STUDI LEOPARDIANI Il primo di questi scritti usci nella Rassegna bibliografica della letteratura italiana di A. D'Ancona, xv (1907). Il secondo nella Critica, IX (1911), 142-51 e 467-80. Il terzo nella stessa Critica, XV (1917), 384-88. Tutti e tre furono riprodotti nei Frammenti di Estetica e Letteratura, Lanciano, Carabba, 1921, pp. 299-346, I. LA FILOSOFIA DEL LEOPARDI Si ha alle stampe un’ Esposizione del sistema filosofico di Giacomo Leopardi *. E una dissertazione di laurea, e reca infatti l’impronta comune a tutti i lavori giovanili. L’inesperienza apparisce nello stesso titolo del libro, un po’ troppo prosaico, e incongruo col contenuto del libro, che non vuol essere propriamente un’esposizione fatta dall’autore del sistema filosofico del Leopardi; ma ap¬ punto questo sistema, portato innanzi al lettore con le stesse parole del Leopardi; non volendo l’autore da parte sua aggiungervi se non prefazione, note ed epilogo. Metodo anche questo alquanto ingenuo e da scrittore che non vede ancora la necessità, chi voglia rappresen¬ tare nella sua unità logica e nell’organismo delle sue parti il pensiero d’un filosofo, d’appropriarsi questo pensiero, entrarvi dentro, mettendosi allo stesso punto di vista del filosofo, e quindi in grado di rielaborare il suo pensiero, chiarendolo con le attinenze storiche a cui è legato, e con le dilucidazioni intrinseche di cui logica¬ mente è suscettibile, salvo a mostrarne, ove occorra, la inconsistenza: in modo che l’esposizione riesca una vita nuova del sistema filosofico nella mente dell’espositore. ’ Pasquale Gatti, Esposizione del sistema filosofico di Giacomo Leopardi, saggio sullo Zibaldone, Firenze, Le Monnier, 1906, 2 voli. 32 GIOVANNI GENTILE Lavoro difficile, certo, e che non riesce felicemente se non agli scrittori provetti; ma che nessuno ordinaria¬ mente crede di potere schivare, se non limiti il proprio ufficio a quello di semplice editore; e tutti ne escono alla meglio, esponendo i vari sistemi come ciascuno li ha intesi. L’autore di questo libro, invece, ha voluto mettere insieme i passi dello Zibaldone leopardiano, mostrando come fil filo un pensiero si svolgesse dall’altro; e dove la connessione non appariva evidente nelle parole del testo, ha supplito di suo i legamenti opportuni, ma con¬ tinuando a parlare, in prima persona, a nome del Leo¬ pardi: proprio come se questi avesse riordinata e orga¬ nizzata quella copiosa congerie di riflessioni già via via segnate sulla carta a schiarimento del proprio pensiero e a sfogo della sua malinconia. Né ha lontanamente so¬ spettato il rischio, e stavo per dire la responsabilità, a cui andava incontro, facendo parlare per la sua bocca lui, il Leopardi. Ha creduto che nello Zibaldone stesse, pezzo per pezzo, tutto un sistema; e non ha saputo re¬ sistere al seducente disegno d’innalzare, con la semplice composizione degli stessi materiali leopardiani, la statua del filosofo sul piedestallo finora vuoto. Laddove è chiaro che, se anche nei pensieri inediti del Leopardi fosse im¬ plicito un sistema perfetto di filosofia, la via di ritro- varvelo e dimostrarvelo non poteva essere questa scelta dall’autore. Ma veniamo all’argomento. L’autore, come già altri, ha creduto che, se le opere edite ci avevan dato il Leo¬ pardi poeta, questi inediti Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura venuti ultimamente in luce, ci scopris¬ sero il Leopardi filosofo. Questa era anche la tesi dello Zumbini nel suo studio Attraverso lo Zilbaldone, da cui il nuovo studioso manifestamente prende le mosse, di¬ stinguendo due fasi principali della filosofia pessimistica MANZONI E LEOPARDI 33 del Leopardi: nella prima delle quali il dolore sarebbe conseguenza della civiltà; nella seconda, della stessa natura; donde prima una concezione storica del pessi- niismo, e poi una concezione cosmica. Ma lo Zumbini non insisteva sul valore sistematico di questa filosofia leopardiana; e, d’altra parte, nel secondo volume dei suoi Studi sul Leopardi, esaminando le Operette morali, veniva in realtà a mostrare come tutto il succo di quelle riflessioni dello Zibaldone, le conclusioni di quel lungo soliloquio che dal 1817 il Leopardi aveva fatto seco stesso per iscritto, fossero appunto condensate nelle Operette. 11 Gatti, invece, ha esagerato fuor di misura la tesi dello Zumbini, cominciando col cancellare quelle differenze cronologiche, che lo Zumbini aveva badato bene a man¬ tenere tra i vari Pensieri (datati, com’ è noto, dal Leo¬ pardi) : cancellarle a disegno, per poter adoperare i singoli pensieri liberamente come parti integranti d’un sistema logico. Ora, lo Zibaldone comprende centinaia e centi¬ naia di pensieri annotati come si formavano giorno per giorno nella mente del Leopardi attraverso ben (juindici anni {1817-32) : periodo lungo per ogni vita, lunghissimo per quella del Leopai'di, che in 39 anni forse non visse meno che il Manzoni in 78. Esso è anzi il diario degli anni in cui si svolse la vita morale del poeta, e offre perciò, com’ è stato notato, un riscontro a tutti i senti¬ menti, a tutti i pensieri già noti dai canti e dalle prose da lui stesso pubblicate. Ed è chiaro che, se in questi sette volumi abbiamo, per dir così, i segreti documenti di tutto il lavorìo intimo di quello spirito, non potremo apprezzarli nel loro giusto valore, se prescindiamo dalle loro rispettive date; perché a chi scrive ogni giorno le proprie riflessioni, la verità è quasi la verità di quel giorno: e quel lavoro di sistemazione e organizzazione, per cui di tutti i pensieri slegati si possa fare un tutto coerente, manca. *— Gentile, ifa» 2 ont e Leopardi. 34 GIOVANNI GENTILE Il Gatti protesta che non va imputato a sua «poca accortezza qualche salto anacronico, a dir così, facile a rilevarsi, che qua e là avvicinerà pensieri cronologicamente molto lontani fra loro ». E la sua ragione sarebbe questa : «Tali salti, mentre da un lato ci forniscono ancora una prova evidentissima e incontrastabile della profonda ri¬ pugnanza.... provata dal Leopardi per una concezione cosmica del dolore, rivelano nettamente, d’altronde, il proposito nell’Autore di rifare spesso a ritroso coll’ im¬ maginazione la via già percorsa dal pensiero allo scopo di viemmeglio assicurarsi che non battesse falsa strada, e così riprendere, sempre jiiù sicuro di sé, il cammino, allorché quella linea immaginaria d’orientamento non gli avrà mostrata altra via da battere per giungere alla mèta prefìssa» (I, 70). Cioè, se ho capito bene; a dilucida¬ zione di pensieri anteriori il Gatti stima di poter addurre pensieri di un tempo più avanzato, anche quando occorra ammettere avvenuto nell’ intervallo un cambiamento sostanziale di pensiero, iierché il Leopardi rifà talvolta con l’immaginazione la via già percorsa col pensiero, e già superata. Ci sarebbero certi « pensieri di ritorno », o « ritorni immaginari », per cui, secondo il Gatti, non bisogna credere che il Leopardi contraddica al suo jien- siero posteriormente acquisito, anzi lo lasci intatto, ma, per certa ripugnanza sentimentale alle più accoranti ve¬ rità, per un bisogno del cuore ili certi temperamenti, torni per un momento agli ameni inganni, o alla mezza filosofia d’una volta. Ma per immaginario che sia, un ritorno siffatto nella mente del Leopardi, se noi cre¬ diamo di poter fissare questa nella coerenza di certi pen¬ sieri definitivi, è evidente che non può essere altro che una contraddizione. Di che, qua e là, il Gatti è costretto, quasi suo malgrado, ad accorgersi, e a cercarvi una sa¬ natoria. Sanatoria inutile, se egli avesse rinunziato a pretendere dal Leopardi, nelle sue stesse intime confes- MANZONI E LEOPj'VRDI 35 sioni, queU’unità sistematica che non era nella natura di tali confessioni. E non era neppure nella natura dello spirito del Leo¬ pardi, che fu un poeta, un grande, un divino poeta, ma non fu un vero e proprio filosofo. Che fa che egli abbia tante volte protestato di possedere una sua filosofia ? Allo stesso modo del Leopardi, più o meno, chiunque si ritiene in grado di giudicare dei sistemi dei filosofi, ossia di mettersi, non dico alla pari, ma al di sopra di costoro, e insomma di affermare una filosofia propria che possa aver ragione di quei sistemi. E dal proprio punto di vista chiunque, così facendo, ha ragione; e aveva ragione il Leopardi ; perché in fondo a ogni mente umana, sopra tutto in fondo a quella dei grandi poeti, è incon¬ testabile l’esistenza di una filosofia: e però è lecito par¬ lare così di una filo.sofia del Leopardi, come di una filo¬ sofia del Manzoni, dell’Ariosto, di Shakespeare, di Omero. Ma questa filosofia dei poeti non è la filosofia dei filosofi, e bisogna trattarla, per non snaturarla e non distrug¬ gerla, con molta delicatezza. Una delle differenze più notabili tra la filosofia dei poeti e quella dei filosofi è che il poeta può averne una, se è capace di averla, in ogni singola poesia; laddove il filosofo che dice e disdice, e muta sempre la sua dot¬ trina, non ha nessuna dottrina. Il Leopardi è in pieno diritto, come poeta, di affrontare il problema del dolore, sempre da capo, con nuovo animo, con considerazioni nuove, da un nuovo aspetto, ora maledicendo alla virtù, ora inneggiando all’amore onde l’umana compagnia deve stringersi contro il fato. Ogni poesia, ogni prosa del Leo¬ pardi è infatti una situazione d’animo nuova; quindi una nuova vista dello stesso dolore che domina l’anima del poeta; un nuovo concetto, una filosofia nuova, che solo trascurando le differenze essenziali, che in una poesia e in una prosa del genere di quelle del Leo- 36 GIOVANNI GENTILE pardi son tutto, si può rappresentare come sempre identica. Egli è che il poeta, checché si proponga e dica di aver fatto, non espone propriamente una filosofia: ma esprime soltanto un suo stato d animo, occupato, deter¬ minato e quasi colorito da certi pensieri dominanti. Abbozza in se medesimo (e quindi in un diario intimo) una filosofia prov\TÌsoriamente sufficiente ad appagare i bisogni della propria ragione (che non sono poi grandi in uno spirito prevalentemente poetico); e questa filo¬ sofia, in quanto profondamente sentita, in quanto vita della propria anima, diventa materia di poesia. Di poesia anche in prosa; perché, in sostanza la prosa leopardiana è anch’essa poesia, cioè espressione piena di certi stati d’animo del Poeta, diversi da quelU manifestati nei Canti per lo sforzo che nella prosa come nei Paralipomeni il Leopardi fa di costringere il sentimento spontaneo dentro r intenzione ironica, satirica, che gli fece appunto pre- f0rire la prosa al verso. Ma in realtà, nelle Operette come nei Canti c’ è il Leopardi con la sua filosofia tetra e col suo candore, col suo disprezzo degli uomini e col suo grande amore per essi; con tutte quelle contraddizioni, che altri ha studiosamente cercate in lui, e che sono il vero segno caratteristico del suo spirito poetico e non filosofico. La filosofia vera e propria non deve aver niente del¬ l’anima individuale di chi la costruisce. Essa è una li¬ berazione assoluta compiuta dal filosofo dai limiti della soggettività; è una contemplazione, diciamo così, d’una verità eterna, in cui il filosofo, come persona particolare, si dimentica di se stesso, e dei suoi dolori, e di tutte le tendenze affettive dell’animo suo. La filosofia di Spi¬ noza, la cui \dta e il cui animo han parecchi punti di somiglianza con quelli del Leopardi non presenta nes- • Cfr. F. Tocco, Biografia di B. Spinoza, nella Rivista d’ Italia, a. II (1899). voi. I. pp. 262-63. MANZONI E LEOPARDI 37 suna traccia, non offre nessuno indizio di sentimenti personali. K veramente una visione del mondo sub specie aeternitatis, come egli diceva, in cui la personalità del filosofo scompare. La filosofia dei poeti, si potrebbe dire, scompare nell’animo dei poeti stessi; l’animo dei filo¬ sofi. invece, scompare nella loro filosofia. Onde una volta noi abbiamo innanzi una persona determinata, viva in tutto l’agitarsi dell’animo suo; un’altra volta, un si¬ stema di concetti, in sé. Certo, tra le due filosofie non c’ è un taglio netto, che divida i filosofi dai poeti; ma il pessimismo leopar¬ diano è, come è stato tante volte osservato, così impre¬ gnato di elementi ottimistici, così logicamente frammen¬ tario e contradittorio, e d’altra parte così poeticamente coerente e vivo, che lo scambio non è possibile. Noi pos¬ siamo studiare, dunque, la sua filosofia, ma come vita del suo spirito, materia della sua poesia. Studio, ripeto, molto delicato; perché in esso non bisogna mai lasciarsi sfuggire che la realtà vera, a cui bisogna aver l’occhio, non è questa filosofia in se medesima, astratta materia della poesia, ma la poesia appunto, in cui quella filosofia è per acquistare la vita che uno spirito poetico è capace di comunicarle. La filosofia quindi va studiata per inten¬ dere la poesia, e valutata in quanto poesia, per quella vita poetica che riuscì a vivere nello spirito del Poeta. La pubblicaizione dello Zibaldone ha fortemente con¬ tribuito a fare smarrire questo criterio. Ci s’ è trovata innanzi la materia grezza della poesia leopardiana, quella tal filosofia, che il Leopardi rimuginava dentro se stesso, e che, per quanto confidata a uno Zibaldone, non aveva pregato nessuno di mettere in pubblico: quella filosofia, che egli destinava a far materia di espressione più per¬ fetta, cioè di opera poetica; e che infatti divenne in parte materia di canti e di dialoghi (com’ è stato osser¬ vato, ma merita di essere particolarmente studiato). 38 GIOVANNI GENTILE E dimenticando che pel Leopardi tutti questi materiali non avevano valore per sé, ma l’avrebbero acquistato soltanto quando egli li avrebbe trasformati, qualcuno s’è detto : o eccoci finalmente innanzi la filosofia del Leopardi! — No, questi sono i detriti della sua poesia: tutto ciò che la sua forza poetica non avvivò, non tra¬ sfigurò, o rinnovò interamente, avvivandolo e trasfigu¬ randolo nel suo canto e nella sua satira. E produce davvero una strana impressione il proce¬ dimento seguito dal dott. Gatti, che riferisce nel testo certe informi osservazioni dello Zibaldone, e a sussidio di esse, in nota, luoghi delle Operette o versi dei Canti, in cui gli stessi pensieri assursero a forma artistica. Il perfetto fatto servire all’imperfetto; la poesia ridotta a documento d’un suo documento ! Ecco un esempio di filosofia documentata con poesia. In un pensiero del io luglio 1823 * il Leopardi s era domandato; — Che vale per noi questa «miracolosa e stupenda opera della natura, e l’immensa egualmente che artificiosa macchina e mole dei mondi ? ». A che serve, dunque, questo ’ « infinito e misterioso spettacolo dell’esistenza e della vita delle cose », se « né resistenza e vita nostra, né quella degli altri esseri giova veramente nulla a noi, non valendoci punto ad esser felici ? ed es¬ sendo per noi l’esistenza, così nostra come universale, scompagnata dalla felicità, eh’ è la perfezione e il fine dell’esistenza, anzi l’unica utilità che resistenza rechi a quello ch’esiste ?» — Qui, in verità c’ e tutta la Idosofia del Leopardi. Ma che significano queste sue interroga¬ zioni ? Esse non possono aver altro significato che questo, che, non sapendo concepire il fine dell’esistenza umana * Zibald., V. 88-89. ^ Queste giunture frapposte alle parole del Leopardi sono del Gatti, che riassumo e in questo caso mi pare modifichi leggermente il senso del testo. MANZONI E LEOPARDI 39 e mondiale se non come felicità, e non vedendo, d’altronde, che tal fine sia o possa mai esser raggiunto, egli, Giacomo Leopardi, finisce col non sapersi più spiegare quale possa essere il fine di quest’universo, che pur nella sua arti¬ ficiosa costruzione e nella sua vasta armonia farebbe pensare a un’ intima finalità. Qui non è affermata una verità obbiettiva; è bensì manifestata la situazione per¬ sonale del poeta: situazione, che sarà jierfettamente espressa quando il Leopardi ci dirà tutta la risonanza che questo suo ondeggiare tra il concetto di una finalità eudemonistica universale e il dubbio suUa validità di tal concetto ha neU’animo suo; quando da questo suo per¬ petuo ondeggiare (che non è filosofia, ma atteggiamento filosofico, o filosofia soltanto iniziale e potenziale), egli sarà ispirato al Canto notturno di un pastore errante del¬ l’Asia (1829-30), che il Gatti reca a confronto e conforto di quelle note dello Zibaldone. Nel Canto notturno il Leo¬ pardi dice con l’energia della fantasia commossa quello che nelle note fugaci del diario era sommariamente ac¬ cennato, quasi appunto o traccia del canto. E quando miro in cielo arder le stelle. Dico fra me pensando: A che tante facelle ? Che fa l’aria infinita, e quel profondo Infinito seren ? che vuol dir questa Solitudine immensa ? ed io che sono ? Cosi meco ragiono: e della stanza Smisurata e superba, E dell' innumerabile famiglia; Poi di tanto adoprar, di tanti moti D’ogni celeste, ogni terrena cosa. Girando senza posa. Per tornar sempre là donde son mosse; Uso alcuno, alcun frutto Indovinar non so. Qui veramente c’ è l’anima tormentata dal dubbio che non ci sia un fine nel mondo; e non è il dubbio astratto 40 GIOVANNI GENTILE di un filosofo, ma il dubbio che irrompe neH’anima di un poeta, che mira in cielo arder le stelle, quasi tante faci accese a illuminare il mondo; e sente l’infinità del¬ l’aria, il sereno profondo infinito (elementi di grande commozione, com’ è noto, per il Leopardi), e l’immensità della solitudine attorno alla propria persona non dimen¬ ticata {ed io che sono P) né dimenticabUe perché palpi¬ tante; ecc. Qui c’è, non più il germe d’una filosofia, ma l’uomo Leopardi, intero, con l’ansia e il terrore che gh desta lo spettacolo dell’ infinito misterioso, muto al dolore di lui che vi si sente dentro smarrito. C’ è anche, innegabilmente, un dubbio filosofico : semphce dubbio («qualche bene o contento avrà /o;'s’altri.... Forse s’avess’ io l’ale.... più febee sarei, o forse erra dal vero b mio pensiero, Forse in qual forma.... è funesto a chi nasce il dì natale); ma come elemento o momento della lirica grande. La pubblicazione dello Zibaldone, badiamo bene, è stata, in fondo, una certa quale indelicatezza, che nessun onesto avrebbe giustificato, vivo il Leopardi, e che non si permise infatti il Ranieri, intimo del Poeta e conscio deUe sue intenzioni e del valore da lui attribuito al pro¬ prio diario. Ognuno che scriva e stampi, pubblica soltanto queUo che gli par compiuto secondo il fine a cui, più o meno consapevolmente, mira scrivendo. Un poeta non beenzia al pubbbeo le tracce e gli abbozzi delle sue poesie. Anzi, questi antecedenti naturali del suo prodotto arti¬ stico, ha un certo schivo pudore di mostrarli al pub¬ bbeo: sono il suo segreto. Sono infatti cosa sua perso¬ nale; laddove quello che egli crede arte, gb par bene appartenga, o possa appartenere, a tutti gb spiriti. Certo, r interesse storico, il legittimo e nobile desiderio d’in¬ tendere le opere del genio, mediante la conoscenza più larga che sia possibile della sua anima, bastano a giu¬ stificare la pubblicazione di siffatti abbozzi, come degb MANZONI E LEOPARDI 41 epistolari intimi, che svelano, senza riguardi, i più gelosi segreti delle persone, le quali a un certo punto si finisce col credere che appartengano agli altri più che a se stesse. Ma questa giustificazione non deve farci dimenticare che gli abbozzi del poeta, sono abbozzi delle sue poesie, come gli appunti provvisori del filosofo sono antecedenti spesso superati e rifiutati della sua filosofia. Ad ogni modo non si dovrà mai pretendere d’attribuire ad essi altro valore che di sussidio a intendere quelle opere, che rappresen¬ tano la conclusione definitiva del poeta e del filosofo. Tutto questo, si potrebbe osservare, sarà un bel di¬ scorso; ma è troppo generale ed astratto. Bisogna vedere al fatto, se il Leopardi, dopo gli studi del dott. Gatti, ci apparisca nello Zibaldone un vero filosofo. Potrei ri¬ spondere con un altro discorso astratto, sostenendo che è ben difficile che uno stesso genio possa essere insieme poeta e filosofo; richiedendosi alla poesia un’attività, che la filosofia necessariamente combatte e mortifica. Ma penso a Dante: unico, secondo me, e se non sempre, quasi costantemente mirabilissimo esempio dell’energia, onde è capace lo spirito umano, di individualizzare e stringere nella fantasia e nel sentimento di un’anima singolarmente potente il sistema più intellettuahstica- mente universale ed astratto che la storia della filosofia ci presenti: penso a quella fusione e unità quasi sempre perfetta d’un sistema miracolosamente vario e armonico di fantasmi che son pure astratti concetti: unità, che non si finisce e non si finirà mai di studiare nella Divina Commedia ». E preferisco perciò una risposta particolare e concreta, che è questa. Tutto il mio discorso generale io r ho fatto appunto a proposito del Leopardi, dopo ■ Alla quale per questo rispetto non credo si possa paragonare, ma a distanza grandissima, altro che il Faust: dove l’unità dell’opera, come arte e come filosofia, rimase lungi dall’esser raggiunta. 42 GIOVANNI GENTILE aver letto attentamente il saggio del Gatti. Libro, che non ò certo inutile, perché molti schiarimenti particolari a concetti del Leopardi da uno studio così attento e minuzioso dei Pensieri si hanno; c molti istruttiva raf¬ fronti, oltre quelli già fatti dal Losacco e dal Giani, vi sono opportunamente istituiti tra pensieri del Leopardi e luoghi di Helvétius, di Rousseau, di Maupertuis e degli altri autori del Poeta; ma insufficiente a dimostrarci la tesi che il Gatti s’era proposta, che nella mente del Leo¬ pardi si fosse organizzato un sistema filosofico; atto anzi a dimostrare il contrario, per lo stesso esame accurato che ci dà dei Pensieri leopardiani con l’intento di ca¬ varne un sistema. 11 sistema non c’ è. C’ è la travagliosa meditazione sui fantasmi del Poeta; ci sono le accorate riflessioni, che gli suggerirono quei jiroblemi che furono il tormento e la musa perpetua del suo spirito: ma non più di questo. Il Leopardi lo ritroveremo sempre nel disperato lamento de’ suoi canti e nel sorriso amaris¬ simo e pur soave delle prose. 11 materialismo della sua metafisica, il sensismo della sua gnoseologia, lo scetticismo finale della sua episte¬ mologia, l’eudemonismo pessimistico della sua etica sono nei pensieri inediti, come in tutti gli altri scritti già noti, i motivi costanti del breve filosofare leoparebano : ma sono spunti filosofici, anzi che principii d’un pensiero sistematico; sono credenze d’uno spirito addolorato, anzi che veri teoremi di un organismo speculativo. Le sue pretese dimostrazioni non vanno mai al di là dell’osser¬ vazione empirica; e non servono ad altro che a dirci come vedev^a le cose Giacomo Leopardi. In lui non trovi né anche una critica della ragione, come in Montaigne o in Pascal, a cui per molti riguardi somiglia. Ma un prendere di qua e di là proposizioni contestabili, e accettarle come verità assiomatiche e principii di deduzioni pessimistiche. Passione v^era per MANZONI E LEOPARDI 43 a speculazione il Leopardi non ebbe mai. Non studiò nessun grande sistema filosofico: egli, conoscitore e stu¬ dioso dei classici, non si sforzò mai d’intendere il pen¬ siero di Platone e di Aristotele. La sua storia della filo¬ sofia antica ò tratta da Diogene Laerzio, da Plutarco o altri dossografi. Del Medio Evo non studiò nessuna filo¬ sofia. Di Cartesio, di Spinoza, di Hume non conobbe neppur nulla. Lesse Locke, ma come si leggeva nel se¬ colo XVIII. Di Leibniz sorrise come Voltaire, non so¬ spettando in alcun modo la profondità del suo pensiero Ebbe una vernice di cultura filosofica, come l’avevano allora tutti i letterati; ed ebbe velleità di filosofo; ma la sua vera indole, quella che noi dobbiamo guardare in lui, è r indole poetica, convinti che fuori della sua poesia il suo pensiero, a considerarlo nel \-alore filoso¬ fico, è molto mediocre. Non entrerò nei particolari della esposizione del Gatti. Ma non voglio tacere che quella filosofia pratica edilicatrice, che egli, con lo Zumbini, giirstamente mette in rilievo di contro alle conseguenze negative della sua filosofia teoretica, non ha niente che vedere coH’odierna filosofia prammatistica, a cui egli studiosamente la rac¬ costa, per dimostrare così la modernità del pensiero leopardiano. Quella filosofia pratica è il retaggio dello scetticismo da Pirrone in poi: il quale ha contrapposto sempre la vita alla scienza, e salvata almeno quella dal naufragio di questa. Salvataggio operato ora con la na¬ tura, ora col sentimento, ora con la volontà, e in gene¬ rale con un principio irrazionale, o concepito come tale, che, appunto perciò, non contraddice aUo scetticismo fondamentale. Il Leopardi ricorre all’ immaginazione e a un certo qual senso dell’animo, che fan contrappeso agli argomenti dolorosi della ragione e bastano a confortarci a vivere. Né anche questo principio, del resto, è svilup¬ pato. Certo, esso non giova a chi presuma di vedere nel 44 GIOVANNI GENTILE Recanatese un precursore del James e degli altri pram- matisti d’oggi, i quali non sono scettici, benché in realtà abbiano una dottrina negativa del conoscere; non vedono nell’attività pratica un surrogato dell’attività teoretica: ma unificano le due attività, e immedesimano la verità con l’utile, in modo che quel che giova credere, sia esso stesso il vero; laddove quel che gioverebbe credere, secondo Leopardi, sarebbe né più né meno che un’ illu¬ sione. La differenza tra Leopardi e James è la differenza profonda tra lo scetticismo di tutti i tempi e il nuovo prammatismo, che si professa dottrina essenzialmente dommatica e positiva. II. UNA STORIA DEL PENSIERO LEOPARDIANO Gli studi del Gatti furono ripresi cinque anni dopo (1911) da Giulio A. Levi *, uno degl’ ingegni più fini tra gh studiosi di letteratura italiana, e dei più valenti e competenti interpreti del pensiero leopardiano; ma con altro criterio e altro intendimento. E io son lieto di leg¬ gere al principio del suo libro le seguenti parole; «Fu tentato da Pasquale Gatti, e parzialmente dal Cantella, di ordinare e comporre in un sistema filosofico i ]')ensieri dello Zibaldone leopardiano; con esito che non poteva essere altro che infelice; quando si pensi che sono rifles¬ sioni scritte giorno per giorno, senza disegno prestabilito, per lo spazio di circa quindici anni, da quando prima il poeta adolescente cominciò a voler pensare col suo cervello, fino aUa sua piena maturità ». Che fu uno degli argomenti principali che a suo tempo io opposi al ten- ' storia del pensiero di C. L., Torino, Bocca, 1911. MANZONI E LEOPARDI 45 tativo del Gatti. E sono interamente d’accordo col Levi che lo Zibaldone, con gli ondeggiamenti e gli sforzi spe¬ culativi di cui ci conserva i documenti, può esser ma¬ teria alla storia (anzi, alla preistoria) del pensiero del poeta, la cui forma definitiva va piuttosto cercata nei prodotti più maturi, dove parve all’autore d’avere im¬ pressa l’orma definitiva del suo spirito, nei Canti e nelle Operette. Questa è, in sostanza, l’idea centrale del saggio del Levi, e conferma pienamente il mio giudizio sul va¬ lore e sull’ interesse dello Zibaldone. Questa idea bensì nel libro del Levi non apparisce netta e ferma quanto si potrebbe desiderare, costretta com’ è dall’autore ad andare in compagnia di certi prin- cipii direttivi, che oscurano, a mio avviso, la visione esatta di taluni momenti dello sviluppo del pensiero leo¬ pardiano e turbano il giudizio sulla sua forma ultima. Cosi, quando comincia a notare che io ho ecceduto « ne¬ gando a priori allo Zibaldone ogni interesse speculativo, per la qualità stessa dell’autore; il quale sarebbe bensì un osservatore acuto, ma troppo essenzialmente poeta, dominato interamente dal sentimento, e perciò di pen¬ siero incoerente, mutevole e spesso contradittorio », egli, da una parte, esagera e àltera il mio giudizio sullo Zi¬ baldone e, in generale, su tutta l’opera del Leopardi; e dall’altra, accenna a un concetto (che non manca su¬ bito dopo di dichiarare esplicitamente), il quale non gli può consentire una ricostruzione storica non arbitra¬ riamente soggettiva, ma razionalmente giustificabile del pensiero leopardiano. In primo luogo, non è esatto che io abbia negato o voglia negare ogni interesse speculativo allo Zibaldone e tanto meno alle poesie e alle Operette morali', anzi sono disposto a riconoscere che tutta la poesia del Leopardi non abbia altro contenuto, in tutte le sue forme e in tutti i suoi gradi, che il problema speculativo, nei termini, 46 GIOVANNI GENTILE s’intende, in cui egli poteva e doveva porlo. Quel che ho negato e nego è; i) che nello Zibaldone ci sia del pensiero del Leopardi qualche cosa di più che non fosse negli scritti da lui pubblicati; qualche cosa che, dal punto di vista del Leopardi, fosse già pervenuto a quel punto di maturità spirituale, di verità, in cui il Leopardi s’ac¬ quetò, a giudicare dalle opere con cui egli stesso volle entrare nella nostra letteratura; qualche cosa che possa nello Zibaldone farci vedere nulla di diverso {si parva licei componere magnis) da quelle note, onde ognuno di noi si prepara ai suoi lavori, e che, compiuti questi, quando ci pare d'averne spremuto bene tutto il succo, si buttano al fuoco; e tanto più volentieri, quando dalle note alla stesura dei nostri scritti le idee nostre si siano venute correggendo e integrando in più logica compat¬ tezza ' ; 2) che si possa adeguatamente valutare la gran¬ dezza del Leopardi, facendogli il conto del tanto di ve¬ rità speculativa che è nella sua poesia: poiché, a pre¬ scindere da ogni dottrina sulla natura della poesia, basta considerare le critiche profonde e ineluttabili, onde quella verità fu superata da uno spirito, che ebbe inizialmente una profonda simpatia congeniale col Leopardi, il Gio¬ berti (specialmente nella Teorica del sovrannaturale. ' A p. vili il Levi scrive: « Fii detto che la pubblicazione del Diario sia stata un'indelicatezza, quando il Leopardi medesimo di questa pubblicazione non aveva pregato nessuno. Oh si, sarebbe un indeli¬ catezza esporre quelle cose agli occhi bene aperti d’un pubblico di pedanti, i cjuali spiegherebbero con trionfo gli errori del grand'uomo che si viene formando. Ma chi ha già imparato ad amarlo e a vene¬ rarlo, può accostarsi senza scrupoli a tutte quante le sue reliquie... ». Se il Levi con le prime parole si riferisce a quel che scrissi io nella Rass. bibl. tett. U., xv (1907), p. 179 [ora qui sopra p. 40] mi rincresce di dovergli rispondere che egli non ha inteso lo spirito della mia affer¬ mazione. La quale mirava soltanto a chiarire che dello Zibaldone non ci si può servire se non come di documento della formazione del pen¬ siero del Leopardi, la cui forma ultima dobbiamo per altro cercare sempre nelle opere che da <iuegli abbozzi trasse l'autore, e pubblicò egli stesso come sole degne di sé. MANZONI E LEOPARDI 47 nel Gesuita e nella Protologia), in pagine che il Levi non anteporrebbe di certo né pur a quelle dello Zi¬ baldone. L vero che « nei sistemi filosofici le parti più caduche sono spesso quelle dovute alle esigenze di sistema ». Ma ciò non dimostra che la filosofia non è sistema, anzi di¬ mostra che è: perché gli errori di questo genere non si scoiarono dal critico se non come errori della costruzione del sistema, ossia come divergenze dalla costruzione che, secondo lui, sarebbe più conforme alle verità fondamen¬ tali intuite d<al filosofo. E se U critico non rifacesse per suo conto la costruzione del sistema, non avrebbe modo di discernere nel sistema criticato il vero dal falso, nato dunque non dal sistema, ma dal falso sistema. Giacché un giudizio che affermasse immediatamente : questo è vero, e questo è falso, senza dimostrazione di sorta, non credo che pel Levi sarebbe un giudizio per davvero. E vero, d’altra parte, che la coerenza del pensiero non è privilegio dei filosofi, di contro ai yioeti; se per filosofi s’intende i filosofi storicamente esistenti, Socrate, Pla¬ tone, Aristotele ecc., e per poeti quelli che sono realmente vissuti o vivranno. Omero, Dante, Shakespeare, ecc. Per tutti costoro, non c’ è dubbio, secondo me, Iliacos intra muros peccatur et extra. D’incoerenze, di maglie rotte nel sistema, ce n’ è state, e ce ne sarà sempre, da una parte e dall’altra. Ma noi non possiamo parlare di Omero poeta e di Platone filosofo senza un concetto del poeta e del filosofo, e cioè della poesia e della filo¬ sofia: le quali, come funzioni dello spirito, trascendono la storia, che è la concretezza stessa della realtà spiri¬ tuale. E soltanto alla poesia e alla filosofia come funzioni trascendentali dello spirito si possono assegnare caratteri distinti, dei quali quello che è della poesia in quanto tale non sarà della filosofia, e per converso. Nella storia tutte le funzioni concorrono in un’unità 48 GIOVANNI GENTILE concreta, in cui il poeta, essendo anche filosofo, partecipa del carattere dello spirito che è filosofia; e il filosofo, essendo pure poeta, partecipa del carattere dello spirito che è poesia, sempre. E la rigida e salda distinzione delle funzioni astratte cede il luogo alla plastica e mobile di¬ stinzione della storia, che fa essa stessa la divisione dei grandi spiriti nelle due schiere dei poeti e dei filosofi, secondo che negli uni prevale il momento poetico e negli altri il momento filosofico; onde la distinzione e però la categorizzazione del giudizio critico sono poi, ogni volta, funzioni di giudizio storico, concreto. Perché il Leopardi va considerato come poeta, e non come filosofo ? Perché, se conosco il Leopardi sto¬ rico, quale si formò e quale si espresse nel suo canto, io ci vedo bensì dentro una filosofia; ma questa filosofia la vedo chiusa, compressa, fusa e assorbita nella intui¬ zione immediata che questo spirito ha della sua perso¬ nalità materiata di cosiffatta filosofia; per cui dico che egli non rappresenta una filosofia, ma la sua anima; e poiché il suo occhio è tutto intento alla risonanza tutta soggettiva, in cui vive per lui un certo, oscuro, vago e frammentario concetto del mondo, la verità è per lui, e dev’essere per me che lo giudico, non in questo con¬ cetto, ma nella vita di esso, in quella tale risonanza, nella sua Urica. Beninteso che, per quanto oscuro, vago e frammentario, quel concetto sarà pure un concetto, che avrà una chiarezza e saldezza organica sufficiente alla logicità dello spirito lirico, e quindi per lui assoluta. E non ci sono principii astratti ed estrastorici che pos¬ sano segnare a priori i limiti della filosoficità del concetto che vive neUa Urica del poeta. Ma ciò non toglie che la distinzione non perda mai la sua ragion d’essere, e che non si possa mai trascurare, volendo rilevare, a volta a volta, il valore deUo spirito rispetto alle sue forme es- senziaU ed assolute. MANZONI E LEOPARDI 49 r Ma, dice il Levi, «la grandezza in tutte le sue forme è in fondo una sola, grandezza morale ed umana; e se è suprema esigenza etica che la nostra vita sia azione, ed abbia un senso; non sarà fuor di luogo nei poeti, di cui sentiamo la grandezza, sospettare qualche cosa di più che la passività del sentimento, o l’attività dell’espres¬ sione: sospettare e cercare un’attività etica con un suo senso determinato e costante ». Ond’egli si propone di cercare negli scritti del Leopardi «per quah vie egli giunse alla sua profonda intuizione, e potè prendere un atteg¬ giamento interiore costante e sicuro di fronte all’uni¬ verso ». — Ebbene, tutto questo è molto vago perché possa servire di criterio alla storia del pensiero di un poeta. Se la grandezza in tutte le sue forme è una sola soltanto « in fondo », bisogna pure che si rispettino le differenze tra le varie forme, in cui unicamente è pos¬ sibile che quello che è in fondo venga su, e si manifesti, e assuma così una forma storica determinata. E se è suprema esigenza etica che la nostra vita sia azione, posto, com’ è necessario, che le suddette forme della I grandezza, o, più modestamente, dello spirito, siano più d’una, oltre la suprema esigenza etica, ci saranno (dato pure c non concesso che questa sia la radice di tutte) altre esigenze supreme : come quella che la vita sia poesia, e che la vita sia filosofia; le quah, se il Levi ci riflette bene, s’avvedrà che non sono meno supreme, anche per la sua posizione, in cui l’azione è fondamentalmente un ^ atteggiamento dell’uomo di fronte all’universo : poiché ; quest’atteggiamento o è un pensiero, o l’imphca; e questo pensiero, dovendo essere una filosofia, non può non es¬ sere anche una poesia. ' In realtà, quel che cerca il Levi nel poeta, non è la ! soddisfazione di una esigenza etica, bensì una metafisica, I una rivelazione della ragione dell’esser nostro o del regno soprannaturale dei fini: e con l’occhio a questa mèta. 4. —- Gentile, Manzoni e LeoiHirdi. 50 GIOVANNI GENTILE pur accennando qua e là all’ identità del valore poetico e del valore del contenuto filosofico della poesia, egli non si propone nemmeno, in nessun punto del suo libro, il problema dei rapporti tra arte e filosofia, e non mira quasi mai al giudizio estetico dell’arte leopardiana; ma si restringe a tracciare la linea di svolgimento del pensiero che c’ è dentro, e che egli crede abbia assunto la sua forma finale in una specie di individualismo romantico corrispondente alle tendenze dello stesso Levi. Dirò bensì che la distinzione tra arte e filosofia accenna a svanire nel pensiero dell’autore appunto pel concetto meramente estetico, più che etico, di questa filosofia romantica a cui egli aderisce: quantunque pur in questo concetto la differenza permanga e obblighi il Levi a far violenza, qua e là, al pensiero del Leopardi per dargli queUa siste¬ maticità, che è necessaria anche a una filosofia indivi¬ dualistica. Il risultato degli studi del Levi, in breve, è questo. Nel pensiero del Leopardi si devono distinguere due pe¬ riodi; uno come di distruzione e dissoluzione dell’uomo, l’altro di affermazione e ricostruzione dell’uomo stesso; ; il quale allora si contrappone aUa natura pessimistici^- ! mente e agnosticamente concepita in cui termina il primo periodo, e si aderge in tutta la sua grandezza, che è la j sua stessa infeUcità, o piuttosto la coscienza della sua p infelicità. 11 primo periodo terminerebbe verso la fine | del 1823, e sarebbe rappresentato, sostanzialmente, dallo 1 Zibaldone', il secondo comincerebbe, presso a poco, nel J gennaio 1824, quando il Leopardi pose mano alle Ope- ^ rette morali', a proposito delle quali il Levi scrive giusta- # mente ; « Fa onore al buon gusto e al senso critico del 1 Leopardi l’aver lasciato da parte tutto quello ch’egU l sentiva estremamente ipotetico nelle sue teorie inrorno jS alla storia dell’ incivilimento e agli intenti dcUa natura, ?. e l’aver esposto definitivamente per il pubblico solo il ^ MANZONI E LEOPARDI 51 nocciolo essenziale dei suoi pensieri intorno alla virtù e alla felicità umana » *. Insomma, anche pel Levi, lo Zibaldone è il periodo jelle indagini e dei tentativi (de’ suoi sette volumi i primi sei giungono al 23 aprile 1824): il periodo, in cui il Leopardi cerca tuttavia se stesso, e ancora non si ri¬ trova qual era nella sua giovinezza e all’ inizio del suo speculare: «pieno d’ardore per la virtù, e assetato di felicità, di bellezza e di grandezza ». La riflessione, in questo periodo, che comincia intorno al ’20, si stringe addosso a quest’ ideali, che erano la vita dello spirito leopardiano; e non riesce a giustificarli, anzi h corrode e distrugge. Che cosa è il bello ? e il bene ? e il vero ? e il talento ? Movendo dal sensismo, che negava lo spi¬ rito e non vedeva altro che la natura, tutti i valori dello spirito si dileguano facilmente dagli occhi del giovane pensatore, poiché perdono tutti la loro assolutezza, la loro apriorità. Ma da ultimo la vita stessa, che prende in lui il dolore di questo dileguo di tutti gl’ ideah, si desta nell'esser suo di coscienza, e prorompe in una espressione ingenua della verità disconosciuta: espressione, che ferma giustamente l’attenzione del Levi; e giustamente gli fa segnare questo momento come principio d’un nuovo periodo dello svolgimento del Leopardi, ma comincia ad essere interpretata alla stregua del difettoso concetto che egli ha delle attinenze della poesia con la filosofia, e a far deviare quindi tutta la sua interpretazione del secondo periodo. 11 Leopardi, il 27 novembre 1823, scriveva nel suo Diario : « Bisogna accuratamente distinguere la forza dciranima dalla forza del corpo. L’amor proprio risiede neH’animo. L’uomo è tanto più infelice generalmente quanto è più forte e viva in lui quella parte che si chiama * Storia, p. 121 . 52 GIOVANNI GENTILE anima. Che la parte detta corporale sia più forte, ciò per se medesimo non fa ch’egli sia più infelice, né ac¬ cresce il suo amor proprio. — Nel totale e sotto il più dei rispetti [l’infelicità e l’amor proprio] sono in ragione inversa della forza propriamente corporale.... La vita è il sentimento dell’esistenza. — La materia (cioè quella parte delle cose e dell’uomo che noi più pecuharmente chiamiamo materia) non vive, e il materiale non può esser vivo e non ha che far colla vita, ma solamente coll’esistenza, la quale, considerata senza vita, non è capace di amor proprio, né d’ infelicità ». « Quello che in questo luogo il Leopardi chiama sen¬ timento vitale, o vita», avverte esattamente il T.evi, « è manifestamente la coscienza ». Ma continua : « Di qui innanzi egli negherà ancora in astratto la no¬ zione metafisica dello spirito (al che egli ha avuto cura di tenersi aperta la strada colle circonlocuzioni ■ quella parte dell’uomo che noi chiamiamo spirituale ’ e ' quella parte delle cose e dell’uomo che noi più peculiar¬ mente chiamiamo materia'). A questo lo movevano il suo bisogno di concretezza, e l’avversione a tutto 1 accattato e il falso ch’ei sentiva negli entusiasmi spiritualistici dei romantici. Ma, praticamente, rispetto a sé e rispetto all’uomo in generale, egli ha fermato con suffi¬ ciente sicurezza la nozione di ciò che in esso è di natura spirituale e della sua dignità». Ora qui è il piincipio del maggiore equivoco, in cui si dibatte poi il Levi in tutta la sua interpretazione del Leopardi. Nel luogo citato del Diario c’ è la coscienza della vita, ma non c è la coscienza (il concetto) di questa coscienza; il Leopardi sente la pro¬ pria grandezza come uomo sugh animaU e sugli esseri inferiori, e la propria grandezza come Leopardi sugli uomini comuni, come potenza di essere infehce. ma non pone mente che egli è grande, non perché infelice, ma perché conscio della sua infelicità ; cioè non vede 1 esser MANZONI E LEOPARDI 53 cuo nella coscienza che si eleva al di sopra del dolore, e lo impietra, nell’arte; e però non si può a niun patto asserire che possegga la nozione della propria natura spi¬ rituale e della propria dignità di contro alla natura. Infatti il possederla praticamente (e soltanto praticamente) come vuole il Levi, che significa se non che non la pos¬ siede come nozione, bensì con quella immediatezza onde 10 spirito ha, qualunque sistema si professi, coscienza di sé ? Che se egli ne raggiungesse la nozione, il suo pes¬ simismo, che è il contenuto della sua poesia (attualità reale del suo spirito), sarebbe superato; poiché sarebbe risoluto nella poesia diventata essa stessa contenuto od oggetto dello spirito consapevole della propria vittoria sulla natura, come opposizione e limite dello spirito, e quindi sorgente dell’ infelicità. Il pessimismo è assolutamente inconciliabile col con¬ cetto del valore dello spirito; e questa è la vera e pro¬ fonda ripugnanza che prova il Leopardi, — pur quando intravvede nella vivacità stessa della sua spiritualità l’essenza propria del reale, che è sentimento, com’egli s’esprime, dell'esistenza — ad affermare quella realtà che non ha posto nella visione pessimistica del mondo in cui si chiude e fissa l’anima sua; e però ricorre a quelle circonlocuzioni « quella parte dell’uomo che noi chia¬ miamo spirituale » ecc. ; circonlocuzioni, che sono la pa¬ tente documentazione del fatto, che il Leopardi non si solleva al concetto dell’essenza dello spirito. Che se questo concetto si fosse rivelato comunque alla sua mente, con tutta la sua « avversione all’accattato e al falso che ei sentiva negli entusiasmi spiritualistici dei romantici », con tutto « il suo bisogno di concretezza », come avrebbe potuto egh chiudere gli occhi alla luce, e non vedere che 11 sentimento dell’esistenza, non essendo materia..., non è materia, e che la presunta concretezza della materia come tale non è altro che un’astrazione, dal momento 54 GIOVANNI GENTILE che essa non ci può esser nota altrimenti che pel senti¬ mento che ne ha il vivente ? Orbene questa contraddizione intrinseca tra il senti¬ mento, non elevato a concetto, dell’umana grandezza, e il concetto (contenuto della poesia leopardiana) della nullità dell’uomo di fronte alla natura e quindi della fa¬ talità assoluta del dolore, questa è la grande situazione poetica del Leopardi rappresentata così splendidamente dal De Sanctis nel saggio sullo Schopenhauer » : « Leo¬ pardi produce l’effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore; e non puoi accostartegli, che non cerchi innanzi di rac¬ coglierti e purilìcarti, perché non abbi ad arrossire al suo cospetto. È scettico, e ti fa credente; e mentre non crede possibile un avvenire men tristo per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t’infiamma a nobili fatti. Ha così basso concetto dell’umanità, e la sua anima alta, gentile e pura la onora e la nobilita ». Appunto, questo flagrante contrasto tra il suo concetto e la sua anima è la forma e il valore speciale della sua poesia: ma non perviene mai a distinta coscienza degli opposti motivi che vi concorrono senza scoppiare dentro il contenuto (astrattamente considerato come filosofia) in manifesta contraddizione logica, come avviene nella Ginestra: con quanto vantaggio della poesia non so. Certo, la forma leopardiana si regge sull’equilibrio di questi opposti motivi, che sono la personalità del poeta e il suo mondo pessimistico: equilibrio che si mantiene perfettamente, per esempio nell’ Ultimo canto di Saffo, ‘ Saggi critici, pp. 297-98. à MANZONI E LEOPARDI 55 nel canto A Silvia, nel Canto notturno e, in modo tipico, nei versi All' infinito, dove la personalità si dimentica nel suo mondo, lo pervade e ne è la forma poetica : laddove, appena vi si contrapponga, come parte di contenuto (che qui coscienza che il poeta ha di se medesimo) accanto al¬ l'altra parte affatto ahena, tende necessariamente a spezzare l’unità del fantasma, che è la logica del pensiero poetico. Di tale contrasto il Levi, poeteggiando anche lui per interpretare il Leopardi, non vedo abbia chiara coscienza; e però scambia la forma col contenuto dell’arte leopar¬ diana, e vede una filosofìa (quella con cui piace a lui d’interpretare l'anima umana) dov’ è soltanto l’anima, e cioè la poesia del Leopardi. Tralascio i bei capitoli, che il Levi consacra alla storia della concezione storica del pessimismo, quale si disegna già nella critica dello Stato e della civiltà, della scienza e della filosofia e nella teoria delle illusioni attraverso 10 stesso Zibaldone per trovare in fine la sua espressione nei primi canti; Nelle nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel pallone. Bruto minore. Ultimo canto di Saffo, Alla primavera e Inno ai Patriarchi. ’E vengo al secondo periodo. 11 Levi studia gl’ indizi della coscienza che il Leopardi comincia ad acquistare della propria grandezza dopo la dimora che fa in Roma dal novembre 1822 al maggio 1823: coscienza culminante da ultimo, a mezzo 11 1823, in questa nota del Diario: «Ninna cosa maggior¬ mente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza.... E veramente quanto gli esseri più son grandi, quale sopra tutti gli esseri terrestri è l’uomo, tanto sono più capaci della conoscenza, e del sentimento della propria piccolezza » ». Quindi s’inizia il secondo periodo, il cui ' Zibald., V, 223 . 56 GIOVANNI GENTILE pensiero il Levi vede maturarsi tutto nelle prose degli anni 1824 e '25 {Storia del genere umano, Dialogo della Natura e di un'Anima, Dialogo della Natura e di un Islandese, Frammento apocrifo di Stratone) e nelle note sincrone dello Zibaldone. In questo secondo periodo dall’uomo il Leopardi ritrae la causa del dolore universale nella natura; alla concezione storica del pessimismo sot¬ tentra quella cosmica; ma di fronte alla natura ineso¬ rabile artefice del nostro doloroso destino e imperscruta¬ bile prosecutricc di fini divergenti dai fini dell’uomo s’accampa questo con la coscienza del proprio valore: dell’uomo, secondo intende il Levi, in quanto individuo, e pur creatore del suo valore nel virile disdegno d’ogni illusione, nella magnanima sfida al Potere ascoso: nel¬ l’affermazione, insomma, di sé come coscienza del dolore. Onde il Leopardi acquista una serenità, una sicurezza ignota a quell’angoscioso piegarsi e stridere dell’anima sotto il dolore, che è l’atteggiamento del primo jieriodo. Questo mi pare, se ho bene inteso il cenno più che espo¬ sizione del Levi, il suo modo d’intendere questa forma suprema dello spirito leopardiano. Ma contro questa interpretazione vedo due princijiali difficoltà, la prima delle quali confesso di proporre con qualche esitazione, perché non sono sicuro di cogliere interamente il pensiero del Levi. Ed è che non vedo i documenti dell’ interpretazione del Levi per ciò che riguarda l’individualità dell’uomo, che in questo secondo periodo starebbe di contro alla natura. Nell’allegoria dell’Amore, alla fine della Storia del genere umano, la de¬ signazione dei « cuori più teneri e più gentiU, delle per¬ sone più generose e magnanime », che vengono a provare « piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine », comprende bensì il Leopardi, anzi rappresenta soltanto il Leopardi: ma non come individuo che crea se stesso, col suo valore. Non è coscienza del dovere dell’ individuo. MANZONI E LEOPARDI 57 che può nello spirito vincere l’avversa natura e toccare (juindi la beatitudine da questa contesagli ; ma è l’im- niediata condizione spirituale del Poeta, la cui serenità estetica si diffonde per tutta la Storia e ne placa il dolore. 11 ragionamento dimostra la vanità delle illusioni, e di ogni desiderio della felicità ignota e aliena alla natura dell’universo, e l’amarezza dei frutti del sapere; ma della beatitudine che spira intorno al nume, figliuolo di Venere celeste, non v’ è giustificazione, né quindi concetto. « Dove egli si posa, dintorno a quello si aggirano, invisibili a tutti gli altri, le stupende larve, già segregate dalla consuetudine umana; le quali esso Dio riconduce per questo effetto in sulla terra, permettendolo Giove, né potendo essere vietato dalla Verità, quantunque ini- micissima a quei fantasmi ». — Qui dunque c’ è l’anima che non s’arrende alla verità; ma non la verità, come concetto dell’anima. E l’anima è appunto quella dolce serenità che si diffonde per tutta la prosa: ossia la forma, la poe.sia, non il contenuto, la filosofia, del pensiero leo¬ pardiano. Altrettanto, mulatis mutandis, ' mi pare sia da osser¬ vare di quella individualità che il Levi vede nelle varie prose al di sopra del pessimismo cosmico, fino a Tristano che non si sottomette alla sua infelicità, né piega il capo al destino, né viene seco a patti, come fanno gli altri uomini. L'affermazione di Tristano è piuttosto negazione: « E ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta credo fermamente che non sia desiderata al mondo se non da pochissimi.... In altri tempi ho invidiato.... quelli che hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con alcuno di loro. Oggi non invidio più né stolti né savi.... Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei... ». In secondo luogo, di questo disdegnoso gusto, o come 58 GIOVANNI GENTILE altrimenti si manifesti la vittoria dell'uomo sulla natura, perché e come potrà farsi una caratteristica del secondo periodo se nel primo periodo resta, per esempio, il Bruto minore col « prode » di cedere inesperto, che guerreggia teco Guerra mortale, eterna, o fato indegno; e resta 1 ’ Ultimo canto di Saffo, in cui l’uomo si erge magnanimo contro i numi e l’empia sorte, e, conscio della propria grandezza al di sopra del « velo indegno », emenda il crudo fallo del cieco dispensator dei casi ? Però credo che nell’esame dei canti del secondo pe¬ riodo, cui è consacrato l’ultimo capitolo dell’acuto e suggestivo studio del Levi, la poesia leopardiana sia più d’una volta tormentata affinché risponda docilmente ai preconcetti filosofici costruttivi dell'autore. Nel Risorgi¬ mento sarebbe celebrata « con gioconda sicurezza la su¬ periorità della vita affettiva sulla conoscenza e su tutto, e la forza invitta con cui l’io profondo si afferma, non ostante la contraddizione di tutto l’universo ». Ma, se il Leopardi canta: Proprii mi diede i palpiti Natura, e i dolci inganni; Sopire in me gli affanni L’ingenita virtù. Non l’annullàr, non vinsela Il fato e la sventura; Non con la vista impura L'infausta verità . . . Pur sento in me rivivere Gl’ inganni aperti e noti; E de’ suoi proprii moti Si maraviglia il sen. la chiave, l’intonazione della poesia è in questo mera- vigharsi dell’animo di fronte al risorgimento dell’ ingenita virtù: a questo miraeoi novo, che, appunto perché tale. MANZONI E LEOPARDI 59 j^on è menomamente sicura coscienza della superiorità della vita affettiva sulla conoscenza. Data la sicurezza, perché meravigliarsi ? E se togliete questa meraviglia, questo stupore innanzi al subito rianimarsi del mondo al risorgere del vecchio cuore, la poesia è svanita. Un altro esempio significativo. Nei versi .4 se stesso, secondo il Levi, « ancora una volta si sfoga riaffermando, disperatamente, ma pure ancora superbissimamente, l’as¬ soluta solitudine della sua grandezza » ; e cita i versi ; Non vai cosa nessuna I moti tuoi, né di .so.spiri è degna La terra. Amaro e noia La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo. Ma dov’ è qui la solitudine della grandezza, se il Leo¬ pardi vi nega ogni finalità ai moti stessi del cuore, se cioè non crede che il cuore possa aspirare a nulla, e tutti i versi sono uno schiacciamento del cuore stanco sotto r immane fatalità ? Infine : « La Ginestra », dice il Levi, « è da taluni, non senza un po’ di retorica, esaltata per il suo conte¬ nuto morale; da altri è trovata troppo arida e razioci¬ nativa. A me sembra una cosa grande, anche per quella maschia e dantesca sprezzatura, onde il poeta non rifugge, per rispetto all’ intento morale, dall’ interrompere la sua melodiosa poesia colle pagine ossute di ragionamenti in versi. Certo le parti più belle sono le meditazioni intorno all’ immensità dell’universo e alla piccolezza dell’uomo, eppoi la straordinaria descrizione delle eruzioni vesu¬ viane. La bellezza di questa nasce da cosa molto più alta che non sia l’eccellenza espressiva : e questa è l’in¬ tensità tragica del pensiero universale simboleggiato, e la potenza di una personalità, che si colloca di fronte alla natura, e ne abbraccia e comprende la terribile gran¬ dezza senza lasciarsene opprimere ». — 6o GIOVANNI GENTILE Ma io direi che la Ginestra non può esser cosa grande per la cosiddetta sprezzatura dantesca d’interrompere la poesia con pagine di ragionamenti. Se vi sono ragiona¬ menti che interrompono davvero la poesia, il Leopardi, mi pare, sarebbe stato più grande non interrompendo la sua poesia; dato che la grandezza della poesia non possa essere altro die il carattere eccellente di una poesia, tanto più poetica, di certo, quanto più ò fusa e una, e tutta poetica. Vero è che soltanto la retorica può persua¬ dere ad esaltare la Ginestra per il suo contenuto morale; poiché questa parte appunto (oltre che la polemica contro la filosofia del secolo XIX e contro il Mamiani) è quella in cui è compromesso l’equilibrio lirico della poesia; ma mi pare anche un errore staccare la bellezza delle meditazioni sul contrasto tra la grandezza sterminata dell’universo e la piccolezza deU’uomo, o ciucila della descrizione dell’eruzione, dall’organismo, dalla vita di tutta la ])oesia, dove é la vera e sola bellezza, da cui le altre particolari sono irradiate: e che è, credo, la bel¬ lezza della ginestra, del fior gentile, immagine del Leo¬ pardi, che, mentre tutto intorno una mina involve, al cielo Di dolcis.simo odor manda un profumo. Che il deserto consola: l'espressione più delicata della divina poesia leojìardiana. E dove il Levi afferma con intenzione, che la bellezza non so se della descrizione delle eruzioni vesuviane o se di tutta la Ginestra, « nasce da cosa molto più alta che non sia l’eccellenza espressiva » alludendo a una dottrina estetica, che dice altrove di non poter accettare, noterò che egli mostra di non aver forse compreso che s’intende in questa dottrina per espressione : perché l’intensità tragica che egli vi contrappone non è niente di diverso dalla espressione, se di questa intensità tragica intende MANZONI E LEOPARDI 6 l parlare in quanto la vede nella Ginestra] poiché l’espres¬ sione va cercata nell’atteggiamento individuale che lo spirito assume di fronte a una certa materia, e questa, quindi, in lui. Ma c’ è poi quella personalità, che si colloca di fronte alla natura.... senza lasciarsene opprimere ? — Qui sa¬ rebbe il proprio della interpretazione del Levi. Né sup¬ plicazioni codarde, né forsennato orgoglio. Ma la ginestra non supplica semplicemente perché, più saggia dell’uomo, non crede sue stirpi immortali, e sa pertanto che supph- cherebbe indarno al futuro oppressore. Non c’ è, dunque, né pur qui, l’individuo che si contrappone alla crudel possanza, ma la serenità pacata della coscienza della sua inesorabihtà ; insensibiUtà di saggio antico, più che affermazione romantica dell’umana personalità. In conchiusione, anche al nuovo schema filosofico la poesia leopardiana si sottrae e repugna, per richiudersi sempre ostinata nella naturai veste del suo pathos lirico. ^l//o scritto precedente il prof. Levi rispose con alcune osservazioni ingegnose ^ a cui fu replicato con la seguente lettera : Egregio Professore, Mi par difficile discutere delle interpretazioni parti¬ colari di questa o quella poesia o altro documento del pensiero leopardiano senza rimettere in discussione il concetto generale e quindi i canoni critici del Suo lavoro. Perché le mie osservazioni singole non miravano a con¬ futare singole opinioni e determinati giudizi, né a mo¬ strare piccole infedeltà ed inesattezze, sì bene a far ve¬ dere in atto r illegittimità del criterio fondamentale con cui aveva Ella ricostruito la sostanza dello spirito leo- ‘ Si possono leggere nella Critica, IX, 1911, pp. 473-76. 62 GIOVANNI GENTILE pardiano. Così, nella risjiosta che Ella dà a talune delle mie critiche particolari, mi pare si sia lasciato sfuggire r intento generale e il significato complessivo del mio articolo. Per esempio, perché, pur consentendo che nel luogo citato dello Zibaldone (VI, 296) con vita o sentimento dell’esistenza H Leopardi intenda la coscienza, 10 negavo che si dimostrasse la coscienza, ossia il concetto, della coscienza ? Perché questo concetto, in quanto tale, in quanto parte di una generale intuizione del mondo, era ciò di cui Ella aveva bisogno per cominciare a vedere nel Leopardi la filosofia individualistica, in cui Ella in¬ tende riporre l’essenza della più alta poesia leopardiana. Con ciò io non dovevo attribuire al Leopardi soltanto 11 possesso immediato della coscienza (com’Ella mi fa dire), che sarebbe stato invero troppo poco: ma solo un senso vago o, se vuole, una nozione imperfetta, o magari un concetto, che però non era un vero concetto, della coscienza. Il Leoparch insomma vede lì la coscienza, ma non la pensa; sicché per lui pensatore questa coscienza è come se non fosse ; e non può dirsi perciò, che « pra¬ ticamente, rispetto a sé e rispetto all’uomo in generale, egli ha fermato con sufficiente sicurezza la nozione di ciò che in esso è di natura spirituale e della sua dignità ». Il senso della spiritualità e della dignità spirituale di sé e dell’uomo in generale sì; e questo appunto io dicevo essere non il contenuto (la filosofia, il concetto) della poesia leopardiana, ma la forma (la poesia, la lirica, l’espressione della personalità del poeta, superiore alla sua filosofia). Così, sarà verissimo che il Leopardi si creda infelice perché grande, piuttosto che grande jierché infelice. Ma questo non ha che vedere con la mia osservazione che, se egli avesse avuto il concetto della coscienza, avrebbe veduto la propria grandezza in un grado spiri¬ tuale che è al di sopra del dolore e della infelicità. La MANZONI E LEOPARDI 63 coscienza per lui era la stessa sensibilità, non la coscienza vera e propria, il superamento della sensibilità, la filosofia del dolore, che, come filosofia e quindi oggettivazione e vi¬ sione sub specie aeterni del dolore stesso, non può non liberare da esso il soggetto. Nel Dialogo della Natura e di un Anima il Leopardi, phi che far dipendere l’infe¬ licità dalla grandezza, identifica l’una con l’altra. L’Anima domanda : « Ma, dimmi, eccellenza e infehcità straordi¬ naria sono sostanzialmente una cosa stessa? o quando sieno due cose, non le potresti tu scompagnare l’una dall’altra?» e la Natura risponde; «Nelle anime degli uomini, e proporzionatamente in quelle di tutti i generi di animah, si può dire che l’una e l’altra cosa sieno quasi il medesimo : perché l’eccellenza delle anime importa maggiore intensione della loro vita; la qual cosa im¬ porta maggior sentimento dell’ infelicità propria ; che è come se io dicessi maggiore infelicità ». Dove è chiaro che la infelicità maggiore è maggiore sensibilità, cioè eccellenza, grandezza spirituale: perché l’infelicità è tale in quanto è sentimento di essa, cioè quella vita, nella cui intensione consiste l’eccellenza dell’animale. E però il Leopardi deve ad ogni modo commisurare la propria grandezza con la propria infelicità ; ciò che egli non avrebbe fatto, se avesse fermato con sicurezza, sia pure prati¬ camente, la nozione della vera realtà spirituale, che in lui spontaneamente s’afferma quando, come per esem¬ pio nella sua lettera del 15 febbraio 1828, tra i « mag¬ giori frutti » che si proponeva e sperava da’ suoi versi annoverava «il piacere che si jirova in gustare e apprez¬ zare i propri! lavori, e contemplare da sé, compiacendo¬ sene, le bellezze e i pregi di un figliuolo proprio, non con altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella al mondo ; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui ». Dove c’ è quel dolore impietrato, di cui io parlavo come dell’unica forma possibile del dolore in quanto contenuto 64 GIOVANNI GENTILE della coscienza « ; ma di questa coscienza, e quindi di quella vita del dolore che non è più dolore nella vita dello spirito il Leopardi non ha coscienza. E però il contrasto interiore che io vedo nella poesia del Leopardi è identico a quello che ci vedeva il De Sanctis, anche se, nel passo citato da me, rappresentato da un solo aspetto; il contrasto tra la ricchezza spirituale della personalità del poeta e la povertà, per non dire nega¬ zione, di ogni sostanzialità spirituale, propria del con¬ tenuto della sua poesia. Del Dialogo di Tristano e di un amico non è esatto che il primo periodo citato da me sia ; « E ardisco desi¬ derare la morte ecc. ». Le parole precedenti erano state pur da me riferite immediatamente prima: «....fino a Tristano che non si sottomette alla sua infelicità, né piega il capo al destino, né viene seco a patti, come fanno gli altri uomini » Ma queste parole non potevano im¬ pedirmi di vedere in quel che segue, e in cui confluisce il pensiero di quelle stesse parole, e però in tutto il Dia¬ logo, una negazione piuttosto che un’affermazione: e ne¬ gazione non soltanto, come Ella dice, della propria per¬ sona empirica; perché la morte, pel Leopardi, non di¬ strugge soltanto la persona empirica, ma tutto l’essere dell’ mdividuo. ' Mi piace ricordare la felice osservazione del Db Sanctis {Studio sul Leopardi *, p. 213) ; « Egli [il Leopardi] aveva la forza di sottoporrei il suo stato morale alla riflessione e analizzarlo e generalizzarlo, e fab¬ bricarvi su uno stato conforme del genere umano. Ed aveva anche la forza di poetizzarlo, e cavarne impressioni e immagini e melodie, e fondarvi su una poesia nuova. Egli può poetizzare sino il .suicidio, e appunto perché può trasferirlo nella sua anima di artista e immaginare] Bruto e Saffo, non c’ è pericolo che voglia imitarU. Anzi, se ci sono stati momenti di felicità, sono stati appunto questi. Chi più felice del poeta o del filosofo nell'atto del lavoro ? — L’anima, attirata nella contemplazione, esaltata dalla ispirazione, ride negli occhi, illumina la faccia..., >. z Cfr. sopra, p. 57. MANZONI E LEOPARDI 65 Quanto alla differenza di disposizione spirituale tra ;j pruto minore, per esempio, e il Dialogo tra Plotino e Porfirio o VAmore e morte, dove si anela alla morte, ma la si attende serenamente, deposto ogni disperato pen¬ siero di suicidio, non occorre negarla per non vedere né anche nei componimenti più tardi quella coscienza jel valore della propria individualità, che Ella ci vede. ^'el detto Dialogo non si cela, almeno io non riesco a scorgere, « quella robusta fede nella grandezza umana, riconosciuta possibile sempre, perché bastevole a se stessa ». Se l’essere dell’uomo è la sua vita, quivi si dice che «la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo, in quanto a sé, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di lasciarla ». E, se non m’inganno, la nota fondamentale del dialogo è nelle ragioni della tol¬ lerabilità della vita, per misera che sia: le quali ragioni sono bensì la critica del pessimismo materialistico del Leopardi, ma restano nella forma di sentimento, baste¬ vole a conferire al dialogo quell’ intonazione affettuosa che gli è propria, e sono veramente l’opposto di quella affermazione dell’ individualità dello spirito, di cui si va in cerca : « Aver per nulla il dolore della disgiunzione e della perdita dei parenti, degl’intrinsechi, dei compagni; 0 non essere atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno; non è di sapiente, ma di barbaro. Non far ninna stima di addolorare colla uccisione propria gli amici e i do¬ mestici; è di non curante d’altrui, e di troppo curante di se medesimo. E in vero, colui che si uccide da se stesso non ha cura né pensiero alcuno degli altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano; tanto che in questa azione del privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il men bello e men liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo ». Se prendessimo atto di questa critica del suicidio — che. 5. —- Gentile, Manzoni e Leopardi. 66 GIOVANNI GENTILE risolvendosi in una serie di asserzioni, vale certo come effusione di stati immediati deU’animo, ma non come filosofìa — che filosofia diverrebbe questa del Poeta che ha ragionato sempresul presupposto che la vita dell’uomo sia racchiusa nella sua sensibilità, e che tutto il mondo all’uomo non si rappresenti se non nella breve sfera del piacere e del dolore suo individuale ? Ma, d’altra parte, senza questa contraddizione interna tra la filosofia do¬ minante nel dialogo e il senso affettuoso onde il poeta è avvinto ai suoi prossimi e a tutto il genere umano (cfr. la Ginestra) e che pervade tutta la conversazione intima di Plotino con Porfirio, dove se n’andrebbe la poesia del commovente dialogo ? Nell’ intendere come ho inteso il Risorgimento posso sbagliarmi; e la sicurezza con cui Ella crede si debba intendere altrimenti, mi fa dubitare forte del mio giu¬ dizio. Ma la ragione che mi oppone non mi riesce molto persuasiva; c’è, di sicuro, nella poesia una risposta alle domande: «Chi dalla grave, immemore Quiete or mi ridesta ? Che virtù nova è questa ?... Chi mi ridona il piangere Dopo cotanto oblio ? » ecc. ; Da te, mio cor, quest’ultimo Spirto e l’ardor natio. Ogni conforto mio Solo da te mi vien; ed è vero che nella quartina precedente l’accento mag¬ giore è nel terzo verso. Ma è anche vero che questa ri¬ sposta è la soluzione del problema, in cui consiste la poesia : l’inaspettato, il miracoloso risorgimento del vec¬ chio cuore. E quindi il sentimento che regge tutta la poesia mi pare la meraviglia. Ragione, invece. Ella ha certamente nel correggere il significato da me attribuito ‘ • In un periodo ora non più ristampato dello scritto precedente. MANZONI E LEOPARDI 67 agli ultimi versi del canto A se siesso; ma pur dopo la correzione, il significato del canto non è punto favore¬ vole alla tesi dell’affermazione della propria grandezza, gi a quella del grido della disperazione, comune a quasi tutta la poesia leopardiana. E nella Ginestra chi negherà il motivo da Lei richia- luato, della personahtà del Poeta che non si lascia op¬ primere dalla crudel possanza della natura ? Ma bisogna vedere quanto questo motivo sia attenuato qui dall’umile coscienza delle proprie sorti («che con franca hngua.... Confessa il mal che ci fu dato in sorte, E il basso stato e frale...; ma non eretto Con forsennato orgoglio inver le stelle. Né sul deserto.... » ecc.), e quasi rammoUito e sciolto nell’amore con cui l’animo abbraccia tutti gli uomini fra sé confederati, e nella poesia consolatrice che, commiserando i danni altrui, manda al cielo, come la ginestra, un profumo di dolcissimo amore, che consola il deserto. Anche la ginestra, che piegherà il suo capo innocente sotto il fascio mortai, insino allora non pie¬ gherà indarno codardamente supplicando innanzi al fu¬ turo oppressor; ma ciò non toglie nulla alla gentilezza del fiore di tristi lochi e dal mondo abbandonati amante, né alla solenne rassegnata pacatezza del vero sapiente cantata dal Leopardi. Certamente, tutte queste cose meriterebbero di essere chiarite con un’anahsi più accurata degli scritti leopar¬ diani; e io voglio sperare che questa discussione possa invogliar Lei, che ha studiato tutte le cose del nostro grande Poeta con tanto acume e con tanto amore, a non staccarsene senza prima avervi gittate su la luce di nuove ricerche. 68 GIOVANNI GENTILE III. • IL LEOPARDI MAESTRO DI VITA • ^ Maestro di vita Giacomo Leopardi ? Il prof. Bertacchi > si è proposto appunto di « raccogliere dagli scritti di Giacomo Leopardi e di comporre in multiforme unità gli elementi dell’opera sua nei quali parlino più alto le feconde ragioni della vita»: «quanto di sereno o di mcn ; triste ricorre neUe pagine del Nostro; quanto di attivo e di energico, pur nello stesso dolore, risulta dal senti- j mento, e dal pensiero di lui.... allo scopo di integrar, ^ se pos’sibUe, la figura del grande Scrittore ». Per dire la ' cosa più semplicemente e chiaramente, egli intende illu- | j strare tutti gli elementi ottimistici propri della poesia .‘1 leopardiana. 1; Elementi che non mancano certamente nella detta 'i poesia; e costituiscono la singolare caratteristica del suo j pessimismo, come già osservava sessant’anm fa il De San- ' ctis nel suo dialogo sullo Schopenhauer (dopo che allo stesso concetto aveva accennato un ventennio prima * Alessandro Poerio, in una sua lirica rimasta inedita); , e conferiscono infatti agli scritti di questo dolente e de- I solato pessimista un’alta virtù educativa e consolatrice. | E molti studi diligentissimi furono fatti in questo senso i da Giovanni Negri, nelle sue Divagazioni, che pare siano t rimaste ignote al Bertacchi. Ma c’è ottimismo e otti- s mismo; e la ricerca del Bertacchi mi pare avviata m una J direzione, che potrà condurre a falsificare interamente il , carattere dello spirito leopardiano, attribuendogli un ot- l timismo edonistico od estetico, che solo un lettore di- ■ . A proposito del libro di Giovanni Bertacchi, Un rft vita-. Sag^o leopardiano, Part. 1 : Il poeta e la natura, Bologna, /a nichelli, igi?- MANZONI E LEOPARDI 69 stratto e superficiale può vedere in alcuni aspetti della sua sublime poesia. Giacché l’ottimismo del Leopardi è la fede e l’esaltazione della virtù, della grandezza e della lenza dello spirito, di quelle necessarie illusioni, come egli le chiama, a cui non trova posto nel mondo, guar¬ dato come cieco crudele meccanismo naturale; ma che non perciò egli abbandona, anzi afferma sempre più vigorosamente: di guisa che il suo mondo triste e dolo¬ roso viene da ultimo purificato e rasserenato in questa intuizione schiettamente spiritualistica. La quale, d’altra parte, non a\Tebbe il suo proprio particolar significato, disgiunta dalla negazione pessimistica della vita dei pia¬ ceri e delle gioie naturah, che ne è come la base o il contenuto. In questa contraddizione intima tra la natura cattiva e lo spirito buono che in sé accoglie la visione di cotesta natura, consiste proprio la radice, da cui trae alimento tutta la poesia del Leopardi; per intender la quale non bisogna lasciarsi sfuggire né l’uno né l’altro dei due elementi contradittorii. 11 prof. Bertacchi invece crede di poter quasi cogliere in fallo il Poeta ogni volta che il vivo senso delle bel¬ lezze naturali (poiché in questa prima parte egli studia il Poeta in rapporto con la natura) fa lampeggiare dentro ai suoi canti una sensazione di letizia; per modo che, contro r intenzione del Poeta, la sua poesia tratto tratto scoprirebbe nella stessa realtà naturale ravvivata dal¬ l’anima dello stesso Poeta le ragioni della vita; ossia una fonte di dolcezza, a cui il Poeta inconsapevole pur seppe attingere. Poiché, per lui, « vita è sentire e far sentire il bello e il sereno di natura; vita ravvisare e creare le fide corrispondenze con essa », e poi « l’uscirle incontro così, con gli occhi luminosi di gioia o impre¬ gnati di pianto, narrarle le anime nostre, consenta o contrasti essa con noi, moltiplicarci, nel suo cospetto, di atteggiamenti e di modi, circuirla di umani argomenti. 70 GIOVANNI GENTILE dedurre dal suo stesso sensibile le conchiusioni jiiù nostre e i significati inattesi » ecc., e il Poeta studiato « ne’ suoi fedeli commerci con la natura esteriore » apparirebbe maestro di vita «spirito vigile e attivo. ])ronto a fecon¬ darsi d’intorno e a moltiplicarsi le cose » ■ che sdoppia e ingrandisce e abbellisce con la sua fantasia. Insomma la vita di cui sarebbe maestro il Leopardi è una vita di piacere | del piacere procurato dalla intuizione estetica della natura. Tesi in parte ingenua e oziosa, in parte falsa. Perché se si volesse dire soltanto che il Leopardi insegna a guar¬ dare esteticamente la natura e in generale a dar vita estetica al mondo sensibile, questo sarebbe verissimo, ma così del Leopardi come, più o meno, di ogni grande poeta; e non c’ è nessun bisogno di dimostrare questa tautologia, che un’opera d’arte, qualunque essa sia, è rappresenta¬ zione estetica; e quel che può avere un interesse e un significato, è dimostrare nel caso particolare in che modo un artista rappresenti il suo mondo. Ma la tesi del Ber- tacchi ha in più la pretesa d’indicare attraverso questo vagheggiamento fantastico della bella natura una vita diversa da quella apparsa triste al Poeta: quasi che questi ne avesse avuto innanzi due, una bella e luminosa e 1 altra squaUida e buia, e gli occhi di lui, senza ch’egli se ne accorgesse, fossero attratti più dalla prima, e la luce di questa s’effondesse sull’altra. Che è una pretesa affatto erronea; e giustificabile soltanto col criterio dal Bertacchi candidamente esposto fin dalla prima pagina del suo libro, come norma fondamentale del suo metodo critico. Quivi infatti dice essere «comunissima sentenza che l’opera d’uno scrittore non valga solo per sé, ma anche per il modo diverso ond’essa, quasi, si adatta a ciascuno di noi », poiché « spesso dalla parola d’un autore, acco- 1 O. c., pp. 84-85, 136-37- MANZONI E LEOPARDI 71 r stata alle anime nostre, si svolgono sensi ulteriori che l’autore non previde, ma che le affinità degli spiriti e le somiglianze dei casi vi sanno naturalmente ritrovare.... Il creatore è creato a sua volta, è rinnovato via via di significazioni e di uffici ». Sicché il Leopardi maestro di vita è il Leopardi dei sensi ulteriori e non il Leopardi storico; il Leopardi creato più che il creatore: creato, s’intende, in questo caso, dal Bertacchi. 11 quale, una volta sul punto di creare, non è più legato da nessuno dei vincoli onde ogni critico e storico è legato alle opere che intende interpretare; e può scegliere tra gli scritti leopardiani quelli soli o di alcuni di essi quelle parti soltanto, in cui meglio può vedere adombrata l’imma- I gine del maestro di vita che desidera raffigurare. Così comincerà con lo scartare le prose ; perché « nella voluta terribile aridità » di queste, « il pensatore sinistro svolge i suoi tristi argomenti, e noi non abbiamo agio di aggiungervi nulla del nostro » (nessun senso tiUeriore !) ; «egh non suscita in noi altro moto che non sia d’atten¬ zione a quella sua logica amara ». E il Bertacchi vuol dire che lì c’ è il pensiero del Leopardi, e non c’ è la na¬ tura nei suoi aspetti suscitatori d’immagini belle: il che non è poi vero, se si considerano almeno la Storia del genere umano, il Dialogo della Natura e di un Islandese, La Scommessa di Prometeo e V Elogio degli Uccelli. Pel Bertacchi le Operette morali sono filosofia e non poesia. — Da scartare poi le poesie in cui il Poeta «trasferisce nel canto quella materia medesima», malgrado «la mag¬ gior seduzione portata dall’onda del verso, dal periodar musicale, dalle pur rare imagini che infiorano il discorso qua e là ». E con questi caratteri il Bertacchi non si pe¬ rita di designare, oltre 1 ’ Epistola al Pepoli, la Palinodia ed / miovi credenti, canti come II pensiero dominante. Amore e morte, il Bassorilievo antico e il Ritratto di bella donna ; definite « Uriche anch’esse di pensiero e infuse 72 GIOVANNI GENTILE di sentimento » ! — Scartate, almeno questa volta, le poesie in cui il Leopardi parla bensì diretto al nostro cuore {Sogno, Consalvo, A se stesso, Aspasia), ma can¬ tando se stesso non esce dall’ambito umano e sdegna ogni elemento esteriore : giacché « chi legge, anche in tal caso, è legato alla parola del poeta, e solo la rielabora in sé in quanto essa gli desti nel cuore un moto di pas¬ sioni consimili che il cuore abbia provato esso stesso ». — Da escludersi infine i canti civili {AW Italia, Monumento di Dante, Ad .-l. Mai, Alla sorella Paolina, A un vinci¬ tore nel pallone) ; sempre per lo stesso motivo, che « si resta, sebbene con ampiezza maggiore (?), nell’ordine voluto dal poeta ». Restano le altre poesie, dove il Leo¬ pardi « canta all’aperto » ed effonde il canto dell’anima al cospetto della natura: «vive con la natura, o almeno, nella natura. E questa natura, poi, è quasi sempre serena ». Qui il ])oeta Bertacchi, creatore del creatore, può spaziare a suo agio nel vasto cielo dei sensi ulteriori. Ecco; «1 paesaggi campestri, le scene umili o grandi in cui si veniva a comporre l’anima del dolente poeta, sono sempre evocati nei loro aspetti più belli ; soleg¬ giati sono i suoi giorni; le sue notti sono stellate e inar¬ gentate di luna. La pioggia, che appar malinconica in un dei giovanili b'ranintenti, e procellosa in un altro, riappare in Vita solitaria con fresca dolcezza mattutina, attraversata dal sole che entro vi trema sorgendo». E questa presenza della natura « non è senza effetto per noi ». Creare qui si può. « Egli, il poeta, potrà bene, contro ogni serena bellezza, accampar le sue tristi fortune, o le innate sventure di tutto il genere umano, o l’arcano terribile dell’esistenza; noi potremmo bene, com’ei vuole, seguirlo nei suoi tristi argomenti, veder quella bella natura velarsi del dolore di lui, sentir vivo il contrasto che si agita tra quel poeta e quel mondo: ma, poi, non possiamo impedire che alcunché di quel bello, di quel MANZONI E LEOPARDI 73 sereno che egli evoca, si apprenda alle anime nostre, e festi in noi quasi a sé, quasi distinto dai sensi che il poeta vi associa, congiungendosi, anzi, dentro di noi con quante visioni di giorni dorati e di pure notti profonde vi si raccolsero negli anni ». Che sarà — anche, come si sarà avver- t^ito, neh’ onda del verso — una poesia bertacchiana, un senso ulteriore, che il Leopardi non ci mise (come il Dante della novella sacchettiana), ma non ha più niente che vedere colla poesia del Leopardi. E dove pare si accenni a un giudizio critico, non può essere altro che una vaga e soggettiva impressione priva d’ogni valore. Così il Bertacchi ci dirà che nel Sabato del villaggio e nella Quiete dopo la tempesta « il poeta ha compromesso il filosofo versandoci con troppa pienezza (?) nel cuore tutta la poesia soave, tutta l’ondata di vita che tra¬ bocca dalle ore descritteci » ». Che, come giudizio, è un errore, perché tutta quella poesia traboccante è l’incar¬ nazione deU’ idea stessa del filosofo, che nel Sabato non si esibisce già nella sentenza finale (« Questo di sette è il più gradito giorno, Pien di speme e di gioia; Diman tristezza e noia Recheran l’ore »), ma vive in tutta la rappresentazione precedente: dove tutta la gioia è la gioia d’una speranza guardata coi mesti occhi della pro¬ vata delusione: è la soavità della fanciullezza ma non quale la sente il fanciullo, bensì come la rimpiange l’uomo già esperto della vita, in cui ad una ad una si son dile¬ guate le speranze lusingatrici della prima età. E bisogna non vedere questa pietosa malinconia, che prorompe da ultimo, ma s’annunzia già dalla malinconica donzelletta tornante dalla fatica dei campi sul calar del sole, cioè chiudere gli occhi su tutta la poesia, per parlare d’un dualismo tra poeta e filosofo, e d’un poeta che prende la mano al filosofo. ■ O. c., p. IO. 74 GIOVANNI GENTILE 1 Altro esempio, o L'idillio A llu Lufiu e 1 altro La vtla, solitaria..., pur movendo da uno stato di tristezza, la¬ sciano tanto agio alle malie naturali, da non permettere a queUa di farsi vero dolore, la mantengono in una so¬ spensione fluttuante, nella quale diresti che il poeta sia perplesso sul proprio stato » >. Ora, il breve idiUio Alla \ luna non fluttua punto, ma esprime nettissimamente il piacere deUa ricordanza sia pur nel noverare l’età del proprio dolore; il grato «rimembrar delle passate cose, ancor che triste, e che l’affanno duri». E la Vita solitaria fluttua soltanto agli occhi di chi non vegga l’umtà e la sintesi che ne è tema (neU’anima, s’intende, del poeta, e quindi in ogni parte della sua poesia) tra la fresca c solenne beUezza della natura e il sospirante solingo muto, che non trova in essa pietà (« E tu pur volgi Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando le sciagure e gh affanni, alla reina FeUcità servi, o natura »). Ma in tutto il volumetto non si trova una pagina in cui propriamente il Bertacchi affisi la poesia del Leo¬ pardi invece di vagare nei suoi cari sensi ulteriori. Dei quali a volte sente come il bisogno di scusarsi, dicendo per esempio delle Ricordanze che, dopo avere sentito col poe¬ ta, «poi è naturale, è umano che noi, da p a r t e n o s t r a, riviviamo tutti quei sensi di vita che, sia pure a cagione di rimpianto, quivi il poeta rievoca; che essi nell’anima nostra, non afflitta da queUe cagioni, lascino pure qualcosa della originaria dolcezza; è umano che le stelle dell Orsa e le lucciole del giardino e il canto della rana remota e j viah odorati e i cipressi e il chiaror delle nevi si ag¬ giungano, come sorte da noi, alle sensazioni già nostre, ai retaggi deU’essere nostro»». Umano, troppo umano, certamente. Ma che lavoro sarà questo ? > O. c., p. 19- » O. C., p. 12- MANZONI E LEOPARDI 75 Sarà poesia sulla poesia ? Dovrebbe essere. Ma la poesia, per dir la verità, non so vederla nella prosa ag¬ ghindata, saltellante e retoricamente sonante del Ber- tacchi. « Ma il dono che G. Leopardi fece a se stesso ed a noi, godendo e mettendoci a parte di tante scene se¬ rene, non è il significato maggiore della complessa sua opera, cede, per importanza, alla virtù ivi profusa di vivere della natura e di comunicare con essa, quali ne siano gli aspetti, quali ne siano gli effetti ». « Corrispon¬ denza tra la natura e lui, che era in se stessa, per lui, elemento e ahmento di vita ». « Quelle mitologie che, sia pure fingendo e trasfigurando, ci definiscono innanzi la visione delle cose, non le sgombrano forse di quell’aura d’arcano e di vago che è tanto cara al poeta, conforme all’ inconscio e aU’ ignoto onde è come infusa ed effusa la fanciullezza dei singoli, la giovinezza dei popoli ». «Momenti e motivi reali, più che di pura idea, sono que’ tocchi ed accenni di cui venimmo parlando; son temi di canto, perché ci son dati da tale che tutto era uso ad avvolgere in aura di poesia.... i temi son temi e temi che, comunque, ci attestano come la stessa malia delle sensazioni infinite fosse cagione per lui a meglio indugiar sulle cose ed a sorprenderle meglio ne’ loro attimi sacri » ». Né sarà poesia la ritmica prosa, in cui il Bertacchi ama troppo spesso cullarsi per jiagine e pagine, dove forse i sensi ulteriori gli soccorrono più lenti alla fan¬ tasia. Ecco, per un esempio, la chiusa d’un capitolo > : « Come Saffo e Bruto, pur la Ginestra e il Pastor, le grandi liriche sorelle nate dalle notti d’ Italia, aggiungono alle notti medesime qualcosa che prima non c’era. Molti di noi certamente, in qualche grande ora deU’anima, guar¬ dando i cieli notturni, sentirono ripioversi in cuore un’eco ' 0 . c., pp. 31, 39, 2, 128. * 0 . c., p. 108. 76 GIOVANNI GENTILE di quei canti stellati, e ripensando al poeta congiunto da quei canti a quei cieli, ridissero a se medesimi: — Egli è passato di là ». Squarci, dunque, di eloquenza, anzi di oratoria ritmica ; alla quale potranno non mancare gli ammiratori; ma in cui non direi che sia ricreato i] Leopardi. Proprio il Leopardi ! Meglio, molto meglio che quest’oratoria si volgesse a qualche altro tema di ri¬ sonanze ulteriori: per esempio a un Cavallotti. Ili INTRODUZIONE A LEOPARDI Prolusione al Corso di letture leopardiane che il Comitato della Dante Alighieri di Macerata istituì nel 1927 presso quella Università; nella cui Aula Magna questo discorso venne pronunaiato il 13 feb¬ braio '27; quindi pubblicato nella Nuova Antologia del 1“ novembre '27. I. A inaugurare oggi in Italia un corso perpetuo di letture leopardiane c’ è da essere assaliti da un certo sgomento, per la responsabilità che si assume. E ciò per un doppio motivo. L’uno, il più ovvio, è che il Leo¬ pardi si rajjpresenta generalmente come un maestro di pessimismo; ed alzare una cattedra a illustrazione del suo pensiero e della sua poesia può parere perciò tutt’altro che opportuno in un paese che ha bisogno di reagire a vecchie e radicate tradizioni d’indifferentismo e scetti¬ cismo e di allargare il petto ad energici sentimenti di fiducia nelle proprie forze e ad alte convinzioni di fede nella vita che è chiamato a vivere. Oggi sopra tutto, che il popolo italiano è raccolto nella coscienza di grandi doveri da assolvere e nel senso della necessità di rifare nella disciplina, nel lavoro, negli ordinamenti civili, nella educazione della gioventù a maschi propositi e metodi di vita l’antica fibra del carattere nazionale. E sarebbe questo il momento di diffondere nei giovani e nel popolo gli ammaestramenti pessimistici del poeta, la cui poesia non si gusta senza sentire con lui tutta la miseria di questa vita e l’inanità d’ogni sforzo che si faccia per medicarla? Motivo grave di esitazione e titubanza; ma che, lo confesso, non turba tanto l’animo mio quanto l’altro che vi si aggiunge a far temere un pericolo nella istitu¬ zione che oggi si inaugura. Giacché chi abbia anche una elementare conoscenza della poesia leopardiana, sa bene che il suo pessimismo non ha mai fiaccato, anzi ha rin- 8o GIOVANNI GENTILE vigorito gli animi; e lungi dallo spegnere, ha infiam¬ mato nei cuori la fede nella vita, nella virtù e negl’ ideali che fanno degna e feconda la vita umana degl individui e dei popoh. Ma il più preoccupante sospetto è che Leo¬ pardi, come già altri poeti e sopra tutto Dante, argo¬ mento di letture pel pubbhco, diventi anche lui materia di quel malfamato genere letterario che troppo è stato coltivato negh ultimi tempi dagl’ Italiani, e che dicesi delle «conferenze»; genere che vorremmo avesse fatto il suo tempo, e potesse ormai relegarsi tra le smesse abi¬ tudini dell’anteguerra. Giacché bisogna che gl’ Italiani si persuadano che, se si vuol far davvero, e stare tra le grandi Potenze, ed essere un popolo vivo, serio, temibile, realmente concorrente con gli altri popoli che sono alla testa della civiltà nel dominio del mondo materiale e morale, bisogna romperla col passato. Dico col jiassato dell’accademia e della «letteratura», dei sonetti e delle cicalate, degli eleganti ozi e trattenimenti per dame e colti signori in cerca di onesti passatempi, più o meno noiosi; in cui ogni argomento era buono purché legger¬ mente, discretamente, spiritosamente trattato, o agitato con oratoria adatta a mover gli affetti e guadagnare gli applausi: ma in cui né dicitore mai, né ascoltatori debbano sentirsi impegnati, pel solo fatto di parlare o di ascoltare, a sentire seriamente, schiettamente, con tutta l’anima, e a pensare, a trarre da quel che si dice o si apiilaudisce, conseguenze che siano norme di con¬ dotta e quasi cambiali che prima o poi scadranno e si dovranno scontare. La conferenza, si sa, non è un di¬ scorso da comizio, in cui oratore e pubblico, in buona fede, e anche in mala fede, compiono un’azione e si pre¬ parano a compierne altre; e non vuol essere una predica, che debba edificare un uditorio di fedeli. L’ ideale è che nessuno vi sbadigh ma neppure vi s interessi tropjio, nessuno vi si riscaldi; e a trattenimento finito, ognuno MANZONI E LEOPARDI Si ge ne torni a casa con lo stesso animo — vuoto — con è venuto alla conferenza. Ideale vecchio per gl’ Italiani. Sorse e si sviluppò durante il Rinascimento, quando dall’umanista venne fuori il letterato, e nacquero, fungaia che si estese rapi¬ damente per tutto il suolo del bel Paese, tutte quelle accademie dai nomi strani e burleschi che attestavano es«i stessi la frivolezza dei propositi e la spensieratezza jegli studiosi perditempo che ■\’i si riunivano; accademie, che pullularono in tutte le città e borghi d’ Italia dalla nietà del Cinquecento in poi, e di cui molte ancora resi¬ stono al sorriso, al sarcasmo e al fastidio degli spiriti nioderni e alla storia, e vivacchiano oscuramente sul margine dei bilanci dello Stato nelle provincie e anche nelle maggiori città ricche di tradizioni letterarie, a danno delie istituzioni più utili e più serie. All’ombra delle ac¬ cademie vegetò tutta la vecchia cultura italiana, esanime e priva d’un profondo contenuto e interesse religioso, morale, filosofico, umano; poesia senza ispirazione, filo¬ sofia alla moda, erudizione per l’erudizione, scienza per la scienza, nessuna fiassione, né anche nella letteratura politica, che legasse il pensiero alla persona e la persona al suo pensiero. Una repubblica delle lettere, in cui l’uomo non era cittadino della sua patria, né padre della sua famiglia, né credente della sua religione, ma puro spirito innamorato di astratte forme, senza attinenza con la pratica della vita e con la realtà degl’ interessi personali. Cultura intellettualistica, di cervelli magari pieni zeppi di notizie peregrine e di squisite nozioni e raffinatezze di arte, ma senz’anima, senza cuore, senza né odi né amori. Cultura estranea alla vita; che era poi vita senza cultura, cioè senza riflessione e senza idealità ; la vita degli uomini proni alla frivolità e agl’ interessi particolari, chiusi ad ogni alto e generoso sentimento e ad ogni idea la cui attuazione richiedesse fatica e sforzo. 6. — Gentile, MaiXrZoni e Leopardi. 82 GIOVANNI GENTILE Chi non conosce queste debolezze dello spirito italiana nei secoli della decadenza ? Chi non sa che 1’ Italia ^ risorta tra le nazioni quando s’ è vergognata di quella cultura e di quella letteratura, e con Parini ed Allieri ha cominciato a sentire che il poeta dev’essere pur uoiuo e che poesia, come ogni altra forma d’ingegno, vuoi dire pure volontà, carattere, umanità ? Chi non sa che j)ur dopo la miracolosa risurrezione di quest’attesa fra le genti, come fu delta 1’ Italia, si sentì che essa sarebbe stata una creazione effimera ed insignificante senza gl; Italiani ? Cioè senza Italiani che cominciassero a unire e a fondere insieme quel che avevan sempre diviso, l’in. teUigenza e la volontà, la letteratura e la vita, la scienza e gl’ interessi concreti e attuali deH’uomo, facendola finita jier sempre con l’accademismo e con la rettorica e con tutta la vecchia sapienza scettica dell’ « altro è il dire e altro è il fare », per cominciare a prender sul serio tutto, a lavorare tenacemente, a sentire come proprio r interesse comune, a stringere la propria sorte a quella della patria, a sentirla perciò questa patria come intima a sé e tale da meritare che per lei si viva e che per lei si muoia ? Chi non sa che la vecchia Italia rifatta di fuori si doveva pur rifare di dentro ? Questa almeno l’aspirazione del Risorgimento. Ma venuto meno lo slancio morale di quell’età eroica, tale aspirazione si attenuò e fu meno sentita; e nei riposati tempi di pace e di raccoglimento succeduti al periodo agitato della rivoluzione e della formazione del Regno, certi vecchi spiriti dell’anima italiana tornarono a galla; nel rifiorire della cultura (che certamente molto s’av¬ vantaggiò di quei decennii ultimi del secolo scorso, in cui r Italia parve godersi le prospere condizioni acquistate con l’unità) risorse con gioia l’antico gusto idillico c ar¬ cadico della letteratura, della cultura intellettualistica ed elegante; e da Firenze, centro di questa rifioritura let- MANZONI E LEOPARDI 83 agraria, fecero epoca le conferenze prima sulla vita ita¬ liana e ]50Ì sulla Divina Commedia. L’esem]no fu imitato jn tutte le principali città, e i conferenzieri più brillanti f celebrati viaggiavano da una tribuna all’altra recando j„ giro le loro arguzie, i loro motti ed aneddoti, le loro pagine patetiche e scintillanti, a gran diletto, si diceva, del lor^^ pubblico di dilettanti di cultura a buon mercato. Perché a certe conferenze, con certi nomi, di dire che l’ora é lunga a passare pochi hanno il coraggio. Leopardi non può esser materia di conferenze ! Vi si ribella la pudica delicatezza della sua anima sensibilis¬ sima, che cerca i luoghi solinghi e i silenzi della notte dove il suo canto possa spandersi in una religiosa ele¬ vazione di tutto il cuore verso l’eterno e l’infinito; dove il pastore po.ssa interrogare la luna, e l’uomo stare a fronte della natura, e ragionare tra sé e sé de’ più gelosi segreti del suo cuore. Vi si ribella la religiosa austerità del suo spirito tormentato dal mistero del dolore univer¬ sale. Non amerebbe egli, schivo com’era e orgoglioso della sua solitaria grandezza, mostrarsi al pubblico e far suonare la sua voce esile e tremante di commozione in mezzo a un numeroso uditorio distratto e proclive a mondani pensieri e a cure di frivola oziosità o di vanità letteraria. No, quanti amano il Poeta, non tollereranno che anche Leopardi venga alle mani dei pedanti, dei letterati, dei conferenzieri; e che ei diventi materia e pretesto di vane esercitazioni onde gli animi si alienino dai problemi che fanno yiensoso ogni uomo che viva e rifletta sulla sua vita con vigilante coscienza morale. E io inizio questo corso formulando il voto e, per cyuanto è da me, fermando il programma, che qui sia sempre vivo e presente il Leo¬ pardi poeta, che è il Leopardi degli uomini, e non il Leo¬ pardi dei letterati, degli accademici, dei curiosi, dei pet¬ tegoli e dei perditempo. 84 GIOVANNI GENTILE li. Giacché Giacomo Leopardi fu anche un erudito ap. passionatissimo ; anzi, ricorderete, si rovinò la comples. sione e si precluse la via a ogni godimento della vita per la furia con cui nella età più giovanile si gettò sugli studi per puro amore di sapere. Per molti anni aspirò, finché la perduta salute e la vista indebohta non gli ebbero create difficoltà insormontabili, ad essere un filologo consumato. Delle questioni letterarie, un tempo delizia degli accademici, fu anche lui studiosissimo, ancorché ironicamente guardasse dall’alto, per la coscienza che ebbe del suo più squisito gusto e della sua più perfetta dottrina, le accademie italiane antiche e recenti. Ma la sua anima non si chiuse né nella filologia, né nella letteratura. Se ne servì come di strumenti a vedere e sentire più addentro nel proprio animo, e di grado in grado elevarsi alla sua forma di poetare. Egli (e la prova più manifesta è in quel suo diario dello Zibaldone) visse sempre raccolto e concentrato in se stesso: osservando la vita, studiando gli uomini, speculando sulla natura e sull’anima umana, indagando i destini dei mortali e le forme onde l’uomo rifrange nel suo cuore e nel suo iiensiero la luce di tutte le cose, da cui si vede attorniato. Il suo pensiero è una continua, commossa meditazione su se stesso, in forma che ora rimane un filosofema, ora as¬ surge a fantasma, e vibra e rifulge agli interni occhi trepidanti. Leopardi, con diversa temperie spirituale e cultura diversissima, è dell’età stessa del Manzoni : figlio di quella nuova Italia che guarda la vita religiosamente, e ne sente il valore e la serietà; profondamente differente da quella anteriore aH’Alfieri e al Farmi, quando i poeti italiani cominciarono ad accorgersi che nella stessa poesia c’è il vuoto se non c’è tutto l’uomo; l’uomo, che è le- MANZONI E LEOPARDI 85 gaio da intìniti vincoli e in tutti gl’ istanti della sua vita a una divina realtà, governata da leggi che domano e annientano ogni arbitraria velleità dei singoli; a una realtà, in cui il singolo uomo viene a trovarsi nascendo da cui si diparte morendo, ma in cui deve inserire e jnserisce, con 0 senza frutto e vantaggio, ogni sua azione, ogni suo gesto, ogni sua parola, ogni suo pensiero o sen¬ timento, durante tutta la vita, dal dì della nascita a quello jella morte. Anche Leopardi, razionalista e irrisore di superstizioni e di dommi, è uno spirito profondamente religioso, sempre faccia a faccia del destino: incapace di abbandonarsi a qualsiasi sorta di dilettantismo, e di prendere alla leggiera i problemi della vita. Sul suo viso è sempre un sorriso di austera, solenne mestizia, e si scorge il pacato accoramento dell’uomo che non riesce a distrarsi in vani divertimenti, neppure nel mondo sub- biettivo del pensiero e dell’ imaginazione : tutto preso dalla considerazione ine\'itabile del mondo, in cui l’uomo, ed egli in particolare, si sforza di vincere il dolore. Per questa sua costituzionale religiosità Leopardi non fu soltanto un poeta, ma fu anche un filosofo, allo stesso titolo e per la stessa ragione del Manzoni. HI. Bisogna intendersi. Se domandate ai filosofi, diciam così, di professione, ai filosofi cioè che tengono a distin¬ guersi dal resto degli uomini, essi vi risponderanno che Leopardi filosofo non fu, non ebbe un sistema; e le idee speculative che si formò per la lettura dei filosofi recenti più affini al suo modo di sentire, non ebbero da lui svol¬ gimento e impronta personale, perché non furono fecon¬ date da una sua speciale ispirazione. Accettò, riecheggiò, Ria senza elaborare quel che accettò, senza svilupparlo, ordinarlo e potenziarlo a nuova forma sua propria di ve- 86 GIOVANNI GENTILE rità. In una storia della filosofia ei perciò non può trovar posto; quantunque di lui non si possa non parlare di¬ stesamente in un quadro della cultura filosofica della prima metà del secolo passato. In questo senso, d’ac¬ cordo, Leopardi non fu un filosofo. Ma c' è un altro senso in cui si deve parlare della filosofia; ed è quello poi per cui la stessa filosofia dei filosofi è una cosa seria, va rispettata, e può interessare tutti gli uomini, e non essere una malinconica fantasti¬ cheria di gente che viva fuori del mondo. Ed è quello per cui c’ è la filosofia di quelli che inventano nuovi si¬ stemi filosofici; ma c’è anche la filosofia di quelh che, senza inventarne, li cercano questi sistemi nei libri dove sono esposti, e leggono questi libri, li studiano, ne fanno prò, li gustano, han bisogno di farsene nutrimento e forza dello spirito, in cerca di risposta a domande che sorgono spontanee dal fondo della loro anima, insistenti, invincibili, e che essi perciò non saprebbero reprimere e far tacere. Talvolta questi filosofi-lettori sentono il pun¬ golo dei problemi dei filosofi-autori, e fanno perciò ressa intorno a costoro, jjer averne soddisfazione ai bisogni da cui sono senza tregua assillati. Giacché, insomma, la filo¬ sofia, come la poesia, non è privilegio né monopoho dei pochi quos aequus amavit luppiter] ma è in fondo allo spirito umano, e quindi nell’animo di tutti. Soltanto, c’ è chi si distrae e corre e si disperde per le cose e gl’ in¬ teressi esteriori, senza mai per altro dissiparsi a tal punto nelle esteriorità da non portare in tutto l’accento, per quanto leggiero, della sua personalità; e c’ è chi si ripiega e raccoglie in sé, e dentro di sé cerca, trova e coltiva il germe della sua vita e del suo mondo. In questo senso più largo e fondamentale il Leopardi fu squisitamente filosofo: e stette sempre anche lui con gli occhi intenti, ansiosi, sopra il mistero della vita, quale ad ogni uomo che sente e che pensa esso si presenta in MANZONI K LEOPARDI 87 jiìczzo a tutte le idee quotidiane, di tra il confuso agitarsi passioni svariate che gli tumultuano incessantemente pel cuore. Giacché ogni uomo che sente, non può vivere così spensierato e abbandonato all’ istinto da non av¬ vertire che la sua vita non scorre tranquilla com’acqua sopr^ un letto già scavato e terso. Sono sempre ostacoli da superare, bisogni da soddisfare, desideri! non ancora appagati e ondeggianti tra la speranza e il timore; e la gioia offuscata sempre dal dolore, che, vinto, risorge in mezzo allo stesso ]ùacere; e nell’alterna vicenda di vittorie e sconfitte, cadute e risorgimenti, speranze e disinganni, giubilo e scoramento, in fondo, alla fine, uno sparire totale di tutto, un disseccarsi e inaridirsi definitivo della sorgente stessa, a cui l’uomo accosta ad ora ad ora le sue labbra assetate; il nulla, la morte. La morte, che ci at¬ terrisce prima di colpirci, toghendoci per sempre e an¬ nientando intorno a noi tante delle nostre persone care, con cui ci era comune la vita, in guisa che la morte loro ci pare la morte di una parte di noi. E che è questa morte ? e che questa vita che precipita fatalmente nella morte ? Che è questo bisogno di cui viviamo, di non arrenderci a questo fato, che infrange ad una ad una tutte le nostre speranze, disperde tutte le nostre gioie, ci priva di tutti i nostri beni, ci chiude dentro mille osta¬ coli. ci combatte, c’ insegue, ci sbarra la via, e non ci concede tregua finché non ci abbatta per sempre ? Nascere è entrare in una lotta, che di giorno in giorno richiede sempre nuove e maggiori forze, e una volontà sempre più agguerrita, per vincere una battaglia sempre più aspra. Svegliarsi ogni mattina è, presto o tardi, pronti 0 lenti, rispondere all’appello delle cose, della natura, del destino, che ci attende, e ci spinge a nuove fatiche per soddisfare i nuovi bisogni che riempiranno tutta la no¬ stra giornata. Per gli uni la vita sarà più facile, o men difficile: ma per tutti è una scala, che bisogna salire; 88 GIOVANNI GENTILE salire sempre; da un gradino all’altro: sempre più senza fermarsi mai. Ma, appena l’uomo che ha un cuore, sente quest affanno e scorge, anche da lungi, la tragedia e la catastrofe” non può non interrogarsi e riflettere se a questa lotta ché par destinata a una sconfitta assoluta egli abbia forz. sufficienti, o se non sia un’ illusione questa jier cui egfi confida a volta a volta di poter affrontare la lotta stessa per conquistarsela la sua gioia, e farsi insomma una vita sua, quale ei la vagheggia, filiera dai mali la cui minaccia mette in moto la sua attività; e se egli non debba aprire gli occhi, e riconoscersi vittima del giuoco inesorabile della natura, granello di polvere sperduto nel turbine, o ruota di un ingranaggio universale, il cui combinato movimento non s’arresterà né devierà mai, e dentro i] quale ogni sforzo di volontà non può essere, esso mede¬ simo, al pari delle idee e dei sentimenti che lo solleci¬ tano, se non un necessario effetto di una causa necessaria predeterminato ab eterno in eterno. £ il mondo, in cui si svolge la nostra vita, una realtà massiccia, tutta chiusa neUa sua natura e nelle sue leggi, immodificabile, e noi dentro di esso, tutt’uno con tutte le altre cose, anche noi mossi dalla forza irresistibile del destino ? 0 siamo noi veramente capaci di metterci di fronte a ciuesto mondo, modificarlo con la nostra opera, con la nostra volontà, e al di sopra delle ferree leggi del meccanismo naturale col nostro amore, con l’impeto dell’animo no¬ stro innamorato dell’ ideale, instaurare una legge che sia la norma del bene e di un mondo spirituale dotato di un valore assoluto ? E se non fosse possibile questo mondo superiore, in cui il bene si distingue dal male, e c è una verità che si oppone all’errore, come si potrebbe pensare lo stesso mondo inferiore e quella natura spie¬ tata tutta chiusa nel suo meccanismo, la cui afferma¬ zione implica che si ritenga vera? E se a questo mondo MANZONI E LEOPARDI Sg superiore, alla cui esistenza occorre l’attività libera dello spirito che sceglie il bene e si apprende alla verità re- sping^n*^® contrario, se ne contrappone un altro che è la nepzione della hbertà, come si farà ad ammettere che sia libera la natura umana, circondata e condizio¬ nata da una natura che è l’opposto della hbertà ? Pensieri, che il filosofo più esperto mette in formule stringenti, e scruta a fondo; ma che confusamente, e non perciò meno tormentosamente, affiorano in ogni umana coscienza, e ora vi gettano lo sgomento, ora v’ in¬ fondono la fede di cui ogni uomo ha bisogno per non fermarsi e cadere. Giacché 1 uomo non dà un passo senza credere di poterlo dare; senza pensare che c’è una mèta innanzi a lui da raggiungere, e che quella è la via buona per giungervi. E quando questa convinzione gli manchi, e gli manchi del tutto, allora non gli resta che rifugiarsi nell’ Èrebo, come la misera Saffo. O la fede, o la morte. Ci sono mezzi termini, ma per gh uomini che pen¬ sano e sentono poco, e perciò si cUstraggono. Nessuno invece sentì mai cosi acutamente come il nostro Leo¬ pardi. nessuno vi pensò mai con tanta insistenza, e ne trasse espressioni di tanta umanità. Poiché il Leopardi se fu un filosofo in largo senso, fu poi, viceversa, un poeta in senso stretto. Il che vuol dire, che le sue convinzioni filosofiche non gli rimasero nella testa; ma gli scesero al cuore, e \'i si abbarbicarono, e furono la sua persona, lui stesso, la sua anima, 1 immediato sentimento, in cui \ibrò a volta a volta tutto il suo cuore. La sua concezione della vita, come or ora vedremo, si chiuse in poche idee, ma queste si fusero e colarono ardenti sulla stessa fiamma della sua passione viva, e quindi fiammeggiarono in accenti e fantasmi di poesia. La quale questo ha di pro¬ prio, a differenza della scienza ragionata e del sapere speculativo; che in questi il pensiero si spersonahzza e si stende in una tela universale, che ogni intelligenza può 90 GIOVANNI GENTILE SÌ ritenere, e far sua, e viverne anche, ma elevandosi sopra di sé e quasi uscendo da sé, e mediandosi, cioè svolgendosi, e quasi aprendo e dilatando il nucleo vivente della sua individualità, in guisa da parere che non senta più né affetti, né passioni, né gioie, né dolori, assorta nella contemplazione del suo oggetto. Laddove la poesia, lungi dall’alienare da sé il soggetto, lo stringe a se stesso, e lo fa vedere immediatamente così come esso è, dentro di se medesimo, chiuso nel suo sentire, fremente nel brivido della sua subbiettiva interiorità, nel suo essere e nel suo atteggiamento non ancora mediato, sviluppato, riflesso, ragionato e disindividuato. Lo scienziato cerca e trova la verità che è di tutti, astrattamente obbiettiva, in guisa che non par più né anche spettacolo di occhi umani od oggetto conformato alla mente che lo pensa; e il poeta in^’ece non cerca e non trova se non se stesso: l'amore o qual’altra passione gli detta dentro le parole in cui egli si esjirime. In questa immediatezza, spontaneità e quasi natu¬ ralità dello spirito poetico è il segreto della miracolosa potenza della poesia, raffigurata dagli antichi nella virtù incantatrice della lira di Orfeo, che traeva a sé e trasci¬ nava non pure gli uomini che riflettono, ma le fiere che solo sentono. Perciò la poesia, quantunque richieda anch’essa cultura e finezza spirituale, risultato di studio e di educazione, s’appiglia al cuore dei semplici e delle moltitudini, invade gli animi, conquide e trae seco non per virtù di persuasivi e irresistibili raziocinii, ma, ap¬ punto, d’un tratto, immediatamente, quasi per divino miracolo. Perciò Tefficacia e la virtù diffusiva dell’arte è senza paragone superiore a quella della filosofia. Perciò quella filosofia, che fu nel Leopardi sentimento e diventò sublime poesia, ha una potenza infinitamente maggiore di qualunque più sistematica filosofia; e se si chiudesse nel gretto circolo di una concezione pessimi- MANZONI E LEOPARDI 91 stica della vita, non sarebbe, a dir vero, prudente accor¬ gimento di educatori del popolo italiano erigere qui una cattedra a commento ed esaltazione di essa. I filosofi, per raggiungere la loro verità, devono salire l’erta fati¬ cosa del monte; e giunti alla cima, vi restano per solito in una solitudine magnanima, anche a malgrado della moltitudine che dal basso sogguarda e sogghigna. I poeti si traggono dietro il popolo, toccandone il cuore anche lievemente, con quella loro arte che « tutto fa, nulla si scopre ». Il Leopardi è tra essi; ma materia del suo canto è la sua filosofia. IV. E qual è dunque il contenuto di questa sua filosofia ? Quello che abbiamo già detto dei problemi filosofici, che spontaneamente sorgono dal fondo del pensiero umano, ci apre la via a chiarire le idee che furono la vita intel¬ lettuale e sentimentale del nostro Poeta. 11 quale su quei problemi martellò il suo pensiero; e di quei problemi vagheggiò soluzioni, che scossero profondamente il suo animo. E sono i problemi fondamentah o massimi della filosofia: che è pensiero umano derivante dal bisogno di assicurare all’uomo la fede che gli è indispensabile per vivere: la fede nella propria libertà; ossia nella pos¬ sibilità che egli ha, e deve avere, di esercitare un suo giudizio, di conoscere una verità, di agire, e farsi un suo mondo, conforme cioè alle sue aspirazioni e a’ suoi ideali e non dibattersi vanamente in una rete di illusioni e di sforzi infecondi. Bisogno, rispetto al quale ogni filo¬ sofia materiahstica, evidentemente, è una filosofia fallita; la quale, logicamente, se l’uomo non si risolvesse da ultimo a non lasciarsi più guidare dalla logica e ad ab¬ bandonarsi all’ istinto, dovrebbe condurre l’uomo, come ho detto, al suicidio. 92 GIOVANNI GENTILE Ora Giacomo Leopardi, ogni volta che si trovò a fare di proposito una professione di fede, fu esplicito nel manifestare la sua adesione alla filosofia sensualistica e materialistica del secolo XVllI; e il Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco, inserito nelle Operette morali, è una dichiarazione del suo proprio pensiero, quale, per altro, si ripercuote in una buona metà de’ suoi scritti in prosa e in verso. Poiché da per tutto egh si vede in¬ nanzi quella natura simbolicamente rappresentata nel Dialogo della Natura e di un Islandese', la quale non sa e non si cura dei desiderii né delle sofferenze umane; natura grande, enorme, infinita, la quale racchiude in sé tutto, e non conosce perciò l’uomo che pretende di contrapporsele, di deviarla dal suo corso, piegarla alle proprie tendenze, conformarla a quei fantasmi di una vita bella ideale, che egli si finge e pretende di far valere in concorrenza della dura, quadrata realtà che lo fron¬ teggia. Questa perciò, conosciuta che sia, spezza ogni umana velleità, e aggioga l’uomo al dominio universale delle leggi di natura: dove non c’è bene né male, ma tutto è necessario, tutto accade perché, data la causa che lo determina, non può non accadere; e la stessa ne¬ cessità ha ogni umano pensiero o volere, che non deriva da un principio autonomo, che si faccia centro di una vita superiore e indipendente, avente in sé la propria misura, ma è effetto del generale meccanismo, che si abbatte sulla così detta anima umana attraverso le sen¬ sazioni e gh appetiti che queste producono. Filosofia materialistica, dunque. Ma è questa, in conclusione, la filosofia del Leopardi ? Io \’i invito a ri¬ flettere che c’ è due modi di giungere a conclusioni ma¬ terialistiche : uno proprio degh spiriti poco sensibih, che, raggiunte quelle conclusioni, vi si rassegnano: le trovano inevitabili, e si fanno un dovere, il cui adempimento non costa a loro grande fatica, di accettarle senza reazione MANZONI E LEOPARDI 93 di sorta; e l’altro invece proprio di quegli altri, che se non trovano la via di affrancarsene, e scoprirne l’errore e la manchevolezza, ne soffrono, e vi reagiscono contro, e vi si ribellano con tutta la forza del loro sentimento, che ò come dire della loro stessa personalità. I secondi non riescono ad affisarsi tanto nella visione di quella natura che è opposta alle esigenze morali proprie del¬ l’uomo, da restarvi come assorbiti, dimenticandosi af¬ fatto di queste esigenze, e cioè della lor propria natura. Il loro tormento, la loro angoscia nasce appunto da questo stridente contrasto, di cui essi infine vengono a fare l’esperienza, e a vivere. La realtà finale, al cui cospetto vengono a trovarsi, non è una sola, ma duplice: da una parte, la natura disumana, in cui tutte le luci onde s’il¬ lumina la via dello spirito si spengono; e dall’altra, questa realtà fiammeggiante e splendida, che arde dentro di loro, e alla cui luce, infine, essi comunque guardano e vedono la prima. Giacché anche questa è oggetto di una affermazione, in cui lo spirito umano manifesta la fede che ha nelle proprie forze e nella propria capacità di distinguere il vero dal falso, e di appigliarsi al primo in quanto esso è opposto al secondo. La realtà che è lì di fronte allo spirito, è sì quella realtà naturale, materiale, meccanica, chiusa e impervia ad ogni idealità, inconci¬ liabile con qualsiasi concetto di libertà; ma il contrap¬ porsi di essa allo spirito importa pure l’opporsi dello spirito ad essa: dello spirito, che è una realtà dotata di attributi contrari a quelli con cui vien pensata l’altra. E per ammettere questa, bisogna ammettere prima quella ; senza la quale mancherebbe lo stesso pensiero, a cui si chiede tale ammissione. E chi dice pensiero, dice libertà. Dunque ? Siamo liberi ? Possiamo cioè col nostro pensiero, con la nostra volontà, crearci il mondo che ci sorride alle menti innamorate; il mondo della verità, delle cose belle e buone, a cui il nostro cuore tende con irresistibile 94 GIOVANNI GENTILE slancio ? E come spiegar l’ali, onde noi vorremmo in- nalzarci nel libero cielo dell’ ideale, se esse urtano sul muro di bronzo di questa materiale natura, che ci at¬ tornia e stringe da tutte le parti, dalla nascita alla morte ? Ecco l’esperienza del Leopardi, ecco la sua lìlosofìa, che è molto ]ùù complessa del semjjlicismo materialistico; ed essa è il reale contenuto della poesia leopardiana: quella filosofia fatta sentimento e persona, che ho detto esser materia al canto del Poeta recanatese. 11 quale non si rassegna alla pura affermazione materialistica, perché la ricca e sensibilissima vita morale che gli riempie il cuore, è la negazione del materialismo; e poi perché egli è un poeta, e come ogni poeta crede nel suo mondo, lo prende sul serio; e questo suo mondo è la ])rova più luminosa della sua capacità creatrice e della sua libertà. Si consideri che questo è uno dei caratteri principali dell’arte : che laddove l’uomo pratico, lo scienziato, l’uomo religioso, lo stesso filosofo può sentirsi legato a una realtà che prcesiste alla sua azione, alla sua ricerca scientifica, alla sua preghiera o alla sua speculazione, che è in sé quello che è, con le sue leggi, a cui l’uomo deve arren¬ dersi e subordinarsi, l’artista crea il suo mondo e, pre¬ scindendo nella sua fantasia dalla realtà preesistente, celebra la sua assoluta libertà, arbitro della nuova realtà che egli si finge, e in cui vive, e si aliena dal mondo natu¬ rale dell’uomo comune e della sua stessa vita ordinaria: sì che il suo sogno diventa a lui cosa salda, e si slarga a orizzonti infiniti, e gli fa sentire il gusto deH’cterno e del divino. La poesia del Leopardi ribocca e freme di tre¬ pidante tenerezza per le vaghe immagini figlie dell’arte sua: per quelle dolci parvenze che un po’ gli sorridono e poi, a un tratto, lo abbandonano rapite via dalla cor¬ rente di quella disumana realtà, che ignora il dolore che essa cagiona ai cuori teneri e gentili. E insieme con le immagini belle, gli arridono tutte quelle che una volta MANZONI E LEOPARDI 95 egli dice le « beate larve », familiari agli uomini non an¬ cora giunti alla conoscenza del tristo vero, ossia non ancora spinti dalla malsana riflessione alla disperazione (ji quella mezza filosofia, che è il materialismo: le beate lar\e, che allietano e confortano la vita agli uomini, nelle antiche età, e nei primi anni della fanciullezza e della gioventù quando non ancora si sono appressate le labbra all’amaro calice della vita; e nelle prime ore del mattino, (juando incomincia il giorno e Tuomo non ha riassaporato per anco la realtà, e se ne foggia con 1’ im¬ maginazione una che lo anima e alletta alla nuova fatica. Le beate larve delle illusioni naturali e necessarie : di tutte, cioè, le idee che formano il pregio della vita, e che quella filosofia materialistica non potrà giustificare come dotate di un legittimo fondamento, e pur non potrà sradicare dallo spirito umano. Perche illusione la virtù ? Perché illusione ogni idea onde ebbe pregio il mondo ? Perché la vita che noi cono¬ sciamo, risponde il Leopardi, ne è la negazione. Ricordate il dialoghetto di un venditore d’almanacchi e di un passeg¬ gere ? L’almanacco promette per l’anno nuovo tante cose belle; ma il passeggere è scettico; «quella vita eh’ è una cosa bella non è la vita che si conosce, ma (jueUa che non si conosce ; non la vita passata, ma la vita futura ». La quale però un giorno sarà passata, e allora si cono¬ scerà, e apparirà quale sarà aneli'essa, una volta speri¬ mentata; brutta, come tutta la vita passata. 11 futuro è il mondo che vi finge lo spirito; il mondo, dice il Leo¬ pardi, delle illusioni. Lì è la virtù che vince il male e trionfa; lì è il sacrifizio dell'uomo per l’uomo; lì è l’amore; lì è la fede e l’amicizia; lì è la gioia, ecc. Ma quello non è il mondo reale. Infatti il futuro bisogna che avvenga, e diventi passato. La realtà realizzata, quale noi possiamo averla innanzi a noi, ed effettivamente conoscerla, quella ci disillude, e ci dimostra che la virtù è un nome vano. 96 GIOVANNI GENTILE e che tutte le più vaghe speranze e gl’ ideali più cari finiscono nel nulla. Tant’ è che Tuomo conchiuda o per condannare come semplici ombre fallaci tutte le illusioni, e dire che la vita non si può governare se non in rapporto al reale all’esistente, al mondo qual è (che è poi il passato); o per risolversi animosamente a dir no a questo mondo reale (che è il passato senza futuro) e a governarsi con l’occhio all’avvenire, dove lo trae la sua natura di es¬ sere pensante, e perciò creatore di ideali e vagheggiatore di una vita superiore a quella puramente naturale. E Leo¬ pardi dice questo no con tutta la forza del suo animo, con tutto r impeto della sua possente poesia. Egli è tutto proteso verso il futuro, verso l’ideale, e torce con co¬ scienza prometeica lo sguardo dalla legge fatale che incatena l’uomo come essere naturale alla ferrata ne¬ cessità di morte. Egli, di cedere inesperto, disprezza il brutto poter che ascoso a comun danno impera e V infinita vanità del tutto. Per lui Nobil natura è quella Ch’a sollevar s’ardisce Gli occhi mortali incontra Al comun fato. E quanto a sé non cederà certo ; e alla morte può dire : Erta la fronte, armato, E renitente al fato. I.a man che flagellando si colora Nel mio sangue innocente Non ricolmar di lode. Non benedir.... Solo aspettar sereno Quel dì eh’ io pieghi addormentato il volto Nel tuo virgineo seno. Egli è conscio dell’ invitta potenza dell’anima umana pur nell’estrema miseria. Vivi, dice la Natura all’Anima MANZONI E LEOPARDI 97 jn uno de’ suoi dialoghi; vivi, e sii grande e infelice. Infelice perché grande; perché sentire la infehcità è solo jelle anime grandi, che con la loro gagharda natura si jnettono al di sopra del mondo, che le fa soffrire, e re¬ gnano sovrane in quella superiore realtà che è propria dello spirito. Leopardi sa che la grandezza del suo dolore si commisura alla grandezza del suo pensiero che lo sente e analizza e ne fa materia al suo altissimo canto; e che un’anima volgare e torpida non saprebbe provare tutto il dolore del Poeta, che il volgo infatti non intende e irride. Leopardi sa che la coscienza dell’umana miseria è già segno di grandezza. Sa che ancor che tristo, ha suoi di¬ letti il vero: che l'acerbo vero, a investigarlo, dà un amaro gusto che piace. E poi quando l’anima, disillusa e stanca della vita che non mantiene mai le sue promesse, si ri¬ duca infatti all’estremo della infelicità, che non è la di¬ sperazione, ma la noia >, la morte ncUa vita, non dolore né piacere, ma il sentimento della nullità, questo terri¬ bile privilegio degli uomini, a cui la natura non ha prov¬ veduto perché non ha neppur sospettato che l’uomo vi potesse cadere; quella noia che, a simiglianza dell’aria «la quale riempie tutti gl’intervalli degh altri oggetti, e corre subito a stare là donde questi si partono, se altri oggetti non gli rimpiazzino », « corre sempre e immedia¬ tamente a riempire tutti i vuoti che lasciano negli animi de’ viventi il piacere e il dispiacere » ’ ; ebbene, anche allora l’anima non cade, non è vinta. Giacché, secondo Leopardi, « la noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani.... Il non potere essere soddisfatto da ’ « La disperazione è molto, ma molto più piacevole della noia. La natura ha provveduto, ha medicato tutti i nostri mali possibili, anche i più crudeli ed estremi, anche la morte, a tutti ha misto del bene, a tutti.... fuorché alla noia» (Zibald., IV, 112). * Zibald., IV, 112 e VI, 126. — Giuntile, Manzoni e Leopardi. 98 GIOVANNI GENTILE alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il nu¬ mero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e 1 universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accu- sg^re le cose d’insufficienza e di nullità, e patire manca¬ mento e vóto, e pero noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agh uomini di nes¬ sun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali » ■. V. Su tutte le delusioni, su tutti i dolori, su tutte le miserie, al di sopra della mole sterminata di quest’uni¬ verso, in cui s’infrangono tutte le speranze e si spen¬ gono tutti gl’ideah, l’infinità dello spirito. Quindi la hbertà, quindi la possibilità di crearsi una vita superiore degna delle più nobili aspirazioni connaturate all’animo umano. Anche pel Leopardi, poca scienza pregiudica e mortifica, ma molta scienza ravviva e ringaghardisce la fede di cui l’uomo ha bisogno per vivere. E questa natura, che la mezza filosofia del materialista ci rappresenta in voley mutyignu, è pur quella natura che mette nel¬ l’animo nostro le illusioni; e se non sopravvenga la ri¬ flessione e l’opera dcU’ irrequieto ingegno dell’uomo non più contento delle condizioni naturali della vita che egli dapprima vive istintivamente, conforta l’uomo con l’amore, con la pietà, con tutti gli affetti gentili che riempiono il cuore di dolci consolazioni e di magnanimi ardimenti. Pensieri, N. 68. MANZONI E LEOPARDI 99 Questa natura che governa Tuomo, madre benigna e pia nell’età dei Patriarchi, nei tempi oscuri e favolosi del genere umano, e risorge amorosa nella prima età di ciascun uomo a infondergli con la virtù del caro imma¬ ginare la speranza nel futuro a cui egli va incontro; questa natura, che nell’amore torna sempre a rinverdire le speranze, e che ci fa conoscere una « verità piuttosto che rassomighanza di beatitudine»; essa torna da capo, quando l’uomo ha tutto conosciuto il tristo vero e vuo¬ tato il calice amaro, torna a confortare l’uomo, amica e consolatrice. La natura del materialista è via; ma non è punto di partenza, né punto d’arrivo. 11 savio torna fanciullo, e alla fine, come al principio, l’uomo è alla presenza di un mondo il quale non è quello del mecca¬ nismo, che tutto travolge e distrugge quanto a lui è più caro, ma quello del pensiero, dello spirito umano, del¬ l’amore, della virtù. Onde ai suggerimenti egoistici della filosofia (nel Dialogo di Plotino e di Porfirio) che indur¬ rebbe il filosofo al suicidio, Plotino può rispondere : <iPorgiamo orecchio piuttosto alla natura che alla ragione»'. alla natura primitiva « madre nostra e dell’universo », la quale ci ha infuso un certo senso dell’animo, che è amore degli altri e che ferma la mano al suicida ricor¬ dandogli la famigha, gli amici e quanti si dorrebbero della sua morte. Perciò a Porfirio, il filosofo che vorrebbe togliersi la vita, il filosofo più savio, il maestro, Plotino dirà: Viviamo, e confortiamoci a vicenda; non ricusiamo di por¬ tare quella parte che il destino ci ha stabilita dei mali della nostra specie ! Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita.E quando la morte verrà, allora non ci dorremo : e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteran¬ no: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, cosi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora. 100 GIOVANNI GENTILE Perciò il De Sanctis paragonando Schopenhauer a Leopardi, notava questo grande divario tra n filosofo tedesco e il poeta italiano: che questi quanto più mette in luce il deserto desolante e disamabile della vita, tanto più ce la fa amare; quanto più dichiara illusione la virtù, tanto più ce ne accende vivo nel petto il desiderio e il bisogno. Perciò la lettura del Leopardi non sarà mai pericolosa, anzi salutare e corroborante a chi saprà leg- gergh nel fondo dell’anima. E di lui può dirsi che preso per metà è il più nero dei pessimisti; preso tutto intero, è uno dei più sani e vigorosi ottimisti che ci possano apprendere il segreto della vita operosa e feconda. La morte, anche la morte, il simbolo della fatalità avversa che opprime ogni sforzo umano, e che pare mi¬ nacci sempre da lungi e ammonisca della inanità d’ogni speranza e d’ogni fatica, e della nullità della vita a cui ci sentiamo tutti legati, la stessa morte al Poeta, nella maturità piena della sua poesia, quando il suo animo ha più nettamente ravvisato e sentito nel profondo la sua verità, e quasi toccato il fondo di se stesso, diventa germana di Amore, che è pel Leopardi, come s’ è veduto, ciò che dà verità più che rassomiglianza di beatitudine. Fratelli, a un tempo stesso. Amore e Morte Ingenerò la sorte. Cose quaggiù si belle Altre il mondo non ha, non han le stelle. Morte diviene una bellissima fanciulla, dolce a ve¬ dere; e gode accompagnar sovente Amore: E sorvolano insiem la via mortale. Primi conforti d’ogni saggio core. 1 Cfr. sopra, p. 54. 2 Non vedo che abbia attirata l'attenzione della critica, come merita, uno studio recente del prof. Cirillo Berardi, Ottimismo leo¬ pardiano, Treviso, bongo e Zoppelli, 1925- MANZONI E LEOPARDI lOI Il Poeta sente che Quando noveUamente Nasce nel cor profondo Un amoroso affetto. Languido e stanco insiem con esso in petto Un desiderio di morir si sente: Come, non so: ma tale D’amor vero e possente è il primo effetto. Il Poeta vuol rendersi ragione di questa coincidenza, e non vi riesce. Ma ben sente che quando si ama, non ha più valore la vita naturale dell’ inditdduo chiuso nei suoi limiti, di là dai quah spazia quell’ infinita natura che fiacca ogni umana possa. Che anzi l’individuo per l’amore scopre che la sua vera vita è di là da questi hmiti; e che bisogna ch’egli perciò muoia a se medesimo, e spezzi r involucro della sua individuahtà naturale, centro di ogni egoismo, per attingere la vera vita. Perciò la morte opti gran dolore, ogni gran male annulla. Perciò la morte è liberatrice, affrancando lo spirito umano dai vincoli onde ogni uomo è da natura incatenato a se medesimo, chiuso in sé, in mezzo agli altri esseri e forze naturali, incapace di libertà e di virtù. Amare è redimersi, en¬ trare nel mondo morale, che è il mondo della libertà. Questo il concetto che il Poeta sentì e visse: questa la materia del suo canto. Formiamo oggi l’augurio, che attraverso il corso di queste letture, che inauguriamo, tale concetto apparisca in luce sempre più chiara. ■ t WS, '»■ ' r s»^ : 'f^’^ - 4L„-LjrvYw ir- -4 ■-«', > .tjj, ^..i'^' ■«^’ vT^ftà •, - ■ /^{'■^S^*!,"^f^J .'•jv,’' 4 -^ ' *-cà»{ • . fc-J/ , ^ ^ . jj| ■“ IAj . » . A-. . '• . TVioaH! id -* lAr il -*| ' l«b-r -' *■ SJI /^'> .>.^viiWB < .tw ■^i'V, li^J '1* ^«i I^'•‘^■^'^' .•»'. .’l - ‘- *• ' * fcA* iti **? ^ /.. ’ '^■*-'' »-> *■•>'• ,*-^-'. ’ *'*' ‘^B J 1 I 1 4 , i;,* ’*'*:’^ »' / ""'* vàipì V^f 1,4 •*, ’ <f~'i'] b(^ ' ' ■ ■ ' 16^1 ..v. , -;V «rii^^ V. t, ■ «..;# *>c-< ‘ ' 1^- ^ T *:'3^1V "ti' ' '■■■ ”* . . .n v .■■J* U „U:e I. ili® '-.‘i it'i '' j'V" ^'■ ■'’ '•^ L LS;l; :>-i .1 :-.*^ IV LE OPERETTE MORALI 1 Pubblicato la prima volta negli Annali delle Università toscane (Pisa, 1916) e come proemio alla edizione con note delle Operette morali di G. L., da me curata, Bologna, Zanichelli, 1918; 2» ed. 1925. I. Se si volesse considerare le Operette morali come una raccolta delle varie parti, in cui il libro è diviso, sarebbe tutt’altro che agevole stabilirne la cronologia. Certo, non sarebbe consentito di starsene alle indicazioni fornite con perentoria precisione dallo stesso autore innanzi alla terza edizione iniziata a Napoli nel 1834. * * Queste Ope¬ rette », egli diceva, « composte nel 1824, pubblicate la prima volta a Milano nel 1827, ristampate in Firenze nel 1834 coll’aggiunta del Dialogo di un Venditore di almanacchi e di un Passeggere, e di quello di Tristano e di un Amico, composti nel 1832; tornano ora alla luce ricorrette notabilmente, ed accresciute del Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco scritto nel 1825, del Copernico e del Dialogo di Plotino e di Porfirio, composti nel 1827 » Intanto, non tutte le Operette furono pub¬ blicate la prima volta a Milano nel '27; giacché tre di esse, come « primo saggio », avevano visto la luce a Fi¬ renze nel gennaio 1826, nell’ Antologia e quell’anno stesso erano state riprodotte a Milano nel Nuovo Rico¬ glitore. Ed è pur vero che tutte le Operette, ad eccezione di quelle che nella notizia testé riferita sono assegnate dall’autore al ’25, al '27 e al ’32, furori composte nel 1824; perché l’autografo originale, che è tra le carte leopardiane della Biblioteca Nazionale di Napoli, ce ne • Scritti letterari, ed. Mestica, li, 386; cfr. p. 388. • 61, pp. 25-43. io6 GIOVANNI GENTILE fa sicura testimonianza con le date apposte alle operette singole, e tutte correnti dal 19 gennaio al 13 dicembre di quell’anno Ma si dovrebbe pure distinguere il tempo in cui ciascuno scritto fu steso, da quello in cui prima fu concepito, o ne cadde il motivo fondamentale e inspi¬ ratore nell’animo del Leopardi. Giacché con qual fonda¬ mento si toglierebbe l’una o l’altra delle Operette a docu¬ mento di quel periodo spirituale che si suole infatti at¬ tribuire agli anni tra il canto Alla sua donna (settembre 1823) con i Frammenti dal greco di Simonide (apparte¬ nenti probabilmente a quello stesso tempo), e l’epistola Al Conte Carlo Pepoli (marzo 1826), o II Risorgimento (aprile 1828), se quei pensieri che sono caratteristici delle Operette risalgono ad epoca più remota ? Fu già osservato j che negli Abbozzi e appunti per opere da comporre, che sono fra le carte napoletane, «scritti in piccoli foglietti staccati senza indicazione di tempo » 3 , è segnato un I Ecco le singole date, già in parte pubblicate dal Chiarini, Vita di G. Leopardi, Firenze, Barbèra, 1905, pp. 237-38 (cfr. p. 222) e da me riscontrate tutte sul manoscritto autografo (che si conserva tra le Carte della Biblioteca Nazionale di Napoli): Storia del genere umano (18 gennaio-7 febbraio 1824); Dialogo d' Ercole e di Atlante (10-13 feb¬ braio); Dialogo della Moda e della Morte (15-18 febbraio); Proposta di premi (22-25 febbraio); Dialogo di un Lettore di umanità e di Sal¬ lustio (26-27 febbraio) ; Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo (2-6 marzo) ; Dialogo di Malamhruno e di Farfarello (1-3 aprile); Dialogo della Na¬ tura e di un’.dnima (9-14 aprile); Dialogo della Terra e della Luna (24- 28 aprile); La scommessa di Prometeo (30 aprile-8 maggio); Dialogo di un Fisico e di un Metafisico (14-19 maggio); Dialogo della Natura e di un Islandese (21-27-30 maggio); Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare (i-io giugno); Dialogo di Timandro e di Eleandro (14-24 giugno); Il Parini, ovvero della gloria (6 luglio-13 agosto); Dia¬ logo di Federico Ruysck e delle sue Mummie (16-23 agosto); Detti me¬ morabili di Filippo Ottonieri (29 agosto-26 settembre; e precisamente il cap. II ha la data del 3 settembre; il III, 9 settembre; il IV, 14 set¬ tembre; il V, 21 settembre; il VI, 24 settembre; il VII, 25 settem¬ bre) ; Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez (19-25 ottobre); Elogio degli Uccelli (25 ottobre-5 novembre) ; Cantico del Gallo silvestre (10-16 novembre); Note (7-13 dicembre). * Da N. Serban, L. et la France, Paris, Champion, I 9 i 3 - P- ^ 5 ^ ”• 3 Avvertenza premessa agli Scritti vari ined. di G. L. dalle carte napoletane, Firenze, Le Monnier, 1910, p. v’ii. MANZONI E LEOPARDI 107 <, Dialogo della natura e dell’uomo, sul proposito di quella parlata della natura, all’uomo, che Volney le mette in bocca nelle Ruines sulla fine, o vero nel Catéchisme » ' ; dialogo, che si trova nelle Operette col titolo di Dialogo della Natura e di un'Anima) il quale, dunque, al tempo di quell’appunto non era scritto. Pure nello stesso fo¬ glietto, segue un « TrattateUo degli errori popolari degli antichi Greci e Romani » (che non può essere la stessa cosa del Saggio), e quindi subito dopo: « Comento e ri¬ flessioni sopra diversi luoghi di diversi autori, sull’andare di quelle ch’io fo in un capitolo del F. Ottonieri»; ossia nel penultimo capitolo dei Detti memorabili, che è delle ultime operette del '24. Ora, se questi appunti sono per¬ tanto da ascrivere ad epoca posteriore a tale data, in qual modo spiegarsi che del suo Dialogo della Natura e di un’Anima l’autore parlasse come di opera da com¬ porre ? O egli non aveva neppur composti i Detti me¬ morabili, e si riferiva ai materiali che vi avrebbe messi a profitto, e che già, come vedremo, possedeva ? Comunque, in altra serie di appunti, relativi, come par probabile, a dialoghi tuttavia da scrivere, e tutti segnati nel medesimo foglietto, s’incontrano, tra gli altri, i seguenti argomenti: Salto di Leucade) Egesia pisitanato) Natura ed Anima) Tasso e Genio) Galan¬ tuomo e mondo) Il sole e l’ora prima, o Copernico. Ed ecco, da capo, il Dialogo della Natura e di un’Anima, ma ac¬ canto a un altro dialogo. Galantuomo e mondo, che l’autore abbozzò nel 1822, per tornarvi sopra nel '24, senza con¬ durlo tuttavia a termine e la sua prima idea pertanto deve risalire almeno al 1822. E secondo lo stesso docu¬ mento, contemporanei sono i disegni primitivi di altre ' 0 . c., p. 400. * Vedi abbozzo negli Scritti vari, pp. 318-31. Il foglietto relativo, riscontrato per me dall’amico prof. V. Spampanato, è nelle Carte leo¬ pardiane della Bibl. Nazionale di Napoli, nel pacchetto X, fase. 12. io8 GIOVANNI GENTILE quattro operette, due del '24 e due del '27. Giacché, oltre il Dialogo del Tasso e del suo Genio e il Copernico, qui son pure facilmente ravvisabili in Egesia pisitanato la prima idea del Dialogo di Plotino e di Porfirio > ; e nel Salto di Leucade quella del Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez e in Misénore e Filénore quella del Dialogo di Timandro e Eleandro 3. E il documento certamente dimostra che del Plotino e del Copernico, scritti entrambi, come s’ è veduto, nel '27, non solo il concetto, ma anche la forma in cui il concetto si ])re- sentò alla mente del Leopardi, non è posteriore alle Operette del '24. E c’ è altro. Stando alla cronologia dataci dai docu¬ menti, r Ottonieri fu composto nell’ultimo mese d’estate del 1824; ma un’anahsi molto accurata dei singoli Detti, riscontrati coi Pensieri di varia filosofia e di bella lette¬ ratura, ha dimostrato, in modo incontestabile, che in questo scritto « liberamente il Leopardi raccolse dal suo Zibaldone gh appunti più singolari e umoristici; certo intendendo a una vaga e libera somiglianza e rispec¬ chiamento delle proprie opinioni, ma più col fine di pubblicare qualche parte del materiale accumulato giorno per giorno». Sicché s’è creduto poter conchiudere che nell’ Ottonieri al Leopardi « venne fatto un centone, non un’operetta come le altre organicamente intessuta » 4. Scegliamo infatti un paio d’esempi, tra i tanti che si potrebbero riferire. Nel cap. Ili dell’ Ottonieri si legge : > Egesia infatti è ricordato nel Plotino: p. 308. * Cfr. quel che dice di questo Salto il Colombo a p. 233; e Pen¬ sieri, 1, 193. 3 Questo dialogo infatti originariamente recava il titolo di Dia¬ logo di Filénore e di Misénore. 4 F. P. Luiso, Sui Pensieri di G. L., nella Rassegna Nazionale, 1“ maggio 1899, p. 119. MANZONI E LEOPARDI 109 Diceva che la negligenza e l’inconsideratezza sono causa di commettere infinite cose crudeli o malvage; e spessissimo hanno apparenza di malvagità o crudeltà; come, a cagione di esempio, in uno che trattenendosi fuori di casa in qualche suo passatempo, lascia i servi in luogo scoperto infracidare alla pioggia; non per animo duro e spietato, ma non pensandovi, o non misurando colla mente il loro disagio. E stimava che negli uomini l’incon¬ sideratezza sia molto più comune della malvagità, della inu¬ manità e simili; e da quella abbia origine un numero assai mag¬ giore di cattive opere; e che una grandissima parte delle azioni e dei portamenti degli uomini che si attribuiscono a qualche pessima qualità morale, non sieno veramente altro che incon¬ siderati. Idee che fin dall’ ii settembre 1820 il Leopardi aveva sbozzate nello Zibaldone dei suoi Pensieri, scrivendo: La negligenza e l’irriflessione spessissimo ha l’apparenza e produce gh effetti della malvagità e brutaUtà. E merita di esser considerata come una delle principali cagioni della tristizia degli uomini e delle azioni. Passeggiando con un amico assai filosofo c sensibile, vedemmo un giovinastro che con un gros.so bastone, passando, sbadatamente e come per giuoco, menò un buon colpo a un povero cane che se ne stava pe’ fatti suoi senza infastidir nessuno. E parve segno all’amico di pessimo carattere in quel giovane. A me parve segno di brutale irriflessione. Questa molte volte c’induce a far cose dannosissime e penosissime altrui, senza che ce ne accorgiamo (parlo anche della vita più ordinaria e giornaliera, come di un padrone che per trascuraggine lasci pe¬ nare il suo servitore alla pioggia ecc.), e avvedutici, ce ne duole; molte altre volte, come nel caso detto di sopra, sappiamo bene quello che facciamo, ma non ci curiamo di considerarlo e lo fac¬ ciamo cosi alla buona; considerandolo bene, noi non lo faremmo. Così la trascuranza prende tutto l’aspetto e produce lo stessis¬ simo effetto della malvagità e crudeltà, non ostante che ogni volta che tu rifletti, fossi molto alieno dalla volontà di produrre quel tale effetto, e che la malvagità e crudeltà non abbia che fare col tuo carattere • Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, I, 334-35. no GIOVANNI GENTILE Voltando appena pagina, nell’ Ottonieri si torna a leggere; Ho udito anche riferire come sua, questa sentenza. Noi siamo inclinati e soliti a presupporre, in quelli coi quali ci avviene di conversare, molta acutezza e maestria per iscorgere i nostri pregi veri, o che noi c’ immaginiamo, e per conoscere la bellezza o qualunque altra virtù d’ogni nostro detto o fatto; come ancora molta profondità, ed un abito grande di meditare, e molta me¬ moria, per considerare esse virtù ed essi pregi, e tenerli poi sem¬ pre a mente: eziandio che in rispetto ad ogni altra cosa, o non iscopriamo in coloro queste tali parti, o non confessiamo tra noi di scoprirvele. E anche questo pensiero, quantunque in forma com¬ pendiata a mo’ di appunto, era già nello Zibaldone, fin dal 23 luglio 1820; Noi supponiamo sempre negli altri una grande e straordi¬ naria penetrazione per rilevare i nostri pregi, veri o immaginari che sieno, e profondità di riflessione per considerarli, quando anche ricusiamo di riconoscere in loro queste qualità rispetto a qualunque altra cosa. E il numero di simili riscontri è tale che pochi sono i luoghi dell’ Ottonieri di cui non si trovi la prima prova nei Pensieri degh anni anteriori. Non sarà dunque da dire che nel ’24 l’autore abbia dato soltanto la forma defini¬ tiva a questa operetta, facendone, come ad altri è sem¬ brato, un centone di sue osservazioni di tre e quattro anni prima ? Né la domanda vale unicamente per l’ Ottonieri. Anche del Parini è stato notato che la sostanza è già nei Pensieri scritti tra il ’20 e il ’23 b Caratteristico questo luogo del cap. IX, dove l’autore fa dire al Parini; Come città piccole mancano per lo più di mezzi e di sussidi onde altri venga all’eccellenza nelle lettere e nelle dottrine; e * V. tra gli altri B. Zumbini, Studi sul L., Firenze, Barbèra, 1902- 04, II, 42; e Losacco, in Giorn. stor. letter. Hai., XXXIV, 208. MANZONI E LEOPARDI III come tutto il raro e il pregevole concorre e si aduna nelle città grandi; perciò le piccole.... sogliono tenere tanto basso conto, non solo della dottrina e della sapienza, ma della stes.sa fama che alcuno si ha procacciata con questi mezzi, che l’una e l'altre in quei luoghi non sono pur materia d’invidia. E se per caso qualche persona riguardevole o anche straordinaria d’ingegno e di studi, si trova abitare in luogo piccolo. Tesservi al tutto unica, non tanto non le accresce pregio, ma le nuoce in modo, che spesse volte, quando anche famosa al di fuori, ella è, nella consuetudine di quegli uomini, la più negletta e oscura persona del luogo.... E tanto egli è lungi da potere essere onorato in simili luoghi, che bene spesso egli vi è riputato maggiore che non è in fatti, né perciò tenuto in alcuna stima. Al tempo che, giovanetto, io mi riduceva talvolta nel mio piccolo Bosisio; conosciutosi per la terra eh’ io soleva attendere agli studi, e mi esercitava alcun poco nello scrivere; i terrazzani mi riputavano poeta, filosofo, fisico, matematico, medico, legista, teologo, e perito di tutte le lingue del mondo; e m’interrogavano, senza fare una menoma differenza, sopra qualunque punto di qual si sia disciplina o fa¬ vella intervenisse per alcun accidente nel ragionare. E non per questa loro opinione mi stimavano da molto; anzi mi credevano minore assai di tutti gli uomini dotti degli altri luoghi. Ma se io li lasciava venire in dubbio che la mia dottrina fosse pure un poco meno smisurata che essi non pensavano, io scadeva ancora moltissimo nel loro concetto, e all’ultimo si persuadevano che essa mia dottrina non si stendesse niente più che la loro. Mirabile pagina, piena di verità. Ma essa trae origine da riflessioni jiersonali e autobiografiche già dal Leopardi segnate sulla carta fin dall’ottobre 1820; Spessissimo quelli che sono incapaci di giudicare di un pregio, se ne formeranno un concetto molto più grande che non dovreb¬ bero, lo crederanno maggiore assolutamente, e contuttociò la stima che ne faranno sarà infinitamente minor del giusto, sicché relativamente considereranno quel tal pregio come molto minore. Nella mia patria, dove sapevano eh’ io ero dedito agli studi, credevano eh’ io possedessi tutte le lingue e m’interrogavano indifferentemente sopra qualunque di esse. Mi stimavano poeta, rettorico, fisico, matematico, politico, medico, teologo ecc., in¬ somma enciclopedicissimo. E non perciò mi credevano una gran cosa, e per T ignoranza, non sapendo che cosa sia un letterato. II2 GIOVANNI GENTILE non mi credevano paragonabile ai letterati forestieri, malgrado la detta opinione che avevano di me. Anzi uno di coloro, volendo lodarmi, un giorno mi disse: A voi non disconverrebbe di vivere qualche tempo in una buona città, perché quasi quasi possiamo dire che siate un letterato. Ma, s’ io mostravo che le mie cogni¬ zioni fossero un poco minori ch’essi non credevano, la loro stima scemava ancora e non poco, e finalmente io passavo per uno del loro grado II. Né soltanto la cronologia diventa un problema di difficile soluzione, una volta sulla via di siffatti riscontri. I quali però non sono possibili se non dove si consideri ciascun elemento del pensiero del Leopardi astratto dalla forma che esso ha nelle Of erette. Che se si guarda a questa, è facile scorgere, per esempio, la superficialità del giu¬ dizio, che abbiamo ricordato, per cui l ’Ottonieri non sarebbe nient’altro che un centone di luoghi dello Zi- baldme. E si badi, d’altra parte, a non prendere né anche questa forma in astratto, quasi la forma speciale del tale passo delle Operette, il quale abbia un antecedente più o meno prossimo nello Zibaldone (quantunque, pur così intesa, essa sia sempre nei due casi profondamente diversa). Anche questa è una forma astratta; perché la vera forma assunta in concreto da ciascuna parte di un’opera è quella tal forma soltanto in relazione con tutta l’opera, in conseguenza del motivo fondamentale, ossia di quel certo atteggiamento spirituale, in cui l’autore si trovò componendola. Sicché un centone si può certa¬ mente trovare anche in un’opera che abbia una salda e vivente unità organica, ma solo pel fatto che si pre¬ scinda da questa unità, e si cominci a indagarne il con¬ tenuto, decomposto meccanicamente nelle singole parti, • Pensieri, I, 359. MANZOXI E LEOPARDI II 3 dalla cui somma a chi se ne lasci sfuggire lo spirito pare che l’opera risulti. Che è quello che è stato fatto per le prose leopardiane da tutti i critici che se ne sono oc¬ cupati, ora considerando e giudicando le singole operette ad una ad una, ora sminuzzando Cuna o l’altra di esse in una serie di frammenti facilmente rintracciabili in altri scritti, in verso e in prosa, dello stesso Leopardi (dando l’idea d’un Leopardi che ripeta inutilmente se stesso), o in precedenti scrittori, massime francesi del secolo XVIII (in confronto dei quali poi tutta l’origina¬ lità dello scrittore svanirebbe). Il maggior critico che il Leopardi abbia avuto, il De Sanctis; se ha sdegnato ogni ricerca analitica e mortificante di fonti e confronti, fermo nella dottrina, che è sua gloria, dell’ inseparabilità del contenuto dalla forma nell’opera d’arte, e perciò della necessità di cercare il valore e la vita di quest’opera nell’accento personale, nell’ impronta propria, onde ogni vero artista trasfigura la sua materia; non s’è guardato tuttavia né pur lui, di cercare la vita nelle parti, la cui serie forma il contenuto del libro, anzi che nel tutto, nell unità, dove soltanto può essere l’anima e l’origina¬ lità dello scrittore. E ha creduto di poter cercare, per così dire, un Leopardi in ciascuna delle operette, presa a sé, invece di cercare il Leopardi di tutte le operette, che sono un’opera sola. In primo luogo, sta di fatto che, ad eccezione del Venditore di almanacchi e del Tristano, con cui nel '32 l’autore volle tornare a suggellare il pensiero delle Ope¬ rette, tutte le altre pullularono dall’animo del Leopardi nello stesso tempo, da un medesimo germe d’idee e di sentimenti, da una stessa vita. Abbiamo visto che il Copernico e il Plotino erano già in mente al poeta quand’ei vagheggiava il suo Tasso, il Colombo e fin lo stesso Ti- mandro; e meditava insomma quegli stessi pensieri, che presero corpo nelle Operette del '24; con le quah infatti, — Gkntilb, Manzoni e Leopardi. GIOVANNI GENTILE II4 poiché nel '27 l’ebbe scritte, l’autore sentì che dovevano accompagnarsi. 11 21 giugno del '32 all’amico De Sinner, che gh chiedeva scritti inediti da potersi pubblicare a Parigi, scriveva : « Ho bensì due dialoghi da essere aggiunti alle Operette, l’uno di Plotino e Porfirio sopra il suicidio, l’altro di Copernico sopra la nullità del genere umano. Di queste due prose voi siete il padrone di chsporre a vostro piacere: solo bisogna eh’ io abbia il tempo di farle copiare, e di rivedere la copia. Esse non potrebbero facilmente pubbhcarsi in Italia » '. Ma avvertiva subito, che da soU questi dialoghi non potevano andare; e il 31 luglio tornava a scrivere al De Sinner: «Dubito che le mie due prose inedite abbiano un interesse sufficiente per comparir separate dal corpo delle Operette morali, al quale erano destinate»*. Quanto al Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, esso è del ’25; cioè im¬ mediatamente posteriore alle altre prose compagne; anteriore ad ogni tentativo fatto dall’autore per pubbli¬ care le Operette. Alle quali, nelle edizioni parziali e totali fattene a Firenze e a Milano, era ovvio che l’autore non potesse pensare ad includerlo a causa del crudo mate¬ rialismo che vi è professato, c che le Censure non avreb¬ bero lasciato passare. Ma, lasciando per ora da parte queste cinque ope¬ rette [Stratone, Copernico, Plotino, Venditore d’almanacchi e Tristano) che vennero successivamente ad aggiungersi alle prime venti, è certo che queste venti, composte tutte di seguito in un anno di lavoro felice, furono dall’autore scritte e considerate come parti d’un solo tutto. E quando ebbe in ordine il suo manoscritto completo, escluse che le singole operette potessero venire in luce alla spic¬ ciolata. Nel novembre del ’25 sperò poterle pubblicare • Epistolario, Firenze, Le Monnier, 1907, voi. II, p. 486. * Epistolario, II, 496. MANZONI E LEOPARDI II5 nella raccolta delle sue Opere, che un editore amico vo¬ leva fare allora in Bologna; e, andato a monte quel di¬ segno, fece assegnamento sugli aiuti efficaci del Giordani, al quale consegnò il manoscritto affinché gli trovasse un editore: con tanto desiderio di vedere stampata la sua opera, che il 16 gennaio del '26 già scriveva impaziente al Papadopoli : « I miei Dialoghi si stamperanno presto, perché se Giordani, che ha il manoscritto a Firenze, non ci pensa punto, come credo, io me lo farò rendere, e lo manderò a Milano » >. Ma da Firenze scrivevagh il Vieus- seux il 1° marzo : « Giordani, usando della facoltà lascia¬ tagli, mi passò il bel manoscritto che gli avevate confidato, dal quale abbiamo estratto alcuni dialoghi, che troverete riferiti nel n. 61 deWAntologia, ora pubbhcato, eh’ io ho il piacere di mandarvi. Graditelo come un pegno del mio fervido desiderio di vedere il mio giornale spesso fregiato del vostro nome; e più del nome ancora, dei vostri eccel¬ lenti scritti. Sento che queste Operette morali verranno probabilmente pubbhcate costà, e ne godo assai pel pubblico, e per voi, tanto più che sembrano meglio fatte per comparire riunite in una raccolta, che spartite in un giornale » ». Quella prima pubblicazione, dunque, non fu altro che un saggio. Del quale il 5 lugho il Leopardi scri¬ veva all’amico Puccinotti: «I miei Dialoghi stampati ntW Antologia non avevano ad essere altro che un saggio, e però furono così pochi e brevi ». E soggiungeva 1 « La scelta fu fatta dal Giordani, che senza mia saputa mise l’ultimo per primo » 3 ; affermando così che tra i dialoghi c’era un ordine, e ciascuno doveva tenere il suo posto. Proponendo pertanto la stampa dell’opera intera al¬ l’editore Stella di Milano, gli scriveva: « Ha ella veduto • Lett. del 9 nov. al fratello Carlo, in Epist., II, 47. » Nell' Epist. del L., Ili, 237-38. 3 Epist., II, 142-43. GIOVANNI GENTILE ll6 il numero 6i dell’ An tologia, gennaio 1826 ? E pene¬ trato, ed ha avuto corso in cotesti Stati ? Vi ha ella ve¬ duto il Saggio delle mie Operette morali ? Le parlai già. in Milano [agosto-settembre '25] di questo mio mano¬ scritto. Ne abbiamo pubblicato questo saggio in Firenze per provare se il manoscritto passerebbe in Lombardia. Giudica ella che faccia a proposito per lei ?... Tutte le altre operette sono del genere del Saggio, se non che ve ne ha parecchie di un tono più piacevole. Del resto, in quel manoscritto consiste, si può dire, il frutto della mia vita finora passata, e io 1’ ho più caro de’ miei oc¬ chi » '. Questa lettera è del 12 marzo ’26. 11 22 di quel mese lo Stella rispondeva : « Ho letto il Saggio ; ed ella ha ben ragione d’amar cotanto quel suo manoscritto ». 11 fascicolo dell’Antologia era stato ammesso dalla Cen¬ sura, ma l’editore non credeva di poterne tuttavia sperare altresì l’approvazione per la stampa Avrebbe provato: intanto gli facesse sapere la mole del manoscritto. E il Leopardi subito a riscrivergli, il 26 : « Confesso che mi sento molto lusingato e superbo del voto favorevole che ella accorda alle predilette mie Operette morali. 11 ma¬ noscritto è di 311 pagine, precisamente della forma del ms. d’Isocrate che le ho spedito, scrittura egualmente fitta di mio carattere. Sarei ben contento se ella volesse e potesse esserne l’editore.... La prego a darmi una ri¬ sposta concreta in questo proposito tosto ch’ella potrà » i. Lo Stella, per saggiare le disposizioni della Censura mi¬ lanese, chiese licenza di ristampare nel suo Nuovo Ri¬ coglitore i dialoghi usciti nell’ A ntologia ; « de’ quali », scriveva all’autore il 1° aprile, « poi formerò un opuscolo a parte che mi farà strada a pubblicar tutte queste, da ■ 0 . c., II. iio-ii. » O. c., Ili, 335-36. 3 O. c., II, 118-19. MANZONI E LEOPARDI II7 Lei chiamate Operette, che lo saranno per la mole, non pel pregio certamente » «. Perciò il 7 il Leopardi affret- tavasi a mandargli la nota dei molti errori incorsi nella stampa fiorentina, insistendo nel desiderio che lo Stella assumesse Tedizione del libro intero ; che il 26 si disponeva a inviargli : « Debbo però pregarla caldamente di una cosa. Mi dicono che costì la Censura non restituisce i manoscritti che non passano. Mi contenterei assai più di perder la testa che questo manoscritto, e però la sup¬ plico a non avventurarlo formalmente alla Censura senza una assoluta certezza, o che esso sia per passare, o che sarà restituito in ogni caso » ^ E il prezioso manoscritto partì infatti sulla fine del mese per Milano 3, e lo Stella j)oté il 13 maggio informare l’autore d’averlo ricevuto. 11 27 poi gli scriveva; « Nei brevi ritagli di tempo che mi restano, vo leggendo le Operette sue morali, le quali quanto mi allettano.... altrettanto temo che trovar deb¬ bono degli ostacoli per la Censura. Forse il rimedio po¬ trebbe esser quello di darle prima nel Ricoglitore, per poi stamparle a parte, e in fine fare una nuova edizione di tutte in piccola forma » 4. Ancora uno smembramento delle care Operette ? La proposta ferì al vivo l’animo del Leopardi, che, a volta di corriere, il 31 rispose: «Se a far passare costì le Operette morali non v’ è altro mezzo che stamparle nel Ricoglitore, assolutamente e istante- mente la prego ad aver la bontà di rimandarmi il mano¬ scritto al più presto possibile. O potrò pubblicarle altrove, o preferisco di tenerle sempre inedite al dispiacer di vedere un’opera che mi costa fatiche infinite, pubbli¬ cata a brani.... » 5. Furono infatti pubblicate in volume ' O. c.. Ili, 337-38. ^ O. c.. Il, 131. 3 O. e.. Il, 133. 4 O, C., Ili, 346. 5 O. c.. Il, 140. GIOVANNI GENTILE Il8 l’anno seguente, come l’autore ardentemente desiderava, conscio dell’organicità del corpo di tutte le venti ope¬ rette, nate come venti capitoli di un’opera sola. All’unità della quale ei certamente mirò nell’ordina¬ mento definitivo che fece delle singole parti, quando le ebbe condotte a termine tutte. Abbiamo veduto come tenesse a rilevare e attribuire al Giordani l’inversione avvenuta nei tre dialoghi ceduti dlVAntologia. Il Ti- mandro doveva essere l’ultimo, egli avA^erte. Infatti era stato scritto dopo il Tasso-, ma era stato pure scritto prima del Colombo. Anzi nell’ordine cronologico • era quattordicesimo, sui venti del 1824: ma evidentemente fin da principio era destinato al ventesimo o, comunque, ultimo posto, che tenne nella edizione milanese del '27. È invero un’apologià del libro; e l’apologià non poteva essere se non la conclusione e il giudizio, che, nell’atto di Ucenziare il libro, l’autore voleva se ne facesse. Ma, nel passaggio dall’ordine cronologico a quello ideale che il Leopardi ebbe da ultimo ragione di preferire, non sol¬ tanto il Timandro venne spostato. Infatti tra il Dialogo di un Fisico e di un Metafisico e il Dialogo della Natura e di un Islandese, scritti successivamente, con un solo giorno di riposo tra l’uno e l’altro, parve opportuno frammettere il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, a cui il Leopardi pose mano appena finito quello della Natura e di tm Islandese. È ovvio che senza una ragione né anche quest’ordine sarebbe mutato; ed è ovvio Mtresì che la ragione non potrà consistere se non negli scambievoh rapporti da cui questi dialoghi eran legati, agli occhi di chi li scrisse. Va da sé poi che i vari scritti devono per lo più esser nati già con questi rap¬ porti, l’un dopo l’altro, secondo che il pensiero germo- ghava via via nella sua spontaneità organica; ma dove ■ Cfr. sopra, p. io6, n. i. MANZONI E LEOPARDI IIQ una ripresa di idee già non sufficientemente svolte, e il risorgere di un’ ispirazione che era parsa esaurita, traeva l’autore a tornéire su se stesso, è pur naturale che l’ordine cronologico non corrispondesse più allo svolgimento e alla coerenza del pensiero. Così il Tasso, scritto appena levata la mano dall’ Islandese, nasce come un anello che salda questo dialogo a quello del Fisico col Metafisico; e se tra il 14 e il 24 giugno l’autore scrive il Timandro, bisogna pensare che, saldato così l’ Islandese agli ante¬ cedenti dell’opera, egli dovè per un momento credere esaurito il suo tema; credere perciò di potersi arrestare a quella fiera rappresentazione finale AtW Islandese: e quindi volgersi indietro a giudicare e difendere il libro. Passarono infatti dodici giorni senza che si sentisse riat¬ tirato verso il suo lavoro, ripreso il 6 luglio col Panni, e condotto innanzi a sbalzi fino alla fine dell’anno, quando fu compiuto il Cantico del Gallo silvestre ; altre sei operette in tutto, che s’ è condotti a pensare formino un gruppo distinto, nato da questo risorgimento, seguito al Ti¬ mandro, del motivo ispiratore delle operette. III. Ma tutto ciò, si può dire, non prova nulla per l’or¬ ganismo e unità dell’opera leopardiana, se questa unità non si trova effettivamente nel suo intimo. Ed è vero. Com’ è pur vero che quando tale unità fosse messa bene in luce con lo studio interno del hbro, potrebbe anche apparire inutile tutto questo preambolo, indirizzato ad argomentare che l’unità ci doveva essere. Ma è infine non meno vero che non si trova quel che non si cerca; e che l’unità delle Operette leopardiane, ritenute general¬ mente una semplice raccolta, aumentabile (con la Com¬ parazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto, come tutti fanno), o riducibile (come pure han creduto 120 GIOVANNI GENTILE gli autori delle varie scelte di prose leopardiane) non si è mai indagata, perché si sono ignorati o trascurati tutti questi indizi di un disegno, che lo stesso autore ritenne essenziale. Intanto, lo spostamento osservato del Timandro epilogo, in origine, delle Operette, ci ha condotto a scor¬ gere un gruppo, che non è forse il solo tra questi singoli scritti, così come vennero quasi rampollando Tuno dal- l’altro. Sottraendo, oltre il Timandro, destinato ad epi¬ logo, la Storia del genere umano, che, ])er il suo distacco formale dal resto dell’opera (è la sola infatti che abbia la forma di un mito), e la sua rajipresentazione comples¬ siva, in iscorcio, di tutto il destino del genere umano a parte a parte ritratto poscia nelle varie prose, si può a ragione considerare come un prologo; le diciotto ope¬ rette intermedie, formanti il corpo del libro, si distribui¬ scono naturalmente in tre gruppi, di sei ciascuno, come tre ritmi attraverso i quali passa l’animo del Leopardi. Innanzi al terzo, nato, come s’ è veduto, da una ripresa dell’ ispirazione originaria, si spiega il secondo, che co¬ mincia col Dialogo della Natura e di un’Anima e si compie, (]uasi ritornando al suo principio, con l’altro Dialogo della Natura e di un Islandese. Precede, e inizia la tri¬ logia, un primo grujipo, aperto dal Dialogo d’Ercole e di Atlante e conchiuso da un dialogo parallelo, in cui all’eroe classico della potenza e della forza. Ercole, sot¬ tentra un eroe della potenza dello spirito immaginato dalle superstizioni moderne, un mago, Malambruno, dia¬ logante con un Atlante spirituale, un diavolo. Farfarello. Disposizione simmetrica, sulla quale non giova certo insistere troppo, ma che non può apparire arbitraria o fortuita quando si osservino gl’ intimi rapporti spirituali onde sono insieme congiunte e connesse, in tale ordina¬ mento, le diverse operette. Ascoltiamo dalle parole stesse del Leopardi la nota MANZONI E LEOPARDI I 2 I fondamentale di ciascuna operetta; e vediamo se le varie note degli scritti appartenenti a ciascun gruppo non for¬ niino per avventura un solo ritmo. Cominciamo dal primo gruppo. Ercole va a trovare Atlante per addossarsi qualche Qja il peso della Terra, come aveva fatto già parecchi secoli fa, tanto che Atlante pigli fiato e si riposi un poco. j(a la Terra da allora è diventata leggerissima; e quando Ercole se la reca sulla mano, scopre un’altra novità più nieravigliosa. L’altra volta che l’aveva portata, gli « bat¬ teva forte sul dosso, come fa il cuore degh animali; e metteva un rombo continuo, che pareva un vespaio. Ma ora quanto al battere, si rassomiglia a un orinolo che abbia rotta la molla »; e quanto al ronzare, Ercole non vi ode uno zitto. E già gran tempo, dice Atlante, « che il mondo finì di fare ogni moto o ogni romore sensibile; e io per me stetti con grandissimo sospetto che fosse morto, aspettandomi di giorno in giorno che m’infettasse col puzzo; e pensava come e in che luogo lo potessi sep¬ pellire, e l’epitaffio che gli dovessi porre ». È lo stesso grido, come si vede, de La sera del dì di festa'. Kcco è fuggito 11 dì festivo, ed al festivo il giorno Volgar succede, e se ne porta il tempo Ogni umano accidente. Or dov’ è il suono Di quei popoli antichi ? Or dov’ è il grido De’ nostri avi famosi, e il grande impero Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio Che n’andò per la terra e l’oceano ? Tutto è pace e silenzio, e tutto posa li mondo, e più di lor non si ragiona. Perché questo silenzio e questa morte ? Ecco che la Moda, sorella germana della Morte, vien a dirlo essa questo perché alla Morte stessa: poiché i soh frivoli e accidiosi costumi dei nuovi tempi possono spiegare i 122 GIOVANNI GENTILE « lacci dell’antico sopor » che, pel Poeta, non stringono soltanto «l’itale menti»; i costumi «di questo secol morto, al quale incombe tanta nebbia di tedio », e pgj. cui il Poeta domandava agli eroi già dimenticati e ri¬ scoperti dai filologi, « se in tutto non siam periti » t La Moda spiega infatti aUa Morte: «A poco per volta ma il più in questi ultimi tempi, io per favorirti ho man¬ dato in disuso e in dimenticanza le fatiche e gli esercizi che giovano al ben essere corporale, e introdottone o recato in pregio innumerabih che abbattono il corpo in mille modi e scorciano la vita. Oltre di questo ho messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa, così per rispetto del corpo come dell’animo, è più morta che viva; tanto che questo secolo si può dire con verità che sia proprio il secolo della morte ». Morti gli uomini, spenta la forza dei corpi, infranto il vigore degli animi. In compenso, si fabbricano mac¬ chine, e H secol morto può dirsi «l’età delle macchine». L’Accademia dei SUlografi ne fa la satira nel suo bizzarro bando di concorso per l’invenzione di tre macchine, che restituiscano al mondo quel che agli occhi del Poeta costituisce il pregio maggiore della vita, anzi la vita stessa, quale fu una volta: ramicizia, lo spirito delle opere vir¬ tuose e magnanime, e la donna: quella donna, che fu r ideale degli spiriti gentili, e fu pur ora cantata come la « sua donna » da esso il Leopardi : Forse tu l’innocente Secol beasti che dall’oro ha nome. Or leve intra la gente Anima voli ? o te la sorte avara Ch’a noi t’asconde, agli avvenir prepara ? Viva mirarti ornai Nulla spene m’avanza 3 . ' Sopra il monumento di Dante (rSrS), vv. 3-4. » Ad Angelo Mai (1820), vv. 4-5, 27-28, 32-33. 3 Alla sua donna (settembre 1823) vv. 7-13. MANZONI E LEOPARDI 123 fbbene, una macchina ne adempia gli uffici, essendo «espedientissimo che gh uomini si rimuovano dai negozi jjeUa vita il più che si possa, e che a poco a poco diano luogo, sottentrando le macchine in loro scambio ». Questa I la morte dell’uomo ; la morte dell’amicizia e dell’amore, la morte degh ideali che già fecero virtuoso e magna¬ nimo l’uomo antico, finito con Bruto minore; il quale non può sopravvivere alla maledizione scaghata alla stolta virtù, che ei respinge da sé nelle cave nebbie e nei campi dell’ inquiete larve. Onde se un romano, e 5Ìa Catihna, può credere, secondo Sallustio, d’infiam¬ mare i soci alla battaglia, parlando ad essi non solo delle ricchezze, ma dell’onore, della gloria, della libertà, della patria, affidate alle loro destre, un moderno lettore d’uma¬ nità non può senza peccato d’ipocrisia vedere nel testo di Sallustio quella gradazione ascendente che il luogo, a norma di rettorica, richiederebbe. La patria ? Non si trova più se non nel vocabolario. La libertà ? Guai a proferir questo nome. Di essa, dice il Leopardi, che ne sa anche lui qualche cosa « non si ha da far conto ». La gloria ? Piacerebbe, se non costasse incomodo e fatica. Insomma, la ricchezza è il solo vero bene: è quella cosa «che gh uomini per ottenerla sono pronti a dare in ogni occasione la patria, la hbertà, la gloria, l’onore ». Sicché il testo è da restituire, per travestirlo alla moderna, fa¬ cendo dire a Catilina: Et quum proelinm inibitis, memi- neritis, vos gloriam, decus, divitias, fraeterea spectacula, epulas, scorta, animam denique vestram in dextris vestris portare. Animam vestram, la vita: quella vita, che non hanno ! Quella \dta, che Sabazio, l’eterno Dioniso, dio della vita * A. D’Ancona, nel Fanfulla della domenica del 29 novembre *895: G. Carducci, Degli spiriti e delle forme nella poesia di G. L., Bologna, Zanichelli, 1898, pp. 207-08. 124 GIOVANNI GENTILE e della morte, è in sospetto anche lui sia cessata da un pezzo in qua; e però manda su dalle viscere della terra uno spiritello, uno Gnomo, ad accertarsene. E uno spi rito dell’aria, un Folletto, può dirgli infatti che «gjj uomini sono tutti morti e la razza è perduta ». Mancati tutti: «parte guerreggiando tra loro, parte navigando parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi nori pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine, studiando tutte le vie di far contro la propria natura » ; studiandole tutte con queir « irrequieto ingegno, demenza maggiore » che « (juel- l’antico error », di cui « grido antico ragiona », onde fu negletta la mano dell’altrice natura, come il Leopardi aveva appreso dal Rousseau. Oh contra il nostro Scellerato ardimento inermi regni Della saggia natura ! ' Morto l’uomo; e «le altre cose.... ancora durano e procedono come prima ». E l’uomo che presumeva il mondo tutto fatto e mantenuto per lui solo ! Il Folletto invece crede fosse fatto e mantenuto per i folletti; come lo Gnomo per gli gnomi ! La vanità umana pareggia essa la nullità dell’uomo. Ecco, gli uomini « sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nuUa, e i fiumi non sono stanchi di correre.... e le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare... ». La saggia, l’altrice natura non si commuove allo sterminio di sé a cui l'uomo è tratto dal suo ardimento. Fu certo, fu {né d’error vano e d’ombra L’aonio canto e della fama il grido Pasce l’avida plebe) amica un tempo » Inno ai Patriarchi (luglio 1822), vv. no-112. MANZONI E LEOPARDI 125 Al sangue nostro e dilettosa e cara Questa misera piaggia, ed aurea corse Nostra caduca età. Non che di latte Onda rigasse intemerata il fianco Delle balze materne, o con le greggi Mista la tigre ai consueti ovili Né guidasse per gioco i lupi al fonte Il pastorei; ma di suo fato ignara E degli affanni suoi, vota d'affanno Visse l’umana stirpe.... ' Amica è la natura a chi sta contento della vita spon¬ tanea e irrifiessa, qual’ è appunto la vita della natura. Lo svegliarsi dell’ intelligenza (scellerato ardimento !) è il principio della perdizione. E invano l’uomo cercherà col pensiero di restaurare la sua vita e riconquistare la dilettosa e cara piaggia d’un tempo! Faust lo sa* *; Malambruno che mvoca gli spiriti d’abisso, che vengano con piena potestà di usare tutte le forze d’inferno in suo servigio, lo riapprende da Farfarello, impotente a farlo felice un momento di tempo. La felicità è la vita che si V’iva sentendo che mette conto di viverla: è la vita col suo valore. E il Leopardi pare la intenda come un diletto infinito ; il cui bisogno nasce dall’ infinito amore che ogni uomo ha di se stesso, ma non può esser soddisfatto mai, perché nessun diletto è infinito, nessun piacere tale che appaghi il nostro desiderio naturale. Onde il vivere sen¬ tendo la vita è infelicità; e questa non è interrotta se non dal sonno, o da uno sfinimento o altro che sospenda l’uso dei sensi: non mai cessa mentre sentiamo la nostra vita ; e se vivere è sentire, « assolutamente parlando », il non vivere è meglio del vivere. La vita non ha valore. È, a rigore, l’ultima conclu- ' Inno cit., vv. 87-99. * Malambruno è Faust, non Manfredo, come mostra d' intendere il Losacco, Leopardiana, in Giornale storico della letteratura italiana, XXVIII (1896), p. 275. 126 GIOVANNI GENTILE sione di quella premessa, che la felicità o valore della vita consista nel diletto; il quale non può essere altro che limitato, e quindi mai mero diletto, senza mistura di amarezza. IV. Tale il concetto del primo gruppo delle Operette, che pone l’animo del poeta in faccia alla morte e al nulla: ossia al vuoto della vita, non più degna d'esser vissuta: poiché degna sarebbe la vita inconscia, e la vita dell’uomo è senso, coscienza. La vita nella felicità è la natura; e l’uomo se ne dilunga ogni giorno più con la civiltà, con r irrequieto ingegno, che assottiglia la vita, e la consuma. Ed ecco il problema e il tormento dell’anima del Leopardi: l’uomo in faccia alla natura. La natura, che è quella del dialogo dello Gnomo e del Folletto; e l’uomo, che è, non quella ciurmaglia già spenta, da cui lo Gnomo avrebbe caro > che uno risuscitasse per sapere quello che egli penserebbe della già sua vantata grandezza: è anzi quest’uno, Malambruno, che pensa e vede tutti gli uo¬ mini morti e la natura viva, muta, indifferente. Pro¬ blema affrontato nel Dialogo della Natura e di un’Anima, il primo del nuovo gruppo, dove la natura dice all’anima, dandole la vita: «Va’, figliuola mia prediletta, che tale sarai tenuta e chiamata per lungo ordine di secoli. Vivi, e sii grande e infelice ». Giacché, come poi le spiegherà, « nelle anime degli uomini, e proporzionatamente in quelle di tutti i generi di animali, si può dire che l’una e l’altra cosa sieno quasi il medesimo: perché l’eccellenza delle I « Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia risuscitas¬ sero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre co.se, ben¬ ché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove si credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli » (Operette morali, ed. Gentile, Zanichelli, Bologna, 2“ ed. 1925. P- 52). MANZONI E LEOPARDI 127 jjiinie importa maggior sentimento dell’ infelicità pro- ria; che è come se io dicessi maggiore infelicità»; e l’uomo « ha maggior copia di vita, e maggior sentimento, che niun altro animale; per essere di tutti i viventi il niù perfetto »; e però è il più infelice. E il meglio è per l’anima spogliarsi della propria umanità, o almeno delle (loti che possono nobilitarla, e farsi « conforme al più stupido e insensato spirito umano » che la natura abbia jjjai prodotto in alcun tempo. Di guisa che quella morte dell’umanità, che nei dia¬ loghi del primo gruppo poteva parere una colpa dei de¬ generi nepoti, ecco, apparisce il destino dell’uomo : la cui storia non può avere altra conchiusione che la ri¬ nunzia alla propria umanità. La quale, dice il poeta col suo amaro sorriso, scacciata dalla Terra, non si rifugia e raccoglie nella Luna, come immaginò l’Ariosto di tutto ciò che ciascun uomo va perdendo. La Luna, a cui la Terra, nel dialogo che da esse s’intitola, ne domanda, non solo la convince che l’immaginazione ariostesca è semplice immaginazione, ma in tutto il dialogo dimostra che il linguaggio umano e relativo allo stato degli uomini, che la Terra usa, non ha significato fuori di questa: e che insomma non ha base in natura quello che gli uomini considerano pregio della loro ^^ta, e che, non trovandolo fondato in natura, riconoscono quindi mera illusione. Ma il concetto più direttamente è trattato nella Scommessa di Prometeo: scommessa perduta con Momo (che è lo stesso spirito satirico pessimista con cui il Leo¬ pardi guarda la \'ita nella sua vanità).'Perduta, perché Prometeo deve confessare che alla prova il suo genere umano, che avrebbe dovuto essere il più perfetto genere dell’universo, « la migliore opera degl’ immortali », gli era fallito, dimostrandosi, dallo stato selvaggio degli antro- pofagi a quello più incivilito dei suicidi per tedio della vita, il più sciagurato e imperfetto. Prometeo paga la 128 GIOVANNI GENTILE scommessa senza volerne sapere più oltre, quando a Londra vede gran moltitudine affollarsi innanzi a una porta ed entra, e scorge «sopra un letto un uomo disteso su! pino, che aveva nella ritta una pistola; ferito nel petto e morto; e accanto a lui giacere due fanciullini, mede¬ simamente morti»: sciagurato padre, che per dispera- zione ha ucciso prima i figliuoli e poi se stesso: (juan- tunque fosse ricchissimo, e stimato, e non curante di amore, e favorito in corte: ma caduto in disperazione «per tedio della vita, secondo che ha lasciato scritto». Il tedio della vita ! Ecco la scoperta che si è fatta andando in cerca di quella felicità, di cui si pose il pro¬ blema nel primo dialogo di questo secondo gruppo. E i due seguenti dialoghi hanno questo argomento. Il Dialogo di un Fisico e di un Metafisico dimostra la vita non es¬ sere bene da se medesima, e non esser vero che ciascuno la desideri e l’ami naturalmente: ma la desidera ed ama come « istrumento o subbietto » della felicità, che è ciò che veramente vale. E questa, guardata più da vicino, consistere nell’efficacia e copia delle sensazioni, nelle affezioni e passioni e operazioni, e insomma, non nel puro essere, ma nella sensazione dell’essere e nel far essere (come ben si può dire) l’essere stesso. Non l’inerzia e la vuota durata, ma la mobilità, la vivacità, il gran numero e la gagliardia delle impressioni, e cioè il tempo pieno, questo è l’oggetto dei nostri desiderii: e la vita degli uomini « fu sempre non dirò felice, ma tanto meno infelice, quanto più fortemente agitata, e in maggior parte occupata, senza dolore né disagio ». La vita vacua, che è la vita «piena d’ozio e di tedio», è morte; anzi peggio della morte, che è senza senso. Infine, dice lo stesso Metafisico (che ha cominciato negando che la felicità sia vivere), «la vita debb’esser viva»: cioè la vera felicita, in fondo, è sì nella vita ; ma la vita (il Leopardi così sente) non è vita; è la morte; quella morte di cui s’ è acqui- MANZONI E LEOPARDI 129 stata la certezza nelle operette del primo gruppo; e che non è pura morte, ma la morte sentita; la morte nella coscienza dell’uomo che non conosce altra realtà che l’eterna natura, di là dall’opera sua, e non può sperare perciò di far nulla che abbia valore. La morte è dolore perché è tedio: quel \moto dove dovrebbe essere il pieno; la morte al posto della vita. E questo tedio è la malattia, il segreto tormento del Tasso, che ne ragiona col suo Genio: del Tasso già dal ’zo, quando fu scritta la canzone Ad Angelo Mai, apparso al Leopardi come suo spirito gemello, al par di lui « mi¬ serando esemplo di sciagura » : O Torquato, o Torquato, a noi l'eccelsa Tua niente allora, il pianto A te, non altro, preparava il cielo. Oh misero Torquato ! il dolce canto Non valse a consolarti o a sciorre il gelo Onde l’alma t’avean, ch’era sì calda. Cinta l’odio e l’immondo Livor privato e de’ tiranni. .Amore, Amor, di nostra vita ultimo inganno. T’abbandonava. Ombra reale e salda Ti parve il nulla, e il mondo Inabitata piaggia. Torquato Tasso medesimo, che non trova nel mondo altro più che il nulla, e si rifugia nei sogni e nel vago inunaginare, dal quale più duro bensì gli riesce il ritorno alla realtà; questo Torquato parla nel Dialogo del Tasso e del suo Genio ', e non si lagna già del dolore, ma della noia, che sola lo affligge e lo uccide. La quale gli pare abbia la stessa natura dcU’aria: «riempie tutti gli spazi interposti alle altre cose materiali, e tutti i vani contenuti in ciascuna di loro; e donde un corpo si parte, e altro non gh sottentra, quivi ella succede immediatamente. Così tutti gl’ intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia. E però. 9. — Gentile, Manzoni e Lfopardi. 130 GIOVANNI GENTILE come nel mondo materiale, secondo i Peripatetici, non si dà vóto alcuno; così nella vita nostra non si dà vóto»; e poiché piacere non si trova, la vita è composta parte di dolore parte di noia. E la vita tutta uguale monotona del povero prigioniero — immagine d’ogni uomo di fronte alla immutabile natura — si viene via via votando cosi del piacere come del dolore, e riempiendo tutta della tristezza soffocante del tedio. L’uomo prigioniero della natura ritorna ncll’ultinio dialogo del gruppo, in cui si presenta da capo la Natura a render conto di sé all’uomo: al povero Islandese, che la vicn fuggendo per tutte le parti della terra, e se la vede sempre innanzi, addosso, incubo schiacciante: e l’ha innanzi, prima di morire, in effigie di donna, di forme smisurate, seduta in terra, col busto ritto, ap¬ poggiato il dosso e il gomito a una montagna; viva, di volto tra bello e terribile, occhi e capelli nerissimi, con 10 sguardo fisso e intento. — Perché, le chiede il povero errante, tu sei « carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere », e « per niuna cagione, non lasci mai d’incal¬ zarci, finché ci opprimi ?» — « Se io vi diletto o vi be¬ nedico, io non lo so », risponde la Natura. La vita del¬ l’universo è un circolo perpetuo di produzione e distru¬ zione. — Ma, riprende 1’ Islandese, poiché chi è distrutto patisce, e chi distrugge sarà distrutto, « dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compon¬ gono ?» — E prima di aver la risposta 1’ Islandese è mangiato dai leoni, già così rifiniti e maceri dall’ inedia, che con quel pasto si tennero in vita ancora per quel giorno, e non più. Questa Natura, che non sa il bene e 11 male dell’uomo, è la Natura che al principio ha detto aU’anima: — Sii grande, e infelice. — La vita infatti MANZONI E LEOPARDI I3I È infelicità, in quanto è noia; e noia è, perché vuota; e non può non esser vuota, se l’uomo è di fronte a questa Matura terribile nel cui perpetuo giro esso rientra, mo¬ lecola ignorata, e senza valore, non appena con la sua coscienza si stacchi dalle cose, e vi si contrapponga. L’uomo dunque è veramente infelice, come s’è detto nel primo dialogo, perché con la sua attività (che è l’anima, il sentire) non ha posto nella natura, che è poi tutto. Perciò l’anima è vuota, e la vita è tedio. V. E qui potè parere al Leopardi, come osservammo, di aver esaurito il proprio tema; e, prevedendo le facili critiche, che non sarebbero mancate al piccolo e doloroso libro, ritenne opportuno difenderlo col Timandro. Ma poi considerò che la sua dimostrazione non era veramente perfetta. Il dolce canto non era valso a con¬ solare Torquato; ma potrebbe dunque il canto consolare Panimo addolorato ? Gino Capponi, l’amico del Tom¬ maseo, che fu giudice sempre acerbo e ingiusto al grande Recanatese b scrisse una volta ^ : « Il Leopardi comincia uno de’ suoi Dialoghi, inducendo la natura che scara¬ venta nel mondo un’anima con queste parole: — Vi\d e sii grande ed infelice. — Io per me credo proprio il rovescio, e che le anime nostre non sieno infelici se non in quanto sono esse piccole.... £ cosa facile esser grandi uomini, se basti a ciò essere infehci, ed il Leopardi in¬ segnò a molti la via della infelicità; ma non l’aveva imparata egh quando produsse quelle canzoni per cui ‘ .Acerbo e ingiusto anche nel giudizio, che pur contiene sensazioni profonde di alcuni aspetti dell'arte leopardiana, raccolto nel volume La donna, Milano, .Agnelli, 1872, pp. 380-81. Vedi i miei Albori della nuova Italia, Lanciano, Carabba, 1923, I, 167 ss. - Scritti ed. ed ined., Firenze, Barbèra, 1877, II, 445-46. 132 GIOVANNI GENTILE sta in alto il nome suo »>. E il De Sanctis doveva osser\’are più tardi: «Quel suo nullismo nelle azioni e nei lini della vita, che lo rendeva inetto al fare e al godere, era riem¬ piuto dalla colta e acuta intelligenza e dalla ricca im¬ maginazione, che gli procuravano uno svago e gli fa, cevano materia di diletto quello stesso soffrire. Egli aveva la forza di sottoporre il suo stato morale alla riflessione e analizzarlo e generalizzarlo, e fabbricarvi su uno stato conforme del genere umano. Ed aveva anche la forza di poetizzarlo, e cavarne impressioni e immagini e melodie, e fondarvi su una poesia nuova. Egli può poetizzare sino il suicidio, e appunto perché può trasferirlo nella sua anima di artista e immaginare Bruto e Saffo, non c’è pericolo che voglia imitarli. Anzi, se ci sono stati mo¬ menti di felicità, sono stati appunto questi. Chi più felice del poeta o del filosofo nell’atto del lavoro ? » >. Ma né il Capponi, né il De Sanctis avvertivano cosa sfuggita al Leopardi. È suo, del 1820, questo pensiero vero e pro¬ fondo ; « L’uomo si disannoia per lo stesso sentimento vivo della noia universale e necessaria ». E suo è ciuesto altro che lo precede ; « Hanno questo di proprio le opere di genio, che, quando anche rappresentino al vivo la nul¬ lità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire 1 inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad un animo grande, che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e sco¬ raggiamento della vita o nelle più acerbe e mortifere disgrazie.... servono sempre di consolazione, raccendono l’entusiasmo; e non trattando né rappresentando altro che la morte, gh rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta » ^ I Studio su G. L.. Napoli, Morano, 1905, p. 2 i 3 - ^ Pensieri. I, 351. 340- Cfr. lett. del 6 maggio 1825; . M avveggo ora bene che, spente che sieno le passioni, non resta negli studi aura MANZONI E LEOPARDI 133 Ebbene, sentire ripullular questa vita, che il razio¬ cinio aveva dimostrata morta, era pur sentire il bisogno (ji riprendere la dimostrazione. Il Leopardi non affronta nelle Operette, né in altro dei suoi scritti, il problema di questa vita incoercibile che risorge dalla sua più fiera negazione. Ma sente oscuramente questa diificoltà, non superata nei primi due gruppi de’ suoi dialoghi. Tutto l’argomentare della sua filosofia non genera la convin¬ zione che ne dovrebbe deri\ are: la convinzione che arma la mano di Bruto contro se stesso, e fa gittare dalla mi¬ sera Saffo « il velo indegno », per rifuggirsi ignudo animo a Dite, e così emendare il crudo fallo del destino. L’amor della vita non è vinto: la Natura ha detto all’Anima che le infinite difficoltà e miserie, a cui vanno incontro i grandi, « sono ricompensate abbondantemente dalla fama, dalle lodi e dagli onori che frutta a questi egregi spiriti la loro grandezza, e dalla durabilità della ricor¬ danza che essi lasciano di sé ai loro posteri ». Ebbene, questa gloria, che già non arride all’anima, quando natura gliel’addita, questa gloria abbelliva pure agli occhi del Leopardi questo mondo di morti, in cui gli sembrava di vivere. Filippo Ottonieri, che è lui stesso, potrà esser « vissuto ozioso e disutile, e morto senza fama », come dice il suo epitaffio, ma sentiva bene d’esser « nato alle opere virtuose e alla gloria ». Questa gloria, che è il premio della grandezza e la sublime consola¬ zione dei grandi infehci, che tanto più saran grandi quanto più sentiranno la loro infehcità, e più quindi saranno infelici, è la lode che nell’animo degli altri e pei secoli riecheggia la lode stessa che il grande tributa egli alla loute e fondamento di piacere che una vana curiosità, la soddisfazione della quale ha pur molta forza di dilettare: cosa che per Taddietro, finché mi è rimasta nel cuore l'ultima scintilla, io non potevo com¬ prendere », Epist,, I, 547-48. 134 GIOVANNI GENTILE propria grandezza nella coscienza felice del suo genio. La sua sostanza è veramente in questa lode interna e soggettiva: la sua esteriorità è in quella eco che si ri¬ percuote lontano, e ferma, e pare consolidi il valore onde il genio vede illuminata la propria opera. 11 Leopardi, nudrito la mente dei concetti classici e delle idee mate¬ rialistiche del sec. XVIII, cerca la realtà di questa gloria, in cui lo spirito attinge la propria liberazione da tutte le miserie, in quella eco esterna, in quel consenso che in fatto altri verrà tributando alla nostra grandezza. E perciò si trova in faccia al problema del valore tuttavia superstite della grandezza spirituale, veduto in questa forma; l’anima grande e infelice è destinata essa alla gloria ? o la speranza è fallace, come tutte quelle che ei rimpiangerà dileguate nelle Ricordanze ? ' Ed ecco il Farmi, che tante difficoltà mostra opporsi all’acquisto di questa gloria, specialmente nell’età moderna e nel mondo presente, da farla apparire mèta inattingibile. Talché vien meno anche questa aspettazione, e al grande non rimane che seguire il suo fato, dove che egli lo tragga, con animo forte, adoprandosi nella virtù, perché la na¬ tura stessa lo fece nascere alle lettere e alle dottrine. Dileguata quest’ultima consolazione, la sola che si possa chiedere alla stessa eccellenza dell’animo, quando altra realtà, e fonte eventuale di gioia, non si vegga da quella che l’animo mira esterna a se stesso, qual porto rimane allo stanco spirito umano ? Vivere infeUce ? ' Dove, nel 1829, canterà: O speranze, speranze; ameni inganni Della mia prima età ! sempre, parlando. Ritorno a voi; ché per andar di tempo. Per variar d'alletti e di pensieri, Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo, Son la gloria e l’onor; diletti e beni Mero desio; non ha la vita un frutto. Inutile miseria. MANZONI E LEOPARDI 135 E sia; ma se non si può né anche farsi un monumento della propria infelicità ? Sola nel mondo, eterna, a cui si volve Ogni creata cosa. In te, morte, si posa Nostra ignuda natura. Lieta no, ma sicura ■Dall'antico dolor. La risposta viene dai morti, che si sveghano per un quarto d’ora nello studio di Ruysch, e cantano, e descri¬ vono questa loro sicurezza dall’antico dolor, nella quale vivono immortah; senza speme, ma non in desio, come le anime del limbo dantesco: Profonda notte Nella confusa mente Il pensier grave oscura; Alla speme, al desio, l’arido spirto Lena mancar si sente: Così d’affanno e di temenza è sciolto, E l’età vote e lente Senza tedio consuma. ■Vita vuota, dunque, anche quella: ma senza senti¬ mento. Vero porto, in cui il povero Islandese finalmente avrà pace, e in cui si può giungere in un languore di sensi senza patimento, com’ è degli ultimi istanti della vita, quando sopravvive solo un senso « non molto dissimile dal diletto che è cagionato agli uomini dal languore del sonno, nel tempo che si vengono addormentando ». Dolce morte hberatrice ! — Ma prima che la morte ci abbia sciolti dal tedio ? — Filosofare, come Filippo Ot- tonieri, il socratico, che « spesso, come Socrate, s’intrat¬ teneva una buona parte del giorno ragionando filosofi¬ camente ora con uno ora con altro, e massime con alcuni suoi familiari, sopra qualunque materia gli era sommini¬ strata dall’occasione ». E per tal modo filosofava sempre. 136 GIOVANM GENTILE non per farne trattati (ché, al pari di Socrate, non cre¬ deva giovasse mettere la filosofìa in iscritto e irrigidir]^ in formule che non risponderanno piti ai mutevoli bi¬ sogni dell’animo), ma per intendere senza pregiudizi e senza illusioni la vita, e adattarvisi da saggio, tralasciando ogni vana querimonia: come aveva detto Spinoza: non ridere, non liigere, neque detestari, sed intelligere. Questo r ideale dell’ Ottonieri, che vivrà ozioso e disutile e morrà senza fama, ma « non ignaro della natura né della fortuna sua »>. E con la sua pacata magnanimità e la sua bonaria ironia rinnoverà l’immagine di Socrate anche in questa modesta, anzi umile coscienza del sa¬ pere, e quindi, per lui, del potere umano. L’ Ottonieri vuol essere quasi la filosofia delle Operette fatta vita e persona. Ma, oltre la filosofia, non v’ è altro rimedio alla noia ? Sì : c’ è la rupe di Leucade. Ce lo insegna Cristoforo Co¬ lombo, in una bella notte vegliata sull’oceano .stermi¬ nato e inesplorato col fido Gutierrez, confidando all’amico che anche in lui vacilla la fede e che, in verità, « ha posto la vita sua e de’ compagni sul fondamento d’una sem- phee opinione speculativa » che può fallirgli. Ma, egli soggiunge, « quando altro frutto non venga da questa navigazione, a me ]iare che ella ci sia profittevolissima in quanto che per un tempo essa ci tiene liberi dalla noia, ci fa cara la vita, ci fa prege\'oli molte cose che altrimenti non avremmo in considerazione. Scrivono gli antichi, come avrai letto o udito, che gli amanti infehei, gittan- dosi dal sasso di Santa Maura (che allora si diceva di Leucade) giù nella marina, e scampandone, restavano, per grazia di Apollo, liberi dalla passione amorosa. Io non so se egli si. debba credere che ottenessero questo effetto; ma so bene che, usciti di quel pericolo, avranno per un poco di tempo, anco senza il favore di Apollo, avuta cara la vita, che prima avevano in odio; o pure avuta più cara e più pregiata che innanzi. Ciascuna MANZONI E LEOPARDI 137 pavigazione è, per giudizio mio, quasi un salto dalla fxipe di Leucade » >. E navigazione è ogni rischio della vita, ogni azione eroica. O filosofare, dunque, come Ot- tonieri; o navigare come Colombo, e far guerra al tedio, P riafferrarsi insomma alla vita, finché la morte non ce ne liberi. E lo stesso giorno * che finiva di scrivere il Dialogo a Colombo e Gutierrez (25 ottobre 1824) il Leopardi, nel fervore dell’animo commosso da questa coscienza del valore e quasi gusto della vita riconquistato mercé l’attività, — di questa grandezza felice, — mette mano al bellissimo Elogio degli uccelli: Urica stupenda, sgor- gatagU dal pieno petto, al guizzo d’una immagine Ucta e ridente: di queste creature amiche delle campagne verdi, delle vallette fertili e delle acque pure e lucenti, del paese bello e dei soli splendidi, delle arie cristalline e dolci e di tutto ciò che è ameno e leggiadro, e rasserena e allegra gli animi; e che, col perpetuo movimento e col canto che è un riso, sono simbolo di quella vita piena d’impressioni, che non conosce tedio, anzi è tutta una gioia. E ci fanno amar la natura, che ebbe un pensiero d’amore, assegnando a un medesimo genere d’animali il canto e il volo ; « in guisa che quelli che avevano a ri¬ creare gU altri viventi colla voce, fossero per l’ordinario in luogo alto ; donde ella si spandesse all’ intorno per maggiore spazio, e pervenisse a maggior numero di udi¬ tori ». Così viva è r intuizione della gioia gentile che il poeta riceve da questa vaga immagine degU ucceUi, che è già appagato il desiderio finale di questo Elogio: ♦ lo vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e letizia della loro vita ». Non ha cantato qui anch’egU la gioia ? ’ Cfr. Pens., I, 193. Cfr. sopra, p. 116, «. i. 138 GIOVANNI GENTILE E un favoloso uccello, il Gallo silvestre, di cui parlano alcuni scrittori ebrei, che sta sulla terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo, con un altro cantico vi¬ brante gli dirà Tultima parola di questa filosofia della vita, attenuando bensì il tono della lirica precedente, c smorzando l'entusiasmo, al quale mai come in questo caso s’era abbandonata l’anima del poeta; e additandogli anzi lontano il pauroso nulla di tutte le cose, e la morte a cui ogni parte deH’universo s’affretta infaticabilmente, ma pur rasserenandogli l’animo con la fresca sensazione del puro e frizzante aer mattutino, ravvivatore e rin- francatore. Sensazione già nota al Poeta: La mattutina pioggia, allor che l'ale Battendo esulta nella chiusa stanza La gallinella, ed al balcon s’affaccia L’abitator de’ campi, e il sol che nasce I suoi tremuli rai fra le cadenti Stille saetta, alla capanna mia Dolcemente picchiando, mi risveglia; E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo Degli augelli sussurro, e l’aura fresca, E le ridenti piagge benedico.... • Canta il Gallo silvestre per destare i mortali dal sonno; « Il dì rinasce : torna la verità in sulla terra, e parton- sene le immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma della vita : riducetevi dal mondo falso nel vero ». La fiera soma! Meglio, meglio dormire, e non destarsi; ma verrà la morte a liberar dalla vita. « Ad ogni modo », dice il Gallo, la terribile voce che riempie di sé il mondo, c canta questa corsa universale alla morte, « ad ogni modo, il primo tempo del giorno suol essere ai viventi il più comportabile. Pochi in sullo svegliarsi ritrovano nella loro mente pensieri dilettosi e lieti; ma quasi tutti se ne • La Vita solitaria (1821), vv. i-io. MANZONI E LEOPARDI 139 producono e formano di presente; giacché gli animi in quell’ora eziandio senza materia alcuna speciale e de¬ terminata, inclinano sopra tutto alla giocondità, o sono disposti più che negli altri tempi alla pazienza dei mali. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, tro- vavasi occupato dalla disperazione; destandosi, accetta uovamente neU’anima la speranza, quantunque ella in niun modo se gli convenga ». Ed ecco, dunque, la spe¬ ranza risorgere ogni giorno, anche se la sera finì nella disperazione ; e se il Gallo silvestre paragona la vita dell'universo al giorno, che comincia col mattino ma va alla notte, e alla vita umana che muove dalla heta gio¬ vinezza incontro alla vecchiaia e alla morte: e se ter¬ mina annunziando che tempo verrà, che la stessa natura sarà spenta, e « un silenzio nudo e una quiete altissima empieranno lo spazio immenso »; il dolce gusto della spe¬ ranza mattutina e giovanile non è distrutto: perché quel tempo è molto remoto e (secondo avvertì più tardi l’autore in una nota della seconda edizione) non verrà mai: e la vita mortale ritorna sempre dalla notte al mat¬ tino, e la speranza risorge, e la vita rinasce di continuo. VI. Le operette dunque del terzo gruppo ricostruiscono, nella misura e nel modo che si può secondo il Leopardi, quello che le prime dodici hanno abbattuto. Ricostrui¬ scono, movendo dall’estrema mina in cui è caduta anche la speranza della gloria, nel Parini. Il quale lega il terzo gruppo ai precedenti; e fu ritirato dopo le prime due edizioni verso il principio, e attratto nell’orbita del se¬ condo gruppo, poiché tra la Storia del genere umano e il Timandro l’autore non voUe più il Sallustio] e lo ri¬ fiutò e gli sostituì il Frammento di Stratone, collocato al diciannovesimo posto, innanzi al Timandro. Allora il 140 GIOVANNI GENTILE gruppo ricomprese il Dialogo della Natura e di un'Anima e il secondo II Parini. E il Frammento, lì sulla fine del- l’opera, innanzi all’epilogo apologetico, fu come l’inter¬ pretazione metafisica che da ultimo il pensiero, ripie¬ gatosi su se medesimo, diede della propria intuizione filosofica: concezione, sullo stile delle teorie cosmolo¬ giche greche più antiche, di un universo go\'ernato da pure leggi meccaniche, com’era quello che giaceva in fondo a ogni concetto pessimistico del Leopardi; onde si tenta suggellare, nell’ intenzione del Poeta, l’immagine di quella Natura che eternamente passa, e che negli ul¬ timi detti del Gallo silvestre è rimasta «arcano mirabile e spaventoso ». Si noti che il Sallustio fu conservato tra le venti ope¬ rette primitive anche nell’edizione di Firenze del '34. quantunque in questa fossero aggiunti i due nuovi dialoghi del Venditore d’Almanacchi e di Tristano] e si noti che in questa edizione invece non potè entrare il Frammento di Stratone molto probabilmente per le difficoltà già ac¬ cennate, derivanti dalla materia di esso, poiché è il solo scritto crudamente materialistico, che sia tra le Operette. 11 che, se si pensa pure al fatto che il Frammento fu scritto verso il maggio del '25 • (quando il Leopardi aveva tut¬ tavia presso di sé il manoscritto delle Operette, e a\ rebbe già fin d’aUora pensato ad incorporarvelo, se questa aggiunta non avesse disordinato il disegno simmetrico del hbro), dimostra all’evidenza che i dialoghi fiorentini della stampa del ’34, che sappiamo scritti a Firenze due anni prima, formano un nuovo gruppo a sé, che si viene ad aggiungere alle prhnitive operette, senza fondervisi: come avverrà del Frammento, appena l’autore crederà potere e dover tralasciare il Sallustio, e sostituirlo. Perché tralasciarlo ? « Forse », risponde il Mestica I Cfr. Chi.\rini, O.C., p. 251. * Scritti letter. di G. L., li, p. 418. MANZONI E LEOPARDI I4I ^perché gli parve troppo scolastico e di materia non [ abbastanza originale, sebbene i pensieri in esso conte¬ nuti siano conformi al suo filosofare ». « Il dialogo ha poco movimento e scarso valore artistico », osserva lo Zinga- [ felli ' : « l’invenzione è misera, e sull’attrattiva dello strano e del fantastico prevale nel lettore un senso d’in¬ credulità. Per queste ragioni l’autore dovette rifiutarlo, e forse anche per rispetto a Sallustio medesimo. Forse anche col passar degli anni, il Leopardi non credè più che tutta la grandezza antica perisse con Bruto e per opera di Cesare e dei cesariani ». Più si è accostato al L vero questa volta il Della Giovanna > : « Forse egli si sarà I pentito delle parole crudissime che usa parlando della I libertà e della patria. È ben vero che anche altrove egli f lamenta la mancanza d’amor patrio e di libertà, ma in modo più vago ». Il Sallustio, in questo cinico pessimismo, contraddice al motivo fondamentale delle Operette: logico nell’ordine di pensieri da cui sorse, ma ripugnante a quei sentimenti più profondi, onde la personahtà del poeta abbraccia in sé e contiene, e tempera quindi e solleva a un suo particolar significato, siffatti pensieri. I quali non sono qui un sistema filosofico astratto, ma l’alimento segreto di un’anima che si riversa ed esprime in una poesia di grande respiro, la quale in tutta la sua unità risuona all’anima del lettore come una musica, secondo che osservò un amico del poeta, il Montani i, appena I operette morali di G. L., p. 53. ’ Le prose morali di G. L., p. 276. 3 Vedi la sua recensione ncWAntologia del gennaio 1828, X. 85, pp. 157-61, che incomincia; «Non vi è mai avvenuto una sera d’opera nuova, di entrare in teatro a sinfonia cominciata, e imaginandovi un motivo musicale diverso dal vero, trovar men bello e men significante ciò che poi dee sembrarvi meraviglioso ? — Quando VAntologia, or son due anni, pubblicò un saggio dell’operette del L. ancora inedite.... io non ne fui che leggermente colpito; mi mancava il motivo della musica. Intesone il motivo, al pubblicarsi delle operette insieme unite, mi parve d'aver acquistato nuovo orecchio e nuovo sentimento. E ne scrissi al Giordani, ch’era a Pisa, ov’oggi è il L., il quale allora stava 142 GIOVANNI GENTILE potè leggere tutta la collana delle Operette. Questo rrio tivo fondamentale facilmente si riconosce nel preI^^]i^^ e nell’epilogo, onde è inquadrata nella sua naturale cor nice la trilogia delle operette : ossia nella Storia del genere umano e nel Timandro: due operette, che sono affatto estranee a qucUo spirito, che si può dir proprio di tutte le altre, ad eccezione dell’ Elogio degli uccelli, dove ji^re qua e là s’insinua a frenare l’impeto Urico di gioia e d’entusiasmo; a quello spirito, che si può definire con le parole stesse con cui il Leopardi ritrae se medesimo in una lettera al Giordani del 6 maggio 1825 (del tempo in cui forse raggiunse nel Frammento di Stratone l’estremo termine di questo suo stato d’animo) : « Quanto al ge¬ nere degli studi che io fo, come sono mutato da quel che io fui, così gli studi sono mutati. Ogni cosa che tenga di affettuoso e di eloquente mi annoia, mi sa di scherzo e di fanciullaggine ridicola. Non cerco altro più fuorché il vero, che ho già tanto odiato e detestato. Mi compiaccio di sempre meglio scoprire e toccar con mano la miseria degli uomini e delle cose, e di inorridire freddamente, speculando questo arcano infelice e terribile della vita dell’universo ». Lo stesso animo, non altrettanto feli¬ cemente, ma con maggior abbandono, esprimerà tut¬ tavia, nel ’26, nell’ Epistola al Pepoli : Ben mille volte Fortunato colui che la caduca Virtù del caro immaginar non perde Per volger d’anni; a cui serbare eterna La gioventù del cor diedero i fati.... qui nel più quieto degli alberghi (già ridotto d’allegra gente a’ di del Boccaccio), dicendogli che dalla porta di questo alla camera del suo amico più non salirei che a cappello cavato. Le operette del L. sono musica altamente melanconica... ». La recensione contiene più d’una osservazione notabile. Fu scritta il 28 febbraio 1828. SuU’amicizia del L. col Montani, vedi G. Mestica, Studi leopardiani, Firenze, Le Mou¬ nier, 1901, pp. 332-42. MANZONI E LEOPARDI 143 (si ricordi il Cantico del Gallo silvestre)] Della prima stagione i dolci inganni Mancar già sento, e dileguar dagli occhi Le dilettoso immagini, che tanto Amai, che sempre inlino all’ora estrema Mi fieno, a ricordar, bramate e piante. Or quando al tutto irrigidito e freddo Questo petto sarà, né degli aprichi Campi il sereno e solitario riso. Né degli augelli mattutini il canto Di primavera, né per colli e piagge Sotto limpido ciel tacita luna Commoverammi il cor; quando mi fia Ogni bel tate o di natura o d’arte. Fatta inanime e muta; ogni alto senso. Ogni tenero affetto, ignoto o strano; Del mio solo conforto allor mendico. Altri studi men dolci, in eh’ io riponga L’ingrato avanzo della ferrea vita, Eleggerò. L’acerbo vero, i ciechi Destini investigar delle mortaU E dell’eteme cose.... In questo specolar gh ozi traendo Verrò: che conosciuto, ancor che tristo. Ila suoi diletti il vero. Questo era stato il suo ideale nelle Operette] speculare, scoprire, frugare la miseria degli uomini e di tutto, e inorridire, ma con petto irrigidito e freddo. Se non che nel '25, nel caldo ancora dell’opera, poteva credere di aver raggiunto già questo stato d’animo; l’anno dopo egli, più ingenuamente, o meglio con maggior consape¬ volezza, sente che il suo petto sarà forse un giorno, non è ancora, al tutto irrigidito e freddo; non è eterna la gioventù del cuore, né in lui, né in altri, ma non è ancora del tutto tramontata. Così nelle Operette il freddo inor¬ ridire e il disprezzo d’ogni cosa che tenga di affettuoso e di eloquente è un desiderio, un programma, un propo¬ sito; ma non è, né può essere il suo stile, poiché né ogni 144 GIOVANNI GENTILE bellezza ancora gli è inanime e muta, né ogni alto senso ogni tenero affetto ignoto e strano. E questo sente liené e proclama il Poeta nel dialogo di Timandro e di Elean- dro; dove a Timandro che, secondo la filosofia di moda fa alta stima dell’uomo e del progresso di cui egli è capace' ed è insomma un ottimista, il pessimista, che sente invece per l’uomo un’alta pietà, il futuro cantore della Ginestra protesta di non essere un Timone (per quanto non abbia sdegnato la parte di Momo di fronte a Prometeo) ; « Sono nato ad amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva Oggi, benché non sono ancora, come vedete, in età naturalmente fredda, né forse anco tepida » (aveva appena ventisei anni !) ; « non mi vergogno a dire che non amo nessuno, fuorché me stesso, per necessità di natura, e il meno che mi è pos¬ sibile ». Dove ognun vede che realmente certo invinciliile pudore arresta Eleandro innanzi alla conseguenza delle sue dottrine; e si ripigha subito infatti: « Contuttociò sono solito e pronto a eleggere di patire piuttosto io, che esser cagione di patimento ad altri. E di questo, per poca notizia che abbiate de’ miei costumi, credo mi possiate essere testimonio ». L’amore degli altri si ri¬ bella alla negazione che se n’ è voluto fare, e s’appella all’ intima e irreprimibile attestazione del cuore. Altro che freddezza e petto irrigidito ! E da ultimo Eleandro conchiude; «Se ne’ miei scritti io ricordo alcune verità dure e triste, o per isfogo deU’animo, o per consolarmene col riso, e non per altro ; io non lascio tuttavia negli stessi libri di deplorare, sconsigUare e riprendere lo studio di quel misero e freddo vero, la cognizione del quale è fonte o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo, • Ed ecco perché, scritto il dialogo, sentì di non doverlo più inti¬ tolare, come aveva pensato da principio, di Misinore e Filénore : egli non era davvero quell’odiatore dell’uorao (ixio-TjVcop) che poteva pa¬ rere; né vero Filénore poteva dirsi l’ottimista. MANZONI E LEOPARDI 145 iniquità e disonestà di azioni, e perversità di costumi: laddove, per lo contrario, lodo ed esalto quelle opinioni, benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti, magnanimi, \nrtuosi, e utili al bene comune o privato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che danno pregio alla vdta; le illusioni naturali dell’animo ; e in line gli errori antichi, diversi assai dagh errori bar¬ bari; i quali, solamente, e non quelli, sarebbero dovuti cadere per opera della civiltà moderna e della filosofia ». Dunque, ogni alto senso e tenero affetto, destato da queste illusioni, non sarà spiegabile nel mondo a cui si volgono gh occhi del Leopardi, — il mondo di Stratone da Lampsaco, o la natura dell’ Islandese, — come non è spiegabile nel mondo che solo esiste per la scienza; ma non perciò è ignorato, o è divenuto estraneo al cuore del Poeta. 11 quale non è Timandro, ma è bene Eleandro; e a dispetto di quella natura, che è il vero, ama gli uomini e la virtù, dichiarandola un’illusione, ma naturale, e quindi vera, quantunque contradittoria a quell’altra na¬ tura, che non conosce né amore, né bene. Inorridire fred¬ damente, sì; ma inorridire, ed elevarsi quindi al di sopra della universale miseria, sentita come tale, e non assentirvi, non semplicemente intelligere, come Spinoza avrebbe voluto. Così nella Storia del genere umano, vero preludio alla sinfonia delle Operette, quando l’uomo è pervenuto all’ uno fondo di cotesta miseria, rappresentato dall’ap- parire in terra della Verità, spunta egualmente una divina pietà al soccorso dell’ infelicità intollerabile dei mortali : « La pietà, la quale negli animi dei celesti non è mai spenta, commosse, non è gran tempo, la volontà di Giove sopra tanta infehcità; e massime sopra quella di alcuni uomini singolari per finezza d’ intelletto, con¬ giunta a nobiltà di costumi e integrità di vita; i quali egli vedeva essere comunemente oppressi ed afflitti più IO. — (‘tKSTli.y.. iicnz* ni r L'-'p ’rtìi. 146 GIOVANNI GENTILE che alcun altro, dalla potenza e dalla dura dominazione di quel genio»: ossia appunto, della Verità. Giove, «com¬ passionando alla nostra somma infelicità, propose agjj immortali se alcuno di loro fosse per indurre l’animo a visitare, come avevano usato in antico, e racconsolare in tanto travaglio questa loro progenie, e particolarmente quelli che dimostravano essere, quanto a se, indegni della sciagura universale». Tacciono tutti gli altri Dei¬ ma si offre Amore, figliuolo di Venere Celeste, «questo massimo iddio », che « non prima si volse a visitare i mortali, che eglino fossero sottoposti all’ imperio della Verità ». Di rado egli scende, e poco si ferma, e perché la gente umana ne è generalmente indegna, e perché gli Dei molestissimamente sopportano la sua lontananza. EgU è dunque premio, che l’uomo conquista con la sua grandezza. La quale perciò è condannata sì all’ infelicità del vero; ma è pur redenta e beatificata da Amore. « Quando viene in sulla terra, sceglie i cuori più teneri e più gentih delle persone più generose e magnanime; e quivi siede per breve spazio; diffondendovi sì pellegrina e mirabile soavità, ed empiendoh di affetti sì nobili, e di tanta virtù e fortezza, che eglino allora provano, cosa al tutto nuova nel genere umano, piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine. Rarissimamente congiunge due cuori insieme, abbracciando l’uno e l’altro a un me¬ desimo tempo, e inducendo scambievole ardore e desi¬ derio in ambedue; benché pregatone con grandissima istanza da tutti coloro che egli occupa: ma Giove non gli consente di compiacerli, trattone alcuni pochi; perché la felicità che nasce da tale beneficio, è di troppo breve intervallo superata dalla divina. A ogni modo, l’essere pieni del suo nume vince per se qualunque più fortunata condizione fosse in alcun uomo ai migliori tempi ». Ed ecco perché il Poeta inorridisce, sia pur freddamente, allo spettacolo del tristo vero. La sua anima è calda XIANZONI E LEOPARDI 147 (iel divino beneficio di Amore. Né può in lui la verità (quella mezza verità) contro le sacre illusioni, che né egli può respingere, né altri egli ha consigliato mai a respingere. « Dove egli si posa, dintorno a quello si ag¬ girano, invisibili a tutti gli altri, le stupende larve, già segregate dalla consuetudine umana; le quali esso Dio riconduce per questo effetto in sulla terra, permettendolo Giove, né potendo essere vietato dalla Verità, quantunque inimicissima a quei fantasmi, e nell’animo grandemente offesa del loro ritorno: ma non è dato alla natura dei geni di contrastare agli Dei ». Non può, cioè, la nostra logica non render l’arme all’arcano, che resta pel Poeta questa natura, la quale mette in cuore il bisogno della virtfi, e la fa apparire poi stolta a Bruto. Infine, quella stessa giovinezza e freschezza mattinale, arrisa e ringa¬ gliardita dalla speranza, ecco, risorge per x’irtù di questo Amore ; « E siccome i fati lo dotarono di fanciullezza eterna, quindi esso, convenientemente a questa sua na¬ tura, adempie per qualche modo quel primo voto degli uomini, che fu di essere tornati alla condizione della pue¬ rizia. Perciocché negli animi che egh si elegge ad abitare, suscita e rinverdisce, per tutto il tempo che egh vi siede, l’infinita speranza e le belle e care immaginazioni degli anni teneri. Molti mortah, inesjierti c incapaci de’ suoi diletti, lo scherniscono e mordono tutto giorno, sì lontano come presente, con isfrenatissima audacia: ma esso non ode i costoro obbrobri; e quando gli udisse, niun sup- phzio ne prenderebbe: tanto è da natura magnanimo e mansueto ». Qui non c’ è satira, né riso, né fredda anahsi; ma la più ferma fede e l’anima stessa del Poeta, che con la pietà di Giove accenna già da lungi alla pietà di Elean- dro: e raccoghe in questo suo magnanimo e mansueto amore tutta la infehcità degli uomini e delle cose, e la purifica e sana nel gran mare tranquillo del cuore, dove 148 GIOVANNI GENTILE le illusioni rinverdiscono ad ora ad ora in una perpetua giovinezza; e la vita vera non è quella dell’egoismo e della barbarie, ma dell’affetto che lega le anime con nodi divini, e della bellezza, della libertà, della patria, e di tutte le cose nobili e alte che fan grande l’uomo. Questo amore, che dà piuttosto verità che ras¬ somiglianza di beatitudine, e ristaura tutta la vita umana, questo è il vero spirito delle Operette morali. Pes¬ simista, sì, ma alla Pascal, che disse; L’homme n’est qu’un roscau, le plus faible de la nature] mais c’est un roseau pen- sant. Il ne faut pas que l’univers entier s’arme pour l’écraser ; une vapeur, une gcmtte d'eau, suffit pour le tuer. d/a/s, quand l’univers l’écraiserait, l' homme serait encore plus noble que ce qui le tue, par ce qu’ il sait qu’ il meiirt, et l’avantage que l’univers a sur lui] l’univers n’en sait rien\ sicché la grandeur de l’homme est grande en ce qu’ il se connaU misérable E il Leopardi nell’agosto del ’23, alla vigilia delle Operette, e quando il concetto di esse era già ma¬ turo ; « Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, ossia 1 altezza e no¬ biltà deH’uomo, che il poter l’uomo conoscere e intera¬ mente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la pluralità dei mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo che è minima parte degh infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza e pro¬ fondamente sentendola e intensamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pen¬ siero della immensità delle cose, e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con que¬ sto atto e con questo pensiero egli dà la maggior piova della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale, rinchiusa in sì piccolo e menomo essere. I Pensées, NN. 347 e 397 (Brunschvicg). MANZONI E LEOPARDI 149 è jiotuta pervenire a conoscere e intendere cose tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e con¬ tener col pensiero questa immensità medesima della esistenza e delle cose » *. Questa coscienza dell’umana grandezza e sovranità sulla trista natura il Leopardi non smarrì mai; ed è l’anima di tutta la sua poesia, in cui queste Operette rientrano. E chi voglia intenderle, deve nel loro insieme e in ogni singola parte che le costituisce, aver l’occhio a questo punto centrale, da cui s’irradia la luce che tutte le investe e compenetra. Tutte, ad eccezione del Sallustio, che è negazione fredda, senza l’orrore, la ri- beUione dell’animo, il dolore, sia pur mascherato da amaro sorriso, che si diffonde in tutte le altre. E questo parmi il giusto motivo che indusse l’autore a sopprimerlo. VII. Quando nel ’27 una nuova ripresa della primitiva ispirazione diede il Copernico e il Plotino, venutisi quindi ad aggiungere alle prime Operette già formanti un orga¬ nismo, r ispirazione non era punto mutata. Giacché il Copernico dimostra, secondo il detto dello stesso autore, la nullità del genere umano; e la dimostra ripigliando un’ idea che contro i Timandri medievali attardati aveano già nel Cinque e Seicento svolta Bruno nella Cena delle ceneri e Galileo nei Massimi sistemi] donde la conclu¬ sione necessaria che Porfirio ricava nell’altro dialogo (che sarebbe poi la conclusione rigorosamente logica di tutta la parte negativa delle Operette) : che sia ragio¬ nevole uccidersi. Ed egh vince a furia di argomentare (movendo da premesse, che son quel che sono, ma a lui paiono ben fondate) il suo stesso maestro, Plotino. Ma ' Pensieri, V, 223; cfr. VII, 106. 150 GIOVANNI GENTILE Piotino può opporgli una sapienza assai più profonda più vera: «Sia ragionevole l’uccidersi; sia contro ragion^ 1 accomodar l’animo alla vita : certamente quello è u ^ atto fiero e inumano. E non dee piacer più, né vuoP elegger piuttosto di essere secondo ragione un mostr^' che secondo natura uomo ». Perché contro natura e contro umanità il suicidio ancorché conclusione di logica inesorabile? Porgiam ’ orecchio, dice Plotino, «piuttosto aUa natura che alh ragione. E dico a quella natura primitiva, a quella madre nostra e deU’universo; la quale se bene non ha mostrato di amarci, e se bene ci ha fatti infelici, tuttavia ci è stata assai meno inimica e malefica, che non siamo stati noi coir ingegno proprio, colla curiosità incessabile e smisu¬ rata, colle speculazioni, coi discorsi, coi sogni, colle opi¬ nioni e dottrine misere: e particolarmente, si è sforzata ella di medicare la nostra infelicità con occultarcene, o con trasfigurarcene, la maggior parte. E quantunque sia grande 1 alterazione nostra, e diminuita in noi la jjo- tenza della natura; pur questa non è ridotta a nulla né siamo noi mutati e innovati tanto, che non resti in ciascuno gran parte dell’uomo antico. Il che, mal grado che n’abbia la stoltezza nostra, mai non potrà essere altrimenti. Ecco, questo che tu nomini error di com¬ puto; veramente errore, e non meno grande che palpabile; pur si commette di continuo; e non dagli stupidi so¬ lamente e dagl’idioti, ma dagl’ingegnosi, dai dotti, dai saggi; e si commetterà in eterno, se la natura, che ha prodotto questo nostro genere, essa medesima, e non già il raziocinio e la propria mano degli uomini, non lo spegne. E credi a me, che non è fastidio della vita, non disperazione, non senso della nulhtà delle cose, della vanità deUe cure, della solitudine dell’uomo; non odio del mondo e di se medesimo, che possa durare assai: benché queste disposizioni dell’animo sieno ragionevo- MANZONI E LEOPARDI I5I lissime, e le lor contrarie irragionevoli. Ma contuttociò, passato un poco di tempo, mutata leggermente la dispo- sizion del corpo; a poco a poco, e spesse volte in un subito, per cagioni menomissime, e appena possibili a notare; rilassi il gusto della vita, nasce or questa or quella speranza nuova, e le cose umane ripigliano quella loro apparenza, e mostransi non indegne di qualche cura; non veramente all’ intelletto, ma sì, per modo di dire, al senso dell’animo » •. E infine, conclude Plotino, questo senso, non 1 ’ intelletto, è quello che ci governa. Sicché è evidente che non la filosofia negativa, che spazia dal Dialogo d’ Ercole e di Atlante fino al Cantico del Gallo silvestre e al Frammento di Stratone, e poi nel Copernico, opera di puro intelletto, è la somma della sapienza leo¬ pardiana; ma questa stessa filosofia in quanto dichiarata stoltezza dalla natura e da questo « senso dell’animo ». Senso dell'animo, che è sempre amore per il Leopardi. Giacché non la sola natura ci riattacca alla vita, sì anche un bisogno d’amore, che a noi spetta di alimentare: « E perché », chiede Plotino, « anche non vorremo noi avere alcuna considerazione degh amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei frateUi, dei genitori, della moglie; delle persone familiari e domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran tempo; che, morendo, bisogna lasciare per sempre : e non sentiremo in cuor nostro dolore alcuno di questa separazione; né terremo conto di quello che sentiranno essi, e per la perdita di persona cara o consueta, e per l’atrocità del caso ? ». E dice la parola, che si va cercando attraverso tutte le Operette, ma di cui può dirsi quello stesso che Tacito dell’ imma- * Il solo, a mia notizia, che abbia rilevato l’importanza che questo «senso dell'animo» ha nel sistema dello spirito leopardiano, come principio di redenzione dal pessimismo, è stato il prof. Giovanni Negri, nelle sue Divagazioni leopardiane (6 volumi, Pavia, 1894-99), passim, e specialmente voi. V, pp. lys-yy. 152 GIOVANNI GENTILE gine di Bruto mancante ai funerali della sorella: prae- fulgebat eo ipso gitoci non visebatiir. « E in vero, colui che si uccide da se stesso, non ha cura né pensiero alcuno degli altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano: tanto che in questa azione del privarsi della vita, apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il men bello e men liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo ». Dunque quella grandezza non è infelicità; perché l’uomo infelice dovrebbe darsi la morte; e si ucciderebbe se vivesse per la felicità e si attenesse quindi al calcolo dell’utile. Ma la vera vita è non sembianza, sì verità di beatitudine se è amore, in cui l’uomo non distingue più sé dagli altri, né agli altri antepone più se stesso. E questa è la A’irtù, la magnanimità, di cui parla tanto spesso il Leopardi, che non è più il dolore incomportabile che ci fa invidiare i morti, ma questo amore che ci stringe ai viventi, e ci ammonisce dal fondo del nostro cuore di uomini, come Plotino con voce tremante di affetto dice al suo Porfirio: «Viviamo, e confortiamoci a vicenda; non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabìhta, dei mali della nostra specie. Sì bene atten¬ diamo a tenerci compagnia l’un l'altro; e andiamoci incoraggiando e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita». Questo amore, che ci regge e riempie la vita, ci conforta la morte e ci abbellisce l’idea di questo mondo, da cui non spariremo senza sopravvivere. « E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo momento gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo sjienti, così molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora ». MANZONI E LEOPARDI 153 Vili. Amore è la prima e l’ultima parola delle Operette. Le quali ebbero ancora una ripresa, come dicemmo, nel '32, nei due dialoghi fiorentini: il Venditore d’Alma¬ nacchi e Tristano. Nel primo ritorna il motivo del Can- tico del Gallo silvestre. Il venditore d’almanacchi col suo grido festoso annunzia l’anno nuovo, il tempo che ri¬ comincia, e risveglia le speranze e promette. Ma il pas¬ seggero in cui s’incontra oppone la sua fredda riflessione a quell’ impeto di vaghe e indefinite speranze, e lo con¬ duce a considerare che « quella vita eh’ è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si co¬ nosce ; non la vita passata, ma la futura ». La vita che si conosce è la passata, mista di beni e di mali, e a cagione di questi ultimi tale che nessuno vorrebbe riviverla: vita brutta, dunque. La futura è quella che non si conosce, e che sarà egualmente brutta quando sarà passata; e sarebbe perciò non meno brutta, se noi ce la vedessimo venire incontro quale in effetti sarà. Dunque ? Il Leo¬ pardi non conchiude ; ma la conclusione è quella che viene dalle Operette: sperare non è ragionevole, poiché, come cantava il Gallo silvestre, già si corre alla morte; ma non sperare non si può; perché, è evidente, il futuro sarà brutto quando sarà passato; ma bello è finché fu¬ turo; né di questo futuro potrà mai tanto passarne che non ce ne sia sempre dell’altro, in cui possa rifugiarsi la speranza, o innanzi a cui non possa il Gallo intonare il suo canto consolatore. E la vita resta sempre con queste due facce ; a vedersela innanzi, qual’ è, una mi¬ seria disperante; a viverla, a \'iverci dentro col nostro cuore, i nostri fantasmi, le nostre speculazioni e il no¬ stro amore, una beatitudine divina. Il 1832 fu per Giacomo l’anno della tragica prova della sua fede. Dopo dieci anni tornò la misera Saffo a 154 GIOVANNI GENTILE rivivere nel suo animo; non però luminosa immagine della fantasia, come nell’ Ultimo canto, ma vita del cuore stesso di Giacomo. Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella Sei tu, rorida terra. Airi di cotesta Infinita beltà parte nessuna Alla misera Saffo i numi e l’empia Sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni Vile, o natura, e grave ospite addetta, E dispregiata amante, alle vezzose Tue forme il core e le pupille invano Supplichevole intendo Non meno supplichevole Giacomo guarda ad Aspasia; onde ricorderà: Or ti vanta, che il puoi.... .... Narra che prima, E spero ultima certo, il ciglio mio Supplichevol vedesti, a te dinanzi Me timido, tremante (ardo in ridirlo Di sdegno e di rossor), me di me privo. Ogni tua voglia, ogni parola, ogni atto Spiar sommessamente, a’ tuoi superbi Fastidi impallidir.... * *. E cadde l’inganno, e la vita, orba d’affetto e del gentile errore, fu « notte senza stelle a mezzo U verno ». Ma Saffo proruppe nel grido disperato ; — Morremo ! — e violenta cercò l’atra notte e la silente riva. Leopardi scrisse invece Amore e morte] dove la morte non è più l’orrido Dite di Saffo, anzi si palesa in tutta la sua gen¬ tilezza fino alla donzeUa timidetta e schiva. È sorella d’Amore ; 1 Ultimo canto di Saffo (1822). * Aspasia (1834). MANZONI E LEOPARDI 155 Bellissima fanciulla, Dolce a veder, non quale La si dipinge la codarda gente. Gode il fanciullo Amore Accompagnar sovente; E sorvolano insiem la via mortale. Primi conforti d'ogni saggio core £ la morte sospirata dall’amante, nel languido e stanco desiderio di morire, che si sente Quando novellamente Nasce nel cor profondo Un amoroso affetto, perché già a’ suoi occhi la vita diviene un deserto: a se la terra Forse il mortale inabitabil fatta Vede ornai senza quella Nova, sola, infinita Felicità che il suo pensier figura; Ma per cagion di lei grave procella Presentendo in suo cor, brama quiete. Brama raccorsi in porto Dinanzi al fier disio. Che già. rugghiando, intorno intorno oscura. E a questa morte consolatrice, che insieme con amore è quanto di bello ha il mondo, a questa morte, senza armare la mano, anzi con umile e mansueto animo, vol- gesi il Poeta con un sospiro di religiosa preghiera: Bella morte, pietosa Tu sola al mondo dei terreni affanni. Se celebrata mai F'osti da me, s’al tuo divino stato L’onte del volgo ingrato Ricompensar tentai. • Amore e morte (1832). GIOVANNI GENTILE 156 Non tardar più, t’inchina A disusati preghi. Chiudi alla luce ornai Questi occhi tristi, o dell’età reina. Non già che amore e morte abbian potere di cancellare la fatale infelicità: né che l’uomo e il Leopardi abbiano mercé loro, a lodarsi del fato. Quando Morte spiegherà le penne al suo pregare, lo troverà Erta la fronte, armato, E renitente al fato. La man che flagellando si colora Nel suo sangue innocente Non ricolmar di lode. Non benedir.... La morte è consolatrice e liberatrice da questo fato cru¬ dele: ma già Leopardi aspetta sereno quel dì ch’ei pieghi addormentato il volto nel vergineo seno di lei; e il fato è vinto nel suo animo gentile da questa aspettazione: vinto nella stessa vita. E questo è Tanimo di Tristano; il quale, dopo avere con amara ironia fatta la palinodia del suo libro, conchiude che il meglio sarebbe di bru¬ ciarlo : « non lo volendo bruciare, serbarlo come un libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici, ovvero come un’espressione dell’infelicità dell’autore»; perché, soggiunge al suo amico Tristano, con accento che viene dal cuore e vibra di commozione, « perché in confidenza, mio caro amico, io credo febee voi e felici tutti gli altri; ma io, quanto a me, con licenza vostra e del secolo, sono infebeisshno: e tale mi credo; e tutti i giornali de’ due mondi non mi persuaderanno il contrario ». Egb è flagellato dallo stesso fato di Amore e morte. «E di più vi dico francamente eh’ io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini; e ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni altra cosa.... Né vi MANZONI E LEOPARDI 157 parlerei così se non fossi ben certo che, giunta l’ora, il fatto non ismentirà le mie parole.... In altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gh stolti, e quelli che hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cam¬ biato con qualcuno di loro. Oggi non in\'idio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. In¬ vidio i morti»: i morti di Ruysch, già sicuri àzH’antico dolori E quest'invidia, questo desiderio intenso della morte, è fiducia confortata da una speranza che non falhrà, e che già allieta di sé Tanimo sottratto per lei a quella vita che è dolore: a quella cosa arcana e stupenda, che i morti di Ruysch possono ricordare senza tema, poiché è un passato irrevocabile: «Ogni immaginazione piacevole, ogni pensiero dell’avvenire, ch’io fo, come accade nella mia solitudine, e con cui vo passando il tempo, consiste nella morte»: che è un avvenire, adun¬ que, quale il venditore di almanacchi lo prometteva. In conclusione, ancora una volta, e sempre, l’amore trionfa del dolore, anche nella morte, che ci libera infine da quella vita che la natura e il fato danno all’uomo « di cedere inesperto ». Cederebbe il suicida egoista, non il magnanimo che allarga la sua persona nell’amore, e guarda sereno alla morte amica che lo sottrarrà, e lo sottrae, alla miseria di Saffo e dell’ Islandese. Quanta differenza tra la morte di cui Ercole ragiona con Atlante 0 quella che s’incontra nella Moda, al principio delle Operette) e questa morte, a cui l’animo si volge desioso alla fine delle Operette stesse ! Il filo aureo che dall’una conduce all altra è già nella Storia del genere umano'. Amore figlio di Venere celeste. 'Vt ■** ^ ■ ' ^1 ijji •■»{., y .'A ^ .A — '■ . ^. «r *-T» -^ * •-*■»* % *• » »|| •T‘f* . ,«W -f ,*• li ; ' *• •■fr- , I rf'.A-t.. . «UI-* . . J. yr ‘ - - ■ ' fjftl- ’■• > i ; $ f' .ti -i) ' * ‘,>?^j^*j-ÌJ<..-:-^-^>' ■-■ . -, - .. i ,, ^fjr t n . ‘yt --. 'lÉ^4. .' "*4; ,' N ■ I V PROSA E POESIA NEL LEOPARDI Questo scritto fu pubblicato prima nel Messaggero della dome¬ nica, a. II, nn. 8 e 9, 23 febbraio e 2 marzo 1919: poi nei Frammenti di estetica e letteratura, pp. 347-66. A proposito del Leopardi toma sempre in campo la questione delia differenza e del rapporto tra filosofia e poesia: poiché questo poeta voUe essere, e per certi ri¬ spetti nessuno può negare sia stato infatti un filosofo; ma, d’altra parte, egli stesso pare abbia voluto distin¬ guere una cosa dall’altra, come res dissociabiles, e in un libro di prosa volle in forma più sistematica e più ra¬ zionalmente convincente esporre quel suo pensiero da cui traeva intanto ispirazione il suo canto nelle poesie. E non importa se non ci sia una sola delle sue poesie in cui il Leopardi non ragioni la sua fede e non si sforzi di dimostrare la verità del concetto ch’egli s’era formato della vita, e che attraverso una determinata situazione personale, un paesaggio, un ’immagine, si sforza costan¬ temente di mettere in piena luce. Non importa se nessuna delle prose raccolte nelle Operette morali si presenti sotto la forma di scolastica dimostrazione e scevra di quel sentimento, di quella viva commozione, in cui \dbra la personalità del poeta così nelle Operette come nei Canti. La distinzione pare tuttavia innegabile, poiché, non po- tenilo altro, se ne fa una questione di quantità e di più e di meno: affermando che l’elemento filosofico predomina nelle Operette, e l’elemento hrico nei Canti. E si crede così di salvare la tesi generale, che bisogna rinunziare alla filosofia per esser poeti, e viceversa: giacché la loro natura è così diversa e ripugnante, che l’una non può esser l’altra e una sempre deve essere sacrificata. Ma io non voglio ora affrontare la questione, che potrà sembrare tanto teoricamente difficile e dehcata li. — Gkntilk, Òfamoni e Leopardi. i 62 GIOVANNI GENTILE quanto praticamente inutile e oziosa. Nel caso del Leo¬ pardi la questione di principio è priva d’ogni interesse, perché il Leopardi, anche nelle sue prose, è indubbiamente poeta ; temperamento poetico sempre, che, canti o ragioni, cioè si proponga Luna o l’altra cosa, in realtà non riesce se non ad esprimere se stesso; a vivere di quella verità che gli invade l’anima e non gli lascia modo di dubitare e di assoggettarla a quella più alta razionalità, a quella critica oggettiva che s’inquadra in un sistema, e in cui consiste propriamente una filosofia *. 11 che non vuol dire che non abbia anche lui la sua filosofìa; ma è una filosofìa fatta vita e persona, fatta vibrazione e ritmo del suo stesso sentimento, incapace come tale d’acquistare intera coscienza di sé, e perciò di superarsi. E, cioè, un certo suo atteggiamento spirituale, che s’effonde nella divina ingenuità della poesia, e che riesce perciò superiore a quella dottrina che l’autore si sforza consapevolmente di formulare. Superiore perché, — ormai è noto agh studiosi più attenti della sua poesia — questa ha pel poeta un conte¬ nuto pessimistico, e per noi, invece, ha un contenuto ottimistico. La vita infelice, necessariamente e fatal¬ mente infelice, è ciò che il poeta aveva innanzi agli occhi, vedeva e si proponeva di cantare. Ma poiché quella \nta che ogni poeta canta non è quella che ha innanzi agli occhi, bensì quella che ha dentro al cuore, e però ogni poeta canta non la vita quale egli la vede, ma il cuore con cui egli la guarda; e poiché il cuore di Giacomo Leo¬ pardi era, come egli disse una volta, << nato ad amare », ed aveva « amato, e forse con tanto affetto quanto ]iuò mai cadere in anima vdva », così, in realtà, tema del suo I Vedi ora il mio scritto Arte e religione, nel Giorn. crii. d. filos- Hai., T (1920), pp. 262-76; e nel voi. Dante e Manzoni, Firenze, Vai- lecchi, 1923. MANZONI E LEOPARDI 163 canto non fu mai quella brutta vita, che è piena di do¬ lore, ma quell’altra che egli più profondamente sentiva, redenta dall’amore, la quale «dà piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine » Poiché appunto qui è il divario tra pessimismo e ot¬ timismo: che il primo vede la vita quale apparisce nella natura considerata dal punto di vista materialistico, brutale, sorda ai bisogni e alle finalità dello spirito, chiusa in sé di contro alle aspirazioni dell’anima umana biso¬ gnosa di amore e di consenso, ossia di un mondo conforme alla sua vita e a lei consentaneo; e l’altro invece crede nello spirito, nel valore de’ suoi ideali, e nell’energia dell’amore che sola è capace di reahzzare un tale valore. 11 mondo del pessimista è il mondo dell’egoismo, per cui il dovere e la \nrtù sono mere illusioni, e il mondo del¬ l'ottimista è il mondo in cui la più salda e vera realtà è quella che risponde alle esigenze dell’animo. E la verità è questa: che il Leopardi, pessimista di filosofia, e ijuasi alla superficie, fu invece ottimista di cuore, e nel pro¬ fondo dell’animo: tanto più acutamente pessimista, col progresso della riflessione, e tanto più altamente e uma¬ namente ottimista. Basta confrontare la canzone Al- /’ Italia con La Ginestra. Di qui la sublime bellezza della sua poesia, dove la bestemmia e lo strazio della dispe¬ razione si smorzano e dissolvono nella commossa e tenera effusione di un’anima angosciosamente agitata da un bisogno di amore universale e da un’ incoercibile fede nella virtù e nella realtà dell’ ideale. Egli non ha la filo¬ sofia di questo superiore ottimismo in cui rimane assor¬ bita la sua iniziale visione pessimistica; e continua a dire che la sua è sempre la filosofia del Bruto Minore^-, ma l’anima, che non perviene al concetto filosofico di quella ' storia del genere umano. - Lett. al De Sinner del 24 maggio 1832. 164 GIOVANNI GENTILE realtà che è per lei la vera e suprema realtà, raggiungo bensì la forma poetica della sua espressione in modo pieno e perfetto. Se cerchiamo in lui il filosofo, avremo lo scettico, ironista, materialista piuttosto mediocre nell’ invenzione, dove riesce facile scoprire quanto egli debba ai libri che lesse, e come pronto fosse ad attingere dalle fonti ph, disparate tutto ciò che comunque paresse giovare a con¬ ferma delle sue idee: mediocre nell'esposizione od ela¬ borazione della materia, per evidente inesperienza del metodo lìlosofìco e insufficiente familiarità coi grandi pensatori di tutti i tempi. Ma chi legga il Leopardi e si fermi a ciò che in lui è mediocre, non ha occhi né anima per vedere che cosa c’ è propriamente in lui che è vivo ed eterno e grande: ciò per cui anche a chi pedanteggi la sua poesia s’impone e suscita un’eco solenne nell’animo. In questo senso bisogna pur dire che in Leopardi non si deve cercare e non c’ è il filosofo: ma c è un anima, che rifulge in tutto lo splendore della sua grandissima uma¬ nità. C’ è insomma il poeta. Anche nelle sue Operette. Le quali io credo di avere definitivamente dimostrato \ con argomenti esterni, at¬ testanti nella maniera più esplicita 1’ intenzione di esso il Leopardi, e con argomenti interni, desunti dallo svol¬ gimento del pensiero e dagli evidenti legami onde le singole operette sono congiunte tra loro per graduali passaggi di atteggiamenti spirituali e di sentimenti dal primo all’ultimo anello, che non sono una raccolta, ma un organismo, un tutto unico, che si articola dentro di se stesso e si conchiude. Si conchiude tra un preludio e un epilogo in una opera, che è un poema, e non è un trattato: un libro di poesia, anch’esso, e non di conte¬ nuto didascalico e speculativo. Il quale si compone 01 i- I Vedi il capitolo precedente. MANZONI E LEOPARDI 165 ginariamente di venti capitoli, scritti tutti nel 1824, in un anno di lavoro felice, ma con un intervallo tra i primi quattordici e gli altri sei: in guisa da suggerire il so¬ spetto che la ripresa, da cui trasse origine Tultima parte, svolgendosi in sei capitoli, potesse trovare riscontro nella prima serie: dalla quale sottraendo il primo e l’ultimo capitolo, quello perché introduzione e questo perché apologia e conchiusione di tutta la serie, si ottengono infatti dodici capitoli, che naturalmente si dividono in due gruppi di sei capitoli ciascuno; e ciascun gruppo è destinato a svolgere un certo motivo, e quindi forma un ritmo a sé. Sospetto confermato da alcuni spostamenti dall’autore introdotti nel primitivo ordine cronologico, e poi costantemente mantenuti, salvo una sostituzione che nella terza edizione del libro (1834) mise uno scritto del 1825, per l’innanzi non potuto mai pubbhcare, al posto di un capitolo del primo gruppo: capitolo abolito allora perché infatti non armonico né col gruppo, né con tutta l’opera. La distribuzione, è ovvio, non può avere se non una importanza relativa. £ ragionevole pensare che fosse voluta e curata dall’autore. Il quale egualmente non volle mai rispettare l’ordine cronologico nelle edizioni da lui curate dei Canti, e diede loro un ordinamento ideale, che per lui aveva un \'alore, e che per i lettori ed inter¬ preti non può essere perciò trascurabile. Ma il fatto stesso che tutte e venti le operette furono scritte successiva¬ mente, l’una dopo l’altra, nello stesso periodo di tempo, e hanno tutte un prologo generale e un unico epilogo, dimostra evidentemente che i loro singoli gruppi non si possono considerare separatamente, quasi ognun d’essi formasse un tutto a sé. La distribuzione del nucleo principale delle Operette in tre gruppi di sei capitoli ciascuno, con a capo un ca¬ pitolo introduttivo e in fondo un altro capitolo conclu- i 66 GIOVANNI GENTILE sivo, può servire soltanto a renderci attenti per leggere le varie parti del libro cercandovi tre motivi fondamentali che nel pensiero deU’autore si fondo no in un solo ritmj complessivo, e formano l’unità organica del libro; e in questo modo può servire quasi di chiave a un libro, che fino a ieri si leggeva qua e là, scegliendo l’uno o l’altro capitolo, come se ciascuno stesse da sé. E non occorre dire che ci vuole discrezione, e non bisogna pretendere un taglio netto tra un gruppo e l'altro, e una soluzione di continuità che non si sa perché l’autore avrebbe do¬ vuto introdurre una prima e una seconda volta nel corso della sua unica opera. Discrezione che non vedo, per esempio, nel professor Faggi ', quando del Dialogo di Malambrmio e Farfarello che resta collocato alla fine del primo gruppo e da ser¬ vire quindi come passaggio al secondo, mi domanda: « Ma non potrebbe stare anche nel secondo, poiché è una affermazione chiara ed esplicita dell’ infelicità as¬ soluta dell’esistenza, onde si conchiude che, assoluta- mente parlando, il non vivere è sempre meglio del vi¬ vere ? ». Ma io non avevo eretto nessuna muraglia tra il primo gruppo concluso da questo dialogo di Malambruno e Farfarello e il secondo aperto da quello della Natura e di un’Anima: anzi, dopo aver mostrato il pensiero dominante nel primo gruppo, additavo in Malambruno quell’anima che si ritrova di fronte alla Natura al prin¬ cipio del nuovo ciclo; e tra i due dialoghi successivi non un salto, anzi un passaggio naturale e come insensibile ove non si osservi che quella che nel primo ciclo è una constatazione, un'osservazione di fatto, diventa nel se¬ condo ciclo il problema. Il Faggi, tratto forse in inganno da alcune parole * Una nuova edizione delle fn Operette movali n di G. L., nel Mar¬ zocco del 2 febbraio 1919. MANZONI E LEONARDI 167 da me usate incidentalmente, mi fa dire che la diffe¬ renza tra primo e secondo periodo in questa trilogia delle Operette consisterebbe, secondo me, in ciò: che nel primo « r infelicità del genere umano si considera parti¬ colarmente nell’età moderna come effetto più che altro della volontà pervertita dell’uomo e della civiltà », e nel secondo invece, « questa infelicità si considera come legge imprescindibile e ineluttabile dell’umanità o del mondo in genere»; sicché «la Natura, che nella prima ipotesi apparisce fonte in se ancora inesausta di vita e di fehcità, apparisce invece nella seconda vero principio di ogni male e di ogni dolore ». Cotesta sarebbe la nota differenza osservata dallo Zumbini tra la prima fase « storica » del pessimismo leopardiano, e la seconda metafisica o cosmica. Ma non corrisponde per l’appunto alla distinzione da me indi¬ cata, tra il concetto del primo e quello del secondo gruppo delle Operette. Nel primo, io dissi, l’animo del poeta vien posto in faccia alla morte e al nulla : « ossia al vuoto della vita, non più degna d’essere vissuta; poiché degna sarebbe la vita inconscia, e la vita dell’uomo è senso, coscienza. La vita nella fehcità è la natura; e l’uomo se ne dilunga ogni giorno più con la civiltà, con l’irre¬ quieto ingegno, che assottiglia la vita, e la consuma ». Qui il pessimismo storico è già superato, e Malam- bruno può dire che « assolutamente parlando » il non vivere è meglio del vivere. Lo può affermare, perché la vita umana, fin da principio e per sua natura, è senso, coscienza, e si è strappata a quell’ ingenuità istintiva e affatto inconsapevole, che è pura animalità. « Può pa¬ rere », scrissi io, « che la morte dell’umanità, la sua nul- htà o infelicità sia, nei dialoghi del primo gruppo, una colpa dei degeneri nepoti » : poiché infatti civiltà è au¬ mento progressivo di coscienza e di pensiero. Ma in realtà, fin dalle origini, insieme col sapere, che fa uomo l’uomo. i 68 GIOVANNI GENTILE c’ è già il dolore, ed il destino dell’uomo è fissato. Ma- lambruno perciò è benissimo al suo luogo alla fine del primo ciclo. Il secondo ciclo ricava la conseguenza pratica della verità scoperta nel primo. E si apre infatti col Dialogo della Natura e di un’Anima, nel quale dalla proporzione del dolore con la grandezza dell’uomo (il cui progresso e perfezione consiste nell’acquisto di sempre maggior copia di sentimento che gli fa sentire sempre più acuto il dolore dell’esistenza) deduce, che dunque è meglio spogliarsi deU’umanità, o delle doti che la nobilitano, e farsi « conforme al più stupido e insensato spirito umano * che la natura abbia mai prodotto in alcun tempo. Negare l’umanità, rinunziare a ciò che fa il pregio della \ùta, rinunziare ad affiatarsi con la Natura indifferente, che ci respinge da sé, ossia rinunziare alla vita: e rassegnarsi alla vita vuota, al tedio, all’ inerzia. Laddove il primo ciclo addita aU’uomo l’abisso che con la coscienza s’è aperto tra lui e la natura, il secondo gli fa sentire il de¬ stino a cui gli conviene di rassegnarsi, rinunziando a quella natura che non è per lui, e a quella vita che sol¬ tanto nella natura potrebbe spiegarsi. Il primo ciclo è una negazione, per così dire teo¬ retica; il secondo è la negazione pratica, che consegue dalla prima negazione. La conclusione dovrebbe essere quella di Bruto minore e di Saffo, il suicidio; non ò però la conclusione del Leopardi, il quale non finisce con r Ultimo canto di Saffo, ma con la Ginestra. E perché quella di Bruto non sia la sua conclusione è detto nel terzo ciclo delle Operette. Il quale svolge questo motivo: che quella vita che certamente non ha valore, perché è dolore e perciò negazione della vita che noi vorremmo vivere, ripullula rigogliosa e incoercibile dalla sua stessa negazione. La \àta è abbarbicata aH’anima umana; e questa, MANZONI E LEOPARDI 169 attraverso le attrattive e le lusinghe della gloria, la stessa contemplazione della morte liberatrice, porto sicuro da tutte le tempeste, come la cantano i morti di Ruysch, attraverso una filosofia che sappia intendere e sorridere con la magnanimità bonaria di un Ottonieri, attraverso gli stessi rischi in cui la vita si perde e si riconquista col gusto di una cosa nuova, e in generale attraverso l’attività, il movimento, la passione e la speranza che non vien mai meno; ma sopra tutto, attraverso l’amore che ci fa ricercare nell’uomo, neW’umana compagnia, quello che la natura ci nega anche nella piena coscienza della propria infelicità fatale e immedicabile, vive e sente la gioia d’una vita che trionfa del destino fatto all’uomo dalla natura. Una soluzione dunque del problema della vita nei tre cicU delle Operette morali c’ è. Ma è una filosofia ? È evi¬ dente che no: perché la via che filosoficamente si do¬ vrebbe seguire per superare il pessimismo radicale dei primi due cich è, senza dubbio, quella per cui l’anima dello scrittore si avvia e spontaneamente e vigorosamente procede nel terzo; ma questo non è una dottrina, bensì 10 slancio naturale dello spirito che risorge con tutte le sue forze dalla negazione pessimistica. E il pessimismo, in linea di teoria, rimane la verità assoluta e insuperabile. 11 Leopardi sente bensì e vive la verità superiore, ma non riesce a darle forma riflessa e speculativa. Egli spe¬ rimenta in sé ed attesta coi moti del suo animo la po¬ tenza dello spirito, che anche nell’uomo che s’imma¬ gina scliiavo e vittima della natura, trionfa della forza tirannica e feroce di questo brutto potere, e vive, e gusta la gioia di questa sua vita in cui consiste la realtà dello spirito. E in questo balsamo, che il suo animo sparge così su tutte le piaghe che ha aperte e che ha fissate inorridito, in questa dolcezza che sana ogni dolore, in GIOVANNI GENTILE 170 quest’ idealità che sopravvive a ogni negazione, qui la personalità, qui è la poesia del Leopardi. Così, ripeto nelle Operette, come nei Canti. Si rilegga l’affettuosa parlata di Eleandro onde si conchiuse da prima tutta la serie delle Operette-, o il di. scorso di Plotino, con cui il libro tornò ad essere suggei. lato nelle aggiunte posteriori; e si neghi, se è possibile, che il centro e l’accento principale dello spirito leojiar- diano è in quel « senso dell’animo », com’egli dice, che, agli occhi suoi, lega l’uomo all’uomo, e con l’amore, vin- colo soave insieme ed eroico, instaura un ordine morale inespugnabile a ogni riflessione scettica, e superstite infatti (coni’ è detto nella Storia del genere umano) a quella fuga di tutti i lieti fantasmi che è prodotta dal sorgere della verità tra gli uomini. L’animo del Leopardi, come quello di Porfirio, non si scioglie dalla vita, anzi vi si stringe vieppiù, e la trova, malgrado tutto, degna d’esser vissuta, per quel che dice appunto Plotino: «E perché non vorremo noi avere alcuna considerazione degli amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei fratelli, dei genitori, della moglie; delle persone familiari e domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran tempo: che morendo, bisogna lasciare per sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore di questa separazione; né terremo conto di quello che sentiranno essi, per la perdita di persona cara e consueta, e per l’atrocità del caso ? ». Questo non è un argomento filosofico, ma un cuore che trema in ogni parola; e ogni parola si sente come velata dal pianto dell’anima che il dolore apre ed espande nell’amore. — Ma è proprio vero, torna a domandarmi il profes¬ sor Faggi, che amore sia la prima e l’ultima parola delle Operette ? — Ecco: che la Storia del genere umano faccia consistere tutto il pregio, la bellezza e la felicità della vita nell’amore, mi pare sia così chiaro dalle ultime pa- MANZONI E LEOPARDI I7I gine del mito, che nessuno possa dubitarne. E non vedo che ne dubiti lo stesso Faggi. Il quale dubita piuttosto che amore sia l’ultima parola del libro. Non gli pare che sia nella prima forma di questo, quando finiva col Dialogo a Timandro e di Eleandro\ né che sia nella forma defi¬ nitiva, quando all’ultimo posto fu collocato il Dialogo di Tristano e di un Amico. La compassione di Eleandro, egli dice, « non è amore : tant’ è vero che questo dialogo dovea dapprincipio intitolarsi Misénore e Filénore, e Mis nore, cioè odiatore dell’uomo, doveva essere il Leo¬ pardi ». Ma il Faggi non ha badato che (come avrebbe potuto vedere da tutte le varianti che io ho tratte dal¬ l’autografo) cotesto titolo, poi mutato dall’autore nel¬ l’altro con cui pubblicò il dialogo, non solo fu ideato quando ancora il dialogo era da scrivere, ma mantenuto fino alla fine della composizione del dialogo stesso. Sicché il concetto di Mist'nore è puntualmente quel medesimo che vediamo incarnato in Eleandro: in chi cioè non si oppone propriamente all’amatore degli uomini, ma si oppone soltanto a chi, anzi che Filénore, merita d’esser detto Timandro, perché eccessivamente valuta, col domma della perfettibilità progressiva, il potere umano di impa¬ dronirsi della feheità. L’uomo del Leopardi non è l’uomo vantato e millantato dagl’ illuministi del secolo XVIII e dai progressisti del suo secolo: l’uomo dalle magnifiche sorti e progressive del Mamiani: è l’uomo vittima della natura e però degno di compassione. La compassione non è amore; certo. Ma ne è la ra¬ dice. E perciò Giove, mosso da pietà, nella Storia del genere umano, manda Amore fra gli uomini. Perché solo l’amore lenisce i dolori, per cui si commisera l’infelice ; e se Eleandro, dopo aver protestato con un grido che gli si sprigiona dal più profondo del cuore: «Sono nato ad amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva », soggiunge : « Oggi non 172 GIOVANNI GENTILE mi vergogno a dire che non amo nessuno, fuorché nie stesso, per necessità di natura, e il meno possibile»- l’aggiunta è un’asserzione voluta dalla coerenza del si' sterna pessimistico della vita che Eleandro oppone al dommatico ottimismo di Timandro; ma si smentisce subito continuando : « Con tutto ciò sono solito e pronto a eleggere di patire piuttosto io, che esser cagione di pa¬ timenti ad altri ». E questa è compassione, che è pnrg una sorta di amore. Che se Tristano non sa più pensare se non alla morte questa morte (come credo di aver chiarito abbastanza col riscontro di quel dialogo con i canti dell’amore fio¬ rentino, Aspasia e Amore e morte), non è la disperazione della vita, cantata da Bruto minore e da Saffo, ma è la bellissima fanciulla che Gode il fanciullo Amore Accompagnar sovente; la bella morte, pietosa, sospirata in quel languido e stanco desiderio di morire che sorge col nascere d’un amoroso affetto. E r ironia, così nel Timandro come nel Tristano, non è rivolta contro la vita confortata dall’amore, bensì contro quel volgare ottimismo che parla il fatuo lin¬ guaggio di Timandro e deH’amico di Tristano. Vero è che per leggere Leopardi non bisogna tanto badare a quello che egli dice, ma al modo piuttosto in cui lo dice, al tono delle sue parole, in cui propriamente consiste la sua anima, e quindi la vita e il valore della sua prosa. Che io perciò desidero considerare più come poesia che come argomentazione. E perciò non posso accettare quel che il Faggi dice del Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare e dell’ Elogio degli uccelli. Come mai, mi domanda del primo, «appartiene al secondo gruppo e non al terzo ? Anche questo dialogo è senza dubbio.... una ricostruzione; e, per questo lato. MANZONI E LEOPARDI 173 vale il Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez ». Infatti, egli osserva, « non dee spaventare la differenza che c’ è fra un uomo chiuso nelle quattro mura d’una prigione e un altro che corre a vele spiegate 1’ Oceano infinito. 11 Tasso prova nello spirituale colloquio col suo Genio familiare press’a poco la stessa soddisfazione che il grande Genovese nel suo fortunoso viaggio. Tutt’e due han trovato la maniera di fuggire la noia, questa com¬ pagna indivisibile dell’esistenza. Quando altro frutto non ci venga da questa navigazione, dice Cristoforo Colombo a Pietro Gutierrez, a me pare che ella ci sia profitte¬ volissima in quanto che per lungo tempo essa ci tiene Uberi dalla noia, ci fa cara la vita, ci fa pregevoli molte cose che altrimenti non avremmo in considerazione. E il povero Tasso ha ricevuto tale conforto dalla con¬ versazione col suo Genio, che, si può ritenere, il consigUo da questo datogli di ricercarlo, ov’ei lo voglia, in qualche Uquore generoso, non andrà perduto. Tutt’e due, tra fantasticare o navigare, van consumando la vita: non con altra utiUtà che di consumarla; che questo è l’unico frutto che al mondo se ne può avere: e l’unico ‘intento che l’uomo deve proporsi ogni mattina in sullo sve¬ gliarsi ’ ». Ora tutto ciò, se si guarda alla nota fondamentale dei due dialoghi, non credo si possa sostenere. Lo spunto del Colombo ci è indicato dallo stesso Leopardi, che, come io ho mostrato, aveva prima concepito questo scritto col titolo di Salto di Leucade\ e il senso o nucleo del dia¬ logo va quindi cercato nel passo che segue alle parole citate dal Faggi, dove Colombo dice: « Scrivono gU antichi, come avrai letto o udito, che gli amanti infelici, gittan- dosi dal sasso di Santa Maura (che allora si diceva di Leucade) giù nella marina, e scampandone, restavano per grazia di Apollo, liberi dalla passione amorosa. Io non so se egli si debba credere che ottenessero questo 174 GIOVANNI GENTILE effetto; ma so bene che, usciti di quel pericolo, avranno per un poco di tempo, anco senza il favore di Apollo avuta cara la vita, che prima avevano in odio; o pm-g avuta più cara e più pregiata che innanzi. Ciascuna na vigazione è, per giudizio mio, quasi un salto dalla rupe di Leucade; producendo le medesime utihtcà, ma pj(, durevoli che quello non produrrebbe; al quale, per questo conto, ella è superiore assai. Credesi comunemente che gli uomini di mare e di guerra, essendo a ogni poco in pericolo di morire, facciano meno stima della vita pro¬ pria, che non fanno gli altri della loro. Io per Io stesso rispetto giudico che la vita si abbia da molto poche per¬ sone in tanto amore e pregio come da’ navigatori e soldati ». Non il consumai'e la vita è l'utilità del rischio, a cui Colombo espone sé e i suoi marinai, ma la gioia di riaf¬ ferrarsi aUa vita che nell’oceano sterminato si teme sfug¬ gita per sempre: il gusto che si prova per ogni piccolo bene, appena ci paia di averlo perduto, se lo riacqui¬ stiamo. 11 Colombo è questa gioia del pericolo vinto, ma che bisogna perciò affrontare per vincerlo. Il Tasso è tutt’altra cosa. Il navigatore pregusta il piacere della vista di un cantuccio di terra: ma il povero prigioniero non conosce né spera mutamento alla sua sorte, e lasciando, com’egli dice, anche da parte i dolori, la noia solo lo uccide. La noia, di cui egli può parlare perché ne ha esperienza; ma che gh pare il destino uni¬ versale degh uomini, quasi la sua prigione fosse simbolo della natura, che circonda e chiude dentro di sé l’uomo: « A me pare che la noia sia della natura dell’aria : la (juale riempie tutti gli spazi interposti alle altre cose matcriah, e tutti i vani contenuti in ciascuna di loro: e donde un corpo si parte, e l’altro non gli sottentra, quivi ella succede immediatamente. Così tutti gl’ inter¬ valli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, MANZONI E LEOPARDI 175 sono occupati dalla noia. E però, come nel mondo mate¬ riale, secondo i Peripatetici, non si dà vóto alcuno; così nella vita nostra non si dà vóto : se non quando la mente per qualsivoglia causa intermette l’uso del pensiero. Per tutto il resto del tempo, l’animo, considerato anche in se proprio e come disgiunto dal corpo, si trova con¬ tenere qualche passione; come quello a cui l’essere vacuo da ogni piacere e dispiacere, importa essere pieno di noia; la quale anco è passione, non altrimenti che il dolore e il diletto ». Che egli consumi pure un po’ di tempo nel colloquio col suo Genio, è vero. Ma lo consuma senza dolcezza, ]ier confermarsi nella convinzione della sua immedicabile tri¬ stezza: «Senti. La tua conversazione mi riconforta pure as¬ sai. Non che ella interrompa la mia tristezza, ma questa per la più parte del tempo è come una notte oscurissima, senza luna né stelle ; mentre son teco, somiglia al bruno dei crepuscoli, piuttosto grato che molesto. Acciò da ora innanzi io ti possa chiamare o trovare quando mi bisogni, dimmi dove sei solito di abi¬ tare ». Il Genio risponderà con amara ironia che la sua abi¬ tazione è in qualche liquore generoso. Ma il Faggi crede sul serio che ci sia qui un consiglio da prendersi alla let¬ tera ? « Cruda ironia », scrisse il Della Giovanna, che ebbe pure la strana idea di cercare negh scritti del Tasso l’eventuale fondamento storico di questo tratto. Il quale, per chi legga la prosa leopardiana con animo sensibile all’angoscia desolata che vi è sparsa dentro, non può significare altro che un realistico strappo che 1 autore vuol dare alla stessa poetica illusione consolatrice del- r infelice prigioniero. E porgendo l’orecchio all’accento commosso dello scrittore io credetti di poter dire 1 Elogio degli uccelli lirica stupenda sgorgata al Leopardi dal pieno petto al 176 GIOVANNI GENTILE guizzo d’una immagine lieta e ridente, e come un canto di gioia. No, oppone il Faggi, « è un elogio degli uccelli un’opera non d’ispirazione, ma, in massima parte (jj riflessione; benché questa sia ravvivata dal soffio della poesia inerente al soggetto. Il Leopardi non intendeva di fare altro ». Piuttosto egli penserebbe al Passero no litario) ma avverte subito da sé il carattere del tutto estrinseco del ravvicinamento, e nota che « anche quello non è un canto di gioia ». Anche nell’ Elogio, secondo il Faggi, il Leopardi è filosofo, e non è poeta. « Non ha creduto di spogliare del tutto la giornea del filosofo- che anzi egli parla per bocca di un Amelio, filosofo soli¬ tario come egli dice, che si potrebbe credere il neopla¬ tonico, scolare di Plotino, se non lo cogliessimo a citare Dante e Tasso. .Scrive, e ha davanti i suoi libri, soprat¬ tutto le opere del Buffon; si difende in una lunga digres¬ sione sull’origine e la natura del riso, suggeritagli dal¬ l’osservazione che il canto è, come a dire, un riso che fa l’uccello ; e, intorbidando l’immaginazione lieta e se¬ rena in cui l’animo suo volea riposarsi, si lascia attrarre a considerare il riso umano nello scettico, nel pazzo e nell’ebbro; che non è più manifestazione sincera, o spon¬ tanea dell’animo, e non ha jùù quindi relazione col canto degli uccelli ». Donde s’avrebbe a concludere che il Leopardi abbia voluto scrivere sul serio l’elogio degli uccelli, propo¬ nendosi una tesi ritenuta da senno per vera, e industrian¬ dosi di dimostrarla nel miglior modo per tale. — No, per Dio, non mi prendete alla lettera — ci ammonirebbe il poeta. Il quale ad altro proposito scri¬ veva al padre scandalizzato dalle forme pagane di Gia¬ como : « Io le giuro che l’intenzione mia fu di far poesia in prosa, come s’usa oggi, e però seguire ora una mito¬ logia ed ora un’altra ad arbitrio; come si fa in versi, senza essere perciò creduti pagani, maomettani, buddisti MANZONI E LEOPARDI 177 ecc. » Senza essere creduti perciò zoologi o filosofi, possiamo aggiungere noi. — E del resto a quella conclu¬ sione io non credo che il Faggi abbia voluto andare in¬ contro intenzionalmente, poiché egli pure vede « l'ima¬ ginazione beta o serena in cui l’animo del Leopardi volea riposarsi » ; e rispetto alla quale gli uccelli non sono dav¬ vero gli uccelli dello zoologo; ancorché nella tessitura dell’ Elogio l’autore si giovi spesso di reminiscenze delle sue letture del Buffon (che è poi un poeta, anche lui, della storia naturale) ; ma sono appunto un’ immagine, simbolo di quella vita piena d’impressioni, che non co¬ nosce tedio, anzi è tutta una gioia. La cui espansione e penetrazione nel cuore del poeta si vede bene dove a questo si svegha nell’animo un senso di gratitudine verso quella Provvidenza, che volle il dolce canto degli uccelli a conforto degli uomini e d’ogni altro vivente. «Certo fu notabile prowedimento della natura l’assegnare a un medesimo genere di animali il canto e il volo; in guisa che quelli che avevano a ricreare gli altri viventi colla voce, fossero per l’ordinario in luogo alto, donde ella si spandesse all’ intorno per maggiore spazio e pervenisse a maggior numero di uditori. E in guisa che l’aria, la quale si è l’elemento destinato al suono, fosse popolata di creature vocali e musiche. Veramente molto conforto e diletto ci porge, e non meno, per mio parere, agli altri animali che agli uomini, l’udire il canto degli uccelli ». La prosa tranquilla e contenuta vuol essere nella sua forma esteriore l’eloquio didascalico di un filosofo, ma tanto più perciò essa fa sentire la dolcezza gioiosa che vi si agita dentro, con quella stessa mobilità irrequieta, che fa dal poeta contrapporre all’ozio pigro e sonnolento degli uomini la vispezza dei volatili. « Gli uccelli per lo con¬ trario, pochissimo soprastanno in un medesimo luogo; van- I Episiol., lett. 703. 12. — Gentile, Manzoni e Leopardi. 178 GIOVANNI GENTILE no e vengono di continuo senza necessità veruna ; usano T volare per sollazzo; e talvolta, andati a diporto più cen tinaia di miglia dal paese dove sogliono praticare, i] medesimo in sul vespro vi si riducono. Anche nel piccol tempo che soprasseggono in un luogo, tu non h ved^ stare mai fermi della persona; sempre si volgono cjua I là, sempre si aggirano, si piegano, si protendono, si croK lano, si dimenano; con quella \ds]iezza, queU'agUità quella prestezza di moti indicibile ». E con la stessa intenzione del contrasto tra l’espo¬ sizione solenne e dotta del filosofo e il sentimento che ’ deve vibrare dentro, si spiegano i ricordi anacreontd che il Faggi dice eruditi e freddi, e che tali vogliono es¬ sere infatti, nella conclusione dell’ Elogio, nel desiderio finale di Amelio: «.... Similmente io vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e letizia della loro vita ». Ultime parole dell’ Elogio, che ne sono quasi la chiave, e che reca me¬ raviglia non vedere intese esattamente nepjmr dal Faggi Già il Della Giovanna, che, mi rincresce dirlo, troppo pedanteggiò irriverentemente nel suo commento erudito ma offuscatore assai più spesso che rischiaratore del ni¬ tido pensiero leopardiano, postillò: n Per un poco di tempo. Meno male ! chè dopo la vantata perfezione degli uccelli, c era da aspettarsi una conclusione meno re¬ strittiva ». E il Faggi rincara: «Fa quasi sospettare che Amelio non sia riuscito a convincere pienamente se stesso, o il suo entusiasmo non sia stato davvero troppo pro¬ fondo ». Come se si trattasse di convincere ! A me pare ci sia un modo più ragionevole d’inten¬ dere quell’inciso; ed è quello che verrà subito in mente ad ognuno, che rifletta che se il filosofo avesse espresso il desiderio d’essere convertito per sempre in uccello, avrebbe fatto ridere. Che diamine, il poeta invidia degh uccelli la contentezza, la letizia; e ora essi non sono altro MANZONI E LEOPARDI 179 per lui, ma né anche la contentezza e la letizia per lui sono tutto, ed egli ama troppo la propria umanità per essere disposto a barattarla con esse per sempre. Anche la morte potrebbe essere per lui, come per Porfirio, la soluzione del problema dell’esistenza. Ma il «senso del¬ l’animo» lo ammonisce colle parole di Plotino: «In vero, colui che si uccide da se stesso non ha cura né pensiero alcuno degh altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano; tanto che in questa azione del privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il men bello e men liberale amore di se mede¬ simo che si trovi al mondo ». VI LA POESIA DEL LEOPARDI Commemorazione tenuta il 29 giugno 1927 nell’Aula Magna del Palazzo Comunale di Recanati; e pubblicata nel fascicolo giugno- luglio dello stesso anno del periodico Educazione fascista. r I. Il modo più degno di commemorare un poeta è quello di entrare nella sua poesia, cioè nel suo animo, nel mondo dei suoi fantasmi, come egli li vide e li sentì. Gli elementi della sua biografia, tutti, dalla data di nascita a quella di morte, i casi della sua vita, le persone e le cose in mezzo alle quali questa vita si svolse, le idee stesse che egh accolse e che professò, le correnti spirituali ante¬ cedenti o contemporanee di cui partecipò, sono semplici generahtà, paragonabili alle note d’un passaporto; le quah, ove non si accompagnino e precisino con una fo¬ tografia, rimangono appunto generalità, riferibili a mi¬ gliaia di persone. Ogni uomo è una determinata personalità in quanto è un’anima. La quale, quando si conosca da vicino e cioè per davvero, è singolare e inconfondibile: unica. E la sua singolarità in fondo consiste non nella periferia del mondo di cui l’uomo fu centro, ma in quello piuttosto che egli fu, al centro di questo mondo, col suo modo di reagire a questo mondo che era il suo, raccolto nel suo pensiero e nel suo sentimento. Due possono nascere nello stesso anno e nello stesso giorno, vivere nello stesso luogo e quasi cogli stessi spettacoli dinanzi agli occhi, tra gli stessi uomini e quasi con le stesse voci negli orec¬ chi; e ricevere la stessa educazione, incorrere magari nelle stesse malattie, e insomma viv'ere tutta material¬ mente la stessa vita e concorrere perfino nelle stesse idee, ed essere come due anime gemelle. Eppure ciascuna 184 GIOVANNI GENTILE di queste anime, se vi provate ad entrare nel suo intern è se stessa, diversa, assolutamente diversa dall’altra quel certo suo dèmone ascoso, che tratto tratto si senr nel timbro della voce o lampeggia nelle pupille, svelane!^ subitamente l’essere dell’indi\dduo : quell’essere eh” ognuno di noi, nella vita, spia e riesce a scoprire atti e nelle parole delle persone che frequenta. Quest dèmone interno, sorgente segreta da cui scaturisce in verità tutta la vita effettiva dell’uomo non soltanto quale essa è, ma quale è sentita e perciò nel valore che ha, è quello che i filosofi dicono 1’ Io: il soggetto, che è la base d’ogni individualità umana. Qualcosa d’inaf¬ ferrabile in se stesso, perché infatti non si manifesta se non in quanto si realizza nelle concrete determinazioni del carattere, nel complesso degh atti e delle parole, che formano la trama della vita dell’ individuo. 11 centro non è rappresentabile se non in rapporto alla sua circonferenza. Ora questo demone segreto che si cela e si svela nella vita di ciascun uomo, è la fonte viva dell’ispirazione del poeta. Il quale non si distingue dagli altri uomini se non jierché riesce a stampare una più profonda impronta di questa segreta potenza nelle espressioni del suo essere. E pare che per lui innanzi agli occhi meravigliati della moltitudine si levi e grandeggi in una solitudine infinita l’immagine di un’anima divina, creatrice, che di sé fa il suo universo; e quelli che per gli altri sono sogni e ombre, per la virtù sua onnipossente son corpi saldi, vi¬ venti e luminosi, e riempiono tutta la immensa scena del mondo che il poeta sostituisce a quello della comune esperienza. Nel poeta, in quanto tale, tutto ciò che egli vede e tutto ciò che può dirci è la sua anima, anzi questo dèmone che si cela nella sua anima. Nel caso del Leopardi, quanto difficile cercarla e tro- v'arla questa scaturigine della sua poesia: e quanto perciò s e girato e si gira tuttavia intorno al segreto della sua MANZONI E LEOPARDI 185 grandezza ! Questa poesia da un secolo e più conquide tutti i cuori, trova la via di tutte le anime, che sponta¬ neamente si aprono alle soavi commozioni di essa. Ma studiata lungamente, pertinacemente, ingegnosamente da mille ingegni, alla luce di mille sistemi e sulla base di mille preconcetti, analizzata, tormentata dalla preten¬ siosa volontà indagatrice della critica, impegnata per lo più nella superba impresa di ricostruire l’arte dagli sparsi frammenti esanimi ottenuti attraverso una fredda ope¬ razione anatomica, essa si è sottratta e sfugge ancora alla intelligenza riflessa, che si sforza di coglierne l’es¬ senza e chiuderla in una definizione. Negli ultimi tempi vi si son provati critici di grande levatura e dottrina; e si sono avuti saggi, di cui non disconoscerò io il merito insigne. Questi scritti giovano indubbiamente alla comprensione della poesia leopar¬ diana; ma solo in quanto ne scoprono alcuni aspetti. 11 loro comune difetto è quello di trascurare la verità, che io ritengo evidente e indiscutibile, dalla quale ho creduto opportuno prender le mosse. Trascuranza il cui effetto è questo: che il critico non sente la necessità di risalire sino alla sorgente da cui la poesia leopardiana sgorga, e in cui soltanto è possibile scorgere l’unità della sua ispirazione e rendersi conto della varietà dei motivi in essa dominanti. Così accade che si aprano i canti e le prose del Leopardi, e si dica: — Nelle prose, manco a dirlo, non c’ è poesia. C’ è una pretesa filosofia, che è una filosofia per modo di dire. Lambiccatura di cervello che si sforza di dimostrare sistematicamente uno stato d’animo personale; e perciò si mette fuori di questo stato d’animo; e quindi riesce amaro, falso, estraneo al vero e profondo sentire dello stesso scrittore, e perciò freddo, sofistico. Né filosofia, né poesia. Nei canti, bisogna distin¬ guere: c’è poesia e non poesia. Vi sono strofe o versi in cui il poeta trova se stesso e parla serio e commosso; i86 GIOVANNI GENTILE e lì è il poeta; il poeta le cui parole non si dimenticano e tornano da sé a risuonare nell’animo, a commuoverci col calore e la passione della vita che ogni uomo vive e sente. Ma ci sono negli stessi canti poesie giovanili retto- ricamente patriottiche; ci sono poesie filosofiche non meno fredde e artifiziate delle prose: ci sono pezzi ora- torii, in cui il poeta cerca l’effetto e pensa al lettore e non si dimentica nello schietto moto della sua anima Manca qua e là negli stessi canti più felici il caldo di queir ispirazione, che s’apprende immediatamente al¬ l’animo di ogni uomo. Risorge il ragionatore a freddo che vede il mondo dall’angustissimo foro che le sciagure fisiche e le tristi condizioni personali gli han lasciato aperto sulla grande scena della vita, e vien meno il poeta che accoglie beato nel suo petto la voce naturale del mondo e il vasto respiro delle cose. — £ fortuna se alla prova di questa critica si salva qualche frammento della poesia del Leopardi. Ma si salva davvero ? Io vorrei invitare questi critici a ristampare Leopardi purgandolo da tutte le scorie della sua poesia, per darcene il fiore, un’antologia; con¬ tenente i soli pezzi ^'eramente poetici a cui si fa grazia. Temo che al fatto questa antologia riescirebbe estrema- mente difficile, se non impossibile: poiché non solo il significato di ciascun verso risulta dal contesto a cui appartiene, e ogni strofa ha il suo valore nel complesso del componimento; ma, si sa, ogni parola ha sempre un accento, in cui è la sua anima e individuahtà; e quel¬ l’accento non si può sentire se non nel ritmo dell’ insieme. Isolare una parola è impresa vana ed assurda. E se si crede il contrario, ciò accade perché in realtà quella parola che ci pare di isolare, noi la facciamo nostra e la fondiamo in un nuovo nesso, in un ritmo da noi creato, in cui non è più la parola di quel poeta, ma l’espressione del nostro animo. MANZONI E LEOPARDI 187 II. II Leopardi non è soltanto il poeta degl’ idillii, dove il suo petto si allarga e s’inebria del profumo della na¬ tura, e il suo cuore batte all’unisono col grande cuore del mondo, commosso dal senso della vita che ride a pri¬ mavera nei campi, brilla a notte nel mite chiarore della luna, imporpora il viso alle fanciulle innamorate, tuona tra le nubi nell’ infuriar della tempesta, e ridesta ad ora ad ora negli animi stanchi e delusi la speranza e la dol¬ cezza dell’amore. Il Leopardi è anche Tristano ed Elean- dro; ed è Copernico e Filippo Ottonieri; ed è Colombo e il Tasso visitato nel mesto carcere dal suo Genio fami¬ liare; ed è Stratone e Plotino; ed è 1’ Islandese al co¬ spetto della Natura dal volto « mezzo tra bello e ter¬ ribile »; ed è il gallo silvestre che sta in sulla terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo, e riempie del suo canto l’universo e dice di questo « arcano mi¬ rabile e spaventoso dell’esistenza universale » che, « in¬ nanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e per- derassi ». E insomma il Leopardi pacato e placato nel sentimento solenne e religioso del dolore e del mistero e della vanità dell’opera umana, e pur raccolto nell’ in¬ tima soavità dell’amore, onde gh uomini vincono ogni travagho c gustano una beatitudine divina, ancorché confusa a certo mistico senso del proprio dissolvimento nella vita universale. Ed è anche il poeta che come ita¬ liano vede le colonne e i simulacri e le ruine della gran¬ dezza antica, ma non vede più la gloria e le armi dei padri; e non sa rivolgersi indietro a (juella schiera infinita d’immortah, che onorarono già la nostra terra, senza pianto e disdegno per la presente viltà; e sente in cuore la disperazione di Bruto per l’impotenza della virtù sconfitta dalla perversa fortuna e lo strazio della misera Saffo, spregiata amante, vile e grave ospite nei superbi i88 GIOVANNI GENTILE regni della natura bellissima. Ma non sì che l’animo non gli si esalti nell’ idea della guerra mortale che il prode di cedere inesperto, guerreggerà sempre contro l’indegno fato, e in cui anche il virile animo di Saffo si sentirà sparso a terra il velo indegno, di emendare il crudo fallo del cieco dispensator dei casi. E anche l’uomo che si leva col pensiero al di sopra della ferrea vita e sentendo che conosciuto, ancor che tristo, ha suoi diletti il vero, si compiace d’investigar Yacerbo vero e i ciechi destini delle mortali e delle eterne cose] e trae gli ozi in questo specu¬ lare. E in fine l’uomo che si rifugia con questo altissimo sentimento della invitta potenza del pensiero umano nella rocca inespugnabile della noia: di questo che egli dice « in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani », poiché « il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; consi¬ derare l’ampiezza inestimabile dello spazio, n numero e la mole maravighosa dei mondi, e trovare che tutto è ])oco e piccino alla capacità deU’animo proprio; imma¬ ginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e vóto, e però noia, pare a me il maggior segno di gran¬ dezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana » >. E perciò anche il Leopardi, nel colmo della sua delusione, può giungere a fermare in se stesso ogni desiderio e ogni moto, a disprezzare perfino se stesso, come la natura, il brutto Poter che, ascoso, a comun danno impera, E V in¬ finita vanità del tutto: e, pur caduto l’incanto che gli fece vedere e amare in una donna mortale la Dea della sua mente, pur vedendo ormai nella propria vita una notte senza stelle a mezzo il verno, può trovare al suo fato • Pensieri, n. 68. MANZONI E LEOPARDI 189 mortale bastante conforto e vendetta nella coscienza di se medesimo: su l’erba Qui neglùttoso immobile giacendo, Il mar, la terra e il ciel miro, e sorrido. Se noi rinunciamo a questi ed altrettali motivi della poesia leopardiana, per restringerci al dolce gusto di quell’ idillico che è la prima e immediata forma di questa poesia, noi avremo sì elementi di una poesia squisita, ma perderemo la poesia propria del Leopardi. Nella quale quella prima forma è solo uno degli elementi del dramma e del fiero contrasto, nella cui superiore solu¬ zione la poesia leopardiana per l’appunto consiste. III. L’i dilli o è certo alla base del Leopardi poeta. Ne risuona il motivo di continuo nell’ Epistolario, nello Zibaldone, nei Canti, nelle Operette morali. Se volete ren¬ dervi conto della natura dell’ idillio, come il Leopardi r intese e lo sentì, rileggete l’ Infinito, quei quindici versi che gittano la fantasia del Poeta al di là della siepe in spazi interminati, sovrumani silenzi e profondissima quiete: dove l’infinito silenzio e l’eterno assorbono in sé e annichilano la voce del vento che stormisce tra le piante e il suono delle lotte e delle fatiche umane: Così tra questa Immensità s’annega il pensier mio E il naufragar m’ è dolce in questo mare. L’uomo scioglie il suo pensiero, ond’egli riflettendo si distingue e si oppone alla natura, e si confonde con igo GIOVANNI GENTILE essa. Ricordate il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, che dice alla sua greggia: Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe. Tu .se’ quieta e contenta; E gran parte dell’anno Senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra, E un fastidio m’ingombra La mente, ed uno spron quasi mi punge Si che, sedendo, più che mai son lunge Da trovar pace o loco. Nell’ Inno ai Patriarchi il Poeta rammenta l'antico mito della colpa che sottopose Vuman seme alla tiranna Possa de’ morbi e di sciagura ; e attribuisce all’ irrequieto ingegno dell’uomo la prima origine dei suoi dolori. La noia, la sublime noia, è il privilegio del pensiero. Finché la riflessione non è sorta, e il pastore errante non è an¬ cora in grado di domandare alla luna il fine di tanti moti, e che sia Questo viver terreno. Il patir nostro, il sospirar che sia; Che sia questo morir, questo supremo Scolorar del sembiante, E perir dalla terra, e venir meno .‘Vd ogni usata, amante compagnia; egh può esser queto e contento come la sua greggia. Pensare è distinguersi dalla vita, opporvisi, sentirsene fuori, cercare e non trovare, sentire la vanità di tutto: non aver più né contentezza né pace. Il Leopardi intanto sa bene che senza pensiero non c’ è grandezza. Perciò in uno de’ suoi dialoghi la Natura dice a un’Anima: « Va’, figliuola mia prediletta, che tale sarai tenuta e chiamata per lungo ordine di secoli. Vivi, e sii grande e infelice ». Perciò il Poeta dice ai « nuovi credenti » che non credono al dolore: MANZONI E LEOPARDI I9I A voi non tocca DeU’umana miseria alcuna parte, Ché misera non è la gente sciocca.... Dico, ch’a noia in voi, ch’a doglia alcuna Kon è dagli astri alcun poter concesso. Non al dolor, perché alla vostra cuna Assiste, e poi sull’asinina stampa 11 pie’ per ogni via pon la fortuna. E se talor la vostra vita inciampa. Come ad alcun di voi, d’ogni cordoglio Il non sentire e il non saper vi scampa. Noia non puote in voi, ch’a questo scoglio Rompon l’alme ben nate.... Ma se il pensiero è la sorgente del dolore, bisogna pur distinguere tra pensiero e pensiero. E anche questo è avvertito dal Leopardi. C’ è un pensiero che è la stessa natura deU’uomo ; deiruomo che sente e crede nell amore e nella virtù ; che sente e crede nella bellezza della natura e della vita; che spera e apre l’animo alla gioia delle il¬ lusioni, che tali si dimostreranno al cimento della espe¬ rienza, ma che la natura stessa risusciterà sempre dal fondo del cuore umano a rendere amabile o almen sop¬ portabile la vita. Questo è pensiero. Ma c’ è un altro pensiero, che si sovrappone a questo primo e lo critica e lo demolisce e lo irride, e, scoprendone tutte le debo¬ lezze e gli arbitrii, gitta lo sconforto nel cuore umano e lo inonda d’immedicabile amarezza. Non occorre per¬ tanto che l’uomo si abbrutisca come il gregge per sot¬ trarsi al dolore. Può essergli simile, e al pari di esso ri¬ maner congiunto con la natura e godere del benefizio di essa, se si abbandona, per dir così, al pensiero naturale, e vede la vita con quegli occhi che la natura gh ha dati. Vive nel suo stesso pensiero la vita spontanea e istintiva che è propria di tutti gli esseri naturali, senza che questa natura sia sconvolta o turbata dal suo irrequieto ingegno. Così fa il fanciullo, così tutti gli spiriti semplici e sani. Questa è la giovinezza sempre rinascente del genere 192 GIOVANNI GENTILE umano; dell’anima aperta alla speranza e fortificata dalla fede: dell’anima quale ogni uomo la ritrova in se stesso al mattino sul primo svegliarsi, all’ inizio d’ogni suo giorno, come d’ogni nuovo periodo della sua vita « Il primo tempo del giorno », canta anche il gallo silvestre « suol essere ai viventi il più comportabile. Pochi in sullo svegliarsi ritrovano nella mente pensieri dilettosi o lieti- ma quasi tutti se ne producono e formano di presente perocché gli animi in quell’ora, eziandio senza materia alcuna speciale e determinata, inclinano .sopra tutto alla giocondità, o sono disposti più che negli altri tempi alla pazienza dei mah. Onde se alcuno, quando fu soprag¬ giunto dal sonno, trovavasi occupato daUa disperazione; destandosi, accetta novamente nell’animo la speranza ciuantunque cUa in niun modo se gli convenga. Molti infortuni e travagli propri, molte cause di timore o di affanno, paiono in quel tempo minori assai, che non parvero la sera innanzi. Spesso ancora, le angosce del dì passato sono volte in dispregio, e quasi per poco in riso, come effetto di errori e d’immaginazioni vane. La sera è comparabile alla vecchiaia; per lo contrario, il principio del mattino somiglia alla giovanezza ». Cresce l’esperienza della vita, sopraggiunge la rifles¬ sione, la speranza dilegua: sottentra il dolore e la noia: tanto più acuto quello, tanto più grave questa, quanto più viva fu la speranza e ardente la fede nella vita. Quindi la grande importanza del momento idillico, o giovanile, spontaneo, naturale in una poesia che, come quella del Leopardi, accentua poi il momento negativo del distacco e della opposizione, che è il momento del dolore. Questo dolore è materiato, si può dire, dalla stessa dolcezza dell’ idiUio. Odi et amo. La negazione non avrebbe mai il suo significato lirico se non corrispondesse a un’afferma¬ zione vigorosa e potente. Appunto perché la vita è così bella agli occhi del Poeta, ed egh ne sente sì forte il fa- MANZONI E LEOPARDI 193 scino nel fondo del suo cuore, egli si duole tanto di non possederla. Al disperato affetto di Saffo non arride spet- tacol molle: ma questo spettacolo pur le è fitto negli occhi e nel petto; Placida notte, e verecondo raggio Della cadente luna; e tu che spunti Fra la tacita selva in su la rupe, Nunzio del giorno; oh dilettoso e care Mentre ignote mi fur l’erinni e il fato. Sembianze agli occhi miei.... Del resto questo molle spettacolo non fugge da’ suoi occhi senza che questi si volgano desiosi ad altri spetta¬ coli di natura, meglio rispondenti al suo stato d’animo; Noi r insueto allor gaudio ravviva Quando per l’etra liquido si voi ve E per li campi trepidanti il flutto Polveroso de’ Noti, e quando il carro. Grave carro di Giove a noi sul capo. Tonando, il tenebroso aere divide. Noi per le balze e le profonde valli Natar giova tra’ nembi, e noi la vasta Fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto Fiume alla dubbia sponda Il suono e la vittrice ira dell’onda. Saffo ha l’animo popolato di ridenti immagini di questa natura di cui ella si vede prole negletta: , Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella Sei tu, rorida terra.... A me non ride L’aprico margo, e dall’eterea porta Il mattutino albor; me non il canto De’ colorati augelli, e non de’ faggi Il murmure saluta: e dove all’ombra Degl' inchinati salici dispiega Candido rivo il puro seno, al mio Lubrico pie’ le flessuose linfe Disdegnando sottragge, E preme in fuga l’odorate spiagge. 13. — GkktIx<s, Manzoni e heopardi. 194 GIOVANNI GENTILE Bruto minore, fermo già di morire, percote l’aura sonnolenta di feroci note. Ma tra queste note se ne odono di soavi, affettuose, per quanto solenni, come queste: E tu dal mar cui nostro sangue irriga. Candida luna, sorgi, E l’inquieta notte e la funesta All’ausonio valor campagna esplori. Cognati petti il vincitor calpesta, Fremono i poggi, dalle somme vette Roma antica mina; Tu si placida sei ? Tu la nascente Lavinia prole, e gli anni Lieti vedesti, e i memorandi allori; E tu su l'alpe l'immutato raggio Tacita verserai quando ne’ danni Del .servo italo nome. Sotto barbaro piede Rintronerà quella solinga sede. Ecco tra nudi sassi o in verde ramo E la fera e l’augello. Del consueto obblio gravido il petto. L’alta mina ignora e le mutate Sorti del mondo: e come prima il tetto Rosseggerà del villanello industre. Al mattutino canto Quel desterà le valli, e per le balze Quella r inferma plebe Agiterà delle minori belve. D’altra parte, fin da quando, tra il 1819 e il ’ai, il Poeta ascolta nel suo profondo questa voce antica ed eternamente giovanile della santa natura e del mondo, contro cui si volgerà sempre più risentito e dolorante, egli sente nel petto Nell’ imo petto, grave, salda, immota Come colonna adamantma, quella noia immortale, di cui parlerà nell’epistola Al Conte Carlo Pepoli. E nello stesso Infinito, nella Sera del dì MANZONI E LEOPARDI 195 di festa e negli altri piccoli e grandi idilli che altro, in¬ fine, si canta se non il dolore ? Dolce e chiara è la notte e senza vento, E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti Posa la luna, e di lontan rivela Serena ogni montagna. O donna mia. Già tace ogni sentiero, e pei balconi Rara traluce la notturna lampa: Tu dormi, che t’accolse agevol soimo Nelle tue chete stanze; e non ti morde Cura nessuna; e già non sai né pensi Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto. Tu dormi: io questo ciel, che si benigno Appare in vista, a salutar m’affaccio, E l’antica natura onnipossente. Che mi fece all’affanno. A te la speme Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. La serenità, il dolce chiarore lunare dei primi versi e lo stesso sonno tranquillo e scevro d’affanni de lla donna formano lo sfondo del quadro, in cui risalta la personalità di quest’uomo, a cui la speranza è negata e i cui occhi non brilleranno mai se non di lagrime. L’amarezza di questa anima desolata nasce dal contrasto. La donna sogna forse a quanti oggi piacque e quanti piacquero a lei. Fantasmi e sentimenti pieni di dolcezza; ma sorgono alla mente del Poeta soltanto per fargli sentire che egli ne è escluso: .... non io, non già eh’ io speri, .à.1 pensier ti ricorro. Egli non dorme, non posa, non sogna. Si getta per terra, grida, freme. E il suo pensiero si insinua nella gioia altrui e vi soffia dentro il vento della riflessione che l’inaridisce: 196 GIOVANNI GENTILE Ahi, per la via Odo non lungo il solitario canto Dell’artigian, che riede a tarda notte. Dopo i sollazzi, al suo povero ostello; E fieramente mi si stringe il core, A pensar come tutto al mondo passa, E quasi orma non lascia. L’artigiano probabilmente non fa questa malinconica riflessione. Probabilmente egli, come la donna, rimembra i sollazzi del giorno, la cui memoria non è spenta e basta tuttavia a riempirgli e consolargli l’animo. Ma su quel mondo festivo e gorgogliante ancora di sensazioni dilet- tose il Poeta riversa l’angoscia fredda del suo cuore de¬ solato. E altrettanto si i)uò osservare di tutte queste sue poesie, che il Leopardi stesso definì idillii, e in cui più forte risuona la corda dell’animo commosso e vibrante della stessa vita del mondo. Citerò ancora il primo periodo della Vita solitaria che comincia; La mattutina pioggia, allor che l’ale Battendo esulta nella chiusa stanza La gallinella, ed al balcon s’afìaccia L’abitator de’ campi, e il Sol che nasce I suoi tremiili rai fra le cadenti Stille saetta, alla capanna mia Dolcemente picchiando, mi risveglia; E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo Degli augelli susurro, e l’aura fresca, E le ridenti piagge benedico; per rivolgersi subito contro le cittadine infauste mura, e per concludere; In cielo. In terra amico agh infehci alcuno E rifugio non resta altro che il ferro. MANZONI E LEOPARDI 197 Principio idillico, conclusione tragica. Tragica quanto è idillico il principio. I due termini si corrispondono e si congiungono insieme in un nesso inscindibile. Togliete al Leopardi la commozione e l’amore per la natura, per la vita, per la donna, ])er la bellezza, per la forza ma¬ gnanima, per l’ardimento generoso, per la virtù, j>er la patria, per i parenti, per gli amici, per tutto ciò che rende amabile e santa la vita, e non intenderete più lo strazio delle sue delusioni. Prescindete dal fermo con¬ vincimento, che la sua filosofìa gli ha piantato nel petto, della arbitraria soggettività degli ideali in cui l’uomo, non ancora caduto in preda al pensiero, crede provvi¬ denzialmente; chiudete gli occhi sull’amarissimo gusto con cui egli, tornando sempre ad esaminare i suoi pen¬ sieri e la vita e il proprio essere e il fato universale degli uomini, ribadisce sempre quel suo convincimento; e non potrete più sentire il tumulto con cui il suo cuore s’attacca a questa vita fallace e il tremito giovanile e sto per dire virgineo con cui tutto il suo essere si stringe al mondo, che non può, malgrado tutto, non amare. Leggete II pensiero dominante e V Aspasia, dove culmina l’arte del Poeta. Quel pensiero, cagion diletta d' infiniti affanni, è gioia ed è dolore. Quella donna, per cui egli ha vaneg¬ giato, ma il cui incanto è caduto, risorge nella sua me¬ moria e nel suo cuore superba visione, sua delizia ed erinni'. e l’angehca sua forma, sempre viva e presente, torna sempre a imprimergli a forza nel fianco lo strale, che già lo fece per tanto tempo ululare. L’atteggiamento negativo ed ostile, quando non si scompagni dal suo contrario, che gli dà vigore e signi¬ ficato, si può intendere e s’intende anche in quelle forme di fredda ironia e di affettata irrisione, che assume in qualche raro tratto dei Canti e in parecchie delle Ope¬ rette morali. Di cui si è potuto parlar con sì distratta intelligenza da vedervi lampeggiare non so che sorriso igS GIOVANNI GENTILE cattivo e sinistro: mentre chi legge ed ama Leopardi, sa che nulla è più alieno dal suo spirito. Ma questi critici sono i critici del frammento. Si fermano a una pagina delle Operette leopardiane, e non curano di guardarne l’insieme; e così si lasciano sfuggire quella vivente unità organica, da cui esse nacquero tutte ad una ad una, sotto la stessa ispirazione, nel pensiero e nel sentimento dell’autore. Così vedono Momo, i sillografi, Stratone; ma non vedono il principio e la fine del libro. E si lasciano sfuggire il significato e l’accento del mito iniziale, la Storia del genere umano, vaga immaginazione tutta per- v'asa di una commozione contenuta e pudica di un amore gentilissimo; come si lasciano sfuggire le meditazioni finali di Eleandro e di Plotino, tutte umanità ed affetto. Non vedono perciò lo spirito complessivo e centrale e quell’onda viva di universale e irresistibile simpatia, che abbraccia uomini e cose, e in sé scioglie i sentimenti più duri, più pungenti, più amari, onde l’animo del Poeta è colpito allo spettacolo del freddo vero. L’incanto della jioesia è qui, in questa unità dei due opposti motivi, che si fondono insieme e infondono nello spirito del Leopardi l’impeto della sua lirica sublime. La quale nel momento stesso che pare prostri gli animi nel più disperato dolore, li solleva, conforta ed esalta, aspergendoli di non so che affettuosa soa\ ita. Idilho e dolore. L’uomo che vive lietamente e serenamente la vita; e l’uomo che diffida di essa, e se ne apparta ed estrania; e fattosene spettatore deluso e sconsolato, sente dentro di sé un vuoto infinito. Due cuori diversi, ma non posti l’uno accanto all’altro, bensì unificati in un cuore solo. Questa tragedia, che non è ottimismo, né ])cssi- mismo, ma il commosso e serio concetto della nobiltà, del valore e della superiore letizia della vita, tremenda insieme e adorabile, angosciosa e febee : questa è 1 es¬ senza della poesia leopardiana. MANZONI E LEOPARDI 199 IV. In verità, l’origine del dolore è nel pensiero. Ma il Poeta sa, e soprattutto sperimenta in se stesso, che quel pensiero che ferisce, sana esso stesso le sue ferite. 11 pen¬ siero che sfronda l’albero della vita di tutte le sue illu¬ sioni, e specula e scopre l’infinita vanità di tutto, è lo stesso pensiero dentro eh cui quell’albero ad ora ad ora rinverdisce di nuove fronde. Non si può negare che esso faccia guerra continua alla nativa confidenza deH’uomo nella natura; ed esso certamente spegne nei cuori la fede e la speranza. Ecco, da una parte. Saffo supphchevole ; e dall’altra, il ruscello che al piede della misera donna, la quale tenta d’immergervisi e sentirne il refrigerio, sottrae disdegnoso le flessuose acque, e fugge e s’affretta per le piagge odorate. Se non che questo pensiero devastatore e distruttore della originaria unità dell’uomo con la natura, è esso stesso una nuov'a natura : è la natura di quell anima grande perché infelice, e infehee perché grande, onde il Poeta insuperbisce sopra la turba degli sciocchi. E in verità sempre che il pensiero non si guardi dal di fuori, ma si pensi, si attui, si viva, esso non è più nulla di estraneo alla vita, ma è la vita stessa. E in esso, ancorché rivolto ed affisso alle idee più dolorose e più aride, ri¬ fluisce l’onda della vita e si risveglia il palpito della gioia. Allora, ecco, il Leopardi acquista coscienza della felicità superiore in cui si purifica e rinvigorisce il suo spirito attraverso al pensiero e al canto; poiché (come egli dice) « ninna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, ossia l’altezza e nobiltà dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza » I Pens. di varia filos., V, 223. Vedi sopra pp. 132, 148-49. 200 C. 10 VANNI GENTILE .\llora egli sente che lo stesso intìnito, in cui gli è dolce naufragare, è contenuto nel suo pensiero, che lo abbraccia spaziando più oltre. Allora egli, piccolo ed esile fiore sull’arida schiena del Vesuvio sterminatore, s’inebria del profumo della sua poesia, che consola il deserto. Allora egh ritrova in sé, nel genio che nessuna forza maligna gli può strappare, nel demone divino e onnipotente che fa insieme la sua infelicità e la sua grandezza, la gioia e il fervore della vera vita; in cui, a dispetto dei ragio¬ namenti, risorgono le speranze e si riaccende l’amcre con cui gli uomini, malgrado tutte le delusioni, si riat¬ taccano alla vita e han la forza di vivere e di morire. A Porfirio che a conclusione d’un rigoroso ragionamento si vuol togliere la vita, Plotino ammonisce che « non dee piacer più, né vuoisi elegger piuttosto di essere secondo ragione un mostro, che secondo natura uomo » ». Mostro chi non cerca se non la utilità propria, e si gitta, per cosi dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano. Uomo chi l’amore di se medesimo pospone al¬ l’amore degli altri. Ma questa natura, che ci fa uomini, è proprio contraria alla ragione che ci farebbe mostri ? O non ci sono, per dir così, due ragioni: una, inferiore, che ci trarrebbe al suicidio attraverso il più sordido amore di noi medesimi, e una superiore, che ci libera dal giogo di questo amore, e ci fa amare la vita e gli uomini che ci amano ? Si cliiami ragione o poesia, certo questa non è la natura primitiva e inconsapevole, ma Tumanità che soffre ed ama e canta. Quale in notte solinga Sovra campagne inargentate ed acque. Là 've zefiro aleggia, E mille vaghi aspetti E ingannevoli obbietti 1 Operette, p. 310. MANZONI E LEOPARDI 201 Fingon l’ombre lontane Infra Tonde tranquille E rami e siepi e collinette e ville; Giunta al confin del cielo. Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno Nell’ infinito seno Scende la luna; e si scolora il mondo; Spariscon Tombre, ed una Oscurità la valle e il monte imbruna; Orba la notte resta, E cantando, con mesta melodia. L’estremo albor della fuggente luce. Che dianzi gli fu duce. Saluta il carrettier dalla sua via; Tal si dilegua, e tale Lascia l’età mortale La giovinezza. La luna è tramontata, e il carrettiere canta. La gio¬ vinezza si dilegua; ma l’uomo resta, e intona il suo canto. In questo canto, nella sua mesta melodia, è il più alto segno dello spirito del Poeta. Qui la sua poesia. VII NEL CENTENARIO DELLA MORTE DEL I-EOPARDI Conunemorazione centenaria letta alla R. Accademia Nazionale dei T .inr ei neUa seduta reale del 6 giugno 19371 e pubbUcata, oltre che ncgU Atti dell’Accademia, nella Nuova Antologia del i» lugUo dello stesso anno. Ripubblicata in Poesia e filosofia di Giacomo Leopardi (Firenze, Sansoni, 1939 )- Tra pochi giorni sarà un secolo dalla morte di Gia¬ como Leopardi. Secolo, segnatamente per 1’ Italia, pieno di grandi eventi ; storia mossa e agitata da fedi e interessi in massima parte estranei all’animo del Leopardi, anzi osteggiati e a volte irrisi da lui. Altra filosofia, altro uomo. E gli effetti sono stati così cospicui, così impor¬ tanti, anche secondo il modo di vedere del Leopardi, da riuscire un’aperta condanna delle sue convinzioni e de’ suoi giudizi storici. Secolo, si può dire, antileopar¬ diano, culminante in questa Italia, potente, imperiale, creazione audace della stessa Italia che alla fantasia gio¬ vanile del Leopardi apparve inerme, anzi di catene carche ambe le braccia, seduta in terra, negletta e sconsolata, la faccia nascosta tra le ginocchia, piangente. Eppure lungo questo secolo la fama del Leopardi è venuta crescendo; s’è dilatata nel mondo, ma in Italia ha messo radici sempre più profonde nei cuori. L’intel¬ ligenza della sua poesia, della sua anima ha acquistato d’anno in anno, e quasi giorno per giorno, di penetra¬ zione, di comprensione e di intima simpatia a mano a mano che gl’ Italiani da prima si svegliavano e in una coscienza più seria e positiva della vita e de propri do¬ veri e delle proprie forze risorgevano a dignità civile e politica. Scendevano quindi in campo contro gli oppres¬ sori e li affrontavano nei congressi, e accordavano rivo¬ luzione e forze conservatrici dimostrando maturità di accorgimento e di patriottismo da meravigliare 1 Eu¬ ropa ; e tra audacie e negoziati facevano dell’ Italia archeo- 2o6 GIOVANNI GENTILE logica, letteraria ed artistica una nazione viva, operante e presente nella storia dell’ Europa e del mondo. Intanto sentivano il bisogno di farsi un nuovo pensiero, una nuova scienza, una nuova cultura, adeguata all’altezza dell’assunto politico; e creavano un esercito nazionale; e sviluppavano, in una più attiva collaborazione alla vita economica internazionale, le loro industrie e i loro traf¬ fici; e creavano le scuole, organizzando tutto un sistema nuovo di pubblica istruzione e portando via via la luce neUe menti delle plebi abbandonate da secoli all’igno¬ ranza e alla superstizione ; e negli esperimenti di un si¬ stema politico aperto alle lotte e alle competizioni di tutte le energie individuali si venivano educando al senso e alla tecnica dello Stato; e infine, in una riscossa della coscienza nazionale che si era venuta formando negli animi più giovanili in un fermento nuovo d’idee reli¬ giose sociali c filosofiche, si trovavano pronti alla più grande guerra della storia; combattevano con grande onore, e contribuivano più d’ogni altra nazione alleata alla vittoria finale. E dopo questa prova stupenda del¬ l’antico valore, arditamente si accingevano con una pro¬ fonda rivoluzione politica e sociale a fare una nuova Itaha e una nuova Roma. Quanto cammino! E quanta vita in quella moribonda Italia, di cui parlava Leopardi nel 1818 ! Eppure, dicevo, il miracoloso progresso di quesb cento anni, lungi dall’allontanare 1’ Italia dal Leopardi, r ha portata sempre più vicino a lui, a misurare la sua grandezza. La bibliografia leopardiana è una delle più ricche tra quante se ne siano formate intorno ai maggiori poeti e pensatori itaUani, da gareggiare con la dantesca. Segno visibile del vasto interesse che ha suscitato e su¬ scita la personalità del Leopardi con i suoi scritti e con i casi della sua vita. Selva foltissima, di grandi alberi che soprastano con le loro alte cime al vento, da De San- MANZONI E LEOPARDI 207 ctis a Carducci e a Pascoli, per non citare viventi, e di fitta boscaglia pullulante per tutto, ai piedi dei grossi tronchi. Intorno al Leopardi non pure letterati, deside- sori di esattamente conoscere tutti i particolari della bio¬ grafia e dello svolgimento graduale del genio, e di risol¬ vere tutti i problemi che lo studio di tal materia fa na¬ scere; ma filosofi e storici della filosofia, poiché il Leopardi ebbe il gusto degli alti concetti speculativi, e nel suo stesso vocabolario riecheggiano detti e pensieri di dottrine celebri a cui egli, a suo modo, aderì; e insieme scienziati (antropologi e fisiologi) entrati a un tratto in sospetto che certi limiti nell’orizzonte spirituale del Poeta deri¬ vino da non so qual limite somatico; sospetto nascente da improvvisate teorie e appoggiato a improvvisate os¬ servazioni di fatto; ma fecondo tuttavia di costruzioni e interpretazioni, se oggi cadute di moda, utili tuttavia a chi voglia farsi un pieno concetto del lavoro compiuto in questo secolo intorno al Leopardi. Fortunatamente, peraltro, se ci sono state deviazioni ed eresie critiche e storture di metodi materialistici suggeriti da pigrizia intellettuale di letterati ottusi, o da presunzione pseudo¬ scientifica di cervelli rozzi e ignari dei rudimenti di qual¬ siasi serio concetto intorno ai valori dello spirito, ci sono stati pur saggi di quella critica magistrale che attraverso le forme storiche e letterarie e i conseguenti atteggiamenti della espressione artistica sa scoprire il principio profondo dell’ ispirazione, che è l’anima del poeta e 1 essenza di quell’eterna poesia che lo fa immortale. Critica che in Italia, in questo secolo, da Leopardi a noi, ha avuto esempi da fare epoca, e che hanno infatti educato nel¬ l’universale la coscienza del solo metodo che ci sia per raggiungere il poeta là dove egli e poeta. Così in questa selva della letteratura leopardiana noi non abbiamo smarrito il Poeta. Anzi, a capo di questo 208 GIOVANNI GENTILE secolo antileopardiano si può dire che egli sia stato prima scoperto, e poi veduto più e più giganteggiare come uno dei più grandi spiriti della storia del mondo, e come il creatore della più intensa poesia che si sia prodotta mai in Italia. Fu scoperto quando un nostro grande critico, che lo aveva conosciuto di persona, gentile e mansueto come era, e molto ne aveva studiato ed amato gh scritti, e acutamente investigato lo spirito che ci vive dentro, non poteva paragonarlo allo Schopenhauer senza sentire la infinita differenza tra il pessimismo amaro del filosofo tedesco e il pessimismo sui generis del poeta itahano. « Leopardi », diceva, « produce l’effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desi¬ derare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore; e non puoi accostar tigli, che non cerchi innanzi di raccogherti e purificarti, perché non abbi ad arrossire al suo cospetto. È scettico, e ti fa credente; e mentre non crede possibile un avvenire men tristo per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t’infiamma a nobili fatti. Ha così basso concetto dell’umanità, e la sua anima alta, gentile e pura l’onora e la nobilita. E se il destino gli avesse prolungata la vita infino al Quarantotto, senti che te l’avresti trovato accanto, confortatore e combattitore ». Atteggiamento contradittorio ? Lo aveva confessato il Leopardi medesimo, in quel libro in cui più freddamente si provò ad abbattere le umane illusioni, che agli occhi dell’uomo il quale si affidi allo istinto dell’anima senza indagare il mistero dell’universo, fanno la vita bella e degna di esser vissuta, ossia nelle Operette morali. Dove esce candidamente a dire « che non è fastidio della vita, non disperazione, non senso della nuUità delle cose, della vanità delle cure, della solitudine dell’uomo; non odio MANZONI E LEOPARDI 209 del mondo e di se medesimo; che possa durare assai; benché queste disposizioni dell’animo siano ragionevo¬ lissime e le lor contrarie irragionevoli. Ma contuttociò, passato un poco di tempo, mutata leggermente la dispo¬ sizione del corpo; a poco a poco, e spesse volte in un subito, per cagioni menomissime e appena possibih a notare; rilassi il gusto alla vita, nasce or questa or quella speranza nuova, e le cose umane ripigliano quella loro apparenza, e mostransi non indegne di qualche cura; non veramente all’ intelletto, ma sì, per modo di dire, al senso dell’animo ». Benedetto «senso deU’animo», che salva l’uomo dal sapiente: l’uomo che non odia e non fugge l’uomo, poiché sente di dover affermare, come fa il Leopardi : « Sono nato ad amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva », « sohto e pronto a eleg¬ gere di patire piuttosto io, che essere cagione di pati¬ mento agli altri ». Questo senso dell’animo gh fa dire : <( Se ne’ miei scritti io ricordo alcune verità dure e triste, o jier isfogo dell’animo, o per consolarmene col riso, e non per altro; io non lascio tuttavia negli stessi libri di deplorare, sconsigliare e riprendere lo studio di (juel misero e freddo vero, la cognizione del quale è fonte o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo, iniquità e disonestà di azioni, o perversità di costumi; laddove, per Io contrario, lodo ed esalto quelle opinioni, benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti, magnanimi, virtuosi, ed utili al ben comune e privato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che dànno pregio alla vita; illusioni naturali dell’animo; e infine gli errori antichi, diversi assai dagli errori barbari; i quali solamente, e non quelli, sarebbero dovuti cadere per opera della civiltà moderna e della filosofia ». Così aveva pensato fin dal 1815, quando scriveva con animo di credente il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. 14 . — Gbntilb, Manzoni e Leopardi. 210 GIOVANNI GENTILE Così continuava a pensare, da miscredente, sette anni dopo, nella canzone Alla primavera, o delle favole antiche. Non si può credere al Poeta, quando, raccogliendo il succo dell’amarissima esperienza amorosa fiorentina e as¬ saporandone il fiero gusto, rivolge .4 se stesso nel '33 quegli accenti disperati ed empi; In noi di cari inganni Non che la speme, il desiderio è spento. .... Amaro e noia La vita, altro mai nulla ; e fango è il mondo. .... Al gener nostro il fato Non donò che il morire. Ornai disprezza Te, la natura, il br\itto Poter che, ascoso, a comun danno impera, E r infinita vanità del tutto. Momento satanico, ma un solo momento: voce sì dell’anima leopardiana, ma che il lettore attento non può ascoltare se non commista in armonia profonda a voci più alte che sgorgano da polle maggiori; e che lo stesso Poeta ascolta dentro il suo petto come espressione più schietta della sua propria natura. Alla quale egli non può rinunziare, convinto che sia da fare « poco stima di quella poesia che, letta e meditata, non lascia al let¬ tore nell’animo un tal sentimento nobile, che per mez¬ z’ora gl’ impedisca di ammettere un pensier vile, e di fare un’azione indegna ». Il momento satanico ricorre spesso nel Leopardi. Ma esso è la prima e fondamentale ribellione di questa forza incoercibile che egli sente insorgere di dentro a se medesimo, di fronte e a dispetto della natura, ossia di questo universal meccanismo che regge il mondo concepito, come il Leopardi aveva appreso a concepirlo, in maniera rigorosamente materialistica: quel mondo in cui non c’ è posto per la libertà, né quindi per la virtù, né per l’immortalità; per nulla di ciò che forma l’essenza MANZONI E LEOPARDI 2 II umana dell’uomo, e gli conferisce la forza d’una fede, e la fiducia nella sua forza di contrastare alla natura, di dominarla e farne strumento di una vita spirituale sem¬ pre più ricca. Lampeggia sì da lungi allo spirito del Poeta l’im¬ magine enorme e tremenda di quella Natura disumana, che stritola e annienta l’uomo e tutte le pretese del suo audace ingegno. Si vegga, p. e., come ella gli si presenta nel Dialogo della Natura e di un Islandese: dove all’uomo che aveva fuggito quasi tutto il tempo della sua vita per cento parti la Natura e la fuggiva da ultimo nel- r interno dell’Africa, sotto la hnca equinoziale, in un luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno, ecco che gli interviene qualche cosa di simile che a Vasco di Gama nel passare il Capo di Buona Speranza; e s’im¬ batte nella stessa Natura in petto e in persona: «Vide da lontano un busto grandissimo; che da principio im¬ maginò doveva essere di pietra, e a somiglianza degli ermi colossali veduti da lui, molti anni prima neh’ isola di Pasqua. Ma fattosi jiiù da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dorso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e capelli nerissimi ; la quale guardavalo fissamente ». La Natura è infatti qui nelle parti dove si dimostra più che altrove la sua potenza. E alle molte parole con cui 1 ’ Islandese si lagna delle tribolazioni che affliggono l’uomo in questa vita a cui non egli ha chiesto di nascere, risponde breve che « la vita di quest’universo è un per¬ petuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve con¬ tinuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, ver¬ rebbe parimente in dissoluzione ». Intanto sopraggiun¬ gono « due leoni, così rifiniti e maceri dall’ inedia, che 212 GIOVANNI GENTILE appena ebbero forza di mangiarsi quell’ Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che r Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gh edificò un superbissimo mausoleo di sabbia; sotto il quale colui disseccato perfettamente, e divenuto una bella mum¬ mia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città di Europa ». Ma lo stesso tono malinconicamente beffardo della prosa dimostra con qual animo il Poeta accolga questa immagine deUa Natura. E spesso gli torna alle labbra una dichiarazione esphcita: che cioè egli si compiace d’indagare questo mistero enorme delbumverso non per addolorarsi del disperato destino deU’uomo, anzi per riderne. L’ideale deUa sua personalità è Fihppo Otto- nieri, filosofo socratico, che con occhi di lince scopre tutto il vano e il doloroso della vita, ma ne ragiona con impcrturbabUe pacatezza di savio che sta al di sopra e al di fuori della vita, e la ironizza. ^ Insomma, l’uomo Leopardi non fa la fine dell Islan¬ dese; non soggiace aUa natura, pasto dei leoni o còlto improvvisamente dalla sabbia del deserto. Guarda dal¬ l’alto e sorride, e sente la propria umanità superiore nell’ intelligenza vittoriosa e nello stesso potere di rea¬ gire al fato col sentimento. £ Bruto minore che dispregia n plebeo il quale, non valendo a cessare gli oltraggi del destino, si consola con la necessità dei danni, quasi fosse men duro un male senza riparo o non sentisse dolore chi è privo di speranza. No, Guerra mortale, eterna, o fato indegno, Teco il prode guerreggia. Di cedere inesperto. È Saffo la misera Saffo, misera e magnanima, riso luta ad emendare il crudo fallo del cieco dispensator de MANZONI E LEOPARDI 213 casi. A quel modo di emenda a cui s’induce Saffo, Leo¬ pardi, a pensarci, non potrà consentire, come sappiamo. Ma per lui resterà sempre, che al fato l’uomo non devecedere. Resterà sempre la grandezza dell’animo che col pen¬ siero si leva al di sopra del fato, intende, comprende e sorride ; Che se d'affetti Orba la vita, e di gentili errori, È notte senza stelle a mezzo il verno. Già del fato mortale a me bastante E conforto e vendetta è che su l’erba. Qui neghittoso immobile giacendo. Il mar, la terra e il cielo miro e sorrido. Grandezza eroica, a cui il petto del Poeta si allarga allo spegnersi del caldo raggio di amore di donna che fece battere un momento il suo cuore di speranza e di felicità. Ma questa eroica grandezza non basta; poco stante, nella piena maturità delle sue esperienze morali, tornata la calma dopo la tempesta della patita delusione e del sospettato scherno femminile, egli lascerà venir su dal cuore la risposta più vera che si deve al cieco dispensator dei casi. Quando, presso Portici, nel 1836, mirerà i campi cosparsi di ceneri infeconde e ricoperti d’ impietrata lava, là dove erano state liete ville e ricche messi e armenti e città famose, e ora tutto intorno una ruma involve, il suo occhio poserà sul gentile fiore della ginestra, che, quasi i danni altrui commiscrando, di dolcissimo odor manda un profumo, che il deserto consola: simbolo della sua poesia, del suo animo, che da questa spietata empia natura sa che c’ è un conforto e un riparo nella umana compagnia e nell’amore che la stringe insieme incontro al destino: Nobil natura è quella Che a sollevar s'ardisce Gli occhi mortali incontra 214 GIOVANNI GENTILE Al comun fato, e che con franca lingua, Nulla al ver detraendo. Confessa il mal che ci fu dato in sorte. E non si rivolge stoltamente contro gli uomini, ma con¬ tro la natura che sola è rea: che de’ mortali Madre è di parto e di voler matrigna. Costei chiama inimica; e incontro a questa Congiunta esser pensando. Siccome è il vero, ed ordinata in pria L'umana compagnia. Tutti fra sé confederati estima Gh uomini, e tutti abbraccia Con vero amor, porgendo Valida e pronta ed aspettando aita Negli alterni perigli e nelle angosce Della guerra comune. Oh l’alta meraviglia del Leopardi, dopo circa un lustro di sforzi fatti per affisarsi in quel concetto desolato del mondo che le meditate dottrine gli mettevano innanzi, e spogliarsi d’ogni personale sentire, e obliarsi nella spe¬ culazione dell’acerbo vero (non più acerbo del resto a chi lo gusti, poiché conosciuto, come dice lo stesso Poeta, ancor che tristo ha suoi diletti il vero) ; dopo avere scritto le Operette che sono la filosofia del Leopardi, ma sono pure un momento essenziale dello svolgimento della sua poesia; dopo avere scritto il prosaico programma della sua vita avvenire nell’epistola Al conte Carlo Pepoli (1826); dopo aver preso quel freddo bagno nella filologia italiana, che furono per lui le cure spese intorno alle Rime del Petrarca e la compilazione della Crestomazia italiana ■. oh l’alta meraviglia, quando si sentì rifluire in petto la vita ! Non che risorgesse la speranza; non che la natura gli apparisse sott’altra luce; non che si accorgesse comunque d’errore alcuno ne’ suoi filosofemi. Ma insomma. MANZONI E LEOPARDI 215 Proprii mi diede i palpiti Natura, e i dolci inganni. Sopirò in me gli affanni L’ingenita virtù ; Non l'annullàr: non vinsela Il fato e la sventura; Non con la vista impura L’ infausta verità. Dalle mie vaghe immagini So ben ch’ella discorda; 50 che natura è sorda. Che miserar non sa .... Il mondo, in ogni parte, è proprio qual egli 1 ’ ha raffi¬ gurato nelle Operette: Pur sento in me rivivere Gl’inganni aperti e noti; E de’ suoi propri moti 51 maraviglia il sen. Da te. mio cor, quest’ultimo Spirto, e l’ardor natio. Ogni conforto mio Solo da te mi vien. Saffo ha ragione quando afferma; Mancano, il sento, aH’anima Alta, gentile e pura. La sorte, la natura. Il mondo e la beltà. Saffo però ha dimenticato il suo cuore: Ma, se tu vivi, o misero. Se non concedi al fato. Non chiamerò spietato Chi lo spirar mi dà. Ecco, Tanima si calma, torna la vita con le sue attrattive, con la sua gioia; risorge la poesia. Torna al cuore del 2 i 6 GIOVANNI GENTILE Poeta Silvia, la giovinetta Silvia splendente di bellezza negli occhi ridenti e fuggitivi, lieta e pensosa; toma l’onda di beate speranze, di pensieri soavi che gli riempi¬ vano il petto, al suon della sua voce; quando questa voce gli faceva lasciare gli studi leggiadri per affacciarsi al balcone della casa paterna: Mirava il ciel sereno. Le vie dorate e gli orti, E quindi il mar da lungi, e quindi il monte. Lingua mortai non dice Ouel eh’ io sentiva in seno. E pur lo aveva detto la sua lingua, dieci anni prima, in quel capolavoro che è l’idillio scolpito nei quindici versi de L’ infinito, quando, nel fondo dell’empia ma¬ trigna, della spietata natura, aveva intravvista, sentita, amata un’altra Natura; l’immensa Natura, verso la quale dal limite stesso della prossima siepe l’anima è lanciata con un impeto di raccoglimento infuso di mi¬ stica dolcezza: interminati Spazi di là da quella, e sovrumani Silenzi, e profondissima quiete .... ove per poco Il cor non si spaura. E come il vento Odo stormir tra queste piante, io quello Infinito silenzio a questa voce Vo comparando; e mi sovvien l’eterno, E le morte stagioni, e la presente E viva, e il suon di lei. Cosi tra questa Immensità s’annega il pensier mio; E il naufragar m’ è dolce in questo mare. Di questo momento mistico del Leopardi poco s’è parlato; ed è momento di grande valore per la compren¬ sione della sua anima, che in quest’atteggiamento reli¬ gioso placa definitivamente il fiero contrasto tra la sua MANZONI E LEOPARDI 217 indomita soggettività e la realtà onnipotente e infinita, in cui quella par destinata ad infrangersi. Lo placa in una situazione idillica che, riportando l’individuo alla natura madre, infonde in lui la fiducia rinfrancatrice, di cui l’uomo ha bisogno per vivere, abbandonarsi al¬ l’azione e sentire nel proprio petto il respiro eterno e r infallibile sostegno divino del tutto. Negli idilli perciò, com’egh stesso chiamò i primi pubblicati nel ’25-26, risalenti al triennio 1819-21, e quelli posteriori, i grandi idilli che dal canto a Silvia vanno a quello del pastore errante dell’Asia, scritti tra il ’zq e il ’30, anni della più potente espansione e della lirica più piena e felice del Poeta, è la chiave di vòlta di tutta la poesia leopardiana. Quando si legge la lettera del 6 marzo 1820 al Gior¬ dani : « Poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, do¬ mandando misericordia alla Natura, la cui voce mi parve di udire dopo tanto tempo »; non si può non essere com¬ mossi da questo prorompere di così alta vena mistica la cui scaturigine evidentemente si cela nel centro vivo più remoto della personalità leopardiana. E allora s’intende l’invocazione ansiosa della can¬ zone Alla primavera: Vivi tu, vivi, o santa Natura ? Allora si ode quasi il lento respiro queto e dolce e l’ar¬ cana soave mestizia della Vita solitaria: Talor m’assido in solitaria parte, Sovra un rialto, al margine d’un lago Di taciturne piante incoronato. 2 i8 GIOVANNI GENTILE Ivi, quando il meriggio in ciel si volve. La sua tranquilla imago il sol dipinge. Ed erba o foglia non si crolla al vento; E non onda incresparsi, e non cicala Strider, né batter peima augello in ramo, Né farfalla ronzar, né voce o moto Da presso né da lunge odi né vedi. Tien quelle rive altissima quiete; Ond’ io quasi me stesso e il mondo obblio Sedendo immoto; e già mi par che sciolte Giaccian le membra mie, né spirto o senso Più le coramova, e lor quiete antica Co' silenzi del loco si confonda. Allora, infine, si scorge il tono vero del Canto del Pa¬ store, così buio e pur così luminoso, così accorato e pur così sereno, con i suoi perché disperati, e col suo funereo sigillo (è funesto a chi nasce il dì natale) e la sua alata poesia : Forse s'avess’ io l’ale Da volar su le nubi, E noverar le stelle ad una ad una, O come il tuono errar di giogo in giogo. Più felice sarei.... Poiché il pastore vede che la sua greggia è beata, quasi libera d’affanno, e che, sopra tutto, tedio non -prova, a differenza di lui, che non ha pace anche sedendo sopra l’erba, all’ombra, poiché un fastidio gl’ ingombra la mente e uno sprone lo punge di dentro e non gli lascia riposo. E ogni animale giacendo, a bell’agio, ozioso, si appaga. Vede il pastore che nel seno della natura è la felicità; e l’affanno nasce dall’opporsi a lei con l’irre¬ quieto ingegno destinato ad avvolgersi in un insolubile intrigo, in una fatica vana senza speranza. Tutta la poesia del Leopardi attinge in quel punto mistico del ritorno alla gran madre la pace e la gioia. Allora egli parla dei pensieri immensi e dolci sogni che MANZONI E LEOPARDI 219 gli ispirò sempre, nello stesso modesto giardino della casa paterna, « la vista di quel lontano mar, quei monti azzurri ». Per lui, come pel jiassero solitario, non sollazzi, né riso, né amore: ma cantare sì, come ruccellino che dalla vetta della torre antica va cantando, alla campagna, finché non muore il giorno; ed erra l’armonia per la valle, mentre Primavera d’intorno Brilla nciraria, e per li campi esulta. Si ch’a mirarla intenerisce il core. L'uccellino non si tormenta col pensiero della gio¬ vinezza che passa e della morte che s’avvicina: poiché di natura è frutto ogni sua vaghezza e in lei non è affanno : e da lei sgorga pure il suo canto; il canto che aduna nel cuore la dolcezza della primavera che fa brillare l’aria e esultare le campagne. Anche uomini di alto intelletto, come Gino Capponi, han voluto dar sulla voce al Leopardi per quel suo con¬ cetto della infehcità che cresce negli uomini in propor¬ zione della loro grandezza: ossia del loro ingegno e sa¬ pere. Come se questo stesso lamento non uscisse dalle Sacre Carte ! E gli han voluto far osservare che felice era certo egh stesso mentre componeva i suoi canti, e riusciva ad essere Leopardi. Come se non fosse questo il significato di tutta la poesia leopardiana, e la sorgente del suo irresistibile incanto ! Leopardi lo sapeva bene, e sotto la data del 30 novembre 1828 ne’ suoi Pensieri annotava: «Felicità da me provata nel tempo del com¬ porre, il miglior tempo eh’ io abbia passato in mia vita, e nel quale mi contenterei di durare finch’ io vivo ! Passar le giornate senz’accorgermene e parermi le ore cortissime, e meravigliarmi sovente io medesimo di tanta facilità di passarle ». E nell’agosto del '23 non aveva egli scritto, tra gli stessi Pensieri, che « ninna cosa mag- 220 GIOVANNI GENTILE giormente dimostra la grandezza e la potenza deU’umano intelletto.... che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza » ? Tale il suo canto; il più squisito frutto dell’operare della natura santa e onnipossente, raccolta, per dir così, a far la più alta prova del suo potere dentro il genio dell’uomo. Il quale, pertanto, in se stesso, infine, trova se stesso, scoperta che abbia la fonte della sua vita: quel divino, che ha in sé e gli colora il mondo delle beate larve, e lo solleva da questa vicenda perpetua di nascere e di morire, di fallaci promesse e di v'ane speranze, al regno immortale della vita dello spirito. E quando scopre questa sorgente, egh è veramente lui, il genio; e sente l’amore che abbellisce e conforta, e crede nella potenza e nella grandezza dell’umana intelligenza, e torna ad amare la vita nobilitata dall’ ideale. E pur con le dolenti parole suggeritegli dallo spettacolo del mondo esteriore in cui l’uomo rischia di smarrirsi, sente l’ineffabile gusto dello spirito che si ritrae in se stesso e nel sentimento del proprio valore, quale si svela al contatto di quella natura eterna, in cui è il suo principio e con cui perciò deve immedesimarsi per trovare le radici del suo proprio essere. E il naufragar m è dolce in questo mare. Qui la grandezza del Poeta; qui l’incanto della sua poesia, che i giovani amano per l’amore della giovinezza che vi spira dentro; che gh uomini maturi ed esperti della vita amano non meno per il lucido specchio che essa offre degli aspetti dolorosi dell’esistenza, attraverso i quah si deve avere il coraggio di vivere, malgrado ogni disinganno; che tutti gli uomini, piccoh e grandi, dotti o ignoranti, considerano come uno dei doni più preziosi di Dio all’umanità. Piccolo libro, in cui un gran cuore parla a tutti i cuori, e li unisce (poiché unirsi devono per sedvarsi) in un sentimento acuto della miseria inne- MANZONI E LEOPARDI 221 gabile della vita e della non meno innegabile azione dello spirito che affranca da ogni miseria e infonde la fede per cui si ha la forza di vivere. Piccolo hbro, sacro per gl’ Itahani e per tutti gli uomini, come tutti i libri in cui grandi pensieri si sono fatti semplici e chiari e perciò faciU, com’ è al passero solitario il suo perpetuo canto : anima della sua anima. Piccolo libro da leggere bensì non a brani e frammenti, ma intero, affinché non sia frainteso, dimostri tutta la sua bellezza e spieghi insieme la sua dolce virtù consolatrice e animatrice. POESIA E FILOSOFIA DEL LEOPAEDI Conferenza tenuta al Lyceum di Firenze il 6 aprile 1938 e pubblicata nel volume di letture Giacomo Leopardi a cura di J. De Blasi (Firenze. Sansoni, 1938). Ripubblicata in Poesia e filosofia di Giacomo Leopardi (Firenze, Sansoni, 1939)- A parlare della filosofia di un poeta, e di un grande poeta, o, che è lo stesso, delle relazioni del pensiero di questo poeta con la filosofia, un pover uomo, per discreto che voglia essere, si espone al rischio di toccare un tasto falso e di riuscire uggioso e molesto fin dalle prime parole. Ripugna infatti al senso poetico di cui ogni spirito ben¬ nato è più o meno riccamente dotato, questa ricerca che ha tutta l’aria d’una pretesa pedantesca, illegittima e affatto arbitraria : questa ricerca di mettere quel che pensa un poeta, sopra tutto, ripeto, se è un grande poeta, e cioè un poeta vero, quel che egli riesce a dire, ossia quello che egli sente, e sente profondamente, al paragone degh astratti schemi in cui ogni filosofia va a finire. Non già che i poeti non abbiano anch’essi la loro filosofia, un loro concetto della vita, una loro fede. Oh se 1’ hanno ! Non c’ è uomo che non ne abbia una. Anzi con la vivezza e col vigore del suo sentire la sostanza della propria vita spirituale, nessuno così fortemente come il poeta afferma la propria fede e la oppone ad ogni più meditata dottrina che si esibisca da coloro che passano per gh autorizzati interpreti della filosofia; nessuno più di lui è convinto d’avere una sua filosofia capace di sbaraghare tutte le altre. Ma le battaglie che il poeta combatte e vince, si svolgono dentro al chiuso della sua fantasia. E gh pos¬ sono bensì procurare la gioia della vittoria, ma una gioia tutta soggettiva come di chi in sogno viene a capo del suo più arduo desiderio e coglie il fiore più bello del giar¬ dino della vita. E nella storia — che giudica tutti gli 15. — Gbntilb, Manzoni e Leopardi. 226 GIOVANNI GENTILE individui e le opere loro, perché con la ragione sovrana prima o poi valuta le ragioni di ciascuno — di fronte al poeta rimane sempre il filosofo, che scopre le contrad¬ dizioni del primo, il carattere dommatico e gratuito delle sue asserzioni, l’immediatezza irrazionale della sua fede; e insomma i difetti e le debolezze del suo pensiero ; e viene così a trovarsi nella impossibilità di scorgere la grandezza della sua personalità se a misurarla non adotti un metro diverso. E che cosa di più irriverente e ottusamente inu¬ mano e brutale che accostarsi ai grandi uomini per guar¬ darli da tutti i lati, anche da queUi che lasciano scorgere i loro difetti, e non guardarli mai da quell’unico aspetto in cui rifulge la loro grandezza ? Fu detto che non c’ è grande uomo per il suo cameriere; e potrebbe parere che in fine il filosofo sia, per tale rispetto, il cameriere del poeta; gli spazzola i vestiti, gli allaccia le scarpe, ma non lo guarda mai in faccia. Oh la servitù numerosa che sta intorno al poeta ! C’ è il filosofo; ma c’ è anche l’antropologo e lo psico¬ logo ; c’ è lo storico puro e c’ è il filologo ; schiere e schiere di scienziati, servitori dalle più vistose livree; i quah, per quel garbo e quella riservatezza che sono tra i requi¬ siti più elementari del mestiere che esercitano, non al¬ zano mai gli occhi verso il padrone, per entrargli nel¬ l’anima e scrutarne la passione, intenderla, sentirla, parte¬ ciparvi. Certo non si permetterebbero mai tanta confidenza! Nessuna mera^'iglia ]ioi se il poeta guarda dall’alto tutto questo servitorame, e sta sulle sue, per non con¬ fondersi, per salvare se stesso e \fivere la sua vita supe¬ riore, di cui è geloso come del suo tesoro. Talora può concedere un sorriso di umana indulgenza o signorile degnazione; ma il più spesso guarda con que’ suoi acuti occhi che penetrano negh ascosi pensieri — così labo¬ riosi, così opachi, così grevi; — e negh angoh della bocca il sorriso diventa ironia, sarcasmo. E allora la povera ÌIANZONl E LEOPARDI 227 filosofia, anche pel poeta, come per tutti gli uomini che la filosofia assedia, assilla e infastidisce con le sue inces¬ santi inchieste e pretese, diventa materia di satira. Allora, il Leopardi esce in un’osservazione di gusto volteriano, come questa che è nello Zibaldone, sotto la data del 7 novembre 1820: «L’apice del sapere umano e della filosofia consiste a conoscere la di lei propria inutilità se l’uomo fosse ancora qual era da principio; consiste a correggere i danni ch’essa medesima ha fatti, a rimetter l’uomo in quella condizione in cui sarebbe sempre stato s’ella non fosse mai nata. E perciò solo è utile la som¬ mità della filosofia, perché ci libera e disinganna dalla filosofia ». Osservazione che ama ripetere il 21 maggio 1823, dandola come un «suo principio»: «La sommità della sapienza consiste nel conoscere la propria inutihtà, e come gli uomini sarebbero già sapientissimi s’ella non fosse mai nata: e la sua maggiore utilità, o almeno il suo primo e proprio scopo, nel ricondurre l’intelletto umano (s’ è possibile) appresso a poco a quello stato in cui era prima del di lei nascimento ». E in assai più nitida forma tornerà a ribadirla infine come uno de’ capisaldi delle sue più profonde convinzioni, nel ’zq, nel Dialogo di Timandro e di Eleandro: «L’ultima conclusione che si ricava dalla filosofia vera e perfetta, si è, che non bi¬ sogna filosofare ». Nei Paralipomeni (IV’, 14) degli ultimi anni, anzi degli ultimi giorni della sua vita, più amaramente dirà; Non è filosofia se non un'arte La qual di ciò che l'uomo è risoluto Di creder circa a qualsivoglia parte. Come meglio alla fin 1 ’ è conceduto. Le ragioni assegnando empie le carte O le orecchie talor per instituto Con più d'ingegno o men, giusta il potere Che il maestro o l'autor si trova avere. 228 GIOVANNI GENTILE Eppure, s’ingannerebbe sul vero pensiero del Leo¬ pardi chi si limitasse a leggere questa sola ottava dei Paralipomeni, come chi si diverte a ripetere col Petrarca. Povera e nuda vai filosofia, dimenticando o ignorando che il Petrarca continua; Dice la turba al vii guadagno intesa. Dopo l’ottava che ho letta, il Leopardi infatti si ripiglia nella seguente, e precisa, compiendolo, il pen- sier suo in questo modo: Quella filosofia dico che impera Nel secol nostro senza guerra alcuna, E che con guerra più o men leggera Ebbe negli altri non minor fortuna, Fuor nel prossimo a questo, ove, se intera La mia mente oso dir, portò ciascuna Facoltà nostra a quelle cime il passo Onde fosto inchinar 1 ’ è forza al basso. La filosofia, dunque, che il Leopardi schernisce è quella teologica, come allora si diceva, dommatica, spiritua¬ listica; la filosofia della Restaurazione e del Romanti¬ cismo. La filosofia imperante al suo tempo: non ogni filosofia. Anzi la filosofia imperante, tutta ottimistica, presuntuosa, intollerabile alla mentalità leopardiana per¬ ché in contrasto coi fatti e con le necessità di ogni li¬ bera mente, proveniente, come pur quivi si dice, da quella Forma di ragionar diritta e sana Ch’a priori in iscola ancor s'appella, Appo cui ciascun’altra oggi par vana. La qual per certo alcun principio pone E tutto l'altro poi a quel piega e compone; cotesta filosofia non è satireggiata qui propriamente dalla poesia, ma dalla filosofia stessa, o, se si vuole, da un’altra filosofia. Si tratta deUa filosofia falsa che è com¬ battuta e debellata dalla vera: ossia da quella che all’au¬ tore par vera. Neanche si può dire quel che dice il Man- MANZONI E LEOPARDI 229 zoni degli avversari della filosofia respinta in tutte le sue forme e in generale, quando osserva che anch’essi, questi avversari della filosofia, senza saperlo, hanno una loro filosofia, servitori senza livrea. Il Leopardi sa di avere la sua filosofia; anzi, per cominciare ad intenderci, egli propriamente professa di averne due. Dico cU più: senza r intelligenza di questa sua duphce filosofia si rischia di fare, a proposito del Leopardi, di quella esegesi filo¬ sofica, ov\’ero sia di quella filosofia, che s’ è soliti fare, e che s’ è sempre fatta fin dal tempo del Leopardi; una filosofia infarcita di luoghi comuni e di massiccia pedan¬ teria: filosofia da camerieri che allacciano le scarpe e non guardano in faccia. Con la filosofia cosiffatta va a braccetto una critica che si chiama infatti filosofica, presuntuosa non meno, tutta chiusa alla intelligenza dell’anima del Poeta e però della sua poesia. La quale critica io mi permetto di con¬ dannare per una ragione di metodo, che ritengo fonda- mentale. Ed è questa: che l’essenza della poesia non è nel pensiero del poeta, ma nel sentimento che il poeta ha del suo pensiero: non è nel mondo che egh vede, ma negh occhi con cui lo vede e lo accoglie, lo fa vibrare e vivere nel suo interno. Fuori del quale ogni realtà, sen¬ sibile o ideale, è semphce astrattezza inafferrabile. Lì, nel trepido moto dell’ intimo sentire, in cui il mondo ha il suo centro di vita, è l’attuahtà di quanto si vede o si pensa, o si può vedere e pensare; e lì è la sorgente della poesia. Perciò una critica che innanzi alle Operette morali si ferma allo «spirito angusto, retrivo e reazio¬ nario », cioè alle idee negative che vi spaziano dentro, e per ciò non riesce a scorgere quanto v’ è di umano e cioè di positivo ed eterno, è critica radicalmente sbaghata, che scambia le ombre con i corpi saldi. Poiché le idee, una volta astratte dall’atteggiamento che l’anima assume verso di esse, ossia dal concreto atto vitale a cui esse 230 GIOVANNI GENTILE partecipano e da cui traggono il loro significato vivente, sono pallide ombre che il critico si fingerà astrattamente, ma non {lotrà mai abbracciare al suo petto. Nel caso del Leopardi poi c’ è di più; perché, come ho accennato, se egli ha una filosofia tutta negativa, natu- rahstica e materialistica, che gli sembra inoppugnabile e che fa materia di assiduo pensare e ispirazione altresì del suo canto, egli ha la filosofia di cotesta sua filosofia. E in questa filosofia superiore che è negazione della ne¬ gazione, e che afferma perciò, come abbiamo udito da Eleandro, ultima conclusione della filosofia v'era e per¬ fetta esser quella, che non bisogna filosofare; in questa filosofia superiore è il senso serio e profondo di quella che a primo aspetto ci è parsa condanna beffarda della filosofia, giudicata inutile anzi dannosa. Lo stesso Leopardi, teorizzando questa filosofia su¬ periore, in cui fa consistere la cima della sapienza, la chiama, nello Zibaldone (7 giugno 1820), «ultrafilosofia»: una filosofia « che conoscendo l’intero e l’intimo delle cose, ci ravvicini alla natura » : filosofia naturale, spon¬ tanea, primitiva, barbara; più che alle origini, si trova nella maturità della intelhgenza umana. Sentiamo da capo Eleandro, che nel suo stesso nome vuol essere 1 ’ in¬ terprete della filosofia leopardiana contro la pretensiosa filosofia ottimistica alla moda di Timandro: «S’ingan¬ nano grandemente », egli dice, « quelli che dicono e pre¬ dicano che la perfezione dell’uomo consiste nella cono¬ scenza del vero, e tutti i suoi mali provengono dalle opinioni false e dalla ignoranza, e che il genere umano allora finalmente sarà febee, quando ciascuno o i più degli uomini conosceranno il vero, e a norma di quello solo comporranno e governeranno la loro vita. E queste cose le dicono poco meno che tutti i filosofi antichi e moderni ». Timandro ha concesso ad Eleandro che tutti MANZONI E LEOPARDI 231 sono infelici; gli ha concesso la necessità della nostra miseria, e la vanità della vita, e l’imbecillità e picco¬ lezza della specie umana, e la naturale malvagità degli uomini; gli ha concesso che in queste verità si assommi la sostanza di tutta la filosofia; ma deplora egh che tali verità vengano divulgate col solo frutto di spogliare gli uomini della stima di se medesimi («primo fondamento della vita onesta, della utile, della gloriosa ») e distorh dal procurare il loro bene. — Ma dunque, ribatte Ele- andro, « quelle verità che sono la sostanza di tutta la filosofia, si debbono occultare alla maggior parte degli uomini; e credo che facilmente consentireste che deb¬ bano essere ignorate o dimenticate da tutti: perché sa¬ pute, e ritenute nell’animo, non possono altro che nuo¬ cere. 11 che è quanto dire che la filosofia si debba estir¬ pare dal mondo ». Dunque, non bisogna filosofare, come s’ è detto. Dunque, incalza Eleandro, « la filosofia primieramente è inutile, perché a questo effetto di non filosofare non fa di bisogno di essere filosofo; secondariamente è dan¬ nosissima, perché cjuella ultima conclusione non vi s im¬ para se non alle proprie spese, e imparata che sia, non si può mettere in opera; non essendo in arbitrio degli uomini dimenticare le verità conosciute, e dcponenclosi più facilmente qualunque altro abito che quello di filosofare ». Non si può mettere in opera. Il che significa che rultrafilosofia — che è la conclusione perfetta e perciò la vera filosofia — non estirpa e distrugge l’altra, falsa o insufficiente. La quale, buona o cattiva che sia, è quella che è: e, una volta piantata nel cervello dell’uomo, vi resta confitta incrollabilmente, anche suo malgrado, quantunque insieme con essa e al disopra di essa ci sia una verità certamente più umana e degna dell’uomo, diretta a ricostruire quel che la prima ha demolito. 232 GIOVANNI GENTILE Verità ? Se per verità s’intende solamente quel che si conosce per mezzo deU’esperienza e di quello schietto ragionare che s’appoggia sempre ai fatti osservati, questa della filosofia superiore non è verità, ma esigenza del¬ l’animo, e voce misteriosa della più profonda natura, che la filosofia più tenace e più pervicace non riuscirà mai a spegnere. Ma se verità è la mèta raggiunta filoso¬ fando, questa è la verità assoluta, perché messaci innanzi dalla stessa filosofia quando sia riuscita ad elevarsi fino alla sommità della sapienza. Dove, volendo pur non contraddire alle verità via via accertate e sempre più strettamente connesse e saldate insieme in irrepugnabile sistema, bisognerà sì rassegnarsi a dire errori in sem¬ bianza di verità, illusioni, fantasmi, tutte quelle altre verità che come tali si rappresentano all’uomo il quale a quella sommità sia pervenuto; e quindi veda rivivere il mondo nella pienezza rigogliosa della sua vita primi¬ tiva, felice, ridente, soffusa di una divina aura di giovi¬ nezza ignara e fidente. L’uomo Leopardi non può non filosofare; non può non passare attraverso la prima filo¬ sofia; ma non può né anche non giungere infine alla se¬ conda e superiore. Dove egli ritrova tutto quello che ha perduto. Lo ritrova, s’intende, com’ è possibile soltanto dopo averlo perduto; poiché dimenticare quel che ha saputo e sa, non potrà mai ; a quel modo che può tornar fanciullo un uomo che ha vissuto e sofferto tutte le delusioni e le amarezze del mondo, e può riacquistare il gusto della virtù chi abbia una volta bevuto al calice del bene e del male. Chi distingue nel pessimismo leopardiano due fasi o forme, la prima di un pessimismo storico in cui tutto il male è frutto dell’ « irrequieto ingegno » e dello « scel¬ lerato ardimento » degli uomini contro gl’ inermi regni MANZONI E LEOPARDI 233 della saggia natura (di cui si parla nell’ Inno ai Patriarchi), e l’altra di un pessimismo cosmico che fa gli stessi uomini vittime incolpevoli della immane natura, si lascia sfug¬ gire l’unità fondamentale dello spirito del Poeta, dov’ è, ripeto, il segreto della sua poesia; di quella dolcezza che ci suona dentro alla lettura dei canti dal primo all’ultimo, e in forma più palese e più sistematicamente determinata, almeno nell’ intenzione dello scrittore, nelle Operette mo¬ rali: dolcezza che vince, per così dire, tutta l’amarezza che negli uni e nelle altre si riversa nelle più varie forme dell’anima di quest’uomo, che fu certamente tanto grande quanto infelice, e seppe accogliere nella vasta onda della sua poesia tutto il dolore del mondo, ma non per avvol¬ gere il mondo stesso nella tenebra della disperazione, anzi per illuminarlo coi raggi d’una indomata fede nella vita con i suoi ideali e con i suoi entusiasmi. La verità è quella che ci viene apertamente attestata nello stesso disegno delle Operette. Le quali cominciano col mito delle origini della umanità governate dall’amore e finiscono nella conclusione di Eleandro : « Se ne’ miei scritti io ricordo alcune verità dure e triste, o per isfogo dell’animo, o per consolarmene col riso, e non per altro [e dunque egli ha sfogato, e s’è consolato e ora può parlare con animo pacato e sereno], io non lascio tuttavia negli stessi libri di deplorare, sconsigliare e riprendere lo studio di quel misero e freddo vero, la cognizione del quale è fonte o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo, iniquità e disonestà di azioni, e perversità di costumi: laddove, per lo contrario, lodo ed esalto quelle opinioni, benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti, magnanimi, virtuosi, ed utili al ben comune e pri¬ vato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che dànno pregio alla vita; le illusioni naturali dell’animo; e in fine gli errori antichi, diversi assai dagli errori barbari. 234 GIOVANNI GENTILE i quali solamente, e non quelli, sarebbero dovuti cadere per opera della civiltà moderna e della filosofia ». E più tardi l’autore aggiungerà il Dialogo di Plotino e di Por¬ firio, dove l’accento torna sull’amore come sovrana legge della vita e rintuzza la volontà suicida dell’egoista giunto al fondo della disperazione della sua vita senz’amore. Prima parola ed ultima, amore. Quella stessa che risuona in fondo ai Canti, nella Ginestra. E contraddice certa¬ mente al freddo vero dell’ Epistola al Popoli e dello Zi¬ baldone, e delle Operette e dei Pensieri e dei Paralipo¬ meni e dei Nuovi credenti e insomma a tutto il contenuto prosaico della poesia leopardiana; voglio dire a tutto quel sistema di filosofia che era, nel vocabolario del Leo¬ pardi, la verità in opposizione agli errori: a tutto il com¬ plesso degli insegnamenti di quella filosofia secolo XVIII che, per altro, negli stessi Paralipomeni, dove più espres¬ samente essa viene esaltata, non impedisce al Leopardi di uscire in quel famoso grido del cuore (V, 47): Bella virtù, qualor di te s’awede. Come per lieto avvenimento esulta Lo spirto mio. Cotesta filosofia, non occorre esporla. Tutti la cono¬ scono. E quella concezione del mondo, che giustifica un empirismo assoluto. Lo spirito vuoto; e tutto quello che in esso può mai trovarsi, un derivato meccanico dal¬ l’esterno attraverso i sensi. Quindi lo stesso spirito, il quale da chi tenga fermo al concetto delle sue esigenze imprescindibili, non può non raffigurarsi dotato di liberta, e quindi appartenente a quel mondo dei valori per cui è possibile un pensare logico che sia vero in opposizione al falso, o un volere buono in contrasto col malvagio, e un’arte creatrice di bellezza che si libri nel puro aere ideale e sovrasti alla miseria di tutte le cose brutte; lo stesso spirito, dico, tratto a sentirsi, nel vuoto assoluto MANZONI K LliOPAltm 235 che si trova dentro, nulla: assoluto nulla, in cui libertà e verità e virtù e bellezza non possono essere, in fondo, altro che vane larve e falsi miraggi di un’ immaginazione ingenua e fanciullesca. E il tutto è natura: cioè questa realtà che si rappresenta a un tratto tutta spiegata ncUo spazio e nel tempo, materiale, risultante da infinite parti e particelle che si condizionano a vicenda in guisa che ciascuna sia 0 si muova in conseguenza di tutte le altre; in un meccanismo universale, dove tutto quel che accade, è fatale di una necessità che schiaccia e stritola ogni vana pretesa dell’uomo che si ])rovi a mutare il corso del destino. Tutto. Anche il sentimento che sboccia nel cuore degli uomini, e che soltanto l’irriflessione e l’igno¬ ranza ci possono far giudicare buono o cattivo; anche il giudizio con cui ci s’illude di distinguere il vero dal falso. Anche la volontà che non sceglie, come si favo¬ leggia, tra bene o male, ma scoppia in un senso o nel¬ l’altro con la stessa cieca necessità del fulmine nelle tempeste della natura. La natura dunque è tutto, e l’uomo nulla. La natura, perché meccanica, incomprensibile, opaca, ripugnante a ogni razionalità (perché la ragione è discriminazione, scelta, libertà). Un mistero. Così dice cotesta filosofia, come se tutto questo, che essa dice con tanta sicurezza, fosse possibile; come se cioè fosse possibile un mondo in cui, se non altro, la ve¬ rità sia una parola vana, e ci sia nondimeno posto per l’uomo che, in mezzo a questo universale meccanismo, nel mistero di questa tenebra profonda e per definizione invincibile, abbia pure il diritto di affermare che la ve¬ rità sia proprio quella che egli asserisce ! Come se fosse possi¬ bile salvare una verità qualsiasi dal naufragio d’ogni verità. Filosofia dunque essenzialmente contradditoria, che nei filosofi empiristi, naturalisti, materialisti, tipo se- 236 GIOVANNI GENTILE colo XVIII, è ignara di questa sua immanente contrad¬ dizione, tra la ragione che si nega e la ragione che per negarsi rivendica di fatto il proprio potere e valore. Filosofia accettata dal Leopardi, ma con un’anima che troppo sente le conseguenze dolorose di essa e troppo è naturalmente dotata di quella forza con cui lo spirito reagisce ai hmiti che si oppongono alla sua libertà, e quindi al dolore, per non aver coscienza di tale contraddizione. E questa coscienza è in lui acutissima. L’uomo, pertanto, che dovrebbe prostrarsi di fronte alla natura nel senso angoscioso del proprio niente, non piega, invece, non s’accascia, non rinunzia alle sue verità, anche se bat¬ tezzate fantasmi. Il dolore, attraverso la potente reazione di tutto il suo spirito nel senso gagliardo e tenace con cui l’apprende e lo ferma nel cristallo della sua divina fantasia, si trasfigura: non è più il limite della sua forza e della sua libertà; è poesia, cioè umanità; è grandezza umana, trionfo della potenza creatrice, che è Ubera e infinita potenza. Qui l’anima del Leopardi, qui il fascino deUa sua poesia. La quale non trae la sua ispirazione centrale dall’astratto concetto di quel crudo materialismo, che annienta l’uomo e fiacca perciò ogni velleità di vivere a proprio modo, a norma de’ propri ideaU, in un mondo qual egU perciò lo vagheggi, liberamente, ma da questo senso profondo, or cupo e straziante, or placato e sereno, che gli \aene dalla sua « ultrafilosofia », dal bisogno di respingere come antiumana e contradditoria alla incoer¬ cibile natura dell’uomo cotesta filosofia negativa e sof¬ focante. Ora è Bruto minore, nudo di speranza, ma prode, di cedere inesperti), neUa sua guerra mortale contro il fato indegno, in atto di sfida magnanima contro il De¬ stino, che egU vince, violento irrompendo nel Tar¬ taro: MANZONI E LEOPARDI 237 e la tiranna Tua destra, allor che vincitrice il grava. Indomito scrollando si pompeggia. Quando nell’alto lato L’amaro ferro intride, E maligno alle nere ombre sorride. Ora è la misera Saffo, grave ospite di natura, estranea alla infinita beltà di questa, consapevole del prode ingegno che pur le venne in sorte assegnato, delle proprie virili imprese, del dotto canto, della virtù insomma che può vantare; ed ecco, è risoluta di spargere a terra il velo indegno ricevuto da natura, primo principio della sua infehcità; e morire, ed emendare così «il crudo fallo del cieco dispensator de’ casi ». Ora è il Poeta stesso, che invoca la morte hberatrice; Ma certo troverai, qual si sia l’ora Che tu le penne al mio pregar dispieghi. Erta la fronte, armato, E renitente al fato. La man che flagellando si colora Nel mio sangue innocente Non ricolmar di lode. Non benedir, com’usa Per antica viltà l’umana gente; Ogni vana speranza onde consola Sé coi fanciulli il mondo. Ogni conforto stolto Gittar da me. O che, stanco di sperare e disperare, sente in sé spento anche il desiderio, e vuol acquetarsi nell’ultima dispera¬ zione e cliiudersi in un superbo disdegno di se medesimo, della natura e di questa « infinita vanità del tutto » ; nel disprezzo del « brutto poter che, ascoso, a comun danno impera ». Ora invece, il Poeta s’accosta a questa Natura mi¬ steriosa, arcana, e si scioglie in un mistico sentimento 238 GIOVANNI GENTILE della sua vita infinita e divina. Giacché si sa che il na¬ turalismo è stretto parente della mistica, che ugualmente oppone la realtà all’uomo al punto da non lasciargli più modo di distinguersene e spingerlo perciò al desiderio d’immergersi e immedesimarsi col tutto infinito che gli è davanti e lo attrae. E allora il Leopardi ricompone il suo volto dal ghigno della ribellione, e scioglie il suo dolore, ossia quella sua soggettività solitaria e disperata di uomo che, perduta la giovinezza, vede intorno a sé il deserto e il buio della sera e deH’orrida vecchiezza, nella languida consolazione degli Idilli: de l’Infinito, dove il poeta non canta più il suo dolore, ma il dolce gusto dell’eterno: Co.sì tra questa Immensità s’annega il pensier mio; E il naufragar m’ è dolce in questo mare; de La sera del dì di festa, dove il cuore si stringe A pensar come tutto al mondo passa E quasi orma non lascia; e il suono delle umane glorie e degl’ imperi più famosi cede come il canto dell’artigiano che riede a tarda notte al suo povero ostello poiché la festa è finita: Tutto è pace e silenzio, e tutto posa Il mondo; e risvegha nella memoria del poeta una immagine ac¬ corante insieme e viva divenutagli familiare: ed alla tarda notte Un canto che s’udia per li .sentieri Lontanando morire a poco a poco...; de La vita solitaria, dove « l’altissima quiete » del me¬ riggio presso all’ immoto specchio del lago di taciturne piante incoronato gli fa obliare se stesso e il mondo: MANZONI E LEOPARDI 239 e già mi par che sciolte Giaccian le membra mie, né spirto o senso Più le commova, e lor quiete antica Co’ silenzi del loco si confonda. Estasi; estasi mistica che fa risalire dal petto il tre¬ pido grido dell’angoscia religiosa, che echeggia nel canto Alla primavera, 0 delle favole antiche: Vivi tu, vivi, o santa Natura ? e quello anche ])iù antico della stupenda lettera al Gior¬ dani del marzo 1821, che convien rileggere: «Poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegharono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla Natura, la cui voce mi parve di udire dopo tanto tempo ». A questa religione, da cui la filosofia inferiore allon¬ tana, riconduce quella superiore, la ultrafilosofia. Quando il Leopardi annota nello Zibaldone (1° die. 1820) che « la filosofia.... s’ ha per capitai nemica della Religione, ed è vero », egli parla (com’ è evidente dal seguito della sua nota) della filosofia inferiore. Egli stesso ha il pensiero a una diversa filosofia quando, sotto la data del 5 otto¬ bre 1821, segna cjuesto pensiero profondo: «1 tedeschi si strisciano sempre intorno e appiedi alla verità; di rado l’afferrano con mano robusta: la seguono indefes¬ samente per tutti gli andirivieni di questo laberinto della natura, mentre l’uomo caldo di entusiasmo, di sen¬ timento, di fantasia, di genio, e fino di grandi illusioni, situato su di una eminenza, scorge d’un’occhiata tutto il laberinto, e la verità che sebben fuggente non se gli 240 GIOVANNI GENTILE può nascondere ». La mano robusta dunque non si con¬ tenta della ragione, ma vuole anche cuore, fede, natura o « senso dell’animo », genio ; e cioè, non sa che farsi della piccola ragione, poiché ha bisogno della grande. La quale non s’illude di aver spiegato tutto quando ha spiegato la natura, e non ha spiegato e si mette in condizioni di non poter più spiegare l’uomo, e deve rassegnarsi a dire errori quelle verità che sono fondamento alla \'ita umana. L’uomo, che è poi colui che si propone il pro¬ blema della natura, e senza del quale {pertanto il pro¬ blema stesso non sorgerebbe mai. L’uomo, che quella mezza filosofia della ragione piccola rinserra e schiaccia nel meccanismo della natura e condanna alla schiavitù del nulla, ma che risorge in tutta la sua libertà e nel suo valore infinito appena la grande ragione gh faccia sentire la sua grandezza nella sua stessa infehcità: « Niuna cosa » infatti, come si legge nello Zibaldone (12 agosto 1823), « maggiormente dimostra la grandezza e la po¬ tenza dell’umano intelletto.... che il poter l’uomo co¬ noscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza » ; e provare la gioia del comporre, del cantare, del pensare, del sentire ! L’infehcità, essa stessa, poiché sentita, intesa, espressa, è grandezza, eccellenza. E perciò l’uomo non soggiace alla natura, e può non temere la morte, e può, come la ginestra, consolare il deserto col profumo del suo divino alito spirituale. Perciò infine il poeta c’ insegna, in una forma lapidaria che fa parere il suo detto quasi proverbio, che « nessun maggior segno d’essere poco filosofo e poco savio, che voler savia e filosofica tutta la vita » (Pens., n. 27). Verità infatti che merita di passare in proverbio tra i filosofi. E pel Leopardi vuol dire che nella vita non c’ è soltanto la filosofia : c’ è altro ancora, che è poi sempre filosofia. La vera però, che afferra la verità con mano robusta, non quella falsa che sola par vera all’angusto MANZONI E LEOPARDI 241 intelletto del filosofo chiuso nel bozzolo del suo intel¬ lettualismo. La quale filosofia, si ponga mente, una volta, come s’è veduto, il Poeta la chiama ultrafilosofia; ma non è poi altro propriamente che la sua personalità, il suo modo di vedere e di sentire la vita, quell’ingenita virtù che prorompe nel Risorgimento, quando l’anima si ri¬ svegliò e rivide meravigliata salire su dal profondo i palpiti naturali, i dolci inganni, la speranza, e il senti¬ mento della natura (« Meco ritorna a vivere, La piaggia, il bosco, il monte; Parla al mio core il fonte. Meco fa¬ vella il mar ») : quella ingenita virtù, che gli affanni po¬ terono sopire; Non l’annullàr: non vinsela Il fato e la sventura; Non con la vista impura L’infausta verità. La virtù da cui sgorga la poesia; e che è, io dico, la stessa poesia, depurata dalle forme in cui il pensiero la determina e attua. Giacché io non vorrei che nelle parole, nelle formule, nei concreti pensieri, come sistematica- mente si possono comporre ad unità nelle esposizioni che l’autore non fece delle sue idee, e che, sempre a fatica e non senza arbitrarie glosse, continuano a imbandirci quei camerieri del Leopardi che sono i suoi interpreti, pronti a sobbarcarsi a scriver loro sulla filosofia del Leo¬ pardi i volumi che questi non pensò mai di scrivere; non vorrei, dico, si ricercasse una vera e formata filosofia come opera riflessa e logicamente costruita su’ suoi fon¬ damentali convincimenti e orientamenti ’ Mi perdoni la grande e austera ombra del Poeta questa parola cara oggi a certi spiriti spigoUsti e vanitosi, che ogni giorno che il Padre manda in terra, suonano a stormo per adunar gente e catechiz¬ zarla tra un sorriso mellifluo e un ohibò di pelosa carità, e disporla a cercare con essi l’orientamento che essi non riescono mai a trovare. 16 . — G-BNTlLE, Xtnnznni <• heopardi. 242 GIOVANNI GKNTILii No; le parole, i pensieri più o meno frammentari e sparsi, le sentenze assai spesso felicemente formulate non possono essere pel critico altro che accenni, spie dell’anima del Poeta. La cui individualità è caratteriz¬ zata e, propriamente, individuata da un certo atteg¬ giamento, che è la concreta filosofia dell'uomo: quella che, conferendo all’uomo un carattere, non ci spiega tanto le sue parole, spesso espressioni di cose pensate e non sentite, ma le azioni in cui l’uomo opera come sente nel suo più intimo essere; là dove egli, arrivi o no ad averne coscienza in un sistema chiaro e bene organato di idee, è quello che è : quello che l’uomo nella sua singo¬ lare e inconfondibile individualità si mamfesta e si fa conoscere non per quel che dice ma per il modo in cui lo dice, non pel contenuto delle sue parole ma pel colore che esse hanno sulla sua bocca, per l’accento con cui la sua anima vi suona dentro. Stile, essenza della poesia d’ogni uomo. Sicché, infine, a parlare degnamente della filosofia del Leopardi, non bisogna ridursi alla parte del cameriere. Conviene guardare il Poeta negh occhi, dove la pupilla trema della commozione segreta: ascoltare il suo canto, dove la sua filosofia è la sua stessa poesia.
Monday, March 7, 2022
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