Antonio Genovesi 1 2 non è uno di quei filosofi, che fanno compiere un passo innanzi al pensiero filosofico. A paragone del grande Giambattista Vico, che si gloria di aver avuto maestro e la cui Scienza Nuova cita nelle sue opere con profondo rispetto : , il Genovesi apparisce come uno di quei mille ammiratori, più o meno sinceri, che il Vico ebbe tra i suoi contemporanei e tra gli uomini più illuminati delle generazioni successive; i quali ebbero un certo sentore di alcune teorie di lui, concordanti o no con dottrine congeneri di altri pensatori e da annoverare tra le parti accessorie del suo sistema, ma pei quali i problemi originali posti e risoluti dal Vico, si può dire, non ebbero senso. Se pertanto nella storia del pensiero il Vico rappresenta quello che egli rappresenta a’ nostri occhi di storici che han penetrato il significato di quei problemi, il Genovesi dopo di lui è un arresto o una de¬ viazione. Quella vena speculativa altissima nello scolaro 1 Discorso tenuto al Teatro Verdi di Salerno, il 17 gennaio 1932, ì n occasione del monumento inaugurato lo stesso giorno a Castiglione del Genovesi. 2 « L’illustre Giambattista Vico, uno de’ fu miei maestri, uomo d’immortai fama per la sua Scienza Nuova » (Lez. di Comm., Napoli, 1783, IX, p. 12; parte II, c. I, § 5); «Il nostro Vico nella Scienza Nuova, libro maraviglioso e uno dei pochi che in queste ma¬ terie [su Omero] facciano onore all’ Italia » (Logica e Metafisica, Mi¬ lano, Classici italiani, 1835, p. 208. Cfr. ivi, p. 331). 72 ALBORI DELLA NUOVA ITALIA è inaridita. Il pensiero ha cambiato strada, abbandonando gli ardui argomenti con cui s’era cimentato. Ma il paragone col Vico storicamente non è giusto. I due pensatori in verità appartengono a due piani storici, da uno dei quali non si passa all’altro direttamente. Se il Genovesi non ebbe occhi per vedere i problemi del Vico, neanche il Vico, dalla parte sua, ebbe occhi per vedere quelli del Genovesi. Uomini di tempra diversa, con diversi interessi spirituali, si può dire che il maestro abbia pensato sempre al cielo, e lo scolaro alla terra. L’uno non si guarda mai attorno se non come uomo privato, che, quando dai pensieri ordinari si rivolge alla sua scienza e alle cure più nobili del suo intelletto, vi si assorbe tutto, estraniandosi affatto dai pensieri, dalle gioie e dai dolori della vita quotidiana. Dove non sono in verità gli attori del dramma che egli ama studiare e nel cui studio concentra infatti le energie più potenti della sua intelligenza. Passa perciò tra i suoi e tra i coe¬ tanei come l’uomo astratto, il filosofo, l’uomo che non è di questo mondo. Quantunque il suo animo, propria¬ mente, sia a questo mondo legato così strettamente come nessun altro mai, e di questo mondo, scrutato con sguardo penetrante fino al profondo, aspiri appassionatamente a intendere il significato, e in questo mondo appunto agogni con titanico sforzo a conquistarsi razionalmente, col pensiero, un suo posto. Ma questo mondo egli vuol vederlo sub specie aeterni, come mondo che è sempre lo stesso, in ogni luogo e tempo; e che assume bensì aspetti sempre diversi, ma per l’interna virtù che lo muove con immutabile legge. L’altro invece è tutto occhi pel mondo che si agita intorno a lui, nella scuola e fuori della scuola; nelle città e nelle campagne; nello Stato e nella Chiesa; a Napoli, per tutta Italia, e di là dalle Alpi. L’istruzione del popolo e l’educazione dei giovani; l’agricoltura e il com- ANTONIO GENOVESI 73 mercio; l’economia del Regno, e i problemi della feudalità e della manomorta; il problema della moltitudine degli ecclesiastici eccessiva in rapporto alla popolazione; e poi la questione giurisdizionale e l’ardente lotta anticuria- lista in difesa dei diritti dello Stato; e via via tutte le questioni che erano all’ordine del giorno nella Napoli del tempo, o che uno spirito alacre ricavava da quelle a cui la pubblica opinione s’interessava. E poiché i paesi allora alla testa della cultura europea erano insieme Inghilterra e Francia, e i libri che si pubblicavano in quelle lingue i più letti, celebrati e discussi, ecco quelle lingue, insieme con le classiche, a cui il Vico si era limitato, studiate e possedute con animo pronto a seguire il movi¬ mento della letteratura straniera in ogni campo di ri¬ cerche filosofiche e sociali. Allargato quindi enormemente l’orizzonte. Non più quel carattere antiquato e accade¬ mico della scienza tradizionale, nel cui cerchio si muove ancora il Vico, modernissimo per la sostanza de’ suoi problemi, arcaico per la forma (lingua ed erudizione) E la modernità segna la fine di quel chiuso provincia¬ lismo, onde lo scrittore napoletano si era sentito sempre cittadino di Napoli. Genovesi guarda più in là del Garigliano e del Tronto. Egli si sente italiano; e come italiano, partecipe dell’unica società europea della cultura. Italiano e moderno, si lascia alle spalle il vecchio mondo tradizionale dell’accademia fratesca e teologizzante e dell’angusta provincia, e respira largo, apre le finestre della scuola della letteratura e del pensiero, e vive nel tempo suo e si sforza d’interessare gli uomini, tutti, al sapere e al lavoro dell’ intelligenza. Siamo, come dicevo, in un piano diverso da quello della pura filosofia. Qui si può dire che la filosofia ri- nunzii alla sua propria forma, e quasi si annulli per risorgere in forma più adeguata alle sue esigenze più profonde. Ciò che è tante volte avvenuto nella storia; 6 - Gentile, Albori. I. 74 ALBORI DELLA NUOVA ITALIA e avviene continuamente nella vita. Il pensiero sale, sale, si purifica, si libera dal rappresentare fantastico e cor¬ pulento, e si libra da ultimo in un’astrazione diafana, per ridiscendere tosto al concreto della realtà che con quell’astrazione ha cercato di definire e più perfetta¬ mente possedere: alla realtà che è corpo e fantasma, e passione e sentire, e quell’oscuro misterioso impeto dell’essere che tende a realizzarsi, scaturigine ascosa di ogni esistenza e di ogni luce. Il progresso è pur sempre in certo modo regresso; e se si volesse andare avanti, avanti sempre, si finirebbe col precipitare nel vuoto. Bisogna a volta a volta rifarsi da capo. Bisogna toccare la terra per rialzarsi. Toccare la terra, s’intende, come l’Anteo della favola, da gigante che ha già la forza per rialzarsi: che ha, in altri termini, un certo grado di co¬ scienza filosofica. 2. — Vogliamo sentire dallo stesso Genovesi qual fosse il suo ideale di cultura ? Basta leggere un suo Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, che nel 1753 pubblicò innanzi a un Ragionamento sopra i mezzi più necessari per far rifiorire Vagricoltura dell’abate Montelatici, quasi per giustificare la nuova via per cui egli si metteva, dopo aver anche lui pubblicato i suoi libri di Logica, di Me¬ tafisica e di Teologia in lingua latina. In questi stessi libri, per altro non è difficile scorgere le tendenze innova¬ trici del Genovesi e il carattere dominante del suo pen¬ siero filosofico, del quale ci proveremo qui appresso a dare un sommario cenno ; ma ancora non è avvenuta la radicale conversione per cui la mente dello scrittore, dopo che ebbe trovato negli studi economici e sociali una ma¬ teria più adatta al suo genio, raggiunse la sua forma storica, e ritrovò propriamente se stesso. In questo Discorso il Genovesi propugna una sorta di filosofia « reale », com’egli dice, e cioè pratica ed appli- ANTONIO GENOVESI 75 cativa: come dire una filosofia non propriamente specu¬ lativa e filosofica; e prende a partito tutti i più celebrati filosofi della tradizione e le loro dottrine. Esalta bensì la ragione come quella che << più di tutte le nostre doti ci rassomiglia a Dio », « la sola cosa, per cui l’uomo si solleva sopra tutto ciò ch’è in terra»: la ragione, «arte universale » governatrice di tutte le arti e strumenti onde l’uman genere arricchisce la vita e viene ogni dì perfe¬ zionando il sistema dei mezzi diretti ad accrescerne il benessere. Ma ne addita nelle astratte speculazioni e schernisce i deviamenti già nell’antichità derivati appunto dall’abuso che l’uomo fa della ragione in questioni oziose, sottili, astruse e atte nondimeno a suscitare la stima e l’ammirazione dei semplici e a procacciare una riputazione fallace. « Poiché gli uomini quanto son più semplici, tanto so¬ gliono più stimare quel che meno intendono, i dialettici ed i metafisici. I don Chisciotti della repubblica delle lettere, combattenti con gli indistruttibili giganti delle chimere, per la gloria vanissima di sottilissimo ingegno, loro Dulcinea del Toboso, salirono in alta stima, ed usur¬ parono il premio doTTito al vero sapere; ciò che fu l’esca fatale, che riempì ne’ vecchi tempi d’indiscreti sofisti la Grecia, e ne’ secoli assai più vicini buona parte del- 1 ’ Europa ». Eppure, la prima e più antica filosofia era stata una « filosofia tutta cose ». I più antichi filosofi erano stati i legislatori, i padri, i sacerdoti delle nazioni, studiosi di etica, economica, politica; persuasi anch’essi, al pari di tutti i buoni cittadini, che, « come partecipavano a’ comodi della società, così dovevano aver parte alle cure e alle fatiche » pel bene pubblico e domestico. Vennero dopo i tempi di corruzione, in cui prevalse la massima che l’ozio fosse un nobile e onorato mestiere. E quindi la genia infi¬ nita di coloro che sono «peste del vero sapere e della 76 ALBORI DELLA NUOVA ITALIA virtù»; «i quali si credettero nati o per garrire inutil¬ mente, o per disputare di cose inintelligibili, o per met¬ tere empiamente in ridicolo le sante ed utili cognizioni, le leggi ed i precetti della giustizia e dell’onestà ». Ven¬ nero i grammatici (oggi diremmo i critici) « interpreti de’ sogni dei poeti, o mercanti de’ propri»; vennero i metafisici, «Penelopi della filosofia, implicati in disciorre quelle tele, che eransi tessute colle loro mani » ; verniero i dialettici, che « tendevano indissolubili lacciuoli alla ragione istessa per cui andavan fastosi, e come seppie gittavan del negro, sotto cui il vero e il falso prendesse un sol volto ». Socrate, — il gran Socrate, di cui fu detto che richiamò la filosofia dal cielo in terra e a cui infatti gli uomini devono di sapere che tutto quello che si vuole intendere essi non lo possono cercare se non nel pensiero, cioè in se medesimi, — dal Genovesi non è ricordato qui se non come colui che insegnò la più ricca e la più bella possessione dell’uomo essere l’ozio. Dei suoi scolari non gli giova menzionare altri che Aristippo e Diogene il Cinico, corruttori del costume. Di Pitagora a scherno ricorda la monade e il binario; e l’uno di Parmenide; e l’omeomeria di Anassagora, e le astratte forme di Platone e le entelechie di Aristotele; ed altre cosiffatte «bambole di ragione » degli altri più celebrati filosofi. Che dire poi della filosofia medievale ? Non si può leggerne la storia « senza aver pietà della debolezza del- l’ingegno umano ». Poveri scolastici ! «Vestono corazze di carta, che stimano del più fino metallo; e combattono con i mulini a vento, come con i Giganti distruttori del- l’uman genere. Un estro ignoto gli rapisce fuor del nostro mondo. Sembra che sieno i maestri di ogni altra cosa, fuor che di ciò che ci appartiene o c’ interessa ». In questa caricatura della storia della filosofia super¬ fluo avvertire lo strazio che il Genovesi fa delle più im¬ portanti dottrine dei maggiori pensatori. Voglio solo rife- ANTONIO GENOVESI 77 rire in proposito un altro periodo, tipico documento degli stravolgimenti storici di questa invettiva, e insieme dello spirito che la moveva:«La materia prima, che Aristotele fantasticò, animata dal fuoco dagli Arabi, fu di sì vivi e vaghi colori arricchita in mano di Abelardo, e di alcuni altri, che divenne una Divinità, la quale poi il più empio e il più freddo de’ filosofi del passato secolo, si studiò di adornare con un sistema geometrico ». Allu¬ sione a Spinoza, che pure Genovesi aveva studiato con grande interesse ’. « Alle quali cose quante volte io penso », conchiude il nostro filosofo, « forte mi meraviglio, come gli agricoltori, i pastori e tutti gli altri coltivatori delle arti per cui l'uman genere si sostiene, abbian potuto tollerare in pace una razza di uomini, i quali, lungi di dar loro il menomo ri¬ schiaramento e aiuto nel tempo medesimo che de’ frutti della loro industria godevano, pare che si ridessero delle loro fatighe, o che gli riguardassero come animali di altra specie, fatti da Dio in forma umana per servire a’ loro piaceri ». Lode a Bacone, che proclamò la necessità di ristaura- zione dalle fondamenta tutto il sapere, e dimostrò che « si poteva essere filosofo con assai gloria, senza essere peso inutile agli altri uomini ». Lo studio della natura, l’esperienza, « gran maestra delle utili cognizioni », la geometria « nutrice di tutte le arti » vennero in grande onore. L’ Europa cambiò faccia. Ogni nazione ebbe il suo Ercole, uccisore dei mostri che la infestavano. L'Italia ebbe Galileo. Napoli, sì, rimase lungo tempo chiusa a questa nuova scienza, forse perché con maggior vigore questa potesse irrompervi a rendere più glorioso il rin- 1 Cfr. la sua lettera dell' u sett. 1756 a R. Sterlich; dove racconta come potè studiare, quando aveva 28 anni, 1 ’Etica di Spinoza: Leti, fam., ed. Napoli, 1788, I, 124. 78 ALBORI DELLA NUOVA ITALIA novamento che il Regno, ristaurato dal primo dei Bor¬ boni, doveva promuovere. Genovesi ha qui un concetto che rammenta l’hegeliano spirito del mondo. « Egli è veramente un certo Genio, che discorre per le nazioni, e che in dati intervalli le anima, e le raccende, quello che o primamente mena, o estinte ravviva le lettere e le belle arti ». Ma questo Genio, secondo il Genovesi, « vuol essere sempre accarezzato, sollecitato e alimen¬ tato. Può dirsi che la curiosità, la più utile molla del- l’animo umano, il dischiuda dal suo guscio, la gloria l’animi e gli dia della grandezza, l’emulazione l’aguzzi e ’l rinforzi: ma certamente il premio il sostiene e l’ali¬ menta ». Insomma, il rinnovamento del pensiero richie¬ deva a Napoli le più propizie condizioni create dalla nuova vita impressa allo Stato dal nuovo Regno. Grande infatti il progresso già avvenuto in Napoli, delle arti, delle scienze, della ragione che le alimenta. Ma « un certo lezzo dell’antica barbarie » (prisci vestigia ruris) è rimasto tuttavia attaccato agli scrittori. La ragione non è pervenuta ancora alla sua maturità: è ancora tutta nell’ intelletto, e deve passare nel cuore e nelle mani. È bella, non è operatrice; adorna, non utile. Bisogna che diventi pratica e realtà; come può solamente quando « tutta si è così diffusa nel costume e nelle arti, che noi l’adoperiamo come sovrana regola, quasi senza accorgercene » : come accade alle bestie, in cui « la cogni¬ zione è tutta uso, perché è l’arte di Dio lavorante su la materia, ed in Dio non ci sono Enti di ragione»: cioè le astrattezze che si annidano nel cervello dei filosofi. I dotti napoletani hanno bensì coltivato lo studio delle leggi; ma vi hanno portato le argutezze dei dialettici: questioni sottili, speciose, aliene dalla pratica e dalla vita. Tutta una forma di sapere, in cui, insomma, secondo il Genovesi, c’è forza bensì e intelligenza; ma non c’è cuore; e c’è cattivo gusto. Manca, diremmo oggi, il senso scien- ANTONIO GENOVESI 79 tifico; e gl'ingegni si credono più grandi quando sono ammirati come incomprensibili, che quando stimati come utili. La pratica dell' insegnamento (insegnava già egli da sedici anni) aveva dimostrato al Genovesi che Napoli era un semenzaio di nobili e glandi ingegni ; ma i migliori ingoiavano avidamente la nuova filosofia prima di di¬ gerir la vecchia. Avvezzi alle sottigliezze vane e alla « ciarleria », troppo ancora se ne compiacevano per fare il debito onore alle scienze sode, feconde, che avevano già trasformato la cultura inglese, francese, olandese. Sacrifichiamo dunque « una volta la seduttrice e vana gloria dell’astratta speculazione al giusto desiderio della parte più grande degli uomini, i quali ci vogliono men contemplanti e più attivi. Dio ha fatto a tutti il divin dono della ragione perché intendiamo, che il vero sapere non è di sì gelosa natura che voglia essere di pochi ». Esso deve giungere al popolo. Il quale ha bisogno di essere illu¬ minato, e non seguito nella sua naturale ritrosia alle novità, ancorché utili, e nel suo attaccamento tenace alla tradizione. Deve essere indotto a profittare delle osservazioni e delle invenzioni dei dotti. Deve essere in¬ gentilito, rianimato, spronato ad elevarsi. E si deve quindi operare su di esso non con le leggi che non cambiano gli uomini, sì con la « savia educazione e coltura di questa sì preziosa derrata dell'uomo, da che egli comincia a sbucciare dal suo guscio ». Curare l'educazione. È uno degli articoli principali dell’apostolato del Genovesi 1 ; poiché i contemporanei, a suo giudizio, curavano più i « testi di fiori » e le piante 1 Sulla educazione e istruzione popolare vedi Lez. di Comm., parte I, cc. VI e Vili; e Logica, ed. cit., pp. 271-72. Senza educazione «oltre¬ ché non è possibile, che la popolazione si aumenti.... ma, pure dove avviene che cresca, la repubblica si potrà ben dire aumentata di semi¬ uomini, ma non di forze» (Lez. di Comm., t. I. p. 121). 8 o ALBORI DELLA NUOVA ITALIA peregrine che avevano per avventura ne’ loro giardini, che non i figli. E raccomandava la massima diligenza nella scelta dei maestri, poiché molto, a suo giudizio, mancava per questa parte il Regno di Napoli. Bisogna sentire il ritratto vivo che ce ne ha lasciato: « I maestri di scuola pongono poca cura a studiar l’ur¬ banità e l’aria nobile, piena di verecondia e de’ tratti d’onore: sovente i loro moti, gesti, tuono di voce e tutto il lor volto, che suol esser lo specchio dei ragazzi, spira tutt’altra cosa che gentilezza: la loro lingua è più fre¬ quentemente un gergo corrotto de’ vari dialetti del nostro Regno, che la bella e nobile della pulitissima Italia: final¬ mente, dirò io che il lor costume sia sempre il più puro e il più santo ? Inoltre, quasi tutti si studiano di coltivar assai più la memoria de’ loro allievi che la ragione e il cuore. Un solecismo o barbarismo in lingua latina è da loro più severamente punito, che molti a’ gentiluomini sconvenevoli barbarismi e irragionevolissimi solecismi di ragione e di costume. Si adirano anche spesso, gridano e fanno dei schiamazzi in testa a’ loro allievi; gli battono senza misericordia, e gli trattano più da servi, che da figli: tutte cose più atte a fare o stupidi o villani o zotici e feroci i ragazzi, che ad allevargli nel sapere, nelle virtù, nella nobiltà. Questi medesimi difetti trovansi ben anche spesso ne’ padri o nelle madri di famiglia. Io ho sentito dire a molti di coloro un proverbio, che fa disonore agli esseri ragionevoli : che i fanciulli si curan colle mazze». 3. — Un filosofo che parla questo linguaggio umano, familiare, e che pensa come s’è veduto, dei filosofi e dei loro sistemi, evidentemente non è un filosofo di professione. Sarà un filosofo che avrà qualche cosa da dire più e meglio dei filosofi di professione; ma non potrà facilmente an¬ dare d’accordo con questi. Così poco rispettoso di quelle ANTONIO GENOVESI Si che sono le idee e le maniere per loro più rispettabili e venerande, con così scarso interesse, anzi con tanto fa¬ stidio verso le questioni che formano il nutrimento e il vanto dei loro cervelli, certo potrà, per caso, trovarsi in mezzo ad essi: ma vi starà a disagio, e se ne trarrà fuori, spontaneamente o per necessità, appena se ne presenti l’occasione. L’abate Genovesi, nato nella terra di Castiglione 1 ’ Ognis¬ santi del 1713 *, fu avviato quattordicenne agli studi di filosofia da un suo stretto congiunto, che gli insegnò per due anni filosofia scolastica e per un terzo anno filosofìa cartesiana (filosofìa di moda allora nel Napoletano); quindi, poiché il padre lo volle ecclesiastico, obbligato ad apprendere Canoni e Teologia, e ammesso agli ordini minori nel 1730, promosso suddiacono nel settembre '35. Chiamato questo anno a insegnar rettorica nel seminario di Salerno, vi rimane due anni, studiando per suo conto con gran fervore ; finché nel '37 sarà ordinato prete J'e un’eredità allora conseguita gli consentirà di recarsi l’anno appresso a Napoli, per appagare in quella Università e nella consuetudine degli illustri letterati della metropoli la sua sete ardentissima di sapere. A Napoli frequentò molti corsi; tra gli altri, fino al *41, quello di Giambattista Vico; di cui, ci racconta un anonimo biografo, aveva già da un anno letta la Scienza Nuova : « Il perché corse ad ascoltarlo; a cui avendo dedicato la sua servitù, ebbe l’onore della sua amicizia » 1 2 . Insoddisfatto della filosofìa che s’insegnava, disegnò programmi suoi, e aprì una sua scuola privata; finché nel '41 il Cappellano Maggiore monsignor Galiani, che era l’uomo che poteva intenderlo, gli affidò l’incarico d’insegnare nell’ Università Meta¬ fìsica. Aveva letto Malebranche, Locke, studiato Spinoza 1 Note di A. Cutolo alle Memorie autobiogr. del G., in Ardi. stor. nap., 1924, p. 261. 2 Cutolo, Noie cit., p. 260. 82 ALBORI DELLA NUOVA ITALIA e Leibniz; e dettava agli alunni, come volevano i rego¬ lamenti del tempo, le sue lezioni in latino. Ne nacquero gli Elementi di Metafisica in lingua latina, in cinque tomi; il primo dei quali pubblicato nel '43, pel metodo geometrico con cui la dottrina era esposta (metodo, si sussurrava, caro ai protestanti), per le novità che conteneva, per le con¬ cessioni che faceva al razionalismo, per quello scetticismo moderato che vi dominava, procurò all’autore ire e per¬ secuzioni dei censori ecclesiastici, aprendo una serie di contestazioni teologiche, che alienarono sempre più il suo animo dagli studi che rimanevano in Italia, e sopra¬ tutto nel Mezzogiorno, monopolio quasi esclusivo dei frati. Ma ecco che nel '44 il Galiani gli viene in aiuto pas¬ sandolo dall’ incarico di Metafisica alla cattedra ordinaria di Etica : insegnamento più conforme all’ ingegno del Genovesi, e da lui infatti tenuto per un decennio con grande efficacia per l’eloquenza delle sue lezioni, la mo¬ dernità della dottrina, la ricchezza e praticità delle que¬ stioni trattate. Pure alla Metafìsica nel '45 s’aggiungeva in cinque libri un'Arte logico-critica, anch’essa in latino. E queste opere si ristampavano e si diffondevano in Italia e fuori d’Italia. Nondimeno l’autore nel '65 poteva scrivere a un amico : « La Metafìsica (mia) fatta pei teo¬ logi e frati, non può piacere ai fìsici e ai matematici, come neppure piace a me. E con tutto ciò, la Logica e la Meta¬ fìsica s’insegna in molti collegi di Francia, e in quasi tutte le scuole di Germania» '. Avevano fortuna; poiché questi libri rispondevano al bisogno delle scuole, e nel loro andamento eclettico e largamente informativo ben s’adattavano alla tendenza media degli studiosi non ri¬ solutamente moderni ma neppur ciecamente chiusi nella tradizione, e disposti quindi a conciliare nova et vetera 1 Leti, jam., II, 67. ANTONIO GENOVESI 83 e farsi una filosofia senza compromettersi; ma, come si vede, non finivano di contentare l’autore stesso. Anche i due libri De iure et officiis (1764) eran nati dalla scuola e per la scuola (in usum tironum) ; e del pari altri due brevi compendii latini di Logica ('5 2) e di Metafisica (’68). Ma quando al Genovesi sarà possibile avere una scuola a modo suo, intorno a materie nuove, indirizzate a pub¬ blica utilità, non contemplate nei vecchi quadri, egli non scriverà più latino. Che gioia quando fu istituita per lui, nell’ Università, la cattedra di « Commercio e Economia », fondata dal suo vecchio amico, facoltoso e autorevole, il fiorentino Bartolomeo Intieri, studioso di macchine agricole e di questioni economiche: ingegno pratico alla toscana, avverso a ogni oziosità speculativa ! Allora il Genovesi si sentì davvero maestro, e veramente filosofo. Grande l’attesa nel pubblico per il nuovo insegnamento ; ma potente altresì l’estro del nuovo insegnante e l’im¬ peto e il calore della sua eloquenza. Quando il 5 novembre del ’54 tenne la sua prima lezione, fu un avvenimento nella vita del Genovesi e nella storia non soltanto della cultura napoletana ma della scienza europea. Poiché que¬ sta del Genovesi fu la prima cattedra istituita in Europa di Economia politica: dovuta, s’intende, non al semplice intuito d’un privato ma al movimento degli studi che la situazione economica del Regno di Napoli aveva prodotto. In una lettera dello stesso mese il Genovesi scriveva a un amico 1 : « Nel dì 5 corrente feci il mio discorso pre¬ liminare, 0 sia l'apertura alla nuova Cattedra del Com¬ mercio con uno straordinario concorso, tuttoché io non avessi fatto invito. Parlai un’ora, non solo senza niente aver mandato a memoria, ma senza aver niente scritto di quello che dissi. Con tutto ciò il discorso fu ricevuto con applauso, e subito diffuso per tutta la città. È stata Leu. falli., I, 108. 84 ALBORI DELLA NUOVA ITALIA bella ! Alcuni volevano copiarselo, e io non ho potuto lor dire, che dopo averlo letto n’aveva perduto anche l’originale.... Il giorno seguente cominciai a dettare. Grande fu la meraviglia in sentir dettare italiano ; sicché, essendomene accorto, nello incominciare la spiegazione dovetti cominciare dai pregi della lingua italiana, e urtar di fronte il pregiudizio delle scuole d’Italia.... La scuola è stata sempre piena in guisa che molti non ci hanno trovato luogo ; ma la maggior parte sono uditori di barba, e di vari ceti. Gli scriventi sono circa cento.... Gran moto è nato da queste lezioni nella città, e tutti i ceti domanda¬ vano libri di economia, di commercio, di arti, di agri¬ coltura ; e questo è buon principio ». Da questo corso, che il Genovesi proseguì finché le forze gli bastarono (morì il 23 settembre 1769, ma un anno prima per malattia aveva dovuto lasciare la cat¬ tedra), trassero origine le belle Lezioni di Commercio ossia di Economia civile in due volumi (1766 - 67), che rimar¬ ranno tra le opere classiche della nuova scienza: opera riboccante d’ingegno, di erudizione, di brio e di amore del pubblico interesse, dall’agricoltura alla pubblica istru¬ zione. Ma uscì prima la traduzione della Storia del com¬ mercio della Gran Bretagna di John Cary con un Ragio¬ namento del Commercio in universale e lunghe e impor¬ tanti annotazioni del Genovesi sul commercio del Regno, e altri scritti minori. In questi stessi anni il laborioso scrittore riprese bensì in italiano gli argomenti delle sue opere latine. Sono del '58 le sue Meditazioni filosofiche, che arieggiano quelle di Cartesio; ed ebbero l’ammira¬ zione del Baretti 1 ; e del '59 le Lettere filosofiche ; come 1 Da leggere l'articolo che gli dedicò nel 2 0 numero della Frusta Letteraria (15 ottobre 1763): dove il Baretti giudica il libro con questi termini di alto elogio (ed. Piccioni, Bari, 1932, I, p. 40) : « Fra le tante migliaia e migliaia di libri scritti nella nostra lingua, io non ne conosco assolutamente neppur uno, dopo quelli del Galileo, ANTONIO GENOVESI 35 del '64 le Lettere accademiche. Nel '65 imprese a scrivere in italiano un Corso di filosofia. E volle scriverlo per i giovani (com’egli stesso faceva sapere a un amico) « che son curiosi di sapere se le scienze potessero così parlare italiano come una volta parlarono greco e latino. Il mo¬ tivo che mi muove, è una massima, che può stare che sia falsa, ma 1’ ho nondimeno per vera, cioè che ogni nazione che non ha molti libri di scienze e di arti nella sua lingua è barbara ». Perciò in Francia nell’età di Luigi XIV s’era cominciato a scrivere di filosofia in francese. Perciò aveva seguito l'esempio l’Inghilterra. E altrettanto si cominciava a fare in Germania. Dove non si scrive nella propria lingua, dice il Genovesi, si accenderà magari mi lume grande e brillantissimo, ma questo resterà « nondimeno sepolto in que’ lanternoni da antiquari d’onde non tralucono che pochi tenebrosi raggi » 1. E nelle stesse Lezioni di Commercio inculcava come che sia tanto pregno di pensamento e di vera scienza quanto è questo primo tomo di questo nostro ampio, sublime ed aggiustatissimo pen¬ satore Antonio Genovesi ». Al Baretti non andava lo stile del Genovesi, seguace della scuola toscaneggiante del Di Capua: «Una cosa però disapprovo in lui asso¬ lutamente, e questo è lo stile suo.... perché troppo a studio intralciato e rigirato si, che non poche volte abbuia il pensiero. — Com' è pos¬ sibile, ho detto tra me stesso mille volte leggendo queste sue tanto stimabili meditazioni, — com’è possibile che un uomo il quale è una aquila quando si tratta di pensare, si mostri poi un pollo quando si tratta di esprimere i suoi pensieri ? Come mai un Genovesi ha potuto avvilirsi tanto da seguire i meschini voli terra terra di certi secchi e tisici uccellacci di Toscana ? Eh, Genovesi mio, adopera gli abbin¬ dolati stili del Boccaccio, del Bembo e del Casa quando ti verrà ghi¬ ribizzo di scrivere qualche accademica diceria, qualche cicalata, qualche insulsa tiritera al modo fiorentino antico e moderno; ma quando scrivi le tue sublimi Meditazioni, lascia scorrere velocemente la penna....; e lascia nelle Frammette e negli Asolani e ne’ Galatei, e in altri tali spre¬ gevolissimi libercoli i tuoi tanti conciossiacosacché e i perocché.... e tutte quell’altre cacherie e smorfie di lingua, che tanti nostri muffati gram- maticuzzi vorrebbero tuttavia far credere il non plus ultra dello scri¬ vere ». 1 Cfr. la pref. alla Logica italiana. 86 ALBORI DELLA NUOVA ITALIA « certissimo assioma politico » che una nazione non sarà mai perfettamente culta nelle scienze, nelle arti, nelle maniere, « se non abbia le leggi, le scienze, le scuole e i libri di arti parlanti la propria lingua; perché ella dovrà dipendere da una lingua forestiera; la quale, non essendo intesa che da una picciolissima parte del popolo, tutto il resto sarà fuori della sfera del lume delle lettere.... Le lingue sono come vasi, che contengono le nostre idee e la nostra ragione. Or qual pazzia è pretendere di essere in un paese uomini, e aver la ragione in un altro ? ». 1 * 3 Finché in un paese le scienze saranno in un gergo stra¬ niero alla maggior parte del popolo, avremo sempre, dice il Genovesi -, « molte scuole inutili, molto tempo perduto, molti cervelli stupiditi; e mancheremo delle necessarie, né ha possibile di avere delle buone teste ». Con questo ideale di una scienza che penetri il popolo per svegliarne e metterne in moto tutte le forze morali ed economiche, il Genovesi voleva scuole e quando furono da Napoli espulsi i Gesuiti e riordinata la pubblica istruzione ed egli a tal fine invitato a scrivere un Piano di riforme 3, non dimenticò nelle sue proposte le scuole del popolo —; voleva metodi razionali e semplici perché fossero efficaci gl’ insegnamenti accostati al popolo c ai giovinetti; voleva accademie, che, abbandonando la vec¬ chia letteratura e le discussioni vane della filosofia in¬ feconda, si rivolgessero alle ricerche sperimentali e alle arti più necessarie alla vita; e voleva, come sè visto, libri in italiano, attraenti e di facile lettura. Ma aveva pure il suo ideale di una dottrina che, liberando il popolo dalle superstizioni e dai pregiudizi, e rinvigorendo nelle coscienze i convincimenti morali e la fede religiosa che ne 1 Parte I, c. Vili, § 24. = Op. cit., I, IX, p. 13. 3 Per questo Piano, vedi gli appunti che ne pubblico G. M. ga¬ lanti, Elogio stor. di A. Genovesi, Firenze, 1781, p. 108. ANTONIO GENOVESI 37 è sempre il fondamento, potesse aprire la strada a quel rinnovamento che egli auspicava: potesse infondere negli uomini e nelle nazioni la fede nella ragione, di cui egli era l’apostolo. Tutto il suo sistema riformatore era in¬ somma ispirato a una filosofia. Della qual filosofia nelle Meditazioni e nei trattati di Logica e di Metafisica, che, bene accolti dai contempo¬ ranei e più volte ristampati (è almeno da ricordare 1 edi¬ zione che della Logica volle curare, nel 1832, il Roma- gnosi), sono entrati a far parte della letteratura filosofica nazionale, si scorgono i lineamenti anche da chi non ri¬ cerchi i ponderosi volumi latini, che li precedettero e prepararono. Il Genovesi è un empirista t , ma non e un sensista, e tanto meno un materialista. Combatte le idee innate, ma cartesianamente mette il pensiero a capo di tutto, e la ragione, che l’uomo che medita trova in se stesso come attività sovrana, libera, signoreggiatrice, col suo giudizio, dell’universo, vede conforme a una ragione creatrice universale, divina 1 2 . L’uomo per essa è immor¬ tale. Per essa destinato a vincere il dolore, a superare ogni difficoltà, a viver felice. Questa ragione infatti non è fredda astratta intelligenza. Essa è energia ( energetico , dice Genovesi) perché è anche passione, cuore i. Non 1 Come empirista, Genovesi, pur non ripudiando ogni metafisica, insiste sempre sulla necessità di limitare le ricerche speculative alle questioni essenziali per una concezione sana e morale della vita. Insi¬ stenza che ha fatto pensare al criticismo kantiano. Vedi Gentile, Stona della filos. ital. dal Genovesi al Galluppi, Milano, Treves, 1930, c. I’ dov'è particolarmente studiata la dottrina della conoscenza di Genovesi. Oltre i luoghi ivi citati (voi. I, p. xm), e le frequenti di¬ chiarazioni che ricorrono nelle Lettere familiari circa 1 infecondità delle più astruse ricerche metafisiche e teologiche, vedi Logica, ed. cit., pp. 250-51, 255. Notevole in special modo la lett. del 2 aprile 1763 a P. Saffiotti. , 2 Vedi Meditazioni filosofiche, Milano, Silvestri, 1846, pp. 53 -° 3 . Logica, p. 252. 1 Vedi Logica, pp. 260, 274-75. 83 ALBORI DELLA NUOVA ITALIA distrugge la passione; una passione infatti si combatte con un’altra passione. E poiché ogni essere è ragione, e soffre e aspira a godere, essa, non essendo individuale, ma comune e universale, stringe in un vincolo di amore gli uomini. Intuizione ottimistica, che s’inquadra in una concezione leibnizianamente spiritualistica del mondo. Poiché anche per Genovesi i corpi, scomposti negli elementi semplici di cui sono formati, si riducono a sostanze spirituali, attive. E tutte le qualità sensibili dei corpi non sono altro che fenomeni, nostre sensazioni. Lo spirito è attività : è quella stessa forza che è in tutte le cose che sono in natura, e che tende ad espandersi. In noi questa forza si svela nella ragione, che è prima di tutto coscienza, affermazione di sé. Questa forza è attiva e tende perciò a svilupparsi, ad estendere il suo dominio, a trionfare. Il mondo non è, infine, se non questo svol¬ gimento della ragione, che nel suo progressivo prevalere è cultura sempre più intensa e sempre più diffusa; è benessere in cui lo spirito viene ritrovando e procuran¬ dosi le condizioni più favorevoli al suo sviluppo ; è amore degli altri, insieme coi quali ogni uomo viene adempiendo in comune il destino della sua natura, la libera vita della ragione. Questa la fede del Genovesi. Questa la sorgente dell’en¬ tusiasmo col quale egli attese con ferventissimo zelo dalla cattedra e cogli scritti, malgrado la sua malferma salute, infaticabilmente alla sua opera di apostolato. Questo il segreto della potente azione da lui esercitata sul suo tempo, promovendo nuovi studi, animando i giovani alla lotta contro il vecchio mondo: contro la feudalità in fa¬ vore dei lavoratori della terra e della nascente borghesia; contro la Curia per lo Stato autonomo e laico; contro il pregiudizio per la critica; contro la superstizione per la religione; contro tutto ciò che nel pensiero e nelle isti- ANTONIO GENOVESI 89 tuzioni impedisse 0 ostacolasse il libero sviluppo del lavoro, della civiltà, della ragione. Antonio Genovesi non fu un rivoluzionario; ma fu un educatore di rivoluzionari, che quando scoppierà in Francia la grande Rivoluzione, o crederanno di obbe¬ dire alla voce del vecchio maestro accogliendone una scintilla anche a Napoli, e quindi suscitando il glorioso incendio della Repubblica Partenopea, celebrazione di una grande fede idealistica ancorché astrattamente gia¬ cobina, santificata dal martirio 0, uomini di grande accorgimento ed equilibrio, come Galanti e Cuoco, con più profonda intelligenza dell’ insegnamento del Genovesi, ne trarranno argomento a una più realistica concezione politica della libertà necessaria al popolo napoletano: poiché vedranno come il maestro aveva veduto, che questa libertà non poteva essere vitale, se non era forte della forza di uno Stato ben ordinato e potente: di uno Stato infine in cui tutta l’Italia, prima o poi, doveva unirsi tutta in un corpo solo tra l’Alpi e il mare. Questa idea di un’ Italia unificata dal Galanti, il più fido dei discepoli del Genovesi, passò al Cuoco, e dal Cuoco, come oggi sappiamo, passerà al Mazzini; ma era stata preconizzata a Napoli dal Genovesi. La cui com¬ memorazione io non potrei meglio concludere che rileg¬ gendo una sua pagina del 1757, a proposito della sicurezza necessaria al commercio, e impossibile senza una fiotta militare adeguata. Impossibile perciò allo stesso Regno di Napoli, che era tuttavia il maggiore e più potente Stato d’Italia: «Vorrei io», scriveva nel detto anno il Genovesi, «in questo luogo dire un pensiero, che ho sempre meco d’intorno all’animo avuto, ed hollo tut¬ tavia; ma io temo ch’egli non sia per incontrar male 1 Sulla scuola del Genovesi e la sua importanza storica, A. Simioni, Le origini del Risorgimento politico dell' Italia meridionale, voi. I, Mes¬ sina, Principato, 1925, pp. 152-99. 7 - Gentile, Albori. I. 90 ALBORI DELLA NUOVA ITALIA presso coloro, che niuno amore hanno e niun zelo nutri¬ scono per l’Italia, come madre nostra. Ma il dirò pure in qualunque parte sia per prendersi da chi non guarda più in là del proprio utile. « A voler considerare l’Italia nostra, e dalla parte del suo sito, e da quella degl’ ingegni, e per quello che ha ella altre volte fatto e fa eziandio, tuttoché divisa e come dilacerata, si converrà di leggieri, ch'ella tra tutte le na¬ zioni di Europa sia fatta a dominare; perocché il suo clima non può esser più bello, né più acconcio il suo sito rispetto alle terre e al mare che la circondano, né più perspicaci e accorti e destri e capaci di scienze e di arti e duranti di gran fatiche, e oltre a ciò più amanti della vera gloria, i suoi popoli, di quel ch’essi sono. Ond’ è dunque, ch’ella sia non solo rimasta tanto addietro al- l’altre nazioni in tutto ciò, che par suo proprio, ma dive¬ nuta in certo modo serva di tutte quelle che il vogliono ? Ella non è stata di ciò causa la sola mollezza, che le con¬ quiste de’ Romani v’apportarono; perocché questa mor¬ bidezza, che le ricchezze e la pace v’avevano introdotta, non durò lungo tempo; ma la vera cagione del suo avvi¬ limento è stata quell’averla i suoi figli medesimi in tante e sì piccole parti smembrata, ch’ella n’ ha perduto il suo primo nome e l’antico suo vigore. « Gran cagione è questa della ruma delle nazioni. Pur nondimeno, ella potrebbe meno nuocerci, se quei tanti principati, deposta ormai la non necessaria gelosia, la quale hanno spesse volte, e più ch’essi non vorrebbero, sperimentata e al comune d’Italia e a se medesimi fu¬ nesta, volessero meglio considerare i propri e i comuni interessi, e in qualche forma di concordia e di unità ri¬ dursi. Questa sarebbe la sola maniera di veder rifiorire il vigore degl’ Italiani. « Potrebbe per questa via aver l’Italia nostra delle formidabili armate navali, e di tante truppe terrestri. ANTONIO GENOVESI 91 che la facessero stimare e rispettare non che dalle po¬ tenze d’oltremare, che pure spesso l'infestano, ma dalle più riguardevoli che sono in Europa. Ella non vorrebbe ambire altro imperio, che quello che la natura le ha cir¬ coscritto: ma ella dovrebbe, e potrebbe difendersi il suo. Potrebbe veder rinascere in tutti i suoi angoli le arti e le industrie, dilatarsi il suo commercio, e tutte le sue parti nuovo abito e la pristina bellezza prendere. Se questi sensi s’ispirassero ai pastori di tutte le sue parti, forse che non sarebbe questo un voto platonico. E mi pare che i principati d’Italia non siano sì gli uni degli altri gelosi, che per massime vecchie che son passate ai posteri più per costume che per sode ragioni. Non son ora i tempi ch'erano: e quelle cagioni di reciproci timori, che pote¬ vano una volta essere ragionevoli, sono ora non solo vane, ma nocevoli e al tutto e alle parti, se ben si considerano. Egli è per lo meno certo, ch’ella non può, come le cose sono al presente, sperare altronde la sua salute, che dalla concordia e dall’unione de' suoi principi. Il comune e vero interesse suol riunire anche i nemici: non avrà egli forza da riunire i gelosi ? Rettor del Cielo, io chieggo Che la pietà che ti condusse in terra. Ti volga al tuo diletto almo paese » ». Al Genovesi dunque, il più filosofo dei grandi riforma¬ tori italiani del Settecento, spetta il merito di essere stato il più italiano di tutti. Egli scosse il petto dei giovani, e vi infuse una fede nella civiltà che è scienza ed è libertà. Egli indicò agl’ Italiani 1 * Italia, che non c’era, ma co- 1 Carv, Storia del Comm. della Gran Bretagna, Napoli, 1757, II, p. 35. Pagina celebre dacché il Carducci l’ebbe inclusa nelle sue Letture del Risorgimento Italiano. 92 ALBORI DELLA NUOVA ITALIA minciava a presentirsi, ed egli l’annunziò, insegnando come le si potesse preparare la via. E la sua voce si riper¬ cosse di generazione in generazione, finché l’Italia venne. E venne per la via che egli aveva aperta: riavvicinando la letteratura alla vita, la filosofia all'uomo, ammaz¬ zando l’accademia e l’ozio ancorché dotto ed elegante, educando il popolo a credere nella cultura, a servire l’ideale, andando incontro per esso anche alla morte. Fulgido esempio i martiri del '99. Stato laico e veramente sovrano, religione tutta rivolta alla vita dello spirito, libera da ogni cupidigia e pretesa mondana; libera la ragione, rispettata come cosa sacra la scienza, e la scuola che la promuove. E di là dal breve confine della provincia, per l’Italiano, l’Italia grande, laboriosa, armata, consa¬ pevole di una sua missione civile. Questa la scuola del Genovesi. Perciò gl’ Italiani devono ricordare il suo nome; perciò devono annoverare Antonio Genovesi, lui così modesto, così riservato e chiuso tra la scuola e i libri, tra i padri della patria. E nella scuola italiana particolar¬ mente deve esser ricordato come esempio ed ammonimento contro la pseudoscienza astratta dalla vita sempre rina¬ scente. Poiché i frati, che punzecchiarono in vita Antonio Genovesi e furono perseguitati dalla sua dialettica e dal suo frizzo, hanno cambiato veste, e non natura. E contro di essi bisogna ancora combattere, ancora difendersi. Perciò Genovesi è vivo.
Wednesday, March 23, 2022
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