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Friday, April 1, 2022

GRICE E FERRANDO: CORIOLANO; ovvero, la storia della filosofia romana

 ” --  Wikipedia Ricerca Gneo Marcio Coriolano politico e Generale dell'Antica Roma Lingua Segui Modifica Gneo Marcio Coriolano, in latino Gnaeus Marcius Coriolanus (527 a.C.? – ...), generalmente conosciuto come Coriolano, membro dell'antica Gens Marcia, fu uomo politico e valoroso generale al tempo delle guerre contro i Volsci.   Veturia ai piedi di Coriolano di Nicolas Poussin. Biografia                 Modifica Il giovane Gneo Marcio, non ancora Coriolano, partecipò come semplice soldato alla decisiva battaglia del lago Regillo, distinguendosi per il proprio valore, tanto da meritare la Corona civica per aver salvato da solo in battaglia un altro cittadino romano.[1]  Secondo Tito Livio[2] e Plutarco[3] a Gneo Marcio fu attribuito il cognome a seguito della vittoria di Roma contro i Volsci di Corioli, ottenuta anche grazie al valore del giovane patrizio; secondo altri storici il cognome indica che la sua famiglia fosse originaria della città stessa[senza fonte].  (LA)  «Q. Marcius, dux Romanus, qui Coriolos ceperat, Volscorum civitatem, ad ipsos Volscos contendit iratus et auxilia contra Romanos accepit. Romanos saepe vicit, usque ad quintum miliarium urbis accessit, oppugnaturus etiam patriam suam, legatis qui pacem petebant, repudiatis, nisi ad eum mater Veturia et uxor Volumnia ex urbe venissent, quarum fletu et deprecatione superatus removit exercitum. Atque hic secundus post Tarquinium fuit, qui dux contra patriam suam esset.»  (IT)  «Q. Marcio, comandante romano, che aveva conquistato Corioli, città dei Volsci, accecato dall'ira si recò presso i Volsci e ottenne aiuti contro i Romani. Sconfisse spesso i Romani, arrivando fino a cinque miglia da Roma, pronto a combattere anche contro la sua patria, respinti i legati inviati per chiedere la pace, vinto solamente dal pianto e dalle suppliche della madre Veturia e della moglie Volumnia, andate a lui da Roma, ritirò l'esercito. E questo fu il secondo capo, dopo Tarquinio, ad essersi opposto alla propria patria.»  (Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, I,15) L'Eroe della presa di Corioli        Modifica Nel 493 a.C., consoli Postumio Cominio Aurunco e Spurio Cassio Vecellino, a Roma, per quella che sarebbe stata ricordata come la prima secessione, la plebe si era ritirata sul Monte Sacro.  La situazione era poi resa oltremodo complicata dalla necessità di definire un nuovo trattato (Foedus) con i Latini, compito che fu affidato al console Spurio Cassio, trattato che da lui prese di nome (Foedus Cassianum), e dai preparativi bellici intrapresi dai Volsci, contro cui si decise di intraprendere l'ennesima azione militare, affidandola al console Postumio Cominio.  Postumio Cominio iniziò la campagna militare guidando l'esercito romano contro i Volsci di Antium, città che venne espugnata. Successivamente l'esercito romano marciò contro le città volsche di Longula, Polusca e Corioli, tutte e tre conquistate dai Romani, quest'ultima con l'apporto decisivo di Gneo Marcio, tanto che Tito Livio annota:  «....L'impresa di Marcio eclissò la gloria del console al punto che, se il trattato coi Latini, concluso dal solo Spurio Cassio in assenza del collega, non fosse rimasto inciso a perenne memoria su una colonna di bronzo, nessuno si ricorderebbe che Postumio Cominio combatté contro i Volsci»  (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 33) Dai contrasti tra patrizi e plebei all'esilio          Modifica Intanto a Roma la prima secessio plebis e la conseguente mancata coltura dei campi aveva provocato un rincaro del grano e la necessità della sua importazione. Sotto il consolato di Marco Minucio Augurino e Aulo Sempronio Atratino, nel 491 a.C., Coriolano si oppose fortemente alla riduzione del prezzo del grano alla plebe, che lo prese in forte odio.  In effetti la contesa non riguardava tanto il prezzo del grano, ma il conflitto tra plebei e patrizi, con questi ultimi che ancora non si erano rassegnati all'istituzione dei tribuni della plebe, e cercavano in tutti i modi di contrastarne l'azione. In un contesto di feroci attacchi politici, Coriolano rappresentava l'ala più oltranzista dei patrizi, che propugnava il ritorno alla situazione antecedente alla concessione del tribunato ai plebei, e per questo motivo era attaccato violentemente da questi. Durante una di queste infuocate assemblee mancò poco che Coriolano fosse mandato a morte, gettato dalla rupe Tarpea.  «...A questo punto Sicinnio, il più impudente dei tribuni, dopo una breve consultazione con i colleghi, proclamò davanti a tutti che Marcio era stato condannato a morte dai tribuni della plebe, e ordinò agli edili di portarlo immediatamente sulla rocca Tarpea e di gettarlo giù nella voragine.»  (Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, XVIII, 4) Alla fine fu citato in giudizio dai tribuni della plebe, e a questo punto le versioni di Livio e Plutarco divergono. Secondo Livio[4], Gneo Marcio rifiutò di andare in giudizio, scegliendo l'esilio volontario presso i Volsci, e per questo motivo fu condannato in contumacia all'esilio a vita. Invece per Plutarco[5] Gneo Marcio fu sottoposto al giudizio del popolo con l'accusa di essersi opposto al ribasso dei prezzi del grano, e per aver distribuito il tesoro di Anzio tra i commilitoni, invece di consegnarlo all'Erario. Anche per Plutarco, la condanna fu quella dell'esilio a vita.  La guerra contro Roma                           Modifica Gneo Marcio scelse di recarsi in esilio nella città di Anzio[6], ospite di Attio Tullio[7], eminente personalità tra i Volsci. I due, animati da forti sentimenti di rivincita nei confronti di Roma, iniziarono a tramare affinché tra i Volsci, più volte battuti in scontri campali dall'esercito romano, si sviluppassero nuovamente motivi di risentimento contro i Romani, tali da far nascere in questi il desiderio di entrare in guerra contro il potente vicino.[8]  «... Marcio e Tullo discutevano di nascosto in Anzio con i più potenti e li spingevano a scatenare la guerra mentre i Romani si combattevano tra loro. Ma mentre i Volsci erano trattenuti dal pudore perché le due parti avevano concordato una tregua e un armistizio di due anni, e furono i Romani a fornire loro stessi il pretesto, annunziando durante certi spettacoli e giochi, sulla base di qualche sospetto o falsa accusa, che i Volsci dovevano lasciare la città prima del tramonto. ...»  (Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, XXVI, 1) Alla fine i Volsci decisero per una nuova guerra contro Roma[9], ed affidarono a Coriolano e ad Attio Tullio il comando dell'esercito[10]. Quindi i due comandanti si risolsero a dividersi le forze, rivolgendosi Attio ai territori dei Latini, per impedire che portassero soccorso a Roma, e Coriolano a saccheggiare la campagna romana, evitando però di attaccare le proprietà dei Patrizi, così da fomentare la discordia tra Plebei e Patrizi. L'espediente ebbe successo, tanto da permettere ai due eserciti Volsci, di tornare nel proprio territorio, carichi di bottino e senza aver subito alcun attacco dai Romani[11].  Successivamente, mentre Attio proteggeva con il proprio esercito la città[12], Coriolano volse il proprio esercito contro la colonia romana di Circei che fu presa, mentre Roma non reagiva per il montare della discordia tra i due ordini[13].  Alla fine a Roma si decise di arruolare un esercito, e si permise agli alleati Latini di prepararne uno per proprio conto, in quanto Roma non era in grado di difenderli dalle incursioni dei Volsci[14]. Ai Volsci, che si preparavano alla guerra, si aggiunse poi la rivolta degli Equi[15]. Coriolano, al comando del proprio esercito quindi prese Tolerium[16], Bola[17], Labicum, Corbione, Bovillae e pose l'assedio a Lavinium,[18] senza che i Romani portassero aiuto a queste città.  Quindi Coriolano si accampò a sole cinque miglia dalle mura della città in località Cluvilie[19], dove fu raggiunto da un'ambasceria composta da cinque ambasciatori. Per tutti parlò Marco Minucio Augurino[20], senza però riuscire a far desistere Coriolano dal proprio intento; anzi i Volsci, sempre guidati dal condottiero romano, presero Longula, Satricum, Polusca, le città degli Albieti, Mugillae e vennero a patti con i Coriolani[21].  Leggermente diversa la versione di Tito Livio:  «Quindi conquistò Satrico, Longula, Polusca, Corioli, Mugilla, tutte città recentemente sottomesse dai Romani. Poi riprese Lavinio e di lì, raggiungendo la via Latina tramite delle scorciatoie, catturò una dopo l'altra Corbione, Vetelia, Trebio, Labico, Pedo. Infine da Pedo marciò su Roma e si accampò presso le fosse Cluilie, a cinque miglia dalla città»  (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 39) Qui, alle porte dell'Urbe al IV miglio della Via Latina, dove si trovava il confine dell'Ager Romanus Antiquus(nei pressi dell'attuale Via del Quadraro), mentre i consoli del 488 a.C., Spurio Nauzio e Sesto Furio, organizzavano le difese della città, venne fermato dalle implorazioni della madre Veturia e della moglie Volumnia, accorsa con i due figlioletti in braccio, che lo convinsero a desistere dal proprio proposito di distruggere Roma[22].  «....Coriolano saltò giù come una furia dal suo sedile e corse incontro alla madre per abbracciarla. Lei però, passata dalle suppliche alla collera, gli disse: «Fermo lì, prima di abbracciarmi: voglio sapere se qui ci troviamo da un nemico o da un figlio e se nel tuo accampamento devo considerarmi una prigioniera o una madre.»  (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 40) Morte                      Modifica Tito Livio[23] riporta come non ci fosse concordanza sulla morte di Coriolano; secondo parte della tradizione, fu ucciso dai Volsci, che lo considerarono un traditore per aver sciolto l'esercito sotto le mura di Roma; secondo Fabio morì di vecchiaia in esilio.  Plutarco e Dionigi di Alicarnasso raccontano come Coriolano fu ucciso da una congiura, capitanata da Attio Tullio, mentre si stava difendendo in un pubblico processo ad Anzio, dove era stato messo sotto accusa dai Volsci per essersi ritirato, senza aver combattuto, da Roma.[24][25] Poi, però, fu dimostrato che l’azione non era affatto condivisa da tutti, sicché fu seppellito con grandi onori e il sepolcro di Coriolano, ornato con armi e spoglie, fu considerato dalla popolazione il sepolcro di un eroe e di un grande generale. I Romani, invece, non gli tributarono onori quando seppero della sua morte, né tuttavia gli serbarono rancore, tant'è vero che alle donne fu consentito portare il lutto fino a un massimo di 10 mesi.[26]  Cicerone, nel Brutus, nel paragonare Coriolano a Temistocle ne accomuna la sorte: si sarebbero entrambi tolti la vita una volta allontanati dalla patria.[27]  Critica storica          Modifica Secondo parte della moderna storiografia Coriolano rappresenta un personaggio leggendario, creato per giustificare le sconfitte dei Romani nelle guerre contro i Volsci nella prima epoca repubblicana, guerre che arrivarono a minacciare l'esistenza stessa di Roma. I Romani trovarono giustificazione delle loro ripetute sconfitte, nella credenza che solo un condottiero romano avrebbe potuto sconfiggere un esercito romano. La circostanza che Coriolano non appaia tra i Fasti consulares aumenta il dubbio che si sia trattato di un personaggio storico.[senza fonte]  Note       Modifica ^ Plutarco, Vite parallele, Vita di Coriolano, III.3, pg. 123 ^ Tito Livo, Ab Urbe condita libri, Lib II, par. 33 ^ Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, XI, 1 ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 35 ^ Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, XX, 4 ^ Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, XXII, 1 ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 1. ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 36, 37, 38 ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 9. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 11. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 12. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 13. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 14. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 15. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 16. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 17. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 18. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 19-20. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 22. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 23-28. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 36. ^ Appiano, Storia romana, Liber II, 3-5 ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 40 ^ Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, XXXIX ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 58-59. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 62. ^ Cicerone, Laelius de amicitia, XII, 42. Cicerone, Brutus XLIII  Bibliografia                        Modifica Tito Livio, Ab Urbe condita libri II,33 Plutarco, Vite parallele, Coriolano Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, I, 14-15 (che lo chiama Quinto) Ispirata pure alla vicenda di Coriolano è un'ouverture di Beethoven (op. 62, in do min.), composta per la tragedia teatrale omonima di H.J. von Collin.  Voci correlate                         Modifica Gens Marcia Volumnia Veturia Coriolano, tragedia di William Shakespeare Altri progetti Modifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Gneo Marcio Coriolano Collegamenti esterni               Modifica Coriolano, Gneo Marcio, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010. Modifica su Wikidata Coriolano, Gnèo Màrcio, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata ( EN ) Gneo Marcio Coriolano / Gneo Marcio Coriolano (altra versione), su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Controllo di autorità             VIAF ( EN ) 60149294309280521736 · BAV495/317465 · CERL cnp00546507 · LCCN( EN ) n85196364 · GND ( DE ) 118522159 ·BNE ( ES ) XX5035782 (data) · BNF( FR ) cb149789004 (data) · J9U( EN ,  HE ) 987007275094605171 (topic) ·WorldCat Identities ( EN ) lccn-n85196364   Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Guerra   Portale Politica Ultima modifica 3 giorni fa di No2 PAGINE CORRELATE Sesto Furio Medullino Fuso politico romano  Roma e le guerre con Equi e Volsci Attio Tullio Nobile volsco di Antium (le odierne Nettuno ed Anzio)  Wikipedia Il contenutoCORIOLANO Tragedia in 5 atti Traduzione e note di Goffredo Raponi 3  NOTE PRELIMINARI 1) Il testo inglese adottato per la traduzione è quello del prof. Peter Alexander (William Shakespeare - “The complete Works”, Collins., London & Glasgow, 1960), con qualche variante suggerita da altri testi, specialmente quello prodotto dal Furnivall per la “Early English Text Society”, l’“Arden Shakespeare” e l’ultima edizione dell’“Oxford Shakespeare” curata da G. Taylor e G. Wells per la “Claredon Press”, New York (USA), 1994. 2) Alcune didascalie sono state aggiunte dal traduttore di sua iniziativa, per la migliore comprensione dell’azione scenica alla lettura, cui questa traduzione è essenzialmente intesa. 3) All’inizio di ciascuna scena i personaggi sono introdotti con il rituale “Entra” o “Entrano”, che ripete l’“Enter” del testo; giova avvertire però che tale dizione non implica che i personaggi debbano “entrare” in scena al levarsi del sipario; è spesso possibile che essi vi si trovino già, in un qualunque atteggiamento. La reciproca vale per le dizioni “Exit” - “Exeunt”, “Esce”, “Escono”. 4) Il metro è l’endecasillabo sciolto, intercalato da settenari, come l’abbia richiesto al traduttore lo scorrere della verseggiatura. 5) Trattandosi della Roma di Coriolano, la forma del “tu” (i Romani non ne conoscevano altra) è sembrata imperativa, ad onta del dialogante alternarsi dello “you” e del “thou” dell’inglese. 6) La divisione in atti e scene, com’è noto, non si trova nell’in-folio; essa è stata elaborata, spesso anche con l’elenco dei personaggi, da vari curatori nel tempo, a cominciare da Nicolas Rowe (1700). Li si riproduce come figurano nella citata edizione dell’Alexander.  CORIOLANO Nota introduttiva Plutarco, dalle cui “Vite parallele” Shakespeare trae essenzialmente la trama della sua tragedia, associa Coriolano con Alcibiade, come esempio di due grandi condottieri e uomini politici venuti in contrasto con la loro patria e scesi contro di essa in guerra alla testa di eserciti nemici. I due sono contemporanei: Alcibiade vive nell’Atene di Pericle (V sec. a.C.), già matura repubblica demo- aristocratica; Coriolano nella giovane immatura repubblica di una Roma che si è appena liberata della tirannia dei re etruschi. Ma il parallelismo tra i due è per contrasto; perché Alcibiade cerca, contro l’aristocrazia di cui è parte (è il nipote di Pericle), e che gli dà l’ostracismo, il favore del popolo(1); Coriolano, all’opposto, nel suo orgoglio di aristocratico rozzo e impolitico, disprezza la massa plebea ed è da questa prima eletto poi privato del consolato e bandito da Roma. L’orgoglio di Coriolano e il suo conflitto con l’intima nobiltà dell’uomo è il “leitmotiv” del dramma shakespeariano; ad esso fa da sfondo una Roma la cui politica interna è caratterizzata dalle lotte di classe fra patrizi e plebei, quella esterna dalle prime guerre di espansione. I nemici più vicini sono i Volsci, che abitano le terre del sud del Lazio, comprese le città di Anzio e Corioli. La superbia è il peggiore dei vizi, il massimo dei peccati capitali della dottrina cristiana; tradotta nella persona di un eroe della Roma pagana essa acquista la dimensione di un vizio legato ad una virtù: nobiltà e onore. Le parole “nobility” e “honour”, come osserva il Melchiori(2), con i loro derivati nominali e verbali ricorrono ben 137 volte nel testo della tragedia. Questo conflitto, come una fatale condanna, nega a Coriolano la capacità di convivere con gli oppositori, l’inclinazione al possibilismo che è la massima dote del politico, e sarà, nel mondo politico nel quale egli si muove, la sua tragica fine. Il linguaggio di Coriolano, a differenza di quello raffinato e colto di Alcibiade, è sempre rude, quasi urlato, di rissa; e ad accentuarne la rudezza Shakespeare crea, in contrapposto, di sua fantasia, il personaggio di Menenio Agrippa, un modello di scaltrezza politica - questo sì - simile ad Alcibiade, che parla studiando l’avversario(3), per saggiarne i punti deboli e, prima assecondandolo poi demolendolo, averne ragione. Ma Coriolano non è solo questo. All’intolleranza faziosa egli aggiunge l’incostanza del carattere, l’ignoranza di sé. Questo lo porta ad ingannarsi non solo sulla realtà politica che lo circonda, ma sulla sua stessa immagine; si trova così, quasi senza volerlo, sottomesso alla volontà della madre, Volumnia. Questa è la figura di matrona romana nelle cui parole par quasi di sentire un’eco ante litteram del Machiavelli: “Chi diventa principe col favore dei grandi deve anzitutto guadagnarsi il favore del popolo, farsi “gran simulatore e dissimulatore”. Coriolano, a differenza di Alcibiade, è il contrario di tutto questo.  CAIO MARCIO, detto poi “Coriolano” TITO LARZIO COMINIO, generali romani nella guerra contro i Volsci MENENIO AGRIPPA, amico di Coriolano SICINIO VELUTO GIUNIO BRUTO, tribuni della plebe IL PICCOLO MARCIO, figliolo di Coriolano Un araldo romano NICANOR, romano al servizio dei Volsci TULLO AUFIDIO, generale dei Volsci Un luogotenente di Aufidio ADRIANO, volsco Un cittadino di Anzio Due sentinelle volsche VOLUMNIA, madre di Coriolano VIRGINIA, sposa di Coriolano VALERIA, amica di Virginia Una dama di compagnia di Virginia Senatori romani e volsci Patrizi, edili, littori, soldati, cittadini, messaggeri Servi di Aufidio ed altri dei vari seguiti Cospiratori del partito di Aufidio SCENA: parte a Roma e nei dintorni di Roma; parte a Corioli e dintorni; parte ad Anzio. PERSONAGGI  ATTO PRIMO SCENA I - Roma, una strada Entra un gruppo di POPOLANI in rivolta, con mazze, randelli e altri ordigni PRIMO CITTADINO - (Agli altri) Prima d’andare avanti, m’ascoltate! TUTTI - Parla, parla. PRIMO CITT. - Decisi allora: morti, piuttosto che affamati! TUTTI - Decisi sì! - Decisi! PRIMO CITT. - Primo: ciascuno sa che Caio Marcio è il principale nemico del popolo. TUTTI – È Caio Marcio! Lo sappiamo tutti. PRIMO CITT. - Uccidiamolo, allora, e avremo il grano al prezzo nostro! Chiaro? TUTTI - Chiaro. Basta parole. Andiamo ai fatti! SECONDO CITT. - Una parola, buoni cittadini. PRIMO CITT. - “Buoni” dillo ai patrizi! Noi per loro non siamo che gentaccia! Il sovrappiù che avanza a lorsignori già ci procurerebbe alcun sollievo; quello che avanza dalla loro tavola, dico, che fosse appena digeribile; potremmo almeno farci l’illusione che ci aiutino per umanità; ma pensano che già costiamo troppo(4). La macilenza che ci affligge tutti, a specchio della nostra povertà, è per loro un inventario ad uomo per esibire la loro abbondanza. La nostra sofferenza è il lor guadagno. Vendichiamoci con le nostre picche prima che diventiamo dei rastrelli,(5) ché se parlo così, sanno gli dèi ch’è per fame di pane, e non punto per sete di vendetta!  SECONDO CITT. - E vorresti che noi si procedesse prima di tutti contro Caio Marcio? PRIMO CITT. - Contro di lui per primo; è un vero cane, quello, per il popolo. SECONDO CITT. - Hai ben considerato, tuttavia, quali servigi egli ha reso alla patria? PRIMO CITT. - Certamente, e sarei anche contento di dargliene pubblicamente merito; ma di ciò lui si paga da se stesso con la sua boria. SECONDO CITT. - Via, non dirne male. PRIMO CITT. - Io ti dico che tutto che di buono ha fatto è stato per un solo fine; anche se a certe tenere animucce può piacere di dire che l’ha fatto pel suo paese, in verità l’ha fatto per piacere a sua madre, ed anche, in parte, per soddisfare la propria ambizione, ché ce n’ha tanta per quanto ha coraggio. SECONDO CITT. - Tu gli addebiti a colpa qualcosa contro cui lui non può niente, perché fa parte della sua natura. Non puoi dire però che sia corrotto. PRIMO CITT. - Questo no, ma di accuse su di lui ne posso partorire a volontà(6). Di difetti ce n’ha di sopravanzo, da stancare ad enumerarli tutti! (Clamori all’interno) Ma che son queste grida?... L’altra parte della città è in rivolta, e noi ce ne restiamo qui a cianciare? Al Campidoglio, tutti! TUTTI - Andiamo! Andiamo! PRIMO CITT. - Un momento! Chi è che viene qui? Entra MENENIO AGRIPPA SECONDO CITT. - Il buon Menenio Agrippa, un galantuomo, uno che sempre volle bene al popolo.  PRIMO CITT. - Una persona onesta. Fossero tutti gli altri come lui! MENENIO - Ehi, cittadini, che intendete fare, dove volete andare, così armati di mazze e di randelli? PRIMO CITT. - Il motivo lo sa bene il Senato. È da due settimane che sanno quello che vogliamo fare. Ora glielo mostriamo con i fatti. Loro dicono che noi postulanti abbiamo il fiato forte: ora sapranno che abbiamo forti pure mani e braccia(7). MENENIO - Evvia, signori, buoni amici miei, onesti miei concittadini, diamine!, volete rovinarvi? PRIMO CITT. - Rovinati già siamo, amico; più non è possibile. MENENIO - Ed io vi dico invece, brava gente, che i patrizi si curano di voi col più caritatevole riguardo. Quanto a quel che vi manca, ciò che soffrite in questa carestia, alzare contro lo Stato romano le vostre mazze, è come alzarle in aria con l’intenzione di colpire il cielo: esso seguiterà per la sua strada, spezzando mille, diecimila ostacoli più forti che non possa mai sembrare quello di questa vostra opposizione. Quanto alla carestia, sono gli dèi che l’han voluta, non punto i patrizi, e davanti agli dèi sono i ginocchi, non le braccia, che possono soccorrervi. Ahimè, che voi vi fate trascinare dalla disgrazia dove altri malanni v’aspettano, a calunniar così e maledir come nemici gli uomini che reggono il timone dello Stato e di voi son pensosi, come padri. PRIMO CITT. - Di noi pensosi, quelli? Figuriamoci! Mai se ne son curati fino ad oggi. Ecco, ci lasciano morir di fame, e i magazzini son pieni di grano; sfornano editti per punir l’usura e favoriscon solo gli strozzini;  abrogano ogni giorno sane leggi promulgate a suo tempo contro i ricchi ed ogni giorno sfornano decreti sempre più duri per impastoiare ed affamare la povera gente. Se non saran le guerre, saranno loro a sterminarci tutti. Ecco qual è l’amore che ci portano. MENENIO - Dovete ammettere che a dir così siete mostruosamente in malafede, o si dovrà accusarvi di follia. Vi voglio raccontare una storiella su misura(8). L’avrete già sentita, ma poiché ben s’adatta al mio proposito, m’avventuro a ridurla un po’ più trita. PRIMO CITT. - Beh, sentiamola un po’. Ma non pensare di far sparire con un raccontino il nostro obbrobrio. Dilla, se ti piace. MENENIO - Successe un tempo che tutte le membra del corpo si levarono in rivolta contro lo stomaco, così accusandolo: restarsene esso solo, in mezzo al corpo, a ingozzarsi di cibo tutto il tempo come un gorgo, infingardo ed inattivo, senza divider mai con l’altre parti il lavoro comune, mentre quelle eran continuamente ad esso intente, ad udire, a pensare, a impartir ordini, a camminare, a percepir coi sensi, sì che aiutandosi l’una con l’altra, provvedevano insieme agli appetiti e ai bisogni comuni a tutto il corpo. Lo stomaco rispose... PRIMO CITT. - Beh, sentiamo, quale fu la risposta dello stomaco? MENENIO - Stavo appunto per dirtelo. Lo stomaco, mostrando loro un certo sorrisetto che non gli venne affatto dai polmoni(9) ma proprio qui, così...(10) perché, vedete, se posso farlo parlare, lo stomaco, posso ben farlo egualmente sorridere, provocatoriamente replicò alle parti che s’eran ribellate invidiose ch’ei solo ricevesse, esattamente come adesso voi che criticate i nostri senatori  perché non sono quali siete voi. PRIMO CITT. - La risposta del tuo stomaco... Beh? La testa, sede di regal diadema, l’occhio, vigil guardiano, il cuore, consigliere, il braccio, nostro difensore armato, la gamba, nostro caval di battaglia, la lingua, nostro araldo trombettiere, con tutte l’altre nostre munizioni e piccoli ausiliari di difesa di questa nostra fabbrica, se questi, tutti insieme... MENENIO - Ebbene, che?... (Tra sé) Parola mia, costui si parla addosso(11)! (Forte) Ebbene, allora? Avanti, su, che cosa? PRIMO CITT. - ... dovessero venir prevaricati dal cormorano stomaco(12), ch’è la fogna del corpo(13)... MENENIO - Ebbene allora? PRIMO CITT. - Allora, insomma, se questi che ho detto si lamentavano, che mai rispondere poteva il ventre? MENENIO - Te lo dico io, se mi concedi un poco di pazienza, anche se, come vedo, ce n’hai poca. PRIMO CITT. - Eh, quanto la fai lunga! MENENIO - Stammi bene a sentire, buon amico... Dunque lo stomaco, con gran sussiego, pesando le parole, in tutta calma, al contrario dei suoi accusatori, dice: “Miei cari consociati, è vero ch’io ricevo per primo tutto il cibo da cui traete voi sostentamento; ma è giusto e logico che sia così(14) dal momento ch’io sono il magazzino e l’officina di lavorazione di tutto il corpo. E se ci riflettete, io lo rimando poi regolarmente, pei canali del sangue, fino al palazzo della corte, al cuore, al suo trono, il cervello,  e, attraverso i tortuosi labirinti e le diverse stanze di servizio della persona, i più robusti muscoli, e le più capillari delle vene ricevono da me regolarmente la naturale dose d’alimento onde ciascuno trae la propria vita. Ed anche se voi tutti presi insieme...” - attenti, amici, adesso, attenti bene, a ciò che dice il ventre... PRIMO CITT. - Sì, ma sbrigati. MENENIO - “... anche se non potete, lì per lì, vedere ciò che fornisco a ciascuno, cionondimeno alla resa dei conti il mio bilancio è a posto, perché tutti ricevono da me il fior fiore di tutto, laddove a me non resta che la crusca”. Beh, che ne dite? PRIMO CITT. - Una risposta l’era, questa; ma come può adattarsi a noi? MENENIO - Fate conto che siano i senatori di Roma questo stomaco, e voialtri le membra ammutinate. Perché considerate in generale le lor delibere e le lor premure, digerite a dovere entro di voi quanto concerne il pubblico benessere, e troverete che dei benefici che tutti riceviamo dallo Stato non ce n’è che non vengano da loro, e nessuno da voi. (Al Primo Cittadino) Beh, che ne pensi, tu che sei, come mi sembri, l’alluce del piede di codesto assembramento? PRIMO CITT. - Io, alluce? Perché? MENENIO - Perché sei tra i più bassi, i più schifosi, i più morti di fame di codesta saggissima rivolta, e vai avanti a tutti, tu, cagnaccio che sei del peggior sangue quanto a correre, e ti dài arie da caporione sol per trarne vantaggio personale!  Impugnateli pure i vostri arnesi, i nodosi randelli ed i batacchi: Roma ed i sorci della sua cloaca stan per darsi battaglia, chi sa quale dei due avrà la peggio(15)! Entra CAIO MARCIO MENENIO - Salute a te, nobile Marcio. MARCIO - Grazie! (Al popolo) Che vi succede, torpida canaglia, che a furia di grattarvi notte e giorno la scabbia della vostra ostinazione siete ridotti a una putrida rogna? PRIMO CITT. - Sempre buone parole da te, Marcio! MARCIO - Buone parole, ad uno come te, chiunque le dice sse, sarebbe un basso e immondo adulatore. Che volete, cagnacci, cui non va bene né pace, né guerra, perché l’una vi fa tanti conigli(16), l’altra vi fa sfrontati e tracotanti? E a fidarsi di voi, non che scoprir che siete dei leoni, ci si accorge che siete solo lepri, oche, invece di volpi. No, si può far meno fiducia in voi che in un tizzone acceso in mezzo al ghiaccio, che in un granello di grandine al sole. Siete capaci d’innalzare al cielo chi è punito per qualche sua magagna, e insieme maledire la giustizia che l’ha punito. Chi merita onore, non può che meritare l’odio vostro; le vostre simpatie per questo o quello son come l’appetito di un malato che va desiderando soprattutto ciò che può solo peggiorargli il male. Chi dipendesse dal vostro favore è come se nuotasse avendo ai piedi pinne di piombo, o avesse l’illusione di segare una quercia con dei giunchi. Fidare in voi?... Impiccatevi! Voi mutate gabbana ogni minuto. Siete pronti a dir nobile chi poco prima coprivate d’odio, e vile chi era prima il vostro eroe.  E adesso che v’ha preso, d’andare urlando per le vie di Roma contro il Senato che, grazie agli dèi, riesce ancora a mantenervi a freno(17), se no vi sbranereste l’un con l’altro? (A Menenio) Che van cercando? MENENIO - Grano, al loro prezzo, perché sostengono che la città n’è ben fornita. MARCIO - Alla forca! “Sostengono”!... Siedono tutto il tempo accanto al fuoco, e pretendono di sapere loro tutto quel che succede in Campidoglio(18): chi può andare più in alto, chi ci sta con buone prospettive, chi declina; parteggiano or per uno or per un altro, s’inventano alleanze immaginarie, innalzano alle stelle una fazione e sotto le lor scarpe rattoppate calpestano chi non va loro a genio. Dicono che c’è grano in abbondanza! Se i nobili mettessero da parte per una volta la loro pietà e lasciassero a me d’usar la spada, ne farei un tal mucchio, fatti a pezzi, di migliaia di questi miserabili alto quanto gittar può la mia lancia(19). MENENIO - Non c’è bisogno. Quelli che son qui son già quasi convinti tutti quanti(20); perché se pur son largamente privi d’ogni criterio di moderatezza, sono pure abbondantemente vili. Dimmi piuttosto tu, che cosa dice il resto della mandria(21). MARCIO - Si son dissolti. Che crepino tutti! Dicevan d’aver fame, e davan fiato sospirando a sentenze come queste: “La fame fa crepare anche le mura”; “Pure i cani han diritto di mangiare”; “Gli dèi non hanno dato il grano agli uomini soltanto per i ricchi”... ed altre simili. E con questi cascami di saggezza esalavano il loro malcontento; finché han trovato chi gli ha dato retta ed ha esaudito una lor petizione...  una richiesta assurda, da spezzare il più generoso cuore(22), e spegnere sul volto del potere ogni baldanza. E quelli tutti a urlare, gettando i loro cappellacci in aria, come se li volessero appiccare ai corni della luna. MENENIO - E che cos’è ch’è stato lor concesso? MARCIO - Cinque tribuni, di lor propria scelta, a difesa della plebea saggezza. Uno dei cinque è Giunio Bruto, un altro è Sicinio Voluto... e non so più(23). Ma, sangue degli dèi, se stesse a me, questa canaglia, prima di spuntarla doveva scoperchiare tutta Roma! Questi col tempo prenderan la mano sul potere legittimo, e pian pian accamperanno sempre altre pretese come pretesto ad una insurrezione. MENENIO - Certo, la cosa è sconcertante assai. MARCIO - (Alla folla) A casa, a casa, avanti, spazzatura! Entra di corsa un MESSAGGERO MESSAGGERO - Caio Marcio dov’è? MARCIO - Qui. Che succede? MESSAGGERO - Marcio, è giunta notizia che i Volsci sono in armi. MARCIO - Ne ho piacere. Potremo sbarazzarci finalmente di tanto nostro ammuffito superfluo(24). Ma ecco i nostri più nobili anziani. Entrano COMINIO, TITO LARZIO, con altri SENATORI, poi GIUNIO BRUTO e SICINIO VOLUTO PRIMO SENATORE - Marcio, quel che ci hai detto ultimamente è confermato: i Volsci sono in armi. MARCIO - Ed hanno a capitano Tullo Aufidio, uno che vi darà filo da torcere. Peccherò, ma m’invidio il suo valore, e se fossi altro da quello che sono,  vorrei essere lui, e nessun altro. COMINIO - Vi siete già scontrati faccia a faccia. MARCIO - Se la metà del mondo si scontrasse con l’altra, e Tullo Aufidio si venisse a trovar dalla mia parte, io cambierei di fronte per guerreggiar con lui solo. È un leone a cui m’inorgoglisce dar la caccia(25). PRIMO SENAT. - E allora, degno Marcio, unisciti a Cominio in questa guerra. COMINIO - Me l’hai promesso, Marcio. MARCIO - E lo mantengo. E mi vedrai ancora, Tito Larzio, volteggiare la lama in faccia a Aufidio. Che hai? Ti vedo alquanto titubante. Ti tiri fuori? LARZIO - No, Marcio, che dici? Appoggiato magari a una stampella e brandendo quell’altra come un’arma, piuttosto che mancare a quest’impresa. MENENIO - Eh, buon sangue romano... PRIMO SENAT. - Allora tutti insieme in Campidoglio, dove so che si trovano ad attenderci i più degni ed illustri nostri amici. LARZIO - (A Cominio) Tu avanti a tutti. (A Marcio) E tu dopo di lui. Noi seguiremo. A voi la precedenza. COMINIO - (Prendendo sottobraccio Marcio e avviandosi) Nobile Marcio! (Alla folla) A casa, via, sparite! MARCIO - Ma no, lascia che vengano anche loro. I Volsci han molto grano. Portiamoli da loro, questi sorci, a rosicchiare i lor granai, perbacco! Ribelli rispettabili, il valor vostro ha buone prospettive. Seguiteci, vi prego.  (I popolani si disperdono) (Gli altri escono tutti, meno SICINIO e BRUTO) SICINIO - S’è visto mai un uomo più arrogante di questo Marcio? BRUTO - Non ce n’è l’uguale. SICINIO - Quando ci elessero tribuni... BRUTO - Già, notasti pure tu le labbra, gli occhi(26)? SICINIO - No, notai solo le sue insolenze. BRUTO - Oh, quanto a quelle, se perde le staffe non esita ad insolentir gli dèi. SICINIO - O a schernire la vereconda luna(27). BRUTO - Se questa guerra se lo divorasse! È diventato troppo strafottente, per essere altrettanto valoroso. SICINIO - Uno con un carattere così, se il successo gli fa montar la testa, arriverà a sdegnare la sua ombra e pestarla coi piedi a mezzogiorno. Mi sorprende perciò che tanta boria giunga a piegarsi tanto docilmente da farsi comandare da Cominio. BRUTO - La fama, cui palesemente aspira, e che già gli ha concesso i suoi favori, non c’è mezzo migliore per serbarla intatta ed anche accrescerla che operare in un posto dopo il primo; così quando le cose vanno male, sarà colpa del comandante in capo, abbia pur egli fatto tutto il meglio ch’è possibile a un uomo; ed a quel punto gl’immancabili stupidi censori si daranno a gridar di Caio Marcio: “Ah, se l’avesse comandata lui quest’impresa!”. SICINIO - Se invece vanno bene, la voce della pubblica opinione, ch’è già così favorevole a Marcio, defrauderà Cominio d’ogni merito.  BRUTO - E così la metà di tutti i meriti che spettano a Cominio andranno a Marcio, senza che questo li abbia meritati. SICINIO - Ma muoviamoci. Andiamo un po’ a sentire che cosa si decide per la guerra e come intende lui, col suo carattere, avventurarsi in questa impresa. BRUTO - Andiamo. (Escono) SCENA II - Corioli, il Senato Entra TULLO AUFIDIO con alcuni SENATORI PRIMO SENATORE - Così, tu pensi, Aufidio, che quei di Roma siano a conoscenza dei nostri piani e delle nostre mosse? AUFIDIO - E voi non lo pensate? Ci fu mai decisione in questo Stato ch’abbia potuto mandarsi ad effetto prima che Roma se ne impadronisse? Ho notizie di là abbastanza fresche, meno di quattro giorni, che mi dicono... Credo d’aver con me il dispaccio... Eccolo (Legge) “Hanno ammassato un poderoso esercito, “ma non si sa per qual destinazione, “se ad est oppure ad ovest... “Nella città la carestia è grande, “e nel popolo c’è molto fermento. “Si dice che Cominio insieme a Marcio, “il vecchio tuo nemico, odiato a Roma “più che da te, e insieme a Tito Larzio, “un romano di altissimo valore, “saranno i comandanti designati “di quest’azione, dovunque diretta. “Molto probabilmente “essa è contro di voi. State in allarme”. PRIMO SENAT. - La nostra armata è in campo. Eravamo sicuri che da Roma ci sarebbe venuta la risposta(28)... AUFIDIO - ... a giudicar non certo una follia creder che i vostri piani di battaglia  avessero a tenersi sotto chiave finché non fosse proprio necessario ch’essi si rivelassero da soli(29); invece, a quanto pare, erano noti a Roma sin da quando si covavano. Questa brutta scoperta c’impone adesso d’abbassar la mira, ch’era di prendere molte città prima almeno che Roma sapesse ch’eravamo scesi in guerra. SECONDO SENAT. - Nobile Aufidio, assumi tu il comando, raggiungi le tue truppe, e lascia a noi di difender Corioli. Se s’accampasser qui davanti a noi, porta su le tue forze per cacciarli. Ma penso ch’essi, lo vedrai tu stesso, non si preparano contro di noi. AUFIDIO - Ah, su ciò non illuderti. Le mie notizie son di fonte certa. Dirò di più, già alcuni scaglioni del loro esercito stanno marciando, e soltanto per questa direzione. Mi congedo, signori. Se Marcio ed io dovessimo incontrarci, ci siamo già giurati di combattere fin che un non soccomba. TUTTI - Il ciel t’assista! AUFIDIO - E protegga le vostre signorie. PRIMO SENAT. - Addio! SECONDO SENAT. - Addio! TUTTI - Addio! (Escono tutti, i Senatori da una parte, Aufidio dall’altra) SCENA III - Roma, la casa di Caio Marcio VOLUMNIA e VIRGINIA siedono intente a cucire VOLUMNIA - Canta, figlia, ti prego, o almeno mostrati un po’ meno triste! Se Marcio invece d’essere mio figlio fosse mio sposo, sarei più felice di saperlo lontano a farsi onore,  che averlo a letto a gustarne gli amplessi, per quanto amore egli potesse effondere. Quand’era ancora un tenero fanciullo, e l’unico rampollo del mio ventre, e la sua fascinosa giovinezza gli attirava gli sguardi della gente; quando una madre, neppure se un re l’avesse scongiurata un giorno intero, se lo sarebbe fatto allontanare dalla vista nemmeno per un’ora, io, presaga da allora della gloria cui uno come lui era votato (ché se brama d’onor non lo animasse, sarebbe stato nulla più che un quadro da restare appiccato alla parete), ero felice di lasciarlo andare in cerca di pericolo, dovunque egli potesse incontrar fama. E lo mandai ad una cruda guerra, dalla quale però fece ritorno col capo cinto di foglie di quercia(30). Ti dico, figlia, che di tanta gioia non sussultai sentendo il primo annuncio che avevo partorito un figlio maschio, quanta fu a veder la prima volta qual uomo vero egli s’era mostrato. VIRGINIA - E se fosse caduto in quell’impresa, madre, che avreste fatto? VOLUMNIA - Avrei serbato al posto di mio figlio la gloria del suo nome, e in essa avrei ritrovato mio figlio. Senti quel che ti dico, cuore in mano: avessi pur dodici figli maschi, tutti egualmente amati, e nessuno di loro meno caro del tuo e mio buon Marcio, preferirei vederne morir undici nobilmente, in difesa della patria, che saperne uno solo dissipare la vita nei piaceri, lontano dalle fatiche di guerra. Entra un’ANCELLA ANCELLA - Padrona, è qui la nobile Valeria, per farti visita. VIRGINIA - Madre, ti supplico, dammi licenza, vorrei ritirarmi.  VOLUMNIA - Niente affatto, non devi. Mi par già di sentire qui, vicino, il rullo dei tamburi del tuo sposo, e di vederlo che trascina in terra, presolo pei capelli, quell’Aufidio, ed i Volsci fuggire innanzi a lui come bambini alla vista dell’orso(31)... E vederlo che pesta i piedi a terra, così, e gridare: “Avanti, voi, vigliacchi! Figli della paura, e non di Roma(32)!” e asciugarsi la fronte insanguinata con una mano inguantata di ferro, ed avanzar pel campo di battaglia simile a un mietitore che s’imponga di mieter tutto il campo per non perder la paga giornaliera. VIRGINIA - La fronte insanguinata?... Oh, Giove, no! VOLUMNIA - Via, sciocca! Il sangue s’addice ad un uomo meglio dell’oro sopra il suo trofeo(33). I seni d’Ecuba giovane sposa che allattavano Ettore bambino non erano più belli della fronte di lui quando, sprezzante, schizzava sangue per le greche spade. (All’ancella) Va’, di’ a Valeria che siamo qui pronte a darle il benvenuto in casa nostra. (Esce l’ancella) VIRGINIA - Proteggano gli dèi il mio signore dal terribile Aufidio. VOLUMNIA - Sarà lui, che schiaccerà del fero Aufidio il capo col suo ginocchio e il collo col suo piede. Rientra l’Ancella con VALERIA e un servo di questa VALERIA - Buongiorno a voi, mie donne! VOLUMNIA - Cara amica! VIRGINIA - Son lieta di vederti. VALERIA - Come state? Brave massaie, vedo. Un bel lavoro:  che ricamate?... E il bimbo come sta? VIRGINIA - Sta bene, buona amica, ti ringrazio. VOLUMNIA - Preferirebbe stare tutto il giorno a veder spade ed udire tamburi, piuttosto che star dietro al suo maestro. VALERIA - Parola mia, il figlio di suo padre! Un frugoletto stupendo, davvero. Vi dirò, sono stata ad osservarlo mercoledì scorso per una mezz’ora: che piglio risoluto! A un certo punto l’ho visto correr dietro a una farfalla dalle alucce dorate; l’acchiappò, poi la lasciò andar libera di nuovo, e lui di nuovo dietro, ruzzolando su e giù, e rialzandosi, finché riesce ad acchiapparla ancora; e là, o l’avesse urtato il ruzzolone, o che cos’altro, la serra tra i denti, così, e la sbrana. E come l’ha ridotta, non vi dico. VOLUMNIA - Gli scatti di suo padre! VALERIA – È così, vero, un bimbetto di razza. VIRGINIA - Un monello, mia cara. VALERIA - Via, mettete da parte quel ricamo. Vo’ farvi fare, questo pomeriggio con me la parte di massaie oziose. VIRGINIA - No, mi dispiace, non mi va uscire. VALERIA - Non vuoi uscire? VOLUMNIA - Uscirà, uscirà! VIRGINIA - Davvero, no, perdonami, Valeria, ma ho deciso di non varcar quell’uscio finché non sia tornato il mio signore dalla guerra. VALERIA - Ma via, è irragionevole. che tu t’imponga un simile confino. Su, devi pur deciderti a far visita a quell’amica che sta per sgravarsi. VIRGINIA - Le faccio voti d’un felice parto  e le sto accanto con le mie preghiere; ma visitarla, adesso, no, non posso. VOLUMNIA - Perché? VIRGINIA - Non per sottrarmi ad un fastidio, e tanto meno per poca affezione. VALERIA - Vuoi farti proprio una nuova Penelope. Dicon però che tutta quella lana ch’ella filò nell’assenza di Ulisse non servì che a riempir di tarme Itaca. Eh, vorrei tanto che questa tua tela fosse sensibile come il tuo dito, così potresti, almeno per pietà, smettere di bucarla con quell’ago! Su, devi uscir con noi. VIRGINIA - No, cara amica, perdonami, ma io non uscirò. VALERIA - Senti, se vieni, sulla mia parola, ti fornirò eccellenti notizie di tuo marito. VIRGINIA - Ah, mia buona amica, è troppo presto ancora per averne. VALERIA - T’assicuro, non scherzo. Ne abbiamo ricevute ieri sera. VIRGINIA - Parli sul serio? VALERIA - In sacra verità. Ne ho sentito parlare un senatore. Son queste: i Volsci sono scesi in campo, contro di loro è partito Cominio con una parte delle nostre forze. Con l’altra tuo marito e Tito Larzio sono accampati davanti a Corioli, la loro capitale. Son sicuri di prenderla, e concludere presto la campagna. La notizia è sicura, sul mio onore. E dunque avanti, non farti pregare, vieni con noi. VIRGINIA - Ti chiedo ancora scusa, mia cara. Un’altra volta, tutto quello che vuoi, te lo prometto.  VOLUMNIA - Evvia, lasciala stare! Con l’umore che adesso si ritrova non farebbe che rattristar noi pure. VALERIA - Lo penso anch’io. (A Virginia) Allora, arrivederci. (A Volumnia) Andiamo, cara amica. (Volgendosi di nuovo a Virginia) Evvia, ti prego, caccia la mutria, vieni via con noi. VIRGINIA - No, non insistere. Non esco e basta. V’auguro buon divertimento. VALERIA - Addio. (Escono Volumnia e Valeria. Virginia si richina sul ricamo) SCENA IV - L’accampamento romano davanti a Corioli Entrano CAIO MARCIO e TITO LARZIO con un seguito di ufficiali e soldati con tamburi e vessilli. Un MESSAGGERO si fa loro incontro. MARCIO - Arrivano notizie. Scommetto che si sono già scontrati. LARZIO - Il mio cavallo contro il tuo che no. MARCIO - Accettato. LARZIO - D’accordo, affare fatto. MARCIO - (Al Messaggero) Di’, s’è scontrato il nostro generale col nemico? MESSAGGERO - Si trovano già in vista l’un dell’altro, ma scontro ancora niente. LARZIO - Il tuo cavallo è mio! MARCIO - Te lo ricompro. LARZIO - Nient’affatto, né te lo do in regalo. Te lo do in prestito per cinquant’anni. (Al Trombettiere) Appella a parlamento la città.  MARCIO - (Al Messaggero) Quanto distan da qui i due eserciti? MESSAGGERO - Un miglio e mezzo circa, non di più. MARCIO - Allora sentiremo il loro allarme d’inizio della mischia, ed essi il nostro. Ora, Marte, ti prego, facci concludere alla svelta qui(34), sì che da qui possiamo poi marciare, con le daghe di sangue ancor fumanti, in aiuto dei nostri amici in campo. (Al Trombettiere) Avanti, la tua squilla. (Tromba a parlamento. Sugli spalti delle mura di Corioli appaiono due SENATORI con altra gente) (Ai due Senatori volsci) Tullo Aufidio è in città? PRIMO SENATORE - No, né c’è uomo qui che men di lui vi tema: vale a dir meno che niente. (Rullo di tamburi in lontananza) Ecco i nostri tamburi che chiamano a battaglia i nostri giovani. E noi, piuttosto che lasciarci chiudere come in trappola dentro queste mura, le abbatteremo. Queste nostre porte che sembrano sbarrate fortemente, le abbiam fermate appena con dei giunchi. Si apriranno da sé. (Frastuono di carica guerresca in lontananza) Laggiù, sentite? Aufidio è là; potete immaginarlo il bel lavoro ch’egli sta facendo in mezzo al vostro dimezzato esercito(35). MARCIO - Oh, s’azzuffano! LARZIO - Questo lor clamore sia il nostro segnale. Qua le scale! (Soldati volsci escono improvvisamente dalle mura) MARCIO - Non ci temono, questi, anzi, vedete, ci fanno addirittura una sortita! Avanti allora, scudi avanti al cuore, e col cuore più saldo degli scudi,  all’assalto, mio valoroso Tito! Costoro mostrano d’averci a spregio più di quanto potessimo pensare; e ciò mi fa sudare dalla rabbia! All’assalto, all’assalto, miei soldati! Il primo che indietreggia, lo prenderò per un soldato volsco, e gli farò assaggiare la mia spada! (Allarme di battaglia. I Romani sono respinti sulle loro posizioni) (Marcio esce combattendo, poi rientra, infuriato, gridando) Ah, vergogna di Roma! Branco di... Vi s’attacchino addosso tutti i mali più pestilenti d’Africa! Carogne! Vi ricoprano pustole e bubboni, sì che ancor prima di guardarvi in faccia vi possiate infettar l’un con l’altro a un miglio di distanza controvento! Anime d’oca dentro umane forme! Come avete potuto indietreggiare davanti a un’accozzaglia di straccioni che perfino le scimmie sarebbero capaci di sconfiggere? Per Plutone e l’inferno siete feriti tutti nella schiena, con le facce slavate per la fuga e la paura che vi fa tremare! Pensate a riscattarvi, scellerati! Ricacciateli indietro, o, per il cielo, mollo il nemico e vi combatto contro! V’ho avvertiti. Tenete duro! Avanti! E li ricacceremo alle lor tane, in braccio alle lor mogli, così com’essi ci hanno ricacciati alle nostre trincee. Su, dietro a noi! (Altra carica. Questa volta i Romani hanno la meglio, i Volsci sono volti in fuga, e Marcio li insegue da solo fino alle porte della città) Ecco, le porte adesso sono aperte. Dimostratevi buoni inseguitori. A chi insegue le apre la Fortuna, le porte, non a chi se la dà a gambe! Guardate me, e fate come me. (Entra da solo in Corioli) PRIMO SOLDATO - (Arrestandosi cogli altri davanti alla porta ancora aperta) È prodezza da folle, io non lo seguo.  SECONDO SOLD. - E io nemmeno. (Improvvisamente la porta si chiude) Toh, guardalo là! L’han chiuso dentro. TUTTI – È in trappola, sicuro! Entra TITO LARZIO LARZIO - Che succede di Marcio? TUTTI - Ucciso, generale, non c’è dubbio. PRIMO SOLDATO - Stava inseguendo quelli che fuggivano, è entrato insieme a loro, e quelli, subito, gli hanno richiuso la porta alle spalle. È solo, contro tutta la città. LARZIO - Oh, nobile collega! Tu che sensibilmente(36) in audacia superi l’insensibile tua spada, e resisti, se pur essa si piega! Tu sei perduto, Marcio! Un diamante della più pura luce(37) e dello stesso peso del tuo corpo non sarebbe gioiello più prezioso! Tu eri, come nessun altro a Roma, il soldato voluto da Catone(38), fiero e tremendo non solo a colpire, ma cui bastava solo un truce sguardo e un grido della tua voce di tuono, per incuter tal tremito al nemico, come se tutto il mondo fosse preso subitamente da tremor febbrile. Entra MARCIO, sanguinante, inseguito da soldati volsci(39) PRIMO SOLDATO - Oh, generale, guarda, guarda là! Ma quello è Marcio! Corriamo a salvarlo, o qui si muore tutti insieme a lui! (Zuffa. I Romani sopraffanno i Volsci ed entrano tutti in Corioli) SCENA V - Corioli, una strada Entrano alcuni legionari romani recando in mano delle spoglie di guerra PRIMO SOLDATO - (Mostrando un oggetto d’argento) Io questa roba me la porto a Roma.  SECONDO SOLD. - E io con quest’altra. TERZO SOLDATO - (Gettando via il proprio bottino) Accidentaccio!... Questo l’avevo preso per argento! (In lontananza, il fragore di cariche che continuano) Entra CAIO MARCIO, sanguinante, con TITO LARZIO e un trombettiere. Al vederli, i soldati con le spoglie di guerra escono. Marcio si ferma a seguirli con lo sguardo. MARCIO - Eccoli là, questi eroi da strapazzo! L’onore di soldato(40) per costoro non vale più d’una dracma crepata(41). Ferri vecchi, cuscini, cucchiaiacci, giaccacce lise che perfino il boia seppellirebbe con chi le portava(42), saccheggian tutto, questi manigoldi, tutto imballano, per portarlo a casa, prima ancora che cessi la battaglia! Che crepassero tutti!... Senti, senti che chiasso leva di là il generale(43)! A lui adesso! Là c’è un uomo, Aufidio, ch’io odio sovra ogni altra cosa al mondo, e sta facendo strage di Romani! Perciò, trattieniti, mio prode Tito, quanti soldati credi che ti servano per tener la città; io, nel frattempo, con quelli che hanno l’animo di farlo, accorro a dare man forte a Cominio. LARZIO - Ma tu sanguini, mio nobile Marcio. Già troppo dura prova hai sostenuto, per combattere ancora. MARCIO - Niente lodi. Quel che ho fatto non m’ha manco scaldato. Perdere un po’ di sangue, col mio fisico, fa più bene che male. Voglio apparir così davanti a Aufidio, e battermi con lui. LARZIO - Possa allora la bella dea Fortuna innamorarsi di te follemente, e con la forza dei suoi incantesimi sviar da te le spade dei nemici, ed il Successo diventar tuo paggio. MARCIO - E a te non meno sia il Successo amico di quanto l’è a coloro cui Fortuna  decide di portare in alto. Addio. (Esce) LARZIO - Nobile Marcio! (Al trombettiere) Va’, recati al Foro e chiama con la tromba a parlamento tutti i notabili della città: che s’adunino in piazza, per conoscere i nostri intendimenti. (Escono) SCENA VI -Il campo di Cominio Entra COMINIO alla testa di soldati romani in ritirata COMINIO - Alt, riprendete fiato, miei soldati! Vi siete ben battuti! Ne siamo usciti fuori da Romani, senza resistere spavaldamente, senza vigliaccamente ritirarci. Ci attaccheranno ancora, son sicuro. Mentre ci scontravamo, di quando in quando, portate dal vento, si sentivan le cariche dei nostri dall’altra parte. Che gli dèi di Roma li vogliano guidare alla vittoria, come speriamo vogliano con noi, così che al fine entrambi i nostri eserciti, incontrandosi col sorriso in fronte, possano offrirvi, o dèi, i sacrifici di ringraziamento! Entra un MESSAGGERO Che nuove porti? MESSAGGERO - Quelli di Corioli, han fatto all’imprevisto una sortita e hanno dato battaglia a Larzio e Marcio. Ho visto io stesso i nostri che venivano ricacciati indietro nelle loro trincee; e son partito. COMINIO - Sarà come tu dici, ma non mi pare sia proprio così. Da quanto tempo sei venuto via?  MESSAGGERO - Da più di un’ora. COMINIO - Ma da qui a Corioli non c’è nemmeno un miglio di distanza, e da poco si sono uditi qui i lor tamburi. Come hai tu potuto metterci un’ora a percorrere un miglio, e recar così tardi il tuo messaggio? MESSAGGERO - Sulle mie tracce alcune spie dei Volsci m’hanno dato la caccia, e m’ha costretto a fare un giro di tre o quattro miglia, per evitarle; se no, generale, t’avrei recato già mezz’ora fa il mio messaggio. Entra MARCIO dal fondo Ma chi è laggiù, che par come se l’abbian scorticato? O dèi! Dalla figura sembra Marcio! L’ho visto già altre volte in quello stato. MARCIO - (Da lontano) Arrivo troppo tardi? COMINIO – È la sua voce. Saprei distinguerla da altre mille, meglio di quanto non sappia il pastore il fragore di un tuono da un tamburo(44). MARCIO - (Avvicinandosi) Arrivo troppo tardi? COMINIO - Sì, se quel sangue che t’ammanta tutto, è sangue tuo, e non sangue nemico(45). MARCIO - Ah, lascia ch’io ti abbracci forte, Cominio, e con la stessa gioia con la quale abbracciai la mia ragazza al declinar del giorno delle nozze, quando ardenti bruciavano le fiaccole a farmi luce sulla via del talamo! COMINIO - Fior di tutti i guerrieri! E Tito Larzio, che mi dici di lui? MARCIO - Ch’è tutto preso ad emanar decreti di giustizia, chi condannando a morte, chi all’esilio, di chi accettando il prezzo del riscatto,  con chi indulgente, con chi rigoroso; tiene Corioli, nel nome di Roma, al guinzaglio, come un levriero docile da lasciar libero come si voglia. COMINIO - (Volgendosi intorno) Dov’è quel miserabile che poc’anzi è venuto ad annunciarmi che il nemico v’aveva ricacciati nelle vostre trincee?... Dov’è? Chiamatelo! MARCIO - Lascialo stare. T’ha informato bene. A parte i nobili, la bassa forza - peste li colga! E gli han dato i tribuni! - son fuggiti, come da gatto sorcio, davanti a scalcagnati più di loro. COMINIO - E come avete fatto a prevalere? MARCIO - C’è tempo per spiegartelo? Non credo. Ma il nemico dov’è? Siete rimasti, a quanto pare, padroni del campo. Se no, perché cessaste di combattere? COMINIO - Finora, Marcio, abbiamo combattuto in una posizione di svantaggio, e ci siam ritirati di proposito, per poi rifarci e vincerli. MARCIO - Sai com’hanno schierato il loro esercito? E dove han messo gli uomini migliori? COMINIO - Da quel che m’è dato indovinare, in prima linea son quelli di Anzio, che sono i combattenti più affidabili, e li comanda Aufidio, il vero cuore delle lor speranze. MARCIO - Ti supplico, Cominio, per le battaglie combattute insieme, per il sangue che insieme abbiam versato, pei giuramenti che ci siam fatti, fa’ in modo ch’io mi trovi faccia a faccia con Aufidio e con tutti i suoi Anziati, e non tardare ad attaccar battaglia; affrontiamoli subito, riempiamo di frecce l’aria, e di spade brandite. COMINIO - Sarebbe meglio, penso, nel tuo stato, ch’io ti faccia condurre ad un bel bagno e spalmarti d’unguenti le ferite;  ma non saprò giammai negarti nulla. Scegli tu stesso gli uomini più adatti a secondarti nell’azione. MARCIO - Saranno solo quelli che mi diranno d’esservi disposti. (Forte, ai soldati) Se c’è qualcuno qui - e sarebbe peccato dubitarlo - cui piaccia questa tinta ond’io, vedete, sono imbrattato dalla testa ai piedi; se c’è qualcuno che ha meno paura di rischiare la vita che il suo nome, che pensa che una morte valorosa vale più d’una vita senza onore; e che la patria val più che se stesso, egli solo, o quant’altri in mezzo a voi si trovino a pensarla come lui, levino in alto il lor gladio, così, per dir che sono pronti a seguir Marcio. (Tutti, con un grido, agitano in alto i gladii; alcuni sollevano Marcio sulle loro braccia, altri lanciano in aria i berretti) Di me solo, di me fate una spada(46)! Se queste vostre manifestazioni non son soltanto mostra, quale di voi non vale quattro Volsci? Non c’è nessuno che non sia capace d’opporre al grande Aufidio uno scudo robusto come il suo. Io vi ringrazio tutti, ma tra voi debbo scegliere solo un certo numero. Gli altri daranno prova in altra impresa, quando se ne presenti l’occasione. Ora vi piaccia di sfilarmi innanzi in bell’ordine, sì ch’io possa scegliere subito quelli più adatti a seguirmi. COMINIO - In marcia, miei soldati! Date prova d’avere quel coraggio che avete sì altamente proclamato, e ciascuno dividerà con noi la sua parte di rischi e di bottino. (Escono marciando) SCENA VII - Davanti alle porte di Corioli  TITO LARZIO con un tamburino, un trombettiere e una guida è sul punto di partire per recare aiuto a Cominio e Caio Marcio; con lui è anche un LUOGOTENENTE con altri soldati LARZIO - (Al Luogotenente) Dunque, le porte siano ben guardate. Attenetevi agli ordini impartiti. Se lo richiederò, mandate subito quelle centurie(47) in nostro aiuto. Il resto basterà a tenere per poco la città; per poco, sì, ché se perdiamo in campo, la città non potremo più tenerla. LUOGOTENENTE - Va bene, generale, sarà fatto(48). LARZIO - Muoviamo, dunque, e chiudete le porte dietro di noi. (Alla Guida) Andiamo, battistrada, scortaci fino al campo dei Romani. (Escono) SCENA VIII - Il campo di battaglia. Allarme d’assalto Entrano da parti opposte, AUFIDIO e MARCIO MARCIO - Con te e con nessun altro voglio battermi, ché ti porto un odio quale nemmeno al peggiore spergiuro. AUFIDIO - Siamo pari. Non c’è serpente in Africa ch’io aborrisca più della tua fama e della tua rivalità. Difenditi(49)! MARCIO - Il primo che fa un solo passo indietro muoia schiavo dell’altro, e poi gli dèi lo dannino in eterno. AUFIDIO - Se mi vedi fuggire, urlami dietro, Marcio, come un cane corre abbaiando dietro ad una lepre. MARCIO - Tullo, da meno di tre ore, io, da solo ho combattuto contro tutti dentro le mura della tua Corioli, facendo tutto quello che ho voluto. Lo vedi questo sangue di cui sono imbrattato? Non è mio.  Chiama a raccolta tutte le tue forze, adesso, se vuoi farne tu vendetta. AUFIDIO - Fossi tu pure l’Ettore di Troia che della tua altezzosa progenie fu la frusta(50), stavolta non mi scappi. (Si battono. Soldati volsci accorrono in aiuto ad Aufidio, ma Marcio li ricaccia tutti indietro) (Ai suoi soldati) Gente zelante, ma non valorosa, con questo vostro maledetto aiuto m’avete sol coperto di vergogna! (Escono) SCENA IX -Il campo romano Squilli di tromba come segnali di carica. Trambusto e cozzo d’armi all’interno. Poi, segnale di ritirata(51) Entra da una parte COMINIO con l’esercito romano; dall’altra MARCIO con un braccio al collo COMINIO - Marcio, foss’io a raccontare a te quel che t’ho visto fare oggi in battaglia, tu stesso non mi presteresti fede. Ma lo riferirò dove saranno a udirlo senatori che mesceranno lacrime a sospiri ad ascoltarlo: dove grandi nobili ascolteranno, prima spallucciando tra loro increduli, infine ammirati; dove matrone, dapprima atterrite, poi trepidanti d’intimo piacere, vorranno udirmi raccontare ancora; dove gli ottusi, stupidi tribuni, che insieme alla lor plebe puzzolente t’hanno in odio, dovranno a malincuore pur esclamare: “Sien grazie agli dèi che Roma ha un tal soldato!”. Senza dire che tu, ad un tal banchetto sei venuto per dare solo un morso, avendo già mangiato a sazietà(52). Entra TITO LARZIO con l’esercito, di ritorno dall’aver inseguito i Volsci in rotta LARZIO - (A Cominio, indicando Marcio) Generale, il cavallo di battaglia è lui, noi siamo la sua bardatura. Lo avessi visto!...  MARCIO - Evvia, basta, ti prego! Anche mia madre, che pure ha il diritto di vantar con orgoglio il proprio sangue, se si mette ad elogiarmi, mi fa male. Ho fatto ciò che avete fatto tutti, cioè quanto ho potuto, come voi animato da un solo sentimento, l’amor della mia patria. Chiunque abbia operato con nient’altro che con la propria buona volontà, ha fatto esattamente come me. COMINIO - Non sarai tu la tomba dei tuoi meriti(53). Roma deve sapere quanto vali. Tener nascoste al mondo le tue gesta, sarebbe compiere un trafugamento peggior d’un furto; ammantar di silenzio qualcosa che quand’anche proclamata sui vertici più alti dell’elogio apparirebbe ancor ben più modesta della realtà, non è minor delitto d’una calunnia. Perciò ti scongiuro: per quello che tu sei, e non in premio di quello ch’hai fatto, ascoltami davanti al nostro esercito. MARCIO - Le ferite ch’ho addosso mi dolgono a sentirsi ricordare. COMINIO - Potrebbero, se non le ricordassimo, esulcerate dall’ingratitudine, curarsi da se stesse con la morte. Di tutti quei cavalli - e ne abbiam catturati d’assai buoni ed in gran numero - e del bottino conquistato sul campo ed in città, noi ti assegniamo la decima parte, che potrai scegliere liberamente prima che sia spartito tutto il resto. MARCIO - No, generale, grazie, ma non potrei convincere il mio cuore ad accettare un dono sottobanco(54) per pagar la mia spada. Lo rifiuto, e reclamo per me semplicemente la parte che hanno avuto tutti gli altri ch’hanno partecipato alla battaglia. (Lunga fanfara(55). Tutti gridano: “Marcio!”, lanciando in aria i berretti e le lance. Cominio e Larzio restano a capo scoperto)  Questi strumenti che voi profanate(56) non risuonino più così a sproposito! Quando tamburi e trombe son ridotti, sul campo di battaglia, a strumenti per adulare, allora si riempian le corti e le città di genti dalle facce false e ipocrite. Quando l’acciaio si fa così morbido come la seta addosso al parassita, s’elevi questo a simbolo di guerra(57)! Basta, basta, vi dico! Sol perch’io non mi son lavato il naso che sanguinava, sol ch’abbia abbattuto qualche misero scarto di natura - ciò che molti altri han fatto come me senza la minima nota di elogio - ecco che voi mi portate alle stelle con iperboliche acclamazioni, come s’io fossi un uomo che tenesse a vedere la pochezza ch’ei sa di essere alimentata dalle lodi con salsa di menzogne. COMINIO - Tu sei troppo modesto, e più spietato contro la tua fama che grato a noi che te la tributiamo con tutto il cuore. Con tua buona pace, però, se sei irritato con te stesso, ti metteremo le manette ai polsi come ad uno deciso a farsi male, così potremo ragionare insieme senza incorrere in chi sa quali rischi(58). Perciò sia proclamato a tutto il mondo, come a noi tutti qui, che Caio Marcio di questa guerra è il vero vincitore(59), ed io per questa sua benemerenza gli faccio dono del mio bel corsiero, animale famoso in tutto il campo, e della relativa bardatura. E d’ora in poi per quanto egli ha compiuto di valoroso davanti a Corioli, con unanime applauso ed un sol grido, si chiami Caio Marcio “Coriolano”. (A Coriolano(60) ) Di questo titolo sii sempre degno! TUTTI - (Con applausi e suon di trombe e tamburi) Sia gloria a Caio Marcio Coriolano! CORIOLANO - Ora vado a lavarmi, e sul mio viso  poi che l’avrò pulito, osserverete se me l’avrete fatto o no arrossire. Comunque vi ringrazio. (A Cominio) Intendo cavalcare il tuo destriero, ed il bel soprannome che m’hai dato porterò sempre, e nel modo più degno, in cima al mio cimiero. COMINIO - Ora torni ciascuno alla sua tenda: io, nella mia, prima di riposare, scriverò a Roma del nostro successo. Tu, però, Tito Larzio, è necessario che torni a Corioli, e mandi a Roma i loro più autorevoli, coi quali, per il bene loro e nostro, si possa negoziare. LARZIO - Lo farò. CORIOLANO - Gli dèi cominciano a prendermi a gioco: ho appena rifiutato d’accettare doni degni d’un principe, ed eccomi costretto a mendicare qualcosa dal mio comandante in capo. COMINIO - Già concessa, è tua. Di che si tratta? CORIOLANO - Io, a Corioli, più d’una volta fui ospite di un certo pover’uomo che mi si dimostrò molto cortese. L’ho visto adesso qui, tra i prigionieri, che mi gridava aiuto; in quell’istante però m’è apparso innanzi agli occhi Aufidio, e l’ira ha sopraffatto la pietà. Ecco, ti chiedo di lasciare libero quel mio buon ospite. COMINIO - E bene hai chiesto! Fosse pur l’assassino di mio figlio, libero se n’andrebbe, come l’aria. (A Larzio) Rilàsciaglielo, Tito. LARZIO - Il nome, Marcio? CORIOLANO - Per gli dèi, me lo son dimenticato! Sono stanco, ho la mente affaticata(61)... Non avreste del vino? COMINIO - Alla mia tenda, Marcio, andiamo, vieni.  Il sangue sulla faccia ti si secca. Pensiamo intanto a questo, adesso. Vieni. (Escono) SCENA X - Il campo dei Volsci Fanfara di cornette. Entra AUFIDIO tutto coperto di sangue, con dei soldati AUFIDIO - La città è presa. PRIMO SOLDATO - Ce la renderanno a buone condizioni. AUFIDIO - Condizioni!... Romano vorrei essere, ché da volsco non sono più me stesso! Condizioni!... Che buone condizioni può portare una resa a discrezione alla parte ch’è alla mercé dell’altra? O Marcio, ho combattuto cinque volte con te, e cinque volte tu m’hai vinto; e faresti altrettanto, son sicuro, c’incontrassimo pure tante volte quante ogni giorno ci sediamo a mensa. Ma, pel cielo e la terra!, se accadrà ch’io mi trovi un’altra volta faccia a faccia con lui, o io o lui! Il mio spirito di rivalità ha perduto ogni scrupolo d’onore; ché, se prima pensavo di schiacciarlo ad armi pari, spada contro spada, ora, sia l’ira a darmelo o l’astuzia, non più, qualsiasi mezzo sarà buono a spacciarlo. PRIMO SOLDATO – È il diavolo in persona. AUFIDIO - Più ardito, anche, se pur meno furbo. Il mio valore è come avvelenato solo a soffrire d’essere oscurato per colpa sua; e per causa di lui sarà costretto a fuggir da se stesso(62). Non ci sarà né sonno né santuario(63), sia nudo o infermo, non ci sarà tempio né Campidoglio, non sacre preghiere né cerimonia d’offerta agli dèi, - tutti freni al furore scatenato - ad arginare l’odio mio per Marcio in forza del lor marcio privilegio e dell’usanza che ancor li sostiene.  Dovunque me lo trovi innanzi agli occhi, foss’anche a casa mia, pure là, l’avesse pur mio fratello in custodia, contro ogni legge d’ospitalità, laverò la mia mano inferocita nel suo cuore... Tu ora va’ in città(64), informati in che modo è presidiata e chi son quelli ch’essi hanno prescelto per inviarli a Roma come ostaggi. PRIMO SOLDATO - Tu non ti muovi(65)? AUFIDIO - Sì, sono aspettato al bosco dei cipressi. Là, ti prego (è a sud della città, dopo i mulini) fammi sapere come stan le cose, ch’io possa regolarmi su quale corso muovere i miei passi. PRIMO SOLDATO - E così sarà fatto, comandante. (Escono) ATTO SECONDO SCENA I -Roma, una piazza Entrano MENENIO e i tribuni SICINIO e BRUTO, incontrandosi MENENIO - L’augure dice che per questa sera avremo novità. BRUTO - Buone o cattive? MENENIO - Non certo tali da piacere al popolo, che non vuol bene a Marcio. SICINIO - Natura insegna pure agli animali a conoscere chi è loro amico. MENENIO - Già, guarda, infatti: a chi vuol bene il lupo? SICINIO - All’agnello. MENENIO - Sì, appunto: per sbranarselo; come vorrebbero fare con Marcio gli affamati plebei.  BRUTO - Quello è un agnello però che bela come un orso. MENENIO - Un orso, che vive tuttavia come un agnello. Beh, voi siete due uomini maturi, ditemi solo questo. I DUE TRIBUNI - Ossia, che cosa? MENENIO - Che vizi possono imputarsi a Marcio, che voi due non abbiate in abbondanza(66)? BRUTO - Nessuno gliene manca; anzi, di tutti, si può dir che possieda ampia provvista. SICINIO - Specialmente di boria. BRUTO - E di alterigia come nessun altro. MENENIO - Ah, questo sì che è buffo! Lo sapete voi due come vi giudicano in città... Sì, qui, dico, in mezzo a noi della fila di destra(67)? Lo sapete? I DUE TRIBUNI - Ebbene, come siamo giudicati? MENENIO - Voi che parlate tanto d’alterigia... se ve lo dico non andrete in collera? I DUE TRIBUNI - Bene, allora?... MENENIO - Del resto, poco male, tanto si sa che a voi basta un’inezia per farvi uscire dai gangheri(68)... Ma sì, lasciate pur andar la briglia sciolta sul collo ai vostri permalosi umori, e andate in collera quanto vi pare, se ci provate gusto!... Proprio voi, accusar d’alterigia Caio Marcio? BRUTO - Non siamo i soli. MENENIO - Ah, questo lo so bene! Da soli voi sapete far ben poco; ed è perché son tanti ad aiutarvi che riuscite a fare anche quel poco: troppo infantili sono i vostri mezzi perché riusciate a far molto da soli. E venite a parlare d’alterigia!  Ah, poteste rivolger gli occhi in dentro, nei meandri dei vostri cervicali e fare un bell’esame di coscienza! Magari lo poteste! BRUTO - Ebbene, allora? MENENIO - Allora scoprireste un’accoppiata di magistrati scialbi, senza meriti, e tuttavia boriosi, prepotenti, lunatici, bizzosi, e insomma stolidi, come non ce n’è a Roma nessun altro. SICINIO - Va’ là, Menenio, che anche tu sei noto... MENENIO - Sì, lo so, sono noto per essere un patrizio un poco estroso, al quale piace un buon bicchier di vino(69) non annacquato nell’acqua del Tevere; uno di cui si dice che ha il difetto di dar ragione al primo che reclama; uno che prende fuoco facilmente; uno che bazzica più volentieri il nero deretano della notte che non la chiara fronte del mattino. Io quel che ho dentro ce l’ho sulla bocca e la malizia m’esce via col fiato. Se mi trovo con due politici (che non posso dir certo due Licurghi(70) ) come voi, e volete darmi a bere qualcosa ch’è sgradito al mio palato, fo boccacce. Non posso certo dire che le signorie vostre han detto bene una cosa, se in ogni vostra sillaba io trovo tutto un concentrato d’asino(71). E se sopporto con rassegnazione chi mi dice che siete uomini seri e rispettabili, dico ch’è un bugiardo chiunque dica che le vostre facce. son facce oneste. E ammesso che voi due riusciate a legger questo sulla mappa del microcosmo della mia persona, ne segue forse che possiate dire di conoscermi bene? E se pur fosse, qual difetto riescono a discernere le vostre miopi facoltà visive in questa mia natura? BRUTO - Via, Menenio, pensiamo di conoscerti abbastanza!  MENENIO - No, voi non conoscete né Menenio, né voi stessi, né niente! Siete solo ambiziosi di scappellate e inchini dalla parte di misere canaglie. Siete capaci di buttare ai cani il tempo d’una intera mattinata ad ascoltare la banale bega tra un’ortolana(72) e un venditor di zaffi, per rinviare poi ad altra udienza quella controversiuccia da tre soldi. E se, mentre sedete ad ascoltare in una lite l’una e l’altra parte(73), v’accade d’esser colti dalla strizza d’andar di corpo, fate mille smorfie, da somigliare a delle marionette, innalzate bandiera rosso-sangue(74) contro chiunque non voglia aspettare(75), e, bofonchiando in cerca d’un pitale, lasciate lì la causa nel bel mezzo, a sanguinar più imbrogliata di prima(76); col risultato che la conclusione che sarete riusciti ad apportare alla vertenza sarà stata in tutto l’aver chiamato entrambi i litiganti “farabutti”. Che bella coppia, siete! BRUTO - E tu? Va’ là che tu sei meglio noto come un brillante pigliaingiro a tavola che come un altrettanto indispensabile occupante d’un seggio in Campidoglio(77)! MENENIO - Perfino i nostri bravi sacerdoti devono diventar delle linguacce se son costretti ad aver a che fare con tipi della vostra bassa tacca(78). Quel che sapete dire di più acconcio non vale l’agitarsi che nel dirlo fanno le vostre barbe; quelle barbe che non meritan fine più onorata che d’andare a servir da imbottitura al cuscino di qualche tappezziere o d’esser chiuse dentro a un basto d’asino(79). E tuttavia dovete andar dicendo a destra e a manca che Marcio è superbo; lui, che a stimarlo poco, val più di tutti i vostri antecessori presi insieme, da Deucalione in giù(80); anche se casualmente, tra coloro, ci sia stato qualcuno, tra i migliori, col mestiere di boia ereditario. Ma buona sera alle eccellenze vostre;  ché a star ancora a discuter con voi, mandriani del plebeo bestiale armento, c’è rischio d’infettarsi le cervella. Fa per allontanarsi, quando vede arrivare VOLUMNIA, VIRGINIA e VALERIA. Bruto e Sicinio si fanno da parte mentre Menenio va loro incontro Oh, le mie belle e nobili matrone! Non sarebbe più nobile la Luna, se mai fosse terrena creatura. Dov’è che indirizzate in tanta fretta i vostri passi? VOLUMNIA - Nobile Menenio, sta per giungere qui mio figlio Marcio. Lasciaci andare, per Giove e Giunone! MENENIO - Ah, Marcio torna a casa? VOLUMNIA - Sì, Menenio, e accompagnato dal più vivo applauso, e dai migliori auspici. MENENIO - (Gettando in aria il berretto in segno di gioia) Oh allora, Giove, prenditi il mio berretto, e ti ringrazio! Dunque, Marcio ritorna? VIRGINIA E VALERIA - Sì, Menenio. VOLUMNIA - Guarda, ho qui una sua lettera; un’altra l’ha il Senato, una sua moglie; e ce n’è un’altra, credo, anche per te, a casa tua. MENENIO - Per me? Una sua lettera?... Uh, uh, stanotte, per tutti gli dèi, mi metto a far ballar tutta la casa! VIRGINIA - Proprio così, una lettera per te. L’ho vista con i miei occhi. MENENIO - Una sua lettera! Mi regala sette anni di salute! Per sette anni farò boccacce al medico! A fronte d’una tale medicina, la ricetta più eccelsa di Galeno(81) è uno specifico da ciarlatano(82)! Peggio d’un beverone da cavallo! Non è mica ferito?... Perché sempre tornò a casa ferito le altre volte.  VIRGINIA - Oh, no, no, no, no, no! VOLUMNIA - Ferito, sì, ed io di ciò rendo grazie agli dèi. MENENIO - Anch’io, se non lo sia di troppo grave... Le ferite stan bene a chi si porta la vittoria in tasca. VOLUMNIA - Lui se la porta in fronte, la vittoria, ed è la terza volta che mi torna col capo cinto di foglie di quercia! MENENIO - E Aufidio? L’ha sistemato a dovere? VOLUMNIA - Secondo quanto scrive Tito Larzio, si son scontrati, ma quello è scappato. MENENIO - E per fortuna sua, gliel’assicuro! Ché se fosse rimasto, io, al suo posto, non mi sarei voluto “aufidizzare” per tutto l’oro che sta custodito dentro le casseforti di Corioli. Il Senato è informato? VOLUMNIA - (A Virginia e Valeria) Andiamo, donne. VALERIA - Oh, sì, di lui si dicon meraviglie. MENENIO - Meraviglie! Ma certo! E tutte vere(83), garantito! VIRGINIA - Così voglion gli dèi! VOLUMNIA - Che siano vere? Toh, sentite questa! MENENIO - Che siano vere, son pronto a giurarlo. Dov’è ferito?... (S’interrompe vedendo avvicinarsi i due Tribuni) Vostre signorie, che Dio(84) le salvi, Marcio sta tornando, ed ha ancor più ragioni, questa volta, d’esser superbo. (Alle due donne) Dov’è ch’è ferito? VOLUMNIA - Alla spalla ed al braccio, qui, a sinistra. Ce ne saran di belle cicatrici  da scodellare al popolo quando concorrerà per la sua carica! Sette ne ha ricevute per il corpo nel cacciare Tarquinio(85). MENENIO - Un’altra al collo, altre due alla coscia, e fanno nove, ch’io conosca. VOLUMNIA - Ne aveva venticinque quando è iniziata questa spedizione. MENENIO - Sicché con queste fanno ventisette: e ogni tacca la tomba d’un nemico. (Uno squillo di tromba, poi fanfara da dentro, con clamori di popolo) Ecco le trombe. VOLUMNIA - Sono i suoi araldi. Egli si porta innanzi a sé i clamori, dietro si lascia lacrime. Nel suo possente braccio sta di stanza il tenebroso spirito, la Morte. Esso avanza con lui, con lui colpisce, e gli uomini periscono(86). Fanfara. Entrano, in pompa, COMINIO e TITO LARZIO, in mezzo a loro CORIOLANO cinto il capo di foglie di quercia, indi ufficiali, soldati e un ARALDO ARALDO - Sappia Roma che Marcio ha combattuto, lui solo, tra le mura di Corioli, dove s’è guadagnato, con la gloria, un nome: Coriolano, che va aggiunto, quale segno d’onore, d’ora in poi, a quello suo. Sii benvenuto a Roma, illustre Caio Marcio Coriolano! TUTTI - Benvenuto, illustre Coriolano! CORIOLANO - Basta! M’offende l’anima. Vi prego! COMINIO - Guarda, Marcio, tua madre. CORIOLANO - Oh, tu, lo so, hai pregato gli dèi pel mio successo. (S’inginocchia) VOLUMNIA - No, mio bravo soldato, alzati, su! Marcio mio nobile, mio degno Caio...  ora che t’hanno dato un soprannome in onore delle tue grandi gesta, come debbo chiamarti... Coriolano? Mah, oh!, ecco tua moglie! CORIOLANO - (A Virginia) Mio grazioso silenzio(87), ti saluto! Piangi a vedermi tornar vittorioso, perché? Avresti atteso, per sorridere, ch’io ti fossi tornato in una bara? Occhi, mia cara, come questi tuoi hanno a Corioli le madri e le vedove rimaste senza i lor figli e mariti. MENENIO - E ora t’incoronino gli dèi! CORIOLANO - Anche tu qui, Menenio(88)? (A Valeria) Oh, mia gentile signora, perdonami(89). VOLUMNIA - Non so dove voltarmi... (A Cominio) Generale, ben tornato anche a te... ed a voi tutti! MENENIO - Bentornati, sì, centomila volte! Mi vien da piangere, mi vien da ridere, son triste e allegro insieme. (A Coriolano) Bentornato! Un cancro(90) morda il cuore alla radice a chi non è contento di vederti! Siete tre uomini che tutta Roma dovrebbe amare; e invece, guarda un po’(91), abbiamo in casa dei meli selvatici che non si vogliono far innestare al vostro gusto. Ma, a loro dispetto, bentornati guerrieri! Noi l’ortica chiamiamo ortica, e chiamiamo sciocchezza l’errore degli sciocchi. COMINIO - Sempre giusto, Menenio. CORIOLANO - Sempre, sempre. ARALDO - (Alla folla) Largo, largo! CORIOLANO - (A Volumnia e Virginia, prendendole per mano) La tua mano, e la tua. Prima di ritirarmi in casa nostra(92),  debbo rendere omaggio ai senatori(93) dai quali insieme col loro saluto ho ricevuto anche nuovi onori. VOLUMNIA - Sarò vissuta fino a veder oggi realizzati i desideri miei ed avverate le mie fantasie. Manca solo una cosa, ma non dubito che la nostra Roma te la concederà. CORIOLANO - Ricordati, però, mia buona madre, che tuo figlio preferirà comunque d’essere loro servo a modo suo, piuttosto che padrone a modo loro. COMINIO - Avanti, al Campidoglio! (Trombe. Escono tutti in corteo, meno BRUTO e SICINIO) BRUTO - Tutte le lingue parlano di lui, ed anche quelli che han la vista debole si procurano occhiali per vederlo(94). La balia, per pettegolar di lui, lascia il proprio marmocchio a urlare e piangere fino a venirgli il convulso; la sguattera s’appunta attorno al suo bisunto collo la stola più vistosa(95) e per vederlo s’arrampica sul muro per guardarlo; gremiti stalli, banchine, finestre; su i tetti, a cavalcioni sui comignoli gente d’ogni colore e d’ogni risma, tutti presi dall’ansia di vederlo. Persino i flàmini(96) (che raramente è dato di vedere per la via) si pigiano affannati tra la calca per conquistarsi un posto in mezzo a loro. Le matrone le delicate guance solitamente protette da un velo, sulle quali con sfida civettuola lottano il bianco e il rosa damaschino(97), espongon oggi al lascivo saccheggio degli infuocati baci del Dio Sole(98): un’atmosfera così surreale, da far pensar che un dio, per guidarlo, si sia insinuato furtivo nelle sue facoltà umane, e gli abbia dato una forma divina. SICINIO - Io, per me, già lo vedo fatto console.  BRUTO - Allora sì che il nostro tribunato potrà dormire i suoi sonni beati per tutto il suo mandato! SICINIO - Non è uomo capace di tenersi in quella carica fino al termine. Finirà col perderla. BRUTO - Ciò mi conforta. SICINIO - Puoi restarne certo. Il popolo, che noi rappresentiamo, non fosse che per antico rancore, si scorderà, alla minima occasione, di queste nuove sue benemerenze; e l’occasione l’offrirà lui stesso, cosa ch’io tengo altrettanto per certa come la sua superbia nell’offrirglielo. BRUTO - L’ho sentito giurare che se dovesse candidarsi a console, mai lo farebbe scendendo nel Foro, e nemmeno umiliandosi a indossare la lisa tunica dell’umiltà, né mostrando le sue ferite al popolo per mendicarne i puzzolenti voti(99). SICINIO - Bene. BRUTO - Son sue parole. Oh, lui piuttosto vi rinuncerebbe se lo dovesse chiedere altrimenti che per espressa richiesta dei nobili e per unanime loro volere. SICINIO - Per me, io non desidero di meglio: si tenga fermo in un tale proposito, e agisca in conseguenza. BRUTO – È assai probabile che lo farà. SICINIO - E sarà allora, come ci auguriamo, per lui andare a sicura rovina. BRUTO - Così dev’essere; se no, per noi sarà la fine del nostro potere. Perciò sta a noi di ricordare al popolo l’odio ch’egli nutrì sempre per loro; spiegar a tutti che, fosse per lui, avrebbe fatto di ciascun di loro bestia da soma, ridotto al silenzio  i loro difensori; conculcate le loro libertà: perché li stima, quanto alla lor capacità di fare, inferiori per facoltà d’intendere ed attitudine di stare al mondo, ai dromedari usati per la guerra, a cui si somministrano foraggi sol perché possano portare il carico, salvo ad ucciderli a bastonate quando sotto quel carico stramazzano. SICINIO - Sì, appunto, questo, come tu lo dici va ricordato al momento opportuno, quando la tracotante sua burbanza toccherà il colmo sì da urtare il popolo (e l’occasione non potrà mancare se saremo noi stessi a trascinarvelo, cosa altrettanto facile quanto aizzar dei cani contro un gregge); e sarà questa l’esca che d’un colpo accenderà le loro vecchie stoppie; e la loro fiammata l’oscurerà per sempre. Entra un MESSAGGERO BRUTO - (Al Messaggero) Che c’è adesso? MESSAGGERO - Vengo a dirvi di andare in Campidoglio. Sembra che Marcio sarà fatto console. Ho visto fare ressa, per vederlo, pure i muti, ed i ciechi per udirlo; le matrone gettargli i loro guanti mentre passava, e donne e giovinette le loro sciarpe, i loro fazzoletti; i nobili inchinarsi avanti a lui come davanti alla statua di Giove, e il popol tutto fare pioggia e tuono coi lor berretti in aria e i loro strilli... Cose mai viste! BRUTO - Andiamo in Campidoglio. Occhi e orecchi attenti, e cuore pronto a tutto. SICINIO - Eccomi, andiamo. (Escono)  SCENA II -Roma, il Campidoglio Due USCIERI stanno disponendo i cuscini sui seggi dei senatori PRIMO USCIERE - Su, su, sbrighiamoci. Son qui che arrivano. Quanti sono a concorrere per console? SECONDO USC. - Dicono tre, ma tutti son convinti che ad ottenerlo sarà Coriolano. PRIMO USCIERE - Un tipo valoroso, ma superbo come nessuno; e poi non ama il popolo. SECONDO USC. - Oh, quanto a questo se ne son ben visti uomini illustri che te l’han lisciato, e mai gli sono entrati in simpatia; così come altri ch’esso ha benvoluto senza saper perché. II popolo è così: vuol bene o male a questo o a quello senza una ragione. Perciò, dunque, riguardo a Coriolano, il fatto ch’egli non tenga alcun conto s’essi l’abbiano in odio o in simpatia prova solo che li conosce bene, e glielo lascia intendere ben chiaro con la sua signorile indifferenza. PRIMO USCIERE - Mah! Se davvero non gliene importasse ch’essi l’abbiano o no in lor favore, dovrebbe mantenersi in equilibrio, senza far loro né bene né male; invece va cercando il loro odio più che non faccian essi a ricambiarglielo, e non trascura nessuna occasione perch’essi possano scoprire in lui apertamente il loro gran nemico. SECONDO USC. - Ha bene meritato della patria, e va detto altresì che la sua ascesa non è stata per facili gradini come quella di chi, facendo mostra di sorrisi e premure per il popolo, è riverito a inchini e scappellate dallo stesso, senza aver fatto nulla per meritarsene stima e rispetto. Ma lui è riuscito così bene a imprimere nei lor occhi i suoi meriti e in tutti i loro cuori le sue gesta, che s’essi non volessero parlarne e rifiutassero di riconoscerli, si renderebbero certo colpevoli  di una forma di nera ingratitudine. Così come il parlar male di lui sarebbe veramente una malizia destinata a smentirsi da se stessa, perché chiunque si trovasse a udirla, la smentirebbe subito, con sdegno. PRIMO USCIERE - Insomma, è un uomo di tutto rispetto. Basta, facciamo luogo. Ecco che arrivano. Preceduti da squilli di tromba e da littori entrano i SENATORI, i TRIBUNI DELLA PLEBE, poi CORIOLANO, MENENIO, COMINIO. Siedono tutti sui loro scanni, i senatori da una parte, i tribuni dall’altra. Coriolano resta in piedi MENENIO - Dunque, poiché dei Volsci s’è deciso, ed altresì di richiamare in patria Tito Larzio, non resta che decidere in questa nostra coda di seduta come ed in che misura compensare i servigi di chi sì nobilmente ha combattuto per la propria patria. Perciò vi piaccia chiedere, reverendissimi e saggi maggiori(100), a colui che ha la carica di console ed è stato alla testa dell’esercito in questa nostra fortunata impresa, di farci una succinta esposizione dell’encomiabile comportamento di Caio Marcio Coriolano; al quale siamo qui riuniti per dar merito e decretare, in riconoscimento, onori che a tal merito sian pari. (Coriolano si siede) PRIMO SENATORE - Bene, a te la parola, buon Cominio. Non omettere alcun particolare per il timore d’apparir prolisso; dicci anzi cose da farci pensare che sia piuttosto la nostra repubblica a mancare dei mezzi convenienti a sdebitarsi, che l’animo nostro a voler ch’essi sian quanto più alti. (Ai tribuni) A voi, capi del popolo, chiediamo di prestar cortese orecchio, e di voler, dopo aver ascoltato, usar la vostra influenza col popolo, per ottenere ch’esso sia concorde con quanto sarà qui deliberato.  SICINIO - Siamo qui convocati per discutere sopra una materia che trova tutto il nostro gradimento(101); e siam di tutto cuore favorevoli ad onorare e innalzare l’uomo ch’è l’argomento di questa assemblea. BRUTO - E tanto più favorevoli a farlo saremo, s’egli si ricorderà di nutrir per il popolo una stima un poco più benevola di quella che ha finora dimostrato. MENENIO - Questo non c’entra! Non ci azzecca niente! Avresti fatto meglio a stare zitto! Volete compiacervi, sì o no, di ascoltare Cominio? BRUTO - Volentieri. Ma il mio avvertimento di poc’anzi era più pertinente all’argomento di quanto non sia ora il tuo rabbuffo! MENENIO - Coriolano vuol bene al vostro popolo; Ma non puoi obbligarlo fino al punto di diventar suo compagno di letto. Parla, degno Cominio, ti ascoltiamo(102). (Coriolano, a questo punto, s’alza e fa per lasciar la sala) Ehi, che fai?... Fermo là. Resta al tuo posto! PRIMO SENATORE - Sì, siedi, Coriolano. Non dev’esser motivo di vergogna per te ascoltare tutto ciò ch’hai fatto di nobile. CORIOLANO - Le vostre signorie mi scuseranno, ma preferirei vedermi riaperte e doloranti le ferite, che stare ad ascoltare come le ho ricevute... BRUTO - Non siano state le parole mie, voglio sperare, a farti alzar dal seggio. CORIOLANO - No, se pur siano state le parole spesso a farmi scappare anche da luoghi da cui nemmeno dure sciabolate sarebbero riuscite a trattenermi.  Tu non m’hai adulato, tuttavia, e le parole tue non m’han ferito. Quanto però al tuo popolo, gli voglio bene per quel ch’esso vale... MENENIO - Ti prego, avanti, siedi. CORIOLANO - Preferirei restare sotto il sole, in ozio, a farmi grattare la testa quando suonasse l’allarme di guerra(103), che starmene seduto qui, per niente, ad udir magnificare i miei nonnulla. (Esce) MENENIO - (Ai tribuni) Ecco, capi del popolo, ditemi adesso voi come un tal uomo potrebbe mai ridursi ad adulare il prolifico vostro canagliume - ché di buoni ce n’è uno su mille - quando voi stessi l’avete ora visto pronto a tutto rischiare per l’onore, piuttosto che prestare un solo orecchio a sentire esaltare le sue gesta... Parla, avanti, Cominio. COMINIO - Mi mancherà la voce. Troppo flebile è la mia per ridir di Coriolano le gesta(104). Se il valore militare è nell’uomo la massima virtù, che nobilita assai chi la possiede, l’uomo del quale mi accingo a parlare non ha chi possa stargli a pari al mondo. Aveva sedici anni quando Tarquinio mosse contro Roma, e combatteva già meglio di tutti; e il nostro dittatore di quel tempo(105) che voglio ricordar con ogni lode, l’osservava, col suo mento d’Amazzone(106), battersi in armi e ricacciare in fuga avversari con baffi sulle labbra; e lo vide piantarsi a gambe larghe su un Romano caduto, e in quella posa affrontare ed uccider tre nemici. Poi si scontrò con lo stesso Tarquinio e, d’un sol colpo, lo forzò in ginocchio. Tra i fasti di quel dì, quel giovinetto che avrebbe ben potuto recitare una parte di donna sulle scene(107), si dimostrò il miglior soldato in campo  meritandosi, in degna ricompensa, una corona di foglie di quercia(108). Entrato poi dall’età minorile nella virilità, simile al mare quando ingrossa, è venuto su crescendo e in diciassette battaglie, da allora, ha rubato la palma a ogni altra spada. Quanto poi a quest’ultima sua gesta, fuori e dentro le mura di Corioli, devo dire che non ho parole adatte a riferirne come si conviene. Ha fermato i suoi legionari in fuga, e col suo raro esempio ha volto in gioco quella ch’era paura nei codardi. Davanti alla sua prua, come alghe sotto l’urto d’un vascello lanciato a tutto vento, obbedienti, si piegavano gli uomini e cadevano; la sua spada, come mortal sigillo lasciava il segno ovunque s’abbattesse, Era, da capo a piedi, tutto sangue ogni suo gesto essendo punteggiato dal grido dei morenti. Varcò da solo la fatale porta della città, segnandola così col crisma d’un destino inesorabile; poi senza alcun aiuto ne sortì, e, ricevuto un rapido rinforzo, piombò sopra Corioli con la forza d’un fatal pianeta(109). Da quel punto, tutto era in mano sua, quando, di nuovo, il lontano clamor della battaglia ferisce i suoi sempre vigili sensi: allora il suo coraggio, raddoppiato, ravviva subito nella sua carne quel che v’era di stanco e affaticato, e lì torna sul campo di battaglia, dove imperversa, fumante di sangue, sopra i nemici come in una strage che non dovesse avere mai più fine; e fino a che non potemmo dir nostro tutto il terreno e nostra la città, non si concesse un attimo di tregua, anche solo per dare alcun sollievo al respiro affannato. MENENIO - Degno uomo! PRIMO SENATORE - Sicuramente degno degli onori che abbiamo in animo di conferirgli(110).  COMINIO - Ha respinto con sdegno la parte di bottino a lui spettante guardando a quegli oggetti di valore come a vil spazzatura. Per se stesso desidera di meno di quello che la stessa povertà potrebbe dargli, unico compenso alle sue gesta essendo a lui il compierle; ed è contento di spendere il tempo della vita così, a lasciarlo scorrere(111). MENENIO - Animo nobile! Lo si richiami. PRIMO SENATORE - (Ad un ufficiale) Chiamate Coriolano. UFFICIALE - Sta venendo. Rientra CORIOLANO MENENIO - Il Senato altamente si compiace, Coriolano, di nominarti console. CORIOLANO - Son suoi la mia vita e i miei servigi. MENENIO - Rimane solo che tu parli al popolo(112). CORIOLANO - Vi supplico, vogliate dispensarmi da quell’usanza. Io, quella tunica, non me la sento di portarla addosso, d’espormi in piazza, nudo della mia, e pregarli di darmi il lor suffragio solo a cagione delle mie ferite... Esoneratemi da tutto questo. SICINIO - Il popolo dovrà pur dir la sua, né vorrà consentir che si tralasci un solo punto del cerimoniale. MENENIO - (A Coriolano) Non starli a contrastare, ora, ti prego. Confòrmati all’usanza nelle forme da questa stabilite, così come hanno fatto puntualmente tutti quelli che t’hanno preceduto. CORIOLANO – È una parte che mi farà arrossire a recitarla: un “diritto del popolo” che si farebbe bene ad abolire. BRUTO - (A parte, a Sicinio)  Hai sentito? CORIOLANO - ... Sbracarmi avanti a loro a vantarmi che ho fatto questo e quello, mettere in mostra le mie cicatrici ormai indolori, che dovrei nascondere, come chi se le fosse procurate solo per guadagnarsi i loro voti... MENENIO - E via, non farne un caso proprio adesso! (Ai due tribuni) Ed ora a voi, tribuni della plebe, raccomandiamo la nostra delibera perché la sosteniate presso il popolo; e al nostro nobile novello console auguriamo felicità ed onore. TUTTI - Felicità ed onore a Coriolano! (Squilli di tromba. Escono tutti nell’ordine in cui sono entrati, tranne i due tribuni) BRUTO - Ecco, hai sentito con quali intenzioni vuol trattar con il popolo. SICINIO - Ho sentito, e speriamo che il popolo capisca. Andrà a sollecitare il lor suffragio con l’aria d’uno che tenga a disdegno che siano loro a doverglielo dare. BRUTO - Andiamo, adesso. Bisogna informarli di quanto è stato qui deliberato. So che sono nel Foro ad aspettarci. (Escono) Entra un gruppo di CITTADINI SCENA III -Roma, il Foro PRIMO CITTADINO - Insomma, se ci chiede il nostro voto, rifiutarglielo certo non possiamo. SECONDO CITT. - E invece sì; basterà che vogliamo! TERZO CITTADINO - Il potere di farlo ce l’abbiamo: ci manca quello di tradurlo in atto. Perché se mette in mostra le ferite e ci spiattella tutto quel che ha fatto ci tocca cedere la nostra lingua  a quelle, e far che parlino per noi. Così se si presenta avanti a noi a raccontar le sue nobili gesta, come facciamo a non significargli la nostra generosa gratitudine? L’ingratitudine è cosa mostruosa, e per il popolo mostrarsi ingrato vuol dire farsi mostro da se stesso; e noi tutti, che ne facciamo parte, passeremo così per tanti mostri. PRIMO CITTADINO - E ci vuol poco a far ch’essi ci vedano non meglio di così. Quando insorgemmo per il grano, non esitò un istante proprio lui, Coriolano, a definirci “una plebaglia dalle molte teste”. TERZO CITTADINO - Oh, quanti ci chiamavano così! E non perché la testa fra tutti noi c’è chi la tiene grigia, chi castana, corvina e chi pelata, ma son le nostre idee che sono tutte di color diverso. Del resto penso anch’io, per parte mia, che se le idee di ciascuno di noi dovessero uscir tutte da un sol cranio, sciamerebbero in ogni direzione, a est, a ovest, a nord e a sud; e il solo punto su cui accordarsi circa la direzione dove andare, sarebbe di volarsene ciascuna per tutti i quattro punti cardinali(113). SECONDO CITT. - Così pensi? Ed in quale direzione volerebbe la mia, secondo te? TERZO CITTADINO - Beh, intanto non è facile, alla tua, di venirsene fuori come l’altre, chiusa com’è in una zucca di legno; ma direi che, se uscisse in libertà, tirerebbe filato verso sud. SECONDO CITT. - E perché proprio là? TERZO CITTADINO - Per andare a disfarsi nella nebbia; dove si scioglierebbe per tre quarti mischiata con vapori puzzolenti, mentre la quarta, presa dallo scrupolo, ritornerebbe a te, per aiutarti a sceglierti una moglie.  SECONDO CITT. - A te la voglia di sfottere il prossimo non manca mai. Ma fa’ pure, fa’ pure! TERZO CITTADINO - Allora, siete tutti risoluti a dargli il vostro voto? Anche se, poi, sì o no, non cambia niente. La maggioranza è quella che decide. Però se si mostrasse un po’ più incline al popolo, più degno uomo di lui non c’è mai stato. Eccolo che viene, e con la tunica dell’umiltà. Entra CORIOLANO. Ha indosso la “tunica dell’umiltà”. Con lui è MENENIO Stiamo a vedere come si comporta... Ma non restiamo qui tutti ammassati; avviciniamolo, pochi per volta, a uno, a due, a tre, dove si ferma... Deve rivolgere la sua richiesta a ciascuno di noi, singolarmente: perché ciascuno di noi ha diritto di dargli il voto con la propria voce. Perciò statemi dietro, vi mostrerò come dovete fare quando l’avvicinate. TUTTI - Ti seguiamo. (Escono tutti) MENENIO - No, hai torto, mio caro, a far così! Ma non hai mai saputo che persone degnissime l’han fatto, prima di te? CORIOLANO - Che cosa devo fare? “Ti prego, cittadino...”. Dannazione! Non me la sento proprio di forzare la lingua ad un tal passo! “Guarda le mie ferite, cittadino, le ho buscate al servizio della patria, quando non pochi dei compagni vostri se la davano a gambe schiamazzando al primo rullo dei nostri tamburi...”. MENENIO - O dèi, per carità, poveri noi! Non devi tirar fuori tutto questo! Tu non devi far altro che pregarli che si ricordino di te. CORIOLANO - Di me...  Loro!... Che s’impiccassero piuttosto! Di me magari si dimenticassero, invece, come fanno coi precetti di virtù che gli predicano i preti! MENENIO - Tu rischi di mandare tutto all’aria. Ti lascio adesso. Vedi di parlare a quella gente in maniera garbata. CORIOLANO - Sì, chieder loro di lavarsi il viso e di pulirsi i denti. (Esce Menenio) (Entrano il SECONDO e il TERZO CITTADINO) Eccone appunto un paio. (Al Terzo Cittadino) Cittadino, tu sai il motivo per cui io sto qui. TERZO CITTADINO - Già. Ma dicci che cosa ti ci porta. CORIOLANO - I miei meriti. SECONDO CITT. - I tuoi meriti? CORIOLANO - Già, non certo il mio volere personale. TERZO CITTADINO - Ah, non il tuo volere... CORIOLANO - Nossignore; non fu mai voler mio importunare la povera gente chiedendo io l’elemosina a loro. TERZO CITTADINO - Beh, devi pur pensare che se noi plebe ti diamo qualcosa speriamo d’ottener qualcosa in cambio. CORIOLANO - Bene, ditemi allora, per favore, qual è il prezzo che date al consolato. SECONDO CITT. - Che tu ce lo richieda gentilmente. CORIOLANO - E gentilmente, amico, io ti chiedo di farmelo ottenere. Ho qui delle ferite da mostrarti, che puoi vedere, se lo vuoi, in privato. (All’altro) Il tuo buon voto, amico. Che mi dici?  TERZO CITTADINO - Che l’avrai, degno Marcio. CORIOLANO - Affare fatto. Ecco già due magnifici suffragi mendicati. Ho intascato l’elemosina. Statevi bene! (Volta loro le spalle, come per andarsene) TERZO CITTADINO - Ma che strano modo! SECONDO CITT. - Mah, se dovessi darglielo di nuovo, chissà... Comunque, beh, lasciamo stare. (Escono i due cittadini) Entrano il QUARTO e il QUINTO CITTADINO CORIOLANO - (Andando loro incontro) Di grazia, amici, se mai s’accordasse col tono stesso dei vostri suffragi(114) il fatto ch’io sia nominato console, eccomi qua vestito come richiesto dalla consuetudine. QUARTO CITT. - Hai meritato bene della patria, ma hai anche non bene meritato. CORIOLANO - Cos’è, un indovinello? QUARTO CITT. - Pei suoi nemici sei stato un flagello, ma per i suoi amici una tortura(115). Tu, la povera gente, in verità, non l’hai tenuta mai in simpatia. CORIOLANO - Tanto più meritevole per questo dovresti ritenermi, perché “povero” non sono stato nel volerle bene(116). Comunque, cittadino, d’ora in poi l’adulerò il mio grande fratello, il popolo, per conquistar da lui maggiore stima: ché questo per loro vuol dire “esser gentili con il popolo”. E dal momento che la lor saggezza preferisce guardare al mio cappello piuttosto che al mio cuore, d’ora innanzi li tratterò col più ipocrita inchino e con la più leccosa scappellata. Vale a dire che imiterò, brav’uomo, le smancerie di certi capipopolo,  che elargirò con generosità a quanti gradiranno di riceverne. Perciò, vi supplico, fatemi console. QUINTO CITTADINO - Noi speriamo poterti avere amico; perciò ti diamo di buon cuore il voto. QUARTO CITT. - Ti sei buscato un sacco di ferite per la tua patria... CORIOLANO - Non suggellerò col mostrarvele la lor conoscenza, che del resto già avete. Farò gran conto dei vostri suffragi, e così non vi disturberò più(117). I DUE CITTADINI - Gli dèi ti diano felicità, te l’auguriamo molto cordialmente. (Escono i due cittadini) CORIOLANO - Che dolcezza di voti!... Meglio morire, crepare di fame che andare accattonando una mercede che pur ci spetta, perché meritata. Ed io dovrei restarmene qui, fermo, in questa veste da sembrare un lupo, a questuar dal primo Tizio e Caio voti dei quali non c’è alcun bisogno? Dicono che così vuole l’usanza. Ma se dovessimo in tutte le cose far quel che vuol l’usanza, la polvere che copre il tempo andato mai non sarebbe più spazzata via, ed ammucchiando errore sopra errore si formerebbe tale una montagna di tutti errori, che la verità sarebbe poi impedita a sovrastarla. Ah, no! Piuttosto che starmene qui a recitar la parte del buffone, che l’alto ufficio e i relativi onori vadano ad altri, più di me disposto ad eseguire quel che vuol l’usanza. Ma son già a mezza strada... Ho sopportato la prima metà, farò anche l’altra...(118) Entrano il SESTO e SETTIMO CITTADINO Ma ecco altri voti. (Ai due)  I vostri voti, amici. Pei vostri voti io ho combattuto. Pei vostri voti ho vegliato la notte. Pei vostri voti porto su di me almeno due dozzine di ferite. Pei vostri voti ho visto e raccontato(119) diciotto fatti d’arme. Pei vostri voti ho fatto tante cose qual più qual meno, ma tutte importanti. I vostri voti, sì, per esser console. SESTO CITTADINO - S’è ben portato, e non gli può mancare il voto d’ogni cittadino onesto. SETTIMO CITT. - Sia console, perciò. Gli diano gli dèi felicità e faccian ch’egli voglia bene al popolo. SESTO CITTADINO - E così sia! Che gli dèi ti proteggano, nobile console! (Escono) CORIOLANO - Che fior di voti! Entrano MENENIO, SICINIO e BRUTO MENENIO - Sei stato qui per il tempo prescritto, ed i Tribuni, col voto del popolo, ora ti conferiscono il potere. Resta che con le insegne della carica tu ti presenti subito al Senato. CORIOLANO - Allora è fatto? SICINIO - Hai fatto la richiesta secondo il rito: il popolo ti accetta ed è già convocato in assemblea per la ratifica. CORIOLANO - Dove, al Senato? SICINIO - Sì, Coriolano, là. CORIOLANO - Posso togliermi allora questa veste? SICINIO - Certo. CORIOLANO - Allora non esito un istante, così potrò riconoscer me stesso. Poi andrò al Senato.  MENENIO - T’accompagno. (Ai due tribuni) Voi che fate, venite via con noi? BRUTO - Restiamo qui ad attendere il popolo. SICINIO - Ci rivediamo dopo. (Escono Coriolano e Menenio) Ce l’ha fatta. È suo, e a giudicar dagli sguardi ha il cuore in festa. BRUTO - Ma con quale sdegno portava indosso quell’umile veste!... Che facciamo? Lo congediamo il popolo? (Entrano parecchi CITTADINI) SICINIO - Ebbene, miei compagni? Avete dunque preferito lui(120)? PRIMO CITTADINO - Abbiamo dato a lui il nostro voto. BRUTO - Voglia il cielo che sappia meritarla la vostra preferenza. SECONDO CITT. – È quel che dico. Perché a mio povero, modesto avviso, quello mentre ci domandava il voto, si beffava di noi. TERZO CITTADINO - E come no! Ci ha preso pei fondelli a tutto spiano! PRIMO CITTADINO – È il suo modo di fare; quello. No, lui non s’è fatto gioco di nessuno. SECONDO CITT. - Qui non ci sei che tu a dir così, fra tutti noi. Ci doveva mostrare i segni delle sue benemerenze: le ferite buscate per la patria... SICINIO - Ma l’avrà fatto, spero, son sicuro. TUTTI - Niente affatto! Nessuno qui le ha viste. TERZO CITTADINO - Ha detto, sì, che aveva le ferite, ma che poteva mostrarle in privato;  e col berretto in mano, ecco, così, agitandolo in aria come a beffa, “Vorrei - dice - esser console; “e antica usanza senza i vostri voti “me l’impedisce. I vostri voti, dunque”. E quando glieli abbiamo assicurati, lui: “Vi ringrazio del vostro favore, “grazie dei vostri carissimi voti. “Ora che avete espresso i vostri voti, “con voi non ho più nulla da spartire”. Non è questa una beffa? SICINIO - Ma eravate incoscienti a non capirlo? O, avendolo capito, tanto ingenui da dargli il voto come dei bambocci? BRUTO - Eppure v’avevamo ammaestrati - e avreste ben potuto ricordarglielo - che quando non aveva alcun potere, piccolo servitore dello Stato, vi si mostrò nemico e parlò sempre contro i vostri diritti e privilegi di cui godete in seno alla repubblica; e adesso, giunto che fosse al potere e a governar lo Stato, se seguitasse ad essere lo stesso il nemico giurato dei plebei i vostri voti potrebbero essere per tutti voi tante maledizioni. E ancora questo dovevate dirgli: che come le sue gesta valorose gli meritavano una ricompensa non inferiore a quella cui aspira, così la sua generosa natura dovrebbe spingerlo a pensare a voi, che l’avete votato, e volgere in affetto il malvolere, facendolo patrono e amico vostro. SICINIO - A parlargli così, come, del resto, vi fu consigliato, avreste scosso le sue fibre all’intimo e saggiato il suo animo; e strappato gli avreste forse una bella promessa, da vincolarlo alla prima occasione; oppure, al peggio, avreste esasperato quel suo caratteraccio insofferente incapace di assumersi un impegno che lo leghi a qualsiasi adempimento; e, fattegli così perder le staffe, avreste poi potuto trar partito  dalla sua collera, per non eleggerlo. BRUTO - Ma come avete fatto a non vedere con che aria palese di disprezzo vi domandava il voto, mentre gli abbisognava il vostro appoggio? E come avete fatto a non pensare che quel disprezzo vi potrà recare chi sa quale malanno, ora ch’egli ha il potere di schiacciarci? Diamine! Solo corpi e nessun cuore tutti quanti? E avevate sol la lingua per sbraitare, come avete fatto, contro il buonsenso per cacciarlo via? SICINIO - E dire che altre volte, nel passato, avete pur rifiutato il consenso a postulanti in cerca di suffragi; ed ora regalate come niente i vostri voti tanto ricercati ad uno che nemmeno ve li ha chiesti in buona forma, e per di più schernendovi? TERZO CITTADINO - Comunque ancora non è confermato(121). Possiamo sempre revocargli il voto. SECONDO CITT. - E lo revocheremo! Io, per me, posso accordare cinquecento voci su questa nota(122). PRIMO CITTADINO - Ed io due volte tante. E tutti i loro amici in sovrappiù. BRUTO - Presto, allora muovetevi di qui e andate a dire a questi vostri amici che hanno scelto per diventare console uno che torrà loro ogni diritto, e non darà lor voce più che a quei cani bastonati apposta per abbaiare, e a questo mantenuti. SICINIO - Fateli riunire in assemblea, e unanimi, su più serio giudizio, revocate questo inconsulto voto. Battete sul suo orgoglio e sull’antico odio che ha per voi; e non dimenticatevi, per giunta, con quale aria sprezzante egli indossò l’umile veste, e si schernì di voi nell’atto stesso di chiedervi il voto. Dite loro che è stato il vostro affetto,  memore dei servigi da lui resi, a non farvi capire, in quel momento, il suo comportamento provocante, offensivo per voi, indecoroso, volutamente da lui conformato all’odio radicale che vi porta. BRUTO - Gettate su di noi, vostri Tribuni, tutta la colpa: che nulla abbiam fatto - dite - perché non sorgessero ostacoli alla sua elezione presso il popolo. SICINIO - E che l’avete eletto per conformarvi ad un nostro comando più che per vostra vera convinzione; che le vostre coscienze, in conseguenza, preoccupate più di conformarsi a ciò che ad esse era stato ordinato, che a ciò che esse avrebbero dovuto, v’hanno indotto ad esprimere quel voto contro la vostra propria inclinazione. Insomma, date a noi tutta la colpa. BRUTO - Sì, non vi fate scrupolo per noi. Dite che vi abbiam fatto su di lui, per istruirvi sulla sua persona, lunghi discorsi: come, ancora imberbe, abbia iniziato a servire la patria, e seguitato a farlo poi negli anni; da qual nobile stirpe egli discenda, la nobilissima gente “marciana”(123), da cui discese pur quell’Anco Marcio nipote di re Numa, che regnò a Roma dopo il grande Ostilio; donde provennero e Publio e Quinto che con la costruzione di acquedotti ci addussero la nostra acqua migliore; e suo grande avo fu quel Censorino, così meritamente nominato per esser stato due volte censore, per voto popolare. SICINIO - Ed un tal uomo discendente da sì nobile stirpe e onusto per di più di tanti meriti per ricoprire una sì alta carica, siamo stati noi stessi, noi tribuni, a segnalarlo alla vostra attenzione; ma voi, dopo aver bene soppesato il suo comportamento nel presente a confronto con quello del passato,  avete tutti in lui riconosciuto un vostro irriducibile nemico, e gli avete pertanto revocato un gradimento dato troppo in fretta. BRUTO - E non sareste giunti mai a tanto - battete sempre sopra questo tasto - se non vi avessimo incitato noi. TUTTI - Sì, sì, faremo come dite voi. Ormai qui quasi tutti si son pentiti della scelta fatta. (Escono i cittadini) BRUTO - Ora non c’è che da lasciarli fare. Meglio rischiare adesso una sommossa, piuttosto che tirarsi addosso il peggio, che certamente verrà, se aspettiamo. Se lui, per questo loro voltafaccia, si facesse, con quella sua natura, prendere dalla rabbia, attenti noi a saper profittar dell’occasione e trar vantaggio da questa sua collera. SICINIO - Al Campidoglio. Troviamoci là prima che vi affluisca tutto il popolo. Dovrà apparire - come in parte è - tutta e soltanto loro iniziativa, cui noi ci siamo solo limitati a fornire uno sprone dall’esterno. (Escono)  ATTO TERZO SCENA I -Roma, una strada Fanfara. Entrano CORIOLANO, MENENIO, COMINIO, TITO LARZIO e SENATORI CORIOLANO - (A Larzio) Tullo Aufidio sicché è riuscito a rimettere in piedi un nuovo esercito? LARZIO - Sì, Coriolano, ed è questo il motivo che ci ha deciso a negoziar l’accordo. CORIOLANO - I Volsci son lì, dunque, come prima, pronti a saltarci addosso appena s’offra loro l’occasione. COMINIO - Sono sfiancati, Console: è difficile che rivedremo, noi di nostre età, garrire ancora i lor vessilli al vento. CORIOLANO - (A Larzio) Tu Aufidio l’hai visto? LARZIO - Venne da me sotto salvacondotto, solo per dirmi peste e vituperio contro i Volsci, che avevano ceduto così vilmente la loro città. S’è ritirato ad Anzio. CORIOLANO - T’ha parlato di me? LARZIO - Sì, Coriolano. CORIOLANO - In che modo? Che ha detto? LARZIO - Ha ricordato come si sia spesso con te scontrato solo, spada a spada; che per la tua persona nutre un odio come per nessun altro al mondo; e inoltre che sarebbe disposto - ha dichiarato -, ad impegnarsi tutto che possiede, così, senza speranza di riscatto, pur di potersi dir tuo vincitore. CORIOLANO - E vive ad Anzio, adesso? LARZIO - Ad Anzio, sì.  CORIOLANO - Come vorrei che mi s’offrisse il destro d’andare là a scovarlo dove sta, e affrontare il suo odio faccia a faccia! Ma ben tornato, Larzio. Entrano i tribuni SICINIO e BRUTO Ecco, guardate: questi sono i Tribuni della plebe, le lingue della sua volgare bocca. Sento per loro un disprezzo istintivo perché si bardano d’autorità contro ogni nobile sopportazione. SICINIO - (A Coriolano) Fermo! Non andar oltre! CORIOLANO - Che vuol dire? BRUTO - Che è rischioso per te andar oltre. Fèrmati. CORIOLANO - Che diavolo di voltafaccia è questo! MENENIO - Che succede? COMINIO - Non ha forse il consenso dei nobili e del popolo? BRUTO - Del popolo, Cominio, proprio no. CORIOLANO - Son voti di fanciulli allora quelli ch’essi m’hanno dato? UN SENATORE - Tribuni, andiamo, fateci passare. Coriolano deve recarsi al Foro. BRUTO - Il popolo è in fermento. Non lo vuole. SICINIO - Fermi, o qui si finisce in un tumulto. CORIOLANO - Il vostro gregge, eh? E deve dunque questa gentaglia aver diritto al voto, se prima te lo danno, e poi, subito dopo, lo rinnegano? E voi, che state a fare? Voi che siete la loro stessa bocca, perché non governate i loro denti? O siete stati voi ad aizzarli? MENENIO - (A Coriolano) Calma, sta’ calmo!  CORIOLANO - (Ai Senatori) È tutta una manovra, una combutta preparata ad arte, per piegare la volontà dei nobili. Se li lasciate fare, rassegnatevi a vivere con gente incapace così di governare, come d’esser comunque governata. BRUTO - Non parlar di combutta. Il popolo vocifera di rabbia perché ha capito che l’hai preso in giro; e perché quando fu distribuito, ultimamente, a loro il grano gratis, fosti tu solo ad alzare la voce, e a coprire d’insulti e vituperi chiunque fosse dalla loro parte, tacciandolo di basso opportunista, adulatore, nemico dei nobili. CORIOLANO - Ebbene? Questa è cosa risaputa. BRUTO - Non tutti la sapevano, di loro. CORIOLANO - E così hai pensato ad informarli. BRUTO - Informarli, chi, io? CORIOLANO - Non sei tu il tipo ben tagliato per simili faccende? BRUTO - Non meno bene che per far le tue meglio che possa farle tu. CORIOLANO - Ma certo! Perché dovrei io diventare console? Per tutti i fulmini, datemi il tempo di diventare un nulla come te, e fatemi tribuno, tuo collega! SICINIO - Tu porti ancora addosso troppo di quello che dispiace al popolo; se ti preme raggiungere il tuo scopo, devi chieder la strada, che hai smarrita, con uno spirito più malleabile, o non sarai giammai tanto virtuoso da poter esser console, e nemmeno da stare accanto a lui (Indica Bruto) come tribuno.  MENENIO - Calmi, state calmi! COMINIO - Il popolo è ingannato, è subornato. Questo ondeggiare tra il sì e il no non è degno di Roma, e Coriolano non merita davvero un’ostruzione così disonorante posta ad arte lungo il piano cammino del suo merito. CORIOLANO - Venirmi adesso a parlare del grano! Quello che ho detto allora lo ripeto! MENENIO - Non adesso, però, per carità. UN SENATORE - No, Marcio, non in tanta eccitazione. CORIOLANO - Sì, invece, adesso! Sì, per la mia vita! I miei nobili amici mi perdonino; ma la fetida, bassa minuzzaglia voltagabbana s’ha da render conto ch’io non son uomo che sappia adulare, si specchi in me, piuttosto, e in ciò che dico. Lo ripeto: a cercar di assecondarla, noi non facciamo che dare alimento alla malerba della ribellione, dell’insolenza, della sedizione contro il Senato; per la qual zizzania noi stessi abbiamo arato, seminato e consentito che si propagasse mescolandosi a noi, gente d’onore, cui non manca virtù né autorità, salvo quella ceduta a dei pezzenti. MENENIO - Bene, ora basta. UN SENATORE - Basta, ti preghiamo. CORIOLANO - Basta? E perché? Com’io ho sparso sangue per la mia patria senza aver paura, così nessuna forza impedirà ai miei polmoni di coniar parole, fino a diventar marci, contro questi pestiferi miasmi di cui tutti temiamo d’infettarci avendo tuttavia fatto del tutto per buscarceli. BRUTO - Tu parli del popolo né più e né meno che se fossi un dio, che sia pronto a punirlo, e non un uomo  affetto dalle stesse debolezze. SICINIO - Ed è bene che il popolo lo sappia. MENENIO - Sappia che cosa? Questa sua sfuriata? CORIOLANO - Sfuriata!... Foss’io calmo, per Giove!, come il sonno a mezzanotte, sarei sempre di questa stessa idea! SICINIO – È un’idea velenosa che tale deve rimaner dov’è, senza infettare gli altri intorno a sé. CORIOLANO - “Deve”!... Sentitelo questo Tritone dei lattarini(124)! Avete preso nota di codesto suo “deve” perentorio? COMINIO – È contro regola, senz’altro. CORIOLANO - “Deve”! O buoni ma incautissimi patrizi, voi, gravi ed imprudenti Senatori, voi che avete permesso qui a quest’Idra(125) di scegliersi un suo proprio magistrato che con questo suo “deve” perentorio, qual rumoroso corno di quel mostro(126) non si fa scrupolo di minacciare d’esser capace di deviare altrove, entro altra fossa, la vostra corrente, e di far suo l’attuale suo letto! Se è vero ch’ei possiede un tal potere, s’inchini allora a lui la vostra ignavia; ma se non l’ha, svegliate dal suo sonno la vostra mite e rischiosa indulgenza. Se saggezza è in voi, non comportatevi come volgari sprovveduti sciocchi; se saggezza non v’è, fateli pur sedere accanto a voi. Sarete voi la plebe, ed essi i senatori; e tali sono, già ora se, quando le loro voci son mischiate alle vostre, il loro accento è il tono che prevale nell’insieme. Si scelgono il lor proprio magistrato, e questo è uno che sbatte in faccia il suo “deve”, quel suo “deve” plebeo, contro un’assise che nemmen la Grecia ebbe mai di più seria e veneranda. Ma, tutto questo, per il sommo Giove!, riduce i consoli a ben poca cosa!  E mi sanguina il cuore a pensare che quando due poteri sono in sella contemporaneamente, sì che nessun dei due può prevalere, nel loro vuoto può infilarsi il caos, e far che si distruggano a vicenda! COMINIO - Al Foro, dunque, andiamo. CORIOLANO - Chiunque siano ch’abbian consigliato di far distribuir gratuitamente il grano dei depositi statali, come s’è fatto qualche volta in Grecia... MENENIO - Via, via, non ne parliamo più. CORIOLANO - (Seguendo il suo discorso) (... ma in Grecia ben più ampi poteri aveva il popolo...), io dico che costoro, chi essi siano, hanno nutrito la disobbedienza, cibato la rovina dello Stato. BRUTO - E il popolo dovrebbe dare il voto ad uno che si esprime in questi termini? CORIOLANO - Al popolo dirò le mie ragioni, che valgono ben più dei loro voti. Essi sanno benissimo che il grano non doveva servir da ricompensa, essendo noto che per meritarlo nessun servizio avevano essi reso. Chiamati per la guerra, in un momento in cui il cuore stesso dello Stato correva gran pericolo, ricusaron perfino di varcare le porte di città; non si può dire che sia stato codesto un tal servizio da meritare loro il grano a ufo. Né, partiti che furon per la guerra, hanno parlato poi a lor favore le sedizioni e gli ammutinamenti in cui han fatto prova - oh, allora sì! - di tutto il lor valore di guerrieri. Così come plausibile motivo non potevano certamente offrire per così generosa elargizione le assurde accuse da loro lanciate contro il Senato, l’una dopo l’altra. E adesso? Come questo milleteste digerirà nel suo multiplo ventre  la cortesia che gli ha fatto il Senato? Dai fatti si può già pronosticare quali saranno le loro parole: “L’abbiamo chiesto, siamo maggioranza, e ci hanno accontentati, per paura”. Così noi degradiamo i nostri seggi, ed offriamo motivo alla marmaglia di dir che quanto facciamo per loro lo facciamo soltanto per paura; il qual ragionamento, con il tempo, scardinerà le porte del Senato, e allor v’irromperanno le cornacchie a dar di becco all’aquile(127). MENENIO - Via, basta! BRUTO - Basta ed avanza. CORIOLANO - No, ce n’è di più! E sia suggello a quanto sto per dire tutto quello che al mondo c’è d’umano e di divino sopra cui giurare. Questo nostro bicipite potere dove una delle teste, con ragione, disdegna l’altra che, senza ragione insulta, dove nobiltà di nascita e titoli e saggezza di governo non possono decidere un bel niente senza aver ottenuto il “sì” o il “no” dell’ignoranza di un’intera classe(128), è costretto per forza a trascurare i reali interessi dello Stato per dare spazio a fanfaluche inutili; talché, sbarrato qualsiasi proposito, ne vien che nulla è fatto più a proposito. Perciò vi supplico - se la paura non ha offuscato in voi ogni saggezza(129) - voi, cui le fondamenta dello Stato stan troppo a cuore perché dubitiate della necessità di migliorarle; voi che a una vita lunga preferite una vita dignitosa, e siete pronti a medicine estreme per un corpo malato, destinato altrimenti a morte certa, strappate via di colpo, di violenza, questa lingua dal corpo dello Stato(130), ch’essa non abbia più a leccar quel dolce ch’è anche il suo veleno! La vostra indecorosa umiliazione(131) rende monco ogni sano giudicare,  priva lo Stato di quell’unità che dovrebb’essere sempre la sua, rendendolo impotente ad operare, come vorrebbe, pel bene comune, per colpa di un tal male, che lo domina. BRUTO - Ha detto quanto basta(132). SICINIO - Ha parlato da vero traditore, e come tale ne dovrà rispondere. CORIOLANO - Miserabile! La tua stessa bile ti seppellisca!... Che può fare il popolo con queste zucche vuote di tribuni? Finché avranno costoro come guida, si sentiranno tutti esonerati dall’obbedire a maggior dignità. A quella carica li hanno eletti in un momento di piena rivolta, quando non la giustizia ma soltanto la forza era la legge(133). I tempi son cambiati, per fortuna: oggi si dica che dev’esser giusto quello che è giusto, e si getti alle ortiche il lor potere. BRUTO - Questo è tradimento! Flagrante! SICINIO - Console costui? Giammai! BRUTO - Gli Edili(134), oh! Venite! Entra un EDILE (Indicandogli Coriolano) Sia arrestato! SICINIO - (All’Edile) Va’ e riunisci il popolo in comizio. (Esce l’edile) (A Coriolano) Ed in nome del popolo, io qui t’arresto come traditore, sovvertitor di modi e di costumi, e nemico del popolo romano! T’ordino di obbedirmi e di venire subito con me, a risponder di quanto sei accusato. CORIOLANO - (Respingendo con forza Sicinio) Sta’ lontano da me, vecchio caprone!  SENATORI e PATRIZI - Ci facciamo garanti noi per lui. COMINIO - (A Sicinio, che cerca d’impadronirsi di Coriolano) Ehi, vecchio, giù le mani. CORIOLANO - Via, carogna, o ti sparpaglio l’ossa dai tuoi stracci! Entrano i due EDILI con una folla di PLEBEI SICINIO - Aiuto, cittadini! MENENIO - Cittadini, più rispetto, dall’una e l’altra parte! SICINIO - (Indicando alla folla Coriolano) Ecco colui che intende spodestarvi d’ogni potere! BRUTO - Arrestatelo, edili! PLEBEI - Abbasso! A morte! UN SENATORE - L’armi! L’armi! L’armi! (Zuffa generale attorno a Coriolano) TUTTI A VICENDA - Senatori! Patrizi! Cittadini! Sicinio! Bruto! Coriolano!... MENENIO - Pace!!!! Calmatevi un momento!... Che succede? Non ho più fiato... Ma qui si va diritti alla rovina!... Non posso più parlare... Voi, tribuni, parlate voi al popolo. (A Coriolano) Sta’ calmo. Sicinio, parla tu. SICINIO - Ascoltatemi, gente mia... Silenzio! PLEBEI - Udiamo il nostro tribuno. Silenzio! Fate silenzio! Parla, parla, parla!  SICINIO - Le vostre libertà sono in pericolo. Marcio, che avete appena eletto console, vuol togliervele tutte. MENENIO - No così! Ma tu invece di spegnere la fiamma, l’attizzi! UN SENATORE - Demolisci la città, in questo modo, tu la radi al suolo! SICINIO - Che cos’è la città, se non il popolo? PLEBEI - Giusto, Sicinio, la città è il popolo! SICINIO - E noi, per loro unanime consenso, siamo i loro legali difensori. PLEBEI - E tali resterete! MENENIO - Resteranno, sì, certo, resteranno. COMINIO - Questa è la via per demolirla al suolo, la città, e tirarne il tetto giù fino alle fondamenta, seppellendo tra ammassi di rovine tutto quello che ancora ci rimane d’ordinato. SICINIO - Costui merita morte. BRUTO - Qui è in gioco la nostra autorità, o la perdiamo. Ed in nome del popolo, nella cui potestà noi fummo eletti a suoi legittimi rappresentanti, noi dichiariamo qui che Caio Marcio è meritevole di morte, subito. SICINIO - (Agli Edili) Arrestatelo dunque; che aspettate! Lo si conduca alla Rupe Tarpea, e che sia di lassù precipitato, alla sua fine! BRUTO - Prendetelo, Edili! PLEBEI - Marcio, arrenditi! MENENIO - Ancora una parola, Tribuni, ve ne supplico.  EDILI - (Alla folla) Silenzio! MENENIO - (Ai Tribuni) Siate per una volta quelli che sempre volete apparire: sinceri amici della vostra patria; e procedete con ponderazione a ciò che invece con tanta violenza, a quanto vedo, intendete distruggere. BRUTO - Menenio, questi tuoi gelidi modi, che sembrano consigli di prudenza son un veleno pericolosissimo per un male violento come questo. (Agli Edili) Avanti, impadronitevi di lui, ho detto, e conducetelo alla Rupe! CORIOLANO - (Sguainando la daga) No, morirò qui stesso. Ci sarà pur qualcuno in mezzo a voi che m’ha visto combattere. Beh, avanti, venga a provare adesso su di sé quel che m’ha visto fare. MENENIO - Via quell’arma! Tribuni, allontanatevi un momento. BRUTO - (Agli Edili) Afferratelo! MENENIO - Aiuto a Marcio, aiuto! Nobili, giovani, vecchi, aiutatelo! PLEBEI - A morte! A morte! A morte! (Mischia. I tribuni, gli edili e i plebei sono respinti ed escono) MENENIO - (A Coriolano) Va’, torna a casa, presto! Via da qui. Altrimenti sarà rovina piena. UN SENATORE - (A Coriolano) Parti da qui. CORIOLANO - Dobbiamo tener duro! Siamo, amici e nemici, in pari numero.  MENENIO - S’ha da arrivare a questo? UN SENATORE - Gli dèi non vogliano! (A Coriolano) Nobile amico, ti prego, adesso tornatene a casa; lascia a noi di curar questa faccenda. MENENIO - Perché è una piaga che portiamo addosso tutti quanti, e che tu non puoi curare. Va’, ti scongiuro. COMINIO - Vieni via con noi. CORIOLANO - Come vorrei che fossero costoro barbari - come sono in realtà, se pure furono partoriti a Roma - e non Romani, come non lo sono, fossero pure stati partoriti di sotto al portico del Campidoglio!... MENENIO - Va’, va’, non affidare alla tua lingua la tua rabbia, per quanto giusta sia. Lasciamo tempo al tempo(135). CORIOLANO - (Senza ascoltarlo) Ne abbatterei quaranta, in campo aperto! MENENIO - Io pure saprei farne fuori un paio, tra i lor migliori: i tribuni, ad esempio. COMINIO - Ma qui la sproporzione è troppo grande, tra noi e loro, e il coraggio è follia quando pretende di tenere in piedi un edificio che sta per crollare(136). È meglio che tu vada via di qua, prima che ci ritorni la plebaglia. La sua furia oramai è come un fiume cui si sia posto un blocco, che, straripando fuor da tutti gli argini entro i quali scorreva normalmente, travolge e abbatte tutto quel che incontra. MENENIO - Sì, va’ via, te ne supplico... Vedrò io se il mio antico spirito potrà servire a qualcosa di buono con gente che sì poco ne possiede. Questo strappo dev’esser rattoppato con una pezza di qualsiasi tinta.  COMINIO - Sì, Marcio, andiamo via. (Escono Coriolano e Cominio) UN PATRIZIO - Quest’uomo ha danneggiato seriamente le sue fortune di uomo politico. MENENIO – È che la sua natura è troppo nobile per conformarsi alle cose del mondo(137). Mai s’indurrebbe ad adular Nettuno pel suo tridente, o Giove pel suo tuono. Ha in bocca quel che ha in cuore: la sua lingua deve dar fiato a ciò che detta il cuore; e se s’infuria, non ricorda più d’avere udito la parola “morte”. (Rumori da dentro) Eccoli. Qui l’affare s’ingarbuglia! UN PATRIZIO - Come vorrei saperli tutti a letto! MENENIO - Sì, nel letto del Tevere!... Che diamine, però! Che gli costava di parlar loro in modo più civile? Entrano BRUTO e SICINIO con la folla dei plebei SICINIO - Dove sta quella vipera cui piacerebbe di vedere Roma spopolata, per esser tutta lui? MENENIO - Tribuni... SICINIO - Giù dalla Rupe Tarpea merita d’essere precipitato con la forza di mani inesorabili! S’è messo contro la legge, e la legge altro giudizio non dovrà concedergli che la severa giustizia del popolo, da lui costantemente disprezzato. PRIMO CITTADINO - Imparerà così che i nobili Tribuni son la bocca del popolo, e noi siamo le sue mani. PLEBEI - Dovrà impararlo, certo! MENENIO - (A Sicinio) Amico, ascolta... SICINIO - (Alla folla)  Silenzio, olà! MENENIO - Non gridate “Sterminio!”, quando invece dovreste limitare la vostra caccia in modesti confini(138). SICINIO - Di’ piuttosto, Menenio, la ragione perché hai favorito la sua fuga. MENENIO - Sentimi bene: come so a memoria i meriti del Console, so dirti ad uno ad uno i suoi difetti. SICINIO - “Il Console”! Di che console parli? MENENIO - Di Coriolano, diamine! SICINIO - Lui, Console! PLEBEI - No, no, no, no, no, no! MENENIO - (Alla folla) Se, con licenza dei Tribuni e vostra, brava gente, mi si vorrà ascoltare, mi basta dirvi una parola o due: ad ascoltarla non vi costerà più d’una lieve perdita di tempo. SICINIO - Ebbene parla, ma senza lungaggini, perché qui siamo tutti ben decisi a sbarazzarci subito e per sempre di questo velenoso traditore. Esiliarlo sarebbe già rischioso per noi; ma trattenerlo vivo qui, sarebbe morte certa per noi tutti. Perciò s’è decretato in assemblea ch’egli sia messo a morte questa notte. MENENIO - Ahimè, non vogliano gli dèi benigni che la nostra famosa, illustre Roma, la cui riconoscenza verso i figli che d’essa han meritato è registrata nel grande libro dello stesso Giove, divori, come madre snaturata, le proprie creature! SICINIO - È un cancro che dev’essere estirpato! MENENIO - No, Sicinio, se mai è solo un arto, malato, ma è la morte ad amputarlo; curarlo, è facile. Che male ha fatto  egli, a Roma, per esser messo a morte? Il sangue che ha perduto a imperversare sui nostri nemici - e posso dire ch’è assai più di un’oncia di quello che gli scorre nelle vene - l’ha ben versato per il suo paese; che ora, ad opera della sua patria debba perdere quello che gli resta, sarebbe una vergogna per noi tutti, chi lo facesse e chi lo permettesse, una macchia che porteremmo addosso per sempre, fino alla fine del mondo. SICINIO - Questo vuol dir mistificare i fatti! BRUTO - Semplicemente il contrario del vero. Tutte le volte ch’egli ha dato prova di amare il suo paese, il suo paese l’ha ben onorato. SICINIO - Se un piede va in cancrena, non s’esita davvero ad amputarlo per i servizi resi in precedenza(139). BRUTO - Basta con le parole. (Agli Edili) Ricercatelo a casa, ed arrestatelo, ché la sua infezione è contagiosa, e può diffondersi tra l’altra gente. MENENIO - Ancora una parola! Una parola!... Questo vostro furore piè-di-tigre(140) quando vedrà qual danno avrà prodotto tanta precipitosa avventatezza, vorrà legarsi dei pesi di piombo ai calcagni, ma sarà troppo tardi! Processatelo per le vie legali, se volete evitar che le fazioni si scatenino, perché è molto amato, e che alla grande Roma tocchi in sorte d’essere messa a sacco dai Romani. BRUTO - Se così fosse... SICINIO - Ma che vieni a dirci! Non abbiam forse avuto un primo assaggio del suo rispetto per l’autorità? Non ha forse percosso i nostri Edili? Aggredito noi stessi?... Andiamo, via!  MENENIO - Considerate questo che vi dico: egli è uno cresciuto tra le guerre da quando seppe impugnare una spada, e non ha avuto mai chi gli insegnasse ad usare un linguaggio raffinato. Mischia farina e crusca, tutto insieme, senza badarci. Datemi licenza d’andar da lui, ed io ve lo conduco, parola mia, dove potrà rispondere in piena calma ed in forma legale, ad assoluto suo rischio e pericolo. PRIMO SENATORE – È questo il modo, nobili Tribuni, di trattare la cosa umanamente; l’altro sarebbe via troppo cruenta, e di sbocco imprevisto e imprevedibile. SICINIO - Ebbene, allora, nobile Menenio, sii tu il rappresentante della plebe. (Alla folla) Mastri, giù l’armi. BRUTO - Ma senza disperdervi. SICINIO - E radunatevi di nuovo al Foro. (A Menenio) Ti aspetteremo là; e se torni senza condurre Marcio, procederemo come stabilito. MENENIO - Ve lo conduco. (Ai Senatori) Mi sia consentito di chiedere la vostra compagnia. Dovrà venire, o ne seguirà il peggio. PRIMO SENATORE - Sì, vi prego, rechiamoci da lui. (Escono tutti) SCENA II -Roma, in casa di Coriolano Entra CORIOLANO con alcuni PATRIZI CORIOLANO - Mi facciano crollare il mondo addosso(141), mi minaccino morte sulla ruota(142), o trascinato da cavalli bradi, o accatastino l’una sopra l’altra  sulla Rupe Tarpea dieci colline, sì che non sia più manifesto agli occhi il fondo stesso di quel precipizio, io con loro, sarò sempre così! PRIMO PATRIZIO - E ciò ti rende di tanto più nobile. CORIOLANO - Quello che mi stupisce è che mia madre non approvi più questa mia condotta, lei che ha sempre chiamato quella gente servitoracci imbottiti di lana(143), cose fatte per essere comprate e rivendute poi per quattro soldi(144) o per mostrar nelle loro assemblee zucche pelate, bocche spalancate, ferme inchiodate lì, in ammirazione, se solamente alcuno del mio rango si levasse a parlar di pace o guerra. Entra VOLUMNIA Di te parlavo appunto: perché vuoi ch’io mi mostri più tenero? Dovrei tradir la mia vera natura? Dimmi piuttosto che ad agir così non faccio che mostrarmi quel che sono. VOLUMNIA - Ah, figliolo, figliolo, tu, il potere avrei voluto l’avessi indossato(145) prima di consumarlo, come hai fatto... CORIOLANO - Lascia andare. VOLUMNIA - ... e restare pur te stesso senza sforzarti tanto di ostentarlo. E ti saresti posto meno ostacoli ai tuoi fini, se non li avessi esposti così scopertamente agli occhi loro prima ch’essi perdessero il potere di frapporti essi stessi degli ostacoli. CORIOLANO - Vadano tutti quanti ad impiccarsi! VOLUMNIA - Ah, per me, vadano a bruciarsi vivi! Entra MENENIO, coi SENATORI MENENIO - Troppo rude sei stato, su, un po’ troppo! Ora devi ripresentarti a loro, e rimediare.  PRIMO SENATORE – È l’unico rimedio, o la città si spacca e va in rovina. VOLUMNIA - Segui il loro consiglio, te ne prego. Ho un cuore anch’io poco incline alla resa simile al tuo, ma ho pure un cervello che sa sfruttare a suo pro l’ira altrui. MENENIO - Ben detto, nobilissima matrona! Anch’io piuttosto che vederlo prono ad umiliarsi innanzi a questo gregge, se non fosse che il corso degli eventi lo rende necessario come un farmaco per la salute dell’intero Stato, indosserei la mia vecchia armatura, con tutto che ne regga appena il peso. CORIOLANO - Che devo fare? MENENIO - Tornar dai Tribuni. CORIOLANO - Va bene, e poi? MENENIO - Far finta di pentirti di tutto ciò che hai detto. CORIOLANO - Innanzi a loro? Non lo faccio nemmeno con gli dèi, devo farlo con loro? VOLUMNIA - Figlio mio(146), sei troppo altero, troppo distaccato, pur se questo non può mai dirsi troppo per un nobile; salvo che a parlare non siano le esigenze del momento. T’ho udito dire sovente che in guerra onore e astuzia crescon di conserta, da amici inseparabili. È così? Spiegami allora che cosa han da perdere i due dal seguitare quest’accordo anche in tempo di pace. CORIOLANO - Che discorsi! MENENIO - Una domanda pertinente, invece! VOLUMNIA - Se in guerra tu consideri onorevole sembrar quello che non sei, e fai di questo il mezzo per raggiungere i tuoi fini, perché dovrebbe questa tua politica perdere d’efficacia e di valore,  accoppiandosi in pace, come in guerra, all’onore, se d’ambedue le cose si presenti l’egual necessità? CORIOLANO - Perché insisti su questo? VOLUMNIA - Perché è questo per te il momento di parlare al popolo, non seguendo la tua ispirazione(147), o quello che ti suggerisca il cuore, ma con parole mandate a memoria sulla lingua, se pur solo bastarde e sillabate senza alcun rapporto con quella verità che hai nel petto. Ebbene, non c’è nulla in tutto questo che ti possa recare disonore; non più che conquistare una città col mezzo di gentili paroline, in un momento in cui ogni altro mezzo t’avrebbe esposto ai colpi di fortuna o al rischio di far correr molto sangue. Io non avrei alcuna esitazione a nasconder la mia vera natura, se mi fosse richiesto dall’onore essendo in gioco la mia stessa sorte, o quella degli amici. Ebbene, figlio, in tal frangente adesso ci troviamo io, tua moglie, tuo figlio, i senatori, i nobili; e tu stimi che sia meglio mostrare a questa turba di pagliacci come sei bravo a far la faccia dura, invece di sprecare una moina per guadagnarti le lor simpatie e per salvare ciò che, senza questo, può andar perduto. MENENIO - Nobile matrona(148)! (A Coriolano) Vieni dunque con noi, e parla loro con parole acconce. Potrai così non soltanto salvare quel che oggi è in pericolo, ma rimediare alle passate perdite. VOLUMNIA - Sì, figlio mio, ti prego, ti scongiuro, va’ da loro con il cappello in mano(149), e, tesolo così, con largo gesto - perché così devi fare con loro - le tue ginocchia sfiorando le pietre - in certe cose il gesto è più eloquente delle parole, ché degli ignoranti  son più istruiti gli occhi che le orecchie - ed abbassando e rialzando il capo come a correggere, con questo gesto, l’altero cuore, divenuto docile per l’occasione come mora sfatta che si stacca dal rovo al primo tocco, di’ loro che tu sei il lor soldato, e che, cresciuto in mezzo alle battaglie, non hai quel tanto di buone maniere che - lo confesserai - sarebbe giusto per te di usare e per loro di esigere nel momento in cui chiedi il loro voto; ma che, d’ora in avanti, a giuramento, modellerai te stesso a lor talento, per quanto sarà in te e in tuo potere. MENENIO - Una volta che avrai fatto così, esattamente come lei ti dice, ebbene, i loro cuori saran tuoi: perché quelli, se uno glielo chiede, sono altrettanto facili al perdono che a sbraitare per cose da nulla. VOLUMNIA - Ti prego, va’ e riesci a dominarti; anche se so che con un tuo nemico preferiresti magari inseguirlo fin dentro una voragine di fuoco piuttosto che adularlo in un salotto. Entra COMINIO Ecco Cominio. COMINIO - Sono stato al Foro; bisognerà davvero, Coriolano, che tu ci vada bene accompagnato, e che sappi difenderti con calma, o non andarci affatto. È tutto furia. MENENIO - Basta parlare con un po’ di garbo. COMINIO - Sì, basterà, se saprà contenersi. VOLUMNIA - Si deve contenere, e lo farà. Ti prego, dimmi che sei pronto a farlo, e vacci. CORIOLANO - Debbo andare a mostrar loro la mia zucca scoperta(150)? Dare con vile lingua una smentita al mio nobile cuore, e comandargli  di sopportarla?... Bene, lo farò. Sebbene, si trattasse sol di perdere questo pugno di fango, per mio conto questa forma che porta nome Marcio la potrebbero macinare in polvere e disperderla al vento... Andiamo al Foro! Però la parte che m’avete imposta non saprò mai rappresentarla al vivo. COMINIO - Via, via, te la suggeriremo noi. VOLUMNIA - Figlio caro, ti prego, hai sempre detto che le mie lodi furono le prime a far di te un soldato, e questa volta per meritarle recita una parte mai fatta prima. CORIOLANO - Bene, devo farlo. Natura mia, abbandonami, e di me s’impossessi ora lo spirito d’una puttana! La voce di guerra che si fondeva con il mio tamburo si tramuti nell’esile falsetto da sottile cannuccia dell’eunuco e da vocina della verginella che culla i bimbi con la ninna-nanna! Sulle mie guance restino accampati i ghignosi sorrisi dei furfanti, le lacrimucce dello scolaretto m’inondino gli specchi della vista; tra le mie labbra venga ad agitarsi una lingua d’abbietto mendicante, ed i ginocchi che nell’armatura si piegavano solo sulla staffa, si flettan come quelli del pitocco ch’abbia pur mo’ buscato l’elemosina! Non lo farò, non voglio tralignare dal rimanere fedele a me stesso(151), e col comportamento del mio corpo indurmi ad insegnare alla mia anima una bassezza non più cancellabile. VOLUMNIA - Fa’ come credi. Sento più vergogna io a pregare te, che tu non senta a pregar loro. Vada tutto a male! E lascia che tua madre abbia a soffrire del tuo orgoglio, più di quanto tema per questa tua rischiosa ostinazione; perch’io so farmi beffa quanto te della morte. Ma fa’ a tuo talento. Il tuo coraggio è mio: tu l’hai succhiato  da me. Ma la superbia è solo tua. CORIOLANO - Non inquietarti, madre, te ne prego. Vado al Foro. Non farmi più rimbrotti. Farò sfoggio di ciarlataneria per conquistar le loro simpatie, riuscirò a scroccare i loro cuori, e mi vedrai tornare a casa amato da tutte le romane mestieranze. Guarda, sto andando. Saluta mia moglie. Tornerò console, o d’ora in poi non fidarti di quanto saprà fare la mia lingua nell’arte di adulare. VOLUMNIA - Fa’ come vuoi. Addio. (Esce) COMINIO - I Tribuni t’aspettano. Muoviamoci. Preparati a rispondere con calma, ché quelli, a quanto sento, hanno approntato contro di te accuse assai più gravi di quelle che già porti sulle spalle. CORIOLANO - “Con calma”, sì, è la parola d’ordine. Andiamo pure. Risponderò loro come mi detta il cuore,: per quante accuse vorranno inventarsi. MENENIO - Sì, ma garbatamente. CORIOLANO - E come no! Garbatamente, sì, garbatamente! (Escono) Entrano BRUTO e SICINIO SCENA III -Roma, il Foro BRUTO - Su questo punto attacchiamolo a fondo: che la sua mira è il potere assoluto. Se qui ci sfugge, dobbiamo incalzarlo sul suo comportamento ostile al popolo, e sul bottino tolto a quelli di Anzio, che non è stato mai distribuito. Entra un EDILE Allora, viene?  EDILE – È qui che sta arrivando. BRUTO - Chi l’accompagna? EDILE - Il solito Menenio e i patrizi che l’han sempre appoggiato. SICINIO - Hai la lista completa dei voti che gli abbiamo procurato, suddivisi per singoli comizi? EDILE - L’ho qui con me, completa. SICINIO - Per tribù(152)? EDILE - Sì. SICINIO - Convochiamo allora in assemblea la plebe, subito. E quando udranno da me queste parole: “Così sia, per il diritto e il potere del popolo”, o si tratti di condannarlo a morte, o a pagare un’ammenda, o all’esilio, s’io grido: “Ammenda!”, ripetano: “Ammenda!”, se grido: “Morte!”, ripetano: “Morte!”, riaffermando con questa procedura l’antico privilegio ed il potere di giudicare nella giusta causa. EDILE - Li informerò di queste tue istruzioni. BRUTO - E che non cessino più di gridare, ma reclamino, con maggior clamore la pronta ed immediata esecuzione di quanto sarà stato sentenziato. EDILE - Perfettamente. SICINIO - E vengano in gran numero, e siano tutti pronti all’imbeccata che noi daremo loro al punto giusto. BRUTO - Va’, provvedi che tutto ciò sia fatto. (Esce l’Edile) (A Sicinio) Portalo subito a perder la calma. È uso a vincere e s’avvampa subito se contraddetto: una volta scaldato,  non ha più freni alla moderazione, spiattella tutto ciò che tiene in petto; ed è a quel punto che ci porge il destro di farsi rompere l’osso del collo. Entrano CORIOLANO, MENENIO, COMINIO, con senatori e patrizi SICINIO - Bene, arriva. MENENIO - (Piano, a Coriolano) Mi raccomando, calma. CORIOLANO - Sì, calma, calma, come uno stalliere che per i quattro soldi della paga sopporta d’essere chiamato “bestia”! (Forte) Vogliano sempre i venerandi dèi serbar sicura Roma e provvedere che agli alti seggi della sua giustizia seggan uomini degni! Vogliano seminar tra noi l’amore, affollar di pacifici cortei i nostri templi, e non d’interne lotte le nostre strade. PRIMO SENATORE - Amèn. MENENIO - Nobile augurio. Rientra l’EDILE con la folla dei plebei SICINIO - Venite pure avanti, cittadini. EDILE - Ascoltate i Tribuni. Olà, silenzio! CORIOLANO - Prima ascoltate me. I DUE TRIBUNI - Va bene, parla. (Alla folla) Silenzio, voi, laggiù! CORIOLANO - Ci saranno altre accuse aggiunte a queste, oppure tutto si decide qui? SICINIO - Io ti chiedo se intendi sottostare a quel che il popolo andrà a votare, riconoscere i suoi rappresentanti, se accetterai di scontare la pena prevista dalla legge per le colpe che saranno a tuo carico provate.  CORIOLANO - Accetto. MENENIO - Lo sentite, cittadini? Ecco, dice che è pronto ad accettare! A voi di valutare giustamente tutti i servizi da lui resi in guerra; considerate pure le ferite che porta numerose sul suo corpo, come tombe in un santo cimitero. CORIOLANO - Solo graffi di spine, cicatrici da ridere, nient’altro. MENENIO - Considerate poi che nell’esprimersi, se non parla come uno di città, dovete in lui vedere il soldato. Non prendete l’asprezza del suo dire per malagrazia nei riguardi vostri, ma, come dico, lo dovete prendere come il parlare proprio d’un soldato e non già d’uno che vi vuole male. COMINIO - Bene, basta così. CORIOLANO - Per qual motivo, dopo che sono stato eletto console con voto unanime, devo sentirmi leso nell’onore a tal punto, che, dopo appena un’ora, volete ritrattare il vostro voto? SICINIO - Rispondi a noi, piuttosto. CORIOLANO - Già, tocca a me rispondere. Di’ pure. SICINIO - Noi t’accusiamo d’aver macchinato con l’intento di spazzar via da Roma tutte le cariche costituite, e di puntare, per traverse vie, al potere assoluto: onde tu sei traditore del popolo romano. CORIOLANO - Che! Traditore, io? MENENIO - No, no, sta’ calmo. Ricorda la promessa... CORIOLANO - Questo popolo, che se lo inghiotta il più profondo inferno! Io, traditore! Insolente tribuno! Avessi tu stampata nei tuoi occhi  la morte ventimila volte, e in mano ne avessi tu milioni, e ancora il doppio su quella tua linguaccia di bugiardo, ti griderò: “Tu menti!” con quella stessa mia voce dell’animo altrettanto spontanea come quella con cui prego gli dèi: SICINIO - (Alla folla) Lo senti, popolo? PLEBEI - Alla Rupe! Alla Rupe quello là! SICINIO - Basta così, non servono altre accuse! Avete visto tutti quel che ha fatto, udito che ha detto: ha malmenato i vostri delegati, v’ha insultati, ha resistito violento alla legge, ed ha sfidato qui l’alto potere di coloro che devon giudicarlo: tutto questo è delitto capitale, da meritar nient’altro che la morte. BRUTO - Tuttavia, poiché ha ben servito per il bene di Roma... CORIOLANO - Che vuoi cianciare tu di ben servire? BRUTO - Dico ciò che conosco. CORIOLANO - Proprio tu! MENENIO - (A Coriolano) È così che mantieni la promessa fatta a tua madre? COMINIO - Sappi, amico, che... CORIOLANO - Non voglio saper altro! Mi condannino pure come vogliono: ad essere buttato dalla Rupe, ad andare in esilio vagabondo, magari ad essere scuoiato vivo, o a languire di fame in una cella con un granello di frumento al giorno: mai m’indurrò a comprare la pietà al prezzo d’una sola parolina d’adulazione, mai mi s’indurrà a trattenere la mia repulsione dall’ottener da loro qualche cosa,  bastasse pure dir solo “buongiorno”! SICINIO - Attesoché in diverse occasioni ha fatto tutto ch’era in suo potere per mostrare il suo odio contro il popolo, cercando ogni possibile espediente per strappargli il potere; ed anche in questa s’è mostrato ostile non solo contro l’austera giustizia ma contro chi la deve amministrare, noi, in nome del popolo e nella nostra veste di tribuni, lo bandiamo da questo stesso istante dalla nostra città, sotto minaccia d’esser precipitato dalla Rupe, se ancor varcasse le porte di Roma. Così sentenzio, nel nome del popolo. PLEBEI - E così sia! E così sia! Cacciamolo! È bandito da Roma, e così sia! COMINIO - Ch’io vi parli, miei mastri, amici miei... Ascoltatemi. Sono stato console, e sul mio corpo porto le ferite che m’hanno fatto i nemici di Roma. Io di questa mia patria ho caro il bene con più tenero, più sacro rispetto, più profondo della mia stessa vita, dell’onore della mia cara sposa, dei frutti del suo grembo, e prezioso tesoro dei miei lombi. Perciò s’io vi dicessi... SICINIO - Che vuoi dire? Sappiamo già dove vuoi arrivare. BRUTO - Non c’è altro da dire, se non che questi è bandito da Roma, come nemico di Roma e del popolo. E così sia. PLEBEI - E così ha da essere! CORIOLANO - Branco di miserabili cagnacci, il cui fiato fetente io detesto come l’aria d’una palude infetta, i cui favori apprezzo quanto il lezzo ammorbante l’atmosfera delle carcasse d’uomini insepolti, son io che vi bandisco ora da me! E qui restate coi vostri orgasmi!  Che ogni minima voce(153) metta a tutti in cuor la tremarella! Ed i nemici col solo scuotere delle lor piume(154), vi piombino nella disperazione. Tenetevelo stretto un tal potere di dare il bando a chi vi può difendere, finché alla lunga la vostra insipienza, che nulla impara finché non lo prova, non risparmiando nemmeno voi stessi, di voi stessi facendovi nemici, non vi consegni, come prigionieri i più disonorati, a una nazione, che vi avrà vinti senza un solo colpo! Così, sprezzando io la mia città per causa vostra, le volto le spalle. C’è un mondo pure altrove! (Esce con Cominio, Menenio e gli altri patrizi) EDILE - Il nemico del popolo è partito! PLEBEI - Via il nostro nemico! Al bando! Evviva! (Gridano tutti, gettando in aria i berretti) SICINIO - Ora andate a vederlo quand’esce dalla porta di città, e con lo sguardo lo segua ciascuno con lo stesso disprezzo col quale egli ha guardato sempre voi. Dategli la tortura che si merita. Che una guardia ci scorti, nel mentre attraversiamo la città. PLEBEI - Alla porta! Alla porta! Andiamo, andiamo! A vederlo mentre esce di città! Gli dèi proteggano i nostri Tribuni! Andiamo, andiamo tutti! (Escono)  ATTO QUARTO SCENA I -Roma, davanti a una porta della città(155) Entrano CORIOLANO, VOLUMNIA, VIRGINIA, MENENIO, COMINIO e giovani patrizi CORIOLANO - (Alla madre e alla moglie) Basta, via, con le lacrime. Un addio breve. Mi caccia a cornate la mala bestia dalle molte teste(156)... Madre, suvvia, fa’ cuore! Dov’è dunque l’antico tuo coraggio? M’hai sempre detto che gli estremi mali sono le grandi prove dello spirito; che le comuni avversità son cose che anche la gente bassa sa patire; che con calma di mare, ogni naviglio, qual che sia la stazza, si mostra in grado di tenere il mare; che quanto più in profondo si dirigono i colpi della sorte, tanto più nobilmente i nostri sensi devon sopportarne le ferite. M’hai sempre caricato di precetti che dovevano rendere invincibile il cuore che li avesse assimilati(157)... VIRGINIA - O cieli! O cieli! CORIOLANO - No, ti prego, donna... VOLUMNIA - La peste colga tutti i mestieranti di Roma, e muoiano tutti i mestieri! CORIOLANO - Via, via, che assente mi rimpiangeranno. Su, su, madre, ritrova il vecchio spirito di quando non facevi che ripetermi - ricordi?(158) - che se fossi stata tu la moglie d’Ercole, avresti fatto sei delle sue fatiche, risparmiando metà dei suoi sudori a tuo marito... Cominio, non ti contristare. Adieu! Addio, mia sposa, addio, madre mia! Saprò cavarmela, malgrado tutto. E tu, mio vecchio e fedele Menenio, le tue lacrime sono più salate delle lacrime d’occhi giovanili, e son come veleno per i tuoi.  (A Cominio) Mio caro generale, t’ho visto spesso fermo ed impassibile davanti a viste da impietrire il cuore: fa’ tu capire a queste afflitte donne che piangere per colpi inevitabili è tanto stolto quanto è stolto il riderne. Madre, sai bene che per te i miei rischi sono stati la tua consolazione, e sta’ certa che s’anche me ne vado solo, solingo come un drago solitario che fa temibile la sua palude e del quale la gente parla tanto quanto meno lo vede, questo figlio farà qualcosa di straordinario; se non riusciranno a catturarlo col mezzo dell’inganno e dell’astuzia. VOLUMNIA - Ma dove te ne andrai, figliolo mio? Prendi almeno con te, per qualche tempo, il buon Cominio. Decidi che fare, non esporti alla cieca ad ogni evento che ti si possa offrire sul cammino. VIRGINIA - O dèi!... COMINIO - Vengo con te per tutto un mese; così potremo decidere insieme dove fermarti sì che poi di te possiamo aver notizia e tu di noi; così se con il tempo fiorirà l’occasione del tuo richiamo in patria, non dovremo mandare per un uomo alla ricerca in tutto il vasto mondo e perdere il vantaggio del momento, che sempre fatalmente si raffredda nell’assenza di chi deve giovarsene. CORIOLANO - Addio, Cominio. Sei carico d’anni, e pesano ancor troppo su di te le fatiche di guerra, per pensare d’andare alla ventura per il mondo con uno che ce la può far da sé(159). Accompagnami solo per un pezzo fuori le mura. Vieni, dolce sposa, madre amatissima, amici miei di nobil tempra; e appena sarò fuori ditemi tutti addio con un sorriso. Vi prego, andiamo. Avrete mie notizie fintanto che avrò i piedi sulla terra; e non saprete mai nulla di me  se non di quel che sono sempre stato. MENENIO - Questo parlare è quanto di più nobile può udire orecchio. Ebbene, niente lacrime! Potessi scuotermi solo sett’anni da queste stagionate braccia e gambe, ti seguirei, per gli dèi, passo passo! CORIOLANO - Qua la tua mano nella mia. Andiamo. (Escono) SCENA II - Roma, davanti a una porta della città Entrano i due TRIBUNI con un EDILE SICINIO - Rimandiamoli a casa. È andato via. È inutile che procediamo oltre. I nobili non l’han mandata giù. Tutti dalla sua parte, abbiamo visto. BRUTO - Ora, però, che abbiam mostrato i denti(160) ci conviene mostrarci più dimessi di quando tutto questo era da fare. SICINIO - (All’Edile) Mandali a casa. Di’ che il gran nemico se n’è andato, e la loro antica forza è sempre intatta. BRUTO - (All’Edile) Sì, mandali a casa. Esce l’Edile Ecco sua madre. Entrano VOLUMNIA, VIRGINIA e MENENIO SICINIO - Evitiamola. È meglio. BRUTO - Perché? SICINIO - La dicon furibonda pazza. BRUTO - Ci hanno visti. Cammina, tira dritto. VOLUMNIA - Oh, v’incontro a buon punto! Tutte le più schifose pestilenze tenute in serbo dagli dèi per gli uomini  possano ripagare il vostro zelo! MENENIO - Non gridare così! VOLUMNIA - Ancor più forte mi sentiresti, se non fosse il pianto... Anzi, mi sentirai lo stesso, adesso... (A Bruto) Che! Te ne vai? VIRGINIA - (A Sicinio) Resta qui anche tu... Potessi dir lo stesso a mio marito! SICINIO - (A Volumnia) Diamine, siete diventate uomini(161)? VOLUMNIA - Certo, imbecille, è forse una vergogna? Stammi a sentire, pezzo di babbeo: uomo non era forse il padre mio? Tu invece no, tu sei solo la volpe ch’è riuscita a cacciar via da Roma un uomo che per Roma ha dispensato più colpi che parole tu abbia detto. SICINIO - O dèi beati! VOLUMNIA - Sì, colpi più nobili che tu sagge parole, e dispensati per il bene di Roma. Sai che ti dico?... Ma va’, va’... No, invece, no, anzi resta... Vorrei che mio figlio si trovasse in Arabia, spada in pugno, a faccia a faccia con la tua tribù. SICINIO - Ebbene, allora? VIRGINIA - Allora sentiresti! Porrebbe fine a tutta la tua schiatta. VOLUMNIA - A tutta la tua razza di bastardi. Quel gagliardo, con tutte le ferite che si porta per Roma! MENENIO - Via, sta’ calma. SICINIO - Se avesse seguitato a comportarsi verso la patria come da principio, e non avesse spezzato lui stesso il generoso nodo da lui stretto...  BRUTO - Ah, sì, magari avesse... VOLUMNIA - “Ah, sì, magari”! Ma se vi siete dati proprio voi ad infiammar la folla! Voi, gattacci, che siete in grado di stimare i meriti non più di quanto io sappia scrutare i misteri insondabili del cielo! BRUTO - Andiamo, prego. VOLUMNIA - Prego, andate, andate. Avete fatto una bella prodezza. Prima, però, sentite che vi dico: di quanto s’erge in alto il Campidoglio sopra il più misero tetto di Roma, di tanto il figlio mio e di costei sposo - di questa donna qui, vedete? -, da voi bandito, vi sovrasta tutti. BRUTO - Bene, bene, ma adesso vi lasciamo. SICINIO - Perché star qui a sorbirci gli improperi d’una che ha perso chiaramente il senno? (Escono i due Tribuni) VOLUMNIA - E v’accompagnino le mie preghiere. Non avesser gli dèi altro da fare che confermar le mie maledizioni! Ah, potessi incontrarli, questi due, anche una volta al giorno: già basterebbe per sentirmi il cuore sollevato dal peso che l’opprime. MENENIO - Gli hai detto il fatto loro, e, francamente, ne avevi ragione. Non vorreste cenare insieme a me? VOLUMNIA - È la rabbia il mio cibo. La mia cena la farò su me stessa, divorandomi, così mangiando morirò di fame. (A Virginia) Andiamo, cessa di piagnucolare, e lamentati, come faccio io, di rabbia, alla maniera di Giunone(162). Andiamo. (Escono Volumnia e Virginia) MENENIO - Vituperio, vituperio!  (Esce) SCENA III -La strada fra Roma e Anzio Entrano NICANOR, soldato romano, e ADRIANO, soldato volsco, incontrandosi NICANOR - Io ti conosco, amico; ed anche tu devi conoscer me. Se non mi sbaglio, ti chiami Adriano. ADRIANO - Esattamente, amico; ma, in coscienza, di te non mi ricordo. NICANOR - Son romano, ma uno che lavora, come te, contro i Romani. Mi ravvisi adesso? ADRIANO - Nicanor?... NICANOR - Sì, amico, proprio lui. ADRIANO - Più barba avevi, quando t’ho incontrato l’ultima volta, ma la voce è quella. Bene, che novità ci sono a Roma? Ho qui un mandato del governo volsco di ricercarti là; ma adesso tu m’hai risparmiato un giorno di cammino. NICANOR - Ci sono state a Roma insurrezioni mai viste prima(163): il popolo in rivolta contro il Senato, i nobili, i patrizi. ADRIANO - “Ci sono state...”. Perché, son finite? I nostri governanti non lo credono; stanno facendo grandi apprestamenti per la guerra, sperando di sorprenderli nel pieno ardore delle lor discordie. NICANOR - Beh, la grande fiammata ormai è spenta; ma basta una scintilla a ravvivarla, perché i nobili han preso così male la cacciata del prode Coriolano, da ritener matura l’occasione per togliere alla plebe ogni potere e strapparle per sempre i suoi tribuni. C’è fuoco sotto cenere, ti dico, e sta lì lì per divampar di nuovo. ADRIANO - Coriolano bandito!  NICANOR - Sì, bandito. ADRIANO - A Corioli farà molto piacere, Nicanor, questa tua informazione. NICANOR - Lo credo; è un buon momento, ora, per loro. Ho sempre udito che il miglior momento per sedurre la moglie di qualcuno è quando ha litigato col marito. Il vostro valoroso Tullo Aufidio avrà modo di mettersi in gran luce in questa guerra, il suo grande avversario, Coriolano, trovandosi in disgrazia col suo paese. ADRIANO - Per forza di cose. È stata veramente una fortuna per me incontrarti, così, casualmente; hai concluso così la mia missione, e con piacere t’accompagno a casa. NICANOR - Fino all’ora di cena avrò da dirti molte cose stranissime da Roma, e tutte vantaggiose ai suoi nemici. Hai detto che hanno pronto già un esercito? ADRIANO - E che fiore d’esercito! Magnifico! I centurioni, con i loro uomini, già arruolati, al soldo dello Stato, equipaggiati e pronti a entrare in campo in termine di un’ora. NICANOR - Son contento di udire che son pronti, perché ritengo d’esser proprio io quello che li farà mettere in marcia con la massima urgenza. Bene incontrato, dunque, amico mio, e molto lieto della compagnia. ADRIANO - Tu mi rubi di bocca le parole, amico; sono io che ho più ragione di rallegrarmi. NICANOR - Bene, incamminiamoci. (Escono) SCENA IV - Anzio, davanti alla casa di Aufidio  Entra CORIOLANO in abito dimesso, travestito e imbacuccato CORIOLANO - Bella città quest’Anzio! E son io qui, Anzio, che le tue donne ha reso vedove. Ho udito gemere sotto i miei colpi molti eredi di queste tue magioni e cadere. Perciò non riconoscermi, che le tue donne con i loro spiedi ed i ragazzi con le lor sassate non m’uccidano in un puerile scontro. Entra un CITTADINO Salve, amico. CITTADINO - Salute a te. CORIOLANO - Di grazia, sapresti dirmi dove sta di casa il grande Aufidio? Si trova qui ad Anzio? CITTADINO - Sì, e banchetta a casa sua stasera con i notabili della città. CORIOLANO - Qual è la casa sua? CITTADINO - Ce l’hai davanti. CORIOLANO - Grazie, amico, salute. (Esce il Cittadino) O mondo, le tue scivolose curve! Amici uniti da antica affezione, da sembrare un sol cuore entro due petti, da trascorrere insieme tutti i giorni le ore, il letto, la mensa, il lavoro, inseparabili nel loro affetto come fossero stati due gemelli, basta uno screzio, un dissenso da niente per rompere in tremenda inimicizia. Così ugualmente nemici giurati cui l’ira e il furore dell’intrigo tolsero il sonno a forza di pensare come distruggersi l’uno con l’altro, ecco che per un caso, una sciocchezza che vale meno d’una coccia d’uovo, possono diventare grandi amici e unir le loro sorti. Così io: detesto il luogo dove sono nato e guardo con amore a una città  che mi è stata nemica... Beh, io entro. Se m’uccide, si sarà solo preso una giusta rivalsa. Se m’accetta, mi metterò a servire il suo paese. (Esce) Musica da dentro SCENA V - Anzio, l’interno della casa di Aufidio Entra un SERVO, gridando, affaccendato e traversando la scena PRIMO SERVO - Vino, vino!... Che razza di servizio! Qui mi paiono tutti addormentati! (Esce) Entra un altro SERVO SECONDO SERVO - (Chiamando) Coto!... Ma dove s’è cacciato?... Coto! Il padrone lo vuole. Entra CORIOLANO CORIOLANO - Bella casa... Dal banchetto promana un buon odore; ma io non sembro certo un convitato. Rientra il PRIMO SERVO PRIMO SERVO - Che vuoi, amico? Da che parte vieni? Qui per te non c’è posto. Fila, prego. (Esce) CORIOLANO - Essendo Coriolano, non mi merito da questa gente miglior trattamento(164). Rientra il SECONDO SERVO SECONDO SERVO - Da dove spunti, amico?... Ma il portiere ce l’ha gli occhi, che lascia entrare qui figuri come te? Va’ fuori, via! CORIOLANO - Via tu, piuttosto. SECONDO SERVO - Io? Aria, sparisci!  CORIOLANO - Ora cominci a infastidirmi. SECONDO SERVO - Ah! Ci fai pure il gradasso? Ora vedrai: ti faccio dire io due paroline. Entra un TERZO SERVO, insieme con il PRIMO TERZO SERVO - Chi è costui? PRIMO SERVO - Uno strano figuro quale mai m’è caduto sotto gli occhi. Non mi riesce di mandarlo via. Fammi il favore, chiama tu il padrone. TERZO SERVO - (A Coriolano) Che ci fai qui, compare? Su, va’ fuori. CORIOLANO - Lasciami solo starmene qui, in piedi. Non ti farò alcun danno al focolare. TERZO SERVO - Chi sei? CORIOLANO - Un nobile. TERZO SERVO - Sarai un nobile, ma sei meravigliosamente povero. CORIOLANO - È vero. TERZO SERVO - E dunque, nobile spiantato, ti prego, scegliti qualche altro posto. Questo non è per te. Sgombrare, via! CORIOLANO - Seguita pure a far le tue faccende, va’ ad ingozzarti con i loro avanzi. (Gli dà una spinta, mentre il Terzo Servo gli si avvicina) TERZO SERVO - Che! Non vuoi? (Al Secondo Servo) Per favore, di’ al padrone che strano convitato ha dentro casa. SECONDO SERVO - Vado subito. (Esce) TERZO SERVO - (A Coriolano) Dove stai di casa?  CORIOLANO - Sotto il gran baldacchino(165). TERZO SERVO - Il baldacchino? CORIOLANO - Sì. TERZO SERVO - E dov’è codesto baldacchino? CORIOLANO - Nella città dei nibbi e dei corbacchi(166). TERZO SERVO - Nella città dei nibbi e dei corbacchi? Che razza di somaro è mai costui! Allora alloggi pure con le taccole(167)? CORIOLANO - No, questo no: non mi trovo al servizio del tuo padrone. TERZO SERVO - Che vuoi dir, compare? Vuoi avere a che far col mio padrone? CORIOLANO - Certo, e sarebbe più onesto servizio dell’aver a che far con la tua ganza. Tu cianci troppo. Va’ a servir la tavola col tuo tagliere. Lèvati di mezzo! (Lo caccia via percuotendolo) Entra TULLO AUFIDIO col SECONDO SERVO AUFIDIO - Dov’è dunque quest’uomo? SECONDO SERVO - (Indicando Coriolano) È qui, padrone. L’avrei cacciato a calci come un cane; non l’ho fatto per non recar disturbo alle lor signorie che son di là. (Il Primo e Secondo Servo si fanno da parte) AUFIDIO - (A Coriolano) Da dove vieni? Che vuoi? Il tuo nome?... Perché non parli?... Avanti, di’ chi sei. CORIOLANO - (Scoprendosi il volto) Tullo, se ancor non m’hai riconosciuto, e se, a guardarmi, non sai ravvisarmi per quel che sono, ti dirò il mio nome. AUFIDIO - Cioè? CORIOLANO - Un nome che non suona musica  agli orecchi dei Volsci, e soprattutto deve suonar ben aspro a quelli tuoi. AUFIDIO - E dillo, questo nome! Hai l’aria fiera e impresso in faccia il segno del comando. Anche se il tuo sartiame va a brandelli, la struttura completa dello scafo rivela nobiltà. Qual è il tuo nome? CORIOLANO - Prepara la tua fronte ad aggrottarsi. Ancora dunque non mi riconosci? AUFIDIO - No, non ti riconosco. Dimmi il nome. CORIOLANO - Son Caio Marcio: l’uomo che ha procurato a te in particolare e a tutti i Volsci assai malanni e lutti. N’è testimone questo soprannome: Coriolano, che m’hanno dato a Roma(168). Il gravoso servizio militare, i pericoli estremi da me corsi e le gocce di sangue che ho versato per l’irriconoscente patria mia m’hanno fruttato, quale ricompensa, nulla di più che questo soprannome: un bel ricordo, una testimonianza per te di tutto l’odio ed il rancore che dovresti portarmi. Questo nome è però tutto ciò che mi rimane: le crudeltà, l’invidia della plebe secondata da nobili vigliacchi che m’han lasciato a lottare da solo, si sono divorate tutto il resto ed han permesso ch’io fossi cacciato da Roma per i voti degli schiavi. È stato questo estremo di sventura che m’ha portato qui, al tuo focolare; non già con la speranza - non fraintendermi - d’aver salva la vita, ché, se avessi paura della morte, e c’è un uomo da cui dovrei guardarmi, quello sei tu, ma per puro dispetto, e per rifarmi in pieno con coloro che m’han bandito. E son davanti a te. Se tu covi nel cuore una rivincita che ti ripaghi dei torti subiti, se brami cancellare la vergogna delle mutilazioni che si vedono in ogni angolo del tuo paese, non esitare a trarre beneficio dalla mia situazione di disgrazia:  usala in modo da trarre un vantaggio da quanto io possa far per vendicarmi. Perch’io ti dico che combatterò contro l’incancrenito mio paese con la rabbia dei diavoli d’inferno. Ma se di tanto osare non ti senti, e stanco sei di tentar nuove sorti, anch’io sono stanchissimo di vivere, e pronto a presentare la mia gola a te ed all’antico tuo rancore. E se ti rifiutassi di tagliarla, ti mostreresti soltanto uno stolto, perché il mio odio t’ha sempre inseguito, ha fatto correre botti di sangue dalla tua terra, ed io non potrei vivere se non che a tuo completo disonore, salvo che non vivessi per servirti. AUFIDIO - (Dopo un cenno al servo, che si ritira) Oh, Marcio, Marcio! Come ogni parola di queste tue m’ha strappato dal cuore una radice dell’antico odio! Se Giove stesso su da quella nuvola mi rivelasse divini misteri, e mi dicesse: “Questa è verità!” a lui non crederei più che ora a te, nobilissimo Marcio! Ch’io recinga in un abbraccio codesto tuo corpo contro il quale la mia forcuta lancia si spezzò cento volte, e le sue schegge sfregiarono la faccia della luna! E adesso invece stringo fra le braccia la stessa incudine della mia spada, e caldamente quanto nobilmente gareggio col tuo ardore, come prima, con ambiziosa forza, col tuo valore. Sappi solo questo: ho amato molto colei che ho sposato; mai uomo sospirò più lealmente. Ma ora, nel vederti avanti a me, nobilissimo uomo, con più gioia mi sobbalza rapito il cuore in petto di quando vidi per la prima volta la mia sposa varcare la mia soglia. Ebbene, dico a te, come al dio Marte, che abbiamo già un esercito allestito, pronto all’azione, ed ancora una volta m’ero proposto di falciarti via con la mia spada lo scudo dal braccio, o di perdere il mio; dodici volte, l’una dopo l’altra,  tu m’hai piegato, e da allora ogni notte non sogno che di scontri tra noi due: ci vedo tutti e due avvinti a terra, e lì, dopo esserci slacciati gli elmi, afferrarci l’un l’altro per la gola... per poi svegliarmi tutto tramortito, e perché?, per un nulla, solo un sogno. Degno Marcio, se pur altra querela non avessimo che la tua cacciata con Roma, chiameremmo tutti gli uomini alle armi, dai dodici ai settanta, e, rovesciando rivoli di guerra nelle viscere dell’ingrata Roma, strariperemmo su tutto il suo corpo con la violenza d’un torrente in piena. Ma entra, vieni a stringere la mano ai senatori amici qui venuti a salutarmi, poi che mi preparo ad attaccare i vostri territori, se non proprio la stessa Roma. CORIOLANO - O dèi, questa è una vostra benedizione! AUFIDIO - Perciò se vuoi, nobilissimo amico, prender la guida della tua vendetta, prenditi la metà delle mie forze e decidi il da fare, a tuo talento come ti detta meglio l’esperienza; ché tu conosci più di chiunque altro del tuo paese forza e debolezza, se sia meglio, cioè, picchiare d’impeto alle porte di Roma, o se investirli con violenza nella periferia, per spaventarli prima di distruggerli. Ma vieni dentro, ch’io per prima cosa ti presenti a coloro cui compete di secondare i tuoi desiderata. Sii dunque mille volte benvenuto, più amico oggi che nemico ieri (e lo sei stato, Marcio, e che nemico!). Qua la mano. Sii molto benvenuto. (Escono) Il PRIMO e il SECONDO SERVO si fanno avanti(169) PRIMO SERVO - Quale sbalorditiva metamorfosi! SECONDO SERVO - Per questa mano, avevo già pensato, ti giuro, di cacciarlo a bastonate...  Però dentro di me lo sentivo che il suo abito non diceva il vero... PRIMO SERVO - E che braccia!... M’ha fatto fare un giro con la presa del pollice e del medio, come se avesse avviato una trottola. SECONDO SERVO - Eh, l’ho capito subito dal viso che c’era in lui qualcosa; una tal faccia che mi pareva... non so come dire. PRIMO SERVO - Sì, sì, aveva un’aria, quasi fosse... Eh, m’impicchino se non ho capito che quello lì ci aveva qualche cosa in più di quanto potessi pensare. SECONDO SERVO - E io lo stesso, lo potrei giurare. Senz’altro è l’uomo più straordinario che ho visto al mondo. PRIMO SERVO - Penso anch’io così. Però, come soldato, c’è qualcuno di lui più grande, e tu lo sai chi è. SECONDO SERVO - Chi, il padrone? PRIMO SERVO - Non c’è discussione. SECONDO SERVO - Ne vale sei. PRIMO SERVO - No, non esageriamo. Però lo reputo miglior soldato. SECONDO SERVO - Guarda, in coscienza, non so come metterla: nella difesa d’una roccaforte il nostro generale è ineguagliabile. PRIMO SERVO - Certamente, ma pure nell’attacco. Entra il TERZO SERVO TERZO SERVO - Ehi, furfantacci! Ho notizie da darvi, e che notizie, figli di puttana! I DUE - Quali, quali, su, spùtale! TERZO SERVO - Fra tutte le nazioni della terra, non vorrei essere proprio un romano: sarebbe come una condanna a morte. I DUE - Perché, perché?  TERZO SERVO - Perché quel Caio Marcio che le ha suonate non so quante volte al nostro generale, è qui con noi. PRIMO SERVO - “Suonate al nostro generale” hai detto? TERZO SERVO - “Suonate” proprio no, non dico, via, però gli ha dato del filo da torcere. SECONDO SERVO - Ah, per questo, sia detto fra di noi, per lui è stato sempre un osso duro. L’ho udito spesso dirlo da lui stesso. PRIMO SERVO - Un osso troppo duro, sì, per lui, a dire il vero: davanti a Corioli l’ha tagliuzzato come una braciola. SECONDO SERVO - Se avesse avuto gusti da cannibale se lo sarebbe pur cotto e mangiato. PRIMO SERVO - Beh, tutte qui le tue grandi notizie? TERZO SERVO - No, lì dentro lo trattan tutti quanti che pare il figlio e l’erede di Marte: l’hanno fatto sedere a capotavola; e i senatori, per fargli domande, s’alzano in piedi e si scoprono il capo. Il nostro generale, poi, lo tratta come fosse la sua cara morosa: lo sfiora con la mano come un santo, e a sentirlo parlar strabuzza gli occhi. Ma il vero succo sapete qual è? Che il nostro generale è dimezzato rispetto a ieri, perché l’altro mezzo se l’è preso quell’altro, col consenso e le preghiere di tutta la tavola. Andrà, egli dice, a tirare le orecchie a chi sta a guardia delle porte di Roma, che falcerà ogni cosa avanti a sé, per far pulito e sgombro il suo passaggio. SECONDO SERVO - Ed è uomo capace di far questo, quant’altri al mondo. TERZO SERVO - Farlo, lo farà; perché, vedi, avrà, sì, tanti nemici, ma anche tanti amici; i quali amici non hanno avuto, diciamo, il coraggio, di mostrarsi, diciamo, amici suoi mentre lui è in discapito(170)...  PRIMO SERVO - “Discapito”? E che cos’è? TERZO SERVO - ... ma quando lo vedranno con la cresta rialzata e bene in sangue salteran fuori dalle loro tane come conigli dopo l’acquazzone e tutti insieme a fargli grande festa. PRIMO SERVO - Ma quando ciò? TERZO SERVO - Domani, oggi, subito. Potresti sentir battere il tamburo addirittura questo pomeriggio, come se fosse l’ultima portata del lor banchetto, da tradurre in atto prima ch’essi s’asciughino la bocca. SECONDO SERVO - Così riavremo almeno intorno a noi un po’ di movimento. Questa pace serve solo ad arrugginire il ferro, ad accrescere il numero dei sarti e partorire autori di ballate. PRIMO SERVO - Ah, per me, dico, datemi la guerra! È meglio cento volte della pace, come il giorno è migliore della notte; la guerra è cosa viva, movimento, è vispa, ha voce, è piena di sorprese. La pace è apoplessia, è letargia: spenta, sorda, insensibile, assonnata, e fa mettere al mondo più bastardi che non uccida uomini la guerra. SECONDO SERVO - Proprio così. La guerra la puoi dire, per un verso, una grande scopatrice, così come la pace una grande fattrice di cornuti. PRIMO SERVO - Già, e fa odiare gli uomini tra loro. TERZO SERVO - Logico: perché quando sono in pace, hanno meno bisogno l’un dell’altro. Eh, sì, la guerra a me va proprio a genio(171)! E spero che vedremo qui Romani a pochi soldi l’uno, come i Volsci. Si alzano da tavola! Si alzano! PRIMO e SEC. SERVO - Dentro, dentro, sbrighiamoci!  (Escono entrando nella sala da pranzo) SCENA VI -Roma, una piazza Entrano i tribuni SICINIO e BRUTO SICINIO - Di lui non s’è sentito più parlare, né c’è luogo a temerne: le sue armi sono spuntate(172)... Il popolo sta quieto e in pace, la selvaggia agitazione è finita. Che tutto ora vada bene a Roma, grazie a noi, fa arrossire di rabbia i suoi amici, che avrebbero di certo preferito, a costo di soffrirne loro stessi, vedere moltitudini in rivolta per le strade di Roma anziché udire cantare i nostri nelle lor botteghe, serenamente intenti ai lor mestieri. BRUTO - Abbiam puntato i piedi al punto giusto. Entra MENENIO Non è Menenio, questo? SICINIO - È lui, è lui, s’è fatto gentilissimo con noi, da qualche tempo in qua. Salute, amico. MENENIO - Salute a voi. SICINIO - Il vostro Coriolano non sembra essere molto rimpianto, tranne che nella cerchia degli amici. La repubblica regge bene in piedi senza di lui, e reggerebbe sempre, foss’egli ancor più in collera con lei. MENENIO - Sì, tutto bene, infatti. Andrebbe meglio però, se avesse saputo aspettare. SICINIO - Hai notizie di lui? Dove si trova? MENENIO - Non ne so nulla. La madre e la moglie sono anch’esse sprovviste di notizie. Entrano alcuni POPOLANI I POPOLANI - (In coro)  Gli dèi v’assistano sempre, tribuni! SICINIO - Buona sera a voi tutti. BRUTO - Buona sera! PRIMO POPOLANO - Dovremmo stare sempre inginocchiati, noi, con le nostre mogli e i nostri figli, a pregare gli dèi per voi due! SICINIO - Vivete e prosperate, brava gente! BRUTO - Addio, buona salute, cari amici! Avesse avuto per voi Coriolano la premura che vi portiamo noi! I POPOLANI - (In coro) Il cielo vi protegga! I DUE TRIBUNI - State bene. (Escono i popolani) SICINIO - Grazie al cielo, son tempi più felici questi, rispetto a quando questa gente si riversava in massa per le strade urlando e seminando la rivolta. BRUTO - Marcio alla guerra è stato certamente un bravo condottiero, ma altezzoso, ambiziosissimo, pieno di sé... SICINIO - ... e quanto mai smanioso di diventare il padrone assoluto della repubblica, senza collega(173). MENENIO - No, questo non lo credo. SICINIO - Eh, a quest’ora ce lo saremmo ritrovato tale, a nostro gran rimpianto, s’egli fosse salito al consolato. BRUTO - Gli dèi l’hanno impedito, per fortuna; e Roma, lui assente, può viver tranquilla e in sicurezza. Entra un EDILE EDILE - Onorandi tribuni, c’è uno schiavo che abbiam messo in prigione, ch’era in giro spargendo dappertutto la notizia  che i Volsci, da due parti, con due eserciti, son penetrati nei nostri confini in armi, e van con furia micidiale, distruggendo ogni cosa che si para sulla loro avanzata. MENENIO - Questo è Aufidio, che, avendo appreso del bando di Marcio, tira fuori di nuovo ora le corna che ha mantenuto sempre dentro il guscio senza osar di mostrarle, finché per Roma combatteva Marcio. SICINIO - Evvia! Che c’entra tirar fuori Marcio! (All’Edile) Va’, fallo fustigare l’allarmista! Non può esser che i Volsci osino tanto da romperla con noi! MENENIO - Ah, può ben essere! Abbiamo precedenti che può essere. Però interrogatelo quest’uomo prima di castigarlo: che dica da che fonte ha la notizia, se non volete andar incontro al rischio di frustare la vostra informazione e bastonare chi vi mette in guardia contro qualcosa ch’è da far paura. SICINIO - Ma son fandonie. So che non può essere. BRUTO - No, no, non è possibile. Entra un MESSO MESSO - Tutti i patrizi, in grande agitazione, stanno andando al Senato. Ci son notizie che li hanno sconvolti. SICINIO - È tutto questo schiavo... (All’Edile) Va’, fallo fustigare avanti a tutti. L’allarme è suo; nient’altro che fandonie. MESSO - No, onorevole tribuno, no! Il suo racconto è tutto confermato. E c’è dell’altro, ancora più terribile! SICINIO - Ancora più terribile? Che cosa? MESSO - È tutto un dire, da bocche diverse  - quanto ci sia di vero non lo so - che Caio Marcio, unito a Tullo Aufidio, vien marciando alla testa d’un esercito contro Roma, e giurando una vendetta generale, così indiscriminata da includere i più giovani e i più vecchi. SICINIO - Per chi ci crede! BRUTO - Voci sparse ad arte, per ravvivar negli animi più fiacchi l’augurio che il “buon Marcio” torni a casa. SICINIO - Già, questo è il loro gioco. MENENIO - Anch’io ci credo poco. Aufidio e lui son due che possono andare d’accordo non più di quanto può l’acqua col fuoco. Entra un altro MESSO SECONDO MESSO - Siete attesi in Senato. Un grande esercito al comando di Marcio e Aufidio uniti, imperversa sui nostri territori, travolgendo, incendiando, distruggendo tutto quello che incontra avanti a sé. Entra COMINIO COMINIO - (Ai due tribuni) Che bel capolavoro avete fatto! MENENIO - Perché, che sai, che sai? COMINIO - (Come sopra) Non potevate meglio dare mano a farvi violentar le vostre figlie, a far piovere sulle vostre zucche il piombo fuso dai tetti di Roma, a vedervi stuprare sotto gli occhi le vostre mogli... MENENIO - Perché? Che succede? COMINIO - ... a vedervi bruciare, incenerire i vostri templi, e vedervi ridotte sì sottili le vostre guarentigie e poteri, cui tenevate tanto, da entrar nel forellino d’un succhiello! MENENIO - Insomma, che notizie sai? Ti prego!  (Ai due Tribuni) Avete fatto, ho paura, voi due un bel capolavoro... (A Cominio) Di’, ti prego. Che nuove porti? Se davvero Marcio s’è unito ai Volsci... COMINIO - Se? È il loro dio! Li guida come fosse un’entità non generata da madre Natura, da deità diversa, e più capace della Natura stessa a fare un uomo; e quelli là lo seguono contro di noi, mocciosi bamboccioni, con la stessa svagata sicurezza di ragazzi che inseguono farfalle sotto il sole d’estate, o di beccai che si trovino a macellare mosche. MENENIO - (Ai tribuni) Che bel lavoro avete combinato, voi ed i vostri grembiulati amici(174)! Voi, che tanto eravate infatuati del voto della vostra mestieranza e del fiato dei mangiatori d’aglio! COMINIO - Ve la farà crollare sulla testa, la vostra Roma! MENENIO - Come quando Ercole, scrollò le mele mature dall’albero!(175). Avete fatto proprio un bel lavoro! BRUTO - Insomma, è proprio vero? COMINIO - Tanto vero, che prima di scoprire che non l’è, dovrete divenir pallidi morti(176). Tutte le genti gli aprono le porte sorridendo, ed i pochi che resistono, derisi per il lor vano eroismo, periscono da stolidi lealisti. Chi può muovergli biasimo, del resto? Anche i nemici, i vostri come i suoi, riconoscono che c’è in lui qualcosa. MENENIO - Siete tutti spacciati, se quel nobile non avrà pietà. COMINIO - Pietà! Chi dovrà chiederla? I Tribuni?  Almeno per pudore, quelli no! Il popolo? Ma il popolo da lui merita tanta pietà quanto il lupo dai pastori. Chi altro? I suoi seguaci? Ma se costoro gli andassero a dire: “Sii pietoso con Roma”, la lor preghiera avrebbe l’accoglienza di quella di chi merita il suo odio, e cioè di chi fosse suo nemico. MENENIO - È vero. S’anche m’appiccasse fuoco alla casa e me l’incendiasse tutta, io non avrei la faccia di gridargli: “Fermati, ti scongiuro!”. Avete fatto proprio un bel lavoro, voi due, con tutto il vostro artigianume! COMINIO - Per colpa vostra Roma sta tremando, come non ha mai fatto nel passato. I DUE TRIBUNI - Non direte che questo è colpa nostra. MENENIO - Ah, no? Sarebbe dunque colpa nostra? Marcio noi l’amavamo, ma da nobili bestie, quanto vili, abbiam ceduto alla vostra ciurmaglia che urlando l’ha cacciato via da Roma. COMINIO - Ho paura però che questa volta dovranno urlando chiedergli pietà. Tullo Aufidio, il cui nome di soldato è secondo nel mondo, gli obbedisce come un qualunque suo subordinato. Ormai tutta la tattica di guerra tutta la forza, tutte le difese che Roma potrà opporre a questi due sarà solo la sua disperazione. Entra un gruppo di POPOLANI MENENIO - Arriva il branco... E Aufidio è insieme a lui? (Ai popolani) Voi siete quelli che gli avete reso irrespirabile l’aria di Roma, quando gettaste in aria quelle coppole vostre unte e fetenti per acclamare la sua messa al bando! Adesso egli ritorna, e non c’è pelo in testa a un suo soldato che non si farà sferza per voi tutti:  farà cadere a terra tante zucche quanti berretti voi gettaste in aria, e vi salderà il conto dei voti che gli avete ritrattato. E se poi ci mandasse tutti a fuoco, fino a ridurci un unico tizzone, tanto peggio! L’avremo meritato! I POPOLANI - Certo, udiamo terribili notizie. PRIMO POPOLANO - Per parte mia, quando gridai: “Al bando!” aggiunsi pure che mi dispiaceva... SECONDO POPOL. - E così io. TERZO POPOLANO - E io no?... In coscienza, fece così la gran parte di noi. Quel che abbiam fatto è stato a fin di bene; e se pur assentimmo volentieri a bandirlo, fu certo controvoglia. COMINIO - Bravissimi, voi tutti e i vostri voti! MENENIO - Avete combinato un bel lavoro, voi e i vostri schiamazzi! (A Cominio) Che facciamo, saliamo al Campidoglio? COMINIO - Mi pare non ci sia altro da fare. (Escono Cominio e Menenio) SICINIO - (Alla folla) A casa, amici; ma non vi allarmate. Quelli là(177) appartengono a una parte cui farebbe davvero gran piacere se dovesse avverarsi quello che fanno finta di temere. A casa, e che nessuno dia a vedere d’aver paura. PRIMO POPOLANO - Gli dèi ci proteggano! Compagni, a casa!... Io l’ho sempre detto che facevamo male ad esiliarlo. SECONDO POPOL. - Tutti l’abbiamo detto, s’è per questo! Andiamo, andiamo a casa! (Escono i popolani)  BRUTO - Brutte notizie. Proprio non mi piacciono. SICINIO - Nemmeno a me. Darei metà del mio, se servisse a saper che sono false. BRUTO - Saliamo al Campidoglio. SICINIO - Prego, andiamo. (Escono) SCENA VII - Il campo dei Volsci presso Roma Entrano AUFIDIO e il suo LUOGOTENENTE AUFIDIO - Passano ancora molti col Romano(178)? LUOGOTENENTE - Non so quale magia egli abbia addosso ma i tuoi soldati l’hanno sempre in bocca manco fosse il “Signore benedicite” prima dei pasti, il lor discorso a tavola e il lor ringraziamento a fine pasto(179); e tu sei messo in ombra, generale, anche dai tuoi, in questa spedizione. AUFIDIO - Per il momento non ci posso nulla, a men di far ricorso a tali mezzi che finirebbero con l’azzoppare i nostri stessi piani. Anche con me si mostra assai più altero di quanto avessi mai immaginato, il giorno che lo accolsi a braccia aperte. Ma è sua natura, in ciò non si smentisce e io debbo per forza perdonare ciò che non è possibile correggere. LUOGOTENENTE - Avrei desiderato tuttavia - nel tuo stesso interesse, intendo dire - che non lo avessi associato al comando, ma che avessi da solo preso in mano la suprema condotta dell’impresa; o l’avessi lasciata solo a lui. AUFIDIO - Intendo quel che dici, ma sta’ certo, quando verrà che dovrà render conto, non sa quel che saprò tirare in ballo contro di lui. Sebbene in apparenza, come egli stesso crede - e come appare non meno bene agli occhi della gente - ei compia tutto in piena lealtà  e dimostri d’avere buona cura degli interessi dello Stato volsco, che si batta per esso come un drago e che tutto riesca ad ottenere col solo sguainar della sua spada, c’è una cosa però che ha trascurato, e sarà tale da spezzargli il collo, o a mettere il mio a pari rischio, quando verremo alla resa dei conti. LUOGOTENENTE - Che pensi, generale, sarà capace di prendere Roma? AUFIDIO - Ogni località s’arrende a lui, prima ch’egli s’appresti ad assediarla; la nobiltà di Roma è tutta sua: senatori, patrizi fanno a gara a chi più l’ama. I tribuni del popolo non son uomini d’arme, e il loro popolo sarà altrettanto pronto a richiamarlo quanto lo è stato a decretarne il bando. Penso ch’ei sia per Roma e pei Romani quel ch’è la procellaria per il pesce, che lo divora per suprema legge della natura. D’essi è stato prima nobile servitore, ma incapace in seguito di mantener le cariche con tutto l’equilibrio necessario. Sia stato orgoglio - che, con il successo, sempre contagia l’uomo che lo coglie - sia stata assenza di discernimento nel lasciarsi sfuggire le occasioni che pure aveva saldamente in pugno; sia stata pure la sua stessa indole che lo rende istintivamente inabile a mostrarsi diverso da se stesso quando passa dall’elmo del guerriero al cuscino del seggio consolare, e a concepire che non è possibile governare la pace col piglio e la durezza usati in guerra, sta che uno solo di questi difetti - ché in lui di tutti quanti c’è sentore, seppur nessuno ne possieda al massimo, ciò che finora me l’ha fatto assolvere - l’ha reso un uomo da tutti temuto, e così odiato, e così messo al bando. Ha certamente un merito che annulla ogni difetto al solo dirlo(180). Ma le virtù degli uomini, si sa, soggiacciono alla stima del momento;  e il potere, in se stesso pregiatissimo, non ha tomba più certa che lo scanno su cui siede a esaltare ciò che ha fatto. Così il fuoco divora un altro fuoco, e un chiodo scaccia l’altro; così cade un diritto per forza d’un diritto, la forza per la forza d’altra forza. Ma muoviamoci adesso... Caio Marcio, quando tua sarà Roma, tu sarai il più povero di tutti, ed allora sarai subito mio! (Escono)  SCENA I -Roma, una piazza Entrano MENENIO, COMINIO, SICINIO, BRUTO e altri MENENIO - No, non ci vado. Avete tutti udito come ha parlato a colui che fu un tempo suo comandante e ch’era a lui legato dal più tenero affetto. Mi chiamava suo padre. E che con ciò? Andate voi, che l’avete bandito, e prima d’arrivare alla sua tenda(181), un miglio prima cadete in ginocchio e implorate la sua misericordia. No, se s’è dimostrato indifferente a sentire Cominio, io resto a casa. COMINIO - Era come se non mi conoscesse... MENENIO - Ecco, sentite?... COMINIO - Eppure nel passato mi chiamò sempre per nome: Cominio. Gli ho richiamato la vecchia amicizia ed il sangue che abbiam versato insieme; ma a chiamarlo col nome “Coriolano” non rispondeva, e lo stesso con gli altri; come se fosse un nulla, un senza nome, fin quando non si fosse da se stesso forgiato un altro nome, un nome nuovo, nel braciere di Roma messa a fuoco. MENENIO - Addirittura! (Ai Tribuni) Ecco, ora vedete, che bel lavoro avete combinato? Una bella pariglia di tribuni che han fatto il necessario perché a Roma ci fosse del carbone a buon mercato. Che nobile epitaffio(182)! COMINIO - Non ho mancato poi di ricordargli come regale sia il perdonare specie se meno atteso. M’ha risposto. ch’era quella richiesta senza senso da parte di uno Stato a una persona ch’esso stesso aveva castigato. ATTO QUINTO  MENENIO - Benissimo! Poteva dir di meno? COMINIO - Ho cercato di risvegliare in lui l’attaccamento agli amici più cari: m’ha risposto che non poteva certo star lì a sceverarli uno per uno in un mucchio di pula infetta e putrida; e che sarebbe stato da imbecilli, per salvar qualche chicco di frumento in quel putrido ammasso, astenersi dall’appiccarvi il fuoco e seguitare ad annusarne il lezzo. MENENIO - “Per qualche chicco di frumento”, ha detto? Uno son io di quelli, e sua madre, e sua moglie, e il suo figliolo, ed anche questo valoroso amico, (Indica Cominio) siam tutti i granellini ch’egli dice... (Ai Tribuni) ... ma voi siete la lolla imputridita, che spande il suo fetore oltre la luna. E noi, per causa vostra, sarem forzati a farci abbrustolire! SICINIO - Evvia, ti prego, non t’imbestialire! Se ti rifiuti di prestarci aiuto, ora ch’esso ci occorre come mai, non rinfacciarci almeno la disgrazia! Certo, però, se tu fossi disposto ad intercedere presso di lui pel tuo paese, l’abile tua lingua sarebbe ben capace di fermarlo il nostro, come non potrebbe fare qualunque esercito che gli opponessimo. MENENIO - No, non voglio immischiarmi. SICINIO - Ti prego, va’ da lui. MENENIO - A far che cosa? SICINIO - Soltanto un tentativo, quale può fare a favore di Roma il tuo legame d’affetto con Marcio. MENENIO - Beh, mettiamo che mi rimandi indietro, senza ascoltarmi, come pure ha fatto con Cominio... Che cosa ne verrebbe?  Nient’altro che un amico disilluso, ferito dalla sua indifferenza. Non ti pare? SICINIO - Quand’anche così fosse, la tua prova di buona volontà non potrà non ricevere da Roma la gratitudine commisurata alla buona intenzione dimostrata. MENENIO - Bah, mi ci proverò. Chissà che non si degni d’ascoltarmi; sebbene quel suo mordersi le labbra, quell’inarticolato bofonchiare che ci ha detto Cominio, non son cose che m’incoraggino un gran che a tentare... Ma forse non fu colto il buon momento: non aveva pranzato, e il sangue è ancora freddo nelle vene quando queste non son ben riempite, al mattino, imbronciati come siamo, siamo sempre, si sa, poco disposti a dare o a perdonare; quando, invece, abbiamo riempito in abbondanza con vino e cibo queste condutture in cui si canalizza il nostro sangue abbiamo l’animo più disponibile che non nei nostri digiuni da preti. Perciò starò lì attento ad aspettare che sia sazio e disposto ad ascoltarmi, e allora cercherò di avvicinarlo. BRUTO - Tu conosci qual è la strada giusta per giungere alla sua arrendevolezza, e non ti puoi smarrire. MENENIO - Per mia buona coscienza, io ci provo; poi vada come vuole. Non ci sarà poi tanto da aspettare per constatare se sarò riuscito. (Esce) COMINIO - Non sarà mai che voglia dargli ascolto. SICINIO - No? COMINIO - Ve l’ho detto: se ne sta seduto in un seggio dorato(183), l’occhio rosso quasi a volere, col solo suo sguardo, incenerire Roma; e la sua offesa(184)  è il carceriere della sua pietà. Gli son caduto davanti in ginocchio, e lui m’ha detto appena, in un sussurro: “Rialzati”, e d’un gesto della mano in silenzio, così, m’ha congedato. M’ha fatto poi sapere per iscritto quel ch’è disposto a fare e quel che no: impegnato com’è da un giuramento ad osservare certe condizioni. È così; non c’è nulla da sperare, salvoché, come ho udito, la sua nobile madre e la sua sposa non vadano esse stesse a implorargli mercé per la sua patria. Perciò muoviamoci, andiamo a pregarle di recarsi da lui quanto più presto. (Escono) SCENA II - Il campo volsco, davanti a Roma Entra MENENIO, e avanza verso due SENTINELLE 1a SENTINELLA - Alto là! Dove vai? 2a SENTINELLA - Fermati! Indietro! MENENIO - Voi fate buona guardia, e fate bene. Ma, con vostra licenza, io sono qui in veste di ufficiale dello Stato, e vengo per parlare a Coriolano. 1a SENTINELLA - E da dove? MENENIO - Da Roma. 1a SENTINELLA - Non si passa! Devi tornare indietro: il generale da lì non vuol ricevere nessuno. 2a SENTINELLA - Potrai vedere la tua Roma in fiamme prima di colloquiar con Coriolano. MENENIO - Miei buoni amici, se vi sia occorso d’udir parlare il vostro generale di Roma e degli amici ch’egli ha là, c’è da scommetter mille contro uno che il nome mio vi sia giunto all’orecchio: è Menenio.  1a SENTINELLA - Può darsi, ma va’ indietro, perché il tuo nome qua non conta niente. MENENIO - Ti dico, amico, ascolta, ch’io son uno al quale il generale tuo vuol bene, uno che è stato, vedi, in qualche modo il libro delle sue famose imprese, e dove gli uomini han potuto leggere le sue gesta. magari un po’ gonfiate, per via che degli amici (e lui è il primo) ho cercato di dire sempre bene ed in tutta l’ampiezza consentita da verità, senza toglierci un ette. Talvolta posso aver passato il segno, come accade a una boccia, tirata sopra un fondo diseguale; e nel far le sue lodi m’è accaduto quasi di fabbricar moneta falsa... Pertanto, amico, credo d’aver titolo e che tu debba lasciarmi passare. 1a SENTINELLA - Senti, amico, se pure avessi detto in favore di lui tante bugie per quante chiacchiere hai speso per te, di qui non passi; manco se fregare(185) fosse virtù come vivere casti. Perciò indietro. MENENIO - Ma per favore, amico, ricordati che il mio nome è Menenio, e sono sempre stato partigiano del partito del vostro generale. 2a SENTINELLA - Tu potrai essere, come tu dici, il suo bugiardo, quanto ti fa comodo, io son uno che sta sotto di lui e non dico bugie, perciò ti debbo dire che non passi. Avanti, sgombra! MENENIO - Puoi dirmi soltanto se ha già pranzato? Non vorrei parlargli prima ch’abbia mangiato. 1a SENTINELLA - Sei romano? MENENIO - Romano, come il vostro generale. 1a SENTINELLA - Allora tu dovresti odiare Roma né più né meno quanto l’odia lui. Come fate a pensare  che dopo aver cacciato dalle porte colui che era il loro difensore e dopo aver regalato al nemico il vostro scudo, possiate sperare ora di fronteggiar la sua vendetta con i facili piagnistei di vecchie o in virtù delle virginali palme giunte in preghiera delle vostre figlie, o per l’intercessione paralitica d’un vecchio rimbambito come te? Come puoi credere di poter spegnere con un debole fiato come il tuo le fiamme in cui fra poco dovrà ardere la tua città? Ti fai illusioni, vecchio, e perciò fila, tornatene a Roma, e prepàrati per l’esecuzione. Perché là siete tutti condannati; il generale non v’accorderà, l’ha giurato, né tregua né perdono. MENENIO - Stammi a sentire, amico: se il tuo capo fosse informato ch’io mi trovo qui, mi tratterebbe con ogni riguardo. 1a SENTINELLA - Il mio capo? Nemmeno sa chi sei. MENENIO - Volevo intendere il tuo generale. 1a SENTINELLA - Che vuoi che gliene importi, al generale, di uno come te! Va’ indietro, via, se non vuoi che ti faccia spillar fuori quel bicchiere di sangue che ti resta. Sloggiare, via, sloggiare! Via di qua! MENENIO - Eh, ma... amico, un momento(186)! Entra CORIOLANO con AUFIDIO CORIOLANO - Che succede? MENENIO - (Alla sentinella) Oh, adesso, amico, te lo faccio io un bel rapporto col tuo superiore(187)! Così saprai se m’ha riguardo o no. Vedrai se un bischero di sentinella si può permettere di trattenermi dall’incontrarmi col mio Coriolano. Già dal modo con cui mi tratterà potrai immaginare se per te c’è già pronta la forca o altra sorta di più lungo supplizio. Sta’ a guardare  e poi svieni, per quello che t’aspetta! (A Coriolano) Gli dèi gloriosi seggano in consesso ora per ora a conservarti prospero e non t’abbiano essi meno caro del tuo vecchio Menenio. Figlio mio tu ci stai preparando fuoco e fiamme. Guarda: ecco qui l’acqua per estinguerle. A stento hanno cercato di convincermi a venir qui da te; ma quando io stesso alla fine mi sono persuaso che nessun altro all’infuori di me potesse fare tanto da commuoverti, coi lor sospiri sono stato spinto fuor dalle porte della tua città ad implorarti il perdono per Roma e pei supplici tuoi compatrioti. Gli dèi benigni plachino il tuo sdegno e ne faccian cader l’ultima feccia sulla testa di questo manigoldo (Indica la 2a Sentinella) che s’è impuntato, duro come un ciocco, a sbarrarmi l’accesso a te... CORIOLANO - Va’ via! MENENIO - Come! Che dici? CORIOLANO - Moglie, madre, figlio, non li conosco. Tutte le mie cose son sottomesse ad altri. La vendetta è tutto quanto mi resta di mio; il mio perdono è nel cuore dei Volsci. Che un’amicizia sia stata fra noi, sia l’ingrata oblivione suo veleno piuttosto che venirci la pietà a ricordar quant’essa fosse grande. Perciò vattene. A queste vostre suppliche i miei orecchi son più resistenti che le porte di Roma alle mie armi. Tuttavia, per l’affetto che t’ho avuto, prendi questo con te: (Gli consegna una lettera) per te l’ho scritto, e te l’avrei mandato. Altro da te, Menenio, non starò ad ascoltare. (Ad Aufidio) Quest’uomo a Roma m’era molto caro fra tutti: eppure tu lo vedi, Aufidio.  AUFIDIO - Vedo: sei uomo di tempra costante. (Escono Coriolano e Aufidio) 1a SENTINELLA - Sicché, compare, il tuo nome è Menenio? 2a SENTINELLA - Caspita, un nome di molto potere. La via di casa la conosci. Va’. 1a SENTINELLA - Hai sentito che striglia abbiamo preso per aver bloccato Tua Eccellenza? 2° SENTINELLA - Che motivo ci avrei io di svenire, secondo te? MENENIO - Non me ne importa più né del tuo generale, né del mondo! Quanto ad arnesi della vostra specie faccio fatica soltanto a pensare che siete al mondo, tanto vi considero! Chi è deciso a morir di propria mano non teme di morir per mano altrui. Faccia pure quanto di peggio ha in mente, il vostro generale; quanto a voi, restate pure a lungo quel che siete, e vi cresca, cogli anni, la miseria! Dico a voi quel ch’è stato detto a me. (Esce) 1a SENTINELLA - Un brav’uomo, però, non c’è che dire. 2a SENTINELLA - Che tipo in gamba il nostro generale! Una roccia, una quercia che non crolla per quanti venti gli soffino contro. (Escono) SCENA III -La tenda di Coriolano Entrano CORIOLANO, AUFIDIO e Ufficiali. Si siedono CORIOLANO - Accamperemo domani l’esercito proprio davanti alle mura di Roma. Tu, mio collega in questa spedizione, farai sapere ai senatori volsci con quanta lealtà verso di loro io l’ho portata avanti. AUFIDIO - Hai guardato soltanto ai loro fini  e sei rimasto pienamente sordo alle suppliche dell’intera Roma; non hai ammesso a privato colloquio nessuno, no, nemmeno quegli amici ch’eran sicuri di poterlo fare. CORIOLANO - Quest’ultimo venuto, quel vegliardo che ho rinviato con il cuore a pezzi a Roma, mi teneva ancor più caro che se fosse mio padre, ed io per lui ero un dio. Mandarlo ora da me è stata l’ultima loro risorsa; ed io, in nome dell’antico affetto, pur mostrandomi duro anche con lui, ho loro offerto una seconda volta per suo mezzo le prime condizioni, le stesse ch’essi avevan rifiutato e che ora non posson più accettare; e ciò solo per un riguardo a lui che pensava poter fare di più. Ho ceduto ben poco. Non presterò più orecchio, d’ora in poi, a suppliche o altre ambascerie, che vengan dallo Stato o dagli amici... (Grida dall’esterno) Che grida sono queste? Non dovrò mica vedermi tentato a ritrattare una promessa fatta appena adesso?... No, non lo farò(188). Entrano VIRGINIA, VOLUMNIA, VALERIA, il PICCOLO MARCIO e altri del seguito (Tra sé) Prima, davanti a tutti, la mia sposa; poi l’onorato grembo da cui forma prese questo mio tronco, ed in mano a lei il nipotino del suo stesso sangue... Ma via da me la piena degli affetti! Spezzatevi legami di natura e diritti del sangue! La caparbia sia virtù. Che valore ha quell’inchino? Che valgono per me gli sguardi di quegli occhi di colomba che spergiurar farebbero gli dèi?... Ma oh!, m’intenerisco, non son di terra più forte degli altri! Mia madre mi s’inchina... È come se l’Olimpo si curvasse ad implorare una tana di talpa; e il mio ragazzo ha un’aria così supplice  ha un’espressione così supplichevole che par sia la Natura che mi gridi a tutta voce: “Non dire di no!”. Ma passino coi loro aratri i Volsci sopra il suolo che vide eretta Roma, e rompano col vomere l’Italia(189)! Non sarò così insulso da cedere alla forza dell’istinto, ma resterò deciso ed incrollabile come uomo padrone di se stesso ignorando qualsiasi parentela. VIRGINIA - Mio signore e marito!... CORIOLANO - Questi occhi non son più i miei di Roma(190). VIRGINIA - È la grande afflizione che ci fa sì mutate agli occhi tuoi. CORIOLANO - (A parte) Ecco che adesso, da cattivo attore, dimentico la parte, m’impappino fino a un fiasco completo!(191)... (Alzandosi e andando verso la moglie) Tu, della carne mia la miglior parte, perdona la spietata mia durezza, ma non chiedermi in cambio di perdonar “questi nostri Romani”. (Virginia lo abbraccia e lo bacia) Oh, mia diletta, questo lungo bacio, lungo come l’esilio, un bacio dolce come la mia vendetta! Per la gelosa regina del cielo(192), quel tuo bacio d’addio io l’ho portato sempre con me e vergine il mio labbro da quell’istante l’ha serbato... O dèi, io sto lasciando senza il mio saluto la più nobile madre della terra! (S’inginocchia ai piedi di Volumnia) Già, mio ginocchio, affòndati per terra, lasciaci il calco d’una devozione, la più grande che figlio abbia sentito. VOLUMNIA - Oh, rialzati, figlio benedetto! (Coriolano si rialza) Son io che m’inginocchio avanti a te  su questo duro cuscino di pietra, mostrando in un tal gesto per se stesso irriguardoso di civil decoro, come finora mal sia stato inteso il rispetto fra figlio e genitore. (S’inginocchia) CORIOLANO - Che significa questo? Tu inginocchiata qui davanti a me? Davanti a questo figlio tante volte da te rimproverato(193)? Oh, allora volino a punger le stelle anche le ghiaie dell’arida spiaggia! Allora scaglino i venti in rivolta gli alteri cedri contro il sole ardente, spazzando via dal mondo l’impossibile, sì che diventi all’uomo facil opra fare che ciò che non può esser sia. VOLUMNIA - Tu sei il mio guerriero e a farti tale io t’aiutai. Conosci questa donna? (Indica Valeria) CORIOLANO - La nobile sorella di Publicola, luna di Roma, casta come il ghiaccio che da neve purissima s’aggruma col gelo, e pende sul tempio di Diana(194)... Cara Valeria!... VOLUMNIA - (Indicando il piccolo Marcio) Questo è la tua copia, un acerbo compendio di te stesso, che quando il tempo l’avrà maturato potrà essere tutto il tuo ritratto. CORIOLANO - (Carezzando il viso del piccolo Marcio) Possa il dio dei soldati, col consenso di Giove ottimo-massimo, informarti di nobiltà la mente sì da renderti immune al disonore e farti emergere nelle battaglie come un gran promontorio in mezzo al mare, che regge l’impeto delle burrasche e salva tutti quelli che lo vedono! VOLUMNIA - (Al piccolo Marcio) Giù, in ginocchio! CORIOLANO - Il mio bravo figlietto!  (Il piccolo Marcio s’inginocchia, ma il padre lo tira su) VOLUMNIA - Ecco, anche lui, tua moglie, questa donna(195) ed io, tua madre, siamo qui tuoi supplici. CORIOLANO - Ti scongiuro, non domandarmi nulla! O, se qualcosa devi domandarmi, prima di tutto tieni in mente questo: le cose che giurai di non concedere non siano mai da te considerate come rifiuti, se non le concedo. Non chiedermi di rimandare a casa i miei soldati, o di capitolare alla plebe di Roma un’altra volta. Non dirmi snaturato se ricuso non smorzare con più freddi argomenti la mia rabbiosa sete di vendetta. VOLUMNIA - Oh, basta, basta, hai detto: non sei disposto a concedere nulla... e noi qui non abbiamo che da chiedere quello che tu hai detto di negarci. E tuttavia te lo vogliamo chiedere, sì che, se ci fai vana la richiesta se ne possa dar colpa solo alla tua protervia. Perciò ascolta. CORIOLANO - Aufidio, ed anche voi, Volsci, sentite; perché in privato qui nulla da Roma s’ha da sentire. (Si siede) Che cos’hai da chiedere? VOLUMNIA - Quand’anche rimanessimo in silenzio, senza profferir verbo, il nostro aspetto e queste nostre vesti ti direbbero che genere di vita abbiam vissuto da quando sei partito per l’esilio. Considera che donne sventurate noi siamo, come nessun’altra al mondo, nel venir qui da te, se il sol vederti, che ci dovrebbe empir di gioia gli occhi e far danzare di conforto i cuori, li costringe al contrario a lacrimare e tremar di paura e di dolore, e far che madre, sposa e figlioletto vedano il loro figlio, sposo e padre che strappa i visceri alla propria terra. E l’esser tu di questa nostra terra divenuto nemico è più funesto per noi, povere donne, che per gli altri.  Ché almeno agli altri è concesso il conforto di pregare gli dèi, a noi per causa tua proibito. Come possiamo, ahimè, noi le tue donne, pregare il cielo per la nostra patria (come sarebbe pur nostro dovere) e nel contempo per la tua vittoria (come sarebbe pur nostro dovere)? Ahimè, tra dover perdere la patria, nostra cara nutrice, o perder te, che nella patria sei nostro conforto, andiamo incontro a una sciagura certa, qualunque sia la parte, delle due, che possiamo augurarci vittoriosa: ché o dovrem vederti tratto in ceppi come un nemico vinto attraversare le strade di Roma, oppur calcare da trionfatore le rovine di questa tua città con la palma d’aver sparso da eroe il sangue di tua moglie e dei tuoi figli(196). Quanto a me, figlio mio, non ho certo intenzione d’aspettare qual esito la sorte avrà voluto serbare a questa guerra. Se non potrò convincerti a far grazia con nobiltà di cuore alle due parti piuttosto che cercare la rovina d’una sola di esse, non potrai - credimi, tu non potrai! - muovere ad assaltare il tuo paese, figlio, senza aver prima calpestato il ventre di tua madre che t’ha portato al mondo. VIRGINIA - E quello mio che ha partorito a te questo ragazzo per far vivere il nome tuo nel tempo! IL PICCOLO MARCIO - A me, però, non mi calpesterai! Io scapperò finché non sarò grande, ma poi voglio combattere! CORIOLANO - Per non intenerirsi come femmine bisogna non vedere innanzi a sé facce di donne o di fanciulli... Basta, ho già troppo ascoltato. (Si alza dal seggio e fa per andarsene) VOLUMNIA - No, no, Marcio, non lasciarci così! Se il nostro chiedere  mirasse solo a salvare i Romani e a distruggere i Volsci che tu servi, ci potresti accusar d’esser venute come avvelenatrici del tuo onore. No, ti chiediamo di riconciliarli, sì che, da un lato i Volsci possan dire: “Ecco mostrata la nostra clemenza”, e i Romani: “L’abbiamo ricevuta”; e ciascuno ti acclami, da ogni parte, ed esclami: “Che tu sia benedetto, per aver combinato questa pace!”. Tu sai, nobile figlio, come incerte siano sempre le sorti della guerra; ma questo è certo: se conquisti Roma il beneficio che potrai raccoglierne sarà un nome che, appena menzionato, sarà inseguito da maledizioni come cervo da una canea latrante(197), e così d’esso scriverà la storia: “L’uomo fu certo di gran nobiltà, della quale però l’ultima impresa ha spazzato fin l’ultimo vestigio, ha distrutto la patria, ed il suo nome resta esecrato per le età future”. Parlami, figlio. Tu ch’hai sempre amato i generosi slanci dell’onore, tu ch’hai sempre aspirato ad imitar gli dèi nella clemenza, a lacerar col tuono l’ampio spazio, come puoi caricare la tua collera con un fulmine buono appena appena a buttar giù un querciolo... Perché taci? Credi sia degno d’un animo nobile non saper cancellar dalla memoria le offese ricevute? (A Virginia) Parla, figlia, parla anche tu, perché delle tue lacrime lui non si cura. (Al piccolo Marcio) Parla anche tu, piccolo. Forse la tenera tua fanciullezza più che i nostri argomenti può riuscire a dargli un briciolo di commozione. Non c’è uomo che debba più di lui a sua madre, e mi lascia qui a cianciare come una alla gogna... (A Coriolano) Per tua madre non hai avuto mai in vita tua  un tratto di filiale gentilezza; per lei che, invece, da povera chioccia, incurante d’aver altra covata, t’ha sempre accompagnato chiocciolando alla guerra, e t’ha ricondotto a casa felicemente e carico d’onori. Di’ che la mia richiesta non è giusta e respingimi pure con disprezzo; ma se tale non è, non sei onesto, e gli dèi ti faranno ripagare questo tuo rifiutare l’obbedienza che spetta di diritto ad una madre... (Coriolano guarda da un’altra parte) Ah, volge il viso altrove!... Donne, giù! (S’inginocchia, e gli altri la imitano) Ci veda inginocchiati, e si vergogni! Al soprannome suo di Coriolano meglio s’addice la boria proterva che la pietà per le nostre preghiere. Giù, sia finita, per l’ultima volta! Poi torneremo a Roma, e moriremo coi nostri vicini. No, no, devi guardarci! Questo bimbo, che non sa profferir ciò che vorrebbe ma s’inginocchia e ti tende le mani con noi, sostiene la nostra preghiera con più forza di quanto tu ne adoperi nel respingerla. Via, andiamo via! (Si alzano) Quest’uomo ha avuto per madre una Volsca, sua moglie sta a Corioli, e suo figlio somiglia a lui per caso. (A Coriolano) Parla, per dirci almeno “Andate via”! Io, da qui innanzi resterò in silenzio finché la nostra Roma non sia in fiamme; solo allora dirò qualche parola. CORIOLANO - (Prendendole la mano, dopo lungo silenzio) Ah, madre, madre mia che cosa hai fatto!... Guarda, s’aprono i cieli e di lassù irridono gli dèi a questa scena innaturale! Oh, madre, madre, hai vinto! Una felice vittoria per Roma; ma per tuo figlio - credilo, ah, credilo! - hai prevalso su lui, ma esponendolo  a un pericolo estremo, se non proprio alla morte. E così sia! (Ad Aufidio) Aufidio, io non potrò più condurre questa guerra in piena lealtà. Negozierò perciò una congrua pace. Ma dimmi, buon Aufidio, al posto mio, avresti dato tu ad una madre minore ascolto? O concesso di meno? AUFIDIO - Sono commosso anch’io. CORIOLANO - L’avrei giurato! Ché non è poco, Aufidio, che i miei occhi trasudino pietà. Ma dimmi tu, buon collega, che pace vuoi concludere. Per parte mia, non resterò a Roma; torno con te a Corioli e ti prego di darmi il tuo sostegno in questa contingenza. O madre! O moglie! AUFIDIO - (A parte) Godo a veder che ti sei messo dentro questo conflitto tra pietà ed onore; ed è proprio su questo che farò rifiorir la mia fortuna. CORIOLANO - (Alle donne) Subito, sì. Beviamo prima insieme. Ma voi dovete riportare a Roma miglior testimonianza della cosa che non sian le parole: un documento dalle due parti rato e sigillato. Venite, dunque, entrate insieme a noi. Donne, voi meritate a Roma un tempio:(198) tutte le spade che sono in Italia e i suoi eserciti confederati non avrebbero fatto questa pace. (Escono) SCENA IV -Roma, una piazza Entrano MENENIO e SICINIO MENENIO - Lo vedi quello spigolo di pietra lassù sul Campidoglio? SICINIO - Ebbene, allora?  MENENIO - Ebbene allora se tu col tuo mignolo riesci a smuoverlo, qualche speranza vuol dir che c’è che le donne di Roma, soprattutto sua madre, lo convincano. Ma io ti dico che non c’è speranza. Le nostre gole sono condannate, si tratta solo d’aspettare il boia. SICINIO - Possibile che in così poco tempo possa cambiare l’animo di un uomo? MENENIO - Tra un bruco e una farfalla ce ne corre; eppure la farfalla è stata un bruco. Questo Marcio, da uomo ch’era prima s’è tramutato in drago. Ha messo l’ali. Non è più cosa che striscia per terra. SICINIO - A sua madre era molto affezionato. MENENIO - Ah, per questo anche a me; ma di sua madre adesso si ricorda non più che della sua uno stallone partorito da lei ott’anni fa. Porta sul viso i segni di un’asprezza da far inacidir l’uva matura. Quando cammina par né più e né meno che stia muovendosi una catapulta: la terra si raggrinza al suo passare. Ha uno sguardo che fora le corazze, parla rintocchi di campana a morto, e borbotta come una sparatoria(199). A vederlo seduto sul suo scanno pare la statua d’Alessandro Magno. Se dà un ordine, questo è già eseguito prima ch’abbia finito d’impartirlo. Gli manca solo, per essere un dio, l’eternità e un cielo in cui regnare. SICINIO - E la pietà, se è vero il tuo ritratto. MENENIO - Io lo dipingo per quello che è. Vedrai quanta pietà saprà ottenere da lui sua madre. Ce n’è meno in lui pietà, che latte in una tigre maschio. Se ne avvedrà questa povera Roma. SICINIO - N’abbian gli dèi misericordia! MENENIO - No, in questo caso gli dèi non ne avranno! Non avemmo per loro alcun rispetto  quando l’abbiam cacciato e messo al bando; ora che torna a fracassarci il collo, non possiamo dagli dèi rispetto. Entra un MESSO MESSO - (A Sicinio) Se vuoi salva la vita, corri a casa, i plebei hanno preso il tuo collega e lo trascinano di su e di giù, giurando in coro che se le matrone non dovessero riportare a casa qualcosa che dia loro alcun conforto, lo linceranno, lo faranno a pezzi. Entra un SECONDO MESSO SICINIO - Notizie? SECONDO MESSO - Buone! Buone! Le matrone ce l’hanno fatta: i Volsci hanno sloggiato e Marcio è andato via. Roma non salutò più fausto giorno, nemmeno alla cacciata dei Tarquinii. SICINIO - Amico, sei sicuro che sia vero? Proprio sicuro? SECONDO MESSO - Come il sole è fuoco. Ma tu dove sei stato fino ad ora che non ci credi? Mai un fiume in piena irruppe sotto l’arcata d’un ponte, con l’impeto con cui s’è riversata tutta la gente, ormai rassicurata, attraverso le porte. Ecco, li senti? (Frastuono all’interno di trombe, oboi, tamburi, voci, alla rinfusa) Trombe, sambuche, pifferi, salterii, cimbali, tamburelli(200), e tutta Roma urla da far ballare il sole. Senti? (Grida di gioia all’interno) MENENIO - Splendido! Vado incontro alle matrone. Questa Volumnia vale, solo lei, tanti consoli, senatori, nobili da popolare un’intera città; tribuni come te, poi, ce ne vogliono, appetto a lei, un mare, un continente. Oggi dovete aver pregato bene:  stamattina non avrei dato un soldo per diecimila delle vostre teste. Senti come si sgolano di gioia! (Altre voci e grida all’interno) SICINIO - (Al Messo) Prima, ti benedicano gli dèi per la bella notizia che hai portato; e poi accetta i miei ringraziamenti. SECONDO MESSO - Tribuno, qui di far ringraziamenti abbiamo tutti abbondanti ragioni. SICINIO - Son presso la città? SECONDO MESSO - Quasi alle porte. SICINIO - Allora andiamo tutti loro incontro, ad accrescer la gioia della festa. (Escono) SCENA V - Strada presso la porta della città Entrano, attraversando la scena, due SENATORI con VOLUMNIA, VIRGINIA, VALERIA, il PICCOLO MARCIO, seguiti da altri PRIMO SENATORE - Ecco, guardate, la nostra patrona, la salvezza di Roma! Chiamate ad adunata le tribù, innalzate agli dèi ringraziamenti, ed accendete fuochi trionfali! Spargete fiori sul loro cammino, e cancellate con gioiose grida il clamore che mise al bando Marcio; richiamatelo dando il benvenuto a sua madre, gridando tutti in coro: “Benvenute, matrone, benvenute!”. TUTTI - Benvenute, matrone, benvenute! (Fanfara con trombe e tamburi. Escono tutti) SCENA VI -Corioli, una piazza(201) Entra TULLO AUFIDIO con seguito AUFIDIO - Andate ad annunciare ai senatori  ch’io sono qui a Corioli, e consegnate loro questa carta. La leggano e poi vadano nel Foro dove dinanzi a loro e a tutto il popolo io fornirò le prove di tutto quanto v’han trovato scritto. L’uomo che in essa accuso a quest’ora si trova già in città e intende presentarsi avanti al popolo nella speranza che con un discorso riesca a scagionarsi. Fate presto. (Escono alcuni del seguito) Entrano alcuni CONGIURATI del partito di Aufidio Benvenuti! 1° CONGIURATO - Stai bene, generale? AUFIDIO - Come uno ch’è rimasto avvelenato dalle proprie elemosine ed ucciso dalla sua stessa generosità. 2° CONGIURATO - Aufidio nobilissimo, se ancora sei dello stesso proposito del quale ci hai voluto tuoi partecipi, noi siamo pronti a sbarazzarti subito di questo gran pericolo. AUFIDIO - Non so che dirti. Bisognerà agire come troviamo gli umori del popolo. 3° CONGIURATO - Il popolo non si saprà decidere, finché duri il contrasto fra voi due; ma una volta caduto l’uno o l’altro, sarà tutto per quello che rimane. AUFIDIO - Lo so, e il mio pretesto per colpirlo è basato su solidi argomenti. Io l’ho fatto salire, ed ho impegnato sulla sua lealtà l’onore mio; ma, giunto così in alto, egli ha innaffiato i suoi nuovi germogli con la rugiada dell’adulazione, seducendomi tutte le amicizie. Ed a questo ha piegato la sua indole, mai conosciuta prima altro che rude, indomabile, chiusa, indipendente. 3° CONGIURATO - Già, quella sua proterva ostinazione,  quando concorse per il consolato che perdette per non voler piegarsi... AUFIDIO - Stavo per dirlo. Bandito per questo, venne a cercar rifugio a casa mia, presentando la gola al mio coltello. Io l’accolsi, lo feci mio collega nel comando, gli detti aperta via a soddisfare ogni suo desiderio; anzi, gli feci sceglier da lui stesso tra le mie file gli uomini migliori per meglio perseguire i suoi disegni; mi misi io stesso a sua disposizione e l’ho aiutato a mieter quella fama che ha finito per fare tutta sua, al punto da sentirmi io stesso fiero di recare a me stesso questo torto. Ho fatto fino all’ultimo la parte d’un umile e modesto suo seguace, e non già quella d’un suo pari grado, ed egli me l’ha sempre ripagato con ostentata altera sufficienza, manco se fossi stato un mercenario... 1° CONGIURATO - È vero, generale; la truppa n’è rimasta sbalordita. E infine, quando aveva in mano Roma e ci arrideva a tutti un gran bottino, oltre alla gloria... AUFIDIO - Questo è proprio il punto su cui concentrerò contro di lui tutte le fibre; il sangue ed il sudore che ci è costata questa grande impresa egli li ha bassamente barattati per quattro lagrimucce di donnette, che non valgono più delle bugie. Perciò deve morire, ed io risorgerò dal suo tramonto. Ma eccolo, sentite queste grida? (Tamburi e trombe da dentro, fra grida di popolo) 1° CONGIURATO - Tu sei entrato nella tua città come un qualsiasi comune corriere: nessuno t’aspettava a salutarti; ed ecco che lui torna, e il lor clamore spacca l’arco del cielo! 2° CONGIURATO - E questi idioti avvezzi a ogni sopruso ai quali lui ha massacrato i figli  si spellano i lor vili gargarozzi ad osannarlo. 3° CONGIURATO - Tu, al momento giusto, prima che parli e che commuova il popolo, fagli sentir la lama della spada, noi ti daremo mano. Lui caduto, racconta lor la storia a modo tuo: avrai così seppellito per sempre le sue ragioni insieme al suo cadavere. AUFIDIO - Silenzio, i senatori. Entrano i SENATORI della città TUTTI I SENATORI - (Ad Aufidio) Un caldissimo bentornato a casa! AUFIDIO - Non lo merito... Nobili signori avete letto bene quanto ho scritto? TUTTI I SENATORI - Sì, certo. PRIMO SENATORE - E con non poco dispiacere. Perché quali che fossero le colpe da lui commesse prima di quest’ultima avrebbero trovato, a mio giudizio, facile ammenda; ma finire là dove avrebbe dovuto cominciare, gettando via l’indubbio beneficio d’avere nelle mani il nostro esercito con le spese di guerra a nostro carico, e stipulando un trattato di pace con un nemico che s’era già arreso... tutto questo non può presso di noi trovare alcuna giustificazione. AUFIDIO - È qui che viene. Potete ascoltarlo. Entra CORIOLANO, alla testa di soldati in marcia, con tamburi e vessilli; dietro una folla di popolo CORIOLANO - Salute a voi, signori! Ritorno a voi come vostro soldato, non più preso d’amor per la mia patria di quando son partito; e sempre sottomesso ed ossequiente alla vostra suprema autorità. Sappiate che ho condotto questa impresa con successo, e guidato i vostri eserciti attraverso passaggi sanguinosi  fino davanti alle porte di Roma. Il bottino che abbiamo riportato può compensare per almeno un terzo la spesa sostenuta per la guerra. Abbiam fatto una pace altrettanto onorevole pei Volsci(202) quanto disonorevole per Roma; e qui vi consegniamo il documento col testo del trattato stipulato, sottoscritto da consoli e patrizi, munito del sigillo del Senato. AUFIDIO - Non leggetelo, nobili signori! Dite piuttosto a questo traditore ch’egli ha abusato fuor d’ogni misura dei poteri che voi gli avete dato. CORIOLANO - Io, traditore? AUFIDIO - Sì, tu, Marcio! CORIOLANO - Marcio... AUFIDIO - Sì Marcio, Marcio, dico: Caio Marcio! O credi forse ch’io ti faccia bello chiamandoti col tuo nome rubato, Coriolano, a Corioli?... Senatori, voi che sedete a capo dello Stato, costui s’è comportato con perfidia da traditore della vostra causa ed ha ceduto la vostra città, sì, dico, Roma, ch’era già vostra, per poche goccioline d’acqua salsa, alla madre e alla moglie, stracciando via giuramenti e propositi come una stringa di seta tarlata, senza curarsi mai di convocare un consiglio di guerra. Così alle lacrime della sua balia, egli, tra molti gemiti e guaiti ha dato ai cani la nostra vittoria, sì da far arrossire di vergogna perfino le ramazze dell’esercito(203) e costringere gli uomini di tempra a guardarsi in silenzio, sbalorditi. CORIOLANO - O Marte, ascolti? AUFIDIO - Non lo nominare quel dio, piagnucoloso ragazzotto!  CORIOLANO - Eh?... AUFIDIO - Non sei altro! CORIOLANO - Sfacciato bugiardo! Vil carogna, mi fai scoppiare il cuore(204)! “Piagnucoloso ragazzotto”, a me! Signori, perdonatemi, questa è la prima volta in vita mia che mi vedo costretto ad insultare. Questo cane, signori venerandi, sarà smentito dal vostro giudizio; e tutto quanto potrà dir di me - lui, che porta stampati nella carne i segni dei miei colpi, lui, che deve portarsi nella tomba le cicatrici delle mie batoste - dovrà unirsi alla vostra verità per ricacciargli in gola la menzogna. 1° SENATORE - Calmatevi, voi due, ed ascoltatemi. CORIOLANO - Volsci, fatemi a pezzi! Grandi e piccini, uomini e ragazzi, intingete le lame nel mio sangue! “Ragazzotto”!... A me! Cane bastardo! Se nelle cronache in vostro possesso c’è scritto il vero, ci dev’esser scritto ch’io, come un’aquila in un colombaio, ho seminato tra i vostri, a Corioli, il putiferio. E l’ho fatto da solo! “Piagnucoloso ragazzotto”... Eh?! AUFIDIO - E voi, nobili padri, permettete a questo maledetto fanfarone di richiamare alla vostra memoria, innanzi agli occhi vostri, ai vostri orecchi, quello che fu un suo colpo di fortuna, e la vostra vergogna? TUTTI I COSPIRATORI - E per ciò, muoia! TUTTI I POPOLANI - Sì, facciamolo subito! Linciamolo! A me ha ucciso un figlio! A me una figlia! A me il cugino Marco! A me mio padre! 2° SENATORE - Calma, oh! Niente violenze! Calma! È un uomo di valore, ed il suo nome  abbraccia tutto l’orbe della terra. Il suo colpevole comportamento in questa guerra sarà giudicato secondo legge. Aufidio, tu non muoverti, e non turbare la pubblica quiete. CORIOLANO - Ah, se potessi usar contro di lui, contro sei altri Aufidi ed anche più, e tutta la sua razza, questa spada! La farei io la legge! AUFIDIO - Insolente canaglia! (A questo punto, d’improvviso i cospiratori traggono le spade e uccidono Coriolano, che crolla a terra. Aufidio gli mette un piede sopra) I COSPIRATORI - Ammazza! Ammazza! Ammazza! Ammazza! Ammazza! I SENATORI - Fermi! Fermi! Fermatevi! Fermatevi! AUFIDIO - Ascoltatemi, nobili signori! 1° SENATORE - Ah, Tullo, cos’hai fatto! 2° SENATORE - Tullo, ti sei macchiato di un’azione sulla quale il valore piangerà. 3° SENATORE - Togli quel piede da sopra il suo corpo! E voi tutti, silenzio! Via le spade! AUFIDIO - Signori, quando avrete conosciuto (ora non lo potete certamente, nello scompiglio da lui provocato) qual pericolo fosse per voi tutti quest’uomo, vi dovrete rallegrare che sia stato così eliminato. Piaccia alle vostre signorie onorevoli di convocarmi davanti al Senato: mi metterò, da fedel servitore, alla mercé della vostra giustizia, accetterò la più grave condanna. 1° SENATORE - Portate via il cadavere. Si prepari per lui un funerale  con la solennità che si conviene ad onorare la salma più nobile che mai araldo accompagnò alla tomba. 2° SENATORE - L’irruenza di lui libera Aufidio da gran parte di colpa. Ora ciascuno faccia tesoro di quel che è successo. AUFIDIO - La mia collera è, ora, tutta spenta, mi sento sol pervaso da tristezza. Solleviamolo. Diano qua una mano tre dei soldati di più alto grado. Io sarò il quarto. (Al tamburino) Tu, batti il tamburo, voi, voltate le picche, punta a terra. Pur se in questa città molte mogli egli abbia reso vedove e molte madri privato dei figli, s’abbia da noi la degna sepoltura che spetta a un grande cuore. Su, aiutatemi! (Escono portando a spalla il corpo di Coriolano, al rullo prolungato del tamburo) FINE (1) Sapeva, come nessun altro, l’arte di “flatter le peuple” e farsi da esso benvolere, ricorrendo senza scrupoli ad ogni sorta d’intrighi personali (Senofonte, “Memorabili”, I, 2, 24, citato da Jaqueline de Romilly in “Alcibiade”, ed. De Fallois, Parigi, 1995). (2) Giorgio Melchiori, “Shakespeare”, ed. Laterza, Roma/Bari, 1994, pag. 536. (3) “Il préférait l’opportunitè aux principes” (J. de Romilly, op. cit. pag. 62). (4) “But they think we are too dear”: frase d’incerta interpretazione. Qualcuno (D’Agostino) intende: “Ma per loro stiamo bene così come siamo”, cioè magri. (5) “Ere we become rakes”: “rake”, era simbolo di magrezza; si diceva “magro come un rastrello” (“as lean as a rake”). (6) “I need not be barren of...” letteralm.: “Non c’è bisogno ch’io ne sia sterile...”. (7) Il testo gioca sull’aggettivo “strong” che con “breath” ha il significato di “bad smelling”, “fiato che puzza”. (8) “I shall tell you a pretty tale”: qui “pretty” ha il senso di “properly”, “shaperly formed”, “tagliato al caso”, “ben tagliato”. (9) Cioè non con la parola ma col gesto delle labbra. (10) Cioè sulle labbra. (11) “Fore me, this fellow speaks!”: “Parola mia, questo compare ha la lingua sciolta!” Il primo cittadino fa anche il saputo, e Menenio esprime a se stesso la propria stizza. (12) “... the cormorant belly”: il cormorano, vorace uccello dei mari australi, è simbolo dell’insaziabilità (cfr. “Riccardo II”, II, 1, 38: “Light vanity, insatiate cormorant”). (13) Simile immagine dello stomaco è in Dante, “Inferno”, XXVIII, 26-27: “... il tristo sacco/ che merda fa di quel che si trangugia”. (14) “... and fit it is”: “is fit” ha qui valore imperativo di “is duty of...”, “is due to...”; e “and” ha valore avversativo.    (15) “The one side must have the bale”: la frase è ironica, per intendere che si sa bene chi avrà la peggio. È il gesto di scherno con cui Menenio chiude il suo apologo. Cominciato in tono amichevole, quasi sottomesso, questo è venuto man mano crescendo d’enfasi e di efficacia persuasiva, fino all’invettiva finale di Menenio contro il suo interlocutore principale, il Primo cittadino, e al sarcasmo per l’esito della sommossa. L’entrata in scena di Caio Marcio e il tono trionfale con cui Menenio lo saluta sono il suo magistrale coronamento. (16) “The one affrights you”, letteralm.: “L’una vi terrorizza”; ma Coriolano è uno d’arme, e nel suo “affrights you” c’è il disprezzo di chi ha paura di andare a battersi in armi. (17) “Keep you in awe”: “to keep in awe” è espressione colloquiale per “trattenere qualcuno, se necessario, con la forza”. (18) In realtà il Senato romano non si riuniva in Campidoglio, ma nella Curia Hostilia, al Foro, o nella Curia Pompeiana, presso il teatro di Pompeo, dove fu ucciso Cesare. Ma per Shakespeare il Campidoglio è il centro politico della Roma antica. (19) “... as high as I could pick my lance”: “pick”, nell’inglese del ’500 era sinonimo di “throw”, “lanciare (in ogni direzione)”. (20) “Convinti”, cioè, a desistere dalla sommossa. (21) “What says the other troop?”: Marcio proviene da un’altra parte della città, dove - come ha detto prima il Primo cittadino - la plebe è già insorta. (22) Il testo, come spesso in Shakespeare, ha la frase in astratto: “... da spezzare il cuore alla generosità”. (23) Così dice Plutarco; in verità, quanti fossero i “tribuni plebis” nella prima repubblica, non si sa, le fonti si contraddicono. Con certezza si sa che furono dieci dopo il 448 a.C. Qui, per tutto il dramma, ne compaiono soltanto due, Bruto e Sicinio. (24) Per Coriolano, rappresentante della classe guerriera, una guerra è rimedio sicuro per interrompere le lotte interne e, insieme, togliere di mezzo quello che egli chiama “ammuffito superfluo” (“musty superfluity”) negli uomini e nelle istituzioni. (25) È il primo tratto, dopo le sprezzanti invettive alla plebe, che Coriolano fa da se stesso del suo carattere: orgoglioso, fazioso, intollerante; e il primo accenno alla sua rivalità con l’altro grande guerriero del dramma, il volsco Aufidio. (26) “.. his lips and eyes”: boccacce e occhiatacce. (27) La luna come divinità era impersonata da Diana, la dea della castità muliebre. Marcio, quando s’arrabbia, è sboccato anche in senso lubrico. (28) “We never yet made doubt but Roma was ready to aswer us”: letteralm.: “Mai noi finora ponemmo in dubbio che Roma fosse pronta a risponderci”. (29) Cioè al momento della loro messa in atto. (30) Plutarco - ch’è la fonte di Shakespeare per questo dramma - così spiega la ragione per cui i Romani usavano incoronare di fronde di quercia la fronte dell’eroe: “... o perché riverissero sovra l’altre piante la quercia in onore degli Arcadi... o perché tosto e in ogni parte i soldati trovavano fronde di quercia... l’albero sacro a Giove, protettore della città” (“Vita di Coriolano”, III). La guerra cui accennava Volumnia è quella contro Tarquinio il Superbo, che tentava di rientrare a Roma dopo la vittoria del Lago Regillo sui Latini (496 a.C.). (31) Questa immagine nella mente esaltata della madre, che vede il figlio/eroe trascinar nella polvere, presolo pei capelli, il nemico ucciso, e, più sotto, quella di lui che schiaccia al nemico abbattuto la testa col ginocchio, si rivelerà un tragico presagio all’inverso del destino di Marcio. (32) “You were got in fear, though you were born in Rome”: letteralm.: “Voi siete stati concepiti nella paura, sebbene siate nati a Roma”. (33) “It more becomes a man than gilt his trophy”: il “trofeo” era il cumulo delle armi e delle spoglie del nemico vinto, che il vincitore appendeva ad un albero o ammucchiava sul luogo della battaglia, per offrirlo in voto di ringraziamento agli dèi: tanto più bello e prezioso se le armi luccicassero d’oro. (34) Cioè conquistare la città di Corioli assediata. (35) “Amongst your cloven army”: i Volsci sanno che quello che li assedia è metà dell’esercito romano, l’altra metà essendo impegnata a respingere il loro, capitanato da Tullo Aufidio. (36) “Sensibilmente” (“sensibly”) ha qui valore di “con sensi vivi del tuo essere”, in opposto all’inerte materia della tua spada (cfr. in Dante, “Inferno”, II, 13-16: “Tu dici che di Silvio lo parente / Corruttibile ancora, ad immortale / Secolo andò e fu sensibilmente”). (37) “A carbuncle entire”: “entire” è qui nel suo significato di “perfect”, e la perfezione di un diamante si giudica dalla sua luce. (38) In verità, Catone è vissuto 250 anni dopo Coriolano; ma Shakespeare segue pedissequamente Plutarco, e non si cura degli anacronismi. (39) Questa didascalia, che figura in molte fonti, lascia intendere, se ce ne fosse bisogno, che il corso dell’azione scenica ha saltato quel che è successo a Marcio dopo che è rimasto chiuso da solo in Corioli. Lo si saprà dall’elogio che gli farà più sotto Cominio. (40) “... their honours”: si accetta la lezione “honours” dell’“Oxford Shakespeare”, in luogo di quella “... their hours” dell’Alexander (la cui traduzione sarebbe: “Un’ora di battaglia per costoro...”).   (41) “A craked drachma”: le monete crepate hanno un suono fasullo e non valgono più. Ma la dracma era moneta greca. È un’altra prova che Shakespeare copia acriticamente il greco Plutarco. (42) Il boia aveva il diritto di appropriarsi dei vestiti del condannato da lui giustiziato. (43) “The general” è, s’intende, Aufidio, che si sta battendo con Cominio, a meno di un miglio e mezzo di distanza, come ha annunciato prima il Messaggero. (44) La traduzione letterale di queste parole di Cominio sarebbe: “Non distingue il pastore il tuono da un tamburo/ più di quanto io distingua il suono della voce di Marcio da quello di qualsiasi altra”. (45) Cioè: “Arrivi tardi, se sei ferito (se fossi venuto prima non lo saresti stato). Ma se quello che hai addosso è sangue nemico, non sei affatto in ritardo”. (46) “O me alone, make you a sword of me”: è uno dei versi più discussi del dramma. La lezione è incerta. C’è chi lo fa seguire da un punto interrogativo (“Oxford Shakespeare”, cit.), come se Marcio dica ai soldati che lo sollevano in aria: “Povero me, volete fare di me una spada?”; chi ci mette un esclamativo (è la lezione qui adottata); chi addirittura (Brockbanck) l’attribuisce ai soldati. Secondo noi, Shakespeare fa esclamare Marcio con l’espressione massima del condottiero che incita i suoi alla battaglia: “Di me solo, fate la vostra spada!”; che è, tra le altre lezioni, anche la più poetica. (47) “... dispatch those centuries to our aid”: quali centurie intenda Larzio, non si capisce; forse egli accompagna la frase con un gesto ad indicare le truppe rimaste accampate fuori le mura di Corioli; o forse “quelle” vuol indicare “quelle sulle quali ci siamo già intesi che ci avreste mandato”. (48) “Fear not out care, Sir”: letteralm.: “Non aver timori sulla nostra premura, signore”. (49) “Fix thy foot”: letteralm.: “Tienti saldo sui piedi”, espressione che nel gergo cavalleresco significava: “Sta’ in guardia!”. (50) “Wert thou Hector/ That was the hip of your bragged progeny”: Aufidio chiama Ettore “frusta” dei suoi Troiani, dai quali i Romani, da Enea, discendevano, ad intendere che anche Marcio, come Ettore, è per i suoi esempio di virtù guerriera. (51) Per i segnali musicali in tutto il teatro shakespeariano, v. la “Nota preliminare” alla mia traduzione del “Re Lear”. (52) Senso: “Eppure a questo banchetto (l’orgia di sangue della battaglia) al quale tu sei venuto tardi, tu non hai mangiato che un boccone, rispetto al grande banchetto che avevi già fatto (a Corioli)”. (53) Queste battute tra Marcio e Cominio danno un’altra forte pennellata al ritratto dell’eroe. Cominio - per la cui bocca è Shakespeare che parla - non crede alla modestia di Marcio: il suo rifiuto d’ogni lode per l’impresa di Corioli, che gli darà il trionfale soprannome di Coriolano, e di partecipare in forma privilegiata alla divisione del bottino di guerra è solo una manifestazione dell’egocentrismo dell’uomo e della sua smisurata superbia. E Cominio, elegantemente, con moderazione e senza offenderlo, ce lo fa intendere. (54) “But cannot make my heart consent to take e bribe to pay my sword”: in quel “bribe” che vale, più che “mancia”, “compenso dato a qualcuno per corromperlo”, c’è tutto il carattere sdegnoso di Marcio. (55) La didascalia ha “Flourish”, che è uno dei segnali musicali del teatro shakespeariano (per i quali v. nota 51). (56) Perché la loro funzione è quella di strumenti di guerra e non di adulazione. (57) “Let him be made an ovator for th’ wars”: si accetta la lezione “ovator” in luogo di “ouverture” di altri testi, perché, pur nella relativa oscurità della frase, sembra la più pertinente, oltre che la più poetica. “Ovator” è termine creato da Shakespeare forse in derivazione da “ovate”, derivato a sua volta dal latino “vates”, “vate”, “bardo”, “profeta”; sì che il senso ci sembra essere: “Sia ormai il parassita, vestito di morbida seta, e non più il guerriero vestito di duro ferro, il simbolo della guerra”. Pertanto “him” sarebbe riferito a “parasite” del verso precedente. (58) Il testo ha semplicemente: “safety”, che non è tanto “con calma” o “serenamente”, ma “in safety”, “in security” (che giustifica le manette). (59) “... that Caius Marcius wears this war’s garland”: letteralm.: “... che Caio Marcio veste la ghirlanda (di trionfatore) di questa guerra”. (60) D’ora in poi, il personaggio sarà indicato col nome di Coriolano, non più con quello di Caio Marcio. (61) Questo episodio del prigioniero di Corioli che l’aveva ospitato e del quale egli chiede la liberazione, ma non ne ricorda il nome, introduce un magistrale tocco psicologico sulla personalità dell’eroe. L’episodio è in Plutarco, dove però l’ospitante è “un ricco e onesto cittadino”: in Shakespeare diventa “a poor man”, senza nome, del quale nel dramma non si saprà più nulla; nemmeno se è stato liberato. “La magnanimità del condottiero non sa estendersi alla comune umanità, i poveri non hanno nome e perciò sono dimenticati” (G. Melchiori, “Shakespeare”, cit., pag. 540). (62) Ripete, con altre parole, il concetto di prima: è sparito in lui ogni scrupolo d’onore; il suo valore - di cui l’onore è cospicuo componente - è avvelenato. (63) Aufidio enumera qui tutte le situazioni che, secondo le leggi della cavalleria medioevale (ma agli anacronismi di Shakespeare siamo abituati) impedivano di perseguire un avversario: quando dormisse; quando trovasse asilo in un luogo sacro (“sanctuary”); quando assistesse in un tempio a funzioni religiose o sacrificali. (64) A Corioli, occupata dai Romani. Questa scena, che chiude l’atto, chiude anche la serie di avvenimenti incentrati intorno all’impresa di Corioli, dalla quale Marcio ha tratto il suo soprannome. Il quadro è ormai completo: alla figura di guerriero violento e perfidamente machiavellico di Aufidio fa riscontro lo sfrenato orgoglio di Marcio, che disprezza e   insulta la soldataglia romana che pensa più a far bottino che a combattere, la saggezza politica di Cominio, il comportamento smargiasso dei notabili volsci che fanno tentare ai loro una sortita sotto gli occhi degli assedianti. (65) “Will not you go”: è improbabile che il soldato dica ad Aufidio: “Tu non vieni?”, come intendono molti. Aufidio non può andare in una città occupata dai Romani, che sarebbe riconosciuto; e il soldato non può non saperlo. (66) “In what enormity is Martius poor...”: “poor” non ha qui il senso di “povero”, “privo”, “difettoso”, ma di “contemptible”: altrimenti la frase non avrebbe senso. (67) “... I mean of us of the right-hand file...”: solo al tempo di Shakespeare, nelle parate militari, la fila a destra del sovrano era riservata ai nobili. È uno dei soliti anacronismi shakespeariani. (68) “... for a very little tief of occasion will rob you of great deal of patience”: letteralm: “... perché anche un piccolo furtarello d’occasione vi deruba di molta pazienza”. Senso: “A gente come voi basta il minimo pretesto per farla diventare sproporzionatamente irascibile e intollerante”. (69) “One that loves a cup of hot wine”: “hot” sta qui per “generoso”, ma anche, secondo alcuni, proprio per “caldo”, il vino caldo (che però si diceva “mulled wine”) essendo molto in uso in Inghilterra al tempo di Shakespeare. Si legga come si vuole. (70) Licurgo, il grande uomo politico greco, divenuto esempio di saggezza politica. (71) “... I find the ass in compound”: letteralm: “... trovo l’asino in amalgama”, “un concentrato d’asineria”. (72) Il testo ha “an orange-wife”, “una venditrice di arance”. (73) Menenio parla qui come se i tribuni della plebe avessero anche funzioni giurisdizionali; il che non è storicamente esatto. Plutarco parla di loro come “magistrati”, ma nel senso classico di persone investite di pubblica carica. (74) “...(you)... set up the bloody flag...”: la bandiera rossa era la bandiera di guerra, o di resistenza nelle città assediate, in contrapposto alla bandiera bianca della resa. (75) “... against all patience”: cioè non curandovi, o a dispetto di quelli che aspettano giustizia. Ma si può anche intendere: “Contro ogni limite di tolleranza”. (76) Il testo ha: “... the more entangled by your hearing”, letteralm.: “... tanto più imbrogliata dalla vostra udienza”. (77) V. la nota 18. (78) “... such ridiculous subjects as you”: “ridiculous” ha qui il senso di “risibile”, “da poco”, “insignificante”, non quello di “che fa ridere”. (79) Con capelli e crini s’usava imbottire cuscini, sellame per cavalcature e anche palle da tennis. (80) Deucalione è il corrispondente pagano del biblico Noè, progenitore dell’umanità, dopo Adamo. Il suo mito è che quando Zeus, nell’età del bronzo, scatenò sulla terra il diluvio per punire gli uomini, Deucalione costruì un’arca e vi entrò insieme con la moglie Pirra. I due, rimasti gli unici scampati al diluvio, su consiglio di Temi ripopolarono il mondo, gettando sassi alle loro spalle all’uscita del tempio della dea: i sassi scagliati da Deucalione diventarono uomini, donne quelli scagliati da Pirra. (81) Galeno, il padre della medicina greco-romana, soprannominato “principe dei medici”, autore di circa 500 trattati. Solo che Galeno è vissuto nel II secolo dopo Cristo, dunque almeno 600 anni dopo Coriolano! (82) “... is but empiricutic”: “empiricutique” nell’in-folio è, verosimilmente una deformazione, in chiave comico- dispregiativa, di “empirical”. (83) “... and not without his true purchesing”: letteralm.: “... e non senza che egli l’abbia pagate di tasca sua”. Coriolano ha bisogno di “vere” ferite da mostrare al popolo, quando ne chiederà il favore per ottenere il consolato. Perciò s’insiste qui sulla “verità” delle sue ferite. (84) “God save your worships!”: “God” al singolare è nel testo, e così lo si è tradotto. Ma è invocazione cristiana. I pagani di Coriolano invocavano gli dèi (“Gods”). (85) Coriolano aveva partecipato alla cacciata dei Tarquini da Roma (provocata dallo stupro che Tarquinio Sesto, figlio di Tarquinio il Superbo, aveva fatto a Lucrezia) e alla instaurazione della Repubblica. (86) Questa battuta di Volumnia, ritenuta di palese fattura non-shakespeariana, è omessa da molti testi; ma serve teatralmente a preparare l’ingresso in scena del corteo dei vincitori. (87) “My gracious silence, hail!”: questo saluto di Coriolano alla sua sposa contiene una tale carica di poetica tenerezza, che comunque tradotta diversamente dalla sua lettera, si perderebbe. Baldini traduce: “Mia tacita sposa”, altri “mia graziosa taciturna”, “mia bella silenziosa”... ma non è lo stesso! (88) “And live you yet?”: letteralm.: “E sei ancor vivo?”. Ma in italiano un saluto del genere è tutt’altro che un saluto. (89) Si scusa con Valeria per non averla vista prima. (90) “A curse... at very root on’s heart...”: “curse” qui non è “maledizione”, come intendono molti; il vocabolo, nell’inglese del XVI sec. aveva lo stesso significato di “bane”, termine che esprime tutto ciò che distrugge fisicamente, fino a far morire; perciò “cancro”. (91) “By faith of men...”: espressione da intendere non altro che come semplice esclamazione derivata dalla più usata “By my faith”, che riecheggia il francese “ma foi”. Non credo si possa intendere “Per la mia fiducia negli uomini” (Baldini e altri), che non sembra avere molto senso, specie in bocca a Menenio. (92) “Ere in our own house I do shade my head”: “To shade his own’s head” significa “togliersi alla vista degli altri”, “to shade” avendo il senso di “screan”, “mask”, “recess”. (93) “The good patricians must be visited”: qui, come altrove, Shakespeare chiama “patricians” i membri del Senato.   (94) Altro smaccato anacronismo: nella Roma di Coriolano gli occhiali non esistevano (furono inventati intorno al 1300 dopo Cristo!). (95) “... her richest lockram”: il “lockram” era un tipo di stoffa che prendeva il nome dall’omonimo villaggio della Britannia, dove si fabbricava. Qui deve trattarsi di una sciarpa o di una stola, se è indumento da “appuntarsi al collo” (“pins... about her neck”). (96) I Flàmini (“Flamines”) erano sacerdoti incaricati del culto di una singola divinità (per opposto a “pontefici”, sacerdoti del culto di tutti gli dèi). Erano così chiamati perché portavano attorno al capo scoperto, o intorno al berretto sacerdotale, un filo di lana (filamen). (97) “... their nicely gawded cheeks”: si segue la lezione “gawded” in luogo della più corrente “guarded”, perché il termine esprime meglio - come verosimilmente Shakespeare abbia voluto - la civetteria femminile nella circostanza. “Gawded” è sinonimo di “gaudy”, “vistoso”, “sgargiante”. Nell’“Amleto” Polonio raccomanda al figlio Laerte, che va a vivere a Parigi, di vestire “rich, non gaudy”. (98) Le matrone romane, in verità, non avevano la fobia del sole che avevano le dame inglesi del XVI sec., e non andavano velate per proteggere il viso dai raggi solari. (99) Secondo Plutarco (“Vita di Coriolano”, cap. XIV) era consuetudine che un generale romano che aspirasse al consolato dovesse presentarsi al popolo nel Foro, per chiederne il suffragio, indossando solo la “tunica dell’umiltà” (“the vesture of humility”), che era normalmente portata dalla povera gente e dagli schiavi; doveva inoltre mettere in mostra le cicatrici delle ferite riportate nelle guerre. La tunica era il capo di abbigliamento di uso generale; ma da sola la portava solo il popolo minuto e gli schiavi: i patrizi la coprivano con la toga; le matrone con la stola o la “palla”; i cavalieri con l’“angustus clavus”; i senatori col “laticlavio”. (100) “Most reverend and grave elders”: “elders” è il corrispondente del latino “patres” con cui si chiamavano i membri del Senato, ritenuto esser composto tutto di uomini in età venerabile. (101) “We are convented upon a pleasing treaty”: letteralm.: “Siamo qui convocati per una piacevole trattativa”. I due tribuni, si noti, si astengono dal nominare Coriolano: per loro è solo un “aderire a portare a buon esito la discussione su un ordine del giorno (“the theme of our assembly”)”. (102) “Ti ascoltiamo” non è nel testo. (103) “I had rather one scratch my head in th’ sun / When alarum were struck...”: senso: “provo tanta smania di andarmene, per non star qui a sentir esaltare le mie gesta, quanto non ne proverei nemmeno se dovessi restare neghittoso a farmi massaggiare il capo da qualcuno, quando fosse squillato sul campo l’allarme di guerra”. Il che è tutto dire. (104) “I shall lack voice. The deeds of Coriolanus / Should not be uttered feeby”: letteralm.: “Mi mancherà la voce. Le gesta di Coriolano non dovrebbero essere scandite da una voce flebile (come la mia)”. (105) Nella Roma repubblicana il dittatore (“dictator”) era il magistrato investito dal Senato della suprema autorità civile e militare nei momenti difficili della nazione; l’incarico cessava col cessare delle condizioni che l’avevano reso necessario. (106) “... with his Amazonian chin...”, cioè col suo mento ancora imberbe, da donna. Le Amazzoni erano le donne guerriere della mitologia greca, e il viso femmineo di Marcio giovinetto è messo in contrasto con le “baffute labbra” (“bristled lips”) dei nemici che egli batte. (107) Al tempo di Shakespeare le parti femminili nel teatro erano sostenute da giovinetti imberbi, alle donne essendo vietato di far parte di compagnie drammatiche. Non così nella Roma di Coriolano. (108) Vedi la nota 30. (109) “... like a planet”: “planet” in senso figurativo indica vagamente un potere occulto che, come l’influsso d’una maligna stella, s’abbatte fatalmente su uomini e cose. (110) “He cannot but with measure fit the honours which we devise him”: “Egli non può che essere adeguato agli onori che intendiamo decretagli”. “Fit with measure” è appunto “corrispondente”, “adeguato” (a qualcuno o a qualcosa) secondo il senso biblico di “measure” che include il concetto di paragone/contraccambio, come nel titolo della commedia “Measure for Measure”. (111) “... and is content to spend the time to end it”: frase ambigua. L’interpretazione più comune è: “Usa il tempo senza ambizioni, senza pensar di trarne alcun vantaggio”. Qualcuno intende “it” come riferito idealmente al precedente “deeds” e traduce “è contento di spendere il tempo per compierle (le sue gesta)” (Lodovici). Questo racconto di Cominio ha una funzione fondamentale nella impalcatura della tragedia; quasi la prosecuzione della parola di Volumnia nella 3a scena del I atto, a completamento dell’immagine di Coriolano come forza cieca, per quanto nobile, della natura, alla quale immagine il poeta opporrà quella dell’uomo debole e indeciso, privo del tutto di senso politico: contrapposizione che è la ragione e il contrappunto teatrale di tutta la tragedia. (112) Il candidato che chiedeva la carica di console doveva presentarsi al Foro, davanti al popolo e chiederne il suffragio. Roma, al tempo di Coriolano, è una repubblica aristocratica, cioè con il potere nelle mani dei nobili, ma il voto della plebe, per consuetudine non codificata, è necessario. (113) “... to all the point of the compass”: “... per tutti i quattro punti della bussola (“compass”)”;... ma la bussola è stata inventata nel Medioevo!   (114) “If it may stand with the tune of your voices...”: Coriolano gioca sul doppio significato di “voices”, che vale “voti” ma anche “voci”. S’è cercato di rendere il bisticcio alla meglio. (115) “... you have been a rod to her friends”: “rod”, “corda”, “nerbo”, “sferza”, era uno strumento di tortura. (116) Altro bisticcio del testo inglese sul termine “common”. Il cittadino ha detto: “You have not indeed loved the common people”, dove “common” riferito a persone (“people”) ha il senso di “of inferior quality”, “of inferior value”; ma significa anche “comune”, “popolare”. Coriolano dice il suo amore per il popolo essere stato nei due sensi. (117) “... and so trouble you no farther”: c’è chi intende qui: “E così vi tolgo il disturbo”, come se Coriolano stesse per andarsene; ma sono i due che se ne vanno, mentre Coriolano resta; sarebbe inoltre difficile, grammaticalmente, non vedere che quel “trouble” è retto dal precedente “will”. (118) Questo monologo di Coriolano completa il ritratto che Shakespeare vuol fare dell’eroe; all’orgoglio si aggiunge e contrappone l’indecisione. Coriolano aborre il popolo, e la consuetudine che costringe a mendicare da esso il voto, ma alla fine l’accetta, ci si adegua, trovando un alibi al suo impulso a reagire a tale imposizione nel: “Sono ormai a mezza strada, meglio proseguire”. Sarà lo stesso conflitto interno a farlo cedere alle preghiere della madre e della sposa davanti alle mura di Roma. (119) “... battles thrice six I have seen and heard of”: “Heard of” ha qui valore di “called to account for”: “Ho visto diciotto (tre volte sei) battaglie e altrettante volte ne ho riferito”. Il condottiero doveva riferire al Senato sullo svolgimento del fatto d’arme, come ha fatto Cominio qui per la battaglia di Corioli. (120) “... have you chose this man?”: si ricorderà che, come si son detti tra loro gli uscieri del Senato all’inizio della 2a scena del II atto, i candidati al consolato sono tre. (121) Secondo una prescrizione d’allora, introdotta con l’istituzione del tribunato della plebe, il candidato alla carica di console, dopo che avesse ricevuto l’accettazione da parte del popolo, richiesta nella forma della vestizione della “tunica dell’umiltà”, doveva ricevere la conferma, con voto formale, dai “comitia tributa”, l’assemblea, appunto, di cui parla qui Sicinio. (122) Il testo inglese gioca ancora sul doppio senso di “voices” (v.nota 114). (123) Questa genealogia della “gens” marcia, o marzia, è tratta di peso da Plutarco. Ma poiché Plutarco nomina questi personaggi senza datarli, Shakespeare mette qui in bocca a Bruto alcuni anacronismi: Bruto non poteva conoscere tutti i personaggi della “gens” che nomina, perché a lui posteriori, eccetto il primo, Anco Marzio, re di Roma. Il Caio Marcio Rutilio, detto il “Censorino”, è vissuto nel III sec. a.C.; Quinto è il Quinto Marcio costruttore dell’acquedotto dell’acqua detta appunto “marcia”, che è stato pretore nel 144 a.C. (124) “... this Triton of the minnows”: si dice “a Triton of or among the minnows” di uno che appare grande solo grazie all’estrema piccolezza di quelli che gli stanno intorno. Tritone è il dio marino del mito classico; “minnows” è la minuzzaglia ittica. (125) Il mitico serpente dalle molte teste che infestava le paludi di Lerna e le cui teste rinascevano appena tagliate. L’immagine della folla come “mostro dalle molte teste” è frequente in Shakespeare. (126) “... being but the horn and the noise o’ th’ monster”: che l’Idra avesse un corno attraverso il quale diffondere il suo strepito, non sta scritto in nessun luogo, ma l’immagine serve a Shakespeare per designare il tribuno come “portavoce” del mostro. (127) Questo discorso di Coriolano sulla distribuzione del grano alla plebe, come la seguente apostrofe ai senatori, sono tratti quasi di peso dal testo della “Vita di Coriolano” di Plutarco, nella traduzione inglese del North. È quasi un secondo monologo dell’eroe, che sbozza ancor meglio la sua immagine di rappresentante dell’aristocrazia al potere, e getta altra luce sulla lotta delle due classi, la patrizia e la plebea, nella Roma agli albori della repubblica. (128) “... by yea and no of general ignorance...”: “general” è qui da intendere come sinonimo di “common”, che equivale a “belonging to a given community” (“Oxford International Dictionary”). (129) “Therefore beseech you / You that will be less fearful than discreet...”: letteralm.: “Perciò vi supplico / Voi che volete avere in voi meno timore che discernimento...”; frase, in italiano, insopportabilmente artificiosa. (130) “... dal corpo dello Stato...” non è nel testo. (131) “Your dishonour”: “Il vostro disonore”, ma si capisce che è un disonore imposto dall’esterno a gente onorata. In italiano, “il vostro disonore” suonerebbe ambiguo. (132) “Has said enough”: intendi: quanto basta a confermarlo nemico del popolo. (133) “... when what’s not meet, but what must be, was law...”: letteralm.: “... quando era legge non ciò che era lecito fare, ma ciò che si doveva fare per imposizione”. (134) Gli Edili erano magistrati con funzioni amministrative di custodia dei pubblici edifici (“aedes”, donde il nome), oltre che dei templi, e di organizzazione di pubblici spettacoli. Al tempo di Coriolano (VI sec. a.C.) si chiamavano “aediles plebis”, e affiancavano i tribuni nella difesa degli interessi civili della plebe. Donde il loro intervento qui. Come i tribuni, erano due e duravano in carica un anno. Successivamente ad essi se ne aggiunsero due, detti “curuli”, dalla “sedia curule” (“sella curulis”) simbolo di tutte le magistrature dello Stato; questi potevano essere eletti anche tra i patrizi. (135) “One time will owe another”: letteralm.: “Un momento sarà debitore all’altro”. S’è dovuto tradurre a senso. (136) “When it stands against a falling fabric”: s’è reso “stands” con “pretende di tenere in piedi” e non come intendono molti, con “s’oppone”, per evitare l’immagine peregrina data dal “volersi opporre” ad un edificio che sta per crollare.   (137) “His nature is too noble for the world”: “world” ha qui il senso di “interests of the present life” o anche “state of human affairs” (v. “Oxford International Dictionary”, alla voce). (138) “Where you should but hunt with modeste warrant”. Senso: “Laddove dovreste esercitare i vostri poteri con maggior discrezione”. L’immagine è tolta dal linguaggio venatorio, dove “warrant” era il permesso di esercitare la caccia entro un certo raggio e in certi periodi dell’anno. (139) Questa battuta è attribuita da molti, compreso l’autorevole “New Arden”, a Menenio, con il senso d’una interrogazione che questi rivolge a Sicinio a continuazione del suo traslato dell’arto infetto: “E se un piede va in cancrena, vuol dire forse che i servizi resi da esso quand’era sano non si debbano tenere in conto?”; ma m’è sembrato che la battuta, in bocca a Sicinio, s’attagli meglio al contesto. (140) Il testo ha “This tiger-footed rage”, “Questo furore dalle zampe di tigre”, ossia violento, precipitoso e famelico. (141) “Let them pull all about mine ears”: “to pull (something) about one’s ears” è frase idiomatica usata nel senso di provocare una pioggia di oggetti sul capo o il crollo di una casa su qualcuno, e simili. (142) La ruota era uno strumento di tortura: il condannato veniva legato intorno al suo cerchio e dilaniato dai chiodi che essa incontrava girando. (143) “Wollen vassals”: le robe di lana erano la veste dei poveri. I ricchi invece vestivano di seta. “Vassal” è “umile servitore”, col senso di moralmente abbietto. (144) “To buy and sell with groats”: “da comprare e rivendere a pochi soldi”. Il “groat” (dal latino medioev. “grossum”, italiano “grosso”) era una moneta di poco valore (circa 1/8 di oncia d’argento) in circolazione in Inghilterra al tempo di Shakespeare. Era il “soldino” senza valore per eccellenza (cfr. il titolo del pamphlet di Ribert Greene (1592) “A groatsworth of wit bought with a million of repentance”, uno dei rari scritti dell’epoca in cui si può scorgere un accenno alla persona di Shakespeare). (145) “I would had you put your power well on / before you had worn it out”: Volumnia qui paragona la carica di console di suo figlio ad un vestito da indossare (“put on”) e che egli, prima ancora di indossare, ha ridotto liso (“worn out”). (146) “Figlio mio” non è nel testo. (147) “Not by your own instruction”: “instruction” è termine che contiene la nozione di intelletto affinato dall’istruzione - ispirazione raziocinante - per contrapposto al sentimento (“passion”), ispirato dal cuore. “Ispirazione” è piuttosto riduttivo, ma non si è trovato termine più proprio. (148) Queste esclamazioni di Menenio - la prima e la seconda - punteggiano drammaticamente, come un applauso, la grande “tirata” di Volumnia, che dà lezione di politica al figlio riecheggiando sorprendentemente Machiavelli (che Shakespeare non risulta conoscesse). Il principe che, per regnare, deve guadagnarsi il favore del popolo, a costo di essere “gran simulatore e dissimulatore” (“Il Principe”, cap. XVIII); l’arte politica che richiede, in chi la esercita, d’essere ad un tempo leone e volpe, colomba e serpe, sono tra i massimi insegnamenti del grande Segretario fiorentino. Coriolano, uomo d’arme e di cuore, quest’arte non possiede; ne è tragico segno la sua domanda: “Che debbo fare?”, che corona, con l’immagine dell’uomo indeciso e votato ormai al suo destino, lo scontro verbale dell’eroe “too absolute” con la machiavellica e volitiva genitrice. (149) Il “cappello in mano” in segno di ossequio è immagine ed espressione del parlare del tempo di Shakespeare. I Romani non avevano altro copricapo all’infuori dell’elmo. (150) “Must I go show them my unbarbed sconce?”. La frase è volutamente ambigua, perché può anche significare: “Devo andare a mostrar loro la mia fortezza indifesa?”. Perché “sconce” ha il doppio significato di “testa”, “zucca” e di “fortezza”, “roccaforte”; e “unbarbed” significa “senza peli”, “senza capelli”, ma anche “indifesa”. Il significato figurato si attaglia perfettamente al discorso. (151) “I will not do’t lest I surcease to honour mine own truth”: letteralm.: “Non lo farò, almeno ch’io non voglia rinunciare ad onorare la mia intima verità”. (152) Il senso di questa richiesta di Sicinio all’Edile è così spiegato da Plutarco (“Vita di Coriolano”, X): “Congregandosi dunque il popolo, tentarono i tribuni con ogni sforzo in prima che si rendessero i voti non a centurie, ma a tribù, perché in questo modo la turba vile dei poveri e saccenti, che non tien conto d’onore, veniva ad aver più forza nei voti, ciascuno porgendo il suo, di quanta non avessero gli abbienti e conosciuti, che andavano alla guerra”. Le “centurie” erano le 193 divisioni in cui Servio Tullio aveva ripartito i cittadini di Roma secondo il censo. (153) “Every feeble rumour”: ogni voce di pericolo (per la presenza di nemici dall’esterno); si capisce da quel che dice dopo. (154) Le piume dei loro cimieri, s’intende. (155) Di quale porta si tratti, non si sa. I testi non hanno alcuna didascalia per questa scena; si capisce, tuttavia, che essa si svolge presso una porta di Roma. (156) La plebe: Coriolano l’ha chiamata così prima. (157) “... with precepts that would make invincible...”: il “would” è palesemente riferito alle intenzioni della madre nel dare al figlio i precetti; il che giustifica, nella traduzione, il “dovevano”. (158) “Ti ricordi?” non è nel testo. (159) Il testo ha “... with one / that is umbruised”,“... con uno che non è contuso”, e prosegue la metafora del corpo (di Cominio) sopraffatto (“too full”) dalle fatiche della guerra. (160) Il testo ha “Ora che abbiam mostrato il nostro potere” (“Now we have shown our power”).   (161) “Are you mankind?”. C’è chi ha creduto di vedere in questa battuta di Sicinio una sottile intenzione di equivoco, perché la frase significherebbe anche “Siete matte?”. Ma il senso di “matto” in “mankind” non si trova in alcun testo; e del resto la risposta di Volumnia sarebbe diversa, perché la donna avrebbe capito l’allusione. (162) Giunone è il simbolo dell’ira femminile vendicativa. Prese parte alla sommossa degli dèi contro lo stesso suo marito, Zeus (cfr. Virgilio, “Eneide”, I, 4: “saeve memorem Junonis ob iram”). (163) “Strange insurrections”: “strange” qui ha il valore di “abnormal”, “unknown”, “unfamiliar”. (164) “I have deserved no better entertainement / in being Coriolanus”: “Non m’aspettavo miglior trattamento, essendo Coriolano”; ma mi pare grammaticalmente errata (“I would have...” sarebbe stato d’obbligo) e incongrua di senso (il servo non sa di trovarsi di fronte a Coriolano). (165) “Under the canopy”: “canopy” è il baldacchino sospeso su un trono, un letto, un altare, tradizionale segno di regalità; ma in senso figurato vale “cielo”, “firmamento” (il baldacchino del cielo). Coriolano, giocando sul doppio senso, si attribuisce la regalità. (166) Che cosa sia questa città, nella mente di Coriolano, è incerto; forse egli allude all’esilio o al campo di battaglia. È comunque, una figurazione sinistra: l’unico esempio - secondo il Bradley - in tutto il dramma di accostamento della Natura a uno stato d’animo. (167) “Then thou dwells with daws too”. Doppio senso: “Daw”, “taccola” (uccello della famiglia dei corvacei) è usato familiarmente anche per “simpleton”, “sciocco”, “scemo”. (168) “Che m’hanno dato a Roma” non è nel testo inglese. (169) I servi sono introdotti qui quasi in funzione di coro; le loro battute preparano e, alla fine, commentano, quasi fosse uno spettacolo, lo “strano” incontro tra Coriolano e Aufidio. Nel loro dialogo rozzo e ironicamente dissacrante s’avverte la tragica impossibilità di un accordo tra i due grandi guerrieri, la cui cordialità presente nasconde, in Aufidio, l’invidia e il sordo quasi inconscio desiderio di rivalsa, e in Coriolano e nella sua forzata “voglia di servire” il nemico, l’intima debolezza che lo porterà a cedere alle preghiere della madre e della sposa. (170) “Whilst he’s in directitude”: sta verosimilmente per “in discredit”. È uno degli “humourous blunders”, strafalcioni lessicali che Shakespeare si compiace di mettere in bocca ai suoi personaggi minori, per l’ilarità del pubblico. (171) “The wars for my money”: l’espressione colloquiale “for my money” in frasi come “this is for my money” equivale a “this is what I desire”, “this is my choice”, eccetera. (172) “His remedies are tame”: frase di senso ambiguo, che si può intendere diversamente, a seconda del senso che si dia a “his”, “i suoi rimedi”, e cioè: “i rimedi che egli può adottare contro di noi”, oppure “i rimedi che noi abbiamo contro di lui”: s’è preferita la prima, intendendo “remedies” nella sua accezione di “means of counteracting an outward evil” (“Oxford Dictionary”), traducendo a senso. (173) “And affecting one sole throne without assistance”; letteralm.: “E aspirando ad esser solo in trono senza collega”. I consoli, nella Roma repubblicana, erano due. (174) “You and your apron-men”: il grembiule, normalmente di pelle, era, in certo modo, il distintivo di chi esercitava a Roma un mestiere e che, non essendo né nobile né cavaliere, apparteneva alla plebe (cfr. “Giulio Cesare”, II, 1, 7: “Where is thy leather apron?”). (175) Allusione alla leggenda dei pomi d’oro delle Esperidi che Ercole, per ordine di Euristeo, andò a rubare nel giardino di quelle, custodito dal drago Ladone. (176) “... and you’ll look pale before you find it other”. Senso: “Morirete di vecchiaia, prima di poter dimostrare che non è vero”. (177) Si capisce che “quelli” (“these”) si riferisce a Cominio e Menenio testé usciti. (178) “Do they fly to th’ Roman?”. Qui “fly to” ha piuttosto il significato di “to flee from” che contiene l’idea di chi fugge da un luogo ad un altro, oppure “sfugge” ad una certa situazione; ed è l’idea insita nella domanda di Aufidio che vede i suoi soldati abbandonare sempre in maggior numero le sue file attratti dal fascino di Coriolano. È l’inizio del voltafaccia di Aufidio e la svolta del dramma. Tutta la scena sarà lo spiegamento di questo stato d’animo dell’eroe volsco, che verso Coriolano, poco prima amato ed ammirato, cova un odio mortale. Il suo colloquio col luogotenente ne farà risaltare il carattere torbido, ambiguo, tortuoso, teso quasi inconsciamente alla fine dell’avversario, che lo sovrasta. (179) “... as the grace fore meat...”: è ancora Shakespeare che anacronisticamente attribuisce ai tempi di Coriolano un uso, come quello della preghiera di ringraziamento prima e dopo i pasti, tipico della civiltà del suo tempo. (180) La frase è ambigua, come è oscuro il concetto del passo seguente, quasi sicuramente guasto. A quale “merito” di Coriolano si riferisca Aufidio non è chiaro, forse all’unico ch’egli possa apprezzare: quello di aver tradito Roma per venire da lui. (181) Il testo ha: “A mile before his tent, fall down”: “un miglio prima della sua tenda, cadete in ginocchio”; a parte l’anacronismo del miglio, si tratta di un’esagerazione dialettica di Cominio per sottolineare la colpevolezza dei tribuni. (182) “A noble memory!”: è come se Menenio dicesse: “Scriveremo sulle vostre tombe, come epitaffio, quando sarete morti: - Fecero il necessario perché Roma avesse il carbone a buon mercato -”; cioè fosse tutta ridotta a carbone. (183) “He does sits in gold”. Coriolano che siede su un seggio d’oro come un trionfatore circonfuso di gloria poco prima della sua tragica fine: un magistrale espediente del drammaturgo ad accentuare il contrasto delle tinte del dramma. (184) “And his injury / the gaoler to his pity”: “... e l’ingiuria (da lui sofferta ad opera dei Romani) a far da carceriere perché non esca da lui il minimo moto di pietà”.   (185) “Thoug it were as virtuous to lie as to live chastely”: è il solito gioco di doppi sensi sulla parola “lie” che significa “mentire” e “giacersi” (nel senso sessuale). (186) “Nay, but fellow, fellow...”: la battuta lascia intendere che Menenio ha visto arrivare Coriolano. (187) “Col tuo superiore” non è nel testo. (188) È la scena culminante del dramma. Con l’ingresso, in silenzio, della madre e del figlioletto dell’eroe nella tenda di questi, Shakespeare ha bisogno di guardare, in un soliloquio che sarà l’ultimo, nell’animo di Coriolano e scavarne i più intimi sentimenti, suscitati dallo svolgersi fatale dell’azione. È la lotta dell’eroe contro il suo destino, che lo vedrà ineluttabilmente perdente. (189) Si confronti questa esclamazione con quella di Antonio nell’“Antonio e Cleopatra”, I, 1, 33-34: “Let home in Tiber melt, and the wide arch/ of the ranged empire fall...”, che accomunano, nelle due tragedie, la catarsi dell’eroe. (190) Cioè “io ti vedo in una luce diversa da quando ero a Roma”. È l’ultima espressione di irrigidimento dell’eroe. La battuta seguente dirà che la piena degli affetti lo ha già vinto. (191) È uno dei frequenti riferimenti di Shakespeare, uomo di teatro, a immagini del mondo del teatro. (192) La gelosia di Giunone è proverbiale. Shakespeare la ricorda spesso nei suoi drammi. (193) “To your corrected son?”: frase ambigua, che si può intendere “(davanti) al tuo figlio punito (da Roma, col bando)”, oppure “(davanti) al tuo figlio da te rimproverato”. S’è scelta la seconda. (194) Diana è la dea protettrice della castità virginale. Il suo tempio a Roma era stato eretto da Servio Tullio sull’Aventino. Secondo Plutarco, è Valeria che spinge Volumnia e Virginia a recarsi da Coriolano. (195) Indica Valeria. (196) Così nel testo: “thy wife and children’s blood”; una evidente distrazione dell’Autore indotta dal fatto che in Plutarco (“Vita di Coriolano”) i figli di Coriolano sono due, laddove Shakespeare ha assegnato all’eroe solo il piccolo Marcio. (197) Testo: “... will be dogged with curses”: “... sarà inseguito da una canea di maledizioni”. Si è creduto di ampliare, nella traduzione, la bella immagine venatoria. (198) Plutarco, unica fonte di Shakespeare per questo suo dramma, narra che, tornate a Roma, la madre e la moglie di Coriolano, insieme a Valeria furono salutate in Senato come salvatrici della patria e vennero loro offerti dallo stesso Senato onori e ricompense, che esse rifiutarono, solo chiedendo che fosse eretto un tempio alla “Fortuna muliebris”, sulla Via Latina. (199) Sparatorie, al tempo di Coriolano, evidentemente, non ce n’erano, e Menenio non poteva pensare a un siffatto termine di paragone. È un altro dei frequenti anacronismi del poeta. (200) Alcuni di questi strumenti - come la sambuca e il salterio - non esistevano al tempo di Coriolano: è un altro degli scusabili e, per certi versi, suggestivi, anacronismi di Shakespeare. (201) Plutarco (“Vita di Coriolano”, XXXIX) pone questa scena e tutti gli eventi che seguono, fino alla morte di Coriolano, ad Anzio, dove l’eroe è tornato con l’esercito volsco. L’ubicazione della scena a Corioli sembra tuttavia giustificata dalle parole del 1° Congiurato: “Your native town you entered” (v. 50), e da quelle dello stesso Aufidio al v. 151: “Though this city he hath widowed...”. (202) Il testo ha “una pace onorevole per Anzio”; ma vedi, in proposito, la nota 201. (203) “Pages”: il termine sta ad indicare, spesso in senso spregiativo, qualsiasi persona, di sesso maschile, addetta a mansioni umili e subordinate; nel gergo militare le “ramazze” sono gli uomini addetti alle pulizie delle caserme. (204) “... thou has made my heart / too great for what contains it...”; letteralm.: “... m’hai fatto diventare il cuore troppo grosso per quello che lo contiene...”

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