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Thursday, March 31, 2022

GRICE E FERRARI: L'ANARCHISMO DI HUMPTY DUMPTY

 BIBLIOTECA    Alessandro Luparini    ANARCHICI  DI MUSSOLINI    > rali vere  SETTIMANALE ANARCHICO INTERVENTISTA Ta” Pisetemenzar © va    Giuseppe Garibaldi       A | assonimion i Ami 13] CRITNTEINTA]  Ù o f= Niue] | Senesi Aia    MILANO - Dc t9rs. | "iSToNIO su oi  RIA | ore       2 Spina ‘sovdrela jattonza, spogli. d'agnt  fiomposità retorien, agli anici ed agli nv-  vornarl not ci presentiamo. >  ‘iper ur Drrepprinsibile dinoziio det  ‘ilmo nostro di affermare ut; colla — Nancics nel campo amrehve vi 20 rie site 1 commi. dl pectore i  dia in questa vigilia d'armi, quello che y pi sai Mi iaia alli  domantpquando vibrabte squillerà Ia diana +  «ho gl chiamerà al elmonto, riaffermeremo ‘ Quatt nurca La  cdl. fuetlo nelle, trincee o sulle barricate, 50° = Medea re pico © per  no vogljamo formulare da queste colorin nt gle 1 Ì  ti romina.    ché ancora non perufptione  iocolieri della politica i    probleini Nindaedi e) hibertari.    ni per l'unità d'Itata € oggi  dia — sarei Mali netta rivolta    "È dicaro ciod'ad alta voce il nostro diritto  << ian cittadinanza. nel ‘campo amerehico — ici iocna ol Gemona € li ls oovre  por ‘sui deliicammo, benché anbor giovani, “per } popoli di Francis, suscità nei eni  di nni le nostre migliori energie ed Hl | ili. commenti ferogi e cati c =  ‘batta: vriilrà È cho4 teotoght dell'a; 1 dì ©mimi del wiorno (scoprirono ì  ni ‘nome di non sappiamo pipì € ita] core, È pattini  ddantonto ef vogliono negs-'! si: manifistsra in talta dr se devanazione; len. 3 dite bed |  ed incitare. all'azione: ta ‘entitoto le oc    DALLA SINISTRA AL FASCISMO  TRA RIVOLUZIONE E REVISIONISMO    M.IL.R.    EDIZIONI          Fenomeno spesso rimosso, quando non del tutto  ignorato, in sede d'indagine storiografica,  l'interventismo di matrice anarchica costituì un filone,  minoritario ma non trascurabile, del variegato  movimento interventista rivoluzionario ed ebbe una  significativa appendice nel dopoguerra, allorché  numerosi anarchici interventisti confluirono nei Fasci  di" combattimento fondati da Benito Mussolini. Tra  questi, Mario Gioda, Edoardo Malusardi e Massimo  Rocca rivestirono un ruolo di primo piano nel fascismo  delle origini. Pur nella sostanziale diversità delle  esperienze e degli approdi politici (dal sindacalismo  integrale e di “sinistra” del repubblicano Malusardi al  revisionismo conservatore e filo-liberale di Rocca), la  loro azione all'interno del fascismo fu caratterizzata da  uno spirito affine, almeno in parte riconducibile alla  comune formazione anarcoindividualista: una residua  eredità “libertaria” inevitabilmente destinata ad  esaurirsi con il consolidarsi al Pptes della   “rivoluzione” fascista.   Questo libro ne ripercorre la. "comlilisa Niiindi  politica, dall'anarchismo al fascismo, ‘attraverso i  decisivi passaggi dell'interventismo e della guerra,  sullo sfondo di uno dei periodi più intensi‘ e più  drammatici della storia d'Italia.                     Mita              Alessandro Luparini è nato a Firenze nel 1967. Si è laureato in  Scienze Politiche presso la Facoltà “Cesare. Alfieri”...  dell'Università di Firenze ed ha conseguito il Dottorato di  Ricerca presso il Dipartimento di Scienze della Politica  dell'Università di Pisa, ove svolge cone la su tività O  didattica e di ricerca. di Lineta               ISBN 88-86873-98-0    © Copyright 2001 by M.I.R. EDIZIONI    Tutti i diritti riservati - Vietata la riproduzione anche parziale di qualsiasi  parte del testo senza autorizzazione.   M.ILR. EDIZIONI - Via Montelupo, 147 — 50025 Montespertoli (Fi) Italy  Tel. 0571 671106 - Fax 0571 675835 — e-mail: info@miredizioni.it    mirediz@logo.it — http://www.miredizioni.it    Finito di stampare dalla Litotipografia SAMBO s.n.c.  nel mese di Dicembre 2001    e    Alessandro Luparini    ANARCHICI DI MUSSOLINI  Dalla sinistra al fascismo, tra  rivoluzione e revisionismo    M.I.R.    EDIZIONI              INTRODUZIONE    Quanto a quello che succederà domani, caro Berneri,  non è a noi, ultimi venuti, senza responsabilità per il  passato e, se non erro, abbastanza coerenti e fermi  sinora, che si possono muovere rimproveri in anticipo  o intentare processi alle intenzioni. Plechanov, teorico  bolscevico, Kropotkin, teorico anarchico, si  pronunciarono in Russia per la guerra nel 1914;  altrettanto fecero il socialista Mussolini e gli anarchici  e sindacalisti Rocca e Corridoni in Italia [...]. E”  consigliabile dunque che nelle discussioni relative al  domani ci mettiamo su piede di parità, con lo stesso  coefficiente di male e di bene, di deviazioni possibili e  di fedeltà irriducibili. Gli uomini passano, le idee e  anche i movimenti restano. (Carlo Rosselli,  Discussione sul federalismo e l’autonomia, «Giustizia  e Libertà», 27 dicembre 1935)    Così, in una garbata polemica a distanza con l’anarchico Camillo Berneri  (che aveva avanzato dubbi sulla possibile tenuta antifascista di Giustizia e  Libertà), Carlo Rosselli poneva l’accento su un principio spesso ignorato:  l’inopportunità in politica (nonché - potremmo aggiungere - nelle vicende  umane in generale), specie in epoche di grande travaglio, di porre ipoteche  sul futuro, semplicemente sulla base di memorie e di tradizioni più o meno  consolidate, di preconcetti ideologici o di appartenenza. L’interventismo di  matrice anarchica, richiamato dallo stesso Rosselli quale esempio di  variabile imprevista, rappresentò senz'altro, considerato nel quadro storico  del movimento libertario italiano, una “deviazione”, ma fu, per l’appunto,  una deviazione “possibile”. Non già, dunque, un’astrusità incomprensibile,  prodotto di frange corrotte e malvissute, a stento collocabili nella famiglia    anarchica, ma un evento - sia pur anomalo e, al cospetto dell’ortodossia  libertaria, scabroso - riconducibile all’anarchismo e, come tale, appartenente  di diritto alla sua storia. Allo stesso modo, per restare in ambito interventista,  la “conversione” di Benito Mussolini nell’ottobre del 1914, tenuto conto  dell’anima volontaristica e sostanzialmente antidogmatica, non solo del  socialismo mussoliniano, ma anche di larga parte del socialismo italiano tout  court, non costituì poi una così grande eresia ed anzi ebbe, in questo senso,  una certa sua coerenza.   Nondimeno, proprio a causa della sua “scabrosità”, l’anarcointerventismo è  stato a lungo trascurato, quando non del tutto rimosso, in sede d’indagine  storica, e solo in anni recenti un ottimo studio di Maurizio Antonioli ha  restituito visibilità e, per così dire, dignità storiografica, ad un fenomeno che,  se non fu certo tale da smuovere grandi masse (ma tutto l’interventismo  rivoluzionario fu, a conti fatti, espressione di una minoranza), ebbe tuttavia,  oltre che una sua specificità, una sua rilevanza, non soltanto in ordine alla  vicenda interna dell’anarchismo. Intento di questo libro vuol essere, perciò,  quello di ricostruire la genesi e gli sviluppi della corrente anarcointerventista  (sia come fatto in sé, sia in rapporto al più vasto schieramento  dell’interventismo rivoluzionario), per poi, in un secondo momento, provare  a rintracciarne l’eredità nell’Italia del dopoguerra, in relazione all’avvento e  all’ascesa del fascismo. Molti anarchici interventisti, infatti, confluirono nei  Fasci di combattimento fondati da Mussolini (altro motivo per cui  l’anarcointerventismo è stato il più delle volte espunto dai trattati di storia  dell’anarchismo), e alcuni di loro, come Massimo Rocca, Edoardo Malusardi  e Mario Gioda, vi ebbero un ruolo tutt’altro che marginale. Questi tre nomi,  pur ricorrendo sovente (soprattutto il primo) negli studi sul fascismo iniziale,  restano tuttavia, a. nostro avviso, ancora avvolti in una coltre  d’indeterminatezza. In queste pagine si cercherà pertanto di ripercorrere la  complessa vicenda postbellica di Rocca, Gioda e Malusardi —  dall’immediato dopoguerra sino alla vigilia del delitto Matteotti -, senza mai  perdere di vista i loro trascorsi anarchici; un’eredità forte, conseguenza di un  altrettanto forte senso d’identità, che - ci sembra di poter dire - sopravvisse  almeno in parte alle radicali trasformazioni indotte dalla guerra, finendo per  condizionare, ancorché in misura e su piani diversi, il grado di adesione al  fascismo di questi uomini. Per questa ragione, ad esempio, ci è parso che il  caso di un altro anarchico interventista passato al fascismo, Leandro  Arpinati, il cui nome è senza dubbio più noto dei tre sopra citati, non potesse  a pieno titolo rientrare nelle finalità e nella ratio di questo volume. In altri  termini, mentre Arpinati (anarchico sì, ma senza alcun peso reale nel  movimento) acquisì una compiuta coscienza politica — sia pur in qualche    maniera caratterizzata in senso anarcoindividualista - con il fascismo e  grazie al fascismo; Rocca, Gioda e Malusardi approdarono al fascismo al  culmine di un’effettiva e sentita militanza libertaria (anche se, nel caso di  Rocca, vissuta in modo decisamente eterodosso), sì che nel fascismo essi  portarono una precisa connotazione ideologica, quantunque, e non avrebbe  potuto essere diversamente, filtrata e rivissuta alla luce delle cruciali  esperienze dell’interventismo e della trincea. .   In definitiva, quindi, un’opera su più livelli, che — così almeno speriamo -  dovrebbe consentire di far luce su una componente poco conosciuta  dell’interventismo rivoluzionario prima, del fascismo poi, sullo sfondo di  uno dei periodi più intensi e più drammatici della storia d’Italia.          INTERVENTISMO    Eretici tra gli eretici: gli anarchici interventisti fra apostasia e presa di  coscienza    Pe    Lo scoppio della guerra europea sorprese il movimento anarchico italiano in  un momento di grande sforzo organizzativo. Il tentativo, avviato già  all'indomani dell’impresa libica, di collegare i diversi gruppi anarchici della  penisola intorno ad un programma comune, allo scopo di frenare le spinte  centrifughe interne al movimento e di non perdere i contatti con le masse  (proprio mentre lo spostamento a sinistra del Partito Socialista e la nascita  dell’Unione Sindacale Italiana rischiavano di ridurre ulteriormente lo spazio  di manovra degli anarchici), fu vanificato dal precipitare della situazione  internazionale. Il progettato congresso nazionale anarchico di Firenze, che  doveva sancire questo nuovo orientamento, non ebbe mai luogo, e il  successivo convegno di Pisa, riunitosi poco tempo dopo l’entrata in guerra  dell’Italia, avrebbe lasciato cadere ogni ipotesi costruttiva per far argine  all’incalzare degli eventi bellici". Sul piano esterno, sul piano, cioè, dei  rapporti con gli altri partiti dell’estrema sinistra, che dopo la settimana rossa  avevano lasciato intravedere la possibilità di un’intesa d’azione con le forze  più autenticamente rivoluzionarie (soprattutto repubblicani e sindacalisti), la  guerra rappresentò, anche per gli anarchici, la caduta delle illusioni.   Ancora il primo agosto, in un articolo pubblicato da «L’Iniziativa», organo  nazionale del PRI, il giovane anarchico Mario Gioda aveva sostenuto la  necessità del “blocco rosso”, ovvero l’unione di tutti i partiti sovversivi”.  Nato a Torino il 7 luglio 1883, operaio tipografo’, Gioda era un autodidatta       ! Su questi punti v. soprattutto MAURIZIO ANTONIOLI, // movimento anarchico italiano nel  1914, in «Storia e Politica», 1976, n. 2, pp. 235-254. Sulle vicende dell’anarchismo italiano  nei mesi precedenti alla settimana rossa v. GINO CERRITO, Dall'insurrezionalismo alla  settimana rossa. Per una storia dell'anarchismo in Italia, Firenze, CP, 1977, p. 142 ss.   2 Cfr. MARIO GIODA, La necessità della repubblica. Io difendo il blocco rosso, «L’Iniziativa»,  1 agosto 1914.   3 Cfr. ARCHIVIO CENTRALE DELLO STATO, CASELLARIO POLITICO CENTRALE [d'ora innanzi  ACS, CPC], Busta 2416 [Gioda Mario].    11       con la passione per le belle lettere e le scienze filosofiche (un «pensatore...  proletario», come sarebbe stato efficacemente definito molti anni dopo) ‘,  poco incline, in verità, all’attività politica-di propaganda. Negli anni prima  della guerra aveva scritto per numerose riviste, non solo di orientamento  libertario, cimentandosi nei campi più disparati, dalla filosofia alla critica  letteraria e di costume, e guadagnandosi una discreta popolarità. Di  temperamento schivo e riflessivo‘, dotato malgrado ciò di una buona vena  polemica, Gioda era in buona sostanza un intellettuale, non riconducibile ad  alcuna specifica corrente del pensiero anarchico, sincreticamente aperto  anche ad altre suggestioni culturali, con in più, sotto il profilo strettamente  politico, una spiccata e mai celata propensione al repubblicanesimo. In ogni  caso, se è vero che Gioda era - per sua stessa ammissione - un “quasi  repubblicano”‘, convinto quanto meno che la rivoluzione dovesse prima di  tutto avvenire sul «terreno istituzionale»”, è altrettanto vero che, specie dopo       4 Così scriveva Domenico Ferrara nel 1923, introducendo la prefazione di Gioda — allora  segretario del Fascio di combattimento torinese - al volume di Enrico Portino Quattro anni di  passione (Torino, Valentino), un'antologia di scritti e di vignette dai giornali satirici fascisti  «Il Pettine» e «Il Sonaglio».  * Poeta dilettante, il giovane anarchico esprimeva nei suoi versi sentimentali una sensibilità  quasi crepuscolare. Ancora in età matura, ormai affermato dirigente fascista, Gioda coltivava  l’ambizione di veder pubblicate le sue poesie. Non visse abbastanza a lungo, ma alcune sue  rime giovanili apparvero postume in Vita di Mario Gioda narrata da Giovanni Croce, a cura  del Gruppo rionale fascista “Mario Gioda”, Torino, Stabilimento grafico Impronta, 1938.  ° Gioda era in rapporti d’amicizia con importanti esponenti del repubblicanesimo italiano, fra  i quali il vecchio garibaldino Ergisto Bezzi, che ne aveva grande stima. Alcune lettere di  Bezzi a Gioda si trovano in ERGISTO BEZZI, /rredentismo e interventismo nelle lettere agli  amici (1903-1920), Trento, Museo trentino del Risorgimento e della lotta per la libertà, 1963.  Per comprendere in cosa consistesse il repubblicanesimo di Gioda se ne vedano gli articoli  Del XXIX luglio e per un cencio di repubblica, e Il mio repubblicanesimo, apparsi sulla rivista  repubblicana torinese «La Ragione della domenica», il 30 luglio e il 6 agosto 1911. Nel primo  di essi, scritto subito dopo l’assassinio di Umberto I, Gioda aveva deplorato il «conformismo  monarchico» dei partiti estremi, che non avevano esitato a commuoversi per la sorte del re, e  aveva affermato l'imperativo morale, per i «rivoluzionari d’ogni scuola o tendenza», di essere  «settariamente repubblicani». Nel secondo, Gioda aveva precisato i contenuti della propria  fede repubblicana, sostenendo di rimanere prima di tutto anarchico, ma di ritenere la  repubblica — la repubblica sociale — un passaggio necessario sulla via della rivoluzione, il solo  mezzo per giungere a trasformazioni più radicali e definitive, «senza il pericolo di sfasciare la  rivoluzione in braccio alle evoluzioni riformistiche della democrazia sociale». Le opinioni  espresse dall’anarchico torinese su «La Ragione della domenica» avevano incontrato la  disapprovazione di molti suoi compagni. Ancora a distanza di tempo, il ferrarese Mario  Poledrelli aveva definito «tisico e spurio» l’anarchismo di Gioda, e bollato come una  «balordaggine politica» l’idea di un fronte unico anarchico/repubblicano (MARIO POLEDRELLI,  In ritardo? Anarchici e repubblicani, «L’Agitatore», 18 febbraio 1912). Qualche anno dopo    Poledrelli avrebbe partecipato alla campagna interventista a fianco proprio dei repubblicani e  dello “scomunicato” Mario Gioda.    12    la settimana rossa, molti anarchici, non escluso Errico Malatesta, LA  con favore crescente all’elemento giovanile e proletario del PRI, e i .  apprezzavano e condividevano  l’intransigentismo Lila emi  diffusione, il. 15 agosto 1914, dell’appello della DE pel 3  repubblicana per la mobilitazione contro gli Imperi i ppi far  quale riaffiorava prepotentemente l’anima mazziniana de Lira sog  riproponevano, attualizzati, temi e suggestioni dell niet seg n  fatto la fine delle aspettative rivoluzionarie . Ad esso sarebi ero segu sa  conferenza milanese di Alceste De Ambris, punto d nuvia di sa + i  decisiva che avrebbe portato alla spaccatura dell’USI e all’adesione di larg;    _/parte del sindacalismo rivoluzionario italiano alla tesi dell’intervento (tanto    Te i ; ; li È  che Renzo De Felice faceva risalire proprio al discorso di De Ambris la -  d’inizio dell’interventismo rivoluzionario) ‘, e una serie di altri i sà  non meno traumatici, fino alla clamorosa “conversione” di Benito Mussolini.       isleri i ’Iniziativa» del 15 agosto e  * Il manifesto, redatto da Arcangelo Ghisleri, fu pubblicato da PL pa Hb  ripreso nei giorni seguenti da tutta la stampa repubblicana. irc: a on si a  anarchici a questo riguardo si veda l’articolo di ri vie [af Aaa %  i Volontà», 29 agosto , nel q r i  repubblicano e la guerra (« 3 Z reti cc A  icani di i lla causa della rivoluzione, per egli  repubblicani di aver abdicato al : izione rp  iti bbri replicò il repubblic: i  sperava definitivamente tramontate. A Fal i ibblicano © Me  Larini del PRI anconetano, a sua volta accusando gli anarchici di siente si Lac i  politica (cfr. Anarchici e socialisti, «Il tig 6 Sene ati ; sai pei pipi  inelli i i più ivi trema sinistr: , que  @ due dei nomi più rappresentativi del es ù £  peri ohba Halo ad Ancona, città simbolo della settimana LA san  5 ) . . . . .  i i i i i i giorni gli ambienti sovversivi. a  del clima di forte tensione agitante in quei gi i : cine par  iù n quanto inattesa, ripropi a  ‘odotta dalla guerra, tanto più dolorosa i I |‘ i  divisioni del srt che la comune battaglia sa coord pa via utili panta  ui is, segretario della Camera  agosto Alceste De Ambris, segi della ( T n  an Sirigenti del sindacalismo rivoluzionario italiano, intervenendo ad peri pe  ema “I sindacalisti e la guerra”, presso la sede milanese dell USI, sostenne coi fn  della erra rivoluzionaria. Fra il 13 e il 14 settembre si riunì il consigl e sn AA  dell'Unione La maggioranza votò un ordine del giorno di AO ERA A  i Cat io alla tesi interventista di De E :  Carrara, nettamente contrario al i A  Di Borghi, principale esponente della corrente ni A su merita re  i o di i i Ambris e i suoi seguaci (il fratello ; otti,  ”USI, in luogo di Tullio Masotti. De b i a ne)  Em " Coni, Cesare Rossi, Michele Bianchi, Edmondo Rossoni) pe prio Di  pia de «L’Internazionale», organo dell’Unione. Dalla successiva LS cppora n  opera della frazione interventista, l'Unione Italiana del artt iaia eri sn di  i i ioni si li repubblicane. , rimas  seguito anche le organizzazioni sindacali ì : i  ufficiale prese a pubblicare «La Guerra di com a sta o se Di > rd  ? i is è ri to in « i; k  conferenza di De Ambris è riprodoti vin internazio: ; sto | .  n sn commento di parte repubblicana, significativo in vista o ge So  dell’interventismo rivoluzionario, si veda l’articolo Una voce sindacalista, «L’Inizia ;    agosto 1914.    13       Li H x )  rs sian Belgio € n Francia ad opera dei tedeschi determinò la  1 posizione a favore dell’Intes i i  Sr a da parte di alcuni degli ini  più rappresentativi dell’anarchi “qualiv iS  chismo, non ‘solo fi i i Pi  Db? 9 10, rancese, tra i quali Piotr  Fnac Jezn n James Guillaume e l’italiano Amilcare ppi il  rio “colonnello” della Com ichi o)  e 1 une. Le loro dich ioni  Poni a Cc € ichiarazioni, che  a i la naturale e antica simpatia dei rivoluzionari europei verso  di E ella Grande Révolution e che, a distanza di un anno e mezzo,  ag ubi espressione definitiva nel cosiddetto “Manifesto dei  » suscitarono polemiche e divisioni i  dici” ni anche tra gli anarchici italiani  primo intervento eterodosso di ico i dia  i 1 segno anarchico in materia di i  neutralità fu opera proprio di io Gi Reit i  io di Mario Gioda. Ad ui i i  ì fu o c i na settimana dal  on \ suo articolo  BIO Gioda, scrivendo per «Volontà» (il principale periodico  go ita iano), rilevò il fallimento improvviso e devastante  He age D sostenne la necessità che, in caso d’invasione austriaca  , anche gli anarchici impu i i i  } >, pugnassero le armi per difendere il  È ici i il suolo  azionale ‘. «La Folla», la rivista di Paolo Valera di cui Gioda era da tempo    Sì »8  assiduo collaboratore li offrì, a breve distanza, I Opportunità di precisare    In i pieni torinese interpretando lo sbigottimento di molti — è  ello e troppo forse si è sognato. La guerra è il ri Wi  Intanto, il fallimento dell’o) izi e A en i  ILL pposizione socialista e democratica ne’paesi  I social esi dell  FEFUIONIA imperiale e delle quadrate organizzazioni operaie [...] ci tone i prebiaia       S  : Ag its do UGO FEDELI, Breve storia dell'Unione Sindacale Italiana. HI, in®  Rec ana ngi ni Vac i due volumi di RENZO DE FELICE Mussolini il  nario, , Einaudi, , p. 235 ss., e Sindacalismo riv N zii i  rig nel heidi; De Ambris-D'Annunzio, Brescia, Morcelliana, 196 19.35. ln si  , per il valore della testimonianza, ARM o di  (1398-1905) NIGOlIEREARAI pp v [ANDO BORGHI, Mezzo secolo di anarchia  dat Psa reo) be fog la luce il 28 febbraio 1916, mentre ottenne il consenso di  sti (cfr. Gli anarchici intelligenti son  “dichiarazione” storica, «L’Internazion: linate  j ale», 25 marzo 1915), fu i  da parte del movimento anarchico itali i i GATE ROMEA  taliano (si veda, in particol: ’arti i  nba } _In particolare, l’articolo di ERRICO  ; governo, «Le Réveil communiste- i i  N g ‘ uniste-anarchiste», 1 maggio 1915  si n arts rie sea Li n. ee della grande guerra, ai pagina a 14.  9 re di Valera, aveva contribuito alla ri; ita di e  1912, e vi scriveva regolarmente, iù so imi ai  12, » per lo più sotto pseudonimi (l’ Amico di Vautrin, i I  torinese). Fondamentali, per capire il raj *anzi sat  rese). mentali, per pporto tra l’anziano scrittore e agitato! iali  Porlinia gli articoli di quest’ultimo Paolo Valera, e Ancora di Paolo Valera, nai  Fa = inni i ll o 1911. Su questo punto v. altresì Miano  i LI, rchici italiani e la prima guerra mondial 1 ici  interventisti (1914-1915), in «Rivista Storica dell’ Anarchismo», 1995, TCA ig    14    di difendere domani la nostra casa da qualsiasi eventuale minaccia contro la integrità  di essa, nel mentre a gran voce, dai nemici di dentro, dalla monarchia [...],  reclamiamo e vigiliamo per la assoluta neutralità"    Gli articoli di Gioda (che pure erano ancora lontani da una netta presa di    posizione in senso interventista) scatenarono una polemica a distanza fra  l’autore, il direttore dell’ «Avanti!» Benito Mussolini e Nella Giacomelli,  una delle voci più autorevoli di «Volontà»! In essa s’inserì ben presto  anche l’anarchico individualista Oberdan Gigli, coetaneo e amico di Gioda,  recandovi nuove e più profonde inquietudini".   In una lettera aperta alla Giacomelli, Gigli prese senz'altro le difese del    compagno.          !* MARIO GIODA, Mentre trionfa la guerra, «La Folla», 9 agosto 1914   U Sul numero di «Volontà» dell’8 agosto era apparso anche un contributo di Petit Jardin  (pseudonimo di Nella Giacomelli), intitolato La più grande mistificazione: da Hervé a  .. Mussolini. In esso, la Giacomelli, traendo spunto da alcuni articoli di Mussolini che  lasciavano intravedere un possibile allontanamento dal neutralismo assoluto, aveva  paragonato il dubbioso direttore dell’«Avanti!» a Gustave Hervé, l’araldo  dell’antipatriottismo estremo, arruolatosi volontario nell’esercito francese subito dopo la  dichiarazione di guerra della Germania alla Francia. Mussolini aveva replicato con una lettera  nella quale, rifacendosi a sua volta all’articolo di Mario Gioda, rimarcava l’incoerenza di  «Volontà», che, nel mentre accusava lui di aver tradito le sue idee internazionaliste, non  aveva esitato a pubblicare una pagina di quel tenore. La replica di Mussolini trovò spazio in  un secondo articolo della Giacomelli (In pieno patriottismo!!! Da Hervé a Mussolini: da  Mario Gioda a Oberdan Gigli, «Volontà», 22 agosto 1914), molto critico nei riguardi di  Gioda e degli altri sovversivi “guerrafondai”. Infine, il 29 agosto, il giornale ospitò una lettera  dello stesso Gioda, che, respingendo l’accusa di patriottismo, affermava però il dovere degli  anarchici, proprio in quanto tali, di difendere la causa della libertà - rappresentata dalla  Francia e dai popoli latini - dalla minaccia del pangermanesimo. In merito a questi  avvenimenti v. MAURIZIO ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima guerra mondiale.  Lettere di Luigi Fabbri e di Cesare Agostinelli a Nella Giacomelli (1914-1915), in «Rivista  Storica dell’ Anarchismo», 1994, n.1, pp.7-33.   !5 Il ragioniere Oberdan (in realtà Oberdank) Gigli era nato a Gallarate nel 1883, ma si era  formato a Genova, dove la famiglia Gigli si era trasferita dopo la nascita del figlio. Il carattere  mite e la propensione per gli studi filosofici, che ne facevano più il tipo dell’intellettuale che  dell’uomo d'azione, non gli avevano impedito di farsi strada con sicurezza negli ambienti  anarchici del capoluogo ligure, con i quali era entrato in stretti rapporti ancora giovanissimo.  Nel 1902 la Prefettura genovese ne aveva tracciato questo breve profilo: «Individualista,  professa con ardore i principi extralegali, riuscendo ad avere non poca influenza sui  correligionari, non solo in Genova e Sanpierdarena, ma anche in provincia [sell  instancabile nella propaganda delle teorie da lui con calore professate, esplicando tale  propaganda con buon profitto, specialmente fra la classe operaia». ACS, CPC, Busta 2407    [Gigli Oberdan].    15          I problemi dello spirito — affermava — sono tramontati per ora:  forza e della razza e della nazionalità ritornano a predominare coi  ferocia. I valori sociali hanno subito un'inversione. L’internazion  spezzato [...]. Chi doveva non ha fatto il suo dovere; neppure noi'°    i problemi della  n raccapricciante  alismo operaio è    Agli anarchici - concludeva Gigli - restava da riscoprire la loro «comune  anima umana», non escludendo l’opportunità di combattere gli invasori  austriaci (quantunque, come suggeriva, «in libere schiere non governative»),  il giorno in cui questi avessero minacciato l’integrità territoriale italiana!” i  Ai primi di settembre «Volontà» pubblicò una nuova lettera di Gi li Il  concetto fondamentale espresso dal giovane anarchico era che il crohn  della rivoluzione sociale non potesse.essere posto dove fossero ancora ai rt   le questioni della libertà e dell’indipendenza nazionali. son    L’anarchismo — sosteneva l’autore — non rinnega, ma supera il concetto di patria:  rinnega però il patriottismo, che è concezione perfettamente borghese e sibi la  rivoluzione liberatrice anche contro i connazionali [...]. Ma l’anarchismo curdo  me, è una filiazione della filosofia e delle istituzioni borghesi: perciò esso Fon  presupporre una società borghese dove possa svilupparsi fino alla vittoria. La storia  ela tradizione sono quindi progenitrici non ripudiate. Ritengo quindi che i roblemi  essenziali della borghesia debbano essere risolti per poter liberamente clara    verso sistemi libertari. E fra tali problemi v quello delle nazionali la risolvere  libert: fr: I bi è Ilo dell  pi Il lità, da risol    A Tar n 1   Un eventuale Vittoriosa invasione delle armi austro-tedesche non solo   cn lasciato drammaticamente irrisolta la questione nazionale, ma, sotto  . TEC . . Z   il profilo delle conquiste politiche e sociali, avrebbe altresì determinato un       ' «Volontà», 22 agosto 1914.    un Pot in riferimento all'articolo di Mario Gioda dell’8 agosto, era inserita insieme  que ‘a di Mussolini nel citato articolo di Nella Giacomelli, /n pieno patriottismo!!!  dr parole di Gigli la redazione di «Volontà» (retta allora da Cesare Agostinelli, trovandosi  esu rilusi i fatti della settimana rossa, sia Errico Malatesta che Luigi Fabbri) fece seguire una  de i aperto disappunto. «A noi pare — vi si leggeva — che la situazione di quelli che, come  io x e Gigli, si lasciano trasportare dal sentimento patriottico [...] sia la medesima di quegli  E rici che, tempo addietro, andarono volontari a combattere per le patrie dei greci, dei  cubani, dei boeri, degli albanesi. Il fatto materiale potrebbe anche riuscire simpatico; ma esso    esula dal compito specifico degli anarchici divi ‘on questo incoerente se si arriv:  i anarchici, e può ‘entare c  P qi Incoe; si ‘a    18 Ibidem, 5 settembre 1914    16       regresso: l'avvento, anche in Italia, di un sistema «feudale e militaristico»  sul modello di quello degli Imperi Centrali. Impedire che ciò avvenisse  aveva di per sé un valore rivoluzionario; significava combattere per la causa  anarchica e, allo stesso tempo, salvare l’anarchismo dall’isolamento,  riportarlo a contatto con le masse, ravvivato «alla fiamma dell’umanità  dolorante»!?.   La condanna fatta seguire dalla redazione di «Volontà» alle parole di Gigli  hiuse definitivamente la polemica, almeno per quel che riguardava il  giornale di Ancona. Nondimeno, le “defezioni” di Mario Gioda ed Oberdan  Gigli, considerati fra i migliori giovani ingegni dell’anarchismo italiano”,  segnarono un passaggio doloroso nella storia del movimento libertario.   Maria Rygier, intanto, già paladina dell’antimilitarismo e, in assoluto, una  delle personalità più stimate del campo rivoluzionario”, aveva firmato un  sorprendente ‘articolo per «Il Libertario» di La Spezia”, nel quale,  richiamandosi alle «tradizioni garibaldine del Risorgimento», aveva plaudito  alla fine della Triplice Alleanza, il «patto infame» già vincolante l’Italia agli  Imperi Centrali, auspicando la guerra liberatrice contro gli Asburgo, «i  carnefici di Oberdan»?   La Rygier era da poco rientrata da un giro di conferenze in Francia, dove era  stata sorpresa dallo scoppio della guerra, e dove pare avesse rinsaldato i suoi  legami con i gruppi herveisti e soreliani e con la massoneria francese (con  cui sembra fosse in rapporti già dall’anno precedente), legami comunemente  ritenuti la ragione principale della sua — invero repentina — conversione       !° Ivi.   20 |a stessa Nella Giacomelli, nell’articolo del 22 agosto, li aveva definiti «i nostri migliori  uomini»; mentre Errico Malatesta, nella suà prima affermazione ufficiale contro la guerra  (l’articolo Anarchists have forgotten their principles, pubblicato sul numero di novembre  della rivista londinese «Freedom», poi ripreso dai principali giornali libertari italiani), si  rammaricava che tra gli anarchici interventisti vi fossero dei «compagni che amiamo: €  rispettiamo profondamente».   ?! Maria Rygier, nata a Firenze nel 1885, aveva militato nelle fila del sindacalismo  rivoluzionario. Nel 1907, con Filippo Corridoni, aveva dato vita al giornale antimilitarista  «Rompete le file!». La sua fervida propaganda (culminata, dopo la guerra di Libia, con la  campagna in favore di Augusto Masetti, di cui era stata la principale agitatrice) le era valsa il  carcere e numerosi processi, contribuendo ad accrescerne la fama negli ambienti sovversivi.  Nel 1909 era passata al movimento anarchico. Cfr. FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, //  movimento operaio italiano. Dizionario biografico (1853-1943), Vol. IV, Roma, Editori    Riuniti, 1975-1979, ad nomen.  22 Per una breve storia de «Il Libertario» v. GINO BIANCO, CLAUDIO COSTANTINI, Per la storia    dell'anarchismo. «Il Libertario» dalla fondazione alla prima guerra mondiale, in  «Movimento Operaio e Socialista in Liguria», 1960, n. 5, pp. 131-154.   2 MARIA RYGIER, La bancarotta della politica monarchica in Italia, «Il Libertario», 13  ngosto 1914,    17    all’interventismo. «Nei mesi che intercorrono tra la settimana rossa e il suo  ritorno in Italia nelle vesti di propagandista dell’intervento — ha scritto a  questo proposito uno storico dell’anarchismo — Maria Rygier trova la sua  strada proprio con l’aiuto dei circoli herveisti parigini e del Grande Oriente  di Francia, che l’accoglie nelle sue logge istruendola nel compito che dovrà  assolvere nei confronti dei vecchi compagni e del direttore dell’ Avanti!”»?,  A sua volta un altro autore, in uno dei rari studi dedicati al fenomeno  dell’anarco-interventismo, riferendosi ai motivi determinanti la svolta della  Rygier e degli altri anarchici favorevoli alla guerra, ha scritto né più né meno  di «tradimento nero, mercanteggiato, prezzolato»”?. In quest’ottica, anche in  considerazione del ruolo che molti anarchici interventisti ebbero nel  fascismo, non è difficile capire il perché, a posteriori, si sia finito  semplicemente per negare loro il diritto di cittadinanza nella storia  dell’anarchismo italiano. Senza dubbio, al di là delle durissime e       2 Gino CERRITO, L'antimilitarismo anarchico nel primo ventennio del secolo, Pistoia, RL,  1968, p. 34. È   Quello dei finanziamenti, più o meno occulti, della massoneria al movimento interventista, fu  uno dei motivi dominanti della polemica che precedette l’entrata in guerra dell’Italia (e basti  pensare alla nota questione dei fondi de «Il Popolo d’Italia»). Nel caso di Maria Rygier, quel  che è certo è che ella era da tempo in stretto contatto con gli ambienti dell’emigrazione  italiana in Francia, specialmente con i gruppi socialisti e anarchici di Marsiglia, città dove la  questione dei rapporti tra le frange interventiste di estrema sinistra e le logge massoniche era  sentita in modo particolare. A Marsiglia, infatti, su iniziativa dell’anarchico Raffaele Nerucci,  si costituì un agguerrito Fascio rivoluzionario interventista italiano, accusato dagli avversari,  fin dal suo apparire, di loschi connubi con la massoneria. Un anonimo articolista  dell’«Avarti!», commentando la pubblicazione ad opera del Fascio di Marsiglia di un numero  unico a sostegno dell’intervento («La nostra guerra», 21 marzo 1915), rimproverò a Nerucci e  agli altri interventisti rivoluzionari marsigliesi d’essersi serviti del denaro dei massoni, nonché  del sostegno del Ministero degli Esteri italiano (cfr. Gli interventisti a Marsiglia, «Avanti!»,  30 marzo 1915). Personaggio ambiguo e contraddittorio, Raffaele (in realtà Raffaello)  Nerucci era nato a Castelfranco di Sotto, in provincia di Firenze (oggi Pisa), nel 1876. A  Marsiglia, dov’era emigrato nell’aprile del 1901 e dove gestiva un ristorante, Nerucci aveva a  lungo esercitato una grande influenza, conseguenza di un carattere che l’ambasciata italiana  aveva definito «audace e pronto», ma anche della sua spregiudicatezza (pare, del resto, che  egli fosse in qualche modo legato alla malavita locale). Negli anni tra il 1906 e il 1910  Nerucci era stato corrispondente da Marsiglia de «La Protesta Umana», de «Il Libertario» e  de «L'Avvenire Anarchico». Nel dopoguerra fu tra i fondatori del Fascio di combattimento  marsigliese, da cui fu tuttavia espulso nel 1927 «per indegnità morale e politica». Condusse il  resto della sua vita sotto l’attenta sorveglianza delle autorità fasciste. ACS, CPC, Busta 3526  [Nerucci Raffaello].  ° PIER CARLO MASINI, Gli anarchici italiani fra interventismo e disfattismo rivoluzionario, in  «Rivista Storica del Socialismo», 1959, n. 5, p. 210.    18    comprensibili polemiche del momento”, che hanno spesso sisi  anche nel tono, i giudizi e le interpretazioni successive, la scelta i campo c  Maria Rygier, per quello che il suo nome evocava nell immaginario  simbolico dell’estrema sinistra italiana, rappresentò un trauma n pe  riassorbito, cui può essere paragonato (ma solo in minima parte) quello a  fece seguito alla professione di fede interventista di un altro protagonis  delle battaglie antimilitariste d’inizio secolo: Antonio Moroni ; Lbatnn  Circa le ragioni ideali, se non devono essere sottovalutati, ne i inire il  mutato atteggiamento della Rygier — che prima di aderire all anaro ismo e  stata sindacalista rivoluzionaria —, i debiti con il sorelismo e con 1 Giga  46he ad ogni modo costituivano un substrato culturale comune a molti  rivoluzionari, non solo del campo interventista), ben più rilevanti, come  emerge dalla febbrile attività propagandistica della stessa Nico vr  precedenti e immediatamente successivi all entrata in guerra o alia,  appaiono i riferimenti al mazzinianesimo. Non è certo un eri pe Pan  veste della Rygier fosse particolarmente apprezzata dai repubblicani n  lei medesima finisse vieppiù per accostarsi al dpi . ni  repubblicano, fino - come vedremo 2a n la confluenza di tutte le  [ *interventismo rivoluzionario ne È  i manifestazione ufficiale dell’interventismo della Rygier Li  lettera di adesione alle tesi di Alceste De Ambris, che ella pn 20  agosto, all’indomani della discussa conferenza milanese del dirige       i i i i i in «Volontà» del 19  2° Basti, al riguardo, ciò che della Rygier preti slo sini  settembre 1914: «Io trovo in te solo un merito: que î i i al tuo  dnerottiio d’occasione, rivelandoti femmina fino alla radice dei capelli per morbosità di   i i; inti i spirito». NOILIA .  sentimenti; per intima debolezza di spiri G i RG  27 Il caso del giovane militare di leva Antonio Moroni, nie su vela di pria   i i impatie anarchiche, eri  San Leo di Romagna a motivo delle sue simp: T i Ma  i imilitari È inistra (battaglia che egli stesso avi   battaglia antimilitarista dell’estrema sinis ‘negre   i ie di l carcere, regolarmente pubblicat   limentare con una lunga serie di lettere dal ere, ) d  ssovveniivafi Sul suo nome, insieme a quello di Augusto Masetti, era sa DRSAATE  campagna da cui ebbe origine la settimana rossa. Congedato il no A vs ci de   i del sovversivismo; il che pu  era stato accolto come un vero e proprio eroe de ) E  i i vecchi compagni allorchè egli, al Ì »  della sorpresa e dello sgomento dei suoi vec T di A E  i i ì tari garibaldini (a ti  dove finì per arruolarsi fra i voloni I  prese la via della Francia, i i $ I IN Arti  i *arti i l'i L’Avvenire Anarchico», 8 g 6   lempio v. l’articolo Moroni l'ingrato, « i  Pulcino) Su Antonio Moroni v. FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, op. cit., Vol. III, ad  Oltre i Iniziati i ì ropria penna a  28 Oltre che all’organo nazionale del PRI, «L Iniziativa», la Rygier 9 la pi sa pci  molti altri giornali repubblicani, tra cui principalmente «La Libertà» (Ravenna),    Repubblicano» (Roma) e «Il Lucifero» (Ancona).    19       sindacalista Ma la Rygier fu anche i ratrice del Manifesto  yg spirat le ‘anife degli  anarchici Interventisti ; redatto da Oberdan Gigl dietro invito di lei 3  gli di  ‘anifesto ne quale egli VI ‘orma di programma, le  manif riprende a, ordinandole in fi d prog!  8 Si 5) =  1 gia espresse nelle su ue lettere a «Vo lontà» ppello, steso 1  tesi già espresse nell ed Vol ); L’a Il t 120  sette re e diffuso alla fine de (ese, critto da alcuni noti e meno  ne del mese, era sottosi  ettembre e diff Ila f I tt tto d. 1  noti esponenti dell anarchismo italiano Insieme a sindac. I  1 ns d  t tal ; sinda alisti, socialisti  dissidenti e repubblicani , e non fu un caso ch Ve pressi In  e vedesse la luce essoché  contemporanea a un manifesto Intransigentemente neutralista diramato dalla  e: s Quasi ad anticipare la nascita (; C lavi  Direzione del PSI d I anche in chiave anti  nu ista) del primo Fascio rivoluzionario d azione internazionalista’’.  el testo di Gigli, accanto a Immagini e richiami della simbologia libertaria,  SI trovavano, confusi in un unico disegno, concetti apertamente democratici  e mazziniani («noi riteniamo che | Internazionalismo sarà possibile solo  q o nazioni saranno libere, P' iché là dove odio divide l’Irredento  uando le na: i, po là di l’odio divid I ‘eden  dall’o, ressore, ogni altro problema economico e politico no! può trovare  ppi p! P' liti n ti  SO uzione»), romantiche visioni camicie rosse («la ri Li I, è per  mi isioni di camici («l  I neutralità. 088 P'  utti solamente un a ‘0 egoismo nazionale; essa (CISA azioni  lett ‘gO. ional p legazione  tutti solamente ui bbie iazionale; essa è la recisa neg  dello inter nazionalismo mater iato di solidarietà e sacrificio, che ci ha spinto  sui campi della Francia, della Grecia, del Messico, della Serbia») e roboanti  ! p  proclam di stampo roto-mussoliniano («I Inerzia è vigliaccheria e la    neutralità, che ancora disconosce la volontà po olare, è trad mento. E? l’ora  ) pop: , ti 1 I       29 ì n E, n  kia pon fn «L’Internazionale», Edizione Nazionale [d’ora innanzi Ed.Naz.], 12  4. La lettera si trova riprodotta anche in MARIA R soglia  t i i YG ia di  Lana nostra patria, Roma, Libreria Politica, 1915. pp. 19-24 drain  questo scopo ella si era segretamente in ’ n Gigli più di  cre. ils ver ola pae i contrata con Gigli più di una volta. Cfr. ACS,  pi poi Hi RyGIER, Sulla soglia di un'epoca, cit., p.25  e firme apposte al manifesto erano i: e igli i  1 ap al m quelle di: Oberdan Gigli, Maria Rygi i  pe que Paolinelli, Edoardo Malusardi, Gino Tenerani, ta elit  Di i e di ss Sa ua Martello, Emanuele Carletti, Ugo Piermattei, Len  } I ‘asquali, Bruno Bernabei, Giovanni Provinciali, Ezi ? ini  eni Ardisson, Gesualdo Grossi, Otriade Gigliucci, Francesco Sarti. Aigle  63 ai DIE i ese hi p articolo di poco successivo (Dedicato agli anarchici  caiser, Inizi », 10 ottobre 1914), ebbe tuttavi; i 3 ii i  sui intervenzionisti a suo tempo. Lo firmerei den ae6 ia AREA  appello della Direzione socialista, opera prevalentemente di Mussolini, fu pubblicato    dall’«Avanti!» del 22 settembre 1914 i  rivolazionario, ite pp, 250251, colato REbiz0 DE FELICE, Miasolini:1    20    L'invito finale, rivolto a tutti i sovversivi, era quello a mobilitarsi per la  “loro” Francia, la Francia «della libertà e della rivoluzione»**. Gigli, in  verità, avrebbe voluto inserire nel testo almeno un accenno alle terre italiane  Irredente, ma ne fu dissuaso dalla Rygier, convinta che non fosse ancora il  momento per un’esplicita dichiarazione in senso nazionale”.   In calce al manifesto degli anarchici interventisti figurava anche la firma di  Libero Tancredi, pseudonimo di Massimo Rocca. Se i casi di Mario Gioda,  di Oberdan Gigli, di Maria Rygier — e di altri che ne sarebbero seguiti —  destarono lo stupore e il rammarico di molti, il fatto che Rocca si schierasse  per l'intervento non sorprese quasi nessuno: fu visto, anzi, come una logica  cofiseguenza degli atteggiamenti da lui presi in passato, specie in relazione  alla guerra di Libia. Un giudizio di Camillo Berneri del 1924 (mentre  volgeva al termine la parabola di Rocca come dirigente fascista) racchiude in  poche parole il comune sentire degli anarchici italiani e si può dire riassuma  buona parte della successiva riflessione storiografica sul personaggio.  «Massimo Rocca — scriveva Berneri — non è mai stato anarchico. Fu  individualista; il che non è la stessa cosa». Comunque si voglia vedere, è  però indiscutibile che fu nel clima culturale e politico dell’anarchismo       V Per il testo completo del manifesto del 20 settembre v. MARIA RYGIER, Sulle soglie di  un'epoca, cit., pp. 27-29.   Il manifesto, intitolato “Per la Francia e per la libertà”, fu pubblicato a stralci su «Il Resto del  Carlino» del 21 settembre 1914 (Un manifesto di anarchici e di rivoluzionari a favore della  guerra), su «Il Corriere della Sera» del 23 e su «L’Iniziativa» del 26. Eloquente il commento  del quotidiano liberale bolognese: «Oggi gli anarchici ed i rivoluzionari italiani si levano in  piedi a respingere la neutralità e a richiamare il soccorso di tutti gli uomini di libertà, per dar  mano alla Francia, per schiacciare il blocco austro-tedesco, per riportare in Europa il soffio  della rivoluzione. Quale rivoluzione? Quella francese, quella borghese, quella dell’individuo e  della nazione: la nostra!»   Per le ripercussioni del documento in seno al movimento anarchico v. gli articoli / sovversivi  guerrafondai, «Avanti!», 23 settembre 1914 (cui fece seguito una risposta di Gigli a  Mussolini, pubblicata dall’organo nazionale socialista quattro giorni dopo), e // manifesto dei  falliti, «Volontà», 3 ottobre 1914. Sull’intera vicenda v. altresì UGO FEDELI. Note su! 1914-  1915. Gli anarchici e la guerra, in «Volontà», 1950, n. 10, pp. 622-628.   35 Cfr. MARIA RyGIER, Sulla soglia di un'epoca, cit., p.26   36 CAMILLO BERNERI, Uomini e idee. Libero Tancredi, «La Rivoluzione Liberale», 18 marzo  1924.   Il profilo tracciato da Berneri non nasceva unicamente da una valutazione di carattere  personale, ma sinseriva in una lunga consuetudine di pensiero. A proposito della campagna  interventista intrapresa da Rocca, «Volontà» del 5 settembre 1914 lo definiva «un anarchico  che... non è mai stato dei nostri»; e Luigi Molinari, uno dei padri dell’anarchismo italiano, in  suo intervento su «L’ Avvenire Anarchico» del 15 ottobre, gli contestava fermamente il diritto  a dirsi anarchico, almeno «nel senso scientifico della parola». Su Massimo Rocca si veda  anche la voce corrispondente in FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, op. cit., Vol. IV.    24,             gra n. che si formarono uomini come Massimo Rocca e che questi  Icolare si pone come una delle fi iù  i x i igure più controverse e a tutt’oggi  cin definite della storia politica italiana del Novecento. seal  so n° ‘è fon il 26 ni 1884 da una famiglia di modeste condizioni  , operaio tipografo come il compagno Mario Gi i  i ; io Gioda, Rocca  accostato all’anarchismo agli inizi del ‘ ù ole  ‘ lel ‘900, nel momento in cui, insi  prime suggestioni nietzschiane e all’inqui IRR  € Inquieta poesia di Henrik Ibsen, si  TARA ni nel nostro paese le idee di Johan C Schmidt  mosciuto con lo pseudonimo di M i il fil  ueglicicoa i ‘ax Stirner), il filosofo de  n x Attratto dalle teorie degli individualisti, che a quelle idee e a  iaia i 5 apici Rocca si era contraddistinto per un’intensa  nferenziere, collaborando nel frattem i gi i  ttività d ere, collal po a numerosi giornali  o anarcoindividualista, fra i quali «Il Grido della Folla» di  ip ; Pi 1906 al 1911, con l’amico Alfredo Consalvi”, aveva dato vita  PR lata rino del «Novatore», rivista improntata a un marcato  alismo intellettualistico; esperienza che gli  d | istici e gli era valsa lunghe ed acri  polemiche con gli ambienti dell’anarchismo ufficiale’, Agli eccessi       37 è Pics E ;  a Gipi ear opera di Max Stimer, L'Unico e le sue proprietà, apparve nel  P i Torino, a cura del tipografo modenese Ettore Z. i, già i  gruppi anarchici degli Stati Uniti e l°o, i i ua FR  pera di Max Stirner, una i i i  del Geni met 1a d ner, prima introduzione al pensiero  Ì $ ; pali divulgatori delle teorie individualiste i i  libertario italiano furono - con i i an  eri Nella Giacomelli - Ettore Molinari, Giuseppe Monanni e Leda  Sulle fortune ‘e le diverse correnti dell’indivi i  ell’individualismo anarchico nel nostri  DA A ’ pu  Pena piace alla settimana rossa. Per una storia dell Di.  Italia (1881- , Firenze, 1977, p. 97 ss., e PIER CARLO M. i i ici  vet csi; HRR degli attentati, Milano, Rizzoli, 1981, p. 193 i Vf perg  « rido della Folla» fu il primo giornale ‘a hico italia i  «Il ( fuvil narchico italiano di schietta int i  HR ino acri ni sia del 1902 da Ettore Molinari e Nella Giacomelli cad  i ovanni Gavilli, cessò le pubblicazioni cinque anni più tardi i i  7 Vai toi PIER. . ardi. T  CAS ira din videro la luce in quegli anni, i più Sposi frico  » (Firenze, 5), «La Protesta Umana» (Mil: 3 1 i ire  1907-1908), «Sciarpa Nera» (Milano, 1910 veli Gil INIT A  | , -1911) e «La Rivolta» (Milano, 1910  ueste pubblicazioni ebbero fra i | iù assidui i si i  9 i loro più assidui collaboratori Oberdan Gigli e Mario Gi  i loda.  V a ale a i. nel ve Anarchico individualista, stretto collaboratore  oca, 1 protagonisti dell’anarcointerventismo. Nel do) ì  convinzione al fascismo e nel 1929, anche in virtù ' fottla chi paria  ; i ; rtù della stretta amici  Rossoni, fu radiato dall’elen i ivi Mir gira  gs co dei sovversivi. Cfr. ACS, CPC, Busta 1441 [Consalvi  40 : . 13  Ra SS anni (poi semplicemente «Novatore») uscì in tre serie successive: la  Lr n Pose A psi ottobre 1906; la seconda — dopo che Rocca e Consalvi  ‘alia per gli Stati Uniti — a New York, dal 15 ottobri i  i a i 7 i } e 1910 al 4  de Wperzia di nuovo in Italia (prima a Milano, poi ancora a Roma), dal 29 luglio al  « Nel 1907 il giornale anarchico romano «La Gioventù Libertaria» accusò    22    MRO PEPATE PITT TT ATER RPVOR    polemici, che ne avrebbero segnato tutta la vita, lo spingevano d’altra parte il  carattere irrequieto ed un acceso orgoglio intellettuale, tipico della sua  formazione di autodidatta.  Lo scoppio della guerra libica lo aveva visto a fianco di Arturo Labriola e  degli altri sindacalisti rivoluzionari sostenitori dell'impresa (ai quali si  sentiva affine per vocazione ideale), su posizioni decisamente “tripoline”’'.  Con la sua propaganda a favore dell’avventura coloniale, il solco che già lo  Alivideva dai suoi vecchi compagni si era fatto incolmabile. Nell’estate del  1914, tuttavia, grazie anche all’interessamento di Mario Gioda, aveva tentato  di riavvicinarsi al movimento anarchico, chiedendo, con qualche speranza, di  poter prender parte al progettato - e presto abortito - congresso di Firenze®.  Con ostinazione, cui non era stata estranea una buona dose di  autocompiacimento, e a dispetto dei suoi molti avversari, Rocca aveva  continuato (e, in fondo, sempre avrebbe continuato) a considerarsi anarchico.       Rocca e Consalvi d’essersi appropriati dei fondi raccolti in Italia e all’estero per finanziare la  rivista. Cfr. LEONARDO BETTINI, Bibliografia dell'anarchismo, Firenze, CP, 1972, ad indicem.  dl Sul “Tibicismo” di Rocca v. soprattutto LiBERO TANCREDI, Una conquista rivoluzionaria. In  pro e in contro la guerra di Libia, Napoli, Editrice Partenopea, 1912.   Rocca era in stretti rapporti con gli ambienti del sindacalismo rivoluzionario. Tra il 1909 e il  1911 suoi scritti erano comparsi su «Pagine Libere» di Paolo Orano e Angelo Oliviero  Olivetti e su «La Lupa», la rivista fiorentina fondata da Orano che fu arena d’incontro fra  sindacalisti e nazionalisti (Orano, tra l’altro, scrisse la prefazione al volume di Rocca La  tragedia di Barcellona, pubblicato nel 1911). Quanto al nazionalismo, bisogna dire che Rocca  ne aveva seguito con grande interesse l’avventura politica, come anche testimoniato  dall’articolo. // neo nazionalismo, scritto per il «Novatore» di New York nel dicembre del  1910, all’apertura del congresso nazionalista di Firenze che decretò la trasformazione del  movimento in Associazione. «E’ notevole — aveva scritto Rocca in quell’occasione — che  nell'Italia democratica del presente, tutta piena di pacifisti e di umanitari, vi sia un Corradini  abbastanza coraggioso per inneggiare alla guerra ed alle armi [...]. Certo, il nazionalismo in    Italia è un fenomeno nuovo, che sconvolge molte teorie, ma che comincia ad imporsi e col    quale bisognerà confrontarsi. Bisognerà, se non altro, considerarlo come un’onda di sincerità  lia, e che non manca d’un lato    che avvolge gli ultimi residui virili deila borghesia d’Ital  onorevole e grandioso».   #? Gioda (un intervento del quale —  figurava nel programma congressuale) av    “Gli anarchici di fronte agli altri partiti sovversivi” —  eva accompagnato una nota di raccomandazione alla  lettera indirizzata da Rocca al comitato ordinatore del congresso fiorentino. In quella lettera -  che «Volontà» rifiutò di pubblicare — Rocca aveva auspicato che il congresso potesse servire  «di spiegazione fra compagni e di mezzo di pacificazione» e aveva chiesto d’esservi ammesso  come relatore sul tema “Guerra e militarismo”, al riguardo assicurando che la sua tesi era  «meno eterodossa» di quanto potesse sembrare € di essere in grado di spiegarsi  «fraternamente su Tripoli». Cfr. MAURIZIO ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima  guerra mondiale. Lettere di anarchici interventisti (1914-1915), cit., pp. 92-93.    23    Nelli 7 f 4 7  ell’introduzione a un suo libro di quel periodo, che possiamo leggere come    La programmatico del suo modo di interpretare l’anarchismo, aveva  ritto: i    Dal momento ch’io persisto a dichiararmi ed a sentirmi anarchico senza curarmi  dell’altrui divieto o permesso [...], credo e persisto a credere che l’anarchismo  quale energia. critica di pensiero e di temperamento individuale, e le  affermazione ribelle di valori etici nuovi, possa avere una vasta ed îm Bi  funzione da compiere, a lato dei movimenti pratici: credo anzi che dell'anfchismo  ve ne sia molto oggidì — fuori degli anarchici ufficiali — nelle minoranze ch  formano la parte più viva e suscitatrice della vita pubblica odierna i    A ; questa visione concettuale, estetizzante e fortemente  elitaria  dell anarchismo, inteso più come uno stato d’animo che come un corpo certo  di dottrine e di programmi, Rocca restò in definitiva sempre fedele, pur nel  mutare delle esperienze politiche e personali, e ad essa si sarebbe fiheli    richiamato, negli anni della sua adesione al fascismo, a motivare le posizioni  assunte all’inti del ito!  interno del partito".       4 E È n 5 È  RSA ott ; “regni; contro l'anarchia. Studio critico-documentario, Pistoia, Il  Punto focale della riflessione di Rocca era la contrapposizione fra la rigidità formale  dell anarchia, intesa come dottrina politico-filosofica, e l’energia liberatoria dell’anarchism  Se l’anarchia rappresentava il mito elevato a dogma, «una concezione trascendente [ n  superiore e padrona anche di chi vi crede»; l’anarchismo era invece più propriamente 104  disposizione dello spirito «l’eterna sete di progresso, di libertà, di novità», incarnantesi nell:  rivolta, «nel senso più puro ed etico del termine», al punto che «tutte le rivolte passate è  future, tutti gl’ideali nel loro senso dinamico» potevano considerarsi sue mai istazioni AI  libro di Rocca era premessa una breve lettera di Arturo Labriola (a riprova dei legami esistenti  ia individualista torinese e il mondo del sindacalismo rivoluzionario), che  Gol da È ci Sia ammirazione per l’autore, definendolo «uno degli scrittori politici più  Nel 1924, in una lettera/dedica a Mario Gioda premessa ad una raccolta dei suoi articoli  revisionisti sul fascismo, Rocca avrebbe scritto: «Tu, Gioda, sei tra i pochi che mi furono  compagni di spirito anche prima che il fascismo sorgesse: tra quel gruppo di sovversivi che  volevano esser tali per disprezzo delle classi dirigenti autodemolitrici di se medesime e della  nazione, ma che affermavano ereticamente la realtà della patria fra le masse sovversive di  allora. Orbene, io ho ripassato in questi giorni quel mio libro L'anarchismo contro l'anarchia  [..] ein quelle cinquecento pagine, ho ritrovato, esplicito o in nuce, moltissimo di ciò che è  oggi il fascista che ti scrive. Vi ho ritrovato cioè [...] il riconoscimento del sentimento  nazionale quale dato integratore dell’individuo e quale spinta indispensabile al progres  umano [...]; l'immortalità dellò stato e del diritto, pur attraverso le sue trasbordo fol  organo necessario a consolidare e conservare le conquiste operate dalla società su se ‘stess  concretandone la coscienza e selezionando, con la resistenza del potere politico, le Pisi  veramente rivoluzionarie e rinnovatrici dalle irrequietudini dissolventi; il diritto alla libertà    24    «Non mancherà di stupire chi conosce qual sia la concezione politica per la  quale io milito — scriveva Rocca all’esordio della sua campagna interventista  - sebbene sia coerentissimo con ciò che penso da dieci anni e che da tre anni  sostengo apertamente, nella previsione dell’attuale catastrofe». Fulero della  nuova impresa polemica di Massimo Rocca era la rivendicazione, ribadita  fra il settembre e l’ottobre in numerosi altri interventi”, della natura  sostanzialmente anarchica della lotta contro il militarismo e l’espansionismo   desco in difesa dei popoli latini, dal momento che «Ia latinità aveva sempre  rappresentato la libertà, il progresso e la rivoluzione»*”. Alla maggioranza  degli anarchici rimproverava perciò di. aver tradito l’eredità e il messaggio  ideale del vero anarchismo, «quello che combatteva Mazzini per  completarlo, più che per negarlo»'*, e di essersi messi al giogo  dell’opportunismo ministerialista e del complice “teutonismo” dei socialisti  ufficiali”.       interiore per chi è capace di foggiarsi nel proprio spirito una legge, e la legittimità della  coazione su chi non si eleva a tanto» (MASSIMO ROCCA, Idee sul fascismo, Firenze, La Voce,  1924, p. 12).  4 LiBERO TANCREDI, // dovere della guerra, «L’Iniziativa», 29 agosto 1914.  Questo e altri scritti del periodo sono anche contenuti (ma spesso in forma incompleta o  rimaneggiata) nel volume di Rocca, Dieci anni di nazionalismo fra i sovversivi d'Italia,  Milano, Il Rinascimento, 1918.  ‘° Oltre agli articoli direttamente citati v. anche L'accordo che commuove, «L’Iniziativa», 12  settembre 1914, Gli eterni vinti, «Il Resto del Carlino», 3 ottobre 1914, e Gli anarchici, i  sindacalisti e la situazione internazionale, «Il Lavoro», 24 settembre 1914.  4? LiBERO TANCREDI, // dovere della guerra, cit.  4" Ip., Gli anarchici del kaiser, «L’Iniziativa», 19 settembre 1914.  L'organo del PRI pubblicò la seconda parte di quest'articolo il 26 settembre. La controversia  che ne seguì coinvolse soprattutto Ottorino Manni, indicato da Rocca fra gli anarchici  favorevoli alla guerra contro gli Imperi Centrali (insieme ai fiorentini Lato Latini e Giovanni  Canapa), per via di due suoi interventi apparsi su «Il Libertario» del 27 agosto e del 10  settembre (Gli eroi della guerra e Polemica sulla guerra). Manni, che aveva effettivamente  ammesso di trovare «realistiche e più positiviste», rispetto alle astratte prese di posizione  dell'ortodossia anarchica, le considerazioni di Mario Gioda e di Oberdan Gigli a proposito  dell’eventualità della difesa in armi del territorio nazionale, respinse però ogni addebito  Interventista, dapprima con un nuovo articolo su «Il Libertario» del 24 settembre (La guerra  no!), poi con una lettera di poco successiva a «Volontà». A parte il caso di Manni, bisogna  dire che gli esempi portati da Rocca nel suo celebre articolo non erano granché probanti.  Infatti, se Giovanni Canapa (meglio conosciuto con lo pseudonimo Brunetto D’Ambra) era un  nome noto dell’anarchismo italiano, altrettanto non si poteva dire di Lato Latini. Nel giugno  del 1904, il Prefetto di Firenze - dove Latini, nativo della provincia di Arezzo, esercitava il  mestiere di tipografo - aveva informato la Direzione Generale di Pubblica Sicurezza di non  averne fino ad allora segnalato il caso, perché «modestissimo gregario della setta anarchica».  ACS, CPC, Busta 2729 [Latini Lato].  4° Per un giudizio di Rocca sulla politica del Partito Socialista si veda la sua prefazione al  volume di EDMOND LASKINE, / socialisti del kaiser, Milano, Sonzogno, 1916, pp. 5-38.    25             L’ardente propaganda di Rocca per la guerra, propaganda che egli (come del  resto gli altri anarchici interventisti) riteneva potesse indurre la base del  movimento ad abbandonare la ferma pregiudiziale neutralista, contribuì a  esacerbare gli animi, mentre si moltiplicavano le provocazioni e le  intemperanze, da una parte e dall’altra. La sera del 4 ottobre Rocca e Maria  Rygier s’incontrarono alla Società Operaia di Bologna per una conferenza  sulla “Morale della guerra”, ma la decisione non si rivelò molto felice, vuoi  per la sede prescelta — il pubblico essendo costituito per lo più da operai  anarchici e socialisti — vuoi per il momento poco propizio”, e l’annunciata  discussione si concluse in un prevedibile tumulto, con tanto di lancio di  sedie, nel quale i due oratori e le loro improvvisate guardie del corpo (fra cui  il giovane romagnolo Leandro Arpinati) ebbero inevitabilmente la peggio”.       50 Il 28 settembre si era tenuto a Bologna un comizio del deputato belga Lorand — in Italia allo  scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica alla causa del proprio paese — in occasione del  quale gli organizzatori avevano fatto circolare un volantino in cui si affermava che «i  repubblicani, i sindacalisti, gli anarchici più colti e intelligenti erano per la guerra  all'Austria». Il Fascio Libertario bolognese e il gruppo del foglio antimilitarista «Rompete le  file!» avevano reagito con sdegno alla pretesa degli interventisti di ascrivere anche gli  anarchici tra i fautori della guerra (una loro lettera di protesta era stata pubblicata  dall’«Avanti!» il 3 ottobre).   ®! Cfr. La conferenza di un anarchico sospesa con una sedia in testa, «Il Secolo», 5 ottobre  1914, e Violenze e tumulti di socialisti ad un comizio di anarchici, «Il Corriere della Sera», 6  ottobre 1914.   Sul periodo anarchico di Leandro Arpinati, 0, meglio, sui legami tra l’azione politica di  Arpinati durante il fascismo e le sue radici anarcoindividualiste, v. STEPHEN B. WHITAKER,  Leandro Arpinati anarcoindividualista, fascista, fascista pentito, in «Italia Contemporanea»,  1994, n. 196, pp. 471-489. Per il resto, le poche notizie sulla formazione politica di Leandro  Arpinati sono mediate dal vecchio volume di TORQUATO NANNI, Leandro Arpinati e il  fascismo bolognese (Bologna, Edizioni Autarchia, 1927), un’opera agiografica, scritta nel  pieno delle fortune politiche dell’Arpinati fascista, alla quale occorre guardare con molta  cautela. A quel primo lavoro, ritirato dal commercio subito dopo la pubblicazione (sembra per  volontà dello stesso Arpinati) e mai più ristampato, hanno attinto tutti i successivi biografi di  Arpinati, da DUILIO SUSMEL (Leandro Arpinati, in «La Domenica del Corriere», 1967, n. 36  pp. 16-20) a AGOSTINO IRACI (Arpinati l'oppositore di Mussolini, Roma, Bulzoni, 1970). Nato  il 29 febbraio 1892 a Civitella di Romagna, in provincia di Forlì, Arpinati si era trasferito a  Torino giovanissimo, lavorando prima come sguattero d’albergo, poi come operaio alla  fabbrica automobilistica Diatto. Di estrazione socialista (suo padre Sante era stato uno dei  maggiori esponenti della sezione socialista di Civitella), il giovane Arpinati si era avvicinato  all’anarchismo intorno al 1910, restando affascinato dalle teorie degli individualisti e  divenendo, a quanto pare, grande ammiratore di Massimo Rocca. Risalirebbe a questo periodo  anche il primo contatto di Arpinati con Mussolini, all’epoca direttore de «La Lotta di Classe»,  chiamato a inaugurare il nuovo mercato coperto di Civitella intitolato ad Andrea Costa.  Nell'occasione, gli anarchici locali, con alla testa Arpinati, avrebbero inscenato una dura  contestazione, suscitando il risentimento di Mussolini (ma non v'è traccia di quest’episodio  nelle pagine dell’organo socialista forlivese). Da quel momento - secondo gli autori sopra    26    PPANTPP 777 VIP PRRPPIA       Le seggiolate rimediate alla Società Operaia bolognese non Fine Rei  effetto che quello di confermare Rocca nella propria capar — -  campo, né gli impedirono in alcun modo di proseguire, E: e n  proselitismo, pur in un clima di sempre maggior tensione”. % si g D i  dopo l’episodio di Bologna — e un momento prima di lasciare sn ia o ;  Francia alla volta delle truppe garibaldine - Rocca, che era da an >  rapporti con Mussolini e l’«Avanti!» , ottenne anzi il suo per più  yritido e importante, firmando i celebri e controversi articoli su « ua  Carlino» che forzarono il futuro “duce” del fascismo ad accelerare i temp:  del suo strappo interventista"‘.       citati Arpinati e Mussolini sarebbero comunque rimasti in seria Fata sunt  î E) ri . . A  icizi è ipazione di Arpinati alla vita politica  amicizia. Quel che è certo è che la partecipazi T a Fi i  ico itali i ionale collaborazione con un giorn: ino,  anarchico italiano, fatta eccezione per un'occasi x DE dpr  arti i i Socialismo e anarchismo («L’ Alleanz ;  che aveva fruttato l’articolo in due parti 4 % nt gent  i he rilevante, e che solo l’intervei  20 e 27 maggio 1910), era stata tutt'altro cl ] ) i re  ) A ità di i notare. Secondo la figlia, autrice anc!  futuro gerarca l’opportunità di farsi noi rice | na  iscutibi i i lo prese parte attivissima ; i  iscutibile biografia, l’anarchico romagno i ima 4  a Fira dopo quello famoso della Società Operaia, in papea RE  incidenti, al punto da assumere un nome falso - Vittorio Neri -, da saga panda  all'oscuro la madre delle sue disavventure» (Oo Cari erinen ‘eigen i  r ittari ttera a firma È  io padre, Roma, Il Sagittario, 1968. p. 37). Una lett O (  Civitella che si proclamava «al fianco» di Mussolini «per la A i verso sa rr,  i i Italia» del 25 novembre . Impiegato ,  comparve in effetti su «Il Popolo d Ita i È | pi  aopinti fu riformato dal servizio militare perché figlio maggiore di madre vedova,  rese parte alla guerra. i iris fi ida A  I} GIà i 6 ottobre, la testa ancora fasciata per le ferite riportate due gio! se i gii  artecipò ad una conferenza, indetta dall’ Unione Repubblicana bolognese Ure SR  ochist e macchinisti, con una relazione sulla Triplice Alleanza. Cfr. «L’Inizi: n  ail il i izioni Librarie Italiane, 1954), Rocca  S In Come il fascismo divenne una dittatura (Milano, Edizioni Librarie » anni cbr  scrisse di aver conosciuto Mussolini nell’estate del 191 pra a pa dr n  del fi i À i lini direttore dell’«Avanti!», Rocc: i ì  del futuro “duce”. Divenuto Musso! ‘ V HAN gie  zi ialista (firmandosi con gli pseudonimi a  collaborazione con l’organo social 1 i i  juidi il l’articolo 4/ rimorchio dei ciechi. , «ve  Guidi), conclusasi 1°8 agosto 1914 con colo i c Sligo soin  isagli i P in Dieci anni di nazionalismo — di ui 2g (  avvisaglia — ricordava l’autore in n eta  A is la censura di Mussolini, allora fe; t  d'interventismo», non aveva passato la cei h IR  M Si i articoli // direttore dell’«Avanti!» smascherato. 9 i  Si tratta degli articoli / » ‘ato. U xa  aperta a Benito Mussolini, e La polemica fra Benito Mussolini e Libero patata ; ed  del socialismo contro la guerra. Un uomo di bronzo, «Il Resto del Carlino», 7 e  sd Ai abissi è. nÎ, , o 9  ‘sì questa vicenda v. RENZO DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit, p. 255 ss., €  MASSIMO Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 39 ss.    27    I casi fin qui considerati (ai quali dev'essere senz'altro aggiunto quello del  famoso pubblicista Roberto D’Angiò) 5 sono sicuramente i più noti ed  emblematici, ma l’irrompere del conflitto europeo, lungi dal trovare gli  anarchici tutti risolutamente ostili e impenetrabili ad ogni incanto guerresco,  suscitò anche nel movimento libertario non pochi dubbi e ripensamenti, che,  se non sfociarono tutti in atteggiamenti positivi di sostegno all’intervento,  fermandosi a volte al limite dell’ “eresia”, o non andando oltre un generico -  e del resto largamente condiviso - sentimento di simpatia per la causa  dell’Intesa, testimoniavano di un’incertezza diffusa e sotto molti aspetti  inevitabile, considerata l’asprezza della prova, capace di segnare in modo  indelebile la coscienza di molti. Così, via via che gli eventi bellici  maturavano e si modificava la situazione politica interna, numerosi altri  anarchici (alcuni dei quali, allora semplici gregari - come Arpinati e un altro  giovane romagnolo, Edmondo Mazzucato?” -, si sarebbero fatti le ossa    °° Roberto D’Angiò, nato a Foggia nel 1871, era stato redattore de «Il Libertario». La sua  attività si era dispiegata per la maggior parte all’estero: in Egitto, dove aveva soggiornato per  quattro anni, dal 1902 al 1906, contribuendo, grazie soprattutto a due giornali da lui fondati e  diretti («L’Operaio» e «Lux»), a rinsaldare la già fertile comunità anarchica italo-egiziana; e a  Montevideo, in Uruguay, dove era giunto nell’aprile del 1906 e dove aveva dato vita al foglio  «La Giustizia». A differenza di Rocca e degli altri esponenti di punta  dell’anarcointerventismo, D’Angiò non ebbe un ruolo determinante nella propaganda per  l’intervento, ma le sue dichiarazioni pubbliche a favore della guerra contro gli Imperi Centrali  destarono egualmente sconcerto. Nel dopoguerra - come vedremo - D’Angiò avrebbe  rivendicato con pervicacia la scelta interventista, tentando anche, senza successo, di  raccogliere i superstiti dell’anarcointerventismo intorno ad un progetto politico autonomo.  Cfr. ACS, CPC, Busta 1612 [D°Angiò Roberto]. Sulla figura e l’opera di Roberto D’Angiò v.  altresì LEONARDO BETTINI, op. cit., ad indicem.   5° Il percorso politico di Mazzucato era stato sotto molti aspetti simile a quello di Leandro  Arpinati. Nato a Forlì nel 1887, il repubblicano Edmondo Mazzucato si era trasferito a Milano  appena diciottenne, in cerca di miglior fortuna. Nel capoluogo lombardo aveva trovato  dapprima lavoro nell’ufficio pubblicitario del giornale socialista «Il Tempo», poi, come  tipografo, presso la tipografia Politti e Galimberti, dove si stampava l’anarchico «Il Grido  della Folla». Risalivano dunque a quel periodo i primi contatti di Mazzucato con  l’anarchismo, testimoniati dalla sua collaborazione ai fogli libertari milanesi, «La Protesta  Umana» e «L’Operaio». Nel gennaio del 1906, il giovane anarchico era stato tratto in arresto  per aver preso parte a una manifestazione commemorativa della “domenica di sangue” in  Russia. Tre anni più tardi, militare di leva, era stato condannato a un anno di reclusione per  aver percosso un superiore e internato nel carcere napoletano di Sant'Elmo. Nell'ottobre del  1910 aveva assistito come osservatore al congresso milanese del PSI, durante il quale - come  sembra - conobbe il conterraneo Benito Mussolini. Nove anni dopo, scrivendo per l’organo  dell’Associazione fra gli Arditi d’Italia, Mazzucato avrebbe rievocato quell’episodio con  queste parole: «Lo ricordiamo fin dalle giornate del congresso socialista di Milano nel 1910,  quando con la sua eloquenza incisiva e tagliente sferzò tutto un sistema di obbrobrio, di  patteggiamenti osceni, di volute rinunce della parte cosiddetta intellettuale del Partito  Socialista. Fu una rivelazione» (EDMoNDO MAZZUCATO, Governo di pigmei, «L’ Ardito», 31       28       proprio nella lotta interventista) si lasciarono attrarre dal fascino e dalle  ragioni della guerra. Fra questi dovevano emergere due uomini, diversi per  indole e per esperienze di vita (e ai quali il dopoguerra avrebbe riservato  opposti destini), ma uniti allora nella comune battaglia interventista, nella  quale avrebbero riversato tutte le loro energie. Erano Attilio Paolinelli, di  Grottaferrata?”, e il lodigiano Edoardo Malusardi, entrambi firmatari del  manifesto del 20 settembre.   Lo stuccatore Edoardo Malusardi, che all’epoca dei fatti aveva appena  venticinque anni (era nato il 30 agosto 1889), era poco conosciuto negli  ambienti anarchici nazionali. La sua esperienza di maggior rilievo era stata  la collaborazione con il foglio bolognese «L’Agitatore», per il quale aveva  curato una rubrica di corrispondenze da Lodi, firmandosi con gli pseudonimi  ‘Turbolente e Odroade, e rivelando, già allora, una naturale propensione per  la polemica giornalistica”. Attivo nella propaganda spicciola, specie in  ambito sindacale, e noto alle autorità di Pubblica Sicurezza per l’irruenza dei  comportamenti, il contributo di Malusardi alla vita politica del movimento  libertario era stato comunque limitato (sembra anzi che molti compagni lo  tenessero in conto di buono a nulla) e la sua sola uscita pubblica di una certa  importanza risaliva ad un comizio “pro scioperanti di Piombino e Isola  D'Elba”, il 7 settembre del 1911, a Lodi; comizio durante il quale aveva  avuto il compito d’introdurre l’oratore principale, che nell’occasione era  stato Massimo Rocca”. ; i  Benché influenzato dalle teorie dei sindacalisti rivoluzionari, l’anarchismo  di Malusardi appariva intensamente venato d’individualismo. L’anarchia -       maggio 1919). Allo scoppio della guerra europea Mazzucato seguì dunque Mussolini  nell'avventura interventista e si arruolò volontario, combattendo negli arditi. Nel opoguerra  wi rese protagonista nelle file del fascismo. Cfr. ACS, CPC, Busta 3192 [Mazzucato  Edmondo], e EDMONDO MAZZUCATO, Da anarchico a sansepolcrista, MRO EEgIeTE  1934 (per quanto edulcorata questa breve autobiografia di Mazzucato A si n; “i  rappresentazione significativa non solo ne av politico dell’autore, ma anche del cl   >) a il primo movimento fascista). È È  Matino iaia db nel 1882. Approdato all’anarchismo dopo travagliate esperienze  personali (nel 1898 era stato condannato a 11 anni e otto mesi di carcere per aver a  la matrigna), fu uno dei grandi protagonisti dell’anarcointerventismo. Cfr. ACS, CPC, Busi   Paolinelli Attilio]. 7   liaison che Ho vita, con qualche interruzione, dal maggio 1910 al luglio E nta  stato uno dei più importanti periodici anarchici italiani, potendo contare sul contri uto di  alcuni tra i nomi più rappresentativi dell’anarchismo, da Luigi Fabbri a Domenico Li  da Armando Borghi alla stessa Maria Rygier. Oltre che al settimanale bolognese, Malusari i  aveva occasionalmente collaborato a «Il Grido della Folla», a «L’Avvenire Anarchico» e alla  sindacalista «L'Internazionale», sempre occupandosi-di cronaca locale lodigiana.  Cfr, ACS, CPC, Busta 2964 [Malusardi Edoardo].    29          aveva scritto in polemica con un foglio cattolico di Lodi ai tempi della sua  collaborazione a «L’Agitatore» - «è un sublime Ideale di redenzione  proletaria», avente per seguaci «tutti gli spiriti ribelli delle innumerevoli  nazioni» e per compito quello «di combattere ogni tirannia”.    Noi però — aveva concluso Malusardi — non ci illudiamo, lo sappiamo che la  realizzazione di quest’Ideale è molto lontana, ed ecco perciò che, basandoci sulla  realtà, benché siamo umanitari per eccellenza, giustifichiamo tutti gli atti di violenza  diretti contro l’autorità, le alte personalità e l’ordine costituito, poiché [...]  fintantoché voi adoprerete la violenza per sopprimerci, e fintantoché vi cardio  diseguaglianze, esisteranno sempre individui risoluti, i quali, facendo getto della  propria vita, emergeranno dalle moltitudini belanti per vendicare la propria classe”!    La realtà opposta alla dottrina, la violenza come forza sovvertitrice e  pedagogica, la massa amorfa e, in antitesi, la figura del ribelle, l'individuo  eroicamente consapevole, erano motivi ricorrenti nella simbologia e nella  fraseologia dell’individualismo anarchico e già contenevano, in potenza, il  germe dell’anarcointerventismo. Nel caso specifico di Edoardo Malusardi, si  può affermare che ne avrebbero accompagnato, segnandolo profondamente.  l’intero percorso politico. i  Nella propaganda per l’intervento Malusardi manifestò un’ancor più  spiccata vis polemica e una notevole intraprendenza organizzativa  rendendosi sin dall’inizio protagonista di un vivace dibattito, nientemeno che  con Luigi Molinari®?. La contesa sollevata dal giovane anarchico lombardo.  che investiva proprio la consistenza e la misura dell’adesione anarchica alle  tesi interventiste, finì per coinvolgere il direttore de «Il Libertario», Pasquale  Binazzi. Malusardi, infatti, aveva citato alcuni articoli filo intesisti apparsi  sul giornale spezzino (uno dei più diffusi e autorevoli dell’anarchismo  italiano) come segno dell’orientamento tutt’altro che univoco degli anarchici  in merito alla guerra europea. Binazzi fu costretto a replicare che «il  condannare e disprezzare fatti odiosi compiuti dagli aggressori austro-       °° TURBOLENTE, Buffe denigrazioni. Lettera aperta al direttore del giornale «Il Cittadino» di  sal «L’Agitatore», 28 aprile 1912.  vi.   ° La prima sortita interventista di Malusardi apparve su «L’Iniziativa» del 12 settembre 1914  (i articolo Anarchici per la guerra). Il 3 ottobre, sempre sulle pagine dell’organo nazionale  repubblicano, Malusardi si scagliò contro Luigi Molinari, il quale, sull’ «Avanti!» del 25  settembre, aveva definito «bugiarda ed interessata» l’opinione, diffusa soprattutto negli  ambienti borghesi e democratici, che gli anarchici italiani fossero per lo più favorevoli  all intervento. La polemica fra i due si trascinò per diversi giomi. Molinari aveva conosciuto  Malusardi tre anni prima, in occasione di una commemorazione di Francisco Ferrer avvenuta  a Lodi il 26 ottobre 1911. Cfr. ACS, CPC, Busta 2964 [Malusardi Edoardo].    30          tedeschi contro i serbi, i belgi e i francesi»? era cosa assai diversa dal far  attiva propaganda per l’intervento, con ciò riaffermando l’indirizzo  indiscutibilmente anarchico del suo giornale.   In verità, la condotta de «Il Libertario», improntata, rispetto a quella di  «Volontà» e de «L'Avvenire Anarchico», a una maggiore elasticità,  costituiva di per sé la spia di un non trascurabile disagio. Non si può negare,  infatti, che il foglio di Binazzi — che, come si è visto, aveva pubblicato il  primo articolo “revisionista” di Maria Rygier — concedesse ampio spazio ad  enunciati e proposte che, agli occhi dell’ortodossia anarchica, dovevano  apparire quanto meno discutibili. Negli scritti di Alighiero Tanini, di Marino  Baldassarre e del socialista-anarchico Giacinto Francia (collaboratori di  lunga data del giornale e figure non marginali dell’anarchismo italiano) ci,  scritti ispirati ad un radicale filo-francesismo e intrisi di un odio altrettanto  violento per 1’ Austria e la Germania, non si esitava a parlare di «nuove orde  di Attila» che mettevano a repentaglio la sopravvivenza stessa della civiltà  occidentale; del terribile pericolo rappresentato dal «pangermanesimo  delirante, negatore violento delle razze e del genio latini»; di Francesco  Giuseppe e Guglielmo II come di due «semi umani [...] avvinazzati, due  bruti appestati di grandezza imperialista e di delirio militare»; e si evocava  «il tragico lievito rosso» della guerra, da cui sarebbe dovuta scaturire, sulle  rovine delle antiche tirannie, la palingenesi rivoluzionaria”.   Il fatto che, col passare del tempo, queste posizioni si andassero mitigando*°  è che Binazzi (come anche ebbe modo di chiarire nel dibattito a distanza con       ©! PASQUALE BINAZZI, Non equivochiamo, «Il Libertario», 8 ottobre 1914.   © ‘Tanini, in particolare, in virtù della sua costante attività politica e propagandistica €  nonostante la giovane età (era del 1889), godeva di molta considerazione. Costretto a riparare  In Svizzera per sottrarsi alle ricerche della polizia (da Losanna aveva regolarmente curato una  rubrica per «Il Libertario»), era rientrato in Italia alla vigilia della settimana rossa. Cfr. ACS,  CPC, Busta 5023 [Tanini Alighiero].   © le citazioni sono tratte, nell’ordine, da: ALIGHIERO TANINI, La guerra dei titani, «Il  Libertario», 20 agosto 1914, e La triplice alleanza è morta per il bene del mondo, Ibidem, 27  iigosto 1914; MARINO BALDASSARRE, /mperialismo barbaro, Ivi; GIACINTO FRANCIA,  l.'apocalisse storica, Ivi.   ® Forse per non dar adito ad altre divisioni, Alighiero Tanini e Marino Baldassarre chiarirono  che la loro manifesta simpatia per la Francia e per il Belgio non celava assolutamente il  desiderio di vedere l’Italia in guerra a fianco delle Democrazie, e riaffermarono in più di una  eircostanza la loro fede internazionalista. Tanini s’ingegnò anche a mostrare la via per una  soluzione pacifica della questione nazionale: fare di Trieste una città libera e del Trentino una  provincia indipendente (si vedano, per quanto riguarda Tanini, gli articoli // nostro pensiero  pacifista, La fine del teutonismo e Il nostro ideale pacifista, «Il Libertario», 22 ottobre, 15  novembre, 17 dicembre 1914; e, per quel che attiene a Baldassarre, l'articolo / tocchi    dell'agonia, Ibidem, 22 ottobre 1914).    31       Malusardi) fosse personalmente del tutto contrario al coinvolgimento degli  anarchici nel nascente movimento interventista rivoluzionario, non toglie che  il suo giornale, si consideri o no un segno di «discutibile larghezza»,  rappresentò, almeno sino alla fine del 1914, una tribuna affatto secondaria di  confronto, anche estremo, sui temi della guerra.    Fondamenti ideologici e riferimenti politici dell’interventismo anarchico    Patrimonio di tutti (o di quasi tutti) gli anarchici interventisti era - come si è   già più volte accennato - l’eredità dell’individualismo. Poiché  l’individualismo fu fenomeno complesso e variegato, è indispensabile  cercare di definire i contorni di questa comune matrice dell’interventismo  anarchico e, più in generale, provare ad evidenziarne i tratti caratterizzanti.  A tale proposito, considerata la sua influenza, è il caso di soffermarsi ancora  una volta sul pensiero di Massimo Rocca, per il quale, nonostante l’iniziale  infatuazione per Stirner, l’individualismo non s’identificava - e non si era  mai del tutto identificato - con lo stirnerismo, quanto meno nella sua  accezione più diffusa, velleitaria e amoralistica. Alla volgarizzazione di  Stirner e alle sue conseguenti degenerazioni “metafisiche” (di cui egli  imputava la responsabilità a giornali come «Il Grido della Folla» e che non  riteneva meno dannose per l’anarchismo dell’utopia comunista  kropotkiniana) Rocca opponeva una valutazione storica e “sentimentale”  dello stirnerismo, che sostanzialmente non avrebbe mai abbandonato e che  costituirà il substrato culturale dei suoi futuri approdi politici.       AI contrario di Tanini e Baldassarre, l'avvocato Giacinto Francia (che era nato nel 1869 a  Minervino Murge, in provincia di Bari, e vantava una lunga militanza nelle file dell’estrema  sinistra pugliese) non tornò affatto sui propri passi. Smessa la collaborazione con «Il  Libertario», si schierò senza esitazioni per l’intervento e si arruolò volontario nei reparti  garibaldini impegnati sulle Argonne. Nel dopoguerra aderì al movimento fascista e prese  parte, in rappresentanza dei Fasci di combattimento pugliesi, al primo congresso nazionale  fascista (cfr. «Il Popolo d’Italia», 11 ottobre 1919). Rimasto fedele all’idea socialista-  anarchica, si distaccò dal fascismo non appena questo ebbe assunto una marcata coloritura di  destra. Pur senza mai assumere un atteggiamento di netta opposizione al regime (anche in  virtù di un carattere eccentrico e incline alla misantropia, che lo spingeva all’isolamento)  Francia visse il resto della sua vita sotto la stretta sorveglianza dell’autorità di Pubblica  Sicurezza. Cfr. ACS, CPC, Busta 2155 [Francia Giacinto].   © Gino CERRITO, L 'antimilitarismo anarchico nel primo ventennio del secolo, cit., p.37.  Sull’atteggiamento de «Il Libertario» riguardo alla guerra europea v. anche CLAUDIO  COSTANTINI, Gli anarchici in Liguria durante la prima guerra mondiale, in «Movimento  operaio e socialista in Liguria», 1961, n. 2, p. 101 ss.    32          Egli — aveva scritto di Stirner ai tempi del «Novatore» — non predica il delitto pel  delitto, la forza bruta per la forza bruta, ma le invoca perché nella Germania  profondamente statica ne rappresentavano lo sfasciamento. La sua “potenza”, il suo  “sacrilegio”, il suo egoismo hanno un’intenzione, un significato, una portata non  Individuale, ma sociale [...]. L’individuo di Stirner non è dunque lo scialbo  calcolatore egoistico del giorno per giorno o dei quattro soldi per truffare. E’ l’uomo  che si erge di fronte al sole e al mondo, pieno di tutta l’umanità che il passato gli ha  trasmesso, ma innalzato a questa base di ereditarietà, comune a tutti i suoi simili,  dalla gigantesca statura della sua personalità individuale”    Rocca sottolineava pertanto la grandezza “passionale” della filosofia di  Stirner, di cui intravedeva la forza trainante e rivoluzionaria nell’esaltazione  del sentimento e dell’istinto. Ammettere questo significava riconoscere,  accanto all’individuo, «ogni entità collettiva, dalla famiglia, alla classe, alla  nazione, cementate e fondate da una comunanza sentimentale»; significava,  in una parola, «negare l’astratto a favore del reale». Muovendo da queste  premesse, Rocca era approdato a quello che definiva “liberismo  rivoluzionario” o “novatorismo”, che era poi «l’individualismo anarchico  ampliato e confrontato con la realtà».    Noi — sono ancora sue parole — affermiamo altamente l’importanza dell’individuo  singolo, quale novatore, inventore e ribelle [...] Ma comprendiamo pure le folle che  rovesciano impetuose un ostacolo al progresso dietro la spinta di una minoranza  rivoluzionaria; comprendiamo la classe che si materia soggettivamente  dell’avversità sorda verso la classe opprimente; comprendiamo la nazione che si  forma per lunga eredità storica e si afferma contro lo straniero o contro lo stato suo  Interno che la sfrutta e la trascina alla vergogna. Comprendiamo insomma tutte le  rivolte [...]; comprendiamo tutte le volontà di affermazione e di dominio e le  esaltiamo quando sono sorrette da una fede sincera d’entusiasmo che le innalza al di  sopra del meschino determinismo quotidiano. Per noi gli statisti che tiranneggiano in  nome di un principio confessato e francamente servito sono infinitamente più nobili  e rivoluzionariamente più fecondi dei Giolitti che inaugurano l’accordo delle classi  corrompendole nella generale mangiatoia”       °" LiBERO TANCREDI, Liberismo rivoluzionario o individualismo democratico, «Novatore»,  New York, 16 febbraio 1911.  69 Ivi   Ivi,  "Ivi,  A proposito dell’individualismo di Rocca si veda anche il lungo articolo auto-apologetico,  Una difesa postuma (agli ex amici della «Vir»), in «Quand-meme» (un numero unico  pubblicato a Parigi nel luglio del 1908 su interessamento di Alfredo Consalvi), articolo nel  quale Rocca difendeva la propria interpretazione dello stirnerismo dall’accusa di «morbosità»    33          Solo tenendo presente questo punto di vista è possibile comprendere i  presupposti teorici dell’interventismo di segno anarchico-novatoriano  (quanto meno nei suoi artefici più consapevoli, come Oberdan Gigli) e le  ragioni profonde della successiva adesione al fascismo di molti dei suoi  protagonisti.   Quantunque il “novatorismo” fosse il tratto saliente dell’interventismo  anarchico, pure quest’ultimo non può non esser considerato nell’ambito di  quella vera e propria esperienza di sincretismo politico e ideologico che fu  l’interventismo rivoluzionario. Mentre il riaffiorare delle passioni  risorgimentali e dell’utopia garibaldina fece da ponte tra le forze  dell’estrema sinistra sindacalista e anarchica ed il Partito Repubblicano”, i  miti dell’azione e della violenza rivoluzionaria, incarnati nel sorelismo,  rimandavano a un linguaggio e a una simbologia noti tanto ai sindacalisti  quanto ai discepoli di Massimo Rocca”, Lo stesso individualismo, per la sua  carica eversiva e iconoclasta, servi da punto d'incontro fra gli anarchici  propugnatori della guerra e le correnti più radicali della cultura italiana del  tempo, in primo luogo le avanguardie futuriste, che ebbero una parte non  trascurabile nella campagna interventista”.       mossagli dalla rivista fiorentina di Giuseppe Monanni e Leda Rafanelli (cfr. Per  l individualismo, «Vir», marzo 1908, n. 3).   Fondamentali, per una testimonianza diretta a questo riguardo (prescindendo dagli   inevitabili accenti propagandistici e agiografici), le pagine dell’allora segretario del PRI  Oliviero Zuccarini, Storia della vigilia. Il Partito Repubblicano e la guerra d'Italia, Roma,  Edizioni de «L’Iniziativa», 1916.  ?° Circa i legami fra il mondo anarchico italiano e le dottrine di Georges Sorel — e, in senso  più ampio, l’ideologia e la prassi politica sindacalista — v. GIAN BIAGIO FURIOZZI, Socialismo,  anarchismo e sindacalismo rivoluzionario, Rimini, Maggioli, 1981. Sul nesso tra anarchismo  e sindacalismo rivoluzionario, specie in relazione alla nascita e all’attività dell’USI, v. anche  l’introduzione di Maurizio Antonioli a ARTHUR LEHNING, L'anarcosindacalismo. Scritti  scelti, Pisa, BFS, 1994, pp. 11-27, e EMiLIo DE FALCO, Armando Borghi e gli anarchici  italiani (1900-1922), Urbino, QuattroVenti, 1992, p. ll ss.   A partire dal numero del 15 agosto 1914, la rivista fiorentina «Lacerba», fondata l’anno  precedente da Giovanni Papini, assunse un contenuto esclusivamente politico, dando un  appoggio incondizionato alla propaganda per l’intervento. Nel quadro di un indirizzo  sostanzialmente nazionalista, le pagine di «Lacerba» non disdegnarono di accogliere posizioni  di segno rivoluzionario. Valga per tutti un articolo di Ardengo Soffici del primo settembre,  Per la guerra, nel quale l’artista sposava la tesi della guerra rivoluzionaria e tesseva l’elogio  di Gustave Hervé.   Sui rapporti tra anarchici e futuristi v. soprattutto ALBERTO CIAMPI, Futuristi e anarchici.  Quali rapporti? Dal primo manifesto alla prima guerra mondiale e dintorni (1909-191 7),  Pistoia, Archivio famiglia Berneri, 1989,    34       Le differenti impostazioni ideologiche, cui però sottostava una molteplicità  di riferimenti culturali comuni, s’intrecciavano dunque nella complessa  trama dell’interventismo rivoluzionario, del quale gli anarchici novatoriani  andarono a costituire uno degli elementi formanti. “Guerra e Germinal”  (ovvero guerra e rivoluzione sociale, guerra come mezzo per l’abbattimento  violento del militarismo e delle strutture politiche ed economiche borghesi),  la meta additata da Ottavio Dinale ai sovversivi italiani in un’intervista a «Il  Resto del Carlino», divenne il tema dominante della campagna interventista  dei partiti estremi”; e il “mito” della guerra rivoluzionaria - come lo ha  chiamato Renzo De Felice - s'impadronì anche dell’interventismo anarchico.  Massimo Rocca firmò il famoso “appello ai lavoratori italiani”, lanciato a  Milano il 5 ottobre 1914, per la costituzione di un Fascio rivoluzionario  d’azione internazionalista, punto d’inizio di un movimento che, di lì a pochi  mesi, avrebbe messo radici in tutta l’Italia centro-settentrionale”?. Da quel       " L'intervista a Ottavio Dinale (Ottavio Dinale dice «guerra e germinal») si trova in «Il  Resto del Carlino» del 25 settembre 1914.   La biografia politica di Dinale (1871-1958) offre un esempio emblematico del clima culturale  nel quale prese forma e maturò la corrente interventista rivoluzionaria. Inizialmente ‘socialista,  organizzatore e agitatore sindacale nella bassa modenese, Ottavio Dinale era stato tra i  promotori del sindacalismo rivoluzionario in Italia e fondatore, nel 1905, del primo giornale  ufficialmente sindacalista, il settimanale «La Lotta proletaria». Quattro anni più tardi aveva  Iniziato la pubblicazione — prima a Nizza, poi a Milano — del periodico «La Demolizione»,  caratterizzato da un’impostazione marcatamente antilegalitaria e da frequenti richiami sia  all'individualismo stirneriano, sia al nascente movimento futurista. Interventista, attivo  collaboratore del mussoliniano «Il Popolo d’Italia», nel dopoguerra sostenitore dell’impresa  fiumana e candidato repubblicano alle elezioni del 1921, Dinale si avvicinò infine al  fascismo, diventando amico intimo (e poi persino biografo) di Mussolini. Nel 1928 fu  nominato Prefetto del Regno. Cfr. FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, op. cit., Vol. II, ad  nomen, € ALBERTO CIAMPI, op. cit., ad indicem.   "3 11 manifesto/appello del Fascio Rivoluzionario (sottoscritto, oltre che da Massimo Rocca,  da Decio Bacchi, Michele Bianchi, Ugo Clerici, Filippo Corridoni, Amilcare De Ambris,  Attilio Deffenu, Aurelio Galassi, Angelo Oliviero Olivetti, Decio Papa, Cesare Rossi, Silvio  Rossi, Sincero Rugarli) fu edito in prima battuta da «La Folla» del 4 ottobre 1914, quindi, sei  giorni dopo, dal primo numero della nuova serie di «Pagine Libere» (la rivista quindicinale di  Olivetti, che si stampava a Lugano), contemporaneamente a un lungo articolo, Inchiesta sulla  guerra europea, contenente i pareri, tra gli altri, di Massimo Rocca e di Maria Rygier.   Sulla nascita, la diffusione e il significato politico dei Fasci Rivoluzionari v. in particolare il  classico BRUNELLO VIGEZZI, L'Italia di fronte alla prima guerra mondiale, Vol. 1, L'Italia  neutrale, Milano-Napoli, Ricciardi, 1966, p. 860 ss., e RENZO DE FELICE, Mussolini il  rivoluzionario, cit., p. 305 ss. Di quest’ultimo autore v. altresì il breve saggio L 'interventismo  rivoluzionario, in Il trauma dell'intervento, Firenze Vallecchi, 1968, pp. 271-291. Infine, per  una riflessione sui primi giorni dell’interventismo rivoluzionario v. UGO SERENI, Luglio-  agosto 1914: alle origini dell’interventismo rivoluzionario, in «Ricerche Storiche», 1981, nn.    2-3, pp. 525-574.    35       momento gli anarchici interventisti furono parte integrante dei Fasci,  collaborando attivamente ad essi e intensificando i rapporti con le testate  dell’interventismo rivoluzionario. Nondimeno, essi avrebbero sempre  conservato una loro specificità. Alla fine di ottobre Attilio Paolinelli, con  Rocca, la Rygier, Antonio Agresti” e Torquato Malagola””, pubblicò «La  Sfida», “giornale di polemica anarchica”, un numero unico che, se  testimoniava dell’organicità del manipolo anarcointerventista in grembo al  neonato movimento dei Fasci, voleva anche dar prova di una peculiarità  ideologica rivendicata con fierezza e destinata, più tardi, a trovare eco nelle  pagine de «La Guerra Sociale»”*. Poco dopo la nascita de «Il Popolo  d’Italia», Paolinelli (che peraltro auspicava per il nuovo giornale di  Mussolini il ruolo di portavoce ufficiale dell’interventismo rivoluzionario)  scrisse al direttore dell'organo milanese di sentirsene, in un certo qual modo,  addirittura un precursore ‘°.       7 Il fiorentino Antonio Agresti (1864-1926), incisore, anarchico vicino al sindacalismo  rivoluzionario, collaboratore de «La Lupa» di Paolo Orano, fu autore di uno dei pochissimi  contributi di parte anarcointerventista sul conflitto mondiale, il pamphlet Perché sono  interventista. Risposta all’opuscolo “La guerra europea e gli anarchici”, Roma, L’Agave,  1917 (l’opuscolo citato nel titolo era quello di Luigi Fabbri, pubblicato a Torino nel 1916 per  la Tipografica Editrice). Nel corso della campagna interventista, come altri suoi compagni, a  cominciare dalla Rygier, Agresti finì per accostarsi al mazzinianesimo (esemplare, a questo  proposito, una sua lettera pubblicata da «La Libertà», organo del PRI ravennate, il 5 dicembre  1914). Nel dopoguerra, pur mostrando simpatia per il fascismo, si ritirò sostanzialmente dalla  vita politica. «Da molti anni- annotava nel marzo del 1925 la Prefettura di Roma,  proponendone la radiazione dal registro dei sovversivi — si è allontanato dai compagni di fede  e non professa più principi anarchici. E’ un valoroso pubblicista, redattore de “La Tribuna”,  uomo d'ordine». ACS, CPC, Busta 31 [Agresti Antonio].   7 Il sarto Torquato Malagola, di S.Alberto in provincia di Ravenna, era nato nel 1876. Come  Agresti, anch’egli nel dopoguerra si allontanò dall’impegno politico, rompendo i ponti con  l’anarchismo. /bidem, Busta 2946 [Malagola Torquato].   7 «La Sfida» si apriva con una dichiarazione programmatica — a .firma «gli anarchici  indipendenti d’Italia» - e si componeva di cinque articoli (ATTILIO PAOLINELLI, Comunismo e  individualismo.  Ideologie metafisiche e realtà anarchiche; LIBERO TANCREDI,  Dell’anarchismo; ANTONIO AGRESTI, Oggi e domani; MARIA RYGIER, Per la civiltà contro la  barbarie; TORQUATO MALAGOLA, Alle armi!), più alcuni estratti da Lectres à un francais sur  la crise actuelle, un testo di Bakunin del 1870 sulla guerra franco-prussiana (dal quale  trasparivano le simpatie del vecchio cospiratore per la patria dell’ “Ottantanove”),  comunemente citato dagli anarchici interventisti a sostegno delle loro posizioni filo-intesiste.  Per le reazioni in campo anarchico ufficiale all’iniziativa di Paolinelli v. Accettando «La  Sfida». Ritratto del grafomane pseudo-anarchico Libero Tancredi, «L’ Avvenire Anarchico»,  12 novembre 1914, e Luigi BERTONI, Agli “sfidatori”, «Volontà», 28 novembre 1914.   ?° «Caro Mussolini — scriveva Paolinelli noi ci conosciamo: io mi ti presento a traverso un  foglio «La Sfida», del quale ti mando alcune copie [...]. Il nostro numero unico di Roma,  come vedi, precorre il tuo bel quotidiano» («Il Popolo d’Italia», 19 novembre 1914).    36 ,          Inesorabilmente, più gli schieramenti si andavano definendo e più  l’accanimento col quale il gruppo degli anarchici interventisti reclamava il  diritto alla qualifica anarchica doveva destare scompiglio ed imbarazzo. La  sera del primo novembre, al Teatro Garibaldi del Testaccio, a Roma, ebbe  luogo un comizio dei Fasci, cui presero parte i redattori de «La Sfida» ed  altri anarchici dissidenti. «A proposito di questi ultimi — commentava quasi  divertito un quotidiano liberale — occorre notare che essi sono invasati  dall’idea che la guerra si debba fare; il che desta alquanta meraviglia e  stupore»®°. Le reazioni degli ambienti anarchici ufficiali non si fecero  attendere”, mentre già da tempo, nel fluire ininterrotto delle questioni di  principio e delle polemiche verbali, il movimento libertario si trovava di  fronte alla spinosa e assai più concreta questione dei volontari.    Anarchici o garibaldini?    ]    Errico Malatesta, pur riconoscendo a Garibaldi e ai patrioti del Risorgimento  la nobiltà dell’ispirazione e alla loro opera disinteressata il merito di aver  educato le future schiere rivoluzionarie allo spirito di sacrificio, non nutriva  però gran simpatia per il garibaldinismo. Nella definizione del celebre capo  anarchico, che pure da giovane, come quasi tutti i protagonisti del primo  internazionalismo italiano, aveva pagato il suo tributo di affetti al  mazzinianesimo, lo spirito garibaldino era la “malattia infantile”  dell’estrema sinistra italiana, retaggio di un’epoca ‘lontana, sentimento  generoso ma sterile, tanto più pernicioso in quanto distoglieva i partiti  popolari da quello che avrebbe dovuto essere il loro solo scopo, la  rivoluzione sociale”.   Certo è che, come il patrimonio storico e ideale del pensiero democratico  risorgimentale continuò ad esercitare un forte ascendente anche sui più       0° Un comizio al Testaccio in favore della guerra. Gli anarchici vogliono diventare soldati,  «Il Giornale d’Italia», 2 novembre 1914.   Alla fine di novembre si costituì anche a Roma un Fascio rivoluzionario d’azione  Internazionalista, che ebbe proprio in Attilio Paolinelli e Torquato Malagola due dei più attivi  propugnatori (cfr. «L’Internazionale», Ed.Naz., 28 novembre 1914). dal i   ' Al riguardo v. soprattutto OTTAVIO TONIETTI, Alienazione mentale o mistificazione,  «L'Avvenire Anarchico», 5 novembre 1914, e la lettera di protesta del gruppo libertario  romano “Martiri di Chicago”, pubblicata dall’ «Avanti!» del 7 novembre.   "? Per l'opinione di Malatesta su Garibaldi e le forze della Democrazia risorgimentale se ne  veda la prefazione a MAx NETTLAU, Bakunin e l'Internazionale in Italia, Ginevra, Il  Risveglio, 1928, pp. XV-XXXI.    37          accesi internazionalisti, che non di rado su di esso si erano formati, così il  garibaldinismo costituì, almeno sino al giro di boa impresso dalla prima  guerra mondiale, l’anima avventurosa, romantica e un po’ ingenua, del  sovversivismo italiano. Se ciò non sorprende affatto per i repubblicani, i  quali, nonostante la sempre maggior attenzione posta alle questioni di  politica sociale, non avevano mai abbandonato le idealità mazziniane, non  deve del pari sorprendere per quel che riguarda il Partito Socialista, quanto  meno in alcune sue correnti, quelle più vicine al socialismo delle origini.  Allo stesso modo, sebbene gli anarchici indulgessero assai meno alle  suggestioni della camicia rossa, anche in seno al movimento libertario  sopravviveva, qua e là, un residuo di mentalità risorgimentale, in cui - com’è  stato scritto - «libertà dei singoli e libertà dei popoli si intrecciavano e si  confondevano e in cui la pianta dell’internazionalismo affondava le sue  radici in un terreno impregnato più del volontarismo mazziniano che del  determinismo del socialismo scientifico».   L’esempio più noto e certamente più suggestivo di questo modo di  concepire l’anarchismo è senz'altro quello di Amilcare Cipriani; ma egli era,  in fin dei conti, un uomo d’altri tempi, di quell’epoca di mezzo che aveva  visto germogliare l’idea internazionalista dal tronco del mazzinianesimo,  sotto il pungolo della predicazione di Bakunin®'. Quel medesimo clima  ideale che aveva generato uomini come il romagnolo Pietro Cesare  Ceccarelli, compagno di Carlo Cafiero e Malatesta nella cosiddetta banda del       8 MAURIZIO ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima guerra mondiale. Lettere di  anarchici interventisti (1914-1915), cit., p.82.   Su «L’Internazionale» del 5 dicembre 1914, per la rubrica “Lettere dalla Francia in guerra”  - inaugurata il 21 novembre — comparve un'intervista di Alceste De Ambris ad Amilcare  Cipriani. In essa, che ebbe larga risonanza in tutto il campo dell’interventismo rivoluzionario  (fu ripresa anche da «Il Popolo d’Italia»), Cipriani ribadiva le ragioni del proprio filo-  intesismo. Commentando le dichiarazioni di Cipriani, il sindacalista anarchico Guglielmo  Boldrini tracciò un acuto profilo del vecchio rivoluzionario. «Cipriani — scrisse Boldrini — è  l’uomo che sintetizza l’avvenire, ma con sistemi e con emotività passate. Non siamo feticisti:  Amilcare Cipriani è dominato da quella psicologia da cui furono dominati tutti i grandi  uomini del risorgimento italiano; il suo socialismo d’oggi, come il suo anarchismo del  processo di Roma, è infarcito di repubblicanesimo e la sua rivoluzione sociale è la rivoluzione  dell’indipendenza italiana, che, con l’idealità umana di Mazzini, fu prima del °70 come oggi,  per gli uomini d’azione repubblicana, la conquista per l'indipendenza e per la libertà di tutti i  popoli oppressi, al di fuori d’ogni preconcetto, sotto però qualunque forma di stato»  (GUGLIELMO BOLDRINI, A proposito di un'intervista di De Ambris a Cipriani, «L’ Avvenire  Anarchico», 17 dicembre 1914).    38 ,    ibdiaibbici.       Matese (di cui era stato l’ideologo militare), un anarchico che aveva vestito  la camicia rossa dei Mille, combattendo a Bezzecca e a Digione®.   Ma qui è più che altro importante ricordare come giovani volontari  anarchici, senza legami diretti con il garibaldinismo delle origini, non  avevano esitato a seguire Cipriani sui campi di Grecia, nel 1897 (e  all’anarchico Filippo Troja, caduto a Zaverda durante quella campagna,  sarebbe stato persino intitolato un circolo libertario della capitale, proprio  com’era nel costume e nella tradizione del martirologio repubblicano) ‘, e  poi di nuovo, nel 1912, non ancora spentasi l’eco per le agitazioni  antimilitariste contro la guerra di Libia, a riprendere le armi contro i turchi!”  Sulla scelta di questi giovani, accanto alle memorie risorgimentali, aveva  pesato in modo determinante la concezione (tipica, come si è visto,       ‘* Sulla figura di Pietro Cesare Ceccarelli v. FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, 0p. cit.,  Vol. II, ad nomen. In merito alla sua importanza quale teorico militare dell’anarchismo v.  FRANCO DELLA PERUTA, Democrazia e socialismo nel risorgimento, Roma, Editori Riuniti,  1973, ad indicem.   “© Cfr. «L’ Alleanza Libertaria», 27 luglio 1911.   Per il rientro in Italia delle spoglie di Filippo Troja, alla fine di agosto del 1912, i gruppi  libertari romani, riuniti in un apposito comitato, avevano addirittura organizzato solenni  onoranze funebri. Il funerale dell’anarchico garibaldino era stato motivo di gravi incidenti fra  gli anarchici e gruppi di nazionalisti che manifestavano a favore della guerra libica. Il  racconto che di quell’episodio aveva dato «L’Agitatore» di Bologna è sintòmatico del favore  e del rispetto con i quali, anche in taluni ambienti dell’estrema sinistra libertaria, si guardava  al garibaldinismo. «Cosa non può aspettarsi —aveva scritto l’anonimo articolista de  «L'Agitatore» - il buon pubblico italiano in questo quarto d’ora di solenne e malefica sbornia  di fesso patriottardume poliziesco? Tutto. Anche l'impossibile. Infatti si piglia qualunque  pretesto [...] per inscenare della manifestazioni nazionalistoidi [...]. La canaglia studentesca  del nazionalismo da vedova allegra pretende d’impossessarsi dei resti mortali d’un nostro  eroico compagno, Filippo Troia, caduto gloriosamente a Zaverda, insieme ai suoi commilitoni  della leggendaria camicia rossa, per l’indipendenza del popolo ellenico oppresso dalla  dominazione turca. Ma il generoso popolo di Roma [...] non à permesso una profanazione e  violazione mostruosa. Ha gridato alto e forte che i resti del cittadino romano, cittadino del  mondo, appartenevano al popolo, perché egli aveva combattuto, si era volontariamente  sacrificato, per la libertà e l'indipendenza del popolo [ A Zaverda, in Grecia, un idealista,  un propugnatore dell’idea anarchica, indossa la rossa divisa dei liberatori di popoli oppressi, e  cade colpito da una palla [...] contento di aver fatto del suo meglio per donare la tanto desiata  libertà a quel popolo torturato dalla barbarie turca. Quel giovane è nato in Italia, a Roma.  l'ornando le sue ceneri nella terra di nascita, dei falsi patrioti [...] pretendono di servirsi del  ricordo terreno di chi per la libertà morìa, per dimostrare alla Turchia, da loro oggi  combattuta, che anche uno di quelli odiatori di guerre e di qualsiasi forma di governo  combatté contro di loro» (SPARTACO, // caso Troja, «L’Agitatore», 15 settembre 1912).   N Le insegne rosso-nere dell’anarchia si erano levate anche nella lontana Cuba, per la guerra  d'indipendenza cubana, cui aveva preso parte come volontario l’anarchico napoletano Oreste  Ferrara. Cfr. FRANCESCO TAMBURINI, L'indipendenza di Cuba nella coscienza dell'estrema  sinistra italiana (1895-1898), in «Spagna Contemporanea», 1995, n. 7, p. 67.       39       PROPONI PORN I A    dell’anarchismo individualista) dell’azione anarchica anzitutto come  ribellione istintiva: una concezione assai poco dogmatica ed anzi intrisa di  spontaneismo, che ben si sposava, per questa via, con l’epica del  garibaldinismo.   Pochi giorni dopo l’inizio della guerra, mentre prendevano corpo i primi  confusi progetti di una spedizione garibaldina in Francia e si preparavano le  infuocate polemiche dell’autunno, sette giovani italiani, raccolto l’appello di  Ricciotti Garibaldi a mobilitarsi per la Serbia, si erano imbarcati alla volta  della Grecia e avevano raggiunto il comando serbo di Salonicco*. «Erano  repubblicani? Erano anarchici? — commentò un foglio repubblicano qualche  tempo dopo — Non importa sapere: erano italiani e seguivano una tradizione  che è gloria d’Italia: quella garibaldina»*”. Con loro, tutti militanti del PRI, si  trovava in effetti anche l’anarchico Cesare Colizza, di Marino Laziale, un  veterano della camicia rossa (aveva preso parte come ufficiale alla seconda  spedizione garibaldina in Grecia, nel 1912, combattendo a Drisko). Cinque  dei sette volontari, fra i quali lo stesso Cesare Colizza, erano caduti nello  scontro di Babina Glava, presso Visegrad, il 20 agosto 1914”.   «Era anarchico — scrisse di Colizza l’organo romano del PRI — il suo ideale  muoveva verso l’ universalità, ma la sua anima ribelle sentiva la protesta  contro ogni ingiustizia»”'. Molti anni dopo il repubblicano Aldo Spallicci,  che lo aveva avuto compagno a Drisko, ne avrebbe tracciato un breve profilo  ideale che merita di esser ricordato perché rivelatore del modo d’intendere  l’anarchismo cui si è più volte accennato. «Il suo dio — ricordava Spallicci —  era Max Stirner e sulla sua opera, L'Unico e le sue proprietà, aveva fondato  il suo credo [...]. Essere in guerra contro tutto e contro tutti, in pace e sul  campo di battaglia, era la sua divisa. Contro le ingiustizie sociali come  contro le infamie nazionali. Contro il capitalismo sfruttatore, come contro il       88 L'appello di Ricciotti Garibaldi, incitante «la gioventù italiana a prendere posizione di  difesa e, in caso, di offesa», fu diffuso a mezzo stampa dal giornalista ed ex garibaldino Mario  Ravasini. Lo si veda in «Il Fascio Repubblicano», 2 agosto 1914. Su tutta la vicenda v.  ASTERIO MANNUCCI, Volontarismo garibaldino in Serbia nel 1914: nel solco della prima  guerra mondiale, Roma, Associazione nazionale veterani e reduci garibaldini, [s.d.].   * AUGUSTO MENEGHETTI, La Serbia bagnata dal sangue italiano, «La Libertà», 12 settembre  1914.   °° Gli altri membri della spedizione erano Ugo Colizza, fratello di Cesare, Nicola Goretti,  Arturo Reali, Vincenzo Bucca, Marino Corvisieri e Francesco Conforti. Nella sostanza, la  loro fu un’iniziativa personale, priva di referenti politici veri e propri. Ricciotti Garibaldi,  infatti, dopo aver inizialmente accarezzato l’idea di una spedizione di camicie rosse in Serbia  (e dopo aver preso contatti, a questo fine, con l'ambasciata serba a Roma tramite Ravasini),  già il 9 agosto aveva diffuso una nota, pubblicata da «Il Fascio Repubblicano», con la quale  sconsigliava apertamente l’invio di volontari.   °! Eroi italiani caduti in Serbia, «Il Fascio Repubblicano», 6 settembre 1914.    40          turco che aggrediva la Grecia e, come nell’ultima sua trincea, contro  l’austriaco che aggrediva la Serbia»?   La morte dei volontari italiani aveva offerto il destro agli interventisti  rivoluzionari per una delle loro prime uscite pubbliche. Il 14 settembre i  garibaldini caduti in Serbia erano stati commemorati alla Casa del Popolo di  Roma, in via Capo d’Africa, su proposta della locale sezione del Partito  Repubblicano”. A quella celebrazione, che fu la prima manifestazione di un  certo rilievo dell’interventismo di sinistra (anticipante, non solo sul piano  simbolico e iconografico, ma anche su quello più strettamente politico, le  assemblee dei Fasci rivoluzionari), avevano preso parte anche alcuni  anarchici, fra i quali Maria Rygier e Attilio Paolinelli”. E’ indice ulteriore  delle incertezze e delle ambiguità di quel momento il fatto che la Rygier  avesse il giorno innanzi presieduto a una riunione indetta dai gruppi  anarchici capitolini, conclusasi con la votazione di un ordine del giorno  nettamente contrario all’iniziativa repubblicana” , e che, ciononostante, ella  fosse convinta di poter avere con sé la maggior parte del movimento. «I miei  compagni — aveva detto anzi nel suo applauditissimo discorso alla Casa del  Popolo — saranno ove occorra, ‘ al fianco di quanti soffrono e gemono sotto le  percosse di secolari violenze».   L’episodio aveva profondamente turbato l’ambiente anarchico della  capitale, suscitando in particolare la dura reazione di Aristide Ceccarelli,  personalità di spicco dell’anarchismo romano”, e la risposta non meno  infuocata di Paolinelli. A Ceccarelli, che in una lettera a «Il Giornale  d’Italia» aveva affermato essere ormai la Rygier lontanissima dai suoi  trascorsi anarchici e antimilitaristi’”, Paolinelli aveva replicatà, in questo  modo:       ® In ASTERIO MANNUCCI, op. cit., pp. 8-9.   " Cfr. «Azione Socialista», 12 settembre 1914 e «Il Fascio Repubblicano», 13 settembre  1914.   I due soli superstiti della spedizione, Ugo Colizza e Arturo Reali, erano rientrati in Italia da  ochi giorni. Cfr. «Il Corriere della Sera», 5 settembre 1914 e «Il Lavoro», 9 settembre 1914.  “ «Il Giornale d’Italia» del 15 settembre e «Il Fascio Repubblicano» del 20, nel riportare la   cronaca della commemorazione, sostenevano essere presenti anche i gruppi anarchici   “Arganti”, “Salucci” e “Martiri di Chicago”.   * Cfr. «Volontà», 19 settembre 1914.   % «L’Iniziativa», 14 settembre 1914.   ®? Ceccarelli era il fondatore del gruppo libertario “Martiri di Chicago”, operante nel rione  Esquilino, gruppo che alcuni giornali avevano indicato tra gli aderenti alla commemorazione   del 14 settembre   " Polemiche fra anarchici, «Il Giornale d’Italia», 17 settembre 1914.    4l       In quanto [...] alla scomunica lanciata dal Ceccarelli pontificalmente contro  l'atteggiamento di Maria Rygier e nostro di fronte alla realtà della guerra, si  convinca il Ceccarelli che la essa scomunica non ha valore maggiore di quelle che  possono lanciare i papi veri. L’anarchismo non è disciplinato, interpretato e letto da  alcun dittatore, né il Ceccarelli può arrogarsi il diritto di parlare a nome di tutti gli  anarchici, come se egli fosse l’unico depositario della verità e della coerenza?”    Se la spedizione in Serbia di un pugno di giovani avventurosi aveva destato  clamore e suscitato accesi dibattiti, ancor più ne sollevò quella in Francia,  ben più consistente e organizzata. Essa fu il definitivo canto del cigno della  camicia rossa (che peraltro non venne nemmeno utilizzata), ultimo bagliore  di utopie ottocentesche prima che la moderna guerra tecnologica e le mutate  condizioni della lotta politica facessero piazza pulita d’ogni residuo  romanticismo.   Già ai primi d’agosto del 1914, mentre i figli di Ricciotti Garibaldi si  ritrovavano a Parigi per discutere sul da farsi, «diversi, fra anarchici,  sindacalisti, socialisti e repubblicani [...] inclinavano a partire per la Francia,  ad agire per loro conto, o a riprendere senz'altro la camicia rossa, magari con  organizzazioni proprie»', Dalla metà di settembre, operanti in molte  località del centro nord dei comitati di arruolamento repubblicani, erano  cominciate le prime partenze di volontari italiani per la Francia. L'indirizzo  all’impresa, tanto sul piano militare quanto su quello politico vero e proprio,  era dato dal Partito Repubblicano, il quale, sopravvalutando l'appoggio  inizialmente ricevuto dalle autorità francesi, mirava ad organizzare una  spedizione per la liberazione di Trento e Trieste, nonché a strappare  l’iniziativa dalle mani della diplomazia sabauda, così accelerando la  formazione di un vasto moto insurrezionale all’interno del Paese e la caduta  della monarchia'. All’intransigenza dei dirigenti repubblicani (soprattutto  di Eugenio Chiesa, il più risoluto sostenitore della spedizione adriatica,  mentre il segretario del partito Oliviero Zuccarini si sarebbe dimostrato più  possibilista) '°°, avrebbe fatto da contraltare la disinvolta malleabilità di  Peppino Garibaldi, il maggiore dei figli di Ricciotti, al quale, non senza  perpiessità (legate più che altro alle ambiguità ideologiche del personaggio),  in molti riconoscevano il diritto a comandare la spedizione. Peppino       °° Ibidem, 19 settembre 1914.   1°° BRUNELLO VIGEZZI, op. cit., p. 236.   10! A questo riguardo v. OLIVIERO ZUCCARINI, Storia della vigilia, cit.   12 Per quanto attiene al ruolo e alla centralità del PRI nelle vicende descritte v. anche  VITTORIO DE CAPRARIIS, Partiti ed opinione pubblica durante la Grande Guerra, in Atti del  XLI Congresso di storia del Risorgimento Italiano, Roma, Istituto per la storia del  Risorgimento Italiano, 1965, p. 86 ss.    42       Garibaldi, di fronte alle resistenze opposte dal governo francese alla  costituzione di un corpo franco di camicie rosse, aveva finito per accettare il  semplice inquadramento dei volontari italiani nella Legione Straniera. Era  dunque nata la Legione Italiana, composta di tre battaglioni, con sede a  Montélimar e a Nimes (poi ricongiuntisi al campo di Mailly all’inizio di  novembre), mentre una compagnia “Mazzini”, di netto orientamento  repubblicano, costituitasi a Nizza ai primi di settembre e forte di trecento  uomini, era stata sciolta già il 14 ottobre dietro una precisa disposizione del  Comitato Centrale del PRI". La maggior parte dei suoi membri aveva fatto  ritorno in Italia; altri, come Massimo Rocca (che aveva raggiunto la  compagnia il giorno stesso del suo scioglimento) 104. si erano aggregati alla  Legione Italiana di Peppino Garibaldi, in tempo per aver parte ai sanguinosi  combattimenti delle Argonne nel dicembre-gennaio.   Oltre a Rocca (che, a quanto risulta dalla carte di Zuccarini, fu tra coloro  che più si adoperarono perché la Legione fosse inviata al fronte) !%,  facevano parte di quel corpo di volontari altri anarchici, fra i quali sono certi  il veneto Gino Coletti, autore fra l’altro di una breve storia della  spedizione", i romagnoli Agostino Masetti, di Ravenna!°”, Domenico Pezzi       !0 Su tutti questi punti v. BRUNELLO VIGEZZI, op. cit., p. 828 ss.   La fine della compagnia “Mazzini” non significò solamente il tramonto del progetto politico  repubblicano, ma fu, in un certo senso, la. dimostrazione dell’impossibilità, per  l'interventismo rivoluzionario, di costituire un movimento davvero autonomo, in grado  d’influire in modo determinante sulle scelte del Governo. Mario Gioda, in un commento  all'episodio, sostenne che, essendo venuti a mancare i presupposti per i quali molti sovversivi  erano partiti volontari, quelli di loro che avevano scelto di rientrare in Italia avevano agito  correttamente (cfr. MARIO GioDA, A proposito del battaglione Mazzini, «La Folla», 15  novembre 1914).   104 |a data del 14 ottobre è sicura. A quel giorno, infatti, risale una nota (sottoscritta anche da  Libero Tancredi) con la quale i volontari raccolti a Nizza, preso atto della comunicazione  ufficiale del PRI, dichiaravano sciolta la compagnia. Cfr. ARCHIVIO DELLA DOMUS  MAZZINIANA DI Pisa (d’ora innanzi ADM), Fondo Zuccarini, FI e 3/18.   08 La Legione Italiana lasciò il campo di Mailly solo il 17 dicembre, dopo un lungo  temporeggiamento, dovuto ai molti contrasti che dividevano il Comando francese da Peppino  Garibaldi e quest’ultimo dalla dirigenza repubblicana. Zuccarini riferiva di aver raggiunto un  accordo con gli uomini a lui più vicini (fra i quali citava Libero Tancredi) «per partire al  fonte da soli», qualora l’ordine di partenza non fosse giunto per la fine dell’anno, V.  OLIVIERO ZUCCARINI, La missione a Parigi, i Garibaldi e il corpo volontari, ADM, Fondo  Zuccarini, FI e 1/3. + ì   10 Si tratta di Peppino Garibaldi e la Legione Garibaldina, Bologna, Stabilimento Poligrafico  Emiliano, 1915.   Sulla figura di Gino Coletti (che nel dopoguerra assurse a breve fama come segretario  dell’Associazione Nazionale fra gli Arditi d’Italia) ci permettiamo di rimandare a  ALESSANDRO LUPARINI, Gli anarchici interventisti e il fascismo. Il caso di Gino Coletti in una  lettera a Mussolini, in «Nuova Storia Contemporanea», 1998, n. 3, pp. 95-104.    43       e Agostino Panzavolta, di Faenza (ma entrambi da tempo residenti a Parigi)   » e un certo Mario Perati, descritto proprio da Coletti come «anarchico  romagnolo profugo della settimana rossa», che perse la vita nel secondo  scontro delle Argonne, il 5 gennaio 1915". A tal episodio partecipò anche  Massimo Rocca, che pare vi rimanesse ferito!!°. Di sicuro egli si trovava  ricoverato in un ospedale francese il 24 gennaio, quando «La Folla»  pubblicò un suo articolo presentandolo quale «eminente anarchico [...]  disilluso, [...] andato in Francia coi garibaldini [...], ora in un ospedale       !0” Cfr. «Il Resto del Carlino», 16 ottobre 1914 (recante una lettera di Masetti dalla Francia,  nella quale l’anarchico romagnolo si lamentava del trattamento al quale i volontari italiani  erano sottoposti dalle autorità militari francesi e, in particolare, del fatto che la Legione  Italiana fosse stata inquadrata nella Legione Straniera). Agostino “Tino” Masetti era nato a  Ravenna nel 1880. Tra i rappresentanti più in vista dell’anarchismo ravennate d’inizio secolo,  collaboratore assiduo de «L’Agitatore», amico di Fabbri, di Zavattero e di Borghi, Masetti,  già prima della guerra, aveva avuto motivi di forte attrito con i suoi compagni di fede politica.  All’epoca dell’aspro conflitto per il possesso delle macchine trebbiatrici, che aveva a lungo  insanguinato la Romagna mettendo gli uni contro gli altri lavoratori socialisti e lavoratori  repubblicani (i “rossi” e i “gialli”, secondo la terminologia del tempo), Masetti, pur  parteggiando per la causa dei primi, era stato contrario a un impegno diretto degli anarchici in  quella lotta, temendo che ciò potesse significare la compromissione dell’anarchismo con il  riformismo socialista, che egli detestava. Il dissenso con gli anarchici ravennati (alimentato  dalle simpatie di Masetti per certo repubblicanesimo intransigente) si era spinto fino a indurre  Masetti a dichiarare di non aver «più nulla in comune» con loro («L’Agitatore» 21 agosto  1910). In realtà, la separazione era stata di breve durata e Masetti era rientrato a pieno titolo  nel movimento. Direttamente coinvolto nei tumulti della settimana rossa, e accusato di  omicidio, Masetti si era rifugiato a Marsiglia, ospite di Domenico Zavattero. Terminata  l’esperienza nella Legione Italiana, poté far ritorno a Ravenna, dove, nel febbraio 1915, fu tra  i promotori del locale Fascio rivoluzionario d’azione internazionalista (cfr. «La Libertà»,  Ravenna, 20 febbraio 1915). Richiamato alle armi il 5 maggio 1916, cadde in battaglia nel  luglio del 1917. Cfr. ACS, CPC, Busta 3125 [Masetti Agostino].   ‘°8 Cfr. «Il Popolo d’Italia», 12 febbraio 1915.   Panzavolta e Pezzi militavano da anni nel movimento anarchico, all’interno del quale  godevano di buona fama. Agostino Panzavolta era nato a Faenza nel 1879. Nel 1901 era  espatriato in Francia, da dove non avrebbe più fatto ritorno e dove, almeno sino all’inizio del  conflitto mondiale, aveva mantenuto i contatti con gli ambienti anarchici romagnoli. Tenuto  costantemente sotto controllo dalle autorità di Pubblica Sicurezza, nonostante avesse, dopo la  guerra, progressivamente abbandonato l’impegno politico, nel 1937 — dietro sua esplicita  istanza — fu cancellato dal registro dei sovversivi, per avere, fra le altre cose, dimostrato  «buoni sentimenti patriottici». ACS, CPC, Busta 3704 [Panzavolta Agostino]. Domenico  Pezzi, al contrario del vecchio compagno, non avrebbe mai rinnegato le proprie origini,  segnalandosi anzi per l’impegno antifascista, sia pur modesto. Dalle informazioni della  polizia doveva risultare iscritto alla loggia massonica “Italia” (nota come focolaio di  opposizione al regime), sostenitore della Concentrazione antifascista nonché regolarmente  abbonato a «Giustizia e Libertà». Cfr. /bidem, Busta 3919 [Pezzi Domenico].   !°° Cfr. «L’Internazionale», 27 gennaio 1915.   !!° Cfr. «L’Iniziativa», 30 gennaio 1915.       gravemente ferito». Intorno a questa vicenda si scatenarono in realtà le  ipotese e le illazioni più svariate. L’episodio aveva invero del misterioso, se  le stesse autorità - come sembra - non erano in grado di far piena luce  sull'accaduto. Il 5 febbraio 1915, in una nota indirizzata alla Direzione  Generale di Pubblica Sicurezza del Ministero degli Interni, la Regia  Ambasciata d’Italia a Parigi segnalava Rocca tra i feriti nei combattimenti  delle Argonne, salvo comunicare, dieci giorni dopo, che egli si trovava  ricoverato perché «ammalato di febbri»!!?. Il nuovo caso legato al nome di  Massimo Rocca trovò eco sulle pagine della stampa anarchica italiana.  Ancora a distanza di due mesi dall’episodio, scrivendo sotto pseudonimo  (Dyali) per la milanese «La Libertà», la nota scrittrice e propagandista  libertaria Leda Rafanelli negò che Rocca fosse stato ferito in battaglia e  affermò trovarsi egli in ospedale vittima di una angina pectoris, non avendo  preso parte ad alcuno scontro ed essendosi limitato a prestare servizio nella  Croce Rossa. «Libero Tancredi — ironizzava Dyali — fino a oggi ha portato  alla Francia un aiuto un po” discutibile: ha occupato un letto che poteva  servire a un ferito di guerra; a un francese»!!?. A Leda Rafanelli, prima  ancora del diretto interessato, replicò Edoardo Malusardi sul foglio  anarcointerventista «La Guerra Sociale», sostenendo che, se effettivamente  Rocca si trovava ricoverato per l’acuirsi di una malattia respiratoria che da  tempo lo tormentava, pure egli aveva combattuto negli scontri del 26  dicembre e del 5 gennaio, restando ferito a una mano!"*. Fu lo stesso Rocca,  in una lettera da Parigi del 15 marzo, a chiarire definitivamente la questione.  Egli — raccontava - ammalato realmente di angina pectoris, cui in Francia si  era aggiunta una «stupidissima» bronchite, era stato ricoverato per motivi di       ll L'articolo, intitolato La rejetta, un’accorata difesa di Maria Rygier, sortì come effetto di  far nascere nuove discussioni. In risposta alle parole di Rocca, Aristide Ceccarelli serisse fra  l'altro: «Costoro [gli individualisti] — hanno arrecato danno al nostro movimento più di  quanto non gliene abbiano fatto tutte le polizie del mondo messe insieme» (ARISTIDE  CRCCARELLI, 4/ garibaldino ferito in Francia, «La Folla», 31 gennaio 1915).   !!? ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo].   !!! «La Libertà», Milano, 1 marzo 1915.   Il «La Guerra Sociale», 10 marzo 1915. Il trafiletto di Malusardi era firmato con uno  pseudonimo (Emme). ]   La polemica tra Malusardi e la Rafanelli aveva avuto un prologo qualche tempo prima,  rincora a proposito di Massimo Rocca e del suo ruolo nella campagna per la guerra. Ad un  intervento della Rafanelli sul giornale milanese «Il Ribelle», nel quale l’autrice aveva  riconosciuto la «figura morale» di Rocca, «il babau dei pontificanti dell’anarchismo»,  sostenendo però essersi egli, mercé il suo acceso interventismo, del tutto isolato dal resto del  movimento anarchico, Malusardi aveva replicato con sdegno, rivendicando al compagno — e  quindi a sé stesso e a tutti gli altri anarchici interventisti — il diritto a dirsi anarchico (cfr.  EipoARDO MALUSARDI, Per la verità, «L’Iniziativa», 23 gennaio 1915).    45       MA A A Ai    salute il 9 gennaio. Non era dunque mai stato ferito sul campo, ma aveva  nondimeno preso parte ai primi tre combattimenti sulle Argonne ed era anzi  stato proposto per il grado di sergente'!. La lettera di Rocca precedette di  poco il suo rientro in Italia, a Milano, il 18 marzo 1915"!9,   Durante il soggiorno nella clinica militare di Chatel Guyon, Rocca aveva  inviato a «Il Resto del Carlino» una lunga corrispondenza. In essa,  prendendo a pretesto la propria esperienza come volontario garibaldino, era  giunto, in mezzo a reminiscenze ed abusate affermazioni di sapore “libico”  (per le quali il garibaldinismo era «l’espressione più genuina e più profonda  del rinascente imperialismo italiano» e quest’ultimo altro non era che  «l’esuberanza delle forze vitali») !!”, ad evocare una sorta di sovversivismo  nazionale permanente e, per così dire, istituzionalizzato, di cui vedeva il  modello proprio nel garibaldinismo e che avrebbe dovuto costituire, perfetta  combinazione tra libertà del singolo ed esigenze nazionali, lo spirito di una  nuova Italia.    Il fenomeno garibaldino — aveva scritto, in questo modo definendo le coordinate  del proprio “anarco-nazionalismo” — è un egoismo intimo, perché lungi d’imporsi  collettivamente dalla nazione all’individuo, trova l’origine e la spinta nell’individuo  singolo che sente, da solo, tutta la propria nazione!"    E ancora:    Io sogno ed io scorgo una nuova Italia [...]; una più grande e consapevole Italia  garibaldina, ove la sintesi squisitamente italiana del pensiero e dell’azione, della  disciplina e della libertà, raggiunga la sua massima espressione di forza nella  nazione interamente padrona de’suoi destini [...], nell’individuo eternamente libero,  pur nei limiti della compresa e voluta, perché necessaria, disciplina"!       15 Una rettifica di Libero Tancredi, «La Guerra Sociale», 20 marzo 1915.   16 Fatto rientro a Milano, dove — come si affrettava a comunicare la Prefettura — era  «convenientemente vigilato», Rocca riprese subito la sua propaganda interventista. Il 30  marzo era alle scuole comunali di via Circo per una conferenza sul tema “Classe e nazione”.  ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo].   !” LiBeRO TANCREDI, L'imperialismo garibaldino, «Il Resto del Carlino», 10 marzo 1915.  L’articolo recava la data del 15 febbraio.   18 Ivi,   19 Ivi.   In questo stesso periodo la rinnovata collaborazione con il quotidiano di Filippo Naldi fruttò  a Rocca altri tre articoli, dedicati a questioni di politica internazionale. Il rapporto fra Rocca e  «Il'Resto del Carlino» si nutriva evidentemente di stima reciproca. Poco tempo prima della  pubblicazione di detti articoli, l’autorevole quotidiano bolognese aveva favorevolmente  recensito l’ultimo libro di Rocca, Dopo Tripoli e la guerra balcanica: appunti storici per    46          Sono parole, quest'ultime, nelle quali si può ragionevolmente cogliere  un’anticipazione delle future battaglie revisioniste condotte dal Rocca in  seno al fascismo.   Le vicende dei volontari italiani caduti in Francia ebbero larga eco in patria,  destando anche a sinistra un’ondata di commozione (non si deve dimenticare  che sulle Argonne persero la vita Bruno e Sante Garibaldi, nomi ancora in  grado di risvegliare palpiti di entusiasmo nazionale). Così, un foglio  anarchico di Senigallia che si definiva «giornale razionalista» indirizzava «ai  volontari italiani caduti nelle Argonne per un Ideale di Libertà, il saluto di  tutti i militi di un’Idea»'°°, mentre il segretario della Camera del Lavoro di  Carrara Alberto Meschi, d’indiscusso credo neutralista, pur non approvando  «le idee guerraiole di parecchi suoi amici e compagni», non si sentiva per  questo di ritenerli dei «rinnegati e dei venduti», e si augurava comunque la  sconfitta degli Imperi Centrali, «causa di tanti mali e di tanto danno»!?!.  Persino «Volontà», nel momento in cui ribadiva la propria totale avversione  alla guerra, non poté evitare di esprimere simpatia e financo «ammirazione  sincera» per quei sovversivi, pure anarchici, andati a morire sui campi di  Francia'”°. Sono esempi importanti, che attestano di un malessere vero, a  riprova che spesso, anche tra gli anarchici più intransigenti, le posizioni  erano ben più sfumate e problematiche di quanto già allora si volesse far  credere.    La conquista di uno spazio politico    Quando si esuli dai casi più noti, la diffusione delle idee e degli argomenti  interventisti in seno al movimento anarchico, per le caratteristiche stesse di       fissarne le responsabilità (Lugano, Rinascimento, 1914), lodandone i caratteri di originalità e  di onestà intellettuale (cfr. ALDO VALORI, Un volume di Libero Tancredi sulle due guerre  della vigilia, «Il Resto del Carlino», 9 febbraio 1915). «Il Resto del Carlino» occupò un posto  di primo piano tanto nella “direzione” della campagna per l’intervento, quanto nel dibattito  politico del dopoguerra, seguendo con interesse il processo di ridefinizione in senso nazionale  dell'estrema sinistra interventista (a cominciare dal “caso” Mussolini). A tale riguardo (in  merito, soprattutto, al ruolo di Naldi) v. MARIA MALATESTA, Il Resto del Carlino: potere  politico ed economico a Bologna dal 1885 al 1922, Milano, Guanda, 1978, p. 301 ss.   120 «Il Solco», 17 gennaio 1915.   «Il Solco» era diretto da Ottorino Manni.   !:! ALBERTO MESCHI, Contro la guerra, «Il Cavatore», 9 gennaio 1915.   «Il Cavatore» era l’organo della USI carrarese.   12 Ancora dei volontari e la guerra, «Volontà», 30 gennaio 1915.    47          quella corrente politica, in genere refrattaria a precise regole  d’inquadramento e di organizzazione, è difficilmente quantificabile. Un  aiuto ci viene senz'altro dalle pagine dei giornali"? e soprattutto dalla  rubrica “Adesioni” de «Il Popolo d’Italia», che ci offre uno spaccato  significativo delle divisioni in atto nel campo libertario. In appena dieci  giorni il nuovo organo socialista mussoliniano, che aveva iniziato le  pubblicazioni il 10 novembre del 1914, riportava le adesioni di quattordici  anarchici!”, svelando una realtà altrimenti destinata all’oblio e aprendo uno  scorcio su alcune realtà locali particolarmente interessanti!”’.       ‘2? A titolo di esempio si considerino i casi degli anarchici interventisti toscani Duilio Lotti, di  Fucecchio, al centro di un’accesa polemica con il gruppo libertario di Santa Croce sull’ Arno  (cfr. Ad un emerito girella, «L’ Avvenire Anarchico», 28 gennaio 1915), e Gino Baronti, di  Firenze. In una lettera a un foglio liberale fiorentino, Baronti si dissociò peraltro  dall’anarchismo, dichiarandosi di «idee nazionaliste» (Una lettera significante, «L’ Alfiere»,  20 febbraio 1915). L’individualista Gino Baronti, un violento con numerosi precedenti penali  (e senza «alcuna influenza nel partito», secondo quanto scriveva di lui la Questura fiorentina  nel settembre del 1914) si fece strada nel fascismo. Nel 1921 s’iscrisse al Fascio di  combattimento di Bettolle, in provincia di Siena, dove si era trasferito alla fine della guerra,  divenendo capo squadra della milizia. Nel 1926 fu addirittura chiamato alla segreteria dei  sindacati fascisti di Sinalunga e l’anno successivo, descritto ormai nelle carte della Pubblica  Sicurezza come «un puro fascista», venne radiato dal registro dei sovversivi. ACS, CPC,  Busta 356 [Baronti Gino].    ‘124 Nell’ordine: Pietro Battaglino, «anarchico liberista» milanese (19 novembre); Bernardo    Pieraccini, «anarchico individualista» di Genova (22 novembre); L. Navacchio, «operaio  anarchico individualista» di Pisa (23 novembre); Enrico Farè e Aldo Franceschelli «anarchici  novatori» di Milano (24 novembre); Pietro Rossi, Balilla Petrocchi, Alessandro Clelotti,  Lorenzo e Torquato Pasquinelli, Amerigo Lodenzetti e Edoardo Monaci, tutti piombinesi (25  novembre); Arturo Ferrari, «anarchico non fossilizzato» milanese (27 novembre); Leopoldo  Facchini, del «gruppo anarchico bresciano» (29 novembre). Sfortunatamente, con l’eccezione  di Pietro Battaglino, la sommaria testimonianza de «Il Popolo d’Italia» è tutto ciò che ci è  stato tramandato di questi uomini. Battaglino, nato a Novara nel 1890, di professione  venditore ambulante, aveva collaborato a «La Protesta Umana». Operoso nel campo  dell’organizzazione sindacale, nel febbraio del 1914 aveva dato vita a una “lega di  miglioramento fra venditori ambulanti”, aderente alla Camera del Lavoro di Milano, e n’era  stato eletto segretario. Nel dopoguerra Battaglino fu tra i primi ad iscriversi al Fascio di  combattimento milanese, dal quale venne tuttavia espulso nel 1923. Cfr. ACS, CPC, Busta  407 [Battaglino Pietro].   125 E? il caso di Piombino, città a forte presenza operaia, dove lo scontro a sinistra tra  neutralisti e interventisti fu molto acceso. Del gruppo di anarcointerventisti piombinesi citati  da «Il Popolo d’Italia» il più conosciuto era senz’altro Edoardo Monaci. Nativo di Castel del  Piano in provincia di Grosseto, era stato membro del gruppo giovanile anarchico “L’Alba dei  liberi” e si era guadagnato una certa notorietà grazie all’intensa partecipazione agli imponenti  scioperi siderurgici del 1910-1911. Fu quindi tra gli iniziatori del fascismo piombinese, ma  venne allontanato dal Fascio nel marzo del 1923 perché iscritto alla massoneria. Cfr. ACS,  CPC, Busta 3343 [Monaci Edoardo].    48          Che le dimensioni e i termini del fenomeno e delle controversie ad esso  legate fossero niente affatto marginali (pur non potendosi certo sostenere;  come fece ad esempio l’organo del partito Social Riformista con chiaro  intento provocatore, che la maggior parte degli anarchici italiani fosse per  l’intervento) 126. lo dimostrano anche il rinfocolarsi delle polemiche nei  primi mesi del 1915 e il fatto che i nomi più autorevoli dell’anarchismo  italiano sentissero la necessità d’intervenire personalmente nel dibattito. In  particolare, prima con una vibrante lettera pubblicata su un numero unico dei  sindacalisti parmensi!””, poi con una serie di articoli su «Volontà», Luigi  Fabbri dovette ribadire le motivazioni ideali e politiche dell’opposizione  anarchica al conflitto in corso, contestando una ad una le affermazioni degli  anarcointerventisti, ai quali di volta in volta si rivolgeva, con allarmata  puntigliosità'?8.   Il protrarsi ininterrotto dello scontro tra fautori e detrattori dell’intervento,  l’accanimento della lotta, non di rado alimentata da amarezze e da rancori  personali, contribuivano del resto a tener alta la tensione!”?. E’ in questo    10 «Egli [I «Avanti!»] — scrisse il 3 ottobre 1914 «Azione Socialista»- ci accusa di malafede  |...] perché abbiamo contato gli anarchici e i sindacalisti tra gli antineutralisti e porta in  campo il deliberato dell’Unione Sindacale. La metà più uno! E” questa la norma valutatrice di  questi rivoluzionari dell’età della pietra! Noi invece, con buona pace dell’organo milanese,  crediamo di non commettere un falso annoverando tra i nostri vicini in questo momento i  sindacalisti e gli anarchici; quando tali si vogliono considerare quasi tutti coloro che  rappresentano un pensiero e che a queste correnti d’idee danno importanza nella vita  nazionale». ; Ù  127 Si tratta di «Contro la guerra!», edito a Parma il 6 febbraio 1915 «a cura di un gruppo di  sindacalisti», in aperta contrapposizione alla linea politica di De Ambris.   28 Si veda in particolare l’articolo in cinque parti Le idee anarchiche e la guerra («Volontà»,  20 febbraio, 6 e 20 marzo, 3 e 24 aprile 1915).   Gli scritti di Fabbri, pubblicati in contemporanea con l’uscita de «La Guerra Sociale», furono  bersaglio di molte e appassionate repliche da parte della redazione del nuovo giornale  anarcointerventista (nell’ordine: MARIA RYGIER, Coerenza verbale o azione liberatrice, «La  Guerra Sociale», 27 febbraio 1915; MARIO POLEDRELLI, A guisa di risposta, Ivi; MARIO  Giona, Contro una stupida speculazione, Ibidem, 10 marzo 1915; OBERDAN GIGLI,  Anarchismo: concezione storica e concezione razionale, Ibidem, 20 marzo 1915, e Nella vita  e nella teoria, Ibidem, 10 aprile 1915; MARIA RYGIER, Le idee anarchiche e la guerra, Ivi;  LIBERO TANCREDI, Chiusura: per finire con Luigi Fabbri, Ivi, e Per finire con Don Abbondio  e c., Ibidem, 24 aprile 1915). ubi,  Circa la posizione di Luigi Fabbri v. altresì MAURIZIO ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la  prima guerra mondiale. Il diario di Luigi Fabbri (maggio-settembre 1915), in «Rivista  Storica dell’ Anarchismo», 1999, n. 1, pp. 71-89.   !° Un ulteriore motivo di contrasto fra le opposte tendenze scaturì dalla diffusione di un  manifesto anarchico contro la guerra, redatto da Libero Merlino, nel quale si affermava: «Che  ben vengano i tedeschi in Italia. O essi sono più civili di noi e che vengano a portarci questa  civiltà, o sono più barbari e che vengano a civilizzarsi». Mario Gioda lo definì un «documento    49          clima e su questo sfondo di passioni che dev’essere inquadrata la violenta  aggressione subita da Oberdan Gigli il 24 gennaio 1915 a Massa Finalese,  una frazione di Finale Emilia, nella provincia di Modena, dove l’anarchico  genovese risiedeva ormai da undici anni e dove era conosciutissimo, per  avere tra l’altro a lungo diretto la locale Camera del Lavoro!” Il fatto,  condannato dalla redazione di «Volontà»!!, fu invece accolto con  soddisfazione sia da «Il Libertario», che anzi deplorava il “buon cuore” del  foglio anconetano", sia da «L'Avvenire Anarchico», che laconicamente  commentava: «Di fronte a tanto strazio di vite non ci debbono essere rispetti  umani»,   Nel frattempo il processo di organizzazione  dell’interventismo  rivoluzionario e della sua frazione anarchica non aveva subito rallentamenti.  Tra il 25 e il 26 gennaio 1915 si era riunito a Milano il primo convegno  nazionale dei Fasci rivoluzionari d’azione internazionalista, al ipa avevano  preso parte, applauditi protagonisti, la Rygier e Paolinelli. L'impegno          penoso», esortando gli anarchici «più consapevoli» - fra i quali annoverava lo stesso Luigi  Fabbri, che infatti non aveva esitato a manifestare le proprie perplessità al riguardo - a non  farsene complici con un «ancor più penosissimo silenzio» (MARIO GIODA, Ben vengano?, «Il  Popolo d’Italia», 22 febbraio 1915).   150 Per la cronaca degli avvenimenti v. Oberdan Gigli ferito da’ neutralisti, «Il Popolo  d’Italia», 27 gennaio 1915, e Argomenti neutralisti, «L’Internazionale», 30 gennaio 1915.   Il 28 gennaio il giornale di Mussolini pubblicò una «lettera aperta» di Gigli al deputato  socialista Gregorio Agnini, nel cui collegio elettorale si era verificata l’aggressione. In tale  missiva, scritta all’indomani dell’infelice episodio, Gigli contestava ai suoi assalitori, in  maggioranza operai, il diritto a chiamarsi socialisti. «In questa folla feroce — scriveva — non vi  è più, se mai v’è stata, l’anima socialista». In conseguenza di questi fatti la maggioranza  socialista al Consiglio Comunale della piccola cittadina emiliana fu indotta alle dimissioni  (cfr. Crisi comunale a Finale Emilia per una conferenza intervenzionista, «Il Resto del  Carlino», 2 febbraio 1915).   13! Cfr. «Volontà», 6 febbraio 1915. Alla riprovazione per la manifestazione d’intolleranza da  parte degli irruenti neutralisti finalesi, «Volontà» aggiunse comunque un commento  significativo. «Oberdan Gigli — sostenne l’organo anconetano — che è persona di cuore e  ragionevole [...] deve pure rendersi conto dei moventi più intimi del fatto lamentato. Pensi  egli all’impressione che deve fare nelle anime primitive e nelle menti incolte questo  fenomeno, di vedere proprio uno che fino a ieri consideravano loro amico, patrocinatore dei  loro interessi, avversario del militarismo e della guerra, esaltatore della massima libertà  individuale, cambiare di un tratto atteggiamento e mettersi a fare una propaganda che, se  ascoltato, avrà per risultato l’abdicazione d’ogni libertà individuale nelle mani dello stato, la  guerra e la chiamata sotto le armi per forza di tanta parte di operai».   12 L’UoMO CHE RIDE, Tenerezze fuori posto, «Il Libertario», 11 febbraio 1915.   153 GIUSEPPE CHELOTTI, Giuste argomentazioni, «L’ Avvenire Anarchico», 12 febbraio 1915.  134 A questo riguardo v. RENZO DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. 305-306.   Per il resoconto del congresso si vedano principalmente «Il Popolo d’Italia» del 25 gennaio e  «L’Internazionale» del 30 (ma anche gli articoli di «Azione Socialista» e de «L’Idea    50       degli anarchici nella campagna a sostegno dell’intervento italiano trovò la  definitiva consacrazione circa un mese dopo, con la pubblicazione de «La  Guerra Sociale». Il primo numero del nuovo «settimanale anarchico  interventista» uscì il 20 febbraio". Il nome rimandava esplicitamente a «La  Guerre Sociale», il noto foglio antimilitarista di Gustave Hervé!*, mentre il  motto, rubato a Giuseppe Garibaldi («E’ inutile sperar alustizia se non  dall'anima di una carabina»), testimoniava una volta di più della  commistione, in seno all’interventismo anarchico, di elementi eterogenei,  tratti tanto dalla tradizione libertaria quanto da quella democratica e  risorgimentale.    Il compito nostro — recitava l’articolo di fondo della redazione — è ben preciso:  rivendicare cioè ad alta voce il nostro diritto di cittadinanza nel campo anarchico  [...] che i teologhi dell’anarchismo, in nome di non sappiamo quale “sacro  comandamento” ci vogliono negare; prepararci ad incitare all’azione la parte  migliore degli anarchici d’Italia: quegli anarchici cioè che non sono infarciti di  femmineo sentimentalismo, ma che bensì son convinti che l’umanità non può  camminare verso la civiltà se non attraverso a lotte aspre e sanguinose. “La Guerra  Sociale” dunque sarà anarchica, prettamente anarchica"    In prima pagina, Oberdan Gigli riassumeva a titolo programmatico i  fondamenti ideali e le giustificazioni storiche e politiche dell’anarcointer-  ventismo.       Nazionale», organo ufficiale dell’Associazione Nazionalista). Si ricordi che, quasi  contemporaneamente all’assise degli interventisti rivoluzionari nel capoluogo lombardo, il 24  fignnaio, si era riunito il congresso nazionale anarchico di Pisa.   «Il Popolo d’Italia» del 10 febbraio 1915 fornì la cronaca di una riunione degli anarchici  interventisti milanesi, avvenuta la sera prima al circolo repubblicano Carlo Cattaneo di via  Sala (che era sede del Fascio). Nel corso di quell’incontro era stata decisa la pubblicazione di  un giornale di segno anarcointerventista, che, «oltre che propugnare le tesi dell’intervento dal  punto di vista anarchico», proponesse anche «di iniziare una sana ed audace discussione  d'idee nel campo stesso, onde salvarlo dall’ondata di ridicolo in cui l'avevano trascinato i  pontificanti dell’anarchismo ufficiale». NES Rui   Gustave Hervé (1871-1944) era stato il simbolo stesso dell’antimilitarismo e  dell'antipatriottismo. Per anni, sulle pagine del «La Guerre Sociale», aveva condotto una  feroce battaglia contro le istituzioni militari. E” singolare che gli anarcointerventisti italiani si  richiamassero a quella storica testata dell’estremismo antimilitarista (che aveva avuto  un'inconcludente edizione italiana nel 1908), proprio nel momento in cui Hervé, passato alla  causa dell’Intesa, l’abbandonava per dar vita a «La Victoire», organo del nuovo Movimento  Socialista Nazionale da lui fondato. Sulla diffusione e la fortuna dell’herveismo nel nostro  pnese v. RUGGERO GIACOMINI, Antimilitarismo e pacifismo nel primo novecento. Alfredo  Bartalini e «La Pace», 1903-1915, Milano, Angeli, 1990.   !!? «La Guerra Sociale», 20 febbraio 1915.    SI             Vi sono guerre e rivoluzioni liberatrici — scriveva — [...] e accettiamo la guerra per  evitare una oppressione [...]. Noi vediamo l’anima anarchica in ogni rivolta  liberatrice. Noi siamo gli eterni rèvoltes, e nel secolo scorso avremmo cospirato con  Mazzini per l’unità d’Italia e oggi, nell’India, saremmo coi nazionalisti nella rivolta  contro gli inglesi [...]. Noi riteniamo che la vittoria degli Imperi Centrali sarebbe un  enorme male per la civiltà nostra. Sarebbero prevalenti i focolai dell’autoritarismo  cattolico più inflessibile, dell’imperialismo più pazzesco, del militarismo più  prepotente: sarebbe rimandato di anni e anni il problema rivoluzionario nostro pel  riaffacciarsi dei problemi democratici e nazionali [...]. Noi vogliamo al contrario  che tutti i nostri sforzi siano volti a preparare le basi storiche della rivoluzione  proletaria [...]. Noi manteniamo integro e purissimo il nostro ideale anarchico!»    Più oltre, in una lettera indirizzata al direttore Edoardo Malusardi, lettera  che esprimeva il comune sentire di tutti gli anarchici interventisti, Mario  Poledrelli negava di sentirsi un revisionista dell’anarchismo per il fatto  d’essere favorevole alla guerra, ritenendo anzi di pensare e di agire nel solco  della migliore tradizione libertaria!”.   «La Guerra Sociale», che uscì in sei numeri, fino al 24 aprile 1915, con una  discreta diffusione‘, compendiava quindi, per la prima volta in forma  unitaria e immediatamente riconoscibile, tutti i motivi, le tematiche e le  passioni proprie dell’interventismo anarchico. Molto importante, sotto  questo profilo, la rubrica “Dagli amici”, dalla quale apparivano nitidamente,  nelle varie coloriture, gli umori della “base”. Così, fianco a fianco  all’anziano «anarchico rivoluzionario» Alfeo Davoli, già garibaldino, che da  Milano esortava alla guerra rivoluzionaria che abbattesse per sempre  «qualunque sia forma di governo»"‘', si schieravano il maestro elementare       138 OBERDAN GIGLI, Perché siamo interventisti, Ivi.   13° Cfr. MARIO POLEDRELLI, Revisione?, Ivi.   Poledrelli si era formato negli ambienti anarchici di Ferrara. Nell’aprile del 1912 si era  trasferito a Milano, entrando a far parte del locale Fascio libertario. A Milano aveva anche  progettato la pubblicazione di un periodico, che avrebbe dovuto intitolarsi «L’ Adunata», ma  era stato fatto rimpatriare a Ferrara su ordine della Questura milanese, perché disoccupato.  Arruolatosi volontario, cadde in combattimento il 3 giugno 1917. Cfr. ACS, CPC, Busta 4053  [Poledrelli Mario].   10 Nell’arco dei suoi due mesi di vita il giornale vendette 28 abbonamenti, di cui dieci a  Milano, e beneficiò di 157 sottoscrizioni (la maggior parte provenienti dal capoluogo  lombardo, fra le quali due a nome di Mussolini), per un totale di 251, 56 lire. Non erano  grandi cifre — tanto che il 10 aprile, in un trafiletto indirizzato «ai compagni», la redazione  invitava apertamente i lettori ad essere più generosi, pena la sospensione delle pubblicazioni —  ma in linea con la media degli altri fogli anarchici editi nello stesso periodo (fatta ovviamente  eccezione per le tre grandi testate a diffusione nazionale).   14! «La Guerra Sociale», 27 febbraio 1915.    52       Alceste Salvadori, ammiratore delle teorie di Francisco Ferrer, che si  dichiarava per l’intervento, a dispetto dello «slombato anarchismo  menefreghista»!!, e l’anarchico individualista Adolfo Costa, di Verona, il  quale affermava di desiderare la guerra semplicemente in virtù dei propri  «convincimenti catastrofici»; mentre il genovese Tomaso Dal Ciotto  chiamava a fondamento del proprio interventismo entrambe le eredità del  bakuninismo e del mazzinianesimo!‘*.   Sulle pagine de «La Guerra Sociale» si avvicendarono dunque i principali  portavoce della corrente anarcointerventista, da Rocca alla Rygier, da  Paolinelli a Malusardi, e una serie di nomi minori, la cui testimonianza resta  però non meno significativa. Non di tutti, purtroppo, ci è stato possibile  ricostruire la biografia politica. Dalle informazioni raccolte emergono  comunque alcune caratteristiche ricorrenti: l’origine proletaria, la cultura  approssimativa, la fede individualista, il “ribellismo”, vissuto talvolta nelle  sue manifestazioni più eccessive (requisiti, questi, comuni del resto alla  maggioranza dei semplici militanti del movimento anarchico), ma anche il  valore successivamente dimostrato sui campi di battaglia. Quanto  all’adesione al fascismo di alcuni di tali uomini, essa fu conseguenza, non  automatica né tanto meno ineluttabile, di scelte personali, diverse caso per  caso. Ciò a conferma che la semplicistica equazione anarcointerventisti    prima-fascisti poi, non è motivo sufficiente - e d’altronde nemmeno       Davoli era nato a Reggio Emilia nel 1849. Morì nel 1918. Cfr. ACS, CPC, Busta 1630  Davoli Alfeo].   4° «La Guerra Sociale», 20 febbraio 1915.   Alceste Salvadori, nato a Palaia, un piccolo borgo in provincia di Pisa, nel 1884, insegnava a  Castelfiorentino, dove risiedeva dal 1905. Per le sue idee libertarie, antimilitariste e  radicalmente anticlericali (era membro di un’ “Associazione Razionalista”), e in virtù del suo  ruolo di educatore, era dalle autorità considerato «estremamente pericoloso in linea politica».  Dopo la guerra (cui prese parte come volontario, congedandosi col grado di sottotenente)  Salvadori vestì la camicia nera del fascismo. Nell’aprile del 1921 s’iscrisse infatti al Fascio di  Castelfiorentino (del quale, per breve tempo, fu anche segretario), per giungere, qualche anno  più tardi, alla direzione della locale organizzazione sindacale fascista. ACS, CPC, Busta 4543  {Salvadori Alceste].   4 «La Guerra Sociale», 27 febbraio 1915.   14 Cfr. /bidem, 10 marzo 1915.   Qualche tempo dopo, alla vigilia di arruolarsi volontario in fanteria, Dal Ciotto si disse  persuaso che la divisa non avrebbe intaccato i suoi convincimenti rivoluzionari e manifestò la  speranza di tornare, un giorno, a fianco dei «compagni in buona fede contro la guerra» per  combattere insieme «le future battaglie» (// saluto di un anarchico interventista, «Il Popolo  d'Italia», 5 luglio 1915).    53       ragionevole. - per disconoscere l’appartenenza all’anarchismo degli  interventisti di estrazione libertaria!”       145 Scrissero per «La Guerra Sociale»: Alfredo Consalvi, Giovanni Canapa (Brunetto  D’Ambra), Carlo Rivellini, G.Fraschini, M.Benedetti, Effebo Scaramelli, Armando  Senigallia, Sabatino Di Loreto, Silvio Colla e Raffaele De Rango.   Giovanni Canapa, che di mestiere era rilegatore di libri, era nato a Firenze nel 1875. La sua  partecipazione alla vita del movimento anarchico era stata contrassegnata da numerose  disavventure giudiziarie. Nel giugno del 1907 la Prefettura fiorentina lo aveva dipinto «tra i  più entusiasti seguaci delle dottrine libertarie a Firenze [...], assiduo a tutte le riunioni e  manifestazioni proletari», ma privo di un ruolo di rilievo in seno ai circoli anarchici, «attesa  la sua scarsa intelligenza e la niuna cultura». In realtà, Canapa aveva collaborato a numerosi  fogli anarchici, specie d’indirizzo individualista, celandosi dietro la maschera di Brunetto  D’Ambra. Nella campagna interventista l’anarchico fiorentino — che fu membro del Fascio  rivoluzionario del capoluogo toscano — dimostrò un particolare accanimento, per lo più  ricorrendo al consueto pseudonimo e solo occasionalmente servendosi del suo vero nome  (come nel caso del lungo articolo polemico Anime di fango, «L’Iniziativa», 20 febbraio e 6  marzo 1915). Canapa si arruolò volontario (cfr. «Il Popolo d’Italia», 20 giugno 1915) e cadde  sul Carso il 12 aprile 1916. ACS, CPC, Busta 992 [Canapa Giovanni]. Edoardo Malusardi ne  celebrò la figura di «eterodosso dell’anarchismo [...], eretico impenitente [...], scomunicato  del “Santo Sinodo”» (ODROADE, Ricordi di un amico su Giovanni Canapa, «L’Iniziativa», 6  maggio 1916); mentre Massimo Rocca, che gli era particolarmente legato, ne avrebbe  richiamato il nome nell’introduzione al suo Dieci anni di nazionalismo.   Carlo Rivellini era nato a Milano nel 1895, da famiglia poverissima. Carattere «fra i più  irrequieti e impulsivi» - come scriveva di lui la Prefettura milanese nel dicembre del 1912 -,  Rivellini, nonostante la giovanissima età, era assai noto negli ambienti libertari del capoluogo  lombardo e aveva subito già numerosi arresti per attività sovversive. Allo scoppio della guerra  fece da subito lega con gli interventisti, ritenendo, com’ebbe a scrivere a Mussolini, di  difendere così «i supremi interessi del proletariato di tutto il mondo» («Il Popolo d’Italia», 25  novembre 1914). Si arruolò volontario nel giugno 1915 (nel 68° reggimento fanteria, lo stesso  di Malusardi) e combatté valorosamente, guadagnandosi una medaglia di bronzo e un  encomio solenne. Si congedò con il grado di tenente degli arditi. Nel dopoguerra prese parte  all’impresa di Fiume (e come delegato fiumano presenziò al secondo congresso nazionale  fascista, nel maggio del 1920), conclusasi la quale si ritirò sostanzialmente dalla lotta politica.  Nel 1930 risultava iscritto al PNF. Cfr. ACS, CPC, Busta 4348 [Rivellini Carlo].   Effebo Scaramelli, bracciante, era nato a Casciavola, una frazione di Cascina, provincia di  Pisa, nel 1880. Legatissimo al noto pubblicista e propagandista anarchico Giovanni Gavilli,  che spesso ebbe modo di accompagnare e di assistere nei suoi giri di conferenze (Gavilli era  non vedente), Scaramelli aveva collaborato saltuariamente a «Il Grido della Folla». Nel  dicembre del 1906 aveva preso parte al congresso regionale anarchico di Pontedera.  Volontario di guerra nel 1915, il suo Comando lo segnalava come un soldato «disciplinato,  rispettoso e contento della vita militare». Dismessa la divisa, lasciò l'impegno politico e morì,  ancora giovane, nel 1927. /bidem, Busta 4662 [Scaramelli Effebo].   Armando Senigallia era nato ad Ancona nel 1883. Ritenuto anarchico «molto pericoloso»,  Senigallia, pur senza mai abbandonare la professione di venditore ambulante, aveva  collaborato assiduamente a «Il Grido della Folla», a «La Protesta Umana» e al romano «Il  Pensiero Anarchico», subendo, in virtù della sua prosa infuocata, numerose condanne per  «istigazione a delinquere». Attivo nel campo dell’organizzazione di partito, Senigallia aveva    pPAT TEST PRIA TRRE PROT OTITEAPTETI VIRATA STUPITO PROP VOR. VIRA VPI ROTTO MIPPAPMPERPERERABE RIFPI BE 1177171777       Grazie a «La Guerra Sociale», per un periodo di tempo tanto breve quanto  decisivo, gli anarchici interventisti poterono dunque disporre di uno spazio  autonomo ed ebbero modo di precisare, una volta per sempre, il proprio  particolare punto di vista all’interno della multiforme realtà  dell’interventismo rivoluzionario.   La partecipazione anarchica alla vita dei Fasci risultò comunque assai  intensa, specie là dove il movimento era più forte. A Parma gli anarchici  collaborarono fattivamente al quindicinale «Guerra alla guerra» (24 gennaio-  I maggio 1915), edito a cura del Fascio locale, roccaforte della politica  deambrisiana e fra i principali centri propulsivi dell’interventismo  rivoluzionario. All’incirca nello stesso periodo in cui vedeva la luce il  giornale di Malusardi, era anche degno di nota (vuoi per il rilievo dei  protagonisti, vuoi perché Pisa era una delle città italiane dove il movimento  anarchico era maggiormente radicato) il contributo degli anarchici Alberto  Fontana e Ruffo Sarti alla nascita e alla diffusione de «La Guerra del  Popolo», organo del Fascio rivoluzionario pisano!‘.       preso parte al congresso interprovinciale anarchico di Ancona (gennaio 1910) e al convegno  anarchico umbro-marchigiano di Fabriano (febbraio 1913), discutendo temi relativi alla  struttura interna del movimento e ai rapporti con le altre forze operaie. Nel gennaio del 1914  la Prefettura di Ancona annotava sul suo conto: «E’ sempre uno dei più ferventi anarchici di  Ancona, prende parte a tutte le riunioni del partito ed è iscritto al Circolo anarchico “Studi  Sociali”». Nell'agosto del 1916, «avendo fatta dichiarazione scritta dalla quale si rilevava la  mitezza delle sue idee politiche e la completa adesione alla guerra», fu inviato al fronte con  una squadra di lavoro. Richiamato alle armi nel luglio 1917, si comportò coraggiosamente,  finché non cadde prigioniero degli austriaci. Aderì al fascismo e, nel gennaio del 1935,  divenne membro e fiduciario del sindacato provinciale fascista dei venditori ambulanti.  Ibidem, Busta 4746 [Senigallia Armando].   Silvio Colla, nato a Parma nel 1896, era assai noto negli ambienti dell’estrema sinistra  parmense, in quanto segretario di un “Circolo socialista antimilitarista rivoluzionario”  intitolato ad Amilcare Cipriani. Divenuto interventista, Colla si arruolò volontario,  combattendo negli arditi ed ottenendo ben due medaglie al valore. Cfr. Ibidem, Busta 1406  [Colla Silvio].   Di Raffaele De Rango, nato a Rende in provincia di Cosenza nel 1888, sappiamo ben poco,  se non che egli, dopo la parentesi interventista, che lo aveva visto magnificare la guerra come  mezzo per far piazza pulita di tutti «i rivoluzionari di carta e da comizio» (Liquidazione di  rivoluzionari, «La Guerra Sociale», 10 marzo 1915), riallacciò i rapporti col movimento  libertario. Nel dopoguerra, De Rango emigrò negli Stati Uniti (prima a Chicago, poi a  Oakland in California), dove prese parte attiva alla vita della numerosa comunità anarchica  italiana, collaborando al foglio di San Francisco «L’Emancipazione». Da oltre oceano  l'anarchico calabrese mantenne regolari contatti con i compagni italiani, non escluso Errico  Malatesta, col quale era anzi in amichevole corrispondenza. Cfr. ACS, CPC, Busta 1739 [De  Rango Raffaele].   14% 1] primo numero de «La Guerra del Popolo» uscì il 18 marzo 1915. L’iniziativa di Ruffo  Sarti e Alberto Fontana fu contestatissima dai gruppi anarchici di Pisa (si veda in particolare    55       D'altra parte, proprio nella primavera del 1915 i Fasci compivano il  massimo sforzo di coordinamento. Pur nella diversità di vedute, la  preoccupazione principale di tutte le forze che componevano lo  schieramento interventista rivoluzionario era allora quella di affrettare  l’ingresso dell’Italia nel conflitto europeo, anche a costo di dover  accantonare le pregiudiziali ideologiche e di scendere a patti col Governo. Il  10 aprile «L’Internazionale» pubblicò una “Dichiarazione”, con la quale il  gruppo dirigente dei Fasci s’împegnava ad una tregua “rivoluzionaria” se la  monarchia si fosse alfine decisa a dichiarare la guerra. Tra i firmatari di quel  documento. figuravano anche la Rygier e Mario Poledrelli (il 24 aprile  l’organo sindacalista ricevette le adesioni di Rocca e Malusardi) !”.   Commentando lo sciopero generale indetto a Milano il 14 aprile per  protestare contro l’uccisione del giovane operaio elettricista Innocente  Marcora - avvenuta tre giorni avanti ad opera della polizia durante una  manifestazione contro la guerra'* -, sciopero al quale avevano aderito anche  i Fasci interventisti (Alceste De Ambris fu tra gli oratori principali),  Massimo Rocca auspicava che non si verificassero più simili episodi,  temendo altrimenti ch’essi potessero trasformarsi in «un pretesto per una  manifestazione neutralista, comunque un tentativo per intimidire il Governo       l’articolo in tre parti di OTTAVIO TONIETTI, Aberrazione mentale collettiva, «L'Avvenire  Anarchico», 1, 8 e 16 aprile 1915), che tenevano soprattutto ad affermare la sostanziale  estraneità dei due interessati alla vita del movimento libertario pisano. Quello di negare ai  compagni passati all’interventismo ogni parentela, anche trascorsa, con l’anarchismo era una  delle scappatoie di cui gli anarchici si avvalevano con più frequenza. Del pari, la storiografia  ha sostanzialmente accolto quest’indirizzo, che potremmo definire “negazionista”. Così, nel  caso specifico di Sarti e Fontana, è stato scritto che i due rappresentavano «poca cosa,  politicamente e quantitativamente, nei confronti del vasto movimento cittadino» (GIORGIO  SACCHETTI, Sovversivi in Toscana, 1900-1919, Todi, Altre Edizioni, 1983, p.88). In realtà,  Sarti e Fontana erano entrambi conosciutissimi ed entrambi - come ci ha lasciato scritto la  Prefettura di Pisa - risultavano avere nel movimento molta influenza. Fontana (1868-1942)  era stato redattore de «L’Avvenire Anarchico» per quasi tre anni, fra il 1910 e il 1913. Cfr.  ACS, CPC, Busta 2105 [Fontana Alberto]. Sarti (1879-1943) era noto anche a livello  nazionale, avendo collaborato a «Il Libertario» e al milanese «Il Grido della Folla» e potendo  vantare, come sembra, stretti rapporti di amicizia col celebre avvocato anarchico Pietro Gori.  Nell'ottobre del 1904 Sarti si era reso protagonista di un attentato a un brigadiere dei  carabinieri, avvenimento che aveva messo in subbuglio l’intero l’ambiente anarchico e che gli  era costato lunghe disavventure giudiziarie e due mesi di carcere. «Durante la detenzione —  annotava la Questura — fu largamente aiutato dagli anarchici di qui, i quali sopportarono  anche le spese occorrenti per la sua difesa». /bidem, Busta 4614 [Sarti Ruffo].   14” Il testo completo della “Dichiarazione” si trova in appendice a RENZO DE FELICE,  Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. 695-697.   ‘® Cfr. Un giovane ucciso da una bastonata durante le dimostrazioni dell'altra sera, «Il  Corriere della Sera», 13 aprile 1915.    56       con disordini interni e farlo tentennare nella risoluzione di decidere la  guerra»; ed esortava gli interventisti rivoluzionari a «tutto subordinare»    all’eventualità del conflitto!‘    Il periodo bellico    A poco più di un mese dalla proposta de «L’Internazionale» per la tregua  “rivoluzionaria”, la dichiarazione di guerra dell’Italia all’ Austria realizzò gli  auspici di tutti gli interventisti. La partenza per il fronte dei principali  esponenti dell’interventismo rivoluzionario e la situazione di eccitazione e di  generale incertezza determinata dagli avvenimenti bellici, situazione non  certo propizia al normale dispiegarsi dell’attività politica, contribuirono  peraltro a sfaldare progressivamente il movimento dei Fasci. ua  Tra il luglio e l’agosto del 1915 anche Rocca, Gigli e Malusardi, si  arruolarono volontari". L'altro grande protagonista dell’anarcointerven-  tismo, Mario Gioda, che a suo tempo era stato riformato, partì per il fronte  soltanto nell’estate del 1916". Prima di allora, incalzato dalle accuse  d’imboscamento, Gioda (che era membro del “Gruppo di Azione Civile” di  Torino, avente lo scopo di assistere i combattenti e di svolgere propaganda a       4° LiBERO TANCREDI, A proposito di sciopero generale, «La Guerra Sociale», 24 aprile 1915.  150 Massimo Rocca si arruolò volontario ai primi di luglio del 1915, prestò giuramento in una  caserma milanese il giorno 11 (cfr. / volontari del 7° reggimento fanteria prestano  giuramento, «Il Corriere della Sera», 12 luglio 1915) e fu inviato al fronte alla fine del mese.  Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo]. Oberdan Gigli, ammesso al corso ufficiali di  complemento nel 2° reggimento artiglieria campale pesante di Modena, partì per la zona di  guerra il giorno 26 luglio. Cfr. Ibidem, Busta 2407 [Gigli Oberdan]. Edoardo Malusardi si  arruolò nel 68° reggimento fanteria il 12 agosto. Cfr. Ibidem, Busta 2964 [Malusardi  Edoardo]. mia i o  Mentre l’esperienza di guerra di Rocca fu limitata, Gigli e Malusardi presero parte all intero  svolgimento del conflitto. Da notare che un estratto del diario di guerra di Malusardi - un  memoriale di un certo interesse, anche se, con tutta probabilità, rielaborato ad arte dall autore  - si trova in EDOARDO MALUSARDI, Filippo Corridoni. Commemorazione tenuta in Parma il  23 ottobre 1929-VII, Torino, Druetto, 1930, pp. 51-62. £  !5! Per l'esattezza, Gioda fu richiamato alle armi il giorno 21 luglio e destinato al 7°  reggimento bersaglieri di Brescia (cfr. «Il Popolo d’Italia», 22 luglio 1916, e «L’Iniziativa»,  12 agosto 1916). Per le sue cattive condizioni di salute, tuttavia, Gioda rimase al fronte solo  pochi mesi.    57    favore della guerra) ‘°° si batté con passione, che non c’è motivo di non  ritenere sincera, per la revisione dei riformati!”,   Insieme ai nomi più celebri dell’anarcointerventismo, partirono,  volontariamente o perché richiamati alle armi, la maggior parte degli altri  anarchici interventisti. In taluni casi la frenesia delle armi raggiunse livelli  quasi parossistici. L’anarchico romagnolo Domenico Ghetti, ad esempio,  riformato per evidenti questioni di salute, passò gli anni di guerra  nell’estenuante tentativo di farsi arruolare.    Cosa c'entra la visita — scrisse ad un periodico fiorentino alla fine del 1917 —  l’abilità o l’inabilità, quando uno vuol sacrificare volontariamente, noncurante dei  difetti organici, tutto sé stesso nei campi di battaglia contro il pericolo che oggi  minaccia più che mai l’intera umanità? Per la mia libertà, che è la libertà di un  popolo, dell’umanità [...], voglio dare il mio sangue, la mia vita contro  l’oppressione e la prepotenza militaristica prussiana. Senza far sfoggio di coraggio,  così è il mio sentimento di libertario!5*    Qualche giorno dopo Ghetti si presentò in zona operativa vestito da  bersagliere, ottenendo soltanto di essere arrestato!*5.       !5? Il “Gruppo di Azione Civile” si era costituito ad opera del tipografo mazziniano Terenzio    Grandi e di altri esponenti del repubblicanesimo torinese e restò in vita sino all’agosto del  1917, quando confluì nella ricostituita “Fratellanza Artigiana” di Torino (cfr. «L’Iniziativa», 1  settembre 1917). Come si desume da alcune lettere di Gioda a Grandi (pubblicate in Vita di  Mario Gioda narrata da Giovanni Croce, cit.), i due si conoscevano da tempo ed erano in  ottimi rapporti.   153 In una lettera al giornale di Mussolini, Gioda respinse l’accusa d’essersi imboscato e  spiegò la propria intenzione d’impegnarsi affinché fosse al più presto riconsiderata la  posizione di tutti i riformati. «Io poi — scrisse — prima categoria della classe 1883, sono stato  [...] riformato...per deficienza toracica! Ragione che mi fa oggi invocare, d’accordo con gli  amici del “Popolo d’Italia”, la revisione dei riformati» (Per /a revisione dei riformati, «Il  Popolo d’Italia», 23 giugno 1915). In autunno, dopo che il Governo ebbe annunciato  l’intenzione di varare una tassa sui riformati, Gioda tornò decisamente sull’argomento. «E  un’umiliazione — affermò — inflitta a tutti i cittadini che sono stati scartati alla leva militare, è  quasi un bollo, che contrassegnerà, agli occhi di qualcuno, una deficienza umiliante e  discutibile [...]. Noi avremmo capito la revisione dei riformati — da noi ardentemente  sollecitata — e poscia magari — se necessità assoluta l’avesse richiesta — la tassa applicata ai  veri riformati, a quelli cioè che non potendo offrire alla patria tributo di sangue avrebbero  rassegnatamente accolto l’imposta, onde contribuire in qualche modo per la salvezza  nazionale» (MARIO GIODA, A proposito della tassa dei riformati. La revisione doveva avere la  precedenza, Ibidem, 16 ottobre 1915).   154 «Il Nuovo Giornale», 21 novembre 1917.   !55 Domenico Ghetti era nato a Dovadola, nel forlivese, hel 1891. A sedici anni era emigrato  in Germania, poi in Svizzera, cambiando più volte residenza, e stabilendosi infine a Berna. In  quella città Ghetti aveva svolto un’intensa propaganda anarchica, facendosi anche promotore    58       D'altra parte, anche al di fuori della corrente anarcointerventista vera e  propria, l’entrata in guerra dell’Italia provocò, in seno al movimento  libertario italiano, reazioni emotive contrastanti. Ai primi di giugno del  1915, amplificata dal quotidiano romano «Il Messaggero», si diffuse la  notizia (parallelamente alla voce, subito smentita, di contatti segreti tra  anarchici ed emissari degli Imperi Centrali a Villa Malta) che i gruppi  libertari capitolini “Sante Caserio” e “Francisco Ferrer” avrebbero invitato i  propri aderenti ad arruolarsi volontari nella Croce Rossa. In una cartolina  riportata da «L’ Avvenire Anarchico» del 10 giugno 1915 (Gli anarchici non  si corrompono), Aristide Ceccarelli condannò senza mezzi termini  quell’iniziativa, negando l’esistenza di un circolo anarchico intitolato a  Francisco Ferrer. Ciononostante, il 24 giugno, il foglio pisano pubblicò una  dichiarazione degli anarchici Luigi Pallotta, Ettore Piattini e Giuseppe Frate,  a nome dei gruppi “Caserio” e “Ferrer”, nella quale si affermava che «il  comunicato apparso su “Il Messaggero”, invitante gli anarchici a inscriversi  nella Croce Rossa, doveva interpretarsi nel senso che i compagni soggetti al  richiamo avrebbero dovuto scegliere, indossando la divisa del soldato, quella  della suddetta istituzione, sempre umanitaria, per quanto militarista»; e  dunque ch’era «erroneo il commento dei compagni che avevano creduto  sottolineare tale invito come addirittura un reclutamento anarchico ced  adesione di anarchici alla Croce Rossa». Sebbene rimasto senza seguito,  quest’episodio è a nostro avviso indicativo dell’incertezza che colse parte  degli anarchici all'indomani del 24 maggio 1915. i   Nonostante il clima di eccezionalità seguito allo stato di guerra, la ténsione  tra gli opposti schieramenti della vigilia non diminuì che in minima parte (ed  è significativo che persino l’arruolamento di Rocca, il cui nome bastava  evidentemente ad evocare malumori e risentimenti, suscitasse una coda di       di un “Comitato di difesa sociale pro Masetti” (ma pare che i suoi rapporti con la comunità  anarchica italo-svizzera, e in particolare con Luigi Bertoni, fossero tempestosi). Nell’ottobre  del 1914 un suo articolo violentemente antimilitarista (Cos'è /a caserma?, «L'Avvenire  anarchico», 22 ottobre 1914) gli era valso un’incriminazione per istigazione a delinquere. Due  mesi più tardi Ghetti era rientrato in Italia, a Milano, ed era stato arrestato perché trovato in  possesso di numerosi ordigni esplosivi. Condannato a dieci mesi di carcere, beneficiò  dell’amnistia concessa la momento dell’entrata in guerra dell’Italia. Non si hanno notizie di  un suo coinvolgimento nella campagna interventista, ma sappiamo che egli fu di nuovo  arrestato (questa volta a Torino, il 4 giugno 1916) per aver causato gravi incidenti durante un  comizio di Maria Rygier. Nell’aprile 1918 Ghetti riuscì infine ad arruolarsi in fanteria. Cfr.  ACS, CPC, Busta 2355 [Ghetti Domenico].    59       è 156 dea SPERO da 9  polemiche) ‘°°. La verità è che la frattura tra neutralisti e interventisti non si    sarebbe mai più ricomposta, protraendosi anzi, come noto, ben oltre la fine  delle ostilità.   La crisi dei Fasci, seguita all’entrata in guerra dell’Italia, non valse affatto a  rasserenare gli animi, aggravando semmai i motivi di attrito, dentro e fuori il  movimento. L’involuzione subita dall’interventismo rivoluzionario,  d’altronde, prima ancora che la sua capacità di sopravvivenza politica, in  ogni caso compromessa (i Fasci, come tali, si sarebbero compiutamente  ricostituiti solo alla fine del 1915) '5”, investiva la sua stessa ragion d’essere.  Così, lungo tutto l’arco della guerra, si assistette al tentativo (non sempre  fruttuoso) da parte degli interventisti rivoluzionari, di ricompattare le proprie  fila e, soprattutto, di non smarrire, in mezzo al divenire convulso degli  avvenimenti, la propria specificità ideale.   In questo senso, anche la morte in battaglia, il 23 ottobre 1915, di Filippo  Corridoni, una delle figure più carismatiche di tutto l’interventismo  rivoluzionario, acquistò un significato che trascendeva l’episodio in sé, per  assumere una valenza quasi meta-storica. Il giovane milanese assurse a eroe-  simbolo dell’interventismo rivoluzionario, che al nome dell’”’arcangelo”  sindacalista si sarebbe più volte richiamato, nel prosieguo della guerra, come  a un monito di coerenza ideale. Vale la pena, a questo proposito, di ricordare  le parole di Mario Gioda, scritte immediatamente a ridosso del 23 ottobre,  perché specchio di quella concezione volontaristica dell’azione politica che       ich questo riguardo, si veda l’articolo // giuramento di “managgia” («Il Risveglio  Comunista-Anarchico», Ginevra, 24 luglio 1915), nel quale il giuramento di Massimo Rocca  era fatto oggetto di commenti particolarmente malevoli.   Sull’altro versante, un ottimo esempio di questo stato d’animo è rappresentato da un  volumetto di Raffaele Nerucci, pubblicato all’inizio del 1916 su interessamento di Alberto  Fontana e con prefazione di Charles Malato (Da/ di là del Rubicone, Pisa, Tipografia  Mariotti, 1916). In quelle pagine, Nerucci riprendeva i temi abituali della propaganda  anarcointerventista (la contrapposizione fra anarchismo “reale” e anarchismo “ideale”, la  necessità di difendere la civiltà latina, culla della rivoluzione, dalla minaccia del  pangermanesimo ecc.) e si scagliava violentemente contro gli avversari. L’apologia  interventista di Nerucci, scritta in una prosa magniloquente infarcita di citazioni latine,  appariva ancor più incongrua in quanto giungeva a quasi un anno dall’entrata in guerra  dell’Italia. In ogni caso, pochi mesi dopo la pubblicazione di Da/ di là del Rubicone, Nerucci  abiurò all’anarchismo, e, in una lettera ad un settimanale italiano di Marsiglia, annunziò di  aver preso la tessera del Partito Repubblicano (cfr. «L’Eco d’Italia», 27 agosto 1916).  Nonostante la conclamata fede interventista, Nerucci fece di tutto per evitare la trincea,  ottenendo di essere chiamato sotto le armi a guerra quasi conclusa. Cfr. ACS, CPC, Busta  3526 [Nerucci Raffaello].   !57 Per un quadro complessivo delle traversie dell’interventismo rivoluzionario negli anni  della guerra, v. soprattutto RENZO DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 288 ss., al  quale si rimanda per tutte le vicende qui sommariamente descritte.    60       aveva animato la condotta degli interventisti rivoluzionari nell’ora della  vigilia, e che pareva attuarsi, e come prendere corpo, nella vita e nella  tragica sorte di Corridoni.    Egli era — scriveva Gioda ricordando il compagno scomparso - la nostra gioventù,  tutta la nostra vagabonda, ardente gioventù balzata fuori tra gli sterpi d’una bassa  politica e il dissolvimento de’partiti, tra l'impotenza de’dogmatici e la ribalderia  de’mercanti !5    AI combattimento che costò la vita a Filippo Corridoni prese parte anche  Edoardo Malusardi. Il racconto di quell’episodio che l’anarchico lombardo  inviò all’organo mussoliniano è interessante sia come esempio di  autorappresentazione politica (l’interventista rivoluzionario che, ricolmo di  fede nelle proprie idee, combatte con grande sprezzo del pericolo), sia come  prima elaborazione del mito “corridoniano” (Corridoni che cade  eroicamente, intonando un canto patriottico), un mito destinato a crescere in  breve tempo', e al quale avrebbe attinto anche il sindacalismo fascista,    Malusardi in testa.    Mi trovo degente in un ospedale da campo — riferiva dunque Malusardi — ferito in  quattro parti del corpo, per fortuna non gravemente. Sono caduto in un assalto alla  baionetta, in primissima fila; fui fatto prigioniero dagli austriaci perché  impossibilitato a fuggire. Fuggii da questi attraverso a peripezie che hanno del  romanzesco ed a torture inenarrabili [...]. Tra i morti si conta anche Filippo  Corridoni, comportatosi da prode. Quest’ultimo, anzi, è caduto vicino a me cantando  l’inno d’Oberdan'°    158 «Il Popolo d’Italia», 30 ottobre 1915. i 3 ni  Sulla figura di Filippo “Pippo” Corridoni v. il contributo di MARCO MELOTTO, Filippo  Corridoni fra sindacalismo e interventismo, in «Storia in Lombardia», 1994, n. 1, pp. 107-  19 Gia pochi giorni dopo la morte di Corridoni, «Il Popolo d’Italia» avviò una sottoscrizione  er l'erezione di un “ricordo marmoreo” dell’eroe.   © «Il Popolo d’Italia», 29 ottobre 1915. i  La battaglia del 23 ottobre, detta della “trincea delle frasche”, fu fatale anche ad un anarchico  interventista toscano di nome Adino Contini. «Egli era - scrisse di lui Edoardo Malusardi - un  anarchico novatore. Un eretico su cui gravava l’anatema del “Sinedrio Anarchista” [...]. Il  suo anarchismo, come il mio, non era la fronzuta elucubrazione di qualche sofista a spasso  [...], ma bensi la teoria di tutte le libertà e sintesi di ribellione fattiva contr’ogni oppressione. I  suoi precursori, come i nostri, erano due eroi: Filippo Troja, caduto per 1 indipendenza  ellenica, e Cesare Colizza, la maschia figura di spartano, caduto sotto gli spalti di Seraievo in  difesa della Serbia aggredita» («L’Iniziativa», 11 marzo 1916).    61    RI VATTIRP PARO VERI PURI] VAT POV FOVGPRATA IMRE 97 RG "N    Sul piano della concreta riorganizzazione dei Fasci, una delle iniziative più  interessanti fu la proposta - lanciata proprio dagli anarchici interventisti - di  far confluire tutte le forze dell’interventismo rivoluzionario nel Partito  Repubblicano. Nel novembre del 1915 Maria Rygier (che dallo scoppio della  guerra era andata sempre più accentuando la sua vicinanza al  mazzinianesimo) '°, reputando fondamentale — anche in vista delle sfide  politiche del dopoguerra — rinsaldare l’unità del fronte interventista  rivoluzionario, propose apertamente che gli interventisti rivoluzionari, di  ogni scuola e partito, s’iscrivessero al PRI!9. L’invito della Rygier fu  raccolto da Edoardo Malusardi. In una lettera inviata a «L’Iniziativa»  l’anarchico lodigiano si disse persuaso della necessità di unificare tutti i  partiti della sinistra interventista e d’accordo con la Rygier nel ritenere che  ciò potesse concretamente realizzarsi nel segno dell’ ’’ Edera”, a condizione,  però, che questo non significasse un appiattimento sui programmi  repubblicani.    Gli unici che potrebbero trovarsi a disagio — notava a questo proposito Malusardi —  saremmo noi anarchici novatori: per quanto anche noi, non essendo degli  impenitenti utopisti della società paradisiaca, coi repubblicani ci troviamo molto  d’accordo [...]. Noi siamo degli esaltatori dell’individuo, non nel senso  esageratamente Zaratustriano, ma audace e cosciente, che sa imporsi in mezzo al  falso ed imbelle umanesimo grettamente egoista della folla misoneista e dei suoi  codardi capeggiatori [...]. Mentre i repubblicani subordinano la volontà individuale  a quella collettiva, quella delle minoranze a quella delle maggioranze, noi anarchici,       !©! Il definitivo approdo di Maria Rygier al mazzinianesimo era avvenuto con l’articolo  L'ombra sua ritorna ch'era dipartita («L’Internazionale», 1 gennaio 1915), una lunga e  sentita celebrazione di Giuseppe Mazzini. La svolta della Rygier aveva trovato consensi e  destato speranze negli ambienti repubblicani. «Si auspica che l’esempio della Rygier — aveva  scritto Alfredo Poggiali sull’organo del Partito Mazziniano Italiano — ch’era partita, ne’suoi  primordi, da premesse non esatte, possa far breccia anche fra gli altri anarchici» (Lettera  politica dalla Romagna, «La Terza Italia», 15 gennaio 1915). Dopo lo scoppio della guerra,  Maria Rygier, la cui opera di propaganda non conobbe soste, intensificò, se possibile, la  collaborazione con la stampa repubblicana, massime con «L’Iniziativa». L’infatuazione della  Rygier per Mazzini e il mazzinianesimo trovava del resto concordi numerosi altri interventisti  rivoluzionari (a cominciare da Alceste De Ambris) e anarcointerventisti. Mario Gioda, in  particolare, il quale - come si è visto - nutriva già una viva simpatia per le idee e per i  programmi repubblicani (si veda, a titolo di esempio, l’articolo Mazzini e l'ora storica, «Il  Popolo d’Italia», 11 marzo 1915, in cui Gioda aveva tra l’altro sostenuto che tutti i sovversivi,  «non schiavi dello sterile dogmatismo, non avvelenati dalle secche teorie tedesche o  intedescate», avrebbero dovuto riconoscere la grandezza di Mazzini), rafforzò negli anni di  guerra il proprio filo-repubblicanesimo.   " Cfr. MARIA RyGIER, / partiti di domani. Prepariamoci per le lotte future, «L’Iniziativa»,  27 novembre e 4 dicembre 1915.    62          pur coadiuvando in tutte le contingenze l’azione collettiva, non intendiamo che si  È RA ERI F 16  debba tarpare le ali alle iniziative individuali e le minoranze    Il rispetto delle minoranze e delle singole individualità era stato a  fondamento dell’azione dei Fasci interventisti: qualora il Partito  Repubblicano avesse offerto le stesse garanzie politiche, nulla - concludeva  Malusardi - avrebbe potuto impedire il confluire in esso di tutte le forze  dell’interventismo rivoluzionario, anarchici compresi'‘. Il progetto avanzato  dalla Rygier rimase lettera morta, ma il problema dell’unità tra le forze della  sinistra interventista si sarebbe ripresentato più volte, durante come dopo la  guerra. In ogni caso, quale che fu l’esito della sua proposta, il cammino  personale di Maria Rygier verso le “idealità nazionali” non subì inversioni di  rotta. Il 27 e 28 febbraio 1916 ella fu al congresso nazionale repubblicano di  Roma!95.    Non ho ancora la tessera — disse in mezzo agli applausi dei congressisti — ma  voglio confermare che la guerra ha fatto maturare in me, come in altri, una coscienza  nuova, perché ha disvelato effetti deleteri d’una propaganda basata sul determinismo  economico più gretto. E noi torneremo al vostro Mazzini"    L’ex madrina dell’antipatriottismo “tornò” in effetti a Mazzini, e quella  tessera che ancora non poteva esibire al Congresso romano l’ebbe in realtà  pochissimo tempo dopo!.   Il prolungarsi oltre ogni previsione delle ostilità, il malumore ognora  crescente delle masse e il conseguente, nuovo slancio assunto dalla  propaganda neutralista, aumentarono il senso di smarrimento degli  interventisti rivoluzionari. L’esigenza di opporsi alla presunta opera  disgregatrice del neutralismo “socialista-cattolico-giolittiano”, un'esigenza  molto spesso tracimante in vera e propria ossessione, fu all’origine della  nascita e della diffusione, un po” in tutta Italia, di leghe e di comitati per la  “resistenza interna”. Nell’ambito di queste iniziative, tuttavia, gli  interventisti rivoluzionari - o comunque di sinistra - si sarebbero ritrovati il       !0% Ibidem, 20 dicembre 1915.   !% Cfr. Ibidem. e su   !55 AI congresso giunsero anche i saluti di Mario Gioda, che diceva di seguire «con vivissima  simpatia il lavoro dell’unico partito che la guerra e le rivendicazioni nazionali non avevano  sconvolto»; di Massimo Rocca, il quale auspicava che l’assise repubblicana potesse porre le  basi «per un sovversivismo nazionale, meno settario, più serio, più vasto d’idee e profondo di  sentimento»; e di Duilio Lotti. /bidem, 4 marzo 1916.   106 Ivi,   !0? Cfr. Ibidem, 25 marzo 1916.    63             più delle volte in minoranza (tipico il caso del “Fronte Interno”, costituitosi a  Roma nel giugno del 1916 ad opera di forze prevalentemente democratiche,  che finì assai presto per essere egemonizzato dalle destre). L’interventismo  di destra, infatti, e in particolare quello estremo dei nazionalisti, aiutato dalla  radicalizzazione delle prospettive politiche indotta dallo sforzo bellico, prese  senz'altro il sopravvento, finendo per condizionare la stessa azione delle  sinistre, ed aprendo, in questo modo, nuovi e imprevisti scenari.   La preoccupazione di frenare la propaganda neutralista e quella, più o meno  consapevolmente avvertita, di salvaguardare la “purezza” dei propri ideali,  dominarono il convegno nazionale dei Fasci rivoluzionari, che si riunì a  Milano il 21 e 22 maggio 1916". Pochi giorni prima dell’inizio di quel  congresso, Mario Gioda si era fatto interprete dello stato d’animo di grande  perplessità che attanagliava l’interventismo rivoluzionario. Prendendo  spunto dalle agitazioni contro il caro-viveri scoppiate in Germania e Austria,  agitazioni che i neutralisti italiani avevano portato a esempio  dell’insofferenza popolare verso il protrarsi delle ostilità, Gioda si era  augurato che l’Italia rimanesse al di fuori dell’ondata di malcontento che  stava attraversando gli altri paesi belligeranti e s’era detto convinto del buon  senso e delle virtù patriottiche del popolo italiano. Malgrado ciò, l’anarchico  torinese aveva avvertito la necessità di ribadire la ragionevolezza della  guerra in atto. La guerra - aveva affermato Gioda - era giusta perché  «risolutiva» e perché avrebbe schiuso la via «per maggiori conquiste, in un  ambiente europeo non più accidentato da agguati tedeschi e da barbarie  prussiana»!       !6* Per la cronaca del convegno v. «Il Popolo d’Italia», 21, 22 e 23 maggio 1916. V. altresì Le  dichiarazioni del Congresso dei Fasci, «L’Iniziativa», 27 maggio 1916, e La grande adunata  di Milano e la parola dei nostri compagni, «L’Internazionale», 17 giugno 1916.   '5° MARIO GIODA, Perché questa guerra è giusta, «Il Popolo d’Italia», 17 maggio 1916.  Qualche giorno prima, in occasione della festa del lavoro, Gioda aveva manifestato a chiare  lettere quale fosse ormai il proprio pensiero riguardo alle questioni economiche. «Mentre il  mondo — aveva scritto - si dibatte nella tragica convulsione d’una rivoluzione decisiva per  l’avvenire dei popoli, è per lo meno fatuo il voler cianciare ancora di garofani rossi e di feste  di primo maggio per quella ascensione economica di classe che il proletariato non conquisterà  se non a condizione di essersi reso degno di rimanere libero entro libere nazioni» (MARIO  GIODA, / socialneutralisti industrializzano il primo di maggio, «L’Iniziativa», 1 maggio  1916). Del resto, in un articolo intitolato Valori e limiti della lotta di classe, pubblicato da «Il  Popolo d’Italia» del 22 febbraio 1915, Gioda aveva sostenuto che il materialismo non avrebbe  mai potuto offrire una chiave interpretativa univoca dei grandi fenomeni storici e che lo stesso  socialismo, se avesse voluto mantenere la sua primigenia forza morale, non avrebbe dovuto  risolversi, edonisticamente, in una mera questione economica. La lotta di classe, perciò, non  avrebbe dovuto porsi come fine del socialismo, ma come semplice mezzo, da valutare  secondo le circostanze. Nel caso contrario, «l’organizzazione di classe sarebbe diventata fine    64       AI convegno milanese presero parte Maria Rygier, che vi svolse una  relazione sul tema “Neutralismo e neutralisti”!’°, e Massimo Rocca, in  licenza dal fronte!”. Proprio Rocca si fece portavoce di una convinzione che,  in forma più o meno velata, cominciava a circolare anche tra gli interventisti  di sinistra: la convinzione, cioè, che il Governo dovesse adottare dei  provvedimenti, i più severi possibili, per eliminare il pericolo neutralista.  L’azione contro i neutralisti - sostenne Rocca - doveva essere di due tipi:  «positiva» e «negativa». Positiva, nel senso che gli interventisti avrebbero  dovuto intensificare l’opera di propaganda tra le masse, negativa, perché era  giunto il momento, nell’interesse del Paese, di rispondere con misure  energiche alle provocazioni dei “nemici di dentro”.    Noi — affermò Rocca - dobbiamo avere il coraggio di dire: contro i neutralisti  abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare. Noi dobbiamo avere il coraggio di  domandare che il Governo faccia un’opera che sia di repressione, che sia capace di  porre un freno!”    La posizione di Rocca, per quanto radicale, era coerente con quanto da lui  sostenuto alla vigilia della guerra in merito all’opportunità di una condotta  realmente unitaria della crisi bellica. Non per niente, in risposta a quanti, in       a se stessa, e nessun alito di umanità e di generosità avrebbe animato il popolo, rinchiuso  nelle sue ghilde, nelle sue fratellanze, nelle sue leghe». La classe - aveva concluso Gioda -  non doveva considerarsi un semplice agglomerato di uomini «economici», ma un insieme  complesso di individui, formanti una comunità con più alte e profonde aspirazioni; ed era  pertanto «inutile, sciocco e disonesto il ripetere [...] al popolo che solo la lotta di classe lo  avrebbe dovuto interessare», ogni altro problema essendo problema «borghese». Questi î  passaggi sono — a nostro avviso — di capitale importanza. E” infatti in questa visione dei  rapporti sociali, intrisa tanto di misticismo mazziniano quanto di elitarismo individualista, che  deve rintracciarsi il motivo dell’adesione di Mario Gioda e di tanti anarcointerventisti alle  ideologie del sindacalismo nazionale e del produttivismo fascista, nonché, per successive  corruzioni dell’impostazione originaria, la ragione del passaggio di molti di loro  dall’antisocialismo all’antioperaismo tout court.   !7° In «Il Popolo d’Italia» 19 maggio 1916. sati   !! «Il Popolo d’Italia» del 22 maggio riportava le adesioni al convegno di altri due  anarcointerventisti: Adolfo Fanelli e Tomaso Dal Ciotto. Il nome di Fanelli, che incontriamo  qui per la prima volta, può esser preso a simbolo degli anarchici interventisti dei quali non ci è  giunta notizia. Il panettiere Adolfo Fanelli era nato a La Spezia nel 1889. «Anarchico  convinto, che prendeva parte a tutte le riunioni e manifestazioni del partito» (come lo aveva  descritto un funzionario della Prefettura di Genova in un rapporto del 1912), Fanelli era stato  gerente responsabile de «Il Libertario» dal dicembre 1912 al gennaio 1913. Divenuto  interventista, fu membro del Comitato Esecutivo del Fascio d’azione internazionalista di La  Spezia. Nel dopoguerra aderì al fascismo, iscrivendosi al PNF nell’agosto del 1922. ACS,  CPC, Busta 1943 [Fanelli Adolfo].   172 «Il Popolo d’Italia», 23 maggio 1916.    65                sede di discussione, avevano affermato l’opportunità di scindere nettamente  l’operato dei Fasci da quello di casa Savoia, Rocca (dimostrando maggiore  realismo politico) sostenne che l’interventismo rivoluzionario doveva  assumersi per intero le proprie responsabilità riguardo alla monarchia, con la  quale, e non contro la quale, la guerra era stata decisa!”?.   Nei restanti due anni di guerra Massimo Rocca fu, insieme alla Rygier, il  più attivo del gruppo degli originari anarchici interventisti. D'altronde, già  nel settembre del 1916 egli venne ricoverato all’ospedale militare di Milano  per una grave forma d’ipertrofia tonsillare, ottenendo così una licenza di sei  mesi (rinnovata nel marzo dell’anno successivo) !” che gli consentì di  dedicarsi a pieno ritmo all’opera di propaganda e di organizzazione  politica’. Il 1916 vide altresì la ripresa, da parte di Rocca, della sua antica  predilezione per i grandi problemi di ordine internazionale, come attestato  dalla pubblicazione - per la casa editrice Sonzogno - del libro // Mare  Adriatico, volume nel quale l’autore sposava le rivendicazioni dei  nazionalisti sull’Istria e la Dalmazia. Non si trattava di un interesse  passeggero, visto che la questione adriatica, destinata a segnare in modo  drammatico il dopoguerra italiano, sarebbe stata - insieme ai temi di politica  economica. - la nota predominante dell’attività di Massimo Rocca nel  biennio 1918-1920. Nel febbraio del 1918, del resto, Rocca entrò nella  redazione del quotidiano milanese «La Perseveranza», avviando, sulle  pagine di quel giornale, una serrata campagna a sostegno dell’italianità della  Dalmazia, campagna che gli attirò gli strali polemici di Gaetano  Salvemini!”       173 Cfr. Ibidem.   !74 Cfr. ACS, CPC, Busta 4362, [Rocca Massimo].   !75 L’operato di Rocca in questo periodo fu caratterizzato da un attivismo capillare che non  disdegnava la propaganda spicciola (lo troviamo, ad esempio, oratore principale alla riunione  indetta dal Fascio interventista milanese, per salutare i “fascisti” della classe 1897 in procinto  di partire per il fronte. Cfr. «Il Popolo d’Italia», 23 settembre 1916). Ancora nell’aprile del  1918 la Prefettura romana annotava che Rocca, «pur conservando le sue idee sovversive»,  continuava a svolgere attiva propaganda a favore della guerra. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca  Massimo].   !7 La posizione di Salvemini (espressa a chiare lettere nel volume La questione  dell'Adriatico, pubblicato all’inizio del 1918), che si rifaceva a Mazzini e al principio di  nazionalità, e che gli avversari bollavano come rinunciataria, e quella annessionista di  Massimo Rocca erano diametralmente opposte. Sulle pagine della sua rivista settimanale,  «L’Unità», Salvemini accusò Rocca di essersi appiattito sulle tesi dei nazionalisti. Rocca, dal  canto suo, non risparmiò le critiche a Salvemini (si vedano, in particolare, gli articoli Per  l'onestà politica e la Dalmazia italiana, e Operai, libertari, Dalmazia e nazionalismo, «La  Perseveranza», 5 e 17 marzo 1918).    66       L’approdo di Rocca al giornale del conte Giangaleazzo Arrivabene, un  foglio di chiaro orientamento conservatore, non deve sorprendere. Infatti,  sebbene Rocca avesse già in passato manifestato simpatie per la destra, fu in  questo arco di tempo, compreso tra il congedo dalle armi e la fine della  guerra, che si consumò la sua definitiva trasformazione politica; fu allora,  per meglio dire, che l’ex anarchico maturò un completo distacco, non tanto  dal movimento libertario, ormai del tutto abbandonato, quanto da ogni  residuo sinistrismo. A conclusione di un lungo cammino umano e ideale,  passando attraverso le decisive esperienze dell’interventismo e della guerra,  Massimo Rocca finì dunque per virare decisamente a destra, verso posizioni  che — semplificando - potremmo definire di conservatorismo “illuminato” sul  piano politico; di liberismo radicale, con forti inflessioni produttiviste, sul  piano economico. In entrambi i casi, però, i legami con il fondo elitario del  novatorismo restavano evidenti. L’individualismo di Rocca, rafforzato dalla .  sua personale convinzione di appartenere a un’ “aristocrazia”, alla parte  nobile - più meritevole perché più capace - del popolo italiano (proprio in  quegli anni, d’altra parte, l’ex tipografo autodidatta compiva con successo il  suo ciclo di studi) '”, giunse in pratica al suo esito naturale. In questo  passaggio era già compreso, in potenza, tutto il futuro politico di Massimo  Rocca, dalla riscoperta della Destra storica alla rivalutazione dell’istituto  monarchico, dal programma economico del 1922 ai Gruppi di Competenza,  fino alla “trincea” revisionista. In ultima analisi, infatti, il fascismo di Rocca  non fu mai, nella sostanza, granché diverso dal suo liberalismo del 1918.   Nel maggio del 1917 Rocca aderì al “Comitato d’azione per la resistenza  interna”, sorto a Milano su iniziativa di Ottavio Dinale allo scopo di  coordinare tutte le forze interventiste e d’infondere nuovo vigore alla loro  opera'??. In qualità di delegato di quell’organizzazione, Rocca partecipò al  secondo convegno nazionale dei Fasci d’azione internazionalista, convocato  a Roma all’inizio di luglio, il quale si concluse con l’approvazione di una       !?? Rocca conseguì la licenza tecnica superiore subito dopo la guerra, iscrivendosi quindi alla  facoltà d’ingegneria del Regio Politecnico di Milano.   17% Quale fosse lo scopo principale di questa nuova associazione patriottica, bene lo illustrava  un ordine del giorno votato a una riunione del Comitato il 7 maggio 1917: «Reclamare dal.  Governo provvedimenti immediati contro i troppi tedeschi, turchi, bulgari e austriaci che  infestano il nostro Paese» («Il Popolo d’Italia», 8 maggio 1917). Alla fine del mese il  Comitato inviò un memoriale al Presidente del Consiglio, nel quale, dipinta a tinte fosche  l’azione destabilizzatrice del neutralismo disfattista, s'invocava un’azione draconiana contro  tutti i “nemici di dentro”. Il memoriale, pubblicato in parte anche da «Il Popolo d’Italia» del  27 maggio, si trova in ACS, PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI. GUERRA EUROPEA,  Fascicolo 19.9.2 [Movimento interventista].    67       sorta di documento programmatico dell’interventismo rivoluzionario!”?.  Nonostante il tentativo d’imprimere all’azione dei Fasci un indirizzo certo,  tanto sul piano politico quanto su quello delle rivendicazioni sociali, le  grandi questioni delineatesi nel corso dei due anni precedenti, quella delle  misure da opporre alla ripresa del neutralismo, e quella (per così dire relativa  all’indole stessa del movimento) della salvaguardia della propria identità  rivoluzionaria, rimanevano, complice l’inasprirsi delle tensioni interne al  Paese, più che mai aperte!*°. La tragedia di Caporetto, con ciò che ne seguì, a  livello politico-militare come a livello emotivo, e la conseguente  demonizzazione dei cosiddetti disfattisti, avrebbe contribuito non poco a  mischiare le carte in tavola, spostando decisamente a destra l’asse della  politica interventista. Le divergenze tra le diverse forze dell’interventismo  finirono per appianarsi, a tutto vantaggio della destra nazionalista, salvo poi  riproporsi, ma in un contesto nel frattempo profondamente mutato, alla fine  della guerra.       19° V. «Il Popolo d’Italia», 2 e 3 luglio 1917, e l’articolo // Congresso Interventista di Roma in  difesa degli operai e della pace giusta, «L’Internazionale», 21 luglio 1917 (l’organo  sindacalista parmense riprese le pubblicazioni proprio il 21 di luglio, dopo una sospensione di  quasi un anno).   10 E° molto difficile, per l’assoluta mancanza d'informazioni, sapere cosa gli  anarcointerventisti pensassero riguardo a queste due tematiche, ma è ragionevole credere che  la loro opinione non differisse da quella degli altri protagonisti dell’interventismo  rivoluzionario, sempre più orientati verso una linea di ferma intransigenza. Una testimonianza  importante, anche per l’estremismo del linguaggio usato, è quella di Edoardo Malusardi, il  quale, prendendo le mosse dalla proposta di dimissioni generali avanzata ai sindaci e agli  ‘amministratori socialisti da Costantino Lazzari (un gesto che, nell’opinione del segretario del  Partito Socialista, si sarebbe rivelato un utile strumento di pressione sul Governo e avrebbe  potuto accelerare l’uscita dell’Italia dalla guerra), si appellava direttamente al popolo italiano  perché facesse alfine giustizia «di un così ributtante fenomeno di perfidia e di vigliaccheria»  (EMME, Son purl..., Ibidem, 22 settembre 1917).    68       I    FASCISMO    L’anarcointerventismo alla prova della “nuova” Italia    Ripercorrere le tracce dell’anarcointerventismo nel caos del dopoguerra non  è impresa facile. Già nei mesi successivi all’armistizio, il blocco  dell’interventismo rivoluzionario cessò di esistere come un tutt'uno, per  disperdersi e riaggregarsi in mille rivoli, mentre la nascita di nuove  formazioni, che pure ad esso si richiamavano (fra tutte i Fasci di  combattimento), aggiungeva imprevedibilità a un’atmosfera politica di per sé  già molto fluida. L’anarcointerventismo, che non aveva mai posseduto, per  sua stessa natura, una rigidità organizzativa e ideologica, non sfuggì a questo  processo dissolutivo. Nondimeno, se non ha più molto senso, dopo Vittorio  Veneto, parlare di interventismo anarchico come corrente politica in sé, è  tuttavia possibile — come si accennava nell’introduzione -, attraverso la  vicenda personale dei suoi maggiori rappresentanti, provare a ritrovarne i  segni nella politica italiana del dopoguerra. Dei /eaders anarcointerventisti,  alcuni, come Oberdan Gigli e Maria Rygier, finirono per isolarsi  progressivamente dal gioco politico e per non avere che una parte di secondo  piano nella tormentata stagione del prefascismo'; altri, come Attilio  Paolinelli, riallacciarono, sebbene a fatica, i legami con il movimento  anarchico, rientrando a pieno titolo nell’ “ortodossia”. Altri ancora, infine,       ' Nel caso di Gigli, si può affermare che, con la partecipazione alla guerra, ebbe del tutto  termine la sua militanza pubblica. Nel dopoguerra, infatti, egli abbandonò la politica,  tornando a dedicarsi ai suoi studi. Cfr. MAURIZIO ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima  guerra mondiale. Lettere di anarchici interventisti (1914-1915), cit., p. 84.   Più complesso l’iter politico di Maria Rygier. Negli anni successivi alla guerra la Rygier si  ivvicinò all’Associazione Nazionalista, maturando, nei confronti del fascismo, un  atteggiamento sostanzialmente ambiguo. Nel 1926 fu comunque costretta ad espatriare in  Francia, dove rimase sino alla caduta del regime. Rientrata in Italia, concluse la sua  travagliata milizia politica nelle file del Partito Liberale. Morì a Roma nel febbraio del 1953.  (fr. FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, op. cit., Vol. IV, ad nomen.   ? Nel luglio del 1919 Paolinelli fu arrestato con l’accusa di aver preso parte al complotto di  Pietralata, allorché un gruppo di anarchici, insieme a repubblicani e arditi, tentò  d'impadronirsi dell'omonimo forte militare. Amnistiato, aderì poi - in rappresentanza degli  anarchici individualisti - a un comitato romano “di difesa proletaria” in funzione antifascista.    69          come Mario Gioda, Edoardo Malusardi e Massimo Rocca, si guadagnarono  un posto di rilievo nel nascente movimento fascista, del quale divennero,  quantunque in ambiti diversi, indiscussi protagonisti. La loro vicenda  all’interno del fascismo (che appunto ci proponiamo di ricostruire nel  prosieguo di questo lavoro) può, a nostro giudizio, essere considerata in  relazione ai loro precedenti anarchici; e infatti, se è arbitrario ricercare in  essa un medesimo filo conduttore, immediatamente e coerentemente    riconducibile alla doppia e complessa eredità dell’individualismo anarchico ©  riconoscervi, pur |  nell’eterogeneità delle esperienze e delle posizioni ideali e politiche, non |    e dell’anarcointerventismo, è però possibile  pochi punti di contatto con quel pensiero e con quella tradizione. Nel  valutare l’apporto della cultura anarcointerventista al movimento  mussoliniano (un contributo minoritario, ma non per questo trascurabile),    occorre poi tener presente che il fascismo iniziale, lungi dal formare un |    monolito impenetrabile, orbitante attorno alla tetragona figura di Mussolini,    si distingueva piuttosto - come lucidamente notava Renzo De Felice ©    nell’introduzione al primo volume della sua biografia mussoliniana - per  essere una «serie di stratificazioni»ì, un accumulo di passioni e d’idee    diverse, non di rado in contrasto tra loro. Di questo multiforme e |  contraddittorio universo che fu il primo fascismo, la vena.    anarcointerventista, proprio in ragione della sua disorganicità — evidente nei  diversi orientamenti di Gioda, Rocca e Malusardi -, costituisce inoltre, per  così dire, un modello in scala ridotta.   La storia dell’anarcointerventismo nel dopoguerra (la si consideri o meno in  ordine al fascismo) fu dunque, essenzialmente, storia d’individualità, anche  se, ancora per qualche tempo, nei mesi successivi all’armistizio, si  verificarono, qua e là, sporadici tentativi di raccogliere i superstiti della  corrente anarcointerventista intorno a un progetto politico ben definito, in  grado di misurarsi autonomamente con le forze nuove emerse dal    rivolgimento bellico. A prescindere da alcune iniziative isolate, come quella |  partita da Domenico Ghetti‘, l'esperimento di maggior sostanza in questa |       Nel 1927 fu condannato a quattro anni di confino. Il secondo dopoguerra lo vide ancora attivo  nelle fila del movimento libertario. Cfr. ACS, CPC, Busta 3711 [Paolinelli Attilio].   i RENZO DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. XXII.   4 Il 17 maggio 1919, sulle colonne de «Il Popolo d’Italia», apparve un appello di Domenico  Ghetti agli «anarchici interventisti milanesi» perché facessero giungere la loro adesione alla  nuova iniziativa patrocinata da Mussolini. Ghetti era un mussoliniano convinto (nel giugno  del 1919 la Prefettura di Milano, città nella quale l’anarchico romagnolo si era trasferito alla  fine del conflitto, lo segnalava tra i più accesi propagandisti dei «principi mussoliniani» in  seno al «partito» anarchico). ACS, CPC, Busta 2355 [Ghetti Domenico].    70       direzione fu quello tentato da Roberto D’Angiò. Nella primavera del 1919,  gli ambienti anarchici liguri (D’Angiò si era trasferito a La Spezia a guerra  in corso) furono messi in subbuglio da una circolare, firmata appunto dal  noto propagandista, nella quale si dava per imminente la pubblicazione di un  nuovo giornale anarchico d’ispirazione interventista.    Le concezioni di D’Angiò sull’anarchia — annotava il 31 marzo il Prefetto di  Genova — non collimano con quelle del Binazzi Pasquale, direttore e gerente del  periodico anarchico “Il Libertario” che si pubblica a La Spezia, ed ha pertanto  deciso di fare uscire prossimamente colà un nuovo giornale anarchico intitolato «La  Protesta», che vorrebbe pubblicato quindicinalmente. Tale nuova pubblicazione  avrebbe come programma l’illustrazione del principio anarchico adattato ai nuovi  tempi sortiti in seguito all’opera di rivoluzione fatta dalla guerra”    Il prestigio che ancora ispirava il nome di D’Angiò e il ricordo, sempre vivo,  delle dure polemiche d’anteguerra, indussero «Il Libertario» a prendere  nettamente le distanze da quell’iniziativa.    Parecchi compagni da varie località — ammoniva il foglio di Binazzi - ci chiedono  spiegazioni circa una circolare diramata da Roberto D’Angiò, colla quale si  annunzia la pubblicazione di un nuovo giornale anarchico a Spezia. Rispondiamo in  blocco ai compagni: da tempo il suddetto individuo non ha più nulla di comune cogli  anarchici di Spezia e tanto meno con noi del «Libertario»®    Alla fine di maggio, «Il Popolo d’Italia» - ormai organo ufficioso dei nuovi  Fasci mussoliniani - ospitò un accorato appello di D’Angiò a tutti i «libertari  interventisti», affinché dessero il loro contributo, anche economico, alla  realizzazione de «La Protesta».    Ciò che io desidero — scriveva D’Angiò, precisando il proprio punto di vista — è che  tutti gli anarchici d’Italia, i quali si dichiararono contro il militarismo prussiano,  abbiano il coraggio civile di affrontare la situazione da noi creata. Non è lecito star  zitti quando ci definiscono ex anarchici, volta gabbana, rinnegati, ecc. Noi dobbiamo  reagire, dobbiamo esprimere le nostre idee [...]. Dobbiamo esprimere ed esporre le  nostre idee per snebbiare le menti, per fare viva luce, per dimostrare che noi, che ci  opponemmo con la violenza alla violenza teutonica, fummo e rimaniamo i veri  anarchici”       + Ibidem, Busta 1612 [D'Angiò Roberto].  ® «Il Libertario», 22 maggio 1919.  ? «Il Popolo d’Italia», 29 maggio 1919    71       IPO VRE PERI PRIOTOI VIVONO TT Pet POVIOA    Il primo numero de «La Protesta» uscì il 16 luglio. «Noi — si affermava  nell’editoriale — facciamo qui una pubblicazione anarchica, né più né  meno». Come prima della guerra, dunque, obiettivo principale degli  anarchici interventisti era quello di rivendicare la propria appartenenza alla  famiglia anarchica, nella convinzione, semmai, che i tempi fossero più che  mai propizi per una riforma radicale dell’anarchismo; riforma che doveva  passare attraverso una “selezione” delle migliori energie rivoluzionarie.    Lo sconvolgimento europeo — sosteneva un anonimo articolista de «La Protesta» -  ha insegnato qualche cosa all’operaio. Noi anarchici, che a costui predichiamo di  emanciparsi, dobbiamo, come abbiamo fatto nel passato, non seguire il sistema del  socialismo ufficiale, per il quale il numero, o meglio una somma di numeri, è tutto  [...]. Noi, nel rivolgerci alla massa, dobbiamo parlare all’individuo”    Nonostante l’iniziale sostegno di Mussolini, e nonostante i favori raccolti in  ambito anarcointerventista'’, il giornale di Roberto D’Angiò non sopravvisse    al secondo numero, e il suo fallimento convinse lo stesso D’Angiò a ritirarsi _    a vita privata".  Lo sforzo, tentato da D’Angiò con «La Protesta», di connettere gli anarchici    interventisti, come entità politica autonoma, alla più vasta corrente |  “rinnovatrice” del dopoguerra, restò un caso isolato, ma il contatto tra gli .    anarchici e le forze superstiti dell’interventismo rivoluzionario fu fecondo    anche di altre esperienze, che, pur non avendo un nesso diretto con |    l’anarcointerventismo, è doveroso richiamare brevemente. E’ nota, ad  esempio, l’attenzione con la quale, nel confuso biennio 1919-1920, gli    interventisti rivoluzionari - e in parte gli stessi Fasci di combattimento - _    guardavano al movimento libertario. D'altronde, se le divisioni tra i due  schieramenti erano molte e insanabili, non mancavano tuttavia i motivi    d’incontro, particolarmente la comune ostilità nei confronti dei socialisti    “bolscevizzati” e del loro inconcludente rivoluzionarismo, demagogico e  “parolaio” (Errico Malatesta manifestò a più riprese le sue riserve nei  confronti dell’esperimento leninista) '’. Sul piano puramente strategico non       8 «La Protesta», 16 luglio 1919.   ? Le coscienze volitive, Ibidem, 14 agosto 1919.   0 Dopo il numero saggio del 16 luglio, il giornale di D’Angiò raccolse oltre 30 sottoscrizioni  - per un totale di 240,45 lire - e 28 abbonamenti. Tra gli entusiasti sostenitori de «La Protesta»  ritroviamo alcuni dei nomi più noti dell’anarcointerventismo, da Oberdan Gigli a Ruffo Sarti,  da Alberto Fontana ad Alberto Senigallia. Cfr. /bidem.   È D’Angiò morì a Milano nel 1923. Cfr. ACS, CPC, Busta 1612 [D'Angiò Roberto].   © L’iniziale cautela con cui Malatesta accolse le notizie provenienti dalla Russia lasciò  gradualmente - ma inesorabilmente - il posto a una condanna senza appello del comunismo    72          era quindi irragionevole pensare, da entrambe le parti, ad un’intesa d’azione  in chiave rivoluzionaria; e basti qui ricordare la vicenda del progettato  tentativo insurrezionale che, auspice Alceste De Ambris, avrebbe dovuto  estendersi da Fiume, occupata dai legionari di Gabriele D’ Annunzio, a tutta  la Penisola. Il piano, che vide direttamente coinvolto Malatesta (rientrato in  Italia nel dicembre 1919, grazie all’interesse del segretario della Federazione  dei lavoratori del mare, il capitano Giuseppe Giulietti, e accolto  favorevolmente dalla stampa filo-fiumana) '*, fallì, a quanto pare, solo per la  ferma opposizione dei socialisti a dare un appoggio anche solo indiretto  all’impresa'‘.   La presenza anarchica nel nebuloso quadro politico del dopoguerra si  manifestò anche per altre vie e in altri modi, che, sebbene inconsueti, non  devono però meravigliare più di tanto, quando si tenga conto. della  multiformità delle posizioni all’interno del mondo anarchico. D’altra parte, il  processo di ridefinizione degli spazi politici si prestava a favorire la nascita  di connubi apparentemente improbabili'. Tipico, in questo senso, il caso de       autoritario e soprattutto della dottrina della dittatura del proletariato. Per valutare la posizione  di Malatesta riguardo al bolscevismo è essenziale la lettura dei molti articoli da lui dedicati  all’argomento tra il 1919 e il 1924. Una scelta significativa di questi scritti (originariamente  apparsi su «Umanità Nova» e «Pensiero e Volontà») si trova in ERRICO MALATESTA,  Individuo, società, anarchia. La scelta del volontarismo etico, a cura di Nico Berti, Roma,  Edizioni e/o, 1998.   ! Il 27 dicembre, «Il Popolo d’Italia», che seguì con simpatia e partecipazione il rimpatrio di  Malatesta, rilevò, a proposito dei rapporti di questi con l’interventista Giulietti, ch’egli era  forse «meno intransigente dei tenenti idioti e nefandi del PUS». Gli apprezzamenti  dell’organo mussoliniano, in verità, non piacquero a Malatesta, consapevole del loro valore  strumentale (al riguardo v. ARMANDO BORGHI, op. cit., pp. 203-204). Del resto, l’infatuazione  del fascismo per il vecchio capo anarchico fu di breve durata (a questo riguardo si veda il  duro articolo Una leggenda che si sfata, in «Il Fascio», 6 marzo 1920), e tuttavia, ancora per  tutto il 1920, l’antibolscevismo di Malatesta fu spesso opportunisticamente richiamato, dai   iornali fascisti, in aperta polemica con i “pussisti”.   4 Su questi fatti v. RENZO DE FELICE, Sindacalismo rivoluzionario e fiumanesimo nel  carteggio De Ambris — D'Annunzio, cit., p77 ss.   !5 Tra gli esempi più significativi di questa sorta di diaspora anarchica dev’essere ricordato  quello degli anarchici triestini Luigi Marcello Andriani e Carlo Ukmar. Nell’ottobre del 1918,  dopo il crollo della monarchia asburgica, Andriani e Ukmar (che erano membri di riguardo  del gruppo libertario “Germinal”, il più importante di Trieste) entrarono nel Fascio Nazionale,  costituito dalle forze politiche italiane allo scopo di garantire l’unione della città irredenta alla  madrepatria. «Dimentichi di ogni divergenza di programmi — recitava il manifesto del Fascio  Nazionale -, fusi nel grande amore di sentirci italiani, noi, uomini di tutti i ceti, ci siamo  costituiti in Fascio Nazionale, sintesi ed espressione di quanti consentono ad un’unione con la  Patria [...], che ogni altro ideale comprende ed ammette» (/taliani!, «La Nazione», 1  novembre 1918). Su Andriani e Ukmar v. ENNIO MASERATI, Gli anarchici a Trieste durante il  dominio asburgico, Milano, Giuffrè, 1977, ad indicem.    73          «La Testa di Ferro», l’organo dei legionari fiumani diretto dall’ardito e  futurista Mario Carli!’, che fu, per circa un anno, luogo d’incontro e di  confronto tra le frange estreme del combattentismo e del futurismo politico e  certo anarchismo violentemente individualista, gravitante attorno a riviste  dal titolo emblematico, come «Nichilismo» e «L’Iconoclasta»!”. Attraverso  la rubrica “Polemiche d’anarchismo”, il giornale di Carli, che iniziava le       !6 Mario Carli, nato in provincia di Foggia nel 1889 ma fiorentino d’adozione, era stato uno  dei protagonisti delle avanguardie futuriste. Verso la fine della guerra, Carli, con il gruppo del  giornale «Roma Futurista» (Emilio Settimelli, Filippo Tommaso Marinetti, Enrico Rocca,  Giuseppe Bottai, ecc.) fu tra i fondatori del Partito Politico Futurista. Il futurismo politico, al  quale dettero un apporto considerevole gli ex-combattenti (lo stesso Carli, che era capitano  degli arditi, si fece promotore, nel gennaio 1919, dell’Associazione fra gli Arditi d’Italia), era  decisamente orientato a sinistra e costituì una delle assi portanti dei primi Fasci mussoliniani,  contribuendo altresì ad influenzarne gli orientamenti. «Il programma dei Fasci di  Combattimento creati da Mussolini — commentava «Roma Futurista» nell’aprile del 1919 - è  sostanzialmente identico al programma del Partito Politico Futurista. Forse, le due istituzioni  finiranno per fondersi. Lo spirito che le anima è uno. E” lo spirito dell’Italia nuova: l’Italia dei  combattenti».   Sulla figura e l’opera di Carli v. Dizionario biografico degli italiani, Vol. 20, Roma, Istituto  della Enciclopedia Italiana, 1960-1997, ad nomen, nonché il contributo di ANNA SCARANTINO,  L'Impero. Un quotidiano reazionario-futurista degli anni Venti, Milano, Guanda, 1978, p. 12  ss. Sul futurismo politico e i suoi rapporti col primo fascismo v. RENZO DE FELICE, Mussolini  il rivoluzionario, cit., p. 474 ss., EMILIO GENTILE, Le origini dell'ideologia fascista (1918-  1925), Bari, Laterza, 1975, p. 109 ss., e, con una particolare attenzione alla personalità e al  ruolo di Filippo Tommaso Marinetti, MicHEL OSTENC, Intellettuali e fascismo in Italia,  Ravenna, Longo, 1989, pp. 107 ss.   Li «Nichilismo», diretta da Carlo Molaschi, uscì a Milano tra l’aprile del 1920 e il marzo  1921; «L’Iconoclasta», fondata da Virginio Gozzoli, vide la luce a Pistoia in due periodi  distinti, lungo un arco di tempo compreso tra il maggio del 1919 e l’aprile del 1921. Cfr.  LEONARDO BETTINI, op. cit., ad indicem.   Per capire di quale tipo di idee fossero portavoce queste riviste, si veda l’articolo // mio  individualismo, a firma Enzo di Villafiore (Enzo Martucci), comparso su «L’Iconoclasta» del  15 maggio 1920 (ma se ne potrebbero citare molti altri). «Quale differenza — vi si leggeva -  corre tra il fanatico che si lascia castrare per i suoi dei, il patriotta che si fa uccidere pel suo  paese, e il sovversivo che cade evocando la redenzione collettiva? Nessuna! [...] Nella stessa  guisa han perduto la coscienza del proprio io, e perseguono un fantasma irraggiungibile [...].  Sono dei deboli [...]. Essi non sentono la propria individualità che vuole affermarsi, godere,  vivere [...]. E vorrebbero che io li seguissi. Io scettico, iconoclasta, cinico [...]. Vorrebbero  che mi sacrificassi per la plebe stupida, grossolana e volgare [...]. Io che voglio bere il  profumo della Vita e inebriarmi di Bellezza, che voglio aspirare l’aere della Libertà  sconfinata, per ricevere infine il bacio della Morte. Io tanto superiore alla mediocrità [...]. Io  lotto per me, unicamente per me [...]. Sono al di la del Bene e del Male». In ogni caso,  posizioni di questo tenore suscitarono critiche all’interno della stessa rivista di Gozzoli (che -  come recitava il sottotitolo - era «aperta a chiunque»). In un articolo significativamente  intitolato /ndividualismo o futurismo?, Camillo Berneri definì «deliri letterari», «prose pazze  e vuote», gli scritti di Villafiore e compagni, e «pazzoidi» e «megalomani» i loro autori,    74       pubblicazioni nel febbraio del 1920, si aprì ai contributi di quegli anarchici  individualisti, per lo più molto giovani, che, suggestionati dalla retorica  “demolitrice” e anticonformista del futurismo, vi scorgevano un’arma  potente di rinnovamento della società e, allo stesso tempo, un mezzo di  realizzazione personale"8.   In polemica con «Umanità Nova» (il primo quotidiano del movimento  anarchico italiano, fondato da Malatesta all’inizio del 1920), che guardava  con naturale diffidenza alla “rivoluzione” fiumana e alle velleità sovversive  dei futuristi”, Mario Carli affermava recisamente il carattere proletario e  progressista del futurismo e definiva in questo modo il proprio rapporto con  l’anarchismo:    Tutti sanno quanta dose di anarchismo sia nella nostra concezione futurista del  mondo, che vorrebbe abolire tutte le cose inutili ed ingiuste; le dinastie e i carceri, il  papato e i tribunali, il parlamento e i privilegi, l’archeologia e i corrieri della sera, E°  per questo che, non potendo più accettare il dominio dell’attuale classe dirigente, né  avendo fiducia in quello avvenire delle altre classi, io mi sento assai vicino alla  concezione anarchica, cioè individualista, che vuol preparare un tipo di uomo libero  e forte, unico e indiscusso arbitro dei propri destini”    A sua volta, Filippo Tommaso Marinetti, rispondendo a un anarchico che,  pur plaudendo all’opera novatrice dei futuristi, rimproverava loro il sostegno  dato alla causa fiumana e il loro sentimentalismo patriottico”!, invitava gli  anarchici a lasciarsi dietro le spalle «il pessimismo vano», per aderire alla  lotta propositiva del futurismo. Il punto era - secondo Marinetti - che, mentre  gli anarchici erano «tutti più o meno dei futuristi antipratici, platonici e  pessimisti», i futuristi erano «degli anarchici pratici, fattivi, ottimisti, con un  campo determinato per le Zoro demolizioni e bonifiche, cioè la patria»??.       ! Tra gli anarchici collaboratori de «La Testa di Ferro» si contava anche Domenico Ghetti,  responsabile dell’ufficio di corrispondenza del giornale a La Spezia.   !9 Si veda, in modo particolare, l’articolo Con /a lenza, a firma Simplicio (Gigi Damiani), in  «Umanità Nova», 28 settembre 1920.   20 MARIO CARLI, Replica a un avversario ultra-rosso, «La Testa di Ferro», 3 ottobre 1920.   ?! Cfr. BrUTNO, Patria, Ibidem, 10 ottobre 1920.   22 Ivi.   In quegli stessi giorni, Marinetti pubblicava, per le edizioni de «La Testa di Ferro»,  l'opuscolo A/ di là del comunismo, che può considerarsi il manifesto del suo “sinistrismo”. In  esso, il poeta passava in rassegna, criticandole, tutte le incarnazioni, vecchie e nuove, della  sinistra, e definiva le coordinate del suo individualismo futurista rivoluzionario. «Vogliamo —  affermava tra l’altro - l'abolizione degli eserciti permanenti, dei tribunali, delle polizie e dei  carceri, perché la nostra razza di geniali possa sviluppare la maggior quantità possibile di  individui liberissimi, forti, laboriosi, novatori, veloci».    75       K }  Sisonialitga al quale facevano riferimento Carli, Marinetti e  u uristi de «La Testa di Ferro» era il medesimo c  in l’individualista Abele Ricieri Ferrari  ov. o ETTARI FRI 3  atore, descriveva come «agilità volitiva,  poesia»    i gli altri  he, in quello stesso  meglio noto come Renzo  violenza creatrice [  dl . »_ x . O . uo: 4  ca di ei o minoritario, puramente concettuale, pio  Ismo nietzschiano, che niente a 6  $ d F Veva a che veder  il movimentismo malatesti ì sconti  stiano, così pervaso di i È  i mala umanesimo, né con il  comunismo libertario di «Umanità x i  ità Nova» (col qual i, si i  munism i i quale, anzi, si poneva in netta  antitesi) ‘’, ma che era, innegabilmente, frutto di quel periodo storico    I primi contatti col fascismo    Chiusa questa parentesi, è dunque il momento di tornare alle vicende dei  protagonisti dell’anarcointerventismo in procinto di vestire la cami ta nese  di seguirne il cammino nell’immediato dopoguerra, a Jomiigii re di  Massimo Rocca. i vandi.  In questo periodo - come si accennava - l’interesse di Rocca era per lo più  rivolto alla bruciante questione adriatica. In essa, allora al pui di sd  dibattiti, egli riversò tutto il suo virtuosismo polemico e la sua abilità di  propagandista, con il puntiglio e la caparbietà che gli erano propri” Sebb  Vicino ai nazionalisti, alla cui Associazione aderì subito dopo la vera.  Rocca non ne condivideva le smodate mire imperialiste. Come si cilea dai       23  MANTRA TORE: Oltre ogni confine, «La Testa di Ferro», 7 novembre 1920.  Bocea È, pag Leni Nazi i tra i più assidui collaboratori de «L’Iconoclasta».  sponenti della corrente anarcoindividualist: i È  Una raccolta dei suoi scritti si trova i Vila ae eri;  va in RENZO NOVATORE, Un fiore selvaggio, Pi  A pr E; beds  seal con una breve nota biografica e bibliografica a cura di Alberto Cimmii o ui  fr vm Testa di Ferro» del 12 dicembre 1920, un certo Atomon ribadiva che i futuristi  Ri nino ma sh individualisti, bollando come «antianarchica» l'Unione Anarchica  ‘a Malatesta, che, come le organizzazioni social- i i limi  e À comuniste, si limitava a fare della  a , la vera anarchia non doveva dare al i  «fattore economico dell’esistenza», ma rici i FI nat  ) ; ercare «la perfezione dell’individuo nella vi i  sopra di ogni pregiudizio o di ogni do, Ò ITA a  opr ] gma». Al contempo, però, l’anonimo futuri  distinguere il gruppo di «Umanità Ni i pic ae a  s ova» dal Partito Socialista, mostrando di ire i  primo al secondo, e definiva Errico Malatesta, d i quaglie  do, lel I  morale», un «agitatore e apostolo». - AE  Rocca era membro del “Fascio delle iazioni iotti  2€1 ro. dels associazioni patriottiche” e del “Comitat i  L'ing irredente” di Milano. Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo] Faggi  Cfr. Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 98.    76       suoi numerosi articoli per «La Perseveranza», a cui continuò a collaborare  fino al luglio del 1919 (quando il mutamento della linea editoriale,  sopravvenuto a un cambio di proprietà, gli consigliò l’abbandono), la sua  posizione non andava oltre la rivendicazione dell’Istria e della Dalmazia, che  egli non dubitava essere geograficamente, culturalmente e politicamente  italiane. Una certa moderazione, che pur gli va riconosciuta, non gli impedì  di attaccare violentemente i cosiddetti rinunciatari, a cominciare da Leonida  Bissolati, sia dopo l’intervista da questi rilasciata al «Morning Post», sia  dopo il suo celebre discorso alla Scala?”. Il 17 gennaio 1919 Rocca prese  parte all’imponente comizio milanese “pro Fiume e Dalmazia italiana”, che  fu la risposta data dai “dalmatofili” all’iniziativa del Zeader socialriformista,  comizio nel quale - secondo Renzo De Felice - ebbe il compito di sostituire  Mussolini, che preferì non intervenire «per evitare incidenti»”8. Ai primi di  marzo, Rocca intraprese un viaggio di studio lungo la costa orientale italiana,  da Venezia a Brindisi, giungendo quindi a Spalato, sulla sponda opposta  dell’ Adriatico. Dalla cittadina dalmata, dove si trattenne qualche giorno, fece  pervenire al suo giornale un esteso reportage, nel quale si prodigava, con la  consueta e un po’ pedante ricchezza di argomentazioni, a dimostrare  l'italianità della Dalmazia”. AI suo rientro in Italia fu protagonista di due  nuove manifestazioni patriottiche, a Milano e Torino”; quindi, all’inizio di  aprile, partì per Parigi, inviato speciale de «La Perseveranza», a seguire da  vicino i lavori del congresso di pace”. Dopo il messaggio di Wilson agli  italiani e il conseguente ritiro della nostra delegazione dalla capitale  francese, Rocca, che fino ad allora aveva tenuto, nei confronti del  “wilsonismo”, un atteggiamento prudente e non del tutto ostile*”, abbandonò       7 A questo riguardo v. LIBERO TANCREDI, // ministro della piccola Italia, «La Perseveranza»,  11 gennaio 1919, e Una pace di menzogna per un nuovo giolittismo, Ibidem, 13 gennaio  1919.   28 Renzo DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p.491.   Per la cronaca del congresso v. «Il Popolo d’Italia», 18 gennaio 1919.   29 Cfr. LiBERO TANCREDI, La passione di Spalato, «La Perseveranza», 12, 14 e 17 marzo  1919.   30 Cfr. «Il Popolo d’Italia», 13 marzo 1919, e «La Perseveranza», 17 marzo 1919.   3! Cfr. MassIMO ROCCA, Come il fascismo divenne una dittatura; cit., p. 77.   32 In occasione del viaggio di Wilson in Italia, Rocca, pur vagheggiando una sorta di lega  latina, fondata sull’alleanza Italia/Francia, che facesse da contraltare al nuovo “imperialismo”  anglo-statunitense, aveva manifestato interesse per le tesi del presidente americano, dicendosi  favorevole ad una partecipazione italiana alla Società delle Nazioni. Essa sola — scrisse -  avrebbe potuto garantire «giustizia per i vincitori come per i vinti: giustizia per gli italiani  dell'Istria e della Dalmazia, per gli albanesi, per i romeni, per gli stessi tedeschi» (LIBERO  TANCREDI, L'Italia e la Società delle Nazioni, «La Perseveranza», 5 gennaio 1919).    77                ogni remora, schierandosi senza riserve con il partito dell’annessione, ormai  - a suo dire - «l’unica via percorribile». AI congresso “per l'annessione di  Fiume e della Dalmazia”, che si tenne a Milano, su iniziativa del “Fascio  delle associazioni patriottiche”, il 28 aprile 1919, Rocca non lesinò le accuse  a Wilson, denunciando il torbido «retroscena bancario internazionale che si  nascondeva dietro la figura del presidente filosofo».   Da questo momento i toni della propaganda estera di Massimo Rocca si  fecero sempre più intransigenti. In un fondo per l’organo torinese  dell’Associazione Nazionalista, egli giunse addirittura a prefigurare «la  necessità di un imperialismo senza confini», qualora la crescente ostilità  internazionale e «Ia fantastica corsa allo sciopero» all’interno del paese, con  i suoi effetti negativi sul livello di produzione, avessero a tal punto  danneggiato le esportazioni e fiaccato la ricchezza nazionale da impedire di  provvedere pacificamente all’acquisto delle materie prime indispensabili”.  Questi ultimi accenni alla situazione interna dell’Italia ci consentono di  soffermarci sugli aspetti più propriamente economici del pensiero di  Massimo Rocca. La sua visione economica, infatti, che rimarrà pressoché  inalterata negli anni a venire, si veniva proprio allora configurando come una  mistura di liberismo, sindacalismo e produttivismo di stampo mussoliniano.  Così, a proposito della ventilata introduzione delle otto ore lavorative, Rocca  esprimeva l’esigenza che ad essa si accompagnasse «tutto un sistema  otganico di educazione ed istruzione professionale che accrescesse il  rendimento degli operai»; i quali operai, a loro volta, pena il tracollo  economico della nazione, avrebbero dovuto prendere coscienza delle loro  accresciute responsabilità”. Ciò presupponeva una matura collaborazione tra  capitale e lavoro, dal momento che - secondo Rocca - l’emancipazione dei  lavoratori non si sarebbe mai realizzata tramite. «l’estraniarsi dalla storia e  dal divenire sociale [...], dai problemi, dai doveri e dalla responsabilità  ch’essi comportano»””, ma solo attraverso la piena compartecipazione al  ciclo produttivo, secondo il modello del sindacalismo nazionale. Quanto alla  borghesia industriale, suo compito doveva essere, da un lato quello di  comprendere il cambiamento introdotto dalla guerra, ossia di prendere  consapevolezza dell’ormai inscindibile legame tra politica ed economia;  dall’altro, quello di dimostrarsi autentica classe dirigente, in grado sia di       33 Ip., Audacia (appunti per l'On. Orlando), Ibidem, 29 aprile 1919.  34 «Il Popolo d’Italia», 29 aprile 1919.    3° LiseRO TANCREDI, Per il nazionalismo proletario. Un fenomeno d ‘impotenza, «La Riscossa  Nazionale», 8 giugno 1919.    ID., Le otto ore internazionali di lavoro, «La Perseveranza», 26 gennaio 1919,  2 ID., Assenteismo e collaborazione di operai e di industriali, Ibidem, 2 febbraio 1919,    78       opporsi con fermezza al bolscevismo dilagante, sia di provvedere  all’integrazione e all’educazione del proletariato”. «Occorre che la classe  dirigente - scriveva Rocca - od almeno i suoi elementi migliori,  comprendano che il loro ufficio non è solo di “resistere” o di “concedere”,  ma di persuadere e di guidare»??. o  Questo modo di pensare era senz'altro condivisibile da Mussolini, il quale,  nel frattempo, aveva ribattezzato il suo quotidiano “giornale dei combattenti  e dei produttori” e promosso, con i Fasci di combattimento, una formazione  che aveva, tra i suoi primi obiettivi, quello di contrastare la “demagogia  bolscevica”. Rocca, del resto, ricordava di aver aderito ai «Fasci di  combattimento fin dal 1919, poco tempo dopo la loro nascita”. Questa  affermazione, con tutta probabilità rispondente al vero, non è però altrimenti  accertabile; quel che è sicuro è che Rocca - almeno per tutto il 1919 - non  dimostrò, a differenza di molti suoi compagni, un grande interesse per  l’iniziativa di Mussolini. Di  Fin dai primi di marzo del 1919 «Il Popolo d’Italia» aveva lanciato un invito  per la costituzione di un nuovo movimento politico d'avanguardia. Tra le  molte adesioni pervenute al giornale prima della data fatidica del 23 marzo,  ritroviamo i nomi di alcuni anarchici interventisti: il «vecchio anarchico»  Vittorio Boattini (che si diceva «toto corde» con Mussolini, «per le sante  bastonature interventiste ed anti-bolsceviche») 4 Carlo Rivellini e  Domenico Ghetti. «Gli anarchici coscienti — scriveva quest’ultimo al suo  conterraneo Mussolini — non potranno che aderire al vostro appello» “. i  Alla riunione milanese di Piazza san Sepolcro fu senz'altro presente Mario  Gioda, che aveva da subito aderito all’appello di Mussolini i Secondo Mario  Giampaoli (che peraltro, pur essendo stato testimone diretto dell’accaduto, fa  riferimento alla cronaca de «Il Popolo d’Italia»), vi avrebbe preso parte       3 Cfr. Ip., Un po' di cannibalismo economico dopo la guerra, Ibidem, 18 febbraio 1919.   sig In., La svalutazione sociale della vittoria, Ibidem, 2 aprile 1919. 7   4° Cfr. Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 31.   "i olo d’Italia», 9 marzo 1919. SIAT  i era nato a Meldola, nei pressi di Forlì, nel 1862. Fin da giovanissimo aveva  manifestato idee anarchiche. Nel 1903 si era trasferito a Milano, dove aveva a Li  collaborato a «Il Grido della Folla». Nell'ottobre del 1919 la Prefettura milanese scriveva che,  avendo egli, durante la guerra, «militato [...] nel campo interventista», si dimostrava «un  fervente nazionalista», in tal senso svolgendo «attiva propaganda». Il figlio di Boattini, pe  fu per qualche tempo segretario politico del PNF per la provincia di Milano. ACS,CPC, Busta  679 [Boattini Vittorio].   #2 Il Popolo d’Italia», 21 marzo 1919.   4 Cfr. Ibidem, 7 marzo 1919.    79          anche Edoardo Malusardi*, ma il fatto non è certo. Malusardi stesso, in un  telegramma di adesione a «Il Popolo d’Italia», si era detto dispiaciuto,  trovandosi ancora sotto le armi, di non poter partecipare personalmente,  limitandosi a garantire la sua presenza «in ispirito», per «riaffermare  recisamente il suo interventismo e la sua apostasia»‘* - Il fatto che, anni dopo,  Malusardi rivendicasse la patente di “sansepolcrista”‘, non è affatto  probante, vista la tendenza di molti fascisti, anche della prima ora, a  retrodatare il più possibile il momento della loro “presa di coscienza”””.       4 Cfr. MARIO GIAMPAOLI, /9/9, Roma, Libreria del Littorio, 1920, pp. 97-98.   In base alla ricostruzione di Giampaoli (che, in ogni caso, si limita a citare «Il Popolo  d’Italia» del 24 marzo 1919), Malusardi sarebbe stato presente in rappresentanza di Milano e  di Bologna. *   4 «Il Popolo d’Italia», 9 marzo 1919.  4 Si vedano gli articoli di Malusardi Cose a posto e Commiato, in «Audacia», 28 maggio e 18   iugno 1921.   D Degli anarchici interventisti che sposarono la causa fascista, uno fra i più intraprendenti fu  Leandro Arpinati. Il futuro gerarca, peraltro, aderì al Fascio di Bologna soltanto nel settembre  del 1919, a più di sei mesi dalla sua costituzione. Nel primo Fascio bolognese - nato  nell’aprile ad opera del repubblicano Pietro Nenni e di altri interventisti di parte democratica -  Arpinati ebbe sempre, a quanto pare, un ruolo del tutto marginale, nonostante la notorietà  conquistata nel novembre 1919, allorché un comizio elettorale fascista al Teatro Gaffurio di  Lodi si concluse in un violento scontro con i socialisti ed egli, che faceva parte del servizio  d’ordine, fu arrestato insieme ad altri cinquanta “camerati” (cfr. «Il Popolo d’Italia», 14  novembre e 20 dicembre 1919). Fu a partire dalla primavera del 1920, in parallelo con  l’involuzione reazionaria del fascismo e la conseguente crisi del Fascio bolognese (culminata  con la fuoriuscita degli elementi democratici e di sinistra), che Arpinati iniziò una  spregiudicata ascesa politica. L’11 aprile, il Comitato Centrale dei Fasci di combattimento gli  affidò la responsabilità per l’Emilia centrale; quindi, in occasione del congresso fascista di  Milano, nel maggio, entrò a far parte dello stesso organo direttivo del movimento (cfr. «Il  Popolo d’Italia», 29 maggio 1920). Tra il settembre e l’ottobre successivi, Arpinati, complice  il subbuglio seguito all’occupazione delle fabbriche, si fece promotore di una vera e propria  riorganizzazione del fascismo bolognese, in senso marcatamente antipopolare, guadagnandosi  il sostegno, anche finanziario, degli ambienti più conservatori. Il Fascio di Bologna, così  ricostituito, accrebbe enormemente i propri effettivi, e, forte di una struttura militare di primo  piano, divenne una delle centrali dello squadrismo emiliano-romagnolo, rendendosi  protagonista di un’impressionante escalation di violenze, culminate il 21 novembre (dopo le  elezioni amministrative vinte dai socialcomunisti) nel famigerato assalto a Palazzo  D’Accursio, che consegnò il Comune di Bologna nelle mani dei fascisti. Su tutti questi punti  v. FIORENZA TAROZZI, Dal primo al secondo Fascio di combattimento: note sulle origini del  fascismo a Bologna (1919-1920), in Bologna 1920. Le origini del fascismo, a cura di Luciano  Casali, Bologna, Cappelli, 1982, pp. 93-114, e NAZARIO SAURO ONOFRI, La strage di Palazzo  D'Accursio. Origine e nascita del fascismo bolognese, Milano, Feltrinelli, 1980,    80       Mario Gioda: il difficile equilibrio tra reazione e operaismo    A differenza di Massimo Rocca, che si avvicinò al fascismo gradualmente e  con un certo distacco‘, Mario Gioda si gettò anima e corpo nella nuova  avventura. Il 25 marzo 1919, due giorni dopo l’adunanza di Piazza San  Sepolcro, Gioda, con l’ex sindacalista rivoluzionario Attilio Longoni, fu tra i  promotori del Fascio di combattimento torinese, del quale assunse la  segreteria‘. Gli intervenuti a quella prima riunione erano pochi, e Gioda -  come avrebbe ricordato molti anni dopo un testimone - appariva «un ometto  dalle grosse lenti e dall’eloquenza inesperta, vestito con un inelegante abito  marrone»; piuttosto il tipo dell’intellettuale - si direbbe - che quello del  tribuno in camicia nera. Il Fascio, costituitosi ufficialmente il 28 marzo,  prese sede nei locali della “Lega d’azione antitedesca”, un’associazione  patriottica di destra sorta nel 1916 ad opera del nazionalista Vittorio Cian” .  Il fascismo torinese - al cui sviluppo iniziale contribuirono in misura  notevole gli ex combattenti (Gioda cercò in ogni modo di venire incontro  alle esigenze e alle richieste dei “trinceristi”, sforzandosi di far apparire il  fascismo come il legittimo rappresentante dei loro interessi) 5°. nacque  dunque con il concorso e sotto gli auspici della destra, distinguendosi da       4 Secondo un biografo mussoliniano, la ritrosia di Rocca nell’accostarsi al fascismo fu  dovuta anche ai non ottimi rapporti tra quest’ultimo e Mussolini, il quale non avrebbe avuto  granché in simpatia «colui [Rocca] che lo aveva violentemente attaccato nell’estate del 1914,  obbligandolo, nei confronti dell’intervento, ad una presa di posizione che egli avrebbe  preferito assumere senza sollecitazioni esterne» (YvoN DE BEGNAC, Palazzo Venezia. Storia  di un regime, Roma, Editrice La Rocca, 1959, p. 339).   49 Cfr. «Il Popolo d’Italia», 27 marzo 1919.   50 CARLO ANTONIO AVENATI, Dodici anni dopo. Com'è nato il Fascio di Torino, «La  Stampa», 25 marzo 1931. : :   5 In seguito il Fascio si trasferì nei locali della “Pro Torino”, in Galleria Nazionale,  un'associazione patriottica di stampo sabaudo presieduta dal conte Barbavara di Gravellona.  Contemporaneamente al lavoro di organizzazione nel capoluogo, i fascisti torinesi iniziarono  un’opera di penetrazione nella provincia. In una delle primissime riunioni del Fascio, il 29  marzo, l’anarchico “trincerista” Vincenzo Boario recò le adesioni dei gruppi fascisti del  Canavese, di Ciriè, di San Maurizio e di Caselle. Cfr. MARIO GIODA, Il fervido lavoro dei  fascisti a Torino, «Il Popolo d’Italia», 30 marzo 1919. i )   5? La coscienza combattentistica di Gioda, benché inevitabilmente ammantata di retorica,  appariva sincera. Già prima della nascita dei Fasci di combattimento, l’anarchico torinese si  era fatto promotore di una campagna per il pieno riconoscimento dell’indennità di congedo  agli smobilitati, rappresentanti «l’Italia più vera e coraggiosa, quella in grigio verde» (ID.,  Sino all'ultimo sussidio militare e l'indennità di congedo non viene, Ibidem, 16 marzo 1919).    81       PORT PI CTPTPM PIO VT PERE RIVER PT ETTI IPPONI OPA REATO O TORRI O PRETE PAPPA PAPA       subito per le forti venature non solo antisocialiste”*, ma, spesso, antipopolari  tout court. Ciò divenne ancor più evidente dopo l’avvento di Cesare Maria  De Vecchi, un tipico esponente della borghesia conservatrice piemontese  («cattolico militante e monarchico senza riserve», secondo la definizione che  egli dava di se stesso) ‘, il quale, entrato nel Fascio alla metà di aprile, ne  divenne in breve, a dispetto di Gioda, il vero deus ex machina. La  convivenza tra i due uomini forti del fascismo torinese, così diversi per  indole, per estrazione sociale e per esperienze politiche, si rivelò subito  molto difficile. Emblematico, a questo riguardo, il giudizio, sospeso tra  l’ironia e la commiserazione, che De Vecchi, nella sua autobiografia, ci ha  lasciato di Gioda: «un povero diavolo dalle molte vicende».   Il giovane Fascio torinese fu quindi immediatamente attorniato dalla  simpatia e dalla complicità dei ceti più tradizionalisti. Se Torino - come  rimarcava l’organo del nazionalismo piemontese - era «stanca di essere  diffamata da chi voleva farla credere bolscevica e giolittiana»*, allora il  fascismo poteva segnarne la definitiva rinascita, poteva rivelarsi un elemento  d’ordine, «più che mai indispensabile» a svolgere una decisa azione «di  vigilanza e di controbatteria»’”. Così, già alla fine di aprile, il Fascio di  combattimento poteva vantare l’adesione di ben 31 associazioni liberali  torinesi”, e non v'è dubbio che, nonostante gli impedimenti inizialmente  frapposti dall’autorità prefettizia”, l’apporto delle destre valse a favorire la  graduale espansione del fascismo nel capoluogo piemontese. «Il lavoro —       53 Sul piano della stretta organizzazione antisocialista i fascisti torinesi si dimostrarono molto  efficienti. In un telegramma del 22 maggio al Ministero degli Interni, il Prefetto di Torino  riferiva dell'avvenuta costituzione, in seno al Fascio, di un «ufficio [...] con mandato di  seguire e segnalare le manifestazioni ed il movimento nel campo socialista ed anarchico»,  vale a dire di un vero e proprio apparato di spionaggio. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI,  Direzione Generale di Pubblica Sicurezza (d’ora innanzi Dir. Gen. PS), Affari generali e  riservati (d’ora innanzi Affari gen.e ris.), 1921, Busta 112 [Fascio di Torino].  Wp DE VECCHI, // quadrumviro scomodo, a cura di Luigi Romersa, Milano, Mursia,  »p.I/.   Sulla figura di De Vecchi v. Dizionario biografico degli italiani, cit., Vol. 39, ad nomen.  3 CESARE M. DE VECCHI, op. cit., p. 15.   «La Riscossa Nazionale», 20 aprile 1919.  57 Ibidem, 11 maggio 1919.  58 Cf. «Il Popolo d’Italia», 24 aprile 1919.  Al Fascio aderì anche il comitato “madri dei combattenti”, presieduto dalla contessa Eleonora  Contini di Castelseprio.   Nei primi mesi di vita del Fascio Gioda ebbe a lamentarsi in più di un’occasione, sulle  pagine de «Il Popolo d’Italia» (per il quale curava la cronaca di Torino), del trattamento  riservato ai fascisti torinesi dalle autorità cittadine, nonché della presunta campagna  diffamatoria della giolittiana «La Stampa» nei confronti del Fascio di combattimento.    82          scriveva Gioda a Michele Bianchi a un mese dall’entrata in funzione del  Fascio - procede benissimo e tra molto entusiasmo». «Il Fascio si è  imposto — confermava di lì a poco a Mussolini — e se noi non ci lasciamo  sfuggire il momento opportuno, otterremo risultati incalcolabili»®!.   Ma qual era, in tutto questo, il vero ruolo di Mario Gioda? Se egli era  senz'altro consapevole dei vantaggi che potevano venire al Fascio di Torino  dall’accordo con l’oligarchia conservatrice piemontese, ci sembra però  scorretto affermare - com’è stato fatto - che egli ritenesse quella della  reazione antipopolare «l’unica strada da battere». In realtà, l'approccio  dell’ex tipografo alla questione delle alleanze politiche, così come a quella,  più complessa, dell’orientamento generale del fascismo, era - e sempre  sarebbe rimasto - ben più problematico. Gioda, infatti, pur difendendo il  carattere antibolscevico del Fascio torinese e pur desiderando che ad esso  accorressero tutte le forze «sane, giovani, italiane», senza distinzione di parte  o di colore politico (perché il fascismo doveva essere — anarchicamente -  l’”antipartito”) 4, teneva comunque a distinguere tra antibolscevismo e  antioperaismo e ribadiva che i fascisti non dovevano passare per «dei nemici  del proletariato». Questa stessa esigenza fu da lui espressa al primo  convegno regionale dei Fasci piemontesi, all’inizio del giugno 1919%, e       a ACS, MOSTRA DELLA RIVOLUZIONE FASCISTA (d’ora innanzi MRF), Carte del Partito  Nazionale Fascista, Adesione ai Fasci Italiani di Combattimento, Busta 17, Lettera di Mario  Gioda a Michele Bianchi, 29 aprile 1919.  ©! Ibidem, Lettera di Mario Gioda a Mussolini, 2 maggio 1919.  © EMMA MANA, Origini del fascismo a Torino, in Torino fra liberalismo e fascismo, a cura di  Nicola Tranfaglia e Ugo Levra, Milano, Angeli, 1987, p.246.  9 L'idea di antipartito era già da tempo al centro della riflessione politica di Mario Gioda.  L’avversione alle forme tradizionali di organizzazione politica, già tipica dell’anarchismo  individualista, trovava del resto un corrispettivo nelle nuove tensioni antipartitiche e  antiparlamentari del dopoguerra. «L’antipartito — aveva scritto Gioda nel febbraio del 1919 —  vuol essere il sunto della nausea che in Italia nutrono combattenti e produttori verso i  politicanti». Contro il «feticcio partito», ormai incapace di conciliarsi «coll’elettamente  dinamica modernità civile» (la nuova società scaturita dalla guerra), occorreva suscitare  «l’idea sovvertitrice dell’antipartito», un'iniziativa «iconoclasta e squisitamente anarchica»,  in grado di restituire dignità e centralità ai singoli individui (MARIO GIODA, L'antipartito, «Il  Popolo d’Italia», 10 febbraio 1919). AI di là dei riferimenti ai temi del reducismo e del  produttivismo, tipici dell’aumus del periodo e dai quali il “trincerista” e prossimo fascista  Mario Gioda non poteva prescindere, la radice libertaria e individualista di una simile  impostazione di pensiero appare comunque evidente (non a caso Gioda indicava in Henrik  Ibsen uno dei padri spirituali dell’antipartito).   Sul concetto di antipartito nel primo fascismo v. EMILIO GENTILE, Le origini dell'ideologia  fascista, cit., p. 70 ss.   © MARIO GIODA, Aspetti del fascismo torinese, «Il Fascio», 15 agosto 1919.   95 Cfr, «Il Popolo d’Italia», 3 giugno 1919.    83       riaffermata poi in più di un frangente. Il 19 giugno, ad esempio, «Il Popolo  d’Italia» riportava un’intervista di Gioda al sindacalista Angelo Scalzotto,  che l’autore stesso definiva «un saldo e vigoroso lottatore, ben noto nel  campo dell’organizzazione e del socialismo italiano». L’intervista verteva  sulla situazione dei ferrovieri italiani (in particolare sulla questione delle otto  ore lavorative) e Gioda non esitava a dichiarare che «l’approvazione, da  parte del Governo, di concedere altre migliorie ai ferrovieri» non poteva non  destare «un senso di legittima soddisfazione», dal momento che vedeva  tutelati «i sacrosanti diritti dei lavoratori». Il fatto che poi, in occasione dello  “scioperissimo” del 20 e 21 luglio, il Fascio di Torino assumesse, nei  confronti degli scioperanti, una posizione di aperta sfida‘, non muta i  termini del problema, in quanto l’iniziativa dei fascisti era ancora indirizzata  contro la politica “irresponsabile” dei bolscevichi (ed era pienamente  condivisa da tutti i partiti della sinistra interventista) e non contro la totalità  dei lavoratori!”.   E’ però vero che, di fronte al primo programma fascista, fortemente  sbilanciato a sinistra‘î, Gioda - come ricorda Renzo De Felice - espresse  qualche perplessità, soprattutto, lui repubblicano, in merito alla cosiddetta  pregiudiziale istituzionale. «Qualcuno -- scriveva il 6 giugno ad Attilio  Longoni —- è rimasto male poiché ha intravisto tra le riforme anche quella  definitiva della monarchia. Forse è necessario mettere i puntini sugli “i” e       5 Un manifesto, fatto circolare dal Fascio torinese in quell’occasione, faceva intendere senza  mezzi termini che i fascisti, qualora fosse stato necessario, sarebbero intervenuti a tutela  dell’ordine, onde salvare il paese dal «tragico caos bolscevico». Allo stesso tempo, il  manifesto ricordava ai lavoratori che «nessun partito socialista ufficiale aveva scopi  violentemente innovatori come i Fasci di combattimento, e di immediata attuazione». /bidem,  17 luglio 1919.   Sullo “scioperissimo” a Torino, che si concluse senza incidenti degni di rilievo, v. «La  Stampa» del 2., 22 e 23 luglio 1919.   9 L’atteggiamento dei fascisti nei confronti dello “scioperissimo” è ben rappresentato dalle  lettere di due anarcointerventisti, entrambi operai. Edmondo Mazzucato, che lavorava alla  redazione de «L’Ardito», il giornale dell’Associazione fra gli arditi d’Italia, scrisse a  Mussolini (che ne definì la lettera «un gesto di fierezza e di dignità») di non aver alcuna  intenzione di «subire supinamente» le imposizioni della Federazione del libro, il sindacato a  cui aderiva, e che si sarebbe recato come di consueto sul posto di lavoro («Il Popolo d’Italia»,  20 luglio 1919). Su «Il Giornale del mattino» del 30 luglio (organo ufficioso del Fascio  bolognese, diretto da Pietro Nenni) comparve una lettera non meno polemica del ferroviere  Leandro Arpinati. Secondo il suo primo biografo, Arpinati ricomparve sulla scena politica  proprio in occasione dell’assemblea generale dei ferrovieri del compartimento di Bologna, il  20 luglio, allorché si sarebbe scontrato duramente con i colleghi favorevoli all’astensione dal  lavoro (cfr. TORQUATO NANNI, op. cit., p. 44).   67] programma, elaborato da Agostino Lanzillo e intitolato / postulati dei Fasci. Per la  rappresentanza integrale, fu reso noto da «Il Popolo d’Italia» del 13 maggio 1919,    84       chiarire i nostri rapporti coi fascisti “monarchici”. La preoccupazione di  Gioda era dunque, innanzi tutto, quella di non spezzare i delicati equilibri  interni del fascismo torinese, dove gli elementi monarchici erano in netta  preminenza, e non è difficile leggere nel qualcuno della sua lettera a Longoni  un esplicito riferimento a De Vecchi. Ma Gioda, come avrebbero dimostrato  le vicende successive alle elezioni politiche del 1921, non aveva rinnegato il  proprio repubblicanesimo. Le sue cautele erano quindi dettate da  considerazioni di ordine strategico e in questo senso, piuttosto che in quello  di un suo personale mutamento di rotta, devono essere interpretate le sue pur  numerose concessioni alla destra.   La questione delle alleanze, la questione, in particolare del rapporto con la  sinistra interventista (repubblicani, sindacalisti della USI, socialisti  riformisti), si presentò con sempre maggior forza in previsione delle elezioni  politiche dell’autunno. Si trattava di un problema che coinvolgeva tutto il  movimento fascista (e basti pensare al travaglio che colse il fascismo romano  a ridosso del voto) ”, ma che, a Torino, prendeva un significato particolare.  Già il primo agosto 1919, in una nuova lettera all’amico Longoni, Gioda  definì l’eventualità che si addivenisse a un blocco elettorale di tutto  l’interventismo di sinistra — la soluzione preferita da Mussolini - «una sterile  palla di piombo»”!. E’ chiaro che Gioda pensava a salvaguardare l’unità del  Fascio da lui guidato, dove le forze di destra, che erano preponderanti, non  avrebbero mai condiviso una piattaforma programmatica che ponesse tra i  propri obiettivi quello della costituente. Non a caso il direttore de «La  Riscossa Nazionale» espresse il proprio rammarico per le ripetute  dichiarazioni di Mussolini in senso repubblicano, chiedendosi se anche i  fascisti torinesi intendessero seguire il loro “duce” in quella china”. Gioda,  consapevole di doversi misurare con le ubbie monarchiche di De Vecchi,  intervenne a dissipare le perplessità dei “destri”. Mussolini — sostenne -  esprimeva una posizione del tutto personale, che tale sarebbe rimasta,  almeno sino alla convocazione del primo congresso nazionale fascista.  Quanto al Fascio di Torino, esso non aveva, e non poteva avere, pregiudiziali  di sorta.       © In RENZO DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 518.    7° A Roma, la sinistra futurista guidata da Enrico Rocca e Giuseppe Bottai si oppose alla  decisione, votata il 22 ottobre dalla Giunta Esecutiva del Fascio capitolino, di aderire alla  “Alleanza Nazionale”, l’intesa elettorale promossa dai liberali di destra e dai nazionalisti (cfr.  Dichiarazioni futuriste sulla situazione elettorale romana, «Roma Futurista», 2 novembre    "! In Renzo DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, p. 541.  7? Massimo RAVA, Posizione di battaglia, «La Riscossa Nazionale», 3 agosto 1919.    85          Se fuori dal Fascio — affermava Gioda - stimo politicamente certi nazionalisti di  indubbio valore e intelligenza, al Fascio io non ne conosco nessuno. Così come  ignoro repubblicani, monarchici, socialisti, radicali, anarchici e sindacalisti. AI  Fascio, che non può essere un partito, io conosco solo dei fascisti concordanti su un  dato programma di realizzazione immediata [...]. Tra parentesi, sono stato proprio  io, anarchico, a proporre a suo tempo di includere [Angelo] Cavalli, nazionalista, e  De Vecchi, monarchico, nel Comitato Esecutivo del Fascio”    Ora, ciò che queste parole mettevano in evidenza non era soltanto uno  scrupolo elettoralistico, ma la fermezza di Gioda nel difendere il carattere  antidogmatico dell’idea fascista; una presa di posizione tipica della  vocazione movimentista del primo fascismo, ma nella quale, nel caso  specifico di Mario Gioda, è possibile scorgere (almeno in qualche misura)  anche il retaggio dell’anarcoindividualismo. Non è privo di significato,  d’altronde, che il fascista Gioda, consapevole della novità rappresentata dal  fascismo rispetto alle categorie politiche d’anteguerra, richiamasse tuttavia la  propria identità di anarchico, e non già come semplice attitudine o abitudine  mentale, ma come un dato di fatto politico. In ogni caso, chiarito che il  fascismo, quanto meno in Piemonte, non nutriva propositi sovversivi, Gioda  poté confermare che il Fascio di Torino avrebbe davvero costituito «l’asse  per una grande intesa degli interventisti» in vista delle elezioni; ma che  questa. sarebbe appunto avvenuta «fascisticamente», fuori dagli schemi  destra-sinistra, ormai superati, astraendo dal «colore della tessera di  partito».   La “marcia di Ronchi” e l’occupazione militare di Fiume da parte di  Gabriele. D’Annunzio parvero poter accelerare questo processo di  unificazione. Il 30 settembre, infatti, il Fascio di Torino si fece promotore di  in “comitato pro Fiume” (ne sorsero di analoghi un po’ in tutta Italia), nel  quale erano rappresentate tutte le forze “nazionali”, di sinistra e di destra, dai  repubblicani ai nazionalisti”. Ma si trattava di un entusiasmo passeggero,  che avrebbe ben presto ceduto il passo a una più grande incertezza.       73 MARIO GIODA, / nazionalisti e l'intesa di sinistra, Ibidem, 10 agosto 1919.  tai Ip., Gli aspetti del fascismo torinese, cit.   Il 2 settembre, nel corso di un’adunata del Fascio torinese alla presenza del segretario politico  generale del movimento Umberto Pasella, Gioda ribadì che a Torino i fascisti si sarebbero  battuti per un’intesa elettorale degli interventisti di tutti i partiti. Cfr. «Il Popolo d’Italia», 4  settembre 1919.   ?° Cfr. Ibidem, 3 ottobre 1919, e «Il Fascio», 4 ottobre 1919.    86       Dal congresso fascista di Firenze non venne affatto, contrariamente alle  aspettative del segretario del Fascio torinese (che vi ebbe peraltro un ruolo  defilato), un’indicazione univoca in senso elettorale. Alla relazione di  Michele Bianchi, fautore di una linea politica possibilista (la politica del  “caso per caso”), fece da contraltare quella di Mussolini, che, quantunque in  modo non esplicito, lasciò però trasparire l’intenzione di perseguire  l’accordo con le sinistre interventiste”’. Quel che ne uscì fu un ordine del  giorno compromissorio, che, di fatto, lasciava libertà di azione ai singoli  Fasci. Questa libertà, venuta meno ogni possibilità di accordo a sinistra, finì  per concretarsi nell’alleanza con la destra liberal-nazionale (nella sola  Milano, infatti, il fascismo riuscì nell’intento di presentare una lista  autonoma) 7”.   I deliberati del congresso di Firenze, nella loro elasticità, andavano  sostanzialmente nella direzione auspicata da Gioda, il quale, libero da  condizionamenti di sorta, poté rivolgersi alle forze politiche torinesi con  l’invito ad abbandonare «le fazioni» e a dar corpo ad «un potente fascio di  energie», in funzione antibolscevica e antigiolittiana”. Per questa via si  addivenne infine alla costituzione di un “Blocco della Vittoria”, peraltro  chiaramente orientato a destra, quanto meno nella sua composizione. Ne  facevano parte, infatti, radicali, liberali di destra e antigiolittiani, tra i quali  alcuni membri del disciolto “Fascio Parlamentare” (Edoardo Daneo,       Sull’occupazione di Fiume e le sue ripercussioni sul movimento fascista v. ROBERTO  VIVARELLI, /! dopoguerra in Italia e l'avvento del fascismo (1918-1922), Vol. I, Dalla fine  della guerra all'impresa di Fiume, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, 1967, p. 503  ss., MICHAEL ARTHUR LEDEEN, D'Annunzio a Fiume, Bari, Laterza, 1975, FRANCESCO  PERFETTI, Fiumanesimo, sindacalismo e fascismo, Roma, Bonacci, 1988, e MICHEL OSTENC,  op. cit, pp. 131 ss. Si veda inoltre l’introduzione di Renzo De Felice a GABRIELE  D'ANNUNZIO, La penultima ventura: scritti e discorsi fiumani, Milano, Mondadori, 1974, pp.  VII-LXXVIIL   7% Cfr. Renzo DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 568 ss.   Il congresso ebbe luogo al Teatro Nazionale, in via dei Cimatori, nei giorni 9 e 10 ottobre  1919 (per la cronaca v. «Il Popolo d’Italia», 10, 11 e 12 ottobre 1919). Cesare Maria De  Vecchi entrò a far parte del nuovo Comitato Centrale del movimento, in rappresentanza dei  Fasci piemontesi.   Di tale lista faceva parte Edmondo Mazzucato. Questi aveva aderito al Fascio di  combattimento di Milano al momento della sua costituzione ed era stato tra gli assaltatori  della sede dell’ «Avanti!», il 15 aprile 1919. «La sua candidatura — scriveva «Il Popolo  d’Italia» del 16 novembre 1919 — significa elevazione delle classi lavoratrici, lo sforzo per  formare tra gli operai una aristocrazia di pensiero e di azione [...]. Nella lista dei Fasci egli  rappresenta l’operaio onesto e che non usurpa il nome di lavoratore». Mazzucato risultò 14°,  su un novero di 19 candidati, con 56 voti di preferenza.   78 MARIO GIODA, La piattaforma elettorale piemontese, «Il Popolo d’Italia», 24 ottobre 1919,  e «Il Fascio», 1 novembre 1919    87          Giuseppe Bevione e l’ex Presidente del Consiglio Paolo Boselli), mentre il  Fascio vi era rappresentato da quattro combattenti: De Vecchi, il generale  Donato Etna, già comandante del corpo d’armata di Torino (deposto su  ordine di Nitti nel settembre), il maggiore degli alpini Giovan Battista  Garino e il capitano Luigi Revelli”. L’Unione Socialista Italiana, che in un  primo momento sembrò poter entrare nel “Blocco”, se ne tirò fuori quasi  subito, per far causa comune con i repubblicani nella “Alleanza Elettorale”®°.  A questo punto, Mario Gioda parve rendersi conto di aver imboccato una  strada a rischio. Si nota infatti, nella sua attività politica prima delle elezioni,  la preoccupazione ricorrente di non far apparire la lista del “Blocco della  Vittoria” troppo sbilanciata a destra. Essa - sottolineava Gioda in un articolo  illustrativo per «Il Popolo d’Italia» - era «la più organica», la più  rappresentativa anche delle esigenze popolari, e il suo programma aveva un  contenuto sociale «notevolissimo»? In particolare, egli rimarcava ancora  una volta che il fascismo intendeva combattere il bolscevismo, non i  lavoratori nel loro insieme, ed operava altresì una netta distinzione tra  “pussisti” e socialisti rivoluzionari.    Un accenno alla lotta contro il bolscevismo — scriveva Gioda a commento di un  passo della piattaforma elettorale del “Blocco” - non è troppo felice. Si confuse, da       9 Cfr. «Il Popolo d’Italia», 25 ottobre 1919.   AI “Blocco della vittoria” non aderì la sezione torinese dell’ Associazione Nazionale  Combattenti, che si pronunciò a favore dell’astensione. Nel corso di un'assemblea del Fascio,  il 29 ottobre, Gioda criticò duramente la scelta dei combattenti, non tanto perché non ne  condividesse le ragioni ideali (la volontà, cioè, di non compromettersi nella lotta  parlamentare), quanto, piuttosto, perché la riteneva controproducente sul piano tattico. «I  fascisti — disse Gioda — hanno accettato anche la lotta schedaiuola per rintuzzare, ovunque e  comunque, la sfida dei giolittiani, dei clericali dei socialisti ufficiali». Si noti che, nel testo  originale autografo del discorso di Gioda, la parola anche è sottolineata, a evidenziare il  carattere strumentale attribuito dallo stesso Gioda alla battaglia elettorale fascista. ACS, MRF,  Esposizione, Busta 111 [Documenti].   ° «Il Fascio — commentava a questo riguardo Gioda — non ha potuto far blocco con l’Unione  Socialista Italiana, cioè con i bissolatiani, non tanto per divergenze programmatiche, quanto  per la diffidenza di questi ultimi verso i nazionalisti ed anche perché la USI vorrebbe  impostare la campagna elettorale “prescindendo” dall’interventismo e dal neutralismo»  (MARIO GIODA, /nsinuazioni gesuitiche dei socialisti rinunciatari contro i fascisti, «Il Popolo  d’Italia», 6 novembre 1919).   8 Ip, // programma elettorale del Blocco della Vittoria, Ibidem, 1 novembre 1919.   Tra i postulati del programma elettorale del “Blocco della Vittoria” figuravano:  l’introduzione di una tassa sui sovraprofitti di guerra, la riforma scolastica, quella del sistema  doganale (per abbattere «parassitismi e monopoli») e della burocrazia, l’assicurazione  obbligatoria contro l’invalidità, la vecchiaia e la disoccupazione, una riforma degli organi  legislativi che garantisse «alla classe lavoratrice [...] una diretta e specifica rappresentanza».    nisticntiititnm       parte dei redattori del programma, “socialismo rivoluzionario” e “bolscevismo”.  Ora, i maggiori e migliori esponenti internazionali del socialismo rivoluzionario  sono antibolscevichi per eccellenza. Gli interventisti italiani della prima ora, da  Cipriani a Corridoni a De Ambris, sorsero appunto dalle file del socialismo  rivoluzionario*”    Le elezioni del 16 novembre videro, come noto, la sonora sconfitta dei  fascisti. A Torino risultarono eletti nelle file del “Blocco della Vittoria” i soli  Bevione e Boselli; primo dei fascisti in ordine di preferenze riuscì De  Vecchi, seguito da Etna, Revelli e Garino 83. Rispetto alla vera e propria  débacle registrata dal fascismo in altre parti d’Italia, non si trattava di un  esito disastroso, ma occorre tener presente che i fascisti in quanto tali non  ottennero alcunché (Bevione e Boselli, anzi, finirono per entrare nel gruppo  parlamentare giolittiano!). Gioda, commentando il responso delle urne,  sottolineava il rovescio subito dalla lista giolittiana e scriveva di «brillante  risultato»**, ma si trattava di un mero artificio tattico, 0, se vogliamo, di una  ben magra consolazione . su   In verità, la sconfitta bruciava e fu anzi l’occasione per un chiarimento  all’interno del Fascio di Torino. Il 13 dicembre 1919 si riunì l'assemblea  generale dei fascisti torinesi. Gli operai sindacalisti Umberto Lelli e Pilo  Ruggeri, spalleggiati da Gioda, criticarono l’involuzione conservatrice del  Fascio, sostenendo la necessità di un più stretto rapporto con i lavoratori  delle fabbriche??. Riguardo all’alleanza con le destre, Gioda dichiarò:       8 Ivi. pri  83 Per l’esattezza, il “Blocco della Vittoria” riportò 23.321 voti, contro i 116.409 dei socialisti  unitari, i 38.008 dei popolari, i 21.402 della lista giolittiana dell’Aratro, i 10.093 del Partito  Economico, i 6.547 dell’Alleanza Elettorale, e i 1.642 del Partito Agrario. Per un quadro  esauriente dei risultati elettorali nel capoluogo piemontese v. «La Stampa», 21, 24 e 25  novembre 1919. I   84 MARIO GIODA, / risultati elettorali ottenuti dal Fascio di Torino, «Il Popolo d’Italia», 28  novembre 1919.   #5 Cfr. «Il Fascio», 20 dicembre 1919. Mi l  Pilo Ruggeri, che aveva militato nelle file della USI, era un tipico rappresentante dell ala  operaista del fascismo. Quali fossero le sue convinzioni è ben testimoniato da un suo discorso  del 29 settembre 1919 al Teatro di Pinerolo, innanzi a una platea composta per lo più di  socialisti. Nel suo intervento Ruggeri si era prodigato a illustrare l'essenza rivoluzionaria e  proletaria del programma fascista, evidenziandone le differenze ma anche le affinità con  quello socialista, in ciò rivelando il timore — comune anche a molti altri fascisti - che una  troppo accentuata politica antisocialista potesse condurre all’isolamento del movimento  fascista dalle masse. E’ significativo del clima politico di quei giorni che, nonostante le  aperture di Ruggeri agli avversari, il comizio si fosse concluso con gravi incidenti tra fascisti    89          Io stesso propugnai i blocchi a larga base, ma credo che oggidì occorra molta, ma  molta circospezione prima di avventurarsi ancora in altri blocchi, se non vogliamo  [...] negare sempre la nostra giovinezza d’idee e la nostra combattività a beneficio  dei vecchi partiti e dei vecchi loro rappresentanti*”    Nella nuova Commissione Esecutiva del Fascio, eletta subito dopo,  entrarono quattro operai (oltre a Lelli e Ruggeri, Antonio Cantinetto e Pietro  Giraudo) ®. L’allargamento della base del Fascio - come auspicava Gioda  (che fu riconfermato segretario politico) - avrebbe dovuto favorire la  ripresa, in vista di «nuovi cimenti» e di «più gagliarde lotte politiche e  sociali»**. Tuttavia, la decisione di recuperare spazio e credibilità a sinistra  restò senza seguito. L’assenza di una base reale tra i lavoratori (a fronte di un  movimento operaio forte e, a Torino più che altrove, schierato su posizioni  di avanguardia), le irrisolte contraddizioni della politica fascista - rese ancor  più stridenti dalla nascita e dalla diffusione del fascismo agrario - e le  resistenze della destra interna, determinarono la sconfitta (ma sarebbe più  opportuno parlare di mancata realizzazione) di questo progetto. Nella prima  metà del 1920 il fascismo torinese attraversò quindi una fase di ristagno, per  non dire di vera e propria crisi, che parve poterne compromettere le sorti”,  tanto che l’unico successo ottenuto da Gioda in questi mesi fu la  costituzione, accanto al Fascio, di una “Avanguardia Studentesca”, In  occasione di una nuova assemblea generale dei fascisti torinesi, nel maggio,  Gioda pronunziò un importante discorso, che, sebbene non si discostasse  granché da quanto egli professava fin dal 1915, lasciava presagire un nuovo  mutamento di prospettiva politica, nel senso di un’attenuazione delle velleità  operaiste. L’insuccesso della linea di sinistra propugnata da Gioda e il  prevalere, in seno al movimento fascista nazionale, di un indirizzo       e socialisti. Cfr. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., 1921, Busta  112 [Fascio di Torino].  80 «Il Fascio», cit.  n Cfr. «Il Popolo d’Italia», 25 dicembre 1919.  di MARIO GiODA, Un appello ai fascisti torinesi, Ivi.   AI riguardo v. EMMA MANA, op. cit., p. 251 ss.  2 bt “Avanguardia Studentesca” torinese, nata alla fine di aprile del 1920, era presieduta  dallo studente d’ingegneria e mutilato di guerra Carmelo Cimino, già membro della nuova  Commissione Esecutiva del Fascio. Cfr. «Il Fascio», 8 maggio 1920.  Sul fenomeno delle avanguardie studentesche e, in generale, sui rapporti tra fascismo e  associazionismo giovanile, l’opera più circostanziata rimane quella di PAOLO NELLO,  L'avanguardismo giovanile alle origini del fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1978,    90       marcatamente reazionario, limitavano del resto i margini di manovra del  fascismo torinese. Ancora nell’aprile, in risposta della grande agitazione dei  metallurgici (il cosiddetto “sciopero delle lancette”), un manifestino del  Fascio, vergato a mano da Gioda, invitava gli operai torinesi a rinnegare il  bolscevismo - che aveva corrotto «l’idea socialista di giustizia e di libertà» -,  per stringersi fiduciosi intorno ai fascisti, i quali «erano per le più ardite  riforme e le più audaci rivendicazioni dei lavoratori», purché queste non  significassero «la rovina e il sabotaggio degli interessi della Nazione»?!. Nel  discorso del maggio l’accento si spostò (mazzinianamente, potremmo dire)  dal piano dei diritti a quello dei doveri del proletariato, con un’accentuazione  dei temi più strettamente produttivistici.    I fascisti — disse Gioda — sono delle volontà e delle capacità che seguono direttive  senza dogmi e senza battesimi politici. Per questo sono, all’occorrenza, rivoluzionari  e conservatori [...]. Vogliamo tutti i diritti rivendicati al popolo lavoratore, se questo  sa assolvere tutti i suoi doveri. Un proletariato educato solo al culto del bel vivere è  una bestia da soma che qualsiasi governo o classe capitalistica o chiesa politica  possono asservire. La questione del proletariato, invece, è un altra cosa. E’ una  questione innanzitutto di capacità, all’infuori delle ciance rivoluzionarie e  parlamentari. E” una questione di volontà superiori maturate attraverso l’esperienza  produttiva di tutte le energie nazionali”?    Gioda prese parte al secondo congresso nazionale fascista, che si riunì a  Milano il 25 e 26 maggio 1920, quello della svolta a destra e della       °! ACS, MRF, Esposizione, Busta 111 [Documenti].   92 «Il Fascio», cit.   Il dissidio tra la sua concezione del fascismo, derivante in parte dal suo passato anarchico e  repubblicano, e le ragioni del compromesso (senza però tralasciare di considerare che la  disinvoltura programmatica era un aspetto non secondario del cosiddetto problemismo  fascista), accompagnò tutta l’opera di Gioda. Durante l’adunata provinciale dei Fasci  piemontesi, ch’ebbe luogo a Torino il 27 febbraio 1921, Gioda, commentando la relazione di  Umberto Pasella sulla questione sindacale, difese il principio, in essa affermato, della  legittimità dello sciopero economico anche nei servizi pubblici, essendo lo Stato, molte volte,  «un cattivo padrone e un pessimo amministratore». 1 Fasci di combattimento, per Gioda, non  dovevano essere «organizzazioni di guardie bianche o comitati di difesa civile» e avevano il  dovere di battersi per qualsivoglia riforma, «sia pur audace», quando essa avesse arrecato  beneficio ai lavoratori, nel rispetto degli interessi generali. Riprendendo un concetto caro  all’ala sindacalista del fascismo, il segretario del Fascio torinese auspicò la trasformazione del  movimento politico e sindacale fascista in un unico “partito del lavoro”. ACS, MRF,  Esposizione, Busta 125 [Documenti]. Sui presupposti ideologici del “partito del lavoro”, €,  più in generale, sugli orientamenti “laburisti” all’interno del fascismo, v. EMILIO GENTILE, op.  cit,, p. 76 ss., e soprattutto PAOLO NELLO, Dino Grandi: la formazione di un leader fascista,  Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 73 ss.    91             conseguente trasformazione del movimento”. D’altro canto, l’ingresso di  Gioda nel Comitato Centrale dei Fasci, in sostituzione di De Vecchi,  rappresentò - come ha sottolineato Renzo De Felice - l’unico successo  dell’ala sinistra del fascismo”. Al riconoscimento di Gioda sul piano  nazionale non corrispose però il rafforzamento della sua leadership  nell’ambito del fascismo torinese. Alla fine di luglio, anzi, le elezioni per il  rinnovo della Commissione Esecutiva del Fascio videro la netta  affermazione della destra’””. De Vecchi, chiamato a presiedere la  Commissione, accrebbe sensibilmente il proprio prestigio e la propria  influenza, mentre i primi sintomi di una grave malattia costringevano Gioda  a forzati periodi di assenza dalla scena politica cittadina. Da questo  momento, insieme al progressivo dilagare dello squadrismo, di cui De  Vecchi seppe essere un abile manovratore, il Fascio di Torino riprese la sua  espansione’. Gioda, dal canto suo, recuperò il proprio ruolo soltanto a       I nuovi “Postulati” programmatici del movimento fascista, approvati a Milano,  modificavano radicalmente — in senso conservatore - il programma fascista del 1919.  Cadevano, tra le altre cose, la pregiudiziale antimonarchica e la richiesta dell’assemblea  costituente (l’anarchico Domenico Ghetti, rappresentante del Fascio di La Spezia, fu tra i  pochi a pronunciarsi per la repubblica). In polemica con il nuovo corso del fascismo,  Marinetti e il gruppo dei futuristi abbandonarono il movimento.   Per il resoconto del congresso v. «Il Popolo d’Italia», 25 e 26 maggio 1920, e «Il Fascio», 29  maggio 1920. Sull’intera vicenda v. RENZO DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., pp.  594 ss.   % Cfr. Ibidem, p. 594.   95 Cfr. «Il Fascio», 31 luglio e 7 agosto 1920.   Il ritorno in auge di De Vecchi fu senz'altro favorito dalla nuova crisi che colse il fascismo  torinese nella tarda primavera del 1920. Il 12 giugno si era riunita un’assemblea straordinaria  del Fascio per decidere circa l’atteggiamento da assumere di fronte alla crisi di governo.  Caduto il secondo gabinetto Nitti, si prospettava infatti l’eventualità di un esecutivo affidato a  Giovanni Giolitti: una soluzione che trovava il pieno consenso di Mussolini. Nel corso  dell’assemblea, che raggiunse toni drammatici, Gioda si disse assolutamente contrario a ogni  intesa con i giolittiani, definendo «un’ingiuria alla nazione vittoriosa» il rientro sulla scena  nazionale dell’uomo politico di Dronero, e minacciando addirittura di dimettersi qualora i  fascisti di Torino avessero dato il loro assenso alla linea mussoliniana (cfr. Movimentata  assemblea generale del Fascio di Combattimento di Torino Un ordine del giorno contro  Giolitti, «Il Fascio», 26 giugno 1920). Di fronte alle resistenze incontrate all’interno del  Fascio e, soprattutto, di froni. alla risolutezza dei vertici del movimento, decisi a perseguire  l’accordo con Giolitti, Gioda si rese conto che la sua posizione non aveva alcuna possibilità di  affermarsi. Quindi, dietro sollecitazione di Umberto Pasella, si decise a convocare la nuova  assemblea generale che avrebbe portato al rinnovo della Commissione Esecutiva. Su questi  avvenimenti v. EMMA MANA, op. cit., p 254 ss.   % Con l’occupazione delle fabbriche, che ebbe il suo epicentro proprio a Torino, le violenze  fasciste si moltiplicarono. Le imponenti agitazioni operaie del settembre contribuirono a  legare il fascismo torinese agli ambienti del grande capitale (che si erano visti minacciare nei    92    setter cirrretricdatietnttittztt sac       partire dal febbraio del 1921, allorché assunse la direzione del nuovo  settimanale del fascismo torinese: «Il Maglio»””.    Massimo Rocca: il fascismo come nuova élite    AI congresso fascista di Milano assistette anche Massimo Rocca. Le sue  conclusioni non dovettero dispiacergli, se è vero - come ha lasciato scritto -  che egli non si era entusiasmato all’originario programma sansepolcrista,  giudicandolo troppo «impeciato di socialismo». Ma Rocca, sia pur attento  osservatore delle traversie del fascismo, era ancora prevalentemente un  giornalista. Il 25 marzo 1920 aveva iniziato le pubblicazioni la rivista  settimanale «Il Risorgimento». L’intendimento della redazione, guidata dal  conte Arrivabene, ex direttore de «La Perseveranza», era chiaro: occupare lo  spazio lasciato vuoto dal vecchio quotidiano milanese dopo la sua  conversione al “nittismo”, fare un giornale che riflettesse le idee e le  aspirazioni della borghesia conservatrice. Poiché Rocca ne divenne uno dei  più continui e più stimati collaboratori, le credenziali dell’ex novatore  anarchico quale neofita del liberalismo ne uscirono senz'altro irrobustite.   Sulle pagine de «Il Risorgimento» Rocca riprese la polemica adriatica. E’  indispensabile ritornare sull’argomento, perché fu proprio su tale delicata  questione che si venne realizzando l’incontro definitivo tra Rocca e  Mussolini. Inizialmente, Rocca parve non recedere dalla sua intransigenza,  scagliandosi contro la «Lissa diplomatica», cui, a suo parere, la politica dei  rinunciatari avrebbe condotto il Paese”. Quasi nello stesso tempo, tuttavia,  prese ad emergere, dai suoi scritti, una posizione diversa, più conciliante e  realistica. Di fronte alle mille difficoltà frapposte dagli Alleati e dalla  Jugoslavia alle rivendicazioni italiane, Rocca si persuase che la sola via       loro interessi e non si sentivano adeguatamente tutelati dal Governo), con ovvi benefici sul  iano dei finanziamenti e del sostegno politico e organizzativo. Cfr. /bidem, p. 258 ss. srng   7 «Il Maglio», fondato dal capitano Pietro Gorgolini, aveva iniziato le pubblicazioni nel   gennaio, evolvendo dal quotidiano «La Patria», un foglio interventista vicino ai nazionalisti.   Per l’esattezza, Gioda ne ereditò la direzione a partire dal sesto numero, inaugurando la   rubrica “Senza guanti” (che usava firmare con il vecchio pseudonimo l’Amico di Vautrin),   una finestra polemica sulla realtà nazionale e cittadina che lo vide impegnato in schermaglie a   distanza con la stampa avversaria, in particolare con «Ordine Nuovo», organo del PCdI   torinese.   9 Massimo Rocca, Come il ‘fascismo divenne una dittatura, cit., p. 82.   °° LIBERO TANCREDI, La lingua nostra, «Il Risorgimento», Milano, 6 maggio 1920.    93       d’uscita fosse quella dell’applicazione integrale del patto di Londra del 1915.  Consapevole che ciò sarebbe equivalso a rinunciare a Fiume, Rocca (che  pure aveva avuto una breve esperienza come legionario dannunziano) !° si  disse convinto che la città, «confinante con un'Italia signora del Carso, delle  Alpi Giulie, dell’Istria e dell’ Adriatico», si sarebbe sentita «infinitamente più  forte», che se fosse stata abbandonata, senza continuità territoriale, «ad una  larva di sovranità italiana»'”. Dopo l’avvenuta autoproclamazione di Fiume  in stato indipendente, Rocca si rafforzò nella convinzione che l’Italia non  dovesse legare i propri destini a quelli della città “martire”. In un articolo del  26 agosto gli elogi di prammatica al coraggio e alla “fede” della popolazione  fiumana non bastavano a celare il disappunto per il colpo' di mano di  D’ Annunzio.    Noi - scrisse Rocca - rimaniamo convinti e tenaci fautori dell’annessione di Fiume  all’Italia [...]. Ma non abbiamo mai nascosto ai fiumani che, oggi, l’Italia non può  contemporaneamente annettere la città del Quarnaro e realizzare il Patto di Londra:  anzi, che nella nostra lotta diplomatica in difesa dell’ Adriatico e contro gli Alleati,  l’eroica passione di Fiume è più d’impaccio che d’aiuto!°?    Il giudizio lusinghiero riservato da Rocca alla Carta del Carnaro  (contemplante in effetti alcune delle soluzioni da lui stesso auspicate sul  piano dell’ordinamento politico) '°?, non ne scalfiva l’opinione che la  reggenza dannunziana costituisse un serio ostacolo alle aspirazioni  internazionali dell’Italia. L’ambizioso esperimento fiumano era, in ogni  caso, votato al fallimento. Il Trattato di Rapallo, stipulato il 12 novembre       100 a i d n sudo Hi Hi 6 u Pi  Rocca, giunto a Fiume subito dopo la “marcia di Ronchi”, vi era rimasto per circa tre mesi,    durante i quali aveva gestito l’ufficio di propaganda estera di D’Annunzio. A Fiume si erano  ritrovati anche altri anarchici interventisti, fra i quali Edmondo Mazzucato e — come vedremo  - Edoardo Malusardi.   !°! LiBeRO TANCREDI, La sfîda di Nitti, «Il Risorgimento», 20 maggio 1920.   !°2 Ip., L'Adriatico e l'Europa, Ibidem, 26 agosto 1920.   193 In particolare, Rocca disse di apprezzare che nella carta dannunziana (redatta da Alceste  De Ambris e messa in “bello stile” da D’Annunzio) fosse sancito «il dovere di produrre»,  quale requisito fondamentale per il godimento dei diritti politici. A parte questo, egli  condivideva l’abolizione del Senato e l’istituzione di un camera tecnica, espressione delle  diverse corporazioni professionali. Le corporazioni, secondo Rocca, erano «l'istituto  fondamentale», il solo in grado di «raccogliere e disciplinare» le masse e di dar loro «una  norma e un’idea». (ID., La costituzione di Fiume, Ibidem, 9 settembre 1920). Nondimeno, al  di là delle convergenze formali, il produttivismo meritocratico e sostanzialmente conservatore  di Massimo Rocca differiva in modo profondo dal sindacalismo integrale deambrisiano. Sulla  costituzione fiumana si veda La Carta del Carnaro nei testi di Alceste De Ambris e di  Gabriele D'Annunzio, a cura di Renzo De Felice, Bologna, Il Mulino, 1973.    94    eli ita       1920 tra l’Italia e la Jugoslavia auspice il governo Giolitti, inflisse un duro  colpo alle velleità indipendentiste del “comandante”. In due suoi interventi  su «Il Popolo d’Italia», scritti a ridosso dell’accordo italo-jugoslavo,  Mussolini mostrò di accettare sostanzialmente l’esito dei negoziati!”. Si  trattava di una mossa a sorpresa, spregiudicata, frutto di un preciso calcolo  politico (in questo modo il “duce” avrebbe realizzato «il suo inserimento nel  gioco politico-parlamentare a livello nazionale») ', che disorientò la  maggior parte dei fascisti ma trovò consenziente Massimo Rocca.   Il giorno 15 novembre, il Comitato Centrale dei Fasci di combattimento si  riunì per discutere della questione. Rocca, presente come semplice  osservatore (e perciò senza diritto di voto), si schierò apertamente dalla parte  di Mussolini, imitato dal solo Cesare Rossi!°. Il Trattato di Rapallo - disse  Rocca - risolveva il problema adriatico «dal lato di terra», mentre lasciava  insoluta la questione dell’ Adriatico centrale e meridionale. Riguardo a  quest’ultimo punto, il suo parere era che i fascisti dovessero far buon viso a  cattiva sorte, senza perdersi in uno sterile massimalismo e soprattutto senza  assecondare improbabili disegni di sedizione militare. Non si trattava -  sostenne ancora Rocca riecheggiando le tesi espresse negli articoli di  Mussolini!” - solo di una ragione di opportunità, in quanto «il problema  marittimo per l’Italia [...] non si fermava all’ Adriatico», ed era quindi uno  sbaglio ostinarsi a considerare Fiume e la costa Dalmata come l’unico  obiettivo. Occorreva guardare oltre, avere una visione più ampia dei  problemi di politica estera.    O noi — concluse Rocca con una provocazione - riusciamo ad essere i padroni  d’Italia e facciamo la politica interna ed esterna che ci piace, oppure persuadiamoci  che impiantare una politica estera armata accanto a quella ufficiale, senza essere  capaci di annullare quella ufficiale, potrebbe forse essere un male gravissimo       1% Cfr. BENITO MuSSOLINI, L'accordo di Rapallo, «Il Popolo d’Italia», 12 novembre 1920, e  Ciò che rimane e ciò che verrà, Ibidem, 13 novembre 1920.   Su questi fatti v. RENZO DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit. p..645 ss.   !°5 Ibidem, p. 662.   !° Mario Gioda, che avrebbe dovuto rappresentare Torino, era assente in quanto ammalato e  fu sostituito da De Vecchi. Cfr. La discussione e il voto dei Fasci italiani di combattimento. Il  Fascismo innalza la bandiera della Dalmazia Italiana, «Il Popolo d’Italia», 16 novembre  1920.   107 «Gli italiani — aveva scritto Mussolini nel suo fondo del 13 novembre — non devono  ipnotizzarsi sull’Adriatico. C'è anche — se non ci inganniamo — un vasto mare” di cui  l'Adriatico è un modesto golfo e che si chiama Mediterraneo, nel quale le possibilità vive  dell’espansione italiana sono fortissime».   108 La discussione e il voto dei Fasci italiani di combattimento, cit.    95       Dopo accese discussioni, la riunione terminò con l’approvazione di un  ordine del giorno unitario, largamente compromissorio, che, se «snaturava  completamente la primitiva mozione di Mussolini»! apparendo come un  successo della corrente filo-dannunziana'!, in realtà non andava oltre una  generica dichiarazione di solidarietà a D'Annunzio e non comprometteva  affatto la strategia del “duce”, come gli avvenimenti delle settimane  successive, culminati con il non intervento fascista in occasione del “Natale  di sangue”, avrebbero ampiamente dimostrato. Il giorno dopo la riunione del  Comitato Centrale, Rocca scrisse a Mussolini di non aver votato contro  l’ordine del giorno (come aveva fatto Cesare Rossi) solo in quanto non ne  aveva «legalmente» diritto, riconfermando la propria solidarietà al “duce”!!!,  Da quel giorno Rocca entrò a pieno titolo nei ranghi del fascismo. Non  soltanto, infatti, riprese la collaborazione con «Il Popolo d’Italia» (per il  momento continuando ad occuparsi del problema adriatico, sempre  nell’ottica mussoliniana) !'?, ma iniziò l’ascesa politica che, nel giro di pochi  mesi, lo avrebbe portato ai vertici del movimento. D'altronde, le idee di  Rocca si rispecchiavano ormai in gran parte nella nuova fisionomia assunta  dal fascismo all’indomani del congresso di Milano. Col tempo, infatti, egli  era andato sviluppando posizioni sempre più conservatrici. Nella sua  riflessione, le ragioni immediate del difficile momento politico ed  economico attraversato dall’Italia andavano rintracciate, oltre che  nell’ignavia e nell’incapacità dei suoi governanti, nell’irresponsabilità delle  classi operaie. Queste, incapaci di assolvere ai propri doveri e dedite allo  sperpero, erano schiave di un socialismo degenere, alfiere di un  «gaudentismo sfarzoso e gastronomico»"!. Da qui - secondo Rocca - il  dilagare degli scioperi, quasi sempre ingiustificati; subdole manovre  politiche che mettevano a repentaglio l’integrità della produzione. A fronte  di tutto questo, una borghesia laboriosa, avente «il dovere di resistere e di       1°° RENZO DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 647.    110 1 ’intesa italo-jugoslava - recitava l’ordine del giorno ispirato dalla destra fascista (Pietro  Marsich, De Vecchi, ecc.) - era «insufficiente per Fiume», nonché «deficiente ed inaccettabile  per la Dalmazia».   !!! «Il Popolo d’Italia», 17 novembre 1920.   !2 gi vedano, in modo particolare, gli articoli Dopo Rapallo. Il problema terrestre e quello  marittimo, e Il trattato di Rapallo, pubblicati dal giornale di Mussolini il 18 e il 25 novembre  1920. Questi e altri scritti di analogo contenuto furono raccolti da Rocca in un volume dal  titolo // trattato di Rapallo: una pagina di storia ancora aperta, stampato a Milano nell’estate  del 1921 per le edizioni de «Il Popolo d’Italia».   !!3 Massimo Rocca, La crisi maggiore, «Il Risorgimento», 20 maggio 1920.   Gli articoli citati facevano parte delle rubrica “Pagine economiche”, di cui Rocca era il  principale curatore.    96       vincere»"!, ma troppo spesso paralizzata dalla bassezza dei ceti dirigenti,  burocratici e parassitari, assolutamente non in grado di comprendere «i  fenomeni sociali ed economici del regime capitalistico industriale»!!5. Il  nodo ultimo della crisi italiana risiedeva pertanto, a detta di Rocca, «nella  perdurante e anacronistica separazione netta fra la casta burocratica e la  classe borghese, e nella sopraffazione della prima sulla seconda, mentre  l’economia andava sempre più controllando la politica, fino ad imprimerle le  sue necessità e direttive» '!°. A questo stato di cose occorreva rispondere con  la «rivoluzione della competenza»: la rivoluzione della classe borghese. La  borghesia produttiva, la sola capace di gestire «con criteri tecnico-  produttivi» tanto il potere economico quanto il potere politico, aveva  l’obbligo morale di realizzare «un rivolgimento aristocratico» della società  italiana. Solo così, contro ogni utopia egalitaria, le leve del comando  effettivo sarebbero tornate in mano «ai migliori, anziché ai molti, ai capaci e  ai competenti». Alla borghesia, finalmente consapevole della propria  autorità, sarebbe spettato il compito, altrettanto impegnativo, di cooptare in  questo processo la parte migliore e più responsabile del proletariato”. In  attesa che ciò avvenisse, Rocca suggeriva una serie di provvedimenti che, a  suo modo di vedere, avrebbero dovuto correggere le storture del sistema  economico, a cominciare dalla privatizzazione dei servizi essenziali. «Se si  vuole che si lavori — scriveva Rocca - bisogna tornare allo stimolo  dell’interesse e del puntiglio individuale, alla precisione ed all’accrescimento  delle responsabilità singole, a misura che i diritti e gli stipendi aumentano;  all’abolizione radicale dei privilegi [...] di cui godono i funzionari  pubblici»!!8,   Dopo l’occupazione delle fabbriche, Rocca giunse a invocare ferree misure  “draconiane” contro gli eccessi del bolscevismo!"°. Il primo obiettivo di un  governo che avesse a cuore le sorti della nazione doveva essere quello di  reintegrare «il pieno dominio della legge», senza indulgere a pietismi       !!4 LIBERO TANCREDI, Scioperi politici, Ibidem, 22 aprile 1920.    L'articolo in questione fu scritto da Rocca a seguito della vertenza dei metallurgici torinesi.  !!5 MAssIMO ROCCA, La crisi maggiore, cit.    Ivi.   ID., La disperazione dei servizi pubblici, Ibidem, 10 giugno 1920. si  In seguito, Rocca tornò più di una volta sulla convenienza di restituire ai privati l’esercizio  dei servizi essenziali (si veda, a titolo di esempio, l’articolo / servizi che non servono il  pubblico, in Ibidem, 20 gennaio 1921). La privatizzazione avrebbe costituito uno dei cardini  del programma economico fascista del 1922, elaborato da Rocca con Ottavio Corgini.   !!° Cfr, ID., La vertenza dei metallurgici, Ibidem, 2 settembre 1920.    118    97          democratici. Come si rileva da un articolo del 21 ottobre, Rocca pensava a  una qualche forma di “dittatura”; a «un uomo nuovo», che avesse già fornito  prova di «volontà e di giustizia», il quale avrebbe potuto far cessare «l’orgia  di tutti i disordini»'?°. Non è chiaro se egli si riferisse direttamente a  Mussolini, ma è molto probabile. E’ comunque significativo - come si evince  da quello stesso articolo - che Rocca ritenesse l’assunzione dei pieni poteri  una soluzione eccezionale, destinata a rientrare una volta passata  l’emergenza bolscevica. Allo stesso modo egli giustificava lo squadrismo,  ma solo in quanto strumento temporaneo dell’azione politica fascista, utile a  frenare le prepotenze e le intemperanze dei “rossi”!’, Quando la violenza  fosse diventata la consuetudine, erigendosi a sistema, Rocca non avrebbe  indugiato - come fece - nello schierarsi anche contro l’estremismo  squadristico, in difesa della legalità. Non riteniamo esservi contraddizione  nel diverso atteggiamento - di legittimazione e di condanna - assunto da  Rocca nei confronti dello squadrismo prima e dopo la “marcia su Roma”.  Certamente, egli non seppe o non volle vedere la gratuità e la scelleratezza  delle violenze fasciste del periodo “eroico”, e, in senso più ampio, che quelle  violenze erano il frutto di una visione totalitaria della lotta politica, visione  connaturata all’essenza stessa del fascismo, che nello squadrismo (e prima  ancora nella mentalità squadristica, esprimente non soltanto un disegno  rivoluzionario ma, spesso, un ri verso la vita in generale) aveva  il proprio stile politico qualificante‘; ma occorre tener presente che Rocca  si poneva, appunto, dall’angolo visuale del fascismo, vale a dire da una  prospettiva di parte, prigioniero di quella che potremmo definire sindrome da  guerra civile. Da uomo di parte, Rocca riteneva che la violenza delle camicie  nere fosse la risposta più che legittima alla violenza antinazionale dei       120    i Ip., Per una via d'uscita (0 reagire 0 abdicare), Ibidem, 21 ottobre 1920.  121    In un commento a margine dell’assalto a Palazzo D’Accursio guidato dalla sua ex guardia  del corpo Leandro Arpinati, Rocca espresse chiaramente il proprio punto di vista sullo  squadrismo. «I fascisti — scrisse — costituiscono oggi un comodo paravento per scusare alle  masse l’inanità anche della violenza [...]. E costituiscono anche un pietoso alibi per  giustificare, di fronte alla borghesia non morta ed al codice penale non ancora abolito, una  propaganda ed un’azione da veri delinquenti. Ma è troppo noto che, senza i fascisti, la  violenza delle masse abbrutite ad arte si scatenerebbe più indisturbata e non meno atroce»  (Ip., Bologna, Ibidem, 2 dicembre 1920).   122 Sulla violenza come aspetto caratterizzante della cultura e dell’azione politica fascista v. il  fascicolo n. 6, 1982, di «Storia Contemporanea», per la maggior parte dedicato all’argomento,  particolarmente il saggio di PAOLO NELLO, La violenza fascista ovvero dello squadrismo  nazionalrivoluzionario, pp. 1008-1025. Dello stesso autore v. anche le riflessioni in merito  contenute in L'avanguardismo giovanile alle origini del fascismo, cit., e Liberalismo,  democrazia e fascismo. Il caso di Pisa (1919-1925), Pisa, Giardini, 1995,    980       “pussisti”. Ciò non toglie che egli, dopo l’ascesa al potere di Mussolini,  reputando esser venute meno, con la sconfitta dei socialcomunisti, le ragioni  dello squadrismo, fosse in buona fede nel denunciare il perdurare  dell’illegalità fascista.   Nel corso del 1921 Massimo Rocca consolidò la sua già rilevante posizione  all’interno del movimento fascista. Nel febbraio, un suo articolo in difesa  della monarchia, scritto sotto pseudonimo per il giornale di Mussolini,  contribuì a rinfocolare il dibattito circa l’orientamento istituzionale del  fascismo. I fascisti - sostenne Rocca - dovevano schierarsi a tutela  dell’istituto monarchico, non solo per motivi di opportunità strategica (una  rivoluzione repubblicana avrebbe infatti rimesso in gioco le forze del  sovversivismo, a tutto danno degli equilibri interni del Paese e del fascismo  stesso), ma anche in ossequio a più complesse valutazioni politiche  (monarchico «di ragionamento», si autodefinì Rocca molti anni dopo) 1a,  che investivano l’intero assetto della realtà nazionale.    La società economica e politica che va sotto l’appellativo convenzionale di  “borghese” - scriveva Rocca - si è capovolta nel suo contenuto produttivo ed  ideologico [...]. Economicamente essa è sindacalista e non più individualista: tanto  che l’economia tende ad assorbire la politica, compresa quella estera [...]. Se una  rivoluzione è matura oggigiorno, nel senso di rinnovamento urgente e non di rissa da  arena diurna, è quella che sostituisca, in tutto o in parte, con un colpo di forza se  divenisse indispensabile, la tecnica e i tecnici, borghesi ed operai, e gli organismi  sindacali e tecnici, alla burocrazia, ai politicanti, ai demagoghi [...]. La funzione dei  Parlamenti è oggi totalmente diversa da quella di cent'anni or sono. Allora essi  erano le rappresentanze genuine, non ancora corrotte [...], di nuove é/ites in cui il  popolo rispecchiava se stesso [...]. Oggi il Parlamento [...] è diventato pur esso una  casta chiusa [...] non meno delle più diffamate monarchie [...]. E allora resta da  chiedersi se alle minoranze giovani e volitive della Nazione convenga meglio aver di  fronte una sola casta, quella parlamentare, o non sia meglio averne due, cioè anche  quella monarchica, per usare dell’una qual mezzo di controllo e di pressione  sull'altra !°*       !23 MAssIMO ROCCA, La realtà italiana, «ABC», 1 luglio 1958.   24 ALTAVILLA, Repubblica e monarchia, «Il Popolo d’Italia», 19 febbraio 1921 (anche in  Massimo ROCCA, /dee sul fascismo, cit., pp. 3:11).   L'articolo di Rocca, scritto in forma di lettera a Mussolini, faceva parte della rubrica  “Orientamenti e discussioni”, inaugurata da «Il Popolo d’Italia» in previsione delle adunate  regionali dei Fasci. Le adunate, convocate dal Comitato Centrale del movimento nel gennaio,  avrebbero dovuto fare il punto sullo stato del fascismo nelle diverse regioni e dettare le linee  orientative dell’azione politica fascista per il nuovo anno. La questione istituzionale, su cui  era incentrata una relazione introduttiva di Cesare Rossi (le altre, curate rispettivamente da  Gaetano Polverelli, Pietro Marsich, Mussolini e Pasella, concernevano il problema agrario, i    99          A prescindere dai cenni di natura tecnico-politica, ciò che ancora una volta  emergeva da queste frasi era il contenuto fortemente elitario della riflessione  di Rocca. Non deve perciò stupire più di tanto il fatto che egli, dopo aver  rivalutato il ruolo della borghesia produttiva come classe dirigente,  riscoprisse il carattere “esclusivo” della tradizione monarchica (così come,  più tardi, avrebbe riscoperto ‘l’importanza etica” del cattolicesimo) '°5. Del  resto, in un articolo dello stesso periodo, ricco d’implicazioni psicologiche e  di riferimenti autobiografici più o meno espliciti, Rocca espresse il  convincimento che «l'elevazione umana fosse sempre un fenomeno parziale,  d’individui singoli o di piccoli gruppi», e che «l’ascesa e l'emancipazione,  come la istruzione, fossero sempre, e per nove decimi, un’auto-ascesa,  un’auto-emancipazione, un auto-insegnamento»"°°. Era dunque necessario -  chiudeva Rocca (con parole dalle quali traluceva in modo inequivocabile la  matrice individualista della sua cultura politica) - “tornare agli individui” e  farla finita una volta per sempre con il culto demagogico della massa.    Edoardo Malusardi: il mito del fascismo libertario”    Il 1921 vide inoltre l’ingresso nelle fila fasciste di Edoardo Malusardi.  Conclusa una breve militanza nell’ Associazione Nazionale Combattenti!?”,       rapporti con lo stato, la politica estera e il movimento sindacale), costituiva uno dei punti  chiave del dibattito interno. La riunione dei Fasci lombardi, cui prese parte anche Rocca, ebbe  luogo al Teatro Lirico di Milano il 20 febbraio (cfr. La grandiosa adunata lombarda dei Fasci  “ i combattimento, «Il Popolo d’Italia», 22 febbraio 1921).   25 Cfr. MASSIMO ROCCA, Una questione da non risolvere, «Il Risorgimento», 14 luglio 1921.   La questione menzionata nel titolo era quella “romana”, che Rocca riteneva non dovesse  essere risolta, nell’interesse d’Italia e dello stesso papato, altrimenti destinato a smarrire il  proprio carattere di universalità. L’articolo conteneva un giudizio altamente positivo della  «funzione storica e persino politica» del cattolicesimo. L'attenzione di Rocca per la Chiesa e  la dottrina cattolica crebbe notevolmente negli anni a venire. E’ probabile che quest’interesse  fosse da attribuirsi ad un’autentica conversione personale; tuttavia, come vedremo meglio in  seguito, Rocca pareva interessato al cattolicesimo più e altro come a un elemento di autorità  e di disciplina interiore.  te ID., Quarto e quinto stato, Ibidem, 24 febbraio 1921.  La seconda parte di questo lungo articolo comparve sul numero successivo della rivista, il 3  marzo. In esso Rocca ribadiva l’idea che fosse doveroso, oltre che utile, “educare” il  proletariato, così da poterne estrarre un nucleo scelto, un’é/ite responsabile in grado di  cooperare con la borghesia alla gestione della produzione.   ? Spintovi dalla passione “trincerista”, Malusardi aveva aderito entusiasticamente all’ ANC  (per qualche tempo ricoprendo la carica di redattore capo de «L'Eco della Vittoria», organo  della sezione monzese di quella organizzazione), salvo abbandonarla in margine al Congresso  nazionale di Napoli, nell’agosto 1920, perché contrario ai ventilati propositi di trasformazione          Malusardi aveva intrapreso una saltuaria collaborazione con «Il Fascio» e  (come si ricava dalle cronache di quello stesso giornale) una altrettanto  frammentaria attività di propagandista per conto del Comitato Centrale  fascista, prima di partire alla volta di Fiume, dove, nell’ottobre del 1920, era  stato designato a dirigere la Camera del Lavoro dannunziana'*. Chiusa  anche quell’esperienza, all’inizio del 1921 Malusardi giunse a Verona,  chiamatovi da Italo Bresciani, segretario politico del locale Fascio di  combattimento (nonché ex anarcointerventista) '’’, noto per rappresentare  l’ala di estrema sinistra del fascismo veneto. Bresciani, che conosceva e  apprezzava le doti di organizzatore di Malusardi, gli affidò l’incarico di  segretario propagandista del Fascio. La scelta si rivelò azzeccata, poichè  l’anarchico lodigiano riuscì ad imprimere al fascismo veronese non solo un  maggior dinamismo, ma anche una maggior visibilità politica. Come prima  cosa Malusardi dette vita a un giornale («Audacia»), che doveva  immediatamente segnalarsi per il carattere battagliero, contribuendo al  graduale inserimento del Fascio nella realtà scaligera. Egli, in particolare, vi  affinò le proprie qualità giornalistiche, rispolverando tra l’altro una rubrica  dei tempi de «La Guerra Sociale» (“Foglie d’ortica”), che divenne un punto  di riferimento importante nella dialettica politica cittadina. Come si è detto,  Malusardi proveniva da Fiume: tra i suoi valori di riferimento, accanto alla  fede repubblicana e a confuse (ma autentiche e mai rinnegate) aspirazioni  libertarie, retaggio della sua militanza anarchica, si trovavano dunque la  Carta del Carnaro e il sindacalismo nazionale di Filippo Corridoni — il “suo”  compagno di trincea - e Alceste De Ambris'’°. Nel Fascio veronese,       dell’Associazione in partito. A parte i suoi articoli per «L’Eco della Vittoria», per lo più  improntati al tema dell’apoliticità del movimento combattentistico, l’attività di Malusardi in  seno all’ ANC non è agevolmente documentabile.   28 Anche sulle date dell’arrivo e della permanenza di Malusardi a Fiume vi è incertezza. «Il  Fascio» del 30 ottobre 1920 riportava un «avviso ai Segretari e Fiduciari dei Fasci e delle  Avanguardie e a tutti coloro che avevano occasione di corrispondere con la Segreteria  Politica», annunciando che Malusardi non ricopriva più l’incarico di segretario propagandista  del Comitato Centrale, in quanto, già da qualche giorno, si trovava a Fiume. Nella città  “olocausta” Malusardi diresse altresì il foglio sindacalista «La Conquista», del quale non ci è  stato possibile reperire una collezione (lo stesso Renzo De Felice, dal cui Sindacalismo  rivoluzionario e fiumanesimo nel carteggio De Ambris-D'Annunzio traiamo questa  informazione, cita da fonte indiretta).   n Bresciani, classe 1890, già convinto militante anarchico, era stato fra i promotori del  Fascio veronese di azione internazionalista. Cfr. ACS, CPC, Busta 833 [Bresciani Italo].   15° Cenni alla formazione sindacalista di Malusardi si trovano in EDOARDO MALUSARDI,  Elementi di storia del sindacalismo fascista, Torino, Stabilimento Tipografico Artistico  Commerciale, 1930,    101    PIPTREIPPRRA \PPPTPOT” VOTO PIPE PP PPIPT OP. POPRPOTTI TO RPPARE PP    decisamente orientato a sinistra, Malusardi trovò l’ambiente ideale per  portare avanti le proprie idee.   Il 13 febbraio 1921 si riunì a Venezia l’adunata regionale dei Fasci del  Veneto". Alla presenza, tra gli altri, del segretario generale del movimento  Umberto Pasella e del vecchio compagno Massimo Rocca, Malusardi ebbe  modo di esporre il proprio programma. Riguardo alla controversia  repubblica/monarchia, egli formulò l’auspicio che i fascisti si facessero  portavoce di un «fiero atteggiamento antimonarchico». La monarchia  sabauda — affermò - aveva tradito in più di un’occasione: prima della guerra  perché favorevole al “parecchio” giolittiano, durante perché colpevolmente  “latitante”, dopo perché sostenitrice della politica rinunciataria di “Cagoja”  Nitti, a Fiume perché’ complice della repressione sanguinosa    dell’insurrezione dannunziana'”.    Noi, che siamo repubblicani e libertari — concluse Malusardi - in determinati  momenti avremmo, quando il governo non agiva e l’Italia sembrava essere gettata  nel caos, accettata anche una dittatura monarchica [...]. Ma quando una monarchia  esiste solo di nome ed avalla tutte le infamie che si commettono nel suo nome, non è  per noi che un anacronismo inutile e ingombrante!    AI termine della discussione, Malusardi e Bresciani presentarono un ordine    del giorno repubblicano, che raccolse però soltanto nove voti (quanti erano i |    delegati del Fascio veronese), contro gli oltre venti ottenuti da una mozione  Pasella, rivendicante il carattere «antidogmatico e antipregiudiziale del  fascismo» in materia di regime!”*.   Fu sulla questione sindacale, cui egli era particolarmente sensibile, che  Malusardi ottenne i maggiori riconoscimenti. In quei mesi il problema  dell’organizzazione sindacale era oggetto delle preoccupazioni della  dirigenza fascista. Nel novembre del 1920 era sorta infatti la Confederazione  Italiana dei Sindacati Economici” (CISE), che raccoglieva i piccoli sindacati  autonomi, d’ispirazione fascista più o meno accentuata, operanti - come si  usava dire - sul terreno nazionale!*. Il nodo gordiano dell’intera vicenda,       131 Per Ja cronaca v. La grande adunata fascista di Venezia, «Audacia», 19 febbraio 1921.    326:  Ivi.  133.1,  Ivi.  Si noti la determinazione con cui Malusardi teneva a precisare l’essenza libertaria del proprio   fascismo.  134 yi  Ivi.    135 Pi n toda re: 4 det H rado   In occasione delle grandi agitazioni dei postelegrafonici e dei ferrovieri, nel gennaio del  1 920, il fascismo aveva assunto un atteggiamento decisamente antioperaio. Poiché la UIL, il  sindacato interventista, aveva invece appoggiato gli scioperi, i fascisti ritennero giunto il    102          che avrebbe a lungo condizionato gli sviluppi del sindacalismo fascista, era  se l’azione sindacale dovesse avere natura politica oppure apolitica, vale a  dire se i Sindacati Economici dovessero agire in stretto accordo con i Fasci  di combattimento, seguendone i programmi e le direttive; 0, al contrario, se  dovessero essere svincolati dalla tutela del fascismo, liberi, perciò, di agire  nel campo delle rivendicazioni del lavoro con la più ampia autonomia. Nel  suo intervento al convegno veneziano, Pasella affermò che i Fasci dovevano  ostacolare con ogni mezzo gli scioperi nei servizi pubblici. Malusardi -  facendo così intendere quale fosse il proprio pensiero riguardo ai Sindacati  Economici - gli oppose che le lotte del lavoro andavano valutate “caso per  caso”. Infatti — rilevò -, se i fascisti avevano il dovere di contrastare gli  scioperi dichiaratamente politici, non dovevano però opporsi alle legittime  richieste dei lavoratori, quando questi reclamavano «un più ampio diritto alla  vita», e quando le loro aspirazioni potevano essere armonizzate con «gli  interessi superiori della Nazione». Le preoccupazioni operaiste di Malusardi  si rivelarono ancor più manifestamente allorché egli dichiarò che, «quando i  lavoratori avessero saputo dimostrare una capacità tecnica intellettuale ed  una preparazione morale superiore agli attuali dirigenti delle fabbriche e  delle officine», i fascisti (che non dovevano essere «la guardia bianca di una  classe, ma i difensori della Nazione») avrebbero dovuto riconoscere loro «il  diritto di gestire direttamente il frutto del proprio lavoro»!°. L'ordine del  giorno votato dall’adunata accolse le tesi di Malusardi, anche nella parte  relativa agli scioperi nel pubblico impiego, riguardo ai quali — recitava - i  fascisti, pur non condividendoli in linea di principio, si sarebbero riservati di  prendere posizione “volta per volta”, in base alle circostanze.   Anche in materia di politica estera, Malusardi prese nettamente le distanze  dalla linea ufficiale del movimento. Egli, che era stato testimone del “Natale  di sangue”, non poteva ammettere che i fascisti avessero abbandonato  D'Annunzio al suo destino. Perciò, pur dichiarando -la propria stima a  Mussolini, Malusardi tenne a precisare di non indulgere ad alcuna forma di       momento di misurarsi direttamente nel campo dell’organizzazione del lavoro. I nuclei  sindacali fascisti trovarono il loro modello in quelle formazioni indipendenti, per lo più di  modeste dimensioni, che, sorte numerose dopo la guerra, si proclamavano apolitiche. Il primo  sindacato autonomo di marca fascista, il Sindacato Economico Ferrovieri, si formò a Roma il  16 febbraio, dalla fusione dell’ Associazione Movimentisti e del Fascio Ferrovieri. In ordine a  questi argomenti v. principalmente FERDINANDO CORDOVA, Le origini dei sindacati fascisti  (1918-1926), Roma-Bari, Laterza, 1974, e FRANCESCO PERFETTI, // sindacalismo fascista.  Dalle origini alla vigilia dello stato corporativo (1919-1930), Roma, Bonacci, 1988.   196 La grande adunata fascista di Venezia, cit.    103       «feticismo» e non esitò a rimproverare al “duce” di aver ingiustamente  sacrificato Fiume sull’altare della ragion di stato”.   Le prese di posizione di Malusardi all’adunata di Venezia gli valsero severe  critiche da parte sia di Umberto Pasella, sia di Luigi Freddi (il segretario  generale delle Avanguardie studentesche), che gli rimproverarono di fare  della demagogia. In un fondo per «Audacia» Malusardi, quasi lusingato di  aver suscitato tanta apprensione nei “piani alti” del fascismo, replicò ai suoi  detrattori con queste parole:    Freddi e Pasella hanno chiamato il mio discorso demagogico. E’ un aggettivo che _    non mi spaventa, quando penso poi che dai su citati è prodigalmente distribuito a  tutti coloro che si permettono di pensare con la propria testa'**    Riaffiorava - come si può notare - lo spirito polemico che aveva    contraddistinto il giovane anarchico nei giorni dell’interventismo;    riaffiorava, soprattutto, l’orgoglio individualista, la presunzione di sentirsi |    fuori dal “gregge”, senza curarsi (ma anzi compiacendosi) di essere tacciato  come “eretico”.    Pochi giorni dopo le sue dichiarazioni su «Audacia», Malusardi fu |    comunque indotto a dimettersi dalla carica di segretario propagandista del  Fascio di Verona. L'assemblea generale dei soci, tuttavia, riunitasi d’urgenza    lunedì 21 febbraio, respinse all’unanimità le sue dimissioni". I fascisti |    veronesi apparivano compatti intorno a Malusardi, e non avrebbero mancato  di dimostrarlo, già in occasione dell’appuntamento elettorale del maggio.       157 Cfr. /bidem.    Queste affermazioni di Malusardi sul “feticcio” Mussolini rimandano significativamente a  quanto Massimo Rocca ebbe a scrivere sul rapporto tra gli anarchici interventisti e il  fascismo. «Per provare poi — annotava Rocca - che [...] non tutti i primi fascisti erano  mussoliniani, basta ricordare gli anarchici che entrarono nel movimento, quasi tutti nel 1919,  e che non furono pochi; io solo ne conosco una trentina. La maggior parte si dedicò  all’organizzazione operaia, come [...] Edoardo Malusardi ed altri. [...] Degli anarchici di cui  mi ricordo nessuno è stato squadrista, nessuno entrò nel partito dopo la marcia su Roma,    parecchi anzi si ritirarono prima o subito dopo il delitto Matteotti. Si trattava di gente disposta    a servire la Patria o un’idea, ma non ad incensare un uomo; la mentalità di questi anarchici era  l’antitesi di quella dei socialisti passati al fascismo. I primi non conoscevano l’intransigenza  settaria dei secondi: ma possedevano una coscienza morale [...] solida e indipendente»  (MASSIMO, Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 108).  i EDOARDO MALUSARDI, /n margine all’adunata, «Audacia», cit.   L'Assemblea generale del fascio Veronese. Una manifestazione di simpatia al nostro  direttore, Ibidem, 26 febbraio 1921.       Dalle elezioni del 1921 alla “marcia su Roma”    Le consultazioni generali del 17 maggio 1921, mercé l’inclusione dei Fasci  di combattimento nei cosiddetti Blocchi Nazionali, realizzarono l’ingresso  del fascismo nel cuore della vita politica e parlamentare italiana. Il 7 aprile,  una riunione straordinaria del Comitato Centrale dei Fasci (presente anche  Mario Gioda) ratificò la decisione — che Mussolini aveva preso già da tempo  - di dar corpo ad un'intesa elettorale con le altre forze “nazionali”!‘°. Il  giorno successivo, a un’assemblea del Fascio milanese, Massimo Rocca    difese la legittimità di quella scelta.    Non è colpa nostra — disse — se quei perfetti reazionari che sono i socialisti e i  comunisti malgrado il rosso di cui s’incipriano, ci hanno imposto di scegliere fra  l’Italia com’è, con certe sue caste dirigenti e le incapacità e le brutture che ne  derivano [...], e la rovina completa della Nazione, sul tipo di quella toccata alla  Russia. La nostra scelta è dunque doverosa, anche se non lieta: salvare ad ogni  costo, in qualunque modo l’Italia. Però sia ben chiaro con questo che noi non  rinunciamo a nulla delle nostre idee e del nostro programma conservatore e  rinnovatore nello stesso tempo [...]. Soprattutto non rinunciamo alla nostra lotta  contro la proprietà e il capitale improduttivo, quando è tale veramente e non secondo  le ciarle dei demagoghi, mentre rendiamo giustizia a tutte le forze produttive della  Nazione. Non rinunciamo alla lotta contro la burocrazia parassitaria [...] né contro  lo Stato a tipo puramente parlamentare-burocratico, incapace di adempiere le  funzioni di cui s’incarica, mentre lega le mani alle energie private, individuali e  collettive, capaci di esercitarle con utilità e convenienza!‘    Del pari, a Torino, Gioda acconsentì a sostenere la politica bloccarda,  giustificando l’intesa elettorale tra fascismo e liberalismo con l’esigenza di  salvare l’Italia dal pericolo bolscevico'‘”. Nondimeno, la formazione del       0 Cfr. / Fasci di Combattimento per la costituzione dei Blocchi Nazionali, «Il Popolo  d’Italia», 8 aprile 1921.  Su questi punti v. soprattutto RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista. La conquista del potere  (1921-1925), Torino, Einaudi, 1966, p 64 e ss.  1! «n Popolo d’Italia», 9 aprile 1921 (Rocca riprese questi concetti in un articolo del 16  aprile per «Il Maglio», intitolato Arrestare la dissoluzione).  La decisione del Fascio milanese fu salutata con soddisfazione dalle forze liberali (cfr. //  programma dei fascisti e l'adesione al Blocco, «Il Corriere della Sera», 9 aprile 1921).   Cfr. Movimentata Assemblea del Fascio di Torino per i Blocchi Nazionali, «Il Popolo  d'Italia», 10 aprile 1921.  Nel corso dell'assemblea generale dei soci del Fascio, riunitasi sabato 9 aprile, Gioda faticò a  imporre la linea della collaborazione elettorale. Alle perplessità della sinistra interna — che    105             (Ai li A A ici    Blocco Nazionale nel capoluogo piemontese si rivelò tutt'altro che agevole.  Il 15 aprile (il giorno prima i fascisti torinesi avevano inaugurato la  campagna elettorale con un comizio di Massimo Rocca) "4, Gioda annunciò  l’avvenuto raggiungimento di un accordo di massima - sulla base di alcune  condizioni poste dai fascisti!" - tra il Fascio di combattimento,  l'Associazione  Nazionalista, 1’ Associazione Radicale, il Partito  Socialriformista, 1’ Associazione Arditi, il Sindacato Economico Ferrovieri e  l'Associazione Nazionale dei Combattenti. Il segretario del Fascio lasciò  trapelare la possibilità che il Blocco comprendesse anche l'Associazione  Liberale Democratica, tenendo però a sottolineare come la fermezza  antigiolittiana dovesse rimanere il criterio orientativo dell’azione politica  fascista. Ora, era evidente che trattare con i giolittiani dell’ Associazione  Liberale. Democratica e, contemporaneamente, pretendere di fare  dell’antigiolittismo, era un controsenso, tanto più a Torino, dove un Blocco  che prescindesse dal sostegno di Giolitti aveva scarse probabilità di  affermarsi ed era perciò nell’interesse dei fascisti non tirare troppo la corda.  Il 21 aprile, a conclusione di un negoziato che lo stesso Gioda definì  “penoso” e “difficile”, si giunse alla costituzione del Blocco, con    l’inclusione dell’ Associazione Liberale Democratica. Così, non soltanto i |    fascisti accantonarono ogni remora antigiolittiana, ma, nonostante Gioda  lamentasse l’ingerenza «immorale» da parte del Governo, il Fascio accolse il    veto imposto dal Presidente del Consiglio alla candidatura dell’ex  parlamentare radicale Edoardo Giretti in favore del responsabile dell’Ufficio i       egli personalmente condivideva — riguardo all’opportunità di far blocco anche con gli odiati    giolittiani, il segretario oppose la necessità di far fronte all’avanzata delle forze antinazionali i    e, riprendendo un concetto proprio dell’impostazione antidogmatica del fascismo, rivendicò il    carattere aperto del Fascio, che non doveva conoscere «né radicali, né liberali, né anarchici», |    ma solo fascisti, uniti nell’interesse del Paese (// Fascio di Torino prende posizione nella lotta  elettorale, «Il Maglio», 16 aprile 1921).   143 Cfr. ] Fascisti iniziano la lotta elettorale a Torino, «Il Popolo d’Italia«, 15 aprile 1921, e  Un poderoso discorso di Libero Tancredi, «Il Maglio», 16 aprile 1921.   Rocca si dimostrò, come di consueto, un instancabile propagandista. Il giorno dopo  l’apparizione torinese fu infatti a Milano, tra i principali oratori al comizio inaugurale della  campagna elettorale fascista (cfr. // primo comizio elettorale a Milano, «Il Popolo d’Italia»,  16 aprile 1921).   14 Queste prevedevano: «schede elettorali con il Fascio dei Littori; un programma che  comprendesse la valorizzazione della guerra e della vittoria, l’assistenza ai combattenti, la  tutela dell’italianità all’estero; il riconoscimento dell’opera di salvamento nazionale compiuta  [...] dai Fasci di Combattimento; uomini nuovi e di fede per le candidature; la difesa e la  valorizzazione dell’impresa fiumana e dalmata; la lista bloccata» (MARIO GIODA, Un primo    accordo fra i vari partiti a Torino. Sarà possibile il “blocchissimo"? Trattative e moniti,  Ibidem, 15 aprile 1921).          Stampa presidenziale, Luigi Ambrosini". Nel Blocco erano compresi —    unici candidati fascisti — Cesare Maria De Vecchi e Massimo Rocca, che  faceva così il suo ingresso nella lotta elettorale!‘°.   Dove la linea bloccarda incontrò fortissime resistenze fu a Verona. Il 10  aprile, nel corso della prima riunione dei Fasci e dei Nuclei fascisti della  provincia, Edoardo Malusardi fece intendere che i fascisti veronesi non  avrebbero rinnegato le loro origini rivoluzionarie e non si sarebbero  compromessi in un’alleanza elettorale con le forze della borghesia moderata  e monarchica". Nonostante i ripetuti inviti al dialogo da parte dello  schieramento governativo (l’organo del liberalismo veronese, arrivò a  definire l'eventuale accordo con i fascisti una «necessità sacra») ‘’, il Fascio  di Verona si attenne alla linea indicata da Malusardi e disertò il Blocco.  Così, unico caso in Italia, nel collegio Verona/Vicenza i fascisti presentarono  una lista autonoma!‘’. Va detto che Mussolini non negò il proprio assenso  all’operazione e che anzi, in una lettera aperta ai fascisti di quel collegio, si  congratulò con loro per aver agito «fascisticamente», giacché, ove  mancavano «certe elementari condizioni di probità politica», occorreva «non    50  bloccare [...] ma sbloccare»!5°.       45 Cfr. Ibidem. pl so  Giretti fu costretto a rinunziare al suo posto in lista per non compromettere la formazione e  Blocco (cfr. MARIO GIODA, Una nobile rinuncia dell'On. Giretti, Ibidem, 23 aprile 1921). i  146 la candidatura di Rocca fu particolarmente spinta da Gioda. «Rocca — scrisse  quest’ultimo, presentando l’amico agli elettori torinesi — è stato un novatore e un divinatore.  Ha veduto chiaramente il futuro quando tutti brancicavano nel buio. Per questo è Stato  scomunicato quale eretico dai pontefici rivoluzionari» (ID., Il Blocco Nazionale a Torino. I  candidati fascisti, Ibidem, 12 maggio 1921).   147 . “   Cfr. «Audacia», 30 aprile 1921. i sb   A questo proposito v. anche / fascisti veronesi lotteranno da soli, «Il Popolo d’Italia», 20  aprile 1921. I DTA  148 La costituzione del Blocco Nazionale raggiunta a Verona. Contro il comune nemico:  fascisti a voi!, «Arena», 24 aprile 1921. : i  fo La composizione della lista appariva comunque nettamente orientata a destra. Eccezion  fatta per Italo Bresciani e il ferroviere Michele Costantini, ne facevano parte il generale  Umberto Zamboni, gli agrari conte Giuseppe Serenelli e Cesare Piovene, l’ex parlamentare  Giberto Arrivabene (uno dei fondatori del Fascio Parlamentare del 1917) e il professor  Alberto De Stefani (che risultò l’unico eletto). Cfr. «Audacia», 3 maggio 1921. i   150 «11 Popolo d’Italia», 3 maggio 1921 (la lettera di Mussolini, datata 29 aprile, si trova anche  in BENITO MussoLINI, Opera omnia, a cura di Edoardo e Duilio Susmel, Vol. XVI, Firenze,  La Fenice, 1956, p. 455). î   Il 13 maggio Mussolini si recò a Verona per la campagna elettorale e riconfermò  l'apprezzamento per la decisione dei fascisti veronesi di affrontare da soli il cimento delle  urne. Cfr. «Il Popolo d’Italia», 15 maggio 1921.    107          Massimo Rocca figurava dunque candidato fascista a Torino. Il 21 aprile, la  Giunta Esecutiva del Blocco Nazionale per la circoscrizione Milano/Pavia  decise di candidarlo anche in quel collegio", in quanto egli - come scrisse    «Il Popolo d’Italia» - conferiva «un tono e un colore patriottico e passionale  alla listay!°*.    Rocca espose le linee del suo programma elettorale a cavallo tra l’aprile e il  maggio, in una serie di articoli per “Il Risorgimento”. Nel primo di essi  (importante soprattutto alla luce di ciò che sarebbero stati i Gruppi di  Competenza) Rocca riprendeva un’idea a lui cara: quella della riforma  tecnocratica della rappresentanza parlamentare.    Una riforma seria e duratura — scriveva - dovrebbe consistere nel riconoscere  l’impossibilità della politica astratta [...], l’immoralità parassitaria dei politicanti  puri, e nel sostituire loro i valori fondamentali che l’economia addita attraverso le  sue organizzazioni, di ceto, di mestiere. Distinguere gli uomini per quello che fanno  e non per quello che dicono; e quindi togliere alle mandrie elettorali l’incarico di  eleggere chi sa parlare, mentire e intrigare di più, per affidarlo alle collettività ed ai  nuclei organizzati sulla base di un’attività specifica a profitto della vita sociale,  attività alla quale soltanto i veramente capaci possono eccellere. Sarebbe possibile  allora che industriali e operai e scienziati e artisti autentici prendessero parte alla  Vita pubblica, occupandosi ciascuno delle questioni in cui è competente: e i  Parlamenti tecnici così formati conoscerebbero meglio il lavoro fecondo e pratico e  meno le disquisizioni politiche mascheranti i settarismi e i puntigli!5*    A questo intervento ne seguirono altri, più specifici (una sorta di vera e  propria piattaforma elettorale in tre parti), nei quali Rocca suggellava i  princìpi fondanti del suo rinnovato credo politico: libertà economica,  decentramento, rispetto della legge. L’economia liberista - argomentava  Rocca nel primo di questi articoli programmatici - veniva accusata di essere  «caotica, anarchica, antisociale ed egoista», ma ciò non rispondeva a verità,  poiché il vero liberismo non si risolveva nell’individualismo fine a se stesso.  Esso, infatti, “trascendeva” e “comprendeva” tanto l’individualismo quanto  il collettivismo; racchiudeva, cioè, tutti i «sistemi di vita», tutte le forme  economiche (tranne le improduttive), di volta in volta selezionate e messe in  atto dalla società umana. In altri termini, il liberismo era «l'economia  spontanea di per se stessa». Per questo motivo, tornare al liberismo  significava, né più né meno, tornare all'economia «naturale della vita       15! Cir. / candidati per il Blocco, «Il Corriere della Sera», 22 aprile 1921,    ne «Il Popolo d’Italia», 23 aprile 1921.  MASSIMO ROCCA, La riforma fondamentale, «Il Risorgimento», 14 aprile 1921.       sociale», al libero dispiegarsi di tutte le energie economiche!'”. Le  affermazioni di Rocca in materia economica, come del resto l’intero suo  pensiero, avevano ormai un evidente contenuto conservatore, e, in questo  senso, non v’è dubbio che la sua propaganda contribuisse a rassicurare i ceti  moderati sulle buone intenzioni del fascismo. E’ però interessante vedere  quanto anche la concezione liberista di Massimo Rocca (soprattutto Ja  definizione del liberismo come organizzazione spontanea della vita  economica) discendesse almeno in parte dalla formazione anarco-  individualista del suo ideatore. Del pari, la naturale ostilità anarchica verso  lo stato e, in generale, verso ogni potere accentratore, pareva emergere là  dove Rocca, nella seconda parte del suo “manifesto” elettorale, additava la  necessità del decentramento amministrativo e politico quale condizione  essenziale per una maggiore libertà e una miglior gestione delle risorse  nazionali'?°. -  Nel terzo ed ultimo articolo, infine, Rocca affrontava la questione della  legalità. La legalità — scriveva - era requisito imprescindibile per un corretto  esercizio della libertà, la quale, se svincolata da regole e da limiti  preordinati, si risolveva in «un non senso, una negazione di se medesima,  attraverso l’arbitrio individuale e il disordine generale». L’Italia, quindi, non  sarebbe stata realmente libera fintanto che non fosse stata restaurata la  disciplina, in tutti i settori della vita civile e politica: «disciplina di governo,  di vita pubblica, di nazione, di vita privata». Disciplina era anche sinonimo  di gerarchia; infatti - sosteneva Rocca - bisognava ripristinare «Ia gerarchia  in ogni campo», affinché il «valore cosciente» tornasse a primeggiare sul  numero. L’articolo terminava con l’auspicio che finalmente, in Italia, fosse  ristabilita la legge «contro tutti !59, i  Simili affermazioni imponevano equanimità di giudizio; imponevano, in  altre parole, che quella stessa legge che egli pretendeva applicata contro gli  scioperanti socialcomunisti, valesse anche nei confronti delle camicie nere.  In futuro - come si accennava - Rocca non avrebbe esitato a prendere  posizione contro la perdurante illegalità fascista; ma allora, nella prima metà  del 1921, anch’egli riteneva che lo squadrismo fosse uno strumento più che  legittimo di lotta politica. Così, ad appena due giorni di distanza dal suo  articolo su «Il Risorgimento», commentando un gravissimo episodio di       1% Ib., Ritorno all'economia, Ibidem, 21 aprile 1921. i ) y  “Tornare al liberalismo” era anche il titolo di una conferenza tenuta da Rocca il 6 maggio nei  locali dell’Associazione Commercianti Industriali Esercenti di Milano (cfr. «Il Popolo  d'Italia», 7 maggio 1921). y   155 Cfr, MassIMO ROCCA, Ritorno alla semplicità, «Il Risorgimento», 28 aprile 1921.   156 Ip,, Ritorno alla disciplina, Ibidem, S maggio 1921.    109    a A mm PPTIPONI    violenza fascista a Torino (l’assalto e la devastazione della Casa del Popolo),  Rocca lo definì una sacrosanta «vendetta» contro il dispotismo comunista,  «dopo mesi e mesi di longanimità»!?.   La sera del 25 aprile, in circostanze misteriose, l’operaio fascista Cesare  Odone fu assassinato da un militante comunista!*. All’alba del giorno  seguente, bande armate di fascisti presero d’assalto la Casa del Popolo. Nel  terribile conflitto che ne seguì restarono gravemente feriti tre comunisti e un  giovane studente fascista di Reggio Emilia, Amos Maramotti, che morì poco  dopo in ospedale. La Casa del Popolo e i locali annessi, invasi dai fascisti,  furono prima completamente devastati, poi incendiati. Gli squadristi -  riportava «La Stampa» - impedirono ai vigili del fuoco di avvicinarsi alle  fiamme e gli edifici andarono quasi del tutto distrutti. I danni provocati  dall’assalto fascista furono stimati intorno ad un milione di lire!°. Nei giorni  successivi, l’autorità giudiziaria ordinò il fermo di nove fascisti, tra i quali il  segretario della sezione torinese dell’ Associazione Arditi, Bruno Ricolfi,  mentre gli stessi Gioda e De Vecchi furono denunciati con l’accusa  «d’istigazione e complicità morale»!° (senza peraltro che la denuncia  sortisse alcun effetto). Non è affatto chiaro se Gioda fosse coinvolto nella  decisione di assaltare la Casa del Popolo (la spedizione - a quanto riferiva il  Prefetto di Torino Taddei al Ministero il 29 aprile - era stata organizzata  «prontamente e nel massimo riserbo») ', ma appare evidente dal suo  comportamento di quei giorni come anch'egli, al pari di Rocca, fosse  prigioniero di un equivoco di fondo: quello di considerare la violenza un       157  ll    ID., Che cosa è “già” il controllo operaio a Torino, «Il Popolo d’Italia», 7 maggio 1921.  ® Cfr. Operaio fascista e mutilato di guerra ucciso da un comunista, “La Stampa”, 26 aprile   1921.   Per le versioni di parte fascista e comunista v. rispettivamente MARIO Giona, Un fascista  mutilato di guerra assassinato da un comunista a Torino, «Il Popolo d’Italia», 27 aprile 1921,  e Tragico epilogo di una rappresaglia fascista, «L'Ordine Nuovo», 26 aprile 1921.   Cfr. La funesta notte e le sue conseguenze, «La Stampa», 28 aprile 1921.   L'organo del PCdI torinese riferì che le guardie regie di presidio alla Casa del Popolo  (quaranta, secondo i documenti di PS), non solo non avevano ostacolato gli assalitori, ma gli  avevano persino assecondati (cfr. Come è stata incendiata e saccheggiata la Casa del Lavoro  di Torino, «L'Ordine Nuovo», 28 aprile 1921). Il comportamento delle guardie regie fu  oggetto, nei mesi seguenti all'episodio, di una lunga polemica. Un'apposita inchiesta, voluta  dall’energico Prefetto Paolo Taddei, escluse che i militari avessero preso le parti degli  squadristi, ma accertò altresì - come lo stesso Taddei scrisse al Ministro in data 6 luglio - la  «deplorevole negligenza» degli ufficiali preposti al servizio d’ordine, dimostratisi incapaci di  fronteggiare adeguatamente e con fermezza d’animo l’offensiva fascista. ACS, MINISTERO  DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., 1921, Busta 112 [Fascio di Torino].   ‘9? Cfr. «Il Popolo d’Italia», 30 aprile 1921.    !0! ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., cit,    110          aspetto importante ma tutto sommato transitorio (quindi, in un certo senso,  accessorio) del fascismo, mentre essa ne era un elemento coessenziale  imprescindibile, oltre che difficilmente addomesticabile. Un esempio di  questo ambivalente stato d’animo si trae da un articolo di Gioda di poco  precedente ai fatti narrati. In esso, commentando l'aggressione subita da  Antonio Gramsci ad opera di alcuni squadristi’, il segretario del Fascio  torinese aveva definito «sacrosante» le ritorsioni fasciste contro «le vili  imboscate» e «la violenza liberticida dei pussisti», ma, al contempo, aveva  vivamente deplorato quell’episodio, del quale non comprendeva la  necessità'. Nel caso poi della drammatica rappresaglia alla Casa del  Popolo, Gioda mostrò, almeno all’apparenza, di non averne intesa la reale  portata politica, allorché ebbe a dichiarare, contro l’evidenza dei fatti, che  essa aveva avuto natura anticomunista ma non antiproletaria tout couri n  Fino a che punto Gioda fosse consapevole della contraddittorietà della  propria posizione non è dato sapere, ma è certo che egli non aveva la forza  sufficiente per opporsi ad uno stato di cose che sfuggiva ormai al suo  controllo, costringendolo ad improbabili equilibrismi. i ;   All’indomani della prova elettorale (che vide il fascismo conquistare 35  seggi alla Camera) 16, un quotidiano romano pubblicò una lunga intervista a  Mussolini. Alla domanda se i neo deputati fascisti avrebbero o no preso parte  alla seduta inaugurale della XXVI Legislatura alla presenza di re Vittorio    Emanuele III, il “duce” rispose:    Il fascismo non ha pregiudiziali monarchiche o repubblicane, ma è tendenzialmente  repubblicano. In ciò differenziandosi nettamente dai nazionalisti, che sono       !62 Gramsci era stato aggredito il pomeriggio del 20 aprile, all’uscita dalla sede di «one   Nuovo». Il leader comunista non subì in realtà alcuna violenza, mentre il giovane ‘ardito del  polo” Giovanni Torrero, accorso in suo aiuto, restò gravemente ferito. Cfr. Ibidem.   5 MARIO GIODA, /n tema di violenza, «Il Popolo d’Italia», 22 aprile 1921. E   Che Gioda non nutrisse molta simpatia per gli eccessi degli squadristi è me provato   dall’impegno che egli mise-nel cercare di frenarne le intemperanze nel pesi c pipa Lo   recrudescenza dello squadrismo torinese, ossia nei mesi immediatamente precedenti i pe fo   pacificazione. Alla fine di giugno, ad esempio, dopo un ennesimo cruento scontro i fascis   e comunisti, Gioda, rivolgendosi direttamente alle camicie nere, rilevò ! urgenza li ata  fine una buona volta» a quella fosca teoria di violenze, destinata «ad attizzare MEA ‘odio  olitico» (ID., Un monito opportuno dopo una lotta sanguinosa, Ibidem, ! luglio 1921).   to Ip., Un rilievo opportuno dopo l'incendio vendicativo, Ibidem, 31 aprile 1921. |   165 Rocca non fu eletto. Soltanto 18° su 28 candidati a Milano, con 5.897 voti di preferenza  (cfr. «Il Corriere della Sera», 24 maggio 1921), ottenne un miglior risultato in FERIRE  35,282 voti a Torino città e 88.670 nell’intera circoscrizione (cfr. «La Stampa», 18 e  maggio 1921).    111       pregiudizialmente e semplicemente monarchici. Il gruppo fascista si asterrà  ufficialmente dal prendere parte alla seduta reale!$    Le dichiarazioni filo repubblicane di Mussolini scossero profondamente  tutto l’ambiente fascista. Dinanzi al putiferio da esse suscitato in molti Fasci,  fu stabilito di rimandare ogni decisione in merito a una riunione congiunta  dei deputati fascisti, dei membri del Comitato Centrale e dei segretari delle  Federazioni regionali, fissata per giovedì 2 giugno al Teatro Lirico di  Milano'!. Tra i Fasci dove la questione ebbe un'eco maggiore vi furono  quello di Verona e quello di Torino. Un editoriale di «Audacia» (poi  rivendicato da Malusardi) fece giungere a Mussolini il consenso dei fascisti  veronesi. L’originario programma fascista - vi si leggeva - quello di piazza  San Sepolcro, intransigentemente repubblicano, era stato purtroppo messo in  disparte, mentre era giunto il momento di rinverdire lo spirito rivoluzionario  del fascismo! Le dure apostrofi dell’organo fascista destarono viva  apprensione negli ambienti moderati di Verona, al punto che, rispondendo  all’articolo di «Audacia», il liberale Gaetano De Carli lasciò addirittura  intendere che la borghesia veronese non avrebbe esitato a difendersi con le  armi da un’eventuale insurrezione repubblicana fascista!. Il 29 maggio  l’assemblea generale del Fascio si chiuse con l’unanime approvazione di un  ordine del giorno Malusardi.    Il Fascio Veronese di Combattimento — recitava il documento - richiamandosi alle  origini eterodosse del fascismo, qui nel veronese mai smentite, dichiara la propria  incondizionata solidarietà con Mussolini nella tanto dibattuta questione della  tendenzialità repubblicana e riafferma essere inconcepibile che i fascisti facciano  parte anche di altri partiti!” i    Dopo che la riunione milanese del 2 giugno, protrattasi fino al giorno  successivo, si fu risolta in un nuovo compromesso (una «soluzione molto  confusa e contraddittoria», secondo la definizione di Renzo De Felice) !”!       !6© «Il Giornale d’Italia», 21 maggio 1921.    L'intervista a Mussolini fu riprodotta anche da «Il Popolo d’Italia» del 22 maggio.  !57 Cfr. Ibidem, 24 aprile 1921.    Sulle conseguenze dell’intervista di Mussolini v. RENZO DE FELICE, Mussolini il ‘fascista, cit.,  . 95 ss.    » Cfr. NOI, Cose a posto, «Audacia», 28 maggio 1921.  GAETANO DE CARLI, Difendo il Re, «Arena», 1 giugno 1921.  170 . .  «Audacia», 4 giugno 1921.  !7! Renzo DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p.97.    \    112       che eludeva l’essenza del problema, Malusardi non nascose il proprio  malumore e manifestò la speranza che il prossimo congresso nazionale  sciogliesse definitivamente il nodo dell’indirizzo istituzionale del fascismo.  «E? ora di finirla — scrisse tra l’altro — di vedere e liberaloni e nazionalisti e  rancidi conservatori insinuarsi nelle nostre file coll’unico scopo di  rimorchiare al loro partito il nostro movimento. Ed è ora di finirla anche con  questi Fasci Agrari o d’Ordine, che snaturano il nostro programma e  mascherano gretti interessi individuali o di classe»!”?.   La vicenda ebbe conseguenze assai più traumatiche a Torino, dove portò a  un nuovo aspro scontro tra Gioda e De Vecchi. Quest'ultimo, infatti, in  un’intervista rilasciata a un quotidiano locale, dichiarò che i deputati fascisti  del Piemonte avrebbero senz'altro presenziato alla seduta reale'”. Il 24  maggio, per testimoniare il proprio dissenso da De Vecchi, Mario Gioda si  dimise dalla carica di segretario politico del Fascio di Torino e dalla  direzione de «Il Maglio»'”. La Commissione Esecutiva del Fascio, riunitasi  il giorno seguente, ne rigettò tuttavia le dimissioni, inviando altresì un voto  «di piena, assoluta solidarietà» al “duce”. In un articolo di commento alla  vicenda, Gioda, rinfrancato dalle risoluzioni della Commissione Esecutiva, si  lasciò andare a valutazioni ottimistiche. Nessuno — scrisse - aveva il diritto di  meravigliarsi per la professione di fede repubblicana fatta da Mussolini. Ben  più strano, infatti, sarebbe stato se «il fascismo, il giorno dopo le elezioni,  fosse diventato tanto opportunista da velare, o tacere, o sorvolare su una  delle sue principali caratteristiche»; quella, cioè, di essere un movimento  tendenzialmente repubblicano. L'intervista del “duce” - secondo Gioda - era  giunta a proposito, così da smontare una volta per sempre «la favola di un  fascismo antiproletario e incatenato al servizio della borghesia agraria e          L’ordine del giorno approvava l’operato di Mussolini e decretava la nascita del gruppo  parlamentare fascista, riproponendo in sostanza la tesi della non partecipazione alla seduta  reale, ma non faceva menzione della questione istituzionale.   !72 EDOARDO MALUSARDI, Vogliamo il congresso nazionale!, «Audacia», 11 giugno 1921.   !73 Cfr. «La Gazzetta del popolo», 23 maggio 1921.   Il 24 maggio, nel corso di un comizio al teatro Trianon per la ricorrenza dell’entrata in guerra  dell’Italia, il futuro quadrumviro riconfermò quanto dichiarato il giorno prima al quotidiano  torinese (cfr. «Il Popolo d’Italia», 25 maggio 1921). Nelle sue memorie, De Vecchi si  compiacerà di ricordare che Gioda, nell’ascoltarne il discorso, era diventato sempre più  pallido, finché, esasperato, aveva abbandonato anzitempo il teatro (cfr. CESARE M. DE  VECCHI, op. cit., p. 42).   !74 Cfr. «Il Popolo d’Italia», cit.   In conseguenza dell’abbandono di Gioda «Il Maglio» sospese le pubblicazioni per quasi un  mese.   !75 Cfr. «Il Popolo d’Italia», 26 maggio 1921.    113          industriale»'”°, Tornava dunque a mostrarsi la vecchia anima repubblicana e  libertaria di Mario Gioda, e non v’è dubbio che egli fosse in buona fede.  Ciononostante, le sue posizioni non trovavano corrispondenza nella  situazione generale del fascismo, sul piano locale come su quello nazionale,  ed erano, perciò, fatalmente destinate a soccombere.   Il giorno prima della prevista riunione di Milano ebbe luogo l’assemblea del  Fascio di Torino. Essa - riferiva la cronaca, stranamente non edulcorata, de  «Il Popolo d’Italia» - si risolse in un duello personale tra Gioda e De Vecchi.  Soltanto al termine di un affannoso dibattito fu licenziato un ordine del  giorno anodino (sottolineante il carattere unitario del programma politico  fascista) che, in definitiva, suonava come un’attenuazione della linea  intransigente sostenuta da Gioda'”. La riunione al Teatro Lirico, nel corso  del quale De Vecchi non mancò di fare «una manifestazione di fede  monarchica»!?8, confermò la vittoria dell’indirizzo moderato.   A distanza di pochi giorni De Vecchi prese l’iniziativa - del tutto personale -  di convocare un vertice dei segretari dei Fasci piemontesi. Gioda non rispose  all’invito e non si recò all’incontro. Fu invece presente Umberto Pasella, che  riuscì a far passare una mozione rivendicante il più assoluto agnosticismo in  materia di regime. L'assemblea conferì a De Vecchi l’incarico di designare il    nuovo direttore de «Il Maglio» e la scelta, com’era logico, cadde su un uomo    di sua fiducia, l’avv. Ruella'”, Il 12 giugno tornò a riunirsi la Commissione  Esecutiva del Fascio torinese. Gioda si dimise per la seconda volta, lasciando  capire di non aver intenzione di recedere dalla propria decisione'*°. Dieci    giorni più tardi, un’ennesima assemblea straordinaria dei soci del Fascio ‘|  provvide all’insediamento di una nuova Commissione Esecutiva'*, che a sua |    volta, riunitasi il 4 luglio, designò segretario politico un altro fedelissimo di  De Vecchi, il capitano Aurelio, di Novara, già comandante della legione  82    dalmata a Fiume **. Gioda appariva sconfitto su tutti fronti. Nel giro di un |       176    la disciplina fascista, Ivi.   17? Ibidem, 2 giugno 1921.   All’assemblea del Fascio torinese prese parte anche Massimo Rocca, senza tuttavia  intervenire nella discussione.   LOI ‘imponente convegno fascista di ieri a Milano, Ibidem, 3 giugno 1921.   17° Cfr. «Il Maglio», 18 giugno 1921.   180 Cfr. «Il Popolo d’Italia», 14 giugno 1921.   La segreteria del Fascio di Torino fu assunta in via provvisoria dal capitano degli arditi Mario  Gobbi.   18! Cfr. «Il Maglio», 25 giugno 1921, e «Il Popolo d’Italia», 26 giugno 1921,   I membri della Commissione Esecutiva furono portati da cinque a sei.   182 Cfr. «Il Maglio», 9 luglio 1921.    114    MARIO GIODA, Le dichiarazioni di Mussolini e la speculazione idiota degli avversari. Per       mese, tuttavia, mercé i contrasti suscitati dal patto di pacificazione nel  frattempo stipulato con i socialisti, la situazione mutò ancora una volta. Il 6  agosto, a riprova della gravità della crisi, «Il Maglio» interruppe nuovamente  le pubblicazioni (le avrebbe riprese soltanto il 26 novembre). Trascorsa una  settimana, Gioda fu richiamato alla segreteria del Fascio, quindi, il 25  agosto, l’assemblea generale fascisti torinesi votò la nomina di un’altra  Commissione Esecutiva".   La sterzata a destra coinvolse, almeno in parte, anche Edoardo Malusardi. Il  13 giugno si svolse un’adunata provinciale straordinaria dei Fasci e dei  Nuclei fascisti del veronese. Al centro del dibattito, una volta ancora, il tema  dei Sindacati Economici. Alla tesi facente capo a Giuseppe Serenelli,  contraria alla costituzione di detti sindacati, e a quella di Alessandro  Melchiori, favorevole alla formazione di organizzazioni sindacali ad  autonomia “ridotta”, si oppose l’idea di Malusardi, per il quale, mentre la  prima rivelava chiaramente la «qualità di agrario» del suo suggeritore, la  seconda era troppo generica e parimenti inaccettabile. Secondo Malusardi, il  fascismo doveva adottare il programma di sindacalismo integrale contenuto  nel “testamento politico” di Filippo Corridoni". Ma la grande novità  dell’adunata furono le dimissioni di Malusardi dal suo doppio incarico  all’interno del Fascio veronese, «per motivi di salute e non politici»'*°. Al  riguardo mancano purtroppo notizie certe, ma non è da escludere che la sua  decisione, anziché a ragioni contingenti, fosse dovuta a pressioni esterne, più  o meno indirette. D’altra parte, leggendo il saluto indirizzato da Malusardi ai  suoi lettori, l'impressione che se ne trae è quella di un uomo tutt’altro che  dimesso; un uomo che si sentiva ingiustamente messo da parte e che,  persuaso della bontà dei propri convincimenti, riaffermava la propria  indipendenza di giudizio.       183  184    Su tutta questa vicenda v. EMMA MANA, op. cit., p. 270 ss.  Melchiori (a lungo segretario politico del Fascio di Brescia) aveva già espresso il proprio  punto di vista in un precedente intervento su «Audacia». I sindacati - aveva rilevato -  dovevano mantenersi il più possibile indipendenti, ma, al tempo. stesso, non potevano  rinunciare al sostegno e alla protezione del fascismo, se necessario anche contro gli stessi  interessi padronali. «Come fino ad oggi — aveva scritto Melchiori - i nostri camions sono  serviti per punire i calunniatori del fascismo, essi serviranno [...] per prelevare a domicilio  quei proprietari che volessero ad ogni costo andare contro corrente» (ALESSANDRO  MELCHIORI, Costituiamo i Sindacati Economici, «Audacia», 11 giugno 1921).  185 Alla fine dei lavori l’adunata approvò un ordine del giorno, formulato da Italo Bresciani  d’intesa con il presidente dell’assemblea Salvatore Stefanini (membro del Comitato Centrale),  per la costituzione, anche nel veronese, di Sindacati Economici «nazionali», aventi autonomia  «finanziaria e politica» (/bidem, 16 giungo 1921).   Ivi.    115             Ho sempre pensato — scriveva Malusardi - come meglio mi è parso. Non ho mai  avuto alcun feticcio. Ho sempre preso il bello ed il buono da qualunque parte  venissero. Perché io non sono di quelli che marciano sulle rotaie dell’anchilosi  cerebrale che i partiti e le chiesuole hanno portato su tutte le contrade. Sempre ho    irriso, anzi, a tutte le botteghe multicori politiche che pretendono d’aver la privativa  dell’infallibilità!”    E interessante, in questa lunga “confessione” di Malusardi, il modo in cui  egli tornava ad illustrare la propria concezione sindacalista. Il tono e i    contenuti - come si può vedere - non erano granché mutati dai tempi de  «L’Agitatore».    «Benché sono [sic] orgogliosamente individualista — affermava - fui tra le masse  lavoratrici e per esse lottai, pugnai di persona. Non perché io credessi o creda nella  elevazione collettiva della massa [...], ma per staccare da essa delle individualità e  delle minoranze intelligenti e volitive, capaci d’innalzarsi realmente ad un più alto  livello di comprendonio e di personalità. Poiché io non dimentico che la storia è  sempre stata scritta dagli individui e dalle minoranze [...]. Il sindacalismo, quale io  lo intendo [...] è individualista ed è una realtà avveniristica nella quale predomina il  “mito” della singola responsabilità. Il sindacalismo è logicamente per un continuo  superamento e per il massimo imborghesimento; il socialismo ed il comunismo  statali rappresentano invece il livellamento e la massima proletarizzazione di tutti!8*    Infine, Malusardi rilasciava una dichiarazione dall’evidente sapore  programmatico.    lo non sarò mai per il conservatorume rancido e vilissimo che, passata la bufera  bolscevica, spazzata via dal salutare vento fascista, si è riverniciato a nuovo e  pretende rimerchiare la nostra gagliarda giovinezza. Io sono orgoglioso, anzi, di aver  molto contribuito a mantenere al fascismo veronese la sua caratteristica sbarazzina e  ardita, tanto da essere chiamato la punta estrema del movimento fascista!*”    In definitiva, l’allontanamento di Malusardi da Verona - cui fece seguito il  suo temporaneo “esilio” in provincia - pareva dettato, più che da cattive  condizioni di salute, da valutazioni di opportunità “ambientale”. Egli, del  resto, non abbandonò affatto l’attività politica. Al congresso provinciale       87 s  187 EpoARDO MALUSARDI, Commiato, cit.    8  Ivi.  189    Ivi.  A seguito delle dimissioni di Malusardi la direzione di «Audacia» fu ereditata da Luigi  Grancelli.    116          fascista del 7 agosto, Malusardi era infatti presente in rappresentanza dei  piccoli Fasci di Legnago e di Cologna Veneta, figurando altresì quale  segretario generale della Federazione fascista intermandamentale del basso  veronese. In quel frangente egli si fece promotore di una mozione favorevole  al patto di pacificazione, da poco stipulato con i socialisti, «per ragioni di  ordine nazionale»'”°. L'ordine del giorno Malusardi fu approvato con 14 voti  a favore, il doppio di quelli ottenuti da una proposta di Giuseppe Bernini, del  Fascio di Verona, per l’accettazione condizionata del patto del 3 agosto!”.  Ci sembra significativo che, proprio nel momento in cui il Fascio veronese  manifestava al riguardo molte perplessità, Malusardi appoggiasse la strategia  distensiva di Mussolini. Senz'altro, com’è anche possibile desumere dalle  sue future prese di posizione in tema di violenza, Malusardi riconosceva il  bisogno di una “tregua d’armi” con le sinistre (la sua intransigenza sui  principi non dev'essere confusa con l’estremismo squadristico), ma è anche  presumibile che egli mirasse in parte a recuperare credito agli occhi delle  gerarchie!”, Tra l’agosto e il settembre, Malusardi s’impegnò in un’intensa  opera di propaganda a sostegno del patto di pacificazione, girando tutta la  provincia di Verona, con esiti confortanti. Contemporaneamente riprese a  collaborare con «Audacia», di cui riassunse la direzione il 29 ottobre, poco    tempo prima del III congresso nazionale fascista!”       19° Favorevole alla tregua con i socialisti si era detto anche Massimo Rocca, benché, in un    articolo di poco precedente alla firma del patto, egli avesse espresso forti dubbi circa la tenuta  di un eventuale accordo, soprattutto nelle zone, come l'Emilia Romagna, dove la lotta politica  aveva raggiunto la massima asprezza (cfr. Massimo Rocca, Per la pace interna, «Il  Risorgimento», 21 luglio 1921). Dopo che l’accordo fu denunciato - in conseguenza dei gravi  incidenti scoppiati al margine de! III congresso nazionale fascista -, Rocca attribuì la  responsabilità del suo fallimento ai socialcomunisti (cfr. Ip., La commedia di una  pacificazione, Ibidem, 24 novembre 1921).   Su tutte le questioni connesse al patto di pacificazione v. RENZO DE FELICE, Mussolini il  fascista, cit., p. 100 ss.   19! Cfr. «Audacia», 13 agosto 1921.   192 A questo proposito, il responsabile per la propaganda del Comitato Centrale, mentre  rimproverava a Luigi Grancelli e agli altri dirigenti del Fascio di Verona, il loro «semplicismo  politico», si disse piacevolmente sorpreso che «l'ex anarchico Malusardi» condividesse  l’iniziativa di Mussolini per la pacificazione (OTTAVIO MARINONI, Dopo il Congresso  Provinciale, Ivi).   18. 11.30 ottobre, in preparazione dell’assise nazionale di Roma, i Fasci del veronese si  radunarono a congresso. Tra i temi dibattuti, oltre a quello dell’annunciata trasformazione del  movimento in partito (che avrebbe dominato i lavori dell’ Augusteo ), vi fu nuovamente quello  dei Sindacati Economici. Infatti, dopo la nascita e la diffusione dei “Gruppi dei ferrovieri  fascisti”, organismi di categoria dipendenti dai Fasci, che lasciavano intravedere la possibilità  di un sindacalismo integralmente fascista, si andava vieppiù riconsiderando la funzione dei  Sindacati Economici, la cui pretesa apoliticità era ormai oggetto delle critiche di autorevoli    117          Il congresso fascista, che si riunì al Teatro Augusteo di Roma tra il 7 e il 10  novembre 1921, ebbe tra i suoi maggiori protagonisti Massimo Rocca.  Questi si preparò all’appuntamento con una serie di articoli d’indubbio  interesse, nei quali — per la prima volta in modo compiuto - formulò la sua  proposta per un fascismo “liberale”. Nell’opinione di Rocca, i Fasci  avrebbero dovuto essere un movimento di élite, di avanguardia politica e  ideale, come lo era stata la Destra storica cavouriana. La vita politica  italiana, costretta in avvilenti compromessi, aveva bisogno di «un eccesso di  spiritualità», tale da bilanciare l’eccesso «di politicantismo mercantile» che  la sommergeva; e solo una destra rinnovata, che avesse saputo riappropriarsi  della cultura e dello spirito del vecchio liberalismo piemontese, avrebbe  potuto svolgere questo «compito di equilibrio e di correzione». In quella  tradizione risiedeva del resto un «grande insegnamento realistico e morale»  dal quale il fascismo non avrebbe potuto prescindere, vale a dire che «non le  masse, ma le minoranze rinnovavano il mondo» e che il progresso  consisteva nel «succedersi di aristocrazie libere»'. I fascisti - Rocca non ne  dubitava - avevano le carte in regola per guidare quest'opera di  rinnovamento della destra italiana, ma dovevano prima definirsi come forza  politica. Il fascismo, infatti, era nato prevalentemente ad opera di sovversivi,  alcuni dei quali non avevano mai del tutto rotto i ponti con il proprio passato.  Erano coloro che difendevano la pregiudiziale repubblicana e i Sindacati  Economici (forse Rocca pensava agli amici Gioda e Malusardi) e  rappresentavano la tendenza «filoproletaria» del movimento: una tendenza,  sia pur degna del massimo rispetto, che rischiava di ripetere gli errori storici  della sinistra, plasmando una sorta di «demagogia fascista», non meno  deprecabile di quella socialcomunista. Sul versante contrario, Rocca poneva       esponenti della gerarchia fascista, da Michele Bianchi a Dino Grandi, da Massimo Rocca allo  stesso Mussolini (su questi punti v. FERDINANDO CORDOVA, op. cit., p. 45 ss.). Al congresso  veronese Malusardi si pronunciò contro la costituzione di sindacati «prettamente fascisti» e  difese il principio dell’apoliticità dell’azione sindacale (la tesi patrocinata a livello nazionale  da Edmondo Rossoni). I sindacati “di partito”, rilevò Malusardi, avrebbero ostacolato l’unità  di tutte le forze sindacali nazionali, ch'egli riteneva indispensabile, anche per contrastare il  monopolio dei sindacati socialcomunisti. «Se in politica — affermò — le divergenze son  profonde, sul terreno economico son facilmente colmabili. Il lavoratore credente e quello  miscredente, il monarchico ed il repubblicano sono tutti d’accordo nel volere il proprio  miglioramento economico e morale». Di concerto con Italo Bresciani, Malusardi presentò  dunque un ordine del giorno, sanzionato a larga maggioranza, affinché sorgesse, «all’infuori  dello stesso Partito Fascista», un «forte organismo sindacale che raccogliesse sotto il suo  vessillo di battaglia tutti i lavoratori che non rinnegavano la realtà Nazione» («Audacia», 4  novembre 1921).   “ Massimo ROCCA, Pér una nuova destra, «Il Popolo d’Italia», 29 ottobre 1921 (anche in  Ip., /dee sul fascismo, cit., pp. 44-51).       la destra reazionaria, «formata da certa borghesia, specialmente terriera, e da  residui d’aristocrazia decaduta», che vedeva nel fascismo «l’arma di difesa e  di offesa da sfruttare al minor prezzo possibile», ed era responsabile del  carattere «offensivo e violento» assunto dai Fasci in talune zone del Paese,  Tra le due ali estreme del fascismo si situava tuttavia un folto centro  moderatore, che Rocca riteneva essere il legittimo erede del primo  nazionalismo, come questo lo era stato del primo liberalismo di destra, del  liberalismo, cioè, non ancora “inquinato” dall’utopia demo-sociale. Una  zona media del fascismo, dunque, fondata sulla «disciplina verso la Nazione,  al di sopra degli esclusivismi ideologici e degli interessi particolari», che  Rocca confidava sarebbe infine prevalsa sugli opposti estremismi, fino a  costituire il perno della “nuova destra” di governo!” Nel suo intervento al  congresso di Roma Rocca riprese uno ad uno questi temi. Il fascismo — disse  - doveva innanzi tutto svolgere «un’opera di educazione sulle masse», per  volgersi infine alla trasformazione degli organi legislativi, in quanto la crisi  italiana era una «crisi d’incompetenza» e le questioni economiche e  amministrative, per le quali lo stato politico non era adatto, dovevano essere  demandate ai tecnici. In quest'opera di riforma, le organizzazioni sindacali  avrebbero potuto giocare un ruolo importante, a condizione che i sindacati  divenissero strumento «di selezione delle élites proletarie»'?”.   L’assise dell’ Augusteo decretò la nascita del Partito Nazionale Fascista. Sia  Rocca (che a Roma rappresentava il piccolo Fascio lombardo di Castellanza)  198. sia gli altri ex anarcointerventisti Malusardi e Gioda, presenti anch’essi al       193 Ip., Un neo liberalismo?, “Il Risorgimento”, 22 settembre 1921 (anche in Ip., /dee sul  fascismo, cit., pp. 31-43).   196 Su questo aspetto del pensiero politico di Massimo Rocca v. altresì EMILIO GENTILE, Le  origini dell'ideologia fascista, cit., pp. 227-228.   19? «Il Popolo d’Italia», 10 novembre 1921.  L'intervento di Rocca al congresso dell’ Augusteo fu per la maggior parte incentrato sui  problemi di ordine internazionale. A questo riguardo Rocca confermò la convinzione che  l’Italia dovesse avere una politica estera «rettilinea e chiara», senza le incertezze del passato,  e che spettasse al fascismo far sì che ciò avvenisse. Il discorso, con i suoi richiami alle  “glorie” e alla “potenza” d’Italia, vibrava di forti acc>nti nazionalistici e non fu un caso che  l'organo dell’Associazione Nazionalista ne facesse l'elogio (cfr. /! discorso polemico di  Massimo Rocca, «L’Idea Nazionale», 10 novembre 1921).   !°8 Cfr. «Il popolo d’Italia», 10 novembre 1921.   Il Fascio di Castellanza, un piccolo centro in provincia di Milano (oggi Varese), era stato  inaugurato nel luglio del 1921 alla presenza di Massimo Rocca, che aveva fatto da padrino.  Ne era segretario Giulio Schejola e contava 67 soci, in prevalenza operai e impiegati.  L'assemblea generale dei soci designò Rocca a rappresentare il Fascio al congresso nazionale  di Roma. Cfr. ACS, MRF, Carteggio politico e amministrativo del Comitato Centrale con i  Fasci di combattimento, Busta 25 [Castellanza].    119       congresso, votarono a favore della trasformazione del movimento in  partito!” Dal congresso scaturì inoltre il nuovo organigramma fascista:  Massimo Rocca entrò a far parte della Commissione Esecutiva del PNF°%,  mentre De Vecchi, a testimoniare la definitiva virata a destra del fascismo,  rilevò Gioda nel Comitato Centrale?”   Le conclusioni del congresso furono esaltate da Rocca in un lungo articolo  celebrativo, significativo per i numerosi richiami al problema  dell’organizzazione sindacale e, soprattutto, per gli accenni ai Consigli       199 ; A Errante "  Il 17 ottobre si era radunata l’assemblea generale dei fascisti torinesi. Nella sua relazione    Mario Gioda si era pronunciato a favore del partito, sebbene - come aveva tenuto a precisare -  la stessa parola partito gli ripugnasse «istintivamente». Il fatto era - aveva sostenuto - che il  movimento fascista era ormai un partito de facto e si trattava, perciò, soltanto di ratificarne  ufficialmente l’esistenza. La creazione di un partito fascista era altresì indispensabile per  imprimere un carattere nazionale al fascismo, di per sé troppo frammentato, troppo legato alle  singole realtà provinciali; e per porre un freno alle «lotte infeconde» tra le sue diverse  correnti, espressione, nella maggior parte dei casi, d’interessi localistici o addirittura  personali. Si noti, a questo proposito, la concordanza tra la posizione di Gioda e quella di  Rocca (L'assemblea dei fascisti torinesi favorevole al Partito Fascista Italiano, «Il Popolo  d’Italia», 18 ottobre 1921).   Anche Malusardi, in occasione del già menzionato congresso provinciale veronese del 30  ottobre, si era detto favorevole alla trasformazione del movimento fascista in partito, a patto  che la nuova compagine politica ereditasse «il patrimonio ideale del vecchio partito d’azione  mazziniano, plasmandolo, con la concezione sindacalista della Costituzione Fiumana, alle  esigenze della vita moderna» («Audacia», 4 novembre 1921).   In seguito, Rocca riferì che De Vecchi, «a nome di amici nazionalisti e sindacalisti», gli  aveva offerto la segreteria del partito, da egli rifiutata, «malgrado le insistenze», per non  venirsi a trovare in una situazione difficilmente gestibile. «Qualunque segretario del partito —  scrisse Rocca ricordando l’episodio — avrebbe dovuto scegliere fra il ritirarsi in un compito  amministrativo e di adulatore, o diventare dopo qualche settimana il rivale e poi il nemico del  Duce» (Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 98). Segretario del  PNF fu quindi nominato Michele Bianchi.   Per la cronaca del congresso dell’Augusteo v. «Il Popolo d’Italia» del 7, 8, 9 e 10   novembre 1921. Sulle vicende legate a questa importante tappa della storia del fascismo v.  RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 182 ss.  Stando al resoconto de «Il Popolo d’Italia» del 10 novembre, al momento del voto pro 0  contro il partito Rocca manifestò l’intenzione di dimettersi dall’ Associazione Nazionalista. In  base a quanto da lui stesso riferito anni dopo, pare invece ch'egli avrebbe conservato la  doppia tessera (cfr. Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 98). Il  tema dei rapporti col nazionalismo dominò a lungo il dibattito interno fascista all’indomani  del congresso di Roma. In un'intervista concessa all’organo dell’ANI, Rocca, dopo aver  sottolineato lo «spirito aristocratico» che animava il nuovo Partito Fascista, si disse «convinto  che il fascismo, il nazionalismo e il risorgente liberalismo di Destra stessero preparando  qualcosa che, un giorno o l’altro, li avrebbe compresi e li avrebbe trascesi», ed auspicò la  formazione di un unico «partito nazionale» (// fascismo e la crisi italiana in una nostra  intervista con Libero Tancredi, «L’Idea Nazionale», 23 novembre 1921),             Tecnici. Rispetto ai sindacati - rilevava il neo dirigente fascista -, il partito  poteva scegliere di prevalere «aristocraticamente» su di essi (come egli si  augurava), oppure di farsene soggiogare, soccombendo a una visione  demagogica della lotta sindacale. Alla necessità di delineare gli orientamenti  sindacali del fascismo si accompagnava quella di riformare gli organi  elettivi, «in armonia con la economia sindacale moderna». Secondo Rocca,  un primo passo verso questa riforma era rappresentato dalla decisione, presa  in ambito congressuale, di dar vita a organismi professionali ristretti - i  Consigli tecnici appunto -, da affiancare ai «Parlamenti generici e politici»,  inadatti per loro stessa natura a decidere su argomenti che richiedessero  competenze tecniche specifiche °°°.   Chi, a differenza di Rocca, si disse insoddisfatto dei deliberati del congresso  nazionale fu Edoardo Malusardi. In primo luogo - com’ebbe a scrivere su  «Audacia» - egli dissentiva da Mussolini in merito alla «concezione statale».  Il ritorno al liberismo e l’accantonamento della Carta del Carnaro, sanciti a  Roma, gli apparivano difatti come la negazione dello spirito originario del  fascismo.    Quando egli [Mussolini] — rilevò Malusardi - giustamente dice che vuol inserire,  superando la vecchia concezione della lotta di classe, le classi lavoratrici nella vita  della Nazione, ecco che viene ad ammettere che [...] dalla Carta del Carnaro  possiamo trarre non solo lo spirito, ma anche qualcosa di più, poiché appunto nella  Carta del Carnaro vi è moltissimo di quella ideologia mazziniana che il fascismo,  secondo lo stesso Mussolini, non deve ignorare ma integrare    Quanto all’annosa questione istituzionale, Malusardi ribadì il proprio  repubblicanesimo, solo in parte stemperato da considerazioni di opportunità    politica.       202 Massimo Rocca, Un congresso di vivi, «Il Risorgimento», 17 novembre 1921 (anche in  ‘cismo, cit., pp. 52-61). DIE   n prete anre ie del PNE, approvato nel dicembre del 1921, accolse le indicazioni del  congresso circa l’opportunità di dar vita a dei Consigli Tecnici (o Gruppi di Compare).  Questi, che venivano al terzo posto nella struttura gerarchica del partito, subito dopo gli  organi dirigenti (Consiglio Nazionale, Comitato Centrale, Direzione e Segreteria Generale) ei  Fasci, avrebbero dovuto raccogliere tutti gli iscritti che avessero dimestichezza in materia di  servizi pubblici, o in questioni attinenti alla vita economica ed amministrativa, tanto sul piano  nazionale che su quello locale, in modo tale da rendere possibile ! analisi di ogni problema  politico, economico e sociale secondo criteri di competenza professionale. Cfr. Programma e  Statuti del Partito Nazionale Fascista, Roma, Stabilimento Tipografico Berlutti, 1922, pp. 24-  25 (lo statuto/regolamento del partito fu pubblicato in prima battuta da «Ii Popolo d’Italia» del  27 dicembre 1921).   29 EDOARDO MALUSARDI, /n margine al congresso, «Audacia», 19 novembre 1921,    121          Anche Mazzini — scrisse - pur mantenendo intatta la sua fede repubblicana, per  raggiungere l’unità d’Italia, scrisse la famosa lettera al Carignano e non ostacolò di  salire al trono Vittorio Emanuele II. Ma il veggente ligure, però, mai si adattò a  servilismi o incensamenti cortigianeschi. Così, pure noi fascisti, pur riconoscendo  inopportuno attualmente qualsiasi tentativo repubblicano, perché verrebbe sfruttato  dagli elementi antinazionali, dovremmo riaffermare chiaramente la nostra originaria  tendenzialità repubblicana?    Infine, Malusardi deplorò la scarsa attenzione volta dai congressisti ai  problemi sindacali e alla questione agraria, attribuendo la ragione di questa  grave lacuna programmatica alla presenza, in seno al fascismo, di «agrari  dalla mentalità antiquata». Per contro, egli affermò la necessità di  combattere il latifondo, per giungere alla «sproletarizzazione» delle  campagne, incrementando la piccola proprietà e la cooperazione”,   L'ultimo atto pubblico di Malusardi a Verona fu la partecipazione al  congresso provinciale fascista del 22 gennaio 1922. Anche in quella  circostanza egli non tralasciò di riaffermare la propria fede sindacalista e di  celebrare il «sindacalismo/corporativismo dannunziano [...] genialmente  dettato nella Carta di Fiume». Due giorni dopo, il congresso nazionale  delle organizzazioni sindacali fasciste, riunitosi a Bologna, sancì la fine dei  Sindacati Economici, aprendo la via, con la nascita della Confederazione  Nazionale delle Corporazioni, a un modello sindacale fortemente  ideologizzato’”. Il sindacalismo “puro”, nella tradizione corridoniana e       204  205  206    Ivi.  Ivi.  Ibidem, 28 gennaio 1922.   Il 21 gennaio Malusardi abbandonò la direzione del giornale (che fu rilevata da Luigi  Grancelli).   ? Intorno a questi avvenimenti v. FERDINANDO CORDOVA, op. cit., p. 53 ss.   AI congresso di Bologna, punto d’arrivo di un lungo e tortuoso dibattito, si scontrarono tre  posizioni: quella di Edmondo Rossoni, sostenitore della tesi autonomista (cui era propenso  Malusardi), quella del neo segretario del PNF, Michele Bianchi, per l’istituzione dei sindacati  “di partito”, e quella, mediana, di Dino Grandi e Massimo Rocca, a favore di un’autonomia  “controllata”, che finì per prevalere (a questo riguardo si veda PAOLO NELLO, Dino Grandi: la  formazione di un leader fascista, Bologna, cit.). Nel corso della discussione Rocca sostenne  che il sindacalismo apolitico avrebbe avuto senso solo dopo l’entrata in funzione dei Gruppi  di Competenza. Prima di allora - data «l’immaturità delle masse» -, era vano sperare di  sottrarre i lavoratori al controllo pervasivo dei socialcomunisti, semplicemente lasciando loro  la facoltà di organizzarsi in modo autonomo. D’altro canto, creare dei sindacati fascisti, come  proponeva Bianchi, avrebbe esposto anche il PNF al rischio della demagogia. Per questi  motivi Rocca si espresse - con Grandi - per l'istituzione di «sindacati semplicemente    122,          deambrisiana, usciva dunque dall’orizzonte programmatico del fascismo, ma  Malusardi parve non rendersene conto. Lasciata Verona per Brescia, dove  rilevò la direzione del locale organo fascista?”*, Malusardi si presentò ai  “camerati” bresciani con queste parole:    Se noi dichiariamo senza indugi che, come nel passato, siamo contro a qualsiasi  dittatura bolscevica [...], ciò non significa che siamo dei conservatori e dei  reazionari. Noi siamo, invece, profondamente novatori”°”    Se Malusardi si considerava ancora e sempre un novatore, Massimo Rocca,  ch’era stato l’iniziatore e il “maestro” del novatorismo anarchico, era ormai  un integerrimo conservatore. Nel suo cammino di riscoperta delle radici del  liberalismo si spinse anzi sempre più a fondo, giungendo, in un articolo dei  primi di febbraio carico di reminiscenze “sonniniane”, ad invocare la  restaurazione di tutte le prerogative della corona (usurpate dal Parlamento),  secondo la lettera dello Statuto albertino?!°. Di pari passo con la maturazione  conservatrice di Rocca crescevano le sue responsabilità politiche e  organizzative all’interno del Partito Fascista e aumentavano, con esse, il suo  prestigio e la sua influenza, come l’esplosione, in marzo, del caso legato a  Pietro Marsich, avrebbe pienamente rivelato.   A ridosso del drammatico colpo di mano fascista a Fiume?"!, un giornale  vicino a Marsich, (che nel fascismo rappresentava la destra oltranzista e  rivoluzionaria), rese nota una lettera di quest’ultimo alla Segreteria del  partito, nella quale egli lamentava la “degenerazione” parlamentarista del       nazionali, [...] guidati da fascisti e da uomini della cui fede patriottica non fosse possibile  dubitare» («Il Popolo d’Italia», 26 gennaio 1922).   Massimo Rocca prese parte anche al primo congresso nazionale delle Corporazioni (Milano,  4-6 giugno 1922), durante il quale svolse una relazione sull’emigrazione italiana all’estero  (cfr. «Il Lavoro d’Italia», 8 giugno 1922).   208 Malusardi arrivò a Brescia, dopo un breve soggiorno a Milano, nei primi giorni di  febbraio. In origine il suo compito avrebbe dovuto limitarsi all’organizzazione del locale  sindacato fascista postelegrafonici. A questo scopo, infatti, la segreteria del partito  (rispondendo alle richieste che già da due mesi giungevano dal Fascio bresciano) ne aveva  sollecitato il trasferimento da Verona. Cfr. ACS, MRF, Carteggio politico e amministrativo  del Comitato Centrale con i Fasci di combattimento, Busta 24 [Brescia].   20° EDOARDO MALUSARDI, A guisa di presentazione, «Fiamma», 18 febbraio 1922,   210 Cfr. Massimo ROCCA, La più grande crisi, «Il Risorgimento», 9 febbraio 1922.   2!! 11 3 marzo 1922, col pretesto di vendicare l’assassinio del fascista ed ex legionario Alfredo  Fontana, le camicie nere di Fiume, guidate da Francesco Giunta, rovesciarono il governo  autonomista di Riccardo Zanella e presero possesso della città. La nuova crisi fiumana si  concluse dopo dieci giorni di trattative, con la nomina di un fascista, Giovanni Giurati, a capo  provvisorio dell’esecutivo.    123       fascismo e si scagliava contro l’«infausta egemonia» di Mussolini,  contrapponendogli la figura incorruttibile di Gabriele D’Annunzio?!. Il  “duce”, a sua volta, in una secca replica al suo censore, ne definì lo sfogo  nient’altro che una «tragicommedia»?!, Lo scontro tra Marsich e Mussolini,  che, ben lungi dall’esaurirsi in un contrasto personale, concerneva l’indirizzo  politico del partito, innestò una lunga serie di polemiche, a tutti i livelli (a  Brescia, ad esempio, contrappose Malusardi al segretario provinciale  uscente, Giuseppe Minniti) °!*. Dei dirigenti del PNF, Rocca fu tra i primi a  prendere posizione. Quella della presunta egemonia mussoliniana - scrisse in  una lettera a «Il Popolo d’Italia» - era una leggenda priva di fondamento.  Quanto alla “deriva” legalitaria che negli ultimi tempi, secondo Marsich, si  sarebbe venuta a creare nel fascismo (una situazione che Rocca si vantava di  aver contribuito a determinare), essa era destinata a durare ancora a lungo,  dal momento che l’Italia stava attraversando una fase di assestamento e non  aveva, perciò, alcun bisogno di rivoluzioni. A che pro, inoltre - si  domandava Rocca -, levare la bandiera dell’antiparlamentarismo una volta       12 } RIENEII 3 SIRO Gebo a :  21 Il fascismo nel giudizio di un fascista. Una lettera inedita di Piero Marsich, «La Riscossa    dei legionari fiumani», 5 marzo 1922 (la lettera fu ripresa anche dall’«Avanti!» del giorno  seguente).   La filippica di Marsich, già da tempo molto critico nei confronti dell’orientamento politico  del fascismo, fu originata da un’intervista rilasciata da Mussolini (I! pensiero di Mussolini  sulla crisi ministeriale, «Il Resto del Carlino», 3 febbraio 1922), nella quale il “duce”,  commentando la caduta del governo Bonomi, si era detto ben disposto verso un eventuale  rientro in scena di Giovanni Giolitti.   Sul caso Marsich v. RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 197 ss.  us «Il Popolo d’Italia», 7 marzo 1922.    214 Nel corso di un convegno straordinario dei Fasci del bresciano, il 15 marzo, Malusardi  prese le difese di Marsich, attaccato invece duramente da Minniti. Secondo Malusardi,  tuttavia, il vero problema del fascismo non stava tanto nell’essersi colpevolmente adeguato  alle regole e ai “sotterfugi” del parlamentarismo, quanto nell’assenza di un orientamento  politico univoco; una lacuna grave, in ragione della quale «in alcune zone i fascisti erano  elementi novatori e, senza cadere nella demagogia, difendevano mirabilmente i diritti del  lavoro; mentre in alcune altre diventavano instrumenti inconsci di reazione e di corruzione».  Il dibattito di Brescia riveste un’importanza notevole, soprattutto perché la discussione  intorno alla vicenda Marsich toccò anche il tema della violenza. Augusto Turati affermò che i  rilievi contro il parlamentarismo potevano essere condivisi, a condizione che ciò, soprattutto  dopo il dilagare dello squadrismo fascista in talune zone del Veneto, notoriamente “feudo” di  Marsich, non conducesse all’apologia dei metodi extralegali. Il ricorso indiscriminato al  “manganello”, affermò il futuro segretario del PNF con il consenso di Malusardi, avrebbe  fatalmente condotto all’isolamento politico. Il convegno si chiuse con l’approvazione di un  ordine del giorno unitario, col quale i fascisti della provincia di Brescia, «non riconoscendo  nelle critiche contenute nella lettera di Marsich le vere ragioni del proprio dissenso»,  reclamavano la «purificazione» del fascismo e facevano auspicio che alla lotta politica fosse  «restituita la forma di un civile contrasto» («Fiamma», 18 marzo 1922).    1124          entrati in Parlamento con ben 35 deputati? Il sistema rappresentativo,  semmai, avrebbe potuto essere migliorato, e ciò sarebbe senz’altro avvenuto,  grazie al fascismo e all’istituzione di parlamenti tecnici. Riguardo a Gabriele  D’Annunzio - proseguiva Rocca - l’atteggiamento di Marsich era poi del  tutto irragionevole: non solo perché, dopo le infinite vicissitudini dei  legionari dannunziani, nessuno era in grado di dire quali fossero le idee  politiche del “comandante”, ma anche, e soprattutto, perché era privo di  senso attaccare Mussolini per poi smarrire ogni senso critico dinanzi alle  seduzioni del dannunzianesimo. «Il fascismo — concludeva Rocca —  dev'essere anzitutto un’accolta di uomini liberi, sia pur disciplinato ad una  causa ed un’azione liberamente scelte: non un plotone di soldati al servizio  di un uomo»?"9.   Il 20 marzo la Direzione del partito votò una mozione di biasimo a Pietro  Marsich°!°, poi riconfermata - su iniziativa proprio di Rocca - dal Consiglio  Nazionale del fascismo del 3 aprile”.   Nel lasso di tempo compreso tra il luglio e l’ottobre del 1922, Massimo  Rocca conobbe forse il suo periodo di maggior popolarità come dirigente  fascista?!8. In quei mesi, che prepararono l’ascesa al potere di Mussolini,  sembrò per molti versi che le idee di Rocca potessero concretizzarsi in un  progetto politico di ampio respiro. Parve, cioè, che il fascismo (com'era  nelle aspirazioni dell’ex anarchico) potesse davvero configurarsi come élite       215 MASSIMO ROCCA, Chiarificazioni, «Il Popolo d’Italia», 17 marzo 1922. nonna  Poco tempo dopo, ancora in riferimento alla vicenda Marsich, Edoardo Malusardi ge  «lo in politica non concepisco la disciplina cieca e inconsapevole alla militare, ma quella  intelligente e consapevole che viene accettata dagli uomini liberi» (EDOARDO MALUSARDI,  Sincerità delle sincerità, «Fiamma», 1 aprile 1922). Lo spirito individualista di Rocca e  Malusardi — se così si può dire - era rimasto fondamentalmente intatto, anche se le nn  politiche dei due ex anarcointerventisti erano ormai divergenti. Per Malusardi, infatti, È;  fascismo non doveva trasformarsi in una riedizione più o meno aggiornata del tiberalismo i  destra (come appunto credeva Rocca), ma doveva provare a recuperare l’ispirazione  i ionaria e i programmi del Partito d’ Azione mazziniano.  una pr direzione del partito. L'On. Piero Marsich deplorato, «Il Popolo  "Italia», 21 marzo 1922). ù  dI Of La prima pra del Consiglio Nazionale Fascista, Ibidem, 4 aprile 1922. ;  Il Consiglio, riunitosi a Milano, si protrasse per tre giorni, durante i quali furono Pv  temi importanti, dalla vicenda di Fiume all’indirizzo politico del partito. SNA lo a  quest’ultimo punto, Rocca si schierò una volta ancora tra i moderati. Si poteva (miti cdi -  affermò provocatoriamente - che alcuni fascisti i invocassero 1 azione. extra] lega "  rivoluzionaria, ma in tal caso, pena la perdita della credibilità, si doveva avere il coraggio di  fare la rivoluzione sul serio, non limitandosi ad “adorarla” (cfr. La seconda giornata del  Consiglio Nazionale Fascista, Ibidem, 5 aprile 1922). % $  2!8 Per un breve periodo, tra la fine di marzo e il maggio del 1922, Rocca diresse anche la  Federazione provinciale fascista torinese. Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo].    125       PARETI RIE IPP IRT OT PIPPO TOT REP TO PITT DPR POP ANY PETIT       dirigente, capace di raccogliere il testimone del vecchio liberalismo di destra  e di guidare una riforma delle istituzioni in senso tecnocratico. All’inizio di  luglio Rocca ricevette dalla Direzione del partito l’incarico di procedere alla  costituzione dei Gruppi di Competenza (che, sebbene contemplati dallo  statuto/regolamento del dicembre 1921, erano rimasti sulla carta) ‘!; quindi  nel settembre, fu chiamato a presiedere un apposito Segretariato nazionale.  Quest'ultimo, che aveva sede a Roma, doveva «coordinare l’opera dei  singoli Gruppi di Competenza, locali o provinciali», in modo tale ch’essi  servissero «da legame e da organi d’informazione fra il Partito Nazionale  Fascista e le Corporazioni sindacali», e facessero da punto di raccolta dei  «nuovi valori intellettuali e tecnici» destinati a formare la classe dirigente del  futuro - Per l’ex operaio tipografo, orgoglioso e tenace autodidatta, che da  anni andava predicando l’urgenza di una rivoluzione dei competenti, si  trattava di un riconoscimento personale importantissimo e di una grande  occasione politica. Anche per questa ragione, il fallimento dei Gruppi di  Competenza (al quale dovevano contribuire le resistenze opposte dalla  “oligarchia” fascista e dai «capi locali più ignoranti») ?”, rappresentò, per    Rocca, una cocente delusione, che ebbe un peso non secondario nel definirne |    il mutato atteggiamento riguardo al fascismo.   A fine agosto «Il Popolo d’Italia» rese noto un programma in due parti “per  il risanamento finanziario” dello Stato e degli Enti Locali”, Il documento,  che doveva dettare le linee orientative della propaganda fascista in materia  economica, era redatto da Massimo Rocca e dall’on. Ottavio Corgini, ed era,  in massima parte, ricalcato sui postulati della scuola liberista. Proprio a  motivo della sua “classicità”, il programma Rocca/Corgini suscitò commenti  benevoli nel mondo borghese e imprenditoriale italiano”? e valse, insieme       21° Cfr. «Il Popolo d’Italia», 7 luglio 1922.    Gli unici due Gruppi di Competenza operanti nei mesi successivi all’entrata in vigore dello  statuto risultavano essere quello degli “ingegneri fascisti” e quello degli “assicuratori fascisti  triestini” (cfr. FERDINANDO CORDOVA, op. cit., p. 101).   «Il Popolo d’Italia», 29 agosto 1922.   Su tutti questi punti V. principalmente ALBERTO AQUARONE, Aspirazioni tecnocratiche del  primo fascismo, in «Nord e Sud», 1964, n. 52, pp. 109-127, nonché FERDINANDO CORDOVA,  Ka cit., p. 101 ss.  si Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 132.   pì Detto programma aveva avuto un’anticipazione nell’articolo di Rocca Disavanzo cronico,  pubblicato dall’organo mussoliniano il 18 luglio.   «Il Corriere della Sera», in un fondo del 6 settembre dal titolo Riabbeverarsi alla sorgente  (senza firma, ma opera di Luigi Einaudi), formulò un giudizio addirittura entusiasta sul  programma economico fascista. Esso - osservò Einaudi - aveva il merito di risalire alle  «sorgenti liberali dell'economia classica», senza niente concedere alla facile demagogia          alle rassicuranti dichiarazioni di Mussolini in tema di regime?”4, a spazzar  via le residue diffidenze dell’opinione pubblica moderata nei confronti del  fascismo, nel momento in cui esso si candidava scopertamente a forza di  governo.   AI centro della riflessione di Rocca e Corgini era l’idea che il Parlamento  italiano fosse ormai diventato un «organo di sperpero», in balia di gruppi  parlamentari «irresponsabili», e che occorresse per questo abolire l’iniziativa  parlamentare «a proporre nuove spese». Tra i provvedimenti atti a risanare  l’erario, il programma annoverava: la riforma della burocrazia (affinché gli  uffici pubblici cessassero di essere un ricettacolo di tutti «i vinti anticipati  nella lotta per l’esistenza e l’elevazione»); la cessione ai privati delle  industrie di stato; lo smantellamento degli organi statali “inutili”; la  soppressione dei sussidi - ferroviari e in denaro - ai funzionari pubblici, ai  privati, alle cooperative e agli Enti Locali; la riduzione all’essenziale dei  lavori pubblici; la revisione delle leggi sociali che “inceppavano” la  produzione; e, soprattutto, la ridefinizione dell’intero sistema tributario, nel  senso di una riduzione delle imposte dirette, le quali andavano a detrimento  della produzione, e di un corrispondente aumento di quelle dirette, che,  colpendo il consumo interno, lasciavano ampio margine alle esportazioni”,  La seconda parte del programma, dedicata alla situazione degli Enti Locali,  era senz'altro molto più “politica”. La responsabilità prima del dissesto dei  Comuni e delle Province italiane - affermavano infatti gli estensori del       “socialistoide”. Rocca stesso, riandando con la memoria agli avvenimenti di quell’estate,  scrisse che il programma «incontrò un successo rilevante», sebbene esso «andasse oltre  l’ideologia liberale» (MASSIMO Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 103).  224 1 20 settembre 1922, nell’ambito di un intervento al Teatro Sociale di Udine, Mussolini  affermò che la “rivoluzione fascista” non avrebbe insidiato il trono dei Savoia. «Lasceremo in  disparte — disse —, fuori del nostro gioco, che avrà altri bersagli visibilissimi e formidabili,  l’istituto monarchico, anche perché pensiamo che la gran parte dell’Italia vedrebbe con  sospetto una trasformazione del regime che andasse fino a quel punto» (Un forte e chiaro  discorso ammonitore di Mussolini su l'azione e la dottrina fascista dinanzi alle necessità  storiche della Nazione, «Il Popolo d’Italia», 21 settembre 1922). Il discorso di Mussolini fu  molto apprezzato — e non avrebbe potuto essere altrimenti — da Massimo Rocca, che, in un  telegramma al “duce”, dichiarò di condividerne «entusiasticamente» ogni parola (/bidem, 22  settembre 1922). Più sfumata la reazione di Mario Gioda. Le considerazioni di Mussolini in  ordine alla questione istituzionale - scrisse il segretario del Fascio torinese - dovevano essere  «valutate serenamente». Dopo tutto, osservava Gioda, anche repubblicani intransigenti come  Giuseppe Mazzini e Francesco Crispi si erano piegati, nell’interesse d’Italia, ad “accettare” la  monarchia. (MARIO GIODA, // discorso di Udine, «Il Maglio», 23 settembre 1922).   225 MASSIMO ROCCA, OTTAVIO CORGINI, Pel risanamento finanziario dello Stato italiano.  Relazione per i comizi di propaganda del Partito Nazionale Fascista, «Il Popolo d’Italia», 29  agosto 1922,    Ae 127                                           documento - era delle amministrazioni di sinistra, socialiste e popolari  dell’azione «immorale, disordinata e dilapidatrice dei sovversivi». Un  rimedio poteva consistere nell’obbligare gli amministratori “rossi” «a  preparare e fare approvare i bilanci comunali e provinciali nei modi e nei  tempi stabiliti dalla legge» (a costo di agire «fascisticamente, senza mezzi  termini ed eufemismi»), ma, ancora una volta, la soluzione vera del  problema doveva passare attraverso la riforma tributaria, in attesa della quale  Rocca e Corgini auspicavano la costituzione, in ogni capoluogo di provincia,  di un «comitato centrale di difesa dei contribuenti»?5,   Dalla metà di settembre sino alla vigilia del congresso fascista di Napoli del  24 ottobre Rocca fu impegnato a dirigere la campagna di comizi per il  risanamento finanziario, che attraversò tutta l’Italia??”. Quattro giorni prima  dell’inaugurazione del congresso partenopeo «Il Popolo d’Italia» pubblicò lo  statuto/regolamento dei Gruppi di Competenza. Lo statuto (che possiamo a  ragione considerare il maggior contributo di Rocca ai programmi del primo  fascismo) era preceduto da una lunga relazione introduttiva, nella quale  l’autore esponeva in modo lineare la propria “dottrina della competenza”.  Per prima cosa Rocca sottolineava la differenza tra i Gruppi appena costituiti  e i sindacati nazionali corporativi. Infatti, mentre i secondi erano, a tutti gli  effetti, «formazioni di massa», all’interno delle quali «i produttori restavano  raggruppati più con riguardo al numero che alle capacità singole», al fine di  salvaguardare «interessi particolari e soprattutto economici»; i primi  dovevano configurarsi come «nuclei esigui di persone», le quali, in quanto  «partecipanti ai gruppi medesimi», non dovevano avere «alcun interesse  specifico [...], né personale né di classe» da tutelare. Ai Gruppi doveva    quindi competere una funzione eminentemente «consultiva e di studio», ma    anche una funzione, per così dire, di “armonizzazione” dei diversi interessi,  un’opera «il cui precipuo carattere spirituale» fosse quello di favorire «la  concordia fra le diverse classi e categorie produttive», così come fra il partito  e le corporazioni. Poiché, secondo Rocca, tutte queste caratteristiche non  erano compatibili «né col numero né con i metodi democratici di elezioni e       226 i Lo (1g ARA  ID., Pel risanamento finanziario degli Enti Locali. Relazione per i comizi di propaganda    del Partito Nazionale Fascista, Ibidem, 30 agosto 1922.   Entrambi i programmi furono in seguito pubblicati in PNF, Pe/ risanamento della finanza  pubblica. Relazioni di Massimo Rocca e dell'On. Ottavio Corgini sulla situazione finanziaria  dello Stato e degli Enti Locali, Roma, [s.i.t.], 1922.   Rocca era a capo di una commissione finanziaria, incaricata di organizzare i comizi.  Questi si articolarono in tre serie successive: la prima ebbe inizio il 12 settembre, la seconda il  24 settembre, la terza il 14 ottobre. Rocca fu l’oratore principale a Genova, Livorno, Savona,  Alba - dov’era previsto un suo contraddittorio con Don Sturzo, saltato all’ultimo momento  (cfr. «Il Popolo d’Italia», 17 ottobre 1922) - e Palermo.    128       di discussioni», i Gruppi di Competenza dovevano essere posti sotto «la  diretta sorveglianza degli organi direttivi del partito»?”*.   Nella sua relazione al congresso fascista di Napoli, ufficialmente convocato  per discutere i problemi del Mezzogiorno, Rocca illustrò dettagliatamente il  progetto di statuto/regolamento, dicendosi altresì convinto che i Gruppi di  Competenza avrebbero recato un contributo alla soluzione della questione  meridionale?””. Sul “meridionalismo” di Massimo Rocca, che egli avrebbe in  seguito rivendicato come un titolo di merito, è necessario aprire una  parentesi. Già da qualche tempo prima del congresso napoletano, il fascismo,  che al sud mancava di una robusta struttura organizzativa, mirava a mettere  radici nel meridione. D’altronde, l’ipotesi - ormai sempre più concreta - di  una “marcia su Roma” presupponeva, per la sua attuazione, una penetrazione  politica e militare anche nei territori a sud della capitale. Il 6 e 7 settembre  1922 si era riunita la Direzione del PNF, «per studiare l’organizzazione  fascista in rapporto ai bisogni delle regioni meridionali e delle isole», e  definire l’ordine del giorno della prevista adunata partenopea. Nel corso  della discussione Rocca si era mostrato scettico sull’opportunità di  considerare la questione meridionale — anche in relazione alle tematiche  riguardanti l’ordinamento del partito — un problema a se stante, slegato dalla  più complessa realtà nazionale, e aveva espresso il timore che il congresso  del 24 ottobre potesse risolversi in una contrapposizione artificiosa tra nord e       228 «Il Popolo d’Italia», 24 ottobre 1924.   A norma dello statuto, che ottenne l'approvazione della Direzione del PNF nel dicembre, i  Gruppi di Competenza (ripartiti in sette «rami» principali: industria, commercio, agricoltura,  trasporti, amministrazione pubblica, scuola e difesa) si dividevano in locali, provinciali e  nazionali, nominati rispettivamente dai Fasci, dalle Federazioni provinciali e dal Segretariato  nazionale. Il numero dei componenti i singoli gruppi non doveva eccedere i venti elementi,  scelti, secondo il criterio della capacità professionale, in tutte le classi sociali, e, in ogni caso,  iscritti al Partito Fascista. Compito precipuo di tali gruppi doveva essere quello di offrire un  sostegno tecnico qualificato agli organismi dirigenti del fascismo; e, a tal fine, di «compiere  indagini, raccogliere materiale di studio, emettere pareri, compilare proposte e relazioni», che  servissero «di guida» al partito e ai sindacati. Ai Direttori fascisti dei capoluoghi di  circondario e a quelli provinciali era fatto obbligo di richiedere il parere dei Gruppi ogni qual  volta avessero dovuto assumere decisioni «su problemi anche solo in parte tecnici», e quando  si fosse trattato di dirimere eventuali vertenze sociali. In questo caso lo statuto prevedeva che  i Gruppi, o parte di essi, potessero essere costituiti in apposite commissioni arbitrali, atte a  comporre i conflitti tra capitale e lavoro.   Lo statuto/regolamento dei Gruppi di Competenza, con l’annessa relazione, si trova anche in  Massimo Rocca, Relazione al Gran Consiglio Fascista del marzo 1923 sui Gruppi di  Competenza. Relazione introduttiva e statuto/regolamento. I Gruppi di Competenza nella  nuova vita nazionale. Discorso pronunciato all’adunata di Napoli: vigilia della Marcia su  Roma, Milano, Imperia, 1923.   229 Cfr. «Il Popolo d’Italia», 27 ottobre 1922,    129                sud del Paese, o, peggio, in una guerra «di frazione o di campanile» tra le  diverse regioni del Mezzogiorno””°, Nell’insieme, si può dire che il torinese  Rocca non manifestasse una particolare sensibilità verso i problemi del  Meridione; eppure, nei mesi che seguirono la nomina di Mussolini a capo del  Governo, egli fu uno dei dirigenti fascisti maggiormente presenti al sud. Alla  fine di marzo del 1923 Rocca compì un viaggio di studio in Sicilia per conto  della Direzione del partito, e ne riferì al Gran Consiglio del 30 aprile?  Sembra peraltro che nel corso delle sue frequentazioni siciliane egli  rimanesse invischiato in affari torbidi (connessi alla gestione del consorzio  zolfifero), che ne avrebbero in qualche misura condizionato il futuro  politico. Il punto è oscuro, ma deve essere richiamato, dal momento che, tra  le accuse mosse a Rocca da Farinacci e dagli altri ras provinciali nel pieno  della polemica revisionista, quelle di corruzione avrebbero avuto un peso  non secondario. Stando a quanto ammesso dallo stesso Rocca nel novembre  del 1922 al segretario del Fascio di Londra (dove Rocca si trovava per  seguire i negoziati in atto tra i produttori di zolfo italiani e nordamericani),  egli avrebbe avuto i primi contatti con i responsabili del consorzio zolfifero  siciliano alla vigilia del congresso di Napoli, in occasione di un suo comizio  palermitano nell’ambito della campagna fascista per il risanamento  finanziario”? Il Governo Mussolini - dichiarò Rocca al suo intervistatore -  doveva impegnarsi a fondo per risollevare le sorti dell’industria zolfifera  siciliana, da tempo alle prese con una grave crisi, anche «attenuando» il  proprio intervento «nelle faccende del Consorzio». Ora, a quanto risulta da    un documento conservato nelle carte di PS (un dattiloscritto anonimo datato |    26 agosto 1924), alla sollecitudine dimostrata da Rocca verso le sorti    dell’industria zolfifera sarebbe in realtà corrisposta una ricca contropartita. A.    cavallo tra l’agosto e il settembre 1922, i produttori di zolfo, riuniti in  consorzio, avevano dato vita a un “comitato di agitazione”, allo scopo di  esercitare pressioni sul Governo e di ottenerne provvedimenti a favore del    settore. Trovandosi a corto di liquidi, detto comitato aveva prelevato       2) Importante convegno a Roma della Direzione del PNF, «Il Popolo d’Italia», 7 settembre  1922.  23 Cfr. PNF , Il Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista, Roma, Editrice Nuova  Europa, 1933, p. 61.  Secondo quanto riferito dallo stesso Rocca, egli avrebbe individuato nella «regolazione delle  acque e nel miglioramento delle vie di comunicazione» la «misura immediata e necessaria,  sebbene non sufficiente» per attenuare i disagi delle popolazioni meridionali (MASSIMO  Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 130).  ? Cfr. CAMILLO PELIZZI, La questione degli zolfî e altre cose. Un'intervista con Massimo  Rocca, «Il Popolo d’Italia», 15 novembre 1922.   Ivi.    130       arbitrariamente la somma di 25.000 lire dal fondo assicurazioni del sindacato  zolfatari, senza farne menzione nell’obbligo di rendiconto. La decisione,  chiaramente illegale, aveva incontrato l’opposizione tanto del Ministro del  Lavoro del Governo Facta, quanto del suo successore nel nuovo esecutivo a  guida fascista, il popolare Stefano Cavazzoni. A questo punto - secondo la  medesima fonte -, sarebbe entrato in gioco Massimo Rocca, il quale, dietro  adeguata “ricompensa”, avrebbe fatto valere il proprio peso politico,  intercedendo con successo a favore del consorzio zolfifero??’. Le  informazioni contenute nella relazione citata rispondevano probabilmente al  vero, ma non è da escludere, tenuto conto del momento in cui il documento  in questione vide la luce (al termine, cioè, della seconda “ondata”  revisionista), che esse fossero montate ad arte nel tentativo di screditare  Massimo Rocca, divenuto nel frattempo un oppositore dichiarato del  Governo.   AI di là dei proclami ufficiali, l’assise napoletana del 24 ottobre 1922 servì  quale adunata generale in vista della “marcia su Roma”. Già da tempo, e  precisamente dopo la prova di forza offerta dalle camicie nere in occasione  dello sciopero “legalitario” indetto dall’ Alleanza del Lavoro alla fine di  luglio, molti capi fascisti meditavano il colpo a sorpresa. Gli stati maggiori  del fascismo, riunitisi a Milano il 13 e 14 agosto, a pochi giorni dalla  conclusione dello sciopero, avevano discusso a lungo sull’eventualità o  meno di un'insurrezione armata”. Insieme a Dino Grandi, Rocca era stato il  più convinto fautore della via legalitaria, mentre la linea insurrezionale  aveva trovato i suoi propugnatori soprattutto in Roberto Farinacci, Italo    Balbo e lo stesso segretario del partito Michele Bianchi”. Dopo la “marcia       234  235    Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo].   L’importante vertice romano (erano presenti i membri della Direzione, del Gruppo  parlamentare, del Comitato Centrale e la segreteria della Confederazione delle Corporazioni)  era stato dominato dalla relazione di Michele Bianchi sulla situazione politica. Il segretario  del PNF aveva chiaramente lasciato intendere che il fascismo, dopo la dimostrazione di forza  offerta nei giorni dello sciopero “legalitario”, non era più disposto a tollerare lo sfacelo del  Paese e si sarebbe impadronito del potere con le buone o con le cattive. Rispetto alle due  tendenze, la legalitaria e l’insurrezionale, delineatesi nel corso della discussione intorno alla  relazione Bianchi, Mussolini, come suo costume, si era tenuto a mezza via, e i due ordini del  giorno votati il 13 agosto (il primo, per l’istituzione di un comitato militare ristretto; il  secondo, firmato anche da Massimo Rocca, reclamante lo scioglimento anticipato della  Camera e l’indizione di nuove elezioni) rispecchiavano la posizione ambivalente del “duce”.  Cfr. / lavori del Comitato Centrale del Partito Nazionale Fascista, «Il Popolo d’Italia», 15  agosto 1922.   2 Cfr. ANTONINO REPACI, La marcia su Roma, Milano, Rizzoli, 1972, p. 331 ss.    131       su Roma” (a cui egli non prese parte) e la nomina di Mussolini alla  Presidenza del Consiglio, Rocca si convinse sempre più che l’ascesa al  potere del fascismo, con l’assunzione di responsabilità ch’essa comportava,  dovesse chiudere per sempre la fase “eroica” della rivoluzione e inaugurare  quella della ricostruzione, in spirito di concordia nazionale, e — soprattutto -  nell’assoluto rispetto della legalità.   L’esigenza di porre un freno alle intemperanze dello squadrismo era del  resto avvertita, oltre che dallo stesso Mussolini, da molti fascisti della “prima  ora”, tra i quali Edoardo Malusardi. Nelle sue continue peregrinazioni (egli  stesso amava definirsi un “nomade”), dopo aver retto per qualche tempo la  Federazione Sindacale padovana??”, Malusardi era giunto a Sestri Ponente, in  provincia di Genova, dove aveva assunto il duplice incarico di segretario  politico del Fascio e di direttore del locale organo fascista”, Il 21 novembre  1922 i fascisti di Sestri Ponente si radunarono in assemblea straordinaria.  Era in discussione il tema della violenza, reso scottante a motivo dei reiterati  episodi di squadrismo verificatisi dopo il 28 ottobre in molte zone del  genovese. Malusardi, secondo l’impostazione cara anche a Rocca, a Gioda e  ai fascisti più moderati (una forma mentis di cui abbiamo già rimarcato i  limiti intrinseci), rilevò che la violenza squadrista, utile e legittima  fintantoché si manteneva «chirurgica e cavalleresca», non era giustificabile    quando assumeva i caratteri della prevaricazione. Inoltre, dopo l’ascesa al |    governo del fascismo, le camicie nere avevano l’obbligo, insieme morale e  politico, di essere disciplinate.       Su questo punto di grande importanza v. altresì GIORGIO ALBERTO CHIURGO, Storia della    Rivoluzione fascista, Vol. IV, Firenze, Vallecchi, 1929, pp. 257 ss., e PAOLO NELLO, Dino 4    Grandi: la formazione di un leader fascista, cit., pp. 168 ss.   297 Cfr. ACS, CPC, Busta 2964 [Malusardi Edoardo].   Malusardi era stato chiamato a Padova nella seconda metà di maggio del 1922 e vi si era  trattenuto fino a settembre, contribuendo, grazie alle sue capacità di organizzatore e di  propagandista, e alla vena “popolare” del suo fascismo, alla rinascita del Fascio padovano. Il  suo maggior successo era stato il raggiungimento di un concordato con la locale Associazione  Agraria, alla fine di giugno. L'accordo era tendenzialmente favorevole ai lavoratori  (prevedeva, tra le altre cose, le otto ore lavorative, l’imponibile di mano d’opera e la  creazione di commissioni paritetiche per dirimere i conflitti d’interesse), e Malusardi, ligio ai  propri convincimenti sindacalisti, si era adoperato per imporne il rispetto agli agrari, anche i  più riottosi. Di fronte ai numerosi tentativi di boicottaggio da parte dell’associazione  padronale, il congresso sindacale provinciale del 20 agosto si era concluso con un ordine del  giorno molto duro, nel quale s’invocava un’«opera decisa ed inesorabile, per far piegare,  innanzi al giusto ed unanime diritto del lavoratore, i [...] datori di lavoro» («Il Lavoro  d’Italia», 24 agosto 1922).   228 Malusardi rimase a Sestri Ponente sino alla fine di dicembre. Cfr. ACS, CPC, Busta 2964  [Malusardi Edoardo].    132             Noi non possiamo più — sostenne Malusardi a proposito dell’autorità politica I  scavalcarla ed esautorarla, bensì la dobbiamo coadiuvare e vigilare perché applichi  inflessibilmente lo imperio della legge”*°    E concluse:    Lasciate stare, dunque, o amici, il manganello, l’olio di ricino, la gradassata inutile,  e chiedete invece [...] delle biblioteche e delle scuole di cultura    Aspettative e delusioni    Nonostante gli auspici di molti la nomina di Mussolini alla Presidenza del  Consiglio non attenuò affatto le brutalità fasciste, che anzi subirono  un’impennata, culminando nella strage di Torino del dicembre 1922.  L'episodio è fin troppo noto e costituisce una delle pagine più fosche nella  storia del fascismo, che qui giova rievocare soprattutto per le conseguenze  che ebbe sulle sorti politiche di Mario Gioda e di Massimo Rocca. Dal 18 al  20 dicembre (accampando come d’abitudine il pretesto di vendicare  l'uccisione di due camerati”), gli squadristi torinesi, capeggiati da Piero  Brandimarte, scatenarono una sanguinosa rappresaglia contro le  organizzazioni socialcomuniste””. In quella che Gaetano Salvemini definì  «una vera orgia di sangue»? trovarono la morte una ventina di persone, tra  le quali l’ex anarchico Carlo Berruti, consigliere comunale comunista e noto       239 L'assemblea straordinaria del Fascio, «Giovinezza», 25 novembre 1922.   240 Ivi sn  «i pa del dicembre fu solo l’apice di una lunga teoria di fatti di sangue, iniziata  nell’estate e proseguita per tutto l’autunno del 1922. In un telegramma al Ministro Di  Interni del 13 agosto, il Prefetto di Torino mostrava di aver perfettamente compreso la  situazione («Articoli comparsi su ultimi numeri del giornale fascista «Il Maglio» - O  rivelano chiaramente intenzione riprendere atti violenza contro organizzazioni comuniste  accendono rancori di parte che potranno esplodere in forma violenta ed improvvisa») e  chiedeva l’invio di rinforzi. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. gen. PS, Affari gen. e ris.,    1922, Busta 157 [Fascio di Torino]. : It i  La ricostruzione più accurata di questi drammatici avvenimenti si trova in RENZO DE FELICE,    I fani di Torino del dicembre 1922, in «Studi Storici», n. 1, 1963, pp. 51-122.  22 GAETANO SALVEMINI, Scritti sul fascismo, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 103.    133                      esponente del Sindacato Ferrovieri”*. Mario Gioda, il cui potere effettivo  all’interno del Fascio torinese era andato vieppiù scemando (tanto che, negli  ultimi mesi, la sua attività si era limitata a curare le corrispondenze per «Il  Popolo d’Italia»), non ebbe alcuna responsabilità nell’accaduto?‘* ed anzi, al  pari di Rocca, non si fece scrupolo di biasimare la ferocia degli squadristi.  De Vecchi, al contrario, sebbene egli stesso personalmente estraneo ai fatti,  se ne attribuì la paternità”, a nessun altro scopo - come sembra - se non    quello di riaffermare, ad onta di Gioda e dello stesso Mussolini (che aveva    incaricato una commissione d’inchiesta di far luce sull’accaduto), «la sua |    figura di ras di Torino e del Piemonte»? Con una mossa a effetto, carica  però di significati politici - e non solo per quanto atteneva agli equilibri    interni del fascismo torinese -, Rocca e Gioda fecero giungere una corona di    fiori sul feretro di Carlo Berruti, loro amico di gioventù ‘‘?. Gli squadristi -    notava Rocca a distanza di trent'anni - non gli avrebbero mai perdonato quel  gesto”.    Episodi come quello di Torino contrastavano drammaticamente con la |  necessità - posta in evidenza da Rocca e non da lui soltanto - di una |  normalizzazione del fascismo. I primi mesi di vita del governo Mussolini |       243 Sulla figura di Carlo Berruti v. FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, op. cit., Vol. I, ad |    nomen.  244  Gioda scrisse che la mobilitazione fascista era stata ordinata a sua completa insaputa. Cfr.    RENZO DE FELICE, / fatti di Torino del dicembre 1922, cit., p. 78.    Popolo», 1 gennaio 1923.  RENZO DE FELICE, / fatti di Torino del dicembre 1922, cit., p. 82.    % Cfr. MARIO GIODA, Un nobile gesto fascista in morte del comunista Berruti, «Il Popolo  d’Italia», 28 dicembre 1922.    Gioda scrisse di Berruti ch’egli era «indubbiamente un uomo in buona fede e dotato di    qualità intellettuali non comuni».   248 Cfr. MASSIMO Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 148.   L’inchiesta ordinata da Mussolini, affidata a Francesco Giunta e Giovanni Gasti, accertò le  gravissime responsabilità degli squadristi torinesi. Nonostante le risultanze delle indagini, il  Gran Consiglio del 13 gennaio 1923 si limitò a statuire lo scioglimento del Fascio di Torino,  delegando l’incarico della sua ricostruzione allo stesso De Vecchi, nominato fiduciario con  pieni poteri, mentre Pietro Gorgolini e Mario Gobbi (due dei più stretti collaboratori di Mario  Gioda), autori di un memoriale contro il quadrumviro, furono addirittura espulsi dal PNF, per  esservi riammessi solo nel dicembre. Il deliberato del supremo organo fascista, chiaramente  compromissorio, non significava che Mussolini avesse perdonato a De Vecchi la sua  indisciplina. Di lì a pochi mesi, infatti, il quadrunviro fu dapprima allontanato dal Governo,  ove ricopriva il ruolo di sottosegretario alle pensioni e all’assistenza militare, quindi, dopo la  sua nomina a governatore della Somalia, costretto a lasciare l’Italia.    134    In una vibrante lettera del 27 dicembre a Mussolini, poi allegata agli atti dell’inchiesta, |    In un discorso al Teatro Ambrosiano, il 31 dicembre, il quadrumviro difese l’operato di |  Brandimarte e si assunse la responsabilità politica e morale della strage. Cfr. «La Gazzetta del |       furono segnati da questa stridente contraddizione, in un difficilissimo  equilibrio tra disordine e legalità, spinte eversive e propositi riformatori,  ricerca del consenso e violenza indiscriminata. Sebbene funzionale agli  interessi del partito, il dibattito sulla legge elettorale, che monopolizzò la vita  politico/parlamentare italiana nella primavera del 1923, fu uno dei pochi  momenti realmente costruttivi del fascismo. Rocca, già da tempo schierato  per il ritorno al sistema maggioritario”, entrò nella speciale commissione  per la riforma elettorale nominata dal Gran Consiglio il 16 marzo, primo  passo verso quella che sarebbe diventata la legge Acerbo”. Per un certo       MITA] riguardo si veda l’articolo // processo alla proporzionale, in «Il Risorgimento», 2    giugno 1921.   Sulla delicata questione del sistema elettorale Rocca ebbe un vivace scambio di vedute con  Roberto Farinacci, fautore di un ripristino dell’uninominale puro. In una lettera a Farinacci,  Rocca definì un passo indietro, anche rispetto al deprecato sistema proporzionale vigente (che  se non altro aveva avuto il merito di immettere «sangue nuovo» nell’asfittica vita  parlamentare italiana), un’eventuale reintegrazione del collegio uninominale; una formula  dominata «dalle aderenze, dalle amicizie, dalle clientele personali, coltivate non sempre con  mezzi leciti ed onorevoli», e che per di più aveva il difetto di acutizzare «Io spirito  campanilistico» (La discussione sul sistema uninominale. Una lettera di Massimo Rocca  all'on. Roberto Farinacci, «Cremona Nuova», 10 febbraio 1923). Nella sua pronta replica,  Farinacci obiettò che la “rivoluzione” fascista aveva a tal punto innovato i costumi politici  degli italiani che il ristabilimento dell’uninominale non poteva considerarsi un semplice  ritorno al passato. «Se allora, nel passato — sosteneva Farinacci — erano le clientele [...] che  decidevano, adesso sarebbero da una parte il criterio e il giudizio della Federazione  provinciale fascista [...] e dall’altra la conoscenza personale del corpo elettorale e il suo  giudizio, non più formulato in virtù della potenza della clientela, ma in forza del valore del  candidato, facilmente apprezzabile dagli elettori per la loro educazione fascista». Quanto al  problema del campanilismo — questione niente affatto trascurabile, soprattutto qualora la si  consideri alla luce delle future polemiche tra Rocca e Farinacci in merito al fascismo  provinciale -, il ras di Cremona fu ancora più esplicito. «Tu [...] — rimproverò infatti a Rocca  — prescindi dall’efficacia del nostro movimento, che ha allargato la visione dei singoli i quali  sono inclinati, mercé l’opera nostra, a conciliare l’interesse della provincia con quello della  nazione, subordinando l’uno all’altro» (ROBERTO FARINACCI, // perché del ritorno al collegio  uninominale, Ibidem, 11 febbraio 1923).   250 116 aprile, a conclusione dei suoi lavori, la commissione (di cui facevano parte, oltre a  Rocca, Michele Bianchi, Roberto Farinacci, Cesare Rossi, Maurizio Maraviglia, Giuseppe  Bastianini e Nicola Sansanelli) si pronunciò ufficialmente per il sistema maggioritario —  secondo uno schema elaborato da Bianchi — e contro l’uninominale. Rocca, che si trovava in  Sicilia e non poté esser presente alla riunione, inviò una lettera di piena adesione, di cui diede  conto lo stesso Bianchi (cfr. «Il Popolo d’Italia», 7 aprile 1923). Il Gran Consiglio del 25  aprile accettò le decisioni della commissione (il progetto Bianchi raccolse 21 voti a favore,  contro i 2 ottenuti da Farinacci. Cfr. PNF, // Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era  fascista, pp. 55-56), dopodiché il sottosegretario alla presidenza del consiglio, Giacomo  Acerbo, fu incaricato di stendere il relativo disegno di legge. Questo, sottoposto all’esame  preventivo di una commissione parlamentare interpartitica (la cosiddetta commissione dei    135    VIT       PATTI VENI "TV ZO E TOPO VOTO VI VITTI E PP TI    periodo, parve che alla riforma elettorale — com'era negli auspici di Michele  Bianchi e dello stesso Rocca - potesse accompagnarsi una più ampia azione  di rinnovamento istituzionale. Nell’ultima seduta della sessione di aprile il  Gran Consiglio deliberò la creazione di un Gruppo di Competenza per la  riforma costituzionale, affidandone la presidenza proprio a Rocca?!. Dinanzi  all’allarme suscitato negli ambienti liberali da queste manovre Rocca si  affrettò ad «assicurare ogni patriota [...] in buona fede» che né l’istituto  monarchico, né i principi informatori dello Statuto sarebbero stati messi in  discussione”. In realtà, proprio la diffidenza manifestata dagli altri partiti  della maggioranza e il timore che essa potesse incidere negativamente sul  cammino della legge elettorale, indussero Mussolini a lasciar cadere ogni  velleità riformatrice?5*. Rocca, che aveva finalmente intravisto la possibilità  di legare il proprio nome - e la funzione stessa del fascismo - ad un’opera  propositiva di riforma”, ne restò amareggiato.    Questa volta — scrisse a distanza di tempo — la delusione fu profonda [...]. Il  movimento fascista, che da quattro anni parlava senza tregua di rivoluzione e già ne  invocava i pretesi e illimitati diritti contro ogni critica, non osava intraprendere la  più modesta riforma, meno radicale di quella “corporativa” attuata da D’ Annunzio a  Fiume; una riforma capace di giustificare, dinanzi ai contemporanei e ai posteri, le  gesta passate del fascismo, il dominio presente, la chiara intenzione di prolungarlo  nel futuro, la retorica sulla nuova era dischiusa al Paese, le eccessive intemperanze  verbali e le violenze illegali. La sua rivoluzione si riduceva dunque ad un'etichetta,  dal significato puramente negativo, comodo pretesto per trascurare la legalità |  vigente, senza però curarsi di foggiarne un’altra qualsiasi. Mussolini trascurava    diciotto) - che lo approvò il giorno 16 giugno -, fu ratificato dalla Camera il 21 luglio, dopo   una lunga discussione. Su tutti questi punti v. RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p.  518 ss.   251 Cfr. PNF, I! Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista, cit., pp. 60-61.   Il Gruppo comprendeva anche: Michele Bianchi (presidente), Carlo Costamagna (segretario),  Enrico Corradini, Maurizio Maraviglia, Giulio Casalini, Edmondo Rossoni, Attilio Tamaro,  Sergio Panunzio, Ettore Lolini, Salvatore Gatti e Giorgio Del Vecchio.   252 «Il Popolo d’Italia», 3 maggio 1923.   253 Cfr. RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 524.   254 Fedele a una visione tecnocratica della politica, Rocca si apprestava a presentare uno  schema di riforma i cui punti chiave erano: il riconoscimento giuridico dei sindacati «d’ogni  categoria e d’ogni classe»; l’elezione, da parte dei dirigenti e delle federazioni sindacali, di    consigli tecnici dell'economia, «comprendenti tre classi», a livello locale, provinciale e —    nazionale; il divieto di sciopero nei servizi pubblici; il passaggio automatico al Senato  vitalizio dei presidenti del Consiglio uscenti, «per togliere loro ogni preoccupazione elettorale  ed assicurare il contributo dei migliori uomini agli affari pubblici»; il divieto al Parlamento di    proporre nuove spese; l’approvazione in blocco dei singoli bilanci (MASSIMO ROCCA, Come il  fascismo divenne una dittatura, cit., p. 138).    136              un'occasione unica di mostrarsi grande e d’imporsi, col suo prestigio di riformatore,  ai capi locali che cercavano di scimmiottarlo nei suoi atteggiamenti esteriori    La delusione di Rocca fu tanto più grande in quanto all’accantonamento dei  disegni di riforma costituzionale si aggiunse il concomitante naufragio dei  Gruppi di Competenza, l’iniziativa nella quale egli aveva riposto le maggiori  speranze. Il 15 marzo 1923, in un’intervista a un quotidiano romano  (riprodotta in parte anche da «Il Popolo d’Italia»), Rocca, pur ribadendo che  i Gruppi di Competenza, «nati da un’idea prettamente aristocratica»,  rappresentavano la maggior novità del fascismo, riconobbe che la loro  attuazione dipendeva «dalla volontà del Governo di utilizzarli»?9°. Dietro  questa semplice constatazione si nascondeva l’amara consapevolezza delle  grandi difficoltà fin lì incontrate dai Gruppi all’interno stesso del fascismo  (si tenga presente che, a quasi quattro mesi dall’entrata in vigore dello  statuto/regolamento, i soli due Gruppi realmente funzionanti erano quello  per la pubblica amministrazione e quello per l’educazione, quest’ultimo,  peraltro, in pessimi rapporti con il ministro Gentile) 257, AI Gran Consiglio  del 17 marzo, Rocca, dopo aver riferito sulla situazione generale dei Gruppi,  affermò la necessità di riconoscere loro una «franca autonomia», sola  condizione per garantirne un'effettiva operatività”. Nei mesi successivi  qualcosa parve smuoversi, al punto che, al Gran Consiglio del 28 luglio,  Rocca poté annunciare l'avvenuta costituzione di 178 Gruppi di Competenza  provinciali, ottenendo l’assicurazione che gli organi direttivi del partito  avrebbero fatto il possibile per promuoverne lo sviluppo”. Nonostante le  apparenze, tuttavia, i Gruppi di Competenza conducevano un’esistenza  stentata, senza un reale collegamento gli uni con gli altri e con la segreteria  nazionale, mal visti e spesso dichiaratamente osteggiati dai fiduciari del  partito e dalle stesse corporazioni”! L’insorgere della prima crisi  revisionista, conclusasi con l’insuccesso di Rocca, diede loro il definitivo       255 Ibidem, pp. 140-141.   256 NicoLA Pascazio, /l Gran Consiglio, i Gruppi di Competenza, la burocrazia, la scuola,  l'Istituto delle Assicurazioni. Intervista con Massimo Rocca, «Il Giornale d’Italia», 15 marzo  1923.   257 A questo riguardo v. FERDINANDO CORDOVA, op. cit., pp. 166-167.   258 PIF, /l Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista, cit., p. 47.   V. altresì / gruppi di competenza e la riforma della scuola nella relazione di Massimo Rocca  al Gran Consiglio Fascista, «Il Popolo d’Italia», 24 marzo 1923.   259 Cfr. PNF, /l Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista, cit., pp. 98-99.   260 E? estremamente significativo, ad esempio, che il primo consiglio nazionale delle  Corporazioni, riunitosi a Roma il 30 giugno 1923, non avesse minimamente affrontato il tema  dei Gruppi di Competenza. Cfr. FERDINANDO CORDOVA, op. cit., p. 164.    137       colpo di grazia”. Complessivamente, quindi, il primo anno di vita del  governo Mussolini non rispose alle aspettative, personali e politiche, di  Massimo Rocca e non v’è dubbio che fu proprio la disillusione a indurre l'ex  anarchico alla sua ultima battaglia polemica.   Fatale alle aspirazioni rinnovatrici di Rocca, mentre Mario Gioda tornava  faticosamente alla vita politica (il Fascio di Torino, sciolto in conseguenza  dei fatti del dicembre, fu ricostituito soltanto nel maggio del 1923) °°°, il  biennio 1923/1924 vide la consacrazione di Edoardo Malusardi come  dirigente sindacale; e tuttavia — non sembri un paradosso -, proprio nel 1924  la carriera dell’ex stuccatore rischiò di spezzarsi per sempre. AI pari dei suoi  vecchi compagni — sebbene su un piano diverso -, anche Malusardi si trovò a  dover fare i conti con la trasformazione del fascismo in regime.   All’inizio del 1923 Malusardi lasciò Sestri Ponente, per dirigere la  Federazione sindacale di Firenze”. In pochi mesi egli seppe conferire  all’organizzazione corporativa dell’area fiorentina maggiore stabilità ed  efficienza”. Nell'agosto, a coronamento dei suoi successi, Malusardi fu    nominato segretario della Corporazione nazionale del vetro, da poco  costituita”95,    Quali fossero gli orientamenti generali del fascismo in materia sindacale e  quanto essi si discostassero dalla concezione operaista di Malusardi,  alimentata dai miti corridoniano e dannunziano, lo mostrò chiaramente il    cosiddetto patto di Palazzo Chigi, stipulato il 19 dicembre del 1923 tra la |    Confederazione delle Corporazioni e la Confindustria, un accordo che segnò  «il fallimento, almeno nell’industria e in quel momento, dell’ipotesi di       20 In seguito alla sua sospensione per tre mesi da ogni attività di partito, il 12 ottobre 1923,    Rocca lasciò la segreteria dei Gruppi di Competenza al suo vice Carlo Costamagna, che la  assunse a titolo definitivo nel marzo del 1924. Nel frattempo, il Gran Consiglio del 16  novembre 1923 aveva disposto la trasformazione dei Gruppi in Consigli Tecnici nazionali,  organismi ancor più evanescenti, dei quali ben presto non sarebbe rimasta traccia. Cfr.  ALBERTO AQUARONE, op. cit., p.  26251195 maggio, al Teatro Scribe, ebbe luogo l'assemblea del Fascio per l’elezione del nuovo  Direttorio. Questo, radunatosi quattro giorni dopo, riconfermò segretario politico Mario  Gioda. Cfr. «Il Maglio», 2 giugno 1924, e «Il Popolo d’Italia», 5 giugno 1923,  253. Cfr. EDOARDO MALUSARDI, Elementi di storia del sindacalismo fascista, cit., p. 75.  264 E A n past p   In base alla relazione presentata da Malusardi al primo consiglio nazionale delle  Corporazioni, le corporazioni operanti nella provincia di Firenze al 30 giugno 1924 — sei mesi  dopo il suo arrivo a Firenze - erano 14 (agricoltura, commercio, industria, impiego,  professioni intellettuali, scuola, sanità, dipendenti monopoli e aziende statali, stampa, teatro,  trasporti e comunicazioni, ospitalità nazionale, industrie artistiche, belle arti), per un totale di  circa 50.000 iscritti. Cfr. «Il Lavoro d’Italia», 7 luglio 1923.  255 Ctr. Ibidem, 1 settembre 1923.    138    /          sindacalismo integrale»’’. L’intesa, fondata sul principio della  collaborazione e raggiunta grazie alla mediazione decisiva del governo,  sollevò tensioni e contrasti all’interno del sindacalismo fascista. Il 22 maggio  1924 si riunì a Roma il secondo consiglio nazionale delle Corporazioni, nel  corso del quale si manifestarono due tendenze: la prima (più conciliante e  che finì per prevalere) facente capo a Sergio Panunzio e sostenuta dal  segretario generale Rossoni, per il sindacato unico obbligatorio e il  riconoscimento giuridico dei contratti collettivi di lavoro; la seconda,  rappresentata da Domenico Bagnasco e Malusardi, a favore dell’azione  diretta contro gli industriali”, Il 19 luglio, nel clima di confusione seguito al  rapimento e all’assassinio di Giacomo Matteotti, Malusardi si dimise dalla  segreteria dei sindacati fascisti fiorentini (dove fu sostituito da Aldo  Lusignoli) 2°. Fu un primo atto di ribellione, al quale fece seguito, ai primi  di settembre, la costituzione - con Virginio Galbiati (segretario della  Corporazione nazionale dell’arte bianca) e altri dirigenti sindacali milanesi -  di un “Comitato d’azione per rigenerare le Corporazioni”?99, Nell’ordine del  giorno diramato a mezzo stampa dal Comitato si denunciavano la debolezza,  l’incertezza programmatica e l’autoritarismo che contraddistinguevano  l’opera delle Corporazioni fasciste, e s’invocava «un totale revisionismo»,  nei metodi, nei programmi e nel gruppo dirigente. Le Corporazioni —  proseguiva il documento - dovevano agire «in senso nettamente  sindacalista», avendo presenti gli «interessi effettivi della classe produttiva»,  senza lasciarsi condizionare da pregiudizi ideologici («di lotta di classe e di  collaborazione aprioristica») e politici, ma anzi ricercando l'intesa «con le  masse e le organizzazioni che si muovevano sul terreno nazionale». Quanto  ai rapporti con il Partito Fascista, questi dovevano essere fissati «in forma di  libera e consapevole alleanza»?”°. Pochi giorni dopo, il 18 settembre, il       266 FRANCESCO PERFETTI, /l sindacalismo fascista, cit., p. 57.   267 Su questi punti v. FERDINANDO CORDOVA, op. cit., p. 265 ss., € FRANCESCO PERFETTI, Il   sindacalismo fascista, cit.. p. 90 ss. Per la cronaca del congresso v. «Il Popolo d’Italia», 23  maggio 1924, e «Il Lavoro d’Italia», 31 maggio 1924. i   268 Cfr. La crisi del fascismo fiorentino, «La Giustizia», 26 luglio 1924.   269 Cfr. Un sintomatico pronunciamento fra i dirigenti delle Corporazioni milanesi, «La Voce  Repubblicana», 10 settembre 1924. AEREI ; i i  Dal 13 settembre il Comitato iniziò le pubblicazioni di un proprio settimanale: «L’Idea  Sindacalista». Jai   270 Un sintomatico pronunciamento fra i dirigenti delle Corporazioni milanesi, cit. («La Voce  Repubblicana», che, da sempre ferocemente critica nei confronti degli orientamenti sindacali  del fascismo, seguì con grande attenzione gli sviluppi della crisi, definì una «diagnosi [...]  perfetta» quella contenuta nell’ordine del giorno del Comitato milanese).    139       Direttorio nazionale delle Corporazioni sanzionò l’allontanamento «dal |    movimento sindacale fascista» di Galbiati e Malusardi?”!, il quale però,  all’inizio di ottobre, dette le dimissioni dal Comitato, ottenendo il ritiro del  decreto di espulsione”. Non è chiaro per quale motivo Malusardi si decise a  quella mossa, ma è certo che, così facendo, egli salvaguardò la propria  carriera politica. Pertanto, pur senza mai rinnegare del tutto le proprie radici  anarcosindacaliste (si può dire infatti che la sua azione nell’ambito del    sindacalismo fascista continuò a vivere di velleità operaiste) ?”?, Malusardi — —  la cui fedeltà al fascismo non fu comunque mai in discussione - rientrò |    disciplinatamente nei ranghi, adeguandosi sempre più ai modelli imposti dal  regime. Nell'autunno del 1924, preludio all’avvento di una lunga dittatura, si  concluse quindi — almeno formalmente — la vicenda “libertaria” di Edoardo  Malusardi: un’uscita di scena meno appariscente di quella toccata in sorte a  Massimo Rocca e a Mario Gioda, ma egualmente emblematica.       Negli stessi giorni, 8 e 9 settembre, si riunì a Roma il Direttorio nazionale delle  Corporazioni. L'iniziativa di Malusardi e Galbiati fu liquidata come l’atto «di quattro persone  che non avevano alcuna autorità e alcun seguito». Cfr. «Il Popolo d’Italia», 9 settembre 1924.   Hi Provvedimenti del Direttorio delle Corporazioni, Ibidem, 19 settembre 1924.   Sull’intera vicenda v. FERDINANDO CORDOVA, op. cit., p. 283 ss.  2a Dimissioni!, «L’Idea Sindacalista», 18 ottobre 1924.    Un mese dopo Malusardi presenziò regolarmente al secondo congresso nazionale delle    Corporazioni (Roma, 23-25 novembre). Cfr. «Il Popolo d’Italia», 25 novembre 1924.  Esemplare, a questo proposito, l’esperienza di Malusardi come segretario dell’Unione  provinciale dei sindacati fascisti di Torino (carica che detenne dalla fine del 1927 a tutto il  1931), segnata dai continui contrasti con l'Unione industriale fascista, e la FIAT in particolare  (al riguardo v. GIULIO SAPELLI, Fascismo, grande industria e sindacato. Il caso di Torino,  1929-1935, Milano, Feltrinelli, 1975). Le aspirazioni “libertarie” di Malusardi trovarono un    ultimo rifugio nelle utopie socializzatrici della Repubblica Sociale, nella quale egli ebbe —    comunque un ruolo defilato e la cui funesta parabola non gli risparmiò dolori e amarezze (uno  dei suoi figli, divenuto partigiano, fu fatto prigioniero dai fascisti e condannato a morte,  Malusardi si rivolse a Mussolini, il quale intervenne personalmente affinché al giovane  “ribelle” fosse risparmiata la vita. Cfr. ACS, REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA, Segreteria  particolare del duce, Busta 25, Fascicolo 188). Nel dopoguerra, nonostante la non più verde  età, Malusardi partecipò attivamente alla vita politica e sindacale nelle file della CISNAL. Il  suo approccio alle questioni del lavoro restò di fatto immutato, sentimentalmente ancorato  alle memorie di Corridoni e D’Annunzio (a titolo di esempio si vedano gli articoli Filippo  Corridoni e Socialità di D'Annunzio, pubblicati da Malusardi su una risorta edizione de «Il  Maglio», 23 ottobre e 15 marzo 1960). Morì a Torino il 29 giugno 1978. Sulla figura e l’opera  di Edoardo Malusardi, quale rappresentante dell’ala sinistra del fascismo, v. infine GIUSEPPE    PARLATO, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Bologna, Il Mulino, 2000, ad  indicem.    140          II    REVISIONISMO    La prima campagna revisionista    L’inizio della polemica revisionista è giustamente fatto coincidere # L  pubblicazione su «Critica Fascista», il 15 settembre 1923, dell articolo  Massimo Rocca Fascismo e paese . Già da qualche mese, tuttavia, dinanzi al  protrarsi delle illegalità fasciste, i settori più lungimiranti del PNF -e I  ambienti ad essi vicini - avvertivano con crescente inquietudine l urgenza di  un cambio di rotta, di una nuova fase che segnasse il definitivo inserimento  del fascismo nell’ordine statutario. Il 29 maggio, intervenendo alla Camera,  l’on. Alfredo Misuri, già parlamentare fascista”, aveva anticipato, di fatto,  alcuni dei temi poi sollevati da Rocca nel suo celebre articolo. In RT  Misuri aveva chiesto la smobilitazione delle squadre e | inclusione le ;  MVSN nell’esercito regolare; la cessazione, da parte del segretario si  Partito Fascista e dei responsabili dei singoli Fasci, d ogni ingerenza srt; i  affari di competenza dell’esecutivo e delle prefetture; ! allargamento va  base del Governo a tutte le «sane correnti nazionali». Il discorso kr  deputato perugino, al quale si sarebbe associato Ottavio i Lee Di  breve stagione del dissidentismo fascista (almeno di quello mo lerato, ché Di  furono altri tipi di dissidentismo) ‘, fenomeno parallelo — e in un certo sen       ! L’articolo uscì simultaneamente anche sulle pagine de «Il Giornale d’Italia», che lo definì  «notevole». Lira : Epi  ? Alfredo Misuri, di estrazione monarchico liberale, SE tra " n n pn  i fasciste, dovette abbandonai  Perugia. Eletto al Parlamento nelle file f , d a r i ua  ito di duri i ltri maggiorenti del fascismo u Li  1922 a seguito di duri contrasti personali con al sa 1 di  i P ta nel PNF rientrò per bre  i ismo, dopo la fusione deli Associazione Nazional is NF rientr |  lst ferighi del fascismo, per esserne definitivamente espulso ai primi di a del  1923 Cfr. ALFREDO MISURI, Rivolta morale: confessioni, esperienze e documenti di un  uinquennio di vita italiana, Milano, Edizioni vana 1924.  i i i 95-122.  | testo completo del discorso v. /bidem, pp. ar È ‘ ,  hà vira ore dalla conclusione del suo intervento, Misuri fu aggredito da alcuni sgherri  fascisti, guidati dall’ufficiale della Milizia Arconovaldo Bonaccorsi, e malmenato Cs  sull’episodio v. Per l'aggressione all’on. Misuri, «Il Giornale d Italia», 31 maggio 1 i  ) Il dissidentismo conservatore di Alfredo Misuri e Ottavio Corgini trovò lun pun  concreta nel gennaio 1924, con la nascita dell’associazione “Patria e Libertà”, evocante, gi:    141          speculare = a quello del revisionismo. Nondimeno, a parte le riserve espresse  dai dissidenti - e da Misuri in particolare — sul revisionismo e su Massimo  Rocca , tra le due “eresie” fasciste correva una differenza sostanziale. Come  già notava acutamente Giacomo Lumbroso nel 1925, mentre i dissidenti non  nutrivano grandi speranze circa la capacità del fascismo di autoriformarsi  (tant'è che finirono per distaccarsene quasi subito), Rocca s’illudeva di far  trionfare la propria idea “da dentro” il partito”; credeva, in altri termini di  poter cambiare il fascismo dal suo interno, nella convinzione - per dirla con  le sue parole - che esso potesse realmente diventare «l’ala marciante e  riformatrice del liberalismo»”. In questo “vizio d’origine”, prima ancora che  nei mutevoli umori di Mussolini e nella protervia di Roberto Farinacci e  «degli altri ras, in questa valutazione errata della vera essenza del fascismo  (che avrebbe fatto della battaglia revisionista un’estenuante e infruttuosa  «lotta di posizione») *, devono essere ricercate le ragioni ultime della  sconfitta di Massimo Rocca.   Come detto, l’articolo di Rocca vide la luce su «Critica Fascista», la nuova  rivista di Giuseppe Bottai, che aveva iniziato le pubblicazioni il 15 giugno       nel nome, taluni circoli monarchici piemontesi di fine Ottocento. Dopo il delitto Matteotti  I associazione prese a pubblicare il settimanale «Campane a stormo» (poi riesumato da Misuri  nell’immediato secondo dopoguerra). n  Sul dissidentismo fascista, la sua complessa vicenda politica e le sue diverse coloriture e  ramificazioni, v. principalmente PIERANGELO LOMBARDI, Per le patrie libertà: la dissidenza  fascista tra mussolinismo e Aventino (1923-1925), Milano, Angeli, 1990, ma anche con più  esplicito riferimento all’operato di Misuri e Corgini, LUCIANO ZANI, L'Apsocio4iali    costituzionale “Patria e Libertà” (1923-1925), in «Storia Contemporanea», 1974, n. 3 PI  393-429. 1 05-00.  ‘ondamento delle loro critiche al revisionismo i dissidenti di “Patria e Libertà” ponevano  la considerazione che fosse ormai necessaria «la liquidazione, non la revisione del fascismo».  Pisi «caotici costruttori di teorie», in quanto convinti di poter salvare qualcosa del  ‘ascismo, lavoravano «inconsciamente» per esso (Revisionismo, «Campane  dicembre 1924), PSR A E e  Cfr. Giacomo LUMBRO050, La crisi del fascismo, Firenze, Vallecchi, 1925, p. 107 ss.  Giacomo Lumbroso (già nella fiorentina “Banda dello sgombero”, una delle prime  manifestazioni del dissidentismo fascista) era stato tra i promotori in Toscana dei Fasci  Nazi nali, formazioni autonome che pretendevano riallacciarsi al fascismo “puro” delle  origini. «Fascista di animo e di azione sin dalla vigilia — scriveva Lumbroso nelle pagine  ug se suo da Ta sono rimasto tale perché non credo che la dottrina e lo spirito del  cismo debbano confondersi collo scempio che ne è stato compi i inetti i  f ì iu  indegni» (Ibidem, pp. 8-9). RIA: dae Re) 2a  ” Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 107.  LUCIANO ZANI, op. cit., p. 402.    142          1923”. Fin dai primi numeri, il periodico romano si era fatto interprete di una  concezione legalitaria, costituzionale del fascismo. Sebbene muovendo da  premesse culturali e politiche molto diverse, anche Bottai - come Rocca -  riteneva finito il tempo della “rivoluzione” e chiedeva il rinnovamento del  partito, la sostituzione del vecchio ceto dirigente fascista «con una nuova  élite» che fosse in grado di guidare la ricostruzione del Paese!°. Un mese e  mezzo prima che Rocca aprisse ufficialmente il fronte revisionista, un altro  collaboratore di Bottai, l’ex sindacalista corridoniano Augusto De  Marsanich, aveva chiarito in modo inequivocabile l’orientamento della  rivista.    Noi — aveva scritto De Marsanich - diciamo che il nostro partito deve iniziare  subito un’opera di revisione, anzi di liquidazione, di certi suoi precetti e di certi suoi  metodi, che se furono utili prima, oggi non servono più, se non ad intorbidire le fonti  della nostra forza ideale e politica. Intanto dobbiamo dire alto e forte che proprio  uno dei nostri compiti necessari, in quanto l’Italia è nata dal liberalismo e cresciuta  nel parlamentarismo, è quello di ridonare al Parlamento il suo valore di massimo  istituto storico e politico dell’età nostra, di riconciliare insomma la Nazione col  Parlamento [...]. Il Partito Fascista dovrebbe ormai sentire la necessità di  *smobilitare” e di proporsi nettamente, con un superiore obiettivo di sintesi  nazionale, l'eventualità di avvicinarsi a molti, se non a tutti, i suoi nemici di ieri"!    Essendo queste le premesse, era quasi inevitabile che Rocca, il quale da  tempo andava esortando alla “normalizzazione”, trovasse in Bottai e nella  redazione di «Critica Fascista» degli interlocutori attenti e ben disposti. Ma       ? Sul ruolo avuto da Giuseppe Bottai e da «Critica Fascista» nel dibattito interno al fascismo  durante il primo scorcio degli anni venti (con particolare riferimento al revisionismo) v.  soprattutto LUISA MANGONI, L ‘interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo,  Bari, Laterza, 1974, p. 65 ss., EMILIO GENTILE, op. cit., p. 295 ss., © GIORDANO BRUNO  GUERRI, Giuseppe Bottai fascista critico, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 49 ss.   10 GiusEPPE BOTTAI, Disciplina, «Critica Fascista», 15 luglio 1923.   Che il fascismo, compiuta la sua “rivoluzione” e conquistate le leve del potere, dovesse por  mano alla ricostruzione morale e materiale della Nazione, secondo un programma  propositivo, era opinione largamente condivisa tra i fascisti più “politici”. Lo stesso  Mussolini, in una lettera a Bottai pubblicata sul secondo numero di «Critica Fascista» (e  riprodotta anche da «Il Popolo d’Italia» del 30 giugno), aveva scritto: «Caro Bottai, prima  ancora che il programma, mi piace il titolo della tua rivista, titolo che mi appare come un  gesto di consapevole orgoglio e come un privilegio del nostro movimento. Il quale, raggiunto  il suo secondo tempo costruttivo, deve affinare le sue capacità di controllo e di critica».   !! Augusto DE MARSANICH, Revisione, Ibidem, 1 agosto 1923.   Su De Marsanich, figura di rilievo del regime mussoliniano e quindi, nel secondo  dopoguerra, uno dei protagonisti del movimento neofascista, v. Dizionario biografico degli  italiani, cit., Vol, 38, ad nomen.    143       cosa scrisse Rocca che destò tanto clamore? La “rivoluzione” fascista —  questo in sintesi il suo pensiero — aveva avuto il merito di strappare l’Italia al  baratro del bolscevismo, ma una rivoluzione aveva ragion d’essere soltanto  se finalizzata al bene della Nazione, di “tutta” la Nazione, e non alla propria  autoconservazione. Il fascismo - spiegava Rocca - doveva servire il Paese e  non viceversa, come preteso dai capi provinciali, i quali, interessati solo a  perpetuare il loro piccolo potere, erano i primi responsabili del perdurare  dell’illegalità e del clima di tensione, da guerra civile permanente, che  ancora dominava in certe regioni"’. Ora, nella battaglia intrapresa per la  sprovincializzazione” del fascismo, Rocca era convinto di trovare in  Mussolini un alleato naturale, ma quest’opinione, se non mancava di  riferimenti nella realtà, non teneva nel dovuto conto la spregiudicatezza  tipica del modus operandi del “duce”, ed era perciò, in definitiva, frutto di  una valutazione decisamente ottimistica. Scorrendo l’articolo di Rocca si ha  I impressione che l’autore tendesse a sopravvalutare certe prese di posizione  di Mussolini é che, più o meno inconsapevolmente, finisse per attribuire al  duce” la propria personale visione del fascismo. I segni più evidenti della    volontà conciliatrice del Presidente del Consiglio - scriveva Rocca - erano  stati:    la promessa, lanciata nel primo discorso in Parlamento, di utilizzare a servizio del  Paese tutti gli elementi di valore [...], persino se provenissero dall’estrema sinistra:  [.. ] l’appoggio dato alle Corporazioni fasciste, fino a riconoscerle di fatto, se non di  diritto, sebbene ospitassero nel loro seno vaste masse di non tesserati; [...]  I incoraggiamento ai Gruppi di Competenza, destinati a completare e correggere  l’opera sindacalista compiuta nei ceti proletari; [...] la costituzione di un governo  non esclusivamente fascista; [...] l'immissione di ufficiali dell’esercito nei quadri  della Milizia, per maturarne la futura fusione con l’esercito medesimo; [...] il rifiuto  ostinato, intelligente ed onesto, di soddisfare alle pretese d’impiegati e di favori da  parte di troppi procaccianti in veste fascista, specie dell’ultima pes;    Se pensiamo alla sorte ingloriosa che, complice proprio la caduta in  disgrazia del loro mentore, sarebbe spettata di lì a poco ai Gruppi di  Competenza; all’effettivo strapotere della Milizia e, soprattutto, al vero e  proprio esercito di profittatori, d’intriganti e d’incapaci che affollava  l’entourage di Mussolini (uno stato di cose a cui egli, forse per effetto della       12  » Cfr. MassIMo Rocca, Fascismo e paese, «Critica Fascista», 15 settembre 1923.  Ivi.    L’articolo, con altri due dello stesso periodo, si trova ri ilti i  STE , con , prodotto — sotto il titolo //  l'Italia - anche in ID., /dee sul fascismo, cit., pp. 63-70. pan    144          sua sfiducia negli uomini, trovò sempre inutile opporsi) 4, abbiamo la  misura di quanto Rocca s’ingannasse. In ogni caso, il suo articolo fu bene  accolto da «Il Popolo d’Italia», che anzi ne fece pubblicamente l'elogio", e  nel complesso, lungo tutta la durata della prima crisi revisionista, il giornale  diretto dal fratello del “duce”, Arnaldo, ne incoraggiò apertamente le fatiche.  Mussolini stesso, del resto, sebbene senza mai esporsi in prima persona,  dette una mano alla campagna revisionista, ma la ragione di questo suo  favore non derivava tanto, come credeva Rocca, da un’intima convinzione  ideale, bensì - come ha ben sottolineato Renzo De Felice (e com'era,  d’altronde, nel carattere del “duce”) - da considerazioni di opportunità  politica. L'obiettivo allora perseguito da Mussolini, infatti, era quello di una  graduale apertura verso le forze costituzionali (liberali, cattolici, ma anche  socialisti riformisti), che consentisse un ampliamento — e dunque un  consolidamento — della sua maggioranza. A questo progetto si opponevano  scopertamente gli intransigenti alla Farinacci, ed ecco, perciò, che l’esistenza  di una corrente revisionista, moderata, all’interno del fascismo, poteva  servire a un duplice scopo: a rassicurare gli altri partiti e l'opinione pubblica  sulle “buone intenzioni” del Governo e a tenere a freno i ras, in vista di un  possibile compromesso!   Fu quindi grazie a Mussolini che il dibattito inaugurato da Massimo Rocca  sulle pagine di «Critica Fascista» poté uscire «dall’ambito piuttosto limitato»  della rivista di Bottai per diventare, grazie al coinvolgimento di altri organi  di stampa, «un fatto politico di portata nazionale»'”. Per rimanere all’ambito  strettamente fascista, i giornali che più degli altri si fecero carico di  assecondare i disegni dei revisionisti furono tre: «Il Corriere Italiano» di  Filippo Filippelli, «L'Impero» di Mario Carli ed Emilio Settimelli, e,  inizialmente in misura più sfumata, «Il Nuovo Paese» di Carlo Bazzi. Si  trattava di fogli dalla linea editoriale incerta e contraddittoria e - ciò che più  conta - legati a interessi equivoci'5; così, se è innegabile che il loro sostegno       14 Su questo aspetto non secondario della personalità mussoliniana v. RENZO DE FELICE,  Mussolini il fascista, cit., p. 461 ss.   !5 Cfr. IL FROMBOLIERE, Un monito fascista: basta con gli pseudo-Mussolini!, «Il Popolo  d’Italia», 18 settembre 1923.   !6 Cfr. Renzo DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 457 ss.   !7 Ibidem, p. 456.   18 «Il Corriere Italiano» era sorto alla fine di luglio del 1923 grazie a finanziamenti di origine  imprecisata ed era, a ragione, considerato l'organo ufficioso del Governo, essendone diretti  ispiratori due uomini molto vicini a Mussolini: Aldo Finzi, sottosegretario al Ministero degli  Interni, e Cesare Rossi, capo dell’ufficio stampa del “duce” e membro del Gran Consiglio del  fascismo. «L'Impero» aveva anch'esso iniziato le pubblicazioni nel 1923 e si distingueva per  l'accento smaccatamente reazionario, spesso addirittura delirante, dei suoi articoli. I motivi    145          dette a Rocca l’opportunità di far giungere la propria voce a un pubblico più  vasto, è altrettanto fuor di dubbio che, a lungo andare, esso non giovò affatto  alla serietà della campagna revisionista, e che anzi, l’essersi trovato Rocca  anche solo indirettamente coinvolto in certe mene affaristiche, offrì a suoi  avversari il destro per muovergli accuse, più o meno esplicite e motivate, di  corruzione.    Il Rocca — rilevava al riguardo Giacomo Lumbroso — poteva ridersi di certe accuse  poiché la sua probità privata era inattaccabile; ma sta di fatto [...] che i giornali di  cui egli si serviva e anche taluni degli uomini che lo incoraggiavano nella sua  campagna non erano certo i più indicati a parlare di epurazione del Partito; ed è  innegabile che certo fascismo provinciale [...], illegalista, dispotico e violento, in       del sostegno offerto da Carli e Settimelli alla campagna revisionista, oltre che nei vincoli  strettissimi con Filippelli e il suo giornale («L’Impero» apparteneva alla stessa cordata  economico/finanziaria editrice de «Il Corriere Italiano», la società “La vita d’Italia”, di cui  Filippelli era amministratore delegato), andavano ricercati nel loro esasperato    “mussolinismo”, nell’ammirazione, certo non disinteressata, per il “duce”, verso il quale i due |    reduci del futurismo, un tempo cantori dell’anticonformismo e dell’individualismo anarchico,  tenevano un atteggiamento adulatorio, sconfinante nel ridicolo, che più di una volta mise in  imbarazzo lo stesso Mussolini. A riprova dell’incostanza e dell’opportunismo che  caratterizzava la redazione de «L’Impero» si ricordi che, nel corso della crisi Matteotti, il  giornale, già revisionista, sarebbe stato in prima linea nel chiedere il “giro di vite” e la  soppressione violenta delle opposizioni; e che, a conclusione di quella dolorosa vicenda,  Mario Carli avrebbe pubblicato un libro, con la prefazione di Roberto Farinacci, (Fascismo  intransigente. Contributo alla fondazione di un regime, Firenze, Bemporad, 1926), che era  tutto un panegirico del ras di Cremona e dei suoi epigoni. «Il Nuovo Paese» aveva aperto i  battenti nel dicembre del 1922, su iniziativa di Carlo Bazzi. Questi, che era stato compagno di  Massimo Rocca nelle Argonne, proveniva dal PRI ed apparteneva a quelle frange del  movimento repubblicano che, in polemica con l’orientamento antifascista prevalso in seno al  partito d’origine, se n'erano staccate per dar corpo a formazioni autonome fiancheggiatrici del  fascismo (lo stesso Bazzi si era fatto promotore, all’inizio del 1923, di una Unione  Mazziniana Nazionale). Anche «Il Nuovo Paese» non era al di fuori di loschi giri d’affari,    essendo legato «a quel vasto ed equivoco mondo affaristico che subito dopo la “marcia su |    Roma” si era annidato ai margini del fascismo al governo»; una lobby multiforme «che aveva  tutto l’interesse che il fascismo rimanesse al potere» e mirava, per questo motivo, a «una  normalizzazione che rafforzasse la situazione», da cui il contributo recato dal giornale di  Bazzi alla causa del revisionismo (RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., pp. 450-452).  Su «Il Nuovo Paese» e «Il Corriere Italiano» si veda MAURO CANALI, Cesare Rossi: da  rivoluzionario a eminenza grigia del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1991 (rispettivamente p  218 ss., e p. 255 ss.). Il medesimo autore ha efficacemente ricostruito l'intreccio affaristico  sottostante al primo esecutivo a guida fascista, in // Delitto Matteotti: affarismo e politica nel  primo governo Mussolini, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 87-303. Su Mario Bazzi in  particolare v. GUGLIELMO SALOTTI, Affarismo e politica intorno alla liquidazione dei residuati  bellici (1920-1924), in «Storia Contemporanea», n. 5, 1990, pp. 805-891. Infine, a proposito  de «L’Impero», v. ANNA SCARANTINO, op. cit., p. 49 ss.    Ì       complesso si era mantenuto puro dalla piaga dell’affarismo, e non vi ha dubbio che  ci erano dei ras, tipo Farinacci, persuasi in buona fede di giovare alla causa del  fascismo e dell’Italia, dominando nelle loro provincie come despoti incontrollati ed  incontrollabili e riducendo a zero l’autorità dei funzionari governativi"?    Il giorno dopo la comparsa dell’articolo di Rocca su «Critica Fascista», «Il  Corriere Italiano» prese di petto la questione e, in un fondo che avrebbe  sollevato l’indignazione di Farinacci, si scagliò senza mezzi termini contro  «l’arbitrio capriccioso e tirannico» dei capi provinciali, arrivando a  prospettare, neanche troppo velatamente, la possibilità di uno scioglimento  del PNF, il quale, vivendo ormai «di rendita» alle spalle di Mussolini,  costituiva «l’inciampo più grave» all’azione del Governo”. L’ipotesi  insinuata dal quotidiano di Filippelli destò, com’era prevedibile, un nugolo  di polemiche. «L'Impero», per tramite dei suoi condirettori, affermò che il  «feticismo ostinato» nei confronti del partito non aveva più alcuna  giustificazione e che, essendosi chiuso il «periodo eroico» della  “rivoluzione” fascista ed essendo stati «lo spirito e [...] la mentalità» del  fascismo «gradualmente ma rapidamente assorbiti dall’intera Nazione», non  vi era più ragione di conservare in vita il partito?!. l i i  Nel frattempo, Massimo Rocca non aveva perso occasione per riaffermare il  proprio punto di vista??. Personalmente contrario, almeno nel breve periodo,  allo scioglimento del PNF°, il /eader revisionista proseguì imperterrito  lungo la via intrapresa il 15 settembre. I problemi più gravi del fascismo -  insisteva Rocca - consistevano nell’equivoco perdurante tra partito e  Governo, vale. a dire nell’identificazione del primo col i secondo;  nell’irresponsabilità e nella prepotenza dei fiduciari provinciali; nella       !° Giacomo LUMBRO50, op. cit., p 122.   20 Cfr. Governo e fascismo, «Il Corriere Italiano», 16 settembre 1923.   2! MARIO CARLI, EMILIO SETTIMELLI, L'ultima svolta del fascismo, «L'Impero», 20 settembre  1923. i i i 7 ut  2 Così, ad esempio, il 17 settembre a Torino, in sede d’inaugurazione dei nuovi locali dei  Gruppi di Competenza. Nel suo discorso, che ricevette il plauso di. Mario Gioda, Rocca non  tralasciò di accennare alle controversie in atto nel fascismo, ribadendo le proprie critiche agli  intransigenti (cfr. // discorso di Massimo Rocca sulle funzioni dei Gruppi di Competenza, «Il  Piemonte», 18 settembre 1923). \ i   23 In una lettera pubblicata da «L'Impero» del 22 settembre (Partito e Governo fascista),  Rocca scrisse non essere ancora giunto il momento in cui l’Italia, pienamente e  consapevolmente fascista, si sarebbe potuta sostituire al partito. Con questo egli non escluse  che, «in un futuro più o meno prossimo», ciò sarebbe potuto accadere, e indicò nei Gruppi di  Competenza e nei «sindacati d’ogni ceto produttivo» gli strumenti. necessati di questa  trasformazione. Il giorno seguente Rocca ribadì i medesimi concetti in un’intervista a «Il  Corriere Italiano»,    147       «parodia d’una disciplina formale senza norme né garanzia»; nel predominio  «degli organi esclusivamente politici di partito» su tutto ciò che. «pur  rientrando nella vita corrente del fascismo», non era strettamente ulivo (ad  esempio i Gruppi di Competenza) e che, per questa ragione, il partito  ostacolava in ogni modo. Tutto ciò - secondo Rocca - conduceva ad una  «vera forma di nuovo bolscevismo [...], dissolvitrice dello Stato e  dell’Italia», cui si doveva assolutamente porre rimedio”.   Contro la campagna revisionista, che raccolse i favori dell’opinione  pubblica moderata variamente  filo-fascista””, insorsero invece gli  intransigenti. Già il 17 settembre, nell’ambito di una riunione del Consiglio  Provinciale di Cremona, Farinacci difese il principio dell’intransigenza, si  disse contrario all'inserimento della Milizia nell’esercito regolare e minacciò  una «seconda ondata» rivoluzionaria contro i falsi fascisti, profittatori «senza  fede» che si servivano del fascismo per i loro maneggi affaristici’”, Più  avanti, in un editoriale per il suo giornale, il ras cremonese replicò  seccamente alle accuse dei revisionisti. Non era affatto vero — scrisse - che  Mussolini non dovesse niente al fascismo provinciale, il quale, al contrario.   costituiva la vera forza, il fondamento del partito e aveva contribuito in  modo schiacciante al trionfo del 28 ottobre 1922.    Se si distrugge il fascismo delle Provincie — si domandava Farinacci — che cosa  resterebbe del fascismo? [...]. Io non ho l’acume di Massimo Rocca, ma come  caffoncello” di Provincia mi permetto di fare uno sforzo mentale — pari a quello di    he pero della terza elementare — calcolando che Provincia più Provincia fa  ‘azione!          ” MASSIMO ROCCA, Partito e Governo fascista, cit.   Tra gli organi “indipendenti” che offrirono spazio e considerazione alla campagna  revisionista, oltre a «Il Giornale d’Italia», tradizionalmente vicino alla destra liberale, si  segnalarono soprattutto «La Tribuna», l’autorevole quotidiano romano diretto da Olindo  Malagodi, «Il Corriere d’Italia», organo ufficioso della destra cattolica ex popolare, e  «L’Epoca», un giornale d’ispirazione combattentistica sorto nel 1917. Proprio «L’Epoca», il  23 settembre, pubblicò un’intervista di Domenico Montalto a Massimo Rocca (// momentà  attuale e il fascismo), dando modo all’ex anarchico di esporre le proprie idee revisioniste a un  pubblico non strettamente fascista.   di Un forte discorso dell'on. Farinacci, «Cremona Nuova», 18 settembre 1923.   ROBERTO FARINACCI, /n difesa dei cafoni di provincia, Ibidem, 23 settembre 1923.   Il giorno avanti, il quotidiano farinacciano aveva ospitato un intervento del bolognese Gino  Baroncini, membro del Comitato Centrale, una delle figure più note del fascismo  emiliano/romagnolo (su di lui v. PAOLO NELLO, Dino Grandi: la formazione di un leader  fascista, cit, ad indicem). L’articolo (intitolato Evviva il Fascismo e pubblicato in  contemporanea anche da «La Scure» di Piacenza e, naturalmente, dal bolognese «L’ Assalto»)  era una difesa appassionata del fascismo di provincia contro il fascismo “spurio”, interessato e    148       Il ragionamento di Farinacci, nella sua schematicità, non mancava di logica  e di veridicità e coglieva un aspetto essenziale del problema, andando al  cuore delle contraddizioni della politica revisionista. Il fascismo delle  provincie, caotico, brutale e intimamente sovversivo, costituiva davvero,  assai più del fascismo “addomesticato”, costituzionale e legalitario di Roma  e di Milano, l’anima del movimento”. Mussolini ne era ben consapevole,  tant'è vero ch’egli non pensava affatto, come Rocca avrebbe voluto, ad una  liquidazione in tronco del “rassismo”, ma, casomai, ad un suo opportuno  ridimensionamento, che lo svuotasse dei contenuti più radicali e più  difficilmente gestibili; alla qual cosa, come già si è detto, la propaganda       senza anima, propagandato dai revisionisti. Di analogo tenore - e spesso ben più sbrigative e  violente - le reazioni degli altri fogli intransigenti. L'organo del fascismo trevigiano, per  mano del suo direttore, lasciò intendere che Rocca avrebbe meritato lo stesso trattamento  riservato ad Alfredo Misuri, in quanto il suo l’articolo su «Critica Fascista» era degno «di far  pari col famigerato discorso» dell’ex deputato fascista (PIERO PEDRAZZA, Polemica fascista.  Rispondiamo a Massimo Rocca, «Camicia Nera», 22 settembre 1923). A Piacenza, il conte  Barbiellini puntò l’indice contro le trame affaristiche sottostanti alla campagna revisionista.  «Per quali anonimi lestofanti — tuonava il ras piacentino - fate voi da agenti provocatori di  torbidi nel fascismo?!? Vi secca la attività fascista di provincia? Vi secca che dai ras  provinciali si siano mandati all’aria diversi grossi affari che gruppi capitalisti avevano qui  realizzato ai danni dell’Erario Nazionale?» (BERNARDO BARBIELLINI, Perché non molliamo,  «La Scure», 25 settembre 1923). Circa le radici e le ragioni culturali e politiche  dell’estremismo provinciale fascista — con particolare riguardo a Roberto Farinacci — v.  EMILIO GENTILE, op. cit., p. 263 ss.   28 E” interessante, a questo riguardo, ricordare il giudizio di un esponente della cultura  antifascista, Piero Gobetti, secondo il quale non già i revisionisti ma Farinacci e gli altri ras  del suo stampo erano gli autentici e più genuini rappresentanti del fascismo. In due articoli  non certo teneri nei confronti di Rocca, definito un parvenu e un arrivista, Gobetti scrisse di  preferire la rozzezza degli intransigenti, non priva di «senso di dignità» e di spirito di  sacrificio, al «politicantismo senza pudore» e al «trasformismo, senza decoro e senza  intransigenza» dei vari Rocca, Bottai e Grandi, «professionisti della politica» il cui  revisionismo era nato in mezzo alle «mollezze romane», confortato «da ricche prebende». A  parte gli aspetti volutamente paradossali delle sue considerazioni (e a parte la predilezione,  tipicamente gobettiana, per la categoria politico/morale dell’intransigenza), l’intellettuale  torinese coglieva nel segno allorché metteva in risalto la maggior rappresentatività sociale - e  culturale in senso antropologico - del fascismo provinciale, il quale si faceva portavoce di  sentimenti reali, di sincere, per quanto confuse e primitive, aspirazioni palingenetiche, e  godeva di un seguito che mancava invece completamente alle fredde teorie dei revisionisti.  Dietro ai vari ras di provincia - notava lucidamente Gobetti - vi erano «centomila giovani, che  al fascismo non avevano chiesto di guadagnare o di risolvere il problema della propria  disoccupazione, ma vi avevano portato la loro disperata aberrazione, la repugnanza per i  compromessi e gli opportunismi» (la prima citazione è tratta da Elogio di Farinacci, «La  Rivoluzione Liberale», 9 ottobre 1923; le restanti da Secondo elogio di Farinacci, Ibidem, 19  febbraio 1924. Anche in Piero GOBETTI, Scritti politici, a cura di Paolo Spriano, Torino,  Einaudi, 1960, pp. 526-529, e 606-610)    149       revisionista (anche attraverso il ricatto rappresentato dalla ventilata minaccia  di scioglimento del partito) poteva servire in modo egregio.   Queste considerazioni parevano sfuggire a Massimo Rocca, il quale, vittima  forse anche della propria presunzione, era invece convinto di avere al suo  arco più frecce di quante non ne avesse in realtà. Per niente intimorito dalla  reazione di Farinacci, ma anzi, data la propria innata vena di polemista,  perfettamente a proprio agio nel clima di roventi discussioni da lui stesso  suscitato, Rocca alzò il tiro delle sue accuse.    Non ci si è ancora accorti, evidentemente — scrisse in un nuovo articolo per  «Critica Fascista» — che oggi governa Mussolini in nome di una monarchia più salda  che mai; che i nostri antenati e noi abbiamo combattuto per creare e rafforzare e  ingrandire un’Italia unitaria, ove la forza armata, anche solo di manganello,  dev'essere una sola e uno il Governo che ne dispone, e uno solo il Governo che fa le  leggi e le applica attraverso i prefetti, dando a questi ultimi il diritto di mettere in  galera anche i più autorevoli fascisti locali se contravvengono alla legge. Non si  adattano ad essere cittadini pur essi come tutti gli altri, nella loro provincia? Ebbene,  facciano essi i prefetti, e pongano nella legalità il loro dominio personale e  continuino pure l’opera meritoria compiuta nel fascismo [...]. Ma quest’opera è  indipendente dalla loro prepotenza personale nelle cose che il partito non  riguardano; ma per continuare tale funzione non è necessario instaurare repubbliche  dittatoriali o vicereami con feudi annessi o diarchie lillipuziane. Non basta federare  degli staterelli autonomi, ove l’augusto signore sentenzia “qui comando io” e  fabbrica una legge speciale per lui, senza controllo; non basta federarli  platonicamente sotto l’egida di Mussolini, sopportata col platonico omaggio di un  alalà. Bisogna disfarli [...]. Tutto ciò per la Fronda fascista, nuova specie di  sovversivismo autentico imbellettato di tricolore: unico sovversivismo attivo e  ingombrante oggigiorno [...] ‘Tutto ciò per la Fronda insorta personalmente contro  una mia tesi impersonale, a minacciare col seguito dei suoi vassalli un  modestissimo, ma convinto pensiero individuale, che non riconosce altro ordine se  non quello del Duce, né altra legge se non quella raccolta nel codice e applicabile  dal procuratore del Re [...]. Ma la Fronda si piegherà?”    La “fronda” non si piegò. A distanza di soli tre giorni dalla pubblicazione di  questo articolo, il pomeriggio del 27 settembre, la Giunta Esecutiva del PNF  - istigata da Farinacci - decretò l’espulsione di Rocca dal partito «per grave       ?° Massimo Rocca, Diciotto brumaio, «Critica Fascista», 24 settembre 1923 (anche in ID.,  Idee sul fascismo, cit., pp. 71-78).   Questo articolo di Rocca era preceduto da una significativa postilla della redazione. «Siamo  perfettamente solidali con l’autore — vi si leggeva - [...] e con gli scopi altissimi della sua  battaglia, che è anche la nostra battaglia».    VIPATTTTRA VENTO ile A       indisciplina e indegnità politica»?°. La mattina del 28 Mussolini ricevette  Rocca, in qualità di vicepresidente  dell’Istituto Nazionale delle  Assicurazioni”, ufficialmente «per trattare di questioni riguardanti l'Ente» 4  ma in realtà per aver modo di esprimergli la propria solidarietà. La sortita del  “duce”, da cui egli si aspettava le dimissioni dell’intera Giunta Esecutiva,  ebbe invece come effetto di provocare quelle della Segreteria Generale (cioè  di una parte soltanto della Giunta), il che — rilevava prontamente «Il Popolo  d’Italia» - «non risolveva affatto la questione». Era in atto, come ben  notava «Il Giornale d’Italia», un vero e proprio regolamento di conti.    Ora — si domandava il quotidiano romano — è per le espressioni crude ed aspre  adoperate da Rocca, o per la tesi generale da lui sostenuta che la espulsione è dn  stabilita? [...]. Se è vero che [...] il “Cremona Nuova” di Farinacci [...] sarebbe  dalla Giunta Esecutiva considerato come giornale ufficioso del partito, sarebbe da  dedurre che le lamentate tendenze, diremmo così, provinciali, localistiche [...]  avrebbero prevalso?”    E proseguiva:    La lotta è precisamente tra i “revisionisti” tipo Rocca e gli ioni ono  Farinacci, tra i politici e i “selvaggi”, tra i “romani” e i “provinciali IRPROI Crisi i  coscienza del Partito Fascista, questa, crisi per la lotta di due opposti elementi: quelli  che vogliono avvicinare il fascismo all’anima, del Paese e quelli che vogliono  mantenerne la formazione chiusa e intransigente       30 La Giunta Esecutiva del Partito Nazionale Fascista riafferma la necessità della manetta  compattezza nell'interesse della Nazione ed a sostegno del Governo, «Il Popolo d’Italia», 28  settembre 1923. tif, side Hib:   La Giunta Esecutiva del PNF, istituita nel maggio in luogo della disciolta Direzione, sa  composta da: Roberto Farinacci, Ferruccio Lantini, Michele Bianchi, Giovanni Marinelli,  Nicola Sansanelli, Attilio Teruzzi, Piero Bolzon, Giuseppe Bastianini, Maurizio Maraviglia,  Antonello Caprino, Alessandro Dudan, Michelangelo Zimolo e Achille Starace. La decisione  contro Massimo Rocca fu presa all’unanimità. i i   31 Rocca ricopriva la carica di vicepresidente dell’INA dalla fine di febbraio del 1923 (cfr.  Ibidem, 3 marzo 1923).   3° Ibidem, 29 settembre 1923.   33 ;   Cfr. Ibidem. TSI VII j ;  La Segreteria Generale era formata da Bianchi, Marinelli, Bastianini, Sansanelli, Teruzzi,  Starace e Bolzon. bri Bata  3 La Giunta esecutiva del PNF espelle Massimo Rocca il “revisionista”. Mussolini inten le  che tale decisione sia riesaminata. La Segreteria Generale del partito presenta le dimissioni  al Duce, «Il Giornale d’Italia», 29 settembre 1923.   35 .  gii vl    151          Nell’insieme, l’espulsione di Massimo Rocca sollevò un’ondata di sdegno  Si scrisse di «procedimento sommario», di decisione «grottesca» che aveva  il sapore della «rappresaglia»?”, mentre anche il Consiglio Nazionale dei  Gruppi di Competenza fece sentire la sua voce, votando un ordine del giorno  di pieno sostegno al proprio segretario”. A Torino, Mario Gioda, che fin  dall’esordio della polemica revisionista aveva preso le parti di Rocca” si  dimise dalla segreteria del Fascio in segno di solidarietà con il suo vecchio  compagno. Fu un atto coraggioso, che, tenuto conto dei passati contrasti tra  Gioda e De Vecchi (quest’ultimo simpatizzante degli intransigenti) e delle    mai sopite tensioni in seno al fascismo torinese, si colorava di un forte  significato politico.    Non è la prima volta — riconosceva a questo proposito l’organo mussoliniano — che,  durante clamorose polemiche, Mario Gioda si schiera apertamente per la corrente  temperata [...] del Partito Nazionale Fascista, ed è ancora ricordato a Torino  l’omaggio di fiori che, unitamente al comm. Massimo Rocca, tributò al comunista  Berruti, consigliere comunale, ucciso durante i fatti dello scorso dicembre‘'    Qualche giorno dopo, nel dare l’annuncio delle proprie dimissioni anche  dalla direzione de «Il Maglio», Gioda fu al proposito più che esplicito, con  parole che non lasciavano spazio a fraintendimenti.       Li «L’Epoca», 29 settembre 1923.   «L'Impero», 29 settembre 1923.   _ Cfr. «Il Giornale d’Italia», 30 settembre 1923.   In un fondo del 24 settembre per il nuovo quotidiano torinese «Il Piemonte» (Papà buon  senso), Gioda aveva definito gli articoli revisionisti di Rocca un «meraviglioso,  poderosissimo quanto ardito e coraggioso studio sul fascismo». In un articolo di poco  successivo, il segretario del Fascio torinese chiarì il proprio punto di vista, perfettamente in  linea con gli assunti dei revisionisti. «I Fasci — scrisse tra l’altro Gioda — non sono sorti per  soddisfare le ambizioni militari o politiche di Tizio, Caio o Sempronio, ma per l’Italia,  unicamente per la salvezza e le fortune d’Italia» (MARIO GIODA, Corfù, Roma e il Fascismo,  dl Maglio», 29 settembre 1923).   Cfr. «Il Popolo d’Italia», 30 settembre 1923.   Gioda aveva riassunto la carica di segretario del Fascio e la direzione de «Il Maglio» da  pochi giorni, dopo essersene allontanato per qualche mese a seguito del riacutizzarsi della sua  grave malattia. Il posto di Gioda, dopo le sue dimissioni, fu rilevato dall’avvocato Giorgio  Bardanzellu, già presidente della sezione torinese dell’ Associazione Nazionale Combattenti.  Insieme a Gioda si dimise anche il segretario federale Pino Mongini, un suo fedelissimo,    ufficialmente «per ragioni di carattere famigliare» («Il Maglio», 6 ottobre 1923). Mongini fu  sostituito dal milanese Claudio Colisi Rossi.    4! «Il Popolo d’Italia», 30 settembre 1923.    152       Le polemiche de’ passati giorni — scrisse - mi hanno trovato pienamente,  apertamente, risolutamente favorevole alla corrente cosiddetta revisionista  capeggiata da quella catapulta cerebrale di grande anarchico che è Massimo Rocca  [...]. Mi sono dimesso dalle cariche [...] perché mi parve inconcepibile che si  potesse appartenere ancora un minuto ad un partito ridotto a defenestrare i suoi  uomini più formidabili [...], mentre nell'ombra prosperava e vivacchiava alquanta  gramigna ‘    Il 29 settembre Mussolini convocò Michele Bianchi a Palazzo Venezia.  Questa volta Il “duce” richiese espressamente le dimissioni della Giunta  Esecutiva, decise il rinvio del convegno dei Fiduciari provinciali (previsto  per il 2 ottobre) e decretò la prossima convocazione del Gran Consiglio del  fascismo‘. Di fronte alla precisa intimazione di Mussolini, ai membri della  Giunta non restò altro da fare che obbedire‘.   Massimo Rocca, dal canto suo, non aveva disarmato. Colto di sorpresa (così  almeno rivelava «Il Giornale d’Italia» del 29 settembre) dal provvedimento  disciplinare comminato nei suoi confronti, era subito passato al contrattacco,  dichiarando in un’intervista che la Giunta, essendo parte in causa, non aveva  diritto alcuno di decidere della sua espulsione e che, in ogni caso, egli non  sarebbe indietreggiato «di un millimetro». A primi di ottobre Rocca si ritirò  nella sua Torino" e lì, accanto alla moglie (si era sposato da pochi mesi) e  ai familiari, attese la pronuncia del Gran Consiglio. Dal suo ritiro torinese  l’ex anarchico inviò a Critica Fascista un nuovo articolo, dai toni fortemente  retorici, col quale auspicava una ricomposizione dei contrasti in nome e in  ossequio alla «grandezza» d’Italia.       4 MagriO Giona, Commiato, «Il Maglio», 6 ottobre 1923.   L'articolo di Gioda uscì accompagnato da una nota redazionale, opera probabilmente di  Colisi Rossi, che definiva “inopportune” e ”intempestive” le parole del direttore uscente.   4? Cfr. «Il Giornale d’Italia», 30 settembre 1923.   In un editoriale del 30 settembre (/ncoscienza?) «Il Popolo d’Italia» plaudì alla richiesta di  dimissioni avanzata da Mussolini alla Giunta Esecutiva. Quest'ultima - secondo l’organo  milanese - aveva mancato di rispetto al “duce”, il quale, oltre a non esser stato messo al  corrente del proposito di mettere fuori gioco Massimo Rocca, era allora interamente assorbito  da impellenti questioni di ordine internazionale e non doveva essere trascinato in polemiche  artificiose. «Egli — scriveva il giornale diretto da Arnaldo Mussolini — ha altro da fare. I capi  fascisti delle provincie devono finalmente intenderlo [...]. Se i fascisti locali non intendono  ciò, essi non capiscono nulla del Fascismo e sono indegni di appartenervi».   4 La Giunta Esecutiva si dimise infatti il primo ottobre. Cfr. «Il Popolo d’Italia», 2 ottobre  1923.   % «L’Epoca», 30 settembre 1923.   4 Cfr. «Il Piemonte», 4 ottobre 1923.   4? Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo].    153    AI cospetto di un fatto così grandioso — scriveva - [...], noi, uomini che alla nuova  creazione abbiamo con devota umiltà collaborato, dobbiamo sentire la nostra  pochezza individuale al confronto con la creatura che non è soltanto nostra e ci  sovrasta nello spazio e nel tempo [...]; dobbiamo comprendere che nulla sarebbe più  folle, più sterile del voler monopolizzare l’Italia nuova per noi [...]. Dobbiamo  sentire che anche il Fascismo è una parte, certo la migliore, ma non il tutto del  fenomeno storico di cui siamo propulsori e trascinati assieme: che la grandezza del    ai è possibile solo in quanto s’inquadra nella grandezza d’Italia e le serve di  ase    Nelle intenzioni dell’autore queste parole avrebbero dovuto «placare ogni  dissenso personale». In realtà, trascinato dal suo temperamento, Rocca si  era ormai invischiato in una fitta ragnatela di polemiche. Tipica, in questo  senso, la controversia che lo oppose in quei giorni a Ferruccio Lantini, uno  dei maggiori esponenti del fascismo ligure. Sulle colonne del suo giornale  Lantini — ch’era membro della Giunta Esecutiva - aveva duramente attaccato  Rocca, definendo la campagna revisionista «denigratrice, svalorizzatrice ed  offensiva», e denunciandone la «ben meschina» origine, «di carattere  prematuramente e comicamente elettorale». In una lettera di poco  successiva, Rocca replicò al suo detrattore con una serie di accuse  minuziose, in particolare rinfacciandogli di «aver disertato la battaglia  fascista» nei giorni infuocati dello sciopero “legalitario””, salvo poi       4 MAssIMO ROCCA, L ‘intangibile grandezza, «Critica Fascista», 8 ottobre 1923 (anche in ID.  Idee sul fascismo, cit., pp. 79-86). f  L'articolo in questione fu pubblicato nei giorni successivi anche da «Il Piemonte» (10  ottobre) e «L’Impero» (11 ottobre).  di ID., /dee sul fascismo, cit., p. 86.   FERRUCCIO LANTINI, Dichiarazione, «Il Giornale di Genova», 29 settembre 1923.   AI breve editoriale di Lantini faceva seguito una chiosa di Giovanni Pala, il Fiduciario  provinciale per la Liguria (nonché condirettore del giornale), che si professava  «completamente solidale» con l’autore. Fin dal suo apparire, nell’estate del 1923, «Il Giornale  di Genova» aveva suscitato sospetti circa i suoi finanziamenti. In polemica con «Il  Messaggero», che in un articolo del 26 luglio aveva svelato i legami esistenti tra il nuovo  quotidiano fascista genovese e la Banca Commerciale, Pala aveva smentito seccamente,  dichiarando che la proprietà del giornale apparteneva alla società anonima “Compagnia  Editrice”, di cui egli era presidente (cfr. «Il Popolo d’Italia», 29 luglio 1923).   A Genova, tradizionale roccaforte del socialismo riformista, lo sciopero “legalitario” del  luglio/agosto 1922 aveva avuto pesanti conseguenze. Subito dopo la proclamazione delle  agitazioni, il 31 luglio, il Fascio genovese aveva dato corpo a un “comitato d'azione”, del  quale facevano parte, tra gli altri, Ferruccio Lantini, gli onorevoli Edoardo Torre e Alberto De  Stefani, e Massimo Rocca, il cui nome è però del tutto assente dalle dettagliatissime cronache  de «Il Popolo d’Italia», la qual cosa farebbe pensare ad un coinvolgimento minimo del futuro    154    isetitett fritti tti vu eten ida PP PIPPIOS             servirsene, accampando benemerenze inesistenti, per farsi eleggere  Consigliere Comunale”. La diatriba Rocca/Lantini si trascinò a lungo, in un  intreccio di querele e cavalleresche quanto stucchevoli sfide a duello  (peraltro sempre “onorevolmente” risolte, senza bisogno d’incrociare le  armi) *, a tutto scapito della credibilità complessiva della campagna  revisionista”*.   Il 12 ottobre, come previsto, si riunì il Gran Consiglio del Fascismo. Al  termine di una lunga seduta fu votato un ordine del giorno che tramutava  l’espulsione di Massimo Rocca in una ben più blanda sospensione di tre       leader revisionista nei disordini di quei giorni. Al termine di una settimana di aspri scontri, i  fascisti si erano ritrovati padroni del capoluogo ligure. Obiettivo principale della violenta  offensiva fascista era stato il Consorzio autonomo portuario, cuore del potere socialista a  Genova, che riuniva le cooperative portuarie “rosse” e aveva di fatto il controllo del porto.  Nel pomeriggio del 5 agosto, dopo che nella mattinata i capi fascisti avevano lanciato un  manifesto contro «la camorra portuaria dei vigliacchissimi socialisti» («Il Popolo d’Italia», 6  agosto 1923), le camicie nere genovesi, con il concorso di squadre giunte da Carrara, da  Alessandria e da Torino, avevano assaltato Palazzo San Giorgio, sede del Consorzio  (nell’attacco, che fece numerose vittime, era rimasto ucciso lo squadrista carrarese Primo  Martini, poi entrato trionfalmente nel martirologio fascista). Il senatore Nino Ronco,  presidente del Consorzio autonomo, era stato costretto a firmare una dichiarazione capestro,  con la quale si era impegnato a revocare le concessioni di lavoro alle cooperative socialiste.  Per la versione di parte fascista, v. La cronaca delle giornate di Genova, «Il Popolo d’Italia»,  8 agosto 1922. Su questi avvenimenti v. altresì ANTONINO REPACI, op. cit., pp. 45-49.   5 La crisi del fascismo in Liguria documentata in una gravissima lettera di Massimo Rocca a  Ferruccio Lantini, «Il Secolo XIX», 3 ottobre 1923 (anche in «Il Giornale d’Italia», 4 ottobre  1923).   «Il Secolo XIX» seguì con partecipazione le polemiche tra revisionisti e intransigenti,  mostrando di parteggiare chiaramente per i primi. Nondimeno, Rocca si risentì dell’avvenuta  pubblicazione della sua lettera a Lantini - a suo dire «non destinata alla pubblicità» - e ne  chiese “soddisfazione” al direttore del quotidiano genovese, Mario Fantozzi (cfr. Vertenza  cavalleresca, «Il Secolo XIX», 5 ottobre 1923).   5 A un certo punto, come riferiva il 6 ottobre «Il Giornale d’Italia», la vicenda assunse i  contorni di un vero e proprio «torneo».   5 Si aggiunga che anche il dissidio tra Rocca e Lantini celava un più vasto conflitto  d’interessi (di cui la vicenda dei finanziamenti a «Il Giornale di Genova» costituiva un  risvolto), riguardante i grandi gruppi economico/finanziari che si contendevano il controllo di  Genova: da una parte il trust formato dall’Ansaldo, dai fratelli Perrone e dalla Banca di  Sconto (allora in via di liquidazione), sostenuto dalla corrente del fascismo cittadino facente  capo a Giuseppe Mastromattei, amico ‘di Rocca; dall’altra la potente azienda armatoriale  Odero (e, dietro di essa, la Banca Commerciale), che aveva l’appoggio di Lantini e dei suoi  (su questi punti v. ADRIAN LYTTELTON, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929,  Bari, Laterza, 1974, pp. 300-301). Tale contrapposizione travagliò a lungo il fascismo  genovese, ‘dando luogo a laceranti lotte intestine. Il primo atto della crisi, il 29 settembre, fu il  pestaggio, ad opera di alcuni squadristi, del segretario delle locali Corporazioni fasciste, il  professor Luigi Loiacono, di cui erano note le simpatie revisioniste (cfr. «Il Giornale d’Italia»,  2 ottobre 1923),    155          +55 de i fee .  mesi”. Tutto, dunque, com’era nella volontà di Mussolini, si risolveva in un    accomodamento, e bene rimarcava «Il Giornale d’Italia» allorché scriveva  che:    Senza esaminare il merito delle polemiche da questi [Rocca] sollevate, è certo che  tra la prima condanna all’espulsione per indegnità politica e la sospensione per tre  mesi inflittagli ieri sera troppo ci corre, tanto almeno da far credere all’intervento di  un compromesso. Ma appunto fra i tumulti della politica e le variabili contingenze  che essa impone, i compromessi diventano non di rado inevitabili    Il Gran Consiglio decretò altresì un vero e proprio riordinamento del  partito””, nonché la nomina di Cesare Maria De Vecchi a governatore della  Somalia. L’allontanamento del futuro conte di Val Cismon dall’Italia (un  provvedimento ispirato da Mussolini, stanco di doversi misurare con le  irrequietezze del quadrunviro), fu una grande vittoria di Mario Gioda, il  quale - come si è visto - aveva avuto il coraggio di esporsi personalmente nel  dibattito sul revisionismo e poteva ora, mercé la messa in disparte del suo  rivale, aspirare a recuperare credito all’interno del fascismo subalpino. Ai  primi di dicembre, con la rielezione a segretario politico del Fascio di  Torino”, ebbe inizio l’ultima fase della sua vicenda politica.   In un'intervista di quel periodo, Gioda espose il suo progetto per la  “normalizzazione”. Occorreva — dichiarò - puntare sullo sviluppo dei  sindacati e delle cooperative, in modo da allargare la base effettiva del  fascismo e porre le condizioni per una piena collaborazione con le altre forze  sociali (al riguardo Gioda si disse convinto della possibilità di realizzare una  federazione di cooperative «di tutti i colori e di tutte le tinte politiche»).  Come a livello sindacale, così anche sul piano politico i fascisti avrebbero  dovuto ricercare «un insieme di aperta, onesta, equilibrata concordia» con       55 Per l’esattezza, il testo dell’ordine del giorno recitava: «Il Gran Consiglio prende atto delle  dimissioni della Giunta Esecutiva, revoca l’espulsione di Massimo Rocca e, per le  degenerazioni polemiche alle quali il Rocca stesso ha contribuito, lo sospende per tre mesi da  ogni attività di partito a cominciare dalla seduta odierna» («Il Popolo d’Italia», 13 ottobre  1923).   5 Una nuova fase, «Il Giornale d’Italia», 14 ottobre 1923.   V. anche Le importanti deliberazioni del Gran Consiglio fascista, «Il Nuovo Paese», 13  ottobre 1923, e l’articolo di Mario Carli // pa/ladio della rivoluzione, «L’Impero», 14 ottobre  1923.   5? La Giunta Esecutiva fu sostituita da un Direttorio di nove membri, cinque con funzioni    politiche e quattro con funzioni amministrative. Francesco Giunta divenne il nuovo segretario  generale del PNF.    8 Cfr. «Il Piemonte», 5 dicembre 1923.  Gioda non riassunse la direzione de «Il Maglio», che restò a Claudio Colisi Rossi,    156          «tutti gli elementi politici nazionali». Relativamente ai temi della violenza e  del rassismo, Gioda fu perentorio.    E’ oggi doveroso per i fascisti — affermò - orientarsi verso un'attività più Sa  ai tempi. A tutelare l’ordine bastano le disciplinatissime forze della milizia a  Fascio può svolgere la più intensa e doverosa attività per il suo Caveta nie cli È  è rappresentato unicamente [...] dal Prefetto [...1. Essendo paladini le 1A ri  fascisti sono e devono essere i primi a dare luminoso esempio [...]. De n ci br  grande partito moderno come il nostro non può [...] reggersi unicamente sulle Vi  o qualità politiche suggestive e trascinatrici di Tizio 0 di Caio. I ngi  vitali e poter operare fecondamente, non hanno bisogno del : divo’ DE  Mussolini in sessantaquattresimo, ma piuttosto di coltivare una ferrea  organizzazione che possa esprimere suna élite di dirigenti. Non dunque nu  compagnia di guitti attorno all’attore di cartello, ma un insieme di squisite cap:  che troveranno tutte [...] una dura parte da reggere    Il programma illustrato da Gioda nella sua intervista fu in seguito sottoposto  al giudizio del nuovo Direttorio del Fascio e approvato a voti unanimi.    Oltre il fascismo    La sospensione di Massimo Rocca attenuò ma non pose fine alla poni  revisionista, che, rimasta latente e come addomesticata nel tempo presse: Ha   le elezioni politiche del 6 aprile 1924, esplose nuovamente ad pi c iosa  per soccombere infine, una volta per sempre, nell arco di meno i un ie sà  Il fascismo, del resto (in ciò davvero svelando l’anima dinamica Hd  decantata dai suoi ideologi), era un corpo in continua trasformazione e le  circostanze che, nell’autunno del 1923, avevano reso possibile 1 pr  delle teorie revisioniste e l’affermarsi intorno ad esse di un intenso i % Ù n  — per quanto funzionale e condizionato -, non si sarebbero più simonos e pel  mesi successivi. Mutata la situazione politica, venuta meno, res me  ma inesorabilmente, la “benevolenza” di Mussolini, i sostenitori di suse  defilarono (chi per calcolo, chi — come Bottai — perché ormai persua       i i i i itico  59 Leo GALETTO, Problemi e propositi del fascismo torinese. Intervista col segretario pol    io Gioda, «La Gazzetta del popolo», 12 dicembre 1923. È o ;  ca parzialmente anche su «Il Maglio» del 15 dicembre) fu rilasciata da    Gioda all’ospedale San Giovanni, durante una delle sue ormai abituali degenze.    60 ; 3  Cfr. Ibidem, 22 dicembre 1923. | )  Il Direttorio era entrato in carica il 2 dicembre (cfr. /bidem, 8 dicembre 1923).    157       IRE SRPORT TE VINTO VE NIV APRO VO SPTOOT TOT PVA VIRPPOI PITT    dell’inanità della lotta), mentre i giornali che gli avevano dato man forte  manifestarono tutta la propria ambiguità, dapprima servendosi della  copertura revisionista nella logorante campagna diffamatoria contro il  ministro De Stefani, quindi, girato il vento, non esitando a passare dall’altra  parte della barricata. Così, quasi senza rendersene conto (e forse, come al  solito, presumendo troppo da se stesso), Rocca s’infilò in un cu/ de sac  vittima di un gioco che trascendeva ormai le sue forze, in poco tempo  mandando a rotoli la sua intera carriera politica. Oltre che a fattori esterni  certo, la sua disfatta fu senz'altro dovuta anche gravi errori personali.  Intrappolato nel vortice della polemica, compiaciuto della propria cultura,  Rocca conferì un tono sempre più concettuale e filosofico al suo  revisionismo e i suoi articoli si fecero vieppiù cervellotici, colmi di citazioni  libresche, in uno sfoggio di erudizione spesso fine a se stesso, con la  conseguenza — inevitabile - di distogliere il grande pubblico dal cuore del  problema e di stancare anche gli osservatori più benevoli, facendo apparire  la polemica revisionista — in confronto alle concrete argomentazioni di un  Farinacci - poco più che una bizzarria intellettuale.   Scontato il provvedimento di sospensione, Rocca riprese - inizialmente con  cautela — l’ordito dei suoi disegni. In una sequenza di nuovi articoli,  pressoché concomitanti, per «Il Nuovo Paese», per «Il Popolo d’Italia» e per  «Critica Fascista», l’ex anarchico tornò sul tema della legalità. Sebbene  “paretianamente” convinto che «l’indifferenza e la diffidenza nel Paese  verso il Parlamento fossero opera del Parlamento medesimo» (in virtù della  “degenerazione” dell’istituto parlamentare) ‘e dunque che la responsabilità  della crisi sistemica non potesse essere imputata unicamente alla  “rivoluzione” delle camicie nere, ma, semmai, ad un processo storico  irreversibile di cui detta rivoluzione era stata un fattore accelerante, Rocca  non cullava sogni palingenetici e restava assertore di un liberalismo  restaurato, restituito dalla cura fascista alla sua forza originaria. Dai ripetuti  episodi di squadrismo, e in particolare dall’aggressione del 26 dicembre a  Giovanni Amendola, Rocca trasse motivo per ribadire l’urgenza di ristabilire  il confronto politico entro i confini della normale dialettica costituzionale, e  l’obbligo, per il fascismo, di abbandonare le pratiche extralegali*”. Solo così  si sarebbe giunti «ad una nuova e più alta normalità», fondata sull’imperio  della legge, di cui il Governo a guida fascista avrebbe dovuto farsi garante       6 >  MassIMO Rocca, Fascismo e Costituzione, «Il Popolo d’Italia», 4 gennaio 1924 (anche in  In., /dee sul Fascismo, cit., pp. 96-103).    © Cfr. «Il Nuovo Paese», 3 gennaio 1924 (anche in ID., /dee sul Fascismo, cit,, pp. 87-95),    158          nel suo stesso interesse. Il primo segnale che i rilievi critici di Rocca  cominciavano ad esser mal tollerati, oltre che dagli irriducibili del  manganello, anche dai suoi alleati di settembre, si ebbe dal dietrofront de  «L’Impero». In un editoriale ispirato dagli articoli di Rocca, Emilio  Settimelli si chiese se, alla luce delle sue più recenti affermazioni, egli  potesse ancora esser considerato un fascista o non, piuttosto, un liberale a  tutti gli effetti. Nella sua replica, che non si fece attendere, Rocca non  dissimulò affatto il proprio filo-liberalismo. Il fascismo — scrisse - era un  «superatore» più che un «negatore assoluto» dei principi liberali. Infatti,  fatto salvo «il dogma della Nazione», la cui accettazione era il requisito  essenziale per potersi dire fascisti, tutte le libertà che non avessero  minacciato quel dogma e che non si fossero risolte «in una negazione della  Patria», dovevano essere rispettate. Sul piano strettamente politico, il torto  maggiore del liberalismo era - secondo Rocca - quello «di voler ancora  comprendere da solo tutta la società moderna», assai più complessa e  articolata che in passato, così come il difetto di fondo del parlamentarismo  era quello di voler fare del Parlamento, «un puro organo politico €  generico», uno strumento tuttofare. Era dunque necessaria un’inversione di  rotta e l’esecutivo fascista ne possedeva i mezzi nei Consigli Tecnici,  «l’unico proposito veramente rivoluzionario» scaturito dal fascismo, la pietra  angolare di ogni autentica riforma in senso tecnocratico””. A parte l'enfasi  posta sui Consigli Tecnici (quasi una sorta di compensazione psicologica a  fronte del naufragio dei “suoi” Gruppi di Competenza, dei quali essi  avrebbero dovuto raccogliere l’infruttuosa eredità), l’essenza delle  considerazioni di Rocca non si discostava da quanto egli aveva più volte  sostenuto in passato, con la differenza che nel fascismo pareva non esservi  più posto per simili posizioni. Non a caso, in contemporanea alla       s Ip., Tornare alla normalità, «Il Nuovo Paese», 5 gennaio 1924 (anche in ID., /dee sul  Fascismo, cit., pp. 115-124).   5 EMILIO SETTIMELLI, Fascista o liberale energico? (Risposta a Massimo Rocca),  «L’Impero», 19 gennaio 1924.   Più tardi, conclusasi la polemica revisionista con la definitiva espulsione di Massimo Rocca  dal PNF, Settimelli, in risposta all’accusa di doppiogiochismo lanciatagli da parte socialista  (cfr. La ritirata dell'Impero, «Avanti!», 17 maggio 1924), avrebbe rievocato proprio  quest'articolo quale prova della coerenza del suo giornale (cfr. “L'Impero e Massimo Rocca ”,  «L'Impero», 20 maggio 1924). Ciò non toglie che, nel giro di poco più di tre mesi,  dall’ottobre del 1923 al gennaio del 1924, l’organo romano avesse completamente mutato la  propria linea editoriale riguardo al revisionismo, passando dall’iniziale sostegno alla decisa  ostilità.   65 Massimo Rocca, Fascismo e liberalismo, Ibidem, 22 gennaio 1924 (anche in ID., /dee sul  Fascismo, cit., pp. 125-132).    159    a i idee    pubblicazione della risposta di Rocca a Settimelli, l'Ufficio Stampa del  Partito Fascista diramò un comunicato nel quale s’informava che il  Direttorio Nazionale aveva inviato «una lettera di deplorazione» a Rocca a  motivo dei suoi ultimi articoli’. Forse per evitare altri inconvenienti, il testo  di un discorso che Rocca avrebbe dovuto pronunciare il primo febbraio al  Teatro Scribe di Torino fu sottoposto alla preventiva approvazione del  “duce”, Ciò che colpiva nel lungo intervento torinese di Rocca (un vero e  proprio compendio della sua “dottrina dello stato”, quale era andata  formandosi negli anni) era l’assenza - certo non casuale - di qualsiasi  riferimento al Partito Fascista. Perciò, nonostante il discorso dello Scribe  non contenesse cenni al revisionismo, pure, in un certo senso, ne costituiva  lo “scheletro”, il fondamento concettuale. Nella filosofia di Massimo Rocca,  sintesi delle tre grandi direttive della sua esperienza politica, individualismo,  liberal/nazionalismo e fascismo, non c’era più spazio per la mediazione del  partito. Lo Stato, vertice della piramide, era il «dogma intangibile e  indiscutibile, superiore ad ogni temporanea formazione e vicissitudine  partigiana», superiore, quindi, allo stesso fascismo”.  Il discorso del primo febbraio fu l’ultima uscita pubblica di Rocca prima  dell’appuntamento elettorale del 6 aprile. Egli, tuttavia, non disarmò affatto e  anzi lavorò ad un volume antologico dei suoi scritti “revisionisti” (il più  volte citato Idee sul fascismo), che avrebbe visto la luce dopo le elezioni,  nell’ambito della collana “I problemi del Fascismo” diretta da Curzio  Suckert. Il libro, significativamente dedicato a Mario Gioda («un fratello che  sapeva valutare e comprendere la testimonianza d’un travaglio spirituale»)  » conteneva anche due inediti di grande importanza. Nel primo di essi,    intitolato Una legge agli italiani e recante la data del 15 marzo, Rocca ,    invocava l’avvento di una legge che fosse «inattaccabile nella sua  imparzialità serena, amministrata da uno Stato capace di farne sostanza della       86 «Il Nuovo Paese», 22 gennaio 1924.   9? Cfr. JI discorso di stasera del comm. Massimo Rocca, «Il Piemonte», 1 febbraio 1924.   8 11 testo completo del discorso si trova in /bidem, 2/3 febbraio 1924. (anche in MAssIiMO  Rocca, /dee sul Fascismo, cit., come La ricostruzione morale della Nazione, pp. 135-161).  Le considerazioni di Rocca ricevettero commenti benevoli da «La Stampa» (// discorso di  Massimo Rocca, 2 febbraio 1924), da «Il Nuovo Paese» (// discorso di Massimo Rocca a  Torino, 2 febbraio 1924) e financo da «Il Maglio», che ne definì l’intervento «un mezzo di  lento riavvicinamento all’anima del fascismo» (// discorso di Massimo Rocca, 9 febbraio  1924).   °° Massimo ROCCA, Idee sul Fascismo, cit,, p. IX.    160          sua eternità, al di sopra degli uomini e dei governi e dei partiti e delle  classiy”.   Il secondo inedito, // Fascismo nel pensiero moderno, rivelava pienamente i  segni dell’involuzione concettualistica che avrebbe contraddistinto la ripresa  della campagna revisionista. Perno di questa lunga e spesso contorta  digressione storico-politico-filosofica era la condanna della modernità, di cui  Rocca — come altri antimodernisti - individuava l’origine nella Riforma  protestante e di cui seguiva le successive incarnazioni, dal razionalismo allo  scientismo, per giungere, sul terreno politico, alle astrazioni della  democrazia demagogica e del socialismo. Contro la decadenza e la  dissoluzione d’ogni gerarchia innestate dalla critica moderna, s’era levata, in  passato, la rivolta isolata di alcuni spiriti liberi (Stirner, Bergson e Sorel), ma -  era in Italia - proseguiva Rocca - che la reazione “anti-intellettuale”’ aveva  dato i frutti migliori e più durevoli, generando prima la riscossa nazionalista,  poi quella futurista e infine, nello sfacelo generale del dopoguerra, quella  fascista. Ma il fascismo, pur nella sua grandezza, era ancora, per il teorico  del revisionismo, «una energia formidabile ma grezza, contenente i germi  d’una creazione grandiosa, ma solo abbozzata nelle linee principali»”. La  pienezza restauratrice del fascismo - concludeva Rocca - doveva passare  attraverso la riscoperta della centralità e della missione della Chiesa  Cattolica Romana, unica depositaria della certezza del “dogma”. Negli ultimi  due paragrafi del suo libro - I/ valore del Cattolicesimo e Fascismo e  religione -, Rocca immaginava un ritorno al dogmatismo cattolico (un altro  ritorno, dunque, dopo quello al liberalismo), prefigurando addirittura, quale  approdo ultimo del fascismo, una sorta di nazional-cattolicesimo sotto  l’egida della Chiesa”. La critica di Rocca al moderno e la sua rivalutazione  della tradizione mostravano non pochi nessi con la contemporanea  riflessione del Suckert, senza tuttavia possederne né l’originalità, né tanto  meno l’anima romantica e sostanzialmente “rivoluzionaria””?. Puramente e       7° Ibidem, p. 220.   ?! Ibidem, p. 348.   ?° Il riconoscimento del cattolicesimo romano come base fondante dell’unità nazionale e, più  in generale, della religione come elemento di disciplina, non solo morale ma politica, sarebbe  stato al centro della riflessione di Rocca anche nel secondo dopoguerra. Sulle pagine di  «ABC», la rivista fondata da Giuseppe Bottai nel 1953, Rocca avrebbe ampiamente trattato  questi temi, sia sotto un’angolatura puramente storico-filosofica, sia in riferimento alla nuova  situazione politica italiana, indicando nell’autorità e nella dottrina della Chiesa cattolica  l’unico vero antidoto alla “degenerazione partitocratica” caratterizzante l’Italia repubblicana.  DA proposito dell’antimodernismo quale componente dell’ideologia fascista e della sua  centralità nella riflessione di Curzio Suckert, v. EMILIO GENTILE, op. cit., p. 276 ss., € MICHEL    161       deliberatamente conservatrice, la concezione politica dell'ex anarchico lo  faceva dunque assomigliare più a De Maistre che a Mazzini. AI di là di  queste considerazioni, era ormai chiaro che Rocca esprimeva posizioni  personali, che difficilmente, con l’eccezione di pochi intellettuali, avrebbero  trovato nel fascismo persone disposte a confrontarvisi (non a caso Roberto  Farinacci, il genuino rappresentante della base fascista, non avrebbe esitato a  farsi beffe degli scrupoli cattolici del suo avversario) ?*    Le elezioni del 1924 e la crisi del fascismo torinese    Massimo Rocca e Mario Gioda parteciparono alle elezioni nelle file del  “listone” governativo”. La candidatura di Rocca incontrò invero moltissime  difficoltà. Apertamente osteggiato dagli intransigenti, il /eader revisionista  dovette rinunciare a “correre” nel sicuro collegio di Torino (dove fu invece  candidato Gioda) ‘°, per accontentarsi di un posto in 1 quello di Milano/Pavia,  non senza incontrare le forti resistenze di Farinacci”. Sembra, peraltro, che  Gioda avesse condizionato la propria candidatura alla presenza nel “listone”  dell’amico Rocca. «Avendo'il Rocca — rilevava infatti un giornale torinese -,  con cui Gioda è pienamente solidale, accettato la candidatura in Lombardia,       OSTENC, op. cit., pp. 165 ss. Sul pensiero politico dell’intellettuale toscano v. la monografia di  GIUSEPPE PARDINI, Curzio Malaparte. Una biografia politica, Milano, Luni, 1998.   4 Non solo Farinacci, a dire il vero. E’ singolare che, proprio nel 1924, quasi a voler  rinverdire le polemiche d’anteguerra, la comunità anarchica di New York, gravitante attorno  al giornale «Il Martello» (uno degli organi più autorevoli dell’anarchismo italiano all’estero),  desse alle stampe un libretto, intitolato Dio e patria nel pensiero dei rinnegati, che, accanto a  vecchi scritti anticlericali di Mussolini e di Hervé, riproduceva il testo di una conferenza  tenuta da Rocca a Providence nel dicembre del 1910, allo scopo di dimostrare che il  mangiapreti d’un tempo era in realtà un “voltagabbana”. Due anni dopo, peraltro, il foglio  anarchico italo/americano non si sarebbe peritato di dar spazio ad un articolo dello stesso  Rocca (ormai un fuoruscito politico), violentemente critico nei confronti di Mussolini (cfr.  Massimo Rocca, La verità su Mussolini, «Il Martello», 14 agosto 1926).   75 Su tutte le vicende legate alla decisiva consultazione elettorale del 6 aprile 1924 v. RENZO  DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 518 ss.   1 Cfr. «Il Piemonte», 19/20 febbraio 1924.   ? Il ras di Cremona non fece mistero di non condividere la candidatura Rocca. Solo dopo la  diramazione della lista ufficiale dei candidati, avvenuta il 18 febbraio, Farinacci si rassegnò  ad accettare il fatto compiuto. «Ora che le liste sono approvate, col sigillo del Duce e del PNF  - scrisse con evidente disappunto - , dev’essere bandita ogni discussione, anche se nel listone  [...] V'è qualcosa d’indigesto; vi è il nome di qualcuno che credevamo che la rivoluzione  nostra avesse sepolto per sempre» (ROBERTO FARINACCI, Ora basta!, «Cremona Nuova», 19  febbraio 1924).    162       il Segretario politico del Fascio di Torino rimane candidato nella lista  nazionale*».   Quella di Rocca fu, necessariamente, una campagna elettorale in tono  minore”, né molto diversa — a causa della salute malferma — fu quella di  Mario Gioda*°; ciononostante, entrambi risultarono eletti alla Camera®'. Il  dopo elezioni aprì un’ennesima deflagrante crisi all’interno del fascismo  subalpino; crisi significativa perché, a prescindere dai fattori di ordine  ambientale, s’inscriveva nel più generale contrasto tra revisionisti e  intransigenti. Già all’inizio di febbraio «La Stampa» aveva posto l’accento  sui contrasti tra la «tendenza transigente [...] “filo-liberale’”» del fascismo  locale, «rappresentata da Massimo Rocca», e l’ala più, giottosa e ribelle,  nostalgica dei metodi squadristici, arroccata in provincia*. Come effetto di  queste lacerazioni intestine, la formazione della lista nazionale era stata  difficoltosa e, complessivamente, la percentuale di voti ottenuta; in Piemonte  da tale schieramento era risultata la più bassa d’Italia (il 43 12%) 8   A una settimana dalle votazioni, domenica 13 aprile, si riunì a Torino  l’assise dei Fasci provinciali. In un’atmosfera satura di tensione (il discorso    78 «Il Piemonte», cit.   ?° «Io — rinfacciò più tardi Rocca a Farinacci -, per disciplina verso il Duce, ho accettato di  abbandonare Torino, ove riempio i teatri con le mie conferenze a pagamento; e in Lombardia,  quando ho visto che i tuoi amici boicottavano la mia propaganda per farti piacere, me ne sono  andato, infischiandomi dei voti» (MASSIMO ROCCA, All'onorevole Roberto Farinacci despota  e censore, «Il Nuovo Paese», 15 maggio 1924).   ® La propaganda elettorale fascista fu inaugurata domenica 2 marzo con una serie di comizi  per la proclamazione dei candidati. Gioda non era presente al comizio torinese, ch’ebbe luogo  al Teatro Regio il martedì successivo, ma fece giungere all’assemblea una lettera  “programmatica”, nella quale si augurava che il confronto elettorale in Piemonte si  mantenesse nell’ambito della correttezza, come si conveniva ad una «lotta d’idee e non di  uomini», e professava «disciplina e fedeltà assoluta a Benito Mussolini» (// messaggio di  Mario Gioda ai fascisti torinesi, «Il Popolo d’Italia», 5 marzo 1924. Anche in «Il Piemonte»,  3/4 marzo 1924). Il segretario del Fascio torinese ebbe modo di illustrare direttamente il  proprio pensiero il 30 marzo, in un lungo intervento al Teatro Alfieri, che fu l’unica sua uscita  pubblica durante tutta la campagna elettorale (cfr. // forte discorso di Mario Gioda al Teatro  Alfieri, «Il Maglio», 5 aprile 1924).   8! Nelle 328 sezioni di Milano/città Rocca raccolse appena 413 voti di preferenza. Miglior  risultato ottenne in provincia, con 1.071 suffragi (cfr. «Il Popolo d’Italia», 10 e 11 aprile  1924). Di gran lunga più cospicuo il “bottino” elettorale di Mario Gioda: 5.694 preferenze in  Torino/città, 10.439 in provincia (cfr. «La Stampa», 8 e 11 aprile 1924).   82 Posizioni politiche e questioni di uomini in tema elettorale, Ibidem, 2 febbraio 1924.   83 A confondere ulteriormente le acque, accanto alla lista ufficiale si era presentato anche un  raggruppamento di fascisti “dissidenti”, guidato da Cesare Forni e Raimondo Sala, che  vantava un largo seguito tra gli agrari e gli squadristi più facinorosi e che pare godesse delle  simpatie di De Vecchi. Su tutti questi punti v. EMMA MANA, op. cit., p. 303 ss.       del segretario federale, Claudio Colisi Rossi, fu interrotto più volte), il  congresso si risolse in un tumulto generale, con violenti scontri tra i membri  del Fascio del capoluogo e i rappresentanti delle province”. Il punto era -  come ancora evidenziava «La Stampa» - che, dopo l’entrata in carica del  nuovo Direttorio, all’inizio di dicembre, e la svolta “normalizzatrice” avviata    da Gioda, 1 margini per una ricomposizione fra le due anime del fascismo  subalpino si erano definitivamente assottigliati.    di fascismo nella provincia — registrava l’organo giolittiano - tende ad avere una  Cuggino diversa da quella dell’attuale Direttorio [...], un carattere,  cioè, legalitario ma rude, antidemocratico ma ossequente delle gerarchie, quasi    intransigente, del tipo, insomma, che fu gi. è i  L de , È già ed è ancora definito coi i  schiettamente piemontese st GR    Nonostante da parte fascista si cercasse di minimizzare®, la gravità della  situazione era sotto gli occhi di tutti. Gioda, che non aveva preso parte alla  concitata assemblea provinciale, fu convocato a Roma dalla Direzione del  partito, «per chiarire la vicenda di Torino»®”. Le decisioni più importanti, in  realtà, erano già state prese, indipendentemente dalle valutazioni di Gioda  Sabato 19 aprile, Colisi Rossi annunziò lo scioglimento del Direttorio del  Fascio torinese e la nomina, in sua vece, di un triunvirato composto da Piero  Brandimarte, Alessandro Orsi e Pietro Gorgolini. Il provvedimento colse di  sorpresa Gioda, il quale, in un’accorata lettera a «Il Popolo d’Italia», lo  definì un «atto inconsulto e provocatore» e dichiarò di non riconoscere «nel  modo più assoluto [...] lo scioglimento del Direttorio del glorioso e  laborioso Fascio di Torino». La Segreteria Federale, forte  dell’approvazione dei vertici nazionali del partito, non si curò minimamente       84 pie È  si “a Incidenti ad un convegno fascista. Qualche contuso, «La Stampa», 15 aprile 1924.  86 x tt n   : In una lettera della Segreteria del Fascio di Torino al Prefetto (riportata da «Il Popolo  d Italia» del 16 aprile) l’organo giolittiano veniva accusato di «subdole esagerazioni». «Il  Maglio» del 19 aprile attribuì la responsabilità dell’«indegna gazzarra» a misteriosi  provocatori esterni, «elementi incoscienti, operanti per conto terzi».   «Il Popolo d’Italia», 18 aprile 1924,  Rs; situazione del fascismo torinese. Una vivace lettera dell'On. Gioda, Ibidem, 23 aprile  La lettera di Gioda era datata 21 aprile. Il giorno prima il segretario del Fascio torinese aveva  inviato un telegramma ancor più duro a Mussolini, definendo lo scioglimento del Direttorio  un «imbecillesco provocatore colpo di mano» e chiedendo la nomina di un «commissario    avente pieni poteri» che facesse piena luce su ;  pasa na $ quanto accaduto a Torino. ACS, MIN/S7%  DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., 1924, Busta 73. e          delle rimostranze di Gioda ed anzi ne riprovò la lettera come una  manifestazione di «deplorevole indisciplina»”. Alla fine di aprile giunse a  Torino Achille Starace, in qualità di “supervisore””, Su decisione di Starace  il decreto di scioglimento del Direttorio cittadino fu esteso all’intero  Fascio”!, la cui ricostituzione venne in seguito demandata a un commissario  straordinario, nella persona del ras Ferruccio Lantini”. La nomina  dell’intransigente Lantini, uno dei più accaniti avversari del revisionismo, ad  arbitro delle sorti del fascismo torinese aveva un evidente significato  ammonitore”. Gioda, ormai sfinito dalla lotta contro la malattia, uscì  definitivamente di scena, assistendo impotente alla rovina politica dell’amico  Massimo Rocca”. Minato dalla leucemia, il quarantunenne ex tipografo si  spense in un ospedale torinese il 28 settembre 1924.   Quale che sia il giudizio sulle sue idee e sulla sua azione (che avrebbe forse  potuto essere più incisiva ed influente, se le tortuosità programmatiche del  fascismo, le difficoltà incontrate nella gestione del Fascio di Torino - in  particolare l’annosa contrapposizione con De Vecchi — e le sue stesse  esitazioni e insicurezze non lo avessero impedito), e sorvolando sulle  celebrazioni postume dell’oleografia fascista”, è certo che con Mario Gioda       89 «Il Piemonte», 23/24 aprile 1924.   90 Cfr. Ibidem, 25/26 aprile 1924.   ?! Cfr. «La Stampa», 6 maggio 1924, e «Il Piemonte», 6/7 maggio 1924.   °° Cfr. «La Stampa», 14 maggio 1924, e «Il Piemonte», 14/15 maggio 1924.   9 Non a caso, l’arrivo di Lantini a Torino fu salutato con soddisfazione da «Il Maglio» del 17  maggio. In un precedente fondo, l’organo fascista - che significativamente non aveva dato  spazio alla nuova crisi del Fascio torinese - aveva aspramente criticato i revisionisti,  affermando di non credere «alla utilità di mutamenti programmatici nei postulati fondamentali  del partito» e negando addirittura l’esistenza del fenomeno “rassismo” (Rassismo,  revisionismo e speculazioni avversarie, Ibidem, 10 maggio 1924).   Sull’intera vicenda v. anche EMMA MANA, cit., p. 306-308.   % Il 17 maggio, dopo l’espulsione di Rocca dal PNF, l° «Avanti!» s’interrogò su quali  sarebbero state le reazioni di Gioda, ipotizzandone le dimissioni, come già avvenuto in  occasione della prima crisi revisionista (cfr. Le ripercussioni a Torino per l'espulsione di  Rocca). In realtà, come riferì ad Aldo Finzi il Prefetto di Torino dopo un colloquio con lo  stesso Gioda, questi reagì «serenamente», ormai rassegnato, consapevole forse di non poter  cambiare il corso degli avvenimenti. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Gabinetto Finzi, 1924,  Busta 13.   si Esemplare, a questo proposito (oltre agli articoli commemorativi de «Il Popolo d’Italia», de  «Ii Piemonte» e de «Il Maglio», pubblicati all’indomani della sua morte), il già citato  volumetto La vita di Mario Gioda narrata da Giovanni Croce. Nel secondo dopoguerra, la  memoria di Gioda fu recuperata nella cerchia del sindacalismo di estrazione fascista (più  propriamente salodina), organizzato nella CISNAL. «Fondatore Mario Gioda» campeggiava  sul frontespizio della nuova serie de «Il Maglio», nel 1959, come “periodico del sindacalismo  nazionale”, In uno dei suoi primi numeri comparve un sentito ricordo di Gioda, firmato da    siii. ef .1.}       scompariva un protagonista appassionato di una fase cruciale della storia  politica italiana, una figura complessa e contraddittoria, in un certo senso    simbolo dell’irriducibilità del fenomeno fascismo ad un unico criterio  interpretativo.    Pa seconda campagna revisionista e la definitiva sconfitta di Massimo  occa    Alla fine di aprile, mentre si consumava la crisi del fascismo torinese.  Massimo Rocca riaprì formalmente il fronte revisionista, con l’intenzione 2  come confessò più tardi - «di giungere ad un risultato pratico di epurazione e  di chiarificazione»®. In una lucida intervista a “L’Epoca”, che riattizzò  immediatamente il fuoco delle polemiche, il neo-deputato ribadì uno ad uno  i capisaldi del revisionismo. Di nuovo, Rocca aggiunse un esplicito attacco  contro quelle «classi industriali». che, «prive d’ogni idea generale  nobilitante», s’illudevano «di assolvere ogni loro dovere verso la patria e la  civiltà» foraggiando i vari “capetti” fascisti, «in cambio di utili tranquilli»?”?.  Alla domanda, conseguente, se egli ritenesse possibile e opportuno un  «orientamento verso sinistra» del fascismo, Rocca replicò: «Verso una  sinistra politica, democratica o liberale d’idee, no. Verso una democrazia di  fatto, nel senso di appoggiarci su larghi strati di popolazione [...], si».   Il governo fascista - osservò Rocca -, uscito rafforzato dalle consultazioni  politiche, aveva il dovere, e insieme la necessità, di ampliare la propria base  favorendo, a tal scopo, «una profonda collaborazione» tra le diverse  componenti della società civile e del mondo del lavoro. Una collaborazione       Edoardo Malusardi, che di quel giornale fu usuale collaboratore (cfr. MALUS, Ricordando  Mario Gioda, «Il Maglio», 15 marzo 1959).  a MAassIMO Rocca, A Roberto Farinacci despota e censore, cit.   Il nuovo orientamento del fascismo. Intervista dell ‘«Epoca» con l'on. Massimo Rocca,  «L’Epoca», 27 aprile 1924. j  Rocca riprese questi concetti in un articolo del 10 maggio su «Il Nuovo Paese» (//  bolscevismo degli industriali). Il fascismo - scrisse in quella circostanza - non era nato per  tutelare gli interessi delle «cricche industriali/finanziarie». AI contrario, «troppi nuovi e  vecchi imprenditori vedevano nell’Italia un paese di conquista economica, proprio come certi  “ducini” pseudo-fascisti vedevano nelle città e nelle provincie un terreno di conquista politica  e militare». Tra i due deprecabili fenomeni - aggiunse Rocca — vi era un nesso profondo, in  quanto gli squadristi «dell’ultima ora» erano sovente finanziati da industriali e proprietari  «senza scrupoli».    Il nuovo orientamento del fascismo. Intervista dell ‘«Epoca» all'on. Massimo Rocca, cit,    166          di questo tipo, fondata sulla «solidarietà nazionale» e non «isterilita da pure  considerazioni economiche o da un’opera di gendarmeria a favore di una  classe sola», poteva darsi soltanto a condizione che il Partito Fascista  abbandonasse ogni residuo settarismo per divenire finalmente parte  integrante della Nazione”.   A queste considerazioni Rocca, incurante dell’invito alla prudenza fattogli  pervenire dallo stesso Mussolini!” fece seguire altri interventi - soprattutto  su «Il Nuovo Paese»! -, ogni volta tornando sugli stessi concetti. In un  articolo particolarmente duro per il giornale di Carlo Bazzi (una sferzante  requisitoria contro le «camarille locali» fasciste), Rocca, quasi presentendo  la resa dei conti finale, sostenne che la normalizzazione non poteva più esser  rimandata. «Dopo le elezioni — scrisse - , il Paese ha diritto di pretendere un  assetto “definitivo” del Fascismo [...]. Il 1924 dovrà assolutamente assistere  all’inquadramento completo [...] del partito nella Nazione»!®?,   Com’era lecito attendersi, le rinnovate accuse di Rocca destarono una  pronta levata di scudi da parte del fascismo provinciale. Questa volta, però,  Farinacci e gli altri ras trovarono un insperato alleato nel ministro delle  Finanze Alberto De Stefani, una delle figure di maggior prestigio del  governo Mussolini!?. E’ noto, infatti, che la seconda “ondata” revisionista       9 Ivi.   «L’Epoca», diretta allora da Titta Madia (subentrato a Italo Carlo Falbo), dedicò — almeno  inizialmente — molta attenzione alla seconda fase della polemica revisionista. Pochi giorni  dopo la pubblicazione dell’intervista a Massimo Rocca, il quotidiano romano ne ospitò  un’altra, anch'essa molto importante, a Giuseppe Bottai (cfr. Le origini e le finalità del  revisionismo. Intervista dell'«Epoca» con l'on. Bottai, Ibidem, 7 maggio 1924).   100 «Mussolini — ricordava Rocca a questo proposito - mi fece pregare, da Paolucci de’Calboli  Barone, di abbandonare la polemica; rifiutai qualsiasi impegno in merito, perché volevo [...]  giungere ad una chiarificazione definitiva» (MASSIMO Rocca, Come il fascismo divenne una  dittatura, cit., p. 170).   101 «Il Nuovo Paese» prese, di fatto, il posto che, nel settembre/ottobre 1923, era stato de  «L'Impero» e de «Il Corriere Italiano». Il favore accordato dal giornale di Bazzi al  revisionismo era però caratterizzato da un’ambivalenza di fondo. Tipico, sotto questo profilo,  un editoriale del 7 maggio (Polemica revisionista), in cui, agli elogi a Massimo Rocca si  accompagnavano critiche all’eccessiva «astrattezza filosofica» delle sue tesi, il tutto in una  cornice di disinvolta celebrazione mussoliniana. Fin dalle prime battute, dunque, apparve  chiaro che «Il Nuovo Paese» mirava a garantirsi una via di fuga, nell’ipotesi, rivelatasi realtà,  che i revisionisti finissero per soccombere.   102 MassIMO ROCCA, Politica interna e disciplina nazionale, Ibidem, 9 maggio 1924.   Questo articolo apparve nel contesto di una rubrica dal titolo programmatico di “Mezzi per  normalizzare”.   193 I] veronese Alberto De Stefani, deputato dal 1921 (era stato eletto - come si è visto -  nell’ambito della lista fascista patrocinata da Edoardo Malusardi), era entrato nel governo  Mussolini come ministro delle Finanze, ereditando, dopo la morte del popolare Vincenzo    167    s’intrecciò con la violenta campagna scatenata contro De Stefani da «Il  Nuovo Paese» nel tentativo di sottrarre i propri equivoci giri d’affari alla  temuta opera moralizzatrice del ministro'. Secondo Renzo De Felice, il  coinvolgimento di Rocca in quelle oscure - e mai del tutto chiarite - manovre  fu probabilmente il prezzo che egli dovette pagare per conservare il sostegno  di Bazzi”, ma è certo, in ogni caso, che il leader revisionista ebbe in tutta  quella vicenda una parte solo marginale. Rocca, del resto, negò sempre di  esser sceso in polemica personale con De Stefani'%; e in effetti, sfogliando i  suoi articoli di quel periodo, non vi troviamo che sporadici accenni a  questioni economico/finanziarie e mai un riferimento diretto al ministro!””.  E’ bensì vero che Rocca (il quale era convinto che il programma elaborato  con Corgini nel 1922 fosse il migliore possibile e non aveva mai digerito il  suo accantonamento da parte di Mussolini) '°° pubblicò un intero volume  contro la politica economica di De Stefani, ma è anche vero che il libro uscì  nell’estate del 1925, quando della polemica montata da «Il Nuovo Paese»  non restava che l’eco!?. D'altra parte, il discredito derivante a quel giornale       Tangorra, avvenuta nel dicembre 1922, anche il Dicastero del Tesoro. La sua azione di  governo, sostanzialmente improntata ai postulati del liberismo classico, si articolò lungo tre  direttive principali: raggiungimento del pareggio (grazie soprattutto al taglio drastico della  spesa pubblica e all’introduzione di nuove imposte); contenimento della dinamica salariale;  ripresa di un liberismo doganale “controllato”. Cfr. Dizionario biografico degli italiani, cit i  Vol. 39, ad nomen. 4 fe   Su questi punti v. RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista, p. 451 ss.   «Il Nuovo Paese» rimproverava al ministro l’ostinazione nel voler perseguire a tutti i costi  l’equilibrio del bilancio, una politica definita esiziale per le risorse economiche della Nazione;  ma questa era - per così dire - l’accusa nobile, “di facciata”, essendo ben altri, in realtà, i  motivi dell’ostilità del giornale nei confronti di De Stefani. Tra le principali imputazioni  mosse al ministro, la più importante - perché più strettamente connessa agli interessi della  lobby sottostante all’iniziativa editoriale di Bazzi - riguardava i suoi presunti favori alla  potente Banca Commerciale (accusata di mirare al monopolio di tutte le attività industriali,  bancarie e finanziarie), a discapito soprattutto della Banca di Sconto, già in via di liquidazione  (ofr. Per gli uomini di buona fede, «Il Nuovo Paese», 14 maggio 1924).   si Cfr. Renzo DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 597.   In una lettera successiva alla sua espulsione dal Partito Fascista (pubblicata il 27 maggio  1924 da «Il Corriere della Sera»), Rocca si sarebbe detto amareggiato del fatto che il suo  nome fosse stato collegato alla diatriba «Nuovo Paese»/De Stefani, sottolineando di non aver  «mai attaccato» il ministro.  1°? Una sola volta, con l’articolo La tirannide finanziaria (pubblicato da «Il Nuovo Paese» il  14 maggio), Rocca prese ufficialmente posizione nella polemica contro la Banca  Commerciale.   Ra Cfr. MAssIMO Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 103.   Si tratta di Fascismo e Finanza (Napoli, Ceccoli, 1925). Il libro, che faceva parte della   collana “Pagine Politiche” diretta da Renato Massimo Angiolillo, raccoglieva il testo di un          dai suoi ripetuti e spesso triviali attacchi a De Stefani ebbe un riflesso del  tutto negativo sull’azione di Rocca. Se per i fascisti delle province  l’integerrimo uomo di governo divenne un simbolo e uno strumento nella  lotta contro gli “affaristi” romani"!°, all'opinione pubblica moderata, che  aveva accompagnato con simpatia la campagna a favore della  normalizzazione del fascismo, le accuse di quello che veniva considerato il  principale organo revisionista ad un conservatore come De Stefani (il quale  godeva, tra l’altro, della stima di eminenti personalità del mondo politico ed  economico liberale, come Luigi Einaudi) apparvero incomprensibili e  gratuite!!!, mentre fu subito chiaro che Mussolini non avrebbe mai    accondisceso a liquidare uno dei suoi più validi collaboratori.       discorso pronunciato da Rocca alla Camera dei Deputati il 19 dicembre 1924 (anch'esso,  dunque, posteriore alla sua radiazione dal PNF) e una serie di “note”, datate maggio 1925,  nelle quali l’autore illustrava dettagliatamente i motivi del suo dissenso dalla linea politica di  De Stefani, ribadendo peraltro la propria estraneità alla polemica tra il ministro e «Il Nuovo  Paese», e definendo una leggenda l’opinione in base alla quale egli sarebbe stato espulso dal  Partito Fascista a motivo di essa (cfr. /bidem, p. 4). Quanto alla sostanza delle sue critiche a  De Stefani, il punto di partenza di Rocca consisteva nell’imputare al responsabile delle  Finanze il suo «economismo» professorale - troppo legato all’arida teoria e perciò fine a se  stesso - e la sua incapacità, per converso, di valutare l’evoluzione «sindacalista» della  produzione, colta invece dal programma economico fascista del 1922. «Per un economista di  tal razza — argomentava Rocca — esisteva soltanto la libertà economica, cioè della classe  borghese, ma non la libertà politica, cioè delle altre classi», con la conseguenza di favorire il  dominio della «plutocrazia bancaria e affaristica», la quale rappresentava «l’applicazione  quotidiana, esagerata e unilaterale [...] della scienza economica classica e borghese» (Ibidem,    . 9-10).   Pi «La lotta contro De Stefani — scrisse Farinacci in tono minaccioso - deve cessare. Il  Direttorio del Partito deve intervenire e sconfessare ancora una volta il “Nuovo Paese” e i  suoi collaboratori fascisti. Un ministro fascista come l’on. De Stefani non può essere lasciato  aggredire da chi è privo di ogni diritto e autorità morale» (ROBERTO FARINACCI, Solidali con  De Stefani, «Cremona Nuova», 11 maggio 1924).   !!! palla giolittiana «La Stampa» (ATTILIO CABIATI, // ministro De Stefani, 14 maggio 1924)  ai filo-fascisti «Il Giornale d’Italia» (Polemiche interfasciste sul “revisionismo” e pro 0  contro De Stefani, 14 maggio 1924) e «Il Resto del Carlino» (FEDERICO FLORA, Per  l'onorevole De Stefani, 15 maggio 1924), la stampa liberale prese, compatta, le difese  dell’uomo di governo veronese, l’energico restauratore delle finanze pubbliche. Il commento  di Flora per il quotidiano bolognese è forse il più indicativo di questo comune sentire. «Nulla  di più enigmatico e di più doloroso per il pubblico italiano — scrisse l’articolista de «Il Resto  del Carlino» — della campagna ostile contro il ministro De Stefani, riuscito in soli due anni  con una politica finanziaria coraggiosa e sapiente, che ricorda quella eroica di Quintino Sella,  a salvare le finanze italiane dal fallimento e il credito della Nazione dall’estrema rovina». I  revisionisti, complice la campagna de «Il Nuovo Paese» contro De Stefani, apparivano  dunque, alla maggioranza degli osservatori liberali, per sostenitori della finanza “allegra”, al  punto che tutti gli altri argomenti (la costituzionalizzazione del fascismo, il ripristino della  legalità ecc.), che costituivano la vera essenza del revisionismo, finirono per passare in    169    fe TE avitbicee    In un’atmosfera carica di equivoci e di tensioni, Massimo Rocca si avviò  incontro alla sua fine politica. Le diverse posizioni, ancora incerte al  momento della sua intervista a «L’Epoca», si andavano d’altronde sempre  più definendo. «L’Impero», dopo un lungo silenzio, scese in campo a dar  manforte a Farinacci. In un editoriale del 10 maggio - J/ pugno e la  biblioteca -, Emilio Settimelli prese le difese dei “selvaggi” delle province  (il “pugno”), accusando i revisionisti (la “biblioteca”) di filosofare  vanamente sui massimi sistemi, tradendo l’anima “guerriera” del  fascismo". A parte la disinvoltura dei suoi ex alleati, è però indiscutibile  che Rocca si compiacesse troppo di se stesso, abbandonandosi sovente a  virtuosismi da erudito (come testimoniato da scritti del tipo di La rivoluzione  e le fonti del Fascismo, uscito su «L’Epoca» in contemporanea all’articolo di  Settimelli), col risultato — come si diceva - di togliere mordente e  immediatezza alla polemica revisionista, facendola apparire, appunto, uno  sterile e noioso esercizio di critica filosofica.   A strappare definitivamente Rocca alle sue speculazioni provvide il 13  maggio Arnaldo Mussolini con un fondo durissimo per «Il Popolo d’Italia».    Gli onorevoli Massimo Rocca e Giuseppe Bottai — scrisse il fratello del “duce” -, ai  quali non si può negare perspicacia nello studio di grandi problemi, si sono dati a  demolire, a precipitare ciò che andava semplicemente attenuato [...]. I patriarchi non  si mettono a fare la boxe coi capi di provincia [...]. Se non ci fossero stati gli  squadristi, se non ci fosse stata la violenza [...], l'ordine, la disciplina, la ripresa di  tutta la nazione italiana sarebbero lontano o lettera morta, e nemmeno i facili critici       secondo piano e che la liquidazione di Rocca sembrò infine un mezzo necessario per salvare  l’integrità dei bilanci. Persino «Il Mondo», l’organo dell’opposizione costituzionale  amendoliana, che pure precisava di non tenere per nessuna delle parti in causa e che, in ogni  caso, non aveva mai risparmiato critiche all’operato di De Stefani, convenne  sull’inopportunità della campagna contro il ministro. «Indifferenti come noi siamo a qualsiasi  esito - scrisse infatti il giornale diretto da Alberto Cianca — [...] di una cosa sola possiamo  rallegrarci: che non abbia vinto una campagna che appariva troppo minata da rancori e da  vendette di uomini o di gruppi che si erano trovati in contrasto con le ragioni dell’erario, ed  avevano sferrato contro l'ostacolo De Stefani attacchi di stile inusitato perfino nell’attuale  depressione del costume politico» (// caso De Stefani, 17 maggio 1924).   2 La logica del «pugno in opposizione alla biblioteca» - replicò Rocca a Settimelli -,  l’esaltazione cieca della forza, il mito della «giovinezza», avrebbero condotto il fascismo alla  dissoluzione morale (Massimo Rocca, // problema morale del fascismo, «L’Epoca», 15  maggio 1924). Il problema di educare — e quindi di responsabilizzare — i quadri fascisti era  avvertito dai dirigenti più accorti. Dopo la “marcia su Roma”, nel pieno delle polemiche sullo  squadrismo, Edoardo Malusardi - allora a Sestri Ponente - si era battuto per l’apertura, nei  locali del Fascio, di una biblioteca di cultura varia, in modo da offrire ai giovani fascisti  un'opportunità di crescita “etica” e “intellettuale” (cfr. «Giovinezza», 11 novembre 1922).    170             di oggi potrebbero parlare da Roma, sprofondati su le buone piazze, col gesto ed il  tono ieratico degli eunuchi"!    Le brusche parole di Arnaldo Mussolini, in perfetto stile “farinacciano”,  colsero di sorpresa Rocca. Posto dinanzi anche all’improvviso - ancorché  non imprevedibile — voltafaccia de «Il Nuovo Paese» ‘, Rocca provò  dapprima a parare il colpo con una dichiarazione nella quale precisava di  non aver mai inteso offendere le “eroiche” camicie nere; quindi, di fronte  agli insistenti affondo di Farinacci, si decise a pubblicare una lettera aperta al  proprio rivale. Benché traboccante di retorica, la lettera di Rocca era un fiero  atto d’accusa a Farinacci (il «viceré spagnolesco di Cremona») e al fascismo  provinciale che egli rappresentava, degenerante nella «volgare brutalità del  cazzotto o del randello»!!°. E” stato scritto, molto suggestivamente, che in  questo modo Rocca «ridiventava l’anarchico Libero Tancredi esi preparava  a riprendere la via dell’esilio»!!”. Non sembra, tuttavia, che Rocca si fosse  del tutto reso conto d’esser giunto al capolinea della sua avventura  fascista!'*, sebbene non fosse difficile prevedere, come riuscì a un giornale       !!3 ARNALDO MUSSOLINI, La Fronda, «Il Popolo d’Italia», 13 maggio 1924.  Lo stesso giorno, con grande tempismo, «L'Impero» titolava: «Gridiamolo ancora: il  Fascismo ha fatto la rivoluzione per avere uno Stato fascista, non per appuntellare lo Stato  iberale». 3 ‘gu i i  ni «C'è una fronda in giro? — si chiedeva il 14 maggio il giornale di Bazzi, riecheggiando il  titolo dell'articolo di Arnaldo Mussolini — Non ci riguarda. Noi chiediamo anzi che sia  spezzata». ; ;  115 [a dichiarazione di Rocca fu pubblicata il 14 maggio da «Il Nuovo Paese» e ripresa, il  giorno seguente, anche da «Il Popolo d’Italia» e da «Il Giornale d'Italia». Farinacci, sul suo  giornale, si disse indignato per quella che considerava un’autentica «virata di bordo» da parte  del suo avversario («Cremona Nuova», 15 maggio 1924). In realtà, Rocca si era DERER a  esprimere il proprio apprezzamento per gli squadristi della “vecchia guardia” (come sO resto  aveva sempre fatto), senza giustificare in alcun modo le violenze dei «teppisti pc  quelli «di tutte le seste giornate», ma anzi sottolineando che egli avrebbe continuato a attersi  per l’«epurazione all’interno del panic affinché questo potesse realizzare «il suo genuino  di disciplina legale e materiale». } {   Ne Masino i A Gale Farinacci despota e censore, cit. (la lettera si trova riprodotta  anche in ID., Come il fascismo divenne una dittatura, cit, pp. 175-184). j li  Contemporaneamente alla lettera a Farinacci, Rocca diffuse un comunicato con il cbr no  notizia delle proprie dimissioni da vicepresidente dell’INA, nonché da membro del consiglio  di amministrazione della Società Anonima per le raffinerie petrolifere di Fiume, una carica  che ricopriva da qualche mese (cfr. «Il Giornale d’Italia», 16 maggio 1924, e «Il Nuovo  Paese», 17 maggio 1924).   !!7 Yvon DE BEGNAC, op. cit., p. 341. è ti  18 In. effetti, ancora dopo che il Direttorio fascista ne ebbe sanzionato il definitivo  allontanamento dal PNF, Rocca nutriva la speranza che il suo caso fosse riesaminato, come  già era avvenuto in occasione della sua precedente espulsione. «Ed ora — avrebbe dichiarato il    171    dell’opposizione, che la sua lettera a Farinacci ne avrebbe «con tutta  probabilità» determinato l’espulsione dal partito!!?.   La sera stessa del 15 maggio il Direttorio fascista, riunito a Palazzo Chigi  alla presenza di Mussolini (precipitosamente rientrato da una visita ufficiale  in Sicilia), decretò l’espulsione di Rocca dal PNF!°°, Essa, commentava «Il  Popolo d’Italia», non era solo: i    la punizione ad un sedizioso, ma [...] un monito severo e una minaccia solenne a  tutti quegli pseudo fascisti o falsi fascisti che rinnegavano la Fede, offendendo la  Patria e turbavano colla smania e la follia dell’arrivismo quel che era il dovere  fascista più grande: [...] la ricostruzione nazionale"?!    Il Direttorio decise altresì l’espulsione di Giuseppe Bottai, ma questi, grazie  all’intercessione di Giovanni Marinelli («non si sa a quali eéindizioni»  probabilmente la promessa «di rientrare nei ranghi») '’?, ottenne la revoca  del provvedimento, cosicché Rocca si trovò, di fatto, a sostenere da solo il  peso dell’epurazione.   Nel giro di pochi mesi, dunque, il revisionismo passò da una concreta,  benché ingannevole, speranza di successo al più cocente fallimento, mentre       18 maggio a «Il Giornale d’Italia» — più fascista che mai, se il fascismo è legge statale e  disciplina spirituale, non mi resta che tornare ad attendere [...] un po’ di giustizia, non  Importa se più tardiva che nello scorso settembre».   «Avanti!», 16 maggio 1924.  120 :   Cfr. «Il Popolo d’Italia», 16 maggio 1924.  221 Ivi.   «Ogni commento da parte nostra - rilevava Farinacci trionfalmente — è superfluo. Costui  [Rocca], da noi, era considerato fuori del fascismo già da un anno» (ROBERTO FARINACCI  Virando di bordo, «Cremona Nuova», 17 maggio 1924). i   GIORDANO BRUNO GUERRI, op. cit., cit., p. 75.   La marcia indietro di Giuseppe Bottai addolorò Rocca, che ne attribuì la ragione alle  preoccupazioni carrieristiche del giovane intellettuale fascista. «Bottai — avrebbe scritto  Rocca trent'anni dopo -, allora giovanissimo, temette di veder spezzata per sempre la sua  carriera» (Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 171). Il punto è  che il revisionismo di Rocca e quello di Bottai, sebbene concomitanti, muovevano da  premesse culturali e ideologiche sostanzialmente diverse. Al contrario di Rocca, infatti, che  vantava una militanza politica prefascista di tutto rispetto, Bottai, fatta eccezione per la sua  breve stagione futurista, si era formato politicamente con il fascismo, al quale aveva dedicato  tutto se stesso, e di cui — se così si può dire - poteva considerarsi l’unico vero “intellettuale  organico”. Nonostante l’approccio critico, quindi, la fedeltà fascista di Bottai non era  assolutamente in discussione. Fu così — come sottolinea efficacemente Guerri - che Bottai, il  quale «credeva nel fascismo come teoria politica», non volle rinunciarvi «sempre  ripromettendosi di migliorarne la prassi», mentre Rocca, «assai meno fascista e anebra molto  anarchico, piuttosto che accettare la disciplina di un partito che considerava irrimediabilmente  marcio, preferì rinunciarvi del tutto» (GIORDANO BRUNO GUERRI, op. cit., p. 76).          Rocca veniva abbandonato al proprio destino”. Perché Mussolini abbia  deciso di sacrificare Rocca, di cui aveva personalmente preso le difese meno  di un anno prima, è questione di non facile interpretazione. La risposta può  essere ancora una volta ricercata nella duttilità strategica del “duce”.  Mussolini, infatti, coltivava ancora il disegno di un allargamento della  maggioranza, da realizzarsi soprattutto grazie a un’intesa con la CGL; un  progetto a cui il capo del fascismo teneva in modo particolare e che, se non  fosse sopraggiunta la vicenda Matteotti, sarebbe probabilmente andato in  porto.    Un'operazione tanto importante — ha scritto Renzo De Felice — doveva essere  realizzata con le minime possibili scosse interne. Gli intransigenti dovevano essere  convinti ad accettarla [...]. Se il prezzo o una parte del prezzo da pagar loro era la  fine del revisionismo e la testa di Rocca, Mussolini non poteva certo esimersi dal    Rocca fu quindi vittima d’intricate manovre politiche, ma è giusto ripetere  che egli scontò anche gravi errori personali. Con la sua definitiva espulsione       123 | commenti della stampa italiana furono variamente ma unanimemente favorevoli alla  decisione del Direttorio. Emilio Settimelli, su «L'Impero» del 17 maggio, ebbe parole di  stima per Farinacci («il suo programma semplice e schietto, energico e fiducioso, è il nostro  programma») e di riprovazione per Rocca («Massimo Rocca non ha una visione chiara e  sintetica della situazione. E’ farraginoso e analitico»). «Il Resto del Carlino», che aveva visto  con favore la battaglia per la legalizzazione del fascismo, rimarcò la degenerazione  personalistica della polemica revisionista — concretatasi negli attacchi a De Stefani -  augurandosi che «il Rocca si convincesse dell’opportunità di rientrare in un completo  silenzio» (// provvedimento contro l'on. Rocca, 17 maggio 1924). Con argomenti simili, «Il  Giornale d’Italia», pur riconoscendo la validità del revisionismo «degli inizi», ne criticò  l’involuzione dottrinale («non si capiva quale fosse la meta, per quali vie concrete  raggiungibile, che i nuovi San Paolo si proponevano») ed espresse soddisfazione per  l'avvenuta risoluzione della crisi (Nube risolta, 18 maggio 1924).   124 Renzo DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 597.   A una successiva riunione del Gran Consiglio del fascismo, il 22 luglio 1924 (in piena crisi  Matteotti), Mussolini si mostrò ancora moderatamente ben disposto verso certe tematiche  revisioniste. «Dichiaro — disse il “duce” - che io non ho ben capito ancora dove i revisionisti  vogliono andare a parare. Bisognerebbe che questi nostri amici specificassero. Si tratta di una  ricaduta nello Stato democratico/liberale con tutti gli annessi e connessi? Si vuole invece  rivedere i quadri ed i gregari? O si vuole — come sembrerebbe logico — rivedere le posizioni  morali e politiche del Fascismo per adeguarle alla nuova realtà, cioè al possesso del potere  politico? In quest’ultimo caso, il revisionismo avrebbe una reale utilità. E evidente che,  assunto il potere, bisogna diventare dei legalitari e non continuare ad essere dei “ribellisti”.  Oppure il revisionismo vuole condurci ad un riesame delle nostre posizioni programmatiche?  Il revisionismo, insomma, è una porta sul futuro, o è un ritorno al passato?» (PNF, // Gran  Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista, cit., p. 146).    173    dal PNF, Massimo Rocca (che non si dimise da deputato e presenziò  regolarmente alla seduta inaugurale della nuova Camera, il 24 maggio 1924)  ©’ concluse la propria militanza politica. Senza mai sviluppare una precisa  coscienza antifascista, per tutto il resto della sua vita Rocca mantenne,  riguardo al fascismo, un atteggiamento ambivalente (potremmo dire di  odio/amore), di cui è testimonianza il suo libro del 1954, Come il fascismo  divenne una dittatura. Fatto segno a minacce e persecuzioni", in un primo  momento Rocca - in accordo con altri dissidenti - tentò la via  dell’opposizione interna'””; quindi, alla fine del 1925, lasciò l’Italia per la  Francia, dove visse a lungo come appartato (in rapporti di reciproca  diffidenza con la concentrazione antifascista) e in ristrettezze economiche,  scrivendo saltuariamente per «Il Pungolo», il giornale diretto dal socialista  Dandolo Lemmi che raccoglieva anche molti ex fascisti espatriati in seguito  alla vicenda Matteotti (fra i quali Cesare Rossi e lo stesso Carlo Bazzi) !°8,  Dalla Francia Rocca passò in Belgio, proseguendo la sua collaborazione a       15 Cfr. «Il Giornale d’Italia», 25 maggio 1924.    Rocca, privato della cittadinanza italiana dopo l’espatrio in Francia, fu dichiarato decaduto  dal mandato parlamentare nel novembre del 1926. Cfr. Atti Parlamentari, Camera dei  Deputati, XXVII Legislatura, Discussioni, 9/11/1926.   126 Rocca fu aggredito più volte: le più gravi a Roma, tre giorni dopo la sua espulsione, ad  opera di Gerardo Bonelli, Gigetto Masini e Gaio De Nardo (rispettivamente il segretario del  Fascio di Genova e i comandanti delle squadre d’azione genovesi), indignati per i riferimenti  contenuti nella lettera di Rocca a Farinacci circa i legami tra il fascismo genovese e i gruppi  armatoriali liguri (cfr. «La Tribuna», 20 maggio 1924); e in Galleria a Milano, il 13 luglio, da  parte di alcuni facinorosi squadristi milanesi. Cfr. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. Gen.  PS, Affari gen. e ris., 1923-1924, Busta 7 [Rocca comm. Massimo].   127 Un telegramma del Prefetto di Verona al Ministero degli Interni informava di una riunione  - avvenuta il 24 luglio 1924 in una trattoria di Peschiera -, nel corso della quale Rocca,  illustrando «il programma revisionista», propugnò «la formazione di fasci autonomi», che  avrebbero dovuto raccogliere tutti gli «elementi dissidenti degni di militare nel fascismo» (a  questo proposito Rocca lesse le adesioni di Cesare Forni, Aurelio Padovani, Raimondo Sala e  Pietro Marsich) e ricercare «la collaborazione dei combattenti e dei mutilati». Ivi.   Il progetto, caldeggiato da Rocca, di radunare tutte le diverse espressioni del dissidentismo  fascista intorno a un programma e a degli obiettivi comuni, prese corpo nella Lega Italica,  sorta su iniziativa del gruppo di Patria e Libertà — e sotto l’egida del poeta e drammaturgo  Sem Benelli, figura, se possibile, politicamente ancor più contraddittoria di Gabriele  D'Annunzio — a cavallo tra l’agosto e il settembre 1924. La Lega Italica, che avrebbe dovuto  costituire l’embrione di un vero e proprio partito dei dissidenti, si dissolse però nel giro di  pochi mesi, vittima dell’eccessiva eterogeneità e della fumosità dei programmi. Cfr. LUCIANO  ZANI, op. cit., p.420 ss.   ‘8 Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo].   Nel 1930, per l'editore parigino Alcan, Rocca pubblicò il libro in francese Le fascisme e  l'antifascisme en Italie, anticipante molti dei temi da lui in seguito sviluppati in Come il  fascismo divenne una dittatura.    174             ci 129  giornali e riviste — soprattutto di lingua francese’ - e sempre mantenendo,    nei confronti del regime, un contegno altalenante (nel 1935 lex anarchico  approvò pubblicamente l’impresa d’Etiopia, ma non ebbe esitazioni, in  seguito, a prendere posizione contro le leggi razziali). Rientrò in patria  soltanto nel giugno del 1948, dopo un periodo di detenzione nelle carceri  belghe", riprendendo a pieno ritmo la sua attività di pubblicista. Morì a  Salò, ormai novantenne, il 22 maggio 1973.       129 Tra questi spiccavano il settimanale «Cassandre» e il quotidiano «Le manna  entrambi editi a Bruxelles. Gli articoli di Rocca, per lo più firmati con pseu toni   il più ricorrente), vertevano principalmente su questioni di politica RENO È RAT:  136, Rocca fu arrestato subito dopo la sesta di sg Ù tgp ° so ta I È  Nel luglio del 1946 il suo nome apparve nella lista egl de ni   iale». L'ex anarchico negò sempre di aver avuto a che fare con nig   ela aa e nel maggio del 1948, su ricorso del figlio, St  cancellato dall’elenco (al riguardo v. MASSIMO Rocca, Come il dae pri, i  dittatura, cit, pp. 191-192). Ciononostante — a quanto i; a un FOA È  documentatissimo studio (MIMMO FRANZINELLI, / tentacoli dell OVRA. Seen co ADEN  e viftime della polizia politica fascista, Torino, Bollati Boringhieri, 19' ta pare ani  Rocca avesse fatto effettivamente parte dei quadri dell OVRA, celato sotto il nome    di Omero.    175    CONCLUSIONI    Le battaglie perdute sono generalmente dimenticate,  poiché i vincitori non sentono alcun interesse a ricordarle,  almeno quando si sono svolte entro uno stesso partito o una  stessa Nazione. Ciò non toglie che, se non gli uomini,  almeno le cose e le verità sconfitte alla lunga si vendichino,  attraverso le conseguenze del loro disconoscimento. Nulla è  più facile, ad esempio, che deridere e sopprimere certi  valori spirituali, quando si dispone della forza sufficiente  per impedirne la affermazione e persino il ricordo; nei  giorni della sventura tuttavia, cioè quando la forza vien  meno, si misura l’importanza negativa della loro assenza, e  meglio ancora la misureranno coloro che, più tardi,  cercheranno una spiegazione obiettiva agli avvenimenti  (Massimo Rocca, Una battaglia perduta: il revisionismo  del 1923, «ABC», 1 marzo 1959)    Con l’uscita di scena di Massimo Rocca, coincidente con il fallimento della  linea revisionista, ha termine questo libro. La caduta in disgrazia di Rocca  (cui si accompagnarono, pressoché contemporaneamente, la scomparsa di  Mario Gioda — e, prima ancora, la sua sconfitta politica - e il brusco  ridimensionamento delle residue velleità “libertarie” di Edoardo Malusardi),  può infatti essere assunta a limite cronologico della parabola storica  dell’anarcointerventismo, quanto meno di quella parte dell’anarcointerven-  tismo, qui presa in esame attraverso le vicende incrociate dei suoi principali  esponenti, che confluì nel movimento fascista. Se infatti, come giova  ripetere, sarebbe improprio, dal punto di vista della correttezza storiografica,  considerare l’anarchismo e il fascismo di Rocca, Gioda e Malusardi come  fenomeni correlati, quasi in relazione di causa ed effetto (perché il conflitto  mondiale comportò un’effettiva trasformazione della società italiana,  contribuendo a ridisegnare le tradizionali categorie politiche prebelliche; e  perché il fascismo, al di là delle sue molte anime, fu comunque un fatto  nuovo, impensabile senza la svolta epocale della guerra), pure, come  crediamo di aver illustrato, l’atteggiamento di fondo con cui questi  personaggi si accostarono al fascismo può in qualche modo esser ricondotto    177       alla loro formazione anarcoindividualista. In questo senso, riteniamo si possa  parlare della presenza, nel fascismo delle origini, di una piccola vena  anarchica, che, innestatasi in esso tramite l’interventismo, si esaurì,    progressivamente ma in modo inesorabile, con il consolidarsi al potere della  rivoluzione” fascista. 

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