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Friday, March 25, 2022

GRICE E GALLUPPI: LA RIVOLUZIONE

 PASQUALE GALLUPPI  GIACOBINO ?     Intorno alle idee politiche del Galluppi ’, e più sulla  condotta da lui tenuta nell’alterna vicenda degli avve¬  nimenti politici di cui è piena la storia di Napoli nel  periodo della sua virilità, non si può dire davvero che  abbondino i documenti, né che abbiano fatto tutta la  luce desiderabile gli studi consacrati a questo lato della  biografia galluppiana dal Tulelli, dal Guardione e ulti¬  mamente dal prof. Nicola Arnone. Il quale ha scritto  in proposito una memoria molto accurata, ma per giun¬  gere a una definizione del Galluppi considerato sottol’aspetto politico, la quale è in aperto contrasto coi docu¬  menti più sicuri da noi posseduti. Anche il Galluppi,  secondo l’Arnone, sarebbe stato un giacobino!   Della sua dottrina liberale e del suo atteggiamento  risoluto in favore delle pubbliche libertà e contro 1 in¬  tervento austriaco nel 1820-1821 non è possibile che  dubiti chi conosca i frammenti che diè il Tulelli de’ suoi  Pensieri filosofici sulla libertà compatibile con qualunque    1 P. E. Tulelli, Intorno alla dotte. ed alla vita politica del bar. P. G.,  notizie ricavale da alcuni suoi scritti inediti e rari, negli Atti della li.  Accad. delle scienze mar. e poi. di Napoli, voi. I (1865), pp- 101-21,  F. Guardione, Due opuscoli di P. Galluppi, prec. dallo studio critico  Dei concetti civili e politici apportati da P. G. nella rivoluzione del 1820,  Messina, D'Amico, 1906; a proposito di questo opuscolo, G. Gentile  nella Critica, V (1907), pp. 229 sgg.; N. Arnone, P. G. Giacobino, negli  Studi dedicati a Francesco Torraca nel XXXVI anniv. della sua laurea,  Napoli, Perrella, 1912, pp. 129-52.     112    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    forma di governo, e i due opuscoli Della libertà di coscienza  e Lo sguardo d' Europa sul Regno di Napoli, ristampati  dal Guardione. Ma da quel liberalismo al giacobinismo  c’è un bel tratto.   Né i documenti dell’Amone riscoperti 1 nell'Archivio  provinciale di Catanzaro bastano a superarlo. Da questi  documenti apprendiamo che nell’ottobre 1799 il Galluppi  chiedeva un passaporto per recarsi a Palermo « per atten¬  dere ad alcuni di lui affari litigiosi ». Il Re faceva rispon¬  dere dal Segretario di grazia e giustizia al Preside di  Catanzaro, che al Galluppi si sarebbe accordato il passa¬  porto, « quando non vi sia niente contro il medesimo ».  Il Preside si rivolse per informazioni al Vescovo e al  Governatore di Tropea. Il Vescovo, il 16 ottobre, rispose:  « Quantunque apparentemente il suddetto sembri un  giovane morigeratissimo, e studioso anche di materie  teologiche, pure non gode buona fama, perché si pre¬  tende aversi ingoiato con lo studio vari errori della vana  filosofia, per cui fu, anni sono, denunziato sino a Roma,  e ne’ pochi giorni della falsa assunta Repubblica fu im¬  piegato a far traduzioni, per cui stiede lungo tempo trat¬  tenuto nel Pizzo: timoroso poi all’eccesso, si andiede in  Cosenza dopo liberato dal Pizzo; ed ora vorrebbe andarsi  in Palermo, dove ha degli interessi; ma per questi me¬  glio sarebbe andarvi il padre don Vincenzo [il padre del  Galluppi], mentre non debbo io, né V. S. 111 . mettersi  deve in compromesso nelle circostanze nelle quali siamo ».   Tropea tra il gennaio e il febbraio aveva avuto an-  ch’essa il suo albero della libertà e un governo repub¬  blicano. Ma per pochi giorni. AH’avvicinarsi delle schiere    1 Gli è sfuggita la comunicazione che ne aveva fatta Gaetano  Capasso, nel 1896, alla Riv. Stor. del Risorg. ital., I, pp. 794-95. [Vedi  ora, per un'altra denunzia di pretesi discorsi giacobini del Galluppi,  F. Scandone, Il Giacobinismo in Sicilia (1792-1802), nell'A refi. Stor,  sic., 1922, pp. 327-28].     PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ? 113   del Ruffo la plebaglia aveva abbattuto albero e governo,  e uh comitato di cittadini era andato incontro, il 24 feb¬  braio 1799, al Ruffo a Mileto, a prestargli ubbidienza.  Per la quale il Ruffo volle alcuni ostaggi, che fece tra¬  sportare a Pizzo. Tra essi venne incluso il Galluppi, che  per altro dopo alcuni giorni fu rilasciato senza nessuna  condanna. Aveva, secondo il vescovo sanfedista ', tradotto  qualche documento francese, forse qualche proclama o  decreto dello Championnet; ma la stessa voce raccolta  dal vescovo della gran timidezza del filosofo, ci spiega  molto facilmente perché il Galluppi, invitato dai giacobini  della piccola città, dove forse era solo a conoscere il fran¬  cese (e non lo conosceva né pur lui molto) * e quando  costoro tenevano il campo, non potesse esimersene, pur  non avendo un grande entusiasmo per la causa repub¬  blicana. Certo, non si compromise, se nella ristaurazione  non patì nessuna noia; e se il tenente colonnello don  Giovanni de Mendoza, governatore di Tropea, pur dopo  diligenti investigazioni, non riusciva a trovare nulla a  carico di lui. « Mi sono informato », scriveva costui il  19 novembre al Preside di Catanzaro, « dalle persone  più probe e timorate di Dio di questa ... città; però ho  chiamato il decano don Saverio Polito, il teologo don  Michele Grillo, il penitenziere don Vinc. M. Mazzitelli,  il P. M. Carmelitano fra Carmelo Maria Collia ed il par¬  roco di San Demetrio di questa .... città, e dalle di costoro  estragiudiziali deposizioni, che presso di me si conser¬  vano, rilevai che il don Pasquale Galluppi è un giovane  onesto, probo, e di morigerati costumi; che frequenta  spesso li Santi Sacramenti e la chiesa, ove si fa vedere  attento, e pieno di divozione; e che ad altro non bada,  se non allo studio, essendo anche un giovane virtuoso,   1 Su lui vedi la stessa memoria dell'ARNONE, p. 134.   5 Vedi la mia pref. al voi. del Toraldo, Saggio sulla filos. del Gal¬  luppi, Napoli, 1902, p. ix, n. 1.     ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    ”4   e da bene, e che mai diede veruno scandalo; ma, per quanto  cercai sì dalli stessi testimoni, che da altri sapere l’og¬  getto per cui si volesse portare in detta città di Palermo,  non fu possibile sapersi la cagione, perché da ognuno  s’ignorava. Soltanto ho risaputo, che il di lui padre don  Vincenzo è siciliano, ed ivi tiene degli effetti, per cui  suole spesso andarvi anche col suddetto don Pasquale  suo figlio : ma non posso fame a meno farle presente esser  stato, per quanto pubblicamente si dice, il detto don Gal-  luppi uno degli ostaggi di questa città chiamati dal sig.  Vicario generale nel Pizzo, ove [si] trattenne molti giorni  e poi fu liberato senza veruna pena ».   Il Preside di Catanzaro si attenne al Consiglio del  prudente vescovo, e propose al Segretario di Stato che  il passaporto non fosse accordato. E non fu accordato.  Ma lo chiese poi, invece del figlio, il padre, Vincenzo,  che l’ebbe. Segno che a Palermo avevano realmente  bisogno di recarsi, l’uno o l’altro, per loro interessi di  famiglia. Pei quali forse egualmente il Galluppi, reduce  da Pizzo, invece di fermarsi in Tropea, recossi a Cosenza,  di dov’era la moglie, Barbara d’Aquino.   Non credo pertanto che questi documenti catanzaresi  bastino a farci annoverare il filosofo calabrese nella nu¬  merosa schiera dei giacobini contemporanei. Certo nei  Pensieri filosofici sulla libertà, propugnando il principio  della libertà di coscienza e di tolleranza religiosa, egli  ha parole forti contro coloro che dimenticano lo spirito  del Vangelo e «non hanno ritegno di tramutare la reli¬  gione nell’ istrumento del disordine, della persecuzione  e della strage»; e non dubita, ricordando i recenti fatti  del Regno, di scrivere che « se l’universalità del clero e  del popolo di questo bel regno avesse conosciuto il vero  spirito del cristianesimo e la purità delle massime del  Vangelo, non si sarebbe visto un cardinale comandare  delle masse di ribaldi e di fanatici, ed innalzare il vene-    PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ?    1I 5    rando vessillo della Croce per segno dell’assassinio e  d’ogni sorta di iniquità; né si vedrebbero oggi con orrore  tanti preti e frati alla testa delle masnade degli uomini  i più infami e più scellerati » Ma quando il Galluppi  scriveva di queste parole — che pur dimostrano bensì  il liberale, ma non il giacobino — a Napoli erano tornati  i francesi con Giuseppe Bonaparte, il cui governo, nel  1806 J , gli aveva conferito 1’ ufficio di controllore delle  contribuzioni; e a Giuseppe era anche successo il Murat.   Tutt’altro che giacobino era apparso a me qualche  anno fa da un suo brutto sonetto pubblicato in un gior¬  nale di Tropea 3 dal prof. Carlo Toraldo 4. Il sonetto in¬  fatti diceva:   Della Patria il dolore, il lutto, il pianto.   La rea sorte fatai veder non voglio.   Di Marte, di Bellona il fier orgoglio.   L’augusto trono di Minerva infranto, —   Spesso sedendo al bel Sebeto accanto  Col cor trafitto dal più fier cordoglio,   Pria che de' Franchi vacillasse il soglio.   Dico nel mio pensiere, e piango intanto.   Un ferro io prendo. — Occhi miei, non piangete, —  Grido nel mio furore; — io corro or ora  Sollecito a varcar l'onda di Lete. —   Ma già l’Angiol divin, che accanto giace.   Di man mi toglie il ferro, e grid’allora:   — Verrà Fernando : tornerà la pace !   Il primo editore faceva precedere al sonetto le seguenti  notizie : « Dal manoscritto rilevasi che il sonetto mede-   1 Tulelli, op. cit., pp. 109, in.   * Arnone, p. 141.   3 L’ Eco di Tropea, a. II, n. 35, 30 agosto 1902.   4 E da me ristampato con qualche correzione di punteggiatura,  per renderlo un po' meno oscuro, nell’opera Dal Genovesi al Galluppi,  Napoli, 1903, pp. 218-19, n. 1 (2 a ed. in 2 voli., col titolo di Storia  d. filos. ital. dal Genovesi al Galluppi, Milano, 1930; ora in Opere  complete di G. Gentile, a cura della Fond. G. Gentile, XVIII-XIX,  Firenze, Sansoni, voi. II, p. 31).     H6 ALBORI DELLA NUOVA ITALIA   simo fu letto alla nostra Accademia degli Affatigati  (assorta allora ad altissima fama), alla quale il Galluppi  apparteneva col distintivo il Furioso, e apparisce dedi¬  cato a Ferdinando, come chiusura di un discorso, letto  all’Accademia anzidetta, sul medesimo argomento. Dalla  parte opposta ove è scritto il sonetto, si legge:   ‘ Ferdinando Augusto, principe magnanimo, nell’ impetuoso  turbine che minaccia l'indipendenza nazionale, corri a salvarci.  I destini della nostra nazione son legati alla tua esistenza. — Ferdi¬  nando viene. Napoli è salvo. Il mio discorso accademico è ter¬  minato’. Firmato: Pasquale Galluppi fra gli Affatigati il Furioso.  Siegue dietro il sonetto dello stesso Accademico.    Riproducendo il curioso documento, mi parve che di¬  scorso e sonetto si potessero riferire alla reazione del 1799;  e, dietro a me, anche il De Cesare ritenne che il sonetto  alludesse alla restaurazione di quell’anno *. Ma non  tutto a quella prima impressione mi restava chiaro degli  accenni contenuti nel sonetto; e le difficoltà ora oppo¬  stemi dall’Arnone mi persuadono che sonetto e discorso  vanno spostati di sedici anni. « Prescindendo », dice  l’Arnone che non ha potuto vedere il giornale di Tropea,  al quale io mi riferivo, e le cui notizie ora qui integral¬  mente riportate mi pare che tolgano ogni dubbio intorno  alla paternità del discorso e del sonetto, « prescindendo  dalla loro autenticità maggiore o minore (?), il sonetto  e il brano del discorso accademico non possono mai rife¬  rirsi alla reazione del 1799. Infatti, nel sonetto stesso si    J R. De Cesare, Taranto nel 1799 e mons. Capecelatro, Martina  Franca, 1910 testr. dalla Riv. Apatia ), p. n: «Il Capecelatro non fu  solo a non aver fede nella durata della Repubblica. Se egli non andò  a Napoli, non vi andò neppure Melchiorre Delfico, chiamato a far parte  della Giunta del Governo, mentre Pasquale Galluppi, che pure aveva  da giovane principii liberali, recitava, all'Accademia degli Affaticati  di Tropea, un brutto sonetto, che si chiudeva: Verrà Fernando : tor¬  nerà la pace ».     PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ? II7   trova la designazione del tempo a cui si riferisce ; giacché,  col verso Pria che de’ Franchi vacillasse il soglio, l’autore,  stanco del fier orgoglio di Marte e di Bellona, deve asso¬  lutamente alludere alla prossima caduta del trono di  Gioacchino Murat » 1 . Io guardavo bensì al settimo verso  del sonetto, su cui giustamente ha fermato la sua atten¬  zione l’Amone; ma guardavo anche al quinto: Spesso  sedendo al bel Sebeto accanto, che contiene anch’esso una  determinazione cronologica non trascurabile. E poiché  era noto che il Galluppi fu a studiare a Napoli dal 1788  al 1794, pensai che per soglio dei Franchi si dovesse in¬  tendere per l«appunto il trono di Francia di Luigi XVI,  che cadde quando il Galluppi dimorava al bel Sebeto  accanto. E vedevo nel sonetto un’enfatica e grottesca  rievocazione delle ansie, da cui l’animo dell'autore sarebbe  stato assalito fin dall’ 89 quasi presago dei lutti che la  Rivoluzione francese preparava alla sua patria. Non  tutto, di certo, restava chiaro, come non tutto precisa-  mente diventa chiaro se s’intende, come propone ora  l’Arnone, che col soglio dei Franchi l’autore designi il  trono del Murat. Ma vien colmato il grande intervallo  che rimaneva, secondo la mia ipotesi, tra il 1789 e il  luglio del ’99, quando avvenne il ritorno di Ferdinando IV  a Napoli, che il Furioso avrebbe celebrato.   Ma, se accetto che il v. Pria che de’ Franchi vacillasse  il soglio alluda alla prossima caduta del trono di re Gioac¬  chino, — e ne argomento in conseguenza che tra la fine  di marzo 1815, quando il Murat dichiarò la guerra al¬  l’Austria, e il 3 maggio (battaglia di Tolentino) il Galluppi  dovette essere a Napoli — non capisco perché l'Arnone  soggiunga : « A me parrebbe che il discorso accademico  potesse riferirsi al tempo del viaggio di Ferdinando I  Borbone pel congresso di Lubiana, quando appunto    1 Op. cit., p. 139.     il8    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    l’indipendenza del Regno di Napoli era minacciata dal-  l’intervento austriaco ». Quando il Galluppi recitava il  suo discorso accademico è chiaro che Ferdinando non  era più lontano, ma già tornato a Napoli (« Ferdinando  viene, Napoli è salvo ») ; e l’accademia celebra la ristau-  razione. È vero che il Galluppi nel '21 trepidò per l’in¬  dipendenza nazionale, a causa dell’ intervento austriaco  a Napoli; ma nel ’2i gli austriaci eran chiamati da Ferdi¬  nando, che non avrebbe potuto perciò essere cantato come  il salvatore dell’indipendenza; laddove nel '15 il Murat  alla legittimità, a cui s’appellavano gli ambasciatori del  Congresso di Vienna e tutti i principi delle vecchie dina¬  stie, opponeva in Napoli il principio dell’ indipendenza >;  e al Galluppi, già murattiano, i disastri dell’esercito  napoletano e l’entrata degli austriaci nel Regno dovettero  realmente parere la più pericolosa minaccia alla indi-  pendenza di questo, finché non si ripresentò Ferdinando,  a riavere, dopo il trattato di Casalanza (20 maggio),  dalle mani dell’ imperatore d’Austria le redini del suo  Stato due volte abbandonate. E le preoccupazioni che  il Galluppi, come quanti altri avevano servito il governo  francese, dovette, prima di quel trattato, nutrire gra¬  vissime e angosciose per la propria sorte, o almeno per  l’uificio che da nove anni teneva, possono anche spie¬  garci la disperazione da cui nel sonetto dice d’essere  stato preso per l’imminente crollo di quel governo.   E l’osanna al Borbone, dopo il trattato di Casalanza,  in cui l’imperatore d’Austria garantiva la sorte di tutti   1 «Volse i suoi maggiori pensieri alle cose interne; reputando che  più dei maneggi e dei discorsi valere gli dovesse il voto dei soggetti  e la forza dell'esercito, in tempi nei quali menavasi vanto dell’amore  dei popoli e della pace. Raccolse in quattro adunanze i migliori in¬  gegni napoletani, e lor disse che per gli ultimi avvenimenti, acqui¬  stata da noi piena indipendenza politica, era suo debito riordinare il  regno senza o soggezione, o somiglianza,, o gratitudine ad altro stato,  così adombrando le tollerate catene per nove anni»: P. Colletta,  Storia del Reame di Napoli, lib. VII, c. IV, § 68.     PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ?    119    i funzionari del passato regime, era pel controllore delle  contribuzioni dirette nella Provincia di Calabria ulteriore  l’espressione d'un sentimento sincero l 2 .   Né giacobino, dunque, né antigiacobino. Ma liberale  e patriota, se non nel senso del 1799, in quello più antico  della tradizione paesana di Napoli e della posteriore  storia italiana.   Del suo patriottismo e liberalismo son documento  bastevole gli opuscoli politici che il Galluppi scrisse nel  1820-1821 in cui ripigliava le idee dei Pensieri filosofici,  rimasti inediti, e scendeva in campo a difesa della libertà  e dell’ indipendenza minacciata dall’Austria. Ma la lettura  di questi opuscoli, o almeno dei due a noi pervenuti  e qualche anno fa ristampati dal Guardione, induce  piuttosto a ricollegare il Galluppi alla tradizione del  Giannone, del Tanucci, del Vico e del Filangieri, anzi  che a ricondurlo sotto l’influsso esotico del giacobinismo  rivoluzionario.   Nei Pensieri filosofici (di cui si conoscono soltanto  alcuni frammenti pubblicati dal Tulelli) egli aveva già    1 II sonetto pare tuttavia debba riferirsi non al 1815, ma all’anno  seguente. Perché l'Accademia degli Affaticati in cui esso fu letto, dopo  il 1783, come ci è fatto sapere da un suo storico, « riunivasi raramente;  anzi dal 1801 il silenzio sostenne sino a quando nel 1816, nella Chiesa  dei Liguorini, cantò del Santo fondatore dell’Ordine » (forse il 2 agosto  quando ricorre la festa del Liguori) : N. Scrugli, Discorso storico  intorno all’Accad. degli Affaticati, annesso alle Notizie archeologiche  e storiche di Portercole e Tropea, Napoli, Morano, 1891, p. 132. Ma le  notizie raccolte dallo Scrugli non sono esattissime. Infatti, secondo  lui, l’Accademia degli Affaticati sarebbe stata vietata nella reazione  del '31, e non sarebbe più risorta fino al '48; laddove nel gennaio 1831  vi fu certamente recitato il discorso del Galluppi che qui appresso si  pubblica.   2 Opuscoli filosofici della libertà individuale: Della libertà di coscienza  e delle conseguenze che ne derivano riguardo al matrimonio, dell’Autore  del Saggio filosofico sulla critica della conoscenza, Messina, 1820,  presso Antonino D’Amico Arena; Lo sguardo d'Europa sul Regno di  Napoli, di Pasquale Galluppi di Tropea, in Messina, presso  G. Papparlardo, 1820. Entrambi gli opuscoli sono stati ristampati  dal Guardione, op. cit., e della sua ristampa io mi son qui servito.     120    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    aderito a quelle dottrine liberali, che il Filangieri aveva  propugnate nella Scienza della legislazione. « Per fissare »,  aveva detto, « i dritti del pubblico potere, bisogna partire  dal considerare lo stato di natura come anteriore  allo stato politico, se non in ordine di tempo,  almeno in ordine di ragione.... Tutti gli uomini sono per  natura in uno stato di libertà, in cui ciascuno può fare ciò  che gli piace, senza dipendere da un altro, posto ch’egli  non offenda gli altrui diritti. Ogni uomo non ha dunque  altro dritto per rapporto ad un altro che di non farsi  molestare nell’esercizio dei propri dritti. Or questo dritto  che ciascuno ha per rapporto agli altri, nella civil società  è confidato al pubblico potere, il quale è custode e vin¬  dice dei dritti di ciascun cittadino contro gli attentati  degli altri ». Movendo da questo principio, a differenza  del Rousseau, il Galluppi separa nettamente il dominio  giuridico-politico da quello della religione. Riconosce che  « la potestà politica dee curare che i cittadini sieno vir¬  tuosi. Ella dee riguardare come un male la depravazione  del loro spirito; dee mettere in opera quei mezzi che  promuovono la virtù ed arrestare i progressi del vizio »;  e però può parere che abbia bisogno del soccorso della  religione. Ma è d’uopo distinguere tra virtù e virtù. « Le  leggi, dice Portalis, non dirigono che alcune azioni deter¬  minate; la religione regola il cuore. Le leggi sono relative  al cittadino; la religione s’impadronisce di tutto l’uomo.  Ma se le leggi arrestano il braccio e la religione regola  il cuore, dico io, dunque, che la depravazione del cuore  non dee punirsi che dalla sola religione, vai quanto dire,  dal solo Dio che n’è l’autore; ella è dunque estranea  alla sanzione della legge. Se le leggi non son relative  che al cittadino, e la religione s’impadronisce dell’uomo,  le leggi devono dunque contentarsi della sola virtù civile  e lasciare alla religione le virtù dell’uomo.... Egli bisogna  distinguere l’uomo giusto agli occhi dell’eterno, che tutto    PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ?    12 I    vede, dall’uomo giusto civilmente. Chi è giusto innanzi  a Dio, lo è anche civilmente, perché la sua legge vuole  che si obbedisca alle potestà costituite; ma si può esser  giusto civilmente, senza esserlo, naturalmente, secondo  la religione ».   Le opinioni religiose pertanto non cadono sotto la san¬  zione delle leggi, e l’irreligiosità non può esser punita  Ogni maniera di persecuzione del resto è contraria allo  spirito del Cristianesimo. Intorno al quale il Galluppi  scrive una delle poche pagine eloquenti, che siano uscite  dalla sua penna. « Questa religione divina », egli dice,  « annuncia agli uomini una morale che perfeziona la  natura. Lo spirito del Vangelo non è che imo spirito di  fratellanza e di amore. Esso è contrario allo spirito di  persecuzione e di ferocia. Se non siete ricevuti ed ascol¬  tati, dice G. C. ai suoi discepoli, scuotete la polvere delle  vostre scarpe e partite. I primi banditori del Vangelo  non impiegarono altre armi per la sua propagazione, che  la forza della parola. La religione deve avere la sua sede  nello spirito, e lo spirito non rigetta l’errore e non ab¬  braccia la verità, se non a proporzione dei lumi che egli  riceve, e trattandosi di religione, a proporzione della  grazia celeste che il Padre de’ lumi gli dispensa. Le pri¬  gioni, le forche, le mannaie, i roghi non cambiano certa¬  mente lo spirito dell’uomo, e l’incredulo non lascia d'esser  tale, ancorché vada ad esalare il suo spirito fra i tor¬  menti più crudeli.... L’uomo abusa di tutto. La ministra  della pace e della pubblica tranquillità divenne col pro¬  gresso del tempo in mano del superstizioso e del fanatico,  l’istrumento del disordine, della persecuzione e della  strage. Questo mutamento di condotta, non della reli¬  gione, che in se stessa è santa ed immutabile, ma ne’  suoi ministri, fu sorgente d’incredulità ».   Nell’opuscolo del 1820 sulla Libertà di coscienza la  stessa questione è ripresa e approfondita sì dal rispetto    9 - Gentile, Albori. I.    122    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    speculativo e sì da quello politico. Vi ritroviamo quella  morale kantiana, che è professata negli Elementi, nelle  Lezioni di filosofia e nella Filosofia della volontà : «La  regola della moralità delle azioni è la coscienza uniforme  alla legge»: legge puramente formale anche pel Galluppi.  Il quale infatti soggiunge : « Si può agir male seguendo  una coscienza erronea, ma si agirà male ancora facendo  il bene in contraddizione dei dettami di una coscienza  erronea ». E su questi principii, rannodandosi alle dot¬  trine liberali del Filangieri, fonda la sua dimostrazione  del diritto del matrimonio civile abolito nel Regno dal  codice del 1819: il quale aveva stabilito non potersi  celebrare matrimonio legittimo « che in faccia alla Chiesa,  secondo le forme prescritte dal Concilio di Trento ». Già  nell'opuscolo precedente aveva provato che « la libertà  del pensiero è il primo diritto inalienabile dell’uomo»;  e che tale libertà è illimitata. Ora, se questa libertà è  illimitata, se la moralità consiste nella conformità della  coscienza alla legge, o meglio, della volontà alla legge  della coscienza, ne viene per conseguenza che quelle  azioni, le quali debbono essere necessariamente in armonia  col pensiero, non possono giammai essere forzate; ma  debbono rimanere nel campo libero del privato cittadino.  Potrà intervenire il diritto positivo nel culto religioso  esterno; ma non nel culto interno. E in quello esterno  non potrà di certo intervenire per obbligare il cittadino  ad un culto contrario alla propria credenza, bensì per  permettere un dato culto e impedire quindi che venga  offeso e turbato da chi non vi si conformi ». Ma deve   10 Stato permettere tutti i culti ? Tra il Montesquieu  contrario e il Marmontel favorevole alla libertà dei culti,   11 Galluppi dichiara di non voler esaminare di proposito  1’ « importante questione », poiché egli si occupa piuttosto  della libertà individuale, e però della sola libertà di co¬  scienza, laddove la libertà del culto supporrebbe un gruppo    PASQUALE GALLUPP] GIACOBINO ?    123    sociale che abbia abbracciato un culto diverso da quello  di altri gruppi, ed esce quindi dalla sfera del diritto indi¬  viduale. Tuttavia ritiene conveniente che si possa « per  ragioni politiche non permettere l’esercizio pubblico di  un culto diverso da quello stabilito ».   Quanto al matrimonio, dato il suo interesse pubblico,  esso rientra nella sfera di attività del potere politico:  che « ha il diritto di far leggi positive sul matrimonio,  le quali, lasciando illeso il diritto naturale, determinino  ciò che la natura non determina, e che ha influenza su  la felicità nazionale»; ma deve limitarsi a «prescrivere  le condizioni per la validità del matrimonio come con¬  tratto civile, e lasciare alla libertà del cittadino, se vuole  al contratto unire la forma religiosa, che T innalza a  sacramento ». Altrimenti verrebbe ad esser lesa la libertà  di coscienza, ossia quell’ essenza della morale, che il  Galluppi chiama legge di natura o diritto naturale.   Tale principio a Napoli fu riconosciuto dal codice  francese durante il decennio; e certo quella legislazione,  « tranne il mormorio di qualche fanatico, che osava chia¬  marsi teologo, non produsse fra noi il menomo disordine ».  Ma, tornato Ferdinando, « i superstiziosi spaventarono la  sua coscienza ». Quindi il matrimonio rientrò nel puro  dominio ecclesiastico. E « si fece dippiù », dice il Galluppi:  «il Concordato diede alla Chiesa il potere giudiziario  sul matrimonio; potere, che dee esercitarsi in conformità  del codice del Vaticano, e così la sovranità temporale  rimase spogliata de’ suoi sacri ed inalienabili diritti sul  matrimonio ». Il Galluppi, nelle cui parole è agevole  sentire l'eco della tradizione giannoniana, ora che Napoli  sembra risorta a più libera tuta per l’ottenuta costitu¬  zione, parla in nome della filosofia («la filosofia non dee  oggi temere di alzar la voce contro di questi abusi ») ;  e chiede che il matrimonio torni ad essere per lo Stato  contratto civile; e protesta contro la censura preventiva.    124    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    stabilita nella Costituzione spagnuola, per i libri che  trattino di religione.   Il secondo opuscolo, assai più importante per la cono¬  scenza delle sue idee politiche, quantunque rechi anch’esso  sul frontespizio la data del 1820, non par che possa essere  anteriore ai primi del febbraio 1821. Infatti v’ è detto  che « un’armata austriaca si fa vedere in volto minac¬  cioso nella bella Italia » 1 2 ; con accenno evidente, se non  erro, all’ordine del giorno del barone di Frimont (4 feb¬  braio 1821), di cui si ebbe notizia a Napoli tra il 15 0  il 20 di quel mese   In quei giorni un altro filosofo napoletano, Pasquale  Borrelli, componeva un inno di guerra, che, messo in  musica dal Rossini, fu cantato al San Carlo la sera del  21 febbraio. La seconda strofa diceva:   O straniero, che guerra ci porti,   Chi ti offese ? quell’ ira perché ?   Va, rispetta la terra de' forti....   Ma sprezzante 1 ’ iniquo c’ invade,   Ha di sangue nell’occhio il desir.   Cittadini, tocchiamo le spade:   Qui si giuri svenarlo o morir !   Il Galluppi dal fondo delle Calabrie rivolge all’ Europa  (ma fin dove sarà giunto ?) il suo opuscoletto, enfatico  nella forma, ma savio ed acuto nella sostanza, per scon¬  giurare anche lui l’invasione straniera e la soppressione  delle libere istituzioni. Rifa brevemente, con giudizi  che ricordano l’alta intelligenza storica di Vincenzo  Cuoco, la storia di Napoli dal 1789 in poi, a conferma  del principio, che oppone alle prepotenti pretese del-    1 Rist. cit., p. 47.   2 Vedi De Nicola, Diario napoletano dal 1798 al 1823, III, pp. 252  253 (in calce all'Arch. slor. napol., 1905, fase. 3).     PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ?    125    l’Austria: che la storia se la fanno i popoli da sé, e inter¬  romperla ad arbitrio è violenza, e lo stato violento non  è durevole.   Tutto, egli dice, « cangia incessantemente nel mondo ;  ma tutto cangia gradatamente... Questo principio igno¬  rato o negletto ha spesso fatto abortire i migliori pro¬  getti di riforme ». I grandi avvenimenti, che pare mutino  d’un tratto miracolosamente lo stato di un popolo, in  realtà sono l’effetto d’un « concorso di cause, al quale  l’unione di una picciola causa dà quella forza stupenda,  onde hanno origine gli avvenimenti che formano l’epoche  delle nazioni ». Come dai patiboli del '99 si potè giungere  alla libertà del '20 ? Il Galluppi studia brevemente questo  problema. La rivoluzione del '99, per lui, fu la conse¬  guenza degli errori commessi dal governo borbonico  (il Galluppi parla sempre di Ministero) dopo il 1794;  quando, dopo aver favorito in tutti i modi le tendenze  liberali promosse e alimentate dalla filosofìa, a un tratto,  spaventato dalla Rivoluzione francese, che intanto aveva  accelerato il movimento degli animi verso la rigene¬  razione politica, esso volle violentemente arre¬  starsi, e tornare indietro, e dichiarò guerra al liberalismo,  e si propose di ripiombare la nazione nella barbarie.  La venuta dei francesi fu la piccola causa che fece rovi¬  nare il trono, le cui fondamenta erano state da lunga  pezza lentamente scavate da’ suoi ministri. Così i Giaco¬  bini del 1799, che s’appigliarono alla massima della  perfetta imitazione dei francesi, senza chiedersi se Napoli  fosse preparata alla democrazia, e alla democrazia fran¬  cese, come 1 ’ Issione della favola, invece di Giunone,  abbracciarono la nuvola. — Giudizio che non è certo  quello di un giacobino.   Successe la reazione; e il governo, anzi che mostrarsi  ammaestrato dagli avvenimenti passati, tornò cieco, feroce,  dispotico; e accrebbe quindi sempre più il desiderio d’un    126    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    cangiamento. Aggiungi l’azione continua della Francia  sulle cose d' Italia, e gli errori della diplomazia: ed ecco  Giuseppe Bonaparte e Gioacchino, che non sono più i  francesi del '99, ma i correttori e moderatori dispotici  della libertà, i quali compiono l’abolizione del feudalismo  nel Regno, e vengono via via elevando la coscienza civile  della nazione. Questa al ritorno di Ferdinando è già  matura per la Costituzione: la cui richiesta per altro è  affrettata dagli errori che toma sempre a commettere il  Ministero pur dopo il '15. Fra i quali il Galluppi non  manca di ricordare il « concordato ignominioso, che  annienta tutte le riforme dall’epoca dell’augusto genitore  di Ferdinando fino al suo ritorno fra noi ».   Mostrata la necessità storica della rivoluzione del 1820  e della costituzione che Napoli s’era con essa conqui¬  stata, il filosofo protesta contro l’intervento straniero,  e minacciosamente esclama : « Un’ invasione è ella facile  nelle attuali circostanze della nostra nazione? Il '99, il  1815 sono gli stessi tempi per noi del 1820 ? Si è mai  veduto in altri tempi, allorché il nemico ci minacciava,  l’agricoltore, l’artista, il prete, il monaco stesso doman¬  dare l’iniziazione nelle società patriottiche per emettere  il giuramento di vincere, o di morire per la difesa della  costituzione e del trono ? ».   Siamo così abituati a rappresentarci il Galluppi, attra¬  verso i suoi libri meramente speculativi, dove non spunta  mai favilla di passione umana, o un accenno storico, o  un’allusione personale, e attraverso le memorie di quel  suo insegnamento universitario, tutto chiuso, tra il '31  e il '46 (periodo di puro raccoglimento spirituale per  Napoli), nella speculazione sopramondana.: che questa  specie di Galluppi inedito, agitato dalle preoccupazioni  politiche e storiche del mondo in cui visse, ci riesce di  uno strano sapore nuovo e d'un vivo interesse. E ne  viene aggiunta una linea caratteristica e simpatica alla    PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ?    127    figura del nostro vecchio e caro scrittore; che viene ad  occupare anche lui il suo posto non pur nella storia del  liberalismo italiano, ma in quella schiera di acuti pen¬  satori improntati della più schietta italianità, i quali,  rifacendosi direttamente o indirettamente dal Vico, si  opposero all’ astrattismo antistorico e rivoluzionario di  Francia.   Lungi, dunque, dall'apparirci un giacobino, il Galluppi,  pel suo modo d’intendere e giudicare gli avvenimenti  contemporanei, ci si presenta come un liberale del se¬  colo XIX, penetrato del senso della realtà e razionalità  della storia.   Né questa figura viene menomamente turbata dal  nuovo documento che qui appresso si aggiunge a queste  note: un altro suo discorso accademico, letto a Tropea  (nella solita Accademia degli Affaticati) in lode questa  volta di Ferdinando II, pel suo avvenimento al trono  Discorso che io ho avuto sott’occhio nell’autografo, e  trascritto fedelmente. Esso, ad ogni modo, non può  suscitare né meraviglia, né rammarico in nessuno che  ricordi con quali lieti auspicii salisse al trono il nipote  di quel Ferdinando, a cui il Galluppi aveva inneggiato  nel 18x5. « La giovanezza del re », scrisse lo stesso Set¬  tembrini nella sua Protesta, « la recente rivoluzione di  luglio in Francia, e i movimenti di Romagna, alzarono la  nazione a novelle speranze ». E molto meglio nelle Ri¬  cordanze: «Quando re Ferdinando II, nel novembre del  1830, saliva sul trono delle Sicilie, cominciò bene, e a  molti parve un buon principe. Ogni giovane a venti  armi è buono, come ogni fanciulla a quindici anni è bella.  In un suo Manifesto dichiarò di voler rammarginare le  piaghe che da più anni affliggevano il Regno, ristorare  la giustizia, riordinare le finanze, promuovere le industrie  ed il commercio, assicurare in ogni modo i beni dei suoi  amatissimi popoli. Quando poi diede un’amnistia, per la    128    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    quale tornarono a le loro famiglie molti esuli, molti pri¬  gionieri, le speranze crebbero e l’allegrezza fu grande.  Gli uomini savi dicevano che egli aveva fatto una brutta  orazione funebre a suo padre; ma gli davano lode perché  scacciò parecchi ministri e servitori, che durante il regno  di Francesco avevano fatto mercato d’ogni cosa, perché  restrinse le spese della casa sua, tolse via le cacce, e volle  vivere con certa semplicità e parsimonia, che il popolo  chiamò avarizia. Pareva a tutti cortese perché dava  udienza a tutti, domandava, rispondeva, provvedeva  subito, e ricordava i nomi di quanti aveva una volta  veduti ». Anche Nerone, uscì a dire, uno di quei giorni,  esso Settembrini tra giovani suoi amici e maggiori d’età:  anche « Nerone cominciò col quam mallem nescire scribere.  L’ è scopa nuova, ma di quella mala erba: fate che s’usi,  e vi riuscirà Borbone come il padre, e come l’avolo ».  E gli diedero del matto '. « Io che sono stato vittima del  suo insaziabile dispotismo » — scriveva Nicola Nisco  nell’accingersi alla storia del suo regno, — « e che ne  porto ancora i ricordi ai piedi ed ai polsi, rifarò con civile  orgoglio la storia dei suoi primi anni di regno, i quali  sono andati confusi con quelli che seguirono, massime  dopo il quarantotto, quando la natura borbonica, ride¬  standosi ampiamente in lui, lo menò a divenire l’avver¬  sione non pure d’Italia, ma d’ Europa ». E ricordando  la soddisfazione generale di quei primi mesi del nuovo re,  raccontava : « Alle acclamazioni dei popoli facevan eco i  prosatori ed i poeti di quel tempo, e nell’entusiasmo  della sperata redenzione, sventuratamente poi tradita,  vennero fuori giovani ed uomini egregi, fra i quali Gia¬  como Filioli, i fratelli Baldacchini, i fratelli Dalbono,  il Ruffo e quella sublime donna, che mai non si conta¬  minò di servo encomio, Giuseppina Guacci. E quando    1 Ricord., c. V.     PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ? I2Q   il 18 dicembre 1830, rimosso ogni ostacolo derivante da  colpe politiche al conseguimento dei pubblici uffizi, abi¬  litò all’esercizio delle pubbliche cariche gl’ impiegati ed  i militari destituiti per le politiche vicende, concedè ai  detenuti in carcere, espatriati, esiliati e condannati napo¬  letani e siciliani alle galere e all’ergastolo di ritornare  nelle loro famiglie, Saverio Baldacchini il chiamò in un  suo inno,    Padre a tutti, che il gaudio  Del perdonar provò;   e dall’animo purissimo della giovane Guacci si elevò  quella nobilissima esclamazione   Oh ! lieto il sire,   Che nell’amor dei popoli riposa »   Al coro delle lodi si unì adunque nel gennaio 1831  anche il filosofo di Tropea, tuttavia controllore delle con¬  tribuzioni, col seguente discorso; in cui l’adulazione del  suddito par s’indirizzi all’ idea dell’ottimo sovrano piut¬  tosto che alla persona del giovine monarca ; onde si direbbe  che a tratti assuma il tono dell’ammonimento anzi che  del panegirico. — Alcuni accenni di dottrine filosofiche,  che vi si mescolano, come i riferimenti ai concetti del  bello e del sublime, dimostrano il già sessantenne filosofo  incapace di distrarre la mente dalle sue astratte medi¬  tazioni. E questo è forse l’ultimo scritto, in cui gh ac¬  cadde di volgere attorno uno sguardo, per esprimere  il suo pensiero su fatti e personaggi contemporanei.   1914.    1 N. Nisco, Gli ultimi trentasei anni del Reame di Napoli, Napoli,  Morano, 1889, II, pp. i, 8.     Pel felice avvenimento  al Trono delle Due Sicilie  di FERDINANDO II   Discorso Accademico  di P. Galluppi    Di letizia ripiena, Accademia illustre, io ti rimiro. Con  la rapidità del fulmine l’arrugginita cetra riprender ti  vedo. Il tuo vivo ardore, di scioglier la lingua al canto,  espresso nel tuo volto io leggo. Sì, dell’estro che ti ac¬  cende, l’oggetto io ben ravviso. Un giovine eroe ascende  sul trono di Ruggiero: il dolore, che ingombrava i nostri  cuori, sparisce: in tutti i volti degli abitatori delle Due  Sicilie, con vivi ed espressivi colori, la gioia dipinta si  vede. Un grido di letizia dappertutto rimbomba.   Ma non è la gioia il solo effetto, che la comparsa del  giovine Re sul trono ha universalmente prodotto ne’  nostri cuori. Un vivo sentimento di ammirazione e di  devozione verso la sacra persona di lui, si è immanti¬  nente acceso ne’ popoli di qua e di là del Faro. Ferdi¬  nando II, l’augusto discendente di tanti Re, non sola¬  mente quel sentimento fa nascere, che, in una ridente  primavera, l’aspetto d’una deliziosa campagna, negli  animi sensibili alle bellezze della natura e dell’arte, suole  produrre; ma quel sentimento eziandio produsse, che  in una vasta pianura, la veduta dell’azzurra volta del  cielo, in una notte serena, l'anima colpisce dell’osser¬  vatore attento a contemplar l’universo.   Ferdinando II è dunque un oggetto non solamente  bello, ma sublime. Come bello, la sua    PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ? I3I   comparsa sul Trono ha inondato di letizia il cuore de’  suoi popoli ; come sublime, di ammirazione e di  devozione gli ha colpiti. Il bello ed il sublime producono  diverse affezioni morali: l’uno rallegra, ed in certe cir¬  costanze fa pianger di tenerezza. L’altro l’ammirazione e  la devozione produce. Nondimeno, quando il sublime si  riguarda come una causa, che su la nostra felicità influisce,  all’ammirazione ed alla devozione fa esso succedere la  confidenza e la letizia. Tale è il sentimento, che provano i  soldati di un’armata, quando sanno che il loro generale  è uno Scipione, un Alessandro, un Camillo ; e tale appunto  è quello che in noi produce la vista di Ferdinando II  sul trono delle Due Sicilie.   Se il bello ed il sublime l’oggetto sono dell’eloquenza  e della poesia, se senza un oggetto, che sia defl’una e  dell’altra qualità fornito, il genio dell’oratore e l’estro  del poeta languiscono; se l'alto personaggio, che è l’og¬  getto di questa letteraria adunanza, è dell’una e del¬  l’altra qualità eminentemente adorno, con ragione, Con¬  sesso illustre della città di Alcide *, di estro animato ti  veggo, per fare oggetto de’ tuoi canti l’augusto prin¬  cipe, che al Trono ascende di Carlo III. Con ragione,  cogli occhi a me affissi, che dell’onore di esser tuo oratore  son fregiato, attento ti miro. Tu vuoi udir dal mio labbro  la dipintura dell’alto personaggio, che verso di lui attira  i nostri sguardi. Tu brami, che i motivi io ti esponga,  che dalla velocità incalcolabile del pensiero aggruppati  insieme, i sentimenti di gioia, di ammirazione e di devo¬  zione ne’ nostri cuori producono.   Ferdinando II è bello: nel suo volto dipinto si vede  la candidezza deH’anima sua, ed una certa misteriosa  espressione del buon senso, del buon umore, del brio,    1 Tropea, città, secondo la leggenda, di Ercole. Vedi Nicola Scrugli,  Notizie archeologiche di Portercole e Tropea, pp. 15-17.     132    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    della benevolenza, della sensibilità e delle altre amabili  disposizioni. Con questa sua bella fisonomia e colle sue  belle maniere, la letizia egli sparge ne’ nostri cuori. Ma  non è questo il punto di veduta, sotto di cui io mi pro¬  pongo di dipingerlo. Ferdinando II ci ha colpiti di ammi¬  razione e di devozione, ed a questi sentimenti è successa  la speranza e la letizia. Egli è dunque un oggetto sublime.  Un oggetto sublime è grande. Egli è, per conseguenza,  grande. Ma qual grandezza siam noi costretti ad am¬  mirare in lui ? Sarà forse quella degli Alessandri, e de’  Cesari ? Quella vera grandezza, che in questi gravi capi¬  tani dell’antichità noi ammiriamo, si trova bensì nel  nostro Eroe. Ma questa non è quella, che più immediata¬  mente ci colpisce, e che più in lui risplende. Una gran¬  dezza guerriera può trovarsi negli uomini i più nefandi.  Siila non era insieme un gran capitano, ed mi mostro  di crudeltà ? Ferdinando II è grande, perché conosce i  doveri di un Re. Egli è grande, perché adempie i doveri  di un Re. È questo l’oggetto del mio discorso.    Parte Prima   Un pensiere è grande, allora che esso è esteso. Un  pensiere che, nella sua espressione la più semplice, com¬  prende tutti i pensieri particolari, che vi si rapportano,  è un pensiere grande; e l’anima, che lo sente in sé, spe¬  rimenta un sentimento di grandezza. Il sentimento della  grandezza è il sentimento della forza o del potere. Colui  che possiede una verità generale, sente che ha in suo  potere tutte le verità particolari che vi son comprese.  Egli è simile a colui che, posto su la cima di un alto monte,  comprende, con un semplice sguardo, un vasto e variato  orizzonte. Floro ci desta un pensiere grande quando ci  rappresenta, in poche parole, tutti gli errori di Annibaie    PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ?    133    dicendo : « Allora che poteva servirsi della vittoria, amò  meglio goderne ». Una consimil grandezza si ravvisa  nell’ idea, che egli ci dà di tutta la guerra di Macedonia,  quando dice: «Il vincere fu l’entrarvi». Uno spirito  sublime racchiude le verità particolari in una che sia la  più generale, e per conseguenza la più semplice.   Ferdinando II, asceso sul trono de’ suoi antenati, vede,  con un colpo d’occhio, tutti i doveri di un Re: egli li  racchiude in un principio generale. Il suo pensiere è  grande: egli che lo concepisce, è grande in conseguenza.  La prima parte del mio discorso accademico è terminata.   È terminata ?   Accademia illustre, ti credi tu forse, con questo mio  breve parlare, delusa nella tua aspettazione ? Hai tu forse  sperimentato un sentimento dispiacevole, simile a quello  che sperimentar suole uno spettatore di un’azione tea¬  trale, allora che una causa improvvisa lo chiama in altro  luogo, ed interrompe il suo piacere ? Ma cesserà in te  questo momentaneo doloroso sentimento. La rapidità  incalcolabile del sentimento mi ha fatto attraversare, in  un baleno, un vasto spazio. Io non ho potuto arrestare  la sua impressione. Lo scotimento prodotto nell'anima  da qualche grande oggetto, l’alza notabilmente sopra il  suo stato ordinario. Si desta in lei una specie di entu¬  siasmo piacevolissimo finché dura, che le fa compren¬  dere, con uno sguardo, una moltitudine di oggetti, ma  da cui l’anima tosto ricade nella sua ordinaria situazione.  Percorrerò dunque di nuovo, ed a passi osservabili, lo  spazio trascorso.   Iddio, eh’ è il legislatore dell’intero universo, diede  all’uomo una legge, e la impresse nel cuore di lui. L’uomo  è dalla sua natura determinato allo stato della civil so¬  cietà. In questo stato solamente può egli perfezionar se  stesso, ed adempiere la sua destinazione. L’uomo ha in se  stesso le tendenze, i mezzi e la legge di vivere nella civil    J 34    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    società. La società civile non può sussistere senza un  essere morale, dotato del potere legislativo ed esecutivo.  Un tal essere è il Sovrano. Nelle monarchie semplici,  il sovrano è il Re.   Ma Iddio ha voluto l’esistenza della civil società su  la terra, per la felicità degli uomini; 1’esistenza dunque  della sovranità, come ordinata a quella della civil società,  è voluta da Dio per la felicità degli uomini. Queste sem¬  plici riflessioni ci menano infallibilmente alla conoscenza  del principio generale della morale de’ Re. La desti¬  nazione dei Re su la terra è di rendere,  per quanto è loro possibile, felici i  loro sudditi. Ecco il principio luminoso e sublime,  che tutti racchiude i regi doveri.   Ma non udiamo noi forse questa sublime e consolante  filosofìa annunciarsi a’ popoli delle Due Sicilie, nel primo  momento del suo avvenimento al trono, dall’augusto  Ferdinando II ? Ascoltiamo la sua voce sovrana in quel-  l’ammirabile proclama, che destò ne’ nostri cuori l’am¬  mirazione e la devozione per la sua sacra persona, e che  di vera gioia gl' inondò. Il giorno otto di novembre dello  scorso anno 1830 Ferdinando II ascese sul trono, ed in  quell’ istesso giorno egli così parlò a’ suoi sudditi :   « Avendoci chiamato Iddio ad occupare il Trono de’ nostri  augusti Antenati, sentiamo l’enorme peso, che il supremo Di¬  spensatore de’ regni ha voluto imporre sulle nostre spalle, nel-  l'affidarci il governo di questo Regno. Siamo persuasi che Iddio,  nell’ investirci della sua autorità, non intende che resti inutile  nelle nostre mani, siccome neppur vuole che ne abusiamo. Vuole  che il nostro Regno sia un Regno di giustizia, di vigilanza, e di  saviezza, e che adempiamo verso i nostri sudditi alle cure paterne  della sua Provvidenza « *.    1 II proclama si può leggere nella Collezione delle leggi e de' decreti  reali del Regno delle Due Sicilie, a. 1830, sem. II, Napoli, Stamp.  Reale, 1830, pp. 143-.45.     PASQUALE GALLUFPI GIACOBINO ?    135    A voi, gran Dio, che avete nella vostra mano il cuore  de’ Re, per inclinarlo secondo la vostra volontà sempre  santa, grazie siano rese del prezioso dono, che nella vostra  misericordia ci avete concesso. Non mica nel furore del  vostro giusto sdegno, ma nelle vedute imperscrutabili  della vostra misericordia, voi ci avete inviato a reggere  i nostri destini il giovane eroe, che ci sorprende colla  sua sublime sapienza. Egli riconosce che non dee punto  abusare dell’autorità di cui voi l’avete rivestito; che  è suo sacro dovere, di far che regni fra di noi la giustizia,  e che egli sia il felice istrumento delle cure paterne  della vostra provvidenza su di noi. Ciò è lo stesso che  riconoscere esser egli destinato da voi  a render felici i suoi sudditi. Ciò è lo  stesso che proclamare il principio generale della mo¬  rale de’ monarchi. Il principe, che così parla a’ suoi  popoli, non ha mica il crine canuto: egli è un giovanetto,  che ha appena compiuto il quarto lustro della sua età.  Egli è dunque dotato di un’anima grande ; ed è con ragione,  che qual Grande è salutato da’ popoli delle Due Sicilie.  Un’anima grande ha solamente potuto concepire il pen¬  siero sublime, che tutta racchiude la morale de’ Re;  ed un’anima grande ha potuto, invece di essere distratta  dallo splendore del Trono, specialmente in un’età gio¬  vanile, concentrar tutta se stessa nell’espressione de’  propri doveri, ed esserne profondamente penetrata.   Nell’ammirabile proclama il nostro gran Re non sola¬  mente conosce la sua augusta destinazione nel governo  de’ suoi popoli, ma vede ancora i mezzi principali, che  debbono fargli conseguire il gran fine. Egli scovre nel  principio le illazioni. Egli vede, in primo luogo, che gli  uomini non possono esser febei, senza esser virtuosi:  egli conosce T intima relazione, che passa fra la virtù  e la Religione; che i sentimenti rebgiosi conducono alla  virtù, come la virtù conduce alla Rebgione. Egli com-     I36 ALBORI DELLA NUOVA ITALIA   prende che la vera religione viene in soccorso della pub¬  blica autorità, e per estendere la sanzione delle leggi,  e per ottenere ciò che esse non possono prescrivere, e  per evitare ciò che esse non potrebbero sempre giugnere  ad impedire; ed egli conclude, che dee proteggere la  divina Religione, che c’ illumina. « I grandi », dice il  celebre Massillon, « non son grandi se non perché eglino  sono le immagini della gloria del Signore, ed i deposi¬  tari della sua potenza. Eglino dunque debbono sostenere  gl’ interessi di Dio, di cui rappresentano la maestà, e  rispettare la Religione, che sola rende rispettabili loro  stessi ».   Dalla Religione volge il nostro gran Re lo sguardo alla  giustizia. Egli vede che la felicità de’ cittadini richiede  una gelosa custodia de’ loro diritti. Egli conosce che  questa custodia è il sacro dovere del potere giudiziario.  Egli è convinto che il Re nell' istituzione di questo potere,  e nell’elezione de’ membri, che debbono comporlo, deve  porre la maggiore attenzione che gli sia possibile. Il cit¬  tadino dee, sotto la protezione della legge, e del pubblico  potere, vivere tranquillo: egli non dee temere che i suoi  diritti sieno violati. Magistrati, a cui la regia maestà  consegnò la spada di Temi, ascoltate la voce del sapiente  legislatore. Tutti i miei sudditi, egli dice, debbono essere  uguali agli occhi della legge '. I tribunali debbono essere  un santuario, che la corruzione, la prepotenza, T intrigo,  non debbono giammai profanare. Se i giudici debbono  essere indipendenti nelle loro sentenze, eglino non deb¬  bono essere legislatori. L'accordar grazie ed eccezioni è  una funzione estranea al loro potere. L’impero della  legge dee essere universale.   1 « Noi vogliamo — dice il Proclama — che i nostri tribunali  siano tanti santuari, i quali non debbono mai essere profanati dagl' in¬  trighi, dalle protezioni ingiuste, né da qualunque umano riguardo o  interesse. Agli occhi della legge tutti i nostri sudditi sono uguali, e  procureremo che a tutti sia resa imparzialmente la giustizia ».     PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ?    137    I cittadini non possono essere felici, se lo Stato non  è ricco. Uno Stato, dice un celebre politico, non si può  dire ricco e felic.e, che in un solo caso, allorché ogni cit¬  tadino con un lavoro discreto di alcune ore può como¬  damente supplire a’ suoi bisogni ed a quelli della sua  famiglia. Un lavoro assiduo, una vita conservata a stento  non è mai una vita felice. I dazj eccessivi sono contrarj  alla felicità di cui parliamo; ed i dazj debbono essere  eccessivi, allora che il Tesoro generale dello Stato pre¬  senta un voto. E qui l’anima grande di Ferdinando II  ci si mostra allo scoverto. Egli non dirige il suo sguardo  su le pompe de’ Re, su i palagi de’ Grandi, ma lo dirige  su i cenci, e su i tugurj de’ poveri e degl’ infelici. Al suo  penetrante sguardo tosto si svela lo spettacolo doloroso  della soma pesante de’ dazj, che gravita sul suo popolo.  La sua grande anima ne è profondamente penetrata,  ma non abbattuta. Le grandi passioni innalzano l’anima,  e scovrire le fanno degli oggetti incogniti agli uomini  ordinari. Ferdinando II vede quasi nel momento stesso  il voto spaventevole del Tesoro generale, ed i mezzi di  ripararlo. La grande opera della instaurazione delle reali  finanze, è tosto nella gran mente del Principe magnammo  già delineata. La felicità de’ cittadini richiede ancora,  che lo Stato sia temuto e rispettato al di fuori. Ad un  si grande oggetto conferisce un’armata disciplinata,  valorosa ed animata dal nobile ardore di gloria. E Fer¬  dinando II si fece già ammirar da capitano, prima di  farsi ammirare da Re.   Augusta filosofia! Se io a te consagrai sin da  primi anni la mia vita, se non ho avuto altro scopo ne  miei scritti, che di annunciare la verità al genere umano,  se tu vedi che io ardisco di parlare ad un Re, da te non  si concepisca contro di me alcun sospetto, che mi avvi¬  lisca a’ tuoi sguardi. No, l’adulazione non ha profanato  il mio linguaggio. Io non ho prestato al mio Eroe i miei    10 - Gentile, Albori. I.    138    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    pensieri, per formarmi un prototipo di mia immagi¬  nazione. Io gli ho osservati in lui, che nel suo proclama gli  esprime. Io ho dunque, senza rimorso di arrossire al suo  cospetto, il diritto di concludere : Ferdinando II  è grande perché egli conosce i doveri  di un Re.    Parte Seconda   Ferdinando II adempie egli i doveri di un Re ? Il tempo,  in cui 1 ’ Eroe di questo discorso regna su di noi, non è  ancora di tre mesi; ed egli ha tali e tante cose operato,  che con ragione i sudditi suoi, nella sincerità del loro  cuore, 1' hanno unanimemente acclamato per Grande.  Ferdinando II è un personaggio straordinario. Pe’ per¬  sonaggi di tal fatta i giorni sono anni, e gli anni sono  de’ secoli. I loro passi sono di una rapidità incalcolabile,  ed agli occhi degli uomini ordinar] sembrano de’ pro¬  digi- Eglino, quando anche la loro vita fosse molto corta,  formano l’epoche della storia; perché producono quei  memorabili avvenimenti, che cambiano lo stato de’  popoli, e fanno a questi percorrere un cammino diverso.  I loro nomi resistono al furore del tempo, che tutto di¬  strugge. Ferdinando II ascende al trono de’ suoi antenati,  nell’aurora della sua vita. Un uomo ordinario sarebbe  stato sedotto dallo splendore del Trono: egli avrebbe  sdegnato le penose cure del governo di un Regno; egli  sarebbe stato colpito dal fasto de’ grandi. Il giovin Eroe  chiude gli occhi alle pompe incantatrici del Trono, ed  attento gli rivolge su i mah del suo popolo. Egli non  vuol assidersi in mezzo de’ grandi pria di piangere cogl’ in¬  felici. Una serie d’infausti avvenimenti produce torrenti  di mali, ed immerge nel dolore e nel pianto gli abitatori  di queste belle contrade. Un muro di separazione s’in¬  nalza fra di noi. Esso divide i sudditi da’ sudditi. Quelli    PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ?    139    della parte sinistra son privi della vita civile, nell’atto  che la necessità ne chiama degli altri, che sono insuffi¬  cienti, alle pubbliche cariche >.   Il potere giudiziario perde tanti ragguardevoli magi¬  strati. L’amministrazione tanti prudenti e savj ammini¬  stratori. La indizia tanti valorosi campioni. Gran Dio,  chi riparerà i nostri mali ? Voi avete udito i gemiti de  buoni e virtuosi cittadini di questo bel Regno: la vostra  voce finalmente dal Cielo si è udita. Popoli delle Due  Sicilie, rasciugate le vostre lagrime : i vostri cuori si aprano  alla gioja. Un Re di un’anima eroica ascende sul Trono:  egli sanerà le vostre piaghe : egli vi farà risorgere a nuova  vita. Sì, il core magnanimo di Ferdinando il Grande è  commosso all’aspetto de’ mah di una gran parte de  sudditi suoi. Egli sente, nella sua clemenza, che, essendo  l’immagine di Dio e del Redentore divino su la Terra,  dee qual padre correre ad abbracciare il figliuol prodigo.  Egli vede, che la discordia in un Regno è la sorgente di  mali deplorabili, e che un principio saggio dee farla ces¬  sare. Egli conosce, che i Re debbano regnare su i cuori  de’ loro sudditi. Il memorando decreto del 18 dicembre  del 1830 è pubblicato. Il muro di separazione è rove¬  sciato. La gloria di Ferdinando II sarà immortale ».   Tacete, animucce infelici, in cui la calunnia ha posto  la sua sede, tacete. Che cosa mai dir vorrete ? Che il  Reai Decreto or ora citato è una finzione ? Che esso non  avrà alcuna esecuzione ? No, l’anima eroica di Ferdi¬  nando II non cape siffatta bassezza. I reali Decreti del  dì 11 del corrente gennaio 3 vi ammutoliscano. Ferdi-    1 A questo punto d'altra mano, in margine: «La tempesta politica  fa traviare dal retto cammino anche i migliori talenti ».   1 L’atto sovrano del 18 dicembre 1830 portava un indulto in favore  dei condannati come rei di Stato, e di coloro che per ragioni politiche  si trovavano esclusi dagli impieghi civili e militari.   3 Allude ai due decreti nn. 104 e 106, emanati con quella data da  Ferdinando II, col primo dei quali si cercava di curare le piaghe      140    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    nando II regna senza distinzione, su i cuori di tutti i  sudditi suoi. Tutti si riguardano quasi fratelli, perché  vivono sotto T impero di un Re, che è loro Padre.  DalTuna all’altra estremità delle Due Sicilie una sola  voce si ascolta : Viva l’Eroe! Viva Ferdi¬  nando II il Grande! Tutti sì, tutti son pronti  a versare per un tanto clemente Monarca il loro sangue.   La virtù non dee amarsi che per se stessa, e sarebbe,  in buona filosofìa, un distruggerla il riguardarla qual  mezzo per la felicità. Ma è essa una verità incontrasta¬  bile, che l’uomo virtuoso sarà felice, ed il vizioso infelice.  Quale spettacolo più commovente per l’anima di Fer¬  dinando II di quello che gli presentò la capitale ne'  giorni ix, 12 e 13 di gennajo, e la relazione, che certa¬  mente gli pervenne, della letizia universale innalzata  sino al più vivo entusiasmo di tutto il Regno ? Il piacere  di rendere milioni di uomini felici, e di vedersi da essi  adorato ne ha esso forse un eguale su la terra ? Il Principe  magnanimo intese nel suo cuore, che egli ha tanti sol¬  dati, quanti sudditi conta il suo regno. Egli vide il suo  Trono immobile, la sua gloria immortale.   La grand’opera della rassicurazione delle reali finanze  la dicemmo già delineata nella gran mente del nostro  Eroe. La mano incomincia tosto ad eseguire il disegno    profonde che erano nelle finanze del Regno, sopra tutto dei do¬  mimi continentali, per « le conseguenze fatali della straniera usurpa¬  zione: gli avvenimenti disgraziati del 1820#; si esponeva con leale  franchezza il deficit della tesoreria generale di Napoli, che am¬  montava a 4 345 251 ducati; per colmare gradualmente il quale si  annunziava una serie di lodevoli economie nella milizia e nei ministeri,  oltre straordinari rilasci della cassa privata del Re e dell'assegnamento  della R. Casa; l’abolizione del cumulo degli stipendi; l’imposizione  di una ritenuta ai soldi e pensioni superiori a 25 ducati mensili; e in  compenso pel « sollievo della parte più bisognosa del popolo » si dimi¬  nuiva della metà il dazio sul macino. Con l’altro decreto veniva pre¬  scritta « una generale economia nelle spese a carico dei comuni di qua  del Faro per invertirla nella diminuzione de’ più gravosi dazi  comunali». Vedi Collezione cit., a. 1831, sem. I, pp. n-17, e 18-20.       PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ? I4I   del pensiere. I Re imprimono alle loro azioni un carat¬  tere di gloria, che spinge i sudditi ad imitarle. L’idea  di grandezza si associa a quella delle azioni de’ grandi,  e l’impero delle idee associate sul cuore umano è molto  esteso. Quindi la virtù, quando si scorge nelle azioni  de' grandi, di qualunque grandezza essi sieno adorni,  rende la virtù rispettabile su la terra.   Guidato da questo sublime pensiere, Ferdinando II  incomincia da sé la nobile impresa. Que’ insti spazj di  terra riserbati alla caccia de’ Re son tosto restituiti al¬  l’agricoltura ». Questa misura diminuisce le spese relative  alla persona del Re, ed aumenta la pubblica ricchezza.  Un rilascio è conceduto dalla borsa privata del Principe:  altro ne è fatto dall’assegnamento della Casa reale. La  classe degl’ impiegati è chiamata ad imitar l’esempio del  Reggitor supremo dello Stato: ed il reai Decreto del di  11 gennaio contenente una diminuzione di dazj, vien  tosto a colpirci di ammirazione e di gioja.   Se tali sono le imprese di Ferdinando II in men di  tre mesi, che cosa non dobbiamo noi sperare in un lungo  regno, che gli auguriamo felice ? Egli ha promesso la  restaurazione della giustizia. La sua promessa è sacra  ed immutabile. Il passato ci autorizza a sperare il futuro.  Sì, il cittadino vivrà tranquillo sotto 1 * impero della legge.  Il regno di Astrea rinascerà su le nostre contrade. Ed io  non posso trattenermi di finire col poeta latino:   lam redit et virgo, redeunt Saturnia regna,  lavi nova progenies caelo demìititur alto.    1 « Con la pubblicazione del suo proclama il Giornale ufficiale  annunziava le sue disposizioni per l’abolizione delle cacce »: N. Nisco,  Gli ultimi trentasei anni del Reame di Napoli, voi. II, p. 67. 

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