RAGIONAMENTO IH FRA cosmo BÀRTOLI E GIOYAN BATISTA GELU SOPRA LE DIFFICOLTÀ DI NEHERE IN REGOLE UL NOSTRA UNCSVA. 25 J AL MOLTO REVERENDO MESSER PIERFRANCESCO 6IAHBULLARI amico SUO canssuno GIOVAN BATISTA GELLI. Da poi che voi volete pure, messer Pier Francesco mio onoratissimo, che io vi racconti il ragionamento stato tra messer Cosimo Bartoli ^ e me quello stesso giorno che voi novamente fusto rieletto nel numero di quegli uomini che debbono riordinare e ridurre a regola la nostra lingua fioren- tina; ed, a gli amici non si può né debbo negare cosa alcuna che giusta sia, mi sono risoluto in tutto porlo in iscritto, ma semplice e puramente come e' nacque allora in fra noi , e a guisa pure di dialogo, a cagione che e la cosa sia meglio intesa, e si fugga il lungo fastìdio di quella tanto noiosa re- plica: disse egli, e risposi io. E perchè voi sapete come noi altri la occasione in su che egli è nato , senza replìcarvela ora altrimenti, dico solamente che usciti de la Accademia accompagnando messer Cosimo a casa sua, sopraggiuntovi da la sera, e desiderando fuggire quella crudezza de Farla che comunemente apporta la notte, passammo in casa, e appressò ne lo scrittojo. Dove ragionando di varie cose, e eadendo, non so in che modo, in su quello che si erd il di fatto ne l'Accademia, voltatosi messer Cosimo a me, riguarda- tomi alquanto, cominciò sorridendo a dirmi cosi : BariolL Io ho bene assai chiaramente conosciuto oggi, GeUo mio caro, esser sommamente vero quanto disse il ' Cosimo Bartoli , contemporaneo del Gelli , fu uomo di molta dottrina e di molta fama a' suoi tempi. Fu ambasciatore per Cosimo I alla Repubblica di Venena. 1a c^ere die lasciò son degne di escer tenute, pia che non si fa, in pregio. 292 mAGIONAMBNTO INTORNO ALLA UNGOA. diyinìssimo nostro Dante in persona di Adamo nel XKYI del Paradiso: Che nullo effetto mai razionabile, Per lo piacere uman , cbe rinovella Seguendo il cielo, fu sempre durabile. Gonciossiach' io ho veduto dispiacerti oggi si fattamente ciò che Fanno passato tanto ti piacque, che con ogni tao stu- dio e ingegno hai pur fatto quasi che forza di non esser di nuovo eletto in quel piccol numero e scelto, che debbo ordinare e formare le regole di questa lingua ; non per vie- tare o tórre ad alcuno la libertà e la facoltà di parlare e di scrivere a senno suo, ma solo perchè, essendoci alcuni Accademici assai differenti ne la pronunzia e ne la seri tia- ra , chi vorrà pure apprendere la vera e natia lingua fioren- tina, abbia almanco dove ricorrere a vedere il modo e la forma de V una e de V altra cosa comunemente iisata in Fi- renze. Il che nascendo pur da sincerità di mente e da de- sio di giovare altrui, non può essere giustamente se non lo- dato. E perchè le «ose degne di loda si debbon sempre far volentieri, non so io veder la cagione che ti abbia fatto cosi fuggire una impresa tanto onorata. Ricordandomi^ averti sentito più volte dire, che tu porti si grande amore a questo nostro parlare, il quale, quando egli è favellato puro e senza mescuglio di forestiero ne la nostra pronunzia propria, ti pare si bello, che tu non puoi in maniera alcuna credere o ima- ginarti che e' fusse più beilo udire o Cesare o Cicerone o qoal altro Romano si sia , che alcuni di veri e nobili citta- dini di Firenze, i quali per la loro grandezza abbino avuto il più del tempo a trattare di cose gravi , e a mescolarsi poco col volgo, che ha lingua molto più bassa e parole tìIì e plebee : dove, per V opposi to, costoro hanno parole scelte e fa- cili, che oltre a la naturale dolcezza, di questa lingua, ap- portano un certo che di grandezza e di nobiltà ; e massima- mente quando essi parlatori hanno atteso a le lettere, eser- citandosi ne gli studj, come ne' tempi de la tua fanciallezza * Qnesto periodo soTercfaiamente lungo è guasto andie per questo gerundio ; invece del quale dicendosi ricordami, tornerebbe meglio. BÀ6I0NÀÌIB1IT0 INTOBNO ALLA UNtìUA. 293 erano Bernardo Bucellai, Francesco da Biacceto, Giovanni Canacci, Giovanni Corsi, Piero Martelli, Francesco Vettori e altri litterati che allora si raganavanoaTorto de'Rncellai, doye to, quando ponevi tal volta penetrare io maniera alca- na, stavi con quella reverenza e attenzione a udirli parlare tra loro, che si ricerca proprio a gli oracoli, E di più mi ricorda ancora averti sentito dire che andavi si volentieri, quando ci venivano ambasciadori, a udirli fare V orazioni, essendo in qoe' tempi usanza che parlassino la prima volta pubblicamente. Di che sopra modo ti dilettavi, si per la dif- ferenzia che tu senlivi tra le lingue loro e la nostra, e si per udire la maniera de le risposte che si facevano o per il Gonfaloniere che fu un tempo Piero Sederini, o per il segre- tario de la Signoria, che era messer Marcello Virgilio, uo- mo non meno elegante e facondo ne la nostra lingua che ne la latina, e non manco bel parlatore che si fosse Pier Soderini. Sovviemmi oltre a questo, che vivendo Ruberto Ac- cia joli e Luigi Guicciardini, andavi spesso a starti con lo- ro, dii;endo che, oltra i dotti ragionamenti, essendo e T uno e r altro litteratissimi, ti pigliavi si gran piacere de lo udir- gli favellare , parendoti che e' si fusse cosi ben conservata in loro la grandezza e la bellezza di questa lingua. De la qual cosa lodi ancor oggi Jacopo Nardi per le lettere che e' ti scrive ; e messer Francesco Vinta, agente ora de lo illustrissi- mo ed eccellentissimo Duca nostro appresso la eccellenzia del signor don Ferrante Gonzaga , parendoti ( secondo che tu affermi) che egli, ancora che Volterrano, scriva in quella pura e sincera lingua fiorentina che tu hai sempre tanto pregiata. Queste cose, Gello mìo caro, per parermi tutte, con- trarie a quanto oggi ti ho visto fare, mi inducono a maravi- gliarmi si grandemente di questa tua mutazione, che, se non eh' io considero che tu sei uomo, cioè variabile e mutabile come è la natura di tutti , io non saprei quello che avessi a dirmi di te, se non (parlandoti piacevolmente e liberamente, come noi sogliam fare insieme) che tu medesimo non sai ancora quello che tu ti voglia. Gelli. Messer Cosimo mio carissimo, voi mi siete venuto a dosso improvisamente col principio d' una orazione tanto 25» 294 KAGtOHAHUITO IMTOKIIO ALL4 UK«UA. consideraia e cosi bene affortificata da tante praoTe, ehe io non 80 qoasi donde avenni a pigliare il Inogo o la via da poter rispondere. Tattavotta, concedendoTÌ quello che è da concedere, cioè che io sono umuo, la natora de' quali non è fidamente yariabile e matahile, come yoi diceste, ma e tanto sottoposta e atta ad errare, come voi forse voleste dire e per modestia non lo diceste, che, si come canta la santa Chiesa, ogni nomo è mendace e pieno di errori ; e negan- dovi, per Topposito, ciò che è da negare, cioè che tale mala- mente sia nato in me dal non sapere io medesimo quello che io mi voglio, vi rispondo, per isgannarvi, che se mai approvai per vero quel detto che Umvìo dMe mnUar proposito^ lo ap- provo ora e tengo verissimo; poiché, eletto io ancora lo anno passato (come voi dite) a dare regola a questa lingua, co- minciai a considerare la cosa miAio più diligentemente che io non aveva fotte sino a qnell' era. Bartoli. Egli è il vero che questo detto è molto spesso in bocca a quegli uomini che pare che abbino qualche qua- lità più de gli altrL Nientedimanco, se e' si considera bene il significato di questo nome Sapiente , non pare a me che e' si debbia cosi approvare questo motte come tu di'. Perchè, non volendo dire altro lo esser savio, che le avere una vera scienzia e certissima cognizione de le cose, a chi è savio, perchè egli ha di già conosciate il vero essere di quelle, non accade mutar proposito. Perchè il mutarsi conviene so- lamente a colui che senza aver conosciuto 0 vero, rùsolutosi troppo tosto, vede poi finalmente, o per sé e per T altrui am- maestramento, di avere errato ; e non volendo mantenersi nel preso errore, è costretto a mutar proposito. OeìU. Voi dite il vero. Ma il conoscere perfettamente la verità de le cose non è si agevole, come voi forse vi imagi- nate : anzi, per il contrario, è tanto difficfle, che alcuni filo- sofi usaron dire che di ciò che dicevan gli uomini non era vera cosa alcuna ; ma che quello che e' chiamavano vero, era quel che pareva loro. De la quale opinione non è però da curarsi molto ; si perchè e' si leverebbon via tutte le scienzie ; e si ancora per averla e dottamente e argutamente riprovata e annullata Aristotile col dire che non essendo vera BAGIONÀMBNTO INTORNO ALLA LIN«OA. 295 cosa alcuna , veniva ancora similmente a non esser vero qael che dicevano eglino. Sì che, se bene si paò chiamare solamente savio chi conosce le cose secondo il vero esser loro , e' non è però inconveniente che a questi tali ancora bisogni a le volte mutare proposito , se non per il non aver conosciuto la verità, per la occasione almanco de' tempi: i quali continovamente vanno si variando tutte le cose , che assai manifestamente si vede esser tal volta bene il fare uno effetto in un tempo, che in un altro non è ben farlo. Benché questa non è propriamente la causa per la quale io ho mu- tato proposito ; ma solamente lo aver considerata la cosa molto più che io non. ave va prima, e lo averla discorsa fra me medesimo molto più diligentemente che in sino al- lora. Bariolù E con quali ragioni ? Perché io so molto bene che il discorrere non è altro che una esamina che fa sopra le cose quella nostra parte superiore , da ia quale noi acqui- stiamo il nome di animali ragionevoli , considerando non meno ciò che fa per una parte, che tutto quel eh' appartiene a V altra. GeUù Le ragioni e le diflicultà che non solo mi hanno fatto levar via V animo da questa impresa , ma ancora giu- dicarla quasi impossìbile, sono e molte e molto potenti; e quanto più vi pensava intorno, più mi se ne offerivano sem- pre a la mente de V altre nuove. Di maniera che io posso dire, che e' sia avvenuto propriamente a me in questa cosa, come avviene a chi vede da lontano una torre o altra cosa simile ; che quanto egli la riguarda più di discosto, tanto gli pare minore e più bassa; e dipoi, appressandosele, quanto più la guarda da presso , tanto gli apparisce continovamente maggiore e più alta. Cosi ancora io, mentre che io stava lontano al mettere in atto questa formazione de le regole , me la imaginava piccola cosa ; ma quando poi tentammo porla ad effetto, quanto più la considerai, tanto più mi parve difficile. Imperocché , dovendo principalmente esser questa opera d'una Accademia Fiorentina, mi si appresentava subito a l' animo, che e' bisognava che ella fusse con tanta arte e con tal dottrina, che gli uomini non avessino a dispreizarla. ! 296 BAQIORAUSNTO INTORNO ALLA LINGUA. e ridendosi di noi e di quella, dire con Orazio in nostra ver- gogna: Parturient tnontes; nascetur ridieuhu mtu. Sovveniyami dipoi , che questo nome di Accademia era per generare ne gli animi de le persone una espettazione tanto grande, che e' sarebbe al tutto impossibile il corrispon- derle : laonde, ove egli è consueto non solamente scusare gli errori che qualche volta si riconoscono ne le composizioni de' privati, ma difendergli arditamente, affermando che chiunque opera merita di esser lodato, in questa nostra im- presa comune avverrebbe tutto V opposito. Perchè i fore- stieri, che ci vogliono esser maestri , per far vero il detto del vulgo che t più dotti manco sanno , si porrebbono con ogni industria a cercar di attaccar lo uncino ; e gli errori, ancora che minimi, chiamerebbono sempre gravissimi. E il farla in ogni sua parte con tanta considerazione, che alcune cose non potessino esser chiamate da molti errori, credo che sia al tutto impossibile. Bartoli, O questo perchè? Getti. Per la diversità de' nomi e de le pronunzie che si traevano per le città di Toscana ; ciascuna de le quali pre- giando più le sue cose che quelle d'altri, stimerebbe e ter- rebbe errore quello che in Firenze sarebbe regola. Ma per meglio esplicarvi ancora questo capo, mi bisogna comin- ciarmi da un altro principio. Ditemi chi fa l' una l' altra; o le regole le lingue , o le lingue 1q regole?. Bartoli. £ chi non sa che le lingue fanno le regole, es- sendo quelle innanzi che queste; e non essendo fondate queste m altro, né avendo altra pruova che le confermi, se non r autorità di esse lingue? GeUL E da questo, essendo egli come egli è vero, nasce che e' non si può far regola alcuna che sia veramente rego- la non solo a la lingua toscana, ma ancora a la fiorentina: e uditene la ragione. Tutte le lingue del mondo sono, come voi vi sapete, o variabili o invariabili. Le invariabili sono quelle che non si mutarono mai, per tempo o cagione alcuna, ma da quel di che elle ebbero principio, insino a BAGIOMÀMEMTO INTOBMO ALLA LINGUA. 297 che elle furono al mondo, sì favellarono sempre in qoel me- desimo modo: come è quella che gli Ebrei stessi chiamano sacra, cioè quella de la Bib))ia, la quale dal suo nascimento sino al di d' oggi si è conservata sempre la medesima ap- punto. E se bene Esdra, loro sacerdote, dopo la servitù ba- bilonica vi aggiunse punti ed accenti per farla più agevole a leggere, non mutò egli per questo né lo idioma né la pro- nunzia; laonde la mede<iima lingua favellano ogfl^i tutti gli Ebrei, in qualunche parte del mondo e' si truovino, che fa- vellarono i loro scrittori, e particularmente Mosè, il quale è il più antico che elli abbino. La qual cosa è veramente maravigliosa : perché, non si mutando quasi le lingue per altro che per mescolarsi que'cbe le parlano con genti d'al- tro idioma, quale è quella che dovesse essere più alterata e più variata che la ebrea? Gonciossiachè i Giudei, dopo la cacciata loro di Jerusalem , sono già MGGGG anni , senza regno, senza patria e senza luogo dove fermarsi , sieno andati continovamente errando sino agli estremi fini della terra , e mescolandosi, a guisa di peregrini, con tutte le generazio- ni che il sol vede sotto il suo cielo. E nientedimanco quella lor lingua é per tutto quella medesima. Bartolù Ger lamento che ella è cosa fuori di natura , e che non può attribuirsi se non a Dio. Il quale, avendo dato la legge in quella, e fattovi scrivere tutte le cose sacre e divine, ha voluto, per indubitata testimonianza de la santis- sima fede nostra, che ella duri incorrotta sempre. GeUi, Di queste dunque si fatte lingue non occorre che noi parliamo, essendo manifestissimo a ciascheduno, che elle possono agevolmente ridursi a regole, o pigliandole da gli scrittori o prendendole pure da V uso, perchè è tutt' uno. Ma le lingue che io chiamai variabili non si favellano sem- pre in un modo ; anzi vanno variando e mutandosi di tempo in tempo, quando in peggii^ e quando in meglio, secondo gli accidenti che accaggiono in quelle provincie a chi elle sono e private e proprie, é secondo che e' vi vengono ad abitare genti d' un' altra lingua : come avvenne, verbigrazia, in Italia, ne la venuta dei Gotti e Vandali, a la lingua lati- na. E queste tali, od elle sono morte, cioè mancate, e non si 298 hagionambnto intorno alla lingoa; parlano più in laogo alcuno, ma si truovono solamente su pe' libri de gli scrittori; od elle sono vive, e si parlano an- cora e usano in qualche paese, come è, verbigrazia, a Firenze la lingua nostra. Di queste ultime due maniere tengo io per cosa certa che le morte si possine agevolmente mettere in regola; ma de le vive, che e' non sia solamente difiQcile il farvi regola alcuna perfetta e vera , ma che e' sia quasi al tutto impossibile. Bartoli. £ per che cagione? Gellù Dirowelo. Né voi né altro mai di sano intelletto mi negherà che, avendo a farsi regole d' una lingua, e' non si deU)a pigliarle da lei, quando ella fu favellata meglio che in alcuno altro tempo; essendo cosa pur ragionevole, quando si hanno a pigliare per regola le operazioni d'una cosa, pigliarle quando ella opera meglio; il che le avviene quando ella è nel suo perfetto essere. E chi sarebbe mai quello, se non forse qualche stolto, che avendo a pigliare per esemplo le operazioni d' un uomo, pigliasse quelle che e' fa ne la puerizia, quando i sensi suoi interiori, per essere di troppa umidità ripieni quelli organi ne' quali e' fanno lo ufizio loro, non potendo porgere a lo intelletto la facultà che a per- fettamente operare gli è necessaria, non ha esso uomo libero V uso de la ragione, e vive più tosto secondo la natu- ra, che secondo la mente sua? o veramente le azioni che egli fa in quella parte de la vecchiezza, ne la quale i sangui, per il mancamento del caldo e de V umido naturali, raffred- dati e diseccati più del dovere , non somministrano a' me- desimi sensi gli spiriti atti ed accomodati a le loro opera- zioni? Ninno certamente, mi penso ; ma sì bene quelle che egli fa ne la sua età migliore : la quale indubitatamente sarà nel mezzo e nel colmo de la sua vita; come poeticamente lo mostra il divinissimo nostro Dante, dicendo essersi accorto, che la vita nostra era una oscurissima selva di ignoranzia : Nel mezzo del cammin di nostra vita ec. Bartoli. Bella certo e dottissima considerazione. Ma sta saldo, Gello; e prima che tu proceda più oltre, dimmi: come si potrà egli trovar già mai, parlando, come e' pare che la BAGIONAMBNTO 1NT0BN0 ALLA LINGUA. 299 faccia, propriamente ed esattamente, questo colmo de la vita e questo essere più perfetto, ne le cose generabili e corruttì- bili? Le quali si come misurate dal tempo, essendo sempre in moto continolo, non vengono a stare già mai in uno stato medesimo, se non in uno instante si indivisibile, che e' non è possibil segnarlo in maniera alcuna : per il che viene a essere- più che impossibile, che e' vi si troovi dentro fer- mezza. Gellù Confesso io ancora che questo è vero , se voi in- tendete per la fermezza il mancare^d' ogni moto. Ma questo non è quello che io voglio inferire. Anzi dico, che in tutte le cose le quali dopo il principio loro salgono al sommo e sapremo grado de la loro perfezione, conviene di necessità concedere, avanti che elle comincino a scenderne, un certo spazio di tempo ; nel quale elle non salghino e non ìscendi-* no, ma stiano, in quanto ad essa perfezione, quasi che ferme, e in uno stato medesimo: essendo di necessità che in fra due moti contrari si truovi sempre un po' di quiete; perchè altrimenti, o non finirebbe mai l'uno, o non comincerebbe mai l' altro moto. E questo lo potete voi chiaramente cono- scere in un sasso tratto a lo in su ; il quale, poi che con la sua gravitade ha superato la forza di quella aria che, fessa violentemente dal braccio di chi lo trasse, correndo con grandissima celerità a richiudersi perchè quel luogo non restì vóto, continovamente lo pigne in su, se egli non si fermasse alquanto, non tornerebbe mai a lo in giù. Goncios- siachè, non si fermando, egli anderebbe sempre a lo in su; e andare in su e tornare in giù in un tempo medesimo (rispetto a la natura de' contrari, che non patisce che eglino stiano insieme in un medesimo tempo, in un subietto medesimo) non è possibile. Adunque egli è necessario in tutte le cose che dopo il principio loro hanno accrescimento e dicresci- mento di perfezione , che e' si ritraevi tra V uno e l' altro nn certo spazio di tempo, nel quale elle restino di acqui- starne più, e non comincino ancora a pèrderne: il qual tempo è chiamato da' filosofi lo stato, ed è cosa osservata molto da' medici ne le infermità umane. Ma se voi volete vedere ancor meglio questo che io dico, leggete quella parte del 900 BAGIONAMBNTO INTORNO kthk LIN6CA. Convivio del nostro Dante, dove e' tratta de la etÀ de V ac- ino , e resteretene capacissimo. Bartolù Orsù, sta bene: ma che vnoi ta dire per questo? GeUi, Yo'dire, tornando al nostro proposito, che non si potendo sapere ne le lingue vive quando sia questo loro stato e questo colmo de la loro perfezione , egli non si può ancora conseguentemente farne regole perfette e intere. Perchè, se bene e' si può sapere mediante gli scrittori di quelle quando meglio che mai elle si siano favellate per il passato , nessuno è però che si possa promettere per il futu- ro, che insino a che elle non mancano, elle non si possino favellar meglio, e cosi che e' non possino surgere' ancora alcuni scrittori che le scrivine molto meglio. Come potete voi mai sapere quale sia il mezzo o lo stato d' una cosa, de la quale, se bene voi avete il principio noto, voi non potete però non solamente sapere quando abbia ad essere il fine suo determinatamente , ma né anco imaginarvelo per con- ìetture ; come forse la vita e de V uomo e di molte altre cose, le quali quando sono arrivate a la lor vecchiezza, age- volmente si può farne la coniettura quando abbia a essere la morte loro ; non essendo però di quelle, a chi è concesso da la natura il rinovellarsi, come, verbigrazìa,rerbe e le pianle la primavera. Ma le lingue non sono di queste. Resta dunque, non si potendo saper lo stato de le lingue che vivono, che e' non se ne possa ancora formar regola alcuna ferma e vera: il che non avviene de le già morte, come ne avete lo esemplo chiaro ne la latina. Ne la quale considerando i gramatici cbe ne hanno scritto quale fusse stato il processo suo, e giudican- do, come è il vero , il colmo di quella essere stato ne la età di Cesare, Cicerone e Virgilio ; perchè ne' tempi di Ennio e di Plauto si vede che ella era ne lo augumento, e in quegli poi di Svetonio e di Tacito, nel discrescimento , fondarono tutte le regole loro sopra il parlare di Cesare, Cicerone e Virgi- lio, affermando che ciò che si dicesse per lo avvenire ne la maniera de' sopra detti, sempre sarebbe detto bene e lati- namente , e massime secondo Cesare e Cicerone ; per esser lecito e conceduto a' poeti lo usare spesso molte cose ne' versi loro, che non si comportano ne la prosa. Ma questo non si RAOIOIUMBNTO INTORNO ALLA LINGUA. 301 può fare ne la lingua fiorentina, e molto manco ne la to- scana, che ^ vivono ancora, e non hanno scrittori da fon- darvi lo intento sno, non si sapendo se elle sono ancor per- venute al colmo de V arco. Bartoli, E se questo non si può fare per via de gli scrit- ti , chi vieta che e' non si faccia almanco per via de lo uso? GeUi. E di quale uso? Oh questa è l' altra difficultà, e non punto minore de la precedente. Bartoli. E perchè? GeUi. Perchè ne' tempi nostri non avviene di questa lìngua quello che ne' tempi de' Romani avveniva de la la- tina; che essendo propria d'una nazione che dominava allora ad una grandissima parte di questo mondo, era tanto stimata e onorata da ciascuno de' soggetti loro, e in Italia massimamente, che e' non si trovava nohile alcuno e da farne stima, per qual si voglia città, il quale non si ingegnasse di parlar la lingua romana. SI perchè chi non sapeva era da essi chiamato barbaro, cioè persona inculta e di rozzi e aspri costumi; e si ancora per ì bisogni che occorrevano giornal- mente ne le faccende é private e publiche ; avendo coman- dato i Romàni in tutte le loro Provincie, che e' non si potesse agitare causa alcuna criminale o civile, né far procèsso od ìnstrumento alcuno, se non in lingua latina. Ad imitazione de' quali, per quanto io n'ho inteso dire da Amerigo Benci, che da venticinque anni in qua ha usato molto la Francia, e come voi vi sapete, oltra le pratiche mercantili ha qualche cognizione ancora de le speculative, ordinò il padre di questo re, che e' si facesse cosi in franzese per tutto il dominio suo: il che osservatosi fino ad ora, ha tanto migliorata e fatta più bella e ricca quella lingua, che è una maraviglia a chi lo considera. £ il re che vive, Arrigo II, imitando le ve- stìgio del padre, oltra il fare osservare quello ordine, fa ancora e carezze e cortesie grandissime a chi traduce in essa, 0 fa opera di arricchirla e farla perfetta. Bartoli. Bella impresa e degna veramente d'un principe, amare e onorare la sua lingua: atteso massimamente che nessuna può sormontare e venire in riputazione senza il favor del principe suo. *J6 302 RA6I0NAMBNT0 INTOBNO ALLA LINGUA. GeUi. Non sarebbe dunque stato diflScile a ehi avesse voluto mettere in regola la lingua latina in que' tempi ehe ella era yiva , poi che gli bastava osservare solamente Io uso e il modo che tenevano i cittadini romani : p^chè non era in que' tempi ehi ardisse pre^rre la sua lingua a qoeUa, e non confessare che la vera pronunzia e il vero modo del favellare era quello de' Romani, altrimenti detto latino. Ma non può questo avvenire a noi de la nostra, essendo in To- scana tanti principati e tanti signori; li stati de' quali, se non in tutto, hanno pure in parte ciascuno, come io dissi in quella mia traduzione * a lo illustrissimo e reverendissimo Cardinale di Ferrara, qualche favella e pronunzia propria, varia e diversa da tutte le altre , e parendo a ciascuno che la sua sia meglio. Perchè noi non ci abbiamo imperio alcuno cosi grande, che e' muova (come i Romani) le città sottopo- steli a cercare spontaneamente di favellare e onorare quella lingua che favella chi le comanda. Gonciossiachè, quando ben la Toscana tutta fusse comandata da un signor solo, lo imperio suo, per avere ì confini si presso, non sarebbe mai di tanta grandezza, che e' fusse oiiorato e temuto quanto era allora quel de' Romani. Imperocché i suggetti a loro, essendo privi d' ogni speranza di «scir mai di tale servitù, non aveado principe aieuno a lo intorno dove ricorrere quando e' pensassero di ribellarsi , erano necessitati, se non per amore, almeno per timore, a far ciò che piaceva à' Ro- mani. Bar Ioli* Io cedo , e confesso, quanto a la grandezza e forza romana, che egli è vero tutto quel che tu di'. Niente dìmanco, e' si vede pur manifestamente ne' tempi nostri, che molte persone di quakhe spirito, i»8i fuor d' Italia come in Italia, s' ingegnano con molto situdio di apprendere e di favellare questa nostra lingua non per altro che per amore. GelU. Egli è vero che quello che ne la età de' Romani faceva la forza , lo fa oggi la bontà e la bellezza di questa lingua. Ma perchè coloro che la desiderano e cercano per loro stessi come cosa buona, la appetiscono edamano in quella * Intende la tradniione dell' operetta di Simone Porzio del modo di orare cristianamente. Qui parla di cose dette nella lettera dedicatoria. BAGIONAìIBNfo INTORNO ALLà UNGUA. . 303 maniera che si desidera ed ama il bene, ella è ancora dipoi seguitata e adoperala come esso bene, cioè da ì meno, e non da i più. Ma datò che e' fosse il vero che ognuno cer- casse di favellare in lingua toscana , e desiderasse che e' se ne facessi regole, donde si arebbe poi a cavarle, non ci essendo ciltade alcuna che signoreggi tutta Toscana? Perchè i Luc- chesi, i Pisani, i Sanesi, gli Aretini, e qualunque altra città di questa provìncia , direbbe sempre che la vera lingua e pronunzia losca fusse veramente la sua; e il cavare una parte di esse regole da una città e V altra da un' altra, sce- gliendo, come dicono alcuni, il meglio, per fare un composito di tutte quante , sarebbe cosa molto difiScile, e poi forse anche non approvata e non osservata, non ci essendo chi la comandi. Bartoli. Oh, io non penso però che il luogo donde cavare le regime abbia molta difBcultà ; non essendo se non raris- simi que' che volendo imparar la lìngua piglino altri autori che Dante, il Petrarca e '1 Boccaccio ; i quali essendo pure tutti e tre di Firenze, mostrano assai manifestamente donde sì debba imparar la lingua. Non ostante che alcuni, poco amici per avventura del n<Mne nostro, hanno voluto privarci del Petrarca e del Boccaccio, facendo questo ultimo da Certaldo e quello altro Aretino , senza avertire che ser Pe- tracco padre di messer Francesco, come cittadino che egli era, ebbe per moglie una de'Ganigiani, e luogo tempo fu cancelliere alle Riformagioni ; e che il Petrarca stesso dice di sé medesimo: SMo fossi stato fermo a la spelonca Là dove Apollo diventò profeta, Fiorenza avria forse oggi il suo poeta; e che Matteo Villani dice ne la Cronica che e' seguitò dopo Giovanni suo fratello : « Questo anno furono coronati poeti due nostri cittadini fiorentini; messer Francesco di Petracco, vecchio; e Zanobi da Strata, giovane. » E che il Boccaccio, nel suo libro de' Fiumi, quando e' ragiona de l'Elsa, dice: et quum oppida plura hinc inde ìabens videai, a dexlro, modico elatum tumulo, Certaldum, vetus msiellum, Unquii: cujus ego 304 RÀGIONAMMTO DlTOBNO ALLA UHGUA. libens memorùiffi celebro, sedes qtUppe et natole solum nu^o- rum meorum futi, anUquam illos susciperet FloretUia eives. GelH, Egli è vero che, non si stimando qaanto a la lin- gna, altri scrittori che questi fiorentini, rispetto (credo io) al non si esser trovato mai in queste altre favelle, non sola- meate ehi gli pareggi, ma nò par chi si appressi loro, e' pare certamente da confessare che la lingua fiorentina tenga il principato ne la Toscana ; nìentedimanco...... BartolL Sta fermo, Gello, e non dir cosi; che noi ci recheremo a dosso una invidia troppo grande. Perchè e' non si può nò debBè negare che ne' tempi nostri medesimi non ci siano stati de' forestieri, * e fuor di Toscana, che abbino scritto in questo idioma si eccellentemente, che e' ne sono stati lodati.. Geìlu Si, ma se voi avvertite bene, vedrete che i più celebrati fra questi tali sono selamenle quegli stessi che hanno saputo più e meglio imitare gli scrittor fiorentini ; e non son però stati molti : e di questi ne avete alcuno, che per aver si bene imitato ed espresso i concetti altrui con gli stessi modi e parole de gli autori, que' dotti de V Orto, pi- gliando la metafora da quegli scultori che attendono più a improntar V altrui che a sculpire di loro artifizio, usavano di dir tra loro: costui ha formato. Ma voi ci avete ancora un' altra cosa, che dimostra meglio e più chiaramente quel che voi dite: che tutti o la maggior parte de' forestieri con- fessano e acconsentono tacitamente, che la lingua che e' cer- cano e tengon buona ò solamenle la Fiorentina; io intendo di quella che favellano i nobili e veri cittadini fiorentini che hanno qualche cognizione o di lingue o di scienzie ; e non di quella che usano i plebei, e gli uomini che hanno cognizione di poche altre cose che di quelle che si conven- gono loro come animali. Perchò, non vi crediate però che la plebe di Roma, quando fiori la lingua latina, favellasse con quella leggiadria che facevano e Cesare e Cicerone. Bartolù Certamente no ; anzi si legge di Cicerone, che i Romani stessi lo ammiravano, maravigliandosi grandemente * H monicipalismo a que' tempi faceva non conoscere che non son forestieri fra loro quelli che abitano il paese fra le Alpi e il lilibeo. RAQIOMJJIENTO INTORNO àthk LlNGOl. SOtt de la 8oa eloquenzia. Ma quale è questa cosa che ta volevi dire? GeììL II non si esser trovato ancora scrittore alcuno di Toscana , che abbia avuto ardimento a dire di avere scritto ne la sua lingua propria , come dissero Dante e il Boccaccio, r uno nel Convivio, e V altro nel Decamerone, e come fanno ancor oggi molti Fiorentini. Di maniera che e' non si truova opera alcuna, che si dica scritta in lingua Pisana, Sanese, Lucchese, Aretina, o di qual si voglia altro luogo toscano: e pure hanno avute queste città scrittori di non piccola fama. Laonde non può avvenir questo per altro, se non perchè questi tali conoscono molto bene la lor lingua naturale non esser quella che si stima oggi e pregia cotanto. E se bene essi hanno ancora imitato gli scrittor nostri, quanto è loro stato possibile , e' npn V hanno però voluto confessare aper- tamente e liberamente, giudicando, per avventura, che ciò non fusse molto onor loro. Anzi, perchè se e' l'avessero chiamata Fiorentina, e' non sarebbe parato loro avervi parte alcuna o pochissima , e' l' hanno chiamata Toscana o vulgare; volendo, col chiamarla cosi, dare a intendere a le persone, che ella si parli vulgarmente per tutta la Toscana. Il che si vede che non è vero. E altri dipoi non Toscani , per avervi ancor eglino parte, V hanno chiamata italiana. Bartolù Sta fermo. Cello, che Dante ancora egli fu di opinione che ella si dovesse chiamare Italiana, in quel li- bretto suo De vulgari eloquerUia, se io mi ricordo bene. Gellù Ehi messer Cosimo, non vi ho io detto più volte che cotesto libro non può essor di Dante, ma che e' conviene che qualcun altro l'abbia finto, sotto il colore di quella pro- messa che ne la Dante nel suo Convivio? Il che non può veramente esser nato da altro, che da lo avere troppo arden- temente desiderato chi ne fu lo autore, che V onor de la lingua fusse generalmente comune di tutta la Italia , e non particulare di Firenze solo. Ma se voi forse non ve ne ricor- date, avvertite che que'litterati de l'Orto de'Rucellaì,dispuT tando, ne la venuta di Papa Leone, col Trissino (perchè egli fu che ci condusse la prima volta questa opera} sopra lo essere o non esser ella di Dante , gli facevano centra 308 MifiioMAMBaro irtouio alla limooa* quella, non variati né alterati in maniera akona, come omo, Urrà, mare e simili ; e ana grandissima quantità di quegli altri dove si varia scrfo una lettera, come leggo e aequa, che a' Latini son lego e aqua, GeUL Questa fo, come dite voi, nua esposixione assai stravagante, e da uomini che, desiderando introdurre cose nuove, volsero mostrare che ciò fusse fatto con qualche mo- tivo ragionevole. Ma non è già venuta di qui la diversità della pronunzia, la quale molto prima si variò, che e' venisse a campo si stran precetto. BarioU. E donde venne dunque la orìgine? GeUi, Dicono alcuni diligentissimi osservatori de le cose di questa lingua, e io lo confermo con esso loro, che in al- cune città e luoghi particolari di Toscana, per naturale pro- prietà si costuma di mettere Vo in quelle parole ne le quali in Firenze si mette l' u; di maniera che, dove noi di- ciamo suslanza, singutare, particulare, speculare e specular- tivo, quivi si dice sostanza, singolare, parlicolare, speco- lare e specoUUivo: e cosi ancora di mettere Ve dove noi altri mettiamo V i , costumandosi ordinariamente dire in Fi- renze, principe e UUerato; e quivi prendpe e letterato: la quale pronunzia arreca a gli orecchi de' Fiorentini un suono cosi sgarbato e tanto spiacevole, che e' non si traeva tra noi chi l' usi, se non alcuni, e ben pochi, che per proprio comodo loro seguitano la pronunzia così fatta ; non si curando non solamente di dare od accomunare ad altrui quello che era solamente de' Fiorentini , ma di adulterare e imbastardire una lingua mantenutasi pura e schietta sino a' di nostri , e solamente bella e leggiadra, quando manco vi si accompagna voci o pronunzie di forestieri. Bartolù Certamente che questa, né a' tempi nostri né a quegli de li antichi, per quanto se ne vegga da le scritture, non fu mai pronunzia fiorentina. £ chi non lo crede, av- vertisca e osservi bene, come coloro che V anno 1527 fecero stampare in Firenze quel Cento novelle, avuto poi univer- salmente in tanta reputazione e tanto pregiato, essendo tutti cittadini fiorentini nobili e veri, e avendo cotanti testi antichi e buoni, e tra gli altri uno che é oggi in guardaroba RÀGIOMÀIIBMTO INTOBNO ALLA UNGUÀ. 309 di Sua Eccellenza, scritto, vivendo ancora il Boccaccio, da uno de' 'Mannelli, e non solamente copiato da lo originale de lo anlore, ma riveduto ancora e corretto da lui medesimo; avyertisca, dico, e osservi, come sempre dissero principe^ liUerato, iustanzia e partieulare, come ordinariamente si dice in Firenze. Getti, Ritrovandosi, adunque, in Padova alcun di questi tali nel principio deHa Accademia de gli Infiammati, dove non era per buona sorte alcuno veramente Fiorentino (che e' non sarebbe forse seguito questo disordine) ; e mettendo in uso col favellare e con lo scrivere questa lor naturai pronunzia, scoperta però primieramente fra gli Intronati ; i Lombardi e i Yeniziani, che cercavano di pronunziare to- scanamente, credendosi che quella fusse la vera , comincia- rono non solo a celebrarla, ma ad usarla, ed a trasferirla ne le loro stampe. A la qual cosa si aggiunse presto che alcuni altri non Toscani, per ispogliare la Toscana di questa gloria, cominciarono a mescolare in essa molte parole, le quali, al giudizio mio, né si favellarono nò si scrissero mai in Toscana; e oltre a questo, cercarono ancora dì mutarle nome. £ perchò se ella si dicesse lingua Tosca, essi che erano forestieri non ci avevano parte alcuna, cominciarono a chiamarla chi, come il Trissino, Cortigiana, e chi Itala o Italiana, come il reverendissimo Sadoleto; persona dottis- sima veramente e eloquentìssima , ma appartata e in tutto aliena da questa professione. E di costoro non voglio io ve- ramente dir cosa alcuna; ma solo che io mi maraviglio oltre a modo di alcuni Toscani, che avendo molto più rispetto al comodo proprio, che a la verità, per la servitù forse che e' tengono con alcuni di questi tali , sono concorsi a chiamarla Italiana essi ancora l non si curando di vendere per si vii pregio l'onore e la gloria propria; e non avendo avver- tenza che i Genovesi, i Milanesi, que' del Lago Maggiore, i Bergamaschi, una gran parte de' Romagnuoli, i Marchigiani, i Norcini, gli Abbruzzesi, i Pugliesi, i Calabresi e altri infi- niti popoli de la Italia, fanno fede manifestissima a chiun- que favella loro , che a gran torto ò posto nome a la lìngua nostra Italiana. 310 BACIOHAMSino mOUO ALLk LU60A. BarlatL E come potette più in cotesti tem|M (lasciando or le querele da banda) V antorità di cotestoro, che ifoella de' Fiorentini, se il principio de la lingua e il fonie è in Firenze, e fondato in sa gli scrittori fiorentini? GtXtL I Fiorentini, attendendo in cotesti tempi quasi tutti a la mercanzia, a la quale sempre è stata molto incli- nata la città nostra, e forse |mù per bisogno che per natura, rispetto a la magrezza del paese ; non davano opera alcuna, se non pochissimi, a la lingua latina, e molto meno a la greca ; e cosi non venivano a considerare la propria » e a riconoscer l'arte e lo studio che avevano usato in essa Dante, il Petrarca e il Boccaccio: anzi, quando leggevano questi autori, attendevano pio le istorie, che altra cosa. Di maniera che, se vi ricorda bene, crono molto più stimati allora i Trionfi del Petrarca, che le Canzoni e Sonetti suoi. Ma In alcune altre città toscane, dove per la fertilità e grassezza del lor paese non è il guadagno si necessario, attendendo que' cittadini a gli studj de le buone lettere, cominciarono a considerare molto (Nrima di noi ne' nostri scrittori la bel- lezza di questa lingua, e ad osservare ne lo scriverla quelle terminazioni e quelle concordanzie de' singolari e de' plura- li che que' nostri avevano usate. Bene è vero che per la lor favella natia pronunziando non come noi, e mescolandoci ancora qualche parola de le loro, ce l'hanno condotta a r essere che voi medesimo vi vedete. Lo avere adunque i nostri atteso a la mercatura e non a le lettere , e la molti- tudine de' travagli che sempre ci sono stati, fecero per lungo tempo restare in dietro e quasi che perdersi interamente gii avvertimenti e l'arte usata da' tre sopra detti ne la nostra lingua; e i primi che cominciassero in Firenze a rios- servargli, e ne la fovella e ne la scrittura, furono quegli stessi litterati che usavano a l' Orto de' Rncellai. E ricordami che e' non potevano restare di maravigliarsi di alcuni litte- rati poco avanti la loro età, che avevano composto in versi e in prosa di questa lingua senza alcuna osservazione; parendo loro impossibile che, avendo pur veduti gli scritti di que' tre famosi, e' non avessero aperti gli occhi a le loro osservazioni , e non si fossero accorti in quanta corruzione BAfilOllAXBIfTO IMT(MmO ALLA UKSUA. 311 fosse incorsa la beHìssima lingua che noi inrliamo. Da co- storo avvertiti Cosimo Rocellaì, Lnigfi Alamanni, Zanobi Baondelmonti, Francesco Guidetti e aiconi altri, i qaali» praticando con esso Cosimo» si trovavmo spesso a rOrU» con qoe' più vecchi , c«ninciarono a cavar foori le dette consi- derazioni, e a metterle tanto in atto , che la lingua n' è poi tornata in quel pregio che voi vtdele. BarloU, Tu di' il vero, GeUo mio caro; perchè e'mi rioor* da che da venticinque anni in dietro non erano versificatori io Firenze, se non tre o qoattro; a' qnali, senza avere altri- menti oensiderazione akana di terminazioni di parole , di concordanzie di numeri, o d' altra cosa che faccia bello, ba- stava solamente che e' rimassero e fusser versi. £ chi lo vuol vedere e toccar con mano, legga le rappresentazioni che si facevano in que' tempi : le quali quando io considero chenti elle sono, e quanto non solamente poco verisimili, ma impossibili e mostruose, mi fanno tenere per di poco giudizio e, per dirla cosi fra noi, molto goffi tutti coloro che potevano stare a udirle ; e mi iinno credere che se elle si facessero oggi cosi, i fanciulli, non che altri, uccellerebbono si a la scoperta i compositori, che e' se ne rimarrebbono in- teramente per lor medesimi. eretti. E da che vi pensate die nasca questo, se non da r essere oggi in Firenze cosi gran numero di persone che hanno bonissima cognizione de la lingua latina e greca? le quali essendo state necessitale ne lo impararle , a vedere i veri poeti, hanno assai chiaramente conosciuto che cosa sia poesia, e quanto sia verbigrazia, centra i precetti de Tarte il ridurre tutta la vita di uno uomo, o pur le azioni di venticinqoe o trenta anni, in due o tre ore di tempo che • si consuma nel recitare. E a cagione che e' non si abbia a dire de' casi loro quel motto di Orazio Delfinum silvis appingit , fluctibus aprum , non hanno solamente lasciali cotesti errori , ma sbanditili ancora in tuUo da le loro composizioni , e si sono ridotti a quello uso buono che avevano i Latini e i Greci. Olire a questo, avendo appreso per via di regole quelle due lingue. 31S miaoiiAanno ummo aua c4HMM6eiido quante e quali nano le parti del pariare, e in cbe modi elle debbino accompagnarsi , cominciano a favel- lare tanto rettamente e con tanta leggiadria, che io mi persuado gagliardamente, la nostra lingua esser molto Tidna a quel sommo grado de la perfexione, oltra il quale non si può salire. BartoU. E se cori è, die cosi la tengo io ancora, perehè non si può eDa adunque mettere in regole, e farla perfetta alilittoT GM. A le cagioni che io ve ne ho di già assegnate, si aggiagne questa altra ancora, che non è di poco momento: ed è il non avere in su che fondare e formare esse regole; eonciossiachè in su gli scrittori non si può, non avendone noi alcuno che si possa tenere per bello e per buono tutte quello che egli ha usato. Perchè, cominciandoci da qne' tre primi che sopra gli altri sono approvati, Bante, oltra lo esser poeta, ebbe dal secol suo rozzo e duro molte e molte pa- role lasciate oggi in tutto da Y uso. H medesimo avviene al Boccaccio, nel qoal sono e modi e parole che, se ben fìiron belle in quel secolo, l' oso di oggi non le riceve. E il Petrar- ca, se bene ha la sua lingua assai più purgata, per essere (come io dissi in Dante) poeta, per le molte licenzie che a' poeti son concedute, non è materia conveniente a formarne le regole per la prosa. BarUAL Io non so, Gello mio, come questo sia da conce- dere ; perchè, se bene da que' primi due, rispetto a le licen- zie poetiche, non si posson trar buone regole , il Boccaccio è por tanto bello e tanto pregiato universalmente, ch'io non so perchè tu lo sfugga. GéUU. 11 Boccaccio, per quanto ne dicono questi suoi, si imaginò di usare i tre stili: T alto, nei Filocolo ; il mediocre, ne la Fiammetta; e il basso, nel Decamerone. Il che se bene gli successe o no, non ci accade ragionarne ora. Basti che la più approvata de le sue cose è il Cento novelle ; opera beila certo e piacevole , ma non da essere in tutto imitata rispetto ad alcune costruzioni che, per non esser piaciute a Toso, son restate del tutto in dietro, e ad una infinità di parole che sono oggi aborrite e fuggite da gli scrittori: come, lAGIOMAMKlITO ISITOINO ALLA LINGUA. 313 yerbigrazla, bwma pezxa^ ìa Intogna, gravenza, abUawBa, niquUoso, avaecio, autorevole, contezza, deliberanza, sez- zaio» Ma che sto io a contarle a toì che ri faceste sopra la tavola y e le notaste già taile quante? BartoU. Certamente queste si fatte voci non solamente si usano oggi da molto pochi , ma elle non sono ancora più accettate per fiorentine , e pare che elle offendine altrui r orecchie, se pur si truova qualcuno che V usi. Getti. Non si possono adunque le regole toscane cavare da gli scrittori. Bariolù Gavinsi le fiorentine (che de V altre non tocca a noi) da V uso di Firenze. GeUù £ questo anche mal si può fare; dovendosi (come io dissi non molto avanti) pigliar V uso non d'ogni tempo, ma de la età dove la lingua fu nel suo colino. Il che non possiamo saper noi altri, poi che e la è viva, e va a T insù ; avvenga che voi forse, come alcuni forestieri, vi persuadia- te che ella fusse nel sommo grado ne la età di que' tre scrittori. Bartolù Questo no; anzi tengo per fermo che ella fusse nel nascimento, e che ella avesse quasi principio da essi tre, per essere stati Dante e 1 Petrarca i primi in questi paesi che cominciassero avere tanta notizia de la lingua latina più de gli altri uomini , che e' ne furono chiamati suscita- tori e ritrovatori ; come apertamente si può vedere nel pri- vilegio conceduto ad esso Petrarca, quando publicamente fu coronato nel CamfMdoglio : e il Petrarca e il Boccaccio de la greca , de la quale non si aveva in Italia notizia alcuna ne la età loro, se non piccola e defettiva. Laonde braman- dola questo ultimo sommamente, condusse a Firenze un Greco, per quanto si legge ne la sua vita, che glie la inse- gnasse, e una quantità di libri greci, lasciati poi da lui stesso dopo la morte a la libreria del nostro Santo Spirito. Costoro adunque, mediante la cognizione di queste lingue, cominciarono a parhire rettamente e ordinatamente, miglio- rando e inalzando tanto il nostro idioma da quello che egli era, per quanto veder se ne può in que' che scrissero avanti a loro , che noi possiamo liberamente tenere e dire, che il 27 314 BA6I0NAMB1IT0 IMTO&NO ALLA LINfiOA. vero nascimettto e principio di questa libgtta fa solunente dalor tre: ma che e' non foron già poi segniti né imitati ne lo allegarla secondo i modi posti da loro, imperoceliè chi venne dopo, non essendo dato a gli stadj^ noA eomiderò le costrocioni e le terminazioni osate da lèro» e iMcMla di tempo in tempo cadere in ^ella barbarie die iMd eenllm- mo non son molti anni. Ma io dico bene> che poi the g^i uomini hanno ricomincialo a considerarla, come fecero qnegli de r Orto, e ad osare i modi de* tre nostri Inmi^ ella é tanto migliorata a poco a poco, che io la tengo oggi nsolto piA bella universalmente, che eOa non era ne' tempi loro ; e che se eglino scrissero cosi bene allora (^il che fn molto più da impotare a lo ingegno loro che a 4a bontà de la Ikigoa) , scriverebbero molto meglio oggi : non essendo necessitati da la povertà Òe la lingua, che oggi^ è ricchissima^ ad osare quelle parole che più non piacciono, e qoe' modi ohe son fuggiti da' nostri orecchi ; di modo c^e nel volto ancora del Petrarca non si scorgerebbero q«e' pochi avvegnaché pic^ eolissimi nei, che i ben purgati giudizj vi riconoscono. GelU. Io credo che voi giudichiate bene, e che la cosa stia come voi dite* Ma io voglio andare un passo più là , e dire, che essendo ancor vìva la lingua nostra, e in maggiore speranza di avere a vivere, che eUa fosse fom ancor mai, egli non si può affermare che la nstnra (la quale iton si stracca e non invecchia mal, anzi, se bene ella varia talora alquanto, è por sempre quella medesima ) non possa e non abbia ancora a produrre de gì' ingegni simili a loro; i qoali, trovando la nostra lingoa in molto maggior perfezione che non la trovmrono i sopradetti , serivino non solamente bene cernie qoelli, ma forse ancora assai meglio di loro» Bartolù £ questo similmeiite mi par di credere, essen- dosi veduto ne' tempi nostri^ che in quaiuncàe faciità, e particnlarmente ne la architettura, pittura -e scoltura, ha la nostra città generati aiconi che non solo haano paseggiaU i famosi antichi, ma forse ancora avanzatili in ^oalohe cosa» GellL Non si poò donqoe dire dM ella sia ne lo stato Mio> veggendosi come di giorno in gèomo olla va «i soo augomento; e potendosi agevdmente far conieltara da te lA^IOMAVCNTO INTORNO ALLA LINGUA. 315 cose che soprareiigoDO, ehe ella abbia ancora a farsi più ricca e saolto più beUa. MartoU. E q«ali Mm questo cose» Gello? GeUù Molte e molte sono, messer Cosimo; e dae sopra tatto l'altre. L'nna de le quali è la moltitadine grande di ei^oro che oggi si danno, in Firenze a la lingna latina e greca; i quali imparando quelle con re- gola, avellano dipoi ancora reg<^tamente la nostra, e con leggiadria; e da questi imparando gli altri, mossi da quello ingenito desiderio ohe ha ciascuno di non volere, in quello che egli può, essere in maniera alcuna soprayanzato da i suoi pari, faranno di mane in mano la lingua più bella ^ più onorata, si col parlare e si col tradurre, arrecando- ci le scienzie e V arti che elli imparano ne l' altre lingue. L'a&tra è il cominciare i principi e gli uomini grandi e qualificati a scrivere in questa lingua le importantissime cose de' governi de gli Stati, i maneggi de le guerre e gli altri negozj gravi de le faccende, che da non molto in die- tro si scrivevano tutti in lingua latina. Perché, non vi date a intendere ehe una lingua diventi mai ricca e beila per i ragionamenti de' plebei e de le donniciuole, che faveUan sempre (rispetto a lo avere concetti vilis6imi)di cose basse: chò e' sono solamente gli uomini grandi e virtuosi, quelli ehe inalzano e fanno grandi le lingue; imperocché, avendo sempre concetti nobili e alti, e trattando e maneggiando coae di gran momento, e ragionando bene spesso e discor- rendo sopra quelle in prò e in contro, persuadendo o dis- suadendo, accusando o lodando, e talvolta ancora ammo- nendo e insegnando, fanno le lingue loro copiose, onorate, ricche e leggiadre. Per queste due cose adunque, ancora che altre cagioni non ci fossero, si può giustamente sperare ^M la nostra lingua abbia a essere ancora un giorno tanto pregiata appresso molti che nasceranno , quanto sono oggi appresso di noi e la greca e la latina. £ conseguentemente concludo, che non essendo ella ancor pervenuta a lo stato suo, non se ne possa far regola, che in tempo non molto lungo non abbia a scoprirsi defettuosa, e non più tale quale oggi forse ci apparirebbe. Si come avviene, per esemplo, ne 316 BAGioNAMBirro nrroBHo alla libcua. la pittura ; dove i ritratti de* giovanetti, se bene gli sonii- gliono interamente quando e' son fatti y non vi corre però gran tempo che, cambiandosi lo aspetto del ritratto nel farsi egli nomo, tanto varia la effigie, che non lo somiglia più, né apparisce più qnel medesimo. BartolL Orsù, pongbiamo per le tante cose allegate da te, cbe a r Accademia non si convenga il fare queste regole : vuoi tu però affermare al tutto, che una persona privata e particolare , lasciando favellare ad arbitrio loro qualonche città e luogo de la Toscana, senia difettargli o ripotargli da meno per questo , non possa almanco da i tre primi nostri scrittori e da T uso di Firenze formare le regole, che a' tempi d' oggi insegnino favellare rettamente a' Fiorentini stessi, e a chi pur volesse imitar^? GeìU. Oh questo no, messer Cosimo; perchè io mi credo pure, che un solo, in suo nome proprio e non di Accade- mia, con tutte quelle avvertenzie che voi avete dette, sicu- ramente le possa fare. Bartoli, E con qoal ordine? o in che maniera? Geìli, Dirovvelo: ma perchè voi mi intendiate più facil- mente , avvertite che questa lingua, come quasi tutte l'altre cose di questo mondo, ha due parti principali; la materia, cioè, e la forma : la materia sono le parole de le quali ella è fatta ; e la forma è qod modo e quell' ordine col quale son conteste e tessute insieme l' una parola con Y altra, che si chiama ordinariamente la costruzione. Di queste due parti la materiale, o de le parole, non tengo io per molto difficile a metterla in regola; ancora che ella abbia forse bisogno di lungo tempo , rispetto a lo aversi a fare un vocabolista di tutte le voci che si usano, come aveva già cominciato il nostro Norchiaio, prima che morte gli troncasse il volo. Ma de la costruzione, o volete dire de la forma, ne la quale consiste tutta la bellezza e la leggiadria de la lingua , e ap- presso di noi è per avventura molto più dolce che ne' no- stri vicini, non so io come ella possa mostrarsi meglio che da gli esempi de' tre scrittori Bartolù Oh Gello, e' mi ricorda, a questo proposto de la dolcezza de la testura del parlar nostro, che messer Ales- 1À6I0NAMB1ITO INTORNO ALLA LIN6DA. 317 Sandro Piccolaomini, persona dottissima e tanto rara qaanto lo sai, ritrovandosi in casa mia, e leggendo aicani scritti dì questi nostri, rivoltatosi a me, disse: come può e' mai essere, messer Cosimo mio, che non essendo le patrie nostre più lontane V ttna da V altra che trenta miglia, noi altri non abbiamo le clausole cosi dolci e gli andari tanto piani e si ordinati, quanto gli veggiamo e sentiamo in voi Fiorentini? GéìU. £ voi vedete bene che tutti costoro che fino ad oggi hanno fatto le regole del parlar toscano, distendendosi ne le declinazioni solamente, si hanno passato la costruzio- Be senza parlarne se non pochissimo, come cosa troppo difficile e ad essi forse mal riuscibile. Laonde, circa il for- mare queste regole, non mi affaticherei molto ne là prima parte ; ma dichiarate le parti de la orazione, e dimostrate le declinabili e le indeclinabili, e gli esempli de' verbi, mas- simamente con quella diversità che è tra V uso moderno e quello che e' dicono de' nostri antichi, me n' andrei tutto a la costruzione. Ne la quale, consistendovi (come ho detto) tutta la importanzia di questa lingua, vorrei io certamente usare una diligenzia più là che estrema , togliendo da' tre sopra detti tutto quel che fusse ben detto. Il che, al giudizio mio, solamente sarebbe quello che V uso di oggi si ha man- tenuto ; essendo V orecchio nostro inclinato naturalmente a lasciar sempre le cose aspre, dure e difficili , e seguitare le dolci e le facili. Per la qual cosa, giudicando io che oggi si favelli meglio in Firenze che in nessun de' tempi passati, attribuisco molto a l' uso, non di Mercato e del vulgo vile, ma de' nobili e qualificati de la nostra città, come io dissi poco di sopra. Bartoli. Questo è appunto l' ordine stesso e il modo che il nostro GiambuUari tenne in quelle sue regole, che egli, già son tre anni, donò a lo illustrissimo signor Don Fran- cesco de' Medici primogenito di Sua Eccellenza. Gellù Voi dite il vero, che il GiambuUari che mi è quello amico che voi sapete, me le conferi molte volte, e massi- mamente r anno passato, quando eravamo in questo maneg- gio : e perchè e' mi parve sempre che egli avesse trovato la vera via, e con una diligenzia maravigiiosa fatto ciò che 27» 318 KAGIONAMBIITO INTORNO ALLA LINGUA. fosse possibile farsi in questa naterìa, però metto io a campo di nuovo lo stesso modo die egli ha tenuto» Ma per- chè non le comunica egli oramai con la stampa a taUe le genti che le desiderano? BartoìL Sta di buona TogUa, Geiio, che io ne Tho tanto contaminato»* che egli finalmente mi ha dato non solo esse reg(^9 ma e libera e pimia licenzia che io ne &ccia la vo- f^ia mia. E cosi fra non molti giorni comincerò a fturle stam- pare, che di tanto son convenuto col Torreatmo. GM. Sollecitate dunque, messer Cosimo mio, perché farete gran benefizio a chi desidera imparar dal buono. Ma perchè noi siamo oramai vicini a l'ora de la nostra cena, rimanetevi con Dio, che a casa sono aspettato. Bartolù Dì grazia, cena con esso meco. GellL Non questa sera, messer Cosimo, che dovendo tro- varmi in un altro luogo, non posso mancar de la mia pro- messa. Restate con la buona notte. BmtkdL Poi che cosi ti piace, va' ool oom» di Dio. Tanto fu, messer Pierfranoesoo mio onorando, il ragio- namento che avete chiesto ; e messer Cosimo nostro ve ne può render testimonianza: Catene adunque come di cosa vostra, che io ve ne fo un presente, e vivete felice^ ricordan- dovi che il GeUo è vostro. Di Firenze, il xvm di febraio MDLL * Come ora si direbbe importunato, o seccato. Velia Crusca non è con que- sto significato.
Thursday, March 24, 2022
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