipfa geminetur, Maila. In
X,autem desinit fyllaba præcedens c, et co.2 parem fuam, q, et P,et T.Excurro,
Exquiro, Exzen. pono, Extendo.itemL, Exlex, z, femperinitium syllabæ facit,
punquam fi - 2 Nulla diphthongus in duas definit consonan tes: non quod eius
natura repugnet, vtdiximus; fed quia vsus fic obtinuit. Duplici enim poteft
terminari,Fæx,Faux CARL Syllabarumaffetme Voniam fyllabarum fubftanţia partimex
materiafit, quæ funt fiţerxipfapartim: ex unol'est forma, quæ eft ipfa natura
recipiendi pronun çiationem in partem di et ionis: fyllaba iccirco affe et us
quosdam pa et a eft fecundum materiam, yt numerum elementorum: alios autem
fecun dumformam, yt tenorem,fpiritum,tempus.Do pumero igitur primum
diximus:materia enim quam formaprior.Denumcri autem affe et ionis bus nupc. Syllaba
prepositio, geminatio,appofirio,interpofitio, ablatio,extritic94bleißcran
politia Vm igitur ab singulis ad fenas literas fylla ba augeatur: quibus affe
et ibus eius partes obic ettæ sunt, iifdem etiam ipsa agitata cst. Nam
quemadmodum præponebantur elementa,fic et syllabæ, Durus, Edurus.
Interponuntur, Impe rator,Induperator.Apponuntur, Videri, Vide fropiatier.Hocautem
amplius, quod abnullo gemina to elemento incipiebat vox:at incipit a syllaba
geminata, Pupugi. In nullum geminatum deli nebat:at in geminatam desinit,
Scindidi. Con tra, Elementa in medio geminabantur, fyllaba pane vautem nulla:
vicissim quoque aufertur, vt apud Vergilium, Inter secoiseviros, et cernere
ferro.pro, decerne, re:ficenim legunt, abscinditur, Vaha, pro Vah. etapud
Homerum, fwy wpło nima, prodwa,kestis Astorgow, quod et lusitin poematico
monosyllabo rum doctissimus Ausonius. Exteritur e medio Deûm,pro
Deorum.TransponunturQueibam,, etAdeibam: quod Adiebam, et Quiebam fuit poftea.
Mutari vero syllabas vt elementa, omni no constat ex eo, quod vocales mutantur
ipfet: quarefyllabam ipfam mutari necesse est. Acque Gura admodum ex vna litera
duæ fiunt, Mihi, ex eo quod erat,Mi,et contra:ita euenit fyllabis quo
que,Aquai,Aquai,etCui, Cuï.econtrario apud Varronem, Et te flagrantideieettum
fulminePhathon.Et sicuti quædam cx clementis semper præponuntur, vt z, et v.consonans, et q: nunquam poftponuntar:
Alia e contrario postponuntur femper, yt, V, quando neque confonans neq;
vocalis eft: non nulla fine discrimine vtranlibet fortiuntur fe dem: ita
syllabæ quoque, quæ ex illis suntconsti, tuta.Affe ettiones aformasyllabarum.
Accentus. Væ vero fyllabæ acciduntpropterformanı per quam syllaba hoc eft, quod
eft: ca fub accentus appellatione, tripartita diuifionc complexifunt:
Tenore,Spiritu,Tempore. Hoc igiturloco quid fit Accentus, quoquemodohæc
contineat, videamus. Canere Latini ab hiata Cana dixere Græca voce Exaver: nam
Æoles ab co WS quod eft x cives,non apponuntincrementa præ teritis,sed
dicuntyavor,demuntqueaspirationes. quasi rem Barbaram. Est autem canere, vocem
modulis certis tollere, autpremere: certilq ; tem poribus producerc, aut corripere.
Idquod cum in pronunciando necessario eueniat,quibuslegi bus
fyllabasmoderaremur,eas legesAccentiones, Acorns Accentus,
Accetiunculas,Moderamenta, Vocu lationes Latinivocarunt,Græcos,imitati,qui ea
dem de caufla megtudhas nominabant. Cum i.nthin giturvocem quantitate metiamur,
et fyllaba in voce fit, vt in fubieetta materia, et quantitas tri plici
dimensione conftituatur, Longa,Lata; Alta: $ neceffario fyllaba quoque iisdem
rationibusaf fe etta erit, vt Leuatio aur Preffio in altitudine Afflatio aut Attenuatio
in latitudine: Tradu Hiij, ia 0 1 Sto 20 M ti Mm et i n3 Ivt. II. + in
longitudinefit. Hæcigitur tria interdum vnt cidemque syllabæ aliter atque
aliter cum poffine contingere, videmus eandem longam aliquando circunfexo,
aliquando acuto insigniri: alteram vero nunc tenuem, nunc aspiratam:non poteft
keri,quod quidam profeffi funt, Accentum effe modum quantitatis syllabarum:
vnam enim tan tumvim ex tribus compleši funt. Sed nos fic de Eniemus,Modus
fyllabæ. Intelligo nunc mo dum, quod Vitruuiuset HoratiusModulum, id eft, menfuram
propofitæ rei. Ouomododiftinguantur inter setriansembra diuifionis,o
Tenorumratio.,quot dimen fiones: Altitudo, Latitudo, Longitudo. Quare falli
sunt veteres, qui Accentum fyllabæ quali qualitatemidefiniuere. Grauecnim etleue
in E lementis primarium est. Inde translata ratio eorü ad dimensiones
quantitatum, propterea quod locus fit fuperficies ambienslocatum:motusau tem
fiat in loco:graueetleue ratione et motus et locorum dicatur. Igitur in voce
quæ esset affe ettio aeris, inuentæ sunt rationes quantitatis,fea omnes fundum
aeris dimentiones: idquemathematicis incis deprehensumeft nam altitudinis ratio
eft w kylineaperpendicularis. Iccirco cum vocemtolle remus, ca liñca
signataest. Sed cum eadem linea fecundum superiorem partem indicetaltum, se
cundum inferiorem notetprofundum: facien Cum fuit, vtleuatio vocis diuerfam
notulam haberet adepressione. itaq; excogitarunt virgulam afscendentem,eo
tractu quofcriberemus, index teram scilicet nostri partem sic !. quæ autem de
pressam indicaret,quali caderet contrario situ, /. Cadit enim manus noftra cum
pingimus eam, Atque hanc quidem suo nomini reliquere,Gra- your vemque
appellarunt, ab inftrumentis scilicet vo cis: propterea quod in gutturaut
pectuscam de mitteremus. Alteram autem prioremillam ab ef fe et tu
potiusnominarunt,Acutam:ferit enim au. res, quarum viribusobieetta eft:acfane
plus ponas spiritus latiorisin grauivoce, anguftiorisautem in acuta. Quare et
pueriacutius canunt, quorum guttutangustius eft: etlatiora,crafstorague instru
mentagrauius fonant: vt etiam ab illis grauem sonum dixerit Pythagoras. Ita
omnibus in rebus se certissima ratione libi ipsa respondet natura. E venitautem
yr duæ fyllabæ inter se concurrerent, Hilers quarum prior priorem haberet, id
eft Acutume altera posteriorem,id eft Grauem: quareex cum coalescerent,
concreuerunt in vnum etiam ipli apices,fic, A. quem Græcicum mesco wjfuer dixc
re,abusi lunt licentia inuentionis: neque enim circuntractus fait, sed
suarwufor rectiusnomi naffent. Nostri quoque Circunflexum cum ap pellarunt, ad
celeritatem potiuspingentis manus respexere, quæ vnico motu virgulam arcuatam
fecit,angulodempto fic,, Hosomnes Græci tokss, vocauere,translata eneo rationc
a fidibus, quarum intentioneautremifm.com fione acutior graviorveredderetur
vox. Inde nos Tenores, propterea quod noftrum tenercindea Hiiij. du 0 Move
duxiffemus, fcilicetadToTeiverv.nam quod ni xu quodam arceremus, id beneficio
TWV TVMVTON fieret: et tranflata fuit significatio ab helcyariis, et aurigis
currus inhibentibus: item militibus prædam diuidentibus. Hocpotes ctiam percipe
reex maximi poctæ Oppiani piscatione quadam, atqucanteeum ex Theocrito: quorum
versibus trahentium tenentiumque nixu primarii nerui TAYOY TIS
extantesdeclarantur. Siigitur Latum a Longo, et vtrunque ab Al to distinguitur
fpecie, specie quoquetenores a { piritibus, et a temporibusdistinguentur. Ve
rum non ita eft: perpendiculariseniin linea a dua bustransuersisdecussatis non
diftat specie.Sedin so spire Ziance. corpore quadrato mobilieadem linea nunclati
embar yang Xudinis,nuncaltitudinis, nunclongitudiniserit: neque enim
differunt,nisi accidente.Id quod fa ne pertinet ad Metaphysicum: et tactum efta
no bis atqueexplicatum in quarto historiarum dea nimalibus. Spiritus, Lter
fyllabæ dimensus est Latitudo, secun Info dum quam fyllaba est aut Craffa, aut
Te nuis. nam præterquam aut producas aut tollas vocem,dilatare spiritum potes,
atque adderevel vocalibus, vel consonantibus. In tenui autem pronunciatione
minus exit fpiritus: namet hoc Computerrarunt veteres, cumin tenuinegarunt
spiritum nouelle: sine fpiritu enim non esse vocem in quarto hiftoriaru,etin
fecundodeanimadeclarauimus: Nullum enim animal pulmone carens, vocale eit:fed
lonum emitterealiis inftrumentis constat. Iccirco nmin, Græci vim illam vocauere,
noftri leuem:propterea quod craffum in corporibus vi- www deretur effe graue:
et lene, quia facilius laberc-. tur. Hoc quoque ex philosophia depromptum est.
Nam corpora latiora, vt laminæ plumbex, diutius fluitantin aqua: breuiora autem
citiuse uadunt ad fundum. At eadem ratio eft corpo rum grauium ad descendendum,
et leuium ad ascendendum: Nebula enim angustior citiusaf cendet: sic et
fpiritus præterfluit commodius fauces, quo est aret iore superficie. Qui
ftudent voculis mutandis, maluerc dicere Læuigatio nem, male: neque enim ipsa
fin læuigatvoca lem, sed nota est vocalis læuigatæ. Catullus autem eo, quo
diximus, epigrammate vtrunque coniunxit, Audiebant eadem hæcleniter, etleuiter.
Alteram Græci sarão, noftri Denlam: ftipa tur enim fpiritus vberior acfrequentior
inter fauces: itaqueet Crassam, et Flatilem vocauere. Nam Aspirantem æque
perperam, atque illam læuigantem. Atqueolim quidem tu apud Athe nienses,tu apud
nos, sola craffa nota,quam fupra diximus habuit, H, quæ in ordineliterarum po
neretur: vbiautem deeffet ca vis, is defe et us,de fe et u quoque notulæ
fignaretur. Poftea veroa RRatio vsus obrinuit, vt feet a hæclitera,
aspirandino-figma tam exhiberet dextra sui parte fic, F: sinistraaut
quæcontraria esset, contrariam quoque lignaret sig i. Nequeiam inter literas,
fedtanquam apex $ H V. literis imponeretur. Mox ad celeriorem motum anguliilli,
vt in aliis multis hebetati,redu ettæque norulęin căpares semicirculosdextru
læuumque fic, c,5.Quæremusautem et hoc veteribus indif-. Anger cuffum: propriane
hæc affe et io fitvocalium: an criam communis consonantibus: videtur enim
coaluiffe cum T, in, etcum aliis duabus. Verum in libro superiore, neomnia
turbaremus: secuti fumus priscorum fimplicitatem. At hîc exa ettius interest
philosophi contemplari haud ita effe: fia Rosolitus enim craffitudo antecedit
vocalem, non se quitur: fic, usagers ergo cum præponitur confo hans ad
copofitionem, ide flatus eiusdeelementi cft,newbusegov: non autem consonantis,
nisi qua tenus ex ea et aspirata vocalivna fyllaba fit. De tempore Saudi Yllabæ
morammaiorem minoremve longia tudinis linea dimerimur: productionecnim Kone
vociscomparatur. Itaquetardi sermonis, aut citi dicimus hominem. Iccirco cui
syllabæ plus im penderent temporis, eam Longadixere:cui mi nus, Bredem vtrunque
autem fub quantitatis ratione continetur:fed ita, vtinter se referantur, atque
relatione fint contraria, ficut magnum et paruum. Iccirco vnopluribusve
temporibus co Ititutas, dixere syllabas. At omne tempus quan tum. Sed de numero
videndum eft. Antiquific dixere:longam conftars duobus temporibus,bre wem
ynotempore. Sane reste: cum enim syllaba breuis prior sit et natura ettempore,
quam lon gasita eiusmcnfuramagnouere,vt vnum tempus bac dicerent: quod tempus
cum protraherent adal terum tantum, non immerito et longitudinis ad ditione, et
geminatione tra ettus inetiti sunt. Ita-, quefiguraquoque longætransuerfa linea
signa- Fashion ta eftlic,-:Breuis autem dimidio tantum erat ex plicanda: fed
inter scribendum excurrentis in terdum manus error fallere potuiffet: quare ed
deuentum eft, vt notula; quæ circunflexo aduer faretur, aduersam quoque ei
figuram haberet, fic, 9. propterea quod non nisi longa fyllaba circumflcetatur.
Noneffeplures accentus,quam quot dietifunts Vm igiturfyllabas non nisi prædi is
mo dis tribus dimeriamur, non nisi accentus semper ptem erunt:quoru Primus
extrema duo,medium habet vnum: Alter duo extrema tantum, fineme dio: ac Tertius
eiusdem modi eft. Iccirco erat ali quid, quod dubitaremus.Etenim relatiua
ficain what's rentmedio,graue etacutum,quo modomedium habuere circuflexum?aut
fi inter ca hocfuit:quar reinter tenuitatem etaspirationem nõ fuit, quæ
erantcontraria per positionem?In vtroque enim exit fpiritus:quarc etiam
mediocris potuit. Acde longa quidem ac breui mora iam fupra dictum libro,
eft,quemadmodum in musicis,ita in syllabis cer ="ubering ta ratione alia
atquealia, plus minusvenoræpo- Jam tant ni. Nam et longa fitmatura, et fubeat
duplex,aut duplicata, vttrğusyawarayvideturin ea pluspo ni temporis, quam fi
fimplex consonanssequa rur. Itaque etli longum breueq; ratione compa-7
rationismedio carent: ipfæ tamen quantitates, 1 lab OG Tip Lico 124 IvL. II.
Cibro de ankitanchalia 1 in quibus litæfunt relationes, possunt magnitu
dincaddita aut dempta,medium recipere.Omnis cnim quantitas apta ' nata clt
fieri vel maior, vel minor, quatenus quantitas est, Dico autem fe sundum
rationem quantitatis, propterea quod corporatione fubftantiæ eius affectus
immunia funt. eft enim maior homo, vt est quantus, non vt apheft homo. Sic
inter afpirationem extremam et extremam exilitatem spiritus, fiue nuditatem, a
liquod fuit medium: veinter T, et, fuitd, et quæ fupra diximus. Id quod
manifestum est, liidiomataiplacomparentur: nanque Arabes af pirant suum: et
Græcum x, fi ad Hebraicum comparetur, non iam ficextrema,fed media aspi rata:
efummoeniin gutture Græcum,Hebra um ex imo pene pulinone prodit.In graui quoque
et acuto ratio par:ex vtriusque enim compositione faetum eft tertium quiddam
medium, ficut ex e lementis naturalibus corpus aliquod, cuius mc tus extremorum
loca non appetat. Harum au mohalgo tem differentiarum notulæ quæ medias illas
na mirasxturas indicarent,aliis atque aliis confiliis suntin ftitutæ. Nam in
tenore composito figuram ex cogitarunt. In spiritibusmediis non ita,propter ea
quod certis consonantibus includeretur,B,Gj D. In temporibus autem omnem
tractumqui ve sodiy num tempus fuperarct, breuitati neceffariæ op posuere. Dico
neceffariam breuitatem:iccirco quia estetiam breuitas indifferens in breaivoca
li,quæfitmutaliquidaqueaffinis. Tros notule abascenensinratione excluduntur.
then at Ergo E:non e VA runtaccentus tria illa,quæ Græciv.de,214500 alu, spoca:
nos Coniunctioncm Difiun et io nem', Auersionem ' nominainus. Falso autem in
ter accentus relatas a veteribus vidcamus. Nam Coniućtio, dictionum duarum
affeet us eftcom- Conapone positarum, quoties ex nulla facta partium mu tatione
ita cohærent, vt propter feruatam inte gritatem non cohærere etiam videantur.
exem pla in promptu funt: Ante-uolans, Ante -ma lorum: et apud Laurentium, Semper-
florentis; huic indicio figuram apte attribuere pando fe micirculo
supposito,lic, sumpta fimilitudine a b subscudibus carinarum:quibus afferes
coagmen tantur. Contraria huic Disiun et io:quæ quas mine voces posses temere
componere, distanti pro nuntiatione iubet pronunciari, vt in exemplo
Vergiliano, --in litore conpicitur,sus. De vrsus, legatur. Ei itaque eundem
locum attribuere quali paric tem hercifccntem familias. ac fatis quidem fue rat
virgula perpendicularis: verumne accipe retur pro vocalii, curuam pinxere:
cuiustamen cornua præcedentem complectendo di et ionem, præfcriberent ei mctas
quasdam. Auersionem Amat autem nostri Conuersionem dixere: at Græcam vocem
contemplere, Smespooni, illud non hoc signat: eftautem affectionon fyllabæ
nccef sario,fed literæ per se, fyllabæ autem per acci enim semper fyllabæ
defeet um o ftendit: sed femper literæ aut literaru quæ cuiuf piam fyllabæ
partes lint. Exemplumvtriusq;eft, Mult'illa desiderantur enim duæ partes il.
lius fyllabæ,Tvm, vocalis scilicet cum postrema confonante. exemplum syllabæ
eft. Dura vi'est, quæ fternititer dominatibus altis. defit cnim A, ytlit, Via.
Eftigitur nota defectus literæ: accidit enim vt fit aut literarum, aut fylla
bæintegræ. Defe ettus autem duobusmodis vsų venit: aut per Synalæphen, aut per
Suspensio milmem: ac Synalæphen quidem dixere veteres, "Tu i cum elisis
literis, vicinas coniungerent:vt inex emplis pofitisconstat.Eft metaphora a
glutinan uibus fumpta, quum delibutas ferruminatione particulas componunt, vt
vnum faciant,hocfuit e neimev. Id quod quum non poffit euenire in fyllabis
quibusdam, nisi demptis mediis literis, piccirco LatiniCollifionem affeettum
huncappel latum maluere: nam faneaffcctio fyllabæ illius deficientis eft
Colligo, non autein Coniunctio: neque ex illis vocibus vna fit. neque femper
vnus pes, neque femper continuatur pronuntiatione, vrin altero exemplorum
superiorum. Quare me lius nos quam Græci, Alter modus est, per Su spensionem:
quoties non excipientealiqua di ctíonc, prior amissa vocali sufpenditur:idque
alia quando simpliciterfit, vt apudPeetam, Mortalin'. pro mortaline. Aliquando
au tem multipliciter,vtapud Catullum, Vide'n ' vt perniciter exiluere: hîcenim
estamis fa non folum vocalis,fed etiã cõfonans: Videsne. Hancaffe et ionem
Græci nominarunt rospo plew, quoniam auerfi ab ea litera, quamfuftuli, mus
suspendimuspronūtiationem. iccirco įn su hernes periaS periore partequası
habenulas inhibendo excur lui dietionis appendêre, eadem forma quam fe cerant
Disiun et ioni:propterea quod idem effet officium limitibus præfcribendis.
Totum autem genus hoc fapientes aon appellarunt, reote. Sed quum syllabis
vniuerfum attribuerent, errassco stendimus. His ergo constat, vtin elementis,
tanquã par- emiling,people womanho vor tibus, et corum corporibus, vel fyllabis,vel
di et ione nibus, etmateria,fcilicet, figura, et forma estqua, inter se
differunt hocipso quo sunt:sicin corửaf. fectionibus,vtrunqueesseiam planum
fecimus. Caussa finalis Tenorum primum de Acuti accentu vu Oftaccentuum
subftantiam tam ex materia prima quam ex forma, quæ erant duæ caufæ quibus in
final constituebantur, nunc cauffa finalis contem planda est: corum ergo
vsus,cuius gratia sunţin ftituti, deinceps videndus eft. Ac quod ad no-, ftra
quidem tempora attinet, nihil turpius pu tamus, quam cantiunculis, et vocularum
tremu lisaflultibus gesticulari. Itaque feruata temporum duntaxat ratione,
feuerioribus fæculis omiffus eft fæmineus ille tinnitus, vnoque duetumultæ
voces codem tenore pronunciatæ. At veteres a liter consucuere,quorum leges fuerebæ:
Syllabæ glo? aut sunt in priuis vocibusaut, in iis quibus ora tio constituitur:
priuævoces funt, Amor,Er go, Perco: ex quibus possis orationem to xere fic,
Amoris Ergo Perco. Primo modo pallumeft nomca impositum, propterea quod fos di
ettio JO ܨܪܐ 12 hi 06 128 IvL. II. L in dietiones non propter feipsas,sed
proptet oratio ncm funtinuentæ:iccirco fecundo modo nomen Sampate
indidere,ouezreiasque appellauere: nos Conse. menfequentiam dicere possumus:
quailli alia vocepau her lo afpcriorc, ou apeglee',et molliore owerowy GTV TWO
niw ". Nos commodius, Ordinem conti, nuum orationis definimus. Quum igitur
Græci tam in vltima fyllaba singulariu feparatarumque vocum, quain in altera,ac
tertia a fine fede acu tum imponere confueuiffent:in consequentia si necontextu
orationis, quos accentusin fine po gonfinebantacutos omisere,
proqueeisgrauessubsti tuere: idque eo egere confilio,propterea quoda cutus
accentus videtur tellere fyllabamita, vt fequens fyllaba prematur: qua tanquam
fini fuo quiescat vox. Quum igitur nihil haberent, quod fequeretur, nihil
quoquemetuêre:arcum effet vox,quæ lubiret, cauêrene taquam vna fie ret cum
præcedente. Id quod etiam in Encliti cis euenire
videretur.Igituracuuntmouc,etmli, et Tav: quæ quum contexuere,grauibus
infigniunt, Chitous,dei, tov überrv.Nos vero hanc eandem ani
maduertentesrationem,quaacutus accentus tola litvocem in fyllabam, quam acuit,
vt fequenspre matur, in fine vocisnoponimus,neexpectemus aliam fyllabam
fubeuntem, in qua vox conquie scat: id quod Latini suis libris omnes testati
sunt, Nullam apudnos fupremam syllabam acui. A cutusenim
pofitus,autexigitaliasconsequentes syllabas, aut non. Siexigit, igitur non est
ponen dusin fine vocum separatarum: fi non exigit,era goin consequentia quoqucponi
potuit.Sed falfi Graeci sunt, cum putarent, gravēaccentum nihil ad vocem
pertinere, fed ad syllabas tantum,vnde hand etiam Syllabicum vocavere.lccirco
addueti funt, vt crederet, turpe effe,ederedictionem, quæ nul lo accentu
insigniretur.quali quum iura quoque absurdum celent, hominem inteftatum mori.
Id autem eveniebat, nisi acutum in fine faltem rcpo fuiffent: cum dictio in
fyllabis præcedentib. neq; illum haberet, neque circunflexum. Sed ca ratio, aut
perspiciendafuit etiam in consequentia,vbi y gravemcollocaffent:aut nein primis
quidem you cibus admittenda. Apud nos igitur aut in penulisse tima, aut in
tertia a fine sedem ei ftatuere.Occupa re autem alias initio propiores, Græci
sibilicere noluerunt:quos etiam prisci Latini secuti casdein posteris,
imitationepotius,quain confilio ducti, leges præscripsere. Nam quainobrem non
liceat mihi vocem tollere in quarta a fine, nulla ratio pobyt musica potuit
persuadere: poffunt enim eode te- Pain nore tain in voce,quain in tibia,aut
fidib. deduci multæ vel breves,vellongx. Quod fi iccircono lucre, quia duabus
fyllabis fequentibusimmine reacuta fyllaba videatur, in quibus tractus yocis
non immorctur:quod fieret; fi eflentplures: vi deamus quam non recte servarint
hæc. Esteadě ratio tam apudGræcos, quam nobis,fed diversus modus. Nam
vtriquenegant ante tria finaliatê pora lingula, id est, antetres breves
fyllabas, a cui poffe fyllabam. quare li duæ poftremæ line longe,quoniam solvi
poffunt in quatuor breves: non potuit in præcedenti vlla syllaba acucuscol
locari. Ratio hæc vna communis. At modus I j. di. 21 126 Iul. Kolodiversus
fic: Græci, fi vltimalongasit, et penult. a brevis, vltimæ longitudinem, ex
quafieriduç bre ves poffent,observarunt: at si penultimaloga sit, et
vitinrabrevisymiseræ huiuspenultimę,tanqua ibi nulla effet, nullam rationem habuere.
Latini contra, vltimæ longitudinem non curarunt: pe nultimæ ius fuum attributum
retinuere. Ergo ia deprehendimus accētuuin horum cãtillationem ridiculam, non
natura, sed vsu quodamn gesticulatorio constare. Videamus vero, quod et fupra
tc wurde eindigimus, quamipsa sibi suisnon constetlegibus. milla Principio
Græci diphthongos aliquot,quas pdu cebantin pronunciando, quodattinebat ad ac
centuum ledes, pro brevibushabuere, 8t ritu fce. præterea Latinieadem ratione
vltimis omnesne glexere. Poftremo antepenultimas omnesGræci longas nullo
detracto tempore, acuto accentui poltposuere. Quare fi vna ex his vel in fine,
vel in -proximafini sede folvatur in duo tempora, fane in quarto a fine tempore
acutus ille Gręculus, quem ab ea sede exulare iubent,invenietur. Qua
refapienter a posteris factum est, qui præterqua in quibusdam partib.orationis,
vtin exclamatio nibus,indignationibus,interrogationibus,nulla huius puridi
servitij iugum ferre voluerint. Nam fi ante acutum in eadem voceplurimæ fyllabæ
gravi pronunciantur, xong QALXR67e's: quare poftillum totidem non poffint?
Quodfi refpon deantinclinari nequire tantum numerum: qua re,vbi nulla eft quæ
inclinetur, hunc eundemip sum ftatuêre?vtin præsenti exemplo, nulla fylla ba
fecuta, fit Soloihin qua tini pe bi lem ula itch pus. pidu 26 sne ill bre
Gravis accentus sedes. GNRavis accentus locupletissimus fuit vsus: Nam quum
acutus non plures duab. Tedib. occupafset, hic qualemcunq ; premit fyllaba:qua
re fyllabicum, vt supradiximus,appellarunt. No; vt putarunt,propterea quod no
interesserdiction num: sed quia paffim quamcunque syllaba vindi caret:funt enim
dictiones quæ præter hunc nul lum habent. Omnis igitur diaio, aut habet acu
tum, vt A'mor:autgravem, vt Fax:aut circumfle xum,vt Mîles. Quare præter eum
accentum tam e non præcedentes syllabæ, q quæ fubeunt,grave susci piunt, sic,
A'moris. Nonre ette igitur Quintiliani præceptores,quos ait ipsesicfe
docuiffe,vepriore ham in น acuta pronunciaret,A
treus, quo neceffario poftea Walico rior gravem susciperet. nam ad huc modum
gra- Cho halmas vem susciperetper accides: At ipfa hæc vox, Atre's bit per se gravi
terminatur: vt non solum syllabæ sit accentus: sed etiam dictionis: quemadmodumul
ta alia quoque proferuntur, Antonspolis; cĘw tísmen weid. Quamobrem gravem
accentum inter dum primarium cenferinec effe eft: aliâs autem ac cefforium.
Cuiusetiam proprium fit quantam- loin cunque fyllabam nullo discrimine
admitcere: et quotamcunque sedem accessorie. Poftremam au tem legitime, et
primario. Devfulocifý circumfleti. Ircunflexus accētus fi, vti diximus,ex vtroq;
grans illo conftat:neceffe est, nulla nisilögafylla. 12 bam Tad nitu clo Can:
Qui squi 2010 Tull Nabi quar POR 982 m ! Tylls CM Acondiversus fic: Græci, fi
vltimalonga sit, et penult. brevis, vltimæ longitudinem, ex qua fieriduçbre Fes
poffent,observarunt: atli penultimalogå fit, et vitiorrabrevisymiseræ huius
penultimę, tanqua ibi nulla effet, nullam rationein habuere. Latini contra, ultimæ
longitudinem non curarunt: pe. nultimæ ius fuum attributum retinuere. Ergo ia
deprehendimus accetuun horum cãtillationem ridiculam, non natura, fed vsu
quodam gesticula torio conftare. Videamus vero, quod et fupra tc auntien
taligimus,quamipsa sibi suisnon constetlegibus. medla.Principið
Græcidiphthongos aliquot,quas pdu cebantin pronunciando, quodattinebat ad ac
centuum fedes,pro brevibushabuere, $t titulo. præterea Latinieadem ratione
vltimisomnesne glexere. Poftremo antepenultimas omnesGræci longas nullo
detracto tempore, acuto accentui poltposuere. Quare si vra ex his vel in fine,
vel in -proximafinisede folvatur in duo tempora, fane in quarto a fine tempore
acutus ille Gręculus, quem ab ea fede exulareiubent,invenietur. Qua refapienter
a pofteris fa et um est, qui præterqua in quibusdam partib. orationis, veiñ
exclamatio Inibus,indignationibus,interrogationibus,nulla huius putidi servitij
iugum ferre voluerint.Nam fi ante acutum in eadem voce plurimæ fyllabæ gravi
pronunciantur, xangoaguardze's: quare poftillum totidem non possint? Quod fi
refpon deantinclinari nequire tantum numerum:qua re,vbi nulla eft quæ
inclinetur,hunceundem ip fum ftatuêre? vtin præfenti exemplo, nulla fylla ba
fecuta, ore lit Lini gefehing C. em lla. tc. us du IC ne xdi tui. Gravis
accentus sedes. Ravis accentus locupletissimus fuit vsus: 1 Namquum
acutusnonplures duab. Tedib.pole occupasset,hicqualemcunqs premitfyllaba:qua re
fyllabicum, vt fupra diximus,appellarunt. No; vt putarunt,propterea quod no
intereffet dictio num: sed quia paffim quamcunque syllaba vindi caret:sunt enim
dictiones quæ præterhunc nul lum habent. Omnis igitur diaio, aut habet acu tum,
vt A'mor: autgravem, vt Fax: aut circumfle xum,vt Mîles. Quare præter eum
accentum tam præcedentes syllabæ, ğ quæ subeunt, grave fusci piunt, fic,
A'moris. Non re et eigitur Quintiliani præceptores,quos aitipsesicfe
docuifle,vepriore sament acuta pronunciaret,Atreus,quo neceffario poste Walica
rior gravem susciperet. nam ad huc modum gra- me habus, vem susciperetper
accides: at ipfa hæc vox, Atre's per fegraviterminatur: vt non folum fyllabæ
lit accentustsed etiam dictionis:quemadinodu mul ta alia quoqueproferuntur,
Antanapolis, Ew tñsee WETTE. Quamobrem gravem accentum intera dum primarium
censeri neceffe eft: aliâs autem ac cefforium. Cuiusetiam proprium sit quantam-
low cunque fyllabam nullo discrimine admittere: et quotamcunquesedem
accessorie. Poftremam au tem legitime, et primario. Devsulocifý circumfleti.
Ircunflexus accētus fi,vti diximus,ex vtroq; illo conftat:neceffe eft,nulla nisiloga
fylla. bam INC "IIS ua 10 ܩܵܐ 02 art -11 g1 p I
2 128 Iq bam admittat. Nam ficuti affectus is compositus est: ita etsubiectum
corpus compofitum agnosce nius. At vero oinnis brevis syllaba simplex est:E ius
autem ortus ad hunc modum iam declaratus eft. Cumaliquando dux coaluiffent,
prior acuto elata alteradepressagravi.vt dad: certe etiam af feetusipfi in vnum
coiere, sic disc,exlegib. aute, Loungquas supra recitavimus, non poteft
nisiautin fi ne, aut in proximafiniconstitui.in præcedetium autemnulla porest.
fi enim diffolveretur, acutus in quarta inveniretur, lic, Aêneus. Aeneus. Qua
renein penultimaquidem ponitur,fifubeat su premalonga. Hac enim diffoluta
dissolutaq; cir cumflexa, idem error´eveniret: vt quartam a fine acutus
accentus tolleret. îi autein lubeat brevis, tum vero circüfle et itur.quoniam
in ea etpenul timacum gravi, etantcpenultimacum acuto fit. intelligo autem hoc
apud Latinos,quinullam fi nalem acuunt: namapud Græcosinvenias lon gam ante
brevem vltimam, quæ longa accentum nullum proprium habeat:fed vltimaacutum,ox
w...Hinc fatis constat, quod dicebamus, gravem accentum etiam addictionem
pertinere, non fo vt demonstrabamus,fed etiam in compositione citra
consequentiam:ex eo.n.et a 'cuto fit circunflexus.Item non, folum in eade di
ettione,sed etiamin eadem syllaba et acutu et gra veinveniri:lic enim quidã pronunciant
gwasa, et eiusmodi vt etmeram intelligas, etin eadem fyllaba et levatum
etdepreffum lonum audias in luo quenque tempore fic,yaodosa. Cõstat et Era
commalfmi lapsus, qui Plane, adverbium, quum aperte signific lum in we 70 mradt
to ti significat, et quum affirmat,differre fic pote pro-.. didit, quod illud
priorem circunflectat fyllabam; hoc, quod acuat pofteriorem. vtrumque.n.cum fit
spondiaca dictio,non potuit penultimacircu fleetcre. Adverbia enim eiusmodi
femper produ i ömrm's xere vltimam quæ afecunda fuere declinatione apie plant
1. iccirco quod erat Apprime, Vergilius coactus est Apprima, dicere. fuere
autem eiufmodi ad verbia pleniore sono,et originis analogia, a fex - ' exe to
casu, sicut Fallo, Raro, Cito, fic etiam Plano. quorum quædam ad arbitrium
poetarum cor repta sunt interdum, Sero, apud Martialem, et Cito apud omnes.
Atin E,quæ defineret,nula lum,præter duo,Male, et Bene. et a tertia totidem
Sępe,Pene.quibusiccirco facile potuit brevitatis fyllaba contingere, quia in
ipfis nominib.brevis us 2 ni quoque fuit. De Αρστι et Θέσει. Syllabæ igitur
modus quotollitur ineavoxa- #they cutior, di et us eft a Græcis cegor, re ette
Tane. in alteram autem fubeuntem cum demittatur vox, gear appellarutminus
commode. Principio Jens Otay morn significationem habet latam:namin acuta quoq;
la'2 * ponis vocem:eft enim positio, collocatio:itaque melius xc tuh: dicta
fuisset. Sed neid quoque cuiusaccentui gravi conveniebat: nam initium
quadrisyllabæ dictionis gravem accentum ha bet. at nucquis dicat mevocem deponere,
quam nondum levavi? ergo Æquabilitatevocis potius appellafsent.yndeetiã in musicis
overra quidam I wj. di Iul. 11. dicuntur tractus,in quibus apois est nulla. Quemadmodum
accentuum leges foluantur. aut acutus autflexusaccentus.claudit:fed in eum locum
introdu et us acutus est a Grammati cis pro aduerbiistantum, et
præpositionibus, in Exc.cæteris veterum mansit lex. Tres igitur cauflas
assignayere grammatici, quib.aduersum prisca puritatem nouam inueherent
pronunciationę. Ros? Distinguendi ratio,ypafuit; altera, Ambiguitas 3 vt poffet
euitari: tertia, Necessitas pronuncian di. Nam vt Pone, aduerbium, a verbo
Pone, di stingueretur, accentus mutatus eft: codem mo do Coram, adųerbium, a
Coram, præpositio ne. hæc funt exempla primæ rationis. Ambi guitatem autem
fuftulerunt in voce, Interca loci, translato accentu in tertiam a fine: vt ne
quis duas putaret partes. Tertium confilium fuit a peceffitate pronunciationis:
vt quum encliticas ponimus, præcedentis dictionis po strema fuit acuenda,
Hominesne, Feræ'ne. Has tres partes fiquis acrius contemplețur, inueniet duas
esse tantum; vnicam enim priores duas, v. trobique enim vitamus ambiguum: in
fecun da partium, in prima,vocum. Ita in duo mem, bra diuides, ficut et tertiam
in duo. Namne cefsitas pronunciandi, aut per fe eft, vtin en cliticis: carum
enim natura ita fert,quod et no, men,vtinclinentin sefeaccentum: aut per acci,
dens, vt cum exempta fyllaba, decurtata diettio ne vol 2 3 13 oce din nati s,
in auffas prisca ationę. iguitas uncian Pone, di dem mo æpositio ne coeuntibus
in vnum extremis, fitcircunfle xus. Cuiusreiexempla multa funt, Arpinatis,
Arpinâs, Noftrâs, et alia eiusmodi. Sic etiam pu taruntin tertio diuini operis
legendum, vtre. fpondeatcæteris præteritis. --cecidira fuperbum Jlium: t
-omnishumofumat Neptunia Troia. vbi circunflexus potius manfit, quam
concreuita. In Græcis autem fæpenumero creatur ex dua bus, vt diximus voos,
vous. An admirrenda fint quafuperioricapite a veteria bus recepta sunt,
Aecveteribuscum placuiffent,qui contra- Cantare diceret, nullu habuere. Verum
interest phi lofophi placitis humanisanteponere ratione: Ni hil enimpretiosius
veritate:eaenim hominis fo lius sola meta est. Quæigitur ratio foluebat acce
tuu leges, ob cöponedas voces,cafalfam efsecondo for uincimus exeplis eiufmodivoçu,
quaru syllabæ fequentes tranflatum illum accentum,longa Jut. funt, vt in
Malefanus. Si enim acui potestyl timaprioris vocis compofitæ, poterit etin sim
plicibus: fi non in illis, ne in his quidem: ncque enim fubftantia rei mutari
poteft ab accidente: neque id quod drov Græci vocant, mutabile eft, ab effentia
enim fluit:cumque illa mutuo conuer titur,quippe cui soli, et femper competit.
Quare do ettiffimus quoque vir Gellius ita fenfitlibro fe ptimo. Igitur inistis
vocibus, quas nos non acui diximus,eacauffaeft, quod fyllaba insequitur na țura
lõgior,quæ non ferme patitur acui prioremin Ambi Interea ine: yt ne confiliom
vt quum ictionis po erz'ne. He tur, inuenit nores duas, n: in fecun in duomem
10. Namne eft, vtinen ert,quod et Mo m: autper acci Tecurtata dictio I jij in
vocabulis syllabarum plurium quam duarum: intelligere voluitpriorem penultima.
Dixit au tem, ferme, quia Grammaticorum istas regulas tum obfervabant. At
enimvero ficam cauffam, qua suntadducti, probavero nullam efle, etiam legem ipsam
probavero nullam: sublata enim Le caussa,tolletur et effe et us.Ergoin vocehac,
An I temalorum, et Prævolantes, et Antecursores,et Anteambulones si ratio hæc
fruftra est, et tamen vna di ettio intelligitur: codem modo et aliæ in
telligentur. Quid? nonne ctiam tribus parti bus quædam compositæ sunt? li
igitur Dona 2 tus, aut aliusquis in hac voce Exadversum, yult acutum transferri
fupra Ad.quod erat fupra Ver, in Versum, antequam componeretur: eaque ra
tioneadduettusfuit, vt vna di et io videretur: non absolvit consilium suum:
adhuc enim extra feptū illud istius accentus,pofita est particula Ex.quare
frustra laboravit, vt rerum confunderet natu ob co tram. Atque iccirco
intelligct 1 $ inventam a Græcis, cuius figura duceret oculos ad compo
fitionem:forma autem, id eft, continuatus fpiri. tus pronunciationis, cogeret
aures vnum audi re. Hoc quoque e Græcorum observationis bus constat planius:
nam quum #xdloudov di huc cantmaiore non audent ambignitate
έκδουλουςcreolezenou, 1ed έκδούλους: et ad veræ partes constructæ non coniun
ettæ poffint intelligi. Præterea quis dicit Mustela cum a çuto in prima? Quis
hoc modo, Compono? Quis etiain Præcurro, et eiusmodi? Quid,. quod idem moncnt
Tepçfacis dicendum na pocua as gnat. Habemus es, et imen parti- از هر Dona n, vult
ora Ver, aque ra tur: non trafeptu Ex.quare eret natu aventam a pocutovws, et
cætera a facio? Quare vbi fylla ba patitur, transferendus accentus erit, quem
admodum vbi numerus syllabarum non repu quoque Feftum autorem gra am uem,
veterumque sententiarum accuratum et narratorem, et interpretem: is in abuerbio
Adeo An mediam præcipitacuendam: ergo,vtfaciat differ re a verbo Adeo quo
tollit vnam ambiguitatem, alteram ponit, dicam enim duas effe partes, sicut
Vsque eo, Cum aduerbiis enim iungebant præ positiones veteres, contra quam
negantGram matici, Derepente, Infimul, Inibi, Vltimam a- migar, cuunt quidam in
tribus tantum, pone, Ergo,Pe- 4 ne: alii nullam excludunt:non defunt,qui prisco
rum adoratis vestigiis, pro illis pugnent: verum memoriæ proditum est,
Acolenses, quorum exe. plo aciudicio peneomnia Latini compararent ad loquendum,
nullius vocis poftremam acuiffe, præpositionibus exceptis. Egomalim Latine,
quam curiose sapere:putoquemaioresnostrosin ter fe, cum loquerentur,fineistis
legibus peregri nisintellexiffe. Nam fihæ distincionesfuntarenizin har hon
cessendæ: fane longe plura inuenias,maioreque nema?... yel ambiguitate, vel
necessitate. Nam pręposi tiones a nominibus ipso contextu, ipfoquesen su valde
differre illico intelliguntur, Vt omittam Face, verbum,FACE et nomen, aliaque
infinita, Gundæ pollin quib. modis difcernes cafus, et numerosbinario rum, et
ternariorum nominum adeo vt cum di -),Compono xerint,Mea
interestsapere:pofterorum multii mnodi? Quid gnorarint pronomen MEA, Vtrius
eflet casus: quartine pluralis, an fexti singularis. Quid? differ ad compo
vatus fpiri vnum audi bfervationis Ex.dloukar di cuhous: et ad ww: duæ enim
Mustela cum a 5 dicendum ferentiæ iftius cauffam, quam ftatuebant, misere
fubuertêre. Cum enim præpofitionem hanc Circum, vltimaacutapronunciarent, ne “Circus”
la cusadludos esse videretur ; Vbi cam postpone rent casui, Mistíque altaria
circum, translato in primam accentu, sublatam prius, vt putabant, contra quam
putabant, redintegrarunt, Fu mat, autem Vergilianum præsentis temporis est, non
præteriti, vt dixere: euersas enim incendiis vrbes complures dics fumare, mi
wu, ferrimis exemplis experti fumus.et Nostras, at qucaliaeiusmodi, Sarlinas,
Arpinas, perapoco pen reli et o tantum fibila, in quonullus effet ac centus, factum
dicimus. Itaquetransferri accen tus potuit, Græcorumexemplo, nos a good a'a Nam
ficuti illis turpe fuit, vocem fine accentu esse: ita apud Latinos supremam
syllabam acuia, Id quod etiamex præteritis quartæ coniugatio pis deprehendi
poteft:nam audîuit, mediam cir cunflectit: concide, vt sit, Audilt: nonmediam
accentu afficit, fed transfert in præcedentem, et tamen acutus ibi potuit poni,
vtin z pW TO TONCS, Sic in Mercuri, remanserat acutus suo loco, licet
Grammaticorum faperstitione tranflatus fuerit. Usus Temporum. ' Emporum
vsusfatis ex iis, quæ fupra dixi. mus,patet:quod simpliciffime tum pro rei,
locorumque rationediuifimus inlongu,et breue. Quædam igitur vocales erant
femper breues, 1 mg T 1, Os Do ac 1 cen xda Centu, o, his fingula tempora
funtattributa: carum coparibus longis bina, H,12, Tres sunt comunes, 1, 1, Y:
ita vt quibufdam in vocibus semper sint breues, vt neatra pluralia, xana ; in
aliis semper longæ: vtin cafu quarto plurali primæ: uovares; in quibusdam
indifferentes, vtin odpornis et - 1. svią. Varientur quoque perdialectos:nam
Da. res vltimam illam quartiusoses corripiunt: exem pla multaapud
Theocritum,quare profuo qua que captu, vt sors feret, tempus aut tempora na
ciscetur. Hæc eftipfarum substantia; a qua,na tura fluit certa quantitatis, quæ
natura est moi dror, neque vnquam fallit. Quod fiquærat phi- ane maula iatti
ļosophus, quomodo erit propria hæc ipsarum communium? incerta enim est. Primum
refa pondębo, vtnumero, fecundum totum genus, vtrunque competit, par,et impar:
sed certo nu mero, alteru tantum:fic communib. vocalib.in generę vtrunque
conuenit, corripi, et produçi: at vni cuipam designatæ, alterutrum tantum.
Præterea acutius adhuc: hoc ipfum cffe earum proprium, variari ; hocque ipsum
quod est, va riari,perpetuum effe:nec variari: ficut effe corru ptibile, est
affe ettio rerum naturalium, quæ hace ipsa scienția comprehenduntur, quod
corrupti bilia funt:hoc enim ipsum, esse corruptibile, no corrumpitur:semper
enim tale eft. Accidit au tçm extrinfecus augeri ipsas produ et iones, vt Tu
quoque monuimus,perconsonantium con. cursum, quam pofitionem appellarunt.
Additæ muta et femiuocalis breui vocali, femiffem tem poris afferet: duæ mutæ
geminatæ tantundem, fed acui gatio am cir mediam denterk. TPW TOTEKOCHA fuo 6
loco tranflata Has the pra axfupra dixi ongū,et breu e tumproro cmper brenes
1,1 136 sed necessariam productionem, quam illæ folam contingentem:nequeenim
neceffario produce bant,RR geminatum plus afferetmoræ. Sicetiam longæ vocali
hæc elementa fuperuenientia com ponent pro rata, plura tempora. Ita atio modo
producit media:Tenebra:alio Abba:illa.n.potest etproduci, et corripi: hæc
corripi nonpotelt. Ita que in illa posuere vnum tempus ac semis:in hac duo
tempora. Si autem longam natura sequatur muta cumliquida, non minus apponent
tempo ris, quam duæ mutæ, neque enim poteft corripi. Sed addentæquevnum tempus.
Scio alitera ve teribus pofitum esse,fed nequere et e, neque per feet e:nam
sequente simplici,vnicaque consonan telongam, voluere affici duobustemporibus
ac { semis.Ergonon plene dixere:debuerant enim o ftendere,nulla fequente
consonante quanta ef set. Et ridicule putarunt ab vna consonante addi tempus.
Omnino autem hæc omnia ad oftenta tionem litcratoriam suntinuc et a. Spirituum
officium, etloca. may Vpererat officium sedesquespirituu, quæ de clararemus:fed
quimeminerit, qua deh, de queconiugatis dixerimus cõsonantibus, is facile
intelliget commodius abs sese hucea vocari pof fe,quam a nobis repeti debuisse.
Accentuum ra tio,figura,vfus,tribus cauffis expedita funt:For mali,Materiali,
Finali.Absolutaquecontempla tio partium inaterialium, quibus dictio, quod eft
subiectum argumentü præfenti operæ, constitui tur. Nuc de ipso toto quid fentiedu
fit, videamus. camillæfolum Marioproduce
orz Sicetiam nientia com Ita aliomodo illa.n.p
potcft. Ita “LATINÆ”, LIBER ernis in hac TERTIVS ra sequatur ent tempo eft
corripi literave eque per onloman oribus et enina teade anta el P ftenta.
Dictionis nomen, atque definitio. ARTIBVS, partiumque affecti- 0. bus
inuestigatis, quib.subiectama teria noftri operis componeretur: nunc de ipfo
toto agendum est. Quod Græci dixiw vocant cauffam zostaj nos appellamus: quare
addito iuris vocabu. Bad lo, etiam Græcum fonum mutuati fumus, etlunarea dicium
nominauimus: Qua in Causla, fiue lu dicio propterea quod orationisvsus maxime
vi get, Latini poftea verbum Dicere, fumpfere ad significandum, quoties
loqueremur. At sicuti vox hæc Dicere, contextum magis verborum, quam fingula
verba significat: itae contrario, verbale nomen hoc Dictio, non folum dicendi actum,
vt eft apud Liuium, sed etiam vnicum quoduis notauitverbum: ex qua origine,
atque vfu, cum definitionem fatis commode poffimus elicere: tamen vt fapientius
agamus, paulo altius eft contemplandum. Sicut in fpeculo ea, Pen quæ edet de
cili 21 3 Origt quæ videntur, non funt, fed corum species, vnde etiam nomen
obtinuere, vt Species appellaren tur, atqueiccirco a Catullo diettum est
imagino fum, að rerum imitatione, quas obiectas repraa Tentaret: ita quæ
intelligimus, ea suntreipfa ex tra nos, eorumque species in nobis.Eftenim qua
firerum fpeculum intclle et usnoster, cui nifi per fenfum repræsententur res,
nihil scit ipse. Argu mento funt muti, qui nutibusloquuntur ex vsu
oculorumiaures, quaru officio sunt destituti, non potuerunt conferread vocum
receptionem,quas exceptas redderent vicislim. Itaque fuit quali, quod Plato de
aliis rebus dicit,emuayeão quodda intelle et us nofter, in quod res ipfæ certo
modo recepte conderentur,promerenturque ad huma nam,divinamque fapientiam
communicandam. Igitur harum rerum notionessuę cuiusque fiunts in cuius
intellectum recipiuntur. At enimvero cum homo animal fit non folum sociale, vt
for Home Pornomica, fed etiam divinum:opushabuitofficio quo dam
atqueinstrumentis, quibus hancfocietatem non forte autinstinctu oblatam, fed
prudentia, atque consilio quæfitam, comparatamquecofer varet: quare et doceri
debuit, et docere. Necessa ria igitur fuit illa quoque naturæ facultas, qua i.
pfæ illa notiones, quæ in intelle et u fitæ erant, sensibus concipipossent.Per
fensilia ergo eruen dæ fuerunt illæ species: at ineptus ad id fuit Ta Etus: non
enim ad eum poterantelici res immate riales, qui maximematerialis est. Ineptus
æque Gustus: quicum ta et us quidam sit, tanto minus potuit fervire,quod minore
ambito, qua ta ettus, pre præscribebatur. In odoresquoque transfundi non
poterant, quibus exceptæ, adiscente perci perētur:eft enimOdor res minimepofita
in po testate hominis. Duo igitur senfilia reliqua fa etta, funt,Color,et
Sonus:acSonusquidem interpresauce fuit animi dupliciter: vel vt sonusfimplex
quip pe fupplosionepedum, et applausu manuum, et crepitu digitorum, atque aliis
eiufmodi declara mus cuipiam animi nostri affe iones: vel vt fo nus in
specie,fcilicet vox:eaque fuit duplex:al-Voy tera rudis, Sibilus, Vlulatus,
Gemitus, Cachin nus, et reliqua talia: altera conformata, vt Vera ba, et
Nomina. Alterum fenfile fuit Color: 04 colon mnis autem color cum figura,
vtrunque enimin corpore eft:Igitur duobusquoque modisfactum eft:nam aut rudi,vt
nutu,et gestu:autperfecto,id que dupliciter:aut Pictura,aut Scriptura: vndea
pud Græcos vterque artifex dietus est communi nomine regol. Ergo rerum notiones
a rebus in mentem primum per sensus fine medio huma no profe ettæ sunt:
intelligo autem per fenfuso. mnes,eague scientia autodidagis dicta est:aut per
medium humanum,quoniam non ab rebus,fed a notionibus, quæ effent in docentis
intellectu, prodiere in duos sensus. Auditum per locutio nem, Visum per
scripturam: vnde poftea in in tellectum ipsum insinuarentur. Quemadmodum autem
res naturam non mutant fed eædem apud moboma's omnes sunt, ita et carum
notiones: tam enim Equus ipse, quam eius species apud omnes est:
nequehominisolum, fed quibufcunque anima libus tribuit natura aptum sensum ad
percipien dum. At nomina rerum, et literæ non cæde suntnen i omnibus.
Sicutigiturimagines rerum suotno tiones intellectui:ita voces suntnotionum
illaru notiones, et vocum ipfarum scripta quoque sunt notiones,vt talis ordo
naturæ fit: Equus,equi spe cies in intellectu,equi nomen in voce, equirepo
masgan sitio scriptura. Prima igitur duo a natura sunt: nam equiprincipiu et
forma, et materia, et finis natura eft:Equiquoquefpeciem ab equo educta intelle
et us agens in intelleet um possibilem im ant pressit.Ataltera duo ab arte,aut
cafu sunt: quan quam enim natura fecit vocem loquentis,et atra mentum, calamum,
manum: tamen et vocifle ordy, xuum, anfractuum, articuloru, temporum,fpiri
tuum, orde ac fedes fortuita fuere: et eodem ino do scribēris manus,cursus,
mora, series.Multa sut in operibus noftris naturalia: velipfa Ambulatio: ac
forte fit,vt tantum faciam spatiorum, vt recta incedam, vt properem, vt
sublistam, vt alternem, vt diuaricem, vt vacillem, vt suspendam gradu,
ytreuertar. Poffum etiam hæc aliquando simul miscere,quæ coire queant. Itaque
equi crus sem: " per fuo loco eft: at e litera in nomine equis apud Græcos
nulla. quare arbitrio cius qui hoc primu nomen inucnit,factum est,vt sic
appellaretur.Ex his itaquedefinimus Didionem,Nota vniusfpe ciei, quæ estin
animo, indita eirci, cuiuseft fpe cies, fecundum vocem,pro arbitratu
eius,quipri de moindidit.Dico Notam vnius fpecieiiquoniam oratio multarum
specierum eft: et dictio compo: fita rei composita cft: omneautem compofitum
pro vno accipitur: ita eximitur hæc dubitatio. Sed quæremus etiam fuper
definitione s vna enim eft resomnis definitio:non copula:non alio iubim bor
inftrumeto,fednatura: neque enim aliud eft,A- vefinn nimal rationale
mortale,quam Homo. Quare si in definitione vna est notio, et plures dićtiones,
videbitur diettio notionis pars, non totius tota i mago. Sicest respondendum:
in rebus fingulis effe multa fuapte natura, quævnum fiunt ab vna forma:vt
effe,vegetari,sentireintelligere:hæc o mnia ab vna anima vnum fiunt in homine:
in quo ita sunt, vt vnum alterum complectatur, et capiat:quam feriem et in octavo
historiarum, et ", in xii.Metaphysicæ satis declaravimus.Ergo de finitum
vnum eft etre, et nomine: ipfa enim res est yt est, definitio autem vnius rei
et vnum di cens, quia dicit definitum: fedpermulta dicensit perdefinition illud
vnum, quoniam vnum illud permulta efter at have one conftitutum. Non recte vero
veteres definive -berehitabis re, qui Dictionem partem orationis dixere.Prin
-'Emory cipio malefactumest, cum per partem definive re: eft enim dictio etiain
extraorationem: ita que coaet i funt addere, Constructæ: ergo non constructa
oratione Dictio nulla crit. Præterea eft dicio quædam, quæ etiam fitoratio
perfecti fenfus, ac quidem tota,vtimperativa,Lege,Scri be:et
interiectiones,Hev.Poftremopeffimo con filio fecere, vt adderent, minimam: quis
enim dicat minimam partem hominis manum? Nam ficuti in multis rebus
naturalibus, ita in oratio ne partes sunt, non vniusmodi: aliæ enim funt
divisibiles: aliæ non, vt literæ. Divisibilesau tem duplicis sunt naturæ:
quædam dividuntur in consimiles, quædam in condissimiles: vt anguinis
parsfanguis est, et ossis os:at pedis pars: non est pes. Hæpartes non
possuntminimæ dict in homine, quę in alias vltimas fecantur partes: i ta neque
dictiones in oratione: quare coacti fue rescipsos interpretari:Minimas,inquiunt,intel
ligimus quo ad sensum.ergo male omisere in de, finitione, quod per
interpretationem addendum fuit. Dubitare possit aliquis fic:Nomina,quęno tiones
funt figmentorum,non esse dietiones: rei Danksy enim nulliuslunenotæ.Hocfic eft
accipiendum, Hoc quod dicitur ens, aliquando verum effe, vt Deus:aliquando non
verum,et hoc dupliciter: aut enim eit Privatio,aut eft Fictio. Privatio, vt
Vacuum:Fictio, vt Phænix. Itaque fane horum nomina non significant codem modo,
ipfa, quo inodo Deus Deum: fed privationem per habitu De* fic: Quia Plenum
significat locum tacium vbiq; a corpore: eius contrarium Vacuum fignificabit:
quod quanquam non est, tamen per illud, quod est, intelligitur. Fiet a autem
faciliuspercipiun. tur, funt enim quafi orationes fallæ: idem enim eft Phenix,
et oratio hæc, Avis rediviva, suicauf far Dietionem Græci.negav, vnde noftrum
Lege. re, etab hocLegati, quorum scilicet officiumef fet, dicere. Utrum
Dictiones a natura fint,an arbi. trio inventoris. Samo v Erum quoddiximus,
itaindita effe nomi na vt inventori libitum eflet: primum a nobis inventum
est,et olim commovit huius fentetiæ autor Aristoteles quofdaPlatonis de 143 ma
Hefensores,cuius sententia in Cratylo videtur ef fe hęc:Sermonem rem esse
naturalem,non ab at te.Id quod cogebantur ita sentire,quippeq nihil fcientiarum
adipisci nosprofiterentur, fed remi nilci tantum. Quod et ex eo dependebat, cum
di cerent animasin corpora alia atque alia transini grare, quemadmodum e
Pýthagoræ institutis re ferebatipfe Platoin Atlantico.Habebantauteria que
etiam, vt fibividebantur, rationes:nam loquendi, huma instrumenta, et materia
funt naturalia,Pulmo,Se ptum, Guttur, Palatum Lingua, Aēr, ergo et ipfa e
nomina. Trahi præterea nos a rerum cauflist quibus moti du et ique, sic potius
quam licloqua mur. Quod fi contingit vt eandem rem aliter nos, Græçialiter
appellent,nihil mirum:diverse enim cauffæ funt eiusdem rei, quarum vna illi, al
gera nos agamur ad nomina imponenda. Verum Sæmoræ defenfiones errorum
sunt.Atqueequi. Com ho dem sæpenumero miratus sum mortalium velau Haciam, vel
pertinaciam, qui cuerentur errores, dosij, qui commisere, fi viverent,
emendarent Neque enim erraffe turpeest: eft enim initiami pientix: si non
eiipli qui fallitur, at aliisnon ilendi. Verum errores fovere, id vero vel ex
ema dementia eft: vel vt i ti faciunt ; qui semel que iterum deie etti, malunt
confodi, quâ con tari. Principio argumentum estnullum:Ma- As, cria et
ioftrunienta fünt naturaliajergo et figura mposita. Quis enim dicat,currus aut
carpentifi uram naturalem effe,nili Anaxagöras? Isita di cebat, nisicarpenti
figura fuiffetin ligno, non uifle futurum ytineffet. Sed nugabatur:neque enim
inerat,sed inesse tantum poterat. Itaque a maioribusnoftris Facies dietta eft
afaciendo: fit enim quod non est:itaque etiam pretium persol vitur artifici. Et
accidens a Latinis appellatur, quoniam casu factum est, vt dei imago potius
fieret, quam scamnum e ficu Horatiana: si enim naturalis facies fuiffet illa,
omnibus ficubusines fet. Sic etiam Vocem efle naturalem fatemur: i tem Flexus,
et Tempora, et Modos: fed eorum se riem, aut misturain forte,aut arte factam
constat. 7 Sienim natura eorum effet autor,vnusomnium {moduseffet, vna enim
natura: velutin aviculis manifeftum eft:cæ enim sua in specieæqueidem
cantillant omnes. At quod ab arte est, et discunt. As, et dedifcunt. Quod autem
aiuntin rebuseffe que dam peculiaria, id fane vcrum est:atcum addunt iis
nosexcitari ad certas voces creandas, fallun tur. Nam quæramus sic: aut nota
sunt nobis ca propria et peculiaria, aut nonsunt. Si non funt, non ducimur: fed
non funt nota maxima ex par te: nam quotus quisque rerum ipfarum naturas
compertas habeat: fatemur fanenos, non pauca effe diet a a certis caussis: sed
ipfx cauffæ, quæro porro,an cauffas habeant.Sinon habent,ergo no mina erunt
fortuita:sin habent, ad vltimas tande procedendum erit, quę pręterea nullam
habeat. Si dicant ab effectionibus cöparari nomencauf Læsergoerit circulus,vt
cauffa ab effe et u,effe et us a caussa dicatur: quare vtrumque erit fortuitum.
AHis rationibus repulfi aiunt et Providentia regi RespinosNugx..Si enimnrebus
civilibus,in bellis,in | redivina, deftituimurrectis confiliis, atque adeo ill2
La Providentia: sane putida illa fuerit, quæma mis in rebus negleetos nos,
apprehensos manu ahat in nominum veras cauffas. Sanevero pul- 2 hram
Prouidentiam, quæ Canis et Vrsa etiam ab homo i diis placet) caudatæ nomen in
cælum tulit. mymini uid Canicum cælo:quia herbas exurit. At ne ue exurit Canis,
neque herbiuorum animal est. tque vni quidem rei diuersa nomina impofita3 nt,
vt Ventum a veniendo dixerint Latini, a irando iveuer Græci. Esto: diuerfi,inquiunt,
af etus totidem nomina exegêre. At diuersas res uare iisdem vocibus disfitæ
nationes appella ant? Quænam?inquies.Illyrica, Arabica,ludza, Germanica,Latina,
Scythica. Air,vocantScy -nos aen? næ quam pro calamo aromatico circunferunt:
Veneti arborem quandam, quam puto esse al am populum, non enim mcmini, fed
arbor est. ith oleum dicunt Arabes, at Græci ex hordeo otūm. Gelon,
Hebræismigrans, at cum mi rabantflebant: Græcisautem ridens. Manecít lis
numerus, nobis parsdiei. Num,est nobis in rrogationis particula, illis piscem
notat. Bagoa omen est Perfis et Medis impurum: at in co pud Hebræos est et
cellitudo, et excellentia: Fantabri autem fic appellant glandem fagi am:
pulchræ vero cauffæ cohærentes iisdem rincipiis, Rex, Glans, Eunuchus. Illyrii
Flu ium eodem nomine vocant, quo Itali diuitem. Jolo dicere quid Mauris
lignificet zve fed lon diuerfum eft ab Illyrico significatu, Dentes nim sic
appellant. Abbaelt nomen quo Deum eneramur, Syri appellant sic ilsonier's Rub
Liguribus Taurinis numerum significat vice num quiqum, Illyriimappam
intelligunt.ȚIA Græcis quid sit, etiam pueri sciunt, Illyrii Ca nem fic vocant.
Vaccam iidem Craua vocant, at Ligures tic Capram. Age vero quot Latina aliter
accipit Germanus: Araneam vocat Spi nam: Vicem, Malum: Altum nominantsenem:
Album, quod nos medium: Glut, appellant prunas, nos collan: carbonem,
Collü.n.Quid quod etiam contraria iifdem vocibus funt com prehensa. Nam
Germanis est Caldum, quod { nobis,frigus. Scd iam modus fit.vt etia inteligat
certis nationibus Illyricis, et Cantabris notas at formatiuas, aliis gentibus
negare, quare etiam eandem vocem contraria fignificare pasii sunt Latini,
Vefcum et Obeffum, etalią. Et iidem » Pythagorei mutanda nominasuasere
malefortu natis: propterea quod cum eoruin genio iamim posita non conuenirent.
In quosi nos illa proui dentia deserit, quanto magis despicabitur, cum matellam
pofcemus?Vtrum nominasint penitus fortuita,an certo,confilio. Vm igitur nomina
arerum naturanon flu xerint,reette definimus, notam eflerorum
stenbyDiettionem,vtlibuit inuentori. At fibido duplex elt, vno modo, cum impetų
a ettus primum quod que obuium sumam: altero, cum iccirco libitum mihi fuerit
ita facere, quia id ratio quæpiam per fuasit. Ergo cum priores orta cum rebus
nomina cötenderet, suntexplosi. Alii cõlalțius accepere. Natura quidem non
ortas, sed arte, ac prudentia factas Diet iones. Nam subftatia,inquiunt,fenfu
non appreheditur,sed affe et iones:puta,Magnity laho do, Qualitas, Motus, A et
io,Passio. Quare hisaffe et ibus motiatque instructi nomina imposita sunt.
Afferunt igitur exempla duo: Lapidis, et Petræ. Nam Lapis,inquiunt,a pede
lædendo di etus est, habuitigiturnomen a duritia, et aetione; Petra vero, quia
pedibusteratur: ab eo quod p? titur inuenerit appellationem. Hinc deindedia
gressi,multa millia monstrorum conficiunt. A. lii contra, omnia cafu facca
nomina, multo au - conha dacius affirmant:Nimirum quibus vniuersi mun di
compago, series, temperatio, cafu, ac temere prta conftituuntur,seruantur
constituta. Atque hos posteriores, poftremos esse sinamus: neque enim merentur
dici homines, qui ipsiessenolut. Nam quod ad vocum attinet rationem, quis me
tis compos, ab amando amatorem negabit esse diet um Illis autem fic respondeamus:
Principio, fola pon neceflario concluderetribus quatuorvee xemplis omnium
naturam vocum: Deinde,ridi cule attribuere pro caussis Latinas appellationes.
Lapis enim, et Petra,vtrunque Græcum fuit,nes, et metga: nam Laterem,pro quo
solo barbare pe tram capiunt, nivfov Græci vocant. Sicigitus çensemus: Multa
nomina temere extitisse pris mum, fine flexu,fine ornameto,quo tempore no
quiero dumrerum naturæ cognitæ fuiffent:ab his mulram sana, a fimpliciffime
ducta, vt flexiones:alia immutatis cela quins particulis, vt denominatiua, et
alia ciusinodi: un son moment, nulla distorta sütcopositjone. Quodautinque
forants horsen Ver sout. Bigualta strapwiWAS own Shait plovek, bug comlimani
Referencia recent home songs unr, formis principia deducantur, in quibus neceffe
fit fifte re intellectum, id etex rebus patet naturalibus, vbi nullum est
infinitum, et in vocibus ipsis fic conftabit. Amaritudo ducetur ab Amaro: Ama
rum a Mari ; Mare ynde deriuabitur?ab Hebræo, Marath. Quæro porro, vnde sit
hoc. Vt finigas quod velis, diuertendum est ad vnum, in quo conquiefcas,quod
aliorum cauffa fit:ipfius nulla sit caufla. Plures esse voces primarias.. Si
igitur ad certasvoces cæteras referimus; lepimpice operæpretium fuit quotnam
effent illæ, inue mimmeinstigare. Etenim si quemadmodum res ab re, ita nomēanomineprocedat:
ab hoc nomine DEVS, potissimum omnia deducerentur; at ab hoc pau ca deducuntur.
Duo igitur modi testant princi piorum:vnus in Materia, et forma:addeetiam fi
vis tlustenay, fiue Carentiam, vt delicatiores, fiue Priuationem, vt ex Topicis
M. Tullii colli gere potes, voces.Verum extra hæc omnia, inue nias multa,
Calidum, Magnum, Filium, Arma 2_tum, atque alia eiusinodi. Alter moduseftin de
cem prædicamentis: sed neque asubstantiali no minededucas substantiale, nequea
relatiuo re latiuum,nequeab aliis generibus eiusdem gene ris alia. Nam a Cæfare
cum dicis Cæsarianum, potes tam prudentiam intelligere, quam equum. sica patre
patrimum cum deducis,a filio eadem lege non potes. et quæuis dictio in
prædicamen to rclationis efto eft enimnota, cuius eft. verum sha hoc) che hoc
ipfum nomen relationis,non eft relatio: ne queab ipfo relatiua ducta sunt.non
enim Quis, aut Qualis, quicquam cum verbo refero, tanqua cum origine sui,habet
affinitatis. Certus igitur atque finitus primogeniarum vocum numerus eft: sed
nuncquidem, non autem semper: multa enim finxere veteres: vt etiam apud
Pindarum inauditum alias conquerantur Gramatici,le iniz? pro eo quod alii
wiecuo dicerent. Satis autem nobis fit, scire, multa a Græcis deducta effe, in
quoru principiis fani fuerit hominis acquiescere. Non eodem modorem abreduci,
et nomēa nomine Vævero deducuntur, non necessario rerum ordinem seruabunt:
vtquemadmodum res mody 1 ab re, ita illius nomen ab huius nomineexcipia tur.
Nam quantum a quantitate est, li rem Ipe ettes. at contra quantitasa quanto
dicta est, vox a per voce,non quantum a quautitate. Ratio huius rei Ratio eft,
propterea quod cognitio nostra contrarium habet ordinem,quam natura ; prius
enim natura notam habuit quantitatem, quam eam poneret: in quanto. Contra,
nobis ea, quæ concretavo lini cant notiora suntiis,quæ abftra et a nominant.
Ita que antiqui, Quale, dicebant: Qualitatem non dicebant. M. enim Tullius
primuseam vocem commentus est. Et adhuc in multisabstracta de siderantur: vt in
pingui, neque enim fereante Plinii tempora, Pinguedinem,legimus. Nunc masa
cameo quoque animum hostilem dicimus: Hostilita vero tem an dicat quis, non
memini. lllud fcimus, Quid COM n oll nu: rm n de in uon gen anun quus header
aprobatis antoribus Ingratum vfurpari, Ingra titudinem explodi. Harumlegum
rationes cum ignorarent recentiores, fallo putarunt, eundem ordinem deberi
nominibus fignifịcanţibus, qui fignificatis rebus inest. Dictionis affectus.
DLitionis affectus secundum definitionem nel teriæ rationem: nam ficut in
syllabis literaru nu: merus recenfetur, ita in diet ionibus fyllabarum, Accidit
autem vt dictio fit vel monogramma, vel polysyllaba. Exempla autem
suntcoinitio, atque ordine. A, Amor, Amator, Amatores, Ama rorie, ad
superlatiuorum, atque adeo dithyram bicorum vsquenumerum: neque enim Græca rum
audaciæ lex vlla certa polita fuit, qui veli. psos pedes poeticos ad qdonas
fyllabas produ huisere.Patiuntur quoque diet iones ficut et literæ, et syllabæ:
commutantur enim:et appellatur in genere cvcentags: quemadmodum cum ponitur
declinabilis proindeclinabili, et e contrario.Flos apprima tenax. et Meurngo
xanoswv, pro divas, et καλός σοιών, pro καλώς. Dico autern in generc; nam li
particulas ipfasspectes,dicitur avmuspid ; vt cum nominapro nominibus, verba
pro ver bis, et alia fuo quæque in genere,suis congeneri-. bus supponuntur,de
quibus omnibus locis scri ptum eft.Item transponuntur,vt fiquis dicat, Plebis
Tribunus, Patriæ Pater, Conscriptos Pa çres. Et quomodo fyllabæ præponebantur
di etionibus, M ret. ettionibus, aut poftponebantur, aut interpone. bantur: ita
di et ionesorationi. Anteponitur a lu reconfultis:Ecce: sic, Precium ob cauffam
da tum, cauffa non secuta, condici poffe.vt:Ecce Me nius decem dedit, vt tuta
fibi in foro effe lice Citra illam vocem, Ecce, oratio perfecta erat.Sic
adduntar pronomina sine emphası. Ega amo,vas militaris. In medio, coniun et
iones com pletiuæ, Tu quidem aberas, ego feriebam. Etin fine,apud M.Tullium ad
Atticum: Triginta erat dies, ipfi:Geminatur, Ah Corydon, Corydon. Eximitur,
Quos ego. Mutantur autem vt lite - umfolie ræ ac fyllabæ, quatenus illæ quoque
mutantur, Adhæc et diuiduntur, vtapudEnnium, -Cerering. diminuiç, brym. Ete
contrario componuntur, Malefanus. Et ficut literæ atq. syllabæ incolu
mescoiungutur interdã: interdu vero vitiatæ:ita et diet tiones. Nam aut ex
duabus integris vna fit ; vt, Manucapio.aut duab.corruptis:vt, Mancipi, aut
integra et corrupta: vt Cumprime. aut e con trario:vt,Omnipotens.Hoc autem fit,
aut in dua bus Latinis: quales eæ sunt. aut duabus Græcis: ut, Menelaus. aut
Latina et Græca: vt, Mustela. aut Græca etĻatina: vt, Epitogium. Diet tionis fpeçies,qua
rationefintinuestiganda. Iigitur dictio rerum nota est, prorerum spe- one
cicbus, partes quoquesuas fortietur. Videamus mus ergoin magnaautorum
controversia, quot, hag van quæ've lint.Quod Græci, o, vocant:apud nosaucamais
çem vsitato potius, quam Latino caret nomine; id ( Scien • ab quot, gothe SO I
1. Jli. Ju Buaid partim significat res permanentes:vt, equum, album,
decempedam:quarum natura poftquam perfecta est,diu perstat:Partim
fluentes,quarum natura est, esse tandiu, quandiu fiunt: vbi vero funt absolutæ,
non sunt amplius. In hac partitio ne tota vis orationis noftræ confiftit:
complecti tur eniin etiam Deum: nam poftquamperfectus eft, diu eft: hocautem
diu fine caret. Costantium Nomerigitur rerum notam. Nomēdixere:corum vero, quæ
fluunt, Verbum. Nam tametsi nomina quæ dam rem fluentem significant, vt Annus, at
non reifluxum. Quin hæc vox,Fluxus,quanquam vi detur a ettum fuendiindicare:
non tamen mensu ram ipfius fluxus connotat: id quod verbaipfa fa ciunt. Quoniam
vero hæc omnia ad orationem comparata funt, quæ quippam alteri inefle o
ftendit, ve Amorem in Cæsare, id aliquandofe juncta nota signatur: vt, Cæsar
currit aliquando propius ac felicius naturam imitari instituimus: sicuti nanque
Cæsar ipfe, et ipse cursus vno eo demque corpore continetur:ita inuenta est a
pri fcis notaidem efficiens suo significatu, quæ qua fi infitione quadam vnum
ftatueret. Quarevelut ex Equa et Asino fit Mulus, feruatis vtrinque a liquot
vtriusque naturæ particulis: ita ex Nomi ne et Verbo confectum est
Participium:quod fic appellarunt, vt hac quoque in parte Græcos,qui us to
wdixiffent,imitarentur. Atenim vero vo cabulorum ratio diuerfa eft: nam Græca
vox a * et ionem significat:vt,ezoxrapudMathematicos, cæli pars quæ fidera
continet: et Pyrrhonis affe {tio, qua in dubitãdo mentis cursum inhibebat.
Verum participium non fic videtur: Analogia nanque alia eft in Mancipio,paffiva
fcilicet quod manu caperetur.fed fuit sicutMunicipium.Ino ratione autem etiam
pro modo vsuque loquendi deeratadhuc aliquid: interdumenim inomine no Prono
suppetente, aut iam semel dictum nerepetere mus, nutu aut digito indicavimus
aliquid: exem pligratia,Lanceam si petam, etimmijhentib. ho fibus clade
sociorumturbatus præci pitem con silia suppetiarum nomen non edam:fed indica
tam petam: huius quoque rei nota i nvenienda fuit,nutus scilicet ipsius
atqueindicationis. Qua re Pronomen invētum est, quod esser Notarum, id est nominum
nota: ficut indicatici digito aut capite fa etta erat nota lanceæ. Nisi enim
licinve stiges, non potes, quin veterum errcirem com mittas. Quorum
definitionibus neque asNomen a Pronomine distinguere. his positis, illud quo
queex rebus explicandum fuit:Namomnequod 'merlin elt,aut fit, aut elt caufa,
vtDeus: aut elft effectus, ytridere: aut vtrunque, vt Homo. Ca uffarumi gitur
naturam per nomina indicabant ; at cauf larumodusnonpotuit: itaque excogitandæ
nails fuere notæ, quibushoc quoq; explicarı:tur: quas a situ nimis ruditer
veteres appellarunt, præpoli tiones:fed de hoc suo loco. Igitur Cat 5 quu esse
posset efficiens cauffa, etpoffet ide esse finis, hoc nomen Cato efficientem
cauffam indicavit fic, Cato ædificat, ratione verbi intelligisi psum effe cauffam:at
finc verbo fi sit, nihil intelliggas: quare addita præpofitione A statim
efficient em decla rabit: fiautem apponas Ad, aut Propter, finem explices.
Porro vthis notis Nominum modi de hai clarantur,ita verborum quoque modi,
qualita cu telquetemperandæ fuere: Nam quum signantur ex res, quæ dum fiunt,
sunt:aut temporis finibus certis præscribuntur, vt Hodie lego:aut qualita tis
modum recipiunt, vt Bene curro. fccirco hic quoque notas suas habuere, quæcum
verba ipfa moderanda fufcepiffent,verbis ipfis appositæ,ad verbia dici meruere.
Restabat etiamnum aliquid; quodinrebuspositum deberet etiam notis infi-. ho
gniri. Nam res vna est,autforma,vrAnimal ra tionale:aut
accidente,vtLacalbum:aut subiecto, vt Album et dulce in lacte: autmistione,vt
oxy mel:autcumulo, vt acervus. Ergo quæ fierent v num, vt vnum quoque
dicerentur, commenti funt fapientes cõiun ettiones, quarum natura fuo loco
acutillime explicata eft: Sicigitur in præsen tia fatis eft dicere, Lacest
album ;et dulce: Atque his quidem feptem partibus vniversus rerumam bitus,
modusque contineri videbatur: niliani way morum affe et us quidam
fuperfuiffent, qui nie masbequeiunguntur verbis, neque nominibuscohæ rent: fed
eorum vis in animo totafibi confiftit. Nam voxhæc, Dolor, affe et um
fignificat: fed Heu, nonhocipsum,quod dolor eft,quir !: re affe et i animi nota
eft. Igitur quune c. nes indignatione; atque dolore, atque et yentis interrumpi
soleant, maluere interpone re, vnde et interie ettio eft appellata. Acpotuit
quidem etiam anteponisetiam poftponi:fed qar Zanteponerets temerenimis,no
redditacauila aut Lirasci, aut minitari videbatur: quipoftponeret; leviter
dolere.Itaqueet consulto interposuere, et perturbationi animiserviere. Exhis vt
patet partium numerus, ita excludu- Em tur falso ascripta: etenim Appellatio,
idem quod tay nomenArticulus nobis nullus, et Græcis super fluus, nisi quum rem
notam repetit subiicerein tellectui. at tunc est relativum. Idem enim eft, O
doûnos pous quod down avoidta: alioqui otio sum loquaciffimæ gentis
inftrumentum eft. In finita quoque verba a verbis receptis feparanda non effe,
ex definitioneconftat. Præpofitiones au tem idem effe quod Coniunctiones,
negamusex his, quædiximus. Nam Vocabulum quiaddide re,ne meriti quidem funt,vt
refellantur: genus e nim est ve Diettio,non nominis species,vrinepti
unt.Nibilenin diftar a voce Vocabulum, nisiqa flexus atque articulosin voce
habet. Idem enim est Mendicus etMendicabulum, Saburra etSabu lam,Statio et
Stabulum. Eruptigitur Dictionis fpecies odo: Nomen, Verbum,Participium, Pro nomen,
Præpofitio, Adverbium, Interiectio, Coniunctio. Quaratione investigande
finispecies,quainfle ettatur: et quarenon pluresfintautPerfona, ant Numeri
HAArum autem partium quædam cum infle- Ongo ctantur ; quædam exdem, eademque
facie perpetuo fint: quæ etquare ita afficiantur dein ieps dicendum erit:
tiprius inflexionis ipfius ra uiones,atque necessitates eruamus. tlocutioab
vno,pluribusve proficiscatur,nihilinterest: fed vnum plurave significet:
fcilicetvnius, plurium **** $ venota fit. Forma enim orationis, Significatio
eft: Significatio autem, a recit, non a loquente: Chamadoquens enim efficiens
est. Omnis autem nume mil rus ternionecontinetur: nam Vnum numeri i nitium
tantum eft: Dualis primus numerus imp - fectus: Ternio autem primus numerus
verus. Quod enim æquales in partespotest dividi, Fini ti habetrationem: quod
non potest, Infiniti. Et Ternicipfe et numerum continet, et numeri
principium:at Dualisnon nisi in principium,id quevnum, resolvi poteft:
itaquePotentialispo ciusnumerussit: quippe numeri potentiam, id eft, Vnitatem
biscontinens. Ternio autem actu alis, qui quidem divisibilem fecerit indivisibi
lem. Quare Græci quoque mbifor nominavere: Nempe quem si dividas; invenias
infiniti habere aliquam imaginem, quæ supersit. Ergoin rerum naturaseparatus in
corporibus noreperitur pun et ifluxus,vt lineam efficiat, quæ prima dimensi one
obtinet vnitatis proportioner: neq; lineæ fluxus, vt superficiem seorsum
designare nobis liceat, verum quum ad Tertium perveneris,vtsu perficiem ducas
in seipfam, corpus efficies, præ ter quod nihil est, quod, quove metiamur: Vi
demus igitur omnia principio,medio, fine con tineri: fane hæc tria funt.
Motuspretcrea,aut est a centro, aut ad centrum, aut circa centrum: ne queab his
vllus est alius. Nam qui in animali in venitur voluntarius, ex his compositus
eft.Sed et in facristam veteribus, quam noitratibus, ter ple raque 2 taque aut
fiunt, aut dicuntur. Et unam Dei substantiam tres, neque plures personas effe
verd credimus. Et Grammatici ipfi genus illud, quod tres caperet articulos,
omnegenüs appellarunt. Quarequum deduobus loquimur,dicimus, Am bo: quum de
tribus, Omnes. Hæcita sunt Trias Sed et hæc eademi tria, dugsunt. Nanqueprin
cipium numerị vnum eft: Numerus autem in pre, plura. Ergo in oratione quod
significatur aut vnum est, autplura: quare duo tantum nu meri inuenti
sunt,quibusdi ettiones afficerentur. Nam Dualem Æoles vt fuperfluum omifere.
Acordo significandi accepit Ternionem,a cause mi,assome abow sea fa efficiente:
ea enim quum sit principium, re et e Prima dićta est: itaque cum de fe
loqueretur,Pria mam conftituit personam. Finis autem eius est communicare quod
fentit cum quopiam: ergo Secundam reetet dixit. Materiam autem ipfam,de
qualoqueretur Tertiam, Eftigitur Primaeffici ens doctrinæ: doctrinæ enim caufla
oratio: See cünda Finis. docetur enim: Tertia materia, de ea enim agitur:
Oratio autem Forma,sunt enim Propositiones forma coniclufionis. Quarta au tē
fub tertiæ ratione coprehenfa fuit', propterca quod aprimafemper effet tertia:
pro materia e nim habebatur. Verum Personæ vocabulo abusi Sharan funt veteres.
nam Primam quidem veloqüent- Jy? * ". tem, Secundam vt audientem
agnofcimus: hæ fane personæ fint, ar Tertiam quarepeta v. 174, mas i fonam
dicam, quæ muta res fit: hocfa et um eft tab omalo,inane propter rei
nobilitatem. Eft enim Homo fie biipse omnium rerum regula quædam, fi fefe
antimp M Oi ted -y Ljn rintedmusic IVL.
- III. intueatur, quare, etiam Paruusmundusappella tus eft: itaque deseipfo
semperloquendum præ cepit, qualı dere cognita subratione regulæ,cu ius menfura
cætera cognofcerentur. iccirco per gain fonæ nomen ad ea, quæ perfona carerent,
non temere translatum est. Sane Persona intelligi, tur status hominis ab animo,
aut fortuna. Ne que verum eft, quod aiunt, fignificare indiuia duam fubftantiam
rationalem, vt vulgo vtun tur, cum Itali numerant turbam nomine perso narum:
sed accidensnotat, vt feruum, liberum, ingenuum, Heroem, Senatorem, fænerato
rem, militem. Itaque cumdefiniuimus ab Ani mo, virtutem et vitia
comprehendimus: quum Fortunam, libertatem et dignitatem,et contra ria. Sic enim
semper locutisunt probati autores, Nam M. Tullius in octauo ad Atticumin episto
la ad Pompeium cum dicit: Mea personaadim proborumciuium impetum semperhabuiffc
vi detur aliquid populare: nonintelligit suum cor pus fimpliciter, sed
virtutem, ac fortunam suam, quæmeritorum nomine iam commemorat. Ita que in
primo Rhetoricorum loca a personisex plicat,nomen,naturam, viettum,habitum,
etalia eiusmodi. et in oratione pro Sylla fic locutus eft: Si mihi propter
resmeas gestas hancimponis per fonam. Cum dixit Mihi, intellexit subftantiam:
aìm dixit Personam, intellexit accides:cum dixit Resgestas, intellexit caufam
perfonæ, et circun feriptionem.EtSuscipere personam boniviri:et, Suftinere idem
alibifæpedixit atneque suscipit substantiam, acqucmutari poteft fine interitu,
Igl.7 UL RIO ut Igitur idem eft, fi dicas, Persona Ciceronis: et, Status
consularis: fic enim ad Atticum fcribens, quum negat effe edignitate consulari,
di et a quæ dam iacere in Clodium, poffis interpretari, Non pertinere ad
personam eius. Vnde autem dicatur, contraquam Gellius fenferit, quotque
significatibus audta sit,in libris Originum amplis fimenarratum eft. Fuitet
aliud imitandum,quod com extabąt natura: siquidem intererat, vt quodmas, ro
fæminave effet, et quod præterea neutrum, indi caretur. Quare quod per marem
fæminamque propagarentur genera, genusid diet u fuit: quod autem extra hæc
dugeffet, non dire et o fignifica tu generis nomine accipi debuit ( ytiocatur
fux per ineptiis Grammarici lepidiffime Ausonius ) DrTo sed per negationem.
Neutrum enim, genus elt, Nisha quianon estgenus: ipsum enim nomen indicat, non
essegenus. Hoc igitur est,quod non eft.Hoc enim habent negationes, vt non
ponendo per nant, veluti cum dico, Nullus homovenit: hic 1 actio eft,
finepersona ; fi enim non fubeft homo In aduentui, non eritactio. Nam
præceptores mej S hoc errabant,cum moremedicorum Neutruge nus ex vtriusque
participatione constituebant, use Temporum autem rationem fuiffe necessariam
Rum, no spe intelliget, qui motum, quid fit, fcit. Sed illud ia
fuitanimiofficium, opulque perfpicacis. Nam plentas quum affe ettus varii fint
in functionibushuma # nis,puta Optandi, Imperandi,veritatem designa i diverba
ipfa,quæ a ettiones significarent, inflexê Cipre,eosquefexusModosappellauere;
propterea i quod aliter, atque aliter animi propensiones Lij. teme in COM 260
IvL. III. temperarent. Videndum est igitur has diet tionis affectiones,quæ,
quotve partcs orationis,quibus Vede caufis sibi vindicent. com Substantias,quæ
seipsis constant,cade semper effe,qualicunque animi affe ettu notentur, mani
festum est. Nam Equum pronunciarovel optan do,vel imperando,non mutabo:
itaquecum ne que meianimi mutatione, neque temporismen fura mutetut, quin idem
equus sit: nequenomi na,nequenominum notæ pronomina, tempore aut modo
variabuntur. Simpliciores autem no tæ,quævincula tatum essent orationis, non
ma. gis potuere mutari, quam vin et io ipsa in rebus.Si enim Cæfar cum Catone
bellum gerit, neque per fonam possis ei hosticæ conuentioni, neque nu. merum,
nequealia apponere, vt varietur: ideme nim femper eft to umegye evcvartiov. Sic
reiectz funt Coniun et iones, Præpofitiones,Interie ettio nes, nudæ
enim,etfimplicis rei notæ sunt.Vnum venit in cotrouerfiam. Aduerbium:nempecum
dico Heri, Cras, videor temporadiscernere. Sed non ita est,haud magis,quam quum
dicam,Dies, Annus:tempus enim significatprimoftatim fig nificatu: at verbum non
tempus,led subtempore. Itaque non vna eademquevoce, sed diuerlis di versa
temporasunt aduerbiis significata: itaque ctiam a numeris exempta sunt: cum
enim efsent temperamenta quædam verborum, verborum numeros sequifatis fuit.
Erunt igitur Nomina variata per Numeru, et Perfonam, ficut et Verba: peculiaria
autem illis alia,alia his,dequibus suo loco.Nuncenim cauffas 161: 1 1 US ep CD
fas declinabilium, etindeclinabilium vt perscru taremur,fatis hæc hîc habuimus
declarare. Affeettus specierum dictionis alterius modi. Tquehis quidem
affectibus rerum ratio ex -plicabatur:fed et alii fuere potius, vtita di- maksi
cam,materiales: Figura, et Casus. Cafusenim ad diftin ettionem intellectionis
funtinuenti,nonex ipsarum rerum mutatione. Figura autem non femper a re.
Namquoniam vel mistæ, vel com politæessentsubstantiæ,composita quoqueno mina
fuere quædam,vt Tragelaphus, Vulpan ser:aut substatia et accidēs,vt Equiferus.
At quæ dam fuere figuræ, quæ nihil ostenderent in re compositum,vt personare,
insistere, et alia talia. Despecieautemdubitari poflit: nam quemad- Spremni
modum qualitas intellecta per fe, a nullo tunç dependet, puta. Iustitia: at in
Cæsare eam fi con templemur, videtur ab eo et constitui et pen dêre, iccirco
videri quoque possit deriuatum nomen lustus, substantiam iplam tanquamsui
principium confignificare. illa omnino eft in verbo materialis,Coniugatio:
nihil enimrefert (omu quodnam in elementum abeat,modo a et io, aut gako passio
fignificetur: quare diuersæ inueniasCon iugationisidem verbuin, Lauo, Denso:
Lauare, et Lauere: Denfare, et Denfere. Ordo vero,ne-owo que a re fumptus
feruatur, neque immutat 0 rationem, nifi certis modis transponantur: ne que
enim codem dicasmodo, Omne viuens est animali et Animal eftomne viuens: fed
structura L ij. et Ini 20 1 D mk Too Us atac elle eni mi 701 om IvLi III. BON omnino nonmutatur.Anautem fit
proprius af fe et us cuiuspiam,suo loco dietum eft. Hinccolligere poffumus, cum
alii sinterebus hati,alii materiam ipsam vocis potius sint fecuti, ex quibufdam
conftare neceffario veritatem, ex aliis non neceffario: nanque
vitiatotempore,fal sa fit oratio:vt, Vergilius iterum nascetur. Siau tem vities
genus ; non fiet falsa, Vergilius bona: Figura autem etiam falfam facit
orationem, vt si dicas, Vergilius est poesis. Modorum autem fo lus Indicatiuus
pertinet ad veritatem. Sed de his fuo locos. QuodPerfona, etNumerus
accidat omnibuspara tibus, quomodo: et An Sexus Verbis addi debeat. STatua
intelle etionon vniufmodieftita, ned voces: ftatuam enim interdu agnoscimus, vt
eft fignum Cæsaris; interdum vtmarmor eft:po fteriore modo, percipitur vt
substantia: privre, vtrefertur. Sic imago in speculo et res eft quæ dam per ses
etsignum alterius rei. Eodem modo *** quüm voces rerum signa funt;eatum
quoquena turar imitantur:vbivero per seaccipiuntur,ipfit na quoquetanquam res
quædam intelligutur.Qua retum aduerbia, tum Coniunettiones, aliæque eiufdem modi,
cum Nominibus Verbisque et fecundas perlonas, et tertias obtinebunt: fed non
codem modo: nam Nomina Verbaque res lignificant,personasconsignificant: Coiun
ettio nes ; atque cæteræ tales partes ; rerum odos asn't figni. 16 € bi U:. -50
nh let poli significant, perfonas non
confignificant,fed ipfa snb persona consignificantur. Exemplumrei huius hoc
eft: tra et abo naturam huius coniun et ionis Quanquam: in ca narratione
femperap ponam verba tertiæ personæ. Exclamabo adi psam oratorum more: vtin
fabulis, O coelum, a terra, o maria Neptuni i quæ nihilo melius re spondebunt
mihi: apponam fecundæ: confi ciam Prosopopæiam addentur primæ. Eodem quoque
modo vox hæc, Patres erit numeri plu ralis,quum lignificabit: quum
significabitur,lin gularis: quaratione etiam pluralis numerus, dicetur
singularis. Sed restat quæstio, Quam ob rem Verbo sexum non addidere, id quod
fece runt Nominibus. Atfieri debuiffe vel ratione vi tur posse comprobari: Nam
quumVerbum sub tempore id significet, quod Appellatio fine tempore: ficuti
Appellationes fecutæ sunt fixo ram naturam, ita etiamVerba fequi debuere. At
Appellationes fexum, iuxta fexum nominum fixorum, id eft, substantiuorum,
mutant: igitur etiam Verba mutare debuere: Curro enim corsum significat sub
præfsnti tempore, et albesco, album. Siigitur re et e di et um eft, mulier
alba, quo in loco, album, mulierem fequitur: eodem modo Albescit, quoque mutare
genus debuisset. Satis igitur eft colligere, fieri po. tuiffe: breuitati autem
cor sultum effe, quum, factum non eft. QuareVerbum, quum trans it in
Participium, facile ipsum genus recipere quiuit. Diuiditur igitur in
Declinabile,etin Ladecli nabia LIS, ultra ique ma ujen are F.Q Liza que R;/
Zule! nd ma L iiij. 164 IvL. IV, nabilem, quaternis dispositis fpeciebus:ibiNo.
mine, Verbo, Participio, Pronomine; hîç aduerir bio, Præpositione,
Interiectione, Coniunctione, Kase Nominis essentiam, tamabappellatione,quam a
reipsa, statuit. HACTENVS postpartes,diet io: nis Substantiam ipsam venati
fumus, eiusqueAffeet us: tum Species, earumque affectiones incommuni quibusque
essent cauffis in vium profectæ. Nunc iam deinceps fingulis libris
fingulorumratio ex Onio plicandaeft,codem ordinequotesipfas,quarum notæ
habebantur,funt fecutæ.Nomenigitur pri mumexequamur:efseenimnotam rei permane.
tis,ex iis,quæfupra diximus, fatis conftat. Itaque iniplaappellatione
comprehenfa est vis quædam ađionis: quasi ipsam esset cauffa quædam notio Vox
pis Namyt aMouco,moui,motum,Mouimen, Mor ne 1 s Momen ; sica
Nosco,noui,notum,Nouimē,No men:eft enim imago quædam,qua quid nofcitur:
instrumentum quali quoddamcognitionis: ac veteres quidem rectam yiain
institêre, cum dice- Vol. rent, quasi notamen. Verum minus recte bonam ser
ntiam explicarunt: Notatum enim poftc mi reft, quam Notum: sic Notamen, quam Nomen
; vt e contrario ab hocillud potius fit. Fuit prius Noo,a quo Nosco:vtnetucaw,a
quo niespoo onu,apudTheocritum; Æoles enim ficloquicon fueuene. Multo minus
audiendisunt, quia Græ co όνομα,φuodωρα το νέμειν, ficut et νόμος, dedu. Α. Αν
xere: quoniam quo pacto lex suum cuiq; tribuit: ita et nomen fuam cuique
imaginem rerum red dit, nequeenim reette deductum intelligas ex ip * fa, quam
temere auferunt,vocali. sed övojce, rei vc titulus fuit, a iuuandoquafi o;eopa:
cuius vsu rem agnofçeres. Hæc est vocis origo. Res autem lis fic fehabet in
definitione, Didio declinabi- Sey per cafum, significans rem finetempore.O.
mnes enimpartes fiue species diet ionis, per ge nus suum, fcilicet per
diettionem suntdefinien... Test dæ: vt constet error gramaticorum,qui eam par
tem grammatices appellassent. Aliud enim eft le grammatica, aliud grammaticæ
subie et um Di et tio fue Oratio.Sicut neq; verum eft quod aiunt
alii,quiGrammaticæ partes quatuor fecere, Li teram,Syllabam,Diet
ionem,Orationem. neque enim est grammaticæ pars Oratio, fed totum ip
fumargumentumquod vocante'moxeipfuor.Quis enim dicat Archite et uram diuidi in
ædes? Diffe rentiæ autem illæ neceffariæ funt. nam Præpo L y fitio to Da tuca
2017 ܬܐܠܐ TUI pri gh t10 hel Com > Sitio non declinatur:Verbum
remouetur per ca füm, Participium per temporispriuationem:Hac tamen
definitionenon differt aPronomine, nisi adhucaliquidagas; sic primo,vel
finemedio rem fignificans.Nam pronomen hoc,OVI, Cafarem fignificat,sed
nonstatim: primum enim refi psum nomen hoc CÆSAR, deinde rem ip haveteres autem
vt in cæteris definitionibus, fail li funt,cum dixere fignificari, substantiam
aut qua litatem, propriam,velcommunem.Nametiam aliud quamsubstantiam
significant, vel qualita tem:quippe quantitatem, relationem,fitum, pri
vationem, to egely,to. Illi vero etiam ridiculi fint, quiin nominis
definitionerem a corporedi ftinxere, nihil eniminfelicius grammatico defini
tore. Nominis affectus etiam accidentia appella vere, quoniam Græci
ovubsExxotoko verum itain telligas; non xouvai, fed idhis, quæ Quintilianus
recte propria vocat: sunt autem sex, Species,Ge nus,Numerus,Figura, Persona ;
et Casus.Atque horum quide quinque a veteribus confeffa sunt,
Puumapersonaautemturpiter omiffa.Principio,ficcir. w >2.90.co reiecere, quia
eadem vox finevlla variatione, quamlibet confignificetpersonam, etiam a pro
nomine auferenda erit:neque.n.hoc pronomen Ipfe, vt primamaut aliam notet,
variatur: neque hoc pronomen Ego, aliam, quam prima indicat Sed hîc quoque
acrius iudicandumest:namPro nominaperfonam fignificant.Ataliud est signifi
care,aliud cõsignificare: vt hoc nomen Tempus, significat menfuram motus,verum
non cöfigni ficat motum.atnomenhoc Persona,id quodfu pra ra H, TE enhers i OL 11 lin ope veli pra
diximus significat, sed personam certam non consignificat,sic Pronomen hoc Ego,
personam significat quamlibet:pro quolibet enim nomine ponitur,fed primam
tantum consignificat:quare cum per personas non varietur,non allignabit af feet
um perfonæ Pronomini. Poftremoid falsumbern videmus esse, quod de
Nomineafferunt: ideme nim nomen vtalioflexucasum, numerum, figu ram mutat, fic
etpersonam. Nam fecundæ per fonæ quinti casus omnes sunt,quos dixere Voca
tiuos. Verum neq; hanc fubtilem sententiam illi intellexere, et omnino tertiæ
tantum persona nomina putarunt, adeo inepte, vt nisi adiecto
Pronomine,negarintpoffe dici,Homocurro. At aamce o bone,quod Pronomen agit,
vicarius quidam: herus ipse,Nomen scilicet pro quo illud ponitur, non ager?
ergo non Pronomen a Nomine, fed Nomen a Pronomine dependebit.Atfuit aliqua alt.
do, quum nullum effet Pronomen: tum miseri mortales de feipfis nihil poterant
enunciare Co cedunt pudentiores vsum verbi fubstantiui,et fi milium,Homo
lum,homofio, homo nascor;ho mo dicor: at quid est, Homo curro, aliud, quam Homo
fumcurrens? Itaque paulo modestius alii sunt nugari, Appellatiua huic vsui
concessere, Propria fuftulere:vt nð nominiin suo genere co- poruci petat
variatio per personas, sed eius fpeciebus ali quibus,proprio autem no.Verum qui
intelligat; quid grammatica fit, facile corum reprimat au daciam. Eftenim
Grammatica fcientia loquendi ex vsu:neque.n.conftituitregulas scientibus vfus
modum:fed ex corum ftatis,frequentibusq; vfur patio 2011 tan.G fuera pationibus, collegitcomunem rationem loque di,
quam discentibus traderet. Igitur cum tam a Ex. pudGræcos, quam apud Latinos
prima verbi persona cum propriis nominibusposita sit: idque eta probatiffimis,
et frequenter fa et um fit:debue reabillis isti legesaccipere fibi, non de suo
finge re potius, quam figere. Omitto illud Euripidæ, jww nonu'dwpas. et
inoratione Demosthenis con tra Midian, παμμένηςπκμμένεςέπαρχος,έχον χει oog
acicu ciw, roixa @zizuorech ag eghalomgy. Venio ad noftros: Ouidiussic
loquitur:Hospita Phyllis queror:in epiftola Heroina.In fine comediarum Terenţii
verba illa funt:Calliopius recenfui. Sue tonius C. Cæsaris verba refert: Tantis
rebus ge stis C. Cæsarcondemnatus essem. T. Liuius in primo, Romuli hæc: Hæc
tibi victor Romulus Rex regia arma fero. Idem in perfona Anniba lis: Annibal
peto pacem. Sallustius in oratione C. Cottæ confulis:En C.Cotta conful facio.
Ne Rs que vero fubeftratio,qua possis dicere, Homole go: et non
poflis,Cæsarlego.Imoveromultore et tius: Cæsar enim ego sum, non alius.at alius
ho mo æque, atque ego. Quare in tertiam potuit transferri
appellatiuum:propriumautem reman fit mihi in prima. Eft et illud
validissimumargu mentum, Nomenessenotam rerum, siue igitur pe
tempusinspicias,siuedignitatem, primum feip fum nominauithomo: at in homine,
priino per sona, et ab eo aliis communicata. Quidillud? fi Nominiin communi,vt
nomen est competitca { us: et tamenqaluuma variatio defecit aliquotno mina;erga
quid dicendum?Respondebut, etreas et lo Ete casus quidem effe, vt in nomine
Cornu,sed per diuersa elementa non effe manifestos. Ita et iam nos,perfonarum
ordinem in nominibuseffe indiscretum, quem in vocatiuis aperte pofteaex
plicarent. Ex his constat Linacri lapsus, qui ita scripsit, Sinc certæ personæ
adsignificatione fi gnificare: quintus enim casus certam fecundam præscribit.
Et ipse in participii definitione dicit, Capere a nominenumerum et personam.
Est autem persona primo nominis affecttio, secundo verbi quod iplum fit Nomen
secutum, vt dixi mus, quod,Prima:ad quod,Secunda:de quo, Ter tia, Efficiens,
finis,materia. Hæcestigitur nomi nis effentia,fignificare rem permanentem:atpri
sci id effe proprium eius ridicule prodidere ; qua inscitia etiam in aliis
fubftantiam cum accidente confudêre. Quoquifque ordine affectus traltandus fit.
Rdinem quoquehorumaffectuum veteres on UL uc T neenatus fluxit:ita debuit
explicari.Ac nemode bet dubitare, quin et Numerus, et Persona pri mas sibi
sedes occuparint:sednumerus prior fuit. Rummus Nam primum etsecundum, quod
eftin persona positum,eft relatiuum:prima enim dicta est,pro pter fecundam. At
Numerus non eft relatiuus, sed absolutus: absolutum autem prius relatiuo. Poft
perlonam autem genus cditum est: videmus cnim in pronominibus primitiuis genera
con fusa. Poft Genus emerfit Casus, quem expressit ambiguitas:cum
primum ficcssentlocuti, Cața interficit Cæsar. Itaque ve distinguerent oratio
nem flexumapposuere. Vltimæ fuereSpecies, et Figura: ac Species quidem multo
magis necessa ria, itaque Figuram præcedet: fine Figura enim constabit oratio,
lineSpecie non omniscõltabit. Neque enim dices, Cato cft iustitia. Atque ipfo
Socquidem Cafu Species fuit præstantior: materiæ pi bel enim affectio simplex
cafus eft:Species autem et iam ipfi Teineceffaria eftad fignificandum:mu tat
enim Species modum fignificationis, Cafus autem nonmutat. Sed fere et a
philofophis ipfæ funt Species introductæ, Denominatiuorum, et eiusmodi: at
Cafus vsu tantum exorti facile funt, ac propterea priores fuere.Sicigitur
recensebun tur:Numerus,Perlona, Genus,Cafus,Species, Fi gura. Sed prisciita
peruerterunt: ficuti cum ante Verbi, aliarumque partium definitionem, pro pria
eorum narrant. PeNumero, C depersona
quidem iam diet um eft: coas et i enim disputationeid fecimus:'de Nume ro autem
est hîc agendum. Numerus eft quanti štas, quæ per fe ipfa diuisa ac cumulate
vltimo kermino ab aliis distinguitur. Eft enim Binarius numerus duæ vnitates,
Ternariustres: quæ sua natura non sunt fimul, fed cumulatione,liueag
gregatione, fiue appofitionedicas,nihilintereit. Distinguitur autem omnis
numerusab alio nu: mero vnicotấtum termino, coque vltimo: vnam A ind enim No TE
Song ILL C enim habet dimensione quantitas discreta, quip pe longitudinem: fuit
enim vnitas discötinuata; nequeenim recte dicitur fluere. Cumigitur om nis
numeri vnitas initium sit,non differet nume ri inter fe hoc termino vnde
fluunt, fed eo in quo fiftuntur. Hoc enim Quaternio a Ternionedi ftat, vnitate
scilicet poftremo apposita loco. Occu patum autem eft confuetudine, vt Vnum,
ctiam numerus diceretur: quare id quoquefecutu fuit, yt numerusalius
dicereturSingularis, alius Plu ralis: neque enim mediu vllum estinter vnum et
plura:quoniã plura ex vno frequętato fa etta funt,similar Quarelones non re
ette fecere, qyi Dualem nummon merum a plurali discerpsere: atq ;iccirco
feuerio res Æolesnequerecepere,nequein Latinos tras misere. etnugacitas illa
Ionum in multis tempo ribus verboră personas aliquot nõ potuit eruere in eo
numero:in nominibus autem pauculosca of sus expressere. His autem, quæ
diximus,infelicif simegrammatici obstrepunt:egrelli enim esep pris suis non
poffunt quin ineptiant. Singularis, lwg.mo inquiut, numerus verissimºnumerus
eft,propter when a ea quod repetitus facitnumeros, inque eum ipli resoluutur.
Principio, hoc est disputatu in divina philosophia, Unitatem non effenumerum,
ficut neq; pun et um quantitatem neutrumque ; efle in bet prædicamento quantitatis,nifitanquãprincipia.
Multis autem argumentis deiiciuntur de staru 13! fuo. Si enim numerus eft
quantitas discreta, id est a quantitatesdiuise per superficies, et coniun et x
te per comprehenfionem,imo vero ipsaquantitatī. ratio comprehēsarum: non erit
vnitas numerus, non TIES m2 nas le IyL. IV. non enim diuidi potest: idem enim
eft diuisum, etdifcretum: ficutidem cocretum etindiuifum. Sumptis quoque eorum
principiis direeto aduer fus eos colligamus. Numerus, inquiut,singularis 2 reet
edicetur: quiageminatus,aut multiplicatus cæteros omnes creat. Ergo numerusnon
eft:hac enim ratione punctum esset linea, linea superfi cies,fuperficies
corpus. præterea Binarius, Tere narius, Quaternarius,non esset vnusquisqueñu
merus feorsum:sed Binarius, duo numeri:Terna rius tres:non effet igitur
quantitas, sed quantita tes: numerus enim quantitas eft,ergo numeri qua
titates. Nihil vero mirum hoc errasse qui eu ma Ale iam definiuerant, Numerus
eft dictionis for ma, quæ discretionem quantitatis facere poteste | Principio
male assignaruntdiet ioni:nequeenim competit diettioni,vtdiftio est; omnibus
enim competeret dictionibus: hoc autem eft falfum. 2. Deinde formam dixere, cum
tamen numerus fit 3* accidens. Et male dixere, discretionem quantita tis
facere; sed potius discretæ quatitatismodum, 44 aut differentiam notare.neque
excluduntur Ad verbia illorum definitione: Nam Bis, Ter, for mam habent
dictionis, quadistingui potest qua Propmatitas. Proprium autem
eltfingularis,finitumef fe:id eft,certum:quiafcimusquantum sit homi num, cum
dicimus, Homo. At pluralis infinitus est,non quod fine careat,nihilenim in
natura in finitum:sed quia sitincertus. Sienim dicas, Ho mines: quotsint,
nefcias: itaque addituraliquid præscribens, vt Decem, viginti. Accidit autem
interdum, vt eadem vocediuersus numerus in telligatur: quemadmodum eft in
fecudo casulina gulari fecundæ inflexionis, et in primopluralie iufdem: in
neutris pluralibustribus, ac hngulari fæminino: vt,SACRA. In quib.autem
evettiat, in capite decafu dictum est. Secutus autem eft nu NE merus
grammaticorum, suiipfiusnaturam in reo busiplis: par enim etdispar, vt diximus,
non si muladfunteidem numero: ficneque pluralis, et fingularis: fed satis est
alterutrum vni voci ineffe. Ac quemadmodum numerus quivisaddita vni- Awesome tatc
acquirit rationem pluris, ita aut numero ly ! labarum, aut temporum, plurales
numeri nostri maximaex parte,lingulares fuperarunt: Poeta, noule
Poetæ:Dominus,Domini:Pater, Patres: Cornu, Cornua: pauca enim aliter invenias.
Sed et ina liis cafibus fereidem invenies. Quare cum idem numerus non poffit
esse vnus, et pliires, et idem nomen vtrunque significare queat, ut “Amor”,
“Amores”, consultum elt huicrci,vt per fyllabarumi aut temporum appofitionem,
idem nomen effet seipso maius, et aliquo modoa feipfo diverfum. Hocautem,
vtdiximus,maxima in parte nomi num est, non in omnibus. Sermo enim teme re
inter agrestia ingenia primum örtuš refraga tur aliquando legibus doctiorum.
Igitur quæ - yna v hrun dam sunt nominä сiusmodi, vt numerum v trunque
obtineänt, qualia diximus: nonnulla semper singularia: quædam semper pluralia:
et in his quædam pronumeri natura numeru red dentia: quædam non: fed alia
singulari nume to plura fignificantia:alia plurali numero, singu la:
Semperigitur fingularia,aut semper pluralia 46 T 7 Mj: Vin vteffent,effecit aut
natura,aut vsus. Natura sunt singularia, quæ certa sunt individua, ut “Sol”, “Czsar”.Item
pluralia, quæ multa sunt; vt sunt hoc; quod effe dicuntur,vi Gemini,Pisces.
Dico autem, Et funt hoc, quod effe dicuntur: propterea quod colle et io illa
plurium fingularium maxima ex parte pendet ab intelle et u:vfus autem tyran
nide extortum est, vt quædam sine ratione essent fingularia,vtfumus:nam quare
non dicam duos fumos?et duos sanguines? Hæc igitur sine ratio ne. Quin etiam
contra rationem: etenim Pul verem, et Arenam dicimus, totum illum cuma. lum,
cum tamen ipfarum partiumminutaru po. tius effe debuislit. Pluralia autem quare
dicas Lynum dicm, Saturnalia, Floralia, ratio subest Comprehendit enim et
ludos, et ioca et merca tus,et comeffationes,et alia. AtCervicesquare
dicebant,cum Collum quoque dicerent:aut qua re Colla,vnius tantum hominis:
Emendat ramen fefealiquandopublicus vsus tollēdo quod statue rat, probatorum
autoritate: quibus aliter placuit 4 poftea dicere: vt Cervicem primus
Hortensius pronunciavit: item Farra, et Mella, et Vinaalij: et quibus placuit
idem nomen proprium diuersis imponere:vt, mihi, et lulio CæfariDiet tatori. Ea
dem quoque autoritate coacti sumus verum fin gularem in plures dividere. Vna
Gallia eft,fin. gulis vtrinque montibus, totidem maris limiti bus, etfuvio Reno
præfcripta. quare igitur in tres, quatuorve Gallias divifimus? cum vna Græcia,
yna Italia diceretur. Ac fane commo. idius Italia in plures potuit distingui a
namvetus Ausonia, quæ et Oenotria,et Italia nominata fu= 4/2010 it,ne Tiberim
quidem attingebat.Poftea Roma-> ni ne Barbari ellent, vi extorsere,vtad
Rubicone vsque fines extenderentur. Octavius rerum po-). titus,ctiam nominum
dominus effe potuit: atq; etiam, li Diis placet, ad Varum vsque propagavit: ut
Alpes ipsas quoque, quas natura fixerat com munes, a barbarie vindicatas Latino
nominiat tribueret. Sanevero, quí Nicæam in Italia transtulit, potuit Italiam
ipsam, ad sociam et participem velnominis,vel gloriæ Romanæ Maffiliam pro
rogare. Sed de his aliâs. Eft et illud contemplan- Rana dum: Nihil referre,
vnum pluravelint:an vnum plurave putemus. Ita cum ex divisione provinci. arum acpræfe
et uris,Transpadanam, Cispadana, a Cisalpinam, Transalpinam,Belgicam, Celticam,
Aquitanicam dixere,propterea quod ita effe ar bitrabantur: fic
philofophorumquidam cuplu r'es Mundos, Soles, Lunas intellexeretquodano bis
numero fingulari prolatum fuerat,ab illis no heeft vitiofiusin verbis quam in
rebus multiplica tum.Itaque loues etiam dicimus, et Veneres, et Cupidines. Itaquefcribunt,
Orbem terræ:et,Or bem terrarum. NamTerra nomenproprium est in singulari vnius
elementi, quæElementum est, atque idem semper in sui fimiles partes dividitur.
Cum autem in plurali ponitur, eitidem nomeli teřis, et materia,sed non substantia.
Neque.n.ex W proprio fitappellativu,vrdixere:fed aliud estre, 1 licet voce
coveniat. Sicut in Caet Numeris in 1 dem quoq; evenit:Nam,facra generis
fæminini, Mij. numeri numeri singularis, non eft eademyox cum plura libus
neutris:accidit enim, vt iisdem fcribatur e lementis. Terræ autem divisionem
aufpicati sunt a familiaribusoccupationibus, et ius ipfam iniu
riam'appellarunt: neque enim melius Terra de buitalijatque alij attribui,quam
aer. Itaq; natura vindicat fefe, et mortuos Tyrannos nonmaiore tegit
tumulo,quam vnum ex oppreffis, fefe om. nibusæqualem oftendensmatrein.Quęvero
lin gulari numero plura fignificant, naturam ipsam in eventibus rerum
funtimitata: quippe vnuscu mulus,vnus acervusdicitur: atid vnu, plura funt:
edita Populus,Turba,non fine ratione fimplici nu mero, multiplicem significatum
comprchende Thebae.Nam Thebx,et alia eiufmodi,fecura sunt con ventum
libertatemque civium:quorum omnium nomine, non vniusgererentur res: alibi enim
a pertius hoc declaratur vt in Commentariis Cæsaris, Helvetij, Menapij, Arverni.
Multitudo enim in populis, nonmania in vrbibus explicaptur. Harum autem vrbium
numeruscu fingularifle. xu profertur, vt apudStatium, Theba,fequitur v nionem
ipfam in fignificando. Quæ igiturperti. nent ad numerorum naturam, affectus,
vsumý;, hæc funt. De Genere. Bon Aturalia quofdam habent affe et us propter fe:
vt,moventur animalia, quia fentiunt:er govt evitentnoxia, etvt commoda
consequan turymovendi facultate prædita fuere. Alios affes et us or 7.2 DIC Aus habent propter alia non propter se: ut
excrementa sunt, vt cujus Tunt,ipsis exonerentur:ne que enim aliqui pili
quibusdam in partibus ho minis vllum propter sefinem habent: nulli enim ysui
funt: fed ve fumofis exhalationibus illis va cet intus ibi corpus. Eft et alius
modus, vt genera tio affectus enim animalis eft non propter ip sum,sed propter
speciem. Nisi enim indiuidua certa producerentlibisimile, interiret species ip
fis deficientibus. Quare generandi facultas eis da ţa est:atque aliis quidem
alio modo:perfe ettis au tem per fexum:in quibus mas, et fæmina distin
guerentur. His de cauffis, quæ voces fexus effent notæ, qua
rationcidiudicarent, eam rationem en Genus appellarunt, a poteftate earum
rerum, ', que significarentur.Sexus enim cstalterutra po- liceret testas generandi.
Neque recteantiqui dictioniSlim? isl attribuere: Trium enim tantu in partium
eft,non autem Dictionis.Sed ipfi falfi funt, cum non ef fet nomen pofitum ei
generi, quodpeculiariter has tres folas partes capit. Alii addiderunt fic,Di *
et ionis declinabilis:fed falso:neq.enim Verbiest, pc Eftigitur illius
fubalterni: fic enim media va i cant: generis affc et tus terminatione fexum
notas. Sita enim eft in fine vocis, vt Cælar, Mufa. Ne que vero impedimento
cít, quod ctiam masculia na terminatio cum fæininina concurrat: vtMu
rena,Aurata, quæ funt cognomina virorum.Hoc S. op enim accidit a cognominibu sanimalibus:
sic Syl nila, aprudentia, quasi Sibylla: et alia, quorum ra tio fuit hæc
secuta. Neque Barbara obsunt, Iu i gurtha, luba: illis enim ca fuerit terminatia
ad hoc le M iij. 178 Iul. IIIL 1 hoc officium,yt postra nobis, Quod si qua eft
ve triquefexui communis,non destruitur iccirco de finitio: vt, Legens, et
Felix: intelligis enim vtrum quegenus includi: quod non facies in Leetus, Le
Ćta:aliter enim terininantur. Iccirco fapienter diximus, Notans, non autem
distinguens:non enim semper distinguit, ob verborum scilicet pe nuriam: funt
enim res plures, quam vocabula. Cætera autem, genera aut non sunt, aut hæc
funt. Ac deNeutro quidem diximus:nomene, nim hoc, Neutrum, negat ipsum cffe
genus, Cum enim dicis, Neutrum genus est, significas wipfum effe,quianon est.
Sicutsvavulla quædam herbæ di ettæ funt:quæ quianomen non haberet, che
nomeniņuenere. Eft autem Neutrum duplex: vnum, quod vtrạnque fimul reiicit genus:
vta Scamnum. neque enim autmas, aut fæminaest, Alterum, quod ncquc rejicit,
nequeftatuit: vt, Gubi Mancipium. Addidere autem, quod Incertum vocarent; vt,
Dies: fed hocabipfa re, neutrum quoque eft. Sexus enim non nisi in animali, aut
in iis, quæ animalis naturam imitantur, vt arbo res. Sed ab vsų boc factum est,
qui nunc mascu linum sexum, nunc fæmininum attribuisset, hocitaque nonulli
eţiam Dubium appellarunt. At illud ferendum non fuit, cum animalia quæ, dam
suis generibus non notarent ; hanc ncgli gentiam Græci vocarunt genus
etiroivov, pessi me: nam xovov, id quod Duocomprehendereç genera nominabant.
hoc autem Alterutrum tan tum cum recipiat, no potuit habere præpofitio
pēem:addit enim quatitatēmathematicis. Vt emia rippv,Noftrimelius promiscuum, quod
differret I 1 lad. avt cius pics ns3 LIC cam ma co FC 010 ego com-,
GUE a communi: quoniã comuneidem æquecaperet vtrunq. fexum, et effet vox
generica autspecialis capies indiuidua:vt homo,cui aliquando femini
num,aliquando masculinu apponeres adieet iuũ, vt homobonns, homo bona. At
Promifcuo non item: fed alterutro sub sexu captę voci, vtrun-, que sexum
affignares: vt paffer albus, ctiam de femella. Is autem defe et us cum in vsum
furtim irrepGifset, timiditate quadam fotusest. Nam vt$$ Mulus,Mula, Ceruus,Cerua,
quare no Aquilus, Aquila, et cum haberesfuucs, Fwvis, quamobrem non dixisti,
Thunnus, Thanna.Namquçadmit, tuntcommunes terminationes, ausim muni quoq.
genereinsignire: vt hic et hæcouis potius dicatur,quam aut hæc,aut hic vel hæc,
vt etiam veteres pronunciabant. Atque illi quidem, cum Taurum re et e dicerent,
etiam ad conuiciu Tauram, comentisunt. Quare igitur voluptatis diuerticula
quæfiuere: necessitati autno inferuie re verum nulla ars repete perfecta
extitit. Ille ve roin multis vocib. ficin vocu terminatione fata Opuze lis defe
et tus fuit, cum tria genera vnica vnius vom cis terminatione coprehensa sunt,
vt Felix: vng enim vox est,materia fifpectes; at si formaintro. spectes,tres
sunt vna facic.llludquoque ex anti quiseft cautius accipiendů:
Nacumdiscrimogenos a Nerum statuut, per notă Pronominis, a pofterio -
riaccipiunt cognitionem:nequeenim Cæfar, eft generismasculini,quia ei
præponitur hic:sedco gnoscitur ita cffe,qaita præponitur: præponitur aute,quia
eft. Hæc de re ipsa. eorum autevoces etia sunt declarandæ.NaMas,Ofcadiettio
fuit că la cifa a Mamerte; Mamers.n. et Mauors, et Mars, forrem apud illos
fignificarut;non quodma na UIT CIT IO MIC Sil m voca vorteret vtaiunt:
neque enim Latinæ voces fue re. Fæminina antem a fætu:fætusautem cause to
Coitur: nam hocverbo veteresrem Veneream fi, gnificarant pudenter: ficut
Latini, Coire: quid enim purias,quam comitem esse? item consuetu do: ' lic
Græci owevci, et vyzivela, et alia mplta, quæ in libris historiarum
diligenteranno * tauimus. Disputarunt autem Grammatici Ma pufcula Lante genera
anMasculina dicenda effent: et Fe stus in xii. Masculina mauult, quoniam Græci
quoque apravixa Hai Inaura ', non autem appara, etFraua. Idem Feftuşin primo,
Fæmineum di citGenus, non Femininum. Recentiores deli cati malunt dicere,
Generis neutrius, quam peu tri,fed antiqui fiçinflexêre Vter, vtri, vtro ; fi
cut,Vnus,vni,vno,vnum,vne: vt es apud Catullum. et Terentius, Mihi solæ. Et vt
nomen gene ris differat a communiilla vocenegatiua, pruden ter, qua
potuit,effectum est. Proprium autem Ge nerum effe,pati mutationem,fatis patet
ex genc en reincerto, vt etiam Armentas, dixerit Ennius, quæ nos Armenta. Sed
de his in historia originu faris dictum est, Cafors. Vncco ordine,
quem præcepimus,de Cafia bus agędum eft,operoso fane negotio.Ca pildusigitur,
per veteru definitionem, quid sit,non bolle med fatis cognoscipoteft:quippe, et
Nomen per Ca fum, et Cafum per nomen cuin definiant neque þæciņter
felintrelatiua, circularis erit cognitio: 1 sic Pt fic cnim vocant philosophi,
quum ignotum per æqueignotum explicatur. Nam fi nomen eft de clinabile per
casum, Quæro, quid fit casus. Eft declinatio (aiut )nominis, quareper hæc nihil
ng tum mihi fit. Sed addidere, vel aliarum casua lium dictionum, quæ maxime fit
in fine, At vero, Cafus non eft declinatio:Declinatio enim duo fi gnificat: A
et um illum inflectendiprimo fuo fia, gnificatu:motum.n. notat ciusmodi
verbalia, ve ambulario.Id nõ eft casus: no erit igitur hocmo do declinatio:
fecudo,significatcaputquoddaad,, quod reducuptur eiufdem flexionis nomina:ve
primam, secunda, et alias dicimus: ne sicquidem erit casus, declinatio, Casus
enim ipsi ad ea capi ta reducuntur. Quod autem ad aliquid reducitur, non eftcum
eo idem. Reducere enim notat mos tum:at omnis motus statuit priuationem: igitur
liidem effent, idem careret feipfo. Voluitigitur Ĉ intelligere declinationem
ipfam mutationem terminationis; sed Casus non eftilla mutatio, fed hoc ipfum
quod iam mutatum est: Casus enim Vocatiui est, Bone, quod iam est mutatum a Bo
nus, non nunc mutatur. Itaque vox hæc, Cafus, elt præteriti temporis,declinatio
præsentis, Præa terca Species est declinatio nominis, hoc mo?? doper
terminationem: vta Iustitia luftus: hæc enim est definitio Denominatiuoru.
Quidquod illa verba, Quæ maxime fit in fine: perturbant. pon declarant. Nam vox
hæc,Maxime accipitur Fc pro eo,quod est potiffimum. Atpotisfimum re mittit
interdum amplitudinem fignificati: vt quum dico. Potiffimum hyeme pluit:
significo. -DV 7de ene you non semper
æquepluere: quare oftedunt ca vet ba, euenire aliquando, vt Calus non fiant in
fine vocum, sed alibi quoque. Quod ficoconfugiant, vt dicant,Maxime,idem esse
quod,Semper: ad derent potius vocem manifestamSemper. Ve rumneid quidem faciunt
do et i: Definitiones e nimita funt natura comparatæ, vt hocaduerbio neegeant.
In ipfis enim ligna vniuerfalia, tum nu merorum, tum temporum neceffario,et
femper intelliguntur. Idem enim dicas, Homo eft ani mal:Omnis et homoest
femperanimal. Cum e nim a fubftantia confiant definitiones, ipfaque abeslenequeat:
etde omnibus, etfemper dicen turserit igitur casus terminationis effectusdiuer
fus aprimaimpositione:eft.n. idenomealterius, atque alterius cafus, quiaalia
atq.alia terminatio Hemutatusest. Isautem affe us eftin prædica
mentoQualitatis, in capite de figura. Intelligo figuram mathematicam, non autem
iftam fåt Sam dequa mox. Eft enim Figura terminusqua titatis: igiturhæc
voxPoeta,quantitate certa, et figura eft:a, enim vocali clauditur. At vox hæc
Poetarum,alia quantitate, alia figura terminatur. Som Eft autem affe et usis
Nominum primo, etvero: Pronominum autem, quatenus illorum vicarii
funt:Participiorum,vtin ipfis Nominum natu fa ineft. Sicut ego fum calidus,
quia ignis calidus est, quiin meelt:ita proprium accidens alicuius, poteft effe
hoc modo comune:quonia subftantia illa,cuius eft proprium,eft fubftantia
imperfecta, et comparata ad vlteriorem fine,quam fuu: cu jusmodi sunt elementa,
que nonfunt propter fe GcutEst en Eatin nfugi Tipe: per. Egok adaa 2, tur etts
Cor o ipa erdic Caso ficutneque materia prima.Illud in memoria ha- Countro
bendum eft:Siquę voces cafu distinguuntur: que tamen non funt mutatæ, vtMufa,
in Recto, et Vacatiuo, hoc defectu materiæ, non formæ eue nire: Quæ fuit ratio,
vt etiam æquiuoca nominaw sa orta sunt. Dico autem diuersam a primaimpoli tione
; inuentores eniin nomen indidiffe Reco patet ex vsuloquentium,qui præfentis
temporis primam personam, 6lua appellant,et Reetum ipsum Jog. nominis. Casus
eflentia hæc eft:igitur de numero corý, aut deque appellationibus nunc agendu.
Caderedi çimus moueri deorsum naturaliter:intelligo na taraliçer, secundum
graue. Nam alia, quęingres su aut volatu,aut alioquouis modo deorsum mo uentur,
non ferutur naturali motu grauitatis, fed voluntario: quo motu etiain fursum
subeunt. At naturalis motus ad vnum tantum fit. Quare pa, luserectus,aut
columnacum ruit, caderedicitur: non quia totadeorsum feratur,Ted quia plurima
eius pars. Translatum eft deinde, vt quoties aliter quidauțesset, aut eueniret,
quam aut prius erat, aut fperabatur verbum hoc vsurparemus:'vt Ca dere caussa,
in qua erat: Cadere fpe: Excidere memoria. Corporis enim folius interest natura
liter moucre: fed ad res corpore carętes translatu fuit. Huius verbi arigotora
Græca esta prætevov rito medio?oūmaiat. quo sono integropræsen tis etiam nunc
Valcones pronunciant. Cum igi ţurapud Homerūdicatur verba excidere ab ore, a
mente quoque cadant neceffe eft. Quare cum a cadendo Casus sit, paffiua forma,
vt Occasus Sol MI10 prad Deck tami ODISI serti Post TioN etTE n 110 na34 Scak
alice biter esti uus: ople 184 Ivl. IIII. Sol,quemadmodum fupra diximus,qui iam
oc. cidiffet, in x 1 1. tabulis legebatur: Casus appel latione etiam Rcctum
ipfum afficere aufi funt, quia a mente caderet imponentis. Sed quum nos ILCR
wdeaffectu nominum fcribamus,non erit ea recta, fententia: reliquæ enim
quoquepartes Casus di cerentur: igitur non esset nominum affectus ex mutatione
finali, sed fine mutatione cuiufuis vo cis: vt Hev: vtappareat, quam
negligenter fibii pfis istiaduersentur. Sed ferendico erant, quod In vera dicerent.quanquam
non fecundum ea, quæ proponerentur. Atcontra,quiita sentiunt, Ca sus omnes
efseRectos,quia a generalicadunt no mine:landineptiunt.nam quid est hoc,quod ge
nerale nomen appellant? Nomen ipsum? Atquis dicat, Cæfarem anominccecidiffe, in
quo nun quam fuit: quis Sputum? cuius ne vnam quidem habet fyllabam. Materia
igitur huius, ab illius non cecidit.Quod fi hoc ab illo contemplantur, quia
illius speciessit, sane non cecidit: quis enim dicat fpeciem a genere cadere?
in quo eftvt pars comprchesa prædicatione: et in qua illud eft vt pars
constituens essentialis, vt omittam tempora verborum futura casus, quoniam a
verbo gene rali cecidiffent. Erggalii subtiliffime dixere,Re to ctum effe
Cafum,quoniam ipfecft quicadit,cum definit effe Rectus, et fit cafus. Si cnim
Rectus est, quideclinatur,qui ficditur, nepe eritCasus. Itaque Aptota vocata
nomina, in quibus rectus non caderet. Verum ne hi quidem funt audien wie di:Nam
quæro Reetusantequam cadat, Casuf ne fit? fr est casusante quam cadat, ergo
finc cauf fa, CE, nts ode 20 sa, id est,
fine mutatione etflexioneerut obliqui cafus. Sin hicasus funt, ille non fuit:
mutatum e niin non eftidem. Quidam.vbideiectisunt his rationibus, ad alia
commenta confugere:eundem effe poffe et Rectum et Casum quia stylusema-na nu
poftquam cecidit,fectus adhuc elt. Hîc falla- john cia eft keci et Eredi:
iccirco duplex fuit vox, Cria, et 60). interpretamur primam vocem re
Etam,alteram erectam.Reettæ ratio eft a partibus, ne extremorum tenorem
egrediantur: nam qui fic definiunt,Breviffima extensio,per proprium, non per
esscntiam definivere.Erectæ autem ratio esta litu, etrelatione vniversitatis:
cuius fcilicet partes extremæ non egrediuntur lineam mundi perpendicularem. Ita
etiamcuruus stilus poterit erectus effe, et ftilus rectus, iacens: opponitur e
nim Recto Obliquum, Erecto autem lacens.Ic circo dicimus in definitione Erecti,
cuius extre mæ partes non exeunt liticam mundi perpendi cularem. quoniam etiam
curua erecta effe pof sunt. Vere autem Erectum sicintelligas: nam Nutaris licet
non fit lacens,non tamenvere Ere et us eft: fed eft,vt aiuñt, in fieri:
definitiones au tem rerum sunt perfectarum. Hinc Nominati vum vocabimus L.
Jeñor Rectum,quia brevissima nominis extensioeft: vt linea recta: iccirco Clu
apud Græcos significat statim. opJw autem,quia ftat:nequedum flexa est: erectum
dicas,silubet. Ceteras autem partes inflexinominis,a Recoq dem Obliquas,ab
Erecto autem casus. Sed reci us fiat,vtobliquorum nomeomittas: nullo enim
modopotest competere ratio curvitatis. Casum autcm DHI NIE ch ZA CN -,R Cat ca
die 24U Cealus autem appelles illam terminatam mutationem ; exemplo
Aristotelis,o milosa Alge Pepdv oz'Tx quivua Mam 75wrotua. Enumerantur
Casus:explicatur vfies:re cipiuntur Tomina: Asus, vocelargius cu recto quoq;
comuni: cata,vidcamus quotsint et qui,etquare no write plures, Ğ a
veterib.traditi sunt, neq;pauciores.In mm. omniactioneestid g agit,id quod
fit,id quodfa et u recipit, privatio, et finis cuius cauffa fit. Quin quecafus
fuerenecessarij: Agens, Rectus: quod fit, Secundus: cui fit, id est finis,
Tertius: quodreci pit, Quartus.privatio, Sextus:Agit enimfaber, fa cit formam
freni in ferro, facit Cæsari, recipit for mam ferrum, quod carebat ea. Ita
constitues o rationem, Faber cudit ferrumi Cæsari ex catena. Interroges igitur,
Quid facit ferro?Formam fre au Patuni: ex catena in catena enim nonerat. Ac
quan quam videtur formailla effe finis: imposita enim fony
conforma,ceffatartifex; tamen non eft finis vltimus: eft.n.finis operæ, id eft,
a ettionis; non autem ope ris.fit.n.propter equu Cæsaris. Sic et super Quar i
ti natura poterat dubitari: videtur.n.formam no materiam fignificare, cum
dicimus,Ædificodo mum.Atrudib.philofophiæ hoc veniat inmen, tem: Domus.n. et
materiam dicit et formam:Vo. cabulum igitur hoc facit,non autem Casus. Cui' rei
sigrueft,dica, Cædo lapideszhic nihil est, præ ter materia: Cæsura autem forma
eft, puta lovis, aut Cæsaris. Ita in domo, fi formam a materia intelle et tione
distinguas, siç dicas, Lapides cuius sunt e mi quod erha Erfa reso teni funt?
Domus: a forma enim hoc habet, vt define Pontis,aut alterius rei. Mutantur
autem locutios nibus Casuum rationes, aliter enim accipias in passivis: sed
simplex inventio rerum talis ab ipsis principiisfuit. Quoniam vero fermo
institutus est, vt dicebamus, quocumaltero sententiam no stram communicaremus:
iccirco Quintus cafus inventus est, cuius officium vocandiellet.Sapien -Nomme
tius autem a nobis fit,quam fit fa et um ab antiqs: cum ordinis nomen
indimuscafibus. Primui ; ndt Secundum, Tertium,non aute officiorum. Nain Duis
cum in varios vsus fusi essent, non folum diversa nomina, sed etia supervacanea
sunt sortiti. Quid drea enim Vxorium cafum dixerunt Secundum? mo destius alij
Patrium,prudentius Poffefforiu. Nam Hectoris Andromache, non eft Vxorius,fed Ma
ritalis: sicut apud Valerium, Terentia Cicero nis. Ita cum dicis Cæfar Sylvij
pater, Filialis fit, si sit Patrius ibi, Sylvius Cæfaris. Sic enim Cicero:
Cato, huius pater, qui Uticæ sese interfecit. Qua ratione etiam Genitivu
nominarat. Quid? nonne erit etiam Carpentarius cum dicam, Car peatum opus Epei?
Sed grammaticis nullus finis ineptiendi.Dativum non inepte dixere,Acquisi
mitivummelius: nam quodcontraria natura inve nitur: vt, Aufero
tibilibrum:hicetiam acquisitio nem intelligamus: nam recipitablationem. Ac
cusativu peffime Latini,Græcimitius, aile Tixlu vt cauffa fit non accusatio.
nam fic oportet dicas PPA Sextum casum, Defensorium: namquemadma dum eft,
Contra Vatinium: fic erit, Pro Vati nio. Sed et ridiculum fane:etenim ytelt,
Accufo Clo i fire 028 OS DIUS opt do 009 Vo Col 017 tera UARY um 188 IvL.
CClodium: sic, Defendo Clodium potior autede fenfio effe debet.Salutatorium
etiam Vocatiuum non male: sed hoc generalius: etiam falutas, vo cas: neque enim
Vocare primo significatu fuit, arceffere, aut ciere:sed,vocem edere: poftea
fuit, nominare. Sic clamare vocem contentam ede re, poftea appellare:vtapud
Plautum tranfitive. ienon absolute,Clamahominem, koneix. Ablativi quoque nomen
non femper fervit,sed etiam dat: A Cæsare daturregnum Antonio: nisi dicas, au
ferri ab eo quod dat;id quod datur, et reette. Se ' S ptimus autem a Sexto non
magis distat,qua Ge phimnitivus afeipso,quumaliudquam gignere,et Dativus aliud
quam dare fignificat. Isautem ca fus Septimus,vt voluere,vtnosSextus, habuit ra
tionem instrumenti:nam hoc quoqueinter caus sas numerätu est. AcPlatonici
quidem,interquos etiam Galenus fuit, instrumencariam cauffam ab aliis
distinctam posuere: at Peripatetici( vtom nia) fapientius ad genus cauffæ
efficientis: eft e nim Malleus efficiens Annuli: neque ipfe fine Aurifice,
neque fine ipfo Aurifex: fed ita vt fi Malleo non agat, agat alia re, quæ
illius loco fit. “ Adeo vt Aristoteles etiam ipsam motionem inter efficientes
víumerarit. Igitur in rećtonon potuit esse, propterea quod simplexelt. In fexto
casu fuit, quomodo eft efficiensin paffiva locutione: vtidem fit ; A Cæfare, et
a Laricca vulous fictum est: vtrunque enim eft agens. Itaque et a Lancea et
Lancea: quare quum neque Cafär fine Lancea, nequc Lancea'sine Cæsare vulnus pos
fit facere, et tamen Cæsar muito potior fit, quip. pe 189 tam Abi erine idios
reche 0,00 honek در و habu peages a feipfo, tenuit priscusvsus, vt præpofitio
hæc Cvm, adderetur: ficut, Theseus cum Hercu le. Verum quia non erat focietas
æqualis, fed ve rusmotus a ettivus in agente,motuspallivus in instrumento,
sustulerunt præpofitionem, qua verus comitatus in aliis indicaretur.Ratio
igitur, et vsus sequens rationem priscus ad hunc modum fuit. Nuncvero cum
grammatici negantinveniri di tum a doctis cum præpofitione, falluntur. Nam in quarto
Fastorum,in antiquisexemplarib.Flo rentinis fic fcriptum fuit: Hecmodoverrebat
raro cumpectine terrum. Verum itain codicibus do et iffimi viriGryphije
mendatum invenimus: Hacmodo verrebatftantemtibicine villam. Necdisplicuit
festivitas priscæ vocis, fulturaque casætenuioris. Sed is loquendi modus fuit
pecu liaris illi poetæ: cum alibi,tum in primoTrãsforo mationum,
--concuffitters,quaterý Casariem:cumqua terram, mare,fidera movit. Plinius
quoq; in lib.ix.demolloquenspisci bus,fic scripsit: Cæteri çirri, cum
quibusvenatur. Proprium autem est Sexti,etSecundi mutuo 64 subire sedesquasdam.
Quædam.n.verbaæquei-comide oppsos refpiciunt,vtEgeo, et eiusmodi:fed etalio va
su loquendi:vt,Imperator miræ fortunæ:et Mira fortuna. Vbi fi multa iungantur
cola, idemcalus fere repetitur:Bonæindolis, summæ spei,raræfi dei.
Pliniusvariayit vii. Chromandorum ģentem fyivestrem, sine voce, stridoris
horren Ai, hitris corporibus.Alius dixiffet, Stridore hor Nis rendo: intar
INITI caula ci Otis: + 2 108 ed in is lori nema. ustig cal Sine اrendo:vbi
etiam vocem a stridoreoris mald seps ravit. Sed etCicero eodem modo elegantia
con divit varietate: Lentulum noftrum ; eximiafper fummæ virtutis adolescentem.
Vbisemper inve nies adiectivum:nam exemplum ex invectivain Sallustium falso
adducut,sic, Quos protulit Sci piones,Metellos et, ante fuerintopinionis:legut
enim docti, Tantæ, et re ette. Rectus autem et Quintusapud Atticosidem
quifuit:quosetiam poeta imitatus eft: Corniger Hesperidum fluviusregnator
aquarum. etin plerisquevocibustam Nominu,quam Pro nominum, atque etiam
Participiorum adhucita est. Iccirco in oratione vtrunque fimul iunctum
invenimus: vt apud Plinium in vit. Salve omniu primus, parens patriæ appellate.
Namca verba, Primus, etAppellate fimul coeunt in coftru et io ne. Illud autem
ex Virgilio, Nate, mea vires,meamagna potentia folus, Natepatrisfummi,quitela
Typhoea temnis: duob. modis aptari poteft,vteximatur ex eomoi do
dicendi:primo,vt folus sitmagna potentia:fe cundo, qui folus temnis
tela.Cafuumordo,quaretalisfit. х öm nium mam habuit pofituram, Secundum locum
forma occupavit: eftenim ftatim in animoefficientis,vt materiæ eam imponat:
quippe, vti dicebamus, operæ finis est. Proximam huic sedem vindicavit is,
quivlrimumfinem significavit. Rcliqui erant duo: w.. Emilum primum,Reetum
habuit:et quia primali duo: alter materialis, quem Accufativu dicebant: anti
alter,qui signaret privatione: iccirco merito huic m illum præpofuere.Vocativus
autem poftremolo co fuerat collocandus: veruın Sextus quum totus Latinus
fit,atquc ab ipfis, cæteris additus, omniu oculis vltimus fuit. Neque enim
verum est,quod aiunt, bas: fueJer, Je, Sextum fuiffe Græcis: non. n. flection
for love tur: sed est, ficut apud nos,coelitus. Itaqueetiam 1.0il alios
ficinvenias,segvavde, d'egvos.quare etiã pla res cafus fint.cęterum adverbia
locifunt,vt fuega 16. Quid quod illa addita terminatio non femper Lad
distinxit,nam etiam præpofitio addita eft, regvo adh fo me.ficut et $ quæ
particula omnibus additur Ljuni casibus, nequeipfosvariat: et omnibus numeris:
sec id quod ab Vrbảno diligentissime ex Homericis obleryationibus collectum
est. Deiis,qua vnico cafu constant, “ pluribus. an Aptota inveniantur.
Vemadmodum igitur interdum videmus volimo nomen quodpiam, verbumve voceconyes
puna nire:vt, face: neque tamen eadem est natura: ita quanquam quidam casus
eiusdem vocis, limitib. iisdem contineantur,nihil tamen impediet,quin mi
suiquæq; vox Casus naturam vsumq;fervet.Sunt qua enim quædam nomina per
omnesCasus variata, quæ iccirco Senaria dicta funt, vt Solus. Quædam jes per
quinquevt Pater:quæ,Quinaria, Quaterna cebut ria: vt, Puer.Ternaria:vt
Turris.Simplicia,quæ v india num tenoremsemper obtinent:vt,Frugi.Binaria mut
que autem: live Bipartita quidam fecere, adduntque Nije Siffres Sell mm exeo !
DICOD Q umtu பொய் - exemplum a Genu: propterea quod in Secundo, et 'Tertio, et
Sexto producat, in Recto, Quarto, Quinto corripiat vitiam fyllabam. Apud poe
tastamen eam semperproductam invenias: Nudagenu, nodog,finus collecta fluentes:
eft Gcnu, Quarti cafus, ficur et Sinus fluetes. Ne que necesse cítinveniri
defectus hosin omnibus numeris: vt quoniam fint,Singularia, et Terna ria, et
deinceps, etia Binaria statuatur. casu namq; non consulto hec evenere: quin
etiam siconsulto factum esset,adid non cogerentur, siçutin patu ra animalium,
sunt Bipedes, funt Quadrupedess Sexpedes,Octopedes, I ripedes autem non sunt.
neque in arte.nam culinarij Tripodes sunt: qna drupedes vt effent,non placuit.
hoon Antiquiigitur fic minutatim collegêre. Sena ríaModum habent vnicum, vt
Solus. Quinaria duos, Rectum eundem cum vocativo: vt, Mater. is primus modus
est: Alter, cum idem eft Tertius cum Sexto: vt, Marcus. Quaternaria fex primus,
Genitivum cum Dativo, etVocativum cum Abla tivo: vt, Aeneas, Secundus,
Nominativum cum Vocativo, Dativum cum Ablativo: vť,Aper. Ter fius,Genitivum cum
Vocativo, et Dativum cum Ablativo: vt, Iulius: Genitivum enim vnico I,
fcribebant. Quartus, Nominativum cum Vo. cativo, etGenitivứcum Dativo: vt,
Dies. Quin tus, Nominativum cum Genitivo, et Vocativo. Sextus,Nominativum cum
Accufativo, et Voca tivo:vt,neutra, Sidus, Scamnum. Ternariaquoq; sex fiut
modis: Primus, Nominativum cum Ge nitivo, et Vocativo: Datiyum cum Ablativo, vt
Turriso bi Hi 16 UK Turris, Secundus,in iis, quæ sunt sicut Portus. V biantiqui
Datiuum eodem sono quo ablatiuum proferebant. Tertius in iis, quæ funt ficut
Poe ta: nihil enim habent præterea, nisi Poetam, et Poeræ. Quartus in iis quæ
funtficut THISBE ; in quibus idem est nominatiuus,Genitiuus, Da tiuus,
Vocatiuus. Ablatiuus. Quintus,in Græcis fæmininisin o, antiquorum more. Sappho,
Sap phonis, Sapphoni.Sextus, vtinneutris Secundæ, scamnym, Veterum di etta
examinat diligentius. As minuțias omittere aliquando in animo fuit:fed ne quid
desideretur,apposuimus:si mul vt veterum errores caftigaiemus. Primum, i
fingularcs tantu casus sunt profecuti: at cnimue ro plurales aliter fonant:
iccirco tota hæc via non folum inutilis, fed etia falla. Præterea capita quo 2.
que ipfa non omnia verasunts, inter quæ illa e mendes: nam Ternarioru fecudus
modus ideeft. cum primc:nam in Portu, et Turri, iidem sunt ca. fuum modi,fi
literas fpectes, Nominatiuus, Ge nitiuus, Vocatiuus, vnus: Datiuus, vt
prisci,Por tu, et Ablatiuus ynus. etTertius, accusatiuus. Ar enimuero differt
Genitiuus, Portus, a nomina suo fyllabæ finalis produ et ione. Itaque ad maio
rem numerųm referenda hæc erunt: ipfi enim Binaria agnoscebant, ex eiusdem
vocalis diucrfam quantitate. Quare Tertius quoque modus ' Ter nariorum
reiicietur in Quaterparia: nam Dea,a liter fonat, in Nominatiuo, aliter in
Ablatiuo, Quartus vero etiam ridiculus est. Quis enim di catin Thisbe: eundem
effe velGenitiuum, vel Datiuum cum Recto? quem ab eo diphthongus
longediuidit:vtståspicari libeat, iam Diomedis tempore defitas effe
diphthongorum pronun ciationes. Quintus quoquemodusexplodendus eft: Nam si
veteres fequimur, vt Sapphonis, et Sapphoni dicamus: etiam Sapphoncm, etiam
Sapphone, addernus, integrum.n.declinabant. sin cultioribus feculis
obfequamur,in aliam mox formam erunt redigenda. Hæcigitur omnes fibi habent cafus,corum
e nim vsusomnibus præsto eft: atcasuum formam desiderant: verum inueniuntur
nomina multis defecta cafibus: quædam etiam omnibus, præter vnum: vt, Sponte is
enim Sextus cafus quum fit, fui vfum cum aliorum nullo communicat:quare hæc
Græci recte Moveiew. dixere.alia vero qui bus duo tantum relieti
effent,Diptota:vt, luppi ter, rectum tantuin et vocatiuum habet, reicctis
antiquorum, Iuppitris, luppitrem.alia,Triptota: vt, louis, louem.reiecoRecto
antiquorum, co verfu, Quem fouisipse tremit. In quo Apuleiussecu tus est vetus
carmen, quod recitatur a Martiano, Mercurius louis,Neptunus, Vulcanus, Apollo,
Et Tetraptota, et Pentaptota, a numero quoque dicas fi inuenias: vt pronomen
Ego, caret enim Vocatiuo. Hexaptota autem etiam Ilavta wide nominauimus, quoniam
omnes cafus comple eterentur. Siigitur, vt oftedimus, aliud est, esse
Bipartita, Tripartita, Quadripartita: et aliud Diptota, Tri ptota, Tetraptota:
fatis constat veteres non re e inuexisse, Aptotorum appellationem. Namim Qilol?
Frugi, et nihili,non carent calibus,vtdixere:fed Nihili,Monoptotum est, casus
scilicet Geniti ui:vt sit homonihili,sicuthomonullius precii: et Frugi omnium
casuum est.omnibus.n. cafib.iun gitur,licetvoce non varietur. Si.n.id tolleret
ca luum naturam, non posses dicere,Turrismagnx: quoniam Turrisin nominatiuo ius
sibi certum occupaffet, quo excluderet Genitiuum. Verum vt dicebamus, materia
tantum, id est voce fola conueniunt, forma autem distant: vt homo pi etus, et
homoverus. Illa vero etiam idsus est inuicta: Si nominis definitio eft, p casus
variari: ergo cafus eft,aut essetia nominis, aut ab effentia Auens: Omniigitur
nominicompetet. His aute capitibus vfi fumus appellationibus vulgaribus,
Genitiui,Datiuiet aliorum, nefi Primum et Se cundum, etTertium, vt polliciti
fueramus,dixil, femus, confusa esset oratio,in qua identidem ca dem nomina
inculcanda erant, Primus modus, Secundus modus. Singularum casuum ratio, qua
pertinetad terininationes, 21 CH. 100 acquiescit animus:reddenda enim cauffa
eft ipfiusterminationis: fiquidem casus Termina, tio est. ac pleraque sanead
Græcos referre, no-rang bis satis sit, a quibus pene vniuersa linguaflu. xit.
Tres igitur ordines declinationum potiffi. N iij. mum 19 ) 196 IvL. IIII,,
mumsicuti sumus. Nam ex primaet secunda v 2 nam conflatam videmus: ex eorum
tertia,fecun dam noftram: ex quinta illorum,tertiam, quarta tim. etquintam.
Igitur tertium casum vt illi per diph thongum spuriam fcribebant: fic nos per
legiti quasimam zonty,usor, poetæ, mufæ. Quartum casum Aeolice pronuciauiinus,
montar, On6 « v:Poetam, Sterom Thebam. Seundum autem quare non secuti su
mus,fane miror. Nam in v, monlou,vt Genu, efle potuit.Musas,autem in fecundo,
ficut Aeoles, nõ diximus, quia concurriffet cum plurali Quarto: atque illi
distinxere fic, vt is vltimam produce ret, Quartus autem corriperet.
exemplasunt pe tenda ex Pindaro, et Theocrito. Et fane veteres Latinos sic
quoque locutos constat: quod etiam » patet ex Vergilio in yndecimo, -Nihilipsa,
nec auras, nec fonitus memor. Sic enim legendum: non vtimperiti mutarunt, Auræ.
Cum igitur ex duabus vnam fecissent, quam ob caussampo tius vocalem secundæ,
quam primæ retinuere? propterea quod rectius et facilius ex a, huius Redi
Poeta, facies Poetæ quam Poetų. Plu plur. rales autem casus duo integri sunt,
Reetus et nh. Quartus, montaj, monta's. Tertiusautem abie cite diphthongo
priorem vocalem muintus,poe tis. Quumtamen Acoles valde amarent diph και
thongtum illam “Φαιστ” pro “φαστ”, et Αισκληπιός, pro sal. Apoxanes, vt diximus.
Secundus autem casus, ut evitaret consonantiam cum quarto fsngulari, distortus
fuit, folytoiv. poetam: non tūv,poetarum. propterea quod accentu non
potuereapud nos distingui: neq; enim vltimas accentu afficimus. ItaqueD rta ul.
um ITI fu elle no to ce re Top 20 76 Itaque secuti funt alterum modum eorundem
casuum, Tourtowy: sed effugere hiatum illum dum » volunt, R,interposuere:maxime
enim accedunt» vestigia huius elementi ad hiatum: nam etiam qui ipfum non
possunt plenepronunciare, idemio nant quod obscurus hiatus. Secundæ autem de
senere clinationis casus peneomnes Græci sunt: solusse cundus effugit illam
obscuritatem ipsius v, vt Ho meri potius,quam ocarp8 diceremus: fed ita pu-» to
efferri solitum, ficuțin Optimus, vt aliquid er set, quasi etiam in Optumo. Nam
in veteri exem plari Terentiano,quodvidimus in manibus præ-. ceptoris nostri
Calii Rhodigini, fic fcriptu fuit, Apollodoru. Quartum autem pluralem contra
" go han euenit, vt pronunciarent: Cum enim ex oʻurpos feciffent Homerus,
contra ex Ourpes, fecere Ho meros: sicenim proferebant,vt diximus, Acoles »
Ouvipusi. Secundi autem cafusratio eadem quæ vete. in prima, et altera longe
maior.nam cum diceret, o umpov,nos Homerum, et olemow in secudo, no bis non
licuit feruare.eadem non fuiffet vox, ita que caudam illam addidere,
Homerorum,fane infuauem, quam etiam caudata litera explerent, R, scilicet.acper
ipitia quidem, vt Græciloque bantur,fic Nos locutosputo:vt censeã,et Meûm,» et
Deum, et Liberûm,dixisse:pro Meorum,Deo rum,Liberorum:adeo,vt contra omncs
sentiam, non per Syncopen sic enunciari, sed integras fuis, se voces. Tertia maxime,
vt diximus, a Quinta Taka pendet,fed exilem literam maluimus nos: marcos,
patris:sicut etiam in Quarto patrem, ex mate,et: addito illo mugitu ex
priscis,vt opinor,opicis: fic N V CH 0 re 10 IL så 00 ob JIO VI 11 7) JO enim
LIC 198 IvL. IIII. pher, enim Græca fuauitas fuit contaminata. Pluralis cautem
fecundus non coactus fuit exirein cauda illam,nequeenimcum quarto fingulari
conue he's thonjniebat.Sed ea infelicitas contigit Tertio plurali, vt Patribus,
barbaro fane exitu dicerent. nam • Patris,non potuere: crat enim iam occupatus
so spus a secundofingulari. Quarta autem decli natio sub hac fuit per initia
ipfius linguæ. Sice nim dicebant, Anus, anuis,anui: poftea etiam breuioribus
vocibus, Anus, anus, anu: fed mista fuit cum Secunda,Anum enim dicunt. Sic
etiam in plurali cum Tertia conuenit, Anuum,anubus. qawlaAtquinta longe diuersa
fuit: nam terminatio quoqueipsius Kecti, fua ipfius priscæ Italiæ fuite
Dies,Fames,Spes. Secundo cafu pluralisecundæ declinationis terminationem est
secuta. Tertio autem cafu Tertiæ,: Diebus, vt Patribus: fica ut etiam Secundo
fingulari,Secundam: Domi ni, Diei: quam tamen bis mutarunt: nam et Dies, et
Die, in codem cafu dixiffe, ' autor est do et iffimus vir Gellius: vt vel hinc
pateat, ar " bitrio loquentium et nasci namina, et inter rire. De specie.
yu Pecere vetus verbum fuit. In compofitis auc culari:vox saneipfamilitaris.Cum
politis insidiis aut e specubus contemplarentur agrestes olim Latini prælia
inituri:aut fupra Specus ipsas, edi. to faxo stantes obferuarent, quid rerum
agerent pro. sh ec TILS tiae 1ats fur procul hoftes. Specusautem
Græcum.est.cmee.com IndeSpecies,prore visa, sicut facies,prorefacta Ipla igitur
imago rei quæ in fpccendi instrumen tum reciperetur, Species diđa. Ergo fi reserit
primi status, eius imago species primaria dieta perana est: vt, nomen Ilus,
Regem Troianum repræ fentabat, quiprimus ita diet us eft:iccirco Primi, tiuam
fpeciem appellarunt. Quæ vero flueret a priore, Deriuatiuam, quoniam nomen
alterum Itv. a priore per eius vim deriuaretur: vt ab llus, Iu lus. Quod fi
figura est decomposita, quæ a com pofita deducitur: erit fane vltra speciem
Deri uatiuam alia fpecies, cui nomen non posuere, propterea quod ad eam animum
non aduerte tant a lulus, Iulius: et item alia, Iulianus: et a lia porro,
lulianius: Verum de figura illa,mox. Hîc autem consultius dicamus, multos esse
mo-onlama's dos, ordinesque in deriuatis, vt quædam primo fint: quædam
deinceps. Duobus autem modis Primum dicitur: aut quod ante alia omnia sui ordiniseft:
aut ante quod nihil, licet poftipfum, nihil. ita etiam primaria, feu
primitiua:aliqua enim sunta quibus nihil dedu ettum sit. Quod fi hæc duo inter
fe comparentur,præstantiore ra tione dicatur Primum, ante quod nihil est, quam
quod alia præcedit: prior enim ratio eft absoluta, et longe validior. Deus enim
ante quam quicquam crearet, erat Primum, priore ratione. Nomen tamen tam
Græcum, quam Latinum pofteriorem rationem indicat: et faci lius Græcum wpūTOV (est
enim opo, tov ) etiam » in duobus poteft efle.vnde et m potepov,76e ÊTepov, fue
DIE art, d Lor cher pri 200 Iul. IIII, 1 siçenim orta sunt comparatiua, ab
enepov.Latinu autem morosius,superlatiuum enim est:nam Pri, vetus vox fuit,
ficut N I, poftea latiore vocali fu · fæ sunt, Ne, Præ: vnde aduerbium, pridem:
comparatiuum, Prius:superlatiuum, Primum ; nam ab aduerbio Pridem; Primum qui
ducunt, çrrant. De Figura. coxupaab Sole cea dixere,linas ducere.Pi et ura
primum et vmbra orta est, vnde μονογραμμα Tos: poftea addiderelucem et vmbram:
a potiori Latinis visum est denominare.vt a peygos, dice rent Fingere, et
detracta aspiratione, Pingere, Eftigitur Fingere, exprimerç imitatione veram
rem:iccirco dietta Figura in signis, ettabulis:atq; hinc porro in grammaticis,
Figuræ physicissunt, quæ extrema quantitatis ciusdem subiiciunt ali ter, atque
aliter oculis, quatenusextrema sunt. " Reinaturalis
diuinadefinitio.Principio in plura li definiuimus vt facilius intelligeretur.
Et dixi mus, Quatenus extremasunt:quia colores aliter atque aliter etiam obiiciunt
quantitatcm oculis. Et quanquam etiam tactu comprehenditur figu ra: tamen
primarium obic et um oculorum eft. In Amilo re literariamodusidem; Nam ficuti
coniunctio ne certarum partium corporacoalescunt, ita no tarum notiopumveconiun
ettione voces compo nuntur, ita, vt alterius modi fiat alia vox, ex Ma gno, et
Animo,Magnanimus. quareMagnum, Simplicis figuræ dixerunt, item Animum:at vti ū
que quest. LI a C queiunctum, Compositæ. Dubitatur: fi nomen, elt notarei, an
nomen compositum fit nota rei compofitæ.Duplex est compositio: vna vera, al- 2
tera nonvera:et prior huiuspofterioris regula est. Connectuntur enim interdum
res duæ, vt Ani mus; et Magnitudo: ergo nomen compositum, coniuncta illa
tanquam vnum significabit. Alter modus eftin iis,quæ sunt, ficut Indoctus:
signifi cat enim compositionem, pofitioniset privatio nis, quæ in re non
funt:intelle et us autem eas non potest apprehendere, nisi aliquo cöponat modo.
Non re et te addi Decompofitam. HÆC Æc sic veteres: quæ a nobissunt perspicaci
us contemplanda. Igituretsicrescit quanti- m.la tas,non tamen neceffe eft,vt
muteturfigura. ve luti cum additur quadrato Norma, quam Græci,, Jiwuova
vocant:augetur quatitas: figura no muta tur. Interdum vero mutatur,vt fi eidem
quadra to apponatur Triangulum. Eodem modo ali quando crescit vox eadem,
ncquemutaturfigu ra: vt magnanimus, eadem facie est,qua “magnus animus”, licet
maiore.Siautem addatur Animitas, fit diversitas a diverso: neque enim semper
compositio figura mutatur. Quod etiam in re bus liquidis, et in prima Elementorum
mistione conftat. Quare hocquodappellarunt veteres Fi guram, mihi potius
vocandavideturSpecies,id eft facies quædam:quanquam enim vsu, Animi tas, non
dicatur:at Analogia hoc non respuit,sic at Pietas, Felicitas, et alia. Quare
duæ tantum TO le. 1 brunt quantitates:Simplex, et Coposita.Decom ter
positavero,quæ aGræcisdiet a eftagerw'JETO, s non video, quare tertium faciat
membrum. Ne que cnim Magnanimirasa Magnanimo deduci tur:ficut neque ab Impio
Impietas, fed ex in, et Pietas, factum est. Quædam enim simplicia non
inveniuntur,queinveniuntur compofita.Exem ( ploest Epitogium:nonenim Togium
dicitur. I gitur non erit compositum, cum partium altera nusquam extet
separata. Item alia multa eiufdem modi sunt:Mustela. Confpicor: quaru partesde
fiderantur.Sed facita effe,vt voluere: fpecies erit quædam potius derivata a
Magnanimo,non aute Figura diversa, si spectes compositionem: nihil enim priori
voci additum aut demptu eft. Qua re decompositum esset aliter: cum priori compo
fitioni, aliqua vox apponeretur porro: vt, Incūra. viceruix. Redit adfuperiora,
ob Figura vsum. Va rationecomponereturdictiones, inter earum affectus
commemoratum est: is ve: ro attcet us totus nomini competit, quanquam non
soli.Evenit duobusintegris: vt, lufiuradum. Duobuscorruptis:vt, Benevolus.
Integro, etcor rupto: vt,Extorris.Corrupto, et integro:vt,effe rus. Componuntur
autem nomina et inter se ; vt diximus, et cum aliis. cum Verbis, Luciferi cum
Participiis, Omnipotens: cum Pronomini bus, Eiufmodi: cum Adverbiis, Benevolus:
cum Præpositionibus, Imprudens: cum Coniunctio mod Q nibus, 203 Out 16 4 010
ent Lidl den ca Ar ! UB ibi hibus, Vterque: cumInterie et ionibus, VæIovis.
Partium autem numerusin compofitis,a duobus ad plures, Semiuir, Imperterritus,
Cuiuscunquc modi: etilla faceta vox, nulli Græcarum cedens, Incuruiceruicum
pecus: vnica enim diet io est, non duæ, vt putarunt, et illa vetus,
Solitaurilia:no vt funt interpretati male veritatem, Sue, Oue, Tauro:neque enim
in voce hac, Soli, est Ouis: sed, sic fuit per initia,Sue Soloce, Tauro: fic
enim per. cudem lana tectam prisciappellarunt, quam ad facrificium egregiam
habebant, ideftegrege fe gregatam: integram, non tonsam: vnde et no men,
quoniam cum tota lana esset. Solon enim Osci dicebant totum, vt Græci onov.
Igiturnon ” in fimplices solum, sed in compofitas quoquepar tes resolventur:
sicuti diet iones non in literasta tum, fed etin fyllabas: etnaturalia corpora
non in materiam modo et formam, fed etiam in Eles menta. Quoniam autem tam
Rectiquảm Obli qui inter fe promiscuo componuntur,Reet us fle Hyis Etetur,
Obliquinon flectentur. Quare falso ex cepere, Alteruter, quoniam in secundocafu
faci at, Alterutrius.Nam tametfiin Quinquagintali, bris,itemque apud alios
legitur, vtin libris Origi numdi tum eft:at M.Tullium, et in Protagora et in
Epistolis, ipsumque Catonem in oratione de Ambitu, alteriusutrius fcripfiffe
conftat. Itaque » cum dicimus, Alterutrius: vox illa Alter, hocloco no eft
Reetus, sed Genitiv casus, et prisco modo amputata vocali cum sibilo, Sarti'tcatis,teetti'frau,
ais.Ergo nö debuit excipiab calege,qua dicebat. Rectum semper flecti. Illud
quoque errarunt: fic eilim aiunt,Obliquũ hoc Alterutrius,livefæmi ninº
fit;sivea neutro Recto, neceffario exclusifle syllabas poftremas prioris
vocisAlterius, quonia iain idem fecerant in Kecto.fic alterutra, et Al
terutrum,non Alterautra, et Alterumutrum. At cnimvero hoc ridiculum eft:Nam pin
Rectis fa actasit collisio,paffa est vocalis,et confonansm, id quod patitur
altera vocalisubeunte: At diffimilis ratio in Obliquis, quod etiam fua ipsorum
ratio ne debilitarunt.Nam in rectis ob hiatum evitan dum,elisam aiunt vocalem,
ergo in obliquis cum nullus fit hiatus, nulla esse debuit elifio. Neq;.n. quia
elides fic, Patrem eius, vt dicas in carmine, Patr'eius: iccirco pro Patris
eius,codem modo au deas, Patr' eius. Quid quodhæ vocesduplici vsu a receptæ
funt:nam Alter fuit, et fuit alterus:amos SiteGu.Itaquein fæmnininis etiam
duravit,Astera, alteræ vt diceretur aliquando apud priscos: quare foni
commoditati fervientes, molliffimam quan queflexionem sunt secuti, vt
Alteruter,potius di cerent,quam Alterusuter: et Alterutrius,ab eog effet
Alteriutrius. Elisionis autem exemplum ha beas ex Amphitruone Plauti, Culeftquidonum
dedit: pro,qualis est. An alia fint nominum accidentia,fi-. ve affectiones. Æc
funtab antiquis Accidentia numerata. 4 alle lame cosynum omififfe: Nam cum
deciinatio fitaffe ako et us genericus quatuorpartium:imo vcro differentia
essentialis,habuit etiam aliam fignificatio nem.priore namquemodo
communisefttano mini,quam Verbo: eft enim mutatio quæda ter minationu. At in
verbo,et in nomine aliud qd dam estvtriquesuum et peculiare. Quorum alte
rum,quod cilet Verbi, vocarunt Cõiugationem: quod effet Nominis,Declinationem.
Eftautem declinatio non illalolainflexiocomunis, fedcer ta etpropria:vt aliter
dicatur Poeta,aliter Dies de clinari.Ergo affectus nominum quidam eft, ficut et
fpecies.Quare cum Verbo attribuerintconiu gationem, et recte:
Nominideclinationem cum non assignarunt, inconsulto fecere: cum frustra
timerent, ne quod effet genericum, Nomini ad fcriberent. Wominium species
venatur ex elementis philosophia. STatim poft definitionem Nominis,eius
affe-.'n'o etus posuimusmerito,antequam species enu meraremus: sicut
animalisaffectus sunt, moveri voluntarie etsentire, priores ipsis fpeciebus,Ho
mine, Ostrea,Leone: in quib. poftea per differen tias disponuntur.Atveteres
more fuo in hoc quo que nobis negotium exhibuere, cum Species rio minum prius,
quâipforum affectiones tractant. Nosigitur his castigatis, eas deinceps,
carumque origines atque cauflas contemplemur. Reru nu- latha merum pene
immenfum totidem vocibuscum non. affequi nequiverit humana mens",
neceffario comparavit, vt non folum quæ eiufdem fub ftantiæ participes
eflentres, codem quoque no Oj mine significarentur, vt Equus etHomoanima. lis
nomine, cuius natura cõltarentcommuni: fed etiam quæreipsa diversa
effent,veluti,Canis co Aparmi lestesidus, et Canisanimal. Quarum sane rerum Msubstantiæ
apud Averroem, vtaiuntphilofophi, etiam plus quam generedifferunt.Nos autequid sentiamus,aliis
libris di etum est, inevu uc Græci vocant: noftris recentioribus aptissimo
vocabu lo Æquivoca libuit appellare: qualivocis bære ditate æqualirem inæqualem
repræsentarent. Si nomina quis Vnonima velit dicere, nihil vetat: sed Græ fort
ca appellatio magis sapit, juãsenim simul significat, non autem. Nam profecto
vtin re non sunt eadem,ita nominissignificato alio, atq; alio funt. Itaque fic
vere poflis dicere,Canisnon eft Canis: id est, res Cæleftis, non cftres
Terrestris: at nomen et materiam habet,ipfas literas, C, A, N, 1,5: etformam,id
eftsignificatum,ergoCanis cæ lestis materiam eandem habet Elementorum,a Canis
terrestris, formam autem, id est significa tum,non habet:ergo non eft idem
nomen: a for maenim est,quod eft:iccircoGræcicuws: at La tininon ita recte, cum
æquitatem illam interse. ruere. Itaque commodius fortasse nos Vnonima, vt vna,
fit adverbium, simul.Hæcautem non vno Bruggh.modo orta funt:fed quædam
temere,atq;vtfors tulit: qualia funt Alexander, et Achilles, tam in Regibus,
quam in Nautis nequam. Alia autem consulto: vt cum cuiuspiam similitudo ad
impo. nendum idem nomen alteri fimili traxit: ea fimi litudo fuit aut
Substantiæ: veluti cum dicimus, Xiphian piscem, et herba ab inftrumento
bellico. AutZA 1. Mannana Dimmane. JI 10 Aut Quantitatis:vt eft
inproverbio,Motes et ma tia polliceri: et apud Callimachum os a'd code tor Geld
in hymno Apollinis: et Mare Solomo nis.Aut Qualitatis:vtcuinmetallo et præviæ
diei parti, fulgoris nomen inditum eft Gręca voce xi çov: prisca enim est, quod
teftatur aweso, fcilicet sequens mane: quod et Germani imitati sunt, et
Hispani, et Itali. Item ab aliis prædicamcntis: vt Mörgen. cum arboresmasculas
aut foeminas, et Thura ma scula, etvites masculas, et nigra toxica,ab actione,
et relatione: et Regem, divitem quempiã, aga To Ezdv: Delphos, orbis vmbilicum.
Hæc omnia nomina fibi aliqua imitatione fünt consecuta. Acreliquis quidem
generibus evenire fatentur. Subftantiam autem hoc vt admitteret, dubita - font:
runt. Cum enim non intendatur, non remitta - quare tur,non videbatur dari
gradusad similitudinem in ipfa. Verum facile id intelligimus,eandefub ftantiam
non intendi: fed genus communemul tis, arctariin species multas.quare non
poteftfie ri, vtæquales fintillæ,æqualitasenim in substan tia,eft identitas.
Quod et in octavo Historiarum dixit divinitus Aristoteles, Species sub eodem ge
nere coniun et ione quidem generis illius vnum effe: differentiarum autem
fucceflione, harere. Effeenim tum in materia, tum in forma, turn in compositis
certas aut affe ettiones, aut differenti as inter fe vicinas, et inæquales. In
materia, vtof sain Homine, in Leone, differreper medullam: in Delphinopaululum
abeffe: in cæteris piscibus prb offespină:in Sepia esse,aliud:in infettis aliud
quod nomine careat. Sic et in formis, Rationem, o ij. Ni 70 11 5, 7 in 208 Iul.
IV. in anima Hominis: Instinctum naturalem in For micæ anima. Sicin
compolitis:Artemin Homi ne: in Ape quomodo dicas vim illam favificandi: in
Pfittaco mirificum nidum texendi? itaq; fpe cies suntæquales in genere: inter
feautem com paratæ, inæquales:ab ipsarum differentiarum in æqualitate. Adeo
enim sunt inæquales, vt altera 2 vnum genusinterdum conftituat subalternu, al
terain multa distribuaturgenera.exempligratia: Korpus dividitur per
differentias, Mortale, et Immortale:hoc ccelum tantum conftituit: Mor-, tali
autem cætera omnia comprehenduntur. Sic intelligas Voivocum,quodidem
genusdifpertit,: reque omnibus:vt Animal. Analogum,quod non zque,fed
ordinequodam:ytsapere.Æquivocum, Juodnomen folum communicat: yt,prataride
Mareiralci.Haec postrema diximus,quomodo appellarentur. Analogaautem a Latinis
Propor tionalia: ficut civium iusnonidem omnibus, fed suutn cuique attributum,
Senatori, Equiti, Plebi. Quod C.Cæfar dicit,pro rata:nos,Pro portione:
Vecuiufqueres fert:id eft, rata pars,live portio. Ditiores enim plus
obibantmuneris. vnde apud Athenienses, owridons. Vnivoca autem a Græcis 2x
qwvus,prudentiffime: cum nomine enim rem communicabant: non enim Toow,
coniungit ea fub nomine: fed nomen etnominis rationem. La tine Cognominarectiffime
dicas. Cum autem res non omnes codem modo Ant:sed aliæ per fe, vt Substantiæ:
aliæ in aliis, vtAccidentia: atque Accw9. hæcdupliciter,vt hocfunt,quod funt:
et quomo udo funt, quod funt:Dam Albedo etiam fine nive pex ilaw alie aliquid
est: intelligimus esse, q est: et Albedincm appellauimus, percepimufqueeffe
vniuocã, quia eadein genere esserin niue,et in la ette. Aliquan do intelligimus
ipfam esse, quomodo eft:licet e nim aliud fita niue: tamen non poteft effe sine
aut niue, autalio corpore. Is igitur cft modus, per quem est, id quod
eft:quoniam inhærentia, est essentia accidentis. hoc quoque opus habuit frane.
nominealiquo:iccirco ab albedine, Album de ductum cftnam: id quod est,
pofterius est,quam id quo est.igitur etiam nomen hocabillo ductu. νηde ortafunt
“το έπαθώνυμα, quαολαέπρoν” deri uarentur, fula terminatione a priore
differentia: Latini denominatiua commode vocitarunt. Co traria autem aequivocis
quædam sunt: nam vtil- forong the Ja vnam voccm multa habent: ita multas voces
in his,vnum:Ensis, Spatha, Gladius. Græci hæc πολυώνυμα:quidam Enoftris
συνώνυμα Falfo. for- ), tasscautem explicatius eífent locuti Græci,si uo
vwvelda appellaffent, quæ solo nominc cxtarent indicantia res diuerfas. Igitur
colligamus sic: Comunes res,quæ aut sua natura per se funt, vt Homo: aut licet
fintin aliis, fi intelligatur fine eo inquo funt.vt Albedo, Vniuocis
nominib.sunt indicatæ. Sin quomodo in aliis infunt,accipiantur, Denominatiuis:
vt al bu. zenuw'www.ce autcm cadē suntquę Vniuoca.Res aurefingulares quaru
natura ab aliis dissita est,k lownonen porn codēdomine,quo illæ
appellentur:nomen iilude erit Aequiuocu:vt Cæfar:neque enim quicquam mei in
altero qui dicatur Cæfarcrit: neque sola fubftantiæ, sed etiam accidentia, quæ
in ipsisin di i faham Paper hrin more Adiuiduis sunt vt hic rubor, hæc
cicatrix, Aequiuo marie ca est propria Cçsaris vnius: ficut et substantia ia
qua cít.Quare tamnomen hoc Casar, quam hoc Cæfaris cicatrix, plurali çarebit:
fed cius pluralis numerus crit vagus:velut quum dicis, Homines: at,Hic
homo:caret numero plurali: o'rqua enim facta sunt, apud Græcos:apud nos,
Indiuidua, shape?Itaq.in Declinationibus, qpræponitur prono incn nominibus, Hic
homo, Hæc cicatrix, non elt nota indicans etpræscribens indiuiduum, sed fexum
tantum. Nam quo modohæc cicatrix indi cata, poteft fieri cicatrices? Quinimene
in eode quidemCæfare si plures sint,pefisiccirco ficcte read numerum pluralem.
Etiam fac vt cætera pa ria sint, Tepus, Qualitas,Magnitudo:at loco dif ferent.
Comunia autcm,Gue Vniuerfalia loco na præfcribuntur. Hęc omnia tam Vaiņoca,
quam Aequiuoca veteres Subftãtiua,fane ambigue, vɔ
cauere.Substantiæ,n,appellatione abufi lunt, pro Effentia:ficuti
Græcinomincxalasin prædica mento.Nanq.s'oia etiam conuenitreb.estrapię
dicamenta,vtDeo. At Substatia neq ; extra præ dicamenta, nequein omnibus: sed
in iis tantur, quæ fubftant accidentibus.quarc nomen hoc Al bedo, non erit
Substantiuum, quia substantiam nõ fignificat.iccirco alii Fixum diceremaluerüt,
propterea quod rem indicaret,quęnon mucare taralio atq; alio fubie etto. Sed
anceps ea quoque vox fuit:nam Fixum viderctur effeindeclinabile,
opponitur,n.Mobili.Itaquenoslongeconsultius Effentialenome
appellauimus:quippequodtam fubftantiæ, quam accidệtishocipfum quodsung? Gigne
ZII S Onnk: 2. T significaret, Denominatiua autem eadem quæ Adie et iua:
quęctiam Accidentalia dicere posses, nisi nomina differentiarum impedirent: nam
a “Ratione”, Rationale duces: hoc est Denominati uum,sed non eft
Accidentale.Anvero fit Effen - Gubis tiale? Iccirco intelligendum
eft,:0106,fiue essentia triplicem esse: Materiam, et Formam, et Coposi
tum.Forma igitur dicitur Effentia quia dateffen tiam:Materia, quia dantem
gerit: fed, pprie dich esttotum ipsum: a qua g Substantiuum vocabat,«
nominauimus Effentiale. Denominatiua intel lexere variari, ac poterça Mobilia
vocitarunt:vt conueniat idem nomen viro et mulieri, fi litva riatum: Albus,
Alba. Hacdecauffa in oratione antes semper Denominatiuum pofterius effe
debuitEs fentiali: vir fortis, equus celer: verum vsus obti nuit elegantięcauffa,
vt aliter quam vulgus loqui tur,loqueremur. Neque vero penitus temerefa etum
eft:namq;vt equus potefteffe celer,ita celes ritas effe poteft et in equo,et in
non cquo: quare olubibit,moderabitur.Quod fi eft Denominati uum pprium,vt
Sentiens, est,pprium animalis: nihil refert vtrum præponatur: paria.n. sunt:
fed natura ipfaEffentiale priuscft.ridiculecnim pro conheça feffi sunt, Fixum
sequi Mobilis natura,1,præce dat Mobile.idcm enim est,Animusperuerfus: et
Peruersus animus. Scd ita intelligebant differre, fidicamus,Corrupta mente
etcorpore,et,Mente etcorpore corrupto. Verum hoc non eft Fixum sequi
Mobilisnaturam:ncq;.n. mutatur: sed ex duobus fixis diuerfis genere, et numero,
alterum apponiipli adie ettiuo, quod ei fimile tit. Verum fidis 1. ridicule negatur possediciæque Corruptamen
tes: et, Mēte corrupta.Neque verum est Substan tjua obsequiAdie ettiuis: sed
contra, Adiectiuum prospicere ad vtrunquc Substantiuum,aut ad id, quod propius
eft: et ipfi contra hanc male expli catam fententiam etiam ex Ciceronis
Philippica, dicendi moduin obferuare. An vero Adicctiuum etSubftantiaum sit
affectus, aut species folius no minis,in fexto libro declaratum eft. subThe cio
elt.Fixum autem aliud Proprium,quod vnius Nominis igiturvelFixi, vel Mobilis
hæcra tantum est: aliud Commune fecere: atque hoc Appellatiuum quare vocarint,
fane nefcio. Ve rum neque diuifio bona eft,neq; nominis impo sitio. Nanq; etiam
Mobilia,fiueadieet iua,partim funt communia, vt candor:partim propria,vt hic
candor quiin Cæsare est. Itaque diuisio nominis qin Fixum etMobile,eft
ficutdiuisio rei,in effe, et, in modum quo eft:Diuisio autem in Commune, et
Proprium, nõ estFixorum tantum: fed gencri ca nominis:sicut diuisio rei in
vniuerfalem, et in diuiduatam. Appellatiuum autem quare dixcre? an quia lub fe
vocat multa? at etiam Adiectiuiid interest: nihil enim diffcrt Concretum ab
Abstra eto, nisi modo significationis, non significatio ne: at etiam propria
rjominasuam rem appellant. Hoc autem ipsum quod suntautPropria,aut hogy 2.0,
Comunij,aut Fixa, autMobilia,recētioresQua litatem nominis vocarunt:eaque inter
accidentia cum fpecie, et genere cnumerarut.Item Compa rationem, atque alia
eiusmodı,magno errore.Na Homo et Cæfar, no differüt qualitate: neq; albū ab
homine qualitate differt,sed effentia: neque enim qualitatis qualitas est.
Comparatio autem atque alia eiufmodi non sunt nominis qualitates
genericæ.omnib.enim nominibus conuenirent, At propria non recipiunt
Comparationem:ne que substantialia: fed Denominatiuorum affe ctio est. Sicut
Patronymicum, non est Nominis qualitas, vt nomen est:sed vt Nomen proprium.
Illud quoque contemplandum eft, Nomen hoc, Sol, et Luna, et alia eiufmodi,
Communesit, 22. an proprium. Nam fpecies prior est indiuiduo: sa igitur lì vnum
indiuiduum explet totiusambitu fpeciei, id quod facit Sol, erit nomen speciei,
no indiuidui. Nomen enim priori inditur. Hoc fic fenfere veteres falso: nam qui
nomen impofuit ferhat's rebus, indiuidua nota prius habuit,quam species, you
may f Romanus enim qui vnicum Elephatum primus motene, vidit, ei nomen indidit,
Lucam bouem: nihildu4 mp4, с. metitus animo vniuerfalem naturam illam. Sic page
bratom't etiam Soli, quod folus efset: et eiusconsortiope ging en geri ris,
Lucinæ, quam poftea concisa voce Lunam Freien, dixiinus. Eftigitur nomen
hocindiuidui indiui- m poyi tu? duo impofitum per se,speciei autem per accides.
Itaque quum dicas ex Democrito, Mundos, et Soles, et Lunas,fietquasiquum
appellabis,et me, et Dictatorem, Cæfares,aut si fpeciei tunc voles, vt fiat:
erit. indiuiduis autem alia tibierunt quæ renda nomina. Quid quoque loco
statuendum, deg propriorum natura, atque affeetibus. O v. b. Væ res vt diximus,
hoc habeant vt sint aliquid prius, quam sint alicuius: ea nomi na quæ eas res
fic significant, primo quoquelo co tractanda erunt. Quoniam autem Singularia
sunt notissima: propria item nomina quibus fignificantur, notiffimo, hoc
eftprimo loco, ex plicanda funt:vt Cæsar, Bucephalus, Athesis, Ro ina quæ
nomina bina trinave sunt yni homini conftituta,an propria fintap. pellanda? Hocsicagamus.
Voces, quibusRoma na capita recensebantur,fuere hę:Prenomen,No
Bomen,Cognomen,Agnomen.Horum autem na. tura, atque origo fic fuit: raptis per
initia Sabina rum virginibus, atque ea de caufa conflato bello, ipso in confli
et u earum interuentu vterque po pulus conciliatus, nõ solum animos mutuo bene
uolentes conciliauit, fed etiam nomina commu nicauit. Sicaiunt: puts queira
fuiffe in aliquibus: Boston Ternam in omnib. noncoitat: quippe ipfi Hersilia
youm nomen et fuit, et maplit folum: item Ro mulo et Tatio:Numę Pompilio
Sabino, et Me tio Curtio itē bina: Hoflio Hoftilio Romano to Nom tidem: Itaq;
hoc fentio,a virtutecuiuspiam nome primum mutuatos, vt ab Iulio, Iulii,
dicerentur, quoru Iulus autorgenerisfuiffet:iccirco, Nome appellatum vnde
Nobiles, id eft noti essent. Inde vt dignofceretur,additum aliquid notę ab
euetu: ftatima; Cognoinen orcum fuisse: vt Pompilii, a
ceremoniis,Nume:Hoftiliiab reb.geftis, Hostio: Curtii,a celeritate,Metio:
Herdonii, a ftrenuitą te, Turno:l'roculi,ab cuentu natalium,lulio.Po ftca Atea
nobiliores quum liberos procreassent, et ne- Hammas que Nomen possent, neque
Cognomen auferre vellent, aliamnotam excogitarunt:quamquonia infantibus
imponerent, quos sola ca appellarent, præposuere; atque iccirco dixereNomen.
Hac inde fatis constat,quod quę primo loco cssento lim Nomina, poftea secundo
fuere:vt lulius Pro culus:Iulius prius fuit:at C.Iulius posterius. Quæ
Prænomina ab euentis quoque orta funt, aut na talium, aut alterius fortunx: a
fortitudinc,Mar cus:ab antiquitate, Caius, raios, a terra fcilicet, quasi suzby
boves effet: ab honore et dignitate, Ti tus:abGenerositate,Cneus: a
generisdefrauda tione, Spurius: a numero liberorum, Quintus, Decimus: a decore,
Decius; a cultu populi, Pu-. blius: a rempore natalium, Lucius: et item alia,
Qux sors etiam aliis obtigit nominibus. Nam Marius, a Manc dictum fuit. et
habuit præ nomen, Quintus, Aucta autem Republica, numeroque ciuium illustrium,
factum eft, vt aliorum nominum nguæ cauliz cxtiterint. quæ nomina, quod
accederent ad priora, cumquç eis vni attribuerentur, Cognominadietta funt.
Horum origo fuit, a corporis habitu, Labco, Crassus,Longus,
Varus,Valgius,Sedigitus, Buc culeius, Plautus, Plancus, Varius, Pansa, Ruf fus:
ab cuentis aliis, Posthumus, Praculus, Ge minus: a rebusgestis, Aphricanus,
Nero,Celer: ab a ettis, Salinator, Venox, Seranus, et alia eius modi. Quæ
posteri a maioribus suis honoris cauila accepta quum retinerent, aliqui etiam
auxeres ogh. Aon auxere,additisaliis insignibus,vt Publius, a po
pularitate:Cornelius, a viro forti, qui eam fami liam primus illuftrauit:
Scipio, ab opera,quam pa ' tri præstitit seniori: addidit his vir summusab
Aphrica domita, titulum Aphricani: hoc quonia tandem accessisset,Agnomen merito
appellaue re. ficut Agnatos dicimus, qui familiamaugent accessione fua: et
Agnata membra, apud Pliniu, quorum additamento corpus auctius fa et um eft. Vor
Quidam recentiorum affentiti sunt negantibus vocem hanc Agnomen, probam esse,
sed grani maticorum superstitione commêtitiam: verum a M.Tullio in fecundo rhetoricorum
pofita eft. Hæ sunt romanorum caussæ nominum atque Rahi effentiæ, quæ fic
definientur: Nomen familie ! nota: præ-nomen, proprium cuiusque: cognome, quod
euētu accessit. Agnomen, quod eventus accessionem notat. Ordo patet ex ipfarum
vocum mapevi: Materia autem nominum fic pote eft, vt quu fcribuntur, cætera
omnia omnibus fuis elemen tis explicentur: Prænomina non omnibus: fed aut
singulis: vt, C. aut binis: vt, Cn.aut trinis:ve Sex, p:o Sextus. Ex his patet,
non re ette aliquos prodidisse, Nomen effe vniusillius cuius eft: re tius ab
aliis Gentilitium, et ab illis ipfis nomen 06: Familiarum. Græci Prænomine
carent: fed po fito nomine vnico apponutpatris nomen: Aae Gudpus o Dininu. Hoc
idem etiam Arabes fa ciunt: fed ctiam autoris nomen subticent, et patris tantum
ponut: A uen,rois. Auen,pace. Auen, zoar. Græce vcro etiam cognomine vhi funt,
fed rariore,vt Ευ πάτως, φιλαδελφος, κεραυνός, Χαλκίνη foi. gos. vtmulti
putentDejanov et A'zapeuvova, et A " degsor, et aliamultafuisse cognomenta
a militib. excogitata: ille quod filij cadaver redemerit: al ter,quiadiu ad
Troia sederit:hic, quia re infecta ' ab obfidionereversus sit,vt dicantur. Quin
etiam diis iplis a potestatibus quibusdam sunt attribu ta:vt, 'πόλων, Παιαν,
vtraqueappellatio et Φοίβου. crogiya evNeptuni: [lzatais,o textuvidosagde gode
φέντης, Ερμού. Ηoc έτσώνυμον Greci, Agnomen βασα και να autem Depurvuon
appellarunt. Videamus nunc scans affectiones.Proprium estPrænominisin virisiis,
Affet hel quisibicognonien illuftrecompararunt,aliquan do fubticeri:vt,Cæsar
Diet ator:intelligis enim c. E contrario positum,necelario interdum alioru
appositione declaratur:vt,c.apponesCęsar:item addes,Dictator: aut,
Dictatorispater: Proprium item etid, certis familiis certa ascita effe Prænomi
na:vt,L.et c. Cæfarum:P.L.et c N. Scipionum: L. et M.Crasforum. Legimusetiam
quædam quibuf dam interdicta: veluti m.Prænomine cautum fu it s.c.ne
quis,Manliorū appellaretur,ob M. Man lij Capitolini mala merita in Rempub.
quaquam Senatus Consultum illud poftea abolitum elt ve tuftate.Illud quoque
patiuntur nomina et cogno mina, vt fedem inter fe mutentin narrationibus:
invenias enim et Cæsonem Fabium, et Fabium Cæsonē. Etiam in Pacuuij Epitaphio
Prænomen poftpofitum est. Hicfunt Pacuuij Marcisita offa. Vțiam definant altercari
paucæ leettionis gram matici super verba Quintiliani, Viet ori Marcelles Iut.
IV. le: an, Marcelle Victorifcribendum sit.Illud etia est observatum, multa
Nomina facta effe aliis Prænomina: vt, lulij Dictatoris nomen, mihi: quum ita
PaulusMideburgius, qui poftea Foro semproniensium Potifex fuit, Mathematicus in
comparabilis, Divorumque Friderichi, atq; Ma ximiliani et alumnus et altor,
persuasiffetpatri. Verum ab antiquis quoquefactitatum fuit:Nam 9.Tulli yox,fuir
Regi Hoftilio Prænomen: at pofte risin nomen recepta est. L. Sergium
legimus:hîc Gentileest: at aliis Prænomen. Etiam Romæin monumentis fic
fcriptum, Ser. Et in xxxIII. apud T. Livium, PacuviusCalanius: hîcest Præ
nomen: at Nomen est poetæ, poft Prænomen: » M. Pacuvius.Proprium et illud Cognominis,at
que Agnominis, li post Prænomen, aut Nomen, patris Prænomen ponatur, postremum
locum obtinere:sic,C.Iulius,C. t. Cæsar: C. Cæsar. C.F. Dictator. Item duo prænomina
præponentur v ni Nomini,aut Cognominipluralis numeri: fic, Pons M, et, qv,
Tullij Cicerones. Itaque Prænomina vere non queuntfledi numero plurali, cæterao
mnia queunt:suntenim generis,non viri: nisi sit Cognomen, aut Agnomen eius cui
primum eft attributum: eius enim folius esttunc. Agno men autem ab Antiquis
etiam Cognomen dia et um fuit: Africani enim Cognomen vocat M. Tullius in Sexto
de Repub. Proprium etiam » Prænominis, vt idem et patris fit, et pri mogeniti:
vt, M. Tullius. M. F. Quod autemait energyProbus grammaticus, Prænominanon esse
solita imponi pueris antequam togam sumerent viri lem 219 lem, puellis
antequamnuberent falfum eft: fed 1 feptimodie,quam natieffent, quum
luftrabatur, Prænomen inditum fuiffe conftat. Sicut etapud Græcos, vt ait
Aristoteles in septimo historiarum. Et ridiculum fuerit sex liberorum patrem
vnum 2. appellare,omnes respondere:hoc enim faciat,ni fi nomine distinguantur.
Hæredes esse non pof fint,quos ille non poffit nominare. Eft etia præ. ter hos
certos legitimosque modos, vfus alius qui dam nominum communiorum. Maior,Minor,
Superior.Quætempora perpendunt femper, vir • tutem non semper:vt nolint dici
Dionysium Tya rannum Maiorem,sed Superiorem. An vero in. feriorin ea
significationeinveniatur,non sinera tione disceptatum est: luniorem enim
dicimus, Inferiorem autem nondum memini. Ex his pa tet, male a Servio dietum,
lulo Ascanium fuiffe Agnomen: patet id quoque,la wivulavetiã Lati nis Diis
attributam, vt Græcis: Marti,Gradivi: Romulo, Quirini:Hersiliæ,Horæ. Si igitur
verum est carereplurali Prænomina, et AgnominaetCognominaparta, excludentur
etiam ab eiusmodi locutione, Alter Cæfar, Alter Tullius: virtutes enim
etfortunam poffis innue re, at Nomen non eritidem: fed fic dices: Cæfar alter a
Cafare. διωνυμαautem etτριώνυμα non 4 recte dices: nullum enim nomen eft
Binomen:vya fed res ipsa. Omneenim quod eft, vnum nume- my. ro est. Itaque Irum
Ovidius, Ausonius lstrum bi nominem dixere.Ita Xanthum, et Alexandru vo. ces.
vt etiam quæ woawwna fupra dieta a veteri bus legas, male fint appellata: neque
enim Ensis 1 nomen est nonuwvwpov,fed ferrum hoc: quoniam ethoc, etaliis nominibus
recenfetur. Defixis,five Essentialibus communibus,eorum quefpeciebus. chungen.,
Elxacommuniafunt. 'Ixacommuniasunt, quævniversalis,vt vocat, mune, sicut supra
diximus, sumpta fignificatione a civili consuetudine. Quod.n.aut opus aut offi
cium faciundum fuerit omnium civiuin opera, antimpensa, id dictum sit, Communi
studio fa et um iri: quoniam munia fua quisquein vnum conferrent. Itaqueid opus
vt compleetitur om nium civium functiones, Commune dictum est: ita nomina quæ
eadem ratione vniversitatis præ amini ditas resfignificarent. Hocfummum genus
divi am fere veteres in multasspecies, non omnes neceffa rias, et temere
digestas. Nam et falso fub Appel lativo posuere Adiectivū:et incondito,actumul
tuario vocum numerorem difficile effecere. Ac fiomnia rerum genera, qux
Subalternavocat, fe quivelint,et nequeant, etconfundant artem: sin
nolint,necongeriem quidem cam affectent. Ex vero funt: Ad aliquid di ettun,
Cuasi ad aliquid di et um,Gentile, Patrium,Interrogatiyum, infini
tum,Relativum,Demõstrativum,Similitudinis, Collectivum,Dividuum,Factitiu,
Gencrale, Spe ciale,Ordinale,Numerale, absolutum, Tempo rale, Locale. Has
dixere effc Communes nomi num et Principaliu et Derivativorum: proprias autem
fcorfun Derivatorum has, Patronymi Gum Am cum.Poffeffiuum, Coparatiuum, Superlatiuum,
Diminutiuum, Denominatiuum, in quo, aiunt, intelligimus cum multisaliis,
Comprehensiuum, Verbale,Participiale, Aduerbiale. Hæceft eorum farçina: quam
vțintrofpiciamus, publicanorum more folucnda eft. Principio male dixerunt, has
omnes Species mory esse Appellatiuorum ;nam etiam sunt Propriorum: Vafriti.
enim Vlyssis, Adiectiuo nomine indicatur quæ ei propria est.Item ejus locus,in
quoeft,eius solius eft.EtconfundütAdiectiuum 2 cum Substantiuo: ergomale
diuisițnomệin heç duo, tanquam in genera, Nam fi Populus eft no. men
Substantiuum, et MagousAdiectiuum ; qua re Adiectiuum fecit speciem
Appellatiuorum, Substantiuum autem non fecit? Species igitur attribuere non fuo
generi: et species confude. 3 recum suo genere cum dicunt, Patronymicum, et
Denominatiuum ; eft enim Denominatiuo, rum species Patronymicum: apertius autem
ip fum Comparatiuum ; denominat enim gradum, ficut Positiuum, qualitatem.
Sicetiam Absolutu quum sitgenus multorum, vt Factitii, Tempo, ralis, Localis,
in eundem ordinem cum fuis infc rioribus redegere; Nihilo feliçius genus ipsum
Adaliquid cum suis speciebus miscuere: vt Or. dinale, et Patrium, et alia. Sed
etillud falfi sunt, quum dicunt, Ad aliquid diet um ; nanqucapud 4 Philosophos
etMetaphysicos fic excogitatum est,alia effeAd aliquid:alia non effe, fed
dici,vt hocipfum,quod eit, Effepater: habet naturalem reciprocam Coniun et
ionem cum hoc, quodest, Effe filius: etiam fi nulla extet oratio, quæ hoc di
cat. hoc aüt quod est,Effecaput:no habet ex sei pro reciprocam Coniun tione cum
Corpore:sed ex co quod est, Effe pars, ad Totum. Itaque hoc lixere,Diciad
aliquid: non autem Effe. Quare it res sunt, ita notæ rerum: igitur nomina quæ
Adaliquid fignificabunt, erunt,Ad aliquid:quæ ignificabuntAd aliquid dicta, erunt
Ad aliquid dicta. Iccirco etiam bis errarunt: nanque idem Ś eft, Ad aliquid
diettum: et, Quasıad aliquid: quæ cunque enim nõ sunt vere Ad aliquid,funt Qua
fi ad aliquid:per formam quandam accidenta lem, attributam ab intellectu. Hoc
autem eft dici Ad aliquid: id est,referri per intellectum subcer to modo, quia
reipfa per feipfa referrinequeunt, 6 Quin vero videtur nihil dici Ad aliquid,
fed esse. neque enim intellectus facitCaput, effe partem Totius:fed ipsum ex
sua natura pars eft. et quem admodum Caput ipsum non refertur, ita neque Cæsar
refertur: fed ficut illud quali pars, ita hic quafi pater. Sed de his alibi:
coaeti enim sumus detergere horum rubiginosam orationem. Præ 7 erea li ponunt Intcrrogatiuum,
quare non Responsiuum?hocenim nobilius illo est: constituit, ' nim orationem
verum velf alsum significatem. --)mnis enim Conclusio nobilior est ipsa Quæ
ione. Numerale pofuit,quare nöposuit Dime onale? Continua enim quantitas
nobilior eft, uam Discreta. Numerus enim accidit quatitati iscretæ:neque quodcunque
est, vnum est: neq; nim discreta quantitas est genus distinctumre sa a
quantitatecontinua, vtphilofophi veteres putauere: sed affectus quantitatis.
Igitur hanc per Quantum,illam perQuot,explicamus. Tem porale quoquequum
dixiflent, addideruntAd verbiale: atHodiernus, eft Aduerbiale et Tem porale:
non igitur sunt species distinctæ, fed Temporali accidit, vt ab Aduerbio
deducatur. Localerecensuerunt: quarenon Situale? vt Supinus, Pronus,
Ingeniculus, que Græci lygovariv dicunt? Quare non memorarunt alią neceffaria?
NomenGrammaticum: vt, Deriuatiuum, Geni tiuus, Modus, Figura: Nomen Logicum:
vt, Consignificatio, Conclusio; Nomen Mathematicum, Nomen Metaphysicum ,et alia?
quæ alia alio modosignificant, quam hæc vulgata nostra, Poftremo
pessimeíensere, quum dicerent, prio- 3 res illas species esse, təm
Primitiuorum, quam Deriuatiuorum. Quis enim dicat, Patrium nome aut gentile,
græcus, “romanus”, “latinus”. Atti esse Primitiua? Vbi error maximus eorum
patet,qui putarunt diuerfum effe Denominatio nem a Deriuatione, propterea quod
fic in aliqui businuentum effet: vtalufto luftitiam deduce bant. Athocaccidit
contra rei naturam: nam Iu ftitia prior est, quam Iuftus, fed ficut res a
re,ita vox a voce: quare vt Romaprior fuit quam Cæ far, ita a RomaRomanus
dictus; vbi etPatrium, et Deriuatiuum, et Denominatiuum vnum sunt. Has nebulas
Gramaticorum quu discussimus, duo supersunt,quæagamus: primum emendabi- Erhome
mus eorum definitiones, qua opus fit: deinde cxa ettiore iudicio ad certa
capita reducemus. Pij, Ada cus, MW Pre TE RH cíten Qus Diner liorat uatirati
gra? 1: 1 Qume Veteris puch 224 IvL. IV. 2 Arte Adieettiuum,inquiūt,quod
adiicitur propriisvel appellatiuis, et lignificat laudem, vel vitupera
tionem,vel mediu,vel accidens,vnicuique.Prin i cipio definitio hæcnoestabessentia,
sed abacci. dente. Essentia enim Adicetiui est, significare a. liquid alicui
quod insit: at hoc, quod est Adiici, accidens eft: poteft enim vel adiici, vel
non ad jici: accidit enim voci vt conftruat orationem: quanquam hoc accidens
est proprium fluens ab ipsa essentia, Sane etiam extraorationem hæc vox Bonus,
dicetur Adiectiuum: nec tamen adii cietur. Itaque peruerse quoque data eft
defini tio hæc: cum præpofitum fuit hoc quod eft Ad iici,huic quod
eftSignificare. Peruerfa vero et iam alia ratione. Cum enim Laudem etVitupe
rationem posuere,addiderunt Accidens:quasi ve ro ea accidentia non fint:atque
est,veluti li dicas, Coruus est crocitans animal,nigrum,coloratum.
Accidesigitur fiuefignifcet σύμπτωμα, fiueσυμ 667xws, live codexerfov, genus est
comprehen dens Laudem, et Vituperationem, non minus quam Album, et Nigrum, quæ
ipfi pro exem 3 plis apposuere. Male etiam apposuere Vnicui que: non enim
dantur definitiones indiuiduo rum, fed folæ fpecies definiuntur. Verum poft hæc
maiorem errorem commisere: nam ( omit 1 to alias ineptias ) ficftatuunt,
proprium elfe Ad ieet iuorum, suscipcre Comparationem: At hoc est falfiffimum:
nam quisaudeatdicere hoc no men Medius,intendi poffe,etremitti gradu Co
parationis? Quis nescic, Hodiernum,e fse Adic diuum? quis alia multa.
Negligentia quoque illa non parua: etenim de iis, quæ Quasi ad ali quid
dicuntur,vbi scripsere, interponunt deSy nonymis nescio quæ, etDionymis, atque
eius. modi, etfalso, vt diximus supra, et non luo loco. Interrogatiuum, aiunt,
est quod cum interroga tione profertur. Leuiter lane nimis: quippeet Verba cum
interrogatione proferuntur. Deinde dixere, infinitum efle Interrogatiuo contra-
Juf. rium, profe et o inanemmodum docendi: Nihil enim est contrarium
interrogationi: nisi non interrogare: aut fane Respondiuum appellandum n'y.
sit, vt aliquid affequamur:Responsio nanque non est vere contraria
Interrogationi:quippealiquan do eadem:vt, Venit? respondebis, “Venit”. Neque
forma ipsa interrogandi est vere contraria for mæ respondendi: alioqui quæstio
effet contraria conclusioni. At quæstio nihil affirmat: ergo non contradicit.
Sed vsus tenuit, ut dicamus: Contra respondit: quia ex altera parte item eum
esse dicimus,qui refpondet. Infinitum vero quo... modocontrarium faciant
Interrogatiuo? neutru cnim quicquam ponit: alterum quærit, alterum nescit. Quid
quod Infinita dixit esse Relatiua? della qua oratione nihilturpius.
Relatiua.n.omnia Fi- **3 nita sunt. Fiunt autem infinita appositis verbis non
finientibus: vt Nescio,ficis, quitam indo,qui et e scribit. fed ipfa
Interrogatiua sunt Infini ta:n: hil enim statuit,qui interrogat.Diuiduum, hun
Jan inquiunt,est, quodaduobus, velamplioribusad fingulos habet relationem.vel
ad plures in nu meros pares distributos: vt Vterque, Alteruter, Quisque,Singuli,Bini,
Terni.Omitto barbariem Piij. upo DD CH Arche orm quum posuere. Amplioribus, pro
eo quod effet, Pluribus. Rem ipfam agamus. Male expressere vim horum
exemplorum: neque enim hæc vox Vterquehabet relationem a duobus ad fingulos:
Ted åfingulisadduos transfert significatum. nam quum dicas,Vter? vnum
intelligis ex duobus.Ita quecolliges-ambosin responsione fic: ethic, et hic,
per coniun et ionem. Que: Vterque.Itaque non eft Diuiduum, fed Diuiduo
contrarium. Dividuum potius erit, Alter uter, Utercunque, Vteruis. Præterca non
puduit distinguere hæctan. Nouve quam in specie, divisa a specie numeralium.
Imo vero numerale est genus comple et ensduas species, dividuum: vt: alteruter:
“indiuiduum” -- hoc autem rursusdaas: distribuens, vt singulus: Non
distribuens, vt unus. Itaque potius affectiones numerandi, quam species sint sicut:
et Ordinale. Hæcita fe habent.Nos autem hęc incondita prudentius digeramus,
recepta prius nominum fi hangi significatione. Omne quod est,aur est Absolutum,
mgo aut Relatiuum. Absolutum est quod a nullo de pendet. Relatiua, quæ mutuo
naturæ nexu con almolol ftant. Eftautem Abfolutinomen minus consul to pofitum.
quod.n. aliquando vinctum fuerit, quả defiit vin et ữesse, Absolutu diet u est.
Verum verborű inopia interdum premimur: vtemurau tem receptis, vtintelligamur,
Videamus igitur, an vllu nomere ette dici queat Absolutū. Absolu tu
pluribusmodisintelligitur:Absolutű a cauffa: vt, Deus: amateria, vt motrices
mentes orbium coeleftiű: a fubie etta fubftatia, vt fubftãtiæ omnes: a
relatione, vt quæ ad aliud non referuntur. Igi tur ICH D 1 V tur ipfiusnominis
naturanullo horum modoru vlnu absoluta eft:caussasenim habet, primum sui auto
Tours tem:promateria,vocem, scripturamve, aut quid fimile. Quu autem reru notæ
fint,fiue figna quæ dam arelatione,non erut Absoluta. Nomina igi tur omnia in
prædicamento Relationis funt qua tenus significant. Verum omni in relatione eft
ratio referendi, et termini ipfi relationis, et res subiectæ, quæ deferunt
relationem: vt, Cæsar fi Catonis filius eít, tria hæc oítendentur: nam ratio
qua Cæfarad Catonem vt filius, et Cato ad Cæfa rem vt pater,est vis illa
procreandi tum actiua, tu paffiua.Resdeferetes relationem, funt duæ fub Itantiæ
indiuidux. Terminus relationis filii, est Cæfar:patris,eft Cato.Igitur filius in
prædicame to Relationis eft: fed connotat fecurcm absoluta scilicet
substantiam. Non longe diffimili ratione Nomen dicas ipfum quatenus significat,
effe Re latiuum. quatenusabsolutam rem fignificat,effe vt figna Absolutum. Sic
dicas, Cæfarem effe filium mili tarem: vt relatiuu filius,etia militia
consignificet rem absolutam. Ergo fic Nomina certis generi. Gomora bus
partiamur:auta Reftatim deducuntur,aut ab ' A 2 alia voce. A Re autabfoluta,
autrelatiua. Si a vo ce, yt Hodiernus, ab aduerbio, Hodie,vocisillius naturam
fequentur. Quæ autem a Rebus dedu centur,rerum naturam retinebut. Oportet enim
fignum æquari rei cuiusfignum eft.Itaque fifub- Goreng ftantiam indicabit, ant
quantitatem,aut quali tatem, aut alia, inde fumetappellationem. Per. sequi
autem tot species, easque certis nuncupa tionibus affequi, difficileest. Summa
autê genere. Relatiuorum funt hæc: aut æqualia, vt Socius, vicinus: aut
inæqualia, ut “servus”, “dominus”. Absoluta substantina decorum generaat
species. Absolutorum genera hæc sunt, quædam subsantiam significant, ut, Ensis.
Quædã quantitatem eam queduplicem: continuam: vt, Magnitudinem, corpus: locum, forum:
tempus, Annus. Et discretam, vt, numerum “unus”, “duo”. A lia significant
qualitatem: ut, “candor”, facies .Ex quibus ducas nomina generum, ac reddas
suum cuique: Temporale, Locale, et quæ supra. Facti Atia autem ad genus
qualitatis, quatenussic sonat, Murmur, Turtur, Sibilus, Fremitus: quanquam significatus
ad alia genera referatur.Sic etiam Ad verbialia diet a,non quodaduerbium fignificent:
sed ab origine:quoconstat, has denominationes non sempera significato produci.
Generale aute et Speciale potius ad dialecticum spectant. Sic Corporale et
Incorporale reduces ad fubftatiam et alia genera:vt, Deus substantiale eft,
incorpo rale: Candor qualitas incorporalis. An verd id, quod aiunt,verum fit,
Orationem esse incorpo ralem? Nam de vocali, aut fcripta oratione si fic
sentias, falso intelligas. Eft enim orationis For ma significatio: Materia,
papyrus atramentum, aer ipse: Figura,ftru et ura illa. Absoluta diminutina.
th.Horum affe et usquorūdam,Diminutio est:ita vtresipfæ quibant autintendi,aut
remitti. Quare in substantia non videbatur inueniri pof- Am se
fignificatusDiminutionis. Verum ab affeet i- ' W4L. bus, siue accidentibus
circumstantibus effe ettum eft, vt reciperet Diminutionem. Sicuti etiam di
cimus, Maiorem equum:eft enim quod ad quan titatem spectet,non quodfubstantiam.
Igitur fic resoluimus, vt dicatur, Plus quantitatis in eque, non autem plus
cqui. Ita dicimus Homuncione, et Homulum,quantitatem respicientesin homi ne,
non hominis substantiam.Atqueis lane error a vulgo, non a sapientibusprofectus
est. Puellus autem ætatem significat, non substantiam:ætas autem fub tempore
collocatur. Compofita etiam ex vtroque inuenias. vt, Pumilus, et Pumilio, ex
Puero et Homulo conflatum fuit. Abufi autem sunt
veteresnomineDiminutionis:namMinue- vox rt, est tollere quantitatem: Diminuere
igitur, Vtranque quantitatem statuit in diuersa: at ab Hominecum ducis Homulum,
decurtaspotius, quam Diminuis. Quæ fuit cauffa, vt aliiconful rius Deminuere
dicant. Eftenim Diminutio affe etus consequensDiuisionem. Omneenim diui sum ita
minuitur, vt eadem quantitas minor di - sot catur,quoniam partes feparentur: at
in nominis Diminutiui significatione nullæ extant partest fed Deminutiuucstquod
fignificat minus quam Primitiuum.Quoniam autem eft fpecies Deriua tiuorum, et
Deriuatio est Figura, et Figuraeft af feet us nominum generalis: igituretiam
Deminutio generalis nominuaffeet us erit: iccirco et Absolutis, et Relativis,
et Appellatiuis, et Adiectiuis, et Communibus, et Propriis competit.Quarcna
tweet elteise PY. in. emir Quis 230 IvL. IV. inter genera nominum,sed inter
accidentia pro. pria recensendum fuit:vt, Homulus, Pulchellus, Romulus,
Meliusculus est, Antonilla. Nunc igi tur de Abfolutis. peromeQuantitatem quædam
imitantur, quædam non,fed ei cohærent tantum. QuareDeminutia fecundumhæctria
dicentur: competit enim ma ins,vel minus soliquantitati. Dicimus tamen ma iorem
calorem analogia quadam fignificationis Igitur primo indicabunt quantitatem:
secundo foco id, quod hæret ei:tertio,quod eam imitatur. Quantitatem ftatim
dicunt,Tantulus: et proxi mahuic in ipfa fubstantia, Auicula, Capitulum,
Fraterculus, quæ ci cohærentia sunt. Sic Annicu lus, non diminuit annum, sed
notat paruitatem fubftantiæ,cuius motum,anni quantitasmeritur. Ea
vero quæ quantitatem imitantur, sunt ficut Regulus,cum Regēparuium
significat:propterea quodquivasto corporesunt; cæteros anteirero
borevidentur,item imperio:ita ii, quorum in po testate populares funt; eam
magnitudinem imi tantur:atque iccirco deminutione notantur. hnutil. Quum autem
variis terminationibuspræfcri bantur cæ non funtpræfentis operæ. Sedillud a
nimaduertendum, quædam quibufdam flexibus Deminutiuorum efferri, quæ ad ipfum genus
nal laratione adduciposlint:vt,Cuculus,et Cænacu lum, aliaque eiusmodi aliquot:
nam quæ veteres afferunt exempla non omnia verasunt. vt Auun culus Deminutum ab
auo eft: Abba enim auum appellabant:item patrem, et patrisacmatris fra trema.
Illi cum patrui nomen quasi patrem alte rum pitud ntiapfum attribuerent, matris
fratrem quafi remotio alchesiem pusillum auum appellarunt. Nunci · Finis igitur
Deminutiuorum is, Tollere quan titatem,aut alia quæ remitti possunt:sic
Regulus, quxparuum regem imperio, Veraniolum dixitCatul ninusus vrbanitate:
ficut Romulum, et Sergiolum, nimpueros: non adulatione,vtaiunt, qui id a Græcis
imen fumpsere:Romani enim non fuit adulari.Frater catio: culum quoque gigantum
iidem male dixere ab fecus vrbanitate:sed refpexit ad Gigantum vaftitatem,
imit: Probro:Meretricula,Pusio.Imitatione:abAngui, et pri Anguilla. Minus reete
etiam,qui contendunr, a Redo Fidis,et Apis, Fidiculam et Apiculam,du-fericia
Ans Eta: falla enim ratio eft. Si a Fides, effet fidecula. cuit Primum videntur
negare mutationem vocalium meni in dedu et tis: Deinde fatis constat commodius
fie Eunti ri si Reet tus a fecundo casu differat. Itaque si non ropli
inueniatur apud autores Fidis, rectius facias, si ne teir ges vnquamfuiffe.Et
Ouidiana Apis, ex deterio imi re deprompta vfu fit. Verumegoarbitrorinter v emi
trunquefonum pronunciari folitum: vtin Nise, Nisi: Here, Heri. Itaque quum “Ædes”,
non “Ædis”; “Sedes”, non “Sedis” in recto legatur, tamen Ædicu łam et,
Sediculam diet umlegimus. His autem no erat hic locus,nisi huius quoque rei
cauffa nobis reddenda fuisset. Ex his, quæ diximus,conftat,Nominain
Aster,we'arts a veteribus re et e inter Deminutiua effe colloca- sene sont A
ta,temere a recentioribus ablata.Eoru argumen ta sunt hæc: Si essent
Deminutiua, non fuisset a Terētio addita altera nota paruitatis, apud quele
gimus, Parasitaster paruulus.Ite Pullastra, grandi uscu atu pra Case TIK ETU mula IvL. IV. ad usçulam potius
significat pullam ':Præterca Apia ftrum est miræ altitudinis. non igitur erit
demi nutiuum: quare Imitationem non Dcminutio solinem dicent.
Adhæcficrespondemus:omnemi mitationem indicare deminutione: quare quod tollunt
idipsum statuunt. Et quod additur ase rentio paruulus, significat corporis
quantitatem ætate imperfectam, vt fitdeminutio corporis: at parasitaster est
artisdeminutio:vtis sit, qui haud magnacum re parasıtatur: et quia agit, fiue
imita tur parasitum, citra parasiti modum est. Apia ftrum autem non est
diminutiuum ab Apio, sed ab Apibus ductum, vndeetiam uersaroquior,id est
Apifolium dicitur a Græcis, Citraria enim cst: quin ea Apium neque
imitatur,ncquefimilis eius est. At quod Apiastrum est ab Apio deminutum fane eo
longeminusest. Verba Plinii suntin xx. libro: Nasci in Sardinia herbam
fylueftrem Apii fimilem,quod fit A piastrum,Apio minorem. E Sallustii historia
sumptum videtur. In Sardinia, inquit,herbanascitur, quæ Sardoa dicitur, Apia
stri similis: hæc ora hominum, et rictus dolore contrahit, etquali ridentes
interimit. Pullastram autem omnino minorem Pullam intelligimus: quippe Pulla,
et Gallina iuuencula:idque tam contra eos,quam pro eis facit: neque enim Pul te
laftra, aut fylueftris est, autpullam imitans: vt trupi want quid enim minorem
maior imitetur? aut quomo doimitatio in substantia, autin quantitate natu rali
fita fit, quæ affeet us animi, autin ipso affectu posita est? Surdaster quoque
qua rationefurdum dicetur imitari? sed enim idem eft, quod fubfur dus. Cauffa
autem huiusce terminationis a Græ cis constituta eft: 017:Tmile,I'vtwwwxleiv,
cst Philippum, aut Antonium agere:sicwsgarrile:v,vn de Antoniaster, et Paralitaster;
fic oyxisnis,apud Galenum ageto oynilev: agortashs, et Æolice 1 verso líbilo in
literam vibratiorem. Qui igitur imitationem tantum attribuere, non memine
rantsurdaftri:quisustuleredeminutionem ob Te rentium, non videbant duas
paruitates eidem s poffeeuenire,corporis, et artis: qui omnino non putarunt
esse Deminutiua, nesciebant imitatio, ne significari inæqualitatem duorum,
quorum. minor sitis altero, quem imitatur. Proprium Deminutiuorum habere
dcriuata. si non a primigeniis,Hortulanus. Collectiua, etcomprehenfina.
NGcnerequantitatis, quæ reliqua funt,ponc mus ea, quæ vocant Collectiua. verum
voxa ri? y definitionediffentit.Colligerenanquoeftaliquo * chin modovnuex
multis facere: at, Populus,aut, Vut gus, quod dat signum nobis colligendi?
potius, Vterque, et Ambo, et Omnis,funt figna Colle etti-,,: ua:illa autem,quæ
ficabantiquis funt dicta,Cog prehenfiua potius iudicabuntur. At ipsi Com - 3 3
prehenfiua dixere his non abfimilia: cuiufmodi o est, Vinetum, Rosetum, et
eiusmodi. Verum hæc i nihilo distant, nisi modoipfo significationis:nam Populus
rem vnam e multis constantem notat: pie at, Vinetum,vnam rem multas comprehenden
Pietem. Non est Colle ettiuis diffimile, Arena, Scopa, Scala, Scala, et
eiusmodi, quæ frustra plurali duntaxat en numero dicidebere
contenderunticcirco, quia multa essent. Nequeillisin mente venerat, quod cunque
eft,vnum effe. Atquod eft, aut est vnum Subflantia,velutdicebamus, ut Homo et
Equus: aut accidente, ut homo et Albumiaut Subiecto, ve Album et Dulce in
lacte:autMistione, vt Pos sca:aut Aggregatione,vt Aceruus. Igitur in fingu lari
si pronuncies, rectius designes vnum effe: vt, Cumulus, Grex, Turma, Thesaurus,
vt etiã in plu rali diuerfislocis pofita fignifices: vt, Cumulosaa renæ,Italicæ
et Ægyptiæ:Greges,tuum etmeum, Eft præterea vnum Mathematicum:vt Quadran talis
figura vnum cst ex multis lateribus: fic Qua drigam debes dicere, vt et Alcibiadis
et Hieronis Quadrigas possis. Est etiam unum dialecticum, vel metaphysicum, ut
definitio, quæ constat ex genere et differentia, et Species quæ constat exif
dem defignatisa definitione: quæ tamen singularem in numero
proferuntur.Quaremulto usuinomi na hæc Comprehenfiua fuere. Multoque consul
tius est hoc excogitatum, quam fit admiffusmos pluralium, vt Thebæ, Pifæ: namfi
fic neceffe fit dicere, illud quoquencceffe fuerit, vt ciuitates, non autem ciuitas appelletur. Sic grege
legato, wna res legata est, vtait Paulus, neque pars potest recipi,pars fperniRelatiua
substantina. Elatiua aut sunt Substantiua, vt feruus: aut RA, nomie lur U
nominis aut genus vtranquecopleettensspeciem,rakis fubstantiuorum, et
adiectiuorum: nequemirum: neq; enim substantiam significant, fed essentiam
referendi:itaque accidentis semper notæ funt. In priore genere continentur
Ordinalia, Primus, So cundus:aut his fimilia.Centurio,præfe et us: et a lia
talia quæ diximus, vt Ciuis,Vicinus:Nepos, Fi lius:quæ vnum tantum terminum significant.
Vi dentur autem etGentilia, et Patria ad hæc referriq.m fub adiectiuorum
fpecie:nequeenim dicas Græ- pohon cum, fine Græciæ intellectu: fed tamen Græ
ciam, sine Græci intelle et ione poffe dicere vide ris. Verum non ita eft.
Plato Græcus fuit: Regio Attica,Græca:sisubstantias ipfas respicias, nõre
feres: si nomina impofita, quæ gētem significent,q non possis, quin referas.
Terrailla non est alicu-} ius terra: sed patria eftalicuius patria: Græcia autem
Græcorum eft, et Græci Græciæ, Itaqueo mnium nobiliffima fuere Patronymica, quæ
in contents voce substantiua, adie ettiuorum plenitudinem sunt consequuta.
Adieettiua enim significant acçi dcns et modum quo in hzret substantiæ: quare
aliqua ratione etiam ipfam connotant subltan tiam. Hoc etiam amplius
Patronymica, quæ et iam certam fubftantiam consignificant:nam in certum quidem
filium vel nepotem, at certum vel patrem,vel auum, tanta vi,vtetiã propria no
mina referri penecogant. Videtur enim Priamus b'lari referri ad filios
hocnomine Priamides: verum non ita eft: nam tametsi terminum nominat,non
tameneum refert ad hunc quem primario figni ficat: significat enim filiu
Priami, quead Priamu refert:consignificat Priamum, sed adfilium non 1 1 qua?
236 IvL. IV. 1 * refert. Cæterum eo præstant cæteris, vt diximus, pas here quod
vtrunque terminum relationisfimulsta tuunt voceipfa non soluın
significatu.illud quo » que mirum fuit, a proprio ductam vocem perde
nominationem,non effe Adiectiuam,fed Fixam: quaksid quod non potuerunt obtinere
Poffeffiua.Ap pellatiua autem fuere amiffo iure proprietatis. Nequeenim potius
Hector, quam Helenusintel ligetur co nomine PRIAMIDES, Non pro pter
camrationem,quamafferunt, Singularia no referri: hoc enim falso dixere
philosophiquidã. Nam Relatiua quoquesua habentindiuidua; vt, hiç filius huius
patris. Proprium vero cumfuisset per initia Patrony. VM micorum, Græcis tantum
in nominibus fieri: v sus Romanus ad sua transtulit commoda, vt Ro. mulides.
Falso enim dicebantquidem Patrony. miciloco vfostum Poffeffiuo ; nemo enim
hoclo git nunc.Auxerequoque inscitiam,cum Latino, rum tantum effe dicerēt
poffeffiuum:qui fi Græ caignorabant:at meminiffent ex poemate,quod legerent
assidue, Troja, et Typhoel, et Euan drius. Quoniam vero etiam Materita refertur
vt gum ea, tum Pater vnico nomine Parentis com ple ettantur:iccirco ab ea qudq;
dacta sunt;vt Co ronides,Æsçulapius apud Ouidium.Item eodem filo abauis
maternis, quo a paternis trahebantur: Atlantides, Mercurius. Poft hæca
fororibus quo que, Phaethontiades, forores Phaethontis. Hora tius etiam a faet
is, non ab fanguine Tyndaridem dixit eam, quæ Clytæmnestræ more diffidiffet
bipenni caput viro. Moderatius veteres,qui ciues omnes, tametfi non erant a
principe civitatisge niti, ab eo appellarunt, Cecropidas, Athenienses. Mobilia,
five adiectiva absoluta. Vem ad modum supra diximus, Mobilia sut alia
Absolutarum rerum, alia Relativarum Garten nota.Abfolutæ sunt, Vivus, Exanimis,
Annicu lus,Sesquipedalis, Albus, Calidus, Frigidus, Cir cularis,Forensis, et
eiufmodi:genera ipfa rerum si spectaveris. Habentautem affeet us hos,æqualiam
L. effe ei,vndefunt denominata: vt a luftitia,luftus: iuftus enim est, qui
iustitiam æquavit. Secundus affectus fuit,minussignificare:vt,Bellus.Tertius,2
augere significatum:vt,Gloriosus,Populabūdus. 3 Propriumautem fuit Mobilium,
transirein natu ram Fixorum:vt,Pluvia: fuit enim per initia; A. qua pluvia.id
quod etiam ex Ll.libris deprehen ditur, De aqua pluuia arcenda. Eadem analogia
fluuius,vt poffisdicere, Fluuium Rhenu. Ducta enim funt, auta nomine, vt
Cadidus: aut a verbs, vt Bibax:aut ab adverbio:vt Hesternus.Fluere igi tur quũ
significaret ipsum accidens per fe: duđa eft ab eo verbo vox,quæ in alio effe
indicaret, Flu men vius. Itaq; vehemeter fallifunt, quiscripfere, quę.comhet
bus dam Nomina esse neq; Substantiva,neq; Adiecti atrop Ďa: vt Verbalia, et
alia quædã: cuiusmodi eft, Ci vis, et Servus:quæ proptereaipsi Ambigua appel
larunt.Verum res fealiter habet: Verbalia.n. fue ' re Adiectiva, nihilo fecius
quam Participia: fed brevitatis caussa omissum estSubstantivum: quis aj. enim
La 16.01 RE tert: tiso tivo/ OLISI is.H dari Title qui Lt $. IIII. enim neget
non Thew,fuisse primum appositum, tu widet: sicut et Homerus dicit, inteos
cuine: ficuti 04.810. avvie: fi enim Bellare habet naturam Ad icativi,nonne
Bellatoritem habebit?significate nim bellandi scientiam in Cæsare, aut alio
Itaque variatumfuit, vt etiam Bellatricem diceremus Ca millam, et Arma
victricia.Sic Servum, et Servam, Dauum, etSyram: et Servum imperium, quod a lij
parêret.Sic pauper, Irus, Ilia, Regnum, at seor fum ponitur ab Ovidio, Pauper
vbique iacet.No sunt igiturAmbigua: nihil enim medium inter sabo ea,quæ diximus
in rebus: ergo nequeinnomini abus: fed sua naturaAdiectiva fuere: vsusautem que
no me nonmutavit,vt efficeret Substantiua,fed Substan tiua sustulit: non vt hæc
essent, fed vtilla fubin » telligerentur.Sic dixitperinitia Pluit Deus:poft ea
fuftulit Nomen. Sic dixit, Amatur a Cæfare: postea tacuitnomen, et paffus est
verbo nullam certam attribui personam. Quodautem addunt his, Ciuem, et Regem:vtdicatur,
et vir Ciuis, et Ciuis bonus: et Populus Rex, etRex bonus. hoc
sicincrebuit,quemadmodum apudGręcosquod perarticulumdeclaratur, ανηρο πολίτης,
λαόςοβα arnolis. quanquam Rex quoquefuit Adie ettivum primo, et Consul, et
Prætor. Namquod vnum Jobu.tantum genus obtinuerit,id non ipfius nominis, sed
rei quam notaret cauffa fa ettumest. Quum e nim hæc accidentia non nisi in
viris inveniren tur:nonnisi virili genere potuere enüciari: qua. quam etiam
Reginam dicas. Sic Autor, vtrun quegenus complexum eft,cum terminatio Masculi I
att culinitantum analogia præfcripfiffet. Sic Græci per initia
dixere,nwandywiv, pauidum lepo rem: at ysus to taxa dixit, naywov, subticuit.
fis DonBor Stonwa, Phæbum perditorem:at fimpli citer Stonwy, substantiui sui
nomen obtinuit. fic u hier porta onkuardigov žantov, quod pecora flavescerentes
forly ius potu: at Xanthi sola appellatione Scaman drum intelligebant: vt
hocfane magismirum fit, et Adicet ivo fa et um Proprium substantia EN vum. Olle
101 ICH molt dos LIN Secundum rerum genera quum Adiectiva di ftinguantur,non
paucaeorum certisterminatio.hmm. nibus insignita fuere. Quæ igitur substantiam
fi- Subit. gnificarent,multas facies funt fortita:in Aceus:in Itius:in Inus:in
Eus.In Accus,materiam signifi cant:Panis hordeacens:Interdum totam: vtMer.. Tis
triticea: et, Pila cretacea. Alias partem:vt,Pti sanahordeacea:nam etiam ex
aqua constat,noTo lo hordeo. Etiam fusa significatio ad cohærentia, ytacino
contentum granum,Vinaceum: quem admodum imitatus elt Gallinaceus: quoniam ex gallinæ
materia ac satu esset. Huic proxima ter minatio, Cratitius paries, et
Cæmentitius: idem significavit. item materiæ cohærentia, vt Mul titia vestis:
neque enim Multitudo materia est, sed Linum, autLana:fic Multatitia pecunia,quæ
ex Multa: år Multatio materia non est, sed forina potius, quapecuniaexigatur.
Vt et hoc erra rint, qui folam materiam, non etiam formam dicerent significari:
et male scripserint, Icius,» non Itius: nam vt est a lufto, luftitia: fic fuit
a Crate, Gratitius. Atque hæ duæterminationes şij. Lati os Hea r tres. Latinis suntpeculiares:Alteræ duæ a
Græcispro fectæ, Cedrinus, Cupressinus, in Inus: et in Eus, Ferreus jordmedG
Æolice,exemiptosve diximus t, ex diphthongo. Abiegnus autem fuit paulo coa Gius
dictum, ab Abiete. lantinusvero et Ame thystinus videtur colorem, non
substantiam fi gnificare:verum ita fuit, vt quafi ex ipsa Viola, et Amethysto
confecta esset vestis.quoniam ex suc cis herbarum tin et turæ perficiebantur.
Quæret a liquis, An Tribunitius, atquealia eiusmodi in su: periorem ordinem
redigantur? Saneita est: ete we: nim Tribunatus quasi materia eft eius loci in
Re ini publica, qui Tribunitiis debebatur: fic Patritius Civis, cuius
dignitatis materiam præbuerint pa yrazo Quæ vero qualitatem fignificant; alia
exeune fimplici,communique finitione:vt, Bonus, Ce ler.Alia Græco flexu
denominativorum:vta Py thagoræ sapientia, Pythagoreus, et Pythagoricus. Sunt
etiam duo alijmodiverbales,Tufazozistis,vt Grammatista: et mutuyoeuntuisy Vt
Touc74:: et ove - UTAS; Acolice. Sic nescio quo felicissimo com tento Franci
etiam ounc poetam, patria lingua, Factistam dicufit. qua voce nulla meliore
analo gia Græcam potuit et excipere, et exprimere. E narratores Theocriti
agnofcuntinter eas termia nationes differentiam ad significandum, quam qui
volet s inde petat. Sunt et alia quæ ipsam zum.qualitatem fub excessu quodam
notant, exeunt quein os vs: ea habuere originem a Græcis, vt appeticsciv syss
estenim oradns qui plus vini appetit, quam par sitšaue quiplus viniobtinet,
scilio qub w fut AK 1 6 EN fcilicet autsubstantiæ, aut faporis, aut odoris, aut
coloris: vt apud Homerum aliatermination intowany ne, vivo nece moV TOY. ni ww
Sic duo quoque modi signifi candi apud Latinos fuere: ingeniosus, qui mulță
ingenii haberet: Mulierosus, qui multum mu lierum vellet habere. Trahunt autem
origi nem a hominibus, græcorum eorundem exem plo: non a verbis,vtputarunt:his
exemplis, Sto. machofus, “studiosus”, “quæstuosus, Sumptuofus Sed a
Stomacho:quod apertius patet in aliis:nam a Studio, non a Studeo, habet vocalem
suam studiofus: et a Sumptu, et Quæstu, suam cætera. Itaque M. Tullius fic
loquutus est: Non yt mihiftomachum facerent, quem nullum ha beo. Quare a Criticis
notatus fuit Nigidius Figulus, qui Bibofum dixit, fuam enim habent a >>
verbis terminationem pari significato, Edax, Bie bax, Emax,Vendax,
Loquax,Diçax,a nominib, raro,Linguax. Et aliam infrequentiorem, Bibo nes,
Comedoncs, Calcitrones: et a nominibus, Catillones, Popinones: quanquam a
Catillando et popinãdo quoque duci poffint, vt a Lurcan doLurcones. Sed quædam
omnino sunranomi- nibus, vt Ciliones a Ciliis, et Labeones a Labiis. Horum item
Græca origo fuit: fic enim effin gunt illi nominaComprehensiua: vt, opv.TW as»
dd Duwvec Tia cvwx loca plena Auibus, Lauris,. Platanis. et vnum facetum fane,xerecv
«, partem corporis, quæ ilia a quibusdam putata sunt. quo; niam igitur plus
vacui ibi effet, quası multo va cuo plena effet, keveuve fuperiorum analogia ap
pellarut. Eorum autem Gignificatus alius aqtiuus,suono some vt Studiofus: alius
paffiuus, vt Formidolofus: alius indifferens, vtMotosus: qua fuit cauffa, vt a
verbis deduci poffe putaritNigidius.Habue Huse autem modum significandi, vt
diximus, ex ceflum. Exceflus autem omnis vitiofus: Virtus enim aut medium, aut
in medio. Verumnomi, ņum quorundam vi factum eft, vt etiam virtus tis limitibus
continerentur: eius rei cauffa fuit, propterea quod omne bonu difficile paratu
est: vt est apud Hefiodum, et Vergilium, et Plato. nem, et Aristotelem. Ergo
conatus ille frequen tium atque affe et atarum actionum intra laudis metas
constitit: vt, Studiofus: nemoenim fatis pro restudere possit. Quin media
quoque voca „bula, vt Fama, et Dolus, in deteriorem partem flexa fuere. Famofam
Mạcham, Dolofum mer catorem: propterea quod facilior habitus, dete rior eft.
Iccirco diuinus poeta Famam, malum definiuit. Hæc pertinentad cauffas et
Originis, market et Significationis. Materia autem fic fe habet; Quædam
fimpliciter deducuntur, vta cerebro, cerebrosus: quædam cum additamento
vocalisa vea cura, Curiosus; quanquam non fine ratio ne: Sabina vox fuit,non vt
ineptiunt, quia Cor vrat. Quirites dixit Plebem Romulus,se Qui rinum, Senatum
Curiam:omnes eodem voca bulo,vario flexu. IndeCuriolus diet us, quifa tageret
Confultorum Senatus. fimul Curæ no men deriuatum qua diligentiores patres voca
rentur. At apertiffime affumpsit Formidolofus a Formidine. Monstruosus, autem
quod dicunt quidam, puto esse barbarum ; nam inmanu scri pto
TIL Holok cani Halk < -US, 6 - Vir non 7 yint la fi atud Plan
ceque land imga you Dante mi me pto Martialis exemplari, quod de præda Fonta
rabiz nacti sumus, fic fcriptum eft, Montofa decus Vmbriæ. Tortuosus quoque et
Saltuosus nihil assumpsere: sed a Tortu, et Saltu, ducta funt: ficut a faftu
Faftuofus. quanquam igitur videnturquantitatem fignificare, tamen non ita est,
sed intentionem qualitatis:nam tamet fi Mons significat quantitatem, at
Montosus, habitum illum montium notat. Sic euenit e tiam in alia terminatione,
™ND vs: Magnitu- View they dinem nanque indicat: Cæterum non folius
Quantitatis, immo vero, vt fupra dixi, Habi-. tum quendam. Neque vero dubium
eft, quin a maris excefsu naturam nacta fint, quippe ab Vndis. Nam Maris nomine
antiqui pro ma- » gno vfi funt. hinc Pelagus, quia n'hasdize'. lam enim to
renæs significat tractum ipsum. Ex Callimachus quasi prouerbio vtiturin Apolli
nis hymno: Ου φιλέω τον αδέν και δδ δσα πονος αείδε». Et apud Latinos,Maria
acmontes polliceri. Vul goetiam dicimus, Maria, dere immensa.Sic Ca tullus quum
multa propofuifset etiam maiora fi de,subdidit, Cætera suntmaria. Sed de his
alibi, Eorum autem Materia talis eft, vt quædam Bha-mana beant, alia c.
Populabundus,Iracundus, Rubi cundus, Verecundus: quorum origo a futura Trom.
verborum ducta fignificatum expressit perpc tuationis: vt,Populabundus, non
folum qui pa pulatur, fed etiam populabitur. Pauca ad præ lens respexere: vt,
Iracundus ab eo quod est, Ifasci,exempto sibilo,quafi quifemper irascatur:
Qiiij. R4 s,de malo igini haba Tehn oat rati Tal VOO wik PM vou plai Rubicundus,qui
semper rubricet:non,vt vulgo vtimur,actiualignificatione transitiua, fed abło
Muta, aut usor, quemadmodum cum dicimusLa uat, id eft, Lauatur. et apud Poetam,
lam venti posuere. Verecundus autem originem paulo ha buit obscuriorem,
propterea quod abolitu ver bum est Verescor: sicutcontra, Adipiscor fuum
primogenitum amisit,dicebant.n. Apere, and To ZTTHY, Ynde Apex, et
Apes,etExamen, cuius fimplex non inuenitur sicvoceprimaria. sed in Amento.
verum de his alibi. Continuationem igitur dicimus,quia Rubicundum no dicam me,
sed Silenum, cuius facies multi atque aperți rubo ris fit: Nireum non dicam
iracundum,Achillem dicam,multæ iræ, et quam ipse præ se ferat. F2 cundusliteram
mutauit, fi a fando,non ab effica cia ductum sit. Fæcundaa fætu, per
concisione. Rotundum quoque,si ab eruditioris iudicio con cedatur mihi, videtur
non abhorrere. Neque ve ro habitum illum cum excessu folum indicant, 2 fed
etiam vehementiam quandam,atque extan tein præter modum exuperantiam in rebus
ina nimis: quasi quum dicas M.re fluctuabundum, vel vtaitGellius, Vndabundum.
In rebus au 3 tem voluntate præditis, etiam Oftentationem, fiue
Professionem,atque etiam, vtita dicam, Sa tagentiam, nam quemadmodum differt
Verbale a Participio, ita a Verbali genus hoc nominum. Pugnare poteft
quiuis,atque erit Pugnans: Pu gnator longe alio modo idem fignificat: addit.n.
habitumsciendi pugnas. Sic,Populans,etPo pulator: at Populabundus hoc apponit
insuper, vt palam præ se ferat animum acfpiritum Popula toris.Iccirco veteres
non male dixere: quum imi. tarionem quandam his nominibus attribuêre,si mulet
fimilitudinem:quippe gestuotaquodam modo quæ fint. Propterea dixitSallustius in
lu gurthino: Qualı vitabundus: id eft,quasi is, qui præ se ferret mețum, vt
hostem eliceret, quemvi. tare Gmularet. Eft alius moduseiusdem terminatiois in
Invs; Juul nam supra correpta vocali pronunciabatur, Fa ginus axis: et Materiam
indicabat. at in quibus dam producitur,et Qualitatem consistentem fi gnificat:
vt Libertinus, Et in llis,Seruilis,Heri lis, et vnum correptum Pugil.fuit enim
Pugi F lisperinitia, siçut Ciuilis. Et quemadmodumsu pra in Itius Materiam
notabant, Cementitius, Cratitius ; ita etiam Aedilicius, et Tribunitius, quasi
materiam, non veram,analogice enim Tri bunatus dicitur materia dignitatis, ac
status ho minis. Qualitatem igitur indicant, id est condic, tionem,
amateria,aut quasia materia,sub ratio ne quadam pafsionis: vt Afcriptitius, qui
esta scriptus:Fiđitius,qui eft fiet us:Dedititius,qui est passus deditionem:
Deditio enim quasi materia de quædam est Capitediminutionis: eft.n.affe et us
deditionis, amisfio libertatis.Eiufdem modi funt in Alis: vt Triumphalis, qui
ex Triumpho gra dum adeptus est in ciuitate: furialis, furiis ca A
ptus:Mortalis, eadem ratione dicitur, quimor te affc ettus eft: nam quod ad
aptitudinem trans latum fit, hoc vsus occupauit. Cæterum de mortuo primum fic
sunt locuti, Mortalis fuit:» deinde etiam quum ad viuentes refpicerent, pro
pterea quod essent eiusdem naturæ,cofdem quo que Mortales vocauere: fic etiam
Capitale cri men dixere, quodcapite lui meritum esset:quo fignificato etiam quç
nondum vocata eflentiniu omdicium intellexere. His fimilia in Orius:Censori us,
Prætorius: hæcfequutum illud fuit,Vxorius, Nam Cēsura ac Prætura acta
cortislimitibus vi tæ præfcribebant ciuibus:ita vxoris imperio qui coħiberetur,
eodem vocis flexu significatus eft, Verum quia certa nomina eamterminationem
nonadmittebant,aliam eundem in vsum excogi and carunt,in Aris:Consularis,vicino
fono fuperiori, quæ eratin Alis. Verum huiusmodus late fusus eft:dices enim
Roburmilitare,etiam in Remige, qui nunquam miles fuerit, quoniam in milito
repertum iam eft. verum a cauffa efficiente du etâ funt: vt Viam militarem:
etiam in prædica mento toixer, yt Sagum militarem. ASingulo quoque Singularis
diet us. et alia quædam,quæ ad philofophum fpe et ant:de quibus exa ettiffime
in primo historiarum a nob. est disputatum. Alia Ahe naturaeorum est, quæ in
Aticus, habitum a na tura inditum notant, Venaticus: aut etiam sub ftantiam, vt
Aquaticus: fiue, vt malis, habitum in aqua, autpropter aquam agendi. Mutuatica
pecunia apudGellium quæ, a ettione mutuicon dici poteft ; Mutui enim naturam
induit ex ftia pulatione,aut pa etto, aut eiusmodi. Alia eorum, humma quæ in
Trimus, in prædicamento?oü yev, vt Patrimus,Matrimus,qui patrem etmatrem ha.
**bet: Aeditimus, quiædem: atLegitimus,potius paffiue ri. rapha 01. 57 net 106 palliue, qui a lege
constitutus est. Finitimus vi detur relationem notare, verum id non a termie
nationesed a significatione nominis huius finis, factum eft: et lignificat eum
qui fuos fines ha- lo bet. Hæc omnia corripiunt terminationem. At Catuler
Bimus, Trimus, Quadrimusab anno ducta,noni.2 facile eft dicere, falua
verecundia ineptiendi, lengan quare producant, nisi propter concisionem. In
Arius, eundem habitum ad agendum: Sagitta - anie an rius, qui fagitta vti scit:
Bustuarius, qui busto præeft. Quædam etiam paffionem notarunt: vt,
Tumultuarius, qui tumultu sit conscriptus. Etiam ad ætates vsus tranftulit,
Sexagenarius, vbi nequeadio, neque paffio, sed 7o exeur: ficut Centenaria
vsura,de qua suoloco: quomodo Bi. qarius, Ternarius. Atcarpentarius etiam opus
fa cit: carrucarius non, fed facto vtitur, vt Armenta rius.Nuncalia duo
videamus: Quodaptum naturalian eft quippam autagere, aut pati, id nequrevoy
dixe- appogg. runt Græci: propterea quod rei ipfius Quor fe queretur affe ettus
ille. Duas autem habuere apud Latinos,totidemapud Græcos terminationes:in
Iuus,actiuam.in llis,paffiuam:ficGræci il yaixovgimas ilaj id quod aptum natum
esset ad fentiendum ali quid: angoy, id quod aptum natum esset ad sentiendum ab
aliquo. Praue a Barbaris ex vo 9" ces translatæ funtin Latinitatem: fic
enim inter pretati fuere inscriptionem libri Aristotelici, de Sensu et
Senfato,nam danas fenfus eft:MjIyTixdy, 19 quod sensu præditu eft.eoģ. aptu est
vti: antov, etsensu perspici potest. De Seluo et Sęsilidicen du fuit:aut
molliore, fi reperiaş vocabulo, led ad huns fo THE T' Iul. IIII. 1 hunc modulum
apto: vtin libro de Inscriptione a nobis declaratum est. Nam etfi Sensio passio
quædam est, tamen fub actionis rationem rece pta eft eius fignificatio:vt
Tango, etGusto, et Audio: fed de hisalibi. Adiua igitur terminatio Græca
maximaprudentịa constituta fuit. affinitate quadam coniun et a cum verbis
illis, tunie's Bitntio, vt affeettus a verbo, et aptitudo a nomi NE TUTTIXO, MyTixo
habeant cognitione. Molli® tamen ducas a præterito,quasi lita tuuni (W TRT imy
napixov. Noftriin suus,vt diximus, hoc expreffere, fumpta occasione ab
Aeolensibus. nam quædam nominadedu et a communi pronuciatione inter posito
pprio elemento pronunciabant. Apybos alii ipfi A'PȚEIFO £. Igitur vt ab eo quod
eft vetes, dicitur vorcios, quiAuftrivim habet: fic ab cog est,Actio dicetur A
et iuus, quiagendihabeatpo testatem. Exempla sunt multa: Internecium bel lum
vtrunque bellatorem necat. Fugitiuus ser uus, qui fugit, quoniam fuapte natura
ad id pro pensus fuit: Genitiuamembra, apud Quidium, G' zfurntixa. Tempestiuus
quoque,non, vt dixe re, significauitoccultiorem actionem:sed fane fu
augsmanjitis.qui tempore temperaret. At enimuero passi Boilers Winesquum qua
ratione diet um fuit? Terminatio a et io has un talles qui mal nem,pafsionem
notat significatio. Græcos male Hrovat secuti suntqui ad Innuov,potius
zaIntov.nam pas fiuum eritid, quod faciat aliquid pati:hocautem fuerit potius
actiuum. a ettio enimetpaffio quum vnum tantum fit, sed differat ratione: vt
vulne ratio a ettio fit Achillis, et paffio Telephi: pafsiuu et actiuum idem
erit,quoniam et fignificatio est eiufdem huis ciusdem rei, et modus idem: Nam
et terminatio in luus, significat actionem, et ipsa passio ab a et i one non
distinguitur re ipfa: igitur significabit rem ipsam in agente. verum Grammatici
sero fapientiam cum vocabulorum vsu coniunxere. Quævero significant passionem,
in llis exeunt, 1 ks præeunte secundum verbi naturam consonante: umie vt,
Habilis, Facilis; Agilis, Plicatilis: in quibus ele mentum verbianteit:Habeo,
Facio, Ago, Plico. Quædam autem a futurisducta sunt:vt,Amabin lis: et a
fupinis:Pensilis,Flexilis, non fine rationes aptitudinem enim significarunt,
quænon est ne cesse vt in a ettum producatur. Acrecentiores au dacter nimis iam
actus significationem attribue re, idq; frivolis faneargumentis.
Fictile,inquiut, Vas quod eftiam fictum.coctiles lateres,qui iam ecoctiatque
alia multa eiusdem modi. Auxere er rorem pertinacia: Navis, aiunt, Agrippinæ
folu tilis,quia non beneeratconfuta, sed soluta. hoc autem ridiculum eft.fcimus
enim etfatis nautaru continuisse: et diu cursum vsquein altum tenuis se: fed
quia lolvi poterat, folutilis diet a fuit. Sic Versatilis scena, quæ verfari
potestmachinis,qua lis illa Marcelli fuit: quod si est Versatilis quia
versatur: quum nơn versabitur, versatilis non e rit. Sed Aristotelesin nono
Metaphysices dispu Cat hoc adversus Euclidæ sectatores,quos ibiMe garicos
vocat: ij fic profitebantur, nonposse nos moveri nisi quum movemur. Verum de iis
am $ pliusin Oratione de Endelechia pro M. Tullio. Quaitem ratione facient, vt
vpupæcrista ipfis fa Veat? neq; enim semper plicataeft, sed quia ali 21 quando
poftquam fuerit ere ettasplicaripotest.Fi Etile autē,atquealia eiusmodi, fi
talia funt,nonne talia fieripotuere?Omne.n.quod est, ab eo g vere est, factuin
fuit:Omne quod est,præter Deum,ab aliquo fa et um fuit:omneq fa et um est, ab
aliquo fieri potuit. Coctileslateres dicuntur,quia crudi neousfic primum
suntappellati, quoniam coqui potue re. Sic Rafiles calathi, et Tapetes, et
alia:Lychni pensiles, antequam pendantur:potestatem enim pristinam fignificat:
fic Vva, Balnea, Horti,quo niam in superiora eorum vfus transferri potuit.
Flexiles rami,lenti:quia possuntfle et i.hæcvoxe tiam additamentum paffafuitin
formatione, Fle xibilis.Aurum,autęs ductile,quodex massa in la umellas duci
potest. Selfileslactucæ,quarum natu ra est ad fedendum poftquam creverint: vbi
ab soluta significatio eft; non transitiva ad paffionē, quasi quas sedere cogat
natura.Ansatortilis, quæ inter fabricandum ex directa torta facta est. "A.
pertile latus,quod quiuit aperiri. Altiles gallinæ; quæ poffuntet ali, etnon
ali. Horum igitur ratio shup duplex:namque poteftas hæc, aut a naturaest, ve
flexilis iuncus: aut ab arte, vt coctiles lateres: er gonaturalis illa vis
nunquam deficit: nami ctiam quum flexisuntiuaci;retinent nihilominus pri ftinam
flectendi facultatem: coniungitur enim a et us cum potentia, ettales sunt,quia
poffunt ef fe. Huiusrei ratio est,quia ab effentiæ principiis fuit
potestasilla. Scire potest infans Musica. Ad ultus scit nunquis dicettunc
amififfe soiendipo • teftatem?Quæ autem ab arte proficiscuntur,non fic fe
habent:neque enim codi lateres poffunt coqui: qñ co et io accidensest,
extrinsecus adue niens, non a primordiis laterum. Sed hæc qarte fierent fecuta
sunt rationem eorum qfuerent a patura. Sic.n.consultiusfietą garecentiorib.fa.
- et um est,vt qa lateres coqui nequirent, idemque in ipsis etcoctum etco et
ile effe videretur:iccirco flexilem ramum eundem putarent et flexum: Et
fissileroburidem cum fiffo. Nam quu Plinius in quit, Alia fiffilia,alia
celeriora frangi, ğ findi:no neintellexit,aptiora,quorumquenatura præuer
teretur citius fractione, q fiffione? Sic etiã Theo. phrastus,vndeille guisa'y
Frasa,Ipausa,quæipfeac ceperat a præceptore diuino fuo, vbiloquitur de crustis
ac testis Aquatilium. et in 8.Metaphysices. Poetica licentia dictum est,
Penetrabile active:(1-7 ) cut Porrum fe et iuum,vulgus cotra paffiue.Hing
constat male reprehendi Boetium a curiofis re centioribus, qui Jencesıxov,
Kisibileinterpretatus, eft. fecit enim exemplo codem et analogia, qua Sefilis
lactuca dicitur, absolute. Quantitatem autem quædam simpliciter de- quanta
clarant,quædam non.Nam tempus,et locum submenuanla quantitate quum intelligamus:
Tempus fimpli- Gadone anom citer quædam fignificarunt:vt Bimus. at locum non
simpliciter,id estsub quantitate,fed fubindre com a apk Posen neque enim
Montanus,eum significat,qui mon- et Ettiva. tis inftar eft: fed qui montem
habitat. ficut In- midogopts teftinus loci habitum.Hæc multas cu aliis comu nes
habuere terminationessin Anus Sylvanus:cu Anul ius affea propri fuit,vt ex adie
et ivo fieret sub N ftantivum,Cælestis:Terrestris: addito elemento
ficutPalustris:nam Paludeltris, afperum eft, et for when fortasse barbarum.
Supra posuimus, Aquaticam, a qualitate non male: fequitur enim qualitas sub.
ftantiam, et loci rationem.Cognatio enim eftin ter locum et locatum. ac fane
ipsum hoc genus, to egetv, alij cum qualitate,alij cum relatione mi scuere: quidam
neque habitum fpeciem qualita tis a relatione: fed hæc sunt alterius operæ.
Habes and ctiam alia: Litoralis,Marinus,Maritimus, Pelagi us, Fluuialis,
Fluuiatilis; Aquatilis;Tartareus,Ae rius, et eiusmodi. Et a partibus terrarum,
in qui wfubus etiam id diverfum fuit: in Ensis,vt peregri num incolam,non
indigenam declararet: jane Martialis mavult librum suũHispaniêfem, quam
Hispanum:vt Romanus sit,quiin Hispaniam a nimi gratia diverterit. In
aliquibustamen Nati vum est:vt,Veronensis. longediversa ratione di etus est
Cato Vticenfis,quum Vticæ periit, non " est natus. Etampliorelimite, vt
Pratenfis. ficut Subcinericius panis, non ex cinere, sed sub cine re:adiuuatur
autem a præpositionc. Græca funt Tarchaniota, et Drotoniata. Prisci ita
constitue re, vtanimadverterent, quædam excedere nome "
loci:Creta,Cretensis: quædam non,fed alia equa re: Macedonia,Macedonicus:
quædam fupera woonri,Italia,Italus. Hæca regionibus. Aboppidis au temnegarunt.
Itaque a Venetia, Venetus:a Ve netiis, Venetianusmaluere. At Barbari quidam
nihil discriminis faciunt inter Venetiam, et Ve netias. verum vt illoruin
consilium placet, Venetiani enim a Venetis distinguendi sunt ficuti Patavini a
Venetianis: Veneti enim Patavini quoqrie funt: ita regulæ fervitus displi cet.
Idem enim ab oppidis quoqueeuenit: a Ro ma, Romanus: a Tiferno, Tifernas:a
Camerino, Camers: quare a Lauinio oppido, etLauina et Lauinia reette ducas.
nequeagrammaticis vtrum legendum sit apudVergilium, sed quemadmo. dum poeta
fcriptum reliquerit obseruandum, Proprium horum est paticoncisionem. Sarsinas,
quod fuerat Sarsınatis: et literas transferrc:vtä } Velitris, non
Velitrenus,fed Veliternus: quan quam demptam potius iudicarim, vt fueritVeli
trerinus, deinde vsu vox expolita sit. Exhis col ligitur non esse verum quod aiunt,in
Ensis ea ef se, quæ a Græcis oix aquatixa vocantur: namety, iam
suntinindigenarum, Coloniensis,Lugdy nensis. denique pratensis, Tempus autem
etTeporis partes, fic Extem- thoma poraneus, nam Tempestiuus,vt diximus,potius
omny temporis habitum significat. ficut Intempeftus, upil quod concisum
tempeftiui. Hora, habetHora rium,quum diei partem fignificat: atGræciqua
ternasanni partes sic appellarunt. vnde Latini Hornum, quod huiusanni effet,nequcinalienas
trasıfset wpusanni sequentis. Diurnus,a die:No. aurnus a
nocte:Vespertinus,Matuținus,penulti ma producta.itaque etiam Diutinus et
Serotinus pronunciandu eft,cotra quam prodidere. A Co ticinio, et Diluculoet
Crepusculo, no suntdedu et ta, fed Aduerbiorum forma vtuntur. Perdius, et
Pernox cöpofitione adiuta sunt,quominuscoge rentur in communem terminatione:
ficut igeue por animal dietum ab Aristotele. AMense vulga ris
voxMenftruus,durafare:itaque emolliuitilla Rj. Cicero ; et Mens urnu fecit. Annuus
no solum an ni habitum significauit,vt reditum statum indi caret:veluti
quudicimus, Annua sacra: fed etiam totu tempus idque vnicum:vtapud Iureconsul
tos, Annua; Bima, Trimadie, Anniculus ætatem subtempore,ficutQuadragenarius,
etciusmodi. mamme Discretam autem quantitatem fignificant his terminationibus,
Centenarius, Binarius, Terna rius, quæ etiam fub exerreduximus:neque enim Som solum
numerum, fed etiam habitum ponderis, aut ætatisaut, ordinis connotat, resenim
valde sunt complicatæ:ncquenisi a philosophis digno sci plane possunt,ficut
Bini, Quaterni, eteiusmo di:quæiccirco carent numero lingulari, quia plu
racomprehenfa ad totidem referunt: sed licentia poetica pleraquetorfit. Relatinorumfpecies
recenfentur. yawan R ne, enim Elatiuum fignificat vt diximus, aut Aqua
Locum,vtfalso lcripfere: fedRelationem in loco. Aut Inæqualitatem: hîc
suntipecies tres, Poffel fiuum,Coparatiuum, et Superlatiuum.Deminu tiuum autem
comparatiui species eft: dequibus omnibus iam cdicendum. prorsun Den funt enim
Po hleffiua quæ id denomi Enominatiuorum species censentur Poffel grice unt,cuius
funt:vt,Enfis Casarianus:Ac quzfitu quidem alias a nobis eft, quamnam ad
cauffam iwia prion reducentur: nam Cæfar enfis sui nequemateria est, nequc
efficiens, neque forma: videtur igitur juv. potius effe finis. Sic Pompeianus
ager, Seianus equus, in vsumPompej, etSeij. Sic Olympij ludi in honorem Iouis
eo cognomento: fic Circen ses,et Megalenses ad Pofteffiua redigendisunt:fic
Florales, et Robigales et Saturnales primum fuc re, fiue Dies, fiue Ludi, fiue
Vacationes. deinde tenuit consuetudo,vt potius Robigalia, et Satur nalia
dicerentur, propterea quod honeftiorcco filio Sacra,quam Dies intelligerentur.
Quzsiui mus illud quoquc, An amateria: vt,cretaceus: a shorti forma:vt,ftatua
Herculea:ab efficiente: vt, Venuscm art. Appellæa: ducerentur. Et non videtur:
fed fim. pliciter Denominatiua funt: ac quanquamvide tur quædam relatio, tamen
non correspondent. Neque enim Creta Cretacei eft,fed parstorius. Haud enim fere
inuenias præter Deum, quod non aliquo modo referatur. Omniaenim faltem abillo
dependemus:Solus enim vere eft. Differunt autem a Patronymicis Poffeffiua:
94.c. primum quod Patronymica fixa dicuntur, hæc pohorito mobilia:illa
patrum,aut auorum,automoinoge, neris habent fignificationem:hæc cuiufuis rei no
tæ funt: illa a propriis,hæc a communibus. Ex quibus colligi possunt rationes,
et cauffæ repo nendarum specierum, quæ funt a veteribus pro ditz. Neque enim
aut Cardiacus, aut Mathematicus, aut ciusmodi, funt Possessiva, vt putarunt,
sed denominaziwa: sicut et alia quæ funt fupra enmoi declarata. Comparatiuorum
superlatiuorumg, natu, ra, et caulja, da ufus. St hoc receptum e scientiis tain
quæ Magnitudines, quam quæ Naturam contemplantur: e nihilo nihil ficri. Ita e
rebus, quæ carēt cor pore coniun et is,nuquam quicqua corporis fieri, Nam ne coniungiquidem
poffunt, Coniuncio enim extremorum, extrema autem corporum, Quere a incrementa
fiutex Quantitate, et omne Quantum divisibile est in semper divisibilia, incrementa
quoque ipsa diuidentur: igitur quæ sifignificarunt quantitatē, primo receperuntmodu
tum incrementi, tum diuisionis. horum imitatio neitemea, quæ indicarent Qualitatem:
propter ea quod intendiac remitti poflet. Iccirco De nominatiuorum, quæ
referuntur, duæ fuerespe mihi cies conftitutæ, Comparatiua,et Superlatiua,quę
QuantitatisQualitatifve, dicerent incremetum: etDenominatiua,
quxincrementidicerent cer tam ablationem. Oecurrunt autê primoloco deminutiua: lirei
naturam fpectes. pofito enim nomine Iustitix: fiquid adiungatur accessionis:
perpropiores gra 'dus ascendemus ad excessum: Verum quia non suat specie
diuerfa a coparativo, Ted modulo tan tum quodam, atquciccirco posterius
excogitata posteriore loco tractanda iudicauimus. Etenim fi dicas Meliusculum
effe Triticum Siligine, et iam Melius, poffis dicere. Comparatiuum autem
etSuperlatiuum fimulftatuemus, haud enim ab Gmili funt natura: Nequcenim
distant nifi quate Ono 1 nus pars a toto.vt quemadmodumDeminutivu modus sit comparativi,
ita coparativum Super latiui: vt qui sit doctissimus, etiam doctior. An vero
etiam possit dici Doettiusculus? Et videtur. Amated Toto enimpartem contineri
verum eft. fi enim qui lit do et ifsimus, etiam doctus effe dicitur: et iam
doctior:quare non etiam doctiusculus,quod * inter docum et do et iorem
intercipitur? Verum res aliter fefe habet. Deminutiuum enim non fomnono
lumpartem notat, verum etiam eicertospræscri-1} bit limites. Nequevero solo hoc
differunt: fed et alia caussa subest. Nam superlatiuum etiam abse }, lute poni
potest:vt, Cafar fuitfortiffimus.Signi ficat enim adeptum fortitudine, omnes eiusnu
meros absoluifsc. Ar fi dicas, Doctiorem,neceffa rioquempia, quicu coparetur,
autponas,aütin Je * a he or lacus * telligas.Prius autem cöparatiuum inuentum
eft. kogoofmus Eft igitur Comparatiuum species diet ionis, Camper exceffum
significans ad alterum relatum. Dicom autem quantumcunque, et qualemcunque ex
ceffum:non, vtdixere,mediocrem ; neque dico speciem nominis,utnomen eft:fed vt
nomen est6ans species dietionis. NametParticipium et Præpo sitio etAduerbium
comparantur. Hi duo erro res veterum fuere: quorum alterum moxexplica. bimus.
quiverocontaminauit definitionem, fic conftat:Omnem exceffum totumq;etiam a
comasign.one. paratiuo significari,non autem mediocrem. Prier celles mum,
fallumestmediocrem effe. poteft enim fal-, tem citra summum,sed proximecofiftere:
vt do ettior tantu fit,cuiillud tantum desit, quod fit do et iffimus. Deinde
hoc quoque falfum est.Nam 2 R iij. qui qui fit do ettiffimus, ide etiam do et
ior dici poteft. vt Nigidius aut Varro,li fitdo ettiss. Romanorum omniu,
nonnedoctiorcæteris Romanis effe po terit? Quare Coparatiuum a Superlatiuo non
di Itat specic,vtdiximus: sedestaut Gicut pars in to Pro,Giuc ad totum: aut
idem cum ipso in re, diuer sam autem in modo: relatione ipsa scilicet. Igitur
fi eius naturam acrius contemplemur, haud fane noriurpro renomen inditum
deprehendemus: ncque in your enim satis ipsum diciCoparatiuum: multa enim funt
nomina Comparatiua, quippenotæ Cum parationis: multa Aduerbia: vt,Similis,
Disfimi lis,Propinquus,Qualis, Quantus,Velut,sicutet alia eiusmodi. Neque vero
omnis Comparatio exceflum significat: quarcab hac differentiapo. tius nomen
consequi parfuit, quam a communi seyin est cummultis naturailla. Itaque
commodiusumaga Jepanon, quam quyx stixovappellari potuit. Ne tuy queenim
superlatiuam recte a Græcis umeeJeri Laith ar di et um fuit, Nanque Touti non
significat rdõrov, fed ipsum habet suos gradus: sed consul tius orogetskov, aut
cxpo Jetixo.Latiniautem hoc etiam amplius crrarunt,quineque præpositio nem
emendarunt, et verbum Feroinmiscue runt, quod motum significat Græci fapientius
constantem qualitatem aut quantitatem per ver bum nibvert ita ctiam constat,
minus prudenter finixov dictum nomen vnde hæc fiant, vt Iu itus:nam ctiam
Iuftior, tugmor: ftatuit enim lufti tiam. Cuius rei fignum est, quod etiam
superla tiuum di et um eft, ni devou umrig mod Jetixov.præter ca quiluftuseft,
potest elle lastiffimus. Omnem enim wak Tic CHE 4 1 ITA enim Iuftitiæ habitum
habet. Itaque a beisov po -u tius dici debuit Indefinitum. neque enim decla rat
graduum præscriptionem, Comparatiuum autem, wieJetixav superatiuum.
superlatiuum autem, airgo fetixor a Græcis, a nobis aliquo AQ mine, quod
vltimum exceffum indicaret. Ex his definitionibus videmus, veceres nore ste
dixisse, Cöparativum significare pofitiuum, cumMagis. Primum peffimelocuti
sunt. Nequem.Roy enim Denominatiuum fignificatnomen, vnde: ducitur, sed rem
aliomodo: fic Comparatiuum rem, non nomen significat. Deinde,Magis, esta
Comparatiuum: quareidem refolueretur in sei psum,atqueelset resolutio
infinita.In quod enim refolueretur ipfum Magis? vbi fifteret resolutio nem?
Neque vero prudenter negarunt, Magis namate effe coparatiuum. NamMagnus
fecit,Magnior mangeung Magnius et Magius, ac tandem Maius. Aduer. biumautem
volueruntvariare,retentalitera pri stina, ac fecerc, Magis. At quod argutant,
non differre Aduerbium a neutro in aliis: fatemur. » Quodaddunt, nein hoc
quidem esse faciendum: ridemus. Libenter enim in aliis item feciffent, f
quiuissent. Fecere, vbi potuere, vsigue sunt et li bertate, et commoditate.
Errarur quoquein Su perlatiuo, in cius intelle et u inesse Multum, auteng
Valde. Nam multum magnusest, cumquima ior, quam qui maximus. AtValde, quideft,
nifi falling Valide? Igitur Validiffimus erit valide vali- posten dus.Bisigitur
validus. At Superlatiuum ter vali-'pro for dum potius fignificat. Id quod Galli
ncq; temeres, neque imprudenter in patriam linguam recepta TI Title ch eri des
17 oli pe mit Riiij ctiam nunc retinent. Hæc igitur ipsorum nomi na
atqueNaturæ: nunc caultas,ac tandem Affe ettus videamus. mafm. Ergo materiam a
Græcis mutuati sunt Lati niin Comparatiuis, imitatisonum sub r, licera:
ououtrgos,Sapientior: et in Aduerbioadhuc propius, sapienter, superlatiui autem
terminatione græcam repudiarunt, propterea quod conue niebat cumpaffiuo
participio, Nam vt a ocoas's CWTOC TOs; fic ab eo quod est Incitus, deduxif
sent, factum esset fane incitatus.Itaque alius fle xus placitus eft. Geminarunt
autemlibilum fic, Incitissimus: iccirco quia etiam Græci produxe re mutatam
vocalem, quæ esset breuis postbre uem, vt fuperiore in exemplo patet. Tractus e
nim vocis longioris id exigere videbatur. Quare codemexemplo etiam aliam
terminationemco ftituere,Vberrimus:tanto facilius, quod iam alte ram literam ex
geminatis ibi inueniebant. Atin tertia terminatione,quare recentiores vnica
tan? simtum liquida pronüciarunt,lic, Similimus? quum tamen proprium eius
fuerit geminari obfoni le nitatem, et producatur apud poetas semper, et in
antiquis exemplaribus omnibus ita scriptum çit et fublit, tum analogi, tum
analogiæ cauffa, quare lit geminanda. Communis autem termi. nationis caussa
etiam a Græcis quandam habuit originem: ngoQocov enim eftaltile, quod scilicet
naðum sit naturam, vt alatur. Naturam igitur cam quum plene poffideret, mutauit
fimilemlo zoubt num aliis quæ summum illud a depta effent. Fiut forro igitura
nominibus incrementum luscipientibus. Ha? Qua el 2.0 CE 2u chi HIS
Quare a significantibus fubftantiam non fient: nam aw to CTO etIpfisfimus, mera
licentia Poetie: ca fuit. Natione vero indicantia ita demu exorie tur,fi non
ftatum hominis, fed gentis oftendent mores: vt quia Pani perfidi
legemusPæniorem apud Plautum. aut etiam ab alio significato. Qua re et,
Neronior,nö a Neronis fubftantia, fed a fæ uitia comparabitur ad fignificadum.
Confeffum etiam ab omnibus est, Comparatiua duci ex ad verbiis quibusdam: vt,
Dodus. Nec deest ratio: verborum enim qualitatem fignificant Aducr bia.
Abcæteris autem partibusnegant. A partici piis non fiet, qui tranfeant in
nomina, nequea» Præpofitionibus,quiaamittant vim, qua casibus præponuntur. Nos
cum his aduersus veteres di cimus, a verbis non duci, Exempla enim falla mort
Deshomme sunt: Nam a verbo Potiri, eftridicule dedu et um Comparatiuum
Potioret, Superlatiuum Potiffi mum:neque enimsignificata valde cohærent.fed a
Potis,fiue Pote, fiunt. Parinscitia, quum Dete ro verbum ex sese aiunt gignere
Deterior: quip pe Deterior, paffiuam habet rationem significan di,vt quod fit
plus detritum, deterius sit. etvox vetufta fuit,Deter: sicuti,Dexter, Citer,
Exterja pud Catonem, et Statium:quæ nunc exoleuere. Contra hos autem cum
veteribus viciffim fentia mus, A participisduci:Giquidem non omnia par A partir
ticipia in nomen tranfire poffe. nam Expugnare significat aettionem
fubtempore.Cuifi addasca fum nominis non verbi, amiffo tempore nomen fit,
retenta sola Participii terminatione: vt, Ex. pugnans yrbium,sicut
Expugnatoryrbium,nul R. mi 12 Ar 1 UK ei 1 gui apoirs F IvL. Cas. SCAL.
IV. lum tempus designat. At Participia pafsiuaquo *modo nominum naturam
asciscant:neque enim fimili ratione casus nominis apponipoteft: itaq;
Expugnatum, semper præteritum indicabit. Et Honoratiorem atque Honoratissimum,
nunqua de aliotempore, quam de præterito pronunties. Immo vero quibusdam horum
nominum ctiam casus verbiadditur: vt,Expugnatus a Cæfare:ita etiam Expugnabilis
a Cæfare: tantum abeft, vt Participiis ipfis derogari id ius poffit. Sic locu.
tus eftM.Tullius ad Cornificium: Cæteris, in quit, omnibus rebus
habeascosamecommenda " tiffimos: id eft, qui maximea me commenden boyme
sur. A Præpositionibus quoque deriuari, mul tus exemplis conuincuntur, in
quibusmanetvis Præpofitionis casum exigencis: vtapud Liuium in primo: Duo
corpora propius Albam. Neque ac fine ratione: Interuallum enim in poteft: Cuius
interualli conditionem ipfa Pra positio declarabat. Ex quibus,vt
diximus,acutius contemplanticonstat: Comparationem essedif ferentiam, quagenus
sub diet ioneconstitutum compleet itur non folum Nomen, sed etiam Ad uerbium,
et Præpositionem, et Participium, quæ inter fedifferunt specie. Idemque de
Superlatiuo intelligendum. Affe et usautem corum vsu cotinentur,verum non fine
controuersia. Cum enim ncget nemo casum Sextum debericomparatiuo, Secundum
Superlatiuo, etpluralem semper numerum: Du em Jochorbitatum cst, An pluralis
casus Secundus Compa: patumivaziuo apponi poffet. Quarc non defuêre, qui Com
partes fecari 3 Es, AC Comparatiuum inter duos tantum, cum Secun do
cafu ponipofse contenderent: idqueHoratii exemplo, quidixit: O maior
iuuenum.Sextum au tem inter plures duobus diuerfi gencris: vt Cx far fortiorGallis.Nosvero
sic fentimus:Compa se ratiuum cum semper aliquo modo referatur,non semper tamea
ad fequentem referri calum: fed ad eum qui subintelligitur. Igitur fi dicas, o
maior iuuenum, dire etta orationcad duos Piso nes, non redditur casus ille
fecundus Compara tiuo. Neque enim fieri poteft, vt alter Pisomaior sit, quam
Gnt iuuenes: fed refertur ad fratrem alterum fic, alter iuuenum, quialteromaior
es. Sic etiam dicimus explicatius: Elephantorum Indici maiores Afris:etiam fi
Afris, fubticeatur, constet oratio. Exponitur autem ad hunc mo. dum:
Elephantorum alii Indici, aliiAfri:quæ* rum Indici maiores Afris. Sicut ergo
cafusille Quorum, non eft Comparatiui, sed Distributio-4, nis: ita erit in
exemplo quoque fuperiore. Ex hac natura constat ratio, quare poni qucat cum
præpositionibus Inter, et ;Ante: vt Inter alios, dodior. Ac sane quum in
comparatiuoduofiat, Relatio,et Excessus:præpofitio Ante,non abhor reat ab cius
natura. Altera vero quæ eft, later, languidiorem operam præftat: nisi enim mul.
ta luppleantur, non exprimit vim exceffus,fed potius æqualitatem: vt,
Cicerointerciues fuos do et ior: potius enim tendit ad Naturam abfolu ti, quam
comparatiui: nisi subintelligas distribu tionem ad fingularia, quemadmodum in
Se cundo calu exemplorum, qux fupra diximus. Guin's 21 20 file HT ni CO cre 264
Ivl. IV. و suplalincuius Secundi cafus natura partitionem item di
anstpantsheitin constructione Superlatiuorum: quæ fuerit cauffa, vtsemperinter
congeneres fiat significa tio. Quæ vero patiuntur, quæquedistribuuntur, eiufdem
generiseffe neceffe eft: quemadmodum fi dicas: Cæsar clementissimusRomanorum:
in telligitur Cæsar vnus e Romanis, qui aliis cle mentior fit, quoad fieri
poteft. Quare videmus eorum,, porn siccum Superlatiuoponipolle. Si
enimdicatur,in quiunt, Cæsar do et isfimus omnium: Cæsar non excladitur ab ea
vniuerfitate,quin vnus omnium fit:igitur fieret, vt fe quoque efter doctior.
Atque hi falli sunt:cum non intelligerentSecundiillius cafus partitionem.Idem
nanque eft, Do et tiffimus hominum:et, Do ettiffimus homo. Comparatiuu Wero cum
Sexto casu ne fic ftatuas,quemadmo dum poctæ tum Græci, tum Latini ausi sunt:
Cun et is doctior. hic enim fit relatio do et rinæad cun et os: non autem fola
partitio fine compara tionc. Itaque vocem excludentem addendum est, cuius vires
comparata excipiatur. Id quod fecit doctissimus poeta: -Ante alios immanior
omnes. addidit enim Alios, nesub'voce Omnes, Pygmalion quoq;comprehenderetur.
quãquam idem alibisubticuit,cum fcripsit: Sed cun et is al tioribat Anchises.
Præpofitiones igitur ipfæ at tulerunt vim partitionis,non folum Ante, et in -
ter,sed etiamEx: vtapud Liuium primo: Sextus filius eius, quiminorex tribus
erat.non enim po tuitdici, Minor tribus. Tres enim tantum erant: ipfe enim
secum compararetur: effetque feipso. minor. IT IL 19 Ulo minor, Illud etiam
aduersus veterum fententiamgoo eft animaduertendum: Siad secundum illum ca
nefna fum referatur Superlatiuum: aliam quoque ab iis, quas supra
posuimus,cauffam esse,propter quam illi fuperlatiuum maleinterpretati
suntperMul tum et Valde: neutrun cnim horum aduerbioru refertur. Poftremo id
quoquefalso eos prodidif se constatGræcos, arrogantia quadam commifif- fotbal
fe, vt non niliadidem genus Superlatiuum refca he latest ratur, quoniain præ se
vnis, cæteros omnesbarba ros appellassent.Atenimuero in suatantum gen teid
obieruaffent: nunc vero videmusetiam in ter Barbaros legis rigorem tenere. Sed
in cauffa, vt diximus fuit, Partitio acDistributio. Itaque hoc loco, vox hæc
Genus non solum gentem aut nationem indicauit: sed etiam diffudit significa tum
ad aliamulta:putamores,artes, et eiusmodi. Dicam enim, Epeum Tolertiffimum
fabrorum. hu Sicin primo de Oratore M. Tullius, de Craffo, et 13 Scæuola;
alterum parcorum elegantiffimum, al terum elegantium parcissimum. Neque enim ad
Due diuersa genera relatum est: in vtroque enim erat elegantia cum parcitate.At
Martialis in duode 121 cimo,multo effufius: Pones, credemihi bonus.quidergo? Vt
verum loquar, optimusmalorum. Inter " as bonos enim et malos nullum
commercium eft, contraria nanquesunt: sed suo more lusit. Neil lud quidem reće
prodidere,Comparatiuum po- comeframtiden ni aliquando absolute: semper enim
habet ali o quid, saltemoccultæ, relationis. Sic seniorem A celtem dixit Poeta:
aut quam alii, aut quam fue. M WW ! LOG Sert rat, aby mirat, aut quam
videretur: tantum abcft, vtminus Ignificent, contra quam scripserint: exemplum
enim Vergilii, Tristior,deVenere, fignificat cam plus quam tristem. declaratur
id tum lacrymis, tum dolore qui exprimitur in conqueftione. Multo vero minus
significabunt contrarium:re latio enim est inter participantia igitur: Mare
Ponticum qui dicunt effedulciusceceris:non in telligendam proponutamaritudinem,
sed dulce dinem miftam in omni mari, in Pontico autem maiorefluuiorum
incremento, neque enim ma re extremæamaritudinisest: igitur contrarii,hoc eft
dulcis admiftione remiffum. Quod autem in Sarahithe mari firaqua dulcis,in
quarto historiarum decla. ratum eft.και πτιμω τρέφεσθαι τεςιχθυς. Sic etiam
Theophrastussenfit, et verum est.Eodem modo locutus est Philosophusin codem
quarto: nati προνο επτο οξυ των πυθών. Nii enim το οξυ ha beretlatitudinem, non
dixisset WAKTU TEQOY, Et idem neuxonege dixit, quæ effent minusnigra, colores
enim inter fe mutuo congressu diluunt pitorem. Etin o et auo comparauit ourgov,
cum aniru. Lombate a Hisitaconstitutis, intelligemus cuenire poffe sobysi valvt
Comparatiuo Superlatiuum excedatur:non sua natura quidem, fed ob fortuitas
rationes: quum enim Cæfar vnus e Gallis non fit, non dicara Cæsarem Gallorum
fortiffimum. Igitur si non omnes numeros fortitudinis expleuerit, nihinter
Romanos: fic dicam. CæfarRomano rum fortiffimus fuit: Maximius autem fortior.
Fit enim hoc,non natura Comparatiui, sedquia additur
Natio.itaqueliquisapponatgenus, qua professio fiuears, fiue scientia comprehendatur,
non poterit abvllo excedi Comparatiuo: veluti quum dicam, Bellatorum omnium
fortiffimum Maximium. Huius rei cauffa eft in Radicibus philofophiæ. Siquidem
primum perfeet umque moi duplex eft: quippe aut vere,et
quodaiuntapuwosoaplicate vt Deus:aut in genere, vt circulus: eft enim suo e
tantum in genere figurarumperfe ettiffimus: ic circo extra genus fuum
altericomparatus inuc nietur inferior. Atprofessio est affectusgeneri cus,
comple et ens variaaccidentia,velgentium, vel nationum: itaque comparari porro
non po terit. Nam Bellator eft affectus hominis, nc quecoercetur potius
limitibus Romanis, quam Germanis, ac proptereatota fummam exhaufit. Quoniam
vero, vt dicebamus,hi tractus incre mentorum gradus habent suos: iccirco ctiam
multos Longue's notas excogitarunt, quibusvel Comparatiuum, vel etiam
Superlatiuum ipfum augeretur:vt, Longe, et Multo. Nam etli Superlatiui
significa tus summus est, non tamen in pundo versa tur. Vt etiam hinc
appareatleuiffimapugna Grammaticorum, qui ex poeta litigant,anpo tuerit ab eo
dici, Diomedes Danaûm fortiffi-,, mus: quoniam Achilles fuerit fortissimus. Nam
ctiam Aiax fuit fortiffimus: etiam alii effe potuere. Quare illud quoque a
veteribus omis lum fanciamus: non folum in diuersis generibus, sed in eodem
quoque duo Superlatiua pofle ita comparari, vt alterum reda ettum in Compara
tiuum fuperet: fic, Fortiffimus M. Manlius etfor EMI > Si opy ire fak et
fortiffimus Sicinius Dentatus, et fortissimus Scæua Centurio C. Cæsaris: at
Sicinius vtroque fortior. Vtrum vero e reipta ita ortum fitan v. 20fu
occupatum, quærere operæ pretium eft. Nam fi fortissimus est, qui omnem ambitum
explevit e fortitudinis; multi effe poterunt fortissimi, sed nemoalio fortior.
Quare cõsuetudinepotius,at que opinione fa et um eft,vtita loquerentur:neq;
enim statim erat omnibusnominibusfortis, qui fortissimus creditus est. Ergo
alterum cum ani maduertissent meliorem, non omisso priore iudi cio,
coparationem addidere. Nam sane aut prior non erat fortissimus, aut fecundus
non erit for Chung tior. Nonsolum autem gradusipsi conferantur, vt doctior, et
multo doctior: fortissimus, et longe fortissimus: sed etiam diuerfa significata
inter fe: poffum enim esse fortis, et non tam doctus:ergo cro fortior,quam
doetior. Interdum igitur exx quo ponuntur perinterrogationem: interdū no exæquo
per affirmationem: nam Interrogatio dubitat: itaque ex æquo proponit
iudicandum, non ftatuit: affirmatio autem non quit duo Com de web vooraf
sparatiua inter fe collata æqualia facerePrimo. modo locutus est Cicero in
secunda Philippica: Impuriorne, qui in senatý:animprobior, qui in Dolabellam,
et cætera. Alio modo omnesloquu tur, Cæfar clementior,quam iustior. Nam quod
addunt Magis fic: Clementior magis, quam iu Atior: Qullum autorem habent, quem
adducant, In hunc enim modum foluitur oratio, Clemens estet iuftus eft: fed
Clementia est maior quam Iustitia: Iustitia non eft maior, quam Clementia. At
met 2JUK curt 18 2: m 04 Kic At Comparativum si vtaiunt,significat Positivū,
cum magis resolvatur Comparativum in eorum oratione, fient fane ridiculi:
CæsarClemensma gis est,quamiustus. Nam quod poetæ dicunt,Ma gis,atque
magis:idfit per avadianworr: sicut, E tiam atque etiam. hicautem hocnon
quærimus. At non addidit Livius in libro duodetricefi mo: Vt propiusfastidium
eius fim, quam desi derium. Quoniam vero vsus etaffe et us reru, substan tiam
earum naturamque demonstrant, manife -wwgegebenen sto colligimus, Magisesse
Comparativum, çon traquam, vt diximus, sint arbitrati. Id enim ex o rationisvsu
patet, quum dico: Hoc volo magis, quam illud. Eft enim idem modus comparatio
nis, qui in Philippicis apud M. Tullium: Hocci tius, quam hoc. et quo vulgo
vtimur,Hoc potius, quam hoc. Ex quo vsu illud quoque a veteribus, tanquam
peccatum animadvertamus: quinega- ' come rint, Complures,esse comparativum:
dicitenim perangnya Terentiusin Heautontimorumeno: Nemome liorem agrum habet:
nemo fervos complures.Et ratio etiam iubet:compofitum enim eftapræpo fitione,et
Plus. Quodfi Compluria dixere prisci. contra Comparativorum analogiam:
flexionem novaminvexerint potius, quam vocis naturam depravarint. Proprium
autem eft Comparativo rum, pati vt Adverbia sonu mutentneutrorumon Maiusenim,
vtdiximus,fa ettum eft Magis. Inter dum etiam vtdeficianturpositiva,etaliunde
pe nitusmutuentur, tam in Adverbiis, quamin no minibus: vt,Parum yiriu,Minusaudaciæ:
Parum Si A, WITH 06 ol
Paul ! mo 21 cen 270 Iut. CÆs: Scat. IV. census, Minorepudicitia. Item quomodo
aNo. minibus Adverbia fiunt,etcorum affectus com << parandi: ita e
contrario ab Adverbiis, Nomina superlativa:vtapud Catonem Nepotem, Sæpissi «
mam discordiam. Etficuti quæ a Præpofitionib. ducuntur casus servant suos:vt
Proximepontem: ita etiam quæaNominibus,corum Nominu ca sus admittunt:vt, Moræ
patiens,More patientissi mus:Similis Neronis,Similimus Neronis. Proprium
eftautemSuperlatiuoru, fixa fieri:vt, Pro. ximus, pro cognato: Erapud Liviū
libro primo: Proindigniffimo habuerant fe patrio regno tuto risfraude pulsos.
Etin fecundo: Necambigitur, quin Brutus, qui tantu gloriæ Superbo rege cxa eto
meruit.pessimo publico fa et urus fuerit:Iccir co etiam comparationem
fuscipient: vt apud Vl it has Para pianum,Proximior. Sicutautem sunt compara
tiua fine superlatiuis,vt Anterior:ita e contrario apud Plautum,a Pene,Penisfime.
Privatim autem u proprium est huius comparatiui,Prior,etiam po ni pro Primo:vt
in Titulo ;de Remnificari: et apud Varronem,cuius verba refertGelliushæc, Quo
ties magistratus pluresessent Roma, qs prior ef set. Sed ita accipiendum eft,
vt tota lummain duo dividatur.Primus enim vnus est, qui præit: cæteri quafi
vnus,qui przitur. Malim tamen abstinere. de, Potissimum, etiam nonnihil
obseruauimus. Armm. Restant Deminutiva, quæ cognofcere facile eft: comparatiua
enim fequuntur, vt pars totum Att. Deficiunt tamen in plaribus nominibus,
veluti in eo quod mododicebamus:a, Prior, enim non duciturDeminutiuu:neq; ab
aliis eiufmodi.Hæceft MODE EX est eorum forma et origo. Quodautem pertinet ad
cauffam materialem, non inutilisquæstio eft: Quare a neutris potiffimum orta
fint, vt non po tius Doctiorculus, qua Doettiusculus, haud fane patet ratio:
nisi ab Adverbiis primum ducta in on telligamus.Fortiuscule fecit,vtlitorigo
vocis mi it - Jitaris CAP. CII. 100 ota ok > 0 PPLE vilgiu ged Grille bud!
TI Nominumaffectuscommunes. Affeet us hi:generales aut,Affe et iones mul, tæ in
ipfa accidentium mutatione. Mutatur aute mail.com aliquid multismodis:fed ad
duos reducuntur. Nã aut Substantiam amittit, veluti quum e terra fit herbaaut
Accidens. Idque fit autin Quanto,va pie deeftaugmentum: aurin quali,gamoiwon
Græ ci nominant, noftri Alterationem,voce novaqui il dem, fed elegantissima,
etmaxime neceffaria, sut interpretati:aut secundu locum,quidicitur Mo - **
tus.Ergo sicevenit ei,q mutatur.Autipfum fit 2 non erat:cum mutatur substantia:
aut in ipfo fit, gnon erat,incremento,et ano:woriiautipsu fit, in quo non
erat,scilicetin loco.Suntetia mutatio nesin aliis generib.prædicamentorum.Quin
etiã immutaturaliqd non propterfuam, fed ob alterius rei mutatione.vt mortuo
Catoni vnico filio, de fat ipfc Pater effe. Etequusqad dextram Cæfariset est
constitutus, fi ad læuam transmoueatur: ipfe Cæfarqsinister equo erat,fit
dexter. Quib.igitur modis nominum mutetur accidentia videamus. Sij. Spes S, Jim odif Species quidemipfæ non mutantur, vt quæ pri
mitiva effet, fiat derivativa:sed alijatq; alijcom. paratæ, eo modo mutari
intelliguntur. Amator, derivativum ab Amo, eft. Primitivum autem eft ad
amatorium. ut Philippus Amyntæ filius, idem et Alexandri pater. Quoniam vero
Primum dici tur, aut quum anteit, ve vnitas: aut cum etfi non VL misen antcit,
tamen ne anteitur quidem:quippePrimo comes genitus etiam vnicus dici poteft
filius:iccirco rri mitiuum quoque fic intelligiqueathac ratione: non a quo
derivativum sit, fed quodipfum a nul lo:hocenim neceffe eft aliquando fuiffe,
vt ab a more nihil duceretur. Ita poftea mutavit specić, vt ex primitivo
absoluto relativum primitivum fieret.Etquemadmodum primitiva vera no mal
tantur, ita vt fiant derivativa: itane derivativa quidem vltima: ab his enim
nihil fit, ficut illa a nullo. CAP. CIII. Nominum Genera quomodo mutentur.
Omninum quoqueGenera mutantur adco vt privatim librossuperhac re veteres con
2fecerint. Alterum argumentü eft ex iis, quæ Du bia, sive Incerta vocant: fic
enim dictum est, hic 3 ex.vel hæc Dies. Tertiumtestimoniumeftin qui bufdam,nam
Plautus collum masculino dixit. i. temlubar, Palumbem, atque alia diversis,
quam nosvtimurGeneribus esse aprifcis pronunciata. pafit etiam aliomodo, cum
attribuiturgenus ei,ad quodminus spectat:veluti quum Masculam Sap
phodiximus.Sicquum fæmina sola possit effep gnans: tamen Gravidum equum
Troianum, et Prrægnans louis cerebrum,et Fætum eiusdem fe. murdicimus.Sicin in
quinto historiarum de Ci cadis Aristoteles, is j'appeves oi Soutes cv alue Doti
ρο 5 τοις άνεση. θήλεις και οιεπρ2•.dixit enim θήλεις no Irjaetajo vt
significatum eller fæminæ,vocis aute modus Masculi, quoniam dicuntur oi se
lizes. Numerorummutatio. Vmeros mutat, vt apudHomerum Irelus Vonino 23 P:1 INCO
rallor: et ma 1163 TIVT dicuta Ttur30 eresa Hortensius primus Ceruicem dixit,
vtfupra fcri ptum est. Vascones etiam fua lingua Iecora di cunt, quod nos
Iecus: et Dorsa non dorsum:fi cuti Pulmones Latini. Figura mutatio. guram
mutari,ex ipsa Figurę definitionema tozu ang ta quum fiant,mutari
oportetneceffario.Compositor hat tum autem non vno modointelligimus: nam et fascem
dicimus e virgis compositum: sicuti An- sirina driam, etPerinthiam iisdem
ferecompofitas ora tionibus. Is modus loquendi est vulgatior: alter diac
verior, cum dicimus virgas essecompositas ad co dist ficiendos fasces: virgæ
nanque suot simul politæ. 18, que Sic Antenorem dixit doctissimus poeta
cöpositu quiescețe:quia quibuscum degeret, cius imperiū iis non effet durum.
Primo igitur modo non fit mutatioin figuris:nunquam enim quod simplex eft, fựt
Compositum:nequeenim Simplicis par S iij. qur! muncia luser hams Titel Mun tes
nomina sunt. Sed altero modo, ut “magnum” et “animum” dicemus composita in
“magnanimo”, ita vt e simplicibus fa etta fint Composita. Nam quanquam Magnanimum
Compofitum dicimus:tamen nonelt ira mutata vox vt priusip sa fuerit
fimplex:atipsa Simplicia,exSimplicibus mutata funt,vt fierent Compofita,id eft
fimul po fira. Vbi illud quoque veterum incuriæ afcribas, qui fimplex Compofito
contrarium fecere: nam *Simplex Multiplici aduerfatur:eft enim Simplex
fineplica, vnde Duplicatum dicimus prociden tis Turni poplitem.
Hocautem,quodlaxe nimis compositum appellamus, conftat ex iis, quæ squia lunt
simul posita, Composita erunt:quia ex multis non constant, erunt Simplicia.
Nobis autem vtendum eft vocibus acceptis ab antiqui tate. fapientis vero partes
sunt, illam libi faltem emendare C
Persone mutatio. Persona ita mutatur, vt facies mancat in pluri mis, visautem
mutetur. Ut poeta “cano”, “canis”, “canit”. Neque enim vera mutatio est, sfed
communis terminatio transfertur, atque accommoda. tur, non mutatur. At in
quinto casu mutatur: aftringitur enim legibus secundæ tantun. Cafus mutatio et
ordinis. und Vm terminatione casuum costituti fint Or menolar dines atque
dispertiti, vt alia atque alia inflexion, sive declinatio dicatur; altera
inutato, al terum quoque mutari neceffe eft. Mutabitur.n. a Cafu Declinatio,
Cafus a Declinatione: fed ita vt ad cognitionem nostram tantummodo fpe ettet
hęcreciprocatio.scilicet cognofcemus quem calumintelligere debcamus, li pposita
fuerit Declinatio, Sic declinatio mutabit cafum.Nam vere casus mutat
Declinationem, non mutatur ab ea, Verum ne id quidem semper: nam Fru et uis, 9
Jako fucrat,Fructus, fa ettum est: neque tamen mutauit Declinationem: at
Tumultus,quum fa et umfuit Tumulti, mutauit. Sic Fames, Famis, nunc dici
tur:olim quintæ fuisse, Famei,manifestum estex, Sexta casu, Fame,cuius finalis
syllabaproducitur,i Proprium autem eft Casuum etiam alio mutari a la modo.
Quemadmodum ambigui vitandi caussa, quum aiuntFęci,diphthongum impofitam, quo
differret a verbo Feci: eamqueinde tatinomini communicatam, Fex, Fæcis. Omise a
veteribus Affefliones. Vnt et aliæ Affe et iones: neq; enim solum ra tione
nominis deriuati; Primitiuum dicitur nomen:sed etiam aliarum partium cauffa.
ANo mine enim Nomen, Orbis,Orbicularis: Verbum Sylla, Syllaturit:Aduerbium,
Doctus, Docte: In tericeio, Infandus, Infandum:Præpofitio, Circus, Circum: Coniunctio,
Verus, Verum. Nominis sus loco aliarum partium A caur S V ti $ iiij. 2 IIII.
forma AA Caussa quoque finalialium affectum nacta 24 คน funt
Nomina:veluti alias partes transfertur. Pro verbo enim poni tur, vt apu !
Plautum: Qux, malum, tibi isihanc taetio est? Sic ex Thucydide Demosthenes fre
quenter loquitur. Pro Participio: Magnificus, pro magna faciens.Pro A
duerbio:Lucretius, Al peracerba tuens. Nam timida tuebatur,quippe incutiebat
pauorem: itaque eft pro acerbe. Pro Præpolītione:Virgil. Plena fecundum
flumina. Pro Coniunctione: Vero. Pro interiectione, a pud Catullu, Doctis, luppiter,
et laboriosis. Hanc veteres αντιμερίαν appellarunt, alii μεταλαγα. baciti
fubticetur etiam: vt apud Sallustium in Iugur tha:Quæ poftquamgloriofa modo,
nec belli pa trandi cognouit. fubticuit enim Cauffa, Græco more,Tēroniev:subticent
yaon. Iransmutate tiam in fefe alias partes, quod Dialectici positio nem
materialem vocant.quum dico, Propter, est que voxpræpofitio. Vox hæc Propter,
nomen eft. more patet apud Græcos, qui præpo Whemi alarmisms Xe nuntarticulum to
akce.. fic O e muito me uidius, Sæpe, vale, Osta heti a o zmenyvodicto. 'Store
DECEK S, v s. LIPS fi midi Grat nutar: pterje policia. Ha
Ordopartiū.Nominisvox,aforma.Verbi vox,ama มา teria.
Tum autem Derbi Ratio universa, en Augu Divisio. celli po Ost Nomen, verbi
natura ponen Oo da est.Non defueretamen, quifta tim secundum Nomen ponerent “Pro-nomen”,
fecuti rationem ciui, lem, eadem in. potestate erat “pro-prætor” et Prætor. “pro-consul”
in prouincia, et consul Romæ. Verumaliter contemplatur philolophus: Res enim
necessarias primo quoque i · loco ftatuit:accessorias aut, et vicarias
mox.Igitur fi partes hæ coparatæ suntppter orationeora et tionis finis,
eit-animi interpretatio: Interpre tatio autem Nomine et Verbo explicetur: et
Pronomen poft hæc inuentum est: fane Ver bum anteibit. Quinetiam Verbo vnico
ftabit 2 oratio, atque affirmatio affirmatio.. Pronomine autem nullo. Quare
verbi natura potior eft: vt, “Amo”, “Lego”, “Scribo”, ac tantum abeft, vt
Pronomine posterius sit, ut etiam ipsum secum referat. Verba quoque multa sunt
adeo absoluta a Pronomine, vt mirum sithocgenus hominum ita fcripfiffe.
Nam,Pluit,Grandinat, p Pronomen nunquam interpretere.Dei enim certa sunt
nomina, Prono,,minanulla ipli Deo, fed nobis craffiore ingenio mortalibus.
dicit enim nobis Deus fic ego: quia hoc quod est, E ç ointelligimus: hoc est
Tetragrammaton,non intelligimus. Præterca 4 Impersonalia, Scribitur, Pugnatur,
nonne plena funt fignificatione?nec tamen propterea vllum nomen explicatur,
nedum vt præfit Pronomen. Omiffo igitur horum errore, Verbiipsius sub ftantiam
videamus. Duabus his vocibus Nomi ne Verboque, communiappellatione omnia fi
gnificantur. Nomine enim comprehendi fupra The docuimus. Sic etiam Verba
dicimus data, quum orationedeceptisumus. Ac de Nomine quidem, ve vfusita
sentiret, suasit ratio: a notione.n. du. cumest,quæ eft cognitio: vt etiam
interpretatur Vlpianus, qui emendat prætorem in Titulo de Reindicata. Itaque
vox nominis, a forma duda eft:eft enim Forma dietionis Significatio:Signū,
autem, et Nota,idem. At Verbivocabulū ab ipsa aeris materia, quæ
verberaretur,proptereaquod vox esset aeris impulų fogus. siç Plaut. in Amphi
truone voce facit verberariaures Mercurii. igi,vti diximus, res duplices fint
aliæ, quæ constarent:aliæ, quæ fierent:illasmerito perex celletia Signi,
Notæquevocabulo indicarut; bas aute fluetes ipso aeris fluxu. Quasivero,id quod
fane ita eft, nihil effet partium præter istas duas; cxtera autem omnia abhis
duabus duceţengur, etad tur quum, 1 GO ten ime OP niho 113: fup etad
hæc reducerentur. Cæterum ipsum Ver bum nonsolum earum rerum nota eft, quæ fic
rent: verum etiam quæ effent, fed ita, vtipfum hoceffeignificaretur:dicimus
enim Cæsar est: » per Nomen declaratur res, quæ eft:per Verbum indicatur ipsum
esse. Tertius quoquemodusin » !! ipfo verboreperirividetur:nam quum dico, Ceea
far eft Clemens: ipsum Eft, non videtur aliquid id fignificare:sed effe nota
coniunetionis, quaCle= » mentia in Cæsare prædicetur.Ex his patet,falsain
effdefinitionem veterum, quiVerbumpræfcrip sere agendi, vel patiendi
significatione, atquead huncmodumdefiniendum effe:Verbumeitno. In ta rei
subtempore. Hæc autem res aut fit,aut eft: vt Curro, dicit cursum nondum
expletum: et Gi gno,dicitimperfeet um animal.at fi dicam, Cæsar i eft:
perfectum hominemintelligam.reducitur au * p tcm illud ad hoc. du enim Curro,
cursus ipfe ali quid eft.Verba autem Priuatiua,vtDeeft:et Ne- prole de
gatiua,vt Nego: etiam aliquid significant. Recrű enimest menfura Obliqui. Sic
Affirmatio est mẽ sura Negationis. In Verbis autem imperfe ettæ figuificationis
est res ipsa quæ fluit: vt in Scribo, bonga Scriptio:at Scriptio accidens
eft:ergoin aliquo, fumptismal vor et ab aliquo: quare et a et io et passio
compre hendentur, vbiacriusintuenti, aliter eueniat v fu, quam euenit antiquis.
Nam fi dicam, Scri bolibrum: non rectevidentur accepiffe librum pro pafliuo:non
enim huius a et ionis receptio eft in libro: tria quippe sunt:quod scribit,
quod fcribitur, quod recipit fcriptura: at liber non scribi tur, fed fcriptura,
Itaque prisci Attici huius rei gnari dixere, Seruire feruitutem, Viuere vitam.
Řecipit igitur liber fcripturam: scriptura autem recipit actionem scribendi.
Intelligo nuncfcri. spturam opus ipsum, scriptionem operam, scrip: torem L.
Flauium, Membranas vero, fiue Tabu kelas, in quibus opus ipsum extat, fcripturæ
nomi ne, puta ipsa elementorum lineamenta. Verum Denimuero qui primi fermonem
inuenereagresti (canimomortales, vt quæquefese dabant, ita exce << pere.
Sapientia vero vix tandem fero ccelitus de ( miffa eft: vel ad hanc vsque diem
quanta latita uere? quot adhuc latent,quæ pofteritas eruet ad iuta? Ac veteres
quidem simul et recentiores non malo consilio in variasdistraxere
terminationes, diuersaque genera constituere. Nobis autem fa Spoemat eis fit,
vniuerfum Verborum ambitum in duo di Igua uidere,quæ A ettionem,et quæ
Paffionem fignifi cent: atque eo cetera omnia, tanquam adligna,
recipere:quemadmodum horum vtrunque adv num, quippe adipsum Eft:nam tametfinon
fig nificat άεργείαι,tamen nota cft ενδελεχείας, qua eft finisActionis et
Pallionis. Agimus enim, vt tandem fit: et dum agimus, hoc aliquid iam cit.
Actio autem duplex eft.Quod enim fit, aut tran. se poatefirabeo, qui facit,in
aliud:atquehæcvocabimus Iranfitiua:vt, Amo te. Autnon tranfit, fed rema net in
eo, qui agit: vt, curro: quæ vocabimus Ab soluta. lta codem modo Paffiua
intelligentur: quum explicabitur a quo fiattranfitus, etquum unon
explicabitur:vnde Impersonalia orta sunt. Eft autem supra declaratum,Actiuum
aliionem dicere, et aetionis modum:at Passiuum passione fignifi. 1 281. 1. D DO
significare, fednon passionis modum. Nam a et i vum indicat id quod facit
passionem. Paffivumaha tostay autem ostendere debuit id quod recipit paffio
rather parts nem, vt passibile potius fit. Sunt igitur omnia A điva, quæ
declarantaćtionem:Palfiva,quæ passio nem.Quib.manifestum est,verba Neutra nõ
esse ») 1907. ab Actiuis seiun et ta, nisi ob formationem, ppter eaquod ab sefe
passiva non edunt: nequeDepot memen nentia, nisi ob diverfam terminationem. Hac
autory tem divifionem neilliipfi quidem negabunt: qui tot genera funtcominenti.
Etenim communium appellatione quu terminatio nihilimpediat, quo». minus tam
Аctiva quam Paffiva recipiantur:duo tantum erunt capita,quibuspromiscue termina
tiones comprehendantur. Hortor enim cum in Or,desinat, nequcfiat abactivo,
Passivum tamen dicitur: etActivum, quum Paffivum gignat nul-. lum. Hæc igitur
vera Verborum effentia est,ve ræque species. Delinentiæ autem sunt accidentia
materiæ: id quod constat ex eo, quod abolentur,» restiruunturque incolumi tamen
Verbipristina natura. Idem enim eft Comperio et Comperior. Quædam autem falso a
et iva, quædam peranalo- okto giam di etta funt. nam quæverba Sensionessigni
ficarunt, vt Visionem, Auditionem, Tactionem, eteiusmodi, ea paffiva effe
decuit: Sensio enim passio est. Analogia autem dictum estillud, Lau-. do Deum,
neque enim Deus paritur: sed exem ' plo diet um eft illius,laudo Cæsarem: et
poti us ad Diale et icum, aut Metaphysicum spectat. Non beneigitur recentiores
Ađivumsic defini vere, q transmittit in aliuma et ionem: neque.n. nomine 20 a1
D I S ; Com 9 qui olfacit, transmittit olfa et um in rosam. Et fi dicam,Amome:
eft a et tio reciproca: ettamen A etiuum eft. Item poteft abfolute proferri,
Cano, Curro. Quædam igitur verba funt, quæ omnino non transmittunt: vt, “Vivo”.
Quædam quæ omni no transmittunt:vt, Ferio. Quædã, quæ etfi tral mittunt, tamē
absolute proferri queunt:vt, Amo Lucinam: et, Amo. Amamusenim aliquado im
Cipromprudentes ipfo primo ingreffu. Quare quæsunt trabloluta femper, non reet
e Neutra dicta sunt: quafi vero in hisnulla esset aetio. Nam qui Vivit, (
hocipfum,quod Viuit, agit:vnde, Age vitam, di cimus. Quoniam vero quodcunque
constat ex materia,dum agitypatitur ab co, in queagit, hoc autem in philosophia
probatum eft: iccirco sia etio trasmittatur, fietreciproca passio aliquomo do.
Quam ob cauffam fapientissime Atticiverbis Passivis etiam ad a ettionem significãdum
vfi funt. Si non transmittetur,nihilvicissim redibit: sed in agente refidebit:
adactionem tamen reducetur, ficutalia adpaflionem: vt, Ditescorneceffe enim
estad illud prædicamentū reduciiaut ad prædica mcntum cf.Sed hoc haud
valdeabiliodicra fum eft, ac fortasseidem. Passio autem nõ vnom ) do
intelligatur:nam quædã est perniciola:vt,Oc cidi: quçdam perficiensivt,
Creari,Gigoi,Isauda ri.hoc genus passionis eft, gresidetin agente:vt, Viuo
atqueid fit dupliciter:aut palam, vt hoc ex emplosaut occulte,vt fupra
monuimus. Verbaea nim sensum significantia, habere videntur mo dum quendam a et
ionis:inftrumento. n. agimus: Sed 1 De Causts 2m; E Sed tamen occultam passionem
significant, quæ resider in eo, cuius actionem Verbum ipfum fi. ignificat.
Quæret porro aliquis: Sia ettio et Pallio funt correlativa, et Absoluta
ponuntura nobis in ter Actiua: vbi erit Paffio? Lam est relpõsum:Pass i fio hæc
perficies est, et residet in agente:eiusmodiu sunt Gaudeo, et Lätor,et
eiufmodi.Huncigitur Verborum affe et um Latini Genusappellarunt. Omar le Quos
equidem ab incuria defendam, fipoffim. Sane hocaul sunt: quia a et ionis
species,esset ge Šneratio, et pallionis. Græci communi nimisvo cabulo
noQ.Omniaenim accidentia mcm di-> et a sunt. aut nimis speciali, neque enim
folum fi gnificant 'siv, fed etiani įvapzieivo Commodio. reautem nomine
Alogeny. afficimur enim adam gendum,vel patiendum. Nequenobis solisdif plicuit
veterum licentia:itaque quinon probarat: consilium,quo Genus dictum fuiffet:
maluerunt Significationem appellare. Verum vtillos hizita hos reiiciendos
censemusnos. Significatio. n. 0 mnium dictionum forma est. Tiw Ali'ton igitur
noluimus disposicioneinterpretari: ordinem. n. significat,non propenfionem: sed
ita cēsebamus, magna difficultate poffeindicari vnica voce affc- )) et ionem
hanc: propterea q nephilosophi quide" ađioni et passioni vnum cõmune
nomēinvenis fent, quo summum id prædicamentu declarent. Conftat hinc a verbis
omnibusin o, pafsiua pofse que posar fieri:modo ne ipfa illarecipiant residente
passio- fribisgarsą. nem:vt, Egeo, et ciusmodi, Argumentum noltra fentenrir
fumiture multis, Aro, Seruio, Vivo, Curro: quæ veteres delicate nimis activa
dicere metue. 284 Iul. IV. metuerunt:propterea quod obfcuriusculein qui busdam
paflionis extaret vis. Sed fane in tertiis p fonis quin fit, negari non
poteft:idquod fatis eile potestad Verborum naturam constituendam:ne queenim
deest hoc verbis his, fedres quæ ipfis lint applicandæ. Facterrain loquide se,
inve nies illico priiņam paflivi personam. Quis ho rum non putetEo, verbum effe
neutrum atpal sivum exfese format non folum in compositis,fed etiam in
fimplici: -amatum ire, amatum iri. Sic ce nihil impedimentoeft, quominus
verbumPluit, primam perfonam habere dicamus, fi modo lo quatur Deus. Quare,vti
diximus, res ipfæ potius, quam Verborum naturæ defecere. Igitur vt quæ fint
Activa aut Passiva intelligamus,minutiores Viony antiquorum fectiones funt
retractandæ. inter more on Neutra, statuêre Neutro passiva: vt, Exulo, Va pulo:
ac Neutra quidem, quoniam exsese Paffi yum non crearent: Palliva autem, quia
significa. tiorecideret in eum de quo verbum dicebatur. Igitur ab
accidente,boceit, a voce.Neutra: a for ma, hoceft, a significatione, Passiva
dicta sunt Quare non recte alij Transgressiva nominarunt Tantumenim abest, vt
tranfgrediantur, vt in fe ipla ralidant. Quodfi intelliganttransgredi na turam
neutrorum:multo plura, ac pene omnia, Neutra talia inveniat: ut, Egeo, Gaudeo.
Quin etiam Aệtiva: quid enim eft Amo, nisi patior? Item Intelligo,Video, Tango,
Audio, Gusto, Sentio, et alia innumera. Etiam Deponcntia transgrediuntur:
quippein o R, paffionem non actionem significare debuerut.Alteram (peciem 1 285
posuere, autoeregulxov, vtuaxopeo, quasi quod aliai fuapte natura activum
eflet, siper vocem liceret. Cui contrarium ftatuunt onozu Jes fub Seow, tanquam
fubgenere communi speciem cotra di ftin tam,propterea quod passiva tum voce,
tum significatione sit. Item autotaJvLxov, vt neqw, per vocem stat, quominus
sit Passivum: in eo e nim est, vt censeatur p significatum:et a'viooden gov, vt
01,8TW, quia voce A ettivum videatur, at:: sit Neutrum. Et alteram neutrorum
fpeciem ÖRoEverymli:cov, iccirco quia quarti cafus habeat i constru et
ionem,quæ a ettiuorum propria videtur esse. Etripiegov autem et Inringivov voce
passiva, communi vtriusque significato. Atque hæ fpe- Exp: cies si veræ sunt:
tamen ada et ivapaffiuaque redu cuntur. Verum et frustra, et incolulto commen
tos esse hec videamus.Constat igitur p duo nomi na tractas hasce
compositiones,ökov et auto,quo rumnatura vbi perpenfa erit, eorum constabit,
consilium. Igitur öror est, cuiuspars extra ipsum cc nulla eft: hocautem duobus
modis invenitur, aut a fimpliciter: vt; Mundum onov dicimus,quippe ex tra quem
nihil eft,aut in genere:veluti quu quip piam adiicimus:Hominem enim nonmancum,
Totum dicimus, id eft,integrum. lccirco voces i hæmodo quodam differunt: in
neutro genere aov significat ipsum vniversum: in alio genere a.adiectivum eft.
Sic etiam zūv etmus.Ergo ho mo integer non dicetur esse Totum fimpliciter, fed
Totus, aut Totum suum. Non igitur verum, erit nomen 7 oorvegglisar. Nam id fi
est A etiuum, quod et vocem habet, et fignificatum, a Boca 1 I j. ve aiunt:ergo
totum A et iuum tantomagisvtrun quc obtinebit. Sic enim öronagi's dixere, cuius
0 mnes partesessent passivæ, quippeet vox, et ligni fcatus: νε γίνομαι.igitur
ολοενεργηλικών non erit Neutri species.Omnis enim fpeciestotam gene ris naturam
continet: ergo fi neutrum genus ab ađivo genere distinguitur, quomodo alterius
species tub altero,etiam addita differentia percefectionis, collocabitur?
MuseveEmkov potius di xiffent:constructionem enim quarticasus, et vo cem
activam habet. sed quia ex se passiuum non formabat, non erat įvegzolenav.
tanto ergo mi nus öner evegzalekev. quod enim non eft aliquid, U tantominus
illud effe totum potest. auto au tem fignificatsubstantiam: et id, quod hocip
fum quod eft, per fe eft. vt aronegros, outeau dis. etapud Aristotelem,
autoetes quod anni cir cunscribit spatium,aut quod per se agit hoc,quod agit:
vt αυθεντιά. Quare αυτοενεργήικών ηδfunt commenti probe: vtuaxquel. non cnim ab
se habet agendi formam a Toeveggnuxev. neque e. nim est evegylaxen, per formam:
caret enim ter minatione, quam ipfi Aetiui formam ftatuunt. « Commodius et
verius, etreporvegnkvor. ab alio enim habet vim activam, fcilicet ab vlu. lif
adem rationibus auronzo Jhxcv, vt migas eorun dem excludet
superstitionem:wrogderegov vero, quare non sit idem cum 'de regu ;non video:
nam fi vocem hanc are addiderunt ivepzelerei, quod haberet pafsiuam
terminationem: et r « Jakina, quod haberet activam: quare addunt xdetegco quod
alienam terminationem nullam habet quodquegeritnaturam totam 'derepov? Ineptiut
autemquiPluit,et ciusmodi putabant aurezdets-Plagen, eg.quum tamen fit Aetiuum
veriffimu. Pluitfan-, guine, etlapides dicimus in historiis, et terra co pluta
est. Diomedes vero quu hæc Supina vocat,3 veteres recitat fineratione
loquentes,atque iple} nihil aliud,quamloquens.Fuitet tertia vox,istory õ
adderent vni speciei,g vocarentidor Jhx et: vt » Ferueo: non fane
inepte:fignificarunt.n.passione intus manere.Sed tameacute funtintelligeda.ne.
que enim a feipso quicquam patitur: neque pro pria est passio agentis ab
selepatiente. Omne..). quodmutatur, ab alio mutatur. Distinguuntur autem multis
modis: Loco, vt Ensis a Cæfaremo vetur, et loco distat:aut Substantia,non
loco:ídq ; multis modis.Aut enim duæ funt fubftatiæ, vt ma teria etforma:aut
fubftantia etaccidens, vt Cæfar et Calor accefforius. Materia autem non vna:
aut Dic, enim prima est,aut secunda. Itaqueanimamovet ble corpus per
fe,differutenim eflentia perfe et a: afte forma ignis materiam primam movetalia
ratio. ne quęinoetavo Physicorum estdeclarata.Igitur Cæfarli feruet, a fole,
aut ab igni fervebit: aut fi ab intus cauffa est putabilis: omnino quod
fervebit, etquo fervebitdifferent. quare nonerit paffio ab seipso. Latini
consultius Neutropalsiua, quacom » positione et terminationem et fignificationem
sunt complexi. Ex hissatis constat, noftrorum verborum nonnulla fapere aliquid
e ue.dig Græ-)) corum. Cum enim dico, Lauo, Tondeo, et e iusmodi,idem
repræsentatur, quodin dome.cs, et Leigohuet 18ojfuor,quu Lauaret:subintelligimus.
10 CLEAN 1 quei A tuneTij. enim,Se. Ita enim Nigidius loquebatur apud Gel lium:
Syllaba mutat, pro mutatur. Quare Attiva Passivis præponantur: etdema teria
Verborum. CHVm igitur omnia verba,autAativa, aut Pas siva sint, ad hæc duo
principia omnes illz species, emendatis tame priscoruin nominibus, mo lang
referentur.Priora autsunt Activa Paflivis,pon vt dixere,quia is, qui agit
incipiat:qui patitur,sequa tur:actio enim et pallio simuladco sunt,vt vnum
multi existimarint. ages quoque ac patiens simul sunt secunduin formam. Quin criam
fecundum subiecta corpora,non neceffario præitagens: ne que prius existit, quam
patiens. Trabs enim ante WIonel, quam ignis excitetur, nasci poteft:
fednobilitate naturæ id faet um fuit. Eft enim Ages pro cauffa: Patiens
autem,vtdiximus, aut perficitur, autma le habetur ab agente: igitur vtrovis
modo nobi lius est.Itaque ctiam Grammatici id fecere,vtPal fivum ab Activo
ducerent. Hæcigitur eft eorum Makari ratio a formaet fine significandi. Materia
autem varia fuit iccirco, quia non est neceffaria: sed ad arbitrium tum primi
inventoris, tum ipfiusvsus instituta,vt in o,autin or, delinerent.Habuere tn
2Aetiva originem terminationis a Græcoin o, tua 1w. Passiva autLatini aliter
formarut, neaccede rêt aut ad oratione, aut ad fimilitudine nominu. Si.n.yteft
ru 700w, fic dixiffent Amome, videre * turoratioex Verbo, et Pronomine. Si aut
fuiffet cudiphthongo: eadem crat nominisdesinetia in na hurco prima
declinatione. Quare expeditius addito R. G negotium confecere: “Doceo”,
“Doceor”. Verbi Svm, Es, EST, declarat necessitatem. Gitur Verbum corum nota
eft, quæ funt, aut fiuntin tempore. Oinnisautcm Quantitas par tes habet: Motus
autem et Teinpus, Quantita - Pengimo tes sunt: partiuntur igitur. Caletadio
cnim ha buit, frigidum non efle, vnde ccepit primum: itemque calidum esse,quo
tendit:ergo etiain me dium.Iccirco verba quxdam inuenta sunt,vthuc
motumdicerent: quare necessaria quoquefuerit Erits inuentio cuiuspiam, quod
illud extremum figni- mons ficaret: quodque formam illam non ainplius flu
entem, fed iam consistentem indicaret. Fluentes 3. autem formæ illæ duplices
fuere; alteræ accidenta fles,vt Candor: alteræ fubftantiales, ytHumani i tas:
iccirco duplicis quoque naturæ Verba exti tere, quibus ex declararentur. Candor
enim acquiri dicitur a verbo “candesco”. Humanitas au tem, id est formahominis,
aut Equi, autplaptæ, aut metalli, aut alterius substantiæ, indicata est subire
in materiam per verba generationis, vt ); Fio, Gigno, et eiusmodi. Quæ etli
pofluntetiam accidentia significare,vt fit albus,fit pater, tamen o primo
significatu pertinentad fubftantias. Gene? ratio enim primo dicitur de
substantia ; fecundo loco deaccidentibus.Acformarum quidem Au xus his Verbis
oftenditur: consistenția autem » vnico Sum, Es, Est, tam accidentialium, quam
substantialium, Dicimus enim, Est albus Cæfar Tij. nunc 290 IuL. V. nunc, qui
heri albescebat, aut fiebat albus. Et di cinus, Eft nunc Carbo canis qui his
diebus fie bat canis. Quare hoc verbum tam accidens quam fubflantiam quum
fignificet, peffime a Gram zmaticis Verbum Subltantiuum dictum eft. Et
Femisautem fupra diet um a nobis,duobus modisponi Verbum học: aut Nomini (oli
folum adiacerc ; autinter duo extrema quafi fequeftrum. Exem plum
priorismodisic habemus: Cæfarest: exem plumfecundi sic, “Cæsar est albus”. Ac
primum quidem modum significare existentiam in rerum ste natura ab omnibus
receptum cft. Altero autem modo Divinus vir Aristoteles animaduertit nihil
significare, sed quasi nexum, et copulam esse qua albedo iungeretur Caesari.
Hæcost forma et fi nas nis huius verbi: Vfus vero etiam latiuspatuit, ve etiam
verba alia quasi animaret: ita additum fuit criam Passiuis verbis; Doctus sum,
Doet us fui; TETEA COPEv Ověsu, cum perfe ti operis fummam declarandam
instituimus. Sicut inchoatum idem opus alio verbo motum, vt diximus,fignificante
notabamus: fic enim locuti sunt veteres, Pugna zum ire, Amatum iri: sumpto a
Græcis vfulo quendis prouci ipewr. Galli quoquchodie sicve tuntur per verbum
Eo, is, It, cum volunt dicere, materiaFit diues,Fie phthisicus. Materia aute
huius ver ubi duplex fuit. duplex enim eft, nam a Quws Fuo noftrum, et ipfum
Fio. Sum autem ab ciui. Es,,, totum Græcuin eft, abiecta vocali, esi, CAP.
CXIII. Temeporum Natura,Numerus, Ratio, Nomina Tempoorisigitur partes
diuerfasdiuerfis Ver Puigo rum partiunminutiores quoquepartessunt:hac de caussa
diuisa sunt Verba certismomentis: quæ Grammatici re et ifsimetempora
nominarunt.Diminy my 1 uisereigitur ad huncmodum:In partem,queiam abiit: in
partem,quęiam subibit: et in id,quo hæc duo coniunguntur.Anvero id ita fit in natura:
et vtrum tempussit, cuius partes non fint, necne, - non est præsentis operæ:
sed ad philosophum fpe et at. Cumigitur tres hæ temporum partes fint: cam quæ
abiit, quare paffiua vocedixere veteres nett. Præteritum: nam fane Græci Actiua
mpwxnuis. w Anvero ita dixere, quia huius verbi Prætereo,no, habebant
Participium actiuum in eo tempore, fi cut Græci? An quemadmodum in testamento
di 2 citur Præteritus filius,cuiusnullam fecitmentio nem pater,quafi eiusfuerit
oblitus:ita nobis gex ciderit tempus, Præteritum dictum est? ita, Præ. teritum
Laterancnfem in comitiis, ait Ciceros qui non esset creates præter: quasi non
fueritin memoria tribuum. Ansubtilius cöremplabimur? Itio motus quidam est:
tempus autem non mo-3 uetur, fedeft ipfamenfuramotus: at nosmoue-); murac
mutamur. Itaque dicimus,Fungi vita, et Obire mortem, et Abire ex humanis.
iccirco ipa sum tempus permanere, nos præterire, illud præa meninos teriri.Quæ
vero nondu effet pars,eam Futuinteactie, pusappellarut:Græci ukra orą.Tertium
quod has interiaceret partes,partem nequeas dicere, indi uiduum enim est.
Præsens eft dictum: non fane praze. comode:nam fiest, Præ, relationem notat:
ergo ! T iiij. quan T 292 IvL. V. Og'oquum vtrunque coniungat et Præteritum, et
Fu turum: nonpotius debuit accipere appellatio nem ex eo q futuro præesset,
quam quod præteri 2 tum fequeretur. Quin etiam certior natura Præ teriti
est,quam Futuri,a quo Preterito consultius 3 nominaretur.Iam vero fi poffet
diuidi, prior eius pars esset præterito iuncta, posterior aute futuro. quare
ratio eius cõiun et ior eft præterito quam fu ( turo. Verum ita intellexere.
Præfens, effe Præ, id eft,ante oculos:non autem ante Futurum. Alij vero
Instans, appellarunt. fed quidam sunt male there iuterpretati, quasi instabile
esset, et abiret momen utancum. Sanea Græcis mutuati sumus quićvesu, dixere,
quodinstaret cedenti Præterito: non autem quod non ftaret. Imo vero cætera
tempo ra non stant:fed Præteritum iam non eft, Futu rum autern nondum: vnü
præsens semper est: na uetsi abit tempus, tamen hoc quod est, præsens eft.
Hocautem in libris naturalibus eft comodius de claratū.IgiturhocTempus, quod
effetindiuiduu non diuisere.Duo reliqua cum latissime pateant, Græci alterum,
id eft, futurum fecuere in eam partem, quæmox esset fubitura, jer onigov uen hora
dixere.Nosquoniam incerto ferretur euen tu, non diuisimus.Niliputemusin modo
Subiun Ĉiuo extare vestigia, etvim huius fignificatus: hennaivt, Fecero.
Hocautem etiam in Promiffiuum. pern wit partiti sunt Nasceturpulchra Troianus
origine Casar. Verum nunquam desinent nugari Grammati ci, Sic enim dicas
etiam,Minatiuum, Cædam te: et, Aduletiuum, et alias nugas. At affe et us non
mutant species. Præteriti autem amplitudinem, forazie b quantammemoria late
metiri poteramus, partiti » rz: sunt veteres in partes treis, Perfectum, Imper
P: fe et um, Plusquamperfectum:ac perfectum qui de dem adduxe-refiov male
vocatum fuit a Græcis: » e quod enim abiit, non cft: at wequeijfvovspecies ut
eft g TupwX9u6los, quonam igitur modo, li non ca eft, poteltasqueisasdiffertenim
colerot ai,apos "12 TO Xaveil ou tanto magis, w; os to un'eivce che riuri
A noiv. Noftri dixere Perfectum, propterea quod em absolutam actionem oftendit,
cuius pars fuperfic com nulla: vt Pugnauit: nihil eius pugnæ reliqui fa bis
etum est. Mutuati autem sunt appellationem » sibi hanc ab iisdem Græcis, qui
alterum tempus, cm quod adderet huic spatium, uweprewleninovnomi Fit narunt,
7TEP UP TO DATEnerov lwar. Noftri hoc el: Plusquamperfe et um: vtriquemale. Nam
Perfe- ense ctum, etsi recipit comparatiuum, et Superlatiuu: hocrerum genera
patiuntur:vt, Canc homo per fectior est; at quouis tempore aliud tempusperfe
Etius non eft. Defendendi tamcn suntsic: aba-» inü. ettionibus
temporadenominaffe:vt quod agerēt, neque dum perfećtum effet,Imperfectuin
tepus, fubquoageretur denominarent. Verum Græci Subs cautius, qui Præpofitionem
notarunt tractum, ficati umep, quod effet transperfectum, id est, præscri
Cilici ptum tempus: noftri ridiuscule p Comparativu Plus: melius Vltra,aut
Super aut Trans. Quippe ita differunt: vt Perfectuin nihil præterea notetun
Scripfi: Transperfectum indicet et ipfum Perfe-> Etum, et tra ettum
interponat inter ipsum etaliam } non cohærentem actionem, Scripferam,Cæna quum
lusc Liit atent Cænabam: non cohæret cæna scriptioni, qua " Icriptio est
absoluta. Igitur non, vt aiunt Perfe. v etum, et Tranfperfe et um distancinter
se tempo rislonginquitate. Dicam enim, Ris iam quin quaginta tribus annis: et
dicam, Legeram versum heriantequam biberem. Eft igitur idem cum «
Perfeetto,tanquam species cum genere,nodistin. etum tanquam species a fpecie,
vt fecere: vbi cunque enim pones Transperfe et um, poneres e
tiamPerfectum.Imperfeet umautem Græci com umodiffime, aqtutuev:protenditurenim
inter præsens, et quod sequitur:operæquefignificat co tinuationein:vt, Legebam,
quum venisti:nihil.n. interualli interlectionem, et aduentu fuit.Iccirco
philofophi hoc va sunt ad declarada ev eteaezetar, uquæ perpetuatione naturæ
defignaret: wvIw TO, Erat homo: vt fignificet etiã effe. Er doetif fimus poeta:
Lauruserat: id eft, Lauri ipfius vera species. Quod Plinius quoque estimitatus.
Cicea ro in reetiam penitus infecta vsus est: fic enim scripsit in quarto ad
Atticum:Ad eum poftridic manevadebam,quum hæc fcripfi:et Perfeet o pro
Plusquãperfecto. Alius fic dixisset, Poftridiequa hæcfcripfiffem,iturus
eram.Præterita autem pri maaut fecunda, quod effent ad vsum magis vo cum, quam
ad fignificationu discrimen inuenta, non fumus imitati: temperatam breuitatem
im. mani copiaditiorem arbitrati.Vnumefttempus, quod Præteritum infinituin
appellarunt Græci, doposolin hoc veteres putarunt a Latinis ignoratu: extat
tamen in quibusda, vtin Palsiuis:năm, Ca 'fus fuit:id eft quod, erdP34: Cxsus
est, TÍTUTTIH: Ex his constat Instans cum indiuiduum fit,no reetedefinitum,
cffe fic, cuiuspars præterit, et in the dimi pars futura cft:ad hunc enim
modumnon effentwilanki tria tempora,fed vnum tempus: fed et Præteritu,
etfuturum Præfentis partes. Sed falsi sunt Gram matici,quum dicerent Scribo
yerfum:neque iam * expletus cffet verfusfcribendo. Vis igitursuntin telligere
Præsentem fcriptionem habere partem in parte versus perfcripta, et partem in
scriben da,quaspartes scribendo coniungant, cotinuent que.Atvero hic non vnum
præfens est,sed multa Præsentia, quemadmodum quum dico, Flumien fluit: quis dicat
hoceffe præsens, quumiamanna aut amplius fluxerit? Quare ficuti dicimus Præ
sentem diem, Præsentem annum:vt multa instan tia complectaranimo:ita
dicam,Scribo: quodic circo præfentis temporis eft, quia quum hoc di co, fub eo
sum temporequod huiusceverbi effe intelligo. Non enim lignificatpartem
prescripta, neq; cam quæ scribetur:fed hoc,quod fcribo.Di. cimus autem Scribere
versum,quoniam eius par. tes scribimus. Conftat etiã hoc apertius in extre mis
aetionum. fic præfens erit initium currendi, cuius tamen pars nulla aoteceffit:
fic finis, cuius pars nulla futuraest. Instans igitur femper adeft, vnde et
Prafens dietuin fit:Futurum et Præteritű imperabsunt. Iccirco de Præfeori
poffumustria, una pellarunt,exemploVergilii: Verum anceps belli fueratfortuna:fuisset.
V iij. Quum 0 598 in 010 306 IvL. V. Quum tamen, Fuisset, Subiun et iuus fic
codem, quo fuperiori,modo. Si fuiffet, mallem,quam ficą quumnulla belli fortuna
vincor,etmorior. Opa tatiuus autem et subiunctiuus inter fe fimiles, ab
Indicatiuo no differunt, nisi quatenus hoc quod hic ftatuit,Optatiuusnõ ponit,
etponivult: Sub. iun et iuus ponit,fi ab alio ponatur. Iccirco tepo raomniafant
coniecuti, verum non omnibusin verbis:neq; enim par eft, vt omniaoptemus, quæ «
possunt euenire.Igitur Futurum ab Optatiuo no tollut doctiores: quu
hoctempusverissimum, ac maxime proprium huius sit modi, no discreuere ce tamen
a Præsenti Futuri vocem: propterea quod in ipso quoque Præsenti abest optata
res,veteres autem illud putarunt Futurum Optatiui: · ce Hac Troiana tenus
fueritfortuna fecutaq Quod quidem valde placer. Sic igiturerit Op. fatiuum et
illud, quod fupradicebamus: Verumanceps belti fueratfortuna: fuiffet. Modorum
Ordo Ndicatiuum autem nobilitate, acrerum natu. ra primariū intelligimus: nobis
non item: stas tuit enim id, quod poftappetitum, ac delibera, * tionem euenit.
Neque verum eft, quod autu mant, Rem çertam redubia priorem esse, Quin ante,
quam scias,quæras. Quinamquesciam, Ha minem effe animal: nisi quid homofit,
quæram? + Præterea qua ratione res çerta, erit prior feipfa dubia? Etenim
poftquam adeptus es scientiam, non potes amplius dubitare. Scis enim per cauf |
laa 3. quarum contrarias Iisficcando Em cua Trorior. O elimiles: ushora nipuli
otem us! inimum Ōdiscrer plereaga res, kom tu: ecutao fas primas,immediatas,
neceffarias, notas,immu tabiles: putas falsas: alioqui non scis. Sed ob
nobilitatem pręiuitIndicatiuus, folus modusaptus scientiis, folus pater
veritatis. Cæteri fermoniaccommodatiores,quemadmo- 2. dum suoloco dietum eft:
ii vr quisque nobililli. mus fuit, ita potiffimum locum occupauit. Ita Circot
omnibus que Imperatiuusprinceps eorum extitit: mox Optatiuus, quasi seruilis
ingenuum eft hunc se - zima quutus: Subiunctiuusautormultiloquentiæ po
Depreciate tremam in sedem reie et us est: compofita eniin fimplicibus
pofteriora. Infinitiuus autem fane adeoModusnon eft,vt etiamn Verbumne
cffet,fit dubitatum. An Infinitiuusfit verbum. C Modum quidem non effe
ipfum,fupe rioribus rationibus fatis constat: Verbum off. autem efle, Verbi
definitio clamat: significates nim rem fub tempore. Qui autem ipsum exclu- (. )
sere,addu et ifunt,vtfentiret ita, proptereaquad fui verbi efset significatum:
fic enim interpreta cur Verbum suum, Socrates exulat, dico Socra temexulare,
Socrates estin exilio. Præterea no- 2 minis habet conftructionem.apud Græcos
enim etiam articulos recipit, to spxTuyau mane, vt Ver gilianum illud.
-Pulchrumg, mori fuccurrit,in armis. Verum hæc argumenta leuia sunt:neque enim
art, magisipseelt Verbi fignificatum, quam Verbum miesnota? ipfius: neque magis
exprimir Indicatiuum per boo42 interpretationem, quam ab eoexprimitur; Viiy.
Kureri A.COM US: fastfel ruma diItem: edehr uoda fle ( Ciami QUITO Torle cient
pero IN. ERR mutuaenim esse quit explanatio vtriusque ora tionis fic, Dico
Socratem exulare:id est,Socrates ab 2 exulat. Articulus autem non tollit
significatum fub tempore: naapud me, to spa Traje COMESTxa aov: sed no
espotazmeyou. Itaq; fibiipfi fubiicitur, tanquam Verbo, plusquam Verbum, fic,
Video Apo leo mi emeditari currere.Itaque contraStoicifolum mawh Infinitiuum
Verbum esse professi sunt: cætera θα λογαuterm κατηγορήμαG,ideftappellationes,
και συμ metin the Beijualc id est accidentia, quippein infinitiuum tanquam in
formam fuam, et quasianimam re folui cæteros modos. Igitur Græci etiam pro a ce
liis fupponuntmodis, quorum naturam expleat, OHOT EIV,Jewgev. Sic etiam nunc
Itali loquunturs quum negatiua utuntur oratione, Non legere, pro nelegas.quæ
cauffa fuit, vteadem sit forma « actiui Infinitiui, et Imperatiui passiuiapud
Lati senos. Quinetiam pro Indicatiuo: Illerubere,ter giuerfari, abnuere.
Cæterum apud Græcos de est dã in superiore oratione;apud Latinos,Cæ pit, aut
tale quid. Quinetiam pro Participio et Gerundio vsum subiit tam apud Græcos,
quam apud Latinos: vt apud Poetam: -Dederatque comam diffundere ventis. Erin
tertio de Natu ra Dcorum: Magnammoleftiam fufcepit Chry sippus reddere rationem
vocabulorum. Pro prium autem est Infinitiui, receptum in Futuro fuo Participium
sibi fimile efficere, vt genus a mittat, et numerum: Amaturum effe tam defce
mina, quam depluribus: exemplapetes deGel lio, Valerii Antiatis, Catonis,
Q.Claudii, M. Tullii ex quinta in Verrem: Hanc libirem præsidio COLE i fidio
fperant futurum. Illud quoque habuit pe culiare,duo verba fibivtasciscat, Esse,
et Ire,quo rum societate formet Futurum suum: Amatum ire: Amatum iri. emporum,
Modorumq, inter se mutatio. Filout Roprium autem est Temporum Modorum queinter
femutatio, quuaffectui feruimus. Il Liuianus Annibal: Sitales animos in prælio
ha bebitis, vicimus. Nam quod fperabat, procerto man iam afferebat: quafi
dicat, Tam certa eft futura vis 1.90* et oria,quam iam extitiffet. Nihil enim
Præterito create certius:ne a Deoquidem mutari poteft, quia sim » un plex
eiusvoluntas eft:tantum abeft, vt fit contra-); leger ria fibi:non poteft,quia
non vult:neque vult pos ciami se, neque potest velle effe diffimilis libi.
Modus Le item Subiun et iuus pro Indicatiuo: In fexto de gryn Repub.Etquod
deviafeffus effem:dixiffet, Cum de via feffuseffem. Quemadmodum autem illud
Isla Iuuenalis sit accipiendum, Greculus efuriensin cælum, iufferis, ibit:
fupra diximus. Sic est,quum Græca oratio per avdwwnn TIKoy exprimitur: vt in
tertio Officiorum: Male Hi etiam Ĉurio, quum cauffam Transpadanorum Cm
æquamesse diccbat,femper addebat, Vincatnti Pipo litas:potius diceret,non
esseæquam. id est, negle ov: dicere poterat: aut, debuerat. Horatius Indi
catiuo pro Subiun et iuo vsus est: Metuentis illa deta pluscerebro lubftulerat:
nisi Faunus ictum dex Cele tra leuasset.Et quod fupra diximus, ex secundo
Georgicon, Lauruserat: quod et Plinium imi tatum monebamus. cipiol QUA Futuro NUSZ V v. gro Perfonarum
vfus, et affectus. Videffet Persona, quorqueeffent, etquare affeettiones in verbis
videamus; nequeenimre xae veteres dixere, Primam et Secundam fanitas
effe,quiaprasentes demonstrantur: Tertiam infinitam, quia absens eft: cauffa
enim quam affe runt, nulla est. Non enim omne abfens infinitu: nequefemper
Secunda præsenseft: et Tertia præ fens aliquando est, et fempereffe poteft:no
enim aduerfatur fermonis vfui, vt adsit semper id de quo loquamur, tametsi
hocin rebuspofitum est. Ita igiturintelligendum eft, Primam, et Secun dam
finitas effe,quia certædesignentur: lego, fižno me: Legis, ligno te: Legit,
nullum cer tam signo,nisi quippiam addatur, Cato; Cæsar. Hamms and illud quoque
crraruntquumdicerent, opus este aminimomoPronomineadpræfcribendam Tertiam.Nam
ct alime nesima iam fidicas,lllelegit:nointelligas qui sit, nifi aut preferat,
aut demonstretur coram:ergo non fietvi higmi hann eema San.Pronominis sed
Relationis, aut Demoftrationis, Sed et Primam, Secundamque Pronominibus tantum
iungi, iam eftfupra refutatum: Vocatiuis nanque etiam fecunda
adiungitur:vbifinalub intelligitur pronomen Tv, ne in cæteris qui dem
fubintelligetur. Eft præterea aliud argume tum: Licet, inquiunt, dicere, Cæfar
fum: er go Cæsar, est persona primæ: neque enim Ver bum variabit Nomen, ied
NominisrationeVer bạm sequitur:Numerum fçilicet. et Perfonam. Quo pofupoint mir
teachers Quoniamigitur Cxsar, estpersonæ primæ:potes " dicere, Sum. nam
fiinco Verbo ea effet potestas, vt Persona Nomini attribueretur: efset etiam
ea, qua numerus quoque affignaretur, etliceret di cere, Cæsar sunt. Proprium
autem estPrimæ nondependereab » aliis. Caussa huius rei eft uia ipsa loquitur
fem per: ergo etvtranque fibiaddicet: vt,Ego, Tu,et Ille facimus. et feorfum
alterutrum: vt, Ego, et Tu:Ego, et Ille.Falsum estigitur, quod dixereve teres,
Secundam fibi coniungere Tertiam:illo exemplo, Tu, etilli facitis:;et Tertiam
feipfam, fic, Ille, et ille faciunt. Sed eft Primaquæ coniun. git Sccundæ
Tertiam, et Tertiam sibiipfi: cac nim coniungit quæ loquitur, licet nonexprima,
çur:quum de aliis loquitur,nonde feipfa. Numerorum Ratio etcauffa. Vmerusidēqui
in Nominibus, ficut et Per fonæ. Cumenim Verbum fequaturnomi nis rationem, et a
ratione proueniant affe ettus: af fectus quoq; eosdem efle par eft. Significat
enim Verbum aut Accidens, aut substantiam Nominisstheti Cæfar currit,Cæsar
eft.Ergo neceffario auta No mine dependet:aut etiam idem repræsentat. Pro priu
autem Verborum eft, nullam vocem vtriq;» numerocomunem habere.Hoc apud
nos:Græci imprudentius quitantã copiã haberent Teporu, defecere in difcernendis
Numeris, et Personis.na in duali confudere personas: meter, turistev. in
primasingulari, et Tertia plurali confudere namo y numeros inszor. Soli Æolenfes, quorumpars
fuere Dores, pluralem fine incremento posuere. In Nominibus autem et Pronominibus
non i dem eft: vt, viri: sai.item Participiis pafliuis: vt, lecti. Hoc autem
dicimus de Verbis eodem in genere:namin diuersisgeneribus voces inuenias
communes: Docere palliuum Secundæ personæ; Docere actiuum Indefinitæ: cauffam
autem su pradiximus. Infinito enim Græcipro Imperati vo vfi
funt. Affectuum ratio, et ordo. Orum affe ettuum quatuor tantum
necessa rii (lineiis enim verbum noneft ) Tempus, Modus, Persona, Numerus: ac
Personaquidem et Numerus,quemadmodu dicebamus,propter ea quod Verbũ a Nominedependet,neceffe
fuit vt aliqua in recouenirent:conuenirêtautein Per fona,quia a Persona
proficifcitur oratio. Item in Numero cadem decauffa:aut enim vnus loqui tur,
autplures:et aut de yno autdepluribus. Quæ rebamus igitur vter affcctus effet
prior: ac Nu vinerus quidem amplior est, complectitur enim omnes Personas:
præterea accidit Numero Per fona. Equidem vnussum:poteftigitur, vt et Pri mæ,
et Secundæ, etTertiæpersonæ subeam mu. unus. Tempus autem non videtur effe
affectus Verbi, fed differentia formalis, propter quam Verbumipsum, Verbum est.
Modusautem non fuit neceflarius: vnus enim tantum exigitur ob veritatem, vt
dicebamus, Indicatiuus: cæteriau., 1 tem emob commoditatem potius.Genus autem
an Gwojno it neceffarium? nam videtur, feclufa omnitum et tione, tum pafsione,
conftare Verbum prima rium ipfum, Eft: nequeenim solum per Partici pium
refoluimus, Cæsar pugnat, Cæfar est pu gnans: sic enim poneretur verbum Pugno
necef sarium, quare Genusipfum quoque cffet necef sarium, in multa verba
distributum, non intra vnum contentum: non igitur ficresoluetur, sed in Nomen,
Cæsar est in pugna. Hærationes acu tiores sunt a philofophis profe ettæ. Verum
non fit vera resolutio: poterat effein pugna, nec pu gnaret. Verba ipfaAdic et
iua neceffaria funt, fic ut et Substantiuum: quemadmodum Acciden tia, ficut
Subftantiæ. Vter vero affe et tus sit prior, Genalne, an Modus? Acgenus fane
prius eft,vt qomus pouvez aliud fignificet A et ionem, aliud Substantiam: Modus
autem generi accidat. Tres reliqui affe et us cuiusmodifintvideamus:nam
Coniugatio Connig. eft, quod Nomini Declinatio: certa meta ac facies
terminationis. Hoc autem cõpetit quatuor fpe ciebusdeclinabilibus. vt
supradictum est. Com petitigitur Verbo, vt diettio eft declinabilis: ficut et
Species quoque, et Figura. Coniugationes au tem quatuor fecere: sed et prima
cum Quarta in multis eadem fuerat,Audibo, sicut Amabo: ad hucenim dicimus Ibo.
Et confusa indifferenter Secunda cum Tertia: Ferueo, Feruo. et Prima cũ
>> Tertia:vt,Lauere,Lauere. Etnonnulla extra ord))** e dinem:vt,Sum:cuius
neque Præsens, neque Fu. ) turum, neque Infinitiuus cum cæteris conuc nit, vt
ad caput certum reducatur: solum præteri € 10 id IDE All temi gir 2007 "
tum Irl. V. tum gerit aliquam fpeciem, Fui:fed incertam: nam dicimus, et Explicui,
et Docui,paricumillo analogia:sed inter fe diuersa. Figura zeiasg, caussa. Figuram nominarunt
partiu compofitionem: orta autem eft ab ipfa oratione, etceleritate vt;Versus
facio, quod fuerat;fieret Versificor. l gitur prior fuit, quam Species: ex ipfa
cnim oraa tione quæ essetex primitiuis nata eft. Placuit au tem vt eodem modo
quod non effet compofitu; Figuratum diceretur: quu tamen fatis coitat per
initia,ante quam Compofitio inuenta effet; Sim plicia ipsa nullius fuiffe
Figuræ:quare per relatio pem potius sicdicta sunt. Proprium Figuræ est, mutare
interdum genus: vt a Facio, Versificor: a Specio, Conspicor. Item
Coniugationem:Stera nere, Cöfternare: quod etiam fine compositione fit,vt,
Legere, Legare. Si a Fio passiuo ducas Suf: fio adiuum, etiam significatum
mutari constats. Species;earumg significata,c. cauffe V Erboru Species, vt
diximus, duæ: Primarioz rum, et Deriuatiuorum: fic.n. melius;quam Deriuatiua
dicere: deriuantur enim, non deri Joeyguant.Deriuata duplex:alterain quanon
mutatur * modusfignificationis: vt Albeo,Albico. Altera Tisho in qua
mutatur:cuius funtfpecieshæ, Inchoati
ua,Meditatiua;Frequentatiua:Dcfideratiua,De frinmi.minutiua: Inter hæc
Deminutiua non funt con trouerfa: nemo enim dubitat in Lo definentia cho
promis. Ne Deminutiua: qualia,Sorbillo,Conscribillo. Errorautem antiquorum eft,
qui dicerent mutas x ri significatum: non enim verum eft:idem enim
fignificant,fed alio modo. Cauffaautem huiufce » terminationis fuit Græcus
fonus: fic enim quæi dam Deminutiua fua pronunciarutueregexvideo At Inchoatiua,
quæ in Sco, facerent: vtFerue- sco sco:recepta quidem sunt ab omnibus: sed
recen i tiores in iplis negarunt inchoationem,idemque que no velle, quod ea,
quæ a Fio componuntur: vt fit michoani Calesco, quod Calefio:quorum Præterita
expo - 1 nantur per Fadum effe:fic,Macruit,macrefa et us eft: quæ Præterita, si
fiat a Primitiuis, per Fuit, interpretemur:sic,Macruit,id est,macer fuit:quo
nia Macreo sit, Macersum. Igiturnon significare Inchoationem, propterea quod
apudVirgilium sit, Incipiunt agitata tumefcere.Cæterum eorum? Sententia ficelt
perpedenda: Tumere,alio modo Examp. accipitur, alio
Tumefcere:naqueMonstumet.no, tumefcit: at Fluctus et tumet, et tumefcit. Item
Ignis calet, non calescit:at Ferrum igne calescit. vt fint verba, qua habet
significatum perov, qua-» le seguovipou,calesco.Ergo,quemadmodum di cebamus,
Qualitatcs,aut Accidentiailla,quæhis. verbis fignificantur, interdum sunt in
fluxu,et,vt sitPlato in Craylo,ca Tu Cee interdum iam f xa. Quare per Primitiua
dicuntur, quu sunt fixa: etenim in monte tumor iam non mouetur, iccir
cocumtumere dicimus.At dum fluunt,per Ver. bum in Sco, explicantur: iccirco vbi
erit Ver bumin Sco, poteritesseetiam Primitiuum, 861) non e contrario:
propterea quod habitus iam rV. introdu et tus est, quem habitum ipsum Verbum
significat: fed non est idem modus: nam motus ille augefcendi,aut procedendi, a
Primitiugde claratur. Igitur fluctus, et tumet,quiain eo eft tu mor: et
tumefcit,quia tumortenditad alium gra dum: fic Crescere, eft Creafcere, id
eft,accipere augmentum in Carne, agetoxgeas. Ex quibus conftat, non inepte di
etta a veteribusIncohatiua, nondum enim explerunt vltimum fignificatum. Quod et
in quibusdam verbis Græcis fatis per cefpicuum eft: xuw, est Vterum gero:
atzvionw, eft Cõcipio, quasi, Incipio gerere vterum:significat enim incohatam
xunav. quo verbo et Hippocra tes vfus eftin quinto Aphorismoru, et Aristote les
in fexto historiarum. Quod autem tamper, tinaciter affeuerant, vt per Fio,
interpretentur, idadeo mutilum eft: Si enim hoc verum effet,er verba actiua hac
terminatione penitus care bunt, fignificatio enim eis nullo modo compe ter:
atextant tum apud alios, tum apud Teren tium in Adelphis, Atque edormiscam hoc
villi: quare per Fio, non sunt exponenda: sed conti nuatio. etaugmentum potius
ineiusmodi agno fcenda funt. Pliniusautem in libro xxv. etiam u mollius
loquutus est,Radix vasta, rubescens,te nera. quafi Centaurii radix non sit vere
rubra, Curcu sed incohata rubedine. Carent autem Præteritis non propter
fignificationem, vt aiunt,nam et i » psum Incoho, habet præteritum: sed quia
non patiturformatio: quum mutuantur a Primitiuo, facilecõfunduntur
interpretationes: vtsMacruit, Macer fuit, et pro eo, quod eft, Macer factus
est. Vir: go th couha 1.41" Vi Virgiliusautem addidit Incipiunt: vtPlautus
di xit,Pergispergere. EtMedici initium quarunda» ægritudinum diuidunt etia in
initium,etaugme » tum, et ftatum: et multa fimilia inuenias iteratan tung Ergo
igitur: Adeo ad eum: Longe fortissimus:et, » Cauencneges:apud Terentium,
Sallustium,Ca-» tullum.Delideratiua quoque damnant, aiuntque itestonte genima
corporis motum fignificare:vt, Viso,co ad vide dum: quale illud. Nam memini
Efionem visen cti tem regna.Non enim cupiebat,quod agebatiam ;remony ea nanque
cupimus,quibus caremus: vnde Cor pora desiderata, quæ cæsaessent. Etqui
Lacessit, plusquam Lacerat: et qui Vexat, plusquam Ve hit: non igitur
desideratis, qui plus agit: Non sunt igiturqualeapud Græcos, itew. Nosvero
sohez? ita cefemus:verba hæc parum differre a Frequen g. tatiuis,habent enim eadē
et origine, et termina-> tionem,a Supino enim fiunt, vehemetiam igitur
aetionis significare: quorum aliqua explicēt cam, per actionem
cötinuatam.cuiusmodi dicta sunta veteribus Desideratiua, propter affectum animi
intentioris: aliqua per actiones iteratas,cuiusmo di sunt Frequentatiua.
Indideruntigitur nomen meteen consequenti rei ab antecedente deliderio, Re
centiorum autem quidam Inchoatiua etiam au - x fi funt appellare:quoniam Viso,
dicat, eo ad vide du.Sed quomodoincipiat videre,qui eat ad vide dum?nondu enim
videt. Sed geftum,vt diximus,, significat animicorporisq; ad id
propensioris:sic Cicero ad Petum. Vt videre te, et viserē, et cæna rem etiam.
Quoniam vidētinter fe etiam qui no lunt videre: at visunt, qui cum cura. At,
Vexasle. X 1 rates canibusmarinis: quo modo tantum inchos asse exagitationem,
quum inchoare imperfe ctionemdicat, horum autem sentetia etiam frizmimpugmento
fit. Alia autem frequentatiuain To, sunt: quoniam eorum Supinaeandem nacta sunt
terminationem, Ventito, Vecto.neque frustra a fupinis du etta funt: nam alterum
fignificattermi num ynde fit motus. Itaque Veet o,significat Ve ho, fed ita, vt
semper in ipsa fim actionc, quæ ad „ finem tendit, quali Vectum co: nunquam
igitur ), absoluit, sed iterat a et iones. Dormito autemino est frequenter
dormio: cuius significati cauffa eft, quod qui leuiter dormit, repetit fomnum
inter ceptum,aut interruptum. muzica Meditatiua autem optime fic funt a veteri
busappellata,quæ in Rio, exeunt: vt Efurio, Co naturioapud Martialem: quibus
formis tantum affeet um oftendimus, tamque intensum, vt nihil aliud meditari
videamur.Non igitur nomen mu tandum eft, quod fecererecentiores, vt Delide
ratiua potius vocentur. Nam desiderii cauffa co gnitio exmemoria.
Desideramusea, quæ in po teftate noftra non sunt: at Meditamur ctiam ca, quæin
nobissunt, vt ea exequamur. Itaque non defiderabat Cæsar proscribere,
poteratenina: fed gestiebat. Iccirco dixit M. Tullius ad Attic. IX. Ita
fyllaturit animus eius, et profcripturit iam diu.Horum autem caussam,
etoriginem æquei gnorarunt: neque enim a Supino veniunt, seda » Futuro
participio aetiuo: Quo tendis Gnatho? ad Pamphilum:Cuius rei ergo? Cænaturus,
inde Cænaturio. Fue X 319 he a ne 10 al Fuere vero etiam alia verba huius
ordinis, non ignota quidem illa antiquis: sed in hanc claffem min quum non
redegere, minus re ette ab ipfisfa et tum fuit. Sunt igitur ea, quæ Imitationem
quan dam significant,de quibus supra diximus: AGræ cis orta,in zo. Tres autem
modos in ipfis animad vertimus: Aut enim fignificant apertam imita-; tionem:
vt, Atticiffo. Aut minus apertam: vt 0-2 dinmw. neque enim Æschynes potius
imitaba tur Philippum, quam fequebatur. Tertiusmo- 4 dus est quum dicimus
Cyathiffare. neque enim autimitamur, aut sequimur Cyathum:fed trans latum est
significatum a cauffa efficiente in in strumentum. Imperfonalium Natura, Ortus,
Caussa, Vfus. Væ prisci tam Latini, quam Græci dixere primum quidem constat,
quum et Numeroca - vox rere dicantur, et Persona: atque Numerus,vto stendimus,
quam persona potior fit:dubitandum esse, an comodius Innumeralia, quam Imperso
nalia dici debuerint. Verum illud maioris mo menti eft: quum verbum sit fpecies
diet ionis,de-An? clinabilis per Numeros, et Personas,ab ipsisdefi nitum, tamen
verbi fpeciem comenti sunt, quam vtroque carere putarint. at Generis fubftantia
tota in qualibetspecieest, igitur et genericæ dif ferentiæetaccidentia propria
inerunt Quierror vt clarius pateat: priuatim de his, quid illi sense rint,
videndum eft, Xij. Im veni Des. spany
Impersonale, inquiunt, duplex,vnum Actiuæ vocis,quod imitetur aetiuorum
tertias, vt Placer: alteru palsiuæ, quod repræsentet tertias passiuo. rum,vt
Amatur: vtrunqueautem carere tum nu. meris, tum personis: nequeenim primæ, aut
fe cundæ, auttertiæ effe, fed nullius. Hæcigitur vt Exam.sefutentur, paucula
repetamus.Oftendimus Ver ba aut transmittere fignificatum in appofitum, aut
proferri absolute: lic, Cæfar amat Lucinam, tranfmittiturhicactioamadiin
Lucina: eodem que modo paffiuum quo pacto proferretur inue tum est, “Lucina
amatura Cæsare”. Abfolute aute fic, Cæsar amat: et, a Cæfareamatur: nam tametfi
scia' quidamet,tamen non edisseram:itaque cue nit, vt aliquando nulla explicata
persona fignare tur:at enimuero nequeprima,neque fecunda, ne que tertia
excludebatur,poflum enim intelligere lic, Cæfar amat Me, Te, lllum. Títum vero
abeft, vtin paffiua voce nulla persona intelligatur,vtet iam neceffario tertia
fubfit, fed incerta. Alii igitur vthoc euitarent, plus errarunt,Imperfonale
dici, * propterea quod nulla persona, a quo id fieret, ex plicaretur:quu contra
cõstetapud omnes, neque sit digna fententia quæ refellatur. Na a Parmeno ne
dictum est dese,Statur: et a Vergilio de Ænea, Ventum eratad limen: et a Liuio
de Tarquiniis, Reditum Romam. Præterea hi non re ette refpe xerunt ad obliquum:
vt quoniam a et io, a quo pro diret, non indicabatur, personam subiectam ne
garent. Non enim cum Obliquo verbu cõuenit, » led cu Recto.Igitur cum Rectu
subintelligamus, fubintelligitar et Persona. Nequevero ad neutra confugiendum
est, qualia agnouere, StaturCur, ritur: nam Stare ftatum, et Currere stadium,
et Vitam viuere, et Ire viam dicimus: et Decurfa spatia, et Vitam euitari, et
Mortem obita legimus. Alia enim etfi videbuntur absurda consuetudine
reclamante,suapte tamen natura talia funt. Quin etiam legimus Tellurem
inaratam, et Pyros insi+ 1 tas. Quare quæ Verba non patiuntur eiufcemo-, di
constru et ionem, ne hunc quidem loquendi « modū admisere, qualia funt,
Egeo,Gaudeo. Quu enim Obliquum poftulent, non potuit dici, E getur: quod
poftulat Rcetum: quod fi aliterre periatur, hoc fiat, propterea quod prisci
aliter quoque fint loquuti, quemadmodum Cato, Ca reo pecuniam. Si igitur fubie
etta Personaintelli gitur, Numerus etiam intelligetur: qui etsi non »
præfcribatur, tamen ad singularem referretur:vt, Quid fit Gnatho? Editur.licet
multa esitet,tamē fingula disponas ad intelligendum. Quodfiquis a verbisin or,
aliqua ducta pro exemplo habeat, is animaduertat, quod esta nobis diettum
supra, Verborum mutataesse genera, Opperior, Nu., trior, Pascor, et alia, quæ a
Nonio in libellum re dacta, recenfitaquesunt. Atinavocisimpersonalix. ws WE E A
doirrepsere, quãdo Reettus, cuius auspiciis » Verba in Numeros, atque Personas
circumagu tur, latuit nos. Nam hoc, Placet mihilucubrare: idem sitatq; hoc,
Placet mihiamor præsens. Iam so Qindivorce to Pianua idem effe docuimus: quare
X iij. fatis s sus fatis patet,nehæc quidem vocanda esse Imperso. nalia.
Aliquot tamen sunt vfu potius distorta, quxintegra nihilominus aliquando fuisse
necef Rc feestinter quæ ea numeratur,Pænitet,Piget, Pu det, Miseret, Tædet:nam
Obliquis coniungutur: sicut etiam distorsit Plautus in Captiuis,Nã post quam
Rexmeus est potitus hoftium. Noseam af peritatem in meliorem receptam legem
emolli », uimus, et interpretamur verbum Potitus est,pal fiue:subintelligimus,vi,aut
opera:sicut xxięnv sub intelligunt Græci et Sallustius, vtsupradiximus. Ita,
Miseret mefortunæ tuæ: id eft, vis tuæ fortu facit me miserum. Sic fuit in
verbis integris, Misereor tui: miser fio tuigratia. Argumentum huius rei
maximum eft,quod horum vox singu lari numero remanfit, vt fit του το αρέσκει
μοι, ήγειω To Qingv. Duorum autem naturam male funt ve teres interpretati,vt
Interest, et Refert,quum sex to casu putarint ftatui, quum pronominibus ad
derentur: Interestmea,vt effet,In re mea eft: et, Mea refert vt effet, Fert re
mea, nunquam.n.fue ccre Imperfonalia: nimis enim delicate potuitve nire in
mentein istis, vt verbum Substantiuum fa cerent Impersonale: quod tamen
necessario sem wper aliquid vere statuit. Sed ita fuit, Interest mea legere, vt
meæ partes suntlegere: Intermea,hoc est quoq;legere. Et alio verbo, Legere fert
mea, id est,repræsentat mea negotia. Sicigitur tam aetiuæ, quam pafsiuæ vocis
hæc verba fefe habent, verum in vtrisque eft quæftio: nam dubitaruntan dici
poffet, et quomodo, Vi Anbi deturmihite fuiffe Romæ. Multi enim magis * do et
i 16 ly doeti ratione, quam cxercitati le et tionc, Latine dici
pofse negarunt: verum ea loquutio etapud Græcos, etapud Latinos inuenitur
passim,et han bet rationem: totain. oratio illa infinitiui depen det ab
articulo, fic, Videtur mihi hoc,te fuiffe Ro mæ. Ita Liuius de Gallis: Eam
gentem traditur fama,dulcedine frugum, inaximevininoua tum voluptate captam.
Xenophon quoque, * ğ xvpor “σεις ταύτιν Σποκρίναοθαι, λέγεται”. Ιtaloquutus est
Aristoteles quoquein x. historiarum. Altera dubitatio est in his verbis, Pluit,
Tonat: nondefuereplanie? enim qui Impersonalia ausi sint dicere, nimis fa
neleuiter: eodem enim more subtra et a persona est, idque facile, vnus enim
eftqui id agat, quare absolutæ potestatis appellatasunt ab aliis. Proxi ma his
funt Germinat, Florescit, quæ ad terram referunt, atquealia in anima, quæ
feipfa in pri mam personam recipere nequeunt: fed de hissu praquoque
ampliusdictumest. Affectus verborum communes. P Roprium Verborum eft, non folum
mutare Genus,Coniugationem, Modum,Significa - A tionem, etNumerum, vt tu Wa
essvēra uza: fic ut fupra diettum est: sed etiam Casus: Ausculto seni, et
fenem. Item vt confundunt Personas, Statur:fic confusasexplicant, Cæfar scribo,
Ca to fcribis, Cælius audit. Proprium etiam creare 2 ex fefe alias partes, vt
Nomen, Creo, Crea tor: neque femper pleno fignificatu, nanque a mouc TOMTS,
coar et atur ad carminum tantum Xiiij auto De e LI 2 1a. in 324 IvL. V.
autorem, Latinum vero, Faetor, ad eum qui o leum faceret, folummodo. Aduerbia,
Fere,Age. Item creari a Nomine, Strues, Struere:Imperiu, Imperare.Sed et creare
aliâs generis nomina, quę verbalia non dicantur, vt a Do, Dos. Illud etiam
obseruauimus eorum peculiare accipere fignifi * cationem ex alia actione, riw,
eft cibum capio. Atquia e cibo oritur fitis,iccirco Latiniea occa fioneid
verbum recepercad significandum quod fequebatur,quippe, te doebav. Igitur
patitur etiam amuegia. Etponitur proAduerbio, Age, Sodes, Amabo: pro Coniun
ettione, Licet: etin compositione, Quam uis, pro Nomine, vt dixi mus ex
Ouidio,Sæpe Valedicto. IV LII Asia. 1 Pre Un Pronominissedes inter
partes,Ratio, Diuifio. PARonomen qaidam ante Verbum ono. posuere, alii etiam
poft Participiu tractauere: vtriq; male. Priores co redarguatur, quod Verbum
necef faria vox est in oratione: Prono men non eft neceffaria: nullum enim
Vicarium neceffariu. Igitur si Pronomensemperloco No. minis ponitur:posito
Nomine, Pronominis vsus nullus erit. Quod autem Pronomen przcedere 2 debeat
Participiū, sic demonftramus: nam Parti cipii Ognificatio ad Verbu reducitur,
modus sig nificationis ad pomen:Pronominis auteet figni ficatio, et modus, ad
Nomen referuntur: plus ha bet Participiū Verbi,quam Nominis:Pronomen penetøtu
nomen eft: atNomen eft prius,quam Verbum: igitur et Pronomen,quamParticipiu.
Definitionem aute more noftro ex vi Nominis X V. clicia 1 316 IvL. VI. 1 Vox.
eliciamus. Pro præpofitio,vtin libris Originum plenius narratum est, quum multa
significet, id u habuit genuinum,vtvices indicaret. Pro Milone dixitM.Tullius:
id est, obiit munus, quod Milo debuerat exequi. Fuit eius etorigo, et vfus a
Græ cis. Nam tametfi frequentius fignificat Ante, to awes, tamen apud Herodotum
in Polymnia legas etiam aegav digtns: sicut nos pro caftris, etpropa tria pugnare.
Ergo videture nominc oriri defini shyo tio,vtPronomen (it, quod pronomine
ponatur. Nam quemadmodum dicebamus, quædam re rum notæ sunt: vt, Nomina: quædam
notæ « Nominum. quippe ad hanc vocem Nomen, si quæramus vt aliquid reddatur:
fic, Cedo mihi Nomenaliquod:cotinuo dabo vnum quippiam, Cæfar, Equus, Enfis.
Item Cedo Participium, Orationem, ratiocinationem: ad hæc non res, fed voces
reddentur. Ab horum igitur natura non videntur abhorrere Pronomina: nam fi di
xero, is, aut ille, aut, Ego, non ftatim interpre tentur perres ipfas:per sed
Nomina, fic, Is, Ca to: Ille, Antoninas: Ego, Cæsar. Græci autem rem ipsam hanc
candem expressere, sed paulo licentiore voce vfi funt. Etenim avtwuia non
estipsumhoc quod pro Nomineponitur:feda et tio quædam, qua ponimus Nomen pro
Nomi ne. Cæterum acrius, profundiufque intuenti fortaffe aliter res fefe habere
videatur: tantum enim abeft, vt pro Nomineponi quis putet, vt + etiam prius,
vetuftiusque intelligamus Prono i men quam Nomen. Quum enim quædamfint
demongratiua, vt Hoci ctiam ignoras irei Nomen demonstratæ aliquid
significabit. multæ res carent nomine, per Pronomen demonstratiuum
intelliguntur: ergo pro Nomine non ponitur, quod nomen fane nondum extat:
eodemque modo significabit,quo modo significant Nomi-" na hæc, Res, Ens:
vtcommunis nota quædam fit. Dico autem, codem modo: quia communi quadamæque
circunferutur significatione:nam modo alio diuersa sunt: quoniam illa
simpliciter significant, Pronomen autem Hoc, per demon-” strationem. Non igitur
pro Nomineponetur, nihilo magis quam Řes, aut Ens: sed to ti statim acfinemedio
notabit. Præterea Ego, et Tu,in-2 diuidualitatem ftatuunt magis quam nomen Cæ
faris, et Catonis: neque enim quum dico, Ego, potes alterum intelligere, neque
cum altero com municare: quum dico: Cæsar, etiam in alterum transmitti poteft
intelleetus: vt non folum non ponatur Ego, loco nominis huius Cæfar: sed et
iamecontrario, nomen ipfum Cæsar, per Pro nomenad certama substantiam
præfcribatur. Vt etiam plus errarint, qui sicsentiut, Ego effe Pro nomen, quoniam
pro Proprio nomineponitur:* fic enim etiam nomen Appellatiuum esset Pro nomen,
cum dicam,Homoloquor:ponereture nim pro Cælare: fed fubftantiam meam ftatim
fignificat, non nomen meum. Præterea fibiipfi cõtradicunt: negant enim poffe
ficmeloqui, lu lius scribo: fed fic, “ego Iulius scribo”, ergo pronomine non
ponitur vt vicarium, sed ut primarium. Neque Verű est, quod aiüt, appellatiuu
in Propriu resolui.sunt.n.nomina quædam generica, et specialia seorfum a
propriis,quæ nunquam resol uuntur:vt Piscis,Auis, Homo: quibuspotestattri
buioratio, et ad eaetiam conuerti: veluti quum humanigenerismiserias fleam,
ficinstituam, o homo,genus infelix, Tutibi paras infortunium. PronomēTu, eft
fpeciale. Eadem ratio sui comparis, Ego: respondere enim faciam hominem pro
tota specie, sic, Deus me talem creauit. Sed etalia exempla sunt commediora, vt
in nominis bus Collectiuis, Auditu populus Albanus: Hæc dicit populus Sabinus:
Ego non ceda tibi lare pa trio.Quid igitur? aut nihilintererit inter Nome
etPronomen: aut etiam Pronomen erit præstan Joba, tius Nomine?Minime:fednomina
inuenta sunt, quia resnobifcum ferre nequimus: itaque sem per significantfine
adminiculo. At Pronomina, w autreferunt Nominaiam pofita, aut egent præ sentia
loquentium: et per se nihil ftatuunt, nisi u aut Nominibus adiuta: aut
præfcripta demon uftratione: iccirco communis hæc natura'eftinda ganda.
Sicitaq; alii definiuere, Diet ioinflexa ca Libus,indiuiduam maxime effentiam
fignificans, fine vlla quidem temporis,fed nunquam fine de finitæ personæ
differentia. Verumnequaquam 1 Aduerbium Maxime,inferendum fuit:æquabilis enim
est omnis definitionis vis: neque recipit in tenfionem aut remiffionem: neq;
plus fignificat effentiam indiuidualem Pronomen Ego, quam Nomen hoc indiuiduum,
ne quis dicat Aduer bium illud positum esse ad nominis difcrimen: Neq;
essentiäfignificat potius, quam ipsum ens: quum enim dico Ego, no significo
mcam humanitatem: id eft, hominis formam,qua homo fum: fed totu hoc quod sum:
ncque potius effentiam, quam essentias.habent enim etiam pluralem nu merum. et
relationem æque multa significant, non essentiam: immo etiam plura. Nam ab Ego,
duo habes, Meus, et Nofter:a Tu, totidem: a Qui, item duo,Cuius, et Cuias.
Præterea cætera relati ua, qualis, Quantus, atque eius modi, omnia di cunt accidens,
non substantiam. Quin etiam obliqui casus illorum rclationem notant, sic,Ensis
Illius:non significat hîc ensem, fed poffeffionem, etcnsem consignificat.
Tertius error, cum ne - 3 gant vnquam Indefinitam perfonam a Prono minestatui.
Omitto quod vocem hanc Nunqua, male inseruerunt definitioni: nam definientisa
tis est,dicat,Est hoc, aut hoc: sic,aut sic: definitio enim intelligitur
competereper se, et omni, et vni, et femper. Sed demus hoc Grammaticorum
fupellectili curtæ,at illud falsum est, Multa funt, Pronomina, quxcuiuis
adhæreant personæ, Is, lllc, Ipse. Ille ego,qui quondam: Ipfefubibo: Is fum
Quirites, quem me effe voluistis, Ergo non definiunt personam,fed ab aliis
definiuntur.Item Meus fum, Meus cs, Meus eft, et vt ait feftiue Plau » tus,
Noster sum: in quo nihil a nominibus diffe runt, quæ non variata voce varias
recipiuntur in personas. Igitur aliter quoque definitum eft: Quod certius, quam
Proprium nomen signifi- soc. cat.Hoc autem falsum est:certiorem quidem rem
poteft significare, scilicet præsentem: at certius non poteft: Etenim sine
medio Propriu nomen fignificat indiuiduum suum, præterea non cuiuis competit
Pronomini: quis enim dicat, Meus, Tuus, certius fignificare, quam Dauus,
Syrus?. Immo nisi aliquid apponatur, nihil significant: Quum enim relatio non
in vna tantum reinue niatur, fed intes plura, nisi aliquid addas ad quod
Resoben illa referantur: corum fignificatusvix extet. Nos igitur aliter
sentimus: Pronomen a Nominenon differre significatione, fed modo significandi.
Hæc autem differentia eft triplex:acquemadmo dum,Par et Impar, non cuiuis
numero vtrunque fimul, sed certo alterutrum competit: ita hiaf fectus, quos
Modos significandi diximus, alius alii competit Pronomini. Primus est, quod rem
præfentemindicant loquenti: id quodnon facit Nomen:vt, Ego: aut etiam ei,quicum
loquitur: cevt, Tu.Atque hæc poffuntponi, nullo nomine fubintellecto:rem enim
ipfam ftatim per fpeciem intelle etui repræsentat, non per nomen. Alter 2 est,
quod pro Nomine ponuntur, vt Relatiua: Cæsar bellum geffit, isvicit:idem
estCæsar vicit. Tertius est quod non folum pro Nomine ponun 3 tur, fed etiam
cum Nomine, vt ipsum repræ fentent: Ego Cæfar. Ex quibusipfa Definitio colligi
poteft: atque ex Definitione Diuilio cer tas in fpecies, quæ de manu veterum
afferendz funt nobis, atque vindicandæ: ipfi enim Relati prone vum Quinegarunt
Pronomen esse, peffimo qui dem consilio: quum fecundum eorum definitio nem,
quænihilaliud ftatuit, quam pro Nomine poni, totam eam naturam,ac multo melius
quam Ego, et Tu, fibiassumat. Nam fi Is, Pronomen est, quare Qvi, non crit?
idem enim Vfus vtriuf que, etForma, id est significatio, et materia: nam fuit
real d's,Quis:ro, Qui. Par error etiam quum » + Relatiuum substantiæ
appellarunt, refert enim etiam accidentia: vt, Calorem, quem vides,con traxiex
ira. Quare alio modo ex diuisione nun cupandum erit: non ficut fecere. quibus
Prouo- + cabulumpotius dicere placitum est. Nam Voca bulum eft quodcunque in
voce consistit: etiam ipsa Verba Vocabula sunt: quis hoc neget: nifi superstitio
Grammaticorum? potius nutus quif-» piam,aut oftengo aliqua.Prouocabulum
dicatur, quibusloco Vocis,et Vocabulivtamur. Diuifioautem fiet,ficutet
Nominis:nam alia Sprej dicentur substantiua ( vtemur enim vocabulis re ceptis )
alia Adiectiua, non quæ Substantiam Roho tantum significent,fed etiam Accidens:
vt, Isco lor. Sed quia non repræsentant modum acciden tis, alia autem ftatuunt
ipsum modum, vtMeus: nam sicutSeruusfignificat poffeffionem, etcon ť
fignificatsubstantiam: fic etiam Meus. Quare er iam Relatiua, alia dieta funt
Subftantiæ, vt Qui, as Is: propterea quod line fubftantiam fiue Acci dens
referrent,modum ipsum apponerent Sub ftantiæ: quum enim dico, Is color:
tametlico lor in corpore est, tamen non indicatur a me, I quatenus eft in
corpore. Alia dieta funt Acci identis, non folum quæ Accidens natarent, fed
Anhmpi etiam quæ consignificarent Substantiam. Nam Quale,significat Accides
vteftin substantia.Re centiores autem leui nimis de cauffa Qui, inter +
Pronomina recēluere: propterea quod,inquiut, quorun: nlah IvL. VI. quorundam
Pronominumdeclinationem feque Į retur, Hoc autem eft ridiculum, Affectus
variare Subftantiam accidit enim Declinatio Pronomi ni. Itaque etiam vsu
mutantur. nam quod dici mus Alterius, fuit olim, Alteræ,in fecundo cafu 2 feminino.
Præterea multa Pronomina Nomi num fequuntur Declinationem, Nominaigitur
erunt.Ego,Mei: Tu, Tui: Meus, Mei. Et contra, NominaPronomipurn: Vnus, Vnius:
Solus,So grozilius. Ex quibus constat Pronomina Relatiua ac cidentis resolui in
substantiuum cum ipso acci dente quod referunt. Nam Tantus, eft nomen confulam
fignificans magnitudinem. Sic Tan tus Aftyanax, Tantus Hercules: id est, hac,
vel hac magnitudine. et fubdam, Quantus Syluius, Quantus Cæfar: id eft, qua
magnitudine. Ea dem ratio et in cæteris:Qualis.quo colore: Quo tus, quo ordine,
etreliqua. Proprium Relati omuifubftantiui eft fle ettere naturam fuamin ora
tione, ficuti de modo Indicatiuo dicebamus: id fit ei tribus modis:
Interrogationc, Quiestis vos? 2 Negationc,Nescio quam in gentem veni:vbiec 3
culta est quædam relatio. Occultior autem etiam in illo, Quid hominis es? vbi
vim quandam No minis fubiiffe aiunt: fed vfus hæc flexit. Hincet iam
elicimus,quod veteres omifere, Adieetiuum + etSubftantiuu, non efle Nominis
affectiones aut differentias, vt Nomen est, fed vtest Dictio.com petit enim
etiam Pronomini. Atque erroranti + quorum patet, qui putarunt Pronomen a Nomi
ne diffcrre: quoniam Nomen nullam personam determinet: Pronomen autem certam
ftatuat. Nam et Vocatiuus Nominum certam ponit: et, Ipse,llle,atquealia non
certam.Illud quoquecon topresent templandum est,quod aiưnt, Pronomesine Dest
monstratione, aut Kelationenihil significare.Act fententia quidem vera eft
ipsa, sed oratio minus at bene compofita: vsi enim sunt voce demonstra mulher
se tionis,pro repræsentatione. Neque enim qui di Evden cit, Ego,semper
demonstrat: nam quemadmodu meablenti tibi demonstrabo, quinungmgmuli?Iyon a
casa lus vides? mispoloma 1322878 Ambigitur autem etpræter hæc, Alter, et Neu
asygoiza delo ter,atque eiufmodi,sintne Pronomina.nam qui dam ipla vocarunt
nomina Partitiva:sicut On nis,nomer Distributiuum. verum enimueroli Si
quiseorum ortum fpectet, inveniet effe Prono-so', mina. Est enim Neuter, non
vtero et Alter; alius yter: at ipsum Vter, Pronomen effeconstar: non / enim
differt a Qui,nisi per modum: quoniã duo bus tantum apponitur Vter: Qui, vero
pluribus., Quareetiam Alius, pronomeni eritidiffert enim Ali ab
Alter,sicutQui,ab Vter: atq; exponuntur per nomina lic, Vter fecit? Cæsar?Non:
Alterfecit. Quisille alter est? Cato: neque enim alio mo do ponitur,quam fi
dicat, ille fecit, non hic. Est autem Vter, oĚTERG'Alterjan GuerepG itern
cę=> ter, ngungo. Quare etiam Omnis, et eiufmodi Ommi erunt
Pronomina,suntenim signa Nominuine-, quenumerum significant, effent enim Nomina,
vt Vnus,Duo: sed niotæ tantum funt Nominum. Quum enim dicis; Quis homo
disputat? et refa pondes,Omnis hocsignificat;atque si fingulos homines
nominatim redderes, vfque ad vnum Y jo ýitie int nh T. 334 IvL. CÆs. Seal.VI.
vltimum. Videbitur autem quibusdam absurda hocpropterea quod fignificet
Quantitatem: fed non ita est: imo vero hignificat Distributionein a etionis,aut
eiusmodi in quantitatem.itaqueper Pronomina quoque cæteræ propositiones expli
cantur, Quidam, Aliquis. Dubitabit autem quis. * wley piam,Nullus, Nomenne fit
; an Pronotnen, ete nim ab Vnoducitur: at Vnus Nomen est, quãti tatem enim,
siue principium eius significat. ad shoc fic refpondemus: Nomen esse,etinopia
ser wimbonis vsurpatum pro eo quod effet, Non quil. quam. Eft autem origo ipfius
Omnis, Greca, couco, vt Collectionem et Distributionem, non Quantitatem accipi
intelligamus. Pronominum affe tus. Ronomina afficiuntur quib. et Nomina, Speranter.
Primæ Speciei, “ego”, “tu”, “sui” Deriuatx, “meus”, “tuus” “tuus”. Genera in
quibusdam distin et ta, “meus”, “mea”, “meum”. In quibusdam conueniunt, Ego, “bonus”,
“bona”, “bonum”. Numeri duo, “Ego”, “Nos”. Personæ: tres: “ego”, “tu”, “ille”.
Figuræ duæ: simplex, Ego: Composita, Egomet. Casusalii alijs, neque numero
æquali. Ac de Specie quidem, met Genere, Numero, Figura satis conuenit: de Ca
duautem non in omnibus. Circa Personam quo que non idem sentiunt omncs. Ad
hæcigicur in telligenda, vsus ac ratio corum cxaettius suntper perso fcrutanda.
Signantur igitur duæ personæ,Prima, ac Secunda duobus tantum Pronominibus: at
Tertia pluribus.Non quia Prima, et Secunda, prę fentes funt, vt dixere:
non.n.id verum eft: nam quamobrem Epistolæ sūħtinftitutæ? Sanein his abfentes
loquimur deTertia etiam präsenti al $ terutri scribentium. Sed quoniam et qui loqui-
» mur, et ad quem loquimur, vnico intelligimus modo: at tertiam non vnonam aut
monftramus, aut absentem referimus: fic enim distinguimus, vt alia fint
Demonstratiua, alia Relatiua quæ fia ne discrimine vtriusque naturæ vices
fubeant, Demonstratiua autem laxa, vt diximus, voce: nã aut præfentem
sensibus,aut intelle ettu:Non quệ. + i admodum scripsere, fic, præsentem autad
oculu, aut ad sensum: quasi vero oculus senfus non fit; quali vero si de voce
loquar, oculo percipiatur. Itaque demonstrato colore,aut sono, aut fapore, aut
odore, aut retactili, sensu constitui ostensio De nem dicemus. fi dicam, Hic
motor, cujusvolun 16 tate orbis rotatur: intellectui præsens demonstra i bitur.
huius generis est Hic. sub quoetiam alius moduscontinetur:interdum enim quod
non vi I demus nos,alteri,quicum loquimur,demonstra al mus. quippe rem iplius
præfentem fenfibus, aut y notam intelle et ui:huius generis est iste:
absen-> ti enim fic scribam, Ista tua cura, quæ te angit: Iftud Mufæum, in
quo scriptitas. Neque enim prisci re ette fcripfere, Pronomen Iste, lignificare
+ præsentem personam: fic enim fcribam, istud tuum prædium, in q diuerti fessus
de via, abest ab vtroque noftrum mille paffibus. Præterea i pa pfi
fibicontradicunt:aiunt enim, Primam et Sccữ + for dam non variari per genera,
quoniam presentem Y iji rem semper indicarent: ergo ifte, quomodo per genera
variatur, fi semper præsentem perfonam + indicant? Alter quoqueeorum error,
quum HIC, appellarunt Pronomen præpofitiuum, iccirco, quia fignificet primam
rei cognitionem: id est, " quod reddaturinterroganti,fic, Quis fecit? Hic.
lam omitto pessimum loquendi modum, neque enim significat cognitionem rei, fed
nota eftco 2 gnitionis, significans rem. At enimvero etiam subiungitur relative
ficut etiam Is, frequenti vsu Cæfaris, et Salluftij, nimirum vtriusque origo ea
a dem est.soxiglfee:oxe, Hice, a quo per Apocopen, Hic:nam lones:, pro o,
dixere. q An vero, q aiunt,verum eft? Primam et Secu dam non variare vocem per
genera, propterca quod præsentes semper fint: 1 ertiam variare, il
lella,illud:quianon (int præsentes; quæ sub ter Rc tia circumferuntur.
Atquehociam a nobis reie ' ettum eft.Namque quod appellantPronome Demonftrativum
“hic”, “hæc”, “hoc” variatur, ac præ fens tamen ab ipsis femper ponitur: itaque
suis ipfitelis pereunt: pereunt vero et noftris: non e 2 nim semper præsentes
inteľ nosloquimur. Quid enim ex vltima Germania fcribat ad me puella, atque ego
refcribam? Amo te,inquiet: ia hicge nus neceffarium eft: vt fciam, amicusne ani
amica bene de me fentiať. Quærunt etiami, qüum Pri. ma, etSecunda certis
feratur numeris,quamobre Tertia non distinguatur: Quoniam,inquiunt,ex
antecedentinumeromoderamurfequentisper • fonæ intelle et uri,sic, Ipfe se
interfecit:ipfæ fe in Renterfecere. Atenimvero ratio hæcnulla eft: nam priimum
dicam, Græcos non carere numero plu rali, ex tOY, łauto's. Deinde hoc modo
foluentur- 2 oinnes quæstiones; Mobilia enim Nomina, non erit pecesse variare:
intelligimus enim fexum ex præcedenti substantiuo, et Casum, et Numerum: lic et
verborum ratio vnica voce eadem fit, qua. lis qualis præcedat: Cauffaautem
huius rei fuit Græcorum imitatio: nam tametfi in composito distinguant, vt
posuimus: tamen simplex vox, tou vnde noftrum Se, communis vtrique numero fuit:
id quod non tam consulto fecere illi,quam cc euenit forte, vt etiam in multis:
Nam quid limi leințer fyw, et nueis: rv, et vues? defe et u igitur multa
funtinnouata, fuis deftituta, aucta alienis, ficapud Latinos, Ego, Nos, Tu,Vos.
Quare vt eum errorem emendarent, addidere alterum Pro nomen quod afferret et
numerum, et genus.Grę ci antes; nos, ipse. Ealov, seipsum. Quod autem
chicafferimus,verum effe fatis constat,quum in ca » ulibus quoque non inuenere
vocem, qua differtent. Nihil.n, intelligas diuersum, cum dicis, Se interfecit
Cato: et,Seauthore voluit Cæfarem in kerfici. Orationis enimvi
percipiasCasuumdif Kerentiam,vocis autem fexunon percipias. Assi egneatigitur
rationem, quare duorum Cafuum, esnaxime'diuerforum, idem fit fonus.
Relatiuaautem funt Is,etQui,vno modo: ree nila tina? cerunt enim rem jam
positam. Altermodus este quum relatio fit per reciprocationem,hæc vnica
Elantum, ocem habuit in Pronominibus, SE. Exemplum veriųfq; esto fic, Cæfar
optimus.jma.» perator, atque vir fuit clementiffimus. is Gallos pue Out Y 'iij.
VI. pygnando, et seipseignofcendo,vicit.
Inter hæc. connumeraruntetiam ille. Nonpessime sentiut, fed exemplo vtunturnon
bono,e feptimoÆnei. dos, -- Sic Juppiter ille monebat. At enimuero in
exemplaribuslegitur Ipse, non autem ille: neque enim refert Iouem, cuius no men
ibinufquam positum eft: eft enim Ule, Iste: non dicas igitur hocloco, Sic is
luppiter mone bat. Quis tandem füppiter? nullus enim ibielt. Quod li in
quibufdam fcriptum inueniatur, vt volunt, Emphalim intelligamus: vt, Thais illa
Corinthiaca. Eft autein miltæ naturæ, atq; indif Ce ferentis,tum ad Relationem,
tum ad Demonstra tionem primi exempla frequentissima. -Teretesfuntaclidesillis.
ato -Ille etterris iactatus. Oftendit autern in Sexto, Ille triumphata
caputolta ad alta Corintho. demonftrat enim Mummium. Differunt autem
Demonftratiua abRelatiuis, quod Demonstrati uaftatuunt primam cognitionem: vt,
lste tuus animus C.Cæfar te perdidit. Relatiua autem eam iterant fic, Is te
reddet immortalem. Nam quod Gaiunt, boc Pronomine Bíte, propinquam rem fi pang
gnificari: hoc Pronomine lile, longinquam; non plane verum eft. fed ita
accipiamus,vt Iste 11. semper referatur ad rem,aut perfonam,adquam loquimur,
vtin Secunda in Antonium. Iltis fau cibus, ista gladiatoria firmitate: id eft,
tya. Istam vrbem appellabo cam, in qua agit is, ad quem fcribo: illam autem, ab
eo remotam,aut istạm vrbem de qua locuti fumus, Quoniam eius ori, gouls, parem
vsum habet. Sed et aliquid præsens» $ E Iitud, appellamus,vt apud Quintilianum,
lite iuuenis.Et de eodempaulo post,Hic iuuenis.Se cundo modo vsus est Gellius:
Brundufium ve ni, atqueisthic offendi quendam: pro, Ibi: atque fi dicat, Ifto
in oppido offendi:vt,æque dicatur, Isto oppido, et Eo oppido: quoniam ifte,lit,
ls, Te Atipse, commune omnium personarum est: upan dicimus enim, - Ipseferam
teneralanugine mala. et, Ipse vides: et ipseratem contofubigit. Quare quuin
Tertiam assignarint, minus verea Prima, eta Secunda 2-, mouere.nequeenim recte
probant sic: Dicimus, inquiunt,Ego feci,Tu fecisti, Ipfe fecit: quare si cut
Ego,est primæ;Tu, fecundæ: fic Ipfe, Tertix. Huic nosad hunc modum et
refpondemus, et obiicimus: Si Ipse, non effet omnium personaru,» noniungeretur
Primæ, fic, Ego ipfe. Neque vlus) lam figuram effe in toto ambitu literaturæ,
quay: Prima cum Tertia iungipossit. Item dicimusno effe verum, sic poffe dici,
nifi prius aliquidsub- ») + fic quod referat: exempli cauffa. Quærit Anto nius
de O auio, et Lepidum alloquitur: Quis patrauit parricidium Ciceronis?
nonpoteft dice rede Octauio,Ipfe fecit: nis O et tauium nomina rit.efteniin
relatiuum: fed commodius etiain si senon nominat, potest dicere, Ipfe feci.
Sednul- + gantur etiam cum dicunt, Verbum ipfum Primæ perfonæ habere
intellectum Pronominis Ege: quoniam si sic dicas,Feci:neceffario intelligas, E
go.igicur poffe ponicum primaVerbi,quia pria. maPronominis fubfit.Verum de
Tertia quoqne idein CIE 16 1016 7.50 del adi Y iiij. VI. bigo ling 0 idem
intelligas,Fecit, habet intellectum prono 2 - minis Tertiæ. Præterea Gcut
Relatiua cætera o mnium funt personarum:fic etiam hoc: nam eius see metha ho
qual harorigo est ab Is: Ipse. at, is sum,dices: et, ls es: et, is est. Addunt
alterum augmentum. interro ganti, Quisfecit? nüquam respondebimus, Ipfee pro,
Ego:aut pro,Tu:sedpro Tertio. Hic eft'fal lacia fimul et falsitas: Fallacia
eft,quia fi dicas lp: fe, et oftendas Tertium, recte dicas: fed etrede cefite
oftendas, auteum quicum loqueris: Nutas enim et ostensio statuunt primam
cognitionem, quam iterat Ipse.Si autem nullum oftendas, fal sum est,fic poffe
loqui nos. Quis enim eft ifte ip se? Acutius etiam intuenti apparebit ratio:
nam ce interrogatio est in tertia persona verbi: itaq; fa cile reddas Ipfe fine
verbi repetitione. At fi dicas fic, Iune fecisti hoc? possim refpondere, Ipfe
fane: etiam nullo verbo repetito. 2'Præterea quis nescit; Affirmantis, et
Interro: ganuis, et Respondentis orationes non differre nisi modo quodam?
igitur Aeneas quum dicit, Quæque ipfemiserrimavidi.nonneinterroganti Reginæ
fic, Vidifti ipfe?refpondeat, Ipfe. Respon demus tamen certius, et
commodiuspalia, Hic, w ] ste,ille, ficut et Græci, što, deiva, cileivG.Pru
udentius igitur fecere, qui Fi@ yuanxov appella uere, propterea quodomnibus
subiungeretur p fonis, quasi ordinarium additamentum intelli e gas. Consultius
autem etiam,qui dm et Tixev,pro pterea quod intenderet significatum. certame
nim rem ftatuit, atq; circūscribit:plusenim est, Ego ipfe,quam Ego.Iccirco pro
Solo,etiam sunt interpretati: at id euenit pro structura orationis,
atque yi verborum: yteoversue Sexto diuinio peris, Iple ratem conto subigit.
Quum enim ne- > - minem, præter Charontem, nominaffet, retulit = eum in
fingulari. quare etiam folum intellexit Sed fi duo aut plures fuissent,
poteratetiam fic, Ipsi ratem subigunt: vbi nihil effet solitarium: Sed nunquam
Grammatiçidesinent ineptire: ve slutiquum ausi suntdicere, effe hoc versu Nome,
+ non Pronomen: et tamen eftloco eius nominis, Charon. Sed æque est, atque
sidixiffet,idem.In terdumvero etiam additum nihiladdit:vt apud Ciceronem,
Quiante seipsum Consulfuit. Vfos autem fuiffe veteres aliter hoc Pronomine,
quam ab istissit obseruatum, oftendimus in O triginum libris. vtaliquando quasi
loco Adner.no satiuæ, autSubdifiun et iuæ capiamus:velut apud Catullum eo
versu, Namcaftum effe decet pium poetam _ Ipsum: verficulos nihil neceffe eft.
Etapud Virgilium in Tertio, Portus ab acceffu ventorum immotus, etingens Ipse:
fed horrificis iustatonatAetnaruinis, Eodem modo in primo Achilleidos Statius,
Vacuisque reliquerat antris Ipsam: sed carulos afporiat: Plinius quoque id
obseruauit, vsusque est libro, decimofeptimo: Vites,inquit, Aquilonem fpe ctare
debent ipfæ: sed eorum palmițes Meri diem. In vicefimotertio Liuius non cum
Aduer Satiua, sed cum Copulatiua iungit: L. Pofthu mium consulem dilignatum,
ipsum atque exer citum deletum.Eftigitur trium personarum con munis vox,tam
sola,quam addita:tam Relatiua, quam Demonstrans. Pronominaderiuata. 20 D
Eriuata Pronomina;a Primaet aSecunda, bina sunt, a fingulari, etplurali, eaque
di ftin etta vocibus, quia origines distinctæ: Ego, Meus:Nos, Nofter. Tu, Tuus:
Vos, Vester. Vbi fecudę facilior esse videtur analogia, a “Tu”, “Tuus”. At
Primæ non item, fed ab obliquo Mei,nõ are LIĆto,Ego: In học Græcos sequuti
sumus, uzzeući, allli autem non temere pofseffiuum pronomen Cerâ poffeffiuo
cafu deduxere: neq. enim diftat fues lembuos, nisi ficut Albedo, etAlbum:quare
neque « Taysa Turecto, vt putarunt, fed obliquo fecun do casu ortu est.A tertia
vero persona non fuit de ductio,ppter numeros variata, ppterea quod ne
primitiuum quidem variabatur.cauffa autem pro pter quam ab vtroqueNumero
deriuentur, hæc eft,Quod Græcidicunt apos, ti, nos relationem: fignificar
duo,rem ipfam,et terminum quendam ad quem refertur:igiturpoffessiua pronomina
et Grem poffeffam, et poffidentem consignificabunt Square numcrum pronominis
poffefui accipie, mus a numero reipoffeffæ: etnumerum prono {minis
primitiui,vndeillud poffefauum du et um est a numero poffidentis. Igitur quum
dicamus, Ego polsideo libros:dica, Librimeisunt.et, Vos poffidetis librum:dica,
Liber vester est. Hincli. quçt qua ratione a pronomineprima persone du ettum
sit pronomen tertiæ. Equustertiæ peren sonæ eft: itaque Meus equus si dicam,
tertiæ quo que erit, et a ME, quod est primæ perfonæ, due ettum est. quoniam
relatio eft adprimam: figni-. ficatio ad tertiam. Natura, et vsus prominz
Sui,Snus,etreliquarão porei ori Vanquam non est presentis operæ,decon-?
structionis vsu,autlegibusscribere: tamen quia natura primitiui, et deriuatiui
Terrix per fonæ multæ præclara ingenia vexauit: alia etiam jelulit:a multis
confuse aut perplexe tractata funt: videamus hîc quæ eorum fit ratio. Relatio
du. ou gone splicimodo intelligitur:nam aut habet terminum i extra rem quæ
refertur: vt Dominus refertur ad Seruum.Aut habet terminut eundem cu requæ
refertur, ratione tantummodo differentem:velu ti quum dico, Cato fe
interfecit:Pronomen Sereia et fest Catonem ad Catonem: ratione ab fefe diffe
rentem, non substantia: propterea quoddifferta seipso tanquam agens a patiente.
Iccirco Græci a vpexAcest, quafirefra et um dixere: funt.n.oria's fia, sellæ
plicatili in feipfas reciprocatu. Verum ea vox dariufcula eft, reditenim in
agentem para fiointegra,non fracța.Itaque alia w Toma Desa fed et communis hæc
nimis:sunt enim yerba quar " dam talia, talique nomine censita, vt Bereo:
et al terum tantum terminum dicit,Paffionem.Noftri autem melius,Reciprocum:qua
appellationemx tuam rationem referendi complexisunt:semper.n.redie vis
reirelatæ in feipsam:Ipsefui memor: Ipfe fibi hostis: ipseseamat: Ipse de se
hoc exigit. Ætas noftræ proxima in cæteris cafibus optime uvfa eft: intertio
cafu frequentiffime hallucinata; apud plerosque enim inueniasfic, Ego dedifibi:
etiamin oratione diserti yiri Agricolæ. Græci cautem veteres abusi sunt in
poematis fuo opě, co dem modonon reciproce,fed transitiue. prome? Cumigitur idem
sitmodusorationis, etnar rantis fimpliciter, et referentis narrationem: ea dem
quoque erit ratio dicentium fic, Portia fe interfecit: et fic,Portia rogauit,
vtse interficias, Refertur enim in prioreexemplo,Interfe ettio: in
pofteriore,Rogatio interfectionis: at Interfe ettio.. femper in Portiam
recidit, hæc est natura Pri. mitiui. Quod autem ab hoc deriuatur Suus, parem
naturam, vfumqueeft conseeutusa: vt quocun que loco primitiuum poneretur, in
eum locum ius fuum haberet: sic, Portia fe interfecit: et fic, Portia fuam
vitam intercepit. Differtautem a Primitiuo ficut Adicctiuum a Substantiuo: Ita
que etiam reciprocatio differt ab illius recipro cations namin deriuatiuo redit
reciprocationo inrem a quaprocedit a et io, sed in ea quæipfius rei funt.fit hoc
exemplum:Vidi Cæfarem homi nem:hîc fubftantiam ipfius Cæfaris intelligo: at,
VidiCæfaremhumanum: intelligo hoc, quodis pliushominisest. Sicin Pronominibus.
Vidit fę Cafar: Substantia reciprocatur:ar,Vidit fua Ca farareciprocantur ea,
quæ Cæfaris sunt. Acquan uquam hocquoque modo potest Substantia reçi
aprocari,vt fi dicat, Vidit Cæsar sua crura: tamen non permodumsubstantię
refertur,fed alio præ OC dica EN 1 pro, vestrum. 00. 101 dicamento, 58 l'adv,
per poffeffionem fane: quare Poffeffiva bæc di ta funt. Intelligo autem pofler
fionem, quæ aut fuit, aut eft, autetiam futura eft: vtsuum regnum hæres dicat,
quo nondum poti tus est. atque ipfam negationem:vtapud Vergil. Non fuapomia.
lidem tamen Græci licentius vsi funt:vt Hefiodus, o nepov za tele vureisoa. suum,
Sed loquendivfus maximus Tyrannus elt:Surving replit enim etiam Latinis, vt
vbiponeretur veras, bumSubstantiuum.eo quoq; fubiret Pronomem hoc: vtapud
Vergil. --Sua femper apudme Munera funt Lauri. Et alibi, --Sunt hic etiam
suapræmia laudi. Neque abeft ratio: per verbum nanque Substan tiuum nihil extra
effertur, fed in eodem quiescit: ! itaque par est reciprocationi, quali
stenow,licu tidicimus quædammembriscarentia,Sedere:qa' non moventar.Paulatim
tamen invaluit, vtad - ll lia verba transferretur: Nam quum dicendum effet,Suo
gladio feipfe iugulat: tamen Terentius, Suo gladio iugulo,dixit: Eft apud
Martialem a pertius: Etsuariseruntsacula Maonidem.Id autem pau lisper medio
quodam loquendi modo invedums eft,qualis apud Catullum: Snus cuig, attributus
est error: eft enim ibi et Substantiuứ, etParticipium. Quarepotuit præ terca
dici,Suus cuique innafcitur error. Ita fcri ptum est in inveđiva in Sallustium:
Quod fi i Te ftius vitam memoria vicerit ; aliam P. c. non ex DOS 017 eti 7:6
2:07 701 Ja idi QUE W oratio 2 346 Iul. VÍ. oratione,fed ex morib.suis fpe
ettare debetis. Eiuf dem modi eft illud Ouidianæ Penelopæ, Aspice Laertem, vt
iam fua luminacondas. Ita que ridicule nimis ausi sunt accusare folçcismi
Diuinum poetam eo verfu: Namg;fuam in patria antiquarintsater habebar. Eftenim
eiusdem rationiscumfuperioribus. Ne -mo vero dixit vnquam solæcismum eum, quo
do etti viri vterentur.Sicenim omnes sunt loquu ti, vt pure, nonruftice loqui
putarentur:quemad modum M.Tullius pro Sylla:Sylla,fi fibi füus pu dor, etdignitas
non prodesset,nullum auxilium + requisiuit. quem dicendi modum temere nimis
inusitatumappellarurit:quum etiam Plautus, qui Romanæ linguæ lex quædam
fuit:etiam Teren tiusqui veteris nouique Latij limaquædam ha bitus eft, ita
etfcripferint, et feripta totiusvrbis iudicio approbarint.Plautus in Mercatore
fic,Is " bet faluêre suusvir vxorem suam. Terentius aute etiam fine vllo
responso mutuo, sed absolutene que solum deriuatiuum, verum etiam primitiuus
Suo fibigladio hunciugulo. Quare feretur illud Ver gilianuin eadem prudentia: 1
Viuitefelices, quibus est fortunaperalta Iam fua.Id est, iam sua cuique, ficut
eft clarius in Sexto: Quiquefuospatimur manes. Tria'kinc colligimus:Primogeniüm
nuquam fineaperta reciprocatione poni præterquam mo doillo Terentiano:
Deriuatum autem occultio re, sic, Sylla si fuuspudor fibi non pdeffet:id eft,
prodeffe intelligeret. Alterum est, nullum efle 1 dia terbietet CIOK
0 CUTIQUE 1101 umaut emeret etiamTe y quedar tatorin discrimen, fiue vulgarem
teneat significatum, et ue pro eo, quod est proprium ponatur: præterca recte
dici,Suus Cæizris, et Cæsarum.quoniam la primitiui voxa numeris non variatur,et
SuusCæ fari:quoniam verbum orationis obliquz dux est, atque ipfam regit. Eft et
illud manifeftum, Distributiuo Prono mini additum circumagi per omnia Genera,
Per funtia sonas,Numeros,et Cafus, idque fieri vi distribugg tionis: Non folum
igitur cum Quisque,vt dixere: sed etiam cum Omnis, et Quicunque, et Quil quis,
et eiusinodi: Suum omnes Nationes tuen tur morem: Quemcunque suæ originis
pænitet, Plats eum oportet effeineptuin: Suus omnib. A fiaticis dicendi mos
eft: et alia talia. Sic etiam additis Pra politionibus: Starum fortunarum ergo
nauigac Lufitanus. Etiam in Sexto casu, contra quam sen fere:Suo quinis genio
potelt acquiescere. Hoc etiam eliciemus, quuin Scintelligamus el se
semperreciprocum, fi duæ lint perfor:ą,tolle- zimmunocom dæambiguitatis caussa,
alio Pronomine vsos ver que teres. Diligenter itaqueobscruatum eftin decla
matione Quintiliani: Non sic nuper repugnafz fct, fi illum i ribunus voluiffet
occidere. Si n.dia ! xiffet Se, haud intelligeret Marius, vtrum accipe ret,
Reumne,an Tribunum. Par exemplum est, Rogauit Nero Epaphroditum, vt fe
occîderet, Nescias vter sit occidendus; Nero, an Epa phroditus. Verum hoc loco fi
illum, pro Se, fubdas, minus commodeloquare. Ita est:Rogat Philumena te
Pamphile, ne fe deferas. Ergo i dem crit: Rogat Philumena Pamphilum ne fa desea
crcatoret serenie dablole tampre returille serafta. licurelt enium Di przterea
autem or cht,ouli deferat. Verum hæ orationes maxime funt fu giendæ. Cuius
consilij modum in primo librod exemplis eloquentiæ a nobis dictum fuit:quili
ber mihi vna cum duobus pofterioribus iam per fectis aut a Carnuto, aut a
Provinciali surreptu est. Mr Eft etiam aniniadvertenda locutio illa, Inte fe:
fic, FratresThebani inter fe dissident. Grad anon tam feliciter: sannous, alius
alium: non. n. complectuntur illum mutuum responsum vltra citroque: at
nos,Inter se, quali dicas, Medium in ter cos diffidium eft. Itaque Se, eft casus
pluralis, vtrumque componensfimulacdisidium:iccirco distribuitur, deinde ad duo
singularia partitum hincinde. Animadvertimus autem Ciceronem in primo
Officiorum sic locutum: Homines au tem hominum cauffa essegeneratos, vt ipsi
inter se, alij aliis prodeffe poffint. Declarat enim, In ter fe, per dimonous.
Etin eodem alius loquendi soruyu mamodus est, Qua focietas hominum inter ipsos,
et vitæ quafi communitascontinetur. Idem enim eft, Qua homines inter fe fociati
continentur: imacon Colligitur etiam lex dicendi hæc, Suacaussa
feci:recte.Suicauffa feci: non re et e:non enim re ciprocat. Sed, Mei caussa
feçi:Sui caussa vt face % rem,rogavit. Quæram igitur,andicam, Tui cauf fa
feci:Mei cauffa fecisti.Etfanepoteft:non enim sunt reciproca, fed personam
tantum deli egnant:fed passivesemper accipiuntur.Tuiamor, quia tu amaris: Amor
Tuus,quia amas: vt apud Ciceronem: Quod desideriumtui ferre non pos fet.Etin
proæmio sexti Quintilianus,sic,Amore i inci Tolbe ab 01:18: G INH Donicos
Vledes. callspice 12 DATE diues arian in Cicent · Homia IS, VEINIL arateuis mei
vicitetiam matrem fuam. quod plusamatus fuieta filio quam a matre. Et
Vergiliusin xila Viettus amoretui. Quare vbierit reciprocatio, ni hil eritambi
uum: vrNarcissus Ouidianus,Vtor amoremei. Est enim ibi autoQinawlia. Atque hæc
quidem natura horum Pronomi- Exay numeít,vtfuum quodqueobtineatlocum: quod fi
eadem fine discrimine sedem ineant, id non ipforum natura fit,fed vi partium
aliarum, qui bus oratio constituitur. Sunt enim quædam No mina, vt Cauffa,
Fama, Imago, quibus vtrum ad dideris, idem fonat:Cauffa meafecisti: et, Cauffa
mei: propterea quod vox hæc Cauffa, vim habet tanquam pafsiua.fic,Imago mea, et
mei.quia Ima govno tantum accipiturmodo,de eo,cuiusest: 2 ethabet vnam tantum
rationem relationis: fic et Fama. At non fic Poteftas, non Memoria, non aº lia
ciusmodi:nam habet Potestas duplicem rela tionem: alteram adme, qua possum:
alteram ad alium, qua in me poteft.fic et Memoria, etVlus, nistel et Copia.
Copiamea,quam posfideo, quasum diues:Copia mei, qua quis in me vtitur. Sic
Fa-> cultas, etVtilitas, et alia talia:vt, Accusatio mea, qua drwxws ago
enim reum: Accufatio mei,qua Qevywagor enim reus.Sunt etalia Nomina, quo rum
natura non repugnats sed vsus tantumnon sur le icam, I admittit:vt,Seruitus.Nam
fi Dauus estmeus,eius otelio feruitus mea est: ille autem sic loquetur, Mei ser
uitus: ettamen correlatiuum eius non respondet ntur.Tu pari ratione: dico enim,
Meus Dominatus: et 12 am2; Dauus ad me, Tuus, inquiet, mei Dominatus. i ferreno
Caussa autem eft,quia funt relatiua inæqualitatis.-) Z j. Yeriant alius.log at.
Idea: continent 26, Sama e:noner ni caullari tuy tantum anus,liidid Iyl. VI. ti
et CI Verum,vt dixi, vulgus non ficloquitur,vt Domi nus dicat, Meaferuitus: sed
feruus. At philofophi orationi vsum illi concedunt, fibi reseruant sapi
lentiam. Quædamapertius etiam cumnominibus iuneta eandem naturam declarant, vt
apud Sallu © ftium, Metus Pompeij:non, quem metueret: sed, b quometueretur.
Quemadmodum igitur Nomina sunt,quibus gmin mofine discrimine assignentur:ita et
Nomina,in qui bus vnumpro altero ponctur. At non e contra P rio,vt vbicunque
erit Primogenitum, effe possit etiam Deriuatum.Ea vero funt, Pars, Totum,Di
midium, et eiusmodi. Hec.n.tam ad corpus meu, quam ad alia transferri queunt.
Quoniam vero a duplicem habent relationem, vnam qua declara P
ceturpoffesfio:alteram, qua fuis correlatiuis respon dent: iccirco duplici
quoq; Pronomine præscri bi sese patiuntur. Effentiapartiseft ad Totum,et Totius
ad partem, igitur per essentiale Prono E amenstatuetur:vt, Pars mei; ego enim
sum totum per partes. Poffeffio autem partis accidentalis ceeft:itaque mei pars
poteft effe non mea,puta vn a guium resegmina: autos e cicatrice, quod ferua
uit sibi Chirurgus,vtoperam ostentaret. Quo in loco falli funt, qui hocnegabant:
pars igitur bo mednot'ei uis,qua vescor,mea est possidentis:non vt pars, fed
vtres poffeffa. Sic Ouidij parte fruimur nos, nuncipfe non fruitur:idest
Nomine: itaque fica fcripsit, Partetamen meliore meifuper altaperennis 9 Aftra
ferar.qum viueret,poterat dicere, Parte vmca etMei: nunc non poteft dicere,
Parte mea, quan nullam habet: fed mei, quæ pertinetad to tum hominem, cuius
pars Fama eft, quasi anima rerum geftarum. Atque hoc quidem vfitatum ac
frequens est.. Quod vero e Plauti afferunt Pseudulo, non pro bant:id eft
eiufmodi: Duorum hominum labori parfiffem lubens,Meiterogandiset tui refponder
jeg dendi mihi:aiuntquedicendum fuiffe, Meo, et us Tuo.afferuntque a
Ciceronepro Gabinio exem plum: Dico mea vnius opera seruatam Rempub. et p
Murena: Extuoipsius animo conie et uram ceperis. Ego vero puto Plautum non
folum Lati ne,sed etiam purelocutum: neq ;defuisseilli, aut, vfum produce, aut
rationem psuasore. Principio Græcisicloquuntur,monGous. Deinde lepoto nitidio restorationis:
Tum priscos vfos effe pri- i mitiuo prius, quam deriuatiuo,verum est.Poftreal
mo Cicero quoque fic fcripfit ad Curionem, 1 Eam vnius tui studio me affequi
poffe confido.» Neque enim est Librariorum mendum,vtaiunt: temere enim nimis
expungunt, fiquid non arri det.Nequeverum est,quod profitentur,cum No minib.
numerum præscribentib. fic faciundum effe: fed qualecunqneapponatur,ordinem
esseau torem diuerfitatis, feruitumque auribus exipfa concinnitate. Si præcedat
Pronomen, cõfueuere admittere Deriuatiuum ; sic; Tuoipfiusstudio:fi sequatur,
ponere Primitiuum,Vnius tui operai ); quoniam nomen Vnius vagum est ad
plures,cir- » cunscribitur essentiali pronomine fubeunte:vt quærenti quis
fitille Vnusrintelligo, Tc. Quum autem præcedit poffeffiuum, fic, Tuo studio: Z
ij cir Ivt. V. 1 ر cecircumscribitur Studium, et exemptumemultis attribuitur
yni. Tuo studio vnius,exclusa opera aliorum. In tertia vero persona etiam fi
præce. udat Pronomen, primitiuum fit:Cicero aiebat sui vnius opera seruatam
Rempub. Quoniam autem affeuerabant, passiue sem + per accipi eum cafum fic
terminatum, Mei, Tui: a conati funt alias terminationes reddere actiuis, Mis,
Tis. Verum longe falsi sunt: ficenim dice ' tent Tertiam perfonam Sis ; etiam a
etiue intelli gi: id quod nemo auderet: eft enim, ve diceba musai'rowaIesi
citantporro versum Ennianum: 4 Ingenscuramis eft concordibus æquiparere.
Vtfitucí Sed fic fane esto: non cötinuo illa pas. fiuis tantum addicent. Maiore
quoq; curiositate + negarunt poffc dici in plurali, Milites noftrum: Ticuti,
Milites nostri, a nofter: fed facile redar. guunturratione. Adeo enim re et e
dici putarunt; * t cafum eundem Primitiui duabus cfferrent citerminationibus,
Noftram, et Noftri: quoru al terum effet a Græco, nuwr, alterum idem effetcứ
deriuatiuo plurali.Quare etiam Sallustius in Ca catilina, Maiores vestrum: pro
Vestri, pofuit: fic enim legit Gellius. Et Plautus in Mostellaria oftendit
Vestrüm,effe concisum:vtvescovo quum cedicit: Verum illhuceffe maxima pars
veftrorumi intelligit. Sicut Æolenses dicuni, vućw! postea factumeíturwis
etvestram. Cæterum vsus obti nuit,vt Ego, Tu, Nos, significarent quiddam to
tum, quod distribueretur: non autem possessionem: ut Vnus vestrum, qui tamen
non effet ve ster: Vous veftrum et RomanioceupabitRem pub. DECarsts pub.
Cæsar non erat illorum vt res poffeffa: sed vt pars toțius. In plurali quoque
candem inue nicmus variationem, apud Ciceronem in tertio de Oratore, Veftrum
omnium voluntati paruit; pro, veftræ. Sic enim loquitur idemad Brutum Scribens,
Veftris paucorum respondeat laudi bus. Sicut autem dicimus, Ego Cæfar video te
Ca tonem:ita dicam,Ego Cæsartui egeo,o Cato.Siç ctiam igirur, Tu Cato eges mei
Cæsaris. nam quid hoc prohibet? aut quare negaruntid poffe dici? Nequeenim
satis probant suamsententiam illo exemplo Virgiliano, Siquatui Corydonis habet
te cura,venito, este, nim per Apostrophen a feipfa in aliam: quafi gura
frequenter vțimur, exemplo ergo ponit: •. hoc,illud non negat, Non est autem
verum,quod aiunt,differre De “ riuata a Primițiuis, propterea quod Deriuata ver
bis iuncta imperfeetta lint: Primitiua perfecta Sed quemadmodum dicebamus,
Adiectiuum, et Substantivum sunt differentia non nominis fo lius, fed actionis
genericæ communes Nomini ac Participio: Nomini quidem simul vtraq;, Par ticipio
autem altera tanțum, Adie ettiuum, Pro nominiautem ytraque, nam Primitiua
substan țialia sunt, Deriuataaccidentalia. Deperfectio ne autem
praționisamplius iudicandumeft: pole sum:n.fic dicere. Meusfcribo: fane oratio
pfecta » eft: ficut, Fortis pugnat. Et Sofia Plaucinus festi uiffime, Certe nofterfum.
Tertia autem Primi, tiuorum adeo imperfecta eft:, vt nihil magis Z iij. neqi IVLvic 2 1 + 1 Ongs M ! *. VI. neq; enim poni
poteft fine adminiculo: Cæfarfe macerat:fi.n. dicas, Semacerat:quid intelligas?
Quare fi iccirco imperfeet a funt Deriuata, quia egeant adiumenti: hac quoque
ratione illud erit imperfeet iffimum. Alia duo deriuata Noftras. Veftras. Ira
vero deductio duorum aliorum: Nam veteres Aruspices atq. Augures quum ter ram
diuiderent auspiciorum cauffa,fic instituêre: Agrum omnem efle aut Romanum,aut
Gabinu, aut Peregrinum,aut Hofticum,aut Incertum.Ic circo Amatam do et issimus
omnium Virgilius fe citiudicare Turnum externum, qui Latini agri ce non
efset:et Cæfar, qui id non ignoraret, Gallias diuisit in partes treis: exempta
ex ea partitionc Prouincia, ppterea quod continebatur agropere grino
tunc:Galliæautem tres, Hostico. Ideacauf ce lafecit, quia eadem effentauspicia
in Peregrino, etGabino, quæ etiam in Romano. Ergo iidē Au gures agrum, qui
nondum effet difpe et us, quib. ccauspiciis designaretur,incertum vocarunt:
vbili queretRomanum effe, non fatis habuere fic dice cre, noster est: nam multi
agri pacati peregriniita abiplis poterantappellari,quum eorum esset po pulus
potitus.Itaquc excogitarunt vocem a voce, qua coarctarēt fignificationem ad
Regiones:quæ ** fuitcauffa,vt eflet analogia terminationis comu. nis cum
nominibus regionum: Sarsinatis a Sark po: fic Noftratis, Nofter: et per
exemptionem duorum elementorum Noftras. Nequcfine sa sont d. tiano PA tione a
plurali duxere: quoniam de Ciuibus dici:7 tur, et ad ciues refertur. Ita habes
cauffam etvo cis, et terminationis, et numeri.Vsus autem obti- Dokta nuit
poftea, vt etiam ad familias transferretur: n etiam ad fectas Philosophorum:
quæfane fami liæ quoque diettæ sunt. itaq. Noftrates Peripate ticos poterimus
appellare. Cicero etiã verbavul garia,Noftratia dixit:non quafi Romana, omnia
enim Romanaerant: fed quafi ex sua fupelleet ili. Quæremus autem
nosmorenoftro,quam ob new name cauffam a Tertia persona nullum deriuarut: quis
5* sweet enim neget rectea nobis ficexcogitatum, Roma ni fuates
captiuosAnnibali dedendos censuere. di Imo vero et concinna oratio eft, et
neceffaria.Ve rum duo in cauffa fuere, quominus id factum sit: 6 Incuria gentis
illius, quz manu promptior per i initia, dịcenda facere, quam diceremaluere: Et
vasta, atq. inexplebilis animi libido ad Imperiu: e inuitus enim Romanus hoc
pronomen Suum, a gnoscebat:omnia per Meum,aut Nostrum, meti ri cupiebant. His
autem duobus deriuatis etiam Græcorum copiam superarunt. Articulus. Is
declaratis, fatis constat, Græcorum artis culosnon negle et osa nobis, sed
eorum vsű u. fuperfluum. Nam vbialiquid præfcribendueste, pense quod Græci per
articulum efficiunt, ěrecev o AG:expletura Latinis per ls, aut Ille:Is, autille
feruus dixit:dequoferuo antea fa et a mentio fit, aut qui alio quopacto notus
fit: additur enim articulus ad rei memoriam renouandam, cuius. DS 7. iiij.
antea 356 Iul. V I. 1 antea non nescij sumus, quiipfum ponimus: aut componente
am ad præscribendum intelleet ionem,quæ latius mamime met paterequeat, veluti
quum dicimus, C. Cæsar, is qui pofteadictator fuit. Nam alii fuere Caii Cæ
fares,fic Græce, Kajoup o au Toxpatwp. Numerus. Vitautem numerus necessarius,
vti supra di co nomine, quoilla res significatur, a numero au tem vno numeri
duo deducti funt propter relationem. Nam Vos, pluralis est: deduciturautem abeo
singularis, Vester: quia fignificat rem fin gularem admultos relatam, vt dicebamus.
Persona, Erfonæ quemadmodu distinguerentur, iam i Pronominibus, amodo in Nominibus,
Namin 11 Nomine omnes personæ quinque casibusconti pentur; in vocatiuoautem
vna. Atin Pronomine vna tantum persona in prima, etvna in secunda. Itaque
inNominibus variantur propter cafus: in Pronomine non variantur. Tu,enim
omnibus in calibus secundæ personæ eft: et, Ego primæca, ręt enim vocatiuo. Se,
folam habet tertiam: De: riuata, omnes. Casus: Vmhocita fit:igiturQuintum
quoque ca Clumsum non solum habebuntipsorum aliquaz verum etiam quædam
constituent: vt, Tu, Vos, Vester. In poffeffiuisantem non immerito dubi tatur.
Nam ficuti Ego, caret Quinto cafu fingu lari, quia nemoseiplum vocet:ita Meus,
quod ab eo ducitur, carere quoque debuit, e contrario Tuus, casum illum
habebit, quiaTu, ipsum ha bet: et Sui,quia caret Suus, quoque deficidebue rat.
Atenimuero quemadmodum aliter contin- holone gat, videndum est. Omnis Vocatiuus
cafus duas personas designat neceffario: significat in. Rem insecundapersona,
et consignificat primam lo quentem: atque tanta facultate eft, vi videatur »
folus constituere orationem. Si.n. voces, Dauc: Dauus refpondeat: igitur res
vocata nisi distin guatur ab re vocante, eius cafus nulli vfui erit. Meum
seruum igiturcum appello, çu alloquor, quialius est
amesubstantia:accidentęautem re fertur ad me, iccirco potesta me vocari, quia eft
alius, etvocatur per pronomendeduậum ame, quia eft quodam certoquemodo qualı
ynu me. cum.Eft enim ynum relatione: ideo relatiuum al terum sine altero nullum
essequit. Atin, Tuus, non idem effe potest; Nam etlieft diuersaperso nayocata a
vocante: tamen significatam rem ap pello, et terminum relationisad alteram
pfonam dirigo, ita diftra et ussermo, ad feruum tuum vo catum, etad Te, ad
quemrefertur ille, non po teft cohærerc. Videamus vero subtilius, an huic
quoque cafus ille attribui possit, ac fic dicamus; Poffeffio excludit aliam
poffeffionem, iure enim meoius alienum tollitur.Meus enim ego fum,non alterius:
quare Ancilla manumiffam liç yocabo, ZY O TuaGedimino Tua. quia etiamfic
possim, quum eam libera: pollo mine Abi iam tua çs. Vfustamen infrequens non po
719 fuitlegemhanc loquendisic.De Suusautemfic ftatuamųs: Contradicere
fibiipfis, qui hæcduo di cant:Suus,semper reciprocumeffe debet:Suus ha Sbet
vocatiuum. quæ enim reciprocatia pofsit in teruenire inter vocantem, et vocatum
relatum ad aliam perfonam ab vtroque? Itaque nos etaffir
inamus,haberevocatiuum: et negamus, femper efle reciprocum: sed recte dici, Sui
ferui eum In ftulere: et, Suiserui eum sustollite. Figura. more Implicia,
Hic,Is, Ego, Tu,Sui.Componuntur autem partįm secu, fcilicet geminationepu.
rä:partim aliquo interpofito:vt,Identidem:quod etiam mutauit naturam. Item cum
diuerfis: vt, Isthic. Etiam cumaliis extra genus suum: vt, Tu te, Egomet, Idem,
Suapte, Hocce. Sic cum Præpo fitiõibus, Nobiscum Mecum. Cumnominibus, (Reapfe,
quod aiuntpro, Reipfa, pofitum aban Stiquis.Ipfe, quoque compositum effe
diximus, et lifte, et ille,ab Is, Doresimitati, quitaddebant, lones te.Acoles
etiam dicebant fe pro o, et coru pars,Dores. Sic Theocritus in quarto Idyl lio:
maile spußdav.Atenimuero quum inficdan tur Illius, Isțius.Ipfius,non videbantựr
composi ta.Sicut Tute noflectitur, neque Hoc, nili interi a
tus,Hyiufce.Composita funttamen,quçvfus suo arbitratu deflexit. Cum his autem
alia quoque ingenias:Egoipfe:et numerosius, Egamětipfe. Cape Excludit apresenti
opera.confilia antiquorum. Vlta alia de Pronomine ab antiquis di etta sunt, quæ
alterius operæ indigent, partim enim pertinent ad eam contemplationem, quæ
docet inflectiones: partim ad conftru et ionis le ges: quæ omnia
fimulcoaceruata minus recte ve: teres confudêre. Materialis caussa Pronominum.
Vorundam materia patet, aliorum non ite. Nam obliquiquorundam secutisunt nomi
num tertiæ declinationis terminationem, Mis, » Tis, Sis. Quædam pronominum,
Huius, Eius, Illius. Obliquus autem Tui, Atticos secutusest, Tü: additumiwla,
vt T8786. Tibi,interpofuit con fonantem,non aspirationem,vt Mihi, Toi, Moi.;)
Nos, et Vos,non habent elementa, quæ sequan turGræcam originem: sed Nigidius
conatus eft deducere materiam a cauffa, non penitus inepte. eam,quivolet, e Gellio
petet. Inter Primitiua est Is, et Hic: alterum sine aspiratione, alterum »,
fine sibilo, ab eo quod Græce erat.o, addito ke, » et adempta vocali prioris
obliqui aliam fibivo çalem asciuere,Is,Eius, Ei. In quibusdam com munem habuit.
In plurali, li. In cauffa est fonus affinis vocalium, quem fonum foli Belgæ
hodie » incolumem,vtpleraquealia, feruant, Contra,quam feceruntPrisci,quade
causa prius de Pronomine, quamde Participio egerit. ETMTG huius libri initio fa
ettum eft, vt declara remus ordinem, quo cffet Pronomenftatuen dum: tamen hîc
quoquenonnihilconfilij capia mus. Pronominis intelle ettionem esse priorem
Participio, ficfatis constat: Sinomen anteit alias species, etiam Pronomen
præponetur. Nam fi partes anteponuntur toti, eaquoq; quæ partium vices geruntpræibunt
id quodtotum fit: veluti carnium, ossiumque fubftantia primoloco nota synt:
item Pedis, Cruris, Oris ratio potior quam totum animal:puta Homo,Leo,Canis:ita
etiam harum partium vicariæ partes quæ dvofnoga, vo cantGræci, antegredientur
intelleet ionem ani, malis ex ipfis constituci: vt,quæ loco sanguinis funtin
Infectorum genere, et a Græcis dicuntur, ixapes,quæ pro ossefuntin Piscibus,
etvocantur, Spinæ: quæ pro ore sunt in Plantis, etnominan tur Radices:hęcomnia
anteerunt cognoscenda, quam aut Inseđa,aut Pisces,aut Plantæ. Quam obrem quum
Participium quiddam site Nomi ne, Verboqueconflatum ; non tantum poft No. men:
Verbumque, sed etiam post Pronomen ex. hibetfefe nobis intelligendum. Præterea
( vtar e nim quibusdam falsis, sed quę illi ipsi pro verisha buere) oratio
perfeet a effe finePronomine nulla poteft:constitui enim personas a folo
Pronomi. ne arbitratsunt, faltem primam, et fecundam: atsine participio poteft:
vt etiam Pronomina fint adorationem,quam Nominamagis necessaria. Affectiones quadam.
Roprium Primitiuorum vagari, ac diftribui in multa, putauerunt.co exemplo.
Neuetibi adfolem vergant vineta cadentem. aiunt enim omnibus dictum eo
Pronomine Tic " bi: verum res fefe aliter habet: Alloquiturenim Mæcænatem:
libri enim didascalicimaxima ex parte certis nominibus discipulorum nuncupan
tur. Ita etiam aiuntad ornatum orationis poni fi apud Ciceronem ad Brutum, Ecce
tibiPom-» ponius nofter:nam tum aberatBrutus. Egove to aliter cenfeo: Aduerbium
potius Ecce,positu, ad ornatum, ficut et apud Iureconsultos: at pro * nomen
Tibi seruire legenti epistolam Bruto. Proprium autem Pronominum etiam alia ex i
fefe parere Pronomina, vt Is, ille. Et Aduerbia. illo. Quodvero fcripsere,oriri
abipsis etiam No. + mina, falsum eft:neque enim Noftras, nomen eft: fed vt
noster ad poffeffionem communem, ita Noftras,ad communionem poffeffionis. Nonnc
dicis, Meus ciuis, etMeus popularis? Siç dicet Solia,Nostratem Getam, apud
Terentium. Ita que ij, quinomen putauere etiam inter Prono mina recensuere: fed
alio exemplo vtendum fuit. Nam a Quisquis, Quisquiliæ diettæ sunt.fuit enim
quicquid, so tugav, vile,et obuium forte, non consilio. Proprium etiam,vt
diximus,etinter fe etcum aliis iungi, et geminari, et inter se construi ad ora
tionem:Mea tu. Etiam inter fe referri: Is,qui ve mit. Item amittere significatum
p casus ratione. Del more Æolico: n. interdum enim nihil significat apud
Theocritum. Sicnos, Tute folus loqueris. Plautus in Milite etiam amplius, Tute
fcisfoli te tibi. vtpofsis arbitrari effe potius additamentum, vtin alio
pronomine, Iste. Proprium quoq;, poni pronominis significa. to:Suus, pro
proprio, et agnato. Apud Iure conful ços.at exemplum quodadducuntno feruit,
Sunt etiam sua premia landi. hîc enim elt poffeffiuum Sicfalluntur altero
exemplo:Is, pro Talis: Non ea vis animo, etapud Ciceronem, Pro eo quanti te
feci:imo pronomen est relatiuum. Pro Aduerbio etiam ponitur: Quidmaiora
fequar.estetiam ad uerbiuminterrogandi:non,vt putarunt,Coniun ettio.Coniun et
io potius illa sit, Quod scribis te venturum, vt voluêre: mihi vero acu tius
videtur effe relatiuum,Hoc, quod scribit,te venturum scripsisti enim hoc
Veniam. ni IVLII 1 36 bilgai lus lour tamien I Talis:11 eo quart eruir,s Aduer
nt, Com 1 ft etiam Non recte feruatum a veteribus ordinem ini disputando de
Participio. odica oack VEMAD MODYM perturbarut 6 ördinem partium, ita
quæstiones non suo quanque loco tra et auere. Duo cnim foliti sumus quærere.
prior quæstio eft:vtrum fit,necne? ) Altera hac fequitar, Ouanam sede id de quo
quæ VI litum est,lit collocandum. hæcilli cobiæret, tan quam effe et us
causa:ex ipfa enim subftantięno “ ), tione eliciuntur rerum prærogatiuæ. Quare
per uerse tractauerunt prius fedem Participij: poste rius autem, an Participium
esset pars, et species diet ionis. At enimuero si Parçicipiū res nota eft,
quorsum tantęcongeries argumentorum.li non eit nota, imo vero linonnullis ne
pars quidem o rationis vllaab aliis separata iudicata eft, quo co Lilio ei rei,
quz nusquamextat, fedem ftatuunt? Quo 5 364 Iul. V.. quum dici Quoniam vero
nullusartifex, pbat fuum subie et um effe: fed fuperiore scientia prolatum, pro
certo ftatuit:iccircovideamus, qua ratione parti cipium, quod subiectum est
libri huius, efle pro betur.Triplex modus est probandi, per cauffam, per effeet
u, predargutionem. Primusmodusest per demonstrationem, fic: Diet iones quædam
funt declinabiles, quia omnis sermoeget aliqua variatione. Alter modus est, per
conuerfionem de monstrationis,fic: Variatur sermo, quia di et iones funt
declinabiles: caussa enim hîc probatur per effectum. Tertius modus est,quuma
pertinacib. negatur subiectum ipsum esse: veluti 2 mus, Ideas eflenullas.
Autsubie et i ratio forma lis:veluti quum dicimus, Metalla quidem esse,fed
transmutationem no inueniri arte humana, qua re Alcumia nulla erit. Aut quum agnofcimus
quidem et fubie ettum, et rationem formalem,fed negamuspertinere ad eam
scientiam,cui attribui tur: veluti quum Grammaticus de voce vult di sputare.
Horum modorum duopriores non ad mittunturad probandum fubieet um effe, fed fo
lus Tertius. Ratio autem huius legis eft aliis libris anobis
explicata.Nuncautem aduersariorum ra. tionesperpenfas diruamus. An participium sit Diettionis pars ab aliis
separata. Vi Participio partium numerum non au gent, appellant ipsum avavaxna
son at poor siue övTISpe@ xoxv, id autem fonat, re ciprocam itidemque altera ex
parte respon « Qah den. I gopicer I dentem appellationem: quoniam
fic dicatur,Cur rens est cursor: et, cursor eft curres.Præterea nul- 2 lum
deriuatum aliam a primogenio naturam for tiri: nam si Pater Nomen, etiam
Patrius nomeno Ferueo Verbum, etiam Feruesco. Quarequum Participium a Verbo
fiat: fub Verbi veniat ratio nem. Vt horum argumentorum videamusvim, quid
Reciprocum lit, etquemadmodum fiat, et quomodo deriueturaliquid a primitiuo,
intelli gendum est. Ac quanquam superiorelibro de 1 Řeciproco diximus, id tamen
co fpe et abat, vt * Nomen acciperemus: meliusque a nobis, quam a Græcis
expressum effe. Nuncautem paulo ac. curatius contemplemur. Reciprocatio, cft
par priori ex eisdem, aut ex contrariis transpositio ex eisdem: vt, Conful est,
qui consulitsenatum: et, Qui consulest, consulit senatum. Excontra riis: vt,
Philosophia est, eloquentia disputatoria: eloquentia est, pbilosophia
elocutoria. Oratoria est, diale ettica diffusa: dialeetica estoratio pressa.
Palma eft, pugnusapertus:pugnus est,palmaclau fa. Hinc dicta reciproca, quoniam
procreentury, retrorsum: idest repetant.Sicrespondere opinio, ni, atque
expectationi,quum par estopera indo li. His constat, non reet e dictam
reciprocam ap pellationem. Neque enim pares hæ suntoratio Aes. Cursor est
currens: etcurrens eft cursor:nam Cursor designat robis naturam, ingeniumque ad
currendum: Currens autem dicitactum cur rendi nunc. At non omnc currens eft
habilead currendum: habilem autem dico ad celeritatem, non ad conatum, Tev
aequxota. Curritsuo modo Aa teftudo,non Curforis. Idautem manifeftius aliis
nominibus apparct: Non enim omnis Pugnans, #Pugil est.Et quum Orare, fitore
pronuntiare: ve teres verbuin illud omnibus conceffere: orato ris autem nomen
sui vnius in L. Crassi persona a gnovit Cicero. Neque carentratione hæc:vise
nim horum nominum inde manauit, quod ex 'frequentibus actibus habitus fit. qui
igitur vicio vrfüm semel, fortaffe casu factum eft, vt debella ret:at
Carpophorus Domitiani, et Vergilianus Picus debellatores appeilabuntur. Si
igitur essent eiusmodi appellationes eiusdem substantiæ, v.
niuersalienuntiatione vltro citroq; efferrentur, 2 atquereferrentur. Deriuatum
autem vel fequi tur Primogenium, vel excedit,excediturve: Sife quitur, ciufdem
speciei cft ( intelligo nuncfpe ciem contentam fub dictione, tanquam sub ges
nere )vt,quia Rex Nomen, eriam Regius:nõex cedit enim, neque exceditur. Ata
Bono, Bene quum deriuetur,exceditur numero, et aliis Qua re Participium quum
excedat casu,et genere Vera ba,nullo modo effe Verbum poterit. Falso igitur
regabant, desciscere Deriuatum a primogenij ratione: quin etiam Deriuata quædam
vel man ciora funt,vel ampliora, vt ipforummet vtar pla citis. Aiunt enim
Tuuscarere casu Quinto,quem tamen cafum Tu, constituit. Contra Suus, et * Meus,
Primitiua excedunt fua: hoc Quinto ca su, quo caret Ego: illud etcasuum, et
nume rorum variatione, quo caret Se. Ad hæc lia cantando, erit cantor, Verbum
erit, non No. men. Quod autem Participium, Nomen nonlite ODAVATE LESZT 1 mantis
fit, inde colligimus: habet enim Verbicostrudio,wenn nisheyet nem: Legens
librum. At Nomen nullum his lc gibus fruipoteft: fed fiquem casum nanciscun for
tur, id euenit aut vi drationis, aut yerbicuiuspia uliopelo merito: vt
PotensLyræ,poffeffionem quandam significat, sicut, DominusLyræ. Quodfi quis
sit, cui dicat, Appetens gloriæ, non significare polles fionem ( quod enim
appetit, non polider )is File intelliget eo modo dici, quo Auidusgloriæ ; est
Pepe enim iç'ter.sad possessionem. Alij autem casus in attribuuntur Nominibus
per defeet um fupple-, menti: vt, Amicus illi: id fic est, quoniam litae Pern
micus, adfit illi, ac faucat: Superbus pecunia, et fa et us a pecunia. Debile
autem eorum eft argu ekrok mentum, quo excludunt a Nominis ratione, quum dicunt,
Quiano significantadionem.Ma. le enim elocutisunt,quod recte sentiebant:nam
etiam Nomen hoc Adio, actionem significat, Ergo Participium ab aliis fecreta
erit orationis Tipars. Nequc impedimento fit,quod nome suum, acceperit a
portione Verbiac Nominis: Tere ziumenim quiddam factum eft. Neque enim ex verbi
nominífque coitione fa etta eft Tertia sub ftantia; fed ortum a Verbo traxit
secum tempo ra etfignificationem, adiunxitque generi etcasio · bus: plusenim
Verbi quam Nominis obtinet; id quod fane non potuit exprimi ipso nomine, quod
nomeactiue intelligi voluere,quiacaperet, AtMancipiu, aliam sequutum eft
analogiam, vt fignificaret,quod manucaperetur.SedParticipiu, că
Municipiocouenit.Minus vero bona oratio neyli sunt, quiliç diceret, Partem
capitaNoming7 NO E B 4 och 368 IvL. VIT. CXA: 1 partem a Verbo,partem ab
vtroque. Quis enim fic, Partem a Cæsare, partem a Lælio,partem ab vtroque?
nonnciam ab vtroque accepit? Sed ita intelligendum eft, Accidentium quæ
funtParti cipij, partim esse a Nominefolo, partim a solo Verbo, partim ytrique
communia: dummodo il lud quoque meminerimus, ipsum habere cum Nominecommunem
differentiam Adiectiuo rum. Substantiuorum autem nullam. Participii necessitas.
T vero ne ad orationis quidem volupta tem solam inuenta ea species eft, quemad
modum partes quædam coniunettiuæ: sed necessitate quadam, ac vi naturæ. Quum
enim declaratum iam sit, verbum significarc aliquid ,quod significato nominis adiiciatur,
sic, “Cæsar pugnat”, coacti sunt sapientes aliquid excogitare, quod non folum recto
casuiadneet eret, vt hoc exem Uplo:sed Etiam Obliquo.Neque enim si dicas,
“Video Cæsarem”. addas eiusmodiVerbum nisi addi to relatiuo, fic, Qui pugnat.
Quare Participium commenti sunt, quod et significationem obtine ret, etadderet
modum adic et tionis: quafi quum dicas, Cæsarem pugnantem: eadem sit ratio, ac
fisic, “Cæsarem pugnacem”. Quod siquis ob iiciat ita dici poffe etiam per
verbum. “Video Cæsarem pugnare”. lane intelligat verbi illius vi factumeffe,
non infinitivi: si eius loco substituat aliud, fic, Verbero Cæsarem: ncque
enimfi militer apponere queas infinitiuu. Eft præterea cauffa 1 ola ! tan sonra.
caussa alia nõignobilis. Quo modo res vna dicco 2 retur, fupra docuimus te:
nücquaratione yna fit oratio, videamus: Quædam enim eft yna, Natu ra: ut, “Cæsar
amat Lucinam”. quædam Coniunetione: ut: “Cæfar amat Lucinam et pugnat” at que huius
quidem modi species libro undecimo declaratæ sunt. Quæ vero Natura vna est,
vnum de uno dicit: quæ coniun et ioneyna, secatur in plures. Nam et Amor et Pugna
in Cæsare, et de Cesare dicitur, nihilo fecius, quam si dicas, “Cæsar amat,
Caefar pugnat”. hîc sunt seiun. etx orationes duæ, carent enim tam artis, quam
naturæ coniunctione. Quare manifestum est, Artem coniungere in oratione, quæ
natura coniunxit in corpore subiecto. Hæc autem aut seriatim sese consequuntur,
aut difiun etta sunt. Si sunt dissita, natura, ut Candor et Dulcedo in Laet te,
per ipsum corpus, quo deferuntur, coniunguntur quoque. Ita in oration per
copulam coaguntur sicut per corpus in re. Siseleconfequun tur, ea funt, aut
substantia aut accidens. Neu trumvero eget artificiofa cõiun ettione:sed que
admodum natura vnum funt fibiipfis fubeuntia, continentiaque alia aliud,
tanquam quum est triangulum in quadrangulo: ita etiam carum rerumnotævnum sunt,
hoc modo: “corpus animatum, sentiens, rationis capax, vna res est, ita yna
oratio hæc: “Homo est corpus animatum, sentiens, rationis capax”. Nihilo secius
in accidente, sic, Aptum natum admirari, discere,fcire:neque enim scimus, nisi
discamus: ncque discimus,nisi admiremur: quæ hæc ad hunc modum vnum Az iij. Ssunt: neque vllius artis egent ad coniugendum.
Quævero disiun essa sunt, ea per copulam coniunguntur, ut, “Lego et scribo” quam
obrem sicuti per subiectum a natura coniunguntur: ita fa etum est, ut per
participium similem nanciscerentur coniunetionem, ut, “Legens scribo”. Tertiam
vero necessitatis caussam ut intelligamus, hæc prius sunt perpedenda. Caussarum
quædam seextra rem sunt,quas Galenus vocat w goxata näs, recentiores, primitivas.
Quædam interiores, atque hæ duplices: aut enim sunt, aut non sunt coniun ettæ.
Ea vero diuisio secundum Accidens, non fecundum Substantiam fit: diuerfæ enim Yunt
aliquando a se ipsis secundum situm, vel fecundum Tempus: neque vnam tantum fpe
ciem cauffarum fequuntur:fed tum in efficiente, tum in materiali inueniuntur.
Ac illa quidem quæ extra rem anobis agnofcebatur, est: veluti, Ferrum, fiue
ferri illaactio: e percussione enim fit vel tumor ; vel fanies, vel eiufmodi.
Quæ au tem interior est,nondum coniuncta, opony syfucr KaGaleno, a nostris antecedens
dicta est,tam a pte,quam a Cicerone quü dicitur in Officiis, An tegteffam esse
honeftatem: vt, succus hesternus, qui poftea putruit, cauffa febris factus
est:caussa coniuncta estis, quinunc putridus eft: atque hic quidem nonsolum
tempore, aut situ tantum differt a seipso, sed etiamsubstantia. Aliquando
autem, vtdicebamus, non fubftantia, fed Lo co: interdum enim fuit fanguis
probus,atque incorruptus, qui tumoreeffidiat,cuius ipse caussa kit materialis.
Adhasigiturcauffas significandas quam sit Participium
fabricatum.maximum fui vlunı videtur præbuiffe. Quippe sidica, Percussi, et
yalncraui: non necessario adducor,yt credam ' vaincris caussam esse
percussionem, quam intel ligo ex verbo, Percutio. Quod fi dicam, Percu tiens
vulneraui:iarn planecostat. Si dico.. Sanguis putruit, et febrem fecit:Putret,
et Facit,non tam clare explicat, atque fic,Putrefcens facit. Præter hanc
neceffitatem, etiam mirum afferunt oratio nidecorum: cuiusmodi in futuro
passiuo vtitur Liuiusin xxiv.Et fibi pedites comparandos effe: id eit, qui
poffint cum cæteris committi, neque cedant. Gerundi Cauffa., per
piumabsoluerctur, maiorü noftrorum pru dentia factum eft, vt
haberemus,quomodofor- oniga mæ finísque eadem orationis commoditate ex plicaretur.
Quare ex his Participiis tempora quæ dam elegêre, quæimitarentur quidem Græca
illa λεκπον,μαχητέον, amplioritamen, vberiorique vsu circumferrentur. Hæc
Gerundia appellaue re,tribus præscripta casibus, “pugnandi”, “pugnando”, “pugnandum:
quorum medium seruauit vires, Participij: sed tanto aptioremodo, quanto supe
rabantur a Participiis Verba. Sicut enim apertius editur cauffa, quum dicas,
Cædens vulneraui: quam cecîdi: sicexcellentius quum dicam, Quia cæderem
vulneraui.hocautem Gerundio conci pitur totum, Cædendo vulneraui. est autem Aa
iiij. mely Emultis in rebus forma, et finisidem. Finis autem 1 partim extra nos
eft, vt Nauisextra fabrum: par tim intus in animo, vt ea quam idear vocant, qua
mouemurad eam quæ extra nos futura est. Vtru quesapientiffime explicarunt. Nam
et Pugnan di, et Pugnandum,finem fignificant,fic,Pugnan codi cauffa equum
afcendi: et, Pugnandum eft ex cquo: fed illud est medius finis, hic autem illum
so por consequitur. Exhisautem patet eflcParticipia, *Co tum natura, tumvfu non
abfimili, atqueetiam | forma. Habentenim Casum, vt Advefcendum, apudM.Tullium:
et, Ob tacendum,apudGrac 2 chum, Neque tempus,vt aiunt, amisere:nam ta ir metfi
cum præteritisponütur,fic,qui ad pugnan dum:tamen pugna futura fuit, quæ nondum
ef set: alioquinequeasdicere, Marius deduxerat le giones, fa etturas hoftibus
pugnandicopiam. Pu gnando autem paulo liberius, elapfum eft: Pu mignandovinço:
id est, dum pugno: ac potiuscauf sam præcedit, quam constituat: vincendi enim
cauffa pugnamus. Significationes quoqueita te nuere, vt cafusfuos expetant:
Studiovisendi vr bem. Sed ita fane fa et um eft, vt quum forma fit paffiua,
infrequentius passiue accipiantur: a deo vt quidaman re ette ponerentur,
dubitarint, Atcnimuero corum vsum primuın formæ ipfius rationem sequutum effe,
par est. Justinus tam in prooemio, quamin xvii. exipfo Trogo et iamprimum
casumpaffiue pofuit: Athenas e cerudiendi caussamissus.' Hac quoqueparte Græ ci
funt a Nobis superati, quibus Infinitiuus cum Articulo mendicandus fuit.
Veteresautem bre uita. 8 373 2 uitatis studiosi frequentius vsi sunt, etiam in
i. psis Titolis,de edendo,atque eiusmodi. M.Tul. sius in tertio Officiorum
feftiue, fi discendi labor potius est, quam voluptas, non enim posuit pro
Infinitiuo, vt dixere: fed abstinuit ab repetenda voceilla Labor, fie:Si
discendi labor,potius labor est, quam voluptas. Hinc do et iffimi viri college
re, nenos quidem paffiui Participij præsenti de- a luna • fici tempore,
Verberando sum defessus,Pugnan winny do vici, Legendolibro:idem est, Verberans,
Pu Ignans,Legens. Etiam illud Vergilianu,Voluen da Dies, præfentis temporis
inuenere: ficut et lusiurandum. Sed fane Iusiurandum, futuri fuit amine 2
temporis,antequam daretur,fic dicebant, Iuran mė dum tibi eft: fic,
Voluendadies,quæ attulit, quod the nondum fuerat. Poftea vfu deflexa suntin
præa Du sens tempus, atque etiam in præterito,vt diceba Pus mus, Cæsarignoscedo
auxit hoftium numerum, I quia ignouit.cauffa autem eft,qualis quum dicis, Di
Pugnaturus fum, et fui.Quoniam vero transitint ca variatione,ficut,
uaxcutt'ovetuagtia, iccirco alia bir partem a Participio nonnulli penitus
negarunt: quia idem fit, Legendislibris, etLegendi libros. c Alij vero, hocipfo
affirmarunt effe aliam, pro atis pterea quod constructio effet diuersa. Sed nos
candemcum Participio diximus, vfum autem; non semper eundem: Accidentiautem
nonmu tatur species. Proprium autem eft recipere Præ. positiones, Adagendum.
Vergilius etiam aliam Gf apposuit, Ante domandum: et,Inter agendum: quod
Græcijste tu dywv, et, Obtacendu:et apud mbat M. Tullium: vtrumque dietum eft
ab amandao Ava OITE Star goe 028 ISCU co ωςτο φιλεϊνοποτε φιλεϊν. Εt
Quintilianum,ra fio fcribendi iuncta cum loquendo eft. Ausi sune quidam dicere.
In capiendum hostem vado: fed hocmon memini. Propriū item carere variatione Personarum,Generum,
atque etiam Numero ram. id quod traxere ab Infinitiuorum natura. * «Cæsar it ad
oppugnandum Massiliam: Camilla pergit ad fugandum Aruntem. vt commune sit ad
vtrunque, Oppugnandam Maffiliam, et Fu gatura Aruntem. Sic Numerum communem a pud
M. Tullium: Stoicos Epicureis irridendi sui facultatem dedisse. et Liuiusin
primo: Vestri ad Xhortandi cauffa. Falluntur antem quiperDebet, aut Oportet,
putant interpretari Gerundium, vtin illo, Pacem Troiano ab Rcge petendum.
Omnenanque futurum,authanc,auteiuscerno direcipit interpretationem: ducimur
enim, aut vtili, aut necessario. Quoniam vero caussam sta tuunt,iccirco plus
indicant, quam Verba, atque ctiam Participia, lic. Video futurum vt vrbs
expugnetur, Video vrbem expugnandam: euen tum solum narrassac fic, Dico
expugnandum yf bem: proponiturnon solum finis, fed etiam deli beratio. quare
Græci dixere Aduerbia Jecses, 2πλευρέον, τυραννοκτονη τέον. Latini autem ctia
mo tum illum animi, qui in finem duceretur,como adius declararunt, quum
Gerundia appellarent. vocis flexułeodem fane quicorum natu ccfræ fons fuit. ve
quia gerendæ res elsent, quæ vo ces hocindicarent Gerundia dicerentur.Alij ab
eorum vsu, Nomina participialia: neq; enim esse pura Nomina, quæregerent
casum:neque pura Sed quo Partis. Participia, quæ passiua voce gererent a et
tiuam si gnificationem. Cauffa autem qua ducti sunt, vt defraudarent
significationem, atquein actiuam demitterentur, hæcfuit: quod passiue intellige
bant ex parte appofiti, non suppositi, fic: Eoad oppugnandum vrbem: quoniam
prius fuerat, Ad oppugnandam: et eodem modo di etum fuit,fic uti notauit
Gellius, et nos diximus in capite de Infinitiuo, Hancrem præsidio futurum. Alij
et iam Gerundiua yoluêre, quæab illis petes. Supirorum Ratio. 1 0 bi
gemaioreaffeetu notant:na, Eo ad pugnan- this dum,futurum significauit: Eo
pagnatum,ita po fuit futuru, vtiam abfolutum sit. Ita est,quono do apud
Homerum, ra tetenequevověsw:Signifi -1) catigitur aettionem cum A et
iuis,pafsionem am» Palliuis. Eo factum iniuriam: Iniuria mihi fi et u itur. Sed
lane femper pasfionem quandan sa- ) ) pit: neque enim est, Eo vt faciam: fed,
Eo vt hoc fiat.quali, Eo ad rem faciendam quidem,fed ita, yt faettum iam
sperem. Sic Sosia: Diąun puta. Quumigitur hîc finissignificaretur, norimme rito
altera voce alterum extremorum Ignatum est,Inmotu enim est, et vnde fit,et quo
re et iflime dicitur, Venatu venio: ficut Venatum Vado. Sextum n. casum huic
vsui effe coparatum diximus.A meitur:sic,Venatu itur: cætra quam putarunt.
Plauti. a. estin Menachmi, Obfonatu - 10 redco: ft.Itaque 1 376 IvL. VII. 1
redeo. etCatonis in libro dere Rustica, Primus cubitu resurgat. vt hæc fit vera
constructio huius Bupini. Nam ea quam ipsius putant, Expugnatu « difficile,
Mirabile dictu: fortaffe non fit, sed No minis. Vocatų Druli, id eft,
vocatione,fic lussu et Permissundicimus enim, Facile expugnatu,id eft,
expugnatione. Quareautem supinum di et um sit, haud fane conftat. Nam quod
aiunt veteres, id ca cauffa fa et um, quia a præteritis paffiuis du et a
essent, quæ præterita veteres supinaappellarint: non folum non foluit
quæstionem, sed etiam auget. Nam quam ob rem Præterita, caque passiua tantum
hoc nomine dixerint illi? Nos in libris historia rum Aristotelis ostendimus
quid Pronum, quid Supinum sit. Neque recte aTheodoro towmocy effeacceptum, vt
Latinis auribus satisfiat. hîc ve ro ita placet fatagere: Gerundium a supino
ita cidifferre, ficut Futurum a Præterito: vt aliud fit, Faciendum: aliud,
Faetum. Itaque quod geren dumesset, ftrenui viri ac fortisiudicarent: con tra,
quod iam esset gestum, minus excitare nos adagendum.Itaque Tityrum supinum
facit poe ta sub arbore,lentum scilicet,acrecubantem:Me liboun certantem
cumfortuna, acres fuasma gisftrerue, quam feliciter gerentem. Igitur, Eo ad
pugnndum: gerendam rem significat in viro diligenti: Venio pugnatum: rem geftam
in ho mine qu possit otio parto frui. Hæc esto cauffa, quæ persuaserit antiquis
vt Præterita pafsiua Su pina dicer:ntur,vt poffet in vtranque aurem:at que
ctiam upinus cubare. Q1 Pugnando. Non excludi Modum a Participiis,
sed Modi variationem. Vemadmodum Gerundium idem diuersis Temporibus
accommodatur: vinco, vici, vincam:sic etiam idem Participium,! diuerfis Modis:
adeo, vt in pafliuis etiam Modos ipfos constitucrit:Do et us effem, fuiffem,
fuerim, fuero. Vtinam pugnans vincerem alio modo di citur quam sic, Pugnans
vinco, hîcenim eft et Pugno, et Vinco:ibiautem,Vtinam pugnarem, Vtinam
vincerem.hoc quoque a veteribus omis fum est. Nonreette Generum cauffam a
veteribus affignatams. Enera tria eadem vox compleetitur, hæc,hocpugnans. neque
id natura potius quapia,quam forte: nihilofane consultius,quam in
nomineFelix.Falsam nanqueaddducuntcauf fam: Quum enim Verba,inquiunt,omnibus
fine + vllo discrimine iungantur generibus sub eadem voce:Vir,Mulier,Mancipium
sedet, eiusdem ni mirum effe debuit naturæ Participium, cuius fuit Verbum, a
quo fluxerat. At enimuero fal luntur: Quippeverbalia quoqucnomina, quæ a,
verbis manant, nihilominusgenera variant: Vi cor, Vi et rix, atque etiam Viet
tricia, apud Luca num. Præterea quisnefcit apud Græcos tria genera in
Participiis totidem fignari vocibus? Po Atremo ne in noftratibus quidem
variatio illa i gnota est: vt in paffiuis patet: Amatus, Amata, A matum, et
inadiuis,Amans, Amantia. Figura.
Pcomposita a copositis Verbis deriuari: iccir co Figuram ab illistrahere, non
ipfa illam confi cere. Hoc autem falfum eft:multa enim sunt quę suo genere
Compofitionem admisere, non aba liis traxere; vt, Omnipotens. neque enim a Ver
bis tantum composita fluuntomnia. Ergo figura Participiis per fe competet,vt
cæteris:non per ac cidens,vtdixere. empus. Empora quædam fimplicioris intelle
et us, quædamamplioris habuit Participium:nc que secutum Verbi eftintegram
rationem. Nam Futurum, quod erat diffutissimum atqueobida Græcis scissum in duo
vnica voce coplexum fuit. Item duo Pręterita.At Præsensquod effet simpli
ciffimum cum intelle et ione Præteriti imperfe et i.coniunxit vnica nota.vt
Amans effet,quiamat,et cequiamabat.Neq; caruitratione:oftedimusenim apud
Philofophos naturale quandam continua tione significari per Pręteritů imperfe
et ű,vt non multum a Præsenti dissideret. Illud vero maxime quæretur:quumapud
Græcos tria hæç Tempora tam A'diuis, quam Passiuis fint attributa:quam % obrem
Latini Præterito actiuq, paffiuo Praesenti defe ettisunt? Atq ;in quibusdam
fanehæc omnia. Rc sunt:Hortans, Hortatus,Hortaturus,Hortadus. Atin aliis, quæ
simplici constant forma, vt Ama, quare 379 2 quare non possedere præteritum: vt
Amor,qua re non possedere præsens? Sane hîcnihil habcas, quod refpondeas,
præter negligentiam: adeo, ves af in illis quoque,in quibus omnia esse
videbantur, vocem quidem videas, significationem non vi 2 deas. NamSequens
præsens quidem eft, et Hor- tans: sed significatus actiuus: ac fane ab codem
it., verbo Sequor, si potuit deduciet Sequuturus, et za Sequendus: quare no
potuitin præterito distin cum effe,Hortatus actiuum, ab Hortatus,paffi uo? Si
potuit ab Amo, Amans: quare ab Ainor, nihil potuit? Significatio. Vemad modum
Verba manent, aut muti. tur,fic et Participia. Nam Lauant recensen Na bamus interuíça.
Sic Voluentibus annis, eadem fuit significatione, qua Volućda dies,vt eft apud
de Homerum:withoueYWV EVIAUT@.Sicmutauit O-, riundus, nõ rationc fubeftautem
cauffa vtigno rata, sicacuta. Eftoriundus Roma quiBononiz ) ortus,Romæ oriri
debuit quo in loco lares habet patrios. itaque idem eft Oriundus, quod Oritu
rus. Futurum enim hocnon defignat quod erit. fed quod non fuit, et futurum esse
debuit.In paras fiua autem voce declararunt: quoniam ipse iam per se no
poteratoriri,aut agere,vtoriretur:sed fato, autsenatusconsulto,aut rescripto,
aut re cenfionc affici muneribus ciuitatispoterate 0: June. Affoftus. Program
que 380 IuL. VIL leret: 1 Tutus alos to 10 Huis ca mus, tilusa ttiam Gnar
tarctu P Roprium eft Participii,fieri a quibusdam teftem Verbis, quorum
nõfequatur significatione: vt Sequendus, a Sequor: paffiua fignificatione ab a
et iua. Id autem propterea euenit, quia hæcom cnia, quæ vocamusDeponentia, olim
Communia apes. cefuere:atque iccirco Deponentia dieta, quod de suape pofuiffent
alteram significationem, quam habu iffent. Sic verbi significatio vetus abolita
in Ver bo,mansit Participio, quemadmodu deleto Ver 2 bo toto, mansit
Participium:Laboratus, Regna tus, Erratus, Triumphatus, Decursus. Sed adhuc
longinquiore ratione, Auritus, Pellitus, si sunt Participia. Quæ autem exempla
afferunt muta tæ fignificationis, fortasse non omnia carent ra utione.
NaDiscretus, fac significet viru modera tum: nõ eft quiadiscernit, sed quia a
vulgo fapie. Cetu fentetia fecretus fuit. fic Circufpeettus, no qui Circuspicit:sed,vt
Homer dicebat, qui circunsta tiu ora,atq; ocul sin fe conuertit:id quod quum
fiat ob eius pr stantiam, actum admirantium tranftulêre ad significandum
caussam, propter li quam admirarentur. Sic Beatus, diuitem notat, qui multa
bene, ac benigne poteftagere: at Bea quad guu` ' tuspaffiuum eft Participium,
quem bonis,vt ap cxpellat GræciBiov, Fortuna voluit beari. Sic Cau tus,quem
cauendum dicerent:quem,vt ait ille, a trumagnoscerent, aut fænumin cornu gestan
caem. Falsum, quoque quis neget passiue femper et accipi? etiam quum falsum est
testamentum: ic circosic dicitur, quiaipsum fefellit,fcribat:Falle rcenim
eftoamen. diffusa significatio ad fal kumteste, quareactiuehîc accipi putarut,
qa fal aque Pre etiam poffit mus, et priur nega ave men men age. و ووو et CUE Iereto
cato ation hecco Ommy CHO amba tain clerol Seda tus, unta I İeret: verum
analogia transtulita Testamento ad Ebulda testem, quoniam vtrunque corruptum
esset. Tutus quoque fem per paffiue: Tutus portus,qui», alios tueatur, propterea
quod ipfum tucantur rupes: Ita alia nonnulla eruentur, et reddentur suis
caufis: neque enim nostra nunc intereftom nia persequi. Quædam tamen omnino, vt
dixi mus, mutãt significationem: vt Disertus, et Pro fufus apud
Sallustium:neque enim mirum, quum etiam Nomina ipfa hoc pafa fint: fic enim et
15. Rio Gnarum,quinosceretur, et Nescium, quiigno rarctur sunt interprctati:
Sicut etiam Euidens; atquealia animaduertêre. Propriu item eft Futuri temporis
pafliui,poni// etiam prore, quænon fit futura, modo effe aut poffit, aut
debear: vt exemplo Liuiano diccba mus, Milites comparandos,et alia eiufmodi.
Pro prium etiam nondeficiCasibus, et carere Specie: negarunt enim prisci vllum
ab alio deriuari, fed uodą aVerbis deriuatisfieri:yt Gemisces non fit a Gea
mens,ficutGemiscoaGemo. Ite, Tranfire in no n, pre men primogenium,vt Pugnas
pro Pugnator:ali Caren: Ηπιους ulgole CUS, DC, circuit quado in deriuatum, vt
Çöfidens.Interdu ambi guum eft vtrum sit, vt Horatianum illud: Me
tuenstanga.Etiam creare Nomen: Amas, Aman tior. Ettransferresignificatum a re
patiente in agentem: nam etsi dicimus, Cænaturrhombus: tamen Lucullus dicet,
Cænatus fum: fic Pransus et Potus. Hoc factum eft, vt in Pasco, Pastæ oues:
et,Depaftasali ta: vt fuerit Cænor deponens, fi cut Pascor. Et euadere Nomen
substantiuum:vtn Sene et a: fuit enim verbum Senco, quo et Ca. tullu's whirare
temas ere: ar oni.com 17. SiG. vtaicik Tapete Tueles entum ribat:E atio21 Bb j.
TUI tullus vsusest: cuius paffiuum participium, fuit hoc. Itaque
veteres fic dicebant, Sene etta ætate. Eademlicentia, Occasum dicis locum, vbi
Soloc cidit:at paffiuum hocfuit Participium ; vtin XII. tabulis: Sole occaso.
Præterea etiam aduerbium gignere:Indulgens,Indulgenter.Proprium etiam I fequi
Verborum naturam qua deficiunturcertis modis orationis:nam fi Pario, foeminam
tantum fpe et at:ita Pariens, vnico tantum genere præscri berur:nilifigura
quapiam in ordinem redigatur: DE ficuti dicimus, Mulierern foecundam: ita etiam
Ventrem fæcandum: quare etiam Ventrem pa- L rientem, quominus dicamus, vis
Participii ne quaquam prohibet. '. Antimeria in participio fit quum pro Verbo «
ponitur,vtin Hecyra: In arcem transcurso opus eft. Et apud Sallustium, Mature
facto opus eft Sed non finecaussa hoc factum eft: plus enim di cit Transcurso,
quam Transcurrere: et Facto quam Facere. Illa enim rem abfolutam desi gnant,
vtiam totum iter quod inter Pamphilum etarceminteriace bat,iam effet tranf
cursum. Quar partes licatio Num. IV LII Prop Lii num re QUX 3 quos imm
cuorent. tQuatuor partes reliqua,quarefintindeclinabiles; etquare
aliis postposita. DICTIONE tanquam ex genere fummo,alteraque differentia,quæ
rol. lit inflexionem,fit species inedia, quã vocant Indeclinabilium: fub ea
funt partes quatuor, Præpofitio, Aduerbium ; Inter iectio, Coniunctio. Quare
autem Persona, aut Numerus his non fint attributa, quærendum est. Propterea
quod hæ partes erant notæ connexion can be what · num, quemadmodum fupra
dicebamus: at ea, quæ conectebantur eratiã pradita his affcetibus: quos
affcctus si hæ quoq; effentcõlequutæ ; fane immelus fuiffet numerus fimul,et
fuperfluus:ali quotque earum a suis primogeniis nihilo differ rent. Si enim
Bene fcribit et Cæsar, et Corinna, Bb ij. Et Mancipium. adde genus ei Aduerbio,
iam fier mod Nomen Bonus, Bona, Bonum. Quædam tamen co partes fequutæ
suntautTempora,aut Modos, aut 2 Casus, tanquam affeclæ propter significationem,
non tanquãcopotes propter niodum significadi: vt,Heri,lignificattempus, itaque
addetur modo significanditempus,Amaui:fignificat enim non tempus, sed actionem
amandi cum tempore. Ita eft, Vtinã Ame,Siames,Ad amandum, Ob pug nandu,
Dereducendo Regem.Quareautem sunt Com aliis poftpofitæ? Nă
suntlimpliciores:ergo prio 2 reluco erant cognofcendæ. Item funt nobiliores
quedam quibusda,nonnullæ omnibus:magis ne? ceffaria eft Præpofitio, ğ Pronomen:
perfe et ior est Interiectio quam velVerbu,Yel Nomen, in De tegra enim oratio
cft,Heu.Hîcita respondemus: at 2 Facilius cognofci potuiffe Pronomen cum No
St?, minė, quam fi differretur. Simplicitatem autem illam mancamesse, neque poffepercipi
illorum rfaturam fine declinabilibus:quia hæ illarum con iungendarum notæ sunt.
Præterea non eft Sim plicitas, carere Declinatioessed Defectus. Quare non
poffis intelligere, quemadmodum Aduer biū Personis careat, nisi sciasprius,quid
Persona fit. Nefcias quid Gt Persona, eft enim accidens, nisi noris effentiam
eius cuius ipsum accidens eft. Harum autem partium nomina a fedibus, quas in
oratione fortitæ effent, dietta funt a vete ribus: qui et hoc negligenter
nimis,quum perac cidens effentiam definirent: et inepteprius inter fe partes
has compararunt, quam quæ qualefve effent ipfæ declararent. Nosautem, proptera
quod 17 WIB. TE D20 quod compositus intelle ettus a simplici anteitur,
etcoparatio eft fimplicium cöpofitio, sigillatim quæ cuiusque ratio,atquenatura
sit, videamus. Præpofitionis definitio, et fedesinter cæteraspartese Ic igitur
definiuere, Præpositio eft parsora- + tionis, quæ præposita aliis
partibus,lignifica tionein earu aut complet,autmutat, aut minuit. Complere, vt
Intercipio,Demiror: Mutare, vt Aufero: Minuere, vt Subrideo.Verum et confusa
eft, et ab accidenti, et non omnibus competit et luperfluis particulis. Nam
quod fit confusa fatis patet, quum nodesignat quibus partibus præpo natur:pars
estorationis Interięcio,atei nulla vn qua Præpositio præpofita fuerit.
Abaccideti data 2 eft: neque enim est Præpolitio, quia præponitur: fed
præponitur, quia est Præpofitio. Non omni 3 bus çõpetit: nequeeniin cöpositæ
Præpofitioni, Mecum, tecum. Particulæ autem quædam vacanta fic,quod çöplet,
autminuit,mutat:eftenim mu-.wo. tatio, effectio vt aliquid differat ab eo, quod
erat, Voluêre fic intelligere, Mutare, id eft,destruere significatum:sedexemplo
inutili vsi sunt; etenim et quiadfert, et qui aufert, fert. Commodius dic'
xissent augere, minuere, et alia talia. Fortaffe veros falfa quoq; fit,neq;
enim effentia Præpofitionis eft præponi,sed vsus:liqua,n. vnquam poftponce
retur: ergo eo desincret esse præpofitio: quarea lio cofilio eius definitio
eftinuestiganda. Rerum in genera summacætera fuperioribus libris recelula ius,
fubstantiam, quantitatem, qualitatem, et m nila? Bb. iij eiusmodi.vnum in
præsentia nobis reliquum eft. philofophis tantum notum,aðGræcivocat:qui bus
autem rationibus cum loco conueniat, aut ab eo differat, aliis libris dictum
est: hæret fane semper etloco, et corpori: nullum enim Corpus inuenias quod
alicubi non sit. Porro Oinne cor pus aut morietur,aut quiefcit: quare opusfuit
ali qua nora, quæ to 78 lignificaret, fiue effetinter duo extrema,
interquæmotus fit: siueeffetin al tero extremorum, in quibus fit quies. Hinç
eli ciemus Præpositionis essentialem definitionem. comp Affe et usautem
præponendihincfluxit, propter ea quod terminum lignificaret: Adforum: indi cat
enim interuallum, quod ante forum eft: fic, Apud te: designat spatium a
meadte:quem ter minum quum nactaeffet res mota, etquiesceret, merito etiam
præposita est: pendet enim a mo tu. itaque eadem Præpofitio vtrunque munus
obiuit: dicimus enim, Eoin vrbem: ac tandem, Sumn in vrbe. Quæram tamen, quare
præpona. Por fimmturea, quæ locum, vnde fit motus,designat,fic, quo ab vrbead
villam: fi enim interuallum notatin quo res mouetur, debuit illa prior
postponi. Hic ita respondendum est, Cõceptam animo fenten. tiain priino quoque
loco exponi debere oratio. ne: igitur quum dico Vrbs, vnum vno modo intelligo.
Quum destinaui futurum, vt vrbssit terminus, vnde motus futurus sit, ftatim hoc
occurrit intellectui: quod, quum ftatuatur per præpositionem, primo loco
ponedum fuit. Hxe cm fuit fedes in oratione. Locus autem in partium e. äumeratione,
quæ inflexione carent, primus da ce tug 10% ca 387 a tus est non immerito: eft
enim maxime neceffa-, ty ria.quippe Natura omnis constatautmotu, aut,, a
quiete, Præpofitio autem harum rerum nota est. et Interieet io autem,quanquam
exprimit perfecte Com animi quasdam affectiones:tamen ea,vt diximus,', i
potuimus carere.Coniunctioautem tanto poste rior eft Præpofitione,quanto est
prior simplexo ratio,compositis.Aduerbiivero neceffitatem suo. loco
declarauimus,verum supplementum potius orationis effe,minore prerogatiua,quam
qua vti tur Præpofitio, videtur. An vero họcita fit, fe. quenti libro acutius
perspectum est. Prepositionum generica diuifioredu et ta adcauffas. Ifputarunt
Philosophivteresset prior,Mo-'" tulne an Quies.ac fanein noft: atibus
Quies prior eft: non quod fit priuatio Motus, vtaiunt, (Motus enim item Quietis
priuatioeft ) sed quia nobilior:mouemurenim vtquiescamus. Contra” videatur
cuipiam Motum effe priorem: tu quia, ( vtipfi credidere)semper in cælo fuit:
tum quia si vult Auerrois, Motum effe perfe et ionem cor- > poris naturalis.
Verum vt de cælo loquamur, di cimus ipsum mouerivecertis quiefcat.Intelli->
gonuçQuiefcere,adipisci quod non habebat hac vel illa parte. Deinde fatis
patet, ipfum toto, loco quiescere: quiescere igitur propter fe:mo utri autem
propter nos noftraque: at finis fui perfectior eft. Auerrois autem non debuit
ina telligere vltimam perfe tionem, sed perfectio nem per proceffus: et quam
vocant evtu ya senen 1 1. perficimur enim mouendo, propterea quodad quietem
propius accedimus. Quum igitur quæ dam Præpofitiones motum, quædam quictem
indicent,quædam vtrüque: hæ ambiguæ vltimo loco tractandæ fuere: quæ autem
quietem signi ficant,primo.Verum vnam tantuminuenio, quæ Pecfolius quietis nota
sit, ea est, Penes:significatenim potestatem immobilem ab co, cuius eft: itaque
est: itaquemaximeSubstantiuu verbum sibi vin dicauit. Plures funt motus
indices: Terminum quo vnde fit motus notant, a, De, Ex: quæ ad com moditatem
orationis sunt interpolatæ, Ab, Abs. Het ateş E. Alterum autem terminum, Ad,Ob,
Víque. Eft etiam vna quæ tres terminos comprehendit ita cevt terminum ad quem
fit motus, nominet,atque interuallo statuat ; ea est, Trans: Curro trans montem
ab vrbe: supponit vrbem,nominatmo zemas tem, et petit aliud. Aliæ vtrunque significant
pro verborum,quibus iunguntur,ratione: In vrbem co: In vrbe sum.Itaqueetiam
casusmutat, quo. rum rationem suo loco diximus. Sunt etiam cfimul vtrunq;
miscent:vt,Apud;sic,Apud te cur- Biu Tentem curro: est hic cursusmistusçũ
quiete. No dimoueor abste: hæcest quies: Moueor æque el actu a carceribus: hic
est motus. Eft autem qui 2. dam motus verus, vt in corporibus: quidam,vt eaiunt
Græciavanogenes, vt quum dicimus quem piam mente motum. Sicigitur etiam
loquimur, E Daug audiui: motus quidam est. Et, Ad me redeo: et, A libellis, A
manu: ex eius enim manu proficiscitur actio ad officium. Sic Ob et Pro
pter,oliin locum significarunt:Ob Romamobe GIC 012 ner quæ gu tans I.C V coda
quitans Annibal: Athelim propteramanum. Tou Nunc deflexæ funt ad cauffam tantum
decla, lite randam. Things Affecttus præponendiratio, atg; vfus. Eter: Idendum
igitur quid fit Præponi, quotque Traces modis quidquam præponatur:tum præpo bir
'nendi vsus quibus partibus communicetur.Quu nin: igitur voces ad eum finem
sint comparatæ, vt aut 7 dicat ex duabus vna fiat, aut ex duabus feiunctis vna
o ratio, atque vtrobique neceffe fit, vt altera alte I ram sequatur, vtroque
modo Præpositio præpo ni debuit. Quamobrem fatis conftet: minus con fulto
veteres alterum modū, Appofitionem ap-» pellaffe:aliud nanqueest Apponerc,aliud
Præpo nere:ac fortasse hæc inter fecontraria: sic enim dicimus Appositum, quod
eftin extrema fitum orationis parte.idem enim est Addere, et Appo nere.
Quum,postquam res videtur perfecta,iufta quippiam ponitur: atque eodem modo
Aduer bium nominarunt, quod verbo tãquam præscri ptio quædam apponeretur. Quare
non rectein telligemus, Appofitionem, esse speciem præpo nendi, fed oppositum
quoddam genus:sed vtrū quepræpositionem ;eiusautem species, Seiun etta, et
Coniun ettam. Ergo quum prius fitseiunctim, sayangan quam coniun et im
præponi,de eo prius quoque dicendum est.Seorsum igitur præponiturNomi
ni,Participio,Pronomini, Ad Cæfare:Adipfum: Ad pugnantem. Coniunctim autem et
iisdem, et Verbo, et Aduerbio, et Coniunctioni.Præfortis, Bb y.
Adddo,Subies,Perinde,Absque. Quod vero aiutą, mo mom cum Coniunctione vim
suammutare,falsum est: ithoor etenim A BSQVE, tametfi motum verum non dicit,
tamen ita est, Abvrbe distamus mille passi bus:ita, Absque te
Triumphaui.Significat absen tiam, et interuallu, quod poffit effe locusrei mo
Cafe tæ inter duo extrema. Cafus autem duos certos fibi destinarunt, Quartum,
et Sextum:ac Quartu quidem, quoniam cauffam finalem significat: A mo Cæfarem:
Cæfarcauffa amoris est. Eoad Ca. farem: caufla eft motus. Huius natura fecutus
eft Secundus quoquecafus,fic enim dicimus, Vin cendi caussa pugnamus:
significat enim termi num quendametiam in poffeffione: Ego fum?Dei, non
Fortunæ. Itaque etiam hunc cafum ad eundem vsum traxere, Crurum tenus, apud Ver
gilium:Nutricum tenus, apudCatullum. Alter u casus Sextus designauitre et e
terminum yndefie ret motus, eius enim natura talis est: Abvrbe. Et uquia tempus
cum corpore, etloco, etmotu,mul. tas habet affinitates, iccirco eadem
locutioncin, terdum sicloquimur,A prandio, Aborbe condi to. Sic etiam caussain
materialem indicauit: De iurc disputo:quia abipfius contemplatione mo tus, in
eo declarando versor. Quæret quifpiam acutius, quamobrem Sextus cafus etiam
quieti fignificandæ attributus fit? k Haudfane præter rationem hoc fuit:nam Græ
uci Tertium cafum ei aflignauere, even signifi cat'enim acquifitionem:nihil
enim fimilius loco, quam locatu:acpropterea Latini, quiex Tertio Çafu fuuma
Sextum progenuere, illius in hunc prærogatiuam transtulere. Eft præterea quod
in ueftigemus: quædam enim sunt Præpositiones,q. quæ Quartumcasum exigunt et
tamen terminu, vnde fit motus, denotant: Poft hyemem: Post prandium. Huius rei
ratio est, quæ et in Trans: significat enim motum ad prandium: atq; etiam »
vltra. Par caussa et in Circa. Quartum enim ha bet:Circa vrbem. Nam omnis
motus, aut eft ad » centrum, aut a centro, aut circa centrum. Ergo centrum
tametsi non eft meta motus circularis, tamen eft præscriptio quædam: atq;
iccirco eun-> demcum Meta ipsa casum admisit. Ratio autem qua sunt addu et
i,vt eidem Præpofitioni duos ca fus apponerent, iam dicta est.In vrbe, quietem
di cit: In vrbem, motum. At vero quæ porro cauffa, vt etmotum, etquietem
eiusdem effe paterentur: propterea quod in, loci significat rationem: In
vrbe,tanquam in loco. Itaque cum motum ita si gnificares, vt etiam terminum no
folum pro tera mino,fed etiam proloco ftatueres, eadem vti po tuisti:nam, Eoin
vrbem, ita dicimus, vt etiam in vrbefuturus fim. Aliæ autē pari confilio ad
cauf fas reducentur: Sub terra fum,fub terram co. Su per,fcxit
significatu,vtponeretur pro De: quo-» niam argumentum,de quo loquimur, diettum
est abantiquis, Materia: at Materia defert,itaq; etiã moleselpos,vtsupra
fcriptu fuit,appellarunt.Ve rum de his sigillatim, quid vfusftatuerit, in
libris Originūdiximus adeo,vtfit prætermissam nihil. Nuncnö est huius operæ,
sed vniuerfalia philoso phorūmoreinuesligare. Sunt autequædam,que femper fcļūđī
ponutựr:vt, Apud, Circiter, Secus. Quat Quædam
cotra: 'vt,Dis,Re, Se, Am. Quædam in differentes:vt,Ante, Cum, et eiusmodi.
AcSeius et tis quidem qui casus deberentur,diximus.Con iunguntur autem cuiuis
fine discrimine. Neque ex folum, quæ abfolute poni poffunt:vt,Ante,in verbo,
Anteuolans: fedetiam quæ casum exigere cevidentur, qualis
est.Pro:quodmanifestum eft in + voce hac, Pronomen.Quare non recte dixere re
centiores, Magistratum, qui præsit prouinciæ, auspiciis viri consularis, fine
vlla inflexione no aminari in Sexto casu tantum, fic, Cælar pro con lule,
Cæsarem pro Consule. Nos vero vt nonne gamus recte dici, ita affirmamusetiam
pro cuiuf que sententia variari, nõ minusquamprimariam vocem Consul. Nam
præterquam quod superio ribus rationibus ac fere omnium vsu liquet, Græ cxcis
quoqueid defenditur:quippe dicunt a'rgora mov. Et nos, Proconfulatu,nihilominus
flectendo vsurpamus. Nonnepernox Luna dicitur? Atque huiusquidem vsumcommoditas
potius persua fit,quam ratio docuit Sanenos, quia caremusar
ticulis,arripuimusoccasionem ça'm breui sermo ne vtendi: fic enim relatiuum
esset interponen - dum,Dignitasproconsulatus: dignitas, quæ pro Consulatu est.
1. Proprium autem quarundamest, vtsignifica ta varient, qualis est, Aduersus:
quarundam,vt suum perpetuo feruent, qualis est inter.Quædam femper cum casu
sunt, vtCis:quædam femper fi ne casu, vt quæ componuntur: circumagunture
"enim per omnes casus. Quædam vsus fentiunt vi çiffitudinem, vt Pone.
Quædam femper præpo nuntur, cie. P 1 tia 5 DO Büntur, vt Ad. Quædam femper
poftponuntur. vt Tenus. Quæ litratio vt( quemadmodadice - camy bamus ) non re
ettein definitione pofitum sit tan quam essentiale, Præponi. Neque enim Aduer
bium est,vtdixere: iungitur enim cafu. nam fi i ies sit Aduerbium, quid ad nos?
Tenus enim est » uezes. vt apud Aristotelem in fexto historiarum, nezee zopkw:
et tot locisapud eunde:mezeitiali." quatenus.Quædam nunc
subeunt,nuncpræeut: * Cum Cæfare: Mecum. Nequefolum in compo fitione, fed etiam
alteromodo: vt apud Teren-> tiumin Eunucho,Vnaire amica cum Imperato remin
via. Hinc fatis conftat, nullum effe vsum + tertium,quem dixere,interponedi,his
exemplis, Qua dere, Quam ob rem. signat enim Relatiuu,sı cuipostponitur:non
Nomen: quod manifestumn estalia locutione hac: Res, qua deagitur. Pro-, prium
et illud,vim amittereconstructionis, quu componuntur: præpono te mihi: Tertius
furre pfit proSexto, quali Verbum esset fimplex. Sed etaliis modis, Prxeo
Cæsarem: vbi Quartuspro Sexto. Sed etin ipfamet compofitione:Quapro pter,
Quocirca. Sed et seiunctim,fipoftponatur, Multo poft tempore: et fit
Aduerbium,atqueab folute ponitur,fine vllius cafusofficio. Superflue etiam
additur, Adeo ad Cæsarem. CAP. Ĉiv. Prepositionum Efficiens, etMateria. Æcde
carumforma, et fine,hoc eftvfu:nuc. tant igitur feipsas interdum, vt A, fa et a
eftex alia, -1 10 C c alia, quæ eft Ab:
quæ a Græca fuit mutila, izos Gainis, ab llio. Sic ex Dis, facta Di: et illa a
Græca d'esquod enim bis fit, feparatim fit. Quiæ u dam a Verbis, vt
Sine,Pone.Am, tota Græca eft, "et apud nos non nifi in compofitione: Theo
critus autemetiam feorfum posuit, ajega. Et quemadmodum Græci vfitatum
additamentum Laddidere, xuqi, sicutBingo: fic nos noftru Te, « Ante: ficut
Ifte, Tute. Nam Ante, caftrenfis vox cfuit:quum obsiderent oppida
dicebantseefsean ute oppidum. Vsque,a Græca ws5 The pro eo quod west, wess.
Coram tota Græca, ob oculos, nogue aEtiam a participiis, Aduersum. Cum et Con,
v nam eandemque effe, aliis locis diximus: Con " fonantem finalem mutari
pro natura sequen tium se, vt Compono, Confero: Vocalem au tem, vt auribusplus
feruiat. item mutari, vt Co mes,Comitium:Cumprimis, Cumprime. quod autem fit
Com, non autem Con, patetexclufio che: vt Coorior, Coco, et in Contra. eft enim
a Cum: sunt enim contraria relatiua, ergeli mul. Fuit autem Græca,
ughes,nam,fuit par ticula completiua, huw. Ea igitur genuitCon
tra:sicut,in,Intra:Ex,Extra: Cis, Citra:In, Infra: a Sup, Supra: fuit enim fic
prius: poftea Sub, ab wiat:vt Ab, X. Sed antea orta sunt, “Inter”, “Infer”,
“Super”, “Exter”, deinde, “Intera”, “Infera”, “Supera”, “Extera”. Qemadmodum ex
Phänomenis Ciceronis obseruari potuit. Tornu Draco ferpit,subterfuperag,
retorquens. Fuit et alia terminatio, Subtus ficucIntus. Pasize autē sunt oenor
apud Græcos: nam Aristoteles et Thucydides, etPlato, etalii Attici, ita vtun
tur, cows procures. Ex Di, factum est De,ficutex Pri,Præ: vnde Pridie: et ficut
ex Ni,Ne.Aliquan do putaui a Græco je,Deductum:neque ineptū® est. Hæcde
origine, et materia: nunc de aliis affe et tibus: Etiam a Nomine,Circum, ab eo
quod eft ” Circus,xiguo. Accentusprepositionbus,quemadmo. dum attribuatur.
VEterumÆolenfium ;vt faepe diximussix » quam plurimis autoritatem secuti: vt a
no minibus, vcrbissueabiecimusa fine accentus v fum: ita in
præpolitionibusrecepimus. Sic enim prisci prodidere: Omnes extrema fyllaba,
nili poftponantur, Græcorum ritu, acui: codemque tipoflponantur, accentum
transferri, na jurnami jual x mc men. Ita noftris placuit, vt dice remis Penes
Cæsarem: et, Cæsarem pencs. Quod fi vfu veniat, vt Præpofitio fit ambigua yox,
aliique particommunis:ne postposita qui dem transferri: vt femper dicatur:
Altaria cir cum: ficut Circum altaria: necocurrat cum Quar to cafu nominis
huius Circus. Quædam vero et iam amisere accentum, quippe ex quæ Encliti- st.
carum naturam induere, vbi postponuntur; qualis est Cum: dicimus enim Mecum,
sicut Mene. Verum deAccentibus, deque Cantilla tione illa fatis fuo loco di
ettum eft. Eofdem fo lensesrefpexereyeteres, quum nullam aspirarut: ». Illi
enim ito, et uzeg, dicunt. Caussa autem huius Sobre DS rei Ivl. VIII. t f rei
festiua esto: quum enim motu fignificetma xima earum pars, celeritate opus
fuit,nonmora et craflitie spirationis. Item quæ dicereritquiete, suauiteret
tranquillecamindicandam fufcepere: Afpiratio autem animi eft affe et i nota. Aly
affeettus. cong. Popriumitemcomponiet inter fe, Circum I circa:vtapud Homerum,
ucineispo© x ante cõueet to: Et cum seipsis, vt apud eundem, wes
xududozefia:Etcum aliis partibus: cum Nomi ne,Incola: cum Verbo,Impono: cum
Participio, quod a Verbo venit:cum Aduerbio, Abhinc: cu sogn. Coniun et
ione,Absque.Interdum autem retinet significatum, vtDeinceps, Coniunx: idqueaut fimpliciter,
vt his exemplis: aut auget, vt Impo tens, Infra et us. Interdum amittit,
idqueaut tor quet in contrarium, vt iniustus: aut in diuersum
trahit,vtPerbonus. Ratio autem huius poftremi 1 a Græcofluxit:nam mei
significat Circum:quod fi autem continet, id maiuseft, quam contentum. Abeo
noftrum Per,du ettum eft.itaque Perbonus, est o wexey.ww To digatov: Quæ autem
intendunt fignificatum, cauffam hanc habent: funguntur Huenim pene officio
eodem,quo in difiun et a oratio ne. Impotens,vt lit, potens in alios:Infractus,
qui ipfeintus fractus sit. Atvero quæ in Contrarium transformarunt, qua ratione
id efficere potuere? nam fane priuatiua Græca habuit cauffam, ad G:nam to d,eft
ficut to do, vnde noftru a:figni ficat enim motum, vt sit, qui mouetur a iustitia:
C و 0 ac at noftrum In,significat locum, et habitum:qua renon satis manifesta
cauffa est. Sunt et aliæ prę pofitionesaugentes, vt Adprime: motum enim et
propensionem notat ad id cuiiungitur. Con tra, sunt quæ minuunt: vt Subrubidus.
Suppude bat: non immerito: est enim respondense con trario tb w € lo quod enim
sub aliqua reelt, abea tegitur: ergo eft illa minus. Proprium etiamfupponere
aliquidad significandum, quod in caco > pofitione non fit,vt Internecium:hic
Nex figni ficatur. Inter,autem est nota relationis ad duo: at ea non ponuntur.
Græciclarius, annodovovat repov. Et mutari in eodem verbo Effero, Elatus. verba
tamen duo sunt. Proprium etiam creare ex fe Nomen, Ante, Anticus: Verbum,
Prope, Propinquare. Proprium etiã, vt altera pro altera ponatur:di- Enak
cimus.n.Ajpro DE,et ecotrario:fed non re et evti lagi Lin sunt exemplis
quibufda,vtide sit Ad oppidum, et In oppidum. Barbare item dicunt, Per vrbesum,
ficut In vrbe. Barbare Apud Balilea, sicut Bafileæ: falsianalogia
alteriuslocutionis, Apud foru: licay.. n. dicebant prisci, vt Terētius in
Andria,In foro n.homineslitigant: etannona est.Tu Donati in terpretatio hæc:
Verba,inquit, Dauide forove nietis.voluit dicere, simulatis venire de foro.qua
re autem fic aufi fint, haud fatis coftat: aliud enim eft ωδα,aliud ν.1llud “το
έχόμιον” hoc “τε ω ιεχό-“ refror notat. Falso quoque putant Propter, poni
alieno loco pro eo, quod est Prope: na hæc illius parens eft. weydiximusalio
libro,Græca effe mee. Itaq ;Prope,fuit pro pedib. ita Græci loquuntur;» Сс ј.
med İVL. VIII. meg moduko at a Prope, fa et a est Propter: sicut ab In,Inter: a
Sub, Subter. quare Vergilius cum di xit,Athesim propter amænum:fincero ;re
ettoq; significato vsus est. cum autem nos referimus ad vlum causæ finalis,
translato vtimur significato: quoniam finis cohæret actioni, mouet enim nos.
(Apud autem fuit, ad pedes,eodem modo:itaque Ad, et, Apud, proxima funt et
fignificatione, et v ufu.Ad Leccam velle cænare, vt fit etiam pragnas oratio:
ad Leccam cogitare cænandi cauffa. Ad Capua caftra habere quoniã eo cõtenderat
prius, Confequens a præcedenti. sic mutila oratio, Ad febres facit: immo
Adægrotum, cotra febres.sed Ad, accipitur pro qualicunque termino, etiã ho ce
stili. messzonw Tl- proco quod eft, aduersus. Cæ tera omnia exempla ad hunc et motum,
et termi num reducuntur. Quodautem aiunt, Apud ma iores, pofitum pro eo, quod
effet, A maioribus, falsum cft:fed eit ficut,Ætatenostra hoc fit:quip pe ab
aliquo apud cæteros, quod ad feculum hoc pertinet:præsentesenim sumus tempore.
mitter Proprium. et illud, Ponå absolute, atque inter du ficri Aducrbium:vt
apud Virgiliū, Pone fubit coniunx. nam oratio fimplex eft ex Aduerbio, intelle
ettus autē Præpofitionis. Poft, enim figni ficat relationem: quod enim eft
Poft, habetali icquid Ante.Eft autem Post, pone est. Interdum # quod plus eft
euadit Verbum,vt apud eundem: Omihifola meifuper Astyanaĉtis imago.proco, quod
eft, quæ fupereft:vt quodammodo sit quafi Participium: atque hoc quoque
Græcorum imi ai tatione factum est. Frequens est apud Sophoclem locutio,nie
prowlkesi: et ev«,pro šviş. Quo » rum legibus nostri quoqueaccentum translatuma
voluere. Obferuata est avauseia his exemplis, pro Ad=ffining. uerbio, apud 1
erentium, Fortunatus fum cære-> ris rebus,abfquehæc vna foret. apud
Sallustium pro Coniunctione, Præter rerum capitalium, condemnatis. fic Varro,
Præter fi aliter nc queas. Sed mihi videtur caussa huius loquutionis in promptu
esse: nam prxpositio illa præter, to tum quodfequitur excludit: fic eftin illo
exem plo Enniano, Præterpropter vitam: id eft, viui- » mus ita, vt videamur
propter quiduis potius; quam propter vitam. Aduerbiy necessitas: Sedesinter
partes:Nominisraa tiofalfa:Item Definitio, Ortus, Species. Cc ij. Dy Ivl. IX.
organa DyplexAduerbii neceffitas fuit,ficutet, duplex est vocum temperamentum
per adiectionem. Nanque aut adiicitur accidens substantiæ, aut gradus
accidenti. Exempla hæc funto, Vir fortis: hîcaccidens substantiæ addi.. tum
eít. atquum dico Fortior, tuncgradusacci denti additus eft. Igitur quod faciunt
adicctiua substantiuis, vt fecum affcrant accidentia: hoc vt a agantAduerbia
Verbis, excogitata sunt. neque enim fi dicas, Velox fcribo, aut, Velocia
fcribo, intelligas scriptionis velocitatem: fed Velociter fcribo, fi dicas:
intelligas. Sic igitur quum ex plesset Verba, adhuc fupererat aliquid agen ce
dum. itaque etiam gradus illi dengnandifuere. Quare quum bonitas, atque aliæ
qualitates in tendi, ac remitti qucant, neque Comparatiuo, ba aue Superlativo
ita plene poflint explicari, Ad uerbii ope factum eft, vt explicarentur: Valde
bonus, Nimis fæuus, Lorge alienus,Multo for- ni tiffimus: vt etiam illa ipfa
nomina gradus signi ficantia, hocindigerent, Paulo doctior. Quare a Vox non
folum nomen Aduerbii male fabricarunt 6 vite feteres,fed etiamimprudenter
assignaruntdefi- a nitionem: Neque enim folius Verbi tempera mentum est, sed
Nominis quoque. Sed nimis fe- cure fecuti sunt Græcos, qui æque inconsulte
Strafpnua ipfum appellarunt.Hinc constat ratio w originis, et fpecierum. Nam
sicut Adieetiua ap ponuntur Substantiuis: ita quod verbo appo unendum fuit, ab
ipso Adie et iuo deduci par est. Si enim dicam, Celerem scriptionem: dicam et
iam, Celeriter fcriberc, quæ fanefortienturno at POO 4 specierum a natura
ipsorum Adiectiuo-,; rum: vt si Bonus qualitatem, Magnus quanti tatem fignificat:
can aduerbia ab his deducta aut qualitatem, ant quantitatcm dicere intelli
gentur. Propterea vero quod a et tio et locum, et » tempus exigit, iccirco
horum quoque præfcri ptio ad Aduerbii vim relata est.Temporum enim et locorum
vaftiorem ambitum certis limitibus intercidi oportuit. Itaque necessario
inuenta sunt,Heri, Cras,Hîc, llluc: Cum igitur gradus quasi quofdam deducat per
Verbi Nominisque tractus:eiufdem quoq; interfuit, cofdem gradus,, detrahere ad
nihilumvsque. Quare fi dicain, Cur rit çeleriter, tarde: et Albus plus, minus:
debuit etiam poffetolli eodem inftrumeto, quominue batur: itaquedeuentum estad
negationem, tum eam quæVerbis præponitur ad cotradiettionem affirmationis: tum
eam,quæ præponitur Nomi nibus ad efficiendum id, quodvocatAristoteles,
cioessov: Non çușrit, Non homo. Quæ negatio cum folo Aduerbii genere
compleettatur, fane ef- " ficere potuit, vt contra, quam veteres putarint,
omnium partiu indeclinabilium princeps esset. Omnisenim oratio ftatim a suis
primordiisin af firmatiuam, et negatiuam diuiditur:quæ fiofficii meritum
putes,illico poft nomen, ac verbum Ad uerbium ftatuendumeft, Deducuntur autem
Aduerbia alia aperte, vt home Bonus, Bene: alia obfcure, vt Senfim, a Sensue
Item a Verbis, vt modis quibusdam seruiant, vt, Age,Fere: illud hortando
Imperatiuum exi. git, militarę verbum fuit, ab Ago: alterum non + Сс 11] eficia
I e a eft finilitudinis,vt aiunt,fed
diminutionis:quoda enim fimileeft, cum dico, Fere poetæ nullo ho nore funt? fed
fic intelligo,apud paucos pauci fi poetæ sunrin honore: intelligo autem diminu
utionem non magnitudinis, fed præscriptionis: vt aliquid detrahatur firmitati
sententiæ, vt ne- ( queat dicere, Nullus poeta: et item nequeam, Omnes. Sic
Fere fingulos parit mulier: vt fit, ne- V que semper, ncquenunquam. Tractum
autem ce est a philofophiæ radicibus: quod enim fertur, in motu est:itaque
terminum nullum attigit, neque enim a Feris ductum fuit,vt aiunt, quoniam ferz
fint celeres: nam etdurum eft, etnugantur, cuın dicunt, Feras esse ccleres,
quia fint quadrupedes: nam etAquilæ funt feræ, et celeres, nequequa drupedes ;
etmultæ quadrupedes feræ sunt,'nc queceleres, vt Elephanti: iroda et quædam ce
lerrima,vt Angues.nequeCanis fera eft, et eft ce- fa ļer.sed de his alibi.
Belli autem,et Domi, et Vef peri, et Tempori, ad alia reducuntur. Loci, et
Temporis, et Sortiapud Vergilium (vt voluere) Aduerbiis qualitatis
annumerabitur. a nomini bus omnia. ct Quæ igitur tempus notant, alia funt
Infinita, vt Aliquando, Olim: alia Finita, vt Cras, Hodie. Sic et Loci,quippe a
Pronominib. deducta sunt: Hic, lllic, delignantcertum locum: Alibiincer tum et
Viquam,etalia. Falso autem putarunt, Prorsum, Rurfum, Sur a suim,loci
effe:neque enim locum significant, fed motum ad locum. Illa autem, Oltiarim,
Vica Ketim, Viritim,quantitatis discretæ sunt. Quædara autem, vtdicebamus, ad
modos relata funt. Sed cum dicunt, O, esse optandi,tantum abeft vt af- er 05p
fentiar, vt etiam Vtinam putem effe interiectio - hiho nem: neque enim modum
vllum apponit Verbo:) pie idem enim est, Ainarem, et Vtinam amarem: et, ji
Omihi præteritos referat si Iuppiter annos: idem est, Heu quaremihi non refert?
Neque omnino Vocandi vllum Aduerbium fit: nihil enim detor quet, aut addit, aut
tellit a Nomine: quare qui Præpofitionem agnouere, propius ferunt veri-», tatem.
Nam tametfi neque motus, neque quietis indicatrix est, tamen disponit admotum,
Sicut punctum non eft quantitas, sed tamen ad prædi camentum reducitur
quãtitatis: sicin hac,neque enim dicas, Ad me veni: nisi aut voces, aut voca
tum intelligas. Loci ac temporis Aduerbia maximo ambitu feruntur: quare placuit
veteribus ca inter sese co parari. Sed turpiternimis lapli sunt: Nam quum
limfowla dicant,Aduerbialoci ampliore esse significato, adplecia quam temporis:
quia Nusquam, plusampleet aringen tur, quam Nunqua:non animaduertere,fola cor,
peste pora deberilocis. at ea fimul cum aliis rebus mul- 2 tis,quæloco nullo
cõrinentur, fub tempore effe. Non estin loco, Qualitas,non Relatio, nonalia
multa prædicamenta. et tamen subtempore sunt, aut fiunt: igitur Tempus multo
plura circunscri bit: Locus pauciora.Quod igitur nunquam est, nufquam item est:
at non ecotrario, multa enim nufquam sunt, quæ aliquando sunt. Quippenul lo in
loco eft hicactus scribendi meus ; at aliquo tempore quin fit fieripoteft. ou
Figur ain Aduerbiis. N Aduerbiis figuræ sunt,simplex, vt Diu: Cõe posita,vt
Interdiu. Componuntur autem vel tre poltquam Aduerbia sunt,vel ab ipfis
compofitis au fiunt, vt Hodie: fuit enim,Hocdie: et Nuper,fuit Nouo opere:
Semper,Semiopere:Toper, Toto copere: fignificat.n.cito, et expedite:ita vt
opera absolutasit. Itaque Semper,ei cotrarium eft,pro pterea quod liquid
dimidio tantum opere fit, id non abfoluitur, fed continuatur.Geminatur,vbi vbi.
Componitur cum Nominibus, Vbigerium: Te cum Verbis,Vbilibet:cum præpofitionibus,
Per- L diu:cum Coniun et ionibus fimplicibus, Vbique: VE cum illis et
fecum,Vbicunque, Profe et o, etiam, et illico, fuere composita, vt Hodie, ac NE Antiquorum Error in Structura.
SligiturAduerbiumVerbimodus eft,fatispa tet, quam inconsulto veteres ita
præcepere, onto præponendum esse Aduerbium Verbo,vțita di camus, Bene currit.
At enimuerocontra est: ac ceffio enim significatus fit ad yerbum ab Aduer- G
bio: et quemadmodum prius fumusviri, quant fortes: etprior natura Curlus est,
in genere, quam Cursus çeler, in specie:fic erit pri?Currere,quam Celeriter
cursere. Nonenim hîc loquimur de fer monis elegantia, fed de caussis ipsius.
Acquan quam ars atq; vsus dicitur natura imitari: tamen in quibusdam rebus
placuit varietas. Itaque ele gantius acceptum eft Verbum in fine orationis ÇON
on 0 die va U lee ic 40$ Opera 110. ziur ge DUSA Vbiz, ft contra, quam a natura
ipsius reisappeditaretur, quo more præpofitum est Adiectiuum Substan tiuo: et
Verbo Aduerbium.Sicin Tripudiis finiz, ftro pede mouemurprimum, quum natura
dex-} ") trum primum moueat: vt arteid factum,non cu jusuis
communilegevideatur. TAffeettus Aduerbii. Roprium est Aduerbiorum quorunda,
afsu - ioni mere sibi quædam Nomina, Vbi gentium, Terrarum,Loci:eiusdem naturæ,
Nusquam, et Longe: respexere enim significatum: eft enim Vbiquafi, dicas, Quo
loco terrarum? Sed et tem, pus cum loco communicatum, Intercaloci: co gnati
enim inter se sunt. Magna autem affinitas Aduerbii cum Nomine, vt diximus:
Itaque et a Nomine fit Hoc die, Hodie: etfacit NomenHo diernus. Adeo,vt
etiamcafum retincat Nominis,}»: funn Verbi,vnde fiebat: vt apud M. Tullium in
tertio Officiorum: Conuenienter naturæ viuit. quia etiam
conueniens.hocautem,quia cõuenit: Græcorum imitatione fa et us Atticismus,
ouobws » 00. Eadem affinitate casum quoq; pristinum re tinuere: In Recto, Fors:
a quo compositum per dubitatione cum An, Forsan:et Verbo interposiz, to,
Forssitan. In Secudo casu, Belli. et apud Cos micumiocose,Foci.In Tertio, Ruri.
In Quarto, » Romam. In Sexto, Forte: qua formafuere, Ci to,Falso,Şero: et horum
secutum analogiam ver þum ynum, Præste. Interdum etiam mutantur, Gatis ecen
VIID ad vt, ار Сс у. 1 IvL. ITE DE BE ER
vt,Modus, Modo, Mox. Sic etiam retinet naturam transformatæ in sedin !!
Præpofitionis, cuiufmodi est Cum. coniungit e nim tempus, Cum veneris faciam:
vt officium meum cum aduenta tuo coniungatur. Itaque re clatiua quædam facta
funt, Cum do et us,tum pro bus:id eft,quotempore doctus,eo temporepro
bus:coniungitcum doettrinamutuo probitatem. Sed hæc minutius in libris Originum
dicta sunt. !! Proprium etiam inter se vsum commutare: fic « dicimus, Illico,
pro tempore: fed fuit,in loco:et Hefternum panem atrum: pro pridiano. Refert
venimHeri,loquentem tantum:sicut Cras, et Ho pl die, et Perendie. Imitati funt
Græcos, qui xtes ad hunc modum dicunt: vt eft etiam apud Lucia num,in cunviw.
Proprium item, habere comparem, vt Haud, Non: et non habere, vt Ne:
prohibetenim, non u negat:quanquam in compositione pofitum inue nias negatiue,
Nequaquam, Nequicquam,Ne- ir frendes: sicut Non,prohibendo, apud poetas. In
Item habere feriem teporis, Hodie,Heri,Nu diustertius, Quartus: et vt fecit
Plautus, Quintus, Sextus: Cras, Perendie. Item minutiora: Nunc, Modo,
Dudum,Nuper, lam, lamdudum, lam pridem,et futurum Mox. Præterea quemadmodum
amiffo cafu Præpo fitiones abeunt in aduerbia: fic aduerbia in In ceterieet
tiones, Euge: nam hoc fuit eje, at Penė, Aduerbium eft. Item communicare eidem
terminationi di perfum modum significandi; vt Gælitus,delocoeft u 11 est,r gvoder,
Diuinitus. Jebjev: at Publicitus non, dusjer, sed dnu61: habet tamen motum quen
dam a populo:sic Primitus,a Primo. Falsum autem est, quod dixere Cafum habere
no con Aduerbia. vtponebamusönucler, Snuovde, ånuolio noted fed a Casu ducta,
co caruere: quare etiam contra ria additur Præpofitio. sexvb. ges. Item Perfo
nam attribuere ausi sunt ridicule, Mecum: oratio enim eft facta vna. si enim
fit Aduerbiu. ergo di cas,Egocum: Aduerbium.n.nullu casum exigit. Falluntur
æque quum dicunt,Heu esse notam responsionis ad Heus: nam fane nullum exem plum
afferunt. Ponitur autem adverbium pro nomine: Sic bine erat confilium: id est,
Tale: aut fit Pronomen, Hoc.Et apud Vergilium,Terrorum ac fraudis a-,, bunde
est: id est, copia. et Græce scit, pro Græ-, ca. Pro Pronomine: Hinc illæ
lacrymæ: id est, ex hac cauífa. Sic, Vnde: pro, A quo. Pro Præ pofitione, Intus
Templo, apud Vergilium, pro » În templo. Sed est expofitio in voce Templo yocis
Intus: sicutiquudicis, Fcram leonem: po terat enim esse,Intus,alibi quam in
Teplo. Quod autem dicunt, PridicCalendas,effe Aduerbio po-, fitum, pro
præpositione, falfum eft: nam Pridie, estoratio copofita,sicutMecum: Præ die:
et,Ca lendis, est vox termini in quem tempus abit, fic, Eo die, qui ante
Calendas, et ad Calendas, (ve ita dicam) it. Itaque etiam dicimus, Pridie
Calendarum: quanquam durius in quarto casu. Sed factum est analogia aliorum, vt
quia dicere tur, Quarto Calendas,id eft, Quarta ad Calendas, ita etiam,Pridie
Calendas.etfi non erat ante eum diem qui iret ad Calendas. Huius motus ratio et
cauffa elicitur exmodo loquendi Ciceronis: In ante diem nonum Cal. Pro Coniun
et ione: Qua do,pro Quoniam, ett ce re filI mo et mi In CE Interieetionis
natura, Ratio. feri te 1 te ef fis Vog INTERIECTIONEM veteres quum a situ
et nominarint, et definiuerint, nequaquam aa cæteris cæteris partibus distin
xere: nulla enim pars orationis non « interponitur. Sed ita
intellexere,Interponi,qua fi alienam a cæterorum structura: ficuti dicimus
Interuenire. Verum nomine paulo liceatiore leyfi sunt: nam et, lacere, est duriuscula
vox: et wa ettionis significans terminatio. Nam Coniuctio sit,quæ
cõiungit:atPræpositio? nequeenim præ ponit,sed præponitur ;ita Interiectionõ
inţeria B que cit, fedinteriacitur, et interiacet. at a Iacendo, la
ettus,autLactio non ducitur: vel G ducatur, rarius, vt
diximus,fanesit.Antiquoru simplicitatem re centiores castigare aggreffi
accuratius definiue re fic,Interiectio cst, quæ sub rudi,inconditaque + voce
affe ettumanimi demonstrat. Verum hæc et falsa est, etcum aliis quibusdam
partibus comu nis.nam quid appellamus rude? quod vocem pro nunciantis
exasperat, vt dupliciconsonante, E I uax: aspiratione, Ohe:mutarum obscurioru
ter minatione,Atat. Verum enimuero aut tales, aut eriam duriores alibiinuenias
offenfiones. Verbo rum persone eadem muta aliquot finiuntur, at etiam obscurius
fane in plurali, Dormiut. A spiratio per omnes pene partes comeat: Honor,
Haurio, Heri.Duplices onerant frequentius no mina, Felix Xenopho: quid
rudius,quam'Extra, Intra Infra? Quid simplicius,quam o? Præterea 2 quid est
Inconditum? quod incompofitum suam fedem amisit:Inconditæ ædes, Incõditæ
fluctua tes acies, Agmen incoditum. At nullus locus In teriectioni fraudi est:
quare falso a priscis di et ta est Interie et io, quæ etia præponi,etiam
postponi, etiam sola ponipoffit. Quodautem animi aiunt fignificare affe et
ione, non eft ab eis declaratum: nam vox hæc, Dolor, animi affe et um
significat: at Heu, non significatdolorem.quemadmodum Balteus ab Imperatore
militi datus non signifi cat militia: Deque enim vox,ncque a et io inciui lis
Cimonis, significatftoliditatem: fed notæ ta men etligna sunt, illud militiæ,
hoc stultitiæ. Sic Heu,dolorem non significat, sed ofdolentisani-" minow
1. 10 be Paylminota, itaque fola posita
explet audientis ani mrb. mum indicio fuo. Quæ cauffa fuit plena optimi
confilii, quamaiores noftriab Aduerbiis distin grouxerint. Elt igitur
Interiectio nota animiaffe et i, quæ nullius orationis indiget adiumento. Quare
fequiturilla natura, vt careat inflectione: Gbie nim vnufquifque affe ettus
præscribit certos limi tes: non.n.continuatur dolor admirationis, sed penitus
distinctus est. Quare diuersarum quoq; Spacesmiaffectus, tot
eruntinteriectiones. Minamur, Væ: admiramur, Papæ: fastidimus, Ohe: dolemus:
Hei: paucmus,Atat: indignamur,Vah: percelli mur,Au:abhorremus,Phy:optamus,
vtinam:ab iicimus, Apage: Laudamus, Euge:Attestamur, Doctis,Iuppiter,et
laboriofis:ficut etapud alium poetam,Nauibus ,infandum,anillis.etHomeria I u
cum illud qera G, in fineperiodi: mirificusc enim ornatus orationis est, et
augustiores cilius animi motus, quemadmodum in libris P coices a nobis
exaettiffime dictum est. Sic chiapud ch. dcm diuinum poetam: Hunc ego te
Euryale afpicio? tuneilla senecia Seramearequies:potuisti linqueresolam??
Perfecta erat oratio: at incomparabilis ille vir non fatis habuit, addiditque.
Crudelis. Nam etfi nomina sunt, tamen vim illam plene obtinent. Iurantis quoque
animus Interie et ionis potius, quam Aduerbii nota ex plicabitur,Profecto.
Mediusfidius: et affeueratis, aut sciscitantis, vt Sodes: et illud Terentianum;
1 bu v Els T, Indicentis filentium: quemadmodum et iam apud Plautum. Ex
hacessentia atquevsu, il ludenatum est, vt etiam casus quosdam quærant », fibi:
in cauffa enim eft efficacia significatus. Vx me, Væ mihi. Certos aliæ sibi
calus vsu potius, quam ratione asciuerunt, Heu mc, Heumihi, O ingentem
confidentiam. Voces quadam ab Interiectionis natu ra excluduntur. C.Vm igitur
affeetti animitota fitinterie et io, quærat aliquis, an brutorum vocesin hunc
a. ordinem fint redigendæ, Cra, Vhu, Crucu, Be, Pau, et eiufmodi fortafle carum
aliquæ fint, nihilo minus, quam noftrum Au: fed non reci piunturin
orationem,ficut ncque alia fi etta a poe tis,nifi periocum, aut figuram,
Bosxszexet, Jp877- νελω, τίω ελα. Caufa efficiens etmaterialis, et affeettus ab
bis etab essentia. EssentiaInteriećtionis, et finis eft:origo alla tem multarum
ab ipsa ftatim natura elt: Inn metu enim vocem edin.us primam quanque la
tiffimam, Hu: in dolore Hoi, Hei,apud P autum: aliæ autem ab aliis partibus
fubductis ex integra oratione, vt dicebamus, luppiter, Infandum, et eiusmodi.
ltem ab Aducrbiis,aut Coniunctioni bus, aut Præpofitionibus: nanque 0, avocan
di munere acceptum, transferimus fine calu in admi IvL. X. Tim admirationem, aut vota:
Omihipræteritos referatsiluppiterannos. Vtinam Coniunctio fuit Vt, et additum
eft Nam:ficuti in Qujanam: significat enim Vt, fi nem, quem in optando animo
concipimus sem per, non semper orationeexplicamus. Coniun c ettio est At:
geminata in metu, nonneaduerfatur imminenti periculo? A verbis quoque manarunt:
Sodes. prisi Proprium ergo est aspirari iisdem de caussis: Aspiratio
enimexplicat fufpiria, et difficultatis nota est. Itaque a Græcis sumptam
seruarunt, cePhy, Qeū, Heu: non inuentam addidere, ci, Hei, Hor:quibufdam
initio, Hau:aliis in medio,Eheu, Vaha:aliis in fine Proh, Oh, Ah. Veteres tamen
negant, vllam vocem in fineaspirari: quare fuit, ceaiunt, Ah a. nostra
nihilinterest, quidfenferint agrestes Opici: nam meliora secula ita pronun
ciarunt, Vah, Ah:quare etiam plus afficit Proh, quam Pro:et,Oh,quam O. «
Proprium etiam cơmponi, vt diuor, Mediusfi dius. Heuheu: quare non re ette
omifere Figuram. « Proprium etiam, nullo ordine statui: et ratio cofane subest
valida: perturbatus enim animus,aut præuenit affe et um oratione, aut affc et u
oratio nem: quare non reete Ordinem veteres assigna Proprium etia carere
specie, contra quam di xere: neque enim vna ab alia deriuaturnanque: Eheu
compofita est,nondedu et ta. Igitur hoc erut conscquutæ, vt interfe dicantur
Infe ettæ:fic enim toces primitiuæ a Varrone appellantur in se cundarunt. cudode
Analogia. Dico autem,inter le:propter ea quod ab aliis,vt diximus, deriuantur
partibus. Åntimeria autem nulla afficitur alia, quæ di etta eft, vt pro integra
oratione ponatur. Catullianum enim illud,Jupiter:fic est, OIuppiter, tu
testisesto. Women eteffentia Coniunctionis. RÆCORYM secuti quidam libentius Vox
interpretationem, quam vocis con cinnitatem, Conuin ettionem, quam." Coniunctionem
dicere maluerunt. At vero etvfitatum nomen aptius fonat, etdu ritia
translationis prohibet sic innouari: lenius e nim dicimus lungere, quam
Vincire: quanquam Sextus quoque Pompeiusowideouco potius Col- » ligationem
dicendam censuit. Coniunctionis au tem notionem veteres pauloinconsultius prodi
dere:neq; enim, quod aiunt, partes alias coniun Dd j. gits Ivl. XI. git: ipfæ enim partes per se inter
seconiungun tur: Verbum nanque Nomini iungitur affinitatc nito numeri et
persone. Sed Coniunctio eft,quæ con iungit orationes plures, fiue aettu,fiuc
potestate: nam, Cæsar pugnat, Cæfar scribit,duæ funtora tiones separatæ, quæ
Cõiunctione in vnuin coa lescent: actu igiturduzsunt: at Cæfar et pugnat, et
scribit,poteltate duæfunt: quoniam Cælar bis cft repetendus. Inuefiigatsubtiliffimecauffamfpecieram.
bonjo IGitur hæcConiunetio quum fieripoffevidea dum verba tantům, autfecundum
vtrunque: ex ipsis rebus,quemadmodu hæc reete fiant, videa mus.Res aut
neceffario cohærent, autnon neces fario cohærent,aut neceffario non cohærent.Ne
cessitas autem duplex: autabsoluta, ve Deus eft: necessario enim est non ab
alio, sed quia immuta abiliter eft:eft nanqueNeceffe,quodnccesscaliter 4potest.
Theologiautem abusi sunt hac voce, vt eam a Deo excluderent: quali idem effet
necesse, et coaetum: at enimuero ipfis vt libet: vocis vero ufatioeft,
Perfectio: contingens enim pertinet ad imperfe et ionem. Alia eft Necessitas
dependens: hæcin Deo nulla eft: Deus enim eft, Primum,et Simplex, etPotens
omnia, et Omniu cauffa. Hu ius Neceffitatis duæ sunt species, siue modi: Dam
ipfa cauffa, quã aliquid fequitur,autextat suapte natura:aut no extat
quidem,sed per wohoovsta tuitur.cxcmplum primi est:Homo,ergo discipli na nguna
montare Btellare Luntora uin COP Calarbi ! he capax. hic, Homocauffa eft, et
feipfo extat in oratione. At non ita in fecundo modo,cuius exe ux complum hoc
efto: Siambulat,mouetur.hîcenim no Hatuitur Ambulatio. ex his igitur coniunctio
num species sunt eliciendæ. Ergo secundum sen sum tantum quæ coniungant, non
reperientur, pugni propterea quod sensus notæ voces funt: quare omnes verba
coniungunt;fed earum quædam et iam sensum, qnædamnon. Copulatiua. Ut ergo
sensum coniungunt, ac verba: aut pino verba dif unque: iungunt: “et, fifensum
cõiungunt, aut necessario, aramelo int, vida aut non necessario: et, fi non
neceffario, tunc fiut nondes copulativæ, quas connexiuas vocat Gellius li
erent.N bro decimo ,et funt hæc: “Et”, “Que”, “Ac”, “Atque”. vt: vt Deuset
Cæfar doctus fuit, et pugnax: nõ enim neceflario ja immuti cohærenthæres, appofita
negatione,Cæsar do et us etnon timidus: fic,Nequecrudelis,neque timidus. His
addidere sufpenliuas,hoc exemplo, Et fu-)) E: vociste git; et pugnat:fed
frustra: merito enim verborum a pertinet fit hoc: vt,Homo eft,et inhumanus.
Saneeftsu = depend perflua curiositas. Continuativa. TAMY osle vide autfecw A
ccelcali 720 VOCE, Elletneret Primum īcaulla, i emodi: textatfun aut
præstituunt, aut subdunt. Præstituunt riwayam cæ,quas Continuatiuas vocant
veteres:recentio tes autem Conditionales: vt, Sistertit, dormit: cauffa crgo
dilo Dd ij. 416 IvL. x 1. cauffa nanq; dormiedi, etfino eftipfum ftertera fed e
cotrario: tamen ipfa Coniun et io necessario huic rei,quæ eftstertere, subdit
dormire: vt que admodun res are dependet, ita intellectus ordi. Ine contrario. Prior
eft Morus, quam Cursus: Ita que posito Cursu, etiam motus poneturabintel lectu:
eft enim Cursus cauffa intelle et ionisMo tus: hoc autem eft neceffarium, non
absolutum, neque pofitiuum, fed iweJenxor. Fit autem quia cotinetur a fpecie
genus: item comes eft affectus. + Quare non re ettefcripfere, Coniungiab hissen
; sus imperfectos:sunt enim perfeettiffimihi, Dies eft,Luxeft:Addunt etiam
id,lungunt,inquiunt, fine subfiftentia. At hoc eft falfum:aliquando e
nimsubsistunt,vtNunc,quum scribo:Nox eft. et dicam: Si nox eft,Sol subterra
nobis est. Ergo nuc nox fubfiftit, et tamen eft continuatiua. Sed ita cedicere
debuere,Sinesubsistentia neceffaria:potest enim fubfiftere, et non
sublistere:Vtrunque enim admittunt. Sub eodem genere funt Abnegatiuæ: vt, Si
interfuiffem, pugnassem: ostendunt enim effe et tum abeffe, quia defuerit
caussa. Hoc autcm non ex Coniunctione fit, fed merito Modorum, et Temporum:
fimile enim eft id, Si intereo: pugnabo. Quæautem nonex hypothesi, sed ex eo
quod soba subsistit, coniungunt:Subcontinuatiuasdixere. Cauffassubdunt hæ,
sic:Movetur, quoniam am bulat. statuit enim ambulare atque iccirco moue ri:
Continuativa autem non ftatuebat,ambulare. Vox Male autem a veteribus ita dicta
sunt: nam Præ positie E pofitio Sub, in hoc nomine aut fpecić significat, vt
hominem sub animali dicimus:aut diminutio 12 nem poteftatis, vt hypopheten fub
prophetein telligimus. At neutrum conuenit: nequeenim EI species efse quit
certa res incertæ rei: et Subconti nuatiuz poteftas maior eft, quamContinuati
ux.Sed ita excufandi funt:amplitudinemConti-, tinuatiuæ percipi ex co quod
ctiam impoffibileali quandopræfupponit. Exhac quoq; claffe funt Adiunctiuz: vt,
Pu- » gnadumvires.Et quægeneris nomine Caussatia D. uas appellarunt: ve,
Pugnaui, quia læsus fui. Et E Approbatiuz: vr, Pugnaui,equidem lælus.
Col->> ad le et iuis eadem natura, sed diftant ordine: pra ein ponuntenim
cauffam:vt,Homo, ergoanimal. 00 Simileshuicsunt, Igitur,Quare,Itaque, Quod: od
fic, Cæfar fuit Diet ator, quare omnia occupauit. Exemplum vltimą, Veniadte
euocatus: Pugnaa ui iusfutuo, vici:Regnum recuperasti,miser pro pterea sum:Quod
te per communesrerum vicif, litudinesrogo, fubuenimihi.deestenim Præpom,
ofitio,fic. Propter quod:dicimusenim etiam Pro- " pterea, et Iccirco,
etalia. Er omnino quæ aliquamcaussam apponunt adintelle ettum: Efficientem fic,
Quiaiubes, faciagn tu enim mouesmead faciendum. Finalem fic, Do, vt des.
eftenim Vti,. Poffuntautem et hæ, et etaliæ tranfponi:Quia dabis,do.Has antiqui
Per -Zoo fe ettiuas, etAbfolutiuas nominabant: inter quas. etiam Quatenus
recensuere, et Quo. Quium au tem addunt prohibentem particulam Ne,luduntta:):
operam:Aduerbium enim eft. Ddiij. a2 CO d ĈResolutioin Copulatiuas.
aft.REEsoluuntur autem in Copulatiuas omnes ptenatura coniuncta est: itaque
dicemus, Et do, etdabis:Etdies eft, et lux eft. Sicloquutifunt pri cefci
Audieras, et famafuit:quia fuit fama. Habes igitur caudam huius
quoqueloquutionis.Quum autem Copulatiua duplex fit, affirmans et negans.
Negativa in affirmatiuam resoluetur, Cæ ledar neque timidus, inequcayarus
fuit:fubeftenim (habitus contrarius, Et fortis, et liberalis. Difiun sgit autem
negativa propter negationem non propter seutt; Vis vincere, nec pugnare:est
enim, et non pugnare. Hoc autem percipitur exinte gra: Nec mutila est. Neque integra
est autem Neque et Non. Disiunctiva et Subdisiunctiva necessario, Caussativæ; quarų
species duz ; aut ex hypothesi, aut absolutæ. Quæautem ne Siceffariono coniungunt,
Difiun et iuæ diettæ funt: nawis “Aut”, “Vel”, “Siuve” a quibusdifferre
fecerunt Sub disiunctiuas,propterea quod hæ vtranqueponce rent partem ad eleậtionem:
Difiun ettiuæ autem alteram tantum. SicutContinuatiuæ alteri in certæ, alteram
positam continuabant: Subcons tinuatiuæ vtranquepositam, alteram alteri sub
Ves-continuabat. Et fane nomen Subdifiun et iuarum. secte acceptum est: neque
enim ita planedisiun. Il git,quam Disiunetiuæ:Nam Disiun et iuæsunt in
contrariis, aut Politiue,vt,Aut fanus est,aut æger; aut Priuatiue, Aut dies
est, aut nox; aut Relatiue, Autpater eft,aut filius. Subdifiun et iuæ autem et
iam in non contrariis, fed diuerfis tantum: vt, Ale xander,fiue Paris.
Differunt igiturinter fe fecun dum cotextum orationis: propterea quod difu
Stiuarum partes nunquam cohærent,sed sub co tradiettione politæ sunt; at Subiun
et iuæ no item, cauffa eft, quia Subdifiunetiuz ortæ sunt a Con. ditionali,quæ
etiam impossibileadmittit siç, Situ " homolis,fi,ve Equus, si,ve
lapis:neceffe eft çor pore præditus fueris:fic enim vsusestTerentius. Quas
autem vocant Dubitatiuas, ex ad Disiu ettiuas reettaaccedunt: ac magnum
faneambitum na et x funt, quippeex omnioratione potestoriri dubitatio:adeo vt
Scepticietiam tciğimua G po nerent in difceptationem.Poft dubitationem fiet
quæftio perinterrogationem. quaremodusqui dam estorationis, non species, vt
quum dicam, Eloquar, an fileam? intelligo mihi aut loquena dum, aut filendum.
Quoniam vero alterum capimus pro certoin difiun et ione:iccirco vsus rapuit
Velad vtriusque o partis affirmationem, vt et separata intelligas na tura, et
vtraque pofita, veluti alterum tantum ponebatur a Subcontinuatiuis: exemplum
hoc esto, Vel quia eshomo, velquia nobilis, vel quia:y. Romanus, noli pati
seruitutem. vnam ex his ca. pere possis cauffam, at tres ipsas omnes afferre
queas. Terentius etiam folam posuit semel: Vel ' ) Rex mihi gratias agere.
fubintelligas, vel alii Dd iiij. sed potiorem parte satis habuitponere.
Immergia amox's Græcivocant, nos Electiuas. huius ex quo que generis
sunt:vt,Malo Cæsarem, quam Cato nem.Nam etfi alterutrum non capiunt, fed desi
gnatum tantum fumunt, latiore tamen difiun gendi voce subiiciuntur,quemadmodum
dice bamus deVel,apud Terentium. Commoda vel mulum,velequum,maliş tamen equum:
neque enim copulatiuæ sunt, abiicitur enim alterum irmembrum disjunctum. Quid
fi Aduerbia hæc fint Comparationis? nam dicimus, Tam volo Cæsarem, quam
Catonem: quia Nomina siciu. bent, Tantus Cæsar est,quantusCato. Vsus po ftea
inæquali Comparatione etiam retinuit, ve ficut erat Tam,quam: sic fit, Magis, quam.
thely Aduersatiuæ quoque ad Difiun ettiuarum na turam accedunt:propofitæenim
rei aduersantur; difiungunt igitur neceffario: Quanquam Cæfar nobiliflimis
auisortus est, tamen deterioris im perio paret, feruitus enim aduerfatur
nobilitati. Huius notæ funt, Quin, Imo, Atque,At:vt apud Liuium in Tertio, Si
plebciæ leges displicerent; « atillicommuniterlegumlatores etexplebe, etex
patribus finerent creari. In eandem fententiam Mo"admittitur etiam
Saltem,fic,Saltem meinterfice fice. Sic, Quanquam potes liberare, tamen mor te
hoc li facias, gratum erit, Diminutiuas appel uflant has Latini, Græci
enet/wixa's. Completina. Con Dega Menu D C HA Completiva autem et si
ornatusmagiscaul.de tur:tamen augent sensum orationis:atqueita au Adela gent,
vt pene cum Subdifiunctiuis incant socie lo fatem: Ego quidem scribo,tu vero
legis. disiungit: dis enim fenfum appofitæ orationis ab intellectu nder
propositą. Summa. Æcigiturfic fe habent certis concepta gea neribus,quæab
antiquis etfuse, etconfuse hi prodita fuerant: iungūt enim aut verba tantum,
lupo aut etiam sensum: quare tribus claffibusdispofi uit tæ funt: autenim
iungunt necessario,aut non ne-, ceffario:aut neceffario non.Neceffitas autem,
aut ima est propositione priore subGftente, aut ex hy in potheli, Cauffa
efficiens, etmaterialis. Ssentiam finemque Conjunctionum fatis a 'pte
explicatam puto ; nunc earum originem, va bo' materiamquç videamus. Neque vero
sigillatim percurrereomnesin animo est.In primis nanque libris Originum
exactissime pofita ca opera a no þis fuit ; fed ytvniuerfalis natura plenius
decla retur. Quædam igitur a Græcis du ettæ funt in tegræ, quædam interpolatxe,
Integra eft NL. » renodes cnim dieti funt a Græcis pisces, vtapud Oppianum ;
vnde etiam noftra Nepa, pedibus » enim minime valet: nisi mauis effe vocabulum
Punicum, nam a barbaris ita di etta fuit. Vticft DIY mus Call 31 erer di 2012
or 1 kemutata, ti,sicut šti, Et,ficutQue, na, abie ettodi: wphthogi sono,
quemadmoduse, da. Multæ cum Aduerbiis communem sonum habent: Vt, Qua.
quam.atque etiam naturam, etenim Vt, Aduer bium fimilitudinis, et eftcausfxfioalisindicatiua
Coniunetio: nihil enim fimile magis rei mota ( quam finis.Sicaduersatiua
Quanquam,Aduerbii vestigia refert in comparatione: Quanquam es nobilis, tamen
es prauus. idem est, tam es prauus, aquam es nobilis.Sic Aut;fuitHaud:eadem
enim vis occulta, Aut da,autaccipe. negat enim omnis difiun et io,quoniam
femel'ponebant, Da, aut ac cipe.fuit enim fic,Da,non accipe: et,Accipe, non
reda postea miscuêre, Aut da, aut accipe. ItaVc, a et Vel, proximæ funt. Si
fuit e!, addito fibilo: < cqua du et a eft Sic: fuit enim Sice, ficuti Nece!
Nec. Sic est Aduerbium fimilitudinis. Condi cctionalis aute Si, affert
fimilitudine inter cauffam, et effectum. At, fuit Adaccessionem enim dicit.
Affectus. Aduerbiis, Etiam ;fuit enim Et, lam::et tri (< fyllabum Etiam,
quia lam, bifyllabum, vtfre quenter apud Comicos.Quædam compositænus
quamcomponuntur in oratione:vt,Nequidem: semper enim per tuño, quanquam alicubi
aliter legitur:fed parant do et iores mendum effe. Cum Præpositionibus,
Abfque.Cum verbis Quamuis, Quædam semper præponuntur, Quanquam quædam
fubeuntsemper, Que, Ve,Ne: quædam vtrunque patiuntur,Igitur, Nanque. Cum Pronomine,
Ideo, cum nomine, Quare. Proprieatem, ut diximus, ab aduerbiis multum naturæ
mutuari, adeo, ut Aduerbio proipsis vtamur; Quando,pro Quoniam: necimmerito,
nam Quoniam, Aduerbium est, Quum,lam caur fa translationis fuit temporis
efficacia, est enim, mensura rerum naturalium. Et abundare, Etet iam, Atque
etiam. A'etilisehvad hücmodum in Coniu et ionibus famio obferuata fuit;
Commutanturinter fe:vt, Item prosic, apud Ciceronem:Vel, pro Etiam. Pro
Nomineponitur, Illius ergo venimus; sed fane nomen fuitiplum, igor: Pro
Pronomine, Pro-, pterea quod:id est, propterid, quod.sed potius eft numerus pro
numero, ficutquum dicimus Ad hæc,et Ad hoc.2.112 Epilogus vniuerfalis. ngo
Xhisfatisconftat, non plures esseparteis,que admodum autrydiores, aut acutiores
arbitra tifunt; non igitur recteadditum,Vocabulum ad significandumea, quæ fub
sensum caderent: vt Paries, et Lapis, essent Vocabula:Virtusautem et Anima,essentNomina:
propterea quodintelle et tutantum caperentur. Patet enim,Vocabulum effe genusad
omnja:nametia Amo, quu pronus ciatur, Vocabulum est: vt Stabulu, vbi ftarur:Pa.
bulum:vbi pascitur: Tintinnabulum,quodfonat: Vocabulum quodin voce est. Eiusdem
supersti-> tionis, et plusquam Græce, inminimadiuides re,quæ vnius corporis
sunt:vtin Affeuerationem ea quæ effentInterieet ionis, cuiusmodi putarunt Heu.
Et Attracttionem, ea quæ ad Aduerbium attinebant,quale eftFasceatim: quæ enim
Attra dio sit, Viritim cansulere, quos non trahis,sed addis?Quæ omnia iure
optimo a do et iffimis ante nos explofa funt. Confiliumopera ampliariaseta de
Figura, Am fatis videbatur elaboratum vel mihi, qui fortaffeetiam quz nufquam
effent excuffiffem:vel aliis, qui coaet i funtautaliter sentirc, quam effent ha
et enus professi:aut irridere cariolam noftram di ligentiam. Verum interest
accurati procurato ris,non folum eorum tenere rationem,qui infa miliafünt: sed
etiain agere, vt fiquid furreptum, autextortum, aut alioquomododebitumlit, co
recuperato census augeatur. Itaque quum vete Frumleges, corumque consilia a
nobis hactenus explicata sint: fupereffe videtur, ve fiquid extra easdem leges
receptum fit,morenostro et recen fcamus, et eiusinstituti røddamus rationem.
Igitur loquendi modosquofdam Figuras priscima. Vox le nominarunt: omnis enim
oratio figurata cft: eftenim Figura qualitas extremitatum in corpo re:Oratio in
voce eft,vox in aerc,aer corpus: er go quasi lincamenta funt quædam huius corpo
ris,vocum elationes,depresiones,productioncs, correptioncs,aspirationes,
attenuationes, ince ptiones,terminationes.Quarcquocunqueloqua ris modo, non
aberit Figura. veteribus tamen ita libitum fuit, vt non quæuis loquutio Figura
præ. fcriberetur: sed aut in materia ipia aliquid quali peregrinum, aut in
forma quod esset, Figura dice? retur. Ac Quintilianusquidem quemadınodum et
senserit,et scripseritdehis, palam eft. Tebar52 nim, et gempaa,
vtifierent,docuit: sed adeoipse perplexus fuit, vtquum distingueret, eadem di
Itin etta non agnofceret. præstatautem ficinteili gere, quæad formam
pertinerent orationis,id est ad fententiam,caeffe Algvos,et tropos dici: quz
autem admateriam, ea effe nezew, et schemata:)) namgchua corporis est:reemos,
animi,quare eos, quasi mores, modosque orationis, quibus ipfa quali et
animatur, et mouetur fimul, acmouet, oratori relinquemus. Quæ autem verborum
iioning ncamenta sunt, ea aut suntvfitata, et ad numeros pertinent,vtSimiliter
cadens, eteiulmodi: aut ad ftru etturæ variationem. Illa igitur ad poliuiorenu
i { pe et abunt scripturam, hæc ad scribendi loquen díve leges:vtraque autem
Figura continebuntur. Quareillas oratori, historico, poetz deslinabi di mus:
harum nos caussas præsenti opera inuesti gandas curabimus. Bu uf If rah. Appositio.
Auffa,propter quam duo Substantiua, non ponunturfineCopula, e Philosophia pe
tendaeft: neque enim duo substantialiter unum esse possunt, ficutSubstantia et
Accidens: itaque non dicas, Cæsar Cato pugnat. Si igitur aliqua Subftantia
eiufhaodi eft,vtex ea, et alia,vnum in telligi queat, carum duarum
Substantiarum to tidem potæ,id eft nomina, in oratione fine Con iun et
ionccoherere poterunt. Quarepropofitum nomen amplioris intelle et us, fubeuntis
nominis U præscriptionemoderabimur,fic,Vrbs Roma: po sita enim Vrbis vox,
deducet meum intellectum per omnesvrbes, donec addito Romæ nomine caftigabitur.
Est autem amplitudo huius intelle 4 etionis duplex: aut enim est Vniuoca, vt
Vrbs, 2) Arbor:autÆquiuoca,vt Lepus, Lupus, Turtur: fignificant enim et piscem,
et alia animalia ge * neris diuerfi: itaque in præfentia sunt maioris
fignificatus,quam Piscis: quod tamen eft nomen Jatiffimi generis: Comple ettitur
enim plura Pi fcis, quam lepus. Sed iccirco fit hoc loco, quia Æquiuocum nullo
certo genere ponitur: eft enim Lupus, et in Pifcibus, et in Terrestri bus, quæ
duo fumma genera funt. Eft et alius cemodus moderationis adenominatione: nam fi
dicas Cæsar, multas virtutes aut vitia poffis at tribuere. Itaque temperabis
eum cursum tam vagum,appositisnominibus, Imperator, Diet a tor. Et alio flexu
fic, Catilina pestis rerum romanarum: Procas Romanæ gloria gentis. Fir etiam
luat. phia cerrt cur2: larus opot 500 $ Tomate 2 etiam quarto modo, quum
transferturfigurare set denominatio in primitiuum. Zoilus vitium, pro vitiofo.
Cauffa aute huiufce loquutionis fuit are ansa ticulus Græcus ; naywsoix Jus,
Kairap o autoxegia tw. Euenit autem aliquomodo,vtvtrunquealaz tero maius sit.
quare fine vllo discrimine com- " mutare fedes inter fequeunt. Exempli
gratia,Le The pus piscis:et, Piscis lepus. eftçnim lepussub pilce, tanquam
subgenere. Iccirco pesfime errarunt, cinsl cum putarent tic dicendum Fratres,
gemini:non to lic, Gemini fratres. Etenimfratres effe poffunt, nec gemini:
etgemini, nec fratres. vt omittam, non esseappofitionem hîc ex Substantiuo et
Ad icctiuo. Sic dicas, Flumen Renus:quia alia quo- » quefumioasunt: et, Renus
flumen: propterea quod nihil interest, aliquid ita fit, anita effepu-come
tetur, itaque etfi Renus, non eftæquiuocum,ta-i ima men ncfcienti quid Renus
fit, æquiuocum ef se potest, quemadmodum fane eft: nam etiam Bononienfis
fluuius Renus est. Sed par fit alio rum quoque ratio: nam Taxusæquiuocum non
eft, et tamen ad explicandum eius naturam, ad ditur Arbor: poflim enim herbam,
aut etiam montem intelligere. Hoc per initia ita fa et um eft, ac poftea etiam
non necessariatenuit con fuetudo: ficenim fitin vsu ciuili quoquc, et mill
tari, vt Cristas etiam in pacegestemus. Vergi lius autem commutauit fedes ob
carmen, Ca Atancargue nuces. omnis enim Castanea nux eft. Nam posita specie
genus non debet appo ni, vt diximus, nifi ad explicacionem: quodfi apponitur,
decet ipfum coartari ad angustiora, Ti mai ft.no Terra Cts. ScA L. LB. xt.
where 4 vt quum dicas, Cæsar homo imperterritus. Eftes nim Homo genus: at quum
addis “imperterritus”. Cogis in ar et iorem significatum: quia poffit effe,
etnon esse Imperterritus. An vero fit Appositio ab Adiectiuis? Tectum auguftum
; ingens, centum sublime co luminis. ec Non ita est, sed Tropusdow getov: et
repetitur intelle tione, teetum: Hinc patent nugæ Gram maticorum, qui negant
recte dici a Vergilio,Vr bem Patauii: quum tamen omnes ita fint locuti: In
oppido Cumarum, Palladius:In oppido An tiochiæ,Cicero: et eodem filo Liuius,
Vrbs Ro semana: est enim in illis casus Pofseffiuus, in hoc nomen ipsum. ac
quanquam poffidens etpoffef fum diuerfa effe debent: tamen hæc duo, quz v inum
sunt,Vrbs,etRoma, duo esse aliquo modo intelligentur: quasi vrbem Patauinorum
dicas et Romanorum. Etfane duo sunt: nam Vrbs, est appellatiuum: Patauium,
proprium:quafipro prium possideat appellatiuum. ficuti dicimus, Vrbs nominis
inclyti: sic, Vrbs nominis Pataniis Euocatio. " E Vocationem dixerunt,
quumtertia persona euadit prima, aut secunda, quafi hæ euocent illam de
suastatione, aut ex hybernis:vocabulum enim est militare. apponuntexemplum, Ego
Ca far scribo:Tu Cato legis.verum hoca nobis iam improbatum eft: Onine enim
nomen cuiusuis perfonæ cft,fed non variatæ: ficuti Felix,cuiusuis generis eadem
voce: ridiculum enim est, Cæsa remin me effe perfonæ Tertix: nunquam enim
loquens, aut fcribens de me, effem personæ pri mæ.Nequeposlem dicere,Ego sum
Cæsar. Nam si esset perfonæ Tertiæ: pofsemitem dicere, Ego fum ille:et,Ego fum
persona tertia. Conceptio. Vemadmodum vna fieret oratio, in supe riore libro et
alibi dictum est.Coniun et io nes enim fit vna: Cæsar etCato equitant.Equita
tio hîc vna eftin duobus. Itaque aliquando sub ie etta intelligis: quæ quia
fant plura,pluralem nu merum appones. Aliquando prædicati vnitatem communem
vtrique accipies: quare numerum attribues vnitatis, Cæsaret Cato equitat.Malue-
m.9110 runt igitur illam effe figuram in plurali, quam mig. hancin singulari.
Et ratio est, quia Coniunetio repetitnumerum singularem: ostendimusenim, duas
esse orationes potestate, quare ytraque erity singularis. Nequevero sola
Copulatiua hocagets ö fed et Disiun et iua, sic, Aut tu, aut Cæsar date mi. hi
facultatem scribendi. Paulo figuratius eadem oratio in obliquis
versatur,fic,Cæfar cum Cato ne disputant. Cuius loquutionis necessitas eue nit
ad euitandam ambiguitatem. fi diceres, Cæ sar cum Catonedisputat:non
vnionem,fed con trouersiam pofsas accipere. Sed illalonge figura tiorapud
Ouidium ; fliacumLaufo de Numitore nati. Neque enim Ilia eratnæi, fed nata cum
Lauso Itaque ante quam reddasVerbum Recto, Redus cum Obliquo ita sunt
coniungendi, yt vnum fite pluribus, quibus pluribus Verbi numerus re
fpondeat.Recte vero putarunt illam esse figuram apud Poetam, Cana Fides, et
Vesta, Remo cum fratreQuirinus -Iuradabunt. Sed nos etiam vtroque modo figuram
intelligi mus. Fides etVesta iura dabunt: etalteram in oba liquo, Quirinus cum
Remo. Fit autem hæc ynio non folum in Numero, fed etiam in Persona:vt reddatur
verbum prima; et secundæ, non sine cauffa: Nobiliori cnim de. betur. Quæ
loquitur, nobilissima eft: facit enim orationem: et libiipfi, vt ita dicam,
proximaest: mox secunda. Itaque cum feipfa pofuit, non po teft ad aliam
transferre verbum: fic enim definie batur., Quæ de fe ipfa loquitur: ita igitur
loque mur, Ego et tu fcribimus: Tu et Cato pugnatis. Eadem nobilitatis ratione in
genere fit Figura, ut masculino reddatur at feminino. Cum ergo et in numero et
in persona et in genere fiac conception. Ilud habetproprium sibi, ut in numero
solo poffit fieri. Cum autem fit in Persona, aut in Genere,semperetiamFigura
numeri adsit, Ego et Lucina læti viuimus:Tucum matre lauti cænatis. Atque
iccirco dieta conceptio eft dua bus decaussis: aut quia minus a maiore: aut
quia minus nobile a nobiliori continebatur. Quem admodum vero autores ea vfi
fint, adGramma sticum cum fpeetat, qui docet componercoratio Grand nem.: 435
TO.RO i vnumer - umerus K kias D minteli eramini nNume 1 Dum pri OFICNIMA:
facies proxima:. it, fick Jugatio. Roxima huic lugatio est,quam Zeugma Grae vox
co vocabulo maluerunt appellare, quum ta men Latinis ahis vterentur. Nam
quemadmo 7 Onni dum in Coceptione quodvniuserat,commune cuadebat: licin
Iugatione, quod vnius est,ita ad cum pertinet,vteius lignificatuiadiugat
alterum.l. Per Conceptionem fic loquare, Tu et Lucina mihi cari estis: per
sugationem sic,Tumihicarus cs,et Lucina. Non igitur hîc cocipit, sed permit tit
tantūdem. Eftitaque coceptionis visdimidio maior. lugum igitur quodda quasi est
Adiectiuũ quo in vnum coeunt significatum extrema duo: quare medio in loco
fedem fibi iure vindicat.Ve rum vsu extortum eft, vt vocum stationes com
mutarentur. Itaque tribus modis excogitarunt: Primo loco,sic; Carus mihi es tu,
et Lucina, Me Fopulls dio, fic, Tumihicaruses,et Lucina. In poftremo, ft. Tu
mihi; et Lucina cara eft. Græca Latine ad huc o.Cut modum interpretere,
σείζευγμα, μεσύζευγμα ; Gener iwozuyuc:Præiugatio, Interiugatio, Adiuga tio.
Fitautem quemadmodum et Conceptio per in Per Numerum,Perfonam, et Genus: Tu, et
mulieres umen bonæ sunt. per Conceptioncm diceres, Bonih estis. Quare
pessimeaggressi sunt emendare Vir ocio elogilii carmen illud: -Nihil hic,nifi
carmina desunt. et male in singu, ur.Qläri deeft:Sic enim dicas, No quicquain,
fed car Gruuminadesunt:idem nanque. Sinon desuntcarmi: na; nihil
deest,verissimum hypozeugmaest. Anticipatie An umda ziturloc Ti, vein matres re:aut!
Tercolor home A CE zaho A Nticipationem triplicem accepimus, Poe ticam,
Oratoriam, LiterariamPoeta. ante capit ex sua perlona intellectionem communem
auditoris: vt, -Portus reqnire Velinos. Hinc enim de sua persona occupat
personam Palinuri poēca:neque enim tunc Veliniportusdicebantur, quum Pali nurus
loquebatur: lic, Lauinia litora, dixit. Ora Utoria est,quum antecapimus locum
in animisiu. dicu, refpondêtes tacitis obiectionibus. Literaria est, cum
præcipimus toto partes,fic, Ciues nati ad interitum Reipublicæ,Pompeius
superbia,Cæ far magnanimitate. Eft autem maxime coniun et ta figura hæccum
Conceptione,quatenus totu concipit partes suas: neque ab ea differt, nisi di
ftributione:et eft contraria ordinatione vocu Ap positioni:Paftores compulerant
gregem,Thyrlis oues, Corydon capellas: distributio eft per anti cipationem,
conuerte sic,Thyrfis, et Corydo pa stores:appofitio eft.hanc Prolepsin Græce
appel larunt, quafi præceptionem. Compositio. Voxes Vid effet Componere, fatis
superioribus Jaho libris declaratum eft: quod fiquis aut me minerit, aut
animaduertat, intelligetnon conue nire huic loquendimodo, quem fic nominarunt:
Efterim hæc loquutio, quu significatū voci co trariū, voceipfa
ducimuspotiorem.Populus vnu fignificat e multis confectum:multaigitur figni a ficat
per se, vnum per accidens: quare liverbum plurali
numeroattribuatur,fignificatūrespiciet Q dos takoa uttert, foneva mus,fi non
vocem. Figura igitur sane eft non longe a pocue Cõceptione: Idun enim est
Populus, et hic ciuis; ommun et hic, et ille. Vetefc » autem coposicionem nulla
vera ratione diccre potuere,nihil enim componi crimde tur, fed trãsfert:!r. Ita
quu dicis,Fætupecus: co» peus ponis genuscum genere,et transfers lignificatū.
gurum? Nam pecusgeilereneutro quý Mares et Fæmel. civil las comprehendat,
affectum fæmellarum tranf julia tulit ad femellas comprehensas. Eft igitur po
stius Tranilatio,aut Conceptio, quam Composi 6, 6 tio. Sic variaturGenus etiam:
vt, Parsper agros finestra dilaplı: quia Pars, sitidem quod,Milites. Sicelta
net pud Homerum, rezvov pins, Sic elt, Tristelupusº stabulis: vt illud, In
Eunuchum fuam: quoniam Eunuchus sit comcdia: Lupus autem res: vtlit, Triste,
Tristis res. Comprehenfio. Vic non abfimilis Comprehensio.Græci quing owersoxlu
vocat quum ex toto excipitaffe,i et um partis, cui toto eum affectum
attribuamus; Elephas curuus dentes. Hoc tota figura coniistit in denominatione
totius a parte. Nain verum est,s ) Dens est pars elephanti curua: ergo
Elephantus est curuus et tous oðovæs.In priore figura significa tus concipiebat
vocem, in hac pars toti in ligni ficatu.in voce e contrario Totum concipit
partē Igitur Græcum nomen multæ efficaciæ eft ; nam ) out, significat totu et
partē fimuleffe: -u, significat excepta qualitate,autaliud a parte, et toti
attribu tū. Sexeaiz, fignificat ipsum motum translationis. Antiptosis. Ee iij.
Non gem,7. cocte et CCT Guinea Hid Ilipent oliquis a 1 etПодії CONI sicacuva 7.
Pope ta izier lare LTE bicarum go On possumus vnico verbo latine græca
exprimere, αντίπωσιν: que figura multis modis fit, cum Calum pro calu ponimus:
ac fit: quidem veteru autoritate:carea pecunia, et pecu: 1 niã. Sed fane hîc
Figura nulla est:vsus enimextor fit poftea,quo antea placitű erat.
Aliusmoduseft ifque multiplex, et Attici longediuerso more v tuntur, quum relatiui
casum eundem faciut cum a antecedête, weinogesvg ev eneža.quo modo etiam
Gellius aliquando vfus eft: Latini cæteri vix vtun tur. Mollissimum fuit genus
illud, Quam vrbem 6c ftatuo,accipite:at duriusculum, Vrbem,quam fta tuo, vestra
est. Iccirco non inepte nobis pueris præceptores noftri lic interpretabantạr,
Vultis canis regnis confiftere: vultis vrbem, quam ftatuo? vestra est. Verum
hîcita sit, sed profecto veteres nimis multa liçere sibi voluere, velut
Plautus,Au edularia, Picidi uitiis,qui aureosmontescolunt,egoso ļus supero.
Cauffa huius orationis fuit, aliorfumin tentus animus,deinde defịcxus filus
loquutionis: id quod patet ex eodem Plauto in Captiuis, Hos quos videres
ftarehîc captiuos duos,illi quistant,bistat hic ambo, non sedent. Diet urus
enim aliud videba tur alio verbo,quum fubiunxit festiuecotrariu. Hæ funtcauffæ
extortæ orationis: non quem: admodum folute prodidere sine vlla ratione.Mo dos
autem ampliores non eft præsențis instituti contemplari: sed pertinet ad
construendi leges, et obferuationes autorum: reducunturq; ad hos, quos
descripfimus: veluti quum ex affirmatiua sfacias aut negativam, aut dubitatvam:
aliaquç eiusmodi. Pocum caussas duplices esse Essentiales, Accidentales, ir.
frunz ACTENVS fingularum partium Foreonha H mam, efficientem, finem, materiam, Affe et us
declarauimus: quique Affectas effent abipfa Essentia profeet i, superiorib libris
di et i funt: quive vsu extorti hocpostremo.Nunc aute cömunem.omnium vocu
natura videamus, ex instituto sic repetentes: Vocum et Materia, et Formaeft, et
Origo:qua pro efficienteacccpimus femper: igitur cauffas quoque duplices habuere:
alteras essentiæ, alteras materiæ et accidentium essentiales etymologias græci
vocant. Nam E quamobrem, Amodicitur:quia qua, et cuda, et aw Essentialisest.
Quare Amo, Amas, Amat? Quia Canto, Cantas, Cantat, Materialis, et Accia
dentalis est. Quas cauffas propterea quod veteru aliqui aut reiecerunt, aut
negauerut, in præsentia a nobis verioribus argumentis agendum est, ki Ee in merito
etreceptæ, et probatæ videantur. Id quod operis initio non fecimus eo
confilio,quod iupra u narrabamus: quum enim subiectum suum effe nullus artifex
probet argumentis, neque Tcdoti, at ne z o'ri, quidem:fed tantummodo redarguen
do pertinaces, iccirco in hũc poftremum librum hæc opera destinanda fuisse visa
est. Veterum argumenta, Cbox ETymologiam Græci vocarunt cauffam vnde socesancte
fint:veriloquium Latinis placuit is interpretari, led quain frigide, videamus:
Nam yoritasin orationeest, nou in verbis priuis. Præ torea ify it in hac voce
significat rationem, non aucm loquutionem,vtvera ratio potiusdicenda fu fit:
quare nos, Vocis rationem, transferre malui mes sautifam autê accidentalem
iidem ovanoziar Jor coco confilio nominarūt,id est, rationem pro- na
ennportionis. Easfic destruere nonnulliinstituêre, Nominum,
inquiunt,naturæ,nisi per nomina de monftrari nequeunt ; nomina enim rerum sunt
notæ. Intelligunt autem nunc per nomina,voces omnes: ficut per Tignum
immittendum Iurecon fultus etiam lapidem. Quodcunque igiturdecla- di Fatur, per
notiorem quampiam rem notü fit. Er goilla nomina,per quæ nomeillud definitur,no
mine ipso notiora erunt. Ea pomo nomina, aut nota habebimus, aut nộ: at
absurdum est ea igno- di rari, per quæ aliud notum facimus; itaquenota ni sunt:
et fi nota, per aliud fane nora, per aliud igi- ta tur nomen. Quare vsque in
infinitum: hocau tem absurdum eft: non eft igitur verum nomi an m num vllam
esse cauffam.Præterea nomina essein- 2 finita, aut omnino, aut propemodum,
atqueic circo ignorata: infiniti autem finita natura no stra capax noneft. Ad
hæc, quæ vsu mutantur af 3 fiduo,partimqueinteriere, partim quotidie sub
nascuntur,ea ignorari neceffe eft:quuęternarum tantum rerum fcientia fit:
eft.n.Scientia habitus animæ certus:at corruptibilia incerta funt. Postre
maratio hæc fummos adduxit viros, vt integris contenderent libris: Quæ nullis,
inquiunt,cer: 4 tis inter fe cohærent legibus ca nullo modo sub certas venire
leges. Eiusmodi vero esse nomina. Quum enim duæ, ut diximus, caussæ sint, etymologiam
ignotam esse, velex eo conftare, quod super eodem vocabulo diversa senserint
autores. Aalogiam autem, quam æqualitatem vocant, omnino extare nullam.
Quareipsaquoq; nomina per caussas nunquam nota erunt. Argumenta dissoluuntur,
Tprimam rationem diffoluamus, ita acci-. piendum est. Intellectionem noftram
esse duplicem,Reettam,et Reflexam:igiturnomeob uium excipimus recto a ettu
intellectus, fimplicia; fini destinatum ad fignificandum. Exempli gra tia,
Lancea,atque ibi pro nota, aut figno rei,vti dicebamus,habetur nobis.Reflectimus
deinde a nimi cursum ab ipfa re super nomen, ipfumque tanquam rem quandam
contemplamur. Quæri musigitur tum eiuscauflam inter ea quæiamno ta habemus.
Quemadmodum autem duæ essent nominu cauffæ, dictum iam esta nobis libro ter
tio: quædam enim erantDeducta, quædam Pri mogenia.Deductorum igitur cauffasesse
Primo genia: Primogeniorum autem caussas cognosce re easdem non est necesse,
sed calum, aut arbitrium inventoris pro caussa habere fatis est. Est enim
duplex cognitio nofsra, aut positiva, quum el cognoscimus hoc esse, aut
priuatiua, quum cognoscimus illud non esse: hoc enim est esse illius, quia non
est. Altera vero, ac tertia ratio simul fic W 2 e, diluuntur. Scientia
specierum est, et singularium, ut
subspeciebus continentur, Ea igitur, in quæ conueniunt omnia singularia,
Diciones appellanimus, Earum essentie, atque affectus neque corrumpuntur, neque
mutantur, puta Species, Gen ra, Casus: semper nanque Calus, Casuseft, fem per
Modus, Modus. Quæ autem singular sunt, aut unon corrüpuntur,fed perstant:quare
nihil faciüt difpendii:multæ enim voces sunt, quas nullus yn quam aut distorsit
vsusaut, aboleuit. Aut si cor crumpuntur,æque scireintereftnoftraea corrum
pi.Quamobrem etCorruptibilium, et Incorru ptibilium
scientessumus.Corruptibiliumautem rerum corruptionem non sequiturcorruptiosci
entiænoftræ:hoc enim scimus nos,Corruptibi lia effe.Idipfum igitur,quod est
Corrumpi poffe, non interit, sed semper eiusdem naturæ eft: fem per enim hoc
habet,vtcorrumpiqueat. Quarti argumentisuperiorisprobatio nes ab aduerfariis.
Hæc sic expediuimus, vt exa ettius quartam rationem, qua et Analogiam et
Etymologiam tollunt, perpendamus:quare videndu prius est, quibus vtantur
rationibus ad confirmandu, QuumAnalogia, inquiunt, fit æqualitas.quædam
secundum quam fimilia ducimus e similibus: vt, a Fructu Fructuosus: sic, a
Gestu Gestuosus: pri mum oftendere nituntur, quod non fitnccessa ria: deinde
quod nullo modo fit. Vtilitatis cauffa nou mode inuentus est sermo: magis
igitur refert,vtbre:. ! uis, et re etus, et simplex lit, quam longus, et va
rius: atæqualitas deducendi variatmulta:noni gitur admittenda. præterea Ab
eodem rerum ysu 2 reiicituræqualitas,eo nanque consilio muliebris mundus a
virili ornatu differt. itemq; in ædificiis Corinthia structura a Dorica, et
Thufianica, et Ionica longe alia est. Neque vero id ex artibus so lum conic et
ari,fed ipfa quoque natura late cospi ci potest. Etenim membrorum compagem
aliam atque aliam esse vsui fuit. Æqualitas igitur non folum non neceffaria
eft, fed etia officit. Quod fi quis ita dicat:non Vfum folum quæri,fed
Elega-porok. tiam quoque: is adhucintelligat, magisreiicien dam etiamnum similitudinem
; nihil enim pro pius fastidio,nihilelegantius varietate. Ad hæc, aut Artem
fequemur,aut Consuetudine: fi hanc, 3. nihil opus eft æqualitate.fed quæcunque
vsusug gerentur, ea nobis eruntfatis. Sivero Artē,ac prę çepta, vtæqualiter
omnia ducamus, pro insanis habeamur,nequeenim id fiat, vt quemadmodo Lupus, sic
Lepus fle ettatur, sed hoc leporis, illud lupi faciet. Non eftergo necessarią
Analogia. Quodautem nulla fit, fic conantur: Abestab Woh omnibusorationis
partibus: igitur nusquam est. Ac fane in Generibusnon eft: quædamnanque trium
vocum sunt,Humanus,Humana, Huma num: quædam duarum, ceruus, cerua: quædam singulis
contenta, A per. Neque ipsa Genera simi litudine vocum afficiuntur:canMartia,
et Sisen pa, diuerso sexu, eadem vocis forma sunt. Item eadem Genera vnica voce
confusa,atque ignota, vt,Passer,Aquila: quum tamen et ibi fæmina, et z hîc
etiam mas sit, Aț nenumerus quidem agno uit Analogiam: nam quamobrem non
dicimus Cicera,ficuți Farra? neque Olea, ficuti Vina? No enim re et e
responderunt antiqui,ob generum di uerfitatem in vino multitudinis numerum rece
ptum effe:quia aliud efset Chium, aliud Lesbiu, aliud Falernum: nam Ciceris
quoque valde sunt diversæ species, folio, Siliqua, Semine. In temporibus item
desideratur: quippe a Fleo, Fleui: a Sero, Seui: a Fero, Tuli: vbi a
diffimilibus fimilia, a fimilibus diffimilia orta funt. Item a Pafco: Paui; ab
Amasco non eft. ModiquoqueAnalogiæ im munes funt; multi enim carent, vt Forem.
Nec Figuræ ducuntur Analogia: nam quare diço Æ nobarbum: non Ænibarbum? aut
quareMagni loquum,noMagnoloquum?Quinetiam in deri uando ipfas
speciesæqualitatis nullam curam ha bemus.Siquidem a Boue, Bouile:ab Que Quile:
a Sue nihil ducitur. Et Bubulam dicimus: at ab O ue, Ouillam:a Scribo,
Scriptor: a Bibo nihil tale: fed cotra, a Bibo, Bibacem: a Scribonullum fimi 7
le.Itemin Comparatiuis,et Superlatiuis: clarus, clarior, clarissimus: similis,
similimus: bono, melior, optimus. Sic nequein Diminutiuis: A nus, Anicula:
manus, manuscula: a Pufione, Pu fillus: a Morione nihil. Quid quod ne Accentus9
i quidem ratio vlla eft fimilis? Etenim Hectorem, et prætorem eiusdem formæ
nominaalia et qua titate, et foni qualitate pronuntiamus. Sed et ea dem nomina
variis quatitatibusalias, atque alias 10 i proles generant: a Lucco Lux
longa,Lucerna bre uis. Immo etiam eadem inconftantia in eadem voce
deprehendetur: nequeid apud poetas so lum.Pharfalia, Italia, Sicania:fed
etiamcommuni ysu. Nam in lege fundi venditionis, Ruta.cæsa ita v pronuntiabant
prisci, vt prima vocalis produce retur,alibisemper correptaesset. Quod fi non
eft neceffaria:neq; est in acciden tibus partium: quippe nonin Primariis, non
in Deriuatis, non in Declinatis: immo in vno eo demque inæqualitas: Analogia
nulla erit. Argumentorum dissolutiones. HI, quifese literature hoftes
profiterentur, Can potuiffent a nobis ferri fane, nifi pessimum tve facinus
ausi effent. Neque enim solum caussas ra tionesque proportionis tollere in re
literaria, fed etiam totam naturam ipsam demoliri videntur mihi. Diruunt enim
æqualitatem et similitudinem, omniaque casui subiiciunt: contra quam fa ciebat
Plato, quietiam Nominum ac Verborum" ) ftatum, fexumquc naturæ certis
legibus confta re, atque duci arbitrabatur. Nosigitur vtrunque extreeue na quo
na de PE lu I red 011 m tia ui LE te: 1 extremum tanquam vitiosum reiiciamus.
Acdea cem quidem principes rationes,quibusaliæ que annectuntur, scio a
veteribus obfcure fimul; et pluribus verbis inculcatas: quæ hîc tam clare
patery, tamque ordine digestæ funt:vt quod illi orationis fuco, nec fatis apta
copia quæfiuere, id hac nos serie, vt quam efficacissimæ appareant, confecuti
videamur. Quibus vt refpondeamus, paulo altius ordiendum eft. Fumit Naturam
rerum omnium autorem,quæcunq; agat, propter finem agere receptum eft:quare ne
ceffario fit,vtcertum quiddam agat: vndemem brorum, quæ in animalibus sunt,
causfx, officia; opera luculentissimis libris a nobis funt explica ta.
Propterea vero quod interdum aliis, atquea liis circumuenitur impedimentis ita,
vt aberra re cogatur: quibusdam præuenta anguftiis non id agit, quod
intendebat. Itaque homini aut addit fextum digitum,aut tollit manum, aut de
curtat crus, aut aliud quippiam eiusdem modi monstrorum parit. Cæterum quia
maxima ex ceparte reete opus suum peragit, nequaquarn ci de elle operi,quod
proponit, dicimus:neque iccircơ riaturam negare debemus. Verum nonnulla re ete,
atque ordine in lucem prolata deprauat Co suetudo: quales funtii, quos
vsusadegit, vti Val gii effent,aut Vari, aut Compernes. etiam Cafus multum
potuit, quo aliquis Claudicaret, aut Luf cus effet, aut Strabo. Ætas quoque,
atque imitatio detorsit pristinum quorundam institutum, quo detraetianatura sua
degenerarent. Quem admodumigitur vel cafu,velvfu, natura aut per ce CE all 2 fe
cy Pu liu T bo di 1 al 9 9 Herti NU Pm edeme uertitur, aut
immutatur,nequepropterea tamen naturæ opera neganda sunt:ita non cantinuo Аnalogia,
quæ natura quædam vocum est, ficuti ureline desit, ab omnibus tollenda sit. Est
ante oculos KMC Phalaris, Dionysius, Nero, alia monstra: in his quo iustitiam,
atque animi moderationem deside res: igitur nusquam hæcerunt? Alexander rau
pparea cius loquebatur, obstipa ceruice erat ; non a pri mordiis natalium
suorum, sed pædagogine qui tia distra ettus fuit a simplici illa regia indole.
Hominis igitur fuerar integritas, consuetudinis pra qua vitas. Species enim per
singula corpora propa gantur, inter quæ nullum formæ difcrimen in Ez,c uenitur:
ita etiam in verbis fit. Sicut ergo in natu utepi ra dedu et io triplex, fic et
in vocibus. Triplex au-, 5,244 tem ad modum hunc: propterea quod ea quæ tabe
deducuntur tribus diueria sunt differentiis:nam uliset aliquid dicitur effe
diuersum ab alio Forma, vt 2. equus ab homine. Aliud Materia, vt hic homo
Col.ab hoc homine. Aliud Accidente, vthic homo me sedens, ab se ipso stante.
Quare in vocibus quo ai que aliud erit nomen hoc, Homo, a verbo hoc, Pugro:
forma enim distant. Secundo modo a Leica liud nomen hoc homo, a nomine hoc
equus: nuk Tertio ; aliud nomen hoc Homo, a nomine allal,hocHominis. Possunt
autem ea, quæ vel for milima, vel materia fola distant, etiam accidente um C
differre: vtHomoniger, ab Equo, et Homine Walbo: fic nomen hoc homo, et a verbo
hoc Se tout quor, et a nomine hoc equus diftabit accidente quoq, id efs
lineamentis elementorum. Itaq; et Quiam inflexione diftare poterut.
Acquemadmodu eiuf Image 1300C ' s iterum eiufdem nationis viri duo,
etiam fratres, etiam gel mini, etiam pares facie, etiam colore,tamen ma nuum
aut crurum flexu diffimiles effe poterunt: neque tamen auferetur,quin duo
peregrini inter se similes fint: hoc enim accidens est. Ita in voci bus: Equus
et lupus convenient accidente, Lepus non conveniet: sed Analogia erit inter
lupu et equum quia cum lepus non est. Non ergo tolletur propterea quodinter
lepus non est: sed ponetur, quoniam inter lupus est, et equus. Sed cehabet suam
cauffam Lepus, qua desciscat, sequa turque aliam proportionem, vt faciat
Leporis, propterea quod Græci Dorienses ita et appella bant,et flectebant:quare
generis quoque Analo giam fequutus est Lepus Græcam, non Latinam Equi, ongu
valtoers: neque folum Lenusinde, fed vocis in re etto cafu lineamenta Latina fibi
affum psit, ut efset Lepus, sicut equus. Quare hoc etiam intererit analogiæ, vtaliis
atque aliis caussis par tim talia, partim alia sint. Neque enim quem uis
hominem decet “robur”, aut celeritas: qua re “robustum”, et celerem non
fequetur ea dem membrorumAnalogia: at omnes Robu stos eadem, eademque alia
seorsum Veloces omnes. Si quem autem membrorum proporzio ne præditum
inueniamus, officio autem illiinu tilem: hunc casu, aut alio quo fato separatum
ab ea proportione iudicabimus, non propter vnum tollentes cætera omnia. Itaque
fic eftacutifsime Cornelas.cos inficiari Analogiam,nifiin quibusdampo
nant:eftenim Habitus priorPriuationenõ tem pore, Bu pore, fed cognitione: ficut
Affirmatid Negatio ne. In paucis non efle calu, in ceteris omnibus cofilio
limilitudinis. Euenit autem interdum vt deficiantur nomina proportioneilla,
propterea 2 ) quod res ipfæ deficiuntur: nam fexus et princi piis quibufdam, et
officiis discreti funt:itaqueal teri quod designes nomen, alteri non conueniat.
Proprium fæmellæ Nubere est: iccirco non tranlibis a fæmina ad marem ipso
Participio, vt tantummodo Nuptam dicas: vbi non tolletur Analogia, quia Doetum
et Do et tam dicas: sed po- » netur iccirco, quia Analogiæ pars eft, sequi
signi-» ficatum, alia quoque quoque pars pars eiuseft, fcquiconcin-), nitatem:
ficuti hominis officium feruare deco rum.Ergo liquid scabrum critin deducto,
maluit ars abstinere: quum tamen natura non repugna ret. græci ovu
Dwriavnominant finem hunc,nos etiam Habilitatem possumus, non folum Con
cinnitatem. Sic reiecta sunt multa. For, Faux, Prex, Metuturus, Nutritrix,
atque eius modi, ve fuppreffæ potius ab vsu, quam negatæ a natura vocum sint.
His legibusdiruuntur argumeta omnia:Nam 67, friuolasatis sunt,quæ negant
necessariam.Ac pri mum quidem admodum ridiculum, quod breui tatis ratione
tollendas curat inflexiones, quum tamen per inflexiones tollatur ambiguitas.
Aliæ quoque rationes nullæ sunt.Varietas enim,quam 2, afferunt, nequaquam
reiicitæqualitatem. Eft e tim æqualitas interdum inter duo, propterea quod ipfa
funt aliis inæqualia. ita distant aqua liter duo triangula, ab vão quadrato:quia
inter Ff j. sex fump ! inea fe æqualia funt: Acfatis eft,vt varietas fit inter
speftatue cies,non diuersitas in fpeciebus. res cis diner assertio etymologia
che atque analogiæ quidem ratio acnatura grelli sic constat. Etymologia vero et
si in multis detur obscura est, superque eadem voce alia alii visa: certa
tantum tamen absft ut tollenda sit, ut tam maxi- sæpe me fit investiganda, quam
maxime latet. Quide- quoc nim occultius veritate? at multis in rebus ca im-
pica primis defideratur: neque tamen quispiam tam dam. fitimpudens, qui eam
neget. Nam qui semper niac dubitabant Pyrrhonii, vel propter hoc id age bant,
ne a veritate, quæ in altera parte contradi- da,y u et ionis latitabat,
aberrarent. Ita materiæ primæ natura præterieratveteres omnes Philosophos, quæ
donec a Platoneinuenta, ab Aristoteleomoium Qu sapientum principe eruta eft in
lucem. Quare itiu omni opeatqueconsilio nitendum eft,vt ne plus ab i illa operæ
latendo exigere,quam nos inuestigan- que do ponere videamur. Que pri Quidde inceps
agendum, quoque ordine. V Ocum principia, causas, elementa, affeectiones,
quemadmodum uniuersa natura comprehenderentur, hactenus declarauimus:de 94 owo
inceps ad ipsas voces priuas cursus flectenduseft. Sic enim philosophus
naturalia corpora sub modi tu accepta deducit communi intellectione ad
historiam singularium: cuius exemplo nobis quoq; statuen Præp Prae nu. qu litt
tra statuendum est, quo usu privæ voces apud auto res circunferantur.
Quumigitur quidam per or- reno dinem Elementorumhoc profeffi fuerint, alii
fumpto autore interpretandi munus magnis di gressionibus
contaminarint,vnusVarro mihi vi detur confultius fecisse, ut verborum connexum.
certa serie explicaret: alioqui diuersis locis eadem fæpe repetasnecesse est.
Verum enim vero ipse quoque M. Varro suorum librorum initium auspicatus esta
Temporis, Locique diuisione qua dam, perinde quasisub vtroque,alterutrove om
nia continerentur:ac non infinita pene fint,quæ in eam partitionem vel reluctantia
lint arceffen da, ut omitta particulas minores, cuiusmodi sunt præpositiones,
coniunetiones, interieettiones, quænullam habet cum nominibus affinitatem:
Quarelonge præstiterit a primariis vocibus in -joset, itium fumere,atqueab his
deducerecæteras, quæ ab illis ortæ sunt. verum inter casce primarias quum
quædam steriles sint, ut interiectiones, et præpositionum, ac coiunetionum
maxima pars: quædam sintgenetrices, quæ aliasex sesepariant: primo quoque loco
tractare steriles decet, quæ nullam cum cæteris habent coniunctionem. Et
quoniam non omnes voces elementorum similitudine aut significati cohærent
affinitate ne quaquam absurdum fuerit, si interdum in contrarium transeamus.
Neque enim qui de motu dixerit, de quiete quoque non poffit loqui. Advnum
fignificatum cætera reducenda, Ff ij. Vnum 448 Ių L. Num pterea quod
fignificatorum similitudoyni eidemque voci attributa fæpius est, aut fcriben
tium autoritate, aut prodentiam curiofo iudicio; principem omnium fignificatum
indagariopor- a tere cenfeo,ad quem,tanquam ad tesseram,signa que
cæterasreducere legiones: sed propofitis sem per caussis,sine quibus tam
stultecredimus,quam arroganter profitemur. Nam quum hoc inter pretandi munus
Vlu, autoritate, ratione con itare'dixerint: lane intelligendum est, vsum sinę
ratione non semper moueri, veluti si atpirat trophæum, et Anchoram, quæ leniter
a Græcis aliis uproferuntur, Atheniensium exemplo sciamus fa P Etumesse.
Autoritas vero quid aliud, quamVfus eft?Nam quodautore M. Tullio dicimus, ex
cius 1 vsuid habemus. Atfi ab vfu recedat, tum vero auctoritas nulla est. Quare
etiam Cæcilium reprehendit Cicero, etiam M. Antonium, qui tum aliter, quam ex
vsu loqnerentur. Ad rationem igi, tur, quoad fieri poterit, erunt hæc
reducenda, e tu C Nonrecte z'ni vocifignificatorum multitudinema a veteribus
assgnatan. ForVerunt antem do ettissimi, multarum quelite rarum viri, qui
propterea quod niinis mulca variis observationibus comporta sciuissent, multa
item significatorum monstra unicidem q. Voci designarunt. Quoru in opera tantunabestveca
moda sit, ut maxime etiam libria duerseturinleria ptioni. Nam specioso titulo
de sermonis proprietate edidiffent, nihil minus quam quod pro fitebantur,
effecere. unius nanque vocis vnatan tum sit “significatio propria”, ac
princeps. cæteræ aut communes, autaccessoriæ, aut etiampuriæ, non enim ab
reidem verbum adiecit vfus Nominibus diversorum significatorum, sd quia co rum
natura conueniebat, sic dicimus Scindcre vallum: Scinde re adamantem non
dicimus. Non enim natura fert. Ac verbum quidem pristinum recipit significatum sed
non cohærent. Non igi tur potuit mutari significatum huius verbi, in ca verba
quæ cum adamante convenire possunt, puta tundere. Nam dicimus, scindere in lue
tu togam; ergo erit hoc loco idem scindere, quod Lugere: et scindere
vallum,erit, Castra occupare. Ita que male plurima sic ab illis distorta funt,
quæ a nobis in libris O. iginum certis appofitis cauffis correeta fuere. Nam
quis putarit verbum hoc Potiri, idem effe quod Condi? propterea quod poetæ
versus est, Potiuntur Tybridis alueo, fic Subigere, acuere, et stringere,
percutere, et spectare, Dirigere: et ventus, odor, et alia innumera, quæ omnia
longe accuratius ad sua quæ que principia reducenda fuere. Est autem viri et
boniet sapientis non solum alienos errores de tegere, atque arguer sed etiam
rationes suas atque consilia aperire. Quare quo sitindagandum modo,
sicinftituamus. Si Condi, significat Potiring loco verbi Potiri ponatur verbum
Condi: fipatitur sedes, bene est: si non patitur, non significat. Quis igitur
dicat, Conditus sum libro? Et Conditus sum Turdo? et Conditus sum Ense? Item si
Premere, Defodere est: dicamus igitur Fossam premere. Sic, Premere, Tegere
significat: igitur Colo premi, dicamus nos, quos non attingit tamen. Nolo nunc
duciper omnia, quæ suo loco in originibus exactis fime persequuti sumus: sed
satis lit icciffe fundamenta scientiæ tibi, more principis nostri Aristotelis,
cuius sapientiæ luce grammaticorum tenebræ discutiantur. Scaliger''s main essay
on language is his “De causis linguae Latinoae,” a grammar he wrote for his son
Silvio, and which was published by Sebastiano Grifio. There Bordoni tries to
establish a philosophical basis for a science of grammar. Bordoni
approaches his subject en philosophe. In order for logic to qualify as
philosophical logic has to deal with eternally true and necessary analytic statements
about a language such as Latin or any system of communications that a Roman
used to communicate with another Roman. This is a problem which confronts
speculative grammarians like Bordoni or Grice. Bordoni tries to establish the ‘cause’,
or four causes of language, because in an Aristotelian context, a cause (causa,
aitia) is that which always and by necessity brings about one specific
‘consequentia’ or effectus, or result. The discussion of the cause normally
centres about the central passages of the “Physics” and the “Metaphysics”. In
the grammar for his son, Bordoni does not devote much space to the discussion
of the nature of ‘cause’. His philosophical presuppositions remain for the most
part implicit. Thus, in order to understand more fully his philosophical stance
on single problems, it is necessary to draw extensively on his other essays as
weIl, especially those he did not write for Silvio! The ‘formaI cause’ (causa
formalis) of language is traditionally identified as ‘significatio’. It is
clear, therefore, that ‘significatio’ poses a series of problems which involves
not only language. The most fundamental ontological and epistemological
problems are clearly at stake. A fundamental essay from which discussions of ‘significatio’
arises is a passage from the beginning of Aristotle''s De ·
interpretatione : “Now a spoken sound is a symbol of an affection in the soul.
Of what this is in the first place a sign or symbol – the affections of the
soul -- is the same for every man. Of what this affection is a likenesses – a
thing –is also the same. If an expression ‘signifies’ an affection of the soul,
or through an affection of the soul, we must know how the latter relate to the
thing in order to be able to account for the full process of ‘significatio’.
Central problems will be Bordoni’s ideas on the nature of the universale, on
the conception of individual phenomena, on individuation, and on the agent
intellect. We find useful hints of Bordoni’s position scattered in many of his
essays such as the commentary on the Hippocratean De Imnsomniis, the dialogue
on Pseudo-Aristotle De plantis, and in the commentaries on Theophrastus''s
botanical essays. The most important text is, however, the Exotericoe
exercitationes, where a section is devoted 'to a series of problems concerning
the soul. The Italian scholar Paganino Gaudenzio is rather sceptical about the
value of these exotericoe exercitationes as a source to Bordoni’s thought.
Gaudenzio thinks that the work was too marked by Bordoni’s polemic against
Cardano, which occasioned the essay. Gaudenzio was scandalized by sorne un-Aristotelian
views of Bordoni’s, and he tried to dismiss the essay as being not seriously
meant. 1 do not think him right in doing so, although I do admit that it can be
difficult to use Bordoni’s “exotericoe exercitationes” because its choice
of subjects is determined by the polemic, and also because the language is notoriously
obscure. Our senses are immediately presented with the singular and material
thing. What we sense, however, is not the substance or essence of a concrete
phenomenon, but its accidents, such as its size, colour, position, or its
number. The intellect removes these accidens, and what remains is the essence
(substantia), i. e. the species universalis which is therefore in
sorne sense produced by the intellect. Bordoni does not take this to its
nominalist extreme of calling the species or the universals exclusively a mental
phenomenon. He gives an ontological status to the two. ln order to solve the
problem of the nature of the' universals, Bordoni briefly analyses a passage
from the Analytica priora (Al, 24a 25), and concludes that an universal is a
thing (res) whose nature it is to be predicable about many things. A universal
do not exist in the soul. A universal is discovered there rather than created. What
the soul does to an universal in turning it into an affection of the soul is
merely to make the universable predicable. Intellectus autem nihil affert nisi
proedicabilitatem. The ontological foundation of the affection of the soul thus
remains pronounced. In support of his view Bordoni quotes a passage from the “De
anima” where Aristotle says that a universal (“ton kath’olou”) exists in the
soul somehow (“pas”). Had Aristotle meant that a universal actually has its only existence there he
would not have used the word “pas”. Bordoni’s attitude is not identical to any
of the great medieval schools of thought, but it does recall the common
natures of Johannes Duns Scotus, which were actualised by the intellect as
predicable universals. This sort of fundamental Scotism was by no means
uncommon i n the sixteenth century, and ought to cause even less surprise
in Bordoni, who claims to have spent sorne years in a Franciscan monastery, and
who had prefaced and index to Duns Scotus with a laudatory poem. One should
not, however, unduly stress the Scotisi aspects of Bordoni. Athough it is a
conspicuous trend in his thought it is but one amongst many. For instance in
connection with the universal he here and in several other conneçtions used the
phrase “res uniuersalis”. This is an unusual usage of “res”. One would rather
have expected “aliquid” or the like. It could perhaps best be understood in
connection with the terminology which came in after Valla''s Dialectics, where
res replaced ens, aliquid, and several other scholastic terms. Also in the De
causis linguae Latinae we meet res used for universalis and even for
accidentia. This is not an obvious usage for a man who, like Bordoni, was a
moderate realist : he did not ascribe a separate existence to the universals
ante rem, only a real existence “in re”. Points of view akin to the one
outlined above are found not only in the “Exotericoe exercitationes”, from the
last years of Bordoni’s life, but also in his earlier writings. A corresponding
attitude is for instance expressed in the commentary on the Hippocratean
De insomniis. Regarding species as a predicable or a universal as Bordonir
does was a Platonising interpretation of Aristotle which stems back to Porfirio.
This interpretation created serious problems within the Aristotelian system. How
can two single individuals of the same species differ, and how can they be
grasped by the intellect if at all? This set of problems underlies a wide range
of metaphysical and logical discussions and it would be pointless to give even
an outline of its importance here, but we cannot avoid a presentation of
Bordoni’s views on individuation and of the intellection of singular material
phenomena. According to Bordoni, Averroes assumes that there is one intellect
for the whole of humanity, and that it cannot grasp the individual phenomena.
In Italian Renaissance Aristotelianisrn, the unity of the intellect is a
standard topic of discussion. Bordoni’s interest in the subject probably
reflects his Padova days. Averroes was held to believe that the intellect
assumed the form of the thing intellected. Bordoni points out that to Averroes
the intellect does not realiter become res intellecta, but only modo
similitudinis et receptionis, although he in other places ascribes the more
radical view to Averroes, and he also ascribes it to Cardano. According to
Bordoni, Aquino also rejects the intellection of the individuals, not because
of their materiality, but because of their , individuality. This is hardly in
accordance with modern readings of Aquino but it seems to have been communis
opinio. Zimara bases his De primo cognito on a refutation of what he saw
as a nominalist acceptance of the intellection of the singulars simpliciter.
The arguments used by Zimara, one of the men whom Bordoni quotes as his
preceptors in the epistle to the reader prefixed to the Exotericoe
exercitationes, are listed as either Scotist or Thomist. A thing is considered
incompatible with the intellect because it is respectively, material and
singular. These are the same reasons which Bordoni ascribes to Averroes and
Aquino. For Bordoni the matter is clear. We do perceive the individual in our
intellects. They are indeed the first things perceived by it. If this were not
the case, he continues, a proposition like “Caesar est homo” would be devoid of
sense. To the objection that the individual only per modum is distinguished from
the species, he responds. Now listen: This Caesar who is writing this, is
something different from the universal nature of man; therefore, it is
necessary that Caesar is intellected as differing from the universal through
some particulars. Therefor, the singular is intellected. Bordoni proceeds to
argue that the higher faculties have a more perfect cognition than the
lower ones, and therefore the intellect is bound to have cognition of the
singulars of which the senses have perception, for the intellect is a higher
power than are the senses. This is very close to the traditional Scotist
argument in favour of the intellection of the singulars. Again it is
interesting to see that this was a constant point of view in the works of
Bordoni. In the commentary on the De insomniis he says. Therefore,
if the intellect grasps the universals, it also has knowledge of the
material things. This opinion was expressed forcefully enough for Bordoni to be
quoted for it several times in later academic literature (Pomerano). In the
section of the Exotericoe exercitationes with which we have been mainly
concerned, we were still left in the dark as to what constitutes the
individuating principle. Another section, however, provides us with a clue. It
is entitled “De principiis naturre indiuidure”. Anima is the individuating
principle of the human being. Bordoni does not say so in so many words, but
thus it. becomes clear that “forma” to him is the individuating principle,
since the human forma is anima. This would seem to pose more problems than it
solved, for the “forma” is that which makes a thing be what it is. It is its
common nature or universal principle, and hence it should really be the “forma”
which requires individuation. Bordoni is obviously not very precise here, and
although he uses the term individuation, he probably does not want to commit
himself too unequivocally to Scotism by introducing the haeccitas, which
is formally distinct from the soul. But even so it seems clear that for
Bordoni’s contemporaries this was accepted as a Scotist approach. Nifo, for
instance, another of the philosopher Bordoni identifies as his preceptor,
specifies as Scotist his thought that the soul is irreduceably individual in
itself, and that it is in its own · right an individuating principle. The same
vaguely Scotist attitude can also be detected in the section of the Exotericoe
exercitationes which is called Quid sit intellectus. There we read. Thus we see
that there are several notions for one and the same thing. We calI them
formalitates. This is seen as a barbarism by those who are themselves
harbarians, but for the learned it is not an inapt term. Admittedly the idea
that one thing could hring about various notions is rather more nominalist than
Scotist, and the Scotist would altogether have described the formalitates
as having a higher degree of reality, but even so the provenance of Bordoni’s ideas
on individuation seems clear. We now know that an individual phenomenon is
first to he perceived by our senses, but it is also grasped by the
intellect before it proceeds to denuding it of its differentia in order to
make it into species. In this function the intellect could be called
intellectus agens (“nous poietikos”). If one assumes that a universal is
created in the intellectus materialis (or possibilis, or passivus – nous
pathetikos), Bordoni says, there would indeed be use for an intellectus agens.
If, on the other hand, one does not believe that the intellect actually creates
the universal, it is superfluous. Either one can say that the intellectus
agens both recognizes the singular and through the process of ‘abstraction’ cornes
to recognize the universal, or the other way round, one might say that the
material intellect can have a facultas diuidendi, componendi, separandi, and
colligendi. Therefore the agent intellect will not be necessary, where the
material intellect is, or it will exist on its own without the material intellect.
Thus there is no real distinction between the two, but Bordoni does permit a
distinction ratione or ui by insisting that the intellect is but
one according to its potentia, whereas it has several uires. Aiso Bordoni’s
preceptor Nifo rejects the Thomist idea that the soul had several protestates
(the structure power of the soul). Thus Scaliger once again recalls Scotist
terminology. Bordoni states his views on the agent intellect very
strongly, even suggesting that the notion is ridiculous, and this becomes the
object of much attention in the generation immediately following Bordoni’s. Thus
Goclenius discusses the problem in his “Aduersarium”. An sit necessarium
ponere intellectum agentem. And Gaudentius is positively scandalized at the
thought that a man who wanted to pass for an Aristotelian could hold such
opinions. The agent intellect, which which Aristotle deals very earnestly is
being attacked by Scaliger as superfluous, nay ridiculous. Bordoni takes the
same attitude in his commentary on Pseudo-Aristotle’s De Plantis and also in the
commentary on Theophrastus's De causis plantarum. As an introduction to his
discussion of the “diction” in the “De causis linguae Latinae”, Bordoni
provides a summary of his epistemological views. Most of it should be
self-evident after the discussion of the Exercitationes exotericoe on the same
subject. The “De causis” is far more jejune and far less explicit, but
none of the information there provided, seems to contradict our findings. In
the Dè causis, however, Bordoni takes us, also briefly, from the
epistemological level to the level of language. We have the intellection of the
species in common with other animaIs, but we distinguish ourselves from other
animals by our rationality (“prudential”, “consilium”), whereby we participate
in God. The rationality can only be perpetuated socially, by the process of
learning and teaching. Therefore language is necessary. Reading the De causis
one might weIl wonder why language is necessary at aIl. Every affection of the
soul as weIl as the thing it reflects are identical for every man. If an
expression ‘signifies’ an affection of the soul, language is really only an
instrument for communicating what is already perceived and intellectually
grasped equally by everybody. We would, according to Apel, be metaphysically
guaranteed to say the same things about the same shared world. Bordoni’s answer
to this would be that the “finis orationis” is not only naming an affections of
the soul. It is an interpretation of the soul. The soul does not only perceive
the singular and grasp the universals, two objective processes. It is also discursive
and combines them in complexa, which in turn can be compared with the
external world. The relationship to truth is that which makes language
significant. The relationship between an affection of the soul and a thing is
far closer for Bordoni than the arbitrary relationship between an expression
and the affection of the soul that it signifies. An expression of the soul does
not ‘signify’ at all. ‘Significare’ is never used about an affection of the
soul, nor is this affection ever called a “notum” in the way an expression
always is. Only an expression ‘signifies,’ and it seems to be clear that
an expression signifies an affection of the soul. This last statement is
nothing special; for even the nominalists has to make use of an affection of
the soul for “significatum”, when e. g. a universal is concerned, although they
generally assume that an expression signifies a singular and material thing directly.
It therefore cornes as a surprise that throughout his essay on the causes of
the Latin language Bordoni clearly and unambiguously states that an expression
signifies a thing (res). The mental intermediate level is practically entirely
left out of consideration in the discussion of the Latin language and its
causes. For instance an expression follows directly the nature of the thing. In
the same way as an expression is a sign of a thing, it also imitates its nature.
In sorne places Bordoni explicitly excludes influence from an intervening
mental level. Consequently amabigous nomina do not exist, for in the real world
(in rebus) there is no intermediate between that which I have called an
adjective name and a substantive name. Hence there can he no intermediate
lzomen. Even if we remember that for Bordoni “res” could mean far more than
just a physical thing, this leaves the mental process completely out of the
picture as far as language is concerned. At the risk of explaining away what
might only he a banal inconsistency, I venture to propose that Bordoni did
believe that an expression signifies an affection of the soul, which in its
turn is a ‘re-flection’ of the res, but that the mirror of the intellect is so
perfect that the mental level becomes superfluous when one talks about the
matter. We have seen that the soul neither adds nor detracts from nature. The
soul arrives at the universals through abstraction. Bordoni is close to the
entirely objective relation between mental term and extra-mental phenomenon
which Nifo maintains in his Dialectica ludicra. When he says that “nomen
significat rem” or the like, Bordoni is not therefore talking as a nominalist,
although sorne philosophers did maintain that an expression refers directly to a
things. On the contrary 1 think that Bordoni uses a shorthand expression
possible only for a realist. Leaving the mental level without any importance in
language Bordoni notably disances himself from not only the realist modistae,
but also from their nomilist opposers/ followers, who reinterpreted the” modis ignificandi”
iriio “modi agenda” of the intellect. Here Bordoni breaks radically with Aristotelianism,
including Scotism. Bordoni is not, however, the only one of his time to do so.
Nifo explains this tendency more fully in his Dialectica ludicra where he sets
out to prove that there is no such thing as a “natural” “sign”. Not even the affection of
the soul signifies naturally, for a notion is received objectiveIy. Hence there
is no formaI causal relation between the singular material thing and the notion.
This is not dissimilar to Aquino’s idea that the a notion is a “similitudino”.
The affection of the soul is itself something signified (signatum); the
affection of the soul does not signify (signans). It is clear that Nifo
can deprive the affection of the soul of signification because of the objective
relationship between the thing and the affection of the soul, an approach
which is very close to the restricted function of the intellect as set out by
Bordoni. The tendency in philosophy had been to underline the function of the
affection of the soul in the process of ‘significatio’, and both Scotists and Averroists therefore
stress that an expression admittedly signifies a thing, but through an
intermediary abstract ‘concept’. We occasionally find this attitude reflected
in the De causis as weIl but on the whole this seems to be overruled by
Bordoni’s practice, where he is closer to Nifo. However, although an affection
of the soul itself does not not signify, it is still in exceptional cases
considered as the “significate” of expression by Bordoni. He does not always
insist on an expression merely signifying a thing. Having recourse to the
mental level seems to have been Bordoni’s ultimate resource when the more simple
approach was not viable. I will consider the following passage. Somebody might
object. An apparent substantive name – like phoenix -- which is a name of a
figment of the soul, is not an expression. For ‘phoenix’ – or “Pegasus” is not
the sign of a thing. It should be understood as follows. That which is called an“ens”
sometimes has true being, e. g., God, sometimes not.. The latter case can have
two forms, either “privation” (negation) or fiction. The apparent expression
“vacuum” (as in ‘this name is vacuous’) is an example of privation. The apparent
expression ‘phoenix’ or ‘Pegasus,’ as in Bellerofonte mot ail cavallo alato
Pegaso’) is an example of fiction. The apparent expression or name or
substantive name of this thing (ens vacuum, ens phoenix) does not signify in
the same way as ‘God’ signifies God. Privation or negation signifies through
the category of having. (“I am not hearing a sound”, “This not not red; it is
green” – as a bird has wings and flies, so does Pegasus, the Greeks believed). It
is easier to understand a figment – simple like ‘phoenix’ or complex like
‘squared circle,’ or ‘winged horse’, for they are a sort of false enunciations.
For ‘phoenix’ is the same as this enunciation, ‘This ia a bird resuscitated on
account of itself. This horse flies, and Bellerophon rides him. “Vacuum” is
described in practically modistic terms. “Per modum privationis” significare is
not written explicitly, but aIl the elements are there. This involves a concept
of a mental process which cannot be derived from Bordoni’s own epistemology. ln
order to explain how Bordoni sees the ‘significatio’ of ‘phoenix,’ Luhrman
paraphrases perhaps inadvertently the nominal phrase ‘phoenix’ to the full
utterance, ‘phoenix est avis rediviva sui causa”. Thus he obtains an utterance
and a proposition which can he either
true or false, but this does not help us with this rather obscure passage.
Bordoni does *not* equate or associate the vacuous name ‘phoenix’ with a
proposition, but with Bordoni calls a “complexum indistans”. “Avis rediviva sui
causa” – cf. ‘equus volans”. Bordoni confuses two problems here, that of ‘significatio’
(connotation) and that of truth (denotation). This cannot be dismissed so
easily as this. It is worthwhile recalling the commentary of Averroes on De
interpretation, where he states the generally accepted view that an expression
(alpha, beta) on its own is neither true nor false. Only if we add the copula
''is'' (the S is P, the alpha is beta) or '' is not'' can one talk about truth.
Averroes continues. “And therefore, when we say that a ‘chimaera’ (goat-stag)
cannot eat secondary intentions, we signify something true—for it is true that
a chimaera does not eat secondary intentions – quaestio subtilissima. Bordoni's
preceptor Zimara deals with a related problem in his best-selling “Solutiones contradictionum”.
Zimara claims that in one way, the formation of the intellect is always true;
that is by the first operation of the intellect. In a similar context in the
Exotericoe. exercitationes Bordoni says. Ffr that which is understood by the
intellect is always true (“It is true that the Greeks believed or conceived of
Pegasus as a flying horse”). In another way, however, the formation of the
intellect, when negated in an utterance, is true (“It is true that Pegasus does
not fly”), because, as we nave seen, uerzcas can only oe eSIaOllsnea
Inrougn an “adaequatio rei”, which involves “composition”
(conjunction of properties: equus volans) or disiunctio. Neither of these two
ways of regarding truth allows of
declaring phoenix a lie. Sorne light can be thrown on this contradiction in
Bordoni by looking at the central passage in the Metaphysics where Aristotle
discusses the ways in which falsitas can be said, i. e., not a philosophically
unambiguous term, but the usage of the term in Greek, although Aristotle takes
it for granted that all the ways in which ‘falsum’ may be said are equally
adequate instances of ‘falsitas’. What is important for my purpose is that
Aristotle in one section ignores or underestimates a ‘statement’, an
‘utterance’, or the content of a desire or a belief in favour of a states of
affair which he groups with under the category of a thing that is not as it
seem, as false, a thing. Averroes says on the same locus. ‘’Falsum’ is also
said about a fictional thing which is imagined according to their not having
existence, or not being at all. And this sort of ‘falsum’ has to do with
intellection and primarily with desiring or believing It must be a
‘falsum’ of this kind which Bordoni has in mind, although this is difficult to
explain without ascribing a greater independence to mental operations. Bordoni
is likely depending on a passage like the one from Averroes than on scholastic
quaestiones on figmentum. This is reinforced by his choice of the example
‘phoenix’, which usually exemplifies a species or set with only one member in
it (hence it grows capital letters, as Strawson says). The example of a figmentum is usually either ‘hircocervuus’
(unicorno) or chimaera (goat-stage), cf. sirena, centauro -- which
are more complicated to account for than the singular ‘Phoenix’ or ‘Pegasus’
(‘Vacuous Names’). However, allowing that Bordoni means what was usually meant
by ‘chimaera’, there is some traditional sense to be made out of this passage.
ln one other instance Bordoni has to take mental operations into consideration.
That is when he discusses what was traditionally known as suppositio materialis
(the use-mention distinction). Scaliger never uses ‘suppositio’, and he is
refreshingly untechnical on the subject. ln sorne places he is, however,
reminiscent of logical terminology. Bordoni’s explanation of material
supposition corresponds to his description of the mental auto-reflection on an
affection of the soul. Thus we see that Scaliger does explicitly acknowledge
mental operation in the De causis linguae Latinae in sorne special
circumstances, although it on the whole is of less than secondary importance to
him. I do not deny, therefore, that a mental level exists in Scaliger''s
epistemologically based concept of ‘significatio’. My point is rather that the
functions which Bordoni ascribes to the intellect are so limited that he can
most often ignore them in practice. Scaliger''s indifference to the mental
operations has sorne linguistic consequences as weIl. He has a .preference for
the expression ‘significatum’ (cf. implicatum, implicatura) rather than ‘significatio’,
‘implicatio’). And it is remarkable that he does not seem to mind whether
‘significatum’ gets confused with ‘significatus’ (‘signatus’,
‘signatum’). Bordoni quite often uses forms where the two co-incide, without
giving any indication of which of the two he means. When discussing homoym,
paronym, and synonym, Bordoni says : Nam pro-fecto ut inre non sunt eadem
(eequi-voca), ita nominis *significato* alio atque alio sunt. Itaque sic vere
possis dicere. “Canis non est canis.” Id es, res coolest is non est res terrestris.
At nomen et materiam habet ipsas literas, “C”, “A”, “N”, “I”, et “S”, et
formam, id est significatum. Ergo “canis coelestis” materiam eandem habet
elementorum quam canis terrestris. Formam autem, id est significatum, non
habet. Ergo non est idem nomen (costellatio canis caelestis). The two places
where Bordoni writeso “significatum” he seems to be thinking of the relaterd
(but distinct) form of “significatus”. It would, syntactically, have been at
least as correct to have ‘significatus’ (or ‘significatum’) nominative case
(casus rectus, not casus obliquus) in the two instances – in which case the nominative
forms ‘significatus’ and ‘significatum’ are different. When Bordoni has ‘significato’,
this expression seems is a declined form of the nominative “significatum”. But
this would makes but little sense. As Pattison notes, it would amount to saying
something very otiose if not nonsensical. Just as two 'homonyms, say, ‘dog’ and
‘dog’, are different in the real world, they are not the same in the real
world. It make more sense to read ‘significatu’, the declined form of the
nominative neuter noun ‘significatus’ instead. The same is true of
another passage. Proprium autem quorundarum prae-positionum est ut *significate*
uarient. Prepositions (like “on” the table), being con-significantia, do not
strictly have a significatum at all – even if “See Strawson under Grice,
and Grice on Strawson” does – or Pears is between Grice and Strawson. With the
case of ‘on’ or ‘between’, ‘significatu’ or ‘significatus’ (cf. conceptus) would
have constituted a more understandable text. – cf. the conception of negation. My
intention is not, however, to propose emendations ot the text, but to show that
Bordoni is practically indifferent to any distinction between ‘significatus’
(conceptus – incuding figmentum) and significatum (signatum – what affection of
the soul is behind the expression ‘phoenix’?). A rather dramatic consequence of
the objective relation between the extra-mental world and the corresponding
mental concepts. Bordoni’s ‘significatio’ makes it very difficult to explain
contextually changing usages of a word. Each varying usages must reflect a
different affection of the soul. Two different uses of an expression must
therefore be considered as two different dictiones, which only accidentally
have the same ‘matter’ or form. This is standard in the modistae, but Bordoni’s
‘significatio’ becomes even more rigid and static because of the limited role
he ascribes to the mental operations. Not only does he ignore theories of
supposition, which involve words changingaccording to context ; he rejects the
possibility explicitly by telling us that discussions of sermonis proprietas
are cOlnpletely misguided, because words have Ollly one signification
(Scaliger 1540 : 351). This make it very difficult to acc() unt
theoretically for the philological discussions of the niceties of usage. That was also
a sort of proprietas sermonis. Bordoni unhesitatingly gives use precedence over
rationality in lànguage, when confronited with the problem, but his theoretical
discussion of use remains fundamentally incompatible. with his concept of ‘significatio’.
A discussion of the concept of usus will, therefore lead to far away from the
theme of this, and it must here be left as a hint at the range of Scaliger''s
eclecticism. Arist., Phys. B 3. 194b23 -195b30; Met. Â 2. 1013-24
-1014-25, te Scripsimus autem desumptis a philosopho principiis pro confessis
quod in omni scientia fit infmore» -- where he discusses criticism of the De
causis. Arist. / nt. 16-3-8. Gaudentius. For a modern discussion of
Scaliger's relationship with Cardanus see Maclean. Te ita et naturre opulentia
et Aristotelis opibus euincam esse in natura res universales piuribus
communicabiles. te At intellectus nullam facit substantiam. Neque cum abstrahit
circumstantiam quicquam addit de suo... sed agnoscit eandem esse in utroque,
quia utrique communicabilem et iam communicatam. Bordoni is clearly and often
explicitly anti-nominalist. For Bordoni’s stay in a monastery cf. Billanovich.
The poem is in de Fanti. Ad hrec uniuersalia in materia sunt. Sunt enim unum in
multis. Nam idearum figmenta non admittimus». (10) It is worth noting that
Bordoni does not agree with Zimara who says. Unde, sicut mea fert opinio,
sententia peripateticorum fuit quod intellectio singularis materialis repugnat
intellectui, ut intellectus est, non quatenus singulare, sed quatenus materiale
est. Sic erat respondendum: in rebus singulis esse multa suapte natura qure
unum fiunt ab una forma: ut esse, uegetari, sentire, intelligere. Hrec omnia ab
una anima unum fiunt in homine. Sic uidemus eiusdem rei diuersas esse notiones
quas barbare quidem barbaris, sed non inscite apud doctos formalitates
appellabamus. See Poppi (1966) for-a discussion of the Scotist doctrines on
formal distinction at Padova. Bordoni’s thoughts are very similar to the notion
of the immediate contact between the intellected object and the passive intellect
which Achillini was noted at Padova. Bordoni’s thoughts are very similar
to the notion of the immediate contact between the intellected object and the
passive intellect which Achillini was noted for maintaining. Perhaps more interesting
here is that Nifo and Bacilieri also nurtured such ideas. Bordoni does not,
however, completely reject the existence of the species intelligibilis. Rationality
is the traditional Aristotelian differentia of the human being. Luhrman sees a
dependence on Pico della Mirandola in the use of “divinum”. The idea of the
divine participation of the soul is general neo-PLATONIC doctrine and can
hardly he identified with Pico specifically. It is worth noting that Bordoni does
not make the human use of language an argument for the divinity of the souI.
This would have brought him far closer to the language mysticism of Pico. Veritas
in oratione est, non in uerbis priuis. When Scaliger talks about materiam,
formam and qualitatem significare: about substantiam significare and about
actionem/ passionem significare, aIl these concepts are also res, not with a
separate existence, but nevertheless with a real existence. E. g. Hieronymus
Pardo, who took up the nominalist argument that the assumption of an
intervening concept would lead to Infinite regress: cf. Ashworth 1974: 43. (20)
Averroes in Aristotle (1562) Vol. 1, 1, fol. 68 v. (21) Zimara (1530)
(Contradictiones) fol. 53 v., commenting on the De anime III textus 21 and 26 =
r 6. 43Qa26 sqq. and 43{) b 26 sqq. (22) Kirwan (1971) p. 178 on /:. 29. 1024b
17 sqq. (23) Averroes in Aristotle (1562) Vol. VIII, Met. V, textus 34: fol.
141. The chimaera not only poses a problem of truth, but as a true figmentum it
exemplifies that which it is impossible to comprehend, in the sense that it
signifies something which has the essential characteristics of “lion”, “woman”,
and “dragon”. That Bordoni does not use the chimaera here is so more remarkable
as he did know why ‘chimaera’ is a complicated example. As it is described in
Bordoni’s exercitatio on which Goclenius comments. Ac aliquando sine hac specie
intellectus intelligit, nempe cum intellectus recepta species exsinuat se ipsum
et speciem ipsam intelligit. Id est ipsam speciem cognoscit esse rei notionem, non
autem rem. Hzc intellectio est animi action. I cannot therefore entirely agree
with Stefanini in calling Scaliger “a modest mentalist”. For signification is
the forma of a word, not something separate from it. Est st enim forma
dictionis signification. -- intelligibilis. -- the he human him. Sgnificare
nevertheless of and exemplifies which : know 3v., : : species
rei. 1cannot therefore entirely agree with Stefanini in calling Scaliger te
mentaliste » . ACKRILL, J. L. (1 Aristotles Categories and De
interpretatione, Translated with. Notes and Glossary, Oxford, Oxford University
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Cesare della Scala. Giulio Cesare Scaligero. Giulio Bordon. Bordon. Bordoni. Keywords:
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retorica, Cardano, aristotelismo, rinascimento, bordone. Grammatica a mi
figlio, Grammatica Silvia – per il figlio Silvio. Luigi Speranza, “Grice e Bordoni” – The
Swimming-Pool Library.
Borrelli (Napoli). Filosofo. Grice: “I would call
Borreli a Griceian; I never took Sraffa’s rude Neapolitan gesture too
seriously, but Borelli, like Vitters, does – as he notes, a bended wrist can
mean, the utterer by moving his hands this or that way IMPLICATES that p – or
q; I certainly allows my ‘utter’ to cover such cases – ‘express’ – but Borreli
is into the mechanics of it!” La ricostruzione della vita di Borelli si basa
sull'epistolario che Borelli tiene con Viviani, Marchetti, Magliabechi e
Marcello Malpighi. Figlio di Michele Alfonso Alonzo, soldato di fanteria del
presidio distaccato al Castel Nuovo di Napoli.Il padre fu processato per aver
favorito la fuga del Campanella dal Castel Nuovo, e fu condannato alla pena
capitale, che gli fu poi commutata nell'esilio a Roma. Questo ultimo sarà il
luogo dove Borelli effettua i suoi studi diventando allievo di
Castelli. Insegna matematica prima a Messina a Pisa, dove fonda la Societa
degl’Investigandi. Si ritira a Roma dove fonda la Societa dell'Esperienza Fisica-Matematica.
A Roma frequenta le lezioni di idrodinamica di Castelli. Castelli gode di una
notevole fama e fu certamente in quell'occasione che Borelli comincia ad
appassionarsi alla fisica e, in particolare, alla meccanica classica. Chiaramente
questo periodo e decisivo per il suo indirizzo culturale in quanto gli permise
di elaborare quella metodologia di pensiero grazie alla quale lascia impresso
il suo nome nella storia. Borelli infatti utilizza l'applicazione della
matematica della meccanica e del metodo sperimentale, proprio della scuola
galileiana, per risolvere i problemi biologici.Borelli fu chiamato dal senato
accademico dell'Messina, grazie in parte alla raccomandazione del Castelli, al
fine di occupare la nuova lettura de matematiche. L'Messina lo tenne in gran
conto e gli fornì i mezzi per viaggiare e mettersi in contatto con i professori
delle altre università. Borelli pubblica la risoluzione di alcuni problemi
geometrici di Pietro Emanuele Scoppia una epidemia in Sicilia che da l'occasione
a Borelli di scrivere la sua prima opera da medico. L'opera intitolata “Cagioni
delle febbri maligne in Sicilia” e pubblicata a Cosenza. La
precisione con la quale Borelli tratta questa ‘febbre maligna’ conferma
ulteriormente che egli già in precedenza aveva raggiunto notevoli conoscenze
mediche. Lasciò Messina al fine di occupare la cattedra di matematica a Pisa,
conferitagli dal Granduca Ferdinando II. Tenne la sua prima lezione pisana ma
con scarso successo. Non passa molto tempo però che quegli stessi allievi
dovettero ricredersi sulle qualità del maestro. Tra i suoi più illustri
discepoli, merita di essere citato Marchetti. Il soggiorno pisano si rivela di
grandissima importanza al fine di plasmare l'orientamento scientifico di
Borelli, che già alla scuola del Castelli si era andato rafforzando. Per
sottolineare l'importanza del soggiorno pisano è giusto considerare che il
territorio di Pisa ha visto passare i più illustri medici del tempo: Vesalio,
Colombo, Cesalpino, Galilei infine che era stato a Pisa per conseguire il
titolo di dottorato, ma poi finì per insegnare matematica. Sebbene tra i medici
appena nominati Galilei possa sembrare estraneo al loro campo non bisogna
escluderlo del tutto. La tradizione galileiana infatti trae nuove risorse
grazie alla fondazione del Cimento che ha costituito un evento di notevole
importanza per l'evoluzione del progresso scientifico. Della suddetto Cimento
ha parte Viviani, Dati, Segni, Redi, Torricelli, Oliva (di Reggio Calabria), e Borelli.
Il motto del Cimento e “provando e riprovando”. Col Cimento viene dato credito
al metodo sperimentale galileiano in contrapposizione al principio di autorità
del metodo aristotelico. Borelli da un contributo notevole a ogni importante
esperienza del Cimento. Tozzetti si riferisce a Borelli come uno dei maggiori
luminari del Cimento. Borelli pubblica “L’Euclides restitutus” di notevole
importanza matematica. Sccessivamente si dedica alla traduzione del “Dei
conici” di Apollonio. Pisa si presenta come il teatro di una epidemia di
febbri. Borelli studia questo morbo e ne fa una descrizione in alcune lettere
che inviò a Malpighi. Pubblicò il De rerum usu, completando le osservazioni
anatomiche del Bellini L. con delle osservazioni fisiologiche. Si
occupa anche di astronomia, in particolare della cometa che era apparsa. Nel
Theoricae medieorum planetarum ex causis phisicis deductaem si interessa del
movimento dei satelliti di Giove. Borelli, parallelamente alle esperienze di
matematica e fisica, si occupa di anatomia e soprattutto di fisiologia. Queste
ultime esperienze gli sono di estremo aiuto per la successiva elaborazione del
De motu animalium. Sia l'anatomia che la fisiologia compiono in questi momenti
dei progressi significativi, soprattutto grazie all'applicazione del metodo
sperimentale alla fisiologia (Harvey con la dimostrazione della circolazione
del sangue). In questo period, l'intento principale è quello di abbandonare il
cieco empirismo al fine di porre le basi di quella che sarà la medicina moderna.
Sotto questi auspici nasce, grazie anche a Borelli, un nuovo movimento, la
scuola iatro-meccanica che agli inizi viene anche chiamata scuola iatro-matematica.
Tuttavia, già sorgeno i primi dissidi e le prime inimicizie tra i membri del
Cimento; Borelli e in dissidio soprattutto con Viviani, per cui cominciava a
maturare il convincement odi ritornare a Messina. Borelli scrive al Principe
Leopoldo e manifesta l'intenzione di lasciare Pisa adducendo il pretesto della
salute. La partenza di Borelli dispiacce al Principe Leopoldo, il quale
tuttavia non lo priva della sua stima. Secondo Francesco Redi, Borelli si
pente di aver lasciato Pisa. Con il ritorno a Messina si chiude la fase più
feconda di risultati nella vita di Borelli. Il ritorno di Borelli a
Messina fu molto gradito dai cittadini di questa città, grazie sia al ricordo
che conservano e sia per la fama che Borelli aveva conquistato in Toscana.
Nella città sicula, Borelli riprese l'attività di docente impegnandosi sullo
studio dei fenomeni riguardanti l'astronomia e la fisiologia. Pubblicò le
Osservazioni intorno alle virtù ineguali degli occhi. E incaricato dalla Royal
Society di Londra per studiare l'eruzione dell'Etna. Alla descrizione
dell'eruzione del vulcano fatta da Borelli si interessa anche il Principe
Leopoldo. Durante il soggiorno messinese, Borelli frequenta il palazzo
del Visconte Ruffo, luogo nel quale, a quanto sembra, si cospira contro il
regime. Questa attività cospiratrice culmina
in una congiura, a quale, oltre a non provocare nessuna alterazione nella
situazione politica, ha conseguenze disastrose per la cultura dell'isola.
Borelli, per le sue idee e per il suo operare in nome della libertà e
dell'indipendenza, e accusato di ribellione e dovette espiare la sua colpa a
Roma. Borelli raggiunse Roma. Il poco avere che era riuscito a portare con sé
gli fu derubato da un servo infedele. Malgrado queste tristi condizioni, non
abbandona l'attività intellettuale, anzi riprese lo studio al fine di portare a
termine la sua più grande opera, il De motu animalium. Fortunatamente Borelli incontra a Roma la regina Cristina di
Svezia, la quale avrebbe poi patrocinato la pubblicazione della sua opera
capitale. A causa delle condizioni economiche in cui versa, Borelli dove accettare
l'ospitalità offertagli da B. Carlo Giovanni di Gesù nella sua casa di San
Pantaleo. Il De motu animalium rappresenta il suo ultimo grande contributo per
la conoscenza scientifica infatti, mentre lavora su questa opera, fu colpito
dalla malattia, probabilmente polmonite. Prima di morire, Borelli, raccomanda la
pubblicazione del De motu animalium a B. Carlo Giovanni di Gesù. L'opera più
conosciuta del Borelli è il trattato De Motu Animalium, con il quale cerca di
spiegare il movimento del corpo dei uomoni basandosi su principi meccanici,
tentando di estendere all'ambito biologico il metodo di analisi geometrico-matematica
elaborato da Galilei in ambito meccanico e per il quale si guadagna il titolo
di padre della iatromeccanica. Borelli si occupa anche di astronomia,
elaborando una teoria generale sul moto dei pianeti, seppure limitatamente ai
satelliti di Giove. Si suppone che la decisione di limitare lo studio a tali
corpi fosse stata dettata dall'opportunità di non andare in contrasto con le
teorie geocentriche imposte dalla Chiesa. Nel suo studio Theoricae mediceorum
planetarum, sostiene che tutti i satelliti abbiano una naturale tendenza ad
avvicinarsi a Giove, mentre la loro orbita circolare intorno ad esso li
spingerebbe ad allontanarsene. Le forze contrapposte si equilibrerebbero:
l'attrazione verso Giove sarebbe costante mentre la spinta contraria sarebbe
inversamente proporzionale alla distanza dei satelliti da Giove. Borelli
giustifica il moto delle orbite e la loro forma ellittica come una combinazione
di forze tra "l'attrazione dei raggi solari" e i "raggi
motori" originati da Giove. Giovanni Alfonso Borelli, continuando i
tentativi di Galileo sulla misurazione della velocità della luce, eseguì un
esperimento utilizzando un sistema di specchi riflettenti sulla distanza tra
Firenze e Pistoia, circa 35 km. Questo metodo fu poi ripreso da Fizeau che riuscì
a valutare una velocità di 283.000 km/s, molto vicino alla misura esatta.
Altre opere: “Cagioni delle febbri maligne in Sicilia”; “Della cagioni delle
febbri maligni” (Pisa); “Euclides restitutus, sive prisca geometriae elementa,
brevius, et facilius context” (Pisa); “De Renum usu Judicium” (Strasburgo); “Lettera
del movimento della cometa apparsa a Pisa”; “Theoricae mediceorum planetarum ex
causis phisicis deductae” (Pisa); “De Vi Percussionis, et Motionibus Naturalibus
a Gravitate Pendentibus” (Bologna); “Osservazioni intorno alle virtù ineguali
degli occhi” (Messina); “Meteorologia Aetnea, seu historia et methereologia
incendi Aetnei” (Reggio Calabria); “De motionibus naturalibus a gravitate
pendentibus” (Bologna); “De Motu Animalium. (Roma), Lettere di Borelli ad
Alessandro Marchetti, Lettere di Giovanni Alfonso Borelli, dirette una a
Malpighi, le altre a Magliabechi. Napoli. La scuola di Roma. Alfonso Borelli,
fisico: Celebrazione dell'Accademia del Cimento nel tricentenario della
fondazion, Pisa. Dal Borelli al Malpighi. La mécanique céleste de Giovanni
Alfonso Borelli. Di una diversa soluzione di un problema di meccanica muscolare
da parte di due medici matematici. Considerazioni sulle vedute
neurofisiologiche. Spunti di neurofisiologia nel De Motu Animalium di Borelli. L'apparato
motore nello studio di Borelli. Memoria della pontificia Accademia Romana dei
Nuovi Lincei. Dizionario biografico degli italiani. Giovanni Francesco Antonio
Bonelli. Giovanni Alfonso Borelli. Keywords: corpo umano, fisiologia, anatomia,
psicologia, motu, fisiologia filosofica, explanation of bodily movement,
behaviourism, body movement, corpore, corporalism, animism, corpo animato, che
cosa anima il corpo, che cose animano i corpori? Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Borelli” – The Swimming-Pool Library.
Borsa (Mantova). Filosofo. Grice: “I would call
Borsa a Griceian – I mean he wrote on eloquence, as I did – and he qualified
this in two ways: ‘eloquenza sacra’ and ‘in Italia’ – Like Austin, he thought
that this or that ‘filosofismo academico’ (think ‘impilcatura’) was an abuse to
the ‘eloquenza sacra’ in Italia – another was the use of ‘neologism’ – Friends
tried to disencourage: “This or that filosofismo did have some influence on
Roman poetry!” “Damn them!” – He also wrote a rather anti-pathetic ‘elogio di
me stesso,’ whose chapter on ‘gli amori’ is hardly sincere!” “But I love him!”
-- Studia a Verona, Reggio Emilia, e
Bologna. Gl’interessi di Borsa sono di stampo prettamente filosofico. Publica
“I fisiologi” e “Gl’empirici”. Segretario dell'Accademia mantovana. Pubblica “Del
gusto” presente in letteratura italiana, saggio scritto in risposta a un
quesito posto dalla medesima Accademia, ovvero, “I vizi più comuni e
osservabili del corrente gusto italiano” in belle lettere. Il vizio, non la
virtu, del gusto, la corruzione del gusto s’incarna in tre diversi aspetti; il ne-ologismo
no-romano, ovvero straniero, il filosofismo enciclopedico, e la confusione dei generi grammaticali. Insegna
logica e metafisica nel ginnasio di Mantova. Tra le opere di Borsa vanno
inoltre ricordati due saggi problemi
estetici in relazione alla musica – “La musica imitativa” -- e alla danza – “I
balli pantomimi” – la pantomima. – musica imitazione – Scruton. “A sad melody”.
Si cimenta inoltre nella composizione di
una tragedia, “L’assassinio d’Agamennone”. “Palese”. “Zatta”. Dizionario
biografico degli italiani. M a selecircostanzepolitiche,elemorali,che il primo
difetto del Neologismo portaronci, quello ci comunicarono in seguito del
Filosofismo; an che questo Secondo un terzo ne produce , che è la universale
Confusione dei Generi , e quindi la noja dei puri , ed eccellenti. Questo vizio
anzi ė si immediatamente , e intimamente connesso , colla Filosofia,ma col
Filosofismo, che par talota identificarsi con lui, e costituire una medesima
coa sa.Ad occhio intelligente però saran molto diver.
si,eparràaggravarsiinquest'ultimoildestinodel. la Letteratura Italiana. Tom.II.
- raven 82 propria cosi , che il Tragico le passioni istesse di.
pinga con colori molto lontani dal Comico ; che ciascuno esponga fatti, animi personaggi,
scelga incidenti degni di lui ; e che infine ognun parli il proprio linguaggio
, e faccia il proprio mestiere . 1 1 tendo quell'intima natura della cosa in se
stessa, la quale nega d'estendersi ad oggetti stranieri, ne i propri sa
maneggiare in foggia diversa da quella , che si conviene . Intendo per ultimo
quell'avvedu tezza , e integrità di composizione , per cui dal Poema Epico
discendendo perfino all'Epigramma, e alla Lettera, ogni sua parte, e ogni
membro oc çura cosi esattamente quel luogo , che gli sta bene , che
trasposizione non soffra senza difetto. Que. ste cose oltre l'esserci insegnate
da più gravi Fi. lologi, sono anche cosi chiaramente emanate dalla natura della
persuasione , e della illusione, e cosi strettamente silegano colla necessaria
generazion dell'idee , che nulla più . In questo senso sono , e si devono esse
dire la Filosofia propria , e rispet. tiva di ciascun genere . Quella , che
nell’Articolo antecedente si dipinse latente , animatrice , dispo. sitrice, e
anticipatamente ragionata. Quella che a forza d'osservazioni su la natura ha
imparato a col. Sento dunque io dentro di me ( sia a ragio. ne ,
sia a torto ) che e nel totale , e nelle singole parti dei più dei libri, che
si scrivono e leggono , serpe profonda una tal confusione di generi, che
perverte ogni cosa ; turba , ed offende le idee a n che le più obvie del Bello
, e del Perfetto . O piut tosto sentendo ciò ne argoniento, che sien que
83 locare i varj istrumenti o poetici , od oratorj in quel modo, luogo, numero
,aspetto, che ¢ l'ec cellente a farli giuocare su le fantasie , e sui cuori,
con tutto quel massimo vantaggio , che sia possibi le , in quella tale
situazion d'oggetti, e di persone . Quindi ognun vede , che non più no delle
frasi, e delle sintassi, come nell'Articolo primo, né del Gusto Italiano or non
trattasi nella generale maniera di piegare i pensieri staccati, e colorire la
superficie delle cose , che si maneggiano , come nel secondo . A più alte cose
moviamo ; a ricercare qual sia il Gusto presente degl'Italiani nel disegro ,
nel getto delle Opere loro ; e se seguono in ciò la natura , ed il genio delle
materie diverse , e delle compo sizioni . Si esaminano infine ora i libri nel
loro tut. to ;non già i modi , e i periodi; non le strofe,le scene , le
digressioni. ste idee , che guastatesi , e corrotte , guastano poi
, e moltiplicano si fatti libri a di nostri . Il bello , e il sublime , dice
Aristotile , nasce dall'Espressio ne della Grandezza con Ordine ;cioè,come
spiega dal mostrare il suo soggetto nelle proporziv ni più ampie , di cui sia
capace . Ommettiam p u re , che il pensier d'Aristotile non s'adatta trop po
bene al sublime propriamente tale , come s'é esposto nel Saggio su la Fantasia
; ma certo s'a datta egregiamente al bello , al maestoso , al gran de ,
all'imponente ; e certo è che questa grandezza , e quest ordine non son niente
affatto secondo il Gusto presente ? Anzi al contrario la proprietà nel. lo
scrivere , l'esattezza in dividere , e separar ogni parte più o meno
spiegatamente, secondo la natura dell'opera : un'aria infine ora di trattazione
seria e posata , ora di composizion meditata e rigorosa , egli è omai quello
appunto , che decide della m o r te d'un libro di Belle Lettere appena nato ,
alme no riguardo ad una gran parte de'leggitori. Pur troppo è cosi ; e
comunemente parlando , non de. ve procedere altrimenti la cosa . Poiché se la
Filo. sofia per temperamento si grave , e per natura , p u re è resa oggi si
instabile, e si leggera presso in 84 no, finiti; che non
debbon poi essere le Belle Lettere amiche soltanto di piaceri , e di delizie ,
e meno assai tolleranti della fatica ? La leggerezza , e il carattere d'una
facile universalità contrarrano es se dalla Filosofia con somma rapidità . Si
getteran su la carta , come prima i pensieri s'affaccino , e le materie , senza
meditare gran fatto, senza con nettere , ed ordinare . Incerti come colui, se
del s u o l e g n a m e f a r si d o v e s s e u n o s c a n n o , o v v e r o
u n nume . Tutta l'arte starà nella pratica d'aver pron. te scappate verso i
luoghi topici della Filosofia . Questa tiene il luogo di disegno . Questa
s'adopra egualmente e nei modi medesimi in ogni argomen to . E questa dopo aver
fusi tutti insieme i generi , ne ha fatto un solo . Perciò l'arte della disposizio.
ne , donde l'armonia delle parti , la progressione crescente , il convincimento
; l'arte , che ad ogni massa assegna il suo luogo più decente , e oppor tuno,e
da cui tutta dipende la somma delle co se ; la preziosa Unità infine parmi
perduta , perché la massima parte perduta n'ha l'intelligenza , e il sapore .
S'aggiugne, che oggi la Critica Filologica, cioè quella che tende a mantenere ,
e perfezionare l'arte 85 86 delloscrivere,'edelcomporre'siin
Poesia,che in Prosa è decaduta . Adesso anzi la Critica si col tiva in ogni suo
ramo , é si ama assaissimo in ogni materia fuori che in questa venuta in
derisione . Doglianza tanto legittima , che Arteaga la ripete anch'egli , e
rinforza con molto zelo . M a i più condotti da un'apparenza di libertà , e
indipenden za Filosofica , e senza ricordar , che tal Critica la dobbiamo a un
dei più grandi,ed illustriFilosofi, ad Aristotile , dicono , ch'ella insegna
solo a cucire meccanicamente le cose ; che i precetti sono inezie d'oziosi ; e
che il modo di poco o nulla nelle co. se decide . N è s'avveggono poi , che
mentre il m o . do trascurano , perdono senza vederlo la sostanza medesima
delle cose . Non già, che abbiasi a gita tar molto tempo in precetti , dove la
seria medias tazione , l'esercizio lungo , e severo , l'esempio degli ottimi
infine può giovare assai più ; ma non succede comunemente parlando nè l'un , né
l'al tro . La critica Filologica , cioè l'intima ragione dell'Arti , ne dai
precettisti s'impara , nè colla pra. tica propria si studia sui grandi·Autori .
Quindi. nei generi stessi ipiù severi è sostanzialmente per dutaogniseverità.E
dall'eccessod'un'altravol-, 7 za
orperlopiùsitrascorreall'eccessocontrario.. Cosi ė;alle pedanterie de'secoli
andati or ne suca céde un'altra , né so ben quali sieno le più nojo. se ;
giacchè tutto poi va a finire in far perdere il tempo , e lasciar vota la mente
. La prova d'un li. bro , o composizione ben fatta quella io la credo del
restarmene impressa la traccia totale e la tes. situra coi principali suoi tratti
, e le cose le più importanti. Questo piacere manca egli mai per fret. ta di
leggere , che abbiasi , e nei Classici , e nei v e ramente grandi Scrittori di
qualunque nazione si sieno ? Manca egli mai quando l'Autore abbia ben meditata
, e. ordinata la sua materia ? M a questo piacere si trova egli spesso nei
libri di letteratura moderna , sebben faccia illusione una larva di Fió losofia
, che anche in tai-libri d’amenità sorge di tanto in tanto , e par che severa
alla ragion ci ri. chiami,anzi pure alla meditazione?Che se ad un Italiano non
credesi , credasi dunque al sopra lo. dato Signor Juvigny , il quale dimostra ,
che il via zio generale , e c o m u n e egli è quello , ch'io p r e 87 ta
, per cui ad ogni inezia si montava in bigoncia , e perorar si volea ; e i
punti , e le divisioni a n o do di scuola seguivansi con accademica stitichez..
! Che se tali sono le disposizioni , con cui tan ti ora si pongono
a scrivere , qual maraviglia , che questo Autore eccellente il secol nostro
rimprove, ri, quasi di suo caratteristico vizio in Letteratura , di quel
trascurare le regole dei costumi , e dell'ar ti , e dello snaturare e
confondere stranamente ogni genere di composizione ? Donde , se non da ciò , q
u e l l o s t i l e , c h e n e i c o n t r a r i a r g o m e n t i è il m e d
e . simo , nei medesimi opposto ? Ond'é , che perfino nell'intima sostanza
s'offende la proprietà delle cose? Ond'è , che in Filosofia, e in Novelle , e
nella Storia , ed in Fisica , ed in Teatro , ed in Chiesa vediamo indistintamente
, come si disse , e affettazione di bello spirito, e modi epigrammati. ci , e
similitudini forzose , e frasi tecniche , e di. sparate allusioni , e tutto il
tritume gotico infine della Letteratura moderna Filosofica per caratteri. zarlo
con Hume ? Ma nè ciò solo,siccome pur ora diceva . La corruzione non si ferma
già ella nell'a, 88 sentemente riprendo ; e che consiste nel non sen tir,
non intendere , non ponderare abbastanza la natura delle materie ; e nello
sprezzare sovrana mente , e sopra ogni cosa il disegno , e la sua sem plicità ,
e l'unità . vere uno stile anche nelle più difformimaterie uni
forme, benchè per ciò stesso riesca poi a parte a parte disgregato , tumultuoso
, e di mille fisiono. mie : ma si va fino a trasforniare l'intera natura ,
l'originaria destinazione dei generi . Le Prediche più non propongonsi di
commuovere icuori dei cre denti ; si son cambiate in Dissertazioni polemiche ;
e all'utile certo della morale la più pura , e divia na , soè sostituito il
pericolo di gettare lo scanda. lo nell'anime felici di quelli,che non bebbero
an. cora alle torbide fonti delle umane dottrine. La Lirica , che sotto Augusto
era l'interprete della fantasia , e del cuore , ora serve , o vuol almeno
servire al raziocinio astratto , e all'intelletto m e d i tabondo:La Storia
eraun misto diracconti,edi orazioni ora pubbliche , ed ora private dei tra
passati , piena però di una Filosofia grandiosa , e robusta,ma
toltadalmomento,dalfatto,dalla verità . Adesso altri l'ha convertita in un
seguito di discussioni piccole , minute , meschine , talche pajon anzi processi
per una Curia ,che Annali d'u. na Nazione . Altri, come ultimamente ho veduto ,
ha fatto il salto , ed ha ridotta ogni cosa a discor si , e dialoghi ;
distribuendo le vite di Carlo , d ’ E n 89 rico ec. in tante
Azioni con Atti , Scene , e tutto il corredo teatrale . La Tragedia stanca , e
non a torto , di star tra gli Eroi , e tra'Giganti della m o . rale, dopo
d'essersi compiaciuta un momento del quadro vero , e patetico delle private , e
virtuose sciagure , si è tosto gittata tra gli orrori dei C a stelli privati
dei Feudatarj . Ha cercate le atrocità e i raccapricci in tutte le raunanze di
uomini , e perfipo di donne , pel solo piacere di filosoficamen te istruirci
sul pericolo dei Voti immaturi , e su l'empietà dei forzati.La Commedia
poi,altronon è bene spesso , che un'infilzatura di pezzi scuci. ti degli
ordinarj sermoni Filosofici, che hanno per giunta una grazia infinita in bocca
del pezzente da strada , dello sciocco staffiere , e perfin dello sgher ro , e
del pubblico assassino nell'atto d'andare al patibolo . Cosi l'una s'abbassa di
troppo , l'altra s'arrampica da pazza , tutte perdono il punto del. la natura ,
e niente s'ottiene . Bastano essi ancora cotesti esempj per mostrare,che,generalmente
par. lando , tutti i generi sono confusi , snaturati , e tra volti nell'intima
loro sostanza secondo il gusto cor, rente , e ciò per ragione del Filosofismo ?
Matteo Borsa. Keywords: genere grammaticale, la confusion dei generi
grammaticali, il genere tragico, il genere comedico, il genere conversazionale,
Tannen, stile conversazionale – la tragedia della morte di Agammenone --. Virtu
e vizio di stilo – filosofismo, neo-logismo, confusion di genero. Austin sul
filosofismo, implicatura come filosofismo – remedio contra filosofismo, la
filosofia del linguaggio ordinario. Etimologia del cognome ‘borsa’ – origine. Grice.
-. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Borsa” – The Swimming-Pool Library.
Botero (Bene Vagienna). Filosofo. Grice: “You gotta love
Botero – my favourite is not so much the one on the reason of state (the
critique of the reason of state) – but his memorabilia of ‘vires’ of the
‘imperium romanum’!” Studia a Palermo; fu poi in varie case dell'Italia
centrale, fra cui nel Collegio Romano. Pur essendo stimato quale poeta in versi
in latino, forse a causa di un carattere difficile e da una tendenza alla
polemica, interrompe gli studi a Roma e fu inviato come insegnante in località
periferiche (ad Amelia e a Macerata). A Roma fu al servizio di Borromeo, del
cui cugino, san Carlo, fu stretto collaboratore a Milano, impegnato nella
riforma della diocesi, una volta uscito dalla Compagnia di Gesù. Occorre tenere
presente sin dall'inizio che Botero s'impegna nella sua nota opera dal titolo
emblematico di “Ragion di Stato” dieci agili libri di circa 300 pagine, ove
rimedita le tesi esposte nel suo “De Regia Sapientia” in quanto ritiene
essenziale combattere il machiavellismo per poter riaffermare la stretta
dipendenza di ogni potere politico dalla religione e dalla chiesa (fu
segretario di Borromeo) ed approfondire gli studi sulla "ragion di stato",
principalmente al fine di individuare un pensiero politico-guida alternativo a
quello cui si riferivano le tesi dei riformatori (quello cioè di Machiavelli e
di Bodin). La contro-riforma, dunque, necessita di un suo punto di riferimento
in materia di scientia civilis (teoria politica), come aveva già fatto presente
Minucci. Il fine e, per alcuni aspetti, il metodo di Botero può solo
apparentemente e prima facie, richiamare quelli di Machiavelli. Botero infatti
considera lo stato italiano come un dominio assoluto e stabile sui popoli. La
ragion di stato secondo Bottero altro non è che l'insieme di tutti i metodi
("i mezi") e gli strumenti necessari e opportuni per conservare e
gestire questo dominio. Ma in realtà, sia la sostanza del suo pensiero
politico, che lo scopo ultimo cui esso è indirizzato, sono decisamente
divergenti, tanto che Botero arriva a definire rea e falsa la ragion di stato
machiavelliana e giunge a sostenere che il principe, rispettoso dei precetti
religiosi, non ha bisogno di leggere né Machiavelli né Tacito. Si
comprende, allora, come la differenza principale della filosofia di Botero
rispetto a quello di Machiavelli consista nell'importanza assegnata alla morale
– la ragione prudenziale -- come strumento di governo; l'uso spregiudicato
della “ragion di stato” di natura machiavelliana da parte del governante dev'essere
cioè temperato dall'applicazione di virtù, quali la moderazione e la giustizia.
Ciò, infatti, conferisce allo stesso principe quella reputazione indispensabile
per ottenere obbedienza raggionabile dai suoi sudditi. Botero peraltro, afferma
che solo i sudditi raggionabile siano sudditi ubbidienti. In questo senso
Botero propone una ferma lotta alle eresie, che comportano dissidi fra i
sudditi. Lo stato italiano deve essere confessionale e la ragion di stato
comprende, al suo interno, la garanzia dell'orto-dossia, la cui curanella
divisione boteriana delle funzioni dello stato italiano spetta alla Chiesa.
Ulteriore fondamentale differenza con Machiaveli è l'importanza che Botero dà
all'economia e alla demo-grafia come parametro per la misurazione della potenza
dello stato italiano. Botero, invero, non fu giurista e, conseguentemente, pose
l'accento sull'interesse. Pienamente conscio dell'importanza della
variabile economica, Botero prende ad esempio la Spagna, incapace di promuovere
manifatture e attività commerciali, come regno dalle risorse coloniali
praticamente infinite, ma destinato ad essere relegato in secondo piano dallo
stato italiano più dinamico nel campo dello sviluppo e della crescita
dell'agricoltura e delle attività produttive interne. Nell'ambito della
polemica anti-europea, che porta, tra l'altro, a un'elaborazione del concetto
di “civiltà romana” in opposizione a ciò che è barbaro o selvaggio, Botero
tratteggia il processo di incivilimento come passaggio dalla pastorizia
all'agricoltura, all'attività industriale e commerciale; è un processo che
richiede, inoltre, il costituirsi di governi stabili e la promulgazione di
leggi certe. Altre opere: “Della ragion di stato, Venezia, Giovanni
Giolito de Ferrari); “Delle cause della grandezza e magnificenza delle città”;
“Le relazioni Universali”; “I Capitani, Giovan Domenico Tarino, Torino). Prudenza
di Stato, o maniere di governo. Die Idee der Staatsräson, Berlino-Monaco. Il
primo scritto italiano di Oceanografia, Società geografica italiana. Le origini
della Statistica e dell'Antropo-geografia. Dizionario biografico degli
italiani. IMPERIUM ROMANUM. IMPERIUM Romanum ,quod imperante Trajanoeratama
pliſfimum in Scotia, extendebatur enim ab Oceano Hibernico, ultra Tigrim :
Oceano Athlantico.ad finum Perficum : ab Ath lante adſylvam Calidoniam ,
pertingebatg ad flumen Albim , tranſi batg Danubium : primùm labi cæpit bellis
civilibus Galba, Othonis, Vitellii: iis enim temporibus exercitus,quiin magna
Britannia propre fidio erat,trajecit in Continentem .Hollandia &vicinæ
regiones rebels larunt ,paucig, temporis progreffu , Imperii finibus præfidio
deftitutis tranfmiferuntSarmarta Danubium : Alani ſuperaruntfauces Caſpias:
Perla acquifiverunt nomen & potentiam :Gothipervagati funtMoe fiam
&Macedoniam : Franci ingreſſi ſuntGallias. Conftantinus Imp. reſtituit
Imperium antiquofplendori ,ſopivit bella domeſtica ,frenavit tyrannos,
barbaros, & gentes hoſtiles. Sedduofuerunt,qua Imperium multum
debilitarunt: primumfuit tranflatiofedis Imperialis Roma Conftantinopolim ,
quod factum dipoliavit Romam , es debilitavit . Imperium . Luce enim clarius
est,quòd ficut plante ex nativoſoloin re gionesclimate &
qualitatediverſastranſplantatæ,parumretinentvir tutis naturalis : ita ,res
humana, præcipuè autem dominia & ftatus magnis illis mutationibusperdunt
fuum vigorem & ftabilitatem.Eam obcauſam Senatus Romanus nunquă
plebiconſentirevoluit , ut Roma Vejam commigraret , quæ civitasmultògratior,
& magisconimodae rat,quàm Roma,maximèpofiquam à Gallis ruinæ tradita
fuerat.Locus in quo Conſtantinopolis fitaest, adcòamænus,commodus &
fertilisest, utſit difficilimū, utvirtus ibialtas radices agat:non enim toto
orbe ter rarumcivitas eft , quamterra maremajorefavore profequantur.Illa enim
nuncſein fertiliffimos campos extendendo,nuncindelitioſas val les ſe demittenda,
rurſusgleniter in fructiferos colles affurgendo, nunc ſe flexibusin mare
inſinuando, rurſusá ſe retrorfum vertendo,abun dèincolis omne delitiarum
genus,non folum frumenta do vina canfert. Diceresibi Bacchum cum Cerere,
Pomonam cum Flora,pulchritudi nem cum fæcunditate certare. Postquam
mareminimopacie,plurimos gratos ſinus& tranquillos portus fecit,quorum in
folo Boſphoro ( nec is tamen plus quàm 25.miliaria longus est ) triginta
numerantur, beni gno aſpectuquafiblanditur civitati & regioni,ducitý eo
magnisclaffi bus hinc annonamSyrie &Ægypti, inde divitias TrapezuntinasCa,
phag.Nunquam ibi fructusnecmeffes,nunc Thracia,Afia tunc defunt, Eoquog, tendit
tanta optimorum piſcium copia ,quigyrosagendo &lu dendo, ferè
domuscivitatis fubeunt,utquiidnon viderit,incredibile judicet.Pifces enim
nuncfugiendofrigus hyemis,tranfeunt ex pontoEu-, xino, in aſpectu civitatis
Conſtantinopolitana, Propontidem verſus: nuncvitanteseſtatisfervorem , redeunt
eadem via,qua digrefierant. Duabus itag, anni tempeftatibus , eorum infinita
copia fummadelecta tione ,cui commodum parest,capitur.Sunt ibi præterea Cidari
& Bar biſa fummèamæni & jucundiflavii,quiambo celebrem hunc finum
influunt,qui inter Conſtantinopolim & Peram est,dilataturg :dicitur is a
ſcriptoribuscornuaureū . Vtfinemfaciam :Noneft locus rerum af fluentia,
enervanda virtuti aptior,nec advirtutem voluptatibuscor rumpendam commodior: id
apertè demonſtrant fegnities&mollities majorispartis Imp.Græcorum ,ipforumg
exercituum . Si amænitas ora Tarentine, &delitiæ regionis Sibaritarum
potuerunt ignavosfacere, &corrumperemores iftorum populorum :fidelitia
Capuana potuerunt emollire & extinguere ferociam virtutemg
Hannibalis,fuorumg,mi. litum : fiPlato diſcipline incapaces Cyreneos æftimavit
,propter fuam profperitatem : quid ſtatuendum erit deloco
Conftantinopolitano,dulci & oportunofupra omnes, qui in orbe terrarum funt
? In ſumma,cùm nulla resmagispernitiofæ fintReipublica ,quàm magnanovitates:
que resmajoridamno, nedicam exitio potuitcontingere Imperio Romano, quàmadeò ingens
acfubita, prater omnium expectationem immuta tio? Nonplusminúsvefecit bonus
ille Imperator,quàmfiquis addan. dumanimali meliorem formam , cerebrum adgenua
,aut cor è ſuoloco adcubitum transferret. Secundum erratum
Conftantinifuitdiviſio Imperiiſuisfiliis facta in trespartes, quodcontigit anno
Domini 341. qua ex magno Imperio tria fecit, cum notabili diminutione
authorita. tis da virium . Cùmenim ejus filii inter fearmis decertarent,
taliter ſe invicem confumpferunt , ut Imperium quafiexangue corpus remanſe git.
Quamvis autem Imperium aliquot vicibusſubunoPrincipe coa luerit , diviſioni
tamen adeò aptum remanfit, ut rarò acciderit, quin in Orientale
&Occidentale non fuerit partitum ,ufq;dum Odoacer, Heru lorum
&Turingorum Rex , magno cum exercitu ,Italiam ingreffus,in tam magnas
anguſtias conjecit Auguftulum , utpredefperatione feIm perio Occidentali
abdicarit, quod acciditanno 476.Hunnijam antea Danubium tranfmiferant:
Alaricus, Vandalorum Rex , Romam cepe rat: Vandaliprimùm Andaluſiam , &
poftea Africam : Alani Luſita niam : Gothimajorem Hifpaniæpartem : Angli
Britanniam : Curguna diones Provinciãoccupabant.Iuſtinianus Imp.res
aliquantulum in me lius reftituit,nam per fuos Capitaneosexegit VandalosAfrica,
& Gothos Italia,annosso. Sed parvotantùm tempore id duravit,nam anno 713 .
cæperunt Orientale Imperium vexare, arma &herefis Mahumetana, breviſ
tempore fuereà Saracenis oppreſſa prater Syriam ,Ægyptum do Archipelagum ,
Africa, Sicilia & Hifpania. ' Anno 735.occuparunt quog Saraceni Narbonem ,
Avenionem ,Tolofam , Burdegalam,& re giones vicinas. Imperiumitag,
Occidentalepaulatimprorfus in dire ptionem abiit: Orientale autem adeò
invalidum remanfit,ut vixali quot vicibus , civitatem Conftantinopolitanam
contra Saracenorum arma defendere, multò minus Occidenti auxilium potuerit.
Annoalla tem Chriſti 800.titulos Occidentalis Imperii adeptus est Carolus Ma
grises, Francorum Rex, quam rem recenfet Ado, ViemeArchiepifcopus,
verbisfequentibus: In die fan £to nativitatis Domini , anteconfeſio. nem beati
Apoſtoli , cùm gloriofus Rex Carolus ab oratione furrexiffet, Leo Pontifex
capiti ejus coronam impofuit ,ficg,ab univerſopopulo ac clamatum est : Carolo
Auguſto, à Deo.coronato Magno,pacifico,Imperatori Romanorum ,vita
&victoria. Divifum itafuit Occidentale Imperium ab Orientali, hoc modo, ut
Neapolis Sipontum Orientem verfus , cùm Sicilia Græcorum effet, Beneventum
Longobardis rema neret , Veneti neutri parti adfcripti,ſtatus Ecclefia
libereffet,reliquum Carclo Magno cederet. BlondusvultIrenem Imperatricem
primumin eam divifionem confenfiffe, deindeà Nicephoro confirmatameffe. Ha buit
itag, diviſio Imperiiinitium à tranſlatione fedisImperialisRoma
Conftantinopolim : crevit diſtractione in plures Principespervenit : ad
perfectionem affumptione Caroli Magni. Anteeumenim modus re
giminis,leges,magiſtratus, & confilia erantcommunia, tendebantg ad bonum
commodumg utriuſ , Imperii, tanquam membrorum ejufdem corporis. Etfiunus
Imperatorum moriebaturabſque filiis, totum impe rium manebat alteri: fed Carolo
Magno in Imperatorem Occidentis electo, nulla amplius fuit habita ratio Imperii
Orientis, nec Imperado lor Orientis unquam fucceffit in Imperium Occidentis,
nec ejus Im perator in Orientis Imperium. Permanfit autem Imperium Occiden tis
in familia Caroli Magnipaulò minus quàm centum annis: defe cit autem ea familia
in Arnolpho. Anno Chriſti 100 2.abfcripto omni jure hereditatis, creatio
imperatoris in libera electione ſeptem Principum , qui Electores nuncupantur ,
pofita fuit. Ratio faciendi · Imperium electivum , quod eò uſque familia Caroli
Magni haredi. tarium extiterat ,fuit ,quòd Imp.Otho 111. filios non habuit:
utgdi gnitate perſona, qua eligeretur ,Imperium firmius redderetur, Impe rium
Occidentis tunc valde coarctatum & concifum erat : nihilenim ci quàm
Germania &Italiæ parsfupererat: Pontifex fiquidem Roma nus bonam
Italiepartem poſſidebat: Veneti in medio utriuſqueImpe riipoſitivivebant in
plenalibertate , cum dominio annexo fuo ftatui; Regna Neapolis &Sicilia ,
qua Normanni Gracis eripuerant, Ecclefia Romana feudatariafacta erant, primùm
fub Clemente Antipapa, deinde fúb Nicolao 1 1. & ejus fuccefforibus,qui
Antipapa faktum , propteremolumentum approbarunt : Lombardia & Thufcia ,
partim pro 36 IMPERIUM ROMANUM . propter diffidia Imperatorum , Henrici IV .
& V.Friderici I. &11. cum Pontificibus Romanis,partim propterpopulorum
ferociam , Imperato ribus pluslaboris&impenfa , quàm commodi attulerant.
Rudolpho Imp.itag,non folùm in Italiam proficiſci,cura non fuit (quòdeum in
fortunia, adverfagresfuorum anteceſſorum terrerent )fed &populis Italia
libertatem parvo precio vendidit.Lucenfibus nonconſtitit liber tasplusquàmdecem
aureorum milibus: Florentini eam fex aureorum millibus
redemerunt.Deficientibusitag, cumreputatione, viribus Im perii,inei
Italia,preter nomen,nihilferèremanfit. Vicecomites Medio lanenfes,&
fucceſſivè alii domini,aliis locis rapuerunt libi dominia,quæ potuerunt,abſq;
ullo imperatoris reſpectu,tantumg petebant inveſtitu ram fuorum ftatuum.Sed
Franciſcus , cùmfibi armisſtatum Medio lanenfem paraffet,parvifecitinveſtituram
, exiſtimansſepoſſe feipfum conſervare in ejuspoſſeſſione,iiſdem artibus,
quibus eum fibi compara. verat. Vltramontes ſubſtraxerunt ſeImperio multi
Principes, ita, ut Imperium prafentitemporeferè in Germania conclufumfit.
Sedquòd dominia in Germania uniformia non funt,defcribam illa , utfequitur:
Aliqua dominia funtquaſi membra Imperii,fed ſeparata :quamvis enim
Imperiifint,non idagnoſcunt, nec agnofcere volunt , ficut Reges
Danie&Suecia ,Dux Pruffie, Helvetii, Rheti: alia agnoſcunt quidem Imperatorem
proſupremoPrincipe,fed dietas Imperiinon invifunt, nec contribuunt,
feruntgonera Imperii,ficut Duces Sabaudia, Lotha ringia , &Principes Italia
: alia in viſuntdiatas ,feruntgonera ,ficut principes &civitates Germania
:ſed Rex Bohemie à Carolo IV.imp. à contributionibusexemptus est. Alia dominia
non folùmpenduntcom munes contributiones imperii,fedquodplus eft
folvuntimperatoritri butum particulare:ea funtilla civitates,
queImperialesnuncupantur: aliqui principes Germania non folùm interſuniComitiis
Imperiifed , Gelečtioni Imperatoris: hifuntfex Electores, tres Ecclefiaftici,
de tres Laici,quibusjungitur,li vota imparia funt, Rex Bohemia ,qui non ve wit
adconvocationem ( quæ diatadicitur) nihilominus calculum in ele Elione stionehabet.
Sed loquendo ftriétè :Civitates &Principes Imperiipro priè dicuntur,qui
dietis interfunt,& tanquam membra uniuscorporis, participant bona &mala
, emolumenta &onera. Hi viventesferè mo dò Reipublicæ fimulunita;ad
defenſionem communemhabent impera torem procapite, quinonregit abſolutè,fed per
Comitia , nec tamenin . dicit illa abſqzprecedenti confenfu
maximepartisElectorum . Delibe rationum Decreta,qua edicuntur, irritafieri
nonpoffunt, niſi peraliam diatam : fed imperator habet plenam authoritatem
mandandi execu tioni decreta. Imperatorita quod ad dignitatem &
præeminentiam Spectat,eft primusChriſtianorum princeps,tanquam is,in quem
ceſſere Jura Reipublicæ &Imperii Romani: ejus est protegere Ecclefiam Dei,
defendere fidem ,procurareg_pacem ,&bonum Reipublicæ Chriſtiana. V I R E s
. Cimo Vmvires Imperiifitæ fintin Germania, neceſſe est , ut duo verba dicamus
dehac ampliſima nobiliffimaſ provincia.lacet ferè in . ter Oderam & Moſam :
inter Viſtulam & fluviolum Aa, quiapud Grae velingam fluit:& inter
Oceanum Germanicum &Balthicum,Alpesg. Ejus figura quadrata est,longitudine
ferè&latitudine aqualis, oso.mi líariumquaquà verſum . Maximè
abundatfrugibus,pecudibus, piſcia bus: id experientia compertum fæpè fuit.
Carolus enim Viut Turcisre . fifteret, habuit fubfignisadViennam go.peditum ,
& 35. equitum mil lia adIavarinumcontra eoſdem Turcas, nec tamen caritas
ibi experta fuit. Bello inter Carolum V. Proteſtantes peraliquot menfes abundè
fefuftinuerunt in campis ferèiso. militum millia. Divesquog, est mi narisauri ,
argenti,omnisý generis metalli,ſuperatý,alias Europæ pro vincias: natura quog,
largitaest ei inregionibus longiffimèàmaridig fitis fontes da puteos aqua
ſalſa,ex quibus excoquitur ſalperfectum.Nec minusmercatrixest, quàm fertilis.
Indigena enim plusquàm ulla alia natio,vacant opificiis, faciunt artificia
miratu digna , ešta Germania tam probèà natura dotata , ornatag magnis
fluminibus, qua ubig na vigantur , utcommeatus &mercesfaciliter ex uno locoinaliumdeve
bantur. Fluviorum omniummaximus est Danubius, ab illo Rhenus, quiGermaniam à
Meridiead Septentrionem tranfgreditur, ficut Das nubius ab Occafu ad Ortum :
Albis oritur in Bohemia,lambit Miſniam , Saxoniam ,Marchiam'antiquam :Odera
oritur in Moravia, lavat Si lefiam ,duas Marchias, Pomeraniam .Wefara,Neccarus,
Mofa, Mofel la,lfara, Oenus, Varta , Mænus. ( HicGermaniam in fuperiorem &
in . feriorem dividit.Superior est,qua à Mæno ad Alpes uſ feextendit.In
ferior,quæ à MænoOceanum verfus excurrit. Germania in pluresPro vinciasdiviſa
est ,ſed precipua funt( loquor de iis, que viva membra . Imperii ſunt ) Alſatia
,Suevia, Bavaria, Auſtria, Bohemia ( quamvis hæc multis privilegiis gaudeat,
quacamab oneribus eximunt) Mora via,Sileſia, Luſatia,dua Marchia,Saxonia,
Miſnia, Thuringia , Fran conia, Hafia,Weſtphalia,Clivia, Megapolis,Pomerania.
In dictisGer mania Provinciis,cum iis non computando Belgium & Helvetiam
,& ftimatur effecirciter decem hominummyriades. Dividitur populusin quatuor
hominum munera autftatus: rufticos nempe ,qui nullo in nu mero funt, civitatum
incolas,Barones, Prelatos.Vltima tria genera con veniunt, faciuntg
ſtatusImperii. 'Inter Prelatos obtinent primum lo cum Archiepiſcopi
Electores:inter hos Moguntinus est Cancellarius Germania, fequiturColonienfis,
deinde Trevirenfis, Cancellarii, ille Italiæ,hic Gallia.Sequitur
ArchiepifcopusSaltzburgenfis, maximus do dignitate &divitiis. Epifcopus
MagdeburgenfisſePrimatem Germa nieinferibit. Bremenfis&Hamburgenfis
quog,multasjuriſdictiones habuerunt.Sequuntur deindeplus quàm 40.
Epiſcopi,& magnusMagia fter Ordinis Teutonici, &Magiſter
EquitumHierofolymitarum. Suns quog feptem Abbates , iig Imperii Principes.
Inter Principes feculares öchtinetprimum locum Rex Bohemia , qui est
ſupremusDapifer : Dux Seaconia Mareſcallus : Marchio Brandenburgenfis
Camerarius : Co Palatinus Architriclinus Imperii.Preter hos Principes funt34.
alii Duces, inter quos habent primum locumArchiduces Auſtrie.Inter Du ces imp.
viiquog, numerantur RexDania ,propter Ducatum Holſatie. Sunt deinde
Marchiones,Landgravii,Comites,Barones innumeri.Ci. vitates libere (quarum
go.effe folebant,nunc funt circiter6o.que omnes feiplaspropriis
legibusregunt)ulterius obligata nonfunt, quàm quòd duasquintas partes , ejus,
quodin conventu conſentitur ,contribuunt. Earumaliqua Imperiales dicuntur (
ficut diximus, quòd cenfum Impe ratoriſolvant, quicenſusin
totumadIs-florenorummillia accedit. Ha bent civitates fatisamplosreditus,qui
utplurimumonera excedunt. Æ ftimatur Imperium in totum habereplus quàm feptem
myriades in re ditibus, quodproreparvi momenti habendū non est.Cùm enim populi
gravati non fint,utin Italia, dantprater ordinarium ſuis Principibus
maximafubſidia,quando id requirit neceſitas. Imperium obligatúeſt, ſaltem
ex.confuetudine,praftareImperatori, quando Romā vadit ut co ronetur,20.peditum
,& 4.equitum millia,fpacio oito menfium , diciturg ideò fubfidium
Romanum.Reditus civitatum &Principum laicorum , valdecrevere
,tumufurpatione bonorum Ecclefiafticorum , tum variis impofitionibuspopulo
impofitis,quæcùm in Italia ortü habuerint , facia le ſediffuderunt (exemplumenim
malum creſcit femper )per Franciam & Germaniam . Neceſitate exigente,
contribuit Imperiú maximaspe cuniarum ſummas ,colligunturg extraordinariè :
utex contributiones facilius colligi poffint,eštGermaniain decem circulos
diviſa , in quibus fiunt conventusparticulares,proexecutione Edictorum , quæ in
diætis Imperii facta funt,&aliislimilibusincidentibus.Vires Germaniafunt
abſq dubiomaxima : copiaenimcommeatuum inexhauftaeft. Reditus ordinarii
&extraordinariipermagni,&modus colligendi commeatus facillimusest,propter
fluviori opportunitatem . Quod ad populum at tinet, aſtimaturtotum Imperiumin
exercitum educerepoſſe,tum equi tum ,cùmpeditum ducenta millia,cujus
experimentum factumfuit bel lis, quafupràcommemoravimus,docet idquog
experientia. Abanno enim 1566.permultum belligeratum eft in Francia ,&in
Belgio militi bus Germanis, quorum facta funtfiuntg , adhucquotidie conſcriptio
nes non minus frequentes, quàm magna,cüm peditum ,tum equitum . Vnoeodemtempore
Wolfgangus DuxBipontinus,duxitin Franciam 12.peditum ,& Sequitum Germanorum
millia,pro Huguenotis,erantý in ea ( Francia) adhuc alia quinqueequitum millia,
quibus præerat Co mes Mansfeldiuspro Catholicis. Guilelmus Naffavius habebat in
Beli gio & finibusFrancia octo equitum , &10.peditum millia dicta natio
nis, &Dux Albanus tria millia. Taceo de numero Germanorum , qui Flandriam
ingreffifuntDuce Caſimiro, &Franciam ,eodem Duce an no 157 8.eorumg quorum
parsannopreſentieamingreffa eft in auxi lium Regis Francia: pars, ut auxilio
effet fæderi Catholicorum Frana cia. Vt extremammanumimponam :Cùmcontinuò
belligeretur in di verſis Europæ partibus,natio Germanica adeò numeroſa est, ut
abſqzea nulla ferèfiantexpeditiones.Non loquor hic de Flandris,qui aliquot vie
cibus exercitum 30.millium virorum collegerunt , iis , reftiteruntpøe tentie
Francorum : aut de Helvetiis,quos i20.peditum millia,adfuide fenfionem poffe
cogere aftimatur.Eorumaliquandoplus quàm 30.mil lia extraditionem miſerunt in
defenfionem ftatus Mediolanenfis, ad verſus Franciſcum 1. Francia Regem. Sed ut
ad inſtitutum reverta mur : Inter Germania peditesmeliores cenfentur
Tyrolenſes, Suevido Weſtphali:inter equites Brunfuicenfes, maximè autem
Clivenſes de Franconienſes: inter arma meliustractant Germani enfem ,fariſſamga
quàm fclopeta.Valent Germaniſatispræliis campeſtribus,tam ad confli gendum cum
hoftibus,quàm ad iis refiftendum .Multum enim facit or do,qui ipſis
quaſinaturaliseft,inceffusgravis & firmus,armağıquibus #tuntur, defenfioni
apta :parum valent ad defenfionem munitionum , & propter corporum gravitatem,
&quòdutplurimùm ventricoſi funt, oppugnationibus inepti habentur. Sunt
itag, Germanipotiùsconftan tes,quàm audaces, feroces,quàmftrenui. Non enim
tentantres, in qui busmagnanimitaselaceat : in victoria occiduntfine exceptione
ætatis & fexus,in quofcung, incurzunt :fibellum in longum ducitur, aut obfi
dentur,dedunt fe præfegnitie :ſiin caftris degunt,morampatienternon
ferunt,necfciuntvincerecunčtando: fiprima molimina non fuccedunt ex
fententia,ſtant attoniti, caduntý animis: in fugam femel conjeéti nunquam
amplius recolliguntur : in eo præftant Hifpani omnibus na tionibus: in
Germanorum militiamagnifumptus faciendifunt,multa quog, moleftia eft, quòd
uxores fecum in bella ducant, tantumg abſua munt commeatus,uteum convehere
difficile,conſervare quafi impoli bilefit: abfg, commeatu autem nihil
boniſperandum est. Equi Germa nicipotiùsfortes quàm animofi funt, & cum ex
decem ; qui in bellum ducuntur,octo ab aratro fumuntur,parum profunt: videntesg
ſangui. nem vilefcunt :contrarium accidit Afturconibus,iisenim crediit audas
cia.Concludendo rem : Peditatus Germanicus in fuo genereequitatu po tior
eft.Vires maritima Germania terreftribus minores no funt,quam . vis ea non adeò
in ufu fint ,ficut terreſtres. Civitates enim Hambur gum, Lubeca, Roftochium , &
alie, habent heccentum , hæc iso.naves, quibusæquant vires Regum Dania
&Suecia . His viribus adeò fortis, potensõest Germania ,ut unita nullum
hoftem timeat.Viribus,quas di ximusGermania ,junguntur ( cùm opus est)auxilia
Principum Italia, Sabaudia, Lotharingia. Hienim Principes in neceſſitatenunquam
de fuere Imperio. Bello enim Zigethano miſit Emanuel, DuxSabaudia, fexcentos
equites fclopetarios : Cofmus, Florentia Dux , triapeditum millia ,quibus
ipfeftipendia dabat: Alphonfus 11. FerrariaDux, ipfe profectus est cumille
& quingentis equitibus, adeò probèinſtructis,ut in caftris melior equitatus
non eſſet. Eofe quoquecontulit Guilielmus, Mantua Dux,cum inftruétiffima
cohorte virorum .HenricusLotha ringus, Guifia Dux, ei expeditioni interfuit cum
trecentis nobilitate claris viris. Cumhis militibus &alis,quos adjunxit
Papa PiusViha buit Maximilianus 11.fubfignis centum peditum ,&3s.equitummil
lia: Ordines Imperii ei in Comitiis annois00.Auguſte Vindelicorum habitis,
conceffèrunt 40.peditum ,&8.equitum milliain 8.menfes, 20.peditum , &
4.equitum millia in tres annosſubſequentes. Meinecke: Der konservativste unter ihnen war Giovanni Botero, ein Jesuitenzögling
und Kleriker, der als Sekretär des Kardinals Karl Borromäus in Mailand, dann im
Dienste des Herzogs von Savoyen in Rom, als Erzieher savoyischer Prinzen in
Madrid und schließlich in gelehrter Muße in Paris die politische Welt Süd- und
Westeuropas gründlich kennen lernte und durch seine vielgelesenen Werke, vor
allem durch das ‘saggio’ “Della ragion di Stato” politisch Schule machte und
zahlreiche Nachtreter seiner Gedanken fand.1) Denn er befriedigte so recht das
Bedürfnis des höfischen und sonstwie politisch interessierten Publikums nach
einer leicht verdau lichen und geschmackvoll gebotenen Nahrung. An Machia velli
gemessen,war er ein mittelmäßiger Kopf. Er hatte nicht wiedieserEcken und
Kanten,an denen man sich wund reiben konnte, und empfahl sich den
katholisch-bigotten Höfen der Gegenreformation als ein mildes
Gegengift gegen Machiavellis Zynismus und Unkirchlichkeit, ohne daß man dabei
auf das Nützliche in Machiavellis Rezepten ganz zu verzichten brauchte . Sein
Lehrgebäude stellt eine aus dem Renaissancestil erwach sene, reich geschmückte
Jesuitenkirche dar, und sein Lehrton ist
der eines Würde, Sanftmut und Strenge richtig mischen den Predigers. Er bot aus
dem Schatze seines Wissens und seiner politischen Erfahrungen jedem etwas und
konnte die Freunde der spanischen Weltmacht und der Kirche ebenso befriedigen,
wie die Bewunderer der republikanischen Selb ständigkeit Venedigs. Man lobte an
ihm , recht aus dem [1 Wahre
Katakomben von vergessener Literatur der Medio kritäten tun sich hier auf. Vgl.
über sie die von außerordentlicher Belesenheitzeugenden,
geistvollen,aberetwaskapriziösenund wort reichen Bücher von Ferrari, Histoire
de la raison d'état 1860 und Corso sugli scrittori politici italiani 1862 (auch
viele ungedruckte Schriften werden von ihm behandelt) und Cavalli, La scienza
politica inItaliainMemor. delR.IstitutoVeneto17(1872). Im allgemeinen vgl.
Gotheins Darstellung in „ Staat und Gesellschaft der neueren Zeit“ (Hinneberg,
Kultur der Gegenwart) und das 5. Kapitel dieses Buches. 6* Kunstgeschmacke der
Zeit heraus, die dolce armonia, und katholische Monarchen empfahlen sein Buch
ihren Thron folgern.] Gleich zu
Beginn seines Werkes unternahm er es, das
neue, machiavellistisch anrüchig gewordene Schlagwort der ragione di stato
zu entgiften und ihm einen harmlosen Sinn zu geben. Ragione di stato,
definierte er, ist die Kenntnis der Mittel, die geeignet sind, einen Staat zu
gründen , zu erhalten und zuvermehren.Wenn man aberfrage,welchesdiegrößere
Leistung sei, einen Staat zu vergrößern oder zu erhalten , so müsse man
antworten, das letztere. Denn man erwirbt durch Gewalt, man erhält durch
Weisheit. Gewalt können viele üben, Weisheit nur wenige. Und wenn man frage,
welche Reiche die dauerhaftesten seien, die großen, mittleren oder
kleineren,soseidieAntwort:diemittleren. Denn diekleinen seien zu sehr bedroht
von den Machtgelüsten der großen , und die großen seien der Eifersucht der
Nachbarn und der inneren Entartung zu sehr ausgesetzt. „Die Reiche, die die
Frugalität auf die Höhe geführt hat,sind durch die Opulenz verfallen.“ Sparta
verfiel erst, als es seine Herrschaft er weiterte. Als Beispiel aber für die
größere Haltbarkeit der mittleren Staaten rühmte er vor allem Venedig. Leider
jedoch wollten die mittleren Staaten sich nicht immer begnügen , sondern
strebten nach Größe, und dann kämen sie in Gefahr, wie Venedigs frühere
Ausdehnungsversuche zeigten. Die spanische Großmacht warnte er in geschickter
Weise, die Freiheit Venedigs nicht anzutasten : „Brich nicht mit m ä c h tigen
Republiken, außer wenn der Vorteil sehr groß und der Sieg sicher ist; denn die
Liebe zur Freiheit in ihnen ist so heftig und so tief verwurzelt, daß es fast
unmöglich ist, sie auszurotten. Die Unternehmungen und Pläne der Fürsten
sterben mit ihnen; die Gedanken und Beratschlagungen der freien Städte sind
fast unsterblich.“ Nach dieser Anleihe bei Machiavelli) bekam dann aber auch das
Haus Habsburg [1) Calderini,
Discorsi sopra la ragion di stato del Signor Botero, Proemio, Neudruck 1609. 2) Principe, c.5: “Ma nelle
repubbliche è maggior vita, maggior] odio, più desiderio di vendetta; nè gli
lascia nè puo lasciare riposare la memoria dell'antica libertà”] sein Lob, denn
die Größe seiner Fürsten sei der Lohn ihrer hervorragenden Frömmigkeit. Brich
vor allem auch nicht, lehrte er weiter, mit der Kirche, es würde immer als
gottlos erscheinen und doch nichts nützen . Mailand, Florenz, Neapel, Venedig
haben bei ihren Kriegen mit den Päpsten ja doch nur viel ausgegeben und nichts
profitiert. Die Koinzidenz des kirchlichen und des realpolitischen Interesses,
auf der das ganze spanische System beruhte, war also auch ein Kernstück seiner
Lehre von der ragione di stato. Geh mit der Kirche, und es geht dir gut, ist
ihr Sinn . Er riet den Fürsten, vor jeder Beratung im Staatsrate die Sache erst
in einem Gewissensrate mit ausgezeichneten Doktoren der Theologie zu
besprechen. Dennoch war er weltklug und erfahren genug, um zu wissen, daß es
zwischen Welt klugheit und Frömmigkeit nicht immer ganz stimmte. Mochte er das
Wesen der wahren Staatsräson noch so sanft und maßvoll umschreiben und es den
Bedürfnissen der Kirche und der Moral anzupassen versuchen, so konnte er sich
doch, wenn er den Dingen ins Auge sah, nicht verhehlen, daß der kristallisch
harte Kern alles politischen Handelns, ganz wie es Machiavelli schon gelehrt
hatte, das selbstische Interesse des Fürsten oder Staates war. „Halte es für
eine ausgemachte Sache," schrieb er,„daß in den Erwägungen der Fürsten das
Interesse das ist,was jede Rücksicht besiegt. Und deswegen darf man nicht
trauen auf Freundschaft, auf Verwandtschaft, auf Bündnis, auf irgendein anderes
Band, wofern nicht dieses auch das Interesse dessen, mit dem man verhandelt,
zum Fundamente hat.“ In einem Anhange zu seinem Buche gab er schließlich
unumwunden zu,daß Staatsräson und Interesse im wesentlichen dasselbe seien : „
Die Fürsten richten sich in Freundschaften und Feindschaften nach dem, was
ihnen Vorteil bringt. Wie es Speisen gibt, die von Natur un schmackhaft, durch
die Würze, die ihnen der Koch gibt, schmackhaft werden , so neigen sie, von
Natur ohne Affektion , zu dieser oder jener Seite, je nachdem das Interesse
ihren Geist und ihren Affekt zurichtet, weil schließlich ragione di stato wenig
anderes ist als ragione d'interesse." 1) [1) Aggiunte fatte alla sua
ragion di stato. Venedig 1606, S. 67 f. ] Ein tieferes Nachdenken hätte ihn
irre machen müssen an der von ihm so salbungsvoll gelehrten Harmonie staat
licher Interessen und kirchlicher Pflichten und ihn in allerlei für das Denken
seiner Zeit noch nicht reife Probleme der Weltanschauung verstricken können. Er
ging dem aus dem Wege, wie es der praktische Staatsmann aller Zeiten getan
hat,und begnügte sich,die Fürsten zu ermahnen,keine Staats räson aufzurichten,
die dem Gesetze Gottes widerspräche, gleichsam wie einen Altar gegen den
anderen Altar. U n d a m Schlusse seines Buches schwang er sich gar zu einer
Ver urteilung der modernen Interessenpolitik überhaupt auf. Heute können, so
führte er aus, keine großen gemeinsamen Unternehmungen der Fürsten mehr
zustande kommen , weil die Verschiedenheit der Interessen sie zu sehr spaltet.
Einst aber, in den heroischen Zeiten der Kreuzzüge, konnte m a n sich ohne
anderes Interesse als das der Ehre Gottes z u s a m mentun. Die griechischen
Kaiser traten den Kreuzfahrern in den Weg. Was war die Folge? Die Barbaren
vertrieben zuerst die Unseren aus Asien und unterwarfen sich dann die Griechen.
Ecco il frutto della moderna politica. In einem späteren Werke führte er auch
den Verfall Frankreichs auf dieselbe Ursache zurück. Weil sich Frankreich mit
Türken und Hugenotten befreundete, erschlaffte der Glaube, denn „wenn man alle
Dinge auf eine unvernünftige und tierische ragion di stato zurückführt, löst
sich das Band der Seelen und die Vereinigung der Völker im Glauben."1)
Boteros Theorie konnte also als gutes Brevier für politisierende katholische
Beichtväter dienen. Man predigte die Unterwerfung des eigenen Interesses unter
die Ehre Gottes, man predigte ferner, was nicht immer ganz stimmte, die
Harmonie des eigenen Interesses mit der Ehre Gottes, und man konstatierte
schließlich, wenn es darauf ankam , bald achselzuckend, bald beklagend den Sieg
des eigenen Interesses über alle anderen Lebensmächte. Aber diese Brechungen
und Widersprüche spiegelten genau die politische Praxis der
gegenreformatorischen Höfe. Einer der Päpste selber, U r ban VIII., gab ihnen
in den folgenden Zeiten das verführe [1)
Le relazioni universali (1595) 2, 8; s. darüber unten] rische Beispiel, das
Staatsinteresse über das kirchliche Interesse zu stellen und den katholischen
Mächten in ihrem Kampfe gegen Gustav Adolf in den Arm zu fallen.] Nicht nur die kirchliche, sondern
auch die humanistische Tradition hinderte Botero, mit konsequentem
Wirklichkeits sinne und rein empirisch seine Lehre auszubauen. Er entnahm
Probleme und Mittel der Staatskunst noch in großem U mfange aus den antiken
Schriftstellern, ohne sich zu fragen , ob sie auf die modernen Verhältnisse
anwendbar seien.) Freilich verfuhren auch größere als er, Machiavelli und
Bodinus, nicht anders. Diese konventionelle humanistische Methode beruhte nicht
nur auf der Verehrung, die m a n d e m Altertume widmete,sondern auch auf der
althergebrachten dogmatischen Geschichtsauffassung, die alles geschichtliche
Geschehen und die in ihm zutage getretenen Staats- und Lebensformen als
gleichartig und deshalb als immer wiederkehrend ansah. So war Botero imstande,
als beste und höchste Quelle poli tischer Klugheit nicht die eigene Erfahrung,
die doch immer beschränkt sei, auch nicht die Information durch Zeitgenossen,
sondern die Historien zu nennen, „denn diese umfassen das ganze Leben der
Welt.“ So sahen er und seine
Zeitgenossen alte und neue G e schichte als eine einzige Beispielmasse an, aus
der man all gemeingültige Maximen der Staatskunst herauszog, wobei man dann
sehr relative Erfahrungen naiv verallgemeinerte. Dabei fehlte es keineswegs an
Interesse für die individuellen Verschiedenheiten innerhalb der wirklichen
Staatenwelt, in der man lebte. Die
Verfasser der venetianischen Relationen gaben sich Mühe genug, ihre Herren über
sie zuverlässig zu informieren, und Botero suchte dasselbe Bedürfnis zu b e
friedigen durch eine groß angelegte Staatenkunde,die er unter dem Titel Le
relazioni universali 1595 herausgab .) Er ver sprach hier auch über die
Ursachen der Größe und des Teich tums der mächtigeren Fürsten zu handeln , aber
blieb dabei im rein Statistischen und Zeitgeschichtlichen stecken und [1) Vgl. namentlich Buch 6 der Ragione
di stato über die Mittel zur Abwehr auswärtiger Feinde.3) Den ungedruckten 5.
Teil des Werkes hat Gioda in seiner Biographie Boteros (1895, 3 Bde.)
herausgegeben.] begnügte sich meist
mit tatsächlichen Angaben über Re gierungsformen, Finanzen, Heerwesen und
Beziehungen zu den angrenzenden Fürsten. Zu einer schärferen Charakteristik der
verschiedenen politischen Systeme und Interessen schwang er sich noch nicht
auf. Auch der Bedeutendste dieser
ganzen Gruppe, die an der Lehre von der ragione di stato arbeitete, Boccalini
tat es noch nicht. Aber er ragte aus ihr weit heraus durch das per sönliche
Lebensfeuer, das sein politisches Denken durch glühte. Die Probleme, die ihn
beschäftigten, und die A n t worten, die er gab, waren von denen Boteros und
seiner Genossen nicht so sehr verschieden. Aber während sie bei diesen zu einer
seichten Konvention verflachten, wurden sie ihm zu einem wahrhaften,
leidenschaftlichen Erlebnis und entwickelten
erst dadurch ihren vollen geschichtlichen Inhalt. Der Geist der echten
Renaissance und Machiavellis lebte in ihm wieder auf, aber fortentwickelt zum
unruhig bewegten Barock. Er wirkte
auf die Zeitgenossen vor allem als ein überaus witziger Spötter, als ein
Meister der Ironie und S a tire, der allen über den Nacken sah und alle
Menschlichkeiten erbarmungslos bloßstellte. Aber schon hierin und erst recht in
seinen nachgelassenen Schriften, die lange nach seinem Tode erschienen,
offenbaren sich dem Nachlebenden die tieferen Hintergründe seines Denkens”.
Meinecke. Il più
conservatore filosofo e Botero. Segretario di Borromeo a Milano, poi al
servizio del duca di Savoia a Roma, come educatore dei principi sabaudi e
finalmente nel tempo libero a Parigi, conosce a fondo il mondo politico
dell'Europa e, attraverso le sue opere molto lette, in particolare il saggio
“Della ragion di Stato” fa scuola politica e trova numerosi seguaci. [1]. Perché
soddisfa davvero le esigenze del pubblico aulico e per altro politicamente
interessato alla ricerca di cibi facilmente digeribili e gustosi. Messo a
confronto con Machiavelli, e una testa mediocre. Non ha questi angoli e spigoli
contro cui fregarsi, e si raccomanda alle fanatiche corti della Contro-riforma come mite antidoto al
cinismo e all'infedeltà di Machiavelli, senza dover rinunciare completamente
all'utilità delle sue ricette. Il suo edificio didattico è una chiesa gesuita
riccamente decorata che è cresciuta dallo stile rinascimentale. Il suo tono di
insegnamento è quella di una dignità, mansuetudine e severità mescolando opportunamente
il predicatore. Dal tesoro della sua conoscenza ed esperienza politica offre
qualcosa a tutti ed è in grado di soddisfare gli amici della potenza mondiale e
della Chiesa, nonché gli ammiratori dell'indipendenza repubblicana di Venezia.
Uno lo loda, fin dal [1 Qui si aprono vere catacombe della letteratura
dimenticata della critica mediatica. Su di essi, vedi i saggi estremamente ben
letti, ingegnosi, ma un po' capricciosi e ricchi di parole di Ferrari, “Storia
della ragione di stato” e il suo “Corso sugli scrittori politici italiani” (si
occupa anche di molti scritti non stampati) e Cavalli, “La scienza politica in Italia
in “Memor. del R.Istituto Veneto. In generale, vedere la presentazione di
Gothein in “State and Society of Modern Times” (Hinneberg, Kultur der
Gegenwart) e il quinto capitolo di questo libro. 6. I gusti artistici
dell'epoca, la dolce armonia ei monarchi raccomandano il suo saggio deducendone
il trono]. Proprio all'inizio del suo saggio, intrapreso
questo disintossicare il tormentone
machiavellico disdicevole della “ragione di stato” e dargli un significato
innocuo. “Ragione di stato”, define Botero, è la conoscenza dei mezzi atti a
fondare, mantenere e accrescere lo stato italiano. Ma, se ci si chiede quale
sia la più grande conquista per allargare o mantenere lo stato italiano, si
deve rispondere, quest'ultimo. Perché si acquisisce con la violenza, si riceve
con la saggezza. Molti possono praticare la violenza. Pochi possono praticare
la saggezza. E se chiedi quali imperi sono i più duraturi, il grande, il medio
o il piccolo, la risposta è: il mezzo. Perché il impero piccolo e troppo
minacciato dalla brama di potere dal impero grand. Il impero grande e troppo
esposto alla gelosia dei loro vicini e alla degenerazione interna. Gl’imperi
che la frugalità ha innalzato sono caduti a causa dell'opulenza." Sparta
cadde in rovina solo quando espanse il suo dominio. Tuttavia elogia soprattutto
l’impero di Venezia e l’impero di Genova come esempi della maggiore durabilità
di uno stato centrale. Sfortunatamente, però, uno stato intermedio non vuole
sempre essere soddisfatti, ma lotta per le dimensioni, e allora sarebbero stati
in pericolo, come dimostrarono i primi tentativi di espansione di Venezia, ma
no di Pisa, Genova, o Amalfi. Avvertì abilmente una superpotenza di non invadere
la libertà di Venezia. Non rompere con una repubblica potente se il vantaggio
non è grande e la vittoria è certa. L’amore per la libertà in loro è così
intenso e così profondamente radicato che è quasi impossibile sradicarlo.
L’impresa e il progetto di un principi muoiono col principe. Il pensiero e la
deliberazione di una città libera sono quasi immortali. Dopo questo prestito di
Machiavelli) anche la Casa d'Asburgo ottenne [11) Calderini, “Discorsi sopra la
ragion di stato del Signor Botero, Proemio) 2) Principe, c.5: “Ma nella repubblicha
è maggior vita, maggior odio, più desiderio di vendetta; nè gli lascia nè può lasciare riposare la
memoria dell'antica libertà], perché la grandezza dei suoi principi è la
ricompensa della loro eccezionale pietà. Soprattutto, non rompere colla
religione, insegna, sarebbe sempre apparsa senza Dio e tuttavia non sarebbe
stata di alcuna utilità. Milano, Firenze, Napoli e Venezia spendano solo molto
nelle loro guerre colla religione e non ne beneficiano. La co-incidenza di
interessi ecclesiastici e reali politici, su cui si basa un sistema, e quindi
anche un elemento centrale della sua dottrina della ragione di stato. Vai colla
religione e stai bene, è il loro scopo. Consiglia al principe, prima di ogni
consultazione nel consiglio di stato, di discutere la questione con la sua
coscienza. Eppure e abbastanza mondano ed esperto da sapere che non e sempre
giusto tra la saggezza mondana e la pietà. Per quanto gentilmente e misurato
puo descrivere l'essenza della vera ragion d'essere e cercare di adattarla alle
esigenze della morale, quando guarda le cose negli occhi, non puo nascondersi
che la durezza cristallina nucleo di ogni azione politica [Come già aveva
insegnato Machiavelli, e l'interesse egoistico del principe o l’interesse
colletivo dello stato italiano. Considera cosa scontata che nella deliberazione
del principe il suo interesse è ciò che supera ogni considerazione. Ed è per
questo che non ci si può fidare dell'amicizia, della parentela, dell'alleanza,
di qualsiasi altro legame, se così non è anche questo ha gli interessi di
coloro con i quali si negozia come fondamento. Infine mette francamente che “ragione
di stato” e “interesse colletivo del stato” sono essenzialmente la stessa cosa.
Il principe si orienta nell’amicizia e nell’inimicizie secondo quanto vi sono
piatti che sono naturalmente sgradevoli, resi appetibili dal condimento che dà
loro la cuoca, per cui tende, naturalmente senza affetto, da una parte o
dall'altra, a seconda dell'interesse del suo animo e preparano il suo affetto,
perché in fondo la ragione di stato è poco altro che ragione d'interesse. 1)1) Aggiunte grasso
alla sua ragion di stato. Venezia] Una riflessione più profonda avrebbe dovuto
sviarlo dall'armonia della ragione dello stato italiano e dell’interesse dello
stato italiano e del dovere etico e religioso che insegna in modo così untuoso
e coinvolgerlo in tutti i tipi di problemi di visione del mondo che non erano
ancora maturi per il pensiero del suo volta. Evita ciò, come ha fatto lo
statista pratico di tutti i tempi, e si limita a esortare il principe a non
stabilire un senso di stato che contraddirebbe la morale, come un altare contro
l'altro. Alla fine del suo saggio si è persino mosso per condannare la politica
di interesse in generale. Spiega che il principe non puo più realizzare grandi
imprese comune ad altro principe perché la differenza dei interessi li dividono
troppo. Ma nei tempi eroici della repubblica romana ci si poteva unire senza
altro interesse che quello della gloria di Roma. Gli imperatori greci
ostacolano i crociati. Qual'era il risultato? I barbari goti e longobardi prima
cacciarono i nostri dall'Asia e poi si sottomisero ai Greci. Ecco il frutto
della politica. In un saggio successivo attribuisce alla stessa causa anche il
declino della repubblica dei franchi. Poiché il regno franco (l’antica Gallia)
fa amicizia con turchi e ugonotti, la fede si allentò, perché se si attribuisce
ogni cosa a una “ragion di stato irragionevole” e animale, si scioglie il
vincolo dei animi e l'unione del popolo.] La filosofia di Botero puo quindi
essere usata come un buon breviario per la politi servire i confessori cattolici. Predica
la sottomissione del proprio interesse alla gloria ed al interesse colletivo,
si predica ancora, cosa non sempre del tutto vera, l'armonia del proprio
interesse con l'onore patrio, e infine, quando si arriva al punto, si alza le
spalle, a volte lamentando la vittoria del proprio interesse su ogni altra
forza della vita. Ma queste rotture e contraddizioni riflettevano esattamente
la pratica politica dei tribunali contro-riformisti. Uno dei papi stesso,
Urbano VIII, la loro questa seduzione in tempi successivi [Le relazioni universali] [Vedi sotto per un esempio di
mettere gli interessi dello stato al di sopra degli interessi della chiesa e di
cadere nelle braccia delle potenze cattoliche nella loro lotta contro Gustavo
Adolfo.] Non solo la tradizione ecclesiastica,
ma anche umanistica impedì a Botero di ampliare il suo insegnamento con un
senso coerente della realtà e puramente empiricamente. Ha preso i problemi e i
mezzi di governo su larga scala. Comincio dagli scrittori antichi senza
chiedermi se siano applicabili alle condizioni moderne.] Certo, anche quelli
più grandi di lui, Machiavelli e Bodino, non si sono comportati diversamente.
Questo metodo umanistico convenzionale si basa non solo sulla venerazione che
l'uomo dedica all'antichità, ma anche sulla tradizionale concezione dogmatica
della storia romana, che vede simili e quindi sempre ricorrenti tutti gli
eventi storici e le forme di stato romano e di vita che in essi emergevano.
Botero sa quindi nominare la migliore e più alta fonte di saggezza politica,
non la propria esperienza, che è sempre limitata, né le informazioni dei
contemporanei, ma la storia di Roma, perché questa abbraccia l'intera vita del
mondo. Così Botero vedevano la storia della Roma antica come un unico insieme
di esempi, da cui si estrae una massima universalmente valida di governo, per
cui una esperienze molto relativa viene poi ingenuamente generalizzata. Non
mancava l'interesse per le differenze dei soggetti o individui all'interno del
mondo reale dello stato italiano in chi visse. Gli autori delle relazioni veneziane fecero di tutto per
informare in modo affidabile i loro padroni su di loro, e Botero cerca di
soddisfare la stessa esigenza attraverso uno studio su larga scala dello statio
romano che pubblica con il titolo di “Le relazioni universali”. Anche qui
promise in procinto di agire sulle cause della grandezza e del pool dei
principi più potenti, ma rimase bloccato nella storia puramente statistica e
contemporanea e [1) Cfr. in particolare il libro 6 della Ragione di stato
sui mezzi di difesa contro i nemici stranieri. 3) Gioda pubblica la quinta parte non
stampata dell'opera nella sua biografia di Botero] di solito si accontenta di
informazioni reali su forme di governo, finanze, eserciti e rapporti con il principe
vicino. Non arriva ancora aa una descrizione più nitida dei vari sistemi e
interessi politici. Anche il più importante di tutto questo gruppo che lavoa alla dottrina della ragione di stato,
Boccalini non lo fece ancora. Ma lui sporge lontano da lei attraverso il fuoco
personale della vita che brilla attraverso la sua filosofia politica. I
problemi che lo preoccupavano e le risposte che dava non erano poi così diverse
da quelle di Botero e dei suoi compagni. Ma mentre si sono appiattiti a una
convenzione superficiale in questi, sono diventati un'esperienza vera e
appassionata e per lui solo in questo modo svilupparono il loro pieno contenuto storico. Lo
spirito del vero Rinascimento e di Machiavelli rivive in lui, ma si sviluppò in
uno spirito irrequieto e commovente Barocco. Ai suoi contemporanei apparve principalmente come un beffardo
estremamente divertente, come un maestro dell'ironia e della satira, che guarda
sopra il collo e smascherava senza pietà tutte le discipline umanistiche. Ma
già qui si rivela a coloro che vedeno dopo di Botero lo sfondo più profondo
della sua filosofia politica. Giovanni
Botero. Keywords: Staatsräson, Ferrari, civil equita di Vico, civilis aequitas
di Cicerone, ragion di stato, Candarini, Macchiavelli, Grice, conversational
cooperation, conversational equality, pirotic generality, conceptual,
applicational, formal. Generality, universalizability, civilis aequitas,
aequitas, =, identity and aequitas, aequi-, justice as fairness, principle of
conversational reciprocity. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Botero” – The
Swimming-Pool Library.
Botta (Cavallermaggiore).
Filosofo. Grice: “The most relevant of his tracts is his ‘storia della
filosofia romana,’ – but he also played with Leopardi, and he is especially
loved in the Piemonte as a ‘dantista’! --
Grice: ““You’ve gotta love Botta – my favourite is his tract on
Alighieri as a philosopher – he applied all he had learned about philosophy at
Cuneo to Aligheri – the result is overwhelming!” Studia e insegna a Torino. Il
suo palazzo divenne un rinomato salotto culturale. Examina la filosofia
italiana, Cavour, Alighieri. Dizionario
biografico degli italiani. The rise of what Italians call philosophy ‘in the
volgare’ is contemporary with the Revival of Letters, when the hahit of
independent thought, gradually developing, asserted itself in opposition to Scholasticism.
The early establishment of the four Republics (Genova, Pisa, Venezia and
Amalfi), the growth of industry, commerce and wealth, the increasing
communication with the East, the propagation of Arabic Science, the influence
of the Schools of Roman Jurisprudence, the gradual formation of the ‘volgare’ out
of the Roman language, and above all, the growing passion for the literature of
Ancient Rome, all combined to stimulate the human mind to free itself from the
servitude of prevailing methods and ideas. The Catharists appeared in Lombardy,
and extending throughout the Peninsula under various names, such as the
‘Paterini’, the ‘Templari’, the ‘Albigesi,’ the ‘Publicani’, and others,
remained the unconqnered champions of intellectual liberty. A numerous and powerful
school of philosophers, embracing the most prominent representatives of the Ghibelline
party, laboured so persistently for freedom of thought and expression, that it
was denounced by the Roman Popist Church as a School of Epicureans and
Atheists. Foremost among these, according to Aligheri, himself a Ghibelline, is
the Emperor Frederick II., the patron of the Arabian scholars, a poet, a statesman and aphilosopher. His friend, CardinalUbaldini;Farinata
degli Uberti, a hero in war and peace; Latini, the teacher of Alighieri; and
Cavalcanti, ‘the physicist, the logician and Epicurean,’ as a contemporary
biographer calls him. Meanwhile Brescia strives to extend to the field of
politics the philosophical revolution which had so early begun, and which is
now sustained by secret societies widely spread throughout the Peninsula,
alluded to in the early poem of St. Paul's Descent to the Infernal Regions. To
the same object of intellectual emancipation are directed the religious and
social movements headed by such Reformers as Parma, San Douuino, Padova,
Casale, Valdo, and Dolciuo. But- as a promoter of freedom in philosophy as well
as in political science, Aligheri stands preeminent in the history of his
country. He is sthe first to construct a philosophical theory of the separation
of the ‘lo stato fiorentino’ from the Pope’s Church in his De Monarchia, in
which he advocates the independence of the civil power from all ecclesiastical
control. Aligheri also opposes the Papal power in immortal strains in the
Divina Commedia; and, under the popular symbols of the age, strive to enlarge
the idea of Christianity far beyond the limits, to which it wasconfined by the
Scholastics. Petrara boldly attacked Scholasticism in every form, denounced the
Church of Rome as the impious Babylon which has lost all shame and all truth, with
his friend Boccaccio devoted himself to the publication of ancient MSS., and
laboured throughout his life to excite among his contemporaries an enthusiasmfor
Classical Ancient Roman Literaccure. His works “DeVera Sapientia”; “De Remediis
Utriunque Fortunes”; “De Vita, Solitaria”; “De Contempu Mundi”;, blending
Platonic ideas with the doctrines of Cicero and Seneca, are the first
philosophical protest against the metaphysical subtilties of his age. Thus the fathers
of Italian literature are also the fathers of the revolution which give birth
to the philosophy in ‘the volgare’. The
study of the original writings of Plato and Aristotle, and the introduction of
an independent exegesis of the ancient philosophers, soon produces a still more
decided opposition to Scholasticism; a movement aided by the arrival of Greek
scholars in Italy before, and after thefall of Constantinople. Prominent among these,
were the Platonists Pletho and Bessarion, and the Aristotelians Gaza and
Trebizond, who place themselves at the head of the philosophical revival in
Italy. While Platonism becomes predominant in Tuscany under the patronage of Medici,
the influence of Ficino, and the Platonic Academy founded by the former in Florence,
Aristotelianism extends to the Universities of Northern Italy and particularly
to those of Padua and Bologna, taking two distinct forms, according to the
sources from which the interpretation of Aristotle is derived. The Averroists followed
the great commentary of Averroes, and the Hellenists, or the Alexandrians,
sought the spirit of the Stagirite in the original, or in his Greek
commentators,chiefamongwho m was Alexander of Aphrodisias. The Averroistic
School, mainly composed of physicists and naturalists,was the most decided
opponent of the Scholastic system in its relation to theology.
Indeed,medicine,Arahicphilos ophy,Averroism,astrology, and infidelity,
early in the Middle Ages hud become synonymous terms. Abano, who may he
considered as the founder of the Avcrroistic School in Italy, was one of the
first who asserts, under astrological forms, that religion has only a relative
value in accordance with the intellectual development of the people. He was arrested
by the order of the Inquisition; but he died before sentence was passed upon
him. His body was burnt, and his memory transmitted to posterity as connected
with infernal machinations. Ascoli, a professor at Bologna and a friend of
Petrarca, is condemned to burn all his books on astrology, and to listen every
Sunday to the sermons preached in the church of the Dominicans. Later he was
burnt at the stake, and his picture appears in one of the many Infernos painted
on the walls of the Italian churches by Orcagna. The eternity of matter and the
unity of human intellect are the two great principles of the Averroistic
doctrine. Hence the negation of creation, of permanent personality and of the
immortality of the soul became its principal characteristics. Although some of the
members of this School endeavour to reconcile its doctrines with the dogmas of
the Church, others accept the consequences of its philosophy, and boldly assert
the eternity of the imiverse and the destruction of personality at death. Fra
Urbano di Bologna, Paolo of Ven ice, Nicola da Foligno, and many others, are
among the first. Among the second may be mentioned Nicoletto Verniaa, Cajetano
and above all Pomponazzi, with whom began a period in the development of Anti-Scholastic
philosophy. Hitherto the followers of Averroism confine their teaching to
commentaries upon the great Arabian philosopher; but with Pomponazzi philosophy
assumes a more positive and independent character and becomes the living
organ of contemporary thought. Indeed. while he adheres to the Averroists in
his earnest opposition to Scholasticism, he is a follower of the Alexandrians
in certain specific doctrines. Thus on the question of theimmortality of the
sonl (‘l’animo’), which so agitated the mind of the age, while the Averroists
assert that the intellect after death returns to God and in time losses its
ndividuality, Pompouazzi with the Alexandrians reject that compromise, and
openly denies all future eexistence. He holds that theorigin of man (‘l’uomo’)
is due to the same causes which produce other things in nature: that miracles a
but illusions, and that the rise and the decadence of religion depends on theinfluence
of th estars. It is truet hat he insists on the opposition of philosophy and
faith, and thought that what is true in the former might be false in the
latter, and vice versa; a subterfuge, into which many philosophers of the
Middle Ages are forced by the dangers, to which they are exposed. Pomponazzi is
the author of many works, one of which, De immortalitate animae, was burnt in public.
His most celebrated disciples are Gonzaga, Giovio, Porta, and Grattarolo. His
opponents are Achillini, Nifo, Castellani and Contarini, all moderate
Averroists, who strive to reconcile Christianity with natural philosophy; an
effort, in which they are joined by Zimara, Zabarella, Pendasio and Cremonini.
Among the Hellenists, who maintained in part the opinions of Pomponazzi, is
Thomeo, a physician at Padua, who, on account of the vivacity of his polemic
against Scholasticism, the Hippocratic character of his doctrines, and the
beauty of his style, is considered as the founder of Hellenic criticism and naturalism
in the Age of the Renaissance. To the same class of philosophers, although
neither pure Hellenists nor Averroists, belong Pico and Cardano, who strive to
substitute in place of Scholasticism philosophic systems founded partly on
Christianity, and partly on Platonic ideas, or on doctrines derived from the
Cabala and astrology; Cesalpino, who constructs a pantheistic philosophy on
Averroistic ideas, and Vanini, who for advocating a system of naturalism is
burnt at the stake. Other philosophers oppose contemporary philosophy chiefly
for the barbarous form, in which it is expressed, such as Valla, Poliziano,
Barbaro, Nizolio, and Vives. But a more effectual opposition to Scholasticism
is due to the introduction of the experimental method into scientific
investigations, which was first inaugurated by Vinci, who, within the compass
of a few pages anticipates almost all the discoveries which have been made in
science, from Galilei to thecontemporar ygeologists. Nizolio, Aconzio, Erizzo,
Mocenigo and Piccolomini continue the work of Vinci in insisting on the
application of the experimental method in philosophy. This application is partially
at least attempted by Telesio aud by Patrizi who oppose Scholasticism by
striving to create a philosophy founded on nature. Bruno boldly undertakes the
philosophical reconstruction of mind and nature on the basis of the unity and
the universality of substance; while Campanella establishes his philosophy on
experience and consciousness. To promote this scientific movement learned
associations everywhere arise; the "Acadeinia Secretorum Naturae” is
instituted at Naples by Porta; the Telesiana is established by Telesio in the
same city; the Lynchean is founded in Rome by Cesi, and the Academia del
Cimento in Florence. Meantime the opposition to Scholasticism extends to the
field of politics, where Machiavelli establishee the principles of that policy,
which is destined to triumph in the
establishment of Italian unity on the ruins of papal sovereignty, a policy
which found a powerful impulse in the religious revolution attempted by
Savonarola, a still more effectual aid in the invention of the art of printing,
and a pledge of its final triumph in the great Reformation. In vain the
sacerdotal caste persecute and imprison the philosophers and reformers, and
burn them at th e stake; in vain it strives to drown philosophical liberty in blood.
The opposition increases and reappears in th ewritingsof Gnicciardini and
Sarpi, the bold defender of the Republic of Venice against the encroachments of
the Papal See, the philosopher and the naturalist, to whom many discoveries in
science are attributed. The political writings of Giannoti, of Paruta, and
Bottero, which are devoted to the emancipation of society from the authority of
the Church, close the period which opens with the aspirations of Alighieri
aud Petrarch, and is now crowned by the martyrdom of Bruno and Vamni. For
the exposition of the doctrines of the Italian philosophers of the Renaissance,
the reader is referred to Ueberweg's statements. See further: Tiedemann,
Geistder Speculative/} Philosophic; John 6. Biihle, Gesch. der neueren Philos.
; Tennemann, Geschichte der Philosophic ; Ritter, GescMchU der Philos. ;
Supplement) alia Storia delta Filosofia di Tennemann, by Romagnosi and Poli ; Mamiani, Jiinnovamento delia Filmofm antica Italiana;
Spaventa, Carattere e sviluppo della Filosofia ItaliamidalSctxlo16"finoalnostrotempo.
On the philosophy of Aligheri, see A. F. Ozanam, Dante et la Philosophie
Cathdique. tranal. By Boissard, Lond.1854; N.Tommaseo.La CommediadiDante, G.Frap-
porti,SuMaFiiosofiadiDante, UgoFoscolo,DiseorsomiltestodelPoemadiDante, G.
Rossetti, Commento analitico delta Diuina Commedia, Barlow, Critical,
Historical, and Philosophical Contributions to the Study of the.Dicina
Commedia, Botta, Dante as Philosopher, Patriot and Poet, New York; Rossetti, A
Shadow of Dante, Boston, and the valuable works written on the Italian poet by
Schlosser, Kopish, Wegele, Blanc, Goschel, Witte, and Philalethes (the present King
John of Saxony). On Petrarch, seeT.Bonifas, De Petrarca Philosopho, and
Maggiolo, De la Philosophie morale de Petrarque. On the opposition of Petrarch
to Scholasticism cf. Renan's Averroes et VArenvisme. The doctrines of Averroes
-were introduced into the Peninsula from Sicily, where appeared the first
translations of the commentary of the Arabian philosopher. They soon became naturalizedi
at Padua, Bologna, and Ferrara, and the absorbing subject of lectures and
discussions. The principal lecturers belonging to this School are Abano, the
author of “Conciliator differentiarum Philosophorum et Medicorum”; Gonduno, whose Quastiones et Comments on
Aristotle, Averroes, and Abano are extant in the national library of Paris,
some of which were published in Venice; Fra Urbano da Bologna who wrote a voluminous
commentary of the work of Averroes on the book of Aristotle, De Physico Audita.
It was published in Venice with a preface of Nicoletto Vernias; Paolo di
Venezia, the author of Summa totius Philosophiae, who defends the doctrines of Averroes
in the presence of eight hundredAugustinians against Fava, the Hellenist;
Tiene, Bazilieri, Foligno, Siena, Santa Sofia, Forll, Vio, Vernias and many
others have left voluminous MSS. in the libraries of Venice, Padua, and
Bologna, as witnesses of their devotion to the ideas of the great Arabian
philosopher. Pomponazz may be classed among the Averroists, as far as he
believes in the existence of a radical antithesis between religion and
philosophy; he, however, rejects the fundamental principle of Averroism, the
unity of the intellect, and in this respect he belongs to the Alexandrian
School. He is the author of several works: De Immortalitate Animae; De Fato; De
Libero Arbitrio; De Pmdes Unatione; De Providentia Dei; and De naturatium effectaum
admirandorum causis, scilicet de Incantationibus. Achillini is one of his opponents,
and the School o fPadua has left no record more celebrated, than that of the public
discussions held by those two philosophers. Achillini's works were published
inVenice. The two adversaries having been obliged to leave Padua, established
themselves in Bologna, where they continued their disputations till the occurrence
of their death. Nifo is another opponent of Pomponazzi. At the request of Leo
X. he writes his “De Anima”, which gives occasion to Pomponazzi to publish his “Defensorium
contra Niphum”. Nifo was also the author of “Dilucidarium Metaphyscarum
Disputationum.. Marta in his Apologia de Animae Immortalitate, Contarini in his
De Immortalitate Animae and several others strive to confute the doctrines of
Pomponazzi on the mortality of the soul. He is defended by several o fhispupils,and
particularly by Simon Porta in his De Aniina, de Spcciebus inteUigibiUbus. S.
Porta was also the author of De Humana Mente DispuUitU), De Merum Naluralium
Prindpiis, De Dolore ; A n homo bonus vel malus vokns fiat. The Lattr. m
Council condemned both those, who taught that the human soul
wasnotimmortal,andthosewhoassertedthatthesoulisoneandidenticalinallmen. It
condemned also the philosophers who affirmed that those opinions, although con
trary to faith, were philosophically true. It enjoined professors of philosophy
to refute all heretical doctrines to which they might allude, and prohibited
the clergy to studyphilosophyforacourselongerthanfiveyears.
Indeed,Averroismasearlyas the.thirteenth century had become hostile to the
doctrines of the Church, and itwas condemned by Stephen Tempier, archbishop of
Paris, who causeditsprinciplestobeembodied indistinctpropositions. Among
thesewerethe following:Quodiermoi.est/wologicisuntfundatiinfabulia.
QuodnUiilplussciturprop tersciretheologian. Quod Jobulmandfalsasuntinlege Christiana,sicutetinaliis.
QuodlexChristianaimpeditaddiscere. Quodsapicntesinundisuntphilosophitantum.
Notwithstanding the condemnation of the Church, those ideas seemed to have
taken hold of the philosophical mind of the age, and long continued to find
favor among teachersandstudents.
Therewere,however,philosopherswho,adheringtothedoo- trines of Averroes, strove
to blend them with the standard of an orthodox creed. Among them Marc-Antonio
Zimara in his Solutiones contradictionum in dicta Aristotelis et Aeerrois,
Antonio Posi di Monselice, Giulio Palamede, Bernandino Tomi-tanodiFeltreandseveralothersinthebeginningofthesixteenthcentury.
Mean time new translations and new editions of the works of Averroes, more
correct and more complete, appeared, due to the labors of G. B. Bagolini of
Verona, Marco Oddo, Giacobbe Mantino, Abramo de Balmes, Gian Francesco Buranaandothers.
Giacomo Zabarella, followedAverroesinhislecturesattheUniversityofPadua,
andfoundanopponentinGiovanniFrancescoPiccolomini;FedericoPendasiostroveto blend
Averroism with Alexandrianism, and Cesare Cremonini, the last repre sentative
of Averroism in Italy, gave new forms and new tendencies to the doctrines of
hismaster. HislecturesarepreservedinthelibraryofSt.MarcinVenice,andform
twenty-fourlargevolumes. Cf.PUtro Pomponacci ,Studi Storicisulla Scuola di Bologna
t di Padua by Fiorentino, P. Pomponacci by B. Podesta ; and P. Pomponacci e la
Scienza by Luigi Ferri, published in the Archivio Storico Italiano, Hellenic
Aristotelianism, not less than Averroism, was a step toward the emancipa
tionofthehumanintellect. ThesameobjectwasgreatlypromotedbytheSchoolof
Humanists, represented by L. Valla, Poliziano and L. Vives, and by the Platonic
revival Uirough the Academy of Florence, and the translations and the works of
Marsiglio Ficino; cf. Tiraboschi's Storia delta, Letteratura Italiarut;
Heeren's GeschkhU det Studiums der dassischen LUeratur seitdem WiederauJUben der
Wissensehaften, Renan's op. c. ; I. Burckhardt's Die Cultur der Renaissance in
It/Uien, Von Alfred von Reumont's Geschicht* der Stadl Home; I. Zeller's Italit
et In Renaissance, and the Edinburgh Review, Tiie Popes and Ute Italian
Humanists. TheHumanistrevival,properlyspeaking,commencedwiththeadventto Florence
of Manuel Chrysoloras; and it was promoted and illustrated by the researches
and the writings of many scholars, such as Poggio, Filelfo, Aretino, Valla,
Traversari, Vegio, and Tommaso di Sarzana, who afterwards became Pope under the
name of Nicholas V. The Council of Constance contained among its mem bers
several of the most learned humanists of the age. and for a time the Papal See
was at the head of the movement for the revival of the study of classical
literature- Prominent among the popes who promoted that revival were Nicholas
V., alreadj mentioned, Martin V., Eugene IV., Pius II., known under the name of
Enea Silvio Piccolomini, and Leo X. To this revival may also be referred the
origin of the Academical bodies and literary associations which formed so characteristic
a fea tureoftheliterarylifeofItalyofthattime.
Oftheseassociations,thosewhichheld their meetings in Florence, at the
Camaldolese Convent degli Angeli and at the
AugustineConventdelloSpirito,werethemostcelebrated. Thecontroversybetween the
Platonists and Aristotelians of the Age of the Renaissance is described in De
GeorgWs Dmtriba by Leo Allatius in Script. Bizant. ; in Boivin's QuereUe rtes
Phib- sophes du XV. Hidcle (M/'tnoires de literature de l'Academie des
Inscriptions, vol. II.), and in Gcnnadius and Pletho, Aristotdismus und
Platonismus in der Grieehixclien Kirehe, by W. Gass. The following are the
works of L. Thomeo, the Hellenist : Arist'itelis Stagirita par&i owe vacant
naturaUa, 1530. Dialogide Divinatione; Be Animorum ImmorUtlitate; De Tribus
Animorum Vehiculis; De Nominum Ineentione; De Precibus; De Com- pescendo
Luctii; De JEUitum. Moribus; De Belativorum Natura; De Animorum Essentia. Giovanni
Pico della Mirandola wrote De Ente et Una: Twelve book* against Judiciary
Astrokigy ; Ileptaplon, or a treatise on Mosaic Phileisophy; Rtgu!* Oirigentis
lwminem in pugna spirituali, and Nine hundred Theses on Dialectics, moral,
physical,andmathematicalsciences,whichhedefendedinpublicinRome. Hisne phew,
Giovanni Francesco Pico, held the same doctrines, and wrote in defence of the
book De Ente et Uno. Cf. Das System des John Pico von Mirandola by Dreydorff.
Cardano writes many works, which are published in ten volumes in quarto. The
principal ones are: “De Subttilitate librixx ; De Rermn Varielate. He is celebrated
for his Formula for solving equations of the third degree. He is also the author
of an autobiography. His doctrines are refuted by Scaligero in his Exereitalionesexotcrica.
And defended by himself in his Apologia.
Cf. Rixner's and Siber's Beitrage zur Geschiehte der Physiologie im weiteren
und engeren Sinne [Ltben nnd MeinungenberuhmterPhysiherim.). Cesalpinoia the
author of several works on physiology and medicine, PerifHJtetiearum Quasii'w*m
libriqvinque,and “DtemonumInvestigatin Peripatetiea. Valla writes Etegas-
tutrumlibrisex.DialeetiroyDixputatioiws, and DeVeraBono. He translates also the
Iliad, Herodotus, and Thucydides. Poliziano translates the Manual of Epictectus,
the Questions and Problems of Alexander of Aphrodisias, the Aphorism of
Hippocrates, and the Sayings and the Deeds of Xenophon. He writes also
Parepistomenon ,in which he proposed to describe the tree of human knowledge.
Barbaro writes on Themistius, and on the Aristotelian doctrine of the soul. Tives
De Causis corruptarum artium, De Initiis, SectisetLaudibus Philosop7tia, id.;
De Anima et Vita. Of the numerous treatises of Vinci the greater part still remainin
manuscript in theAmbrosian library at Milan. They are written from right to
left, and in such manner that it is necessary to employ a glass in order to decipher
them. Extracts from his MSS. Were published in Paris by Yenturi. Xizolio writes
the Antibarbarusiseu de veris principiis et vera rntviM philosophandi contra
Pseudo-PhUosi/phos. Aconzio, Metliodus, scilicet recta investigandarum
tradendnrumque artium ac scientiarum ratio. Sadoleto, Phadrus, seu de laudibus
Philosophia. Erizzo, De W Istrumentu e Via incentrice degli Antichi. Mocenigo, De
eo quod est paradoxa. Piccolomini, “L'Istrumento della Filosofia”, Filo-
«"Jin luiturale, and Istituzione morale. According to Tiraboschi,
Piccolomini is the first philosopher who used ‘the volgare’ in his writings. He
is however, preceded by T. Golferani, who long before writes treatise in that
language, Della Memoria locale. Piccolomini, a nephew of Piccolomini, writes “DeRerumDefinUionibus;andUnicersade
MoribusPhilotophia. Here may also be mentioned Porta, the author of “De Humana
Physiognomia” andDeoc- eulti* Uterarum initio, seu De A rte animi sensi occulta
aliis significandi”; Brisiani Methodus Scientinram”; “Veneto, De Hdrmoaia
ifundi”; Con tarini, De Perfectione rerum, libri sex”; “Mazzoni, De TripUci
Hominum Vita”, “De Consensu Aristotelis et Ptatonis” and “In AristoteU*etPlatonis
unitersam Philosophiam Praludia”, and Valerii, “Opus aureum in quo omnia explicantur,
qua Scientiarum omnium parens Lullus tarn in Scientiarum arbore, quam arte
gcnerali, tradit. Telesio writes “De Rerum Natura juxta propria principia. Varii
de naturalibusrebuslibelli, “Dehisquainaerefiuntetdeterra-motibus. Quod aniirud
universum ab unica anima substantia gubernatur, adversus Oalenum. Cf. Hixter's and
Siber'sop.c.;alsoli.Telesio by Fiorentino. The method pursued by Telesio he
himself thus describes. “Sensum videlicet et nos et naturam, aliud praterea
nihil sequutis umus, qua summes ibiipsa concorsidem semper, et eo demagit modo ,a
tque iilemsem perojteratur. Of the origin of the world he says as follows. Liemotissimamsci
licet obscurissimamque rem et minime naturali ratione afferendam; cujus
cognitio omnis a sensu peiulet, et de quanihilomninoasserendumsitunqumn, quod volnonipso,
telipsiussimile perceperit sensu. Patrizi, a Croatian, writes “DiscussionesPeripatetica,
Nonade L'niccrsis Pliilosuphia, in qua Aristolelica methodo nun per m/itum, sed
per lucem ad primaincausamascenditur; DeliaPoeticaolaDecaistoriale. Cf.Rixner
and Siber op. cit. Of the works of Bruno some are written in the learned and
some in the vulgar. The latter are edited by Wagner, Leipzic, the former (only
in part) by Gefrorer, Stuttgart. The following is the complete catalogue of his
writings: “L’Area di N'ie”; “De Sphara”; “Dei Segni dei tempi”; “De Anima”;
“Claris magna”; “Dei Predieamenti di Dio”; “De Umbris Ideurnm”; “De Compendiosa
Architectura”; “II Candelajo, a Comedy, “Purgatorio dell’Inferno”; “Explicatio
tri- ginta S giU/irum, l a Cenadelle Ceneri, five dialogues; “Delta Causa,
Princi-fiio et Uno, De, flnfinito Unieerso e Mondi, Spaccio delta bestia
trionfante, Cabala dd cacallo Pegaseo con Fagyiunta de/F asino C'iUenico ;Degli
heroici Furori”; “Figuratio AristoteliciAuditusphys”; “DtalogiduodeFabriciimorden
tuSaUrnitanipropediritiaadinttntKmeadpeTftctam Cmmimttx impraiim. J$ri Brum
intomnium”; “De Lampade combirtaturia Lulliana”; “De Program a Lampade
cenatoria Logieorum, Acrotirmu*. teu ration** articuiorvat phyxiomm advertu*
Arisloteiieat, Oratio Valedictoria”; Yitemberga habiUi; De Sfxtrrum
ScruiinioetLampade eombinaVoria Raymondi Luilit.Centum ft Seragikt-i ArtieuU
adeem* hvju* tempettati* Mathtmatico» atque PhAutuplto*. Oratio «*»>
latoriahabitainobituPriridpUJuUiBrun*ricen*iumD»ci*.IS"*!*;DtItnagiuum.S§**-
rumetIdearumCompomtiane, De TriplieeMinimaetMemura, DeMonadt.
NutneroetFigura.1591;DererumImagmibut”; Libredew tette arti liberali”; “Liber
triginta Statuarum, Tempiam Mnemonidi”; “BeMuttipUciJfundiVita,1591(unpublishedandlost);DeSatmie
gettibu*(id.); De Prindpii* Yeriiid.); De Attrobigia {.id); De Magia pAgnca
;Itt Phytica ; Libretto di eongiurazioni ; Surmna terminorum metayJtysicorum,
pubL W H ; Artiftcium perorandi. pubL 1012. Cf. Bruno oder uber da* uaturliche.
and gi-ttlxit PrineipderDinge,bySchelling.1802.
AlsotheintroductionofT.Mami.iiitothe translation of Schelling's dialogue by the
Marchioness M. Florenzi Waddington ;Bax ter's and Siber's op. cit Bruckerii
Hutoria PhMonophia, 1744. L 6. Buhle, Commentat» deOrtuetProgre**u PantheimniindeaXenophane
Cohfoiaoprimaeju*authtrreunptt ad Spinozam ; Nioeron, M'moiret pour »ercir a
Chiatoire de* hmmnt* iiitutre* ; C. Stepo. Jordan, Di*qui*itio de Jordano Bruno
Nolano ; Guil. F. Christiani. De Studii* Jordan
Brunimathematicis;Kindervater,BeitrdgeturLebentgetchichUde*Jord.Bruno. D.
Lessman. Giordano Bruno in Cisalpinische Blatter. Tom. 1 ; Fullebom. BeitrAye
tur G e*chiehte der PhUmoph., F. L Clemens, Giordano Bruno und Nicheiae* t'/n
Cusa, 1847; John A. Scartazzini, Ein BluUeuge de* Wittens, 18(37; Ch. Bar-
tholmes, Jordano Bruno, George Henry Lewes, History of Philosophy, laBS:
Sigwart. Spinoza's neuentdeckter fractal von Gott, A. Debs, Jordani Bruni Vila
et Scripta, Lange, Geochiehtc de* Materialumus, 1800 ; Donienico Berti, Vita di
Bruno, which contains the proceedings of Bruno's trial before the Inquisition
of Venice, recently discovered in the archives of that city., Tommaso
Campanella's principal works are as follows: L'nicersm PhilnsoyJiiaten
Metaphyxicarum Rerum juxta propria dogmata, parte* Ire*, Philoaephia teia&u
demonttrata et in octo disputation** di*tincta, advertu* eo* qui propria
arbitral*, non autem semata duce natura, philosophati aunt, 1591 ; Beak*
Philosopher eptiegutit* parte* quatuor, hoc e*t de rerum natura, hominum,
moribus, etc. His Ciiitas Soli*,
akindofUtopianromance,formspartofthelatterwork. Delibruproprii*etrecta ratione
studendi Syntagma, De Seiuu rerum et Mugia. De GentSesimo
nonretinendo;Atheismu»triumphatu*;ApologiaproGalihro;DeMonarchU\Ui*pa*i- cti ;
Disputationum in quatuor partes PhUosophia BeaU* libri quatuor ; several philo
sophicalpoemsinLatinandItalian. Cf.Baldachini,VitaeFilosofiadiT.Campaneila, A.
D. Ancona. Introduction to the new edition of Campanella's works, Turin,
1854;S.Centofanti,anessaypublishedintheArchirioStoricoItaliano; Spaventa and
Mamiani, op. cit. ; also Sigwart, Tit. Campaneila und Heine poUtischen Idem, in
the Preuss. Jahrb., Mile. Louise Colet, QSucrechoutie de CampaneBa, Pierre
Leroux, Encyclopedic nouveUe, and G. Ferrari, Corso sugli Scrittvri pdititi
Italiani. L. Vanini is the author of Amphitheatrum JEternai Procidentia; De
edau- randi* Natura;, Regina Detrque morlalium, arcatti», Dt Vera Sapientia;
Phytic- Magicum;DeContemneiidaGloria;ApolngiiiproMotaieaetOirirtianalege.
Cf.W.D. Fuhrmann, Leben und Schicksale, Character und Meinungeii de* L. Yaumi, Emue
Waisse. L. Vantili, sa vie, sa doctrine, et sa mort ; Bxtrait dea
mcmoires de P Aoadémie dea Sciences de Toulose. Arpe, Bayle, and Voltaire in
several of their works undertake thedefenceofVanirò.
Cf.alsoLaVieetlesSentimentsdeL.VanirtibyDavidDurand,and Rousselot CEuvres P/Ulosophiques
de L. Vanini. Of all the editions of Machiavelli's works, that of Florence, in 8
vols. 8vo. is the fullest and thebest.
AneweditionhasbeenrecentlypublishedinFlorencepartlyby Lemmonier and partly by G.Barbera.
Ofhiswritings,11Principe,writteninloll, Discorsi sulle Decite di T. Livio, and
Le Storie Fiorentine are the most celebrated. Cf. Gesohichte der Staatswissensc/uiften,
by B. von Mohi, Banke's zar Kritik neuerer Gesc/iichts/icreiber, 1834 ;
Macaulay's Essay on Machiavelli in his Critical and Historical Essays. Ferrari
in his Corso sugli Scrittoripolitici Italiani, and Pasquale St.Mancini, Della Dottrinapolitica
del Machiavelli. See also the life of Machiavelli published in the Florentine edition
of his works. The principal work of Guicciardini
is “La Storia d'Italia”, extendingfrom1490to Its best edition is that of Pisa in
10 vols. An edition of his unpublished works appeared in Florence,under the editorship
of G.Canestrini. This valuable publication contains “Le Considerazioni intorno al
Discorso di Nicolò Macliiavélli sopra la prima Deca di T.Livio; I Ricordi politici
e civili; I Discorsi politici; Il Trattato ei Discorsi sulla Costtuziome della
Republica Fiorentina e sulla riforma del suo governo; Im Storia di Firenze; Scelta
dalla corrispondenza ufficiile tenuta dal Guicciardinidurante le diverse sue
Legazioni ; and il Carteggio, or his correspondence with Princes, Popes,
Cardinals, Ambassadors, and Statesmen of his time.
Cf.Banke'sop.cit.;Thiers'Ilis- totre du Consulat et de l'Empire — Avertissement
; the Preface by Canestrini to the Opere inedite di Guicciardini, and Storia
della Letteratura Italiana, by Guidici. For the works of Savonarola, Sarpi,
Giannoti, Parata, and Bottero, cf. Ferrari, op.cit. Savonarola is the author of
Compendium totius philosopliimtarnnaturalisquammoralit, and of Trattato circa il
reggimento e il governo della città di Firenze; cf .Storia di Savonarola by
Villari. Sarpi writes in the volgare “La Storia del Concilio Tridentino”, a
work which has been translated into the learned, also, “Opinione come debba governarsi
la Republica Veneziana”, and many other works, of which a full catalogue may be
found in the Biografia di FraPaoloSarpi bhyk.Bianchi-Giovini. The principal
writings of Giannoti are “Della Republica di Venezia”; “Della RepubUca
Fiorentina”, and Opuscoli ; of Parata, Perfezione della vita politica, Discorsi
politici. Of G. Bottero, La Ragione di Stato; Republica Veneziana; Cause della
grandezza delle Città, and I Principi. The sun of philosophy in Italy rose with Galilei, a native o fPisa, and the chief
of the School, which a century before had begun with Vinci. At an early age,
Galileo is a professor at Pisa and Padua, and afterwards holds the office of
mathematician and philosopher at the Court of Tuscany. He is the true founder of
inductive philosophy. Regarding nature as the great object of science, the
autograph book of the Creator, Galilei holds that it cannot be read by
authority, nor by any process a priori, but only by means of observation,
experiment, measure and calculation. While, to aid his investigations, he
invents, the hydrostatic balance, the proportional compass, the thermoseope,
the compound microscope and the telescope, he borrows from mathematics the
formulas, the analyses, the transformation and development of his discoveries.
Applying this method to terrestrial and celestial mechanics, he makes important
discoveries in every branch of physical science, and places th eheliocentric system
on a scientific basis. Having thus given the death-blow to Scholasticism, he is
arrested by the Inquisition, forced publicly to recant, and to remain under its
surveillance for the rest of his life. Speaking of the comparative merit of
Galilei and Bacon, Brewster says that had Bacon never lived, the student of
nature would have found in the writings and the works of Galilei not only the
principles of inductive philosophy, but also its practical application to the
noblest efforts of invention and discovery. The eminent scientist Biot, while asserting
the uselesness of the Baconian method, insists upon the permanent validity of
that of Galilei; and Trouessart declares that in science we are all his pupils.
Galileo founds a School honoured by the names of Torricelli, Viviani, Castelli,
Borelli, Cavalieri, Malpighi, Spallaiizani, Morgani, Galvani, Volta and other
eminent scientific men, who, following his method successively, take the lead
in the scientific progress of Europe. It is due to this activity in science, that
the Italian soul is enabled to resist the oppressive influence of the political
and ecclesiastical servitude, under which Italy labored, and it is through the
example of Galilei, that physical science never becomes so predominant, as to
exclude the stndy of philosophy. Throughout hi sworks he loses no occasion to
insist n efficient and final causes, and on the infinite difference which
exists between the divine and the human intelligence; and while he deprecates
the scepticism, which denies the legitimate power of reason, Galieli rejects
pure rationalism, which knows no limit for human knowledge. Galilei asserts that
beyond all secondcauses, there must necessarily exist a First Cause, whose
omnipotent and allwise creative energy alone can explain the origin of the
world ; and he professes faith in that Divine Providence which embraces the
universe as well as its atoms, like the sun which diffuses light and heat
through all our planetary system, while at the same time it matures a grain of
wheat as perfectly, as if that were the only object of its action. The
works of Galilei have een published in a complete edition, 10 vols., under the editorship
of Alberi. “Le Opere dì Galileo Galilei, prima edizione completa,condutta sugli
autentici Manoscritti Palatini,Firenze. This edition contains the life of
Galilei ,written by hi spupil Viviani. Among his biographers and critics may be
mentioned Ghilini in his Teatro di uomini letterati; Rossi in his Pinacotheca Nustnum
Virorum, Frisi, Eloggo di Galileo, which is inserted in the Supplement de L’Encyclopedic
de Diderot and D’Alembert; Andres in his history of literature and in Saggio delli
Filosofia di Galileo; Brenna, “Vita di
Galileo”, inserted in the work of Fabroni, “Vita Italorum doctrina excettentium
qui Saculis xvii. et xviii. Jloruerunt; Tozzetti, in his Notizie degli
aggrandimenti dette Scienze fisiche in Toscana, in which he publishes the life
of Galileo written by Gherardini, his contemporary; C. Nelli, Vita e Commercio
letterario di Galileo; Bailly, Histoire de l’Astronomie moderne; G. Tiraboschi,
Storia della Letteratura Italiana; Montucla, Histoire des Mathematiques, Libes,
Histoire Philosophique de Progrès de la Physique, IL T. Biot, Artide Galileo in
Biographie universelle, published by Michaud; Barbier in his Examen critique et
complement des Dictionnaires hlistoriques les plus repandus; Brougham, Life of
Galileo; Salii, in his continuation of
the Histoire Uttiraire d'Italie de Ginguenò; Cuvier,
Histoire des Sciences Naturelles; Libri, “Histoire des Sciences Mathematiques
en Italie”; Brewster, Lines of Copernicus and Galileo (Edinburgh Review), Life of
Newton,and the Martyrs of Science; Boncompagni, Intorno adalcani avanzamenti delibi
Fisica in Italia; Wbewell, History of the Inductive Sciences”; Marini, Galileoe
VInquisizione, D.Bezzi, in the Atti dell'Academia Pontificia dei nuovi Lincei; A.
de Keumont, Galilei und Rom, published in his “Beitrage zur lUiUeniscJten
Geschicltte; Chasles, Galileo Galilei, sa Vie, son Proeès et ses Contemporains,
Madden, Galileo and the Inquisition; Bertrand, in his Les Fon diteurs de l’Astronomie
moderne; Trouessart, in his “Galilee, sa Missionscientìfique, saVie ets
onProeès”; Panhappe, “Galilee, sa Vie, ses Découvertes et ses Travaux”; Epinois,
Galilee, son Proeès, sa Condam'nation, d'après des document» inédits, in the
Revue des Sciences Historiques; Rallaye, Galilee, la Science et l’Eglise, in
the Revue du Monde Catholique; Jagemann, “Geschichte des Lebens und der Schriften
des Galileo Galilei”; Drinkwater, “Life of Galileo”; Selmi, “Nel Trecentesimo
Natalizio di Galileo in Pisa”; Feliciani, “Filosofia Positiva di Galileo”; Wohlwill,
Der Inquisition — Process des G. G.”; “Galileo and his
Condemnation,Rambler(Lond.), Casc of Galileo, Dublin Rerietp.specially worthy
of consultation; The Martyrdom of Galileo, North British Review, in reply to Biot in the Joural des Savants; Castelnnu,
Vie, Trataux. Proeès, etc. de Galil, Paris; Martin, “Galilee et les Droits de la
Science; “Galileo's ''System of the World " was translated into English by
Thomas Salusbury, fol. Lond. --. Giovanni Battista Vico, as the founder of the
philosophy of history, stands foremost among the philosophers of modern times.
He was born in Naples, and early devotes himself to the study of law,
philosophy, philology and history. Living in an age when the philosophy of Descartes
had become popular in Italy, Vico attacks the psychological method as the
exclusive process of philosophic investigation, maintains the validity of
common sense, and upholds the importance of historic and philological studies.
Vico’s writings, “De Ratione Studiorum,” “De Antiquissiiiia Italorum
Sapientia”, and “Jus Universale”, containing his “De Una et Universi Juris Principio
et Fine”; his “De ConstantiaPkUosophiceandDC Constantia-Pht- luloyias, form a
sort of introduction to his “Priiicipii di Scienza Nuova”, in which he develops
his theoryof the historyof civilization. Of this work, twice re-written, he
publishes two editions. In his introductory writings, Vico discusses the
question of method, particularly as applied to moral and juridical science, and
strives to evolve a metaphysical theory from the analysis of the roots of the language
of the Ancient Romans and from the general study of philology, which, according
to him, embraces all the facts of historical experience. Knowledge consists essentially
in a relation of causality between the knowing principle and the knowable. Since
the mind can only know that which it can produce through its own activity; that
is to say, the mind can only know those data of experience, which it can
convert into truth by aprocess of reason. This conversion, in which, according
to Vico, lies the principle of all science, neither the psychological method,
nor the geometrical process introduced by Descartes, can effect. It can only be
produced by a method in which certainty and truth, authority and reason,
philology and philosophy become united and harmonized, so as to embrace the
necessary principles of nature as well as the contingent productions of human
activity. To establish a fact which may be converted into truth, to find a
principle which has its basis in experience and common sense, yet is in harmony
with the eternal order of the universe, is the problem of metaphysics. This factorthis
principle, according to Vico, is to be found in God alone. the only true “ens” who,
being an infinite cause, contains in himself all facts and allintelligence. Thus DivineProvidence,
acting inu» mysterious way, but through the spontaneous development of human
activity, is the basis of all history, which reveals itself in the evolution of
language, mythology, religion, law and government. Whether we accept the mosaic
account, which points ont a state of de-gradation as a consequence of the fall,
or admit a primitive condition of barbarism, it is certain that, at a remote
period, the human race is in a condition far above that of the brutes. Gigantic
in stature, their bodies covered with hair, men roam through the forests
which covered th eearth, without family, language, laws, or gods.
Tetwithin them, though latent, there are the principles of humanity, sympathy,
sociability, pudor, honour and liberty, which, call forth by extraordinary
events, gradually raise them from animalityto the first condition of human beings.
This awakening is caused by terrific phenomena of nature, which, stimulating
the mind to consciousness, brought a jxirtion of mankind under the influence of
a super-natural power, and induces a number of individuals to take refuge in
caverns and to commence the formation of families. From thi spoint the dynamic
process of civilization is subject to certain laws, which preside over the development
of all history. Prominent among these laws is that which produces the universal
belief of all people in the great principles of religion, marriage and burial,
which from the first beome the true./ter/tfra humanitatix. This lawm anifests itself
in all the progress of civilization, which is divided into three different
ages: the divine, the heroic, and the human. The divine age is the first stage
of civilization, when the chief of the family is king and priest, ruling over his
subordinates as the delegate of heaven. It is the age of the origin of
language, rude and concrete, the age of sacred or hieroglyphic characters, of
right identified with the will of the gods, and of a jurisprudence identified
with theology, the age of idolatry, divination, mythology, auspices and oracles.
The heroic age has its birth when that portion of mankind which remains in a
savage condition, seeks refuge from the violence of their companions, still
more degraded than themselves, in the homes of those families already
established, and at the feet of the altars erected on the heights. The newcomers
are admitted into the family on condition of becoming servants of their
defenders, who now claim to be the off-spring of the gods,and heroes by right of
birth and power. Thus the primitive families are the rulers of the community,
enjoying rights which are not accorded to slaves -- such as the solemnity of
marriage, the possession of land, etc. Gradually the number of slaves
increases. They become restless under the domination of their masters, who
after long struggle are finally constrained to grant them some of their rights.
Hence the origin of agrarian laws, patronages, serfs, patricians, vas sals, and
plebeians, and with them the rise of cities, subject to aristocratic government.
Meantime language, losing some of its primitive rudeness, becomes imaginative
and mythologic; its characters become more fantastic and universal. Law is no
longer from the gods, but from the heroes, though still identified with
force; and the duel and retaliation take place of sacerdotal justice. In this period
the predominance of imagination is so great that general types become
represented bv proper names, and accepted as historical characters. Thus the
inventive genius of Egyptians finds a personification in Hermes, the heroism of
ancient Greece in Hercules, and its poetry in Homer. So Romulus and the other
kings of ancient Rome, in whom periods of civilization have been personified,
descend to posterity as historical characters. With the gradual development of
democracy the human age appears: and with it aristocratic or democratic
republics and modern monarchies, established more or less on the equality of the
people. Language becomes more and more positive, and prose and poetry more
natural and more philosophic. Religion loses a great part of its mythologic
alcharacter, and tends to morality and to refinement. Civil and political
equality is extended, natural right is considered superior to civil legality, and private right becomes distinguished from public.
In the pefection o fdemocratic governments there is only one exception to
equality, and that is wealth. But wealth is the cause of corruption in those
who possessit, and of envy and passion in those who desireit. Hence abuse of
power, discords, insurrections, and civil wars, from which monarchy often
arises as a guarantee of public order. Monarchy failing, the country which is
rent by corruption and anarchy will finally fall by conquest, or, in the
absence of conquest, it will relapse into a state of barbarism equal to that
which preceded the divine age, with the only difference that the first was a
barbarism of nature, the second will be a barbarism of reflection. The one is
ferocious and beastly, the other is perfidious and base. Only after a longp eriodof
decadence will that nation again begin the course of civilization, passing
through its different stages, liable again to fall and rise, thus revolving in
an indefinite series of “corsi” and “ricorsi”,
which express the static and the dynamic conditions of human society.
This theory is evolved by Vico from the history of Rome, making that the
typical history of mankind, whose principal features are repeated in the histories
of all nations. Thus the same law manifests itself again after the fall of the
Roman empire, when in the dark, the middle ages, and modern times, the divine,
.the heroic, and the human ages reappear. Civilization therefore in a given
people, that is to say, their progress from brutal force to right, from
authority to reason, and from selfishness to justice, is not the work of
legislators and philosophers, not the result of communication with other communities;
but it is the spontaneous growth of their own activity working under the
influence of exterior circumstances. The primitive elements of civilization are
found only in the structure of their language and mythology, their poetry and traditions.
The "Scienza Nuova," according to Vico, may he regarded as a natural
theology, for it shows the permanent action of Divine Providence in human
history; and as a philosophy, for it establishes the basis of the origin and
the development of human society, points out the origin of its fundamental
ideas, and distinguishes the real from the mythical in the history of nations.
This distinction, so far as it regards the history of Rome, is fully confirmed
by the more recent researches of Niebuhr, Schwegler, and Mommsen. The treatise
of Vico may also be regarded as the natural history of mankind and a philosophy
of law, for it gives the principles of ail historical development and the
genesis of the idea of natural right, as deduced from the common wisdom of the
people. The complete edition of the works of Vico in 6vols, was published in Milan,
under the editorship of Ferrari, the author of “La Mente di G. B. Vico”, an important
work on theNewScience.Giudice publishes “Scritti inediti diVico.” Vico's
philosophy gives birth to aconsiderablebranchof literature containing writings
of criticism and exegesis. Among his contemporary opponents may be mentioned Romano
in his “Difesa Storiai delleLeggi GrecJte venule a Roma, contro topinione
moderna del Signirr Vico”, and in his Lettere ml terzoprindpio della Scienza
Nvoua, in which he defends the Greek origin of the laws contained in the XII Tables,
and opposes the theory on spontaneous formation of language and civilization.
He is also the author of ScienzadelDirittoPublico, of the Origine della Societa
and other works, in which he holds doctrines antagonistic to those of Vico.
Finetti in his “De Principiis Juris Naturae et Gentium ad cerisuillobbeniuin,
Pufendorfium, Woljium et alios, and in his Sommario dell’ opposizione dd
sistema ferino,elafalsitddditstatoferineattacks thedoctrinesofVicoon
theoriginofciviliza tion. HisdefensewasundertakenbyEmanuele Duniinhis
Origineeprogramdelcittadino, edelgovemo civile di Roma, 1703, and in his La
Scienza del Costume oimia Sistema del Diritlo Universale; also by Ganassoni in
his Memoria in difesa del Prindpio del VicosiilTe/riginedettexn. Tatole.;and
Rogadei in his DeWanticostatoeldpopo L’ItaliaCisliberina. Among Vico's followers
and imitators may bementioned Stellini, in his “De Ortu et Progreami morum” and
in his “Ethica”; Pagano, the patriot who suffers death for his adhesion to the
Partbenopean Republic, in his Suggi politici d d Prindpii, Progresso e Decadenza
dtlle Soctetda”; Cuoco, in his “Platone in Italia”; Filaugeri. in his “Scienza
della legislazione”, who adopts many of the principles of Vico, and particularly
that of the original incommunicability of primitive myths among different
people, and spontaneous origin of historical manifestations; and Delfico who, in his “Ricerclie mil rero carattere della
juriurisprudema Romana e de' suoi outtori exaggerates the principies of Vico and
falls into a system of historical scepticism. Foscolo in his “Discorso dflC
Origine e deS1 Uffizio delta Lettemtura adopted the doctrines of Vico on the origin
and the nature of language as well as society and civil government. Janelli,
one of the most eminent critics of Vico, in his SuUa Naturti e NeoettitA dfUa
ijcienza deUe Cose e delle Storie wnane gives the critical analysis of the
historical Synthesis, as expressed in the Scienza Nuova. of the original and
spontaneous growth of different civilizations. Jamelli introduces the three ages
of the senses, imagination and reason in history, corresponding to the divine,
heroic, and human ages of Vico, and characterises the last age by the
development of Telo&ifoi and Etiolngia, the former the science of finalities,
the latter that of causalities. Romagnosi I nhis OmerrasioM tnti Scitiaii
Nuota, and other works, examines the doctrines of Vico from a critical point of
view, and while he accepts some of his principles he rejects his fundamental
idea of the spontaneity of the growth of civilization, and holds that this is always
the result of a derivation from another people. LuigiTontiinhisSagyiv Htpra, la
Scienza Nvota, makes a philosophical exposition of the doctrines of Vico, and
dwells particularly on the relations existing between Vico, Machiavelli, Gravina.
Herder, and other jurists and philosophers. Predari undertakes the edition of
Vico's works, but he published only one volume, in which he gives an historical
analysis of Vico’s mind in relation to the science of civilization. Cattaneo in
his Vico e F Ittiliti in the PoHtecnito, holds that Vico succeeds in fusing together
Machiavelli's doctrine of the supremacy of self-interest with that of the supremacy
of reason, as denied by Grotius. Tommaso, in Studi critiei maintains that the
idea of progress is apparent in the Scienza Nuova, in which, although the
course of history is fixed within the limits of a certain orbit determined by
the law of the Corsi and Ricorsi, this orbit is not limited, and may become
wider and wider in the progress of time. Mamiani, in his “RinnocamentodettaFtiotnjiaantteaIaliaana”,
adopts the criterium of the conversion of fact into truth as expressed by Vico,
his doctrine on the unity, identity, and continuity of force, the spontaneity
of motion as belonging to a principle inherent to every atom independently of
the mass, and the idea of the indivisible, indefinite, and immovable, as
evolved from phenomenical reality. And so Rosmini and Gioberti have in their
various works endeavoured to bring hie authority to the support of their
theories, while Centofanti, in his “Formda logic* dellii Fifvsojia (IMa Storia”
follows Vico in considering historical reality in its ideal genesis, in
ascending from experience to the philosophical idea of history, and in connecting
under one principle the cosmic, psychologic, and social orders. Carmignani, in
his 8t/ma deW Oriffini e dei Progressi della Filosofia del Diritto”, attributes
to Vico the origin of a true philosophy of jurisprudence, and Amari in his “Critica
di una Scienza delle legislazioni comparate”, gives a complete analysis of
Vico’s doctrines having relation to the philosophical and historical department
of comparative legislation. Carlo, in his FUosofiatetondoiPrindpUdiVico and La
Mente (ClUttia e O. B. Vico; Fornari, in his Delhi Vita di Cntto; Zocchi, in his Studi sopra T. Jfenwi; Galasso,
in his Del Stulema Hegdiano, and Del Metoda Storico del Vico; Spaventa,
Florentine, Vera, Bertrai, Conti, Franchi, Mazzarella and others either adopt
some of the fundamental principles of Vico, or subject his doctrine to critical
examination. Siciliani, in his Sid Rinnotamento della FUo»ofin ponitiva in
Italia”, having examined all the principal systems of philosophy, rejects them
all, and contends that the reconciliation of modern positivism with ancient
idealism can only be effected throuch the doctrines of Vico, from which he
strives to develop not only a historical philosophy, but a logical and metaphysical
doctrine. Siciliani isa lsotheauthor of “Dante, Galileo e Vico”. Other works of
criticism on the philosophy of Vico are Colangelo's “Consideraaoni sulla
Scienza Nuova”, Cesare's “Kmimario dcUe dottrine del Vico”; Gallotti's
Principii di una Scderna Nuova di G. B. Vico”; P. Jola'B Studio snl Vico”; Mancini's
“Intorno alia Fihsofia d d Diritto”, Valle's Stiggi nulla Scienza ddla Storia”;
Rocco's Elogio Storico di G. B. Vico”; Reggio's “Introduzioneai1rincipiidclleUinaneSucieta”;
Marini'sG. B.Victo; Giani'sDeW UnicoPrincipioedell'UnicoFine ddV Universo
Diritto”; Fagnani's “Delia necessitd e dcW uso ddla Ditinazione UntificatadallaScienzaNuova
diVico”; Fontana's/>(FiUisofiuneJlaStoria”; J. Merletta's “G. B. Vico e la sapienza
antichissima degli Italiani”; Luca’s “Saggio ontiilogico suVe dottrine deW
Aquinute e del Vico”; Cantoni's G. B. Vico”. In Germany the philosophy of Vico
finds interpreters in Savigny in his NtebuJir, E. Gans in his preface to UegeVs
Philosophy of HiMory ; Jacoby in his Cantoni uber Vico”; Wolff in the Museum
dcr Alterthumswissenschaft”; OrelliinhisVicoandNiebuhr; Weber, thetranslatoroftheScienzaNuova;
Giischel in the Zerstreute Blatter; Cauer in the Germanic Museum, and C.EiMiiller.
thetranslatorofVico' s minor works. In France, Michelethas interprets Vico’s
doctrines in his Principe-i de la Philosophie de CHi*toirc”; Ballanche, in his
Prolegomenc* din Palingenesie Sociale, and in his Orphee”; Cousin, in his Introduction
a F'ITM'irt'delu Philosophic”; Lerminior." in his Introduction generate a
Fllistoire dn Droit; Jouffroy, in his Melanges Philosophiques; Bouchez, in his
Introduction, dla Science deVllistoire; the anonymous author of la Science
Nouvelle par Vico”; Franck, in the Journal de* Savants”; Ferron, in his Theorie
du Progres”; Vacherot, in his Science et Conscience”; Laurent, in his Etudes
sur l’histoiredeVHumanite”; Barthlomess, in the Dictionnuire des Sciences
PhUosophiques; Boullier in his Histoire dela Philosophic Cartesienne”; Renouvier,in
his “Manuel de la Philosophie Moderne” and Comte in his letter to Mill. Cf. Littr6,A.
C'ornteetla.PhilosophicPositire. Among the English philosophers, Mill has given
attention to the historical principles of Vico in his “System of Logic”. Cf.Vico's
"New Science and Ancient Wisdom of Italians," in Foreign Review,
Lond., Foreign Quarterly Review. The philosophic revolution which began with
Descartes in France, soon extends toItaly and manifests itself in the two forms
of psychologism (or idealism), and sensualism -- represented by Descartes and
Malebranehe on the one side, and by Locke and Condillac on the other. Among the
followers of the Psychologism of Descartes are Cornelio, who in his “Progymnaxmata
Physica” tries to blend the doctrines of Telesio with the method of the French
philosopher; Fardella, the friend of Amauld and Malebranehe, and the author of
Universe PhUosopliijt Systcma”; Doria,
who in his “Difesa ddla Metafisica” opposes the doctrines of Locke; Grimaldi,
who in his Discussioni htoriclie, TetHugiche e Filosofiehe” vindicates the
Cartesian philosophy against the attacks of the Aristotelians of his age; and Brescia,
the authorof “Philosophia Mentis methodice tractate”. Among the opponents of Aristotle
may also be mentioned Basso,PluUmtphias Natural!* adcersw
Aristotelem, libri 12. The following writers belong to the school of Descartes through
the affinities with Malebranche: Gerdil who held to the vision of ideas in the
divine mind, and opposed the Sensualism of Locke, the Ontologism of Wolff, and the
Pantheism of Spinoza. Among his numerous works the following relate to
philosophical subjects: “L immateriality de Cdute dimmlti coidre Locke”; “Defense
du sentiment du P. Malebranclie— sur la nature et Corigine da
idee*contreteaamendeMr.Locke; “Anti-Emile,or,Reflexion*svrlatlteorieetlapra
tique tie l’education contre les principes de Rousseau”; Traite de* combat*
singnliert ; Discours philosoplugue* nur Vhomme ; Dintostrazione maternaltea
eontro CeferMtd deBa materia ; Del? inflnito Assoluto consulerato iitUa
grandezza; Esame e coitfuUtzi-me dti principii deUa FHosofla WiAfiana; Introdtmone
alio Studio deUa Religion. Rossi, contemporary of Vico, and author of “La
Meitte Sorrana “; Mieeli. who strives to reconcile Christian idealism with the Eleatic
doctrines, and whose system may be found in Gioanni's work, “Mieeii. ovcerotldCEnte
I'noeRente; Palmieri, who defends Christianity against the materialistic doctrines
of Frerct and oother French writers; Carli, who in his “Elemesti di Morale”
attempts a philosophical confutation of Rousseau on the inequality of men; Falletti,who,
in his work on Condillac, establishes the principle of knowledge on the idea of
being as evolved from the ego; Draghetti, who founds his Psychology on moral
instinct and reason ; Torelli, in his treatise “De Sihtl/t”; Chiavacci in his
Saggio sulla grandezza di Dio”; Orazi in his” MeJodo mi tersnle di filosofare”;
Pini, author of the “Protologia”, in which he establishes all principles of
knowledge and morality on the unity of the Divine Nature; Giovenale, who in his
“Soli* intdligentitr, cttinon nieeedit itox. lumen iiideficiensac
inextinguibile Muminan* omrtem hominem” seeks in divine illumination the source
of all science; Tellino, who in his “These*PhUosojiltiea1deInflnito.1(W1”
ascends to the idea of the Infinite as the principle of all knowledge; a
principle which was also regarded as transcendental by Pasqualigo in “Disputationes
Met'tphgxicae”. By M.TerralavoroinMetaphysial; and by Boschovich in
“SullaLeggediCo&- tinuitd”. While these philosophers are characterized by a
Platonic tendency, the following professed themselves disciples of Aristotle:
Liccto in his “De Ortu Aninur IJtiman^r”; “DeInteMectuAgente”; DeLurerni*aittiqitorninreeonditi*;DeAi,mili*a»ti-
qui* ; Apologia pro AristoUU. Athei-tini aceunato; De, Pittate Aristotetis”;
Polizzo in his “Philosophical Disputationes”; Andrioli, in his “Plttlosophia
Erperimentale”; Langhi, in his “Xoriasima Philvsophia”; Jlorandi. in his Curm*
Ph&*np/ua”; Maso. in his Theatrum Pldlosophicum”; Scrbelloni. in his Phibtnphii”;
Spinola, in his “Korissima Plttlosophia”; Ambrosini, in his Method**
ineentiea”; Benedetti, in his Plttlosophia Peripatetica”; Rocco. in his
Esercitnzionifi'.otofiche”. As Empiricists more independent of scholastic influence
may be mentioned Borelli, the eminent scientist, in his great work, “De Motu
Animalium”, in which animal mechanics are established on scientific principles;
Magalotti, in his Lettere famigliari against Atheism”; Grandi, author of a
Logic in which he opposed Scholasticism, and of “Diacresi”, in which he refutes
the doctrines of Ceva, as expressed in his “PlttlosophiaNovo-Antigua”, a workwritten
in verse, intended as a confutation of Gassendi, Descartes, and Copernicus;
Severino, who in his “Pawofta”stives to investigate nature through the study of
ancient monuments. Magneno precedes Gassendi in the restoration oft he
atomistic philosophy in his “Democritus reviciscens” and in “De Re*tauraU'oite
Phitotopki Z>em. Epieurea”; Ciassi anticipates Leibnitz in the doctrine of
Monades, in his “Tntorno (die Forte Vice; and Algarotti calls the attention of
his contemporaries to the works of Newton in his “Netctonuinismo”. The philosophy
of Wolff finds an exponent in the author of “InstUutiones Pliilosophm
Wo'.fianae” and the doctrine of Leibnitz is interpreted in the works of
Trevisani and Cattanco. Meanwhile, the questions as to the soul of animals, and
the union of the soul with the body, are treated by Cadonici in “Dissertazionc
epistolare”, Fassoni, in “Libro suW anima delle bestie”, L. Barbini, “Nuoro
Sistema intorno all’anima dei bruti”, Sbaragli, “Enteleehia, sen anima
sensitiva brutorum demonstrate contra Cartesium”; Pino, “Trattato sojyra
l’essenza dtW anima ihlle bestie”, Vitale, “L'unione dell’anima col corpo”, Papi,
“Sull’anima delle bestie”, Monti, “Anima brutorum”; Corte, “Sul tempo in cui si
injbnde Vanima nelfeto. Empiricism is greatly extended. At first it remains independent,
but it soon falls under the influence of the doctrines of Locke and Condillac.
Among the early Empiricists of that age may bementioned Martini, “Logica, seu
Ars coffutandi”, Fuginelli, “Prina'pia Metaphysial gcomctriai
meUiodopertractata”, Visconti, “Theses ex Universa Philosophia”; Sanctis, “Delle
passioni e rizi drWintelktto”; Fromond, “NonaIntroductioadPMosophiam”, Spedalieri,
Dei Diritti dtW Homo”, Zanotti, philosophical works, Longano, Dell’uomo
naturale”; Boccalossi, “Sulla-liiflessione”, Amati, EtMca ex tem pore
conciitnata”, Verri, philosophical works, Baldinotti, “Tentaminum
Mttap/iyskorum, Libri 3, and “De Recta Humana! Mentis Institutione”, Tettoni, “Priacipii
del Diritto naturale”, Capocasale, “Cursxs PhUosophicus”, Bianchi,
“Meditozioni”, Muratori, the author of the Annals of Italy, and of DdleForzc
deWIntiiulimento, DeliaForzadeUaFantasia,and DaFilosofiaMorale”; Gravina, the
author of De Origine Juris Ronnini, and
La Ragione poetica”. The influence of the sensualistic school of France is chiefly
introduced into Italy through the translation of Locke's "Essay on tlut
Understanding" by Soave (il modo delle parole, la parola e segno
dell’idea, e l’idea e segno della cosa), a member of the Order of the Somaschi,
and the author of “Instituzioni di Logica, Metafisica e Morale” and of many
other philosophical works, all moulded on the philosophy o fLocke. His “Instituzioni”
have long been the text-book of philosophical instruction in the Colleges of
Northern Italy. The translations of the writings of Bonnet, D’Alembert,
Rousseau, Helvetius, Holbach, De Tracy, and, above all, the philosophical works
of Condillac give a powerful impulse to the doctrine, and the philosophy of the
senses became predominant in the universities and colleges of the Peninsula.
The personal influence of Condillac, who resided at theCourt of Parma as tutor to
a Bourbon prince, greatly contributes to this result. The philosophical text-books
written by Mako and Storcheneau also greatly added to the propagation of
Sensualism in the Italian Schools. Among the representatives of this philosophy
may be mentioned, besides Soave already named Bini, “Lettere Teologiehe e
MeUifisicliche”, Pavesi, “Elementa Logices, Meta- physicei, et Phil. Moralis”, F.
Barkovich, SaggiosuUe passioni”, Rezzonico, SuHa FUmofia”; Tomaio, InstituzionidiMetaj
Utiea”, Valdr.s- tri, Lezioni di analisi delle Idee”, Lomonaco, Analisi della
scnsibilita”, Schedoni, “Delle morali influenze”, Cestari, “Tentatiro secondo
delta rigenerazione delle Scienze”, Abba, “Elementa Logices et Metaphysices,
Delle Cognizioni umane and Letterea F Uomatomille credenze primitive, ;and
"Patio,Blemeata PhilosophimMoralis. On the same basis Cicognara seeks to
establish Aesthetics in his “Del Bello”, Cesarotti, Philology, in his Sulla Filosofia
deUe Scienze”, Costa, Rhetoric, in his D d modo di comporre, le idee, and Borrelli,
Psychology, in his “Prineipii della Genealogia del Pensiero”. To counteract
these materialistic tendencies, some philosophers endeavour to construct a
philosophy ou the basis of revelation, while others seek refuge in a kind of eclecticism.
Among the first may bementioned Premoli, “De etistentiaDei”, Riccioli, “De distinction
sentium in Deo et in creaturis”, Sicco, “Logica et Metaph.Institutiones”, Semery,
Triennium Philosophicum”, Ferrari, PJal<m>- phia Peripatetica adcersus
teteres et recensiores prasertim PhUosoplios, and Leti, “Nihil sub Sole Novum” and
“De unico rerum naturalium formali principio, ten de Spirita Materiali”. Among the
second class are Ceva ,alreadymentioned; Corsini, Institution** Phtf.osofJiic*
uè Matematico”, Gorini, Antropologia”, Luini, Meditazione Filotvfie”, Ansaldi, Riflessioni
sulla Filosofia Morale”, “De traditioneprincipiorvm legis naturalis” and “Vindicim
Maupertuisinnm”, Scarella, “Element* Logica; Ontologia, Psycdnght et Teologia
naturalis, and above all, Genovesi in his “Elementa Mdaphysices”, “Elementorum
Artis Logico-Critiar”, “Instituzioni delle Scienze Metafisicli”, “Logica pei
Giovanetti, “Diceosina or moni science”, “MeditazioniFàosoficJie”, “Elementi di
Fisica sperimentale” and in his “Lezioni<& Commercio e di EeonAnia
Citile”, which work contains his lectures on political economy, delivered from
the chair established at Naples by his friend Interi, a wealthy Florentine who
resided in that city. To this same School may be referred Galiani, tne author
of “Trattato della moneta” and tin Dialogues stir le Commerce de Uè”, Bianchini, who, in his “Storia Unitersale”
strives to separate history from its legendary elements by a philosophic
interpretation of ancient monuments, Giannone, who, in his “Storia arile del
Regno di Napoli” puts in evidence the usurpations of the Church over the State,
and boldly asserted the independence of the latter ; and Beccaria, the author
of “Dei Delitti e delle Pene”, a work which, more than any other, contributes
to a radical reform of penal law in Europe. Cf. StoriadellaLetteraturaItaliana di
G.Tiraboschi; Della Storia e detf Indole (fogni Filosofia di Buonafede, Delia Ristanrazione (Fogni Filosofia
nei Secoli 15°, 16°, 17°, by thesanv? writer, Dell’Origine e Progresso d'ogni
Letteratura, by Andres; /ecali della Letteratura Italiana, di Corniani
continuata da Ticozà e C. tigoni ls>5fi; Storiadella Letteratura Italiana di
Lombardi, HistoireUttérair' <fItalie, par Ginguène— eontinuée par Salfi; Storia
della Letteratura Italiana, di Maffei, Storia, della Letteratura Italiana, di
Giudici. Cf. also Supplementi alla Storia della Filosofia di Tennemann” by Bomagnosi
and Poli. OnGenovesi cf.Genovesi by Racciopi,and on Beccaria, “Beccar»
eilDirittoPenale” by Cantù. The predominance of French philosophy makes the
ideas of the French encyclopedists and sensualists popular among the more
advanced philosophers of Italy. The progress of natural science, of jurisprudence
and political economy contributes to foster the habit of mental independence,
while the national spirit which had penetrated the literature in ‘the volgare’
from the age of Aligheri, becomes more powerful than ever, especially through
the writings of VAlfieri, who, in his Misoyatto, earnestly opposes the prevailing
influence of French philosophy, and in his tragedies strives to excite his
countrymen to noble and independent deeds by the dramatic representation of
ancient Roman patriotism. This spirit is kept alive by the poetry of Foscolo
and Leopardi, the satires of Parini and Giusti, the political writings of
*.!;./.ini, the historical novels of Guerrazzi and Azeglio, the tragedies of
Manzoni and Niccolini, and the historical works of Troya, Colletta, Hotta,SlidCesareBalbo.
But no department of mental activity contributes so powerfully to the advance
of the national sentiment as philosophy, which, embodying the aspirations of
the people, aims to give them a scientific basis and a rational direction. In
its development it passes through the same phases as in France, adjusting
itself to the wants of the country, yet keeping on the whole an independent
character. The Italian contemporary philosophy may be divided as follows:
Empiricism, Criticism, Idealism, Ontologism, Absolute Idealism or Hegelianism,
Scholasticism, and Positivism. Of the School of Empiricism Gioja is the first representative.
He was born in Piacenza, an dearly devoted himself to the cause of liberty and national
independence. Witht he advent of Napoleon in Italy he enters public life, and
advocates a Republican government. Under the Cisalpine Republic Gioja is appointed
historiographer and director of national statistics. With the fall of Napoleon
Gioja retires from office; and twice suffers imprisonment for his liberal
views. Accepting the doctrines of Locke and Condillac, Gioja strives to apply
them to the social and economic sciences in the defence of human rights, and
the promotion of wealth, and happiness among the people. In his
“ElementidiFtlvsojin”, Gioja defines the nature of external observation, and
describes its methods its instruments, its rules, and the other means through
which its sphere may be extended. The foundation of all science, according to
him, lies in the science of Statistics, which supplies the phenomena of scientitic
investigation, classifies them, and brings them under general laws. Thus, Statistic
embraces nature and mind, man and society;it originates in philosophy and ends
in politics, to which it reveals the economic resources of nations, wealth,
poverty, education, ignorance, virtue, andvice. This process he follows in his
“FllosojiudtHaStatistioa”, in which he reduces all economic and political phenomena
to certain fundamental categories, the bases of social science, and the
criteria of productive forces in society. Gioja follows the same method in defining
the nature of social merit in his “Del Merita e delle Ricompense”, fixing its constituent
elements, he verifies them in the history of nations, and by their presence or
absence traces the different degrees of their civilization. A follower of Condillac
in psychology, Gioja is the disciple of Bacon in his method, and of Bentham in hi
smorals. The general good constitutes the source of duty, right, and virtue;
even self- sacrifice springs from utility. Imagination and illusion play a
great part in human life, indeed it is only through these faculties that man
excels other animals. Through them man loves fame, wealth, and power, his greatest
motives to action. Virtue itself finds its bestcompensation in illusion, and
religion has in the eyes of a true statesman no other value than the influence
it exerts on the people. Gioja writes also “Teoria Civile e Penale del
Divorzio”, “Indole, Estenxione e Vantaggi dfllaStatistical”, “Nuovo
ProspcttodelleScienseEconomise”, “Ideolo gia” and “11Nuovo Gakitco. Gf. ElogioStorico
di Gioja by Romagnosi, Discorso su Gioja, by Falco, and Es*at sur PHistoire de la
Philosophical Italieau Dix-Neuvieme Sieclt,\^ Louis Ferri. Romagnosi, the
eminent jurist, marks a step in advance in the empiric philosophy. Romagnosi was
born in Piacenza, supports the government of Napoleon in Lombardy, and holds a
professorship of jurisprudence at Parma, Pisa, and Milan. He is tried for treason
againstAustria, and acquitted. His psychologic doctrines are contained in his “Che
Cosa e la Mcnte Sana”, “La Supremo, Economia deW Umano Sapcre”, Vcdutefondameiitali
sulT Arte loyica”, “Dottrine della Ragione. W'hile he admits the general tenets
of Condillac, Romagnosi rejects tho notion that our ideas are but transformed sensations.
Lier ecognizes in the mind a specific sense, the logical, to which he
attributes the formation of universal ideas and ideal syntheses. It is this faculty
which perceives differences and totalities, as well as all relations which form
the chain of creation. The harmony between the faculties of the mind and
the forces of nature is the foundation of all philosophy. It is through the logical
sense that that harmony is reached, and the connection and co-ordination of
mind and nature are effected. Its sphere, however, is limited to experience, and
is therefore essentially phenomenal. The reality of nature, cause, substance and
force escapes our mind. Moral obligation arises from the necessary conjunction
of our actions with the laws of nature, in reference to our own perfection. The
ideal of this perfection, formed from experience and reason, constitutes the rational
necessity of moral order. Right is thepower of doing whatever is in accordance
with that order; hence right is subordinate to duty. Hence, too, human rights
are inalienable and immutable; they are not created by law, but originate in
nature, and culminate in reason. Civil society is the child of nature and
reason, and not the offspring of an arbitrary contract, as Rousseau believed.
Civilization is thecreation of the collective intelligence, in the pursuit of
the ends established by nature. It is both internal and external; the first is the
result of the circumstances amidst which a nation may find itself, in relation
to its own perfection; the second is transmitted from one people to another,
and modified by local causes. As a general rule, civilization is always
exteriorly transmitted through colonies or conquest, or communicated by Thesmothetes
(law-givers), foreign or native. Romagnosi develops these ideas in his “Introduzione
alio Studio del Dlritto Publico Univer sale”, “Principii della Scienza del
Diritto”; “Delia Natura ed<?FattorideWIncivilimento”, “HisDella
GenesidelDiritto Penale” in which he limits the right of punishment to the
necessity of social defence, has contributed, not less than the work of Becaria
on crimes and punishments, to the reform of penal law in Europe since the
beginning of the present century. A complete edition of Romagnosi's works is
published in Milan under the editorship of Giorgi. Cf. La Mente di Romagnosi by
Ferrari, his Biografia by Cantu, and Ferri, op. tit. 2. The philosophic scheme
of Criticism proposes to establish the validity of knowledge by the analysis of
thought. Its chief Italian representative is Galuppi. Galuppi was born in
Calabria, and holds a professorship of philosophy at Naples. A student of
Descartes, Locke, Condillac, and Kant, Galuppi directs his attention chiefly to
psychology, which in connection with ideology constitutes, according to him, all
metaphysical science. Philosophy is the science of thought in its relation to
knowledge and to action; hence It is theoretical or practical. The former
embrace pure logic -- which occupies itself with thought, that is,with timjorM
ofknowledge which is independentofexperience.; Ideologyand Psychology -- the
science of thought and of its causes, and, third, Mixed Logic -- which
considers empiiic thoughts, the matter of knowledge, and unites the principles
of pure reason with the data given by sensations. A fourth branch, Practical
philosophy, or Ethics, considers thought in relation to the will,the
motivesandrulesofitsactions. To this a fifth branch, Natural Theology is added,
which from the conditional evolves the unconditional and from the relative the absolute.
Philosophy from another point of view may also be divided nto subjective and
objective, as its object is th emind itself, or th erelations which unite it to
the externalworld. The fundamental problem of philosophy is found in the
question of the reality of knowledge. Rejecting the solution of it given by Locke
and Condillac, Galuppi accepts the distinction of Kant between the form and the
matter, the pure and the empiric elements in human thought; but he insists that
by making the former the product of the mind, the philosopher of Konigsberg
renders it a merely subjective function, in a de knowledge entirely subjective,
and paved the way for the Scepticism of Hume. Realism in knowledge can only be
obtained from the assumption of two principles. First, the immediate
consciousness of the Ego; second, the objectivity of sensation. The consciousness
of the substantiality of the Ego is inseparable from the modifications of our
sensibility; at the same time sensation, either internal or external, is not
merely a modification of our existence, but is essentially objective; it affects
thesubject and contains the object. Our mindi s thus indirect communication
with itself and the external world through a relation which is not arbitrary,
as Reid supposes, but essential, necessary, and direct. This relation is expressed
in the immediate sentiment of the metaphysical unity of the Ego, which thus
becomes the foundation of knowledge. From the primitive consciousness of the Ego,
and of the non-Ego, the mind rises to distinct ideas through reflection, aided
by analysis and synthesis— the analysis preceding the synthesis— by distinguishing
the sensation both from the ego, and the object which produces it. Thus, an
idea is essentially an analytic product, although it may be considered a ssynthetic,iur
elation to the substantial unity of the
ego in which it is formed. Although all knowledge of reality is developed from
the consciousness of experience, there is a previous element in the mind which
renders that development possible. This element is subjective, that is, it is given
by th emind itself in its own activity, andc onsists in the immediate
perception of the identity of our ideas, from which arises metaphysical
evidence or logical necessity, which forms the basis of
allphilosophicalreasoningandscientificcertainty. Thuseveryjudg ment based on
logical necessity proceeds from the principle of iden tity, which in its
negative form becomes the principle of contradic tion. It is therefore
analytical ; indeed no synthetic; judgment d priori is admissible, and those
which were held as such by Kant may all be reduced to analytical ones, in which
the attribute is contained in the subject, and which therefore are based on
identity. General ideas are all the product of comparison and abstraction ;
none of them are innate, although they are all natural, that is to say, the
product of mental activity. Thus from the perception of another body than its
own, the mind evolves the ideas of duality, plurality, extension, and solidity;
from these the idea of matter; and through further analysis, those of substance,
causality,time and space. They are all analytical, subjective and objective;
analytic because derived through analysis from identity, subjective because elaborated
by theactivity of the mind out of its own consciousness, and objective because contained
in the objective perceptions of sensibility. A spiritualist in psychology,
Galuppi maintains the unity, the simplicity, the indivisibility and the
immortality of the human soul, which he considers as a substantial force,
developing into various faculties as it becomes modified by diverse surrounding
circumstances, from the consciousness of the Ego and of the non-Ego (or Tu) arising
to abstract and universal principles. Remaining, however, withinthe bonds of
empiricism, though he places the human mind above nature, yet Romagnosi also
holds that it cannot attain to the knowledge of its own essence, or of the
essence of matter, nor understand the origin of the universe, and the processes
of its development. In Ethics, Galuppi rejects both the doctrine of Helvetius,
which founds morality on the instinct of pleasure, and that of Wolff and
Romagnosi, who derive its essence from our natural longing for perfection.
First among modern philosophers of Italy, Galuppi establishes with Kant the
absolute obligation of moral law, and its pre-eminence above self-interest and
self-perfection. Happiness is a motive to our actions; it is not the essence of
moral obligation, nor the source of virtue. Absolute imperatives, or practical
judgments a priori,such as "Do thy rduty” are at thefoundationof moral law;
they originate from the very nature of practical reason, which contains also
the principle of the final harmony between virtue and happinesss -- expressed
in the moral axiom, virtue merits reward, and vice punishment. From this principle
as well as from ou rown consciousness, Galuppi demonstrates the freedom of the
will, both as a psychological and moral fact. Natural religion has for it
sobject the existence of God, of whom we may obtain the idea by rising from the
conditional to the unconditional, from the finite to the infinite, and from the
relative to the absolute. This idea is subjective: it is developed from that of
identity, that,is, the one isi ncluded in the other. But we reach also the
existence of infinite reality through the principle of causality, and in this sense
the idea of God is objective. Theism alone can reconcile the infinite goodness
of God with the existence of evil; a reconciliation, however, which is
imperfect, from the very fact that human reason cannot understand all the
relations which exist between all beings. God is incomprehensible, creation is amystery,
miracles are a possibility, and revealed religion is an important aid to our
education. Cf. L.Ferri,op.cit. ,and It.Mariano,LaPhilosophicContemporaine en
Ltalie. he following are the works of Galuppi: “Saggio FUosqfico sulla Critlca
della Conoseema”, “Letter? Fllosofiche suite Vicende della FUosofia intorno ai
Prineipii dtlla, Conoscenza Umana da Cartesio fino a Kant, Elementi di Filosofia”;
“Lezioni di Logica e di Metajlsica”; Fili* sojuidellaVolontd”’ “ConsiderazionisuWIdealismotrascen-
dentala e sid Itazionalismo assoluto”. The following writers may be referred partly
to Empiricism, and partly to Criticism:P.Tamburini, “IntroduzionealioStudwddlaFUosofiaMorale”;
ElementaJitri*Xa- turce”, “CennisiiilaPerfettibiUtddtW Umana Famiglia”, Ceresa.Prineipiit
Leggigeneralidi FUosofiae Medieina”, Zantedeschi, Elementi di Psieologia Empirica”,
Poli, Saggio FUotofico sopra la Swola dei modernifilosofi naturalisti”, “Saggio
cFun Corso di Filosofia ; and Primi Elementi di FUosofia”, Ricci. in his
C'ottsiuitmo (AntologiadiFirenze). Rivato, Ricobelli.and Devincenzi, who wrote on
theFrench Eclecticism in the CommentarideW Alencodi Brescia”, Lusverti,
Inxtituzioni Logico-lfetafisiche”, Gigli,AnalisidnUe.Idee”, Bini,LezioniLogieo-itfta-
fixieo Morali”, Pezzi, Lezioni di FUosofia della mente e del more ; Accordino,
ElementidiFUosofia”, ZeUi,ElementidiMetafisim”, Alberi,DdXaciWe”, Gatti,PrineipiidiIdeologic”,
Passeri,Ddlanaturaumanasocietoie”, DeW umana perfezione”, Scaramuzza, Esame
analiUco ddUi facoliA di*»• tire, Bonfadini, Sulk Categoric di Kant”, Bruschelli,
Prdectiones Logico- Mctaphisicm”, Bellura, La Coseieiua”, Fagnani, Storia
naiurale ddla potenza umana”, Delle intime
relazioni in cui progrediscono la Filosofia, la Religione e la. Libertà”, Ocheda,
Della Filosofia degli Antichi”, Pizzolato, Introduzione allo Studio detta
Filosofia”, DomowBki, a Jesuit, In stitution!s Philosophica”, Testa, La Filosofia
del Sentimento”, “La Filosofia dell' Intelligenza”, “Esame e discussione della
Critica della Ragione Pura ài Kant, Critica del Nuovo Saggio suW Origine delle
Idee di A. Rosmini, Grazia, “Saggio sulla realtà della conoscenza umana”, I.ettieri,
“Dialoghi filosofici suW intuizione”,
Introduzione alla Filosofia monde e al Liiilto razionale”, Longo, Pensieri
filosofici”, Teoria della conoscenza”, Dimostrazione analitica delle facoltà
dell' anima”, Tedeschi, Elementi di Filo sofia”, Mancini, Elementi di
Filosofia”, Mantovani, Traduzione della Critica della Ragione Pura di Kant”, Mazzarella,
Critica della Scienza”, Della Critica. Empiricism is applied to ^Esthetics by Delfico
in his Nuove Ricerche sid Bello, Talia, Princijni di Estetica, Ermes Visconti,
Saggi sul Bello, and Riflessioni
idcologicìie intorno al linguaggio grammaticale dei popoli colti”, Venanzio,
Callofilia”, Zuccaia, Principi! eMetici, Lichtenthal, Estetica”, Longhi,
Callografia” and Pasquali, lnsliluziind di Estetica”. Zuccaia and Lichtenthal,
however, separate themselves from the empirical School, and strive to find the
essence of beauty in the idea. The same principles of Empiricism are followed
by writers who undertake to construct a genealogy of sciences, such as Ferrarese
in his “Saggio di una nuova classificazione delle Scienze”. He is also the author
of “Delle diverse specie di follia”, “Ricerche intorno all'origine diWistinto”,
“Trattato della monomania suicida”, De Pamphilis in his Geografia del'j>
Scibile considerato nelXn sua unità di utile e di fine” and Rossetti in his “DelloScibileedelsuoinsegnamento”.
Amongthe writers on Pedagogy who follow empirical doctrines may be mentioned
Pasetti in his “Saggio suW Educazione fisico-morale”, Raffaele, Opere Pedagogiche”,
Boneschi, recetti di Eilucazione”, Fontana, Manuale per l'Educa zione umana”, Parravicini
in his various educational works ; Aporti, Manuale di Educazione e di
Ammaestramento per le Scuole infantile”, Assarotti, Istruzione dei Sordi-Muti”,
Bazutti, Sullo stato fisico intellettuale e morale deiSordi-Muti”, Renzi, SiuT
indole dei deciti, and Fantonetti, “Della Pazzia”. Among the historians who
follow the doctrines of historical criticism may be named Rossi in his
”StudiStorici”, Denina in his “Rivoluzioni d'Italia”, Verri in his “Storia di
Milano”, Gregorio in his “ConsiderazionisullaStoriadiSicilia”, Colletta inhis “StoriadelRegnodiNapoli,
Botta in his Storia della Guerra dell' Indipendenza Americana” and “Storia
d'Italia, continued from that of Guicciardini”, Palmieri in his Saggio Storico
e Politico sulla Costituzione del Regno di Sicilia”, Cantù in his Storia
Universale” and Storia degli Italiani”. Also by Micali in his L'Italia avanti
ilDominio de' Romani”, Mazzoldi in his
Delle Origini Italiche”, Lamperdi in his Filosofia degli Etruschi”, Berchetti
in his Filosofia degli antichi pojioli”, “Sacchi in his Stona dilla Filosofia
Greca, Roggero in hisori. della Filosofia da Cartesio a Kant”, Raguisco, Storia
delle Categorie da Taletead Hegel”, Sclopis, Storia detta Legislazione
Itidiana”, Farini, Stati Romani” and Farina, Storia d'Italia”. Next is
Idealism. Whatever may be the value of the psychological investigations of
Galuppi, and the seeming "realism" by which his theory is
characterized, his doctrine, founded as it was on the subjective activity of
the miiid in connection with experience, could not supply an objective foundation
for science. It therefore left the problem of knowledge unsolved. To establish the
objectivity of human thought on an independent and absolute principle is the
task which Rosmini, the founder of modem Idealism in Italy, proposes to himself.
Rosmini was born in Rovereto in the ItalianTyrol, and receives hiseducation at
Padua. He enters the priesthood, and at a later period founds a religious
institute of charity, whose members devote themselves to the education of youth
and the ecclesiastical ministry. He is charged by King (Jharlcs Albert with a
mission to Rome, the object of which was to induce Pius IX. to join the Italian
Confederation, and to allow the citizens of the Roman States to participate in
the W r of National Independence. Rosmini’s efforts at first promised success.
He is made a member of the Papal Cabinet and is even invited to the honours of
the Cardinalate. But the influence of the reactionary party in the Church
having become predominant, the Pope withdraws from the liberal path on which he
had entered, Rosmini's proposal is rejected, and the ambassador himself dismissed in disgrace. He returns to his retreat
at Stress on the Lago Maggiore, where he again devotes himself to the work of
the restoration of philosophy, for which he had so long laboured. Philosophy,
according to Rosmini, is the science of the ultimate reasons; the product of
highest reflection, it is the basis of all sciences in the universal sphere of
the knowable, embracing ideality, reality and morality, the three forms under which
Being manifests itself. Hence there are three classes of philosophical sciences.
First, the Sciences of intuition, of which ideality is the object, such as
Ideology and Logic. Second, he Sciences of perception, the object of which is
reality, as given in the sensibility, such as Psychology and Cosmology. Third, the
Sciences of reason, whose object is not immediately perceived, but is found
through the inferences of reason, such as Ontology and Deontology; the former
considering Being in itself and in its three intrinsic rela tions; the latter,
Being in its ideal perfection, of which morality is the highestcomplement.
Ideology is the first science. It investigates the origin, the nature, and the
validity of ideas, and with Logic establishes the principle, the method, and
the object of philosophic investigation. His Ideologic and Logical works,
containing the fundamental principle of his system, and the germ of all his doctrines,
are as follows : “Sagyio sutt' Origine delle Idee”, “Rliinnovamento ddla
Filog<yia in Italia”, a polemical work directed against Mamiani,
“Introduzione alla Filosojia”, and “LaLogioa”. Having reduced the problem of
knowledge to the intellectual per ception of reality, Rosmini examines and
rejects the solutions given by the principal philosophers of ancient and modern
times. He however accepts the views of Kant on the essence of that perception,
and places it in a synthetic judgment a priori, the subject of which is given
by our sensibility, and the attribute by our mind; the one being furnished by experience,
the other having a transcendental origin. But against Kant, Rosmini contends that
this transcendental element is one and objective, not plural and subjective. It
is not evolved by the activity of the mind, but although essentially united to
it, it has an absolute, objective and independent existence. This element, the objective
form of the mind, to which all Kantian forms may be reduced, is Being in its
ideality (“l’esere ideale”), which contains no real or ideal determinations,
but is ideal activity itself, deprived of all modes and outlines, the potential
intelligibility of all things, native to the mind, the light of reason, the
source of all intelligence, the principle of all objectivity, and the
foundation of all knowledge. Essentially simple, one and identical for all
minds, universal, necessary, immutable and eternal, the idea of being is the condition
of every mental act. It cannot originate from reflection, abstraction, or
consciousness. It has a divine origin. Indeed, it is the very intelligence of God,
permanently communicated to the human mind under the form of pure ideality. All
transcendental ideas, logical principles, identity, contradiction, substance,
causality, the very idea of the Absolute, are potentially contained within it,
and become distinct through the process of reflection. It is only through the
synthesis of sensibility and ideality, that man intellectually perceives the
existence of realities. To think is to judge, says Rosmini, and to think of
reality is to judge that it is actually existent. To this judgment sensibility
gives the matter or the subject, mind the form or the attribute, by applying to
the former the attribute of existence; while the substantial unity of our
nature, at once sentient and intelligent, affords the basis on which that
synthesisi saccomplished. Thus reality, which is subjective, that is to say, is
essentially connected with sensibility, becomes objectively known through the
affirmation of its existence. Thus ideality alone is knowable per se; while reality
acting on our sensibility is perceived only through ideality. Through the
faculty of universalizing, separating the possibility, or the intelligibility,
or the essence (these terms have the same meaning) of the objects so perceived,
the fluid forms universal ideas, which are thus but specific determinations of
the infinite ideality. Logic establishes the truth of knowledge and the
foundation of its certainty. Now truth is aquality of knowledge; that is to
say, our knowledge is true when that which we know exists. Truth is, accordingly,
the same as existence, and as existence is the form of our intelligence, so our
mind, in its very structure, is in the posses sion of truth. No error is
possible on this subject; for the idea of existence is affirmed in the very act
of denying it. So delusion is possible as to its modes; for that idea has no
mode, or determination. So all specific ideas and logical principles are free
from error; for they represent mere possibilities, considered in themselves and
without relation to other things. The same may be said of the primitive
judgment, in which the existence of reality is affirmed. Confining ourselves to
the simple affirmation of the actual existence of the object as it is given in sensibility,
we cannot err; error beginswhen we undertake to affirm more than we perceive,
or when we assert relations between ideas which do not exist. Error, therefore,
is always voluntary, although not always a free act; it may occur in the reflex,
but never in the direct or primitive knowledge. On these principles, Rosmini rejects
the doctrine of Hume and Berkeley as to the validity of our knowledge. Rosmini's
psychological, cosmological, and ontological ideas are contained in his
Psicoloyia, Antropologia, Teodic&i,
and TiMsofia. Psychology considers the human sol in its essence, development,
and destiny. A fundamental sensibility (“sentimento fondamentale”), substantial
and primitive, at once corporeal and spiritual, having two terms, one of which
is a force acting in space, the other ideality itself, constitutes the essence of
the soul. It is active and passive; it is united with internal and external
extension, and its body has double relation to it, of subjectivity and of extra-subjectivity.
It is one, simple and spiritual, and by this quality it I sessentially distinguished
from the souls of mere animals. Having for its aim and end the potential
ideality of all things, it will last as long as this intuition: it is therefore
immortal, although its term of extension will perish with th edisorganization of
the body. Life consists in fundamental sensibility, the result of that double
hypo-static relation, in which the body partakes of the subjective life
of the soul, and the soul of the immortality of the infinite ideal. Cosmology considers
the totality and the order of the universe, its parts and their relations to the
whole. As reality is essentially connected with sensibility, so that the idea
of the one involves the idea of the other, Rosinini admits a primitive
sensibility in matter, and holds, with Campanella, that chemical atoms are
endowed with a principle of life. Hence a hierarchy of all beings exists in
nature, from the primitive elements to the highest organisms, a hierarchy
founded on the basis of the different degrees of sensibility, with which they
are endowed. Hence, also, Rosmini affirms the existenceof a universal soul in
nature, much like that admitted by Bruno, whose sphere is indefinite space; a
soul one in itself, yet multiplied and individualized in the numberless
existences of the universe. Spontaneous generation is a natural consequence of
the theory of universal life. Ontology includes Theology; but while the former
considers the essence of Being, its unity and the trinity of its forms in the
abstract, the latter regards it in its substantial existence, as the absolute
cause and finality of the universe. The intelligibility of things, as revealed
to the human mind, being only potential and ideal, cannot properly be called
‘god’, who is the absolute realization of the infinite essence of being, and
therefore contains in the unity of his eternal substance an infinite
intelligibility, as well as an infinite reality and morality, a reality which
is essentially an infinite sensibility, and a morality which is essentially an infinite
love. It is thereforenot through a natural intuition, but through the process
of reasoning that the mind acquires a knowledge of an existing God. It is by reflecting
on the logical necessity and the immutability which belong to ideality, on the
conditions required by the existence of contingent realities, and the nature of
moral obligation, that, by the process of integration, our reason is led to believe
in the existence of an absolute mind, the source of all intelligibility, reality,and
morality. Thus the idea of god is essentially negative, that is to say, affirms
his existence, but it excludes the comprehension of his nature. Creation is the
result of divine love. The Absolute Being cannot but love being, not only in itself,
but in all the possibilitiesof its mani festations. It is by an nfinitely wise
abstraction that the divine mind separates from it sown intelligibility the
ideal type of the univers ; and it is by an infinitely sublime imagination that
it makes it blossom, as a grand reality in the space. Yet the universe is distinct
from the Creator, because it is necessarily limited and finite; and as such
it cannot be confounded with the Infinite and the Absolute, although it is
identi fied with it in its ideal type, which indeed flows from the very bosom
of the divine nature. Thus creation in its ideal essence is God; but it is not God
in its realization, which his essentially finite. In hisTefxii&sa, Rosmini
strives to show that the existence of evil does not stand in contradiction with
an all wise and omnipotent Providence. Man is necessarily limited, and evil is
a necessary consequence of his limitation. Perfect wisdom in its action must necessarily
follow immutable laws, which in their intrinsic development will come in
antagonism with partial forces, and produce discords in the universal harmony.
Such are thelaws of the maximum good to be obtained through the minimum, of
action, the exclusion of all superfluities, the graduation of all things and
their mutual dependence; the universal law of development; the existence of
extremes and their mutual antagonism; finally, the unity and the celerity of
the divine action, which presides over the government of the universe. The
problem of the possibility of a better world has no meaning: God may create
numberless worlds, but each of them will always be best in relation to its own
object. As from a box full of golden coins we can only draw golden coins, so
the Creator can only draw from his own mind thatwhichisbest. Deontology
considers the archetypes of perfection in all spheres, and the means through
which they may be realized. Moral science, including the philosophy of right,
is one of its principal branches. This is treated by Rosmini in the following
works: “Princij_rii <lrl!<t Seiema Mbrale, Storia Cumparativae
CriticadeiSwtemiMorali, Antropologia, Trattato delta Cosdema Morale” FilunojiadelDiritto,
OpuscoliMorali”. The essence of morality consists in the relation of the will
to the intrinsic order of being, as it reveals itself to our mind; hence the
supreme moral principle is expressed in the formula, recognize practically being
as you know it, or rdapt your reverence and love to the degree of worth of the being,
and act accordingly. The idea of being giving us the standard of this
recognition, implies the first moral law, which is tin; identified with the
primum notum, the first truth, the very light of reason. Hence moral good is essentially
objective, consisting in the relation of the will to ideal necessity. Thus morality
is essentially distinct from utility, the former being the cause, the latter
the effect; hence Eudemonology, the science of happiness, cannot be
confounded with Ethics, of which it is only a corollary. The relative worth of
beings arises from the degree of their participation in the Infinite; hence
man, whose mind is allied with an infinite ideality, has an infinite worth. It
is through this union, not through the moralautonomy of the will, as Kant
maintains, that man is a “person” and not a thing; and it is for this reason
that actions, to be morally good, must have for their object an intelligent being.
Moral categories are therefore founded on the gradations of intelligence and virtue,
which is but the realization of intelligence. The duties towards ourselves are derived
from the Imperative, which commands the respect and love of humanity, and we
are the standard, by which we estimate the faculties and the wants of our neighbours.
Rights are found in the faculty of acting according to our will, so far a sprotected
by morall aw. Man has an inalienable right to truth, virtue, and happiness, and
his right to liberty and property is founded on his very personality. Domestic societyis
the basis of all civil organization, and the authority of the State is limited
to the regulation of the modality of right, and never can place itself against rights
given by nature. Indeed its principal objectis the protection of those rights.
Liberal in almost all his doctrines, Rosmini’s ideas on the rights of the
Church betray a confusion of Catholicism with Christianity, indeed with
humanity. They are therefore extravagant as they are indefensible. It is true that
in his Le CinquePlayheildla C/tiesa, Rosmini strives to introduce intotheChurch
such reforms, as would have made it less antagonistic to the spiritof
Christianity. In that work Rosmini urges th enecessity of abolishing the use of
a dead language in the religious services, of raising the standard of clerical education,
of emancipating the episcopate from political ambitions and feudal pretensions,
and, above all, of intrusting the election of bishops to the people and the
clergy, as is required by the very nature of the Church. His essay is placed at
once in the “Index Expnrgatorius”. Rosmini applies also his philosophy to politics
in his filosojiu detta Politica, and to pedagogic science in his Principle Supremo
della Metodologia. Rosmini is also the author of Eponizione Critica della
Filosojia di Aristetele, “Gioberti e il Panteismo”, “Opuscoli Filosofi” and of
several volumes of correspondence. A complete edition of Rosmlni's works has been
published in Milan and inTurin. His posthumous work published in Turin under
the editorship of his disciple Paoli. ARJsumiof his system, written by himself,
may be found in the Storia universale di O. C'antil, in its documentary part.
Rosmini’s philosophy is early introduced into the universities and colleges of
Piedmont, through the labours of Sciolla, Corte and Tarditi, the chief
professors in the philosophical faculty at Turin. The two first embody the doctrines
of Rosmini in their text-books of mental and moral philosophy, while the third,
in his “Lettere di un Rosminiano”, undertakes to refute the objections which
Gioberti advances against that philosophy. It was this work, which gives Gioberti
occasion to publish his voluminous essay on Rosmini. Meanwhile, Rosmini’s
doctrines extend to the schools of Lombardy, owing to the essays of Pestalozza.
whose Element! di KUo-nyfiii, contain the best exposition of Rosminianism.
Pestalozza is also the author of “Difesa delle Dottrine di Rosmini” and LuMenie
di Rosmini, To the same School belong Manzoni, the author of the “Promessi
Sposi” who, in his Dialogo »>j2T /»- venzwne, applies the Rosminian
principles to the art of composition; Tommaseo, the author of the “Dizionario
Estetico”, the “Dizionario dei Sinonimi”, and of several educational works, in
his Espoxizione del Sistema Filosofico di Rosmini, A. Rosmini. Studi
Filosofici” and “Studi critici”. G. Cavour. the brother of the statesman of
that name, in his Fragment* Phitosopluquts; Bonghi, translator of several works
of Plato and Aristotle, and author of “Compendio di Logica”, who gives an
exposition of philosophical discussions held with Rosmini in his Le Sresiane; Rayneri,
in his “Primi Principii di Metodica”, and “Dlla Pedagogia”; Berti, the author
of “La Vita di Bruno”, Garelli, in his “Sulla Filosofia Morale” and in
“Biografia di Rosmini”, Villa, in his “Kant e Rosmini”; Peyretti, in his “Ekmenti
di FUosofui” and “Saggio di Logiea
generate”; B. Monti, in his “Del Fondamento, Progresso, e Sistema delle
Conoteeme Umnne”; Imbriani, in his Sul Fautsto di Goethe” and/Mr
Organism)poeticio e delta Poetica popolare Itliana”, Minghetti, the statesman
and colleague of Cavour, whose work, Dell’Economia Publica, bears the traces of
the influence of Rosmini's doctrines; Allievo, in his “Jlegdinnismo, la Scienza
e hi Vita”, and P. Paganini, in his “Bella Natura delle Idee secondo Platone”;
“Considerazumi sulle profonde armonie della Filosofia Naturale”, tkiggio Cosmologleo
sullo fypazin. and Stiggio sopra S.Tommaso e il Rosmini. To this classification
may be referred Les Principes de Philosophic, of Caluso. ptranslated into Italian
by P.Corte,an published with notes of Rosmini. Corte is the author of “EkmentidiFilosqfla”, embracing logical, metaphysical,
and ethical sciences. He publishes also Anthologia ex M. T. Cicerone and L. A.
Seneca in usum Philiw/phi-r Studiosorumconcinnaia ,The doctrine of Rosmini on the
nature of originalsin, as it was expressed in his Trattato delta C'oscienza”, having
been violently attacked by several ecclesiastical writers belonging to the Order
of the Jesuits, it is ablydefended by eminent theologians of the Catholic
Church, Bertolozzi, Fantozzi, Pagani. and by Gastaldi, a collegiate doctor of
divinity at Turin, and Archbishop of that See. On Rosmini's System, see
further.— Leydel, in “Zeitschrift f. Philosophic, Annales de Philos.
Chretiennr, Bonnetty, ed. Paris, on Rosmini and the decree of the Index. Also
same Annaks, Bartholmcss, Hist. critique des Doctrines Religieuses, Paris, Lockhard, “Life of Rosmini”, Lond, Ferri, op.
cit., and Ferrari in the Revue des Deux Monde. Next comes Ontologism. The ontologic
school places the "primum philosoophicum" not in simple ideal
existence, but in absolute reality, the cause of all things as well as theprinciple
of all knowledge. This doctrine, held by St. Augustine and Fidanza, and revived
by Malebranche, is developed under a new form by Gioberti. Gioberti was born in
Turin, receives his education in that city, and early becomes a priest.
Arrested as a sympathiser with the revolutionar schemes of Mazzini, he is
condemned to exile.While in France and Belgium he devotes himself to the work
of Italian regeneration, and endeavours to attach the clergy to this cause. In
his “Primato Morale e Civile degli Italiani” Gioberti urges upon the papacy the
necessity of placing itself at the head of the liberal movement, and becoming
the champion of Italian nationality and the centre of European civilization. In
his Prlegomeni, and “Il Jesuita Moderno”, Gioberti labours o crush the opposition
with which his views are received by the reactionary party of the Church and
exposes the dangers of its policy. With th eaccession of Pius IX, and the subsequent establishment of
constitutional governments in the Peninsula, Gioberti’s ideas seem to have
triumphed. Gioberti returns to Italy and enters at once into public life,
accepting a seat in the Parliament and in the Cabinet of Piedmont, where he
soon becomes a ruling spirit. After the battle of Novara he is sent to Paris as
ambassador, in the hope of obtaining aid for the national cause. Unable to accomplish
his mission, Gioberti resigns his office, and remaining in that city a voluntary
exile, he again devotes himself to philosophical studies. The philosophy of
Gioberti is embodied in the following works: “La Teoria del Supra-naturale”,
“Introduzione allo Studio della Filosofia”, “Trattato del Buono”, “Trattato del
Bello”, “Errori Filosofici di Rosmini”. Philosophy, according to Gioberti, has
long since ceased to exist; the last genuine philosophers are Leibnitz,
Malebranche, and Vico. By substituting psychologic for the ontologic method and
principles, Descartes renders all genuine philosophic development impossible.
Descartes does in regard to philosophy what Luther does in regard to religion,
by substituting private judgment for the authority of the Church. Sensualism,
subjectivism, scepticism, materialism and atheism are the legitimate fruits of
the doctrine of Descartes. To do away with these errors is theobject of
true philosophy. Rosmini's theory cannot attain it; for it is founded on a
psychologic process, assumes as a principle of knowledge a pure abstraction,
and thus falls into the very errors which it proposes to combat. Through ideality,
the mind cannot reach reality, nor from the fact of consciousness can it ascend
to universal and necessary ideas. We must therefore invert the process, and look
both for method and principles not in the subject, but in the object. The object
is the idea in its absolute reality, immanently present to the mind under the
form of a synthetic judgment, which comprehends in itself all being and
knowledge. This judgment, as it is produced through reflection, finds its expres
sion in the ideal formula, “Ens creat existentias,” Being create existences —
the supreme principle of Ontology and of Philosophy. Through the intuition of
this principle, mind is in possession at once of the real and the ideal; for
the first member of the formula (the “Ens”) contains the object, Being, the
absolute idea as well as the absolute substance and cause; the second (“Existences”)
gives the organic multiplicity of contingent substances and causes and relative
ideas; the third, The Creative Act, expresses the relation existing between the
absolute and the relative, the unconditional and the conditional, and the
production of real and ideal existences from the Absolute. But although this intuition
gives the power of intelligence to the mind, it is in itself not yet an act of knowledge;
as long as it is not reproduced by the mind, it remains in a latent or germinal
condition. It is only by a reflex judgment that we affirm the contents of
intuition; coming to the consciousness of its elements, we become acquainted
with their mutual bearing and relations. This reproduction therefore is made through
ontok>gi«ilreflection, by which the mind, so to say, reflects itself upon
the object, and through which alone it is capable of acquiring the knowledge of
that ideal organism, which is expressed in the intuition. Thus the ontological
method is the only true philosophical process, and stands in opposition to the
psychological method, which is founded on psychological reflection, through
which the mind turns its attention, not upon the object, but upon itself. But to
direct its reflection upon the object of its intuition, the mind needs the
stimulus of *language*, through which it may determine and limit the object for
its comprehension. Hence the necessity of a first divine revelation, which by
language supplies the instrument of our reflection, and constitutes that
relation which necessarily exists between the idea itself, and the idea as it
manifests itself to our rmind. Fo ralthough the idea in itself is one and
indivisible, in reference to the human mind it has two sides: the one which is
intelligible, the other incomprehensible— thus being antithetic towards each
other, and giving rise to all the apparent antinomies between Science and
Religion. The faculty of super-intelligence, which is inherent in all finite
minds, consists in the sense which reveals to the mind its own limitations, as to
the comprehension of theidea. It is through revelation that the mind acquires
some positive knowledge of the superi-ntelligibility of the idea, although
always limited and clouded in mystery. Science, being the reproduction of the
ideal formula, must therefore be divided into two branches, corresponding to
the intelligibility and the super-intelligibility of the idea;— the one
constituting the Rational Sciences, the other the Super-Rational, the last
being superior to the former from their more extensive comprehension of the
idea through positive revelation. The genesis of sciences from the ideal formula
is as follows : " Jfiia" or the subject of the formula, gives
Ontology and Theology. The copula (creat) demands a science which shall com prise
the double relation between “ens” and existences, in both an ascending and a
descending method. The descending process (from Jieuifj to faiatenees) originates
the science of time and space, or Mathe matics. The ascending (from Existences
to Being) the science of the true, the good, and the beautiful, that is, Logic,
Ethics, and AEsthetics. The predicate (Existences) gives rise to the spiritual
and material sciences. Oon the one side Psychology and Cosmology, on the other,
physical Science in its various branches. The super-natural sciences follow the
same division. As to the validity of the knowledge arising from this formula, its
first member expresses its own absolute reality and necessity. The intuitive
judgment in which this reality and necessity are pronounced, viz.. '"En*
*'•*," and ^Ens is necessary" do not originate in the human mind, but
are contained in the idea itself, while the mind in its primitive intuition only
listens to them — repeating them in its succeeding reflex judgments. So that
the validity of those judgments is not affected by the subjectivity of the mind.
Thus is it with the funda mental ideas of necessity, possibility, and
existence. The first being the relation of the En sto itself; the second the
relation of the necessary to the existing; and the third the relation of
possibility to necessity. To these ideas correspond three great realities. To thefirst, the
Absolute reality, God. To the second, infinite or continuous m agnitude, pure
time and pure space. To the third, actual and discrete magnitude, the universe an
dits contents. Time and space are ideas, at once pure and empirical, necessary
and contingent. As pure and necessary, they may be conceived as a circular
expansion growing out of a single centre and extending to the infinite; by this
centre, Ens (Being) is symbolized. As contingent and empirical, they may be
represented by a circumference which projects from the centre and develops in
successive degrees. In this projective development, we have the finite reality,
multiple and contingent in itself, but one and necessary, if considered as
existing in the central point from which it emerges. For existences have a necessary
relation to the Ens, and it is only in that relation that it is possible to
know them. The very word existences implies their derivation from the Absolute
reality. But the nature of that derivation cannot be reached through reasoning.
It manifests itself in the intuition, in which it is revealed in the creative
act. By considering the two extreme terms of the formula out of the relation of
its copula, they become identified, and philosophy at once falls into Pantheism.
Thus the creative act is the only basis of our knowledge of contingent existences.
It is by bringing the phenomenal elements of perception into their relations to
creative activity that the sensible becomes intelligible, and the
individualization is of the idea are brought in the concrete into our minds.
And as our own ideas are formed in witnessing the creative act, it follows that
that they may be considered as copies of the divine idea, created and limited,
yet stamped with the character of a divine origin. Thus the ideal formula
considered in relation to the universe becomes transformed into these other
formulas. The one creates the multiple. The multiple returns to the one. These
two formulas express the two cycles of creative development, viz., the one, by
virtue of which existences descend from Ens; the other, by which they return to
I -- a double movement, which is accomplished in the very bosom of the ens
itself, at once the efficient and the final cause of the universe. The first cycle,
however, is entirely divine, while the second is divine and human, because in
it human powers are brought into play. In the Garden of Eden ther&- tiini
of the mind to its Creator is perfect; reason predominant over passion, man's
reflection was in perfect accord with the organic intui tion; but theFallalteredthatorder,andman
puthimselfmoreorless intooppositionwiththeformula. Ileucetheerrorsofancient
theogonies and Mythologies, and their Pantheistic and Uualistic Philosophies.
Thus the Bralnuinicand Buddhistic doctrinesoftheEast absorbed the universe and
man himself in the first member of the formula; while the philosophical systems
of the Greeks reduced everything; to the third member, with the exception of
Pythagoreanism and Platonism, in which the condition of its organic order is
substantially preserved. Christianity restores that order through the
miraculous intervention by which God, becoming man, brings the human race back
to its primitive condition. In such a dispensation, the tradition which contains
the organic structure of the fomula was placed in the keeping of the Church; hence
its infallibility, and its right to preside over Theology, as well as the whole
development of Science. The idea as expressed in the formula becomes, in its
application to the will, the supreme moral law, the basis of Ethics. While its first
and second terms give us the idea of moral good, its first cause, law and
obligation, the third term supplies the moral agent, and contains the conditions
of moral development. It is through his free will that man can copy the creative
act by placing himself in accord with the will of God, as manifested in moral law.
Hence, moral law partakes of the character of absolute reality; it is
objective, apodeictic, and religious, because it is founded on the very
relation of God to the human will. From this relation arises an absolute right
in the Creator, to which an absolute duty in man corresponds, the source of all
the relative duties and rights, which spring from his relation to his fellow-creatures.
It is through this accord of the human with the divine will, that man attains
happiness, consisting in the voluntary union of his intellectual nature with the
divine. The supreme formula of ethics is this: Being creates moral good through
the free-will of man. Fom this two others follow, corresponding with the two
cycles of creation. The first: that free will produces virtue by the sacrifice
of passion to law. Second, that virtue produces happiness by the reconciliation
of passion to law. AEsthetic science likewise finds its principles in the ideal
formula. Creation, with the ideas of time, space, and force, gives us the idea
of the sublime, while Exigences, that is to say. the real in its relation to
the idea, contain the elements of the beautiful. Thus, as existences are
produced arid contained in the creative act, so the sublime creates and contains
the beautiful. Hence the formula, being creates the beautiful through the sublime.
The two ideas are co-related. They both consist in the union of the intelligible
with an imaginative element, but while, in the sublime, one element
predominates over the other, in the beautiful the harmony of the two is preserved.
Yet the two ideas are subject to the cycles already noticed in the development
of the formula: The Sublime creates the Beautiful, and the Beautiful returns to th eSublime. In the
history of art the sublime precedes the beautiful. The temple and the epic poem
are the oldest forms of art. The super-intelligibility of the idea gives rise to
th emarvellons, which, expressing itself in language, poetry, painting, and
music, becomes an element of AEsthetics. The first arts resting in the organic
structure of formula, it follows that only in orthodoxy can the full realization
of beauty be found. Heterodoxy, altering more or less that structure,
introduces an intrinsic disorder into the lield of AEsthetics, as well as into
that of science, morality, and religion. Gioberti at the time of his death was
preparing other works, in which his idea sseem to have undergone considerable
change. Imperfect and fragmentary as they are left, they were published under the
editorship of his friend Massari, and bear the follow ing titles, “La
Protologla”; “La Filosofia della Rivelazione”, “La Itifor-ma detta Chiesa. A
tendency to rationalism blended with Hegelian transcendentalism appears in
those works, although ostensibly founded on the idealformula ofthen'rst philosophy.
The idea here becomes the absolute thought, which creates by its very act of
thinking. Sensibility is thought undeveloped, as reason is thought developed;
and even the incomprehensible is but thought undeveloped,
whichbecomesintelligiblethroughdevelopment. Languageasthe instrument of
reflexion plays still a conspicuous part in the woof of the absolute thought,
as wrought out in creation, but it has become a natural product: and even of
supernatural revelation itissaid, that it may be considered natural, as soon as
it is received into th emind. It is through the creative act that absolute thought
appears in the development of Nature and Mind, a development which proceeds
under the logical form of a sorites, the principle of which is inexhaustible,
the progress continuous. The members of this sorites are prop»>-r which rest
on categories, or fundamental ideas produced by the absolute thought in its
union with the mind, and the tinners which it creates. In the absolute, the categories
are one and in<! idea, but become, multiple through the creative act. These
are < and trine. The first express the opposite while the last reconcile the
oppositions of the former. The absolute thought is the concrete and supreme
Category, out of which all others receive existence through its creative
activity. An existence which is developed, according to a dialectic movement.
The organic structure of the Categories, which embraces the relations between
the terms of each dual one, and the relations between their couples, is moulded
on the ideal formula. Pantheism does not consist, in a substantial synthesis of
God and the universe, but in the confusion of the finite and the infinite, and
of the different modes of existence which belong to them. God is infinite,both actually
and potentially. The world is potentially infinite, but actually finite. With Cusa
and Giordano lining it may properly be said, that the universe is a potential
God or a limited or contracted God. Hence,God and the universe are one in the
infinite reality of the first, and in the infinite potentiality of the second; for
the potentiality of the universe exists in God. As to its finitude, it is given
as a term of the creative act; it is a primitive fact which is presupposed by
all mental acts, which therefore cannot be reduced to other categories and thus
to the unity of the absolute. Finite realities, however, have a double relation
to the absolute, which is determined by the metexis and the mimesis. Through
metexis they are phenomenal copies of the divine ideas.. Through the mimesis
they participate in the divine essence, the condition of their existence. The
change in Gioberti's metaphysical ideas manifests itself in his thoughts in relation
to the Church. Catholic philosophy rests nolonger on the authority of an
ecclesiastical organization, but on the universality and continuity of human
thought, in the history of mental evolution. Religion is no longer superior to philosophy;
but it is philosophy itself, enveloped in myths and symbols, so as to bring it
to the intelligence of the common people. All religions are effects of the
creativeact, having different degrees of moral value. Christianity, however, is
the complement of all religious forms, and Christ is the Pan-Idea, in which the
realization of the moral type fully corresponds its inner excellence.
Mysteries:ui lmiracles are facts, whichcannot considered as complete. Their
value consists in their relation to the ;i!» phenomena which containtin; doctrinesof
Palingenesis. No can live which dm-s not follow the laws of ideal development;
•i i verse would perish, the moment it should cease to be subchange. The
modification introduced in his political doctrine, Gioberti himself
published a year before his death, in his “Rinnocamento Civile(VItalia”, where the
papacy no longer appears as the natural support of Italian regeneration, but as
its greatest obstacle. In Lois work, by far the best of all his voluminous
productions, Gioberti gives a new programme to Italian patriots; placing the
national cause under the hegemony of the king of Piedmont, he urges his country
men to rally around that throne, the only hope of the Peninsula. This
programme, carried out to the letter, brings the Italian States under one
national government, and finally made Rome the capital of th enation. No statesman
,with the exception of Cavour, has ever exerted for a time so great influence
on the affairs of Italy as Gioberti. His name is preserved in honuor among his
countrymen for the purity of his patriotism, the loftiness of his aspirations,
and the liberality of his views, rather than for the solidity and the permanent
value of hi sphilosophy. On the political relations o fGioberti to Cavour, cf.
Life, Character, and Policy of Count Cavour, by V. Botta, New York. As a
philosopher, Gioberti does not succeed in forming a large school, although the
following writers doubtless derive their inspirations from his works: Fomari, “Dell'
Armonia Universale, Lezioni suW arte della parata”, G. Eomano, aJesuit, LaScknzadelTuomointerno«ituoirapporticollaNaturaeconDio;
“Elementi di Filosofi"-; Gioanni, Principii della Filosofia Prima, Micrti,
o dei- VEiaereUno e Reale”, Miceliol'ApologiadelSistema” N.Garzilli, Saggioatti
rn]ypor(idella Formula idealeeoiproblemi importanti della Filosofia”, Acquisto,
“Sistema della Scienza universale”; “ElementidiFilosofiafondamentale”; “Corso
di Filosofia morale”; Corso di Diritto naturale”; “Necessità dtW autorità e
della legge”; “Saggio sulla- naturae sulla genesi del Diritto di proprietà,
Trattato(fIdeologia. In the United States of America. Gioberti finds a devoted
interpreter in Brownson, whose able exposition of the doctrine contained in the
ideal formula was published in in the Review bearing his name. To the
Ontological School, although independent of Gioberti, belong Bertóni, Idee di una
Filosofia della Vita, Questione Religiosa, ;and La Filosofia Greca prima di
Socrate”; Centofanti, “Delia Filosofia detta Storia”; A. Conti, “Storia della Filosofia”;
“Evidenza,AmoreeFede, Dio e il male”; J.Puecinotti, Serilti Storici e
Filosofici, Storia della Medicina”, Baldacchini, Trattato sullo Scetticismo; La
Filosofia dopo Kant”; Corleo, Filosofia vnirermle”; Mangeri. Corso di Filosofia
e Sistema Pitico-Ontologico”; Labranca, Lezioni di Filosofia razionale, Mora
and Lavarino, in their Enciclopedia Scientifica, Turbiglio,” L'impero della
Logica” and “Analisi Storica delle FUo-vfie di Ix-rte e Leibnizio. On Gioberti,
cf. h. Ferri, and R Mariano, op. cit.; Seydel in Zeit- schrift fi Pftilosophie,
C. B. Smyth, Christian Metaphysicians, Lond. Prominent among the Ontologists is
Mamiani. He was born in Pesaro. Mamiani joins the revolutionary movement of the
Romagnas, but was arrested and condemned to exile. He takes up his residence in
Paris, where he is engaged in literary and philosophical pursuits. He returns to
Italy, and gives his support to the liberal reforms inaugurated by Pius IX.
When the Pope abandons Rome, Mamiani, as a member of the Constituent Assembly,
opposes the proclamation of the Republic, as contrary to the interest of the
national cause. With the restoration of the papal power by the aid of France,
Mamiani retires to Piedmont, where he is elected member of Parliament and
appointed professor of philosophy at Turin. He is a staunch supporter of the policy
of Cavour, under whose administration he holds successively the offices of
minister of Public Instruction and that of minister to Greece. He is member of
the Senate and professor of the philosophy of history atRome. In the early part
of his philosophical career, represented by his “Del RintwvameiUsi dtW antica
Filusojw italiana”, Mamiaui holds the doctrine of Empiricism founded on
psychological investigations, in which he strives to combine experience with
reason. Mamiani maintainsthat the principal question of philosophy is that of
method; and that this can only be found in experience and nature. It is this
method which prevails among the philosophers of the Renaissance, and to which
science is indebted for its great achievements, particularly through the teachings
and the example of Galilei. This essay calls forth the work of Rosmini, II
Itinnovamento, etc., in which he controverts some of Mamiani's statements, and
tries to show that the experimental method alone cannot philosophically
reconstruct the science of Nature and Mind. Mamiani himself soon becomes convinced
of this, and in his works “Discorso sull’Ontologia e sul Mt-todo” and Dialoghi
di Sciema 1'riina”, he endeavours to find a philosophical basis in common sense.
In these essays appears for the first time his doctrine on immediate perception
as the only foundation of the knowledge of reality. The last phase of his doctrine
is containedin his “Confessioni di un Metafisico”. It is divided into two
parts: Ontology and Cosmology. In the first, Mamiani considers theAbsolute,
ideas, natural theology, and the creative act; in the second, the finite, its
relation to the Infinite, the co-ordinatiou of nature's means, life, finality,
and progress in the universe. Mamiani’s fundamental doctrines are as follows. The
knowledge of the real and the ideal is effected through two faculties
essentially distinct, although both acting in the subjective unity of the mind:
perception and intellection. The first does not consist in a syntheticjudgment
a priori, as Rosmini and Gioberti hold after Kant, but in a direct and
immediate relation of the mind to finite realities, as Reid and Galuppi
maintains, although Reid and Galuppi overlook its intellectual character.
Intellection consists in the relation of the mind to ideas; and, as these have
an essential connection with Absolute reality, the mind may be said to possess an
intrinsic relation to the "entia realissima"— the most real being.
Ideas indeed are intellectual *symbols* of the Absolute reality in its relation
of causality; and they are supplied by the intellective faculty, when the mind
apprehends their realizations through perception. Tims our intelligence attains
to Absolute reality through the intermedium of ideal representations, but it
does not penetrate so far as to reach its essence; it remains on its surface. A
similar process occurs in perception, through which the mind reaches the object
given in sensibility, not in essence, but through the medium of sensation. But while
our ideas are mere *representative emblems* -- simbolo ed embolo -- in the
divine mind they are real objects in themselves. They are identical with the
absolute intelligibility, the possibility, the reason of all things. They are
therefore the foundation of all Unite realities, their common attributes and
final perfection. They are indeed the efficient and final causes of the world,
manifesting themselves under the triple relation of the true, the good, and the
beautiful. Hence our ideas, as *representations* and determinations of the
divine causality, are essentially objective and immutable representations, and
determinations of eternal truth. It follows that the existence of God is
founded on the very nature of primitive intuition, which includes the eternal
substantiality of truth, and that its demonstration a priori is a simple
process of deduction from the principle of identity. It follows also that every
ideal relation contains an eternal truth, to which an intelligible reality in
God corresponds. It is therefore independent of the human mind. Ideas however are
not innate. Threy originate in finite reality, from which they receive their
determinations, and have a necessary reference to absolute reality through
their *representative* character. It is only through reflection that the minddisc.
in itself its relation both to finite reality, contained in internal and
external perception, and to infinite reality, contained in the Infinity.
Creation is the result of the infinite good, which of necessity tends to
communicate itself. The idea of a God infinitely good implies the idea of a
creation, founded on the greatest good, as its outward manifestation and
ultimate end. This manifestation is brought forth by an infinite power, and an
infinite wisdom, under the forms of the laws of causality and finality. From the
very nature of the finite, and its opposition to the infinite, arises the
immense cosmic diversity. Hence the universe cannot be properly represented as
a sphere; it is rather to be regarded as a system of numberless spheres, moving
concentrically in various directions, and forming that universal harmonv, which
is the highest expression of the infinite good. As the cosmic diversity is
equal to its possibility, it follows that there is only one idea of the
universe in the divine mind as well as in the universe itself, although in a
continuous generation and development. The idea of a better world is impossible
; because the idea of the universe, which is in the act of developing, contains
already all possibilities. Evil is inherent in the finite; but it diminishes,
as the finite more and more approaches the infinite, and in this progressive
union of the one with the other lies the ultimate end of creation. In the achievement
of this end, the divine causality creates and determines the whole, the divine
intelligence pre-arranges the whole, while nature produces the whole under the
influence of that causality and intelligence. The finite is an aggregate of
monads or forces, which are brought together by their mutual attraction; thus a
communication arises between those, which have a diameter of similarity, a
participation between the diverse ones, and a co-ordination of all. Hence arises
the cosmic system, with its great divisions of nature, life, and mind. Nature reveals
itself first in the stellar order, in the ether in connection with light, heat,
and electricity, and in the order of chemical compounds, such as water and
twater. In the elaboration of the syntheses preparatory to the final ones, the
divine art is revealed in that wise co-ordination of means which is produced by
the union and separation, the action and reaction of homogeneous, as well as
heterogenons forces. But it is only in life (vita) that finality (fine) appears,
for life alone contains the possibility of receiving the communication of
JJIXK], which is the essence and the object of creation. Life is the development
through a suitable organization of the individual, in reference to its participation
in the good. At its lowest degree it is nothing but a chemical compound – the
amoeba --, enclosed in a cellular envelope and capable of reproducing
itself. At its highest point, life is an intellectual and volitional activity
which tends to an absolute object, and to this end co-ordinates all the means at
its disposal. Between the two extremes there are numberless degrees of vital activity,
each developing in accordance with its own end. Vegetation, animality, and humanity
or spirituality mark the principal degrees in the scale of life. In these three
manifestations, life is a specific force. Bflchner and other Scientists, who give
to matter the power of producing life, deny the existence of this specific
force, and attribute it to a cause, which in itself has not the elements
necessary to its development. So Darwin's theory of the genesis of species involves
the negation of the objective reality of the idea or specific essence,
containing a substantial fixedness of character and form, and the power of
producing itself within the limits of its own nature. It confounds accidental
varieties with substantial transformations, and artificial means with natural
processes. It is contrary to all historical experience, and the constant fact
of the sterility of hybrids. It stands in contradiction with itself in the
bearing of the two laws of the struggle for life, and natural selection, which
will restrict rather than widen the limits of development, and keep the species
within their own boundaries, rather than expand them into new forms and modes
of existence. The order of life in relation to the general end of creation
begins with plants. In plants, the living force has the specific value of being
the organ for life, or rather it is the laboratory in which its elements are
prepared. This passes over into animality, which has a real relation of
finality, although limited and relative, as are its senses and instincts,
through which it enjoys participation in the divine good. Man (Homo sapiens
sapiens) alone, whose life is partly the growth of vegetation and animality, is
an absolute finality, for he alone has a life, through which he can know and
act in accordance with the absolute. The law of indefinite progress is
universal and necessary, founded as it is in the very object of creation, in
the divine goodness, and the progressive union of the finite with the infinite.
This law, which embraces all the universe, is still more apparent in the development
of mankind. But in order that it may be verified in history, its application
must comprehend humanity as an organic and spiritual unit. It would fail if
applied to an isolated nation, or measured by the invariable Roman type, as Vico
insists. To see the full bearing of this law, mankind must be regarded in the
multitude of its nationalities, in the variety of their character, in the
multiplicity of the elements and of the ages of civilization. The law itself
must he viewed in its different aspects, and in the agencies which are at work to
carry it ont in history; such as the influence of a national aristocracy, the
subordination of lower to higher forms of civilization, the mingling of the
Italian three tribes, and the expansion of social forces, through which a kind
of polarity among the tree tribes is created. All these and other causes, while
they preserve the spiritual unity of mankind, maintain its growth and secure
its general advancement. Besides the works already mentioned, Mamiani writes also
“Meditazi- oniCarte&iane, and “Di un
Nuovo Diritto Europe”, in which he strives to establish international right on a
philosophical basis. In his “Iiinaacimento Cattolico”, Mamiani contemplates the
possibility of a reform in the Catholic Church, that should reconcile it with
the spirit of modern times. Mamiani is also the author of “Teoria dclla
Religions e dello Stato, e dei suoi raj/porti speciali con Roma e colle Nazioni
Cattoliche”, “Sei Lettere a Rosmini”, “Saggi di Filosofia Civile” and “Saggi
Politici”. Among the philosophers who have treated of Mamiani's philosophy, the
more prominent are Ferri, the author of the “Esmi sar CHUtoire de la
Philosophic en Ilalie au 19ine Steele”; Debrit, “Histoire de» Doctrine*
Philosophiqves daiu Vltalie Con- temporaine”. These two philosophers,
particularly the first, give a complete survey of the principal systems of
contemporary philosophy in Italy.) See also Lavarino, “La Logica e la Filosofia
di Mamiani” and Fiorentino, several articles in the Rivista di Bologna, under
the title of Positivismo e Platonismo in Italia; Brentazzoli, the author of “Di
uri1 ultcriore e deflnitico arplicamento della Filosofia Seokxttka”; Tagliaferri,
who writes on Mamiani's theory, and Bonatti, who discusses the ontological
argument of the existence of God as presented by Mamiani in Bonatti iand
Mamiani, Bonatelli is also the author of “La Concienza”, and of a sketch of
Italian philosophy published in the “Zeituchrift fiir Philorphie und Philosophische
Kritik” in Halle. To the Ontologic classification may also be reduced the “Dialoghi
Politico-Filosofici” di Buscarini; and “Sopra la Filosofia del Diritto Publico Interno
di L.C. di Montagnini; also,1stFUomfiadette Scuote Italiane, a philosophical review
supported by Mamiani, D. Berti, R. Bonghi, G. Barzellotti, and other members of
an association recently established in Rome for the promotion of philosophical
studies; Oerdil, a weekly periodical published in Turin, under the editorship
of Allievo, chiefly intended to reconcile philosophy with Christianity; and Il Campo
della FUosoflItaUani, a philosophical periodical published in Naples, and
edited by Milone. Next is Absolute Idealism or Hegelianism. Vera is the
recognized head of the Hegelian School in Italy. He was born in Amelia, a city
of Umbria, and early goes to Paris,
where he completed his education. Having spent some years in Switzerland,
he returned to Paris, and is appointed professor of philosophy in several colleges connected with the University of
France. He rreturns to Italy, where he is at once made professor of philosophy
at the Royal Academy of Milan. He ransfers to the University of Naples, where
he sholds the professorship of the history of philosophy and the philosophy of
history. Vera’s works are devoted to the interpretation and application of the
Hegelian pliilosophy.They include— ProW.me dela Certitude ; VHcgiUanisme et la
Philosophit. Melanges Philono- phiques; Essais de Philosophic Hegelienr.e,
1804; Introduction a la Philasrqkfc cCHegel, Logique d Hegel ; Philo»,plue de
la Nature d'Hegel ; Phi losophic de CEsprit (VHegel; Philosophic de la Heligion
<THegel; Platonis Aristattiu el Hegelii de medio termino Doctrina ; Inquiry
into Speculative and Experimental .Se»>v««. Lond; “Lezioni sulla filosofia
delta storia”; PrUusiovi alla Storia della Filosofia (epoca Socratica), ed alla
Filosofia delta -Storia ; II Problema deff Avm-'iito; II Cataitr e la libera
Chiesa in Ubero Statot in which the doctrine of the separation of the Church
from the Stateheld by Cavour is opposed on philosophical and political grounds.
He also translated into English the History of Heligion and of the Christian
Church by Bretschneider, London. Vera not only interprets and expounds. Hegel's
philosophy, but develops it and expresses it in a more intelligible form, thus
rendering it accessible to students not familiar with Hegelian terminology. In his
Introduction dla Philosophica"Hegel he rejects the Trinity of being, thought,
and motion which Trendelenburg proposes to substitute to the Hegelian trinity of
being (thesis), not being (antithesis) and becoming (synthesis). Vera also
confutes French Eclecticism and the materialistic theories of Bilchner and
Moleschott. In his Inquiry into Spcndatice and Experimental Science, Vera refutes
the doctrines of Bacon, Locke, and other representatives of Empiricism. Vera’s
labours have been highly praised by eminent German Hegelians, among whom is Eoeenkranz in
"Der Gedanke" and in his Wissenschaft iter hyifchc Idee. See also an article
of Saisset in the ItecuedtsDeuxMonde. Among other Hegelians in Italy
maybementioned Spaveuta.who. in his “Filosofia di Gioberti” aims to show the
connection of the doctrines of this philosopher with the ideas of Hegel.
Spaventa is also the author of Introduzione alle Lezioni di Filosofia.
Principii di Filosofia, Saggi di Critiea filosofica, politca e religiata, Filosofia
di Kant e sua relatione colla Filosofia Italiana. D H T intmoraW.ildel Vanimavmana;ltiiflcssionimlSodalitmoeComunismo.
Herebe longs also Fr. Fiorentino, the author of Pietro Pomponazzi— Ttlesio, and
Stvdj Stnriei sullaScuoladiBolognaep"PadomalSecolo16°. He also wrote on Positivism
and Platonium in Italy (Rivista di Bologna). Miriano wrote La Philomphie Contemporaine
en Italie; Lasalle e il sua Ernclito, II Ilisnrgimcn Italiano secondo i principii
della Filosofia della Storia di Hegel, Il Problema Rdigioso in Italia.
Among those who have devoted themselves to the application of the Hegelian doctrine
to the special branches of science may be mentioned Meis, naturalist and
physiologist; Sanctis, Mareelli, Delzio, Salvetti, Gatti, Vitto, Camerim, and
Trani, who applied it particularly to literary and historical criticism, and to
political, juridical and aathetical sciences. Next is Scholasticism. The
philosophical development of Italian
philosophy is distinguished by its national character, and the decided impulse
it has given to the reconstruction of Italy, on the basis of independence and liberty.
An exception to this general tendency is to be found in the writers who, labouring
in the interests of the Church, h a vestr iventore-establish Scholasticism, and
with its a cerdotal domination over national thought. Ventura is the principal
representative of this School. He was born in Palermo, and early becomes a amember
of the Order of the Theatins. He is soon elected Superior-General of the Order,
and holds a high position in the government of the Church. He is one of the
most prominent supporters of the reforms
inaugurated by Pius IX. In his eulogy on O'Connell, in his funeral oration on
the victims of the revolution of Vienna, and in his sermons delivered in the
Chapel of the Tuileries, in Paris, he continues to show himself a warm champion
of popular rights. In his philosophical works, howover, he constantly maintains
the fundamental idea of scholasticism, placing the authorityof the Church above
reason and human conscience, indeed above all sovereignty. Holding that philosophy
was buta deduction from revelation, he
asserts that the ultimate criterion of truth lies in that authority. It is true,
Ventura says, that ideas originate in sensations, and in the subsequent images
which are left by them in the mind; but ideas have no value if not incorporated
in language, which is itself derived from revelation. Philosophy reaches its
culminating point in Aquino, and nothing is left to philosophers but to study, and
to expound the doctrines of that philosopher. Ventura is the author of the following
works: De Mctlwdo Philosophandi, De la Vraie et de la Fausse Philosophie; La
Tradition et Us Semipelagiens de la Philosophie, La Raison Philosophique et
Catholique, La Phil/jxophie Chretienne, Of. Le Pere Ventura et la Philosophie, par
Clis.deRemusatinLaRevuedesDeux Mondes,Fevrier;also,EtudesMoralesetLitteraircsparA.de
Broglie, SeealsoonVentura, Drownson's Quarterly Review, and Annates de
Philosophie Chretienne, Paris. To the same school belongs Liberatore, a Jesuit,
the author of Trwtitutlines Phllosophiaoe, Sitjjio aulta Conoscenza
Intellettuale, EthicaetJusNatural,Compendium LogicaletJfe- taphy»ivc. Liberatore
rejects the vision of God, as well as the doctrine of pure tradition, as the
principle of knowledge, and holds that human reason, aided by the senses and
the power of abstraction, can originate ideas, and attain truth and certainty
in the order of nature. But above nature and man there is the authority of the
Church, the only infallible guide in philosophy as well as in theology. To the
same School may bereferred Sanseverino, author of Philosophia Christianacumantl'juaetnovacomparata,
Crescenzio who wrote Seuole di Filosofia; Capozza, author of Sulla Filosofia
dei Padri e Dottori della Chiesa e in ixpecialitd d’Aquino in opposizione alla
filosofia moderna. Also Azeglio, a Jesuit, brother of the statesman of the same
name, the author of Etame Crltlco dei Ooverni Jiapprefsentativi delle Sorieta
Moderna, and Soggio teorico del Diritto Naturale fondato sull’esperienza. La
Clvilta Cattolica, a monthly Review, literary, political, and phillosophical,
published in Rome, is the principal organ of this sect. Since its origin it has
been chiefly edited by writers belonging to the Order of the Jesuits, such as
Liberatore, Perrone, Azeglio, Bresciani, and Curci. The fundamental idea of this
periodical is the insufficiency of human reason in all questions which refer to
religion, philosophy, morality, jurisprudence, and politics. European
civilization is the result of Catholicism, and it is onlv in Catholicism that
man and society can find a basis for their develop ment. Protestantism, liberty
of conscience and thought are only sources of infidelity and revolution, and it
is only by subjecting itself to the authority of the Church, that the human
mind can re-establish its natural relations with God and man. The revolution
which has made Italy one, having been carried out against the interests of the
Church, isa nti-Catholic and anti-Christian. These doctrines have received the sanction
of Piu sIX., who in his Syllabus condemns as monstrous errors the following
propositions. Moral science and philosophy are independent of the authority of
the Church. Philosophy may be treated without regard to revelation. The principles
and the method of the Scholastics are not in accordance with the need, and the
progress of science. Everyone may embrace that religion,which he in his conscience
may think true. Protestantism is a form of Christianity, in which man may
please God, equally as well as if he were in the Catholic Church. Common
schools ought to be exempted from the authority of the Church. These and other
propositions, proclaimed as religious errors, received formal condemnation from
the Church in the Council of the Vatican, through the dogmatic definition of
papal infallibility, the logical consequence of genuine Catholicism and the
highest synthesis of Scholasticism. Positivism, or rationalistic naturalism, as
implying the negation of all metaphysical science, is represented by Ferrari. A
Lombard by birth, and a disciple of Romagnosi, he early visits Paris, where he
becoes connected with the University of France, as associate doctor, he afterwards
holds a professorship at Strasbourg, which he iss obliged to resign on account
of his radical opinions. He returns to Italy, enters Parliament, and is appointed
professor of philosophy successively in Turin, Milan, and Florence. Admitting
as insoluble the antinomies of reason in the sense of Kant, Ferrari holds that
experience is the only foundation of truth. There are two species of contradiction
into which the mind may fall: the positive and thecritical. The former arise from
faults of reasoning, and may disappear through a verification of the intellectual
process. The latter are theresults of a fatal law of the mind, and cannot be avoided.
Kant reduces these contradictions to the ideas having reference to God, the
world, and man; but in fact they are numberless. They are in us and out of us;
they manifest themselves in our ideas and actions, in both the theoretical and the
practical order. The universality is the law of mind and nature. Hegel with an effort
of genius attempts to reduce them to a rational unity. But he succeeds only in
giving us a philosophy of contradictions. Hegel’s failure shows the
impossibility of metaphysical science, and the futility of the labours of
metaphysicians to find a relation between Nature and Logic. Between the two there
is no relation; the former is founded on the law of con trastand change, the
latter on identity. Hence there is an essential opposition between them, which
renders it impossible to represent unity in accordance with mental ideality.
Indeed the mind itself is subject to the law of opposition, so that in reality
an absolute identity even in the logical order is an impossibility. The effort therefore
to reduce nature and mind to scientific unity must ine vitably result in
transforming the critical antimonies into positive ones, and thus in making
error a necessity. The mind is neither superior nor equal to nature ; it is its
child ; and it is only in sub mission to nature that it can co-ordinate its
thoughts, determine its knowledge,andfindabasisforspeculation.
Phenomenalism,there fore, with all the oppositions which are revealed in the
ever-chang ing movement of nature, is the object as well as the limit of our
intelligence. The ideal relations, such as the relations of quality and
substance, of effect and cause, of finite and infinite, and all others which
relate to the supreme laws of nature and thought, are so many oppositions which
predominate in the universe, and in all our analyses ; they are the
inexplicable conditionsof our knowledge, and the insuperable limits of all science.
An impenetrable mystery envelopes them, and the mind cann either explain or.reconcile
them. Hence it follows that no absolute truth exists in the human mind, and
that philoophy is only so far true as it does not overstep the limits of a
phenomenal experience, the cause of which is an everlasting movement, and its
law a perpetual opposition. Led by these ideas, Ferrari attempts a
philosophical reconstruction of the political development of nations, founded
exclusively on experience and induction. Ferrari establishes therefore a general
and uniform type of this development, and divides I tinto four periods, each
comprising about thirty years. The first period is an epoch of preparation, in
which new ideas are manifested, and the genus of future events and laws deposited
in the soul of th epeople. This isfollowed by the period of explosion, in which
those germs, having reached their maturity, burst forth in explicit ideas, and
are transformed into politica laction. A phasis of reaction, next appears, by which
a temporary return is made to the ancient regime, and the new form of
civilization and the doctrines of revolution are momentarily suppressed. In this
phase the body politic finds itself in a kind of oscillation between the old
and the new, seeking its equilibrium. Finally, the last period completes the
movement through a solution, and it ends with ingrating the new ideas in the
minds of the people, and in the character of the government. Thus in France,
Louis X1Y. represents the first period, the revolution the second, the last
years of Napoleon and the kingdoms of Louis XVIII., Charles X., and Louis
Philippe the third, while the fourth begins in the revolution, is interrupted
by thes econd empire, and recommences with its fall. Ferrari is the author of “La
Mente di G. B.Vico”, “La Mente di G.D.Romagnosi”; “De l’Erreur”; “Vico e l’Italie”,
“Idees&urlaPoiii 51o de Platon et d'Aristote”, “Essai stir h Principe
et lea Limites de la Philosophie dell’histoire”, Histoire de hi RaisondeVEtat”;
“Histoire des Revolutions oVItalie, “Corso di Lezioni swjli Scrittori Politici
Italiani, Filosofia della Rivoluzione. Bonavino is another representative of this
School. In his youth he became a priest, but soon renounces this position, and
avows himself a rationalist and a naturalist. He is professor of the philosophy
of history at Pavia. In “La Filosofia delle Scuole Italiane”, Bonavino attempts
a criticism of the philosophies of Rosmini, Gioberti, and Mamiani, and rejects
them all as exponents of old Scholasticism under new forms. Admitting the
negative part of the doctrine of Kant, Bonavino derives his positive ideas from
the French philosophers of the 18th century. Nature and its phenomena are the
limits of our knowledge, and time and space its exclusive conditions. There is no
other reality, which the mind can reach; there is no substance, no truth in
itself. The infinite is only the indefinite, and even this is not real,bu tideal.
In “Del Sentimento”, Bonavino rests his psychology on sensation, and makes this
the origin of all mental faculties. Applying these ideas to religion in his “La
Religione del Secolo 19°”, and in his “II Razionalismo del Popolo”, Bonavino borrows
from Feuerbach, from Comte and other positivists, the idea of humanity as the
basis and the object of a genuine rationalistic religion. In his Review, La Raaione,
he discussed the most important questions of philosophy, religion, and
politics, showing a decided tendency towards Socialism, yet maintain ing a
proper regard for the rights of property and the institution of thefamily. He is
also the author of “Lezioni sulla Storia della Filosofia Moderna” and of the
work “Sulla Teorica del Giudizio”. Moleschott, professor at Turin,in his
“LaCirculation de la Vie” and other numerous works on physiology, Tommasi,
professor at Naples, author of the Naturalismo Moderno, and other eminent physiologists
and scientists, contend that all knowledge is essentially relative and finite,
and that therefore all questions relating to the b solute and the Infinite are insoluble. Hence
they assert that the province of philosophy must be confined within the limits
of natural science. To this School, although from an entirely different
point of view, may be referred Villari, the authorof “La Storia di Savonarola,”
who in his “Saggi di Storia, Critica, e Politica” insists on the exclusive
application of the historical method to philosophical sciences, a method, the
adoption of which is urged by Lambruschini, the author of “Dell’Educazione e
dell'Istruzione”, “La Guida, dell’Educatore” and other valuable works on
education ; cf. his La Filosofia Positiva esaminata secondo I Principii della Pedagogia,
in the Gioventù of Florence, a weekly paper devoted to the progress of education.
The following writers, under different aspects, illustrate the contemporary
history of Positive Philosophy in Italy. Bissolati, “Introduzione alle
Istituzioni Pirroniane”, Secchi, “Unità delle Forze Fisiche”; Pozzolini, “Induzione
delle Forz Fisiche”; Barbera, “La Legge
universale di rotazione, and “Newton e la Filosofia naturale”; A.Martinozzoli,
“La Teoria detta Filosofia”; Bianco, “La Rivoluzione nela Filosofia, ossia il
Vero ed il Lecito applicati al Materialismo”; Dandolo, “Storia del Pensiero nei
tempi moderni”; G. Coco-Zanghi, “Antropologia: l’uomo e la scimmia”; Angiulli,
“La Filosofia e la Ricerca Positiva”, P. Siciliani, “Sul Rinnovamento della
Filosofia Positiva in Italia”; Barzellotti, “La morale nella Filosofia
Positiva”; Lanciano, “Saggio di Scienza Prima, Universo,T'Astroe, L’Individuo”;
Panizza, “Il Positivismo Filosofico e il Positivismo Scientifico”, “Lettere ad Tclmholtz”.
Vincenzo Botta. Keywords: filosofia
italiana, dall’A alla Z – indice di nome della storia della filosofia italiana
di Botta – Botta, storico dela fiosofia italiana, Botta su Alighieri, Botta su
Cavour, empiricismo, positivismo, Vico, criticismo, idealismo, scolasticismo,
ontologia, psicologia filosofica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Botta” – The
Swimming-Pool Library.
Bottiroli (Novi
Ligure). Grice: “I like Bottiroli – he is an Italianist, rather than a philosopher,
but typically in the Italian fashion, he uses philosophical vocabulary – my
favourite are his tracts on ‘seduzione,’ ‘desiderio,’ ‘amore,’ ‘sesso,’ which
of course is all Plato’s symposium – but he has also explored not just
pragmatics, but semantics and syntax – notably with his ‘rigid/flexible’
distinction – Since he is associated with les belles lettres, philosophers in
Italy do not take him too seriously, though!” -- Giovanni Bottiroli (Novi
Ligure) è un filosofo e professore universitario italiano. Professore di Teoria della letteratura, da
molti anni, a Bergamo. Ha insegnato Retorica e Narrazione, Teoria
dell’interpretazione, Estetica, in questa Università. Inoltre, è docente
all’IRPA (Istituto di Ricerca di Psicoanalisi applicata), diretto da Massimo
Recalcati. È direttore della rivista
“Comparatismi" (rivista della Consulta del SSD “Critica letteraria e
Letterature Comparate”). Dal è
Presidente della Consulta di questo settore.
Fa parte del Comitato Scientifico di “Enthymema” e di “Symbolon”, e
della Direzione di “L’immagine Riflessa”. Collabora alla rivista
“Segnocinema”. Pensiero Una filosofia
della flessibilità Giovanni Bottiroli ha elaborato una nuova prospettiva
filosofica che si ispira alla nozione di “flessibilità”, e che egli ha indicato
con diverse espressioni: ragione flessibile, pensiero della Metis, pensiero
strategico. Questa prospettiva viene
esposta nella forma più ampia e sistematica in La ragione flessibile () e La
prova non-ontologica (). Dalla filosofia
alla letteratura (come modo di pensare) In Teoria dello stile la letteratura
viene intesa come modo di pensare e ad essere privilegiato è il suo legame con
la filosofia. Il legamenon privo di conflittualitàtra letteratura e filosofia
richiede di essere analizzato mediante il concetto di stile, inteso sia come
invenzione linguistica sia come “stile di pensiero”. Esemplare, da questo punto
di vista, è l’analisi della “Lettera rubata” di Poe, proposta da Lacan negli
Scritti (1966). La teoria della
letteratura In Che cos'è la teoria della letteratura. Fondamenti e problemi, la
teoria della letteratura viene intesa come una disciplina ibrida che deve
attingere alle teorie del linguaggio, alle teorie del desiderio e alle teorie
dell’interpretazione, ispirandosi principalmente a tre fonti: Saussure, Freud,
Heidegger. L'interpretazione dei testi
come conflictual reading L’interpretazione del testo è intesa come un
conflictual reading capace di lasciare emergere la pluralità degli stili, il
problema dell’identità del soggetto e le dinamiche del desiderio. Il suo
orizzonte sono le estetiche conflittuali, a cuiin prospettive assai
diversehanno contribuito Nietzsche e Heidegger, Freud e Lacan, ma anche
Bachtin. Le riflessioni su questo tema sono confluite in diversi articoli tra cui
Il desiderio “effrayant” di Julien Sorel. Un “conflictual reading” per un
romanzo di formazione in “Enthymema”, 21, .
Opere Libri 1975 Parodia Milano: Scheiwiller (con prefazione di Cesare
Segre) 1980 La contraddizione e la differenza. Il materialismo dialettico e la
semiotica di Julia Kristeva, Giappichelli, Torino 1987 Interpretazione e
strategia, Guerini e associati, Milano 1987 Retorica della creatività. Per
l'interpretazione e la produzione di testi, Paravia, Torino 1990 Figure di
pensiero. La svolta retorica in filosofia, Paravia, Torino 1993 Retorica.
L'intelligenza figurale nell'arte e nella filosofia, Bollati Boringhieri,
Torino 1995 Il reggicalze. Come l'abbigliamento diventò seduzione, Gribaudo,
Torino 1997 Teoria dello stile, La nuova Italia, Firenze 2001 Problemi del
personaggio (curatela), Bergamo University Press, Bergamo 2002 Jacques Lacan.
Arte linguaggio desiderio, Bergamo University Press, Bergamo 2005 Le incertezze
del desiderio. Scritti brevi su strategia e seduzione, Ecig, Genova 2006 Che
cos'è la teoria della letteratura. Fondamenti e problemi, Einaudi, Torino La ragione flessibile. Modi d'essere e stili
di pensiero, Bollati Boringhieri, Torino
La prova non-ontologica. Per una teoria del Nulla e del “non”, Mimesis,
Milano-Udine Voci di Enciclopedia Enciclopedia Einaudi: Eros (1978), Piacere
(1980), Pulsione (1980), Soma/Psiche (1981) (quest’articolo in collaborazione
con Guido Ferraro). Enciclopedia Treccani: Letteratura e psicoanalisi, in
Appendice 2000 Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi
(diretta da Franco Brioschi e Costanzo Di Girolamo): Il pensiero filosofico e
scientifico e La prosa della filosofia e della scienza, IV, 1996 ( 21-58 e 945-974) Letteratura
europea (P. Boitani e M. Fusillo): Letteratura e psicoanalisi, 5,
399-417, UTET, Torino Articoli di
filosofia e di teoria della letteratura (una selezione) 1990 Bachtin, la
parodia del possibile, in "Strumenti critici", 63, 147-66 1994 Il comico inesistente. I regimi
figurali nell’opera di Calvino in “Calvino e il comico” (L. Clerici e B.
Falcetto), Marcos Y Marcos 1996 Sinistra come "bêtise". Il problema
degli attriti nel "Dono” di Nabokov in "Strumenti critici” 80, 1996
2001 Il comico delle articolazioni, in BarbieriBottiroliPerissinotto “Il Comico:
approcci semiotici”, Documenti di lavoro 303-304-305, Centro Internazionale di
Semiotica e Linguistica, Urbino 2001,
27-39 2002 Introduzione a Flaubert, L’educazione sentimentale, Einaudi,
Torino, V-XXI 2003 Un sogno di
Raskolnikov, in “Nel paese dei sogni” (V. Pietrantonio e F. Vittorini), Le
Monnier, Firenze 2003, 70-84 2004 La
logica del diviso in "William Wilson" in Fantastico Poe (R. Cagliero,
Ombre Corte, Verona) 2007 Non sorvegliati e impuniti. Sulla funzione sociale
dell’indisciplina, in Forme contemporaneee del totalitarismo (Massimo
Recalcati), Bollati Boringhieri, Torino 2007 Metaphors and Modal Mixtures in
Metaphors (di Stefano Arduini), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2008
L’identità modale nei romanzi di Kafka. Descrizione di un progetto di ricerca
in “Cultura tedesca”, 35 2009 In principio era la bêtise, in Soggettivazione e
destino. Saggi intorno al ‘Flaubert’ di Sartre (G. Farina e R. Kirchmayr),
Bruno Mondadori, Milano Ibridare,
problema per artisti. Alcune tesi, in “Enthymema”, n.1, 154-163
Dalle somiglianze alle differenze di famiglia, in L’immagine riflessa,
n.1-2, 181-2 L’inganno del cortile centrale.
Interpretazione della “Phèdre” come testo diviso, in Ermeneutica letteraria,
VIII Introduzione a “La conversazione
infinita” di M. Blanchot, Einaudi, Torino
Lost in styles. Perché nel cognitivismo non c’è abbastanza intelligenza
per capire l’intelligenza figurale, in “Lo sguardo”, 17 153-193 Il perturbante è l’identità divisa.
Un’interpretazione di “Der Sandmann” in Enthymema, 12, 205-229
The possibility of not coinciding with oneself: a reading of Heidegger
as a modal thinker, in The Italian Psychoanalytic Annual, /10, 133-149, Cortina Editore Le parole uccidono le cose oppure altre
parole? Il linguaggio come perdita e come articolazione agonistica in Per Enza
Biagini (A. Brettoni, E. Pellegrini, S. Piazzesi, D. Salvadori), Firenze
University Press, Firenze Liberatore e
incatenato: le aporie di Dioniso (e del dionisiaco) da Euripide a Nietzsche in
Enthymema, XIV, 51-81 Return to literature. A manifesto in favour
of theory and against methodologically reactionary studies (cultural studies
etc.) in “Comparatismi”, 3, 1-37 What is alive and what is dead in Jakobson.
From codes to styles in Roman Jakobson, linguistica e poetica (E. Esposito, S.
Sini e M. Castagneto), Ledizioni, Milano ,
213-220 Il desiderio “effrayant”
di Julien Sorel. Un “conflictual reading” per un romanzo di formazione in
Enthymema, 21, 134-151 Shakespeare e il teatro dell’intelligenza.
Dagli errori di Bruto a quelli di René Girard in Metodo, 6, n. 1,
73-98 Il desiderio e i suoi
destini: dal rapporto ai modi del rapporto, in A. Badiou, Il sesso l’amore
(Federico Leoni e Silvia Lippi), Mimesis, Milano-Udine, 41-52
Sade e il desiderio di essere in “aut aut” 382 To be and not to be.
Hamlet’s Identity, in Enthymema 23,
250-285 Heart of Darkness e la
teoria lacaniana dei registri in Anglistica pisana, XIV, 1-2 () The Turn of the Screw. A tale that “turns” in
Enthymema 24, 43-58 Articoli di cinema
(una selezione) 2007 I registi sono alleati preziosi. Un'interpretazione di
Mulholland Drive di David Lynch, in Segnocinema 144 Identità come identificazione (nei film e non
negli spettatori), in “Imago”, 2 Joe, o
le disavventure di una ninfomane (Nymphomaniac di Lars von Trier), in
“Segnocinema” 196 Non infantilizzate, vi
prego, Ingmar Bergman. Desideri senza magia in “Fanny e Alexander” in
Segnocinema 214 L’arte è un lusso, la
fiction una necessità. Žižek e Hitchcock, qualche anno dopo in “Segnocinema”
223-224 Recensioni Niccolò Scaffai, recensione a Che cos'è la teoria della
letteratura? Fondamenti e problemi, in Allegoria, n. 55, 2007 Panella Giuseppe,
recensione a Che cos'è la teoria della letteratura? Fondamenti e problemi, in
Ermeneutica letteraria n. 3, 2007 Franzini Elio, recensione a La ragione
flessibile, in “Enthymema”, n. IX,
412-414, Dalmasso Gianfranco,
recensione a La ragione flessibile, in “Rivista di Filosofia Neo-Scolastica”,
1, 240-245, Carmello Marco, recensione a La prova non-ontologica,
in “Enthymema”, n. XXV, 703-707,
Note Giovanni Bottiroli (database
Università degli Studi di Bergamo), su www00.unibg. Docenti titolari di materiaIrpa Milano, su
istitutoirpa. Comparatismi. Rivista
della Consulta di Critica letteraria e Letterature comparate, su
ledizioni. Enthymema, su
riviste.unimi. Curriculum Vitae , su
unipa. Elio Franzini, La ragione
flessibile di Giovanni Bottiroli, in Enthymema, n. 9. Marco Carmello, Giovanni Bottiroli "La
prova non-ontologica. Per una teoria del nulla e del 'non' ", Enthymema,
n. 25. Giuseppe Panella, A proposito di
Giovanni Bottiroli, "Che cos'è la teoria della letteratura", in
Ermeneutica letteraria. Rivista internazionale, n. 3. Niccolò Scaffai, Giovanni Bottiroli"Che
cos'è la teoria della letteratura. Fondamenti e problemi", in Allegoria,
n. 55. Giovanni Bottiroli, Il desiderio
"effrayant" di Julien Sorel, in Enthymema, n. 21. Letteratura e psicoanalisi, su treccani.
giovannibottiroli/it///www00.unibg/struttura/strutturasmst.asp?rubrica=1&persona=89&nome=Giovanni&cognome=Bottiroli&titolo=Prof.
59307684 I0000 0000 8138 7227
IT\ICCU\CFIV\053603 81043256
135880033 cb144625951 XX1744209
Identitieslccn-n81043256 Biografie
Biografie Letteratura Letteratura
Psicologia Psicologia Filosofo del XX
secoloFilosofi italiani del XXI secoloAccademici italiani del XX
secoloAccademici italiani Professore1951 24 giugno Novi Ligure. Giovanni
Bottiroli. Keywords: Grice, Multiplicity of being, aequi-vocality thesis,
Pegasus, Bellerofonte, l’implicatura di Bellerofonte, possibilita, le categorie
di Kant, puo essere, essere, piovera o no – Quine, ontologia – Grice, Pears,
Metaphysics.Aristotle, what is actual is not also possible – the square of
modalities – the nature of metaphysics. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Bottiroli” – The Swimming-Pool Library.
Bottoni (Padova). Filosofo. Grice: “Most Englishmen know of Bottoni
because he is quoted by Burton in his “Anatomy of Melancholy,” re the
imagination and reason – and how it affects melancholy.” “I call Bottoni a
philosophical biologist – excretion (why?) – nutrition – surely nutrition – as
part of birth – and growth – are essential requirements for a definition of
‘bios’ or life – and Bottoni knows that – as a philosopher. He studied
philosophy and taught logic, like me. “De conservanda vita,” is more than a
philosophy of life – it’s how the ‘essenza’ del ‘corpore dell’uomo’ is
nutrition – and how the spiritus, and not just the anima, are involved. His
model is functionalist, and Aristotelian, like mine!” – He also provides a
philosophy of disease – which should make us wonder about whether we are
endowed with a conceptual analysis of ‘health,’ a favourite term for Aristotle
(‘healthy food,’ ‘healthy man,’ ‘healthy habit’). Uno dei grandi medici
italiani del Rinascimento. La sua formazione avvenne nella città natale, dove
si laureò in medicina e filosofia. Dal
1555 divenne professore nell'Padova, dove insegnò in successione logica,
medicina teorica straordinaria, medicina pratica e medicina teorica ordinaria.
Introdusse l'uso del mercurio nella cura della sifilide. Fu rivale del medico
padovano Ercole Sassonia, di cui tentò d'impedirne l'insegnamento. I suoi contributi scientifici più importanti
riguardano le funzioni dirette alla conservazione dell'individuo e della
specie, quindi nutrizione, crescita e generazione, che definì tria suprema naturae
munera. Altre opere: “Della vita” “De
vitta” “De vita conservanda, Padova, Iacobum Bozzam); De morbis mulieribus
libri tres, Venezia, Paulum Meietum); Methodi medicinales duae, Francoforte); De
modo discurrendi circa morbos, eosdemque curandi tractatos, Francoforte). Dizionario
biografico degli italiani. Cap.1X, V
Niuerficorporisnoftriesentiatribuspotisfis mum perfici,
Au&toreftHip.Lib.depart: morbisuulg.contentis,nimirum continentibus nepartes-omnescorporisnutriantur;immo
eden dem subftantiapanis incanefit.carocanis,fs= cut etiam in homine. Hoc autem
nequaquam contingeret , nifi in u n o ecodem alimentomu mero delitescere
nutrimentum simile omnibus dictispartibus) indiuerfisindiuiduisfpecie differentibus.
Que igitur fit Nostri corporis t f i n g u l a r u m p a r t i u m ef fentia ,
e x q u i b u s q u o t e s qualibus conflatafit,explicareoportet. )impetumfacientibus,Quorum
omniumuna o eademefteffentiacorporeaGsubstantia;distins
guunturfolumprenestenuitaremecrasfstie,buiufe modi autem efemeia homini non
ineftratione qua isiJA8.aph. homo vel animal aut planta, sed ratione qua mixtum,
acproindecuilibetmixtogosina gulis cius partibus conuenit, ut ob i d
Nutritioznismaterianecàfubftantiaincorporeacapienda fit,necà
quolibeecorpore;fedfolumàmixton Q u a r a t i o n e f i t , u t n u l l u m c i
e m e n t u m r a t i o n e: quá fimplex corpus eft , idoneum ad nutris 113 endumefeposfat,Nihil.niquodeftComplex,aprum
Nullú natumestnutrirecompositum;praetereaelementa fimp. Poteft mixtionisperfectionetumpænes
corporiseffens nutrire.tiamtumcomplexionem.unum quodq;corpus maiorem eu
minorempreparationem suscipit cumeafintcorpora,quefummisqualitatibusprae Autrire
dita funtLonge diftant ,uiapra fine ad witam Jūscipiendam ,fed
faliusmixtioniscausa,oris, tarinquolibetmixta difpofitioad aliquodeuis, Solumdensuitægenus,
promaiori,etminori ad:Viræ gradum magis uelminusprestantem, Hon. Quod sanėincaufaeft,uthomoexcellentios
remnitegraduimà deobonorum omniumlars tiorem,gitore mixtione
primooriuntur,paulomaioremaffinia Alimentatemnobifcumhaberevidentur. Quandoquis
cum nódem ratione qua mixia sumt , triplicem illum partium mixtú.acceperit.Quia
exAuic.senientiadonás uit il le meliorem temperaturam quam habeant caeteraomnia
mundientia,Contra uerúelementa,quiamixtioneadhuccarent,&
fummisqualitatibuspraeditafunt,ideononsolumuita carent, fed tanquam corpora
omnium impera fe&tisfimalongaomniumdiftant ab ipsauiça. Qua propter frustraquæriturex
huiusmodicor poribusimperfectisfimis& uitaeineptisaliqua utritionis
materia. Quæ uerò exclementorum et apti uir excellenuitzgradu
obtineat parrium numerum obtinebunt , quibus diximus de fumi constitutam,efseuniuersammixtiefentiam,preterea
ex precedente mixtione aliquam tempera- mixto. turamconsequeasunt,utego
mixtionisratione,a qualitatumprimarumcomoderatione,minus ipfos elementis
diftent à corpore nostro ; Hec tamen prima elementorum mixtio adeo inperfecta
eft, ut fufficiens minime fitper nutris tione facienda ; Quia hac ratione
quodlibet mixtum nutritioni idoneum forei', &t) uitæ cons feruationi,unde
homoæq;nutririposset,ex las pidibusetmetalisficutexpaneetvino hoc samencum
sensui repugnet,neccesariofequitur, preterpropofitam conuenientiamсex quo
libct>mis latam ripaulo angustior existens, noftræ etiam mixtioamplam aliam
requiri,queprio
nifiemagispropinqua,hacautem
qualisele debeat,naturae modus mixtionissutricns tise nutritideclarant:Nam
quodnutriturumQuale eft, non folum mixtum utfitoportet,cuiusmos fitaprú
disuntetiamlapidese mettalla,fedtalemnutri miscibiliumcommenfurarionem
haberedebet,qua lisrequiritur,esaptumfitsertiinfubftantiam nutriti, At quod nutriturnonfolum
corpus eft, non folum corpus mixtum , uerum etiam uita præditum , ergo quod est
nutriturum , cum n uut pote nia>tionis; tritosimileefedebeat,eammixtionem
acmi scibilium mensuram habere opus eft,ut in sub
ftantiamcorporisuertipossit,& iliusuitam conseruare: Cuius mixtionis defe
tu lapides e metalla,ficut ad nullam vitaegradummanife
ftumpreparatafuere,itanecuitam noftramtueri, aliquomodopoterunt,Quandoquidem in
sui generatione longe aliam mixtionis rationem obtinuere,quam Viuentis corporis
nutritia cxpos ftulets A l i m e n t u m d e f u m e n. Albertini Bottoni. Albertinus
Bottonnus. Albertinus Bottoni. Albertino Bottoni. Keywords: vita, filosofia
della vita, Grice on body and mind in ‘Personal identity’ – body, corpus
Christi – corpus umano, corpus viris – essential corporis humani, l’essenza del
corpo umano, corpo dell’uomo, corpo virile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Bottoni” – The Swimming-Pool Library.
Bovio (Trani). Filosofo. Grice: “You’ve got to
love Bovio; he has a stamp, I don’t. My favourite is his piece on ‘linguaggio,’
on the implicature (plural of implicatura) of the ‘animale parlante’ – ‘un
tono, una figura, …’ – But he also philosophissed fascinatingly on ‘La lotta,’
which is a bit like my model of conversation as a competitive game.” politico
italiano, sistematizzatore dell'ideologia repubblicana e deputato al Parlamento
del Regno d'Italia. La casa natale di Giovanni Bovio a Trani
Giovanni Scipione Bovio nasce a Trani da Nicola Bovio di Altamura, impiegato, e
Chiara Pasquini. Autodidatta, pubblica nel 1864 Il Verbo Novello, un
poema filosofico scritto con intonazione enfatica. Fra i suoi scritti si
ricordano la Filosofia del diritto, il Sommario della storia del diritto in
Italia, il Genio, gli Scritti filosofici e politici, la Dottrina dei partiti in
Europa, i Discorsi. Sotto il Ministero Minghetti, nel 1872, ottenne il
pareggiamento della cattedra di Storia del Diritto all'Napoli e, nel 1875
consegui la libera docenza in Filosofia del diritto. Bovio fu anche
deputato alla Camera: nel 1876, con il subentrare della Sinistra costituzionale
alla Destra, fu eletto nel collegio di Minervino Murge. Il suo atteggiamento,
diversamente da quello dei suoi compagni che condividevano l'idea repubblicana,
non fu incline all'astensionismo. Nel 1880 Bovio sposò a Napoli Bianca
Nicosia dalla quale ebbe due figli, Corso Bovio, così chiamato in onore agli
italiani di Corsica sottomessi al dominio francese e Libero Bovio (1883-1942),
poeta ed autore dei testi di molte celebri canzoni napoletane. Libero Bovio, a
sua volta, fu il nonno dell'avvocato, giornalista e docente Libero Corso Bovio
(1948-2007). Napoli fu la sua città di adozione, dove morì il 15 aprile
1903. La città gli ha dedicato una piazza, che i napoletani continuano però a
chiamare con l'antico nome di Piazza Borsa. La città di Firenze gli ha dedicato
una strada. La città di Piombino gli ha intitolato la piazza sul mare più
grande d'Europa, Piazza Bovio. La città di Teramo gli ha intitolato un
importante viale. La città di Terni gli ha intitolato un intero quartiere che
comprende tutta la zona est chiamato, appunto, Borgo Bovio. «(Napoli) In
questa casa morì povero e incontaminato Giovanni Bovio che meditando con animo
libero l'Infinito e consacrando le ragioni dei popoli in pagine adamantine
ravvivò d'alta luce il pensiero italico e precorse veggente la nuova
età.» (Epigrafe di Mario Rapisardi) Il pensiero Targa in memoria di
Bovio nella piazza di Napoli a lui dedicata Passo Corese: targa, con
testo attribuito a Giovanni Bovio, dedicata a Garibaldi Giovanni Bovio era
sostanzialmente contrario alla monarchia. Come ideologo repubblicano, Bovio
ebbe il motto "definirsi o sparire": palesò insomma ai repubblicani
l'esigenza urgente di un'impostazione non confusa e non settaria, di una chiara
direzione che spinse poi i repubblicani a definirsi in partito di moderno
tenore. Bovio stabilì per il Partito repubblicano nessi e prospettive
nazionali ed europee. Egli considera la monarchia come l'attuale realtà
italiana. Ne segue che la repubblica è utopia, e Bovio si dichiara utopista.
Nel suo pensiero la monarchia cadrà, proprio quando dovrà risolvere il problema
della libertà. Serve comunque un lungo periodo perché la situazione monarchica
si deteriori. Colma evidentemente di determinismo, la sua filosofia si definiva
come naturalismo matematico. Differentemente dalla teoria socialista,
Bovio riteneva che il nuovo Stato a venire avrebbe avuto una "forma
storica", non potendo dimensionarsi unicamente sulla base di azioni
economiche. Bovio introduceva dunque una concezione formale dello Stato, che si
sforzò di divulgare anche presso i ceti operai. Fu molto considerato
anche a Matera dove non si dimenticava peraltro che nella locale "scuola
detta regia, fondata nel 1769 da Bernardo Tanucci, libero pensatore dei tempi
suoi, quando era libertà contrastare alle pretensioni papali, fu insegnante di
letteratura e di diritto Francesco Bovio, il quale intese queste dottrine nella
libertà e per la libertà. Quell'insegnamento fu seme fecondo, e dalla sua
scuola venne fuori la nobile schiera dei martiri del 1799, i cui militi
rispondono ai nomi di Giovanni Firrao, Giambattista Torricelli, Fabio Mazzei,
Liborio Cufaro, Antonio Lena-Santoro, Gennaro Passarelli, Marco
Malvinni-Malvezzi". Nel 1904, a circa un anno dalla sua morte, nella
"giornata più adatta" come "il fatidico XX Settembre", gli
intellettuali laici materani con la loro associazione "G.B.
Torricelli" tennero una solenne commemorazione "per pagare un tributo
di affetto e di riverenza al Grande, che ci fu Maestro e ci amò di quell'amore
di cui sono capaci soltanto gli educatori come Lui" dice un oratore. E un
secondo aggiunge che "la titanica figura di quell'illustre profeticamente
ci addita il sole dell'avvenire", per cui il tributo di affetto al suo
carattere fiero ed onesto è tanto più doveroso "in questi tempi
borgiani". Un terzo oratore, rivolgendosi al sindaco Raffaele Sarra, e nel
consegnargli la lapide, lo invita ad additare "quel nome a questi onesti
operai per indirizzarli sulla via della dea ragione, scuotendo così il giogo
dell'oscurantismo e della superstizione, che li avvince e li abbruttisce".
Promessa che il sindaco Raffaele Sarra non esita a fare, ritenendo quel marmo
"un severo monito all'indirizzo di tutti coloro i quali nulla fecero e
tuttora nulla fanno per strappare la nostra plebe dalla miseria, dalla
ignoranza, dalla superstizione, dall'abbruttimento secolare". Per la
precisione, la lapide commemorativa, scoperta quel giorno sulla facciata del
palazzo di giustizia, sarà tolta negli anni '30 per iniziativa della sezione
fascista (e gli incauti scalpellatori si riferiranno nell'operazione).
Bovio ebbe comunque anche l'esigenza di definirsi rispetto agli anarchici. La
forma repubblicana, scrisse, è a metà strada fra la monarchia e l'anarchia,
vale a dire fra l'ipertrofia dello Stato e la sua totale anarchica abolizione.
Non a caso, quando l'anarchico Gaetano Bresci compì l'attentato contro Umberto
I, Bovio invitò tutti gli anarchici a desistere dalla violenza. In sostanza,
un'esagerazione utopistica tradotta in atti sanguinari (l'opera degli
anarchici) avrebbe prodotto un rafforzamento reattivo dell'autorità costituita,
allontanando proprio il momento dell'avvento della repubblica. Troviamo in lui
un tentativo di superare l'idealismo della metafisica idealistica e insieme con
essa l'approccio empirico del positivismo. Fondamentalmente Bovio introdusse in
Italia l'eco delle nuove correnti speculative nella filosofia del
diritto. «Giovanni Bovio — cittadino di spartana austerità — fra il
mercimonio affannoso dei politicanti — pensatore solitario — fra lo strepito di
cozzanti dottrine — artefice possente di stile — fra la pretenziosa nullaggine
dei parolai — traversò impavido — le torbide correnti del secolo — e ne uscì
puro a fronte alta — con l'animo illuminato — dalla fede confortevole —
nell'ascensione perpetua del pensiero umano.» (Epigrafe di Mario
Rapisardi) Bovio e la massoneria Bovio fu un membro eminente della
massoneria(raggiunse il 33º ed ultimo grado del Rito scozzese antico ed
accettato), così come lo erano i suoi familiari (suo padre Nicola, suo zio
Scipione e suo nonno Francesco Bovio). Iniziato nella Loggia Caprera di Trani
nel 1863, il 17 giugno del 1865 Giovanni Bovio ne divenne oratore. Il 30 maggio
1878, su invito della massoneria milanese, tenne a Milano la commemorazione del
centenario della morte di Voltaire. Nel maggio 1882 fu nominato membro
del Grande Oriente d'Italia, di cui presiedette la Costituente del 1887. Il 17
febbraio 1889 fu eletto grande oratore, e restò in carica fino alla Costituente
del 1894. Il 6 giugno 1889, in Campo dei Fiori a Roma, fu l'oratore ufficiale
per l'inaugurazione del monumento a Giordano Bruno, voluto dalla massoneria
romana ed eseguito da Ettore Ferrari, che sarà gran maestro del Grande Oriente
d'Italia. Gran Maestro della Loggia Napoletana, nel 1896 fu candidato
all'elezione di Gran Maestro nazionale. L'8 giugno 1896, in
un'interpellanza rivolta al presidente del consiglio e ministro dell'interno
marchese di Rudinì a proposito dei provvedimenti che aveva annunciato contro la
massoneria, Bovio disse «La massoneria è un'istituzione universale quanto
l'Umanità ed antica quanto la memoria. Essa ha le sue primavere periodiche,
perché da una parte custodisce le tradizioni ed il rito che la legano ai
secoli, dall'altra si mette all'avanguardia di ogni pensiero e cammina con la
giovinezza del mondo» Il centenario della Rivoluzione di Altamura
Celebrazioni per il primo centenario (1899) della Rivoluzione di Altamura (con
Giovanni Bovio) Giovanni Bovio partecipò alle celebrazioni del centenario della
Rivoluzione di Altamura (nell'anno 1899), durante il quale fu eretto un
monumento sulla piazza centrale di Altamura, che ancora oggi è presente e che
fu realizzato da Arnaldo Zocchi. Il padre di Giovanni Bovio, Nicola Bovio, era
di Altamura, così come lo era suo nonno Francesco Bovio, il quale insegnò
diritto presso l'Università degli Studi di Altamura. Nel suo discorso,
Giovanni Bovio esaltò lo spirito degli altamurani e affermò che il concetto di
libertà era stato sempre vivo nei loro cuori. Anche grazie al fervore di idee
dell'antica Altamura, dotti, nobili e plebei altamurani si erano uniti tutti
sotto l'idea di libertà ed erano pronti a sacrificare le loro ricchezze, i loro
titoli e persino la loro vita per la libertà. Antenati e discendenti di
Giovanni Bovio Francesco Maria Bovio (anni 17501830)nonno di Giovanni
Bovioprofessore di diritto e lettere presso le Regie Scuole di Matera e
l'antica Università degli Studi di Altamura. Fu anche "giudice interino di
pace" e massone iscritto alla loggia "Oriente di Altamura".
Difese inoltre la Repubblica Napoletana, prendendo parte, nel maggio 1799, alla
Rivoluzione di Altamura Nicola Boviopadre di Giovanni Boviocarbonaro (iscritto
alla vendita "il Pellicano" di Trani) Scipione Boviozio di Giovanni
Boviocarbonaro (iscritto alla vendita "il Pellicano" di Trani) Corso
Boviofiglio di Giovanni Bovio- avvocato del foro di Napoli e successivamente
docente Diritto Penale Milano Libero Bovio (18831942)figlio di Giovanni
Boviopoeta e musicista Giovanni Bovio (1920-1978)nipote di Giovanni
Bovioavvocato del foro di Milano Libero Corso
Bovio (1948-2007)pronipote di Giovanni Bovioavvocato, giornalista e docente
Note Matera contemporaneaCultura e
società, Leonardo Sacco, 1983, Basilicata editrice Alfonso Scirocco, BOVIO, Giovanni, in
Dizionario biografico degli italiani,
13, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1971. 26 ottobre . Gran Loggia . Massoneria e i suoi trecento
anni di modernità, una mostra ricorda i massoni protagonisti del
NovecentoGrande Oriente d'ItaliaSito Ufficiale, su Grande Oriente d'Italia, 4
aprile . 6 aprile 22 marzo ). Ferdinando Cordova, Massoneria e Politica in
Italia, 1892-1908, Carte Scoperte, Milano, 42.
Biografia di Giovanni Bovio (con video GOI radio), su montesion
(archiviato il 13 gennaio 2005).
Vittorio Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori, Erasmo ed., Roma,
200547. Copia archiviata, su comunedipignataro. 25 luglio 30 giugno ).
Morto l'avvocato Bovio, "principe" della difesa, in La Stampa,
14-03-1978. Giovanni Bovio, Teatro
morale dogmatico-istorico, dottrinale e predicabile, Roma, nella stamparia di
Giorgio Placho presso a San Marco, 1731. Giovanni Bovio, Teatro morale
dogmatico-istorico, dottrinale e predicabile. Tomo secondo, In Roma, per
Filippo Zenobj stampatore, e intagliatore di n.s. Clemente XII, incontro il
Seminario Romano, 1734. Repubblicanesimo
Partito Repubblicano Italiano Piazza Giovanni Bovio (Napoli) Altri progetti
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Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Giovanni Bovio Giovanni Bovio, in Dizionario di storia,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, .
Opere di Giovanni Bovio, su Liber Liber.
Opere di Giovanni Bovio, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di
Giovanni Bovio, . Giovanni Bovio, su
storia.camera, Camera dei deputati.
Armando Carlini, BOVIO, Giovanni, in Enciclopedia Italiana, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1930, giovanni-bovio. Alfonso Scirocco,
BOVIO, Giovanni, in Dizionario biografico degli italiani, 13, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
1971.Filosofia Politica Politica
Categorie: Deputati della XIII legislatura del Regno d'ItaliaDeputati della XIV
legislatura del Regno d'ItaliaDeputati della XV legislatura del Regno
d'ItaliaDeputati della XVI legislatura del Regno d'ItaliaDeputati della XVII
legislatura del Regno d'ItaliaDeputati della XVIII legislatura del Regno
d'ItaliaDeputati della XIX legislatura del Regno d'ItaliaDeputati della XX
legislatura del Regno d'ItaliaDeputati della XXI legislatura del Regno
d'ItaliaFilosofi italiani del XIX secoloPolitici italiani Professore1837 1903 6
febbraio 15 aprile Trani NapoliRepubblicanesimoMassoniMazzinianiPolitici
dell'Estrema sinistra storicaPolitici del Partito Repubblicano ItalianoStudiosi
di diritto penale del XIX secolo. Roma Utopista non è chi sogna , m a chi pensa
, e tanto più profonda è l'Utopia quanto più il pensiero coglie la relatività
dei tempi. Greca è dunque l'origine della Utopia é utopista tipico fu Socrate
che osó primo al costume civico contrapporre la missione individuale:– Io
Socrate sono nato a liberamente filosofare e se cento volte per que sto iofossi
morto e rinascessi, tornerei a filosofare.Non pena dun que mi è dovuta, ma il
Pritaneo. Questo tentativo di ribellione dell'individuo contro il cittadino,del
l'individuo che osa pigliarsi un mandato individuale che non solo valga il
mandato civile m a ardisca riformare il costume , questo è punito e, in quella
natura di tempi,era veramente crimine di Stato.Socrate anch'esso,come atterrito
dal colpo ch'ei tira,sente che al cittadino è dovuta l'espiazione individuale,
e rifiuta ausilio , e si apparecchia all'immolazione di sè non pure perché
sente compiuta la sua mis sione e non gli piace vivere superstite a se medesimo
, ma perchè vuole grecamente spirare:dum patriae legibus obsequimur.Che è quel
l'ultimo pensiero del Gallo,che,rimossoillenzuolodalviso,eivuole sacrificato ad
Esculapio? Vuol finire sul letto del carcere come fosse alle Termopili, e vuol morire
con religione e costume attico come a punizione di alto trascorso individuale.
L'individuo fu Socrate fi losofo;ilmoribondoèl'atenieserassegnato:ma
ilpiùgrandeèque sto, che proprio questo ateniese punisce quell'individuo e non
gli dà scampo. Pericle non potè salvare Anassagora; Socrate non vuole sal vare
se stesso. Quando gli Dei patrii percossi dalla riflessione socratica supina
rono sull'Olimpo muto , Epicuro sorridendo gitto sopra di loro un gran panno
funereo e si rallegrò coll'uomo liberato dai divini ter rori. Però quel panno
che Epicuro gittava sull'Olimpo copriva tutta la Grecia; giacché quel panno che
soffocava la lotta semi-divina era indizio della missione greca già finita.
Perciò Epicuro la scia i giar dini greci, le dolcezze e i profumi arcadici,
e se ne viene nel Foro romano , e siede e sentenzia e giudica e genera di sè
due uomini diversissimi, Orazio e Lucrezio, o da Orazio poi il tipo di Munazio
Planco e da Lucrezio quello di Papiniano. Sono troppe cose che io dico insieme,
delle quali molte non dette ancora e nondimeno prova bili non pure con la forma
del discorso,ma col testimonio dei fatti, 24 Cicerone ,
vedendo Epicuro alle porte di R o m a , cerca fulminarlo col medesimo effetto
onde Pio IX fulminava il soldato italiano ve nuto innanzi a porta Pia.Erano
saette sine ictu.Epicuro sorride dei fulmini di Cicerone come di quelli del
Giove greco ed entra in Roma e prende Cicerone per mano e segretamente sel fa
suo.Ma appena entrato in R o m a Epicuro prende la natura del Giano latino, si
fa bifronte, ed una sua faccia è quella di Orazio , l'altra di L u crezio.Or
come avviene codesto miracolo?Miracolo no:è la dialet tica del sistema epicureo
che ha questi due lati. L'uno dice cosi: La vita è brede ; di là non si
continua ; dunque godiamola di pre sente.La morte ci colga quando possiamo
gittarle infaccia la scorsa del pomo della voluttà, tutto premuto. L'altro dice
cosi : La vita è breve; di là non si continua; osiamo dunque eternarla con
un'opera degna della immortalità della fama. Perchè tentare la turpitudine se
nel punto di asseguirla la morte può spegnermi? Ecco le due fronti di Epicuro ,
che sulla porta di R o m a assume forma gianesca. L'una è di Orazio : Vitae
summa brevis nos detat spem inchoare longam . Di lá non v'è vita : N o n regna
vini sortiere talis.La conseguenza ch'ei porge all'anima tua è sempre una:Carpe
diem quam minimum credula postero. Questa illazione può signifi carsi con un
grugnito del porco epicureo. L'altra è di Lucrezio : Omnia migrant, Omnia
commutat natura et dertere cogit. Dalla quale migrazione eterna dell'essere
deriva il summum crede nefas. Importa sol consegnare integra la lampa della
vita alle generazioni sopravvenienti. Da Orazio nasce Munazio Planco , prima
Cesariano ,poi P o m p e iano, poi repubblicano, poi di Antonio e di Cleopatra,
poi cortigiano di Augusto e sprezzato da tutti: tipo del galantuomo di
Guicciardini; e fini nella sua villa di Tivoli come Guicciardini nella
solitudine di Arcetri. Da Lucrezio nasce il tipo del giureconsulto, Papiniano, che
intese il dritto come bonum aequum , e non volle in Senato difendere un
imperatore fratricida e piuttosto che l'onore volle lasciare la vita.
Morendo,come avea sentenziato,provvide all'immortalità della fama . 25
Cosi abbiamo dalla medesima scuola il porcus de grege Epicuri, c de acie
Epicuri miles. N è questo doppio tipo fu smarrito nel p e riodo del
risorgimento, quando dopo la scolastica platonica e aristo telica si riaffacció
l'epicureismo : dall'una parte si ebbe il Pontano cantore della voluttà, dall'altra
il Cavalcante cercatore austero, tra i sepolcri, della immortalità della fama.
4 20 Da Epicuro ilmondo romano prende ilsenso della positività,ed è
però mondo di prosa non di arte,con missione giuridica,con lin gua giuridica,
con monumenti,storia,tradizioni giuridiche.La Gre cia ci ha tramandato due
insuperabili documenti, la tragedia epica e la tragedia filosofica, l'Iliade e
il Fedone; Roma il Corpus juris, con due potenti compagni, l'epigrafe e il
responso. Quanto all'epigrafe , specie sintetica di letteratura , nessun altro
popolo nė lingua ha il quarto della maestà e rapidità dell'epigrafe latina,nata
rebus agendis:onde nazioni nordiche e neolatine e tran satlantiche pigliano
ancora , e avverrà per lungo tempo , da R o m a antica l'epigrafe e il
responso. E la più bella dell'epigrafi ha conte nuto cpicurco e giuridico: « Et
creditis esse Deos ?» la tomba negata a Catone e a Pompeo è superbamente data
ad un mimo ! Se gli Dei sono ingiusti, gli Dei non sono. E le epigrafi più
solenni nascondono certa finezza d'ironia epicurea nel senso giuridico.
L'epigrafe latina è solenne, perché è breve come il responso : Questa rapidità
di percezione è dalla lingua istessa giuridica per eccellenza, imperativa e, se
m'è lecito a dire, dittatoria: onde l'epi grafe è quasi sempre responsiva cioè
di senso giuridico,e ilresponso è sempre epigrafico. E d in R o m a fu
possibile il tipo del giureconsulto, dell'u o m o cioè che ha l'intera
percezione del dritto,rapidamente e propriamente la significa e sa comandarla a
sè stesso prima che agli altri. È tipo raro , tutto assorbito dalla meditazione
etica , che traduce nella p a rola e nel fatto.Roma n'ebbe pochissimi e assai
più pochi ne fiori rono in tempi posteriori;e quando oggi odo chiamare
giureconsulti alcuni legisti meno che mediocri dico che o le parole non s'inten
dono o sono stravolte dall'adulazione. Quando la lingua latina canta di amore a
me pare,senza esage razione, udire il Ciclope favellare a Galatea.Non è qui la
sua forza, la sua missione, il suo contenuto storico:dica rapidamente il
dritto, dica il fatto; il responso e l'epigrafe, questo è il gran contenuto
della letteratura latina, questo è suo proprio, è originale, è
collatino,oso ied « Quid quid praecifus, esto brevis, ut cito dicta
Percipiant animi. 1 - 27 dire:il rimanente é preso di qua o là e
porta il mantello peregrino . Ed ha tre uomini sommi , Lucrezio , Papiniano e
Tacito. Lucrezio non ha cantato un poema,nè si dà al mondo poema didascalico,ma
ha dato l'esposizione epicurea della natura,la cui Venus non viene da Milo ma
dal Foro e può somigliare ad Astrea.Papiniano ha dato il più alto responso ,
nel quale è la sintesi della missione latina e lo ha suggellato, come dovea,
con la morte.L'olocausto di Socrate ci mandò la tragedia filosofica che è greca;l'olocausto
di Papiniano citramanda latragedia giuridica che è latina.Perchè dopo ilNerone
e la Messalina non cantare anche questa che è più solenne?La sto ria di Tacito
suona sulle rovine imminenti dello Stato latino come la serventesi dell'ultimo
degli albigesi.Tacito è fosco come la sera neb biosadiuna grande
giornata;èriflessivocomechirasentalerovine; è triste come chi cerca una virtù
ch'ei sa di non trovare. Perciò ei ritrae Tiberio assai meglio che Tiziano non
ritragga Filippo II , m a dove pinge la virtù non è pittore molto ispirato. E
grande col pen nello onde lo Spinelli ritraeva Satana;ma se gli dai la
tavolozza di Raffaello ei te l’annacqua. Lucrezio,Papiniano e Tacito sono tre
che si somigliano nella forma di concepire e nella rapidità scolpita della
espressione. Tacito , che . segna la decadenza e lavora come il Sisifo di
Lucrezio,qui semper victus tristisque recedit, spesso ti accusa la maniera e
quando è breve, quandoècorto;ma èl'ultimode'grandiromani.Chicercalagran dezza
del pensiero latino fuori di questi , e vuol trovarlo o nei l a menti di
Properzio e di Ovidio , o nel citiso di Virgilio e nelle p r i mavere di Orazio
, o pescarlo nel bicchiere di Catullo , o spiccarlo dagli orli della toga di
Cicerone è come chi cercando l'anima del trecento,invece di volgersi a Dante ea
Boccaccio,la spia negli oc chi estatici di Caterina da Siena o nel cipiglio di
Passavanti. In questo teatro giuridico,che è il mondo latino,ilcontenuto della
lotta si trasforma e di semidivino diviene pienamente umano . Qui non han luogo
cause per divinità. Qui Lucrezio può vuotare il P a n theon che accoglie
indifferentemente tutti gl'Iddii per vederli indiffe rentemente sfatare dal
sistematore della Natura.Lucrezio morrà non per accusa di Melito , di Anito ,
di Licone ; m a morrá se gli piace, d i s u a m a n o , s e il d e s t i n o d
e l l ' u o m o g l i p a r r à t r o p p o s o m i g l i a n t e a quello di
Sisifo. Allora la Venus genutrix gli si muterà in Venere Libitina , ed egli
userà della vita secondo quello che gli parrå suo diritto. Io non credo
all'aconito ; credo suicida Lucrezio , e questo suicidio proprio di forma
romana , come quello di Catone , cioè per ius necis etiam in se.
Questa lotta umana,iniziata non compita in Roma,questa che è tutta e
sempre lotta civile dal ritiro della plebe sull'Aventino sino ad Augusto,qui
omnium munia in se trahere coepit;questa epopea tutta latina non trovabile in
Virgilio ma un frammento Ciò significa : Il mondo greco , cominciato
religiosamente ,finisce nella irreligione di Epicuro; ilmondo romano pieno
della dotta ir religione di Epicuro, finisce nel mistero cristiano. Come sia
avvenuto questo fenomeno chiariremo nella nostra le zione intorno a Cristo.
Questo vien chiaro di presente,che ilcontenuto giuridico in Roma non può
porgersi come ius civile abstractum ,ma come primo sen timento di equità,onde
sigenera ilPretore,istituzione profondamente etica, ignota anche questa alla
Grecia, e urbano e peregrino, e il cui fineèsemprel'aequitas,affinchèilsummum
ius,nondiventassesumma iniuria o summa malitia.Quindi ilplacito del
giureconsulto nella co stituzione delle leggi:In rebus novis constituendis
coidens esse de bet utilitas, ne animus recedat ab eo jure , quod diu AEQUUM
visum est (Fideicom L. IV .). Chiaro è che l'equità costituisca la misura del
dritto;che questa equità lungamente saggiata,traducendosi in dritto, genera
l'utile sincero ; e che questo utile debba essere evidente ai popoli nella
costituzione delle leggi. Quindi l'iniquum erat injuria. Quindi l'aequitas appo
i latini non è il concetto volgare che ci viene da Ugone Grozio,è
l'assoluta,continua,ascendente correzione del dritto civile , cioè del dritto
greco ; e però cosi coloro che v e g gono pura medesimezza del dritto greco e
romano , quanto quegli altri che continuano a favoleggiare intorno alla origine
greca delle dodici tavole mostrano ignorare la differenza delle due storie ,
dei duc popoli, delle due lotte,delle due civiltà.E iltesto canta chiaro: Ius
praetorium adiuvandi, del supplendi, vel CORRIGENDI iuris civilis gratia est
introductum ,propter utilitatem pubblicam..... Che è quel ius civile bisognoso
di correzione ? È quello appunto che in R o m a patriziato il tribuno per
una certa equa partizione di cose e di ufficii,e genero , ignoto alla Grecia; l'altro
tra l'individuo per una certa equa emancipazione ignoto alla Grecia.
dell'individuo 28 il rimanente in Tacito, ha due periodi principali: l'uno tra
plebe e e la comunanza ,e generó Spartaco, Livio e La plebe fu vendicata da
Mario e più da Cesare che se oppresso il tribuno era segno che non v'era più
patriziato sovrano ed operoso. Spartaco,sopraffatto da Crasso e da Pompeo e
morto nella pienezza della sua protesta, trovò poco dopo più grande vendicatore
, Cristo. comincia a parere s u m m a injuria , la cui correzione
costituisce l'i stituto pretorio,che è tutto romano,ilcui programma si assomma
nella sentenza:Placuit in omnibus rebus praecipuam csse iustitiae ac AEQUITATIS
quam stricti juris rationem .Quello stretto dritto è greco, è puramente civile,
è quiritario, è aristocratico, e trasmoda nell'in giuria, o per violenza o per
malizia,aut vi,aut fraude. Quell'acqui tas è la correzione pretoria, è la
grandezza dello spirito latino, che tutto si manifesta e dimora nella giustizia
pretoria e urbana e p e regrina.E quell'aequitas deriva dalla lotta umana,cosi
della plebe contro il patriziato come del servo contro il padrone. Il ius
civile e il risultamento della lotta semidivina ; l'aequitas è il prodotto
della lotta civile:quella è greca,questa è latina:quella ha il suo fastigio
storico da Socrate ad Epicuro, questa da Mario a Spartaco : quella è lotta
filosofica, questa è giuridica: i canoni di Epicuro sono l'ora zione funebre
all'Olimpo e però alla Grecia, la protesta di Spartaco èilrequiemalsuperbo ciris
romanus.Insomma lagloriastorica diRoma non è ildittatore,nè ilconsole,nè
ilsenato,nè ilque store,né l'imperatore,e nemmeno iltribuno,è ilPretore:ilsuo
editto è la sintesi dei responsi; lo spirito dei responsi è l'equità; l'equità
è ilprodottodellalottaumana;questalottaèilcontenuto della ci viltà
latina. - 29 Con questo spirito di equità torna agevole a Tacito
descrivere il tiranno, scolpirlo. Volere parendo di rifiutare, comandare
parendo d i s u b i r e , f a r t u t t o p a r e n d o d i n o n f a r e , q u
e s t o è il t i p o d e l t i r a n n o , questo è il Tiberio di Tacito ,
rispetto al quale gli altri tiranni v e nuti di poi sono
volgari,ubriachi,troppo scoperti e però troppo espo sti ad essere
tiranneggiati. Tipico è questo Tiberio in Tacito,come AiaceinOmero,come
UgolinoinDante,come inOtelloinSakespeare, e non patiscono ritoccamenti di
nessuna mano : chi si attenta a ri farli, sotto qualunque altra forma , disfà.
E in R o m a fu possibile il ritratto del tiranno,ilpittore di Tiberio, perchè in
Roma fu possibile ilsentimentodell'equità,non astratto,ma tradotto inragione
pre toria.Ne Riccardo III,nè Arrigo VIII,nè Filippo II,nè Alessandro VI o Paolo
IV ritrassero Tiberio : vollero troppo, si chiarirono troppo, furono troppo
tiranneggiati : m a il tipo , spento individualmente, r i sorse collettivamente
nella Compagnia di Gesù , che per 333 anni dilargò l'oligarchia nera sulla
terra, parendo di non volere , di non comandare, di non fare. M a e il
gesuitesimo tiberiano , e il cesari smo gesuitico non possono essere tanto
chiusi che il pensiero e la natura non v'entrino. Fu
peròequitàpiena,sincera,spiegataquestadiRoma,siche la si trovi tutta adempita
nella ragione pretoria?La lotta umana di R o m a d i e d e p e r r i s u l t a
m e n t o il d r i t t o u m a n o ? I n s o m m a il d r i t t o r o m a n o
si continua a studiare , a chiosare , ogni giorno in ogni parte civile della
terra, perchè effettualmente è l'ultima parola del dritto ? L 'aequitas in
omnibus spectanda , quando non voglia essere un nome ma cosa,non un
presentimento ma una idea,non in somma una esigenza m a un adempimento ,
bisogna che si manifesti come connessione ed equazione dei contrarii,ciod del
genere coll'individuo, del cittadino con la persona, affinchè ne risulti
l'interezza dell'uomo. Ora questa equazione torna possibile quando l'individuo
si sia affer nato e contrapposto al cittadino e abbia avuto nella storia tanto
v a Lacosastainquestitermini:L'equitàscientificamenteintesa spetta:
all'avvenire, che sarà la sintesi del cittadino coll individuo per co struire
tutto l'uomo : l'equità latinamente intesa fu il transito dal cittadino
all'individuo per costruire l'individuo. Il transito non è la sintesi,è
ilsemplice avviamento dall'uno al l'altro dei contrarii, dall'azione alla
reazione, dal bianco al nero,m a non è il cenerognolo in cui l'uno e l'altro si
fondono. Fu larva dunque di equità:e nondimento anche come larva quel dritto è
rimasto solenne , tipico nella storia, come presentimento di quello che il
dritto è destinato ad essere. Dunque nella storia il mondo romano è l'esodo, il
passaggio dal cittadino greco all'individuo germanico. E in questo transito
dall'uno all'altro dei contrarii consiste , chi 30 - . ME 만
evoluzione quanta ilcittadino se ne prese.Senza que stazione e reazione, o,
come altrove dicono, senza questa tesi e a n titesi nessun'armonia finale e
completiva,nessuna sintesi piena e d u revole,nessunequilibrio,nessuna
equazioneinsomma èeffettual mente possibile : e se l'equità non è questa
equazione, è ancora un sentimento vuoto.Se ne deduce che Roma non poteva ancora
nė ideare nè porgere la vera equità giuridica,perché l'individuo non avea
compiuto la sua reazione storica, non avea dato tutti gl'istituti che dovevano
nascere di sé, dalla sua antitesi o contrapposizione al cit tadino. Dove s'era
fatta la storia dell'individuo, l'autobiografia, per ché il Pretore potesse
consapevole contemperare i contrarii, connet terli, equilibrarli? Vedesi dunque
che questa equità è l'avvenire della storia non il passato;spetta alla giornata
travagliosa dei posteri non alla lotta civile di Roma.Or dunque è stata spuma
d'acqua sonante l'equità romana ? Troppo sarebbe stato il rumore !
31 consideri, l'universalità dell'impero latino.Il quale perde la sua ra
gione di durare quando Cristo compie l'emancipazione individuale. Ragioniamo
brevemente di Cristo. LINGUAGGIO.- Abbiamo nel nostro linguaggio certe
parole fulminatorie che vogliono significare una gran fede e tradiscono
l'ipocrisia di chi le dice ;vogliono atter rire e producono invece
l'impressione comica delle s c o m u niche di un certo vescovo provenzale
sull'animo di Gugliel mo IX,duca di Aquitania e conte di Poitiers. - 52-
questa , dopo la rinascenza , dettò a Galileo la riduzione delle leggi della
mente e della natura sulla pietra L a v a gna ; anche oggi questa imponeva al
Ferrari la riduzione de'periodi storici nel numero ; e sempre questa tornerà
dopo le brevi soste o deviazioni del nostro genio.Anche nella politica noi
vogliamo misurato ilnostro passo,e perd la nostra prudenza di governo e di
popolo fu compendiata felicemente non nel cunctari nè nel festinare, m a in
quel festina lente , che è la sintesi più mirabile e perfetta del nostro
carattere.Non è già che ad ora destinata non ab biamo le rivoluzioni noi come
gli altri popoli,m a i tremiti e leoscillazioninon levogliamo,nè vogliamo
rifareilpasso. A rovinare i pensatori alquanto più arditi sino al 1860 avevamo
tre terribili parole graduali :protestantismo, p a n teismo,materialismo.Oggi
sono tre fulmini senza cuspide,
easprofondaregliscrittoridiparteavversa,abbiamo so stituito a quelle tre
altre parole terrifiche con la stessa s a cramentale gradazione:
repubblicanismo,socialismo, in ternazionalismo. Quelle tre prime parole
suonavano una scomunica ca nonica,le seconde una scomunica politica;ma nessun
fu rore biblico traspare dalla faccia rubiconda di chi fulmina le prime o le
seconde.Si voleva sino al 1859 perdere uno scrittore,un libro,anche un'opera
d'arte?Una parola ba stava:è panteista!Il libro era proibito,l'autore
sottoposto ad una o a più delle sette polizie,e ilcritico con quella sola
parola acquistava autorità e dispensa da ogni altra confu tazione . Oggi
no:piùche ibeni spirituali della celesteGerusa lemme si ha paura di perdere le
palpabili dolcezze della Babiloniaterrestre,edascomunicareun uomo,una dot
trina,un pensiero,si grida la parola socialismo!e la qui s t i o n e è f i n i
t a lì , c o m e s e t u t t i o g g i, i n u n c e r t o s e n s o , n o n
fossimo socialisti,e come se oggi ci fosse al mondo un u o mo ,un cane,un
rospo,una formica,una molecola dove non sia arrivata a penetrare la quistione
sociale. Io ho udito nella Camera un oratore dare del radicale almini stro più
mite e conservatore che, a udire accusa tanto s t r a n a , r i s e f o r t e e
t r a s e c o l a t o , c o m e v o l e s s e d i r e : I o ! ... s t u dio
lecostruzioni ferroviarie per muovere le vaporiere non gliuomini.Ne rise tutta
la Camera,ma notò sin dove sale l'ipocrisia del linguaggio. 53
Sono,percontrario,parole privilegiate estillanti san tità queste altre:
serietà, galantomismo, moderazione. Queste parole sono guscio a molte lumache
,scudo ad al cuni faccendieri, e bandiera a non pochi paolotti.La m
o derazione fu sempre virtù operosa de'fortissimi, non co stume dei pigri e
degli adiposi: conosco in Italia uomini moderati in tutti ipartiti,ma non
conosco un partito m o derato '). Ci sono poi due parole antitetiche, mi si
passi l'aggiun to,nellapoliticadelgiorno:piazzaed impopolarità.La prima di
queste due significa l'estremo dell'avvilimento, l'altra della
sublimità.L'equivoco però entra spesso ad al terarne l'uso corrente e le giuoca
secondo i fini di parte : se la piazza fa dimostrazioni festive ai sovrani,la
chiamano cuore della nazione ; se ragiona e delibera su’dritti suoi , la
chiamano canaglia. Impopolarità poi è parola stranissima,ma che può sve lare
tutto un sistema.N e'governi rappresentativi è alta prudenza ilcoraggio
dell'impopolarità! E questo governo che e chi vorrà rappresentare ? Sarà
rappresentativo dei morti che si lasciano anatomizzare senza lamento , o dei
gnomi che sistannochetinelcentro dellaterra?
1)Glieccessiaiquali,oggisegnatamente,silascia andarequestopartito,in curante
del popolo quanto sollecito di potere , nuderanno l'essenza delle istitu zioni
vacillanti. - 54 - rappre sentativo del popolo o d'una sètta? del popolo
o dei fini di un ambizioso ? e quando una Taide , nudandosi dove non
conveniva,sfidava il pudore e lo sdegno di un popolo,m o stravailcoraggio
dell'impopolarità?Eh via!anche l'ipo crisia del coraggio ci voleva , e
l'impopolarità doveva e s sere lo scudo d'Achille sul petto di Tersite. Capisco
in giorni eccezionali l'impopolarità d'un sapiente, m a il si stema
dell'impopolarità ne governi rappresentativi è una contraddizione ne'termini.
Continui chi vuole e può altre osservazioni intorno a parole
convenzionali, sulla fraseologia, sul periodo ferma to innanzi al plauso
prestabilito , specialmente in certi giorni , m a osservi pure che se il
linguaggio assai volte è dato a nascondere il pensiero e ci riesce, non può
riuscir mai a nascondere la mente ambigua,l'oscillazione del con
vincimento,l'ipocrisia,ilcarattere.Unapiùomeno visi bile gonfiezza,un certo
tôno,una certa struttura e posa, una studiata semplicità,una bonarietà metodica,una
figu ra,una parola, anche una reticenza ed una linea aprono, a chi non è
volgo,tutto l'intimo dell'animale parlante. Osservo infine che se i dialetti
talvolta fanno capolino nelle nostre leggi ,e specialmente nelle procedure,
egli è segno che le regioni italiane non vogliono essere compres se e ricordano
allo Stato nazionale quella parte di autono mia ad essi dovuta.Non un filologo
deve venire a correg gere il dialetto nelle leggi,ma idialetti si levano a cor
reggere l'accentramento. Come dell'Oriente non si può narrare una
vera storia del pensiero del pensiero come esame di sè e del suo oggetto, del
pensiero come scienza così e per la medesima ragione non si può del diritto. Il
diritto sorge come rivendicazione della persona o individua o collettiva, e la
rivendicazione per virtù del pensiero, cioè del l'esame che comincia col
rifermare la tradizione e finisce col distruggerla. U n a vera storia del
diritto anteriore alla storia del pensiero è un sogno, una favola. Nell'Oriente
l'immaginazione e la fantasia tengon luogo del pensiero, e lo simulano in
quanto lo prenunziano l'immagi nazione più nella Cina, la fantasia più
nell’India l'immagina zione che riproduce l'unità morta, la fantasia che variat
rem prodigialiter unam (nol so dir meglio); e, mentre prenunziano il pensiero,
non arrivano ancora nemmeno all'arte, nel senso più proprio di questa parola.
Fanno e custodiscono, cristalliz zandola, la tradizione; e però sono il
basamento psicologico di tutte le religioni. Il mondo orientale, dunque, è religioso,
semplicemente reli g i o s o ; è p r e i s t o r i c o , i n q u a n t o p r e
n u n z i a il p e n s i e r o , n o n l o a n nunzia ; non dà la grande arte
che non procede nè dalla i m maginazione monotona nė dalla fantasia
irrefrenata. Se in Oriente - 51 Roma je, CO am ia olisi Ca , he
- 52 l'inno e l'epopea avessero raggiunto quella eccellenza che vien
sognata, si sarebbero per necessità geminate nelle arti sorelle, rimaste li tra
il bizzarro, il deforme, l'industrioso e il fucato. E lo Stato orientale è
veramente Stato quanto quella scienza è scienza, ed arte quell'arte. La
tradizione è indiscutibile, è immobile : l'esame nè la riferma, nè la modifica,
nè la distrugge, nè la integra. Non il popolo, che si disse e fecesi dire
eletto, pose primo il problema antropologico ; lo pose l'egizio, e lo
simboleggiò nella Sfinge, problema irresoluto, perchè senza risposta. Il Greco
ri sponde, primo, a questo perchè. La Sfinge muore innanzi ad . Edipo e gli
rinasce dentro. Edipo sparisce nella notte colonea, come Prometeo che con una
favilla rapita al Sole aveva ani mato la statua l'uomo orientale immobile
sconta il fallo nella notte scitica. La favilla doveva esser presa di dentro,
non di fuori. Nosce te ipsum . Tal'è il destarsi del pensiero, tale il cominciamento
della storia, e la protasi è greca. Quindi dalla preistoria, che è orientale,
alla protostoria, che è greca, il passaggio è il problema egizio posto e non
risoluto. L’Oriente è la fanciulezza che ripete, l'Egitto è l'adolescenza che
interroga, la Grecia è la giovinezza che risponde. Cotesto pensiero consapevole
avventa il dilemma : o greco o barbaro. Più che negli altri antichi questo
dilemma è lucido in Aristo tile, dove con la disamina tempera l'arroganza e
pondera le co stituzioni secondo il carattere de'popoli. Agli orientali egli då
la scaltrezza, non la scienza (disse meglio del Ferrari sin d'al lora), e la
viltà che è degli scaltri ; nota la selvatichezza ed il coraggio dei popoli
nordici ; e il coraggio e la scienza serba agli Elleni. Agli Elleni il pensiero
e gli ardimenti del pensiero. E insieme con questo primo sorgere del pensiero è
storica mente possibile alla Grecia la prima rivendicazione umana, cioè la
prima determinazione giuridica. L'uomo, infatti, nella Grecia rivendica una
parte di sé, quella che è più comune e fa più possibile la
saldezza dello Stato che sorge come organismo p o litico insieme con la prima
rivendicazione giuridica: l'uomo in Grecia non è più strumento inconscio di un
potere sordo e in discutibile, m a si fa cittadino : e però la prima
determinazione del diritto è puramente civile. Nè più nè altro poteva essere. O
che prevalga l'aristocrazia come a Sparta, o la democrazia come in Atene, o che
un Solone, per equilibrare le due parti, riesca semplicemente a mutare l'oligarchia
eupatrida in oligar chia plutocratica, o che lo Stato si presenti federale come
nella Tessaglia e nella Etolia, o che egemone come nella Laconia e nell'Attica,
il certo è che alla rivendicazione dell'individuo non si arriva neppure come
sentimento e assai meno come concetto. Né la lirica che in fondo è epica
frammentaria sia gueriera come quella di Tirteo, sia molle come quella di M i m
nermo, o sentenziosa con Teognide, o solenne con Simonide, nė il pensiero — sia
il più largo e più trasmesso — come quello di Platone e di Aristotile superano
questa posizione storica. Il pensiero non smentisce il fatto, e l'etica di
Platone e di Ari stotile sono a fondo civile. Quando lo stoico, superando il
cit tadino, si eleva sino all'u o m o astratto, e l'epicureo prefigura
l'individuo, Ja Grecia gloriosa, la Grecia del pensiero, della p a rola e delle
armi, è passata, e noi siamo innanzi ad altro pen siero, ad altra parola, ad
altre armi. Roma è il campo dello stoico e dell'epicureo. Prima di toccare R o
m a e seguirla dalla prima alla terza, ei mi par di udire chi mi ripeta che la
storia svolta sin qui sia del pensiero piuttosto che del diritto.Era storia del
pensiero e del diritto, non separabili. I giuristi sogliono occuparsi men che
poco de'filosofi, perchè, in generale, poco li conoscono ; m a il naturalismo
che vede la storia derivar dal pensiero in quella medesima guisa e proporzione
onde il pensiero deriva dalla n a tura, non può procedere in altro modo. E se,
giunto al mondo romano, avrò più ad indugiarmi intorno alle istituzioni e sulle
testimonianze che ce le trasmettono,non è già ch'io non faccia 53 .
egual conto delle istituzioni e degli scrittori greci, m a perchè il mio
sommario va tutto raccolto da Roma ad oggi.Della Grecia e dell'Oriente si è
detto quanto strettamente occorreva a l u m e g giare il mondo latino e ciò che
gli venne appresso. Due cose,belle a sapere,ma non assolutamente richieste dal
sommario , io lascio del tutto : la storia geologica d'Italia e la storia
etnografica. come intui il Leopardi, e gli sterminati periodi tellurici dal
l'èra protozoica all'antropozoica, legga la geologia d'Italia nello Stoppani e
nel Negri,e la misura del tempo nella geologia,nel Cocchi. Anche le terre
d'Italia testimoniano da ogni regione nell'età archeolitica la presenza
de'cavernicoli o, alla greca, trogloditi. Probabilmente &'incavernarono
nelle montagne subalpine ed appenniniche, contro le spaventose vicissitudini
dell'epoca dilu viale, e parlarono quello strano linguaggio che diè loro P o m
ponio Mela : strident magis quam loquuntur. Stridono a guisa di pipistrelli,
aveva già detto Erodoto, che dié lor pasto di ser penti e di lucertole. E di
questi non abbiamo a far parola,perchè sono, come si è notato, diis, arte, jure
carentes, o, secondo Virgilio : gens duro robore nata Queis neque mos, neque
cultus erat. fumassero le Alpi e gli Appennini - 54 Dove andrei, se
volessi rifar la storia geologica del mio paese, ed a che pro per il corso di
questo anno ? Chi voglia, dunque, conoscere l'una dopo l'altra tutte le epoche
di questa terra italica, dall'eocenica alla pliocenica, e sapere perchè un
giorno Come or fuman Vesuvio e Mongibello, Nè mi occorre far la storia
etnografica dell'Italia. Dovrei correr dietro alle tradizioni d'una Italia
popolata dalle i m m i g r a zioni de'Tirreni, degl'Iberici e degli Umbri ? E
poi investigare se i Tirreni ci sien venuti dalle falde del Tauro, cioè dal m e
z zodi dell’Asia minore,e gl'Iberici dall'Asia centrale, e se gli
Umbri, della gran famiglia de'Celti, sian entrati ad accasarsi nell'Umbria,
partendosi tra Vilumbri ed Olumbri ? Troppe le opinioni de'dotti e troppo
disparate, più di cento le congetture, *1 non di poca importanza il dissenso
tra Micali e Niebhur, l'uno risalendo agli autoctoni e l'altro negandoli,e ad
un antropologo italiano fu forza conchiudere essere ancora oscurissima letno
logia italiana: oscurità, che imponendo silenzio al Mommsen circa le altre due
o tre immigrazioni, fecegli dire degli Umbri soltanto che la lor memoria giunge
a noi come suon di cam pane di una città sprofondata nel mare. Questo a m e par
certo ed indiscutibile, che più genti si sieno incontrate e mescolate in Italia
più che in ogni altro paese di Europa cosi ne'tempi preistorici come dopo la ca
duta dell'impero romano,donde poi la mirabile varietà non solo del genio m a
del tipo italiano, e dell'uno perchè dell'altro. Quella che ne'tempi
preistorici fu nella Italia nostra differenza tipica tra'crani brachicefali e i
dolicocefali, differenza rimasta alquanto notevole tra il tipo dell'Italia
superiore e quello della inferiore, ne'tempi storici divenne differenza di
genio, di scuole, di sistemi, di governi, di dialetti, di tendenze, onde
l'Italia è, per eccellenza, il paese più vario di Europa e più aborrente da
qualunque forma e successione di governi accentratori. E questo fondamento
naturale del nostro pensiero e della nostra storia vuol essere considerato non
solo secondo la v a rietà delle genti che qui s'incontrarono, si urtarono,
s'incrocia rono e si fusero, ma secondo la non meno lieve varietà del suolo,
del clima, delle acque e de'prodotti. Senza boria nazio nale si può affermare
che la nostra unità è la più ricca, perchè risulta della più disparata e
molteplice varietà. Però, come a traverso i tanti dialetti suona armoniosa e
pieghevole ad ogni sentimento la nostra lingua, c o m e a traverso le tante
scuole a r tistiche e regionali si scorge a prima vista la precisione e la
contemperanza greco-latina della linea italiana, così a traverso 55 1, Pe
mani TE can lo sperimentalismo dell'Italia superiore e l'idealismo
dell'Italia meridionale si vede la qualità dello ingegno italiano, che, con
temperando la sintesi con l'analisi e il sentimento coll'esame, non disquilibra
le funzioni della psiche, le quali, storicamente, si vanno a tradurre sempre
nella politica del festina lente. Questa unità ricca, questa unità multiforme
costituisce per eccellenza armonico il genio italiano; e quesť armonia lo fa ar
tista in ogni cosa. E infelicemente riusciamo in quelle cose,nelle quali non portiamo
dell'arte,non portiamo cioè del nostro genio. Allora per parere tedeschi o
inglesi ci facciamo semplicemente bastardi. Fu detto che il mondo romano così
poco artista, cosi stret tamente giuridico e praticamente prosaico, fu non
pertanto gran dissimo e maestro inimitabile di grandezza. E d ora accostiamoci
ad osservare se il mondo romano disdica il carattere del genio italiano. Quando
oggi i giuristi e gli storici più pensanti vogliono trovare un fondamento
razionale alle istituzioni ed ai fatti di un popolo, prima salgono al genio ed
al carattere del popolo stesso, in ultimo alle necessità naturali determinate,
cioè al naturale ambiente, in cui sorge e si svolge la vita di quel dato
popolo. Questo processo implica un sistema presupposto appunto il naturalismo.
Donde i fatti e le istituzioni di un popolo ? Dal genio e dal carattere:vuol
dire,in fondo,dalpensiero.Donde ilgenio e il carattere ? Dall'ambiente
naturale, di cui primo prodotto è il tipo. E proprio così move il naturalismo:
la natura si svolge e riflette nel pensiero ; il pensiero si svolge e riflette
nella storia . La differenza, nella esposizione, è questa: il filosofo move
dalla natura e guarda alla storia; lo storiografo move dal fatto sto rico e
ascende al fatto naturale. Non si è potuto fare altrimenti, quando si è voluto
investi gare la causa dei fatti di Roma nel genio romano, e di questo genio
nell'ambiente naturale di Roma. Anche quando, spostati 56 - i
fatti, si riesce a spostare il genio di un popolo, si è costretti a spostare in
ultimo il fondamento naturale. È un errore di fatti,che attesta la verità e la
necessità del metodo.Cosi M o m m sen, quando vuol dimostrare che il rapido
crescere di R o m a in ricchezza e potenza è dovuto al genio commerciale
de'romani, ricorre come ad ultima causa, a questo fondamento naturale : Roma è
posta sopra un fiume grande,navigabile enon lontano dal mare.Sbagliata laprima
causa – ilgenio romano sba glia la seconda il fondamento naturale, quello che
Dante chiama È costretto, dopo, a sforzare alcuni fatti ed alcuni testi, per
sottometterli alla causa prestabilita. M a più tardi egli corregge sè stesso,
non rispetto al processo che è vero, si bene rispetto alla più sincera
determinazione de'fatti e delle cause. Egli si accorge che in Roma mancava il primo
fatto, una classe di commercianti ; poi, che non poteva essere stato di
commercianti il g e n i o d i R o m a ; i n u l t i m o , c h e il T e v e r e
, t e n u t o c o n t o d e l l a sponda etrusca, non poteva avere una grande
posizione c o m merciale. Quando il processo dello storico non va sino al
fondamento naturale, simula le sembianze storiche, m a rimane metafisico. Si
dice, per esempio, per ispiegare alcuni fatti ed istituzioni, che tale è il
genio, tale il grado di coscienza o di pensiero in questo o quel popolo.Va
bene,ma lastoriacosièfattaa mezzo, è fatta con la sola psiche, con lo spirito
astratto, che, evulso dal fondamente naturale, diventa un fenomeno miracoloso.
proprio questo il difetto della cosi detta scuola storica. Savigny, se voleva
fare storia intera, non dovea dire soltanto che un tale o tal altro dritto è
prodotto dalla naturale coscienza giuridica del popolo ; m a doveva dimostrare
il fondamento n a turale di questa naturale coscienza giuridica. Così non
facendo, l'evoluzione rimane astratta, e le parole coscienza , genio, i n
- 57 Il fondamento che natura pone. È dole, carattere diventano
altrettante astrazioni, e,a dispetto del l'espressione naturale coscienza, la
dottrina rimane puramente metafisica . Anche Hegel – il metafisico per
antonomasia nire militare il genio di Roma, senti la necessità di salire sino
ad un quasi dato etnografico,e di stimare, secondo le tradizioni, la prima
società romana come una compagnia di ladri.E sopra questo dato giustifica la
colluvies e poi la repentina nobilitas ex virtute di Livio ; e la virtus dalla
bravura, non pure perso nale, m a collettiva, quella appunto che giustifica le
violenze ; e dalla violenza la manus, la quale si manifesta dal matrimonio, in
m a n u m conventio, sino alla patria potestas, rispetto alla quale la schiava
condizione del figlio era significata dal mancipium .
Quindi,ladurezzadellafamiglia,delloStato,delleleggi inRoma ; quindi, il
cittadino romano da una parte schiavo, dall'altra de spota, perchè della
durezza che soffriva nello Stato se ne ripa gaya nella famiglia ; e tutta
questa durezza compendiata in un assioma politico di Machiavelli, qui ripetuto
da Hegel, cioè che uno stato formato da sè e adagiato sulla forza conviene che
sia sostenuto con la forza Il corollario poi affatto hegeliano - è che tutto
ciò che derivò da tale origine e da tale Stato, non fu un convenio etico e
liberale,ma una posizione forzata di subordinazione. Un carattere romano
proprio cosi fatto non ispiegherebbe, io penso, l'origine, il valore e la
diffusione invidiata non rag giunta del dritto romano nello spazio e nel
tempo.Hegel,te nendo conto del dato naturale, non solo lo limita al puro èle
mento etnografico, ma impiccolisce anche questo, e non m o stra tener conto del
dato geografico, che è più obbiettivo del primo, e sforza il popolo romano a
farsi non solo militare, m a agricolo . Questa indole agricolo-militare, questa
appunto, fa la reli gione romana cotanto diversa dalla greca, e cosi spiacevole
ad Hegel che la chiama la religione prosastica della limitazione, - 58
per defi della corrispondenza allo scopo, la religione dell'utile.
Ed ecco, troviamo,la seconda volta,negato il genio artistico a Roma :la prima,
perchè è il popolo del diritto ; la seconda perchè è il popolo dell'utile, a
cui gli Dei giovano come i servi o come gli strumenti del campo. Hegel trova
che i romani adorano la dea pace ( pax, vacuna) e la sua contraria angeronia ;
la salute e la peste; trova che in Roma Giunone non è bianchi-braccia,ma
ossipagina, e che Giove è capitolino piuttosto che olimpico. Chiama prosaiche
queste divinità,ma nè cerca le divinità cam pestri, nè se le spiega, passando
dal campo arato allo Stato. Nell'arte - continua Hegel specialmente in
Virgilio, cre duto il poeta religioso per eccellenza, la religione è d'imita
zione,la quale porta le divinità ex marhina, non con la fan tasia e col cuore.
I giuochi stessi rimangono qualcosa di esterno, in quanto il romano è
spettatore, non attore, e non ha poeta che di propo sito li celebri : giuochi
duri e prosaici come la famiglia,lo Stato, la religione, le leggi. La somma del
discorso è E dietro questa somma del discorso si scorgono le conse guenze ,
alle quali il filosofo tedesco vuol pervenire : 1° noi dobbiamo l'origine ed il
progresso del diritto posi tivo all'intelletto non libero, privo di spirito e
di sentimento, proprio del mondo romano ; 2o che, se i romani giunsero a
distinguere il diritto dalla morale, ed a liberarlo dalla variabilità del
sentimento, concre co'romani si ebbe la prosa della vita, prosa, in
ultimo, riflessa sopra Roma proprio dal carattere italico.– Che è l'arte etru
egli può conchiudere che sca ? 59 Noi troviamo nell'arte etrusca la massima
prosa dello spirito, quanto più perfetta nella tecnica tanto più priva del
l'idealità greca : è la stessa prosa che vediamo nello svol gimento del diritto
romano e della religione romana. Que sto giudizio circa l'arte italica sarà più
tardi esagerato dal Mommsen . tandolo in alcun che di esterno e di
obbiettivo, non arrivarono a conciliarlo con la libertà e con l'intimo
dell'uomo ; 3o che però non può essere il dato supremo della sapienza.
Ben'altra parola avrà a dirsi sul diritto, quando si tratterà di connetterlo
con la libertà. Certo, un altro mondo la dirå. E già s'intravvede che questa gloria
il filosofo tedesco vuole serbarla al mondo germanico che succede al romano.
Solo due cose si vedono : che Hegel lavora sopra un dato naturale incompiuto, e
che la parte naturale soppressa è sosti tuita con rapidità magica dalla
costruzione metafisica. Noi osiamo affermare che,se il dato naturale fosse
compiuto cosi dal lato etnografico come dal geografico, il genio ed ilca
rattere di R o m a si mostrerebbero sotto altra forma. E si par rebbe che nè
assolutamente prosaico e tutto pago della esterio rità è il genio italico, nè
Roma – la severa Roma – con la rigidezza della formula giuridica riesce a
rinnegare il genio co 60 - Egli è davvero cosi? mune. # tan
CAPITOLO SETTIMO. Carattere di Roma Allora, come oggi, la metafisica mi pareva
vuota, l'avevo d e finito udenologia, ed il naturalismo mi si presentava come
il successore storico d'ogni metafisica ; m a nel farne applicazione, si volava
ancora, ed al volo bastavano poche penne in spazio illimitato, senz'aria e
senza tempo. Oggi non si vola, ma si misura il cammino, e si ha ragione di dire
ai giovani che non facciano sostituzioni estetiche alla storia, le quali poco
servono alla scienza. Espongo,adunque,ciò che intorno alcaratterediRoma pub
blicai molti anni addietro, e noto senza indulgenza i miei errori di allora,
perché molti li ripetono e non trovano più scusa. - 11: C'è un altro
modo,più metafisico di quello usato da Hegel, di costruire il carattere romano,
ed è di derivarlo non da un mezzo dato naturale, abbandonando l'altro mezzo a
discrezione della metafisica, come vedesi aver fatto il filosofo tedesco, ma di
costruirlo sopra alcuni documenti classici che si prestano alle più contrarie
interpretazioni ed a tutt'i giuochi dell'estetica applicata e della critica
letteraria. Non sarà inutile poiché questo modo,per essere il più comodo,è il
più frequente presentarne un saggio,valevolecome criticasopra me medesimo, che,
nella giovinezza, credei sostituire gli esercizii di estetica alla storia, ed
al naturalismo la subbiettiva critica letteraria. 61 Utopista scrivevoallora-
non èchisogna,machipensa, 62 e tanto più profonda è l'utopia quanto
più il pensiero coglie la relatività dei tempi. Greca è, dunque, l'origine
della utopia e utopista tipico fu Socrate che osò primo al costume civico con
trapporre alcun che d'individuale : Io Socrate sono nato a liberamente
filosafare, e, se cento volte per questo io fossi morto e rinascessi, tornerei
a filosofare. Non pena dunque mi è do vuta,ma ilPritaneo. Questo tentativo di
ribellione dell'individuo, contro il citta dino, dell'individuo che osa
pigliarsi un mandato individuale che non solo valga il mandato civile, m a
ardisca riformare il costume, questo è punito, e, in quella natura di tempi,
era ve ramente crimine di Stato. Socrate,anch'esso,come atterrito dal colpo
ch'ei tenta, sente che al cittadino è dovuta l'espiazione individuale, e
rifiuta au silio, e si apparecchia alla immolazione di sè non pure perchè sente
compiuta la sua missione e non gli piace vivere super stite a sè medesimo,ma
perché vuolegrecamente spirare:Dum patriae legibus obsequimur.Che è
quell'ultimo pensiero del gallo, che, rimosso il lenzuolo dal viso, ei vuole
sacrificato ad Escu lapio? Vuol finire sul letto del carcere come fosse ad
Anfipoli o a Potidea,e vuol morire con religione e costume attico, come a
punizione di alto trascorso individuale.L'individuo fu Socrate filosofo ; il
moribondo è l'ateniese rassegnato : m a il più grande è questo, che proprio
questo ateniese punisce quell'individuo e non glidà scampo.Pericle non potè salvare
Anassagora;So crate non vuole salvare se stesso. Come,secondo ilmito,la Sfinge,
negata di fuori, rinasce dentro Edipo, cosi, secondo la storia, lo Stato
attico, offeso di fuori, si riafferma dentro di So crate. O l'esilio di Colono
o la cicuta, è sempre l'immolazione dell'individuo alla comunanza rappresentata
dallo Stato. Quando gli Dei patrii percossi dalla riflessione socratica
su pinarono nell'Olimpo muto, Epicuro, sorridendo, gittò sopra di loro un gran
panno funereo e si rallegrò coll'uomo liberato dai divini terrori: Diffugiunt
animi terrores. Però quel panno che Epicuro gittava
sull'Olimpo,copriva tutta la Grecia; giacchè quel panno che soffocava la lotta
semi-divina, era indizio della mis sione greca già finita. Perciò Epicuro lascia
i giardini greci, le dolcezze e i profumi arcadici, e se ne viene nel Foro
romano, e siede e sentenzia e giudica e genera di sè due uomini diver sissimi,
Orazio e Lucrezio, e da Orazio poi il tipo di Munazio Planco e da Lucrezio
quello di Papiniano.Sono troppe cose che io dico insieme, delle quali molte
'non dette, m a provabili con la forma del discorso e col testimonio dei
fatti.Cicerone, vedendo Epicuro alle porte di Roma, si arma di poma soriane,
inserte in forma di fulmini, e cerca saettarlo con furore iperbolico, pro prio
nel modo onde il papato fulminava da Roma la rinascenza. Ma,come
larinascenza,malgradoifulminipapali,siaccasava in R o m a , invadeva il
Vaticano, e faceva poetare e sermoneggiare i papi con civetteria anacreontica,
cosi Epicuro spunta tra due dita i fulmini di Cicerone, come avea già spuntato
quelli del Giove greco, e, toccata appena la spalla dell'oratore romano,se lo
fa suo.Ma, appena entrato in Roma,Epicuro prende la natura del Giano latino, si
fa bifronte, ed una sua faccia è quella di Orazio,l'altradiLucrezio.Non
èmiracolo,èilsistemaepicureo che, sotto la dialettica, manifesta queste due
fronti. L'una viene adirecosi:La vitaèbreve;di là non sicontinua;dunque,
godiamola di presente. La morte cicolga,quando possiamo git tarle in faccia la scorza
del pomo soave,tutto premuto.L'altra, cosi:La vita è breve; di là non si
continua;osiamo,dunque, eternarla con un'opera degna della immortalità della
fama . Per chè tentare la gioia stolta, se nel punto di asseguirla la morte può
spegnermi ? Ecco le due fronti di Epicuro. L'una di Orazio : Vitae s u m m a
brevis nos vetat spem inchoare longam .Di là non c'è vita: Non regna vini
sortiere talis. La conseguenza che ei porge all'anima tua,è sempre una : Carpe
diem quam minimum credula postero. Illazione esprimibile con un grugnito del
porco epicureo. 63 L'altra è di Lucrezio : Omnia migrant, omnia commutat
n a tura et vertere cogit. Dalla quale migrazione eterna
dell'essere deriva il s u m m u m crede nefas. Importa sol consegnare integra
la lampada della vita alle generazioni sopravvenienti: Vitae l a m pada
tradere. Da Orazio nasce Munazio Planco,prima Cesariano, poi P o m pejano, poi
repubblicano, poi di Antonio e di Cleopatra, poi cor tigiano di Augusto e
sprezzato da tutti : tipo del galantuomo di Guicciardini ; e fini nella sua
villa di Tivoli come Guicciardini , nella solitudine di Arcetri. Da Lucrezio
nasce il tipo del giureconsulto, Papiniano, che intese il diritto come bonum
aequum, e non volle in senato di fendere un imperatore fratricida, e piuttosto
che l'onore volle lasciare la vita. Morendo, come aveva sentenziato, provvide
alla immortalità della fama, et lampada juris tradidit. Da Epicuro il mondo
romano prende il senso della positi vità, ed è però mondo di prosa, non di
arte, con missione giu ridica, con lingua giuridica, con monumenti, storia,
tradizioni giuridiche.La Grecia ci ha tramandato due insuperabili documenti, l
a t r a g e d i a e p i c a e l a t r a g e d i a f i l o s o f i c a , l ' I l
i a d e e il F e d o n e ; R o m a il Corpusjuris,con due potenti
sommarii,l'epigrafe e ilresponso. Quanto all'epigrafe, specie suggestiva di
letteratura, come direbbesi in Francia,nessun altro popolo nė lingua ha
ilquarto della maestà e rapidità dell'epigrafe latina, nata rebus agendis :
onde nazioni nordiche e neolatine e transatlantiche pigliano a n cora,e avverrà
per lungo tempo,da Roma antica l'epigrafe!e il responso. E la più bella
dell'epigrafi ha contenuto epicureo e giuridico : Et creditis esse Deos ?
64 Cosi abbiamo della medesima scuola il porcus de grege E p i curi,e de acie
Epicuri miles. Nè questo doppio tipo fu smar rito nel periodo del risorgimento,
quando dopo la scolastica pla tonica e aristotelica si riaffaccið
l'epicureismo: dall’una parte si ebbe ilPontano,cantoredellavoluttà,dall'altrailCavalcante,cer
catore austero, tra’sepolcri, dell'immortalità della fama. La
tomba, data umile a Catone, negata a Pompeo, ė superba mente elevata ad un mimo
! Se gli Dei sono ingiusti, gli Dei non sono. E le epigrafi più solenni nascondono
certa finezza d'ironia epicurea nel senso giuridico. L'epigrafe latina è
solenne, perché è breve come il responso : Questa rapidità di percezione è
dalla lingua istessa giuridica per eccellenza, imperativa e, se mi è lecito a
dire, dittatoria : onde l'epigrafe è quasi sempre responsiva, cioè di senso
giuri dico, e il responso è sempre epigrafico. E d in R o m a fu possibile il
tipo del giureconsulto, dell'uomo cioè che ha intera la percezione del dritto,
rapidamente e pro priamente la significa e sa comandarla a sè stesso prima che
agli altri. È tipo raro , tutto assorbito dalla meditazione etica, che traduce
nella parola e nel fatto. R o m a ne ebbe pochissimi che dopo quella Roma
furono comentati,non risatti; e,quando oggi odo chiamare giureconsulti alcuni legisti
che tirano a m e stiere il codice, dico che o le parole non s'intendono o sono
stravolte dall'adulazione. Quandolalingualatinacantadiamore,amepare- libero da
preoccupazioni di scuola udire il Ciclope favellare a G a latea. I romani
potean prendere le Sabine meglio con le braccia
checolcanto:manu,haudcarminibuscaptae.Non ène'carmi la missione di R o m a :
dica rapidamente il diritto, dica il fatto ; il responso e l'epigrafe, questo è
il gran contenuto della lette ratura latina, questo è suo proprio, è originale,
è collatino, oso dire : il rimanente vien di fuori e porta il mantello
peregrino. Ed ha tre uomini massimi, Lucrezio, Papiniano e Tacito. L u crezio
non ha cantato un poema, nè si dà al mondo poema di dascalico,ma ha dato
l'esposizione epicurea della natura, la cui Venus non viene da Milo,ma dal
Foro, e può somigliare ad Astrea. Papiniano ha dato il più alto responso, nel
quale è la G . B O V I O . D i s e g n o d i u n " S t o r i a d e l D i r
i t t o , e c c ., e c c . * - 65 Quidquid praecipiens, esto brevis, ut
cito dicta Percipiant animi. 5 UNIVERSITÀ DI Qurais ROMA CCHIO
Lucrezio, Papiniano e Tacito sono tre che si somigliano nella forma di
concepire e nella rapidità scolpita dell'espressione. Tacito, che segna la
decadenza e lavora come il Sisifo di L u crezio, qui semper victus tristisque
recedit, spesso ti accusa la maniera e quando è breve, quando è corto ; m a è
l'ultimo dei grandi romani . Chi cerca la grandezza del pensiero latino fuori
di questi,e vuol trovarlo o nella lirica di Orazio, ambigua, quanto alla forma,
traPindaro ed Anacreonte,e ambigua nella sostanza tra lo stoico e l'epicureo, o
trovarlo nell'epica incerta tra Vir gilio e Livio, cioè tra le reminiscenze
omeriche e le favole tra dizionali, è come chi, cercando l'anima del trecento,
invece di volgersi a Dante e a Boccaccio, la spia negli occhi estatici di
Caterina da Siena o nel cipiglio di Passavanti. In questo teatro giuridico, che
è il mondo latino, il conte nuto della lotta si trasforma e di semi-divino
diviene pienamente umano . Qui non han luogo cause per divinità. Qui Lucrezio
può vuotare il Pantheon che accoglie indifferentemente tutti gl’Iddii per
vederli indifferentemente sfatare dal sistematore della N a tura.Lucrezio morrà
non per accusa di Melito, di Anito, di Licone; norrà, se gli piace, di sua
mano, se il destino del l'uomo gli parrà troppo somigliante a quello di Sisifo.
Allora la 66 sintesi della missione latina,e lo ha suggellato, come
dovea, con la morte. L'olocausto di Socrate ci mandò la tragedia filosofica che
è greca ; l'olocausto di Papiniano ci tramanda la tragedia giuridica che è
latina. Perchè dopo il Nerone e la Messalina non tentare anche questa che è più
romana? La storia di Ta cito suona sulle rovine imminenti dello Stato latino
come la ser ventese dell'ultimo degli albigesi. Tacito è fosco come la sera
nebbiosa di una splendida giornata; è riflessivo come chi rasenta le rovine; è
triste come chi cerca una virtù che ei sa di non trovare. Perciò ei ritrae
Tiberio assai meglio che Tiziano non ritragga Filippo II,ma,dove pinge la
virtù,non è pittoremolto ispirato. È grande col pennello onde lo Spinelli
ritraeva Satana; m a , se gli dai la tavolozza di Raffaello, ei te l'annacqua
. 67 Venus genctrix gli si muterà in Venere Libitina, ed egli userà
della vita secondo quello che gli parrà suo diritto. Io non credo all'aconito;
credo suicida Lucrezio, e questo suicidio proprio di forma Romana , come quello
di Catone, cioè per jus necis etiam in sc. Questa lotta umana,iniziata,non
compiuta in Roma,questa che è tutta e sempre lotta civile dal ritiro della
plebe sull’Aven tino sino ad Augusto, qui omnium munia in se trahere coepit ;
questa epopea lutta latina, più in Livio che in Virgilio, ha due periodi
principali: l'uno'tra plebe e patriziato per una cerla equa partizione di cose
e di ufficii, e generò il tribuno, ignoto alla Grecia ; l'altro tra l'individuo
e la comunanza per una certa equa emancipazione dell'individuo, e generò
Spartaco, ignoto alla Grecia. La plebe fu vendicata da Mario,e più da Cesare,che
se op presse il tribuno,era segno che non v'era più patriziato sovrano ed
operoso.Spartaco,sopraffatto da Crasso e da Pompeo e morto nella pienezza della
sua protesta, trovò poco dopo più grande vendicatore, Cristo. Ciò significa: Il
mondo greco, cominciato religiosamente, fi nisce
nellairreligionediEpicuro;ilmondo romano,pienodella dotta irreligione di
Epicuro, finisce nel mistero cristiano. La catastrofe religiosa in Grecia è
spiegabile con la natura del pensiero, che comincia col rifermare le religioni
e finisce col dissolverle; la catastrofe della irreligione in R o m a è spie
gabile con la natura del pensiero istesso, che, se è dommatico, finisce col
divorare se stesso. Chiariremo questo vero, quando saremo innanzi al
cristianesimo. Questo vien chiaro di presente,che il contenuto giuridico in
Roma non pud porgersi come jus civile abstractum, ma come primo sentimento di
equità, onde si genera il Pretore, istitu zione profondamente etica, ignota
anche questa alla Grecia, e urbano e peregrino, e il cui fine è sempre
l'aequitas, affinchè il summum jus non si faccia summa injuria o summa
malitia. Quindi, il placito del giureconsulto nella costituzione
delle leggi : In rebus novis constituendis eviders esse debet utilitas, ne a n
i mus recedat ab eo jure, quod diu AEQUUM visum est (Fideicom . L. IV). Chiaro
è che l'equità costituisca la misura del diritto; che questa equità lungamente
saggiata, traducendosi in diritto, genera l'utile sincero; e che questo utile
debba essere evidente ai popoli nella costituzione delle leggi. Quindi
l'iniquum erat injuria. Quindi l'acquilas appo i latini non è il concetto
volgare che ci viene da Ugone Grozio : è l'assoluta, continua, ascendente
correzione del diritto civile, cioè del diritto greco ; e però cosi coloro che
veggono pura medesimezza del diritto greco e ro m a n o , quanto quegli altri
che continuano a favoleggiare intorno alla origine greca delle dodici
tavole,mostrano ignorare la diffe renza delle due storie, dei due popoli, delle
due lotte, delle due civiltà. E il testo canta chiaro : Jus praetorium
adiuvandi, vel supplendi, vel CORRIGENDI iuris civilis gratia est introductum ,
propter utilitatem publicam ... Che è quel ius civile bisognoso di correzione ?
È quello appunto che in R o m a comincia a p a rere s u m m a injuria , la cui
correzione costituisce l'istituto p r e torio,cheètutto romano,ilcuiprogramma
siassomma nella sentenza : Placuit in omnibus rebus praecipuam esse iustitiae
ac AEQUITATIS q u a m STRICTI juris rationem . Quello stretto diritto è greco,
è puramente civile, è quiritario, è aristocratico, e tra smoda nell'ingiuria, o
per violenza o per malizia, aut vi, aut fraude. Quell’aequitas è la correzione
pretoria, è la grandezza dello spirito latino, che tutto si manifesta e dimora
nella giu stizia pretoria e urbana e peregrina. E quell'aequitas deriva
dallalottaumana,cosidellaplebecontroilpatriziatocome del servo contro il
padrone. Il jus civile è il risultamento della lotta semi-divina, l'aequitas è
il prodotto della lotta civile: quella è greca,questaèlatina:quellahailsuofastigiostoricoda
So crate ad Epicuro, questa dalle dodici tavole a Spartaco : quella è lotta
filosofica, questa è giuridica : i canoni di Epicuro sono 69
l'orazione funebre all'Olimpo e però alla Grecia, la protesta di Spartaco è il
vale al superbo civis romanus.Insomma la gloria storicadiRoma
nonèildittatore,néilconsole,nèilsenato, nè il magister equitum e l'imperatore e
n e m m e n o il tribuno, è il Prelore : il suo editto è la sintesi dei
responsi; lo spirito dei responsi è l'equità ; l'equità è il prodotto della
lotta u m a n a ; questa lotta è il contenuto della civiltà latina. Hegel che
vede si addentro la cagione della rovina della repubblica romana e con Tacito
giudica vana l’uccisione di Cesare, non vede con pari intensità in quella
repubblica l'istituto pretorio e, sfuggi togli, tien conto solo della ratio
strirti juris. Tutto il diritto r o mano gli si stringe nel summum jus. Non
vide che la lotta umana era ed è l'equilà. Con questo spirito di equità torna
agevole a Tacito descri vere il tiranno, scolpirlo. Volere parendo di
rifiutare, c o m a n dare parendo di obbedire,far tuito parendo di non fure,
questo è il tipo del tiranno, questo è il Tiberio di Tacito, rispetto al quale
gli altri tiranni venuti di poi sono volgari, ubriachi,troppo scoperti e però
troppo esposti al essere tiranneggiati. Tipico é questo Tiberio in Tacito, come
Ettore in Omero, come Ugolino in Dante, come Otello in Sakespeare, e non
patiscono ritocca menti di nessuna mano : chi si attenta a rifarli, solto
qualunque altra forma,disfà. In Grecia fu possibile il sentimento del ti ranno,
in Roma il ritratto tipico,perchè in Roma è delineato il concetto dell'equità.
Tiberio non può esser veduto se non dielro il seggio del Pretore. Nè Riccardo
III, nè Arrigo VIII, nè Fi lippo II,nè Alessandro VI o Paolo IV ritrassero
Tiberio : vollero troppo, si chiarirono troppo, furono troppo tiranneggiati: ma
il tipo, spento individualmente, risorse collettivamente nella C o m pagnia di
Gesù , che per 333 anni dilargò l'oligarchia nera sulla terra, parendo di non
volere, di non comandare, di non fare. Ma e il gesuitismo tiberiano e il
cesarismo gesuitico non pos sono essere tanto chiusi,che ilpensiero e la natura
non v'entrino. Fu però equità piena,sincera, spiegata questa di Roma,si
che la si trovi tulta adempita nella ragione pretoria ? La lotta umana
di Roma diede per risultamento il diritto umano ? In somma il dirittoromano
sicontinua a studiare,a chiosare, ogni giorno in ogni paese civile, perchè effettualmente
è l'ultima parola del diritto ? L'acquilas in omnibus spectanda, quando non
voglia essere un nome,ma cosa, non un concetto,ma un sistema, non in somma
un'esigenza,ma un adempimento,bisogna che simani festi come connessione ed
equazione dei contrarii, cioè del ge nere con l'individuo, del cittadino con la
persona, affinchè ne risulti l'interezza dell'uomo.Ora, questa equazione torna
possi bile,quando l'individuo si sia affermato e contrapposto al citta dino e
abbia avuto nella storia tanto valore e tanta evoluzione quanti il cittadino se
ne prese. Senza quest'azione e reazione, o, come altri dicono, senza questa
tesi e antitesi nessun'ar monia finale e completiva, nessuna sintesi piena e
durevole, nessun equilibrio, nessuna equazione insomma è effettualmente
possibile : e, se l'equità non è questa equazione, è ancora un presentimento Se
ne deduce che Roma non poteva ancora sistemare la vera equità giuridica, perchè
l'individuo non aveva dato tutti gl'istituti che dovevano nascere di se, dalla
sua antitesi o c o n trapposizione al cittadino. Dove s'era fatta la storia
dell'indi viduo, l'autobiografia, perchè ilPretore potesse consapevale con
temperare i contrarii, connetterli, equilibrarli? Vedesi, dunque, che questa
equità è l'avvenire dellastoria,non ilpassato;spetta alla giornata travagliosa
dei posteri, non alla lotta civile di Roma.Or, dunque,è stata spuma d'acqua
sonante l'equità ro mana ? Troppo sarebbe stato il rumore ! La cosa sta in
questi termini: L'equità scientificamente in tesa spetta all'avvenire, che sarà
la sintesi del cittadino con l'individuo per costruire tutto l'uomo : l'equità
latinamente intesa fu il transilo dal cittadino all individuo per costruire
l'individuo. Il transito non è la sintesi, è il semplice avviamento dal -
70 l'uno all'altro dei contrarii, a traverso i quali si vien
costruendo l'uomo chiamato sintesi dell'universo e non divenuto ancora sintesi
di sé medesimo ! Fu larva dunque di equità: e nondimeno anche come larva quel
diritto è rimasto solenne, tipico nella storia, concetto più che presentimento
di quello che il diritto è destinato ad essere. Dunque,nellastoriailmondo
romano èl'esodo,ilpassaggio dal cittadino greco all'individuo germanico. E in
questo transito dall'uno all'altro dei contrarii consiste, chi consideri, l'universalità
dell'impero latino. Il quale perde la sua ragione di durare, quando Cristo
annunzia l'emancipa zione individuale. 71 - CAPITOLO OTTAVO.
Esame e conchiusione intorno al carattere di R o m a Come ho detto nel
capitoloprecedente,cosi me ladiscorrevo intorno al contenuto storico ed al
carattere di Roma. Alcune delle cose dette, oggi, non ripeterei; m a ne accetto
anche oggi moltissime,principalmentedue:chelalottainRoma èumana e senza neppur
l'ombra del carattere religioso; e che risulta mento precipuo della lotta umana
è l'istituto pretorio. Bastano queste due affermazioni per determinare tutto il
ca rattere della prima Roma , e dal caratlere la sua missione, la gloria,
l'universalità, la decadenza. A queste due affermazioni manca la giustificanza
storica il metodo. Perché in Roma la lotta è del tutto umana ? A questa
interrogazione, quando non si voglia dare una ri sposta astratta, come la
darebbe la scuola di Hugo e di Savi gny,cioè tal era la coscienza o ilgenio di
Roma,ci sono due modi di rispondere, l'uno metafisico, l'altro naturale. Il
primo risponde: Alla lotta semidivina dovevo succedere la lotta umana : la
prima, compiuta in Grecia, non si poteva ri p e t e r e i n R o m a . L e d u e
lotte s o n o d u e m o m e n t i d e l p e n s i e r o ; e però Epicuro passa
dalla Grecia a R o m a . Il secondo dice che questo lavorio del pensiero,
affatto in d i sparte dal fondamento naturale, spiega la storia più che
non - 72 - Quindi l'evidenza di lumeggiare la storia col
naturalismo che le traccia il metodo. Ora, il naturalismo storico attraversa
tre periodi notevoli : prima è teleologico, poi empirico, finalmente è
scientifico È teleologico, quando presuppone i fini, e i fini diventano cause,
e la natura è in gran faccenda a lavorare i mezzi per questi fini. In questo
primo periodo il naturalismo non si è li berato ancora dalla metafisica, e, se
non è essenzialmente antro pomorfico, è tale abitualmente . Questo periodo è
rappresentato da Herder, il quale è vero che presume cercare la storia degli uomini
nella storia del cielo, della terra e delle relazioni tra cielo e terra ; m a ,
presupponendo ancora i fini nella storia dell'uomo e della natura, viene
abitual mente a credere divino quel che dev'essere tutto e semplice mente
naturale, e – ciò ch'è ancora più teologico -- ad esclu dere i popoli fieri e
sanguinarii dalla possibilità di adempiere nella storia un qualche fine
provvidenziale. Che cosa sarà per Heder il cristianesimo ? — Il regno della
giustizia e della verità ! Ecco la civiltà tedesca in forma di fine
provvidenziale, che non poteva essere adempiuto dal popolo romano, perché aveva
animo tirannico e mani insanguinate. E - 73 - il genio o il carattere
astratlo, m a in ultimo riesce astratto ed enigmatico anch'esso, perché il
pensiero presuppone qualco saltro, da cui non si può divellere. È vero che
altro è il genio greco, altro il romano ; è vero che la lotta fatta in Grecia
non si può rifare a Roma ;è vero pure che Epicuro,passando dalla Grecia a
Roma,accenna alla lotta umana che succede alla lotta religiosa : ma non si vede
ancora perchè il pensiero si sia cosi determinato, e piuttosto in Italia che in
Germania , e dell'Italia piuttosto in Roma che nell'Etruria o in altra regione.
Sono, per conseguenza, da tenere in gran conto i momenti del pensiero che nè in
sè nè nella storiasi ripete mai; ma re stano momenti vuoti, astratti ed
inesplicati senza tenere in pri missimo conto il dato naturale. 74
- il genio giuridico di R o m a ? e l'universalità del dominio romano ? e la
successione storica della civiltà romana alla greca ? e l'am biente naturale di
R o m a , rispetto alla terra ed all'aria ? Tutto ciò sparisce, e restano un
fine provvidenziale il cristianesimo, e l'odio tedesco contro R o m a ,
compagnia di ladri e nel principio e nel mezzo,cosi pel genio naturalista di
Herder come per il genio metafisico di Hegel. Egli è perchè quella natura non è
libera ancora da quella metafisica. È empirico il naturalismo, quando contende
ogni investiga zione intorno agli ultimi fini e alla prima causa, e que'fini e
quella causa respinge da se come contenuto della metafisica e campo Questo
periodo è rappresentato da Comte, il quale respinge l'assoluto con troppo
assolute negazioni,come Stuart Mill negava il sistema, sistemando ; e però
l'uno si dà a cercare l'invaria bile attraverso i fenomeni naturali, e l'altro
il permanente attra verso i bisogni umani . Vanno cercando quell'assoluto che
hanno assolutamente negato. Avviene, in questa scuola de'puri senomeni,che le
catastrofi sono sostituite all'evoluzione; che il passato sarebbe assoluta
mente morto, non trasformato ; e che, come nell'ordine della successione
filosofica il positivismo annunzia la morte di tutto il contenuto metafisico,
cosi nell'ordine della successione politica ilperiodo industriale,p.e.,supporrebbeaffattospento
ilperiodo legale, come questo supporrebbe spento del tutto il periodo m i
litare.Da che sarebbe indicata la cessazione del periodo mili tare? Dalla
caduta di Roma.Ed ecco che questaRoma,o forza di ladri o di soldati, non sarebbe
stato altro che forza ! E ne il naturalismo teleologico nė l'empirico arrivano
a vedere che in quella R o m a universale la forza fu universale quanto il
diritto. - come reazione mutila il contenuto scientifico, e non si
accorge che quanto sot trae alla scienza tanto consegna alla religione. sino
dal nome metafisica, dell'inconoscibile. In questo secondo periodo il natura
lismo,aborrendo Finalmente il naturalismo storico esce dallo stato
teleologico, 75 - dallo stato empirico, e diviene scientifico sotto
queste determi nate condizioni : 1a sottraendo la statica e la dinamica so
ciale all'indeterminato delle analogie e sottomettend le al cal colo
determinato, nel quale sparisce l'uomo individuo e sorge l'uomo medio ; 2a
sottraendo il calcolo ai ritmi misteriosi o ca balistici e riducendolo alla
legge di proporzione tra causa ed ef fetto ; 3a sottraendo le cause allo
indeterminato del numero e riducendole ad una causa sola, e facendo convergere
tutti gli effetti verso un fine proporzionato alla causa medesima. Allora si
viene a veder chiaro che la statica e la dinamica sociale fanno una fisica
sociale che deriva dalla psico -fisica ; che il pensiero si traduce nella
storia con la medesima proporzione, onde procede dalla natura ; che il calcolo,
al quale sottostanno le scienze naturali, entra a dominare il mondo della
storia ; e che in ultimo l'uomo individuo,il quale sparisce innanzi all'uomo
medio, vuol dire l'arbitrio che sparisce innanzi alla libertà. Più sparisce
l'arbitrio come causa, e più si chiarisce la libertà come fine. A tutto ciò,
che è pur grande, il mondo moderno non può sottrarsi. Ha prodotto tre saggi,che
sono saggi ancora, ma che aspettano con irremovibile certezza la sistemazione
scientifica, e sono la Fisica sociale di Quetelet, la Storia dell'Incivilimento
in Inghilterra di Buckle e i Periodi politiri di Ferrari. Anch'io nel 1872 —
nel Saggio Crilico del Dritto Penale e del Fondamento etico avevo cercato
dimostrare in che ra gione si movono nel tempo storico le istituzioni avverse e
per chè il tempo stesse rispetto alla successione del pensiero come lo spazio
rispetto alla successione de'corpi; m a anche quel mio libro, come porta il
titolo, rimane saggio, ed aspetta la sistema zione scientifica che si determina
co' criterii sopra stabiliti, senza de'quali non è possibile un naturalismo
scientifico. E con questo proposito io mi sento libero da qualunque ar bitrio
individuale, da qualunque monomania di originalità so litaria ed astratta,
perchè da una parte veggo di obbedire alla ragion de'tempi e
dall'altra al genio italiano. Questo genio, o che si manifesti nello
sperimentalismo più cauto del Galileo o nel più libero idealismo di Bruno,ha
sempre ultimo fondo delle cose la natura, fuori della quale nulla vede e nulla
spiega. È però genio matematico per eccellenza, perchè ogni legge natu rale si
stringe in numero. Fu, quindi, possibile nella scuola di Galileo un Vincenzo
Viviani che faceva ciò che appena Leibnitz osava desiderare, sommettere cioè
gli atti umani alla misura, l'etica alla matematica. Risalendo i tempi,
incontravasi nella scuola di Metaponto ; discendendo, preoccupava i periodi
poli tici di Ferrari. Se è una sistemazione anche questa, perchè afferma l'evo
luzione come processo dall'omogeneo all'eterogeneo, e non con sidera che l'evoluzione
sarebbe impossibile senza la coesistenza dell'omogeneo con l'eterogeneo ?
Perchè non considera se quella che appare coesistenza immediatamente al
senso,non si faccia mediatamente connessione ? E , se cotesta connessione è
recipro cità, perchè egli non mi lascia vedere le scienze esatte nelle naturali
? Ne deriverebbe che, esclusa la possibilità di ogni ente metafisico, il suo
positivismo farebbesi naturalismo. E tanto m e glio ! Tutte le perplessità
finirebbero, e non si parlerebbe a n Spencer pose gran cura a distinguere
sė da Comte,ciò che oggi vuol dire positivismo inglese dal francese. Molte sono
le differenze notate dallo Spencer, m a fan capo ad una : che S p e n cer cre
le necessaria l'analisi psicologica, da Comte giudicata impossibile. E dietro
quest'analisi Spencer perviene a quel s a pere unificalo, sotto il principio
universale della evoluzione, che costituisce la sistemazione del positivismo.
76 Innanzi all'universalità di queste leggi non vi sono per noi i riserbi, le
oscillazioni dell'inconoscibile e del positivismo in glese ; vi sono invece
l'universalità e l'ardimento del naturalismo italiano, del quale cosi, senza
taccia di orgoglio nazionale, ra gionavo nella mia conferenza a Torino : Che
cosa manca ? Noi abbiamo affermato l'inconciliabilità tra
l'infinità della natura e il vecchio caput mortuum della teologia.Non possiamo
tornare indietro ; e le perplessità del positivismo sono sdegnate dal
naturalismo italiano. La parola stessa positivismo per noi è un equivoco :
scientificamente ci suona semplice reazione alla metafisica, e moralmente dice
negazione di ogni elevato ideale. La parola è sciupata. Il naturalismo dura
quanto la natura, ed è proprio nelle nostre tradizioni, nel nostro indirizzo e
nel n o stro genio. Non temo le conseguenze : la Verità e la Libertà sono, in
fondo, una medesima natura (1). Dietro questi criterii, tenuto conto non di uno
o due , m a dei precipui elementi naturali ch'entrano nella storia primitiva di
Roma e che possono essere determinati come i faltori elemen tari
dell'incivilimento romano, ne risulta che l'indole violenta ed il costume
erratico de'primi congregati devono essere dal vasto campo costretti a farsi
agricoli, e che il prodotto di questi due fattori, la violenza e
l'agricoltura,doveva essere il genio m i litare di R o m a . E militari si
annunziano il primo re, le prime istituzioni,iprimi fatti che aprono lastoria
di Roma,come mi litare la postura della città istessi, ottima delle posizioni
stratc giche in tutlo il Lazio. Or,dato un popolo agricolo e militare,un
popolo,cioè,che (1) G. Bovio : Il naturalismo. Torino, Roux e Favale,
1882. -77 - vora dell'assolutamente inconoscibile, campo tetro,in cui
possono rientrare tutti i vecchi pregiudizi, tutt'i terrori infantili e tutte
le senili speranze sfatate dal naturalismo italiano. Diritto, ardito, impavido
è l'ingegno nostro : è Colombo che, se ha da guardare verso l'America, non
riguarda la Spagna ; è Galileo che, se s'in china, non nega il moto ; è Bruno
che, se ode la sentenza, non disdice l'infinità della natura ; è Cardano che ha
più timore di smentire il proprio oroscopo, che di morire. Cosi pensa e cosi
vuole : italianamente volere è come il supremo fato storico. 78
stabilisca il mio e il tuo e con la forza faccia rispettare il li mite,quale
sarà la risultante di queste attitudini,quale lamis sione o il destino di
questo popolo ? È già evidente : sarà u n popolo giuridico per eccellenza, il
popolo del diritto. Cosi va : la violenza e l'agricoltura fanno un popolo
militare; l'agricoltura e la milizia fanno un popolo giuridico. La violenza
temperata dall'agricoltura diventa milizia, a c u stodia del proprio c a m p o
; la milizia raddolcita dall'agricoltura diventa forza di equità. Cosi si
scoprono i primi naturali fattori del genio romano : non forza contro il
diritto (barbarie); non diritto contro la forza (decadenza ); m a diritto e
sorza (civiltà giuridica ). N o n basta dire il m o n d o greco fu della
scienza e dell'arte, ilmondolatinofudeldirittoedelgoverno,ma bisognasapere
perchè fu cosi. Allora occorre vedere non solo la successione cronologica delle
idee e delle civiltà, m a indagare i naturali fattori che dispongono una
nazione,piuttosto che un'altra, ad una deterninata civiltà, e proprio quella e
non altra nazione. E per convincersi che quello fu davvero il genio di Roma e
quelli i fattori dello incivilimento romano,gli studiosi rivolgano a sè m e
desimi alcune domande.Eccole ordinatamente: 1 . ° Q u a l e f u , i n g e n e r
a l e , l ' i n d o l e d e ' p o p o l i i t a l i c i, e q u a l e tra le
genti italiche la postura di Roina ? 2. Quali i rapporti tra gli agricoltori e
quale il costume ? 4. Perchè fu tenace il costume e lento in R o m a l'accu
mularsi della ricchezza ? 5.9 Perchè gl'idillii greci in R o m a diventano
georgiche, come le cosmogonie diventano poemi della natura, ed in qual conto R
o m a ebbe gli scrittori de re rustica e le divinità c a m pestri ? 6."
Qual'è la forina più latina del pensiero latino ? 7.* È vero, in ultimo, che
quel pensiero e quella forma — 3. Che cosa più occorre, quando questi
rapporti e questo costume si elevano a missione giuridica ?
sostanza e modo di un mondo affatto prosaico alito di arte? - non hanno
Se ciascuna di queste domande non avesse in sè molta im portanza, tutte insieme
parrebbero da fanciullo per la loro di sparatezza, mentre, per la loro intima
connessione, posson fare una sola domanda. E l'ordine delle risposte può far
bastare una pagina, dove occorrerebbe un volume. Le genti italiche – per
quell'armonia di facoltà, della quale abbiamo sopra toccato l'origine portano
in ogni cosa che pensano e che fanno,non solo un senso finissimo di arte,m a g
giore dove meno appare,ma quella che chiamano nota giusta ed è espressione di
senso pratico, che, in fondo, è senso poli tico.E dico senso non per traslato
nè per uso di linguaggio co mune,ma proprio nel sensopiùitalianamente
scientifico,perchè intelletto e volontà sono evoluzioni del senso (1). Quindi
sono popoli che hanno meglio equilibrati gli ordina menti politici, e più
disciplinati gli ordinamenti giuridici e m i litari. R o m a , e per i fattori
del suo genio e perchè posta nel cuore della penisola,veniva naturalmente a
concentrare tutto il genio italico e a dargli quella espansione che può
raggiare da una città nel medesimo tempo giuridica e militare. Il genio di
Roma,insomma,traperl'origine e per la postura è nelle con (1) Non sarà inutile
ricordare ciò che scrissi nel citato discorso sul n a turalismoap.19:
Ilsensoeraumiliatoedepressodaduepresupposti: che lo avevamo comune con le bestie
e coi zoofiti; e che la ragione p o teva far senza di esso, come l'anima senza
del corpo. Presupposti, come è chiaro, della vecchia psicologia metafisica,
esagerati dalla scolastica, raffi nati dall'idealismo più recente. Il senso che
si osserva,e che si sente,si alza,si riabiliti e testimonia e scrive di sè
stesso : Il senso avverte il fatto naturale, il movimento del fatto e in ogni
fatto la coesistenza dei contrarii, per es., identità e differenza, genere ed
individuo, comune e proprio. Il senso avverte sè,ilmovimento da cui deriva e in
cui si deriva,ed in sè la connessione dei contrarii, per es., infinito e
finilo, causa ed effetto, necessità e libertà. Il senso avrerte la
79 dizioni più naturali per concentrare ed espandere il genio ita
liano. E ne'popoli agricoli, più che ne'commercianti,sorge schietto il
sentimento del diritto e poi dell'equità, perchè più semplici tra gli
agricoltori, che non tra'commercianti,sorgono i rapporti sociali. E , sorti,
trovano subito stabilità nel costume e certezza nelle forme, come stabile e
certa è la terra, sulla quale e per la quale l'agricoltore vive, come certo e
stabile il limite del colto. E da questa medesima stabilità e certezza, la
tenacità del costume e la rigidezza avversa ai subiti e pericolosi guadagni del
commercio . Però in R o m a fu lento l'accumularsi della ric chezza e ancora
più lento il contagio del lusso. Se poi questi rapporti e questo costume,
ne'quali si accentra il genio di tutto un paese, sono destinati ad elevarsi a
missione giuridica, ciò che più occorre per tradurla in atto cotesta m i s
sione segnatamente in mezzo ad un mondo barbaro è la forza. Perciò una grande
missione giuridica, la quale non sia militare nel medesimo tempo,è
un'astrazione da missionarj,come una gloriosa missione militare che insieme non
sia giuridica e non si ordini a qualche alto fine civile, è un'astrazione da
nar ratori ciclici. Il dominio di R o m a è pari alla forza, e l'uno e l'altra
sono pari al concetto ed alla missione giuridica. Quindi, propria tendenza a
trasmutare ilfatto naturale in fatto storico, a insi nuare nella storia il
proprio moto e a determinare il fine del moto sto rico nell'equilibrio dei
contrarii, per es.,persona e Stato, lavoro e pro dotto, dovere e dritto. Volete
questi diversi gradi del sentire chiamarli senso,intelletto e vo lontà ?
Ritragga il linguaggio con queste parole questa distinzione di gradi, ma
distinzione di gradi, non separazione di facoltà: distinzione di gradi nella
evoluzione del senso,come ilsenso è dellanatura,non tante ipostasi di tante
facoltà.Come l'evoluzione delle forze chimiche perviene sino al l'organismo e
dell'organismo sino alla vita e della vita sino al senso,così l'evoluzione del
senso sino all'intelletto e alla volontà. Nessuna ragione, m a il solo pregiudizio
può condurci a moltiplicare i principii e le leggi. 80 col
crescere e determinarsi del concetto giuridico si giustifica l'egemonia di Roma
sopra tutto il mondo mediterraneo, e con la coscienza che Roma desta del
medesimo concetto negli altri popoli, si spiega il testamentu di Augusto in
Tacito : Addiderat consilium coercendi intra terminos imperii. Quindi , si
spiega perchè in R o m a ,mentre tutto è militare e la procedura giuridica non
si scompagna dalla lancia, tutte le distinzioni civili e politiche sono
derivate dalla terra. È patrizio chi possiede terra ed il segreto de'diritti
inerenti al dominio ; sono clienti, colientes,quelli che coltivano il campo del
patrizio; plebei, quelli che coltivano e costumano vivere sul proprio campo ;
proletarii, quelli che non hanno campo, fuori del quale non c'è avere. E si
ponga mente a questo, che nel cliente c'è la radice del colono ; che ne'
rapporti tra cliente e patrono è adombrata la prima tradizione feudale, che non
si è interrotta mai nella storiadelmondo;cheilclienteècittadino,ma non saclasse
di cittadini; e che in ciò principalmente si distingue dal servo che nè è
persona, nè cittadino, nè fa classe di cittadini. Agraria è principalmente la
lotta tra le parti in R o m a ; agraria l'origine del dominio bonitario ;
agrario il fondamento del censo ; agrarie le leggi provocatrici de'più grandi
dissidii e di radicali riforme negli ordinamenti politici e civili di R o m a .
L'evoluzione dello spirito romano porta sempre questa impronta del principale
fattore del suo genio. Tra la legge licinia e la legge sempronia c'era sempre
sull'agro pubblico tesa una corda, che, tocca, consuonava con l'animo romano .
Campestri da Saturno al Dio Termine sono le deità indigene
diRoma;ilcampoaratoèara;proarispugnare inanticoè difendere il campo ; e da un
fanciullo uscito dall'aratro impara rono l'arte degli aruspici, di gran momento
nel cominciare le imprese civili e militari.Censorino scrive$ 4:Nec non in agro
Tarquiniensi puer dicitur exar atus, nomine Tages, qui disci plinam cecinerit
extispicii.– Anche negati gli aborigeni,restano gl’Iddii autoctoni che si
piacevano di riti e canti campestri e 6 – G. B Vic.Disegno di una Storia del
Diritto,ecc.,ecc. - 81 82 da'campi mandaron voce ad Ercole di
preferire le offerte di lampade accese ai sacrifizj umani. Gli Dei che dal
primo anno urbe condita sino alla prima dittatura perpetua entrano in R o m a
insieme co'popoli vinti, sono costretti ad entrare anch'essi in servigio del
vincitore, dal quale assumono forma e costume. La Giunone di Grecia non è
quella de'Latini,nè il Giove di Atene è quello di Roma. Quando non più assumono
il costume del vincitore, non sono più adorati. Ma nė per numi peregrini nè
indigeni c'è mai guerra tra i popoli latini, né dissidio civile, nè giudizio
per divinità. L'aco nito di Lucrezio - se mai fu provato - non somiglia alla
cicuta di Socrate : non ci fu accusa, da che i dotti di R o m a sentirono che
il poema della natura era l'espressione più vera del senti mento contemporaneo.
In Roma gli Dei sono piuttosto per l'uomo,che l'uomo per gli Dei, i quali più
si allontanano come più si determina il sentimento del diritto, che ha dato
alla lotta romana principalmente l'impronta agraria. — E l'ager romanus da
prima determina le tribù, le quali sono non solo personali, m a locali secondo
la partizione dell'agro. Nell'arte non si smentisce questo elemento precipuo
del genio romano, anzi vi si determina e spiega. Se l'idillio greco entra in R
o m a , si fa georgica, le quali Di patrii, Indigetes det tano ad alto fine :
Quid faciat laetas segetes, quo sidere terram Vertere,... ulnisque adjungere
vites Conveniat. Aureus hanc vitam in terris Saturnus agebat.
Ma,seèvero,comesentiHegel,chegliDeidiVirgilio ven gon giù dalla macchina, in
queste georgiche la macchina è più visibile: mostrano abbastanza che vengono
dopo il poema della natura, e che secondo leggi schiettamente naturali la terra
vuol essere pulsata. E l'arte romana non ha nulla di più perfetto di
83 questo poema della natura e di questa applicazione che delle leggi
naturali si fa nelle georgiche, poema agrario. Celebrati, dopo questi, sono
scriptores rei rusticae et Gromatici veteres, per la tradizionale venerazione
della coltivazione e della misura dell'agro: tra'primi M. Porcio Catone,
Varrone e Colunella ; tra'secondi Sesto Giulio Frontino, Aggeno Urbico, Igino.
Humana ante oculos foede cum vitajaceret In terris oppressa gravi sub
relligione Primum Grajus homo mortaleis tollere contra Est oculos
ausus,primusque obsistere contra (2). Ed è chiaro:sarà questo in Roma il
contenuto filosofico:lo stoicismo non sarà che di reminiscenze, e l'eclettismo,
di s c m plice erudizione. Quinto Sestio,stoico più che eclettico, non saprà
parlare di Giove che con un motto sarcastico, tramanda toci da Seneca : Iovem
plus non posse, quam bonum virum ; a Cicerone, eclettico più che stoico, morto
otto anni dopo L u crezio, non saprà ammettere l'esistenza degli Dei che in via
di sempliceopinione:Deosessenaturaopinamur.E idottisinno quanto questo
opinatore magno, come Cicerone chiama sè stesso, confidi nelle sue opinioni
teoretiche e teologiche. Intravedesi E la filosofia? Dove sviluppato è il
sentimento del diritto, e per questo appunto la lotta si fa tutta umana e
principalmente agraria, gli Dei, a breve andare,si allontanano dalla scena.Epi
curo occupa Roma è il suo campo naturale e Amafinio pubblicamente lo insegna in
buona prosa latina come Lucrezio lo espone in versi mormorati a lui dalla
natura ch'ei canta : Perchè ? (1)Lib.3. Te sequor, o Graiae gentis decus, inque
tuis nunc Fixa pedum pono pressis vestigia signis (1): (2)Lib.1. 84
che la macchina teurgica non manca a Cicerone che prelude ai politici di razza
latina, invocando gli Dei piuttosto a rincalzo dello Stato che a fondamento di
religione. Ma sopra tutt'i poemi e tutte le prose latine l'epigrafe mi parve
sempre la più latina forma del pensiero latino. Versi e prose se ne scrivono in
ogni lingua, più o meno classica,e morta e viva; ma l'epigrafe, che non è nè
prosa nè verso, non mi parve mai vera in altra forma fuor della latina. N'è
prova il fatto costante: sempre che si voglia far vivo un pensiero sopra una
pietra e quasi comandarlo alla memoria degli uomini,lo si fa latinamente. E
,perchè il pensiero trovi equazione con la forma, bisogna che abbia alcun che
di universale e d'importanza umana : una epigrase latina, oggi, sulla tomba di
una giovinetta, di un fanciullo, di un uomo oscuro, accusa gli eleganti ozii di
un pe dante, anche quando egli riesca alla pietosa eleganza di Antonio Epicuro,
che gemeva in latino del cinquecento, e in dotte a n titesi, la sostituzione
della morte alle nozze. Nam tibidumquevirum,tedas,thalamumqueparabam, Funera et
inferias anxius ecce paro. Anche il nostro Settembrini, che avea gusto
finissimo del bello,silasciòingannaredalsingultoin antitesieleganti,enon seppe
distinguere tra l'epigrafe dotta e l'epigrafe latina. È vano sfatare l'epigrafe
: sempre che si voglia dire con ef ficace brevità un pensiero universale o un
fatto d'importanza universale, si dirà epigraficamente e latinamente.In altra
forma e lingua apparirà lo sforzo, anche coperto dalla maestria del Giordani
che sopra Colombo e Machiavelli scrisse le epigrafi meno incomportevoli. Noterò
breve la ragione di questo fenomeno letterario. Quando si dice la lingua
latina, imperatoria, ellittica, essere percið epigrafica, il discorso rimane
all'esterno; e però viene a dire che la lingua latina è epigrafica, perchè è.–
L'intimo è che il pensiero latino — giuridico Si dirà, per
afferrare transiti dove sfuggono, che l'epigrafe è il passaggio dal verso alla
prosa,dalla fantasia alla riflessione, e tiene però dell'una e dell'altra. No :
l'epigrafe esprime il sommo della riflessione, perchè determina ciò che in una
gene razione c'è di più universale, o come pensiero o come senti m e n t o , e
l o s t r i n g e s o t t o n o n il n u m e r o d e ' p i e d i o d e l l e s
i l l a b e , ma delle parole,ed ha però forma egualmente discosta dal metro
poetico e dalla licenza prosastica. Chi consideri come l'universalità del
dirittosi determina nella precisione massima della parola, scopre subito
l'equazione tra il responso e l'epigrafe, e conchiude senza peritanza, che, ri
spetto al genio romano, sono di eguale importanza il corpus iuris e il corpus
inscriptionum latinarum . Tutte le regole di Morcelli de stylo inscriptionum
fanno la rettorica epigrafica, la più fatua melensaggine letteraria. Al g e
suita mancava il pensiero. Intanto questa indole epigrafica di R o m a, che
riappare da ogni carta e da ogni pietra,in ogni parola e in ogni lettera latina,
questa appunto per la sua espressione nuda e severa ha fatto dire che il genio
di R o m a non ha nulla di artistico. Quel che di fluido e più abbondante
s'incontra nella letteratura latina, è greco. Per gli odiatori del nome romano,
Roma è la città della forza; per i più benevoli, è la città del di ritto; per
gli uni e per gli altri il genio romano è meno estetico del cinese.
Conchiudiamo questo capitolo, esaminando questa affermazione. Che il mondo
romano sia stato poetico davvero, come fu la Grecia, e come la nostra
rinascenza greco-latina da Dante in poi, non si può dire, si perchè nell'arte
di R o m a non troviamo l'individuazione de'caratteri poetici, e si perchè il
canto vera 85 è universale, imperatorio, categorico. Per cosa ingiusta e
con parole indecise non c'è forza di comando.Perciò ripeto che inRoma
ilresponso è epigrafico, l'epigrafe è responsiva. . mente poetico
non si leva mai solo in un popolo, ma in un pe riodo in cui gli vengono
successivamente compagne le altre arti: lapittura,lascultura,lamusica,l'architettura.Non
c'èragione, perchè, una volta accesa la fantasia di un popolo, si debba tutta e
solamente stringere ne'metri poetici e non cercarsi il ritmo nelle altri arti:
c'è invece la ragione contraria, che, nato il canto, si presentano l'una dopo
l'altra tutte le altre forme della individuazione poeticil. I caratteri poetici
migrano per le diverse forme dell'arte, finchè si adagino nella forma più
propria, dalla quale sdegnano essere rimossi. Così il Giove di Omero passa in
Fidia,e ilgiudizio di Dante in Michelangiolo. Ma,se ilmondo romano non è
poetico, nel senso estetico della parola, è nondi meno artistico in grado
inimitabile, perché non neglige la forma dietro la ricerca di un contenuto
informe, ma la cerca in equa zione perfetta col contenuto, anzi dal contenuto
si studia deri varla, perchè sente che un pensiero che si deterinina,
facendosi, si crea determinatamente la sua forma. Il contenuto, la sostanza
propria del pensiero latino è il diritto, il quale in Roma si connatura con la
forma romana, come il Giove greco con la forma greca. La parola del giure
consulto latino scolpisce come la subbia di Fidia. Come da quella subbia esce
il sopracciglio cuncta movens, cosi da quella parola erompe l'imperativo
giuridico. Or, questa perfetta equazione tra pensiero e forma, tra l'im
perativo giuridico e il grammaticale, tra l'imperio concitato e la forma
ellittica, quasi tronca, onde Leibnitz, dopo gli assiomi de'geometri, niente
vede più certo de' responsi latini, questa appunto è intensamente artistica. Il
giureconsulto non è il poeta, è l'artista del diritto. 86 E per provare
col fatto, io ben ricordo che la lex XII T a bularum fu chiamata carmen
necessarium , e, cresciuta l'equità, -orrendocarme;chequesto carme fugiudicato
un severopoema, ricco d'immaginazione e a desinenze quasi ritmiche; che fu
salto imparare a coro da'fanciulli; che Cicerone ne parla con
quell'entusiasmo (1),onde iGreci ricordavano l'Iliade; che i R o mani
derivavano più onore dalle XII tavole,che non dalle guerre puniche ; m a so
pure che la voce carmen presso i latini ha si gnificato assai più largo che
poesis, e mi baderò dal definire poema di qualsivoglia natura il carmen
necessarium . Ma ag giungo subito che in queste medesime tavole si manifesta il
genio artistico del legislatore romano, per una mirabile equa zione tra
contenuto e forma, la quale ferma e stabilisce quelle tavole come tipo di tutta
la legislazione romana, e le fa perenni nel culto di quel popolo togato e
armato. Al primo sguardo sulla tavola prima si legge: SI IN IUS VOCAT,NI
IT,ANTESTETOR ;IGITUR EM CAPITO. Non un articolo, nè un pronome in caso reito ;
due impera tivi in cadenza, e tra'due, come a temperarne la durezza,l'igi tur,
che presume parere la razionalità ed è la semplicità pri mitiva della
legge.Ogni legge scritta è igilur in sè medesima, è il corollario
particolareggiato di un principio generale e di una applicazione sottintesi ; e
però l'igitur espresso non è trovabile fuor della semplicità infantile della
legge. Basta averlo trovato in prima, e non pare che vi s'incontri due
volte.Hegel direbbe che questa procedura non solo insita nella legge m a
soverchiante, ed a cadenze d'imperativi della specie di capito, ricorda troppo
la manus.Due cose sono da rispondere:l’una,che laprocedura molta e stabile,
diffusa in tutte la dodici tavole, anche nelle due ultime che Cicerone chiama
inique (duadus tabulis iniquarum (1) Per Livio è fonte ; per Tacito è fine; per
entrambi è corpo del diritto : quindi, fons publici privatique juris in Livio ;
finis aequi juris in Tacito ;corpus omnis romani juris ne'due storici e
ne'giureconsulti. Ma più se n'esalta Cicerone nel De Oratore : Fremant omnes
licet, dicam quod sentio.E dirà,giurando per Ercole,che ilsolo libretto delle
dodici tavole per peso di autorità e di utilità avanza di assai le biblioteche
di tutt'ifilosofi.Questo unus libellus era l'Iliade de'Romani. 87
legum additis), svelano l'indole di un popolo agricolo; l'altra, che
tutta questa procedura primitiva, che è o la forza o simbo leggiata dalla forza,
in R o m a è sempre in servigio di un diritto che determina un rapporto tra gli
ordini noverati sopra, o tra due del medesimo ordine rispetto ad una medesima
cosa. REM UBI PAGUNT,ORATO, Qui, nelle dodici tavole, é evidente, è propria,
sto per dire, è bella : certo, come legge, questa evidenza epigrafica non è s o
l o il s o m m o d e l l a b r e v i t à , m a d e l l ' a r t e . F u o r i d
e l l a l e g g e , i n Tacito, assai volte la brevità perde l'evidenza e
diventa cortezza, l'arte si svela e si fa sforzo, e l'oscurità della frase
indica l'o scurità de' tempi e l'animo oscuro di chi si trova solo in mezzo a
que' tempi. Bella ancora nelle XII Tavole la seguente procedura che sta bilisce
equazione tra l'esrcizio della legge e del Sole : SOL OCCASUS SUPREMA TEMPESTAS
ESTO. Tutt'i verbi trovansi all'imperativo, e l'imperativo nel rit mo,ma più di
frequente questo verbo essere, come se l'essere in Roma questo dovesse
significare principalmente: l'impera tivo giuridico. Parrebbe ai meno accorti
soverchia la parola rem innanzi a pagunt : la levino e sarà come levata la
parola inducias innanzi al pepigit di Livio. Le parole in quelle tavole sono
numerate 88 Notinsi intanto l'evidenza nella brevità epigrafica, la
rapidità del comando, la risolutezza della procedura. Non si saprebbe quale
parola o monosillabo levare od aggiungere . È il getto di un pensiero
giuridico, nato insieme diritto e procedura, impera tivo nella essenza e nel
modo,ritmico senza esser verso, arti stico senza nulla di poetico. Notisi in
questa ilmaximum della breviloquenza: si come nelle epigrafi, e risermano, con
l'esempio, la dottrina espo sta intorno al genio di Roma . L'arte della
legge,propria dello spirito romano, si annun zia sin da queste dodici tavole; e
i primi ed i,secondi decem viri furono artisti. Coloro che anche in queste
dodici tavole vollero vedere Atene, ed una legazione uscita romana e tornata
attica, ed Ermodoro esule d'Efeso primo glossatore, e dietro le dodici tavole
la statua di Ermodoro, furono confutati da Vico, e la confutazione fu di quelle
che non ammettono replica. Non solo nella essenza delle dodici tavole c'è lo
spirito originario di Roma,ma c'è ilgetto del pensieronellaforma.Le
dodicitavole in greco suonano come l'Iliade in latino:chi sotto la forma indi gena
non sente il pensiero esotico, è sordo ad ogni risposta di Cirra . Le dodici
tavole,come forma,svelano ilgenio diRoma,mi rabile nella concezione ed
espressione della legge, mirabile per quella equazione in che dimora l'arte di
una qualunque disci plina; come fine, svelano un'altra equazione che è tutto il
dise gno di un popolo giuridico:summis infimisque iura aequare; come origine,
svelano la prima equità nella notizia del diritto, la promulgatio . La
promulgatio accenna il transito dal s u m m u n ius all'ae quum bonum in un
popolo che ha congenito il sentimento del diritto e lo sente e lo celebra come
sua missione. Il Tribuno, provocando la promulgalio, astringerà il diritto
consuetudinario e il quiritario a fissarsi sulle tavole; il Pretore, secondo i casi
particolari, tradurrà il diritto scritto nell’equità
naturale;ilGiureconsultotradurrà l'equità nelle regole uni versali di ragione.
Il Tribuno sorge una generazione dopo ilregifugium ed una generazione prima
delle dodici tavole : e, sorto tra queste due generazioni, significa, con la
sua presenza, che, mutala forma di governo, si è mutato lo spirito di una
nazione. Il Pretore, non quello semplicemente da prae ire, m a quello appellato
urbanus, Considerata l'origine del Tribuno, e i due primi, Giunio
Bruto (forse nipote del primo) e Sicinio Belluto, tra patriziato e plebe ;
considerati nel Tribuno il vus auxilii, il ius interces sionis e il veto ;
considerata l'inviolabilità, ond’ era sacra la per sona del Tribuno, ed il
violatore era caput Jovi sacrum ; fu detto che il Tribuno è un tipo affatio
italico, e del tutto italica l'istituzione del Tribunato. Doveva dirsi invece
che il Tribuno, il Pretore ed il Giureconsulto sono tre grandi momenti
dell'equità romana ;e tre risultamenti memorabili della lotta umana ed agraria
tra patrizio e plebe sono la promulgatio, l'editto ed il responso. E qui due
considerazioni : la prima, come risultamento della lotta romana sono il
Tribuno, il Pretore ed il Giureconsulto, tali hanno ad essere le dodici tavole,
e tutte le leggi che da quelle promanano ; l'altra, che chi credesse ancora
tutto e solo della forza questo mondo di Roma, dovrebbe correggersi innanzi al
Tribunato, al Pretorio ed al responso. In R o m a , desto il sentimento
dell'equità, fondamento p e renne della lotta umana che si agita in tutti i
tempi di Roma, si desta insieme l'accorgimento politico, onde il patriziato
cerca prevenire gli strappi e capitanare le riforme che non può nè respingere
nè fermare :quindi, è possibile vedere da una parte la lotta agraria, le guerre
servili, la guerra sociale e la guerra gladiatoria, dall'altra Spurio Cassio,
patrizio, giustificare col suo sangue la prima legge agraria, F. Camillo,
patrizio, giustificare l'equità pubblica, presentandosi primo pretore accanto
al tempio votatoallaConcordia,EmilioPapiniano,patrizio,portareil re 90
quod in urbe ius redderet,venne tre generazioni dopo la pro mulgazione delle
dodici tavole, perchè dopo tre strappi fu m e stieri di chi piegasse la legge
scritta verso la naturale equità. Il Giureconsulto accompagna tutti i tempi del
diritto, m a domina l'imperatore e lo Stato, il mondo di allora e i secoli
posteriori, quando libera l'equità dallo editto e la incarna in pronunziati
universali.Quindi,più dileguasiilTribuno,più scende ilPretore, e più grandeggia
il Giureconsulto. Sempre che gli uomini pronunzieranno questa
parola « EQUI TÀ », la quale, in fondo, è libertà, ed è l'alto fine della
storia, si ripresenteranno alla memoria di tutti il Tribuno, il Pretore, il
Giureconsulto, il primo a promuoverla, il secondo a specifi carla, il terzo ad
universaleggiarla. (1) Mi occorse nel 1881 rispondere ad alcune parole del
Cancelliere del l'Impero tedesco ripetute nel Senato italiano, e pubblicai
subitamente le parole che seguono per provare che non si hanno a chiamare
concessioni quelli che nella storia sono strappi. Riconosco, nella calma dello
scrittojo, la concitazione di alcune frasi che potrebbero alterare il senso
positivo dellastoria,ma ilfondo rimane vero,epiùveroancora,chelapoliticafine dell'antico
Senato oggi non può trovare imitatori nè in Germania, nè in Italia,nè in
Francia.Ecco,intanto,le parole di allora: Giova ripetere il senso delle parole
di Bismarck , ripetuto già nel Senato italiano, per mettere sotto gli occhi del
principe tedesco e de' senatori italiani alcune verità storiche, alcune leggi e
certi nomi che non dovreb bero essere mai dimenticati da'prudenti che presumono
condurre gli Stati, lontani dai partiti estremi, e li trascinano fuori delle
leggi storiche. Il Cancelliere ha detto : Da venti anni alla sommità dello
Stato, ho potuto osservare che gli Stati,passando di una in altra concessione,
pas sano dalla forma monarchica alla repubblicana. Il Senato ha detto : Le
troppe concessioni al diritto di suffragio conducono al Senato elettivo. L'uno
preoccupavasi della corona, gli altri della propria istituzione. Hanno ragione
e torto. Ragione,perchè,passando di diritto in diritto,si perviene fatalmente
alla sovranità nazionale senza delegazione, e a tutti gli ufficii per elezione.
Torto,perchè non sono concessioni glistrappi.– Idirittifuronostrappati sempre
dai popoli agli Stati, dalla scienza alla storia, non concessi mai. Si può dire
al pensiero : « non conchiudere »,se la premessa è posta ? Si può dire alla
storia:« non gravitare »,se l'impulso è dato? Idivieti dello Stato non
fermeranno la storia, come i divieti del sacerdozio non fermarono ilpensiero.
Vo'mettere sottogliocchidelcancellieretedescoedeisenatoriitaliani quattro
secoli di storia dell'antico senato romano, cioè la rapida succes sione
democratica di quattordici generazioni, dal 260 di Roma al 684, af 91 .
sponso sopra l'imperatore Caracalla e per il responso lasciare la vita, come
già Spuso Carisio per la legge agraria sulla rupe Tarpea (1). I
Tribuni, i Pretorie i Giureconsulti , venuti dopo di quelli, arrivarono in
ritardo, perchè altro ai tempi nostri è il contenuto dell'equità, altro il
metodo, altri ne sono i rap presentanti. Ora questo è chiaro : mentre da
Papirio a Papiniano si svolge il tipo del giureconsulto,non appariscono in Roma
scrittori po litici. In Tacito comincia, declinando lo Stato, ad apparire la
finchè si accorgano che gli strappi non sono concessioni e che la gravita zione
storica è continua. Sino all'anno 260 di R o m a che è la plebe rispetto al patriziato
? II senato, le cariche religiose e civili, il comando degli eserciti, il
dominio ne' comizii curiati e centuriati, tutto è dei patrizii. Il plebeo che
non può campar la vita dal ricolto o col magro bottino,è destinato a diventar d
e bitore del patrizio, ad essergli venduto per aes et libram, a farglişi nexus
o addictus. Ciònonèlungamentecomportevole. Iplebeisiritiranoinarmisul
l'Aventino e ottengono due magistrati proprii, i tribuni. Iltribuno nacque come
re:sacroecoldrittodiveto.Ilvetofu tri bunizio e destinato a farsi regio, perchè
allora doveva essere limite all'ari stocrazia, oggi alla democrazia.
L'attentato alla vita del tribuno era cri mine capitale.La formula è in
Livio:Caput Jovi sacrum. Il veto e l'inviolabilità del tribuno furono concessioni
? I costretti vol lero parere e chiamarsi provvidenti. Una generazione appresso
(anno 292diRoma)laplebefaintendereche non vale un magistrato proprio senza una
legge comune e spiegata.Quindi, la mezza generazione che corre dal 292 al 303,è
occupata da due decem virati, destinati alla compilazione delle dodici tavole,
ispirate alla triplice necessità:promulgatio;libertasaequanda ;provocatio ad
popolum.Ecco, la legge è scritta, è promulgata, non è più un segreto patrizio
che erompe, come responso,dall'atrium,è aperta la viadelpontificatomassimo ad
un plebeo,a Tiberio Coruncanio. Fu concessione ? Tacito accenna neque
decemviralis potestas ultra biennium ,e Livio spiega quanta plebe in armi è
dietro Virginio e quanta se ne accampa sul monte Sacro. L’impulso è dato, la
gravitazione è in ragion diretta della massa. Nel medesimo anno 305, in che
precipita il decemvirato, la tegge delle dodici Fu concessione o strappo
? 92 93 politica ; m a lo storico prevale anche in Tacito, perchè
siamo ancora discosti dalla catastrofe. tavole è sorpassata dalla legge Valeria
Orazia. Iplebisciti,proclamati ob bligatori per tutti,obbligano ilSenato.La
formula è in Livio: Ut,quod tributim plebesjussisset,populum teneret. La
conseguenza è immediata : una plebe legislatrice può imparentare col
patriziato. Ed ecco Canulejo tribuno, quattro anni dopo,nel 309 di Roma,
sorpassa la seconda volta le dodici tavole,spezza iriparitralecaste,pro clama
il connubium patrum et plebis, incrocia, confonde, mescola i ceti. Concessione
niente,fu sedizione audace e flagrante: seditiomatrimo niorum dignitate, ut
plebei cum patriciis jungerentur. Lo strappo è net tamente stabilito nel primo
Libro di Floro : Tumultus in monte Janiculo, duce Canulejo tribuno plebis,
exarsit. Il senato non voleva, m a la plebe exarsit. Potrà, or dunque, il
plebeo salire anche al consolato ? Potrà sentirsi il rumore de'fasci in casa
plebea? Si chiamino pure tribuni militari,ma la dignità consolare è
divisa.Tacito scrive:Neque tribunorum militum jus consulare diu valuit;perchè,dopo
unalottaquarantenne,ladignitàcon solare,ripreso il vecchio nome,non si limita
ai vecchi uomini. Fattasi l'eguaglianza negli onori, è tempo che si proclami
l'aequanda libertas, l'eguaglianza anche innanzi al diritto punitivo. Ed
ecco,due anni dopo l'istituzione del tribunato militare, nell'anno di Roma
311,nasce il Censore che può notare d'infamia il plebeo e il senatore, il
console ed il cavaliere, l'uom privato e il magistrato pubblico. La formula di
codesta parità leggesi in Ascanio, Divinatio in Caecilium . « Hi prorsus cives
sicnotabant,ut qui Senator esset,ejiceretursenatu;quiequesromanus, equum
publicum perderet ; qui plebeius, in tabulas Ceritum referretur et aerarius
fieret ». Livio ammonisce nel libro sesto che non ci furono concessioni. Dopo
le discordiae sedatae per dictatorem ci dice CONCESSUM ab nobilitate plebi de
consule plebeio ! R o m a , c h e , d i l a r g a n d o il d i r i t t o , d e
m o c r a t i z z a l a r e p u b b l i c a e s a l e v e r s o l'aequanda
libertas,èinexpugnabile;Roma,chenellospaziodidue ge - E si vien chiarendo
insieme al disegno di questo libro, che, cioè, mentre grandeggia lo Stato
romano, e come re publica e come impero, fiorisce il giureconsulto; e più il
dominio si dilarga, più si fa universale l'intelletto del giu reconsulto, e più
n’esce universale il responso, dal patrizio al plebeo,
all'italiano, all'uomo. È vano cercare lo scrittore politico in questi secoli
di grandezze e di gloria: il politico non sarà mai contemporaneo del giureconsulto.
Mentre la gran politica sarà nel patriziato e sarà pratica di governo, non sarà
scritta. Disfatti gli Stati italiani e nata, di contro ai grandi stati e u
ropei che si formavano,l'esigenza di uno Stato stabile, quale nerazioni, dal
200 al 311, ha posto di contro al patriziato il tribuno, la legge decem virale,
la legge Valeria Orazia, la legge Canuleja, i tribuni militari ed i censori,
non può, nelle due generazioni dopo l'istituzione censoria, nel 354,essere
distrutta da'Galli Senoni; ma, uccisa nelle vie, esce rinata dal Campidoglio.
Senno patrizio e valore plebeo, concordi, la rifeceru. Usciti dal Campidoglio,
per comun valore, occorre che l'aequanda li
bertasabbialasuanormacerta,temperatricedelcertojussummum, sta bilita nelle
dodici tavole. Ed a tale uopo, una generazione appresso (387), sorge, come
speciale magistratura, il pretore che col quadruplice editto piega, corregge e
integra il diritto stretto nella giustizia pretoria. M a Roma,un secolo
appresso,è già capitale d'Italia,ed un secolo in punto appresso (488) accanto
al pretore urbano viene a sedere il pretore pere grino : due alte magistrature
che si suppliscono a vicenda e che di patri zie si fanno popolane non per
concessioni, ma per terribili strappi ehe dentro sono discordie civili, e fuori
la guerra sociale, onde Italia, a conto di Vellejo Patercolo, vide sopra campi
italiani, in meno di un anno,uccisi più di trecento mila italiani che
seppero,morendo, tramandare ai super stiti il dominium ex jure Quiritium .
Perchè, dunque, codesto dritto quiritario di patrizio divenisse popolare, e di
romano divenisse italico, quante grazie, quante concessioni di patrizii
sceserospontaneesullapleberomanaesu'popoliitalici?– Ricordisipiut tosto la
storia della Lex Plautia (De civitate), e lascino stare le conces sioni e le
grazie. E quando,superate le discordie civili e la guerra sociale, noi ci tro
viamo tra le armi di Mario e di Silla e vediamo Montesquieu torcere lo sguardo
da queste ire implacabili tra due titani, dobbiamo noi imitare la pietà che
inspirava lo Spirito delle leggi ? La critica storica è crudele:passa
tra'cadaveri romani e vuol sapere perchè Silla fu'na di sangue latino. Silla
preoccupa il ten'ativo di Giuliano 94 - 95 che si fosse, in
Italia, sorgono ed eccellono, sopra tutti gli altri, gli scrittori politici.
Allora il diritto non istà da sè, m a cade in servigio delle due tristi
necessità che hanno a fare lo Stato : la forza e la frode. I glossatori
abbondano, ma il giureconsulto non verrà cortemporaneo degli scrittori
politici.E più gli Stati rovinano, e più la politica si rifugia ne' libri.
l'apostata : l'uno vuol rifare l'aureola attorno al vecchio senato, come
l'altro intorno ai crani de'vecchi Dei. Ma,come Giuliano, dopo aver cac ciato
dalla sua sede S. Attanasio e altri vescovi, non rialzò l'Olimpo, così
Silla,dopo avere abbattuto la plebe, compressi i tribuni, abbassati i cava
lieri e disciolte le assemblee tribute, non potè rialzare il vecchio senato.
Perciò, dopo cinque anni, abbandono la dittatura, cioè abbandonò Roma alle
leggi storiche. Tal significato ha l'abdicazione di Silla, e tale a m m o
nimento ne deriva al Senato, che nè per colpi di Stato, nè per reazioni si rifà
l'antico potere. E pure la generazione che ha combattuto la guerra sociale,
nella quale fu stabilito il dirittoitalico, la guerra civile non riuscita a
rialzare il vec chio senato, è destinata a combattere due guerre servili e la
guerra gla diatoria, ordinata in apparenza a rialzare l'antico patriziato sul
cadavere di Spartaco. M a si guardi che, se la guerra sociale è per il diritto
italico, la guerra servile, che chiude il lavoro della medesima generazione, è
pel jus humanım : si guardi Spartaco morire combattendo, senza domandare quar
tiere o tregua : si pensi s'ei non aspetti qualcuno dietro di lui, e se egli
non senta che il vecchio patriziato non si rialzerà sul suo cadavere. Il senato
non concede mai nulla e non riesce mai ad arrestare la d e m o crazia ; lo
strappo rende popolare quel ch' era diritto patrizio, italico il
dirittoromano,umano ildirittoitalico.Ilsenatochehacredutodivincere la guerra
servile, è già servo : At Romae ruere in servitium consules,
patres,equites! - Siamo innanzi ad un mondo nuovo e senza nessuna
concessione del Senato ! Bene o male ? Rispondo che fu quel che doveva essere.
Inevitabile era il cammino della plebe sino alla proclamazione, in Roma,
dell'equità umana che doveva dalle nazioni vinte esseretoltacontroRoma
vincitrice. Io doveva dimostrare che tutto fu preso e niente concesso e che la
grande politica del patriziato romano non consisteva soltanto nel cedere,
sembrando concedere, ma nel preoccupare quel ch'era inevitabile nello
svolgimento dell'equità : onde leggi democratiche si trovano più volte sotto
l'auspicio di uomini consolari e di nomi patrizii. 96 - Quando lo
Stato è in sul ricomporsi, e la rinascenza ita liana, che in parte ha fatto e
in parte prepara le tre grandi ri voluzioni europee la germanica, l'inglese e
la francese volge al suo compimento,allora abbiamo la sintesi degli accor
gimenti co' responsi, della politica col diritto, e sorgono i giure consulti
politici che sono filosofi della storia. Il giureconsulto è il tipo latino, il
politico è u o m o della rina scenza, il giureconsulto politico è uomo moderno.
Il primo è la pura esigenza dell’equità,m a dell'equità astratta, perchè il
mondo romano era transito dal civismo ellenico all'in dividualismo germanico, e
non riusciva a contemperare i due termini, perché il transito non è la sintesi.
Il secondo simula il diritto, in cui traveste la forza e la fede, perchè meglio
che a far l'uomo mira a rifare lo Stato. Il terzo che vien dopo l'evoluzione
intera del civismo e dell'individualismo, riesce a contemperare i due termini
e,rispetto ai mezzi,a comporre la politica col diritto, secondo la misura dei
tempi e dei luoghi. Questo sentimento dell'equità,che,diffuso da Roma nel mondo
faceva la grandezza di Roma e poi la rovina, questo medesimo ricostruivala
centro del cristianesimo che era una nuova esi genza dell'equità, cioè non tra'
cittadini e tra le nazioni, m a tra gl'individui. Perciò il mondo germanico
potė diffondere il cristianesimo, non accentrarlo. E , quando il concetto
dell'equità avrà superato anche il cri stianesimo, Roma proclamerà la laicità
dello Stato. Ora seguiamo il genio di R o m a attraverso i periodi dei giu
reconsulti. CAPITOLO NONO. Giuseppe Ferrari vide che il progresso
umano è una risul tante del corso e ricorso, della rivoluzione e reazione, e
che questa risultante è significata nella storia dalla soluzione. La
rivoluzione e la reazione hanno per premessa la preparazione e per corollario
la soluzione. Questo è il circolo sillogistico di Ferrari.– Ma nè questi
circoli si concatenano, nè ci lasciano vedere dove vanno, nè l'autore vuole che
si guardi fuori e so pra il circolo, dentro il quale l'uomo fatalmente si
trova. I cir coli di Ferrari, salvo il criterio della misura, del quale si ha
da tenere gran conto, ci lasciano poi innanzi al destino u m a no ciechi,come i
circoli di Machiavelli. Vico, denominando le epoche e connettendone la
successione, ci promette più larga notizia del nostro cammino, e poi riesce a
chiudersi egli stes so dentro i circoli suoi. Ad ogni modo, noverando i periodi
del diritto romano,è im possibile dimenticare Vico che non può oggi , come
allora, vivere straniero e sconosciuto nella sua patria. Nessun genio compendio
più dolorosamente la sua storia. Tutti oggi ripetia m o a coro gli errori di
Vico, e ci pare grandezza perdonargli la sua teologia e le applicazioni
storiche troppo ristretle al mondo romano, e non vogliamo sapere che la
teologia di Vico è quasi di continuo una naturale teologia del genere umano,la
quale va a confondersi con l'antropologia, e che il mondo ro G . B o v i o . D
i s e g n o d i u n a s t o r i a d e l D i r i l l o , e c c ., e c c .
7 - 97 I Periodi del Diritto romano mano,apparso universale,potė
parere nel tempo un disegno reale di una storia universale eterna. Io non so se
sia più n a turale la teologia di Vico o più teologica la natura di Herder m a
vedo chiaro che, se Herder entra innanzi a Vico nell'esi genza del naturalismo
storico come metodo, resta assai indie tro rispetto al contenuto. In Vico c'è
più sostanza scientifica, perchè i presupposti teologici e metafisici sono in
ciascun libro della scienza nuova superati dal naturalismo italiano che, oc
cupando la filosofia della storia, fa Vico l'ultimo titano della rinascenza.
Vico celebra la teologia ed è fatto naturalista dal genio italiano;Herder
invoca la natura ed è fatto metafisico dal genio tedesco.
Tengasicontodiquesteavvertenze:cheVico,ponendo Ba cone accanto a Platone ed a
Tacito, poneva l'induzione sul contenuto classico; che l'induzione, prima di
apparire teorica in Bacone, era stata teorica e prutica in Galileo e nella sua
scuola;che venir dopo Galileo e Bruno in Italia significava portare nella
storia le leggi della natura, come aveva tentato la medesima scuola di Galileo
; e che in questo compito doveva concludersi lo spirito della rinascenza.
Perciò, sebbene Vico una volta appena tocchi di campagne, di cielo, di acque,
di zone e di mutua influenza di nazioni, pure mette di natura nel suo li bro
quanta ce n'è nell'uomo, dal senso all'intelletto, guardando in Lucrezio e
presentendo Darwin.– Non c'è,dunque,da per donargli la teologia, m a da
intendere pensatamente che cosa sono in lui la teologia naturale e la teologia
civile. Queste due parole sono reminicenze della scuola privata; ma il
contenuto messovi dal Vico è della scuola italiana. Quanto all'applicazione,
Vico e Ferrari furono tirati ad o p postissimi errori, l'uno dal difetto dell'erudizione
contempo ranea, l'altro dalla mancanza di sistema. Vico neglesse i p o poli
storici o li trasse tutti dentro R o m a , Ferrari portò i suoi periodi anche
ai popoli estrastorici, dove cioè m a n c a la vita e l'intelletto della
storia. 98 Vico noverð tre epoche del diritto e della
procedura e, tro vatele in R o m a , conchiuse averle trovate in tutte le
nazioni. Nella prima epoca il diritto è divino e tutto involuto nella ra gione
degli auspicii,che presso i popoli gentili tien lungo del la rivelazione, onde
Iddio privilegið prima gli Ebrei e poi i cri stiani. Nella seconda epoca il
diritto è nell'equità civile che è ragion di Stato, della quale il Senato
romano fu custode sa piente e geloso. Nella terza il diritto è nell'equità
naturale che è ragion comune, esercitata dalle repubbliche popolari e dalle
monarchie umane. A questi periodi del diritto rispondono altrettanti della pro
cedura. La quale, mentre il diritto è divino,“si esercita, Dio auspice e
testimone, ne' giudizii divini. Quando il diritto è p o litico, la procedura è
nella scrupolosa esattezza delle formole e delle parole giudiziarie e
contrattuali, talchè il diritto paia più nelle parole,che negli
uomini.Quando,in ultimo,ildiritto viene a combaciare con l'equità naturale, la
procedura diviene una logica tutta'intesa al vero de' fatti, governata
dall'intel letto e interpretata dall'equanimità.Quindi,icorpi jeratici go
vernano prima, poi gli eroici, in ultimo gli uomini modesti ed equanimi. Vico
trova questa successione di epoche nella natura u m a na, poi in Roma, poi,
perchè nella natura dell'uomo e nella storia di Roma,nel mondo. R o m a ,
l'urbs, la città per eccellenza, la città universale, gli è sostrato al disegno
di una storia universale. Ma,sollevata a questo vertice di universalità,
avviene che prima perde R o m a 'la sua particolare fisonomia in quella delle
altre nazioni, poi le altre, e senza serbarne traccia,la perdono in Roma.Non ci
si lascia scorgere e neppure intravedere la ragione, onde certe leggi, certi
istituti, e magistrati, e carattere ed imprese, furono romani, affatto romani,
non trovabili fuori e dopo R o m a, ne perchè certi altri uomini e fatti e
leggi non sono trovabili in R o m a . È conseguenza di una filosofia della
storia, fondata sulla 99 troppo comune natura delle nazioni,
nella quale spariscono le differenze. Perché il tribuno, perchè il pretore e il
giureconsulto v e g gonsi in Roma e non fuori,perchè nascono dalla lotta romana
e non dalla greca e dalla germanica, perché il responso come ufficio, come
valore e forma, permane latino e non è mai supe rato nè imitato, tutto questo
che importa sapere, non vi si dice da Vico. Non vi poteva esser detlo, perchè
Vico investiga la comune natura delle nazioni e non le differenze, e la
investiga nella mente che è comune,non nel dato etnografico e geogra fico che,
modificandola, spiega le leggi della successione e della varietà . Se
vogliamo,dunque,le epoche storiche del diritto romano, del romano e non di
altro, bisogna cercarle nella propria sto ria di Roma, espressione del genio
romano. Non è facile l'esatta partizione de' periodi del diritto ro mano ; non
è facile almeno rispetto a tutte le sue parti:perchè,se il diritto pubblico si
muove insieme con lo Stato e si trasmuta secondo le tre epoche apparenti della
costituzione politica di R o m a , non si può dire il medesimo del diritto
privato,di cui le divisioni meno apparenti sembrano assai più lente, più
consentanee ad una legge continua di evoluzione. Nondimeno abbiamo susficienti
criterii per ridurre a tre clas si gli storici che espongono i periodi
principali del diritto r o mano . Gli storici che, secondo una dottrina di
Vico, dividono le età di un popolo come quelle di un uomo, accettano una
divisione fatta con lieve differenza - da Gibbon e da Hugo. Allora la storia
del diritto romano vien divisa secondo i periodi d'infanzia, di giovinezza, di
virilità e di vecchiezza. Gli storici che considerano il diritto come una
funzione dello Stato e veg gono il diritto privato procedere dal diritto
pubblico, dividono i periodi del dritto secondo i momenti della costituzione
politica diRoma.Allora,lastoriadeldirittoromano nella monarchia, nella
repubblica e nell'impero. Questa divisione pare accettata 100
dall'Ortolan che presume derivare la storia del diritto romano dalla
storia del popolo.In ultimo, gli storici che studiano lo svolgimento del
diritto romano nella missione peculiare che il diritto ha potuto avere nel
mondo e nel genio di Roma, divi dono i periodi del diritto secondo i momenti
dell'equità. Allora il primo periodo lo dicono conchiuso dalla venuta del
pretore urbano, il secondo da Augusto, il terzo da Costantino. Questa
partizione, posta da Hulzio, è di molto valore in sé, m i viziata
nell'applicazione dall'autore istesso per difetto di filosofia e di critica
storica. Non mancano alcune divisioni fatte secondo le condizioni e conomiche e
morali di Roma,ma di lieve conto, perchè sono le più incerle ed arbitrarie. È
nostro compito – confutate che avremo le due prime divisioni – recare a
perfezione la terza. 101 La prima divisione de' periodi pecca di troppa
generalità. Anche ammesso che la vita dell'uomo sia divisibile in quattro
periodi isocroni e che tutti e quattro col medesimɔ isocroni smo siano
applicabili alla storia, n'uscirà sempre una curva co m u n e a tutte le
nazioni, nella quale non appare il profilo di ciascuna.Nè questa curva lascia
scurgere il transito dall'un all'altro periodo. Se le date che hanno da fissare
questi pis saggi non sono determinabili con esattezza nell'in lividuo, chi
potrà affermare con certezza, qui finisce l'adolescenza di un p o polo e
comincia la giovinezza? Quindi, vengon fuori quelle di visioni arbitrarie, nate
piuttosto a comodo di una scuola o di una cronologia convenzionale, che delle
intenzioni effettive della storia.Ecco, infatti,come procede questa scuola
dell'isocronismo, che porta nella storia romana l'età dell'uom).Prende tredici
se c o l i i n R o m a , d a l l a f o n d a z i o n e a G i u s t i n i a n o
, e li r o m p e i n q u a t tro parti quasi uguali, di trecento in trecento
anni, e denomina ciascuna parte da una delle quattro età dell'uom ). L'infanzia
del diritto romano dura dalla fondazione di Roma alle dodici tavole; la
giovinezza, dalle dodici tavole a Cesare; la virilità,dia Cesare ad Alessandro
Severo ;la vecchiezza, da Alessandro Severo a Giustiniano.
L'infanzia sarebbe la monarchia, i primi consoli e
iprimitribuni;lagiovinezza,tuttalarepubblica,dalla promul gatio sino alla
riapparizione di quella che Livio chiama Vetus R e g i a L e x s i m u l c u m
u r t e n a t a ; la virilità e la v e c c h i e z z a s a r e h bero tutto
l'Impero,da cotesta tanto contrastata Regia Lex sino al Codex Iustinianeus. M a
ciascun vede che i transiti sono estrin seci ed arbitrarii, e non lascian
vedere le necessità intime che governano la successione de'periodi.Nė appare
perchè invano Giustiniano si sforza, con cinque tentativi, di stringere il
cristia nesimo sotto le leggi romane spirito nuovo in vecchia cor teccia – nè
come il Cristianesimo si vien costruendo la sua più naturale espressione
giuridica nelle leggi germaniche e nel gius canonico. La divisione pui
de'periodi giuridici, fatta sulla successione della costituzione politica,è
fatta davvero grossamente, e non ci lascia vedere né i momenti principali della
repubblica, nè i pe riodi che si succedono nell'istesso impero . È certo che,
mutata la costituzione politica,non è soltanto mutata la forma di go verno,ma
dev'essersimutatoinsiemeilcontenutodeldiritto pubblico, e, conseguentemente,
del privato, sebbene la conse guenza non si mostri immediatamente ; m a nessuno
può affer mare che cotesti trasmutamenti non avvengano durante appa rentemente
una medesima forma politica.Se l'epoca di Alessandro Severo può dividere in due
periodi l'impero, perché la legge Publilia che dichiara popolare la repubblica,
e la legge Petelia che libera la plebe dal diritto feudale rustico del carcere
privato, non varranno, secondo la mente di Vico, a designare tanta di stanza
tra repubblica e re ubblica, quanta forse non se ne trova tra Tarquinio e Bruto
? Ma si faccia questa considerazione che è la più intensa e la meglio
dichiarativa, nella storia, della successione de'fenomeni civili e
politici.Nell'ordine ideale ed effettuale delle cose umane , la successione
de'periodi politici determina e spiega la succes sicne de'periodi giuridici, o,
per contrario, la successione dei - 102 periodi del diritto
dichiara e prestabilisce la successione de'pe riodi
politici?L'homessainteralaformadelladomanda,perchè la risposta erompa da sè.
Sebbene nella storia il diritto e la politica, la ragione del l'uomo e la
ragion di Stato, si presentino come due concetti, due forze, e - mi sia lecito
a dire – due istituti avversi, e la politica sembri nata per comprimere il
diritto, ed il diritto per urtare e trascendere gli ordinamenti politici, pure,
in fondo ed in ultimo, la forma dello Stato finisce per dischiudersi alla nuova
esigenza del diritto. Così sempre : se un nuovo bisogno vien determinando una
nuova idea del diritto, già si sente per l'aria il fremito di una rivoluzione ;
e se uno Stato nuovo sorge ad occupare questa nuova concezione giuridica,
appena nato, già tende a cristallizzarla ed a mozzarne le illazioni. Tutto ciò
può esser vero ; m a pur si vede e s'intende che la nuova forma di Stato, quale
che sia, s'è venuta organando intorno a quel nuovo concetto del diritto. Per
non far, dunque, irrazionali ed astrologici i mutamenti politici, noi dobbiamo
affermare che l'ordine naturale delle cose c'impone di non derivare dalle forme
successive dello Stato i periodi del diritto, m a dall'evolu zione della
coscienza giuridica i periodi politici. Perciò scrissi e ripeto che ne'periodi
politici del Ferrari ammiro la genialità del pensiero e i germi dischiusi del
natura lismo italiano; ma sono periodi,ai quali mancano le premesse. Si
potrebbe rispondere che per queste ragioni appunto i mutamenti politici
andrebbero intesi come segni esteriori e certi dei periodi del diritto. No -
ripeto per due chiare ragioni : l'una, che per questa via si viene a rendere equivoco
il pro cesso della storia, potendosi assai facilmente scambiare le cause con
gli effetti, e scambiare il diritto che promuove il muta mento politico, con la
legge che ne consegue ; e l'altra, che verrebbero a mancare i criterii per
distinguere i veri dagli a p parenti mutamenti politici e le rivoluzioni
politiche dalle sor prese settarie e da'tumulli più o meno rumorosi e vuoti.
Un 103 104 mutamento politico è reale e durevole, se
determinato da una nuova concezione giuridica;e,quando no,sidilegua,lasciando
tracce di sangue, non d'istituzioni. Occorre,dunque,come si è detto,seguire lo
svolgimento del diritto romano nella missione peculiare che il diritto ha
potuto avere nel mondo e nel genio di Roma,e però dividere i pe riodi del
diritto secondo i momenti dell'equità, onde procedono le successive forme della
costituzione politica di R o m a . Facciamo parlare i fatti. Perchè in R o m a
si passa dalla m o narchia alla repubblica e poi all'impero ? Se rispondesi che
Tarquinio potè estinguere il potere regio come Cesare rifarlo, si viene a
conchiudere che l'origine e la rovina delle istituzioni sono in balia di un
uomo. Una storia cosi fatta non c'è, nè c'è oggi chi torni a narrarla. Se
Tarquinio potè finire il regno, perché l'impero non cessó in Domiziano, quando
praecipua miseriarum pars erat videri et adspici? Altro, dunque, che la ferocia
e la clemenza di un principe, di un sacerdote, di un capitano occorre per
determi nare e spiegare la vita o la morte delle istituzioni politiche.
Lasciamo a Voltaire la facilità di dimenticare le premesse del suo saggio
su'costumi e sullo spirito delle nazioni, per affer mare che il delirio di un
Cucupietre potè iniziare il periodo delle crociate, e gl'insidiosi interessi di
monaci il periodo della riforma. Quanto a Roma,il vero si è che la reazione di
Tar quinio mal poteva resistere ad una nuova esigenza giuridica, adombrata già
dalla favola, che i Commentarii di Servio Tullio erano destinati a passare
nelle mani di Giunio Bruto. Questo mito de'Commentarii era tutta una tradizione
che diceva tra gli scritti di Servio Tullio essersi trovato nientemeno tutto
intero il disegno di una costituzione repubblicana ; che questo non era
soltanto un disegno,ma un proposito di Servio; che questo proposito appunto gli
era costata la vita; e che non dimeno disegno e proposito erano passati da
Servio Tullio a Giunio Bruto. C'è, a primo intuito, qualche cosa
in questa tradizione, la quale è assai più scientifica, che non una repubblica
esplosa dalla superbia di Tarquinio, dalla fatuità di Bruto e dal cada vere di
Lucrezia. La tradizione si fonda sopra questi dati di fatto: che la prima
monarchia di Roma non somiglia a nessun'altra delle monar chie antiche e
moderne,ed è,conforme al genio di Roma,una istituzione giuridico-militare ; che,
secondo questo carattere ori ginario e primordiale di R o m a, il diritto è una
continua ten denza verso il suo natural fine che è l'equità; e che però i
periodi nella evoluzione dell'equità devono essere i periodi sto rici del
diritto romano. Ora,se il diritto inRoma sorge come istinto o genio di tutti da
una parte, e dall'altra come sapienza privilegiata di un or dine, di quello
cioè che si reputa destinato a conoscere e cu stodire le leggi, quale potrà
essere il vero primo momento del l'equità ? Suttrarre la legge al mistero,
sottrarre la sapienza al privilegio, far la legge nota a tutti : promulgatio .
Questa esi genza come diritto crea la repubblica ; come legge, succede al
decemvirato . Quindi, il primo momento dell'equità è l'equità formale, la promulgalio,
ma necessaria, perchè dalla forma si passi alla sostanza. L'ignoto sfugge
all’equità. E questa necessità sa liente a traverso il periodo regio spiega la
tradizione de' C o m mentarii di Servio, la reazione del Superbo, la fine della
m o narchia sotto questa reazione, l'avvenimento della repubblica col disegno
di Servio passato a Bruto, e primo prodotto della repubblica il Tribuno che a
sua volta produce la promulgatio. In fatti, quanto tempo corre dal regifugium
alla promulgatio ? Ben sessant'anni vi corrono, e tra queste due generazioni
sorge in mezzo il tribuno. Accanto al cadavere di Gneo Genunzio sono possibili
le rogazioni di Publilio Valerone, di Terentillo Arsa, di Siccio Dentato, sino
alla istituzione de'Decemviri le gibus scribundis. 105 € Olitiche ܝܶܨܶܕ݂ܕܶܐ er io
udo del gurt zione is ienterne cara 6; di Sem o chen Tulli e 106 - Quando
si domanda che è la legge scritta e promulgata, si risponde che è l'eguale
notizia della legge. E codesta egualità è l'equità prima e rudimentale, è il primo
aequum bonum , ė la prima aequitas spectanda, è la prima libertas aequanda, è
il primo poter dire formalmente summis infinisque jura aequare. Formalmente
ancora,anzi appena,ma quanto costa questa prima equità,senza della quale
nessun'altra sarà possibile,quante secessioni della plebe, ed un tribuno ucciso
malgrado il caput Jovi sacrum intimato all'uccisore, e finalmente la figura
tipica di Cincinnato, intervenuto ad equilibrare le parti nella lotta d e
cennale tra l'istituzione del Decemvirato e la promulgazione delle prime dieci
tavole ! La promulgazione, primo grado dell'equità formale, appunto perchè
tale, può far tanta ingiuria al fine ed alla natura del l'equità, da rilevare
la contraddizione nella parola istessa. A l lora il patriziato può inventare
una parola nuova, inciderla in una colonna, e la colonna alzare nell'area,
dov'erano le case distrutte di un plebeo ucciso.AEQUIMELIUM :ecco la nuova pa
rola che annunzia in tuono di sfida la contraddizione tra il fatto e la forma.
Questa contraddizione dichiarata tra la legge nota a tutti e favorevole a
pochi, questa spinge al secondo momento dell'e quità formale, all'eguaglianza
di tutti innanzi alla legge. Questa seconda equità sforza a tenere equilibrato
conto delle condi zioni o circostanze che accompagnano i fatti e le persone,
gli effetti e le intenzioni, affinchè la parità innanzi alla legge sia reale.
Ecco il Pretore. L'editto prelorio è da prima l'equità ne'casi particolari, è,
ciò che dev'essere l'eguaglianza innanzi alla legge, l'equità particolareggiata.
Forse l'avvenimento del Pretore è un fenomeno puramente giuridico o giudiziario
in disparte dalla vita politica di R o m a ? È il prodotto della più
travagliosa politica, determinata dalla più grande evoluzione giuridica della
coscienza romana . II Pretore sorge,quando ai Decemviri legibus scribundis sono
suc 107 ceduti i Decemviri sacris faciundis, cioè quando il diritto
augu rale è passato dal patriviato alla plebe,quando ai tribuni con solari
patrizii si contrappongono le rogazioni licinie, quando la plebe sale ad
occupare il consolalo, la dittatura, il diritto cen sorio ed ogni magistratura
curule, quando le ragioni pubļilie ci avvisano che la republlica di
aristocratica è fatta democratica : eguaglianza di tutti innanzi alla legge. Costituitosi
l'istituto pretorio, si risolve un gran problema sociale e s'inizia un nuovo
periodo politico. Il problema sociale, risolutosi nella quarta secessione della
plebe e per la dittatura di Valerio Corvo, è la liquidazione dei debiti e la
divisione dell'agro pubblico. Il pericdo politico che s'inizia,è l'unificazione
d'Italia.Il periodo unitario è annun ziato dalla prima guerra sannitica. Tra
l'unificazione d'Italia e l'unificazione di tutti sudditi dell'impero
fioriscono tutt'i grandi giureconsulti, onde si onora e perpetua la sapienza
latina, Elio,Catone, Scevola, Servio Sul
picio,Labeone,Sabino,Giuliano,Gajo,Papiniano,Paolo,Ulpiano, Perciò,
quando Vico avvisa che con la legge Publilia e con la Petelia tra gli anni 416
e 419 di R o m a si passa dalla libertà signorile istituita da Giunio Bruto
alla repubblica popolare,ebbe presente Livio: Quum tamen per dictatorem datae
discordiae sunt, concessumque ab nobilitate plebi de con sule plebeio, a plebe
nobilitati de proetore uno, qui jus in urbe diceret,ex Patrilus creando.- Ed
ecco l'origine politica del pretore, la quale dichiara questo processo della
storia romana : 1° esigenza giuridica rogazioni licinie; 2° mutamento poli tico
repubblica popolare ; 3° legge conditionibus se Se questo non fosse stato il processo
della storia, e la legge non indicasse il mutamento politico, e questo non
indicasse un periodo compiuto della coscienza giuridica, si continuerebbe a
costruire una storia romana su'fasti femminei, e si direbbe che con Lucrezia
cadde la monarchia, con Virginia il Decemvirato, e con una Fabia la repubblica
signorile. editto pretorio. 108 Sopra ogni altro è celebrato il
responso di Papiniano,perchè più universale, e la cui ultima parola coincide
con l'imperiale costituzione della cittadinanza universale. Il responso di
Papirio, venuto prima del periodo unitario, e quelli di Ermogene, di Gregorio,
di Triboniano e di Teofilo, arrivati con la decadenza, non ritraggono l'ufficio
dell'equità romana . Ma codesta equità che di formale tende a farsi sostanziale,
e da Roma si espande per l'Italia e dall'Italia nel mondo, è veramente l'equità
u m ina ? ha assunto l'ultima espressione nel responso di Papiniano? percið
vive ancora, interrogata e cele brata in tutti gli Atenei del mondo ? il mondo,
insomma,studia il diritto romano),perchè fu davvero umano ? S Modestino.
Più si dilata l'unificazione e più universaleggia il responso ; e, come più il
responso si fa universale, più ancora l'equità penetra dalla forma nel
contenuto . A noi conviene esaminare partitamente i tre grandi periodi
dell'equità in R o m a . N e rimarrà illustrata la storia della nostra antica
grandezza. CAPITOLO DECIMO. Esame de'periodi giuridici e politici
in Roma A m e par di avere con sufficiente chiarezza fermata questa legge
storica : che nella successione delle cose civili il m u t a mento politico
framezza tra una nuova esigenza giuridica e la legge scritta. A coloro che
hanno paura di ogni formola, cre dendola una minaccia metafisica o una nuova
invasione scola stica, e non sanno che le formole sono o definizioni genetiche
o espressione di leggi naturali, traduco questa legge storica in queste
espressioni più analitiche: prima si determina un nuovo bisogno ed una nuova
coscienza giuridica; poi Se cosi non procedessero le cose civili, mancherebbe
l'ar tefice della nuova legge, mancherebbe la causa de'mutamenti politici. Non
parlo delle congiure, delle sėtte, de'regicidii e di altre cause apparenti
de'mutamenti politici per non creare a me stesso objezioni puerili a pretesto
di analisi lunghe e volgari : tutti sanno che non c'è effettuale mutamento
politico,se in fondo non ci sia una grande e maturata esigenza giuridica, la
dichia razione di qualche diritto comune lungamente contrastato : m a non tutti
sanno se ogni nuova esigenza giuridica basti a cagio nare un mutamento
politico. - 109 - stenze più o meno travagliose - un mutamento dopo resi
politico;in ul timo, fica e sancisce dal nuovo potere costituito la nuova
esigenza promana giuridica la legge . che speci causa di mutamento
politico ogni dichiarazione di diritto, che implica una diminuzione di
privilegio nell'ordine domi nante . Cotesta dichiarazione ordinata a
diminuzione di preminenze implica sempre,più o meno, un summis infimisque jura
ae qu ire.Ogni periodo dell'equità, dunque, annunzia un nuovo pe riodo
politico. Sono evidenti le due illazioni: non sono mutamenti politici quelli
non giustificati da una nuova dichiarazione di diritti; non SONO mutamenti
durevoli quelli non prodotti da larga e co sciente dichiarazione di diritti.
Quindi, vi può essere molto sangue civile senza rivoluzione, ed una grande
rivoluzione incruenta. N'emerge evidente non potersi fare la storia giuridica
di un popolo senza la storia della costituzione politica : i periodi sono gli
stessi : le fasi della causa si riscontrano nell'effetto. Nel momento,in che si
passa dalla convivenza gentilizia alla costituzione politica, in R o m a
comincia lo Stato : il m e m b r o della convivenza era gentilis, il m e m b r
o della costituzione era civis. Le genti erano Ramnes, Tities, Luceres, Albani,
Sabini, R o mulei ; la loro unità civile e militare fece lo Stato. Secondo più
o meno si partecipava della costituzione politica, si era più o meno cittadino:
civis optimo vel non optimo jure ; e l'unità fra tutti era personificata dal
re, il quale, come ho detto, era unità giuridico-militare. Come istituzione
giuridica, raccoglieva in sè il potere legislativo e giudiziario;come istitu
zione militare, movea l'esercito e gli agenti esecutivi. Dissi ancora che non
somiglia a nessun altro re antico e m o derno : non era assoluto, perchè la
sovranità era nel popolo ;ne costituzionale, perché il suo imperium era
temperato dal genio giuridico di Roma e dagli ordinamenti patrizii, non da un
co stituito potere rappresentativo. È - 110 Se la sovranità era nel
popolo, l'imperium non si poteva esercitare dal re senza una legge curiata de
imperio, una specie di delegazione di sovranità.Mommsen non crede a
questa legge primitiva de imperio e la dice trasportata per errore dalla ele
zione consolare a quella de're. Ho ragione di credere piuttosto a Livio ed a
Cicerone, i quali la deducono dall'istessa natura del potere regio ,
dall'essenza dello imperium. Non è lecito dubitare delle tradizioni del giure
pubblico, del quale le for mole si trasmettono letteralmente. Rottosi il potere
regio, l'imperium e conseguentemente la lex de impario, intesa come
investitura, di perpetui divennero annui, cioè passarono dai re ai consoli, che
Cicerone chiama potestas annua jure regia. Le altre magistrature ordinarie che
sorgeranno più tardi, come la censura, l'edilità curule, la pre tura, la
questura, saranno diramazioni del consolato. A voler secondare le tradizioni,
niente è più difficile di co testo passaggio dalla monarchia al consolato.
Secondo Tacito il transito sarebbe stato determinato dalla libertà,cioè dal
proposito di più liberi ordinamenti. LIBERTATEM et consulatum L. Brulus
instituit. Vico non consente, perché la repubblica sopravvenuta fu più
signorile del principato,fu rivolta di patrizii che consen tirono a Bruto
l'istituzione del consolato, non della libertà. C'è più di ragione in Tacito,
perché il passaggio dal principato alla repubblica fu una evoluzione della
legge curiata de imperio, la quale implicava la temporaneità e la responsabilità
del potere. E questi due fattori che la tradizione doveva avere allogato nei
Commentarii di Servio Tullio,passarono al primo Bruto.Non è di picciol valore
la parola annua nella definizione data da Ci cerone alla potestà consolare, e,
come più diminuisce la durata dell'imperium, più cresce la responsabilità. I re
potevano allora, come oggi, rispondere innanzi alle rivoluzioni ed alla guerra
; i consoli, compiuto l'anno, erano esposti, non rei gerundae caussa sed rei
gestae, alle accuse de'loro concittadini. E mi piace di risermare contro M o m
m s e n che non la lex de imperio è una evoluzione della repubblica, ma la
repubblica è una evo luzione della lex dc imperio. E sotto questo rispetto si
può ri 111 petere con Tacito: Libertatem et consulatum L.
Brutus in stituit; s'egli è vero che la temporaneità e la responsabilità
dell'imperium sono i primi fattori della libertà politica. Quando affermo che
l'evoluzione della lex curiata de i m perio mena dalla monarchia alla
tepubblica, io rifermo questo alto principio, che i rivolgimenti politici sono
prima periodi nella evoluzione del diritto. Senza questo processo, tanto è
razionale spiegare l'origine della repubblica romana con una insurrezione di
patrizii, intesi a sostituire l'aristocrazia al monarcato,quanto era possibile
alla congiura de'Baroni rovesciare nel reame di Napoli il principato, per
ricostruire,con prelesto popolare, tutt'i vecchi ordini feudali. Bisogna quindi
rifermare che,come Tacito, usando la parola libertà nel senso spiegato sopra,
ha ragione contro Vico, cosi Livio, riserendo a tutte le otto generazioni
passate attraverso i sette re la lex de imperio,ha pienamente ragione contro M
o m m Se si sposta o si tronca questa tradizione, l'avvenimento della
repubblica esplode, non si spiega. Non è facile spostare certe tradizioni nè
confutare alcune parole dei classici (1). Caduto il monarcato , contro la
mutabilità delle magistrature e l'incertezza delle deliberazioni popolari
rimase, sola istituzione stabile, il senato, già corpo consultivo, durante il
principato, e, nella repubblica, istituto legislativo, politico ed
amministrativo. Il potere amministrativo gli apparteneva intero, cosi sull'agro
pubblico come rispetto ai fondi del pubblico tesoro. Intero gli (1) Livio e
Dionigi d'Alicarnasso ci tramandano quasi l'identica tradi zione della legge
regia. Cicerone ne'libri della Repubblica cura di ripe tere per ogni elezione
di re le parole dette per l'elezione di N u m a P o m pilio : Quamquam populus
curiatis cum comitiis regem esse jusserat, tamen ipse de suo imperio curiatam
legem tulit. La costanza delle pa role di Cicerone indica due cose : la
tenacità delle formole del diritto p u b blico e idocumenti pubblici,ai quali
Cicerone aveva dovuto attingere.Ed io,considerando la legge curiata come il fondamento
di tutto ildiritto p u b blico romano , non solo stimo il passaggio dalla
monarchia alla repubblica essere stata una evoluzione di questa legge,ma stimo
una evoluzione della 112 - sen . apparteneva il governo della
politica estera, per due ragioni: per la competenza e per il carattere militare
dello Stato romano. È vero che tutti gli Stati sono gelosi e, quando possono,
inva denti,e gli Stati antichi più de'moderni; ma sopra tutti gli antichi e
moderni ,lo Stato romano ,al quale peregrinus erat hostis, e pax erat pactum ,
quasi stato di tregua, non di natura. Quanto alla politica interna ed al potere
legislativo, il S e nato li aveva, partecipe il popolo convocato in comizii, i
quali erano istituzioni giuridico-militari: giuridiche per il fine, mili tari
nella forma. Militarmente il popolo interveniva, quasi exer citus urbanus, e
militarmente non discuteva, m a rispondeva seccamente il suo uti rogas o
antiquo. E bene, fu quest'assenza di discussione dall'assemblee p o polari la
grande politica e la gran forza di Roma, fu il segreto della rapidità nelle
deliberazioni, nell'esecuzione, e, assai volte, il segreto delle vittorie. Si o
No. Ferrari, ricordando dall'Amlet che la discussione tronca il nerbo
all'azione, vede l'inferiorità delle repubbliche quanto alla rapidità
dell'azione ; m a non vide di quanto la repubblica romana avanzava per senno
politico le repubbliche elleniche, e per subitezza d'azione tutti gli Stati
moderni, compresa l'Inghilterra. Devo ricordare che questo carattere militare
che R o m a m a nifesta sinanco ne'comizii, questo exercitus urbanus,che
ricorda l'exercitus castris, non si dissocia mai dal genio giuridico di questo
popolo agricoltore. Mai da' Romani fu fatta guerra per medesima iltransito
dallarepubblica signorilealla popolare,edallare pubblica all'impero, quando,per
nuove necessità, l'investitura de'poteri passò dalle magistrature temporanee
all'imperatore. Nè dalla filosofia della storia né da'fonti mi risulta ragione
alcuna, per la quale Mommsen possa affermare che la lex de imperio sia
narrazione inventata evidente mente dagli insegnanti di diritto pubblico ai
tempi della repubblica per l o r o f i n i. P e r q u a l i f i n i ? V e d o i
n v e c e c h e l ' e r i d e n z a a p p u n t o m a n c a a l l a s u a
affermazione,e che,facendo riposare egli stesso lalegge curiatasopra con
suetudine antichissima,risale con Livio,con Dionigi d'Alicarnasso e col suo
ingiustamente deriso Cicerone,sino ai tempi della prima monarchia romana
. - 113 - 8 - G. Buvio.Disegno di una Storia del Diritto,ecc.,ecc.
aggressione, more latronum ; mai guerra non dichiarata o per cause
ingiuste, bellum iniquum : volevano iustum, purumque duellum; e con
l'intervento de custodi della fede pubblica che erano i feciali, volevano pium
bellum. Popolo belligero questo di Roma, perchè una missione giuridica non fu
compita mai co'sermoni,ma che per questo appunto conobbe ed osservò il diritto
delle genti più che gli altri Stati meno bellicosi,special mente con
l'osservanza massima del rispetto agli ambasciatori. Tutte le formule per la
dichiarazione di guerra ci sono di stesamente tramandate da Livio.
Coloniale,quello de'cittadini romani trapiantati in citta vinta. Cosi lo Stato
romano, primo efficace colonizzatore del mondo, asseguiva due fini: dava stabilità
alla conquista e sgravavasi, in parte, del proletariato urbano. I coloni
conservavano la piena cittadinanza cum suffragio et iure honorum . Municipale
era il diritto civile di un comune non conqui stato,ma ridotto ad
obbedienzaversoRoma,conqualcheobbligo (munus), come o di servizio militare o
d'imposizione tributaria o dell'uno e dell'altra. Municipes erant cives romani
sine suf fragio et iure honorum . Provinciale era proprio il diritto che
avanzava ai vinti.Non più civis né la quasi effigies populi romani, dove
troviamo un populus stipendiarius, un popolo cioè senza cittadinanza, senza
territorio proprio,e spesso senza il commercium .Che è,dunque, che può essere
avanzato ai vinti ? Non più di quel che si trova o nella clemenza o nell'ira o
nella convenienza del vincitore. E la convenienza, sotto specie di magnanimità,
prevaleva nel decreto del magistrato delegato ad ordinare la provincia. D u r a
mente Gaio : Quasi quaedam praedia populi romani sunt vecti galia nostra atque
provinciae. Il Mommsen segue Festo non Niebuhr nell'etimologia della parola
provincia, da vincere, sia ) 11'1 Con la guerra il diritto romano
dilargavasi, e risultanze di verse della guerra erano le tre forme che, uscito
di R o m a, il diritto assumeva : coloniale, municipale, provinciale.
poi che pro significhi il procedere de'due eserciti consolari, come piace
a Mommsen, sia che ante,come piacque a Festo. Il certo è che dalla diversa
vittoria si traggono le distinzioni ve dute da Cicerone tra la Sicilia e le
altre provincie. M a per giungere a lutte queste diverse gradazioni del dritto,
suori di Roma,le quali sono effetti diversi della guerra, bi sogna aver
superato il periodo della repubblica aristocratica,di quella immediatamente
succeduta al regno, quando i patrizii avevano tre mezzi per deludere é menomare
della plebe, ed essere entrati nel periodo della repubblica p o polare, quando
, meglio equilibrate le parti, comincia l'epoca dell'unificazione italica. I
mezzi de'patrižii erano la convocatio, l'auctoritas patrum e l’ius augurale. I
patrizii potevano convocare le assemblee e cancellare, per vizio formale, le
deliberazioni popolari; e, quando, convocata l'assemblea, il voto accennava ad
un certo indirizzo, potevano troncarlo, spingendo l'augure - a sciogliere il c
o m i z i o c o n l a f o r m o l a : A l i o d i e : a t e m p o s e n z a m i
s u r a ! I m porta ricordare le parole di Cicerone, DE DIVINATIONE : Fulmen
sinistrum , auspicium optimum habemus ad omnes res, praeter quam ad comitia:
quod quidem institutum reipublicae causa est, ut comitiorum , vel in judiciis
populi, vel in iure legum, vel in creandis magistratibus, principes civitatis
essent interpretes. Ecco, dunque, gl'interpreti de'comizii,principes civitatis;
ed anche il fulmen sinistrum per frustrare il voto diveniva infau stum omen !
La formola,dunque, di Cicerone in DE LEGIBUS : Potestas in populo, auctoritas
in Senatu sit, traducevasi una potestà senza potere. Occorrerà, dunque, qualche
cosa, perchè questa potestà sia potere: occorrerà che trovi in sè l'autorità
sua. Allora è necessario che il popolo abbia certa notizia della procedura,
abbia certezza delle leggi, e che l'ignoto della legge le deliberazioni
115 ufficio patrizio 116 non sirisolva nell'arbitrio
de'principescivitatis.Ed ecco la ne cessità della promulgatio, la quale non
significa tanto notizia quanto certezza delle leggi. Non istiamo a ripetere
quanta lotta costasse la promulgatio, perchè le parole di Livio e di Cicerone
non superano il vero, quando affermano che prima della pubblicazione delle
dodici tavole il diritto civile era riposto ne'penetrali de'pontefici: re
positum in penetralibus pontificum ; m a lo superano, quando si tirano sino ai
tempi posteriori alle dodici tavole. Certo che lotta fiera si dovette
combattere per sottrarre il diritto ai penetrali de'pontefici, cioè all'ordine,
cui i pontefici appartenevano, il quale a sua posta governava i comizii con la
convocazione, con l'autorità e col diritto sacro. M a senza bisogno di gran
lotta venne la pubblicazione delle formole procedurali, fatta da Gneo Flavio un
secolo e mezzo dopo le dodici tavole, pubblicazione intesa sotto il nome di ius
civile Flavianum , con la quale la plebe liberavasi dal bisogno di ricorrere e
consultare i ponte fici. Se le formole comprensive non saranno mai oziose, si
può dire cosi : le dodici tavole democratizzano la notizia del diritto; l’ius
civile Flavianum laicizza la procedura e la giuri sprudenza. Doveva costar
lotta la premessa, con la quale apri vasi un periodo storico, non la
conclusione, con la quale chiu devasi. 1 Considerando il significato
della promulgazione, io non posso credere agli scrittori che con beata
semplicità stimano poco de mocratico e niente normale l'ufficio del tribuno in
R o m a . A f fermo invece che le dodici tavole non si sarebbero potute mai
promulgare senza gran lotta contro il patriziato, cui giovava il mistero delle
leggi e segnatamente della procedura, senza della quale le leggi non si
muovono; che questa promulgazione fu strappata in nome della prima equità,della
prima aequanda li bertas, almeno circa la notizia e certezza delle leggi ; e
che questa prima equità sarebbe stata ineffabile ed inconseguibile senza la
persona sacra del tribuno. Il tribuno è il risultamento 117 più
normale ,più naturale della prima lotta tra il patriziato e la plebe; e non
solo senza il tribuno non s'intenderebbe la p r o mulgatio, ma questa appunto
compendia e spiega la più diretta missione dell'ufficio tribunizio : onde il
popolo per conseguirla sospende nel decennio decemvirale sinanco la provocatio
ad populum . Ora, quel che resta a sapere circa il valore della promulga zione,
si è se quiesta prima equità consista soltanto nella eguale notizia della legge
o, insieme, nella sostanza della legge istessa. (1) Bovio : Saggio critico del
diritto penale e del nuovo fondamento etico. Napoli, 1872. Vedi ancora Corso di
Scienza del Diritto. Napoli, 1877. Scritti filosofici e politici, Napoli, 1883.
Cicerone, incerto sempre tra l'aristocrazia e la democrazia, ma,come tutte le
tempre deboli e gli opinatori saliti in fama, piuttosto blanditore del
patriziato, ecco ciò che fa dire contro il tribunato nel DE LEG.: N a m mihi
quidem pestifera videtur (la potestà de'tribuni), quippe quae in Un
occhio alle dodici tavole chiarirà col fatto questo primo assioma di
legislazione positiva : che, quanto più lato in uno statuto od in un codice è
il diritto penale, tanto più stretta è l'equità civile. E questo spiega da una
parte la voce continua dell'equità:Summum jussummainjuria;edall'altra,questa
legge storica d'ogni legislazione positiva : il dritto penale e l'e quilà
civile movonsi nella storia in ragione inversa (1). Credo avere largamente
dimostrato in queste opere,che,quando si vo glia tener giusto conto de'fenomeni
storici e considerare il valore degli istituti lungamente durati, convien dire
che,come il naturale risultato della lotta tra la monarchia ed il popolo fu il
consolato, cioè la regia potestà annua e responsabile, così il risultato
naturale della lotta tra patriziato e plebe fu il tribunato, per la certezza
de'diritti della plebe.Non solo nulla di anormale troviamo nell'istituzione
tribunizia, la quale non fu mai un ba stone ferreo tra le ruote dello Stato
romano,ma, fattasi popolare la re pubblica, tutte le magistrature troviamo come
una evoluzione della potestà tribunizia. Gl'imperatori dovettero entrare in
questa forma. Tacito pre senta Augusto consulem se ferens et ad tuendam plebem
TRIBUNITIO IURE contentum , e il primo editto di Tiberio tribunitiae potestatis
praescri ptione. Esaminiamo. Cicerone vede il Libellus XII
Tabularum superare le biblioteche di tutt'i filosofi per due ragioni: aucto
ritatis pondere et utilitatis ubertate. Cosi, nel De Oratore. Nei libri della
Repubblica l'entusiasmo sbolle, ed ei condanna gli ultimi decemviri: qui,
duabus tabulis iniquarum legum additis, quibus, etiam quae disjunctis populis
tribui solent, connubia, haec illi ut ne plebei cum patricibus essent
inhumanissima lege sanxerunt. Ma è questa la sola ineguaglianza, onde Cicerone,
ammiratore delle tradizioni, si lasci trasportare sino alla parola
inumanissima? Furono più inumani,più patrizii, più aristocra tici i secondi
decemviri legibus scribundis dei primi ? Quando nella III Tavola leggiamo
contro il debitore: Tertiis nundinis partis secanto ; si plus minusve secuerint,
ne fraude eslo; noi non dobbiamo commentare col relore Quintiliano che alcune
cose illaudabili per natura siano permesse dal diritto, m a dobbiamo fingere di
ricorrere ad una certa sapienza crudel srditione et ad seditionem nata sit:
cujus primum ortum si recordari columus,inter arma civium etoccupatis
etobsessisurbislocis,procrea tum videmus.Deinde quum esset cito letatus,
tanquam ex XII Tabulis insigni ad deformitatem puer, brevi tempore ręcreatus,
multoque toe trior etfedior natus est.IlTribunato,dunque,è venuto fuori come
bam bino mostruoso e deforme! Ma come avviene che si svolge per tre secoli
almeno di vita eroica ? e v’ha nella storia un provvisorio di tre secoli ? E
nato ad seditionem o contra vim auxilium ? Si può perdonare a Cicerone d'avere
ignorato, allora, che tutt'i diritti nascono in seditione, m a non si può
ignorare oggi che senza i tribuni nè icomizii tributi sarebbero mai nati, nè
plebisciti si sarebbero mai fatti, né i plebis scita avrebbero in s e guito
acquistato valore di populi scita, nè la promulgatio sarebbe mai avvenuta,nè
mai pubblicate quelle tanto celebrate Dodici Tarole, delle quali tanto
ammiratore si professa egli proprio,Cicerone,nè la repub blica di signorile
sarebbe passata a popolare,nè,in ultimo,egli,Cicerone, sarebbe mai stato
console, o, eletto, si sarebbe davvero detto di lui quello che in miglior senso
diceva M. Catone: Dii boni, quam ridiculum con su lim habemus ! Seneca ci dice
che ai tempi di Tito Livio disputavasi se fosse stato meglio per la repubblica
che Cesare fosse nato,o no.Era me - glio
investigare,iodico,sesenzailtribunovisarebbemaistatarepubblica. 118
> 119 mente pietosa escogitata da Aulo Gellio, che cioè
gl'infelici sian fatti salvi dall'istessa enormità della pena : Eo consilio
tanta i m manilas poenae denuntiata est, ne ad eam unquam perveni retur. La
quale sentenza, divulgata ne'tempi dell'autore delle notti attiche, è respinta
erroneamente sino ai tempi abbastanza reali del primo decemvirato: reali nel
senso, che le leggi erano scritte per esser fatte. Se la carità del tempo ha
voluto portar via dalla Tavola IV de jure patrio le disposizioni durissime
circa la patria potestà sconfinata, resta la traduzione di Dionigi
d'Alicarnasso che la riassumecosi:Siveeum (filium)incarcerem conjicere,sivefla
gris caedere, sive vinctum ad rusticum opus detinere, sive occi dere vellet.
Papiniano riassume in tre parole : Vitae necisque potestas. Forse sino alla
virilità del figlio? Toto vitae tempore licet filius jam rempublicam
administraret et inter s u m m o s magistratus censeretur, et propter suum
studium in rempubli cam laudaretur. E si dà cura Dionigi di farci sapere che i
D e cemviri non ebbero a portarla di fuori, come si favoleggiava, questa legge,
m a a dedurla da quella che Papiniano chiamava lex regia, farla quarta delle
dodici e metterla nel foro: Sublato
regno,decemviriintercaeterasretulerunt,extatqueinXII Ta bularum , ut vocant,
quarta, quas tunc in foro posuere. C i ò c h e r e s t a d i q u e s t a t a v
o l a , è il p i ù u m a n o , i n c h e m o d o
cioèsipossaaffermare:Filiusapatreliberesto;ma ciòcheil tempo ha cancellato, non
è tale da giustificare tutto lo sdegno di Cicerone contro soltanto le ultime
due delle dodici. E che si deve dire, rispetto all'eguaglianza, quando si
passa alla tavola V , per considerare la condizione delle donne, eccet tuate le
Vestali? Anche qui il tempo ha passato la spugna,ma restano le istituzioni di
Gaio per darci notizia di quel che manca : Veteres voluerunt feminas, etiamsi
perfectae aetatis sint, prop ter animi levitatem in tutela esse... Loquimur
autem , exceptis virginibus vestalibus, itaque etiam lege XII. Tabularum cau
tum est. Quando vuolsi davvero spiare dove un corpo privilegiato,
predominante e nel medesimo tempo minacciato, studia l'alto riparo, si dà uno
sguardo alla legislazione penale. L'abbon danza,la ferocia delle pene, la
rapidità della procedura penale, compensano la parvità della ragion civile. Una
tavola delle d o dici,l'ottava, de delictis, ci fa intendere che i
decemviri,già scelti nell'ordine de'senatori,nè tra gli Dei indigeni nè tra'pe
regrini accolgono la Dea Clemenza . Cicerone mostra consolar sene, assermando,
ne'libri della Repubblici, che per pochi m a leficii le XII Tavole stabilirono
la pena capitale. Il vero si è che, oltre il taglione, comune già a quasi tutte
le legislazioni penali primitive, e le verghe che scendono ad illividire anche
l'impu bere, la morte vi spesseggia, tanto che, traboccata dalla tavola ottava,
entra ad occupare due disposizioni della nona, la quale tratta non più di reati
e pene, ma de jure publico. 120 Si noti, a questo proposito, che
l'assenza della morte dalla tavola X (dejure sacro) ricorda che la religione in
Roma, se condo il carattere italico,non è l'elemento predominante, e che, come
ho notato sopra,in Roma piuttosto gli Dei intervengono in servigio dell'uomo,
che l'uomo degli Dei. E il rapido decre scere della giurisdizione pontificale
ne'giudizii penali riserma questo concetto. Non è già che io tenga poco conto
delle testi monianze di Dione, di Livio e di Tacito rispetto all’espiazione
religiosa; ma voglio dire che nell'intervento del principio sa crale in tutte
le legislazioni penali primitive è notevole questa differenza, che, dove presso
gli altri popoli entra come conte nuto,in Roma interviene piuttosto come forma;
altrove cioè gli offesi possono essere gli Dei che costituiscono espiatrice la
pena , e in R o m a l'elemento sacrale serve a rendere più temibile la pena,
senza nè sospendere la provocatio ad populum , nè sot trarre ai comizii centuriati
il diritto di sentenziare negli affari capitali per un cittadino romano.
Cicerone ricorda nel De le gibus che le dodici tavole vietano di deliberare di
cosa capitale fuori del comizio massimo : De capite civis rogari,
nisimaximo comitiatu, vetat.-- Non dimentico nemmeno l'etimologia
sacra delle parole supplicium e castigatio ; m a ricordo che Festo c o n corda
con Cicerone, affermando: At homo sacer is est quem POPULUS indicavit ob
maleficium . E quel populus chiarisce la molta differenza dal diritto germanico,
secondo il quale la di vinità direttamente offesa chiede espiazione diretta per
mezzo dei suoi sacerdoti. Avverrà subito, ed anche in seditione, che dall'una
egua glianza si tenti passare all'altra, dalla formale alla sostanziale, dalla
eguale certezza della legge,alla certezza della legge eguale, e che appunto il
matrimonio sarà l'argomento del transito, perchè contro i corollarii, cioè
contro gli effetti visibili, c o m i n ciano le sedizioni popolari ; m a questa
sedizione appunto, questa prima sedizione contro le dodici tavole, doveva
avvertire Cice rone che quel divieto di certo connubio era il corollario,
cioè 121 Tolto l'elemento sacro, resta abbastanza di asprezza penale per
fare intendere quanto poco spazio resti alla ragione civile, la quale non può
durare in tanta ineguaglianza, se non mante nendo la distanza tra' due ordini.
Quindi, l’undecima tavola che vieta il matrimonio tra'patrizi e plebei, è
l'espresso corollario delle dieci prime, è l'opera, onde i secondi decemviri
compiono quella de'prini, è la lontananza custode dell'ineguaglianza. Come il
senatore veneto non arrivava a comprendere il con nubio tra il moro Otello e la
bianchissima Desdemona, cosi il senato romano non l'avrebbe compreso tra
patrizii e plebei, due ordini lontani quanto due razze.La pari certezza della
legge si,non la parità di diritti nelle leggi. Or,di che si sdegna Ci cerone?
Che il matrimonio, permesso d'ordinario anche co'po poli stranieri, sia
interdetto fra'plebei ed i patrizii con inuma nissima legge. È sdegno
rettorico, è, almeno, poco logico, è troppo postumo, troppo gelido: egli aveva
troppo ammirato le premesse. Le dodici tavole son fatte, perchè tutti abbiano
l'e guale certezza della legge (e fu vittoria della plebe), e tutti la certezza
della legge ineguale (e fu vittoria del patriziato). che quella
lontananza tra gli ordini era designata a custodire l'ineguaglianza tra'sommi e
gl'infimi. È da esaminare, in fatti, donde comincia la reazione della plebe
contro le dodici tavole, affinchè l'equità cominci a p e n e trare nel
contenuto della legge. Non si deve credere che co minci con la legge Valeria
Orazia De plebiscitis due anni dopo la promulgazione delle dodici tavole, per
le seguenti ragioni : 1o perchè questa legge è la semplice soluzione di un diritto
con troverso circa il valore de'plebisciti, non è l'affermazione di un diritto
nuovo e contrastato ; 22 che il plebiscito, anche fattosi obbligatorio per
tutto il popolo, non si sottrae all'auctoritas patrum per l'esecuzione; 3a che
non per questa legge arse la terza sedizione, di cui parla Floro, nè avvenne la
secessione sul Gianicolo,della quale parla Plinio; 4a che questa legge non si
intitola da tribuni, ma da consoli. Livio dice che si venne a questa soluzione,
« ut quod tributim plebes jussisset, populum teneret », 0, per dirla con
Plinio, « ut quod plebs jussisset, omnes Quirites teneret », perchè prima cið
era in controverso iure. Ma quando fu che la plebe arse in vera sedizione sul
Gia nicolo ? quale e perchè una terza sedizione, dopo le due, l'una sul monte
Sacro e l'altra sull'Aventino ? e perchè contro le d o dici tavole, se tanto le
aveva volute, e se la promulgazione di queste era stato il massimo ufficio
tribunizio, e sei anni appena e non interi dopo la promulgazione ? Ed, ecco,
qui appare il nome di un tribuno, Caio Caruleio, una rogazione vivamente
contrastata ed una sedizione vera di plebe che assale la legge nelle
conseguenze ed osa divorar la distanza tra sé ed i patrizii per appianare
l'ineguaglianza. La ribellione contro le dodici tavole comincia contro l'ultimo
co rollario : la plebe non sillogizza invidiosi veri intorno alle cause, assale
l'effetto. Rotto il primo, tira sulle cause. E quella gene razione che spezza
il primo effetto, è destinata ad atterrare tutta l'istituzione. Tal è il
significato della Legge Canuleia De con nubio patrum et plebis. Fatta la
breccia, esaminiamo che cosa 122 in trent'anni resta di tutto
l'edificio delle dodici tavole. Per la generazione che succede, si troverà che
la cosa men necessaria è il carmen necessarium .Averlo fatto imparare e cantare
a coro da fanciulli non vuol già dire che il carme dell'ira non suonerà più
alto da coro di uomini armati. La prima sedizione è contro il supremo
corollario delle d o dici tavole, contro il divieto di matrimonio fra patrizii
e plebei ; l'ultima sedizione di questa medesima generazione è contro il
console patrizio, vietante la divisione dell'agro pubblico tra i plebei, i
quali per questa via si liberavano di fatto dalla terza delle dodici tavole,
dalla più aristocratica, da quella appunto che, secondo Vico, doveva sancire il
diritto feudale rustico del carcere privato, che i patrizii avevano sopra i
plebei debitori. E , sebbene il Console fosse vincitore o stesse sopra il
terreno vinto, pur vide i Tribuni prevalere ed i lieti onori trionfali tor
nargli ne'tristi lutti dell'esilio. Poche considerazioni storiche varranno a
lumeggiare i fatti esposli in questo capitolo. 1. La legge agraria, reclamata e
non potuta attuare dal l'anno 268 di Roma sino all'anno 299, cioè reclamata e
non potuta attuare da tutta la generazione che precede alla promul gazione
delle dodici tavole, é e doveva essere la conclusione pratica della generazione
che succede alle dodici tavole. Ciò che erasi cominciato nel sangue patrizio di
Spurio Cassio,dove vasi compiere con l'esilio di Furio Camillo, patrizio
vincitore. 2. Questa generazione succeduta alla promulgazione delle dodici
tavole, cominciando la lotta contro la legge sul matri monio e conchiudendola
con la divisione dell'agro pubblico sopra il territorio de'Vejenti, volle
togliere la distanza tra gli ordini per giungere all'eguaglianza degli ordini.
Potè essere detto, con sentimento del vero, che la divisione dell'agro accen
nava finita la divisione de'ceti. 3. Questa divisione dell'agro dopo la
comunanza de'm a trimonii, per l'eguaglianza degli ordini, dice che l'equità
non 123 è più nella sola notizia della legge, m a dentro la
legge. L'anno 363 di R o m a annunzia che le dodici tavole, benefiche quanto
alla conseguita promulgazione, sono state superate nel conte nuto : annunzia
che l'equità è passata dalla forma nella sostanza . Dietro il Tribuno verrà il
Pretore, e già Caio Canuleio chiama il figlio di Furio Camillo. 4. Se è vero
che la lotta per l'esistenza, la quale è di tutti gli animali, si faccia lotta
per il diritto per diventare u m a n a , è vero pure che in nessun luogo questa
lotta ebbe una espres sione più pura,cioè più umana,che in Roma,ed in nessun
tempo quanto nella generazione che succede alla promulgazione delle dodici tavole.
Posso dire che gli ottant'anni che corrono tra il tribuno Caio Canuleio ed il
primo pretore, figlio del già espulso patrizio Furio Camillo,comprendono la più
alta espres sione della lotta per il diritto. Si può dire che dentro questo
periodo si raccolgono le premesse eterne della lotta umana. Dico la più pura
espressione, non per enfasi, ma perchè questa lotla si fa tra uomo ed uomo, tra
ordine ed ordine di cittadini per la parità civile, politica e sociale, senza
intervento di Numi, senza pretesti religiosi, senza fini sovraumani.E, se in
questo tempo la plebe, strappando il diritto augurale, fa n a scere i Decemviri
sacris faciundis, non è già per propiziarsi i Numi o per un fine direttamente
religioso, ma per un fine assolutamente ed umanamente giuridico. Questa è la
grandezza di R o m a , ed il segreto dello studio non solo continuo, m a
crescente, intorno all'indole tipica del diritto romano. Compiamo questo esame
con la ricerca dello istituto pre torio e del responso. 124 -
125 CAPITOLO UNDECIMO. Conclusione dell'esame Aprendo il capitolo
precedente, ho affermato che nella suc cessione delle cose civili il mutamento
politico framezza tra una nuova esigenza giuridica e la legge scritta. Ho
dimostrato, infatti, che,quando l'equità s'impone come eguale certezzadella
legge,iltribunato diventa magistratura tipica; e,quando l'equità s'impone come
uguaglianza nella legge, la repubblica signorile si fa popolare. Non solo tutte
le magistrature si aprono alla plebe, m a alcune restano esclusivamente plebee.
N o n si deve ricorrere, per vederne la formazione, ai m o menti astratti del
pensiero, cioè ad una successione puramente logica d'idee, m a al pensiero
determinato dal bisogno, cioè dalla natura,considerata sotto il doppio
rispetto, nella compagine della persona e nello ambiente. Cotesto è il
naturalismo storico. Il bisogno insoddisfatto ed assolutamente insuperabile per
le condizioni della natura circostante non lascia sprigionare il pensiero nè
iniziare civiltà veruna. Un bisogno superato, per condizioni benigne dello
ambiente, libera il pensiero, ond'esce la prima favilla di una civiltà e di una
storia. Insieme col pensiero sorgono alcune pretensioni, cioè una certa
coscienza giuridica, proporzionata a quel bisogno, e, poco Ora, ci
sarebbe impossibile aprire questo capitolo e proce dere innanzi senza
investigare come e perchè si formi una nuova esigenza giuridica.
126 dopo, una determinata forma politica, proporzionata a quell'esi genza
giuridica. Mutato,crescendo,ilbisogno,si dilatailpen siero, si evolve la
coscienza giuridica, si muta la forma politica, si cangia la legislazione del
giure pubblico e privato e delle rispettive procedure. Se il pensiero cresciuto
levasi a superare di tanto il bisogno naturale, quanto il bisogno ha superato i
mezzi e l'ambiente, allora non c'è da aspettare,nè altra forma politica, nè
altra le gislazione che duri: si aspetta la rovina che seppellisce una civiltà
finita, per dare origine ad una civiltà nuova che equilibri le funzioni della
vita,instaurando la proporzione tra il pensiero ed il bisogno, tra il bisogno e
l'ambiente. Ora, è forse un annunzio di rovina la sentenza di Plinio :
Latifundia perdidere Italiam,jam vero etprovincias? Asseguita la divisione
dell'agro pubblico, con la quale si chiude il periodo della forte generazione
che succede alla pro mulgazione delle dodici tavole,abolita di fatto la tavola
III delle dodici (1), depositaria della preminenza di un ordine di cittadini
sull'altro, si vede nascere un gran numero di piccoli proprie tarii che
comincia a formare come uno stato medio in Roma, il quale meglio de'due estremi
traduce in atto il genio agrario di Roma,e,mentre da una parte serba integro il
maschio co stume antico e militare, dall'altra annunzia che l'equità ha fatto
gran cammino : dalla forma è passata nella sostanza delle leggi. Abolita di
fatto la terza delle dodici tavole, le altre undici stanno ritte come mummie
che più tardi arriveranno dall'Egitto, documenti di una civiltà sepolta. Il
carmen necessa rium si canterà come memoria di popolo legislatore che ha
bisogno di ricordarsi per innovarsi. Per estimare quanta parte di vero si
contenga nell'annunzio di rovina,che ci viene da Plinio,bisogna avere in vista
il ca rattere di proprietà in R o m a . (1) Dico tirsa o quarta ecc., per
seguire l'ordine più accettato. dilui.
No:lalottatramonarchiaepatriziato prima, e poi, continua, tra patriziato e
plebe, è possibile in Roma , in quanto qui più che prima e fuori è spiccato il
sentimento personale: sentimento proprio, più che ad altri, ad un popolo
agricoltore e militare, il cui genio sarà giu ridico. Chi coltiva il campo
specialmente nel modo in tensivo dei primi nostri e lo disende, sente insieme
più intenso il sentimento del mio e del luo, e, per conseguenza, dell'io e del
tu . Intenso è, dunque, nel cittadino romano il sentimento della proprietà
personale, quanto illimitato il sentimento di disporne : e l'uno e l'altro
contenderanno allo Stato romano la facoltà di un'imposta fondiaria. Nė ci fu
contesa: lo Stato non osò esco gitarla: vi si sarebbe ribellato ilgenio agrario
di Roma.Quando dicesi mancipium , si accenna all'origine romana dellaproprietà;
quando mancipatio, alla libera trasmissione ; quando dominium ex jure Quiritum
, all'effetto dell'uno e dell'altra ; e quando res mancipi e nec mancipi, si
accenna non solo ad una divisione tra le cose,ma alla prima possibilità di una
possessione boni taria accanto al dominio quiritario. Troviamo, in fatti, un
limite nelle dodici tavole alla facoltà di possedere e di disporre? Rispetto
alla prima, non altro limite che quello di vicinanza, donde quelle servitù o
recipro canza di oneri, che sono strettamente in rerum natura. La ta vola VII è
mirabilmente sottile nel determinare i modi ,aflinchè il dominium ex jure
Quiritum non ne resti di troppo m e n o mato : neppure le chiama servitù ; m a
le fa passare sotto il ti tolo de jure aedium et agrorum . E rispetta tanto la
pietra ter minale, segno di proprietà sovrana, che, per entrare nel campo
vicino a cogliere un frutto caduto dal proprio albero, ha avuto 127
Bisogna,innanzi tutto,smettere ilpregiudizio,cheloStato di R o m a ripeta lo
Stato greco o di nazioni incivili, durante la civiltà romana : bisogna
rimuovere quest'affermazione di Hegel, che cioè il padre sfogava sulla famiglia
quella durezza che lo Stato sopra gran bisogno di dirlo: Ut glandem
in alienum fundum proci dentem liceret colligere. Cosi fatto dominio, perchè
del tutto quiritario rispetto al l'origine ed al genio, sarà tale anche
rispetto all'estensione ed alvalore:ilforestiero non lo acquisterà innessun
modo,nė per mancipazione, nè per usucapione, nè per cessione innanzi al
magistrato (injure cessio), nè in maniera quale altra si vo glia. – Tal è il
significato vero ed intero di quella legge della Tavola VI (altri
impropriamente dicono della III) : ADVERSUS HOSTEM AETERNA AUCTORITAS. E tutto
questo è cosi assolutamente romano, che,per farlo greco più o meno,si ricorrerà
invano a Solone. Sciendum est, in actione finium regundorum illud observandum
esse,quod ail exemplum quodammodo ejus legis scriptum est, quam Athenis Solonem
dicitur tulisse.Un quodammodo non basta a tramutare la leggenda in istoria.
Rispetto poi alla facoltà di disporre, non altro limite in tutto questo periodo
primitivo che quello della parola pro nunziata. QUUM NEXUM FACIET
MAMCIPIUMQUE,UTI LINGUA NUN CUPASSIT,ITA JUS ESTO. Ne,quanto al
testatore,sopravvengono limiti maggiori : UTI LEGASSIT SUPER PECUNIA TUTELAVE
SUAE REI, ITA JUS ESTO. È facoltà sovrana di cittadino sovrano, di chi possiede
ed esercita la lex curiata de imperio. Quando più tardi verrà una legge Cincia
de donis et m u n e ribus ad annunziarci la necessità di un limite alla facoltà
di di sporre, Questo che ho detto, non mi consente di accostarmi, come fa
Mommsen,a Niebuhr che vuole introdurre qualcosa di do rico e forse di
germanico,cioè di comune,nell'indole della pro prietà prediale romana,la quale
fu affatto personale. Quanto alla mancata persona del figlio, non fu senza
senti mento del vero averla spiegata e per la manus 1 128 è segno che la
proprietà è mutata, è mutato con essa il diritto di proprietà, e che in un
altro periodo è entrata la storia di Roma. espressione del
carattere militare la quale il marito aveva sopra la m o glie, e per l'istinto
di padronanza che il civis optimo jure sen tiva sopra ogni suo prodotto,
compreso il figlio. Non si dura fatica a vedere che la patria potestà nel civis
sorge, si deter mina e si svolge piuttosto come un sentimento di proprietà, che
di carità. Erano già, sin da prima, due modi di possedere separabili, perché,
dove mancava la possibilità della patria p o testas, mancava il dominio ottimo
; e l'uno e l'altro comprende vano facoltà illimitata di disporre. Non parmi
aver dimenticato gli argomenti addotti da Ihering contro l'analogia veduta tra
il dominio oltimo e la patria p o testà. Io vado oltre la semplire analogia,
trovo poco calzanti le osservazioni di Ihering,e domando,poichè grave è la
quistione, le seguenti cose : 1.9 Fuori del sentimento o, a dir chiaro, fuori
del concetto di padronanza sul prodotto, secondo il dominio ottimo, dove si
andrebbe a trovare la ragione storica, efficiente, della patria potestà,cosi
illimitata,cosi personale,cosi aristocratica in Roma ? La si presenterebbe come
una esplosione inesplicabile, della quale poi si andrebbero a cavillare le
origini dentro qualche piccolo istituto tra lo storico ed il mitico e non
rispondente alla grande importanza dello effetto. 2. Le azioni per rivendicare
un figlio sottostanno alla procedura delle azioni reali? Non è il giuoco della
dialettica giuridica,che modella le azioni di famiglia sulle actiones in rem :
è invece la costituzione della famiglia, che crea cotesta proce dura. Ogni
procedura è tale, in quanto procede da un diritto e per un diritto. 3. È un
errore ricorrere ai limiti escogitati intorno alla patria potestà per
separarla, o distinguerla almeno, dal dominio, perchè anche intorno al dominio
furono escogitati alcuni limiti e ne'tempi più rigidi della patria potestà. Il
figlio istesso p o teva provocare l'interdizione pretoria contro il padre che
dava fondo alla cosa domestica : Moribus per praetorem interdicitur. 9-
G.Bovio.DisegnodiunastoriadelDiritto,ecc.,ecc. in 129
Ecco,nel medesimo tempo,un limite alla potestà ed al do minio ; m a non
crea differenza. 4. Ed è un errore ricorrere al peculio, acquistabile dal
figlio, per crearla una differenza tra potestà patria e dominio, perchè il
peculio non arriva a distinguere, rispetto al potere paterno,illfigliodal
servo.Tre cose,circailpeculio,dicechiaro Varrone : chi può possedere il peculio
(i minori ed i servi); chilopuòpermettere(ilpadre edilpadrone);echeèilpe culio
la pecudibus dictum ). Se un istituto c'è, in cui il pater ed il dominus si
presentano proprio sotto il medesimo aspetto è appunto il peculio; e, se un
luogo che possa riconfermarcelo, è questo di Varrone. 5. Gli è vero, in ultimo,
che, quanto al modo testamen tario di disporre, si vedono in fascio figli,
servi e cose ? Nella Tavola V si legge : Uli legassit super pecunia tutelave
suae rei, ita jus esto. Occorrono davvero tempi umani per tradurre u m a
namente : sulla tutela de'suoi.Ma legassit implica dominio ed ordine; super
spiega l'obbietto; suae rei dice in che rapporto si trovavano i suoi verso il
testatore. Non ignoro che questo modo d'intendere la patriapotestà ha messo in mala
vista il mondo romano innanzi agl'intelletti miti e pietosi. Ma questi hanno a
considerare che una civiltà vuol essere giudicata da'suoi effetti; che il
sentimento giuri dico, diffuso da Roma nel mondo, deriva dal sentimento perso
nale più forte in R o m a che in Grecia ed assai più che in oriente ; e che da
questo virile sentimento personale derivano le lotte intestine di R o m a, la
proprietà romana e la potestà patria. Vico crede ripetuta questa eroica
barbarie nel diritto feudale, e ripetuta la distinzione tra dominio quiritario
e bonitario nella differenza tra il dominio diretto e l'enfiteusi, le
mancipazioni nelle solennità del diritto feudale, e le stipulazioni nelle
investi ture, come aveva veduto ripetersi le adunanze aristocratiche dei Quiriti
nelle corti armate e ne'parlamenti, che nella rinnovata barbarie decisero
de'nobili e delle loro successioni. 130 131 Vedremo che nè i
tempi ricorrono, nè le analogie sono fon damento di ricorsi, né il tribuno, il
pretore e il giureconsulto si sono ripresentati alla storia. Diciamo di
presente soltanto questo, che, quando in Roma si giunse a poter dire: « Patria
potestas magis in charitate quam in atrocitate consistere debet » è segno che
il dominio quiritario è mutato. Ed è un gran cri terio di medesimezza tra'due
istituti - il dominio ottimo e la potestà patria - l'isocronismo delle loro
fasi neil'evoluzione. Chi mettesse occhio a cotesto,smetterebbe dal cercare
differenze sottili che non arrivano a distruggere il fondo comune. La
generazione cheabolivalatavolaterza,determinanteildo minio ottimo, segnatamente
nel creditore, aboliva di fatto anche la quarta, scemando il soverchio della
patria potestà. Può af fermarsi, senza alterare la storia, che dal giorno,in
cui la Legge Petillia Papiria de nexis, secondando i tribuni Sestio e Licenio,
disse inumano e proibì che i debitori potessero darsi per acs et libram in
servitù al creditore, e al dominio ottimo fece un grande strappo, sottraendo la
servitù de'nexi, da quel giorno cominciò ad attenuarsi sopra i figli la potestà
patria, crudele assai volte quanto quella de'creditori e de'padroni,per
l'eterna ragione espressa in ferrea forma dall'Alfieri : « Poter mal far
grand'è al mal fare invito. » Cosi potevano e facevano il padrone,ilcreditore,
il padre, sul medesimo fondamento del dominio ottimo. Seneca, tratlando della
clemenza, accusava Erixo che, senza convocare un consilium , aveva incrudelito
nel figlio, sollevando lo sdegno del popolo che voleva esercitare contro lo
snaturato le stesse forme sommarie che quegli aveva contro il figlio. Ma questa
collera di popolo, della quale parla Seneca, non è una esplosione, è figlia del
maturo sentimento dell'equità e risale sino a que'tempi della repubblica,
ne'quali un malvagio credi tore, L. Papirio, sfogando la sua crudeltà
ne'debitori, provocava una sedizione popolare, un'altra collera, onde nacque la
legge de nexis, che, già svelando la presenza del pretore,
chiarisce l'equità essere passata dalla forma nel contenuto della legge. Tito
Livio, in fatti, ricorda la Legge Petillia Papiria come coro namento della
generazione, nella quale è apparso il pretore. Eo anno plebi romanae, velut
aliud initium libertatis factum est, quod necli desierunt. Mutatum autem jus ob
unius foeneratoris simul libidinem , simul crudelitatem insignem . Tre
osservazioni facciano i pensatori intorno a questo luogo di Livio. La prima,
che quell'aliud inilium libertatis si ha da tradurre un nuovo momento
dell'equità, cioè l'equilà passata dalla forma della legge nella sostanza . La
seconda, la causa o c casionale, la crudeltà falla libidine, che chiarisce e
documenta l a s e n t e n z a d i A l f i e r i . L a t e r z a , l ' a n n o ,
il 4 2 8 d i R o m a , n e l q u a l e si compie appunto la generazione che tra
le ire civili vide appa rire, componitore equo, il pretore. Assai prima che
Alessandro Severo obbligasse un padre ad accusare il figlio ai giudici
ordinarii, assai prima dico, proprio nel miglior fiorire della repubblica,
scaduto, innanzi a questo aliud initium libertatis,ildirittoquiritario,furonorallorzatiquei
consigli domestici che frenarono l'arbitrio paterno. Nella generazione,in cui
apparisce ilpretore,segnacolo del l'equità nella legge, cioè dell’aliud initium
libertatis, la ditta tura può essere plebea, assolutamente plebeo uno de'censori,
i plebisciti, che avevano conseguito già università di leggi, si li berano
dall’auctoritas patrum , si pubblicano i fasti e si pubbli cano le azioni della
legge, e, pubblicati i fasti, un plebeo può 132 E intorno al medesimo
tempo era cominciata a prevalere la sentenza di Cicerone, negli Ufficii, circa
le tutele, le quali non volevano essere considerate tanto come un diritto
privato ed una quasi surrogazione della potestà patria,che le imponeva incondi
zionatamente,quantocome un beneficousfiziosociale,ad utilitatem corum qui
commissi sunt, non ad eorum quibus commissa est. E di quest'ordine delle date è
da tenere gran conto per la giusta valutazione delle istituzioni.
salire al pontificato massimo. Cajo Marzio Rutiliano e Tiberio Coruncanio
sono due nomi plebei che significano adempita l'equità civile e politica nella
legge :il primo plebeo dittatore ed il primo plebeo pontefice massimo.
Fermiamoci, per fare poche osservazioni. Che significa nell'anno 458 di
Roma,ottoanni dopo la pub blicazione de'sasti e delle azioni di legge,
trent'anni in punto dopo la Legge Petillia Papiria de nexis, e due generazioni
dopo l'apparizione del pretore, che signisica, domando, nell'anno 458 la Legge
Ortensia De plebiscilis, quando, prima e dopo del pre tore,c'erano già state la
Legge Valeria-Orazia De plebiscitis (305) e la Legge Publilia (416), quella
·appunto che, secondo Vico, dichiarò popolare la repubblica romana ? Quando
vediamo Livio, Plinio ed Aulo Gellio ripetersi intorno a questa legge de'plebi
scili,e ripresentarla, riproducendo le meilesime formole,noi vo gliamo sapere
se occorrevano tre leggi, o una medesima legge in tre tempi diversi,per far
entrare i plebisciti tra le sorgenti di diritto pubblico e privato. M 'ė parso
di vedere la critica storica imbarazzata e quasi sospettare della sincerità
delle formole tra mandateci dagli scrittori citati sopra. Or bene,a me par
chiaro che le tre leggi de plebiscilis in tre t e m p i, c h e a b b r a c c i
a n o u n s e c o l o e m e z z o , c i o è d a l l a p r i m a i m mediata
reazione contro le dodici tavole, e direttamente contro la nona, sino alla
dichiarazione ellettuale della repubblica popo lare, non si ripetono,perchè in
nessuna istoria si trovano nè sono possibili coteste ripetizioni, m a sono tre
momenti progressivi del l'equità nel medesimo obbietto, cioè nei plebisciti,
ordinati a d e mocratizzarela repubblica. C o n l a p r i m a , c i o è c o n l
a V a l e r i a - O r a z i a ( 3 0 5 ), s i v i e n e a d a r valore di
universalità ai plebisciti, secondo le tre formole con sone, l'una di Livio :
Ut quod tributim plebes jussisset, populum teneret; l'altra di Plinio: Ut quod
ea jussisset, omnes Quiriles teneret ; e l'altra di Aulo Gellio: Ut eo
jure,quod plebes statuis set, omnes Quirites tenerentur. 133
134 Con la seconda, che è la Legge Publilia, che altri mettono sollo la
data del 415, altri del 416, alcuni sotto il nome di C. Publilio Filone,
tribuno della plebe altri di Q. Publilio Filone, dittatore (Vico lenne
giustamente io credo pel dittatore), vennesi a fare non solo obbligatoria, ma
presta bilita l'auctorilas patrum per tutti i progetti di legge sottomessi ai
comizii centuriati. Tito Livio scrive : Ut legum quae comitiis centuriatis
forrentur, ante inilum suffragium , Patres auctores ficrent.Ed ,ecco,quell'ante
initum suffragium siela l'arclorilas di un caput mortuum , sopra il quale Silla
vorrà invano alitare la vita. Con la terza, che è la Legge Ortensia (458 , che
Plinio dice essere stata di Q Hortensius dictator, l'auctoritas è troncata di
netto. La formola che abbiamo già detta di Cicerone: « Potestas in populo,
auctoritas in Senatu sit », è già superata. La potestà trova in sè l'autorità,
e la Legge Ortensia è l'espressione radicale della repubblica popolare.Mi sia
lecito dire che la suprema equilii è questa equazione tra la potestas e
l'auctoritas. Mi è parso necessario notare che l'universalilà de'plebiscili,
l'obbligatorietà prestalilita dell'autorizzazione e, in ultimo, l'a bolizione
dell'autorità estrinseca sono non ripetizioni di una m e desima legge, m a tre
leggi plebiscitarie che dinotano dalle dodici tavole sino alla Legge Ortensia
tre gra di progressivi dell'equità nella legge,tre momenti notevoli, onde la
repubblica si demo cratizza. Chiariamolo anche meglio con una breve considerazione
circa la pubblicazione de'fasti. La plebe un secolo quasi dopo i Decem
virilegibus scrilun dis(292)consegui iDecemvirisacrisfaciundis(386),edunaltro
mezzo secolo dopo (453), democratizzata civilmenie e politica mente la
repubblica, riusci a democratizzarla anche religiosa mente, occupando le
dignità sacerdotali, sicchè di otto nel col legio de'pontefici ne prese
quattro, e cinque de'nove nel col legio degli auguri. È segno che il
giureconsulto è uscito dal l'atrium , che il suo responso non è più un oracolo,
che i fasti sono pubblicali, e che la procedura, nella quale il diritto si
ha per il 416 e da muovere, non è più un segreto di parte, ma
è promulgata come il diritto istesso. L'ius Flavianum (450) ha questo grande
significato : non vi sono piu misteri. E questa espressione tra dotta dalla
lingua religiosa nella lingua politica significa : non vi sono più privilegi.
Questa promulgazione de'fasti, de’misteri giudiziarii e delle formole
sacramentali per via di semplice evoluzione,senza urti, senza rogazioni, nè
sedizioni, nè secessioni,parve alla plebe ro mana un si grande miracolo, che
volle, dentro i tempi storici, creare una favola plebea e contrapporla ad una
favola patrizia, cominciata a diffondersi in questi tempi. La favola patrizia
era quella di Furio Camillo,scoppiato ful mineo sulla bilancia del Gallo, ed
acclamato secondo fondatore di Roma.Cosi potè dirsi,un patrizio, Giunio Bruto,
fondò la repubblica ; un patrizio, Furio Camillo, la salvò. La favola ple bea
fu quella del liberto Gneo Flavio che ruba il mistero della procedura al
giureconsulto patrizio Appio Claudio Cieco e butta in pubblico i fasti e le
formule sacramentali. Certo, Polibio e Diodoro Siculo non parlano del miracolo
di Furio Camillo, e il loro silenzio è troppo tardi interrotto dalla narrazione
drammatica di Tito Livio. E , per simile, molte erano ai tempi di Cicerone le
controversie circa l'origine della pro mulgazione laviana, nè Cicerone osa
spiegarsela. Ma ben si vede in quel liberto, profanatore del mistero, la plebe
fatta libera, ed in quell’Appio Claudio Cieco il patriziato ignaro dei tempi.
In Gneo Flavio,di liberto,creato tribuno, senatore ed in magi stratura curule,
è passato l'occhio mancato ad Appio Claudio. Que'che, tormentando anche le
parole,mettono in forse tante narrazionidellastoriadiRoma,daRomolo
aVirxinia,perché non hanno osato portare la critica storica dove più occorreva,
sull'origine dell'ius Flavianum ? (1). (1) Altri, per fare più credibile il
racconto, dissero che Appio Claudio della famiglia claudia, stata sempre nemica
alla plebe, e punito di cecità da’Numi in età adulta per non si sa quale colpa,
si fece lui proprio ispi 1 135 E ,dopo queste brevi
considerazioni, possiamo spiegarci intero l'ufficio del pretore. Tra le
sorgenti del diritto pubblico e privato sono entrati i plebisciti.Sublata
auctorilatepatrum,larepubblicaèdemocra tizzata del tutto. Le leggi son,ma chi
pon mano ad esse? Il Magistrato. Farle è del Senato, della plebe, del popolo ;
dirle è del magistrato . Altro è ius condere, altro è ius dicere : due funzioni
distinte e connesse. Condere è la parola potesta tiva del legislatore ; diccre
è la parola sacramentale del m a g i strato . Dicere è la parola generale
dell'applicazione della legge : i modi sono ius dicere, cdicere, aldicere, interdicere.
Il derivato è edictum.L'edictum è la viva vox juris civilis. Questo è saputo, e
con questo, che, quando si pronunzia la parola edictum assolutamente,ilpensiero
non ricorre nè all'edic tum aedilitium , nè all'edictum provinciale, nè alle
forme più o meno secondarie di edicta perpetua,repentina,tralatitia,ma ri corre
direttamente all'cdictum praetoris. Non è cecità nè arbi bitrio del pensiero
moderno, è perchè cosi, prima di noi, inte sero e dovevano intendere gli
antichi. Quando Papiniano parla del diritto onorario, lo dice cosi nominato ad
onore del pretore; quando Gaio parla dell'editto che emenda le iniquità del
diritto, si riserisce all'editto del prelore ; ed al pretore si riserisce A s c
o nio, quando accenna la ragione dell'editto perpetuo ; e del pre tore si duole
Cicerone, quando vede l'editto superare le dodici tavole.La ragione storica è
questa:la presenza del pretore si gnifica che le due parti avverse, nelle quali
era divisa R o m a , si sono equilibrate ; il suo editto, in quanto spiccatamente
porta ratore a Gneo Flavio, plebeo e figlio di un liberto, della novità
benefica che è l'ius Flavianum , onde i pontefici furono obbligati a far
pubblico il calendario. La versione pare più mitica del mito. 136
questa impronta di equilibrio, suona l'equità passata nella legge,
l'aliud initium libertatis, la repubblica signorile fatta popolare; il suo
editto è, perciò, la voce viva dell’ius civile, rimasto voce morta ; e però
entra innanzi alle dodici tavole che in vano Cice rone lamenta neglette. Questo
aliud initium libertatis è a b b a stanza commentato dalla definizione che del
diritto pretorio ci manda Papiniano,ilgiureconsultomassimo:Juspraetoriumest,
quod praetores introduxerunt, adiuvandi, vel supplendi, vel cor rigendi juris
civilis gratia, propter utilitatem publicam , quod et honorarium dicitur, ad
honorem praetorum sic nominatum . Se temesi che questa correzione pretoria sul
diritto civile possa tornare precaria ed incerta, la Legge Cornelia provvede a
sostituire l'editto perpetuo al repentino : Ut praetores ex edictis suis
perpetuis jus dicerent.Se Cicerone duolsi del vedere torpide le dodici tavole
innanzi all'editto, e se teme le sedizioni tribu nicie, dica se abbia trovato,
il temperare il s u m m u m jus, altro mezzo evolutivo suori dell'edillo
pretorio. Il summum jus a lui era summa injuria, a Terenzio summa malilia, a
Gaio iniqui tates juris. Chi tempera quell'ingiuria, corregge quella malizia, e
all'iniquilà sostituisce l'equilà ? La risposta è di Gaio : Haec juris
iniquitates edicto praetoris emendatae sunt. Si dorrà forse anche di questo
Cicerone, di vedere il m a g i strato sostituito al legislatore, la sentenza
alla legge, la persona allo Stato. E davvero il caso parrebbe strano, se non
fosse spie gabile in questo modo :che il pretore significa l'unità della legge,
dove il legislatore era stato duplice — patriziato e plebe; e si gnifica
l'equilà ristretta ai casi particolari, senza forma impera tiva, la quale è
tutta del legislatore. Dove compiuto è il periodo dell'equilibrio delle parti,
e co mincia il periodo unitario di R o m a nella politica, ivi è segno essere
cominciato il periodo unitario del diritto nel pretore. Ne procede questa
definizione dell'editlo pretorio, la quale compie,non nega la definizione di
Papiniano : L'editio pretorio è l'equilà ne'casi particolari, cioè volta per
volta ed anno per 137 anno , ed indica affermato l'equilibrio
delle parli in R o m a , e co minciato il periodo unitario nel diritto e nella
politica. La gloria del tribuno è di aver provocato la promulgazione delle
dodici tavole; del pretore, averle superate con l'editto. La promulgatio
chiarisce e denuda la repubblica aristocratica; S'ignorano davvero due cose :
in che tempo la Legge Aebutia abolisse le legis actiones, e sino a che punto. La
disputa è in decisa. Io credo che la legge Aebutia sia apparsa tra l'uno e
l'altro pretore, l'urbano ed il peregrino, e che abbia abolito gran parte delle
legis actiones, quando già alla procedura del vecchio diritto l'editto pretorio
aveva contrapposto una procedura con suetudinaria . C o m p o s t o , n e l l a
p e r s o n a d e l p r e t o r e , il d u a l i s m o , e c o m p i u t a ,
nella significazione dell'editto, l'unificazione giuridica, comincia
l'unificazione politica nella generazione immediatamente succe duta al pretore.
Il pretore appare tra il 387 ed 88;tra il 411 e 13 compiesi la prima guerra per
l'unificazione politica. Questa unificazione politica ha due periodi: 1°
l'unificazione d'Italia;2° l'unificazionedelmondo mediterraneo.Ilsecolo quarto
di R o m a abbraccia il periodo della unificazione giuridica, e si c o n c h i
u d e c o l p r e t o r e ; il s e c o l o q u i n t o a b b r a c c i a il p e
r i o d o d e l l a 138 dictum la demolisce e l'annunzia democratica .
l'e Sono da fare due considerazioni. L'una,che gli editti, non essendo
espressione di facoltà legislativa,non portano forma i m perativa, e non
possono averla ne rispetto all'origine che è giu risdizionale, nè rispetto
all'obbietto che non è universale. In tutta la forma dell'editto appare la
faccia benevola dell'interprete, non la severa del legislatore. L'altra è che
l'editto, per suggel lare l'equità, deve aver superato non solo il vecchio
diritto civile, ma la vecchia procedura:e però,se da una parte si lascia in
dietro le dodici tavole e le iniquitates juris, dall'altra supera r a pidamente
le legis actiones, cioè quella vecchia e aristocratica procedura,dentro la
quale si muovevano iprivilegiati della re pubblica signorile. 139 -
unificazione politica, e si conchiude col giureconsulto. Tra l'uno e l'altro
periodo della unificazione politica, cioè tra quello della unificazione ilalica
e l'altro dell'unificazione della civiltà m e d i terranea , appare il pretore
peregrino, che è l'apparizione del diritto delle genti, il quale viene a fare
umana l'equita latina. Il periodo dell'unificazione italica abbraccia le tre
guerre sannitiche, le quali si compiono nel 462. E nel'a generazione
immediatamente succeduta ( 190) comincia il periodo per l'uni ficazione del
mondo mediterraneo, che abbraccia le tre guerre puniche. Il disegno e l'effetto
delle tre puniche non furono la semplice indipendenza dell'Italia.Come dopo le
sunnitiche a Roma fu facile la guerra tarantina, nella quale meglio che il
ferro occorse l'oro per occupare la città da Milone messa all'incanto, e
farsi signora della regione che dalla Macra e dal Rubicone va sino al capo
Spartivento ed alla punta di Leuca, cosi dopo le puniche le fu facile la guerra
corintiaca,onde si annesse l'Acacia ed alla civiltà ellenica sostitui
definitivamente la latina. T :11 era l'effetto, perchè tale il disegno. Mommsen
ammira come gran falto nazionale de'Romani la costruzione della flotta, ed io
ripeto che quella impresa fu più che nazionale, più che italiana, e fu il
disegno del gran duello per l'egemonia sul mondo mediterraneo. Come le guerre
san nitiche significavano che l'unità d'Italia spettava od ai Romani od ai
Sanniti, cosi le guerre puniche significavano che l'unità del mondo
mediterraneo speltava o ai Romani od ai Carta ginesi. Fu crudeltà, ma fu
politica. Delenda Carthago è la conse guenza di un dilemma: la metropoli del
mondo mediterraneo o Roma o Carlagine. E Roma vinse,non perchè Marco Porcio
Ca È discutibile se sieno più feroci le guerre per l'indipendenza o
quelle per l'egemonia. Queste io credo : perchè alle prime b a sta disarmare il
nemico ; alle seconde occorre sterminarlo : D e lenda Carthago !
140 tone fu inesorabile e l’Affricano secondo più crudele del primo, m a
perchè R o m a aveva un ideale, una missione ed un convin cimento che mancavano
a Cartagine. Questa non è la metafisica della storia circa la predestina zione
de'sini, è la rislessione storica sugli effetti determinati. Roma vinse, e con
essa il Diritto romano che si farà umano, salendo,frapoco,dall'edittoalresponso;ma
con Cartagine,se fosse stata vincitrice, non si sa quale alto fine civile
sarebbe slalo vittorioso. Non è già che il popolo romano vinse, perchè aveva e
sentiva astrattamente la missione giuridica; ma aveva questa missione, perché
sin da principio il suo genio si era d e terminato di agricoltori e militari. E
che si fosse cosi m a n t e nuto sino alla guerra corintiaca – malgrado la casa
di Emiliano già aperta a Polibio, a Plauto, a Terenzio ed a Pacuvio si
chiarisce dall'ordine espresso dal console Lucio M u m m i o ai r o mani
deputati a portare a Roma da Corinto le meraviglie del Il pretore urbano
prenunzia il periodo unitario. Espressione di cotesto periodo sono due grandi
istituti della vita romana : il prelore peregrino ed il giureconsulto. Chiamo
istituto, piullosto che ufficio,quello del giureconsulto per ragioni che si
parranno (1) Giunti al respɔnso , non possiamo trovara nulla di più alto e di
più comprensivo nella storia del diritto romano . Stimiamo utile far conoscere
ai giovani studiosi come si scriveva la storia del diritto romano ai tempi di P
o m p i n i o , m e t t e n d o i n q u e s t a n o t a s o t t o i l o r o o c
c h i il f r a m m e n t o c h e t o gliamo dal primo libro del Digesto, e
lasciando a loro la cura di correg gere le inesattezze che troveranno non solo
rispetto ad alcuni fatti e nomi, m a alla cronologia ed ai criterii. Utile e
non difficile lavoro, per la cura che abbiamo posta nello accennare le date
principali ed i criterii storici che governano gl'istituti giuridici di
maggiore importanza. Grozio discute
assainelleVitaejurisconsultorumde'duePomponii.Zimmern- trattando l'arte
greca . tra poco. Il pretore peregrino è l'espressione viva e concreta dell'uni
ficazione italica; il giureconsulto; della unificazione del mondo mediterraneo
(1) Il pretore peregrino compie il pretore urbano, in quanto di
larga l’equità, senza dilungarsi da’casi particolari; ma, en e non dalle Variae
lectiones. Ecco Pomponio : Necessario ci pare il mostrar l'origine propria e il
procedimento del diritto. Al principio della nostra città il popolo cominciò ad
operare senza legge certa, senza stabile diritto, e tutto reggevasi per mano
dei re. In appresso, cresciuta in qualche modo la città,clicesi lo stesso
Romolo dividesse il popolo in trenta parti, che chiamò curie, perciocchè a sen
tenza di queste parti disimpegnava allora le cure del governo. Ond'è che ed
egli ed i seguenti re proposero al popolo alcune leggi curiate, le quali tutte
trovansi scritte nel libro di Sesto Papirio che fu uno dei principali
personaggi a'tempi del Superbo, figlio di Demarato da Corinto.Questo libro è
intitolato diritto civile Papiriano, non perchè Papirio v'abbia aggiunto alcun
che di suo,ma perchè egli raduno in uno le leggi promulgate sen z'ordine. Cacciati
quindi i re per legge tribunizia, tutte quelle leggi andarono in disuso, e il
popolo romano cominciò di nuovo a reggersi con diritto in certo, e più dietro
la consuetudine che secondo alcuna legge emanata ; e così continuò per circa
venti anni. 141 Dopo le sannitiche,unitasi a Roma l'Italia,ilgenio
dell'urbs si senti tocco, e però modificato,da due correnti nuove : il c o m
mercio e la presenza degli stranieri. La rustica Dea Pales, in dividuazione
mitica del genio originario di Roma, sentivasi mutar costume, e tollerava, con
la presenza degli stranieri, que'commerci che erano parsi spregevoli al
primitivo genio agricolo e militare di Roma. In nome di questa tolleranza un
secolo ed alquanti anni (307) dopo il pretore urbano sorse il pretore
peregrino, qui inter cives et peregrinos, plerumque inter peregrinos jus
dicebat. L'equità estendevasi a quelli che prima del periodo unitario erano
designati con tre nomi: hostes,pere grini, barbari. del diritto privato romano
tiene pe'due. Puchta nel ('orso delle Isti tuzioni–
tieneperunsolo.Unasolacosaècerta,cheilframmentoche noi riportiamo, è
dall'Enchiridion non ricordato dall'indice fiorentino tralo per
tolleranza, gli sottosta, se non in grado di ufficio, in dignità ; nè metterà
fuori un editto che contraddica a quello pubblicato dal pretore urbano ; nė tra
gli antichi troverà chi voglia commentare il suo editto, privo di originalità.
I giure consulti che vennero di poi, mentre inducevano la regola uni
versaledidirittodall'edittodelpretoreurbano,non commen tarono mai l'editto del
pretore peregrino. Anche io credo che il commentario di Labeone non resista
alla critica. Giunto a questo fastigio del diritto romano , dove col pretore
peregrino par nato l’jus gentium , e col responso l'equità ro mana sale a
diritto umano, mi occorre vedere onde la deca denza imputatada Plinio ai
latifondi, e come il giureconsulto, nel vero senso della parola, possa trovarsi
coevo con la rovina della repubblica e compagno della corruzione imperiale.
Onde ciò non avesse a durare più a lungo, piacque allora che fossero nominati
per pubblica autoritàdieci,iqualitogliesseroleleggidallegreche società, e la
città munissero di leggi. Incise su tavole d'avorio,le esposero sui rostri,
affinché si potessero le leggi meglio imparare ; e fu loro dato in quell'anno
il diritto massimo nella città,di correggere,se facesse bi sogno,e
d'interpretare le leggi,nè vera appello da loro come dagli altri magistrati.
Essi medesimi avvertirono mancar qualche cosa a quelle prime leggi,
perciòl'annoseguenteviaggiunseroaltreduetavole,ecosìper l'accidente del numero
furono chiamate leggi delle XII Tavole.Narrano alcuni che la composizione di
esse fosse stata proposta ai decemviri da un certo Ermodoro da Efeso, esule in
Italia. Promulgate queste leggi,avvenne,come naturalmente suole,che per
l'interpretazione si desiderasse l'autorità dei prudenti e la necessaria d i
sputazione del Foro ; questa disputazione e questo diritto ordinato dai
prudenti, senza che venisse scritto, non ha nome in alcuna parte propria, come
vengono distinte tutte le altre con proprio nome,ma chiamasi con titolo
generale diritto civile. Quindi,dietro queste leggi,quasi contemporaneamente
furono composte le azioni, colle quali gli uomini agitassero i litigi nati tra
loro ;le quali a zioni,affinchè il popolo non le facesse a capriccio, vollero
che fossero sta bili e legali; equesta parte del diritto chiamasi azione di
legge,cioè le gittima. E così quasi in un tempo medesimo nacquero questi tre
diritti, 142 143 delle XII Tavole,da cui scaturi ildiritto
civile,e quindi leazioni.Siperò l'interpretazione delle leggi,si le azioni
spettavano al collegio dei ponte fici,dai quali ogni anno sceglievasi chi
dovesse soprantendere ai privati, e per circa cento anni il popolo segui quest'
uso. In appresso, avendo Appio Claudio proposto e ridotto a forma queste a z i
o n i , G n e o F l a v i o , s u o s c r i v a n o e f i g l i o d i u n l i b
e r t o , s o t t r a t t o g l i il l i b r o , lo fece di ragione del popolo
; il quale servigio fu al popolo tanto grato, che elesse lui tribuno della
plebe e senatore ed edile curule. Questo libro contenente le azioni chiamasi
diritto Flaviano, siccome quell'altro d i ritto Papiriano; ma neppur Gneo
Flavio aggiunse alcun che al suo li bro. Cresciuta la città e mancando alcune
specie di azioni, Sesto Elio non molto dopo ne istituì altre, e pubblicò il
libro che chiamasi diritto Eliano. Quindi,essendovi nella città la legge delle
XII Tavole e ildirittocivile e le azioni di legge, accadde che, venuta la plebe
a discordia coi padri e separatasene, istituì le leggi che chiamansi
plebisciti, cioè decreti della plebe. Non guari dopo, richiamata la plebe,
perchè frequenti discordie n a scevano intorno a questi plebisciti, per la
legge Ortensia fu stabilito che avessero anche quelli per leggi ; e cosi
avvenne che i plebisciti e le leggi differissero pel modo di farle,ma ne fosse
eguale l'autorità. Quindi,perchélaplebeaccordavasi
difficilmente,emoltopiùdifficil mente il popolo in si grande moltitudine di
persone,fu d'uopo che si affi dasse al senato la cura della repubblica. Così
cominciò ad intromettersi il senato, ed osservavasi tutto quello ch'esso avesse
decretato, e questo di ritto fu detto senatoconsulto. A quei tempi anche
iMagistrati proferivanogiudizi;ed,affinchéicit tadini sapessero qual giudizio
intorno ad ogni cosa si proferirebbe e se ne premunissero, pubblicavano gli
editti che costituirono il diritto onorario, così detto perchè veniva
dall'onore, cioè dalla carica di pretore. Da ultimo, siccome pareva che
l'autorità di far leggi fosse, per natu rale effetto delle cose,passata al
minor numero,un po'per voltaavvenne che fu necessario che un solo provvedesse
alla repubblica ; poichè il senato non poteva del pari amministrar bene tutte
le provincie. Stabilito quindi il principe, gli fu dato il diritto, che si
avesse per rato checchè egli d e terminasse. Così nella nostra città o si
giudica pel diritto, cioè secondo la legge ; o v'è diritto civile, che consiste
solo nell'interpretazione dei prudenti,non iscritta ; le azioni di legge,che
contengono le forme da usare ; i plebisciti, che furono emanati senza
l'autorità dei padri; gli editti dei magistrati, donde nasce il diritto
onorario ; i senatoconsulti, che emanano dal solo senato
costituente senza legge ; e le costituzioni del principe, quello cioè che il
principe determinò si osservi come legge. Conosciuta l'origine e il
procedimento del diritto,conseguita che discor riamo i nomi e l'origine dei
magistrati, perchè, come abbiam mostrato,da quelli che presiedono a far leggi,
acquistano gli effetti. Imperocchè, che varrebbe essere nella città, se non vi
fosse quegli che potesse far leggi ? Dopo ciò parleremo degli autori che si
succedettero l'un l'altro, giacchè il diritto non può sussistere senza che
siavi qualche giurisperito,dal quale esser possa mano mano migliorato. Quanto
ai magistrati, nei primordi della nostra città i re ebbero tutto il potere. I
tribuni dei celeri comandavano ai cavalieri, ed occupavano quasi ilsecondo
posto dopo ire;del qual numero fuGiunioBruto,autore del discacciamento dei re.
Espulsi i re, furono stabiliti due consoli, ai quali per legge fu concesso il
supremo diritto : così chiamati, perchè bene provvedevano (consulebant) alla
repubblica. Onde pero non si arrogassero regio potere in tutto,fu per legge
stabilito che vi fosse appello da loro, nè potessero punire verun cit tadino
romano senza il consenso del popolo : a loro fu soltanto concesso di obbligare
e di far mettere nelle pubbliche prigioni. In appresso, dovendosi rinnovare il
censo che da ogni tempo non erası fatto, nè bastando i consoli a questo
incarico, furono stabiliti i censori. Aumentando il popolo, e nascendo
frequenti guerre, delle quali alcune assai gravi, mosse dai confinanti, piacque
di eleggere,ogni qualvolta il bi sogno richiedesse, un magistrato con potere
maggiore ; furono per tanto istituiti i dittatori, dai quali nessuno poteva
appellarsi, e che avevano a n che podestà di vita e di morte.Questo magistrato,
perchè aveva un po tere sommo,non poteva durare più di sei mesi. A questi
dittatori aggiungevansi i maestri, vale a dire comandanti dei cavalieri, nella
stessa guisa che ai re i tribuni dei celeri, la quale carica equivaleva presso
a poco a quella dei prefetti del pretorio : m a i magistrati erano tenuti per
legittimi. Quando poi, circa diciassette anni dopo la cacciata dei re, la plebe
si separò dai padri, crearonsi sul monte sacro i tribuni, ch'erano magistrati
plebei,e fu loro dato tal nome,perchè una volta ilpopolo era diviso in tre
parti, e da ciascuna se ne sceglieva uno, o perchè venivano nominati per
suffragio della tribù. E parimenti, affinchè fosse chi soprantendesse agli
edifizii, nei quali riferiva tutti decreti la plebe,deputarono a ciò due della
plebe, che fu rono chiamati edili. Avendo poi l'erario del popolo cominciato ad
esser pingue,furono n o 144 145 minati i questori che ne
avessero cura ; cosi detti, perché dovevano esigere (quaerere o inquirere) e
tenere conto del danaro. E perché, secondo abbiamo detto, non era concesso ai
consoli pronun ciare sentenza di morte contro un individuo romano senza
permissione del popolo,furono dal popolo nominati iquestori del parricidio,che
giudi cassero i delitti capitali: di essi fa menzione anche la legge delle XII
Tavole. Ed,essendo piaciuto che si facessero ancora altre leggi, fu proposto al
popolo che tutti i magistrati si dimettessero, e furono nominati i decem viri
per un anno. Questi si prorogarono la carica e si condussero ingiu
stamente,nèvolevanoristabiliredinuovo imagistrati,peroccupareglino e il lor
partito il potere ; e colla lunga e crudele dominazione loro con dussero le
cose a tale, che l'esercito si ribello alla repubblica. Dicesi che capo di
questa ribellione sia stato un certo Virginio.Questi vide che Appio Claudio,
contro il diritto ch'egli stesso dal diritto antico aveva inserito nelle XII
Tavole, gli aveva tolto il possesso della propria figlia, e giudi cato in
favore di colui che, subornato dallo stesso Appio,laripeteva come sua schiava,
perchè, acciecato dall'anjore per la fanciulla, non aveva più guardato a
diritto o a torto, sdegnato che gli fosse tolto il diritto anti chissimo sulla
persona della figlia, a somiglianza di quel Bruto primo con sole, che aveva
dichiarato libera la persona di Vindice schiavo dei Vitellj, per aver rivelata
la congiura ; e, riputando la castità della figlia essere da preferire alla
vita, tolto un coltello dalla bottega di un macellajo, u c cise la figlia per
sottrarla colla morte al disonore dello stupro ; e tosto, grondante ancora del
sangue della figlia, corse tra'suoi compagni d'arme. I quali tutti dall'Algido,
dove le legioni trovavansi a cainpo, abbandonati i capi, trasferirono le
bandiere sull'Aventino, e là pure si condusse tutta la plebe della città.
Allora altri dei decemviri furono uccisi in prigione, altri cacciati in esilio,
e fu ristabilito nella repubblica l'ordine di prima. Alcuni anni dopo la
pubblicazione delle XII Tavole, la plebe venne a contesa coi padri, volendo che
i consoli si eleggessero anche dal suo corpo ; al che opponendosi i padri,
avvenne che si creassero, parte dalla plebe, parte dai padri, i tribuni
militari con podestà consolare, i quali varia rono di numero,poichè furono ora
venti,ora più,non mai meno. Essendosi quindi convenuto di creare i consoli
anche dalla plebe, si cominciò ad eleggerli dai due corpi. Afinchè però ipadri
avessero qualche cosa più della plebe, piacque allora che si eleggessero dal
loro ordine due edili curuli. E,perchè i consoli erano occupati dalle guerre
coi vicini, nè vi aveva chi nella città potesse amministrar la giustizia,si
creò un pretore,chia mato urbano,perchè amministrava la giustizia nella città.
G. Bovio.Disegno di una Storia del Diritto,ecc.,ecc. 10 Dopo
alcuni anni, non bastando quel pretore, perchè accorreva nella città
moltitudine di forestieri,fu creato un altropretore,dettoperegrino, perchè per
lo più rendeva giustizia ai forestieri (peregrini). Poi,essendo necessario un
magistrato che presiedesse ai pubblici in canti, furono stabiliti i decemviri
per giudicare le liti. A quel tempo furono pure nominati quattro soprantendenti
alle strade, i triumviri monetali che vegliavano alla fabbricazione delle
monete di rame,d'argento e d'oro,ed itriumviri capitali che custodivano le pri
gioni, si che,quando dovevasi punire, facevasi col loro intervento. E ,perchè nelle
ore vespertine i magistrati non avevano obbligo di tro varsi in officio, furono
istituiti i quinqueviri di qua e di là dal Tevere, che ne facessero le veci.
Conquistata poi la Sardegna, quindi la Sicilia,la Spagna e la provincia
Narbonese, furono creati tanti pretori quante nuove provincie, i quali so
prantendessero parte alle cose urbane, parte alle provinciali. Quindi Cor nelio
Silla istitui i processi pubblici, come di falso,di parricidio,dei sicarj, ed
aggiunse quattro pretori. In appresso Cajo Giulio Cesare istituì due pretori e
due edili, detti cereali da Cerere, perchè soprantendevano ai grani. Così si
ebbero dodici pretori e sei edili. Poi il divo Augusto portò a sedici il numero
dei pretori, ai quali il divo Claudio altri due ne aggiunse, che giudicassero
intorno ai fedecommessi;ildivo Tito ne soppresse uno,e il divo Nerva ve lo
aggiunse ; essi giudicavano le liti fra il fisco e i privati. Per modo che
diciotto pretori amministravano la giustizia della città. Tutto ciò si osserva,
quando i magistrati sono nella città ; quando poi ne partono, si lascia uno che
solo rende giustizia e chiamasi prefetto alla città, il quale una volta si
nominava all'occorrenza, dopo fu stabile per le ferie latine,ed eleggesi ogni
anno.Ilprefetto dell'annona e dei vigili,cioè delle guardie notturne, non sono
propriamente magistrati, m a furono stabi liti straordinariamente per comodo :
quelli però che abbiamo detto nomi narsi di qua dal Tevere,per decreto del
senato venivano poi creati edili. Dunque,fra tutti, dieci tribuni della plebe,
due consoli, diciotto pretori, sei edili nella città amministravano il diritto.
Moltissimi e chiarissimi personaggi professavano la scienza del dritto civile,
m a ora ci basta parlare di quelli che in maggiore stima furono presso il popolo
romano, affinchè apparisca da chi e quali leggi ebbero origine e ne furono
tramandate.E prima di Tiberio Coruncanio non ricordasi alcuno che pubblicamente
professasse questa scienza ; tutti gli altri fino allora a v e vano creduto di
tenere occulto il diritto civile,o soltanto si prestavano a chi li consultava,
piuttosto che a chi volesse imparare. Tra i primi periti del diritto fu poi
Publio Papirio, che radund in uno - 146 147 l e l e g g i d e
i r e ; d o p o q u e s t o , A p p i o C l a u d i o , u n o d e i d e c e m v
i r i , il c u i s e n n o molto valse nel comporre le XII Tavole.Appresso
viene altro Appio Clau clio che ebbe grandissima scienza in questa parte, e fu
detto centimano. Fece egli costruire la via Appia, derivò l'acqua Claudia, e persuase
di non ricevere Pirro nella città. Si disse aver egli pel primo scritto le
azioni in torno alle usurpazioni, il qual libro però non esiste. Sembra che il
m e d e simo Appio Claudio abbia inventato la lettera R , onde si disse Valerj
in vece di Valesj,e Furj invece di Fusj. Dopo questi, di grandissima scienza fu
Sempronio che ilpopolo romano chiamò coçov (sapiente), nome che a nessun altro
fu dato nè prima nè dopo ali lai.Ma vi fu anche Cajo Scipione Nasica che dal
senato fu chiamato ottimo, al quale fu anche data del pubblico una casa sulla
via Sacra, onde più facilmente si potesse andare a consultarlo. Appresso fu
Quinto Fabio che, mandato ambasciatore ai Cartaginesi, essendogli poste innanzi
due schede,unaperlapace,l'altraperlaguerra,econcesso a luil'arbitrio di portare
a Roma qual delle due gli piacesse, le prese ambedue,e disse dovere i
Cartaginesi chiedere e ricevere qual più volessero. Fu,dopo questi,Tiberio
Coruncanio chepelprimo,come dissi,cominciò a professare il diritto: di
lui,sebbene non restò veruno scritto, si ricordano molte e memorabili risposte.
Quindi Sesto Elio col fratello Publio Attilo ebbero grandissima scienza nel
professare ildiritto,e furono anche consoli. Sesto Elio è lodato anche da
Ennio, e di lui esiste un libro intitolato Tria partita, che contiene i primi
elementi della scienza del diritto :gli fu dato quel nome, perchè,proposta la
legge delle XII Tavole, vi soggiunse l'inter pretazione, e quindi vi unì
l'azione di legge. Dicesi esserci di lui tre altri libri che alcuni però gli
negano.Le pedate di questo calcò Marco Catone, capo della famiglia Porcia, del
quale sussistono alcuni libri, m a più ancora di suo figlio; da questi vennero
tutti gli altri. Tennero dietro a questi Publio Rutilio Rufo che fu console in
Roma e proconsole nell'Asia; Paolo Virginio e Quinto Tuberone,ilprimo stoico e
discepolo di Panezio che fu anche console.Di quel tempo fu pure Sesto
Pompeo,zio di Gneo Pompeo,e Celio Antipatro che scrisse storie,ma at tese più
all'eloquenza, che alla scienza del diritto. Lucio Crasso, fratello di Publio
Muzio,e chiamato anche Muciano,da Cicerone è detto ilpiù facondo dei
giureconsulti. Quinto Muzio, figlio di Publio e pontefice massimo, ordind pel
primo il diritto civile, raccogliendolo in diciotto libri. In appresso Publio
Muzio, Bruto e Manilio fondarono il diritto civile : Muzio lascio dieci libri,
Bruto sette, Manilio tre ; e di Manilio sussistono a monumento alcuni volumi
scritti, Bruto fu pretore, gli altri due consoli, e Publio Muzio anche
pontefice massimo. Muzio ebbe più discepoli, tra i quali maggior
fama acquistarono Gallo Aquilio, Balbo Lucilio, Sesto Papirio e Cajo Giuvenzio
: Servio dice che Gallo ebbe grande autorità presso il popolo. Di tutti questi
si conserva memoria,perchè Servio Sulpizio pose nei suoi libri iloro nomi: ma
non restano loro scritti che tutti desiderino ed abbiano tra le mani: pure
Servio compi i libri suoi, dai quali si ha memoria dei predetti. Servio che nel
perorare le cause occupò il primo posto dopo Marco Tullio, si dice essere una
volta andato a consultare Quinto Muzio intorno ad un affare d'un suo amico ; e,
non avendo compreso quello che Muzio rispondeva intorno al diritto,gliripeté
ladimanda;ma,non avendo meglio compreso la risposta,Muzio lo rimproverò,dicendo
esser vergogna che un patrizio e nobile, che perorava cause, ignorasse il
diritto che pure avea sempre tra le mani. Tocco da questo affronto, Servio si
applicó al diritto civile, e fu discepolo a molti di quelli che abbiamo
nominati: Balbo Lucilio gli diede i primi rudimenti, e lo perfeziono Gallo
Aquilio da Cercina, onde di lui abbiamo molti scritti in Cercina. Morto in
un'ambasceria, il popolo romano gli eresse una statua che tuttora si vedle sui
rostri di Augusto : lasciò forse centottanta libri, assai dei quali restano ancora
. Da questomoltissimiimpararono;quelliperòchelasciaronolibri,sono Alfeno Varo,
Caio Aulo Otilio, Tito Cesio, Antidio Tucca, Anfidio Namusa , Flavio Prisco,
Cajo Atejo, Placurio Labeone Antistio, padre dell'altro L a beone Antistio,
Cinna e Publio Gellio. Di questi dieci, otto scrissero libri, che da Anfidio
Namusa furon tutti ordinati in cenquaranta libri,ed acqui starono grande
celebrità Alteno Varo ed Aulo Otilio,dei quali il primo di ventò anche console,
il secondo cavaliere soltanto. Fu questi amicissimo di Cesare, e lasciò molti
libri che trattavano ogni parte del diritto civile, scrisse anche pel primo
intorno alle leggi della vigesima ed alla giurisdi zione. Il medesimo pel primo
commentò con grande diligenza l'Editto del pretore, mentre pria di lui Servio
avea intorno a quello scritto soltanto due libri brevissimi, diretti a Bruto .
Di quel tempo furono anche Trebezio, discepolo di Cornelio Massimo, Aulo
Cascellio, Quinto Muzio, discepolo di Volusio che ad onore di quello l a s c i
ò p e r t e s t a m e n t o e r e d e il s u o n i p o t e P u b l i o M u z i
o . F u q u e s t o r e , n è a c cettar volle onori maggiori, sebbene Augusto
gli offerisse anche il conso lato. Di questi dicesi che Trebezio su più
istrutto di Cascellio, e questi più eloquente del primo; di ambidue più dotto
fu Otilio.Di Cascellio non resta che un libro solo di bei motti;molti di
Trebezio,ma poco ricercati. Quindi v’ebbe Tuberone discepolo di Ofilio,
patrizio, che dal trattar le cause passo ad esercitare il diritto civile,
specialmente dopo ch'ebbe ac cusato Quinto Ligario senza poter ottenere da Caio
Cesare che fosse con 148 dannato.Questo Ligario, mentre
comandava nelle spiagge d'Africa, non vi lasciò approdare Tuberone malato, nè
prender acqua : di ciò accusato, fu difeso da Cicerone, del quale esiste la
bellissima orazione intitolata A f a vore di Quinto Ligario. Tuberone fu
dottissimo nel diritto pubblico e pri vato, e lasciò molti libri intorno
all'uno e all'altro ; affetto per altro lo scrivere antiquato, e perció i suoi
libri piacciono poco. Seguono Atejo Capitone, discepolo di Ofilio, ed Antistio
Labeone che tutti questi udi,ma fu istruito da Trebazio.Atejo fu console: e
Labeone, offerendogli Augusto il consolato per sostituzione, non volle accettar
l'o nore, per non interrompere i suoi studi, giacchè avea cosi ripartito l'in
teroanno,chestavaseimesiinRoma coglistudiosi,glialtriseisene ritirava per
attendere a scriver libri, e lasciò quaranta volumi, molti dei quali corrono
per le mani di tutti. Costoro formarono quasi due sette o p poste : poichè
Capitone seguiva il vecchio che gli era stato insegnato ; L a beone, per natura
dell'ingegno suo e per fiducia di sapere, poichè avea atteso anche agli altri
rami della sapienza, intraprese d'innovare moltis sime cose.E così a Capitone
succedette Massimo Sabino,a Labeone Nerva, i quali due accrebbero quella
divisione. Nerva fu amicissimo di Cesare; Massimo fu cavaliere, e pel primo
diede risposte in pubblico, secondo gli fu concesso da Tiberio Cesare. M a ,
come tutti sanno,prima di Augusto non dai principi concedevasi il diritto di
dar risposte in pubblico, ma chiunque confidava negli studi fatti, ri spondeva
a quanti lo consultavano. Nè però davansi queste risposte in iscritto,ma
perlopiùlescrivevanoigiudicistessi,oleattestavanoquelli che gli avevano
consultati. Il divo Augusto pel primo, onde in maggiore stima venisse
ildiritto,ordinò che si dimandasse per l'innanzi,come pri vilegio, di poter
dare risposte in pubblico. Poscia Adriano,principe ottimo, avendogli alcuni, ch'erano
stati pretori, domandato di poter essere consul
tatiinpubblico,cosilororescrisse: Nonvolersiciòdimandare,ma fare; consolarsi,se
vi avesse qualcuno che,in se confidando, si apprestasse a ri spondere al
popolo. Da Tiberio Cesare, adunque, fu concesso a Sabino che rispondesse al
popolo. Questi entrò nell'ordine equestre nella avanzata età di quasi
quarantacinque anni; ebbe scarse sostanze, ma fu molto aiutato da'suoi
ascoltatori. Gli successe Cajo Cassio Longino, la cui madre era figlia di
Tuberone o nipote di Servio Sulpizio, perciò egli chiama Sulpizio suo proavo.
Fu console con Quartino al tempo di Tiberio,e godette grande stima nella città,
fintanto che Cesare non lo caccio. Andò quindi in Sar degna, e, richiamato da
Vespasiano, mori in Roma.A Nerva succedette Proculo.Diquei
tempifuancheNervafiglio,edun altroLongino,cava liere, che poi sali fino alla
pretura. M a autorità maggiore ebbe Proculo e 149 150 i s e g
u a c i d e l l e d u e s e t t e d i C a p i t o n e e d i L a b e o n e ; p r
e s e r o a l l o r a il n o m e di Cassiani e di Proculiani. A Cassio
succedette Celio Sabino che molto potè ai tempi di Vespasiano;a Proculo,Pegaso
che sotto lo stesso impe radore fu prefetto della città;a Celio Sabino,Prisco
Giavoleno;a Pegaso, Celso;a Celso padre,Celso figlio e Prisco Nerazio,iquali
furono ambidue consoli, anche Celso due volte ;a Giavoleno finalmente
succedettero Aburno Valente, Tusciano e Salvio Giuliano. -
CAPITOLO DUODECIMO. Il Giureconsulto e la Decadenza Il periodo unitario, per
non rovinare nello accentramento , è equilibrato da quattro contraccolpi che
sono le due guerre ser vili, la guerra sociale, la guerra civile e la guerra
gladiatoria. Il Pretore ha annunziato una parola solenne nel diritto: l'e+
quità. La parola equità non è in Roma una legislazione, è una correzione, m a
intanto col pretore è giunta al suo secondo periodo, è passata cioè dalla
eguale notizia della legge dentro la legge istessa. Dove il legislatore era
stato duplice, ed in dis sidio continuo, l'equità non poteva entrare che come
correzione e in forma di casi particolari. L'equitå vorrà dire, di certo, che
la repubblica signorile è fatta popolare ; che i peblisciti contrappesano i
senato -consulti; che le grandi differenze si livellano ; m a dice qualcosaltro
: l’e quità è una certa unità giuridica che preannunzia l'unità po litica. Ho
designato i due grandi periodi dell'unità politica:l'unità italica; l'unità
della civiltà mediterranea. Le sannitiche ele pu niche determinano specialmente
questi due periodi. 151 Che cosa furono le due guerre servili e la guerra
gladiato ria, quale valore e significanza ebbero, e furono guerre davvero, o un
impeto disperato senza eco e senza effetto? Gli storici an tichi non danno ó
fingono non dare molta importanza alle due guerre servili, con le quali si apre
e chiude la generazione che 1 . 152 va dal 619 al 651. L'alto
rumore di ciò che gli storici latini chiamarono Graccanae, e poi della guerra
giugurtina, e poi della invasione dei Teutoni e dei Cimbri, gli uni sterminati
da Mario nella Gallia transalpina, gli altri nella cisalpina, e poi della
guerra sociale, e,immediatamente dopo,della prima guerra civile tra Mario e
Silla, occasionata da Mitridate VII,tutto questo che non è poco rumore insieme
con la politica sprezzante verso i servi, non arriva a spegnere il furore nè a
soffocare il grido de' servi, che, levatisi a guerra vera contro i padroni, si
batterono, vinsero, e poi caddero uccisi piuttosto che sconfitti. Strana
guerra, m a spiegabile in R o m a e dopo il pretore e nella repubblica
popolare. La voce dell’equità pretoria, l'aliud initium libertatis, che
equilibra patrizii e plebei, l'imperio consolare coll'ausilio tri bunizio,
creditori e debitori, padri e figli, romano e peregrino, quella arriva tra
servi e padroni. I servi cominciano a voler essere considerati non romana
mente,perché non sono e non si sentono di Roma,ma umana mente,da che sono
venuti a Roma da ogni parte dell'umanità, ed hanno veduto in R o m a la lotta
per l'equità. Hanno veduto e saputo che i diritti si strappano, e la solle
vazione comincia dalla Sicilia, dove maggiore era il numero dei servi
condannati alla coltivazione de'latifondi. Primo ucciso Da mofilo,proprietario
di latifondi, in Enna,oggi Castrogiovanni; poi, disfatti quattro eserciti
romani; in ultimo, de'settantamila servi cinquantamila uccisi in guerra,
ventimila in croce. Nella seconda servile (651) il moto fu più ampio : non si
sol levarono i servi soltanto, m a insieme gli oppressi peggio che servi :
proletarii e diseredati. I servi superstiti alla guerra si scan narono tra
loro. Simile guerra non si era veduta mai, e la lotta per l'equità facevala
possibile a Roma .Ed alle servili somiglia la guerra gla diatoria che può anche
passare come terza delle servili, e della quale gli storici del diritto
costumano non toccar motto. Eglino 153 Gli storici romani lodano
Spartaco a denti stretti, chiamano guerra appena le due servili e la
gladiatoria, e non si accor gono che sono le prime guerre,dopo le quali la
sconfitta è toc cata ai vincitori. Da Euno a Spartacoilgridoè
uno,quellodellavecchiaplebe romana : libertas aequanda;summis infinisque jura
aequare.Cið che rispetto a quella plebe sediziosa erano stati i Gnei G e n u n
zio ed i Publilii Volerone, surono,rispetto ai servi ribelli,ilsiro Euno e il
trace Spartaco: gli uni tribuni della plebe romana, gli altri tibuni
dell'umanità servile : quelli per giungere all'equità latina,questi all’equità
umana. Senza queste prime considerazioni non sarebbe intesa l'uni versalità del
responso. Mentre si acqueta la seconda guerra servile, divampa la guerra
sociale,col proposito di conseguire non l'equità umana, ma l'equità romana e
con effetto immediato. La guerra sociale durd men di due anni, rapida e
violenta, se a conto di Vellejo Patercolo costo all'Italia più di trecentomila
uccisi. E fu detta sociale non già nel senso moderno della parola,ma perchè
mossa contro R o m a da’socii italiani, reclamanti parità di diritti politici e
civili co’romani, dopo aver falio insieme con quelli la potenza diRoma.L'aspettazione
c !epromesse eranostatelunghe;iltri huno Livio Druso che ricordavale, mettendo
in una tre rogazio ni, fu morto prima de'Comizii;e con quella morte fu inteso
che i diritti, data l'ora, si strappano, non s'impetrano. non sanno che
possono a lor grado diminuire i nomi di Euno, di Cleone, di Trifone e di
Atenione,condottieri di servi,ma per nessuna via giungeranno a diminuire il
nome di Spartaco che all'altezza del proposito univa l'arte dei mezzi. Spartaco
intese l'ora e il luogo,cioè quando doveva dare il segnale della rivolta e come
uscir d'Italia; intese ancora come gli restava a cadere, quando l'Italia gli si
era fatta terra fatale. -- I seimila gladiatori, lungo la via Appia, appesi
alle croci,come già i ventimila servi, dicono uno sterminio, non una
sconfitta. 154 Di quindi la confederazione repubblicana, della
quale i socii elessero centro Corfinium , cui posero nome Italica per signifi
care il carattere nazionale della confederazione e della lotta. I centomila
combattenti de'confederati si elessero duce Pompedio Silone, nome di un
sannita,che ai popoli italici dev'esser sacro quanto il tribuno alla plebe
romana, quanto Spartaco ai servi di ogni paese. Fu morto anche lui, uccisi i
suoi,dopo la rovina di quattro eserciti romani,ma questa volta chiaramente i
più scon fitti furono i vincitori. La guerra fu cominciata nel 663 : mentre
durava, il diritto italico cominciava a farsi romano con la lex
Julia(664),e,finitalaguerra,tuttal'Italiaacquistava idiritti di cittadinanza
romana con la lex Plautia (665). Ecco l'evoluzione di questi diritti di
cittadinanza derivati dalla guerra sociale : 1a gl'Italiani furono, per
l'esercizio del suffragio, classificati in otto tribù nuove,aggiunte alle
trentacinque pree sistenti; sicché tutta l'Italia venne a conseguire otto
voci,quando Roma ne aveva trentacinque:sproporzione subito corretta, per chè
gl’Italiani riuscirono in breve tempo a farsi distribuire pro porzionalmente
nelle trentacinque tribů romane ; 2° il suolo ita lico è distinto dal suolo
provinciale, è equiparato all’ager r o m a nus e liberato dal
vectigal.L'italiano ha guadagnato ildominium ex jure Quiritium . Dopo la guerra
sociale il diritto romano ė diritto italiano.Tra il romano e l'italiano
sparisce il pretore peregrino. Non si ripeta questo errore,che le guerre
servili furono ster minio senza essetto, e che feconda fu la guerra sociale.
Dicasi invece che gli effetti delle guerre servili sono immediatamente
invisibili e saranno più tardi raccolti dal filosofo e confidati al l'ideale di
un jus hominum , mentre immediati sono gli effetti della guerra sociale,
immediatamente saranno raccolti dal pre tore e dal giureconsulto, e passeranno
nella costituzione politica diRoma.IlgeniomilitarediRoma
potevaabbandonareiservi su'colti, m a non poteva espandersi senza de’socii.
Interpretiamo la prima guerra civile.Da questa Montesquieu torse
gli occhi, e dentro questa bisogna ficcarli, per intendere la decadenza .
L'Italia ha conseguito lacittadinanza romana,quando in Roma la cittadinanza ha
perduto d'intensità quel che ha guadagnato di estensione. L'Italia, contro la
vittoria di Silla, ultimo vindice della ragione quiritaria, ha afferrato il
dominio ex jure Quiritium ; m a i Quiriti dove sono ? Dove i patrizii ed i
plebei ? Se tra l'i taliano ed il romano è sparito il pretore peregrino, si può
dire che il pretore urbano duri per sentenziare tra il patrizio ed il plebeo ?
La guerra civile è una funesta rivelazione, non per le proscrizioni, ma pel
sinistro lume sparso sulla rovina morale de'romani. Con la guerra civile si
apre la reazione de'grandi de litti contro le tradizioni dell'eroismo civile.
Accenniamo , non possiamo narrare Quelle facce sinistra mente predesignate di
Mario e di Silla rivelano due diversi tipi di sanguinarii, vuoti d'ideali.
Mario agitavasi in nome di una plebe ch'ei non ama, perchè non trova;Silla
reagisce in nome di un patriziato ch'egli, quando non può rialzare,disprez
za.Sapevano guerra e movere legioni agguerrite; ma caddero sopra sė medlesimi,
senza lasciar traccia, perchè vissuti senza disegno. Mario finisce, non
ricordando la plebe, m a sforzandosi dimenticare sė ; Silla, ricordando sè
solo, e buttando la ditta tura che sforzavalo a ricordarsi d'altrui. Grande fu
lo stupore del gran rifiuto non per viltà,ma per disprezzo: Silla non aveva
potuto rizzare il vecchio patriziato, come Giuliano non evocare gli Dei morti.
Nulla dicono intanto quei funerali di Silla,e due mila corone d'oro intorno
all'arca marmorea, e lo scorruccio d'un anno alle matrone? Dicono una sola
cosa:che la repub blica è finita, e che R o m a aspetta il principe col motto
di Asinio Gallo in Tacito : U n u m esse reipublicae corpus, atque unius animo
regendum . L'assenza delle due parti che han fatto l'alto dissidio di R o m a ,
delle parti che han combattuto la lotta pel diritto, composta nel l'equità,
l'assenza di quella plebe indomita e gelosa della sua 155 .
maestà, e di quel patriziato che, quando non arriva a giustificare la
preminenza con diversioni eroiche, tramuta in concessioni gli strappi, è accusata
in Roma da due fattiirrefragabili: dalla uni versale viltà che accompagnò le
proscrizioni sillane, e dal soli loquio infecondo dell'ultimo Gracco,al
quale,moriente,addicevasi meglio il motto di Bruto minore (1). E ,dato il
significato delle guerre servili,della gladiatoria,della sociale e della
civile,è tempo di spiegarsi l'assenza delle antiche parti, la quale lascia
intravveder l'Impero. La devastazione bellica, segnatamente dopo laseconda
punica, e l'importazione commerciale sono le due cause precipue,onde i piccioli
fondi cominciano a sparire per formare i latifondi,e però cominciano a
spostarsi le parti, sostituendo alla questione poli tica la sociale : dov'erano
patrizii e plebei cominciasi a vedere ricchi e poveri. Quindi, il potere
pe’ricchi,le frumentationes pe' poveri, l'agricoltura pe’servi.Quindi,mentre da
Silla a Pompeo la facoltà de'giudizii ballottavasi da’senatori a'cavalieri e
viceversa, l'ordine giudiziario corrompevasi , di giuridico facendosi politico,
e, più che politico, personale. Quindi,mentre i Gracchi e Mario cer:ano invano
la vecchia plebe, da che la nuova, secondo Sal lustio, privatis atque publicis
largilionibus excita, urbanum otium ingrato labori praetulerat, Silla cerca
invano il vecchio patriziato,corrotto da'nuovi cavalieri,tra'qualisiviene a
reclutare la mala genia de'publicani. Mentre si fa la romanizzazione del (1)
Alcuni,per trovare qualche cosa di liberale intorno a questo tempo di
Roma,hanno avuto ricorso persino alla congiura di Catilina,celebrando
quest'uomo con inni assai postumi ed assai brevi, e allogandolo quasi tra il s
o c i a l i s t a e il n i c h i l i s t a d e ' n o s t r i t e m p i . M a l
a s t o r i a n o n p a t i s c e q u e s t e violenze e sfata questi
travestimenti insignificanti. Catilina è rientrato s u bito nel posto
destinatogli dalla storia, a documentare due cose : la degra dazione del
patriziato e la reazione dei grandi misfatti contro le tradi zioni dell'eroismo
civile. Ciò ch'egli non poteva trarre dal valore militare, splendido in Mario e
Silla, voleva dalla congiura.E la degradazione morale fu chiarita dalla guerra
combattuta in quel di Pistoia, dove l'esercito m a n dato contro Catilina era
condotto da un complice nella congiura ! 156 157 mondo, il
genio di Roma si sposta:l'agricoltura ch'era romana, diventa servile; ed il
commercio che non era romano , diventa cavalleresco . Costituiti ilatifondi,
l'agricoltura, per necessità, diventa ser vile e produce meno, giusta la
ragione di Plinio: Coli rura ab ergassulis pessimum est, ut quidquid agitur a desperantibus.
Il commercio diventa deʼricchi, e però assume le forme peggiori, quelle della
soperchianza senza lavoro :le societates publicanorum corrompono leggi,
megistrature, popolo. E da qui, secondo Ta cito, anche le provincie
presentivano Augusto : Suspecto senatus populique imperio,ob certamina
potentium et avaritiam magi stratum : invalido legum auxilio, quae vi, ambitu,
postremo pe cunia turbabantur. Spariti i piccoli possidenti agricoltori, dopo
tante lotte per le leggi agrarie i discendenti della plebe si trovavano più
poveri di prima , m a tristamente paghi di questa povertà, alimentata prima
dalle frumentationes, e poi da'congiaria. Alla plebe plebiscitaria era
succeduta la plebs frumentaria. È certamente una costituzione politica che si
sfascia, quella caduta tra due classi estreme (ric chissimi e proletarii), non
equilibrate da quell'ordine intermedio che è diffusivo di sua natura, e per
creare il quale R o m a aveva combattuto tante lotte agrarie. Basti, per
ispiegarsi molto,voler sapere la popolazione d'Italia verso il tempo delle
guerre servili. Eccola : quattordici milioni quasi i servi; quasi sette milioni
i liberi, e di questi almeno sei milioni i proletarii. Era naturale:una
ricchezza di cinque milioni di denari era povertà; e per esse ricco bisognava
con Crasso, co'liberti Lentulo e Narcisso, ed anche con lo stoico Seneca,sa
lire a più centinaja di milioni ! Conchiudiamo :dove c'è questa ricchezza di
centinaja di milioni, ci dev'essere a fianco un vasto proletariato ; e dov'è
finita la plebe romana, è finito il patriziato. Non c'è più plebe,da che è
frumentaria,non più patriziato da che è pubblicano,non c'è senatus popolusque
nè populus plebs que romana : c'è un volgo immenso o mobile o
profano, volgo sempre, diviso tra ricchi e poveri. E contro questo volgo si av
ventano implacabili i classici, tante volte volgo anch'essi, da che furono
corrotti gliscente adulatione. Gli Augusti ed i loro m i n i stri -- Mecenati o
Sejani che sieno sono divi non solo per i bramosi di pane e giuochi, non solo
per i liberti imperanti e per gli stoici traricchiti, ma per gli scrittori che
più simulano sdegno contro l'adulazione pubblica, quanto meno la possono su
perare ne'loro versi e prose. Nė in tanto scadimento dell'anima civitatis resta
la religione come supplementum civitatis defectui. Il mondo romano ha avuto più
o meno di superstizione, e forse molta,ma religione sempre poca. Assai prima
che Lucrezio derivasse nella cosmologia latina l'atomismo epicureo e creasse un
poema ateo senza riscontro il poema dei dotti romani assai prima Lucio Azzio,il
primo tragico nato in R o m a , faceva rappresentare pubblicamente sue tragedie
poco riverenti agl’Iddii patrii. Nè di questa irriverenza gli faceva rimprovero
il vecchio Pacuvio, ma della durezza de' versi, onde per contrario Azzio
lodavasi, perchè quella durezza faceva riscontro alla fierezza delle sentenze.E
iversi atei e duri del poeta tragico, attraversando i secoli più molli, erano
letti e recitati al tempo di Lucrezio, di Silla e di Cicerone. A questi piaceva
udire una voce antica, quasi divinatrice, di poeta : Neque profecto Deùm summus
rex omnibus curat. Cosi trovasi da secoli apparecchiato l'ambiente ad Epicuro,
ad Amafinio che lo esporrà in prosa, ed a Lucrezio, in versi. E , quando lo
stoicismo con simulato sopracciglio verrà a velare la dottrina epicurea, Seneca
ripeterà con gonfiezza stoica sen tenze lucreziane: Mors est non esse. Hoc
eritpost me quod ante fuit. Ed altrove : Cogita illa quae nobis inferos faciunt
terribi les, fabulam esse : nullas imminere mortuis tenebras, nec flu mina
flagrantiaigne,necoblivionisamnem,nectribunalia.Lu serunt ista poetae, et vanis
nos agitavere terroribus. 158 Jam jam neque Dii regunt, 159
Questo spiega come, mentre agli auguri è possibile sorridere guardandosi l'un
l'altro, a Catilina è lecito patteggiare co' con giurati sino gli ufficii ed i
gradi sacerdotali, dopo avere, impu nito, stuprato una vestale ! Spiega perchè,
in questa decadenza, ai vincitori di Annibale sia fatto difficile vincere un
Giugurta che sin da Numanzia aveva imparato a chiamare vendereccia R o m a, ed
era incatenato da un peggiore di lui, Mario ; come a narrare un Catilina
occorreva un più tristo, Sallustio.— Spiega anche più : dove la religione
dechinava senza esservi stata mai gran fede, e però nessuna lotta religiosa,
era imminente, non che possibile, una religione nuova : i primi cristiani
sarebbero stati perseguitati come rei di Stato,non come religiosi.Sarebbero
stati mai, come religiosi, puniti dai ricordatori di Lucio Azzio, dagli uditori
di Amafinio, dagli ammiratori di Lucrezio e dai ripeti tori di Quinto Sestio ?
Dov'erano stati condannati e sbandeggiati gli Dei pel solo sacrifizio
d'Ifigenia,sarebbero stati glorificati nel sangue di migliaia di cristiani ?
(1) Questo è scadimento, perchè, mentre da una parte si fa la romanizzazione,
come la dicono, del mondo, dall'altra si fa la degradazione di Roma.Dovrebbe
parere che, mentre l'umanità siromanizzava,per contraccolposiumanizzasseRoma:ma
non si può dire cosi, perchè Roma portava al mondo il diritto, e il Deducta
est,non ut,solemni more sacrorum Perfecto,posset claro comitari Hymenaeo : Sed
casta inceste nubendi tempore in ipso Hostia concideret mactatu moesta
parentis, Eritus ut classi felix, faustusque daretur. Tantum relligio potuit suadere
malorum . Empio è detto da Vico questo epifonema,piaciuto ai vecchi romani che
in forma induttiva trovavano raccolto in esso un sentimento comune,e
giudicavano, secondo equità, più empio il rito che l'epifonema. E pel m e
desimo sentimento dell'equità,più intenso del sentimento religioso,riscon trata
la sepoltura di Pompeo e di Catone con quella di un mimo,poterono domandare :
Et creditis esse Deos ? (1) N a m sublata virum manibus tremebundaque ad
aras mondo portava a Roma le spoglie che facerano il lusso, come il
lusso faceva la barbarie raffinata che è la decadenza. Quale umanesimo potevan
portare a Roma la Grecia disfatta e le pro vincie barbare ? La romanizzazione
si fa più rapidamente nelle provincie bar bare, che non dov'è la civiltà disfatta
: prima si romanizzano la Spagna, le Gallie, le provincie britanniche e le
danubiane, e dopo le greche e le fenicie che a R o m a contrappongono quale le
tradizioni e quale la prosunzione. La Grecia riesce a insinuare la lingua di
Omero e di Platone sin nelle ordinanze e ne'giudizii de'magistrati romani : ma
la lingua del diritto finisce col vincere quella della poesia e della
metafisica ed a portare tra il portico ed il liceo, contro le pe tulanti
proteste de'retori, la scuola del giureconsulto.Allora è che il romano, mentre
deplora la decadenza interna, glorifica in ogni forma la sua vittoria giuridica
sopra il mondo . Allora Virgilio dice al greco superbo : T u parla e scolpisci
meglio ; noi domineremo te e il mondo con le leggi, perdonando ai vinti e vincendo
i superbi (1). Allora è che Plinio dice che l'Italia, romanizzando il mondo,ha
dato l'umanità all'uomo ed una pa tria sola a tutte le genti : Colloquia et
umanitatem homini daret, breviter una cunctarum gentium in toto orbe patria
fieret. E sotto questo rispetto fu possibile un cosmopolitismo più pratico di
quello degli stoici, in quanto non negava le nazioni,ma dava loro unità e
colloquio da Roma :concetto raccolto da un impe ratore in questa sentenza :
Patria mei, Antonini, R o m a : h o m i nis, mundus. Ciò è vero ed è grande :
ma che portavano a Roma que're (1) Excudent alii (e sono i Greci) spirantia
mollius aera. Credo equidem , vivos ducent de marmore vultus. Orabunt causas
melius, coelique meatus Describent radio, et surgentia sidera dicent. Tu regere
imperio populos, Romane, memento : Hae tibi erunt artes.... 160
161 incatenati, que'servi, que’gladiatori, que'retori e mercanti ? Come
uomini gonfiavano la superbia del vincitore, come vinti lo corrompevano. Ma non
bastava ad umanizzare vincitori e vinti il Diritto che era nella missione di
Roma e da Roma dettato al mondo ? Certo, bastava, se il diritto romano fosse
stato tutto il diritto umano,tutto,come oggi lo intendiamo,come oggi la scienza
e la storia ce lo han fatto. M a non dobbiamo preoccuparle questa scienza e
questa storia:dobbiamo vedere come in mezzo a que sta decadenza che abbiamo
descritto, sorge e grandeggia il giu reconsulto . Il giureconsulto è
l'espressione più elevata e più certa di questa romanizzazione del mondo. Più
si dilarga la forza uni taria di R o m a, e più il responso del giureconsulto
universaleg gia. Il responso vero, quello che diverrà fondamento d'istitu zione
e di legislazione nel medesimo tempo,spazia tradue leggi de civitate, cioè
dalla cittadinanza italica sino alla cittadinanza universale.Che importa che
Roma corrompa sė,romanizzando il mondo ? Certo è che Roma non poteva fare
l'unità delle genti senza disfarsi, e che questa unità doveva avere la sua
espres sione giuridica. Ecco il giureconsulto. Dove la legge de civitate assume
l'espressione più ampia e tocca il fastigio, ivi sorge il giureconsulto massimo
che dà il più universale responso, il più umano,e rifiuta la vita per la
santità del medesimo. Fa gene rosamente per il responso ciò che Catone uticense
ostinatamente per la repubblica. Né le dodici tavole vecchio diritto
aristocratico,nè le ro gazioni tribunizie vindici della ragione plebea , nè
l'editto pretorio espressione limitata dell’equità , potevano esprimere Ja
missione giuridica di Roma nell'unità del mondo. Tribuno e Pretore erano romani
; il Giureconsulto romanizza . Romanizza in tre periodi e modi : 1° elevando
l'equità partico lare ad equità civile; 2° l’equità romana ad equità italica;
3o l'e quità italicaad equità umana.Ilresponsouniversaleggial'editto. 11 G.
BOVIO.Disegno di una Storia del Diritto,ecc.,ecc. - 162
L'editto ha sempre qualcosa di particolare rispetto all'obbietto, alle persone,
al tempo, alla forma. Di repentino farsi perpetuo non significa farsi
universale : solo comprenderà quanti casi con simili entreranno nel giro di un
anno. Certo, chi legge che l'e ditto pretorio è fatto jurisdictionis perpetuae
causa, non prout res incidit, può credere che quella perpetuità sia
universalità ; è invece la perpetuità della giurisdizione pretoria, la durata
di un anno.Perciò non ismette la forma individuale, non assegue mai nè
l'universalità teoretica delle formole razionali, nė l'im perativo impersonale
delle dodici tavole. Tutti gli editti pretorii che oggi leggiamo,come de
jurisdic tione, de pactis, de in jus vocando, de edendo, de postulando, de iis
qui notantur infamia , de procuratoribus, de negotiis gestis, de in integrum
restitutionibus, de nautis, cauponibus et stabu lariis recepta ut
restituant,dejurejurando voluntario, de publi ciana in rem actione, de servo
corrupto, de aleatoribus, de his qui effuderint vel dejecerint, tutti hanno la
forma individuale, espressa in ultimo dalle parole jubebo, servabo, dabo,
cogam, animdvertam e simili, o anche dall'espressione più individuale permissu
meo, come in questa de in jus vocando :– Parentum , patronum,patronam ,
liberos,parentes patroni,patronae, in jus sine permissu meo ne quis vocel. E
non solo l'edittodel pretore,ma anche l'aedilitium edictum, ma col dabimus,
tenuto conto che due erano gli edili curuli o maggiori, come già due gli
aediles plebeii (1). Ex his enim cau sis,judicium DABIMUS.Hoc amplius, si quis
adversus ea sciens dolo malo vendidisse dicetur, judicium dabimus. Non è già
che qualche volta non s'incontri la formola più generale, ma o come
dichiarazioni o come illazioni della for mola singolare che distingue
propriamente l'espressione giuri sdizionale dalla legislativa. (1) Per
l'utilità di queste notizie ho riportato in nota il frammento di
Pomponio. Ora veniamo alla sostanza. Come fa il pretore ad
insinuare l'equità nell'editto senza aperta violazione del s u m m u m jus ?
Che sarà questa gratia corrigendi juris civilis, per non essere negazione del
diritto civile e sostituzione dell'arbitrio indivi duale ? Sarà, più che di
frequente, una finzione pretoria che verrà ad alterare il fatto per serbare
inalterato il diritto, e a p punto questa finzione di fatto correggerà la
iniquità di diritto. Cosi il pretore fingerà pazzo il savio, vivo il morto ,
morto il vivo , e per processo di finzioni insinuerà da presso ai c o n tratti
ed ai delitti i quasi-contratti ed i quasi-delitti. Que'quasi che degradano
all'indefinito, sono indici dell'alterazione di fatto. La necessità che sia
corretta questa contraddizione che con trappone la fictio facti all'iniquitas
juris, indica la necesstà di un istituto che superi l'editto pretorio.
Nell'editto l'equità pre domina,ma particolare,intrusa sotto la finzione di
fatto con trapposta all'iniquità di diritto. Che è la finzione di fatto ? È il
prodotto di un mutato criterio di diritto, è la protesta del fatto contro il
vecchio diritto, è l'impotenza del vecchio diritto a c o n tenere il nuovo
fatto e la nuova vita. Quindi, la necessità che il diritto si alzi a quel
criterio presupposto dalla finzione di fatto.Questo criterio liberato dalla
condizione di semplice pre supposto, questo criterio espresso e messo in grado
non di torcere il fatto, ma di contenerlo tutto, di contenerlo come è nella
storia e nel costume, costituisce il responso del Giurecon sulto. L'editto è
costretto a torcere il fatto ; il responso univer saleggia il criterio
inventivo che simula e dissimula il fatto. E con questo l'iniquità di diritto
cade non per finzione, m a per natural ragione. Il responso corregge la
correzione del diritto, erchè il diritto dev'essere il supremo correttore della
vita so ciale . Per via di questa finzione di fatto il mondo non si sarebbe mai
romanizzato,non l'avrebbe intesa nè imitata; ma per via del responso il mondo
non si sente debellato, ma vinto vinto, perche issimilato. 103 .
A questa universalità non si può giungere se non per la via delle
definizioni, natefatte per universaleggiare, e per la via del metodo
scientifico che mena alle definizioni reali e razionali. E del metodo vien dato
merito a Servio Sulpizio ; delle definizioni a Quinto Scevola. I quali due sono
giuristi e letterati per asse guire quel romano nihil tam proprim legis quam
claritas:lode data da Cicerone sopra ogni altro allo Scevola, perchè adjunxit
eliam el literarum scientiam. Con che si dice che la letteratura, la quale per
altri è ornamento e pura erudizione, pel giurecon sulto è scienza. E , giacchè
questa scienza e come metodo e come arte qui comincia , ho potuto affermare che
il Giureconsulto grandeggia tra le due leggi de civitate, cioè dalla
cittadinanza italica sino alla cittadinanza universale, dal 664 al 964 — tre
secoli — dalla lex Julia sino ai libri quaestionum , responsorum et
definitionum di Emilio Papiniano. E cosi sorge e cosi vien su e sale ampio il
responso. Come Aulo Cascellio non volle mai deviare il responso da'fini
dell'editto ed adattarlo sopra įli ordini emessi da’triumviri, affermando alto
che la vittoria non giustificata non è titolo di comando ; cosi P a piniano
volle piuttosto perdere la vita, che giustificare il fratrici dio commesso
dall'imperatore, e adattare ilresponso a difesa del l'assassinio (1) Tale il
tipo del giureconsulto. Entriamo a considerare il responso prima nella forma e
poi nella sostanza. Venendo il giureconsulto con definizioni e metodo a
liberare dalla condizione di presupposto il criterio che regola le finzioni di
fatto contro le iniquità di diritto, egli universaleggia, innanzi tutto,
l'equità, derivandola da una legge universale, superiore (1) So che gli storici
contemporanei contestano la verità di questo fatto; m a ricordo che scrivevano
sotto gli sguardi imperiali, e non sanno addurre altra ragione veruna della
morte di Papiniano per ordine di Caracalla,se condo Dione Cassio ed Aurelio
Victor. 104 alle dodici tavole, superiore all'editto del
pretore ed a tutti i s e coli della letteratura e delle tradizioni giuridiche,
e la chiama, con Cicerone, lex nata ante saecula, comunis hominibus et Diis,
quibus universus hic mundus quasi una civitas existimanda. È , dunque, una
regola di ragione, alla quale uomini e Dei non possono sottrarsi e per la quale
il mondo è come una città sola.Il concetto pare stoico, m a risale i tempi sino
alle tradizioni itali che,nelle quali è detto:Idem est ralioni parere ac Deo.La
ra gione comincia a prendere il luogo del vecchio Fato che dalle spalle passa
di fronte a Giove. E da codesta universalità della regola razionale derivasi la
definizione della giurisprudenza: Notitia rerum divinarum atque humanarum ,
justi atque injusti scientia, ars boni et aequi. E di qui le tre regole
comuni,secondo le quali le leggi hanno a farsi, ad interpretarsi, ad applicarsi
: honeste vivere, neminem laelere,suum unicuique tribuere. Quanto alla forma,
il giureconsulto non fa opera scolastica, non largheggia nelle definizioni:
postane una in principio, piut tosto genetica che nominale, tira giù rapido
alle applicazioni più pratiche, più vicine all'uso. - Movendosi rapido, usa
termini tecnici ed evidenti, non moltiplica definizioni. Questo fine pratico ed
immediato gli sta sempre innanzi,e fa il suo valore filosofico e letterario.
Perciò, in mezzo alle antitesi ed alle gonfiezze della decadenza, il
giureconsulto rimane artefice di stile e di lingua, epigrafico come ilgenio
romano, e come abbiamo veduto Galileo e la sua scuola scientifica sottrarre il
genio italiano agli artificii letterari del seicento. Quando il giureconsulto
divaga dalla definizione fondamen tale e dal rapido processo dialettico, per
qualcuna di quelle logofobie che sono imposte dal tempo, egli non cade nella
reli gione, m a in qualche superstizione raccolta dalle tradizioni ita liche
piuttosto che da altra parte. Paolo nelle senlenze stima p e r fetto il feto
venuto fuori di sette mesi, secondo la ragione de'n u meri di Pitagora,
dimenticando che perfettissimo a Pitagora era . 165 166 il
nove, quadrato di tre. E , mentre il giureconsulto ragionava con proprietà e
rapidità matematica,cercando un contenuto quasi matematico all'equità, pure
secondo il costume latino sapeva cosi poco di geometria da supporre la
superficie del trian golo equilatero'eguale alla metà del quadrato eretto sopra
uno de'suoi lati. E ciò che appunto di più notevole trovasi nella forma del
giureconsulto, non è l'imperativo inflessibile delle dodici tavole, nè il
futuro personale dell'editto,ma l'espressione universale de rivata dall'equo
buono, inteso come equità civile piuttosto che penale,e più umana che romana. E
questa universalità sciolta dalle finzioni e definizioni,rapida, evidente,
immediatamente applicabile, sa epigrafico il responso più che l'editto,più che
le formole delle rogazioni tribunizie, e quanto le dodici tavole che restano
sempre tipo formale delle leggi romane.Porciò l'epigrafe monumentale al
Rubicone - già confine di R o m a fu, sebbene oggi se ne contesti l'autenticità,
detta una volta - ore digna jurisconsulti (1). Rispetto alla sostanza, il
responso è da considerare nell'ori gine, nelle scuole e nella conchiusione. Il
primo periodo del responso è un semplice astiarre e ge neralizzare lo spirito
degli editti pretorii, ordinandoli e colle gandoli. Anche questa opera si giova
del metodo scientifico e della definizione, e però nasce con Aulo Ofilio che si
assimila, (1)JUSSU MANDATUVE POPULI ROMANI Cos.IMP.TRIB.MILES TIRO COM MILITO
ARMATE QUISQUIS ES MANIPULARIE CENTURIO TURMARIE LEGIONARIE HIC SISTITO
VEXILLUM SINITO ARMA DEPONITO NEC CITRA HUNC AMNEM RUBI CONEM SIGNA DUCTUM
EXERCITUM COMMEATUMVE TRADUCITO SI QUIS HUJUSVE JUSSIONIS ERGA ADVERSUS.
PRÆCEPTA JERIT FECERITQUE ADJUDICATUS ESTO HOSTIS POPULI ROMANI AC SI CONTRA
PATRIAM ARMA TULERIT PENATESQUE SACRIS PENETRALIBUS ASPORTAVERIT. S. P. Q. R.
ULTRA HOS FINES ARMA AC SIGNA PROFERRE LICEAT NEMINI. Epigrafe
legislativa, documento della missione latina. 167 per ordinare gli
editti, l'opera di Servio Sulpizio e di Quinto Scevola : nasce ai tempi di
Cicerone, nella generazione istessa della Lex Plautia de Civitate, con Aulo
Ofilio Caesari familia rissimus, qui edictum praetoris primus diligentur
composuit), e si chiude con Salvio Giuliano, legum et edicti perpetui subtilis
simus conditor, il quale per disegno di Adriano stabilisce nel vero senso
l'editto perpetuo, al quale i magistrati conforme ranno le loro disposizioni.
Il responso assorbe il diritto onorario e lo supera (1). Il secondo periodo
determina il metodo nel processo d'astra zione,lascia l'editto, e costituisce
la scienza,creando due scuole nel vero senso della parola, e cosi chiamate
dagli antichi :la scuola deSabiniani,che ebbe duce Attejo Capitone,ela scuola
de'Pro culejani, derivata da Antistio Labeone. È vano dissimulare la dif
ferenza : c'è nella qualità dell'ingegno e del carattere de'due m a e stri, nel
contenuto de'responsi e nel conato posteriore di c o m perre le lue dottrine e
le due scuole. In Labeone è più evidente l'indirizzo filosofico, in Capitone il
metodo storico : non già che l'uno non tenga conto della storia e l'altro della
filosofia, e che l'uno e l'altro non abbiano innanzi un fine immediatamente
pratico: ma nell'uno prevalgono la de finizione e il discorso, nell'altro la
tradizione. Sesto Pomponio nel frammento, da noi recato in nota,della sua
storia del Diritto (De originejurisetomnium magistratuumetsuccessionepruden
tium ) dice de'due : Antistius Labeo, ingenii qualitate et fiducia doctrinae,
qui et in caeteris sapientiae partibus operam dederat, plurima innovare
studuit: Atejus Capito in his quae et tradita erant, perseverabat. Il terzo
periodo raccoglie le due scuole non in un eclettismo di Miscelliones, sognato
da Cujacio, ma nella sintesi di Papi (1)Va intesochelecontroversiestorichesarannodamediscusse,quando
potro liberare la storia del diritto dalla strettezza presente e confidarla a
tutta l'espansione del pensiero. È chiaro qui che la perpetuità in senso di
universalità viene dal giureconsulto,non dal pretore. niano che
nel responso raccoglie con mirabile armonia il dop pio indirizzo, e ispira
nella legge ciò ch'è sacro nella ragione e nella storia. Oltre quest'altezza il
diritto romano non poteva salire. L'impero aiuta l'ufficio del giureconsulto
per queste ragioni: gl'imperatori odiavano il vecchio diritto aristocratico che
aveva armato la mano di Bruto e di Cassio e non dimenticava privilegi
impossibili innanzi all'imperatore:astiavano il diritto onorario,di origine
aristocratica, e gareggiante con la potestà del principe nell'emissione
dell'editto : e, scaduta la tribuna, vedevano volen tieri all'eloquenza
giuridica succedere l'investigazione giuridica, all'oratore il giureconsulto.
Potei,dunque,scrivere che,come iltribuno impiccioliva innanzi al pretore, così
il pretore innanzi al giureconsulto. La promul gazione avvia all'editto,
l'editto al responso . Il principio della reciprocita conversazionale.
lavoro o, come dicono, la specifi cazione; nė deve , sino a quando è
semplice uso, alterare la forma in che si presenta la cosa. 286 L'uso
prepara la proprietà, il frutto la determina.- Ciò torna a significare che il
prodotto è del produttore, solo proprietario dell'o pera sua.- In queste poche
parole è tutta la dimostrazione.- Ma non vediamo, si dice,assai volte che la proprietà
è di uno,ilfrutto di un altro ? — Vediamo anche peggio : vediaino la
successione , la donazione, la prodigalità, l'avarizia, l'usura; m a quello che
fu ed è la proprietà non è quello che può e deve rimanere.
L'usufrutto si presenta come risultamento d'illimitato dominio e nega nel mondo
economico il principio di causalità.Il prodotto essere del produttore vuol dire
che il frutto determina la proprietà. Il frutto la determina, il contratto
l'esplica. Anche l'animale è produttore, può sopra le cose avere uso e frutto,
m a il contratto è dell'uomo, perchè ei solo è onnimodo ed ha biso gno di tutti
imezzi.— Perciò Dante partecipa all'agricoltore la gen tilezza di Francesca,la
fierezza di Farinata,l'austerità di Catone, la salvazione di Manfredi , la
misura della giustizia nell'universo ; l'agricoltore partecipa a Dante la
misura del frumento. Senza quella partecipazione superiore, l'agricoltore è
animale ; senza la parteci pazione frumentaria Dante è cadavere o inetto. Dirà
che sa di sale ilpane altrui,ma lo mangerà,equel cibo glisitramuterà incanto.
Questa è la circolazione della vita.- In somma ilprodotto è del pro duttore; il
contratto lo fa sociale: il prodotto è individuale ; il con tratto lo fa umano
. L'umanità è socialità, e questa è contrattualità. È il solo punto di vista da
cui il filosofo deve considerare il con tratto . L'umanità è socialità,perchè
l'assoluto monos non sarà mai l'uomo non salirà mai all'universalità della
ragione, m a rimarrà chiuso nel l'egoismo,che più trasmoda e più imbestialisce.La
ragione,essendo dialettica, non può attuarsi nell'io e nel tu, m a nel noi. È
dunque intrinsecamente sociale.La società dunque non è convenzione, ma natura.
Non si nega già che l'uomo sia passato dallo stato troglo ditico al sociale; ci
passo di certo, e al passaggio fu aiutato da ter ribili esplosioni della natura
esteriore:ma ilprimo e poi non toglie naturalezza alle cose. Il volgo crede che
le cose più naturali sono le primitive e sino ad un punto a questo pregiudizio
si accomoda l'istesso linguaggio hegeliano:ma da un punto più sicuro si deve
dire che le cose asseguono la loro sincera natura nel fastigio non
inprincipio.Dico che l'uomo è naturalmente uomo,è tale secondo la natura
sua,quando ragiona,non quando vagisce;ma la ragione - 287 ? Abbiamo varietà
di vocazione , di lavoro , di produttori , di pro dotti, dunque di proprietà.
Quindi proprietà agronomica, industriale, artistica, letteraria : non di
ciascuno,m a necessarie tutte a ciascuno, perchè tuttefanno ilcumulo dei mezzi
necessarii al fine umano. Come dunque passano da produttore a produttore e
fanno la comu nità della vita , la totalità dell'uomo ? - Mediante il contratto
, che però è definito l'esplicatore della proprietà. è il fastigio
dell'individuo umano e della storia , è la sui-aequatio, non il saluto di chi
arriva.La naturalezza vera di una cosa è dun que l'equazione della cosa con sè
medesima,cioè del soggetto con la propria essenza. Però l'uomo non è il
troglodita, m a il cittadino e non l'esclusivo cittadino ma l'io-civile,il noi.
-La società dun que non è da convenzione m a da natura : l'umanità è socialità.
Ogni istante della vostra esistenza civile implica un concorso di volontà,un
consensus,in somma un contratto espresso o tacito. L o s t a r e q u i a d u d
i r m i , il r i e n t r a r e n e l l e v o s t r e c a s e , il c i b o , il
r i poso sono atti della vita che implicano un consenso,un concorso di volontà
, un esplicito o implicito contratto. E considerando che la socialità è
contrattualità hanno distinto il contratto in pubblico e privato, e patto
pubblico fondamentale hanno chiamato quello che då forma allo Stato.Forse non
sarà veramente pubblico questo patto fondamentale, m a hanno avuto bisogno di
crederlo e chiamarlo tale. Che cosa manca alla sincera pubblicità del patto
fondamentale ?— Manca la natura della società presente , la quale, non uscita
dallo individualismo, rende unilaterale e pero artifiziale la più parte dei
contratti che oggi si fanno.La soperchianza dell'individuo sulla col. lettività
si traduce nella soperchianza del più forte dei contraenti. Quando ilbisognoso
corre all'abbiente sa di subire tutte le condizioni imposte dal capitale, il
dieci, il trenta, il cento per cento, la tarda mercede e macra,i fastidii, il
oa e torna che è furto di tempo,ed altro.Nondimeno corre,torna,incalzato dal
carpe diem ,avvenga pure che il di appresso debba essere sospeso all'albero
infelice.La prudenza gli dice che domani il capitalista lo spellera ; il
bisogno lo persuade a risolvere l'oscurissimo problema dell'oggi.Il bisogno
immediato vince dove affatto precaria è la condizione della vita e il domani si
porge ignoto.Quindi quella forma di contratti che vogliono avere tutta la
sembianza di bilaterali, dialettici , umani , m a in s o stanza sono
unilaterali e soverchiatori in maniera blanda e insi diosa. Questi contratti
hanno un consenso apparente , un dissenso 288 In che consiste questa
socialità?- In uno scambio perenne, con tinuo di mezzi con libera necessità
cioè in una volontaria permuta zione continua.Questa volontaria permutazione è
il contratto. D u n que l'umanità è socialità ; questa è contrattualità. Il
corollario è questo : qual'è in un tempo la forma della società tal'è del con
tratto. Oggi la società è malthusiana , nel senso detto sopra ; m a l thusiano
è il contratto.- Valgano i fatti a dichiarare questa dot trina. 289
Nessun Codice scritto può far riparo a questi contratti simulati, unilaterali,
e di mala fede, a questi bugiardi consensi di uomini che profondamente
dissentono anche quando mostrano di consentire , a queste soperchierie
distillate dalle procedure e da quel s u m m u m ius che fu sempre summa
malitia.Infatti che riparo metterebbero i C o dici?-Multe,carceri,sanzione di
nullità,questi sarebbero isommi ripari; e varrebbero ad addoppiare la simulazione
del contratti,o ad ammortire il capitale, a fermare la circolazione economica
cioè alla stasi sociale. Altri ripari occorrono , e di questa forma unilaterale
saranno i contratti sino a quando la forma sociale non sia mutata e il
lavoratore, mediante il lavoro associato, non entri nella possi bilità di far
la concorrenza al capitalista.Malthusiana è la società, tale dev'essere il
contratto ; il capitale costituisce la plutocrazia, il contratto la
subisce;l'individualismo nummulario si oppone alla ve nuta
dell'uomo,ilcontratto dev'essere unilaterale,una contraddizione n e ' t e r m i
n i .-- N o n i C o d i c i d e b b o n o i n t e g r a r e il c o n t r a t t
o , m a l a s o cietà dev'essere rimutata dal fondo. Non co'Codici direttamente
lo Stato presente può integrare il con tratto:ogni suo intervento sarebbe
malefico;ma dovrebbe,pare,per mettere al lavoro di associarsi. Mostra di farlo,
m a la sua natura nol consente: dall'una parte permette le
associazioni,dall'altra crea tanti intoppi di leggi e balzelli e contatori e
pesatori e pretesti di ordine pubblico che il lavoro rimane estenuato e
impotente di q u a l u n q u e r i s p a r m i o . P a r f a c i l e il d i r e
: r i s p a r m i a t e l ' o b o l o ; m a è d i f ficile risparmiarlo dalla fame.
Cosi il lavoro non potendosi capita lizzare,non può creare la concorrenza al
capitale.Quindi la rivolu zione economica non è possibile senza la rivoluzione
politica,e que sta, alla sua volta , non asseguirà il suo fine, che è la
libertà , se non compita la rivoluzione economica che equilibra la proprietà.
Il capitalista e l'operaio sono nemici;ilcontratto tra loro non può essere che
una simulazione ; la sola guerra è possibile.— Lo Stato presente ad evitare la
guerra permette l'associazione e ne soffoca l'effetto;impotentealleriformeciviliprometteleriformepenali,scherno
a bastanza scoperto e deriso.– Se manderanno via il boia, diceva Langassieres ,
ho ancora il mio rasoio,ho la mano ben ferma, e la volontàèlapadronanzadime.Ho
ildisprezzodituttoquelloche mi circonda.Ho capito il significato delle parole
Dio,ordine,stato, reale , e per questo appunto sono unilaterali , e sono
nondimeno la massima parte dei contratti odierni,perché questa è la forma della
società,è malthusiana,pontefice e re ilcapitale. 37 e Codice:
parole belle per chi se ne ha da servire. A te!- Or che ti han fatto grazia
della vita,tagliati tranquillamente le canne e di mostra anco una volta che
l'uomo è il solo animale che ha piena si gnoria di sé. O suicida o
rivoluzionario, questo è il solo dilemma che lo Stato presente mette innanzi
all'operaio. Il suicidio,per esteso che sia,non può assumere che forma ec
cezionale;e però la sola rivoluzione oggi si porge come norma.- E sarà politica
e sociale insieme , perché sono momenti inseparabili. Pervenuto a queste
necessità , mi fermo un istante e odo le p a role che mi si dicono
attorno:-Scrioi un corso di Scienza del Dritto o fai dellapolitica?—Rispondo
che obbedisco allanecessità,laquale non può separare la scienza del Dritto
dalla Filosofia della storia, che additando il cammino , dice che i popoli
perverranno dove gli Stati non vogliono. Il tempo verrà testimone non lontano
delle mie conclusioni. Questa è la sola conseguenza possibile a cui poteva
condurmi la teorica della proprietà.- Ora entriamo a ragionare dell'individuo
umano considerato come autonomo. Giovanni Bovio. Keywords. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Bovio” – The Swimming-Pool Library.
Bozzelli (Manfredonia).
Filosofo. Grice: cf. tragic dialogue – Oreste a Pilade – and Enea’s Niso e
Eurialo’ – Grice: “Not to mention the rape of Lucrezia, and Romolo killing
Remo, and the rest of it.” -- Grice: “You’ve got to love Bozzelli; at Oxford,
it would be difficult to find an English philosopher interested in English
tragedy, but Bozzelli’s expertise is ‘tragedia romana’ – Ercole and the rest!
Philosophically, Bozzelli speaks indeed alla Aristotle of the tragic – alla
Nietzsche, too – since ‘lo tragico’ is possibly a philosophical category – On
top, if I have been called a mimetist,
so is Bozzelli – ‘lo tragico’ becomes an adjective, and qualifying ‘imitation’
– Aristotle’s principle for mimesis and tragedy as meant for catharsis – with
Bozzelli, it is ‘imitazione tragica.’ He wisely skips (almost) the Middle Ages
and reviews ‘tragedia romana’ and how it becomes ‘tragedia italiana’!” Noto per
essere stato l'estensore della Costituzione del Regno delle Due Sicilie. Dopo
le scuole secondarie dagli Scolopi, Studia a Napoli. Laureatosi, entra
nell'amministrazione statale: uditore giudiziario presso il Consiglio di Stato.
Entra nella sopraintendenza della Salute, dapprima come ispettore generale e
poi come segretario. Nello stesso tempo si dedica all'attività metafisica.
Pubblica "Poesie varie" una antologia di versi scritti secondo il
gusto del XVIII secolo. Di sentimenti liberali, prese parte ai moti
costituzionali che gli costarono dapprima la prigione e successivamente un
esilio che trascorse in Francia. Durante l'esilio espose in numerosi saggi le
sue concezioni politiche di liberale moderato, fautore di una monarchia
costituzionale e avverso al programma democratico-radicale. Scrisse inoltre
saggi filosofici di etica e di estetica. Rientra in patria. La fama di grande
cultura e di integrità morale acquistata durante l'esilio, lo garante un grande
prestigio all'interno del partito liberale delle Due Sicilie. La sua popolarità
divenne ancora più grande dopo un nuovo periodo di prigionia assieme a Carlo
Poerio e a Mariano d'Ayala. Pertanto, dopo l'inizio dell'insurrezione siciliana
e incaricato dal presidente Serracapriola di preparare il decreto reale che
fissa i principi costituzionali. Nominato ministro degli Interni, in
sostituzione di Cianciulli, con l'incarico di stendere il testo della Costituzione. Dapprima
fautore, con Poerio ed Ayala, dell'idea di ripristinare la Costituzione
napoletana. Tuttavia, poco dopo si convinse della necessità di stendere carta
costituzionale completamente nuova, un compito che porta a termine da solo e in
soli dieci giorni. La costituzione delle Due Sicilie approntata da lui e
composta di 89 articoli. Rcalca di fatto sia la Costituzione francese (eccetto
nei punti in cui si trattavano le autonomie locali) che la Costituzione belga.
La sua Costituzione venne tuttavia criticata immediatamente dai democratici
perché non offer sufficienti garanzie di libertà ai cittadini, limita i diritti
elettorali su base censuale e lascia al Re ampi poteri discrezionali. Venne
escluso dal governo costituzionale di Troya per divergenze sulla politica
estera (e contrario alla guerra contro l'Austria). Partecipa invece, come
ministro degli Interni e dell'Istruzione Pubblica, al governo Spinelli
costituito dopo il colpo di mano di Ferdinando II. Sebbene il suo'intento e
quello di mitigare la reazione regia e affrettare il ritorno alla legalità,
venne accomunato dall'opinione pubblica nel discredito del governo delle Due
Sicilie, nonostante fosse sostituito agli Interni con Vignali per ordine dello
stesso Ferdinando II. Si ritira a vita privata avendo come unica fonte di
reddito la pensione maturata per essere stato consigliere di stato. Con la
conquista del Regno delle Due Sicilie il nuovo Regno d'Italia gli revoca anche
questa. Supremo Magistrato e Soprintendenza Generale di Salute delle Due
Sicilie, Giornale di tutti gli atti, discussioni e determinazioni della
Sopraintendenza Generale e Supremo Magistrato di Sanità del Regno di Napoli. In
occasione del morbo contagioso sviluppato nella città di Nola. Napoli: nella
Stamperia Reale. Poesie varie. Napoli: da' torchi di Giovanni de Bonis. La
strega di Manfredonia. Napoli : Guida. Della imitazione tragica presso gli
antichi e presso i moderni: ricerche del cavalier Bozzelli. Lugano: Ruggia. Dizionario
biografico degli italiani. Per quanto voglia rifrugarsi attentamente
negli annali della letteratura latina, risalendo fino all'epoca in cui la con
quista della Macedonia menò con altri Greci a Roma Polibio e Panezio , e per
mezzo di essi fe’scintillare i primi raggi di una positiva coltura
intellettuale tra quei feroci repubblicani, è difficil cosa il concepire quali
fossero ivi le origini , quali segnatamente i progressi dell'arte tragica. Non
possiamo di rettamente giudicarne da ciò che tentarono in questo genere
Andronico e Gnevio , Ennio e Pacuvio , i quali precedettero il principato di
Augusto ; perchè le loro opere non sono giunte insino a noi . Lo stesso è a
dirsi relativamente a quelle che furono scritte alquanto più tardi , quali , a
cagion d'esem pio , furono la Medea di Ovidio e il Tieste di Vario, con altre
molte che le ingiurie de' tempi ci hanno ugualmente involate . Questo fatto
notabile ci vien però attestato da Orazio , che alla sua età la moltitudine
interrompea spesso ne' teatri la rappresentazione di una favola tragica , per
chiedere che se le desse invece a spettacolo un combattimento di fiere o una
pugna di accoltellanti : ond' egli stimava che ciò scoraggiasse o distraesse i
poeti dall'intraprendere quella carriera. Ecco i suoi versi all'uopo : Saepe
etiam audacem fugat hoc terretque poetam , Quod numero plures , virtute et
honore minores, Indocti , stolidique , et depugnare parali , Si discordet eques
, medio inter carmina poscunt Aut ursum , aut pugiles: his nam plebecula
gaudet. Il fatto dee tenersi per innegabile . Orazio lo afferma sto ricamente ;
nè può supporsi ch' ei si piacesse di mentire in faccia a ' suoi proprii
contemporanei , ed allo stesso Augusto , a cui quei versi erano indirizzati. Ci
vorrà intanto esser per messo di non consentir di leggieri nella induzione
ch'egli ne cava , dando quel disordine , vergognoso invero a un popolo
incivilito , a motivo di scoraggiamento ne' poeti. È certo che una simile
plebecula esisteva pur essa in Atene , quando la tragedia vi nacque ; e ,
gridando d 'impazienza che tal novità non avea niente a fare con Bacco , ella
ben avrebbe gradito di veder piuttosto satiri, col volto intriso di feccia di
vino , avanzarsi giocondi sopra ornate carrette per divertirla con racconti
osceni e con ditirambi da ebbri . Non però Eschilo ne fu smagato. Forte del
sentimento ardito che lo ispirava , e della profonda conoscenza che acquistato
avea del cuore umano , ei seppe con la occulta seduzione operata da' suoi
prodigiosi dipinti , innalzare il popolo insino a lui ; e riem piendolo di maraviglia
e di stupore , obbligarlo ad accoglier le sue opere co ' più straordinarii
applausi , per cosi produrre una rivoluzione istantanea nella maniera di
sentire, non già guasta , ma non ancora educata , del pubblico , in fatto di
tragedia. E un simil fenomeno fu osservato poco tempo dopo, rela tivamente alla
commedia greca. Il basso popolo , avvezzo a udir sulla scena il licenzioso
linguaggio Aristofane , e a vedervi rappresentate sconce o grossolane
situazioni , benchè sempre condite di un lepore comico ammirabile , mal
sofferse che Cratino , cangiando sistema per la ingiunzione delle nuove leggi
che miravano a reprimere quello scandalo , gli offrisse a spettacolo più
decenti orditi ; e un giorno andò fino a scacciarlo dal teatro con tutta la
comitiva de' suoi attori. Chi non lancerebbe a piena mano i motteggi e il
disprezzo su tanta corruzione di gusto e di costumi ? E questo esempio
frattanto non valse a scoraggiar Menandro , il quale, creando la nuova commedia
, la depurò delle antiche sozzure , e ne fu coperto di lodi . Il popolo adunque
s'increbbe non del decoro dell'azione , perchè lo applaudiva in Menandro ,
bensi del poco senno e della insipidezza onde Cratino , che era un me
diocrissimo poeta , si avvisò di adombrargliela : ed era natu rale , se non
lodevole , ch' ei preferisse le lascivie che gli te neano sveglio ed ilare il
sentimento , ad una decenza freddis sima che lo facea sbadigliar di noia . Or
fu il citato disordine che impedi ad un Eschilo di apparire, o non piuttosto la
man canza di un Eschilo che suscitò un tal disordine in Roma ? Questo problema
non è sfuggito' a' critici moderni : e , benchè tutti lo abbiano riguardato da
un solo aspetto , e non forse il più sicuro , ciascuno ha pur tentato di
scioglierlo a suo modo. Interpretando a capriccio , ed oltre misura esten dendo
il frizzo di Orazio , alcuni hanno attribuito quella penu ria di tragici presso
i Latini alla grande ignoranza del popolo , il quale , avviluppato nelle sole
abitudini di una vita pratica e materiale , non offria stabil presa a' poeti da
esaltarlo ad alti concepimenti con lo spettacolo di azioni drammatiche . Altri
ha soggiunto che ciò inoltre derivasse dall'affluenza de' tanti stranieri
ammessi a cittadinanza , i quali aveano tras formata la città di Roma in un
miscuglio informe di nazioni senza omogeneità nelle maniere di credere , di
vivere e di sentire . I più arditi alfine , risalendo a cagioni ancor più uni
versali, han pensato spiegar l'enigma con la mancanza presso che ivi assoluta
di tradizioni eroiche, di abbaglianti remini scenze , di antichità remote , le
quali , ricongiungendo l'ori gine delle umane razze a quella delle razze
celesti , furono si feconde di nazionale orgoglio e di spontanee ispirazioni
presso i popoli della Grecia. Esaminiamo in breve ciò che può es servi di falso
e di vero in queste diverse ipotesi. Innanzi tutto , allor che gli eruditi con
si franco animo attribuiscono il difetto di tragici ne' Latini alla grande igno
ranza del popolo , par ch' essi non abbiano presente di quella storia se non lo
splendido periodo in cui le vacche di Evan dro ivano mugghiando non custodite
per le strade ancor de serte di Roma. Se non che la curiosità dell'osservatore
non è suscitata che dal vedere quel difetto continuarsi nel cosi detto secolo
di Augusto , il quale vantò storici ed oratori e naturalisti e filosofi e
giureconsulti di tanta eccellenza ; e pro dusse in breve spazio di anni nobili
poesie di ogni genere , se non di conio eccelsamente originale, ritemprate
almeno con felicità portentosa e con mirabile forza d'immaginazione. Quando
dunque con la parola popolo non voglia significarsi una frazione infinitesima
della società , quella pretesa igno ranza in tanto apogeo di coltura
intellettuale rimane incom prensibile , come l'idea di un vasto incendio che si
súpponga scoppiato senza materie combustibili atte a servirgli di ali mento .
Ed a chi volesse limitar l'accusa ad un solo oggetto , domanderei , onde tanta
cecità in quel popolo per la ' sola poesia tragica , in mezzo a tanto e si
dilicato senso di ammi razione per tutte le altre arti gentili ? Noi ignoriamo
alle opere drammatiche di qual poetonzolo il popolo impaziente facesse l '
oltraggio di cui parla Orazio . Quel si discordet eques, che questi non obblia
d'indicarne a motivo , può interpretarsi in tante maniere ! .... È certo non
esservi memoria che ivi fosse interrotta del pari la rappresen tazione delle
commedie di Plauto e di Terenzio : ed è sopra tutto nota la lusinghiera
accoglienza che il primo eccitava sempre da parte degli spettatori. Taluno ha
preteso che ciò dipendesse dalle troppo libere immagini onde talvolta questo
comico solea rifiorire il suo dialogo : ma , non essendo questa libertà da
imputarsi al nodo de ' suoi orditi , è poco presumi bile ch'ei fosse unicamente
applaudito per l'espressione licen ziosa degli ornati . Senza che il divulgato
aneddoto , che un fre mito di assenso e di approvazione universale si levò un
giorno nel pubblico , udendo dire a un personaggio teatrale , Homo sum , nihil
humani a me alienum puto , prova interamente il contrario : anzi ci dà a
divedere di qual gusto squisito e di qual diritto senso morale fossero allora
dotate le genti latine ; poiché quel motto , riunendo in sė poetica bellezza a
filosofica verità , par dettato alle muse latine nella santa scuola di Ari
stide e di Focione. In quanto al concorso degli stranieri ammessi a cittadi
nanza , per effetto del quale si è voluto far di Roma una Ba bele , in cui per
la diversità de' linguaggi l'uno per poco non intendea più l'altro, mi sia
permesso di riguardarlo come una esagerazione di dati e di conseguenze
ugualmente privi di rea lità . Allor che il dritto di cittadini romani
concedevasi a in tere popolazioni , come avvenne a molte del Lazio e prima e
dopo lo stabilimento della repubblica , queste non trasmi gravano subito , a
guisa di mulacchie, per andarsi ad attendare nel recinto de'sette colli : e
allor che si conferiva quel dritto a semplici individui , eran questi
ordinariamente principi e magnati che il senato volea rendere a sè benevoli ,
soffre gando loro quel titolo reputato , come avvenne a tanti celebri Germani,
Celti ed Iberi , i quali essi stessi non sempre lascia vano le loro patrie per
dimorare stabilmente in Roma. Nella sola classe de servi , il numero degli
stranieri era immenso per l'abuso delle conquiste : ma nè il teatro era
instituito pe’servi o frequentato da servi, nè la potenza de liberti usciti del
loro seno , che infestarono Roma delle loro turpitudini, appartiene al secolo
di cui qui si tratta . Una massa di veraci e purissime antiche razze romane
esisteva dunque in quel centro di universal dominio , a cui i tragici poteano
indiriz zarsi con buon successo : e l'osservazione che siegue ne dará
evidentemente la prova. I latini scrittori non ebbero tutti la culla alle falde
del Tarpeo ; ne vennero dalle diverse regioni d'Italia , e sin dal l'Asia,
dall'Africa dalla Spagna : ' e non dettavano al certo le loro opere ne'
dialetti municipali o nelle straniere favelle 1 Cicerone , Vitruvio , Orazio ,
Ovidio nacquero in quel che oggi chiamasi regno di Napoli : Catullo , Livio ,
CornelioGallo , Virgilio , in quel che oggi chia masi regno Lombardo - Veneto :
Plauto e Properzio nacquero nell'Umbria , Sal Justio ne' Sabini, Tacito in
Terni , l'ersio in Volterra , Plinio il giovinc in Como : Fedro fu trace ,
Terenzio cartaginese ; e più tardi Columella , Seneca , Marziale , Lucano ,
furono spagnuoli , ec., ch'essi erano stati avvezzi a balbettar nell'infanzia ,
ma in quella lingua nobile , purgata , numerosa , che , parlata gene ralmente
in Roma , ogni di s’illeggiadriva e si magnificava nelle strepitose discussioni
del fòro e della tribuna . Or come spiegar questo fenomeno allor che si niega
ivi l'esistenza di un fondo, e di un fondo estesissimo di ingenua romana gente
, la quale avesse quella rigorosa omogeneità nelle maniere di credere , di
vivere e di sentire , senza cui una lingua nè sì forma, nè s'ingrandisce , nè
si conserva ? Era dunque per incantar le orecchie de' non Latini , che quegli
scrittori avean cura di esprimersi nel più gentile latino idioma ? era con la
grammatica scarmigliata e con la mozza fraseologia de' Ger mani , de' Celti ,
degl'Iberi e de' Britanni di quella età , che si giudicavano meritevoli di
elogio le tante sublimi opere di poesia , di storia e di eloquenza che videro ivi
la luce ? E può mai supporsi composta d'ignoranti o barbari quella folla di
popolo che , siccome Tacito narra , uditi un giorno in teatro alcuni versi di
Virgilio , tutta si levò in piedi con entusiasmo spontaneo , e fecegli
riverenza come se fosse stato Augusto ? Ne’ teatri di Roma erano stabiliti
seggi distinti pe'con soli , pe’ senatori, pe' pontefici , pe' tribuni , pe'
magistrati d'ogni ordine e d'ogni specie , e fin anche per le vestali ; chè
sotto il principato di Tiberio troviamo un decreto del senato , con cui si
conferisce a Livia il privilegio di seder tra le vestali negli spettacoli . E
dee dirsi che i vecchi sopra tutto li fre quentassero ; essendo ivi legge
antica , la quale obbligava i giovani , ovunque nelle sale degli spettacoli un
vecchio si pre sentasse , a levarsi immediatamente in piedi , e cedergli il
luogu per venerazione . Di questa massa principalmente for mavasi colà dunque
il pubblico de' teatri : ed a questa massa dovea senza fallo aver Terenzio la
mente , allor che asseriva non esser altro lo scopo di un poeta drammatico , se
non quello di far gradire al popolo spettatore le favole ch'egli or diva ; onde
esclamò nel prologo dell’Andriana : Poeta cum primum animum ad scribendum
appulit , Id sibi negoti credidit solum dari Populo ut placerent quas fecisset
fabulas. Or io ripeto : era per lusingare un popolo di barbari e d'igno ranti
che quel Cartaginese mettea tanto studio nel portar la favella de’ Latini al
sommo della grazia e dell'eleganza , era per lusingar barbari ed ignoranti che
Lelio e Scipione , rino mati a quei giorni per saviezza , per virtù e per
credito , con fortavano questo poeta de' loro benevoli aiuti e de’ loro illu
minati consigli ? È fuor di dubbio finalmente che ad attingere svariate ma
terie di rappresentazioni tragiche i Romani ebbero anch'essi dovizia di memorie
nazionali ed eroiche ; ove guerre di pas sioni , assedi di città, imprese di
vendetta , mutamenti di sta ti , ratti di donne , e fratricidi e commozioni e
rovesci e ma raviglie di ogni specie si succedono e si confondono ad im prontar
di poetica grandezza le più lontane origini di quel popolo . Nè al mio soggetto
fa ostacolo che quelle famose tra dizioni siensi trovate spoglie di storica
certezza dalla nuova scuola in questo genere , che , aperta dal Vico in Italia
, ė stata poi continuata dagli Alemanni. Verità o favole , storie positive o
allegorie inventate per vaghezza di portenti , basta per me il sapere che eran
generalmente divolgate e facean parte delle credenze pubbliche de' Romani a'
tempi della loro intellettuale coltura . Per quanto infatti si tenga oggi per
as surda la venuta di Enea in Italia , è pur vero nondimeno , e Tacito non
isdegna di attestarlo gravemente , che la famiglia de' Giuli , perché supposta
discendere da quel Troiano , si ri guardava di buona fede come del sangue di
Venere. Le menti anzi con tal fervore si pascevano di siffatte finzioni, che
dopo averle vagheggiate in quei vecchi canti rozzissimi che ne ser barono da
prima le oscure reminiscenze , le videro un giorno con applauso universale
rinfrescate di si egregi colori ne' qua dri dell’Eneide , la quale può da
questo lato considerarsi co me un vasto tesoro delle più remote antichità
latine . E se non vi ebbe tra’ Romani quella profusione di celesti discendenze
onde i Greci avean abbellite le origini delle loro più insigni razze
principesche , pur nondimeno una illusione prestigiosa , capace ivi d'imprimere
forte movimento a tutte le facoltà poetiche , preoccupava tenacemente gli
spiriti. E fondavasi nell'immagine di Roma , per memorandi oracoli riguardata
come potenza eterna , invincibile , dominatrice; in nanzi a cui tutti i popoli
della terra doveano tardi o presto piegar la fronte sommessi; che i numi stessi
del cielo non aveano forza di abbattere ; che la religion civile avea riposta
finalmente a simbolo d'immensità fra le tenebre misteriose onde nell’Olimpo era
inviluppato lo stesso Destino . Sicché ad un Romano bastava il tenersi parte
integrale di questa città per credersi di discendenza più che celeste , e
trovar nell'esaltazione di cosi nobile sentimento l'alito animatore di tutte le
grandi imprese nelle arti della pace , come in quelle della guerra. E a far
della tragedia una creazione indigena , oltre all'abbondanza delle loro
nazionali antichissime vicen de, oltre a quel fermento di orgoglio che
l'immagine di Roma suscitava in tutti , i Romani ebbero il medesimo o pri
mitivo impulso che per facili associazioni d'idee la fe ’ nascere dalle feste
di Bacco ne' Greci; avendo pur essi posseduto in certa guisa i loro Epigeni e i
loro Tespi negli autori di quelle rinomate favole Atellane , che veniano
rappresentate sopra palchi ambulanti nelle pubbliche solennità . Rimosse
adunque come false o mal distinte le spiegazioni addotte sinora intorno
all'oggetto che ci occupa , e sino a quando da’ricercatori dell'antichità non
ne sieno poste innanzi delle meglio fondate , a me non resta che di attenermi
al nudo fatto , quello cioè che grandi e veri tragedi mancarono assolu tamente
a Roma per trasportar l' animo anche de' più ritrosi nella sublimità di questo
genere di produzioni ; e non conve nir quindi trattar con troppo di asprezza il
popolo che osò far sene beffe . Nè poi questo fatto è realmente unico : chè lo
veggiamo più volte ripetuto nella storia delle lettere moder ne . Or domando :
trovandoci spiacevolmente arrestati dalla penuria di siffatte opere presso i
Romani della età di Augusto, scenderemo noi ad attinger ivi contezza di
quest'arte dal solo teatro di Seneca , apparso in tempi ne'quali, non che
annien tata ogni reliquia dell'antica virtù , libertà ed altezza di so ciali
condizioni , la stessa lingua che risonò con si dolce fre mito ne’versi di
Catullo e di Orazio , di Lucrezio e di Virgilio , cra caduta quasi che
pienamente nel fango ? In verità , se per avventura il popolo romano potesse
risorgere alcun poco da quel sepolcro che si erge smisurato al par di lui nella
immensità de' secoli , e ricollocarsi gigante qual era nel periodo della sua
letteraria grandezza , non so se oserebbe assumer senz' onta titoli di gloria per
l'arte tragica , indicando unicamente codesto suo retore famoso , che rubò non
saprei donde la maschera di Melpomene per introdursi sconosciuto nella schiera
degli eminenti e benemeriti cultori di lei . Eppure , avendo egli acquistata
una celebrità che nel suo genere assomigliasi di molto a quella di Erostrato ,
non è più concesso a' di nostri di tacerne , senza destar maraviglia ne' più
timorati . Ognun rammenta che il Corneille , il Racine e l'Alfieri, benchè ,
grazie alla dirittura delle loro menti , uscissero incontaminati dalla
compagnia di questo autore , non però sdegnarono di corteggiarlo : ognun
rammenta che fra quei veterani dell'erudizione classica , i quali dal
decimoquinto secolo in poi attesero con si lunghe vigilie a impinguar di chiose
, di comenti e di elucubrazioni d'ogni specie tutte le opere de' Latini , i più
valenti si fecero suoi campioni. Ma vi è alcun lume a trarre dall'autorità di
questi ultimi , quando noi li veggiamo per troppa carità di patrocinio
avvolgere i loro panegirici in mille ampollose stranezze , e storti giudizi ; e
contraddizioni evidentissime ? Eccone in breve alcun passeg giero esempio.
Giulio Cesare Scaligero sostiene che le tragedie di Se neca non sono per maestå
in nulla inferiori a quelle di tutti i Greci , e che anzi per ornamenti e per
grazia superano di molto le tragedie di Euripide . Questa bestemmia , uscita
francamente dal labbro autorevole del patriarca de' dotti , non fu combattuta
nel suo general dettato : ma i confratelli di lui della medesima scuola non si
peritarono d'indebolir la , accapigliandosi bizzarramente fra loro per
emendarla ne' particolari . Non si può senza rimanere attoniti percorrere quel
che ne scrissero a vicenda Giusto Lipsio , Daniele Einsio, Giuseppe Scaligero ,
ed altri moltissimi che sarebbe infinito il citare . Uno trova la Tebaide si
bella da crederla degna del secolo di Augusto ; l'altro prendendo scandalo di
questo giu dizio , la estima indegna della stessa penna di Seneca . Questi
antepone la Troade a quanto sul medesimo argomento ci ha uno , di più alto fra
i Greci ; quegli la dichiara bruscamente opera di un poeta da bettola . Qui si
esalta come magnifica l' Ottavia ; lå si deprime come la più vil cosa della
terra . E avvisi di tal sorta , non pur diversi , ma del tutto opposti fra loro
, baste rebbero da sè soli a spandere il discredito su quel teatro : pe rocchè
il bello è come il vero ; e la natura doto gli uo mini , con più o meno di
piezza , ma indistintamente tutti , della facoltà di scernerlo dovunque splende
: sì che dissen sioni cosi risaltanti non possono altrimenti spiegarsi , che at
tribuendole tutte a un inesplicabile delirio . Noi non vorremo a ogni modo ,
usando di un metodo che il buon senso condanna , nè accoglier cieche
prevenzioni con tra il teatro di Seneca , sol perchè i giudizi che se ne fecero
da molti sono fra loro contradittorii ; nè cercar troppo innanzi ne'motivi da
cui que' giudizi medesimi derivarono in tempi ne' quali era vastissima
l'erudizione , ma non ancor nata la critica . Astretti a parlarne un po'
minutamente , non foss' altro per indicarlo a' giovani poeti come uno scoglio
fu nesto , a cui senza pericolo di naufragio non è lor permesso di avvicinarsi
, il nostro cammino intorno a questo autore sarà più spedito e più breve .
Indagheremo da prima di qual tempra fossero le potenze costitutive del suo
ingegno , le tendenze morali che il dominavano da presso , le filosofiche
dottrine ond’ era inflessibilmente preoccupato , e qual necessaria in fluenza
esercitassero le particolari circostanze del secolo in cui visse , a rafforzare
ed estendere queste predisposizioni del suo essere . Scendendo in seguito
all'esame imparziale de' fatti , ci avverrà forse di scoprire ch ' ei fu il
discepolo ingegnoso nelle cui mani ebbero sviluppo ed incremento i germi delle
innovazioni di cuiEuripide fu l'inventore ; e ch'egli pervenne ad esagerarle
ne' più strani modi , a crearne delle più mo struose ed ardite , ed a svolger
cosi l'attenzione pubblica dalle originarie bellezze ond'Eschilo e Sofocle
aveano rivestito que sto ramo dell'arte . In assai fresca età Seneca era stato
condotto di Cordova sua patria nella capitale del mondo ; e correano forse gli
ultimi anni del regno di Augusto. Vi fece i suoi studii sotto la dire zione di
quei celebrati retori e filosofi, i quali prendeanvanto d'insegnare a'loro
allievi tutte le scienze umane e di vine : concutiebant foecunda pectora, ut
inde omnigenas cogitationes exprimerent. Dotato di uno spirito severo , vi
goroso , penetrante , abbracciò le dottrine della setta stoica che ancor
predominava in Roma ; dedicossi alla carriera del fòro , ove acquistò
riputazione di felice oratore , e mancò poco che un tal successo non gli
riuscisse funesto , perchè suscitò le gelosie del frenetico Caligola. Fu avido
di gloria e di sape re ; ma e altresì di onori e di ricchezze ; e a
procacciarsi que st' ultimo intento gli era mestieri di un mecenate . Ne trovo
uno efficacissimo in Domizio Enobarbo , rinomato a quei tempi per credito e per
potenza , perchè del sangue de' Cesari : ed è fama che Seneca gli pervertisse
la moglie , quasi a dargli un pronto attestato di riconoscenza per la
protezione ottenutane . Se non che la nerezza di questo attentato pare
attenuarsi nel rammentare che quella moglie fu Agrippina , il cui nome non
venne mai registrato per avventura nel novero delle vestali : tal che non può
determinarsi con sicurezza s'ei fosse il sedut tore o il sedotto . Ne’primi
anni dell'impero di Claudio , accusato da Mes salina di aperta complicità nelle
turpitudini di Giulia , nipote di quel principe , fu esiliato duramente in
Corsica , fosse vera o non vera la sua colpa . Ivi compose il suo libro de
Conso latione, in cui adulò bassamente l'imperadore , e lo indirizzò a un
costui favorito liberto , perchè quei servili omaggi non si restassero ignorati
e senza effetto : il che non impedi che più tardi , non avendo più cagioni da
temerne , gli scrivesse contro una velenosissima satira . Non si potrebbe
definir net tamente s'ei mentisse innanzi alla sua coscienza quando pro fuse le
lusinghe o quando scagliò le ingiurie : è certo che , toccando in cosi brusca
guisa i due opposti estremi , non mo strò di avere un culto troppo edificante
per gl'interessi della virtù e della verità . Intanto Agrippina avea lanciato
l'inco modo marito nella eternità ; e , divenuta sposa di Claudio suo zio ,
dopo l ' uccisione di Messalina , sua prima cura fu di ri chiamar Seneca
dall'esilio . Reduce in Roma , ei fu accolto festosamente in corte , decorato
delle insegne pretorie , e dato a precetlor di Nerone , il quale tenne a
fortuna il poter apprendere da tanto maestro le scienze morali , le lettere
genti li , e l'arte di regnare , a cui Agrippina sua madre occulta mente lo
destinava . " Ignoro quai progressi facesse quel giovinetto eroe nella
pratica della virtù : so che non ne fece molti nelle lettere , perchè fu
pessimo poeta e scrittor da nulla : e si segnalò solo nella perizia del canto e
della musica , che non gli furono cer tamente insegnati da Seneca. Quindi è
che, proclamato impe radore ad esclusione di Britannico , più prossimo erede
del trono , bisognò a Seneca dettargli le orazioni, le lettere , i re scritti
da recitarsi o da inviarsi al senato : e divenne questa per lui una nuova
sorgente di gloria , essendosi divulgato in Roma che que' lavori eran suoi , e
che Nerone parlava imboc cato . La voluttà che egli traea da questo genere di
distrazioni intellettuali , si trasformò subito per esso in cosi dolce abitu
dine , che, avendo quel pietoso principe ucciso prima il fra tello e poi la
madre , ei non seppe resistere al solletico di scri verne le apologie da
comunicarsi a’ Padri, in nome di lui : e non già ch'egli approvasse quei
misfatti, ciò disdicendosi a filosofo ; ma per non defraudar forse il popolo
romano di una elegante perorazione in favor del fratricidio e del matricidio .
Si può comprendere quanto ei si rendesse caro al suo augusto allievo per cotai
servigietti , a ' quali aggiugnevansi quelli di essergli sempre intimo
consigliere nelle alte cure dello stato , e talvolta per indulgenza verso la
troppo fragile gioventù , anche mezzano in qualche intrigo d'amore con le sue
liberte . Fu quindi colmato di ricchezze , che Tacito porta fino a trenta
milioni di sesterzii; si fabbricò magnifiche abita zioni in villa ed in città ;
tolse in isposa la bella Paolina ; e cercò di obbliare nell'opulenza i
dispiaceri che gli cagiona vano i piccoli traviamenti a cui Nerone lasciava di
tanto in tanto trasportarsi per eccesso di zelo in vantaggio del buon 1 Fu alla
morte di Claudio , che Seneca , immemore de' mendicati favori , onde questi lo
avea ricolmo , gli detto contra , sotto il titolo di Apocolokintosis , la
satira di cui è detto pocanzi. Fa meraviglia che Agrippina potesse in questo li
bello veder con tanta indifferenza smascherate le brutture di una Corte , di
cui essa era l'arbitra . Ma vi si parlava della grand'anima di Nerone , il
quale dovea succedere al defunto principe, come il più degno : e ciò spiega
tutto l'enigma.ordine ; traviamenti che Seneca vedea col medesimo occhio del
suo collega Burro , morens et laudans. Non per ciò i suoi principii stoici
cambiarono d'indole ; anzi si tennero sempre incontaminati. Nuotando nelle
ricchezze , scrivea su di una tavola d'oro con uno stiletto di diamante massime
nobilissime in lode della innocente povertà : e , ritraendosi dalle stanze di
Nerone , opere della più pura morale sgorgavano dalla sua intelligenza ad
esaltare i preyi- della virtù e dannare il vizio all'obbrobrio de'secoli . Ma
era Seneca veramente stoico ? Intendiamoci . La filo sofia stoica fu coltivata
in Atene nella sua parte teorica e nella sua parte pratica . Que' savi che la
professavano, aspirando a un cotal sommo bene di cui si erano formata un'idea
miste riosa , spregiavano gli onori , le ricchezze , le delizie della vi ta , e
viveano intemerati e paghi solo di quell'interno con tento che vien luminoso e
spontaneo da una coscienza in pace con sè medesima . Da gran tempo era stata
introdotta in Ro ma; e , per analogia di abitudini austere , vi fiori pura e
splendida fino alla morte dell'ultimo Romano, il quale bestem miando la virtù
per impeto d'indignazione , parve segnar quasi direi il cominciamento alla
decadenza di quelle famose dottrine. La filosofia pratica di Epicuro , se non
pur forse quella di Aristippo , sottentrava destramente a tenere il cam po : e
ad assicurarle il trionfo concorreano tutte le volontà , quantunque per diversi
motivi : chè quell' efferato Governo aveva interesse di evirar tutti gli animi
con la corruzione, per comprimere gradatamente le forze politiche dello stato ,
e cosi dar base alla concentrazione di un poter unico ed assoluto : ed il
popolo avea bisogno di sommergersi in tutta l'ebbrezza de' piaceri sensuali per
non sentir l ' acerbo contrasto fra una servitù divenuta inevitabile , e una
libertà , che , di fresco spenta , non erasi ancor tutta obbliata . Per quanto
però la depravazione de' costumi fosse gene rale e progressiva , le rimembranze
della filosofia stoica non erano poi del tutto cancellate : ne restavano ancora
le teorie astratte , i pomposi dettati e l’esteriore affettazione de’modi : e
quei ne faceva più solenne apparato che più tendeva precipito samente a
seppellirsi in tutte le iniquità della vita domestica e sociale . Pur nondimeno
, quando sotto i successori di Augu sto le persecuzioni inferocivano , e Roma
erasi trasformata in un miserando teatro di stragi e di rapine , lo stoicismo
parve risorgere a metter vigore negli animi per un solo oggetto..... il
disprezzo della morte. Il suicidio , quest'atto si altamente riprovato dalle
più sante leggi della natura e della religione , rivesti la falsa maschera di
una virtù , che per nuove malva gità di tempi fu abbracciata da moltissimi. Da
prima fu ispi rato da tenerezza paterna . Le condanne per imputazioni poli
tiche importavano la confisca de’ beni a vantaggio de’delatori : ma il senato
pendeva per la regola che un individuo non per desse il suo patrimonio , quando
preveniva la condanna con morte volontaria : si che , appena un Romano
sentivasi accu sato , si affrettava subito ad uccidersi , per non gittare i
suoi figliuoli nella miseria . E non vi era da nutrire speranze illu sorie ;
perché la semplice accusa era in quei tempi una sen tenza di morte . Tiberio
contraddisse ; dimostrò al senato esser quella una regola scandalosa ed assurda
; sarebbe mancato co' premii il coraggio a' sostegni dello stato ; e intendea
con questo nome indicar le spie e i delatori . Questa prima cagione di strutta
, non però i suicidi diminuirono in numero ed in fero cia : restava un altro
non men potente motivo a renderli po polari ed onorati : quello cioè di
sottrarsi all'infamia di cadere sotto la scure del carnefice . Accesi da questo
sentimento che rammentava i bei giorni della romana fierezza, vedeansi uo
mini, rotti ad ogni perversità , morir da forti dopo esser vi vuti da vili . Le
storie latine son piene di siffatte risoluzioni che imprimono un particolar
carattere di sopraumana costanza a quei popoli , e di cui non vi ha che
pochissimi esempi presso gli altri popoli dell'antichità , anche de'più famosi
e magna nimi. Erano anime maschie , gigantesche nelle virtù come ne' delitti ,
che riunivano in sè tutti i contrari : nobili pre cetti , azioni
scelleratissime , vite degradate , morti eroiche e generose . Seneca fu stoico
in questo senso , perchè in que sto solo senso lo furono tutti i suoi
contemporanei. Or cer chiamo di ritornare al nostro proposito con un'altra
general considerazione , che metterå suggello a tutte le precedenti . ne , La
fantasia non può supporsi disgiunta dagli affetti, dalle opinioni , dalle
abitudini dell'uomo : chè anzi questa facoltà non sembra attinger vita se non
dal concorso di tutti i feno meni sensitivi , i quali agiscono in essa per
conferirle tempra e serbianze analoghe , e su i quali essa reagisce dal suo
canto ad estenderne e rafforzarne l'indole : si che , immedesimati in un sol
tutto indivisibile , rivestono in comune caratteri, at titudini e colori
identici . Un essere morale non si forma inol tre da sè solo e
indipendentemente dagli altri esseri di simil natura che lo circondano .
Rarissimi sono i casi , ove pur ve ne abbia di positivi a citarne , in cui un
uomo , ergendosi come gigante isolato sulla terra , ben altro che ricevere la
menoma impronta dalle condizioni de' suoi tempi , sembra de stinato a comunicar
loro le sue proprie fattezze , e a divenirne a un tratto l'arbitro e il
modello. Nelle ordinarie occorrenze della vita , l'uomo , considerato sotto tal
rispetto , può dirsi come il lento prodotto dell'azion progressiva che in esso
eser cita il secolo in cui si trova ; onde , ritrattane in sé l'immagi ei lo
rappresenta al vivo nelle sue moltiplici maniere di vivere e di sentire .
Seneca , non ostante il suo fortissimo e riflessivo inge gno , era precisamente
di questa tempra ; e non avea in se nulla di straordinario che lo rendesse
capace di luttar con le circostanze per imprimer loro una direzione più alta .
Mancava sopra tutto di quel carattere d'indipendenza che la storia ci mostra
come dote inerente a tutti i grandi poeti. La condotta che ei tenne con Claudio
lo prova ; e in quella cheadottò con Nerone , vi è peggio . Non arrossendo in
prima di asserire che Nerone col suo regno lietissimo avea fatto obbliar quello
di Augusto , andò poi sino a chiamarlo amantissimo della veri tà , modello
d'innocenza , benevolo e clemente a'suoi stessi nemici : e non seppe scuotere
la polvere de' suoi piedi , e ri trarsi da quella fogna di nequizie , se non
quando la morte violenta di Burro gli fe' prevedere la sua , e sentir la neces
sità insuperabile di rassegnarvisi . Quindi la sua fantasia , svi luppata e quasi
direi nutrita in mezzo a tante nefandigie, non poteva esser troppo abile a
sfangarsene per trasportarsi in altri elementi, e vagheggiarvi la creazione dal
suo lato pill splendido. Egli stesso par che fosse ingegnoso a spezzarne le ali
con quella sua trista inclinazione ad ammassar tesori : per chè lo veggiamo
accusato in Tacito di rapace , e in Dione di prestatore ad usura. E se queste
imputazioni son false , con vien dire almeno che il suo procedere fosse tale da
dar facile presa a simili calunnie. Basterà dunque collocarlo nella sua propria
sfera per riassumere in brevi detti quali esser potessero le disposizioni del
suo spirito nell ' intraprendere la carriera tragica . Vide i principati di
Tiberio , di Caligola , di Claudio e di Nerone : e questo nobile quadrumvirato
non era certamente fatto per ispi rargli nozioni troppo rallegranti sulla
dignità della natura umana. Ovunque ei volgesse lo sguardo , non iscopriva che
orrori; e profondo indagatore qual erasi delle più occulte pas sioni del cuore
, non ravvisava intorno a sè che depravazione di sentimenti , sete d'oro e di
dominio , tendenze alla ven detta ed alle stragi, tanto da non poter egli
rappresentarsi l'uman genere, se non come una congrega di mostri , bale strati
sulla terra dal genio del male , perchè vi si divorassero a vicenda.
Preoccupato quindi come attore e come spettatore più nella conoscenza degli
uomini che in quella dell'uomo, egli dovea per necessità sentirsi tratto a
rigettare in un mondo d'illusione ogni specie d'infortunio , che , derivante da
for tuiti casi , potesse rannodarsi poeticamente alla segreta in fluenza di una
fatalità invisibile : e a non veder quaggiù di positivo e di reale se non
delitti e virtù in contrasto , carne fici e vittime in azione , e sempre il più
debole schiacciato con perfidia o con violenza dal più forte . Non altrove in
fatti che su queste basi egli attese ad innalzare il suo tra gico edifizio .
Determinata cosi l'idea fondamentale che dovea servir di unico anello agli
orditi , era geometricamente inevitabile che a riempirli con analoga
successione di parti , gli fosse pria d'ogni altro mestieri di spingere ancor
più oltre il sistema di conferire intensità concentrata alle situazioni , a'
caratteri ed agli affetti, onde in tal guisa tutto concorresse ad isolar le im
magini per rappresentarle ne' loro nudi e più rilevati contor ni . Quindi nelle
sue sceniche figure vi ha sempre , se cosi è permesso di esprimersi, un
esagerato lusso di anatomia , ed una secchezza di commessure che colpisce e non
incanta : nulla è in esse tracciato sopra linee ondeggianti , ove l'occhio
possa riposarsi con equabile digradazione di movimenti ; nulla è la sciato ad
arte nelle ombre da esser supplito dalla fantasia dello spettatore. La materia
de' suoi componimenti, definita per ciò appunto sin da' suoi primi sviluppi con
metriche dimensioni, e le più volte attinta più da' tesori della scienza che da
quelli della poesia , non poteva allora che rivestire forme rigide , scarne e
prive di calore e di vita ; perché non si riferiva ad alcuna flessibile
immagine che dominasse da lunge a spander vaghezza ed armonia di variati colori
ne' suoi dipinti. E ciò spiega nettamente il biasimevole abuso che ei fe'de'
monologhi , in cui talvolta si avviene a comprender l'esposizione intera di una
tragedia. Il monologo è certamente in natura. Quando le passioni fermentano ,
l'uomo si piace a disvelare a sè stesso i sentimenti da cui la sua anima è
coster nata ; e riesce così a comprimerne o a rinfiammarne l'impe to , secondo
che la ragione esercita in esso un impero più forte o più debole . Ma questa
rivelazione ha pur essa le sue leggi rigorose ed inviolabili . Perché abbia
luogo , bisogna che in quel momento gli affetti si trovino in un certo stato di
equi librio e di moderato temperamento che loro permetta di rive stir forme
possibili di linguaggio . Per l'opposto , le passioni attualmente in tumulto
sono mute ; perchè aggorgandosi con veemenza per le vie dell'anima , la rendono
incapace di espan dersi di fuori e di manifestarsi con altra eloquenza che con
quella di un convulsivo silenzio : sopra tutto quando esse son prossime a
risolversi in atti esterni , perchè allora si opera e non si parla ; e l'azione
scoppia in tanto più spaventevole , in quanto fu meno preceduta da quella
loquacità importuna che l'annunzia più romorosa che devastatrice . È sol quando
mo strasi grave di calma passeggiera e bugiarda , che la tempe sta minaccia una
più desolante rovina. A ciò si aggiunge che la rivelazione degl ' interni
affetti è propria dell'infelice e non del colpevole : poichè il primo , as
sorto ne’dolori che gli vengono da vicissitudini accidentali ed estranee ,
sembra ne' suoi solitari lamenti voler interrogare Dio e l'universo intorno
alla cagione de' suoi infortuni; dove il secondo , il quale opera per impulsioni
di volontà consapevo le , apprestasi a compiere il meditato delitto, ma
rifuggendo sempre dal trovarsi troppo in presenza del suo delitto ; altri menti
se gli solleverebbe la coscienza , e le più volte sarebbe distolto dall'iniquo
disegno diconsumarlo. Quindi avviene che in questo ultimo caso il personaggio è
tratto sovente a discor rere con sè stesso , non di affezioni, ma di
avvenimenti : e questo in poesia drammatica è un assurdo ; perchè gli avve
nimenti sono di loro essenza inalterabili, e , considerati nu damente in sè
medesimi , non ribollono mai nell'anima a segno da indurci a rivelarli
partitamente a noi stessi per alleviarne il peso. Or si osservino da presso i
monologhi di Seneca : sono spessissimo declamazioni fuori natura , det tati da
intemperanza prosuntuosa di far pompa di parole , o di narrar fatti che il
poeta non sa rinvenir mezzi migliori da comunicare al pubblico ; e agghiacciano
la immagina zione , perchè interamente privi di convenienza e di verità poetica
. Si richiedea l'occhio penetrante di Aristotile per disco prire che in
Euripide i cori deviavano talvolta dalla loro bel lissima ed originaria
istituzione ; ma non vuolsi tanto corredo di sagacità per discernere ne' cori
di Seneca un simile difetto ; perchè vi è portato sconciamente all'estremo , e
snatura l'in dole di questa preziosa macchina teatrale per cosi ridurla
scientemente ad un vano frastuono di cantici estranei all'azione rappresentata
. Sono ivi d'ordinario introdotti a tener veci di sinfonie per indicare i
trapassi da un atto all'altro ; e quindi senza alcun legittimo scopo in quanto
al fondo dell'arte ; se già non fosse per dar pretesti all'autore di sfoggiar
la sua abilità nella lirica . Nè vorrò qui ripetere a lungo quanto dissi nel
precedente capitolo intorno alle cagioni che spogliarono il coro tragico , si
efficace ne' due primi Greci , di ogni specie di drammatico prestigio . Basti
aver sempre innanzi agli occhi , che questo era un danno inevitabile per
qualunque poeta , il quale , pari al tragico latino , tendesse unicamente verso
un genere di immagini esclusivo di ogni conforto di pompa e di espansione . Non
potendo io cessar mai d'insistere sopra un oggetto che reputo importantissimo ,
mi sia dato di riassumerne per un'ultima volta il senso . Lo spettacolo delle
sventure , dipendenti da' casi della vi ta , eccita , per l'infelice che ne
soffre , una serie di compas sionevoli simpatie , le quali si prolungano di là
da' recinti del teatro , e si risvegliano con forza tutte le volte che noi ci
fer miamo a riflettere sul nulla della condizione umana : per con seguenza i
cori riescono splendidissimi ed utili a preparare , ad accendere ed a protrarre
quelle tumultuose affezioni che il poeta seppe far nascere in altri . Per
l'opposto , lo spetta colo della distruzione del più debole derivata dalla
malvagità del più forte , eccita meno simpatie di pietà per l'oppresso , che
sentimenti di abbominio per l'oppressore : e queste non son durevoli , perchè
richiamano a non so quale immagine di desolante necessità , la quale concentra
l'anima in sè stessa , e non lascia luogo alla fantasia di svagare in alcuna
idea di possibilità che la vittima avesse potuto sfuggire al carnefice : quindi
allora non vi è alcun partito a trarre dall'intervento de' cori ; perchè le
passioni odiose non han nulla di effusivo da esigere imperiosamente che si
dispongano personaggi in termedi per farle passar con rapidità e veemenza
nell'animo degli spettatori . Non vi ha dubbio esser questi propriamente
difetti che appartengono alla sola esecuzione : ma io non mi sono tratte nuto
alquanto ad indicarli, se non perchè li veggo suggeriti dalla stessa
particolare idea che l'autore si elesse a guida , ed a cui si ricongiungono
strettamente come necessari effetti di una cagione aperta ed immutabile. E non
da altro fonte derivò pure quello smisurato lusso di motti , di sentenze e di
arguzie , di cui Seneca si piacque d'ingemmare con tanta pro fusione le sue
tragedie , le quali da questo aspetto rassomi gliano ad una collezione di
aforismi spessissimo empi e sto machevoli. L'asprezza delle situazioni si
presta difficilmente ad una calda ed espansiva magniloquenza ; e sembra esigere
di siffatti modi saltellanti di linguaggio , che dieno scolpiti ri salti ad
attitudini si rigorosamente stentate . Nè gli era biso gno di molta tensione di
spirito per rinvenirne in abbondan za : bastava frequentar , come lui , le
anticamere de'potenti, per ammassarne de' più spaventevoli , si veramente che
ne' suoi personaggi vien rappresentata piuttosto la natura de' Latini de' suoi
tempi , che la natura umana in generale : e in cotal guisa perdė fin anche il
merito della invenzione . Procuriamo di somministrarne in breve una prova. Quel
suo celebre si recusares , darem , dato in risposta da un principe malvagio a
chi gli chiedea la morte per uscir di tormenti, non è in sostanza che il feroce
motto di Tiberio , il quale osò dir freddamente a coloro che gli domandavano in
grazia di far perire un Romano ch'ei perseguitava : Adagio ; non l'ho ancor
perdonato . Quel detto del suo Atreo : Mise rum videre volo , sed dum fit miser
, appartiene di diritto a Caligola , il quale prendea diletto ad assister
personalmente alla tortura delle sue vittime , per pascere i suoi sguardi nel
veder messe in pezzi le loro membra : e sdegnavasi contra i car nefici che non
erano abbastanza lenti nella esecuzione de' loro nefandi incarichi : e Seneca
dovè udirlo più volte dallo stesso Nerone , il quale non ordinava l '
assassinio di un infelice , se non dicendo à' suoi satelliti : Fategli sentir
la morte ; tal che nella congiura di Pisone un suo sgherro si vantò di aver
tronca la testa di un cospiratore con un colpo e mezzo. Quell'ini quo tratto
della sua Medea , Perfectum est scelus — vindicta nondum , era l'espressione
favorita di tutti mostri che da Silla in poi aveano insanguinato Roma. Se si
confrontassero alfine le sentenze di Seneca con quelle qua e là rapportate da
Tacito e da Svetonio , si troverebbe ch'esse in gran parte sono di origine
storica , più che formate dalla sola riflessione del tragico . Nė la ricca
merce che in questo genere gli offrivano i suoi contemporanei, gli era pur
sufficiente : spigolava ne' Greci at tentissimo ; e dovunque scorgea una
massima atroce , era in gegnoso ad annerirla più oltre per appropriarsela.
Euripide , a cagion di esempio , fe’ dire ad Eteocle nelle Fenisse , che se per
possedere un trono bisognava violar la giustizia, era pur bello il divenire
ingiusto : massima che il buon Cicerone dolevasi di udir sempre ripetere da
Cesare , come se Cesare avesse potuto aver massime di diversa specie . Ma
Seneca la trovò gretta e leggiera : una semplice violazione della giustizia
avea per lui certo che di vago e d'indeterminato che non rilevava troppo
l'orrore della immagine : gli bisognò quindi ritoccarla per darle maggior
precisione ; e fe' dire più netta mente a Polinice : Pro regno velim patriam ,
penates, coniu gem flammis dare. Per la patria e i penati s'intende ; rap
presentano il capro espiatore di tutte le colpe d'Israele : ma quella povera
Argia che gli avea somministrato un esercito floridissimo, avrebbe mai potuto
credere che il tenero marito fosse disposto in ricompensa a gittarla tutta
vivente nelle fiamme per ottenere un trono ? Non per ciò Seneca mancò sempre di
altissimi dettati . Quel Siste ne in matrem incidas, profferito dal cieco
Edipo, allor che dopo la morte di Giocasta ei brancolando cercava una via per
uscir di quella reggia contaminata , esprime un terror profondo di cui è
difficile immaginar l'eguale . Si è tanto ammirato quel Medea superest ,
imitato in seguito con tanta felicità dal Corneille : ma ne' frammenti che di
lui ci ri mangono delle Fenisse , vi è un tratto di simil natura che a me
sembra non meno poetico ed eloquente. Antigone , per metter calma nell' esule
padre , gli dice affannosa : nell' uni verso intero che più ti rimane a fuggire
? Me stesso , risponde Edipo con fremito disperato . Ed è immagine bellis sima
, perchè disvela come lampo tutta la tremenda condizione di quell' infelice
famoso. Nella stessa tragedia , Edipo , volendo nell'eccesso del suo delirio
uccidersi , sollecita Antigone a porgergli il ferro col quale ei versò il
sangue paterno ; ed ac cortosi del silenzio di lei , esclama con impeto : hai
tu quel ferro , o i miei figli lo han conservato per essi con la mia corona ? E
questa terribile e veramente tragica idea riceve lume dagli amari motteggi ,
ond' ei riversa le sue imprecazioni sugli empi fratelli, che , dopo averlo
bandito del regno , sel contendeano fra loro con le armi : Me nunc sequuntur :
laudo et agnosco lubens..... Exbortor aliquid ut patre hoc dignum gerant.....
Agite , o propago clara ; generosam indolem Probate factis ..... Frater in
fratrem ruat.... Ciò prova senza equivoci che, almeno nel linguaggio , Seneca
non mancò al certo di bei momenti di forza . Ma che va le ? È forza d'un
ingegno fantastico ed intemperante , che non conosce modi , non ammette leggi ,
e confonde spesso il su blime con lo strano . Perocchè talora , imbattendosi in
un alto concepimento , non gli giova esprimerlo d'un sol tratto ; ei vi ritorna
le mille volte , lo stempera in mille diverse guise , ne amplifica le forme con
mille ricercati contorni , ed an nientando gli effetti di prima impressione ,
produce sazietà e disgusto : tal altra , per troppa smania di dire e di
ripetere e di girar lungamente intorno ad un medesimo dettato , inciampa senza
far colpo , e va sino a render puerili e ridicoli i più tra gici caratteri ;
perchè le immagini di spavento ch' ei cerca di eccitare , si risolvono allora
prestamente in concetti ed in arguzie di spirito , e da'concetti e dalle
arguzie si passa a poco a poco a vere scene di farsa . Nè vi ha uopo
d'indagarne al trove la cagione che in quella perenne boria di mostrarsi nuovo
ad ogni costo , e di prender dagli aridi campi di una prevenuta intelligenza
quel che non sa troppo facilmente rin venire ne' regni fertilissimi di una
spontanea immaginazione. Siemi concesso di trarne un solo esempio dalle
medesime Fenisse. Edipo annunzia di voler morire; ma non per le ragioni che
altri per avventura supporrebbe: ama le tenebre , e desi dera procurarsene di
foltissime nella notte del sepolcro , per chè quelle della sua cecità non gli
sono abbastanza profonde. Antigone piange in udir questa risoluzione ; non si
costerni dunque l'amata figlia ; non più si muoia ; eidecide di piantarsi ritto
sul pendio di una rupe a proporre indovinelli a’ viandanti. A questo nuovo
disegno le lacrime di Antigone si aumenta no , perchè vede allora nel padre ,
non più indizi di cordoglio , ma di demenza ; si consoli dunque la infelice ,
non si rinnovi la storia della sfinge. Si crederà forse ch'egli le promet tesse
di sopportar con dignità e rassegnazione la sua sventu ra ? No : per render la
calma a quella sconsolata donzella , e darle ampio attestato della sua
riconoscenza , ei le offre di volere a un cenno di lei traversare a nuoto
l’Egeo , e andare a raccogliere nella sua bocca tutte le fiamme dell'Etna. Hic
OEdipus ægæa tranabit freta , Jubente te ; flammasque , quas siculo vomit De
monte tellus igneos volvens globos, Excipiet ore. Or non doveva essere per
Antigone un gran principio di con forto , udendo il cieco padre che per
diminuire le angustie di lei vuol mostrarle di possedere il coraggio di Leandro
e i pol moni di Encelado ? Seneca finalmente sentiva in astratto , che non è
poesia dove non è pompa d'immagini ; e che la stessa semplicità , piuttosto che
nuocere alla pompa , concorre a renderla più splendida e più evidente . Se non
che obbliava che questo in dispensabile pregio di esecuzione prende la sua
prima radice nell'indole stessa del soggetto , il quale spontaneamente la
produce , come fiore ingenerato dal successivo sviluppo del germe che ne
contiene in sè le forme vaghissime, benchè in visibili all'occhio nudo : ond'è
che dove il soggetto non ne somministri gli elementi , il poeta si studia
invano di crearla per sua sola opera dal nulla ; specialmente allor che le
dispo sizioni del suo animo lo traggono ad abbandonar le illusioni della
fantasia per tutto concentrarlo nella sollecitudine di sfog giar dottrine e di
annerir la natura . La sua infatti riesce sem pre pompa di esteriore apparenza
, 0 , per dir meglio , pompa sovrapposta e forzata , che, non ricongiungendosi
per alcun legame al fondo dell'idea , degenera sovente in apertissima
stravaganza , e vien come clamide imperiale, che, gittata sulle spalle di un
satiro , contribuisce meno ad abbellirlo , che a farne risaltar più oltre la
villana difformità . Ne addurremo più giù gli argomenti di fatto
incontrastabili . Ei tolse tutti i soggetti delle sue tragedie dalla mitologia
greca ; nè l'Ottavia fa eccezione , perchè ormai gli eruditi convengono non
esser sua. A raggiugner però quelle situa zioni richiedeasi il volo dell'aquila
; ed il tragico latino avea per avventura un manto di piombo ancor più grave di
quelli che Dante pone addosso a una schiera di dannati . Per valu tarne il
merito in complesso , giovi poter distinguere anche in lui tre diverse maniere
di concepire e di dipingere i suoi qua dri. Allor che il soggetto era di tal
condizione fitta ed invariabile ch'egli non potea da verun canto cangiarne
l'idea pri mitiva , s' industriava di farne un'amplificazione da collegio , e
di acquistare in una specie di morbosa gonfiezza quel che dovea necessariamente
perdere in forza ed in elevazione : e fu questo particolarmente il caso dell'Edipo.
Quando alcuna materia se gli offriva da esagerare a suo modo l'immagine del
delitto , ei sentivasi nel suo vero elemento a dar libero corso alle sue
predilette tendenze : e ne diè prova nel trattar la Me dlea. Piacendosi alfine
di spingere all'estremo la dipintura delle atrocità meditate , riprodusse il
Tieste , quasi a chiuder la strada che altri confidasse di sorpassarlo in
questo mo struoso genere. L'esame analitico di queste tre sole fra le sue
tragedie giustificherà quanto finora si è detto intorno alla in trinseca tempra
di questo autore . Edipo. Se un contagio sterminatore non si fosse ma nifestato
in Tebe , che obbligo di ricorrere agli oracoli per ap prendere i mezzi di
porvi un termine , i casi di Edipo non si sarebbero mai scoperti. Quindi
Sofocle, nella magnifica espo sizione della sua tragedia su questo soggetto ,
parla di quel flagello , ma in poche linee : il sacerdote non ne fa menzione al
re che a solo fine di spiegargli il motivo per cui tutto il popolo è accorso in
atto supplice a implorare i consigli e l'aiuto del savissimo de'principi .
Seneca per l'opposto , ob bliando esser quello un incidente su cui non
bisognava molto fermarsi , giudicò necessario d'impiegar tutto il primo atto
del suo tessuto a una minuta descrizione della peste onde la città è tribolata
. Edipo , dopo aver accennata la maledizione che pesa sul suo capo di divenir
parricida e incestuoso , senza che alcun ordine d'idee ancor lo esigesse ,
togliesi di raccon tare a Giocasta , che dovea pur supporsene istruita , i feno
meni meteorologici onde quella calamità pubblica era disgra ziatamente
accompagnata : calori eccessivi , calme soffocanti , torrenti disseccati ,
campagne isterilite, tenebre profondissi e in mezzo a questo disordine degli
elementi , prodigi straordinari, apparizioni di ombre , spiriti ululanti la
notte sull'alto de' tempii , e simiglianti. — Usciti appena di questa
prolusione di fisica sperimentale , l'autore ci introduce in una sala di
clinica, menando il coro con una descrizione patologica della peste a fare una
mala giunta a quella di cui ci gra tificò Edipo. Gli spasimi , le convulsioni ,
le febbri, l'abbatti mento delle forze , i gavoccioli , e fin la tosse che
affligge gl' infermi, somministrano materie al suo canto : nė vi man cano pure
i portenti : perchè le fontane versano sangue invece di acqua , forse per
alcuna chimica trasformazione operata dagl'influssi del pestifero contagio .
Creonte , che era stato inviato a consultar l'oracolo , giu gne al secondo atto
per dire al re , che , a cessar que’mali, era volontà de’numi che l' uccisore
di Laio fosse punito : nė tras cura di narrare a lungo le difficoltà incontrate
dalla Pitia per destar lo spirito profetico nel suo seno e dare i responsi
analoghi alle domande. Mentre il re lancia , come in Sofocle , le sue tremende
imprecazioni contra il colpevole , il cieco Tire sia , seguito dalla sua
figliuola Manto , che gli serve di scorta , vien sulla scena , non si sa da chi
chiamato , traendosi dietro altri ministri di tempii con un toro e una giovenca
per fare un sacrifizio ..... nella reggia : e richiesto del nome dell'omi cida
, protesta di non saperlo ; ma i numi glielo rivelerebbero mediante
quell'olocausto . La cerimonia è immediatamente disposta ; e le particolarità
che l'accompagnano , benchè visi bili a tutti , pur vi sono minutamente notate
per mezzo di lungo dialogo tra l'indovino e la figlia , pieno di mistiche al
lusioni a' futuri casi di Edipo e di Giocasta , e fin di Eteocle e Polinice ,
che son personaggi estranei all'azione . La fiamma del rogo scintilla de' più
variati colori , ed è solcata di strisce sanguinose ed insolite , si divide in
due da sè stessa , ed oltre ogni espettazione si spegne prima che le manchi
l'alimento. Il vino offerto in libazione si cangia in lurido sangue, e globi di
fumo si spiccano dall'altare e van rotando intorno al dia dema del re . La
giovenca cade al primo colpo della scure ; ma il toro spaventato sembra fuggir
la luce del sole ; e men tre stenta a morire , il sangue che gli sgorga dalle
ferite , spandesi a coprirgli gli occhi e la fronte. Le viscere sono aperte
alle vittime per leggervi il gran segreto : ma nulla vi si scorge al suo luogo
, cuore , fegato , polmoni , tutto è in dis ordine : le leggi della natura vi
appariscono violate : la gio venca inoltre ha concepito , e il frutto che porta
nel ventre , é extrauterino ; fenomeno di cui Manto pare istruita più che a
vergine si convenisse. Compiuta però questa dimostrazione anatomica , il re
crede invano aver tocca la meta de' suoi desiderii con la sco perta del reo ;
quel romoroso apparato di strane investiga zioni fu opera perduta : Tiresia
dichiara esser tuttavia al buio della verità , e quindi bisognargli evocar da'
regni della morte l'ombra stessa di Laio che gliela riveli. Ei parte infatti
per adempiere in luoghi solitari questa specie d'incanto magico: e Creonte ,
che con altri fu deputato ad assistervi , ritorna ed apre il terzo atto col
racconto di tutto ciò che quivi era avve nuto. Poco lungi da Tebe è una
selvaggia boscaglia : ei ne descrive la posizione , gli alberi , le acque , e
fino i venti che vi dominano. Tiresia ordina che vi si scavi un ampio fosso ,
che vi s'innalzi sopra un rogo , e vi si gittino molti animali in sacrifizio
con le consuete libazioni di vino e di latte , men tr' egli intonando lugubri
carmi con voce minacciosa , invoca gli spiriti ad uscir fuori dell'Erebo. Si
odono allora urlare i cani di Ecate ; la terra trema; e sprofondandosi apre le
vora gini dell'abisso , in fondo al quale si veggono le pallide divi nità
infernali passeggiar confuse con le ombre ; e con esse le Furie armate di serpi
, i fratelli nati da' denti del dragone di Dirce , la Sfinge che fu flagello di
Tebe , e tutti i mostri spa ventevoli che abitano quel nero soggiorno. A cosi
tetro spet tacolo gli astanti sono inorriditi : ma Tiresia , intrepido sem pre
, invoca con maggior forza gli spettri , che a torme innu merevoli arrivano
volando sulla terra , e si spandono con fre mito, lungo la selva. Ne sono
indicati i nomi come in una rassegna di eserciti : e lo spettro di Laio , che
sfigurato dalle ferite è l'ultimo ad apparire , annunzia infine con voce tre
menda , che a rimuovere i disastri di Tebe , doveasi cacciarne Edipo , ad
espiazione di aver egli ucciso il padre , e di essersi congiunto in matrimonio
con la madre . Udita la narrazione di tanto prodigio , il re costernato esclama
esser falsa l'accusa , perchè suo padre Polibo ancor vive , ed egli è lontano
dalla sua madre Merope. Quindi sospetta che sia quella una calunnia di Tiresia
per torgli lo scettro e darlo a Creonte , cui altresi ca rica di rimproveri e
minaccia di morte. Si osservi di passaggio che questo sospetto è ragionato in
Sofocle , perchè l'accusa vien dal labbro di un uomo qual è Tiresia : ma in
Seneca è stolto , perchè quella rivelazione è fatta dall'ombra stessa di Laio
che tutti hanno udita. Intanto Edipo , compreso di cruccio e di terrore ,
ricomparisce al quarto atto con Giocasta ; e chiesti nuovi schiarimenti sulle
circostanze della morte di Laio , sovviengli di aver egli ucciso un uomo pria
di condursi a Tebe ; e mentre alle risposte di lei i suoi timori si accrescono
, un vecchio pastore corintio sopraggiugne a dirgli che Polibo avea cessato di
vivere , e ch'egli era invitato ad occuparne il trono . A questo annunzio ei si
piace che l'oracolo da cui fu minacciato di divenir parri cida , siesi
pienamente smentito ; ma , temendo egli tuttavia l'incesto , il vecchio lo
affida , svelandogli che Merope non era sua madre , e ch'ei , ricevutolo
bambino da un pastore di Tebe , lo fe ’ adottare in quella corte . Quest'ultimo
è appellato per dichiarar la nascita di Edipo , e tutto alfine si scopre come
in Sofocle . Al quinto atto un messo accorre a narrare che il re, dopo aver
percorso da furioso la reggia , avea risoluto in prima di uccidersi : ma poi ,
avendo meglio e più filosoficamente pe sate le cose , erasi contentato di
strapparsi gli occhi; e che , fatto cieco , ancor levava in alto la testa per
assicurarsi s' ei lo fosse interamente , stracciando una per una le fibre che
nelle cavità nude gli rimaneano , per impedir forse che qual che filamento
muscolare non si trasformasse in nervo ottico a dar passagio alla luce. Edipo
stesso apparisce in questo de plorabile stato ; e Giocasta gli è a fianco per
convincerlo che i suoi delitti erano sola opra del fato : se non che alle voci
di lui, che inorridito cerca di allontanarla da sè , delibera an ch'essa di
morire. In qual parte del corpo le conviene intanto ferirsi ? Quistione
essenziale in tanta circostanza ; ond' ella la esamina con logica rigorosa , e
si colpisce al ventre , che die ricetto a un figlio divenutole marito . A
questo nuovo accidente Edipo riconosce sè stesso doppiamente parricida, avendo
la sua disgrazia provocata la morte anche della ma Nell'Ercole all Eta di
Seneca , Deianira propone presso a poco a sè stessa le medesime quistioni prima
di uccidersi dre : e disperato abbandona la patria , invocando tutti i mali di
Tebe a seguirlo nel suo esilio . Se per una di quelle insensate pratiche ,
usate nelle vec chie scuole di rettorica , un giovine studente fosse stato inca
ricato dal suo maestro di fare un'amplificazione a sua guisa della greca
tragedia di Edipo , io non credo che il mal senso delle descrizioni estranee
all’azion fondamentale avesse po tuto esser spinto più oltre . Era serbato a
Seneca il sommini strar compiuti modelli di siffatta specie di mostruosità : nė
chiunque ha fior di gusto e di senno esigerà che io m'impacci a provargli un
difetto sì aperto con appositi commentari; ba stando la nuda esposizione
dell'ordito a convincerne senza più anche i meno veggenti . Un critico francese
ha cercato di giu stificarne l'autore , allegando che quelle opere teatrali non
erano destinate alla rappresentazione ; e che in conseguenza il lusso delle
descrizioni eterogenee avea per iscopo di ren derne meno inefficace la lettura
in alcun privato crocchio di conoscitori , ove soleano venir declamate . Se non
che la tra gedia è un particolar genere di poesia che ha le sue leggi sta bili
e determinate : e non mi consente la ragione che queste leggi nella tragedia
letta , possano esser diverse da quelle re putate indispensabili nella tragedia
rappresentata. Quando uno e fisso è il genere , non può esso andar soggetto a
variazioni pel vario ed accidental modo di darne conoscenza altrui . Se il poeta
estimava che le ampollose descrizioni , bene o mal coerenti a un tragico
tessuto , fosser le sole che avesser potuto fare impressione in un'adunanza di
ascoltanti oziosi , potea comporne a suo bell'agio distaccate con titoli
convenienti, senza contaminarne un'arte che non è fatta per accoglierle .
Sarebbe cosi divenuto il precursore di Stazio , lasciando una collezione di
Sylvæ , più o meno sopportabili, in luogo di scene tragiche meravigliosamente
insopportabili. Medea . Sin dalle prime scene , sentendosi tradita e derelitta
, Medea non respira che sangue ed eccidii : ma gli eccidii e il sangue non le
sembrano ancora se non leggeris simo alimento al suo animo inferocito .
Vorrebbe ritrovare un' atrocità nuova , sconosciuta , straordinaria , che
facesse parlar di lei nella più lontana posterità. Nel vederla si libera ne'
suoi spaventevoli disegni , la nutrice , che l'è da presso , non sa immaginare
altre vie a calmarla , se non rammentan dole che per menar tutto a termine
sicuro ella dee nasconder la sua collera ; perocchè, ove questa si mostri di
fuori troppo apertamente, ricade le più volte sopra colui che ne e animato, e
distrugge i mezzi della vendetta. Massima infernale , ma vera ; e posta
leggiadramente in pratica da tutti i contempo ranei di Seneca. Il re intanto ,
che teme le arti e le insidie della irritata maga , vien cruccioso ad ordinarle
di sgombrar subito da' suoi stati . Indarno ella fa lungo racconto di tutto il
passato per mettere in risalto la iniqua condotta di Giasone e la ricompensa
infame onde l'ingrato la rimerita de' tanti be nefizii ricevuti ; indarno cerca
di muovere in quel principe tutt' i sentimenti capaci di piegarlo a rivocare
quella dura ri soluzione ; questi si rimane inflessibile ; e nel ritrarsi dalla
scena consente solo a permettere , com' ella ferventemente chiede , che almeno
i due suoi figliuoli continuino a dimorar ivi col padre , e che diesi a lei un
giorno di tempo per ab bracciarli , e disporsi ad abbandonar per sempre quelle
re gioni : favore di cui ella gode nel suo segreto , giudicando bastarle quello
spazio a poter tutta rfversar la sua ira contro i suoi implacabili persecutori
. Giasone offresi allora con bizzarro monologo a far com prendere che il re
minaccia morte a lui ed a' suoi figli, ov'ei nieghi d'impalmar Creusa : nė vi
ha cenno che in parte spie ghi o giustifichi questo mezzo speditissimo di
concludere un matrimonio ; se già qualche maligno spirito non voglia sup porre
che Creusa fosse incinta , onde, a salvarle la fama, si obbligasse il profugo
seduttore a scegliere fra il talamo nu ziale e la scure . Medea, che di lui si
accorge , gli va incontro scoppiante rabbia e dolore . A' veementi rimproveri
di lei egli dice che il re l'avrebbe fatta perire , s' ei non lo avesse in
dotto a contentarsi di scacciarla solamente dal regno : la solle cita quindi a
sottrarsi tusto allo sdegno di chi ha il potere di opprimerla. A fin di
scoprire il lato debole del cuore di lui , ella finge di cedere, ed implora che
non le sia vietato di menar seco que’ medesimi figliuoli che pocanzi pregava il
re a lasciare in cura del padre ; e compiacendosi nell'udire esser sulla scena
, per lui impossibile di staccarsi da quei fanciulli , si restringe a
chiedergli di poter dar loro l'ultimo addio ; grazia che il re le avea di già
conceduta. Rimasta sola , medita il disegno di disfarsi della rivale ,
inviandole in dono una veste avvelenata ; e corre a farne confidenza alla sua
nutrice . Questa rivien e narra i prodigi operati da Medea per compiere il suo
funesto disegno . Con le sue arti magiche avea nelle sue stanze attirati il
dragone della Colchide, l'idra uccisa da Ercole, e i più mostruosi rettili
della terra ; e ne' loro veleni , misti a sangue di uccelli impuri ed a fiamme
divoratrici , avea confuso i succhi di quante erbe narcotiche allignano sulla
faccia del globo. Dopo questa relazione, che è lunga e minuta più che non
bisognerebbe a descrivere anche il laboratorio di un farmacista , la maga ella
stessa riapparisce ; e invocando Ecate con orribili scongiuramenti a discendere
dal cielo per assisterla , si ferisce al braccio per far del suo sangue una
libazione alla Dea. Terminato cosi l'incantesimo con un sa lasso , intinge in
quel liquore la veste già preparata , e manda i figliuoli a farne presente a
Creusa . L'effetto è subito prodotto . Un messo viene a raccontar distintamente
che l'incendio si è manifestato nella reggia al solo contatto di quel dono
fatale , e che il re e la figliuola vi sono rimasti amendue spenti . Medea ,
che in udir tale annun zio gioisce di aver colto il primo frutto delle sue
trame, si dispone a coronar l'opera , uccidendo i figli , per cosi vendi carsi
delle perfidie del marito . Questi era corso con gente d'arme a sorprenderla :
ma ella erasi rifuggita co ' due fan ciulli e la nutrice sull'alto della casa .
Di là parlando a sè stessa intorno a quel che le conviene di fare , dice che il
de litto è compiuto , ma non ancor la vendetta ; trucida furi bonda uno di quei
disgraziati , e ne gitta il cadavere sangui noso a Giasone che dal basso la
mira imprecando e fre mendo : e mentr' egli la scongiura inorridito a
conservare almen l'altro in vita , ella lo trafigge sotto i proprii occhi; e
chiamandosi dolente di non averne avuti che due soli ad immolare, vuol cercar
nel suo seno se vi sia il germe di qualche altro figliuolo per istrapparselo a
brani dal fondo delle viscere . Innalzandosi alline sul suo carro magico ,
Ricevi, dice al marito insultando , ricevi i tuoi nati ; io mi slancio al di
sopra delle nuvole. Si , quei le risponde , assorto nel raccapriccio e nella disperazione
; và per gli alti spazii dell' acre ad attestare all' universo che non esiste
al cun Dio : Per alta vade spatia sublimi ætheris Testare nullos esse , qua
veheris , deos. Tratto divino ! .... esclamava un critico : veramente ,
ripigliava un altro scherzando sulle parole , non vi è nulla che sia men divino
! Sull'indole di questa ributtante favola drammatica dissi altrove abbastanza :
e qual pessimo governo Seneca ne facesse ad ancor più oltre annerirla ed a
gonfiarla di vento , ciascuno può giudicarne da se medesimo. Non è intanto
superfluo il notare una circostanza che sembra sfuggita costantemente a' dotti
illustratori di questo tragico antico . Orazio inculcava severamente a ' poeti
di non mai dare a spettacolo una Medea che trucida i figli al cospetto del
popolo ; poichè un simile atto da far fremere sterilmente la natura, dee
riuscir più or rendo che tremendo per chiunque non abbia rinunziato ad ogni
sentimento di umanità. Che Seneca infrangesse un cosi savio precetto , chi ben
conosce la tempra della sua fantasia ne comprenderà facilmente i motivi. Ma
donde Orazio lo trasse ? Questo fu per me sempre un enigma. Un precetto che
vieta una difformità in poesia , è come una legge che vieta un delitto in
politica : suppongono amendue che un dis ordine abbia esistito per lo passato ,
e mirano ad imporre un freno affinché non si riproduca nell'avvenire : e non vi
ha esempio in cui la giurisprudenza civile fulmini un'azione che non ha mai
avuto luogo nella condotta degli uomini, come non vi ha esempio in cui la
critica letteraria basimi un difetto di gusto del quale non vi è traccia nella
storia delle arti . L'in duzione a trarsi da questo principio è semplicissima.
Orazio non potea certamente aver letta la sconcezza , ch' ei riprova con si
grave dettato intorno a Medea , nè in Euripide il quale avea saputo evitarla ,
nè in Seneca il quale fioriva quando egli era già spento. In conseguenza è a
dirsi , ch ' ei la scor caso , gesse in qualcuno de' poeti latini suoi
predecessori o contem poranei, le cui opere sono a noi sconosciute . E in
questo che io lascio agli eruditi di verificare , non possiamo nel precettor di
Nerone ravvisar nè anche l'esistenza di una facoltà , disgraziatamente assai
comune ; quella cioè di saper ritrovare da sè stesso una turpitudine . La
predilezione de' Latini per la favola di Medea costi tuisce inoltre un fenomeno
che merita ugualmente di esser notato. In Grecia non imprese a trattarla che il
solo Euri pide ; e dopo di lui una tragedia sopra il medesimo soggetto , che
non è pervenuta alla posterità , fu scritta da un tal Neo frone, di cui non ho
mai saputo novella. In Francia non è da citarsi che la Medea del Corneille ;
poichè i tentativi di Pe louse , di Longepierre e di Clement sono ormai
obbliati . Nella sola polvere degli archivii se ne additano due in Italia , una
del Torelli , l ' altra del Gozzi : e parlo fino al 1820 ; perchè , se altre ne
sieno apparse dopo , lo ignoro , e non ho mai cu rato d'informarmene. Non ne
apparvero , a quanto io creda , fra gli Alemanni e fra gli Spagnuoli ; e può
dirsi nè anche fra gl' Inglesi ; poichè quella del Glower non è calcata sulle
memorie antiche . Questo poeta , in ciò di squisito senso , benchè non di alta
sfera nel resto , osò con fermo proposito guastar piuttosto la tradizione ricevuta
, che denigrare con una esagerazione si assurda il prezioso carattere di madre
: ei suppose che Medea uccidesse i figli in un eccesso di frene tico delirio
che le impediva di riconoscerli. E ritornata in sė stessa , la dipinse preda
alla disperazione per l'involontario attentato , anzi che lieta e trionfante di
aver dato opera a una vendetta che innanzi ad ogni essere ben costituito dalla
na tura dovea necessariamente colpir di preferenza il di lei pro prio cuore .
In Roma per l'opposto par che non vi fosse poeta tragico il quale non avesse
tentata una Medea . Vi si segnalarono Ennio , Pacuvio, Accio , Ovidio , Seneca
, Materno ed altri : e Tertulliano parla di un Osidio Geta , che nel primo
secolo dell'era cristiana compose tutta di versi di Virgilio una nuova Medea ,
di cui lo Scriverio si è dato l'inutile pena di raccogliere alcuni frammenti.
Con queste tendenze di ferocia ne' drammatici latini , vi è poi tanto a stupire
che ivi la sana tragedia non mai prosperasse con la dignità richiesta ? Tieste
. La scena è nella reggia di Micene ; e l'azione si apre con l'Ombra di Tantalo
, la quale , tratta sulla terra da una delle Furie infernali , è da essa spinta
a metter odio e furore nell'animo de'due fratelli Tieste ed Atreo, suoi discen
denti , onde seguano fra loro i più orribili misfatti. Al solo aggirarsi dello
spettro in quelle mura fatali , Atreo , che vi tenea scettro , è subitamente
invaso da fieri desiderii di ven detta contra Tieste , che gli ebbe un tempo
pervertita la sposa ed involate le ricchezze , e che állor viveasi profugo in
terre straniere nella più estrema miseria. Memore de' torti rice vuti , ei non
più spira che minacce di esterminio : e trattiensi a parlar con uno schiavo suo
conſidente intorno al modo più sicuro da immolar l'abborrito fratello all'ira
che lo investe . Il ferro per lui è arma di tiranni volgari : ei vuol supplizii
e non morte ; poichè nel suo regno la morte debb' esser consi derata come una
grazia. Meditando un eccesso che possa spa ventar gli uomini e la natura , ei
risolve di richiamar Tieste dall'esilio con finte proteste di pace e di obblio
del passato ; ed attiratolo cosi nella reggia, trucidargli a tradimento i
figli, e preparargliene pasto neſando in una cena notturna. Ei va gheggia
lungamente il suo infernale disegno ; e già ordina i mezzi da eseguirlo. Tieste
, sollecitato da iniqui messaggi, cade nella rete insidiosa ; e , costretto
dall'indigenza , presen tasi con tre suoi figli in Micene , non senza terribili
presenti menti di ciò che possa ivi essergli ordito di atroce. Atreo , che ne è
subito avvertito , affrettasi ad incontrarli ebbro di esultanza nella certezza
di aver finalmente le vittime fra i suoi artigli; e coprendo il suo empio
pensiero , avanzasi con benevolo sembiante ad abbracciar Tieste ed a chiedergli
il bacio fraterno . A udirlo , era quello per lui un vero momento di felicità ;
onde bisognava deporre gli antichi rancori, e non più ascoltar che la voce
della pietà , della concordia e del sangue. Tieste si precipita a' suoi piedi ,
implora il suo per dono , e tra le lagrime della tenerezza e del pentimento lo
prega di accogliere sotto la sua mano protettrice quegl' inno centi giovinetti.
Da prima ei ricusa di accettar la metà del regno che il re gli offre con
simulati affetti: si terrebbe felice di vivere suo suddito , e di poter espiare
i suoi falli co' suoi fedeli servigi : ma cede alfine alle iterate insistenze
del per fido Atreo , il quale , invitandolo a cingere sul suo capo vene rando
il diadema reale , annunzia con espressioni di doppio senso che, a suggellar la
pace tra loro , ei va intanto a disporre un sagrifizio. Questo inviluppo in sè
occupa i tre primi atti della tragedia. Al quarto un messo appare sbigottito ,
e con le più rac capriccianti particolarità narra il già consumato eccidio al coro
. Innanzi tutto ei descrive la parte remota del palazzo ove so leano
soggiornare i principi di quella contrada , ed a lungo enumera gli straordinari
ed incredibili portenti di cui quel sito sembra essere il magico ricettacolo .
Ivi Atreo erasi con dotto in segreto con suoi fidati sgherri, trascinandosi
dietro i figliuoli del fratello , ch'egli stesso avea già carichi di catene ,
ed a foggia di vittime inghirlandati di fiori e di bende. Or rendi altari
vengono al momento eretti , arde l'incenso , le libazioni versate spumeggiano ,
la scure tocca il capo di que' mi seri, e tutte le formalità di un ordinario
sacrifizio son diligen temente osservate . A tal sacrilego apparato , ed a'cupi
urli di Atreo, che pronunciando funebri preghiere intuona l'inno della morte ,
la vicina selva trema : la reggia sembra crollar dalle fondamenta , il vino
effuso cangiasi tosto in sangue , il dia dema cade tre volte dal fronte del re
, il quale pari a fame lica tigre avventasi su i tre indifesi nipoti , e l'un
dopo l'altro trafiggendoli , spande il terrore ne' circostanti satelliti . Ciò
compiuto , egli strappa loro le viscere per leggervi entro i presagi del
destino ; mette finalmente in pezzi le loro membra ancor palpitanti , ne
prepara col fuoco l'infame cena , e la fa recare a Tieste , che ignaro degli
eventi , lo attendea nelle sale dell'ordinario convito : e cosi quel padre
infelice, che in abito festivo crede per la prima volta gustar la voluttà della
con cordia con lo snaturato fratello , divora le carni de' propri figliuoli . A
questa immonda narrazione, che può star leggia dramente a fianco delle additate
nelle due precedenti trage die , il coro prorompe in esclamazioni analoghe allo
spavento di cui si trova compreso. Il quinto atto ci rappresenta il ritorno di
Atreo, il quale, dopo aver pasciuto i suoi sguardi in quella mensa infernale ,
vien fuori gridando con frenetica ed orribile compiacenza : Æqualis astris
gradior , et cunctos super Altum superbo vertice attingens polum, Nunc decora
regni teneo , nunc solium patris . Dimitto superos : summa votorum attigi . e
Ma il fatto atroce non ancora lo appaga : gli bisogna compiere il lutto di un
padre , rivelandogli il tremendo mistero , a fin di saziarsi di vendetta in
veder gl' impeti del suo disperato dolore . All'appressarsi quivi di Tieste ,
ei da prima si cela per udirne il solitario linguaggio : indi si mostra ; ed
invi tando il fratello a finir seco di celebrar quel giorno di letizia , gli
offre una tazza di vino in cui è misto il sangue de' prin cipi uccisi . Questi
, contento in parte della riacquistata pace , e in parte agitato da oscuri
perturbamenti di animo , chiede affannoso che gli sia concesso di porre il
colmo al suo giubilo abbracciando i figliuoli. Atreo lo tien sospeso con
espressioni equivoche, e lo sollecita sempre più a bere in quella tazza : se
non che a quel misero , nel riceverla , sembra veder fuggire il sole ,
scuotersi la terra , sconvolgersi gli elementi ; e rinno vando le istanze di
rivedere i figliuoli , il mostro si scopre , glie ne gitta a ' piedi le teste
sanguinose , dicendo : gnatos ecquid agnoscis tuos ? Qui Seneca ritrova uno di
quei felici motti , per la cui vibrata energia è solamente notabile : peroc chè
Tieste ansante a cosi nero attentato , non richiama in se gli accenti smarriti,
se non per esclamare , agnosco fra trem ! .... e cade in delirio smanioso .
Credendoli solamente uccisi, ei domanda con fremito di poterne almeno
seppellire i cadaveri ; allor che l'empio gli svela ch ' ei li avea già divo
rati , e gli narra tutto lo scempio che si era studiato di farne . Le furie di
Tieste e le insultanti risposte di Atreo , che gode a quello spettacolo di
orrore , chiudono la scena. Vi ha certa memoria che una tragedia di Tieste
fosse anche stata scritta da Euripide, la quale va fra le tante di quel teatro
che si sono sventuratamente perdute : e Seneca forse l'ebbe sott'occhio , ad
attingerne per lui , non foss' altro , la stomachevole idea . Quali forme
particolari di dramma tica esecuzione il Greco poi avesse adottate con
destrezza per temperar l'orribile del soggetto fondamentale , non vi ha sto
rico indizio da poterne rettamente decidere. Altrove si è però notato , che non
ostanti le tendenze di quel poeta per la di pintura degli eccessi dolosamente
criminosi, tendenze che fra le sue mani pervertirono si bruttamente l'arte , il
popolo di Atene gli era pur tuttavia di costante freno a non lasciarsi
precipitare in troppo aperte mostruosità ; ed ei più volte ne avea fatto a suo
danno e scorno il crudele esperimento. Può in conseguenza tenersi ch' ei
procurasse di velare in gran parte le incredibili atrocità onde le vecchie
tradizioni aveano corredato a' posteri quel famoso avvenimento de' tempi eroici
della Grecia ; e che Seneca s ' industriasse al suo solito di anne rirlo oltre
misura , frastagliandolo a modo proprio con quella sua fantasia pregna dello
spettacolo reale di tutte le più turpi enormezze. Alcuni han creduto infatti,
che la descrizione di quella parte della reggia di Micene ove si finge che
Atreo spegnesse i nipoti , fosse fedelmente ritratta da quella parte del
palazzo de' Cesari in Roma, che Nerone avea destinata alle sue laide passioni e
crudeltà segrete. È possibile ancora che Seneca traesse altre ispirazioni alla
sua opera dalla tra gedia latina , che, siccome Ovidio narra , Vario e Gracco
com posero insieme su i casi di Tieste , e che probabilmente è la stessa in
seguito divulgata sotto il solo nome di Vario , di cui la storia di quel secolo
ci ha serbata rimembranza. A ogni modo , il fatto vero o non vero su cui si
fonda questo tragico lavoro , non meritava esser cosi rilevato in tutta
l'asprezza delle sue giunture e l'abbominevole nudità delle sue forme, che in
un secolo in cui i più esecrandi at tentati e le più truci e inudite vendette
facean parte integra e special delizia della vita pubblica e privata di ogni
uomo. Col sicuro presentimento che a' suoi contemporanei non ne sarebbe
incresciuta la dipintnra, Seneca lo tratto senza velo : e i suoi sforzi nel
dare alcun contrasto di luce a quelle tene bre infernali, restarono inefficaci.
I tre giovinetti sacrificati all'ira dello scettrato cannibale di Micene, non
muovono che una pietà volgare e ſuggevole , poiché cadono pari a mutoli agnelli
che il famelico lupo divora mugolando nelle sue grotte di sangue. Nè alcuna di
più eminente ne muove pure lo sten tato ritorno di Tieste sulle vie della virtù
e della giustizia , si perchè un tal ritorno può sospettarsi dettato dalla
pienezza delle sue miserie , e si perchè il suo violento e consumato in cesto
con la sposa del germano , è un fatto di sua essenza ir reparabile , e non si
cancella o ripurga per pentimenti per lacrime. L'orror cupo e nefando che spira
il carattere di Atreo , è l'unico affetto che domina e inviluppa ferocemente
l'azione : se non che, soffocando a un tratto tutte le potenze dell'anima , le
addormenta in uno stupor convulsivo , che di strugge ogni vitalità di
sentimento negli spettatori , ed abban dona il personaggio alla sola compagnia
di sè medesimo. E conviene saper grado all'autore di aver nell'ordito messa giù
ogni maschera d'ipocrisia . Conscio che il suo Atreo è un mo stro fuor di
natura , ei lo allontana diligentemente da ogni specie di contatto con la
natura . In lui , niuno di quei palpiti precursori che si associano al
concepimento di un grave e spaventevole delitto ; niuno di quei terrori
salutari che arre stano involontariamente la mano armata di un pugnale omi cida
; niuno di quei rimorsi che la rea coscienza genera a un tempo e ritorce contro
a sè stessa innanzi allo spettacolo di una già eseguita scelleratezza . A che
infatti porre in mostra gli ordinari fenomeni del cuore umano per attaccarli a
un essere al cui tipo la tempra dell'umanità rimansi compiuta mente estranea ?
.... Ma usciamo alfine di questo pattume : i comentari sono superflui dove i
fatti parlano da sè in guisa , che ad ogni uomo di mente sana e di cuor non
guasto è facil cosa il valu tarli . Ne mi rimane intorno a questo autore se non
a preve nir brevemente qualche obbiezione che molti per avventura saran tentati
di oppormi. Alcuni , per esempio, col bel romanzo del Diderot alla mano ,
diranno che io in questo esame ho troppo annerito il carattere morale di Seneca
; ed a costoro , senza inutili contese , lascio piena libertà di alimentare la
loro passione pe' romanzi , e di farsene un idolo : l’umana viltà sovente ha
deificato tanti mostri, che aggiugnervi anche quello il quale, giusta la grave
testimonianza di un Tacito, diede apertamente opera , se non a concepire , a
consumare almeno un matricidio , non dee poter cagionare alcun nuovo scan dalo
. Altri , con l'autorità di Marziale e di Sidonio Apolli nare , diranno ,
dall'altro canto , che vi ebbero tre fratelli conosciuti sotto il nome di
Seneca ; e che il teatro venne ascritto sempre , non al primo che fu precettore
di Nerone , ma bensì ad Annio Novato , ch'era il secondo. Potrei rispon dere
che uomini dottissimi in fatto di latina erudizione , quali sono un Giusto
Lipsio , Erasmo, Einsio , i due Scaligeri , ed altri non pochi , attribuirono
al filosofo gran parte di quelle trage die, senza lasciarsi punto illudere
dalla circostanza ch'esse fos sero state pubblicate col nome del fratello : e
ch'egli real mente vi abbia cooperato, lo attesta Quintiliano , il quale net
tamente lo addita come autore della Medea . Potrei soggiu gnere che , ove
quelle tragedie si paragonino attentamente con le prose del filosofo , basta la
più leggera critica per rav visar nelle une e nelle altre le medesime tendenze
di spirito , le medesime pretensioni di dottrina , spesso il medesimo fondo di
pensieri , più spesso ancora le medesime stentate forme di lingua e di stile .
Se non che tutte queste discettazioni erudite sono di niuna importanza per me.
Quando anche mi si dimostri con matematica evidenza che le persone eran diverse
, niuno potrà luminosamente provarmi che la tempra delle anime non fosse la
stessa . Nelle mie investigazioni è stato in me principal di segno di
apprendermi, non all'individuo materiale , che in teressa la storia degli
uomini più che la.critica de' tempi , ma bensì all' individuo astratto , che
vien come lucido specchio in cui fedelmente si riflettono le sembianze di un
secolo con tutte le caratteristiche impronte , e tenaci abitudini , e maniere
sue proprie di sentire , di pensare e di vivere. Se infatti biz zarria taluno
volesse attribuir quel teatro ad altro poeta con temporaneo , a Lucano , per
esempio , ch'era figlio del terzo fratello di Seneca il filosofo , cangerebbe
egli mai lo stato della quistione ? Il famoso cantore della Farsalia non fe'
onta all' egregio zio : prese parte attiva in una congiura celebre , che mise
Roma tutta in commozione ; e , scoperto appena , tentò fuggir morte ,
denunziando vilmente i suoi complici , tra per i quali era sua madre :
condannato indi a perire , perchè non era facile il placar Nerone per simil genere
di meriti , affetto eroica fermezza ; e ne’momenti supremi declamò versi allu
sivi al suo stato ; e del sangue che gli usciva dalle segate vene fe ' generosa
libazione a Giove liberatore. A che andar più oltre mendicando prove , fatti e
ravvicinamenti ? Eran tutti cosi : ed il mio scopo essenziale si fu di
chiarire, che ingegni educati disgraziatamente in mezzo a realità prosaiche e
ributtanti, non poteano produrre che opere drammatiche ributtanti e prosaiche.
Le ingenue ispirazioni della natura esigono am piezza di spazii congiunta a
splendore di analoghe circostan ze ; e le grandi fantasie non si sviluppano al
certo nelle piazze de' patiboli. FRANCESCO
PAOLO BOZZELLI (1786-1861). 1. La morale di questa filosofia fu scritta da un
altro napole tano esiliato per i moti politici del 1820 21 ; che merita anche
lui almeno un breve ricordo in questa storia : Francesco Paolo Bozzelli. La sua
vita ha molti punti di contatto con quella dello scrittore del quale abbiamo
ora finito di parlare ; e meriterebbe uno studio speciale. Il Bozzelli nacque
in Manfredonia il 22 aprile 1786 (1).A venti anni era a Napoli a studiar leggi
sotto Michele Terracina e Ni cola Valletta. Si laureò avvocato ; ma presto
abbandonò la car riera forense, essendo stato nel 1813 nominato per concorso U
d i tore del Consiglio di Stato. Nel 1815 fu ispettore generale della
Sopraintendenza generale di salute ; e l'anno seguente per lo zelo e
l'operosità dimostrata in occasione della peste di Noia, pro mosso Segretario
generale della stessa Sopraintendenza e nominato cavaliere. Nel 1820 presentato
dal Parlamento in una terna per Consigliere di Stato ; ed ebbe infatti questo
alto ufficio nel di cembre di quell'anno (2).Nel successivo fu nominato
Commissa rio civile per l'approvvigionamento delle truppe in Abruzzo. Ma,
caduta la libertà, dovette anch'egli cadere ; e fu imprigionato, quindi
proscritto. Nel giugno 1822 si rifugiava a Parigi ; donde passò nel '26 a
Londra, per tornarvi nel 1828. E a Parigi quindi (1) Traggo le notizie
biografiche di lui da un clogio funebre, scritto su informazioni
fornitedalnipoteomonimo del Bozzelli:Sulferetrodelcav.F. P.Bozzelli,paroledette
il 27 febbraio 1861 nella Congrega dei ss. Anna e Luca dei professori di belle
arti, dal l'architetto CAMILLO CASAZZA.Napoli,Cons,1864;opuscolo di 8
pp.in-4.°posseduto dalla Società napoletana di Storia patria. (2)Diluinon
sidicenullanell'opuscolo,delrestopertantirispettideficientissimo,
diVINCENZOFONTANAROSA,IParlam.nas.napol.perglianni1820e1821,mem.edoc.,
Roma,Soc.D. Alighieri,1900. FRANCESCO PAOLO BOZZELLI 173 rimase
fino al 1837 ; nel qual anno gli fu dato finalmente di ri tornare a Napoli.Dove
riprese la carriera forense,e rimase tutto il r e s t o d i s u a v i t a . N e
l ' 4 4 , p e r s o s p e t t o d i c o s p i r a z i o n e , f u a r restato e
tradotto nel forte di S. Eramo; ma riottenne subito la libertà, anzi acquisto
la fiducia di Ferdinando II. Il quale lo n o mino socio ordinario della R.
Accademia delle scienze morali e più tardi Presidente perpetuo dell'intera Società
Borbonica,ora Reale ; e nel 1848 lo chiamò a far parte del Ministero, come
ministro del l'interno . E d egli redasse lo statuto . Si ritirò nell'aprile e
fu n o minato un'altra volta Consigliere di Stato.Ma nel maggio tornò al potere
e condusse la reazione che seguì all'infausto 15 di quel mese . E ministro
resto, da ultimo col portafogli dell'Istruzione, fino all'agosto 1849. Quindi
si ritrasse a vita privata,in una villa della collina di Posillipo,dove fini
isuoi giorni il2 febbraio 1864. 2. Come scrittore è particolarmente noto per le
sue ricerche Della imitazione tragica presso gli antichi e i moderni (1), dove
in tese a combattere la tesi difesa dallo Schlegel nel suo Corso di lette
ratura drammatica.Ma eglifuanche poeta non mediocre(2),eau tore di parecchie
altre soritture di estetica ; fra le quali meritano speciale menzione le
seguenti : De l'esprit de la comédie et de l'in suffisance du ridicule pour
corriger les travers et les caractères, p u b blicata in francese a Parigi nel
1832 ; Cenni estetici sulle origini e le vicende della poesia ebraica (3),
nonchè due memorie lette al l'Accademia di Napoli : Cenni cstetici sulle
origini e le doti del teatro indiano; In quale dei cinque sensi a noi
conosciuti è da scorgere il proprio ed efficace organo della bellezza. Il solo
titolo di questa memoria basta, mi pare,a farci intendere che razza di estetica
fosse quella del Bozzelli. Nel 1838 annunziava un trat tato di estetica,
pubblicandone l'introduzione in una rivista(1); (1) La 1.a ediz, fu fatta a Lugano
nel 1838 in 2 voll. L'edizione corrente è quella
delLeMonniernel1861purein2voll.Mafral'anael'altracen'èunasecondacorretta e d a
c c r e s c i u t a d i u n c a p i t o l o s u l t e a t r o s p a g n u o l o
, i n 3 v o l l ., N a p o l i , s t a m p e r i a d e l V a g l i o 18:50
(sulla copertina 1856) in quella Biblioteca italiana pubblicata per cura di B.
Fabbrica tore,che accolso anche la Storia generale della poesia del Rosenkranz,
tradotta dal De Sanctis (1853-54). E l'editore annunziava che all'Imitazione
avrebbe fatto seguire altri 2 voll.contenenti scritti del tutto inediti del
Bozzelli.Sull'Imitazione,v.ULLOA,op.cit., II,330.
(2)VedilesuoPoesievarie,Napoli,DeBonis,1815;eintornoadesseULLOA,I,244, e
l'articolo di V. IMBRIANI nel Giorn,napol.della domenica,1882,an.I,n.20.
(3) Milano, 1842. (1) Vodi il suo art. Filosofia dell'estetica nel Progresso
del 1838. 174 CAPITOLO V ma disgraziatamente il manoscritto gli fu
involato, come ci dice un biografo, nella prigione di S. Eramo. Anonimo uscì
nel 1826 un suo Esquisse politique sur l'action des forces sociales dans les
différentes espèces de gouvernement, che egli aveva mandato m a noscritto da
Londra a un suo amico di Brusselle, e fu da questo p u b b l i c a t o a s u a
i n s a p u t a . F u l o d a t o d a l T r a c y e il n o m e d e l l ' a u
tore scoperto in una recensione che ne fece con lode il Daunou nel Journal des
Savans ; onde valse a prolungare l'esilio del Boz zelli, non potendo le idee
liberali sostenute in quel libro essere approvate dal governo di Napoli. E
molti brevi scritti inseri in riviste straniere, durante l'esilio,e negli Atti
dell'Accademia a Napoli, che non giova qui ricordare (1); essendoci qui
proposti soltanto di dare una notizia d'una sua più notevole opera : Essais sur
les rapports primitifs qui lient ensemble la philosophie et la morale,stampata
a Parigi nel 1825,eristampata nel 1830 col ti tolo più breve De l'union de la
philosophie avec la morale (2); la quale rappresenta davvero un tentativo
storicamente considerevole. 3. Il Bozzelli si prefigge in essa lo scopo di dare
alla scienza della morale quell'ordine rigoroso , quell'unità sistematica , che
erano stati raggiunti, secondo lui,dalla filosofia speculativa dopo Bacone,
ossia da quando essa cominciò a fondarsi sull'esperienza : di fare perciò della
morale, che si trattava ancora sotto la forma vaga d'una raccolta di
osservazioni staccate, una vera scienza filosofica. Perchè, egli dice,« la
philosophie n'est pas seulement (1)Una sessantina di saggi dice il Casazza, che
ne dovette avere innanzi l'elenco. Ma noi non no conosciamo cho pochi: e
menzioneremo solo il Disegno di una storia delle scienze fllosofiche in Italia
dal risorgimento delle lettere sin oggi (ostr. dagli Atti dell'Ac cademia di
sc.mor.e pol.di Napoli,del 1847); dove sono alcune considerazioni superfi ciali
intorno alle tendenze spiccatamente filosofiche delle menti del mezzogiorno
d'Italia e a quel giusto mezzo che,quasi per il loro vivo senso artistico, gli
Italiani in generale avrebbero , secondo l'A., mantenuto tra le dottrine
estreme del materialismo e dello spi ritualismo astratto. (2) Noi non
conosciamo che questa 2." odiz. di Paris, Grimbert et Dorez, 1830 (vol.di
pp . 564 in -8. ). Anche in questa ediz.,del resto,il titolo ripetuto dopo un
Discours prélimi naire è Essais sur les rapports ecc.E a quest'edizione si
riferiscono le nostre citazioni.Il PICAVET
(Lesidéologues,Paris,Alcan,1891,p.549),dandouna brevissimanotiziadellibro, che
citaEssaisecc.,dà la data del 1828. Ma dev'essere una svista.La data del 1825 è
data dal Casazza e dal cenno che sul Bozzelli si trova nella Grande
encyclopédie. Sul libro, si cita una recensione del Lanjuinais nella Revue
encyclopédique, vol.26.o Il Casazza infine nel 1864 diceva che il nipoto
omonimo già ricordato « con rispettosa ossequenza al nomo dello zio,or ora
porrà allo stampe la traduzione dell'opera Saggio sui rapporti,ecc.>,
FRANCESCO PAOLO BOZZELLI 175 la clef de la morale,elle en est l'essence
même ».Non disconosco che importanti concezioni rigorose della morale c'erano
già state in Germania après les ramifications de la doctrine de Kant (1). M a
non erano che concezioni di unitari, com'egli chiama gl'idealisti; di unitari o
teisti, o assoluti. E ormai è chiaro di quale filosofia l'autore intendesse parlare,
volendo filosofica la morale. Egli insomma voleva per questa qualche cosa che
potesse paragonarsi agli scritti concernenti la teorica della conoscenza
(philosophie egli dice) di Locke, di Condillac, di Destutt de Tra cy : « ces
trois écrivains qui semblent se succéder exprès pour ajouter l'un à l'autre,
pour serrer de plus en plus l'analyse et l'enchaînement des faits, pour que
l'erreur echappée à la pour suite de l'un soit atteinte par l'autre jusque dans
ses derniers retranchemens; ces penseurs enfin qui brillent comme trois points
lumineux dans l'histoire de l'esprit humain , et qui éclairent la route de la
vérité,pour empêcher que personne ne puisse plus s'égarer dans le vague des
hypothèses »(2). 4. Le azioni umane , la cui direzione costituisce l'oggetto
della morale, non sono apprezzabili se non a patto che si riferiscano alle
affezioni che le determinano. La scienza della morale, per tanto, si fonda
sulla conoscenza delle cause per cui tali affezioni si g e n e r a n o , si s u
c c e d o n o , si c o o r d i n a n o : si f o n d a , o g g i si d i r e b b
e , sulla psicologia. E come il principio d'ogni fatto spirituale è nella
sensazione, bisogna cominciare da questa. 5. La sensazione è un fenomeno del
nostro essere,che avviene internamente,dentro di noi(3);questa è una verità
intuitiva,at testataci dalla coscienza. Il numero delle sensazioni è infinito;
ma esse entrano fra di loro in certi rapporti; il che non sarebbe possibile
senza un sostegno, un centro, un principio generale e permanente di tutte
queste affezioni.È un'induzione questa asso lutamente necessaria, perchè unica.
Noi non conosciamo diret tamente questo qualche cosa che è la base delle
sensazioni; m a lo scopriamo per i suoi effetti, come la prima condizione di
essi, come una potenza particolare,che sipotrà indifferentemente chia mare
essere senziente, anima, spirito, intelligenza, sensibilità. (1)Ma non pare
conoscesse le opero oticho di Kant o de'suoi epigoni.Di Kant cita solo le
Considerazioni sul sentimento del bello e del sublime;e,salvo errore,nella
tradu zionefrancesedolKoratry.L'accennochesifaap.464eseg.allamorale
disinteressata di Kant non prova una cognizione diretta delle opere kantiane.
(2) Pag. 12. (3) Pag. 41. .. 6. M a la sensazione rappresenta
'sempre qualche cosa di estra neo all'essere che sente : non si potrebbe
concepire in noi la pre senza d'una sensazione, spogliata da ogni rapporto con
oggetti dif ferenti da noi.Sicchè bisogna convenire,che vi sono realmente causc
esteriori che noi conosciamo soltanto dai loro effetti su noi, e che sono la
seconda condizione, non meno indispensabile della prima, per lo sviluppo della
sensazione : e il loro insieme si dirà natura, mondo , universo, o, più
semplicemente, esistenze che ci sono estranee. Per ammettere queste esistenze
l'argomento più luminoso, se condo il Bozzelli, è che quando mancano certe date
sensazioni, non accade mai d'imbattersi negli oggetti che possono produr
le(1).Ognun vede che l'argomento è molto debole, per non dir nullo: ma infine «
tous ceux qui se tiennent dans les bornes d'une espèce de doctrine pratique et
de simple sens c o m m u n , en sont pleinement d'accord ». E questo è
verissimo. 7. Contentiamoci, ad ogni modo, per la scienza dell'anima e
dell'universo,diqueste semplici verità d'induzione:erinunziamo alle ricerche
metafisiche sull'essenza dell'anima e sul principio generatore dell'universo.
L'impossibilità d'una soluzione scienti fica dei problemi metafisici è
dimostrata dal fatto che non ci sono due pensatori che abbiano dato una stessa
soluzione : quot capita totsententiae.Se
oggi,diceilBozzelli,sisaqualchecosadichiaro in questa materia, si deve
piuttosto ai lumi della religione po sitiva che ha tagliato i nodi con la sua
autorità (2). 8. La sensazione non importa semplicemente la rappresentazione di
cause esterne,l'appercezione delle qualità dell'oggetto, ma an che una
immancabile alternativa di dolore o di piacere. Una sen sazione che non
s'accompagni con un'emozione gradevole o in cresciosa,è un'astrazione senza
realtà. La sensazione è tutta la sensazione: ossia fatto rappresentativo
oggettivo e fatto emotivo ( 1 ) P a g . 4 3 . D e l r e s t o , il B o z z o l
l i a m m e t t e l a o g g e t t i v i t à d e l l a c o s a , m a n o n a m m
e t t e quella dello qualità: « Dans la réalité, une sensation ne représonte
rien en elle-même, parcequ'ellen'estriendesemblableàl'objetquilaproduit
(pag.56). 176 CAPITOLO V chia come fisica ; e i positivisti d'oggi e gli
altri agnostici non hanno nessuna la nuova conclusione È la vec de 'critici negativi
di ogni m e t a della sottomissione rità religiosa. È la conseguenza ragione di
scandalizzarsi forze della ragione. del Bozzelli logica e fatale all'auto della
sfiducia nelle (2) Pag. 45. FRANCESCO PAOLO BOZZELLI 177
soggettivo. Donde la vera classificazione delle facoltà dell'anima
inintuitiveeattive;leunestrumento dellaconoscenza,lealtre dell'azione.Le forme
rappresentative sono icaratterifilosoficidella s e n s a z i o n e ; i f e n o
m e n i d i p i a c e r e e d i d o l o r e , i c a r a t t e r i m o r a l i
(1). 9. Il piacere e il dolore ci sono noti immediatamente, perchè li proviamo
: m a la ragione del loro accadere è impenetrabile. In compenso,la loro
conoscenza è nettae distintaper modo che a nessuno è possibile confondere l'uno
con l'altro ; anzi ognuno sente il piacere come un'affezione di natura
diametralmente op posta al dolore. 10. Ora, l'idea di sensazione è inseparabile
da quella di m o vimento. Già essa, consistendo in fondo in un cangiamento di
stato, ossia in un passaggio da uno stato ad un altro, non può avvenire senza
movimento ! Ma essa stessa poi genera un m o vimento ; e come essa ha un doppio
carattere morale, secondo che è piacevole o dolorosa,è chiaro che determinerà
una doppia specie di movimenti. Quei fenomeni esteriori e visibili che si
osservano nell'uomo investito dalla gioia o dalla tristezza, non sono che una
conseguenza organica d'un primo movimento che si determina per tali sentimenti
nell'anima. E per analogia con i movimenti che si vedono nel corpo, noi
possiamo dire,che ilm o vimento correlativo dell'anima ora è espansivo,ora è
coercitivo: espansivo quando si tratta di piacere, coercitivo quando sitratta
di dolore. 11. Il Bozzelli combatte la vecchia dottrina edonistica epicu rea,
rinnovata nel sec. XVIII da Pietro Verri nel suo Discorso sull'indole del
piacere e del dolore (1773)(2), che il piacere con sista nella cessazione del
dolore.Che significa che ildolore cessa? Il dolore,come il piacere,è un
carattere della sensazione: sicchè può cessare se cessa la sensazione dolorosa.
E se cessa la sen sazione, non può esserci nè anche il piacere ; perchè anche
il piacere è carattere della sensazione, e non può esser prodotto da niente. E
poi : contro la dottrina del Verri sta l'esperienza comune degli oggetti, parte
noti come causa diretta di sensa (1) Ecco perchè e in che senso il Bozzelli
distingue la scienza della morale dalla filosofia. (2)Vedi M. LOSACCO, Le
dottrine edonistiche italiane del sec.XVIII, Napoli,1902 (e s t r . d a g l i A
t t i d e l l a R . A c c . d i S c . m o r . e p o l . d i N a p o l i , v o l
. X X X I V ), s p e c i a l m e n t e pp.35 e segg.; dove appunto sarebbe
stato opportuno ricordare le osservazioni fatte al Verri dal Bozzelli (Essai
premier,chap.VI). zioni gradevoli, e parte, di sensazioni dolorose
: gli uni e gli altri come forniti di caratteri dipendenti dalle loro qualità
par ticolari ed intrinseche. Se il piacere fosse generato dalla cessa zione del
dolore, delle due l'una : si dovrebbe ammettere cioè, o che in natura non
esistono oggetti piacevoli di nessuna specie, e che tutto l'universo non è che
una causa unica e continua di dolore; o che, se alcun oggetto piacevole esiste,
esso dev'essere considerato come una creazione inutile o come un'aberrazione e
una mostruosità fuori dell'ordine normale delle cose. E in verità non si può
concepire niente di più strano e di più assurdo.Certo, bisogna riconoscere che
il piacere attinge un maggior o minor grado d'intensità secondo che succeda a
un dolore più o meno vivo,o più o meno rapidamente cessato. Ma il piacere è uno
stato positivo, come il dolore. Nè vale ricorrere come fa il Verri a quei
dolori oscuri, equi voci, quasi inconsci, che egli dice dolori innominati, per
ren der ragione di quei piaceri che l'esperienza non ci mostra come successivi
a un dolore. L'affermazione di siffatti dolori è asserzione
vaga,diceilBozzelli,epocodegna dellaseverità dell'analisi: contraddetta dal
fatto delle serie di sensazioni associate, tutte piacevoli (1). 12. Ma torniamo
ai gradi dello sviluppo dell'anima. Il primo è dunque quello attestatoci dal
sentire:ossia l'attitudine dell’a nima a sentire, o sensibilità propriamente
detta. Questa facoltà, come ogni altra, è attiva, checchè ne dica il
Laromiguière. In fatti, dire facoltà passiva è una contradictio in adiecto :
perchè fa coltà viene da facere, sinonimo di agere ; ed è perciò lo stesso che
attività. La sensibilità si dice passiva, perchè le sensazioni sono necessarie
e come imposte: non essendo in poter nostro di evi tare l'eccitamento degli
stimoli esterni, nè, una volta eccitati, di non provarne le impressioni
sensibili. M a il senso non è semplice recettività ; ei non ha niente di simile
a un corpo fisico in riposo che riceva un urto meccanico da un altro corpo che
è in m o v i mento . L'anima nell'atto che riceve quel dato stimolo, risponde
all'impressione esterna, facendo nascere la sensazione, cioè « (1) Il Bozzolli
ha ragione di notare al Verri che oltre e meglio di Platone, Montai gne ,
Cardano e Magalotti, avrebbe potuto citare tra coloro che avevano sostenuto la
sua dottrina, Epicuro : pel quale il vero piacere era appunto oneExipeous
Tavtos toj a d yoovtos (DIOG.L.,X,139).Vediunmio articolonellarivistaLa
Criticadir.daB.CROCE, fasc.di marzo 1903,an.I,pp.127-33. 178 CAPITOLO V
un FRANCESCO PAOLO BOZZELLI 179 13. In questa facoltà del senso
tutte le altre trovano il prin cipiodellorosvolgimento.Datoilcarattereespansivo
delpiacere, bisogna ammettere nell'anima una specie di attività differente da
quella del senso. L'essere senziente pel piacere « ne sent pas simplement ; il
s'élance dans sa propre modification , et s'efforce à tout prix de s'y attacher
». C'è qui uno sdoppiamento d'atti
vità:un'attivitàsente,eun'altrasisforzadiconservareuno stato.. L’una e l'altra
sono facoltà elementari;e la seconda dicesi volontà. Di qui si vede che lo
sviluppo della volontà comincia dalla prima sensazione piacevole ; poichè il
dolore è coercitivo . M a il dolore ha un'altra funzione (2). Il piacere
sviluppa la doppia attività dell'anima sensitivo -v o litiva; il dolore la sola
attività sensitiva. Sicchè ilsuccedere del dolore al piacere non può riuscire
indifferente all'anima; la quale non può non raffrontare i due stati, e sentire
la loro diversità . Ora, sentire questa disparità tra isuoi modi di essere,non
è sen tire gli stessi modi di essere separatamente, e ciascuno per sè. Questo
nuovo sentire è quindi l'effetto d'una terza facoltà, ele mentare anch'essa,
dell'anima ;è ciò che dicesi propriamente un giudizio . 14. Queste del senso,
del volere e del giudizio sono le tre fa
coltàprimitivedellospirito;leleggi,perdirlaconDugald Ste art, della nostra
costituzione mentale. Esse non sono distinte per modo che ciascuna di esse
sorga a misura che condizioni particolari del suo sviluppo vengano
sucessivamente a verificarsi; perchè l'essere sensitivo è uno ; e fin dalla sua
prima risposta aglistimoliesterni,eglisielevaintuttalapienezzadellesue po t e n
z e , c o m e m e c h e s e n t e , m e c h e v u o l e , e m e c h e g i u d i
c a (3 ). P u r e , c o m e l ' e s p e r i e n z a u m a n a n o n si o c c u
p a a f f a t t o d e l l e e s i s t e n z e in quanto indipendenti da ogni
rapporto con noi (non le afferma, nè nega), cosi per la nostra esperienza non
importa che le fa coltà primitive dell'anima siano tutte e tre originarie: essa
non fenomeno sui generis, che si riferisce all'oggetto esterno, senza
però rassomigliargli e senz'aver nulla di comune con esso » (1).Il
cheèattivitàenonpassività.– Sicchéquest'argomentodelLa romiguière per togliere
la sensazione dal seggio in cui il sensi smo , fino a quella che il Picavet
chiama la seconda generazione di ideologi, l'aveva collocata, come fonte e base
di ogni prodotto dello spirito, non ha alcun valore. (2) Pag. 141. (1) Pag .
133. (3) Pag . 149. tien conto nel me che sente,del me che vuole,nè
del me che giu dica:questi me non ancora sirivelano; sono,ma per noi come non
fossero. Per tenerne conto,sì da non ammettere nessuna gra duazione,nessuno
sviluppo nella formazione dell'anima, la filoso fia dovrebbe spingere l'analisi
al di là di ciò che si è manifestato allanostraanimainun
modopositivoereale(1).Insomma,ilBoz zelli afferma,come sa e come può,la
necessità razionale di conci- . liare il concetto dell’a-priori dell'anima col
concetto dello sviluppo di essa. 15. In questo sviluppo la volontà ha una parte
importantis sima,come s’è visto.Senza la volontà l'anima non potrebbe che
sentire, e non si eleverebbe mai all'altezza del giudizio. E poichè volontà
senza piacere è impossibile, il piacere è il cardine e il centro della vita
dello spirito. Esso è l'unico motivo del volere : e il Bozzelli non accetta
nulla della dottrina del Locke che il volere sia determinato da un'inquietudine
attuale (2). Il dolore non cimuove,macimortifica.Ildolorecimuove quandofuoridi
noi ci sia qualche cosa di piacevole il cui acquisto ci prometta u n s o l l i
e v o . M a a l l o r a n o n è p r o p r i a m e n t e il d o l o r e il v e r
o m o tivo, anzi quella sensazione piacevole che l'oggetto esterno ci fa
pregustare.Ildolorecome taleèassolutamentequietivo:nessuno può volervisi
sottrarre senza l'esperienza d'uno stato diverso, che sarà quindi il reale
motivo del voler suo. Non ci sono desiderii vaghi di liberarsi da dolori
attuali senza saper nulla dello stato in cui si cangerebbero. Si ha sempre un'idea
dello stato diverso che si desidera. Condillac disse bene (3): « Les besoin ne
trouble notre repos, ou ne produit l'inquiétude, que parce qu'il déter mine les
facultés du corps et de l'âme sur les objets, dont la privation nous fait
souffrir. Nous nous retraçons le plaisir qu'ils nous ont fait : la réflexion
nous fait juger de celui qu'ils peuvent nous faire encore ; l'imagination
l'esagere; et, pour jouir, nous nous donnons tous les mouvemens dont nous
sommes capables. Toutes nos facultés se dirigent donc sur les objets dont nous
sentons le besoin ». Or questo,osserva il Bozzelli, non è che un commento di
Locke; il quale, indicando il dolore come causa delle nostre
determinazioni,esige che v’abbia nello stesso teinpo fuori di noi quel tale
oggetto piacevole che ci promette un sol lievo. Ma in questo modo è un aperto
tradirsi, è ammettere di 180 CAPITOLO V (1) Pag. 150. (3 ) L o g i q u e
, p a r t . I , c a p . V I I . (2)Vedi LOCKE,Saygio,lib.II,cap.XXI,§ 31.
FRANCESCO PAOLO BOZZELLI 181 fatto ciò che con tanta fatica si combatte
in teoria. Si, è « pour jouir, come dice Condillac, que nous nous donnons tous
les m o u vemens dont nous sommes capables ». Il vero motivo dunque delle
determinazioni volitive è quel l'oggetto volibile posto fuori di noi,di cui
parla lo stesso Locke. Ma come s'ha da intendere questo fuori di noi ? Non
certo nel senso spaziale: perchè in questo senso l'oggetto resta sempre fuori
del soggetto che lo sente. Qui si tratta invece di posizione nel tempo ; vale a
dire, l'oggetto è fuori di noi in quanto non è ancora , può in avvenire esser
posseduto da noi: in quanto rispetto a noi è un oggetto futuro, laddove
l'oggetto goduto può dirsi presente e attuale. Di qui il principio, su cui il
Bozzelli insiste a lungo e difende da ogni possibile obbiezione, che il motivo
di tutte le azioni umane sia la sensazione piacevole dell'avvenire (1). 16. Or
donde, dato un unico motivo possibile, tanta varietà nelle azioni umane ? Egli
è che l'anima, a cominciare dalla sensa zione,non è,come fu già osservato,uno
strumento passivo.Un'af fezione poi, com'è data dalla sensazione, non resta
immobile e inerte nell'anima,che la elabora e la spiritualizza, decomponen done
gli elementi costitutivi (un oggetto nelle sue varie qualità di cui non è che
l'insieme) per distinguere questi l'uno dall'altro, e d'ognuno farne un centro
d'associazione d'altre affezioni o m o genee che concorrono a fissarvisi.
Quindi un intreccio di vincoli per cui le rappresentazioni sono fra di loro
legate ; e quindi una maggiore o minor forza in ognuna a seconda del più o meno
stretto collegamentocon altre;ecorrelativamente,una maggioreominor facilità in
ciascuna di esser ricordata e come d'esser proiettata pel futuro.Ora questa
forza intrinseca dell'anima,elaboratrice dei materiali dell'esperienza
sensibile,non pervenendo a uno stesso grado in tutti gl'individui e in tutte le
età, è chiaro che confe rirà un contenuto diverso al motivo del volere,e
produrrà quindi la varietà delle azioni. Insomma, essendo identica in tutti la
natura dell'anima e identici gli organi esterni che le porgono alimento, si
genera ne'diversi individui un diverso contenuto psi cologico, da cui dipendono
le determinazioni del motivo in so unico dell'umano volere. « Certo,dice con
enfasi ilBozzelli,quell'inflessibile Bruto che condanna a morte i suoi figli, e
che con occhio fermo assiste all'ese cuzione della sua terribile sentenza,sarà
un essere inconcepibile ma (1) Essai troisième, chap . I e II.
fuori del primitivo concetto della grandezza romana . Egli si slan cia
attraverso la notte dell'avvenire, e vede per quell'esempio di giustizia
spiegarsi sotto isuoi occhi,in una successione magnifica, cinque secoli di
gloria e di prosperità; vede la nazione più colos sale uscirne tutta intera e
coprire della sua potenza la faccia della terra ; e concezioni che spaventano
le anime comuni, rien trano per le anime straordinarie nei rapporti immutabili
del l'esistenza dell'universo »(1). 17. Il principio delle azioni umane,
dunque, è la sensazione piacevole di un oggetto futuro: o con termine più
semplice, il piacere. E la storia ce ne fornisce una conferma evidente. L'ori
gine della società non è che l'effetto di tale principio. Esso conduce il
selvaggio dalla caccia alla pastorizia, quando l'esperienza gl'insegni che le intemperie
o le malattie potranno impedirgli un giorno di procacciarsi la preda necessaria
al vitto : ed egli provvede all'avvenire impadronendosi, quando può, di g r a n
n u m e r o d i a n i m a l i p a c i f i c i , p e r e s e m p i o d i c e r v
i , e li c o n s e r v a vivi, per potersene nutrire al bisogno. Esso fa
sorgere accanto alla pastorizia l'agricoltura, quando l'uomo conducendo gli a r
menti alla pastura, acquistata la conoscenza degli alberi e delle piante,
comincia a sperimentarne l'uso, e a poco a poco a calco larne ivantaggi che ne
può ricavare con la coltivazione.Esso mena il pastore e l'agricoltore a
scambiarsi i prodotti superflui della loro diversa operosità,segnando quindi la
data della più potente rivo luzione nell'insieme dei loro bisogni e delle loro
facoltà. Quindi, dividendosi sempre più il lavoro e moltiplicandosi gli
scambii, sempre quell'identico motivo aduna insieme ad abitare in un sol luogo
consumatori e produttori, e crea le città. Poscia perfe ziona le arti, regola
le industrie, e fa nascere perfino le scienze. È questa la molla segreta di
tutto l'umano progresso. 18. E che è la proprietà se non un sostegno
dell'avvenire ? E a che si ricerca e si stabilisce, se non per assicurarsi il
piacere futuro? La proprietà è necessaria appunto perchè è necessario cotesto
sostegno dell'avvenire. E coloro che declamano contro la proprietà, esaltando
la comunanza dei beni, non sanno che si di cono , e si stenta a credere che
parlino in buona fede (2). E che ? La comunanza dei beni esclude forse la
proprietà?Una massa di mezzi di sussistenza appartenente a una colonia intera
senza appartenere agl'individui che la compongono,è inconcepibile.La 182
CAPITOLO V (1) P a g . 253 . (2 ) P a g . 276 . FRANCESCO PAOLO
BOZZELLI 183 proprietà individuale ci sarà sempre, sebbene ridotta al libero
uso che ciascuno può fare dei beni comuni; perchè in quest'uso è assicurato
appunto a ciascuno il sostegno dell'avvenire; che è la vera sostanza del
concetto di proprietà. Ma cogliendo il frutto, non s'è padroni di tagliare
l'albero che lo produce. Ma l'albero non è per ciò sempre una proprietà,alla
quale ognuno ha diritto di ricorrere, quando vuol soddisfare la fame ? M a
questo diritto appartiene egualmente a tutti gl'individui della colonia. Ma da
quando in qua la solidarietà del possesso ha distrutto il diritto di proprietà,
che ciascun solidale ha sullo stesso fondo ? E tanto è vero questo modo di
vedere che,quando questa massa di beni comuni cessi, per dissensi o
usurpazioni, di soddisfare ai bisogni di tutti gli individui della comunanza ,
cessa anche di essere una proprietà, pel solo fatto che nessuno più vi
riconosce l'appoggio del suo avvenire;e allora ognuno per sussistere fa
assegnamento sul suo lavoro personale, e si crea una proprietà a sè, di cui gli
altri non partecipano punto il godi mento. Declamare, dunque, conchiude il
nostro scrittore, contro la proprietà è pigliarsela colle affezioni costitutive
del n o stro essere. Pretendere la proprietà con la comunanza dei beni, è
giuocar di parole, é appigliarsi a una differenza, che rispetto alla nostra
natura sensitiva è nulla (1), 19. E che è la legge se non una garenzia
dell'avvenire ? Tutte le definizioni diverse date da Cicerone, da Montesquieu ,
da G r o zio,da Rousseau contengono forse ciascuna una verità,ma par ziale e
incompleta. La legge non è una semplice volontà, nè un pensiero generale, nè
un'astrazione filosofica: ma « una potenza sempre attuale, sempre
formidabile,che nasce dal bisogno di con servare inviolabili le affezioni più
generose dell'anima. La pro prietà basterebbe come sostegno dell'avvenire;ma
questo soste gno è ad ora ad ora scosso dalla violenza e della mala fede, con
tro le quali urge appunto la garanzia delle leggi . Certo la legge provvede a
un vizio della convivenza civile; e Tacito ha ragione : corruptissima
republica,plurimae leges! 20. E se si riflette, la stessa religione rispecchia
quel fonda mentale motivo di tutte le umane produzioni. Non è religione quella
del selvaggio, che, atterrito dal rimbombo del tuono nel mezzo della
tempesta,si prosterna innanzi al corruccio d'un Dio che ei si rappresenta posto
sulla cima delle nubi ; o del selvaggio (1) P a g g . 276-7 .
181 CAPITOLO V che all'apparire del sole vedendo sorridere la natura,
adora in ginocchio l'astro luminoso , ond'egli fa la dimora sacra d'un Dio
benefattore : perchè il vero sentimento religioso è ben altrimenti profondo.
Religioso è l'uomo la cui anima si espande a tutto ciò che v'è di più tenero e
di più simpatico nei rapporti della natura vivente , e sdegnando fieramente i
limiti d'una tomba fredda e s i l e n z i o s a , i n n a l z a l e s u e p i ù
n o b i l i a s p i r a z i o n i o l t r e il c o n f i n e d e l tempo e
dello spazio : l'uomo virtuoso che l'ingiustizia dei suoi simili ha gettato
nelle tribolazioni dellavita,eche,non vedendo se non nella morte il termine
delle proprie miserie,apre l'anima alle illusioni lusinghiere d’un'altra vita
imperitura,e sospira la calma che si ripromette di trovarvi.Negli uomini
diquesta tem pra conchiude il Bozzelli s'eleva il santuario della reli gione,
dond'essa apparisce raggiante delle speranze più consola trici. La religione
nasce pertanto come l'infinito dell'avvenire(1). Disse lo Shaftesbury, che il
primo ateo dovette essere certamente un uomo triste e malinconico. Il contrario
anzi è vero, secondo il nostro romantico scrittore. Le reveries seducenti della
tristezza malinconica fecero nascere la religione ; e l'ateo è un 21. Tutta
l'umanità dell'uomo,dunque,cidice,che ogni deter minazione dello spirito procede
dal bisogno d'un piacevole avve nire. E in questo bisogno perciò occorre
cercare il reale fonda mento di quel fatto umano,che è a sua volta la morale.
L'etica del Bozzelli è,come ognun vede,schiettamente edo nistica. E come ogni
edonista, il Bozzelli concepisce la morale come un fatto naturale,ed è risoluto
avversario del concetto normativo di essa. « L'homme, egli dice, ne doit être
que ce qu'il est : la règle de sa conduite ne répose que sur les lois de sa
constitution fondamentale... Dire que l'homme doit être par choix une cose
tout-à-fait différente,de ce qu'il est par essence,
c'estprétendrequ'unarbrefaitpour produiredespommes,pro duise des poulets ou des
poissons » (3). E direbbe invero benissimo se questa concezione realistica
della morale egli non riattaccasse alla veduta metafisica dell'antico edo
nista,che honeste vivere est secundum naturam vivere; e se ricer cui
cuore freddo e gretto è incapace di allargarsi deliziose d'un'anima alle
espansioni tenera e gentile. La réligion et l'irréligion ne constituent en
dernière analyse qu'une simple sibilité (2) question de sen essere il (1) Pag .
283. (2 ) P a g . 2 8 7 . (3 ) P a g . 2 9 2 . FRANCESCO PAOLO
BOZZELLI 185 cando nell'uomo stessoilfondamento effettivo dellamoralità,egli
non si mettesse innanzi l'uomo nella sua nudità primitiva (1). L'uomo ancor
nudo, il bestione di cui parla G. B. Vico, non ha ancora moralità , è ancora
natura : e bisogna aspettare, per dir così, che si vesta, perchè diventi
quell'essere nella cui costituzione una concezione realistica della morale
possa trovare il fondamento di fatto di questa.Ad ogni modo,vediamo come
quest'uomo ancor nudo acquisti col solo motivo del piacere la moralità, secondo
il Bozzelli . 22. La morale non è che una continuazione, o, se si vuole, un'applicazione
dell'analisi fin qui fatta delle forze operanti nello spirito(2),Si rifletta.
Se tutti gli oggetti circostanti fossero uni formemente piacevoli,per obbedire
alla propria natura, ed essere quindi completamente felice, l'uomo non dovrebbe
che abbando narsi agl'impulsi della sua volontà spontanea . Ma , pur troppo,
questa età dell'oro non è che nell'immaginazione di Esiodo e de gli altri poeti
antichi che la descrissero. Purtroppo, le cose e gli stati sono ora piacevoli e
ora dolorosi; e l'uomo, che non ab bia accumulato una sufficiente esperienza,
spesse volte s'inganna : crede di seguire il piacere , e si trova innanzi il
dolore : e p r o cede sempre nella vita come naviglio in mezzo all'Oceano,ora
favorito dal bel tempo , ora sbattuto dalla tempesta . Ma i disinganni e i
dolori lo rendono riflessivo, distruggono in lui quel naturale abbandono
agl’impulsi ciechi del volere; lo rendono sempre più prudente, e più difficile
nelle determinazioni future. Gli farebbero contrarre l'abito della perplessità
e della irresoluzione, se non soccorresse il giudizio,che solo ha il po tere di
leggere nell'avvenire fondandosi sul passato,ed è in grado perciò di fornire
una garanzia all'anima che vuole, mostrandole il bene verace, incoraggiandola,
rassicurandola. Il giudizio, ricercando sempre i rapporti del mondo esterno con
l'uomo a fine di garentire il volere per il futuro, accumula via via un gran
tesoro di fatti positivi ; che non restano patri monio esclusivo dell'individuo
che ne fa esperienza,ma si comu nicano nelle famiglie, e si ereditano di
generazione in genera zione ; moltiplicandosi col tempo per l'esperienza degli
altri in dividui;permodo cheinfinel'uomositrovariccodituttiimezzi che occorrono
ai suoi vasti bisogni (3). (1) « L'analyse de la pensée a dissipé les romans,a
désenchanté les osprits,a montré l'homme dans sa nudité primitive >;pag.293.
(2)Pag.300. (3)Pag.308. Se non che questo fardello di esperienza
che cresce sempre, non può crescere indefinitamente : perchè finisce con essere
in sopportabile alla memoria. E che avviene ? Una parte di esso va lentamente
perdendosi nell'oblio.È vero che intanto nuove espe rienze aggiunge di proprio
l'individuo ; m a è tutto un versar acqua nella botte delle Danaidi.() almeno
sarebbe,se In queste massime, in questi apoftegmi, in tutte queste gene
ralizzazioni è la morale, una morale pratica, che diventa scienti fica quando
tutti i precetti, tutte le massime sono coordinate e messe d'accordo tra
loro,ridotte a sistema e subordinate a un'idea unica e centrale. La morale,
insomma, si riduce a una precet tisticadiprudenza;ogni imperativo,potremmo
direcon Kant,è ipotetico . 23. Come accade che la morale apparisca qualche cosa
di di verso ? 11 Bozzelli spiega anche la psicogenia del concetto corrente
della morale, come di un insieme di obblighi superiori, imposti alla nostra
natura sensibile e non derivati affatto da questa. Una volta formate le massime
generali, è naturale che, invece di fare ai figli delle lezioni pratiche
richiamando o narrando tutte le singole esperienze, si preferisca d'imprimere
nella loro m e m o ria quelle regole determinate che essi potranno poi
applicare nel loro interesse secondo i casi della vita; giacchè in tal modo
siri sparmierà tempo e fatica,e sarà tanto di guadagnato per l'inse gnamento
che si vuol dare. M a come fare accettare tali regole ai figli? La loro vera
giustificazione sta nell'insieme dei casi par ticolari, da cui sono estratte. E
rifare la storia di quei casi è impossibile ; tanto varrebbe continuare nel
vecchio sistema, e la sciar da banda le regole. Si pensa ad imporle incutendo
per esse un rispetto stabile e profondo, col dare ai fanciulli un'idea m i
steriosa della loro natura ed origine. Non si presenta la verità tutta nuda :
si crede anzi di ren 186 CAPITOLO V tervenisse di genio, che, fatta una
cernita non in l'opera degli uomini dotati d'una gran mobilità sieme tutti i
catenano e fondono masse di quelle esperienze simili e quindi generalizzando
con finezza e profondità carico di fatti individuali , in caratteri coloriti e
sfumati casi particolari intere di tali esperienze , e le rendono al pubblico
cui originariamente mero di parole partenevano,secondo lafineosservazione in
piccol n u ap del La Bruyère , coniate, chiare e precise, in apoftegmi per dir
cosi, in massime ed eleganti, in pensieri ingegnosi semplici : con cui si
sostituisce e minuziosi. da tutti il pesante e forza , messi in , in
FRANCESCO PAOLO BOZZELLI 187 derla più bella vestendola e abbigliandola
in costume da teatro.Si dice che quelle regole hanno un'origine soprannaturale,
che sono innate in noi ; che ognuno le porta impresse nel cuore. E vera mente
come figure rettoriche queste espressioni, dice il Bozzelli, potrebbero
correre. Si può dire, infatti, che Dio ci abbia dato queste regole nel senso
che egli ci ha fornito i mezzi di scoprirle e constatarle ; si può dire che
siano innate in noi, nel senso che noi siamo dotati delle facoltà adatte a
farcele scoprire (1). M a così potrebbe dirsi egualmente,che Dio ci ha
comunicate le leggi del moto,e che esse sono impresse nelnostrocuore,per ciò
solo che ci ha così fatti da apprenderle mercè l'esperienza e la rifles sione .
24. Non già che le leggi morali sieno convenzionali e arbi trarie. Esse sono
fisse e invariabili nell'ordine eterno delle cose ; dipendono dalla nostra
natura sensibile; come le leggi fisiche ap partengono intrinsecamente ai
corpi.Noi non possiamo cangiarle, nè sottrarci ad esse. Ma l'origine loro nel
nostro spirito non è differente in nulla dall'origine dei concetti che pure
abbiamo delle leggi fisiche. Certo, nel mondo fisico, sarebbe meglio limitarsi
a insegnare a un contadino come, coltivando e curando erbe ed alberi sel
vatici,i nostri padri pervennero col lavoro a sostituire alla fine, per la
nutrizione , frutti più dolci e più succulenti alle ghiande e alle radici. Ma
in pratica,è indifferente che gli si dica al con trario,che tutto si deve al
solo dono degli Dei ; e che a Minerva dobbiamo l'ulivo, a Cerere le biade e a
Bacco la vite.Il sistema è diventato falso,perchè si è esagerato ; e a forza di
voler cavare tutto dai cieli,s'è finito col farne scendere perfino il delitto e
la corruzione . M a oggimai , pare al Bozzelli che meglio si farebbe dicendo il
vero ai giovani ; mostrando loro come quelle regole di morale che, si additano
ad essi, non sono altro che la quintessenza del l'umana esperienza accumulata a
prezzo di infiniti dolori; e che seguirle è fare il proprio interesse, perchè
esse insegnano i mezzi di sfuggire al dolore. La morale del Bozzelli è per
questo essenzialmente intellet tualistica come quella di Socrate (2). Esser
virtuoso è sapere : sa (2) Ma la fonte diretta è HELVELTIUS; il quale già aveva
detto che bisogna « décou vrir aux nations les vrais principes de la morale ;
leur apprendre qu'insensiblement en (1) Pag . 320. per
veramente. E come Hobbes scrisse un libro De computatione seu logica,
bisognerebbe scriverne un altro : De computatione seu ethica : perchè non si
tratta anche in morale che di un calcolo (1). 25. Ma a questo punto il Bozzelli
prevede un'obbiezione: la vostra morale è impossibile, perchè, incatenando la
volontà al piacere, voi avete distrutta la libertà che è la condizione sine qua
non della morale. Intendiamoci : bisogna distinguere libertà da libertà. Io
ammetto , egli dice accordandosi pienamente col Bor relli,lalibertà,ma
comepotenzad'agiresecondoledeterminazioni (lella volontà, senza che alcuna
forza estranea Questa libertà d'agire esiste, ed è assoluta ; perchè non vi
sono ostacoli estranei di nessuna natura che le si possano opporre.Non ve ne sono
fisici; perchè, p.es.,l'impossibilità di saltare un fiume dipende dalla
limitazione naturale delle nostre facoltà muscolari, ossia da condizioni del
nostro essere. Non ve ne sono morali, a maggior ragione: perchè il non poter
derubare, il non poter as sassinare la gente, è un ostacolo alla determinazione
del volere, p i ù c h e a l l ' a z i o n e ; d e l v o l e r e , c h e t r o v
a il p r o p r i o i n t e r e s s e n e l n o n determinarsi mai per ciò che
può distruggere la sua felicità.Non ve ne sono,infine,sociali;perchè lostato
sociale,checchè ne dica Rousseau, non importa la menoma limitazione della
libertà natu rale ; perchè chi consideri le leggi civili secondo il fine per
cui sono istituite, esse non possono che essere d'accordo coi motivi della
volontà di tutti gl'individui per le quali sono dettate. E se in pratica,
scrive il liberale del '20, si osserva il contrario, la colpa non è del
principio:ora si parla della società, non delle società (2) 26. Qui il Nostro
ha un'osservazione preziosa, che avrebbe vivificata tutta la sua etica, se egli
se ne fosse ricordato a tempo , e che ci fa desiderare il suo Esquisse
politique, che non ci è riu scito di vedere.Il concetto dello stato di natura
in cui ogni uomo èlupoall'altrouomo,parealBozzelliun romanaffreur;esime
raviglia che sia mai potuto entrare nella testa di un essere ragio traînées
vers le bonheur apparent ou réel la douleur et le plaisir sont les seuls
moteurs do l'univers moral ; et quo lo sentiment de l'amour de soi est la seule
base sur laquelle on puissojeterlesfondementsd'une
moraleutile»(Del'esprit,disc.II,chap.XXIV).An che per Helveltius la virtù era
un calcolo, e il vizio un effetto dell'ignoranza . 188 CAPITOLO V Senza
opponga ostacoli. questa libertà la felicitàsarebbe impossibile ; e sarebbe
quindi anche impossibile la morale. (1)Vedi pag.461. (2)Pag.332.
FRANCESCO PAOLO BOZZELLI 189 nevole. Il vero stato di natura, egli dice,
non è che lo stato so ciale : e ciò è così semplice, cosi chiaro, così
intuitivo che non è mestieri dimostrarlo(1).Ma l'osservazione è quasi guastata
dal commento :che sarebbe stata un'inconseguenza quella della natura di aver
fatto l'uomo per la felicità e per la società che ne è la condizione
fondamentale, e avergli conferito insieme tali diritti (ipretesi
dirittidinatura,abbandonati,secondo Rousseau,perla sicurezza di altri diritti
acquistata con lo stato sociale) da esser egli obbligato a disfarsene tosto per
compiere il suo vero destino. Tutte le limitazioni, insomma, sono limitazioni
del volere, o del corpo stesso dell'agente : non sono mai estranee ad esso ; e
. non si può dire mai, quindi, che importino una restrizione della libertà di
agire. Quanto questo agente, considerato non solo come volere,ma anche come
organismo corporeo,sappia di crudo m a terialismo, non occorre spiegare. Era la
tendenza intrinseca di tutto il pensiero bozzelliano, che dalla sola
sensibilità si proponeva di cavare anche ciò che ha natura essenzialmente
superiore. 27. Dunque, libertà di agire, si: ma se si pretende anche li bertà
di volere, il Nostro non dubita di affermare che un tal concetto è parto
d'immaginazione indelirio(2).La libertà presup poneilvolere;enonpuòquindi
esserpresuppostadaessa,perchè, per esser libero, bisogna prima volere ; laddove
la libertà del volere importerebbe che si fosse liberi prima di volere. L'argo
mentazione qui è evidentemente viziosa, avvolgendosi in un cir colo : giacchè
si vuol dimostrare che l'unica libertà è quella di agire, e contro quella di
volere si toglie una ragione dalla li bertà di agire. Giacchè solo rispetto
all'agire la volontà precede la libertà. 28. Ma il Bozzelli domanda che
significhi la frase libertà di vo lere. Se si crede, egli dice, che si possa
volere senza motivi, ciò è assurdo. Si vuole perchè si sente;mancando la sensazione
pia cevole, la facoltà di volere resta inattiva, demeure en silence.Non si può
volere, senza voler qualche cosa, senza un fine: voler nulla è non volere. E
non è possibile nessuna distinzione tra fine e motivo. Se poi s'intendesse per
volere libero un volere non impedito da ostacoli, non si direbbe nulla di
positivo; perchè gli ostacoli possono opporsi ai movimenti comandati dal
volere, non al volere. Il volere è come il pensiero: nessuno e nulla può
comprimere la libertà del pensiero in se stesso, che non è suscet (1) Pag
. 333. (2 ) P a g . 3 3 7 . tibile di nessuna opposizione
diretta.Impedire si può la mani festazione del pensiero, con la parola o con
gli atti. Il concetto d'una possibile determinazione contraria a quella effettivamente
datasi, è assolutamente arbitrario : perchè la v o lontà indipendente dalle sue
reali ed effettive determinazioni, qual'è quella cui tale possibilità si
riferisce,è un'astrazione senza nessun fondamento di realtà. La volontà è volta
per volta determinata in maniera neces saria. « L'uomo non può volere che il
piacere: non è padrone di volere il dolore, perchè dolore e volontà s'escludono
a vicenda . Questa risposta è perentoria »(1). 29. Questa necessità del volere
però, lungi dal contrastare la morale, è la sola che possa salvarla. Data la
libertà del volere, ogniideadimoralesarebbeannientata(2).E laragioneèovvia.
Questa libertà importa che la volontà sia indifferente al piacere e al dolore ;
epperò , che quelli che si dicono oggetti piacevoli , e quelli che si dicono
oggetti dolorosi producano di fatto impres sioni analoghe. In verità, non si
potrebbe volere il dolore senza ammettere insieme che questo possa produrre
sull'anima un'im pressione simile a quella prodotta dal piacere . M a questo
sarebbe distruggere ogni differenza, e quindi ogni distinzione di male e di
bene, e ogni ragione di merito o di demerito delle nostre azioni, ogni
fondamento insomma della morale.Importerebbe inoltre, con la possibilità di
scegliere il male , una certa relazione invariabile tra i bisogni umani ed il
male, come ve n'ha di certo tra i bi sogni e il bene : onde non sarebbe una
colpa l'abbandonarsi al male. Ne inganni il fatto che, malgrado la ripugnanza
naturale,il vo lere si determini talvolta pel male ; ciò accade perchè il male si
presenta allora sotto l'apparenza di bene, e il dolore riveste non di rado
a'nostri occhi le forme seducenti del piacere. La stessa morte al suicida
stanco di soffrire apparisce come una liberazione o un sollievo,e perciò
appunto un piacere.Rousseau,ostinato libe rista, in un momento di felice
ispirazione esce in un'affermazione importantissima e tanto più preziosa, in
quanto è fatta da lui: « Non , egli dice,je ne suis pas libre de ne pas vouloir
mon propre bien,je ne suis pas libre de vouloir mon mal : mais la liberté con
siste en cela même que je ne puis vouloir que ce qui m'est con venable,ou que
j'estime tel.S'ensuit-ilque je ne suis pas mon 190 CAPITOLO V (2) Iri. (1
) P a g . 3 4 1 . FRANCESCO PAOLO BOZZELLI 191 maître,parce que je
ne suis pas le maître d'être un autre que moi?»
Ora,sipuòmodificareilpuntodivista:maquestoè verissimo : che libertà vuol dire e
deve voler dire esser se stesso, non già poter esser altro che sè. 30. Il
Bozzelli insiste molto nel combattere tutte le astrazioni, tutte le creazioni,come
direbbe Hegel, dell'intelletto astratto nel campo dell'etica. Perciò egli
richiama l'attenzione sul parallelo sviluppo dei bisogni e delle conoscenze
umane corrispettive, per cui è possibile che i bisogni sieno soddisfatti,
attraverso i secoli. I bisogni crescono sempre e si complicano ; crescono e
s'affinano insieme le conoscenze relative; anzi il desiderio di nuovi piaceri
stimola a nuove conoscenze, e le nuove conoscenze suscitano e creano nuovi
desiderii e nuovi bisogni. I bisogni sono oggi infi nitamente di più e maggiori
che una volta ; e la loro soddisfazione è certamente più difficile; e quindi
più difficile la felicità. La vita d'una volta era un navigare su un lago
tranquillo,donde si discopra con uno sguardo la ridente e pittoresca riviera ;
la vita d'oggi è un traversare un oceano tempestoso e pieno di scogli,i cui
confini si confondano con l'immensità dello spazio. Ma non pertanto quei
moralisti che, per assicurare agli uomini la felicità, vorrebbero farli
risalire, a ritroso degli anni , verso lo stato di semplicità primitiva in cui
li pose la natura, rassomigliano al medico che chiamato a curare
un'indisposizione, visto che è s e m plice effetto di vecchiaia , imputasse al
malato la decadenza da quella prima età in cui questi mali sono ignoti,e gli
consigliasse per tutto rimedio di tornare agli anni fiorenti della giovinezza.
V’ha una successione di età come per l'uomo fisico così pel morale ;come per
l'individuo, così per l'umanità.L'uomo col suc cedersi dei secoli passa di
condizione in condizione, si trasforma naturalmente ; e tornare indietro è
impossibile ; concepire il ritorno è sogno seducente dell'uomo dabbene, che
crede possibile tutto ciò che l'immaginazione gli presenta come desiderabile
(1). 31. Nello stesso errore cadono stoici ed epicurei,dimezzando l'uomo e
creando un essere fittizio non corrispondente punto alla realtà. Gli uni
credono di poter assicurare la felicità all'uomo, spogliandolo di tutti i
bisogni , e facendolo impassibile a tutti i piaceri, intento unicamente a non
so quale virtù selvaggia, posta non come d'ordinario in un luogo alto e
difficile,ma addirittura in una regione eterea al di là della na ra umana, e
appena ac (1)Pag.354. 1 cessibile agli slanci d'una
immaginazione ardita e malinconica (1). Gli altri vorrebbero sottrarre
anch'essi l'uomo alla inquietudine dei bisogni suggerendogli il carpe diem , il
partito di appigliarsi ai piaceri più prossimi per procurarsi la voluttà del
corpo e l'in dolenza dell'anima.I Cinici e i Cirenaici,precorrendo queste dot
trine, le avevano di già screditate esagerandole. L'uomo di Z e none è
un'astrazione; perchè l'uomo come essere sensibile non esiste che pel mondo
esterno, al quale deve lo sviluppo della sua sensibilità; e non può chiudersi
in se stesso e rinunciare a tutte lesensazioni,come
dovrebbe,persottrarsiatuttiibisogni.L'uomo segregato dall'universo e divenuto
come una statua, è l'uomo sna turato, l'uomo distrutto. Così l'uomo di Epicuro,
che rinunzia alle più alte soddisfazioni per pascersi dei piaceri più facili,
con trasta con ogni idea di progresso , di attività umana : è mezzo uomo
ancheesso;èsimileall'aquila,che,dotatadialiper slan ciarsi verso la luce
fiammeggiante del sole, preferisse di sbaraz zarsene per somigliare ad un
rettile (2). 32. M a già queste opposte dottrine ci dicono che oggetto unico
della morale è per tutti il piacere ; principio unico da cui partono e a cui
tendono tutte le azioni umane . La virtù selvaggia degli stoici non è che il
pegno simulato d'un piacere infinito ; « e il torto di Epicuro non è.di aver
fondato la morale sulla voluttà, per chè la voluttà è certo il sinonimo del
piacere; ma di averne pro stituito l'idea,e tagliato lepiù splendide
ramificazioni »(3).Lo si combatte grossolanamente, laddove si tratta di
rifiutare il senso stretto che egli vi lega: perchè infine la pratica della
virtù è essa stessa una voluttà (4); e come dice con molto acume M o n taigne:
pour être plus gaillarde, nerveuse,virile, robuste,elle n'en est que plus
sérieusement voluptueuse. L'uomo,insomma, è tutto l'uomo,e il piacere, motivo
delle sue azioni, non esclude nessuna forma di piacere. 33. Di qui è chiaro che
tante saranno le forme di piaceri, quante sono le attività o gli stati
dell'uomo; perchè altrettanti saranno i suoi bisogni. Il Bozzelli distingue
nell'uomo la sua esi stenza animale e la sua esistenza sociale : le due
condizioni, egli (2) Non occorre qui notare la inesattezza storica di questa
interpretazione del pensiero di Epicuro.E già nell'inesattezza il Bozzelli è in
buona compagnia ;perchè anche Kant pensava lo stesso. 192 CAPITOLO V (1)
Pag . 355. (3) Pag. 359-60. (4)Vedi gli Essais,lib.I,cap.XIX.
FRANCESCO PAOLO BOZZELLI 193 dice, che lo comprendono e costituiscono
tutto intero (1). Quindi i piaceri sono classificabili in piaceri animali e
piaceri sociali.La de duzione degli uni risulta dal già detto. Donde gli altri
? Anche il Bozzelli accetta la teoria della simpatia morale :il piacere degli
al tri è nostro piacere,per l'identità di natura tra noi e i nostri si mili
(2). M a questi piaceri animali e sociali sono in relazione fra loro. Quali
naturalmente prevalgono ? E qui il Bozzelli rifà la solita critica dei piaceri
egoistici,animali. Questi piaceri si riferi scono ai bisogni fisici, che non
hanno nessuna latitudine, nè spa ziale nè temporale. Le condizioni della
materia ne fissano i limiti. Portano sempre con sè sazietà e disgusto.Il
godimento ne dissipa tutta l'attrattiva.Non hanno successione,nè continuità:si
gene rano e svaniscono come fenomeni effimeri e staccati. Nascono col bisogno,
e finiscono col bisogno :saziata la fame, la vista sola dei resti del pasto è
importuna e sgradevole.Il letto, sollievo all'uomo stanco,diviene tormentoso a
chi vi debba restare a lungo senza interruzione. Il fasto viene a noia, e dopo
averne lungamente goduto,si cerca la campagna e idisagi.Questi piaceri insomma
sono, per dirla con Plutarco (3),come aurette di venti graziosi che spirano le
une su una estremità, le altre sull'altra estremità del corpo , e passano e
svaniscono incontanente : così breve ne è la durata ; simili alle stelle che si
vedono la notte cadere dal cielo, o traversarlo da un punto all'altro, essi si
accendono e si spengono sulla nostra carne in un istante. Dipingete un quadro
con le tinte contrarie; e avrete la rap presentazione dei piaceri sociali.Di
qui ilmaggior pregio (edoni stico, s'intende) e la naturale prevalenza dei
piaceri sociali sugli (2) Nell'espressione di piaceri sociali, questa
designazione ha però un senso molto largo : altri direbbe sentimenti
spirituali. L'autore infatti li contrappone ai piaceri animali , dicendo questi
jouissances directes du corps, e quelli jouissances directes de l'ame. Gli o g
getti dei primi « consistent dans tout ce qui & rapport à l'entretien
matériel de la vie et auxagrémensimmédiatsdessons»;glioggettideglialtriconsistonoinvecein«toutce
qui a rapport à cette correspondanco, harmonique des sensibilités, en vertu de
laquelle noussympathisonsavec
lesjouissancesaussibienqu'aveclessauffrancesdenossemblables; etnousnous tentons
poussésàaugmenter lesunes,àsoulagerlesautres,ànousréjouir du bonheur,à nous
afsiger du malheur de notre prochain »;pag.433. (3 ) Il q u a l e , c o m e il
N o s t r o , n o n s ' a c c o r g e v a c o m b a t t e n d o E p i c u r o ,
c h e a n c h e E p i c u r o aveva cosi criticato i piaceri sensuali. Vedi
l'opuscolo di Plutarco , ( he non si potrebbe ri vere felicemente secondo la
dotlrina di Epicuro. (1) Pag . 369. 13 194 CAPITOLO V
animali. Di qui la superiorità della morale sopra le fisiche incli nazioni ad
essa contrarie. 34. Tutti i piaceri sociali si risolvono in quelli della
giustizia e della beneficenza. La giustizia è il riconoscimento della invio
labilità della proprietà, di cui s'è già parlato. La beneficenza è la
sodddisfazione degli altrui bisogni, sentiti come nostri per effetto della
simpatia. I due fatti si suppongono e quindi s'in tegrano a vicenda. La
beneficenza è una conseguenza della giu stizia; che ha luogo quando uno o più
individui dell'aggregato sociale a cui apparteniamo, non abbiano quel sostegno
dell'avve nire, che è la proprietà. E del pari la giustizia è una conseguenza
della beneficenza, poichè se siamo benèfici per non soffrire con altri, non
possiamo violare quella giustizia che è la condizione della proprietà. Questi
due fatti sono la base della società,di ogni ocietà, vuoi domestica,vuoi
civile,vuoi politica: sono la pratica della virtù. 35. Ma che è propriamente
virtù, e che è vizio? Il Bozzelli richiama un principio notissismo di
psicologia : che l'abitudine at tenua la coscienza e quindi il grado di piacere
e di dolore pro dottoci dalle impressioni; e osserva che non si può perciò
fuggire il dolore abbandonandosi al piacere, se non si vuol fare come il medico
che per guarire la malattia uccide l'ammalato. Bisogna lottare contro il dolore,
per disarmarne la violenza, acquistando l'abito di soffrirlo, e quindi
affrontando il dolore, anzi che vol gergli le spalle o accasciarsi sotto il suo
peso : m a occorre i n sieme lottare contro i piaceri per impedire che
l'abitudine di g o derne non ne distrugga ilbeneficio,usandone quindi con
prudente moderazione. Epperò occorre dare all'anima tal forza di carattere che
le permetta di padroneggiare la tempesta delle passioni. E quella tempra
acquisita, che rende l'anima capace di soggiogare con successo tutti i dolori,
e restare ferma contro le seduzioni dei piaceri che tentano di snervarla, è
quel che il Bozzelli dice propriamente virtù; e il contrario,vizio(1).Insomma,
la virtù è l'arte di godere. Fermezza nei dolori,moderazione nei piaceri, sono
i suoi caratteri; come debolezza nei dolori, intemperanza nei piaceri,sono i
caratteri del vizio (2). Quindi il grande uffizio della pedagogia : che imprima
alla fibra animale, quand'è ancor tenera e flessibile, e all'anima, quand'è
ancor nuova e accessibile a tutte (1) P a g . 4 1 3 . (2) Pag. 415.
FRANCESCO PAOLO BOZZELLI 195 le affezioni, una serie di abitudini che le
rendano atte a quella fermezza e moderazione,che crea insomma la virtù(1). 36.
La quale, secondo il Bozzelli, è unica e indivisibile, se si distingue dagli
atti virtuosi,in cui può manifestarsi.Per la povertà naturale del linguaggio o
pel desiderio di nobilitare cose ordinarie e comuni,si decora sovente del nome
di virtù ogni qualità ac quisita a forza di fatica e di studi e perfezionata
dall'abitudine di un lavoro continuo e ostinato. E in questo senso,per esempio,
in Italia si dice che un pittore,un musico,un ricamatore, un fa legname e
perfino un muratore ha della virtù ; e qualche volta si aggiunge, ed è
un'espressione più felice, che ha questa virtù nelle mani . M a tale virtù non
si può confondere con la virtù morale : la quale non è indirizzata*a vincere
ostacoli che si oppongano alle mani: ma è solamente quell'energia abituale
dell'anima che signoreggia dolori e piaceri, schermendosi dai primi per non re
starne vittima, e tenendosi lontana dai secondi per serbarne la freschezza.
Ogni altra accezione del termine virtù è falsa, o equi voca,od esagerata(2).
37. Queste le linee principali della concezione etica bozzel liana: alla quale non
si possono per certo negare ipregi della coe renza , del rigore e dell'acume
filosofico. È vero che l'originalità si riduce a ben poco, quando si pensi alla
dottrina di Adamo Smith (Teoria di sentimenti morali, 1759) e a quella di
Helvetius ( Trattato dello spirito, 1758): delle quali è come una
contaminazione. Dal l'una è tolta di peso la teorica della simpatia ;
dall'altra il pretto edonismo e lo spiccato intellettualismo : e questi tre
sono i tre ele menti principali e costitutivi dell'etica che abbiamo esposta.Ma
è innegabile tuttavia,che il Bozzelli ha saputo fondere insieme que sti
elementi e imprimervi uno stampo proprio, formandone un si stema ben organato e
compiuto : tale che la letteratura contempo ranea francese e italiana non ha
nulla da mettervi accanto.Con ciò, s'intende, non si dice che è tutto vero
quello che il Bozzelli crede tale.Ma farne la critica sarebbe inutile ormai che
quella po sizione è di lungo tratto oltrepassata. Era stata,anzi,oltrepassata
prima che il Bozzelli pensasse a scrivere: ma in una parte della storia delle
idee, che non entrò nella sua cultura di ideologo. (1) È noto quale importante
parte all'educazione attribuisce l'Helvetius.Cfr.A Piazzi, Helvetius nel
Dizionario illustr, di pedagogia dei proff. Martinazzoli e Credaro ; e l'arti
colo dello stesso, Le idee filosofiche e pedagogiche di U. Adr. Helvetius,
nella Rivista di filosofia scientifica del 1889. (2)Pag.430.
CAPITOLO Francesco Paolo Bozzelli. Keywords:
il tragico, il tragico latino, l’implicatura di Lucano, l’edonismo di Bozzelli,
capitol su Bozzelli nella storia della filosofia italiana di Gentile –
edonismo, morale, etica – costituzione napoletana. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Bozzelli” – The Swimming-Pool Library.
Bozzetti (Borgoratto
Alessandrino). Filosofo. Grice: “If Strawson is a Griceian, Bozzetti is a
Rosminian – he philosophised on substance (‘il concetto di sostanza’ from the
point of view of ‘gnoseologia,’ and also on ‘dialogue,’ and ‘piety,’ – he also
speaks, like I do, of construction, and reconstruction, and indeed,
‘metaphysical reconstruction,’ one of my routines!” – “My favourite has to be his
philosophy of dialogue.” -- Figlio di Romeo (uno dei Mille di Garibaldi,
divenne colonnello e poi generale dell’Esercito Italiano) e da Edvige Griziotti
De Gianani. I genitori erano originari dalla provincia di Cremona. Tutta la
famiglia Bozzetti si sposta a Trapani, poi a Napoli, a Reggio Calabria, ad
Ancona, a Genova e infine a Torino, seguendo le destinazioni del capofamiglia.
Scrive delicate poesie, indirizzate ai suoi familiari. Si laurea a Torino.
Entra nell’ordine dei Rosminiani. Novizio al Convento rosminiano del Sacro
Monte Calvario di Domodossola (dove una sala è oggi a lui dedicata) e ordinato
sacerdote. Si laurea a Roma. Insegna a Domodossola. Nominato Superiore
Provinciale dei Collegi rosminiani e a Roma. Eletto Preposito Generale, cioè
VII successore di Antonio Rosmini. Insegna a Roma. Sostenne e spiegò le tesi di
Rosmini, in particolare quelle esposte nella Filosofia del diritto. Sacro Monte Calvario di Domodossola, Via
Crucis. La persona è soggetto di diritto, cioè cerca liberamente la verità e
aderisce liberamente alla legge morale, su cui forma la propria coscienza e la
consapevolezza di avere una destinazione o metier. Gl’Agiati pubblicano questo
sintetico profilo di lui. Attratto dalla filosofia rosminiana che fa della “persona”
il diritto sussistente ed il fondamento dello stato italiano, ripropose la
metafisica del filosofo roveretano quale unica speculazione che sapesse
inquadrare il problema dell'essere personale in un'organicità ontologica più
comprensiva (il vivente). Filosofo costruttivo, capace di far convergere molteplicità
ed unità, frammentarismo e organicità. Lettera di Rosmini, Risposta al prof.
Sciacca, Domodossola, C. Antonioli. Centro di studi filosofici di Gallarate. Dizionario
biografico degli italiani. Nacque a Borgoratto (Alessandria) il 19 sett. 1878 da Romeo,
prima garibaldino poi ufficiale dell'esercito regolare, e da Edvige Gianani. Il
B. compì gli studi seguendo il padre nelle diverse residenze di Trapani,
Napoli, Reggio Calabria, Ancona, Genova, Torino. In quest'ultima città conseguì
la laurea in giurisprudenza, rivolgendo però maggiore interesse alla filosofia,
in particolare al pensiero di Rosmini ("Fu una liberazione quando trovai
nella Filosofia del diritto di Rosmini che la persona umana è il diritto
sussistente. Notiamo bene: la persona non solo ha dei diritti ma essa è il
diritto": Il valore della persona, in Opere, III, p. 2924). Apparve dunque
fondamentale al B. il concetto di persona come diritto sussistente, che gli
rivelò il proprio esistere "come soggetto di tre esigenze fondamentali,
inviolabili e inalienabili: la ricerca e il possesso della Verità, la libera
adesione alla Legge morale con la conseguente formazione della coscienza, la
consapevolezza di una destinazione eterna, oltre questa vita mortale"
(ibid., pp. 2924 s.). Dopo la laurea, entrò all'Istituto della Carità; fu
novizio al Calvario di Domodossola nel 1900 e nel 1906 fu ordinato sacerdote.
Nel 1908 si laureò in filosofia; nel 1909in lettere all'università di Roma.
Incominciò quindi la sua esperienza educativa come insegnante di filosofia, di
letteratura italiana, di teologia nelle scuole dell'Istituto della Carità. Fu
superiore dei collegi rosminiani; nel 1929 fu superiore provinciale, e infine
superiore generale dell'istituto intero dal 1935 fino alla morte. Nel
1908 il B. pubblicò a Roma Il concetto di sostanza e la sua attuazione nel
reale. Saggio di ontologia e metafisica (Opere, I, pp. 5-59). Del 1909 è il
volume su Antonio Rosmini nell'aspetto estetico e letterario, Roma (Opere, I,
pp. 63-217), che tratta della formazione e delle qualità dello stile di Rosmini
e del suo merito come scrittore, e illustra la sua teoria estetica. Al 1917
appartiene il saggio Rosmini nell'"Ultima Critica" di Ausonio
Franchi, Firenze (Opere, I, pp. 221-302). Negli anni 1923-26 il B. pubblicò La
vita di Antonio Rosmini (Opere, I, pp. 305-373). Dopo una serie di scritti
minori (Tra noi e Dio, Domodossola 1935; Nella Chiesa di Cristo, ibid. 1939;
Lineamenti di pietà rosminiana, ibid. 1940), pubblicò nel 1940 a Milano gli
Sviluppi del pensiero rosminiano nella "Teosofia"(Opere, III, pp.
2795-2843). In questo saggio il B. affrontava il problema dell'"ente
nella sua totalità". Per Rosmini tutto il sistema del sapere umano ha tre
principî: l'idea, l'anima, l'ente. La filosofia deve cominciare dal principio
ideale, quindi procedere allo studio del principio subiettivo intelligente. Ma
per raggiungere il suo compimento la filosofia deve studiare "ciò che è
primo nell'ordine assoluto degli oggetti conoscibili, per sé, ossia l'ente …
Così si arriva all'Ontologia". Il primo ontologico è chiamato da Rosmini
"essenza dell'essere". Questa, una in se stessa, si trova determinata
in una pluralità di forme: ideale, reale, morale. La conciliazione razionale
dell'unità dell'essere e della molteplicità degli enti si ha "nella natura
dell'essenza dell'essere, cioè nella sua virtualità"(ibid., p. 2828). Il
reale, secondo il B., come già per Rosmini, è sentimento e ha origine per
creazione. Il B. si richiama a questo punto alla dottrina rosminiana del
sentimento fondamentale, che non è soltanto il sentimento fondamentale
corporeo, ma è "la realtà dell'atto con cui noi ci sentiamo come esseri
viventi, di una vita che è al tempo stesso spirituale e sensitivo-corporea"
(ibid., p. 2837). Nel 1943 fu pubblicato a Roma Il problema ontologico
nella filosofia rosminiana (Opere, I, pp. 923-1045), che comprende il corso di
filosofia teoretica tenuto dal B. nell'università di Roma, dove egli era stato
nominato nel 1942 libero docente di filosofia per alti meriti culturali.
Al 1945-46 appartiene La persona umana, corso di lezioni di filosofia morale
tenuto all'università di Roma in quell'anno accademico (Opere, I, pp.
1109-1189). Il problema della persona era stato, come si è visto, il
problema che aveva costituito il punto di partenza intellettuale del Bozzetti.
Da questo problema iniziale, da cui era partito, il B. percorse la
"traiettoria ontologica". Dalla persona all'essere ideale,
dall'essere ideale a Dio da una parte e alle tre forme dell'essere dall'altra
con tutte le principali implicanze. La "traiettoria sociale", che è
l'altra traiettoria secondo cui si sviluppò il pensiero del B. sulle tracce
della dottrina rosminiana, tornava a implicare il problema della persona, riconosciuta
quale realtà che, per la presenza del divino, deve essere sempre tenuta
presente non come ragione di mezzo, ma come avente ragione di fine. Tutti i
possibili rapporti tra gli uomini - politico, giuridico, economico, affettivo -
debbono fondarsi su questa concezione della persona. Il B. morì a Roma il
27 maggio 1956. Gli scritti del B. sono stati raccolti in G. B., Opere
complete, a cura di M. F. Sciacca, 3 voll., Milano 1966. Fonti eBibl.: G.
Esposito, Il "gran rifiuto" di Rosmini, I, Rosmini e il 1848, in Riv.
rosminiana, XXVII (1933), 3, pp. 211-219 (replica di G. B. ibid., pp. 219-223);
Id., Il "gran rifiuto" di Rosmini, III, Replica al B.,ibid., XXVIII
(1934), 2, pp. 127-132 (replica di G. B., ibid., pp. 132-135); M. F. Sciacca, Rosmini
e noi. Lettera al p. G. B.,ibid., XXXVIII (1944), 1-2, pp. 2-13; Id., Il sec.
XX, Milano 1947, II, pp. 549, 844; D. Morando, Ricordando un
educatore-filosofo: il p. G. B., in Rivista rosminiana, L (1956), 3, pp.
161-174; C. Riva, P. G. B. Il pensatore e il sacerdote, in Atti della Accademia
roveretana degli Agiati, V (1956), pp. 35-48; Id., P. G. B., in Giornale di
metafisica, XII (1957), 3, pp. 183-199; Id., La "persona" nel
pensiero di padre B., in Iustitia, III (1957), pp. 221-228; Ricordando p. G.
B., Domodossola 1957; Enciclopedia filos., I, pp. 788 s. G. Bozzetti. Un
giudizio di Siro Contri sulla filosofia neoscolastica”. Ilia ed Alberto” di
Angelo Gatti.. Matematismo” in Rosmini? Rosmini-Serbati A.”, voce
dell’Enciclopedia Cattolica, vol. X, Città del Vaticano, Ente per l’E.C. e per
il libro cattolico. A distanza di un secolo, Una recente critica del “Nuovo
Saggio” da parte di G. Zamboni. A proposito di idealismo, La “realtà assoluta”.
A. Rosmini e Roma, Roma, Istituto di Studi Romani. Ai margini di un Congresso.
Affermazioni e tendenze. Amore e matrimonio. Angelina Lanz. Antonio
Rosmini e l’ora presente. Camillo Viglino. Cenni biografici di A. Rosmini nel I
volume dell’Edizione Nazionale. Che cos’è l’arte? Che cos’è l’Istituto della
Carità. Che cos’è la materia? L’indagine filosofica. Che cos’è la natura? Parla
il filosofo. Cino. Croce, Gentile e la filosofia dell’arte. D. Luigi Gentili
(rec. R. Bessero Belti). Del rosminianismo di Manzoni. Fantasma e idea nella
percezione ci sono. Fantasma e idea sono scoperti dalla riflessione nella
percezione. Foscolo. Gesuitismo. Giuseppe Morando. Gregorio XVI e Rosmini, in
Gregorio XVI, vol. I, a cura dei Camaldolesi di S. Gregorio al Celio, Roma. Il
“caso dell’Oregon” e il Tribunale politico di Rosmini. Il “gran rifiuto” di
Rosmini, La vera ragione del rifiuto, Il capitano Giuseppe Pagani. Il
fallimento della vita. Il IX Congresso nazionale di Filosofia. Il Papa e
d’Annunzio. Il principio unitario della filosofia rosminiana, in “Giornale di
Metafisica” Il valore della persona. Il valore delle cose terrene. Intorno a
Manzoni, La seconda moglie - Ancora sul rosminianismo di Manzoni - Manzoni e il
Giansenismo. L’atteggiamento religioso dell’ottocento. L’economia nel
sintetismo e nell’equilibrio di tutte le forze politiche e sociali. L’eredità
del liberalismo nella mentalità contemporanea. L’Ermengarda di Manzoni. L’etica
del Rosmini e il Prof. Zamboni. L’opera d’arte e le tre forme dell’essere.
L’ossessione del sesso. La “costante” nelle variazioni della filosofia. La
“ragione”, atto costitutivo dell’uomo. La “religione della libertà”. La
“vitalità” della logica di Rosmini. La concezione rosminiana dell’essere. La
marchesa di Canossa e A. Rosmini. La moda e il pudore. La nostra realtà e
l’altra vita. La pedagogia di A. Rosmini. La persona umana, Domodossola-Milano,
Sodalitas. La Vita di Antonio Rosmini, 1. La giovinezza. Nel silenzio. La
vocazione. In montibus sanctis. Laicismo. Le “difficoltà” dell’essere ideale,
Una tentata difesa. Le tre ascensioni spirituali di Rosmini. Leggende che
si perpetuano. Lo Stato e la religione. Lorenzo Michelangelo Billia. Natura e
soprannatura in rapporto alla realtà storica. Opinioni sul sistema di
gnoseologia e di morale di G. Zamboni, Astrazione, analisi, trasparenza, 1931,
I, 29-34. Papini nel suo “S. Agostino”. Per finire. Perché Rosmini non è
filosofo cattolico? Perorazione. Quando si parla di essere, Realtà e
trascendenza nel progresso del diritto. Replica a B. C. Replica al Bonafede,
Riassumendo le nostre discussioni gnoseologiche. Ricordando Giuseppe
Capograssi. Risposta al prof. Sciacca. Risposta alla lettera al Direttore.
Rosmini e Hegel. Rosmini e i Gesuiti in un recente articolo della Civiltà
Cattolica, La ricerca storica. Rosmini e i Gesuiti in una biografia di P.
Roothaan. Rosmini e i Rosminiani nell’Enciclopedia Treccani. Rosmini e Kant, Il
“superamento” di Rosmini. Rosmini e l’Università, Rosmini e Michaelstaedter, A
proposito di un libro di G. Chiavacci. Rosmini e S. Tommaso non possono andare
d’accordo? – Interesse scientifico e interesse pratico - Ortodossia e metodo.
Rosmini in un dizionario del Risorgimento italiano. Rosmini monofisita?
Rosmini nel diario di Margherita di Collegno, Rosmini nell’“Ultima critica” di
Ausonio Franchi.S. Francesco d’Assisi, 1926, IV, 315-317. Bozzetti G., San
Tommaso e il Rosmini, in “Coscienza”. Sempre sulla confusione fra idea
dell’essere e idea dell’ente, Per fatto personale. Sopra una cortese
discussione Zamboni-Chiarelli. Stato e Chiesa secondo C. A. Jemolo. Sul
Filottete di Sofocle. Sul problema del male, la volontà e il male. Sul
rosminianismo del Manzoni, L’innatismo nel dialogo
“Dell’invenzione”,Sull’astrazione dell’Idea dal Reale. Sull’infinità dello
spazio, il punto di vista è uno solo. Sull’ontologismo. Sulla moralità di
Machiavelli. Sulla natura della conoscenza, Risposta a G. Rossi. Tolstoi.
Umiltà del critico. Un libro significativo: Il Rosmini di B. Brunello. Un
recente giudizio sulle “Cinque Piaghe” in Germania. Rosmini: l’asceta, il
filosofo, l’uomo, l’amico, Roma, Studium.
Giuseppe Bozzetti. Keywords: matematismo, monofisismo, interpersonale,
implicatura interpersonale, il dialogo, fine razionale, la ragione come atto
costitutivo dell’uomo, persona, uomo. uomini. Morale, il problema del male,
ill-will, liberta, legge morale, kant, Rosmini non e cattolico. Refs.: Luigi
Speranza, “Bozzetti e Grice” – The Swimming-Pool Library.
Branciforte (San Vito dei
Normanni). Filosofo. Grice: “You’ve got to love Branciforte: my favourite is
his philosophy of what he calls ‘il messaggio,’ – I do use the term when I
speak of a transmitter, and an addressee, etc. – the fact that he was born
where Ikkos was born help, since one would need to recover Ikkos’s message!
Branciforte sees philosophy as a pilgrimage of love – ‘il peregrine dell’amore’
with his ‘canzionere’ and surely the song needs an addressee!”. trabia: Giuseppe
Giovanni Lanza del Vasto (n. San Vito dei Normanni), filosofo. Esponente della
nobile famiglia siciliana dei Lanza di Trabia. Il suo vero nome è infatti
Giuseppe Giovanni Luigi Enrico Lanza di Trabia-Branciforte. La sua personalità
eccezionale riunisce caratteristiche disparate: filosofo con una forte vena
mistica, ma anche patriarca fondatore di comunità rurali e attivista
nonviolento contro la guerra d'Algeria o gli armamenti nucleari.
Trabia nacque in un piccolo paese salentino, San Vito dei Normanni, nella
masseria "Specchia di Mare", da famiglia antica ed illustre: il
padre, Luigi Giuseppe, nato a Ginevra il 18 novembre 1857, dottore in
giurisprudenza e titolare di un'azienda agricola-vitivinicola era figlio
illegittimo del principe siciliano Giuseppe III Lanza di Trabia (1833-1868) e
la madre, belga, era la marchesa Anna Maria Enrichetta Nauts, nata ad Anversa
il I luglio 1874. Giuseppe Giovanni aveva due fratelli: Lorenzo Ercole, e
Angelo Carlo, cittadino americano nel 1939 (nel 1943 partecipò allo sbarco in
Sicilia). Lanza studiò al liceo Condorcet a Parigi, poi filosofia a Firenze e
Pisa, dove fu allievo di Armando Carlini. «La guerra di Abissinia già
iniziava ed il mio rifiuto a parteciparvi era la cosa più evidente. E poi
questa guerra non era che l’inizio: in seguito forse sarei stato ad uccidere
inglesi, tedeschi e un giorno avrei avuto dinanzi alla mia baionetta Rainer
Maria Rilke. No, la mia risposta era no. “Ma che cosa è che rende la guerra
inevitabile?”, mi domandavo. Benché giovane avevo capito la puerilità delle
risposte ordinarie, quelle che si rifanno alla nostra cattiveria, al nostro
odio e al pregiudizio. Sapevo che la guerra non aveva a che fare con tutto ciò.
“Certo, una dottrina esiste per opporsi alla guerra e la vedo nel Vangelo”,
dicevo, “ma com’è che i cristiani non la vedono? Manca quindi un metodo, un
metodo per difendersi senza offendere. Un modo nuovo, diverso, umano di
risolvere i conflitti umani”. Solo in Gandhi vedevo colui che avrebbe potuto
darmi una risposta ed il metodo.» (Pagni R., Ultimi dialoghi con Lanza
del Vasto, p.50-51) Così Lanza del Vasto ricorda la sua decisione di partire
per l'India, autofinanziandosi con la vendita a un'amica facoltosa del
manoscritto della sua prima opera, Giuda. Lanza non partiva alla ricerca di
spiritualità, tanto più che la conversione al cristianesimo gli impegnava
pienamente l'animo: «Ma mi ero, non senza pena, convertito alla mia
propria religione, e avevo il mio da fare per meditare le Scritture ed
applicarne i comandamenti. E se mi si chiedeva “siete cristiano?”, rispondevo:
“Sarebbe ben prezioso dire di sì. Tento di esserlo".» (L’Arca aveva
una vigna per vela, p.11). In India, Lanza conobbe il Mahatma Gandhi, con il
quale stette qualche mese, per poi recarsi in Himalaya. Durante il viaggio
«conobbi le inquietudini sociali dell'India ed il suo metodo di liberazione, la
non violenza, che era molto contraria al mio carattere (come del resto credo
sia contraria al carattere di tutti). Nessuno è non violento per natura: siamo
violenti e non proviamo vergogna a dirlo, anzi lo diciamo con un certo
orgoglio. Ma ciò che non diciamo è che la vigliaccheria e la violenza fanno la
forza delle nazioni e degli eserciti e la non violenza consiste nel superare
questi due grandi motivi della storia umana». In India trova «un'umanità simile
alla nostra quanto opposta: qualche cosa come un altro sesso.l ritorno in
Europa Lo scrittore e studioso in una delle sue comunità rurali (l'ultimo
a destra) Tornato dall'India dopo ulteriori peregrinazioni in Terra Santa,
Lanza comprende che la sua vocazione è di fondare una comunità rurale
nonviolenta, sul modello del gandhiano ashram, la comunità autarchica ed
egualitaria che per il Mahatma doveva essere la cellula della società. Gli ci
volle del tempo prima di riuscire a concretizzarla attraverso la fondazione
della comunità dell'Arca, che avvenne il 26 gennaio 1944. Tra le poche persone
a cui gli riesce di esporre il suo progetto c'è Simone Weil, che incontra a
Marsiglia. Nonostante il suo pacifismo, la Weil non nutriva molta fiducia nella
nonviolenza gandhiana. Lanza gliene parlò e lei sembrò comprendere meglio. Poi
parlarono della visione dell'Arca, che allora non si chiamava ancora così, ed
era la prima volta che Lanza ne parlava con qualcuno: «Lei capì subito! “È un
diamante bellissimo”, disse. “Sì,” risposi “è vero. Ha solo un minuscolo
difetto: che non esiste”. E lei: “Ma esisterà, esisterà, perché Dio lo
vuole"."Simone aveva ragione. L'ultima sede della comunità fu la
Borie Noble, con circa centocinquanta persone che vivono nel modo più frugale e
gioiosamente comunitario. Il nome venne quando si cominciò a parlare di
“lanzismo”: «Si cominciava a parlare di Lanzisti e Lanzismo, cosa che mi fece
rizzare il pelo. “Amici miei”, annunciai, “noi ci chiameremo l'Arca, quella di
Noè beninteso. E noi gli animali dell'Arca.». Negli anni successivi
numerosissime iniziative nonviolente videro protagonista Lanza e i suoi
compagni, che seppero attirare l'attenzione dell'opinione pubblica francese e
non solo. La prima azione pubblica nonviolenta è del 1957, contro le torture e
i massacri compiuti dai francesi in Algeria, e si svolge a Clichy in una casa
dove aveva vissuto San Vincenzo de Paoli. L'azione fu guardata con relativo
favore dalla stampa, e giunse la solidarietà di personalità come Mauriac o
l'Abbé Pierre. Poi vennero le lotte contro il nucleare, la prima delle quali
nel 1958: Lanza con i suoi compagni penetrano nel cancello di una centrale
elettronucleare e vengono poi trascinati via dai poliziotti. Poi ancora la
campagna contro i “campi di assegnazione per residenza”, sorta di campi di
concentramento per gli algerini “sospetti”, e quella in favore degli obiettori
di coscienza. Durante la Quaresima del 1963, tra due sessioni del Concilio
Vaticano II Lanza fece un digiuno di quaranta giorni compiuto nell'attesa di
una parola forte sulla pace da parte della Chiesa. Poco dopo il trentesimo
giorno, il Segretario di Stato consegnò a Chanterelle, la moglie di Lanza, il
testo dell'enciclica Pacem in Terris: «Dentro ci sono cose che non sono mai
state dette, pagine che potrebbero essere firmate da suo marito!». Opere:
Le pèlerinage aux sources, Denoël, Parigi, traduzione italiana: Pellegrinaggio
alle sorgenti, Jaca Book, Milano; Approches de la vie intérieure, Denoël,
Parigi; traduzione italiana: Introduzione alla vita interiore, Jaca Book,
Milano 1989; Technique de la non-violence, Denoël, Parigi 1965; traduzione
italiana: Che cos'è la non violenza, Jaca Book, Milano 1979; Il canzoniere del
peregrin d'amore, Jaca Book, Milano 1980; Vinôbâ, ou le nouveau pèlerinage,
Denoël, Parigi 1954; traduzione italiana: Vinoba, o il nuovo pellegrinaggio,
Jaca Book, Milano 1980; L'Arche avait pour voilure une vigne, Denoël, Parigi
1978; traduzione italiana: L'Arca aveva una vigna per vela, Jaca Book, Milano
1980; Pour éviter la fin du monde, Rocher, Parigi; traduzione italiana: Per
evitare la fine del mondo, Jaca Book, Milano 1991; Principes et préceptes du retour
à l'évidence, Denoël, Parigi 1945; traduzione italiana: Principi e precetti del
ritorno all'evidenza, Gribaudi, Torino 1988; Préface au Message Retrouvé de
Louis Cattiaux, Denoël, Parigi 1956; traduzione italiana: Il Messaggio
Ritrovato, Mediterranee, Roma 2002. Note
Pagni, cit.51 Lanza del Vasto,
Pellegrinaggio alle sorgenti82 Gabriella
Fiori, Lanza del Vasto e Simone Weil, Prospettiva Persona n°
86/,//prospettivapersona/editoriale/86/lanza_weil.pdf Pagni, cit., p.58-59 L'Arca aveva una vigna per vela48 ivi99
Jacques Madaule, Chi è Lanza del Vasto Arnaud de Mareuil, Lanza del
Vasto (Seghers, 1965) René Doumerc, Dialoghi con Lanza del Vasto (Albin Michel)
Claude-Henri Roquet, Les Facettes du cristal (Conversazioni con Lanza del
Vasto, Parigi 1981) Arnaud de Mareuil, Lanza del Vasto, sa vie, son oeuvre, son
message (Saint-Jean-de-Braye 1998) Anne Fougère, Claude-Henri Rocquet: Lanza
del Vasto. Pellegrino della nonviolenza, patriarca, poeta, (Paoline, Milano
2006) Antonino Drago, Paolo Trianni , La filosofia di Lanza del Vasto (Jaka
Book, Milano 2008) Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource
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Vasto L'Arche de Lanza del Vasto (sito
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Provincia di Brindisi su Lanza del Vasto. Lanza del Vasto & Ramon Llull
(es), su denip.webcindario.com. 2472923 I0000 0001 2275 7061 IT\ICCU\CFIV\001261 50047299 121291928
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italiani del XX secoloScrittori italiani Professore1901 1981 29 settembre 5
gennaio San Vito dei NormanniNonviolenzaLanza. vasto: essential Italian philosopherBranciforte: Giuseppe Giovanni
Luigi Enrico Lanza di Trabia-Branciforte -- Vasto: Essential Italian
philosopher. Grice: “Note that he is Lanza del Vasto, but if he wants to keep
the Vasto, under Vasto he goes! Even though Lanza is the aristocratic bit to
it!” Lanza del Vasto Giuseppe Giovanni
Lanza del Vasto Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto (San Vito dei Normanni, 29
settembre 1901Elche de la Sierra, 5 gennaio 1981) filosofo, poeta e scrittore
italiano. Esponente della nobile famiglia siciliana dei Lanza di Trabia. Il suo
vero nome è infatti Giuseppe Giovanni Luigi Enrico Lanza di Trabia-Branciforte.
La sua personalità eccezionale riunisce caratteristiche disparate: poeta,
scrittore, filosofo, pensatore religioso con una forte vena mistica, ma anche
patriarca fondatore di comunità rurali sul modello di quelle gandhiane e
attivista nonviolento contro la guerra d'Algeria o gli armamenti nucleari. Nacque in un piccolo paese salentino, San
Vito dei Normanni, nella masseria "Specchia di Mare", da famiglia
antica ed illustre: il padre, Luigi Giuseppe, nato a Ginevra il 18 novembre
1857, dottore in giurisprudenza e titolare di un'azienda agricola-vitivinicola
era figlio illegittimo del principe siciliano Giuseppe III Lanza di Trabia
(1833-1868) e la madre, belga, era la marchesa Anna Maria Enrichetta Nauts,
nata ad Anversa il I luglio 1874. Giuseppe Giovanni aveva due fratelli: Lorenzo
Ercole, nato nel 1903, morto a Rapallo nel 1958 e Angelo Carlo, nato nel 1904,
cittadino americano nel 1939 (nel 1943 partecipò allo sbarco in Sicilia). Lanza
studiò al liceo Condorcet a Parigi, poi filosofia a Firenze e Pisa, dove fu
allievo di Armando Carlini. «La guerra
di Abissinia già iniziava ed il mio rifiuto a parteciparvi era la cosa più
evidente. E poi questa guerra non era che l’inizio: in seguito forse sarei
stato ad uccidere inglesi, tedeschi e un giorno avrei avuto dinanzi alla mia
baionetta Rainer Maria Rilke. No, la mia risposta era no. “Ma che cosa è che
rende la guerra inevitabile?”, mi domandavo. Benché giovane avevo capito la
puerilità delle risposte ordinarie, quelle che si rifanno alla nostra cattiveria,
al nostro odio e al pregiudizio. Sapevo che la guerra non aveva a che fare con
tutto ciò. “Certo, una dottrina esiste per opporsi alla guerra e la vedo nel
Vangelo”, dicevo, “ma com’è che i cristiani non la vedono? Manca quindi un
metodo, un metodo per difendersi senza offendere. Un modo nuovo, diverso, umano
di risolvere i conflitti umani”. Solo in Gandhi vedevo colui che avrebbe potuto
darmi una risposta ed il metodo.» (Pagni
R., Ultimi dialoghi con Lanza del Vasto, p.50-51) Così Lanza del Vasto ricorda
la sua decisione di partire per l'India nell'autunno del 1936,
autofinanziandosi con la vendita a un'amica facoltosa del manoscritto della sua
prima opera, Giuda. Lanza non partiva alla ricerca di spiritualità, tanto più
che la conversione al cristianesimo gli impegnava pienamente l'animo: «Ma mi ero, non senza pena, convertito alla
mia propria religione, e avevo il mio da fare per meditare le Scritture ed
applicarne i comandamenti. E se mi si chiedeva “siete cristiano?”, rispondevo:
“Sarebbe ben prezioso dire di sì. Tento di esserlo".» (L’Arca aveva una vigna per vela, p.11)
L'incontro con Gandhi In India, Lanza conobbe il Mahatma Gandhi, con il quale
stette qualche mese, per poi recarsi in Himalaya. Durante il viaggio «conobbi
le inquietudini sociali dell'India ed il suo metodo di liberazione, la non
violenza, che era molto contraria al mio carattere (come del resto credo sia
contraria al carattere di tutti). Nessuno è non violento per natura: siamo
violenti e non proviamo vergogna a dirlo, anzi lo diciamo con un certo
orgoglio. Ma ciò che non diciamo è che la vigliaccheria e la violenza fanno la
forza delle nazioni e degli eserciti e la non violenza consiste nel superare
questi due grandi motivi della storia umana». In India trova «un'umanità simile
alla nostra quanto opposta: qualche cosa come un altro sesso». Il ritorno in Europa Lo scrittore e studioso in una delle sue
comunità rurali (l'ultimo a destra) Tornato dall'India dopo ulteriori
peregrinazioni in Terra Santa, Lanza comprende che la sua vocazione è di
fondare una comunità rurale nonviolenta, sul modello del gandhiano ashram, la
comunità autarchica ed egualitaria che per il Mahatma doveva essere la cellula
della società. Gli ci volle del tempo prima di riuscire a concretizzarla
attraverso la fondazione della comunità dell'Arca, che avvenne il 26 gennaio
1944. Tra le poche persone a cui gli riesce di esporre il suo progetto c'è
Simone Weil, che incontra a Marsiglia, nel 1941. Nonostante il suo pacifismo,
la Weil non nutriva molta fiducia nella nonviolenza gandhiana. Lanza gliene
parlò e lei sembrò comprendere meglio. Poi parlarono della visione dell'Arca,
che allora non si chiamava ancora così, ed era la prima volta che Lanza ne
parlava con qualcuno: «Lei capì subito! “È un diamante bellissimo”, disse.
“Sì,” risposi “è vero. Ha solo un minuscolo difetto: che non esiste”. E lei:
“Ma esisterà, esisterà, perché Dio lo vuole”». Simone aveva ragione. L'ultima
sede della comunità fu la Borie Noble, con circa centocinquanta persone che
vivono nel modo più frugale e gioiosamente comunitario. Il nome venne quando si
cominciò a parlare di “lanzismo”: «Si cominciava a parlare di Lanzisti e
Lanzismo, cosa che mi fece rizzare il pelo. “Amici miei”, annunciai, “noi ci
chiameremo l'Arca, quella di Noè beninteso. E noi gli animali dell'Arca.». Negli anni successivi numerosissime
iniziative nonviolente videro protagonista Lanza e i suoi compagni, che seppero
attirare l'attenzione dell'opinione pubblica francese e non solo. La prima
azione pubblica nonviolenta è del 1957, contro le torture e i massacri compiuti
dai francesi in Algeria, e si svolge a Clichy in una casa dove aveva vissuto
San Vincenzo de Paoli. L'azione fu guardata con relativo favore dalla stampa, e
giunse la solidarietà di personalità come Mauriac o l'Abbé Pierre. Poi vennero
le lotte contro il nucleare, la prima delle quali nel 1958: Lanza con i suoi
compagni penetrano nel cancello di una centrale elettronucleare e vengono poi
trascinati via dai poliziotti. Poi ancora la campagna contro i “campi di
assegnazione per residenza”, sorta di campi di concentramento per gli algerini
“sospetti”, e quella in favore degli obiettori di coscienza. Durante la
Quaresima del 1963, tra due sessioni del Concilio Vaticano II Lanza fece un
digiuno di quaranta giorni compiuto nell'attesa di una parola forte sulla pace
da parte della Chiesa. Poco dopo il trentesimo giorno, il Segretario di Stato
consegnò a Chanterelle, la moglie di Lanza, il testo dell'enciclica Pacem in
Terris: «Dentro ci sono cose che non sono mai state dette, pagine che
potrebbero essere firmate da suo marito!».
Opere Le pèlerinage aux sources, Denoël, Parigi 1943, traduzione
italiana: Pellegrinaggio alle sorgenti, Jaca Book, Milano 1991; Approches de la
vie intérieure, Denoël, Parigi 1962; traduzione italiana: Introduzione alla
vita interiore, Jaca Book, Milano 1989; Technique de la non-violence, Denoël,
Parigi 1965; traduzione italiana: Che cos'è la non violenza, Jaca Book, Milano
1979; Il canzoniere del peregrin d'amore, Jaca Book, Milano 1980; Vinôbâ, ou le
nouveau pèlerinage, Denoël, Parigi 1954; traduzione italiana: Vinoba, o il
nuovo pellegrinaggio, Jaca Book, Milano 1980; L'Arche avait pour voilure une
vigne, Denoël, Parigi 1978; traduzione italiana: L'Arca aveva una vigna per
vela, Jaca Book, Milano 1980; Pour éviter la fin du monde, Rocher, Parigi 1971;
traduzione italiana: Per evitare la fine del mondo, Jaca Book, Milano 1991;
Principes et préceptes du retour à l'évidence, Denoël, Parigi 1945; traduzione
italiana: Principi e precetti del ritorno all'evidenza, Gribaudi, Torino 1988;
Préface au Message Retrouvé de Louis Cattiaux, Denoël, Parigi 1956; traduzione
italiana: Il Messaggio Ritrovato, Mediterranee, Roma 2002. Note Pagni, cit.51
Lanza del Vasto, Pellegrinaggio alle sorgenti82 Gabriella Fiori, Lanza del Vasto e Simone
Weil, Prospettiva Persona n°
86/,//prospettivapersona/editoriale/86/lanza_weil.pdf Pagni, cit., p.58-59 L'Arca aveva una vigna per vela48 ivi99
Jacques Madaule, Chi è Lanza del Vasto Arnaud de Mareuil, Lanza del Vasto
(Seghers, 1965) René Doumerc, Dialoghi con Lanza del Vasto (Albin Michel)
Claude-Henri Roquet, Les Facettes du cristal (Conversazioni con Lanza del
Vasto, Parigi 1981) Arnaud de Mareuil, Lanza del Vasto, sa vie, son oeuvre, son
message (Saint-Jean-de-Braye 1998) Anne Fougère, Claude-Henri Rocquet: Lanza
del Vasto. Pellegrino della nonviolenza, patriarca, poeta, (Paoline, Milano
2006) Antonino Drago, Paolo Trianni , La filosofia di Lanza del Vasto (Jaka
Book, Milano 2008) Altri progetti
Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina in lingua francese
dedicata a Lanza del Vasto Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons
contiene immagini o altri file su Lanza del Vasto L'Arche de Lanza del Vasto (sito principale)
, su arche-nonviolence.eu. Comunità di St Antoine , su arche-de-st-antoine.com.
Comunità dell'Arca in Italia, su xoomer.virgilio. Provincia di Brindisi su
Lanza del Vasto. Lanza del Vasto & Ramon Llull (es), su denip.webcindario.com.
Biografie Biografie Letteratura Letteratura Filosofo del XX secoloPoeti
italiani del XX secoloScrittori italiani Professore1901 1981 29 settembre 5
gennaio San Vito dei NormanniNonviolenzaLanza. -- Giuseppe
Giovanni Luigi Enrico Lanza di Trabia-Branciforte. Keywords: Branciforte. Refs.:
Luigi Speranza, "Grice e del Vasto," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Brandalise (Pistoia). Filosofo. Grice: “I would
say that Brandalise is a Griceian – his tutees know it! He has philosophised on
keywords: communicazione, l’altro, indeed what he calls the Kantian
transcendental necessity of ‘l’altro,’ and the idea of a ‘collective’ desiderio
– or comunita – What is that if not my philosophy of communication?” Adone Brandalise
(Pistoia) è un critico letterario, letterato e accademico italiano. Si è
laureato nel 1972 con Vittore Branca con una tesi dal titolo L'opera e la
critica. Esperimenti critici su testi narrativi italiani, in cui vengono
sperimentati nuovi metodi critici su testi di Alessandro Manzoni e Carlo Emilio
Gadda. Professore di teoria della
letteratura presso l'Padova, la sua attività di ricerca si caratterizza per il
costante intreccio tra riflessione filosofica e psicoanalitica con
l'interpretazione del testo letterario. I luoghi seminali della sua ricerca
vanno individuati nello studio di Spinoza e Plotino, cui si dedica sin dalla
giovinezza, di Hegel e dell'idealismo tedesco, oltre che nell'approfondimento
risalente agli anni Settanta dell'opera di Jacques Lacan. Promotore di numerose iniziative
scientifiche, tra cui alcuni progetti di didattica e ricerca legati agli studi
interculturali, ha collaborato a riviste quali "Lettere italiane",
"Studi novecenteschi", "Immagine riflessa", "Il
centauro" , "Filosofia politica" o "Trickster". Tra i temi che segnano la sua ricerca vanno
senz'altro segnalati alcuni molto ricorrenti: il problema della singolarità, il
rapporto tra mistica ed evento soggettivo, quello tra pensiero filosofico e
azione politica, quello tra poesia e pensiero. Attentissimo cultore della
musica operistica e del cinema, tra gli autori che maggiormente animano la
scena della sua riflessione, affidata soprattutto all'oralità, sono Platone,
Leopardi, Melville, Nietzsche, Shakespeare, Luis de León, Max Ophüls e Orson
Welles. Operaismo Brandalise opera sin
dal 1973 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Padova, dove anima e
partecipa a partire dagli anni settanta alla costituzione di numerosi seminari
e momenti di studio, anche in relazione con i dibattiti dell'operaismo. Oltre all'attività
sindacale, in comunicazione con Guido Bianchini (Padova, 19261998), segna
questa fase di sua riflessione politica il lavoro svolto "off air"
nella direzione romana di "Il Centauro. Rivista di Filosofia e teoria
politica" (1981-86), nel cui comitato direttivo operavano anche Nicola
Auciello, Adriana Cavarero, Remo Bodei, Massimo Cacciari, Umberto Curi,
Giuseppe Duso, Roberto Esposito, Giacomo Marramao, Giangiorgio Pasqualotto,
Biagio De Giovanni (direttore) e Roberto Racinaro. Il Centauro, rivista pubblicata dall'editore
Guida, nasce in una fase storica segnata dal caso Moro, dal compromesso
storico, dal teorema Calogero. L'idea dei redattori era di avviare un
laboratorio politico in cui potessero intervenire intellettuali legati al PCI,
anche se in modi spesso prossimi al dissenso. Tuttavia non compare nelle
rievocazioni più recenti degli anni dell'operaismo il nome di Brandalise, certo
per la relativa assenza di suoi interventi scritti, ma anche per il coagularsi
del suo percorso politico negli anni Novanta intorno alla "nozione
sintomatica" di politica invisibile e poi, nel decennio successivo, di
decostituzionalizzazione. Opere
Oltranze. Simboli e concetti in letteratura, Padova, 2002 Categorie e figure.
Metafore e scrittura nel pensiero politico, Padova, 2003. con E. Macola,
Psicoanálisis y arte de ingenio: de Cervantes a María Zambrano, Malaga, Miguel
Gomez, 2004 con E. Macola eSanchez Otin, Bestiario lacaniano, Milano, Bruno
Mondadori, 2007. L'immagine del territorio e i processi migratori, in M.
BERTONCIN, A. PASE , Territorialità, Milano, Franco Angeli, 2007. In weiter
Ferne so nah. In margine al sermone Beati Pauperes, in (G. Panno) Il silenzio
degli angeli. Il ritrarsi di Dio nella mistica medievale e nelle riscritture
moderne, Padova, Unipress, 2008,
157–163. Oltre la comparazione. Modi e posizioni del pensiero dopo
l'intercultura, in (G. Pasqualotto), Per una filosofia interculturale, 59–69, Milano, Mimesis, 2008. Introduzione
(con A. Barbieri), in (A. BarbieriMura, G. Panno), Le vie del racconto. Temi
antropologici, nuclei mitici e rielaborazione letteraria nella narrazione
medievale germanica e romanza, Padova, Unipress, 2008, I-XXVIII. Il multilinguismo nella mediazione
(con A. Celli, K. Rhazzali, E. Sartori), in (G. Mantovani) Intercultura e
mediazione, Roma, Carocci, 2008. Postfazione, in C. Tenuta, Dal mio esilio non
sarei mai tornato, io. Profili ebraici tra cultura e letteratura nell'Italia
del Novecento, Roma, Aracne, 2009,
167–170 978-88-548-2376-1. con N.
Fazioni , Cosa cambia con Lacan? Saperi, pratiche, poteri, in International
Journal of Žižek Studies, Vol 6, n. 4, ,
1751-8229 (WC ACNP). Dentro il confine, Milano, Mimesis, . 978-88-575-5688-8 Metodi della singolarità,
Milano, Mimesis, . 978-88-575-5735-9 La
necessità dell'Altro: scritti in onore di Adone Brandalise, Milano, Mimesis,
. 978-88-575-6349-7 Dario Gentili , La crisi del politico.
Antologia di "Il Centauro", Guida (2007) Altri progetti Collabora a
Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Adone
Brandalise adonebrandalise: Sito
dedicato all'opera e al pensiero di Adone Brandalise Podcast degli interventi del Rpf Adone Brandalise Biografie Letteratura Letteratura Università Università Categorie: Critici letterari
italiani del XX secoloCritici letterari italiani del XXI secoloLetterati
italianiAccademici italiani del XX secoloAccademici italiani Professore1949 16
giugno Pistoia. Adone Brandalise. Keywords: bestiario griceiano, bestiarium
griceianum. "To change the image somewhat, what bothers me about what I am
being offered is not that it is bare, but that it has been systematically and
relentlessly undressed. I am also adversely influenced by a different kind of
unattractive feature which some, or perhaps even all of these bêtes noires seem
to possess."
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Brandlise” –
The Swimming-Pool Library.
Breccia (Trento). Filosofo. Grice: “I like
Breccia; he is, like Vitruvio, obsessed with the male human body – but also
about the ‘metafisica del dialogo,’ so we can call him a Griceian!” -- Breccia nel suo studio a Roma. Pier Augusto Breccia (Trento ), filosofo. La
pittura di Breccia esplora l’essere umano con un approccio ermeneutico (nel
senso della filosofia ermeneutica moderna di Jaspers, Heidegger, Gadamer) e si
apre su un vasto orizzonte di temi filosofici. L’opera di Breccia include oli
su tela, matite e pasteli su carta, 7 libri e numerosi saggi critici. Breccia
ha esposto in personali in Europa e USA. La famiglia paterna è originaria
di Porano, un piccolo paese dell’Umbria, dove sua madre, Elsa Faini (di
Trento), si era trasferita nel dopoguerra. I genitori di Pier Augusto
lavoravano entrambi nel settore ospedaliero: infermiera la madre e chirurgo il
padre Angelo. Quando Pier Augusto ha cinque anni, la famiglia si trasferisce a
Roma, dove Breccia trascorrerà la maggior parte della sua vita. Il giovane Pier
Augusto si iscrive al “Liceo classico statale Giulio Cesare” di Roma, dove
matura un profondo interesse per gli studi umanistici che lo accompagnerà per
il resto della vita. A 14 anni, scopre la Divina Commedia che studia di sua
iniziativa affascinato dalle allegorie dantesche. Subito dopo, attratto dalla
filosofia e dalla mitologia greca, traduce per l’editore Signorelli
l’“Antigone” di Sofocle e il “Prometeo legato” di Eschilo. Ancora nella fase
adolescenziale traduce i “Dialoghi” di Platone. Completati gli studi
liceali, nel 1961 si iscrive alla facoltà di medicina dell’Università Cattolica
del Sacro Cuore e nel luglio del 1967 riceve, con il massimo dei voti, la
laurea in medicina. Professione medica Dopo la laurea consegue una
specializzandosi in urologia, in chirurgia generale e successivamente in
chirurgia cardiovascolare mentre comincia a far pratica al Policlinico Agostino
Gemelli di Roma. Nel 1969, sposa Maria Antonietta Vinciguerra, nel ’70 nasce il
primo figlio, Claudio e nel '71 la figlia Adriana. Nei primi anni 1970, si
trasferisce a Stoccolma, dove lavora al centro di chirurgia toracica e
cardiovascolarere dell'Istituto Karolinska sotto la supervisione di Viking
Björk (inventore della valvola cardiaca Bjork–Shiley). Tornato all’università
Cattolica di Roma e al connesso ospedale Gemelli, nel 1979 diviene professore
associato. Nel corso degli anni 1970, pratica più di mille interventi a cuore
aperto e pubblica circa cinquanta articoli in riviste mediche. Il punto
di svolta: dal bisturi alla matita È l’estate del 1977 quando Breccia scopre un
inaspettato talento per il disegno, che nei due anni successivi diverrà il suo
hobby. Soltanto nel 1979, dopo la morte di suo padre e a seguito di una
profonda crisi esistenziale, il talento disegnativo trova la sua espressione
creativa. La produzione artistica dei primi due anni e il pensiero filosofico
da questa ispirato confluiscno nel libro "Oltreomega".
Nell’agosto del 1983, durante un periodo di produzione artistica e di mostre in
Italia e all’estero (‘'Monologo corale’', ‘'Le forme concrete dell
in-esistente’', ‘'La semantica del silenzio’') prende un'aspettativa dalla
professione medica. Nel biennio seguente, lo stile artistico, da lui definito
"ideomorfico", si delinea con maggior chiarezza, così come il
pensiero filosofico, che nell’84 presenta nel libro “L’Eterno Mortale”. Nel
1985 dà le dimissioni dalla professione di chirurgo e nello stesso anno porta
le sue opere a New York, presentandole in due mostre consecutive, alla Gucci
Gallery e all’Arras Gallery. La strada dell’arte, si delinea rapidamente e,
appena date le dimissioni, si trasferisce a New York dove trascorre la maggior
parte del tempo tra il 1985 e il 1996. Durante questo periodo, espone in
diverse città degli Stati Uniti (New York, Columbus, Santa Fe, Miami e
Houston). Sin dall’inizio è estremamente prolifico e l'opera dei primi
dieci anni viene raccolta nel libro “Animus-Anima”, che comprende 500 immagini
di sue opere. Nel 1996, torna stabilmente a Roma ed espone in diverse città
italiane ed europee. Nel ‘96, pubblica "L’altro Libro", contenente
opera del periodo 1991-1999 e nel 1999, scrive “Il linguaggio sospeso dell’auto-coscienza”.
Nel 2002 Breccia presenta novanta opera in un’imponente personale al museo
Vittoriano e nel 2004 pubblica “Introduzione alla pittura ermeneutica”, il suo
manifesto artistico, al quale collabora il filosofo Elio Matassi. Negli anni
seguenti, malgrado le condizioni di salute, è impegnato in numerose mostre in
musei italiani ed europei. Il 17 Novembre , due settimane dopo la
chiusura della sua mostra di Trento, ha un infarto nel suo studio di Roma,
viene portato al Policlinico Gemelli, e lunedì 20 novembre muore all’età di settantaquattro anni.
Ragione e immaginazione: “lo spazio pensante” Lo spazio è l’elemento più
distintivo delle opere di Breccia, che egli stesso definisce “denominatore
comune della pittura ermeneutica[...] principio stesso delle nostre facoltà
intellettive”. Tuttavia, se nello spazio paradossale di Breccia la
ragione si sospende e precipita di continuo, il senso di armonia ed equilibrio,
che caratterizza tutta la sua opera permette all’immaginazione di entrare nello
spazio senza alcun tormento. Forme, colori e luce: dis-oggettivazione
Un'altra caratteristica delle tele di Breccia è la presenza di “oggetti”, in un
equilibrio generato tuttavia da forme e colori piuttosto che da una oggettiva
metrica di spazio. Allo stesso tempo, tali “oggetti”, ridotti a forme/colori
essenziali o addirittura trasformati in spazio stesso o “altro da sé”, sono
privi di una vera oggettività e di conseguenza sono aperti ad essere letti come
linguaggi, segni o, più propriamente nel senso della filosofia ermeneutica di
Karl Jaspers, come “cifre”, cioè “segni” non ancora interpretati. L’uso
della luce e del chiaroscuro è parallelo a quello dello spazio e della
prospettiva nella molteplicità di paradossi. L’assenza di una fonte di
luce all’interno dello spazio pittorico contribuisce a rimuovere contenuti
emozionali. In ultimo, il rapporto luce-spazio-forma crea l'ennesimo
paradosso di Breccia. Se la luce è spesso associata a ciò che è comprensibile
razionalmente (e.g. “luce della ragione”), nelle opere di Breccia tutto appare
al contempo luminoso e misterioso. Pittura ermeneutica Breccia ha usato
il termine “pittura ermeneutica” per descrivere la sua posizione come artista
nel suo Manifesto “Introduzione alla pittura ermeneutica” (2004). Il presupposto
di significabilità della cifra pittorica ermeneutica è la libertà da canoni,
convenzioni, dogmi di spazio e tempo, del qui e dell’ora, che permette una
verifica della significabilità dal di dentro. In tal senso, l’arte può essere
un’esperienza di conoscenza, in quanto “apertura” da “un lato sull’infinita
alterità dell’essere o di Dio, e dall’altro sulla personale coscienza dell’
‘Io’ .”(Introduzione alla pittura ermeneutica, 2004). Note Moschini
e Zitko , p.37. Zitko , p.11. Zitko , p.15. Comunicare, n. 82,
Università Cattolica del Sacro Cuore, . Unomattina, RAI, Gennaio
2000. Unomattina, Gennaio 2004.
Zitko 12. Moschini e Zitko ,
p.38. Steiner 1997. Steiner 1991.
Moschini e Zitko , p.39. Moschini
e Zitko , p.40. P.A. BRECCIA,
Introduzione alla Pittura Ermeneutica, 2004, p.45-46 Vivaldi 1988.
Moschini Zitko, 40. Steiner
1988. Moschini e Zitko , 38-43. Moschini e Zitko , 40-42. Moschini, M. e Zitko(), "The educational
path of Ideomorphism. From theory of knowledge to philosophy", Journal of Philosophy
and Culture supplement, XVI-1, laNOTTOLAdiMINERVA Zitko(), "Il linguaggio
della pittura ermeneutica e la Chiffer di Karl Jaspers", Dipartimento di
Letteratura e Filosofia, Universita' di Pisa Steiner, R. (1988) "Profile:
Pier Augusto Breccia", ART TIMES Steiner, R. (1991) "Critique: Pier
Augusto Breccia at Arras Gallery, NYC", ART TIMES Steiner, R. (1997)
"Pier Augusto Breccia: Another Look, NYC", ART TIMES Matassi, E.
(2008) "Sur la peinture Hernéutique: Pier Augusto Breccia, “le messager
d’alterité”.In: Du Nihilism à l’hermenéutique Altri progetti Collabora a
Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Pier
Augusto Breccia Sito ufficiale, su
pieraugustobreccia.com. libri gratis su
itunes The educational path of Ideomorphism La pittura ermeneutica, su
didatticaermeneutica. 1º maggio 26
dicembre ). Pier Augusto Breccia: biografia, su direnzo. Biografie Biografie:
di biografie Categorie: Pittori
italiani del XX secoloFilosofi italiani del XX secoloSaggisti italiani Professore1943 12 aprile 20 novembre Trento Roma. Pier
Augusto Breccia. Keywords: noi, ovvero, la metafisica della conversazione,
implicatura ermeneutica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Breccia” – The
Swimming-Pool Library.
Brescia
(Trani). Filosofo. Si laurea con lode presso la Facoltà di Lettere e Filosofia
dell'Università degli Studi di Perugia. Inizia la sua docenza come professore
di Storia dell'Arte presso il Liceo Classico Carlo Troya di Andria. Consegue la
cattedra di Latino presso il Liceo Classico Oriani di Corato. Consegue la
cattedra di Lettere e Storia presso l'Istituto Magistrale di Terlizzi. Insegna Latino nel Liceo Nuzzi di Andria. Oottiene il
suo primo incarico da preside a seguito del concorso superato. La prima
presidenza è dunque a Trani presso il Liceo Scientifico Valdemaro Vecchi,
intitolato al Vecchi dietro sua proposta. Presiede il Liceo Monticelli di
Brindisi. Presiede il Liceo Nuzzi di Andria. Presiede il Liceo Classico Carlo
Troya di Andria, esteso anche a Liceo Linguistico e Liceo delle Scienze Sociali
durante la sua direzione in seguito alla partecipazione alla Commissione
Brocca. Membro della Società di Storia Patria per la Puglia. Consegue il
Premio della Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Viene
insignito della Medaglia d'Oro del Ministero della Pubblica Istruzione per i
benemeriti della cultura, dell'arte e della ricerca scientifica. Ottiene
l'onorificenza di Cavaliere della Repubblica Italiana. Ottiene il Premio
Pannunzio per la saggistica conferito dal Centro Pannunzio di Torino.
Dopo una lunga e serena vita di studi muore improvvisamente ad Andria. Appresa
la notizia anche il sindaco di Andria Bruno ha espresso il cordoglio personale
e della città alla famiglia. Citando Loris Maria Marchetti su Pannunzio
Magazine: Ispirandosi alla lezione, originalmente aggiornata, di Croce e
di Popper (ai quali ha dedicato importanti studi), elabora un sistema
filosofico in quattro parti (Antropologia, Epistemologia, Cosmologia, Teoria
della Tetrade) dove trovano un punto di incontro storicismo, epistemologia ed
ermeneutica. La sua filosofia investe anche il pensiero politico e
l’àmbito dell’estetica, donde il suo fittissimo esercizio di saggista di
letteratura e arti figurative, interpretate sostanzialmente nel loro risvolto
filosofico-cognitivo. Altre opere: “Il tempo e la libertà”; “Pascal e
l’ermeneutica”; “Croce e il mondo”; “L’oro di Croce, Joyce dopo Joyce, Ipotesi
su Pico, Massa non massa, Radici di libertà, Il vivente originario, Tempo e
idea, I conti con il male, Radici dell’Occidente, Forme della vita e modi della
complessità; saggi su Bassani, Calvino ,
ecc. Fedele collaboratore delle iniziative del Centro “Pannunzio”, negli
Annali comparvero suoi saggi su C. L. Ragghianti e su Cervantes in rapporto
all’Ariosto e alla tradizione italiana. Nel pannunziano Magazine pubblica, tra
gli altri, saggi su Torquato Accetto, Max Ascoli, Croce, L. de Bosis, F. De
Sanctis, Freud, Aldous Huxley, Jung, Leonardo da Vinci, Vittorio Mathieu, Moravia,
Pasolini, Solgenitsyn,Vico. Alfredo Parente - L'“opera bella” come impegno
morale, “Rivista di studi crociani”, Giovanni Spadolini - Mazziniani asceti,
“La Stampa”, Francesco Compagna - Editoriale, “Nord e Sud”, Raffaello Franchini
- L'idea di progresso. Teoria e storia, Giannini, Raffaello Franchini, Trittico
crociano, “Il Tempo”, A. Rosario Assunto, Filosofia del giardino e filosofia
nel giardino. Saggi di teoria e storia dell'estetica, Bulzoni, Roma, Rosario Assunto
- recensione di Brescia, “Non fu sì forte il padre”. Letture e interpreti di Croce,
Salentina, Galatina, in “Rassegna di cultura e vita scolastica”, Vittorio Stella
- recensione di Brescia, “Non fu sì forte il padre”. Letture e interpreti di Croce,
Salentina, Galatina, in “Rivista di studi crociani”, Vittorio Stella - Il
giudizio dell'arte. La critica storico-estetica in Croce e nei crociani,
Quodlibet Studio, Macerata, Charles Boulay - Benedetto Croce jusqu' en 1911.
Trente ans de vie intellectuelle, Librairie Droz, Ginevra, Nicola Fiorelli - “La
Follia di New York”, Sviluppi filosofici nella più recente “scuola” crociana,
Schena, Fasano. Vincenzo Terenzio, Natura e spirito nel pensiero di Giuseppe Brescia,
Mario Adda, Bari, Pietro Addante - La “fucina del mondo”. Storicismo
Epistemologia Ermeneutica, Schena, Fasano, Franco Bosio -recensioni di I conti
con il male, Laterza, Bari, ICalvino e Andria, Andria; Tempo e Idee,
Libertates, Milano, Il vivente originario, Libertates, Milano, in “Rivista
Rosminiana”, Franco Bosio - recensione di Le “Guise della prudenza”. Vita e morte
delle nazioni da Vico a noi (Laterza, Bari), “Rivista Rosminiana”, Dario
Antiseri; Croce e l'Anticristo, “Avvenire”, Dario Antiseri, Popper protagonista
del secolo XX, “Biblioteca Austriaca”, Rubbettino, Dario Antiseri - Popper,
Rubbettino, Dario Antiseri, Le ragioni della
libertà, Rubbettino, Antonio Jannazzo - Il liberalismo italiano del Novecento.
Da Giolitti a Malagodi, “Fondazione Luigi Einaudi”, Rubbettino, Beniamino
Vizzini - Per una discussione intorno al problema della libertà. Cenni per un colloquio
di ermeneutica morale con Giuseppe Brescia, Postfazione a Tempo e
Idee.'Sapienza dei secoli' e reinterpretazioni, Libertates, Milano, Beniamino
Vizzini - Vita e dialettica nel pensiero di Giuseppe Brescia e Pavel Florenskj,
“Rivista Rosminiana”, Fulvio Janovitz - Gli studi su Croce, “Nuova Antologia”, Fulvio
Janovitz - Quando Croce dialogava con Dio. Religiosità e cristianesimo di Croce
prima e dopo la lettura dell'epistolario con Maria Curtopassi, “Nuova Antologia”,
Fulvio Janovitz, Il mio Croce. Scritti, Quaderni della “Nuova Antologia”, Firenze, Paolo
Bonetti - Introduzione a Croce, Laterza, Bari 1984. Paolo Bonetti - recensione
di I conti con il male. Ontologia e gnoseologia del male, Giuseppe Laterza, Bari,
in “Nuova Antologia”, Samuele Govoni - Brescia celebra il Bassani amante
dell'arte, “La Nuova Ferrara” - Cultura, Cosimo Ceccuti - La Religione della
Libertà, “Il Resto del Carlino”, Cultura e Società, Il caffè. Nico Aurora - De
Sanctis e l'attualità del 'Discorso di Trani'. La lezione di Brescia a 134 anni
di distanza, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, Stefano Vaccara - Presentazione di
Max Ascoli, il filosofo mondiale della libertà, “La Voce di New York”, Giuseppe
Poli - recensione di Le “Guise della prudenza”. Vita e morte delle nazioni da Vico
a noi, Laterza, Bari, in “Risorgimento e Mezzogiorno”, Domenico Cofano -
recensione di Brescia, Giovanni Bovio. La vita e l'opera, Società di Storia
Patria per la Puglia, Andria, etetedizioni, in “Nuova Antologia”, Giovanni
Bovio, maestro del pensiero, “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È scomparso improvvisamente
il preside Brescia "andriaviva.it", Quirinale.it Quirinale.it – Onorificenze, Loris Maria
Marchetti, Brescia, di Loris Maria Marchetti, su Pannunzio Magazine. Giuseppe
Brescia. Keywords: Croce, implicatura, Croce inedito. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Brescia” – The Swimming-Pool Library.
Bressani (Treviso).
Filosofo. Grice: “Strawson, being boring, likes Bressani’s arguments – alla
Plato and Aristotle, but mainly Aristotle – againsts what Galileo has the cheek
to call ‘filosofare’! – But I prefer Bressani’s poems, the buccoliche, and
especially his lovely treaise ‘discorso in torno alla lingua,’ his little
ethical treatise is charming especially if you are into what some (not I,
certainly) call ‘developmental conversational pragmatics’!” -- regorio Bressani
(Treviso), filosofo. Discorsi sopra le obbiezioni fatte dal Galileo alla
dottrina di Aristotile, Gregorio Bressani (Treviso) filosofo italiano. Biografia Si laureò all'Padova nel 1726
interessandosi a letteratura e filosofia. Fu aiutato da Francesco Algarotti,
cui aveva inviato delle proprie opere.
Sostenne uno scolasticismo classico in opposizione alla scienza moderna
di Galileo e Newton. Opere Gregorio
Bressani, Modo del filosofare introdotto dal Galilei, ragguagliato al saggio di
Platone e di Aristotile, In Padova, nella Stamperia del Seminario, 1753. 2
luglio .a Gregorio Bressani, Discorsi sopra le obbiezioni fatte dal Galileo
alla dottrina di Aristotile, In Padova, Angelo Comino, 1760. 2 luglio . Gregorio Bressani, in Dizionario biografico
degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Filosofia Filosofo Professore1703
1771 3 febbraio 12 gennaio Treviso. DISCORSO INTORNO ALLA LINGUA
ITALIANA . Del Sig. Dottore GREGORIO BRESSANI TRI VIGI AN Oec. R E CI TATO
NELLA SAL A VERDE DI PADO V A IN UN ACCADEMICO ESERCIZIO L' ANNO MDCCXL. X
3 487 i Ompariſce per la prima volta a luſtrare la noſtra Miſcellanea il
Signar Dottore Gregorio Brefsani, fogo getto di chiaro nome , e di ornamento e
fplendere alla fra Patria , col preſente Ragionamento ſopra la Lingua Italiana
; recitato da lui ultimamentepiù a cagion di eſercizio, che per altro fine in
una Radunanza di Letterati nella Città di Padova : da i quali avendoſi per noi
ſa puto l'approvazione che ebbe , ſperiamo far coſa grata all'Autore , e
inſieme d'al. cun noftro merito , col pubblicarlo ; tan to più , che potrà egli
ſervir d'ajuto e di lume a quelli ( che molti fono ) 'i quali banno biſogno di
faggia ſcorta nello ſteam dio , che affettano dell Italiana favella . -- X 4 DI
488 DISCORSO INTORNO ALLA LINGUA ITALIANA DI GREGORIO BRESSANI TRIVIGIAN O
Dottor , e Accademico Ricovrato ; Da efo recitato in un'Accademia di eſer.
cizio nella Sala Verde di Padova , nel meſe di Maggio , 1740. A Chiemque
fa,Eruditi edotti Ac cademici , quanto malagevol ſia il rintracciare le cauſe
effettrici delle umane cognizioni , non parrà coſa ſtrana il ſentimento di
Platone , ch' el le fieno provenienti tutte dalla Remi nifcenza . Nè io credo ,
che attribuis re ſi poſsa ad altro , fuorchè alla re. miniſcenza il fentire , e
l' accorgerſi del Del Sig. Gregorio Breſſani. 489 9 e 3 dello fpirito , e del
vero pregio delle belle Arti . Imperocchè tale vi ha che nè per tutta
l'attenzion ſua , ne per opera degli altri non arriva giam mai ad intenderlo .
E laſciando di far parola di quegli , che niun dilet ro pigliano , o nella
Archittetura , o nella Muſica , che ſono moltiſſimi rivolgo la conſiderazion
mia a colo ro , che pur amano d'eſser tenuti di ottimo guſto nella noſtra
Lingua nulla fi accorgono , nè ſono per ven tura atti ad accorgerſi, in che ne
con fiſta principalmente la venuſtà e la grazia . Avvegnacchè adunque ciaſcu na
Lingua ſenta molto più dell'ideas le , che non ſente l'Architettura la Muſica ,
e fia a lato di quelle in termini incomparabilmente più ange fti riſtretta ;
non è per tanto che ella non abbia le ſue verità in riſpetto a que' pochi , a
cui è dato d'intendere non ſolamente il ſignificato delle vo ci ; ma la
relazione tra loro meglio convenevole . Ora come io , ſenza più , approvo
iVocabolarj, gli avver timenti di Gramatica e le Oſsers vazioni , che intorno a
queſta Lingua XS o § fo 490 Diſcorſo della Lingua Italiana fonofi facte dalla
diligenza d'Uomini valenci ; poco avrò che accennare de' fuoi materiali, ed il
mio ragionamen . to ſarà fpezialmente della forma quanto a me, la migliore ,
che rice ver ella debba dalla fantaſía , e dal giudizio degli Scrittori. Ogni
Archi tetto adopra i materiale medeſimi , ed oſserva gli ordini medeſimi della
Architettura ; e le loro opere ſono tra di sè varie nella proporzione , e nella
leggiadria . Ogni Compofitore di Muſica adopra le medefime note : 0. gni
Scrittore di qualſifia Lingua ado pra le medeſime parole , e ſegue le regole ,
che riſpettivamente ſonogli preſcritte dalla ſua arte . Tuttavia i bei
riſultati, che di eſse procedono , fono , ed eſser debbono tra di sè di. verſi.
Ma quanto agevol penſo che mi farebbe il ridire le regole máte riali , che vi
ha , per favellar bene ; tanto io temo di non faper altro che ofcuramente
ragionare della varietà , e perfezione di detti riſultati ; ficco me quelli ,
che appartengono anzi al giudicio de' noftri fenfi , che della no ftra ragione
. Pur nondimeno per le í PO Del Sig. Gregorio Breſami. 491 poche coſe in genere
, che io ſono per accennare , ſpero che il mio ra gionamento fia di qualche
utilità a coloro che non fono eſtremamente otcufi nel capire la vaghezza della
noftra favella ; ed a Voi , Signori Accademici forſe non diſcaro ad udire . ! A
noſtra Lingua , ſecondo l'opi nion mia , da altri chiamaſi Ita liana perchè di
tutta Italia' fi fon preſi i vocaboli , donde è compoſta : da alcuni chiamaGi Volgare
, forſe per chè uſata , ed inteſa volgarmente :E da cercuni chiamaſi Toſcana, o
perchè il più de' vocaboli fi fon preſi appun to di Toſcana , o perchè agli
Toſca ni, come a Padri di detta lingua , e come a Tutori d'orecchio , e di giu,
dicio finiffimo , meritamente è conce. duto il diritto di giudicar della puri
tà , e della barbarie di ciaſcun voca bolo . E nel vero ad evitare la con
fufione , che ne addiverrebbe , ſe cia. ſcuno a ſuo talento uſaſse di nuove
voci ; egli è del pari laudevole che neceſsario , che v'abbia il ſuo Tribu. X 6
nale 9 492 Diſcorſo della Lingua Itatiana nale inappellabile , che altri
vocaboli diſapprova come anticaglie , altri non ammette come barbari , ed altri
ritie. ne , o adotta come neceſsarj , o leg giadri. Il che dà a divedere , che
la noſtra Lingua è un corpo vivo ſog. getto ad alterazione, in quella guila che
ſono gli altri tutti , o naturali o politici . E perchè qualſivoglia cor ро
dalla ſteſsa ſua naturale alterazio ne è minacciato di rovina ; faggiamen te
fanno i Signori Accademici della Cruſca , che non adottano per Mae ftro di
Lingua ogni triſtanzuol di Gra matico , che non tiene veruno ſtile e che in
luogo di vocaboli ufitati , e di proprj , ne adopra ſpeſso di affet tati, e di
rancidi , di groſsolani , o di ſtranieri. Benst a gran ragione a dottarono , e
quando che ſia , ſon cere to che adotteranno i vocaboli di que? grand’ Uomini ,
che per la loro viva , ed ordinata fantafia , o inventarono , o crebbero alcune
belle arti , o alcu« ne- ſcienze ; e fu di neceſſità il trovar nuove voci ad
eſprimere i loro nuovi concetti . Per altro qual biſogno , o qual capriccio
egli è mai di ufar vo ca Del Sig.Gregorio Brejani. 493. mano un diſcorſo (Nè io
giày caboli zotici , e duri d'altre provin cie d'Italia , o di accattarne degli
ſtra nieri ; quando ne abbiamo in tanta copia di cosi proprj, e di così gentili
? Ma come egli ſta nel volere di Chiun que l'apparare i materiali della noſtra
Lingua ; non così puote ciaſcuno , o ſa farne quell'accozzamento , onde ri
fulti un diſcorſo naturale , ed inſie me leggiadro : Nelle ricerche più aftrufe
di qualche verità di Filica non v'ha paragone tra 'l faper indo vinare quale
non fia la cauſa d'un Fea nomeno e l'indovinare quale ella fia . All'iſteſso
modo confiderando io ciò , che ſi voglia per iſcriver bene ed elegantemente ,
ben potrei io an noverare millantà difetti, che disfora lafcero indietro di
moſtrare alimeno le fonti principali , donde derivano ): ma non così di
leggieri potrei additare qual fia la grazia , e l'armonia , che lo ren de vago
, e lodevole . Pare io conſi dero , che benehe :la noſtra Lingua ; come io
difli innanzi , quaſi altro non fia , che un Mondo ideale ; non oſtan te i
caratteri del fuo bello , poſsono ef 494 Diſcorſo della Lingua Italian eſsere
in qualche parte paragonabili con quegli , che riſpettivamente fi rav . vifano
nel noſtro Mondo materiale . E certamente in quella guiſa , che a ciaſcuna
parte del noſtro Cielo riſpon. de la produzione di coſe differentiffie me ;
forſe per ragioni ſomiglianti-, à ciaſcun paeſe riſponde un linguaggio tutto
proprio , e differente dagli altri. E non fa forza , che nella noſtra me.
defima Italia chiamaſseſi un tempo panis ciò , che noi al preſente chia miamo
pane ; poichè non è ſolamente la varia deſinenza di ſuono , che die ftingua
l'una Lingua dall'altra ; ben il modo , con che ſeguendo non ſo quale neceſſità
, fi.concepiſcono le coſe, e fi eſprimono. Onde non è maravi glia , che non
ogni Clima produca in gegni atti ad ogni genere di compo, nimenti . In fatti
ſiccome non è il metro , che diſtingua la poeſia dalla prola ; ma il modo
diconcepire diver. ſo ; cosi io porto opinione , che alme no in gran parte
l'indole , e'l genio della lingua Latina tuttavia fuffifta nel la noſtra
Volgaré. La qual coſa ſem . bra , che abbiale voluto confermare il dis Del Sig.
Gregorio Breſani. 495 divino Dante , laddove , fingendo egli di parlare con
Virgilio , diſse: Tu fe il mio Maeſtro , e il mio Au tore , Tuſe folo Colui ,
da cui io tol. Lo bello Stile che mi ha fatto De nore . Vero è che l' Armonia
dello Stile , la qual naſce ſpezialmente dallo traſpo nimento delle voci , e
chiamaſi coſtru zione , a chi paragona lo ſcriver ret torico di Cicerone , o 'l
robufto di Li vio col noſtro parlar familiare non può a meno di non parere di
gran tratto diverfa : ma ella non parrà già tanto , paragonando un componimen.
to de' Latini con un noftro ſopra un fimile ſoggetto , e d'una ſpezie mede fima
. In fine molto meno ne parreb be diverſa , ove à noi foffe dato di faa per
pronunziare le parole de Latini come facevan elli , cioè con quegli ac. centi ,
è con quelle delipenze, che per comune opinione noi abbiamo -fiera mente
alterati , o perduti . Ma nos cost 496 Diſcorſo della Lingua Italiana così
interviene , ove noi la predetta armonia paragoniamo con quella di qualche
Lingua ſtraniera ; o ci diamo a credere di poter rimeſcolarne i vo caboli , e
forme di dire ; che effendo d'un genio differentiffimo ; ficcome non ſi
appiccano giammai gli inneſti di quelle piante , che ſono tra di sè diverſe;
così ciaſcuna Lingua mal com pofta tutto ciò , che fenie d'un Clima diverſo .
Io dico adunque , che la no ftra Lingua in ciaſcuna ſua parte dee ſentire , per
dir così, della ſua ſpezie, e della ſua Nazione. Il che riſponde a quel
carattere di bellezza , che nel le coſe create e corporee chiamaſi u. nità ;
unità però tale , che da eſſa pro viene , ő piuttoſto in eſſa ſtà racchiu . ſo
un altro carattere , che è la varie ttà ; la quale come rendeſi manifeſta negli
animali , e nelle piante d'un'in fteila ſpezie , e d'un iſteffo Clima ; così
ella dee apparire nello ſtile di cia Icuno Scrittore d' un'iſteſſa Lingua. Il
qual mio ſentimento moſtra in ſem . bianti d'effer il medeſimo , che quello del
celebre Baccone di Verulamio lade dove tocca della bellezza dello ftile $ 1 dis
Del Sig. Gregorio Breſſani. 497 dicendo dover' egli eſſere , rivis didu um fuis
, imitans neminem , nemini imi tabile". Talchè dovendofi pur togliere
d'altrui i vocaboli , ed i modi di di re ; conviene anche in ciò imitar la
Natura , che non genera coſa , fe non colla corruzione d'un'altra : Voglio
ſignificare , che quanto noi togliamo d'altrui per formare un diſcorſo , dee
talmente tritarfi nel noſtro cervello innanzi ché noi lo veſtiamo di nuova
forma, che al fuo apparire niuno ha da accorgerſi donde noi l'abbiamo tol to .
Ed intorno a ciò comunemente non ſi dà nel ſegno ; perchè altri per travolco
giudicio indi ſcoſtaſi, quanto più ſi affatica di raggiugnerlo . Altri per
infingardaggine li ripoſa nel limi tare del buon ſentiero , ſenza voler cercare
più avanti : E finalmente altri è di ſentimento ottuſo e d'intellis genza aſſai
corta a capire la bellezza , e la fecondità , per dir costi , di quel vero ,
che egli imprende ad imitare , Se ne fcoſtano i primi , a' quali per ciocchè
troppo ftà a cuore di render fi ſingolari dagli altri e col penſare e coll'
eſprimerſi ; mentre ſtudiano di celu 3 498 Diſcorfo della Lingua Italiana
ceffare il vizio della trivialità , offen . dono nel vizio della affettazione ,
in comparabilmente più rincreſcevole . La qual'affettazione conſiſte in certe
parole ſquarciate , e lmanioſe , ed in certi accozzamenti di quelle , che vol
garmente ſi chiamano belle fraſi Iono forme di dire , che fanno notabi. le
diſugguaglianza col reſtante del di ſcorſo e pe' quali (che che fi creda no gli
ſciocchi) riſulta un Tutto of tremodo ftentato , e deforme. Elem pio di ciò noi
abbiamo in coloro , che avendo appreſo di molti vocaboli ale la rinfufa e varj
modi di favellare da parecchi Dicitori , e tutti pulitif fimi; per la vanità di
moſtrarlene do viziofi, in qualunque racconto ne in trudono quanti mai poſsono
il più , e mallimamente gli da loro ſtimati me no comuni ; tra quali ne
intrudono anche di quegli , che non ſolo male fi convengono colla ſemplicità
della Na. tura ; ma talora non ſi convengono colla Verità del loro ſteſso
ſentimen to : e meritamente ripiglia coſtoro il noftro Sovrano Poeta , dicendo
: E Del Sig. Gregorio Breffani . 499 7 1 E quale che a gradin' oltre fo metu te
? LC Non vede pide dall uno all'altre filo. e 3 Per tanto niun' altra venufta ,
niun' altra grazia ricever puote un diſcorſo dagli vocaboli o forme di dire ,
fe non quella , che deriva dal collocare ciaſcuno al luogo fuo ; talmente che
appaja eſser i vocaboli piuttoſto , che abbiano cercato d'elser uſati dove fo .
no ; che d'eſser eglino ſtati cercari ftu. diofamente dagli Scrittori . E
perchè tanto altri allontanafi dal vero coll' aggiungervi ciò , che non gli ſi
con viene ; quanto altri coll'ommettere di collocarvi ciò , che gli fi
conviene; ne ſeguita che un diſcorſo rieſce diffetiofo sì ad uſare in eſso
vocaboli di fover. chio , e fuori di propofito , che a ri petere alcuni
vocaboli, in vece d'ale tri varj , che fi vorrebbono , ad eſpri mere
propriamente i propri concerti dell'animo , ed a fervare in un ragio namento
quella varietà , che richiede fi a formarlo giuſta l'eſemplare ſoprac. cen .
500 Diſcorſo della Lingua Italiana cennato de' corpi Fiſici . Ma che ? Se gli
Uomini per una parte fon moſli da certo naturale deſiderio , o da qual ſivoglia
altro ſtimolo di giugnere nel la loro arte alla perfezione poſſibile i ſono
all'incontro ( laſciando ſtare gli altri impedimenti , che ſpeſso ſi attra
verſano al lor diſegno ) comunemente refpinti dalla fatica , che loro convien
durare , prima che ad eſli venga fatto di apprendere ad eſercitare qualſifia
arte con lode . Ne vi ha alcuna arte per limitata , o facile che ſia ſopra le
altre , che pigliandoſi a gabbo non rieſca imperfetta . Per la qual coſa ,
l'arte dello ſcriver bene si nella no ftra , che in ciafcuna altra Lingua ,
richiede anch'eſsa di molta fatica , ed induſtria . E vanno fortemente errati
la maggior parte de' noftri Scrittori che da che ſentonſi forniti di alquan ei
vocaboli , e modi, onde groſsamer te eſprimerſi ; ed effi eſtimano di la per
iſcrivere quanto baſta laudevol mente . E come fi ſcontrano in uno ſtile un
poco colto , che in un certo modo dovrebbe eſser di rimprovero al loro difetto
; dicono coſto che gli è uno 4 DelSig.Gregorio Breſani. 501 uno ſtile che ſente
dell'affettato ', © dell'antico , „ dandogli a torto biaſmo, e mala voce . E
così , diſprezzando efli animoſamente ciò che per loro poltroneria non hanno
appreſo . Ferman fua opinione Prima che arte , o ragion per lor ſi ſcopra . Che
ſe pur vero foſse , che uſar non non ſi poteſsero altri vocaboli , o mo di di
dire , ſe non gli uſati da coſto . ro ; il groſso Vocabolario della noſtra
Lingua ridurrebbefi ad un libriccivolo di quattro carce ;. e laddove la noſtra
Lingua ora vanta di eſsere la ricchilli ma di voci , e di maniere leggiadre
diverrebbe la più povera e ſmozzicata di tutte . Oltrechè in proceſso di tem po
gli ottimi Scrittori, c Padri di no Itra Lingua ne diverrebbono molto oſcuri, e
direi per poco in intelligi gibili ". Vuolli per tanto aver pieria
conoſcenza sì de' vocaboli , che delle forme di dire ; acciocchè il noſtro iti
le abbia la predetta varietà , e con ef ſo la ſua unità , per cui egli mantien.
fi 302 Diſcorſo della Lingua Italiana fi ſempre fomigliante a ſe ſteſſo , e per
cui ſembra quaſi uſcito di una fo la trafila . E le parole groſsolane ri
meſcolate colle gentili , e le parole adoperate fuor di luogo , o con fazie
vole repetizione , o le parole che non ſono più in uſo ; lono come altrettan te
ſcabroſità , che gli impediſcono l' uſcirne . Per notabile che ſia la varie .
tà , o differenza tra gli Uomini nelle parti, che fuori appajono del corpo ,
non è mai li grande , quanto ella è nel la capacità , ed aggiuftatezza del loro
ſpirito . Per la qual cola io avviſo di non poter paragonare gli umani inge gni
, che a coſe dello ſteſso genere bensi, ma di ſpezie diverſa . E fiami lecito
il paragonargli a varie piante, alcune delle quali reſtano picciole , perocchè
la ſtruttura primordiale de' loro ftami non comporta che fieno più oltre
ſviluppate , ed eſteſe ( e Gae lileo Galilci dimoſtra , che così gli Animali ,
come le piante , ſe foſsero d'altra grandezza , che non ſono vorrebbefi che la
ſimmetria delle lor parti foſse del cutto diverſa ) ed al cune altre non ſi
eſtendono , come eften Del Sig.Gregorio Breſſani. 503 eſtender ſi potrebbono per
difetto dell' opportuno alimento . Varia è la eſten , fione , e'l
comprendimento de' noſtri ingegni, e varia è la forte , che gli forniice di
ajuti , e di occaſioni fa . vorevoli , onde poſsano coltivarli . Egli è certo
perciò , che quale s'im barazza nel voler' ordire un ragiona mento , dirò così
, di più fila ſopra la comprenſione , o coltura del fuo in gegno , ovvero
contro all'inclinazion lua particolare ; il detto ragionamen to fiaccherà da se
medefimo , diffol. vendoli quaſi in brani ; ed anche i vocaboli ftelli, con che
vorrà eſpri merlo non avranno nè unità , nè grazia . Nè fi de'credere che
l'Archi tetto , il quale fia buono da fabbrica. re una camera , fia fempre
buono da faper fabbricare un palagio : Nè che un Compoſitore d'una breve, e fem
. plice ſuonata fia fempre buono da con porre una Sinfonia aſſai lunga con
tutte le parti, che in eſſa ſi vou gliono a formare un'armonia perfec ta : Ne
in fine che un Uomo di leto dere , al quale venga fatto di ſaper unire inſieme
una decina di verli > fia 504 Diſcorſo deila Lingua Italiana per sé , ſia
per queſto buono da fare un Inne go poema ; come ſe il palagio , la Sinfonia ,
ed il poema altro non foſ. ſero , che un aggregato di più unità minori : Che nè
la Camera , nè la breve Suonata , nè la decina di verfi conſiderate
riſpettivamente nel pala gio , nella Sinfonia, nel poema, non lono già unità ,
ma parti. E però non folo deono effer belle ma deono eſſerlo , anche per
riſpetto a tutte le altre parti, che ſono con efle integrali di tutta la
fabbrica . Io non niego di molte opericciuole ef ſere altrettante unità nel
loro gene re , come ſono le grandi; ma molto maggior forza, ed eſtenſione
dinge. gno richiedeſi nel comprendere un Poema ( purchè le colę .; che in eſſo
fon contenute ; nonoſtante che d'un racconto ſi trayalichi in altro ; fien
tutte come parti integrali d'una azion ſola ) nel comprender , difli , un poe
ma , che un Sonetto , una lunga Ora zione , che una picciola riſtoria , ed al
fro breve ragionamento : Ed il Boca caccio medesimo fempre' doviziofiffi. mo
che egli è di bei modi di dire , pure Del Sig .Gregorio Breſani. sos che egli
pure ſecondo la varia facilità, e feli cità , con cui egli concepiva le coſe;
vario è il diletto , che egli ne reca ad eſprimerle. Nel breve racconto di
qualche Novella non ha pari a dipi gnerla con vivi colori , e con genti li, con
mirabile naturalezza ė lega giadria ; mentre e pare a me, lia anzi increlcevole
che nò nel lun . go racconto del ſuo Filocopo , e della lua Fiammetta , ed
altrove . In ſom . ma colui , che imprende a far coſa ſopra la forza , e
diſpoſizion nacura le del ſuo ſpirito , non potrà giam mai ben riuſcirne .
Certa coſa è che un'attenzione indefeffa a leggere , e conſiderare parte per
parte i gran Maeſtri della noſtra Lingua ; ed un ben lungo uſo di ſcrivere ,
raffinano aſſai il noſtro giudicio , e perfeziona no il noſtro ſenſo , ma egli
è certo ancora , che il viburno con tutto l' artificio , e la ſollecitudine
degli Agri coltori, non giugnerà mai all' altezza de i Cipreſli , nè il pioppo
farà mai fructo : cioè quale non avrà chiara ap prenſiva , ed eſteſa a veder
per sè ſteſ lo ciò , che ſia d'uopo a formarequel Miſcell.Tom .III, Y la 506
Diſcorſo della Lingue Italiana la maniera di componimento , ch'ei fi prefigge
nell'animo , dalle coſe più materiali in fuori; nè dalla copia ottimi libri ,
nè dalla viva voce de'pe ritiMaeſtri , non potrà mai che poco, ed oſcuramente
appararlo . E per que fto appunto che gli Autori cladici del. la noſtra lingua
non tenean biſogno di badare neli eſprimerſi ad altro , che a' proprj
fentimenti dell'animo , a chi guarda ſottilmente, ſono impareggia bili con
coloro che eſſendo ordina. riamente poveriſfimi d'ingegno , ſpen . dono tutto
il loro tempo nell'imitar , gli . Ma comechè gli Uomini ſpeſſo fi Jamentino
quando della lor povertà , quando della poca robuſtezza, o d'al. tro difetto
del corpo , quando della loro mala volontà , o educazione ; af ſai di rado , o
non mai fi dolgono di non effer forniti d'ingegno , e di giu . dizio atto a
qualſifia impreſa , non che a faper iſcrivere , e favellare, come ſi conviene .
Anzi non v'ha coſa più na . turale , e comune , ficcome è il vede. re gli
inertiſſimi del Mondo a preſu mer molto di sè , e creder di far gran cole
DelSig.Gregorio Breſani. 507 coſe; quando col loro poco ſenno non fanno altro ,
che infucidare , e guaſta re i penſieri, e le maniere di dire che trovano
ſparſe qua e là nell'altrui opere. Ecco per tutto ciò che appreſ ſo alla
cognizione , che Uom dee ave re de'vocaboli , e d'altro ; è da vede. re qual
grandezza, e qualità di com ponimento ſia da eſſo , e qual fia la forza del ſuo
ſpirito a concepire chia ramente più coſe , e'l modo , onde più facilmente , e
felicemente le concepi. fce ; perchè altri farà eccellente nella poeſia , che
non ſarà appena di mez zano valore nella prota: ſenzachè al tri ſarà grazioſo
in un genere di poe fia , che in un altro genere non ſarà gran coſa piacevole :
Altri farà com. mendabile in un genere di profe ; non così in un altro . Ma
qualunque ſia il genere de componimenti , qualunque ne fia la fpezie, qualunque
in fine ſia la abilità del noſtro fpirito a formare più queſto componimento ,
che quel. ; ſi ha ad ogni ora in ciaſcuna coſa, grande, o picciola che ella
fiafi , da aſcoltar la Natura ; che forſe ſotto no. Y 2 me 508 Diſcorſo della
Lingua Italiana me di Amoreaccennar volle in quei verfi il noſtro non mai
baftevolmente lodato Poeta : . Io mi ſon un , che , quan do Amore ſpira , noto
; e a quel mo do Ch'ei detta dentro., vo fignifican do . Ma queſto ſi vuol fare
con tal artifi cio ; che meglio pud eſſer inteſo da molti, che eſpreſſo da
pochiſſimi. Ed io per certo non ſaprei comemeglio a parole eſprimerlo . Ben ſo
eſſere i più minuti , ed eſatti raffinamenti , che fanno quel bello , quel raro
in ogni coſa , per cui ella ſale in gran pregio, ed in eſſo dura coſtantemente
appo ogni Etade futura. Ma la maggior par te degli Uomini , che pur ſi chiamano
di profondo ſapere, non badano a dete ti raffinamenti, perchè amano meglio ,
come dicon efi, di raccozzare eſprimere rozzamente molte coſe , che poche con
leggiadria . Di quegli poi , che ſi conoſcono , e ſi dilettano de'leg gra. 7 e
di Del Sig. Gregorio Bretani. 509 giadri componimenti, altri'l fanno per averlo
ſolamente udito , ed appreſo da' Maeſtri ; ed altri 'l fanno maſſimamen te per
propria meditazione , e quaſi per intimo ſenſo . De'primi molti po. trai udire
a giudicare rettamente dell' altrui Opere, ed a ragionare a mara viglia de'
precetti dell'arte ; non così però ad eſeguirgli nelle loro . Oltrechè effendo
ne'più perfetti Eſemplari di Lingua quella ſteſſa gradazione di ferie, che
ravviſaſi in ciaſcuna ſpezie de' corpi Filici; coſicchè l'ultimo Icric tore tra
gli ottimi venga ad eſsere il primo tra gli altri inferiori ; rare volte
avviene , che altri fuorchè i ſecondi, cioè , gli aventi il ſenſo ac comodato a
conoſcere il vero ſpirito d'uno ſtile , che naſce di una bella fantaſia ,
correcta bensì, ma non pun to alterata dall'umano artificio ; che ſappiano
diſtinguere tra i buoni gli ottimi, e co'migliori gareggiar di lo de ne' loro
componimenti. Benche il Mondo tutto de' Letterati non ab. bonda, che di ingegni
mediocri , o di coltivati mediocremente ; come ſi abbattono a qualche manie. i
quali Ý 3 . ra 510 Diſcorſo della Lingua Italiana 1 1 1 ra di file , o
ſtrabocchevolmente fan taſtico , od in qualunque altro modo corrotto , e fallo
; fannol conoſcere ed isfuggire ; per altro facendo un fae fcio , come ſi dice
, di tutti gli altri ; hanno la ſtima medeſima di Autori di merito
differentiſlimi . E non ef fendo forſe uſi di meditare ſopra ver runa coſa ,
per rinvenire da sè la ve rità ; la credenza dell'uno di coſto ro è ſoſtegno ,
e ragione baſtante al la credenza dell'altro . In quanto poi a coloro che con
qualche nuovo mo do di ſcrivere , tuttochè privo della venuftà , e della
finezza da me ac cennata , deſtano in altrui ammira zione , e dilecto ye da i
più fonte nuti per valentiffimi Scrittori ; non è gran fatto da ſtupirſene ,
che il giu dizio della gente groffa , cioè de i più, in ſomiglianti cole è
fallaciffimo . E inveſtigando io la ragione , onde in tervenga , che una
ſtampita rechi al la moltitudine forſe diletto maggio re , che non reca
un'armonia aggiu . ſtata ; che un vafto, e bianco pala gio , che piuttoſto
dovrebbe dirſi un gran mucchio di pietre , fia ftimato , ed Del Sig .Gregorio
Breſſani. Sil ed ammirato più , che una picciola caſa fabbricata cơn ottima
architet tura ; e che finalmente uno ſtile , ed altra coſa fregolarà piaccia
per av ventura più , che non piacciono le coſe fatte riſpettivamente ſecondo le
buone regole dell'arte ; avviſai , che ella non poſſa eſſer alcra , ſe non ſe
queſt'una : che concioſiecchè ricevono gli idioti dentro di sè un'idea di cofa,
che non ha nè ordine , nè proporzione, può ſembrar loro aggiuftara , e gen tile
; perciocchè la confiderano in se ſteſſa ſenza paragonarla colle idee che efli
hanno delle coſe veramente efiftenti ; e ſenza paragonarla con que' caratteri
di bellezza , che badanie do ſottilmente , fi ravviſano nelle co ſe tutte ,
quali elle ſono create e diſpoſte dall' Artefice fapientiſſimo : i quali
caratteri vie più rendonſima nifeſti, e mirabili , quanto maggiore fi è
l'attenzione, e l'intelligenza di chi gli conſidera . Quindi noi vedrem mo più
maniere di ſtile ampolloſo , o d'altra guiſa falſo aver tenuto per infino a
tanto che fonofi dati gli - Uomini a fare il ſopraccennato pa ra 512 Diſcorſo
della Lingua Italiana > ragone ; che è quanto dire a diſtin . guere l'ideale
, che ha infiniti fimili fuori di se , dal chimerico , che fol tanto dimora nel
noſtro ſregolato giudizio : ed all'incontro lo ſtile che è il vero ( vero io
intendo di quella verità , che riſulta dalla con venienza tra l'eſpreſſion
noſtra , e la eſpreſſione la più acconcia , che ima giniamo effer poflibile in
chi favel la , ſecondochè gli detta la Natura ) può eſſere per alcun tempo in
poco pregio , appreſſo coloro , che non fanno altro , che correr dietro a ciò,
she ha faccia di novità , ſenza cere care più oltre . Ma certifſima coſa è ,
che opinionum commenta ( come di ce Cicerone ) delet dies ; nature jue dicia
confirmat. Ed io da capo fran camente attribuiſcoverità anche al modo di
ſcrivere che pazzo è per opinion mia , qual fi crede , che non abbiavi altrove
verità nelle belle are ti ; ſalvo che ne' teoremi della Geo mecria , ovvero ne'
calcoli dell'Arit metica : quaſichè innumerabili non foſſero i fenomeni in
Natura ( e tuca ti ſenza dubbio ſono nel loro gene i re Del Sig.Gregorio
Breſſani. 513 VO. re aggiuſtatiſſimi ) a' quali non ſi ponno addattare ne'
calcoli , nè figu re geometriche . Ma effendone noi certi altronde dell'armonia
e della verità delle coſe farce dall'arte , gliam noi dire perciò , che fien
men belle , o men vere di quelle , di cui noi conoſciamo in parte , e geome.
tricamente dimoſtriamo l' artificio ? Il perchè io dico eſſerci verità in una
Cantica di Dante , eſpreſſa co me ha fatto egli ; che ella non ci farebbe
altrimenti , ſe l'argomento ſteſso foſse eſpreſso dall' Uomo più ſcienziato del
Mondo , ma ignudo di vocaboli gentili , e di maniere di dire leggiadre : Che
altra verità contiene in sè una ſteſsa immagine delineata con perfecta
ſimmetria , con atteggia mento naturale , con ombreggiamenti, e colori
convenienti ; ed altra , ſe det ta immagine tanto quanto ſi diſcoſta
dall'eſemplare di Natura ; benchè noi per quella eſsa la ravvilaflimo egual mente
. Ora che altro è il noſtro Icria vere , e'l noſtro favellare , ſe non che un
dipignere le noſtre idee ſopra la immaginativa di chi ci ſtanno ad udi • re ;
514 Diſcorſo della Lingua Italiana re ; onde non dobbiam noi eſser con tenti
ſol tanto , che una idea da noi groſsamente , non ſo ſe io mi debba die re
piuttoſto abbozzata , che eſpreſsa , non venga tolta in iſcambio con un'al tra
; ma dobbiamo innoltre porre ogni ftudio per eccitare in altrui quel vivo
ſentimento di quallfia coſa , che ab biam noi medeſimi, allorchè vivamen te , e
chiaramente l'abbiamo apprela . Che avvegnachè l'arte dello ſcrivere confifta
tutta in un aggregato di ſegni, o di modi , ſcelti, ſe vuoi , ad arbi trio
degli Uomini, io tengo non per tanto eſser detti ſegni quaſi una coſa ſteſsa
con ciò , che per eſſi ne viene rape preſentato ; o almeno dover eſser tali, Sì
che dalfatto il dir non ſia diverſo Lungo ſarebbe il diſcender ora á ra. gionar
de' particolari , che recano , o tolgono la leggiadria , e la verità a va rie
maniere di componimenti . Ma ancorachè io nol faccia , il poco , che io ne
accennai in comune , ſpero che per avventura defterà in chi che fia la
reminiſcenza di quanto fa di meſtieri ula . Del Sig .Gregorio Breſſani. 515.
uſare a voler iſcrivere con lode ; per chè in fine , ſiccome non da altri , che
dal proprio ſentimento ſi può appren dere a modificar variamente l'armonia
della Muſica , nè della Architectura ; così non da altri , che da sè veruno non
può apprendere il vero modo di addattare la propria fantaſia a cutte le
occaſioni particolari di aver da eſpri merſi , che ſono ſenza numero . Poco io
diffi eſſere ciò , che mi cadde in animo di accennare verſo il molto che un
eſperto dicitore , quello , che io non ſono , avrebbe faputo e medi tare , ed
eſprimere di attinente a così raſto argomento . Con tutto ciò ten gol per
lufficientiffimo ; purchè ſia da tanto di deſtare in eſso voi , umanil ſimi e
ſaggi Accademici , la voſtra cu rioſità ad iſcoprire le mie fallacie ; onde a
mio utile proprio , io appren da quanto forſe mi trovi lunge dal fe gno '
prefiſso ; mentre io delidero di guidare altrui pel retro cammino del la Verità
. Keywords. Refs.: l’implicatura di
Galilei, discorso intorno a nostra lingua – discorso intorno al volgare –
Aligheri – vo significando – “meaning” – I am meaning – Gallileo, forma logica
aristotelica – forma logica galileana – forma logica platonica – grammatica e
geometria – grammatica profonda di Galilei -- Luigi Speranza, “Grice e
Bressani” – The Swimming-Pool Library.
Bruni (Arezzo).
Filosofo. Grice: “Bruni is a philosopher – and a Griceian one at that; he
reminds me when Strawson and I used to give joint seminars on ‘De
interpretation;’ our tutees found it boring but we would say, ‘lay the blame on
the Stagirite.” Grice: “Boezio was possibly wrong in missing the metaphorical
impicature of ‘hermeneutic,’ and give us a rather boring ‘inter-pretatio’ – which
is the thing Bruni uses when dealing with Cicero – Bruni is unaware if what he
is doing is ‘interpreting’ or ‘volgarizare,’ i. e. render the thing into the
volgare that the volgo may appreciate! His impicature seems to be: let the
classics stay classic!” –Grice: “But there is a little word that Bruni uses
that is crucial, ‘recta’ – interpretation has to be ‘recta,’ as opposed to
incorrect – which leads us to impilcature – is over-interpretation
mis-interpretation? We think it is!” – “But since an implicaturum is
cancellable, we have to be VERY careful here, as Bruni is – especially when he
visited I Tatti!” – Politico, scrittore
e umanista italiano di Toscana, attivo soprattutto a Firenze, della cui
Repubblica ricopre la più alta carica di governo di Cancelliere. Uomo di grande
personalità, arguto e forbito parlatore dotato di grande eloquenza, si insere
nella disputa sulla questione della lingua, discussione apertasi con l'avvento
della lingua volgare all'interno della lingua in uso specie in chiave letteraria
a quell'epoca. Conobbe Filelfo ed ha come maestro Malpaghini. Nei suoi studi
riscontra fenomeni di ‘corruzione’ della lingua latina dall'interno, rilevando
ad esempio in Plauto le forme di assimilazione fonetica“isse” per “ipse”; oppure
“colonna” per “columna”. Teorizza quindi che il latino si fosse evoluto dal
proprio interno, sostenendo l'esistenza di una di-glossia. Oltre al latino antico
classico, aulico, sarebbe esistito un livello inferiore, meno corretto, usato
informalmente nei contesti quotidiani, da cui provengono la lingua romanza o
italiana – toscano, fiorentino. Oppositore di questa teoria e Biondo, il quale
sostiene invece che la causa della “decadenza” o corruzione del latino fosse
stata l'aggressione esterna dei due popoli germanici: gl’ostrogoti e i
longobardi. Gli studi storici hanno mostrato che le due teorie di Biondo e
Bruni non sono effettivamente incompatibili. Il latino si è evoluto per
ragioni, sia “interne” (e. g. le corruzioni di Plauto), sia “esterne” (le
invasion dei barbari ostrogoti e longobardi). Nella prima metà Professoresi
avevano pareri opposti in merito alla dignità del volgare. Filosofi come
Salutati e Valla disprezzano il volgare perché non dotato di norme
grammaticali; Alberti, al contrario, si adopera molto per far riconoscere il
volgare come lingua ricca di dignità nel panorama filosofico. Bruni conceve il
dialogo “Ad Petrum Paulum Histrum”, nel quale dava la parola a due esponenti
dell'umanesimo del periodo: Salutati, appunto, e Niccoli. Il primo assere che il
volgare sarebbe stato degno solo se regolamentato da assiomi precisi, e si
dispiaceva del fatto che Alighieri non avesse scritto la sua Commedia nel ben
più nobile latino. Niccoli propone una visione ancora più radicale, arrivando a
giudicare tre fra i principali filosofi italiani Alighieri, Petrarca e
Boccaccio poco più che degli ignoranti. Niccoli difende questi ultimi,
riconoscendo la grandezza delle loro opere, invece di giudicarli in base alla
lingua che usarono. È celebre una sua epistola in cui delinea princìpi
fondamentali dell'umanesimo. È sepolto nella basilica fiorentina di Santa Croce
in un monumento opera di Rossellino. Altre opere: “De primo bello punico”
(della prima guerra punica);“Vita Ciceronis o Cicero novus” (vita di Cicerone,
ovvero, Cicerone nuovo); “Aristotele, Ethica nicomachaea”; “Oratio in
hypocritas”; Pseudo-Aristotele, “Libri oeconomici”; “Commentarius de bello
punico, adattamento di Polibio”; “De militia”; “Commentarius rerum graecarum”;
“De interpretatione recta” “Aristotele, Politica”; “Commentarius rerum suo
tempore gestarum”; “De bello italico adversus Gothos”; “Historiae Florentini
populi”, Storie del popolo fiorentino (Storia fiorentina) da Acciaiuoli ed uscì
a stampa a Venezia. Vedi alla voce "letteratura umanistica" in
umanesimo, riferimenti in Carlo Dionisotti, «Bruni, Leonardo», in Enciclopedia
Dantesca. Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Cesare Vasoli, BRUNI, Leonardo,
detto Leonardo Aretin, in Dizionario
Biografico degli Italiani, Repertorium Brunianum. Lingua volgare. Questione
della lingua Monumento funebre di Bruni di Rossellino, basilica di Santa Croce,
Firenze. Dizionario biografico degli italiani. Epistole (in latino). Dialogi ad Petrum Paulum
Histrum di Leonardo Bruni - di Carlo Zacco Cancelliere fiorentino.
Leonardo Bruni è originario di Arezzo, ma Arezzo pochi anni dopo la sua
nascita passa sotto il controllo di Firenze, e lo stesso Bruni si può definito
a pieno titolo acquisito da Firenze ed ottenne nel 1415 la cittadinanza di
Firenze. E’ personaggio molto importante dal punto di vista letterario ma ebbe
una funzione importante sotto il profilo amministrativo-civile perché fu uno
dei più importanti cancellieri della repubblica fiorentina, successore, non
immediatamente, a quello che il più noto dei cancellieri del 300: Coluccio
Salutati, una grande figura di intellettuale, che si pose come diretto erede,
insieme con il Boccaccio, del Petrarca. Coluccio Salutati. Coluccio è un
personaggio di questo dialogo. Svolse in Firenze un ruolo molto importante sia
dal punto di vista politico (più politico del Bruni), e dal punto di vista
amministrativo-civile è uno dei più noti e importanti cancellieri di firenze:
le sue missive sia d’ufficio che private sono moltissime, e lasciò una forte
impronta. Un impronta volta a delineare l’ideologia della città di Firenze: la
difesa stessa della libertà fiorentina, per fare solo un esempio fra tutti,
contro la tirannide viscontea. • Gli studi di Greco. Il salutati ebbe anche un
altro importante merito che fu quello di portare a Firenze gli studi di Greco.
Fu per impulso del salutati, anche se non solo suo, che venne a Firenze il
Crisolora: uno dei più importanti dotti bizantini e proprio tramite lui si
instaurò lo studio del greco a Firenze. Intorno al Crisolora si stabilisce un
gruppo di figure, non soltanto fiorentine, poiché dato che il greco si poteva
studiare a Firenze, vennero anche da altri luoghi giovani per imparare il
greco; e tra questi giovani che vennero a Firenze ad imparare il greco ci sta
il dedicatario di questa opera: Pietro Paolo Istriano, che è Pier Paolo
Vergerio, che operava nel contesto carrarese, a Firenze per studiare il greco,
e poi era tornato a Carrara. A sua volta aveva scritto un trattato pedagogico
intitolato “sui nobili costumi”. Trattati pedagogici: altro aspetto
dell’umanesimo, molti scritti sono di carattere pedagogico perché uno degli
aspetti importanti nell’umanesimo è proprio legato alla formazione dei giovani
basata sulle Humanae Litterae. • L’umanesimo fiorentino. Questo è il contesto
culturale entro cui nasce questa operetta, interessante perché mette in
evidenza gli elementi di contrasto tra l’umanesimo inteso come un recupero
classicistico di stretta osservanza e la volontà di coniugare ad un
rinnovamento degli studi, quello che era la tradizione: in modo particolare
quella dei tre fiorentini Dante, Petrarca e Boccaccio. Ripresa del
dialogo classico. Questa operetta non è un trattato: è impostata come una
discussione, una disputatio ma è a sua volta, sviluppando alti elementi, è un
altro dei caposaldi di rifondazione del dialogo in latino: sulla scorta dei
classici, più sistematicamente di quanto non avesse fatto il pur importante
esempio petrarchesco. Disputatio in utramque partem. Questo è un dialogo
diegetico, non mimetico, dunque un dialogo dove la cornice è costantemente
presente. E’ un dialogo costruito in due libri, e la discussione è svoltain
utramque partem, da una parte e dall’altra. C’è un personaggio, un letterato e
al tempo stesso un personaggio di un certo peso a Firenze che si chiamava
Niccolò Niccoli, che sostiene due parti tra loro contrapposte: nel primo libro
attacca violentemente le figure di Dante, Petrarca e Boccaccio, inserendo questo
suo discorso in un attacco relativo alla condizione della cultura
contemporanea: quindi denunciando lo stato di decadenza della cultura
contemporanea; nel successivo libro fa unapalinodia e svolge un discorso
opposto: gli elogia di questi tre personaggi. Problemi di Datazione
Problemi. Oltre al fatto del far vedere che cosa è diventata a questa altezza
cronologica la disputatio, ci sono diversi aspetti in questo che sono
interessanti. a) C’è un primo problema di carattere cronologico, qui ridotta ai
minimi termini, in una discussione che è ancora in corso: è un opera su cui si
è discusso e scritto molto, e la cui datazione è uno degli elementi di
discussione. b) Altro elemento di discussione che è collegato a questo è se
questi due libri siano stati concepitiunitariamente o se il secondo sia stato
scritto dopo: cioè se l’autore avesse cambiato idea rispetto a quello che aveva
fatto sostenere al Niccoli e avesse svolto poi nel secondo libro
successivamente una palinodia egli stesso nel celebrare l’elogio dei tre
fiorentini. a) la datazione Termini ante/post quem. L’opinione più
persuasiva a tal proposito è questa. Innanzitutto c’è un problema di tempo
interno: c’è un indicazione precisa dal punto di vista cronologico, come emerge
all’inizio del dialogo; questo dialogo è collocato in due giorni diversi, uno
successivo all’altro, nei giorni di Pasqua dell’anno 1401. Il fatto che come
tempo interno sia dato il 1401 non significa che quello sia il tempo reale di
scrittura naturalmente. Comunque, posto che qui venga messo come data il 1401 è
evidente che il Bruni non potè scrivere l’opera prima del 1401. L’altro termine
di riferimento non dopo il quale fu scritta l’opera, è il 1408 perché in quella
data, in una lettera, Bruni stesso direttamente ci parla di questa sua operetta
come già pubblicata (pubblicata ovviamente equivale a «circolante», almeno tra
alcuni dotti). • morte di Salutati. Altro aspetto da considerare riguarda le
figure dei personaggi presenti. Tra queste figure c’è quella importante, una
sorta di Nume tutelare, il personaggio anziano, l’intellettuale in età avanzata
rispetto al gruppo dei giovani (c’è questa differenza importante che va
considerata) che èColuccio Salutati. Coluccio muore nel 1406. Se noi stiamo a
guardare ai dati dell’operetta possiamo pensare che sia stata scritta quando il
Salutati era ancora vivo, se consideriamo il Salutati personaggio, che ci viene
presentato in vita. In realtà però c’è tutta una serie di elementi che
fanno propendere a ritenere che sia stata scritta, almeno per quello che
riguarda il secondo libro, dopo la morte del Salutati. Perché si attribuiscono
al salutati posizioni che difficilmente il Salutati avrebbe sottoscritto (lo
sappiamo da altri dati, lettere ecc). b) l’unitarietà Unitarietà
dell’opera. Altra questione: è unitaria o no questa operetta? Su questo punto è
più difficile rispondere: il primo libro presuppone indubbiamente un secondo
libro che certamente modificasse l’assetto del primo con il capovolgimento di
posizione. Nei termini della disputatio in utramque partemla tesi più
persuasiva è che indubbiamente sotto questo profilo, quello che è svolto come
materia nel secondo libro sia già dato nel primo come presupposto. Cioè che
come testo dal punto di vistaunitario il bruni avesse pensato all’opera in due
libri; certo però è che ci sono alcune piccole diffrazionidall’uno all’altro.
Cambia la casa dove si svolgono i dialoghi; viene introdotta un’altra figura,
cosa possibile anche per alcuni spunti ciceroniani a dire il vero, ma questo
muta alcuni aspetti e alcune parti dell’impostazione: in altre parole non è da
escludere che il progetto originario, pur prevedendo un secondo libro come è
nella logica con cui è stata scritta l’opera, si sia poi svolto effettivamente
in untempo successivo nel secondo libro. Ciò non toglie che, così come è
svolta, l’opera abbia un assetto contenutistico unitario, anche nell’impianto
della disputa in entrambe le direzioni. Modello ciceroniano Il modello
del De Oratore. Uno degli aspetti più interessanti dal punto di vista
letterario riguarda la consapevolezza da parte del bruni di voler imitare
anch’egli Cicerone, non però il Laelius come aveva fatto il Petrarca, ma una
delle opere più imitate da questo momento in poi in tutto il dialogo
umanistico, e cioè il De Oratore. Il De Oratore è importante in quanto modello
per eccellenza del Cortegiano. Le analogie • impianto realistico. Ci sono
delle modificazioni nell’impianto da parte del bruni rispetto al modello del de
oratore: l’aspetto che lega maggiormente questo testo al De Oratore è
l’impianto con una cornice di carattere realistico: qui abbiamo la Firenze
reale di quel tempo, abbiamo personaggi storicamente individuati, abbiamo una
autorità come il Salutati. • la palinodia. Altro aspetto interessante sul piano
dell’impianto: la palinodia, l’affermare una cosa e il fare il discorso in
opposto rispetto a quello che si è detto nel primo libro è una modalità attuata
nel de oratore mediante il personaggio di Antonio: Antonio sostiene una tesi
nel primo libro (nel De Oratore sono tre) e capovolge la tesi nel secondo:
viene mostrato da Cicerone il modo retorico e le ragioni di questo. E’
stato anche osservato che si tratta di una palinodia che non nega gli asserti
precedenti, però sicuramente modifica quello che era stato detto nel libro
precedente. • l’ambientazione. Anche la casa come luogo di raccolta, di
discussione dei dialoghi è un elemento ciceroniano; e lo è anche il tempo
di festa: qui siamo a Pasqua. Le differenze • Autore presente / assente.
La differenza che balza più all’occhio è che mentre per Cicerone non c’è la
presenza diretta dell’autore, perché cicerone dice di aver riportato dialoghi e
discussioni che si erano svolti diversi anni prima, e c’è quindi una
diffrazione di carattere temporale, per cui Cicerone afferma di aver riportato
la testimonianza di chi gli aveva raccontato quei dialoghi, qui invece c’è la
presenza diretta dell’auctor e c’è una attualizzazione totale, nel senso che a
prescindere dalla data specifica, siamo all’inizio del 400, e i temi trattati
sono altrettanto attuali e attualizzati. Vediamo solo la prima parte, ma
senza leggere la seconda non si capisce l’effettivo svolgimento del discorso.
Alcuni moduli che vediamo riguardano solo questo dialogo, altri riguardano una
modalità che nel tempo viene ad essere ripresa e si evolve, come vedremo nel
Cortegiano, dove siamo però in un ambiente diverso: questo cittadino, quello di
Castiglione, della corte. Questo è ambiente privato: un gruppo di amici
che discutono tra di loro. Il testo Il dibattito sulle tre glorie
fiorentine Queste discussioni non sono invenzione del Bruni: abbiamo altre
tracce e testimonianze in ambito fiorentino in relazione alle critiche che
gruppi di giovani classicisti di stretta osservanza avevano avanzato criticando
aspramente le cosiddette glorie fiorentine: Dante Petrarca e Boccaccio. Quello
che sta al fondo di questo dialogo è un problema e un tema di discussione
quanto mai attuale nella Firenze del tempo. Se a noi può sembrare strano, visto
che pensando a Dante pensiamo ad un grandissimo poeta e autore, trovare Dante
trattato come un autore di popolo, di farsettai, di pescivendoli eccetera, può
dare adito a qualche stupore. Le stesse accuse sono riferite da altri, non li
introduce solo il bruni: i problemi di cui si discute sono problemi su cui le
discussioni c’erano nella Firenze del tempo. Abbiamo dunque da un lato si
afferma prima questo aspetto destruens e dall’altro lo stesso che dice di
aver parlato di quelle cose per ragioni di carattere retorico e per fare in modo
che fosse proprio Coluccio salutati a fare l’elogio. Quindi li giustifica come
una sorta di esercizio di simulazione retorica. La dedicatoria
L’antico detto. Vediamo i caposaldi di questo discorso. Anche qui abbiamo un
proemio che è una lettera dedicatoria molto breve rivolta al Vergerio. La
lettera si apre con un antico detto di un saggio, e sia apre così a mo’ di
omaggio verso il Vergerio, che con questo detto, attribuito a Francesco il
vecchio da carrara, suo signore, aveva aperto il suo trattato. Questo detto è
relativo alla patria: antico detto di un saggio che l’uomo per essere felice
deve innanzitutto avere una patria illustre e nobile. Elogio di Firenze.
La patria di origine del Bruni non è più Arezzo nelle condizioni in cui era
precedentemente, rovinata e distrutta ormai dai colpi della fortuna. Ha però il
bruni a sua volta l’opportunità di vivere in una città eccellente, quest’opera
è anche una celebrazione della grandezza di Firenze. Il fatto che Firenze sia
una città eccellente è dimostrato facilmente perché lo stesso dedicatario era
stato con lui a Firenze compagno di studi presso il Crisolora: c’è stata dunque
una comunanza di studi, di vita e di affetti. Il dono all’amico lontano.
Una comune abitudine alla conversazione e alla discussione, a dato che l’amico
è lontano, desiderato e rimpianto, così come l’amico lontano desidera e
rimpiange gli amici fiorentini gli manda proprio come memoria ed omaggio (il
Bruni al Vergerio) la testimonianza di una delle discussioni da poco avvenute
tra loro giovani amici e il Salutati, come testimonianza che può
trasmettere le discussioni di una volta allo stesso Vergerio. Anticipa, sui
contenuti, ciò che riguarda la dignità degli argomenti e la dignità degli
uomini. Cita i due protagonisti-antagonisti: Coluccio Salutati e il Niccoli.
L’altra dichiarazione che costantemente viene fatta in trattati di questo
genere è la testimonianza –dedica: dice alla fine di questo proemio: «così io
rimando la disputa trascritta in questo libro in modo che tu, benchè assente,
in qualche modo possa godere di quanto godiamo noi, e nel far questo ho cercato
soprattutto di rendere con la massima fedeltà le due posizioni contrastanti
(originale: morem utriusuqe, il costume di entrambi)» e affida allo stesso
Vergerio il compito di giudicare se ci sia riuscito oppure no. La
psicologia del personaggio. Questo è un altro tratto importante: quello della
delineazione del personaggio: non sono solo voci, con personaggi con una loro
individualità. Essendo un dialogo diegetico questa loro personalità può essere
messa in evidenza per alcuni tratti dalla cornice diegetica, ma soprattutto dal
modo in cui ciascuno si esprime, e quindi da quella sorta di delineazione
psicologica che deriva dal discorso. L’abilità è anche quella di rendere da parte
del bruni l’atteggiamento nel dire dei due, e ne è giudice lo stesso Vergerio
che li conosceva entrambi. La rappresentazione dei personaggi rappresentano
anche dunque una prova distile e di bravura da parte dell’autore. Noi non
abbiamo modo di vederlo nel testo latino, ma quest’opera è letterariamente
significativa anche nel movimento stesso delle voci. Il primo libro
Cornice introduttiva Come viene fatta l’introduzione nel dialogo diegetico?
Innanzitutto c’è la cornice introduttiva, che ci dà delle indicazioni relative
alle circostanze del dialogo, al luogo e ai personaggi. Bruni e Niccoli
vanno a casa di Coluccio. In questa nostra cornice noi abbiamo che nel tempo
delle feste, questi giovani personaggi stanno andando a casa di Coluccio Salutati,
che viene definito «senza dubbio l’uomo più eminente del tempo nostro per
sapere, eloquenza e dirittura morale»: triplice occorrenza che definisce il
carattere del nume tutelare. Viene poi introdotto un novo personaggio: mentre
stanno per andare da Coluccio Salutati incontrano Roberto De Rossi, il quale a
sua volta è definito per ciò che è proprio del personaggio stesso in relazione
agli studi: «uomo dedito agli studi liberali». Tutti insieme vanno da Coluccio,
e De Rossi si unisce a loro. La critica di Coluccio. Arrivati a Casa di
Coluccio c’è un momento di Silenzio: Coluccio pensa che quei ragazzi gli
vogliono dire qualcosa, loro non iniziano per far cominciare il maestro e
quindi viene rappresentata questa pausa: un elemento di carattere anche
realistico. Alla fine Coluccio, dato che nessuno parla si decide ed interviene
nel discorso. Quindi la persona più autorevole inizia il suo discorso: che
inizia nei termini di una conversazione, quello che può avvenire quando un
gruppo di persone si trova in casa di uno che è più autorevole di loro, e
questo comincia a parlare, e di fatto esprime il piacere di vederli e poi
comincia, li loda per la loro passione per gli studi, ma esprime poi una
critica. • importanza della disputatio. Critica relativa al fatto che hanno
trascurato quello che per Coluccio invece è importante: la disputatio,
l’abitudine alla discussione che secondo il Salutati è fondamentale proprio per
affrontare in pieno sottili verità, per poterle sceverare compiutamente, per
mantenere la mente in occupazione, e scambiando discorsi in comune per fare una
gara esercitando il proprio intelletto, al fine di ottenere la gloria quando si
sia superiori nella disputa rispetto agli altri, oppure la vergogna quando si è
battuti; da qui verrebbe uno stimolo allo studio per imparare di più. Pag. 75,
in fondo: «Che cosa può … lo sguardo di tutti». Attenzione: qui la traduzione
dice questione,che potrebbe far pensare alla quaestio, nel testo latino si dice
invece rem, l’oggetto della discussione, è diverso il senso da dare alla cosa.
E’ importante l’esercizio perché se non si compie, chi è studioso rimane a
parlare con sé stesso e con i propri libri, ma non si mette a gara e non
interviene nel colloquio con gli altri uomini, e non viene ad essere di
giovamento, non ottiene i frutti che possono essere dati dallo scambio
argomentato delle discussioni. Rievocazione degli studi a Bologna. Evoca
gli esordi della sua stessa educazione quando era aBologna: dove aveva avuto un
insigne maestro ed aveva appreso l’arte del discutere; poi aveva avuto modo di
cimentarsi ulteriormente in relazione ad un dotto teologo e sapiente a Firenze,
e al tempo stesso dotto in teologia, agostiniano, e insieme amante dei
classici: è Luigi Marsili, che animava un cenacolo presso la chiesa di Santo
Spirito, ed è una figura eminente della Firenze trecentesca, che viene anche
nominato dal Petrarca. • l’elemento cronologico. Ci viene dato attraverso il
Marsili l’elemento cronologico che si diceva all’inizio poiché il Marsili è
indicato come morto sette anni prima: dato che era morto nel 1394, allora 7
anni prima ci porta al 1401. • L’insegnamento del Marsili. Il Marsili aveva
dimostrato a Coluccio, nei tempi posteriori alla giovinezza, quando valesse la
discussione: era un sapiente conoscitore degli studi di teologia, ma anche un
conoscitore degli antichi; tanto profondamente legato alla scrittura degli
antichi da averle assimilate, anche stilisticamente tanto da riprodurne le
movenze. L’esempio che porta il Salutati di Sé e di quanto aveva guadagnato da
queste discussioni è dato per mostrare attraverso la propria persona, quanto
efficacemente egli ritenga sia proprio della discussione, cioè: il frutto delle
sue opere era stato dato secondo il salutati proprio attraverso questa via.
Dunque l’esercizio è fondamentale. Su questo punto si intavola tutta la
discussione che segue. Sintesi • Coluccio Salutati, pur sostenendo di
ammirare gli amici per la loro apssione per gli studi, criticava il fatto che
non si dedicassero, come esercizio non solo opportuno e utile, ma necessario,
la disputazione. • Coluccio aveva portato il proprio esempio sia dalle
indicazioni che aveva ricevuto dalla scuola di grammatica quando era un giovane
studente a bologna, e sia per quello che aveva ricavato dal rapporto
continuo assiduo e importante con il dotto teologo studioso dei classici Luigi
Marsili. • Una indicazione del Marsili ci dà l’indicazione del tempo interno
del dialogo nel 1401. • Il discorso del Salutati si concludeva con una
esortazione ai giovani perché si dedicassero alla disputa e cercassero di dare
maggior frutto ai loro studi. La risposta di Niccolò. Come personaggio
antagonista risponde Niccolò Niccoli: fin dalla presentazione che nella
dedicatoria aveva fatto al Vergerio il Bruni aveva presentato le due figure di
Coluccio e Niccoli proprio in questo senso. In più di un momento pare che
Niccoli dia ragione al Salutati riconoscendo l’importanza della disputa che
potrebbe giovare molto agli studi, e lodando il Salutati per l’efficacia sul
piano dell’eloquenza con cui aveva dimostrato questa tesi; e ricorda a sua
volta la figura del Crisolora, chiamato dallo stesso Salutati nel 1396 e da cui
questi giovani avevano imparato il greco. Il salutati invece aveva preso i
primi rudimenti ma non tanto da essere in grado di fare una traduzione dal
greco al latino. Le colpe della generazione precedente. Pare che Niccoli
dia ragione al salutati, ma non è così: egli giustifica se stesso e i
suoi amici dicendo che se non svolgono quella esercitazione non possono essere
accusati i ragazzi stessi ma devono essere accusati i tempi: c’è qui una
rappresentazione estremamente negativa, che riprende alcuni tratti del Bruni
scrittore già ben presenti nelle opere polemiche di Petrarca, e che per alcuni
elementi emergono anche nel De Vita Solitaria, un attacco da parte del Niccoli
molto duro nei confronti della condizione in cui è ridotta la cultura per colpa
delle generazioni precedenti e che dispersero il grande patrimonio della
cultura antica. Di fatto come sappiamo la concezione stessa del medioevo nasce
polemicamente proprio in contrapposizione con quello che riguarda la volontà da
parte degli uomini umanisti in primo luogo di ritornare alle fonti della vera
sapienza degli antichi superando la decadenza; è una notazione polemica questa
che noi non facciamo nostra, ma che riguarda la cultura del tempo. • Penuria di
libri. Il Niccoli spiega che per poter svolgere una disputatio è indispensabile
padroneggiare bene un argomento, e per fare questo bisogna avere una
grande mole di conoscenze; Niccoli si domanda come si possa acquisire una tale
mole di conoscenze in questi tempi oscuri, con tanta penuria di libri; invita a
considerare poi come erano le discipline umanistiche in passato e come sono
oggi: parte qui una sorta di rassegna che mostra le radici greche della
filosofia, mostra che cosa comportò il passaggio a Roma della filosofia dei
greci e mostra come ai tempi moderni è ridotta la filosofia. Polemica
contro gli aristotelici. Qui il Niccoli si lancia, sulla scorta di considerazioni
già petrarchesche (non qui enunciate come tali, perché non si fa qui il
nome di Petrarca) contro i filosofi e soprattutto contro gli aristotelici: non
contro Aristotele, ma contro gli aristotelici che tutto basano sull’autorità di
un solo filosofo, e tutto basano sul cosiddetto ipse dixit, essi d’altra parte
fanno questo sulla base di un'unica autorità, e non soltanto mostrano con ciò
di non conoscere bene ciò di cui parlano, ma mostrano una grande arroganza: la
dimostrazione della loro arroganza e della difficoltà nel padroneggiare gli
scritti di Aristotele, trova una base polemicamente anche con riferimento a una
polemica che a sua volta contro i retori del suo tempo aveva fatto cicerone. •
la corruzione del latino e dei testi. Poi ritorna all’oggi e accusa i filosofi
aristotelici di parlare di cose che in realtà non sanno, e come possono
saperle? Se questi non solo ignorano il greco , ma ignorano in gran parte anche
il latino? E qui è sotto accusa anche il latino «pervertito» del medioevo, che
non era quello degli umanisti. Addirittura il Niccoli dice che se tornasse lo
stesso Aristotele, non riconoscerebbe neppure più i suoi testi; sottolinea un
aspetto importante da un punto di vista filologico, cioè il problema della
restituzione critica dei testi aristotelici, il problema cioè di andare a
cercare il maggior numero di esemplari dei testi di Aristotele e il tentativo
di restituirli alla loro rispettiva lezione, e questo poteva essere fatto a
partire dal testo greco. La conoscenza del greco che questo circolo di umanisti
possedeva, era in quei tempi appannaggio di quei pochi che avevano beneficiato,
sulla scorta del Crisolora. Altro affondo: gli occamisti. Dopo questo
attacco agli aristotelici passa ad attaccare i dialettici: anche questa è una
polemica già petrarchesca, con i cosiddetti barbari Britanni, soprattutto
dialettici e logici occamisti, seguaci di Occam: secondo le accuse che venivano
fatte essi si occupavano di cose da poco, di frivolezze, invece che di
occuparsi di cose importanti ed eccellenti. Ciò non vale solo per le due
discipline evocate ma dice che potrebbe dirsi lo stesso di tutte le altre arti:
Grammatica, retorica e tutte le altre arti. Non mancano gli ingegni, ma mancano
i mezzi per imparare in questa condizione del sapere. Non abbiamo né mezzi ne
maestri. L’eccezione del Salutati. A questo punto è chiaro che occorre
fare un eccezione, perché sennò nel contesto del discorso ciò avrebbe
significato attaccare lo stesso Salutati; allora il Salutati è salvato dal
Niccoli ed elogiato e rappresenta l’eccezione che conferma la regola. Perché il
Salutati ha potuto far frutto con i suoi studi? In virtù del suo grande
ingegno, quasi divino, che gli ha consentito di fare quel salto di qualità e
quindi di essere l’eccezione alla regola. Ubi sunt. L’ultima parte del
Discorso di Niccoli si imposta su quel modello di elegiaco tema dell’Ubi Sunt,
dove sono mai?, tanto presente in ambito medievale, ma qui piegato a lamentare
la mancanza dei grandi libri dei classici; e fa un elenco di libri di grandi autori
che mancano. Il precetto di Pitagora. Aggiunge poi un aspetto legato alla
necessità del silenzio cui sono costretti, e fa un riferimento ad un precetto
dell’antico filosofi Pitagora: Pitagora aveva invitato i discepoli, prima di
parlare, a meditare e restare in silenzio per cinque anni, e se i discepoli di
Pitagora, che pure avevano tale maestro e tale possibilità stante la cultura
del tempo antico, come potranno questi giovani parlare e mettersi a disputare?
Dice il Niccoli: «noi che non abbiamo né maestri ne insegnamenti né
libri: come possiamo fare questo? Dunque non ti devi arrabbiare con noi se
stiamo zitti e non discutiamo, non è colpa nostra ma dei tempi». Torna la
cornice. A questo punto (pag 91) ritorna la cornice. Al discorso diretto viene
reintrodotta la cornice con una sorta di segno teatrale: una pausa di silenzio
che fa si che ci sia anche uno stacco in relazione alla voce che ora segue; uno
degli aspetti efficaci del dialogo è la messa in scienza dei personaggi e
quindi la rappresentazione delle loro voci. La cornice interviene
diegeticamente introdotta dal narratore-autore, che interrompe il flusso del
discorso, segnando appunto una pausa di silenzio. Disputa intorno
a disputare. Interviene Coluccio rilevando la contraddizione, perché il Niccoli
che aveva sostenuto di non poter parlare e discutere a causa dei tempi, aveva a
sua volta dato unabrillante dimostrazione di essere capace di discutere con le
sue stesse parole. Allora Coluccio cerca dichiudere questo discorso dicendo:
«lasciamo dunque se credete questa disputa che è intorno al disputare».
Gli altri chiedono il confronto. Ma il discorso non può finire qui e c’è
l’intervento di un dialogo a più voci, quindi c’è una variazione nel modo in
cui sono introdotte le voci di dialogo ed efficacemente dal punto di vista
letterario il dialogo viene ad essere animato. • Rossi. Interviene Roberto De
Rossi, che non vuole che la discussione rimanga a metà; • Coluccio. interviene
di nuovo Coluccio che dice per teme di aver destato il leone dormiente e chiede
il parere degli altri: chiede innanzitutto a Roberto De Rossi se sia d’accordo
con lui o con il Niccoli dichiarando che in relazione a Leonardo, cioè colui
che è al tempo stesso personaggio e autore del dialogo, non ha dubbi perché
ritiene che Leonardo sia d’accordo con Niccolò. • Bruni. Interviene allora con
la voce che dice io lo stesso Bruni che chiede di essere considerato
ungiudice: non vuole prendere posizione; fermo restando che c’è una aggiunta,
non priva di una certa ambiguità, perché riconosce che la causa è in gioco non
meno di quella di Niccolò. • Rossi. Interviene infine Roberto De Rossi che a
sua volta dichiara di sospendere il giudizio, e di sospendere il suo parere
finché entrambi non espongono la loro opinione. Dunque Coluccio adesso deve
fare una confutazione di quello che Niccoli ha detto. La confutazione di
Coluccio. Si apre una ulteriore fase del dialogo nell’ottica di una
confutazione fatta da Coluccio in relazione a quello che Niccoli ha detto. In
primo luogo fa notare che è facile confutare che dice che a causa dei tempi non
si può disputare quando egli stesso lo ha dimostrato egli stesso disputando.
C’è anche una schermaglia un poco scherzosa in relazione al Niccoli. Un altro
degli aspetti del dialogo è anche l’introdurre battute per alleggerire il senso
delle discussioni, così come si introduce all’interno del discorso
riferendosi ad un personaggio che inizia a parlare «sorridendo» ecc, così
anche da battute. Viene ad essere interrotto a sua volta il Salutati da Roberto
De Rossi con un'altra obiezione: allora se tu elogi il Niccoli che ha mostrato
di poter disputare, perché dici che ci si debba esercitare? Se senza
esercitarsi il Niccoli c’è riuscito così efficacemente, vuol dire che
l’esercizio non è necessario. Risponde con una contro obiezione il Salutati
dicendo che l’esercizio è fondamentale per poter ottenere un ulteriore
eccellenza: se già ci sono delle buone disposizioni soltanto esercitandosi si
può migliorare. Elogio dell’esercizio. Coluccio si lancia in un elogio
dell’esercizio. Questo esercizio e la disputa sono di nuovo ri-definiti, e
questa definizione è importante: pag. 95, riga 5:«perciò … io chiamo
disputa»: - insisto su questo poiché il modo in cui è definita la disputa
e la discussione delimita i caratteri della discussione stessa, e la distingue
rispetto alla quaestio degli scolastici. Non poi così bui. Il Salutati
ammette che la situazione in cui versano le arti liberali non è la migliore
possibile. Però in relazione all’atteggiamento assolutamente negativo nel
Niccoli tende a minimizzare: sì, un po’ sono decadute, ma non al punto tale che
siano nella condizione che diceva il Niccoli. E se è vero che molti libri
mancano, è ben vero che altri ce ne sono, e comunque le cose che abbiamo le
dobbiamo usare e non le dobbiamo disprezzare. E dunque ribadisce che il Niccoli
sbaglia ad attribuire la colpa ai tempi, perché così non riconosce quello che
deve imputare a sé stesso; cioè si sottrae di fatto quello che sono le sue
responsabilità. Chiarisce anche che il suo intento è quello di porsi in
opposizione a lui, e non di attaccarlo violentemente, cioè non è il suo un
atteggiamento volutamente polemico in termini distruttivi. La illustre
tradizione fiorentina. D’altra parte introduce, ritenendo che questa parte del
discorso possa essere compiuta, un ulteriore passo, che poi scatenerà il resto
della discussione e la reazione del Niccoli: E dice: pag. 97: «come è possibile
che tu venga a dire che in tempi moderni non ci siano possibilità da
parte degli ingegni di fiorire se tu tralasci tre uomini fioriti da questa
nostra città e nei nostri tempi. Dante, Petrarca e Boccaccio, che sono levati
al cielo da così grande universale consenso. - C’è un motivo anche
di carattere patriottico. -c’è una specificazione data in relazione a Dante che
è significativa per come volgerà poi il seguito del dialogo, poiché sembra
essere posta una riserva sul fatto che Dante prescelse il volgare, infatti dice
«se Dante avesse usato altro stile (alio genere scribendi) io non mi contenterei
di porlo insieme a quei nostri padri, ma a loro e ai greci stessi io lo
anteporrei»: cioè da un lato c’è una lode del ruolo di Dante, dall’altro una
riserva del modo di scrivere. E dice che quei tre non vanno dimenticati ma
ricordati perché sono il vanto e la gloria della città. Dante. E qui la
voce di Niccoli esplode. In realtà il verbo non è messo, c’è un ellissi, ma il
traduttore lo sottolinea permettere in evidenza l’esplosione polemica del
Niccoli. C’è un vero e proprio grido del Niccoli. (pag. 97) «allora Niccoli
insorse … ignorante d’ogni cosa?» - e qui comincia un atto d’accusa. Che parte
da Dante, che viene accusato di non capire il latini di Virgilio, citando un
passo del XXII del Purgatorio; viene accusato di non aver capito l’età di catone
e di averlo invecchiato rispetto a quello che dice Lucano; viene accusato di
aver preso Cesare che era un tiranno, averlo lodato, ed aver messo l’uccisore
di cesare nella bocca di Lucifero; è accusato anche per la sua cultura basata
sulla scolastica, e per il latino di Dante stesso. E dunque che cosa deve
essere Dante? A chi deve essere lasciato Dante? A quale pubblico? Pagina 99, in
fondo: «per cio … familiare solo a gente simile». Fiorentini contro
Dante. Che a gruppi di classicisti di stretta osservanza fosse rimproverato un
atteggiamento simile lo sappiamo da altre fonti: che possono anche essere
collegate a questo, ma ci sono anche altre fonti fiorentine che ci trasmettono
questo atto d’accusa, mossa a giovani che invece di guardare alle glorie della
patria. Le attaccano. L’accusa è ancora più dura perché non riguardava solo un
giudizio di carattere letterario che attaccava i numi tutelari della cultura
fiorentina e il vanto della cultura fiorentina, ma perché questi stessi giovani
erano accusati di disinteresse nei confronti delle sorti della patria. Un po’
di tempo prima della scrittura di questi dialoghi, c’era stato uno scontro
violento tra Firenze contro Gian Galeazzo Visconti, e c’era stato un momento in
cui pareva che Firenze dovesse soccombere, solo la morte di Gian Galeazzo nel
1402 salva Firenze definitivamente, perché gli ultimi atti di guerra versavano
molto negativamente. E si diceva che c’erano questi gruppi di giovani
classicisti che si disinteressavano totalmente, che non si occupavano delle
sorti della patria; e qui viene fatto un collegamento tra lo spirito civile e
le glorie cittadine. Qui il discorso è riportato in termini letterari, ma c’è
sotteso dell’altro. Un riverbero di questo si vede alla fine del secondo
dialogo. Petrarca e Boccaccio. Da dante si passa Petrarca, e si attacca
ciò che Petrarca aveva propagandato a quattro venti in relazione alla grandezza
del suo poema L’Africa in latino, poema non compiuto, e quindi da questa grande
aspettativa, dice Niccoli, (noi diremmo “dalla montagna”) è saltato fuori «un
topolino». Di fronte alle accuse fatte a Dante e Petrarca, è inutile continuare
con Boccaccio, che viene liquidato, poiché se è inferiore ai primi due, è
inutile continuare. D’altra parte non soltanto questi sono da giudicare
nei termini dati, ma ancor più è da giudicare negativamente la loro singolare
arroganza per come si sono dichiarati: letterati, dotti e poeti. La conclusione
liquidatoria del Niccoli, a pag 103, è la seguente : «perciò Coluccio mio … non
hanno sapere alcuno» : una dichiarazione radicale. A questo punto vediamo come
finisce questo primo libro, perché siamo quasi alla fine. Riprende a parlare
Coluccio: c’è un distacco nella cornice nell’atteggiamento «sorridendo come sua
abitudine»: ora teniamo presente che i personaggi ciceroniani, dei dialoghi
ciceroniani, in particolare il De Oratore, quando prendono la parola, nella
cornice diegetica sono mostrati mentre a prendono «sorridendo» . Allora
realismo nei confronti del Niccoli: «quanto vorrei .. non abbia trovato un
avversario», e qui cita gliavversari di Virgilio e Terenzio. Però gli avversari
di questi grandi latini del passato erano comunque più sopportabili. Teniamo
presente che questa sembra una nota caratteriale del Niccoli, questa figura del
Niccoli la troviamo al centro di diversi dialoghi di polemiche e lettere. Ma
perché gli avversari erano più sopportabili, perché loro si opponevano ad una
sola persona, e invece il Niccoli si oppone a tutti i suoi concittadini. Ma il
giorno ormai muore, ed occorre differire la risposta, che necessita molto
tempo, data la grandezza dei tre personaggi di cui occorre fare la lode, per
compensare il vituperio di Niccolo. Coluccio rimanderà questa difesa. E qui
Coluccio chiude circolarmente tornando al tema della discussione. Fine.
La conclusione del primo libro Necessità di una lode. Il primo libro ci
dice che l’attacco del Niccoli viene rifiutato in Toto dal nume tutelare, con
le parole del quale si era aperto il dialogo del primo libro, e a causa del
quale si erano svolti questi colloqui. [30:57] Viene rimandato, senza
un’indicazione che dica a quando, viene detto che sarebbe necessario un
discorso non breve e che il tempo lo impedisce. Allora a questo punto, così
come è impostato questo libro, ci fa presupporre che ce ne debba esse un altro
che comporti l’elogio di questi tre, perché rimane in un tempo di attesa.
Qui però c’è un problema relativo al modo di trasmissione dei manoscritti dei
nostri dialoghi in relazione alla fortuna del testo: devo dire che i Dialogi
ebbero una notevolissima fortuna, abbiamo un numero rilevante di manoscritti
però c’è anche un dato che non possiamo eludere: una parte di manoscritti ci
trasmette il primo libro soltanto, quindi sembra di capire che una circolazione
di questo primo libro sia stata precedente o autonoma rispetto alla diffusione
dell’opera completa, cioè dei due libri. Questo non vuol dire che tra il primo
e il secondo ci sia uno iato di composizione, anche se è una delle testi
che sono state avanzate; e non significa soprattutto che il secondo libro sia
una aggiunta esterna, successiva o pensata dopo, perché in realtà la
conclusione stessa del libro anche se non è determinata, è la conclusione che
compare spesso nei dialoghi, anche ciceroniani, quando viene rimandato ad un successivo
giorno. Ma qui non è specificato il quando, questo è vero, quindi c’è qualche
interrogativo che pone la conclusione di questo primo libro. Il
secondo libro Il secondo libro si imposta certamente in un rapporto che
possiamo definire, considerando l’opera nel suo insieme un rapporto unitario,
un rapporto non senza qualche diffrazione: cioè noi ci aspetteremmo qualcosa
d’altro, e cioè che fosse Coluccio a riprendere la lode dei tre grandi
fiorentini, e soprattutto che si riagganciasse a quello che è stato detto nel
primo libro. Invece il modo in cui si riaggancia ha qualche diffrazione.
La cornice Verso casa De Rossi. Il secondo libro del dialogo dunque si
apre il giorno dopo; si ritrovano quelli che si erano uniti il giorno
precedente, ma si aggiunge un altro personaggio. Altro interrogativo: questo
personaggio è Piero di Ser Mini, definito «giovane sveglio e sommamente
facondo». Come ricorda la nota che questo Piero di Ser Mini fu successore del
Salutati nella cancelleria di Firenze. Era rappresentato come personaggio
familiare e vicino a Coluccio, e insieme alla sua comparsa cambia anche la sede
dei personaggi: si ritrovano i personaggi del primo dialogo, tranne Roberto de
Rossi, che vanno appunto a casa di Roberto de Rossi; nel primo il De Rossi si
era aggiunto, ora i tre si aggiungono a lui. • Oltr’Arno. C’è un passaggio
nella dislocazione che non è privo di significato: vanno oltr’Arno, perché
Roberto De Rossi abitava al di là dell’Arno, oltre Palazzo Pitti; interessante
nella dislocazione perché quando finisce il dialogo ritorneranno dall’altra
parte: è come se uscissero dalla città e tornassero in città una volta concluso
l’elogio e restituita per certi versi la pienezza della compartecipazione di
quella che è l’opinione dominante. Ci sono anche connotazioni che rimandano a
luoghi per eccellenza propri di quelli che sono dibattiti di natura filosofica,
anche se questo non è propriamente filosofico: si parla del giardino, del
portico. Lode di Firenze. A questo punto non comincia una discussione
come avevamo visto essere terminata nel secondo libro, ma il nostro discorso
comincia in un altro modo: comincia con una laudatio di Firenze. Bisogna
ricordare brevemente due cose che devono essere tenute presenti per capire
meglio: a) L’encomio di Bruni. il Bruni aveva scritto
presumibilmente tra il 1403 e il 1404, una laudatio, unencomio, uno scritto il
lode di Firenze; particolarmente interessante in relazione alla tradizione
delle lodi alla città perché cambia l’impostazione: si basa sul Panatenaico di
Elio Aristide, cioè viene magnificata Firenze sul modello dell’elogio di Atene,
e l’elogio viene fatto per tutti gli elementi di Firenze, dall’aspetto fisico e
monumentale della città, alle sue istituzioni, alla città come rappresentativa
al massimo grado come figlia e erede di Roma, perché i Romani erano stati
fondatori di Firenze ai tempi della repubblica romana (secondo l’ipotesi
avanzata in quegli ultimi anni), ed era la depositaria e l’erede della libertà
repubblicana; quest’operetta era stata importante, e qui l’elogio in alto stile
viene fatto proprio da Salutati, che fa l’elogio della città dicendo per
esempio quali magnifici palazzi ci sono (e mostra i palazzi appena oltrepassati
per andare da Roberto de Rossi) e dice quanto bene ha fatto Leonardo Bruni a
lodare Firenze e loda a sua volta, lodando Firenze, quella che il Bruni la
fatto della città (esalta la laudatio di Bruni). • l’encomio dell’«encomio».
Quindi che cosa ottiene il bruni come autore in questo modo? Mette
lapropria opera come lodata dallo stesso Salutati. Ci sono anche dei nessi con
alcune altre opere del Salutati stesso. Questo elogio viene completato
dall’intervento di Pietro di Ser Mini e poi di altri e viene a toccare in
questo modo, come se fosse un discorso che si svolge naturalmente, viene a
toccare proprio il tema in oggetto, e cioè l’elogio delle glorie della città,
le glorie letterarie. b) Per capire altri punti facciamo presente che a pagina
107 viene citata un operetta del Salutati, dal Salutati stesso: è un trattato
scritto nel 1400 si intitolava De Tyranno; qui il Salutati aveva difeso la
legittimità del potere di Cesare, e soprattutto aveva difeso Dante per la
posizione assunta nella sua opera. Non è che qui adesso il Salutati faccia una
palinodia di quello che aveva scritto, però qui ne dà una interpretazione un
tantino diversa; e questa è una ragione che ci fa pensare che il Salutati fosse
morto a quell’epoca, perché non avrebbe ma accettato, conoscendo quanto fosse
molto fortemente difensore delle proprie idee e posizioni. Una
diffrazione: il parere di De Rossi. Lasciando stare questo aspetto del
problema, passiamo a parlare dei vanti di Firenze, e Roberto (al quale erano
state ricordate le glorie politiche della propria famiglia in difesa del
partito guelfo) diceva che bisognerebbe svolgere le lodi di questi personaggi,
perché questi tre poeti non sono davvero «la minor parte della nostra gloria»
(pag. 109). Noi però ci dobbiamo domandare quale fosse la posizione di Roberto
nel libro precedente: aveva detto di non voler dare giudizi, di aspettare a
dare un parere, mentre qui si dichiara finalmente d’accordo. Allora Coluccio
risponde, ed anche questo ci stupisce in quanto non dice che tale elogio
effettivamente vada fatto, infatti Coluccio dice: «sei nel giusto Roberto, essi
sono non solo la minima parte, ma anzi di gran lunga la fonte maggiore della
nostra gloria; ma che debbo fare ancora, non aprii ieri a sufficienza il mio
sentire su quei tre sommi?» ma in realtà non aveva risposto: aveva solo detto
che era contrario al parere del Niccoli, e che per svolgere l’elogio ci voleva
molto tempo: quindi c’è una vera e propria diffrazione, seppure lieve in
questo. Integrazione della laudatio del Bruni. Teniamo presente che nella
laudatio di Firenze il bruni aveva glissato sulle glorie fiorentine sotto
questo aspetto: cioè nella laudatio non sono citati Dante, Petrarca e
Boccaccio; la laudatio si conclude con il vanto degli egregi fiorentini, ma non
ci sono i nomi, è un vanto generale. Questa parte ora, in un certo senso si riaggancia
alla laudatio del bruni e la completa: in un certo senso questo secondo libro
ha indubbiamente anche questo scopo. Tanto più che il Bruni, quando nelle sue
lettere parla di questo testo, lo definisce «i libri dei nuovi poeti», quindi
l’aggancio con la laudatio indubbiamente amplifica e porta in una direzione
questo discorso. Niccoli Smascherato. Come si può risolvere il problema a
questo punto? Niccoli rimane sulla posizione di prima? No. Vien operata una
definizione in chiave retorica della posizione del Niccoli: di fatto Coluccio
afferma di aver ben capito il giorno prima che il Niccoli aveva fatto questo in
modo artificioso: l’aveva fatto non dicendo quello che pensava lui, ma lo aveva
fatto per provocarlo,perché quello che Niccoli voleva era che lui facesse
l’elogio, ma Salutati non ci era caduto, ed aveva capito bene quali erano idee
di Niccoli, il quale, insieme a Bruni, continua ad insistere che sia lui a fare
l’elogio dei tre Grandi: Salutati dice che farà ben questo, ma solo quando lo
vorrà lui! A questo punto c’è una schermaglia, uno scambio di battute con
effetto teatrale, fino a quando c’è una sorta di rilancio tra le parti: il
Salutati vuole che sia il Bruni a fare l’elogio, mentre Bruni vuole che sia
Coluccio, o quanto meno vuole decidere lui chi debba farlo (e questo è un passo
di tipo meta letterario, in quanto Bruni è anche scrittore!); alla fine Bruni
viene fatto arbitro e decide che sia Niccoli a fare l’elogio: il Niccoli li ha
attaccati, il Niccoli ora li difenda. Allora il Niccoli prende la parola e
ribalta l’accusa che aveva fatto il giorno prima. Il modello di questo è stato
rilevato dagli studiosi nel personaggio di Antonio tra il 1° e il 2° libro del
De Oratore. Come Antonio, anche il Niccoli, pur facendo una confutazione di quelle
accuse, non si adegua totalmente a quello che pensa il Salutati, così come
Antonio, nel 2° libro del De Oratore non diviene totalmente dell’idea
dell’altro nume tutelare: c’è una dialettica interna che rimane.
Excusatio. Innanzitutto il Niccoli si lancia in una ampia excusatio, fin troppo
ampia: e questo potrebbe fare pensare che il Niccoli storico, una qualche
responsabilità in queste accuse ai tre grandi potesse pure averla. Insiste
dicendo che gli altri non poteva assolutamente credere che egli attaccasse
veramente i tre grandi: è noto a tutti l’amore che ha avuto per l’opera di
Dante, per la memoria di Petrarca, per il quale è andato fino a Padova per
leggere l’Africa, l’amore per Boccaccio ecc. afferma di essere consapevole di
aver fatto quello che diceva Coluccio: ha fatto un vituperio dei tre fiorentini
solo per sollecitare Coluccio a fare l’elogio. Dato che a questo punto tocca a
lui, è costretto a farlo, con grande soddisfazione di Coluccio che lo
obbliga. Palinodia, ma non totale. Da pag 113 inizia la palinodia:
ciò che rende grandi Dante, Petrarca e Boccaccio, e risponde alle accuse che
egli stesso aveva fatto prima. Ma c’è una differenza: il Salutati si pone su
questa posizione: il salutati è un innovatore che non rompe con la tradizione, è
l’erede del Petrarca a Firenze, e di Boccaccio. Però il Salutati non vuole
rompere e contrapporsi nello stesso modo in cui altri avevano fatto con la
tradizione precedente; il Niccoli recupera le lodi dei tre, ma alla fine del
suo discorso ritorna a quello che aveva detto prima: come il Salutati è un
eccezione al tempo contemporaneo, così questi tre grandi fiorentini sono delle
eccezioni, perché il loro grandissimo ingegno permise loro di eccellere
nonostante la decadenza degli studi e nonostante la situazione del mondo loro
contemporaneo. Non è quindi propriamente la posizione del salutati, ne una
ritrattazione vera e propria, o una confutazione delle accuse espresse
prima. Petrarca precursore degli umanisti. Ci sono nelle cose dette
diverse cose interessanti, una in particolare riguarda il Petrarca e il
riconoscimento della sua funzione per l’avvio del rinnovamento negli studi
umanistici: riconosce l’importanza di Petrarca come fondatore del movimento
umanistico. Il discorso improvvisato. L’altro aspetto importante per la
struttura del dialogo riguarda la dichiarazione del parlare all’improvviso
(119) e senza preparazione: questo dopo aver fatto la lode di Dante; la
caratteristica peculiare del dialogo è che venga fatto come una conversazione
reale: gli argomenti posti in campo, come in una conversazione e senza un
ordine sistematico, senza una preparazione preordinata: ciò mette in evidenza
il carattere di naturalezza e libertà del discorso, rispetto a quello che
sarebbe in termini sistematici e stringenti di una trattazione filosofica.
Questo è un discorso, non un dialogo informa di trattato. Petrarca e
Boccaccio latini. Altro aspetto interessante, per la posizione dal punto di
vista culturale è che, mentre di Dante viene esaltata la Commedia, per
vari motivi, di Petrarca e Boccaccio viene rilevata soprattutto l’opera latina:
di Petrarca in larghissima misura poi, solo poco si dice della produzione in
volgare; di Boccaccio il Decàmeron in quanto tale non è citato! Sono citate le
opere latine: un solo accenno può far pensare al Decàmeron, ma la centralità è
data alla Genealogie. A questo punto, Dopo che Niccoli ha finito il suo
discorso, allora viene pronunciata l’assoluzione del Niccoli che viene
scagionato da quello che aveva fatto il giorno prima: gli viene data
l’assoluzioneperché nella perorazione della causa aveva difeso le sue ragioni e
quindi non è responsabile di nulla. D’altra parte però anche nel modo in cui
viene data questa sorta di assoluzione, la formulazione non è priva di tratti
di ambiguità: perché quello che si dice riguarda non tanto il discorso del
Niccoli, quanto ciò che Niccoli aveva riportato a sé per l’amore che aveva
avuto per questi autori; un margine diambiguità dunque rimane. In
definitiva. Delle Eccezioni. La parte finale del dialogo risolve e conclude
dicendo che da parte del Niccoli si ritiene abbastanza largamente premiato per
tutte le lodi ricevute, e ritorna però ai principi precedenti affermando che è
lontano dal credere di sapere qualcosa, e proprio ritorna circolarmente la sua
tesi fondamentale (125): «tanto più ciò mi par difficile, tanto più ammiro i
fiorentini in quanto nonostante l’avversità dei tempi, per una loro
sovrabbondanza di ingegno riuscirono ad essere pari o superiori agli antichi»:
delle eccezioni duqnue, illuminanti ma niente altro che delle eccezioni. Il
dialogo si conclude con l’intervento di Roberto e il ritorno al di là di ponte
vecchio. Modelli e fonti La cornice. La cornice di carattere
conviviale è la cornice classicamente ben autorizzata, il Simposioed altro, è
un’altra delle cornici riusate, non frequentemente, nel dialogo
umanistico-rinascimentale. Il fatto che qui sia stato accennato in questa forma
è indizio di una attenzione da parte del Bruni verso questa nuova forma di
dialogo. Abbiamo visto quali fossero i modelli, e in particolare come modello
di dialogo diegetico, cioè narrativo in quanto introdotto da cornice che
continua a ritornare, il De Oratore. D’altra parte anche quando di fatto ci
siano anche altri modi e altre forme come quelle miste date da cornice
introduttiva e poi l’elemento di carattere mimetico, sulla scorta del Laelius
de amicitia o come aveva fatto Petrarca nel Secretum, in relazione al dialogo
umanistico, non per il Bruni, rimane un punto nodale di riferimento; specie in alcuni
tratti che si riprendono e ricompaiono nei dialoghi quattro-cinquecenteschi: in
particolare per il fatto che ci sia una cornice di carattere realistico (cosa
che non c’è nel Secretum); una cornice di carattere realistico; coordinate
spazio temporali che corrispondono ad aspetti di carattere realistico; e
personaggi che appartengono a figure storiche ben individuate. Altro dato che
rimane costante e comune è la rappresentazione scenica: c’è una dimensione
teatrale largamente riconosciuta, rappresentazione scenica sia in relazione ai
personaggi, sia ai personaggi che si alternano nel dialogo: personaggi che
vengono a recitare un ruolo, come vedremo ancora di più nel Cortegiano. Abbiamo
poi visto la dichiarazione di veridicità: l’autore dice di aver riportato un
reale dialogo, e abbiamo visto come si vuole cercare di rendere evidente al
lettore, di mimare l’andamento di una libera conversazione: una conversazione
non preordinata. Il dialogo Diversi usi del dialogo. Il nostro non
è un trattato, ma la forma del dialogo è una di quelle privilegiate per il
trattato quattro-cinquecentesco. Naturalmente le possibilità insite possono
essere diverse: in quanto noi ci possiamo trovare di fronte ad un trattato in
forma di dialogo in cui si voglia veicolare unatesi, e si individua una
strategia comunicativa dialogica che fa capire quale sia la sua tesi. Ma ci
possono essere altre possibilità: ci può essere quella propria del confronto di
opinioni, con un dialogo che si compone via via in una ricerca che si completa a
vicenda, e d’altra parte ci sono anche dialoghi che rimangono aperti: sono
confronti di opinioni che non sono riconducibili in unità, e quindi la
discordia rimane. Il dialogo per sua stessa natura presenta problemi di
carattere interpretativo in quanto ha un margine interno di ambiguità, nel
senso che ci troviamo di fronte ad enunciazioni di posizioni diverse da parte
dei personaggi: dipende molto dalla strategia compositiva, che può indirizzare
il lettore, ma ci possono essere delle voci, delle posizioni dei tratti che
possono sembrare ambivalenti o volutamente lasciate con prospettive diverse da
parte dell’autore, e questo comporta evidentemente dei problemi e difficoltà di
interpretazione. Naturalmente ci sono anche dialoghi dove da questo punto di vista
viene fatto intendere in maniera chiara ed evidente e viene orientata in
maniera che non ci siano dubbi quella che è la prospettiva dell’autore. In
questo è un notissimo l’esempio di Galileo, dove le posizioni sono definite in
modo chiaro, e la posizione di Simplicio è quella di chi enuncia testi che
devono essere confutate. Leonardo Bruno. Keywords:
implicatura geometrica, Ethica nicomachaea, Grice, Hardie. “Ad Petrum Paulum Histrum”. Refs. Luigi
Speranza, “Grice e Bruni: implicatura geometrica” – The Swimming-Pool Library.
Bruno (Nola). Filosofo. Grice:
“Italians should concentrate on the few Italian philosophical dialogues by
Bruno in the vernacular, and leave those in ‘the learned’ for those who cannot
deal with the ‘volgare’!” “My favourite has to be the one on Atteone – which
Bruno describes as the ‘furor’ of a ‘heroe’ – Atteone il cacciatore – but the
one on the Fiume at the Campidoglio is also very good!” -- Giordano Bruno – Grice: “A genius”. La sua filosofia, inquadrabile nel naturalismo
rinascimentale d’amare infinitiamente, fonde le più diverse tradizioni
filosofiche — materialismo antico, galileismo, neoplatonismo, ermetismo,
mnemotecnica -- ma ruota intorno a un'unica idea: l'infinito – “l’immenso” -- inteso
come l'universo infinito, effetto di un Dio infinito, in-figurabile, fatto di
infiniti mondi, da amare infinitamente. Non esistono molti documenti sulla
sua gioventù. È lo stesso filosofo, negli interrogatori cui fu sottoposto
durante il processo che segna gli ultimi
anni della sua vita, a dare le informazioni sui suoi primi anni. Io ho nome
Giordano Filippo della famiglia di Bruni, della città de Nola vicina a Napoli
dodeci miglia, nato ed allevato in quella città, e più precisamente nella
contrada di san Giovanni del Cesco, ai piedi del monte Cicala. Figlio
dell'alfiere Giovanni e di Fraulissa Savolina per quanto ho inteso dalli miei. Il
Mezzogiorno era allora parte del Regno di Napoli. Fu battezzato col nome di
Filippo in onore dell'erede al trono. La sua casa - che non esiste più - era
modesta, ma nel suo “De immense” ricorda con commossa simpatia l'ambiente che
la circondava, l'amenissimo monte Cicala, le rovine del castello del XII
secolo, gli ulivi, in parte gli stessi di oggi, e di fronte, il Vesuvio, che, pensando
che oltre quella montagna non vi fosse più nulla nel mondo, esplora ragazzetto.
Ne trae l'insegnamento di non basarsi esclusivamente sul giudizio dei sensi,
come fa, a suo dire, il grande Aristotele, imparando soprattutto che, al di là
di ogni apparente limite, vi è sempre qualche cosa d'altro. Impara a
leggere e a scrivere da un prete nolano, Giandomenico de Iannello e compì gli
studi di grammatica nella scuola di Aloia. Prosegue gli studi superiori a Napoli,
che era allora nel cortile del convento di san Domenico, per apprendere lettere,
logica e dialettica da Colle e lezioni private di logica da un agostiniano, Vairano.
Il Sarnese, ossia Colle e un aristotelico. Per Colle, solo il concetto conta,
nessuna importanza avendo la forma nella quale il concetto e espresso. Scarse
le notizie su Vairano, del quale Bruno ebbe sempre ammirazione, tanto da farlo
protagonista dei suoi dialoghi cosmologici e da confidare al bibliotecario
Cotin che eglio fu «il principale tutore che abbia avuto in filosofia. Per
delineare la sua prima formazione, basta aggiungere che, introducendo la
spiegazione del nono sigillo nella sua “Explicatio triginta sigillorum”, scrive
di essersi dedicato fin da giovanissimo allo studio dell'arte della memoria,
influenzato probabilmente dalla lettura del trattato Phoenix seu artificiosa
memoria di Tommai. In convento Interno della chiesa di san Domenico
Maggiore a Napoli, dove Bruno seguì il suo noviziato e fu promosso agli ordini
sacri A 14 anni, o 15 incirca rinuncia al nome di Filippo, come imposto dalla
regola domenicana, assume il nome di Giordano, in onore a Giordano di Sassonia,
successore di Domenico, o forse di Giordano Crispo, suo tutore di metafisica, e
prende quindi l'abito di frate domenicano dal priore del convento di san Domenico
Maggiore a Napoli, Pasca. Fnito l'anno della probatione, e admesso da lui medesimo
alla professione», in realtà fu novizio il 15 giugno 1565 e professo il 16
giugno 1566, a diciotto anni. Valutando retrospettivamente, la scelta d'indossare
l'abito domenicano può spiegarsi non già per un interesse alla vita religiosa o
agli studi teologici – che mai ebbe, come affermò anche al processo - ma per
potersi dedicare ai suoi studi prediletti di filosofia con il vantaggio di
godere della condizione di privilegiata sicurezza che l'appartenenza a quell'ordine
potente certamente gli garanta. Che egli non fosse entrato fra i
domenicani per tutelare l'ortodossia della fede cattolica lo rivelò subito
l'episodio – narrato da lui stesso al processo – nel quale nel convento di san
Domenico, butta via le immagini dei santi in suo possesso, conservando solo il
crocefisso e invitando un novizio che legga la Historia delle sette allegrezze
della Madonna a gettar via quel libro, una modesta operetta devozionale,
pubblicata a Firenze, perifrasi di versi in latino di Chiaravalle,
sostituendolo magari con lo studio della Vita de' santi Padri di Cavalca.
Episodio che, pur conosciuto dai superiori, non provoca sanzioni nei suoi
confronti, ma che dimostra come fosse del tutto estraneo alle tematiche devozionali
contro-riformistiche. Chiesa di San Bartolomeo a Campagna, dove celebra la
sua prima messa. E andato a Roma e sia stato presentato a Pio V e al cardinale Rebiba,
al quale avrebbe insegnato qualche elemento di quell'arte mnemonica che tanta
parte avrà nella sua speculazione filosofica. Fu ordinato suddiacono, diacono,
e presbitero, celebrando la sua prima messa nel convento di san Bartolomeo a
Campagna, presso Salerno, a quell'epoca appartenente ai Grimaldi, principi di
Monaco, e si laurea con una tesi su Aquino e Lombardo. Non bisogna pensare
che un convento fosse esclusivamente un'oasi di pace e di meditazione di
spiriti eletti. Nei confronti dei frati di san Domenico Maggiore furono emesse
diciotto sentenze di condanna per scandali sessuali, furti e perfino omicidi. Non
deve pertanto stupire il disprezzo che ostenta sempre nei confronti dei frati,
ai quali rimprovera in particolare la mancanza di cultura; e non solo, ma,
secondo un'ipotesi di Spampanato comunemente accettata in sede critica, nel protagonista
del suo “Candelaio”, Bonifacio, egli assai probabilmente alluse proprio a un
suo con-fratello, Bonifacio da Napoli, definito nella lettera dedicatoria alla
Signora Morgana B. “candelaio” “in carne ed ossa”, ossia “sodomita”. Tuttavia,
la possibilità di formarsi un'ampia cultura non manca certo nel convento di san
Domenico Maggiore, famoso per la ricchezza della sua biblioteca, anche se, come
negli altri conventi, sono vietati i saggi di Erasmo da Rotterdam che però si procura in parte, leggendoli di nascosto. La
sua esperienza conventuale e in ogni caso decisiva. Vi puo compiere i suoi
studi e formare la sua cultura leggendo di tutto, da Aristotele ad Aquino, da
Gerolamo a Crisostomo, oltre alle opere di Ficino. La sua indipendenza di
pensiero e la sua insofferenza verso l'osservanza dei dogmi si manifestarono inequivocabilmente.
Discutendo di arianesimo con Montalcino, ospite nel convento napoletano,
sostenne che le opinioni di Ario e meno perniciose di quel che si riteneva,
dichiarando che Ario dice che il verbo non era creatore né creatura, ma medio
intra il creatore e la creatura, come il verbo è mezzo intra il dicente
(DICENS, DICTOR, utterer, mittente) ed il detto (il detto, DICTUM, utteratum,
missum) e però essere detto primogenito avanti ogni creatura, non dal quale ma
per il quale è stato creato ogni cosa, non al quale ma per il quale si
refferisce e ritorna ogni cosa all'ultimo fine, che è il Padre, essagerandomi
sopra questo. Per il che fui tolto in suspetto e processato, tra le altre cose,
forsi de questo ancora. E all'inquisitore veneziano espresse il proprio
scetticismo sulla trinità, ammettendo di aver dubitato circa il nome di “persona”
del Figliolo e del Spirito Santo, non intendendo queste due persone distinte
dal Padre, ma considerando il Figlio, neo-platonicamente, l'intelletto e lo spirito,
pitagoricamente, l'amore del padre o l'anima del mondo, non dunque “persone” o
sostanze distinte, ma manifestazioni divine. Denunciato da Agostino al
padre provincial Vita, costui istituì contro di lui un processo per eresia e,
come racconta lui stesso agli inquisitori veneti, dubitando di non esser messo
in preggione, me partto da Napoli ed ando a Roma. Raggiunse Roma, ospite del
convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, il cui procuratore, Lucca,
divenne pochi anni dopo generale dell'Ordine e
censura i saggi di Montaigne. Sono anni di gravi disordini: a Roma
sembra non farsi altro, scrive il cronista Gualtieri, che rubare e ammazzare:
molti gittati in Tevere, né di popolo solamente, ma i monsignori, i figli di
magnati, messi al tormento del fuoco, e nipoti di cardinali sono levati dal
mondo e ne incolpa il debole Gregorio XIII. è accusato di aver ammazzato e
gettato nel fiume un frate: scrive Cotin, fugge da Roma per un omicidio
commesso da un suo frère, per il quale egli è incolpato e in pericolo di vita,
sia per le calunnie dei suoi inquisitori che, ignoranti come sono, non
concepiscono la sua filosofia e lo accusano di eresia. Oltre all'accusa di
omicidio, ha infatti notizia che nel convento napoletano erano stati trovati,
tra i suoi saggi, saggi di Crisostomo e di Gerolamo annotate da Erasmo e che si
sta istruendo contro di lui un processo per eresia. Così abbandona
l'abito domenicano, riassume il nome di Filippo, lascia Roma e fugge in
Liguria. Portico del Palazzo comunale di Noli, dove soggiorna per un breve
periodo. Sotto il portico una lapide ricorda il soggiorno del filosofo:
"Giordano Bruno Prima d'insegnare all'Europa Le leggi dell'ordine
universale fu maestro in Noli di grammatica e cosmografia. è a Genova e scrive
che allora, nella chiesa di Santa Maria di Castello, si adora come reliquia e
si fac baciare ai fedeli la coda dell'asina che portò Gesù a Gerusalemme. Da
qui, va poi a Noli, dove insegna grammatica ai bambini e cosmografia agli
adulti. è a Savona, poi a Torino, che giudica deliciosa città ma, non
trovandovi impiego, per via fluviale s'indirizza a Venezia, dove alloggia in
una locanda nella contrada di Frezzeria, facendovi stampare il suo primo
saggio, “De' segni de' tempi”, per metter insieme un pocco de danari per
potermi sustentar; la qual opera feci veder prima al reverendo padre maestro
Fiorenza, domenicano del convento dei Santi Giovanni e Paolo. Ma a
Venezia e in corso un'epidemia di peste che ha fatto decine di migliaia di
vittime, anche illustri, come Tiziano, così va a Padova dove, dietro consiglio
di alcuni domenicani, riprende il saio, quindi se ne va a Brescia, dove si ferma
nel convento domenicano. Qui un monaco, profeta, gran teologo e poliglotta, sospettato
di stregoneria per essersi messo a profetizzare, viene da lui guarito,
ritornando a essere - scrive ironicamente - il solito asino. IDa Bergamo decide
di andare in Francia: passa per Milano e Torino, ed entra in Savoia passando
l'inverno nel convento domenicano di Chambéry. Successivamente, è a Ginevra, città dov'è presente una numerosa
colonia di italiani riformati. Bruno depone nuovamente il saio e si veste di
cappa, cappello e spada, aderisce al calvinismo e trova lavoro come correttore
di bozze, grazie all'interessamento del marchese Caracciolo il quale, transfuga
dall'Italia vi aveva fondato la comunità
evangelica italiana. S'iscrive allo studio di Ginevra come Filippo Bruno
nolano, professore di teologia sacra. Accusa il professore di filosofia Faye di
essere un cattivo insegnante e definisce pedagoghi i pastori calvinisti. È
probabile che volesse farsi notare, dimostrare l'eccellenza della sua
preparazione filosofica e delle sue capacità didattiche per ottenere un
incarico d'insegnante, costante ambizione di tutta la sua vita. Anche la sua
adesione al calvinismo e mirata a questo scopo. E in realtà indifferente a tutte
le confessioni religiose. Nella misura in cui l'adesione a una religione
storica non pregiudicasse le sue convinzioni filosofiche e la libertà di
professarle, sarebbe stato cattolico in Italia, calvinista in Svizzera,
anglicano in Inghilterra e luterano in Germania. Arrestato per diffamazione,
viene processato e scomunicato. Costretto a ritrattare. Lscia allora Ginevra e
si trasferisce brevemente a Lione per passare a Tolosa, città cattolica, sede
di un'importante studio, dove occupa il posto di lettore, insegnandovi, come
Grice, il “De anima”, di Aristotele e componendo un trattato di arte della
memoria: la Clavis magna, che si rifarebbe all'Ars magna. A Tolosa conosce il
filosofo scettico Sanches, che volle dedicargli il suo libro “Quod nihil
scitur”, chiamandolo filosofo acutissimo. Ma
non ricambia la stima, se scrisse di lui di considerare stupefacente che
questo asino si dia il titolo di dottore. A causa della guerra di religione fra
cattolici e ugonotti, lascia Tolosa per Parigi, dove tiene un corso di lezioni
sugli attributi di Dio secondo Aquino. E in seguito al successo di queste
lezioni, come egli stesso racconta agli inquisitori, acquistai nome tale che il
re Enrico terzo mi fece chiamare un giorno, ricercandomi se la memoria che ho e
che professo, e naturale o pur per arte magica; al qual diedi sodisfazione; e
con quello che li dissi e feci provare a lui medesmo, conosce che non era per
arte magica ma per scienzia. E doppo questo fa stampar un libro de memoria,
sotto titolo “De umbris idearum”, il qual dedica a Sua Maestà; e con questa
occasione si fa lettor straordinario e provvisionato. Appoggiando fattivamente
l'operato politico di Enrico III di Valois, a Parigi sarebbe rimasto poco meno
di due anni, occupato nella prestigiosa posizione di lecteur royal. È a Parigi
che dà alle stampe le sue prime opere pervenuteci. Oltre al “De compendiosa
architectura et complemento artis Lullii” vedono la luce il “De umbris idearum”
(“Le ombre delle idee”) e l'Ars memoriae ("L'arte della memoria"), seguiti
dal “Cantus Circaeus”, “Il canto di Circe”, e dalla commedia in volgare intitolata “Candelaio”
(Il sodomita). Nella suai intenzioni, il
saggio di argomento mnemotecnico, è distinto così in una parte di carattere
teorico e in una di carattere pratico. Per lui l'universo è un corpo unico, organicamente
formato, con un preciso ordine che struttura ogni singola cosa e la connette
con tutte le altre. Fondamento di quest'ordine sono le idee, principi eterni e
immutabili presenti totalmente e simultaneamente nella mente divina, ma queste
idee vengono "ombrate" e si separano nell'atto di volerle intendere.
Nel cosmo ogni singolo ente è dunque imitazione, immagine -- "ombra" --
della realtà ideale che la regge. Rispecchiando in sé stessa la struttura
dell'universo, la mente umana, che ha in sé non le idee ma le ombre delle idee
(Shakespeare, l’ombra dell’ombra), può raggiungere la vera conoscenza, ossia la
idea e il nesso che connetta ogni cosa con ogni altre, al di là della
molteplicità degli elementi particolari e del loro mutare nel tempo. Si tratta
allora di cercare di ottenere un metodo conoscitivo che colga la complessità
del reale, fino alla struttura ideale che sostiene il tutto. Tale mezzo
si fonda sull'arte della memoria, il cui compito è di evitare la confusione
generata dalla molteplicità delle immagini e di connettere la immagine della
cosa con il concetto, rappresentando simbolicamente tutto il reale. Nel
pensiero del filosofo, l'arte della memoria opera nel medesimo mondo dell’ombre
delle idea, presentandosi come emulatrice della natura. Se dall’idea prende
forma la cosa del mondo in quanto la idea contiene l’immagine di ogni cosa, e
ai nostri sensi la cosa si manifestano come ombra di quella, allora tramite
l'immaginazione stessa e possibile ripercorrere il cammino inverso, risalire
cioè dall’ombra alle idea, dall'uomo a Dio: l'arte della memoria non è più un
ausilio della retorica, ma un mezzo per ri-creare il mondo (cf. Grice
metaphysical routine: creation of concept, recreation of concept, creation of
thing). È dunque un processo visionario e non un metodo razionale quello che propone.
A similitudine di ogni altra arte, quella della memoria ha bisogno di un
sostrato (i subiecta), cioè "spazi" dell'immaginazione atti ad
accogliere il simbolo adatti (gl’ “adiecta”) tramite uno strumento opportuno.
Con questi presupposti, lcostruisce un “sistema” (cf. Grice, Gentzen), che associa
a ogni segno una immagine proprie della mitologia, in modo da rendere possibile
la codifica di segno e concetto secondo una particolare successione di
immagini. Il segno puo essere visualizzato su un diagramma circolare, o
"ruote mnemoniche", che girando e innestandosi l'una dentro l'altra,
fornisce un strumento via via più potenti. “Il canto di Circe” è composta da
due dialoghi. Protagonista del primo è la maga Circe che risentita dal
constatare che l’uomo si comporta come un animale inferiore, opera un incantesimo
trasformando l’uomo in bestia, mettendo così in luce la loro autentica natura.
Nel secondo dialogo, dando voce a uno dei due protagonisti, Borista, riprende
l'arte della memoria mostrando come memorizzare il dialogo precedente. Al testo
si fa corrispondere uno scenario che viene via via suddiviso in un maggior
numero di spazi e i vari oggetti lì contenuti sono ogni immagine relativa a
ogni concetto espresso nello scritto. Il Cantus resta dunque un trattato di
mnemotecnica nel quale però il filosofo già lascia intravedere una tematica
morale che e ampiamente riprese in opere successive, soprattutto nello “Spaccio
de la bestia trionfante” e ne “De gli eroici furori”. Ancora pubblica infine il
Candelaio, una commedia in cinque atti in cui alla complessità del linguaggio,
un italiano popolaresco che inserisce termini in latino, toscano e napoletano,
corrisponde l'eccentricità della trama, fondata su tre storie parallele. Esterno
della chiesa di Santa Maria Assunta dei Pignatelli, in Largo Corpo di Napoli,
presso il Seggio del Nilo, dove Bruno ambienta il suo Candelaio. Il nome “Candelaio”
deriva dalla statua del dio Nilo. La commedia è ambientata nella
Napoli-metropoli del secondo Cinquecento, in posti che il filosofo ben conosce
per avervi soggiornato durante il suo noviziato. Il candelaio (sodomita) Bonifacio,
pur sposato con la bella Carubina, corteggia la signora Vittoria ricorrendo a
pratiche magiche. L’avido alchimista Bartolomeo si ostina a voler trasformare i
metalli in oro. Il grammatico Manfurio si esprime in un linguaggio
incomprensibile (deutero-Esperanto). In queste tre storie si inserisce quella
del pittore Gioan Bernardo, voce di lui stesso che con una corte di servi e
malfattori si fa beffe di tutti e conquista Carubina. In questo classico
della letteratura italiana, appare un mondo assurdo, violento e corrotto,
rappresentato con amara comicità, dove gli eventi si succedono in una
trasformazione continua e vivace. La commedia è una feroce condanna della
stupidità, dell'avarizia e della pedanteria. Interessante nell'opera la
descrizione che lui fa di sé stesso. L'autore, si voi lo conoscete, direste
ch'ave una fisionomia smarrita: par che sii in contemplazione delle pene
dell'inferno, par sii stato alla pressa come le barrette: un che ride sol per
far come fan gli altri: per il più lo vedrete fastidito e bizzarro, non si
contenta di nulla, ritroso come un uomo d'ottant'anni, fantastico com'un cane
ch'ha ricevute mille spellicciate, pasciuto di cipolla. Intende venire in
Inghilterra il dottor Giordano Bruno, Nolano, professore di filosofia, la cui
religione non posso approvare. Dalla lettera dell'ambasciatore inglese a Parigi
Cobham a Walsingham. Lascia Parigi e parte per l'Inghilterra dove, a Londra, è
ospitato dall'ambasciatore di Francia Castelnau, che gli affianca il letterato
Florio in quanto lui non conosce l'inglese, accompagnandolo fino al termine del
suo soggiorno inglese. Nelle deposizioni lasciate agli inquisitori veneti egli
sorvola sulle motivazioni di questa partenza, riferendosi genericamente ai
disordini là in corso per questioni religiose. Sulla partenza da Parigi restano
però aperte altre ipotesi: che Bruno fosse partito in missione segreta per
conto di Enrico III; che il clima a Parigi si fosse fatto pericoloso a causa
dei suoi insegnamenti. Bisogna aggiungere anche il fatto che davanti agli inquisitori
veneziani, qualche anno più avanti, esprimer parole di apprezzamento per la
regina d'Inghilterra Elisabetta che egli aveva conosciuto andando spesso a
corte con l'ambasciatore. -- è a Oxford, e alla St. Mary sostenne con uno di
quei professori una disputa pubblica. Tornato a Londra, vi pubblica l'”Ars
reminiscendi”, l' “Explicatio triginta sigillorum” e il “Sigillus sigillorum”
nel quale insere una lettera indirizzata al vice cancelliere di Oxford,
scrivendo che là trovea dispostissimo e prontissimo un uomo col quale saggiare la
misura della propria forza. È una richiesta di poter insegnare nella
prestigiosa università. La proposta viene accolta. Parte per Oxford. Il “Sigillus
sigillorum” e considerato di argomento mnemotecnico. Il sigillus e è una concisa
trattazione teorica nella quale il filosofo introduce tematiche decisive nel
suo pensiero, quali l'unità dei processi cognitivi; l'amore come legame
universale; l'unicità e infinità di una forma universale che si esplica nelle
infinite figure della materia, e il furore nel senso di slancio verso il
divino, argomenti che saranno di lì a poco sviluppati a fondo nei successivi
dialoghi italiani. È presentato inoltre in quest'opera fondamentale un altro
dei temi nucleari di sua filosofia: la magia come guida e strumento di
conoscenza e azione, argomento che egli amplierà nelle cosiddette opere
magiche. A Oxford tiene alcune lezioni sulle teorie copernicane, ma il
suo soggiorno presso quella città dura ben poco. A Oxford non gradirono quelle
novità, come testimonia Abbot, che fu presente alle lezioni di Bruno. Quell'omiciattolo
italiano intraprese il tentativo, tra moltissime altre cose, di far stare in
piedi l'opinione di Copernico, per cui la terra gira e i cieli stanno fermi;
mentre in realtà era la sua testa che girava e il suo cervello che non stava
fermo. Le lezioni furono quindi interrotte, ufficialmente per un'accusa di
plagio al “De vita coelitus comparanda” di Ficino. Sono anni questi difficili e
amari per il filosofo, come traspare dal tono delle introduzioni alle opere
immediatamente successive, i dialoghi londinesi: le polemiche accese e i
rifiuti sono vissuti lui come una persecuzione, ingiusti oltraggi, e certo la
fama che già lo aveva preceduto da Parigi non lo aiuta. Ritornato a Londra, nonostante
il clima avverso, pubblica presso John Charlewood sei saggi fra le più
importanti della sua produzione: sei opere filosofiche in forma dialogica, i
cosiddetti "dialoghi londinesi", o anche "dialoghi
italiani", perché tutti in lingua italiana: “La cena de le ceneri”; “De la
causa, principio et uno”; “De l'infinito, universo e mondi”; “Spaccio de la
bestia trionfante”; “Cabala del cavallo pegaseo con l'aggiunta dell'Asino
cillenico”; “De gli eroici furori”. “La cena de le ceneri” dedicata a Castelnau,
presso il quale era ospite, è divisa in cinque dialoghi, i protagonisti sono quattro
e fra questi Teofilo può considerarsi il portavoce dell'autore. Immagina che il
nobile sir Fulke Greville, il giorno delle ceneri, inviti a cena Teofilo, lui stesso,
Florio, precettore della figlia dell'ambasciatore, un cavaliere e due
accademici luterani di Oxford: i dottori Torquato e Nundinio. Rispondendo alle
domande degli altri protagonisti, Teofilo racconta gli eventi che hanno portato
all'incontro e lo svolgersi della conversazione avvenuta durante la cena,
esponendo così le teorie del nolano. Bruno elogia e difende la teoria di Copernico
contro gli attacchi dei conservatori e contro chi, come Osiander, che aveva
scritto una prefazione denigratoria al De revolutionibus orbium coelestium,
considera solo un'ipotesi ingegnosa quella dell'astronomo. Il mondo di
Copernico, però, era ancora finito e delimitato dalla sfera delle stelle fisse.
Nella Cena, non si limita a sostenere il moto della Terra di seguito alla confutazione
della cosmologia tolemaica; egli presenta altresì un universo infinito: senza
centro né confini. Afferma Teofilo (portavoce dell'autore) riguardo
all'universo che sappiamo certo che essendo effetto e principiato da una causa
infinita e principio infinito, deve secondo la capacità sua corporale e modo
suo essere infinitamente infinito. Non è possibile giamai di trovar raggione
semiprobabile per la quale sia margine di questo universo corporale; e per
conseguenza ancora li astri che nel suo spacio si contengono, siino di numero
finito; et oltre essere naturalmente determinato cento e mezzo di quello». L'universo,
che procede da Dio quale Causa infinita, è infinito a sua volta e contiene
mondi innumerabili. Per Bruno sono principi vani sostenere l'esistenza
del firmamento con le sue stelle fisse, la finitezza dell'universo e che in
questo esista un centro dove ora dovrebbe trovarsi immobile il Sole come prima
vi si immaginava ferma la Terra. Formula esempi che appaiono ad alcuni autori
come antesignani del principio di relatività galileiana. Seguendo la Docta
ignorantia del cardinale e umanista Cusano, sostiene l'infinità dell'universo
in quanto effetto di una causa infinita. -- e ovviamente consapevole che le
Scritture sostengono tutt'altro – finitezza dell'universo e centralità della
Terra – ma, risponde: «Se gli dei si fossero degnati di insegnarci la
teorica delle cose della natura, come ne han fatto favore di proporci la
pratica di cose morali, io più tosto mi accosterei alla fede de le loro rivelazioni,
che muovermi punto della certezza de mie raggioni e proprii sentimenti. Come
occorre distinguere tra dottrine morali e filosofia naturale, così occorre
distinguere tra teologi e filosofi: ai primi spettano le questioni morali, ai
secondi la ricerca della verità. Dunque Bruno traccia qui un confine abbastanza
netto fra opere di filosofia naturale e Sacre scritture. I cinque dialoghi
del De la causa, principio et uno intendono stabilire i principi della realtà
naturale. Lascia da parte l'aspetto teologico della conoscenza di Dio, del
quale, come causa della natura, non possiamo conoscere nulla attraverso il
«lume naturale», perché esso «ascende sopra la natura» e si può pertanto
aspirare a conoscere Dio solo per fede. Ciò che interessa a Bruno è invece la
filosofia e la contemplazione della natura, la conoscenza della realtà naturale
nella quale, come già aveva scritto nel De umbris, possiamo soltanto cogliere
le «ombre», il divino «per modo di vestigio. La costellazione di Orione
Riallacciandosi ad antiche tradizioni di pensiero, Bruno elabora una concezione
animistica della materia, nella quale l'anima del mondo viene a identificarsi
con la sua forma universale, e la cui prima e principale facoltà è l'intelletto
universale. L'intelletto è il «principio formale costitutivo de l'universo e di
ciò che in quello si contiene» e la forma non è altro che il principio vitale,
l'anima delle cose le quali, proprio perché tutte dotate di anima, non hanno
imperfezione. La materia, d'altro canto, non è in sé stessa indifferenziata,
un "nulla", come hanno sostenuto molti filosofi, una bruta potenza,
senza atto e senza perfezione, come direbbe Aristotele. La materia è
allora il secondo principio della natura, della quale ogni cosa è formata. Essa
è «potenza d'esser fatto, prodotto e creato», aspetto equivalente al principio
formale che è potenza attiva, «potenza di fare, di produrre, di creare» e non
può esserci l'un principio senza l'altro. Ponendosi quindi in contrasto col
dualismo aristotelico, Bruno conclude che principio formale e principio
materiale benché distinti non possono essere ritenuti separati, perché «il
tutto secondo la sostanza è uno». Discendono da queste considerazioni due
elementi fondamentali della filosofia bruniana: uno, tutta la materia è vita e
la vita è nella materia, materia infinita; due, Dio non può essere al di fuori
della materia semplicemente perché non esiste un "esterno" della
materia: Dio è dentro la materia, dentro di noi. Nel “De l'infinito, universo e
mondi” riprende e arricchisce temi già affrontati nei dialoghi precedenti: la
necessità di un accordo tra filosofi e teologi, perché «la fede si richiede per
l'istituzione di rozzi popoli che denno esser governati»; l'infinità
dell'universo e l'esistenza di mondi infiniti; la mancanza di un centro in un
universo infinito, che comporta un'ulteriore conseguenza: la scomparsa
dell'antico, ipotizzato ordine gerarchico, la «vanissima fantasia» che riteneva
che al centro vi fosse il «corpo più denso e crasso» e si ascendesse ai corpi
più fini e divini. La concezione aristotelica è difesa ancora da quei dottori
(i pedanti) che hanno fede nella «fama de gli autori che gli son stati messi
nelle mani», ma i filosofi moderni, che non hanno interesse a dipendere da
quello che dicono gli altri e pensano con la loro testa, si sbarazzano di
queste anticaglie e con passo più sicuro procedono verso la verità.
Chiaramente un universo eterno, infinitamente esteso, composto di un numero
infinito di sistemi solari simili al nostro e sprovvisto di centro sottrae alla
Terra, e di conseguenza all'uomo, quel ruolo privilegiato che Terra e uomo
hanno nelle religioni giudaico-cristiane all'interno del modello della
creazione, creazione che agli occhi del filosofo non ha più senso, perché come
già aveva concluso nei due dialoghi precedenti, l'universo è assimilabile a un
organismo vivente, dove la vita è insita in una materia infinita che
perennemente muta. Il copernicanesimo, per Bruno, rappresenta la
"vera" concezione dell'universo, meglio, l'effettiva descrizione dei
moti celesti. Nel Dialogo primo del De l'infinito, universo e mondi, il nolano
spiega che l'universo è infinito perché tale è la sua Causa che coincide con
Dio. Filoteo, portavoce dell'autore, afferma: «Qual raggione vuole che vogliamo
credere che l'agente che può fare un buono infinito lo fa finito? e se lo fa
finito, perché doviamo noi credere che possa farlo infinito, essendo in lui il
possere et il fare tutto uno? Perché è inmutabile, non ha contingenzia
nell'operazione, né nella efficacia, ma da determinata e certa efficacia
depende determinato e certo effetto inmutabilmente: onde non può essere altro
che quello che è; non può essere tale quale non è; non può posser altro che
quel che può; non può voler altro che quel che vuole; e necessariamente non può
far altro che quel che fa: atteso che l'aver potenza distinta da l'atto
conviene solamente a cose mutabili». Essendo Dio infinitamente potente, dunque,
il suo atto esplicativo deve esserlo altrettanto. In Dio coincidono libertà e
necessità, volontà e potenza (o capacità); di conseguenza, non è credibile che
all'atto della creazione Egli abbia posto un limite a sé stesso. Bisogna
tener presente che Bruno opera una netta distinzione tra l'universo e i mondi.
Parlare di un sistema del mondo non vuol dire, nella sua visione del cosmo,
parlare di un sistema dell'universo. L'astronomia è legittima e possibile come
scienza del mondo che cade nell'ambito della nostra percezione sensibile. Ma,
al di là di esso, si estende un universo infinito che contiene quei
"grandi animali" che chiamiamo astri, che racchiude una pluralità
infinita di mondi. Quell'universo non ha dimensioni né misura, non ha forma né
figura. Di esso, che è insieme uniforme e senza forma, che non è né armonico né
ordinato, non può in alcun modo darsi un sistema». «Quando aviene che un
poltrone o forfante monta ad esser principe o ricco, non è per mia colpa, ma
per iniquità di voi altri che, per esser scarsi del lume e splendor vostro, non
lo sforfantaste o spoltronaste prima, o non lo spoltronate e sforfantate al
presente, o almeno appresso lo vegnate a purgar della forfantesca poltronaria,
a fine che un tale non presieda. Non è errore che sia fatto un prencipe, ma che
sia fatto prencipe un forfante.» (Spaccio de la bestia trionfante,
Fortuna (Sofia): dialogo II, parte II) Opera allegorica, lo Spaccio, costituito
da tre dialoghi di argomento morale, si presta a essere interpretato su diversi
livelli, tra i quali resta fondamentale quello dell'intento polemico di Bruno
contro la Riforma protestante, che agli occhi del nolano rappresenta il punto
più basso di un ciclo di decadenza iniziato col cristianesimo. Decadenza non
soltanto religiosa, ma anche civile e filosofica: se Bruno aveva concluso nei
precedenti dialoghi che la fede è necessaria per il governo dei «rozzi popoli»
cercando di delimitare così i rispettivi campi d'azione di filosofia e
religione, qui egli riapre quel confine. Nella visione di Bruno, il
legame fra l'uomo e il mondo, mondo naturale e mondo civile, è quello fra l'uomo
e un Dio che non sta "nell'alto dei cieli", ma nel mondo, perché la
«natura non è altro che dio nelle cose». Il filosofo, colui che cerca la Verità,
deve pertanto necessariamente operare là dove sono situate le «ombre» del
divino. L'uomo non può fare a meno di interagire con Dio, secondo il linguaggio
di una comunicazione che nel mondo naturale vede l'uomo perseguire la
Conoscenza, e nel mondo civile l'uomo seguire la Legge. Questo legame è proprio
quello che nella storia è stato interrotto, e il mondo tutto è decaduto perché
è decaduta la religione trascinando con sé e la legge e la filosofia, «di sorte
che non siamo più dèi, non siamo più noi. Nello Spaccio, dunque, etica,
ontologia e religione sono strettamente interconnessi. Religione, e questo va
evidenziato, che Bruno intende come religione civile e naturale, e il modello
cui egli si ispira è quello degli antichi Egizi e Romani, che «non adoravano
Giove, come lui fusse la divinità, ma adoravano la divinità come fusse in
Giove. Per ristabilire il legame col divino occorre però che «prima togliamo
dalle nostre spalli la grieve somma d'errori che ne trattiene.» È lo
"spaccio", cioè l'espulsione di ciò che ha deteriorato quel legame:
le "bestie trionfanti". Le bestie trionfanti sono immaginate
nelle costellazioni celesti, rappresentate da animali: occorre
"spacciarle", cioè cacciarle dal cielo in quanto rappresentanti vizi
che è tempo di sostituire con altre virtù: via dunque la Falsità, l'Ipocrisia,
la Malizia, la «stolta fede», la Stupidità, la Fierezza, la Fiacchezza, la
Viltà, l'Ozio, l'Avarizia, l'Invidia, l'Impostura, l'Adulazione e via
elencando. Occorre tornare alla semplicità, alla verità e all'operosità,
ribaltando le concezioni morali che si sono ormai imposte nel mondo, secondo le
quali le opere e gli affetti eroici sono privi di valore, dove credere senza
riflettere è sapienza, dove le imposture umane sono fatte passare per consigli
divini, la perversione della legge naturale è considerata pietà religiosa,
studiare è follia, l'onore è posto nelle ricchezze, la dignità nell'eleganza,
la prudenza nella malizia, l'accortezza nel tradimento, il saper vivere nella
finzione, la giustizia nella tirannia, il giudizio nella violenza.
Responsabile di questa crisi è il cristianesimo: già Paolo aveva operato il rovesciamento
dei valori naturali e ora Lutero, «macchia del mondo», ha chiuso il ciclo: la
ruota della storia, della vicissitudine del mondo, essendo giunta al suo punto
più basso, può operare un nuovo e positivo rovesciamento dei valori.
Nella nuova gerarchia di valori il primo posto spetta alla Verità, necessaria
guida per non errare. A questa segue la Prudenza, la caratteristica del saggio
che, conosciuta la verità, ne trae le conseguenze con un comportamento
adeguato. Al terzo posto Bruno inserisce la Sofia, la ricerca della verità;
quindi segue la Legge, che disciplina il comportamento civile dell'uomo; infine
il Giudizio, inteso come aspetto attuatorio della legge. Bruno fa quindi
discendere la Legge dalla Sapienza, in una visione razionalista nel cui centro
c'è l'uomo che opera cercando la Verità, in netto contrasto col cristianesimo
di Paolo, che vede la legge subordinata alla liberazione dal peccato, e con la
Riforma di Lutero, che vede nella "sola fede" il faro dell'uomo. Per
Bruno la "gloria di Dio" si rovescia così in «vana gloria» e il patto
fra Dio e gli uomini stabilito nel Nuovo Testamento si rivela «madre di tutte
le forfanterie». La religione deve tornare a essere "religione
civile": legame che favorisca la «communione de gli uomini», la civile
conversazione. Altri valori seguono i primi cinque: la Fortezza (la forza
dell'animo), la Diligenza, la Filantropia, la Magnanimità, la Semplicità,
l'Entusiasmo, lo Studio, l'Operosità, eccetera. E allora vedremo, conclude
beffardo Bruno, «quanto siano atti a guadagnarsi un palmo di terra questi che
sono cossí effuse e prodighi a donar regni de' cieli». È questa
evidentemente un'etica che richiama i valori tradizionali dell'Umanesimo, cui
Bruno non ha mai dato molta importanza; ma questo schema rigido è in realtà la
premessa per le indicazioni di comportamento che Bruno prospetta nell'opera di
poco successiva, De gli eroici furori. Cabala del cavallo pegaseo con
l'aggiunta dell'Asino cillenico. «Li nostri divi asini, privi del proprio
sentimento ed affetto vegnono ad intendere non altrimente che come gli vien
soffiato alle orecchie delle rivelazioni o degli dei, o dei vicarii loro; e per
conseguenza a governarsi non secondo altra legge che di que' medesimi. (Cabala
del Cavallo Pegaseo, Saulino: dialogo I) La Cabala del cavallo pegaseo viene
pubblicata insieme a l'Asino cillenico in unico testo. Il titolo allude a
Pegaso, il cavallo alato della mitologia greca nato dal sangue di Medusa
decapitata da Perseo. Al termine delle sue imprese, Pegaso volò nel cielo
trasformandosi in costellazione, una delle 48 elencate da Tolomeo nel suo
Almagesto: la costellazione di Pegaso. "Cabala" si riferisce a una
tradizione mistica originatasi in seno all'ebraismo. Calcografia raffigurante
le stelle della costellazione di Pegaso che delineano la figura del cavallo
mitologico Pegaso L'opera, percorsa da una chiara vena comica, può essere letta
come un divertissement, opera d'intrattenimento senza pretese; oppure
interpretata in chiave allegorica, opera satirica, atto di accusa. Il cavallo
nel cielo sarebbe allora un asino idealizzato, figura celeste che rimanda
all'asinità umana: all'ignoranza, quella dei cabalisti, ma anche quella dei
religiosi in generale. I continui riferimenti ai testi sacri si rivelano
ambigui, perché da un lato suggeriscono interpretazioni, dall'altro confondono
il lettore. Uno dei filoni interpretativi, legato al lavoro critico svolto da
Vincenzo Spampanato, ha individuato nel cristianesimo delle origini e in Paolo
di Tarso il bersaglio polemico di Bruno. De gli eroici furori. De gli eroici
furori. Nei dieci dialoghi che compongono “De gli eroici furori” a Londra, individua
tre specie di passioni umane: quella per la vita speculativa, volta alla
conoscenza; quella per la vita pratica e attiva, e quella per la vita oziosa.
Le due ultime tendenze rivelano una passione di poco valore, un furore bass. Il
desiderio di una vita volta alla contemplazione, cioè alla ricerca della verità,
è invece espressione di un furore eroico, con il quale l'anima, rapita sopra
l'orizzonte de gli affetti naturali vinta da gli alti pensieri, come morta al
corpo, aspira ad alto. Non si giunge a tale effetto con la preghiera, con atteggiamenti
devozionali, con aprir gli occhi al cielo, alzar alto le mani, ma, al
contrario, con il venir al più intimo di sé, considerando che Dio è vicino, con
sé e dentro di sé più ch'egli medesmo esser non si possa, come quello che è
anima delle anime, vita delle vite, essenza de le essenze». Una ricerca che assimila
a una caccia, non la comune caccia ove il cacciatore ricerca e cattura le
prede, ma quella in cui il cacciatore diviene egli stesso preda, come Atteone
che nel mito ripreso da lui, avendo visto la bellezza di Diana, si trasforma in
cervo ed è fatto preda dei cani, i pensieri de cose divine, che lo divorano facendolo
morto al volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de li perturbati sensi, di
sorte che tutto vede come uno, non vede più distinzioni e numeri. La conoscenza
della natura è lo scopo della scienza e quello più alto della nostra vita
stessa, che da questa scelta viene trasformata in un furore eroico assimiliandoci
alla perenne e tormentata vicissitudine in cui si esprime il principio che
anima tutto l'universo. Il filosofo ci dice che per conoscere veramente l'oggetto
della nostra ricerca, Diana ignuda, non dobbiamo essere virtuosi (virtù come
medietà tra gli estremi) ma dobbiamo essere pazzi, furiosi, solo così potremmo
arrivare a capire l'oggetto del nostro studio (Atteone trasformato in cervo). La
ricerca e l'essere fuoriosi, non sono una virtù ma un vizio. Il dialogo è
inoltre un prosimetro, come La vita nuova di Dante, un insieme di prosa e di
poesia (distici, sonetti e una canzone finale). Il precedente periodo oxoniense
inglese è da considerarsi il più creativo di Bruno, periodo nel quale ha
prodotto il maggior numero di opere fino a quando l'ambasciatore Castelnau
essendo richiamato in Francia lo induce a imbarcarsi con lui; ma la nave verrà
assalita dai pirati, che derubano i passeggeri d'ogni avere. A Parigi
Bruno abita vicino al Collège de Cambrai, e ogni tanto va a prendere in
prestito qualche libro nella biblioteca di Saint-Victor, nella collina di
Sainte-Geneviève, il cui bibliotecario, il monaco Cotin, ha l'abitudine di
annotare giornalmente quanto avveniva nella biblioteca. Entrato in qualche
confidenza col filosofo, da lui sappiamo che Bruno stava per pubblicare
un'opera, l'Arbor philosophorum, che non ci è pervenuta, e che aveva lasciato
l'Italia per «evitare le calunnie degli inquisitori, che sono ignoranti e che,
non concependo la sua filosofia, lo accuserebbero di eresia». Il monaco annota
tra l'altro che era ammiratore d’Aquino, che disprezzava le sottigliezze degli
scolastici, dei sacramenti e anche dell'eucaristia, ignote a Pietro e a Paolo, i quali non seppero altro che hoc est
corpus meum. Dice che i torbidi religiosi sarebbero facilmente tolti di mezzo,
se fossero spazzate tali questioni e confida che questa sarà presto la fine
della contesa. L'anno successive pubblica, dedicata a Piero Del Bene, abate di Belleville
e membro della corte francese, la Figuratio Aristotelici physici auditus,
un'esposizione della fisica aristotelica. Conosce il salernitano Mordente, che due anni prima aveva pubblicato
Il Compasso, illustrazione dell'invenzione di un compasso di nuova concezione
e, poiché egli non sa il latino, che ha apprezzato la sua invenzione, pubblica
i “Dialogi duo de Fabricii Mordentis Salernitani prope divina adinventione ad
perfectam cosmimetriae praxim”, dove elogia l'inventore ma gli rimprovera di
non aver compreso tutta la portata della sua invenzione, che dimostrava
l'impossibilità di una divisione infinita delle lunghezze. Offeso da questi
rilievi, il Mordente protestò violentemente, sicché Bruno finì col replicare
con le feroci satire dell'“Idiota triumphans seu de Mordentio inter geometras
Deo dialogus” e del “Dialogus qui de somnii interpretatione seu geometrica
sylva inscribitur. Fa stampare col nome di Hennequin l'opuscolo
antiaristotelico “Centum et viginti articuli de natura et mundo adversus peripateticos”,
partecipando alla successiva pubblica disputa nel Collège de Cambrai, ribadendo
le sue critiche alla filosofia aristotelica. Contro tali critiche si levò un
giovane avvocato parigino, Raoul Callier, che replicò con violenza chiamando il
filosofo Giordano "Bruto". Sembra che l'intervento del Callier abbia
ricevuto l'appoggio di quasi tutti gli intervenuti e che si sia scatenato un
putiferio di fronte al quale il filosofo preferì, una volta tanto,
allontanarsi, ma le reazioni negative provocate dal suo intervento contro la
filosofia aristotelica, allora ancora in grande auge alla Sorbona, unitamente
alla crisi politica e religiosa in corso in Francia e alla mancanza di appoggi
a corte, lo indussero a lasciare nuovamente il suolo francese. In Germania
La Piazza del Mercato di Wittenberg Raggiunta in giugno la Germania, Bruno
soggiorna brevemente a Magonza e a Wiesbaden, passando poi a Marburg, nella cui
Università risulta immatricolato come Theologiae doctor romanensis. Ma non
trovando possibilità di insegnamento, probabilmente per le sue posizioni antiaristoteliche,
s'immatricola a Wittenberg come Doctor italicus, insegnandovi per due anni, due
anni che il filosofo trascorre in tranquilla operosità. “uomo di nessun nome e
autorità fra voi, sfuggito ai tumulti di Francia, non appoggiato da alcuna
raccomandazione principesca, mi avete ritenuto meritevole di cordialissima
accoglienza, mi avete incluso nell'albo della vostra accademia, mi avete
accolto in un consesso di uomini tanto nobili e dotti, da sembrare ai miei
occhi non una scuola privata o una conventicola esoterica, bensì, come si
conviene all'Atene tedesca, una vera università.» (Dedica del De lampade
combinatoria). Pubblica il De lampade combinatoria lulliana, un commento dell'Ars
magna e il “De progressu et lampade venatoria logicorum”, commento ai Topica di
Aristotele. Altri commenti a opere aristoteliche sono i suoi “Libri physicorum
Aristotelis explanati”. Pubblica ancora, a Wittenberg, il “Camoeracensis
Acrotismus”, una riedizione di “Centum et viginti articuli de natura et mundo
adversus peripateticos”. Un suo corso
privato sulla Retorica sarà invece pubblicato col titolo di “Artificium
perorandi” (l’arte della conversazione). Anche le “Animadversiones circa
lampadem” e la “Lampas triginta statuarum” verranno pubblicate. Nel saggio
della Yates si fa cenno al fatto che il Mocenigo aveva riferito
all'Inquisizione veneziana l'intenzione di Bruno, durante il suo periodo
tedesco, di creare una nuova setta. Mentre altri accusatori (il Mocenigo
negherà questa affermazione) sostenevano che egli avrebbe voluto chiamare la
nuova setta dei Giordaniti e che essa avrebbe attirato molto i luterani
tedeschi. L'autrice inoltre si pone la domanda se in questa setta vi fossero
stati dei rapporti con i Rosacroce dato che in Germania emersero all'inizio del
XVII secolo presso i circoli luterani. Il nuovo duca Cristiano I, succeduto al
padre morto l'11 febbraio 1586, decide di rovesciare l'indirizzo degli
insegnamenti universitari che privilegiavano le dottrine del filosofo
calvinista Pietro Ramo a svantaggio delle classiche teorie aristoteliche.
Dovette essere questa svolta a spingere Bruno a lasciare Wittenberg, non senza
la lettura di una “Oratio valedictoria”, un saluto che è un ringraziamento per
l'ottima accoglienza della quale era stato gratificato: «Sebbene fossi di
nazione forestiero, esule, fuggiasco, zimbello della fortuna, piccolo di corpo,
scarso di beni, privo di favore, premuto dall'odio della folla, quindi
sprezzabile agli stolti e a quegli ignobilissimi che non riconoscono nobiltà se
non dove splende l'oro, tinnisce l'argento, e il favore di persone loro simili
tripudia e applaude, tuttavia voi, dottissimi, gravissimi e morigeratissimi
senatori, non mi disprezzaste, e lo studio mio, non del tutto alieno dallo
studio di tutti i dotti della vostra nazione, non lo riprovaste permettendo che
fosse violata la libertà filosofica e macchiato il concetto della vostra
insigne umanità.» (citato in Opere di Giordano Bruno e Tommaso Campanella).
Ne fu ricambiato dall'affetto degli allievi, come Hieronymus Besler e Valtin
Havenkenthal, il quale, nel suo saluto, lo chiama «Essere sublime, oggetto di
meraviglia per tutti, dinanzi a cui stupisce la natura stessa, superata
dall'opera sua, fiore d'Ausonia, Titano della splendida Nola, decoro e delizia
dell'uno e l'altro cielo». A Praga e a Helmstedt I sigilli di Giordano
Bruno Amoris I sigilli di Giordano Bruno sono delle incisioni
realizzate dallo stesso e pubblicate all'interno delle sue opere a partire dal
periodo praghese. Esse rappresentano figure geometriche sovrapposte ma anche
veri e propri disegni con presunte decorazioni e lettere. A parte il titolo dei
sigilli non abbiamo alcuna spiegazione in merito al loro significato o al loro
reale utilizzo. Fino a oggi sono state fatte molto congetture dai vari studiosi
senza giungere a nessuna conclusione definitiva. Giunge a Praga, in quegli
anni sede del Sacro Romano Impero, città dove rimane sei mesi. Qui pubblica, in
unico testo, il De lulliano specierum scrutinio e il De lampade combinatoria
Raymundi Lullii, dedicato all'ambasciatore spagnolo presso la corte imperiale,
don Guillem de Santcliment (il quale vantava Raimondo Lullo fra i suoi
antenati), mentre all'imperatore Rodolfo II, mecenate e appassionato di
alchimia e astrologia, dedica gli Articuli centum et sexaginta adversus huius
tempestatis mathematicos atque philosophos, che trattano di geometria, e nella
dedica rileva come per guarire i mali del mondo sia necessaria la tolleranza,
sia in campo strettamente religioso – «È questa la religione che io osservo,
sia per una convinzione intima sia per la consuetudine vigente nella mia patria
e tra la mia gente: una religione che esclude ogni disputa e non fomenta alcuna
controversia» – sia in quello filosofico, campo che deve rimanere libero da
autorità precostituite e da tradizioni elevate a prescrizioni normative. Quanto
a lui, «alle libere are della filosofia cercai riparo dai flutti fortunosi,
desiderando la sola compagnia di coloro che comandano non di chiudere gli
occhi, ma di aprirli. A me non piace dissimulare la verità che vedo, né ho
timore di professarla apertamente» Ricompensato con trecento talleri
dall'imperatore, in autunno Bruno, che sperava di essere accolto a corte,
decide di lasciare Praga e, dopo una breve tappa a Tubinga, giunge a Helmstedt,
nella cui Università, chiamata Academia Julia, si registra . Una targa
presso il Planetario di Praga ricorda il passaggio del filosofo in quella
città. per la morte del fondatore dell'Accademia, il duca Julius von
Braunschweig, vi legge l'Oratio consolatoria, ove presenta sé stesso come
forestiero ed esule: «spregiai, abbandonai, perdetti la patria, la casa, la
facoltà, gli onori, e ogni altra cosa amabile, appetibile, desiderabile». In Italia
«esposto alla gola e alla voracità del lupo romano, qui libero. Lì costretto a
culto superstizioso e insanissimo, qui esortato a riti riformati. Lì morto per
violenza di tiranni, qui vivo per l'amabilità e la giustizia di un ottimo
principe». Le Muse dovrebbero essere libere per diritto naturale eppure «sono
invece, in Italia e in Spagna, conculcate dai piedi di vili preti, in Francia
patiscono per la guerra civile rischi gravissimi, in Belgio sono sballottate da
frequenti marosi, e in alcune regioni tedesche languono infelicemente».
Poche settimane dopo viene scomunicato dal sovrintendente della Chiesa luterana
della città, il teologo luterano Heinrich Boethius per motivi non noti: Bruno
riesce così a collezionare le scomuniche delle maggiori confessioni europee,
cattolica, calvinista e luterana. Presenta ricorso al prorettore
dell'Accademia, Daniel Hoffmann, contro quello che egli definisce un abuso –
perché «chi ha deciso qualcosa senza ascoltare l'altra parte, anche se lo ha
fatto giustamente, non è stato giusto» – e una vendetta privata. Non ricevette
però risposta, perché sembra che fosse stato lo stesso Hoffmann a istigare
Boethius. Benché scomunicato, poté tuttavia rimanere ancora a Helmstedt, dove
aveva ritrovato Valtin Acidalius Havenkenthal e Hieronymus Besler, già suo
allievo a Wittenberg, che gli fa da copista e vedrà ancora brevemente in
Italia, a Padova. Bruno compone diverse opere sulla magia, tutte pubblicate
postume: il “De magia”; le “Theses de magia”, un compendio del trattato
precedente, il “De magia mathematica”, che presenta come fonti la
Steganographia di Tritemio, il De occulta philosophia di Agrippa e lo
pseudo-Alberto Magno; il “De rerum principiis et elementis et causis” e la “Medicina”,
nella quale presume di aver trovato forme di applicazione della magia nella natura. "Mago"
è un termine che si presta a equivoche interpretazioni, ma che per l'autore,
come egli stesso chiarisce sin dall'ìncipit dell'opera, significa innanzitutto
sapiente: sapienti come per esempio erano i magi dello zoroastrismo o simili
depositari della conoscenza presso altre culture del passato. La magia di cui
Bruno si occupa non è pertanto quella associata alla superstizione o alla
stregoneria, bensì quella che vuole incrementare il sapere e agire conseguentemente.
L'assunto fondamentale da cui il filosofo parte è l'onnipresenza di un'entità
unica, che egli chiama indifferentemente "spirito divino, cosmico" o
"anima del mondo" o anche "senso interiore", identificabile
come quel principio universale che dà vita, movimento e vicissitudine a ogni
cosa o aggregato nell'universo. Il mago deve tenere presente che come da Dio,
attraverso gradi intermedi, tale spirito si comunica a ogni cosa
"animandola", così è altrettanto possibile tendere a Dio dall'essere
animato: questa ascensione dal particolare a Dio, dal multiforme all'Uno è una
possibile definizione della "magia". Lo spirito divino, che per la
sua unicità e infinità connette ogni cosa a ogni altra, consente parimenti
l'azione di un corpo su un altro. Bruno chiama «vincula» i singoli nessi fra le
cose: "vincolo", "legatura". La magia altro non è che lo
studio di questi legami, di questa infinita trama "multidimensionale"
che esiste nell'universo. Nel corso dell'opera Bruno distingue e spiega
differenti tipi di legami – legami che possono essere utilizzati positivamente
o negativamente, distinguendo così il mago dallo stregone. Esempi di legami
sono la fede; i riti; i caratteri; i sigilli; le legature che vengono dai
sensi, come la vista o l'udito; quelle che vengono dalla fantasia,
eccetera.Alla fine di aprile del 1590 Giordano Bruno lascia Helmstedt e in
giugno raggiunge Francoforte in compagnia di Besler, che prosegue verso
l'Italia per studiare a Padova. Avrebbe voluto alloggiare dallo stampatore Wechel,
come richiese al Senato di Francoforte ma la richiesta è respinta e allora
Bruno andò ad abitare nel locale convento dei Carmelitani i quali, per
privilegio concesso da Carlo V, non erano soggetti alla giurisdizione
secolare. Vedono la luce tre opere, i cosiddetti poemi francofortesi,
culmine della ricerca filosofica di Bruno: il “De triplici minimo et mensura ad trium
speculativarum scientiarum et multarum activarum artium principia libri V”, in
cui vi sono delle immagini simili alla tabula recta di Tritemio; “De monade,
numero et figura liber consequens quinque”; il “De innumerabilibus, immenso et
infigurabili, seu De universo et mundis libri octo”. De minimo. Chi potrà
ritenere che gli strumenti diano misurazioni esatte dal momento che il fluire
delle cose non mantiene un identico ritmo ed un termine non si mantiene mai
alla stessa distanza dall'altro? Da De minimo, in Opere latine, a cura di Carlo
Monti, UTET). Nei cinque libri del “De minimo” si distinguono tre tipi di
minimo: il minimo fisico, l'atomo, che è alla base della scienza della fisica;
il minimo geometrico, il punto, che è alla base della geometria, e il minimo
metafisico, o monade, che è alla base della metafisica. Essere minimo significa
essere in-divisibile – e dunque Aristotele erra sostenendo la divisibilità
all'infinito della materia – perché, se così fosse, non raggiungendo mai la
minima quantità di una sostanza, il principio e fondamento di ogni sostanza,
non spiegheremmo più la costituzione, mediante aggregazioni di infiniti atomi,
di mondi infiniti, in un processo di formazione altrettanto infinito. I
composti, infatti, «non rimangono identici neppure per un attimo; ciascuno di
essi, per lo scambio vicendevole degli innumerevoli atomi, si muta
continuamente e ovunque in tutte le parti». La materia, come il filosofo
aveva già espresso nei dialoghi italiani, è in perenne mutazione, e ciò che dà
vita a questo divenire è uno «spirito ordinatore», l'anima del mondo, una
nell'universo infinito. Dunque nel divenire eracliteo dell'universo è situato
l'essere parmenideo, uno ed eterno: materia e anima sono inscindibili, l'anima
non agisce dall'esterno, poiché non c'è un esterno della materia. Ne viene che
nell'atomo, la parte più piccola della materia, anch'esso animato dal medesimo
spirito, il minimo e il massimo coincidono: è la coesistenza dei contrari:
minimo-massimo; atomo-Dio; finito-infinito. Contrariamente agli atomisti, quali
ad esempio Democrito e Leucippo, non ammette l'esistenza del vuoto. Il
cosiddetto vuoto non è che un vocabolo col quale si designa il mezzo che
circonda i corpi naturali. Gli atomi hanno un termine in questo mezzo, nel
senso che essi né si toccano né sono separati. Inoltre distingue fra minimi
assoluti e minimi relativi, e così il minimo di un cerchio è un cerchio; il
minimo di un quadrato è un quadrato, eccetera. I matematici dunque errano nella
loro astrazione, considerando la divisibilità all'infinito degli enti
geometrici. Quella che Bruno espone è, usando con terminologia moderna, una
discretizzazione non solo della materia, ma anche della geometria, una
geometria discreta. Ciò è necessario onde rispettare l'aderenza alla realtà
fisica della descrizione geometrica, indagine in ultima analsi non separabile da
quella metafisica. Nel De monade Bruno si richiama alle tradizioni pitagoriche
attaccando la teoria aristotelica del motore immobile, principio di ogni
movimento: le cose si trasformano per la presenza di principi interni, numerici
e geometrici. De immenso Negli otto libri del De immenso il filosofo riprende
la propria teoria cosmologica, appoggiando la teoria eliocentrica copernicana
ma rifiutando l'esistenza delle sfere cristalline e degli epicicli, ribadendo
la concezione dell'infinità e molteplicità dei mondi. Critica l'aristotelismo,
negando qualunque differenza tra la materia terrestre e celeste, la circolarità
del moto planetario e l'esistenza dell'etere. Il castello, situato presso
Elgg e allora di proprietà di Heinzel von Tägernstein, l’ospita nel suo breve
soggiorno nel cantone di Zurigo. Parte per la Svizzera, accogliendo l'invito
del nobile Heinzel von Tägernstein e del teologo Egli, entrambi appassionati di
alchimia. Così Bruno, per quattro o cinque mesi, ospite di Heinzel, insegna
filosofia presso Zurigo: le sue lezioni, raccolte da Raphael Egli con il titolo
di Summa terminorum metaphysicorum, saranno pubblicate da costui a Zurigo, e
poi, postume, a Marburgo, insieme con la “Praxis descensus seu applicatio entis”,
rimasta incompiuta. La “Summa terminorum metaphysicorum,” Somma dei
termini metafisici, rappresenta un'importante testimonianza dell'attività di Bruno
insegnante. Si tratta di un compendio di 52 termini fra i più frequenti
nell'opera di Aristotele che Bruno spiega riassumendo. Nella “Praxis
descensus”, “Prassi del descenso”, il nolano riprende gli stessi termini (con
qualche differenza) questa volta esposti secondo la propria visione. Il testo
consente così di confrontare puntualmente le differenze fra Aristotele e Bruno.
La Praxis è divisa in tre parti, con gli stessi termini esposti secondo la
divisione triadica Dio, intelletto, anima del mondo. Purtroppo l'ultima parte
manca del tutto e anche la rimanente non è completamente curata. Infatti
ritorna a Francoforte per pubblicarvi ancora il De imaginum, signorum et
idearum compositione, dedicato a Hans Heinzel. Ed è questa l'ultima opera la
cui pubblicazione fu curata da Bruno stesso. È probabile che il filosofo avesse
intenzione di tornare a Zurigo, e ciò spiegherebbe anche perché Egli abbia
atteso prima di pubblicare quella parte della Praxis che aveva trascritto, ma
in ogni caso nella città tedesca gli eventi evolveranno ben diversamente.
Francoforte e sede di un'importante fiera del libro, alla quale partecipavano i
librai di tutta Europa. Era stato così che due editori, il senese Ciotti e il
fiammingo Giacomo Brittano, entrambi attivi a Venezia, avevano conosciuto Bruno
almeno stando alla successive dichiarazioni di Ciotti stesso al Tribunale dell'Inquisizione
di Venezia. Il patrizio veneto Mocenigo, che conosce Ciotti e ha comprato nella
sua libreria il “De minimo” del filosofo nolano, affida al libraio una sua
lettera nella quale invitava Bruno a Venezia affinché gli insegnasse li secreti
della memoria e li altri che egli professa, come si vede in questo suo libro. Appare
quantomeno strano il fatto che, dopo anni di peregrinazioni in Europa decidesse
di tornare in Italia sapendo quanto il rischio di finire sotto le mani
dell'inquisizione fosse concreto. Probabilmente non si considera “anti-cattolico”
ma semmai una sorta di riformatore che spera di avere concrete possibilità di
incidere sulla Chiesa. Oppure il senso di pienezza di sé o della sua "missione"
da compiere altera la reale percezione del pericolo a cui poteva andare
incontro. Inoltre, il clima politico, ossia l'ascesa vittoriosa di Enrico di
Navarra sulla Lega cattolica sembra costituire una valida speranza per
l'attuazione delle sue idee in ambito cattolico. Bruno e a Venezia. Che egli
sia tornato in Italia spinto dall'offerta di Mocenigo non è affatto sicuro,
tant'è che passeranno diversi mesi prima che accetta l'ospitalità del patrizio.
Non era certo un uomo a cui mancavano i mezzi, anzi, egli era considerato omo
universale, pieno di ingegno e ancora nel pieno del suo momento creativo. A
Venezia si trattenne solo pochi giorni per poi recarsi a Padova e incontrare
Besler, il suo copista di Helmstedt. Qui tenne per qualche mese lezioni agli
studenti che frequentano quello studio e spera invano di ottenervi la cattedra
di matematica, uno dei possibili motivi per cui Bruno torna in Italia. Compone
le “Praelectiones geometricae”, l'”Ars deformationum”, il “De vinculis in
genere”, e il “De sigillis Hermetis et Ptolomaei et aliorum”. Con il ritorno di
Besler in Germania per motivi familiari, torna a Venezia e si stabilì in casa
del patrizio veneziano, che era interessato alle arti della memoria e alle discipline
magiche. Informa il Mocenigo di voler tornare a Francoforte per stampare delle
sue opere. Questi pensa che cercas un pretesto per abbandonare le lezioni. Il
giorno dopo lo fece sequestrare in casa dai suoi servitori. Il giorno
successivo Mocenigo presenta all'Inquisizione una denuncia scritta, accusandolo
di blasfemia, di disprezzare le religioni, di non credere nella Trinità divina
e nella transustanziazione, di credere nell'eternità del mondo e nell'esistenza
di mondi infiniti, di praticare arti magiche, di credere nella metempsicosi, di
negare la verginità di Maria e le punizioni divine. Quel giorno stesso, e arrestato
e tratto nelle carceri dell'Inquisizione di Venezia, in san Domenico a Castello.
Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam” (“Forse
tremate più voi nel pronunciare contro di me questa sentenza che io
nell'ascoltarla. Giordano Bruno rivolto ai giudici dell'Inquisizione. Il processo
di Giordano Bruno, basso-rilievo del basamento della statua in Campo de' Fiori
da Ferrari. Naturalmente sa che la sua vita è in gioco e si difende abilmente
dalle accuse dell'inquisizione veneziana. Nega quanto può, tace, e mente anche,
su alcuni punti delicati della sua dottrina, confidando che gli inquisitori non
possano essere a conoscenza di tutto quanto egli abbia fatto e scritto, e
giustifica le differenze fra le concezioni da lui espresse e i dogmi cattolici
con il fatto che un filosofo, ragionando secondo il lume naturale, può giungere
a conclusioni discordanti con le materie di fede, senza dover per questo essere
considerato un eretico. A ogni buon conto, dopo aver chiesto perdono per gli
errori commessi, si dichiara disposto a ritrattare quanto si trovi in contrasto
con la dottrina della Chiesa. L'Inquisizione romana chiede però la sua
estradizione, che viene concessa, dopo qualche esitazione, dal Senato veneziano.
E rinchiuso nelle carceri romane del Palazzo del Sant'Uffizio. Nuovi testi, per
quanto poco affidabili, essendo tutti imputati di vari reati dalla stessa
Inquisizione, confermano le accuse e ne aggiungono di nuove. E forse torturato,
secondo la decisione della Congregazione, stando all'ipotesi avanzata da Luigi
Firpo e Michele Ciliberto, una circostanza negata invece dallo storico Andrea
Del Col. Non rinnega i fondamenti della sua filosofia. Ribada l'infinità
dell'universo, la molteplicità dei mondi, il moto della terra e la non
generazione delle sostanze. Queste non possono essere altro che quel che sono
state, né saranno altro che quel che sono, né alla loro grandezza o sostanza
s'aggionge mai, o mancarà ponto alcuno, e solamente accade separatione, e
congiuntione, o compositione, o divisione, o translatione da questo luogo a quell'altro.
A questo proposito spiega che il modo e la causa del moto della terra e della
immobilità del firmamento sono da me prodotte con le sue raggioni et autorità e
non pregiudicano all'autorità della divina scrittura. All'obiezione
dell'inquisitore, che gli contesta che nella Bibbia è scritto -- terra stat in
aeternum -- e il sole nasce e tramonta, risponde che vediamo il sole nascere e
tramontare perché la terra se gira circa il proprio centro. Alla contestazione
che la sua posizione contrasta con l'autorità dei Santi Padri, risponde che
quelli sono meno de' filosofi prattichi e meno attenti alle cose della natura.
Il filosofo sostiene che la terra è dotata di un'anima, che le stelle hanno
natura angelica, che l'anima non è forma del corpo, e come unica concessione, è
disposto ad ammettere l'immortalità dell'anima umana. Roma, Piazza di
Campo de' Fiori. E invitato ad abiurare otto proposizioni eretiche, nelle quali
si comprendevano la sua negazione della creazione divina, dell'immortalità
dell'anima, la sua concezione dell'infinità dell'universo e del movimento della
terra, dotata anche di anima, e di concepire gli astri come angeli. La sua
disponibilità ad abiurare, a condizione che le proposizioni siano riconosciute
eretiche non da sempre, ma solo ex nunc, è respinta dalla congregazione dei
cardinali inquisitori, tra i quali Bellarmino. Una successiva applicazione
della tortura, proposta dai consultori della congregazione fu invece respinta
da Clemente VIII. Nell'interrogatorio si dice ancora pronto all'abiura, ma icambia
idea e infine, dopo che il tribunale ha ricevuto una denuncia che accusa Bruno
di aver avuto fama di ateo in Inghilterra e di aver scritto il suo “Spaccio
della bestia trionfante” direttamente contro il papa, rifiuta recisamente ogni
abiura, non avendo, dichiara, nulla di cui doversi pentire. Al cospetto
dei cardinali inquisitori e dei consultori Mandina, Pietrasanta e Millini, è
costretto ad ascoltare in ginocchio la sentenza che lo scaccia dal foro ecclesiastico
e lo consegna al braccio secolare. Terminata la lettura della sentenza, secondo
la testimonianza di choppe, si alza e ai giudici indirizza la storica frase. Maiori
forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam. Forse tremate più
voi nel pronunciare contro di me questa sentenza che io nell'ascoltarla. Dopo
aver rifiutato i conforti religiosi e il crocefisso, con la lingua in giova –
serrata da una mordacchia perché non possa parlare, viene condotto in campo de’
fiori, denudato, legato a un palo e arso vivo. Le sue ceneri sono gettate nel
Tevere. Volse il viso pieno di disprezzo quando ormai morente, venne posta
innanzi l'immagine di Cristo crocefisso. Così muore bruciato miseramente, credo
per annunciare negli altri mondi che si è immaginato in che modo i romani sono
soliti trattare gli empi e i blasfemi. Ecco qui, caro Rittershausen, il modo in
cui procediamo contro gli uomini, o meglio contro i mostri di tal specie. Il
suo dio è da un lato trascendente, in quanto supera ineffabilmente la natura,
ma nello stesso tempo è immanente, in quanto anima del mondo: in questo senso,
Dio e Natura sono un'unica realtà da amare alla follia, in un'inscindibile
unità panenteistica di pensiero e materia, in cui dall'infinità di Dio si evince
l'infinità del cosmo, e quindi la pluralità dei mondi, l'unità della sostanza,
l'etica degli "eroici furori". Questi ipostatizza un Dio-Natura sotto
le spoglie dell'Infinito, essendo l'infinitezza la caratteristica fondamentale
del divino. Egli fa dire nel dialogo De l'infinito, universo e mondi a Filoteo.
Io dico Dio tutto Infinito, perché da sé esclude ogni termine ed ogni suo
attributo è uno e infinito; e dico Dio totalmente infinito, perché lui è in
tutto il mondo, ed in ciascuna sua parte infinitamente e totalmente: al
contrario dell'infinità de l'universo, la quale è totalmente in tutto, e non in
queste parti (se pur, referendosi all'infinito, possono esse chiamate parti)
che noi possiamo comprendere in quello» (Giordano Bruno, De infinito,
universo e mondi) Per queste argomentazioni e per le sue convinzioni sulla
Sacra Scrittura, sulla Trinità e sul Cristianesimo, già scomunicato, fu
incarcerato, giudicato eretico e quindi condannato al rogo dall'Inquisizione
della Chiesa cattolica. Fu arso vivo a piazza Campo de' Fiori il 17 febbraio
1600, durante il pontificato di Clemente VIII. Ma la sua filosofia
sopravvisse alla sua morte, portò all'abbattimento delle barriere tolemaiche,
rivelò un universo molteplice e non centralizzato e aprì la strada alla Rivoluzione
scientifica: per il suo pensiero Bruno è quindi ritenuto un precursore di
alcune idee della cosmologia moderna, come il multiverse. Per la sua morte, è
considerato un martire del libero pensiero. A distanza di 400 anni,Giovanni
Paolo II, tramite una lettera del segretario di Stato Vaticano Angelo Sodano
inviata a un convegno che si svolse a Napoli, espresse profondo rammarico per
la morte atroce di Giordano Bruno, pur non riabilitandone la dottrina: anche se
la morte di Giordano Bruno "costituisce oggi per la Chiesa un motivo di
profondo rammarico", tuttavia "questo triste episodio della storia
cristiana moderna" non consente la riabilitazione dell'opera del filosofo
nolano arso vivo come eretico, perché "il cammino del suo pensiero lo
condusse a scelte intellettuali che progressivamente si rivelarono, su alcuni
punti decisivi, incompatibili con la dottrina cristiana". D'altronde anche
nel saggio della Yates viene ribadito più volte la completa adesione di Bruno
alla "religione degli egizi" scaturita dal suo sapere ermetico nonché
afferma che "la religione egiziana ermetica è l'unica religione
vera". La ricezione della filosofia di Bruno Il Dizionario di Pierre
Bayle Ritratto di Caspar Schoppe, opera di Peter Paul Rubens Malgrado la
messa all'Indice dei libri di Bruno decretata, questi continuarono a essere
presenti nelle biblioteche europee, anche se rimasero equivoci e incomprensioni
sulle posizioni del filosofo nolano, così come volute mistificazioni sulla sua
figura. Già il cattolico Kaspar Schoppe, ex luterano che assistette alla
pronuncia della sentenza e al rogo di Bruno, pur non condividendo «l'opinione
volgare secondo la quale codesto Bruno fu bruciato perché luterano» finisce con
l'affermare che «Lutero ha insegnato non solo le stesse cose di Bruno, ma altre
ancora più assurde e terribili», mentre il frate minimo Marin Mersenne
individuò nella cosmologia bruniana la negazione della libertà di Dio, oltre
che del libero arbitrio umano. Mentre gli astronomi Brahe e Keplero
criticarono l'ipotesi dell'infinità dell'universo, non presa in considerazione
nemmeno da Galileo, il libertino Gabriel Naudé, nella sua Apologie pour tous
les grands personnages qui ont testé faussement soupçonnez de magie esalta in
Bruno il libero ricercatore delle leggi della natura. Bayle, nel suo
Dizionario, arrivò a dubitare della morte per rogo di Bruno e vide in lui il
precursore di Spinoza e di tutti i moderni panteisti, un monista ateo per il
quale unica realtà è la natura. Gli rispose il teologo deista John Toland, che
conosceva lo Spaccio della bestia trionfante e lodava in Bruno la serietà
scientifica e il coraggio dimostrato nell'aver eliminato dalla speculazione
filosofica ogni riferimento alle religioni positive; segnala lo Spaccio a
Leibniz - che tuttavia considera Bruno un mediocre filosofo - e al de La Croze,
convinto dell'ateismo di Bruno. Con quest'ultimo concorda il Budde, mentre
Christoph August Heumann ritorna erroneamente a ipotizzare un protestantesimo
di Bruno. Con l'Illuminismo, l'interesse e la notorietà di Bruno aumenta.
Weidler conosce il De immenso e lo Spaccio, mentre Jean Sylvain Bailly lo
definisce «ardito e inquieto, amante delle novità e schernitore delle
tradizioni», ma gli rimprovera la sua irreligiosità. In Italiaè molto
apprezzato da Barbieri, autore di una Storia dei matematici e filosofi del Regno
di Napoli, dove afferma che scrisse molte cose sublimi nella Metafisica, e
molte vere nella Fisica e nell'Astronomia e ne fa un precursore della teoria
dell'armonia prestabilita di Leibniz e di tanta parte delle teorie di Cartesio.
Il sistema dei vortici di Cartesio, o quei globuli giranti intorno i loro
centri nell'aere, e tutto il sistema fisico è suo. Il principio di dubitazione
saviamente da Cartesio introdotto nella filosofia a Bruno si deve, e molte
altre cose nella filosofia di Cartesio sono di lui. Questa tesi è negata
da Niceron, per il quale il razionalista Cartesio nulla può aver preso da lui,
irreligioso e ateo come Spinoza, che ha identificato Dio con la natura, è
rimasto legato alla filosofia del Rinascimento credendo ancora nella magia e,
per quanto ingegnoso, è spesso contorto e oscuro. Brucker concorda con l'incompatibilità
di Cartesio con lui, che considera un filosofo molto complesso, posto tra il
monismo spinoziano e il neo-pitagorismo, la cui concezione dell'universo
consisterebbe nella sua creazione per emanazione da un'unica fonte infinita,
dalla quale la natura creata non cesserebbe di dipendere. Fu Diderot a
scrivere per l'Enciclopedia la voce su Bruno, da lui considerato precursore di
Leibniz - nell'armonia prestabilita, nella teoria della monade, nella ragione
sufficiente - e di Spinoza, il quale, come lui, concepisce Dio come essenza
infinita nella quale libertà e necessità coincidono: rispetto a lui pochi
sarebbero i filosofi paragonabili, se l'impeto della sua immaginazione gli
avesse permesso di ordinare le proprie idee, unendole in un ordine sistematico,
ma era nato poeta. Per Diderot, Bruno, che si è sbarazzato della vecchia
filosofia aristotelica, è con Leibniz e Spinoza il fondatore della filosofia
moderna. Jacobi pubblica per la prima volta ampi estratti del “De la
causa, principio et uno” di «questo oscuro filosofo», che sa però dare un disegno
netto e bello del panteismo. Lo spiritualista non condivide certo il panteismo
ateo di lui e Spinoza, di cui ritiene inevitabili le contraddizioni, ma non
manca di riconoscerne la grande importanza nella storia della filosofia. Da
Jacobi Schelling trae spunto per il suo dialogo su lui, al quale riconosce di
aver colto quello che per lui è il fondamento della filosofia: l'unità del
Tutto, l'assoluto hegeliano, nel quale successivamente si conoscono le singole
cose finite. Hegel lo conosce e nelle sue “Lezioni” presenta la sua filosofia
come l'attività dello spirito che assume dis-ordinatamente» tutte le forme,
realizzandosi nella natura infinita. È un gran punto, per cominciare, quello di
pensare l'unità. L’altro punto fu cercare di comprendere l'universo nel suo
svolgimento, nel sistema delle sue determinazioni, mostrando come l'esteriorità
sia segno delle idee. In Italia, è l'hegeliano Spaventa a vedere in lui il
precursore di Spinoza, anche se il filosofo nolano oscilla nello stabilire un
chiaro rapporto fra la natura e Dio, che appare ora identificarsi con la natura
e ora mantenersi come principio sovra-mondano, osservazioni riprese da Fiorentino,
mentre Tocco mostra come egli, pur dissolvendo dio nella natura, non rinuncia a
una valutazione positiva della religione, concepita come utile educatrice dei
popoli. Nel primo decennio del Novecento si completa l'edizione di tutte
le opere e si accelerano gli studi biografici su lui, con particolare riguardo
al processo. Per Gentile, altre a essere un martire della libertà di pensiero,
ha il grande merito di dare un'impronta strettamente razionale alla sua
filosofia, trascurando misticismi medievaleggianti e suggestioni magiche.
Opinione, quest'ultima, discutibile, come recentemente ha inteso mettere in
luce la studiosa inglese Frances Yates, presentando Bruno nelle vesti di un
autentico ermetico. Mentre Badaloni ha rilevato come l'ostracismo
decretato contro lui abbia contribuito a emarginare l'Italia dalle innovative
correnti della grande filosofia del Seicento europeo, fra i maggiori e più
assidui contributi nella definizione della filosofia bruniana si contano
attualmente quelli portati da Aquilecchia e Ciliberto. Monumento a Giordano
Bruno. Medaglia con monumento a Giordano Bruno in Campo de' Fiori a Roma,
incisione di Broggi. La medaglia, di 60 mm, fu donata a personaggi illustri e
comitati vari. Insieme a questa fu coniata un'altra medaglia di 64 mm in
bronzo, abbastanza simile, a scopo commerciale Gli sono stati dedicati il
cratere lunare Bruno e due asteroidi della fascia principale: Giordano e
Cenaceneri. IRapisardi gli dedicò un'epigrafe. All'ipocrisia volpeggiante fra
la scuola e la sagrestia, ai conciliatori della scienza col sillabo, all'imbestiato
borghesume, che tutto falsando e trafficando, d'ogni sacrificio eroico
beatamente sogghigna, le coscienze, cui sorride ancora la fede nel trionfo di
tutte le umane libertà, lanciano oggi ad una voce dalle università italiane una
sfida solenne a gloria della tua virtù, a vendetta del tuo martirio o Giordano
Bruno. Numerose scuole sono state intitolate a Bruno in tutta Italia, in
particolare licei classici: ad esempio ad Arzano, Albenga, Roma, Torino,
Mestre, Budrio e Melzo, mentre a Maddaloni gli sono stati intitolati il
Convitto nazionale e il liceo classico cittadino. In Italia sono numerosi i monumenti
intitolati a Bruno, sono presenti: un monumento in una piazza a Nola, un busto
a Montella, un bassorilievo a Monsampolo del Tronto e un'epigrafe a Teora. Nel
Campo de' Fiori di Roma è presente il più importante monumento a Bruno, eretto
esattamente nel luogo in cui il filosofo fu condannato al rogo. La figura e il
ruolo del mago che Shakespeare presenta con Prospero, ne La tempesta, fosse
influenzata dalla formulazione del ruolo del mago attuata da Bruno. Sempre in
Shakespeare, è ormai dai più accettata l'identificazione del personaggio di “Berowne”
(Browne, Bruno), in “Pene d'amor perdute” con il filosofo italiano,
considerando il parzialmente documentato e più che plausibile incontro tra i
due durante il suo soggiorno inglese.Un riferimento molto più esplicito si
trova in The Tragical History of Doctor Faustus, Marlowe. Il personaggio “Bruno”,
l'antipapa, riassume molte caratteristiche della vicenda del filosofo: «I
cardinali dormienti si affannano / a punire Bruno, che invece è lontano. Vola.
/ Il suo superbo corsiero, vivo come il pensiero, / Già passa le Alpi.»
(Christopher Marlowe, La triste storia del dottor Faust; citato in Jean Rocchi,
Giordano Bruno davanti all'inquisizione, Stampa Alternativa) La stessa vicenda
del Faust marlowiano richiama alla mente la figura del "furioso"
bruniano in De gli eroici furori. Cinema Interpretato da Volonté. Protagonista
nel film di Montaldo Giordano Bruno nel quale è stato interpretato da Volonté.
Compare anche nel film Galileo di Cavani. Negli anni novanta Rai Uno produce un
film documentario curato da Porta su Giordano Bruno. Interpretato da Vita. Nel
film Caravaggio con Alessio Boni c'è una scena in cui è mostrato il rogo di Bruno.
Contrariamente alle fonti che parlano di Bruno con la lingua in giova, il
filosofo appare legato al palo mentre poco prima delle fiamme incita la gente a
non lasciarsi irretire dai falsi maestri. “Candelaio” è al centro della fiction
Il tredicesimo apostolo - Il prescelto trasmessa su Canale 5. Il rapper
Caparezza ha dedicato a lui una mini-storia nel brano "Sono il tuo sogno
eretico", presente in Il sogno eretico: «Infine mi chiamo come il fiume che
battezzò colui nel cui nome fui posto in posti bui,/ mica arredati col feng
shui. Nella cella reietto perché tra fede e intelletto ho scelto il suddetto, Dio
mi ha dato un cervello, se non lo usassi gli mancherei di rispetto. E tutto
crolla come in borsa, la favella nella morsa, la mia pelle è bella arsa. Il
processo? Bella farsa! Adesso mi tocca tappare la bocca nel disincanto lì
fuori, lasciatemi in vita invece di farmi una statua in Campo de' Fiori/Mi
bruci per ciò che predico è una fine che non mi merito, mandi in cenere la
verità perché sono il tuo sogno eretico.» (Caparezza, Sono il tuo sogno
eretico). La metal band californiana Avenged Sevenfold lui ha dedicato il brano
intitolato Roman Sky presente nel nuovo album The Stage. L'album tratta infatti
temi quali l'intelligenza artificiale e l'universo. Sono dedicati al filosofo
anche il brano Anima Mundi di Massimiliano Larocca e l'album Numen Lumen del
gruppo neofolk Hautville, che ha nelle liriche brani diBruno. Altre opere: “De
compendiosa architectura et complemento artis Lullii”; “De umbris idearum”;
“Ars memoriae”; “Cantus Circaeus”; “Candelaio”; “Ars reminiscendi, Triginta
sigilli, Triginta sigillorum explicatio, Sigillus sigillorum”; “Cena de le
Ceneri”; “De la causa, principio et uno”; “De l'infinito, universo e mondi” “Spaccio
della bestia trionfante”; “Il cavallo pegaseo”; “De gli eroici furori”; “Centum
et viginti articuli de natura et mundo adversus peripateticos” – “contro i
peripatetici” -- “Figuratio Aristotelici
physici auditus”; “Dialogi duo de Fabricii Mordentis Salernitani prope divina
adinventione”; “Idiota triumphans”; “De somnii interpretation”; “Mordentius”; “De
Mordentii circino”; “Animadversiones circa lampadem” “animadversions in
lampadem”; “Lampas triginta statuarum” – trenta statue -- (Napoli); “Artificium perorandi”; “De lampade combinatoria”;
“De progressu”; “De lampade venatoria logicorum”; “Libri physicorum Aristotelis
explanati, Napoli); “Camoeracensis Acrotismus seu rationes articulorum
physicorum adversus peripateticos”; “Oratio valedictoria”; “De specierum scrutinio”
De lampade combinatoria”; “Articuli centum et sexaginta adversus huius
tempestatis philosophos”; “Oratio consolatoria”; “De magia (Firenze); “De magia
mathematica (Firenze); “De rerum principiis et elementis et causis” (Firenze);
“Medicina” (Firenze); “Theses de magia” (Firenze); “De innumerabilibus, immenso
et in-figurabili”; “De triplici minimo et mensura”; “De monade, numero et
figura”; “De imaginum, signorum et idearum compositione” (sintassi); “De
vinculis in genere” (Firenze); “Summa terminorum metaphysicorum”; “Accessit
eiusdem Praxis descensus seu applicatio entis”. Bruno nota che quantunque
Averroè fosse arabo e perciò «ignorante di lingua greca, nella dottrina
peripatetica però intese più che qualsivoglia greco che abbiamo letto; e arebbe
più inteso, se non fusse stato così additto al suo nume Aristotele. Sia dai due
volti. Io ho lodato molti eretici ed anco principi eretici; ma non li ho lodati
come eretici, ma solamente per le virtù morali che loro avevano; né li ho mai
lodati come religiosi e pii, né usato simil sorte di voce di religione. Ed in
particulare nel mio libro Della causa, principio ed uno io lodo la Regina de
Inghilterra e la nomino diva, non per attributo di religione, ma per un certo
epiteto che li antichi ancora solevano dare a principi, ed in Inghilterra, dove
allora io mi ritrovava e composi quel libro, se suole dar questo titolo de diva
alla Regina; e tanto più me indussi a nominarla cusì, perché ella me conosceva,
andando io continuamente con l'Ambasciator in corte. E conosco di aver errato
in lodare questa donna, essendo eretica, e massime attribuendoli la voce de
diva. Degno di nota è che Bruno pubblica tutti e sei questi saggi indicando
luoghi di stampa non corrispondenti: Venezia. Che Dio sia nella materia non
implica che possa essere conosciuto. Dio è immanente da un punto di vista
ontologico, mentre è trascendente sul piano gnoseologico. In questo universo
metto una providenzia universal, in virtù della quale ogni cosa vive, vegeta e
si move e sta nella sua perfezione; e la intendo in due maniere, l'una nel modo
con cui è presente l'anima nel corpo, tutta in tutto e tutta in qual si voglia parte,
e questo chiamo natura, ombra e vestigio della divinità; l'altra nel modo
ineffabile col quale Iddio per essenzia, presenzia e potenzia è in tutto e
sopra tutto, non come parte, non come anima, ma in modo inesplicabile. Spaventa
fu convinto assertore del ruolo fondamentale della filosofia italiana nel
panorama della filosofia moderna, e in particolare di Bruno e Campanella. L'asinità. La fortuna di Bruno. Bruno in
Shakespeare e nella cultura inglese. “Il Bruno di Gentile”. L'Asino Cillenico.
Clavis Magna. “Clavis Magna, ovvero, Il
Sigillo dei Sigilli. De signorum compositione. Explicatio. Sigillorum. Sigilli, Sigillus
Sigillorum. Clavis Magna, ovvero, L'arte di inventare. De Compendiosa
Architectura et Complemento Artis. “L'Arte di Comunicare” Artificium
Perorandi”. “Clavis Magna, ovvero, La
logica per immagini”. Il Bruno degli italiani. ‘Bruno’ regia di di Montaldo. Dizionario
biografico degli italiani. CESAR calendaire romaine. Centro di Studi Bruniani. Refs.:
Luigi Speranza, Bruniana. Filippo Bruno. Giordano Bruno. Keywords: paganesimo
ario, anti-catolecismo, anti-papismo, filosofia come anti-religione, ragione,
non fede, contra la fede, fede irrazionale – irrazionalismo della religione,
irrazionalismo, ario, ariano, tradizione aria, religione pagana, filosofia e
religione nella Roma antica – irrazionalismo della religione antica romana –
carattere metaforico della religione pagana della Roma antica, ermetismo,
composizione dei signi, de signorum compositione, compositio signorum, asino,asinita,
Spaventa, Giudice, Cacciatore, Gentile, implicatura e ligatura, relativita,
infigurabile, indeterminabile, Grice, indeterminacy, open, implicature, il
Bruno di Marlowe; il Bruni di Shakespeare (Pene d’amore perdute), Grice e Bruno
a Oxford. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bruno” – The Swimming-Pool Library.
Bruzi (Squillace).
Filosofo. Grice: “Cassiodoro was possibly a genius; I mean, I wrote a logic,
and so did he – but he was ‘consul’ on top! My favourite – and indeed, the ONLY
tract by him I recommend my tutees is his “Dialettica” – Strawson prefers his
“De anima,” but ‘anima’ is a confused notion, for Wittgenstein and
neo-Wittgensteinians alike – no souly ascription without behaviour that
manifests it! – whereas with ‘dialettica’ you are safe enough!” –Grice: “I
should be pointed out that of the three of the trivial arts – ‘dialettica’ is
the only one that deals with my topic, conversation or dia-logue – grammatical
is almost autistic, and rhetoric is for lawyers, i. e. sharks! Only ‘dialettica’
represents why those in the Lit. Hum. programme chose ‘philosophy’!” Grice:
“Dialettica INCORPORATES all that grammatical and rettorica can teach!” -- Cassiodoro
Flavio Cassiodoro Gesta TheodoriciFlaviusMagnus Aurelius Cassiodorus.
Cassiodoro, da un manoscritto su vellum del XII secolo. Magister officiorum del
Regno Ostrogoto Durata mandato523533 MonarcaTeodorico il Grande (fino al 30
agosto 526) Atalarico (fino al 533) PredecessoreSeverino Boezio Prefetto del
pretorio d'Italia Durata mandato533533 MonarcaAtalarico SuccessoreVenanzio
Opilione Durata mandato535537 MonarcaTeodato (fino all'autunno 536) Vitige
(fino al maggio 540) PredecessoreVenanzio Opilione Successore Fidelio Dati
generali Professionefilosofo Flavio Magno Aurelio Cassiodoro Senatore (latino:
Flavius Magnus Aurelius Cassiodorus Senator.
Visse sotto il regno degli ostrogoti. Percorse un'importante carriera
politica sotto il governo di Teodorico ricoprendo ruoli tanto vicini al
sovrano, da far pensare in passato ad un effettivo contributo diretto al
progetto del re ostrogoto. Successore di Boezio, oltre che consigliere, fu
cancelliere de Teodorico e il compilatore delle sue lettere ufficiali e dei
provvedimenti di legge. Collabora anche con i successori di Teodorico. Al
termine della guerra si stabilì in via definitiva presso Squillace, dove fondò
la biblioteca di Vivario. La fonte principale che ci permette di conoscere la
famiglia di Cassiodoro è data dalla sua più vasta e importante opera, le
“Variae”. Nacque in una delle più stimate famiglie dei Bruzi, facente parte del
patriziato. L'origine del nome è da ricercarsi in un luogo di culto dedicato a
Giove. Da una lettera scritta da Cassiodoro per Teodorico abbiamo notizie sui
suoi genitori, così come su un parente di nome Eliodoro. Dall'antica origine
della famiglia si può comprendere la scelta dei Bruzi come nuova patria,
essendo questa una zona della Magna Grecia. Si hanno notizie inoltre del suo
bonno, definito “vir illustris” e del nonno Senatore. Quest'ultimo fu tribuno
sotto Valentiniano III, e in qualità di ambasciatore conobbe il re degli Unni
Attila. Odoacre e Teodorico ritratti nelle Cronache di Norimberga. Al
padre furono indirizzate alcune lettere delle “Variae”, il che ci offre più
dati su di lui. Ricoprì il ruolo di comes rerum privatarum e successivamente di
comes sacrarum largitionum nel governo di Odoacre. Mantenne la propria
posizione di funzionario d'amministrazione anche sotto Teodorico, tanto da
diventare governatore provinciale. Lo si ritrova governatore della Sicilia, e dopo
essere entrato nelle grazie di Teodorico, governatore della Calabria, quando si
ritirerà alla sua villa. Così come per i suoi familiari, ricaviamo
notizie sulla vita di Cassiodoro solo dalle sue opere. La nascita e quella
indicata dal Tritemio nel suo “De scriptoribus” (Basilea 1494). Il menologio lo
ricorda il 25 settembre. Per quelli che, come Theodor Mommsen, non ritengono
attendibili i dati del Tritemio, le date di nascita e morte di Cassiodoro
rimangono ipotizzate, principalmente grazie a quelle note dei suoi incarichi
amministrativi; nonostante ciò molte cronache tendono a confondere alcuni dati
della vita di Cassiodoro con eventi vissuti dal padre, attribuendo una grande
longevità al letterato di Squillace. Proprio per quanto riguarda Squillace, non
è certo che vi nacque. Molto più probabilmente vi passò l'infanzia, ricevendo
dalla propria famiglia una prima educazione e seguendo degli studi. Ancora
giovane fu avviato dal padre alla carriera pubblica, per la quale ricopre
anzitutto il ruolo di “consiliarius”, per poi diventare quaestor sacri palatii,
forse perché Teodorico apprezza particolarmente un panegirico che egli aveva
composto. Poco tempo dopo ricevette il governatorato di Lucania e
Bruttii, notizia che si può apprendere da una lettera inviata al cancellarius
Vitaliano. Seguendo differenti interpretazioni storiche, questa congettura è
stata però di recente messa in dubbio. Risale la designazione a console.
Nonostante si trattasse ormai di una carica onorifica manteneva una certa
importanza, permettendolo di ricoprire il ruolo di eponimo. Dei anni successivi
non si conosce salvo la pubblicazione della Chronica. Successivamente, fu
nominato magister officiorum del re, succedendo nella carica a Boezio. Il ruolo
e di grande prestigio, e rappresenta con esso il capo dell'amministrazione
pubblica, degli official e delle scholae
palatinae. Alla morte di Teodorico, si
apre una complessa fase di successione. Divenne ministro della la figlia di
Teodorico, succedutagli sul trono come reggente per il figlio Atalarico.
Presumibilmente perdette parte della sua influenza nei primi anni di tali
mutamenti politici, ma seppe poi riproporsi e, con un lettera di Atalarico,
guadagna il titolo di Prefetto del pretorio per l'Italia. Non ricopre questo
ruolo politico per molto tempo. Atalarico morì e ai consueti problemi di
successione si aggiunse la malvolenza di Giustiniano verso gli ostrogoti,
insofferenza che culminò poi con la guerra gotica. Resse nuovamente la
prefettura, sotto i re Teodato e Vitige, per poi abbandonare definitivamente la
carriera pubblica. Nelle Variae si possono trovare le ultime lettere scritte
per conto di Vitige, anche se non viene detto nulla sul concludersi della sua
funzione politica né si sa alcunché dei suoi successori. Di fronte all'avanzata
bizantina rimase dapprima in ritiro a Ravenna, luogo che offriva ancora una
certa sicurezza. Ravenna e conquistata dalle truppe imperiali, e da quel
momento si perdono le sue tracce. Le alternative vagliate sono una permanenza a
Squillace, dove però avrebbe avuto scarse possibilità di movimento, o una
permanenza più lunga a Ravenna. Lo si ritrova nel seguito di papa Vigilio a
Costantinopoli, città nella quale potrebbe anche aver soggiornato, secondo una
terza ipotesi, in un periodo precedente alla data conosciuta. Rientrò nei
Bruttii solo dopo la fine della guerra, ritiratosi definitivamente dalla scena
politica, fondò il monastero di Vivario presso Squillace. Si hanno anche per
questa parte della sua vita pochissime informazioni, non si conoscono quindi le
motivazioni che lo portarono alla creazione di questa comunità monastica né
particolari sulla contemporanea situazione politica della penisola italica; per
quanto riguarda la sua situazione personale, si può ipotizzare che non ebbe
eredi diretti. Al Vivarium trascorse il resto dei suoi anni, dedicandosi allo
studio e alla scrittura di opere filosofiche. Qui istituì uno scriptorium per
la raccolta e la copiatura di manoscritti, che fu il modello a cui
successivamente si ispirarono i studii. Opera, il De ortographia. IL'obiettivo
principale del progetto politico-culturale di Cassiodoro fu quello di
accreditare il regno teodericiano come una restaurazione del Principato, ossia
quella forma di governo che aveva garantito la collaborazione, formalmente quasi
paritaria, tra l'imperatore e la classe senatoria. Questa autorappresentazione
del governo goto serviva in primo luogo come legittimazione del regno nei
confronti dell'Impero costantinopolitano. Sostanzialmente, essendosi conformato
il regime ostrogoto al modello imperiale, il primato dell'imperatore e fondato
esclusivamente su un piano carismatico (pulcherrimum decus). Al tempo stesso,
tale imitazione da parte di Teoderico poneva l'Amalo in una posizione di
superiorità nei confronti degli altri regni barbarici attraverso un principio
politico-carismatico, basato su una gerarchia di due livelli (l'impero e il
regno di Teoderico, gli altri regni), con un vertice binario e leggermente
asimmetrico. Tra tutti gli altri dominantes, Teoderico era il solo che, per
volontà divina, aveva saputo dare al suo regno gli stessi fondamenti etici e
legali dell’imperium: il suo regno era una replica perfetta del modello imitato
e a sua volta un modello.» (Andrea Giardina[43]) La prospettiva di
Cassiodoro, infatti, non è più l'impero universale, bensì quella nazionale
dell'Italia romano-ostrogota, autonoma ed egemone rispetto agli altri regni
occidentali, sebbene siano state avanzate riserve circa la reale ambizione di
Teoderico di assumere l'eredità del decaduto Impero romano d'Occidente. In
particolare, il fondamento dell'ideologia cassiodoriana ruota intorno al
concetto di “civilitas”, che indica tanto il rispetto delle leggi e dei
princìpi della romanità, quanto la convivenza sociale, giuridica ed economica
di romani e stranieri fondata sulle leggi. Secondo Cassiodoro, il regno goto si
sarebbe fatto custode della civilitas, garantendo così la giustizia e la pace
sociale (l’otiosa tranquillitas, cioè l'obiettivo di ogni buon governo), in
accordo con la legge divina e la migliore tradizione imperiale romana. Il
richiamo all'ideologia del Principato da parte di Teoderico e Atalarico si
basa, nella fattispecie, sull'emulazione della figura di Traiano, così come
tratteggiata nel Panegirico di Plinio il Giovane. Con il regno di Teodato,
invece, il principale modello di riferimento fu quello
dell'”imperatore-filosofo” -- un ideale etico-politico ampiamente imbevuto di
caratteri neoplatonici. In seguito, nell'impellenza della guerra greco-gotica,
Vitige si distinse per il recupero di un'ideologia più specificamente
germanica, in cui e messi in risalto le virtù bellica e l'ardore
guerriero. San Benedetto da Norcia.
Inoltre esiste la possibilità che un primo abbozzo di ciò che sarebbe diventato
il monastero esistesse già da tempo, presente nei territori di Squillace da una
data sconosciuta e utilizzato come residenza da Cassiodoro solo al ritorno in
patria dopo la guerra gotica. Ad ogni modo non aiuta nelle varie ipotesi il
silenzio delle fonti, poiché le Variae erano state già pubblicate e nessuna
delle opere dell'ormai ex politico trattò di questa fondazione; nulla si
conosce sul parto di questo progetto, né quando quest'idea fosse stata
concepita.[59] Nonostante si intuisca dalle ultime opere di Cassiodoro un
avvicinamento potente alla fede cristiana (si pensi al De anima e all'Expositio
Psalmorum[60]), il monastero di Vivario nacque con uno scopo differente dal
celebre Ora et labora: l'obiettivo principale del nucleo monastico fu infatti
la copiatura, la conservazione, scrittura e studio dei volumi contenenti testi
dei classici e della patristica occidentale. La caratteristica di Vivarium era
quindi la sua forma di scriptorium, con le annesse problematiche di
rifornimento materiali, studio delle tecniche di scrittura e fatiche economiche.
I codici e manoscritti prodotti nel monastero raggiunsero una certa popolarità
e furono molto richiesti. Le forme entro cui si espresse invece
l'organizzazione monastica dal punto di vista religioso sono ben poco chiare,
né aiuta l'assenza di riferimenti alla vicina esperienza di Benedetto da
Norcia; forse Cassiodoro non ne conobbe neppure l'esistenza, o potrebbe averne
parlato in opere non giunteci. Alcuni storici avanzano l'ipotesi che la Regula
magistri, su cui si basa la Regola benedettina, sia addirittura opera dello
stesso Cassiodoro. Questo presunto rapporto tra i due è però generalmente
rigettato dagli studiosi, anche alla luce di alcune citazioni provenienti dalle
Institutiones che chiariscono le norme monastiche adottate da Vivarium:[64]
«Voi tutti che vivete rinchiusi entro le mura del monastero osservate,
pertanto, sia le regole dei Padri sia gli ordini del vostro superiore e portate
a compimento volentieri i comandi che vi vengono dati per la vostra salvezza...
Prima di tutto accogliete i pellegrini, fate l'elemosina, vestite gli ignudi,
spezzate il pane agli affamati, poiché si può dire veramente consolato colui
che consola i miseri.» (Cassiodoro, Institutiones.[65]) Ritratto
del profeta Esdra nel quale per molto tempo si riconobbe la figura di
Cassiodoro, contenuto nel Codex Amiatinus. Questa citazione mostra come
Vivarium seguisse quindi le più comuni regole monastiche contemporanee, mentre
altri passaggi delle Institutiones ci suggeriscono un ruolo laico per
Cassiodoro, forse esterno alla vita monastica e puramente patronale Il
vero centro vitale di Vivarium era, particolare che segna la differenza con
ogni altro centro monastico, la biblioteca. Cassiodoro distingue inoltre i
libri del monastero da quelli personali, differenza poi scomparsa in un periodo
successivo. E la biblioteca, infatti, come centro di cultura di tutto il
monastero, la novità del suo programma, una biblioteca nata ed accresciuta
secondo le intenzioni del fondatore che dei suoi libri conosceva non solo la
sistemazione, perché l'aveva curata personalmente, ma anche i testi, perché li
aveva studiati, annotati, arricchiti di segni critici, riuniti insieme secondo
la materia in essi trattata e persino abbelliti esteriormente. Il monastero
prende nome da una serie di vivai di pesci fatti preparare dallo stesso
Cassiodoro. La loro presenza rappresentava un forte valore simbolico, legato al
concetto di Cristo come Ichthys. Non lontano dal centro si trovava una zona per
anacoreti, riservata a monaci con pregresse esperienze di vita cenobitica.
Vivarium sorgeva, secondo gli studi ad oggi compiuti, nella contrada San
Martino di Copanello, nei pressi del fiume Alessi. In quella zona fu ritrovato
un sarcofago datato VI secolo, associato a graffiti devozionali e subito
considerato la sepoltura originale di Cassiodoro. Per ciò che riguarda la
ripartizione del lavoro, i monaci inadatti a seguire la biblioteca con annessi
oneri intellettuali sono destilla coltivazioni di orti e campi, mentre i
letterati si occupavano dello studio delle sette arti liberali (dialettica,
retorica, grammatica, musica, geometria, aritmetica, astrologia) questi ultimi
erano divisi in notarii, rilegatori e traduttori. Le opere di carità erano
espressamente raccomandate dal fondatore, e legati a queste fiorivano gli studi
di medicina. Cassiodoro fece preparare tre edizioni differenti della Bibbia e
si occupò di copiature e riscritture di molti altri testi della cristianità,
considerando tutto ciò una vera e propria opera di predicazione. Non mancano
però nella biblioteca di Vivarium i testi profani: tra gli altri furono salvati
grazie all'opera di Cassiodoro le Antiquitates di Flavio Giuseppe e l'Historia
tripartita. Le opere di Cassiodoro del periodo di Teodorico, quelle da noi
conosciute, sono tre: le Laudes, la Chronica e l'Historia Gothorum. Della prima
si sono conservati solo due frammenti, mentre della Gothorum Historia rimane
solo un'epitome a opera dello storico Giordane. La Chronica racconta la saga
dei poteri temporali di tutta la storia, dai sovrani assiri sino ai consoli del
tardo Impero, passando ovviamente per tutta la storia romana. Possediamo un
frammento di un'ulteriore opera, l'Ordo generis Cassiodororum, che ci offre
notizie sulla famiglia dell'autore. Tra la produzione di Cassiodoro occupano un
posto speciale le Variae, raccolta di documenti ufficiali scritti i quali ci
offrono quindi informazioni su differenti periodi della vita dell'autore e
sulla storia dei Goti. A queste si può aggiungere il “De Anima”, opera per la
prima volta lontana da interessi politici e invece basata su temi della
filosofia psicologica. Il terreno religioso è battuto anche dalla successiva
Expositio Psalmorum, commento ai salmi di particolare importanza poiché unico
esempio pervenutoci dal mondo tardo antico. Al periodo di Vivarium appartengono
tra le opere a noi giunte, le Institutiones, le Complexiones in epistolas Beati
Pauli e le Complexiones in epistolas catholicas, le Complexiones actuum
apostolorum et in Apocalypsi e il De ortographia. La prima, senza dubbio l'opera
più importante di Cassiodoro, è datata in un periodo in cui il centro monastico
era sicuramente avviato; rappresenta sostanzialmente una "guida" per
gli studi nel monastero, è ricca di informazioni sulla vita dei monaci e sulle
opere intellettuali da loro compiute. Il De ortographia sarà la sua ultima
opera, scritta attorno ai novant'anni. Uno scritto di chiari intenti
politici è la Chronica, una sorta di storia universale scritta nel 519 su
richiesta per celebrare il consolato di Eutarico Cillica (diviso con
l'Imperatore Giustino), genero di Teodorico e designato al trono. Il sovrano
d'Italia non aveva eredi maschi mentre Eutarico, sposandone la figlia
Amalasunta, era riuscito a donargli un nipote, Atalarico. Alla luce di questa
nuova dinastia, la scelta di offrire il ruolo di console a Eutarico
rappresentava quindi un importante evento politico: si trattava della celebrata
unione tra i romani ed i goti, progetto che poi fallirà tragicamente. L'opera,
che come comprensibile dal titolo ha chiari fini storici, propone una
successione dei grandi poteri politici succedutisi nella storia, passando da
Adamo sino ad approdare al 519 con Eutarico. È basata su numerose fonti che
Cassiodoro spesso cita quali Eusebio, Gerolamo, Livio, Aufidio Basso, Vittorio
Aquitano e Prospero d'Aquitania. Per la trattazione successiva al 496 invece
l'autore è autonomo. L'elemento dell'opera che maggiormente colpisce è il suo
carattere spiccatamente filo-gotico. Cassiodoro arriva a manipolare alcuni
eventi storici o a farne addirittura scomparire altri, al fine di non far
apparire i Goti sotto un'oscura luce. Historia Gothorum Re Davide
vincitore in una miniatura dall'Expositio Psalmorum, presente nell'edizione del
Cassiodoro di Durham. Una delle sue opere più importanti fu il De origine
actibusque Getarum (più noto come Historia Gothorum) in 12 libri, nel quale la
sua ideologia filogotica era tracciata e sviluppata in maniera più
organica.[83] Si considera l'opera contemporanea o poco successiva alla
Chronica, anche se più studiosi tendono a ritenerla più recente, forse composta
tra il 526 e il 533. Certamente la stesura fu caldeggiata da Teoderico, per
essere infine pubblicata sotto Atalarico. Nonostante ciò essa ci è pervenuta
solo nella versione ridotta dello storico Giordane, i Getica. Prima storia
nazionale di un popolo barbarico, la Historia Gothorum era tesa a glorificare
la dinastia degli Amali, la stirpe regnante, attraverso una ricostruzione della
storia dei Goti dalle origini ai tempi presenti. Il tentativo più ardito dell'opera
fucome emerge dal titolo stessol'identificazione dei Goti con i “geti” --
popolazione già nota a Erodoto e maggiormente conosciuta dal mondo romano. Il
racconto narra eventi storici e come scopo ha inoltre quello di celebrare
l'unione tra goti e romani, qui comprovata dal matrimonio tra il romano Germano
Giustino e l'amala Matasunta. Il fine ultimo dell'opera lo svelaper bocca di
Atalarico Cassiodoro stesso. Questi Cassiodoro ha sottratto i re dei Goti al
lungo oblio in cui li aveva nascosti l'antichità. Questi ha ridato agli Amali
la gloria della loro stirpe, dimostrando chiaramente che noi siamo stirpe
regale da diciassette generazioni. L'origine dei goti egli ha reso storia
romana, quasi raccogliendo in una corona fiori prima sparsi qua e là nel campo
dei libri. Dell’Ordo generis Cassiodororum rimane un solo frammento in più
copie. Il l testo, dalla difficile interpretazione, fu composto negli anni
della carriera pubblica di Cassiodoro ed è dedicato a Rufio Petronio Nicomaco
Cetego. L'opera offre rare notizie sulla famiglia di Cassiodoro, in particolare
sul padre; nelle poche righe centrali vengono nominche Boezio e Simmaco, il che
farebbe pensare ad un qualche grado di parentela tra l'autore e queste due
figure, impossibile attualmente da stabilire. La sua attività di funzionario al
servizio del regno goto è testimoniata dalle Variae, una raccolta di lettere e
documenti, redatti in nome dei sovrani o trasmessi a firma dell'autore stesso
in un arco di tempo che va dall’assunzione della questura al termine della
carica di prefetto al pretorio. Il titolo come l'autore spiega nella prefazione
all'opera è dovuto alla “varietà” degli stili letterari impiegati nei documenti
del corpus, il quale divenne successivamente un riferimento per lo stile
cancelleresco e curiale. Espone nella praefatio dell'opera il fine di questa
raccolta di testi, ovvero la necessità di fornire nozioni utili a chiunque si
dovesse in futuro accostare alla carriera pubblica. Ulteriore obiettivo
dichiarato è quello di far conoscere i propri trascorsi come membro del ceto
dirigente.[85] Le Variae sono assai utili per conoscere le istituzioni, le
condizioni politiche, morali e sociali sia dei Goti sia dei Romani dell'Italia
del tempo.[85] De anima Cominciato poco prima della conclusione delle
Variae, il “De anima” è considerato da Cassiodoro come una sorta di tredicesimo
volume per quest'opera, quasi ne rappresentasse l'appendice. Affronta temi
esterni al mondo della politica, avvicinandosi agli stessi interessi spirituali
che poi toccherà con la Expositio Psalmorum. Il “De anima” si dipana su dodici
questioni, tra le quali l'incorporeità e il destino dell'anima, legata alla
tradizione di Tertulliano, Agostino e Claudiano Mamerto. Anche per l’Expositio
Psalmorum non è possibile dare una datazione certa, anche perché la sua
composizione sembra essere stata portata avanti per un periodo abbastanza
prolungato. Si tratta di un commento completo ai salmi, unico esemplare
rimastoci da tutta la tarda antichità. Per mole è certamente l'opera maggiore
di Cassiodoro, anche se non viene considerata la più matura tra le sue
produzioni. Una più ampia influenza nel Medioevo ebbero le sue Istituzioni,
“Institutiones divinarum et saecularium litterarum”, erudita introduzione alle
sette arti liberali – dialettica, retorica, grammatical – musica, geomtrica,
aritmetica. Progettata dopo che la richiesta di Cassiodoro per la fondazione di
un'studi ricevette una risposta negativa da papa Agapito I, l'opera visse un
lungo periodo di incubazione: basti pensare che al suo interno cita il De
orthographia, ultima opera attestata di Cassiodoro. Il lavoro su questa
enciclopedia si suddivide in varie sezioni: la prima presenta i vari libri
della Bibbia, la storia della Chiesa e degli studi teologici; la seconda si
occupa di quelle arti incluse successivamente nel trivio e quadrivio, con un
occhio rivolto alla cultura pagana e alle norme atte per trascrivere
correttamente gli antichi. Altre opere sono citate direttamente da Cassiodoro
nel De orthographia. Complexiones in Epistolas et Acta apostolorum et
Apocalypsin; si tratta di un commento ad alcuni passi degli Atti degli Apostoli
e dell'Apocalisse di Giovanni Expositio epistolae ad Romanos (Commento alla
lettera dei Romani). Liber memorialis; breve riassunto del contenuto della
Sacra Scrittura. Historia ecclesiastica tripartita, di cui fu autore della sola
prefazione. De orthographia; trattato destinato a fissare norme e regole per la
trascrizione di scritti antichi e moderni. Senator è parte integrante del nome
e non già designazione della carica pubblica (Momigliano, 1978, 494-504; Momigliano, 1980487). Le ipotesi che vogliono Cassiodoro
organizzatore e stratega nascosto dietro Teodorico sono ad oggi considerate
generalmente infondate, superate dalla tradizione che vede Cassiodoro estraneo
alla politica del regno; Cardini, 2009109.
Cardini, 200911; Abbate, Cardini, Momigliano, 1980487. In Siria si trovano attestati i nomi
Κασιόδωρος e Κασσιόδωρος. Cassiodoro, Variae, I, 3. Noto come Mons Cassius, da questo deriva
Kassiodoros, ovvero "Dono del Monte Cassio". Cardini,
200972. Cassiodoro, Variae, I, 4. Cassiodoro, Variae18. Onore guadagnato forse per la difesa della
Calabria dai Vandali di Genserico nel 404.
Michel Rouche, IV- Il grande scontro (375-435), in Attila, I protagonisti
della storia, traduzione di Marianna Matullo,
14, Pioltello (MI), Salerno Editrice, ,
87, 2531-5609 (WC ACNP).
Cardini, 200974. Tuttavia non si conosce
né la data in cui ricoprì la carica né il nome della provincia. Cardini,
200975. Il nome stesso di Cassiodoro
viene riportato solo nelle lettere dei papi Gelasio, Giovanni II e
Vigilio. In Cardini, 2009, 75-76 ci si sofferma su dizionari e prontuari
la cui affidabilità è considerata generalmente affidabile; in particolare si
cita l'opera Lessico classico di Federico Lübker. Cardini, 2009, 75-76; a novant'anni scriverà ad esempio nel
Vivarium un trattato di ortografia. Franceschini, 200830. Cardini, 200976. Cassiodoro, Ordo generis, 27-32; si tratta di una carica pubblica con
funzioni di consigliere. Cassiodoro,
Variae, IX, 24. Cassiodoro, Variae, IX, 39. Cardini. La congettura
si basa su un passo delle Variae, in cui però Cassiodoro non afferma
esplicitamente di essere stato governatore dei Bruzi. Questa ipotesi è stata
rimessa in discussione da Andrea Giardina e Franco Cardini (Giardina,
2006, 23-24;Cardini, Aveva cioè la
possibilità di dare il proprio nome all'anno, unitamente a quello del
collega. Cardini, 200978. Cassiodoro, Variae, IX, 24-25. Ghisalberti, 200238. Ovvero le segreterie imperiali (officia
memoriae, epistularum, libellorum e admissionum). Si tratta del corpo militare speciale
incaricato di sorvegliare la corte imperiale.
Non si è certi se fosse stato nominato prefetto del pretorio per la
prima o seconda volta. Cardini, Cassiodoro, Variae, X, 33-34. Cassiodoro, Variae, XII, 16-24. Momigliano, 1978495; Cardini, 2009, 79-80. Cardini, 2009, 81.
Cardini, 2009, Cardini,
2009, 84. Reydellet, Giardina, 2006, 116-141.
Cassiodoro, Variae, I 1,2-3, su bsbdmgh.bsb.lrz-muenchen.de 1º luglio
).. Giardina, 2006122. Teillet, ,
281-303. Dietrich Claude, Universale
und partikulare Züge in der Politik Theoderichs, in «Francia»,Reydellet,
1995292. Wolfram, 1990295. Cassiodoro, Variae, IX 14,8: Gothorum laus
est civilitas custodita., su bsbdmgh.bsb.lrz-muenchen.de (archiviato dall'url
originale l'8 luglio ).. Cassiodoro,
Variae, II 29,1: regnantis est gloria subiectorum otiosa tranquillitas., su
bsbdmgh.bsb.lrz-muenchen.de 13 luglio )..
Cassiodoro, Variae, IV 33, su bsbdmgh.bsb.lrz-muenchen.de (archiviato
dall'url originale l'11 luglio )..
Reydellet, Anonimo Valesiano, II 60: a Romanis Traianus vel
Valentinianus, quorum tempora sectatus est, appellaretur.. Cassiodoro, Variae, VIII 3,5: Ecce Traiani
vestri clarum saeculis reparamus exemplum., su bsbdmgh.bsb.lrz-muenchen.de 7
luglio ).. Cassiodoro, Variae, VIII
13,3-5: Non sunt imparia tempora nostra transactis: habemus sequaces aemulosque
priscorum. (...) Redde nunc Plinium et sume Traianum. (...) Bonus princeps ille
est, cui licet pro iustitia loqui, et contra tyrannicae feritatis indicium
audire nolle constituta veterum sanctionum. Renovamus certe dictum illud
celeberrimum Traiani: sume dictationem, si bonus fuero, pro re publica et me,
si malus, pro re publica in me.., su bsbdmgh.bsb.lrz-muenchen.de (archiviato
dall'url originale l'8 luglio )..
Reydellet, 1981, 248-250. Vitiello, 2006, 111-222.
Reydellet, 1981, 250-253. Vitiello, Cardini, Cassiodoro, Expositio
Psalmorum, praef 1-5. Cardini, 2009140.
Cardini, Pellegrini, 200523.
Cardini, 2009, 141-142.
Cassiodoro, Istituzioni, I, XXXII, 1.
Cardini, 20092. Cassiodoro,
Istituzioni, I, XXIX. Cardini,
2009142. Cassiodoro, Istituzioni, I, IV,
4. Cassiodoro, Istituzioni, I, VIII,
14. Cassiodoro, Istituzioni, I, XXXII,
2. Cassiodoro, Istituzioni, II, II,
10. Questo porta gli studiosi a
ipotizzare una maggior partecipazione di Cassiodoro al progetto. Cassiodoro, Istituzioni34. Cardini, 2009143. Cardini, Cardini, 2009145. Coloro che preparavano i testi per la
trascrizione. Cassiodoro, Istituzioni,
I, XXX, 3. Cassiodoro, Istituzioni, I, VIII, 3.
Cardini, 2009146. Cardini, 2009148. Cardini, 200986. Cardini, Cardini, Cardini, 200992.
Cardini, 200993. Altaner, 1944341. Ceserani, 197976. Cardini, Cardini, 200985. Eutarico morirà infatti nel 522. La cronaca è un genere letterario
caratterizzato dall'esposizione di fatti storici in ordine cronologico. Simonetti, 2006101. Moorhead, Cassiodoro, Variae, IX, 25. De origine actibusque Getarum, in sessanta
capitoli. «La Historia Gothorum occupa
un posto di rilievo nella storia della cultura occidentale perché fu la prima
storia nazionale di un popolo barbarico: in tal senso essa introduce veramente
il medioevo». Simonetti, 2006102.
Simonetti, 2006, 101-102. Germano Giustino faceva parte della Gens
Anicia, mentre Matasunta era nipote di Teodorico. Cardini, 200987. ...originem Gothicam historiam fecit esse
Romanam... Cassiodoro, Variae, IX, 25,
5. Cardini, 200988. Il frammento è
noto anche come Anecdoton Holderi; edizione critica e traduzione francese in
Alain Galonnier, "Anecdoton Holderi ou Ordo generis Cassiodororum:
introduction, édition, traduction et commentaire", Antiquité tardive,
Cardini, Cassiodoro, Variae27. Cassiodoro, Variae, XI, 7. Cardini, Momigliano, Istituzioni delle
lettere sacre e profane. Cardini,
200994. Cardini, 200995. Muse,
1964, III137. Cassiodoro, Istituzioni15. Opere di Cassiodoro Expositio Psalmorum, M.A.
Adriaen, 1958. Le Cronache, Mirko Rizzotto, Gerenzano, Runde Taarn, 2007. Le
Istituzioni, Antonio Caruso, Roma, Vivere in, 2003. Le Istituzioni, Mauro
Donnini, Città Nuova, Ordo generis Cassiodororum, Lorenzo Viscido, M. D'Auria,
Variae (traduzione parziale), Lorenzo Viscido, Squillace, Pellegrini Editore,
2005. De Orthographia, Tradizione manoscritta, fortuna, edizione critica
Patrizia Stoppacci, Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo, (Società internazionale per lo studio del
Medioevo latino). Expositio Psalmorum. Volume I, Tradizione manoscritta,
fortuna, edizione critica Patrizia Stoppacci, Firenze, Sismel-Edizioni del
Galluzzo, (Società internazionale per lo
studio del Medioevo latino). Roma immaginaria, Danilo Laccetti, Roma, Arbor
Sapientiae, . Confido in te Signore. Commento alle suppliche individuali, Antonio
Cantisani, Milano, Jaca Book, . Autori moderni Samuel J. Barnish, Roman
Responses to an Unstable World: Cassiodorus' Variae in Context, in: Vivarium in
Context, Vicenza, Centre for Medieval Studies Leonard Boyle, Maïeul Cappuyns,
Cassiodore, in Dictionnaire d'histoire et de géographie ecclésiastique, XI, Parigi, 1949. Franco Cardini, Cassiodoro
il Grande. Roma, i barbari e il monachesimo, Milano, Jaca Book, 2009. Antonio
Caruso, Cassiodoro. Nella vertigine dei tempi di ieri e oggi, Soveria Mannelli,
1998. Giuseppe Centonze, Il Lactarius mons e la cura del latte a Stabiae.
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Barbari. Le lettere latine alle origini dell'Europa (secoli V-VIII), Roma,
Carocci. Opere di Cassiodoro, su digilibLT, Università degli Studi del Piemonte
Orientale Amedeo Avogadro. Opere di
Cassiodoro / Cassiodoro (altra versione) / Cassiodoro (altra versione), su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di Cassiodoro, . Opere di Cassiodoro, su Progetto
Gutenberg. Cassiodoro, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Opere di Cassiodoro nella Patrologia Latina
del Migne Opere di Cassiodoro nella Bibliotheca Augustana, su hs-augsburg.de.
Monvmenta Germaniae Historica, Societas Aperiendis Fontibvs Rerum Germanicarvm
Medii Aevi, Avctorum Antiqvissorum Tomus XII, Berolini apud Weidmannos 1894:
Cassiodori Senatoris Variae, recensvit Theodorvs Mommsen, accedvnt I. Epistvlae
theodericianae variae edidit Th. Mommsen. II. Acta synhodorvm habitarvm Romae
A. CCCCXCVIIII. DI. DII. edidit Th. Mommsen. III. Cassiodori orationvm
reliqviae edidit Lvd. Travbe. Sito ufficiale del Premio Cassiodoro, su
premiocassiodoro.eu. Aggiornamenti sul sito di Vivarium (fondazioni monastiche
di Cassiodoro), su centreleonardboyle.com.
l'11 maggio 18 maggio ). La
fontana di Cassiodoro, su centreleonardboyle.com). Beatus Cassiodorus e La fama
sanctitatis di Cassiodoro Sulla fama di santità di Cassiodoro nel Medioevo.
Vivarium in Context Archiviato il 4 giugno
in .. Scheda libro con recensioni dei saggi di S.J. Barnish e L. Cracco
Ruggini citati nella . Le dignità de' Consoli e de gl'Imperadori, e i fatti de'
Romani, e dell'accrescimento dell'Imperio, ridotti a compendio da Sesto Ruffo,
e similmente da Cassiodoro, e da M. L. Dolce tradotti & ampliati, appresso
Gabriel Giolito de' Ferrari, Venezia). Storici romani Antica Roma Antica Roma Biografie Biografie Cristianesimo Cristianesimo Letteratura Letteratura Lingua latina Lingua latina Medioevo Medioevo Categorie: Politici romani del VI
secoloLetterati romaniStorici romaniComites rerum privatarumComites sacrarum
largitionumConsoli medievali romaniCorrectores Lucaniae et BruttiorumMagistri officiorumPrefetti
del pretorio d'ItaliaScrittori. Grice: “The English had taught Italians that
it’s not fair to call Cicero an Italian, or Pythagoras, for that matter, since
this all happened before Garibalid! I’m glad the Italians never learned the
lesson!” -- MAGNI AURELII
CASSIODORI SENATORIS De Artibus ac Diſciplinis Liberalium Litterarum, PR Æ FATI
O. vism lectioni 33. titulis Prov. 8.28. Erionum 7 . tartiem titke nec men wa/
> nec 716m2To Liberdivina UPERIOR liber, Domino præſtan- fuam cubitum unum ?
Item IſaiasPropheta dicit: 16.40.1:. , S | licet divinarum continet lectionum
manu. Rurſus creatura Dei probatur facta ſub comprebējus. hic triginta tribu's
titulis noſcitur pondere ;ſicut ait in Proverbiis Salomon : Ei li .
coinprehenſus. Qui numerus ætati Dominice brabat fontesaquarum ; & paulo
poft: Quando probatur accommodus, quando mundo peccatis appendebar fundamenta
terra , cum eo eram . mortuo æternam vitam præſtitit, & præmia cre-
Quapropter opere Dei fingularizato , magnifi Hic liber ſce- dentibus ſine fine
concellit. Nunctempus eſt, cæ res neceſſariâ definitioneconcluſæ ſuntut; fi
cularium le- ut aliis ſeptein titulis ſæcularium lectionum præ- cut eum omnia
condidiffe credimus: ita & quem ſentis libritextuin percurrere debeamus ;
qui ta- admodun facta ſunt, aliquatenusdiſcerenus. lis abfolue men calculus per
ſeptiinanas fibimet ſuccedentes Unde datur intelligi mala opera diaboli nec
Opera diabolt tur, & cur in ſe continue revolutus , uſque ad totius orbis
pondere , nec menfura, nec numero cortineri: nec pondere, finem ſemper
extenditur. quoniam quicquid agit iniquitas , juſtitie ſein Defeptenario
Sciendum eft plane , quoniam frequenter quic- per adverſum eſt; ſicut &
tertius deciinus Pſalmus continentur. numero , quid continuam atqueperpetuum
Scriptura fan- meminit , dicens : Contritio , ú infelicitas in viis Pfal. 13.30
quid feript.o. ita vultintelligi, fub iſto numero comprehendit; corum , á viam
pacis non cognoverunt : non eſt ia Super cum ficut dicit David : Septies in
dielaudem dixitibi; timor Dei anteoculos eorum . Ifaias quoque dicit :
intel'iyat. Plal. 118. cùm tamen alibi profiteatur : Benedicam Domi-
Dereliquerunt Deuin Sabaoth , & ambulaverunt 164 . numin omni tempore :
femper lausejus in ore meo. per vias diſtortas. Revera mirabilis , & fummè
Et Salomon : Sapientia edificavit fibi domum , ſapiens Deus, qui omnes
creaturas ſuas ſingulari excidit columnas feptem . In Exodo quoque dixit
moderatione diſtinxit : ne aliquid eorumfæda fingulari Doininus ad Moyſen :
Facies lucernas ſeptem , & confuſio pollideret . Unde Pater Auguſtinus in
deratione dio Exod.05.37. pones easſuper candelabrum , ut luceant ex adver-
libro 4. de Geneli ad litterain minatifinè difpu- ftinxerit? Apocal. 1.4 . fo.
Quem numerum Apocalypfis in diverfis re tavit. bus omnino commeinorat ; qui
tamen calculus Modd jamſecundi voluminis intremus initia, adillud nos æternum
tempus trahit,quod non po- quæ paulò diligentiùs audiamus ; * Intentus no-
*Hicincipiño teſt habere defectú. Meritò ergo ibi femper com- bis elt de arte
Grammatica , tive Rhetorica , vel MSS. codd. memoratur , ubi perpetuum tempus
oftenditur. de diſciplinis aliqua breviter velle confcribere ; Arithmetita Sic
Arithmetica diſciplina dotata eſt , quando quarum rerum principia neceffe eft
nos inchoa dotata ,quan rerum Opifex Deus diſpoſitiones ſuas ſub nume- re ;
dicenduinque prius eft de arte Grammatica; Dei ſub nu xi, ponderis , &
menfuræ quantitate conſtituits quæ eft videlicet origo & fundamentuin
Libera mern, ponle- ſicut ait Salomon ; Omnia in numero , menfura, lium
litterarum. re our menu- c pondere feciſti. Creatura ſiquidem Dei ſic nu Liber
autein dictus eſt à libro , id eſt , arboris Liber unde ra ft24 . micro facta
cognoſcitur, quando ipfe in Evange- cortice dempto atque liberato, ubi ante
copiam dictus. Sap. 11. 21. lio ait :Veftri autem & cepilli capitis omnes
nume- chartarum Antiqui carmina deſcribebant. Scire Matth.10 jo ratifunt. Sic
creatura Dei conſtituta eſt in men- autem debemus, ſicut Varro dicit ,
utilitatis ali ſura ; ficut ipfe in Evangelio teſtatur: Quis an- cujus caufà
omnium artium extitiſie principia. Matth.6.27. tem veftrum cogitans poteft
adjicere ad ftaturam Ars verò dicta eft , quòd nos fuis regulisarctet Unie ars
Plal . 33. 2. Prov . 9. 1 , Ca Deus on - nes creatsT45 11. 12. n . do creat1471
dieta. Liberalium Litterarum. 559 rints compoſuit . malis voce. our atque
conſtringat. Alii dicunt à Græcis hoc trà- Finis verò elimatæ locutionis vel
ſcripturæ , in ctum eſſe vocabuluin , amo tús agerős , id eſt , à culpabili
placere peritia . virtute doctrinæ , quam diferti yiri uniuſcujul Sed quamvis
Auctores ſuperioruin temporum QuideGram que bonæ rei ſcienriam vocant. de arte
Grammatica ordine diverſo tractaverint, matica orne tiùs ſcriple Secundò de
arte Rhetorica , quæ propter nito- fuiſque ſæculis honoris decushabuerint,ut
Palæ rem ac copiain eloquentiæ ſuæ , maxiniè in civi- mon, Phocas , Probus;
& Cenſorinus: nobis ta Libus quæſtionibus, neceſſaria niinis, & hono-
men placet in medium Donatum deducere , qui rabilis æſtiinatur. & pueris
ſpecialiter aprus , & tironibus probatur Tertiò de Logica, quæ Dialectica
nuncupa- accomınodus, Cujus gemina coinmenta reliqui-- Gemina com tur. Hæc ,
quantùm Magiſtri ſæ . ulares dicunt, mus, ut ſupra quòd ipfe * planus eſt ,
fiat clarior menta in ar diſputatdivina UPERIOR liber, Domino præſtan- fuam
cubitum unum ? Item IſaiasPropheta dicit: 16.40.1:. , S | licet divinarum
continet lectionum manu. Rurſus creatura Dei probatur facta ſub comprebējus.
hic triginta tribu's titulis noſcitur pondere ;ſicut ait in Proverbiis Salomon
: Ei li . coinprehenſus. Qui numerus ætati Dominice brabat fontesaquarum ;
& paulo poft: Quando probatur accommodus, quando mundo peccatis appendebar
fundamenta terra , cum eo eram . mortuo æternam vitam præſtitit, & præmia
cre- Quapropter opere Dei fingularizato , magnifi Hic liber ſce- dentibus ſine
fine concellit. Nunctempus eſt, cæ res neceſſariâ definitioneconcluſæ ſuntut;
fi cularium le- ut aliis ſeptein titulis ſæcularium lectionum præ- cut eum
omnia condidiffe credimus: ita & quem ſentis libritextuin percurrere
debeamus ; qui ta- admodun facta ſunt, aliquatenusdiſcerenus. lis abfolue men
calculus per ſeptiinanas fibimet ſuccedentes Unde datur intelligi mala opera
diaboli nec Opera diabolt tur, & cur in ſe continue revolutus , uſque ad totius
orbis pondere , nec menfura, nec numero cortineri: nec pondere, finem ſemper
extenditur. quoniam quicquid agit iniquitas , juſtitie ſein Defeptenario
Sciendum eft plane , quoniam frequenter quic- per adverſum eſt; ſicut &
tertius deciinus Pſalmus continentur. numero , quid continuam atqueperpetuum
Scriptura fan- meminit , dicens : Contritio , ú infelicitas in viis Pfal. 13.30
quid feript.o. ita vultintelligi, fub iſto numero comprehendit; corum , á viam
pacis non cognoverunt : non eſt ia Super cum ficut dicit David : Septies in
dielaudem dixitibi; timor Dei anteoculos eorum . Ifaias quoque dicit :
intel'iyat. Plal. 118. cùm tamen alibi profiteatur : Benedicam Domi-
Dereliquerunt Deuin Sabaoth , & ambulaverunt 164 . numin omni tempore :
femper lausejus in ore meo. per vias diſtortas. Revera mirabilis , & fummè
Et Salomon : Sapientia edificavit fibi domum , ſapiens Deus, qui omnes
creaturas ſuas ſingulari excidit columnas feptem . In Exodo quoque dixit
moderatione diſtinxit : ne aliquid eorumfæda fingulari Doininus ad Moyſen :
Facies lucernas ſeptem , & confuſio pollideret . Unde Pater Auguſtinus in
deratione dio Exod.05.37. pones easſuper candelabrum , ut luceant ex adver-
libro 4. de Geneli ad litterain minatifinè difpu- ftinxerit? Apocal. 1.4 . fo.
Quem numerum Apocalypfis in diverfis re tavit. bus omnino commeinorat ; qui
tamen calculus Modd jamſecundi voluminis intremus initia, adillud nos æternum
tempus trahit,quod non po- quæ paulò diligentiùs audiamus ; * Intentus no-
*Hicincipiño teſt habere defectú. Meritò ergo ibi femper com- bis elt de arte
Grammatica , tive Rhetorica , vel MSS. codd. memoratur , ubi perpetuum tempus
oftenditur. de diſciplinis aliqua breviter velle confcribere ; Arithmetita Sic
Arithmetica diſciplina dotata eſt , quando quarum rerum principia neceffe eft
nos inchoa dotata ,quan rerum Opifex Deus diſpoſitiones ſuas ſub nume- re ;
dicenduinque prius eft de arte Grammatica; Dei ſub nu xi, ponderis , &
menfuræ quantitate conſtituits quæ eft videlicet origo & fundamentuin Libera
mern, ponle- ſicut ait Salomon ; Omnia in numero , menfura, lium litterarum. re
our menu- c pondere feciſti. Creatura ſiquidem Dei ſic nu Liber autein dictus
eſt à libro , id eſt , arboris Liber unde ra ft24 . micro facta cognoſcitur,
quando ipfe in Evange- cortice dempto atque liberato, ubi ante copiam dictus.
Sap. 11. 21. lio ait :Veftri autem & cepilli capitis omnes nume- chartarum
Antiqui carmina deſcribebant. Scire Matth.10 jo ratifunt. Sic creatura Dei
conſtituta eſt in men- autem debemus, ſicut Varro dicit , utilitatis ali ſura ;
ficut ipfe in Evangelio teſtatur: Quis an- cujus caufà omnium artium extitiſie
principia. Matth.6.27. tem veftrum cogitans poteft adjicere ad ftaturam Ars
verò dicta eft , quòd nos fuis regulisarctet Unie ars Plal . 33. 2. Prov . 9. 1
, Ca Deus on - nes creatsT45 11. 12. n . do creat1471 dieta. Liberalium
Litterarum. 559 rints compoſuit . malis voce. our atque conſtringat. Alii
dicunt à Græcis hoc trà- Finis verò elimatæ locutionis vel ſcripturæ , in ctum
eſſe vocabuluin , amo tús agerős , id eſt , à culpabili placere peritia .
virtute doctrinæ , quam diferti yiri uniuſcujul Sed quamvis Auctores
ſuperioruin temporum QuideGram que bonæ rei ſcienriam vocant. de arte
Grammatica ordine diverſo tractaverint, matica orne tiùs ſcriple Secundò de
arte Rhetorica , quæ propter nito- fuiſque ſæculis honoris decushabuerint,ut
Palæ rem ac copiain eloquentiæ ſuæ , maxiniè in civi- mon, Phocas , Probus;
& Cenſorinus: nobis ta Libus quæſtionibus, neceſſaria niinis, & hono-
men placet in medium Donatum deducere , qui rabilis æſtiinatur. & pueris
ſpecialiter aprus , & tironibus probatur Tertiò de Logica, quæ Dialectica
nuncupa- accomınodus, Cujus gemina coinmenta reliqui-- Gemina com tur. Hæc ,
quantùm Magiſtri ſæ . ulares dicunt, mus, u t ſupra quòd ipfe * planus eſt
, fiat clarior menta in ar diſputationibus ſubtiliffimis ac brevibus vera ſe-
dupliciter explanatus. Sed & ſanctum Augufti- tes Donati queſtrat à fallis.
num propterfimplicitatem fratrum breviter in- Caffiodorus Quarto de
Mathematica, quæ quatuor com- ftruendain , aliqua de codem titulo ſcripſiſſe
re- *MS.Sanger. plectitur diſciplinas, id eſt, Arithmeticam ,Geo- perimus, qux
vobis le titanda reliquimus : ne Lasinus. metricam , Muſicain , &
Aſtronomnicain. Quain quid rudibus deeſſe videatur , qui ad tantæ ſcien Che
Mathe. Mathematicam Latino ferinone doctrinalem diæ culmina præparantur.
maticado tri poffumus appellare ; quo nomine licet omnia doctrinalia dicere
valeamus,quæcumque docent: Donatus igitur in fecundit purte ita diſceptat. hæc
libi tamen commune vocabulum propter ſuam excellentiam propriè vindicavit ; ut
Poeta De Voce Articulata. dictus , intclligitur Virgilius : Orator enuntia De
Littera. tus , advertiturCicero ; quamvis multi & Poëtæ, De Syllaba.
&Oratores in Latina lingua eſſe doceantur;quod De Pedibus. etiam de Homero,
atque Demoſthene Græcia fa De Accentibus. cunda concelebratı Dc Pofituris , ſeu
Diſtinctionibus. Quid fit Ma Mathematica verò eſt ſcientia , quæ abſtra Et
iterum de Partibus Orationis octo thematica ? ctam conſiderat quantitatem .
Abſtracta eniin De Scheinatibus. quantitas dicitur , quam intellectu â materia
fe De Etymologiis. parantes , vel ab aliis accidentibus, folâ ratio De
Orthographia. cinatione tractamus. Sic totius voluminis ordo * Ed . * ado.
quaſi quodam * vade promiffus eſt. Vox articulata , eft aër percuſſus,
fenfibilis au- Quid fit vox Nunc quemadmodum pollicitafunt, per divi- ditu ,
quantum in ipſo eſt. articulati . Duplex dif- fiones definitioneſque ſuas,
Domino juvante, Littera, eſt pars ininima vocis articulatæ. Quid Littera .
cendi genius. reddamus : quia duplex quodammodo diſcendi Syllaba , eft
comprehenſio litterarum , vel unius Qwid Syd genus eſt , quando & lincalis
deſcriptio imbuit vocalis enuntiatio , temporum capax. * Ed. pol. diligenter
aſpectum , & * per aurium præparatum Pes ; eſt ſyllabarúm & temporum
certa dinu- Quid pes. intrat auditum . Nec illud quoque tacebimus, meratio.
quibus auctoribus tain Græcis , quam Latinis, Accentus, eſt vicio carens vocis
artificioſa pro- Quid Accen quæ dicimus , expoſita claruerunt ut; qui ſtudio-
nuntiatio . MSS.Reg . le legere voluerit, quibuſdam * compendiis in Pofitura ,
ſive diſtinctio , eſt moderatæ pronun- Quid pofitu Sang. competentiis.
tiationis apta repauſatio. troductus , lacidiùs Majorum di& ta percipiat,
Partes autem orationis ſunt acto , Nomen, EXPLICIT PRÆFATIO. Pronomen , Verbuin
, Adverbium , Participium, tionis funs Conjunctio , Præpofitio , Interjectio .
Capitula Libris Nomen , eſt pars orationis cum caſu , corpus Quid fis non aut
rem propriècommuniterve fignificans ; pro- men. Caput. I. De Grammatica: priè ,
ut Roma, Tiberis : cominuniter, ut urbs, 2. De Rhetorica. Huvius, 3. De
Dialectica; Pronomen , eſt pars orationis, quæ pro nomi- Quid Pronta 4. De
Arithmetica: ne pofita , tantuindem pene ſignificat , perſo S. De Muſica,
namque interdum recipit. 6. De Geometria. Verbum , eſt pars orationis cum
tempore & Quid verbi . 7. De Aſtronomia: perſona fine caſu . Adverbium ,
eft pars orationis , quæ adjecta Quid Advcr CAPUT PRIMUM verbo , ſignificationem
ejus explanat atque iin- bium . pler ; ut , jam faciam , vel non fáciam .
Inſtitutio de Arte Grammatica . Participium , eſt pars orationis, dicta qudd
par- Quid Parti tem capiat nominis , partemque verbi ; recipit cipium. Unde
Grama maticanomen GKRammatica à litteris nomen accepit , ficuè enim ànomine
genera & cafus , à verbo tempo vocabuli ipfius derivatus fonus oſtendit; ra
& fignificationes , ab utroque numeros & fi acceperit ? quas primus
omnium Cadınus ſexdecim tantum guras. legitur inveniſſe , eaſque Græcis
ſtudioſiſſimis Conjunctio, eſt pars orationis annectens, ordi. Qyid com
tradens, reliquas ipſi vivacitate animi ſuppleve- nanfque ſententiam. junctio.
De quarum formulis atque virtutibus, Præpoſitio , eſt pars orationis , quæ
præpofira Quid Præpo Helenus, atque Priſcianus ſubtiliter Attico ſer- aliis
partibus orationis, fignificationem earum Juio. Quidfit Gra mone locuti ſunt.
Grammatica verò , eſt peritia aut inutat, aut complet, autminuit. * MSS. Au-
pulchrè loquendi ex Poëtis illuſtribus, * Orato Interjectio, eſt pars orationis
ſignificans mentis Quid inter Etoribus, ribuſque collecta. Officium ejus eſt
fine vitio affectuin voce incondità. ječtio. dictionem proſalem metricamque
componere: Scheinata , ſunt transformationes fermonum Quid Sche ba. ra . Partes
ora octo. 5 $ 1 men. runt. marica ? mata . 560 Caffiodorus de Inſtitutione Quid
Ortha les, vel fententiaruin , ornatus cauſâ policæ ; quæ à dis :interdami , ut
folers ,iners. quodam Artigrapho nomine Sacerdote collecta, In plurali quoque ,
excepto genitivo & accuſa fiunt numero nonaginta octo : ita tamen , ut qux
rivo, omnibuscalibus ſimiliter declinantur.Nam à Donado inter vitia polita ſunt
, in ipfo numero quædam in uin genitivo , accuſativo in es exeunt, collecta
claudantur. Quod & mihi quoque du- ut Mars, ars : quædam in ium, ut
fapiens, patiens, ruin videtur vitia dicere,quæ auctorum exemplis, & ob hoc
accuſativi eorum in eis excunt. Plera & maxiinè legis divinæ auctoritate
firmantur. que aurein ex his nomina tribus generibus com Hæc Grammaticis
Oratoribufque cominunia munia funt, & in licreram quam habent, neutra funt:
quæ tamen in utraque parte probabiliter in nominativo plurali dant etiam
genitivis reli reperiuntur aptata. quoruin generuin ,cum quibus coinmunia funt.
Addenduin eſt etiam de Eryinologiis, & Ortho In T littera , neutra tantùm
nomina quædam , graphia , de quibus alius fcripfiffe certiflimum eſt. pauca
finiuntur ; ut git, quod non declinatur ; Quid 'Etymo. Etymologia eſt aut vera
aut veriſimilis deinon- ut caput, ſinciput. Quidam cùm lac dicunt, loysa.
ftratio , declarans ex qua origine verba defcen- adjiciunti, propter quod facit
lactis : ſed Vir dant. gilius. Orthographia eſt rectitudo fcribendi nullo er
Lac mihi non æſtate novum , non frigore defit. graphics. rore vitiata , quæ
manum componit & linguam . quippe cùm nulla apud nos nomina in duas mu Hæc
breviter dicta fufficiant. tas exeant , & ideo veteres lacte in nominativo
Cæterùm qui ea voluerit lariùs pleniùſque co dixerant, gnoſceye , cum
præfarione ſua codicem legat, X littera terminat quædam , in quibus omnia quem
noſtra curiolitate formavimus, id eſt, Ar- communia in iuin cxeunt in genitivo
plurali; ob tem Donati , cui de Orthographia librum , & hoc. accuſativo in
i & s . Plurima verò genitivo alium de Etymologiis inferuimus, quartum quo-
in u & in , non præcurrente i , & ob hoc in e & s que de
Schematibus Sacerdotis adjunximus;qua- accuſativo exeunt ; nam in reliquis
conſentiunt. tenus diligens lector in uno codice reperire pof- Ut pote cùın
ſingulariter omnia nominativa & ſit , quodarti Gramınaticæ deputatum effe
co vocativa habeant genitivum ini & s , agant da gnoſcit. tivum in i
littera : ablativum in e vel i definiant, Nomen da Sed quia continentia magis
artis Grammaticæ adjectáque m accuſativum definiant impleánt verbum tant dicta
eft , curaviinus aliqua denominis verbique que : pluraliter verò dativum
ablativúmque in partes adje regulis pro parte ſubjicere , quas rectè tantùm bus
fyllaba finiunt. muis Ariſtote. Ariſtoteles orationis partes adferuit. Nam de
cæteris , quibus diſident Veteres , qui dam atrocum & ferocum , qua ratione
omnium x DE NOMINIBUS. littera finitorun una ſpecies videbitur. Huic x litreræ
omnes vocales præferuntur ; ut capax , fru Nominis partes ſunt. tex , pernix ,
atrox , redux. Ex iis nominibus quædam in nominativo producuntur , quædain
Qualitas , mocomm . corripiuntur: quædam conſentiunt in noininati Comparatio ,
ouynpisisa vo , in obliquis diſſentiunr. Pax enim , & rapax, Genus , 2005.
item rex & pumex , item nux & lux , etiam pri Numerus, água uo'so mam
poſitionem variant ad nix & nutrix. Item Figura , oxaudio nox & atrox
ſic in prima politioneconſentiunt, Caſus, T @ SIS. urdiſcrepentper obliquos. Et
illud animadvertendum eſt, quædam ex iis x Pronominis partes: litteram in g ,
quædam in c per declinationes compellere. Lex enimlegis , grex gregis facit,
Qualitas ut pix picis, nux nucis. Nain in his quæ non ſunt Genus. monoſyllaba,
nunquam non x littera genitivo i Numerus. c convertitur ; ut frutex fruticis ,
ferox ferocis. Figura. Supellex autem , & ſenex, & nix , privilegio quo
Perſona. dam contra rationem declinantur : quoniam ſu Caſus. pellex duabus
ſyllabis creſcit, quod vetat ratio; & fenex ut in nominativo itein genitivo
diffyllabus G Ræca nomina , quæ apud nos in us ; ut, manet , cùm omnia x
litterâ terminata creſcant. vulgus , pelagus, virus,Lucretiusviri dicit; Et nix
nec in cconvertitur, ut pix : nec in gut quamquam rectiùs inflexum maneat.
Secundæ rex: ſed in u conſonans, in vocalem tranſire non ſpecies funt, quæ per
obliquos caſus creſcunt, & poſſit. genitivo ſingulari in is litteras exeunt
; ut , genus, In plurali autem genitivo , ablativus ſingularis nemus: ex quibus
quædam uine mutant ; ut olus formas vertit. Nam in a auto terminatus , in rum
oleris, ulcus ulceris : quædam in o , ut nemus exit; e correpta in um :producta
, in rum : iter neinoris , pecus pecoris. In dubitationem ve- minatus in uin.
Dativus & ablativus pluralis a. niunt fænus & ftercus in e , an in o
inutent : in is exeunt & in bus. Quæ præcepra in ſcholis quoniam quæ in
nusſyllabam finiunt, u in e mu- ſunt tritiora : ſed quotiens in is exeunt ,
longa tant; ut , vulnus , ſcelus , funus , & funeratos fyllaba terminantur
: quotiesin bus, brevi. De dicimus. Fænusenim exemplo non debet noce- curlis
nominum regulis, æquuin eſt confequenter re, cùin inter dubia genera ponatur.
Item vete- adjicere canones verborum primæ conjugatio res ſtercoratos agros
dicebant, non ſterceratos. nis. In S littera finita nomina , præcurrentibus n
vel r , omnia ſunt uniusgeneris: nili quæ ante ſe t habent, interdun d
recipiunt, ut ſocors ſocor DE De Grammatica. 561 : Tempus zeovc . DE V ER BIS.
ſyllaba , manente productione terminantur ; ut Commeo , commea , commeavi:
Lanio , lania , Partes verbi funt. laniavi : Satio , fatia , fatiavi. Eodem modo,
codem tempore, fpecie inchoativa,adjectâ ad im Qualitas, perativum modum in bam
fyllaba terininantur; Conjugatio. ut cominea commeabain , lania laniabam ,
æſtua Genus. æſtuabain. Prima conjugatione , codem modo, Numerus. eodem tempore
, ſpecie recordativa , adjectis ad Figura. imperativum modum veram ſyllabis ,
terminan Tempus. tur partes : ut Commea commeaveram , lania , la Perfona.
'niaveram , æſtua æſtuaveram . Priina conjuga tione, codem modo , tempore
futuro , adjecta Qualitas Verbi. ad imperatiuum modun bo fyllaba , terminan rur
; ut Cominea commeabo, lania laniabo , æſtua Modi, # ſtuabo. Indicativi,
ogesich. Quæveròindicativo modò , tempore præſen Imperativi , προσακτική . tì,
ad primam perfonam in o littera , nulla alia Opeativi , ευκτική. præcedente
vocali terminantur , ea indicativo Conjunctivi, útotaxix . modo , tempore
præterito , ſpecie abſoluta 80 Infinitivi, atrapéu pet exacta , quatuor modis
proferuntur. Et eſt primus, qui lunilem regulam his babet . Genus Verbre Qui
indicativo modo, tempore præſenti, prima perſona penultiinam vocalem habet : ut
Amo, Adiva, švępyutix .. ama , amavi, amabam , amaveram , amabo, Pafliva,
mee.Jotus amare , Communia, rond. Secundus eft , qui o ini convertit ultimam in
præterito perfecto,penultimam in pluſquàm per fecto e corripit ; ut Adjuvo ,
adjuvi, adjuveram . Tertius , qui fimilem quidem regulaın habet Præſens,
évesa's. primi modi, ſed detracta a littera deliungit ; ut Præteritum ; ta
zenauges Seco , ſecavi , ſecaveram , ſecabo , ſecare. Facit Futurun , uitwr.
enim ſpecie abſoluta ſecui, & exacta ſecueram . Imperfcerum , megatinad's.
Quartus eſt , qui per geininationein fyllabae Perfectum , Tee XÉCU . profertur;
ut Sto , ſtá , kteci , fteterain , itabo Pluſquain perfectam , impon TEARO'S.
ftare. Huic ſimile Do , da , dedi , dabáin , dede Infinitum ; mogises. ram ,
dabo , dare , correpta littera a contra re-, gulain , in eo quod eſt , dabam ,
dabo , dare. Proferuntur fecunda conjugationis verba, dente vocali terminantur,
vel præcante quæ indicativo modo, teinpore præſenti, perſo vocali qualibet ,
formas habet quatuor. na prima , in eo litteris terminantur ; ut Video ,
Secundæ conjugationis correpræ verba verba,, for- vides vides ; monco monc
mones. Secundæ conjugatio mas habent viginti. Sic quæcumque verba indi- nis
verba, indicativomodo, teinpore præſenti, cativo modo , tempore præfenti,
perſona primà, ad ſecundanı perſonam iu e littera producta,ter in o littera
terminantur, forinas habentſex ,quæ ininantur ; ut Video , vide ; moneo, mone.
Se voces forınas habent duas. Quæ nulla præceden- cundæ conjugationis verba,
infinito inodo , ad te vocali in o littera terminantur, formas habent je &
ta ad imperativum modum re fyllaba, manen duodecim . te productione terminantur
; ut Vide , videre; Tertiæ conjugationis productæ verba , qua mone, monere.
Secundæ conjugationis verba, indicativo modo , tempore præſenti , perſona
indicativo modo, tempore præterito , {pecie ab prima in o littera terminantur ,
formas habent ſoluta & exacta , ſeptem modis declinantur ; & quinque.
Quæcumque autem verba cujuſcum- eft primus, qui forinain regulæ oſtendit.Nam
for que conjugationis indicativo modo , temporė mahæc eſt;cùm fecundæ
conjugationis verbum , præſenti, perfona prima, vel nulla præc dente
indicativomodo,temporepræterito quidem per vocali, vel qualibet alia præcedente
, in o littera fecto , adjecta ad iinpecalivun modum vi fyllaba, *terminantur,
corum declinatio hoc numero for- manente produđione. marum continetur. De
quibus fingulis dicam . Primæ conjugationis verba indicativo modo, CAPUT
SECUNDUM. tempore præſenti, perſona prima, aut in o litte : ra nulla alia
præcedente vocali terminantur , ut De Arte Rhetorica . , Canto io ut lanio , ,
. Rrium aliæ ſuntpofitæ in Artes in tres Primæ conjugationis verba iinperativo
modo, temporepræſenti ad ſecundam perſonain in a lit- lis eſt Aſtrologia :
nullum exigens actum , ſed ipſo duntur. tera producta terminantur ;ut amo, ama
: canto, rei, cujus ſtudium habet, intellectu contenta, canta : infinito modo
ad imperatiuum modum, quæ Geargintzün vocatur. Alia in agendo, cujus in in re
fyllaba,manente productione terminantur ; hoc finis eſt , ut ipſo actu
perficiatur, nihilque ut aina, amare: canta , cantare. Item prima con- poſt
actum operisrelinquat, quæ peakmix dici jugatio, quæindicativo modo , tempore
præte- tur, qualis ſaltatio eſt.Alia in effectu,quæ operis, rito, ſpecie
abſoluta , adjectâ ad imperatiuun yi quod oculis fubiicitur confummatione,
finein Bbbb V . ib, uclanio,fatio:autuo ,uræſtuo ,continuo A evognizione
peltimatione rerum ,quas partes divina 562 Caffiodorus ea 1 tor. Etanda ,
accipiunt, quam nontoxù appellamus, qualis eſt cauſam , locum , tempus,
inftramentum , occa pictura. fionemnarratione delibabiinus. Multæ ſæpe in
Orationis duo Duo funt Genera orationis : altera pespetua, una cauſa ſunt
narrationes. Non femper co ordi fuigenera. quæ Rhetorica dicitur :
alteraconciſa , quæ Dia- ne narrandum , quo res geſta eſt. Enthumous fit
tectica ; quas quidem Zeno adeo conjunxit , ut ad augmentum vel invidiæ , vel
miſerationis, vel hanc compreſlæ in pugnum manus, illam expli- in adverfis.
Initium narrationis à perſona fier, & catæ fimilean dixerit. ſi noſtra elt
, ornetur : fi aliena , infametur. Et Initiam di Initia dicendidedit natura :
initium artis ob- hæc cum ſuis accidentibus ponitur. Finis narra cendi dedit
fervatio. Homines enim ficur in Medicina , cum tionis fit , cùın eò perducitur
expofitio , unde natura,ini- viderent alia falubrià, alia inſalubria ex
obſerva- quæſtio oriatur. sium artis ob. tione eoruin effccerunt arrein .
feruatio. Facultas orandi confunmatur naturâ , arte , De Egreſionibus Pacultas
orandi tribus exercitatione; cui partein quartam adjiciunt qui cofummatur. dam
imitationem , quam nosarti ſubjicimus. Egreſſus eſt , vel egrelfio , hoc eſt ,
méx6a95, Tria debet Tria funt quæ præltare debet Orator ; ut do- cum intermiffà
parum re propofitâ , quiddain in præftare Ora- ceat, moveat, delecter. Hæc enim
clarior divi- terſeritur delectationis utilitatiſve gratiâ. Sed fio eft , quàm
eorum qui totum opus:in res , & ir hæ ſunt plures, quiæ pertotam cauſam
varios ex affectus partiuntur, curſus habent ; ut laus hoininum locorumque;
Invadendo In fuadendo ac diſſuadendo rrja primùm fpe- ut defcriptio regionum ,
expoſitio quarundam fodiſficaden- ctanda ſunt; quid ſit de quo deliberetur :
qui lint rerum geſtarum , vel etiam fabulofarum . do triape- qui deliberent:
quis ſit quifuadeat rem , dequa Sed indignatio , miſeratio , invidia , convi
elintpar. deliberatur.Omnisdeliberatio de dubiis fit. Par- tium , excuſario ,
conciliatio, maledictorum re "tes fuadendi. tes ſuadendi ſunt honeftum ,
utile , neceſſarium . futatio , & fimilia :omnis amplificatio, minutio,
Quidam , ut Quintilianus, furetor ; hoc eſt,pofli- omnis affectus,
genusdeluxuria, de avaritia, re bile , approbat. ligione, officiis cuin ſuis
argumentis ſubjecta ſi milium rerum , quia cohærent, egredi non viden Ware
Procemiam à Græcis dicitur. tur. Areopagitæ damnaverunt puerum , corni cum
oculos eruentem ; qui putantur nihil aliud Clarè partem hanc ante ingreffum rei
, de qua judicaffe , quàm id lignum effe pernicioſiflima diccndum fit
,oftendunt.Nain livepropterea quod mentis , multiſque malo futuræ li
adoleviſſet. brun cantus elt , & Citharædi pauca illa , quæ an tequam
legitimum certamen inchoent, emerendi De Credibilibus favoris gratia canunt,
Proæmium cognomina runt. Oratores quoque ea , quæ priuſquam cau Credibilium
tria funt genera: ünum Grmiſti- Tria ſunt ore. fain exordiantur, ad
conciliandos libi judicun muni, quia ferè ſemper accidit ; ut , liberos à pa
aninospræloquuntur, Procinii appellationc fi- rentibus amari. gnarunt. Sive
quod 40 Græci viam appellant Alterum velut propenſius, eum qui rectè va id,
quod ante ingrekun reiponitur , fic vocari leat , in craſtinum perventurum .
Dikfit Proa- eft inſtituruin . Caufa Proæmii hæc eſt , ut audiro Tertium tantum
non repugnans; ab eo in dong mii carla. rem , quò fit nobis in cæteris
partibusaccommo- furtum factum , qui domui fuit. datior, præparemus. Id fit
tribus modis , li be nevolum , atrencum , docilemque feceris ; & in Argumenta
unde ducantur. reliquis partibus haud minus, præcipuè tamen in initiis neceſſe
eſt animos judicum præparare. Ducuntur argumenta à perſonis, cauſis , tem pore
; cujus tres partes ſunt, præcedens, conjun Quid differt Proæmium ab Epilogo.
ctum , inſequens. Si agimus, noſtra confirmana da ſunt priùs ; tum ea , quæ
noftris opponuntur, Quidam putarunt quòd inPræmio præterita, refutanda. Si
reſpondemus; ſæpiùs incipiendum in Epilogo fucura dicantur. Quintilianus autem
à refutatione. Locuples & fpeciofa &imperio co quod in ingreffu parciùs
& modeſtiùs præten- ſa vult eſſe Eloquentia. tanda ſit judicis miſericordia
: in Epilogo verò licear toros effundere affectus , & ficam oratio De
Concluſione nem induere perſonis , & defunctos excitare, & pignora
reorum perducere , quæ minus in Concluſio,quæ peroratio dicitur, duplicem has
concluſodomen proæmiis ſunt uſitata. bet rationem ; ponitur enim autin rebus,
aut in plicem habet affectibus rerum , repetitio & congregatio , que
rationem . De Narratione. Græcè ávax!IO HAURIS dicitur , à quibufdam La tinorum
renumeratio dicitur , & memoriam au Narratio aut torà pro nobis eſt , aut
cora pro ditoris reficit, & totam ſimul cauſam ponit an adverſariis , aut
mixta ex utriſque. Si erit tota te oculos ; ut etiam ſi per ſingulos minus vale
pro nobis , contenti ſimus his tribus partibus, bant , turbâ moveantur : ita
tamen ut breviret uc judex intelligat, meminerit , credat, nec quic eorum
capita curlimque tangantur . Sed tunc fita quan reprehenſione dignum putet. ubi
inultæ caufæ , vel quæſtionesinferuntur; nam Notandum , ut quoties exitus rei
ſatis oſtendit fi brevis & fimplex eſt, noneft neceffaria. priora , debemus
hoc eſſe contenti , quò reliqua intelliguntur; fatius eſt narrationi aliquot
fuper De Affectibus: eſſe , quàm deeffe ; nain ſupervacua cum rædio dicuntur:
neceſſaria cum periculo ſubtrahuntur. Affectuum duæ funt ſpecies , quas Græci
'90s affectuur Quæ probacione tractaturi ſumus , perſonain, aj mrásos vocant ,
hoc eit , quafimores & affe- dua ſung species, dibilium gito nera . 1 1 De
Rhetoricà. 563 Te . ventio . tio . tio . 114 . us concitatos } & Teses
quidem affectus con- & quæſtionem .Cauſa eft res,quæ habet in ſe con
citatos : " Jos veròmites atque compofiros ; in il- troverſiam in dicendo
politam , perſonarum cer lis vehementesmotus, in his lenes: & resos qui-
tarum interpoſitione : quæſtio autem ,eft res, quæ demimperat, its perſuadet ;
hi ad perturbatio- habet in ſe controverſiam in dicendo polítam , nem , illi ad
benevolentiam prævalent. Et eſt line certarum perfonarum interpofitione. Frágos
temporale , ndos verò perpetuum ; utra que ex eadem natura : fed illud majus ,
hoc mi DE PARTIBUS RHETORICA nus , ut amor esos, charitas » Sus ; tados con
citat , isos fedat. Partes Rhetoricæ funt quinque. In adverſos plus valet invidia
,quàm convitium: quia invidia adverſarios, convitiuin nos inviſos Inventio .
facit. Nam ſunt quædam , quæfi ab imprudenti Diſpoſitio. bus excidant, ſtulta
ſant; cum ſimulamus, venuſta Elocurio Orator vitio creduntur. Bonus altercator
vitio iracundiæ ca Meinoria, iracundiæ ca- reat ; nullus enim rationi magis
obftat affectus, & Pronuntiatio . reat; & qua- fertextra
cauſamplerumque, & defornia convi tia facere ac mereri cogit, &
nonnunquam in ipſos Inventio eft ex cogitatio rerum verarum aut ve . Quid fitta
judices incitatur ; quoniam ſententiæ, verba, fi- riſinilium ,quæ cauſam
probabilem reddunt. guræ , coloreſque funt occultiores quæſtiones in Difpofitio
eft rerum inventarun in ordinem Quid Diſposa genio , cura , exercitatione.
pulchra diftributio . Conjectura omnis , aut de re eſt , autde animo. Elocutio
eft idoneoruin verborum ad inventio Onid Eloc14 Utriuſque tria teinpora ſunt ,
præteritum , pre- nein accommodata perceptio . ſens, &futuruin . De re
& generales quæſtiones Memoria eſt firma aniini rerum ac verborum funt,
& definitæ ; id eft, & quæ non continentur, ad inventionem perceptio.
Quid Memo perſonis , & quæ continentúr. De animo quæri Pronuntiatio eſt ex
rerun & verborum dignita non poteſt, niſi ubi perſona eſt; & de facto ,
cùm te, vocis &corporis decora moderatio . Quid Proing nuntiatio . de re
agitur , aut quid factum ſit in dubium venit, aut quid fiat , aut quid futurum
ſit , & reliqua fi De Generibus caufarum . unilia , De Amphibologia. Genera
cauſarum Rhetoricæ ſunt tria princi- General Cares palia. Demonſtrativum ,
Deliberativum , Judi- Jarum Rheto Innsetabia Amphibologiæ ſpecies ſunt
innumerabiles, ciale: Ticefunttrica les lient Am. adeò ut Philofophi quidam
putent nullum effé Demonſtrativum & In laude phibologia verbum , quod non plura
ſignificet genera , aut oftentativum species admodum pauca ; aut enim vocibus
fingulis ac- Eyxaurasino's In vituperatione cidiper ópw rupaar aut conjunctis
per ainbiguani Emdeuxtixò , conſtructionem , Quando fiat Vitiofa oratio fit,
cùm inter duo nominamè- Deliberativum & ſua In ſuaſione. vitioſa oratio
dium verbum ponitur. forium dicitur De oppofitio Oppoſitiones & fi
contrariæ non ſint , ſed dif- EupBBAEUTIKON In diſſualione niben . fimiles :
verumtamen li fuain figuram ſeryant, ſuntnihilomimus antitheta.. r In
accuſatione, & de Naturalis quæitio eſt, quæ eſt temporalis ;fic Judiciale
fenſione cut cúm que ſunt per ordines temporum acta, acercón marrantur. Nunc ad
artis Rhetoricæ diviſiones În præmii penſione, & definitionofque veniamus ;
quæ ficut extenſa at negatione que copiofa cft ; ita à multis &claris
ſcriptoribus tractata dilatatur, Demonſtrativum genus eſt, cùm aliquid de- Quid
fit De monſtramus, in quo eſt laus & vituperatio ,hoc monftrativi Onidfit
Rhetorica eſt, quando per hujuſinodidefcriptionem oſten- genus. dituraliquis,
atque cognoſcirur ; ut pſalınús 28. Rhetorica Rhetorica dicitur à copia deductæ
locutio- . & alia vel loca vel pſalmi plurimi ,ut:Domine unde dicta. 'nis
influere. Ars autein Rhetorica elt , fi- in calo miſericordia tua, &uſque adnubesveria
cur magiſtri tradunt fæculariuin Litterarum, tas tua. Iuſtitia tua
ficutmontesDei , & reliqua. bene dicendi ſcientia in civilibus
quæſtionibus. Deliberativum genus elt , in quo eſt ſualio de . Quid Delią Quid
fit Ora Orator igitur eſt vir bonus , dicendi peritus, ut diſſualio , hoc eft
quid appetere , quid fugere, berativos . zor, ju offi- dictum eſt in civilibus
quæſtionibus. Oratoris quiddocere, quid prohibere debeamus, citum ,erfinis.
autem officium eſt, appolitè dicere ad perſuaden Judiciale genus elt, in quo
eſtaccuſatio & de Quid Fudia ciale. dum. Finis , perſuadere dictione,
quatenus rex fenſio , vel præmii penſio & negatio. ruin & perſonarum
conditio videtur admittere in civilibus quæſtionibus : unde nunc aliqua bre De
Statibus. viter aſſumemus, ut nonnullis partibus indicatis, penè totiusartis
ipſius ſumınam virtutemque in Status Græcè ça'os. Status cauſarum ſunt año
Status caufae telligere debeamus. rationales , aut legales. Status verò dicitur
ea bacionales, rum åut ſuns Civiles quæſtiones ſunt ſecundum Fortuna viles
quaftio- tianum Artigraphum novelluin , quæ in com ; a Hæ funt quæſtiones an
huic, an cumhoc , an học Quid fit firas ant legales, nes , & quo modo divi
munem animi conceptionem poffunt cadere ; id seinpore , an hac lege,an apud
ipſum . Quidquidpræter van duntur. iſtas quinque partes in oratione dicitur;
egreſſio eſt. eſt, quâ unuſquiſque poteftintelligere, cùm de Hæc nagex aois,
quoniam à reco dicendi itinere defc. æquo quæritur & bono. Dividuntur in
cauſam , : &itur quælibet inſerendo. Bbbb ij Quid fine ci 564 Caffiodorus
Quidfit con Um. res, in qua cauſa conſiſtit. Fit autem ex intentio ne &
depulfione , vel conftitutione. ab alio objicitur, ab adverſario pernegatur,
Statum alii vocant conftitutionem , alii qua 2. Finitivus ſtatus cſt, cùm id
quod objicitur, jocuralis fia. {tionen , alii quod ex quæſtione appareat. non
hoc efle contendimus : fed quid illud lit, ad hibitis definitionibus
approbamus. Quid fam.si Status rationales ſecun Conje & ura. 3. Qualitas
eft , cùm qualis res lit, quæritur ; dum generales quæſtio Finis. & quia de
vi & genere negotii controverſia elt, nes ſunt quatuor. Qualitas.
conſtitutio generalis vocatur. Tranſlatio . 1. Conjecturalis ſtatus eft , cùın
factum , quod Imprudentia ( Purgatio Caſus. Concellio Juridicialis Abſoluta Aut
caufæ , Nixologian Remotio Aur facti. 3 criminis Negotialis aitam Cui juftè in
aliocom generalis Relatio mittitur, quia & ifle in GegyueTiku priva
criminis te fæpius commifin Αντίγκλημα.. Deprecatio Neceflitas. Qualitas Comparatio
Squando melius id Αντίστασης . factum peragitur. 1 ſunt quinque ! с 12. 1 1 in
Pſal. paz . ratio, Juridicialis eft , in qua æqui &re &ti natura ,
Questas Ju. ſ Scriptum& voluntas. riuscialis præmii & pænæ ratio
quæritur. Porov ij dienoido Quid Nego Negotialis eſt , in qua, quid juris ex
civili mo Sätus Legales Leges contrariæ , tizivs. re & æquitate lit ,
confideratur. Ambiguitas. Αμφιβολία . Quid Abfo luta . Abſoluta eft , quæ ipfo
in ſe continet juris & Collectio , live Raciocinatio . injuriæ quæſtionem .
Συλλογισμός purua Raid Allium . 'Affumptiva eſt, quæ ipfa exſe nihil dat firmi,
Definitio Legalisa . aut recuſationem foris , aut aliquid defenfionis aſſumit.
Scriptum & voluntas eſt, quando verba ipſa quid.fcripti Quid con Conceſſio
eſt, cum reus non id quod factum eſt, videntur cum ſententia ſcriptoris
dillidere. & voluniss. defendit: fed , ut ignofcatur , poftulat; quod nos
Legis contrariæ ſtatus eſt, quando inter fe duz Quid legis Comment. ad
pænitentes* probavimus pertinere. leges, aut pluresdiſcrepare videntur.
contrarieta Remotio criminis eft , cùm id crimen quod in Ambiguitas eſt , cùm
id quod fcriptum eſt, tus, 169.1.09103. ferrur ab fe &ab ſua culpa , vi
& poteftate in duas auc plures res ſignificare videtur. Quid Ambi aligin
reus dimovere conatur. guitas. Collectio Quid Remo , quæ & Ratiocinatio
nuncupatur, Quid Colle tio criminis. Relatio criminis eſt , cùm ideo jure
factum di- eſt quando ex eo quod fcriptum eſt, invenitur, ft :0. Quid Relatio
citur , quod aliquis ante injuriam laceſſierit. , Definitio legalis eſt , cum
vis verbi quaſi de criminis. erid Defini Comparatio eft , cùm aliud aliquod
alterius finitivâ conſtitutione , in qua pofita fit , quz- tio legalis. Quil
Compa. factum honeſtum aut utile contenditur , quod, ricur. ut fieret illud
quod arguitur , dicitur eſſe com Status ergo tam rationales quam legales à
Statusà qui iniffum . quibuſdam decein & octo connumerati ſunt. bullam 18.
2 Quid Purga Purgatio cft , cùm factum quidem conceditur, Cæterum ſecundum
Rhetoricos Tullii decem & Tullio verò bes partenha- fedculparemovetur. Hæc
partes habertres,Im- novem inveniuntur , propterea qudd Tranſlatio- 19.numeran
prudentiam , caſum , neceſſitatem . Impruden- nem interRationales principaliter
adfixit ftatus. tia eft, cùin fciſfe fe aliquid is qui arguitur,negat. Unde
feipfum eciam Cicero ( ſicut ſuperiùs di Caſus eſt , cum demonſtratur aliquam
fortune &tum eſt ) reprehendens, Tranſlationem Legalia vim obſtitiffe
voluntati. Neceſſitas eſt , cùm vi bus ftatibus applicavit. quadam reus id quod
fecerit , feciſſe ſe dixerit. Quid ft De precatio . Deprecatio eſt , cùm &
peccaffe , & conſultò De Controverfia. peccaſſe reus conficetur ; &
tamen , ut ignoſca Quid Trans- tur,poftulat.Quodgenus perraro poteft accidere.
Omnis controverſia , ſicut ait Cicero , aut fim- Controverfis ex Cicerone
lario. 4. Tranſlatio dicitur , cùm caufa ex eo pendet, plex eſt, aut juncta ,
aut ex comparatione. triplex eft. cùm non aut is agere videtur , quem oportet:
aut Simplex eſt, quæabſolutam continet unam Quid fit com non cum eo, quioportet
: aut non apud quos, quo quæſtionem , hoc modo: Corinthiis bellum indi- jeftura
fim tempore , qua lege , quo crimine , qua pæna cenus, án non. plex . oporteat.
Tranſlationi adjicitur Conſtitutio, Juncta, eſt ex pluribus quæſtionibus , in quòd
actio tranſlationis &commutationis indi- plura quæruntur
hocpacto:Carthagodiruatur: Quid juncts . an Carthaginienſibus reddatur , an
eocolonia de Ubi adverſariis omnia conceduntur , & per colas ducatur.
lacrymas lupplices defenditur reus. Ex comparatione, utrum potius, an quod po-
Quid ex com paratione, a Et ſi juncta erit conſiderandum erit , utrum ex plu
ribus quæftionibus juncta fit, an ex aliqua cóparatione. tur. H : gere videtur.
1 De Rhethorica. 565 > Exorarum . rario , t11.0 . tiſſimum quæritur ad hunc
modum : utrum exer Exordium , eft oratio animum auditoris ido Quit fis
cituscontra Philippum in Macedoniam mittatur, neè comparans ad reliquam
dictionem . qui ſociis fit auxilio : an teneatur in Italia ; ut Narratio , eft
reruin geftarum , aut at geſta- Quid Nar quàmmaximæ contra Annibalem copiæ
fint. rum expoſitio. Partitio eft, quæ fi re &tè habita fuerit , illu- Quid
Per , DE GENERIBUS CAUSARUM . ftrem &perfpicaam roram efficit orationem .
Confirmatio eft, per quam argumentando no- Qrid Confir Genera cauſarumfunt
quinque. ftræ caufæ fidem , & authoritatem , & firinamen- mario . tum
adjungit oratio. Honeſtum . Reprehenfio eft per quam argumentando ad- Quid
Repre Admirabile . verſariorum confirmatio diluitur, aut elevarur. henfio.
Humile . Concluſio eſt exitus & determinatio totius exid con Anceps.
orationis , ubi interdum & Epilogorum allegatio cnfio. Obſcurum . flebilis
adhibetur. Hæc licer Cicero Latinæ eloquentiæ Lumen Duos libros Quid honefti
Honeſtum caufæ genus eft , cui ſtatim fine ora- eximium , per varia volumina
copiosè ninis & de Rethorica cauſæ genus. tione noftra favet auditoris
aniinus. Admirabile diligenter effuderit, & in arte Rhetorica duobus
compoſuit ci Admirabile, à quo quod eft pre eft alienatus animus eorum , libris
videatur amplexus ; quorumCoinmenta à cero, quosM. Victorinus ter opinio- qui
audituri ſunt. Mario Victorino compoſita, in Bibliotheca mea commentatus num
hominü Humile eft, quod negligitur ab auditore ', & vobis
reliquiffecognoſcor. eft. conftitutum . nonmagnopere attendendum videtur.
Quintilianus etiain Doctor egregius , qui poſt Quintiliansis Quid Admi. rabile.
Anceps in quo aut judicatio dubia eft , aut Auvios Tullianos fingulariter
valuit implere quæ Doctor egre Quid Humile cauſa &honeſtatis &
turpitudinis particeps , ut docuit , virum bonum dicendi peritum à priinâ gius
in Rhe. Qivid Anceps benevolentiam pariật , &offenfionem . ætate
fuſcipiens, per cunctas artes, ac diſcipli- sorica doceka Puid'obfcs Obſcurum ,
in quo aut tardi auditores funt,aut nas nobiliuin litterarum erudiendum eſſe
mon difficilioribus ad cognoſcendum negotiis cauſam ftravit. Libros autein duos
Ciceronis, de arte implicata eft. Rhetorica , & Quintiliani duodeciin
inſtitutio num ! judicavimus eſſe jungendos ; ut nec codi DE PARTIBUS RHETORICÆ
cis'excrefceret magnitudo , & utrique duin ne ceffarii fuerint , parati
feinper occurrant. Partes orationis Rhetoricæ funt fex . Fortunatianum verò
Doctorem novellum , Fortunatik . qui tribusvoluninibus de hac re ſubtiliter
minu- nustria ro Exordium . tèque tractavit ; in pugillari codice Rhetorica
Narratio . congruenterquc redegimus; ut &faſtidiuin lecto confecis.
Partitio . ri tollat , &quæ ſuntneceffaria competenter in Confirmatio. '
finuet. Hunc legat qui brevitatis amator eft, Reprehenfio . nam cum opus ſuum
in multos libros non teten Concluſio , five derit : plurima tamen acutiffimâ
ratiocinatione Peroratio . diſſeruit.Quos codices cum præfatione ſua in uno
corpore reperietis eſſe collectos. DE RHETORICA ARGUMENTATION E. da. tim lumina
de aptè lorfitan , Rhetorica Argumentatio fit. Illatio quæ r Propoſitio | Aut
per Inductio- ! nem cujusmembra &Affumptio funt hæc. dicitur. | Concluſio
ina tayo Rhetorica Argu mentatio tracta tur. rEvdúcemus.Talo PEYSúumps, eſt
commentum , Convincibili. vel commentio ' , hoc eſt | Oſtentabili. mentis
conceptio. 3 Sententiabili. Exemplabili. Txer Suunne, qui eft imper-
iCollectitio. fectus fyllogylinus , atque Rethoricus , ficut Fortuna tianus
dicit , in generibus i explicatur. azódseçu eſt cer ta quædam argu menti
concluſio vel ex confe quentibus , vel repugnantibus. Aut perRatiocina tionem
de Argu mentis , in quo no mine complectun Atodict. tur , quæ Græci di cunt.
Emxelamud too s Emreignus , eft fententia cum fatione , Latinè dicitur Exe
čutio , vel Approbatio , vel Argumentum 11.apemrbiem uc verò , qui eſt Aut
Tripertitus. Rhetoricus & latior fyllogyf: 3 AutQuadripercitus. Aut
quinquepertitus. | mus eft. 566 Caffiodorus Unde Argu titus. ductio . Mem2. cit
. mêtatiodista. Argumentatio dicta eſt quaſi argutæ mentis rici ſyllogiſmi,
latitudinediſtanz& productione oratio . fermonis à dialecticis fyllogiſmis
, propter quod Quidfit Ar Argumentatio eſt enim oratio ipſa, qua inven-
Rhetoribus datur. gumentatio. tum probabiliter exequimur argumentum .
Tripertitus , epichirematicus fyllogiſmus eſt; Quid Triper Quid fit In Inductio
eft oratio,qua rebusnon dubiis capra- qui conſtat inembris tribus : id eft,
propoſitione, mus aſſenſionein ejus, cum quo inſtituta eſt ,live aſſumptione,
concluſione. inter Philofophos , ſive interRhetores , five inter Quadripertitus
eſt , qui conſtatmembris qua- Quid Quz Seriocinantes. tuor: propoſitione ,
affumptione, & una propo- dripernicus. Quid Probo Propoſitio inductionis
eſt ,quæ fimilitudines fitionis live afſuinptionis conjuncta probatione, fitio.
concedendæ rei unius inducit , aut plurimaruin . & conclufione. Quid
illatio. Illatioinductioniseft, quæ & affumptio dicitur, Quinquepertitus
eſt,qui conſtat membris quin- Que de Marine quæ rem dequa contenditur, &
cujus cauſa ſimi- que:id eft ,propoſitione ,& probatione , aſſum-
quepertiim , litudines adhibitæ ſunt introducit. ptione, & ejus probatione
, & concluſione. Quid con Concluſio inductionis eſt, quæ aut conceſſio .
Hunc Cicero ita facit in arte Rhetorica: Si de clulo. nem illationis confirmat
, aut quid ex ea confi- liberatio & deinonſtratio genera ſunt cauſarum ,
ciatur , oftendit. non poffunt rectè partes alicujus generis cauſa Qwid Ratio
Ratiocinatio eft oratio , quâid de quo eft quæ- putari. Eadem enim res , alii
genus, alii pars effc cinatio. ítio comprobamus. poteft: idem genus , &
pars effe non poteſt, vel Quid Enthy Enthymema igitur eſt, quod Latinè
interpreta- cætera ; quoufque fyllogiſini hujus meinbra clau cur mentis
conceptio , quam imperfectum fyllo- dantur. Sed videro quantum in aliis partibus
giſmum ſolent Artigraphi nuncupare. Nam in lecter ſuum exercere poſſit ingenium
. duabus partibus hæc argumentiforma conſiſtit: Memoratus aurein Fortunatianus
in tertio libro quando id quod ad fidein pertinet faciendam , meminit de
oratoris memoria , de pronuntiatio utitur fyllogiſmorum lege præterita ; ut eſt
illud: ne, & voce , unde tainen Monachus cum aliqua Si tempeſtas vitanda
eſt , non eft igitur navigan- utilitate diſcedit: quando ad ſuas partes non im
dum. Exſola enim propoſitione & conclufione probè videtur attrahere , quod
illi ad exercendas conítat effe perfectum : unde magis oratoribus,
controverſias utiliter aptaverunt. Memoriam { i quàm dialecticis convenire
judicatum eſt. De quidem lectionis divinæ re cognita cautela ſerva dialecticis autem
ſyllogiſinisſuo loco dicemus. bit, cùm in ſupradicto libro ejus vim qualitatém
Quid con Convincibile eft ,quod evidenti ratione * con- que cognoverit: artem
verò pronuntiationis in *AIS.convin .vincitur ;ſicut fecit Cicero pro Milone.
Ejusigi- divinæ legis effatione concipiet. Vocis autem di tur mortis ſedetis
ultores, cujus vitain , li * putetis ligentiam in pſalmodiæ decantatione
cuſtodiet. * Ed . poſetis. per vosreſtitui poſſe, noletis. Sic inſtructus in
opere ſancto redditur, quamvis Quid Ofien Oſtentabile eft , quod certa
reidemonſtratione libris ſæcularibus occupetur. rabile. conſtringit ; ſic
Cicero in Catilinam : Hic ramen Nunc ad Logicam , quæ & Dialectica dicitur,
vivit , imò etiam in Senatuin venit. ſequenti ordine veniamus, quam quidam diſci
Quid Senten tiabile. Sententiale eft , quod ſententia generalis addi- plinain ,
quidam artem appellare maluerunt , di cit ; ut apud Terentiun: Obſequium
amicos,ve centes : quando apodicticis ,id eſt , probabili ritas odium parit.
bus diſputationibus aliquid diſſerit , diſciplina Quid Exem plabile .
Exemplabile elt , quod alicujus exempli com- debeat nuncupari: quando verò
aliquid verilimi M. G. ini. paratione eventum fimilem comminatur ; ſicut le
tractat , ut ſunt ſyllogiſini ſophiſtici, nomen Cicero in Philippicisdicit:Temiror,Antoni,quo-
artis accipiat. Ita utrumque vocabulum pro ar *M.G. per- rum facta * imitere ,
eoruin exitus , non * per- gumentionis ſuæ qualitate promeretur. timefcere,
horrefcere. Quid Colle Collectivum eſt, cùm in unum , quæ argumen CAPUT
TERTIUM. tata funt , colliguntur ; ſicut ait Cicero pro Milo ne : Quem igitur
cum gratia noluit, hunc voluit De Dialectica cuin aliquorum querela, quemjure ,
quem loco, quem temporemoneftaulus: hunc injuria ,alie- DJalecticam
primiPhiloſophi indi&ionum no cum periculo non dubitavit occidere. runt :
non tamch ad artis redegereperitiam. Poſt Ed. deftris Præterea ſecundum
Victorinum Enthymematis quos Ariſtoteles, ut fuit * diſciplinarum omniun altera
eft definitio. Ex fola propoſitione,ſicutjam diligens inquiſitor , ad regulas
quaſdam hujus Ariffoseler dictum eſt , ita conſtat Enthymema ; ut eft illud :
doctrinæ argumenta perduxit, quæ priùs ſub cer- Dialectice Si tempeſtas vitanda
eſt , non eſt navigatio requi- tis præceptionibus non fuerunt. Hic libros fa-
argumenta ad regulas renda. Ex fola aſſumptione s ut eſt illud : Sunt ciens
exquiſitos, Græcorum ſcholam multiplici quafdamper autem qui munduin dicantfine
divina adminiſtra- laude decoravit ; quem noftri non perferentes duris. tione
diſcurrere. Ex folaconcluſione ; ut eft il- diutiùs alienum , tranſlatum
expofitúmque Ro Dialecticam lud : Vera eſt igitur divina * fententia. Ex pro-
manæ eloquentiæ contulerunt. Dialecticam verò , *MS. fcick poſitione&
affumptione; ut eft illud: Si inimicus &Rhetoricam Varro in nove;n
diſciplinarú libris canin move eſt, occidit. Inimicus autem eſt : & quia
illi deelt tali funilitudine definivit. Dialectica & Rhetori- libris Vaira
.conclufio, Enthymnema vocatur. Sequitur Epi- ca eſt, quod in manu hominis
pugnus adſtrictus, definivit. chirema. & palma diſtenſa : illa brevi
oratione argumenta Quid Epic Epichirema eft , quod fuperiùs diximus, dels
concludens, iſta facundiæ campos copioſo fer chirema. cendens de ratiocinatione
latior excurfio Rheto- mone diſcurrens : illa verba contrahens , ifta di
Itendens. & Argumentum eſt argutæ mentis indicia quod per indagationes
probabiles ,rei dubiæ perficitfidem,per Rhetoricaad illa ,quæ nititurdocenda,
facun- pomaleticom Dialectica fiquidem ad differendas res acutior: Que fic diffe
excmpla confirmans; ut eft : Noliæinulari in malignan tibus : quoniam tanquain
fænum , &c. dior. Illa ad ſcholas nonnumquam venit , iſta ju. & Rhetori
saris. Zivim. n.19167 . & Rhetoria 64m. De Dialectica.. son quenter. girer
procedit in forum : illa requirit rariſſimos & noftræ diſpoſitionis
curràtintentio. Conſue * MSS.fre- ftudiofos , hæc * frequentes populos. Sed
priul- tudo iraque eft doctoribus philoſophiæ , ante quam de fyllogiſmisdicamus
, ubi totius Diale- quam ad Iſagogen veniant exponendam , divis dicæ utilitas
& virtusoſtenditur, oporter de ejus lionem philoſophiše paucis attingere
:quam nos initiis , quaſi quibuſdam elementis , pauca diffe- quoque ſervantes;
præſenti tempore non immer cere; ut ficut eſt à Majoribus diſtinctus ordo , ita
ritò credimus intiinandain , Philofophiæ divifio. In Inſpectivam , TIXMT, hæc
dividitur in In Naturalem . | Doctrinalem , hæc ( In Arithmeticam dividitur
Muficam . Geometricain. Divinain . Aftronomicain Diviſt thing Lofophiæ.
Philoſophia divi ditur fecundum Ariftotelem . Moralem . | Sirir. Er Actualeta
Ciſpenſativa , Φρακτικών PorxorowyXXV. hæc dividitur in Civilem . ίπολιτική »
ACETA! oixorouexin . weg.Xti xh. νομοθεπκό ., thesxor. Sewertexn . . φυσική .
Definitiò Philos fophiæ. megatoxin. resnio intoxin . 23 Quid 1 3. Dirogoera
oroimene Occs Kated to duratór ávöçóórw. plina quæ curſus cæleftium ,
fiderumque figuras homophine en Philoſophia eft divinaruin , humanarùmque re
contemplatur omnes , &habitudines ftellaruni quotuplex. rum , inquantum
homini poſſibile eſt , probabilis circa ſe; & circa terram , indagabili
ratione per Ycientia: Aliter,Philoſophia eſt ars artiuni, & dif- currit.
Actualis dicitur, quæ res propoſitas ope ciplina diſciplinarum.Rucſus,
Philoſophia eſtme, rationibus ſuis explicare contendit. Moralis di ditatio
mortis,quod magis convenit Chriſtianis, citur , per quam mos vivendihoneſtus
appetitur; 2.Corint. 16. qui ſæculi ambitione calcata , converſatione dif-
& inſtitura ad virtutem tendentia præparantur. ciplinabili , fimilitudine
futuræ patriæ vivunt; Diſpenſativa dicitur , domeſticaruin reruin fa Philip. 3.
20. Sícut dicitApoftolus : In carne enim ambulantes, pienter ordo diſpoſitus.
Civilis dicitur, per quàm non ſecundum carnem militamus ; & alibi: Con-
totius civitatis adminiſtrarur utilitas. Philoſo verſatio noftra in calis eft.
Philofophia eſt affimi- phiæ diviſionibus definitionibúſque tractatis, in lari
Deo ſecundum quod poflibile eft homini. quibus generaliter omnia continentur ,
nunc ad Inſpectiva dicitur,qua ſupergreſſi vilbilia de di- Porphyrii librum ,
qui Iſagoge inſcribitur, acce vinis aliquid & cæleſtibus contemplamur,
eáque damus. mente foluinmodo contuernur , quantum corpo De Iſagoge Porphyrii.
reum ſupergrediuntur aſpectum . Naturalis dici tur,ubiuniuſenjufque rei natura
diſcutitur: quia de Genere. Dávc . nihilcontra'naturain generaturin vita: ſed
unun | de Specie. tidos. quodque hisufibus deputatur , in quibus à Crea-
llagoģe Por de Differentia. Depoeg tore productú eit: nifi fortè cum voluntate
divina phyrii tractat de Proprio. ibor aliquod miraculuin
proveniremonſtrerur.Doctii i de Accidente, συμβεβηκός. *MSS. figni- nalis
dicitur ſcientia , quæ abſtractam * conſiderat ficar. quantitatem . Abſtracta
eniin quantitas dicitur, Genus eft ad fpecies pertinens, quod de diffe- Quid
fit Ge quam intellectu àmateria ſeparantes ,vel ab aliis rentibus fpecie , in
co quod quid ſit, prædicatur; nun accidentibus ; ut eſt , par, impar: vel alia
hujuſce ut animal. Per ſingulas enim fpecies , id eft, modi in ſola
ratiocinatione rractainus. Divinalis hominis , equi, bovis , &
cæterorun,genus anis dicitur, quando aụt ineffabilem naturam divi- mal
prædicarur atque ſignificatur, nam , aut ſpirituales creaturas ex aliqua parte,
Species eſt , quod de pluribus & differentibii's Quid fit Spo profundifſimâ
qualitate differimus. Arithinerican numero, in eo quod quid fit, prædicatur ;
nam cies, eſt diſciplina quantitatis numerabilis ſecundum de Socrate , Platóne
, & Cicerone homo prædi ſe. Muſica, eſt diſciplina quæ de numeris loqui-
catur. tur , quiad aliquid ſunt his , qui inveniuntur in Differentia eſt , quod
de plaribus & differen » Quid fit Dif". ſonis. Geometrica, elt
diſciplina magnitudinis tibus ſpecie ,in eo quod quale ſit,prædicatur; ſicuc
erensia, immobilis,&formarum . Aftronoinia,eſt diſci- rationale & inortale,in
eoquodquale ſit, dc ho- f mine prædicatur, 568 Caffiodorus € lcens . men .
atque bos. Tulum , Quid fit Pro Proprium eſt , quod unaquæque ſpecies , vel Hoc
opus Ariſtotelis intentè legendum eſt, cur Carego prium. perſona certo
additamento infignitur, &ab om- quando ficut dictum eſt ; quicquid hoino
loqui- rie Ariftotelis ni communione feparatur. tur, inter decem ifta
Prædicamenta inevitabili, intentè les erid fut Ac. gende. Accidens eſt , quod
accidit & recedit præter ter invenitur : proficit etiam ad libros
intelligen ſubjecti corruptionem : vel ea quæ fic accidunt, dos , qui live
Rhetoribus, fivc Dialecticis appli ut penitus non recedant. Hæc qui pleniùs
noſſe cantur. deliderant , Introductionem legant Porphyrii ; * £ d.alicujus
quilicetad utilitatein * alieni operis ſedicatſcri Incipitperi hermenias , id
eft , de inter bere, non tamen ſine propria laude viſus eſt talia pretatione.
dicta futinafle. Sequitur liber peri hermenias ſubtiliſimus rii Categorie
Ariſtotelis. mis , & per varias formas , iterationéfque cautif ſimus, de
quo dictuin eſt : Ariſtoteles, quando Sequuntur Categorix Ariſtotelis, ſive
Prædi- librum peri herinenias ſcriptitabat , calamum in camenta : quibus mirum
in modum per varias fi- mente tingebat. gnificantiasomnis fermo concluſuseſt :
quorum De nomine. organa ſive inftruinenta ſunt tria. De verbo . Inftrumenta
Organa vel inſtrumenta Categoriaruin five In libro peri hermenias; De oratione
, drogoriarum ( rent tria , /ci Prædicamentorum funtæquivoca , univoca, de- id
eft, de interpretatio De enunciatione. licet. nominativa. ne, prædictus philofo
De affirmatione. Æquivoca. Æquivoca dicuntur, quorú noinen folùm com- phusdehis
tractat. De negatiore. mune eft , fecundùm nomen verò ſubſtantiæ ratio
Decontradictione, diverſa ; ut animal, homo, & quod pingitur. Vniyoca ,
Univoca dicuntur , quorum & noinen com Nomen, elt vox fignificativa
ſecundùm placi- quid fitmoi mune eſt, & ſecunduin nomen diſcrepare eadem
tum, ſinė tempore: cujus nulla pars eſt ſignificati ſubſtantiæ ratio non
probatur: ut animal , homo, va ſeparata: utSocrates. Verbum , eſt quod
conſignificat tempus : cujus Quid forver Deuominati Dena ninativa , id eſt ,
derivativa , dicuntur pars nihil extra ſignificat , & eſt ſemper eorum bum,
quæcuinque ab aliquo ſola differentia caſus ſe- quæ de altero dïcuntur nota ;
ut ille cogitat, dil cundum noinen habent appellationem : ut å putat.
grammatica gramınaticus,& à fortitudine fortis. ' Oratio , eſt vox
fignificativa , cujus partium Quid ſit örä aliquid * feparatim ſignificativum
eſt ; ut Socrates to Subſtantiaa sola, diſpucat. * MSS.lepa | Quantitas,
mosotas. Enuntiativa otàtio, eſt vox ſignificativadeeo Quid fit Ad aliquid .
ney's Fan quod eft aliquid , vel non eſt ; ut Socrates eſt , So- Enuntiatid.
Ariſtotelis Ariſtotelis Catego Qualitas. TÓTUS. crates non eſt . Categorie riæ,
vel Prædicamen- į Facere. FOREV. Affirinatio , eft enuntiatio alicujas de
aliquo: quid fit Af son decem. ra decem ſunt Pati. PeoMHT. ur Socrates eſt.
formatio. Situs. ευρώς . Negatio , eft alicujus de aliquo negatio : ut So- luid
fitNe. Quando. done. crates non eſt. gatio. Ubi. Contradictio , eſt
afficmationis & negationis euid fitcom | Habere. ( xar. oppoſitio: ut ,
Socrates diſputat , Socrates non diſputát. Subſtantia elt , quæ propriè ,
&t principaliter Hæc omnia per librum ſuprà memoratum mi. Liber Pero
Hermenias & maxiinè dicitur ; quæ neque de ſubjectopræ- nutiſſimè diviſa ;
& ſubdiviſa tractantur, quæ Boetio feprem dicatur, neque in ſubjecto eſt ;
ut aliquis homo, breviter intimnaſſe ſuffciat, quando in ipfo com- libris
expoſé vel aliquis equus. Secundæ autem ſubftantiæ di- petens explanatio
reperitur : maximè cùin eum tu . cuntur, in quibus ſpeciebus , illæ quæ
principa- Tex libris àBoëtio viro magnifico conſtet expoſi liter ſubſtantia
primò dicta ſunt, inſunt atque tum , qui vobis inter alios codiceseſtrelictus.
clauduntur ; ut in homine , Cicero . Nunc ad fyllogiſticas ſpecies formulaſque
vea Quantitas Quantitas aur diſcreta eſt, & habet partes ab nianus, in
quibus nobilium Philofophorum ju aplex, aiſ alterutrodiſcretas ,nec
eominunicantes , ſecun- giter exercetur ingenium , dum aliquem communem
terminum , velut nu merus, & ſerino quiprofertur; aut continua eſt, De
Formulis ſyllogifmorum. & habet partes quæ ſecundum aliquem coinmu* nein
terininuin adinvicem convertuntur ; velut (in priina forinula modi no linca,
ſuperficies, corpus,locus, motus,tempus. Forinulæ Categori Ad aliquid verò funt
, quæcumque hoc ipſo coruin , id eſt, Præ-, In ſecunda formula modi Formale ca
quod ſunt, aliorum eſſe dicuntur ; velur majus, dicativorum ſyllo quatuor.
duplum ,habitus , difpofitio ,ſcientia, ſeriſus, gilmorú ſunttres. | In tertia
formula modi politio. i ſex. Qualitas , eſt , fecundum quam aliqui quales
dicimur ; ut bonus, malus. Modiformule prime ſunt novem . Facere eſt , ut
ſecare , vel urere , id eft , ali quid operari. Pati eſt , ut ſecari , vel uri.
Primus modus eſt , quiconcludit , id eft, qui Situs , eft , ut ftat , ſeder ,
jacet. Quando colligit ex univerſalibus dedicativis , dedicati eft , ut
hefterno, vel crás. vum univerſale directum ; ut, omne juſtum ho Ubi eſt : ut
in Aſia , in Europa , in Lybia. neſtum , omne honeftum bonum , omne igitur
Habere eft : ut calccatum , velarmatum effe. juſtum bonum . Secundus ött .
tradictio, nos creta , con sinna , vem . tegoricum Syllogiſmorum funt tres.
DeDialectica. 569 * Ed, concler dit. per quæ ſubti Secundus moduscft, qui *
conducit ex univer- rivis particulari & univerfali dedicatvium parti
ſalibus dedicativâ & abdicativâ abdicativum uni- culare directum : ut quoddam
juſtam honeſtum , verſale directum : ut oinnejuſtum honeſtum , nul- omne juſtum
bonum , quoddam igitur honeſtuin lum honeſtum turpe , nullum igitur juſtum
bonum . turpe. Tertius modus eſt , quiconducit ex dedicativis Tertius modus eſt
, qui conducir ex dedicativis univerſali & particulari dedicativum
particulare particulari & univerſali,dedicativum particulare directum : ut
, omne juſtum honeftuin , quod directum : ut quoddam juftum eft honeſtum ,om-
dam juſtuin bonum, quoddam igitur honeſtum ne honeftuin utile, quoddam igirur
juftumn utile. bonum . Quartusinodus eſt , qui conducitex particulari Quartus
modus eſt , quiconducit ex univerſa dedicativa, &univerſali abdicativa,
abdicativum libusdedicativa & abdicativa abdicativum parti particulare
directum : ut quoddam juſtum hone- culare directum : utomne juſtuin honeſtuin ,
nul Itum , nullum honeftunı turpe , quoddam igitur lum juſtum malum , quoddam
igitur honeſtum juſtum non eft turpe. non eſt malum . Quintus modus eſt, qui
conducit ex univerſa Quintus modus eſt, qui conducit ex dedicativa libus
dedicativisparticulare dedicativum per re- particulari & abdicativa
univerſali abdicativum Mexionem : ut omne juftum honeſtum , omne ho-
particulare directum : ut , quoddam juſtum , ho neftum bonum , quoddam igitur bonum
juſtum . neſtum , omne honeſtum bonum ,igitur quoddan Sextus modus eft , qui
conducit ex univerſali honeftum non eft malum. dedicativa, & univerſali
abdicativa , abdicativum Sextus modus eſt , qui conducit ex dedicativa
univerſale per reflexionem : ut omne juſtum ho- univerſali & abdicativa
particulari abdicativum neltuin , nulluin honeſtum turpe, nullum igitur
particulare directum : ut,omnejuſtum honeſtum , turpe juftum . quoddam juſtum
non eſt malum , quoddam igi Septimusmodus eſt ,quiconducit ex particulari tur
honeſtuin non eſt malum. & univerſali dedicativis dedicativum particulare
Has formulas Categoricorum ſyllogiſmorum reflexionem : ut quoddamn juftum
honeſtum , qui plenè nofſe deſiderat , librum legat, quiin Liber Apa!e omne
honeſtum utile,quoddam igitur utile juſtú. fcribirur -Peri hermenias Apuleii,
& qui inſcribi : Odavus modus eft , qui conducirex univerfa- lias ſunt
tractata , cognoſcet. Nec faſtidium no- tur Peri her libus abdicativa &
dedicativa particulare abdica- bis verba repetita congeminent ; diftin &ta
enin, menias , le tivum per reflexionein : ut nullum turpe hone- atque
conſiderata , ad magnasintelligentiæ vias, gendus. ftum , omnehoneſtum juſtum ,
quoddamn igitur præftante Domino,nosutiliter introducent.Nunc juſtum non eft
turpe. ad hypotheticos fyllogiſinos , ordine currente, Nonas modus eit , qui
conducit ex univerſali veniainus abdicativa, &particulari dedicativa
abdicativum particulareper reflexionem:velut nullumturpe Modi Gyllogiſmorim
hypotheticorum ,qui fiunt Modifyllogif morum hyposs honeſtun , quoddam honeſtum
juſtum , quoda cum aliqua conjunctione, Jeptem funt. dam igitur juſtum non eſt
turpe. funt feptem . Primus modus eſt , velut : Si dies elt, lucer ; eſt Modi
formuleſecunda funt quatuor. autein dies ; lucet igitur. Secundusmodus eft ita
: ſi dies eſt, lucet , non Primus modus eſt , qui conducit ex univerſali- lucet
; non eft igitur dies. bus dedicativa & abdicativa abdicativum univer-
Tertius modus eſt ita : non & dies eſt & nonlu fale directum :
velutomne juſtum honeſtum ,nul- cet , atqui dies eft, lucèt igitur. lum turpe
honeftum ,nullum igitur juſtum turpe. Quartus modus eft ita : aut nox, aut dies
eft, at Secundus modus eſt , quiconducit ex univerſa- qui dieseſt , non igitur
nox eſt. libus abdicativa & dedicativa abdicativum uni Quintus moduseſt ita
: aut dies eſt, aut nox, at-. verſale directuin : velut nullum turpe honeftum ,
qui nox non eſt , dies igitur eſt. omne juſtum honeſtum , nullumigitur turpe
Sextus inodus eſt ica : non & dies eſt, & nonlu juftum cet , dies autem
eſt , nox igitur non eſt. Tertius modus eſt , quiconducit ex particulari .
Septimus modus eſt ita :non & djes eft & nox , dedicativa &
univerfali abdicativa ab licativum atqui nox non eſt , dies igitur eſt.
particulare directum : veluc quoddam juftum ho Modos autem hypotheticorum
ſyllogiſinorum neſtum , nulluin turpehoneftum , quoddam igi- fi quis pleniùs
noſſe deſiderat, legat librum Marii Marius Vi tur juſtum non eſt turpe.
Victorini , qui inſcribitur de fyllogiſmis hypo- &torinus librá Quartus r.odus
eſt, quiconducit ex particu- thericis. Sciendum quoque , quoniam Tullius de
hypotheti: lari abdicativa & univerfali dedicativa abdicati- Marcellus
Carthaginenſisde categoricis & hy- edidit. vum particulare directum : velut
quoddamn juftum potheticis fyllogiſmis , quodà diverfis philoſo: TulliusMar non
eſt turpe , omne malum turpe , quoddam phislatiſſimè dictum eft, feptem libris
breviter cellus igitur juſtuin non eft malum , ſubtilitérque tractavit ; ita ut
priino libro de re: thag. de Syl gula, ut ipſe dicit, colligentiarum artis
Dialecticæ logiſmis Modi formula tertiæfunt fex. diſputaret ; &quod ab
Ariſtotele de categoricis compofuit. ſyllogiſmis multis libris editum eſt , ab
ifto fecun Primus modus eſt , qui conducit 'ex dedicativis do & tertio libro
breviter expleretur ; quod aut univerfàlibus dedicativum particulare , tam
dire- tem de hypotheticis ſyllogiſmis à Stoicis innume Etuin , quàm reflexum :
ut omne juſtum hone- ris voluminibus tractatum eſt , ab iſto quarto & ftum
, omne juſtum bonum , quoddam igitur ho- quinto libro colligeretur. In fexto
verò de inix neftum bonum vel quoddamn bonum ho- tis fyllogiſinis , in ſeptimo
autem de compoſitis neftuin . diſpucavit ; quem codicem vobis legendum re-,
Secundus modus eſt , qui conducit ex dedica- liqui. cccc theticorum Car Jeprem
libros > $ 70 Caffiodorus Quid las Depnilio. 1 .1 1 longum viaticum : modò
ut laudet , ut adolers De Definitionibus. centia eſt Aos ætatis . Octava
ſpecies definitionis eft , quain Græci Hinc ad pulcherrimas definitionum
ſpecies ac- x7 a paistoin rõ Evertix vocant , Latini per pri cedamus , quæ
tantà dignitate præcellunt , ut pof- vantiam contrarii ejus quod definitur,
dicunt; up ſont dici orationun maxiinuin decus , & quædam bonum eſt, quod
malum noneft: juftuin eſt, quod lumina dictionuin . injuſtum non eft. Et his
fimilia : quod fe ita na Definitio verò , eſt oratio uniuſcujuſque rei
turaliter ligat , ut neceſſariam cognitionem fibi naturam à communione diviſam
, propria ſignifi- unius comprehenſione connectat. Hoc autem catione concludens
: hæc multis modis , præce- genere definitionis uti debemus, cùm contrarium
priſque conficitur. notun eſt ; nam certa ex incertis nemo probat. Definitionum
prima eſt óvoradcas , Latinè ſub- Sub qua ſpecie ſunt hæ definitiones .
Subſtantia ftantialis , quæ propriè & verè dicitur definitio ; eft , quod
neque qualitas eſt, neque quantitas, ne or eſt, homoanimalrationale mortale ,
ſenſus dif- que aliqua accidentia : quo genere definitionis ciplinæque capax
;llæc enim definitio per fpecies Deus definiri poteſt ; etenim cùm quid fit
Deus, & differentiasdeſcendens, venit ad proprium , & nullo modo
comprehendere valeamus : ſublatio deſignat plenillimè quid ſit homo . omniuin
exiſtentium , quæ Græci örta appellant, Sccunda eſt ſpecies definitionis , quæ
Græcè cognitionem Dei nobis circumciſa & ablata no ŽVYOMMA TIx ) dicitur ,
Latinè notio nuncupatur : tarum rerum cognitione ſupponit ; ut li dicamus ,
quam notionem communi,non proprio nomine Deus eſt , quod neque corpus eſt ,
neque ullum poffumus dicere. Hæc iſto modo ſemper effici- elementum , neque
animal , neque mens , neque cur : Homo eſt, quod rationali conceptione &
ſenſus , neque intellectus , neque aliquid , quod exercitio præeſt animalibus
cunctis. Non eniin ex his capipoteſt ; his enim ac talibus ſublatis , dixit,
quid eſt homo , ſed quid agat , quaſi quodam quid fit Deus , non poterit
definiri . figno in notitiam denotato . In iſta enim &in re Nona ſpecies
definitionis eſt , quain Græci liquis notio rei profertur : non ſubſtantialis ,
ut Kåtalnooi , Latini per quamdam imaginatio in illa primariaexplanatione
declaratur ; & quia nem dicunt : ut, Æneas eſt Veneris & Ănchiſæ illa
fubftantialis eſt , definitionum omnium obti- filius. Hæc ſemper in individuis
verſatur , qux ner principatum . Græci aqua appellant. Idem accidie in eo gene
Tertia fpecies definitionis eſt , quæ Græcè redictionis, ubialiquis pudor aut
metus elt no Trolótus dicitur, Latinè qualitativa. Hæc dicendo minare : ut
Cicero , cùm me videlicet ficarii illi quid quale lit , id quod fit , evidenter
oſtendit. deſcribant. Cujus exemplum tale eſt : homo eft , qui ingenio Decima
fpecies definitionis eft , quam Græci valet , artibus poller , & cognitione
rerum : aut as Tót , Latini , veluti , appellant ; ut fi quæ quæ agere debeat
eligit :aut animadverſione quod ratur quid ſit aniinal , refpondearur , homo :
inutile fit contemnit ; his enim qualitatibus ex non enim manifeftè dicitur
animal folum effe preſſus ac definitus homo eſt . hominem , cum fint alia
innumerabilia : ſed cuin Quarta ſpecies definitionis eſt , quæ Græcè dicitur
homo , veluti ipfum hominem animal de soggapixn , Latinè deſcriptionalis
nuncupatur: fignat : cùm tamen huic nomini multa ſubja quæ adhibitâ circuitione
dictorum factorúmque, ceant. Rem enim quæfitam prædictum declata rem , quid fit
deſcriptione declarat ;ut ſi lu- vit exemplum . Hoc eſt autem proprium defini
xuriofum volumus definire , dicimus : Luxurio- tionis , quid fit illud , quod
quæritur , declarare . fus, eſt victus non neceffarii & fumptuoli & one
Undeciina ſpeciesdefinitionis eft , quam Græ rofi appetens,in deliciis
affluens,in libidine pron- ci rece tead the matter , Latini per iudigentiain
ptus ; hæc & talia definiunt luxuriofum . Que pleni ex eodem genere vocant
: ut ſi quæratur ſpecies definitionis , oratoribus magis apta eſt, quid fit
triens, refpondeatur , cui dodrans deeft, quàm dialecticis , quia latitudines
habet ; hæc ut lit aſlis. fimili modo in bonis rebus ponitur , & in
Duodecima ſpecies definitionis eſt, quam Græ malis. ci , Kata imesvov , Latini per
laudem dicunt ; ut Quinta ſpecies definitionis eft , quam Græcè Tullius pro
Cluentio: Lex eſt mens, & animus, AT nikov : Latinè ad verbum dicimus : hæc
vo- & confilium , & fententia civitatis. Et aliter pax cem illam , de
qua requiritur , alio ſermonedeſi- eſt tranquilla libertas. Fit &
pervituperationem , gnat uno ac ſingulari, & quodammodo quid il- quam Græci
tózer vocant : ſervitus eſt poſtre lud ſit in uno verbo pofitum , uno verbo
alio de- mum malorum omnium , non modò bello , ſed clarat ; ut conticefcere eſt
tacere : item cùm ter- morte quoque repellenda. minum dicimus finem , aut
terras populatas inter Tertiadecima eſt ſpecies definitionis , quam pretemur
effe vaſtatas. Greci κατ'αναλογίαν,Latini juxta rationem dicunt: Sexta ſpecies
definitionis eſt , quam Græci x fed hoc contingit , cum majoris ire nomine ,
res Thu nepoege , per differentiam dicimus ; id eft , definitur inferior : ur
eſt illud , homo ininor mun cùm quæritur , quid interſit inter regem & ty-
dus . Cicero hac definitione ſiculus eſt :Edictum , rannum , adjecta
differentia quid uterque fit, de- legem annuam dicunt eſſe . finitur : id eſt ,
rex eſt modeftus & temperans, ty Quartadecima eſt ſpecies definitionis ,
quam rannus verò impius & immitis . Græci sess , Latini ad aliquid vocant :
ur eſt Septima eft fpecies definitionis , quam Græci illud, pater eft , cui eſt
filius :dominus eſt, cui eft el ustápoegr . Latini per tranſlationein dicunt :
fervus: & Cicero in Rhetoricis , genus eſt , quod ut Cicero in Topicis,
Lictus eſt, quà Auctus elu- plures partes amplectitur: item pars eſt , quod lu
dit . Hoc variè tractari poreſt : modò enim ut beſt generi . moveat , ficut
illud , caput eſt arx corporis : modò Quintadecima eſt ſpecies definitionis ,
quam ut vituperet , ut illud , divitiæ ſunt brevis vitæ Græci koste BiTiongear
, Latini fecundum rei fa ! De Dialectica. 571 tionuom . 5 rationem vocant : ut
dies eſtrol fuprà terras:nox, dicativus atque ſubjectus. Terminos autem voco
elſolſubterris. Scire autem debemus prædictas verba &nonina,quibuspropoſitio
nectitur;ut niquifuntper propoſe ſpecies definitionum , Topicis meritò eſſe
ſocia- in ea propoſitione qua dicimus:Homojuſtus eſt : tas , quoniaminter
quædam argumenta funtpoſi- hæc duo nomina, id eſt, homo & juftus, propo tæ
, & nonnullis locis commemoranturin Topi- fitionis partes vocantur. Eoſdem
etiam terminos cis. Nunc ad Topica veniamus, quæ ſunt argu- dicimus : quorum
quidem alter ſubjectuseſt , al mentorum fedes, fontes ſenſuu, origines di- ter
verò prædicativus, Subjectus eſt terminus, &tionum : de quibus breviter
aliqua dicenda ſunt, qui minor eſt: prædicativus verò , qui major: ut ut
&dialecticos locos, & rhetoricos , ſive corum in ea propolitione , qua
dicitur , Homo juſtus, differentias agnofcere debeamus: ac prius dedia- homo
quidem minus eſt , quàm juſtus. Non Iceticis dicendum eft . enim in folo homine
juſtitia eſſe poteft , verùm etiam in corporeis diviníſque ſubſtantiis : atque
De Dialecticis locis. ideo major eſt terminus, juſtus : homo verò , mi nor; quò
fit, ut homo quidem ſubjectus fit ter Quid die Propoſitio, eft oratio verum -
falfúmveſignifi- minus, juſtus verò prædicativus. Propofitio. cans , utſiquis
dicat , cælum eſſe volubile : hæc Quoniam verò hujuſmodi (implices propolis
enuntiatio & proloquiun nuncupatur : quæſtio tiones alterum
habentprædicativum terminum , verò eft, in dubitationem ambiguitatémque ad-
alterum verò ſubje& um, à majoris privilegio par ducta propofitio ; utſiqui
quærant, an fit cælum tis propoſitio prædicativa vocata eft.Sæpe autem Quid
Concli- volubile. Concluſio , eft argumentis approbara evenit, ut hi termini
ſibimet inveniantur æqua 330. propoſitio; ut fi quis exaliis rebus probetcælum
les , hocinodo , homoriſibilis eſt; homo namque effe volubile.Enuntiatio quippe
live ſui tantum & riſibilis uterque ſibi æquus eſt terminus. Nam caufa
dicitur,five ad alios ad ferturad probandum , ncque riſibile ultra hominem ,
nec ultra riſibile propofitio eft : cùm de ipſa quæritur, quæſtio: homo
porrigitur : ſed in luis hoc evenire neceſſe lipſa eſt approbáta, conclufio. Idem
igitur pro- eſt, utſi quidam inæquales termini ſunt , major politio ,quæſtio ,
& conclufio, fed differuntinodo, ſemper de ſubjectoprædicetur: fi verò
æquales Quid fit Ar Argumentum eſt oratio rei dubiæ faciens fi= utrique,
converſa de fe prædicatione dicantur. gumentum . dem. Non verò idem eſt
argumentum , quod & Ut verò minor demajore prædicetur, in nulla
arguinentatio. Nam vis ſententiæ ratióque ea, propoſitione contingit. Fieri
autein poteft, ut quæ clauditur oratione , cùm aliquid probatur propoſitionum
partes, quas terminos dicimus, ambiguum , argumentum vocatur: ipfa verò ar- non
ſolum in nominibus, verum etiain in oratio gumenti elocutio, argulhentatio
dicitur ; quò fit, nibus inveniamus. Nam ſæpe oratio deoratione ut argumentum
quidem mens argumentationis prædicatur hoc modo : Socrates cum Placone so Git
atque ſententia : argumentatio verò argument diſcipulis de philoſophiæ ratione
pertractat; hæc per orationem explicatio. quippe oratio , quæ eft , Socratesçum
Platone & Quid fit Locus verò eſt argumenti fedes, vel unde ad diſcipulis ,
ſubjecta eſt: illa verò , quæ eft , de propoſitain quæſtionein conveniens
trahitur ar- philofophiæ ratione petractat , prædicatur. Rur gumentum . Quæ cùm
ita fint, ſingulorum dili- ſus aliquando nomenſubjectum eſt, oratio præ ='
gentiùs nătura tractanda eſt, eorumque per fpe- dicaruin , hocmodo: Socrates de
philoſophiæ ra-. cies ac membra figuraſque facienda diviſio. cione pertractat ;
hic eniin Socrates ſolus ſubje Acpriùsde propoſitione eſt diſſerendum : hanc
ctus eſt:oratio verò, quàm dicimus, de philoſo eſſe diximus orationein ,
veritatem , vel menda- phiæratione pertractat,prædicatur.Evenir etiam ,
Duæſuntpro- cium continentem . Hujus duæ ſunt ſpecies : una ut fupponatur
oratio , & fimplex vocabulum pofitionum affirmatio , altera verò negatio .
Affirmatio eſt, prædicetur hoc inodo : Similicudo cum ſupernis fpecies ſub , ,
fi qui ſic efferat, Caluin volubile eſt :negatio , li diviníſque ſubſtantiis,
juſtitia eſt ; hic enim ora quis ita pronuntiet , cælum volubile non eſt. rio
per quam profertur fimilitudo , cum ſupernis alie. Harumverò aliæ ſunt
univerſales, aliæ ſunt par- diviníſque ſubſtantiis fubjicitur:juſtitia verò pre
ticulares, aliæ indefinicæ , aliæ ſingulares. Uni- dicatur. Sed de
hujuſmodipropoſitionibusin his verſales quidem , ut ſi quis ita proponat : Oin-
commentariis, quos in Peri hermenias Ariſtotelis nis homo juftuseft, nullus
homo juſtus eft. Par- libros ſcripſimus , diligentiùs differuimus. ticulares
verò , fi quis hoc modo :Quidamn homo Arguinentum , eft oratio rei dubiæ
faciens fi- Quid fit an juftus eft , quidam homo juſtus non eſt. Inde- dem
:hanc femper notiorem quæſtione elſe nez gumentum, finitæ fic:Homojuſtus eſt ,
homo juſtusnon eſt. ceſſe eſt. Nain liignora nobis probantur , argu Singulares
verò funt, quæ de individuo aliquid mentum verò rem dubiam probat: neceffe eft,
ut fingularique proponunt:utCato juſtuseſt , Cato quod ad fidem quæſtionis
affertur, fit ipfa notius juſtus non eft ; etenim Cato individuus eſt , ac
quæſtione. Argumentorum verò oinnium alia Multiplicito fingularis.
ſuntprobabilia & neceſſaria :alia veròprobabilia Juris Argan Harum verò
alias prædicativas, alias conditio. quidem , ſed non neceſſaria : alia
neceffaria; ſed nales vocainus. Prædicativæ funt, quæ fimpli- non probabilia
:alia nec probabilia, nec neceffaria. Quid forProm citer proponuntur, id eſt,
quibus nulla vis con- Probabile verò eſt, quod videturvelomnibus, vel bavile
Argu ditionis adjungitur: ut fi quis fimpliciter dicat, pluribus,
velfapientibus, & his vel omnibus, vel mensun . Cælum eſſe volubile. At ,
li huic conditio copu- pluribus , vel maximè notis , atque præcipuis, letur,
fit ex duabus propoſitionibus una condi- vel unicuique artifici fecundum
propriam facul tionalis, hocmodo: Cælum (irotundum ſit , efle càtem ; ut de
medecinamedico , gubernatori de volubile ; hîc enim conditio id efficit, ut ita
de- navibus gubernandis: & præterea quod ei vides mum cælum volubile eſſe
intelligatur, ſit ro- tur cuin quo fermo conſeritur, vel ipſi qui judi tundum .
Quoniam igitur aliæ propofitiones præ- cat . In quo nihil artiner verum
falfùmvelit árgưr dicativæ ſunt , aliæ conditionales : prædicativa- mentum , fi
tantùm veriſimilitudinem tenet. rum partes , terminos appellamus. Hi ſunt præ
Neceffariun vero eft, quod ut dicitar, ita eſt, Quidfor Ne cearium . Сccc ij
Locis. quibus multe mentorum genera . 572 Caffiodorus rium. atque aliter eſſe
non poteft: & probabile quidein, fpeciebusutiturargumentis, quæfunt probabi
ac neceflarium eſt ; ut hoc ſi quid cuilibet rei ſic le ac neceſſarium ,
neceſſariuin ac non probabile. additum , totum majus efficitur. Neque enim
Patet igitur , in quo philoſophus ab oratore, ac quifquam ab hąc propoſitione
diffentiet, & ita ſe dialectico in propria confideratione diſſideat ; in
Quid fit le habere neceſſe eſt. Probabilia verò acnon ne- co ſcilicet, quod
illis probabilitatem , huic veri provabile ac ceffaria, quibus facilè quidem
animus acquief- tatem conſtat elle propofitam . Quarta yerò fpe non neceffa-
cit , fed veritatis non tenet firmitatem ; ut cies argumenti, quain ne
arguinentun quiden học , ſi mater eſt , diligit. Neceſſaria verò funt, rectè
dici ſupràmonſtravimus, fophiftis Tola eſt Quid fit ne cilarium ,ac ac non
probabilia, quæ ita quidein eſſe, ut dicun- attributa. Topicorum verò intentio
eft, verili non probabile tur ſe habere , necefle eft, ſed his facilè non con-
milium argumentorum copiam demonſtrares de ſentit auditor :ut ob objectum
Lunaris corporis, fignatis enim locis,è quibus probabilia arguinen bredamſunt
Solis evenire defectunt. Neque neceſſaria verd ta ducuntur , abundans.&
copiofa neceſſe fiat nec neceffa- peque probabilia funt, quæ neque in opinione
materia differendi. ria ,necpro- hominum , neque in veritate confiftunt, ut
hoc, Sed quoniam , ut fuprà dictum eſt , proba babilia habere quæ non
perdiderit cornua Diogenem , bilium argumentorum alia funt neceffaria , quoniam
habcatid quiſque quod non perdiderit; alia non neceſſaria : cùm loci
probabilium ar quæ quidem nec argumenta dici poſſunt : argu- guntentorum
dicuntur , evenit , ut neceſſario mentaenim rei dubiæ faciunt fidem. Ex his au-
ruin quoque doceantur , quo fit, ut oratoribus tem nulla fides eſt, quæ neque
in opinione , ne- quidem ac dialecticis hæc principaliter facultas que in
veritate ſunt conſtitutą. Dici tamen poo parecur , ſecundo verò loco
philofophis. Nam teſt, ne illa quidem eſſe argumenta , quæ cùm fint in quo
probabilia quidem omnia conquiruntur, neceffaria , minimè tamen audientibus
appro- dialectici atque oratores javanțur: in quibus verò bantur. Nam ſi rei dubiæ
fit fides , cogendus eft probabilia ac neceffaria docentur, philoſophic.e
animus auditoris, per ea quibus ipſe adquieſcit, demonſtrationi miniſtratar
ubertas. Non modò u concluſioni quoque, quam nondum probar, igitur dialecticus
atqueorator , verùm etiam de poſlit accedere. Quod fi quæ tantùm neceffaria
monſtrator , ac veræ argumentationis effector, (unt, ac non probabilia , non
probat ille qui ju- babetquod ex propoſitislocis libi poſſit adſuine
dicat,eltneceſſe, utneillud quidein probet,quod re . Cùm inter argumentorum
probabilium focos, ex hujuſcemodi ratione conficitur. Itaque evenit
neceſſariorum quoque principia traditio mixta ex hujufmodi ratiocinatione , ea
, quæ tantùm contineat. Illa verò argumenta, quæ neceſſaria neceffaria ſunt, ac
non probabilia, non efle ar- quidein ſunt , ſed non probabilia ; atque illud
gumenta. Sed non ita eſt , atque hæc interpreta- ultimum genus ; fcilicet ilec
probabile,nec ne tio non rectæ probabilitatis intelligentiam tenet. ceſſarium
,à propofiti operisconſideratione fem Ea funt enimprobabilia , quibusſponte,
atque jundum eſt. Nili quod interdum quidam ſophi ultrò conſenſus adjungitur;
ſcilicet ut moxaudi- ſtici loci exercendi gratia lectoris abhibentura ta fint,
approbentur. Quocirca Topicorum pariterutilitas intencióque de fint ar Quæ
veròneceffariafunt,ac nonprobabilia,aliis patefacta eft ; his enim &
dicendi facultas, &in gamenta pro babilia . probabilibus ac neceſſariis
argumentisantea de veſtigatio veritatis augetur. monſtrátur,cognitáque
&credita, ad alterius rei, Nam quid dialecticos atque Oratores locorum
locorum ** de qua dubitatur, fidem trahuntur;ut ſuntfpecu- juvát agnitio ?
Orationi per inventionem co micos arque lationes,id cft,cheoremata, quæ in
Geometriacon- piampræftant. Quid verò neceffariorum doctri- Oratoresmus
fiderantut. Nam quæ illic proponuntur, non funt nam locorum philoſophis tradit?
viam quodam- sum juvas. talia, ut in his fponte animusdiſçentis accedar: modo
veritatis illuftrat. Quò magis perveſtis ſed quoniam demonſtrantur aliis
argumentis, illa ganda eft rimandâque ulterius diſciplina ea, quæ quoque ſçita
& cognita ad aliarum fpeculatio- cùm cognitione percepra uſu atque exer
pumargumenta ducuntur.Itaque probabilia non citatione firmanda. Magnum enim
aliquid lo Cunt, ſed ſunt neceſſaria his quidem auditoribus, corum conſideratio
pollicetur, fcilicetinvenien quibus nondum demonſtrata funt: ad aliud ali- di
vias ; quod quidem hi, qui ſunt hujus rationis quid probandum , argumenta effe
non poffunt; expertes,ſoliprorſus ingenio deputantur : neque hi autem qui
peioribus rationibus eorum , qui- intelligunt, quantun hac conſiderationequærat
bus non adquieſcebant, fidem cceperunt, poffunt, cur , quæ in artem redigit vim
poteſtatemque na cas quæ non ambigunt, ad argumentuin vocare. turæ . Sed de his
hactenus : nunc de reliquis ex Sed quia quatuor facultatibus differendi omne
plicemus. artificium continetur, dicendum eſt qux quibus uti noverit
argumentis; ut, cui potiſſimum diſci De Syllogiſmise plinæ locorum atque
argjinentorum paritur u Diale &tice, bertas , evidenterappareat.
Quatuorigitur fa Syllogiſmorum verò aliiſuntprædicativi, qut"
Syllogiſmialii Oratori, Phi- cultatibus,earúmque velutopificibus,differendi
categorici vocantur,aliiconditionales,quos hy- predication Dolopho, so omnis
ratio ſubjecta eft, id eſt, dialectico , ora , potheticos dicimus. Et
prædicativiquidem funt, males, com phifte dife rendiomnis tori, philofopho ,
ſophiſtæ . Quorum quidem qui ex omnibus prædicativis propoſitionibus quid fins.
ratio fobjekta dialecticus atque orator in communi argumen- connectuntur sur is
, quem exempli gratiafupes, torummateria verſautur; uterque enim ,five ne- riùs
adnotavi , omnibus enim propoſitionibus cellaria , kve minimè, probabilia tamen
ſequitur prædicativis texitur.Hypothetici verò funt,quo Quefit diffe ventia
inter argumenta . His igitur illæ duæ fpecies argu- ium propofitiones
conditione nituntur , ut hics Dialecticum, menti famulantur ,quæ funt probabile
ac non si dies eft , lux eſt zett autem dies , lux igitur eſte Oratorent &
neceffarium : philoſophus vero ac demonftrator Propofitia enim prima
conditionem tenet hanc, Philoſuphum . de ſela tantum veritate pertractant:
Asque ideo quoniam ita demum lux eft , fi dies eft. Atque ſive liņt probabilia
, five non fint , nihil referi,' idea fyllagiſmus hic, hypochericus , id eſt
condi modo duin ſine peceſlaria : bic quoque his duabus tiopalis vocatur.
Inductio verò eft oratio , per i i Onid fais duftio. De Dialectica: 573 Tuniwy
. $ niio . 0 10 OS 2712 quam fitàparticularibus ad univerfale progreflio,
plumvocamus :quoniam vero non pluresquibus hoc modo: Siin regendis navibusnan
forte, ſed id efficiat colligit partes , ab inductione diſcedit. arte legitur
gubernator : fi regendis equis auriga Ita igitur duæ quidem ſunt
argumentandiſpecies non fortis eventu , ſed commendatione artis ad-
principales: una , quæ dicitur fyllogiſmus, alte ſumitur : fi in adminiftranda
republica non ſorsra que vocaturinductio ; ſub his aurem , &veluc principem
facit ,ſed peritía moderandi ; & fimi- ex his manantia , enthymema atque
exemplum , * Ed. infe- lia, quæ in pluribus conquiruntur , quibus * im-
Quæquidem omnia ex ſyllogiſmo ducuntur , & pertitur : & in omni quoque
re , quam quiſque ex fyllogifino vires accipiunt: live enim ſit enthy regi
atque adminiſtrari gnaviter volet , qui non 'mena, liveinductio , live etiam
exemplum , ex forte accommodat, ſed arte, rectorem , fyllogiſmo quàm maximè
fidem capit ; quod in Vides igitur quemadmodum per fingulas res prioribus
reſolutoriis, quæ ab Ariſtotele tranftu currat oratio,ur ad univerſale
perveniat.Nam cùm linus, denonſtratumeft. Quocirca fatis eſt de non forte regi,
ſed arte navim , currum , rempubli- fyllogilino differere , quaſi principali,
& cæte cam collegiffet, quali in cæteris ſeſe quoque ita ras
argumentandiſpecies continente. habeat , quod erat univerſale concluſit : in
omni Reſtat nunc quid fit locus, aperiçe. Locus nam- Quid forlocais bus quoque
rebus, non ſorte ductum , fed arte, que eſt , ut* Marco Tullio placet,
argumentifea Dialectico . * MSS.Man præcipuum debere præponi. Sæpe autem multo,
des ; cujus definitionis quæ fitvis, paucis abſol rum collecta particularitas
aliud quiddam parti- vam , Argunventi enim fedes partin maxinia culare
demonſtrat ; ut fi quis fic dicat: Si neque propoſitio intelligi poteft, partim
propofitionis navibus , ncque curribus, neque agris ſorte præ- inaximè
differentia. Nam cùm fint alize propoli ponuntur ; nec rebus quidein publicis
rectores tiones , quæ cùin per ſe notæ lint, cùm nihil ul eſſe ſorte ducendi
funt. Quod argumentationis teriùs habeant, quo demonftrentur , atque hæ genus
maxiinè folet eſſe probabile , etſi non maxinæ & principales vocentur,
funtque aliæ æquam ſyllogyſmi habeat firinitatem . Syllogif- quarum fidem primæ
ac maximæ , fuppleant mus namqueabuniverfalibus ad particularia de-
propofitiones : neceffe eft , ut omnium quæ curret. Eftque in eo , fi veris
propoſitionibus dubitantur , illæ antiquiſſimam teneant pro+ contexatur , firma
atque immutabilis veritas. bationein ; quæ ira aliis fidem facere poffunt, Ut
inductio habet quidem maximam probabi- ut ipſis nihil queat notius inveniri.
Nam li litatem , ſed interdum veritate deficitur; ut in argumentum eſt , quod
rei dubiæ faciat fidem , hac : Qui fcir canere , cantor eſt : & qui luctari
ídque notius ac probabilius eſſe oportet , quàm luctaror: quique ædificare ,
ædificator ; quibus illud quodprobatur : neceſſe eſt, utargumentis multis
fimili jatione collectis , inferri poteſt: omnibus illa maximam fidem tribuant,
quæ ita Qui fcit igitur malum ,malus eſt, quod non pro- per ſe nota ſunt, at
alienâ probationenon egeant: cedit;mali quippe notitia deeſſe non poteſt bonoš
Sed hujulinodi propoſitio aliquotiens quidem virtusenim ſeſe diligit,
aſpernatúrque contraria, intra argumenti ambitum continetur: aliquotiens nec
vitare vitium niſi cognitum queat. yerò extra polita, argumenti vires ſupplet
ac per His igitur duobus velut principiis, &generibus fices, Duo funt alii
argumentandi, duo quidem alii deprehenduntur Cinnes igitur loci , id eft ;
maximarum diffe , Omnes loci à argumentori argumentationis modi: unusquidem
fyllogiſmo, rentiæ propoſitionum , aut ab his ducantur ne quibus ternii modi,
Enthy alter verò inductioni ſuppoſitus. In quibus qui- ceſſe eſt terminis , qui
in quæſtione ſunt propo memaſciet exemplum , ea dempromptumſit conſiderarequod
, ille quidem fiti, prædicato ſcilicețarquefubjeéto : aut extrin qaid (ma à
fyllogiſmo, ille verò ab indu & ione ducat exor- ſecus adfumantur :auc
horum medii acque inter dium : non tamen ,aut hicfyllogiſmum , aut ille
utrofque verſentur. Eorun verò locoruin , qui impleat inductionem ; hæc autem
ſunt enthyine ab hisducuntur terininis , de quibus in quæſtione ma , atque
exemplum , Euthymema quippe eft dubitatur , duplex modus eſt : unus quidem ab
imperfectus fyllogiſmus, id eſt oratio, in qua non corum fubftantia , aker verò
ab his, quæ eoruin omnibus antea propoſitionibus conftitutis,inter ſubſtantiam
conſequuntur shi verò quià ſubftária tur feſtinata conclufiosut fi quis ſic
dicat : homo funt, inſola definitione conliſtunt.Definitio enim animal eſt,
ſubſtantiaigicur eſt ; præterınjſic eniin ſubſtantiammónftrát ; & fubſtaạtiæ
integra det alteram propofitionem , quâ proponitur omne monſtratio , definitio
eſt. Sed , id quod dicimus, aniinal elle fubftantiam . Ergo cùm enthymema
patefaciamus exemplis;ut omnis vel quæftionum , ab univerſalibus ad
particularia probanda con- vel arguinentationum , vel locoruin ratio con tendit
, quali ſimile Jyllogiſmo eft. Quod vero quieſcat. Age enim quæratur ; an
arkores ani non omnibus, qu:e conveniunt fyllogiſmo,propor malialint , řátque
hujuſmodifyllogiſmus: ani+ ſitionibus utitur , à fyllogiſmi ratione difcet mal
eftfubftantia animata ſenſibilis:non eft arbor dit , atque ideò imperfectus
vocatuseft fyllogif- fubftantia animata fenfibilis; igitur arbor animal mus,
non eft. Hic quæſtio de genere eft ; utrùm enim Exemplum quoque inductioni
fimili ràtionę arboresfub aniinaliumgenere panendæ fint,qux & copulatur,
& ab ea diſcedit. Eft enim exem- ritur: locus qui in univerſali
propofitione con, plum , quod perparticulare propoſitum ,particu- filtit , huic
generis definitio non convenit , id lare quoddam contendit oſtendere , hoc modo
; ejus , cujus ea definitio eft , fpecies non eſt loci Oportet à Tullio conſule
necari Catilinan, cùm fuperioris differentia : qui locus nihilominus à Scipione
Gracchus fueritinteremptus ; appro , nuncupatur à definitione. batum eſt enim
Catilinam à Cicerone debere pe Vides igitur ut çora dubitatio quæftionis fyllo
rimi , quod â Scipione Gracehus fuerit occiſus : giſmi argumentatione* tracta (it
per convenien: * Ed.sracht quæ utraque particularia effe , ac non univerſalià
tes & congruas propoſitiones ,quæ vim ſuam ex "4. lingularum deſignat
interpoſitio perſonarum prima &maxima propofitionecuftodiunt ; ex ea
Quoniamigiturex parte pars approbatur , quafi {cilicet , quænegat effe fpeciem
, cui ñnon conve: inductionis fimilitudinem tenet id , quodexem- niat generis
definitio, Acque ipſa univerſalis pro nis ducantur : 374 Caſſiodorus ftantia du
tem . poſitio à ſubſtantia tracta eſt unius eorum termi- eſt , hoc modo fæpe
quæſtionibus argumenta ni, qui in quæſtione locati ſunt ; ut animalis ,id
fuppeditat ; ut fi fit quæſtio, an juſtitia utilis fit, eſt, ab
ejusdefinitione,quæ eſt ſubſtantia anima- fit fyllogiſmus: Omnis virtus utilis
elt , juſtitia ra ſenſibilis . Igitur in cæteris quæftionibus ſtri- autem
virtus eſt, ergo juſtitia utilis eſt. Quæſtio ctim ac breviter locorum
differentiis coinmemo- de accidenti , id eſt , an accidat juftitiæ utilitas.
fatis, oportet uniuſcujuſque proprietatem vigi- Locus is , qui in maxima
propoſitione conſiſtir. lantis animi alacritate percipere. Quæ generi adfunt,
& fpeciei. Hujus ſuperior Locus ex ſub Hujus aureinloci , qui ex
fuſtſtantia ducitur, locus à toto , id eſt, à genere, virtute ſcilicet, quæ
ftus, duplex duplex modus eſt; partim namquc à definitione, juſtitiæ genus eſt.
Rurſus fit quæſtio , an huma eft. partim à deſcriptione argumenta ducuntur. næ
res providentiâ,regantur. Cùm dicimus, li Differt autem definitio à
deſcriptione , quòd mundus, providentiâ regitur : homines autem Que fit dif-
definitio genus ac differentias affumic : def- pars mundi funt: humanæ igitur
res providen ferentia inter criptio verò ſubjectain intelligentiam - claudit,
tia reguntur. Quæſtio de accidenti, Locus quod defcriptiq quibuſdam vel
accidentibus unam efficientibus toti evenit, id congruit etiam parti. Supremus
proprietatein , vel ſubſtantialibus præter genus locus à toro , id eſt, ab
integro. Quod partibus conveniens aggregatis. Sed definitiones, quæ ab conftat,
id verò eft mundus, qui hominum to accidentibus fiunt, tamen videntur nullo
modo tum eſt . ſubſtantiam demonftrare : tamen quoniam fæpe A partibus etiain
duobus modis argumenta naf- A partibus veræ definitionesita ponuntur, quæ
ſubſtantiam cuntur: aut enim à generis partibus , quæ ſunt, duobus modis
monſtrant: illæ etiam propofitiones,quæ à deſcri- fpecies :aut ab integri, id
eſt, torius ; quæ par- azamente ptione fumuntur,à fubftantiæ loco videntur
affu- tes tantum proprio vocabulo nuncupantur. Et Mojcanine. mi. Hujus verò
tale fit exemplum ; quæratur de his quidem partibus , quæ ſpecies funt , hoc
enim , an albedo ſubſtantia fit: hic quæritur, an modo fit quæſtio , an virtus
mentis benè conſti albedo ſubftantiæ , velut generi ſupponatur. Di- tutæ fic
habitus : quæſtio de definitione, id eft, cimus igitur : ſubſtantia elt , quod
omnibusacci- an habitus benè conſtitutæmentis,virtutis lit de dentibus poſſit
eſſe ſubjectum : albedo verò nul- finitio. Facieinus itaque ab ſpeciebus
argumen dis accidentibus fubjacet, albedo igitur fubſtan- tationem lic : Si
juftitia , fortitudo , inoderatio, tia non eſt. Locus, id eſt , maxima
propoſitio, atque prudentia , habitus benè conftituræ mentis eadem quæ
fuperiùs. Cujus enimdefinitio vel funt: hæc autem quatuorunivirtuti velut
generi deſcriptio ei,quod dicitur,ſpecies effe non conve- ſubjiciuntur: virtus
igitur benè conſtitutæ men nit, id ejus quod eſſe ſpecies perhibetur, genus tis
eſt habitus. Maxima propoſitio ; quod enin noneſt. Deſcriptio verò fubftantiæ
albedini non ſingulis partibus ineſt, id toti inefTe neceffe eft.
convenitalbedo : igitur ſubſtantia non eſt. Argumentum verò à partibus , id
eſt, à generis Locus differentia ſuperior à deſcriptione ; quam partibus, quæ
ſpecies nuncupantur ; juſtitia enim, duduin locavimus in ratione ſubſtantiæ .
Sunt fortitudo, modeſtia & prudentia , virtutis fpe etiam definitiones ,
quæ non à rei ſubſtantia, ſed cies ſunt. à nominis ſignificatione ducuntur ,
atque itą rei, Item ab his partibus, quæ integri partes eſſe di de qua quæritur
, applicantur; ut ſi ſît quæicio, cuncur, fit quæſtio , an fit utilismedicina.
Hæc utrumnephiloſophiæ ſtudendum fit , erit argu: in accidentis dubitatione
conftituta eſt. Dicimus mentatio talis : Philofophia ſapientiæ amor eſt, igitur
, ſi depelli morbos , ſalurémque fervari, huic ſtudendum nemo dubitat :
Itudendum igitut mederique vulneribus utile eft : igitur medicina eſt
philofophiæ. Hic enim non definitio rei, ſed eſt utilis. Sæpe autem & una
quælibet pars valer, nominis interpretatio argumentum dedit. Quod ut argumentationis
firmitas conſtet , hoc inodo; etiam Tullius in oſtenſione ejuſdem philofophiæ
ut fi de aliquo dubitetur , an fit liber : ficum vel uſus eſt defenfione ,
& vocatur Græcè quidem cenſu , velteſtamento , vel vindictâ manumiſ
ovouzOtong , Latinè autem nominis definitio. fum eſſe monſtremus , liber
oſtenſus eſt : atque Hæc de his quidem argumentis, quæ ex ſubſtan- aliæ partes
erantdandæ libertatis. Vel rurſus , fi cia terminorum in quæſtione politorun
fumun- dubitetur , an ſir domus quod eminus conſpici tur, claris ,ut
arbitror,patefecimus exemplis: nunc tur : dicimus quoniam non eſt ; nam vel
rečtun de his dicendum eſt , qui terminorum ſubſtana ei, vel parietes, vel
fundamenta defunt , ab una tiam conſequuntur. rurſus parte factum eſt
arguinentum . Divifio loco Horum verò multifaria diviſio eſt ; plura enim
Oportet autem non folùm in ſubſtantiis , ve Tum qui(ubu funt , quæ ſingulis
ſubſtantiis adhæreſcunt : ab růın etiam in modo, temporibus , quantitatibus,
franciam com his igitur, quæcujuſlibet ſubſtantiam comitan- torum , partéfque
reſpicere. Id enim quod dici fequantur. tur , argumenta duci folent, aut ex
toto , aut ex mus aliquando in teinpore , pars': rurſus li fim partibus, aut ex
caufis, vel efficientibus,vel ma- pliciter aliquid proponamus,in modo totum
eſt: teria , vel fine. Er eſt efficiens quidem cauſa, li cum adječtione aliqua
, pars fit in modo. Item quæ inover atque operatur , ut aliquid explice- fi
omnia dicamusin quantitate, tòrum dicimus : tur: materia verò, ex qua fit
aliquid,vel in quafit: fialiquid quantitatisexcerpimus, quantitatis po ,
propter quod fit. Sunt etiam inter eos lo- nimus partem . Eodem modo &in
loco : quod cos , qui ex his ſumuntur, quæ ſubſtantiain con- ubique eſt , totum
eſt : quod alicubi, pars. How ſequuntur, aut ab effectibus , aut à corruptioni-
ruin autem omnium communiter dentur exem bus' , aut ab uſibus , aut præter hos
omnes ex pla. A toto ad partem fecundum tempus : fi communiter accidentibus.
Quæ cùm ita fint, Deus ſemper eſt , &nunc eſt. A parte ad totum cum priùs
locum, qui à toto fumitur, inſpicia- ſecundum modum:ſi *anima aliquo modo
niové» * MSS. amie tur, & fimpliciter movetur ; movetur autem cum mal.
Totum duobus modis dici folet : aut ut genus, irafcitur ;univerſaliter igitur
& fimpliciter mo bus modisdi- aut ut idquod ex pluribus integrum partibus
vetur. Rurfus à toro ad partes in quantitate: fi conſtat. Er illud quidem quod
ut genus , totum finis mus. Totum duo citur. 1 1 De Dialectica. 3 teria , fi
jori. TA A. > verus in omnibus Apollo vatės eſt; verum erit oppoſitis, vel
ex tranffuinptione. Et ille quidem Pyrrhum Romanos ſuperare. Rurſus in loco ,
fi locus , qui rei judiciuin tenet , hujuſmodi eft ; ut Locus à rei Deus ubique
eft, & hîc igitur eſt. id dicamus effe , vel quod omnes judicant , vel judicio.
Locusà came "Sequitur locus, quinuncupaturà cauſis. Sunt plures , &
hivel ſapientes , vel ſecundam unam fis multiplex. verò plures cauſa , id eft ,
quæ vel principium quanque artem penitus eruditi.Hujus exempluin
præſtantmotusatque efficiunt: vel ſpecierum for- eft, cælum eſſe volubile: quòd
ita fapientes, atque mas ſubjectæ ſuſcipiunt: vel propter eas aliquid, in
Aſtronoinia do & illimi diſudicaverint. Quæ vel quæ cujuſlibet forma eſt.
ſtio de accidente. Propofitio, quod omnibus,vel Zocus ab effi- Argumentum
igitur ab eficiente cauſa ; ut fi pluribus, veldoctis videtur hominibus,ei
contra ciense cauſa. quis juſtitiam naturalemn velit oſtendere, dicat : dici
non poſſe. Locus à rei judicio . congregatio hominum naturalis eſt : juſtitiam
A fimilibus verò hoc modo , fi dubitetur , an verò congregatio hominum fecit :
juſtitia igitur hominis proprium fit eſſe bipedem , dicimus fi naturalis eſt.
Quæſtio de accidente. Maximapro- militer: ineſt equo quadrupes , & homini
bipes; poſitio: quorum effacientescauſæ naturales ſunt, non eft autem equi
quadrupes proprium ; non eft apſa quoque ſunt naturalia. Locus ab efficienti
igitur hominis propriuin bipes. Quæſtio de pro bus; quodenim uniuſcujuſque
cauſa eſt,id efficit prio. Maxiina propoſitio. Si quod limiliterineſt, can rem
, cujus caufa eft, non eſt proprium, ne id quidem de quo quæritur, Locus à ma
Rurſus, ſi quis Mauros arima non habere con- eſſe propriuin poteſt. tendat,
dicit idcirco eos minimè armis uti , quia Locus à fimilibus : hic verò in
gemina dividitur. Locus àfomi libus duplex. his ferrum deſit. Maximapropoſitio
, ubi materia Hæc enim fimilitudo , aut in qualitate , aut in deeſt , &
quod ex materia efficitur , defit locus à quantitate conſiſtit : ſed in
quantitate paritas mareria : utrumque verò , ideft , ex efficientibus
nuncupatur , id eſtæqualitas. atque materia,uno nomine à cauſa dicitur. Æquè
Rurfus ab eo quod eſt majus , fi an fit animalis Locais à Ma. enim id quod
efficit , atque id quod operantis definitio , quod ex ſe moveri poffit, dicimus
, actum ſuſcipit , ejus rei , quæ efficitur , cauſæ magis oportet eſſe animalis
definitionem , quòd funt. naturaliter vivat , quàm quòd ex ſemoveri poffit
Locais à fine. Rurſus à fine fit propofitum , an juftitia bona Non eft autem
hæc definitio animalis, quòd natu fit , fiet argumenratio talis. Si beatum eſſe
, bo- raliter vivat : ne hæc quidem , quæ minùs vide num eſt , & juſtitia
bona eſt; hic eſt enim juſtitiæ tur effe definitio , quod ex ſe inoveripoſſit,
ani finis, ut qui ſecundum juſtitiam vivit , ad beati- malis definitio eſſe
paranda eſt. Quæſtio de defi rudinem perducatur. Maxima propoſitio , cujus
nitione. Propoſitio maxima. Si id quod magis finis bonus eft , ipſum quoque
bonum eft. Locus videbitur ineſſe non ineſt , ne illud quidem à fine. quod
minus ineffe videtur , inerit. Locus ab eo Loctus a for Ab eo verò, quæcujuſque
forma eſt,ità non po- quod eſt inajus. tuiſſe volare Dædalum , quoniam
nullasnaturalis A minoribus verò converſo modo . Nam fi eft locus à formæ
pennas habuiſſet.Maxima propoſitio , tan- hominis definitio , animal grellibile
bipes : cúm- mori. tìm quemque poffe , quantùın formapermiſerit. que id bipes
videatur effe definitio hominis mi Locus à forma, nus. quàm animal rationale
mortalc ; fitque defi Loc tus ab effe , Ab'effectibus verò , & corruptionibus,
&uſibus nitio ea hominis, quæ dicit animal grellibile bi Etibus, corrm- hoc
modo : namn ti bonum eſt ,domus, conſtru- pes , erit definitio hominis , animal
rationale - ptionibus, &io bonum eſt , bonum eſt domus. Rurfus fi mortale.
Quæſtio de definitione. Maxima propo ufibus. , maluin eſt , deſtructio domus :
bona eſt domus,& ficio : Si id quod minus videtur ineffe , ineſt : & fi
bona eſt domus , mala eſt deſtructio domus. id quod magis videtur inefle ,
inerit. Multæ au Item ſi bonum eſt equitare , bonum eſt equus : & tem
diverfitates locorum ſunt , ab eo quod eſſe fi bonum eſt equus , bonum eſt
equitare. Eſt au- magis acminùs , argumenta miniſtrantium : quos tein primum
quidem exemplum à generationi- in expoſitione Topicorum Ariſtotelis diligentius
bus , quodidem ab effectibus vocari poteft. Sea perſequuti fumus. cunduin à
corruptionibus , tertium ab ufibus. Item ex proportione: ut fi quæràtur , an
ſorte Lucus ex pro Omnium autem maximæ propofitiones : cujus fint legendi in
civitatibus magiſtratus , dicamus portione. effectio bonaeſt, ipfum quoque
bonum eſt, & è minimè: quia ne in navibus quidem gubernator converfo: &
cujus corruptio mala eſt, ipſum bo- forte præficitur: eſt eniin proportio ,
nain ut fele nuin eſt , & è converſo : &cujus uſus bonuseſt, habet
gubernatorad navem , itamagiſtratus adci ipfum bonum eft , & è converſo.
vitatem. Hic autem locus diftat ab eo, quod ex ſi Locus à com A coinmuniter
autem accidentibus argumenta milibus ducitur. Ibi enim una res quæ cuilibet
muniteracci- funt , quotiens ea ſumuntur accidentia , quæ re- & alii
comparatur : in proporcione verò non eſt linquere ſubjectum ,vel non poffunt,
vel non ſo . limilitudo rerum , fed quædam habitudinis coin lent ; utſi quis
hoc inodo dicat: ſapiens non pa paratio. Quæſtio de accidenti proportione.Quod
nitebit ; pænitentia enim malum factum comita- in quaquereevenit, id in ejus
proportionali eve tur: quod quia in ſapiente non convenit , ne poe- nire
neceſſe eſt. Locus à proportione. nitentia quidein.Quæſtio de accidentibus.Propo
Ex oppoſitis verò multiplexlocus eft. Quatuor Locus ex op fitio maxima: cui non
ineft aliquid,ei neillud qui- enim libimet opponuntur modis ; aut enim ut pofo
ismulti dein , quod ejus eſt conſequens , ineffe poteſt. contraria adverfo ſeſe
loco conſtituta refpiciunt: plex. Locus à coinmuniter accidentibus. aut ut
privatio , & habitus : aut relatio : aut affir De lo cis ex Expeditisigitur
locis his, qui ab ipſis terminis inatio &négatio. Quorum diſcretiones in co
li srinfecus. in propofitfone poſitis, affumuntur: nunc de his bro qui de decem
prædicamentis fcripruscſt,com dicendum eft , qui licet extrinfecuspoſiti, argu-
meinoratæ ſunt; ab his hocmodoargumentanaſ menta tamen
quæſtionibusfubminiftrant : hi ve ro ſunt vel ex rei judicio , vel ex ſimilibus
, vel à A contrariis fi quæratur , an lit virtutis pro- Locus à con majore, vel
à minore , velà proportione , velex prium laudari , dicam minimè: quoniam ne
vitii trariis . ; D cuntur. 570 Caſſiodorus Jocentu . habits . sione. Locus ex
. ne. quidem vituperari. Quæſtio de proprio. Maxi- ſecundum proprii nominis
fimilitudinem corr ma propoſitio : quoniam contrariis contraria fequuntur.
conveniunt. Locus ab oppoſitis, id eft, ex con Mixti verò loci appellantur :
quoniam ſi de ju- Qui mirtilo. ' trario. ſtitia quæritur, & à caſu , vel à
conjugatis argu Locuus à pri Rurſus ſit in quæſtione pofitum : An ſit pro-
menta ducuntui ; neque ab ipſa propriè atque vatione prium oculos habentium
videre , dicam miniinè: conjunctè, neque ab his quæ ſunt extrinſecus eos namque
qui vident, aliàs etiam cæcos eſſe polica videntur trahi, fed ex ipſoruin
calibus, id contingit. Nain in quibus eſt habitus ,in eiſdem eſt, quadam ab
iplis levi immutatione deductis : poteriteſſe privatio ; & quod eſt
proprium , non Jure igitur hi loci medii inter eos , qui ab iplis, poreſt
àſubjecto diſcedere. Etquoniam venien- & eosquiſunt extrinfecus,
collocantur. te cæcitate viſus abfcedit:non effe proprium ocu Reſtat locus à
diviſione, qui tractatur hoc mo- Locus è divi. los habentium videre convincitur.
Quæſtio de de. Omnis diviſio vel negatione fit, vel parti- fione fisvel
proprio. Propofitio , ubi privatio adetle poteft tione ; ut ſi quis ita
pronuntiet : omne animal negatione,vel Partitione & habitus, proprium
nonelt. Locus ab oppofi- aut habet pedes, autnon haber. Partitione verò , tis,
ſecunduin habitum ac privationein . velut ſi quis dividat : omnis hoino aut
ſanus , aut Zocus à rela. Rurſus ſit in quxſtione pofitum , an patris fit æger
eft. Fit autem univerfa divifio , vel , ut ge proprium procreatorem eſſe,
dicain rectè videri : neris in ſpecies, vel.totius in partes, vel vocis in quia
filii eſt propriuin procrcatum efle ; ut enim proprias ſignificationes, vel
accidentis in ſubje ſeſe habet pater ad filium , ita procreatus ad pro- cta ,
velſubjecti in accidentia , vel accidentis in Creatorem . Quæſtio de proprio.
Propofitiomaxi- accidentia. Quorum omnium rationemin meo ma : ad ſe relatorum
propria, & ipſa ad ſe refe- libro diligentius explicavi , quem de diviſione
Libram dedi runtur. Locus à relativis oppofitis. Locus ab af compoſui:atque
idcircoad horuin cognitionem vifione com pour celſis formatione e Item fit in
quæſtione politum , an lit ani- congrua petantur exempla. Fiunt verò argumen -
dow negatione. malis proprium moveri , negem : quia nec tationes per diviſionem
, tun ea ſegregatione, * Ed. in ani- * inaniinati quidein eſt proprium non
moveri. qux per negationem fit, cum ea quæ per parti mali. Quæſtio de proprio.
Propofitio inaxiina : op- tionem . Sed qui his diviſionibus utuntur , aut di politorum
oppoſitaeſſe propria oportere. Ló- re& tâ ratiocinatione contendunt : aut
in aliquid cus ab ppolitis, ſecundum affirmationem ac impoſibile atque
inconveniens ducunt , atque negationem ; moveri enim & non moveri, ſe- ita
id quod reliquerant, rurſus adſumunt. cundum affirmationem negationémque
fibimmer Quæ faciliùs quiſque cognoſcer, li prioribus opponuntur. Analiticis
operam dederit : horum tamen in præ Ex tranſſumptione verò hoc modo fit : cùm
ex fentitalia præftabunt exempla notitiain . Sit in transJumptio. histerminis
in quibus quæſtio conſtituta eft,ad quæſtionepropoſituin, an ulaorigo fit
temporis: aliud quidem notius dubitatio transfertur; atque quod qui negare
volet, id nimirum ratiocinatio ex ejus probationeea, quse in quæſtione ſunt po-
ne firmabit mallo , modo effe ortum :ídque dire ſita , confirmantur; ut
Socrates, cùin quid pof- &tâ ratiocinatione monftrabit, hocmodo: quo ſet in
unoquoque juſtitia , quæreret ; omnein niain mundusærernus eſt ( id enim
pauliſper ar tractatum ad reipublicæ tranſtulit inagnitudi- guinenti gratiâ
concedatur ) mundus verò fine nem ; atque ex co quodilla efficeret infingulis,
tempore effe non potuit, teinpus quoque eſt æter etiani valere fitinavit. Qui
locus à roro forſican num : ſed quod æternum eſt , carerorigine : tem eſſe
videretur : ſed quoniam non inhæret in his, pus igitur orignem non habet. Atſi
per impolli de quibus proponitur terminis, fed extra poſita bilitatein idem
deſideretur oſtendi, dicetur hoc res, hoc tantum quianotior videtur, affumitur;
modo. Sitempus habet origineni,non fuit ſemper idcirco ex tranſfumptionelocus
id convenienti teinpus: fuit igitur , quando non fuit rempus, ſed vocabulo
nuncupatus eft. Fit verò hæc tranſlum- fuiffe ſignificatio eſt temporis ; fuit
igitur tein prio &in nomine, quoties ab obfcuro vocabulo pus , quando non
fuittempus : quod fieri non ad notius transfertur argumentatio, hoc modo ;
poteft ; non igitur eſt ulluin temporisprincipiuin ut ſi quæratur, an
philoſophus invideat , fitque pofitum . Namque, ut ab ullo principio cæpe
ignotum quid philoſophi ſignificet nomen , dice- rit , inconveniens quiddam
atque impoffibile mus ad vocabulum notius transferentes, non in- contingit
fuiſſe teinpus , quando non fuerit videre qui ſapiens ſit ; notius enim eſt
fapientis tempus. Reditur igitur ad alterain partein , vocabuluin , quàm
philofophi. Ac de his qui- quod origine careat: fed hæc quæ ex negatio dem
locis qui extrinfecus aſſumuntur, idoncè di- ne diviſio eſt , cùm per eam
quælibet argu ctuin eſt : nunc de mediis diſputabitur. menta ſumuntur , nequit
fieri , ut utrumque fit ,, quod affirinatione & negatione dividi De Mediis.
tur : itaque ſublato uno , alterum manet ; pofi tóque altero reliquum tollitur:
vocaturque hic à Ex quibus Medii enim loci ſumuntur vel ex calu , vel ex diviſione
locus , medius inter eos qui ab ipfis conjugatis , vel ex diviſione naſcentes.
Caſus duci folent , atque eos qui extrinſecus adſumun Sumantur. Quid fit eſt
alicujus nominis principalis inflexio in adver- tur. Cùm enim quæritur, an ulla
temporis lit bium : uràjuſtitia inflectitur juſtè , cafus igitur origo , ſumit
quidem eſſe originem ; & ex eo pet Quid Conju- eſt juſtitia,id quod dicimus
juftè , adverbium . propriamconſequentiam à re ipſa,quæ quæritur, Conjugata
verò dicuntur , qux abeodein diver- htimpoſſibilitatis & mendacii
fyllogiſmus ;quo fo modo ducta Auxerunt :ut à juſtitia , juftum ; concluſo
reditur ad prius , quod verum eſſe ne hæc igitur inter ſe & cum ipſa
juſtitia conjugara ceſſe eſt ; fiquidem ad quod eioppofitum eſt, ad dicuntur,
ex quibus omnibus in promptu lunt impoſſibile aliquid inconvenienſque perducit.
argumenta. Namfi id quod juftum eft , bonum Itaque quoniam ex ipfa re, de qua
quæritur, fieri eſt; & id quod juſtè eſt , benè eſt ; & qui juftus
fyllogiſmus folet , & quali ab iplis locus eft du eft, bonus cft, &
juftitia bona eſt ; hæc igitur cus : quoniam verò non in eo permanet, fed ad
locis Medii Calus. gaid. politum De Dialectica. 577 BA tis li 1 . nd 20 je 18
19 100 . TOR: OK parti 17 10.3. pofitam redit, quafi extrinſecus fumitur:
idcirco Quibus ita popofitis inſpiciatRus nunc cos lo: igitur hic à diviſione
locus inter utrumque me cos', quos duduin extrinfecuspronuntiabamus Delocis eta
dius collocatur. affuini ; ea enim , quæ extrinſecus affumuntur, frempris, , of
Loci ex par Ac verò hi qui ex partitione funiuntur, multi- non ſunt ita
ſeparata atquedisjuncta , ut non ali nitione fum- plici funt modo. Aliquotiens
enim quæ divi quandoquali è regione quadam , ca quæ quærun qua dintre
pri,maisiplici duntur , fimul effe poffunt ; ut fi vocem in figni- tar ,
afpiciant. Nam & funilitudines & oppofita frunt modo. ficationes
dividamus, oinnes fimul eſſe poſſunt: ad ea lme dubio referuntur, quibus
ſimilia vel op veluti cum dicimus amplector, aut actionein li polica funt ,
licet jure atqueordine videantur ex gnificat , aut paffionem ; utrumque finul
lignifi trinſecus collocata. Sunt autem hæc, ſimilitudo, care poteft.
Aliquotiens velut in negationis mo- oppoſitio, magis,ac minus, rei judicium .
In ſimi do , quæ dividuntur fimul eſſe non poffunt ; ut litudine enimcum rei
fimilitudo , tum propor fanus eſt , aut æger. Fitautein raciocinatio in tionis
ratio continetur. Omnia enim fimilitudi priore quidem mododivilionis, tum quia
omni- nem tenent. bus adeſt quodquæritur, vel non eft : tum verò Oppolica verò
in concrariis , in privationibus; idcirco alicui adeſſe, vel non adeffe quod
aliis ad in relationibus, in negationibus conſtant. Com ſit , vel minimè.
paratio verò majoris ad minus quædam quali ſi Nec in his explicandis diutiùs
laboramus, fi miliuin diffimilitudo eft ; rerum enim per fe finni
prioresReſolutorii, vel Topica diligentiùs inge- lium in quantitate diſcretio
majus fecit ac minus, nium le& oris inftruxerint. Nam fi quæratur, Quod
enim omni qualitate , omnique ratione utrum canis fubftantia fit , atque hæc
divifio fiar: disjunctum eſt , id nullo modo poterit compara canis vel
latrabilis animalis eſt velmasinx belluæ, ri. Exrei verò judicio quæ ſunt
argumenta, quaſi vel cæleftis lideris nomen e demonftraretque per teſtinionium
præbent , & ſunt inartificiales loci ſingula & canem latrabilem
fubftantiam eflc,ma- atque omnino disjuncti ; nec rem potius , quàm rinam
quoquebelluam , & cælefte fidus ſubſtantiæ opinionem judiciúmque fectantes.
Tranſſum poffe fupponi,nonftravit canem eſſe fubftantiam . ptionis verò locus
nunc quidem in'æqualitate, Acque hic quidem ex ipfis in quæſtione propoſi- nunc
verò in majoris minoriſve.comparatione tis ; videbitur argumenta traxiſſe. At
in talibus conſiſtit ; aut enim adid quod eſt finile , aut ad id fyllogiſmis,
aut fanus eſt aut æger : ſed fanus eft, quod eſt majus aut minus, fit
arguinentorum raa non eft igitur ager : ſed fanus non eft, rgerigi- fionumque
tranſſumptio. cur eſt ; velica : liæger eft, fanus igitur non eſt; Hi verò loci
quos mixtos eſſe prædiximus, aut De locismist velita : fi æger noneft , fanus
igitureſt. Ab his ex caſibus, autex conjugatis, aut ex diviſionenaſ- sis. *
M5$. in- quæ funt* extrinſecusſumptus eſt ſyllogiſmus,id cuntur: in quibus
omnibus conſequentia, & re trinfecu . elt,ab oppoſitis . Idcirco ergo totus
hic àdiviſio- pugnantia cuſtoditur. Sed ea quidem ,quæ ex defi ne locus inter
utrofque medius eſſe perhibetur: nitione , vel genere , vel differentia , vel
caufis quia ſi negatione fit conftitutus , aliquo inodo arguinenta ducuntur , demonftratione
maxiinè quidem ex ipfis fumitur, aliquo modo ab exte- fyllogiſinis vires atque
ordinem ſubminiſtrant: tioribus venit. Si verò à particioneargumenta reliqua
verò verifimilibus ex dialecticis. Atque ducuntur; nunc quidem ab ipfis , nunc
verò ab hi loci maximè, qui in corum fubftantia ſunt, de exterioribus copiam
præſtant: quibus in quæſtione dubitatur , ad prædicativos Etca Græci quidem
Themiſtii diligentiſſimi ac fimplices:reliqui verò ad hypotheticos & con
ſcriptoris ac lucidi , & omnia ad facultatem intel-
ditionalesreſpiciuntfyllogiſmos. Partitio locou ligentiæ revocantis , talis
locorum videtur effe Expeditis igitur locis ,& diligenter tam defini
partitio. Quæcùm ita fint, breviter mihi loca- tione, quàm exemplorum etiam
luce parefactis, rum divifio coinmemoranda eſt , ut nihil præte- dicendum
videtur, quomodohiloci maximarum rea relictum eſſe monftretur, quod non intra
cam ſint differentiæ propoſitionum , idque brevi; ne probetur effe inclufum .
De quo enim in quali- que enim longå diſputatione res eget. Omnes bet quæſtione
dubitatur , id ita firınabitur argu- enimmaxiinæ propoſaiones,vel definitiones,
in mentis ; ut ea vel ex his ipfis fumantur , quæ in eo quòd ſunt maximæ , non
differunt : ſed in ed quæſtione ſunt conſtirura, vel extrinfecus ducan- quòd hæ
quidein à definitione, illæ verò à genere, tur vel quaſi in confinio horum
pofita veſtigen- vel aliæ veniant ab aliis locis , & his jure differre;
tur. Ac præter hanc quidem diviſionein nihil ex- hæque earum differentiæ eſſe
dicuntur. tra inveniri poteſt : ſed ſi ab ipſis fumitur argu mentum , aut ab
ipſoruin neceffe eſt ſubſtantia De Topicis. fumatur, aut ab his quæ ea
conſequuntur , aut abhis quæinſeparabiliter accidunt,veleis adhæ- Topica ſunt
argumentorum ſedes, fontes fen- Quid fire ſubſtantia ſeparari ſejungique fuum ,
origines dictionum . Itaque licet definire Topica. vel non poffunt , vel non
folent. Quæ verò ab locum eſſe argumentiſedem : argumentum aucem corum
fubftantiaducuntur , ca aut in deſcriptio- rationem, quæ reidubiæ faciat ħdem.
Et funt ar- Quibus ex aut in definitione ſunt ; & præter hæc, à no- gumenta
aut in ipfo negotio , dequo agitur: aut rebus argi minis interpretatione. Quæ
verò eavelur ſub- ducuntur exhis rebus , quæquodanmodoaffectæ menta ernano
ftantias continentia conſequuntur, alia ſunt, vel ſunt ad id ,de quo quæritur ;
& ex rebus aliis tra ut generis, vel differentiæ , vel integræ formæ,
&tæ nofcuntur : aut certè affumuntur extrinſecus. vel fpecierum ,
velpartiumloco circaca, quæ in- Ergo hærentia loca argumentorum in eo ipfone-
Ex locis han quirantur , alliſtunt. Item , vel caufæ , vel fines, gotio
funttria,id eſt , à toto , à partibus, à nota. rentibus & vel effectus, vel
corruptiones, vel uſus,vel quan A toto eft argumentum etiam ,cùm definitio ad-
ſunt tria. ticas, vel tempus , vel fubliſtendimodus. Quod hibetur adid , quod
quæritur; ſicut ait Cicero, * Ed. exfc. verò propriè inſeparabile , vel
adhærens , acci- Gloria eſt laus rectè fa &torum , magnorúmque in dens
nuncupatur, id in communiter accidentibus rempublicam fama meritorum : * ecce
quia gloria numerabitur. Et præter hæc quid aliud cuiquam totum eſt , per
definitionem oſtendis, quid lis inelle pollit, non poteft invenici. gloria.
Dddd firs 218 - am Timr . 578 Caffiodorus tredecim . Argumentum à partibus ſic
; utputa , ſi oculus A repugnantibus arguinentum eſt , quando videt, non ideo
totuin corpus videt. illud quod objicitur,aliqua contrarietate deftrui A nota
autem fic ducitur argumentuin , quod tur ; ut Cicero dicit:Is igitur non inodò
à te per Græcè Etymologia dicitur : Siconſul eſt,qui con- riculo liberatus ,
ſed etiam honore ampliſſimodi ſulit reipublicæ , quid aliud Tullius fecit,cùm
ad- tatus , arguitur domi ſuæ te interficere voluiffe. fecit fupplicio
conjuratos ? A cauſis argumentum eſt , quando ex conſuetu Exipfis rebus Gex
rebus Nuncducunturargumenta & ex his rebus, quae dine communi res quæ
tractatur , fieri potuiſſe aliis, e junt quodammodo affectæ ſunr adid , de quo
quæri- convincitur ; ut in Terentio : Ego nonnihil veri & ex rebus aliis
tra &tæ nofcuntur: & funt tus ſuin dudum abs te Dave , ne faceres ,
quod loca tredecim , id eſt , alia à conjugatis, alia à ge- vulgus fervorum
folet, dolis ut ine deluderes. nere , alia à forma generis, id eft, fpecie ,
alia à Ab effectibus ducitur argumentum , cùm ex his Limilitudine , alia à
differentia, alia ex contrario, quæ facta ſunt, aliquid adprobatur ; utin Virgi
alia à conjunctis , alia ab antecedentibus , alia à lio : Degeneres animos
timor arguit; nam timor conſequentibus, alia à repugnantibus, alia à cau- eſt
caula, ut degener ( ic animus, quod ciinoris fis , alia ab effectibus, alia à
comparatione inino- effectum eſt. rumi, majorum , aut parium . A comparatione
argumentuin ducitur, quando Primò ergo à conjugatis argumentum ducatur. per
collationem perfonarum live caufarum , fen Conjugata dicuntur , cùm declinatur
à nomine, tentiæ ratio confirmatur, & à majori ratione hoe & fit verbun
; ut Cicero Verrem dicit everriſſe modo , ut in Virgilio : Tu potes unanimes
arna provinciam : vel nomen à verbo, cùmlatrocinari rein prælia fratres. Ergo
qui hoc in fratribus po dicitur latro : aut nomen à nomine; ut Terentius: teft,
quanto magis in aliis ?'A minorum compa Inceptio eſt amentium , haud amantium ,
ratione ; ſicut Publius Scipio Pontificem maxi A genere argumentum eſt, quando
à re gene- mum Tiberium Gracchum non mediocriter labe rali ad ſpeciem aliquam
deſcendit: ut illud Virgi- factantem ſtatum reipublicæ privatus interfecit. lii
, Varium & mutabile ſemper fumina : potuit A pariuin comparatione;lic Cicero,
in Piſone &Dido , quod eſt ſpecies , varia & mutabilis nihil intereſſe,
utrum ipſe conſul improbis con eſſe. Velillud Ciceronis , quod fecit argumen-
cionibus, perniciofis legibus rempublicam vexer, tum , deſcendens à genere ad
ſpeciem :Nam cùm an alios vexare pațiatur. omnium provinciarum ſociorúmque
rationem Extrinſecus verò affumentur argumenta hæc, De Argu diligenter habere
debeatis , tuin præcipuè Siciliæ , quæ Græci år give vocant , id eſt ,
inartificialia, meniis ex judices. quod teitimonium ab aliqua externa re
fumitur frin'ecus afa fumptis. Aſpecie argumentumducitur , cùmgenerali ad
faciendam fidem ; & prius. quæſtioni fidem fpecies facit; ut illud Virgilii
: A perſona, utnon qualifcuinque lit , ſed illa An non fic Phrygius penetrat
Lacedæmonapa- quæ teitimonii pondus habet adfaciendam fi ftor ? quia Phrygius
paſtorſpecies eſt ; & fi iftud dem , fed & morum probitate debet effe
lauda ille unusfecis , & alii hoc Trojani generaliter fa- bilis. tere
poffunt. A natura auctoritas eſt , quæ maxima virtute A ſimili argumentum eft ,
quando de rebus conſiſtit ; & à tempore funt, quæ afferant aucto aliquibus
fimilia proferuntur ; ut Virgilius. ritatem ; ut ſunt ingenium , opes, ætas ,
fortu Suggere tela inihi, nam nullum dextera fruftra na, ars , uſus, necellitas,
concurſio rerum for Torſerit in Rutulos, fteterintque in corporc tuicaruin.
Grajum A dictis fačtíſque majorum petitur fides: cùm Iliacis campis. priſcorum
dicta factáque memorantur. A differentia argumentum ducitur , quando Et à
tormentis fides probatur, poft quæ neme per differentiam aliquæ res feparantur;
Virgilius: creditur velle mentiri. Non Diomedis equos, nec curruin cernis Achil
lis . De Syllogiſmis. A contrariis argumentum ſumitur , quando res diſcrepantes
fibimet opponuntur ; ut Teren Prima figura modos haber quatuor, qui uni tius:
Nam fi illum objurges, vitæ qui auxilium verfaliter vel particulariter
affirmativam vel ne tulit , quid facies illi qui dederit damnum aut gativam
concludent. malum ? Secunda item quatuor modos , qui ab negativa A conjunctis
autem fides petitur argumenti; concludent , five univerſaliter live
particulariter. cùm quæ lingula infirma ſunt, fi conjungantur Tertia figura
haber ſex modos , qui affirmative vim veritatis affumunt ; ut , quid accedit ur
tenuis vel negativè , ſed particulares facient copclufio ante fuerit, quid fi
ut avarus, quid fi ut audax , nes. quid fi ut ejus, quiocciſus eſt, inimicus ?
Singula Ergo primæ figuræ modus primuseſt , qui con hæc quia non ſufficiunt ,
idcirco congregata po- ficitur ex duabus univerſalibus affirmativis, ha nuntur
, ut ex multis junctis res aliqua confir- bens concluſionem univerfaliter
affirmativain , hoc modo . Ab antecedentibus argumentum eft, quando Omne
bonumeft amabile . aliqua ex his quæ priùs gefta funt, comproban Omne juftum
eft bonum . tur; ut Cicero pro Milone :Cùm non dubitaverit Omne igitur juftum
eft amabile. aperire quid cogitaverit , vos poteſtis dubitare Secundus modus
figuræ primæ conficitur ex quid fecerit ? præceſſit enim prædictio ,ubi eft ar-
univerſali abnegativa , & univerfali affirmativa, gumentum , & fecutuin
eſt factum . habens concluſionem univerſaliter, hoc modo . A confequentibus
verò arguinentum eſt, quan Nullus rifibilis eft irrationalis. do pofitam rem
aliquid inevitabiliter conſequi Omnis homo eft riGbilis. tur ; ut fi mulier
peperit, cum viro concubuit. Nullus igitur homo eſt irrationalise. metur. De
Dialectica. 579 Tertiusmodusprimæ figuræ eſt, qui conficitur gationem
particularem concludit, hoc modo. ex univerſali affirinativa , & particulari
affirma Quidam homo non eſt albus. tiva , particularem affirmativam concludens,
hoc Omnis homo eft animal. modo. Quoddam igitur animal non eſt albumi Omne
animal movetur. Sextus modus tertiæ figuræ eſt , qui ex univer Quidam homo eſt
animal. ſali negativa , & particulari affirmativa particula Quidam igitur
homo movetur. rem negativam concludir , hoc modo. Quartusmodusprimæ figuræ eſt
, qui confi Nallus homo eft lapis. citur ex univerſali abnegativa, &
particulari affir Quidain homo eſt albus. mativa , particularem abnegativam
concludens, Quoddam igitur album non eſt lapis. hoc modo . Demonftrati ſunt
omnes modi trium figuraru :n Nullum inſenſibile eſt animatumi categorici
fyllogiſmi , licet quidam primæ figuræ Quidam lapis eft inſenſibilis.
aliosquinque modos addiderint. Quidam igitur lapis non eſt animatus. Secundæ
verò figuræprimus inodus eſt, qui ex De Paralogiſmis. univerſali abnegativa ,
& univerſali affirmativa Paralogiſmi verò primäe figuræ ita fiunt,ex prio
concludit hoc modo univerſale abnegativum . ri affirmativa univerſáli,
&fecunda negativa uni Nullum maluin eſt bonum . verfali. Omnis homo eft
animal : nullú animal eſt Omne juſtum eſt bonum. lapis : nullus igitur homo
lapis eſt. Et quiamuta Nullum igitur juftum eſt malum . to termino &univerfale
& particulare concludet Secundæ verò figuræ ſecundus modus eſt , in &
negativaļn & affirmativam : ob hoc eſt inutilis quo ex univerſalipriore
affirmativa, & pofteriore approbatus idem paralogiſmus,quiex duabus ne
univerſali abnegativa conficitur univerfalis abne- gativiş univerſalibus fit
hoc , modo. Nullus lapis gativa concluſio , hoc modo. , animal eft : nullum
animal immobile eft : nullus Omne juftum eft æquum . igitur immobilis eft
lapis. Nullum malum eſt æquum , Idem paralogiſmus , qui ex duabus particulari
Nullum igitur malum eſt juſtum . bus affirmativis fit hocmodo : Quidam equus
Tertius ſecundæ figuræ modus , qui ex priore animal eſt: quoddam animal bipes
eſt : quidam univerſali negativa,& pofteriore particulari affir-
igiturequusbipes eſt. Rurſum ex duabus parti inativa , negationem colligit
particularem , hoc cularibus negativis họcmodo : Quidam homo al modo. bus non
eft : quoddam album non movetur : qui Nullus lapis eſt animal. dam igitur homo
non movetur. Quædam ſubſtantia eſt animal. Dein, fi prior affirmativa
particularis, & ſecun Quædá igitur ſubſtantia non eſt lapis. da negativa
particularis fuerit, hoc modo : Qui Quartus moduseſt ſecundæ figuræ , qui ex
affir- dam equus animal eſt : quoddam animal quadru mativa priore univerſali,
& pofteriore particu- pesnon eſt : quidam igitur equus quadrupes non lari
negativa , particularem negationem conclu- elt. dit , hoc modo . Idem ,li prior
negativa particularis , ſecunda Omne juſtum eſt rectum . affirmativa fuerit
particularis,hoc modo: Quidam Quidam homo non eft rectus. homo equus non eſt ,
quidam equus immobilis Quidam igitur homo non eſt juſtus. eſt ; quidam igitur
homo immobilis eſt. Primus modus tertiæ figuræ eſt , qui ex duabus Idem , fi
major propofitio affirmativa fuerit uni univerſalibusaffirmativis, particularem
affirmati- verſalis, & minor propoſitio negativa fuerit par vam concludit :
quia univerſalem affirmativam ticularis , paralogiſmus erit , hoc modo: Omnis
licet in particularem affirmativam converti , hoc homo animal elt , quoddam
animal rationabile modo. non eít, quidam igitur homo rationabilis non eft:
Omnis homo eſt animal. At verò ſi major fuerit propoſitio univerſalis Omnis
homo eſt ſubſtantia. negativa, & minor particularis fuerit negativa;
Quædain igitur ſubſtantia eſt animal. nullus poterit eſſe fyllogiſmus, hocmodo
:Nuli Item ſecundus modus tertiæ figuræ eft, in quo lus lapis animal eſt ,
quoddam animal pinnatum ex univerſalinegatione & univerfali affirmacione
eft , nullus igitur lapis pinnatuseſt. fit particularis negativa concluſio. Rurſus,
li primafuerit particularis , ſecunda Nullus hoino eſt equus. verò univerſalis,
& utræque affirmativæ propofi Omnis homo eſt ſubſtantia. tiones , non erit
ſyllogiſmus , hoc modo : Qui Quædá igitur fubftantia non eft equus. dam lapis
corpus eſt , omne corpus menfurabile Tertius modus člttertiæ figuræ , qui ex
particu- eſt, quidam igitur lapis inenfurabilis eſt. lari & univerſali
aftırmativis parcicularem affir Idem ,liprima fuerit particularis propoſitione
mativam concludit , hoc modo. gativa , & fecundauniverſalis negativa, non
erit Quidam hoino eſt albus. fyllogiſmus, hoc modo : Quoddam animal bipes Omnis
homo eſt animal. non eft, nullum bipes hinnibile eſt, quoddam -Quoddam igitur
animal eſt album . igitur animal hinnibile non eſt; Quartus verò modus tertiæ
figuræ eft , qui ex Idem , ſi prior affirmativa particularis, ſecunda
univerſali &particulari affirmativis , particulare negativa univerſalis
propolițio fuerit ; ſyllogif , affirmativum concludit, hoc modo. mum non facit
; hocmodo: Quidamn lapis inſen Omnis homo eſt animal. farus eſt , nullum
inſenſatuin vivit , quidam igi Quidam homo eſt albus. tur lapis non vivit.
Quoddam igitur album eſt animal. Idem , li prior negativa particularis
propoſitio Quintus verò modus tertiæ figuræ eſt, qui ex faerit, & fecunda
attirnativa univerſalis , para „particulari negativa, & univerſali
affirınativa ne- logiſinus erit , hoc modo : Quoddam nigrunani. Dddd ij M cha 1
ܬ 580
Caffiodorus non cſt. lis eft. anarum non eſt, omne animatum movetur, quod-
Confirmationem , Reprehenſionem , Peroratio dam igitur nigrum non movetur. Et
de finitis nem . Quæ partes inſtrumenta ſunt Rhetoricæ fa propolitionibus
fyllogiſmus non fit, quia parti- cultatis: quoniam Rhetorica in omnibusſuisſpe
culares fimiles ſunt. ciebus ineft, & ſpecies eidem inerunt. Nec po tiùs
inerunt , quàm eiſdem ea , quæ peragunt, ad Omnes propofitiones his modis
conftant. miniſtrabunt. Itaque & inJudiciali genere cau faruin neceffarius
eft ordo Proemii , & Narra Id eſt, Simplices, ita. Contraria . tionis , atque
cæteroru: n ; & in Demonſtrativo, Omnis homo juſtuseſt. Nullus homojuſtus
eſt. Deliberativóque neceſſaria ſunt. Opus auté Rhe- o "uis Rhero Quidam
homo juſtus Quidam homo juſtus toricæ facultatis,docere & movere : quod
nihilo- rice of move. eſt . minus iiſdem ferè rex inftrumentis, id eft oratio-
re docere, Contradictoria . nis partibus , adıniniftratur. Partes autem Rho
Omnis homo rationalis Nullus homo rationa- toricæ , quoniam partes ſunt
facultatis , ipfæ quo eſt. que ſunt facultates ; quocirca ipfæ quoque ora
Quidam homorationa- Quidam hoino ratio- tionis partibus, quali inſtrumentis
utentur. lis eft . halis non eft. Atque ut his operentur, eiſdem inerunt. Nam
Ex utriſque terminis infinitis. Omnis non in exordiis niſi quinque ſint
ſupradictæ Rhetori homo non rationalis eſt. Nullus non homo non cæ partes ;
utinveniat , eloquatur, diſponat, me rationalis eſt. Quidam non hoino non
rationa- minerit , pronuntiet, nihil agit orator. Eoden lis eſt. Quidam non
hoino non rationalis non eſt. quoque modo & reliquæ ferè partes
inſtrumenti, Item ex infinito ſubjecto :Omnis non homo nili habeant omnes
Rhetoricæ partes , fruſtra. Tationalis eft. Nullus non homo rationalis eſt.
funt. Hujus autem facultatis effector, orator eſt : Quidam non homo rationalis
eſt. Quidaın non cujus eft officium dicere appoſitè ad perſuaſio hoino
rationalis non cft . nein : finis tum in ipſo quidem bene dixiſſe, id Item ex
infinito prædicato : Omnis homo non eſt , dixiſſe appolitè ad perſuaſionem :
altera rationalis eſt. Nullus hoino non rationalis eft. verò perſualifie. Neque
enim fi qua impediant Quidam homo non rationalis eſt. Quidam homo oratorem ,
quominus perfuadear, facto officio, non rationalis non eſt. finem non elt
confequutus :ſed is quidem , qui Item quæ conveniunt : Omnis homo rationalis
officio fuit contiguus & cognatus, conſequitur, eſt. Nullus hoino non
rationaliseſt. Onnis ho- facto officio. Is verò , qui extrà eſt, ſæpe non mo
non rationalis eſt. Nullus homo non ratio- confequitur: neque tamen Rhetoricam
ſuo fine nalis eit. Quidam homorationalis eſt. Quidam contentam ,honore
vacuavit.Hæc quidem ita ſunt homo non rationalisnon eſt. Quidam homo non mixta
, ut Rhetorica infit fpeciebus, ſpecies verò rationalis eft. Quidam homo non
rationalis non infint cauſis. eſt. Cauſarum verò partes ſtatus effe dicuntur:
quos Canlari Item. Omne non animal non homo eſt. Nul- 'etia : aliis nominibus
cum conſtitutiones, tum partes flares dicuntár, lum non animal non homo eſt.
Quiddam non quæftiones nominare licet :qui quidem dividun animal non homo eſt.
Quiddam non animalnon tur ita , ut rerum quoque natura diviſa eſt. Sedà fiones.
homo non eſt. principio quæſtionum differentias ordiamur: Item converfæ ex
prædicato infinito . Omne quoniain Rhetoricæ quæſtiones circunſtanciis non
animal homo eſt. Nullum non animal homo involutæ ſunt omnes , aut in fcripti
alicujus con eit. Quoddain non aniinal homo eſt. Quoddamn troverſia verfantur,
aut præter fcriprum ex re ipſa... non animal hoino non eſt. fumunt contentionis
exordium , Item converfæ ex infinitoſubjecto. Omne ani Et illæ quidem
quæſtiones,quæ in ſcripro ſunt, Queflionesia pro quin mal non homo eſt. Nullum
animal non homo quinque inodis fieri poffunt. Unoquidem , cùng eft. Quiddam
animal non homo eſt. Quoddam hic ſcriptoris verba defendit , & ille ſententiains
i polliams. aniinalnonhomo non eft. atque hic appellatur ſcriptum, &
voluntas, Item propoſitiones indefinitæ. Homo juſtus Alio verò , fi inter fe
leges quadain contrarieta eſt. Hoino juſtus non eſt. te diffentiunt, quarum ex
adverſa parte aliæ de Indefinitarum propoſitiones cum ſubje& o in- fendunt
, aliæ faciunt controverſiam ; atque hic finito . Non hono juſtus eſt : Non
homo juſtus vocatur ftatus legis contrariæ . non eſt. Tertio , cùin fcriptum ,
de quo contenditur, Ex prædicato infinito. Homo juſtus non eſt. fententiam
claudit ambiguam : ambiguitas ex ſuo Homonon juſtus non eft. nomine nuncupatur.
Ex utriſque terminis infinitis. Non homo Quarto verò, cùm in eo quod ſcriptum
eſt,aliud non juſtus eſt. Non homo non juſtus non eſt. non fcriptum intelligirur
; quodquia per ratioci Propoſiriones ſingulares vel individuæ. Plato nationein
& quamdam ſyllogiſmiconſequentiam juſtus eſt. Plato juſtus non eſt.
veſtigatur , ratiocinativus vel fyllogiſmnus di Ex infinito ſubjecto. Non Plato
juſtus eſt. citur. Non Plaro juſtus non eſt. Quinto , cùm ſermo ſcriptuseſt,
cujus non fa Ex infinito prædicato. Plato non juſtus eſt. cilè vis ac natura
clareſcat,niſidefinitione detecta Platonon juſtus non eſt. lit ; hic vocatur
finis in ſcripro ; quos omnes à ſe Ex utriſque terminis infinitis. Non Plato
non differre, non eſt noſtri, operiſve rhetorici demon juftus eſt. Non Plato
non juſtus non eſt. ftrare. Hæcautem ſpeculanda doctis, non rudi bus diſcenda
proponiinus : quamvis de eorum De locis Rhetoricis. differentia in Topicorum
commentis per tranſi- Quationes Rhetorice tum differuerimus. Rhetorica oratio
habet partes ſex , Procinium , Earum autem conſtitutionum , quæ præter fcri-
prin masina plices , fex . quod Exordiumcft, Nacrationein , Partitionem , ptum
in ipfaruin rerum contentione lunt politæ , corum dinzi modis fica præter fcri
habet partes De Dialectica. 581 1 ses . riaicialis ita differentiæ
ſegregantur,ut rerum quoque ip- lem partem vergant, defenfionis copiam non mi
farum natura divila lit. In oinni enim Rhetorica niftrant; ex eiſdem enim locis
accalatio defenſió . quæſtione dubitatur , an ſit, quid ſit, quale fit ; &
que confiftit . propterhæc,an jure, vel more poſſit exerceri judi Si igitur
perſona in judiciam vocatur , neque ciuin . Sed li factum ; velres quæ
intenditur ab facta:n, dictúmve ulluin reprehenditur, cauſa eſte
adverſario,negatur, quæſtio eſt utrùm fit ea ; quæ non poteſt. Nec verò factum
, dictúinve aliquod conjecturalis conſtirutio nominatur. Quod fi in judicium
proferri poteſt, li perſona non exi factum quidem eſſe conſtiterit,ſed quidnain
ſit id ftet. Itaque in his duobus omnis judiciorum ra quod factum eſt ,
ignoretur: quoniam vis ejus tioverſatur, in perfona ſcilicet, atque negotia
definitione monftranda eſt , finitiva dicitur con- Sed , ut dictum eft, perſona
eſt , quæ in judicium ftitutio . Ac fi &effe conftiterit, & de rei
defini- vocatur : negotium , factum , dictúmveperſone, tione conveniat, fed
quale fit inquiratur : tunc propter quod reus ftatuitur. Perſona igitur &
ne quia cui generi ſubjici debet ambigitur , genera- gotiamſuggerere arguinenta
non poſſunt;de ipſis lis qualitas nuncupatur. In hac verò quæſtione enim
quæſtio eſt: de quibus autem dubitatur, ea & qualitatis , & quantitatis
, & compatationis dubitationi fidem facere nequeunt Argumen ratio verſatur.
Sed quoniam de gènere quæſtio tum verò erit ratio rei dubiæfaciens fidem . Fa ,
eſt , ſecundum generis formam in plura neceffe ciunt autem negotio fidem ea ,
quæ ſunt perſo eſt hujusconſtitutionis membra diſtribui. nis ac negotiis
attributa. Ac fi quando perſona Omniis quito Omnis eniin quæftio generalis, id
eſt, cùm de 'negotio faciat fidem ,velutſi credatur contra rem ftio generalis
in duas difiri genere, & qualitate,vel quantitatequæritut facti, publicam
fenfifle Catilinam,quoniam perſona bnisur par in duas tribuitur partes. Nam aut
in præcerito eſt vitiorum turpitudine denotata : tunc non iiz quæritur de
qualitate propoſiti, aut in præſenti, eo quod perſona eſt , & in judicium
vocatur , fia aut in futuro . Si in præterito , juridicialis con dem negorio
facit , ſed in eo quod ex attributis Ititutio nuncupatur : fi præſentis vel
futuri tem- perſonæ quandam ſuſcipit qualitatem . Sed ut re poris teneat
quæſtionem ,negotialis dicitur. rúin ordo clariùs colliquefcat , de circumſtantiis
Quæftio Fun Juridicialis verò , cujus inquiſitio præteritum arbitror eſſe
dicendum. refpicit , duabuspartibus fegregatur. Aut enim De Circumftantiis.
duabus parti. in ipfo facto vis defenfionis ineft , & abſolurà
Circunſtantiæ ſunt, quæ convenientis fubftan . Detircnm . buslegrégie qualitas
nuncupatur : Aut extrinfecus affumitur, tiam quæſtionisefficiunt. Nifienim fit
qui fece Gancias para & affumptiva dicitur conſtitutio. rit , & quod
fecerit, cauſáque cur fecerit, locus, situr Cicero. Sedhæc in partesquatuor
derivatur: aut enim tempúſque quo fecerit,modus, etiain facultas; conceditur
criinen, aur removetur , aut refertur, que li delint,cauſa non ſtabit. Has
igitur circum aur , quod eſtultimum , comparatur. Conceditur ftantias in
geinina Cicero partitur, ut eam quæ crinen , cùm nulla inducitur facti defenſio
, ſed eſt , quis, circumſtantiam in attributis perſone venia poſtulatur. Id
fieri duobus modis poreſt, ponat : reliquas verò circumſtantias in attributis
circumftan fi depreceris, aut purges. Deprecaris,cùm nihil negotio conititaat.
Et primùın quidem ex cir excufationis attuleris. Purgas , cùım facti culpa
cumftantiis , eam quæ eft , quis , quam perfonæ tia titur , Quispada cicina his
adſcribitur'; quibus obliſti obviarique non attribuit , ſecar in undecim
partes. Nomen, ut in undecim poffit , neque tamen perſona ſint ; id enim in
Verres , natura ut barbarus , victus utamicusno- partes. aliam conſtitutionem
cadit. Sunt autem hæc, im- biliuin , perſona ut dives , ſtudium ut Geometra,
prudentia , caſus, atque necellitas. cafus ut exul , affectio ut amans ,
habitus ut ſa Removeturverd criinen , cùm ab eo , qui in- piens, conſilium ,
facta , & orationes. Eáque cellitur, transfertur in alium . Sed remotio
cri- extra illud factum dictúmque ſunt, quæ nunc minis duobus fieri modis
poteft : fi aur cauſa re- in judicium devocantur. Reliquas verò cir fertur, aut
factum . Caufa refertur , cùm aliena cumſtantias , quæ funt, quid , cur,
quando,ubi, poteftare aliquid factum eſſe contenditur: faćtum quomodo , quibus
auxiliis, in attributis negocio verò , cumalius aut potuiffe, aut debuiffe
facere ponit. Quid, &cur, dicenscontinentia cum ipfo demonſtratur. Atque
hæc in his maximè valent, negotio : cur, in cauſa conſtituens ; ea enim cauſa
fi ejus nominis in nos intendatur actio, quòd non eſt uniuſcujuſque fa &ti
, propter quam factaeſt * MSS.pottat fecerimus id , quod * oportuit fieri.
Refertur cri Quid verò , ſecat in quatuor partes. În ſum- Quidfeceria men ,
cuin jultè in aliquem facinus commiſlum iam tacti , ut parentis occifio. Exhac
maximè quatuorpars * MSS.com- effe * conceditur :quoniam is , in quem commif-
locus fumitur amplificationis ante factum ; ut senditat. fum ſit ,
injuriofusfæpe fucrit, atque id quod in- concitus rapuit gladium : duon fit ;
vehementer tenditur , meruit pati. percuſſit. Poſt factum ; in abdita
fepelivit. Quæ Comparatio eft , cùin propter meliorem utilio- omnia cùın lint
facta , tamen quoniain ad geſtum réinve rem factum , quod adverſarius arguit,
negotiuin , de quo quæritur, pertinent, non ſunt commiffum effe defenditur.
Atque hæchactenus: eafacta , quæ in attributis perſonæ numerara nunc de
inventione tractandum eft. ſunt. Illa enim extra negorium , quòd extra poſi ta
perſonam informantia fidem ei negotio præ De Inventione ſtant, de quo verſatur
intentio : hæc verò facta, quæ continentia ſunt cum ipfo negotio,ad ipſuni
Etenim priùs quidem Diale & icos dedimus, negotium ; de quo queritur,
pertinent. nunc Rhetoricos promimus locos, quos ex attri Poftreinas verò
quatuor circamftantias Cicero In perſona, butis perſonæ ac negotio venire
neceſſeeſt. Per- ponit in geſtione negotii, quæ eſt ſecunda pars & negotio
fona , quæ in judicium vocatur, cujus dictum ali- attributorum negotiis. Et eam
quidem circuin quod factúmve reprehenditur. Negotium ; fa- ſtantiam , quæ eſt
quando, dividit in tempus, ut putCie to Cuando , dia conftitute of. cum
dictumveperfonæ , propter quod in judi- modò fecit; & in occaſionem ,ut
cunctis dormien- in tempus, so cium vocatur. Itaque in his duobus omnis lo-
tibus. Eam verò circunftantiam quæ eſt ubi , lo- in occafionč.. * MSS.excu-
corum ratio conſtituta eſt ; quæ enim habent* re. cum dicit ; ut in cubiculo
fecir : quomodo verò, ſarionis. prehenſionis occaſionem , eadem nili ad
excuſabi ex circuinftantiis inoduin ur clain fecit : omnis loco . tum ratio
> 1 582 Caffiodorus 1 mus. fed de vo 1 quibus auxiliis circumftantiam ,
facultatem ap- ita adhærebant , ut ſeparari non poſſint;ut locus, pellat, ut
cuin multo exercitu. Quorum qui- tempus , & cætera , quæ geſtum negotium non
dem locorum & fiex circumſtantia rerum , natu- relinquunt. tulis diſcretio
clara eft :nos tarnen benevolentiùs Hæc verò , quæ ſunt adjuncta negotio , non
in faciemus, ſi uberiores ad ſe ditferentias oſtenda- kærent ipſi negotio , ſed
accedunt circuinitantiis, & tunc demum argumenta præſtant, cùm ad com Nam
cùm ex circumſtantiis alia M. Tullius parationem venerint : ſunant verò
argumenta propofuerit effe continentia cum ipfo negotio: non ex contrarietate ,
fed ex contrario ;& non alia verò in geſtione negorii , atque in continen-
ex ſimilitudine, ſed ex ſimili, ut appareat ex re tibus cuin ipſo negotiv :
illum adnurneraverit lo- latione ſumi arguinenta in adjunctis negotio ; &
cum quem appellavit, duin fit sex ipſa prolatio- ea eſſe adjunéta negotio , quæ
funt ad ipſum , de nis fignificatione idem videtur elle locushic,dum quo agitur
,negotium affccta. fit, cum eo , qui eſt in geſtionenegotii; ſed non Conſecutio
verò , quæ pars quarta eft eorum , ita sft : quia dum fit , illud eft , quod eo
tempore quæ negotiis attributa ſunt, neque in ,iplis ſunt açimiſum eſt , dum
facinus perpetratur, ut per- rebus, neque rerum ſubſtantiam relinquunt,ne
ouſſit. Ingetione verò negotii, ca ſunt, quæ & que ex comparatione
reperiuntur: ſed rem geftam ante factum , & dum fit, & poft factum ,
quod vel antecedunt , vel etiam conſequuntur. Atque eſtum eſt continent;in
omnibus enim tempus, hic locus extrinſecus eſt. Primum eniin in eo . locus,
occafio ,modus, facultas inquiritur, Rur- quæritur id , quod factum eſt, quo
nomine ap ſus dum fit, factuin eft, quod adininiftratur, eft pellari conveniat
: in quo non de re , negotium :qux verò funt in geſtione negotii, non cabulo
laboratur. Qui deinde auctores ejus facti ſunt facta, fed facto adhærent ; in
illis enim, teni- &inventores , comprobatores, atque æinuli, id pus,
occaſionem , locum , modum , facultatein, totum ex judicio , & quodam
teſtimonio extrin facta eſſe conſenſerit : fed , ur dictum eſt , qux ſecus
políto , ad ſublidium confluit argumenti. cuilibet facto adhærentia fint ,
atque in nullo Deinde &quæ ejus rei ſit ex conſueto pactio , ju modo
derelinquant: quia quadam ratione ſubje- dicium , ſcientia , artificium .
Deinde natura cta funt ipſi, quod geſtum eſt , negotio. ejus, quid evenire
vulgò ſoleat: an inſolenter & Item ea quæ funt in geſtione negotii,
finchis, rardhomines id ſuâ auctoritate comprobare, an quæ funtcontinentia cum
ipfoncgotio , eſſe poſ- offendere in his conſueverint; &cætera quæ fas
funt. Poteft eniin & locus , & tempus, &oc- ctum aliquod fimiliter
confeftim , aut intervallo cafio , & modus, & facultas facti cujuſlibet
intel- folent conſequi : quæ neceſſe eſt extrinſecus po ligi , etiamſi nemo
faciat , quod illo loco ; vel fita ad opinionein inagis tendere , quam ad ipfam
, temporc, veloccaſione, vel modo, vel facultate rerum naturam. fieri poſſet.
Itaque ea quæfunt in geſtione nego Itaque in hæcquatuor licet negotiis
attributa, tii, line his quæ ſuntcontinentia cum ipfo nego- dividere ; ut fint
partim continentia cum ipſo ne tio, effe poffunt. Illa verò line his eſſe non
pof- gotio , quæ facta eſſe ſuperiùs dictum eſt : partim ſunt; facèum enim
præter locum , tempus, occa- in geſtionenegotii, quæ non effe facta , fed
factis fionem , modum , facultatémque efle non pote- adhærentia dudum
monſtravimus: partim adjun rir. Atque hæcfunt , quæ in attribucis perſona eta
negotio ; hæc , ut dictum eſt , in relatione ac negotio confiftunt, velut in
Dialecticis locis ponuntur: partim geſtum negotium conſequun ea , quæ in ipfis
cohærent , de quibus quæritur: tur ; horum fides extrinſecus fuinitur. Ac de
reliqua verò quæ vel funt adjuncta negotio , vel Rheroricis quidem locis ſatis
dictum . negotium geſtuin conſequuntur, talia ſunt, qua Nunc illud eſt
explicandum , quæ ſit his ſimi-. Quid fat diain Dialecticis locis ca, quæ
ſecundum Themi- litudocum Dialecticis, quæ veròdiverſitas ;quod hobertura
corean ſtium quidem partim rei ſubſtantiam conſequun- cùm idoneè,
convenientérque monſtravero ,pro- Dialecticisfa tur, partim funt extrinfecus ,
partim verſantur poſiti operis explicetur intentio. Primò adeo ut militudo ,que
in mediis ; ſecundum Ciceronem verò inter affe- in Dialecticis locis , ficut
Themiſtio placet , alii verè diverfi &a numerara ſunt, vel extrinſecus
polita ." funt, qui in ipſis hærent, de quibus quæritur: tab. Sunt enim
adjuncta negotio ipfa etiam quæ fi- alii verò affumuntur extrinſecus , alii
verò inedii quajiilem fa dem faciunt quæſtioni , affecta quodammodo ad inter
utroſque locati ſunt; ſic in Rhetoricis quo cinn gafiio. id , de quo quæritur,
reſpicientia negotium , de que locis , alii in perſona atque negotio conſi quo
agitur , hoc modo. Nam circumſtantix ſtunt, de quibus ex adverſa parte
certatur: alii feprem quæ in attributis perſonæ , vel negotio, verò extrinfecus
, ut hi qui geſtum negotium con numeratæ funt, hæc cum cæperintcomparari,&
fequuntur : alii verò medii. quafi in relationem venire , fi quid ad ſe conti
Quoruin proximi quidem negotio funt hi , qui nens referatur, vel ad id quod
continet , fit aut ex circumſtantiis : reliqui in geſtione negotii ſpecies, aut
genus: fi id referatur,quod ab eo lon- conſiderantur. Illi veròqui in adjunctis
negotio gillime diſtet, contrariun : at ſi ad finem ſuum collocantur, ipſi
quoque intermedios locos pos atque exitum referatur , tum eventuscft. liti
ſunt: quoniam negotium , de quo agitur, qua Eodem quoque modo ad majora , &
minora, dam affectione refpiciunt. Vel fi quis ea quidem & paria
comparantur. Atque omnino tales loci quæ perſonis attributa ſunt, vel quæ
continentia in his quæ funt ad aliquid conſiderantur. Namn ſunt cum ipfo
negotio , vel in geſtione negotii majus,autminus, alit lunile , aut æquèmagnum
, conſiderantur; his lumilia locis dicat, qui ab ipfis aut diſparatum ,
accedunt circumſtantüs, quæ in in Dialectica trahuntur, de quibus in quæſtionc
attributis negotio atque perſonæ numeratæ ſunt ; dubitatur. Conſequentia verò
negotio ponat ex ut dum ipfæ circumftantiæ aliis comparantur, fiat trinſecus.
Adjuncta verò inter utrumque conſti ex iis argumentum facti dictive, quod in
judi- tuat. cium trahitur. Diſtat autem à ſuperioribus, quòd Ciceronis verò
diviſioni hoc modo fic fimilis, ſuperiores loci , vel facta continebant , vel
factis Nam ea quæ continentia ſunt cum ipſo negocio , Sunt adjun Eta ucgorio,
ni, 1 De Dialectica. 583 1 1 ! 1 0 1 1 Dialecticus verò non ita velea quæ in
geſtione negotii conſidecantur, in do aliquid ſpecialiter probant, ad
Rhetores,Poë ipſis hærent, de quibus quæritur. Ea verò , quæ tas,
Juriſperitóſque pertinent. Quando verò ge adjuncta ſunt , inter affecta
ponuntur. Sed ea quæ neraliter diſputant,ad Dialecticosattinere manis geitum
negotiuin conſequuntur , extrinfecus feſtum eit. collocata ſunt. Vel Gi quis ea
quidem , quæ con Mirabile planè genusoperis, in unum potuiſſe tinentia ſunt cum
ipfonegotio , in ipſis hærere colligi , quicquid mobilitas ac varietas humanæ
arbitretur :affecta verò effe ea,quæ funt in geſtio- mentis in fenlîbus
exquirendis per diverſas cauſas ne negotii , vel adjuncta negotio : extrinfecus
porerat invenire ; concludi liberuin ac volunta verò ea , quæ geftum negotium
conſequuntur. riun intellectum . Nam quocumque ſe verterit, Nam jam illæ
perfpicuæ communitates", quod quaſcumque cogitationes intraverir, in
aliquid quidem ipſi penè in utriſque facultatibus verſan- corum quæ prædicta
ſunt , neceſſe eſt ut huma tur loci, ut genus, ut pars, ut ſimilitudo, ut con-
num cadat ingenium. trarium , ut majus, ac minus. Decommunicati Illud autem
competens judicavimus recapitu bus quidem ſatis dictum . lare breviter , quorum
labore in Latinum elo Differentiæ verò illæ funt , quòd Dialectici quium res
iftæ pervenerint ; ut nec auctoribus etiam thelibus apti funt : Rhetorici
tantùm ad gloria ſua pereat, & nobis pleniffimè reiveritas hypotheſes, id
eft, quæftiones informatas circum- innoteſcat. Iſagogen
tranſtulitPatriciusBoëtius, ftantiis affumuntur. Nain ſicut ipfæ facultates à
commenta ejus gernina derelinquens. Cate femetipfis univerſalitate , &
particularitate di- gorias idem tranſtulit Patricius Boëtius , cujus ſtinctæ
ſunt : ita earum loci ambitu , & contra commenta tribus libris ipfe quoque
formavit. ctione diſcreti ſunt. Nam Dialecticorum loco- . Peri herinenias fuprà
inemoratus Patricius tran rum major eſt ainbitus ; & quoniam præter cir-
ftulit in Latinum : cujus commenta ipſe duplicia cumſtantias funt quæ
fingulares faciunt cauſas, minutillimâ diſputatione tractavit.Apuleius verò non
modò ad theſes utilesſunt, verumetiam ad Madaurenſis ſyllogiſmos categoricos
breviter argumenta, quæ in hypothefibus polita ſunt, eof- enodavit. Suprà
memoratus verò Patricius de que locos qui ex circumftantiis conſtanc,claudunt
fyllogiſmis hypotheticis lucidiflimè pertractavit. atque ambiunt. Itaque fit;
ut ſeinper egeat Rhe- * Topica Ariftotelis,uno libro Cicero tranſtulit in
Hæcdefuitin tor Dialecticis locis? Dialecticus verò fuis poflit Latinum , cujus
commentaprofpe & oratque ama- MSS. effe contentus. tor Latinorum Patricius
Boëtius octo libris expo Semper eget Rherorenim quoniam cauſas ex
circumſtantiis fuit. Nam & prædictus Boëtius Patricius eadem* Rhetor D4-
tractat, ex iifdem circumftantiis argumenta præ- "Topica Ariſtotelis octo
libris in Latinum vertic lecticislocis , fumit, quæ neceſſe eſt ab
univerſalibus, & ſupli- eloquiun. cioribus confirmari, qui ſunt Dialectici.
Diale &ti Confiderandum eft autem , quòd jam ,quia lo cus verò, qui prior
eft, polteriore non eget , nifi cus ſe attulit in Rhetorica parte , libavimus
quid aliquando incideritquæftio perfonæ ; ut cuin fit interſit inter artein
& diſciplinain , ne ſe diver incidensDialectico ad probandam fuam theſim,
fitasnominun permixta confundat. Interartem Que fa diften Cáufam circumſtantiis
inclufam , tunc demum & diſciplinai Plato , & Ariſtoteles , opinabiles
artem dif Rhetoricis utatur locis . Itaque in Dialecticis lo- magiftri
fæcularium litterarum , hanc differen- ciplinam ſee ' cis ( fi ita contingit) à
genere argumenta fumun- tiam eſſe voluerunt , dicentes : Arrem cflc habitu-
cundem Plaa tur ,id eft , ab ipſa generis natura : fedin Rheto- dinem
operatricem contingentium , quæ fe & Sonem ricis ab eo generequod illi
genus eſt, de quo agi- aliter habere poffunt: Diſciplina verò elt , quæ Vide
prefer tur; nec ànatura generis, ſed à re fcilicet ipſa ,quæ de his agit , quæ
aliter evenire non poffunt tionem Nunc ergo ad Mathematicæ veniamus initium .
Sed ut progrediatur ratio , ex eo pendet, quòd natura generis antè præcognita
eſt; ut fi dubite De Mathematica. tur , an fuerit aliquis ebrius, dicitur , fi
tefellere velimus, non fuifle : quoniam in eo nulla luxu- ' Mathematica , quam
Latinè poſſumus dicere luid fitMara ries antecefferit. Idcirco nimirum , quia
cum ku- doctrinalem , ſcientia eſt , qux abſtractam con- in quas para xuries
ebrietaſis quaſi quoddam genus fit , cui fiderat quantirarem . Abſtracta enim
quantitas tes dividalun luxuries nulla fuerit , ne ebrietas quidem fuit :
dicitur, quâ intellectus à materia ſeparátur, vel ſed hoc pender ex altero. Cur
enim fi luxuries ab aliis accidentibus ; ut eſt par, impar , vel alia non fuit
, ebrietas eſſe non potuit , ex natura ge- hujuſcemodi, quæ in ſola
ratiocinatione tracta neris demonftratur , quod Dialectica ratio ſub- mus, hæc
ita dividitur ” miniſtrat. Unde enim genus abeft , inde etiain fpecies abelle
necefle eft:quoniam genus fpecics r Arithmeticain, non relinquit. Ec de
fimilibus quidem , & de contràriis , eo Muſicam . Diviſio Matheina dem modo
, in quibus maxima ſimilitudo eft in ticæ in ter Rhetoricos ac Dialecticos
locos : Dialectica Geometriam . . eniin ex ipſis qualitatibus , Rhetorica ex
quali 1 tatem ſuſcipentibus rebus argumentaveſtigat; ut Aſtronomian .
Dialecticus ex genere , id eft , ex ipfa generis na tura : Rhetor ex ea re ,
quæ genuseft. Dialecti Arithmetica; eſt diſciplina quantitatis numera Quid fit
cus ex ſimilitudine, Rhetor ex funili, id eft , ex bilis fecuuduin ſe .
Aruthinetica. ta re , quæ fimilitudinem cepit. Eodem modo Mufia eſt diſciplina
, quæ de numeris loqui- QuidMufica. ille ex contrarietate , hic ex contrario.
tur , qui ad aliquid ſunt his , qui inveniuntur in Memoriæ quoque condendum
eft, Topica Ora- ſonis. toribus , Dialecticis, Poëtis, & Juriſperitiscom
Gcometria , eſt diſciplina magnitudinis immo- Quid Geomes muniter quidem
argumentapræftare: fed quan- bilis & fornarum . rentia inter genus eſt,
trii 384 Caffiodorus 1 didit. Inns. Quid fis A. Aſtronomia, eft diſciplina
curſus cæleſtiain (i- tergunt, &ad illam inſpectivain contemplatio
fronomia. derum , quæ figuras conteinplatur omnes , & ha- nem , fi tamen
ſanitas mentis arrideat, Domino bitudines ftellaruin circaſe , & circa
terram inda- largiente , perducunt .' gabili ratione percurrit. Quas ſuo loco
paulò la Scire autem debemus Joſephum Hebræorum Abraham ciùs exponemus , ut
commemoratarum rerum doctiſſimum , in libro primo Antiquitatum , ritu- primim
Aris virtus competenter poffit oftendi. Modò de dif- lo nono dicere
,Arichinericain , & Aſtronomiam ihmeticamen ciplinarumnominedifferainus.
Abrahain primùm Ægyptiis tradidiffe ; unde ſe Aftronomien Diſciplina Diſciplinæ
ſunt, qux , licut jam di & um eft, mina ſuſcipientes ( utfunt hoinines
acerrimi in Ægypainte nunquam nunquam opinionibus deceptæ fallunt ; & ideo
genii) cxcoluiffe ſibi reliquas latiùs diſciplinas. opinionibus cali nomine
nuncupantur,quia neceffariò ſuas re- Quasmeritò fan &i Patres noftei
legendas ſtudio deceptæ fal gulas ſervant. Hænec intentione creſcunt,nec
fillinis perſuadent: quoniam ex magna parte per Iubductione minuuntur , nec
aliis varieratibus eas à carnalibus rebus appetitus noſter abſtrahi permutantur
: ſed in vi propria permanentes, re- tur, & faciunt deſiderare , quæ,
præftante Do gulas ſuas inconvertibili firmitate cuſtodiunt. mino , ſolo poſſumus
corde reſpicere. Quocirca Has dum frcquenti meditatione revoluimus, fen- tempus
eſt , ut deeis ſingillatin ac breviter diſſe Cum noftruin acuunt , limúmque
ignorantix de- rere debeamus. CAPUT QUARTUM De Arithmetica C49 Arith metica
inter Scriptores fæculacium litterarum interdiccipli- faru efleformata
;attamennulla corum ,prætet Mathemati cas diſcipli metiiam eſſe
volucrunt:propterea quòd Mufica, Credo trahens hoc initium , ut multi philoſo
mis prima ju . & Geometria, &Aſtronomia , quæ fequuntur, photum
fecerunt , ab illa ſententia prophetali, Sam 11. 21 . indigent Arithmetica , ut
virtutes ſuas valeant ex- quæ dicit : Omnia Deum menſura, numero , &
plicare. Verbi gratia ,ſimplum ad duplum , quod pondere difpofuiſſe habet
Muſica , indiget Arithmetica : Geometria Hæc itaque confiftit ex quantitate
diſcreta, čHY Arish verò , quod habet trigonuin , quadrangulum ,vel quæ parit
genera numerorum , nullo fibi com- metice conf his funilia, item indiget
Arithmeticas Aſtrono- munitermino ſociata. V. enim ad x. vi. ad iiii . vii.
lidt ex quar mia etiam , quòd habet in moru liderum nuineros ad iii. per nullam
coinmunein terminuin alteru- titate difcre punctorum , indiget Arithinetica.
Arithmetica trâ fibi focietate nectuntur. Arithmetica vecò di sa. Pithagora verò
, urlit, neque Muſica , neque Geometria, citur, co quòd numeris præeſt Numerus
verò, merica dica Arithmetia neque Aſtronomia egere cognoſcitur. Propterca cft
ex inonadibus multitudo compofita; ut iii. V. tur,& que camlan.c. hisfons,
& måter Arithmetica reperitur ; quam X. xx . & cætera. Intentio
Arithmeticæ elt doce- fit ejusinsects diſciplinam Pythagoras fic laudalle *
probatur; re nos naturam abſtracti numeri, & que ei acci- tio. uromnia ſub
numero , & menfura à Deo creata dunt ; ut verbi gratia, parilitas ,
impacilitas , & firatur. fuiſſe incinoret, dicens : Alia in motu , alia in
cætera. Cur Arith vit . * Ed. mon s Paritei pat. Pariter impat. Impariter par
Prima diviſio numera Tvel par , qui eſt Numerus, qui congre gatio monaduneſt, ľ
Primus& ſimplex. vel iinper, qui eſt. Secundus & compoſitus. Tertius
mediocris , quiquodam modo primus, & incompoſitus, alio verò modo ſecundus
, & ( compofitus. Quid fit Par Par numerus eft , qui in duas partes æquales
verbi gratia, xxiiii , in bis xii : xii, in bisyi:ſexo dividi poteft; ut ii.
iii. vi.viii . x. & reliqui. in bis tres , & ampliùs non procedit. Quid
impar. Impar numerus eſt, qui in duas partes æquales Primus & fimplex
numerus eft, qui monadi- Quid primit dividi nullatenus poteft, ut iii. v. vii.
viiii. xi.& c cammenſuram ſolam recipere poteſt ; ut verbi & implex
reliqui. gratia iii . v. vii . xis xiii. xvii. & his finilias Quidpariter
Pariter par numerus eſt, cujus diviſio in dua Secundus & compoſitus numerus
eft , qui non Quid fecur par bus æqualibus partibus fieri poteſtuſque ad mo-
folùm monadicam menſuram , ſed &arithmeti doto come nada ; ut verbi gratia
lxiüi. dividitur in xxxii ; cam recipere poteſt; ut verbi gratia, viiii. xv.
xxi. poftmo xxxii , in xvi : & xvi, in viji : viii in iii :üii, & his
ſimilia . in duo : ïi , verò in i. Mediocris numerus eſt, quiquodam modo fim
Quid pariter Pariter impar numerus eſt , qui fimiliter fo- plex &
incompoſitus efle videtur, alio verò ino- cris impar. lummodo in duas partes
dividi poteft æquales; do fecundus & compoſitus , ut verbi gratia , viiii.
utx , in v : xiiii , in vii : xviii , in viiii.& his fi- ad xxv . dum
comparatus fuerit , primus eft & milia. incompoſitus: quia non habet
communem nu Quid impari. Impariter par nuinerus eſt, qui plures diviſio- merum
, niſi ſolum monadicum : ad xv . verò li nes , ſecundùm æqualitatem partium
dividere comparatus fuerit , ſecundus eft & compofitus: poteft, non tamen
uſque ad allem perveniat; ut quoniam ineſt illi communis numerus præter monadi.
Quid Media ter par De Arithmetica. 383 mõnadicum , id eſt , ternarius'numerus,
qui no- fexta pars, duo :quarta pars ,tria : tertia pars,iii: vein menſurat
terterni , & xv . ter quini. & duodecima pars unum ; qui oinnes
aſſumpti fiunt xvi. Altera divifio , de paribios, do imparibues Indigens
nunerus eſt , qui & ipſe de paribus QuidIndigãs. numeris . deſcendit ,
quantitatis fuæ ſummain partiuin in feriorem habet ; ut viii. cujus medietas ,
iiii : [ aut ſuperfluus. quarta pars , ii : octava pars , i ; quæ fimul con
gregatæ partes fiunt vii. aut par eſt. < aut indigens. Perfectus numerus eft
, qui taten & ipfe de QuidPerfe Numerus. paribus deſcendit : is dum par
ſit, omnes partes aut impar. į aut perfectus. Taas ſimul aſſumptas , æquales
habet ; ut vj. cu jus medietas , tria : tertia pars, ij : vj. pars únum . Quid
Sriper. Superfluus numerus eſt, qui deſcendit de pari- Qux aſſumptæ
partesfaciunt ipſum ſenariumnus fluis. bus, is dum par ſit , ſuperfluas partes
quantitatis merum fuæ habere videtur ; ut xii , habetmedietatem vie.
Cassiodoro. Cassiodoro Bruzi. Bruzi. Keywords: dialettica, Squillace, i geti e
i goti – teodorico, eteodorico, virtu bellica, ardore guerriero, pagenesimo.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bruzi” – The Swimming-Pool Library.
Buonafede (Comacchio). Filosofo. Grice: “You’ve
got to love Buonafede; he is all into the longitudinal unity of philosophy,
literally from Remo – he has chapters on the Ancient Romans, on philosophy from
the first monarchy to the second, a chapter on Cicerone, and one of a lovely
phrase, the Roman equivalent to the century of Pericles, ‘filosofia nel regno
di Augusto,’ but also on later developments of Italian philosophy, even a
chapter on Cartesianism in Italy, and how philosophy on the whole was
‘resurrected’ or ‘revitalised’ in Italy --. I once joked that philosophers
should never give much credit to Wollaston – but Buonafede totally proves me
wrong!” -- Essential Italian
philosopher. Di familia nobile, studia a Bologna e Roma. Insegna a Napoli.
Saggio, “Ritratti poetici, storici e critici di varj uomini di lettere – Appio
Anneo de Faba Cromaziano” (Simone, Napoli) -- opera accolta favorevolmente negli ambienti
culturali napoletani frequentati da Buonafede, nella quale convivono giudizi
critici su alcuni importanti esponenti della filosofia moderna (quali
Machiavelli e Spinoza), con parziali accoglimenti di altri (Cartesio e Locke),
in uno stile composito tra il barocco e l'arcadico. Insegna a Bergamo e
Rimini. Membro nell'Accademia dell'Arcadia, assumendo il nome di Agatopisto
Cromaziano con il quale diede alle stampe numerosi saggi. Insegna a Sulmona. Saggio
“Della restaurazione di ogni filosofia ne’ secoli XVI, XVII e XVIII di
Agatopisto Cromaziano” (Graziosi, Venezia – Societa Tipografica de classici
italiani, Milano) -- particolarmente critica verso la filosofia sensista di
Cartesio e Locke. Baretti: ebbe una violenta polemica con lui. Il “Saggio di
commedie filosofiche”, contenente un testo in endecasillabi, “Il filosofo
fanciullo” che, in uno stile comico, critica celebri filosofi dell'antichità
riportando citazioni fuori dal contesto.Venivano beffeggiati, tra gli altri,
Socrate, Democrito e Anassagora. Il saggio trova qualche apprezzamento. Baretti,
scrittore e critico letterario torinese, in un numero del suo periodico la
Frusta letteraria nel quale era solito firmarsi con lo pseudonimo di Aristarco
Scannabue, espresse giudizi negativi sul Saggio del Buonafede trovandolo
irrilevante e privo di comicità. Punto sul vivo, replica immediatamente con il
libello, dai toni assai aspri, “Il bue pedagogo: novella menippee di Luciano da
Fiorenzuola contro una certa Frusta pseudo-epigrafia di Aristarco Cannabue”
(Luca).”. Gli rispose ancora Baretti con una nutrita serie di articoli,
Discorsi fatti dall'autore della Frusta letteraria al reverendissimo padre don
Luciano Firenzuola da Comacchio autore del Bue pedagogo, pubblicati su diversi
numeri della Frusta. La polemica, una
delle più aspre e celebri delle cronache filosofiche italiane prosigue
ancora.Fa pressioni verso i responsabili della Repubblica di Venezia affinché
eliminassero gli articoli apparsi sulla Frusta e perché Baretti fosse poi
espulso dallo Stato Pontificio quando si trasferì ad Ancona. Il critico non fu lasciato tranquillo neppure
quando fuggì in Inghilterra: l'irriducibile Buonafede lo accua allora di
simpatie verso il protestantesimo. Il giudizio di Croce e piuttosto
negativo, scrisse che la sua filosofia e il risultato di «un ingegno da
predicatore e da predicatore mestierante, che ha un impegno da assolvere, un
sentimento da inculcare, un nemico da abbattere» senza che possano distrarlo
dal suo fine «né la ricerca della verità delle cose né l'ammirazione di quel
che è bello». Più positivo il giudizio di Natali nella voce redatta per l'Enciclopedia
Italiana, lo giudica “uomo d'ingegno acutissimo, filosofo non volgare, spesso
arguto e vivace e dotato di dottrina assai superiore a quella del Baretti. Altre
opere: “Delle conquiste celebri esaminate col naturale diritto delle genti
libri due di Agatopisto Cromaziano” (Riccomini, Lucca, Milano, Fondazione Mansutti);
“Saggio di commedie filosofiche con ampie annotazioni di A. Agatopisto
Cromaziano” (Faenza, pel Benedetti impressor vescovile, e delle insigni
Accademie degl'illustrissimi sigg. Remoti e Filoponi); “Sermone apologetico di
Tito Benvenuto Buonafede per la gioventù italiana contro le accuse contenute in
un libro intitolato Della necessità e verità della religione naturale, e rivelata”
(Benedini, Lucca); “Della malignità istorica: discorsi tre contro Pier Francesco
Le Courayer nuovo interprete della Istoria del Concilio di Trento di Pietro
Soave” (Bologna, per Lelio dalla Volpe impr. dell'Instituto delle Scienze); “Dell'apparizione
di alcune ombre novella letteraria di Tito Benvenuto Buonafede” (Lucca,
appresso Jacopo Giusti nuovo stampatore alla Colonna del Palio); “Istoria
critica e filosofica del suicidio ragionato di Agatopisto Cromaziano” (Lucca,
Stamperia di Vincenzo Giuntini, a spese di Giovanni Riccomini); “Versi liberi
di Agatopisto Cromaziano messi in luce da Timoleonte Corintio con una epistola
della libertà poetica ..., Cesena , Società di Pallade per Gregorio Biasini al
Palazzo Dandini); “Della istoria e della indole di ogni filosofia di Agatopisto
Cromaziano” (Lucca, per Giovanni Riccomini); “Il genio borbonico, versi epici
di Agatopisto Cromaziano nelle nozze auguste delle altezze reali di Ferdinando
di Borbone, infante di Spagna e di Maria Amalia, arciduchessa infanta” (Parma,
per Filippo Carmignani, stampatore per privilegio di sua altezza reale); “Della
letteratura comacchiese lezione parenetica in difesa della patria di Agatopisto
Cromaziano giuniore” (Parma, Bodoni). Opere di Agatopisto Cromaziano” (Napoli,
presso Giuseppe Maria Porcelli). “Epistole tusculane di un solitario ad un uomo
di città, Gerapoli); “Storia critica del moderno diritto di natura e delle
genti di Agatopisto Cromaziano, fa parte della Biblioteca cristiano-filosofica
decennio primo, consacrato alla divinità” (Firenze, nella Stamperia della
Carità). Dizionario Biografico degli Italiani. Soffre di gotta e una caduta in
piazza Navona aggrava le sue condizioni. La storiografia filosofica, Vestigia
philosophorum”. Il medioevo e la storiografia filosofica, Rimini, Maggioli
Editore. Fondazione Mansutti, Quaderni di sicurtà. Documenti di storia
dell'assicurazione, M. Bonomelli, schede bibliografiche di C. Di Battista, note
critiche di F. Mansutti. Milano: Electa. Memorie istoriche di letterati
ferraresi, III, Ferrara. Ritratto di
Appiano Buonafede. Assicurazione. Luigi Speranza,
"Grice e Buonafede," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Grice, Liguria, Italia. I Romani, fin d'allora
che ebbero le canne per tetti e un solco in luogo di fosse e di muraglie,
esercitarono la divinazione, con la cui guida ordi ( 1 ) Seneca I. c. (2)
Plinio Hist. Nat. lib. II, cap . 53. V. Lucrezio lib. V. ( 3) Macrobio
Saturnal. lib . VII, cap. 13. V. Scipione Maffei ap pressoG. Lampredi l. c. (4
) Cassiodoro. lib. III Var. Ep. Museo Etrusco 1. II, tab. 15 . UNDECIMO 1499
narono e nobilitaronoi rudimenti della loro pira teria ; e Romolo fu insiemeil
fondatore e il primo augure di Roma ( 1 ) . Uomini armati e rubatori co nobbero
che questa larva di religione e questa pre tesa scienza del futuro potea aver
influssi propiz; nelle loro spedizioni , siccome l'esito comprovo : é fu
veramente cosa ammirabile che una tanta pue rilità , di cui gli auguri istessi
rideano, producesse vantaggi sì grandi alla fortuna romana. Presero adun que
quei primi uomini la disciplina augurale dagli Etruschi , e non curarono altro
(2 ). Furon dette as sai novelle della filosofia degli Aborigeni, de' Sabi ni,
degli Ausonj e di altre genti di quelle contrade; ma i critici le numerarono
tra le favole (3). Numa Pompilio, secondo regolo di quella feroce masna da ,
pensò di ammansarla con la religione e con la pace. Finse colloquj con le Muse,
e divulgò notturni congressi con la dea Egeria. Istituì sacerdoti agl’Id dii ,
e fu egli stesso sacerdote. Scelse le vergini a Vesta, le quali serbasser
perpetuo il fuoco nel cen tro d'un tempio rotondo. Vietò le immagini delle
sostanze divine e i sacrifizj cruenti. Ordinò gli au gurj, gli oracoli, le
interpretazioni de' fulmini e di altri prodigj, e le funebri ceremonie e le
placazioni de' Mani. Corresse i mesi e l'anno secondo il corso del sole e della
lupa. Scrisse libri sacri, che furon seppelliti con lui , e niun potè leggerli.
Consacrò l'arcano e il silenzio con la istituzione della dea Ta cita. Chiuse il
tempio di Giano ; e Roma guerriera divenne pacifica e religiosa (4). In questi
regola menti di Numa furono cercati, e dicono anche ri trovati gl'indizj di
molta filosofia. La finzione de' . ( 1) Cicer . De Divinatione lib. I. 2 .
Cicer. I. c. ( 3) G. Hornio Hist. Phil . lib. IV, сар. 3. T. Livio lib. I ,
cap. 8 ; lib. XL, cap. 29. Plutarco in Numa. 200 CAPITOLO prodigj e de' secreti
colloqui col cielo, e il silenzio è l'arcano e i sacrifici senza sangue, e le
proibi zioni di effigiare la Divinità, sono sembrate dottrine pitagoriche; e
sopra tutto il fuoco del tempio di Vesta è stato creduto un simbolo del sistema
di Pitagora , il quale insegnava la stabilità del sole nel centro del nostro
mondo ( 1 ). Il perchè corse già opinione che Numa fosse stato discepolo di
Pita gora ; ma è stato poi osservato che questo filosofo vivea in Italia quando
L. Bruto salvò Roma dai ti ranni ( 2). Onde piuttosto Numa avrebbe dovuto am
maestrare Pitagora; sebbene io non credo che un filosofo chiuso tra i monti di
Calabria abbia mai udito parlare d'un capo di ladroncelli ristretti (ra i monti
latini. Isacco Newton pensò che Numa pren desse il suo sistema celeste dagli
Egiziani , osserva tori antichissimi delle stelle ( 3). Ma io non so per
suadermi che unpover uomo sabino estendesse il saper suo fino alla penetrazione
degli ardui misteri di Egitto ; e reputo più verisimile che lo studio de gli
Etruschi nelle meraviglie de' fuochi celesti, e la molto diffusa e
popolarevenerazione del fuoco gui dassero Nụma alla istituzione di questo rito.
Mime raviglio io bene come coloro che cercano il Pan teismo dappertutto, non
abbiano trovato nel fuoco centrale di Vesta il simbolo dell'anima del mondo, e
di quelle altre stoiche e Spinoziane dottrine che pure si sforzano di trovare
altrove con maggiore difficoltà. Forse si saranno contenuti da questa im
putazione, perchè negli oracoli e nelle altre divina zioni di Numa, e nelle
mortuali placazioni e ceri monie si conoscono alcuni vestigj non dispregevoli (
1 Plutarco . (2) Livio I. c. Cicer. Tuscul. Disput. lib. I, 16; IV, 1. V. P.
Bayle Dict. art, Pythagoras, e J. Brucker de Phil. Roman. yet. 3 ) De
MundiSystemate. UNDECIMO. 201 d'una libera provvidenza e d'una vera immortalità
degli animi separati dai corpi. Io ebbi quasi voglia di aggiunger qui, che per
sentenza di Varrone (1) gl'Iddii de' Romani e de' Latini prima ancora di Numa e
di Romolo erano gl' Iddiidi Frigia portati da Enea, quei di Frigia erano i
medesimi di Samo tracia tanto famosa per li suoi misterj che erano gli stessi
d'Egitto ; e siccome di questi mostreremo con qualche verisimilitudine che
nascondeano la unità di Dio e la immortalità degli animi, così po trebbe dirsi
il medesimo della segreta dottrina del l'antico Lazio e de' primi Romani. Ma
oltre le gravi difficoltà contro la venuta d'Enea in Italia , i.se veri critici
potrebbono opprimermi con altre dub biezze assai; onde ho deposto il desiderio
dipro porre le mie conghielture. Non è però male alcuno averle accennate.Questa
è l'immagine della piccola filosofia dei primi tempi di Roma, la quale appena
apparita per lo pacifico genio di Numa, fu dissipata dagl'ingegni guerrieri de'
suoisuccessori, e per più secoli fu esclusa ed anche abborrita , come nimica
dell'austerità e della fortezza , da quei valorosi uo mini che , intenti alla
conquista del mondo , o non ebbero ozio di volgersi alla filosofia , o pensarono
di non averne bisogno , o dubitarono che potesse opporsi a quell'immenso
latrocinio. Ritorneremo su questo argomento, e avremo copiosa materia di ra
gionare ovę riguarderemoquei tempi di Roma che dagli storici e dai politici
furon detti molli e corrot ti, e dagli amici della filosofia furono onorati
come . mansueti e sapienti. (1) V. Macrobio Saturnal. lib . III , cap. 4; P.
Giurieu Hist. Cri tica Dogmat, Par. I Il genio bellicoso di Romolo ammansato un poco dalla pacifica
Egeria , che era il Genio di Numa, nella signoria dei seguenti Regoli di Roma
tornd alla primiera ferocità. Nè altramenle potea inter venire in una città e
in un popolo composto di uo mini violenti e perturbatori , e per delitti e per
ti mor delle pene fuggitivi dalle lor terre, e riparati nella nascente ciltà
come nell'asilo delle scellerag gini ; i quali assuefatti al sangue e alla
rapina , se fosser mancate guerre esteriori, avrebbero infero cito contro le
viscere della lor medesima società. Perchè fu mestieri esercitarli senza riposo
in im prese e rubamenti perpetui; e questa che parve prima necessità , divenne
appresso costume, e fu l'origine primaria della grandezza romana. Un po polo
cosi funestamente educato non potea esser amico di alcuna filosofia : e '
veramente, come alcuna volta si offersero le opportunità d'introdurla, con
molta ruvidezza la impedirono per timore che non ammollisse l'austerità
militare , e non traviasse la gioventù romana dalla usurpazione del mondo. Nel
( 1 ) J. Brucker 1. c. QUARANTESIMOTTAVO 289 campo d'an uom consolare furon
trovati sotterra alcuni manoscritti di filosofia attribuiti a Numa, e il
pretore comando risolutamente che fossero ab bruciati ( 1 ) . Un altro pretore
per consultazione del senato, e poco dopo anche i censori dichiararono, non piacere
che soggiornassero nella città certi fi losofi e retori maestri d'un nuovo
genere di disci pline diverse dalla consuetudine e dal costume de maggiori; per
la qual novità i romani giovani in torpidivano ( 2) . Questo avvenne intorno al
fine del sesto secolo dalla fondazione di Roma nel conso Jato di C. Fannio
Strabone e di M. Valerio Mes sala ; ed è ben degno di considerazione che quei
grand' uomini avean già messa ad effetto gran parte del lor latrocinio, e la
filosofia era ancora un nuovo genere di disciplina contrario alle loro consuetu
dini. In quel torno medesimo , e non so bene se poco prima o poco dopo ,
accadde quella famosa ambasceria ateniese de tre filosofi Carneade, Dio gene e
Critolao (3) . Gli Ateniesi avendo saccheg giata Oropo città della Beozia ,
furono dai Sicionj con l'autorità de' Romani condannati in cinquecento talenti.
Ma questa multa sembrando soperchia, spe dirono a Roma i prefati filosofi per
ottener condi zioni più sopportabili. Nella dimora e nella espet tazione di
essere ascoltati dal senato, tennero dotte assemblee nei cospicui luoghi di
Roma, e ostenta rono dottrina incognita ed eloquenza inaudita alle orecchie
romane; e Critolao la usò erudita e roton da , Diogene modesta e sobria ,
Carneade violenta e rapida: ma comechè ognuno ottenesse gran lode, l'Accademico
sopra tutti risvegliò le meraviglie inu ( 1 ) Plinio lib . III , cap. 12 . (2)
A Gellio Noc. Att. lib. XV, cap. 2. ( 3) Vedi presso P, Bayle (artic. Carneade,
not . N ) i litigj in-. torno a quest'epoca. BUONAFEDE. Ist. Filos. Vol. II. 19
290 CAPITOLO sitate e fino i furori pubblici, massimamente della gioventù, che
dimentica de' piacerifu rapita quasi fanatica dalla nuova filosofia ( 1 ) . E
convien certo che molto singolar cosa fosse questa eloquenza di Carneade , mentre
fu detto che ora a guisa d'un fiume incitato e rapace sforzava e svelleva ogni
cosa e seco rapiva l'uditore con grande strepito , e ora dilettando lo
imprigionava, e per una parte manifestamente predando, e per un'altra rubanilo
nascostamente, o con laforza o con la frode vin cea gli animi più prepurati a
resistere ( 2). Ma ciò che maggiormente rileva, da Cicerone medesimo maestro
tanto eccellente di queste cose , fu delto che avrebbe pure desiderato di
possedere la divina celerità d'ingegno e l'incredibil forza di dire e la copia
e la varietà di Carneade , il quale in quelle sue disputazioni niuna sentenza
difese che non pro vasse, niuna oppugnò che non mettesse a compiuta ruina (3) .
Consapevole di queste sue viltoriose vee menze, ardì, stabilita la giustizia in
un giorno con molto copiosa orazione, distruggerla in un altro alla presenza di
Galba e di Catonemaggiore,in quella età oratori grandi alla maniera romana.
Lattanzio ci serbd in poche parole la sostanza di questa con futazione della
giustizia. Carneade la divise in ci vile e naturale, e l'una e l'altra mise a
niente; per chè la civile è prudenza, non è giustizia; la natu rale è giustizia
, non è prudenza . Quella si varia secondo i tempi e i luoghi, e ogni popolo
l'attem pera a suo comodo: questa è una inclinazione verso l'utilità che la
natura infuse in ogni animale , alla quale chi volesse ubbidire incorrerebbe in
mille fro ( 1 ) Pausania lıb. VII. Plutarco in Catone Majore.A. Gellio lib
.VII, cap. 14. Macrobio Saturnal. lib . I , cap . 5. (2) Numenio presso Eusebio
Praep. Ev. lib. IV, cap. 8. (3) Cicerone De Oratore lib. II, 38 ; III, 18.
QUARANTESIMOTTAVO 291 di. Moltissimi esempj dimostrano cosiffalta essere la
condizione degli uomini, che volendo essere giu sti, sono imprudenti e stolti;
e volendo essere pru denti e avveduti, sono ingiusti: laonde non può concedersi
una giustizia che è inseparabile dalla stoltezza. Nel quale proposito trascorse
in queste parole abborrite dai conquistatori: Se i popoli fio renti per
signoria e i Romani oggimai possessori del mondo volessero esser giusti
restituendo l'al trui, dovrebbono ritornare alle capanne e giacere nella
miseria ( 1 ) . Cicerone , che molto avea medi tate queste e più altre
difficoltà di Carneade , le trascorse senza risposta ( 2) ; e altrove avendo
sta tuito un diritto naturale indipendente dalle istitu zioni degli uomini ,
prega l'Accademia e Arcesila e Carneade a volersi tacere, perchè assalendo
queste ragioni, indurrebbono grandi ruine ; e desidera ben molto di placar tali
uomini , non ardisce rispinger li (3). Ma M. Porzio Catone censore uom di ri
gida innocenza e di antichi costumi e di senatoria e militare austerità (per le
quali virtù era già nata e crescea la grandezza di Roma), udite queste am bigue
e scandalose orazioni , e veduti i furori della gioventù romana, e considerate
le conseguenze fu neste alla fortuna della repubblica, le quali poteano sorgere
da quella molle e licenziosa filosofia, pre stamente e fortemente dimostrò nel
senato che non era bene sopportare più a lungo nella città quegli ambasciatori
filosofi che persuadevano quanto loro piacea, e confondeano il vero col falso ,
e aliena vano dalla robusta e antica istituzione la gioventù ; 2 ( 1 )
Lattanzio lib . V, cap. 14 , 16. V. P. Bay le I. c. G , H, et art Porcius, H. (2)
Cicerone De Repub. presso S. Agostino De Civ. Dei lib . II, cap . 21 , e
Lallanzio I. c . ( 3 ) Ciceronc De Legib. lib . I. 292 CAPITOLO e quindi era
mestieri conoscere e risolvere di quella legazione , e tosto rimandando gli
ambasciatori ad istruire i fanciulli di Grecia, ricondurre i giovani romani ad
ascoltar come dianzi i maestrati e le leg gi (1). Di questo modo Catone parlo ,
e gli amba sciatori furono congedati. Non è però che questo Catone fosse nimico
del sapere , mentre è noto per la istoria ch'egli in gioventù militando a
Taranto ascoltò volentieri da certo suo ospite pitagorico dottrine contrarie
alla voluttà , e crebbe nell'amore della frugalità e della continenza : indi in
età più matura fu interprete delle leggi , e difensore e ac cusatore
instancabile del Foro , e scrittore di ora zioni e di cose rustiche e delle
origini romane; nelle quali opere mostrò copia e gravità di dottrina; e, in
breve, tutta la sua lunghissima vita distribuì tra la milizia e tra le leggi e
le lettere , e tra la più austera pratica della virtù e la persecuzione più vio
lenta de vizj ( 2). Onde fu detto che le sue guerre perpetue contro i malvagi
costumi non erano alla repubblica meno utili delle vittorie di Scipione con tro
i nimici ( 3) . Il perchè non credo io già ch'egli per odio di Carneade o per
altra malevolenza ab . borrisse la filosofia greca; ma piuttosto perchè la
militare e severa indole di Roma ne' suoi dì così domandava, e perchè l'esempio
di Grecia ammol lita e scaduta in mezzo a tanto lusso di filosofia forse lo
spaventava. E siccome egli era per natura inclinato all'eccesso de' rigori,
parlava forse più for leinente che non sentiva; e nella guisa che esage rando
dicea che le adultere erano avvelenatrici ile' loro mariti (4) , e che tutti i
medici greci erano da 5. ( 1 ) Plinio lib. VII, cap. 30. Plutarco in Catone.
(2) Cicerone de Ci. Or. 17. Tito Livio lib. XXXIX, 41. C. Nie pote Frag. Vitae
Catonis. Plutarco I. c . (3) Seneca Ep. 87: (4 ) Quintiliano lib . V , 11 . QUA
RANTESIMOTTAVO 293 fuggirsi, dacchè aveano giurato di uccidere tutti i Barbari
e quindi anche i Romani (1); così per av. ventura ingrandiva gli abborrimenti
di tutta la fi losofia de Greci, e dicea a suo figliuolo : Pensa che io parli
da vate : indocile ed iniquissima è la ge nerazione de' Greci. Quando avverrà
che quella gente a noi dia le sue lettere, saremo tutti corrotti e perduti ( 2
). Di queste sue amplificazioni, oltre il suo amore per la disciplina
pitagorica, può essere argomento lo studio ch ' egli mise negli scrittori e
nelle lettere greche non solamente nella sua grave età , quando le meditò
avidamente , come chi vuole estinguere una lunga sete, ma nella sua pretura di
Sardegna, e ancor prima ; poichè, per testimonianza di Plutarco, egli in età di
quarantacinqueanni parlò agli Ateniesi per un interprete , ma potea parlar
greco, se avesse voluto, e i suoi libri erano ornati e ricchi di opinioni, di
esempi e di istorie fonti, e di sentenze morali tradotte fedelmente dal greco (
3) . Da questi riscontri jo deduco che Catone disprezzando i Greci in pubblico
e leggendoli in privato, non era veramente tanto nimico loro quanto ostentava;
e che meditando egli e usando ne' suoi componimenti le opinioni greche, è
chiaro che vi erano dunque in Roma i libri greci, e che non erano incognite le
greche opinioni a quella età , e quindi prima della ambasciata de tre filosofi
vi era tra i Romani qualche tintura di greca filosofia. Frattanto Furio, Lelio,
Scipione e altri di genti patrizie furon del numero di que' giovani accesi
nell'amore delle dottrine greche, i quali venuti a matura età e assunti al
comando degli eserciti che soggiogavan la Grecia, prese da' greci ( 1 ) Plinio
lib. XXIX , cap. 1 . (2 ) Plinio I. c. Plutarco l . c. (3) Cicerone De
Senectute 1, 8. Val. Massimo lib. VIII, cap. 10. Plutarco I , c. Aurelio
Vittore De Viris Illustr, 294 CAPITOLO e al governo delle provincie
conquistate, ebbero agio di veder da vicino e di ascoltare i valenti uomini e i
filosofi greci , coi quali strinsero dimestichezza, e vollero finanche averli
compagni nelle lor case, nei viaggi enelle medesime spedizioni militari. Cosi
leg. giamo che Scipione Africano volle aver seco assidua mente in casa e nella
milizia insiem con Polibio, isto rico singolare egrande uomo di Stato e di
guerra, anche Panezio filosofo stoico. Era questi un Rodiano ingenuo e grave,
il quale salito ai primiluoghi del Portico , oltre alcun altro componimento,
scrisse i libri lodatissimni degli Uffizj secondo quella disci plina; ma non
gli piacque la stoica divinazione e l'apatia , e le spine della disputa e
l'asprezza delle parole e l'orror de costum ; e più gentilmente e umanamente
fiolsofo , non così legandosi a Zenone e quegli altri , che non amasse anche
Aristotele Senocrate e Teofrasto e Dicearco, e non ammirasse Platone come
divino e sapientissimo e santissimo e come l'Omero de' filosofi , sebben quella
sua or poetica, or ambigua immortalità degli animi non gli tornasse a grado. Fu
dunque Panezio uno Stoico modesto e libero e degno della famigliarità di Sci
pione , il quale erudito in questa temperata stoica dottrina fu mansuetissimo
ed umanissimo; e ripar lendo la sua vita tra la milizia e la filosofia , sali
per fama di valore e di lettere fra i massimi am plificatori della gloria di
Roma ( 1). Ad illustre ed esimia indole aggiungendo la ragione e la dottrina, e
assiduamente conversando col medesimo Panezio e con Diogene stoico e con altri
eruditissimi uo mini greci, furono in compagnia di Scipione pre ( 1 ) Cicerone
Acad. Quaest. lib. II, 33 ; De Fin. lib . 1 , 2 , et IV , 9,28; De Off. lib.
II, 14 ; III , 2 ; Tusc. Disp. lib . I , 32 ; De Div. lib . I , 3 , 7; JI , 42
; Or. pro Murena 33 ; De Or. lib. III; De Nat. : Deor. lib . I, II. A. Gellio
Noc. At . lib. XII, 5. Suida v.Panaetius. QUARANTESI MOTTAVO 295 clari e
singolari per modestia e per continenza L. Furio e C. Lelio cognominato
Sapiente ( 1 ) . Si acco starono a Panezioea questi medesimi studj L. Fi lippo
e C. Gallo e P. Rutilio e M. Scauro e Q. Tube rone e Q. Muzio Scevola , e altri
soinmiuomini nella repubblica, e massimamente i giureconsulti ( 2 ); i quali
invitati da lanta luce di esempi e dalla ma gnificenza e dal metodo della
stoica morale , pen sarono che niun'altra potesse congiungersi più co modamente
alla giureprudenza romana. In queste narrazioni è facile a vedersi che la
stoica filosofia entrò la prima in Roma con molto nobil fortuna ; e quantunque
Carneade esultasse sopra i compagni suoi, quando non però si ebbe a prender
partito , quei medesimi che lo aveano ascoltato con tanto furore, si rivolsero
alla stoica disciplina; la quale benchè non possa mostrar tra i Romani una suc
cessione continua di maestri e grande strepito di scuole e di libri, mostra
iudizj cospicui della rive renza in cui era tenuta e; tra gli altri il grande
Porn peo, che approdato a Rodi volle ascoltar Possido nio da Apamea stoico di
primo nome, che avea cat tedra in quella Isola , e recatosi alla sua casa,
vietà prima che il littore percotesse la porta, e per som ma testificazione
d'onore comando che si abbas sassero i fasci; indi entrato , vide Possidonio
gia cere gravemente per dolori in tutta la persona , e salutatolo con
onorifiche parole gli disse,molto mo lesto .essergli per quella sua malattia
non potere ascoltarlo. Ma tu veramente puoi , rispose Possi donio, nè io
concederò mai che il dolore fuccia che ( 1 ) Cicerone De Or. II ; De Fin . II ;
Or. pro Archia. ( 2) Cicerone Or. pro Murena ; De Or. Il ; in Bruto 30 , 31. V.
Vincenzo Gravina De Or. Juris cap. 57, 59; Giovanni Schiltero Manud. Phil.
Moralis ad Jurispr. cap. 1, 3; D. Westphal De Stoa Juriscon. Rom. ; Everardo
Ottone De Stoica Juriscons.Philosophia. d 296 CAPITOLO un tanto uomo sia venuto
indarno a vedermi. E cosi giacendo disputò gravemente e copiosamente, che
niente era buono, salvo l'onesto. E intanto ardendo pure come per fiaccole il
dolore, spesso dicea: Niente fai, o dolore: sebbene tu sia molesto, io non
confes serò mai che tu sia male. Pompeo si congedò richie dendo il filosofo se
niente volesse ordinargli, ed egli rispose: Rem gere praeclare, atque aliis
prestare me mento ( 1 ) . Cicerone poi lo ascoltà come scolare ( 2); e M.
Marcello si tenne in grande onore di condurlo a Roma( 3 ), ove fu in altissima
estimazione per li suoi libri della Natura degl'Iddii, degli Uffizj, della Di
vinazione, e per altrenobili scritture che andarono a male (4 ); e poichè era
cultor non vulgare dell'astro nomia, ebbe gran lode nella composizione di
quella sua sfera , la quale in ognuna delle sue conversioni rappresentava nel
sole, nella luna e ne' pianeti quello che si fa in cielo nel giorno e nella
notte (5) . Pos sidonio adunque dopo Panezio fu ornamento grande e propagator
sommo della fortuna stoica tra i Ro mani. Altri Greci di minor nome sostennero
la me desima fatica, e accompagnarono e amınaestrarono altri Romani, che molto
si dilettarono di quella di sciplina; e tra questi non è giusto tacere di Q.
Lucilio Balbo , divenuto stoico eguale ai Greci medesimi, cosicchè Cicerone nei
Dialoghi della Natura degļId dii gli diede a sostenere le parti della stoica
teologia. Ma niuno tra i Romani, nè forse pure tra i Greci agguagliò la
persuasione , la pratica e la costanza stoica di Catone Uticense, onde ottenne
da Cice ( 1 ) Cicerone Tusc. Disp. lib. II,25.Plinio Juniore Ep.lib. VI, 30. (
2) De Nat. Deor. lib . I , 3. ( 3) Suida v. Possidonius.Aieveo ( lib. XIV) lo
dice famigliare di Scipione domator di Cartagine ; ma è anacronismo. ( 4)
Cicerone De Div.lib .1, 3;De Nat.Deor. lib .1,44;ad Att . XVI, ep. 11 ; De Off.
lib. I, 45. (5) Cicerone De Nat. Deor. lib . II , 34. QUARANTESIMOTTAVO 297
rone il nome di Stoico perfetto, che in tanti uo mini di quel genere ricordati
e variamente lodati nelle sue opere non avea saputo ancora concedere a veruno (
1 ) . E di vero parve che la natura mede sima si dilettasse ad organizzare in
quest'uomouno Stoico singolare ; perciocchè è fama che fino dalla puerizia con
la voce e col volto mostrò ingegno se rio , rigido, intrepido, inflessibile
alle lusinghe e alle minacce, e fin d'allora spirante immobilità nell'amor
della patria. Ma fatto adulto ebbe famigliari e mae stri Antipatro Tirio e
Atenodoro Cordilione , uom solitario e alieno dai rumori e dalle corti ; e dap
poi tende sempre dimestichezza con altri filosofi stoici , e con la forza della
istituzione confermò ed accrebbe la natura già molto propensa , e non per la disputa
, ma per la vita fu Stoico. Éntrato nei maestrati della repubblica e negli
strepiti del Foro e della milizia , usò tal forma di parlare e di vive re , che
le meraviglie furon grandissime di tutti i Romani , massimamente che di quei di
oramai era mutata e corrotta ogni cosa. Con una voce la cui intensione e forza
era inesausta , parlava al popolo e al senato non eleganze e novità , ma
ragioni giu ste , piane, brevi, severe e degne della stoica di sciplina e di
Catone. Le usanze sue non eran dis simili dalle parole , e con forti
esercitazioni si ad destrava a sostenere il calore e la neve col capo ignudo, e
a viaggiare a piedi in ogni stagione. Nella guerra civile in mezzo alla
militare licenza fu tem perante , e combatte con fortezza congiunta a pru denza
, e ottenne lodi e onori , che rifiutò. Eletto tribuno de' soldati per la
Macedonia , fu simile ai soldati nelle fatiche; ma nella grandezza dell'animo e
nella forza dell'eloquenza fu maggiore di tutti i ( 1 ) Cicerone Praef. ad
Parad. Strabone lib . VII , XI , XIV. 298 CAPITOLO capitani. Visild l’Asia per
conoscer l'indole di quelle terre e i costumi degli uomini, e per conquistare
il solitario stoico Atenodoro Cordilione, che riputò la più ricca di tutte le
prede. Ritornato a Roma, di vise il suo tempo tra Atenodoro e la repubblica.
Non curò di esser questore prima di aver cono sciute a fondo tutte le leggi
questorie ; e in quel maestrato corrotto pessimamente tante cose mutò per la
giustizia e per la salute della repubblica, che nell'amore della giustizia e
della temperanza fu te nuto maggiore di tutti i Romani. Nel senato fu sem pre
il primo a venire e l'ultimo a ritirarsi. Dalla sua solitudine di Lucania, ove
si era raccolto per viver tranquillamente tra i libri e i suoi filosofi, de
siderò il tribunato della plebe unicamente per re sistere ai magnati
prepotenti, e in questa ardua con tenzione dimostrò giustizia , fede, candore,
magna nimità ; a segno che Cicerone con molta licenza di giuochi agitando lo
stoicisino di Catone nella causa di Murena , incorse il biasimo di rettorica
dissolu tezza ; di che però l'uomo apato non si commosse per niente , e
solamente ammonì un poco il licen zioso giuocatore con quelle brevi ma
significanti parole : Buoni Iddii ! Noi abbiam pure il ridicolo Console ; e poi
nella congiurazione Catilinaria vi gilanteinente lo soccorse, come amico di lai
e delle repubblica. Ma si accrebbero fuor d'ogni termine le invidie , le
emulazioni e le violenze de' cittadini potenti, e i consigli di perder la
patria e la libertà preponderarono ad ogni virtù. Catone resistè for temente; e
mentre altri erano Pompejani e altri Cesariani, egli perseverò ad esser
repubblicano. Si attenne poi a Pompeo come a male minore, e guer reggid e parlò
da grande soldato e da filosofo. Dopo la battaglia farsalica, nella successione
continua delle disgrazie e nella ruina di tutte le cose si riparò ad
QUARANTESIMOTTAVO 299 Utica , disse ai suoi che provvedessero a sè mede simi
con la fuga o con altri consigli , entrò nel ba gno , e poi cend e bevve
lietamente e disputò co' suoi filosofi, e sostenne , il solo sapiente esser li
bero. Coricatosi lesse due volte il Fedone , dormi ancora, e svegliato si
uccise (1). Con molta prolis sità si è voluto disputare delle cagioni del
suicidio di Catone ; il che secondo il pensier mio si è fatto assai vanamente
(2) ; perocchè dalle cose fin qui rac contate si conosce , senza bisogno di
tante dispu tazioni, che il nimico alle porte, la dignità e la li bertà perduta
, la speranza del fine de' mali pre senti e del riposo futuro, e il sistema e
il costume stoico e romano furono le cagioni palesi di quel suicidio. A queste
cagioni fu aggiunta la trasfusione degli animi nell'anima del mondo, ossia
Iddio im merso necessariamente e indivisibilmente nella ma teria ; il che fu
raccolto non solamente dalla indole del sistema stoico, ma da quelle parole che
Luca nio prestò a Catone : Iupiter est quodcumque vi des , quocumque moveris
(3) , per cui il prode Col lin allogó Catone tra i Panteisti (4 ). Maperchè
quel verso può essere più del poeta che di Catone, e perchè posto ancora che
sia di questi , può aver senso che Iddio è presente per tutto, e in fine per
chè la teologia stoica non è così empia come al cuni immaginarono, secondochè
dianzi abbiam det to , perciò non possiamo acconsentire al Panteismo di Catone.
Sebben fosse propizia e luminosa , così come si ( 1 ) CiceroneOrat. pro Murena;
Paradox. I. Plularco in M. Ca tone Uticensi. Seneca Ep. 14 , 24,95; et De
Provid . ( 2 ) Lattanzio lib . III, c. 18. Siollio Hist. Ph. mor. Gentil . S 177.
J. Brucker De Phil . Romanor. S XXIII. (3) Phars. lib. IX, 580. ( 4 ) De la
liberté de penser. G. F. Buddeo De l’Ath. et de la superst. cap. J , S 22. J.
Brucker l . c. 300 CAPITOLO è divisato , la fortuna della scuola stoica tra i
Ro mani; tulta volta non è da pensarsi che ad altre sette mancassero affatto
gli amici ; che anzi alcuni furono che indifferentemente estimaron tutte le
scuo le, e quelle parti preser da esse , che più sembra ron concordi a certe
forme di verità , a cui avean l'animo assuefatto . Così L. Licinio Lucullo
nella Grecia e nell'Asia , mentre sostenea il peso del go verno de' popoli e
mentre vincea Tigrane e Mitri date , coltivava le buone lettere e conversava
coi filosofi greci ; e dappoichè ebbe trionfato , mise a guadagno le ricchezze
predate , e dai militari pec cati raccolse piaceri e felicità. Si congedd dai
tur bamenti della guerra e della repubblica, e tutto ri volto a pensieri di
riposo edificò ville e palagi di meraviglioso lavoro e d'incredibil
magnificenza , e intese a pranzi e a cene e ad ogni guisa di ame nità , di
eleganza e di delizia ; nelle quali mollezze se tra le acclamazioni degli
uomini dilicati incorse ne' biasimi degli animi austeri, certamente ottenne
l'applauso di tutti, allorchè di tanto amò la filo sofia , che raccolta a gran
costo insigne copia di li bri compose una biblioteca di pubblico uso, e edi ,
ficò stanze e portici e scuole , e le dedicò in do micilio delle Muse e della
pace e in ospizio dei greci maestri , che fuggendo i tumulti di guerra si riparavano
a Roma. Per questo egregio uso gli fu rono quasi perdonate e quasi rivolte a
lode le ru berie della guerra. Egli dissimile da que' signori che prendono per
sè il pensiere di comperare le biblio teche, e lasciano alirui il pensiere di
leggerle, pose gran parte delle sue delizie ne' libri e nelle consue tudini coi
dotti e filosofi uomini, e ascolto ed esa minò ogni genere di filosofia , e
molto ebbe in pre gio e in continua familiarità Antioco Ascalonita, uom di
robusto parlare e principe in quei giorni QUARANTESIMOTTAVO 301 della vecchia
Accademia , il quale si argomentava a mettere in amicizia con lei gli Stoici e
i Peripa tetici; e a Lucullo piaceano questi pensieri: onde Cicerone , amico e
lodatore magnifico di lui, nel Dialogo intitolato al suo nome gl'impose la
difesa della vecchia Accademia ( 1 ) . Con questa magnifi cenza e splendore di
esempj non solo la casa di Lucullo , ma Roma istessa fu quasi ripiena di filo
sofi e d'imitatori, tra i quali altri si attennero al genio riconciliatore di
Antioco , altri spaziarono nella liberlà di Carneade, altri si accostarono ad
altri greci maestri, e niuno in tanta copia d'ingegni elevati , di cui Roma
egregiamente fioriva in quella età , seppe aspirare a nuovi principati nella
filoso fia , mentre affettavano pure il principato istesso del mondo. Molti han
fatto le meraviglie come i Ro mani, così nimici di servitù e così avidi di
signo ria, fossero poi tanto propensi a servire nella filo sofia, in cui agli
eccelsi animi dee parer tanto bello il regnare. Ma non è meraviglia niuna che
uomini intenti perpetuamente ad infinito dominio non aves ser ozio di componer
nuovi sistemi , e volendo pure esser filosofi seguisser gli antichi per
brevità. M. Giunio Bruto, nato verisimilmente dagli amori furtivi di Servilia e
di Giulio Cesare, che percid molto lo amava e lo dicea figliuol suo , venne a
massimo nome nella istoria di Roma non solamente perchè fu tra i sommi
repubblicani e tra quei fer rei uomini che nè per lusinghe di beni nè per ter
rore di mali si piegano, e all' onesto , al giusto e al vero sacrificano la
gratitudine, i benefattori, i consanguinei e sestessi; ma perchè grandemente
amò la filosofia , e quasi tutti i filosofi greci nella (1 ) Cicerone nel lib .
II o IV Acad. Quaest. Lucullus. Plutarco in Lucullo. Svelopio in Julio 83. 302
CAPITOLO sua età rinomati ascoltò, e tutte le sette conobbe , e si attenne poi
alla vecchia Accademia , la mez zana e la nuova non molto approvando, e fu an
miratore di Antioco, e Aristone di lui fratello ebbe compagno e domestico ( 1 )
. Per questi studj con in signe amore coltivati nella gravità immensa , quasi
nella oppressione continua de' civili e dei militari negozi e delle turbazioni
e degli estreini pericoli, egli adornd la filosofia col sermone latino, talche
non rimase a desiderarsi altro dai Greci ( 2) ; e ol tre i componimenti di
eloquenza e d'istoria, scrisse i libri della Virtù e degli Uffizj; ed è memoria
che desse opera a cose letterarie fino in mezzo al inag. gior émpito di guerra
e in quella gran notte che andd innanzi alla battaglia farsalica. In questa con
giunzione de' gravissimi affari e della filosofia e nel lo studio di tutti i
filosofi greci Bruto imitò Lucil lo ; ma non volle già initarlo
nell'abbandonamento della repubblica e nel termine della dignità e della gloria
tra i molli ozj e i senili piaceri ; che anzi amd meglio imitare Catone
fratello di sua madre , e a somiglianza di lui filosofò per la vita , ed ebbe
animo grande e libero dalle cupidigie e dalle vo luttà , e tanto costante ed
immobile nella fede e nell'amor della patria e nella sentenza dell'onesto e del
giusto , che per difesa di questi principj non sentà ribrezzo di mettere il
pugnale nelle viscere di Cesare suo benefattore e suo padre, e poi nella per
dizione della libertà e di tutte le cose romane met. terlo nelle sue viscere
istesse ( 3) . Alcune belle qui stioni furono agitate in questi propositi . E
prima ( 1) Cicerone De Cl. Oraloribus 97 ; Acad. Quaesi. lib. I , 3. Plutarco
in Bruto. (2) Cicerone Acad. Quaest. I. c. (3) Cicerone Tusc. Disp . V , 1 ; De
Fin . lib . III. Seneca Consol. ad Helviam 9 , e Ep. 95. Plutarco I. c . V. gli
Storici Romani. QUARANTESIMOTTAVO 303 se Brulo malvagiamente facesse cospirando
alla morte di Cesare; la quale investigazione richie dendo un diligente esame
dei diritti e delle abbli gazioni di Cesare e di Roma ; e una esatta idea del
usurpatore e del tiranno, e dei doveri e de' limiti del patrizio e del
cittadino non può esser nè breve nè affaccevole al nostro istituto. In secondo
luo go , se Bruto possa essere escusato allorchè nella ruina della buona causa
giunto al mal passo di uc cidersi con le sue mani , vituperò la virtù escla
mando con gli ultimi fiati: Infélice virtù ! io ti cre dea una realità e sei un
nome. Tu vai schiava della fortuna, che è più forte di te ( 1 ) . Pietro Bayle
presto a Bruto alcune difese che secondo me non posson molto piacere (2); e la
difesa migliore è che quelle parole non pajon di Bruto ; sì perchè Plutar co ,
diligente narratore di tutte le avventure della sua vita , niente racconto di
quella esclamazione , sì perchè non è verisimile che un tanto uomo in così
corte parole dicesse assurdità e contraddizio ni; chè tale certamente è negare
la realità alla vir tù , e poi affermare che ella è meno forte e che è schiava
della fortuna , il che senza stoltezza non può dirsi di cose che non esistono.
In terzo luo go , fu quistione se Bruto avesse a numerarsi tra gli Stoici. È
stato detto che lo Stoicismo di Bruto è un sogno ( 3) . E veramente
risguardando l'auto rità delle parole citate di Cicerone e di Plutarco egli
abbracciò la prima Accademia ; ma siccome dai medesimi scrittori è detto che si
dilettò in tutte le dottrine de' greci filosofi e ammirò Antioco famoso
conciliatore del Portico coll'Accademia e col Peri ( 1 ) Dione lib. XLVII. Floro
lib. IV, cap . 7. (2) Art . Brutus, C, D. ( 3 ) Paganido Gaudenzio De Phil. Rom
. . 25. J. Brucker l. c. S XIII. 304 CAPITOLO pato , e perchè d'altronde è noto
che parlò e scrisse gli Ufficj in istile stoico , e fu iinitatore e lodatore di
Catone, e lo imitò finanche nel suicidio , che è la più ardua di tutte le
imitazioni ( 1 ) ; io credo bene che abbracciasse or l'una, or l'altra senten
za , come gli venne a grado , e la stoica forse più spesso e più fortemente di
tutte . Onoriam breve mente Porcia , figliuola di Catone e moglie di Bru to ,
la quale avversa alle sfrenatezze delle zie e della madre, ed erudita nella
filosofia del padre e del ma rito, non la insegnò già vanamente da qualche cat
tedra per farsi o adulare o deridere , ma la praticò valorosamente nella
educazione de'figliuoli, e nel governo della famiglia, e nella robustezza
virile , e nella custodia de' segreti domestici , e nella fede e nell' amor
maritale, a cui da intrepida stoica sacri ficò volontariamente la vita in guisa
molto crude le ; e questa ultima parte vorremmo poter toglier dalla sua istoria
per non offuscare la chiarezza di tanta lode ( 2) . M. Terenzio Varrone , a
similitudine di Lucullo e di Bruto , gli studi delle lettere e della filosofia
coltivò insieme coi pensieri e con le opere militari e cittadine. Ma veduto il
naufragio della repub blica, e campato per maraviglia dall'ira di Cesare e
dalla proscrizione de' Triumviri , si riparò di buo n'ora, come in un porto ,
nell'ozio delle lettere e della filosofia, e tutto intero s'immerse in questa
beata tranquillità; cosicchè avvennero gli estremi cangiamenti di Roma e la
compiuta ruina della li bertà della dominazione assoluta di Ottaviano , ed egli
nascosto nella sua biblioteca , e intento a com (1) Cicerone ad Att. lib. XII ,
ep. 46. Seneca ep. 95. Plutarco e i citati dinanzi. (2) Plutarco in Bruto et in
Catone Minore. Val. Massiino l . IV, cap. 6. QUARANTESIMOTTAVO 305 za , porre
sempre nuovi libri, che si numerarono fino a qualtrocentonovanta , appena si
avvide di tanti movimenti, e passando la sua lunghissima vita in ogni maniera
di lettere fino all' ultima decrepitez divenne il più dotto ed universale uomo,
che non i Latini solamente, ma i Greci ancora avesser mai conosciuto ; e fu
detto di lui che innumerabili cose avendo lette, era meraviglia come gli fosse
ri masto ozio di scrivere, e che pure lante cose avea scritte, quante appena
può credersi che alcuno ab bia mai lette. Altre lodi si leggon di lui; e noi
ine desimi in questa gran lontananza di età come vo gliamo esaltare la vastità
della sapienza di alcuno , usiam dirlo un Varrone ( 1 ). Ma niuna commenda
zione agguagliò quella di Cicerone, il quale amico ed ammiratore essendo del
valentuomo , conobbe e adunò le opere di lui in quel magnifico elogio. I tuoi
libri, o Varrone, noiperegrinie vagabondi nella nostra città , quasi come
forestieri , ridussero a casa , perchè alfine potessimo chi e dove siamo
conoscere. Tu la età della patria, tu le descrizioni de tempi, tu i diritti
delle cose sagre e de' sacer doti , tu la domestica e la bellica disciplina ,
tu la sede delle regioni e de' luoghi, tu delle cose umane e delle divine i
nomi, i generi, gli ufficj, le cagioni ci palesasti, e la luce grandissima
spargesti ne' no stri poeti e nelle latine lettere e nelle parole; e tu istesso
un vario poema ed elegante per ogni ma niera componesti, e la filosofia in
molti luoghi in cominciasti assai veramente per iscuoterci, mapoco per
ammaestrarci (2) . Nel medesimo dialogo , in cui ( 1 ) Cicerone Acad. Quaest. I
; Tusc. Disp . I , e altrove. Se neca Cons. ad Helviam . Arnobio adv. Gentes
lib. V. S. Agostino De Civ. Dei lib. IV et VI , e altri. V. Popeblount Cens.
cel. Aut .; G. A. Fabrizio Bibl. Lat. tom. I. ( 2) Cicerone Acad. Quaest. lib.
III. BUONAFede. Isi. Fil. Vol. JI. 20 306 CAPITOLO Cicerone loda Lanto
nobilmente il suo amico, gli assegna ancora la difesa della prima Accademia , e
lo colloca nelle parti di Antioco e di Bruto (1). Ove si vede la falsità o
almeno la inesattezza di coloro che lo misero tra gli Stoici ( 2) ; perchè sebbene
se condo il sistema di conciliazione egli potesse amare inolte dottrine sloiche
, ne potea amare ancora di altre scuole, e non dovea dirsi Stoico assolutamen
le. Molto meno era poi da numerarsi tra i dubita tori della mezzana Accademia
sul tenue fondamento d'una sua satira intitolata le Eumenidi, in cui gli uomini
erano accusali d'insensatezza ; e su quel l'altra dottrina sua , che niuna
stranezza venne mai nell'animo agl'infermi deliranti, la quale non fosse
affermata da qualche filosofo, il che molte volte suol dirsi anche da uomini
che certo non sieguon Carneade e Pirrone ( 3). Ma non era giusto per al cun
modo condurlo stoltamente ad accrescere l'ar mento degli Atei, perchè insegnò
molte favole es servi nella religione de' suoi di, che offendeano la dignità e
la natura degl'Iddii imınortali (4) . Impe rocchè egli queste cose insegnando ,
distinse gl'Id dii in favolosi, civili e filosofici; e parve bene che contro
tutti avesse a ridire, e non senza ragione; ma pure affermò che i primi erano
del teatro, secondi della città , e i terzi del mondo ; e mostrò che disputava
contro le favole poetiche, cittadine e filosofiche, non contro gl'Iddii, e
parve che avesse gran voglia di onorare i filosofici, quando fosser purgati
dalle fiuzioni, mentre li disse, i Numi del mondo (5). Di que' tanti libri di
M. Varrone non ri ( 1 ) Cicerone l . c. ( ) L. Cozzando De Mag. Ant. Phil. I.
III. G. A. Fabrizio Bibl. Graec. vol. II . (3) Uezio De la Forblesse de
l'Esprit humain liv. I , ch. 14. (4) S. Agostino De Civ. Dei lib. VI , cap. 5.
( 5 ) S. Agostino I. c . QUARANTESIMOTTAVO 307 mangono altro che i nomi o
alcuni frammenti delle intichità divine ed umane, e della Forma della Fi
losofia , e della Lingua Latina, della vita del Po polo Romano, delle Ebdomade,
de' Poeti, e delle Origini sceniche, e delle Menippee, per le quali fu
cognominato Menippeo e Cinico Romano, e delle Cose rustiche, che sole vennero a
noi salve dall' in giuria del tempo ( 1 ) . Questi furono i più cospicui
Sincretisti roniani, ai quali si potrebbe aggiungere ancor Cicerone, il quale
vagò per varie filosofie, e lentò riconciliazioni di sistemi ; ma perchè amò
con molta parzialità i metodi della seconda Accademia, lo allogheremo tra que'
filosofi romani che si atten nero a certe scuole, e ora amarono i placiti pita
gorici, ora gli aristotelici, ora gli epicurei, ora gli stoici, siccome si è
detto , ora altre guise di greca filosofia . Molta fu veramente la fama della
filosofia pitago rica ; ma fosse colpa sua o d'altrui, sofferse dissipa zioni e
disgrazie che la misero ad oscurità. Tutta volta i Romani udirono qualche
novella di Pitagora , al lorchè nella guerra sannitica persuasi dall'oracolo di
Apollo Pitio a dedicare in celebre luogo della città una statua al più forte e
l'altra al più sapiente deGre ci , l'una innalzarono ad Alcibiade e l'altra a
Pitagora: il che facendo, mostrarono, secondo l'avviso di Pli nio , di non
sapere nè la civile nè la filosofica istoria di Grecia ( 2) . Dopo quella
dedicazione non è meno ria che i Roinani tenessero alcun conto di Pitagora, se
non quando il maggior Catone ascoltò il Pitago rico Tarantino , e nella
medesima età il Calabrese Ennio appard alcune dottrine pitagoriche in quella
terra ove Pitagora avea insegnato , e le sparse nel (1 ) Cicerone Tusc. Disp.
l. I. S. Agostino De Civ. Dei lib. XII, cap . 4 , cap (2 ) Plinio lib . XXXIV,
cap. 6. 308 CAPITOLO suo poema, nel quale ardì sognare che l'anima di Omero era
passata in lui. Ma non persuase di que ste idee nè Catone a cui insegnò le
lettere greche, nè P. Scipione Africano di cui godè la famigliari tà , nè altri
Romani che udirono volentieri i suoi versi eroici e lo tennero sommo Epico
senza voler essere pitagorici ( 1 ) . Io però vorrei che meglio si esaminasse
se un poeta per alquanti versi che sen ton di Pitagorismo possa trasformarsi in
filosofo pi tagorico. Potrebbe parere che questa metempsicosi somigliasse
quella di Omero in Ennio. P. Nigidio Figulo tuttochè fosse riputato vicino alla
univer sale dottrina di Varrone, e fosse senatore e pretore e amico intimo e consigliere
e compagno nei grand affari di Cicerone , che molto lo riverì, come acre
investigatore de' segreti della patura e uomo dot tissimoe santissimo, e come
quello che dopo i no bili Pitagorei polea rinnovare la lor disciplina quasi
estinta, non si sa che persuadesse niuno, e fu stretto a ridurre la sua grande
sapienza fisica e matema tica e astrologica alle indovinazioni de' ladri che
talvolta rubavan le borse de' suoi amici , e a com poner gli oroscopj di
Augusto e del Triumvirato, e a disegnare la rapidità del cielo con gli avvolgi.
menti della ruota del vasajo , donde ottenne il so prannome di Figulo ( 2 ) ;
le quali avventure non so no veramente degne d'un senatore e d'un pretore
pitagorico , ma posson forse mostrare che si pochi ( 1 ) Cicerone pro Murena 14
; Acad. Quaest. I ; De Fin . I , e altrove. Persio Sat. VI. V. Vossio De Hist.
Latinis , e A. Baillet Jugem . ( 2) Cicerone Fragm . de Universitate. S.
Agostino De Civ. Dei lib. V , cap: 3; Ep. fam. lib. IV , ep. 13. Plutarco in
Cicero ne. A. Gellio lib . X , cap. 2 ; lib. XI, cap . 2. Macrobio Saturn. lib.
II, cap. 12; VI, cap, 8. Apulejo in Apolog. Dione lib. XLV. Svetonio in Augusto
94: Lucano Phars. I , 639. V. P. Bayle art. Nigidius. ICO QUARANTESIMOTTAVO 309
LER affari di scuola esercitaron questo Nigidio , ed ebbe tanto vuoto nella
vita, che gli storici ainici della sua gloria pensarono bene a riempierlo di
favole. Non è questa la prima nè l'ultima panegirica istoria colpevole di
supplementi favolosi. A confermazione della tenue fortuna di questo Pitagorico
fu scritto, che avendo egli composti i libri degli Animali, de gli Uomini ,
delle Viscere, delle Vittime, degli Au gurj, de' Venti , della Slera grecanica
, e di altri moltiplici argomenti, per la cui abbondanza fu quasi eguale a
Varrone, ove però le scritture di questo si divulgarono e si lessero assai, le
Nigidiane per la sottigliezza e per la oscurità giacquero abbando nate; e
l'autore poi avendo seguite le parti di Pom peo , per timore di Cesare morì in
esilio volonta rio. Poco appresso Anassilao Larisseo professò il Pitagorismo,
ed esplorando i segreti della natura per la medicina e per uso di certe sue
magiche me raviglie, e con le sue scoperte armirabili venendo in sospetto di
magia e forse uccidendo i malati più che gli altri medici con meno segreti, fu
da Augu sto condannato all'esilio ( 1 ) . La filosofia pitagorica ebbe adunque
assai avversa fortuna tra i Romani in questa età. La peripatetica ottenne
qualche mi gliore , ma non molto illustre accoglienza; perchè sebbene Catone e
Crasso e Pisone e Cicerone istes so non abborissero i peripatetici uomini , e
nelle memorie di questi tempi sieno ricordati con onore Andronico Rodiano e
Demetrio e Alessandro An tiocheno e Stasea Napoletano e Cratippo Mitileneo
maestro del figliuolo di Cicerone e di altri nobili giovani Romani; tuttavolta
per le narrate disgrazie e depravazioni degli aristotelici libri , o per quali
In : TIK ita pi V Ci I Jedi ( 1 ) Eusebio in Chr . Plinio lib . XIX ,cap . 1 ;
XXVIII , cap. 2 ; XXXV , cap . 15. Irenco lib . I , cap: 7. Epifanio Haer. 34.
V. Vos . sio De Idol . lib . I , 6 ; Fabrizio Bibl. Graec. vol. I. 310 CAPITOLO
che fossero altre cagioni, il nome di Aristotele fuori di molto pochi era , per
testimonianza di Cicerone, ignoto ai filosofi de' suoi giorni ( 1 ) . Ma gli
Epicurei quantunque spesso ripresi e più spesso calunniati e singolarmente
flagellati da quella sottile eloquenza di Cicerone, che sapea persuadere
finanche il ' falso quando volea, pure in onta di tanto travaglio videro assai
Romani di nome e di opere illustri non arrossirsi di essere Epicurei. Lucio
della tanto antica e nobile famiglia Torquata , e G.Vel lejo sostenitore delle
ragioni di Epicuro nel dialo go della Natura degli Iddii di Cicerone, e
principe degli Epicurei che allora erano in Roma, eC. Tre bazio , como di somma
scienza nel Diritto civile , a cui Cicerone intitold la Topica , e L. Papirio
Pe to , egregio oratore e soldalo, e L. Saufeio e T. Al buzio e C. Amafanio , e
più altri numerati da Pie tro Gassendo , furono nobilissimi Epicurei ( 2) . Ma
C. Cassio e T. Pomponio Attico per singolarità di fama e d'ingegno emersero
splendidamente dalla folla degli altri. Il primo fu quel prode assassino di
Cesare, che nell'ardor dell' assalto ad uno de' con giurati che dietro a lui si
aslenza dal ferire, disse: Feriscilo anche per mezzo alle mie viscere ( 3).
Egli vincitore de' Parti e soldalo di primo valore e som mo Epicureo, parld
secondochè l'émpito militare e le disperazioni della sua scuola lo animavano, e
per gli stessi principj nella perdita della battaglia e della libertà si fece
uccidere, e si uccise egli mede simo con quello stesso pugnale con cui avea
ferito Cesare , e fu acclamato e pianto come l'ultimo de' Romani (4) . Alcune
avventure filosofiche di que ( i ) Cicerone Topic.Praef. V. P. Bayle art.
Cratippus; J. Bru cker De Phil. Rom. & XXIV, XXV. (2) De Vila et mor.
Epicuri lib. II , cap. 6 . (3) Aurelio Vittore De Vir . III. (4 ) Plutarco in
Caesare, in M. Antonio , in Bruto . QUARANTESIMOTTAVO 311 st'uomo domandano
qualche riflessione. Bruto vide uno spettro d'inusitata grandezza,einterrogato
chi fosse , rispose : Io sono il tuo mal Genio, o Bruto : tu mi rivedrai a
Filippi; ove lo rivide e fu vinto. Di questa apparizione ebbe discorso con
Cassio, il qual disse, non esser credibile che vi fossero Genj , ed esser
nostre immaginazioni; e quando pure vi fossero, nè aver figure di uomini, nè
forza che giun ga a noi. Ma sarebbe pur bene che fossero, aggiun se, acciocchè
noi condottieri di bellissimi e santis simi fatti andassimo forti non solamente
per fanti e cavalli e navi, ma per la protezion degl' Iddii ( 1 ). Bruto si
consolo per questo discorso. Ma Cassio medesimo ebbe la sua visione , e parve
che conso latore degli altri non sapesse consolare sè stesso. Nella giornata di
Filippi vide G. Cesare in sem biante sovrumano e minaccioso che a tutta bri
glia veniva a combattere contro lui , ed egli spa ventato disse: Che ci rimane
più oltre, se è stato poco averlo ucciso ? ( 2) Di lui è anche raccontato che
nel giorno della uccisione di Cesare invocò l'a nima e l'ajuto del grande
Pompeo ( 3) , e che rive dendo insieme con Bruto le truppe romane , disse loro
: GlIddii, che prendon cura delle guerre giu ste, vi rendan premio di tanta
fede. Noi abbiam prese tutte le giuste misure : il rimanente si aspetta dalla
vostra virtù e dagl Iddii favorevoli. Se essi vorranno, noi vi ricompenseremo
della grand'opera di questa vitloria (4). Le siffatte visioni e preghiere
divote non parvero proprie d’un Epicureo, il quale se non affatto rifiutava i
fantasiuni, certo non.co noscea gli animi immortali e la provvidenza de ( 1 )
Plutarco in Brulo. ( 2) Val. Massimo lib. I , сар. ult .' ( 3 ) Plutarco in
Caesare et in Bruto . (4) Appiano Aless. Bell. Civ. lib. IV. 312 CAPITOLO
gl'Iddii ; onde quelle apparizioni e invocazioni o vo glion tenersi per favole
del popolo e degli storici, o per fanatismi di Cassio, il quale agitato dalla
gran dezza de' casi lasciò trasportarsi nelle idee e nelle parole comuni, e si
scordò di essere Epicureo (1). Io non dissento da questi pensieri; maquanto
agl'Id dii e alla provvidenza io desidero ehe i miei leg gitori si ricordino di
quanto abbiam disputato in questo argomento esaminando la teologia epicurea con
quella diligenza che abbiam saputo maggiore; e non diffido che le preghiere di
Cassio possano porgere alcun nuovo indizio della provvidenza non affatto
distrutta nel sistema Epicureo. Tito Pomponio Attico fu il più sincero e ilpiù
costante ornamento della scuola epicurea ; e se Cas sio ed altri con lui troppo
s'immersero nel comore e nel fumo di Roma, e deviarono dal piacere e dalla
felicità che erano i fini dell' Epicureismo, egli fer mamente rivolto a queste
mire, già prima nelle tur bazioni di Silla si riparò ad Atene, e ascoltando Fe
dro e Zenone Sidonio visse tranquillamente negli ozj e negli orti d'Epicuro, e
con la gravità ed uma nità dell'ingegno ottenne tanta benevolenza, che dai
Greci ebbe statue e dai Romani il hel scprannome di Attico; indi ritornato alla
patria , si allontand dagli onori offerti e da tutti gli affari civili, e niuna
parte prendendo nelle contese de' potenti, e ser bandosi amico de litiganti, e
usando fede con tutti e liberalità e cortesia , non si sa ben dire se più fosse
amato o riverito ; e vivendo a sè medesimo e non per ostentazione d'ingegno ,
ma per governo della vita filosofando , campo dalla proscrizione di tanti
cittadini , e caro ai vincitori menò vita riposata e luminosa ; alla quale però
nè il suo genero Agrip ( 1 ) P. Bayle art. Cassius Longinus ( Cajus) Primo.
QUARANTESIMOTTAVO 313 pa , nè il progenero Tiberio , nè il pronipote Druso
dieder tanto splendore quanto la intima amicizia di Cicerone, le cuiLettere e i
libri della Vecchiezza e delle Leggi lo consecrarono alla immortalità ( 1 ) .
In questa beatitudine di vita giunto a grave età fu preso dalla dissenteria e
dalla febbre. Ubbidì prima ai medici inutilmente, e poisperimentata l'ostina
zione del male , alla presenza di alcuni amici suoi, Voi siete buoni testimonj,
disse, della cura e dili genza mia nel difendere in questo tempo la mia sa nità
. Io ho dunque soddisfatto al debito mio . Ri mane ora che io provveda a me
stesso. Voglio che voi il sappiate. Imperocchè ho statuito di non vo lere più
oltre alimentare il mio male; perchè in questi giorni truendo innanzi la vita
col cibo, ho accresciuto i dolori miei senza speranza di sanità. Per la qual
cosa io prima vi domando che il mio consiglio approviate ; indi che non
vogliate sfor zarvi a dissuadermi. Dette queste cose con tale co stanza di voce
e di vollo che parea non uscisse dalla vita , ma da una casa per passare ad
un'al tra , gli amici piansero e pregarono, ed egli le la grime e le preghiere
compresse con un ferino silen zio. Così avendo digiunato due di , la febbre
cessd ; inè mutò proposito per questo , ed essendo a mezza via , non volle
tornare indietro e andò oltre digiu nando, e morì ragionatamente secondo i
principi di Epicuro, e non già come Cassio impetuosamen te e a mal tempo.
Questo inumano errore di moda e di scuola fu in Attico error di ragione ee di
gran d'uomo (2 ) Tito Lucrezio Caro , inferiore certo ad Attico e a quegli
altri nella dignità della vita , ma nella poe ( 1 ) . Cicerone De Fin . e nelle
Epistole ad Attico e altrove. C. Ni pote in Artico. Seneca Ep. 21 . ( 2 ) C.
Nipote I. c. 314 CAPITOLO lica gloria de componimenti epicurei maggiore di
quanti fiorirono in quella scuola. Nella elà di Cice rone e di Attico vide
anch'egli Atene, e ascoltò Fe dro e Zenone e visse negli Orti di Epicuro, e per
mostrare a Roma i suoi progressi nella guisa più dilettevole , scrisse in esametri
latini sei libri della Natura delle Cose , ne' quali fu delto non essere
meraviglia che profondesse tutte le empietà e le pazzie di Epicuro , perciocchè
gli avea composti ne' corti intervalli di ragione che gli rimaneano al quanto
liberi dalla frenesia contratta per certa be vanda amorosa ( 1 ) . Ma noi
invitiamo ancora qui i leggitori nostri a volersi ridurre a memoria le ra gioni
altrove disputate contro i malevoli di Epicu ro , le quali secondo la nostra
estimazione posson molto valere contro gli oppressori di Lucrezio. Non sarebbe
difficile una dissertazione, giacchè le dis sertazioni sembrano facilissimi
affari, ove si pro vasse che Lucrezio non fu il più pazzo de' poeti, e non
sarebbe difficile un'altra in cui si mostrasse che molti filosofi furon più
pazzi di questo poeta. Ma non so se queste dissertazioni con tutta la biz
zarria de'loro titoli, che sogliono pur essere di qual che raccomandazione,
potrebbono riuscir dileltose a chi le componesse e a chi le ascoltasse. Imperoc
chè sarebbe necessità recitar molti di que' versi epicurei che secondo il
ruvido carattere della scuola non sono i più molli e i più eleganti, e non sono
poi tanto chiari da mettervi fondamento sicuro. Noi adunque, senza pretendere
in dissertazioni, direm così per passaggio,come gli fu dato a colpa di vio lata
religione ch'egli attribuisse alla natura degl'Id dii il godimento di somma
pace e la divisione dai ( 1 ) Eusebio in Chr. V. G. A. Fabrizio Bibl. Lat. vol.
I; P. Bayle art. Lucrece. QUARANTESIMO STAVO 315 dolori e dai pericoli nostri,
e che insegnasse non aver essi bisogno di noi, nè esser presi da benevo lenza o
da ira ; e che giacendo la vita degli uo mini sotto grave religione, la quale
dal cielo mo strava il capo con orribil risguardo soprastante ai mortali, un
uom greco fu il primo che ardì levar gli occhi contro di lei e resistere. Lui
nè la fama degl'Iddii, nè i fulmini nè i minacciosi romori del cielo
raffrenarono ; che anzi l'acre virtù del suo anino s'irritò , e ruppe le
strette porte della natu ra , e con la vivida forza della mente vinse e tras
corse oltre i confini del mondo, e misurò tutto l'Im menso; e c'insegnò quello
che può nascere e quello che non può, e quali sieno le potestà e i termini
fermi delle cose. Onde la religione a sua vicenda è calpestata dai nostri
piedi, e la vittoria ci aggua glia al cielo ( 1 ). Ma si è già detto abbastanza
al irove che le divine tranquillità possono avere nel sistema di Epicuro sensi
non affatto distrutlori di ogni provvidenza ; e veranente lasciando pure stare
il Deslandes, che fa una pielosa predica a Lucrezio per questo disprezzo suo
della religione (2), è ben molto che Pietro Bayle (3) non abbia saputo ve dere
che la religione, contro cui Lucrezio usa qui tanto disprezzo, non è altro che
quella superstizio ne che insieme con altre scellerate opere insegnò ai Greci
le vittime umane; onde egli dopo la descri zione d'Ifigenia all' altare
conchiude : che tanto di mali potè la religione persuadere. Io certo non ar
direi affermare che Lucrezio insegnasse la Provvi denza ove scrisse , una certa
forza nascosta strito lare le cose umane , e sembrare che conculchi e 1 ( 1 )
T. Lucrezio De Rer Nat. lib. I. ( 2) Deslandes Hist. De la Phil. tom. III. ( 3)
P. Bayle I. c . E. 316 CAPITOLO prenda in ludibrio i fasci e le scuri ( 1 ) ; o
dove in vocò V'enere origine e regolatrice di tutta la na tura , o dove implorò
l'ajuto della governante For tuna nei disordini e nelle ruine del mondo ( 2 ) .
Ma non ardirei pure accusarlo di Ateismo (3 ), e im porgli più errori di quelli
che secondo la sentenza nostra abbiamo veduti nel suo maestro Epicuro, di cui
fu seguace tanto rigido , che permettendosi il suicidio in quella filosofia,
egli neusò a suo agio, e nel settecentesimoterzo anno di Roma, quaranta
quattresimo di sua età, si uccise di propria mano. È stata opinione che
C.Giulio Cesare, uomo di estraordinaria forza d'ingegno e di cuore, sebbene
potendo ottener' somma gloria dalle lettere e dalla filosofia, volesse averla
piuttosto dalla politica e dalle arme, tuttavia non isdegnasse alcuna volta di
starsi tra i filosofi, e gli piacesse di essere Epicureo. Im perocchè dicono
che parlando al senato non dubitò di affermare ardimentosamente , di là dalla
morte non esservi tormento nè gaudio (4) ; e non ebbe poi timore per voglia e
comodo suo di tagliar boschi sacri e di seguir le sue imprese contro gli avvisi
de sacerdoti e della religione (5) . Ma a dir vero , que sti non sono i
caratteri propri dell'Epicureismo : e poi si potrebbe dubitare se Cesare così
parlasse al senato, come Sallustio lo fece parlare ; e se così ta gliasse gli
alberi sacri , come Lucano con la poetica licenza racconto; e date eziandio per
vere queste leggende, è molto ben noto che anche Cicerone, usando della
rettorica volubilità , predicò talvolta pubblicamente la mortalità degli animi
senza essere ( 1 ) De Rerum Nat. lib . V, 1225. V. Rondel Vila Epicuri. ( 2) De
Rer. Nat. lib I ; V, 105. (3) V.G.F. Reimanno Hist. Ath . cap. XXXVII , $ 5. (
4 ) Sallustio De Bello Catilivario 51. ( 5) Lucano Phars. lib . III. Svetonio
in Cesare 59, 81 . QUARANTESIMOTTAVO 317 Epicureo, anzi senza recarsi ascrupolo
di predicarne la immortalità in altre pubbliche orazioni , ove il bi sogno
della causa lo domandasse ( 1 ) . Così gli ora tori romani costumavano , e agli
stessi metodi Ce sare ubbidi ; e così pur fece nell'affare de'presagi e della
religione, mentre se è scritto che talora tras scurò le romane superstizioni, è
scritto ancora che spesse volte le uso , e parve che le avesse per ve re ( 2) .
Molto meno io poi ardirei imporre a Cesare l'Epicureismo, perchè fu accusato di
osceni amori con Nicomede re di Bitinia , e perchè molte nobili donne romane e
alcune reine corruppe, e perchè fu detto la moglie di tutti i mariti e il
marito di tutte le mogli ( 3 ), e perchè sostenne assai altre infauna zioni di
lascivo costume ; le quali oltrechè possono essere alterate dalla malevolenza e
dalla effrenatezza popolare di Roma , che le lodi e i trionfi de gran d'uomini
solea contaminare con le satiriche licenze, non posson poi essere argomenti di
doltrine epicu ree, giacchè nè gli Epicurei professavano questa dis solutezza,
nè la corruzion de costumi è buon argo mento per la corruzione delle massime; e
siccome non sarebbe buon discorso dai regolati costumi di Cassio e di Attico
didurre che non erano Epicurei, così non sarebbe pure conchiuder che Cesare era
per la sregolatezza de'suoi. Piuttosto si potrebbe rac cogliere alcun indizio
di Epicureismo dalla replicata avversione che Cesare mostrò verso i costumi di
Ca tone , contro cui scrisse due libri intitolati gli An ticaloni (4). Gli
Epicurei erano i giurati nimici de ( 1 ) Cicerone Orat. pro Cluentio et pro
Rabirio. ( 2) Plutarco e Svetonio in Caesare. Floro lib. IV, cap. 2. Dione lib
. XLII. V. P. Bayle art. César. ( 3 ) Svetonio in Caesare 49 e segg. ( 4 ) Svetonio
I. c. Plutarco in Cicerone V. Adriano Baillet Des Satires personelles , .ou des
Anti, Entr. I , S 1 . 7 318 CAPITOLO gli Stoici , e Catone era Stoico grande.
Pare adun que che Cesare non potesse prorompere a tanta av versità contro tutti
i costumi di Catone senza es sere Epicureo. Vaglia questo come pnò il meglio.
Ma qualunque fosse la setta di Cesare, certamente il solo pensiere di
correggere il Calendario Romano disordinato dalla negligenza de' sacerdoti, e
l'Anno Giuliano, ch'egli diede a tanta parte di mondo, mo strano in loi genio
filosofico e gasto di astronomnia. Quella versatile eloquenza di cui gli
avvocati e i pubblici parlatori di Roma usavano nella varietà e lalora nella
contraddizione delle cause, fu la ori gine primaria dell' applauso in cui venne
tra i Ro mani la filosofia della nuova Accademia ; la quale insegnando a
disputare per tutte le parti, e colo rendo di probabilità il pro e il contro, e
somınini strando argomenti per tutti i casi, era molto oppor tuna a quella
eloquenza forense che potea dirsi la grande e forse la prima via delle soinme
fortune. Sembra adunque ben detto che la stoica filosofia per la gravità degli
uffizj e de' principj sociali fu tra i Romani la disciplina de' giudici, de'
legislatori e de' giureprudenti; la epicurea fu lo studio quasi domestico e
privato di uomini desiderosi di vivere Jictamente; la pitagorica e
l'aristotelica fu la cura di pochi; la platonica confusa alla stoica si riputò
degna de' sacerdoti, e l'accademica fu la delizia de causidici e degli oratori;
siccome, a dir vero, pare che fusse pure in altre terre e in altre età , e che
sia ancor nella nostra . È però mestieri avvertire che parlando di accademica
filosofia , non vuole inten dersi un pirronismo effrenato , che forse non ebbe
esistenza salvo ne' capricci di uomini esageratori ; ma un temperato genere di
filosofare per cui si esa minano i placiti di tutte le scuole , e si sceglie il
buono , e si cerca il vero , e si crede di trovar solo QUARANTESIMOTTAVO 319 il
probabile ,e secondo questo si governa la vita . Cicerone fu il ipaggior lume
di questa filosofia tra i Romani ; il quale con la forza d'una singolare elo
quenza e con l'abbondanza della dottrina e con la varietà de' libri così la
nobilitò egli solo , che gli altri furon dimenticati. Ma egli sarà ben tale da
po ter valere per tutti. Mentre io ora mi accosto a que sto sommo maestro del
nobil parlare , e vedo che la eccellenza della sua lode e la grandezza degli ob
bligbi nostri domanderebbono eloquenza pari alla sua , sento vergogna della mia
lontananza da quel sublime esemplare, e volentieri sfuggirei per ros sore il
difficile incontro, se la vergogna non fosse vinta dalla necessità. CAPITOLO
XLIX. re , 0 Della Filosofia di M. Tullio Cicerone. M. Tullio Cicerone Arpinate
, o che suo padre fosse purgatore di panni e i suoi avi cultori di ceci , o che
la sua gente avesse origine dai che nascesse onorato dagli oracoli e dai
prodigj, o all' uso comune nel silenzio degl' Iddii e nell'ordine della natura
, siccome variamente si raccontò ( 1 ) ; niente più e niente meno fu il
medesimo uomo non molto cospicuo tra i soldati , non affatto pic ciolo tra i
filosofi, grande tra i maestrati e tra i consoli, massimo tra gli oratori.
Nell'adolescenza e appresso nella età anche matura amò i poeti e scrisse versi,
de' quali rimangon frammenti biasi mati più del dovere , e coltivò le lettere
greche e ( 1 ) Plutarco in Ciceroue. Dione lib. XLVI. V. G. A. Fabrizio Bibl.
Lat. vol. II. 320 CAPITOLO la eloquenza ( 1 ) . Cresciuto. si accostó ai
filosofi. Ascoltỏ gli Epicurei per disprezzarli allora e dap poi , senza averli
forse intesi. Conversò con gli Stoici e coi Peripatetici , e apprese i luoghi e
i fonti del disputare , e altre loro dottrine non ab borri: ma singolarmente
coltivo gli Accademici per amore di quella versatile e forense eloquenza di cui
abbiam detto ( 2) . Su questi fondamenti, con quel buon metodo non inteso dai
nostri pedanti, appog. giò e poi confermò viemaggiormente la sua arle oratoria.
Presa la toga virile si attenne ai giore consulti ( 3) . Militò un poco nella
guerra Marsi cana , e venuta la pace ritornò molto volentieri alle lettere .
Visse dimesticamente con Diodoro stoi co eruditissimo , frequentò Molone
oratore Rodia no , e Ortensio , che era il primo parlatore di Ro ma : non
trascurò fino di apprender le più gen tili eleganze del dire da Cornelia , da
Lelia e da altre dame romane, colà imparando eloquenza ove altri ora sogliono
disimpararla: non fu giorno che non usasse nuove diligenze erudite , e non
decla masse e disputasse ora con parole latine , ora con greche. Trasse nel
vulgare di Roma alcune scrit lure di Protagora e di Senofonte e altre di
Platone, e singolarmente il Timeo , di cui ci rimane una parte , per la quale
conosciamo che Platone po trebbe sopportarsi tradotto da Cicerone, laddove non
si può nelle versioni di altri. Ci rimangono ( 1 ) Cicero pro Archia I.
Plutarco l . c. Svetonio de Cl. Ret . 2 . Vossio De Poel. Lal. V. Andrea Scollo
Cicero a calumniis vin . dicatus . ( 2) Cicerone De Off.lib . I , 1 ; II , 1 ;
Ep. fam . lib . XIII, ep . I et 16 ; Paradox. I ; De Or. lib. III , 28 ; Tusc.
Disp. lib . II , 2 ; in Bruto 90 ; De Nat. Deor. e altrove. Plutarco I. c. (3 )
Cicerone in alcuni luoghi citati, e De Fio. lib . V , el De Div. II; e vedi i
Frammenti, Plutarco 1. c. Quintiliano l. 1 , 2; III, 1 ; X, 5. S. Agostino De
Civ. Dei lib . V, cap. 8. QUARANTESI MONONO 321 pure alcuni frammenti di sue
traduzioni diOmero, le quali non ci nojano come quelle degl' interpreti nostri
( 1 ). Istruito da tante esercitazioni e animato da questi presidj , nel suo
venticinquesimo anno , che era il seicento settantaunesimo di Roma ( 2) non
dubitò di mostrarsi nella luce del Foro, e agitd la sua prima causa, che alcuni
dicono esser quella in difesa di Sesto Roscio Amerino , contro la vo lontà di
Silla , e ne uscì vincitore con tanta ammi razione , che niuna altra causa
parve poi superiore al suo patrocinio (3). Ma poichè Silla raffrenatore di
Mitridate e domatore di Mario era in quei giorni dittatore e quasi signore
assoluto delle vite e delle cose romane , fu voce che Cicerone temendo la ira
di quel fiero autore delle proscrizioni, rifuggisse in Grecia (4 ). Altri
pensarono che si desse a viaggiare per ricuperare la sanità afflitta per troppa
veemen za nella declamazione (5) . Comunque fosse , visitò Atene e molto usd
col famoso Sincretista Antioco, e visse congiunto a Pomponio Attico con quella
amicizia che durò tra loro fino alla morte. In que sto viaggio verisimilmente
fece iniziarsi nei misteri Eleusini, de' quali così parld come se la loro so
stanza fosse l'unità d'Iddio e la immortalità degli animi (6) . Tale fu
l'avviso nostro nella esposizione del sistema arcano d'Egitto , e tale è del
dotto Warburton e del Middleton, il che molto consola ( 1 ) Cicerone in alcuni
luoghi citati, e De Fin. I. V, e De Div. II; e vedii Frammenti. Plutarco I. c.
Quintiliano I. I, 2 ; III, 1; X, 5. S. Agostino De Civ. Dei lib. V, cap. 8. (2)
V. Middleton Vita Cicer. lib . I. ( 3) Cicerone in Bruto 91. Middleton I. c .
(4) Plutarco l . c. (5) Cicerone in Bruto. Cicerone De Nat. Deor. lib. I, 42 ;
De Leg. lib. II, 14 ; Tusc. Disp. lib. I , 15. BUONAFEDE. Ist. Filos. Vol. II .
21 322 CAPITOLO le nostre conghietture ( 1 ) . Da Atene navigò nell'A sia , e
conversò cogli oratori e coi filosofi di quelle terre, e sopra tutti con
Possidonio; e declamo in greco nel mezzo a nobil frequenza con tale fecondità,
che i greci oratori piansero il loro destino, per cui non solamente le fortune,
ma le arti e le scienze dalla Grecia trapassavano a Roma ( 2). Silla morì, e Ci
cerone restaurato nella sanità ritornò alla patria , ove fu prima negletto come
un grecolo scolastico; ma poi eguagliando e spesso vincendo la gloria di Cotta
e di Ortensio oratori lodatissimi di quella età , rimosse Roma dalla sua
negligenza , e ottenne prestamente la questura ed ebbe in sorte la Sicilia, ove
avendo ricevuto lodi e onori inusitati , s'im maginò che tutta Roma fosse piena
della sua glo ria. Masbarcato a Pozzuolo in tempo che grande era il concorso di
molti uomini romani , ebbe il dispetto di vedersi ignoto, e conchiuse adirato
che iRomani aveano le orecchie sorde e gli occhi acuti. Dopo questa
mortificazione, grave di vero in uomo perduto nella fantasia della gloria ,
egli deliberò di battere assiduamente il Foro e i pubblici luoghi, e starsi tuttodì
presente a quegli occhi acuti che dif finivano le sorti de' cittadini ambiziosi
( 3) . Agitò cause nobilissime, e fu edile, pretore e console non meno per
favore degli ottimati , che per giudizio del popolo ( 4) . Egli ricevè la
repubblica piena di sollecitudini,e non vi erano mali che i buoni non temessero
e i ribaldi non aspettassero. I tribuni e Catilina e i suoi compagni teneano
consigli di ruina. Ma Cicerone li compresse e salvò la repubblica (5). ( 1)
Warburton Della divina Legazione di Mosè vol. I. Middle ton I. c. (2) Plutarco
I. c. ( 3) Div. in Verr. I , et lib . II , 2 ; pro Planco 26. Plutarco i . c. (
4) Cicerone in più luogbi, e Plutarco l. c. (5) Sallustio De Bello Calilinario
e gli altri Storici Romaui. QUARANTESIMONONO 323 ze Tire! Per la grandezza
dell'opera venne a somma grazia de' patrizi e del popolo, e fu acclamato padre
della patria ; e poco appresso vinto dalla invidia e dalla frode di P. Clodio,
fu spinto in esilio, e le sue ville incendiate e le sue case con ogni sostanza
arse e saccheggiate. Andò errando con animo assai abbat tulo per l'Italia e per
la Grecia , nel che mostrd di essere più oratore che filosofo; finanche richia
mato per pubblico consenso , e restaurati i suoi danni per sentenza del senato
, ritornò a Roma , incontrato da tutte le città , e portato, siccom'e gli
raccontò, sulle spalle di tutta l'Italia ( 1 ) . Ebbe in provincia la Cilicia ,
e parve che volesse eser citar nella guerra le arti della pace. Ma come si
accese la discordia civile, egli seguendo le parti di Pompeo , e pretendendo in
valor militare, dopo la sconfitta farsalica si pentì d'esser soldato e ricuso
di guerreggiare più oltre; cosicchè il giovin Pom peo sdegnato di quella
codardia , lo avrebbe uc ciso se Čatone non lo campava (2) . Venne poi a riconciliazione
con Cesare, e nella mutazione della repubblica , che assai gli gravava
nell'animo, si ri volse alle lettere e alla filosofia , e istruì nobili gio
vani romani , e leggendo e scrivendo libri passò la maggior parte de' suoi
giorni nella dolcezza degli studj e nei silenzi della sua villa
Tusculana.Ritorno anche ad Atene per alleggerimento di noja e per la memoria
delle passate esercitazioni. In questo spazio ripudid Terenzia, e mend in
moglie una ricca donzella, e pianse puerilmente la morte di Tullio la , e
ripudid la nuova moglie perchè non volle 702 ber che V. i luoghi di Cicerone
presso Francesco Fabrizio nella Vita di Cicerone. ( 1 ) Plutarco I. c. et in
Caesare. Dione lib . XXXVIII. Vellejo lib . 11. Cicerone Or. pro Domo sua ct
post Rcd. ad Quir, et post Red . ad Sen. e altrove. (2) Plutarco lic. 1 334
CAPITOLO pianger con lui ; nelle quali avventure fu accusato di amori sozzi é
ridicoli, e di animo debole per temperamento o per anni ( 1 ) . Con tutti
questi do mestici fastidj avrebbe potuto esser felice, se avesse perseverato
nell' amore del letterato ozio e dellafilosofia. Ma dopo l ' assassinamento di
Cesare gli piacque di rientrare nella tempesta civile , e seb · bene non fosse
tra i congiurati , si attenne al loro portito, e M. Antonio già suo pernico
irritò mag giormente con le Filippiche. Dopo varie vicende si compose il
Triumvirato, e Cicerone ne fa la vit tima più sacra e più pianta da Roma , già
ridotta a pochi, e da tutta la posterità. Egli poichè ebbe udita la fama della
proscrizione, fuggì prima al mare e s'imbarcò con venti contrarj , onde presa
terra a Circejo, tra molti pensieri niuno piacendogli quanto la morte , disegno
di recarsi a Roma e uccidersi nella casa istessa di Cesare per versare sopra
l'in grato la vendetta del suo sangue. Indi persuaso da nuovi pensieri navigò
ancora e prese pur terra,e nojato del mare e della vita , lo morrò , disse , in
quella patria che spesse volte'ho conservata ; e non morendo pur questa volta,
si adagi ) e dormà nella sua villa Formiana. Mentre i suoi domestici spa
ventati dal romor de' soldati lo guidavano a forza verso il mare, apparvero i
carnefici, contro cui i servi si prepararono a combattere. Cicerone co mandd
che stessero: guardò con fermo occhio gli assassini e singolarmente il lor condottiere
Popilio Lena, che reo di parricidio era stato difeso e salvato da lui : sporse
dalla letlica il capo, e, Fale, ( 1 ) Cicerone Tusc. Disp. lib. I, 1; De Off.
lib . II, 1, 2 ; e in più Lettere ad Allico e ai suoi amici. Plutarco I. c. V.
l'Orazione al tribuita a Sallustio. — Donato ( in VI Eneid. ) accomoda a Cice
rone quel verso diVirgilio: Hic thalamos invasit Natac velitos que hymeneos. V.
P. Bayle art . Tullie , 0 . QUARANTESIMONONO 325 disse , l'opera' vostra , e
quello prendelo , di che avete bisogno : l'ingralo " Popilio con
parricidio maggiore del primo gli recise il capo e le mani , e recò l'iniquo
fardello ad Antonio, il quale con gran festa affisse su i rostri quel capo
sublime e onorato e quelle mani benefiche, spettacolo miserabile e argomento di
pianto ai buoni Romani e di trastullo agli schiavi, ai traditori e ai tiranni (
1 ) . Nell'anno di Roma settecendecimo e di Cicerone sessanta qualtresimo
avvenne questa tragedia , in cui si vide la morte di Cicerone e della
repubblica. Daquesto tenore distudj e di vita non solamente si può conoscere
che Cicerone era pieno d'un de siderio smoderato di gloria , che lo rendea
forte e magnanimo nella buona sorte e timoroso e pian gente nella disgrazia
(onde Cristina di Svezia, con una regia libertà che sarebbe licenza in uomini
pri vati , usava dire, Cicerone essere il solo poltrone che fosse capace di
grandi cose ); ma si pud an cora scorgere facilmente che il sommo fine poli
tico di Cicerone fu l'acquisto delle maggiori for tune nella repubblica : che due
essendo i mezzi per giungervi, la scienza militare e la oratoria , e co
noscendo egli di valer poco nella prima , comechè molto si tormentasse per
giungervi , si attenne vi gorosamente alla seconda ; e che egli avendo sen
tenza, niuno essere oratore perfetto il quale non abbiascienza di tutte le
grandi cose, vago per qua Junque facoltà, e sopra tutto per le opinioni di ogni
filosofia, e tutto questo adunamento di dottrine in dirizzo al suo desiderio di
essere oratore perfet to ( 2). Questo studio è palese nelle sue opere, le ( 1 )
T. Livio Epit. 121. Plutarco in Cicerone et in Antonio. Sve. tonio in Augusto.
Vellejo II ,8 , 65 , 66.Dione lib. XLVII. Ap piano lib. IV . Seneca Súas. I et
VI. V. Massiino lib. V, 3. Floro PADOV ,6. (2) Cicerone De Or. lib. I , 6; II ,
2 . 326 CAPITCLO quali a ragionatori severi appariscono più eloquenti che
filosofiche, e mostrano maggior cura del bel dire che del corretto pensare.
Cicerone adunque sempre intento alla eloquenza e sempre caldo d'una
immaginazione vivace e feconda e d'una voglia ine sausta di meraviglie
rettoriche, e sempre frettoloso per la moltitudine dei gra rissimi affari,
trascorse e quasi sfiorò le nozioni filosofiche, e divenne gran dissimo nel
dipingere , nell'adornare e nel persua dere; ma nel vigore del discorso e del
giudizio e nelle sottili distinzioni del vero e del falso parve che le più
volte l'oratore fosse smisuratamente più grande del filosofo. Gli è però vero
che nel silen zio delle lettere forensi e senatorie, e nell'ingenuo ozio in cui
la usurpazione di pochi lasciava i grandi uomini di Roma, Cicerone ottenne
dalla disgrazia questa utilità, che riposatamente e liberamente me dità e
scrisse argomenti filosofici ( i ) , e massima mente si esercitò nella parte
teologica e morale cui appartengono i libri notissimi della Natura degl'Id dii,
della Divinazione, del Fato, del Sogno di Sci pione , dei Fini, della
Vecchiezza, dell'Amicizia , delle Leggi, degli Uffizj, le Disputazioni Tuscula
ne, i Paradossi Stoici e le Quistioni Accademiche; nelle quali si argomentd
particolarmente a distrug gere i greci sistemi alla maniera di Carneade, e pa
lesò il suo. Coopose ancora l'Ortensio ossia l'Am monizione alla Filosofia, e i
libri della Repubbli ca , che sono perduti ( 2). Ma per quanto ozio egli avesse
e per quanto meditasse, non seppe mai di vezzarsi dall'esagerato linguaggio
oratorio, e di lui usd pomposamente nella esposizione de sistemi e delle
ragioni filosofiche; e poi vi aggiunse i suoi ( 1 ) Cicerone De Off. lib. II, 1
, 2 . ( 2) Cicerone ne fa memoria, De Fin. I. I ; De Div. I. II ; Tusc. Disp.
lib. III. S. Agostino De Civ. Dei e Lattanzio in più luoghi. QUARANTESIMONONO
327 amori e i suoi odj per certe scuole , e questi an cora rettoricamente
amplifico ; e per giunta di am biguità gli piacquero le platoniche forme de'
dialo ghi e le accademiche dispute e le confutazioni per ogni parte e
gl'inclinamenti ora ad un lato, ora ad un altro; donde risultarono equivoci e
dubbj e opi nioni diverse intorno alla filosofia . Ma noi pensia mo di poter
mettere alcun ordine in tanto invi luppo ragionando di questa guisa. - Non fram
mezzo alle pompe eloquenti delle orazioni e alle asluzie forensi, e non tra le
epistole di complimen lig di raccomandazioni, di condoglienze, di affari, nè
tra i parlamenti e i dialoghi di uomini ora epi curei , ora stoici, ora
peripatetici passionati, è da cercarsi la filosofia di Cicerone, siccome alcuni
fe cero e fanno incautamente, ma è giusto rintrac ciarla in que' luoghi delle
sue opere filosofiche ove egli parla in persona e sentenza sua propria. —Cid
statuito , ascoltiamo Cicerone medesimo , il quale senza equivocazione e
mistero alcuno ci racconta ch'egli professa la filosofia della nuova Accademia
; perciocchè a coloro che si meravigliavano come egli principalmente approvasse
quellafilosofia che toglie la luce e quasi sparge una nottesopra le co se , e
protegesse impensatamente una disciplina de serta , egli risponde: « Non
imprendiamo già noi « il patrocinio di cose deserte. Questo metodo, per « cui
si disputa di tutto e non si giudica aperta « mente di niente, nato da Socrate,
ripetuto da « Arcesilao, confermato da Carneade, invigorì fino u alla nostra
età ; il qual metodo ascolto essere u ora abbandonato in Grecia , il che io
credo av « venuto non per vizio dell'Accademia , ma per pi u grizia degli
uomini : mentre se gran cosa è ap prendere alcuna disciplina, quanto è maggiore
u apprenderle tutte ! la qual cosa è necessario che 328 CAPITOLO quelli
facciano , i quali hanno proposto per la investigazione del vero disputare
contro tutti i « filosofi e a favore di tutti ; e questa difficile fa « coltà
non penso io di avere acquistata, solamente u penso di averla seguita. Nè già
noi a questa gui u sa filosofando , riputiamo , niente esser vero , ma
piuttosto al vero essere congiunto il falso con « tanta rassomiglianza, che
manchi il certo criterio « di giudicare e di assentire ; dalle quali dottrine
siegue questo precetto , nolto essere il probabi le, il quale benchè non sia
bene compreso, non « pertanto avendo certo uso insigne ed illustre, « dee
governare la vita del savio ( 1 ) . » - E altro ve : « Io vorrei ( egli dice )
non a nome di Attico , di Balbo o di Vellejo, ma a suo , che fosse ben u
conosciuta la nostra sentenza ; imperocchè non « siamo noi vagabondi
nell'errore, nè manchiamo « di quello che è da seguirsi; poichè quale sarebbe «
la mente e quale la vita , tolta la regola del di sputare e del vivere? Ma noi
, ove gli altri dicono u alcune cose certe , alcune incerte, dissentendo da
essi , altre diciamo probabili, altre improbabili. « Perchè adunque non potrò
attenermi al proba « bile e riprovare il contrario , e dechinando dalle «
arroganti affermazioni, fuggire la temerità , che « è tanto lontana dalla
sapienza ? Ma i nostri Ac « cademici disputano contro ogni sentenza, peroc « chè
questo lor probabile non può risplendere se « non si fa contesa per l' una
parte e per l'al « tra ( 2) . » Oltreacciò egli c’invita a leggere le sue
Quistioni Accademiche, ove questi propositi erano esaminati più diligentemente
(3) ; cosicchè può dirsi che quando egli ne'suoi Dialoghi disputa ( 1 )
Cicerone DeNat. Deor. lib. I , (3) De Off. lib. II , 2; Tusc. Disp. I. I,9; Ii,
3 ; De Div. I. II, 3. (3) Cicerone II. cc. Acad. Quaest . lib . II , 3 . 5.
QUARANTESIMONONO 329 per le parti accademiche , parla in propria perso na , e
quindi par fuori di ogni dubitazione che egli è nel metodo di quegli Accademici
che ogni cri terio poneano nella probabilità. Di qui s'intende com ' egli ora
si attemperava agli Stoici, ora ai Pla tonici , ora ai Peripatetici, senza
abbandonar l'Ac cademia ; perché ove cercava i doveri dell'uomo e le leggi
sociali, trovava maggiore probabilità nelle dottrine del Portico; e dove
investigava i principi delle cose e trattava la psicologia e la teologia,
credea forse trovarla maggiore nel Platonismo e nel Peripato ( 1 ) ; e dove di
queste e di altre filo sofie disputava e ne bilanciava le vantate eviden ze ,
sospendea il giudizio ed era Accademico; e così pure quando persuadeva il
popolo e il senato, pas sava a grande suo comodo nelle sentenze contra rie , e
non avea ribrezzo alcuno di contraddirsi ac cademicamente. La moda del Foro era
di potere essere Accademico Probabilista, ed egli serviva alla scena, e lo era
con gli altri. Cicerone adunque così disposto tratto di tutte le parti della
filosofia ove più diligentemente, ove meno. E certamente egli coltivò la logica
e la in segnò con gran cura ne' suoi Libri Rettorici, ma a sua maniera, vuol
dire per servigio della eloquen za e del Foro. Parve chepensasse con Socrate
non essere molta la utilità della fisica per la probità e beatitudine della
vita ( 2). Conobbe tuttavia i mag giori sistemi antichi , e vide nella rimota
vecchiaja della filosofia certe nozioni che si vantano scopri menti di questi
ultimi tempi, come il moto della terra , gli antipodi, la gravitazione o
attrazione uni versale , che tiene il mondo nell'ordine ( 3). Ma nella ( 1 ) De
Off. lib. I , 2 , 3 ; Tusc. Disp. lib. 21 . ( 2) De Nat. Deor. lib . 1, 21 ;
Acad.' Quaest. lib. II , 39. ( 3 ) De Nat. Deor. II , 45; Acad. Quaest. II ,
38. 330 CAPITOLO naturale teologia e nella morale pose ogni sua cu ra . « È
fermissimo argomento della esistenza d'Id « dio ( egli dice ) che niuna gente
sia tanto fiera e « niun uomo tanto crudele, che non serbi nell' a. w nimo la
opinion degl'Iddii;e questo consenso di a tutte le genti dee riputarsi una
legge di patu « ra ( 1 ) . La bellezza del mondo e l'ordine delle cose «
celesti stringe a confessare una prestante ed eter a na natura , e un
fabbricatore e moderatore della « grand' opera ( 2) , il quale è da immaginarsi
come « una mente sciolta e libera e segregata da ogni « componimento mortale,
che tutto sente e muo « ve , ed è fornita di moto sempiterno (3) , e come a un
maestro e signore che le celesti e le terrene « ed umane cose e tutto l'Universo
amministra, sen « za la cui provvidenza quale tra gli uomini sarebbe « pietà ,
quale santità , qual religione? le quali virtù tolte, sorgerebbe il disordine e
la confusion della u vita , e non rimarrebbe società alcuna nel genere « umano
( 4) . Io così mi persuado e così sento, che « tanta essendo la celerità degli
animi e tanta la « memoria delle cose passate e la prudenza delle future, e
tante le arti e le scienze e le scoperte, quella natura che le contiene non può
esser mor « tale ( 5) ; e semplici essendo gli animi e senza mi « stura, é
movendosi per sè medesimi, nè possono « dividersi e dissiparsi, nè cessare di
moversi; ed « essendo celesti e divini e sempre desiderosi della - immortalità,
non possono essere ingannati dachi « li produsse, e debbono essere eterni (6).
E quindi ( 1 ) Cicerone Tusc. Disp. lib. I , 13 ; De Nat. Deor. III , 3 . ( 2)
De Div. II ,72 ; Tusc. I , 29. ( 3) Tusc. Disp. I, 27. (4 ) De Fin .IV, 5 ;
Acad. Quaest. I , 8 ; De Nat. Deor. I, 2 , 44 ; I1, 66 ; III , 36 ; Fragm. De
Repub. III. (5) De Senectute . (6 ) De Senect. et Tusc. I , 27, 29.
QUARANTESIMONONO 331 gmni su stenza 1: anto fra serbi mi Consen ne deres ante
de erator& ginarsi az ata dan ente en (3), es e le to pinista i miniars le
quali pfusica ja nelset si senta je tapis denta 1 comechè Cerbero tricipite e
il fremito di Cocito u e il tragitto di Acheronte sieno favole senili, deb «
bon perd rimanere dopo la morte i premj e le pe. ne, e quelle due socratiche
vie per cui gli empj si « dividono e i buoni si congiungono agl' Iddii (1). ” -
Su questi grandi principj egli collocò l'edifizio del naturale diritto e di
tutta la morale ; e primie ramente dalla eterna ragione e volontà' di Dio, e
dalla comune ragione degli uomini, e dalla natura e relazion delle cose dedusse
la origine e la realità e l'autorità e la obbligazion d'un naturale e pub blico
diritto . - « La legge ( egli dice ) è un eterno impero che governa l'Universo
con la sapienza del comandare e del proibire , ed è la mente di « Dio che
costringe e divieta; e non solamente è più antica della età de' popoli e delle
città, ma eguale a quell' Iddio che difende e regge i cieli e « le terre. La
mente divina non può esser senza ra gione , nè la ragione divina può esser
senza la « forza di fermare le cose giuste e le ingiuste. Una legge sempiterna
fu sempre e una ragione appog u giata alla natura delle cose ; la quale non
allora che fu scritta , cominciò ad esser legge , ma al « lora che nacque , e
nacque insieme con la mente divina ; il perchè la legge vera e primaria ,
idonea á a comandare e a proibire, è la diritta ragione del « sommo Giove ( 2)
; la quale non è legge scritta , « ma nata , e la quale non abbiamo imparata,
non ricevuta, non letta, ma l'abbiamo attinta dalla « medesima natura e dalla
comune intelligenza, per u cui giudichiamo il diritto e il torto , è l'onesto «
e il turpe; imperocchè estimar queste cose dalla BST PEN ne par 2017 depositse
. Em opinione, non dalla natura, è stoltezza (3) . ( 1 ) Tusc. 1,5,6 , 21 , 30
; De Ainic. 4 ; De Nat. Deor. II , 2. ( 2) De Leg. II , 4, 5 . ( 3) Pro Milone;
De Leg. I , 10 , 15. zar. 1,1 332 CAPITOLO Io non posso astenermi dalla
ricordanza di quelle parole memorabili di Cicerone nel terzo libro della
Repubblica, le quali da Lattanzio ci furono conser vate ( 1 ) . — La retta
ragione è certamente la vera legge consentanea alla natura diffusa in tutti, co
« stante , sempiterna, la quale comandando chiama « al dovere, e ci spaventa
dalla frode vielando. « Niente è lecito toglier da lei , niente cangiare, e «
molto meno abborrirla. Nè dal senato , nè dal popolo possiamo essere sciolti da
questa legge, w nè altro dichiaratore o interprete è da cercarsi; « nè altra
legge è ad Atene, altra a Roma , ma ella « sola ed una , sempiterna ed
immutabile governa « in ogni tempo tutte le genti, e uno è il comune « quasi
maestro e comandante di tutti , Iddio. Egli è di questa legge l'inventore, il
disputatore, il pro mulgatore, al quale chi non obbedisce fugge sè « stesso e
disprezza la natura dell'uomo, e per que « sto istesso paga massime pene,
quantunque sfugga « tutti quegli altri eventi che si riputano supplizj." -
Oltre questi nobili conoscimenti della origine, del fondamento , della realità
, della forza, della im mutabilità delle leggi naturali, Cicerone conobbe la
utilità della religione nella società; di che niuno vorrà dubitare ( egli dice
) che intenda come sien molte le cose che si ferman col giuramento, e quan ta
salute apportino le religioni de' patti, e quanti sieno distolti dalla
scelleraggine per timore del di vino supplizio, e quanto sia santa la società
di que' citladini che fra loro interpongon gl'Iddii come giu dici e testimonj (
2). Egli conobbe ancora la sanzio ne ossia la intimazion della pena contro i
violatori, senza cui le leggi non avrebbon forza di obbligare, ( 1 ) Lallanzio
Div. Inst. lib. VII , cap. 8. De Leg. lib . II , 7. QUARANTESI MONONO 333 ma
diverrebbono avvisi e consigli ; e non ebbe so lamente quella sanzione come una
conseguenza aa turale della colpa , ma come una vera imposizion di castigo, se
non in questa , certo nella vita av venire, siccome già sopra abbiam divisato (
1 ) . Co nobbe egli non meno quella così semplice e cosi vera divisione del
codice della umanità in doveri verso Dio, verso noi medesimi e verso la
società; e insegnò che la filosofia dono e ritrovamento di vino ci erudisce nel
culto degl'Iddii, e poi nel diritto degli uomini posto nella società del genere
umano : che l'uouo non è nato a sè solo ; che anche parte di lui ne domanda la
patria e parte gli amici: che gli uomini sono prodotti per gli uomini acciocchè
si giovino a vicenda; e che debbono ricevendo e dando permutare gli uffizj , e
con le arti , con le le facoltà stringere la compagnia degli uomini con gli
uomini (2). — Questa succinta immagine della giure prudenza e della morale di
Cicerone offre nella sua medesima brevità una idea molto elevata e molto
magnifica e superiore a quante opere di antichi uo mini giunsero a noi in
questo argomento, e forse a quante mai furono composte prima di lui. Tutta
volta non è già vero che la morale Ciceroniana con tenga una disciplina
compiuta, e discenda con per fetto ordine e verità in tutti i particolari;
percioc chè anzi con buon accorgimento fu avvertito essere diffettuosa in assai
parti necessarie, e gli argomenti nella maggior parte esser trattati
leggiermente, e per decisioni assai rigide palesarsi che il severo giu
reprudente non conoscea i verj principj donde po teano di dursi gli
scioglimenti di certi casi ( 3 ). Ma con tutto ciò neppure è vero che Cicerone
ne' suoi opere, con ( 1 ) V. Ubner Essai sur l'Hist. du Droit Nat. Par. I , S
12 . ( 2) Tusc. Dis . 1, 26 : De Oll. I , 7. ( 3) G. Barbeyrac Pret, à
Pufendorf. 334 CAPITOLO 0 trattati di morale fosse un Pirronista , e nelle sue
dispute di naturale teologia un distruttore di tutte le religioni. La
primaimputazione assume per fon damento che Cicerone avendo statuiti i principi
della morale, prega l'Accademia di Arcesila e di Carneade perturbatrice di
tutte queste cose a ta cersi, perchè volendo assalire i principj che sem bran
così bene composti, fara troppe ruine, e desi dera placarla, e non ardisce
rimoverla ( 1 ). La se conda accusazione è dedotta da quello spirito di
dubitazione che domina in tutte le sue opere e sin golarmente nei libri della
Natura degl Iddii, ove mostra gran voglia di confutare e deridere tutte le
antiche dottrine della Divinità , e concede alla fine tutti i trionfi
all'Accademico Cotta . Al che si ag. giunge unagrande incostanza e può dirsi
contrad dizione nell'affare gravissimo della immortalità de gli animi ;
perciocchè in molte epistole sue , nelle quali scopertamente parlava co' suoi
amici , o du bita di quella immortalità , o rappresenta la morte come l'ultimo
de' mali e il fine delle sensazioni e di tutte le cose (2). Noi , per quello
che dinanzi si è avvertito , dobbiam consentire che Cicerone fu Accademico, e
non altro conobbe che sole proba bilità; nel che certo errò gravemente, e
grande fra gilità iufuse in tutto il suo sistema teologico e mo rale:
tuttavolta perchè al suo probabile diede la forza e l'autorità che noi diamo al
vero e all' evi dente , riparò un poco il dauno che fin d'allora il
Probabilismo minacciava. Fuori di questo errore, egli molte affermò di quelle
medesime verità che ( 1 ) Ciecrone De Legibus l . 13. V. G. Barbeyrac l. c . (
2) Ep. Fam . lib. V, 16 , 21 ; lib. VI, 3 , 4 , 21; Ad Attic. IV, 10; e
altrove. V. P. Bayle art. Spinoza , M., e Cont. des Pens.div . 105; A. Collin
De la liberté de penser; G. F. Buddeo De l'Athéisme ch . I , 22.
QUARANTESIMONONO 335 . noi stessi affermiamo, e nel naturale Diritto molte ne
vide di quelle ancora che furon vantate come scoprimenti del nostro fortunato
secolo , di che po tremmo tenere amplissimi discorsi se qui fosse luo go. Egli
veramente sparse assai dubbi e molte risa sulle teologie antiche , e non era
nel torto. Tenne ancora ragionamenti ipotetici intorno alla immor talità degli
animi ; e alcuna volta scrivendo a tali che la negavano, si attemperò alle loro
opinioni per consolarli e persuaderli più speditainente. Per altro, quando fu
sciolto da siffatti riguardi, parlò di que sti argomenti con quella dignità che
abbiam rac contata.Adunque nè Cicerone fu di quegli Ateinè di quei Pirronisti
esagerati che non conoscono Di vinità e moralità nè vera nè probabile. Non si
vuol qui tralasciare che la scuola pirronica o scettica, sia che fosse oscurata
dalla modestia e serietà del l'Accademia, sia che la fama di negligenza , di
stra nezza e di stolidità la mettesse a pubblico disprez zo , non ebbe
accoglienza niuna tra i Romani; di forma che uncerto Enesidemo da Gnosso
intorno all'età di Cicerone avendo tentato in Alessandria di sollevare dalla
dimenticanza lo Scetticismo , e con questo intendimento avendo scritti più
libri pirronici, che intitold a L. Tuberone uoino prima rio tra i Romani, nè
gli sforzi dello scrittore nè l'autorità del Mecenate valsero a far leggere que
libri e a persuadere amore per quella filosofia ( 1 ) . Donde si prende un
nuovo argomento che Cicero ne, il quale raccolse tutti gli applausi di Roma,
non potè essere Pirronista. Per questa descrizione della romana filosofia si
conosce che tutto lo splendore di lei si restrinse alla età di Cicerone , e si
rinnova . (1) E. Menagio in Laertium lib. IX , 62 e 116. J. Brucker De Phil.
Rom . cap. I , S XXVIII. 336 CAPITOLO quella meraviglia come i grandi uomini
appariseo no insieme ad un tratto , e poi sopravviene la bar barie che li
prevenne. Prima di quei dotti uomini che vissero in compagnia di Ciceroneo poco
prima, i Romani eran tutt'altro che filosofi. Dappoi dechino la filosofia ,
come la eloquenza e la latinità. Noi an cora siccome abbiam ricevuto , così
possiamo tras mettere alla posterità gli esempi vicini e forse pre senti di
queste subite mutazioni. CAPITOLO L. Digressione intorno alla Filosofia di
Archimede. Prima che Cicerone, compiuta la sua questura partisse dalla Sicilia
, aind di conoscere le rarità di quella isola , e visitò singolarmente Siracusa
, città per gloria di armi e dilettere nobilissima. Quivi presso la porta
Agrigentina tra i vepri e gli spineti vide una colonnetta , nella quale era la
figura di una sfera e d'un cilindro , e per tai segni scoperse quello essere il
sepolcro diArchimede , e mostran dolo ai Siracusani che l'ignoravano, molto si
ral legrò che se un uomo Arpinate non avesse disco perto il monumento di quell'
acutissimo cittadino , essi per avventura sarebbon rimasti al bujo ( 1 ) . Da
questa narrazione prendiamo opportunità di ono rare Archimede Siracusano, il
quale tuttochè av volto in un silenzio ingrato degli antichi e dei mo derni
scrittori e in una negligenza che move lo sde gno , anche tra i pochi e
dispersi frammenti appa . risce il maggiore di quanti matematici e meccanici
avanzino nelle memorie di tutta l'antichità . Forse ( 1 ) Cicerone Tusc. Disp.
lib . V, 23. CINQUANTESIMO 337 alcuni si meraviglieranno che noi
disordinatamente prendiamo a scrivere di Archimede dopo Cicerone, che fiorì
quasi due secoli dopo di lui . Ma sappiano cotesti autori cronologisti che non
abbiamo finora trovato parte più opportuna ove allogare un uomo che non ebbe
vaghezza di setta alcuna nè greca ne romana, e la ebbe piuttosto di essere
filosofo da sè ; e poi sappiano che senza bisogno non vogliamo essere rigoristi
in cronologia , e sappiano in fine che se è pur un errore trasportare la
memoria di Ar chimede a dugento anni dappoi , io credo certo che sia errore
molto più grande trasportarla nel vuoto, siccome gli Stoici della filosofia
usaron finora. Nac que adunque questo divino ingegno, siccome Cice rone ( 1 )
lo nomina, intorno all'anno ccccLvII di Roma; e o ch'egli fosse della regia
stirpe di Gerone re di Siracusa (2), o che fosse un umile omuncolo fatto chiaro
dalla verga e dalla polvere , vuol dire dalla geometria (3) , o che fosse nudo
di ricchezza e solamente pago di ben intendere i cieli e le ter re (4 ), non
superbo e non depresso per niente di quelle varie fortune, cercò nella sapienza
la nobiltà e la grandezza della sua sorte. Le matematiche pure e le applicate
all'utile della patria e alla felicità della vita furono la sua cura perpetua.
Nella mi sura delle grandezze curvilinee , argomento allora nuovo o poco
famigliare agli anteriori matematici , aperse incognite strade e immaginò
metodi fecon di, che appresso germogliarono ampiamente e fu rono i semi e , per
testimonianza di Giovanni Wal lis, i fondamenti di tutte le invenzioni onde si
vanta la nostra età. Sono già note le sue scoperte nelle ( 1 ) Tusc . Disp. I.
(2) Plutarco in Marcello. (3) CiceroneTusc. Disp. V, 23. ( 4 ) Silio Italico de
Bello Pun. lib. XIV, 343. BUONAPEDE. Ist. Filos. Vol . II . 22 338 CAPITOLO
misure e nelle proporzioni della sfera e del cilin dro, di cui tanto si
compiacque , che volle scolpite nel suo sepolcro quelle due figure come
caratteri di singolar distinzione. Sono ancor note le sue spe culazioni intorno
alla conoide e alla sferoide, e la quadratura della parabola , e le proprietà
delle spi rali; e queste cose, onde si crede che molto si di latassero i
confini dell'antica geoinetria, Archimede Irattò in libri che tuttavia esistono
, quali sono , della Sfera e del Cilindro, della dimensionedel Cir colo, della
Conoide e della Sferoide, del Tetra : 0 nismo, della Parabola, delle Linee
spirali, a cui come opera teoretica si può aggiungere l'Arenario Ossia del
Numero delle arene ; nel quale trattato , supponendo ancora che l'Universo ne
fosse pieno, calcolo quel numero contro l'opinione di tali che lo riputavano
infinito ( 1 ). Lode eguale e forse mag giore ottenne Archimede allorchè le
astrazioni geo metriche condusse alla pubblica utilità ; e sebbene io non
sappia indurmi a credere ch'egli fosse il creatore della meccanica ( 2 ) ,
mentre studiò pure in Egitto , ove ognun sa che la meccanica non potea esser
negletta ; tuttavolta egli fu certamente assai benemerito di questa facoltà.
Nei due celebri suoi libri che tuttavia esistono , l'uno intitolato degli
Equiponderanti, e l'altro dei Galleggianti, ovvero delle cose che nuotano o che
si traggono per li fluidi, egli stabilì i principj statici ed idrostatici, ai
quali dicono che siamo debitori della presenteesten sione de' nostri
scoprimenti; e aggiungono che Ar chimede istesso dando assai contrassegni di
altis sima penetrazione in questo genere di studj , mo ( 1 ) V. Claudio
Francesco de Chales in Cursu Math. tom. I , de Progressu Maibes.; Giammaria
Mazzucchelli Notizie intorno ad Archimed ”, e Moniucla Ist. delle Malem. lib.
IV. ( 2) Montucla l . c. CINQUANTESIMO 339 strò che avrebbe potuto pervenire a
questa nostra estensione medesima, se non si fosse rivolto ad al tri pensieri (
1 ) . Il re Gerone avendo affidata ad un artefice una massa di oro perchè
lavorasse una co rona dedicata agl' Iddii, venne a sospetto che il buon
artefice gli avesse fatto furto ; onde impose ad Archimede che studiasse di
conoscere la verità . È fama che il matematico entrato nel bagno si avvide che
quanto del corpo suo entrava nell'acqua, tanto ne usciva ; donde preso lo
svoglimento della qui stione, uscì fuori tutto ignudo e correndo gridava per
via expriua evprzo, ho trovato ho trovato ; e se condo questo esperimento
immerse la corona in un vaso pieno di acqua; indi successivamente v'immerse due
masse di egual peso, l'una di oro , l'altra di ar gento , ed esaminò
quant'acqua spandessero i tre corpi, e quindi conobbe quello che investigava(
3). Ma questo metodo , quando pur fosse possibile , non è sembrato , e non è veramente
degno della elevazione di Archimede ; nè egli per così poco sa rebbe fuggito
via ignudo, nè Gerone avrebbe det to che dopo così gran prova tutto era da
credersi ad Archimede. È dunque più verisimile e più de gno di lui, che avendo
già egli nel suo Trattato de' Galleggianti stabilito questo principio : i corpi
immersi in un fluido vi perdono tanto del proprio peso, quanto è un volume loro
eguale del'fluido; di qui raccogliesse che l'oro siccome più compatto vi perda
meno del suo peso e l'argento più , e un misto dell'uno e dell'altro in ragione
del suo com ponimento. Bastava dunque pesare nell' aria e nel l'acqua la corona
e le due masse di oro e di ar gento per ferinare quanto ciascuna perdeva del (
1 ) Montucla l. c. (2 ) Vitruvio lib. IX , cap. 3. 340 CAPITOLO proprio peso ,
e dopo questi passi il problema non avea più difficoltà per un uomo come
Archimede. Questo fecondo principio valse al valentuomo per la scoperta di
molte verità idrostatiche, le quali po trebbono leggersi nel lodato suo libro, se
a questi dì non fossero molto divulgate ( 1 ). Ben quaranta invenzioni
meccaniche si onorano col nome di Ar chimede ( 2) ; ma solamente alcune vanno
errando disperse negli scritti di antichi autori , e non fuor di ragione può
credersi che secondo lo stile usitato molte si abbian volute render mirabili
col prestito di un gran nome. Dicono di Archimede la chioc ciola , strumento
ingegnosissimo e utilissimo, per cui usando la propensione medesima del grave
alla caduta si produce la sua elevazione , e con tale or degno s'innalzano le
acque ove bisogna, e si asciu gano le navi e le terre ( 3). Sono però alcuni
che lo credon più antico di Archimede (4) . L'organo idraulico portò già il
nome di Archimede (5) ; ma questo grato arnese benchè dia segno di musica perizia
, è piuttosto un gioco dilettevole che un ri trovamento sublime. Laforza
infinita e la moltipli cazione delle girelle furono poste fra le invenzioni di
Archimede ; ma altri affermano, altri negano, ? niuno ha migliori argomenti.
Dammi fuori di qui ove io fermi i piedi, e moverò dal suo luogo la terra ,
disse Archimede a Gerone. E veramente ap presso ai suoi principj si posson in
teoria immagi nar macchine le quali rendano idonea una potenza minima a
sollevare un peso inassimo ( 6 ). Nella pra ( 1 ) Vedi Mazzucchelli e Montucla
II. cc . ( 2) Parpo lib. VIII. Pr. VI, prop. 10. (3 ) Diodoro lib. I et V.
Ateneo lib . V. ( 4) V. Catrou e Roville Hist. Rom. tom . VIII. ( 5)
Tertulliano De Animo. ( 6) Plutarco in Marcello : Dic ubi consistam ; caclum
terramque movebo. CINQUANTESIMO 341 tica Archimedle volle dar segno a Gerone
che avreb be saputo mettere ad effetto le sue promesse, e pri mieramente una
grandissima nave tutta carica, la quale non potea moversi senza molta fatica e
as sai numero di uomini, egli solo qutto e sedente, senza sforzo alcuno e coll'
ordinario impulso della mano aggirando l'ordegno suo , mosse e guidd co me gli
piacque; indi per comandamento del me desimo principe avendo disegnata e messa
a per fezione una molto maggiore e inolto meravigliosa nave , nella quale oltre
le parti usitate in siffatti la. vori, e tutte di estraordinaria sontuosità e
grandez za , vi erano giardini e peschiere e cisterne e acque correnti e sale e
bagni e fino una biblioteca, e poi vi sorgeano olto gran torri armate , e ai
loro luo ghi erano baliste e mani ferrate e altri strumenti da guerra per gli
assalti e per le difese , e di smo derato carico e di molto popolo era grave,
Archi mede non ostante la enormità di tanta mole, che tutti i Siracusani
insieme non valsero a smovere , fece per certo ingegno suo che il solo Gerone
la traesse in mare ( 1). È stato detto che questi rac conti ridondino di gran
favola, il che pud benesser vero; ma non penso che vi sia fondamento alcuno di
affermarlo. Vedute queste meravigliose opere il Re Siracusano sapientemente
avvisò di esercitare la stupenda fecondità di questo Genio tutelare di Si
racusa, e lo pregò a comporre ogni genere di mi litari strumenti per riparo del
regno e per offesa dell' inimico. Archimede, buon amico del suo Re e della sua
patria, siccome i sapienti sono o debbono essere , ubbidì volentieri. Questi
ritrovamenti bel lici furono inutili, mentre Gerone visse nella pace e
nell'amicizia de' Romani. Ma lui morto , arse una ( 1 ) Plutarco in Marcello.
Ateneo lib. V. 342 CAPITOLO guerra molto crudele, e Siracusa fu assediata dal
console Marco Claudio Marcello, nobile capitano e rinomato per Viridomaro re
de' Galli ucciso, e più per Annibale da lui sconfitto più volte. Egli con oste
gravissima e con gran forza di navi e con macchine e con militari stratagemmi e
con la fama di prode e felice soldato strinse e assalì Siracusa per terra e per
mare. In tanta fierezza di arma mento i Siracusani furono presi da tacita paura
e da terrore. Archimede solo non ismarrì, e vepne con le sue macchine a
ricomporre i cuori dissipati de cittadini, e a sostenere la patria, e a
mostrare a Marcello che un filosofo potea esser maggiore del Re de' Galli e di
Annibale, e bilanciarsi con la forza e con la fortuna istessa di Roma. Per
scienza e per avvedutezza di questo uomo le muraglie di Si racusa erano
guernite di copia incredibile di bale stre, di catapulte e di altri
macchinamenti per lan ciar dardi e palle e sassi di ogni grandezza, e da vi
cino e da lontano, secondo tutti i bisogni. Vi erano ordegni che facendo cadere
grossissime travi cari che di pesi immensi sopra le galee e le navi nimi che,
le abissava subitamente nelle acque. Vi erano ancora certe mani di ferro con le
quali si abbran cavano quelle navi e quelle galee e si levavano per aria, e poi
si lasciavancadere tutte subito con som mersione e ruina , e altre volte si
traevano a terra e si aggiravano e si stritolavano nelle rupi , su cui stavanle
mura della città. Dietro queste mura, che in più luoghi erano pertugiate,
stavano scorpioni tesi a cogliere i nemici, che per isfuggire dai lan ciamenti
lontani si avvicinavano, onde non rima nea luogo sicuro dalle offese; e
Marcello colpito da tutti i lati senza saper d'onde e come, usa va dire: Questo
geometra Briareo sorpassa ben molto i Giganti centimani; tante sono le
vibrazioni sue CINQUANTESIMO 343 contro di noi ( 1 ) . I Romani in terra e in
mare erano anch'essi molto ben provveduti di macchine mi litari , e
singolarmente sopra otto galee levavano certo congegno nominato per similitudine
sambu ca , con cui agguagliavano le mura e poteano in trudersi nella citlà . Ma
il Briareo Siracusano lanciò alcuni sassi gravi oltre a seicento libbre, e
battute quelle sambuche, le rovesciò con grande strepito e danno ( 2) . In
somma un solo vecchio geometra rendè Siracusa invincibile, e confuse il valore
di Roma e il miglior capitano che ella avesse in que' giorni (3 ). Gli
assalitori furono stretti a rimetter molto della loro baldanza e ridurre ad un
lungo blocco quella tanta vivacità di assalti. Appresso non si parld più di
Archimede, e Siracusa fu pre sa , e il suo invito difensore , quasi dimentico
della patria e di sè stesso e ozioso nella pubblica ruina, si fece ammazzare
per fatua ostinazione nel dise gno d' una figura di geometria. Io non so bene se
sia troppa offesa di gravi narratori gettare tra le fa vole queste sconnessioni
attribuite al più connesso uomodel mondo. Forse per liberare Archimede da
cosiffatte inezie e quasi deserzioni nel maggiore bi sogno della patria ,
alcuni pensarono di riempiere questo vuoto col meraviglioso racconto dell'incen
dio delle navi di Marcello con gli specchi ustorj. Un medico riputato grande
(4) , un istorico medio cre (5) e un picciol poeta (6) furono i divulgatori di
quel famoso incendio. Ma la tenue autorità di cosiffatti uomini non vale per
niente a fronte del (1 ) T. Livio lib . XXIV. Polibio Excerp. lib. VIII, 5.
Plutarco ) . c. V. il cav. Folard nel suo Commento sopra Polibio. ( 2) Polibio
e Plutarco II . cc. (3) Cicerone De Fin. V. Livio lib. XXV, 31 ; e altri . ( 4
) Galeno De Teinp lib . III , cap. 2. ( 5) Zonara tom . I , lib. IX . ( 6 )
Tzetze Hist. XXXV, chil. II. 344 CAPITOLO sana , silenzio di Livio , di Polibio
e di Plutarco, i quali diligentemente avendo scritto della guerra siracu non
avrebbono mai taciuto unavvenimento tanto stupendo, e insieme di tanto
ammaestramento nell'arte della guerra, così nel guardarsi da quegli specchi
incendiari, come per usarne contro i nimi ci; e certo io credo che se quel
terribil metodo fosse stato veramente messo ad effetto, non sareb bono mancati
imitatori , e l'armata navale di Mar cello non sarebbe stata la sola incendiata
. Noi me. desimi , studiosissimi quanto altri di spopolare il mondo con le
militari invenzioni , non avremmo, io credo, all'economico e facile artifizio
di Archimede anteposti altri dispendiosi e incomodi metodi. Molti veramente
hanno studiato assai nella catottrica per trovar modo di suscitare quel funesto
esperimento, e alcuni son giunti a provare che certo con un solo specchio di
convessità continua o sferica o parabo lica non era possibile quell' incendio
in tanta di stanza, ma era ben possibile con molti specchi pia ni ; e tra altri
in questi ultimi giorni il Buffon com pose uno specchio formato diquattrocento
specchi così disposti, che tutti riflettevano i raggi ad un punto comune; e
questo adunamento nella distanza di centoquaranta piedi liquefaceva il piombo e
lo stagno in corto tempo, e in distanza maggiore in ceneriva il legno , il che
parve che mostrasse pos sibile il metodo di Archimede ( 1 ) : ciò non ostante
queste pratiche per ostacoli non superabili giaccion neglette, e le nostre
armate navali si distruggono a vicenda con altro, che con raggi di sole. Non è
le cito partire dalla istoria di Archimede senza dire alcuna cosa de' suoi studj
astronomici, e di quella (1) A.Kircker Ars magna lucis et umbrae lib. X , P.
III. Buf fon Mém. de l'Acad . 1948. V. Montucla I. c. CINQUANTESIMO 345 t 1
tanto celebre sfera e tanto lodata dai poeti, dagli oratori, dagli stoici e ,
ciò che più vale, dai filo sofi ( 1 ). Era questa una macchina o di rame o di
bronzo o di vetro , la quale o a forza di aria o di acqua , o di ruote e di
molle e di pesi o di forza magnetica, o di altri ingegni movendosi, esprimeva
tutti i rivolgimenti e i fenomeni celesti, senza eccet tuarne finanche i tuoni
e i fulmini (2); e secondo alcuni rappresentava questi movimenti secondo il
sistema Copernicano ( 3). Le quali cose , se sono vere , come possono essere ,
attese le altre grandi opere di quest'uomo, e massiinamente perchè egli si
compiacque assai di questo lavoro e di lui solo volle lasciar memoria alla
posterità con un libro intitolato Spheropeia, che si è poi smarrito, pos siamo
raccogliere con nuovo argomento, se altri pur ne mancassero, che nelle scienze
più utili l'an tichità davvero ne sapea almen quanto noi( 4 ). Mol. te edizioni
furono promulgate delle opere di Archi mede, e illustri uomini o in tutto o in
parte le ador narono con somma diligenza , fra i quali si distin sero assai
Gianalfonso Borelli, Giovanni Wallis, Isacco Barow , Andrea Tacquet e
Evangelista Tor ricelli (5 ). Oltre le pubblicate vi è memoria di al tre
scritture di Archimede, che si dicono ascose in qualche biblioteca , come della
Frazione del cir colo, della Prospettiva e degli Elementi di Mate matica ; o
perdute affatto, come de' Numeri, della Meccanica, degli Specchi comburenti,
della Nave ( 1 ) Ovidio Fast. II e VI. Claudiano Epigr. Cicerone De Nat. Deor.
II ; Tusc . I. Sesto Empirico con. Math. VIII. Lattanzio lib. II, 5. Franc.
Giunio Cath .'Archit. mechan. ec. Cardano, Vos. sio , Kircker, e altri molti.
(2) V. G. Mazzucchelli I. c. ( 3) Girolamo Cardano De Subtilitate lib. XVII.
Pappo in Prooemi. lib. VIII. ( 5) v . G.A. Fabrizio Bibl. Graec. vol. II. G.
Mazzucchelli 1. c . 346 CAPITOLO di Gerone , della Archiettura, degli Elementi
Co nici, delle Osservazioni celesti ( 1 ). E nel proposito di questa ultima
opera è bene ricordarci che Ma crobio accenna certo metodo con cui Archimede
pensò di avere misurate le distanze della terra dai pianeti e dalle stelle, e
di queste di quelli fra loro. Ma qual fosse quel metodo non è scritto, che sa
rebbe molto grato a sapersi. — In questa breve, ma non iscorretta nè vana
immagine degli studj di Ar chimede noi vediam un uom serio , che non dise gna
sistemi sul vuoto e non fa calcoli inutili , e non va sempre oltre senza saper
dove vada ; ma che studia le forze e gli effetti della natura, e trascura
l'ignoto e si ferma sul certo , e di questo usa per utilità de' suoi cittadini
e per accrescimento della pubblica felicità. Invitiamo a rallegrarsi quei filo
sofi e quei matematici che somiglian questo grande esemplare. E preghiamo a
correggersi quegli altri che pensano sempre e non operan mai , e mentre
divagano per sentieri che non riescono a fine al cuno, e mentre ostentano
linguaggi che il più de gli uomini e talvolta essi medesimi non intendono, non
sanno poi levare un peso di alquante libbre,o tenere un po' d'acqua disordinata
senza impoverir le famiglie e le città, e senza amplificare i mali con la
perversità de' rimedj. CAPITOLO LI. Della Filosofia del regno di Augusto. Dopo
la battaglia di Azzio C. Cesare Ottaviano Augusto divenuto re senza prenderne
il nome, chiuse ( 1) Fu stamprlo un libro da Giovanni Gogava degli Specchi
Ustorj, da lui tradotto dall'arabo , e un altro intitolato Lemma ta ; ma non
sono estimati degni di Archimede. - Montucla e Mazzucchelli II. cc.
CINQUANTESIMOPRIMO 347 il tempio di Giano e arò la pace e le lettere. La sua
età ebbe ed ha tuttavia la lode del più collo e più letterato tempo di Roma; al
qual vanto io so certo che Lucullo e Attico e Cicerone repugnerebbono , e non
so come non repugniamo noi stessi. Impe rocchè gli è ben vero chenon solamente
Roma era già assuefatta alla filosofia e non potea divezzarsi così
d'improvviso, e che Augusto anch'egli secondo la consuetudine romana fu amico
de filosofi ed en trò vincitore in Alessandria tenendo per la mano il filosofo
Areo, per cui amore non distrusse quella città, e poi ebbe assai caro Atenodoro
di Tarso e lo ascolid attentamente ( 1 ) , e quindi avvenne che la filosofia
seguì a coltivarsi nella nuova' domina zione, e per costume e per desiderio di
applauso e per cortigianeria fiorirono a quei di molti uomini sapienti: tutta
volta io non so vedere in quella età i gran simulacri che si videro nel fine
della repub blica, e vedo anzi che come tutti i costumi ro mani , così anche la
filosofia piegò a mollezza , e quindii poeti assunser la toga filosofica e
otten nero gli applausi maggiori , a tal che la istoria let teraria della età
di Augusto sarebbe assai tenue senza questi poeti, de' quali adunque sarà
mestieri scrivere in primo e quasiin unico luogo. Publio Virgilio Marone, nato
nel contado man tovano, con estraordinario ingegno poetico studiò di piacere ad
Augusto e a Roma; e conoscendo che a riuscire nel suo desiderio era mestieri
condire le sue poesie con dottrine filosofiche , così fece, e salì alla gloria
di Bucolico e di Georgico eguale ai Greci, e di Epico secondo alcuni riguardi
mag giore di Omero ( 2) , e quello che è ora nel nostro ( 1 ) Svetonio in
Augusto et Claudio. Plutarco in Antonio. Se neca Cons. ad Helviam . Luciano in
Macrob. Zosimo lib. I, cap. 6. (2) A. Baillet Jug. des Scayans t . IV, des
Poét. Lat. 348 CAPITOLO proposito ,di poeta filosofo. Mainvestigandosi poi di
quale filosofia si dilettasse , insorser varie sen tenze. Alcuni lodissero
Epicureo, perchè ascolto Si rone maestro di quella scuola, e perchè un tratto
racconto che l'orto Cecropio spirante aure soavi di fiorente sapienza lo cingea
con la verde ombra (1); e altrove condusse Sileno briaco a cantare come nel
gran vuoto si adunassero i semi delle terre, dell'aria, del mare e del fuoco
(2) ; e in altri versi nomninò felice colui che potè conoscere le cagioni delle
cose , e calpestò tutti i timori e il Fato ine sorabile e lo strepito dellavaro
Acheronte (3) : nelle quali parole l'Epicureismo parve evidente ad al cuni;
mentre ad altri l'orto Cecropio e il peda gogo di Bacco e i semi nel vuoto
parvero equivoci e scherzi di poesia , e il Fato e l'Acheronte calpe stati e comuni
ad altre filosofie non sembrarono argomenti di Epicureismo; massimamente perchè
nello stesso tenore di canto il poeta disse anche felice colui che conosce
gl’iddii agresti Pane e il vecchio Silvano e le Ninfe sorelle (4) , che di vero
non erano cose epicuree. Per queste difficoltà fu soggiunto che Virgilio potea
esser Platonico là dove insegnò il compimentodella età vaticinata dalla Si
billa Cumana, e il grande ordine de' secoli , e i mesi dell'anno grande di
Platone , e il ritorno di Astrea e di Saturno e degli aurei giorni (5) ; il
quale mescolainento io non credo certo che Platone po tesse mai riconoscer per
suo. Si abbandonò adun ( 1 ) Virgilio Ceiris. Servio in Ecl. VI. P. Gassendo De
vila Epi. curi lib . I , cap. 6. G. A. Fabrizio Bibl. Graec. vol. II , et Bibl.
Lat. lib. I , cap . 4 , S 4 . ( 2) Virgilio Ecl.VÍ, 31 . ( 3 ) Georgic. II ,
490. ( 4) Georg. ivi , 493. (5) Ecl. IV, 5. V. Servio in h . I.; Paganino
Gaudenzio De Phil. Rom . cap. 174 ; J. Brucker De Phil. sub Imp. $ II.
CINQUANTESIMOPRIMO 349 que questo pensiere, e fu estimato che Virgilio era
stoico, perchè narrò che vedute le ingegnose opere delle api, alcuni aveano
detto esservi parte della mente divina in esse , e Dio scorrere per tutte le
terre e per li tratti del mare è per lo cielo pro fondo , e dar vita a tutti i
nascenti, e tutti a lui ritornare e risolversi in lui , e non esser luogo d
morte, e tutti vivere nel numero delle stelle e nel l'alto cielo ( 1 ) . Ma se
Virgilio ci narra che altri di ceano queste sentenze , non le dicea dunque egli
stesso. Anche nel sesto libro della Eneide, che è il più magnifico e più
profondo di tutto il poema, Virgilio conduce Anchise a filosofare della origine
e natura del mondo e degli uomini ; e questa tro jana filosofia senzamolti
discernimenti fu messa a conto del poeta. Uno spirito dice il Trojano, in
ternamente alimenta il cielo, le terre , i mari e la luna e le stelle, e una
mente infusa per le mem bra agita tutta la mole, e al gran corpo si mesce.
Quindi scaturiscon tutti i viventi , in cui è ignea forza e origine celeste,
per quanto i nocenti corpi non li ritardano , e le terrene e mortali membra non
gli affievoliscono; onde avviene che desiderano e temono e godono e si dolgono,
e non mirano al l'alto, chiusi datenebre e in carcere oscuro. Dopo la morte
soffrono i supplicj degli antichi peccati: indi son ricevuti nell'ampio
Eliso,finchè per lungo tempo si tolgan le macchie, e ritorni puro l'etereo
senso e il fuoco del semplice spirito. Compiuto il giro di mille anni, un İddio
convocava gli animi in grandeschiera al fiume Leteo , perchè dimen tiche
rivedano il cielo, e comincino a desiderare i ritornamenti ne' corpi ( 2) .
Così parld Anchise, e ( 1 ) Georg. IV, 220. ( 2) Æneid. lib. VI, 719. 350
CAPITOLO Virgilio fu accusato di Ateismo stoico da uomini cheinsegnando sempre
a non precipitare i giudi zj , li precipitarono essi medesimimolto più spesso
che non può credersi (1). Ma primieramente l'A teismo stoico è una falsa
supposizione, siccome ab biarno veduto in suo luogo ; e poi le parole spirito e
mente she è infusa e che alimenta le cose, e il foco e l'etereo senso sebben
possano avere sentenza stoica , la possono anche avere di altre scuole che
fecero uso di simili formule. Inoltre quelle parole sono miste agli Elisi e al
fiume della Oblivione, e al millesimo Anno, e all'Iddio evocatore degli animi
smemorati, ma immortali a rigore; le quali giunte non sono stoiche per niente.
E in fine siccome Vir gilio apertamente ammonì , le antecedenti parole della
Georgica, che parvero stoiche, essere dial tri; così dovrà dirsi in queste
della Eneide, quando egli ancora non lo dicesse. Ma disse pure che eran di
Anchise, il quale qualunque uomo si fosse, e fosse ancora una favola,
certamente non era Virgilio. Dopo queste considerazioni, io molto mi sdegno che
uo mini non vulgari citino tutto giorno questidue passi come una tessera
dell'Ateismo stoico e dello Spi nozismo , e mi sdegno ancor più che si
producano come un argomento della empietà di Virgilio. Non essendo adunque
plausibile questa attribuzione, fu immaginato da altri che Virgilio amasse il
Pitago rismo, e da altri , che molto sanamente sentisse delle cose divine; il
che io non saprei come potesse pro varsi ( 2 ). Ma un autor celebre prese a
mostrare che lo scopo di quell' incomparabile sesto libro della ( 1 ) R. Simon
Bibl . crit. P. Bayle Cont. des Pensécs sur les Co mètes. G.G. Leibnitz
Théodicée disc. prél. G. Gundling. Gun dliogiao. P. XLIV, S 8. J. Brucker L. c
. (2) Lattanzio lib. 1.5.R. Cudwort System . intell. cap . IV , S 19 ; Cap. V ,
sect. IV, S 29. CINQUANTESIMOPRIMO 351 Eneide era la dipintura simbolica del
sistema de misterj Eleusini e della unità di Dio, e de' premj e delle pene
nella vita avvenire(1).A persuaderci di questo nuovo pensamento il valente
autore con molto studiati riscontri d'antichità e con bell'appa rato di
dottrine incomincia ad insegnarci che la Eneide non è già una favola inutile da
raccontarsi ai fanciulli o da rappresentarsi agli oziosi nelle lun ghe sere
d'inverno, ma è un sistema di politica e di morale e di legislazione, per cui
si vuol dilet tarc e istruire Augusto che è l'Enea e l'eroe del poema, e
insieme tutto il mondo romano , e anche il genere umano intero. Per la qual
cosa il poeta assumendo il carattere di maestro in Etica e di le gislatore, usa
i vaticini e i prodigi per contestazione della Provvidenza , e introduce ilsuo
eroe intento ai sacrifici e agli altari e portatore degl' Iddii nel Lazio , e
pieno di tanta religione , che a taluno , cui piaceva di averne meno, sembrò
che Enea fosse più idoneo a fondareunmonastero,che un regno ( 2) . L'amicizia,
l'umanità e le altre virtù sociali entrano nel sistema di legislazione , e la
Eneide n'è piena. Vi entrano ancora i premj e le pene dopo la morte, e il poeta
ne fa amplissime narrazioni. Orfeo , Er cole,Teseo celebri legislatori furono
iniziati nei mi steri , e le loro iniziazioni si espressero simbolica mente con
le discese loro all'inferno. Cosi Enea le gislatore del Lazio si fa discendere
all' inferno per significare la sua iniziazione negli arcani Eleusini, ne'
quali è noto che Augusto ancora era iniziato. E veramente è grande la
similitudine Ira le ceri monie eleusine ei riti della discesa di Enea all in
ferno. Il Mistagogo o Gerofanta , ora maschio , ora ( 1 ) Warburlou Diss. de
l'Initiation aux mystères. (2) S. Euremond presso il Warburton. 352 CAPITOLO
femmina, era il condottiere de proseliti, e la Si billa è la guida di Enea.
Proserpina era la Deità de' misterj, ed è la reina dell' inferno Virgiliano ;
negl'iniziati si volea l'entusiasmo , e in Enea lo vuol la Sibilla. Nel ramo
d'oro sono figurati i rami di mirto dorati, che gl'iniziati portavano e di cui
si tessevan corone. L antro , l'oscurità , le visioni, i mostri , gli ululati,
le formole Procul esto, profa ni, si trovan comuni ai misterj e alla Eneide,
come sono ancora comuni il Purgatorio , il Tartaro e gli Elisi e le esecrazioni
contro gli uccisori di sè me desimi , contro gli Atei e contro altri malvagi .
Di cendo queste ineffabili cose, Virgilio domandaprima la permission degl'
Iddii : E voi, egli dice , Numi dominatori degli animi, e voi tacite Ombre,e tu
Caos, e tu Flegetonte, luoghi ampiamente taciturni per tenebre, concedete ch'io
parli le cose ascoltate, e col favor vostro divulghigli arcani sommersi sotto
la profonda terra e la caliginc ( 1 ) . Questa preghiera dovea ben farsi da chi
sapea gli spaventosi divieti che gl'iniziati sofferivano di non divulgar mai la
tremenda religion dell'arcano. Da quesli, che erano i piccioli misterj, passa
Virgilio ai grandi significati nella beatitudine degli Elisi. Enea si lava con
pura acqua , che era il rito degl' iniziati , allorché dai piccioli erano
elevati ai grandi misterj. Fatta la lu strazione, il pio Trojano e l'antica
sacerdotessa pas sano ai luoghi dell'allegrezza , e alle amene ver dure dei
boschi fortunati e alle sedi beate , ove i campi dal largoaere sono vestiti di
purpureo lilme, e conoscono il loro sole e le loro stelle. I legisla tori, i
buoni cittadini, i sacerdoti casti , gl’inven tori delle arti, e tutti que'
prodi che ricordevoli di sè stessi fecero con le opere egregie che altri si ri
( 1 ) Æncid . VI, 264. CINQUANTESIMOPRIMO 353 cordasser di loro, quivi coronati
di candida benda soggiornano ( 1 ). Queste immagini erano mostrate ne' grandi
misteri, come qui negli Elisi. Adunque le pene e i premj della vita futura
erano ! argo inento della istituzione Eleusinia e del sesto canto di Virgilio.
Finalmente la confutazione del Poli teismo e la unità di Dio era figurata nello
spirito interno alimentatore, e nella mente infusa alle mem bra di tutta la
mole, di che i nostri pii metafisici agguzzaron tanti commenti. Così disse il
dotto Inglese, a cui rendiamo onor grande per la erudi zione e per l'ingegno ,
e mediocre per la rigorosa verità . Ma comechè non consentiam seco in tutta la
serie de' confronti, non sappiam discordare che in quel libro diVirgilio e in
tutto il suo poema non sieno palesi gl'insegnamenti delle sociali virtù , de'
premj e delle pene future, e talvolta non apparisca alcun indizio di sublime
dottrina nel sommo argo mento dell' unica Divinità. Ora per la varietà di
queste sentenze intorno alla filosofia di Virgilio , e perchè già sappiamo che
i begli spiriti e gli ora tori di Roma nel torno di questa età trovavano as sai
comoda quella filosofia, nella quale era usanza prendere da tutte le scuole il
verisimile e l'accon cio alle opportunità, e non si metteano a colpa oggi
essere Stoici e domane Epicurei , e talvolta l'uno e l'altro insieme nel
medesimo giorno ; perciò noi portiamo sentenza che ancora i poeti ( lasciando
stare quegli che strettamente cantarono alcuna par ticolare filosofia , come
Lucrezio e forse Manilio ) usarono le mode istesse de' begli spiriti e degli
ora tori ; e servendo alla scena e al gusto dominante e al comodo, e volendo
piacere al genio superficiale di Augusto e della sua corte , filosofarono alla
gior ( 1 ) Encid. VI, 630. BUONAFEDE. Ist . Filos, Vol. ll . 23 354 CAPITOLO
nata e misero nei loro poémi quella filosofia che l'argomento e il diletto
chiedeano , pronti a met terne: un'altra in bisogno diverso. Se noi vorremo
domandare ai nostri poeti , come trattino la filoso fia nei loro componimenti,
risponderanno che gli aspergono di Stoicismo quando parlano ai nostri Catoni,
di Epicureismo quando lusingano i dame rini e le fanciulle, di Platonismo
quando adulano le pinzochere , senza però giurare nelle parole di quelle scuole
, anzi senza aver mai conosciuto a fondo i loro sistemi. A tale guisa io ho per
fermo che poetasse Virgilio, e gli altri poeti della età di Angusto. Questo
genere d' uomini fu sempre uso a fingere molto e a dir quello che accomoda e
piace, piuttosto che quello che sentono. Quanto alla mo rale di Virgilio,
tuttochè sia stata da alcuni solle vata a grandi altezze ( 1 ), e sia veramente
superiore assai alle dissolutezze degli altri poeti di quella età, si vede in
essa talvolta questo genio di scena e di comodo poetico e di pubblico diletto.
Non dispia ceano a Roma le vittime umane ; piaceano assai gli amori , e
sommamente le conquiste e il sangue de' nemici. Quindi egli conduce il suo
eroe, chedicono essere il maestro della morale virgiliana , ad inmo lare i
prigionieri , a sedurre e tradire Didone , ad uccider Turno supplichevole, a
turbare e conqui star le altrui terre; e allorchè prese a lodare M. Clau dio
Marcello figlio di Ottavia sorella di Augusto, tutta quella amplissima
laudazione che fece pian gere il zio e svenire la madre e che arricchì il poe
ta, si rivolse finalmente nella cavalleresca e guer riera virtù ( 2) a cui non
so se la filosofia non af ( 1 ) Lodovico Tommasini Méthode d'étudier
chrétiennem. les Poéles. R. le Bossu Du Poéme Épique ch. IX. ( 2 ) Du Hainel
Diss. sur les Poésies de Brebeuf.Jacopo Peletier Ari Puélique V. A. Baillet
Jug. des Savans. Des Poétes Lalios. CINQUANTESIMOPRIMO 355 fatto cortigiana
vorrà senza molte restrizioni con cedere questo bel nome.Si potrebbono
amplificar molto le querele filosofiche; ma in tanta copia di ornamenti e di
lodi è giusto usar moderazione ue? biasimi (1 ) Q. Orazio Flacco Venosino,
amico intimo e am miratore di Virgilio , fu non meno di lui ornamento sommo
della età di Augusto. Parve che questi due incomparabili ingegni dividesser fra
loro il regno poetico, e fedelmente si contenessero nei limiti sta biliti , e
l'uno non entrasse mai nella provincia del l'altro. Orazio adunque ceduta la poesia
bucolica , georgica ed epica a Virgilio , assunse la satirica, la epistolare e
la lirica ; e cosi' i due amici potendo essere sommi in tutti questi generi,
amarono me glio esserlo in generi diversi senza emulazione e senza invidia.
Questi, che posson dirsi i Duumviri della poesia latina , ebbero , siccome in
parte si è veduto , campi amplissimni ove seminare le filosofi che doltrine. Ma
Orazio , per lo genio spezialmente della satira e della epistola , gli ebbe
anche mag giori, ed egli usò di questo comodo assai diligen temente per piacere
ad Augusto , a Mecenate e a sè stesso , e alla età sua e alla seguente
posterità. Dappriina educato nelle lettere romane, visitare Atene. Mi avvenne ,
egli dice , di essere nu drito a Roma, e quiviimparare quanto nocesse ai Greci
l'ira –Achille. La buona Atene mi condusse ad arte migliore, e a discernere il
diritto dal torto, e a cercare il vero nelle selve di Accademo. Ma i duri tempi
mi rimosser dal dolce luogo , e il ca lore della guerra civile mi spinse a
quelle arme che non furono eguali alle forze di Augusto. Umile par tü da
Filippi con le penne recise e privo della casa volle poi ( 1 ) Encicl. VI. 356
CAPITOLO furono ag e del fondo paterno : l'audace povertà mi strinse a far
versi ( 1 ). E altrove non ha ribrezzo di raccon tare che nella sconfitta
Filippica militando nelle parti diBruto , fuggi e gettò lo scudo ( a). Così mal
concio venne a Roma, e nato ad altro che a spar gere il sangue degli uomini e
il suo, divenne poeta, ed ebbe parte non infima nell' amicizia di Mecenate e di
Augusto, dai quali ottenne soccorsi alla sua povertà. Da queste avventure fu
raccolto che Ora zio erudito nelle selve di Accademo era dunque Ac cademico. Ma
questo sembrando poco, giunte quelle altre parole di Orazio : La sapienza è il
principio e il fonte dello scrivere rettamente, e le carte socratiche possono
dimostrarlo (3) . Ove si vede l'amor suo grande alle dubitazioni di So crate,
che forse somigliavano quelle di Arcesila e di Carneade. In una bellissima
epistola a Mecenate, la quale è certo scritta nella vecchia età di Orazió o
nella prossima alla vecchiaja, lo sciolgo per ten po , egli dice , il cavallo
che invecchia , acciò non faccia rider le genti ansando e cadendo nella fine
del corso . Depongo i versi e gli altri sollazzi. Le mie cure e le mie
preghiere si rivolgono al vero e all onesto.Adunoe compongo dottrine per usarle
in buon tempo. E perchè niun mi domandi a quale guida e a quale albergo
miattenga, io, non istretto a giurare nelle parole di alcun maestro, vado ove
mi menano i venti. Ora sono agile e m'immerso negli affari civili,ora custode e
seguace rigido della vera virtù , ora furtivamente scorro ne' precetti di
Aristippo, e le cose a me sottopongo , e non voglio io essere sottoposto alle
cose (4). Ove non oscura ( 1 ) Orazio Epist. I. II , 2 . (2 ) Carm . lib. II ,
Ode VII. ( 3) De Arte Poet. ( 4 ) Ep. lib. I , ! . CINQUANTESIMOPRIMO 357
diente si vedono i pensamenti d' un uomo che pren de secondo le occasioni
quello che più gli torna a piacere dalle sette diverse. Fu aggiunto ch'egli
acre mente derise gli Stoici in più luoghi ( 1 ) , il che era secondo il
costume accademico ; e che secondo il medesimo uso affermò e negò le istesse
dottrine sen za eccezione delle più solenni, come la esistenza degl' Iddii , i
prodigj, le cose del mondo avvenire, la provvidenza, il fine dell' uomo; donde
non sola mente dedussero le idee accademiche di Orazio, ma ancora il suo
pirronismo. A queste osservazioni se vorremo sopraggiungere il genio del secolo
e il co. modo dell'Accadernia, e quel di più che abbiam detto della filosofia
di Virgilio , non sembrerà in giusto consentire alle accademiche propensioni di
Orazio ; non mai perd ad un pirronismo esagerato, di cui non possiamo avere
alcun fondamento ; anzi lo avremo in opposito guardando a tante risolute
sentenze sue , e all'abborrimento di tutti i più dotti Romani contro quella
estremità ; e non ha similitu dine di vero che un uom tanto destro ed elegante
volesse esporsi al disprezzo di tutta Roma senza proposito alcuno. Ma comechè
le cose ragionate fin qui sembrino bene congiunte a verità, alcuni pur sono che
vorrebbono Orazio epicureo ( 2). Raccolse le altrui ragioni e aggiunse le sue
per convincerlo di Epicureismo teoretico e pratico Francesco Al garotti in un
suo Saggio della vita di quel poeta. Insegna egli adunque che molti sono i
luoghi epi curei ne' versi di Orazio, perciocchè scrisse in una sua satira di
certo strano prodigio che potea ben crederlo un Giudeo circonciso, non egli,
perchè avea ( 1 ) Satyr. lib. I , 3 ; 11 , 3. (2) P. Gassendo De Vita Epicuri
lib .II, cap. 6.G.A. Fabrizio Bibl. Lat. lib. I, cap. 4. Reimanuo Hist . Alh.
cap. 37. Stollio Hist . Pbil. mor. Geni . J. Brucker I. e. S III . 358 CAPITOLO
porco del apparato che gl' Iddii menan giorni sicuri e non mandan gid essi
dall'alto tetto del cielo le meravi. glie della natura ( 1 ) . E in una
epistola a Tibullo : Come tu vorrai ridere , guarila me pingue e nitido gregge
epicurco (2) . Ma se queste ed al tre parole epicuree vagliono a fare Orazio
epicu reo , varranno adunque le stoiche, le peripatetiche, le socratiche, le
platoniche, lequali sono pur molte ne' suoi versi, a renderlo scolare di quegli
uomini ; e queste varietà non potendo comporsi in uno senza che egli fosse
Accademico , o se vogliamo Eclettico a buona maniera , adunque io non so altro
dedurre salvochè quello che dianzi abbiamo riputato simile al vero. Oltre a
questo abbiam poi una molto so lenne abiurazione dell'Epicureismo in una sua
ode, che è di questa sentenza: Già scarso e rado ado rator degl' Iddii, erudito
in sapienza insana errai; ora mi è forza ritornare indietro. Vedo Iddio che gli
umili cangia coi sommi, e attenua il grande, e mette a luce l'oscuro , e gode
toglier l'altezza di colà e qui collocarla (3 ). E abbiano ancora un an
tiepicureismo in quelle sue magnifiche parole: lo non morrò intero , e la
massima parte di me evi terà la morte (4). La maggior forza però è , siegue a
dire il valente Algarotti, che si vede la conformità grande tra i precetti di
Épicuro e le massime e le pratiche di Orazio. L'uno e l'altro predicarono che
de' pubblici affari non dee inframmettersi il sapien te, che ha da abborrire le
laidezze dei Cinici, efug. gire la povertà e lasciare con qualche opera din
gegno memoria dopo sè, e non farmostra delle cose suc , e dover essere amatore
della campagna, e non ( 1 ) Satyr. lib . 1,5. ( 2) Epist. lib. I , 4 . ( 3) Od.
lib. I , 34. ( 4) Od. lib. III, 30. CINQUANTESIMOPRIMO 359 1 tenere uguali le
peccata , e amare la filosofia, e non temere la morte e non darsi pensiere
della sepol tura ( 1 ) . Ma , secondochè io estimo, questa forma di
argomentazione è cosi burlevole, come sarebbe quell altra , che Orazio fosse
epicureo perchè avea il naso e gli occhi come avea Epicuro ; senza dir poi che
questo discorso medesimo potrebbe abu sarsi per intrudere Orazio in qualunque
scuola; per chè nel vero molti altri maestri erano in Grecia e fuori, che
insegnavano doversi fuggire i pubblici affari e le lordure ciniche e la povertà
, e amare la campagna e il piacere e la utilità, e non brigarsi della morte e
del sepolcro. Adunque non pud es ser provato che Orazio fosse epicureo, perchè
disse molte parole o usate dagli Epicurei insieme con al tri, o anche
rigorosamente epicuree, nella guisa che non può provarsi che fosse stoico o
peripatetico , perchè disse molte sentenze prese dal Peripato é dal Portico ; e
ritorna quello che di sopra fu detto, questa indifferenza per tutte le scuole e
quest'uso appunto di ogni placito che torni a comodo, pro vare solamente la
filosofia accademica di Orazio. Trar poi le frasi oscene ei costumi dissoluti
di Ora zio a prova di Epicureismo , con pace di chiunque io dico che questa
diduzione non è consentanea al vero sistema epicureo , nè all'umano. Abbiam già
veduto altrove che il legittimo orto epicureo non era quella terra immonda che
alcuni si finsero , e possiamo veder facilmente che , riunpetto a molte
oscenità sentenziose di Orazio , moltissime parole sue sono gravi, austere e
diritte per narrazione dei contraddittori medesimi (2). E vediamo tutto dì che
(1) Laerzio in Epicuro. Orazio Epist. lib. I , 1 , 10 , 17; lib. II, 2. Salyr.
lib. II , 4. Od. lib. III , 20 , 30 , e altrove. ( 2) F. Algarolii Saggio sopra
Orazio. V. Francesco Blondel Comp.dePindare et d'Horace. L. Tominasini Mélode
d'étudier ec. A. Baillet I. c. 360 CAPITOLO se la depravazione delle parole e
de' costumi fosse argomento di Epicureismo, oggimai sarebbe epicu. rea tutta la
terra. Stabiliamo per compimento di questo esame, che se vorremo da tutti gli
scherzi canori de' poeti raccogliere inconsideratamente i si stemi e le vite
loro, comporremo piuttosto poemi che istorie. Spargiamo dunque fiori, non
spine, so pra il sepolcro del più filosofo di tutti i poeti. P. Ovidio Nasone
Sulmonese fiori alquanti anni dopo Orazio , nella età anch' egli di Augusto ;
al quale comunquepotesse piacere per la fecondità e per la vivezza , dispiacque
per la lascivia de' versi, o piuttosto, siccome alcuni pensarono e come Ovi dio
medesimo disse , per aver veduto imprudente mente una certa colpa che volle
tacere , e si para gond ad Atteone che fu preda a' suoi cani , percioc chè vide
senza pensarvi Diana ignuda ( 1 ) ; e questa Diana parve a taluno Giulia
sorpresa nelle brac cia di Augusto suo padre ( 2) , e altri indovinarono altri
arcani di oscenità. Ma è molto più giusto ta cere ove tacque Ovidio medesimo,
tuttochè punito ed esigliato alle rive dell'Eusino fosse pienissimo d'i ra, che
fa parlare pur tanto la generazione irrita bile de' poeti. Questo ingegno, nato
per la poesia , amoreggio, e pianse in versi, e fu antiquario , e se gretario
degli eroi e delle eroine anche in versi , e disse le mutazioni delleforme in
nuovi corpi dalla origine del mondo fino a' suoi tempi ; e sempre in versi,
perchè s'egli prendea a scriver prose, usci vano versi spontanei suo malgrado.
Nel molto nu mero de' suoi poemi il più reputato per serietà e per certo
condimento filosofico è quello che ha per titolo le Metamorfosi ; delle quali
benchè sia stato ( 1 ) Ovidio De Ponto lib. II , el . IX; lib . III el. III.
Tristium II et lll , e altrove. (2) V. P. Bayle art. Ovide, B , K.
CINQUANTESIMOPRIMO 361 detto che sentono la decadenza della buona Lati nità e
preparano il mal gusto che poi sopravven ne , e mostrano il fasto giovanile ( 1
) , noi pensiamo di poter dire che sono certamente menogiovenili delle altre
poesie di Ovidio , e ch' egli medesimo, il qualepotea giudicarne quanto i
nostri critici dili cati, le tenne in gran conto, e poichè l' ebbe com piute ,
Io, disse , ho tratta a fine un'opera che nè l'ira di Giove, nè il fuoco , nè
il ferro , nè la vo race vecchiaja potrà abolire. Quel giorno che sul corpo
solamente ha diritto, metta amorte quando vorrà lo spazio diquesta vita
incerta. Con la parte migliore di me volerò sopra le stelle, e il nome no stro
sarà indelebile. Dovunque la romanapotenza nelle terre vinte si estende , sarò
letto dalla bocca del popolo ; e se niente hanno di vero i presagi de' vati,
viverò per fama nella eternità de' secoli ( 2). Senza involgerci ora nell'
esame delle virtù poeti che diquesto componimento, o epico o ciclico ch'ei
voglia dirsi, o di una azione o di mille , o contra rio ad Omero e ad
Aristotele , o favorevole ai poe tici libertinaggi, di che gli scrittori
dell'arte sapran no disputare;noi diremo piuttosto della meraviglia grande che
questo poema eccitò con le narrazioni di tanti mutamenti di forme, i quali non
si seppe mai bene che cosa significassero. Chi dicesse che questi sono delirj
d'un poeta infermo per febbre, direbbe forse lo scioglimento più facile della
qui stione , ma non il più verisimile, nè il più cortese alla fama e
all'ingegno di Ovidio. Onde vi ebbe chi disse, sotto quelle metamorfosi
ascondersi la serie Jelle mutazioni della nostra terra, e un certo siste ma di
storia naturale ( 3) ; il che parendo poco ido ( 1 ) V. A. Baillel l . c. (2)
Metamorph. lib. XV. ( 3) Roberto Stooekio Act . Erud . 1907. G. A. Fabrizio
Bibl . Lat. vol. II. 362 CAPITOLO neo a spiegare tutte quelle favole, fu
soggiunto che le idee di Pitagora, di Empedocle e di Eraclito e la mitologia e
la opinione corrente a quel tempo sono le chiavi di quello enimma. Il
perspicace War burton immagindche le metamorfosi sorgono dalla metempsicosi; e
che siccome questa è la condotta della Provvidenza dopo la morte, così quelle
lo sono per lo corso della vita: e in fatti Ovidio dapprima espone le
metamorfosi come castighi della scelle raggine, e poi introduce nell'ultimo
libro Pitagora ad insegnare ampiamente la metempsicosi ( 1 ). Que sto è il più
ragionevole aspetto che possa prestarsi a quel poema; e se per molte gravi
difficoltà non è forse affatto vero , meriterebbe di essere per la bellezza del
pensiere e per onore del nostro poe ta . Già altrove abbiamo parlato con
qualche dili genza della famosa cosmogonia e teogonia di Ovi dio, e della
diversità sua dagli altri sistemi de' poeti greci, e del Dio anteriore al Caos
e agl'Iddii sub alterni, il quale è Uno e Anonimo nella descri zione Ovidiana (
2) . Diciamo ora alcuna cosa del l'accennato luogo delle Metamorfosi ove
Pitagora è introdotto ad insegnare il suo sistema della me tempsicosi, accompagnato
coi pensieri di Eraclito e di Empedocle; imperocchè ivi è scritto che gli
uomini attoniti per la paura della morte temono Stige e le tenebre, ei nomi
vani e gli argomenti de' poeti, e i falsi pericoli del mondo : che le anime non
muojono, ma lasciando la prima sede vivono e alloggiano in nuove case : che
tutto si muta , niente finisce: che lo spirito erra , e di colà viene qui, e di
qui altrove, e occupa tutte le membra , e dalle fiere trascorre ne' corpi
umani, e da questi in quel 6) Warburton Diss. IX . ( 2) Metamorp. lib. I. V. il
cap. XVII e XVIII di questa Istoria. CINQUANTESIMOPRIMO 363 le , e non si
estingue in tempo veruno : che niente è fermo in tutto il giro , e ogni cosa
scorre a so miglianza di fiume, e ogni vagabonda immagine si forma ( 1 ) .
Chiunque vorrà legger tutta intera que sta prolissa narrazione, potrà conoscere
che qui ve ramente parla Pitagora; ma poi tanto vi parla an cora Empedocle ed
Eraclito , e tanto Ovidio me desimo , che finalmente non s'intende chi parli. A
dunque il nostro poeta non puddirsi professore di niuna di queste sette, e pare
molto più giusto pen sare ch'egli o era Accademico, o niente. La serie di
questi poeti e il genio di Augusto e del secolo appresentano un sistema quasi
generale di filosofia accademica , e perciò non si può ameno di ripren dere la
franchezza del Deslandes e di altri, che senza pensare più oltre affasciano
insieme Augusto , Me cenate, Agrippa, Virgilio , Orazio, Ovidio, Tibul lo ,
Properzio , Livio , e tutti gli altri grandi uomini di quella età , e li dicono
Epicurei ( 2 ). Si vorrebbe separare da questa general regola M. Manilio, il
quale intitold ad Augusto un poema delle Cose Astronomiche, e si mostro
contrario agli Epi. curei e favorevole agli Stoici ; e, Chi vorrà credere,
disse , che il mondo e tante moli di opere sieno pro dotte da corpuscoli minimi
e da cieco concorso ? Una natura potente per tacito animo e un Iddio è infuso
nel cielo , nella terra e nel muré , e go verna la gran mole, e il mondo vive
per movimento d'una ragione, e lo Spirito Uno abita tutte le par ti , e inaffia
l’orbita intera , la quale si volge per Nume divino , ed è Iddio, e non siadunò
per ma gisterio di forluna ( 3). Per queste e per altre parole ( 6 ) Metarnorp.
XV. ( 2) Deslandes Hist. cril. de la Philos. lib . VII , cap. 30. V, P.
Gassendo l. c . (3) Manilio Astronom . I , II et IV . .364 CAPITOLO di Manilio
fu immaginato ch'egli non era Accade mico , ma Stoico e Panteista e precursore
dello Spi noza ( 1 ) . Noirichiamiamo a memoria le cose dette qui degli altri
poeti del tempo di Augusto , e più innanzi degli Stoici, e affermiamo che un
verso o due che involti in dubbj e in equivoci possono sen tir forse un poco di
Stoicismo, non fanno uno Stoi co perfetto , e quando pur lo facessero, uno
Stoico non è un Panteista nè uno Spinoziano. Se le ingiurie de' secoli, che
dispersero tanta parte della Istoria di T. Livio Padovano, non avessero affatto
distrutti i suoi dialoghi istorici insieme e fi losofici, e i suoi libri in cui
scrivea espressamente della filosofia (2) , io credo che noi potremmo co
noscere la filosofia della età di Augusto molto più chiaramente che per tutte
le immagini poetiche delle quali finora abbiam detto, e inoltre potremmo ve
dere a quale sistema si atteñesse egli stesso. Ma non rimanendo altro di lui
che parte della sua Istoria , i curiosi ingegni hanno voluto raccoglier da essa
un qualche assaggio della sua filosofia ; e alcuni lo hanno dileggiato come un
superstizioso narrator di miracoli assurdi e un uom credulo e popolare. Ma per
le clausole filosofiche apposte a molte narra zioni di prodigj ( 3) , e per la
fede istorica onde ri putò necessario raccontare le pubbliche opinioni e i casi
scritti negli annali e nelle memorie antiche , fu molto bene difeso. Giovanni
Toland, vaneggian. do di volerlo difendere assai meglio , lo gravò della
maggior villania ; perocchè lo fece tanto poco su perstizioso, che lo trasformò
in Ateo , e poi lo com ( 1 ) A. Collin De la liberté de penser. Gio. Toland
Orig. Ju daic G. L. Mosemio ad Cudwort System. int. cap. 4 , S 20. J. Brucker
1. c. S V. ( 2) SenecaEp.100. G.A.Fabrizio Bibl. Lat. vol. I. )(3) Lipiec
20.Gxva CINQUANTESI MOPRIMO 365 mendo come uomo di buon senno e di esquisito
giudizio, e come un saggio filosofo e un ingegno elevato ( 1 ). Queste arditezze
furono confutate am piamente ( 2) ; e noi lasciando pure da parte molte altre
sentenze di Livio , lo confuteremo con una sola , ove di certi tempi romani
disse : Non ancora era venuta la negligenza degl'Iddii, che ora tiene il nostro
secolo , nè ognuno a forza ďinterpreta zioni si formava comodigiuramenti e
leggi, ma piut tosto ai giuramenti e alle leggi si accomodavano i costumi ( 3).
Queste parole non sono del Catechi. smo degli Atei. Agatopisto
Cromaziano, di Buonafede. Appiano Buonafede. Tito Benvenuto Buonafede. Keywords:
storiografia filosofica, filosofia antica, filosofia romana antica. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Buonafede” – The Swimming-Pool Library.
Buonamici (Firenze). Filosofo. Grice: There are many Buonamici, so you
have to be careful – this one is a genius – he taught at Pisa, in the M. A.
programme, both Aristotle’s Poetics – imitazione, il tragico, -- and his
‘motus’ – Galileo happened to be his tutee, and the rest is the leaning tower!”
Frequenta lo Studio di Firenze, dove segue il corso del l'umanista Vettori (si
conservano alcune lettere scambiate tra i due). Filosofo naturale e latinista,
si ispira molto agli antichi testi che commenta (Aristotele, Nicomaco…). Tutore
di Galilei a Pisa. Altre opere: “De Motu libri X, quibus generalia naturalis
philosophiae principia summo studio collecta continentur, necnon universae
quaestiones ad libros de physico auditu, de caelo, de ortu et interitu
pertinentes explicantur, multa item Aristotelis loca explanantur et Graecorum,
Averrois, aliorumque doctorum sententiae ad theses peripateticas diriguntur,
apud Sermartellium (Firenze); Discorsi poetici nella accademia fiorentina in
difesa d'Aristotile. Appresso Giorgio Marescotti (Firenze); “De Alimento libri
V, B. Sermartellium juniorem” (Firenze). Galilei, De motu antiquiora” “Quaestiones
de motu elementorum”. BUONAMICI (Francesco)GentiluomoFiorentino,eMedico,eraLet tore di
Filosofia con gran concorso di Scolari (1) nell'Università di Pifa-nel 1569
(2), e nel 1575 (3) . In detta Università avendo Giulio de' Libri altro
Profesfore tacciato il Buonamici, come quello che citaffe testi falfi, questi
una mentita gli diede ; ed effendo state gettate da alcuno in fua scuola certe
cor na , il Buonamici così diffe : Si vede che costui debbe avere in tafa
grande a b éondanza di questa mercanzia, poichè ne porta qua . Egli v insegnò
quaranta tre anni » e letto aveva due volte tutto San T o m m a f o , e in
ultimo gli erano pagate quattrocento feffanta piastre di provvifione . Il buon
gusto nelle belle Lettere congiunse allo studio delle facoltà più gravi ; fu
Accademico Fiorenti no (4); e godette della stima de Granduchi di Toscana (5),
da quali, ficco me eglisteffoafferma(6),
findagiovinettofunodritoeornatodigradiono revoli. Morì ad Orticaja vicino a
Dicomano , ove , ficcome anche alle P a n cole , aveva un Podere ; nel 16o4
(7), e lasciò tutto il fuo ad uno Speziale. Fu
recitatadaAttilioCorfiinquellaPievefulCadavereun’Orazionfunera V. II. P. IV. -
В b b le, (1) Poccianti, Catal. Script. Florentin. pag. 73. (4) Salvini , Fasti
cit. pagg. 248. e 282. (6) Buonamici, Dife.orf.Poetici,DiscorsoVIII.pag іЯў.
annoverò fra i principali Peripatetici di quello Studio . (7) Salvini , Fasti
cit. pag. 355. (3) Poccianti , loc. cit. di Firenze nel Tom. VI. Par. IV. a
car. 55. e fegg. ove (5) Bianchini , Ragionamenti intorno a' Granduchi ,
2318 B U O N A M I C I. le , e a’ 27. di Maggio nell' Accademia
Fiorentina altra Orazione funerale venne recitata da Tommafo Palmerini (8). Di
lui hanno parlato con lode diverfi Scrittori citati dall'Autore delle N o tizie
Letter. ed Istoriche dell'Accademia Fiorentina (9), e dal P. Negri (1o) , il
qual ultimo noi fiam di parere che sbaglj , ove fra gli autori che hanno
parlato del Buonamici registra anche il Crescimbeni , il quale non di questo, m
a di Gio. Francesco Buonamici di Prato ha parlato , ficcome nell' articolo
diquest'ultimodiremo:.IlnostroFrancescofcriffediverfeOpere, lequali, febbene da
alcuni fieno d'ofcurità tacciate (11), fanno conofcere il fuo fape re, la fua
fingolare dottrina, e la sua cognizione anche della Lingua Greca . Eccone il
Catalogo : - I. Francifci Bonamici Florentini e primo loco Philosophiam
ordinariam in almo Gymnasio Pifano profitentis De Motu Libri X. quibus
generalia naturalis Philoso phie principia fummo studio collećfa continentur -
Nec non universe Questiones ad Libros de Physico Auditu , de Cælo , de Ortu és
Interitu pertinentes, explican tur. Multa item Aristotelis loca explanantur ,
či Græcorum Averrois , aliorumque Dostorum Fententie ad Thefes peripateticas
diriguntur ec. Florentiæ apud Bartho lomeum sermartellium1591.infogl.Fu
affailodatoilmetododiquest'Opera, di cui il Piccolomini era uno de' principali
ammiratori . II. Discorsi Poetici detti nell'Accademia Fiorentina in difesa
d'Aristotile . In Firenze per Giorgio Marescotti 1597. in 4. con Dedicatoria a
Baccio Valori fegnata dalle Pancole a XIX. di Fettembre del 1587 (12). In
questi Difcorfi , che fono VIII. risponde alle oppofizioni fatte dal
Castelvetro ad Aristotile . III. De alimentis Libri V. ubi multe Medicorum
Tententie delibantur , ở cum Aristotele conferuntur. Complura etiam Problemata
in eodem argumento notantur, ở quibusdamexGræcaLeếtionepriftinusnitorrestituitur.Venetiis16o1.in4(13);
e Florentie apud Bartholomeum Fermartellium Juniorem 16o3. in 4. IV. Una sua
Lezione fatta sopra ilSonetto del Petrarca, che incomincia : Quando 'l Pianeta
che diffingue l'ore , - nell’A c c a d e m i a F i o r e n t i n a s o t t o il
C o n f o l a t o d i T o m m a f o d e l N e r o a 3 o . d i Ottobre del 1569,
fi conserva a penna in Firenze nel Cod. 1259. della Libre ria Strozziana (14).
V. Lećiiones super I. és 11. Meteororum . Queste Lezioni fopra l’argomento
delle meteore (cui affermava il medefimo Buonamici , per testimonianza di
Monfig. S o m m a i , d' aver per difficilistimo , rispetto alla difesa d'
Aristotile che giudicava effere stato mirabile nelle cofe che appariscono al
fenfo »,ma nell’altre affai ambiguo) efiftevano a penna in Firenze nella
Libreria de Si gnori Gaddi fra Codici mís, paffati , per compera fattane da
Francesco I.I m eradore felicemente regnante, e Granduca di Toscana , l'anno
1755. nella 鷺 Laurenziana al Cod.
8o5. num. 2. - VI. Filippo Valori (15) fcrive che lasciò delle fue fatiche
fopra la Metafifi ca , ed altro, la quale Metafifica poffeduta da diverfi ,
ebbe in R o m a qualche difficoltà a stamparsi per alcune cofe Filosofiche
stampate anche ne Libri De motu,
ficcomeaffermailsuddettoMonfig.Sommai.IlPoccianti(16)famen Z1OI) C
(8)CosìaffermailSalvinine Fasticit.acar.355.
stentiapennanelTom.III.dellenostreMemorieMSS.
NonfoppiamoPertantoconqualfondamentoilP.Negri
acar.835.fiaffermachealBuonamicomancavadistin nell’紫
degliscrittoriFiorent.acar.188.aflerifcache
zione,echiarezza,echediventassefemprepiùoscuro,
indettaAccademiafuAttilioCorficheinfuamortere-
perchèpigliavalefueLezioni,eleandavaritoccando,e
citòl’OrazionefuneralequandoilCorfilarecitòsulca
ripulendo,ecomeegliintendeva,epresupponevailmede davere nella Pieve, ove fu
depositato . fimo degli altri , a poco a poco le ridase inintelligibili , (9)A
car.214. febbenefettenelfondamentofemprefaldoelefueLezio (1o)
for.degliScrittoriFiorentini,pag;187.Ol niantichefonolemigliori. tre gli
Scrittori citati dal Negri parla con lode di lui anche Filippo Valori ne’ Termini
di mezzo rilievo ec, a Caľ, 7• (11) Si vegga Filippo Valori ne” Termini cit. a
car. 7. In alcune Memorie scritte da mano di Monfig. Girola mo Sommaī, ed
inferite nelle Schede Magliabechiane efi (12) Catalog. della Libreria Capponi ,
pag. 89. (13) Lipenio , Bibl. real. Medica , pag. i1. (14)Salvini,Fafficit.pag
zoz. (15) Loc. cit. (16) Loc. cit. - - I697. in foglio volante .
(17) Loc. cit (18) oservaz, fopra i Sigilli antichi , T o m . I: pag. 19. (19)
Efistono presso di noi nel Tom. III. delle nostre - Memorie mfs. a car. 835.
(zo) Descrizione della Provincia del Mugello, pag. 265. 5 B U O N A M I C I.
2319 zionedecommentar.inLogicamở EthicamlasciatidalnostroAutore;ilNe gri (17)
accenna un fuo Traćiatus Logice efiftente ms. nella Libreria del P a lazzo
Ducale de' Medici , il quale è indirizzato a Lelio Torello Giureconful to, e
incomincia : Multa profećio, variaque_ec; e ilchiariffimo Sig. Domeni co Maria
Manni (18) fa ricordanza d'una Cronica fcritta a mano da France fco Buonamici
efiftente nella Libreria Gaddi pure in“Firenze . Dalle schede Magliabechiane
comunicateci dal chiariffimo Sig. Canonico Angiolo Maria Bandini (19)
apprendiamo ch'era opinione che il Cavaliere Aquilani aveffe molti Scritti e
Opere da stamparfi del nostro Autore . D a ciò che abbiamo fin qui detto ci
fembra di poter afferire che il nostro Autore fia diverso da quel Dottor
Francesco Buonamici morto a 23. di Set tembre del 16o3. il quale ha il suo
deposito nella Chiefa del Piviere di S. B a bila detto anche S. Bavello e S. Bambello
nella Provincia del Mugello in T o fcana , ilquale di tutta la sua eredità
lafciò che foffe fatto un fondo per m a n tenimento a Pisa di tre giovani parte
di S. Gaudenzio, e parte di Dicomano con obbligo di addottorarfi , del quale fa
menzione il Dott. Giuseppe Maria Brocchi(2o), ma
senzaaccennarefefiaScrittored'Operaalcuna. V” è stato anche un Francesco
Giuseppe Buonamici , di cui fi ha alle stam pe un Elegia, ed un Epigramma in
Lingua Latina per la nafcita di Giacomo Augusto Lorenzo Ferdinando Maria figlio
d'Amedeo del Pozzo ec. In Milano. Francesco
Buonamici. Keywords: Aristotele, filosofia naturale, Galilei, razionalismo,
aristotelismo pisano, de imitazione – aristotele – poetica – mimica – de motu –
muggerbrydge --. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Buonamici” – The Swimming-Pool Library.
Buonarroti. Grice: “Some call him Michelangelo, but that’s rude!” -- See the study of Buonarroti’s Moses by Freud,
“filosofia”
Buonsanti
(Ferrandina). Filosofo. Grice: “I like Buonsanti; Strawson calls him a
veterinarian, but I call him a philosopher,, for surely he is a philosophical
zoologist – he philosoophised, like Aristotle did, on the comparative
physiology and anatomy of ‘human’ and pre-human.!” Esponente di spicco della
storia della medicina veterinaria italiana ed europea è stato una delle figure
più rappresentative della Scuola veterinaria milanese. Diresse l'Enciclopedia medica italiana edita
da Vallardi e La Clinica veterinaria (di cui fu anche fondatore). Altre opere: Dizionario dei termini antichi e
moderni delle scienze mediche e veterinarie Manuale delle malattie delle
articolazioni Trattato di tecnica e terapeutica chirurgica generale e speciale
La medicina Veterinaria all'Estero, organizzazione dell'insegnamento e del
servizio sanitario. Dizionario Biografico degli Italiani. Nicola Lanzillotti
Buonsanti. Keywords: etimologia di ‘veterinario’ -- animale; filosofia e
medicina nella Roma antica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Buonsanti” – The
Swimming-Pool Library.
Buonsanto (San Vito dei Normanni). Filosofo. Grice: “Buonsanto is a
good one – I call him the Italian Wittgenstein; he talks of a reasoned grammar
(grammatical ragionata) and not of rules but regoletta – and he like Austin speaks
of the genius (il genio) del linguaggio – he speaks of a ‘philosophical
approach’ to grammar – of ‘proposizioni’ and the rest – of etimologia, and
sintassi, so he is into implicature!”
Filosofo pontaniano italiano. Nato nella cittadina salentina nell'allora
via Vento (oggi via Cesare Battisti), qui compie i suoi primi studi classici. Fattosi
domenicano, non ancora ventenne, entra nel convento dei Padri predicatori di
San Vito dei Normanni, ove si dedica allo studio della filosofia
scolastica. Diventando educatore, si
distingue per le sue idee innovatrici nei metodi didattici, diventando ben
presto un vero luminare del pensiero pedagogico della cittadina. Diventa anche
un attivo sostenitore del movimento repubblicano, e insieme al notaio Carella,
porta dalla vicina Brindisi un albero di naviglio per piantarlo, in segno di
libertà, nella piazza antistante il Castello. Le sue convinzioni, però, lo
costringono a fuggire da San Vito ed egli ripiega prima a Ostuni e poi a
Martina Franca, da cui raggiunge, da ultimo, il convento di San Domenico a
Napoli, dove muore. La città natale ha
dedicato al suo nome una scuola media cittadina. Dizionario Biografico degli Italiani. Altre
opere: “Etica iconologica”; “Il sistema metrico”; “Geografia” “Storia del Regno
di Napoli”; “Antologia Latina”; “Sistema d'istruire i giovanetti”. By planting
the tree, Buonsanti meant that he wanted peace. Etica iconological: children
learn by imitating: ‘sistema per educare i giovinetti” -- Vito Buonsanti. Vito
Buonsanto. Keywords: Peirce, icon, Grice, iconic, iconologia, eicon, icon:
Peirce, icon, Grice, iconic, iconologia, eicon, icon. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Buonsanto” – The Swimming-Pool Library.
Burgio (Palermo). Filosofo.. Grice: “You gotta love Burgio: my
favourite of his philosophical pieces are his study on the tradition,
development and problems of ‘dialettica’ – from Athenian onwards – and his
explorations of contractualism, since I’ve been called one – a contractualist I
mean, as so was Grice [G. R. Grice].” -- Alberto Burgio Deputato della Repubblica
Italiana LegislatureXV Legislatura Gruppo parlamentareRifondazione Comunista
CoalizioneL'Unione CircoscrizioneLombardia 3 Incarichi parlamentari giunta per
il regolamento; XI Commissione (Lavoro pubblico e privato); Commissione
esaminatrice del premio Lucio Colletti dal 28 luglio 2006 Dati generali Partito
politicoPRC Titolo di studioLaurea in lettere e filosofia Professionedocente
universitario Alberto Burgio (Palermo), filosofo.. Nato a Palermo il 13 maggio 1955, dal 1993
insegna Storia della filosofia presso l'Bologna. È stato eletto deputato al
Parlamento della Repubblica alle elezioni politiche del 2006 (XV
legislatura). Si è occupato
prevalentemente di storia della filosofia politica e di filosofia della storia
con studi su Rousseau e l'idealismo classico, la teoria della storia tra Kant e
Marx e il marxismo italiano (Labriola e Gramsci), il razzismo e il
nazismo. Altre opere: “Filosofia
politica: eguaglianza, interesse comune, unanimità” (Napoli, Bibliopolis). Rousseau,
la politica e la storia. Tra Montesquieu e Robespierre, Milano, Guerini);
“Robespierre” (Napoli, La Città del Sole); “Italia pre-aria” (Bologna, Clueb);
“L'invenzione dell’ario” Studi su razzismo e revisionismo storico, Roma, manifestolibri);
“Nel nome dell’ario. Il razzismo nella storia d'Italia” (Bologna, Il Mulino); “Modernità
del conflitto. Saggio sulla critica marxiana del socialismo, Roma, DeriveApprodi);
“Struttura e catastrophe” Kant Hegel Marx, Roma, Editori Riuniti); La guerra
dell’ario, Roma, manifestolibri); Gramsci storico. Una lettura dei
"Quaderni del carcere", Roma–Bari, Laterza); “La forza e il diritto.
Sul conflitto tra politica e giustizia” (Roma, DeriveApprodi); Guerra. Scenari
della nuova "grande trasformazione", Roma, DeriveApprodi); “Labriola
nella storia e nella cultura della nuova Italia, a cura di, Macerata, Quodlibet);
Escalation. Anatomia della guerra infinita, (Roma, DeriveApprodi); “Il contrattualismo”
(Napoli, La Scuola di Pitagora); “Dia-lettica, co-loquenza:Tradizioni,
problemi, sviluppi” (Macerata, Quodlibet); “Per Gramsci. Crisi e potenza del
moderno, Roma, DeriveApprodi); “Manifesto per l'università pubblica” (Roma,
DeriveApprodi); “Senza democrazia. Un'analisi della crisi, Roma, DeriveApprodi);
“Nonostante Auschwitz. Il ritorno del razzismo in Europa, Roma, DeriveApprodi);
“Rousseau e gli altri. Teoria e critica della democrazia tra Sette e Novecento,
Roma, DeriveApprodi); “Il razzismo, con Gianluca Gabrielli, Roma, Ediesse); “Identità
del male. La costruzione della violenza perfetta” (Milano, FrancoAngeli); “Gramsci.
Il sistema in movimento, Roma, DeriveApprodi); “Questioni tedesche, a cura di,
Mucchi, Modena, («dianoia»). “Orgoglio e
genocidio. L'etica dello sterminio nella Germania nazista” (Roma, DeriveApprodi);
“Il sogno di una cosa. Per Marx, Roma, DeriveApprodi); “Critica della ragione
razzista, Roma, DeriveApprodi. Any Oxford philosophy tutor who is
accustomed to setting essay topics for his pupils, for which he prescribes
reading which includes both passages from Plato or Aristotle and articles from
current philosophical journals, is only too well aware that there are many
topics which span the centuries; and it is only a little less obvious that
often substantially 66 Paul Grice similar positions are
propounded at vastly differing dates. Those who are in a position to know
assure me that similar correspondences are to some degree detectable across the
barriers which separate one philosophical culture from another, for example
between Western European and Indian philosophy.
Alberto Burgio. Keywords: filosofia aria, filosofia occidentale – Grice: the
east and west --. “Those in a position to know” ostrogoto, longobardo, ario,
ariano, mistica, scuola di mistica, lingua, religione, l’italia longobarda,
l’italia ostrogota -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Burgio” – The Swimming-Pool Library.
Burtiglione.
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