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Thursday, March 31, 2022

GRICE E FICINO: IL DIALOGO DELL'AMORE

 Platone Carmide  Edizione Acrobat a cura di Patrizio Sanasi (patsa@tin.it)   Platone Carmide  Platone CARMIDE Arrivammo (1) il giorno prima, di sera, dall'accampamento di Potidea, (2) e poiché tornavo che era passato del tempo, mi recai pieno di gioia nei consueti luoghi di conversazione. E in particolare entrai nella palestra di Taurea,(3) dirimpetto al santuario della Regina,(4) e qui incontrai molte persone, alcune delle quali a me sconosciute, ma la maggior parte note. E quando mi videro entrare inaspettato, subito da lontano si diedero a salutarmi, chi da una parte chi dall'altra; Cherefonte (5) invece, da quella natura bizzarra quale egli era, balzato fuori dal gruppo, correva verso di me, e afferratami la mano: «O Socrate», diceva, «come ti sei salvato dalla battaglia?». Poco prima che noi arrivassimo c'era stata una battaglia a Potidea, della quale lì si era avuta notizia da poco. E io rispondendo: «Così come mi vedi », dissi. «Eppure qui è arrivata la notizia che la battaglia è stata molto dura», disse lui, «e che vi sono morte molte persone note». «Le notizie riportate sono esatte», risposi io. «Eri presente alla battaglia?» chiese lui. «C'ero». «Allora siediti qui», disse, «e raccontaci, perché non abbiamo saputo ogni cosa in maniera chiara». E intanto, guidandomi, mi fa sedere accanto a Crizia figlio di Callescro.(6) Nel sedermi dunque accanto, salutavo Crizia e gli altri, ed esponevo loro le notizie dal campo, qualsiasi cosa mi venisse chiesta: e mi chiedevano chi una cosa chi un'altra. Quando però fummo sazi di questi discorsi, io allora, a mia volta, interrogai loro sulla situazione di qui, sulla filosofia, come andassero le cose al momento, sui giovani, se ne fossero sorti tra loro che si distinguessero per saggezza, per bellezza o per entrambe le cose. E Crizia, fissando lo sguardo verso la porta, perché aveva visto alcuni giovanetti entrare che si insultavano tra loro e altra folla alle spalle che li seguiva, «dei belli», disse, «o Socrate, credo che tu saprai subito: infatti eccoli che per caso stanno entrando e sono i preannunciatori e gli amanti di colui che ha fama di essere il più bello in questo momento, e mi sembra che anche lui sia ormai prossimo ad entrare». «E chi è», chiesi io, «e di chi è figlio?» «Forse lo conosci anche tu», mi rispose, «ma non era ancora adulto prima che tu partissi; èCarmide figlio di nostro zio Glaucone, mio cugino».(7) «Lo conosco, per Zeus!», esclamai. «Neppure allora, quando era ancora un fanciullo, era uno da poco, ma ora, credo, dovrebbe ormai essere decisamente un giovanetto». «Presto saprai», rispose, «la sua età e che tipo egli sia diventato», e mentre stava dicendo queste cose entra Carmide. Ebbene, per quello che riguarda me, amico mio, non si può misurare nulla: infatti io sono semplicemente una cordicella bianca con i belli (8) - infatti li vedo in qualche modo quasi tutti belli i giovani nel fiore degli anni -, tuttavia indubbiamente anche allora quello mi parve meraviglioso per la statura e la bellezza e d'altra parte tutti gli altri, per lo meno mi sembrava, erano innamorati di lui - a tal punto erano storditi e turbati al suo entrare -, molti altri innamorati invece lo seguivano tra coloro che erano alle sue spalle. Il nostro caso, di noi adulti, non destava certo meraviglia, ma io feci caso in particolare ai fanciulli, e notai come nessuno di loro, neppure il più piccolo rivolgesse gli occhi altrove, ma tutti guardavano ammirati lui come se fosse una statua. E Cherefonte, dopo avermi chiamato: «Che te ne pare del ragazzetto, o Socrate?», disse. «Non ha un bel volto?» «Straordinariamente bello», risposi io. «Ebbene», aggiunse, «egli, se volesse spogliarsi, ti sembrerà privo di volto, a tal punto è bellissimo di forme». Furono dunque d'accordo anche gli altri con le parole di Cherefonte; e io: «Per Eracle», dissi, «di quale imbattibile persona voi parlate, se soltanto si trova ad essere in possesso di una piccola cosa in aggiunta». «Quale?», chiese Crizia. «Se si trova ad essere ben disposto per natura nell'anima», risposi, «e in qualche modo è scontato, o Crizia, che egli sia tale, dal momento che è del vostro casato». «Ma sì», rispose, «è bellissimo e virtuoso anche in questo». «Perché dunque», esclamai, «non spogliare di lui proprio questa cosa ed ammirarla prima dell'aspetto? Dal momento che ha ormai questa età, desidera certamente dialogare». «Senza alcun dubbio», rispose Crizia, «sia perché è appunto un filosofo sia, come pensano gli altri e lui stesso, anche un poeta». «Questa bellezza», dissi io, «caro Crizia, voi l'avete, è lungo tempo, dalla vostra consanguineità con Solone.(9) Ma perché non hai chiamato qui il giovane e non me lo hai presentato? Infatti neppure se per caso fosse stato ancora più giovane, sarebbe stato disonorevole parlare con noi davanti a te, tu che sei insieme suo tutore e cugino». «Certo tu hai ragione», disse, «chiamiamolo». E intanto al servo: «Ragazzo», disse, «chiama Carmide e digli che voglio presentarlo a un medico per quella mancanza di forze dalla quale poco fa mi diceva di essere affetto». Rivolgendosi quindi a me, Crizia disse: «Poco fa diceva dì sentire come un peso alla testa, quando si è alzato di buon mattino; ebbene, cosa ti impedisce di fingere che conosci un rimedio per la testa?» «Nulla», risposi, «purché venga». «Certo, verrà», assicurò. E la cosa in effetti andò così. Infatti venne e suscitò gran riso, perché ognuno di noi che eravamo seduti, nel far posto, spingeva con foga il vicino, per far sedere lui accanto a sé, finché di quelli seduti all'estremità uno lo facemmo alzare, mentre l'altro lo gettammo a terra di lato. Egli, una volta arrivato, prese posto tra me e Crizia. A questo punto, mio caro, io mi sentivo confuso e la mia precedente arditezza, che avevo perché pensavo che gli avrei parlato con molta scioltezza, era andata distrutta; ma quando, avendo Crizia detto che io ero colui che conosceva il rimedio, mi fissò con 2  Platone Carmide  occhi quali è impossibile descrivere e si muoveva a interrogarmi, e tutti quanti in palestra corsero intorno a noi in cerchio da ogni parte, allora davvero, o nobile amico, vidi ciò che nascondeva il mantello e mi infiammai e non ero più in me e pensai che il più sapiente in cose d'amore è Cidia, (10) il quale disse, parlando di un fanciullo bello, consigliando qualcun altro, «di stare attento, cerbiatto, di fronte a un leone, a non prendere una parte della preda»; mi sembrava infatti di essere stato catturato io stesso da un simile animale. Tuttavia, quando mi chiese se conoscessi il rimedio per la testa, risposi a fatica che lo conoscevo. «Qual è allora?» chiese. E io risposi che era una certa pianta, ma che, oltre al farmaco, c'era una formula magica; e se veniva cantata mentre si faceva uso del farmaco, il farmaco faceva guarire completamente; senza la formula magica la pianta non era di nessuna utilità. E quello di rimando: «Allora trascriverò la formula da te». «Se mi persuaderai o anche se non mi persuaderai?», dissi io. Scoppiato a ridere dunque disse: «Se ti persuaderò, o Socrate». «E sia», conclusi; «e tu conosci bene il mio nome?» «Sarei colpevole, se non lo conoscessi», disse, «si fa non poco parlare di te tra i giovani della mia età, ma io poi mi ricordo che quando ero ancora un fanciullo eri in compagnia di Crizia qui presente». «Ben fatto», dissi io, «ti parlerò così più liberamente della formula magica, di cosa si tratti: poco fa non sapevo in che modo avrei potuto spiegarti la potenza di questa formula. Infatti, o Carmide, la sua natura e tale per cui non è in grado di guarire soltanto la testa, ma, come forse hai già sentito da bravi medici, quando uno va da loro perché è malato agli occhi, dicono che non è possibile cercare di guarire gli occhi soltanto, ma che sarebbe necessario guarire insieme anche la testa, se si vuole che sia buona la condizione degli occhi; e quindi pensare di guarire la testa per se stessa senza il corpo intero è una follia totale. In base a questo discorso, applicando a tutto il corpo un regime, cercano di curare e di sanare con il tutto la parte; (11) o forse non ti sei accorto che dicono questo e che le cose stanno così?» «Certo», rispose. «E pensi che parlano bene e accetti questo ragionamento?» «Assolutamente», rispose. E io, al sentire che approvava, ripresi coraggio e a poco a poco si risvegliò di nuovo in me l'arditezza, mi ravvivai e dissi: «Tale dunque, o Carmide, è anche il caso di questa formula magica. Io l'imparai laggiù, nell'esercito, da uno dei medici traci di Zalmoxis,(12) dei quali si dice che sanno rendere immortali. Questo Trace diceva che i Greci facevano bene a dire quel che io dicevo poco fa, ma Zalmoxis, continuava, il nostro re, che è un dio, dice che non bisogna cercare dì guarire gli occhi senza la testa né la testa senza il corpo, allo stesso modo il corpo senza l'anima, ma questa sarebbe anche la causa del fatto che molte malattie sfuggono ai medici greci, perché trascurano il tutto, di cui bisognerebbe aver cura; e se il tutto non sta bene, è impossibile che la parte stia bene. Disse che infatti dall'anima muove ogni cosa, sia i beni sia i mali, al corpo e all'uomo intero, e da qui fluiscono come dalla testa agli occhi: bisogna dunque curare l'anima in primo luogo e in massimo grado, se vuoi che anche le condizioni della testa e del resto del corpo siano buone. Disse che l'anima, mio caro, va curata con certi incantamenti: questi incantamenti sono i bei discorsi; in seguito a tali discorsi appare nell'anima la assennatezza,(13) per la comparsa e la presenza della quale è ormai più facile procurare la salute e alla testa e al resto del corpo. Nell'insegnarmi dunque il rimedio e gli incantamenti, aggiunse "Che nessuno ti persuada a curare la propria testa con questo rimedio, nessuno che non abbia prima consentito a far curare l'anima da te con questa formula magica. E infatti ora", continuò, "è diffuso questo errore tra gli uomini: alcuni cercano di essere medici separatamente dell'una e dell'altra, della assennatezza e della salute". E mi comandò con molta decisione che non dovesse esserci nessuno così ricco né nobile né bello, che mi persuadesse a fare diversamente. Io allora - infatti gli ho prestato un giuramento e devo necessariamente obbedirgli - obbedirò dunque, e a te, se, seguendo gli ordini dello straniero, vorrai consentire in prima istanza a che l'anima venga incantata dalle formule magiche del Trace, fornirò il rimedio per la testa; altrimenti non sapremmo cosa fare per te, caro Carmide». Dopo aver ascoltato le mie parole, Crizia disse: «Sarebbe un colpo di fortuna per il giovanetto, o Socrate, il mal di testa, se sarà costretto a diventare migliore anche nel pensiero per via della testa. Ti dico tuttavia che Carmide ha fama di eccellere tra i giovani della sua età non soltanto per la bellezza, ma anche per questa stessa cosa per la quale dici di possedere la formula magica: tu intendi l'assennatezza, o no?» «Certamente», dissi io. «Dunque sappi bene», continuò, «che ha fama di essere di gran lunga il più assennato di quelli di adesso, e in tutto il resto, per l'età che ha raggiunto, non è inferiore a nessuno». «E infatti», dissi io, «è anche giusto, o Carmide, che tu emerga tra gli altri per tutte queste cose; perché credo che nessun altro tra coloro che si trovano qui potrebbe con facilità esibire due famiglie, riunitesi in una stessa, tra quelle di Atene, che abbiano generato da progenitori simili una discendenza più bella e più nobile rispetto a quelle dalle quali sei nato tu.(14) Infatti la vostra famiglia paterna, quella di Crizia figlio di Dropide, (15) ci è stata tramandata come oggetto di encomio da parte di Anacreonte,(16) di Solone (17) e di molti altri poeti, poiché eccelle per bellezza, per virtù e per tutto ciò che è detto felicità; e allo stesso modo poi la famiglia per parte di madre: infatti rispetto a Pirilampe, (18) tuo zio, nessuno tra gli uomini del continente si dice avesse la fama di essere più bello e più prestante, tutte le volte che si recò come ambasciatore o presso il Gran Re o presso qualcun altro personaggio nel continente, ma tutta quanta questa famiglia non fu mai inferiore all'altra. Nato dunque da siffatti antenati, è naturale che tu fossi il primo in tutto. Per quel che concerne gli aspetti visibili della bellezza, caro figlio di Glaucone, mi sembra che non sei inferiore in nulla a nessuno di coloro che sono vissuti prima di te, ma se davvero tu sei dotato per natura di buone capacità sia per assennatezza sia per tutto il resto, come afferma costui, beato, caro Carmide, ti ha generato tua madre», conclusi. «La 3  Platone Carmide  cosa dunque sta così. Se davvero c'è già nel tuo animo, come dice Crizia qui presente, assennatezza, e se sei sufficientemente assennato, non hai nessun bisogno né degli incantamenti di Zalmoxis né di Abari l'Iperboreo, (19) ma a questo punto bisognerebbe darti proprio il rimedio per la testa. Se invece pensi di avere ancora bisogno di queste formule magiche, bisogna fare l'incantamento prima di somministrare il rimedio. Dimmi tu dunque, sei d'accordo su questo punto e affermi di partecipare in modo sufficiente della assennatezza oppure ne avverti la mancanza?». Carmide dunque, essendo in un primo momento arrossito, apparve ancora più bello - e difatti la modestia si addiceva alla sua età - poi con animo non certo vile rispose: disse infatti che non sarebbe stato più facile, lì sul momento, né approvare né negare ciò che gli veniva chiesto. «Se infatti», spiegò, «non dicessi che sono assennato, non solo sarebbe strano che uno dica cose simili di se stesso, ma nel contempo farei passare per bugiardo Crizia qui presente e molti altri ai quali sembro assennato, in base al suo discorso; se poi dicessi che lo sono e lodassi me stesso, forse apparirei insopportabile; sicché non so che cosa risponderti». E io risposi: «Mi sembra che tu dica cose ragionevoli, Carmide. E penso», dissi, «che bisognerebbe cercare insieme se tu possieda o non possieda la cosa che ti sto domandando, affinché tu non sia costretto a dire cio che non vuoi e d'altro canto io non mi volga alla scienza medica in maniera sconsiderata. Se dunque ti è cosa gradita, voglio fare questa ricerca con te, altrimenti lasciar perdere». «Ma tra tutte è la cosa che mi fa più piacere», disse lui, «quindi proprio per questo, conduci la ricerca nel modo che tu ritieni il migliore». «Ecco allora», dissi io, «quale mi sembra il miglior metodo di ricerca su questo argomento. è chiaro infatti che se tu possiedi l'assennatezza, su questa puoi formulare un qualche giudizio. è d'altra parte necessario, quando essa è presente, se davvero c'è, che se ne abbia una qualche sensazione, grazie alla quale potresti avere su questa una qualche opinione, che cosa sia e di quale natura l'assennatezza; o non la pensi così?» «Certo, lo penso», disse. «Ebbene, questa cosa che pensi», dissi, «dal momento che sai parlar greco, potresti senza dubbio dire cosa ti sembra che sia?» «Forse», rispose. «E allora affinché possiamo congetturare se tu l'hai in te oppure no, dimmi», continuai, «che cosa affermi che sia l'assennatezza secondo la tua opinione?». Egli in un primo momento esitava e non voleva assolutamente rispondere, poi però disse che assennatezza a suo parere è fare tutto con ordine e con calma, camminare per le strade e conversare, e tutte le altre azioni allo stesso modo. «E penso», concluse, «in una parola che ciò che mi chiedi sia una certa calma». «è forse giusto ciò che dici?», dissi. «Certo, Carmide, dicono che le persone calme sono assennate. Vediamo se c'è del vero in quello che dicono. Dimmi: l'assennatezza non è tra le cose belle?» «Certo», rispose. «E qual è la cosa più bella nelle lezioni del maestro: scrivere le lettere simili in fretta o con calma?» «In fretta». «E nel leggere? Velocemente o lentamente?» «Velocemente». «E suonare la cetra con velocità e lottare con ritmo serrato non è molto più da virtuosi che farlo con tranquillità e lentamente?» «Sì». «E allora? Nel pugilato e nel pancrazio (20) non avviene la stessa cosa?» «Certo». «Nella corsa, nel salto e in tutti gli altri esercizi del corpo i movimenti fatti con prontezza e rapidità non si addicono al virtuoso, mentre all'inetto quelli fatti a fatica e con tranquillità?» «è evidente». «Dunque ci pare evidente», dissi io, «per quel che concerne il corpo, che non è la calma, ma la massima rapidità e prontezza ad essere la cosa migliore. Non è così?» «Certamente». «Ma l'assennatezza era una cosa bella?» «Sì». «Allora per il corpo non la calma, ma la rapidità sarebbe cosa più assennata, dal momento che l'assennatezza è una cosa bella». «Così sembra », rispose. «E allora?» continuai io. «è più bella la facilità di apprendere o la difficoltà di apprendere?» «La facilità di apprendere». «Ma la facilità di apprendere», chiesi, «significa apprendere rapidamente? E la difficoltà di apprendere significa farlo con calma e lentezza?» «Sì». «Non è più bello insegnare a un altro velocemente e con decisione piuttosto che con calma e lentamente?» «Sì» «E poi? Richiamare alla memoria e ricordare con calma e lentamente è più bello che farlo con decisione e rapidità?» «Con decisione e rapidità», rispose. «La perspicacia non è una certa acutezza dell'animo, e non la calma?» «è vero». «Non è forse vero che se si tratta di comprendere ciò che viene detto, sia a scuola di scrittura sia di cetra e in qualsiasi altro luogo, la cosa più bella non è farlo con la maggior calma possibile, bensì con la maggior rapidità?» «Sì». «Ma certo, nelle ricerche dell'anima e quando essa prende delle decisioni, a sembrare degno di lode non è il più lento nel prendere una decisione e nel trovare una soluzione, a quanto io credo, ma colui che lo fa con la massima facilità e rapidità». «è così», disse. «E in tutte le cose», aggiunsi io, «o Carmide, sia in quelle che riguardano l'anima sia in quelle che riguardano il corpo, le azioni di velocità e prontezza non appaiono più belle rispetto a quelle di lentezza e di calma?» «è possibile», rispose. «Dunque l'assennatezza non è una certa calma né la vita assennata è calma, in base a questo ragionamento, dal 4  Platone Carmide  momento che deve essere bella, se è assennata. Delle due infatti o l'una o l'altra: o mai o assai raramente le azioni calme ci apparvero nella vita più belle di quelle rapide e forti. Se dunque, amico mio, le azioni calme, neppure le più insignificanti, capita che siano più belle di quelle decise e rapide, così neppure l'assennatezza potrebbe essere l'agire con calma piuttosto che in modo forte e rapido, né nell'andatura né nell'eloquio né in nessun'altra situazione, né la vita calma potrebbe essere più assennata di una vita non tranquilla, dal momento che nel discorso l'assennatezza è stata da noi posta tra le cose belle, ma belle sono apparse quelle rapide non meno di quelle tranquille». «Mi sembra ben detto, o Socrate», disse. «E allora», ripresi io, «di nuovo, ponendo più attenzione, o Carmide, dopo aver guardato in te stesso e aver riflettuto su quali effetti la presenza della assennatezza possa avere su di te, e quale debba essere la sua natura per produrre tale effetto, dopo aver dunque riflettuto su tutte queste cose, dimmi con precisione e senza timore, cosa ti sembra che sia?». Ed egli rimase in attesa e, dopo aver riflettuto in se stesso con atteggiamento decisamente virile, «ebbene, mi sembra», disse, «che l'assennatezza faccia vergognare e renda timido l'uomo, e che l'assennatezza sia ciò che di fatto è pudore». «E sia», dissi io, «ma poco fa non ammettevi che l'assennatezza è una cosa bella?» «Certamente», disse. «E che gli assennati sono anche uomini buoni?» «Sì». «Potrebbe allora essere buona una cosa che non rende buoni?» «No, certo». «Non è solo dunque una cosa bella, ma anche una cosa buona». «Per lo meno mi sembra». «E allora?» ripresi io. «Non pensi che Omero aveva ragione quando diceva: "Il pudore non è un buon compagno per l'uomo bisognoso"?» (21) «Sì». «Dunque, parrebbe, il pudore non è un bene ed è un bene». «è evidente». «L'assennatezza è un bene se davvero rende coloro nei quali sia presente buoni, ma non cattivi». «Ma certo, le cose mi sembra che stiano come tu dici». «Dunque assennatezza non potrebbe essere pudore, se davvero la prima si trova ad essere un bene, mentre il pudore non è un bene più di quanto sia un male». «A me, o Socrate, sembra», disse, «che questo sia detto bene: ma prendi in esame questa definizione della assennatezza, come ti sembra che sia. Poco fa infatti mi sono ricordato - è una cosa che sentii già dire da un tale - che assennatezza consisterebbe nel fare ciascuno le proprie cose.(22) Considera dunque se pensi che abbia ragione chi dice questa cosa». E io: «Ah furfante», dissi, «tu hai sentito da Crizia qui presente questa cosa o da qualche altro sapiente!». «Probabilmente da un altro», disse Crizia, «non certo da me». «Ma che differenza fa, o Socrate», disse l'altro, Carmide, «da chi l'ho sentito?» «Nessuna differenza», dissi io, «perché in ogni caso bisogna indagare non chi disse questa cosa, ma se sia detta bene oppure no». «Ora parli bene», disse. «Per Zeus», dissi io, «ma se anche troveremo come sta la cosa, mi meraviglierei, perché somiglia a un enigma». «E perché?» «Perché sicuramente», continuai, «le parole non erano espresse nel senso in cui andava il suo pensiero, quando diceva che assennatezza è "fare le proprie cose". Oppure tu ritieni che il maestro di scrittura non fa niente quando scrive o quando legge?» «Si, certo, lo penso», disse. «Dunque tu pensi che il maestro di scrittura scrive e legge solo il suo proprio nome, o questo insegnava a voi ragazzi; o forse voi non scrivevate i nomi dei nemici non meno dei vostri e dei nomi degli amici?» «Per nulla meno». «Forse che vi impicciavate degli affari altrui e non eravate assennati nel fare questo?» «Assolutamente no». «E certamente non facevate i vostri propri affari, se davvero scrivere e leggere sono fare qualcosa». «Ma certo lo sono». «E infatti il guarire, caro compagno, il costruire case, il tessere e l'eseguire qualsiasi lavoro di tecnica con qualsivoglia arte significa sicuramente fare qualcosa». «Certo». «E allora?» dissi io, «pensi forse che una città sarebbe ben governata da quella legge che impone di tessere e di lavare ciascuno il proprio mantello, di realizzare le scarpe, l'ampolla, lo strigile (23) e tutto il resto in base a questo stesso discorso, senza toccare le cose altrui, ma di lavorare e realizzare ciascuno le proprie?» «Non lo penso», disse lui. «Tuttavia», replicai, «se è governata con assennatezza, dovrebbe essere ben governata». «Come no?», disse. «Dunque assennatezza non potrebbe essere il fare cose di tal genere e fare le proprie cose in questo modo». «Non sembra». «Parlava dunque per enigmi, a quel che sembra, cosa che appunto io dicevo poco fa, colui che diceva che fare le proprie cose è assennatezza; altrimenti era un ingenuo. L'hai sentita dire da uno sciocco dunque questa cosa, o Carmide?» «Minimamente», rispose, «perché anzi aveva fama di essere molto sapiente». «Soprattutto, a quel che penso, proponeva un enigma perché è difficile capire che cosa mai significhi fare le proprie cose». «Forse», disse. «E che cosa sarebbe mai, dunque, il fare le proprie cose? Puoi dirlo?» «Io non lo so, per Zeus», rispose lui, «ma forse nulla impedisce che neppure colui che lo diceva conoscesse ciò che pensava». E mentre diceva queste cose 5  Platone Carmide  sorrideva e guardava a Crizia. Ed era evidente che già da tempo Crizia era agitato e desideroso di farsi valere agli occhi di Carmide e dei presenti: fino a quel momento si era trattenuto, allora non ne fu più capace: mi sembra infatti più che vero, cosa che sospettai, che Carmide avesse sentito da Crizia questa risposta riguardo all'assennatezza. Carmide dunque, poiché non voleva render conto lui della risposta, ma voleva lo facesse l'altro, lo provocava e faceva notare che era stato confutato. L'altro non lo tollerò, ma mi sembrò adirato con lui come un poeta con un attore che recita male i suoi versi. Per cui lo guardò fisso e poi disse: «Sicché, Carmide, pensi che se non sai tu che cosa avesse in mente colui che disse che l'assennatezza è fare le proprie cose, allora neppure lui lo sa?» «Ma, eccellente Crizia», dissi io, «non è affatto una cosa che desta meraviglia, data la sua età, che ignori questa cosa; invece è naturale che tu la sappia, sia per via della tua età sia per i tuoi studi. Se dunque ammetti che l'assennatezza è appunto ciò che costui dice e accogli questo ragionamento, tanto più volentieri io indagherei insieme a te se la definizione è vera oppure no». «Ebbene lo ammetto senz'altro», rispose, «e lo accetto». «E fai bene», dissi io, «ammetti anche ciò che chiedevo poco fa: tutti gli artigiani fanno qualcosa?» «Sì». «E ti sembra che facciano solo le loro cose o anche quelle degli altri?» «Anche quelle degli altri». «Dunque sono assennati, pur non facendo solo le loro cose?» «Infatti, che cosa lo impedisce?» chiese. «Niente, per me almeno», replicai io, «ma bada che l'impedimento non ci sia per colui che, avendo ipotizzato che l'assennatezza è il fare le proprie cose, dice poi che nulla impedisce che anche coloro che fanno le cose degli altri siano assennati». «Io infatti, in un certo senso», disse, «questo l'ho ammesso, che sono assennati coloro che fanno le cose degli altri, se ho ammesso che sono assennati coloro che realizzano le cose degli altri».(24) «Dimmi, tu non chiami con la stessa parola il realizzare e il fare?» «No davvero», disse, «e neppure il lavorare e il realizzare. Ho imparato infatti da Esiodo,(25) il quale diceva che il lavoro non è affatto vergogna. Pensi dunque che egli, se usava, per le occupazioni del genere di cui parlavi poco fa, i termini "lavorare" e "fare", avrebbe detto che non è una vergogna per nessuno fare il calzolaio o il venditore di pesci salati o stare in un bordello? Non bisogna crederlo, Socrate, ma anche lui, a mio parere, pensava che altro è la realizzazione di un'azione, altro la realizzazione di un lavoro, e che mentre un'opera realizzata è a volte motivo di vergogna, quando non è accompagnata dal bello, il lavoro invece non è mai motivo di vergogna: infatti chiamava lavori le cose realizzate in modo bello e utile e le realizzazioni di tal genere le chiamava lavori e azioni. Bisogna dire che riteneva solo tali azioni proprie di ciascuno, mentre riteneva estranee tutte quelle dannose; quindi bisogna pensare che anche Esiodo, come qualsiasi altro uomo di buon senso, definisce assennato chi si occupa delle sue cose». «O Crizia», dissi io, «non appena cominciasti a parlare io capivo, credo, il tuo ragionamento, che chiami buone le cose proprie e personali e azioni le creazioni di tal genere: e infatti ho sentito infinite volte Prodico (26) fare delle distinzioni riguardo ai nomi. Ma io ti concedo di assegnare ogni nome come vuoi; soltanto chiarisci a cosa dài il nome che stai pronunciando. Dunque, ora dài daccapo una definizione più chiara: l'azione o la realizzazione, o come tu vuoi chiamarla, delle cose buone, tu dici che questa è assennatezza?» «Sì», rispose. «Dunque non è assennato colui che compie azioni cattive, bensì colui che compie azioni buone?» «E a te, nobile Socrate», disse, «non sembra così?» «Lascia perdere», dissi, «non indaghiamo su ciò che penso io, ma su ciò che stai dicendo ora tu». «Ebbene», disse, «io affermo che colui che realizza cose non buone ma cattive non è assennato, mentre è assennato colui che realizza cose buone ma non cattive: infatti il compimento di cose buone io te la definisco chiaramente assennatezza». «E certo nulla impedisce che tu abbia forse ragione; tuttavia mi fa meraviglia», dissi io, «il fatto che a tuo parere gli uomini che sono assennati ignorano di essere assennati». «Ma non lo penso», replicò. «Poco prima non è stato detto da te che nulla vieta che gli artigiani, anche quando fanno le cose degli altri, siano assennati?» «è stato detto, certo», disse, «ma che vuol dire questo?» «Niente; ma dimmi se secondo te un medico, quando guarisce qualcuno, fa qualcosa di utile sia per se stesso sia per colui che guarisce». «Sì». «Colui che agisce così non fa forse il suo dovere?» «Sì». «E colui che fa il suo dovere non è assennato?» «è assennato, certo». «Non è allora necessario che il medico sappia quando guarisce in modo utile e quando no? E che ogni artigiano sappia quando può trarre profitto dal lavoro che sta facendo e quando no?» «Forse no». «A volte», dissi io, «dopo aver agito in modo utile o dannoso, il medico non sa egli stesso in che modo abbia agito; eppure, se ha operato in modo utile, secondo il tuo discorso, ha agito in modo assennato. O non è così che dicevi?» «Sì». «Dunque, a quel che sembra, se ha operato in modo utile, agisce assennatamente ed è assennato, ma ignora di se stesso che sia assennato?» «In realtà, o Socrate», ribatté, «questo non potrebbe mai avvenire. Tuttavia se tu pensi, dalle mie precedenti ammissioni, che è inevitabile che ci si accordi su questo, io preferirei ritirare qualcuna di quelle ammissioni, e non mi vergognerei di dire che non ho detto cose esatte, piuttosto di ammettere che un uomo ignori di se stesso che è assennato. Io, per me, infatti, più o meno affermo che assennatezza è proprio questo, conoscere se stessi e sono d'accordo con colui che ha dedicato a Delfi tale iscrizione. 6  Platone Carmide  Penso infatti che questa iscrizione sia posta in modo da rappresentare un saluto del dio a chi entra, in luogo del "Salve", perché questa forma di saluto non è giusta, augurare di star bene, e non bisogna farsi questa esortazione gli uni con gli altri, ma augurarsi dì essere assennati. In qu esto modo dunque il dio rivolge a coloro che entrano nel santuario un saluto differente da quello che usano gli uomini: con questo pensiero fece la dedica colui che la offrì, a mio parere; e dice, a colui che di volta in volta entra nel tempio, nient'altro che "Sii saggio". Certo, parla in una maniera piuttosto enigmatica, come fa un indovino; e infatti "Conosci te stesso" e "Sii saggio" sono la stessa cosa, come indica l'iscrizione (27) e come sostengo anch'io, ma forse qualcuno potrebbe pensarla diversamente, cosa che appunto, a mio avviso, è capitato a coloro che in seguito dedicarono le iscrizioni "Nulla di troppo" (28) e "Garanzia porta guai".(29) Costoro infatti pensarono che "Conosci te stesso" fosse un consiglio, ma non un saluto rivolto dal dio a coloro che entrano; quindi anche loro, per offrire consigli non meno utili, scrissero e dedicarono queste parole. Il fine per cui io dico tutto questo dunque, o Socrate, è il seguente: ti lascio cadere tutto ciò che ho detto prima - in effetti forse su quei punti avevi più ragione tu in qualcosa, forse invece avevo più ragione io, ma nulla di ciò che dicevamo era chiaro -; ora voglio renderti conto di questo, se non ammetti che assennatezza è conoscere se stessi». «Ebbene, Crizia», dissi, «tu con me ti comporti come se io sostenessi di sapere le cose sulle quali pongo delle domande e potessi essere d'accordo con te, solo che lo desiderassi; ma non è così, al contrario, infatti io indago assieme con te di volta in volta il problema che si presenta, perché io stesso non so. Dopo aver indagato, dunque, voglio dire se sono d'accordo o se non lo sono. Suvvia, aspetta finché io non abbia fatto il mio esame». «Fai dunque il tuo esame», disse. «Difatti lo sto facendo», replicai io, «se infatti assennatezza fosse conoscere qualcosa, è chiaro che sarebbe una scienza e una scienza di qualcosa o no?» «Lo è di se stessi», rispose. «Dunque anche la medicina», chiesi, «è scienza della salute?» «Certamente». «Se allora tu mi chiedessi», continuai «"Essendo la medicina scienza di ciò che è sano, in cosa è per noi utile e che cosa procura?", risponderei che è di non poca utilità, perché ci procura un bel risultato, la salute, se accetti questa idea». «Sono d'accordo». «E se poi tu mi domandassi dell'architettura, che è la scienza del costruire, quale risultato a mio dire produca, risponderei che produce le abitazioni; e allo stesso modo anche per le altre arti. Bisogna dunque che anche tu risponda a proposito della assennatezza, dal momento che affermi che essa è conoscenza di se stessi, se ti si chiede: "O Crizia, l'assennatezza, essendo conoscenza di se stessi, quale bel risultato ci procura, e degno del suo nome?". Via, rispondi». «Ma, Socrate», replicò, «la tua ricerca la stai conducendo male: essa infatti non è simile alle altre scienze né le altre scienze si somigliano tra loro. Tu stai invece conducendo la tua ricerca come se esse fossero simili. Perché, dimmi», continuò, «quale risultato del calcolo o della geometria è simile alla casa dell'architettura o al mantello prodotto della tessitura o ad altre opere di tal genere che in gran numero si potrebbero indicare come prodotti di molte arti? Ebbene, puoi mostrarmi anche tu qualche prodotto di queste arti che sia di tal genere? Ma non potrai». E io risposi: «Dici il vero; ma posso mostrarti questo, di cosa sia scienza ciascuna di queste scienze, che si trovi ad essere distinto dalla scienza stessa. Per esempio, il calcolo è la scienza del pari e del dispari, della quantità, come sia rispetto ai pari e ai dispari e tra i pari e i dispari tra loro; (30) o no?» «Certamente», rispose. «Il dispari e il pari, non sono diversi rispetto al calcolo stesso?» «Come no?» «E a sua volta la statica è arte del pesare il peso più pesante e il peso più leggero; tuttavia il pesante e il leggero sono diversi dalla statica stessa. Sei d'accordo?» «Sì». «Di' allora, anche l'assennatezza, di cosa è scienza, che si trovi ad essere diverso dall'assennatezza stessa?» «Questo è il punto», replicò, «o Socrate: tu arrivi allo stesso risultato, cercando in che cosa differisce da tutte le scienze l'assennatezza; ma continui a cercare una certa qual somiglianza di questa con le altre. La cosa però non sta così, al contrario, tutte le altre sono scienze di qualcos'altro, non di se stesse, quella sola invece è scienza delle altre scienze e anche di se stessa. E queste cose certo non ti sono sfuggite; ma, penso, ciò che poco fa affermavi di non fare, lo stai facendo, perché cerchi di confutare, dopo aver lasciato andare l'argomento su cui verte il discorso». «Quale errore fai», dissi, «a pensare che se ti confuto quanto più è possibile, lo faccio per qualche altra ragione che non sia appunto quella per cui esaminerei cosa io stesso stia dicendo, nel timore che, senza avvedermene, io pensi di sapere, mentre non so. E quindi io, per parte mia, dichiaro adesso di fare questo: di esaminare il ragionamento soprattutto nel mio stesso interesse, ma forse anche nell'interesse degli altri amici; o forse non pensi che sia un bene comune per quasi tutti gli uomini che ognuna delle cose che esistono diventi evidente nel suo modo di essere?» «è proprio ciò che penso anch'io, o Socrate», rispose. «Coraggio, dunque», ripresi, «carissimo, rispondendo alla domanda nel modo in cui ti sembra, lascia perdere se sia Crizia o Socrate colui che viene confutato; ponendo invece attenzione al ragionamento stesso esamina in che modo ne verrà fuori, se viene confutato». «Ebbene», concluse, «farò così: le tue parole mi sembrano misurate». «Parla allora», ripresi io, «riguardo all'assennatezza cosa dici?» «Affermo allora», rispose, «che sola tra le altre scienze essa è scienza di se stessa e delle altre scienze». «Ma non sarebbe anche scienza dell'ignoranza», chiesi io, «se lo è anche della scienza?» «Certamente», rispose. «Dunque soltanto l'assennato conoscerà se stesso e sarà in grado di esaminare che cosa egli si dà il caso che sappia e 7  Platone Carmide  che cosa non sa, e sarà capace allo stesso modo di esaminare anche gli altri, che cosa uno sappia o pensi di sapere, se davvero sa, e che cosa poi pensi di sapere ma non sa; lui solo può farlo, nessun altro. Questo significa dunque essere assennati e l'assennatezza: conoscere se stessi e sapere cosa si sa e cosa non si sa. Non è questo ciò che vuoi dire?» «Sì», rispose. «E ancora», ripresi, «con la terza coppa al salvatore, (31) come all'inizio esaminiamo in prima istanza se questa cosa sia possibile oppure no - sapere che si sanno e che non si sanno le cose che si sanno e quelle che non si sanno -; in seconda istanza, se è possibile nel modo più assoluto, quale utilità ne potremmo ricavare noi a saperlo». «Certo, bisogna fare un'indagine», disse. «Via, Crizia», incalzai, «esamina se riguardo a questi argomenti tu non possa apparire in qualcosa più pieno dì risorse di me, perché io sono in difficoltà; ma devo dirti in cosa sono in difficoltà?» «Certo», rispose. «Tutto questo», dissi io, «non sarebbe forse, se davvero è come tu dicevi poco fa, una sola scienza, la quale non è scienza di nient'altro se non di se stessa e delle altre scienze e nello stesso tempo anche della mancanza di scienza?» «Certo». «Vedi dunque in che modo assurdo, caro compagno, ci accingiamo a fare questo ragionamento: infatti se esamini questo stesso punto in altri contesti, ti sembrerà, com'io credo, impossibile». «Come e in quali contesti?» «In questi. Rifletti se a tuo parere esiste una vista che non sia la vista di quelle cose delle quali ci sono altre viste, ma che sia la vista di se stessa e delle altre viste e allo stesso modo delle assenze di vista, e, pur essendo una vista, non veda nessun colore, ma solo se stessa e le altre viste: ti sembra che possa esistere una vista di tal genere?» «Per Zeus, no». «E un udito che non oda nessuna voce, ma che senta invece se stesso e gli altri uditi e le assenze di udito?» «Neppure questo». «Insomma esamina tutte le percezioni, ti sembra che qualcuna sia percezione delle percezioni e di se stessa, ma che delle cose delle quali hanno percezione le altre sensazioni, non abbia nessuna percezione?» «Non lo penso». «Ma ti sembra che esista un desiderio che non sia desiderio di nessun piacere, ma di se stesso e degli altri desideri?» «No davvero». «Neppure una volontà, com'io credo, che non voglia nessun bene, ma voglia solo se stessa e le altre volontà». «No, certo». «Potresti affermare che esista un amore tale che si trovi ad essere amore di nessuna bellezza, ma di se stesso e degli altri amori?» «No», rispose. «E hai già osservato una qualche paura che tema se stessa e le altre paure, ma non tema neppure una sola delle cose terribili?» «Non l'ho notata», rispose. «Un'opinione che sia opinione di opinioni e di se stessa, ma che sulle cose sulla quali opinano le altre opinioni non opini?» «In nessun modo». «Ma, a quel che sembra, affermiamo che esiste una scienza di tal genere che non è scienza di nessuna disciplina: non è scienza di nulla, ma è scienza di se stessa e delle altre scienze?» «Lo affermiamo infatti». «Non è assurdo, se davvero esiste? Dunque non affermiamo ancora con fermezza che non esiste, esaminiamo piuttosto ancora se esiste». «Dici bene». «Vediamo dunque: questa scienza è scienza di qualcosa e ha un potere tale da esserlo di qualcosa, o no?» «Certamente». «E difatti noi affermiamo che ciò che è maggiore ha un potere tale da essere maggiore di qualcosa?» «Difatti lo ha». «E di qualcosa che è minore, se davvero è maggiore?» «Necessariamente». «Se dunque trovassimo qualcosa di maggiore che fosse maggiore delle cose maggiori e di se stesso, ma che non fosse maggiore di nessuna di quelle cose rispetto alle quali le altre sono maggiori, certamente gli toccherebbe, se davvero è maggiore di se stesso, di essere anche minore di se stesso; o no?» «Assolutamente inevitabile, o Socrate», rispose. «Ancora, se qualcosa è doppio delle altre cose doppie e di se stesso, sarebbe dunque il doppio di una metà che è sia se stesso sia gli altri doppi: (32) e difatti non c'è doppio di altro che della metà». « è vero». «Essendo dunque più di se stesso, non sarà anche meno? Ed essendo più pesante più leggero, ed essendo più anziano più giovane e in tutto il resto allo stesso modo? La cosa che abbia la propria potenza in rapporto a se stessa, non avrà anche quella essenza con la quale era in rapporto la sua potenza? Voglio dire questo: per esempio l'udito, diciamo, non era udito di altro se non del suono, o no?» «Sì». «Se dunque sentirà se stesso, sentirà se stesso perché provvisto di suono, altrimenti non si udrebbe». «Decisamente inevitabile». «E la vista, nobile uomo, se davvero essa vedrà se stessa, deve necessariamente avere essa stessa un colore, perché una vista non potrebbe mai vedere niente che sia incolore». «No, certo». «Vedi dunque, o Crizia, che quante cose abbiamo esposto, alcune ci sono parse assolutamente impossibili, su altre ci sono forti dubbi che possano avere su loro stesse il loro stesso potere? Infatti per le grandezze, le quantità e altre cose di tal genere è assolutamente impossibile; o no?» «Certamente». «L'udito poi e la vista e ancora lo stesso movimento che possa muovere se stesso e il calore bruciare e tutte le altre 8  Platone Carmide  cose del genere in alcuni potrebbero provocare incredulità, in altri forse no. C'è bisogno, mio caro, di un grande uomo che distinguerà adeguatamente, per tutti i casi, se nessuna delle cose esistenti abbia per natura il suo potere essa su se stessa, ma su altro alcune sì e altre no; e s e poi esistono alcune cose che hanno potere su se stesse, se tra queste c'è la scienza che noi diciamo essere appunto l'assennatezza. Io non mi credo capace di fare queste distinzioni: perciò non posso sostenere fermamente ne se sia possibile che avvenga questo, che esista una scienza della scienza, né, nel caso sia precisamente così, accetto che questa stessa cosa sia l'assennatezza, prima che io abbia esaminato se, essendo di tale natura, possa esserci utile o no. Infatti che l'assennatezza sia qualcosa di utile e di buono lo indovino. E tu dunque, figlio di Callescro - giacché stabilisci che l'assennatezza è questo, scienza di una scienza e quindi anche di una mancanza di scienza - per prima cosa mostra che è possibile ciò che poco fa io dicevo, in secondo luogo che oltre ad essere possibile è anche utile; e forse potresti anche soddisfare me, con l'idea che sia giusta la definizione che dài dell'assennatezza». E Crizia, udite queste parole e avendomi visto in difficoltà, come accade a coloro che, nel vedere delle persone sbadigliare, ne condividono il bisogno, anche lui mi sembrò costretto dal mio essere in difficoltà e preso egli stesso dall'imbarazzo. Poiché dunque in ogni occasione si faceva onore, provava vergogna davanti ai presenti, e non voleva concedermi di non essere capace di distinguere le cose sulle quali io lo avevo chiamato a fare distinzioni, e non diceva nulla di preciso, cercando di nascondere l'imbarazzo. E io, per far proseguire il nostro ragionamento, dissi: «Ma se è opportuno, o Crizia, ammettiamo pure ora questo dato, che è possibile che esista una scienza della scienza; esamineremo di nuovo se è così o no. Suvvia, posto che questo sia assolutamente possibile, in cosa allora è maggiormente possibile sapere quel che uno sa o quale che non sa? Dicevamo (33) infatti che questo è appunto conoscere se stessi ed essere assennati; o no?» «Certo», rispose, «e in certo qual modo ne consegue, Socrate; infatti se uno possiede una scienza che conosce se stessa, sarebbe della stessa natura della cosa che possiede: come per esempio quando uno ha la velocità, veloce, quando ha la bellezza, è bello, e quando ha la conoscenza, è uno che conosce; quando però uno abbia una conoscenza che conosca se stessa, in certo qual modo sarà allora egli stesso conoscitore di se stesso». «Non discuto questo», ribattei io, «che quando un uomo possieda una cosa che conosce se stessa, non conoscerà egli stesso se stesso, ma che necessità c'è che colui che abbia questa cosa sappia ciò che sa e ciò che non sa?» «Perché queste due cose sono identiche, Socrate». «Forse», ribattei, «ma ho paura di essere sempre allo stesso punto, perché non capisco come possa essere lo stesso il sapere ciò che si sa e il sapere ciò che non si sa».(34) «Come dici?», chiese. «Dico questo», risposi, «una scienza che in qualche modo è scienza di scienza sarà in grado di distinguere di più rispetto al dire: di queste cose l'una è scienza, mentre l'altra non è scienza?» «No, ma solo questo». «Dunque vale lo stesso per la scienza e per l'ignoranza del sano, e per la scienza e l'ignoranza del giusto?» «In nessun modo». «Ma l'una, credo, è la medicina, l'altra la politica, mentre quest'altra non è nient'altro che scienza». «Come no, infatti». «Se dunque uno non aggiunge il sano e il giusto, ma conosce solo la scienza, dal momento che ha soltanto la scienza di questo, potrebbe ragionevolmente conoscere, riguardo a se stesso e riguardo agli altri, che sa una cosa e possiede una scienza, o no?» «Sì». «Ciò che conosce grazie a questa scienza come lo saprà? Infatti conosce ciò che è sano grazie alla medicina, ma non grazie all'assennatezza, ciò che è armonico grazie alla musica, ma non grazie all'assennatezza, ciò che riguarda le costruzioni grazie all'architettura, ma non grazie all'assennatezza, e così via, o no ?» «è evidente». «Ma grazie all'assennatezza, se davvero è soltanto scienza delle scienze, come saprà che conosce ciò che è sano o ciò che riguarda le costruzioni?» «In nessun modo». «Dunque colui che ignora queste cose non saprà ciò che sa, ma saprà soltanto che sa». «Sembra». «Né l'essere assennati né l'assennatezza sarebbero dunque questo: sapere le cose che si sanno e le cose che non si sanno, ma, come sembra, soltanto che si sa e che non si sa». «è probabile». «Né costui sarà capace di esaminare se un altro, che va dicendo di conoscere qualcosa, sa ciò che dice di sapere o non lo sa; ma conoscerà questo soltanto, a quanto sembra, che possiede una scienza, di cosa però l'assennatezza non glielo farà conoscere». «Non pare». «Non sarà in grado di distinguere colui che si spaccia per medico ma non lo è e chi invece lo è realmente, né nessun altro di coloro che sanno e non sanno. Esaminiamo dunque da qui: se l'assennato, o chiunque altro voglia riconoscere il vero medico e colui che non lo è, non si comporterà dunque in questo modo. Non gli parlerà certo di medicina- perché il medico, come dicevamo, non si intende di nient'altro che non sia la salute e la malattia - o no?» «Sì, è così». «Di scienza invece non sa nulla, questa la attribuimmo infatti all'assennatezza soltanto». «Sì». «Né di medicina sa nulla il medico, dal momento che la medicina si dà il caso che sia appunto una scienza». «è vero». «Che dunque il medico possiede una scienza, l'assennato lo comprenderà; poiché tuttavia bisogna sperimentare quale sia, non esaminerà forse di quali cose sia scienza? O non è forse vero che, grazie a questo, di ogni scienza viene 9  Platone Carmide  stabilito non soltanto che sia scienza ma anche uale scienza sia, grazie cioè al fatto che è scienza di qualcosa?» «Grazie a questo, certo». «E la medicina viene definita diversa dalle altre scienze, per il fatto che è scienza del sano e del malato». «Sì». «Dunque colui che voglia indagare sulla medicina non deve forse ricercare all'interno di quelle situazioni nelle quali la medicina sia presente e certo non in quelle esterne alla medicina o nelle quali questa non sia contemplata?» «Certo non in queste». «In ciò che è sano e in ciò che è malato dunque colui che fa un'indagine corretta esaminerà il medico, in quanto medico». «è naturale». «Indagando dunque nelle parole dette e nelle azioni compiute in questo modo: le parole, per vedere se sono ben dette, le azioni, per vedere se sono ben fatte?» «Necessariamente». «Senza la medicina potrebbe qualcuno prestare attenzione all'una o all'altra di queste due cose?» «No davvero». «Nessun altro potrebbe farlo, com'è naturale, tranne un medico, neppure un assennato, perché dovrebbe essere un medico in aggiunta all'assennatezza». «è così». «Soprattutto, se l'assennatezza è soltanto la scienza della scienza e dell'ignoranza, non sarà in grado di distinguere né un medico che conosce i princìpi della sua arte o colui che non li conosce ma pretende di conoscerli o pensa di conoscerli, né nessun altro di coloro che conoscono una scienza e qualsiasi cosa sappiano, a meno che non si tratti di una persona che condivida la sua arte, come gli altri artigiani». «è evidente», disse. «Quale vantaggio dunque», dissi, «Crizia, potremmo ancora ricavare da una assennatezza che sia di tal fatta? Se infatti, ipotesi che facevamo all'inizio, l'assennato sapesse ciò che sa e ciò che non sa, e sapesse queste cose di saperle e queste altre di non saperle, e fosse in grado di esaminare un altro che si trovi in questa stessa situazione, ci sarebbe di grandissima utilità, diciamo, essere assennati: vivremmo esenti da errore noi stessi che possediamo l'assennatezza e tutti gli altri quanti fossero governati da noi. E difatti non ci metteremmo a fare cose che non conosciamo, ma, cercando persone che sappiano, le affideremmo a loro, né permetteremmo agli altri, sui quali esercitiamo un comando, di fare nient'altro se non ciò che potrebbero fare bene: e questo sarebbe ciò di cui abbiano scienza; e così, una casa amministrata dall'assennatezza sarebbe ben amministrata, una città ben governata e ogni altra cosa sulla quale eserciti un potere l'assennatezza: rimosso l'errore, e facendo d'altra parte da guida la correttezza, in ogni azione è necessario che coloro che si trovano in queste condizioni abbiano buona fortuna e d'altra parte, avendo buona fortuna, siano felici. Non è questo», dissi, «Crizia, che intendevamo a proposito dell'assennatezza, dicendo quale grande bene sarebbe conoscere ciò che si sa e ciò che non si sa?» «Certamente», rispose: «è così». «Ora», ripresi io, «vedi che non è apparsa in nessun luogo nessuna scienza di questo tipo». «Lo vedo», disse. «Non ha forse questo di buono», continuai, «la scienza che ora stiamo cercando, l'assennatezza, il conoscere la scienza e l'ignoranza: che quando uno la possiede, qualsiasi altra cosa apprenda, la apprenderà più facilmente e tutto gli apparirà più chiaro, dato che, in aggiunta a ogni cosa che apprenda, (35) avrà la visione della scienza, ed esaminerà meglio gli altri sulle cose che egli stesso abbia appreso, mentre gli altri, conducendo l'esame senza la scienza, lo faranno in maniera più debole e mediocre? Sono questi, caro amico, i tipi di vantaggi che otterremo dall'assennatezza, mentre noi miriamo a qualcosa di più grande e desideriamo che questo stesso qualcosa sia maggiore di quanto sia?» «Forse è così», rispose. «Forse», dissi io, «forse però noi non cercammo niente di utile. Faccio questa congettura perché mi appaiono certi strani fatti riguardo all'assennatezza, se è di tal fatta. Vediamo, dunque, se vuoi: avendo ammesso che è possibile conoscere la scienza e ciò che all'inizio ponevamo essere l'assennatezza, cioè conoscere ciò che si sa e ciò che non si sa, non neghiamolo, ma concediamolo; e dopo aver accettato tutte queste cose, esaminiamo ancora meglio se, essendo tale, ci porterà anche qualche vantaggio. Infatti non mi sembra, o Crizia, che abbiamo fatto bene ad ammettere ciò che dicevamo poco fa, che l'assennatezza, se fosse tale, sarebbe un gran bene, facendo da guida all'amministrazione sia della casa sia della città». «Come mai?» domandò. «Perché», risposi, «ammettemmo con facilità che è un grande bene per gli uomini se ognuno di noi facesse le cose che sa, mentre quelle che non sa le affidasse ad altri che le conoscano». «Dunque non facemmo bene ad ammetterlo?» «No, non mi sembra», risposi io. «Dici cose strane veramente, o Socrate», commentò. «Per il cane!», (36) esclamai. «Anche a me sembra così, e avendo rivolto là lo sguardo anche poco fa, dicevo che mi si mostravano davanti alcune cose strane e che temevo che la nostra ricerca non fosse esatta. Infatti veramente, se l'assennatezza è esattamente tale, non mi sembra per nulla chiaro quale vantaggio essa ci arrechi». «E come mai?», disse lui. «Parla, affinché sappiamo anche noi ciò che vuoi dire». «Penso», dissi io, «di star sragionando; bisogna tuttavia esaminare l'idea che mi si presentava e non rifiutarla con leggerezza, se uno si preoccupa almeno un po' di se stesso». «Parli bene», disse. 10  Platone Carmide  «Ascolta dunque», continuai, «il mio sogno, sia esso venuto attraverso la porta di corno o attraverso quella di avorio.(37) Se infatti l'assennatezza esercitasse su di noi il massimo potere, essendo quale ora la definiamo, forse tutto verrebbe fatto in base alle scienze, e nessun nocchiero, che affermi di essere tale senza esserlo, potrebbe ingannarci, né medico né stratego né nessun altro che finga di sapere qualcosa che non sa, potrebbe farla franca; dal momento che le cose stanno così, potrebbe accaderci qualcos'altro se non che saremo fisicamente più sani di ora e ci salveremo nei pericoli, sia in mare sia in guerra e avremo gli utensili, la veste, tutti i tipi di calzature e ogni oggetto fabbricato con arte e molte altre cose, dal momento che ci serviamo di abili artigiani? Se vuoi, ammettiamo che anche la mantica sia la scienza di ciò che deve avvenire e l'assennatezza, che è ad essa preposta, tolga di mezzo i ciarlatani, e invece stabilisca i veri indovini quali profeti del futuro. Che così disposto il genere umano potrebbe agire e vivere sapientemente, lo capisco - infatti l'assennatezza, stando di guardia, non permetterebbe che l'ignoranza, sopravvenendo, fosse nostra collaboratrice -, ma che agendo sapientemente avremmo fortuna e saremmo felici, questo invece non siamo ancora in grado di capirlo chiaramente, caro Crizia». «Tuttavia», riprese, «non troverai facilmente un altro fine (38) dell'avere fortuna, se rifiuti l'agire secondo la scienza». «Insegnami allora ancora una piccola cosa», dissi io, «secondo la scienza di cosa intendi? Forse del taglio del cuoio?» «Per Zeus, no». «Allora della lavorazione del bronzo?» «Niente affatto». «Allora della lana, del legno o di altro materiale del genere?» «No davvero». «Dunque non rimaniamo fermi al ragionamento secondo cui chi vive secondo la scienza è felice. Infatti costoro, nonostante che vivano secondo la scienza, tu non ammetti che siano felici, ma mi sembra che tu limiti l'uomo felice a colui che vive secondo la scienza di determinate cose. E forse ti riferisci a colui che menzionavo poco fa, colui che conosce tutto ciò che sta per avvenire, l'indovino. Ti riferisci a lui o a qualcun altro?» «A lui», rispose, «e a un altro». «Chi?», domandai. «Forse un uomo del genere, se oltre a conoscere il futuro conoscesse anche tutte le cose passate e quelle presenti e non ignorasse nulla? Poniamo che un tal uomo esista. Non potresti infatti, penso, dire che ci sia al mondo qualcuno che vive con più scienza di lui». «No, certo». «Desidero inoltre sapere questo, quale tra le scienze lo rende felice? O forse tutte nella stessa misura?» «Nient'affatto nella stessa misura», rispose. «Ma quale più di tutte? Grazie alla quale, cosa sa tra le cose presenti, quelle passate e quelle future? Forse quella grazie alla quale conosce il gioco degli scacchi?» (39) «Ma quale gioco degli scacchi?», esclamò. «Allora quella grazie alla quale conosca il calcolo?» «Nient'affatto». «Allora quella per cui conosce ciò che è sano?» «Piuttosto», rispose. «Ma qual è quella scienza alla quale faccio particolare riferimento», continuai, «grazie alla quale, cosa può conoscere?» «Quella per cui conosce il bene e il male». «Ah furfante», esclamai, «da tempo mi porti in giro, nascondendomi che non era il vivere secondo scienza a fare la fortuna e la felicità, né è prerogativa di tutte le altre scienze insieme, ma di una sola, che è soltanto quella che tocca il bene e il male. Perché, Crizia, se toglierai questa scienza dalle altre scienze, forse la medicina farà guarire un po' meno, l'arte del calzolaio farà calzare meno scarpe, la tessitura vestire meno, l'arte del nocchiero impediràmeno di morire in mare e quella dello stratego in guerra?» «Non meno», rispose. «Ma, caro Crizia, che ognuna di queste cose avvenga bene e in modo utile ci verrà a mancare, se questa scienza è assente». «Quel che dici è vero». «Questa scienza dunque, a quel che sembra, non è l'assennatezza, ma quella la cui funzione è di esserci utile. Infatti non è la scienza delle scienze e delle non scienze, ma del bene e del male: cosicché, se dunque la scienza utile è quest'ultima, l'assennatezza per noi sarebbe qualcosa di diverso». «Perché», chiese, «non potrebbe esserci utile? Infatti se l'assennatezza è in modo particolare scienza delle scienze, presiede anche le altre scienze, e, avendo potere anche su questa, cioè la scienza del bene, dovrebbe esserci utile». «Quale fa guarire?», chiesi. «Questa? E non la scienza medica? E le altre opere delle arti le compie questa e non le altre arti, ciascuna la propria? Non abbiamo invece stabilito da tempo che essa è unicamente scienza della scienza e della mancanza di scienza e di nient'altro, non è così?» «Almeno pare». «Non sarà dunque artefice di salute?» «No, certo». «La salute era infatti opera di un'altra arte, o no?» «Si, di un'altra». «Né dunque sarà artefice di utilità, caro compagno: perché poco fa attribuimmo a un'altra arte questo compito, è vero?» «Certo». «In che modo sarà dunque utile l'assennatezza, se non è artefice di nessuna utilità?» «In nessun modo, o Socrate, almeno sembra». «Vedi dunque, o Crizia, come a ragione tempo fa io temessi e a buon diritto mi rimproveravo di non aver condotto un'indagine utile sull'assennatezza? (40) Infatti la cosa che per generale ammissione è tra tutte la più bella non ci sarebbe apparsa priva di utilità, se io fossi stato di qualche utilità alla realizzazione di una buona ricerca. Ora siamo invece battuti su tutti i fronti e non siamo in grado di scoprire per quale delle realtà esistenti il legislatore (41) pose questo nome, l'assennatezza. Eppure abbiamo ammesso molte cose che non conseguivano al nostro ragionamento. 11  Platone Carmide  Infatti ammettemmo che è scienza della scienza, nonostante che il ragionamento non lo permettesse e affermasse che non è così; concedemmo poi a questa scienza di conoscere anche i compiti delle altre scienze, nonostante che neppure questo ammettesse il ragionamento, affinché l'assennato potesse diventare per noi uno che sa di sapere quello che sa e di non sapere quello che non sa. E questo lo ammettemmo con grande generosità, senza riflettere sul fatto che è impossibile che uno possa in qualsiasi modo sapere cose che non sa assolutamente; la nostra ammissione infatti dice che si sa ciò che non si sa. Eppure, com'io credo, non c'è nulla rispetto a cui questo non potrebbe apparire più assurdo. Tuttavia la ricerca, che ci ha trovati così disponibili e non inflessibili, n on è maggiormente in grado di trovare la verità, anzi tanto l'ha derisa che ciò che noi da tempo, cercando un accordo ed elaborando insieme, stabilimmo essere l'assennatezza ci appariva manifestamente, con grande insolenza, inutile. Dunque io, per parte mia, mi indigno meno; ma per te», continuai, «o Carmide, sono molto indignato, se tu, che sei tale per aspetto e oltre a ciò molto assennato nell'animo, non trarrai nessuna utilità da questa assennatezza, né ti sarà di alcuna utilità la sua presenza nella vtia. Ma ancora di più mi indigno per la formula magica che imparai dal Trace, (42) se, mentre è di nessun valore pratico, ci misi tanto zelo ad impararla. Ebbene, non credo che le cose stiano così, ma che io sono un ricercatore mediocre; perché, penso, l'assennatezza è un gran bene e se davvero la possiedi, sei un uomo beato. Via, guarda se l'hai e non hai nessun bisogno della formula magica, perché se la possiedi, io ti consiglierei piuttosto di ritenere me un chiacchierone, incapace di ricercare col ragionamento alcunché, te invece quanto più assennato tanto più felice». E Carmide, «Ma per Zeus», disse, «io non so né se la possiedo né se non la possiedo: come potrei sapere ciò che neppure voi siete capaci di trovare cosa mai sia, come tu affermi? Io non sono tuttavia molto persuaso da te, e per parte mia, o Socrate, credo di avere molto bisogno della formula magica e per quel che concerne me nulla impedisce che venga incantato da te tanti giorni finché tu dica che è sufficiente». «E sia: tuttavia, o Carmide», disse Crizia, «se lo farai, questa sarà per me la prova che sei assennato, nel caso tu ti sottoponga all'incantamento di Socrate e non ti allontani da lui né molto né poco». «Stai sicuro che lo seguirò e non lo lascerò», rispose, «perché mi comporterei in modo terribile, se non obbedissi a te, il tutore, e non facessi ciò che mi ordini». «Ebbene», ribatté l'altro, «io te lo ordino». «Lo farò», rispose, «a partire da questo stesso giorno». «Voi due», intervenni io, «che cosa state decidendo di fare?» «Nulla», rispose Carmide, «abbiamo già deciso». «Allora mi costringerai», esclamai, «e non mi concederai la possibilità di un'inchiesta?» (43) «Stai sicuro che ti costringerò, dal momento che costui me lo ordina; in considerazione di ciò decidi tu cosa farai». «Ma non resta nessuna decisione», dissi io, «infatti se tu ti metti a fare qualsiasi cosa e usi la forza, nessun uomo sarà capace di contrastarti». «No, certo», ribatté: «non opporti neppure tu». «Allora non mi opporrò», dissi io. 12  Platone Carmide  NOTE: 1) è la lezione "ecomen" adottata dall'editore Burnet (altri editori leggono, al singolare, "econ men"). 2) Colonia corinzia, entrata nella Lega navale delio-attica. Atene le impose di rinunciare ai suoi legami con la madrepatria Corinto, la quale annualmente inviava a Potidea un magistrato (epidamiurgo), incaricato di partecipare al governo della città. Il rifiuto di Potidea alle richieste ateniesi costituisce uno dei casus belli che porteranno allo scoppio della guerra del Peloponneso. L'assedio di Potidea, da parte del contingente ateniese guidato da Callia, durò dal 432 al 429 a.C. (cfr. Tucidide, 1, 56-66). Nell'Apologia (28e) Socrate ricorda agli Ateniesi la sua fedeltà, da lui dimostrata sul campo a Potidea, appunto, ad Anfipoli e a Delio. 3) Si tratta evidentemente di un istruttore, di cui non sappiamo altro. 4) Antica divinità ateniese, nel cui santuario venivano onorati anche Codro e Neleo. Il santuario si trovava probabilmente a sud dell'Acropoli. 5) Cherefonte, del demo attico di Sfetto, è ricordato come amico di Socrate già da Aristofane (Nubes 104) e da Senofonte (Memorabilia primo 2, 48). Compare come interlocutore anche nel Gorgia. Esponente politico di parte democratica, viene esiliato dai Trenta Tiranni nel 404 a.C., rientra ad Atene nel 403, con Trasibulo. Nel 399, anno dei processo e della morte di Socrate, Cherefonte era già morto (cfr. Apologia Socratis 21a). A lui la Pizia diede il famoso responso che indicava in Socrate il più saggio degli uomini. La Suida accenna a presunte opere di Cherefonte, perdute tuttavia già nell'antichità. 6) Callescro era fratello di Glaucone, nonno materno di Platone. 7) Carmide era infatti figlio di Glaucone, a sua volta fratello di Callescro, il padre di Crizia (cfr. la nota precedente). Figlia di Glaucone era Perictione, madre di Platone. Platone era pertanto nipote di Carmide, e figlio della cugina di Crizia. 8) Cfr. Sofocle, frammento 330 Radt: «su pietra bianca cordicella bianca». I carpentieri che normalmente usano per le misurazioni una cordicella rossa considerano la cordicella bianca strumento non funzionale per la misurazione e pertanto inutilizzabile. Socrate si definisce dunque "cordicella bianca", giudice non funzionale, per questa sua tendenza a considerare tutti belli i giovani nel fiore degli anni. Ma Carmide, come dimostreranno già le prime battute sul suo arrivo, smantellerà completamente questa convinzione del maestro. 9) La discendenza di Carmide e di Crizia da Solone passa attraverso Dropide, padre di Crizia il vecchio, che era nonno di Carmide e del nostro Crizia (cfr. 157e; Timaeus 20e). Secondo Diogene Laerzio, Volume 3, 1, e Proclo, In Platonis Timaeum 26b, Dropide era fratello di Solone. Solone fu arconte ad Atene nel 594/593 a.C. (Diogene Laerzio, Volume 1, 62) o nel 592/591 a.C. (Aristotele, Respublica Atheniensium 14, 1). Abolì i debiti e liberò dalle ipoteche i beni dei debitori, restituendo la libertà a coloro che, insolventi, avevano acceso ipoteche sulla propria persona. Riformò il sistema dei pesi e delle misure e introdusse una moneta più leggera, con una svalutazione che favoriva in modo particolare i debitori. Nella vecchia ripartizione in classi dei cittadini ateniesi aggiunse la classe dei pentacosiomedimni. Fu scrittore di elegie (5.000 versi, secondo Diogene Laerzio, Volume 1, 61), poesie giambiche ed epodi. 10) Poeta lirico forse da identificare col Cidia, accostato da Plutarco nei Moralia a Mimnermo e Archiloco (De facie in orbe lunae 19, 931e). 11) Il principio qui esposto, della corrispondenza della parte e delle parti col tutto nell'organismo umano, è alla base della terapia della medicina ippocratica. Nel Corpus Hippocraticum è compreso un trattato (Sul regime di vita). 12) Divinità dei Traci, identificato da Mnasea (in Fozio, s.v. "Zalmoxis") con il dio greco Crono. Erodoto (quarto, 94-96) racconta che prima di essere dio fu uomo, schiavo di Pitagora a Samo. Acquistata la libertà, tornò in Tracia, dove annunciò ai cittadini eminenti che tutti i loro discendenti sarebbero vissuti in eterno e avrebbero avuto ogni bene. Queste notizie, che Erodoto ha raccolto tra i Greci dell'Ellesponto, servivano forse a sottolineare le analogie tra sciamanismo e pitagorismo. Erodoto tuttavia si mostra scettico e ristabilisce la giusta cronologia, dichiarando che Zalmoxis è in realtà vissuto prima di Pitagora. Cfr. E.R. Dodds, I Greci e l'irrazionale, Firenze, 1959, pagine 159-209. 13) Per il senso più ampio da attribuire al termine greco "sophrosúne" cfr. quanto osservato nella premessa al dialogo. 14) Cfr. le note 7 e 8. 15) Cfr. la nota 9. 16) Anacreonte nacque a Teo, in Asia Minore, intorno al 570 a.C., e morì nel 485 a.C. Visse alla corte di Policrate dì Samo (tiranno dal 533 al 522 circa) e, dopo la morte di questi, in Tessaglia e ad Atene. Fu autore di componimenti in metro elegiaco, giambico e in metri lirici quali l'anacreontico, il gliconeo, il ferecrateo. 17) Del Crizia antenato del Crizia del quinto secolo parlano in effetti due versi di Solone (frammento 22 Gentili- Prato). 18) Pirilampe, figlio di Antifonte, fu amico di Pericle (Plutarco, Pericles 13). Era famoso per i suoi allevamenti di pavoni che probabilmente aveva portato dalla Persia. Viene inoltre ricordato dalle fonti come secondo marito di Perictione, madre di Platone. 19) Abari è sciamano e taumaturgo, che Erodoto (4, 36) definisce sacerdote di Apollo. Pindaro (frammento 283 Bowra) lo assegna all'età di Creso (560-546 a.C.). Di lui si raccontava che viaggiasse senza mai mangiare e che portasse con sé una freccia donatagli da Apollo. Secondo il lessico Suida(s.v.) venne in delegazione ufficiale dal paese degli 13  Platone Carmide  Iperborei ad Atene al tempo della terza Olimpiade. Abari, come Zalmoxis e Pitagora, è un altro esempio di ponte gettato, nell'immaginario antico, tra Oriente e Occidente. 20) Combattimento combinato di lotta ("pále"), e pugilato ("pugme"). Gara particolarmente pericolosa, ammetteva praticamente ogni genere di colpo; era tuttavia proibito mordere ed accecare l'avversario. Cfr. Platone, Euthydemus 271c-272a. 21) Cfr. Odyssea libro 17, verso 347. 22. Cfr. frammento Diels-Kranz 88B 41a. Che la definizione sia di Crizia è confermato dalla reazione indispettita che Platone gii attribuisce in 162c. Si tratta di una formula che Platone considerava evidentemente momento essenziale del percorso di ricerca della definizione ultima di "sophrosúne". In Crizia la definizione doveva avere una valenza specificamente politica e riflettere il «settarismo esclusivista di una concezione di vita che sprofondava le sue radici nell'antica etica aristocratica» (A. Battegazzore, in Sofisti. Testimonianze e frammenti, volume 4, a cura di M. Untersteiner e A. Battegazzore, Firenze 1962, pagina 339). 23) Lo strigile era uno strumento impiegato nella palestra per raschiare dal corpo l'olio e la sabbia. Probabilmente c'è qui un riferimento polemico a Ippia di Elide (cfr. Hippias minor 368b-d), il quale si faceva sostenitore dell'autarchia e ad Olimpia esibì un anello, un sigillo, uno strigile, un'ampolla, calzari, un mantello, e perfino una tunica e una cintura di foggia persiana, interamente realizzati da lui. 24) Ai verbi "pratto" e "poieo" va dato il diverso significato di 'fare' e di 'realizzare', essendo il primo non necessariamente collegato con una realizzazione di oggetti che è invece implicita nel verbo "poieo", come anche nel verbo "érgazestai" 'lavorare', che Platone impiega qualche riga più in basso (A. Braun, I verbi del «fare» nel greco, in «Studi italiani di filologia classica» 15, 1939, pagine 260-261). 25) Esiodo, Opera et dies 311. La formulazione anticipa uno dei princìpi del l'etica attivistica periclea, nel "manifesto" della democrazia ateniese riportato da Tucidide, 2,40,; cfr. D. Musti, Storia greca. Linee di sviluppo dall'età micenea all'età romana, Bari-Roma 1994, pagina 208; Idem Demokratia. Origini di un'idea. Bari-Roma 1995, pagine 104-105. 26) Prodico dì Ceo, sofista contemporaneo di Socrate, nato probabilmente nel 465 e morto nel 400 a.C., scrisse le "Orai" (Ore o Stagioni), e un'opera "Sulla natura". Viaggiò in molte città greche come ambasciatore e spesso ad Atene, dove offriva ai giovani che seguivano il suo insegnamento la possibilità di optare tra lezioni da una dracma e lezioni da cinquanta dracme. Le sue ricerche, tra le altre cose, vertevano sulla definizione dei sinonimi. Cfr. Platone, Hippias maior 282c. 27) L'iscrizione sull'architrave del santuario di Apollo a Delfi aveva probabilmente un significato religioso, di ammonimento al visitatore affinché ricordasse la sua condizione mortale. 28) Cfr. Teognide, 335 e 401. 29) Proverbio cui fa riferimento in un frammento anche il commediografo Cratino. 30) Cfr. Platone, Gorgias 451b-c. 31) Espressione proverbiale, usuale nei banchetti. Si invoca questo terzo brindisi (a Zeus Salvatore), il decisivo, perché decisivo ci si augura che sia il terzo tentativo di definizione della "sophrosúne". 32) Passo di difficile interpretazione, per cui il tutto suonerebbe: «se qualcosa è doppio di altri doppi e di se stesso, sarebbe doppio essendo quindi metà sia di se stesso sia degli altri doppi», oppure come proposto nel testo. 33) Cfr. 167a. «Dunque soltanto l'assennato conoscerà se stesso...». 34) Non è a mio parere necessario aggiungere al testo «con il conoscere se stessi», coma propone Diano, né espungere, come fanno vari filologi, la parte finale della frase «il sapere ciò che si sa e il sapere ciò che non si sa». 35) Cfr. Platone, Laches 182b-c. 36) Esclamazione che Socrate usa frequentemente (cfr. per esempio Apologia Socratis 22a). 37) Cfr. Omero, Odyssea libro 19, 560-567: attraverso la porta di corno passano i sogni veritieri inviati agli uomini dagli dèi, attraverso la porta di avorio passano invece i sogni falsi. 38) "Telos" significa 'compimento', 'realizzazione', 'fine'. 39. I "pessoi" erano 'pedine' usate in un gioco simile alla dama o agli scacchi (cfr. Platone, Leges 739a). I "pessoi" sono da distinguere dai dadi da gioco, chiamati "cuboi". 40) Cfr. 172c. (I tipi di vantaggi che otterremo dall'assennatezza...). 41) L'idea che i nomi siano stabiliti da un legislatore o da una legge divina è ampiamente sviluppata nel Cratilo. 42) Cfr. 156d. (E io, al sentire che approvava, ripresi coraggio...). 43. Il termine "anácrisis" appartiene al lessico giuridico e indica l'istruttoria preliminare. Platone Liside  Edizione Acrobat a cura di Patrizio Sanasi (patsa@tin.it)   Platone Liside  Platone LISIDE Percorrevo la strada esterna alle mura, sotto le mura stesse, dall'Accademia (1) direttamente al Liceo. (2) Quando fui all'altezza della porticella dove si trovava la fontana di Panopo, lì incontrai Ippotale, (3) figlio di Ieronimo, Ctesippo (4) del demo di Peania e altri giovani fermi in gruppo insieme a costoro. Ippotale, appena mi vide avvicinarmi, disse: «Socrate, dove vai e da dove vieni?» «Dall'Accademia vado direttamente al Liceo», risposi io. «Ma vieni qui, direttamente da noi. Perché non cambi strada? Ne vale la pena»~ disse egli. «Dove mi inviti e da chi di voi?», domandai io. «Qui», rispose, mostrandomi un recinto davanti al muro e una porta aperta: «qui passiamo il tempo noi e molti altri bei giovani». «Cos'è questo luogo e come passate il tempo?» «è una palestra costruita da poco. Per lo più passiamo il tempo in discussioni, di cui ti renderemmo volentieri partecipe», rispose. «E fate bene: ma chi insegna qui?», domandai. «Un tuo amico e ammiratore: Micco», (5) rispose. «Per Zeus, non è certo un uomo da poco, ma un valente sofista», osservai. «Vuoi seguirci per vedere chi c'è dentro?», chiese Ippotale. «Prima ascolterei volentieri per quale motivo devo entrare e chi è il bello», chiesi a mia volta. «Ognuno di noi la pensa diversamente, Socrate», rispose egli. «Per te chi è, Ippotale? Dimmelo». Interrogato su questo arrossì e io dissi: «Ippotale, figlio di Ieronimo, non dirmi più se ami qualcuno o no: so che non solo sei innamorato, ma ti sei spinto molto oltre nell'amore. Nelle altre cose io non valgo e non servo a molto, ma questo dono ho ricevuto dal dio, la capacità di capire subito chi ama e chi è amato». Udendo queste parole egli arrossì ancora di più e Ctesippo disse: «è bello che tu arrossisca, Ippotale, ed esiti a dire a Socrate quel nome; ma se egli si intrattiene anche poco con te, sarà sfinito sentendotelo ripetere un numero infinito di volte. Socrate, egli ha intronato e riempito le nostre orecchie con il nome di Liside: e se poi beve ci è facile, quando ci svegliamo dal sonno, credere di sentire il nome di Liside. E quanto dice a parole, anche se terribile, non è così terribile come quando tenta di rovesciare su di noi poesie e prose. E ciò che è ancora più terribile è il fatto che canti al suo amato con voce incredibile che noi dobbiamo ascoltare e sopportare. Ora invece, interrogato da te, arrossisce». «Liside è un giovane, a quanto pare: lo intuisco dal fatto che sentendone il nome, non lo conosco», osservai. «Infatti non lo chiamano molto con il suo nome ma è ancora chiamato con il nome del padre che è molto conosciuto, perciò so bene che non puoi ignorare l'aspetto di quel ragazzo, poiché è in grado di farsi notare solo per questo», disse. «Mi si dica di chi è figlio», chiesi. «è il figlio maggiore di Democrate del demo di Aissone» disse. «Bene, Ippotale, che amore nobile e giovane da ogni punto di vista hai trovato! Su, mostra anche a me ciò che mostrerai a costoro, perché io veda se sai ciò che un innamorato deve dire del suo amato di fronte a lui stesso e agli altri», osservai. «Ma Socrate, perché dai peso a come parla costui?», chiese Ippotale. «Neghi di amare il giovane di cui costui parla?», domandai. «No, ma nego di comporre poesie e prose per l'amato», rispose. «Non sta bene, ma farnetica e delira», disse Ctesippo. Io chiesi: «Ippotale, non ti chiedo di ascoltare qualche verso o qualche canto, se ne hai composti per il giovinetto, ma il tuo pensiero, per vedere in quale modo ti comporti con l'amato». «Te lo dirà costui: infatti lo sa bene e se ne ricorda se, come afferma, è rimasto assordato a furia di ascoltarmi». «Per gli dèi, me ne ricordo bene, poiché sono cose ridicole, Socrate. Infatti esser innamorato e dedicare le proprie attenzioni a un giovane in particolare senza sapergli dire nulla di ciò che anche un bimbo non saprebbe dirgli, non è ridicolo? Ciò che la città tutta canta di Democrate e di Liside, nonno del ragazzo, e di tutti i suoi antenati, le loro ricchezze, i loro allevamenti di cavalli, le vittorie pitiche, istmiche e nemee (6) con quadrighe e cavalli da corsa, questo egli compone e declama, e cose ancora più antiche di queste. Ultimamente infatti ci raccontava in un poema l'ospitalità data a Eracle, cioè che un loro antenato aveva accolto Eracle per la sua parentela con lui, giacché anche lui era nato da Zeus e dalla figlia del capostipite del demo, racconti, questi e molti altri simili, che fanno le donne anziane, Socrate. Questo è ciò che costui, dicendo e cantando, ci costringe ad ascoltare». Tali furono le parole di Ctesippo. E dopo aver udito ciò, così dissi: «Ridicolo Ippotale, componi e canti un encomio indirizzato a te prima di aver vinto?» «Ma non è per me, Socrate, che io compongo e canto», ribatté. «Tu credi di no», incalzai. «Come stanno le cose?», chiese. «Questi canti sono indirizzati a te più che a tutti gli altri perché, se conquisti un tale amato, le tue parole e i tuoi canti saranno per te un onore e saranno realmente encomi per un vincitore, poiché hai conquistato un tale amato; se invece ti sfugge, quanto più ampi sono stati i tuoi elogi dell'amato, tanto più apparirai ridicolo, privato di una conquista tanto importante. Dunque, amico, chi è sapiente in amore non loda l'amato prima di averlo conquistato, poiché teme il futuro 2  Platone Liside  e come andrà a finire. Nel contempo i bellì , quando qualcuno li loda e li esalta, si colmano di superbia e di orgoglio. O non credi sia così ?» «Sì », disse. «E più sono orgogliosi, non sono più difficili da conquistare?» «è naturale». «Come ti sembrerebbe un cacciatore se, cacciando, spaventasse e rendesse più difficile da catturare la selvaggina?» «Evidentemente un inetto». «Ed è una grande rozzezza servirsi di parole e canti non per ammansire ma per inselvatichire: non è così ?» «Mi pare di sì ». «Bada allora di non procurarti tutti questi rimproveri per la tua poesia, Ippotale. Eppure io credo che tu non ammetteresti che un uomo che danneggi se stesso con la poesia sia un buon poeta, dal momento che arreca danno a se stesso». «No, per Zeus, perché sarebbe del tutto privo di logica. Ma è per questo, Socrate, che ti consulto, e se puoi, consigliami quali parole si devono dire o cosa si deve fare per diventare gradito all'amato», così mi pregò. «Non è facile dirlo: ma se tu volessi farlo venire a discutere con me, forse potrei dimostrarti ciò che bisogna dirgli al posto delle parole e dei canti che costoro dicono tu gli rivolgi», dissi io. «Ma non è difficile. Infatti se entri con Ctesippo e ti siedi a discutere, credo che egli si avvicinerà a te - d'altronde è molto amante delle discussioni, Socrate, e inoltre, poiché si celebra la festa di Ermes, (7) si sono riuniti nel medesimo luogo i giovinetti e i bambini -, dunque ti si avvicinerà. E se ciò non si verifica, egli è amico di Ctesippo per via del cugino di costui, Menesseno, (8) di cui è il più caro amico. Dunque che Ctesippo lo chiami, se non si avvicina da sé», ribatté Ippotale. «Bisogna fare così », dissi. E nel contempo, preso Ctesippo, entrai nella palestra e gli altri ci seguirono. Entrati, trovammo lì che i bambini avevano terminato i sacrifici, giocavano agli astragali, (9) poiché la cerimonia era quasi finita, ed erano tutti ben vestiti. Dunque i più giocavano fuori nel cortile, alcuni in un angolo dello spogliatoio giocavano a pari e dispari con moltissimi astragali che tiravano fuori da alcuni cestini; altri invece stavano loro attorno osservandoli. Tra di essi c'era anche Liside: incoronato, stava in piedi tra i bambini e i giovinetti e si segnalava per il suo aspetto, degno non solo della sua fama di bel ragazzo, ma anche di eccellente. E noi ci mettemmo in disparte sedendoci all'angolo opposto - infatti lì c'era tranquillità - e ci mettemmo a discutere tra noi. Pertanto, voltandosi spesso, Liside ci guardava ed era chiaro che desiderava avvicinarsi, ma intanto era imbarazzato e non osava avvicinarsi da solo; poi dal cortile entrò Menesseno in una pausa dal gioco e, non appena vide me e Ctesippo, venne a sedersi vicino a noi. Dunque, vistolo, Liside lo seguì e sedette vicino a lui. Allora anche gli altri si avvicinarono e Ippotale, quando vide che molti ci stavano intorno, si nascose in piedi dietro di loro, là dove pensava che Liside non potesse vederlo, temendo di infastidirlo, e restò così ad ascoltare. Io allora guardai Menesseno e gli chiesi: «Figlio di Demofonte, chi di voi è più grande d'età?» «Possiamo discuterne», rispose. «E dunque si dovrebbe discutere anche su chi dei due è più nobile», dissi io. «Certo» rispose. «E allo stesso modo su chi è più bello», continuai. Entrambi risero. Io continuavo: «Non domanderò chi di voi due è più ricco perché siete amici. O no?» «E molto», dissero. «Dunque si dice che le cose degli amici siano comuni, sicché in questo non sarete differenti, se dite la verità sulla vostra amicizia», dissi. Assentirono. Dopo questo scambio di battute cercavo di chiedere chi dei due fosse più giusto e più sapiente; quindi nel frattempo giunse uno che fece alzare Menesseno, dicendo che il maestro di ginnastica lo chiamava: credo che stesse celebrando un rito. Egli pertanto se ne andò e io domandai a Liside: «Liside, ti amano molto tuo padre e tua madre?» «Certo», rispose. «Non vorrebbero dunque che tu fossi quanto mai felice?» «E come no?» «E ti sembra che sia felice un uomo che sia schiavo e non possa fare ciò che desidera?» «Per Zeus, non mi sembra proprio», disse. «Allora se tuo padre e tua madre ti amano e desiderano che tu sia felice, è chiaro che si danno premura in ogni modo perché tu sia felice». «Come no?», disse. «Dunque ti permettono di fare ciò che vuoi senza rimproverarti e impedirti di fare ciò che desideri?» «No per Zeus, Socrate, mi impediscono moltissime cose». «Come dici? Pur volendo che tu sia felice ti impediscono di fare ciò che vuoi? Dimmi questo: se tu desiderassi salire su uno dei carri di tuo padre prendendo le briglie, quando c'è una gara, non te lo permetterebbero, anzi te lo impedirebbero?», domandai. «Per Zeus, no che non lo permetterebbero», rispose. «E a chi lo permetterebbero?», chiesi. «C'è un auriga che riceve da mio padre un compenso», fu la sua risposta. «Come dici? Permettono a uno prezzolato di fare quello che vuole con i cavalli più che a te, e per giunta lo pagano per questo?» «E allora?», domandò. «Ma, credo, affidano a te di guidare la coppia di muli e, se volessi prendere la frusta per batterli, lo permetterebbero». «E come potrebbero mai permetterlo?», disse. «E allora? Nessuno può batterli?», obiettai. 3  Platone Liside  «Può farlo il mulattiere», disse. «è uno schiavo o un uomo libero?» «Uno schiavo», rispose. «A quanto pare tengono dunque in maggior conto uno schiavo rispetto a te che sei loro figlio, preferiscono affidare più a lui che a te le loro cose e gli lasciano fare quel che vuole mentre a te lo impediscono? Dimmi ancora questo: ti lasciano almeno guidare te stesso o neppure questo ti affidano?» «Come, affidarmelo?» chiese. «Allora qualcuno ti guida?» «Sì , il pedagogo», (10) rispose. «è forse uno schiavo?» «E allora? è nostro», disse. «è strano che, pur essendo libero, tu sia guidato da uno schiavo. Ma in quali azioni questo pedagogo ti guida?», chiesi. «Senza dubbio conducendomi dal maestro», rispose. «E non è forse vero che anche i maestri ti comandano?» «Certo». «Allora tuo padre vuole importi moltissimi padroni e comandanti. E dunque, quando arrivi a casa da tua madre ella, perché tu sia felice, ti lascia fare ciò che vuoi della lana e del telaio, quando tesse? Non ti impedisce certo di toccare la spatola, o la spola o qualche altro strumento per la lavorazione della lana». Ed egli ridendo disse: «Per Zeus, Socrate, non solo me lo impedirebbe, ma mi picchierebbe anche, se li toccassi». «Per Eracle, hai forse fatto un torto a tuo padre o a tua madre?» «No, per Zeus», rispose. «Ma in cambio di che ti impediscono in modo così terribile di essere felice e di fare quello che vuoi e ti fanno crescere per tutto il giorno sempre schiavo di qualcuno e, in una parola, senza che tu possa fare nulla di ciò che desideri? Sicché, a quanto pare, tu non trai vantaggio alcuno dalle tue ricchezze che sono così cospicue, ma tutti le governano più di te, né tu governi il tuo corpo così nobile, ma anche questo lo governa e lo cura un altro. Tu, invece, Liside, non comandi su nessuno e non fai nulla di ciò che desideri». «No, perché non ne ho ancora l'età, Socrate», disse. «Figlio di Democrate, non è questo a impedirlo, perché c'è almeno una cosa, come credo, che tuo padre e tua madre ti affidano e non aspettano che tu ne abbia l'età. Infatti quando vogliono che sia letta loro o scritta per loro qualche lettera, sei tu, credo, il primo in casa cui commissionano questo compito. O no?» «Certo», rispose. «Dunque in questo caso tu puoi cominciare a scrivere la lettera che vuoi, e così pure capita per la lettura. E se prendi la lira, come credo, né tuo padre né tua madre ti impediscono di tendere e allentare la corda che vuoi e di toccarla e di farla vibrare con il plettro. O te lo impediscono?» « No di certo». «Dunque, Liside, quale mai sarebbe il motivo per cui in questi casi non ti pongono impedimenti mentre lo fanno nei casi di cui parlavamo poco fa?» «Credo perché queste cose le conosco e quelle no», disse. «Bene, carissimo: dunque tuo padre non aspetta l'età per affidarti tutti i suoi beni, ma nel giorno in cui ti considererà più saggio di lui, allora ti affiderà se stesso e quanto possiede», osservai. «Lo credo», disse. «E sia: allora? Il tuo vicino non seguirà nei tuoi confronti la stessa regola di tuo padre? Credi che ti affiderà la propria casa da amministrare quando ti riterrà più saggio di lui nell'amministrazione di una casa o la dirigerà lui stesso?», continuai. «Credo che l'affiderà a me». «E allora? Credi che gli Ateniesi non ti affideranno le proprie cose quando si renderanno conto che sei abbastanza saggio?» «Sì ». «Per Zeus, e il Gran Re? (11) Preferirebbe affidare al proprio figlio maggiore, a cui spetta il regno dell'Asia, l'incarico di mettere quello che vuole nel brodo, mentre la carne cuoce, o a noi se, recatici da lui, gli mostrassimo di essere più bravi di suo figlio nella preparazione del cibo?» «A noi, è chiaro», rispose. «E a suo figlio non permetterebbe di fare neppure una piccola aggiunta mentre a noi, anche se volessimo aggiungere sale a manciate, lo permetterebbe». «E come no?» «E se suo figlio avesse male agli occhi, glieli lascerebbe toccare, se non lo ritenesse un medico, o glielo impedirebbe?» «Glielo impedirebbe». «Se invece ritenesse noi esperti di medicina, anche se volessimo aprirgli gli occhi e cospargerli di cenere, credo non lo impedirebbe, considerandoci competenti». «Dici il vero». «E allora non affiderebbe anche a noi più che a se stesso e al proprio figlio tutto il resto in cui noi apparissimo ai suoi occhi più sapienti di loro?» «Necessariamente, Socrate», rispose. «Dunque è così , caro Liside: le cose in cui siamo saggi tutti ce le affidano, Elleni e barbari, uomini e donne, e in esse faremo ciò che vogliamo e nessuno deliberatamente ce lo impedirà, ma in esse saremo liberi, comanderemo sugli altri, saranno cose nostre e quindi ne trarremo vantaggi. Invece le cose nelle quali non saremo abili nessuno ce le affiderà per farne quel che ci pare, ma tutti ce lo impediranno per quanto possono, non solo gli estranei ma anche nostro padre, nostra madre e coloro che ci sono ancora più vicini, e in esse dipenderemo dagli altri e ci saranno estranee, poiché non ne trarremo guadagno alcuno. Sei d'accordo che la questione stia in questi termini?» «Sono d'accordo». «Dunque allora saremo amici di qualcuno e qualcuno ci amerà in relazione a ciò in cui non potremo essere di utilità alcuna?» «No di certo», rispose. «Dunque ora né tuo padre ama te, né un altro amerà chi è inutile». «Così pare», disse. «Se dunque diventi sapiente, ragazzo, tutti ti saranno amici e intimi - perché sarai utile e buono - altrimenti nessun altro, 4  Platone Liside  nemmeno tuo padre, tua madre e i parenti ti saranno amici. Pertanto, Liside, è possibile essere orgogliosi di sé nelle cose in cui non si sa ancora pensare?» «E come potrebbe essere?», chiese. «E se dunque hai bisogno di un maestro non sai ancora pensare». «Dici il vero». «Quindi non puoi essere capace di grandi pensieri, se sei ancora privo di pensiero». «Per Zeus, Socrate, non mi sembra», disse. Io, dopo averlo ascoltato, mi voltai verso Ippotale e poco mancò che non commettessi un grande errore, poiché mi venne da dire: «Così , Ippotale, bisogna parlare all'amato, umiliandolo e sminuendolo e non, come fai tu, insuperbendolo e blandendolo». Però, vedendolo in ansia e turbato da ciò che si diceva, mi ricotdai che voleva assistere senza che Liside se ne accorgesse, quindi mi ripresi e mi trattenni dal rivolgergli la parola. A questo punto ritornò Menesseno e si sedette accanto a Liside, nel posto da cui si era alzato. Liside allora, in modo molto fanciullesco e amichevole, di nascosto a Menesseno mi disse a voce bassa: «Socrate, di' anche a Menesseno ciò che dicevi a me poco fa». E io risposi: «Glielo dirai tu, Liside, giacché hai prestato molta attenzione». «Certo», disse. «Dunque prova a ricordartelo nel modo migliore possibile, per riferirgli tutto per filo e per segno. Ma se qualcosa ti sfugge, me lo richiederai la prima volta che mi incontri» continuai io. «Lo farò, Socrate, con molto impegno, sappilo bene. Ma digli qualcos'altro, perché io possa ascoltare fino a quando non arriva l'ora di tornare a casa», disse. «Bisogna farlo, dal momento che me lo ordini. Ma bada di venirmi in aiuto, se Menesseno cerca di confutarmi; o non sai che è un eristico?», (12) chiesi io. «Sì , per Zeus, e anche abile: per questo voglio che tu discuta con lui», rispose. «Per rendermi ridicolo?», domandai. «No, per Zeus, ma per dargli una lezione», rispose. «E come? Non è facile, poiché è un uomo abile, allievo di Ctesippo. Ma c'è anche lui - non lo vedi? -, Ctesippo», notai. «Non preoccuparti di nessuno, Socrate, ma su, discuti con lui», disse. «Bisogna discutere», così dissi. Dunque, mentre parlavamo tra noi, Ctesippo chiese: «Perché conversate soltanto voi due e non ci coinvolgete nella discussione?» «Ma certo, partecipate pure. Costui infatti non comprende nulla di ciò che dico, ma afferma che Menesseno crede di saperlo e mi ordina di interrogare lui», dissi io. «E allora perché non lo interroghi?», chiese Ctesippo. Io risposi: «Lo interrogherò. Menesseno, rispondi a ciò che ti chiedo. Fin da ragazzo io desidero una cosa come un altro ne desidera un'altra; uno desidera avere dei cavalli, un altro dei cani, uno dell'oro, un altro onori. Io invece non smanio per queste cose, mentre desidero ardentemente avere degli amici e preferirei avere un buon amico piuttosto che la quaglia e il gallo (13) più belli che ci siano e, per Zeus, piuttosto che un cavallo o un cane - e credo proprio che preferirei di gran lunga avere un amico piuttosto che l'oro di Dario, (14) anzi piuttosto che Dario stesso - a tal punto amo l'amicizia. Quindi vedendo voi, te e Liside, sono rimasto colpito e vi considero felici perché, pur essendo così giovani, siete in grado di ottenere velocemente e con facilità questo bene e tu hai trovato molto rapidamente questo amico e lui te. E dimmi: quando uno ama un altro, chi dei due diventa amico dell'altro, chi ama di colui che è amato o chi è amato di colui che ama? O non c'è alcuna differenza?» «A me pare che non ci sia nessuna differenza», rispose. «Come dici? Dunque se uno solo ama l'altro, diventano entrambi amici uno dell'altro?», chiesi io. «Io la penso così », rispose. «E allora? Non è possibile che chi ama non venga ricambiato da colui che egli ama?» «è possibile». «E allora? è dunque possibile che chi ama sia odiato? Talvolta, ad esempio, gli innamorati credono di subire questo dai loro amati: infatti, pur amando quanto di più non potrebbero, alcuni credono di non essere ricambiati, altri addirittura di essere odiati. Non ti sembra che sia vero?» «è del tutto vero», rispose. «Dunque in questo caso uno ama e l'altro è amato?», chiesi. «Sì ». «Chi dei due quindi è amico dell'altro? Chi ama di colui che è amato, sia nel caso in cui sia ricambiato sia in quello in cui sia odiato, o chi è amato di colui che ama? O in tal caso nessuno dei due è amico dell'altro, dato che entrambi non si amano a vicenda?» «Sembra proprio così ». «Dunque ciò che pensiamo ora è diverso da quanto pensavamo in precedenza: allora pensavamo che se uno dei due prova amore, entrambi sono amici, ora invece pensiamo che nessuno dei due sia amico dell'altro, se non sono entrambi a provare amore». «è probabile», disse. «Dunque per chi ama non c'è amicizia se non è ricambiato». «No, pare». «Quindi non sono amanti dei cavalli quelli che non sono amati dai cavalli, né amici delle quaglie, dei cani o del vino o 5  Platone Liside  della ginnastica o della sapienza, se la sapienza non li ama. O ciascuno ama comunque queste cose che non gli sono amiche e allora il poeta che disse: "Fortunato chi ha per amici dei fanciulli e cavalli solidunguli e cani da caccia e un ospite di terra lontana" (15) mentiva?» «Non mi sembra», rispose. «Ti sembra che il poeta dica il vero?» «Sì ». «Allora, a quanto pare, ciò che è amato è amico di ciò che lo ama, Menesseno, sia nel caso in cui ami sia in quello in cui odi; per esempio, anche tra i bambini piccoli, alcuni non amano ancora, altri già odiano, quando vengono puniti dalla madre o dal padre; tuttavia, anche nel caso in cui provino odio, sono quanto di più caro i loro genitori hanno». «A me pare che sta così », disse. «Dunque ne consegue da questo ragionamento che amico non è chi ama ma chi è amato». «Sembra». «è dunque nemico chi è odiato e non chi odia». «Così pare». «Quindi molti sono amati dai nemici e odiati dagli amici e sono amici dei nemici e nemici degli amici, se amico è ciò che è amato e non ciò che ama. Eppure, caro amico, è del tutto privo di logica, anzi credo che sia impossibile essere nemico dell'amico e amico del nemico». «Mi sembra che tu dica la verità, Socrate», disse. «Dunque se questo è impossibile, ciò che ama sarebbe amico di ciò che è amato». «Così sembra», disse. «E quindi ciò che odia sarebbe nemico di ciò che è odiato». «Di necessità». «Pertanto risulterà necessario arrivare alle stesse conclusioni di prima, cioè che spesso si è amici di coloro che non lo sono e spesso addirittura di coloro che sono nemici, quando si ama senza essere ricambiati o quando si ama chi invece nutre odio, e che spesso si è nemici di coloro che non lo sono o addirittura di coloro che sono amici, quando si odia chi a sua volta non odia o addirittura nutre amore». «è probabile», disse. «Dunque come ci comporteremo se amici non saranno né quelli che amano né quelli che sono amati né quelli che nel contempo amano e sono amati? Diremo che oltre a questi casi vi sono ancora persone amiche tra loro?», domandai. «No, per Zeus, Socrate, non è affatto facile risolvere bene la questione», disse. «Forse allora non abbiamo condotto la ricerca in modo del tutto corretto?», chiesi. «Non mi pare, Socrate», disse Liside, e mentre parlava arrossì , infatti mi sembrò che quelle parole gli fossero sfuggite involontariamente, per la grande attenzione prestata alla discussione, ed era chiaro che ascoltava con grande interesse. Dunque io, volendo concedere una tregua a Menesseno e compiaciuto per l'amore del sapere mostrato da Liside, mi volsi a discutere con lui e dissi: «Liside, mi sembra che tu dica il vero quando affermi che, se avessimo indagato correttamente, non avremmo mai sbagliato in questo modo. Allora non procediamo più per questa via - quello della ricerca mi sembra un percorso difficile -; mi pare invece che dobbiamo proseguire per la via lungo la quale ci eravamo avviati esaminando i poeti. Costoro per noi, come padri e guide della sapienza, dicono cose non da poco quando parlano degli amici, quelli che sono tali: anzi dicono che il dio stesso li rende amici, avvicinandoli gli uni agli altri. Dicono all'incirca così , credo: "il dio conduce sempre il simile verso il simile" (16) e li fa conoscere. Non hai mai letto questi versi?» «Sì », rispose. «E non hai letto gli scritti dei più sapienti che dicono le stesse cose, cioè che è giocoforza che il simile sia sempre amico del simile? Costoro sono quelli che scrivono sulla natura e sul tutto». «Dici il vero». «Dunque dicono bene?», chiesi. «Probabilmente», rispose. Continuai: «Probabilmente a metà o forse del tutto, ma noi non li capiamo, infatti ci sembra che il malvagio, quanto più si avvicina e frequenta il malvagio, tanto più ne diventi nemico, poiché commette ingiustizia, ed è impossibile che chi commette ingiustizia e chi la subisce siano amici. Non è così ?» «Sì », rispose. «In questo modo, dunque, la metà di quel detto non sarebbe vera, se i malvagi sono simili tra loro». «Dici il vero». «Ma credo che essi vogliano dire che i buoni sono simili tra loro e amici, mentre i cattivi, cosa che appunto si dice di loro, non sono mai simili neppure a se stessi, ma sono incostanti e instabili, e ciò che è dissimile e diverso da se stesso, difficilmente potrebbe essere simile o amico di altro. O non ti sembra così ?» «Sì », disse. «Quindi, mi pare, a questo alludono, amico, coloro che affermano che il simile è amico del simile, cioè che solo il buono è amico unicamente del buono, mentre il cattivo non è mai veramente amico né del buono né del cattivo. Sei d'accordo?». Annuì . «Dunque ormai sappiamo chi sono gli amici: il ragionamento ci indica che sono i buoni». «Mi sembra che sia proprio così », disse. Continuai: «Anche a me. Eppure qualcosa non mi soddisfa: su, per Zeus, vediamo in cosa consiste il mio sospetto. Il simile, in quanto simile, è amico del simile, e come tale è utile all'altro che è tale? O meglio: una qualunque cosa simile quale utilità o quale danno comporta a una qualunque cosa a essa simile che anche questa non possa comportare a se stessa? O cosa potrebbe subire che non possa subire anche per opera propria? Cose simili come potrebbero amarsi reciprocamente, se non ricevono alcun vantaggio l'una dall'altra? è possibile?» «Non lo è». «E ciò che non è amato, come può essere amico?» «In nessun modo». «Allora il simile non è amico del simile e il buono, in quanto buono, non in quanto simile, sarebbe amico del buono?» «Forse». 6  Platone Liside  «E allora? Il buono in quanto buono non sarebbe sufficiente in quanto tale a se stesso?» «Sì ». «E chi è autosufficiente, nella misura della propria autosufficienza, non ha bisogno di nulla». «E come no?» «E chi non ha bisogno di nulla, a nulla aspira». «Certo che no». «E colui che non desidera nulla, neppure ama». «No». «E chi non ama non è un amico». «Pare di no». «Dunque i buoni come saranno fin da principio amici dei buoni, se quando sono lontani non si desiderano a vicenda - infatti anche quando sono separati sono autosufficienti - e quando sono vicini non hanno un'utilità reciproca? Quale stratagemma potrebbe farli apprezzare vicendevolmente?» «Nessuno», rispose. «E non potrebbero essere amici se non si apprezzano a vicenda». «Dici il vero». «Guarda, Liside, dove siamo andati a cozzare. Dunque ci siamo completamente ingannati?» «Come?», chiese. «Ho già sentito dire una volta da uno, e adesso me ne ricordo, che il simile è assai ostile al simile e i buoni ai buoni e chiamava a testimone Esiodo, dicendo: "il vasaio odia il vasaio, l'aedo odia l'aedo e il mendicante odia il mendicante".(17) E quanto al resto diceva che giocoforza le cose più simili sono piene di invidia, rivalità e ostilità reciproca, mentre quelle più dissimili sono le più propense all'amicizia: infatti il povero è costretto a essere amico del ricco, il debole del forte per averne aiuto, il malato del medico e chiunque non sa cerca e ama chi sa. E proseguiva nel ragionamento in modo ancora più convincente, dicendo che il simile è assai lontano dall'essere amico del simile, anzi sarebbe proprio il contrario, dal momento che l'opposto è amico soprattutto del suo opposto, poiché ogni cosa desidera il suo contrario, non il simile. Il secco desidera l'umido, il freddo il caldo, l'amaro il dolce, l'acuto l'ottuso, il vuoto il pieno, il pieno il vuoto e così via, secondo il medesimo rapporto. Il contrario infatti è nutrimento per il contrario, mentre il simile non trae vantaggio alcuno dal simile. E certo, amico mio, dicendo questo sembrava un tipo raffinato, tanto bene parlava. Ma a voi come sembra che parli?», chiesi. «Bene, almeno a sentirlo così », rispose Menesseno. «Dunque dobbiamo dire che il contrario è soprattutto amico di ciò che a lui contrario?» «Certo». «Bene: ma non è strano, Menesseno? E soddisfatti ci assaliranno subito questi pozzi di sapienza, gli antilogici, (18) e ci domanderanno se l'odio non sia quanto di più contrario rispetto all'amicizia. Cosa risponderemo loro? Non dobbiamo per forza ammettere che dicono la verità?», chiesi. «Per forza». «E dunque, diranno, ciò che è nemico è amico di ciò che è amico o amico di ciò che è nemico?» «Né l'una né l'altra cosa» rispose. «Ciò che è giusto di ciò che è ingiusto, ciò che è saggio di ciò che è intemperante, ciò che è buono di ciò che è cattivo?» «Non credo che le cose stiano così ». Io dissi: «E tuttavia se una cosa è amica di un'altra in base alla contrarietà, è necessario che anche queste cose siano amiche». «Di necessità». «Dunque né il simile è amico del simile né il contrario è amico del contrario». «Pare di no». «Esaminiamo ancora questo punto: a noi non sfugge più il fatto che l'amicizia non è veramente nulla di tutto questo, ma è ciò che non è né buono né cattivo che diventa così amico del buono». «Come dici?», chiese. «Per Zeus, non so, ma veramente ho io stesso le vertigini per la difficoltà del ragionamento e forse, secondo l'antico proverbio, ciò che è amico è il bello. Il bello assomiglia a qualcosa di morbido, liscio e lucente e per questo forse ci sfugge e scivola via facilmente, poiché è tale. Dico infatti che il buono è bello. Non credi?» «Sì ». «Dico dunque, divinandolo, che amico del bello e del buono è ciò che non è né buono nè cattivo. Ascolta in rapporto a cosa lo divino. A me sembra che ci siano come tre categorie: il buono, il cattivo e ciò che non è né buono né cattivo. E a te?» «Anche a me», disse. «E che né il buono sia amico del buono né il cattivo del cattivo nè il buono del cattivo, come neppure il ragionamento precedente consente. Resta allora che, se una cosa è amica di un'altra, ciò che non è né buono né cattivo sta amico o del buono o di ciò che è tale quale esso è, cioè né buono né cattivo, perché una cosa non potrebbe essere amica del cattivo». «Dici il vero». «Né il simile del simile, dicevamo poco fa: non è così ?» «Sì ». «Dunque ciò che è tale e quale ad esso non sarà amico né del buono né del cattivo». «Pare di no». «Quindi ne risulta che solo al buono è amico unicamente ciò che non è né buono né cattivo». «Pare debba essere così ». «Ragazzi», dissi, «ci guida bene ciò che si è detto ora? Se vogliamo considerare il corpo sano, esso non ha affatto bisogno della medicina né di un aiuto, infatti è autosufficiente, sicché nessuno, quando sta bene, è amico del medico, considerata la sua buona salute. O non è così ?» «Sì , nessuno». «Invece il malato, credo, lo è a causa della malattia». 7  Platone Liside  «E come no?» «Dunque la malattia è un male, mentre la medicina è cosa utile e buona». «Sì ». «E il corpo in quanto corpo non è né buono né cattivo». «è così ». «Il corpo è costretto dalla malattia ad accettare e amare la medicina». «Così la penso». «Quindi ciò che non è né cattivo né buono diviene amico del buono per la presenza di un male?» «A quanto pare». «Ma è chiaro che ciò avviene prima che esso diventi cattivo a causa del male che ha, perché una volta diventato cattivo non potrebbe desiderare ancora il bene ed esserne amico, dato che dicevamo che è impossibile che il cattivo sia amico del buono». «Infatti è impossibile». «Esaminate ciò che dico: dico infatti che alcune cose sono determinate da ciò che è presente in esse e altre no: per esempio, se qualcuno volesse spalmare di colore una cosa qualsiasi, ciò che è spalmato è presente su ciò su cui è spalmato». «Certo». «E allora ciò su cui è spalmato è tale nel colore quale ciò che vi si trova sopra?» «Non capisco», disse. «Pensala così », dissi: «se qualcuno spalmasse di biacca i tuoi capelli che sono biondi, allora essi sarebbero o apparirebbero bianchi?» «Lo sembrerebbero», rispose. «Eppure in essi sarebbe presente la bianchezza». «Sì ». «E tuttavia non sarebbero più bianchi, anzi, pur essendo presente in essi la bianchezza, non sarebbero né bianchi nè neri». «è vero». «Ma quando, amico mio, la vecchiaia porta ad essi questo medesimo colore, allora diventerebbero come ciò che è presente in essi, cioè bianchi per la presenza del bianco». «E come potrebbe non essere così ?» «Ora dunque questo ti chiedo: se in una cosa ne è presente un'altra, quella che la possiede sarà come quella che vi è presente o lo sarà se quella è presente in un certo modo, altrimenti no?» «è così , piuttosto», rispose. «E dunque ciò che non è né cattivo né buono, quando è presente un male, talvolta non è ancora cattivo, ma lo è quando ormai è diventato tale». «Certo». «Dunque, quando pur essendo presente un male, esso non è ancora cattivo, questa presenza gli fa desiderare il bene, quando invece lo rende cattivo, lo priva anche del desiderio e dell'amore per il bene. Infatti non è più né cattivo né buono, ma cattivo, e il cattivo non è amico del buono, dicevamo». «No, infatti». «Per questo potremmo dire che anche quelli che sono già sapienti non amano più la sapienza, siano essi dèi o uomini. Né d'altra parte amano la sapienza coloro che hanno un'ignoranza tale che li rende cattivi: infatti nessuno che sia cattivo e ignorante ama la sapienza. Restano quelli che hanno questo male, l'ignoranza, ma non sono ancora diventati privi di senno e ignoranti per opera sua e ammettono ancora di non sapere ciò che non sanno. Perciò sono amanti della sapienza quelli che non sono ancora né buoni né cattivi, in quanto i cattivi non amano la sapienza né lo fanno i buoni, infatti nei ragionamenti precedenti ci è apparso che né il contrario è amico del contrario, né il simile del simile. O non ricordate?» «Certo», risposero. «Ora dunque, Liside e Menesseno», dissi, «abbiamo trovato fra tutte le cose ciò che è amico e ciò che non lo è. Infatti diciamo che sia che si tratti dell'anima, sia che si tratti del corpo o di qualunque altra cosa, ciò che non è né buono né cattivo è amico del bene per la presenza del male». Entrambi furono assoluta- mente d'accordo e ammisero che fosse così . Anch'io ero molto contento, come un cacciatore che è felice di ciò che ha cacciato, ma poi, non so come, mi venne lo stranissimo sospetto che non fossero vere le nostre conclusioni e subito dissi crucciato: «Ahimè, Liside e Menesseno, forse è un sogno il fatto che ci siamo arricchiti di conoscenza». «Perché?», chiese Menesseno. «Temo», dissi io, «che a proposito dell'amicizia siamo incorsi in ragionamenti come quelli che fanno i ciarlatani». «Come?», chiese. «Procediamo così nel ragionamento», dissi io: «chi è amico è amico di qualcuno o no?» «Per forza», rispose. «Dunque lo è senza nessuno scopo e senza nessuna causa o per qualche scopo e per qualche causa?» «Per qualche scopo e a causa di qualcosa». «E quella cosa in vista della quale l'amico è amico dell'amico, è amica anch'essa o non è né amica né nemica?» «Non ti seguo del tutto», rispose. «è naturale», dissi, «ma forse così mi seguirai e, credo, anche io saprò meglio ciò che dico. Il malato, dicevamo poco fa, è amico del medico; non è così ?» «Sì ». «E dunque è amico del medico a causa della malattia e in vista della salute da riacquistare?» «Sì ». «E la malattia è un male?» «E come potrebbe non esserlo?» «E la salute», chiedevo, «è un bene o un male o non è nessuna delle due cose?» «è un bene», rispose. 8  Platone Liside  «Dicevamo dunque che, a quanto sembra, il corpo che non è né buono né cattivo, a causa della malattia, cioè a causa del male, è amico della medicina, e la medicina è un bene; e la medicina ottiene l'amicizia in vista della salute, e la salute è un bene. Non è così ?» «Sì ». «E la salute è una cosa amica o no?» «è una cosa amica». «E la malattia è una cosa nemica». «Certo». «Dunque ciò che non è né cattivo né buono, a causa di ciò che è cattivo e nemico, è amico del bene in vista di ciò che è buono e amico». «Sembra». «Dunque ciò che è amico è amico in vista di ciò che è amico e a causa di ciò che è nemico». «Così pare». «Bene», dissi: «dal momento che siamo arrivati a questo, ragazzi, facciamo attenzione a non ingannarci. Infatti lascio stare il fatto che ciò che è amico sia diventato amico di ciò che è amico e che il simile sia amico del simile - cosa, questa, che abbiamo detto essere impossibile -, tuttavia badiamo a questo, che non ci inganni ciò che ora è stato detto. La medicina, diciamo, è una cosa amica in vista della salute». «Sì ». «Dunque anche la salute è cosa amica?» «Certo». «Se dunque è amica, lo è in vista di qualcosa». «Sì ». «Di una cosa amica, se sarà la conseguenza dell'ammissione precedente». «Certo». «Dunque anche ciò sarà cosa a sua volta amica in vista di una cosa amica?» «Sì ». «Quindi non è necessario che rinunciamo a procedere così o arriviamo a un principio che non si riferirà più a un'altra cosa amica, ma giungerà a quella che è la prima cosa amica in vista della quale diciamo che anche tutte le altre cose sono amiche?» «è necessario». «Questo è ciò che voglio dire: badiamo al fatto che non ci ingannino tutte le altre cose che abbiamo detto essere amiche in vista di quella e che sono come sue immagini e facciamo attenzione che si tratti di quella prima cosa che è veramente amica. Infatti riflettiamo in questo modo: quando qualcuno tiene qualcosa in grande considerazione, ad esempio in taluni casi un padre che antepone suo figlio a tutti gli altri beni, egli che è tale da considerare suo figlio più importante di tutto, non apprezzerà forse molto anche qualche altra cosa? Per esempio, se si rendesse conto che il figlio ha bevuto la cicuta, non terrebbe in grande considerazione il vino, se lo ritenesse utile per salvare il figlio?» «Sì , certo. E allora?», domandò. «Dunque apprezzerebbe anche il recipiente in cui ci fosse quel vino?» «Certo». «E allora non tiene forse in maggior considerazione una tazza d'argilla rispetto a suo figlio o tre cotile (19) di vino più di suo figlio? O le cose forse stanno così : tutta la sua attenzione non è rivolta a questi oggetti predisposti in vista di qualcos'altro, ma a quel fine in vista del quale sono tutti predisposti. Nonché spesso diciamo di apprezzare molto l'oro e l'ar gento, ma forse la verità non è per niente questa, e ciò che teniamo in grande considerazione è quello che appare come ciò in vista del quale si predispongono l'oro e ogni altro oggetto. Diremo dunque così ?» «Certo». «E dunque lo stesso ragionamento non vale anche per ciò che è amico? Infatti quando definiamo cose amiche quelle che per noi lo sono in vista di un'altra cosa amica, ci riferiamo a esse evidentemente con una parola sola; ma è probabile che veramente amica sia proprio quella mèta alla quale tendono tutte le cosiddette amicizie». «Probabilmente è così », disse. «Dunque ciò che è realmente amico non lo è in vista di un'altra cosa?» «è vero». «Ci siamo sbarazzati anche di questo problema: l'amico è amico ma non in vista di una cosa amica. Ma dunque il bene è ciò che è amico?» «A me pare di sì ». «Quindi allora il bene è amato a causa del male, e le cose stanno così : se delle tre categorie che enumeravamo poco fa, cioè il buono, il cattivo e ciò che non è né buono né cattivo ne fossero conservate due, mentre il male si togliesse di mezzo e non si attaccasse a nulla, né al corpo, né all'anima né alle altre cose che diciamo non essere in sé né cattive né buone, allora il bene non ci sarebbe per niente utile ma sarebbe diventato inutile? Se infatti nulla ci potesse più danneggiare, non avremmo bisogno di alcun aiuto e così diventerebbe chiaro che accoglievamo e amavamo il bene a causa del male, pensando che il bene fosse un rimedio al male e il male una malattia: ma se non c'è la malattia, non c'è nemmeno bisogno di una medicina. Dunque il bene è così per sua natura e a causa del male esso è amato da noi, che siamo a metà tra il male e il bene, mentre esso per se stesso non ha alcuna utilità?» «Sembra che sia così », rispose. «Dunque quella mèta per noi amica, alla quale tutte le altre sono finalizzate - dicevamo che quelle erano amiche in vista di un'altra cosa amica - non assomiglia a queste. Infatti queste sono chiamate amiche in vista di una cosa amica, mentre la vera amicizia sembra essere per natura tutto il contrario di questo, poiché ci è parso che ciò che è amico lo sia a causa di ciò che è nemico, ma se ciò che è nemico si allontana, non ci è più amico, a quanto pare». «Mi pare di no, in base a quello che ora si è detto», rispose. «Per Zeus!», dissi io. «Se il male sparisce, non ci sarà né fame né sete né altri mali simili? O la fame ci sarà, se ci sono gli uomini e gli altri esseri viventi, ma non sarà dannosa? E la sete e gli altri desideri ci saranno, ma non saranno cattivi, 9  Platone Liside  poiché il male è scomparso? O è ridicolo chiedersi cosa ci sarà o non ci sarà allora? Infatti chi può saperlo? Ma questo dunque sappiamo, che avere fame può essere ora dannoso, ora utile, o no?» «Certo». «Dunque avere sete e tutti gli altri desideri di questo genere talvolta possono essere utili, talvolta dannosi e talvolta né l'uno né l'altro?» «Certo». «Pertanto se i mali spariscono, perché devono scomparire con essi anche le cose che non sono mali?» «Per nessun motivo». «Dunque se i mali spariscono, ci saranno i desideri che non sono né buoni nè cattivi». «Sembra». «E dunque possibile che chi desidera e ama non sia amico di chi desidera e ama?» «Non mi sembra». «Dunque, a quanto pare, ci saranno alcune cose amiche, anche se i mali spariscono». «Sì ». «E se il male fosse causa dell'amicizia, sparito questo, una cosa non potrebbe certo essere amica di un'altra: infatti, venuta meno la causa, sarebbe impossibile che esistesse ancora ciò di cui questa era la causa». «Dici bene». «Dunque noi avevamo convenuto che ciò che è amico ama qualcosa e a causa di qualcosa: e allora non avevamo creduto che ciò che non è né buono né cattivo amasse il bene a causa del male?» «è vero». «Ora, invece, a quanto pare, sembra essere altra la causa dell'amare e dell'essere amato». «A quanto pare». «Dunque realmente, come dicevamo poco fa, il desiderio è causa dell'amicizia, e ciò che desidera è amico di ciò che è desiderato, quando lo desidera, mentre ciò che prima dicevamo essere amico era una chiacchiera o una sorta di un lungo elaborato poema?» «Forse», disse. «Tuttavia», dissi, «ciò che desidera desidera ciò di cui è privo, o non è così ?» «Sì ». «E quindi ciò che è mancante è amico dì ciò che manca?» «Così credo». «Ed è privo di ciò che gli è stato eventualmente sottratto». «E come no?» «Allora, a quanto pare, l'amore, l'amicizia e il desiderio lo sono di ciò che è proprio, come sembra, Menesseno e Liside». Assentirono. «Se voi dunque siete amici uno dell'altro, per natura siete in un certo qual modo affini l'uno all'altro». «Esattamente», dissero. «E se pertanto uno desidera o ama l'altro, ragazzi miei, non potrebbe mai desiderarlo né amarlo né essergli amico, se non fosse affine all'oggetto del suo amore o nell'anima o in qualche altra altra attitudine dell'anima o nei comportamenti o nell'aspetto», dissi io. «Certo», disse Menesseno, mentre Liside taceva. «Bene!», dissi: «a noi è parso che sia necessario amare ciò che è affine per natura». «A quanto pare», disse. «Dunque è necessario per l'amante reale e non fittizio essere ricambiato dal suo amato». Liside e Menesseno assentirono anche se a stento, mentre Ippotale diventava dì tutti i colori per il piacere. E io, volendo esaminare il ragionamento, dissi: «Se ciò che è affine è differente in qualcosa da ciò che è simile, a quanto pare, Liside e Menesseno, potremmo dire dell'amicizia ciò che essa è; se invece simile e affine sono identici, non sarà facile respingere il precedente ragionamento in base al quale il simile è inutile al simile in virtù della somiglianza: ma è assurdo ammettere che l'inutile sia amico. Dunque», dissi, «dato che siamo come ubriachi per il ragionamento, volete che diamo per scontato e ammettiamo che l'affine è diverso dal simile?» «Certo». «Quindi stabiliremo che il bene è affine a ogni cosa e il male è estraneo a tutto? O che il male è affine al male, il bene al bene e ciò che non è né bene né male a ciò che non è né bene né male?». Risposero che secondo loro ogni cosa è affine a ciò che le è corrispondente. «Dunque, ragazzi», dissi, «siamo caduti dì nuovo nei ragionamenti sull'amicizia che prima abbiamo respinto: infatti l'ingiusto sarà amico dell'ingiusto, il cattivo del cattivo non meno che il buono del buono». «Pare di sì », rispose. «E allora? Diciamo che il buono e l'affine sono la stessa cosa; non diciamo forse che solo il buono è amico del buono?» «Certo». «Ma anche su questo punto credevamo di poter essere confutati; o non ricordate?» «Ricordiamo». «Dunque cosa ricaveremo ancora dalla discussione? O è evidente che non ricaveremo nulla? Dunque vi prego, come fanno gli esperti nei tribunali, di riflettere su tutto ciò che si è detto. Se infatti né gli amati né gli amanti, né i simili né i dissimili, né i buoni, né gli affini, né tutte le altre condizioni che abbiamo enumerato - io infatti non me le ricordo, dato il loro gran numero - se nulla di ciò è amico, non so più cosa dire». Dopo aver detto queste parole, avevo in mente di coinvolgere nella discussione qualcun altro dei più anziani, ma allora, come démoni, si avvicinarono i pedagoghi di Menesseno e di Liside con i loro fratelli, li chiamarono e ordinarono loro di tornare a casa, poiché era già tardi. Dapprima noi e i presenti cercammo di allontanarli, ma poiché non si curavano affatto di noi, anzi si irritavano nel loro parlare barbaro e nondimeno li chiamavano e ci pareva che avessero bevuto alla festa di Ermes e quindi fossero difficili da avvicinare, vinti da essi sciogliemmo la riunione. Tuttavia, mentre essi si allontanavano, io dissi: «Ora, Liside e Menesseno, siamo diventati ridicoli io, un vecchio, e voi. Infatti costoro andandosene diranno che noi crediamo di 10  Platone Liside  essere amici uno dell'altro - mi pongo anch'io tra voi - e non siamo stati ancora capaci di trovare cos'è l'amico». 11  Platone Liside  NOTE: 1) Giardino a nord di Atene, dove Platone avrebbe poi fondato la sua scuola. 2) Ginnasio presso il tempio di Apollo, a nord-est di Atene. 3) Sembra assai improbabile che sia il discepolo di Platone nominato da Diogene Laerzio, Libro 3,45. 4) Ctesippo, che non è l'omonimo figlio di Critone, era un discepolo di Socrate presente alla morte del maestro, è uno degli interlocutori dell'Eutidemo. 5) Di costui nulla si sa. 6) Le Pitiche erano feste in onore di Apollo, celebrate a Delfi ogni quattro anni; le Istmiche ricorrevano invece a Corinto ogni due anni ed erano in onore di Poseidone; le Nemee, infine, si tenevano ogni due anni in onore di Zeus: prima ebbero come luogo deputato la valle di Nemea, poi Argo. 7) Ermes era il dio patrono dei ginnasi e delle palestre. 8) è il protagonista dell'omonimo dialogo platonico. 9) Gli astragali sono una sorta di dadi. 10) Il pedagogo era uno schiavo che aveva il compito di sorvegliare i figli del padrone. 11) Il re dei Persiani, secondo l'abituale denominazione greca. 12) L'eristica era la tecnica finalizzata a confutare con ogni mezzo le tesi avversarie per far prevalere le proprie, anche se per fare questo poteva raggiungere risultati contraddittori tra loro. 13) Entrambi uccelli addestrati per il combattimento. 14) Dario, il ricchissimo re dei Persiani, aveva regnato dal 521 al 485 a.C: aveva tentato l'invasione della Grecia, ma venne bloccato e sconfitto a Maratona nel 490. 15) Si tratta di un frammento di Solone (17 Gentili-Prato). 16) Omero, Odyssea libro 17,218. 17) Esiodo, Opera et dies 25-26. 18. Gli antilogici erano coloro che teorizzavano e praticavano la possibilità di contraddire ogni argomentazione e ogni ragionamento. 19) La cotila è un'unità di misura che equivale all'incirca a un quarto di litro.

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