1. Emilio Garroni non è stato soltanto uno dei filosofi italiani più impor- tanti del secondo dopoguerra, ma anche una figura di intellettuale complessa e sfaccettata. Trovandosi di fronte alle sue molteplici attività e ai suoi svariati interessi, si sarebbe tentati di concentrarsi – per i fini di questo focus di «Syzetesis» dedicato ad alcuni Momenti di filosofia italiana – sui suoi contributi più convenzionalmente etichettabili come “filosofici”, quali quelli dedicati all’interpretazione del pensiero critico di Kant, tralasciando tutto il resto: le pratiche di narratore e di pittore (attraversate da specifiche auto-tematizzazioni teoriche e oggetto di riflessione saggistica), l’interesse per la psicoanalisi e la linguistica, gli interventi sulle arti visive, la letteratura e la musica – talvolta affidati a quotidiani, settimanali o cataloghi –, i numerosi saggi, sempre incisivi, su temi di grande impegno, dalla creatività alla spazialità, dalla verità alla menzogna1. A questi diversi aspetti dell’attività di Garroni potrò in effetti fa- re solo qualche cenno, tuttavia ho scelto di presentarne il pensiero se- condo un’angolazione in cui il confronto con Kant ha certamente un posto di rilievo, ma solo in funzione di quella che mi sembra la vera vocazione o passione dominante di Garroni, e che il titolo di una lunga intervista concessa a Doriano Fasoli poco prima di morire, nel 2005, mi pare colga bene: Il mestiere di capire2. L’impegno costante a capire – capire quello che la vita e la storia ci mettono davanti, capire “dove si sta”, capire “cosa si prova a essere un homo sapiens”3, capire i prodotti della cosiddetta cultura, capire o com- 1 La bibliografia più completa degli scritti di Garroni, curata da A. D’Ammando, è dispo- nibile sul sito dell’associazione “Cattedra internazionale Emilio Garroni” (https://www. cieg.info/ [14.09.2020]). 2 E. Garroni-D. Fasoli, Il mestiere di capire. Saggio-conversazione, Edizioni Associate, Roma 2005. 3 Cfr. E. Garroni, Che cosa si prova ad essere un homo sapiens?, testo introduttivo a A. B. Ferrari, L’eclissi del corpo. Una ipotesi psicoanalitica, Borla, Roma 1992, pp. 7-16; Garroni ha poi rielaborato questo testo in uno dei suoi ultimi scritti, uscito postumo, La mente, il corpo, le cose, in P. Carignani-F. Romano (eds.), Prendere corpo. Il dialogo tra corpo e mente in psicoanalisi: teoria e clinica, Franco Angeli, Milano 2006, pp. 27-36. 268 Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale prendere la stessa attività di capire e comprendere, cioè la filosofia – è strettamente legato in Garroni alla riflessione su quel “senso dell’espe- rienza” che ho messo nel titolo di questo saggio. Un senso che non è affatto da intendersi come la pretesa metafisica di cogliere un “senso ultimo” dell’esistenza, della storia o dell’universo (su cui la filosofia, nella prospettiva critica adottata da Garroni, ha ben poco da dire), ma neppure come una dimensione immanente ma pacifica, in cui ci si installa con un po’ di buona volontà, rassicurandosi che, essendo una condizione antropologica, possiamo acquietarci nell’ordine vigente delle cose. Tutt’altro: per Garroni, come vedremo, il senso dell’espe- rienza è piuttosto un dover essere4, trascendentalmente ineludibile ma per niente garantito nei fatti, un compito etico irto di difficoltà, intima- mente paradossale, e sempre strutturalmente pronto a rovesciarsi in non-senso. 2. Per chiarire ancora qualcosa a proposito del titolo di questo inter- vento (la sua seconda parte, “l’estetica come filosofia non speciale”), è bene ricordare che per Garroni l’estetica non è affatto una filosofia dell’arte, una disciplina con un proprio oggetto epistemico o materia- le, ma riguarda le condizioni di possibilità di fare esperienze sensate in genere, nella vita quotidiana, nelle ricerche scientifiche, in tutte le attività umane, filosofia compresa. L’arte, semmai, è, o è stata per qualche secolo, un suo referente esemplare5. Per Garroni, infatti, è la stessa filosofia a doversi comprendere nella sua possibilità non empirica: la filosofia, come tutte le attività umane, è sì un’attività empirica, concreta, determinata, ma a differenza di altre attività, che mirano a produrre effetti pratici o conoscenze, ha piutto- sto il compito di «guardare-attraverso»6 le esperienze determinate, per 4 Cfr. E. Garroni, Sul dover essere del senso, in appendice a Id., Estetica. Uno sguardo- attraverso, Garzanti, Milano 1992 (seconda ed., Castelvecchi, Roma 2020, con un’in- troduzione di S. Velotti), pp. 245-270, testo presentato originariamente al convegno dell’Associazione italiana di studi semiotici “Semiotica ed epistemologia delle scienze umane” (Siena, 23-25 settembre 1988). 5 Cfr. E. Garroni, Senso e paradosso. L’estetica, filosofia non speciale, Laterza, Roma-Bari 1986, in particolare p. 179 ss. 6 Garroni usa il termine “guardare-attraverso”, con il trattino, per sottolinearne l’uso tecnico, quale traduzione del durchschauen usato da L. Wittgenstein nel § 90 delle Philo- sophische Untersuchungen, ed. by G. E. M. Anscombe and R. Rhees, Blackwell, Oxford 1953 (Trad. it. di R. Piovesan e M. Trinchero, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi 1967, p. 60: «È come se dovessimo guardare attraverso i fenomeni [die Erscheinungen durchschauen]: la nostra ricerca non si rivolge però ai fenomeni, ma alla ‘possibilità’ dei fenomeni»). 269 Stefano Velotti risalire alle loro condizioni di possibilità intellettuali e non intellettua- li, tra cui appunto una condizione estetica, come orizzonte di senso dell’esperienza nella sua totalità indefinita e indeterminabile. Il com- pito di capire è inteso innanzitutto proprio come questo «guardare- attraverso» i fenomeni per comprenderli, cogliendone le condizioni di senso. Il cosiddetto «problema interno della filosofia»7 – con un’e- spressione ripresa questa volta da Pantaleo Carabellese, che Garroni ammirava e le cui lezioni aveva frequentato da studente alla Sapienza negli anni Quaranta – è infatti per Garroni un problema fondamentale, che riguarda il paradosso fondante della filosofia, cioè il suo esercitarsi dall’interno della stessa esperienza dalla quale, a un tempo, si distanzia per comprenderla, senza mai poter rivendicare un proprio altrove, un suo luogo metafisicamente appartato. 3. Vorrei partire, però, da qualche spunto di carattere biografico, ma solo per quel tanto che ci permette di intravedere l’urgenza anche contingente, socio-biografico-culturale, di quella passione per il capire stesso, che Garroni non considerava affatto un’esigenza contingente. Da giovane, Garroni aveva lavorato per diversi programmi televisivi della RAI, in parte dedicati alle arti, in parte ad altre questioni (ricor- do, per esempio, un bel documentario del 1960 su Adriano Olivetti, con quella che divenne la sua ultima intervista). Lavorava alla RAI per necessità, non per vocazione, per quanto la RAI di allora fosse cultu- ralmente molto più ricca di quella di oggi. Sono tanti i programmi che potrei citare a cui Garroni lavorò negli anni Cinquanta e Sessanta: tra gli altri, Piazze d’Italia, Musei d’Italia, Avventure di capolavori, Arti e scien- ze, Le tre arti, e soprattutto L’Approdo, iniziato come trasmissione radio- fonica nel 1944, con la direzione di Adriano Seroni e Leone Piccioni, diventato programma televisivo dal 1963 (come “settimanale di lettere e arti”), più tardi accompagnato da una sua rivista a stampa, nel cui comitato direttivo si trovavano alcuni dei più importanti intellettua- li dell’epoca (Riccardo Bacchelli, Carlo Bo, Emilio Cecchi, Roberto Longhi, Giuseppe Ungaretti, a cui bisognerebbe aggiungere altri col- laboratori di spicco)8, per non menzionare, nella RAI, la presenza di figure molto diverse tra loro ma tutte significative, come Carlo Emilio 7 E. Garroni, Senso e paradosso, cit., p. 130. 8 Cfr. A. Dolfi-M. C. Papini (eds.), L’Approdo: storia di un’avventura mediatica, Bulzoni, Roma 2006 e A. Grasso-V. Trione, Arte in TV. Forme di divulgazione, Johan & Levi, Monza 2014. 270 Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale Gadda (tra il 1950 e il 1955) o, più tardi, di Andrea Camilleri, coetaneo di Garroni, o ancora di Umberto Eco, che di Garroni sarà, negli anni, un costante interlocutore. Garroni dà conto della sua attività televisiva in un’interessante in- tervista del 1994, da cui voglio prelevare solo una frase, apparentemente ovvia, ma credo invece rivelatrice del suo atteggiamento inflessibil- mente volto al capire: un curatore o conduttore di una trasmissione culturale, o sulle arti – dice lì Garroni – deve essere certamente colto, «ma c’è di più: deve essere, nel campo della letteratura, delle arti figura- tive, della musica, oltre che colto, anche intelligente»9. Sembra, e forse è, un’ovvietà: un conduttore di programmi culturali non deve essere uno stupido. Deve anche intelligere, deve capire. Deve insomma essere qual- cuno, precisa però subito Garroni, che sia «capace di far vivere un testo, di cogliere un problema che va a fondo, di far vedere o capire qualcosa di singolare che i più per pigrizia non vedono affatto»10. Emerge qui quell’avversione per la pigrizia, la sciatteria, la bana- lità e la semplificazione come le prime nemiche del capire, e dunque come un tratto costante di Garroni, che ha avuto conseguenze di ordi- ne diverso: non solo una prosa ritenuta spesso ardua – in realtà solo molto precisa, scrupolosa, controllata, mai fumosa o compiaciuta – ma anche l’avversione per una pratica che oggi seduce molti, anche i filo- sofi: occupare una casella nell’esistente, dare un marchio di fabbrica a se stessi, alla propria anche minima particolarità, e reiterarlo in ogni occasione, per garantirgli la massima riconoscibilità e diffusione sul mercato delle idee, al costo – naturalmente – di imbalsamarsi in un prodotto, rinunciando al compito di capire. Questo compito – inteso da Garroni come un compito intellettua- le, culturale ed etico-politico – coinvolge tutte le sue svariate attività: non solo l’estetica come «filosofia non speciale», cioè come filosofia tout-court, benché spesso praticata in una sua forma obliqua anche in relazione all’arte e alla letteratura; non solo il rapporto con la psico- analisi o lo studio del linguaggio, su cui sono nati, rispettivamente, il lungo sodalizio con Armando B. Ferrari e la duratura e profonda ami- cizia con Tullio De Mauro; ma anche l’attività giornalistica e, come vedremo – nelle modalità proprie, non certo assimilabili a quelle filosofico-argomentative – le stesse pratiche pittorica e narrativa. Garroni esordisce nel 1962 con un libro di racconti scritti negli anni 9 L. Bolla-F. Cardini, Le avventure dell’arte in TV, Nuova ERI, Torino 1994, p. 275. 10 Ibidem. 271 Stefano Velotti Cinquanta, a cui seguiranno altri testi narrativi, pubblicando un’opera singolare, La macchia gialla11, titolo ripreso da un’incisione di Dürer, riportata sulla copertina del libro, in cui si vede la mano di un uomo che indica un punto del suo addome, e una didascalia dello stesso Dürer che dice: «Là dove c’è la macchia gialla e dove indica il dito, là mi fa male». È un dolore, direi, insieme singolare e generazionale, che nel giro di due anni metterà capo a una lunga analisi della nozione di “crisi” nel suo primo libro filosofico-estetico – La crisi semantica delle arti12, su cui non posso soffermarmi. Né mi soffermerò sulla Macchia gialla, se non per citare un primo autoritratto di Garroni, un autoritrat- to verbale dell’autore da giovane (o non più tanto giovane, dato che aveva 37 anni), a cui seguirà venti anni dopo un secondo autoritratto, questa volta dipinto (su cui tornerò in chiusura). I curatori della colla- na “Narratori” dell’editore milanese Lerici erano due nomi di grande rilievo del mondo poetico-letterario, Romano Bilenchi e Mario Luzi, i quali presentarono giustamente questa notizia biografica, o autoritrat- to semi-ironico dell’autore da quasi-giovane, come segnato da «acume» e «humour». Ne riporto qualche riga, che suggerisce una motivazione anche socio-biografica, per reazione all’ambiente di provenienza, di quella passione per il “capire” che ho indicato come la passione domi- nante di Garroni: Sono nato a Roma nel dicembre del 1925, in un ambiente ab- bastanza sciatto e approssimativo, che non posso soffrire e al quale sono legato controvoglia, tanto più che certa piccola bor- ghesia romana ha le sue asprezze ma anche le sue tenerezze. Oltrepassata la trentina mi sono accorto che anche la mia for- mazione culturale è caratterizzata dalle stesse contraddizioni: una cultura apolide e spregiudicata e nello stesso tempo lacu- nosa e assai provinciale. Mi sono laureato nel 1947 in filosofia presso la Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Roma, 11 E. Garroni, La macchia gialla, Lerici, Milano 1962. Il testo, con la relativa copertina, è reperibile integralmente sul sito dell’associazione “CiEG - Cattedra internaziona- le Emilio Garroni” (https://www.cieg.info/ [14.09.2020]). 12 Ma, come ha scritto A. D’Ammando all’interno di un’ottima ricostruzione del percorso filosofico di Garroni (Il circolo estetico e il guardare-attraverso: la riflessione sull’arte di Emilio Garroni – Tesi di Dottorato in filosofia discussa alla “Sapienza – Università di Roma”, febbraio 2019), a cui rimando anche per un’analisi della Crisi semantica delle arti, «[s]i potrebbe affermare, in proposito, che “crisi”, al pari di “oriz- zonte” e “senso”, è una parola cara al pensiero di Garroni, almeno sotto il profilo del problema dell’arte e del suo statuto (quanto mai incerto e problematico)». 272 Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale con la quale intrattengo ancora rapporti abbastanza scialbi. Ho pubblicato saltuariamente saggi, note e recensioni di filosofia e storia dell’arte su riviste specializzate, settimanali e quotidiani. La saltuarietà del mio lavoro scientifico oggettivo dipende in parte da una certa attitudine alla dissipazione, e in parte dalla mancanza di tempo. Da molti anni collaboro infatti alla tele- visione dove ho fatto un po’ di tutto dedicandomi prevalente- mente in questi ultimi tempi alla redazione e presentazione di rubriche d’arte, con intenti (dico io) nobilmente divulgativi13. A queste parole si potrebbero accostare quelle scritte oltre trent’anni dopo, su richiesta del Manifesto, che aveva invitato ventisei persona- lità della cultura a raccontare la propria esperienza personale di una visita a un museo. Garroni scelse la Galleria nazione di arte moderna di Roma: Non so se fosse possibile negli anni trenta – con la cultura licea- le imperante, bene che andasse, in assenza di una mentalità più ariosa, volta a capire, non a accettare, con giornali e riviste non specialistiche di livello assai modesto – che un museo o una galleria d’arte potessero essere immediatamente formativi per un ragazzo. Anche le famiglie da cui provenivano erano per- lopiù ignoranti e disinteressate a tutto ciò che non fosse stret- tamente tradizionale, compresa la stessa tradizione, più subita come un dato eccelso e di fatto semisconosciuto, che vissuta come genuina cultura. [...] Non era un atteggiamento conservatore retrivo, ma semplice- mente passivo. Cosicché chi è riuscito poi a combinare qualco- sa ha dovuto fare quasi tutto da solo. [...] A otto-dieci anni, ero in balia della cultura e dei gusti mediocri della mia famiglia, e della cosiddetta borghesia romana cui essa apparteneva, e fui condotto più volte da certi miei zii, che si ritenevano intenditori d’arte, alla Galleria nazionale d’arte moderna [...] Voglio solo dire che quella galleria fu, negli anni trenta, il luogo della mia diseducazione. Il fatto è che una galleria o un museo non formano nessuno, se non si è già preparati a formarsi mediante ipotesi, anche sbagliate. Ma lì, in quelle visite sinistre, non erano in gioco ipotesi o sforzi per capire, ma solo meschine e dogmatiche edizioni del mondo dell’arte ne varietur. È strano che, crescendo, non mi sia allontanato per sempre dalle arti figurative. [...] [Così che la] Galleria nazionale d’arte moderna, ha avuto il me- rito, con il concorso determinante dei miei zii, di farmi capire 13 E. Garroni, La macchia gialla, cit., risvolto di copertina. 273 Stefano Velotti come non si guarda un quadro. Che è un’abilità indimenticabi- le, come andare in bicicletta14. Abbandono ora queste incursioni biografiche – che pur nella loro rapidità credo siano indicative del modo in cui Garroni si situava nei confronti della realtà, e quindi anche della sua attività filosofica – per cercare di indicare sinteticamente il nucleo centrale della sua rifles- sione più matura, intorno a cui si raccolgono questioni complesse e interessi anche eterogenei. 4. Ho già ricordato Pantaleo Carabellese – che, al di là degli esiti del suo «ontologismo critico», Garroni considerava «uno dei pochi inse- gnanti che ho avuto all’Università che fosse anche un grande filosofo»15 – perché è probabilmente uno dei tre punti di riferimento italiani più significativi per il suo pensiero, insieme a Luigi Scaravelli – per l’inter- pretazione di Kant – e poi, su un altro piano, a Cesare Brandi. Era stato infatti proprio Carabellese, in un articolo del 1921, ad aver criticato sia Gentile, sia Croce (come poi farà anche con Spirito e Calogero) per non aver colto il «problema interno della filosofia», la domanda, cioè, con cui la filosofia diventa problema a se stessa, si interroga sul suo luogo, la sua possibilità, le sue pretese. In una postilla del 1942, Carabellese spiegava così l’incomprensione da parte di Croce e di Calogero del problema da lui sollevato: Il vero è che il Croce e il Calogero (anzi il Calogero molto più del Croce) continuano a porre il problema della filosofia come pro- blema del suo oggetto, cioè non pongono veramente il problema interno della filosofia, ma soltanto e sempre il suo problema og- gettivo, e inconsapevolmente confondono questo con quello. Indicare come la filosofia il genere di realtà che essa dimostra o consente, come Calogero (filosofia della prassi) e Croce (storici- smo) d’accordo fanno, non è risolvere il problema interno della filosofia, ma non porlo neppure, ignorarlo. Con tale indicazio- ne, infatti, non si sa e non si ricerca neppure, che cosa sia mai la filosofia entro quella realtà che essa dimostra16. 14 E. Garroni, “Il piccolo Ottocento italiano”, in F. De Melis (ed.), La scoperta del museo. Ventisei guide sulla via dell’arte, Manifestolibri, Roma 1995, pp. 111-113, corsivi miei. 15 E. Garroni-D. Fasoli, Il mestiere di capire, cit., pp. 35-36. 16 P. Carabellese, L’ontologismo critico. Primi saggi II, Che cos’è la filosofia, Signorelli, Roma 1942, pp. 78-79. 274 Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale Il problema della riflessione sul senso, per Garroni si lega stretta- mente a quello che chiama «il paradosso della filosofia» nel suo libro del 1986, intitolato appunto Senso e paradosso. L’estetica, filosofia non speciale. È forse il libro più impegnativo che Garroni abbia scritto, e certamente uno snodo centrale nello sviluppo del suo pensiero. Lì Garroni cita Carabellese e il suo articolo del 1921, e la replica di Croce dello stesso anno, sostenendo che entrambi facciano valere un’esigenza legittima: Carabellese, quella appunto del problema che la filosofia è a se stessa; Croce, quella di ribadire, quasi con fastidio, che la filosofia si conquista il suo luogo proprio solo dall’interno della conoscenza e del fare concreti e storici. Entrambi, in sostanza, inten- devano rifiutare l’idea di un luogo separato della filosofia, ma non si rendevano conto della parzialità e complementarità delle loro posi- zioni, che se rettamente intese si compongono in quello che Garroni chiamerà appunto il «paradosso fondante della filosofia». Il dissidio tra Carabellese e Croce, infatti, prefigurava una antinomia non risol- ta, formulata da Garroni in questo modo: Un problema interno della filosofia va posto, dato che non è per niente ovvio che questa abbia un suo luogo appartato e neutra- le [e questa è la giusta esigenza fatta valere da Carabellese]; ma il porlo suppone che un luogo del genere esista e sia ovvio [e questa è la replica di Croce, che ritiene il problema di Carabel- lese insignificante]17. Garroni fa notare che il rischio che correva Carabellese, che pure po- neva un problema genuino di cui Croce si disfaceva troppo frettolo- samente, era quello di considerare la filosofia, in quanto si pone il suo “problema interno”, come una sorta di meta-linguaggio che si e- sercita su un linguaggio oggetto già compattamente costituito (una me- tafisica, o un sistema, quale era per lo stesso Carabellese il suo «onto- logismo critico»), perdendo di vista proprio quel paradosso che pure aveva fatto emergere e trasformandolo così in un paralogismo. Il modo giusto di far valere insieme le esigenze di Carabellese e di Croce è inve- ce comprendere la filosofia come «risalimento», o come quel «guardare- attraverso» che risale dalla concretezza dei fenomeni, dall’interno dell’e- sperienza concreta in cui stiamo, alle loro condizioni di possibilità, senza dar per scontato che una filosofia già si dia da qualche parte, e senza 17 E. Garroni, Senso e paradosso, cit., p. 131. 275 Stefano Velotti però neppure vederla disciolta nelle indagini oggettive. Quel «guardare- attraverso» deve essere inteso dunque come «un guardare-attraverso nel guardare, non un semplice guardare a meno di un taciuto guardare- attraverso»18. Richiamandosi a Merleau-Ponty, Garroni riassumeva così la sua posizione: «Una filosofia di questo tipo include la propria stranez- za, perché non è mai del tutto nel mondo e tuttavia non è mai fuori del mondo»19. Questa stranezza, questo paradosso fondante, era presentato da Garroni come una posizione fedele alla tradizione critica, in quanto opposta a posizioni metafisiche, nella specifica accezione di “non criti- che”, sia di stampo razionalistico, sia di stampo ingenuamente pragma- tista o empirista. Negli anni in cui in Italia Richard Rorty e il suo neopragmatismo sembravano raccogliere numerosi consensi (La filosofia e lo specchio della natura era stato presentato da Gianni Vattimo e Diego Marconi, che aprivano la loro introduzione sottolineando come questo libro si presentasse esplicitamente come «epocale»20), Garroni vi scorgeva una delle due prospettive metafisiche, non critiche, che può assumere lo sguardo della filosofia: da un lato, infatti, è certamente da rifiutare, con Rorty (e tanti altri) la pretesa di una God’s eye view, grazie a cui si presume di stabilire come stanno “veramente” le cose nell’esperienza umana, eccettuandosene: come di chi dicesse che tra noi e il mondo c’è un filtro fatto di schemi concettuali, culturali o intuitivi, presumendo contraddittoriamente di vedere la realtà di questa situazione al di fuori del filtro che varrebbe per tutti gli altri; ma anche di chi proponeva l’e- sperimento mentale dei “cervelli in una vasca”, magari – come Hilary Putnam – per confutarlo: per Garroni, porlo e comunicarlo è già confu- tarlo; immaginarlo o escogitarlo presuppone già un linguaggio sensato, pubblico e non escogitato. Dall’altro lato, altrettanto metafisica si presentava la posizione op- posta e complementare, apparentemente demistificante, di chi, co- me il neopragmatista Rorty, ci dipingesse come insetti intrappolati nel- l’ambra, cioè inesorabilmente immersi nella realtà e nelle sue determi- natezze, culturali storiche geografiche, per cui dovremmo rinunciare ad affermazioni che avanzano pretese universali, e dovremmo conside- 18 E. Garroni-D. Fasoli, Il mestiere di capire, cit., pp. 37-38. 19 Ibidem. 20 R. Rorty, Philosophy and the Mirror of Nature, Princeton University Press, Princeton 1979 (Trad. it. di G. Millone e R. Salizzoni, La filosofia e lo specchio della natura, Bom- piani, Milano 1986, p. V). 276 Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale rare piuttosto la filosofia come un genere letterario tra gli altri. Garroni replica: Rorty avrà anche ragione, ma commette un unico errore, affer- marlo. È questo quel «taciuto guardare-attraverso» – negato in teoria, e quindi fatto valere metafisicamente come un ritorno del rimosso – a cui alludeva Garroni nel passo citato poco sopra dell’intervista con Fasoli, cioè la pretesa di stare sempre alle determinatezze dell’esperien- za, di sbarazzarsi di ogni riferimento alla sua totalità indeterminabile, ma facendola valere surrettiziamente nella stessa pretesa di determinare tutta l’esperienza come il darsi di volta in volta di esperienze solo con- tingenti e determinate21. Per Garroni, infatti, non si tratta né di riguadagnare una posizione di sorvolo, né di muoversi sempre in aderenza assoluta alle esperienze concrete e determinate, proprio in quanto le chiamiamo esperienze concrete e determinate. Se davvero ci stessimo soltanto dentro a tali esperienze, non potremmo dirlo, ci staremmo dentro e basta, saremmo cose tra le cose22. Risalire l’esperienza concreta o guardare-attraverso i fenomeni dall’interno dell’esperienza concreta è, sì, essere come insetti nell’ambra, ma con la complicazione decisiva che anche il solo fatto di affermarlo attesta qualcosa che smentisce quell’immagine, in quanto trascende le esperienze determinate e attinge all’indeterminatezza del- l’esperienza nella sua totalità indeterminabile. 5. È questo movimento che Garroni ravvisa in Wittgenstein e, in una certa misura in Heidegger (sulla scorta dei quali la filosofia si configura, sì, come un domandare mediante domande determinate, ma che inclu- dono e rivelano un’autotematizzazione del domandare in genere23). Questo paradosso fondante è tutt’uno con la condizione di senso del- l’esperienza e può essere ricondotto a una delle forme antinomiche tematizzate da Kant, in particolare all’antinomia della facoltà di giudizio estetica, che, nel modo più schematico, Kant formula in questo modo: (1) Tesi: il giudizio di gusto non si fonda su concetti, ché altri- menti se ne potrebbe disputare (decidere mediante prove). 21 Questa argomentazione, qui appena accennata, viene sviluppata da E. Garroni nel primo capitolo di Estetica. Uno sguardo-attraverso, cit., pp. 11-53, anche in relazio- ne ad alcuni autori classici e a diversi autori contemporanei. 22 Su questo punto potrebbe aprirsi un confronto con il diversificato universo di alcu- ni nuovi realismi-materialismi oggi in voga (per esempio quello della flat ontology), che propongono una visione degli esseri umani proprio come “cose tra le cose”. 277 23 E. Garroni, Senso e paradosso, cit., p. 132. Stefano Velotti (2) Antitesi: il giudizio di gusto si fonda su concetti, ché altri- menti, malgrado le differenze dei giudizi, non se ne potrebbe neppure discutere (avanzare l’esigenza del consenso necessario di altri con tale giudizio)24. L’antinomia può irrigidirsi in una contraddizione, oppure essere com- posta (non eliminata, ma compresa e resa praticabile), come fa Kant, spiegando che nella prima tesi si tratta di concetti determinati, nella seconda di concetti indeterminati. Ora, la struttura di questa antino- mia, e il modo in cui Kant la compone, è omologa a quella che Garroni fa valere, per esempio, in relazione al linguaggio (il motivo per cui Rorty non può affermare quel che l’uso stesso del linguaggio confu- ta). Un saggio dedicato a De Mauro, L’indeterminatezza semantica, una questione liminare, si apre con una frase che annuncia la riproposizione della struttura dell’antinomia kantiana della facoltà di giudicare, che Garroni proporrà poco dopo: Che il linguaggio sia stato talvolta considerato atto creativo in- dividuale e irripetibile oppure realizzazione o replica, secondo regole, di possibilità già interamente previste non è semplice- mente un’alternativa fondata su due ipotesi esclusive e, prese alla lettera, perfino bizzarre. È qualcosa di più [...]25, in quanto entrambe le prospettive – inaccettabili nella loro esclusività – fanno valere «un’esigenza che [...] non può neppure essere lasciata cadere»26. E infatti poco dopo Garroni riprende anche la forma stessa dell’antinomia kantiana, enunciando una tesi e un’antitesi che esigo- no di essere composte: Tesi: l’uso del linguaggio presuppone la determinazione di uni- tà e regole, prima di ogni sua presunta possibilità indetermina- ta, ché altrimenti non potremmo usarlo e non ci intenderemmo nell’usarlo. Antitesi: l’uso del linguaggio presuppone l’indeterminatezza del- 24 I. Kant, Kritik der Urtheilskraft, in Id. Werke in zehn Bänden, vol. VIII, ed. W. Weischedel, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmastad 1975 (Trad. it. di E. Garroni e H. Hohenegger, Critica della facoltà di giudizio, Einaudi, Torino 1999, §56, p. 173). 25 E. Garroni, L’arte e l’altro dall’arte. Saggi di estetica e di critica, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 241. Il saggio era già stato pubblicato nel volume a cura di F. Albano Leoni et al., Ai limiti del linguaggio, Laterza, Roma-Bari 1998. 26 Ivi, p. 89. 278 Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale 27 Ivi, p. 92. 28 Ivi, p. 91. 29 Ivi, p. 105. la sua possibilità, prima di ogni unità e regole determinate, ché altrimenti non potremmo neppure determinare unità e regole per usarlo e intenderci [...]27. L’antinomia nasce dal fatto che «quando parliamo, usiamo il linguag- gio così e così, in certe sue espressioni determinate, e nello stesso tempo lo usiamo nella sua totalità possibile indeterminata»28 o, detto ancora altri- menti, «per un verso il linguaggio richiede come una sua propria condi- zione l’indeterminatezza e per altro verso, proprio perché la richiede, la nega in favore delle sue determinazioni»29: non si darebbero espressio- ni linguistiche determinate, dotate di questo o quel significato, se non le comprendessimo come tali, cioè nella loro determinatezza, e dunque a condizione di un riferimento a una totalità indeterminata che le rende possibili e che esse “negano” in quanto, appunto, determinate. È questo il nodo a cui Garroni arriva sempre, che indaghi il lin- guaggio o la percezione, l’organizzazione della conoscenza o le opere d’arte, l’esperienza quotidiana o la natura dell’homo sapiens. Ed è un nodo che si è chiarito proprio nello studio assiduo e prolungato di Kant, in particolare della terza Critica, la cui dialettica presenta quella specifica forma antinomica appena esposta. C’è una pagina, in questo saggio, che credo chiarisca molto bene il nesso di queste riflessioni sul linguaggio con la rielaborazione del pensiero kantiano, e che per questo motivo mi permetto di citare dif- fusamente: Ma l’analogia tra questa antinomia [kantiana] e l’antinomia del linguaggio esposta all’inizio non si ferma tuttavia a un’analogia imperfetta tra le rispettive correlazioni “concetto determinato/ concetto indeterminato” e “determinazione/indeterminatezza” del linguaggio. C’è in Kant un problema ancora più pertinente rispetto al nostro argomento. Vale a dire: c’è la questione del rapporto tra la facoltà di giudizio, da una parte, (per cui, soltanto, la conoscenza empirica effettiva è possibile oltre i giudizi sintetici a priori dell’intelletto: ciò che Scaravelli ha chiamato “tessitura analitica di tutti fenomeni”, e il principio della quale facoltà ha tuttavia statuto non-intellettuale, ma estetico), e la ragione, dall’altra (i cui concetti non hanno appli- cazione nell’esperienza e tuttavia sono altrettanto indispensabili 279 Stefano Velotti alla conoscenza empirica). Infatti la nostra conoscenza d’esperien- za, che è, sì, intellettualmente e sensibilmente determinata (pro- cede, per quanto le è dato, mediante costruzione di concetti, leggi e unificazioni di diversi leggi sotto leggi più potenti), non sarebbe possibile se non si inscrivesse innanzitutto nell’ambito di un’anti- cipazione della totalità indeterminata delle possibili conoscenze determinate – Kant scrive di “una conoscenza (di oggetti dati) in genere” –, se insomma, sull’occasione di rappresentazioni deter- minate, come nel caso esemplare dei cosiddetti giudizi di gusto, non avessimo coscienza forzatamente non intellettuale che una conoscenza d’esperienza è possibile. Esperienza possibile, però, non nel senso della possibilità della conoscenza in genere della prima Critica, (che ci dà appunto solo una tessitura analitica), ma nel senso che è possibile e ha in generale senso cercare di deter- minarla intellettualmente e sensibilmente nell’esperienza sotto il principio della facoltà di giudizio. Ma di questa totalità della conoscenza d’esperienza possibile né abbiamo una conoscenza a priori, né tantomeno possiamo fare una conoscenza di esperien- za. Non si fa esperienza di un’esperienza in genere. Ne sappiamo qualcosa in, non con un’esperienza determinata, cioè non la cono- sciamo, ma la sentiamo, mediante quel Gemeinsinn (senso o senti- mento comune, che abbiamo in comune, che ci assicura a priori della comunicabilità universale delle rappresentazioni e delle conoscenze), il quale esibisce sensibilmente e indirettamente ciò che non è propriamente esibibile e che la ragione può soltanto pensare. Qui la ragione, cioè l’idea indeterminata di una totalità, viene in qualche modo messa in scena sensibilmente mediante la facoltà di giudizio il cui principio riposa precisamente sul senso comune o il gusto, cioè mediante il sentire (esteticamente dunque) l’interna indeterminatezza del determinato30. «Sentire l’interna indeterminatezza del determinato» è uno dei modi per capire in che modo il paradosso fondante della filosofia fa della fi- losofia, come estetica non speciale, una riflessione sul senso dell’e- sperienza. Se vogliamo restare sul piano linguistico, possiamo dire in- fatti che dare significato ai concetti è determinarli, per esempio me- diante uno schema empirico o trascendentale, sempre a condizione di mettere in gioco un simultaneo e inevitabile riferimento all’inde- terminato, alla totalità indefinita del linguaggio o dell’esperienza, che solitamente resta implicita, e magari viene negata (come accadeva in Rorty), proprio in virtù di un surrettizio riferirvisi. 30 Ivi, pp. 110-111. 280 Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale 6. Il gioco delle parti tra senso e significati, e tra senso e non senso, è affrontato da Garroni in molte altre occasioni, ma viene tematizzato direttamente in una conferenza del 1988, poi pubblicata in appendi- ce al volume del 1992, Estetica. Uno sguardo-attraverso, con il titolo Sul dover essere del senso. Ora il problema non è tanto distinguere il senso dai significati, mettere in luce la condizione estetica di senso come anticipazione estetica dell’esperienza entro cui i significati possono significare, ma un problema ulteriore: riconosciuta questa condizione di senso che rende possibile e traspare in ogni significato determinato, non rischiamo infatti di «parificar[e] tutti [i significati] nel loro essere varianti di sensatezza, ‘seri’ nell’essere sensati come che sia, ma non altrettanto ‘seri’ nel loro proprio far senso?». Come se la filosofia critica, spinta fino a questo punto, rischi che il senso possa «riassorbire in sé la sensatezza che esso condiziona [...] Il senso, così, concederebbe sensatezza a tutti i sensi e i significati storici e proprio per questo la sottrarrebbe a ciascu- no di essi, convertendosi esso stesso in non senso»31. Un esempio concreto di questo problema, Garroni lo aveva scorto nel dilemma a cui deve far fronte l’antropologia in relazione all’etno- centrismo32: l’irrinunciabile rispetto che l’antropologia moderna ha costruito per ogni società altra rischia infatti, d’altra parte, di parifica- re ogni cultura come una variante di sensatezza, togliendole “serietà”. Il colonialismo e l’imperialismo, ovviamente inaccettabili, avevano però almeno il pregio di prendere le culture nella loro serietà33. Ma era proprio questo ciò su cui si interrogava Garroni: non tanto la questione delle culture altre, ma della nostra stessa cultura. E con- cludeva così: Le considerazioni appena svolte non hanno [...] una vera e pro- pria conclusione. Si può dire solo questo: che si è forse messo in luce qui un nuovo ossimoro, o una forma ulteriore del paradosso 31 E. Garroni, Estetica. Uno sguardo-attraverso, cit., p. 268. 32 Cfr. E. Garroni, Senso e paradosso, cit., p. 268 ss. 33 Si potrebbe sostenere che negli anni Novanta questo imperialismo della sensatezza sia stato proclamato (e poi smentito) da Francis Fukuyama nel suo libro The End of History and the Last Man (1992), mentre l’opposto – cioè il prendere la diversità delle culture nella loro serietà, e tuttavia prenderle così “seriamente” da negargli una dimensione comune di senso – veniva proposto di lì a poco da Samuel Huntington nel suo The Clash of Civilizations and the Remaking of the World Order (1996). Le due posizioni, insomma, potrebbero rappresentare tesi e antitesi di una antinomia non composta. Cfr. S. Velotti, Dare l’esempio. Cosa è cambiato nell’estetica degli ultimi trent’an- ni, «Studi di estetica» 1-2 (2014), pp. 339-367. 281 Stefano Velotti in cui consiste la filosofia, vale a dire: che il senso pare che debba essere considerato nello stesso tempo come non-senso, in quanto il suo dare sensatezza è nello stesso tempo un sottrarla [...] Forse il senso si profila ora come il dover essere-sensato. E qui, forse, ritroviamo – come già in Kant – la più profonda congiunzione tra le radici estetiche del senso e le radici etiche del dover-essere34. Il problema del “prevalere” della sensatezza sui significati e quindi del rovesciarsi del senso in non-senso è strettamente legato al problema spinoso della perdita di esemplarità dell’arte, della questione, cioè, se l’arte, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, non abbia pro- gressivamente ceduto a un’aderenza sempre più spinta alla realtà fino a confondersi semplicemente con la sua ottusità, il suo darsi di fatto, come mero “accompagnamento” del senso, avendo per lo più rinun- ciato al rischio di dare corpo e forma a quella «regola che non si può addurre» di cui parlava Kant nel §18 della terza Critica; una «regola» indeterminata che, non potendosi “addurre” – formulare o esplicitare – può essere, appunto, solo “esemplificata” in un esempio singolare, inassimilabile a un esempio inteso come membro di una classe. 7. Nell’ultimo, breve e denso libro di Garroni – Immagine Linguaggio Figura35 – troviamo spunti inediti, ma anche una nuova sintesi di decenni di studi e ricerche. È un libro bello e importante, che attende ancora di essere esplorato a fondo, in tutta la sua fecondità, anche in relazione a ricerche in atto nel panorama nazionale e internazionale, ma che qui non posso affrontare in modo minimamente adeguato. Ricorderò solo che il perno intorno a cui ruota è la nozione di «im- magine interna» che ha preso forma attraverso «l’assiduo ripensamento del cosiddetto “schematismo” kantiano»36, e che non è confondibile in alcun modo con l’idea di poter spiegare qualcosa – della percezione o del riferimento al mondo – rimandando a immagini che avremmo nella testa. Distinte dalle «figure» (che nell’uso comune chiamiamo “imma- gini”, ma che non possono essere altro che elaborazioni, esteriorizza- zioni e riduzioni delle «immagini interne»), le «immagini interne» sono innanzitutto ispezioni attive e mobili, per scorci sempre diversi, degli oggetti percepiti, o di queste percezioni riprodotte, rielaborate e ricordate nell’imma- ginazione. È da escludere quindi ogni obiezione legata alla presuppo- 34 E. Garroni, Estetica. Uno sguardo-attraverso, cit., p. 270. 35 E. Garroni, Immagine linguaggio figura. Osservazioni e ipotesi, Laterza, Roma-Bari 2005. 36 E. Garroni, Immagine linguaggio figura, cit., p. ix. 282 Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale sizione indebita e circolare di un homunculus che sarebbe a sua volta spettatore di “figure nella testa”. Figure nella testa non ce ne sono. In questo libro tornano anche temi antichi – come quello, centra- le, della metaoperatività, un concetto già introdotto oltre trent’anni prima, in Ricognizione della semiotica37. Era l’anticipazione di uno dei temi più dibattuti, oggi, in ambito cognitivo, sotto il titolo di “metarappresentazioni”38, ma che in Garroni si estendeva già all’in- tero ambito dell’operare umano (un operare che è senso-motorio, pragmatico e corporeo, percettivo e cognitivo). In analogia e in corre- lazione con la funzione metalinguistica – che è sempre implicata nelle funzioni di primo livello del linguaggio, così come quella costituisce pur sempre una funzione operante solo mediante un linguaggio di primo livello – Garroni introduce la nozione di metaoperatività come interna e presupposta in tutte le operazioni umane e praticabile solo mediante esse. È ciò che distingue, in sostanza, un’operazione del tipo “stimolo-risposta” da un’operazione che include già dentro di sé una generalizzazione. Piantare un chiodo con un martello è sì un’opera- zione determinata, concreta, e dotata di uno scopo preciso, ma – come operazione umana – contiene già dentro di sé una famiglia o una classe di operazioni possibili (qualcosa, dunque, che potrebbe essere chiamato uno «schema operativo»39). In Immagine linguaggio figura la nostra capacità metaoperativa viene reinterpretata e specificata40 pro- prio in relazione al lavoro di quella che Garroni chiama complessiva- mente «facoltà dell’immagine», che è responsabile sia delle sensazioni (come precedenti di un’immagine), sia delle percezioni (le immagini interne prodotte in presenza degli oggetti del mondo), sia dell’imma- ginazione nella sua specificità (delle immagini in quanto riprodotte o ricordate-rielaborate). Sensazione, percezione e immaginazione sono tutte «immagini interne», costitutivamente dinamiche, non fissabili in un’icona o figura materiale, e abitate da qualcosa di non sensibile, 37 E. Garroni, Ricognizione della semiotica, Officina, Roma 1977, p. 70 ss. 38 Cfr. per esempio D. Sperber (ed.), Metarepresentations. A Multidisciplinary Perspective, Oxford University Press, Oxford 2000. 39 Una formulazione molto simile dei rapporti tra linguaggio e metalinguaggio, tra operazione e metaoperazione – all’interno di una prospettiva “enattiva” sulla perce- zione, a cui credo sia riconducibile per molti versi anche quella proposta da Garroni – è possibile riscontrarla nei lavori di A. Noë. Per un confronto, su questi temi, tra Garroni e Noë, cfr. S. Velotti, Tecnica, in G. Ferrario (ed.), Estetica dell’arte contempora- nea, Meltemi, Milano 2019, pp. 149-170. 40 E. Garroni, Immagine linguaggio figura, cit., p. 18 ss. 283 Stefano Velotti dunque distinte dall’immagine-segno materialmente intesa, la «figu- ra», appunto, e che è invece sostanzialmente statica. Proprio l’attività artistica, che mette pur sempre capo a «figure» (per quanto possano essere mobili, processuali, evanescenti, eventuali) è considerata da Garroni come il venire in primo piano di questa dimensione metao- perativa – una rielaborazione della kantiana «conformità a scopi senza scopo» – interna a ogni operazione determinata. Ma nel corso di questo «ripensamento del cosiddetto “schematismo” kantiano» vengono in primo piano questioni spesso prima trascurate, come quella della corporeità, e viene messa a punto una nozione che mi pare non fosse stata tematizzata in altri lavori, se non di sfuggita e appoggiandosi a elaborazioni di diversa provenienza41, come quella di «aggregato». Un aggregato, direi, costituisce una sorta di antecedente di uno schema, essendo qualcosa di pre-linguistico e pre-concettuale, che deve dunque precedere – in linea di diritto e ipoteticamente anche di fatto – anche il costituirsi di famiglie, in senso wittgensteiniano, oltre che di classi vere e proprie. Un aggregato è ciò che offre una prima pos- sibilità di riconoscimento degli oggetti, non come membri di una fami- glia o di una classe (che presuppongono appunto una caratterizzazione di tratti linguistici o una pertinentizzazione di note concettuali), ed è invece costituito «solo percettivamente» da «un insieme di casi effettiva- mente sperimentati o di oggetti effettivamente usati, quindi di numero finito, anche se via via crescente»42. Un aggregato può essere costituito da oggetti assai diversi, legati da una minima somiglianza e tal- volta da nessuna somiglianza, ma solo da un cortocircuito tra disparati che stabiliscono tra loro un’unità non chiaribile in- tellettualmente di tipo affettivo, emozionale, fantasticante, vol- to al padroneggiamento di eventi e cose amate, preoccupanti, esaltanti 43. Né la funzione dell’aggregato si esaurisce all’interno della prima infan- zia, o nelle ipotesi relative a una “infanzia dell’umanità” o in forme di “pensiero magico”, se, come nota Garroni, [A]ncora oggi, nello stesso pensiero occidentale, non possono es- 41 Alludo alle considerazioni dedicate agli oggetti transizionali di D. W. Winnicot in Senso e paradosso, cit., p. 274. 42 E. Garroni, Immagine linguaggio figura, cit., p. 11. 43 Ibidem. 284 Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale sere evitati paradossi liminari, che denunciano in un certo sen- so la persistenza dell’ufficio, pur intellettualmente controllato, dell’aggregato, cioè dell’unione di due termini diversi e addirittu- ra opposti, in una proposizione unitaria e non più risalibile. Ba- sterebbe pensare alla kantiana comprensione dell’opposizione tra incondizionato e condizionato, di soprasensibie e sensibile, e insieme del loro richiamarsi l’un l’altro necessariamente, all’he- geliana unità di essere e non-essere, alla questione russelliana di “classe e classe di tutte le classi”, e così via44. 8. Voglio però, in conclusione, mostrare un altro autoritratto di Garroni, molto diverso da quello, verbale, ricordato all’inizio e consegnato, con «acume» e «humour» alla bandella della Macchia gialla, perché credo che nelle pagine di Immagine linguaggio figura si trovi, su un altro regi- stro, una sua importante eco. È un polittico dipinto da Garroni tra il 1983 e il 1984, sulla soglia dei sessant’anni – dopo aver subito una seria operazione chirurgica –, composto da 13 comparti, che formano un quadrato di 115 cm per lato. Collezione privata 44 Ivi, pp. 12-13. 285 Stefano Velotti Alcuni comparti rappresentano frammenti del proprio corpo, vis- suti come oggetti estranei e familiari a un tempo. Figurano anche stru- menti di studio e di affezione – dalla Critica del giudizio a Tempo e rac- conto di Ricoeur –, “cose” amate, come il Dissonanzen-Quartett di Mozart (che dà anche il titolo a un suo romanzo-saggio45). Ma questo è solo un primo riconoscimento di figure presenti nel dipinto, non certo l’inizio di un’interpretazione46. Quando dicevo che la passione dominante di Garroni era quella di capire, di comprendere, pensavo anche a questo dipinto, che credo tro- vi una sua ricomprensione filosofica proprio in un passo del suo ultimo libro, nelle riflessioni sul corpo e su “cosa si prova ad essere un homo sapiens”. Un’operazione chirurgica diventa nelle mani di Garroni un’oc- casione per elaborare, anche operativamente e metaoperativamente, e non solo linguisticamente e intellettualmente, l’esperienza fatta o subi- ta, anzi proprio per non subire soltanto l’esperienza comunque subita, ma per esercitare, appunto, quel “dover essere del senso” già articolato verbalmente. Quel che mi interessa è mettere in contatto questa ope- razione pittorica, con un passo che, mi pare, le corrisponde almeno in parte, e che rimanda a quella complementarità tra determinatezza e indeterminatezza che è al cuore del suo pensiero. Non è possibile, scri- ve Garroni in alcune notevoli pagine del suo libro47, mirare a cogliere l’indeterminato in quanto tale; è possibile farlo solo attraverso il deter- minato. E poi si pone una possibile obiezione: È vero: momenti di apparente non-riconoscimento e totale in- determinatezza percettiva intervengono in modo tipico quando ci risvegliamo e a volte pare che non riconosciamo neppure il nostro piede che spunta fuori dal lenzuolo aggrovigliato. Forse “vedremmo”, per così dire, solo l’indeterminato e ci sfuggirebbe affatto il determinato connesso con il riconoscimento di ogget- ti? Si può rispondere tranquillamente di no. Salvi i casi di pato- logie gravi, quando il mondo può forse divenire solo un magma indecifrabile e viene meno perfino il senso della nostra identità (ma parimenti dovremmo escludere il caso estremo del coma, se non addirittura dell’essere già morti), il riconoscimento non 45 E. Garroni, Dissonanzen-Quartett. Una storia, Pratiche, Parma 1990. 46 Una densa e attenta interpretazione di quest’opera è stata avanzata da A. Olivetti, dice [...]. Primi appunti su un Autoritratto di Emilio Garroni, pubblicato nel catalogo della mostra Emilio Garroni – Un Autoritratto, 4-15 dicembre 2006, Sala Santa Rita dell’Assessorato alle Politiche Culturali del Comune di Roma. 47 E. Garroni, Immagine linguaggio figura, cit., p. 33. 286 Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale viene meno neanche nel caso di un risveglio depresso e confu- so. Si tratta piuttosto di una sensazione di estraneità degli og- getti e delle nostre stesse parti del corpo percepite come oggetti indipendenti e in qualche modo estranei. E l’idea di estraneità modifica il riconoscimento, non lo annulla. Anzi, l’idea di estra- neità del nostro piede presuppone un riconoscimento proprio in quanto lo riteniamo estraneo – è il nostro piede e per questo ci è estraneo. Solo che il riconoscimento viene depotenziato e in certo senso avversato. Infatti il nostro piede non dovrebbe esserci estraneo, ma il fatto è che ci pare assurdo che quel piede sia cosiffatto e ci appartenga. E insomma la sensazione della stranezza delle cose del mondo, esterne e nostre. Il che implica un riconoscimento sgradito, languoroso e stupefatto48. Nelle ultime pagine, poi, il tono sempre controllato di Garroni, tenden- te piuttosto all’ironia e allo humour che allo scoramento, si lascia anda- re anche a parole amare sul nostro presente (sono gli anni del venten- nio berlusconiano, che abbiamo sperimentato quanto fossero destinati a cambiare i parametri della vita pubblica, «la “mente” dei cittadini»): Ormai si è istituzionalizzato il banale ed espulso ciò che più con- ta, non tanto l’arte, di cui ci importa fino a un certo punto e solo a certe condizioni, ma soprattutto il comportamento civile, le ir- rinunciabili esigenze etiche, l’interesse alla comprensione delle cose, insomma: la “mente” dei cittadini, di cui invece ci importa molto in primissima istanza. E con una specie di apologo politico di trista attualità ho messo termine a questo breve saggio49.
Thursday, March 24, 2022
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