Nella Introduzione al suo celebre libro del 1983 Il corpo(Feltrinelli, Milano, pp. 11-16), Umberto Galimberti così si esprimeva: È forse tempo che la psicologia incominci a pensarsi contro se stesse a comprendersi al di là della sua nominazione idealistica che la propone come «discorso sulla psiche, quindi su quell'unità ideale del soggetto che la grecità ha promosso col termine ????, e a cui la psicologia non s'è ancora sottratta neppure nella sua più moderna espressione scientifica. Ma pensare contro non significa pensare l'opposto, mantenendosi su quel medesimo terreno d opposizione in cui il conflitto, così come si genera, si riassorbe. Pensare contro significa pensare fino in fondo, quindi andare alle radici, scavando il fondo su cui si impianta il radicamento. Questa operazione che rimuove la solidità delle radici, disloca la psicologia dal luogo che s'è data, quindi la dis-orienta, la sottrae al suo oriente, alla sua origine storica. Quest'origine è rintracciabile nella cultura greca e precisamente in quel momento in cui la specificità dell'uomo è sottratta all'ambivalenza delle sue espressioni corporee per essere riassunta in quell'unità ideale, la psyche, che da Platone in poi, per tutto l'Occidente, sarà il luogo del riconoscimento dell'unità del soggetto, della sua identità. Ma questo luogo di identificazione contiene già il principio della separazioneperché, come coscienza di sé, la psyche incomincia a pensare per sé, e quindi a separarsi dalla propria corporeità. La prima operazione metafisica è stata un'operazione psicologica. Nata con un significato semplicemente classificatorio per designare quei libri aristotelici che erano collocati dopo (µ?ta) i libri di fisica (t? f?s???), la «metafisica» ha guadagnato ben presto e coerentemente un significato topico che designa un al di là della natura, quindi una scienza dell'ultrasensibile che si differenzia dal mondo dei corpi perché, contro il loro divenire e mutare, rappresenta l'immutabile e l'eterno. L'idea platonica è il modello di questa separazione e contrapposizione, e la psyche, essendo «amica delle idee, incomincerà a considerare il corpo come suo carcere e sua tomba. Una volta che la verità è posta come idea, l'opposizione tra ideale e sensibile , tra anima e corpo, diventa l'opposizione tra vero e falso, tra bene e male. Valori logici e valori morali nascono da questa contrapposizione che la metafisica ha creato e la scienza moderna ha mantenuto, rivelando così la sua profonda radice metafisica se è vero, come dice Nietzsche, che «la credenza fondamentale dei metafisici è la credenza nelle antitesi dei valori». A questo punto per la psicologia, pensarsi contro se stessa, pensarsi fino in fondo, fino al fondo della sua origine storica, significa pensarsi contro questa antitesi di valori che non la realtà, ma lo sguardo metafisico, con cui la psicologia ha generato se stessa, ha instaurato. È uno sguardo che ancora ospita la psicologia come residuato di quell'idealismo che, a partire da Socrate e Platone, ha percorso l'Occidente come suo lungo errore. Da questo errore la filosofia si è emancipata con Nietzsche che ha denunciato quel retro-mondo, quell'«al di là inventato per meglio calunniare l'al di qua», ma non la psicologia, che così rimane la più occidentale delle scienze e quindi la più metafisica, se per metafisica intendiamo il pensiero della separazione, il puro d?a ß???e??, da cui nascono quelle antitesi denunciate da Nietzsche e fedelmente riportate dal discorso psicologico sulla norma, dove si disgiungono ragione e follia. Fattasi carico della logica della separazione inaugurata dalla disgiunzione platonica tra corporeo e ideale, la psicologia, se vuol essere coerente a se stessa, non può parlare del corpo se non impropriamente, se non per un'infedeltà al suo statuto scientifico, a meno che per corpo non intenda l'idea di corpo che come scienza s'è data. Ma se il corpo anatomico, a cui questa idea si riduce dopo che lo psichico è stato separato e autonomizzato, non è luogo in cui la psicologia si riconosce, allora del corpo la psicologia potrà parlare propriamente solo se si pronuncia contro se stessa, contro lo statuto della separazione, che è poi quell'origine metafisica da cui la psicologia è nata, ha fondato se stessa come scienza, e ancora si conserva.(…) Come luogo della revisione psicologica, il corpo parla simbolicamente, non nel senso in cui la psicoanalisi parla dei simboli per ribadire un'altra separazione, quella tra conscio e inconscio, dove nell'inconscio si ritrova il rovescio dell'iperuranio platonico, il 'vero' significato di ciò che si manifesta, ma nel senso di abolire la barra che ha separato l'anima dal corpo inaugurando la 'psico-logia'. Abolire la barra significa mettere assieme, s?µ-ß???e??. Proponendosi come simbolo, il corpo abolisce la psicologia come storicamente s'è pensata in Occidente, la sradica dalle sue radici storiche, che sono poi quelle metafisiche e idealistiche, e così la costringe a pensarsi contro se stessa. Questo pensiero che è contro, perché pensa fino in fondo, fino alle radici, incontra la corporeità che, nel suo sorgere immotivato e nel suo ambivalente apparire, dice di essere questo, ma anche quello. L'ambivalenza così dischiusa non è ambiguità, ma è quell'apertura di senso a partire dalla quale anche la ragione può fissare l'opposizione dei suoi significati ,e quindi quell'antitesi dei valori in cui si articola la sua logica disgiuntiva quando divide il vero dal falso, il bene dal male, il bello dal brutto, Dio dal mondo, lo spirito dalla materia, l'anima dal corpo. Queste opposizioni sopprimono l'ambivalenza (?µf?) con cui la realtà corporea originariamente appare nel suo duplice aspetto, come un Giano bifronte, per instaurare quella bivalenza (bis) dove il positivo e il negativo si rispecchiano producendo quella realtà immaginaria da cui traggono origine tutte le «speculazioni». Diciamo immaginaria perché la realtà non può mai di per sé essere negativa se non per effetto di una valutazione. Ma se il negativo è da interpretare semplicemente come il «valutato negativamente», allora la negatività attiene essenzialmente al giudizio di valore. Proponendosi come questo, ma anche quello, il corpo, come significato fluttuante, che si concede a tutti i giudizi di valore, ma anche si sottrae, con la sua ambivalenza li fa tutti oscillare. Luogo e non-luogo del discorso, esso opera quel taglio geologico nella storia che ne rivela tutte le stratificazioni. Da centro di irradiazione simbolica nella comunità primitiva, il corpo, infatti, è diventato in Occidente «il negativo di ogni valore» che il gioco dialettico delle opposizioni è andato accumulando. Dalla «follia» del corpo di Platone alla «maledizione della carne» nella religione biblica, dalla «lacerazione» cartesiana della sua unità alla sua «anatomia» ad opera della scienza, il corpo vede proseguire la sua storia con la sua riduzione a «forza-lavoro» nell'economia dove più evidente è l'accumulo del valore nel segno dell'equivalenza generale, ma dove anche più aperta diventa la sfida del corpo sul registro dell'ambivalenza. Qui «sfida» non significa che il corpo si oppone a qualcosa o a qualcuno, ma semplicemente che non si affida a una pienezza di senso e di valore, non perché abbia obiezioni o riserve che qualsiasi discorso sarebbe in grado di recuperare o di assorbire, ma perché quella pienezza di senso e di valore è cresciuta sulla sua negazione che, se da un lato ha lasciato il corpo senza senso, senza nome, senza identità, dall'altro gli ha dato la possibilità di diventare il contro-senso, colui che dissolve il Nome e risolve l'identità nelle sue adiacenze: A enon A, perché questo è il gioco dell'ambivalenza simbolica, e insieme la strada con cui il corpo può recuperarsi dalle divisioni disgiuntive in cui la struttura metafisica del sapere psicologico l'ha confinato. Questo recupero è possibile perché il gioco dell'ambivalenza è aperto prima che il sapere metafisico fissi le regole del gioco, ma proprio perché le regole vengono dopo, questo gioco è imprevedibile, perché nessuna determinazione posta in gioco conosce la sua destinazione. L'unica certezza è quella che non ci si può sottrarre alla necessità del gioco, non si può dire l'ultima parola sul gioco e fermarlo per sempre. Per la sua natura ambivalente, infatti, il corpo è una riserva infinita di segni, entro cui lo stesso sapere psicologico, che ha individuato nella psyche lo specifico dell'uomo, diventa a sua volta un segno, una modalità di ricognizione che non può pretendere di dire qual è il senso ultimo del corpo. Qui il corpo si cela non perché nasconde se stesso, ma perché in esso i segni sovrabbondano sulle capacità che il sapere psicologico ha di ordinarli. Il volume di senso indotto dai segni del copro prevale infatti sulla costituzione dei significati istituiti dalla rappresentazione che il sapere psicologico s'è fatto. Si tratta allora di demolire la semplicità della rappresentazione psicologica dissolvendola nella pluralità di senso che la sovrabbondanza dei segni produce. Se ciò non accade, se la psicologia non si pensa contro la rappresentazione che si è data a partire da quell'alba greca in cui ha preso avvio l'autonomizzazione della psyche, la psicologia non giungerà mai alla comprensione dell'espressività originaria del corpo, ma sarà costretta ad errare, perché ignora l'errore che è alla base della sua fondazione epistemica, della sua nascita come scienza. Si tratta di un errore che non investe solo il sapere psicologico ma ogni sapere razionale quando, sottraendosi alla polisemia della realtà corporea, si afferma come asserzione incontrovertibile su di essa. In questo passaggio dalla verità come ambivalenza alla verità come decisione del vero sul falso, il sapere razionale dimentica di essere una procedura interpretativa tra le molte possibili per porsi come assoluto principio, dimentica di essere un inganno necessario per dirimere l'enigma dell'ambivalenza, e in questa dimenticanza diviene un inganno perverso. Contro questo inganno il corpo rimette in giuoco la sua natura polisemica rifiutandosi di offrirsi all'economia politica esclusivamente come forza-lavoro, all'economia libidica esclusivamente come fonte di piacere, all'economia medica come organismo da sanare, all'economia religiosa come carne da redimere, all'economia dei segni come supporto di significazioni. In questo rifiuto il corpo sottrae a tutti i saperi il loro referente, e alle economie, che su queste codificazioni hanno accumulato il loro valore, sottrae il loro senso. Ciò è possibile perché, nonostante le iscrizioni, nel loro immaginario, abbiano cercato di dividere il corpo in quei settori in cui era possibile ricondurlo all'equivalente generale in cui si esprime di volta in volta l'economia di un sapere, il corpo è ambivalente, è cioè una cosa, ma anche l'altra, per cui: o la decisione del sapere sulla divisione del corpo, o l'ambivalenza del corpo sulla frammentazione dei saperi, con conseguente dissolvimento del loro valore accumulato. Per sfuggire a questa alternativa, che è inevitabile dal momento che ogni sapere è un'assunzione di prospettiva, quindi una selezionedella visione che diviene condizione preventiva per la delimitazione del vero e del falso, occorre riguadagnare il terreno su cui il sapere occidentale è cresciuto. Questa consapevole riappropriazione non è una regressione, non è l'abbandono del solido terreno del sapere, al contrario, è la ricostruzione genealogica del suo significato. Riproporre l'ambivalenza del corpo non significa quindi rifiutare il sapere razionale, né tanto meno accettarne la resa, ma significa andare alle radici di questo sapere e scoprirlo per ciò che esso è: nulla di più che un tentativo per far fronte all'ambivalenza della realtà corporea che, così riscoperta, è ciò che dà ragionedelle molteplici ragioni. Queste ragioni che i saperi tendono a soddisfare non possono più proporsi con assoluta verità, perché ormai si è scoperto che la verità non è nella lotta tra l'asserzione vera e quella falsa, ma l'apertura nell'universo del senso che l'ambivalenza della realtà corporea custodisce come luogo da cui partono tutte le decisioni scientifiche. Si tratta di un senso che sta prima di ogni significato, e che nessun significato promosso dalla decisione scientifica può abolire, perché è prima di ogni inizio e continua oltre ogni conclusione. Ne consegue che alla metafisica dell'equivalenza produttrice di quei significati con cui in Occidente si sono fatti circolare i corpi secondo quel preciso registro di iscrizioni che di volta in volta li de-terminavano, e sulle cui determinazioni sino nati i vari campi del sapere, il corpo sostituisce il gioco dell'ambivalenza, ossia di quell'apertura di senso che, venendo prima della decisione dei significati, li può mettere tutti in gioco col corredo delle loro iscrizioni in quell'operazione simbolica in cui il sapere perde la sua presa, perché la delimitazione dei campi in cui da sempre si è esercitato si è simbolicamente con-fusa. Questa è la sfida del corpo, una sfida che è già iniziata se c'è da dar credito a quella «crisi delle scienze europee» denunciata da Husserl. Niente di più benefico. Sono i primi effetti di quella violenza simbolica rispetto a cui quella razionalistica è in ritardo di una generazione, perché ancora crede in una controparte, e quindi non sa che ogni parte e ogni controparte altro non sono che l'effetto di quell'operazione disgiuntiva che ogni ragione mette in atto per affermare il proprio sapere. Ma quando la realtà immaginaria, prodotta dalle opposizioni polari in cui si articola ogni sapere razionale, non riesce più a farsi passare per realtà vera, in quel gioco di specchi che si frantumano a contatto con la polisemia della realtà corporea, allora si è più vicini all'ambivalenza, non per una contrapposizione dialettica o per un'opposizione organizzata, ma perché là dove tutte le maschere sono cadute, compresa quella della bivalenza codificata, ogni termine che ruota su se stesso si s-termina. Questo è l'esito simbolico che attende l'ordine strutturale di ogni sapere. E già se ne vedono le tracce. Seguendole, il corpo consegna ogni ontologia e ogni deontologia alla geo-grafia, alla grafia della terra, la più dicente, la più descrittiva, quella che non accorda privilegi metafisici, perché non conosce la mono-tonia del discorso, ma l'ambi-valena della cosa. Fra tutte le numerose pubblicazioni di Galimberti, questa è, forse, quella che maggiormente gli ha dato visibilità e lo ha designato quale uno dei più popolari maitres-à-penser della filosofia italiana contemporanea. È anche un'opera caratteristica, perché in essa Galimberti, curatore di rubriche di psicologia su svariate riviste illustrate, si fa campione di una rivolta della psicologia contro se stessa e cerca di scalzarne le basi storiche e ideologiche, in nome di un «pensarsi fino in fondo» che equivarrebbe, nelle intenzioni dell'autore, a un completo rovesciamento della sua prospettiva e delle sue stesse finalità. Il punto da cui muove Galimberti per sferrare il suo attacco alla psicologia è che quest'ultima, «la più occidentale delle scienze, e quindi la più metafisica», è nata sull'idea della separazione di corpo e psyche che, partendo da Platone, percorre come un filo rosso tutta la storia del pensiero occidentale. Secondo l'Autore, la specificità dell'uomo è stata sottratta all'ambivalenza delle sue espressioni corporee in nome dell'unità ideale, quella - appunto - della psyche, divenuta l'elemento fondamentale della sua identità. Ma il corpo, per Galimberti, è portatore di un messaggio ambivalente (non equivoco, ci tiene a precisare), secondo il quale mostra di essere questo, ma anche quello. Egli non si prende il disturbo di precisare meglio questi concetti, considerandoli - evidentemente - di per sé chiari. Afferma invece che l'ambivalenza suggerita dal corpo realizza una «apertura di senso» (bella espressione, ma altrettanto vaga del «questo» e «quello»), grazie alla quale la ragione ha la possibilità di fissare l'opposizione dei suoi significati, ossia l'aborrita «antitesi dei valori», che ha l'imperdonabile impudenza di voler distinguere il vero dal falso, il bello dal brutto, il buono dal cattivo. Tale antitesi dei valori è, per Galimberti, la somma di tutti i vizi della filosofia; riprendendo il concetto da Nietzsche, egli la ritiene responsabile della lacerazione e della schizofrenia del pensiero occidentale, del quale traccia una veloce panoramica per mostrare - con accenti severiniani - che esso è stato un lungo, deplorevole errore, in quanto basato sulla metafisica e, quindi, sul dualismo. E il dualismo, si capisce, è un male, perché crea arbitrariamente un al di là, dal quale poter meglio calunniare l'al di qua; ovvero, per dirla in termini più razionali, perché si basa su una logica disgiuntiva che sa, vagamente, di sulfureo (d?a-ß???e??, la separazione, etimologicamente fonda il nome del Diavolo, «colui» che separa). Questo, dunque, è un punto centrale della argomentazione di Galimberti: il pensiero che separa è malvagio ed erroneo; dunque, tutto il pensiero dell'Occidente, essendo dominato dall'idealismo e dalla metafisica, è un pensiero erroneo e foriero di tristi conseguenze. La ricetta per uscire da questo vicolo cieco non è, come si potrebbe pensare, la logica unitiva, bensì il pensiero dell'ambiguità, dove le cose sono queste e anche quelle, allo stesso tempo; ossia, dove rinviano a una polisemia che può essere interpretata, volta a volta, in un senso come nell'altro. Anche la psicoanalisi è una scienza metafisica, anzi, la più metafisica di tutte, perché reintroduce, attraverso la contrapposizione di conscio e inconscio, la lacerazione platonica e cristiana tra anima e corpo, tra spirito e materia; e fornisce una immagine distorta dell'uomo. È a partire da questo punto che il ragionamento di Galimberti si fa propriamente filosofico, oltrepassando il campo ristretto della psicologia. Invece di accettare l'ambivalenza del corpo, la logica disgiuntiva (dell'economia, della medicina, della religione e della psicanalisi) instaura la sua «bivalenza», dove il positivo e il negativo si rispecchiano in un gioco di riflessi che rimanda sempre a una rigida contrapposizione, a una polarità di «interpretazioni della realtà». Ma perché interpretazioni? Perché, per Galimberti, non esistono il positivo e il negativo, bensì la valutazione positiva e la valutazione negativa di fatti e situazioni che potrebbero essere anche i medesimi, guardati però da differenti punti di vista. Eccoci arrivati, dunque, nel castello del mago Atlante, dove le cose non sono quelle che sono, ma quelle che vorremmo (o che temiamo) che esse siano. Come in un labirinto di specchi, a metà fra Borgés e Pirandello, noi nulla sappiamo delle cose che vediamo e con le quali ci confrontiamo, bensì emettiamo giudizi di valore che ce le fanno percepire in un modo piuttosto che in un altro. Rashomon di Kurosawa o Sei personaggi in cerca d'autore: sia come sia, la negatività è un giudizio di valore; e il corpo, da Platone in poi, è il negativo: dunque, la negatività del corpo è frutto di un giudizio di valore. Anche se sostiene di non indulgere a una modalità di pensiero irrazionalistica, Galimberti sostiene che ogni ragione si serve di una logica disgiuntiva allo scopo di affermare se stessa, ossia il proprio sapere. Così, la psicologia afferma la separazione della psyche dal corpo, per poter affermare il proprio sapere su di essa; esattamente come l'economia politica afferma la separazione della forza-lavoro dalla totalità della persona, per poter affermare il suo controllo sulla prima (e a danno della seconda). Senonché, le opposizioni su cui si articola ogni sapere razionale sono, in realtà, «immaginarie»: non attengono alla dimensione della realtà, ma a quella dell'alienazione dalla realtà. Ci si potrebbe chiedere in che cosa questa realtà ulteriore, questa realtà vera che sta dietro la facciata della realtà (immaginaria), sia più reale di quella; su che cosa fondi la sua pretesa di non essere vittima dell'alienazione metafisica; in base a quali criteri la si possa considerare più concreta, più effettuale della deprecata «antitesi dei valori». Galimberti non affronta esplicitamente la questione, ma sembra intuire la possibile critica e anticipa eventuali obiezioni affermando che, quando il pensiero è capace di accettare l'ambivalenza (e non la bi-valenza, che è tutt'altro) delle cose, allora cadono tutte le maschere e si è più vicini alla loro realtà. O meglio, egli non adopera l'imbarazzante espressione «realtà»; glorifica l'ambivalenza in se stessa, come concetto del tutto auto-evidente; gli basta impedire che il pensiero duale, oppositivo, bivalente, non riesca a farsi passare per la «realtà vera». Ma questa «realtà vera», in ultima analisi, esiste o non esiste? Galimberti non risponde, l'abbiamo già detto; si limita ad osservare, con ironia un po' pesante, che coloro i quali si attardano nel pensiero oppositivo - che, dice, è di per sé violento - non sanno di essere in ritardo rispetto alle lancette della storia: perché credono ancora in una controparte, e non sanno che «ogni parte e ogni controparte altro non sono che l'effetto di quell'operazione disgiuntiva che ogni ragione mette in atto per affermare il proprio sapere». Vi sono echi minacciosi in questa affermazione (il trotzkiano «cestino della spazzatura della storia» ove precipitano i non rivoluzionari, in tempi di rivoluzione), ma anche un po' patetici (l'ultimo soldato giapponese che continua a combattere nella giungla per una guerra che è vane questioni, senza rendersi conto di appartenere a una razza che si è estinta. Si tratta di una posizione quanto mai radicale, poiché equivale alla condanna senza appello di tutta la filosofia occidentale, da Platone in poi; anzi di ogni sapere, «dal momento che ogni sapere è un'assunzione di prospettiva, quindi una selezionedella visione che diviene condizione preventiva per la delimitazione del vero e del falso». Ma il vero e il falso, in se stessi, non esistono; così come non esistono le verità di principio, ma solo le verità di fatto. Non esistono verità, dunque non esistono saperi che possano presentarsi come portatori di verità: i saperi sono sempre strumentali, parziali, relativi. È incredibile: siamo in piena sofistica, che Socrate aveva già brillantemente confutato circa ventitré secoli fa; ma Galimberti ci presenta le sue conclusioni come se fossero qualcosa di staordinariamente nuovo, riconoscendosi - casomai - un continuatore radicale dell'opera di Nietzsche. «Queste ragioni che i saperi tendono a soddisfare - afferma Galimberti con la massima disinvoltura -non possono più proporsi con assoluta verità, perché ormai si è scoperto che la verità non è nella lotta tra l'asserzione vera e quella falsa, ma l'apertura nell'universo del senso che l'ambivalenza della realtà corporea custodisce come luogo da cui partono tutte le decisioni scientifiche». E aggiunge che «si tratta di un senso che sta prima di ogni significato»; ma, di novo, non ci spiega in che modo egli arguisca l'esistenza di questo «senso originario», dato che tutti i sensi che noi diamo alle cose forzano la loro vera essenza. Arrivati a questo punto, possiamo fare alcune osservazioni conclusive. Punto primo: che il pensiero idealistico sia stato tutto un lungo errore, forse bisognava sforzarsi di dimostrarlo e non darlo per scontato al principio di un libro interamente dedicato alla discussione degli effetti negativi di un tale errore. Punto secondo: che non esista alcun criterio di verità, è posizione filosoficamente rozza e semplicistica. Altro è affermare che la verità è difficilmente accessibile, altro è affermare che ogni verità è una forma di violenza che i «saperi» cercano di imporre per fondare se stessi. La filosofia è frutto di sottili distinzioni, di una particolare sensibilità per le sfumature; ma qui, sulla scorta di Nietzsche, si fa filosofia veramente a colpi di martello (e non è un complimento). Punto terzo: che il corpo sia il luogo privilegiato in cui la realtà ci svela il suo volto ambivalente, aiutandoci a liberarci dalle pastoie alienanti del pensiero disgiuntivo, è - ancora una volta - posto ma non discusso, e tanto meno dimostrato. Eppure è fin troppo facile osservare che, se l'introduzione della psyche ha relegato il corpo al ruolo di «negativo», l'esaltazione del corpo che fa Galimberti sembra ribaltare la prospettiva, senza modificarla «alle radici» (come egli sostiene di voler fare). Ossia, a questo punto è la psyche che rischia di diventare il negativo o, quanto meno, il luogo dell'errore, dell'illusione, della disgiunzione. Ma sarebbe perfettamente inutile muovere una simile obiezione a Galimberti: egli vi risponderebbe, come ha fatto in più occasioni, che la psyche non è altro dal corpo, che è corpo anch'essa, perché tutto è corpo. La sua intera filosofia non è che una assolutizzazione della corporeità; e, pur di sostenere questa tesi, egli arriva a sostenere, senza batter ciglio, che l'anima è una «invenzione» dei cristiani, avvenuta nel IV secolo dopo Cristo (cfr. il nostro precedente articolo Umberto gGlimberti e la morale del cristianesimo, sempre sul sito di Arianna Editrice). Ma davvero basta dire che tutto è corpo, per eliminare l'antitesi dei valori e restaurare l'età dell'oro del pensiero (del pensiero?) ambivalente, dove le cose sono finalmente se stesse e non quello che noi giudichiamo che esse siano? Ora, è verissimo che la vita, nel suo livello immediato e quotidiano, procede per giudizi di valore che sono spesso affrettati, imprecisi, immotivati e, soprattutto, soggettivi. Da ciò, tuttavia, non discende che il rimedio consista nel proclamare la relatività di tutti i valori e l'inesistenza di ogni criterio di verità. Questo sarebbe quel che si dice curare il mal di testa con le decapitazioni. Esistono altri livelli di esistenza - non solo di tipo razionale, su questo siamo d'accordo con Galimberti -, ai quali è possibile accedere, e nei quali si può intravedere, pur senza possederlo interamente, un criterio di verità capace di sottrarre le cose al gioco degli specchi della loro incessante mutevolezza. Se non credessimo a questo, dovremmo non solo sospendere ogni giudizio di valore, ma rinunciare a ogni possibilità di avvicinarci al vero, al bello e al buono; in altre parole, dovremmo ritirare un rigo su ogni possibilità di fare non solo psicologia, ma anche filosofia. Queste, e non altre, sono le conclusioni coerenti del ragionamento di Galimberti: per cui, ad essere rigoroso, egli dovrebbe dichiarare non la riforma della psicologia, ma la sua soppressione radicale; e, quanto alla filosofia, la sua estinzione irreversibile. Come è possibile continuare a ragionare in termini filosofici, se dobbiamo prendere atto che non esistono controparti, ma solo ambivalenze che è possibile tirare ora in qua e ora in là, secondo il nostro umore del momento? Si badi: quello che propone Galimberti non è un pensiero complementare, come lo è - ad esempio - il taoismo, il quale, giustamente, ci ricorda che non esiste luce senza buio, caldo senza freddo, gioia senza dolore. No, si tratta qui di un relativismo puro e semplice: io dico che questa cosa è calda, tu dice che è fredda; forse lo dirò anch'io, domani, se me ne verrà la voglia; per intanto, abbiamo ragione tutti e due. Io ho la mia verità, tu la tua; e sappiamo che entrambe sono vere, o che entrambe possono esserlo, o che entrambe lo sono state o lo saranno. Il relativismo è una cattiva filosofia, anzi è l'impossibilità di fare filosofia. Eppure, questi sono gli applauditissimi maitres-à-penser della cultura odierna.
Sunday, March 27, 2022
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