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Thursday, March 31, 2022

GRICE E FERRARI: RIVOLUZIONARIJ

 Concludiamo. Interrogala sotto ogni aspetto, la filo-  sofia conduce a due inevitabili conseguenze, il regno  della scienza, il regno dell'eguaglianza. Questo era l'in-  tento dei primi filosofi, questo è l'intento della rivo-  luzione. 'I primi filosofi ne furono i precursori: ma  traditi dalla metafisica , sentivansi solitari , impo-  tenti , inviluppati da ostacoli infiniti; e invocando  i demoni, le favole , un artifizio estrinseco , un fe-  lice inganno , cadevano sotto il felicissimo inganno  della chiesa; Socrate non poteva regnare se non sotto     362 PARTE TERZA — SEZIONE TERZA   la protezione di Cristo. Ma la rivoluzione liberò questo  prigioniero delia teologia, ne divulgò la parola, la tras-  mise a tutti gli uomini, e vuol costituire l'umanità sulla  terra colla forza della scienza e con quella del diritto.  Da mezzo secolo la metafisica tende un'ultima insidia  alla rivoluzione trasportando il problema della scienza  nelle antinomie dell'essere, e il problema dell'egua-  glianza nelle antinomie del diritto. Ne consegue, che  abbiamo il regno della scienza fatta astrazione dalla  verità, il regno della libertà falla astrazione dai dogmi,  il regno dell'eguaglianza falla astrazione dal riparlo, il  regno dell'industria fatta astrazione dal capitale: e  s'incoraggiano le nazionalità senza badare all'uma-  nità; si pensava perfino a fondare un impero meno  l'impero, un papato meno il papato, quasi fosse pro-  posito deliberalo di predicare la rivoluzione meno la  rivoluzione, mantenendoci in eterno nel regno dell'im-  possibile. I miseri cavilli della metafisica sarebbero  morti nel vuoto delle scuole, se leggi equivoche a di-  segno non li avessero tratti in piazza per stabilire  una tregua tra la rivoluzione e la controrivoluzione.  Ma la tregua non regge; ad ogni momento vediamo  avvicinarsi il giorno della guerra, e se ad alcuni può  parere lontano, e se altri possono consigliare di dare  tempo al tempo, si ricordino gli uomini di poca fede  che quando la scienza scopre un errore per quanto  sia teorica, lo lascia smascherato per sempre, e chi  lo difende più non regna, e se sì ostina cade scon-  fitto e accusato d'impostura. Si ricordino che la fede  negli avvenimenti imprevisti non è cieca e viene au-  torizzala dalla forza del vero che oggi tradito si ven-  dica domani col corso naturale degli affari , delle     CAPITOLO NONO 363   guerre, delle paci, della ricchezza, e perchè ogni  verità è un valore, chi la scorge se ne impossessa  e la sconta, e tiranno o tribuno giova a lutti sotto le  forme più inaspettate. Si ricordino che non vi fu mai  progresso che non toccasse alla proprietà o alla reli-  gione che non venisse dalla scienza e dall'eguaglianza  e che non si dovesse irnaginare con ardimento scanda-  loso quasi fosse una profanazione. Si ricordino da ultimo  che il dato di Voltaire, di Rousseau, di Weisshaupt  ferve in ogni cuore; e, tolto il velo dell'astrattezza, già  dairso al 93 quattro soli anni bastavano per passare  dalla teoria alla pratica e per sostituire una genera-  zione di tribuni, di generali, di insorgenti, di dittatori,  di uomini d'azione all'inoffensiva generazione dei filo-  sofi mandati alla bastiglia e qualche volta perfino pro-  tetti tanto sembravano lontani dalla realtà. Quanto a  noi figli del passato, discepoli degli stessi maestri  da noi discussi, visto nella critica l'arme che ferma la  metafisica e che ne scaccia le vane larve e gli inutili  tormenti dal campo della rivelazione naturale, visto  che rinchiusi nel fatto, legali alla terra ogni giorno,  ci sottrae alla rivelazione sopranaturale comunque si  gradui il progresso e possa prendere delle forme mo-  struose e talora nemiche, dal momento che sentimmo  compiersi nella nostra mente la filosofia della rivolu-  zione secondo l'inflessibile suo disegno, la linea retta fiparve la migliore e il dissimulare ci parve tradimento. Per sette anni il Ferrari tacque : non pia stu-  di pubblicati sulle riviste francesi per far conosce-  re al mondo T Italia del passato e del preseme,  non più opuscoli politici per tracciare piani d'a-  zione pamphlets violenti contro i suoi avversa-  ri: gli amici lo avrebbero potuto creder morto.     - 8o —   EpIHjre la sua operosità si svolgeva occulta sotter-  ranea silenziosa, tanto più assidua quanto meno  era visibile: abbandonato il campo del giornali-  smo dove le tracce del lavoro sono ben presto  cancellate dall'incalzare di sempre nuovi proble-  mi e dalle richieste di gusti sempre mutati, la-  sciato il tumulto della vita politica, U Ferrari si  era dedicato totalmente alla pura scienza. Il pre-  sente Io affliggeva ed e^i si volgeva al passato ;  l'Italia pareva ricaduta nella schiavitù e nell'abie-  zione, ed egli la volle studiare libera e regina,  quando marciando a capo di tutte le nazioni tra-  smetteva l'urto delle sue continue rivoluzioni al  mondo.   Il Medio Evo italiano, il campo chiuso della sua  attività storica, era sempre stato il suo lavoro e il  suo tormento: grande nell'insieme e nei suoi più  piccoli frammenti pareva che volesse sottrarsi ad  ogni interpretazione razionale e organica, come  se sotto il bel cielo d'Italia l'unica legge che go-  vernava le continue rivoluzioni di cento stati dif-  ferenti gli uni da^i altri come posti agli antipodi  fosse il caso, il capriccio della fornina, l'arbitrio  dell'individuo. Tutte le altre nazioni presentavano  uno svolgimento storico organico, una forma po-  litica costante che le contradistingueva in ogni e-  poca : ai tempi di Ugo Capeto come a quelli di  Napoleone III la Francia era sempre stata la na-  zione della monarchia unitaria; la Germania era  ancora governata dalla Dieta federale, l'Inghilter-  ra dalla Camera dei Lordi come ai tempi di Otto-  ne I e di Guglielmo il Conquistatore. Ma l'Italia     — 8i —   Qon poteva ridursi sotto nessuna categoria politi-  ca; uè al principio della monarchia né a quello  ddla repubblica, né all'Impero né al Papato :  ftemmeno ad un sistema federale che raccoglies-  se in organismo la varietà tumultuosa ed eslege  dei ^uoi stati. {Rivoluzioni d'Italia, Voi. I, pag.   Il):   Da molti anni queste considerazioni si svolgevano  lentamente nel mio spirito, per rendermi enigma-  tiche e impenetrabili le vicessitudini di Milano di Fi-  renze di Roma di Genova di Venezia, di tante città  unite dal suolo e separate da irreduttibili diiTerenze.  Qualunque fosse lo splendore estemo dei fatti, eran  pur sempre vittorie senza scopo, sconfitte senza cau-  sa, rivoluzioni senza idee, guerre senza soluzione.  Le cronache degli Scriptores rerum Italicarum mi  apparivano quasi statue rovesciate, quadri capovolti,  medaglie sparse di un museo che una vandalica igno-  ranza avesse devastato. Tutte le serie, tutte le simme-  trie essendo dissestate da una mano sconosciuta; po-  tevasi dire che TAriosto solo colla noncurante sua  ironia avesse il diritto di sognare liberamente in mez-  zo a questi cenci pomposi. Ma se la fecondità lussu-  reggiante degli avvenimenti si rivoltava contro o-  gni unità imperiale o pontificia; se essa facevasi gio-  co delle repubbliche, delle signorìe, del candore dei  cronisti e degli artifizi della retorica; se essa com-  piacevasi di sconcertare tutti i sentimenti e tutte le  analogie: io vedevo tanta grandezza dell'insieme e  una tal forza nel minimo frammento, da non potermi  arrendere all'idea che la patria di Gregorio VII e  della Divina Commedia ingannasse l'aspettativa de-  stata dal sentimento del bello, .per non essere se  non un cumulo di accidenti eslegi.   n Ferrari volle scoprire il spreto di una cosi   A. PnutUU — Oiit80pp€ FtrrarL •     — 82 —   misteriosa apparenza, la legge vitale di un orga-  nismo così complesso, lo scopo di una coA ab-  bagliante fantasmagoria. Si tuffò nella storia me-  dievale fino agli occhi : senza fermarsi alle com-  pilazioni volle risalire alle fonti originali, meditò  su tutte le pagine degli Scrìptores rerum Italica-  rum, rìsfogliò le cronache, rivisse tra la polvere  erudita coi vescovi e coi consoli coi settari e coi  signori del buon tempo antico: e cosi mentre la  turba degli gnomi, non comprendendo la sua soli-  taria libertà superiore alle borie del nazionalismo  miope e pettegolo, lo accusava di vilipendere la  sua lingua e la sua patria, egli preparava in silen-  zio airitalia uno tra i più bei monumenti di glo-  ria che potessero inalzarle i suoi figli.   Le Rivoluzioni d'Italia furono pubblicate la pri-  ma volta a Parigi in francese nel 1858, ripubbli-  cate in italiano tradotte dell'autore nel 1870-1872 :  in questa seconda edizione, nonostante gli studi  posteriori in seguito ai quali credette di avere  scoperto la filosofia della storia e la legge perio-  dica del movimento storico, guidato da un istin-  to fortunato, non la ritoccò quasi affatto, non osò  guastarla per farla servire alla sua teoria; quin-  di noi terremo sott*occhio pel nostro studio Tedi-  zione italiana, da cui son tolte le citazioni e a  cui si riferiscono i rimandi.   Per quel che già conosciamo della costinizione  intellettuale del Ferrari, possiamo fin d'ora giu-  dicarlo 11 tipo dello storico perfetto, perchè egli  riunisce l'intelligenza artistica alla comprensione  filosofica e al criterio di un sistema formato. Tut-     - 83 -   ti ì grandi storici sono artisti: artisti neil'inter-  pretare gli uomini e i fatti, artisti nel rappresen-  tarli e atteggiarli davanti al lettore in modo che  sembrino attuali e spirino vita. Sono anche filo-  sofi, in quanto hanno una WeUanschaung da cui  traggono i criteri della interpretazione e del giu-  dizio; ma di solito il loro sistema non è che im-  plicito e irrìflesso come quello di qualsiasi indivi-  duo che non si dedichi di proposito alla filoso-  fia; qualche più rara volta c'è, ma preso a presti-  to, non rielaborato né rivissuto individualmente,  rimane estrinseco e astratto. Orbene la grandezza  unica del Ferrari, la sua caratteristica qualità, con-  siste nell'avere a fondamento della sua interpreta-  zione un vero formato originale sistema filoso-  fico.   Non solo. Questo suo sistema, che anche og-  gi è in gran parte vivo perchè rientra nel corso  delle grandi concezioni, è il più adatto a dare u-  na base filosofica all'interpretazione storica; per-  chè considera la reahà come movimento, ed è tut-  to pervaso dalla persuasione della razionalità che  governa la realtà e la storia. Cosicché per quan-  to il Ferrari come politico sia un uomo di parti-  to militante e quanti altri mai fermo nelle sue  idee, amante delle posizioni nette, insofferente  degli equivoci; come storico noi possiamo essere  sicuri che guarderà la storia dall'alto, saprà giu-  dicare libero totalmente dalle preoccupazioni po-  litiche del momento, saprà rispettare la veneran-  da grandezza del passato senza querimonie per  gli eroi mancanti e per le cause sconfitte, non fa-     - 84-   rà ddla narrazione dd passato un pamphlet <x)n-  iro i suoi avversari ddl'oggi. In una parola sarà  imparzude. Questo è il suo significato ragioaevo-  le di una simile rìciiiesta dd senso comune, il  quale esige non che lo storico non abbia un pun-  to di vista a cui è impossibile sottrarsi; ma che  abbia un punto di vista elevato, donde sì giustifi-  chi, non si faccia il processo alla storia.   Riepiloghiamo brevemente il sistema del Fer-  rari, integrando la sua concezione più propriamen-  te filosofica, cioè di valore assoluto, con le deter-  minazioni empiriche onde egli cerca di dare una  formula generale al movimento storico.     II.     Il mondo è alterazione svolgimento rivoluzio-  ne; la storia è la narrazione di questo movimen-  to intemo ed estemo, prodotto dall'antitesi delle  contradizioni critiche insolubili ideali, e dalla lot-  ta delle contradizioni positive reali che si cond-  liano in una specie di equilibrio dinamico. In o-  gni momento nel mare enorme ddl'umanità l'in-  dividuo che ne fa parte come tm'onda o meglio  ancora come una goccia ha suoi interessi parti-  colari su cui nasce una sua rivdazione morale  <1); messo di fronte a nitti gli altri innumerevoli  suoi simili, mossi pure da forze utilitaristiche e  morali varie e a volte contrastanti, lotta per eon-  dUare le contradizioni in tm dstema politico, che     (i) Non è se non la proclamazione del determinismo econo^  micCj che egli applica poi nel coreo della ina storia.     -85-   si attua sopramtto d^tro i confini dello stato.  Ma ogni sistema» per legge ineluttabile di natura^  nutre dentro di sé un sistema opposto destinato  a succedergli (1). La stocianoa è altro se non la  narrazione del succedersi di questi sistemi nati  da^i interessi e dalle rivelazioni morali variabili  dell&'masse» divise tra loro> da una specie di lot-  ta di cla|^e^<:te.r}esce^a. propagare sempre più la  democrazia e a conquistare una più larga egua-  glianza.   Come si attua questo progresso dentro Io star  to? Lo stato è duali^ato in due paniti contra-*)  stanti che polarizzano gli interessi delle moltitur  dini, il pardto rivoluzionario e il partito conser-  vatore. La rivoluzione assale la forma tradizio-  nale dello stato a nome di un nuovo principio, di  una più larga democrazia^ con la forma politica  opposta; monarchk)a negU. stati repubblicani^ fe-  derale negli stati unitari, cattolica contro i pro-  testanti,, erviceyersa. Vince perchè il progresso è  necessità fatale della storia; ma appena il prin^  cipio da essa propugnato è stato accettato essa  viene vinta dal partito conservatore, che traspor-  ta il nuovo principio sulla base politica tradiziona-  le onde lo stato si difende dallo stranilo.   Perchè lo jstaio non è solo sulla terra; ai suoi  confini un altro organismo nemico vive con in-  tere^, cQnidoe, con tendee^o opposte. L'uma-.  nità è quindi una specie di scaochiejra di nazioni  che si prendono vicendevolmente a rovescio, un     (i) Cfr< la notfi teorìa di Marx.     — 86 —   enorme meccanismo di ruote dentate ingranate  runa nell'altra che girano in senso contrario, un  sistema di forze disposte cosi che il partito oppo-  sitore intemo di uno stato i sempre d'accordo col  partito dominante dello stato vicino e rivale. O-  gni stato è quindi straziato da una guerra inter-  na e nello stesso tempo combattuto da una guer-  ra estema : la lotta sociale domina e regge la  lotta politica. Poiché appena dentro uno stato  trionfa un nuovo sistema sociale, vien creata una  nuova forma che allarga sempre più la democra-  zia e Teguaglianza ; il movimento si diffonde a  tutte le altre nazioni come il cerchio sollevato da  una pietra gettata nel lago: e il nuovo sistema  sociale vien trasmesso dal lavoro delle minoranze  oppositrici a tutti gli stati. Guai se uno stato at-  tarda troppo nella strada della rivoluzione socia-  le! Esso vien conquistato da altri stati di civiltà  superiore. Guai se non adotta la forma opposta  dd contrasto I Viene assorbito dal vicino più po-  tente.   Gli stati le nazioni le razze possono quindi de-  cadere e magari spegnersi, ma l'umanità non de-  cade e su una linea di progresso continuo passa  per una scala ascendente di sistemi sempre supe-  riori. Nemmeno nei periodi più oscuri di barba-  rie e più nefandi di cormzione si ha decadenza :  Anche un popolo vive esso è in progresso, pro-  gresso che può essere arrestato solo dal fatto fi-  sico della sua totale disparizione per un catacli-  sma naturale o per un eccidio universale. Rice-  verà l'impulso politico che una volta egli dava al-     - 87 -   le altre nazioni^ accettando le nuove progressive  forme politiche dall'esterno invece di crearle per  sua spontanea originale vitalità; perderà magari  Tindipendenza, ma la compenserà con un miglio-  ramento sociale per cui accetta il vincitore; vedrà  succedere al fiorire delle arti alla ricchezza indu-  striale e commerciale sterilità intellettuale e mi-  seria, ma avrà sempre un progresso sociale che  lo compenserà di questa sua decadenza.   Poiché fra popoli in lotta, come fra più indivi-  dui, è naturale che il più forte vinca. Ed è an-  che razionale. La forza dei grandi aggruppamen-  ti storici non è la forza fisica, non è il peso bru-  to del rinoceronte che schiaccia il fiore o il pu-  gno del facchino che tappa la bocca al tribuno;  ma è ordine, disciplina, saldezza economica, co-  scienza nazionale, è in una parola forza spiritua-  le. Non è la pura forza fisica brutale che vince  nel gran campo di battaglia della storia, ma è la  superiorità intellettuale e morale: la vittoria co-  rona sempre il più degno, fatalmente destinata  come la sconfitta; chi ha perduto se lo merita;  chi è conquistato : o s'è lasciato liberamente con-  quistare per godere di una civiltà superiore che  colle sue forze non poteva raggiungere, o si è  dimostrato nel paragone delle forze inferiore al  suo vincitore che in compenso della libertà per-  duta gli dà i vantaggi di un miglior sistema so-  ciale.   Certo gli uomini e gli stati agiscono spesso sot-  to l'impulso di bisogni materiali e di egoismi per-  sonali, ma la storia li adopera a tm fine che li     - 88 —   trascende; quella che Vico chiamava Pwwedenr  za ed Hegel Astuzia della Ragbne trae dalle azio-  ni egoistiche il bene dell'umanità, usa dei malvar  gi per un'opera buona, della cupidigia delle con-  quiste si serve per spandere la civiltà sulle regioni  selvagge o barbare, di Nerone per iniziare la  gran democratizzazione dell'Impero romano, di  Fernando Cortez per conquistare l'America a u-  na civiltà superiore. Il male nella storia non esi-^  ste come non esiste in natura : esso non è che in  quanto ha in sé il bene, un granello di bene che  solo gli permette di esistere; non è che un con-  cetto dialettico senza realtà (!)• ^ storia è dun-  que razionale. Non stiamo a spargere lacrime su-  gli eroi sconfitti e sui popoli caduti; la storia li  ha sacrificati con diritto a cause superiori : tatto  quello che è avvenuto è avvenuto razionalmente.  La storia dà dunque la vittoria al merito, pro-  gredendo con la legge del minnno sforzo. Date  tali forze in contrasto, la soluzione del sistema in  un fatto sarà rigorosamente quale doveva per il  valore delle forze; a quella maniera che in un  sistema di forze flsiohe il loro rapporto è deter-  minato dalla loro potenza. La storia è dunque ne»  cessarla : la serie degli avvenimenti che dai tem*  pi antichissimi arriva Ano a noi non poteva esse^  re diversa da quella che fu per arrivare a questo  punto. Questa è una necessità a posteriori:  non una necessità metafisica o teologica che     (i) Cfr. B/ Crock: Storiti, cronaca e false storte. — Na-  poli, Giannini, 1912 — pag. 24. — Questioni storiografiche^  Napoli, Giannini, 19:3 — passim.     • - 89 -   obblighi uomini e cose a seguire le linee di  un piano traéciaro in antecedenza» ma una neces^  sita interna che nasce dal gioco delle forze uma-  ne. Gli avvemmenti potevano variare, se le forze  fossero state diverse; e cambiato uno degli anelli,  la catena sarebbe certamente cambiata arrivando  fino a noi : non si sarebbe giunti allora a questa  mèta, ma ad un*altra imprevedibile, non meno  necessaria secondo il valore di quelle forze. Cosi  dalla storia vien cancellata la parola ca^o, che u-  na volta si usava a indicare la ragione ignota co^  me dai geografi ìò spazio bianco a indicare una  regione sconosciuta ; cosi vien cancellata là paro-  la Ubero arbitrio inteso come un misterioso potere  deirindividuo, che con la piccola fòrza della sua  volontà potrebbe alterare il corso degli avveni-  menti determinato dalle forze di volontà delFu^  manità intera. Per quanto un individuo voglia an-  dar contro corrente, egli è sempre Aglio del suo  tempo; per lottare contro esso deve accettarne la  base comune di credenze ^e perflho le parole del-  la discussione e le armi della battaglia; per quan^-  to sia isolato non può mai impedire che la società  lo insegua e lo tocchi per combatterlo o per ac-  clamarlo.   Non lasciamoci impressionare da certe parole e  frasi, che potrebbero far credere a una costruzio-  ne astratta a priori della storia : era nel carattere  del Ferrari di calcare la mano troppo violentemen-  te sopra certe affermazioni, di' mettere troppo in  rilievo i caratteri comuni delle cose, di dare la  forma assiomatica d'una verità assoluta a certb     — QO —   generalizzazioni di cui egli stesso riconosceva la  relatività. Cosi quella storia ideale, che secondo  certe sue parole dovrebbe essere qualche cosa  che rimane sopra ai fatti ad essi indifferente e su-  periore, assoluta sopra essi contingenti, come se  nel blocco unico della storia si potesse tagliar fuo-  ri il necessario dall'accidentale; ha qui perduto  quasi totalmente il significato primitivo e non è  altro se non una generalizzazione e semplificazio-  ne dei fatd storici fatta a posteriori, per poter  raccogliere i tratti caratti^istìci e per espediente  didascalico onde non dover tornare ogni momen-  to a ripetersi. Del resto il Ferrari stesso afferma  che questa sua storia ideale ricade d'appiombo a  coincidere colla positiva; ma una prova ben più  decisiva ce Toffre la sua storia stessa, la quale è  tutt'altro che una storia astratta a priori. Così il  Ferrari si compiace spesso, sforzando al solito  l'espressione, di chiamare geometrici, meccanici  certi movimenti, di dare come perfettamente e-  quivalenti certe rivoluzioni avvenute in forza di  uno stesso principio — viceversa poi nella narra-  zione fa vedere anche come, pur nate dallo stesso  principio, si svolgono con forme individuali.  Spesso pure e volentieri tira fuori la fatalità :  ma questa non è affatto l'opposto di libertà indi-  viduale che leghi con un misterioso potere pro-  veniente dalla natura o da Dio ; non è altro se non  la forza storica dell'ambiente, forza umana e im-  manente dell'umanità, della massa, che soverchia  naturalmente il conato d'un individuo.  Premessi questi chiarimenti, diremo che il suo     — 9» —   sistema storico possiamo accettarlo. Mio Dio, non  è di valore assoluto, non si attua quindi in tutti  i casi colla stessa necessità e precisione con cui  si attua un sistema fllosoflco : nonostante le sue  esagerazioni verbali il Ferrari stesso ne era per-  suaso, lo dimostra la sua opera. Ma perchè vor-  remmo noi interdirci la generalizzazione, che è un  processo necessario del pensiero? Che non si  prendano le generalizzazioni, queste entità astrat-  te, per realtà metafisiche; che non si costringa  nel loro letto di Procuste l'individuo — d'accor-  do. Ma perchè rifiutarle come strumento di ricer-  ca e mezzo di spiegazione e di esposizione? E'  generalizzazione evidentemente la divisione in pe-  riodi storici (sistemi o principi): la storia è un  corso continuo di avvenimenti simile a un fiume ;  ma come il corso del fiume si può dividere in  superiore e inferiore, così si può dividere, cosi  si è sempre divisa la storia. E' generalizzazione  il raccogliere gli innumerevoli partiti di uno sta-  to in regnante e opponente, ma essa semplifica e  spiega la realtà. La legge di opposizione, che or-  ganizza gli stati vicini in senso inverso gli uni de-  gli altri ,è pure una generalizzazione — e guai  se uno volesse applicarla rigorosamente I Pure la  forma politica de^i stati è una generalizzazione,  perchè questa forma un tempo non era cosi e in-  sensibilmente va sempre mutandosi. Lo stesso  movimento dei prìncipi considerati come qualche-  cosa d'assoluto, di perfettamente identico per tut-  ti gli stati che li traducono nelle loro forme poli-  tiche diverse, è una sempHBcazione generalizzata ;     — 92 - -   perchè qui contenuto o principio e forma sono  ruu'uno, non si possono scindere né l'uno dal-  l'altro, ni dagli uomini che li rappresentano, come  fossero delle entità metafisiche.   Di fronte a tanta ricchezza di pensiero non fac-  ciamo dunque i sofistici pesatori di parole, non af-  ferriamoci alla lettera cruda che uccide lo spirito,  sdegniamo un procedimento che distrugge colla  pedanterìa terribile dei cavillatori qualsiasi gran-  d'uomo; e abbandoniamoci con simpatia al nostro  autore cercando di intenderlo.   Vediamo ora come questi prìncipi vengono ap-  plicati airinterpretazione della storìa d'Italia.     UT.     L'enorme devastazione unitarìa di Roma aver  va sottomesso tutti i popoli del mondo antico al  dispotismo imperìale, per eguagliarli in una de-  mocrazia vittoriosa di mtte le aristocrazie nazio-  nali, per trasmettere loro la civiltà del pensiero .  greco e della legge romana. Ma dopoché e$8i eb-  bero conquistati i benefìci della civiltà e della de-  mocrazia; quando i Galli e gli Afrìcani, gli Ibe-  rì e gli Illiri furono tutti romani dinanzi all'ugua-,  gliatrice legge imperiale^ allora l'interesse e il  sentimento di patria li rivoltarono contro il fisca-  lismo micidiale dell'Impero che, flagellato dalle  onde del grati mare barbarìco minacciante ai con-  fini, era costretto per le necessita della difesa a  caricjBre di tasse i suoi cittadini o a maneggiare Je  invasioni cacciandole l'una con l'altra — e un prò-     — 93 ~   cesto di dissolvimento federale decompose la ci-  clopica unità romana. Una invasione barbarica  stabile venne accettata dai popoli per sfuggire al  flagello delle invasioni perpetuamente rinnovanti-  si che moltiplicavano le devastazioni (1); e la ca-  duta dell'Impero romano d'Occidente fu salutata  come una liberazione economica e politica, che  conservava intatto nitto il progresso sociale di Ro-  ma (476).   Odoacre venne dunque accettato dall'Italia co-  me liberatore; Teodorico, spedito contro di lui  per un bieco disegno di reazione dall'Imperatore  d'Oriente, una volta signore della terra doveva  assumere la posizione e continuare la missione  della sua vittima. (Fondazione del regno : 476-512).  Senonchè lo spirito uhiàno nei suoi deside-  ri non si ferma mai sotto la spinta di sempre  nuovi bisogni; e una volta stabilito saldamente  quel regno che li aveva liberati dal fiscalismo im-  periale, gli Italiani vollero conquistare una mag-  gior libertà, e si raccolsero attorno alla Chiesa  cattolica repubblicana e federale per assalire il  regno ariano e unitario dei barbari. Comincia la  Lotta contro il regno barbaro estemo (512-774).  Fulminati dalla potenza invisibile della Chiesd^  erede di Roma cadono gli eroici Goti (555) ; Nar-  sete, che vuole sfruttare la vittoria romano-bizan-  tina per rialzare una specie di regno bastardo,   (i) Cfr. C. Balbo: Della storia if Italia. Bari, Laterza,  1913. Voi. I, pag. 104 : Bisogna dire che parerle una benedi-  zione qnell' invasione stanziata dopo tante momentanee più cmdeli  e più sovvertitrici.     — 94 —   non può rimaner saldo sul terreno malfido. {Riv.  d'it. — Voi. I, pag. 69) :   ... Ecco i Longobardi che giungono [568]. In ap-  parenza marciano casualmente; formano una molti-  tudine densa sozza vorace, che scende lentamente  dai passi delle Alpi, si spande squallida compatta  ardente come la lava, sepellisce sotto di sé le città  che invade, le petriflca colFalito suo; nella sua bru-  talità non infrange nemmeno gli ostacoli ma li cir-  conda oltrepassandoli — ed invade metà della peniso-  la fermandosi subitamente senza ragione alcuna.  La scena è muta e desolata : si direbbe che tutto ce-  de a leggi esclusivamente fìsiche, e che i Longobardi  obbediscono al peso della loro propria materia.   Senonchè questa massa in apparenza bruta  di Longobardi evita a disegno tutti gli errori dei  Goti : non errano come soldati, ma si stabilisco-  no come un popolo di conquistatori nell'Italia del  Nord e nel centro, rinunziando alle inutili vitto-  rie del Mezzogiorno; fondano una rete strategica  di fortezze che sorvegliano e imprigionano le  grandi città romane sempre rivoluzionarie; trat-  tano i vinti da conquistatori, sottomettendoli alla  legge della spada e derubandoli del frutto del lo-  ro lavoro. Inutile: Tltalia romana e cattolica ri-  mane libera, sotto l'egida ufRciale della protezio-  ne di Bisanzio ; e S. Gregorio Magno papa (590-  604) divenuto capo della federazione romana e  rappresentante anche dei vinti del Regno, volta  contro la barbarie longobarda tutti i miracoli del-  la religione e la potenza spirituale del pontefice,  a cui una nuova teologia dà il potere di condan-     — 95 —   nare o assolvere i morti prima del Giudizio uni-  versale.   Le due forze antagoniste rimangono dunque di  fronte a influire Tuna sull'altra vicendevolmente :  ma se i Longobardi eccitano col loro esempio  r Italia romana a conquistarsi Tindipendenza poli-  tica da Bisanzio, sperando cosi di ingoiarsela do-  po; non possono sottrarsi all'influsso della Chie-  sa, che con una rete sotterranea di silenziose co-  spirazioni mina il sottosuolo dell'Italia regia per  mezzo dei suoi cattolici. Prima decompone il re-  gno opponendo al re ariano di Pavia, la capita-  le longobarda, il re cattolico di Milano, la capi-  tale romana ; e infine trionfa coll'avvento del cat-  tolico Liutprando. I Goti avevano commesso l'er-  rore di accettare il principio imperiale, i Longo-  bardi commisero quello di accettare il principio  cattolico : e paralizzati dalla inimicizia intema dei  cattolici, caddero sotto il fuoco incrociato della  rivoluzione romana e della eroica devozione fran-  ca (1). Per quanto più tunani dei mostruosi re  franchi, meno fiscali dei corrotti Bizantini, già  seminazionalizzati da un processo di fusione coi  vinti del regno; non furono mai accettati dall'I-  talia romana, che organizzata antiteticamente li  combattè con la rivoluzione col Papa coi Franchi.  L'Italia romana non voleva il flagello d'un regno     (l) Cfr. G, Volpe. Pisa e i Longobardi in Studi storici,  Pisa, 19Ò1, pag. 412:.. Non il re franco fu il vero vincitore,  ma 1* Italia e Roma, che avevan rotto la natia compagine delle  genti d'Alboino, già predisposte a ciò dall' antica costituzione  del popolo e dai modi della eonquista.     - 96-   .l>arbaro che avrebbe imbrìgliato la rivoluzione so-  dale, legato i gran centri romani nella rete delle  città militari in arretrato, sepellito sotto un'allu-  vione barbarica le reliquie della civiltà romana  conservate dal cattolicismo.   E per impedire che potesse mai formarsi un  regno su questa terra sacra alle rivoluzioni, de-  stinata a spandere il fuoco della libertà su tutta  l'Europa, l'Italia trasportò l'Impero in Occidente  (800). Come rappresentanti del nuovo patto so-  ciale che doveva essere la base del diritto pub-  blico dell'Occidente a loro sottoposto, il Papa e  l'Imperatore si divisero la penisola destinata ad  essere la custode del loro duplice potere euro-  peo : l'Imperatore ebbe l'Italia superiore, il Pa-  pa Ravenna il centro occidentale e tutta l'Italia  meridionale con le isole da conquistarsi ancora  3ui Bizantini. {Trasporto dell'Impero in Ocdden-  te: 774-888).   L'Italia perdeva quindi l'indipendenza naziona-  le, ma acquistava la libertà: e per tutti i domini  del Papa e dell'Imperatore il progresso sociale  migliorava le condizioni dei Romani, non più sot-  tomessi alla legge della spada barbarica, ma alla  giurisdizione dei loro vescovi; rialzava la sorte  delle città dell'industria e del commercio a danno  (dei centri militari; soffiava nelle ceneri calde del-  la coltura romana ad attivarne nuove scintille .So-  lo le terre ancora escluse dal patto papaie-impe-  riale, Venezia, le repubbliche meridionali, la Si-  cilia, scontavano amaramente la loro indipenden-  za politica con una inferiorità sociale, prodotta     — 97 —   dalla confusione bizantina dd potere temporale e  del potere spirituale, la quale impediva la gran  libertà del pensiero.   Intanto Tunità dell'Impero d'Occidente andava  decomponendosi sotto gli inetti successori di Car-  lo Magno, e l'Italia marciava ancora alla testa del-  le nazioni insegnando loro a conquistarsi una li-  bertà federale (888).   Ma poiché da questa risorge lo spettro micidia-  le d'un regno barbaro interno, la rivoluzione pa-  pale e imperiale sempre regnante approfittando  delle rivalità tra i feudatari rende impossibile il  regno d'Italia, lo condanna a non essere che una  lotta di pretendenti, offrendo sempre la corona a  due rivali e rialzando sempre il vinto contro il  vincitore (Lotta contro il regno barbaro interno :  888-962) finché invocato dalle rivoluzioni italia-  ne giunge Ottone I a rinnovare il patto papaie-  imperiale. Egli distrugge per sempre il regno, di-  sorganizza le marche dei discendenti dei barba-  ri, esalta il clero romano, protegge i comuni ita-  liani. La rivoluzione italiana si propaga a tutte  le nazioni europee e modifica al suo esempio an-  che la Chiesa. {Riv. d'Italia — Voi. I, pag. 250) :   L'Europa trovasi disposta come gli intervalli di  «no scacchiere, gli uni bianchi gli altri neri, gli u-  m unitari gli altri federali; presso gli uni la reli-  gione prevale sulla legge, presso gli altri la legge  primeggia sulla religione; i primi progrediscono con  l'eguaglianza, i secondi con la libertà. La necessità  della guerra condanna tutti i popoli a svolgersi al ro-  vescio gli uni degli altri ; la stessa necessità della guer-   A. Fbrrari — Giutéppt Ferrari. 7     - 98 -   ra li obbliga pure ad accettare coll'una o coiraltra delle  due forme la rivoluzione italiana che si propaga. Ci-  gni stato in ritardo, ogni popolo che dimentica sé  stesso che non prende la sua base d'operazione in  opposizione ai suoi vicini, si trova debole impotente  in contradizione con se stesso e soggiogato. Se si  cerca Tinfluenza italiana in .una propaganda diretta»  uniforme, non si scopre e bisogna negarla; se inve-  ce si segue nell'urto delle azioni e delle reazioni che  si estendono opposte le une alle altre.... si vede dap-  pertutto la catastrofe del regno d'Italia riprodotta con  esattezza similare, dappertutto l'antico stato carlo-  vingio o pagano sparisce per cedere il posto ad un  nuovo stato libero colle diete o popolare col re.   IV.   Liberata cosi per sempre dalla tirannia unita-  ria di un re l'Italia può abbandonarsi alla carrìe-  ra magica delle sue rivoluzioni, che sembrano  frantumare in moti individuali variati disordinati  la sua ideale unità di nazione, e a prima vista ci  appaiono refrattarie a qualsiasi principio organi-  co di interpretazione (Riv. d'Italia — Voi. I, pag.  256):   Fin qui noi abbiamo potuto sottomettere tutto al-  l'azione dei principi; e la storia d'Italia si svolgeva  una e logica, dominando i più svariati avvenimen-  ti con una specie di continuità drammatica un tem-  po vasta come il mondo. Odoacre abbraccia l'intera  nazione col fatto unico del regno proclamato contro  gli ultimi imperatori, che accampati da .banditi a  Ravenna abbandonavano Milano ed Aquileia agli Un-  ni e Roma ai Vandali. I Goti continuavano l'opera di  Odoacre, fissando l'invasione unica del re in tutta     — 99 —   l'Italia. Bdisarìo e Narsele lottavano pure quali ca-  pitani dell'unità Imporàde contro il ragno tondKo so  Ravenna; e tutte le città, scacciando i Goti, si ria-  nimavano con un risorgimento quasi repubblicano.  Più tardi i due principi opposti dell'unità imperiale  e dell'invasione regia si spartivano materialmente la  penisola; e la terra, metà romana, metà longobarda,  rimaneva una nella guerra dei popoli cattolici del Mez-  zodì contro la dominazione ariana di Pavia; ancora  una nel doppio slancio che estolleva le repubbliche  cattoliche e il regno longobardo; sempre una nell'in-  fallibile trionfo della religione delle repubbliche, che  consegnava il regno a Carlo Magno per rifare l'Im-  pero d'Occidente. L'unità sopravviveva nel patto di  Carlo Magno esteso a tutta la vera Italia dipendente  da Roma e da Pavia; continuava colla reazione dei  Berengario degli Ugo e dei papi quasi bisantini, tutti  egualmente nemici del Papato e dell'Impero; l'unità  si mostrava di nuovo nelle rivoluzioni posteriori con-  tro la falsa indipendenza dei dogi di Roma e dei re  italiani. Ad onta dell'anarchia e dei rivolgimenti di  quattordici rivoluzioni, noi abbiamo visto la terra or-  dinata nelle sue lotte, uniforme nel suo ultimo trion-  fo, unanime nel disegno che rinnovava il patto della  Chiesa coli 'Impero. Costituendo fin dai primordi t  due principi della rivoluzione cattolica e del regno  nazionale, s'intendeva facilmente il senso di tutte le  lotte; dal momento che una guerra scoppiava dove-  va essere la guerra dei due principi : ci bastava il se-  guire le due correnti, il nostro lavoro era eccezio-  nale senza esser diffìcile, l'unità delle idee suppliva  all'unità materiale dei fatti. Noi avevamo il diritto di  sottomettere ad una unità eccezionale il moto ecce-  zionale del Papato e dell'Impero; Napoli, Venezia,  Bari, la Sicilia, Amalfi, Gaeta si scostavano da se  stesse per lasciare il posto alla geografìa pontifìcia  imperiale; e queste repubbliche ordinate al rovescio  della vera Italia ne confermavano l'unità rivoluzio-  naria, la sola che importava di seguire.     — lOO —   M« dai primi anni del XI secolo cambia la scena;  il moto generale scioglie ^uestltalia che già scon-  certava la critica: o^i città ha il suo eroe, le sue  rivolttzioni, le sue guerre, il suo destino. I comuni  non sembrano punto associati; nesstma federazione,  nessuna lega, nessun' unione generale e apparente:  Milano è straniera ad Ancona qtianto Arles Treverì  o Cambra!. I popoli si combattono, gli avvenimenti  si incrocicchiano in tutti i sensi, gli episodi sono in-  numerevoli. Alcune città fondano delle colonie, altre  si estendono colle conquiste, giungono i Normanni,  la Chiesa si rivolta contro Tlmpero: quanto piti c'i-  noltriamo, tanto più le forze della guerra e della li-  bertà sembrano scatenarsi a caso. Lo spirito si tur-  ba; l'Italia cessa di comprendere se stessa; i suoi  storici non abbracciano più l'insieme della penisola:  Giordanes, Paolo Diacono, Vamefrìdo e Liutprando  non hanno successori; più non si scoprono se non  dei frammenti di cronache, delle scene staccate. Più  tardi ogni città ci presenta la sua biblioteca dì scrit-  tori, i suoi poeti della barbarie municipale, il suo Ci-  merò che canta nuove Iliadi. Eccoci in presenza di  cento storie distinte diverse contradittorie, senza le-  game palese: noi lo domandiamo, dove sarà la sto-  ria d'Italia?   Le nostre proprie idee ci danno il filo che ci gui-  da attraverso il labirinto italiano. I comuni s'impa-  droniscono del suolo per interpretare la vittoria da  essi riportata col Papato e coli 'Impero; essi proseguo-  no la loro guerra contro il regno, combattendo ogni  rimembranza, ogni istituzione che richiama la legge,  la forza, l'aristocrazia, l'esercito, la dominazione dei  re; questo è lo scopo loro; essi marciano contro il  Papa e l'Imperatore per distruggere nell'uno e nel-  l'altro ogni principio che conserva le tracce dei Go-  ti, dei Longobardi, dei barbari dell'Italia o dell'Euro-  pa. La storia dei comuni non è dunque altro che la  storia di una rivoluzione continua, lenta, fatale, e  sempre trascinata dai suoi propri antecedenti a com-     — IDI —   battere il vecchio Papa e il vecchio Imperatore della  barbarie, per creare un Papato, un Impero ideale,  donde spariscano in modo cosmopolita tutte le trac-  eie della dominazione delFuomo sull'uomo.   Un grand 'errore ingombra la storia d'Italia, ne  sconvolge i prìncipi il moto le epoche il progresso,  e snatura il senso di tutti gli avvenimenti: ed è  l'errore che la considera come il racconto di una  guerra continua contro il Papa e l'Imperatore per  conquistare l'indipendenza politica del governo o, co-  me si dice in oggi, per respingere l'invasione dello  straniero. Sotto questo aspetto l'Italia non sarebbe  mai stata, la prima delle nazioni, e la sua storia riu-  scirebbe a questa assurdità inammissibile: che do-  po cinque secoli dì guerra non avrebbe né raggiun-  to, né voluto lo scopo stesso della guerra. No! nac-  que l'Italia pontificia e imperiale contro i Goti, con-  tro i Longobardi, contro i re italiani provenzali e  burgundi; nacque creando e interpretando il gran  patto della Chiesa coli 'Impero; dominò le stesse con-  quiste carlovinge cogli incanti della religione e colla  magia della consacrazione imperiale: fino dai tempi  di Teodorico la Chiesa e l'Impero sono stati i sim-  boli della sua libertà, della sua redenzione, di ogni  sua idea liberatrice sulla terra e nel cielo nel fatto e  nel possibile; e con la costituzione dei due poteri  essa ha organizzato una rivoluzione permanente, uni-  versale, indefinita nelle sue aspirazioni verso l'avve-  nire. Il primo dei suoi capi sotto l'aspetto politico è  l'Imperatore, il più debole il piii legale il piti fede-  rale dei re; il secondo suo capo è il Papa, cioè il  più inerme tra i principi, il meno conquistatore dei  sovrani: non avvi dunque conquista alcuna sul suo-  lo italiano, ed al contrario il regno che era conquista-  tore venne schiantato con una guerra così violenta  che tutti gli stati dell'Europa ne rimasero scossi. Per-  tanto non vi ha, né vi sarà mai guerra alcuna d'indi-  pendenza; Il Pontefice e l'Imperatore non avranno se  non pochissimi soldati, sempre costretti a fondarsi     — I02   sulla forza stessa della terra. Che, ss sono assaliti,  si è perchè sono oltrepassati dagli Italiani che voglio-  no riformare il patto» che chiedono sempre un mi-  glior Papa che non esiste, un Imperatore che dev'es-  sere rifatto: nò punto reclamano una vuota indipen-  denza; ma sostengono una guerra costituzionale in-  tima organica per trasformare le idee le istituzioni  la religione, una guerra dove il principio di respin-  gere gli stranieri è sempre posposto al principio di  distruggere ogni istituzione regia o feudale. E se il  Papa e Tlmperatore resistono, non combattono se  non come conservatori quasi indigeni, sostenuti dalle  reazioni inteme che la libertà provoca e sormonta,  imponendosi loro cosi d'epoca in epoca fino agli ulti-  mi giorni del risorgimento italiano. La storia dei co-  muni, considerata in tutta la sua durata, non è dun-  que la storia di una guerra contro lo straniero, fatto  unico materiale mille volte impotente; ma è la sto-  ria di un fatto ideale organico sempre crescente: e  poiché là dove le idee regnano il caso non può re-  gnare, l'oscurità del labirinto italiano deve sparire - e  qualora restasse la colpa sarebbe nostra. La rivoluzio-  ne è la stessa in tutte le città : da per tutto essa ha lo  stesso punto di partenza — la caduta del regno, lo  stesso punto d'arrivo — il risorgimento italiano; da  per tutto si svolge colle medesime idee rette dalla  medesima logica; lenta o rapida, squallida o splen-  dida, vittoriosa o vinta, le sue fasi sono determina-  te anticipatamente dall'inflessìbile destino che sforza  i principi a generare le loro conseguenze. Che i mil-  le accidenti della guerra turbino adunque l'Italia, es-  si saranno tutti travolti da una sola corrente; e vi  sarà sempre una storia ideale e uniforme, comune  a tutte le città da Ottone I alla flne del risorgi-  mento.   La storia ideale della città italiana si ripete a un  patto di Carlo Magno, che essa interpreta e che tra-  sforma di continuo. Di fatto il Papa e l'Imperatore  noli intendono che a mantenerlo nel senso il pih tar-     — I03 —   do, se ne dichiarano apertamente conservatori; la  loro opera è sempre una restaurazione imperiale e  pontificia. Ma hannovi forse restaurazioni nella sto-  ria? Noi non ne conosciamo: gli antichi poteri che  diconsi ristabiliti si trovano sempre trasformati, e  non trionfano se non accettando Topera del tempo, e  non ricompaiono sulla scena se non alla condizione di  rappresentare i principi che la fatale ignoranza del  governo tradizionale lasciava ai loro nemici. Stessa-  mente il Papa e l'Imperatore compiono 'le loro re-  staurazioni così dette eterne, seguendo passo passo  la storia delle città italiane di cui amnistiano le ri-  bellioni e accolgono le innovazioni. Egli è giusto che  resistano; se non resistessero la rivoluzione non a-  vrebbe nessuna ragione per manifestarsi e nel me-  desimo tempo la storia ideale si fermerebbe. Ma e-  gli è altresì giusto che, una volta sconfitti, si rista-  biliscano, accettando il progresso che si è fatto stra-  da e che passa allo stato di fatto compiuto o di fa-  to ineluttabile; ed è così che tutte le epoche della  storia ideale si riproducono nel patto di Carlo Ma-  gno colla Chiesa. Una volta nel patto, esse si ripeto-  no in tutti gli stati dell'Europa. Non sono forse il  Papa e l'Imperatore i due grandi personaggi dell'Oc-  cidente? bisogna dunque che propaghino da per tut-  to le idee da essi rappresentate: d'altronde tutti gli  stati non si svolgono forse simultaneamente gli uni  contro gli altri? devono quindi accettare ogni pro-  gresso, non foss'altro per combatterlo.   Ecco quindi la trama ideale su cui scorrono tut-  te le rivoluzioni italiane; la legge che ne governa  la varietà a prima vista irreducibile di forme, e  le costringe ad essere incasellate entro il quadro  di due reazioni imperiali e pontificie. E' questo il  periodo storico che il Ferrari ha studiato con più  amore e trattato con più larghezza i la storia an-     — I04 —   t^rìorc al 962 e posteriore al 1530 è rispetdva-  mente conaiderata come imrochizione e come epi-  logo alla epopea di quel che egli chiama risorgi-  mento italiano.   Allontanato per sempre il perìcolo d'una tirai^  nide regia colla rinnovazione del patto papalo-  imperìale e col trasporto dell'Impero in Germa-  nia, r Italia che fln qui era stata l'alleata dd Pa-  pa e dell'Imperatore comincia a combatterli ma  non per distruggerli, bensì per riformarli, tra-  scinata dagli antecedenti aUa lotta senza quartie-  re contro ogni rimembranza del regno.     La rivoluzione dtì Vescovi (962-1122) apre la  serie. Nella città sfuggita ormai all'incubo dd re^  gno ecco si trovano di fronte due poteri : il conte  goto longobardo o franco di discendenza, che vor-  rebbe riprodurre in piccolo dentro la cerchia dd-  le mura cittadine la tinmnide regia, che governa  cdla legge ddla spada il popolo di discendenza ro-  mana; e il vescovo romano di razza e di tradi-  zione che protegge i deboli contro la prepotenza  regia del conte barbaro, aprendo loro le porte del  suo palazzo dove l'esenzione ottenuta da Ottone  impedisce agli sgherri del tiranno di entrare. B.  popolo si serra attorno al suo vescovo, vuol es-  sere giudicato dalla sua giustizia superiore a quel-  la del conte come la ragione alla spada, si appas-  siona per tutte le sup»*stizioni dd cattolicismo  voltandde come armi ideali contro le alabarde de-     — I05 —   gli sgherri comitali^ finché un giorno scoppia im-  prowisame&ie una sollevazione annata. Il conte  si trova espulso, e nella città si comincia a sboz-  zare colla formazione dd primo popolo raccolto  dalla corte del conte e da quella del vescovo Tor-  ganismo comunale italiano, che non è una deriva-  zione germanica o romana ma nasoe adesso oomh  battendo contro le memorie del regno. La rivolu-  zione vescovile irraggiata dal focolare di ribeÌlto>  ne delle città penetra nei feudi, ove sostituisce fa-  miglie pie di tradizione romana e avversa al re-  gtto (Canossa, Savoia, Este) alle famiglie discen-  denti dagli invasori ; conquista il Mezzogiorno pa^  ralizzato dalla confusione bizantina dei due pote-  ri, al seguito delie schiere avventurose dei Nor-  masni; e in RomB trionfa coHa libera elezione  popolare e clericale di Gregorio VI nemico dei  conti e dei patrizi.   Ma i centi espulsi daUe città da un esercito d!  straccicmi capitanati da un prete ricorrono all'au-  torità legale del loro supremo tutore, l'Imperato-  re, che vede oltraggiata la sua legge; e Corrado  II di GebeHno comincia la reazione contro i ve-  scovi. Invano : sconfitto da Eriberto di Milano,  che oppone alla cavalleria feudale le picche dei  popolani raccolti attorno al carroccio novdlamen-  te creato, vede la sua reazione abortire nelle cit-  tà e nei feudi deiritaUa imperiale e in Roma, e  deve legalizzare la rivoluzione. It sovrano dd-  ritalia meridionale è il Papa, che l'ha avuta fai  seguito al ^an patto carolingio: a lui quindi  spetta di guidare la necessaria reazione contro 1     — io6 —   Normanni rappresentanti meridionali del princi-  pio vescovile, i quali dopo averto vinto sforzano  S. Leone IX ad accettare la loro rivoluzione. E  cosi Imperatore e Papa dopo avere ammistiata e  legalizzata la rivoluzione italiana, come poteri eu-  ropei la diffondono in tutta l'Europa; e perfino  ndla Chiesa, la quale si appassiona per la vergi-  nità mistica in odio dei preti ammogliati, che pro-  fanano la sua repubblica immacolata con una spe-  cie di feudalità clericale (1050).   Appena ottenuta la legalizzazione della cacciata  del conte, la rivoluzione entra in una seconda fa-  se (1050-1122), continuando contro i vescovi no-  minati dall'Imperatore che li incarica di sostene-  re la parte dei conti, per strappare la libera ele-  zione dei vescovi stessi — e una volta vittoriosa  vuole la libera elezione del più grande dei vesco-  vi, del Papa, che l'Imperatore si arrogava il di-  ritto di imporre. Il monaco Ildebrando riunisce  tutte le forze della rivoluzione per togliere Roma  ai papi tedeschi, prima con l'elezione di Nicola  II, poi con quella di Alessandro II contro l'anti-  papa Cadaloo; e infine salito lui stesso sul tro-  no pontificio assale per la prima volta la suprema-  zia imperiale, e trasporta nella Chiesa la rivolu-  zione vescovile compita predicando la crociata.   Senonchè l'utopia di Gregorio VII conteneva il  germe d'una reazione pontificia contro la libera  elezione dei vescovi, che si sarebbe voluto tra-  sportare dalle mani dell'Imperatore a quelle del  Papa: cosicché al suo avvento gli uomini della  rivoluzione passano nel campo nemico; dichiara-     - I07 —   no che il Papa non è il padrone della Chiesa ma,  sottoposto al Vangelo alla tradizione ai concili, è  il servitore dei servitori, e può essere deposto se  manca alla sua missione. Ecco cosi la guerra del-  le investiture che è la reazione papaie-imperiale  contro la libera elezione dei vescovi : i due capi  sempre in ritardo si sforzano di rassicurarsi in-  terpretando con mente retograda l'antica tradi-  zione; ma i popoli al seguito dei loro vescovi,  come avevano atterrato il vecchio Impero sotto  1 colpi di Gregorio VII, atterrano il nuovo Pa-  pato sotto quelli del nuovo Cesare rigenerato. Le  città dirigono il Papa e l'Imperatore: sono im-  periali quando il Papa trionfa e pontificie quan-  do l'Imperatore prepondera, e finiscono col se-  guire l'alleanza imperiale sulle terre della dona-  zione e quella papale sulle terre dell'Imperatore.  Roma determina l'azione di Gregorio VII sulla  Germania; le città lombarde decidono Arrigo IV  a resistere e gli danno la vittoria nonostante la  sua sciocca sottomissione di Canossa, ma quan-  do la sua vittoria diventa minacciosa disertano il  suo campo e rialzano il Papa; e continuano in  questo gioco a rimbalzello Anche riescono ad ot-  tenere la libera elezione dei vescovi, che il Papa  e l'Imperatore diffondono al solito — dopo con-  cessa — a tutta l'Europa.   Anche la prima crociata cade sotto la legge del-  la rivoluzione vescovile: costituita coi quattro e-  lementi della città italiana, la moltitudine il popo-  lo i consoli e i vescovi, altro non è se non Te-     — io8 —   spetrìazioae volontaria della feudalità che lascia  libera la terra alla giuriadizion^ dei vescovi.   Abbiamo dato un sunto diffuso di questo perio-  do per offrire un esempio più chiaro del metodo  interpretativo del Ferrari : ora potremo procede-  re più rapidamente.     VI.     Qi stati dell'Europa non avevano ancora com-  pita la prima metà della rivoluzione dei vescovi  che nelle città italiane dov'era nam essa era as-  salila da una nuova rivoluzione, nei principi o-  scura e indecisa, dopo cosi splendida e scandalo-  sa c^ tuid i vescovi della cristiania ne erano  scQS^ nelle loro sedi. La rivoluzione dei Couso^  2i(U22-1184) passava anch'essa per due tesi:  prima sostituiva il governo vescovUe ed governo  consolare (11^1137); poi scatenava le une con-  tro le i|kre città consolari, divise in due campi  per conquistarsi con la guerra una più larga li-  bertà dentro il patto papaie-imperiale (1137-1184).   Nella città vescovile il vescovo essere religiosa  e u-asmondano si trovava a capo della moltitudi-  ne, agitata da tend^ize industriali e commercia-  li completamenie mondane ch'egli non poteva  soddisfare né raffrenare. Dall'opposizione nasce  rifisurrezione : la città si muove prima conser-  vando le apparenze dell'obbedienza, poi rinnova  le sue istituzioni e crea un nuovo popolo più al-  largato e democratico chiamato a legiferare nd  parlamenti che, col tradizionale intervertimento di     aUeanze nemico del Papa negli stati della Chiesa  e nemico dell imperatore nellitalia imperiale, as-  sale il diritto del regno a nome nel risorto di-  ritto romano.   La. immancabile reazione pontificia e imperiale  procedeva questa volta unita : Innocenzo II e il  suo alteato Lotario IH, capo dell'opposizione cat-  tolica tedesca allora vittoriosa nellimpero, secon-  do la formula generale di tutte le reazioni oppo-  nevano il passato sempre vivo in essi al presen-  te da cui erano assaliti ; e combattevano i conso-  li fondandosi sui vescovi liberamente eletti ed al-  tra volta si ardentemente invocati dai popoli, ma  non riuscivano che ad ottenere la fatale sconfitta.   Ed ecco che appena vittoriosi della duplice rea-  zione i consoli spingono le città le une contro le  altre in quella guerra municipale, che fa la ma-  raviglia e lo sdegno degli storici maldicenti con  le lacrime agli occhi a tanto inesplicabile odio fra-  temo. E' questo uno dei misteri più profondi del-  la storia ditalia: la guerra municipale non si  spiega né colla volontà del Papa e dell impera-  tore, nò colla lotta fra i due capi della cristianità,  nò colla duidità geografica di Roma e di Pavia,  nò colle vertenze fra i diversi distretti, né colla  HbeDione dei castelli. (Riv. d'Italia — Voi. I,  pag. 515):   Guardiamo alla terra dove sorgono le città libe-  re : la sua gìeografla é anticipatamente determinata da  una rivoluzione anteriore. La rivoluzione dei vesco-  vi ha disorganizzato il regno, ne ha paralizzata la     — no —   capitale, lìia isolata, ha degradato le città militari  che l'assecondavano, le ha spodestate delle loro fun-  zioni strategiche, ha soppiantato Pavia e i centri se-  condari che erano padroni delle vie dei fiumi del  commercio di tutto. Le città romane sono state rial-  zate, opposte alle città militari; restituite all'impor-  tanza naturale che loro davano il conmiercio, la ric-  chezza, la facilità delle comunicazioni, le circoscrizio-  ni diocesane stabilite dai Romani sotto l'impero del-  la civiltà. Ne nasce che la terra è dualizzata in ogni  parte, la rivoluzione dei vescovi ha voltate tutte le  città le une contro le altre: ogni centro militare si  trova in presenza di un centro romano a lui ostile;  Tuno declina, l'altro s'inalza; l'uno immiserisce, l'al-  tro prospera; l'uno langue, l'altro risorge. Nell'era  dei vescovi la dualizzazione delle città non è ancora  apparente, la legge imperiale e pontificia regna an-  cora, la guerra si dissimula; e se i conti sono con-  gedati, la metà della gerarchia sussiste ancora col ve-  scovo che supplisce al conte, nasconde la guerra - e  non vedonsi che lotte momentanee. Eriberto di Mi-  lano non combatte le città dei dintorni se non per  ordine dell'Imperatore... Ma nel momento dei conso-  li la disorganizzazione vescovile del regno si fa lai-  ca, la dualizzazione delle città diventa economica:  più non trattasi di reclamare precedenze, giurisdizio-  ni ecclesiastiche o feudali; si reclamano la ricchez-  za, i fiumi, le strade, i transiti trasformati in istru-  menti di prosperità o di miseria; il mercante, il fab-  bricante, il ricco si sostituiscono al vescovo; nessu-  na gerarchia, nessuna diplomazia superiore che raf-  freni le rivalità; non i giudici per decidere sulle  vertenze, le città devono giudicarsi da sé. Esse so-  no in contatto immediato; il contatto diventa lotta,  la rivoluzione dei consoli diventa guerra — si po-  trebbe forse evitarla? — Guardiamo sempre la ter-  ra. La rivoluzione dei consoli si sviluppa sul fondo  stesso della prima rivoluzione dei vescovi, per rad-  doppiare la disorganizzazione del regno e la degrada-     — II I —   zione delle città militari. Questa degradazione è fat-  ta dal commercio, dall'industria; diventa la miseria  dei centri regi, la prosperità dei centri commerciali :  i primi son condannati a difendersi sotto pena di mo-  rire, i secondi combattono anche prima di dichiarare  guerra perchè basta loro il vivere il progredire per  spegnere le città dell'antico regno; esse assorbono t  frutti il succo gli umori del suolo italiano, esse ri-  fanno tutte le strade tutte le comunicazioni al rove-  scio del sistema militare, esse sostituiscono alla stra-  tegia regia quella del commercio che procede lenta  sorda implacabile col libero spaccio di tutte le merci.   Come resistere loro se non colle armi? Ecco l'o-  stilità dichiarata: ogni città militare lotta colle armi,  coll'astuzia, con tutti i mezzi della politica; tutti soa  buoni, tutti giusti trattandosi di difendere la patria.  Se occorre si rivolgeranno le forze stesse della li-  bertà e della civiltà contro le città più libere, più  civili; si spingeranno alla ribellione i comuni inter-  mediari promettendo loro l'indipendenza; si tenterà  di smembrare le città romane, di attorniarle con bor-  ghi insorti, di disorganizzare questo centro di disor-  ganizzazione — e ne nascerà l'aff razionamento del-  l'aff razionamento, la guerra della guerra.   Fin qui abbiamo considerata solo la natura del suo-  lo: e l'abbiamo trovato friabile, inconsistente, dispo-  sto alle frane, e dualizzato come se avesse subito in  tutte le sue molecole una doppia polarizzazione sot-  to la pressione del Papato e dell'Impero. Prendiamo  ora il compasso, misuriamolo; e noi vedremo che la  guerra deve raddoppiare d'intensità. Qual'è la circo-  scrizione della terra ove sorgono i consoli? La città  vescovile si ferma ai corpi santi ; pivi oltre tutto è oc-  cupato dai feudatari dell'Impero, la campagna è co-  sa loro, l'irradiazione popolare della prima rivoluzio-  ne ha dovuto soffermarsi nei limiti determinati dal-  l'ombra della cattedrale. Ma i consoli possono forse  rimanere in questi limiti? Essi rappresentano un nuo-  vo popolo, del doppio più potente coll'avvenimento     — 112 —   ddrinéttstrìa e del commercio, due volte più ricco  grazie alla sua attività che moltiplicandosi trabocca  oltre il vecchio recinto delle nmra; quindi si rinno-  vano i bastioni, gli edilizi pubblici, il palazzo del co-  nume, le fortezze, i cimiteri; la città s*adoma, s'in-  grandisce e più non può capire nel proprio territo-  rio, e segue coll'occhio i suoi fiumi le sue strade i  suoi sbocchi: dei pedaggi altre volte insignificanti  intralciano il corso delle merci, dei villaggi un tem-  po inosservati le tagliano le comunicazioni; la città  smania di estendersi, di svincolarsi dalle sue pasto-  ie, di rompere ogni ostacolo. Pisa e Genova, die si  trovano dinanzi delle terre lontane sul mare, fonda-  no delle colonie consolari; ma per le città delFin-  temo non hannovi terre vacue, la campagna appar-  tiene alla feudalità, tutte le giurisdizioni son ar-  mate, i confini sono spietati — e le città si getta-  no sull'unico spazio che sia vuoto, sullo spazio della  rivoluzione consolare. Ogni città che si governa coi  consoli sfugge all'Impero o alla Chiesa nella misura  stessa del consolato, e si presenta come la preda na-  turale del nemico che l'osserva; essa è res nuUius:  9 combattimento è permesso naturale inevitabile; ed  ogni città, ogni borgo aspira a diventare una capita-  le; la guerra deve durare fino alla liquidazione gene-  rale di tutte le pretensioni; l'Italia dev'essere rifatta  per intero. Ora supponete il Papa e l'Imperatore a-  nimati da sentimenti patemi e da benefiche intenzio-  ni; supponeteli sempre pronti a intervenire per pre-  dicare la pace l'unione la concordia; supponeteli ab-  bastanza forti per ottenere innumerevoli conciliazio-  ni ,per riparare mille torti, per render giustizia agli  oppressi; supponeteli protettori, conservatori come  devono essere secondo il dato primo del Papato e  dell'Impero: le città riporteranno vittorie che non sa-  ranno vittorie; le-sconfitte non saranno sconfitte; nes-  suna guerra riuscirà ad alcuna soluzione; tosto otte-  nuto un vantaggio bisognerà rialzare le torri spiana-  te, ricostruire le mura smantellate, riedificare le ciN     — 113 —   tà incendiate, restituire il territorio conquistato; e al-  la partenza del Papa deirimperatore e dei loro de-  legati, le cause della guerra sussistendo ricondurran-  no le città al combattimento; si rimarrà per secoli  a battagliare in una casamatta, ai piedi di un ba-  stione, sull'orlo di un fosso - per riportare mille vit-  torie inutili, per subire mille sconfitte sempre ripa-  rate.   La guerra municipale che rimane dentro i con-  fini della regione viene quindi ridotta al dualismo  delle città militari e delle città romane costrutte  le une a controsenso delle altre : di Milano e di  Pavia la capitale di Alboino, di Mantova e di Ve-  rona la prediletta di Teodorico, di Bologna e di  Ravenna la capitale di Odoacre, di Firenze e di  Fiesole, di Pisa e di Lucca, di Roma e delle cit-  tà latine : anche il regno di Napoli si toglie all'a-  nalogia degli altri regni per seguire la legge del-  le città italiane, funzionando come una gran città  cambattente con Palermo contro i rimasugli fe-  derali dei piccoli stati greco-longobardi. Questa  guerra che oggi si considera come un disordine  odioso era nel secolo XII un progresso, una ri-  voluzione, il primo passo delle città per determi-  nare i loro confini a nome della propria libertà  insultata e disconosciuta dalle vecchie giurisdi-  zioni.   Intanto Fed. Barbarossa ,capo della rivoluzio-  ne vescovile in Germania, si propone di combat-  tere in Italia la seconda fase della rivoluzione con-  solare, sopprimendo la libertà della guerra muni-  cipale che insulta alla sovranità dell'Impero: e   A. PrrraRI — Giuseppa Ferrari. «     — 114 —   la sua reazione subisce vicende diverse secondo  che si muove sulla terra delPantìco regno o su  quella del Papa o del regno normanno. Nell'Al-  ta Italia diventa capitano municipale delle città  romane, manovrante da bandito con l'uniforme  d* Imperatore, e invece di spegnere la guerra  la conferma. Dopo i successi effìmeri dovuti alle  città che lo secondavano nelle prime discese, vin-  to dalla Lega Veronese dalla Lega Lombarda e  dalla fondazione d'Alessandria, accorda il dirit-  to alla guerra sanzionando nel trattato di Costan-  za le due leghe di Pavia e di Milano. La battaglia  di Legnano non è dunque una lotta repubblicana  e nazionale dei liberi comuni contro l'Imperatore  tedesco (1); ma una lotta fra le città romane gui-  date da Milano è le città militari guidate da Pa-  via, per ottenere dentro la gran giurisdizione del-  l'Impero la libertà della guerra.   La nuova rivoluzione, appena legalizzata dalla  duplice repubblica europea del Papa e ddl' Im-  peratore, si diffonde dappertutto dando ad ogni  nazione dei governi con missioni consolari : perfi-  no nella Chiesa, che assalita da ogni parte pren-  de al rovescio i suoi nemici colle creazioni conso-  lari dei cardinali, dei concili, dei nuovi ordini  francescani; e sostituisce la conquista vicina del-  l' Inquisizione alla conquista oltremarina della  Crociata, e la scolastica di S. Tomaso e S. Bo-  naventura all'indisciplina dei Francesi e dei cap-  puccini.   (i) Cfr. J« BRyCF. : lite Holy Roman Empire, London,  Macmillan, 1912 - png. 173. Non si dichiaraTano prìncipi repub-  blicani, né si faceva appello alla nazionalità italiana.     — 115 —  VII.   La terza grande rivoluzione italica prende no*  me dai Cittadini e Concittadini (1184-1250) e pa9-  sa per le fasi della guerra ai castelli (1184-1198)  e della guerra cittadina che provoca la creazione  del podestà (1198-1250).   La città consolare, la quale non è altro se non  un'oasi in mezzo alla foresta feudale del regno  che copre ancora tutta la campagna inceppando il  libero espandersi del commercio, una volta otte-  nuta la libertà della guerra riflette che le città ri-  vali sono troppo radicate alla terra, mentre i no-  bili della campagna si presentano come vittime  facili; e volta contro di loro l'impeto irresistibi-  le della sua espansione economica e politica. Le  città romane specialmente combattono con furore  contro la moltitudine dei feudatari che le accer-  chiano impedendo loro il respiro; e questa ulti-  ma rivoluzione che estende la libertà alle campa-  gne si presenta come la conclusione della gran  guerra contro il regno, distrutto nelle sue soprav-  vivenze campagnole dei castelli. Nella Bassa Ita-  lia, che funziona come un gran municipio, la guer-  ra ai castelli si confonde con la continuata guer-  ra municipale di Palermo contro gli antichi cen-  tri, ultimi nidi di feudatari di sangue longobardo  sognatori di sorpassate franchige aristocratiche.   La soluzione della prima fase, vittoriosa della  reazione, apre una nuova lotta. I castellani, na-  turalizzati e deportati per forza nel cuore della  città che loro impone l'odiosa legge dell'ugua-     — Ilo ^-   glianza, si vendicano costruendo delle fortezze in-  teme, armando i loro servi, conquistandosi coil'o-  ro la moltitudine che voltano contro il popolo —  e ricominciano un combattimento che come quel-  lo fra città e città non può finire ; perchè il denaro  è alle prese col denaro, la borsa colla borsa, la fi-  nanza colla finanza : i proprietari della terra (con-  cittadini) sono almeno forti come i possessori dei-  fabbriche (cittadini). La lotta fra il Papa e l'Im-  peratore si presenta ai cittadini e ai concittadini  per riassumere ed eternizzare il loro combatti-  mento: con la solita interversione d'alleanze i  cittadini dell'Alta Italia seguono il Papa, quelli  di Roma e delle Due Sicilie invocano l'Imperato-  re; al contrario i concittadini dell'Alta Italia se-  guono l'Imperatore, mentre quelli della Bassa I-  talia invocano il Papa contro Palermo.   I torbidi continui, le prese d'armi improvvise,  l'anarchia imperante, conducono alla creazione di  un nuovo governo : i consoli nella loro qualità di  capi dei cittadini come parti in causa non hanno  quell'autorità imparziale che possa giudicare i due  partiti, e lasciano il posto ad un nuovo magistrato  nel tempo stesso giudice e capitano, ad una spe-  cie di dittatore annuale che si chiama podestà.  Preso all'estero e quindi superiore ai partiti egli  stesso giudica e applica la sua legge con potere  discrezionarìo — ma spirato il suo mandato è  sottoposto a giudizio, e se trovato colpevole è con-  dannato a multe a prigonia e talvolta alla morte.   La reazione immancabile questa volta si sem-  plifica. Il Papa è il protettore delle città romane     — 117 —   del Nord, T Imperatore è lui stesso il gran pode-  stà delle Due Sicilie : la reazione imperlale non  opprime quindi che i sudditi diretti dell'Impero,  mentre la reazione pontificia non percuote che i  popoli della Chiesa. Federico II assale qua! con-  sole della Germania i podestà della Lombardia,  diventa capo dei concittadini delle città romane  e dei cittadini delle città militari; ma dentro al  laberinto incrociato delle inimicizie dualizzate si  trova impegnato in un combattimento a cui l'e-  quivalenza delle forze non permette nessuna so-  luzione — ed è costretto a riconoscere col fatta  della guerra interna la nuova rivoluzione. (Riv.  d'ItaUa — Voi. II, pag. 211):   Visto da lungi nella confusione del XIIl secolo,  Federico inganna gli storici col suo doppio prestigio  di console della Germania e di podestà delle Due Si-  cilie, e vien considerato come un essere onnipoten-^  te che avrebbe potuto fare Tltalia come voleva; e  la poesia, che segue le grandi figure della storia per  trasportarvi di pianta i suoi sogni i suoi disegni le  sue utopie le sue speranze o i suoi rimpianti, stende  silenziosamente il dito sul gran Federico, quasi ab-  bia seco perduto non si sa qual misterioso destino  d'Italia. Ma ha perduto le tradizioni solo dei Gebeli-  ni, condannati alla demenza delle reazioni impossi-  bili : il fatto della sua sconfitta non ammette né pen-  timenti né correzioni; egli resta qual'è nel suo tem-  po nel suo giorno nell'ora sua, simile all'uno dei mil-  le geroglifici che la stenografia della storia traccia con  la rapidità del lampo per un'eterna immobilità. Uti-  le al Mezzodì, l'ultimo degli Hohenstauffen non po-  teva né essere il podestà dell'alta Italia, né equilibrar  runa coll'altra le due regioni del Mezzodì e del  Nord, né reggere tutta la penisola con un potere di-     — ii8 —   screzionarìo e profressivo; le nozioni stesse di com-  pensi, di equità giudiziaria, di discrezione politica o  di despotismo beneflco erano anticipatamente elimi-  nate dal progresso dalla vita e dalle rivoluzioni del-  ritalia, che si svolgevano diverse variate affraziona-  te da cento stati contradittori, la cui suprema feli-  cità era di rovesciare il Papa o Tlmperatore. Il male  fatto a Firenze non era compensato dal bene fatto a  Lucca, un'umiliazione di Milano non toglievasi con  alcuna indennità concessa a Pavia... (1) Un pode-  stà unico regnante a Palermo a Roma ed a Milano;  un regno unitario improvvisato ed esteso a tutta la  penisola; una sola dominazione imposta d'un tratto  all'antico regno ed alla donazione, ai conti, ai mar-  chesi, ai cittadini, ai concittadini ed alla Santa Sede  sarebbe stata come una montagna sovrapposta a tut-  te le montagne, una devastazione inaudita di tutte le  libertà, una esagerazione iperbolica del regno dei  Longobardi, un cesariato neroniano che avrebbe d'un  tratto fermata e inaridita la civilizzazione dell'Occi-  dente. E come mai l'uomo che non poteva evitare la  sua sconfitta decretata dai secoli avrebbe potuto ri-  portare una simile vittoria? Dove avrebbe preso le  sue fòrze? I suoi stessi pensieri partivano dal bas-  so come la libertà generale... Al certo l'elevazione  non mancava a Federico; e fissando lo sguardo su  lui, a traverso i delitti della corona, lo spettacolo del-  l'Impero e la commedia estema delle pompe, si sco-  pre quell'irrefrenabile arditezza che si manifesta sem-  pre m tutte le epoche della storia ; nel momento del-  le grandi rivoluzioni, quando gli eroi nello spasimo   (i) Cfr. P. VlLLARi. L Italia da Carlo Magno alia morte di  Arrigo F/Z-MìUbo, HoepU* 1910 • pag. 363:... N*to in un  secoio di disordini e di contradiùoDi le quali spesso in Ini si  pCTSonJlicaroiM>, chiamato a Kovemare regioni cba come hi G^-  mania V lulia meridionale e U aellatttcieiiale avrebbero richiesto  una politica diversa un indirizzo qualche veka addiritura oppo-  sto, più volte egli disfece con una roano ciò che aveva costrui-  to con 1' altra.     — IIQ —   del dolore dimenticavano un istante di essere tribu-  ni re imperatori, per chiedere alla natura e agli  astri se può darsi un esito ragionevole alle pazzie  deirumanità. Egli si rivolge ai sapienti dell'Islami-  smo, per cercare delle verità che la sua religione gli  vieta di conquistare; li turba colle sue orgogliose in-  terrogazioni su Dio, sull'anima, sulla provvidenza,  sulla vita futura. Qualche volta, stomacato dalla fur-  beria dei miracoli cristiani, si direbbe che sogna un  califato d'occidente, col quale la ragione gli rende-  rebbe la metà del potere ceduto da Carlo Magno al-  la Chiesa. La tradizione profana lo segue appassio-  natamente e, guerreggiando con le calunnie cattoli-  che, gli attribuisce confusamente il pensiero di vo-  ler regnare quale podestà delle tre religioni che si  contendono la terra; essa gli fa dire che Mosè Ge-  sù Cristo e Maometto sono i tre grandi impostori  dell'umanità, che ingannano i mortali, che semina-  no sulla terra il furore delle crociate, che bisogna do-  marli e dominarli; e che ci dev'essere qualche cosa  ad essi superiore, non fosse altro un etemo sonno,  per calmare la ragione oltraggiata dai pontefici dagli  ebrei dai cristiani e dai musulmani. Porse, nel suo  disprezzo per i commedianti di Roma, nel suo amo-  re per i Romani e per i castellani minacciati dal fuo-  co della moltitudine e dell'inquisizione, pensava egli  ad una rivoluzione religiosa; nel mentre che nume-  rosi insensati si attendevano a vedere trasformato l'u-  niverso da un incanto che rovescerebbe la tirannia  imperiale. Ma nelle alte regioni del potere il libero  arbitrio del pensiero, che si fa strada in mezzo alle  più astratte possibilità, non serve che a rivelare di  rimbalzo tutta la forza della fatalità. Sciagurati i Ce-  sari che lottano coi pontefici! Essi sono obbligati di  parere ancora più religiosi degli altri; devono im-  porre il silenzio l'obbedienza la cecità, e farsi ipo-  criti impostori e persecutori di ogni filosofia; perchè  la moltitudine adora i suoi preti i suoi ierofanti i  suoi mistificatori, essa si nutre di favole di iperboli     — I20 —   di miracoli — questo è il suo pasto; e non sacrifi-  ca i suoi capi più assurdi se non agli uomini che le  promettono con maggior energia di continuarne gli  errori. Podestà occulto di tre religioni, Federico II-  gemeva sotto il peso occulto di una filosofia che lo  condannava a dissimulare il suo pensiero, a dirsi cat-  tolico, ad abbruciare gli eretici e a disprezzare Tu-  manità.   Viceversa nel regno delle Due Sicilie la reazio-  ne è guidata dal Papa, che come console dei con-  cittadini del Mezzodì assale con le armi della ri-  volta federale e della superstizione cattolica il suo  vassallo (1) Federico 11 supremo podestà, ma è  vinto nel momento stesso in cui trionfa nell'Alta  Italia. E la sua sconfitta si ripetè a Roma, che  organizzata a forma repubblicana lo obbliga a ce-  dere di fronte a Brancaleone dell' Andalo podestà  bolognese. La libertà della democrazia della sedi-  zione e delle battaglie si svolge in tutta l'Italia  proclamando il grande interregno, e si diffonde  per tutta l'Europa e anche nella Chiesa dove i  dottori combattono come cittadini e concittadini  prendendo al rovescio gli stati, finché il Papa di-  venta il giustiziere universale di tutte le dissiden-  ze presenti passate e future come un podestà mi-  triato.   Vili.   Ma nemmeno il podestà poteva durare sulla   (i) Il possesso del regno di Sicilia lo metteva nella falsa  posizione di un vassallo resistente al sno legittimo sovrano. — '  BRyCE : Iloly Roman Empire, pag. 208.     — 121 —   scena un tempo maggiore di quello concessogli  dal fato della rivoluzione^ la quale entrava nella  nuova fase dei Guelfi e Ghibellini che si divide  in periodo delle sette (1250-1280) e dei tiranni  (1280-1313), al momento in cui la guerra civile  straripava al disopra del governo pacificatore e  i combattenti disprezzavano gli ordini del pode-  stà. Chi sono questi furibondi che si scannano a  vicenda proprio adesso che il grande interregno li  libera alle lofo tendenze, permette ai Lombardi  di adorare il loro Papa, ai Meridionali di vene-  rare il loro Imperatore? Essi non derivano dal  Papa e dall'Imperatore (1) non sono altro che le  due sette dei cittadini e dei concittadini che rina-  scono con duplicato furore, per darsi delle sem-  pre nuove battaglie al seguito della quale una me-  tà degli abitanti deve prendere la via dell'esilio.  I cittadini delle città romane sono guelfi, all'oppo-  sto dei cittadini delle città militari di Roma e del  Regno delle Due Sicilie : i concittadini delle città  romane sono ghibellini, mentre quelli delle città  militari di Roma e del regno sono guelfi. Con u-  na guerra tutta sociale» figli di una stessa città,  essi combattono per conquistarla non per distrug-  gerla; riconoscendo per la prima volta l'unità i-     (i) Cfr. G. Volpe : Pisa, Firenze e Impero in Studi  storici. Pisa, 1902, pag. 182: I-e varie cagioni delle lotte inter-  ne ed esteme dei conìuni sono al di fuori di Papi e di Impera-  tori, e indipendenti dalle cagioni che questi aggiungono di pro-  prio quando si mescolano nelle gare dei comuni: quelle preeti-  stono a queste e sono le vere arbitre della storia d' Italia del  Medio Evo, a cui le due podestà servono pur illudendosi di co-  mandare.     — 122 —   deale della nazione si stringono in alleanza coi  settari del loro stesso colore, onde tutta la peni-  sola è corsa come dalla rete di una circolazione  di vene e di arterie moventisi a controsenso. Pa-  ri è la forza degli interessi, pari la forza delle i-  dee; la lotta adunque nel complesso della nazione  è eterna e senza soluzione come una antinomia  metafisica; ma prende possesso delle contradtzio-  ni della guerra municipale, secondo la legge che  dopo una minore o maggiore alternativa di espul-  sioni fa inclinare sempre la vittoria a favore dei  cittadini, del popolo : dei Guelfa quindi nelle cit-  tà romane, dei Ghibellini nelle città militari. Essa  allarga ancora la libertà nazionale dentro il patto  di Carlo Magno, istituisce un nuovo popolo più  numeroso dilatando la democrazia, e mira a crea-  re secondo il tipo ideale formatosi con la genera-  lizzazione delle sue due tendenze una nuova Chie-  sa democratica e un nuovo Impero legale.   Minacciato dalle due sette che fanno traballare  il suo ux)no, il Papa non può regnare a Roma se  non facendo un passo indietro per fermare la ri-  voluzione, chiamando Carlo d'Angiò alla conqui-  sta della Sicilia affinchè domini come un podestà  imparziale sulle sette italiane. Ma Carlo diventa  guelfo prima d'aver visto l'Italia e la reazione pa-  pale è sconfitta. Questo orribile sconvolgimento è  rivoluzionario, cioè benefico e liberatore : dirocca  innumerevoli castelli sfuggiti alla guerra consola-  re, estende la libertà alle arti ai mestieri alla  plebe, compensa il decadimento delle città milita-  ri col fiorire delle città romane arricchite dall'in-     — 123 —   dustria e dal commercio, rivela attraverso il colle-  gamento antitetico delle sette Tunità nazionale, e  dà due linguaggi due poesie due nuove religioni  all'Italia. Il francese, lingua guelfa adottata dal-  l'aristocrazia popolare delle città romane, bilancia  l'italiano coltivato dalla corte ghibellina di Fede-  rico II e di Manfredi, artificiosamente scelto dai  dialetti di tutte le città ; finché viene a trionfare la  nuova lingua guelfa della democrazia di Firenze.   Il periodo dei Guelfi e Ghibellini entra adesso  nella seconda fase dei tiranni (1280-1313). Il ti-  ranno è il capo di una delle due sette che gli con-  cedono un potere dispotico sacrificando la loro  libertà quasi feudale nell'interesse della vittoria :  esso compensa la violazione di tutli i diritti ac-  quisiti coi favori prodigati alla moltitudine e col-  la condotta vittoriosa della guerra estema, e per  la prima volta rappresenta la terra sotto una for-  ma individuale. Ma, capo di un partito destina-  to dall'equilibrio delle forze ad alternare te scon-  fitte con le vittorie, si avvia anch'egli ad una ca-  tastrofe certissima. Le città che non entrano nel-  l'era dei tiranni si contorcono nelle angosce del-  la guerra civile non ancora disciplinata imbriglia-  ta e mitigata, e in ritardo di una generazione nel  corso della civiltà sono sorpassate dalle rivali co-  me Firenze che rifiuta un tiranno guelfo in Gian  della Bella, o son costrette a ricorrere a tiranni  stranieri come Brescia o^ Piacenza fondate sul  tiranno di Napoli.   Bonihido Vili minaeciato tenta la reazione op-  ponendo la guerra pura e semplice all'ordine na-     — Ì24 —   sceme delle tirannie, per suscitare attraverso al-  la penisola un ondulazione guelfa che distrugga  le tirannie ghibelline ; e ricorre a Carlo di Valois.  Lo scaglia Contro la Sicilia ma uivano : in tutte le  città i Guelfi si trovano senza capi senza ripu-  tazione senza potere e disonorati dall'invettiva  immortale della Dmna Commedia.   Invocato da Ghibellini d'Italia arriva infine Ar-  rigo VII, che in ritardo come la sua patria di due  rìvduzioni non vuole essere nò guelfo né ghibel-  iino; e guida quindi una reazione opponendo ai  furori delle tirannie la pacificazione sorpassata del  podestà. Ma appena messo il piede sul suolo fa-  tale ditalia, come i suoi predessori vien preso  nell'ingranaggio politico delle inimicizie, costretto  a diventar ghibellino, e muore sconfitto e si di-  ce avvelenato dall'ostia guelfa dei monaci di Buon-  convento, dopo ruminazione di Roma e l'affron-  to di Roberto di Napoli. La rivoluzione dei ti-  ranni penetra infine nel patto di Carlo Magno col-  le teorie antitetiche di S. Tomaso e di Egidio Co-  lonna, di Tolomeo da Lucca e di Dante, che pro-  pongono come stato modello gli uni la tirannia  guelfa gli altri la tirannia ghibellina. La Divina  Commedia è la grande epopea della tirannia ghi-  bellina trasportata nell'universo soprannaturale,  dove Dio sostiene la parte del tiranno supremo;  Dante è il poeta del terrore, dell'odio, della rab-  bia, dell'esterminio sanzionato dalla necessità su^  prema di salvare il genere umano ; che da per tut-  to immola sacrifica consacra i Guelfi del suo tem-     — 125 —   pò ad una eterna infamia, pur accettando tutta la  democrazia guelfa del passato.   La rivoluzione vittoriosa si diffonde per tutta  l'Europa ; si riproduce nella Chiesa grazie a Bo-  nifacio Vili e ai suoi successori d'Avignone; pe-  netra nei conventi colle esplosioni guelfe e ghi-  belline dei domenicani tomisti e dei francescani  scottisti, nelle scuole coi realisti e nominalisti, e  perfino nell'altro mondo dove si vogliono scacciar  gli angeli dal cielo per ristabilirvi i demoni del-  l'inferno.     IX.     A un certo momento il tiranno s'accorge che  per regnare deve sfuggire alle ondulazioni guelfe  e ghibelline, stabilendo il regno dell'imparzialità  col disarmo colla corruzzione o con la distruzione  dei settari nobili e repubblicani, nell'interesse del-  l'agricoltura dell'industria e del commercio che  vogliono ora la pace. Il reggimento repubblica-  no già compromesso dai tiranni viene quindi abo-  lito dai Signori (1313-1402) che regnano da de-  spoti colla forza della intelligenza, sfuggendo di  traverso al Papato e all'Impero senza prenderli  mai di fronte; finiscono le guerre ai castelli e le  guerre municipali fin qui insolute, dando predo-  minio alle città progressive romane; si estendono  colla forza della necessità, migliorando la sorte  delle città conquistate trattate coll'imparzialità u-  sata verso le due sette; e sempliflcando la geogra-  fia delle due Italie, utilizzano ormai direttamen-     — 126 —   te il Papa nel Sud quasi guelfo e Tlmperatore nel  Nord quasi ghibellino (Avvento dei Signori : 1318-  1336).   Traviati derisi traditi dalla giurisprudenza che  dimostrava in qual modo si poteva vivere nello  stesso tempo nei due campi o passare sapiente-  mente da un campo all'altro; i Guelfi e i Ghibel-  lini non avevano altro mezzo che d'invocare ^  uni il tiranno d'Avignone gli altri il- gran tiranno  dell'Impero, per disfare con una reazione gene-  rale le nuove costruzioni delle signorie imparziali.   Ma la signoria definitivamente vittoriosa di tre  reazioni, una papale una imperiale e una combi-  nata, penetra nel patto di Carlomagno, mentre i  giureconsulti proclamano per la prima volta la so-  vranità popolare di ogni nazione astrazion fatta  dalla Chiesa e dall'Impero.   Nella seconda fase della Prosperità dei Signori  (1336-1378) a regno dei furfanti benefìci si pro-  paga in tutte le città : le terre più timide, i centri  più disgraziati, i villaggi più infelici vogliono cre-  arsi dei capi al di fuori dei vecchi partiti: ogni  città prende definitivamente il posto che le era  stato indicato dai vescovi durante la rivoluzione  del 1000: indi l'importanza di Milano, la petulan-  za di Verona, l'inferiorità della Toscana e del  Mezzodì.   La signoria di Milano era frattanto giunta a  tanta potenza cfie provocò per contraccolpo la  reazione di una federazione repubblicana pontifi-  cia e imperiale, in cui le città minacciate dalla vo-  racità dd Biscione si alleavano coi poteri retrogra-     — 127 —   di per difendersi. Ma Tltalia ben presto lasciava  a sé i suoi capi retrogradi e la reazione finiva col-  la catastrofe dell'Impero, sceso con Carlo IV al-  Timperdonabile bassezza di farsi mercante di di-  jplomi; e col gran scisma della Chiesa divisa fra  Urbano VII quasi ghibellino e Roberto di Savo-  ia, che coi loro vicendevoli anatemi liberavano la  ragione individuale dalle catene della religione.   La terza fase del periodo dei signori è domina-  ta dal dualismo fra Milano e Firenze (1378-1402).  Un nuovo progresso inalza Milano, dove per can-  cellare ogni rimembranza di atrocità tiranniche  Galeazzo tradisce Barnabò suo zio. L'ambizione  illumina i cronisti milanesi e suggerisce al Mussi  Tidea di sopprimere la dominazione temporale  della Chiesa per sottomettere T Italia all'unica si-  gnoria dei Visconti. Ma quest'idea trasforma la  signoria milanese benefica e rivoluzionaria lungo  il suo raggio legittimo in un flagello per il resto  della penisola, ed obbliga Firenze a difendere la  liberta le leggi le tradizioni e le federazioni dei  popoli italiani. Da quest'istante tutti i fenomeni  della nazione si spiegano col contrasto fra Milano  e Firenze, che si riflette nelle due rispettive scuo-  le dei cronisti. Ma la vera Italia si trova superio-  re al contrasto, rappresentata dal Petrarca da Bar-  tolo e da Boccaccio, che tradiscono il Medio Evo  a profitto dei moderni e impersonano l'empietà  del nuovo scisma: l'uno conciliando ogni contra-  dizione col suo classicismo accademico feroce so-  lo contro la Chiesa d'Avignone, l'altro liberando '  le nazioni dal gran patto papaie-imperiale per     — 128 —   mezzo della romanità, il terzo sepelleiido le im-  posture del Medio Evo sotto le risate della sua  novella federale. E* questo il momento in cui la  bisantina Venezia esiliatasi fin dall'era dei vesco-  vi toma nel sistema italiano. (Riv. d'Italia — Voi.  III. pag. 108):   ...Dimenticata fino dalla caduta del regno, appena  frammista qua e là alle battaglie lombarde e friula-  ne come una terra secondaria e affatto straniera, qua-  si sconosciuta al Papa e all'Imperatore non meno  che ai popoli e ai poeti d'Italia; si presenta d'un trat-  tò ancorata a Rialto, carica di prede di ricchezze di  simboli, simile ad una nave d'alta velatura che sa-  rebbe entrata nel porto durante la notte, di ritomo  da un lungo viaggio nelle regioni favolose d'Oriente.   La signoria si propaga in tutta l'Europa, dove  tutti gli stati capovolti dalla rivoluzione anteriore  riprendono il loro atteggiamento naturale; e la  Chiesa rinuncia alle lotte della scolastica fra i so-  stenitori dell'individuo e quelli del genere, per  diventare ciceroniana ed eclettica ad imitazione del  Petrarca.     Le conquiste sociali e politiche della signorìa  vengono adesso minacciate dalla Crisi militare  (1402-1494). I signori avevano composto i loro e-  serciti di mercenari per disarmare i Guelfi e i  Ghibellini e per tranquilizzare i cittadini tradizio-  nalmente antimilitari; ma poiché, affascinati dal     — 129 —   demone della conquista vogliono mantenere eser-  citi superiori alla loro potenzialità economica, fi-  niscono per fallire e per cadere in balia della ple-  be irritata e dei soldati insorti. La crisi si com-  pie in tre tempi : prima la plebe insorgendo con-  tro il flagello della miseria distrugge la signoria,  risuscitando le forme politiche sorpassate della  repubblica o della tirannia ; poi vedendo che quel-  la libertà la ripiomba nelle demenze del passato  accetta una nuova signoria, che limiti le sue am-  bizioni conquistatrici al raggio legittimo consen-  titole dai suoi mezzi finanziari. Il signore cosi  ritemprato da una nuova consacrazione plebea  si trova adesso di fronte al condotdere capo di  una signoria volante di soldati su d'un territorio  che non può sostenerli tutti e due, bisogna che  uno scompaia : ora è il condotdere che diventa  signore come Francesco Sforza, ora è la signorìa  che toglie di mezzo il condottiero come Venezia  fa del Carmagnola.   La garanzia dell'oro, l'unica che resiste ancora  in mezzo alla derisione universale di tutti i prin-  cipi, conserva tutto il lavorio dei secoli preceden-  ti : la federazione italiana si semplifica colla vitto-  rai dei gran centri romani sulle città militari e le  dualità invincibili; detronizzando diciassette dina-  stie e distruggendo diciassette indipendenze inuti-  li, uccise dai poveri e dai plebei secondo la gran  legge che da Carlomagno in poi sacrificava l'or-  goglio della nazionalità alle necessità della demo-  crazia, perchè la fame è superiore all'ambizione  delle monarchie e delle repubbliche. Indipendenti   A. Ferrari — Giuseppe Ferrari. •     — I30 — .   nel fatto dal Papa e dall* Imperatore le signorìe se-  colarizzate si uniscono nella cdebre lega del 1484,  in cui Milano Venezia Firenze Roma e Napoli, di-  chiarando di assoldare un condottiere a spese co-  muni, stabiliscono il principio di tutte le federa-  zioni : di formare uno stato solo contro al nemi-  co benché ogni stato resti distinto e sovrano nel  proprio territorio. Le reazioni di questo periodo  sono appena accennate e non servono che a con-  fermare la rivoluzione flnanziaria.   La quale si riflette nelle lettere, dove si ha pri-  ma la ricerca di tutti i valori, poi il rinascere del-  le opere originali con Lorenzo col Poliziano e col  Pulci, che malizioso come un signore liquida il  Papa e l'Imperatore senza contestare i principi del  Papato e dell'Impero. E penetra inflne nella  Chiesa la quale, assalita dalla ribellione federa-  le del Concilio di Costanza, si rigenera all'imi ta-  zione di tutti gli stati mostrandovi le scintille d'un  incendio universale di democrazia, che presto a-  vrebbe divorato tutti i re e i dottori protettori del-  la libertà e delle riforme; inventa la visione bea-  tificata mettendo d'accordo l'Apocalisse e il pur-  gatorio ; e fa adorare un Dio che vende le indul-  genze per rendersi visibile nei capolavori del-  l'arte.     XI.     L'Italia aveva fin qui squassato la face ideale  della rivoluzione; marciando alla testa della civU-  tà essa creava man mano le nuove forme politiche.     — l$\ —   che diffondeva per mezzo del Papa e dell impe-  ratore a tutte le nazioni d'Europa. Ma ecco che  durante il periodo della Decadenza dei Signori  (1494-1530) la civiltà trasporta i nuovi centri in-  cendiari in un'altra nazione (1); e la Francia chia-  mata da Ludovico il Moro straripa improvvisa-  mente con una espansione militare nellitalia, la  quale sorpresa da questo imprevedibile progres-  so è costretta a difendersi restaurando il Papato  e l'Impero che l'astuzia dei signori aveva quasi  esiliato, e resuscitando le forze indigene delle  sette guelfe e ghibelline che il tradimento dei si-  gnori aveva addormentato. Il meccanismo politico  cosi adesso si rovescia : prima era l'Italia che tra-  smetteva all'Europa l'impulso delle sue sempre  nuove forme politiche per mezzo dei poteri euro-  pei del Papa e dell'Imperatore; adesso è l'Euror  pa che, mossa da un'altra nazione, per mezzo del  Papa e dell'Imperatore trasmette il progresso al-  litalia (1494-1512). Succede un altro passo indie-  tro quando l'Italia è costretta a mettere il Papa e  l'Imperatore sotto la Spagna (1512-1530) per difen-  dersi dall'insurrezione germanica e federale di Lu-  tero contro le sue rivoluzioni, contro la sua ci-  viltà passata attaccata nel Papa ; che rappresenta-  va tutto il suo lavorio religioso, la sua suprema-  zia mondiale e che era pure uno dei due membri  della federazione europea da essa creata (Riv.  d'ItaUa — Voi. III, pag. 381) r   (i) Cfr. C. Balbo: Dciln stona d' Italia - Voi. I., pag.  297: Finiva V età del primato (qualunque fosse) d* Italia; ioco-  minciava quella dei primati occidentali di Spagna, poi Francia,  poi Inghilterra.     ~ 132 —   L'eresia che aveva serpeggiato nel Nord fra le due  patrie di Huss e di Wicleif reclamava anch'essa la  sua espansione; le regioni che avevano respinto il  giogo della centralizzazione dell'antica Roma si le-  vano con nuovi Arminii, per respingere con le for-  ze invisibili del pensiero l'unità pontifìcia che era  sottentrata all'unità conquistatrice dei Romani; i po-  poli la cui antica barbarie aveva imposto le sue fe-  derazioni nomadi ai Cesari, opponevano le nuove fe-  derazioni degli spiriti indipendenti ai demiurgo di  Roma e al Cesare guelfo dell'Austria. II Nord del-  l'Europa sorgeva dunque alla voce di Lutero; ed 0-  gni individuo, diventato libero nel fòro intemo del-  la propria coscienza, formulava cento gravami contro  la monarchia del . Pontefice e contro le rivoluzioni  d'Italia che l'avevano creata. Si sorgeva dunque con-  tro la prima rivoluzione, che in odio del re di Pavia  aveva divinizzato i preti i vescovi e il loro capo ; con-  tro il prestigio magico che essi avevano messo ne-  gli antichi simboli dell'eucaristia, della messa e del-  le reliquie a confusione dei barbari; contro la san-  tificazione dell'antica capitale con una gerarchia mi-  steriosa che aveva umiliate tutte le città regie; e  contro la superstizione incendiaria che aveva dato al-  l'ordalia, all'altare e all'acqua benedetta il potere di  sottrarre i delinquenti ai tribunali ed i popoli ai re.  Non si risparmiò poi alcuna delle creazioni di Car-  lo Magno : né la separazione dei due poteri ; né la  donazione che faceva della Chiesa una potenza poli-  tica; né la penitenza che metteva i suoi giudici al  di sopra di tutti i giudici, le sue sentenze al di sopra  di tutte le sentenze; né la liturgia che propagava il  culto col fascino dei canti, delle pitture, delle scul-  ture sconosciute alla Chiesa primitiva; né il purga-  torio che raddoppiava la distanza fra il cielo e l'in-  ferno, per far luogo agli incanti delle preghiere cle-  ricali; né in una parola il pontefice che arrivava al-  l'anno mille come un Dio fuori di Dio, vera ipostasi     — «33 —   della giustizia divina e proconsole di tutti i procon-  soli istituiti sotto il nome di primati. La devastazione  luterana si estendeva a tutte le rivoluzioni posteriori :  e proscrìveva dell'era dei vescovi il celibato dei  preti e tutte le riforme che fornivano armi  spirituali temporali ali* unità pontifìcia; dell* e>  ra dei consoli gli ordini mendicanti, le feste impo-  nenti, Tesaltazione dei cardinali, Timpostura regnan-  te e rimplacabile inquisizione; delfera delle due  sette i tomisti e gli scottasti, le ecceità, i flatus vocis,  le dotte puerilità che profanavano Dìo trasformando-  lo in tiranno or guelfo e ora ghibeilino; del tempo  dei signori il culto nell'atto stesso capriccioso, ma-  teriale, e abbandonato al despotismo della frase ai  periodi ciceroniani e al pennello di artisti sostituiti al-  rinsegnamento degli apostoli; del tempo della crisi  fìnalmente si assaliva il delitto che riassumeva tutti  i delitti e che consisteva nel vendere le preghiere le  assoluzioni le indulgenze le dispense tutto, per far  denaro con una religione già materiale, e per molti-  plicare cosi i capolavori che sostituivano ai miracoli  di Crìsto quelli delle nove Muse. Non si voleva più  ascoltare l'oracolo di Roma, le coscienze si rivoltavano  contro la sua religione, le intelligenze contro i suoi  dogmi, il pudore contro la sua morale. L'ira generale  denunciava il sacerdote giudice confessore inquisitore  funzionario e papista come un nemico del genere u-  mano. Si chiedeva di vivere in una chiesa dove, ogni  uomo diventato il proprio pontefice, la religione in-  catenata al senso letterale della Bibbia, tutto l'an-  damento divino ridotto alla stessa legalità di questo  documento primitivo - l'opera arbitraria delle rivolu-  zioni italiane sarebbe definitivamente abolita come una  epidemia satanica, e tutta la signoria di Roma ma-  ledetta come un sacrilegio commesso contro la li-  bertà del Vangelo. L'Italia non era mai stata più  violentemente oltraggiata : i Longobardi avevano ri-  spettato la civiltà romana, i Goti di Teodorico l'ave-     — 134 --   vano protetta — Lutero la fulminava; e se prima di  lui si era declamato contro la nuova Babilonia, le si  attribuivano adesso come delitti non solo i suoi vizi  e le sue virtù ma altresì la sua grandezza e magni-  ficenza.   Gli Italiani difendono dunque il Papa e 1* Impe-  ratore che rappresentano le loro rivoluzioni lega-  lizzate, e questi si mettono sotto la protezione del-  la Spagna per resistere al federalismo protestan-  te dei luterani; mentre i signori rinunziano alla  lega del 1484 che aveva congedato silenziosamen-  te il Papa e l'Imperatore, e la nazione rinnova  per un'ultima volta il patto di Carlo Magno col-  la Chiesa. La restaurazione di Cario V non era  una reazione: delle rivoluzioni italiane rispetta-  va nitto il lavorio geografico e sociale, ben diffe-  rente dalle reazioni anteriori che pretendevano  farlo ren*ogradare; essa venne quindi accettata.  Leone X riassume e sviluppa la grandezza dei  suoi predecessori, mentre gl'increduli del suo tem-  po si burlano della Chiesa e dell'Impero. — L'ar-  te e la scienza trasportano nel campo ideale la  rivoluzione di quell'epoca. L'Ariosto ne riBette  l'immagine nella sua poe^a dove nello stesso tem-  po deride ed ammira il Medio Evo, dove sono  ammessi all'onore dell'arte tutti i contrari della  politica e della religione ^uabnente ridicoli e ve-  nerabili, tutto il fantastico pagano e orientale non  meno rispettabile delle favole della Chiesa — e la  sua arte che rappresenta ancora oggi l'indole ita-  liana è imitata da tutta la letteratura. Il Machia-  velli può dirsi l'Ariosto in azione : volendo inse-     — 135 —   gnare le norme della politica rimane vuoto e a-  sirattOy mentre fonda la teorìa che determina le  leggi secondo cui si svolgono tutte le rivoluzioni  possibili. Cosi nella vita è malpratico improvido  senza importanza, ma la sua fama si estende len-  tamente colle rivoluzioni ulteriori contro il patto  di Carlo Magno colla Chiesa, man mano che l'u-  manità si svincola dalle credenze soprannaturali  e si basa sul razionale.     XII.     La nuova era politica della Rivoluzione prote-  stante (1517-1648) propagata dalla Germania con-  siste in un movimento che estende la fraternità  umana oln*e assai la benedizione del Papa e la  memoria di Roma e, conservando la distinzione  dei due poteri che aveva inaugurato il regno del  pensiero puro, la affida ad ogni individuo dive-  nuto papa di se stesso una volta in regola colle  leggi del suo stato. Essa si attua in forma oppo-  sta negli stati germanici e negli stati latini: nei  primi individuale legale federale distrugge il po-  tere di Roma confermando quello dei prìncipi;  nei secondi riforma le antiche dottrine della teo-  crazia romana, opponendo alla rìvoluzione prote-  stante la fraternità e la democrazia, le concentra-  zioni ispaniche e le centralizzazioni francesi. In  Italia produce il trìonfo degli stati ghibellini (Mi-  lano Genova Firenze Napoli) sui loro opponen-  ti guelfi e francesi d'alleanza, e il sacrificio dei  Ghibellini nella minoranza degli stati dove i Guel-     - 136 -   fi devon regnare (Venezia Savoia Roma). La ri-  volizione rinnova la letteratura col Tasso, il poe-  ta della tenerezza che celebra la grande impresa  cattolica della prima crociata; fonda la musica; e  ringiovanisce la Chiesa coi Gesuiti e colle teorie  della fraternità in opposizione alla libertà prote-  stante (1517-1573).   La riforma appena vittoriosa è assalita da una  reazione : cattolica e unitaria nei paesi protestanti,  protestante e federale nei paesi cattolici, essa non  fa che confermarla; sacrificando in Germania  Wallenstein e in Francia gli Ugonotti; negli stati  ghibeliini d'Italia i Guelfi francesi i Guisa i Vac-  chero, e negli stati guelfi i Ghibellini spagnoli  d'alleanza come i 500 cospiratori annegati da Ve-  nezia. La letteratura nazionale sta per soccombe-  re airinsurrezione dei dialetti; mentre che la ra-  gion di stato liquida senza parere la religione e  spegne il senso morale cogli scritti di mille me-  diocrità misteriose; e la filosofia dà Bruno  e T. Campanella : Tuno il martire del panteismo  che afferma Punita della materia e la pluralità dei  mondi; Taltro il rappresentante più grande dei-  Tutopia politica dei popoli latini esagerante al-  Tinfihito la fraternità l'unità e il despotismo, con-  tro l'utopia opposta che si svolge secondo Lutero  colla forza della libertà delle federazioni delle  leggi (1573-1648).   XIII.   Il nuovo periodo storico che va dal 1648 al     — «37 —   1789 e che si potrebbe definire del Despotisma  illuminato è guidato dalla Francia; la quale in-  segna a tutte le nazioni d'Europa l'indifferenza  religiosa che secolarizza lo stato, la semplificazio-  ne del governo colla distruzione dell'indipenden-  za quasi feudale d'una nobiltà costretta a moder-  nizzarsi, l'impostura e la libertà della ragion di  stato nell'interesse delle moltitudini. Esso si at-  tua in senso inverso negli stati monarchici e ne-  gli stati federali colla centralizzazione o colla le-  galità. In Italia la democratizzazione dell'aristo-  crazia viene diffusa negli stati ghibellini dall'Im-  pero d'Austria, nei guelfi dall' imitazione della  Francia. I politici della ragion di stato sospendo-  no le loro cicalate, i poeti dei dialetti cessano dal-  le loro divagazioni, e le pompe dell'opera tradu-  cono il secolo di Luigi XIV nella lingua univer-  sale della musica diffusa dall'Italia a tutta l'Eu-  ropa (Riv. d'Italia — Voi. Ili, pag. 575) :   ... La nazione mantiene ormai la 3ua supremazia  coirestatica inazione dei suoi cantanti. Non si affret-  tano mai : gli eroi si precipitano al combattimento  colla misura dell'andante, il nemico fugge senza po-  tersi staccare dalla scena dove l'incatenano i ritomel-  iì, le tenebrose sorprese si svolgono con cavatine i  cui accenti riempiono le più vaste sale, si danno le  pugnalate in battuta, le vittime cadono colle vibra-  zioni isocrone del trillo - e nessuno s'impazienta per-  chè rartista coll'arco alla mano ha abolite tutte le  leggi delle verosimiglianze.   Ma contro la secolarizzazione d'Europa abbia-  mo l'immancabile reazione (1714-1789) guidata     - 138 -   dal cardinale Alberoni, che cupido di riconquista-  re alla Spagna i domini di Carlo V aiuta in ogni  stato i vecchi partiti per distruggere il nuovo pro-  gresso. Ma il suo bieco disegno è distrutto in  Francia dagli uomini della reggenza e dai filoso-  fi delPenciclopedia, che diffondono in tutta l'Eu-  ropa le idee del despotismo illuminato, mentre la  Massoneria succede ai Gesuiti. In Italia l'Austria  prende l'iniziativa delle riforme, il Regno di Na-  poli diventa indipendente, il Piemonte si ricosti-  tuisce e si estende ; mentre le repubbliche riman-  gono indietro attardate dalla loro retrograda ari-  stocrazia. — La nazione rivela la sua grandezza  nella filosofia con Vico, il quale colle idee del de-  spotismo illuminato mette a livello tutte le società  e tutte le religioni; nella poesia con Metastasio il  più tenero nemico degli dei, e con l'Alfieri il tra-  gico poeta della guerra che vuole tutte le idee  alla altezza dei nuovi tempi {Riv. d'Italia — Voi.  Ili, pag. 595) :   Deliziosamente illusa da queste cantilene rimate  [di Metastasio] che svegliavano gli echi di tutti i  teatri d'Europa, la folla italiana fu un giorno sor-  presa e si direbbe intimorita da un nuovo spettacolo  che portava la sfida alle pompe asiatiche dell'orche-  stra. Senza musica, senza cori, senza strofe, senza  rime, Alfieri fece salire i suoi attori su d'una scena  squallida triste e nuda; e là quattro personaggi dalle  figure astratte, impegnati in una azione unica stincata  rapida, obbligata a giungere alla meta in ventiquat-  tr'ore coli'orologio alla mano con un cadavere in  terra e colla nuova moralità del vizio vittorioso e  della virtù sacrificata — questi miserabili mezzi a     — 139 —   controsenso di tutti i pregiudizi fecero Teffetto di un  drappello dì Spartani che fennassero Tannata di Ser-  se. Il melodramma ne ricevette uno smacco irrepa-  rabile, i suoi pomposi personaggi furono scompigliati,  i loro gemiti sospirosi si fermarono subito; nessun  poeta succedette a Metastasio; i maestri rimasero  soli con taluni poeti pagati, con libretti insignificanti,  con parole vuote di senso che si chiamano ancora in  oggi le parole — e la poesia lasciò per sempre le ri-  me effeminate, le pugnalate fantastiche, le virtiì ri-  dicolmente languide e i cantanti castrati delle cappel-  le principesche. Perchè Alfieri faceva finalmente vi-  brare la corda della guerra, sconosciuta a tutti i  drammaturghi dagli Arlecchini fino ai poeti cesarei.  Più nuovo di Dante, più moderno di Shakespeare, e-  gli inventava dei personaggi poetici per formarne dei  veri; nuovo Orfeo voleva destare la libertà nazio-  nale, che nella sua immobilità secolare non sapeva-  si ornai come intendere. I cicisbei impallidirono, lo  spasimante il patito il cavalier servente ed anche il  signor marito si sentirono ridicoli, le civette si mor-  sero le labbra, gli abbati si accigliarono, i patrizi dal-  le code impdverate si guardarono intomo, e i capi-  tani capirono che si poteva morire alla guerra. Il fuo-  co sacro di Parnaso rendeva la scena inviolabile al  cospetto del governo, la tragedia penetrava nei gabi-  netti, qualche volta esiliata dalle scene investiva il  lettore a casa sua — e i suoi spettri inattesi gli in-  timavano di spogliarsi del vecchio uomo, di levarsi,  di pensare...   XIV.   L'ultimo perìodo storìco, non ancor chiuso  quando il Ferrari scriveva, è quello della Rivolu-  zione francese (1789-1858). Il suo principio con-  siste nella divulgazione dei misteri del despoti-     — I40 —   sir.o illuminato per modo che il razionalismo libe-  ro pensatore trionfi presso tutti i popoli, neiristi-  mzione del codice che uguaglia politicamente tut-  ti i cittadini, nell'avvento della proprietà borghe-  se figlia dell'industria e del commercio. La rivo-  luzione francese ricorre alla forma repubblicana  antipatica alla nazione come a strumento di di-  struzione, finché Napoleone trasporta nella for-  ma tradizionale dell'assolutismo il contenuto nuo-  vo, l'ultimo progresso; e lo diffonde con le ar-  mi a nitta l'Europa dove l'esordio è quindi asso-  lutistico e la conclusione libera. Cosi la Germa-  nia dal despotismo della conquista napoleonica  necessaria per trasmetterle la rivoluzione torna al-  la sua federazione quasi repubblicana, alle specu-  lazioni astratte, aUa libertà della sua arte; 1 Au-  stria ritorna alla patema democrazia e alla bu-  rocrazia meccanicamente esatta; l'Inghilterra ave-  va già avuto nel suo territorio la esplosione che  creava gH Stati Uniti anticipando le idee della ri-  voluzione francese ; ma la Russia copia il progres-  so francese direttamente coli' assolutismo degli  Czar. L*ltalia si volge alla Francia per distruggere  Papato e Impero a Une di acquistare il nuovo pro-  gresso ; e ad una prima tenue succede una secon-  da più radicale trasformazione all'unitaria, Anche  conquistati i principi nuovi ritoma con lavorio  lento alla sua tradizionale federazione (1789-  1815).   Al solito la rivoluzione francese è assalita da  una reazione, che impone alla Francia la liber-  tà costituzionale della dinastia borbonica, e vice-     — 14» —   versa air Europa il despotismo; ma essa si avvi-  ticchia alle forme stesse della reazione per com-  batterla e sconfiggerla nel 1848, in Francia colla  repubblica che conduce al governo assoluto di Na-  poleone III, presso i suoi avversari col ristabili-  mento delle libertà costituzionali. In Italia abbia-  mo pure assolutismo al rovescio della Francia;  ma assolutismo che è costretto a diffondere il  contenuto della rivoluzione, a far riforme ammi-  nistrative, ad appellarsi alla moltitudine che ten-  ta di voltare contro i liberali. Però la nazione  volle scuotere questo odioso giogo dell'assoluti-  smo e alla rivoluzione di febbraio corrispose l'e-  splosione unitaria del Piemonte accettata per ri-  formare il Papa e l'Imperatore; finché la religio-  ne e la politica federalista si volsero contro Car-  lo Alberto, che trasformava la guerra di libertà -  in guerra di conquista interna non legittimata  nemmeno dalla vittoria napoleonica, e da Villa-  franca a Novara si distrusse un regno immagina-  rio a profitto della federazione italiana. Ma il pro-  gresso è richiesto tanto all'Austria costretta alle  riforme e bilanciata dalla Francia, quanto al Pa-  pato compromesso politicamente dalla doppia oc-  cupazione dei due imperi rivali. Tutti i governi  cedono ai principi deir89 per il rumore confuso  delle nuove idee che attaccano la proprietà. E dal-  la lotta fra la religione e la filosofia, fra i preti e  i tribuni scaturisce il progresso; secondo che gli  uni o gli altri, essendo detronizzati, trovansi nel-  la necessità di proporre una più vasta democrazia  per risalire al potere.     142   XV.     Il sunto a bella posta diffuso che noi abbiamo  steso tessendolo spesso di frasi e perìodi dell'au-  tore basterà a dare un'idea adeguata della impor-  tanza unica di quest'opera, in cui il Ferrarì di-  spiega netta la sua incomparabile grandezza di  storico. Per averne la misura paragonate la sua  storia d'Italia, non dirò con uno di quei manuali  in cui i fatti e i personaggi sono infilzati l'uno  dietro all'altro come una corona di nocciole, ma  anche coi libri di coloro che vanno per la maggio-  re fra i moderni : con la voluminosa storia poli-  tica d'Italia pubblicata dal Vallardi, o con la sto-  ria del Villari, che passa per il migliore dei no-  stri storici viventi, in corso di pubblicazione a-  desso presso Hoepli (1).   Anche per una persona di quelle cosidette col-  te che frequentano le società di lettura e fondano  le università popolari la storia, secondo l'idea che  ne ha portato dal liceo, è come una fantasmago-  ria irragionevole, che sarebbe comica se non stil-  lasse il sangue di innumerevoli vittime. II capric-  cio la pazzia il caso sembrano movere questi in-  numerevoli fantocci di un dramma senza processo  e senza scioglimento; dove si vedono degli indi-  vidui che si scannano senza ragione, delle na-  zioni che si combattono senza sapere il perchè,  delle invasioni barbariche piovute dal cielo, e so-  pratutto una incessante lotta intema dei popoli   {ì) Lf' /mvfsi'oni barba rù'hf, Milano, Hoepli, 1907; L' Ita^  Ita da Carlo Magno ad Arrigo VJJy id., 1910,     — 143 —   contro i governi che pare non proporsi mai uno  scopo, fatta per para cattiveria. Pur troppo mol-  ti manuali di storia sembrano scritti da gente che  la pensa cosi! Ma anche molti degli storici più  elevati, più scientifici diciamo, mancano del me-  todo interpretativo in una maniera impressionan-  te. La loro storia, costretta a rimanere attaccata  ai personaggi ufficiali per avere almeno una u-  nità apparente, è un seguito di biografie e di rac-  contini legati gli uni agli altri dalla meccanica  successione cronologica o da metafore vuote. A  quel modo che i letterati seguaci del cosi detto  metodo storico — che è per eccellenza il metodo  antistorico — credevano che la critica avesse e-  saurito il suo compito, una volta dimostrato che  la tal canzone del Petrarca era stata scritta nella  tale occasione per quel tal personaggio; cosi mol-  ti storici credono ancora che il lavoro della sto-  ria si limiti a mettere in sodo se un tal fatto più  o meno particolare è accaduto in quel dato mo-  do, se quella data istituzione politica era costitui-  ta così e non altrimenti. Ma come di fronte a  quei pseudo-letterati la critica afferma la necessi-  tà di completare e integrare il loro lavoro da pu-  ri manuali della letteratura con la ricostruzione  con l'interpretazione col giudizio; cosi contro que-  sta specie di positivismo storico non sarà mai ab-  bastanza forte affermato che la storia non deve  limitarsi alla descrizione estema dei fatti, ma li  deve interpretare spiegare resuscitare, collocare in  una lìnea di sviluppo per cui si veda sotto alle  apparenti fermate o alle parziali decadenze lo     — M4 —   sviluppo continuo e progressivo della civiltil u-  mana. Sta bene la ricerca del documento nuovo:  noi non proclamiamo affatto inutile questo lavoro  che è anzi la base necessaria su cui si deve svol-  gere il lavoro veramente storico, ma affermiamo  che il documento di per sé è inutile se non è u-  sato, che è muto se non vien fatto parlare, che  deve essere bruciato per rischiarare la storia; la  quale non è soltanto, la Dio grazia, scovamen-  to e pubblicazione della nota della lavandaia di  Alessandro Manzoni o degli avvisi di fiere del  comune di Simifonti, ma è narrazione dello svi-  luppo civile dell'umanità. Non basta raccontare  un fatto come è avvenuto; bisogna penetrare al  di sotto della sua superficie squallida o brillante  per ritrovarne l'intima ragione (1); bisogna i fat-  ti singoli sgranati collegarli colKunità d'un prin-  cipio che è il loro motore e la loro spiegazione;  bisogna il succedersi dei diversi principi, dei di-  versi sistemi sociali dimostrarlo dominato da una  legge di continuo sviluppo, di progresso continuo.   Or bene l'opera del Ferrari è un modello in-  comparabile di storia interpretativa, di storia cioè  vera.   Di più, il Ferrari è uno storico completo. La     (i) Cfr. T. B. Macaulay: History in Miscellaneous Wri-  iififTi — Longmans, Green and Co.. London, 1906, pag. 139 :  Nella invenzione sono dati i principi per tro%'are i fatti ,  nella storia sono dati i fatti per trovare ì principi; e lo scritto-  re che non sa spiegare i fenomeni ueualmente bene come li nar-  ra compie solo una metà del suo ufficio. I fatti sono semplice-  cernente la scoria della storia. È dall' astratta verità che li pe-  netra e sta latente fra essi come 1* oro nel minerale che la mas-  sa deriva tutto il suo valore.     — 145 —   Storia vera è la narrazione e interpretazione di  tutta l'attività umana, quindi non semplicemente  della politica ma anche della artistica e della fi-  losofica; perchè l'uomo è uno in nitte le sue mani-  festazioni. Lo storico completo deve dunque dimo-  strare come tutta l'attività umana di uno stesso pe-  riodo abbia unità di caratteri, come arte e filoso-  fia e politica siano tutte dominate da uno stesso  principio storico; questo, come abbiam visto, il  Ferrari fa; giudicando inoltre senza pregiudizi di  aorta l'arte dal puro punto di vista estetico, il  pensiero dal puro punto di vista filosofico.   Ma la sua dote migliore è quella di essere to-  talmente libero dai pregiudizi della morale miope  dei buoni padri di famiglia, che vorrebbero ridur-  re la storia a qualche cosa come un dramma a  fine morale, con l'obbligo del n*ionfo per perso-  naggi dotati di tutte le sette virtù cardinali e teo-  logali. Nulla di più noioso che gli scritti di certi  signori, perpetuamente scandalizzati di fronte al-  la vitalità umana potente nei vizi come nelle vir-  tù, perpetuamente predicanti contro le orge di  Nerone o le crudeltà della Rivoluzione francese,  ridotti alla disperazione di dover ricercare a  forza dentro i fatti ribelli il trionfo della loro mo-  ralità di scomunicare il 90% della storia. (La  Chine, pag. 14) :   ... Non c'è niente di meno storico che Io scopo  morale perseguito sì ostinatamente da certi storici, i  quali trasformano la storia in una specie di catechi-  smo. Essa al contrario ammette tutti gli scioglimenti :   A. Ferrari — Giuseppa Ferrari. 10     — 146 —   ora tragica, ora comica, a volta indulgente e crudele,  non si incarica di punire di ricompensare alcun e-  roe; e domanda senza fine dei tiranni dei condottieri  dei martiri degli stolti delle vittime. Perchè si vor-  rebbe qui ch'essa s'inchinasse davanti a un innocente,  là che s'irritasse contro un malvagio, e che si sosti-  tuisse a Dio per ricompensare gli uomini secondo il  loro merito; che fosse in una parola edificante per  le madri di famiglia e per i bambini poppanti!   Che l'arte debba essere giudicata da! puro pun-  to di vista artistico, la fliosofia dal fllosoflco, si è  finalmente cominciato a capire : pare che non si  sia invece capito ancora che, per intendere e  giudicare la storia, bisogna mettersi da un punto  di vista superiore a quello della propria moralità  individuale e contingente.   La storia è un tessuto di azioni pratiche, che  io posso quindi giudicare sia dal punto di vista eco-  nomico che dal punto di vista morale ; posso cioè  determinare se l'azione di quel dato individuo fu  prodotta puramente da fini individuali, da Ani  universali. Devo ad ogni modo ricordarmi bene  che la moralità è formale, che è morale quello  che l'uomo crede e sente morale; devo quindi ri-  nunziare alla mia rivelazione morale — come di-  rebbe il Ferrari — per rimettermi nei panni del-  l'individuo che pretendo sottomettere al mio tri-  bunale; e non portare le idee del secolo XX nel  secolo V avanti Cristo, e non giudicare il Valen-  tino coi criteri con cui si giudica un onesto im-  piegato municipale padre di numerosa prole.   Ma lo storico non deve limitarsi a mettere in     — 147 —   sodo se Gian Galeazzo Visconti tradì lo zio Bar-  nabò per pura libidine di regno o per beneflcare i  suoi popoli, liberandoli dall'ultimo vestigio della  tirannia a nome di una più completa imparzialità ;  anche nel caso del resto piuttosto raro in cui fa-  zione sia determinata dal solo interesse individua-  le, lo storico vero deve saperci discernere il bene,  quel bene che l'individuo non cerca e non cura  ma che il destino gli impone di compiere, e che  solo permette alla sua azione di essere e le dà un  senso. Cosi si viene veramente a dimostrare che  la storia è il trionfo della moralità, che non è  quella degli storici pudibondi; della moralità che  non esiste senza il vizio perchè appunto è lotta  contro il vizio; della moralità che si vale per i  suoi fini di tutti gli istinti, di tutte le passioni, di  tutte le colpe dell'uomo, condannato dal destino  ad essere sempre e dovunque angelo e bruto.   E veniamo ora a giudicare il valore della inter-  pretazione concreta.   XVI.   Pensate che ai tempi del Ferrari la piti impor-  tante storia d'Italia era il Sommario di C. Bal-  bo (1), il quale in fondo non è molto superiore  ad un manuale scolastico, come del resto ricono-  sceva l'autore stesso:   Finché non avremo un grande e vero corpo dì sto-  ria nazionale, da cui si faccia poi con più facilità   (i) Ediz. definitiva: Firenze, Le Monnier, iS^n,     — 148 —   ed esattezza uno di quei ristretti destinati ad andar  per le mani di tutti, o come si dice un manuale; k>  non so se mi ingannino le mie speranze di scrittore,  ma tal mi pare possa esser questo (1)   e dove lo sguardo dello storico è velato dal pre-  giudizio deirindipendenza. Con le Révolutions  d'ItaUe di E. Quinet (2) l'opera del Ferrari non  ha altro serio punto di contatto che l'identità del  titolo, del resto ormai classico (3). Se qualche va-  ga somiglianza di concezione ci si trova (l'Italia  spiega l'Europa — la sua lotta è per la libertà  non per l'indipendenza — Venezia è estranea al-  la vera Italia) si tratta di osservazioni ormai co-  muni fra gli storici, o già anticipate dal Ferrari  stesso nei suoi saggi sull'Italia anteriori al 1848  (4). Non parliamo degli storici anteriori di cui il  Ferrari stesso mette in luce nella prefazione al-  l'opera sua la deficenza interpretativa, per cui al-  cuni volevano spiegare l'Italia col principio del-  l'Impero (Dante, Mussato) e altri con quello del-  la Chiesa (Baronio, Rajnal, Fleury), alcuni ri-  durla sotto la forma politica dei principati (Guic-  ciardini) e altri sotto quella delle repubbliche (Si-  gjmondi).   Ma chi ha mai ancora oggi sessant'anni dopo  vistq con tanta giustezza e profondità, giudicato  da tanta altezza, narrato con tanta ala di poesia  e forza di rappresentazione la storia d'Italia?   (i) e. Balbo : Della storia tf Italia, — Bari, Laterza,  1913. Voi. I, pag. 6.   (2) Paris, Dagnerre, 1857.   (3) Cfr. Le Rri*oluziom d" Italia di C. Denina (1765).   (4) Cfr. D. LiOV: G, Ferrari ^ Torino, Pomba 1864, pag. 88.     — 149 —   Chi potrebbe oppugnare la scoperta da lui fat-  ta del ststema politico italiano impiantato sulla  gran repubblica papato-imperiale che ha fatto del-  l' Italia una nazione senza confini, perchè possa  diventare U centro d'Europa che irraggia le sue  continuamente nuove creazioni politiche a tutti  gli stati? Solo questa idea può dominare e spie-  gare coU'unità d'una legge la esuberante varietà  delle forme politiche che prende lo spirito italia-  no, scisso nelle due eteme antitesi dei Guelfi e  dei Ghibellini. E solo quando si parta dal concet-  to che gli Italiani lottano non per l'indipenden-  za che sottragga la nazione al patto papaie-im-  periale, ma per la libertà e per il progresso so-  ciale, non per distruggere ma per riformare la  repubblica dualizzata che è la loro franchigia ; di-  ventano intelligibili le innumerevoli battaglie che  ebbero il loro campo fra le Alpi e il mare. Non  contro il Papa e l'Imperatore che proteggono la  sua libertà dal pericolo d'un regno, che danno al-  la nazione la gloria di essere il centro politico di  tutta l'Europa, combattono i suoi Guelfi e i suoi  Ghibellini per conquistare il lustro vano di una  gretta indipendenza chiusa nei suoi confini; ma  per riformare il Papa e l'Imperatore e costrin-  gerli ad ammettere grado a grado nel loro patto  il progresso sociale delle nuove forme politiche  create dalla forza rivoluzionaria ddlitalia. Il po^  polo italiano è il gran protagonista che adopera i  Papi e gli Imperatori, imponendo loro le parti  che devono recitare sulla scena mobile ddla sto-     — I50 —   ria; che distrugge o chiama gii stranieri, sfrutta  tutte le invasioni, maneggia Francesi e Tedeschi  come strumenti per conquistare una sempre più  larga democrazia. Tutta la gran guerra delle ri-  voluzioni italiane si riduce, come per Vico la guer-  ra intema della repubblica romana, a un con-  trasto sociale del popolo con l'aristocrazia; che  diventa anche contrasto di razza perchè il po-  polo è italico e romano, l'aristocrazia è formata  dai Goti dai Longobardi dai Franchi da tutti gli  invasori e dai loro discendenti. Ltt gran guerra  contro il regno barbaro estemo dei Goti e Lon-  gobardi e contro il regno barbaro intemo dei Be-  rengarì e degli Arduini, la rivoluzione dei vescovi  contro i conti sono nello stesso tempo lotte di  classe e di razza; da una parte il popolo romano,  dall'altra i conquistatori barbari. E poiché i bar-  bari hanno piantato piò profonde radici nelle cit-  tà militari da essi colonizzate; la lotta fra le città  romane e le militari si classifica pure sotto que-  sta doppia antitesi; come la lotta ddle città con-  tro i CMtdH, dei Cittadini coatro i Coocttttdini,  dei GQdfi contro i GUbdliiii. Se non che man  mano che si procede nella fusione barbarica, la  lotta attenua il suo carattere di razza per accen-  tuare quello di classe; già ncUt guorra cqmm 1  castelli i feudatari combtttoti daDe città altari  barbare di tendenza si romanizzano facendo ami-  cizia colle città romane; cosicché nell'era seguen-  te noi vediamo la lotta incrociata in modo che  nelle città romane i Cittadini sono romani e i Con-  cittadini barbari, mentre nelle città militari è vice-     — 151 —   versa ; e nel periodo ancora successivo il popolo è  guelfo nelle città romane e ghibellino nelle milita-  ri. E siccome la vittoria è data all'elemento roma-  no e all'elemento popolare insieme uniti : noi ve-  diamo trionfare le grandi città dell'industria e del  commercio; e il progresso della democrazia va  di pari passo col risorgere dei grandi focolari del-  la civiltà romana; finché colla costituzione della  lega federale del 1484 il processo indigeno è com-  piuto e i nuovi progressi della democrazia vengo-  no dall'esterno, trasmessi a noi dal Papa e dal-  l'Impero per mezzo dei Guelfi e dei Ghibellini.  Chi ha mai saputo disegnare con tanta chiarezza  i lineamenti della storia italiana, decomposta cosi  nei suoi fattori e spiegata nelle sue leggi? Il si-  stema papaie-imperiale e la lotta non nazionale  ma democratica per riformarlo non per distrug-  gerlo, rimangono sempre le due idee che ci dan-  no la chiave della storia nostra.   Ma non meno giusta è l'interpretazione che il  Ferrari ci dà dei particolari periodi storici. Alcu-  ni periodi, come quelli dei vescovi, dei cittadmi  e concittadini, dei tiranni sono da lui addirittu-  ra scoperti; ma anche quegli altri che erano già  conoscenza acquisita di qual luce non vengono da  lui illuminati! Egli non usa le partizioni comuni  che hanno il difetto di abbracciare troppo tempo  e di sottomettere la nostra storia a un principio  straniero che mai ebbe fra noi cittadinanza e fu  sempre combattuto dall'espansione originaria no-  stra; per es. l'enorme periodo del feudalismo che  va da Carlo Magno ai Comuni è da lui decompo-     — 152 —   Sto nei due perìodi della lotta contro il regno bar-  baro intemo e dei vescovi. Chi meglio di lui ha  saputo spiegare la gran catastrofe dell* Impero ro-  mano, che percuote di spavento come un mira-  colo — dimostrando che fu rovesciato dai popo-  li irritati dalla sua fiscalità, i quali vollero piut-  tosto una invasione stabile che il continuamente  rìnnovantesi disastro delle invasioni maneggiate  dall'Impero? Chi ha meglio di lui spiegato la lot-  ta delle investiture, condotta non dal Papa e  dall'Imperatore, ma dai popoli italiani che si gio-  vavano dell'uno contro l'altro per modificarli a  vicenda, e costringerli a lasciar penetrare nd pat-  to di Carlo Magno la gran rivoluzione della li-  bera elezione dei vescovi? Chi meglio di lui ha  saputo ritrovare il filo del progresso logico in mez-  zo allo sconvolgimento vertiginoso della crisi mi-  litare ; chi ha meglio di lui definito il periodo del-  la decadenza dei signori come restaurazione pa-  paie-imperiale non conquista, perchè liberamente  invocata e accettata dai popoli che non si difendo-  dono nemmeno con una battaglia? Nella storia  moderna il Ferrari è un po' meno preciso e la  interpretazione in qualche punto è ancora sogget-  ta a completamento e a correzione — come egli  stesso fa piti tardi, quando trasporta dalla Fran-  cia all'Inghilterra il vanto di essere il centro d'ir-  radiazione politica deir Europa, e anticipa il pe-  riodo della Rivoluzione francese alla pace d'Aqui-  sgrana (1748).     — 153 —  XVII.   L'opera del Ferrari è in conclusione la messa  in valore degli Scrìptores rerum Italicarum del  Muratori, è la riabilitazione del Medio Evo; che  anche oggi è comunemente considerato dalla gen-  te cosi detta di cultura, la quale giudica coU'oc-  chio velato dal pregiudizio classicistico del Rina-  scimento, come un periodo di decadenza di bar-  barie di traviamento mistico. I romantici special-  mente stranieri nella loro nostalgia mistica e nel  loro orgoglio nazionale furono i primi a rivendi-  care il Medio Evo, però più dal punto di vista del  sentimento che della ragione, finendo col consi-  derarlo come un territorio di sogno dove la fan-  tasia urtata dalle volgarità del presente potesse ri-  coverarsi, in mezzo allo splendore magico di una  società fantastica in cui un cavaliere poteva col  suo valore conquistarsi un regno. Poi vennero i  cattolici che lo celebrarono come la loro età dei-  Toro ; il perìodo di trionfo delle loro idee; l'età  in cui tutta la terra, popolata di gente che passa-  va come pellegrina cogli occhi fissi al cielo, era  sottoposta all'alta sovranità del Papa, che poteva  imporre agli imperatori l'umiliazione di Canossa.  Questa è per es. la concezione di Gioberti che,  combinando col sentimento cattolico l'orgoglio na-  zionale, celebrò il Papato come la ragjone della  grandezza medievale d'Italia, dominante il mon-  do colla religione come una volta coll'armi (I).   (i) Del primato civile e moraU degli Italiani — Bniael-  Us, 1843.     — 154 —   Adesso per converso, dove lui vedeva la luce e  appunto per la stessa ragione la folla delle perso-  ne colte vede le tenebre; e il Medio Evo è anco-  ra per loro come un enorme deserto di schiavitù  di barbarie di abiezione mistica, in cui fioriscono  non si sa come le oasi dei liberi comuni a un cer-  to punto distrutte dal simoun delle signmie.   Nessuno ha saputo riabilitare con così alta giu-  stizia il Medio Evo come il Ferrari. Esso sfata  l'assurda leggenda della decadenza, dimostrando  come anche nei secoli più bui il progresso sociale  continui sotterraneo; come il popolo d'Italia non  sia mai stato schiavo ma abbia, o accettato libe-  ramente le invasioni perchè gli portavano un pro-  gresso sociale, o lottato contro i conquistatori co-  sì terrìbilmente da distruggerli; come egli solo  protagonista oscuro e possente abbia creato e at-  terrato Papi e Imperatori, invocandoli per distrug-  gere il regno o combattendoli per riformarli. Non  si tenti dunque di far passare per un popolo di  puri mistici questo che, anche nelle epoche più  teocratiche volto alla terra, si giovava della reli-  gione come di un'arma spirituale più terribile del-  le spade gotiche e delle aste longobarde, per raf-  frenare e dominare colla magia di tma supersti-  zione terribile gli enormi bestioni vellosi e trucu-  lenti dei barbari tremanti dinanzi all'invisibile Dio  dei Romani; che poi al tempo dei consoli, riget-  tando l'aiuto della Chiesa ormai inutile, si vol-  tava con una energia meravigliosa alle opere del-  l'industria e del commercio e diventava il banchie-  re dei re dell'Europa ,ritenendo la religione co-     — 155 —   me una tradizione da cui gli artisti potessero e-  vocare un popolo di capolavori — che passò nove  secoli in mezzo alle passioni forse più forti della  vita, quelle della politica, colla spada alla manp.  La decadenza poUtica comincia proprio nel perìo-  do del Rinascimento, quando la civiltà trasporta  altrove i suoi centri incendiari e V impulso vie-  ne dal di fuori. Ma decadenza sociale, civile non  c'è : come non c'è alia caduta dell'Impero roma-  no, come non c'è all'avvento delle signorie sopra  il comune: il gran processo sociale della demo-  crazia aliargantesi continua, anche se non origi-  nario proviene dall'Europa più avanti ormai nel-  la scala storica ; questo progresso sociale della de-  mocrazia si traduce in un continuo aumento di  potenza dei centri romani, delle città industriali e  commerciali. Non c'è salto come non c'è decaden-  za, non si può quindi accettare l'interpretazione  del Rinascimento come di un movimento che pren-  da a rovescio il Medio Evo, di cui è invece la con-  tinuità ideale; anche qui il Ferrari è confermato  dai resultati ultimi dell'investigazione particolare  dei nostri storici:   Si vede dunque come le radici dell 'Umanesimo  siano profondamente penetrate e ramiflcate nel ter-  reno dell'Italia comunale; come esso sia intimamen-  te moderno e nuovo, sia uno, come statua liberata  dal blocco di marmo. (1)     (i) G. Volpe : Bizantinismo e Rinascenza in Critica, —  Bari, Laterza, 1905. Pag. 74.     — 156 —  XVIII.   Ma il Ferrari non è solo un interpretatore ih  nico, è anche un artista di primissimo ordine, che  il buon Cantoni non si peritava di paragonare per  la sua potenza drammatica di rappresentazione a  Shakespeare :   D*uno sguardo psicologico acuto e profondo, d'u-  na mirabile facoltà di ridar vita movimento e colore  agli uomini e ai fatti della storia; egli aveva in ciò  le qualità più difficili che fanno i grandi drammatici,  e avrebbe potuto forse divenire il più grande dei no-  stri se un*altra tendenza più forte non lo avesse  spinto alla filosofia : la tendenza cioè precocissima in  lui ad ascendere ai principi assoluti, ai principi su-  premi ed etemi che regolano la vita degli individui  e delle nazioni (!)   Le abbondanti e frequenti citazioni bastano a  dare una idea della forza artistica con cui sa ca-  ratterizzare uomini e cose, descrivere città, rap-  presentare movimenti politici. Un periodo ampio;  una vivezza calda e mossa di rappresentazione;  un sottile humour tenue come il sorriso d*un uo-  mo superiore che compatisce alle debolezze uma-  ne, e nei tempo stesso un'accensione lirica una  foga d'entusiasmo che gii fa mettere in luce la  grandezza epica della storia in ogni minimo  fatto; la forza dell'immagini che, atteggian-  do come esseri viventi città e stati, vi si piantano  nel cervello senza abbandonarvi più; formano le     (:) G. Cantons: (/. Ferrar/, pag. 87.     — »57 —   doti di questo scrittore che avrebbe potuto anche  nel campo dell'arte pura lasciare un'orma immor-  tale. Con una fecondità versatilità profondità ve-  ramente shakespeariana egli ha saputo creare una  folla di personaggi e rappresentare una serie in-  numerevole di rivolgimenti senza mai ripetersi,  perchè sa colpire nella sua caratteristica la real-  tà che mai si ripete. Per avere un'idea della sua  forza drammatica leggete per esempio la narrazio-  ne della lotta di Milano contro il vescovo papista  Grossolano {Riv. d'Italia — Voi. I, pag. 395) e  delle imprese di Ezelìno da Romano (Voi. II,  pag. 278); per dare ancora un esempio della sua  vivezza rappresentativa eccovi la descrizione di  Genova che pare d'oggi (Voi. I, pag. 480) :   Genova è un magnifico anfiteatro gettato fra il  mare e la montagna, e tale che ì suoi abitanti non  possono fare un passo senza salire sulle rupi o senza  ondeggiare sull'acqua: sono montanari marittimi che  riuniscono tutti gli estremi della miseria e della mu-  nificenza. Nei loro viottoli stretti neri fangosi inac-  cessibili alle carrozze si rizzano immensi palazzi, che  disegnano le linee della loro abbagliante architettura  sulle case piccole e misere che li accerchiano da ogni  lato; le due riviere ci versano i loro marchesi, che  vi si incontrano alla ventura colia moltitudine cen-  ciosa dei marinai. Ad ogni rivoluzione la città on-  deggia dall'aristocrazia alla democrazia come una go-  letta di smisurata alberatura; e i suoi cronisti non  possono dissimulare l'ondulazione dei consoli, specie  di marea tumultuosa che monta a poco a poco fino  a insabbiare il potere del vescovo.   Superiore in questo al De Saiictis in cui il D'A-     - 158 -   nunzio poteva notare tante manchevolezze artisti-  che e stilistiche da presagire a torto la sua dimen-  ticanza, il Ferrari — anche dovesse la sua inter-  pretazione essere dimostrata falsa da una critica  superiore — rimarrebbe ancora immortale in que-  sto capolavoro, che continuerebbe ad essere let-  to come uno dei più bei romanzi storici d* Italia.   XIX.   Eppure con tanto valore artistico e storico que-  sta sua opera non ebbe fortuna, nò nella prima e-  dizione francese fatta per T Europa, né nella se-  conda edizione italiana. Quello che è il suo pre-  gio caratteristico fu appunto la causa del suo in-  successo*, la concezione filosofica cosi profonda  che era a base del suo lavoro di interpretazione  rese quest'opera inintelligibile in un periodo di  barbarie, in cui il positivismo dominante ottun-  deva tutte le menti : la sua altezza cosi serena di  giudizio Io fece trascurare da quegli uomini an-  cor tutti accesi delle passioni politiche dal cui coz-  zo usciva r Italia. Tipica a questo proposito è la  recensione larghissima di G. Rosa alla edizione  del 58; essa univa a qualcuna delle solite imman-  cabili osservazioni di dettaglio la critica di uno  che, irretito ancora nei pregiudizi comuni della  nazionalità e del liberalismo astratto, pare spa-  ventato che si possa refutare l'apologia dei Lon-  gobardi o giustificare l'azione dei Gesuiti; seb-  bene abbia una certa confusa sensazione che in  ciò consiste la grandezza del Ferrari :     — 159 —   Per questa altezza nuova, per Tindipendenza dalle  idee vecchie, per la vastità del concetto specialmente  noi facciamo plauso alla storia del Ferrari. Che se  non possiamo accettare tutte le di lui argomentazio-  ni, se anche tutte le di lui teorie non reggeranno al-  la prova della scienza storica progrediente; egli avrà  prestato prezioso servigio agli studi italiani, avrà e-  ducato a sollevarsi dalle angustie delle idee storiche,  dalle tradizioni tiranniche dei partiti nazionali e sco-  lastici. Per lui i giovani apprenderanno a contem-  plare la storia da un'altezza che la ragguaglia a quel-  la della civiltà, dove non giungono le ire delle pas-  sioni, dove il male parziale appare coordinato a più  vasto bene (1).     Gli accade in piccolo e in breve come a quel  Vico ch'egli venerava col nome di maestro: trop-  po alto per il suo tempo non venne compreso.  Anche coloro fra i moderni che citano questa sua  opera, come per es. il Romano (2) o il Gianani  (3), paiono non comprenderne affatto la terribile  profondità il metodo l'interpretazione — e somi-  gliano un po' a fanciulli che giochino colla cla-  va di Ercole. Solo uno straniero, che amò e stu-  diò ritalia, J. A. Sysmonds, autore di quella  Renaissance in Italy non meno importante del piiji  noto lavoro del Burkardt, ebbe l'esatta percezione  dell'importanza di questo libro. Infatti come nel-  la prefazione del I voi. (L'era dei tiranni) ricor-     (i) Archivio storico italiano, — Firenze, 1858. Nuova se-  rie, tomo 3, pag. III.   (2) Le Invasioni barbariche. — Milano, Vallardi.   (3) / Comuni, — Milano, Vallardi.     — i6o —   dava espressamente (1), nel cap. II {La storia ita-  liana) ne ripete con parole diverse e con qualche  ampliamento o dilucidazione tutte le grandi idee»  però da un punto di vista un pò* meno alto e non  del tutto superiore ai pregiudizi del senso comu-  ne, e nel seguito del volume non ne tiene molto  conto.   Nessuno tra gli storici moderni, tra cui ce ne  sono diversi molto meritevoli per ricerche parti-  colari, è riuscito a sollevarsi all'altezza del Fer-  rari che rimane ancora unico solitario gigante, per  darci un'interpretazione completa della storia d'I-  talia.   O meglio ci fu uno che tentò sebbene con for-  ze inferiori : Alfredo Oriani. Solo in mezzo a u-  na folla di positivisti che abbassavano arte e sto-  ria alla portata dei loro intelletti piccini, Oriani  ben comprese — e l'aveva appreso in gran par-  te dal Ferrari — come la storia sia interpretazio-  ne, spiegazione, visione dall'alto, resurrezione se-  condo la parola di Michelet (2). Non c'è bisogno  di abbassare l 'Oriani per innalzare il Ferrari : la  condotta poco delicata di quello verso quest'ulti-  mo, rammentato con citazioni che nascondono più  che rivelare la derivazione, non deve indurci a  negare il valore storico all'autore della Lotta pò-     (i) J. A. Sysmonds: // Rinascinunto in Italia; Cera dei  tiranni (vcrs. it,). — Torino, Roux e Viarciigo, 1900, pag. XX:  Debbo anche manife&tare speciale gratitudine al Ferrari, del  quale ho fatto miei non pochi {^iudirj nel capitolo sulla storia  italiana scrìtto per la seconda edizione di questo volume,   (2) A. Oriani: Fino a Dogali, - Bologna, Gherardi, 19 1 2  — Pag. 168.     — i6i —   litica. Esso fu il solo degno continuatore di Fer-  rari; continuatore in quanto non propriamente  storico del Medio Evo — i libri I e II della Lotta  politica come è stato dimostrato (1) non sono al-  tro se non un riassunto spesso colle stesse parole  dal suo gran predecessore — ma storico del Ri-  sorgimento italiano. Ad ogni modo, per quanto  sia runico che possa tentare la prova del parago-  ne, Oriani soccombe; come storico per l'inegua-  glianza deirinterpretazione ora indovinata ora su-  perficiale, come artista per la non rada enfatica  esagerazione romagnola inferiore alla potente pre-  cisione lombarda. Oriani si trova inoltre in una  posizione sentimentale un po' meno adatta che  non quella del Ferrari. In questo il senso del su-  blime storico e l'entusiasmo di fronte alla gran-  dezza va accompagnato a una calma serena, a  una specie di fine bonario umorismo che sa tro-  vare l'uomo magari contro il suo volere benefi-  co anche sotto i cenci del mascalzone. Oriani ha  della storia solo il senso tragico; brontola un po'  troppo; troppo spesso va in collera col passato;  non sa mantenersi cabno davanti agli errori dei  suoi personaggi, errori spesso imposti dalla storia  che qualche volta egli vorrebbe correggere. Que-  sti difetti sono più sensibili nei due primi libri  per mancanza di quella conoscenza diretta che è  necessaria alla storia. Dopo si va avanti meglio,  ma anche qui c'è da notare un po' di semplici-  smo e astrattismo, più nelle forme che nel con-     ci) l. Ambrosini : La lotta politica di A, Oriani nella  Voce, 1908, Num. 17, 18, 19.   A. Prrrari — Oimeppe Ferrari, 11     — 102 ^   cetto. Per es. egli dà come ragione dello scacco  delta rivoluzione del 48 la sua forma federale,  mentre poi nell'esposizione fa vedere come fu l'e-  quivoco del popolo e il tradimento dei prìncipi.  Ragionando a questa maniera vedrebbe più giu-  sto il Ferrari che pensa precisamente l'opposto.  Certo qualche po' delle lodi che danno all'Òrìani  storico i crìdci moderni, il Croce (1) e il Borgfte- ^  se (2), spetta di diritto al Ferrari, di cui sono tre  fra le immagini che quello cita per dare un esem-  pio della forza rappresentativa del suo autore  (Venezia — I Condottieri — Silvio Pellico).   Concludiamo. Sare6be un'impossibile pretesa  l'affermare che l'opera del Ferrari sia definitiva,  perchè nulla c'è al mondo di definitivo, né la vi-  ta né la filosofia né l'interpretazione storica. Ma  come una filosofia è viva finché non è sorpassata  e inverata, così una storia. Orbene — prima di  buttare il libro del Ferrari fra le anticaglie — bi-  sogna averlo sorpassato, e finora nessuno non so-  lo non Tha superato ma non si è nemmeno solle-  vato al suo livello. Noi consigliamo quindi a stu-  diarlo: primo per imparare il metodo di Inter*  pretare la storia ; secondo per meditare la sua in-  terpretazione concreta, anche oggi tanto vera che  1 moderni studi particolari la confermano invece  di distruggerla. E non solo in Italia, ma in tutta  l'Europa il Ferrari merita un posto a parte su*  periore ai più famosi : al Macaulay al Mommsen  al Taine, per la stessa ragione che rende il De   (ì) La Critica^ genn. i<)og.   (2) La vita e il libro. Parte I. — Torino, Bocca* 1911.     - 163 —   Sanctis superiore a tutti i critici della letteratura^  per il senso filosofico che gli diresse la potenza  interpretativa a risultati così grandi. Per racchiu-  dere in una frase il resultato di queste mie osser-  vazioni, Ferrari è il De Sanctis della storia poli-  tica, lo storico dell'Italia medievale. Noi non esi-  tiamo a considerarlo come il più gran rappresen-  tante della storiografia romantica (1), sorpassato  nelle sue fisime di filosofo della storia, ma ancor  degno come storico concreto di essere il gran  maestro della nostra generazione. 

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