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Monday, April 11, 2022

GRICE E CONTI: LA SEMIOTICA DI CICERONE

 LE TEORIE DEL SEGNO NElL'ANTICilÀ ClASSICA Nel suo libro Semiotica e filosofia de/linguaggio (1984), Umberto Eco osservava come la semiotica, proprio nel mo­ mento storico in cui esce dalla marginalità, affermandosi come disciplina e vedendosi riconosciuto addirittura il ruolo di scienza paradigma, proprio in questo volgere di seco­ lo, appunto, diventa anche il referente ultimo di una serie di dichiarazioni che proclamano la morte del segno o, almeno, la sua crisi. Situazione non nuova, osserva Eco: la storia del pensiero occidentale è anche leggibile come storia di una cancellazione e rimozione, quella della semiotica come scienza, al di là dei (e nonostante i) numerosi preannunci, progetti, ipotesi di una teoria dei segni che, a più riprese, hanno percorso la riflessione teorica degli ultimi duemila­ cinquecento anni. La proposta d i Eco è quella di pensare a un progetto attuale di semiotica che trovi giustificazione proprio nello spazio che intercorre tra le attuali negazioni e le reali presenze del passato. Ciò significa che la semiotica deve percorrere a ritroso il cammino della storia e divenire archeologia del sapere segnico: diverrebbe così possibile su­ perare i crampi linguistici che sono alla base delle attuali de­ finizioni del segno (che ne criticano il formato come troppo angusto o troppo ampio, che comunque non ne ritrovano il modello quando escono dai sistemi verbali). Il presente lavoro costituisce un tentativo di accogliere il suggerimento di Eco e si propone di indagare le pratiche se­ miotiche delle origini e la riflessione teorica sul segno, che sono state elaborate dal mondo antico e che ci sono state consegnate dalla tradizione letteraria, filosofica, medica, storiografica, retorica. Si propone cioè di ritrovare le tracce di un filo rosso che percorre il mondo antico, dalle origini fino almeno al IV se­ colo d.C. e che porta alla costituzione di una nozione di se­ gno abbastanza diversa da quella proposta dalle teorie del Novecento. La maggior parte, infatti, delle dottrine del segno che so­ no state elaborate in questo secolo - sia in ambito linguisti­ co, a partire dal Cours saussuriano, sia in ambito più gene­ ralmente semiologico - si fondano su due presupposti, che risultano del tutto assenti nella riflessione classica su questo soggetto: l. il modello di segno, sul quale l'intera indagine semiologica viene articolata, è quello del segno linguistico; 2. il tipo di rapporto postulato come instaurantesi tra le due facce del segno è quello dell'equivalenza (p=q). Da que­ st'ultima assunzione dipende il fatto che la nozione di signi­ ficato più diffusa fino a qualche anno fa nelle teorie seman­ tiche fosse quella che lo vedeva come sinonimia o come de­ finizione essenziale. A partire, infatti, dallo strutturalismo hjelmsleviano, fino ad arrivare alle teorie di semantica com­ ponenziale e interpretativa di impostazione generativista, il singolo termine linguistico - o se si preferisce, la forma del­ l'espressione di un segno- è sentito come equivalente a una serie di figure del contenuto, o marche semantiche, espresse a loro volta metalinguisticamente da altrettante forme lin­ guistiche (ad esempio luomol ="essere animato" + "uma­ no" + "maschio" + "adulto"). Una indagine sul modo in cui nasce e si articola nell'anti­ chità classica la riflessione sul segno ci permette di scoprire che, rispetto al primo punto, in origine, non solo non si ha omologazione dei vari tipi di segno sotto la specie di quello linguistico, ma che, anzi, le due teorie (quella semantica del linguaggio e quella del segno non linguistico) procedono in maniera parallela, senza interconnettersi. Ne è un esempio chiaro il fatto che Aristotele adoperi il termine symbolon per indicare il segno linguistico e le espressioni s�mefon o tekm�rion per indicare quello non linguistico. La saldatura avverrà molto più tardi, in Agostino, ma, in questo caso, sarà l'espressione linguistica a essere sussunta sotto la categoria più generale e già costituita del segno non linguistico. Per quello che riguarda il secondo punto, le pratiche se­ gniche che la tradizione ci ha tramandato e le teorie classi­ che prevedono un funzionamento del segno non secondo lo schema deli'equivalenza, bensì secondo quello deli'implica­ zione (p:Jq); per citare un esempio celebre, che percorre l'intera tradizione antica da Aristotele a Quintiliano, pas­ sando per gli stoici, un caso paradigmatico di segno è: "Se una donna ha latte, allora ha partorito". A questo punto è già possibile un confronto. Il modello antico, implicaziona­ le, appare non solo molto più interessante rispetto a quello equazionale, ma certamente molto più, per così dire, attua­ le: infatti è in corso nella ricerca contemporanea una revi­ sione di paradigma, che tenta di superare le semantiche co­ siddette "a dizionario" (che funzionano secondo il modello dell'equivalenza) per passare alla proposta di semantiche "istruzionali" (che funzionano secondo il modello dell'im­ plicazione). Tuttavia, l'interesse di un lavoro di ricostruzione delle teorie semiotiche dell'antichità non è limitato soltanto al re­ perimento di materiale sommerso, finalizzato, magari, alla costituzione di un quadro da mettere in confronto con quel­ lo attuale. C'è un interesse intrinseco anche nell'osservare come i campi nozionali, e la terminologia associata a essi si siano venuti distinguendo lentamente e abbiamo preso for­ ma a partire da situazioni di usi linguistici originariamente molto più magmatici. Anche in questo caso bisogna citare Aristotele come il primo che impone dei confini netti a ter­ mini e concetti, che sono stati usati sino alla fine del V seco­ lo a.C. e oltre (a esempio nei testi del Corpus Hippocrati­ cum) con una oscillazione semantica considerevole. Prima della categorizzazione aristotelica, espressioni quali semefon, aitia, prophasis, tekm�rion, eikos, non solo costituivano un campo di termini imparentati, ma anche di termini che ammettevano una parziale sovrapposizione e in­ tercambiabilità (Lioyd 1979: tr. it. 199, n. 1 57). Ugualmen­ te, il riferimento culturale di certe espressioni era stato, pri-ma di Aristotele, eterogeneo e diverso: s�mafno, a esempio, come ci mostra il frammento 93 (Diels-Kranz) di Eraclito era il verbo che indicava la rivelazione oscura del dio di Del­ fi; tekmairomai, poi, denotava in generale il procedere at­ traverso un ragionamento congetturale, ma nei tragici e nei lirici veniva usato in riferimento alla pratica dell'interpreta­ zione divinatoria; s�mefon, infine (o la sua variante omerica séma), era il termine più complesso di tutti, indicando, fin dalle origini, una molteplicità di cose, dall'indizio al segno di riconoscimento, al prodigio divino, fino a essere usato come termine generale per il segno divinatorio (Bloch 1963: tr. it. 19; Benveniste 1969: tr. it. 477). È innanzitutto alla divinazione, all'astronomia e, tramite queste, all'arte della navigazione, che la problematica del segno viene in origine connessa. Come testimonianza di tale connessione, si può ricordare la cosmogonia di Alcmane in cui all'origine del mondo compare la dea marina Teti, accompagnata da tre perso­ naggi divini: da una parte P6ros (''la via") e Tékmor ("il se­ gnale", "il punto di riferimento"); dall'altra Sk6tos ("l'o­ scurità"). Come sottolineano Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant ( 1974: tr. it . 1 12), Tékmor svolge un ruolo fonda­ mentale: "Nell'oscurità [sk6tos] del cielo e delle acque in origine confuse, egli introduce vie [p6roll differenziate, che rendono visibili sulla volta celeste e sul mare le varie dire­ zioni dello spazio, orientando una distesa prima sprovvista di ogni tracciato, di ogni punto di riferimento, aporon kai atékmarton". I naviganti devono congetturare (tekmafre­ sthal), sulla distesa indifferenziata del mare, la loro rotta e gli dei e gli indovini la fanno loro intravedere, fissando in anticipo percorsi e punti di riferimento. In questo modo i naviganti gettano un ponte tra il visibile e l'invisibile. Con Aristotele, i termini del vocabolario semiotico, che avevano mantenuto fino ad allora il riferimento alla sfera del sacro (e che continueranno a essere usati in tal senso fuori dagli ambienti filosofici e razionalistici), vengono pie­ gati a un uso esclusivamente profano (Lanza 1979: 107). Tuttavia, se si perde il carattere sacro delle origini, qual­ che traccia rimane ed è leggibile in trasparenza, se è vero che Aristotele, nella sua delimitazione dei campi concettua­ li, riserva l'espressione s�meion al segno che non dà certez­ za e che può risultare ingannevole (mentre riserva l'espres­ sione tekm�rion al segno sicuro): qui, quello che era stato il segno ambiguo della rivelazione divina, diviene il segno am­ biguo del modello conoscitivo razionalistico. Se il paradigma semiotico affonda le sue radici nelle pra­ tiche "non scientifiche" della divinazione e della medicina magica (la "iatromantica"), tuttavia lentamente depura, nel corso dei secoli, queste origini da tutto ciò che in esse c'era di irrazionale e di non controllabile (anche se sempre, al di fuori delle teorizzazioni della filosofia, rimarranno usi magmatici e irrazionali di questo paradigma, come dimo­ strano, a esempio, le opere di Artemidoro di Daldis o di Elio Aristide sui segni onirici). Se si tiene presente quest'ottica, non è più sorprendente osservare che la forma proposizionale e implicazionale che gli stoici danno al segno ("Se c'è cicatrice, c'è stata piaga") si ritrova identica nelle tavolette divinatorie mesopotamiche a partire dal III millennio a.C. Anche gli antichi babilonesi esprimevano il segno attra­ verso un periodo ipotetico, formato da una protasi, intro­ dotta dalla congiunzione summa (equivalente alla ei greca, che introduce il condizionale stoico), e da una apodosi: es­ se, rispettivamente, traducono in proposizioni linguistiche il segno e la sua interpretazione ("Se il polmone è rossastro a destra e sinistra - vi sarà un incendio,) (Bottero 1974). In ambiente greco, una saldatura tra segno divinatorio e forma logica deli'implicazione la si trova testimoniata in uno dei dialoghi delfici di Plutarco, L 'E di Delfi. In que­ st'opera, alcuni prestigiosi personaggi discutono sul signifi­ cato di un oggetto, avente la forma di E, che si trova tra i doni votivi del tempio di Delfi. Tra essi, Teone propone un'interpretazione della E ricorrendo al nome che nella lin­ gua antica questa lettera riceveva, e cioè ei. Teone assimila poi questo nome alla congiunzione ipotetica ei (''se") e mo­ stra che tale c­ongiunzione svolge nella dialettica un ruolo essenziale, in quanto serve a esprimere il rapporto logico per eccellenza, quello che si ha nei condizionali del tipo "Se è giorno, c'è luce" (esempio, questo, che era tra i più classi­ ci della logica semiotica stoica). Teone sottolinea, infine, che il dio di Delfi, Apollo, è un dio "molto amante della dialettica", tanto è vero che i vaticini presuppongono la for­ ma del condizionale, p--: q, che è la forma stessa che assu­ mono i fenomeni dell'universo (e qui il richiamo è alla teo­ ria stoica della "simpatia universale"). Certo, quello che risulta dal testo di Plutarco (scritto pro­ babilmente all'inizio del II secolo d.C.) è al massimo che la teoria stoica del fato e della divinazione si fondava su base logica (il destino consisteva in una serie interconnessa di condizionali). Ma se l'ipotesi da porre fosse quella esatta­ mente contraria? Se, cioè, lo strumento così asettico e ra­ zionale della logica traesse in realtà le sue origini dall'ambi­ to divinatorio? Come dimostra la sua stretta connessione con i segni e la divinazione presso gli stoici (Goldschmidt 1953: 80; Verbeke 1978: 402). Un enorme cammino è tuttavia stato compiuto dai testi divinatori babilonesi alla logica stoica: la forma proposizio­ nale rimane la stessa, ma nel caso degli stoici è stata depura­ ta non solo di ogni carattere sacrale, ma anche di ogni ele­ mento contenutistico . È lì solo per il calcolo proposiziona­ le. Nel caso degli antichi mesopotamici, invece, il contenuto della protasi permetteva di inferire il contenuto dell'apodo­ si mediante più o meno complicati processi di analogia e giochi tropici (il "rossore" del polmone permetteva di infe­ rire "incendio" per un tratto semantico comune). Infine una disamina sulla riflessione semiotica antica per­ mette di scoprire come il dibattito sui segni, sulla loro natu­ ra e sulla loro classificazione si sia attestato a livelli sor­ prendentemente alti, come è il caso della discussione sui condizionali in seno alla stessa scuola stoica (tra Diodoro, Filone e Crisippo) o della disputa tra stoici ed epicurei sul rapporto tra antecedente e conseguente nei segni (di cui puntualmente ci informa il De signis di Filodemo). La discussione di carattere semiotico, insomma, si riferi­ sce sempre a (o si identifica decisamente con) il quadro più generale o più fondamentale del problema della cono­ scenza. Sarà poi nel mondo romano che queste problematiche di ordine conoscitivo generale verranno piegate alle esigenze più pragmatiche della conoscenza giudiziaria: il problema dei segni si identificherà con quello delle metodiche per as­ segnare un maggiore o minor valore di prova agli indizi pre­ sentati in un procedimento processuale. La semiotica verrà messa al servizio dell'arte del detective, in ciò prefigurando uno degli aspetti più singolari deIl'interesse contemporaneo nei confronti dei paradigmi indiziari (Eco e Sebeok 1983). Sarà, infine, con Agostino (nel IV secolo d.C.) che la teo­ ria del segno fornirà un paradigma anche per la teoria del linguaggio, permettendo di unificare in un'unica categoria anche i segni verbali. Ringraziamenti Desidero ringraziare i molti amici che hanno letto e di­ scusso con me parti di questo lavoro. Tra coloro che mi hanno offerto preziosi suggerimenti critici vorrei ricordare Mario Bernardini , Silvana Borutti , Giuliana Crevatin, Pao­ lo Fabbri, Paola Manuli, Costantino Marmo, Andrea Ta­ barroni, Mario Vegetti, Patrizia Violi. Per molte delle idee e per l'impostazione generale del libro sono debitore a Um­ berto Eco, che ha seguito e incoraggiato il lavoro fin dai suoi inizi. Un ringraziamento particolare va a Amedeo G. Conte, che ha rivisto una precedente versione del mano­ scritto, e dal quale ho ricevuto una infinità di preziosi con­ sigli. Quanto agli errori e alle imprecisioni, ne assumo inve­ ce totale responsabilità. Dedico il libro ai miei studenti. LA DIVINAZIONE MESOPOTAMICA 1.0 La divinazione e la cultura mesopotamica C'è un campo specifico in relazione al quale tutte le cul­ ture antiche riconoscevano l'eccellenza e il magistero dei popoli mesopotamici: quello della divinazione. Non ci si può nascondere tuttavia, a questo proposito, che l'atteggiamento sviluppato dalla cultura moderna nei confronti delle pratiche che rientrano in questo campo è fortemente svalutativo: esse, infatti, rappresentano un pa­ radigma che si pone esattamente agli antipodi di quello che normalmente è assunto come il paradigma scientifico. Ma ci sono almeno due ragioni che ci inducono a guardare alla divinazione mesopotamica come a qualcosa che merita più di un interesse puramente occasionale o erudito. In primo luogo, infatti, è necessario ripensare, come sug­ gerisce Carlo Ginzburg (1979), ai rapporti tra paradigma "divinatorio" e paradigma "scientifico" come a qualcosa di molto più complesso di quello che si assume di solito e che non comporta affatto una svalutazione del primo termine. Infatti, per Ginzburg, il paradigma divinatorio (definito an­ che, a seconda dei contesti in cui si manifesta, come "indi­ ziario", "semeiotico", "venatorio"), costituisce un modello di sapere specifico, caratterizzato dali'aspetto qualitativo: e cioè basato sulla conoscenza dell'individuale, attraverso l'uso della congettura. Ciò gli permette di giungere a risul­ tati notevoli, in tutte quelle aree del sapere che lo utilizzano privilegiatamente (al di là della mantica, sicuramente, an-che la medicina, la filologia e cosi via, su su fino alla detec­ tion, la connoisseurship, la psicoanalisi), anche se per que­ sto deve pagare il prezzo di una ineliminabile dose di aleato­ rietà. Si tratta, in realtà, di un sapere del tipo che Peirce (1980; 1984) avrebbe definito "abduttivo", in contrapposi­ zione al modello del sapere quantitativo che fa uso della de­ duzione come metodo di ragionamento. In secondo luogo bisogna ricordare che in Mesopotamia la divinazione subisce un lungo processo evolutivo che dalla fondamentale e primaria tendenza a inferire le cause dagli effetti (procedimento tipico dell'abduzione) la porterà ad accentuare sempre di più i tratti generalizzanti e aprioristici, in modo da gettare le basi per una vera e propria scientifici­ tà di tipo astratto (Bottero 1974: tr. it. 211). Ciò che risulta di maggiore interesse, dal punto di vista della ricostruzione storica di una disciplina semiotica, è che al centro del pensiero divinatorio si pone proprio il segno in una accezione non banale. Quest'ultimo, infatti, costituisce anzitutto uno schema di ragionamento inferenziale, che permette di trarre alcune conclusioni a partire da certi dati. È interessante notare come il segno divenga centrale nel­ l'universo cognitivo mesopotamico, in quanto, partendo dal campo della divinazione, si estenderà in seguito anche alel altre pratiche culturali e discipline, come la medicina e la giurisprudenza, e arriverà ad articolare, unificandola sot­ to il suo modello, la totalità del sapere. Si raggiungerà dun­ que, in Mesopotamia, un punto in cui il sapere, a livello molecolare, funzionerà secondo lo schema, unificato e for­ male, del segno divinatorio, anche se contenuti di volta in volta differenziati verranno utilizzati per dargli corpo. Pos­ siamo già accennare (anche se vi torneremo su in seguito con maggiore ampiezza di dettagli) alal forma assunta nella cultura mesopotamica dal modello segnico: quella di un pe­ riodo ipotetico in cui una certa conclusione è data nella apodosi, come derivante direttamente dallo stato di cose presentate nella protasi: in cui, in altre parole, la protasi è "segno" deli'apodosi. Un modello segnico di questo tipo ("Se p, allora q") è molto vicino a quello tramandatoci dalla cultura greca nella fase della sua maggiore maturità semiotica: in particolare funziona secondo lo schema implicativo il modello di segno elaborato dalla scuola stoica. Ma qui, una volta rilevata l'affinità, devono subito essere messe in luce le differenze: nel segno della divinazione mesopotamica sono in genere gli elementi materiali (o contenutistici) che permettono il pas­ saggio dalla protasi all'apodosi; in quello della semiotica stoica, invece, le inferenze sono rese possibili unicamente grazie agli elementi formali. A ogni modo, nonostante queste profonde divergenze e al di là del problema, che pure si pone, degli eventuali debiti specifici della cultura greca nei confronti di quella mesopo­ tamica a questo proposito,1 è interessante verificare la pre­ senza dello stesso schema segnico p -:J q che attraversa due civiltà (quella greca e quella mesopotamica) e due ambiti culturali (la divinazione e la filosofia) per altri versi tanto distanti tra loro. 1. 1 Divinazione e scrittura Il fatto che quella mesopotamica sia essenzialmente una civiltà della scrittura costituisce senz'altro uno dei presup­ posti per capire il tipo di divinazione sviluppatosi in Meso­ potamia e le ragioni della sua ampia diffusione: è la scrittu­ ra, infatti, che in Mesopotamia fornisce la forma e il mo­ dello per tutta una serie di attività intellettuali, prima fra tutte quella deli'interpretazione dei segni inviati dagli dei. La lettura dell'avvenire e la conoscenza del nascosto non avvengono qui per diretta ispirazione divina, ma seguono lo stesso procedimento messo in atto neli'interpretazione dei segni della scrittura. 'l E proprio in relazione alla grande importanza assunta dalla scrittura nella cultura mesopotamica che il modello ri­ sultato egemone è quello della divinazione tecnica (Bouché­ Leclercq 1 879-82 : vol . l, 1 11 e 274), quello cioè basato sulla interpretazione di segni che si realizzano esternamente al­ l'uomo e che richiedono l'intervento esplicativo degli spe­ cialisti. Per comprendere il ruolo che la coppia scritturaloralità gioca negli orientamenti divinatori è sufficiente mettere in relazione la civiltà mesopotamica con quella greca. Que­ st'ultima, come noto, è una cultura essenzialmente orale, dove la scrittura si sviluppa in un periodo relativamente re­ cente e non costituisce un fenomeno autonomo rispetto al parlato, bensì, essenzialmente, una sua riproduzione in ca­ ratteri fonetici. In stretta connessione con il carattere orale della cultura, in Grecia risulta egemone proprio il modello della divina­ zione ispirata, in cui il dio parla ali'uomo attraverso un profeta, avvertito come suo portavoce, secondo il celebre esempio della divinazione oracolare della Pizia a Delfi. E non è poi un caso che la società greca non abbia favorito, come avviene invece in Mesopotamia, la nascita e la presen­ za stabile di una classe sacerdotale preposta ali'interpreta­ zione specialistica sia dei segni della scrittura sia di quelli della divinazione. Al contrario, nella cultura mesopotamica la scrittura, per un verso, è un fenomeno piuttosto antico, per l'altro è un dispositivo dotato di meccanismi in larga misura autonomi rispetto al parlato. Le prime attestazioni della scrittura cuneiforme, infatti, si hanno tra la fine del IV millennio e l'inizio del III.2 Nella sua forma primitiva la scrittura è pittografica, in quanto fatta di segni che intendono designare ciò che raffigurano: a esempio la rappresentazione di una testa di bovino, trac­ ciata nei suoi contorni, ma perfettamente identificabile, in­ dicava in prima istanza "il bue"; ma, per una sorta di am­ pliamento semantico del segno, esso indicava anche "la vac­ ca" e "il bestiame grosso". Ugualmente il disegno schemati­ co di un piede aveva anche il significato di "stare in piedi" e quindi quello di "immobile", di "camminare", di "parti­ re", fino ad arrivare addirittura a quello di "portare via''. Come si vede l'abbinamento tra significanti e significati non si presenta né univoco né banale: esso infatti comporta un lavoro interpretativo piuttosto complesso per controlla­ re i processi di ampliamento o di slittamento dei significati per uno stesso segno. Processi che si complicavano attraverso nuove associa­ zioni derivanti dalla giustapposizione di segni diversi: il se­ gno del pane messo accanto a quello della bocca dà il pro­ dotto semantico "mangiare"; quello dell'acqua accanto a quello deli'occhio significa "lacrime"; se invece è messo ac­ canto a quello del cielo significa "pioggia". Più curioso an­ cora è il caso del segno della montagna che, giustapposto al segno indicante la donna, produce il senso "la schiava", in quanto le montagne delimitavano a est e a nord la regione, e una donna portata da un paese situato oltre la montagna era una straniera destinata a tale condizione. Ci sono dunque complicati meccanismi enciclopedici che governano l'interpretazione. Ma si può osservare anche che, nella sua forma più anti­ ca, quella cuneiforme è una scrittura di cose (Bottero 1974: tr. it. 168), in quanto non ha bisogno di passare attraverso il linguaggio verbale per designare gli oggetti della realtà. La sua autonomia rispetto alla realizzazione verbale è tota­ le, tanto è vero che i segni possono essere compresi da per­ sone che parlano lingue diverse e, del resto, sono pronun­ ciati in modo diverso in ciascuna di queste lingue come av­ viene, a esempio, per i numeri arabi nel mondo moderno. I Mesopotamici si dimostrarono molto legati a questa "scrit­ tura di cose" e non l'abbandonarono neppure quando ven­ nero fatti notevoli passi avanti verso il fonetismo con l'in­ venzione della scrittura sillabica. In effetti, circa un secolo dopo la sua prima scoperta, i segni della scrittura pittografica avevano cominciato a subi­ re un processo di scollegamento dalle "cose" che designava­ no, per essere collegati più direttamente alle "parole" con cui il linguaggio verbale designava i medesimi oggetti. Il ca­ rattere monosillabico di molte parole e l'alta percentuale di omonimi, avevano favorito questo processo. Un esempio interessante del fenomeno, che è anche il più antico, è quel- lo del segno della fr H 1--- , che viene a in- dicare non più solo "la freccia" ma anche "la vita": la me­ diazione è stata dali'omonimia tra le parole designanti i due concetti, pronunciate entrambe ltil nella lingua sumerica.3 Possiamo così schematizzare il processo: pronuncia l ti l l"" significato ..freccia· ..vita• l �::rafico HH H'V� A questo punto per arrivare a un alfabeto sillabico per­ fetto sarebbe stato sufficiente eliminare tutti gli ideogram­ mi indicanti parole per lasciare soltanto i segni di sillabe, sorta di unità minime infinitamente reimpiegabili. Invece i Mesopotamici lasciarono sopravvivere, accanto ai segni presi nel loro valore fonetico (indicanti una sillaba), i segni presi nel loro precedente valore pittografico. Ci sono almeno due importanti conseguenze che derivano da questa organizzazione della scrittura, per la divinazione. Anzitutto, come abbiamo visto da alcuni esempi, la scrit­ tura pittografica ha la caratteristica essenziale di tessere una rete sottile e complessa di rapporti tra le cose: abitua la mente a vedere nelle cose relazioni segrete e legami inso­ spettati. Essa suggerisce, altresi, un'attitudine mentale che porta a guardare anche alle cose del mondo reale come in­ nescanti un analogo processo semiosico: non solo, quindi, l'abbinamento pittografico del segno della montagna e di quello della donna indicheranno "schiava", ma anche lo stesso abbinamento osservato nella realtà, oppure in un so­ gno, porterà a trarre una inferenza analoga. È proprio un meccanismo inferenziale di questo tipo che si pone alla base della divinazione. La seconda conseguenza è connessa con il carattere spe­ cialistico delle conoscenze richieste per l'interpretazione della scrittura: i caratteri cuneiformi non sono accessibili a tutti, dato il sistema di cifrazione cosi complesso. Si crea al­ lora una sorta di aristocrazia di esperti capaci di interpretare i segni della scrittura. Allo stesso titolo si crea, per l'in­ terpretazione dei segni mandati dagli dei, la casta degli in­ dovini baro, i quali hanno come emblema della loro corpo­ razione proprio la tavoletta e il calamo. 1.2 La scrittura degli dei Come sottolinea Jeannie Carlier (1978: 1227), in Meso­ potamia "parlare di una scrittura degli dei non è una meta­ fora". Infatti quella cultura proietta nel campo teologico lo stesso modello di organizzazione che vede operante nel campo della burocrazia statale. Come ii re diffonde il suo potere dal centro alla periferia attraverso una capillare e sviluppatissima rete amministrativa che trasmette i suoi or­ dini scritti indirizzati ai sudditi, così gli dei si servono della scrittura per far conoscere agli uomini i destini che hanno fissato per ciascuno di loro; solo che "l'unica tavoletta a lo­ ro misura è l'universo intero" (ibidem). Sama� e Adad, gli dei della divinazione, sono per un ver­ so come il sovrano che notifica la sua volontà ai sudditi per mezzo di messaggi scritti; per un altro sono come il giudice che, dopo aver preso una decisione, la ratifica sulla tavolet­ ta per darle validità e pubblicità. Il mondo, dunque, in questa concezione, è una immensa tavoletta, costituito da oggetti che sono il supporto materia­ le dei presagi da cui verranno ricavati gli oracoli, come vie­ ne testimoniato, tra l'altro, anche da un inno di Assurbani­ pal a Sama5: "Tu scruti alla luce (del) tuo (sguardo) la terra intera come (altrettanti) segni cuneiformi". Del resto i Babilonesi parlavano della disposizione degli astri come "scrittura del cielo" che veniva "letta" dagli astrologi. E d'altra parte non era raro il caso in cui un pre­ sagio consistesse letteralmente in un segno di scrittura trac­ ciato nelle pieghe del fegato di un animale o sulla fronte di un uomo. 1.3 Una semiologia "ante litteram" Una volta messo in luce il carattere di profonda affinità tra il sistema della scrittura cuneiforme e la divinazione concepita come scrittura degli dei, passiamo a esaminare la struttura interna del segno divinatorio. È possibile farsene un'idea abbastanza precisa attraverso i numerosi trattati di­ vinatori che ci sono pervenuti. Questi ultimi consistevano in lunghissimi elenchi di proposizioni complesse, ciascuna composta da una protasi e da un'apodosi. La protasi è in­ trodotta dall'espressione summa (equivalente alla congiun­ zione "se") e ha il verbo al presente o al passato: essa costi­ tuisce il "presagio", cioè il segno ominoso che deve essere interpretato; l'apodosi ha il verbo di solito al futuro e costi­ tuisce !'"oracolo", ciò che viene indicato o svelato dall'in­ terpretazione del segno. Vediamo alcuni esempi che, pur in relazione a differenti tecniche divinatorie, presentano tutti la stessa struttura:4 Astrologia Se nel giorno della sua scomparsa, la Luna si attarda nel cielo (invece di scomparire d'un tratto)- vi sarà siccità-e-�arestia nel paese. Fisiognomonia Se un uomo ha il pelo delle spalle ricciuto - le donne lo ame­ ranno. Oniromanzia Se un uomo sogna che gli consegnano un sigillo - avrà un fi­ glio. Lecanomanzia Se, dal centro dell'olio (gettato sull'acqua), si staccano due "ponti", uno maggiore dell'aJtro - la sposa dell'interessato met­ terà aJ mondo un figlio maschio; quanto aJ malato, guarirà. Estispicina Se il polmone è rosso-vivo a destra e a sinistra - vi sarà un in­ cend io.  1.4 PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 17 Libanomanzia Se, quando versi (la sostanza aromatica) sulla brace, il fumo si sprigiona (solamente) verso destra, e non verso sinistra - avrai la meglio sul tuo avversario. Se si sprigiona (solamente) verso sinistra e non verso destra - il tuo avversario avrà la meglio su di te. Questi esempi permettono già di fare due osservazioni a proposito del meccanismo semiotico in essi instaurato. In primo luogo la struttura del segno è espressa in termini di rapporti tra proposizioni e non tra singole unità lessicali o tra un significante e un significato in senso saussuriano. Questo fa sì che i segni non verbali e gli eventi acquisiscano subito un'importanza predominante, in quanto trovano ap­ punto nella proposizione il modo migliore di essere espressi. In secondo luogo il rapporto che c'è, all'interno di cia­ scun segno, tra la protasi e l'apodosi è di tipo implicativo, intendendo però questo termine come designante un'infe­ renza ancora abbastanza generica: come vedremo, all'inter­ no della scuola stoica, invece, l'interesse si accentuerà pro­ prio sul tentativo di definire il nesso implicativo che caratte­ rizza il segno e a questo proposito si accenderanno diver­ genze che alimenteranno una lunga e complessa discus­ sione . 1.4 n passaggio dalla protasi all'apodosi Messi di fronte ali'enorme massa delle proposizioni divi­ natorie documentate dai trattati mesopotamici può sembra­ re che regni la più completa casualità nel movimento che re­ gola il passaggio delle protasi-presagio alle relative apodo­ si-oracolo. A ben guardare, però, è possibile rintracciare al­ cune linee generali che consentono di mettere un po' d'ordi­ ne in un coacervo altrimenti amorfo e di cogliere alcuni principi di regolazione. Sono rintracciabili in realtà tre casi teorici di passaggio non casuale dalla prima alla seconda proposizione:  18 l. LA DMNAZIONE MESOPOTAM1CA l. Il primo tipo di passaggio è connesso al principio del co­ siddetto empirismo divinatorio: protasi e apodosi regi­ strano eventi che si sono verificati effettivamente secon­ do una concomitanza temporale. Questo genere di mec­ canismo si trova nei cosiddetti "oracoli storici", caratte­ rizzati dal fatto di avere l'apodosi al passato, anziché al futuro; essi riproducono verisimilmente la forma del tipo originario di divinazione. 2. 3. Il secondo tipo di passaggio non arbitrario è connesso alla possibilità di un gioco di associazioni tra elementi della protasi ed elementi dell'apodosi: naturalmente sono possibili i due casi, tanto del gioco fonetico sui signifi­ canti, quanto di quello tropico sui significati. Il terzo tipo di passaggio tra le due proposizioni è con­ nesso alla presenza di codici che prevedono una serie esauriente e completamente specificabile di casi. In realtà, nella fase più recente della storia della divina­ zione mesopotamica, i trattati subiscono un'evoluzione nel­ la direzione della sistematicità e dell'astrazione. Il sistema astratto e, in un certo senso, totalmente deduttivo prende il sopravvento anche sulla verisimiglianza stessa dei presagi. La furia classificatoria dei Mesopotamici guarda più ali'e­ saurimento di tutti i casi astrattamente possibili che non al­ la loro concreta possibilità di verifica. Avviene così che l'abbinamento di un'apodosi con una certa protasi dipenda dallo schema astratto e, dunque, divenga prevedibile. 1.4. 1 Gli "oracoli storici" e l'empirismo divinato­ rio Sommersi, e quasi fossilizzati, nell'insieme delle decine di migliaia di oracoli che i trattati mesopotamici ci hanno con­ servato, gli oracoli "storici" costituiscono un numero non grande, ma significativo. Essi possono essere attribuiti, in base all'analisi interna, all'epoca delle origini, anche se compaiono in trattati più recenti.   1 . 4 PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 19 Essi presentano infatti quattro caratteristiche specifiche: l. hanno tutti la tipica apodosi al passato; 2. gli argomenti di cui trattano fanno riferimento ad avvenimenti storici che, nel caso in cui possano essere confrontati con altre fonti, risultano degni di fede; 3. i fatti e i personaggi che in essi sono menzionati sono collocabili, nella maggior parte dei casi, nell'epoca di Accad (ca. 2340-2160 a.C.); 4. fanno, quasi tutti, iniziare l'apodosi con la formula amat "(è il) presagio di", formula che è assolutamente inusuale negli al­ tri oracoli. Vediamone alcuni esempi: Se (nel Fegato) la Porta del Palazzo è doppia, se vi sono tre Ro­ gnoni e a destra della Vescichetta-biliare sono scavate (pa/Iu) due perforazioni (pilsu) ben nette - (è il) presagio degli abitanti di Apgal, che Naram-Sin (ca. 2260-23) per mezzo di scavi (pii­ fu) fece prigionieri. Se, a destra del Fegato, si trovano due Diti - (è il) presagio del­ l 'Epoca-dei-Competitori. In entrambi questi casi l'apodosi fa riferimento a fatti e personaggi storici reali deli'epoca di Accad. Si può ipotizza­ re che gli oracoli così formulati non siano stati molto di­ stanti cronologicamente dali'epoca dei fatti storici di cui parlano le apodosi. Anzi, il punto fondamentale è proprio che tali oracoli avrebbero registrato delle coincidenze "significative", a po­ steriori, tra un particolare stato di cose considerato ornino­ so e un evento della storia: tali coincidenze avrebbero as­ sunto in seguito valore di paradigma. A persuaderei di questa ipotesi, che risponde appunto al principio dell'empirismo divinatorio (Bouché-Leclercq 1879-82: vol. l, 298; Bottero 1974: tr. it. 161), c'è il fatto che spesso i Fegati di Mari contengono una formula che mostra come il gioco delle coincidenze si sia potuto stabi­ lire: Quando il mio paese si è rivoltato contro lbbi-Sin (2027-2003), questo (=il Fegato) si trovava così disposto.  20 l. LA DIVINAZIONE MESOPOTAMlCA Il plastico di Mari riproduce la forma assunta dal fegato reale esaminato durante un rito di estispicina: esso registra la coincidenza tra questa forma, assunta come ominosa, e un evento storico di importanza determinante, cioè la rivol­ ta contro l'ultimo re del periodo neosumerico, lbbi-S'ìn. L'ipotesi dell"'empirismo divinatorio" si spinge anche ol­ tre, ipotizzando che alla base stessa della scoperta della di­ vinazione si porrebbe la scoperta delle coincidenze tra la se­ rie di presagi e quella degli oracoli; ipotesi che può essere avvalorata dal fatto che tutti gli "oracoli storici" possono essere cronologicamente situati nel periodo delle origini del­ la divinazione mesopotamica. Nella istituzione stessa della pratica divinatoria si sarebbe vicini, così, a una forma del principio del post hoc, ergo propter hoc, per cui qualsiasi evento che fuoriesce in qual­ che maniera dal corso "normale" e che è seguìto da un altro evento, considerato a sua volta eccezionale, finirebbe per costituire con quest'ultimo una coppia inscindibile. Il colle­ gamento tra i due eventi, una volta stabilito, diventerebbe irresolubile; e il secondo evento, se non propriamente cau­ sato dal primo, risulterebbe almeno annunciato da quello. Ciò che di fatto viene qui elaborato è il metodo semiotico dell'inferenza delle cause dagli effetti, che è tipica dell'ab­ duzione. È vero che in questo caso si arriva a conclusioni che ci appaiono assurde, a causa di un errore fondamentale nell'applicazione del metodo: infatti quello che viene preso come risultato (o effetto) (una certa ben definita disposizio­ ne del fegato) che si presume essere il caso di una certa re­ gola (o causa) (rivoltarsi contro lbbi-Sin), in realtà non è affatto tale. Ma questo ha poca importanza: formalmente siamo di fronte a un'abduzione. Un tale principio è applicato costantemente. Non c'è nes­ sun interesse della divinazione a rivolgersi al passato: se le apodosi degli oracoli storici lo fanno è appunto perché la fi­ losofia che sta dietro a questo tipo di oracoli è che la storia può ripetersi. Nell'abduzione, infatti, una volta che sia sta­ ta inferita la regola che spiega un certo risultato, è possibile tenere a disposizione tale regola per successive applicazioni deduttive.  1 .4 PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 21 1.4.2 Oracoli con gioco associativo tra protasi e apodosi La seconda possibilità di un legame non casuale tra pro­ tasi e apodosi dipende dalla presenza di rapporti associativi tra elementi contenuti nella prima ed elementi contenuti nella seconda proposizione. È operante qui in maniera evidente il modello della scrit­ tura cuneiforme. Abbiamo infatti visto che essa tende a creare o suggerire una rete di relazioni tra cose non diretta­ mente in contatto. Sappiamo come l'interpretazione di un segno della scrittura cuneiforme apra la strada a una catena di veri e propri interpretanti: la rappresentazione ideografi­ ca dell'orecchio, a esempio, non solo significa "ascoltare", ma anche "obbedire", "apprendere'', "il sapere", "l'intelli­ genza". Ugualmente possono entrare in corto circuito se­ mantico due ideogrammi omografi o che differiscano per pochi tratti del significante. Cosi abbiamo due tipi di gioco associativo : l . quello sui significati; 2. quello sui significanti. 1 .4.2. 1 Il gioco sui significati Il rapporto che si instaura tra protasi e apodosi nel caso di un gioco associativo sui significati è quello che si ha tra un "cifrato" tropico, e una sorta di "chiaro" al grado zero. Vediamo alcuni esempi: Se il 29 del mese di Aiiar (aprile-maggio) si verifica un'eclisse di sole - il re morirà, duramente punito da Sama�; mortalità gene­ rale. Se un parto-anormale è doppio, con due teste, l'una saldata al­ l'altra, e otto zampe, ma una sola colonna-vertebrale - il paese sarà precipitato nella confusione per effetto delle dispute inte­ stine . Se un cavallo cerca di accoppiarsi con un bue - riduzione del­ l'incremento del bestiame. Nel primo esempio )'"eclisse di sole" può essere conside­ rata una metafora rispetto alla "morte del re"; del resto la metafora deli'eclisse come segno della morte di un sovrano si catacresizzerà ed entrerà in una lunga tradizione mantica anche greco-romana. Nel secondo esempio compare pure una metafora complessa: infatti la protasi parla del corpo di un unico animale (''una sola colonna-vertebrale"), che però ha organi doppi ("due teste", "otto zampe"); viene al­ lora istituito un parallelo con l'organismo statale (''il pae­ se"), unico, ma dilaniato e reso doppio dalle "dispute inte­ stine". Il terzo esempio presenta un caso di accoppiamento tra due animali di specie diverse, destinato dunque alla infe­ condità, il quale simbolizza una "riduzione dell'incremento del bestiame": la protasi ha la funzione (dal punto di vista della produzione segnica) deli 'esempio (Eco 1 975 : 296; Eco 1984: 47), che vale per l'intera classe. In generale, questi esempi mostrano come la logica che regola il rapporto tra protasi e apodosi è dell'ordine del simbolico. Naturalmente molto spesso la relazione tra il ci­ frato tropico e il chiaro ci sfugge, perché il linguaggio figu­ rato è dipendente dal contesto culturale: è verosimile che in molti casi operino associazioni che per la distanza spazio­ temporale tra le culture non possiamo più avvertire. 1 .4.2.2 Il gioco sui significanti Vediamo ora alcuni esempi di oracoli in cui nella protasi ci sono elementi che differiscono per pochi tratti del signifi­ cante da elementi correlati nell'apodosi: Se piove (zunnu iznun) nel giorno (della festa) del dio della città - quest'ultimo sarà adirato (zenl) contro di essa. Se la Vescichetta biliare è rientrante (na!Jsat) è inquietante (na!Jdat). - Se la Vescichetta biliare è presa dentro (kussti) il grasso - farà freddo (kU$$U).  1 .4 PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 23 Se il Diaframma è aderente (emid) - aiuto (imid) divino. La somiglianza tra i significanti fa sì che un fatto, indica­ to da una parola con un certo suono, sia considerato segno di un altro fatto, indicato da una parola con suono affine. 1 .4.3 I codici sistematici Il terzo tipo di abbinamento non casuale tra protasi e apodosi è quello legato alla presenza di codici sistematici. Come dicevamo, è possibile registrare nella divinazione mesopotamica un'evoluzione diacronica per cui, dall'epoca delle origini al periodo più recente, il modo di porre il rap­ porto tra protasi e apodosi si modifica nel senso dell'astra­ zione. Il culmine di tale processo porterà alla creazione di codici che prevedono una casistica generale ed esaustiva: in questo caso verrà totalmente abbandonato il principio del­ l'empirismo divinatorio per far spazio a una logica in un certo modo deduttiva, che fa dipendere dalla configurazio­ ne generale del codice l'inferenza del singolo caso. Infatti, a partire dal secondo quarto del II millennio, la documentazione storica non ci presenta più oracoli singoli, ma registra la presenza di un centinaio di "trattati", cioè di raccolte sistematiche e spesso molto dettagliate, di segni di­ vinatori.s La sistemazione in trattati, questo nuovo aspetto della di­ vinazione nel II millennio, ha come tratto saliente quello di risultare funzionale al raggruppamento di diversi segni ora­ colari in relazione a un unico oggetto, considerato ornino­ so. Quest'ultimo veniva scomposto nell'intera gamma delle sue parti o variazioni, ciascuna delle quali veniva a essere il tema di una singola protasi. Si registra, in effetti, una mi­ nuziosa opera di pertinentizzazione del reale: se un oggetto risulta esteso e divisibile, per ognuno dei singoli aspetti identificati, viene costruita una coppia presagio-oracolo. Ecco come, a esempio, in un trattato di estispicina, una sin­ gola porzione del fegato, la cosiddetta "Porta del Palazzo", viene esaminata:  24 l. LA DIVINAZIONE MESOPOTAMJCA Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a destra, si trova una fessura - . . . Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a destra, una fessura è segnata per il lungo - . . . Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a sinistra, si trova una fessura - . . . Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a sinistra, una fessura è segnata per il lungo - Se, nel bel mezzo della Porta del Palazoz , si trova una fessura - ...  Come si può vedere, tutte queste protasi risultano co­ struite su un principio strutturale di opposizioni binarie tra Ila Soglia! e Iii bel mezzo! della Porta del Palazzo, tra jde­ stral e jsinistral , tra j fessuraj e l fessura segnata per il lungoj . È dunque proprio il sistema, inteso in un senso strutturali­ stico ante litteram, a prendere il sopravvento . Non vengono registrati più solo i casi che sono stati effettivamente osser­ vati, ma tutti i casi virtualmente possibili, in relazione a un sistema basato su opposizioni e regole astratte. Questo fatto diviene particolarmente evidente quando in­ contriamo in un trattato delle protasi che prendono in con­ siderazione fino a sette Vescichette biliari per uno stesso fe­ gato: la logica del sistema (basata in questo caso sulla rego­ la: n --+ n + l) prevale non solo sulla realtà, ma perfino sulla verisimiglianza. Una cosa analo�a avviene quando, all'ini­ zio del trattato di teratomanzia Summa izbu, vengono pre­ viste, per un neonato perfettamente umano, circa quaranta possibilità di aspetto mostruoso: tra esse, che il neonato as­ somigli a un cavallo, a un leone, a un cane, a un maiale, a un bue, a un asino, oppure a una mano, a un piede e, addi­ rittura, a un corno di capra o a un mattone. Sotto la spinta della sistematizzazione, la divinazione cambia radicalmente: tutto l'impegno non è più dedicato al­ la ricerca di eventi ominosi, ma alla costruzione degli s-co­ dici (Eco 1975; 1984: 266) delle sequenze di protasi; a parti-   1.5 ESPLICITAZIONE DELLE REGOLE DI CODIFICA 25 re da queste sequenze verrà costruito il codice vero e pro­ prio di abbinamento con le serie di apodosi. In questo sen­ so, anche se non formulate, varranno regole generali del ti­ po: "ogni volta che trovi il numero x nella protasi, assegna la caratteristica y all'apodosi"; cosi, a esempio, se l'indovi­ no incontra in un evento-protasi il numero sette, che il siste­ ma abbina costantemente, poniamo, alle caratteristiche del­ la "perfezione" e della "totalità", può dare come oracolo "vi sarà Pimpero". Sono del resto molte le regole di codifica non espresse, ma costanti, come a esempio quella per cui tutto ciò che è a destra è connesso con un auspicio favorevole, mentre tutto ciò che è a sinistra, esprime un augurio contrario. Oppure quella per cui è possibile "cambiare di segno", come in alge­ bra, alla predizione in base al contesto: a esempio, un pre­ sagio di per sé sfavorevole, se messo in rapporto con la sini­ stra, diventa favorevole, o viceversa. In questo senso l'apodosi diviene deducibile dalla prata­ si, in quanto basta osservare le caratteristiche sistematiche che in essa sono contenute per inferirla: è il trattato che for­ nisce in realtà la regola (anche senza esplicitarla): di fronte a un nuovo caso sarà facile per l'indovino trovare il risulta­ to applicando la regola. 1.5 L'esplicitazione delle regole di codifica Se nei trattati del II millennio si assiste al superamento della fase empirica a favore di una ristrutturazione della di­ vinazione su base sistematica e deduttiva, tuttavia, le regole della deduzione, per quanto largamente operanti, rimango­ no implicite. Nei trattati del I millennio si assiste a un'ulteriore evolu­ zione della divinazione, che porta ali'esplicitazione delle re­ gole stesse della codifica. Ciò è testimoniato dal grande trattato di aruspicina del I millennio, che aveva un capitolo in cui erano formulati i va­ lori essenziali di certe caratteristiche espresse dalle protasi. Il testo era disposto non più su due, ma su tre colonne. La  26 l. LA DIVINAZIONE MESOPOTAMICA prima riguardava il presagio, o meglio la caratteristica che appariva ominosa nell'oggetto preso come segno. Di solito si trattava di una qualità, espressa o da un aggettivo ("gros­ so") o da un sostantivo astratto ("lunghezza") oppure, an­ cora, da un verbo all'infinito ("essere piegato verso il bas­ so"). Nella seconda colonna veniva registrato il valore fon­ damentale dell'oracolo, come a esempio "gloria", "poten­ za", "vittoria". La terza colonna, infine, proponeva una esemplificazione con un oracolo completo, tale che nella protasi comparisse la qualità registrata dalla prima colonna e neli'apodosi il valore risultante nella seconda colonna. Ec­ cone un esempio: Lunghezza Riuscita Se la Stazione è abbastanza lun­ ga da arrivare fino alla Strada il principe riuscirà nella campa­ gna che avrà intrapreso. È evidente qui l'ulteriore progresso compiuto nella dire­ zione dell'astrazione: abbiamo infatti la vera e propria pre­ sentazione della chiave del deciframento dei segni. Le leggi deli'esegesi sono messe in chiaro. Presentare il trattato sulle tre colonne equivale proprio a mettere in luce le leggi di cifratura. Ciò che vi è di arbitrario nell'abbina­ mento tra protasi e apodosi viene dichiarato fornendo i due termini della corrispondenza. Questo processo di astrazione non si arresterà qui, ma procederà fino alla completa riduzione dei valori alla dico­ tomia fondamentale: favorevole/sfavorevole. All'estrema complessità e particolarizzazione degli oraco­ li più antichi si contrapporrà l'estrema semplificazione di una logica binaria che prevede solo il sì o il no.  2. LA DIVINAZIONE GRECA 2.0 Divinazione e conoscenza Il campo delle pratiche divinatorie costituisce il primo ambito sufficientemente omogeneo in cui nella Grecia anti­ ca si parla di segni. Il termine semefon, che si incontra qui per la prima volta, è un nome di genere, che indica un segno divinatorio di tipo qualsiasi e comprende anche il responso oracolare, costituito in realtà da un testo verbale.1 Accanto a esso, come sue specificazioni relative ad ambiti particolari della divinazione (o, potremmo dire, a particola­ ri manifestazioni di sostanza dell'espressione), si trovano vari altri termini; tra essi oion6s che indica etimologicamen­ te il segno dato dal volo degli uccelli; phasma, che si riferi­ sce inizialmente ai presagi che si possono trarre dai fenome­ ni atmosferici, ma che si estende in seguito alle visioni in ge­ nere; téras, che costituisce l'equivalente deli 'espressione la­ tina prodigium e sta a indicare qualsiasi fenomeno o avve­ nimento insolito, e in qualche maniera mostruoso, che pos­ sa essere preso come base per una interpretazione divinato­ ria (Bioch 1963: tr. it. 19; Benveniste 1969: tr. it. 477). In tutti questi casi, qualcosa sta per qualcos'altro, o meglio è assunto come base per un procedimento di inferenza. Nonostante che in Grecia la divinazione come pratica ef­ fettiva abbia avuto un'importanza abbastanza marginale,2 tuttavia il segno divinatorio ha dato origine a una tradizio­ ne, letteraria e filosofica, che lo insedia nel punto di origine mitico del processo di conoscenza.  28 2. LA DIVINAZIONE GRECA Innanzitutto, infatti, l'indovino (mtintis), colui che è ca­ pace di interpretare il segno proveniente dagli dei, è preci­ puamente un sapiente, e il tipo di sapienza di cui il mantis è portatore non si identifica con un'accezione limitativa del termine, come la conoscenza di una tecnica. Al contrario, la sua è piuttosto una sapienza di ordine generale e sicura­ mente superiore a qualsiasi tipo di conoscenza umana, co­ me suggerisce anche l'etimologia del termine mantis, che è collegato alla radice •men, con cui viene indicato un movi­ mento di accrescimento e di potenziamento dell'animo (Crahay 1974: tr. it. 220). In Omero, per la prima volta, incontriamo l'espressione che identifica la divinazione con la conoscenza "delle cose che sono, di quelle che saranno e di quelle che sono state in passato": Calcante, figlio di Testore, di gran lunga il migliore tra gli scru­ tatori di uccelli l che conosceva ciò che è e ciò che sarà e ciò che è stato prima (hòs �id� ta t 'e6nta ta t 'ess6mena pr6 t 'e6nta) , l e aveva guidato verso Ilio le navi degli Achei l con la sua arte di­ vinatoria, che Febo Apollo gli aveva concesso. (Il., I, 69-72)3 Il passo omerico mette in risalto il carattere generale e to­ tale della conoscenza rappresentata dalla divinazione; è una conoscenza che trova un paragone solo con quella, molto più tarda, di ordine filosofico: l'espressione tà eonta ("le cose che sono"), che nel passo indica l'oggetto di conoscen­ za dell'indovino Calcante, rimarrà immutato nella tradizio­ ne filosofica, in Eraclito, Empedocle, Platone, Aristotele, come termine tecnico per indicare appunto gli oggetti della conoscenza filosofica in generale. In secondo luogo, il segno, che è lo strumento attraverso cui si attiva tale conoscenza, non proviene dalla sfera del­ l'umano, ma da quella più alta e numinosa del divino; esso è lo strumento di mediazione tra la conoscenza totale che ha il dio e quella limitata dell'uomo. Il segno è altresì, nella prospettiva aperta da Colli (1977: 379; 1975: 40), il luogo dell'irruzione della sapienza divina nella sfera dell'umano.  2.0 DIVINAZIONE E CONOSCENZA 29 Ma il dio parla un linguaggio che non è quello dell'uomo. La parola del responso oracolare, a esempio, è umana solo come suono, ma non produce alcun significato se le viene applicato il codice del linguaggio verbale degli uomini. C'è dunque una difformità nell'espressione dei contenuti della conoscenza che separa l'uomo dal dio; ma c'è anche una più radicale differenza nelle modalità stesse della conoscen­ za. Il dio padroneggia il tempo attraverso la "vista" simul­ tanea e del passato, e del presente, e del futuro: la sua anni­ scienza deriva appunto dal fatto di possedere una visione panoptica. Infatti Apollo, secondo l'espressione usata da Pindaro (Pyth., III, 29), possiede "l'occhiata che conosce ogni cosa". L'uomo, al contrario, può vedere solo il suo presente, mentre gli sono irrimediabilmente sottratte le altre dimen­ sioni del tempo. Solo il dio può permettergliene l'accesso; ma la visione deve essere tradotta in parole, in quanto l'uo­ mo accede alla conoscenza solo attraverso l'udito. Per il poeta, a esempio, la memoria del passato è garantita dal racconto che traduce la visione panoptica delle Muse (Horn., Il., Il, 484-486). Allo stesso titolo l'indovino è colui che rivela all'uomo il futuro traducendo in parole la "visio­ ne" che il dio gli comunica; ma proprio in questa traduzio­ ne il messaggio perde di perspicuità (Lanza 1979: 99-l00; Detienne 1967: tr. it. 1). Per questi motivi il segno divinatorio è enigmatico, oscu­ ro e per lo più incomprensibile. Per decifrarlo c'è bisogno di un interprete, qualcuno che sia diverso dal soggetto nel quale si è compiuto il processo di comunicazione e di tra­ sformazione della conoscenza. Platone individua due distinte figure, rispettivamente "l'uomo mantico" (colui che riceve la visione) e il "profeta" (colui che interpreta le parole pronunciate dal primo duran­ te l'estasi). Il celebre passo del Timeo, che propone tale di­ stinzione, in sé costituisce un piccolo trattato teorico della divinazione quale se la rappresentavano i Greci, e presenta con grande perspicuità la tradizione del segno divinatorio come segno non direttamente decodificabile:   2. LA DIVINAZIONE GRECA Vi è un segno sufficiente che il dio ha dato la divinazione alla dissennatezza umana: difatti nessuno che sia padrone dei suoi pensieri raggiunge una divinazione ispirata dal dio e veridica. Occorre piuttosto che la forza della sua intelligenza sia impedi­ ta dal sonno o dalla malattia, oppure che egli l'abbia deviata es­ sendo posseduto da un dio. Ma appartiene all'uomo assennato il ricordare le cose dette (tà rh�thénta) nel sogno o nella veglia dalla natura divinatrice ed entusiastica, il riflettere su di esse, il discernere con il ragionamento tutte le visioni (tà phasmata) al­ lora contemplate, il vedere onde quelle cose ricevano un signifi­ cato e a chi indichino (s�malnel) un male o un bene futuro o passato o presente. A chi invece è esaltato e persiste in questo stato non spetta giudicare le apparizioni e le parole da lui dette. Questa è una buona e vecchia massima: soltanto a chi è assen­ nato conviene fare e conoscere ciò che lo riguarda, e conoscere se stesso. Di qui deriva la legge di erigere il genere dei profeti a interprete delle divinazioni ispirate dal dio. Questi profeti, alcu­ ni li chiamano divinatori, ignorando del tutto che essi sono in­ terpreti delle parole pronunziate mediante enigmi e di quelle immagini, ma per nulla divinatori. La cosa più giusta è di chia­ marli profeti, cioè interpreti di ciò che è stato divinato. (Plat., Tim., 7le-72a) Al centro concettuale del passo si pone il verbo s�mafno, che indica appunto la rivelazione del dio; quest'ultimo si presenta come il vero enunciatore, attraverso l'uomo ispira­ to, del testo divinatorio. Il soggetto grammaticale di s�mal­ no è costituito dai due termini che indicano le due forme di segno divinatorio, cioè "le cose dette" e "le visioni contem­ plate", ma il responsabile della produzione di questi segni è "la natura divinatrice ed entusiastica", cioè il dio stesso che fa irruzione nell'uomo tramite l'invasamento (come indica anche l'etimologia del secondo termine, collegata a theos). L'uomo non è che un canale di trasmissione o un portavo­ ce. E perché il significato arrivi fino al destinatario c'è biso­ gno di un complesso procedimento di interpretazione. Cosi se prendiamo il verbo semalno come un predicato associato a un certo numero di ruoli (o casi logici) e lo mettiamo in relazione a un processo di comunicazione e a uno di inter­ pretazione, possiamo leggere il passo platonico secondo il seguente schema (molto semplificato in alcune sue parti): 30  soggeno •te cose dette'" "le visioni contemplate'" il dio l'uomo invasato significato - destinatario "'un male o un bene futuro o passato o presente'" trice ed entusia- stica· 2.0 DIVINAZIONE E CONOSCENZA 3 1  ��---�-------------�- - - - - - - - - - - - ,  '"la natura divina- l l'uomo  processo di interpretazione del segno , effe"uato da personaggi con un sapere specializzato, a favore del destinatario "'i profeti'"   Il verbo s�mafno, dunque, non ha il banale senso di "si­ gnificare", nel senso deli'instaurazione di un rapporto tra un piano dell'espressione e un piano del contenuto all'inter­ no di un segno. Esso sembra piuttosto riferirsi al processo di comunicazione stesso che il dio attiva nei confronti del­ l'uomo: in altre parole, nel passo platonico, il verbo sembra riferirsi alla situazione per cui il dio "indica attraverso segni (enigmatici)" all'uomo qualcosa, che a quest'ultimo è sco­ nosciuto . A confermare l'uso del verbo s�mafno con questo senso nei contesti divinatori si trova una lunga tradizione che risa­ le almeno a Eraclito, al noto frammento 93 dell'edizione Diels-Kranz (tr. it. 1974). È stato Romeo (1976) che, in una lucida e complessa analisi del frammento, ha messo in evi­ denza questo significato del verbo s�mafno, arrivando alla traduzione: (sorgente) (strumento) s�mafnei (oggetto) (scopo) enunciatore- segno -- canale --  l! 2. I.A DIVINAZIONE GRECA Il ··•Hno• c du: ha l'oracolo in Delfi, né dischiude, né nasconde il ,•.un pnJ.•,ac•o, rna lo indicaattraversosegni(s�malner)4 rourro una lunga tradizione che rendeva la forma verbale sl'nuJinei con "significa" o con altre espressioni che avevano l'cffcllo di rendere contraddittorio o incomprensibile l'inte­ ro frammento. Si viene qui a profilare un'opposizione tra due tipi di lin­ guaggio, che hanno caratteristiche antitetiche. Da una parte c'è il linguaggio umano, caratterizzato dalla trasparenza e dall'immediata decifrabilità (e possiamo fare l'ipotesi che proprio questo tipo di linguaggio sia circoscritto da entram­ bi i termini della coppia oppositiva "dischiudo [/égO]"/"na­ scondo [krfptO]": l'uomo o svela completamente il suo pen­ siero, usando il linguaggio, oppure lo nasconde del tutto, non esternandolo in parole). Dall'altra parte c'è un diverso tipo di linguaggio, quello attribuito direttamente al dio nel frammento di Eraclito (e indirettamente nel passo platoni­ co), che è indicato dal verbo semafno e che ha le caratteristi­ che opposte dell'oscurità e della non immediata decodifica­ bilità. Il dio non concede all'uomo una rivelazione comple­ ta, né gli nega totalmente la conoscenza: gli fornisce piutto­ sto, attraverso il segno oracolare, una base di inferenza sul­ la quale l'uomo dovrà lavorare per giungere a una conclu­ sione, senza però dargli alcuna garanzia sulla via da seguire con il ragionamento. Ci sono due spiegazioni al fatto che la cultura letteraria e filosofica greca si sia rappresentata il segno divinatorio co­ me oscuro e ambiguo. La prima è quella che abbiamo visto inquadrarsi nell'otti­ ca di Colli, secondo cui il segno divinatorio può essere con­ siderato come "l'impronta del divino" nell'uomo, indizio di un punto di contatto (quello attraverso cui la conoscenza divina si comunica all'uomo), e contemporaneamente di un punto di fuga.s La seconda spiegazione è quella messa in luce da Vernant (1974: tr. it. 20-21), ed è inerente al tipo di razionalità speci­ fica messa in gioco dalla divinazione, come pratica effetti­ va, oltre che come teoria. Essa si connette al diverso ruolo  2.0 DIVINAZIONE E CONOSCENZA 33 che gioca il destino rispettivamente nella sfera divina e in quella umana. Infatti, a livello dell'esistenza umana, il de­ stino è concepibile come una successione lineare di avveni­ menti (rappresentato metaforicamente dal filo delle Par­ che), i quali si connettono tra loro apparentemente senza che possa essere attribuito loro un senso globale. Questa successione acquisisce un significato solo quando è arrivata al suo termine, quando cioè il destino "si compie". È solo a questo punto che esso diventa intelligibile e permette di spiegare, alla luce degli ulteriori sviluppi, anche gli avveni­ menti passati ai quali non si era saputo dare un senso. Fino a quel momento, tuttavia, l'uomo rimane in una fondamen­ tale ignoranza: anzi, è proprio questa ignoranza a caratte­ rizzare l'esistenza umana. A livello degli dei, al contrario, il destino di ciascun uo­ mo è presente e intelligibile in ogni momento nella sua tota­ lità. Esso infatti è stabilito in maniera irrevocabile e iscritto nell'eternità già prima della nascita di ogni uomo. La divi­ nazione trova il suo spazio proprio in questo scarto di cono­ scenza che si apre tra gli uomini e gli dei: l'oracolo (e in ulti­ ma analisi anche ogni altro tipo di segno divinatorio) si sup­ pone che riveli all'uomo, quando è ancora in vita, proprio il significato segreto del suo destino, mentre questo sarebbe accessibile, dal punto di vista umano, solo dopo la morte. Tuttavia, se la divinazione compisse la sua funzione pro­ fetica sino in fondo, se cioè abolisse totalmente lo scarto di conoscenza che esiste tra l'uomo e la divinità, risulterebbe con ciò cancellata anche la differenza che distingue l'uomo dal dio. Per questa ragione il dio non svela il destino più di quanto lo nasconda in effetti, secondo la formulazione di Eraclito. L'oracolo lo lascia intravedere, ma nello stesso tempo lo dissimula; lo dà a indovinare attraverso un segno oscuro ed enigmatico che per i consultanti non è più intelli­ gibile di quanto lo siano gli avvenimenti per i quali si sono rivolti all'oracolo. Così, la logica della divinazione fa in modo che con l'ambiguità del segno venga reintrodotta, a livello umano, quella "opacità" circa il destino che l'anni­ scienza divinatoria avrebbe il compito di attenuare, se non di eliminare del tutto.  14 2. LA DIVINAZIONE GRECA 2. 1 llue tipi di divinazione 2 . 1 . 1 La divinazione naturale Il passo platonico del Timeo, come pure il frammento di Eraclito, fanno riferimento a un tipo di divinazione che vie­ ne di solito definita "ispirata": essa rientra all'interno della categoria generale della mantik� atechnos, della divinazione cioè che non richiede un apparato di mezzi tecnici per la sua messa in opera e per questo, talvolta, riceve anche il nome di "divinazione naturale" (Cic. , De divinatione). Il carattere specifico di questo tipo di divinazione è quel­ lo per cui il sapere del dio non passa attraverso mezzi di ma­ nifestazione esterni all'uomo: l'ispirazione divina raggiunge direttamente l'individuo attraverso i sogni (cioè un testo iconico) o si comunica a un profeta-portavoce che emette un responso (normalmente un testo verbale). Per usare l'e­ spressione di Romeo (1976: 84), si tratta di un tipo di divi­ nazione "endosemiotica". Secondo questo modello funzionava il più noto e presti­ gioso oracolo della Grecia antica, quello di Delfi6 in cui la Pizia, la sacerdotessa di Apollo, emetteva un responso co­ stituito da un testo verbale. Ma, come abbiamo visto, per quanto esso fosse formulato nei termini del linguaggio na­ turale, il suo senso non era decodificabile mediante la sem­ plice applicazione delle regole del codice linguistico a livello denotativo. Più avanti vedremo alcuni esempi di decodifica aberrante di responsi, fraintesi proprio per la pedissequa applicazione di questo codice senza far ricorso a regole più complesse (come quelle di tipo retorico-tropico). 2. 1 .2 La divinazione artificiale Il secondo tipo di divinazione è la mantik� technik�, defi­ nita, a seconda dei commentatori, come "congetturale", "induttiva", "deduttiva" o "artificiale". Era basata suli'a­ nalisi dei segni (visibili, acustici, sensibili) che si realizzava-no nell'ambiente esterno all'uomo e che potevano essere spontanei (come i fulmini o le eclissi) oppure provocati (co­ me il lancio dei dadi o l'estispicina).7 Questo secondo tipo di divinazione mette in gioco una lo­ gica particolare, basata sull'ipotesi che esistano rapporti di omologia e di corrispondenza tra il microcosmo, rappresen­ tato dal fenomeno preso come segno, e il macrocosmo, rap­ presentato dall'ordine generale dell'universo (J. Vernant 1948; J.-P. Vernant 1974). A questo proposito vengono isolate delle porzioni di spa­ zio - che possono essere, a esempio, le regioni del cielo per l'astrologia, come pure la superficie del fegato della vittima sacrificale per l'estispicina - che vengono caricate di valore simbolico e deputate a funzionare da specchio dell'ordine cosmico generale. Negli spazi così delimitati è possibile leg­ gere la configurazione futura degli eventi, sottratta a quella aleatorietà, a cui gli eventi reali sono invece sottoposti, e per sopprimere appunto la quale il consultante si rivolge al­ la divinazione. Si creano così due serie, quella delle configurazioni strut­ turali interne al testo segnico e quella degli eventi a cui tali configurazioni rimandano; tra le due si stabilisce un vero e proprio codice di corrispondenza, che permette di passare immediatamente dal segno al suo significato. Ne vediamo un esempio molto semplice nel seguente passo di Omero: Dico che un cenno ci dette il Cronide superbo l il giorno che sulle navi veloci in cammino salivano gli Argivi l a portare stra­ ge e morte ai Troiani l tuonando da destra, mostrando segni di buon augurio. (//., Il, 351-354) In questo caso la volta celeste viene costituita come spa­ zio significativo, come microcosmo in cui sia possibile leg­ gere i segni del destino. Questo spazio viene articolato in una struttura binaria che oppone due regioni, la destra e la sinistra: a ciascuna di esse viene abbinato un valore seman­ tico (ldestral--+"buon auspicio", !sinistra!-+"cattivo auspi­ cio"). Una più articolata configurazione del significato de-  36 2. LA DIVINAZIONE GRECA riva dalla circostanza di enunciazione, cioè dalla sua rela­ zione con la domanda esplicita (o implicita, come in questo caso) che l'interrogante pone alla divinità·. Nel passo omeri­ co la circostanza di enunciazione è la partenza della spedi­ zione per Troia, e la domanda implicita concerne la riuscita dell'impresa: dunque il tuono che proviene dalla regione de­ stra del cielo viene a significare "buona riuscita dell'impresa dei Greci contro Troia". Infatti, per quel che riguarda l'individuazione del signifi­ cato ultimo del segno, tutti i sistemi divinatori si basano su un equilibrio più o meno stabile tra le strutture formali del codice che permettono di cifrare in maniera completa l'av­ venimento prodigioso e insolito, e la molteplicità delle si­ tuazioni concrete a cui tale avvenimento-segno può riman­ dare nei contesti specifici. Nell'esempio omerico il codice è così semplice da essere diventato patrimonio comune, tanto che non si fa cenno della presenza di un indovino, per decifrare il segno. Di so­ lito non è così per la divinazione artificiale, il cui carattere "tecnico" risiedeva proprio nel fatto che per l'interpretazio­ ne dei segni era necessario fare ricorso alla conoscenza spe­ cializzata di personaggi depositari di un sapere che verte sulle regole di decodifica. L'indovino è infatti essenziale nel caso, appena più com­ plesso, riportato da Plutarco nella Vita di Dione (24). L'a­ neddoto riguarda la spedizione effettuata nel 357 a.C. da Diane contro Dionigi di Siracusa, durante la quale si verifi­ cò un'eclisse di luna. L'indovino Miltas, chiamato a inter­ pretare quel segno, dichiarò che esso annunciava che qual­ cosa che era stato splendente fino ad allora, si sarebbe oscu­ rato: non poteva, dunque, che trattarsi del regno tirannico di Dionigi, il quale era destinato a soccombere sotto l'attac­ co portatogli da Dione. Anche qui ci sono le due fasi: la prima determina il signi­ ficato degli abbinamenti del codice e la seconda quello deri­ vante dalla sua applicazione alla situazione concreta. Inol­ tre l'indovino Miltas si avvale di una tecnica più sofisticata, che fa ricorso anche alle trasformazioni retoriche: la rela­ zione tra il macrocosmo della luna che viene oscurata dal-  2. 1 DUE TIPI DI DIVINAZIONE 37 l'eclisse e il microcosmo del regno di Dionigi destinato a soccombere è mediata dall'elemento comune !splendore! con cui si designa in modo proprio una qualità della luna e in modo figurato una proprietà del regno di Dionigi. Esistevano poi codici notevolmente elaborati già al sem­ plice livello degli abbinamenti, come a esempio il codice dell'estispicina. In questa pratica venivano esaminate le vi­ scere degli animali, in particolare il fegato, del quale si os­ servavano l'aspetto e la posizione del lobo, della vescichetta e delle porte.8 Per quello che riguarda la cultura greca non abbiamo esempi del modo in cui venivano effettivamente realizzati gli abbinamenti tra gli elementi significanti e quel­ li a cui essi rinviavano. Tuttavia Luc Brisson (1974), in uno studio molto interessante e completo sulla divinazione in Platone, ha segnalato un passo del Timeo (71 a-d) in cui, nonostante non si parli direttamente di estispicina, si descri­ ve un fenomeno che con essa ha molti punti di contatto. Il passo illustra i processi che si determinan9 quando l'anima razionale, che ha sede nel cervello, lascia la sua impronta, "come in uno specchio", sul fegato che è la sede dell'anima appetitiva: questo permette di vedere riprodotte nel fegato (nei suoi aspetti via via diversificantisi) le impressioni la­ sciate dali'anima razionale. La specularità è, però, solo metaforica perché si verifica­ no in realtà dei processi di codificazione molto forte, che fanno pensare ai meccanismi della "comunicazione biochi­ mica" . In definitiva il fegato viene a costituire un testo segnico sul quale I 'anima appetitiva legge i contenuti intelligibili, di­ venuti sensibili attraverso un processo di codifica. Esso co­ stituisce altresì un microcosmo che rispecchia, anche se in modo molto particolare, l'assetto del macrocosmo costitui­ to dali'anima razionale. Si può presumere che i codici dell'estispicina funzionasse­ ro in un modo analogo a quello descritto per i processi di comunicazione "intrapsichica" illustrati dal Timeo. Tuttavia, proprio da Platone scaturisce una delle più reci­ se condanne che la Grecia classica abbia espresso nei con­ fronti della divinazione artificiale. Tale condanna si trova  38 2. LA DIVINAZIONE GRECA formulata nei due testi del Timeo (72 b) e del Fedro (244 c-d). Nel primo di questi, in particolare, è contenuta una condanna dell'epatoscopia: infatti Platone, che accetta la possibilità di leggere sul fegato molti segni quando questo è contenuto in un organismo vivente, sostiene che esso non può rivelare niente di sicuro agli uomini, quando è privato della vita e non è più sottoposto all'influsso luminoso del­ l'anima razionale. Più generale e radicale è la condanna della divinazione tecnica nel Fedro. In quel testo Platone fa l'elogio della fol­ lia, di cui considera la divinazione una specie, e separa la mantica ispirata ed entusiastica da tutte le altre forme di in­ vestigazione del futuro. In particolare la "mantica", nel senso ristretto, viene contrapposta alla "oionistica", cioè la divinazione mediante l'osservazione dei segni dati dal volo degli uccelli. La ragione della discriminazione è chiara: nella divina­ zione tecnica la ragione umana pretende di sostituirsi ali'i­ spirazione divina. Per indicare che in questo modo non si raggiunge che un grado molto pallido e incerto di conoscen­ za, Platone inventa addirittura una connessione etimologi­ ca tra "oionistica" e ol�sis (''opinione") ("L'investigazione del futuro [. . .] attraverso gli uccelli [. . .] fu chiamata 'oio­ noistica', che i moderni, rendendola solenne con un omega, dicono oionistica": Phaedr., 244 c). Nella divinazione ispi­ rata, invece, la conoscenza deriva all'uomo da una posses­ sione divina e questo è garan.zia di verità. Sembra profilarsi un'opposizione tra s�mafnein e tekmal­ resthai, il primo verbo indicando, come nel Timeo e in Era­ clito, il dono della conoscenza elargita dal dio, mentre il se­ condo indica la congettura puramente umana. Questa op­ posizione richiama il motto di Alcmeone: Delle cose invisibili e delle cose visibili gli dei hanno conoscenza certa; ma agli uomini tocca procedere per indizi (tekmafre­ sthal) . (Diels-Kranz, 24 b l) su cui avremo occasione di tornare.   2.2 DUE MODELLI DI DIVINAZIONE ORACOLARE 39 I passi platonici non esemplificano soltanto l'opinione del filosofo ateniese, ma si pongono altresì in linea con la scelta di fondo compiuta da tutta la civiltà greca nei con­ fronti della divinazione ispirata. Infatti, per quanto in Gre­ cia venissero praticate anche forme di divinazione tecnica, a esse è stata sempre riservata un'importanza secondaria, mentre l'attenzione si è concentrata soprattutto sulle forme della divinazione oracolare, che si esprimevano attraverso la parola. D'altra parte questo fenomeno deve essere messo in rela­ zione con il fatto che la civiltà greca è essenzialmente di tipo orale; in essa la scrittura è non soltanto un fenomeno recen­ te, ma del tutto dipendente dal parlato, che essa tende a ri­ produrre foneticamente. In altre civiltà, come quella meso­ potamica o quella cinese, la scrittura è molto più antica e funziona come un sistema autonomo rispetto alla lingua, presentando a suo modo, attraverso i segni grafici, quelle realtà che la lingua presenta in altra maniera: in queste ci­ viltà la scelta compiuta nei confronti del tipo di divinazione è opposta a quella greca. 2.2 Due modelli della divinazione oracolare Esistono tuttavia profonde differenze tra l'immagine che della divinazione oracolare propongono i testi letterari e il modo in cui essa veniva praticata effettivamente nei santua­ ri a essa adibiti. J.-P. Vernant (1974) parla di due distinti modelli. Nella Grecia dell'età classica, infatti, la divinazione come pratica effettiva ha una rilevanza marginale nel regime della polis. Infatti l'oracolo viene consultato non per ottenere una predizione sul destino, ma per prospettargli, in forma di alternativa, un certo corso di eventi che si ha intenzione di intraprendere e per domandargli se la via sia libera o pre­ clusa.9 Si instaura a questo proposito un vero e proprio dialogo tra il consultante e l'oracolo (Crahay 1974): quest'ultimo ri­ sponde innanzitutto alla domanda che è stata posta in for-  40 2. LA DIVlNAZIONE GRECA ma chiusa, predicendo al consultante se farà o non farà una determinata cosa. Il consultante pone poi all'oracolo una seconda domanda, in forma aperta, ma limitata a una con­ dizione rituale di successo: in sostanza, esso domanda al­ l'oracolo quali ostacoli debbono essere rimossi perché l'im­ presa prospettata giunga a buon fine. È interessante a que­ sto punto vedere come la formula usata di solito dall'oraco­ lo nell'emanare il consiglio di carattere rituale rispecchi quella che veniva usata per redigere le decisioni dell'assem­ blea sancite dal popolo. L'oracolo dice infatti loion kai ameinon éstai (''sarà più conveniente e preferibile"), pro­ prio come nei decreti deli'assemblea si usano formule che pongono l'accento sulla "preferenza" tra le opinioni, piut­ tosto che sull'intimatività della decisione. Ciò è indice del fatto che nella civiltà greca è il modello della discussione as­ sembleare che si proietta sulla divinazione, e non viceversa come avveniva nella civiltà mesopotamica. Ed è interessante che in questo modello di divinazione non si trovi alcuna traccia di risposta ambigua o oscura. Ambiguità e oscurità si trovano solo nel secondo model­ lo, quello "teorico,, della divinazione oracolare, presente in tutta la letteratura scritta, da Erodoto ai poeti tragici, ai fi­ losofi. Esso costituisce la rappresentazione che la cultura della città si dà della divinazione. Secondo·questo modello, l'oracolo viene consultato non per ottenere un consiglio, ma direttamente sul destino. Ciò determina la supposizione che l'oracolo sia onnisciente, in quanto deve conoscere sia lo sviluppo futuro degli eventi, sia, nel contempo, il passa­ to, in cui si situano le remote origini delle sorti attuali e fu­ ture deli'indi\iduo o del gruppo consultante. La logica a cui questo modello risponde non è più bina­ ria: l'oracolo deve qui impegnarsi a ridurre a una sola, spe­ cifica, opzione l'infinità dei possibili. Il responso oscuro e ambiguo reintroduce, del resto, l'in­ certezza che caratterizza la condizione umana che l'oracolo tende ad annullare. Così, nei racconti oracolari dei testi let­ terari, la profezia sembra sempre inadeguata rispetto al cor­ so preso dagli eventi. Il segno rimane oscuro fintantoché il "compiersi" della sorte si incarica di fare chiarezza e di de-  2.3 L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLARI 41 sambiguare, ormai troppo tardi, la polisemia del testo pro­ fetico. 2.3 Il problema interpretativo nei racconti oraco­ lari Naturalmente, per capire come la nozione di s�mefon si sia sedimentata nella cultura greca, per vedere quale sia il nucleo semantico con cui il termine indicante il segno è sta­ to consegnato alla tradizione filosofica, il riferimento ali'u­ so di s�mefon nei testi letterari è altrettanto importante quanto il suo significato nelle pratiche divinatorie effettive. Soprattutto nei testi di Erodoto e dei tragediografi è pos­ sibile vedere come costantemente venga tematizzato il pro­ blema interpretativo che il segno oracolare pone: l'oscurità del segno è in principio legata alla difficoltà, che diviene immancabilmente impossibilità, di risolvere tale problema. Si deve però dire che in primo luogo l'uomo è accecato dal­ la hjbris, e palesa la sua scarsa ricettività alla parola della profezia in vari modi: la dimentica, non ne segue le diretti­ ve, sbaglia la modalità di consultazione; alla fine, però, il suo errore fondamentale è quello di scegliere sempre il ter­ mine errato dell'alternativa posta dal segno ambiguo. Se la sua colpa è, dunque, un peccato di tracotanza, il suo errore è un errore di conoscenza, e ha un carattere squi­ sitamente semiotico. Ancora una volta compare l'opposizione "linguaggio umano"/"linguaggio divino": l'uomo infatti interpreta sempre la profezia secondo il proprio codice, non tentando mai di intendere la parola della rivelazione come cifrata in un altro linguaggio, quello appunto della divinità. In termini semiotici, in tutti i racconti sul tema della divi­ nazione oracolare, l'uomo interpreta invariabilmente il te­ sto in modo letterale, mentre questo dovrebbe ricevere una lettura secondo quello che potremmo definire modo enig­ matico.10 Infatti, l'idea fondamentale che i racconti oracolari sug­ geriscono è che esista sempre nella profezia un senso secon-  42 2. LA DIVINAZIONE GRECA do, che è nascosto e che costituisce il vero e unico significa­ to del segno: è la scoperta di questo secondo senso, scartan­ do il primo, che qui chiamiamo interpretazione secondo il modo enigmatico. Invece l'uomo coinvolto nell'interpreta­ zione, data la sua incapacità di attingere la sapienza divina, compie proprio il gesto contrario, scartando la possibilità di un senso non letterale. Vi sono tuttavia diverse forme dell'errore di interpreta­ zione. (i) La prima consiste nella incapacità di assegnare un senso al testo, o meglio, di adeguarlo a circostanze reali no­ te: non si trovano oggetti a cui le parole della profezia pos­ sano essere riferite e il testo appare totalmente assurdo. (ii) La seconda forma di errore consiste nel riferire la profezia a oggetti reali, ma erroneamente identificati; ve ne sono due sottospecie, a seconda che l'errore sia dovuto a una omoni­ mia o a un equivoco (e quest'ultimo è ulteriormente suddi­ visibile). Tutto ciò può essere illustrato mediante il seguente schema: Interpretazione � secondo il modo enigmatico ~l et t e r a l e n o n se n so sen~  so errato per omonlmia per equivoco errate scambio assunzioni di prospettiva di credenza  2.3 L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLAR.I 43 Vediamo ora alcuni racconti oracolari in cui sono esem­ plificate queste modalità di errore. L'incapacità di assegnare un senso al testo profetico si ha in vari racconti nei quali vengono utilizzati meccanismi re­ torici, tra cui alcuni di tipo metaforico. È naturale che, quando il veicolo metaforico viene interpretato "letteral­ mente", si ottenga una assurdità sul piano del senso, a me­ no che non si immagini un mondo possibile, diverso da quello reale, in cui i muli possano diventare re dei Medi e gli araldi siano dipinti di rosso. Il consultante, che prende in considerazione soltanto il mondo reale, si trova in difficoltà ad assegnare un senso e una denotazione a testi siffatti. Ma vediamo che cosa succede nel primo di questi racconti. È Erodoto a narrarci la storia degli abitanti deli'isola di Sifno, i quali, essendo giunti a un notevole grado di ricchez­ za con le loro miniere d'oro e d'argento, decisero di consul­ tare l'oracolo di Delfi per sapere se avrebbero potuto con­ servare a lungo la loro prosperità. La Pizia rispose: "Ma quando, a Sifno, il pritaneo sarà bianco e bianco il bordo della piazza pubblica, allora c'è bisogno di un uomo accor­ to per guardarsi dall'agguato di legno e dall'araldo rosso" (Herod., Hist. , III, 57). La storia continua narrando del­ l'arrivo di una nave dei Sami, della loro ambasceria per chiedere denaro e del saccheggio che questi ultimi fanno dell'isola dei Sifni. Erodoto sottolinea l'incapacità manifestata dai Sifni di dare un senso al testo ("l Sifni non furono capaci di com­ prendere l'oracolo"); per loro il testo, e in particolare, si presume, le espressioni "agguato di legno" e "araldo ros­ so", sono prive di senso, perché appunto essi si fermano a un livello letterale di interpretazione. In realtà il dio gioca con vari meccanismi tropici: innan­ zitutto con una doppia enallage1 1 (è il legno [ = nave] che anticamente è rosso, come spiega Erodoto, ed è l'araldo [ = gli ambasciatori] che organizza un agguato), complican­ do poi il testo con meccanismi metonimici (legno per nave, il singolare araldo per il plurale ambasciatori). Un secondo esempio di mancata comprensione si trova in un episodio di quel lungo e complesso "romanzo oracolare"  2 . LA DIVINAZIONE GRECA t·hc l·:rodotodedicaaCreso,quandoquest'ultimochiedeal­ l ' oracolo di Delfi se la sua monarchia sarebbe durata a lun­ �o . La Pizia risponde: "Quando un mulo sarà re dei Medi, allora, Lidio dai piedi delicati, fuggi lungo l'Ermo sassoso, non indugiare e non temere di essere vile" (Herod., Hist., l, 55). Anche in questo caso, l'interpretazione che viene data alla profezia sceglie il senso letterale: Creso ritiene, di con­ seguenza, impossibile che venga a verificarsi uno stato di cose che soddisfi alla descrizione della frase "un mulo sarà re dei Medi"; la conclusione che egli trae da questa impossi­ bilità è che sia altrettanto impossibile che il suo regno abbia una fine. Sarà poi il dio stesso a spiegare al re il suo gioco metafo­ rico, quando ormai i fatti si saranno compiuti e Creso sarà caduto sotto la dominazione dei Persiani . Il "mulo" è, in ef­ fetti, Ciro, e il passaggio è mediato dalla proprietà "sangue misto", che è condivisa sia dal termine metaforizzante sia dal termine metaforizzato: ·sangue misto• / Tanto maggiore è la cecità di Creso se si pensa che l'ele­ mento comune è doppiamente esemplificato in Ciro, in quanto figlio "di madre nobile e di padre di oscuro lignag­ gio" e "di madre meda e di padre persiano", come il testo di Erodoto non manca di sottolineare. Vale la pena di rilevare che l'interpretazione del senso fi­ gurato è un'operazione realmente più difficile di quello che si potrebbe immaginare, fatto che giustifica in qualche ma­ niera gli insuccessi dei consultanti. Essa è legata a cono­ scenze enciclopediche locali, oltre che ai meccanismi retori­ ci che su quelle conoscenze si applicano. Ciò è tanto più ve­ ro se si considera che è impossibile anche per il lettore mo­ derno fornire l'interpretazione del testo profetico quando il testo letterario non ci informa sulle relative porzioni di en-   ICirol lmulol  2.3 L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLARI 45 ciclopedia. Ciò avviene, a esempio, nel racconto oracolare di Arcesilao (Herod., Hist., IV, 163-164) in cui, accanto a scambi metaforici tra "anfore" e "uomini", tra "torri" e "forni" che vengono spiegati dal prosieguo della narrazio­ ne, compare l'espressione "il tuo più bel toro" che rimane inspiegata ed è anche per noi incomprensibile. Vediamo ora il caso in cui il testo appare interpretabile secondo un percorso di senso letterale, in cui cioè sia rin­ tracciabile un corso di eventi corrispondente a esso, senza però essere quello inteso dalla profezia. Consideriamo in particolare il caso in cui l'errore interpretativo sia dovuto a omonimia. Questo meccanismo, accompagnato dal costante frain­ tendimento, caratterizza l'intero romanzo oracolare di Cambise. Si tratta di una storia in cui i vari segni si collega­ no tra di loro in una catena di rimandi interni. Questa storia ha inizio con un sogno: Smerdi (fratello di Cambise) era già tornato in patria (la Persia) quando Cambise ebbe in sogno questa visione: gli parve che un messo, giunto dalla Persia, gli annunciasse che Smerdi, seduto sul trono regale, toccava con la testa il cielo. Temendo perciò che il fratello meditasse di ucciderlo per impadronirsi del regno, mandò in Persia Prexaspe, che gli era fedelissimo fra tutti i Per­ siani, a uccidere Smerdi. (Herod., Hist., III, 30) Dopo parecchi paragrafi, in cui la storia continua narran­ do le stravaganze e le crudeltà di Cambise, ci viene raccon­ tata la ribellione in Persia dei due fratelli Magi, uno dei quali, che si chiamava anch'esso Smerdi, era stato collocato sul trono. Quando Cambise viene a conoscenza di questo fatto, comprende il vero senso del sogno. Ma la storia non finisce qui: Dopo che ebbe pianto e si fu afflitto di tanta sciagura, Cambise balzò a cavallo per muovere al più presto verso Susa contro il Mago; ma, mentre saliva in arcione, gli cadde il puntate del fo­ dero della spada, che rimasta nuda lo ferì alla coscia. Colpito così nello stesso punto in cui aveva trafitto il dio egizio Api, il  2. LA DIVINAZIONE GRECA fl\ �iudicando mortale la sua ferita, domandò ancora come si chiarnassc la città dove si trovavano e gli risposero che si chia­ rnava Ecbatana. Ora, molto tempo addietro, a lui che l'aveva consultato, l'oracolo di Buto aveva risposto che sarebbe morto ad Ecbatana ed egli aveva interpretato che sarebbe morto, vec­ chio, ad Ecbatana di Media, dove aveva tutti i suoi beni, men­ tre l'oracolo aveva inteso di indicare Ecbatana di Siria. Pertan­ to Cambise, come ebbe saputo il nome della città, sotto il dupli­ ce colpo della rivolta del Mago e della ferita, rinsavì e, com­ prendendo finalmente il divino responso, esclamò: "Qui è desti­ no che muoia Cambise, figlio di Ciro". (Herod., Hist., III, 64) La rivolta del Mago e la ferita sono, più che avvenimenti, dei segni, in quanto permettono a Cambise di accedere alla conoscenza, di comprendere, finalmente senza più ambigui­ tà, l'oracolo, di non rimanere più prigioniero dei giochi di parole: la rivolta che gli fa capire la differenza tra Smerdi suo fratello e Smerdi Mago; la ferita mortale, la differenza tra Ecbatana in Media ed Ecbatana di Siria. Infine c'è l'ulteriore caso di errata interpretazione a cau­ sa di un equivoco, non strettamente linguistico, e che può essere di varia natura. L'equivoco più famoso di tutta la letteratura oracolare greca è senz'altro quello di cui cade vittima Edipo. Come noto, durante un banchetto Edipo viene insospettito dalle insinuazioni fatte da un convitato circa la sua paternità e decide allora di interrogare il dio della sapienza, il quale gli predice che ucciderà il padre e che si congiungerà con la ma­ dre (Soph., Oedipus tyrannus, 787-798). L'equivoco riguar­ da le assunzioni di crede...zza: Edipo non sa che i suoi veri genitori sono Laio, re di Tebe, e Giocasta, ma crede che sia­ no Polibo, re di Corinto, e Merope; per questo, al fine di stornare gli avvenimenti predetti dall'oracolo, si allontana da Corinto per andare in direzione di Tebe, e compie, così, inconsapevolmente, proprio il destino che gli è stato annun­ ciato. Altre volte l'equivoco riguarda lo sca1nbio diprospettiva. Il caso emblematico è quello di Creso che manda a consul­ tare congiuntamente l'oracolo di Delfi e quello di Anfiarao 46  2.3 L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLARJ 47 per sapere se dovesse fare guerra ai Persiani. I due oraco­ li, concordemente, predicono che "se avesse mosso contro i Persiani, avrebbe distrutto un grande impero" (Herod., Hist., l, 53). Creso interpreta il responso come facente rife­ rimento alla distruzione dell'impero dei Persiani, mentre, come si scopre in seguito, sarà proprio il suo impero a subi­ re tale destino. A sviare il re dalla giusta interpretazione in­ terviene un meccanismo semiotico implicito: l'assunzione di Creso che, dal momento che l'oracolo è rivolto a lui, anche il dio assuma la sua prospettiva. E, ovviamente, nella pro­ spettiva di Creso, il grande impero da distruggere non può che essere quello persiano. Si incomincia a intravedere in questo esempio, più che nei precedenti, una caratteristica che è tipica deli'enigma: una fortissima carica aggressiva, potenzialmente distrutti­ va, da parte del dio nei confronti dell'uomo quando gli po­ ne un problema interpretativo da risolvere. Una conferma si trova nel racconto analogo in cui l'ora­ colo di Delfi predice agli Spartani che misureranno la terra di Tegea con le funi (Herod., Hist., l, 66). Gli Spartani in­ terpretano il riferimento alle funi come indicante Patto di misurare le terre per distribuirle ai conquistatori e, di conse­ guenza, fanno una spedizione contro Tegea. In realtà esse sono inserite in un altroframe o sceneggiatura (Eco 1984), in quanto serviranno agli Spartani , ridotti in schiavitù dopo la sconfitta, per misurare le terre che dovranno lavorare. L'attributo con cui viene qualificato il responso è klbd�­ los che, nel suo senso traslato, significa "ambiguo", "fal­ so", "ingannevole", ma nel suo senso base fa riferimento alla carica estranea che adultera il metallo prezioso. Ciò che ne risulta, come nei casi presi in considerazione, è la com­ mistione di due metalli, uno buono e uno non, che fa lucci­ care come oro ciò che oro non è. Analogo meccanismo, infine, si trova negli aneddoti, ri­ portati da Diodoro Siculo (Biblioteca, XVI, 91-92; XX, 29), nei quali viene annunciato a un generale che pranzerà o alloggerà nella città che sta assediando; queste cose si verifi­ cheranno, ma la prospettiva non sarà quella del vincitore bensì quella del prigioniero.  48 2. LA DIVINAZIONE GRECA 2.4 Il segno come sfida: divinazione ed enigma Abbiamo accennato alla carica di aggressività che si cela dietro al segno oscuro. Questo aspetto collega immediata­ mente il segno divinatorio all'enigma vero e proprio, an­ ch'esso oscuro e insolubile e, mitologicamente, espressione della sfida che la divinità lancia ali'uomo. È stato Colli ( 1 975 : 1 8) a mettere in luce il rapporto tra la divinazione, l'enigma e l'altra faccia di Apollo, quella mi­ nacciosa e distruttrice. 1 2 Apollo, infatti, non è soltanto di­ vinità benefica che dona agli uomini l'arte mantica e la me­ dicina: egli è anche il dio della freccia e dell'arco. Queste in­ dicazioni assumono un valore direttamente semiotico quan­ do si scopre che la freccia di Apollo e il segno oscuro sono non due cose diverse, ma due mezzi di espressione della me­ desima potenza del dio e che possono avere anche lo stesso funzionamento, come si può inferire da un passo di Pinda­ ro (0/ymp., II, 83-85). Il vero destinatario delle frecce di Apollo è l'uomo in quanto interprete. Fuori dal linguaggio figurato l'uomo-in­ terprete raccoglie una sfida che il dio, con intenzione ostile, gli lancia; e, dagli esempi stessi che abbiamo visto nei rac­ conti oracolari, si è potuto notare che il non riuscire a vin­ cere questa gara con il dio, cioè non riuscire a interpretare il segno oscuro, conduce alla rovina. Non sembrano esserci, a questo punto, più dubbi sulla relazione assolutamente stretta tra segno divinatorio ed enigma. Ciò viene confermato anche da un'analisi diacroni­ ca del "genere" enigma, che nasce proprio all'interno della sfera religiosa della divinazione con i due ben precisi carat­ teri dell'ostilità divina nei confronti dell'uomo e dell'aspet­ to di sfida a una gara. Lentamente l'enigma si staccherà dal contesto sacro per dare origine a una sua storia evolutiva, nel corso della quale attenuerà, pur conservandone traccia, i caratteri iniziali. La storia deli'enigma è la storia stessa dell'interpretazione intesa come gara, fino ad approdare al­ l'idea di interpretazione come confronto dialettico tra due opinioni opposte. Può essere interessante per il nostro discorso, inteso a  2.4 n SEGNO COME SFIDA 49 enucleare l'aspetto del segno divinatorio come dispositivo scatenatore di interpretazione, seguire alcune delle fasi più salienti dell'evoluzione deli'enigma. Come noto, il primo e più celebre esempio di apparizione dell'enigma in un contesto sacro è quello presente nel mito della Sfinge. La creatura mostruosa mandata da Apollo im­ pone agli abitanti di Tebe l'enigma sulle tre età dell'uomo. La posta in gara è la vita: chi non riesce a risolverlo è divo­ rato dalla Sfinge; chi invece lo risolve - e il solo Edipo ne è capace - fa precipitare la Sfinge nell'abisso. Ma nella prima evoluzione deli'enigma, già in età arcai­ ca, la lotta tra un personaggio divino e uno umano, si spo­ sta a quella tra due personaggi umani, che però conservano ancora un aggancio con la sfera del sacro in quanto sono due divinatori. Questa fase è illustrata dall'aneddoto di Strabone sulla gara tra Calcante e Mopso. Calcante propo­ ne a Mopso di "indovinare" quale è il numero di frutti che porta un fico selvatico che si trova sul loro cammino. Mop­ so dà una risposta estremamente dettagliata ("Sono dieci­ mila di numero, la loro misura è un medimno, ma uno di questi fichi è di troppo e non rientra nella misura") di fron­ te alla cui esattezza Calcante viene colpito da un "sonno di morte" (Geogr., VI, 232-235). Di fronte alla sapienza, ancora di origine divina, dei due personaggi, anche il contenuto dell'enigma passa in secon­ do piano, come dimostra la banalità deli'oggetto che deve essere scoperto. È, del resto, la stessa irrilevanza contenuti­ stica che si poteva notare nell'enigma della Sfinge, cosi sproporzionato rispetto ai rischi mortali che comportava. Tuttavia, nel passaggio ulteriore, quando l'enigma si umanizza completamente, anche il suo testo assume un as­ setto formale elaborato, basato sulla formulazione di una contraddizione che, anziché non designare niente (come av­ viene di norma in un caso del genere), designa altresì qual­ cosa di reale. Questa forma la si trova nella leggenda ri­ guardante la morte di Omero: Omero interrogò il dio per sapere chi fossero i suoi genitori e quale la sua patria; e il dio così rispose: "L'isola di lo è patria di  2. LA DIVINAZIONE GRECA tua madre, ed essa ti accoglierà morto; ma tu guardati dall'e­ nigma di giovani uomini [. . . ]" . Giunse ad Io. Qui, seduto su uno scoglio, vide dei pescatori che si avvicinavano alla riva e chiese loro se avessero qualcosa. Quelli, poiché non avevano pescato nulla, ma si spidocchiavano, per la mancanza di pesca, cosi risposero: "Quanto abbiamo preso l'abbiamo lasciato, quanto non abbiamo preso lo portiamo", alludendo con un enigma al fatto che i pidocchi che avevano preso li avevano uc­ cisi e lasciati cadere, e quelli che non avevano preso li portava­ no nelle vesti. Omero, non essendo capace di risolvere l'enig­ ma, morì per lo scoramento. (Arist., Dep�t., fr. 8) Nel frammento compaiono ancora gli elementi dell'enig­ ma che abbiamo già incontrato: la sfida circa un oggetto di conoscenza e il rischio mortale per il sapiente che non si di­ mostra in grado di risolvere l'enigma; ma in più compare la forma elaborata di una contraddizione, che da allora sarà tipica di questo genere. Più precisamente compaiono due coppie di determinazioni contraddittorie "abbiamo preso - non abbiamo preso" e "abbiamo lasciato - portiamo", che possono essere così disposte sul quadrato logico: 50 ·abbiamo preso· CONTRARI {non abbiamo fasciato = ) ·portiamo· ·non abbiamo preso'" SUB CONTRARI ·abbiamo fasciato•   2.5 AGONISMO, DIALETTICA, RETORICA 51 Ciascun singolo termine della prima coppia di contrad­ dittori ("abbiamo preso"/"non abbiamo preso") entra in relazione di congiunzione con un singolo termine della se­ conda coppia ("abbiamo lasciato"/"portiamo"), ma in mo­ do diverso da quello che ci si attenderebbe intuitivamente (cioè "quanto abbiamo preso, lo portiamo" e "quanto non abbiamo preso, l'abbiamo lasciato"). Invece nell'enigma ri­ sultano congiunti termini che logicamente sono in opposi­ zione contraria: "quanto abbiamo preso, l'abbiamo lascia­ to" e "quanto non abbiamo preso, lo portiamo". Eppure l'enigma non è, come sappiamo, assurdo. Il sapiente, che domina la ragione, deve essere in grado di sciogliere questo groviglio problematico. Umanizzandosi completamente, l'enigma mette in evi­ denza l'aspetto competitivo, di gara per la sapienza, e si sta­ bilizza sulla forma della contraddizione apparentemente in­ solubile. L'ulteriore e ultima tappa di questa evoluzione conduce, secondo l'ipotesi di Colli (1975), alla nascita della dialet­ tica. 2.5 Agonismo , dialettica, retorica La dialettica, nel senso antico del termine, nasce infatti sul terreno stesso dell'agonismo: essa si presenta come di­ scussione tra due persone su un qualsiasi argomento cono­ scitivo; su questo campo comune si instaura una gara desti­ nata a far emergere un vincitore. L'andamento generale della discussione segue questo schema (Arist., Top.): inizialmente, lo sfidante propone una domanda in forma alternativa, presentando i due corni di una contraddizione. L'avversario sceglie uno dei due cor· ni e ne sostiene la verità. A questo punto lo sfidante deve dimostrare come vera l'altra alternativa e cosi confutare l'affermazione dell'avversario. Naturalmente il procedi­ mento può richiedere anche una serie molto lunga e artico­ lata di successive domande e risposte, miranti, in maniera diretta o, per lo più, indiretta, alla dimostrazione.  52 2. LA DIVINAZIONE GRECA Al suo nascere, però, il linguaggio dialettico è limitato a un ambiente ristretto e in qualche modo elitario. l)ccisi vi cambiamenti sono, tuttavia, destinati a verificar­ si con l'accrescersi della cultura ad Atene e con il definitivo affermarsi del regime democratico; infatti le forme della dialettica entrano nella sfera pubblica e si connettono con il mondo politico. Così la discussione si allarga indefinita­ mente e la dialettica, in una sua forma in qualche modo adulterata, si trasforma in retorica. Dialettica e retorica sono basate entrambe su un forte spirito di competizione. Tuttavia ciò che le distingue è che, nella prima, non c'è bisogno di un giudice per assegnare la palma della vittoria a uno dei due contendenti: la vittoria di uno dei partecipanti risulta dalla discussione stessa, in quanto, durante lo sviluppo del dibattito, l'avversario ha contraddetto la tesi che prima affermava. Nel caso della re­ torica, invece, l'agonismo è molto più diretto e acceso, in quanto saranno gli ascoltatori a giudicare quale è stato il migliore discorso; manca nella retorica una sanzione intrin­ seca (come c'è nella dialettica) e per questo deve aggiungere un elemento emozionale, legato all'intento persuasivo. 2.6 Divinazione e interpretazione persuasiva Il processo evolutivo che abbiamo descritto è iniziato con il segno divinatorio come sfida conoscitiva posta dal dio al­ l'uomo ed è approdato, nel punto del suo massimo allonta­ namento, alla competizione conoscitiva della dialettica e della retorica. Ma proprio a questo punto il cerchio sembra chiudersi tornando al punto iniziale, con l'introduzione, ali'interno della divinazione stessa, dei metodi della discussione dialet­ tico-retorica. È molto indicativo , a questo proposito , un passo di Ero­ doto, in cui assistiamo a una sorta di conciliazione appunto tra la divinazione, con la sua tipica concezione deterministi­ ca del mondo, e l'eloquenza politica, legata a una visione mobile della vita, che sottopone ogni cosa a una incessante  2.6 DIVINAZIONE E INTERPRETAZIONE PERSUASIVA 53 discussione. Egli infatti narra che gli Ateniesi, trovandosi di fronte alla minaccia di una invasione persiana, mandarono a Delfi degli ambasciatori per consultare l'oracolo. Ma, in un primo momento, la Pizia li affrontò con l'annuncio di gravissime sciagure. Costernati, senza però darsi per vinti, gli Ateniesi sollecitarono una seconda consultazione, im­ plorando un responso più favorevole e stabilendo di non muoversi più dall'oracolo fino a che non l'avessero ottenu­ to. La Pizia accettò di emettere un secondo responso: Zeus concede a Tritogenia (Atena) che solo un muro di legno sia inespugnabile, il quale salverà te e i tuoi figli. Non aspettare, inerte, la cavalleria e le forze di terra che arrivano in massa dal continente, ma ritìrati, volgi le spalle; verrà il giorno in cui po­ trai tenere testa. O divina Salamina, farai perire figli di donne, o quando si semina o quando si raccoglie il frutto di Demetra. (Herod., Hist., VII, 141) Il racconto d i Erodoto mostra chiaramente come i l segno divinatorio, il responso oracolare, innanzitutto non venga accolto con atteggiamento fatalistico. l messaggeri non si accontentano del primo responso, ma sfidano a loro volta il dio, minacciando di non muoversi dal santuario fintanto­ ché non abbiano indotto il dio a mitigare il suo atteggia­ mento ostile. Ma, ciò che è più interessante, il testo erodo­ teo mostra bene come il segno oracolare sia sottoposto a una discussione. Infatti i messaggeri, una volta ottenuta la risposta, la trascrivono e ripartono alla volta di Atene per riferire il responso all'Assemblea. La forma della discussione che si svolge davanti aiPAs­ semblea è quella tipica della dialettica. Il segno oscuro sca­ tena un processo interpretativo che prevede varie possibilità di percorso. Ma, anzitutto, dialetticamente, si presenta co­ me una dicotomia tra due soluzioni opposte e mutualmente escludentisi: (i) ritirarsi sull'acropoli, anticamente fortifica­ ta con una palizzata, perché a essa alludeva il dio con l'e­ spressione "muro di legno"; (ii) allestire una flotta, perché il dio intende riferirsi (s�ma(nein), con quella espressione enigmatica, a una barriera di navi.  54 2. LA DIVINAZIONE GRECA Ciascun corno della contraddizione è fatto proprio da un gruppo: (i) "alcuni anziani" (affiancati dai cresmologi) so­ stengono il primo termine; (ii) "altri" (tra i quali compare Temistocle) assumono il secondo. Per ora siamo solo alla presentazione del problema: è poi necessario sviluppare una dimostrazione che porti a contraddire una delle due tesi. La discussione segue il secondo corno del dilemma; è co­ me se si dicesse: "Ammettiamo che l'interpretazione giusta sia quella che consiglia di allestire una flotta. Quale con­ traddizione comporta questa interpretazione?". I cresmologi fanno notare, a questo punto, che accettare il secondo corno del dilemma comporta una contraddizione con quella parte del testo che predice a Salamina di divenire causa della morte di molti uomini. Accettare la giustezza di questo sottoproblema posto dai cresmologi comporterebbe l'autoconfutazione della tesi principale. Si è però nel frattempo verificato uno spostamento del li­ vello tematico della discussione: a questo punto, per avere ragione sulla tesi dei cresmologi, è sufficiente dimostrare in.. fondata la loro obiezione. È appunto quello che fa Temistocle, negando che l'obie­ zione dei cresmologi comporti una reale contraddizione. E anche in questo caso il ragionamento procede per assurdo e prende in considerazione una questione di prospettiva: se infatti avessero ragione gli avversari con il dire che Salami­ na (metonimia per "battaglia con la flotta") avrebbe causa­ to morte agli Ateniesi, e se anche questa seconda parte della profezia fosse rivolta, come la prima, ancora agli Ateniesi, il dio non avrebbe attribuito all'isola l'epiteto di "divina", ma di "sventurata". In altre parole, c'è contraddizione tra l'epiteto "divina" usato per Salamina e la morte degli Ate­ niesi. Dunque questa seconda parte del responso, contenen­ te una predizione di morte, deve essere intesa come rivolta ai nemici. Non sfuggirà che in questa seconda fase della discussione il metodo dialettico va impercettibilmente sfumando in quello più propriamente retorico. Conclusivamente Temistocle propone una interpretazio­ ne che tende più a persuadere in positivo della validità del  2.6 DIVINAZIONE E INTERPRETAZIONE PERSUASIVA 55 proprio ragionamento che non a dimostrare la falsità della tesi fondamentale degli avversari. Infine interviene il giudi­ zio dell'uditorio, elemento fondamentale appunto del di­ scorso retorico, per sancire la vittoria di uno dei due con­ tendenti. Il testo dice che gli Ateniesi "giudicarono preferì­ bile (hairetbtera)" la spiegazione di Temistocle rispetto a quella dei cresmologi. Al discreto della logica binaria del­ l'alternativa dialettica, succede il continuo della logica gra­ duata del preferibile. La discussione può aver fatto perdere di vista che oggetto di dibattito è un vaticinio del dio di Delfi. Ma non a caso. La logica, appunto, che viene fatta intervenire neli'interpre­ tazione del responso divinatorio è esattamente la stessa che guida le assemblee politiche. E del resto non è senza significato il fatto che in questo contesto gli avversari di Temistocle siano dei "cresmologi", cioè interpreti specializzati dei responsi divini, ed è notevole che essi risultino sconfitti: è la conferma paradigmatica di come nella Grecia della polis sia la razionalità politica a im­ porre i suoi metodi alla divinazione e non viceversa. In definitiva, il carattere di oscurità attribuito al segno divinatorio rende un ottimo servigio ali'orientamento fon­ damentalmente orale e dialettico della cultura greca: con­ ferma il segno stesso come dispositivo scatenatore di inter­ pretazioni, da sondare con la procedura del confronto tra discorsi contrapposti. Il segno rinvia a una realtà altra da sé, nascosta e ambi­ gua, ma alla quale si può arrivare se ci si impegna in un confronto tra interpretazioni contrastanti: procedura che, lungi dali'essere paralizzante, è invece stimolante e produt­ tiva. In questa prospettiva il segno divinatorio si allontana da quelle che erano due sue caratteristiche fondamentali, cioè il primato della visione e la concezione della verità come ri­ velazione: la verità come a-l�theia, intesa come caduta dei veli che la tenevano nascosta (lanthano). 1 3 Nel passo di Erodoto non sono gli indovini con la loro vi­ sione panoptica a rivelare il senso nascosto del segno: esso prende qui luce dalla congettura (che in Erodoto è sempre  56 2. LA DIVINAZIONE GRECA espressa dal verbo symba/10 e dai suoi derivati, equivalente al più diffuso tekmafroma1). E saranno proprio la congettura e l'abbandono della vi­ sione che permetteranno di far evolvere il segno dal campo della divinazione a quello della scienza vera e propria. SEGNI E PROCESSI SEMIOSICI NELLA MEDICINA GRECA 3.0 Introduzione Ci siamo finora interessati dell'ampio e magmatico cam­ po della divinazione, dove abbiamo visto emergere le prime pratiche semiosiche, connesse, nella cultura greca, con la nascita stessa di un pensiero sapienziale. Ci occuperemo ora dell'altra grande area di manifestazione di un pensiero se­ mioticamente orientato, che sorge prima e in maniera indi­ pendente dalla ricerca filosofica in senso stretto: la medici­ na greca. In quest'area, accanto alla presenza fondamentale dei processi semiosici, si possono registrare anche le prime vere e proprie elaborazioni teoriche intorno al segno e all'infe­ renza (Vegetti 1976: 49 ss.). In seguito, la riflessione semio­ tica sarà consegnata direttamente alla filosofia e alla retori­ ca; ma ampie tracce delle origini rimarranno sia negli esempi che filosofi e trattatisti di retorica sceglieranno per illustrare il segno (esempi spesso di carattere medico, talvol­ ta fisiognomico) sia nella scelta di un modello di funziona­ mento logico del segno secondo lo schema "Se p, allora q", che abbiamo visto operante nella divinazione e che vedremo trasposto nella medicina con diversi contenuti, ma con eguale forma. A differenza della divinazione, per la quale disponiamo di testimonianze per lo più indirette e disorganiche, la medi­ cina greca può contare su una ricca documentazione, rap­ presentata in particolare dal Corpus Hippocraticum, 1 un  58 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA insieme abbastanza ampio e vario di testi (circa un centi­ naio) in cui si trovano illustrate le pratiche e le teorie medi­ che del V e IV secolo a.C. Tali testi non appartengono a un unico autore, come la tradizione aveva indotto a credere, attribuendoli a Ippocrate,2 né a un'epoca circoscrivibile con la vita di un uomo. Sono invece presenti all'interno del C.H. opere con diverse finalità ed3esprimenti indirizzi di­ versi nel campo del sapere medico. Tuttavia, nonostante la disomogeneità che è dato riscon­ trare all'interno del C.H., è possibile vedere nello studio della medicina del V e IV secolo uno dei più importanti campi di indagine del pensiero greco, che si affianca sen­ z'altro alla ricerca filosofica e alla storiografia coeve e che intrattiene con esse dei rapporti fecondissimi di interscam­ bio. È noto il giudizio di Werner Jaeger, secondo cui il pen­ siero socratico non sarebbe stato possibile senza le opere ip­ pocratiche,4 ed è stato sottolineato il debito che la storio­ grafia scientifica, inaugurata da Tucidide nell'ultimo scor­ cio del V secolo, ha contratto nei confronti della téchn� ip­ pocratica. � Ciò che la medicina aveva da offrire tanto alla filosofia quanto alla storiografia era un modello di sapere specifica­ mente semiotico, articolato sul doppio livello rappresenta­ to, da una parte, da una solida struttura formale (il loghi­ smos, cioè il ragionamento inferenziale, nei suoi due mo­ menti abduttivo e deduttivo) e, dall'altra, da un orienta­ mento di base empirico.6 Come vedremo meglio in seguito, il segno medico costi­ tuisce proprio il prodotto del ragionamento inferenziale ap­ plicato alla ricorrenza dei fenomeni, i quali in tanto acquisi­ scono senso, divenendo segni, in quanto sono riconducibili appunto al loghismos. 3.1 Ambiguità della prognosi A differenza del medico moderno, che legge i segni in funzione della diagnosi, il medico antico elaborava il suo ragionamento in funzione della prognosi. Un intero trattato  3. l AMBIGmTÀ DELLA PROONOSI 59 del C.H. , Ilprognostico, è specificamente dedicato a questo problema. Eccone il passo iniziale e programmatico: Quanto al medico, mi sembra che la cosa migliore sia che egli pratichi la previsione; infatti, con una conoscenza e dichiara­ zione preventiva, di fronte ai malati, dei loro casi presenti, pas­ sati e futuri, e con una puntuale esposizione di quanto gli infer­ mi tralasciano di dire, egli conquisterà maggiore fiducia di po­ ter conoscere le condizioni dei malati, così che gli uomini si ri­ solvano ad affidare se stessi al medico. (cap. 1)7 Dal passo si può osservare che la prognosi non è concepi­ ta come previsione di eventi soltanto futuri, ma coinvolge anche elementi di conoscenza che riguardano sia il presente sia il passato:8 il medico deve avere la capacità di descrivere anche quei sintomi, o quei fatti in generale, che gli ammala­ ti tralasciano di esporre. Dal procedimento descritto nel Prognostico non sono assenti scopi chiaramente manipola­ tori: dicendo ciò che sfugge ai malati, il medico mira ad ac­ quistare maggiore credito presso di loro per persuaderli ad affidarsi alle sue cure. È interessante che una procedura che vuole presentarsi con i crismi della scientificità e dell'obiet­ tività, si ponga non tanto lo scopo del rispecchiamento del­ la realtà (nosologica in questo caso), ma quello della sua manipolazione. II discorso del medico è fatto, in questo ca­ so, anche di "segni efficaci" come �uello della retorica in­ cantatoria di Gorgia o della magia. Del resto, la formula con il triplice riferimento al passa­ to, al presente e al futuro, che non costituisce un caso isola­ to, ma ricorre a esempio anche in Epidemie l (come pure, per definire la medicina, nel Lachete platonico, 198 d), spinge a istituire un parallelo con l'analoga formula usata per individuare il procedimento divinatorio (Br�tescu 1 975: 46) . 1 0 D'altra parte, se per un verso si possono riscontrare ele­ menti comuni tra la medicina e la divinazione, per un altro molti degli scritti medici del C.H. sottolineano esplicita­ mente e con forza la distanza e i punti di divergenza. A  60 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA esempio l'autore del libro Il regime nelle malattie acute (cap. 8) polemizza contro le pratiche discordanti dei cattivi medici, paragonandole alle pratiche di interpretazione divi­ natoria. L'attacco sferrato alla divinazione è su base semiotica: il segno divinatorio è ambiguo, può significare due cose dia­ metralmente opposte, e perciò è lontano da quel piano di oggettività al quale aspira la scienza medica. Anche l'autore del Prorretico II si scaglia contro i cattivi medici criticando le loro predizioni miracolose, che li rendono simili agli in­ dovini, e contrappone orgogliosamente il proprio metodo basato sui segni umani e sulla congettura: Per parte mia non farò affatto delle divinazioni del genere (ou manteU.somat), ma scriverò i segni (s�meia) attraverso i quali si deve congetturare (tekmafresthat), tra i malati, quali guariran­ no e quali moriranno, quali guariranno e quali moriranno in poco o in molto tempo. (cap. l) L'inferenza divinatoria (manteuein) è direttamente con­ trapposta alla congettura (tekmairesthaz). La violenza con cui i medici polemizzano contro la divinazione e la netta presa di distanza rispetto a essa è sicuramente indizio del fatto che essi tentavano di imporre un nuovo e autonomo paradigma epistemologico, una "semiotica profana"; ma è indizio, anche, del fatto che il rischio di confusione o di fraintendimento era ancora presente. Sotto certi aspetti la medicina ippocratica appare effetti­ vamente come la continuazione di una medicina preceden­ te, popolare e antichissima, impostata su basi magiche (Parker 1983: 213 ss.). Certi settori della terminologia de­ nunciano chiaramente questa situazione: Pimportanza cen­ trale, nel C.H., della katharsis ("purificazione") rimanda alle purificazioni magiche dello iatr6mantis "medico-indo­ vino" e dei purificatori apollinei come Epimenide e Bacide; lo stesso termine che indica il medicamento, pharmakon, era in origine impiegato per indicare ciascuno dei due citta­ dini di Atene che regolarmente il 6 di Targelione, o anche in  3.2 MEDICINA E SEMIOTICA MAGICHE 61 caso di pestilenze, erano sottoposti a osservanze rituali, fla­ gellati e scacciati dalla città e forse uccisi, per adempiere a una cerimonia di purificazione (Lanata 1967: 45). Proprio per questi motivi il tentativo di autodifferenzia­ zione dei medici ippocratici rispetto al paradigma magico doveva assumere toni molto accesi, come ci mostra uno dei trattati più interessanti del corpus, il Male sacro. Poiché, dal punto di vista della storia della semiotica, la medicina magica non è meno importante di quella laica, dedicheremo il prossimo paragrafo a illustrare il suo paradigma. Dopodi­ ché esporremo la critica di questo stesso paradigma quale ci viene presentata dall'autorè del Male sacro. 3.2 Medicina e semiotica magiche Molte fonti letterarie suggeriscono l'idea di un'origine mitica comune per la divinazione e per la medicina: entram­ be le pratiche, infatti, figurano come doni di Apollo e sono a lui variamente collegate. Così, per esempio, Platone nel Simposio (197 a): "In verità Apollo scoprì l'arte del tiro con l'arco e la medicina e la divinazione". È molto suggestivo, dal punto di vista semiotico, che le due pratiche primordiali che inaugurano un sapere basato sui segni, siano avvertite come originariamente collegate. E un effettivo stretto colle­ gamento esse lo trovano nella figura antichissima dello ia­ tr6mantis, il medico-indovino, che unisce in sé le facoltà di un veggente e la capacità di curare le malattie. L'appellati­ vo iatr6mantis è riferito in prima istanza allo stesso Apollo; ma passa poi a una serie di personaggi in vario modo legati al dio, che uniscono al dono della mantica e della medicina, anche quello di effettuare delle purificazioni. Un elemento fondamentale che caratterizza la figura del­ lo iatr6mantis è la sua capacità di usare una procedura dia­ gnostica: trattandosi di un veggente, egli è in grado di indi­ viduare la causa nascosta di una malattia, causa che è da at­ tribuirsi sempre a un intervento soprannaturale. In epoca antichissima la malattia è concepita infatti come miasma, come contaminazione, dovuta a un contatto con un'entità  62 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA divina o demonica. 1 1 Per questa ragione c'è bisogno di un medico-indovino, in grado di leggere i segni che gli rendono accessibile il mondo delle forze oscure e soprannaturali alle quali è imputato il presente stato di contaminazione; in se­ guito alla sua diagnosi, lo iatr6mantis può indicare gli stru­ menti magici atti a purificare il miasma. Questa concezione è ben iliustrata da una notizia di un autore di scuola pitagorica, Alessandro Poliistore, che cita le Memorie pitagoriche: L'aria (secondo i Pitagorici) è piena di anime; ed essi le conside­ rano demoni ed eroi e pensano che siano essi a inviare agli uo­ mini i sogni e i segni premonitori (s�mefa) e le malattie, e non solo agli uomini, ma anche alle greggi e agli altri animali da pa­ scolo; e a questi (demoni ed eroi) sono dirette le cerimonie ca­ tartiche e apotropaiche e tutta la mantica e i vaticini e tutto ciò che è di tal genere.12 Sono presenti in questo passo tutti gli elementi di una se­ miologia sacra abbinata a una medicina magica. I demoni sono la fonte delle malattie che affliggono gli uomini; ma, contemporaneamente, sono anche la fonte dell'informazio­ ne che concerne il mondo invisibile, inviando agli uomini i segni (compreso quel particolare tipo di segno che sono i so­ gni) dai quali si rende riconoscibile l'origine della malattia. Del resto il circolo comunicativo si chiude attraverso gli speciali segni che gli uomini sono chiamati a produrre: i riti catartici e apotropaici. In particolare le cerimonie apotro­ paiche sono costituite dalla recita di epOidal, cioè di formu­ le verbali incantatorie, ritenute idonee a scongiurare il ma­ le: si tratta di segni linguistici che da una parte chiudono il circuito comunicativo con il soprannaturale, dall'altra sono "efficaci", nel senso che intendono agire sul mondo e non rispecchiarlo. 3.3 La critica alla magia e alla semiotica sacra Prenderemo ora in considerazione le critiche rivolte alla  3.3 LA CRITICA ALLA SEMIOTICA SACRA 63 magia sul piano specificamente semiotico ed epistemologi­ co. L'autore del Male sacro si muove sostanzialmente in due direzioni: l . contrapporre alla nozione di "sacro" quel­ la di struttura naturale (phjsis) e di causa razionale (pro­ phasis); 2. mostrare l'inconsistenza sul piano logico del ra­ gionamento sotteso dalle procedure della medicina magica, apponendovi un tipo di ragionamento inferenziale basato sul tekmérion (che qui compare già con il senso di "prova", di "segno sicuro") (cap. l). Ciò che l'autore del trattato vuole contestare è la conce­ zione di un'origine divina della malattia; e questo vale tanto per il "male sacro", cioè l'epilessia, quanto per qualunque altro tipo di morbo. Sotto accusa è la nozione di "sacro'', come qualcosa che si riconduce all'intervento divino. In ef­ fetti, il termine hier6s, anche se in greco si specializzò molto presto in senso religioso, in origine non apparteneva alla sfera olimpica, ma era legato a una concezione animistica: hier6s è tutto quello in cui si rivela una vitalità prodigiosa e magica, e una malattia è sacra in quanto inviata da una for­ za soprannaturale. Lo stesso termine iasthai, "curare" (da cui iatr6s "medico"), originariamente doveva indicare un curare come "un ristorare, un ridonare le forze attraverso appropriate operazioni magico-mediche" (Ramat 1962: 20). In effetti, l'idea della malattia come riconducibile a un intervento diretto "del piano verticale della trascendenza su taluni punti di quello orizzontale della causalità naturale" (Vegetti 1976: 291) appare mettere fuori gioco ogni idea di regolarità dei fenomeni ed escludere, contemporaneamente, la possibilità di controllo su di essi e di previsione. La no­ zione di "natura", che l'autore del trattato contrappone a quella di "sacro", viene a reintrodurre proprio la regolarità nel movimento di cause ed effetti, rendendo possibile l'im­ postazione della medicina su basi scientifiche. Inoltre, se la nozione di phjsis individua la struttura oggettiva e omoge­ nea di ricorrenze tra cause ed effetti, quella, correlata, di pr6phasis (in altri casi aftion, aitle) rimanda al momento della spiegazione del singolo fenomeno.  64 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA 3.4 Le forme di argomentazione logica e il "tekmérion" Tuttavia il punto di maggior forza dell'autore del Male sacro rispetto ai suoi avversari consiste nelle modalità di ar­ gomentazione logica che adotta: facendo un esplicito ricor­ so al tekm�rion (''prova", "segno sicuro") egli riesce a indi­ viduare delle contraddizioni interne al sistema della medici­ na magica e a confutarla. Vediamone subito un esempio: E v'è un 'altra grande prova (méga tekm�rion) che questa non è più divina delle altre malattie; insorge ai flegmatici per natura, ma non colpisce i biliosi: mentre, se fosse più divina delle altre, in tutti ugualmente dovrebbe prodursi questa malattia, senza distinguere tra biliosi e flegmatici. (cap. 2)13 L'argomentazione assume la forma rigorosa di quello che in seguito sarà chiamato nzodus tollens, cioè "Se p, allora q; ma non-q; di conseguenza non-p''. In altre parole l'autore del A-lale sacro ragiona così: "Se questa malattia fosse più divina delle altre (p}, essa dovrebbe colpire indistintamente tutti (q); ma questo non si verifica (perché colpisce i flegma­ tici, ma non i biliosi) (non-q); ne consegue che essa non è più divina delle altre (non-p)". Si deve rilevare che l'autore utilizza la non verità del conseguente nel modus tollens (''che la malattia non colpisce indiscriminatamente tutti") come segno (teknzérion "segno sicuro", "prova") della non verità dell'antecedente (''che l'epilessia non è più divina del­ le altre malattie"). Naturalmente bisognerà aspettare Aristotele prima che il nzodus tollens come schema ragionativo venga teorizzato e che venga fornita una definizione rigorosa di teknzérion. Del resto, spetterà poi agli stoici di dare un'analisi formale di questo schema argomentativo e di dire che ogni schema argomentativo deve essere considerato come un segno. È in­ teressante, tuttavia, che già l'autore ippocratico leghi l'e­ spressione tekm�rion (che da Aristotele in poi assumerà ine­ quivocabilmente il significato di "segno inconfutabile") con  3.5 LA VISTA E OLI ALTRI SENSI 65 lo schema inferenziale del modus tollens: logica e semiotica vengono già a trovare un punto di convergenza e di saldatu­ ra. Saldatura che con gli stoici sarà totale. 3.5 La vista e gli altri sensi Tuttavia la contrapposizione tra una semiologia sacra e una profana non si basa soltanto sulla capacità, che la se­ conda possiede, di utilizzare un ragionamento rigoroso e di fare ricorso a segni che si inquadrino in uno schema logico­ inferenziale. Come ha mostrato Lanza (1979: 103), un altro importante elemento di divergenza tra il paradigma divina­ torio e quello della medicina ippocratica è dato dal diverso ruolo che la vista gioca nei processi di conoscenza. Nella divinazione e nella medicina magica la vista ha una parte fondamentale, in quanto è fonte primaria, e in qual­ che modo unica, dell'attività conoscitiva. Non per niente Apollo, dio della divinazione, è nelle parole di Pindaro co­ lui che possiede "l'occhiata che conosce ogni cosa" (Pyth., III, 29): niente infatti è sottratto alla sua vista nel passato, nel presente e nel futuro; a lui appartiene il "dominio del tempo". L'uomo può conoscere solo ciò che contingente­ mente capita sotto il suo sguardo. Solo l'indovino e il poeta possiedono una seconda vista, che permette loro di vedere anche ciò che è al di là delle limitazioni cui sono sottoposti i comuni mortali; per questo spesso i primi sono ciechi, per essere ricettivi a questa vista; e un'analoga limitazione delle facoltà percettive si verifica anche nell'attività onirica, du­ rante la quale la raccolta di stimoli esterni si attenua fin quasi a scomparire.14 Tanto nel poeta quanto nell'indovi­ no, poi, la visione si tramuta in parola, diventando il segno che supplisce alla mancanza di presenza. Questa concezione comporta una dipendenza del segno dalla divinità e una di­ cotomia tra ciò che è percepibile con la vista e ciò che non lo è. Ma un primo superamento della dipendenza dalla divi­ nità per la conoscenza dell'invisibile si ha nel famoso motto di Anassagora "Vista dell'invisibile è ciò che appare" (6psis ad�/On tà phainomena) (D-K, 59 B 21a). Il fenomeno viene  66 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA qui a sostituirsi alla divinità. La vista tuttavia rimane cen­ trale. Caratteristicamente in un trattato medico arcaico. Malattie delle donne, al cap. 60, si dice che attraverso il dito il medico "vedrà" il modo di presentarsi del collo dell'u­ tero. Certamente le opere del C.H. procedono sul cammino aperto da Anassagora, ma contemporaneamente in esse il ruolo della vista perde di importanza nel processo di cono­ scenza. Ci sono ragioni specificamente inerenti alla téchn� ippocratica che portano a una svalutazione, o almeno a un ridimensionamento, del ruolo della vista. Nel trattato L 'ar­ te si dice esplicitamente che "delle malattie alcune hanno se­ de in luoghi non celati alla vista, e non sono molte, altre in luoghi non aperti alla vista, e sono molte" (cap. 9). Per giungere alla conoscenza di queste ultime, il medico trae congetture da segni tattili, uditivi, olfattivi e talvolta persi­ no gustativi: è attraverso l'intera gamma della tipologia se­ gnica che il medico può elaborare la sua previsione, percor­ rendo il tempo anche nella dimensione di un passato e di un futuro che sono nascosti. Non solo, ma avviene che, quan­ do i segni non si presentano spontaneamente, il medico giunga a "forzare la natura" per costringerla a fornire degli indizi (cap. 13). A questo punto è possibile tentare un riesame dell'oppo­ sizione visibile/invisibile nel momento in cui essa passa dal­ la divinazione, che l'aveva inventata, agli altri ambiti del sapere. La ritroviamo, a esempio, in ambito giuridico, con l'anti­ tesi tra "beni apparenti" e "beni non apparenti" che, secon­ do la penetrante analisi di Gernet (1968: tr. it. 399 sgg.), si configura come opposizione tra i beni materiali (fondiari e patrimoniali soprattutto) che si possono percepire, e i credi­ ti in genere, "invisibili" (a esempio, i crediti nei confronti di un banchiere presso cui si è depositato del denaro). Poi, nell'ambito strettamente filosofico, l'opposizione assume un carattere squisitamente antologico, dando vita a una duplicazione dei livelli di realtà. In Eraclito, a esempio, il "nascosto" costituisce la realtà vera in contrapposizione all'"apparente", dicotomia di cui si trova chiara traccia nei  3.6 L'ANALOGIAE LACONGETTURA 67 due frammenti: "L'armonia che non si vede è superiore a quella manifesta" (D-K, 22 B 54) e "La natura ama nascon­ dersi" (D-K, 22 B 123). Come si può osservare, mentre nella divinazione il "visibile" richiamava apertamente la funzio­ ne, tutta fisiologica, svolta dali'organo della vista, una vol­ ta avvenuta la trasposizione in altri campi questo legame si attenua. Di fatto scompare quasi del tutto nella scienza, do­ ve visibile e invisibile vengono concepiti come due mondi, la cui comunicazione è garantita non dalla vista, ma dalla congettura. 3.6 L'analogia e la congettura Il carattere semiotico della rivoluzione effettuata dal pen­ siero ippocratico è stato messo in luce da Vegetti (1976), il quale, ponendo in relazione gli scritti dei medici ippocratici con la cultura scientifica e filosofica del loro tempo, ha mo­ strato come essi fossero impegnati in una lotta a favore di un "metodo semiotico", contro il cosiddetto "procedimento analogico", tipico della filosofia ionica e di quei medici e intellettuali che a essa in qualche maniera si richiamavano. In effetti, quella ionica, più che come una filosofia vera e propria, si caratterizzava come una physiologhla, cioè una indagine sulla natura (phjsis), e come ricerca di un suo principio (arch�). La natura dei filosofi ionici è in sostanza il mondo quale si manifesta all'osservatore, ma presenta un duplice aspet­ to: esso è, contemporaneamente, molteplice, perché si com­ pone di una infinità di fenomeni, e unitario, in quanto cia­ scun fenomeno manifesta lo stesso principio rintracciabile in ogni altro frammento del reale. L'unico procedimento conoscitivo, in questo quadro, è l'analogia: di fronte a qualsiasi fenomeno, si tratta di riper­ correre il cammino della phjsis che porta, per via analogi­ ca, dal singolo fenomeno all'arch�. Dal punto di vista se- miotico, la filosofia ionica ragiona come se qualsiasi tipo di modalità di produzione segnica fosse ridotto al solo metodo del riconoscimento di campioni: un frammento sta costan-  68 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA temente per una totalità che è a esso completamente omoge­ nea (Eco 1975: 296; 1984: 48). Un paradigma diverso è quello che si impone a partire da Alcmeone di Crotone proprio con la proposta del principio semiotico della congettura: Delle cose invisibili e delle cose visibili solo gli dci hanno cono­ scenza certa; gli uomini possono soltanto congetturare (lekmaf­ resthal). (Diog.La�rt.,VIII,83== D-K,24Bl) Mentre per i filosofi ionici e per la medicina dei postulati c'era continuità tra i principi della natura, i suoi fenomeni e l'osservatore stesso di quei fenomeni, con �lcmeone nasce una frattura profonda tra l'uomo e la realtà. Il mondo del­ l'esperienza non si dà a conoscere spontaneamente, non è più trasparente. Proprio sulla frattura inaugurata da Alc­ meone si impernia il metodo semiotico. Essa conduce alla necessità di sostituire il procedimento dell'analogia con uno basato sull'indizio: la conoscenza umana assume per princi­ pio il tekmafresthai, il procedere per indizi e congetture. Ciò che la medicina ippocratica svilupperà, e che è ancora assente in Alcmeone, è l'inquadramento del metodo conget­ turale in una struttura logica compiuta. 3.7 Metodo analogico e metodo semiotico A questo punto è possibile domandarsi quale forma assu­ ma la metodologia della ricerca congetturale nei trattati ip­ pocratici. Una prima risposta a questa domanda può essere cercata attraverso un'analisi della polen1ica che, a questo proposito, ha opposto Regenbogen (1930) a Diller (1932) nella prima metà di questo secolo. In questa polemica ritro­ viamo una contrapposizione tra "metodo semiotico" e "me­ todo analogico"; ma in un senso sensibilmente diverso da quello esaminato finora, in quanto la nozione di "analogia" era assunta in un senso lato, molto vicino alla nozione se­ miotica di "omomatericità".15  3 .7 METODO ANALOGICO E METODO SEMIOTICO 69 In questo secondo caso la nozione di "analogico" viene assunta in un senso strettamente tecnico, come istituzione di un parallelismo tra un fenomeno da spiegare e un altro fenomeno noto, con conseguente possibilità di inferenza dal secondo al primo. L'inferenza analogica del tipo de­ scritto costituisce, secondo Regenbogen, il carattere specifi­ co della metodologia di ricerca utilizzata dali'autore del gruppo di trattati Sulla procreazione, Sulla natura del bam­ bino, Sulle malattie I V: in questi testi vengono spesso messi a confronto processi di tipo non osservabile con processi osservabili e i primi vengono chiariti mediante un'analogia con i secondi, come si verifica a esempio quando viene isti­ tuito un parallelo tra lo sviluppo del feto e quello delle pian­ te (Littré 1839, VII 528, 22 e sgg.) o quello di un uccello (Littré 1839, VII 530, 14 e sgg.). L'autore dei trattati si at­ tiene di fatto al principio di Anassagora secondo cui ciò che appare permette di avere una visione anche di ciò che è invi­ sibile, e applica questo principio sistematicamente. Il para­ gone con l'oggetto visibile, su cui si basa l'analogia, viene visto come una prova deli'oggetto di partenza. Il procedimento analogico non è limitato ali'ambito me­ dico-biologico, ma se ne possono rintracciare esempi chia­ rissimi in ambito storico. A esempio Erodoto (Hist., II, 33), quando parla del Nilo, il cui corso, le cui sorgenti e la cui lunghezza gli sono sconosciuti, sostiene: "a quanto io ri­ tengo, congetturando (tekmair6menos) dalle cose note quelle ignote, (il Nilo) muove da una longitudine eguale a quella da cui muove il Danubio". Il ragionamento è il se­ guente: il corso del Danubio è conosciuto dalle sorgenti alla foce, e, posto sullo stesso meridiano, nella concezione di Erodoto, scorre nella direzione opposta a quella del Nilo, cioè da nord a sud verso il mar Nero, così come il Nilo scor­ re da sud a nord verso il mar Mediterraneo; il Danubio, in­ fine, è il fiume maggiore dell'Europa, come pure il Nilo lo è dell'Africa. Dati questi elementi, si può immaginare il corso del Nilo in analogia con quello del Danubio. Secondo Diller (1932: 17), tuttavia, l'analogia non riesce a coprire tutti i casi di inferenza dal visibile all'invisibile, e porta a questo proposito un certo numero di esempi, tra i  70 3 . I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA quali l'inferenza sperimentale contenuta al cap. 8 del tratta­ to Le arie, le acque, i luoghi. L'esperimento vuole dimo­ strare che le acque che provengono dalla neve e dai ghiacci, perdono le qualità di leggerezza, di limpidezza e di dolcez­ za, mentre conservano quelle di pesantezza e di torbidezza. L'autore del trattato suggerisce a questo proposito di versa­ re, durante l'inverno, dell'acqua in un recipiente e, dopo averla misurata, di esporla all'aperto per lasciarla gelare. Il giorno seguente va messa di nuovo al caldo e fatta scioglie­ re: misurandola, ci si accorgerà che la sua quantità è molto diminuita. Questa è una prova (tekm�rion) del fatto che, gelando, l'acqua ha lasciato andar via la parte più leggera e delicata e dimostra, contemporaneamente, la scadente qua· lità dell'acqua proveniente dalla neve e dai ghiacci. Questo esperimento viene definito tekm�rion e si basa sulla istitu­ zione di un parallelismo tra due serie di dati di realtà. Ma, giustamente, Diller mette in dubbio che si tratti an­ che di un procedimento analogico: in effetti l'unica analo­ gia che vi si può istituire è che per una piccola quantità di una materia (acqua: ghiaccio) valgono le stesse leggi che valgono per l'elemento nella sua totalità. Si può esprimere quello che avviene nell'esperimento attraverso la formula "parte : parte = tutto : tutto"; la vera inferenza consiste nel trarre conclusioni dalla parte sul tutto. Comunque, per Dil­ ler, qui siamo di fronte a un tipo di inferenza che non è ana­ logica nello stesso senso in cui è analogica l'inferenza che abbiamo visto in Erodoto, in quanto qui "tutto si svolge al­ l'interno del processo che dovrebbe essere spiegato, senza che un processo analogo sia chiamato in causa" (ibidem, 19). Con un ragionamento non diverso, secondo Diller, l'au­ tore del trattato Le arie, le acque, i luoghi sostiene che la parte più fine e più pura deli'acqua ingerita viene espulsa dall'organismo, quella che è più densa e più torbida sedi­ menta: la prova (tekm�rion) è data dall'osservazione di co­ loro che soffrono di calcoli alla vescica, i quali espellono un'urina limpidissima, in quanto la parte più densa e torbi­ da si condensa appunto in calcoli. Ciò che questi esempi hanno in comune è che qualcosa di  3 .7 METODO ANALOGICO E METODO SEMIOTICO 7 1 non percepibile viene spiegato attraverso dei fenomeni per­ cepibili. Però questi fenomeni non sono degli analoga di ciò che deve essere spiegato, bensì dei segni: essi stabiliscono, rispetto al processo che deve essere spiegato, lo stesso rap­ porto che c'è tra l'effetto e la causa. Quindi, per Diller, l'in­ ferenza semiotica (propriamente: semeiotisch, ibidem, 20, da lui collegata strettamente al procedimento medico) deve intendersi nel preciso senso (che sarebbe stato poi quello aristotelico) di inferenza dal conseguente. Ulteriormente per Diller, mentre l'inferenza analogica rende chiaro il "So­ sein" di un processo o di uno stato sconosciuto quella se­ miotica indizia del suo "Dasein". Recentemente la problematica è stata ripresa da Lonie (1981: 79 ss.),16 che ha sottolineato come nei trattati presi in considerazione dal Regenbogen, ma anche in altri testi del C.H. in generale (a esempio in Le arie, le acque, i luoghi, cap. 8), sono rintracciabili degli esempi di processi esplicati­ vi complessi, che comportano sia una inferenza semiotica (inferire le cause da fenomeni osservabili), sia una induzio­ ne analogica. Molto interessante a questo proposito è il capitolo 12 (= Littré 1839, VII 486, 3 ss.) del trattato Sulla natura del bambino: l'autore stabilisce anzitutto la teoria (elemento non osservabile) per cui lo sperma, trovandosi nell'ambien­ te umido e caldo dell'utero materno, acquisisce una capaci­ tà di respiro (pneuma) che si apre una breccia verso l'ester­ no: esso emette un soffio e, in una seconda fase, inspira aria fresca attraverso la breccia. Per provare questa teoria, l'autore ricorre a un'analogia con tre diverse classi di ogget­ ti, in cui si verificherebbe lo stesso fenomeno: il legno, le foglie, le sostanze commestibili. Viene poi descritto il com­ portamento del legno quando brucia: esso espelle aria cal­ da, in corrispondenza del punto in cui è stato tagliato e, contemporaneamente, attira a sé un altro soffio freddo. L'azione dei due movimenti contrapposti fa sì che il fumo e il vapore si avvolgano intorno al legno. Questo fatto viene descritto come un fenomeno osservabile ("noi vediamo che accade questo"), dal quale viene tratta un'inferenza (eklo­ ghismos) circa la causa del fenomeno stesso. Tale inferenza  72 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA assume la forma di un modus tollens "Se non-p, allora non-q; ma q; perciòp": "Se non ci fosse questo duplice mo­ vimento contrapposto, allora il soffio (fumo e vapore) non si avvolgerebbe intorno al legno, fuoriuscendo" (Littré 1839, VII, 486, 20-21). L'autore passa poi a illustrare lo stesso tipo di comporta­ mento negli altri esempi di analoga e procede quindi alla formulazione di una legge generale per induzione: "tutte le cose che sono riscaldate emettono un soffio (pneuma) e fanno entrare un soffio freddo per rimpiazzarlo". Alla fine l'autore sostiene che i fenomeni descritti devono essere con­ siderati come "prove necessarie" della sua affermazione teorica intorno allo sperma. Nel procedimento conoscitivo messo in scena nell'esem­ pio precedente possono essere messi in luce tre diversi ele­ menti . Anzitutto si ha l'istituzione di un'analogia tra un fatto non osservabile (il comportamento dello sperma neli'utero materno) e alcuni fenomeni osservabili. In secondo luogo, c'è una inferenza semiotica (che è pro­ priamente quella di cui parlava Diller, chiamandola "infe­ renza semeiotica'' e che Lonie chiama "inferenza causale") consistente nel risalire dal fenomeno osservabile (a esempio l'emissione di fumo e vapore durante la combustione del le­ gno) alla sua causa ovvero alla natura del processo. È inte­ ressante notare che inferenze di questo tipo sono molto fre­ quenti nei trattati considerati e che l'espressione che designa il fenomeno da cui l'inferenza è tratta è s�mefon. In terzo luogo, si ha la formulazione, per induzione, di una legge generale, che è intesa come valida anche per il pri­ mo termine (quello da dimostrare) dell'analogia. In com­ plesso si può dire che il valore probante dell'analogia consi­ ste nel fatto che essa permette di convalidare una proposi­ zione di partenza (relativa a fatti non osservabili) mediante il ricorso a proposizioni concernenti fatti analoghi, ma os­ servabili, che sono considerati come esempi di una legge va­ lida generalmente. Lonie (1981: 85) iliustra i rapporti tra analogia, principio generale ed enunciazione di partenza con il seguente diagramma:  3.8 LA SEMIOTICA NEI TRATTATI METODOLOGICI 73 principio generale esemplifica/ tt(" , , conferma /// '' /' > analogo illustra asserzione di pertenza 3.8 Il metodo semiotico nei trattati metodologici Nel gruppo di opere del C.H. dove vengono maggior­ mente approfonditi gli aspetti teorici della medicina (Antica medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Ilprognostico, Il regi­ me nelle malattie acute, Male sacro, Le epidemie l e III e le maggiori opere chirurgiche) è possibile rintracciare, nel mo­ do più chiaro, la formulazione della metodologia/semioti­ ca, quella appunto a cui si riferiva Diller (1932) e che Lonie (1981) individua come procedimento di "inferenza causa­ le". In questo paragrafo cercherò di approfondire in che co­ sa consiste tale metodologia, indipendentemente dagli altri procedimenti che possono esserle associati, come abbiamo visto che avveniva con l'analogia.  Nelle opere che abbiamo sopra menzionato viene innan­ zitutto aperto il problema del significato dei dati di osserva­ zione.17 Il singolo fenomeno (hékaston), non essendo più collegato con (né riconducibile a) una presunta unità della natura, come nella physiologhla, ha bisogno di essere inter­ pretato, cioè riconnesso a un sistema di riferimento. È a questo punto che inizia il procedimento inferenziale, o loghism6s, che è in un primo momento essenzialmente abduttivo: 18 si comincia a ipotizzare che il fenomeno singo­ lo, che si presenta ali'osservazione del medico, sia un caso di una qualche regola generale. Si prova, cioè, a pensare che lo hékaston, di per sé insignificante, possa essere consi­ derato come un s�meion, un segno che rimanda a un siste-  3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA ma, e dal quale riceve senso. Questo primo momento ascen­ dente, di costruzione del sistema di riferimento, viene segui­ to da un secondo movimento, discendente, di verifica. Se il sistema ipotizzato sia valido e funzionante, può essere pro­ vato applicandolo a nuovi e diversi casi: il segno si trasfor­ ma così in tekmirion e il metodo diviene deduttivo. Usando lo schema proposto da Eco (1984: 41) per l'abduzione si po­ trebbe cosi illustrare il processo: codice eziologico e/o prognostico: r------------, s�on: h,jksston (singolo fenomeno) : l risultato l -- 1� r - - - - - - - - - - -, l l regola 1  l �------------_j l  l  lL - - - - - - - - - - - - - 1 .------------l L Vegetti (1976: 49) mette molto bene in luce questo dupli­ ce movimento abduttivo-deduttivo della téchn� ippocratica: "Ciò d'altro canto conferiva alla funzione dello hékaston, spogliato dai privilegi 'metafisici', una dignità nuova. Esso infatti era, da un lato, chiamato ad essere segno, s�meion, sull'altro da sé, sul sistema cui, per via di inferenza, era supposto appartenesse; e dall'altro lato, acquistava il ruolo di 'prova', tekmirion, sulla validità dell'inferenza stessa, che si misura appunto sulla possibilità di trovare conferma ___________..J 1 l 74  3.9 LA STRUITURA FORMALE DEL SEGNO 75 negli hékasta. Il metodo semeiotico si configurava cosi, per la téchn� ippocratica, come un movimento - 'dialettico' - che procedendo dallo hékaston posto dall'osservazione (ma è il caso ormai di parlare di 'esperienza' scientifica), lo tra­ sforma in s�mefon, mediante un'inferenza logico-concet­ tuale (loghism6s) e poi in prova o tekm�rion, per conclude­ re, se il circolo si fosse saldato, nella capacità di compren­ sione e di intervento pratico su sempre nuovi hékasta". Sicuramente lo schema di riferimento che il medico deve costruire è un codice, ma di tipo particolare: è infatti pro­ babilistico. Come ha messo in evidenza Di Benedetto (1966 e 1986: 132), i testi del C.H. sono disseminati di espressioni che indicano una tendenza o una probabilità quali "la mag­ gior parte", "i più", "molti", "soprattutto", "spesso", "tal­ volta" ecc. Questo non significa che i medici della collezio­ ne ippocratica non siano impegnati nella costruzione di si­ stemi di riferimento costanti e funzionanti generalmente. Semplicemente la logica del hoi pleistoi ("la maggior par­ te") si sostituiva alla logica del ptintes ("tutti"). Del resto, proprio il carattere probabilistico contraddistingue l'infe­ renza abduttiva o ipotetica rispetto a quella strettamente deduttiva. 3.9 La struttura formale del segno La nozione di s�meion ("segno", "sintomo") è una delle nozioni centrali nei testi del C.H. La struttura formale at­ traverso la quale il segno è introdotto è relativamente co­ stante, in quanto prevede l'inquadramento in uno schema implicativo del tipo: p-:Jq Dal punto di vista linguistico, molto spesso p e q sono rap­ presentate da proposizioni (o da sequenze di proposizioni), il cui collegamento costituisce un periodo ipotetico, come possiamo vedere da un brano tratto dal cap. 9 del Progno­ stico :  76 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA Ma bisogna osservare anche gli altri sintomi (s�mefa): se (�n) in­ fatti il malato sembra sopportare favorevolmente il male, oppu­ re, oltre a questi, mostra qualche altro dei sintomi salutari, c'è speranza che il male si risolva in ascesso, sicché l'uomo soprav­ viva, pur perdendo le parti annerite del corpo. In questo esempio la prima parte dell'implicazione è co­ stituita da una sequenza di due proposizioni condizionali introdotte da �n ("se"), che si riferiscono a dati di osserva­ zione (protasi), mentre la seconda parte presenta un perio­ do complesso (apodosi) relativo a una previsione medica. Se il riempimento semantico della protasi con dati di osser­ vazione, ovvero elenchi di sintomi, è relativamente costan­ te, l'apodosi può contenere anche una enunciazione diagno­ stica, sebbene ciò avvenga meno frequentemente, data la centralità della prognosi nella medicina antica.. Inoltre l'a­ podosi può contenere anche (e talvolta essere sostituita da) una indicazione terapeutica. 3. 10 Moduli espressivi arcaici Il modello "Se p, allora q", che serve molto spesso (a esempio nei trattati tecnico-terapeutici) a introdurre la ma­ lattia stessa, è molto antico e può essere messo in relazione agli analoghi moduli di presentazione della malattia nei trattati medici assiro-babilonesi e in quelli egiziani.19 Il mo­ dello implicativo nei testi assiro-babilonesi prevede la pre­ senza di una protasi, introdotta da §umma ("se", "nel caso che"), contenente l'indicazione dei sintomi, seguita da un'a­ podosi contenente un'indicazione terapeutica. A esempio: Se il cranio di un uomo ha una infiammazione, le sue tempie so­ no afflitte da SA.ZI (?) con turbamento dei suoi occhi, essendo i suoi occhi affetti da offuscamento, obnubilamento, disturbo, arrossamento (?), con le vene infiammate (?), e molto pianto, tu devi tritare in una macina l/3 di ka di lolium (e) spelta mon­ data, setacciare, quanto più puoi, e quindi prendere l/3 di kq, impastare in acqua di rose, radere �a sua testa), applicare legando, e non toglierlo per tre giorni.2  3 . l 0 MODULI ESPRESSIVI ARCAICI 77 La struttura implicativa del modulo assiro-babilonese può essere considerata struttura segnica (anche se non si parla esplicitamente di segno), con la particolarità che al li­ vello semantico è sostituito direttamente il livello praxeolo­ gico:21 il segno (propriamente, l'antecedente del condizio­ nale) suggerisce, senza mediazione, un comportamento. Questo modulo, comunque, estremamente arcaico, è tal­ volta rappresentato anche in alcuni dei trattati tecnico-tera­ peutici, che sono anche i più antichi del C.H. : in Malattie II A e nello stato arcaico (A) del trattato ginecologico Su/le malattie delle donne. Si tratta tuttavia di attestazioni spora­ diche, che sono presenti accanto a moduli diversi, centrati sulla relazione tra sintomatologia e malattia. Un discorso a parte merita il trattato Sulle affezioni in­ terne, dove il modulo espressivo di presentazione della ma­ lattia assume un carattere del tutto particolare. Esso è infat­ ti composto di tre elementi strutturali: (A) una prima pro­ posizione (o serie di proposizioni) introdotte da "se", dove è presentato un fenomeno interno, non visibile, da conside­ rarsi come "la causa" della malattia; (B) una seconda serie di proposizioni, introdotte dall'espressione tade paschei ("tali cose soffre il malato"), nella quale è presentata la sin­ tomatologia (i fenomeni rilevabili esternamente); (C) una terza serie di proposizioni che sono relative alle indicazioni terapeutiche. Avviene molto spesso che la parte A sia sdop­ piata in due: At (le cause dirette dei sintomi); A2 (le cause che hanno prodotto la malattia stessa). Ecco un esempio, tratto dal cap. 8, dove distinguiamo gli elementi strutturali: (At) Se (in) nel petto e nelle spalle si produce una rottura, (A2) fatto che si verifica soprattutto a causa di uno sforzo, (B) ecco i sintomi (tade [...] ptischez): tosse vivace, espettorazione talvolta sanguinolenta; di solito brividi e febbre; dolore acuto nel petto e nelle spalle. Il malato ha l'impressione che una pietra gli pesi sul fianco; i dolori lo trapassano come se lo si bucasse con un ago. (C) Stando così le cose, lo si farà ingrassare con il latte e subito si cauterizzeranno il petto e le spalle. (Littré 1839, VII, 186, 3-10)  78 3. l SEGNI NELLA MEDICINA GRECA Ciò che è interessante di questo modulo dal punto di vista semiotico è che l'inferenza tra i primi due elementi ("Se A, allora B") è non abduttiva (cioè dagli effetti alle cause), ma deduttiva. Ciò significa che l'accento è posto sul sistema, già preliminarmente ricostruito, delle cause che possono produrre determinati sintomi. Questo è il punto di vista del trattatista: nella pratica il medico risalirà invece dai sintomi alle cause. Si deve inoltre notare che Sulle affezioni interne presenta anche una sezione prognostica (D), collocata tra B e C oppure dopo C: il testo citato continuava con "In que­ sto modo il malato sarà molto presto guarito". Un altro termine di confronto per i moduli della medici­ na greca è quello rintracciabile nei testi egiziani. Le formule che questi ultimi adoperano sono diverse da quelle della medicina assiro-babilonese in quanto hanno anche una se­ zione dedicata alla diagnosi. Come Vincenzo Di Benedetto (1986: 91) ha mostrato, esse potevano essere divise in tre elementi strutturali: una prima sezione (A), introdotta dalla congiunzione "se", presenta la sintomatologia come il risul­ tato di un esame/visita del medico; una seconda sezione (B), sempre attraverso la messa in rilievo della parola del medico che fa la diagnosi, enuncia la causa; una terza sezio­ ne (C) presenta l'intervento terapeutico del medico. Vedia­ mo un esempio tratto dal papiro Ebers (scritto intorno al 1550 a.C.): (A) Se tu esamini un uomo che soffre al suo stomaco, tutte le parti del suo corpo sono appesantite come per l'insorgere della stanchezza: tu devi allora mettere la mano sul suo stomaco e lo trovi a mo' di timpano, in quanto va e viene sotto le tue mani. (B) Allora tu devi dire "è un'inerzia nel mangiare che non per­ mette che egli mangi dell'altro". (C) Allora tu devi preparargli un rimedio che svuoti (seguono le indicazioni degli ingredienti della ricetta). In questo caso si ha un andamento abduttivo: la sintoma­ tologia costituisce il punto di partenza per ricostruire il qua­ dro eziologico, cioè una realtà nascosta che deve essere in­ terpretata a partire dai dati esterni disponibili.  3 . l 0 MODULI ESPRESSIVI ARCAICI 79 Tutti questi moduli, attraverso i quali si definisce la pre­ sentazione della sintomatologia medica, costituiranno una base di riflessione, rimanendo talvolta sullo sfondo, ma più spesso affiorando negli esempi, quando la filosofia cerche­ rà di definire la struttura formale del segno. PLATONE 4.0 Introduzione Platone è il primo compiuto erede della grande tradizione culturale che lo precede. Nelle sue opere tale tradizione dà luogo a un'ampia e articolata teoria del linguaggio, ma non produce, allo stesso tempo, una separata teorìa del segno, come invece avverrà in Aristotele e in genere nelle scuole fi­ losofiche successive. Si possono, però, osservare due fatti: da una parte l'ana­ lisi dei contesti in cui Platone usa termini scmiotici permette di ricostruire un can1po teorico di sfondo abbastanza omo­ geneo, i cui contorni definiscono il segno; dall'altra certi aspetti della stessa teoria platonica del linguaggio presenta­ no un carattere intrinsecamente semiotico, fatto che non si verificherà nelle teorie Enguistichc dei filosofi successivi. Esaminiamo separatamentc i due problemi. 4.1 I segni 4. 1 . 1 La comunicazione divina Raccogliendo la tradizione divinatoria, Platone parla di "segni" in tutti quei contesti in cui si instaura una comuni­ cazione tra dei e uomini (Repubblica, 382 e; Timeo, 71 a -  4.1 I SEGNI 81 72 b; Fedro, 244 b-e). In questi casi viene anche usato il ver­ bo s�mafno che, come abbiamo già visto, nell'ambito divi­ natorio non indica tanto il "significare", quanto l"'inviare un segno", vero tramite della comunicazione divina. Tale segno può essere un testo verbale, come il responso della Pi­ zia di Delfi, o anche un testo visivo, come lo sono le imma­ gini del sogno (Timeo, 71 e), o quelle impresse nel fegato che funziona come uno specchio (Timeo, 10 b). Il segno può anche essere rappresentato da un evento na­ turale, come il volo degli uccelli; ma in questo caso (che è quello più classico della divinazione tecnica) la comunica­ zione è troppo mediata per avere davvero �alore e produce più opinione che conoscenza (Fedro, 244 c). In effetti, il ca­ so della comunicazione più efficace con il soprannaturale è quello del "segno demonico" di Socrate, che si manifesta come una "voce" interna (Fedro, 242 b-e; Apologia, 31 d) che parla direttamente al destinatario. 4. 1 .2 Il segno come "impronta nell'anima" In una seconda serie di contesti il segno appare come im­ pronta (tjpos), nel preciso senso in cui è un segno l'impron­ ta lasciata da un sigillo. Questa accezione è presente nel Teeteto (191 a - 195 b), dove, per la soluzione di problemi epistemologici, viene sviluppata la metafora dell'anima co­ me blocco di cera, su cui vanno a imprimersi i segni prodot­ ti dalle sensazioni (tOn aisth�seon s�mefa). Questi segni, quando sono incisi profondamente, costituiscono la base per le elaborazioni della memoria e per la formazione della retta opinione. In effetti si crea falsa opinione in tutti quei casi in cui gli uomini si dimostrano incapaci di "assegnare ciascuna cosa al proprio segno'' (195 a), cioè di far combaciare il segno impresso nell'anima con la nuova sensazione, in quanto il rapporto che si viene a stabilire nel rinnovato processo per­ cettivo è lo stesso che si instaura tra "copie e originali" (apotypOmata kaì tjpous) (194 b).  82 4. PLATONE 4.1.3 I segni della scrittura Il tema della memoria, che abbiamo trovato accennato a proposito dei segni impressi nell'anima nel Teeteto, ritorna in maniera centrale nel Fedro (274 c - 276 a), quando l'at­ tenzione di Platone si focalizza sui segni della scrittura. Nel mito che Socrate racconta, infatti, i segni alfabetici sono un dono che il dio egizio Theuth offre al re di Tebe Thamus, invitandolo a diffonderli in tutto l'Egitto perché, secondo il dio, essi sarebbero stati "una medicina per la sapienza e la memoria" (Fedro, 274 e). Thamus però non accoglie senza riserve il dono di Theuth, convinto che i segni della scrittura abbiano un effetto contrario rispetto a quello previsto dal dio, indebolendo la memoria: gli uomini "fidandosi dello scritto richiamerebbero le cose alla mente non più dalPin­ terno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni (tjpol) estranei" (Fedro, 275 a). Sviluppando questo concetto, Socrate giunge a una con­ trapposizione tra "le parole scritte" e "il discorso scritto nell'anima": quest'ultimo è "vivente e animato", è scritto con la scienza ed è capace di selezionare i buoni destinatari; le parole scritte, invece, hanno solo l'apparenza della vita, ma in realtà sono capaci di dire una sola cosa e sempre la stessa, al pari delle immagini pittoriche che, se interrogate, "mantengono un maestoso silenzio"; inoltre si rivolgono in­ discriminatamente a tutti. Ma, posto il primato del discorso scritto nell'anima, si istaura tuttavia una relazione semiotica tra i due termini: come propone Fedro, le parole scritte possono essere consi­ derate "un'immagine (eldolon)" del discorso scritto nell'a­ nima (276 a); ciò nonostante esse rimangono segni estrinse­ ci, capaci solo di "rinfrescare la memoria di coloro che già sanno" (277 e). Si possono rappresentare questi rapporti se­ miotici con un triangolo (cfr. p. 83). La linea tratteggiata indica il fatto che per Platone le pa­ role scritte, di per sé, non permettono la vera conoscenza, che deve essere mediata dal discorso interiore, ma produco­ no solo opinione (275 b).  4.1.4 Il segno come inferenza 4.1 I SEGNI discorso scritto nell'anima 83  immagini { 8 /d lJI B ) parole scrrtte oggetti della conoscenza Infine, una serie di contesti ci presenta un uso del termine "segno" (stmeion, in alternanza con tekm�rion) come indi­ cante un fatto, un evento, uno stato dal quale si può inferi­ re un altro fatto, evento o stato secondo il modello già in­ contrato nella divinazione mesopotamica e nella medicina greca (p::)q). Nel Teeteto (153 a), a esempio, si dice che il fatto per cui il movimento e lo sfregamento producono il calore e il fuo­ co, i quali a loro volta producono tutte le altre cose, è un se­ gno sufficiente (hikanòn stmeion) per argomentare che il moto produce l'essere e il divenire, mentre la quiete produ­ ce il non essere e il perire. Negli stessi termini si parla di se­ gno nell'Epistola VII (332 c), dove il fatto di avere o meno degli amici viene presentato come il più grande segno del carattere virtuoso o vizioso di una persona. Ancora, nel Gorgia (520 d-e) si definisce un bel segno (ka/òn stmeion) del successo ottenuto il fatto che chi ha reso un servigio ri­ ceva un adeguato contraccambio. In tutti questi casi il se­ gno è espresso da una proposizione legata da un rapporto implicativo con un'altra proposizione. Ma, su questa accezione basilare, si innesta l'idea del st-  84 4. PLATONE mefon come segno che serve a distinguere una certa cosa da tutte le altre. In un passo del Teeteto (208 c - 209 c) si dice che il segno distintivo del sole, sufficiente (hikan6n) per co­ noscerlo, è dato dal fatto che esso è il più risplendente tra tutti i corpi celesti che girano intorno alla terra. Natural­ mente la forma logica sottesa a questa formulazione super­ ficiale è quella implicativa ("Se un corpo celeste che gira in­ torno alla terra è il più risplendente di tutti, allora esso è il sole"). Ma a questo punto Platone si interroga sul valore episte­ mologico della conoscenza attraverso i segni, chiedendosi se cogliere il segno distintivo di una data cosa (''il segno onde la cosa di cui si domanda differisce da tutte le altre", 208 c), significhi cogliere anche la ragione (/6gos) di quella stessa cosa. L'interrogativo non è di piccola importanza e si può notare che esso riapparirà in Aristotele sotto forma di ricer­ ca dei rapporti tra il "segno" e la "causa" di un fenomeno. E, come farà Aristotele, anche Platone qui distingue il se­ gno dalla ragione di conoscenza (/6gos epist�m�s), soste­ nendo che il segno contribuisce al formarsi della retta opi­ nione, ma non della conoscenza. 4.2 La teoria del linguaggio 4.2. 1 Carattere semiotico della concezione lingui­ stica di Platone Nella speculazione successiva a Platone, la teoria del se­ gno e quella del linguaggio verranno a costituire due ambiti completamente separati, che considereranno diversi gli og­ getti delle rispettive indagini, chiamandoli con nomi diversi (in Aristotele, a esempio, il segno linguistico sarà sjmbo­ lon, e non s�mefon). Nella filosofia platonica, invece, que­ sta divaricazione non si è ancora affermata, ma, al contra­ rio, si può notare che la sua teoria linguistica ha un caratte­ re spiccatamente semiotico.  4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 85 In generale, nella cultura greca, il segno è concepito come un elemento percepibile che rimanda a (o permette di giun­ gere alla conoscenza di) un elemento che non è manifesto (ad�lon, aphanés ecc.); come abbiamo visto, del resto, nel caso della medicina e, prima ancora, della divinazione, il segno costituisce la mediazione tra il piano delle cose acces­ sibili ai sensi e il piano delle cose non accessibili. Proprio con questi caratteri si presenta il segno linguisti­ co nei dialoghi platonici (soprattutto nel Crati/o e nel So/i­ sta): esso è d�/Oma ("rivelazione") di un oggetto non perce­ pibile (sia esso un "significato", sia esso l"'essenza" della cosa nominata). Costantemente il verbo s�mafno ("signifi­ co", "manifesto attraverso segni") si alterna al verbo d�/60 (''rivelo", "manifesto") quando si parla di una forma espressiva che rimanda a un contenuto che non viene colto con i sensi. Ciò avviene a esempio in un passo del Crati/o (422 e), nel quale Socrate indaga la capacità che hanno i prO/a on6mata (gli elementi primi e irriducibili del linguag­ gio) di rendere evidenti (phanera) ciascuno degli enti: a que­ sto proposito li paragona ai segni gestuali dei muti, che so­ no capaci di indicare (s�malnein) le cose con le mani, con il capo e con il resto del corpo, pur essendo impossibilitati a manifestarle (d�lot2n) con il linguaggio verbale. A più riprese nel corso del Crati/o viene affermato il compito semiotico di "rivelazione" (d�/Oma) che hanno gli elementi del linguaggio. Ma Platone distingue la rivelazione effettuata dai nomi da QUella effettuata dagli enunciati (Lo­ renz e Mittelstrass 1967: 8): questi ultimi, infatti, rivelano sempre qualcosa intorno agli oggetti (Sofista, 262 d), men­ tre soltanto i nomi "corretti" rivelano gli oggetti come sono (Crati/o, 422 d). Anzi, è proprio il carattere di rivelazione che riveste il nome a costituire il suo criterio di correttezza. Nel Sojzsta (262 a) il nome è definito espressamente "se­ gno vocale" (s�mefon tis phonis), espressione che è usata come equivalente a d�/Oma e la cui funzione è quella di ma­ nifestare l'"essenza" della cosa nominata: "lo direi infatti che c'è un duplice genere dei nostri segni fonici (tii phonii [.. .] d�lomaton) che indicano l'essere di qualche cosa" (So- fista, 261 e).  86 4. PLATONE Particolari combinazioni di questi "segni vocali" danno luogo agli enunciati (/6go1), facendo scattare un livello su­ periore. In effetti, nel Sofista viene preso in considerazione il problema che, in termini aristotelici, sarà descrivibile co­ me opposizione tra "semantico" e "apofantico". In Plato­ ne, questa si presenta come opposizione tra il livello ono­ mazein ("nominare") e il livello légein ("enunciare") (262 d). I singoli segni vocali, siano essi on6mata ("nomi") o rhimata ("verbi"), manifestano un contenuto nel momento in cui nominano qualcosa. Le corrette combinazioni di que­ sti segni vocali si situano a un diverso livello, perché, oltre a manifestare un contenuto, lo presentano come "essere il ca­ so" o "non essere il caso" di un determinato evento, stato o processo, cioè ne costituiscono un'asserzione (De Rijk 1986: 199-200). 4.2.2 La teoria linguistica del "Cratilo" Il problema fondamentale che viene affrontato nel Crati­ lo è quello della "correttezza dei nomi". Esso è posto fin dali'inizio del dialogo al centro di una disputa che oppone Cratilo a Ermogene e per la quale Socrate è scelto come giu­ dice. Complessivamente, nella discussione, Cratilo sostiene una tesi che possiamo definire "naturalista", mentre Ermo­ gene una tesi "convenzionalista"; ma le rispettive posizioni sono più stratificate e presuppongono alcune distinzioni. Innanzitutto c'è un primo livello di discorso che riguarda l'atto della nominazione in un momento del linguaggio che possiamo considerare aurorale. Per Ermogene tale atto è frutto di convenzione e nasce dali'accordo degli uomini, che già hanno una conoscenza preliminare delle cose. Per Cratilo, al contrario, l'atto della nominazione non presup­ pone alcun accordo tra gli uomini, ma avviene in maniera naturale. Un secondo livello di discorso è rappresentato dall'analisi dello stesso fenomeno trascurando il momento diacronico della formazione del linguaggio e focalizzando il rapporto di correttezza rintracciabile tra il nome e la cosa a cui esso è  4.2 LA TEORIA DEL LINOUAOOIO 87 applicato sincronicamente. In questo caso tanto Ermogene quanto Cratilo propongono la stessa soluzione, sostenendo che i nomi sono sempre correttamente riferiti alle cose. L'u­ nica differenza tra le due posizioni consiste nel fatto che per Cratilo la correttezza dei nomi segue una legge naturale, mentre Ermogene sostiene il carattere convenzionale delle regole che stabiliscono la correttezza, e adduce come prova il fatto che i nomi possono essere cambiati a piacere, senza disturbare tale rapporto. Un terzo livello di discorso, che scaturisce direttamente dal precedente, è quello che riguarda l'estensione della vali­ dità del rapporto di correttezza. Per Cratilo la correttezza del nome è "universale", vale tanto per i Greci, quanto per i barbari. Per Ermogene, invece, sembra che tale correttezza debba essere limitata alla comunità linguistica particolare che ha adottato la convenzione. Si possono distribuire questi dati su una matrice:        Ermogene Cratilo atto della nomina- zione primordiale frutto di accordo n aturale sempre presente sempre presente correnezza basata su leggi con- venzionali basata su leggi naturali validità del rap- porto di correnezza limitata alla comu- nitè �inguistica particolare universale    Come abbiamo visto, entrambi i contendenti danno per scontato il carattere di correttezza dei nomi rispetto alle co­ se. Tuttavia ciascuno fornisce una risposta diversa alla do­ manda su chi garantisce la correttezza. La legge naturale,  88 4. PLATONE che ne è responsabile per Cratilo, focalizza il rapporto che si stabilisce tra il nome e gli oggetti che lo portano, senza che abbia alcuna importanza ciò che gli utenti del nome ne pensano. Al contrario, la convenzione, che per Ermogene è garanzia di correttezza del nome, è una regola che riguarda gli utenti del nome, senza che venga presa in alcuna consi­ derazione la natura dei portatori del nome stesso (Kretz­ mann 1971: 127). 4.2.3 Il problema linguistico e la dialettica Accanto a quelle di Ermogene e di Cratilo, nel dialogo è presente anche una terza teoria, sviluppata dallo stesso So­ crate attraverso la confutazione delle posizioni dei due con­ tendenti. Socrate, come al solito, è portavoce delle opinioni di Platone e le ragioni per cui egli rifiuta entrambe le altre posizioni sono da connettersi con la concezione generale del metodo della filosofia che propugna Platone. Infatti, se Cratilo o Ermogene avessero ragione, la via della dialettica, come mezzo per raggiungere la conoscenza, risulterebbe impercorribile (Weingartner 1969: 6). Platone prevede il linguaggio come mezzo necessario nella ricerca fi­ losofica, ma pensa anche che la verità vada cercata nelle co­ se e non nel linguaggio stesso, come suona appunto la con­ clusione del dialogo. Le teorie di Ermogene e di Cratilo mettono entrambe in pericolo questo principio. Vediamo brevemente in quale modo. La teoria di Ermogene si presenta all'inizio come una teoria "convenzionalista classica", sostenendo il principio secondo cui la convenzione e l'accordo costituiscono il cri­ terio di correttezza dei nomi (384 c-d). Tuttavia questa non è l'unica posizione che Ermogene sostiene e non è quella che è effettivamente attaccata da Socrate. Subito dopo Er­ mogene sostiene anche che, "qualsiasi nome uno imponga a una cosa, questo è quello corretto", precisando che, "se uno sostituisce quel nome con un altro, non usando più il precedente, il secondo nome non è affatto meno giusto del primo" (384 d). A questo punto Socrate costringe Ermoge-  4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 89 ne a effettuare un cambiamento di focalizzazione e a preci­ sare che chiunque può operare questo cambiamento di no­ mi, non solo una comunità, ma anche un singolo individuo. Ne risulta una dottrina degli idioletti autonomi, tanto parcellizzati da coincidere con la parlata di un solo uomo, che fa scoppiare il convenzionalismo di Ermogene in un soggettivismo totale; tanto che Socrate non manca di met­ terlo in parallelo con il relativismo di Protagora (386 a). Questa "Humpty Dumpty position", come è stata arguta­ mente chiamata (Weingartner 1969: 7), fa perdere al lin­ guaggio la funzione comunicativa e rende impossibile la dialettica, in quanto non permette di distinguere tra enun­ ciati veri ed enunciati falsi. Tuttavia anche la posizione di Cratilo conduce, altrettan­ to perentoriamente, a una impossibilità della dialettica. Egli infatti elabora una teoria che ha le caratteristiche di un "iconismo assoluto": il nome rivela la natura della cosa che nomina, imitandola; ma questa imitazione è totale o è un nonsenso. La configurazione sonora, che si distaccasse an­ che per una piccola parte dalla perfezione deli'imitazione, verrebbe a essere niente di più che "il rumore che fa uno che agita un vaso di bronzo percuotendolo" (430 a). Poiché per Cratilo la produzione linguistica sembra dare luogo in certi casi a imitazioni corrette, in certi altri a dei nonsensi, in entrambe le evenienze la dialettica verrebbe ri­ dotta a uno strumento sprovvisto di senso. Se, a esempio, la ricerca dialettica cominciasse con il chiedersi "Che cos'è la giustizia?" e sperasse di raggiungere, nel corso del dibattito, la conoscenza dell'entità sotto indagine. Si presenterebbero allora due possibilità: (i) se l'espressione !giustiziai rivelasse naturalmente l'oggetto, che nomina, la ricerca finirebbe prima di cominciare; (ii) se invece essa fosse analoga al "ru­ more prodotto da un vaso di bronzo percosso", la domanda stessa non avrebbe senso. La dialettica, per quanto debba giungere a giudizi veri, deve avere la possibilità di enunciare giudi.zi falsi, che devono essere corretti nel corso del dibatti­ to. Ed è appunto questa possibilità che viene eliminata dalla teoria di Cratilo.  90 4. PLATONE 4 . 2 . 4 Il nome come strumento Uno dei punti fondamentali del dialogo platonico è costi­ tuito dalla ricerca di un criterio oggettivo che permetta di assegnare un valore di verità tanto agli enunciati quanto ai nomi. Per raggiungere adeguatamente questo scopo, Socra­ te sposta temporaneamente il discorso dal piano linguistico a quello ontologico, affermando che le cose (pragmata) hanno in loro stesse una stabile essenza e non dipendono dal giudizio soggettivo (386 e). Una tale caratteristica di oggettività è attribuita da Socra­ te anche alle azioni (praxeis), che al pari delle cose (pragma­ ta) sono delle specie di enti (onta). Infatti, dal momento che ci aspettiamo che le azioni abbiano certi effetti, esse non possono essere compiute arbitrariamente. Ma, per Socrate, anche il dire (légein) e il denominare (onomazein, che è una parte del dire), costituiscono delle forme di azione e, di con­ seguenza, devono essere compiute in maniera non arbitra­ ria. Possiamo illustrare questa serie di divisioni attraverso il seguente schema: enti (6nts) cose (pr8gmsta) l ""azioni (prAxtJis) /\ dire (/(lgein) /\  Nel resto del dialogo l'intuizione che il dire e il denomi­ nare costituiscono delle specie di azioni non verrà ulterior­ mente sviluppata, ma rimane comunque una importante in­ dicazione di una possibilità di sviiuppo in senso pragmatico che avrebbe potuto avere la linguistica greca. In questo contesto, lo scopo di mostrare che il linguaggio ha un legame oggettivo con la realtà, commisurato con il fi- denominare (onomAzein)  4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 91 ne di raggiungere una comunicazione efficace, è perseguito attraverso il paragone del nome con uno strumento (orga­ non): proprio come la spola serve a sceverare la trama del tessuto, così il nome è "uno strumento didascalico e sceve­ rativo dell'essenza" (388 c). In altre parole, in primo luogo, i nomi operano una tassonomia della realtà, separando gli oggetti del reale, in maniera tale da rispettare le loro nature (Kretzmann 1971: 128); in secondo luogo i nomi permetto­ no di comunicare questa tassonomia. 4.2.5 Forma ("eldos") e materia del nome Se lo scopo dei nomi è quello di far acquisire la conoscen­ za delle cose e di comunicarla agli altri, è necessario che chi ha denominato la realtà (il "nomoteta", personificazione di un'autorità linguistica accettata), categorizzandola in una certa maniera, già ne possedesse una conoscenza prelimi­ nare. In effetti, per garantire la correttezza dei nomi, il nomo­ teta ha agito come il costruttore di spole. Come quest'ulti­ mo guarda ali'eidos ("forma", "idea") della spola, così il nomoteta, per costruire il nome, guarda al "nome in sé", cioè alla forma ideale del nome (389 b; 390 a). Allo stesso titolo, come non ogni materiale è adatto alla costruzione di uno strumento, ma è necessario usare la ma­ teria che meglio si adatta alla forma (a esempio il ferro per il trapano e il legno per la spola, e non viceversa), ugual­ mente sarà necessario che i nomi siano costruiti con suoni e sillabe, piuttosto che con altro materiale, se devono com­ piere bene la loro funzione. Tuttavia non sarà necessario che la forma fonica (direm­ mo: di superficie) dei nomi sia identica per tutte le lingue, ma ciascuna lingua suddividerà in modo diverso il conti­ nuum sonoro (nello stesso modo in cui non ogni fabbro adopera lo stesso ferro per lo stesso strumento atto allo stesso scopo) (389 e). In questo modo Platone spiega la di­ versità delle lingue, le quali pure, indistintamente, sono or­ ganizzate in maniera da rispettare i medesimi modelli. Ciò  92 4. PLATONE che varia da lingua a lingua è la materia, da interpretarsi co­ me la configurazione superficiale di nomi e di sillabe che as­ sume ciascun nome. Ciò che rimane costante è laforma (eidos, idéa) del nome che conviene a ciascuna cosa (390 a). Un modo di pensare a questa forma è quello proposto dali'interpretazione di Kretzmann (1971: 129-130), che la identifica con la funzio­ ne e lo scopo essenziali a ciascun nome, di separare le cose e di separarle in maniera da rispettare le loro giunture natura­ li. In questo modo, a esempio, il nome greco l hippos l o quelli barbari lchevall, lcavallol, lborsel, lPferdl ecc. saranno tutti corretti se riusciranno a ritagliare la realtà se­ condo le "naturali" giunture; e sembrerebbe esserci il pre­ supposto che tali giunture debbano essere le stesse per tutte le culture. Come si vede, Platone qui sta affrontando una questione che potremmo definire "hjelmsleviana",1 e così potremmo parlare, più che di funzione, come fa Kretzmann, di forma e sostanza, di espressione e contenuto, come fa Hjelmslev: la forma espressiva (la materia di Platone) può variare da lingua a lingua; ma, affinché il nome sia quello giusto, è ne­ cessario che la forma del contenuto (l'eidos o idéa di Plato­ ne) ritagli la materia del contenuto secondo le medesime ar­ ticolazioni. Cosi l hippos l , l cheval l , l cavallo l , l borse l , l Pferd l saranno tutti nomi giusti se ritaglieranno il conti­ nuum materiale del contenuto ("la cavallinità, all'interno dello spettro relativo agli animali) esattamente secondo le stesse giunture. Che poi l'elaborazione dei nomi debba essere messa in corrispondenza con una corretta tassonomia del continuum della realtà, da effettuarsi verosimilmente con il metodo della divisione (diairesis), è dimostrato dal fatto che spetta al dialettico, personificazione dell'autorità scientifica e filo­ sofica, giudicare se il lavoro dei vari nomoteti è stato fatto bene (390 d).  4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 93 4.2.6 La prima teoria semantica Seguendo l'interpretazione di Donatella Di Cesare (1981) si possono rintracciare nel Crati/o due diverse teorie seman­ tiche, che si riferiscono, la prima a una situazione di lin­ guaggio ideale, e la seconda a una situazione di linguaggio come realtà storicamente data. Esaminiamo brevemente la prima. A un certo punto del dialogo (393 d), infatti, Socrate so­ stiene che ciò che è veramente importante per il nome è di significare (s�malnein) l'essenza della cosa (ousfa tofl prag­ matos), la quale viene chiaramente espressa (d�Joumén�) dal nome. Una volta che il nome esprime l'essenza della co­ sa, non ha nessuna importanza se vengono aggiunte o tolte delle lettere al nome. L'esempio che viene portato è quello del nome di una let­ tera dell'alfabeto, il bita: esso nomina la lettera l b l , ma a essa aggiunge ita (lel), tau (ltl) e alpha (lal); nonostante queste aggiunte, esso nomina correttamente il l b l , in quan­ to fa comparire il "valore" della lettera che doveva essere nominata. Un analogo ragionamento vale per tutti i nomi: essi sono corretti se nominano l'essenza della cosa di cui so­ no nomi. Il significato è, dunque, identificato con questa essenza della cosa. Più avanti (394 b-e) Socrate introduce un altro concetto, quello di djnamis ("valore"), che sembra anch'esso identifi­ carsi con il significato. Infatti egli sostiene che chi è vera­ mente pratico di nomi guarda al loro valore (djnamis), non lasciandosi sviare né da aggiunte né da trasposizioni di let­ tere. Cosi i nomi Astyanax ("Astianatte" = "signore della città") e Héktor (''Ettore" = "che tiene saldo"), pur avendo in comune solo la lettera l t l , significano la stessa cosa (tau­ tòn s�malne1). Dunque il significato del nome è dato da entrambi gli ele­ menti, l'essenza della cosa nominata e la djnamis del nome: essi di fatto coincidono, in quanto il nome, attraverso il suo significato, deve esprimere la cosa che nomina. Si possono illustrare i rapporti tra nome, significato e cosa con il se­ guente triangolo:  4. PLATONE essenza della cosa = In effetti , come l03), per Platone il nome non "rispecchia" la cosa, ma solo la sua essenza, ed è questa la ragione per cui possono esserci nomi diversi per lo stesso oggetto. Del resto, per rispecchia­ re l'essenza della cosa, il nome deve "associare l'individuo al genere cui appartiene" (ibidem); fatto che corrisponde a quanto avevano sottolineato Lorenz e Mittelstrass (1967: 6- 8), con la loro attribuzione di una funzione predicativa al nome. Il significato specifico del nome, la sua dynamis, consiste allora neli'assegnare ciascuno degli oggetti al con­ cetto appropriato, o al genere che gli compete. Ed è rispetto a questa operazione che si può valutare oggettivamente la correttezza o meno del nome. Se ci soffermiamo a considerare i risultati della teoria del significato esposta nella prima parte del dialogo, vediamo che tutta la dimostrazione di Socrate è rivolta a mostrare la coincidenza della struttura linguistica con quella logico-on­ tologica: il linguaggio, attraverso i nomi, ritaglia il reale se­ condo le stesse giunture che quest'ultimo naturalmente pre­ senta. Così, imitando e rappresentando la struttura della realtà, il linguaggio costituisce una mediazione tra il mondo delle idee e quello sensibile. Del resto il nome rappresenta il genere stesso che può essere predicato di ciascuna cosa e che, inafferrabile in natura, si concretizza nella materia fo­ nica. dynamis  nome cosa sottolinea Donatella Di Cesare ( 1 98 1 : 94  4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 95 Tuttavia, come dicevamo, l'identità descritta nella prima parte del dialogo non costituisce per Platone un dato di fat­ to, ma un obiettivo ideale. Infatti dalla parte finale del dia­ logo, che segue la digressione etimologica scaturirà una se­ conda e ben diversa teoria semantica. 4.2.7 La seconda teoria semantica In effetti, l'analisi etimologica svolta da Socrate nella parte centrale del dialogo, e la congiunta riflessione sull'ori­ gine del linguaggio, erano state intraprese per dimostrare la sostanziale identità tra la struttura linguistica e quella anto­ logica, in generale, e tra l'essenza dell'oggetto e la djnamis, in particolare. Ma il risultato a cui esse approdano è esatta­ mente l'op,posto: il linguaggio non rispecchia la struttura oggettiva del reale , ma piuttosto è espressione dell'idea che del reale si è formato il nomoteta. Il significato, dunque, viene a essere identificato con la rappresentazione del reale che si forma nel soggetto (Di Ce­ sare 1981 : 131), rappresentazione che è il risultato delle opi­ nioni, sensazioni, impressioni che vengono esercitate sul soggetto dagli oggetti della realtà. Pagliara (1956 a: 73) ave­ va del resto individuato questo passaggio da una prima a una seconda teoria semantica come analisi di due aspetti di­ stinti del fatto linguistico: (i) il rapporto tra il significante e l'oggetto, nella prima parte del dialogo; (ii) il rapporto tra il significante e il significato, nella seconda. In base alla seconda teoria, il triangolo che illustra i rap­ porti tra nome, significato e cosa dovrebbe avere una parti­ colare struttura (cfr. p. 96). Il linguaggio, dunque, non rispecchia il mondo delleidee, cioè l'essenza delle cose, ma piuttosto il mondo empirico: esso costituisce una realtà storica, che contiene la visione del mondo che avevano i primi nomoteti, quando tentarono di dare un ordine al reale, classificandolo e categorizzando­ lo, proprio servendosi dei nomi come "strumenti sceverati­ vi". Ciò non esclude, tuttavia, che si potrebbe arrivare a un adeguato rispecchiamento della realtà mediante il linguag-  96 4. PLATONE rappresentazione soggettiva = significato nome gio, qualora si raggiungesse una completa conoscenza delle cose. Di particolare interesse risulta poi il fatto che è prevista una precisa funzione mediatrice dell'anima, grazie alla qua­ le la teoria platonica si avvicina a quelle moderne, in cui il linguaggio viene riconosciuto come fatto psichico. Platone raccoglie qui l'eredità dei sofisti, che unici tra i filosofi pre­ cedenti avevano insistito sulla dimensione psichica del lin­ guaggio, in contrapposizione a quanti prevedevano la possi­ bilità per il reale di essere rispecchiato nel linguaggio in ma­ niera diretta e senza mediazione. 4.2.8 La mimesi La prima parte del dialogo era stata dedicata alla confu­ tazione della teoria convenzionalista. L'ultima parte è inve­ ce dedicata alla confutazione della teoria del rispecchiamen­ to sostenuta da Cratilo. Già la sezione centrale, dedicata al­ l'etimologia, ha portato alla conclusione che il linguaggio costituisce una rappresentazione soggettiva, fatto che, di per sé, contraddice la tesi di Cratilo. Tuttavia Socrate, per condurre ancora di più all'assurdo la tesi di quest'ultimo, solleva il problema della mimesi, proponendo provvisoria­ mente una definizione del nome come "imitazione con voce   cosa  4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 97 di cosa che si imita; e colui che imita nomina con la voce ciò che imita" (423 b-e). Quel che è interessante è che anche l'imitazione sembra avere, in linea generale, un carattere semiotico: infatti l'imi­ tazione "svela" (d�loi) l'essenza della cosa. Ma quello di imitazione non è un concetto pacifico e So­ crate lo indaga in tre diversi ambiti: (i) nel ritratto; (ii) nel caso dei doppi; (iii) nel caso del rispecchiamento "metafisi­ ca". Esaminiamo il primo caso. Tanto il ritratto quanto il nome possono essere messi a confronto con l'oggetto che imitano. Per Socrate si verifica allora il fenomeno per cui certi elementi presenti nell'origi­ nale possono risultare trascurati, come pure elementi assen­ ti possono risultare aggiunti. La copia ha dunque un carat­ tere di iconicità, ma presenta variazioni all'interno di un continuum. Questo, per Socrate, è lo stesso fenomeno che presentano i nomi, fatto che equivale a sottolineare il loro carattere segnico. Ma Cratilo non è della stessa opinione, in quanto pensa che i nomi debbano avere un carattere di so­ miglianza assoluta, in mancanza della quale non sono affat­ to tali. Ecco in schema le due posizioni:       Socrate Cratilo rapporto ..nome/oggetto• iconico icon ico carattere della mimesi continuo discreto    A questo punto Socrate introduce l'argomento del dop­ pio: se nella mimesi tutti i caratteri deli'originale venissero riprodotti, non si avrebbe una imitazione, ma una occor-  98 4. PLATONE renza identica dello stesso oggetto. Non si sarebbe dunque in presenza di un rapporto di rappresentazione, ma di un vero e proprio doppio, in una situazione in cui è impossibile stabilire quale è il rappresentante e quale il rappresentato. In altre parole, il nome possiede un carattere segnico pro­ prio in virtù di questa sua dissimiglianza rispetto all'oggetto cui rimanda. Il terzo caso considerato, che abbiamo definito come "ri­ specchiamento metafisico", pone in primo piano il tema dell'imitazione che il singolo suono compie di un singolo frammento della struttura del reale. La parola skl�rot�s, che significa "durezza",�ontrariamente a quanto ci aspette­ remmo se i suoni rispecchiassero in tutto le essenze delle co­ se, contiene al suo interno un /ambda ( I I I ), che esprime "mollezza" e "scivolosità". Dunque la parola imita la "du­ rezza" solo in parte, mentre in parte se ne discosta. Con ul­ teriori esempi, poi, Socrate mira a negare anche un'altra ipotesi, più fondamentale filosoficamente: quella secondo cui nel linguaggio venga rispecchiata la veduta eraclitea del­ la realtà come eterno flusso e movimento (41 1 c; 436 e); ciò infatti non si verifica perché, come sottolinea Socrate, nel linguaggio molte voci lessicali presentano la realtà come perfettamente immobile (437 c). 4.2.9 L'uso e la convenzione Dalle critiche che Socrate muove, soprattutto a Cratilo, scaturisce una proposta positiva. Avendo infatti osservato che il nome skl�rot�s (''durezza") è inesatto, in quanto con­ tiene nel suo significante elementi che non corrispondono alla qualità della cosa designata, Socrate osserva anche che, nonostante ciò, esso adempie perfettamente alla sua funzio­ ne comunicativa: infatti i Greci si intendono quando tale nome viene usato. La responsabilità di questa comprensione è attribuita da Socrate ai due fenomeni dell'uso (éthos) e della convenzio­ ne (xynth�k�): questi fenomeni non circoscrivono soltanto un rapporto tra i due utenti del nome, ma si rintracciano  4.3 TEORIA LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 99 anche a livello delle relazioni tra il nome e l'oggetto, cioè al livello denotativo (Kretzmann 1971: 138). L'idea che il no­ me sia "rivelazione" (d�/Oma) dell'oggetto denotato non viene abbandonata, ma viene solo spostata la responsabilità di questa rivelazione dal rapporto di somiglianza tra i due termini, alla convenzione che li associa (435 a-b). Platone, tuttavia, non sostituisce semplicemente una con­ cezione convenzionalista a una in cui la semiosi avviene per somiglianza. Per lui la situazione ideale rimane quella in cui i nomi sono immagini che riproducono l'essenza degli og­ getti nominati; ma sono i limiti del linguaggio naturale che rendono necessario il ricorso all'accordo (435 b-e). Questo è del resto il punto in cui i commentatori hanno scorto un compromesso tra il convenzionalismo di Ermogene e il na­ turalismo di Cratilo. Nella chiusura del dialogo si deve rilevare anche uno spo­ stamento nella funzione assegnata al segno linguistico: c'è una accentuazione della funzione comunicativa a scapito di quella cognitiva. Il linguaggio non è uno strumento abba­ stanza valido per la conoscenza della realtà, per raggiungere la quale sarà necessario percorrere una via più diretta: quel­ la del ricorso alle cose stesse (439 b). Esso però si configura come un ottimo strumento per il buono svolgersi della co­ municazione interoggettiva. 4.3 La teoria linguistica deii'"Epistola VII" Un'interessante trattazione degli elementi coinvolti in una teoria del significato la si può trovare nell'Epistola VII, un testo attribuito a Platone, ma la cui autenticità è stata più volte messa in dubbio (Edelstein 1966). A molti è sem­ brato che essa non contenesse niente di veramente non pla­ tonico, e a ogni modo presenta un interesse intrinseco che induce a farne oggetto di un'analisi particolare. Nella sua parte centrale, la lettera contiene un passo teo­ rico (342 a - 344 d), in cui vengono indagati gli elementi che permettono di raggiungere e trasmettere la conoscenza. Si tratta anche, allo stesso tempo, di elementi che intervengo-  100 4. PLATONE no nel processo di semiosi. Il primo di questi è il nome (onoma); il secondo la definizione (/ogos); il terzo l'imma­ gine (efdo/on); il quarto la conoscenza (epist�m�); il quinto, infine, l'oggetto conoscibile (gnost6n) e veramente reale (al�thos 6n) (342 a-b). Questi elementi , secondo P interpretazione di Morrow (1935: 68), sono organizzabili secondo un ordine interno. Infatti, da una parte si possono collocare i fattori che costi­ tuiscono gli strumenti di conoscenza: i nomi, le definizioni, le immagini o diagrammi; dall'altra, in opposizione diame­ trale, si trovano gli oggetti conoscibili e reali. A mediare tra gli strumenti e l'oggetto della conoscenza si trova l'epist�­ mt, che Morrow interpreta come "apprensione soggettiva", e che è ulteriormente suddivisa, come Platone dice più avanti (242 c), in retta opinione (a/�th�s doxa), conoscenza (epist�m�) (ritorna curiosamente come nome di una specie, quello che è il nome dell'intero genere) e ragione o intuizio­ ne (noas), del quale ultimo Platone precisa che è il più vici­ no al quinto fattore. Nella lettera si dice che questi tre elementi, che compon­ gono complessivamente l'epistémt e che devono essere con­ siderati come un unico grado, non risiedono "né nelle voci, né nelle figure corporee, ma nelle anime (en psychais)", fat­ to che, come Platone sottolinea, li distingue sia dall'oggetto reale, sia dagli strumenti di conoscenza. Il richiamo ali'ani­ ma, che può essere messo in parallelo con il ruolo assegnato all'anima nella seconda teoria semantica del Crati/o, induce ad accostare questa nozione di epist�m� alla nozione di si­ gnificato; fatto che del resto può venir confermato se leg­ giamo il passo con l'ottica della tradizione posteriore, so­ prattutto aristotelica, che colloca il significato esattamente nell'anima (tà en tii psych�r) (De interpreta/ione, 16 a). Possiamo distribuire i cinque elementi sul triangolo se­ miotico nel modo illustrato alla p. 1 0 1 . Tutto l'interesse del passo è orientato a mostrare il carat· tere difettoso degli strumenti di conoscenza. E, per suggeri­ re come si può ovviare a questo inconveniente, Platone ela­ bora una dottrina che è molto vicina alla teoria di Peirce della semiosi come "fuga di interpretanti". Vediamola at-  4.3 TEORIA LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 101 4. apprensione soggettiva ( epist�ml)   3. immagine- (efdDion) 2. definizione (/6gos) l intuizione (noùs) l conoscenza (epist�mlJ} l retta opinione (allfth�s d6xa) 6. oggetto conoscibile (gn�st6n) e veramente reale (sleth;;s 6n) 1 . nome (6noms) traverso l'esempio stesso che fa da filo conduttore al discor­ so platonico. Si tratta deli'esempio del "cerchio", non a caso di carat­ tere matematico. Non è difficile per Platone mostrare che il referente dell'espressione l cerchio l non è un oggetto del mondo reale, sottoposto al divenire e alla corruzione, ma è un'entità di altro tipo. A essa non si può arrivare se non passando attraverso l'intera serie dei gradi preliminari e, so­ prattutto attraverso un processo di continua sostituzione dell'uno con l'altro: "trascorrendo continuamente fra tutti questi, salendo e discendendo per ciascuno di essi, si può, quando si ha buona natura, generare a gran fatica la cono­ scenza" (343 e). Ciascun elemento, di per sé incompleto (co­ me lo sono gli interpretanti di Peirce), contribuisce al rag­ giungimento della conoscenza se inserito in questo processo instancabile di sostituzione e di confronto. Questo processo di continua sostituzione permette di ovviare all'imperfezio­ ne degli strumenti.  102 4. PLATONE In effetti il carattere di imperfezione del nome è dovuto al fatto che, come sappiamo dal Crati/o, nel linguaggio sto­ ricamente dato esso non è l'immagine della cosa che nomi­ na, ma è legato alla convenzione. Questo, secondo l'autore ' Epistola VII, gli toglie stabilità, in quanto potremmo dell usare l'espressione l linea retta l per riferirei alle cose circo­ lari e l'espressione l cerchio l per designare la linea retta, senza provocare cambiamenti nelle cose stesse (343 a-b). Si può ricorrere allora alla definizione del cerchio come "quella figura che ha tutti i punti distanti dal centro" (342 b); ma anch'essa, per quanto aggiunga qualcosa, risulta composta di nomi e di verbi e dunque presenta difetti ana­ loghi a quelli incontrati a proposito dei nomi. Tra l'altro, sottolineare che la definizione è "formata di nomi e di ver­ bi" significa accentuarne il carattere di significante, piutto­ sto che quello di significato. Essa è semplicemente un'altra espressione, che può essere sostituita, nel processo conosci­ tivo e/o semiosico, al nome. Del resto, alla possibilità di una sostituzione tra nomi, Platone aveva già accennato, presupponendo l'intercambiabilità di l cerchio l (kyklos), l rotondo l (strongylon), l circolare l (peripherés) (242 b-e). Qualcosa ancora viene aggiunto dal terzo livello, quello rappresentato dagli eldola ("immagini"). Qui il cerchio è conosciuto come "quello che si disegna e si cancella, che si costruisce al tornio e che perisce" (242 c). Si tratta della so­ stituzione di un interpretante iconico ai precedenti interpre­ tanti verbali: per capire che cosa è il cerchio in sé, non sono necessarie solo le spiegazioni verbali, ma anche le illustra­ zioni e le astensioni. Anche a questo livello la conoscenza presenta un carattere incerto, in quanto incontra oggetti in cui l'essenza (tò 6n) risulta inquinata dalla qualità (tò poi6n 11), cioè da proprietà accidentali e contrarie, talvolta, alla vera natura del suo referente metafisica: infatti per ogni punto del cerchio può essere costruita una tangente (343 a), tale che, isolando quel brevissimo tratto, non si saprebbe se esso fa parte di un cerchio o di una retta (Taylor 1912: 361). Il passo teorico deli'Epistola VIl si chiude ritornando su un concetto assai vicino a quello della semiosi illimitata, an­ che se ovviamente modulata in chiave platonica: "mentre  4.3 TEORIA LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 103 ciascun elemento (nomi , definizioni , immagini visive e per­ cezioni), in dispute benevole e in discussioni fatte senza ostilità, viene sfregato con gli altri, avviene che l'intuizione e l'intellezione di ciascuno brillino a chi compie tutti gli sforzi che può fare un uomo" (344 b-e). La metafora dello "sfregamento", con cui il passo si av­ via alla conclusione, è funzionale sia all'idea epistemologica dell'improvviso accendersi e brillare deli'intuizione, sia an­ che all'idea semiotica che il senso finale non lo si ottiene at­ traverso l'immediata e semplicistica sostituzione di un signi­ ficante con un significato, ma attraverso una strategia di mosse successive e ripetute, come sono quelle appunto del processo di semiosi illimitata. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5.0 Introduzione Con Aristotele vengono a inaugurarsi nella storia del se­ gno alcuni fatti nuovi, destinati ad avere una notevole du­ revolezza. Il primo di questi riguarda l'ampia e profonda opera di normalizzazione teorica che Aristotele compie nei confronti del lessico delle scienze e delle pratiche professio­ nali che avevano fatto riferimento ai segni e al sapere con­ getturale in genere. Il vasto alone semantico, l'alternanza di usi forti, o pregnanti, e di usi deboli che aveva caratteriz­ zato per tutto il V secolo termini quali s�mefon, tekmirion, aitia, pr6phasis, eik6s negli scritti medici, nella storiogra­ fia, nella stessa letteratura filosofica, viene piegato alle esi­ genze di una definizione categoriale, che fissa gli usi esatti dei termini e ne delimita e separa i campi nozionali. L'operazione, come rileva Lanza (1979: 107), non ha che un successo parziale nella pratica linguistica, in quanto è solo sul piano teorico che Aristotele riesce a rendere rigoro­ se e rigide le distinzioni, proposte in due passi paralleli dei Primi analitici e della Retorica; 1 ma, nella stessa prosa del­ la Retorica e in generale nelle opere che trattano di argo­ mento scientifico, come ha fatto rilevare Le Blond (1939, ried. 1973: 241), l'uso dei vari termini del lessico semiotico­ gnoseologico resta fluido e i termini spesso vengono impie­ gati senza speciali sfumature di significato. Ciò non con­ traddice, tuttavia, il fatto che la revisione terminologica, da un punto di vista teorico, sia stata profonda e abbia inau-  5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 105 gurato una solida tradizione, che continuerà nella trattati­ stica successiva, fin nella retorica romana del I secolo d.C. Del resto le esigenze di distinzione teorica non si limite­ ranno a intervenire con un'operazione normalizzatrice sul lessico, ma entreranno anche nel vivo delle concezioni pro­ fonde coinvolte dal sapere congetturale. Abbiamo infatti visto come il dominio del tempo fosse centrale tanto nel sapere ascientifico della mantica quanto in quello protoscientifico della medicina. La conoscenza contemporanea del passato, del presente e del futuro era un elemento essenziale, sebbene secondo modalità diverse, in entrambi questi ambiti di sapere. Aristotele riprende, concettualizza e piega alle esigenze della classificazione teorica anche tale aspetto. Infatti, nella classificazione dei tipi di discorso proposta nella Retorica, Aristotele individua in primo luogo due ca­ tegorie di destinatari dei discorsi: colui che osserva (theo­ ros) e colui che decide (krit�s). Il primo agisce nella dimen­ sione del presente ed è il tipo di pubblico che assiste al di­ scorso epidittico o celebrativo. Il secondo, invece, può agi­ re nelle altre due dimensioni del tempo proprie degli altri due generi di discorso: il giudice (dikast�s) decide sul passa­ to; il membro dell'assemblea (ekkl�siast�s) sul futuro.2 Co­ me osserva giustamente Lanza (1979: 102), la classificazio­ ne è totalmente estrinseca ali'oggetto considerato, ma è chiaro l'intento aristotelico di congiungere la ripartizione canonica dei tipi di discorso con le tre dimensioni del tem­ po che fin dall'epoca di Omero appaiono associate agli am­ biti di manifestazione, esoterico o tecnico, del sapere. 5.1 Teoria del linguaggio e teoria del segno 5 . 1 . 1 Il triangolo serniotico Il secondo fatto importante, inaugurato dalla riflessione aristotelica, è quello che riguarda la disarticolazione, e la conseguente trattazione separata, della teoria del linguag-  }()6 5. UNGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE gio e della teoria del segno. Si tratta di un fatto che desta sorpresa e che appare molto rilevante proprio perché nelle teorie semiologiche moderne è assolutamente dato per scontato che i termini del linguaggio verbale sono dei "se­ gni": anzi, secondo un certo strutturalismo, sono i segni per eccellenza, e non sono stati pochi coloro che sono arri­ vati ali'eccesso di pensare che essi potessero fornire il mo­ dello anche per gli altri tipi di segno. In Aristotele, invece, gli elementi su cui si costruisce una teoria del linguaggio ricevono il nome di sjmbola, mentre gli altri elementi di una teoria del segno vengono denomi­ nati s�meia o tekmiria.3 In realtà, come vedremo, la teoria del segno propriamen­ te detto è articolata alla teoria del sillogismo e riveste un in­ teresse sia logico sia epistemologico. Il segno è, infatti, al centro del problema delle modalità di acquisizione della co­ noscenza, mentre il simbolo linguistico è connesso princi­ palmente al problema dei rapporti che si instaurano tra le espressioni linguistiche, le astrazioni concettuali e gli stati del mondo. È nel De interpreta/ione che Aristotele espone la sua teo­ ria del simbolo linguistico, articolandola secondo uno sche­ ma a tre termini: i suoni della voce, che sono i "simboli" delle affezioni dell'anima, le quali, a loro volta, sono le im­ magini degli oggetti esterni: Ordunque, i suoni della voce (tà en tii phoniz) sono simboli (symbola) delle affezioni che hanno luogo nell'anima (tOn en tii psychii path�matOn), e le lettere scritte (graphtJmena), sono simboli dei suoni della voce. Allo stesso modo poi che le lettere non sono le medesime per tutti, così neppure i suoni sono i me­ desimi; tuttavia, suoni e lettere risultano segni (s�mela), anzi­ tutto, delle affezioni dell'anima, che sono le medesime per tutti e costituiscono le immagini (homoi6mata) di oggetti (pragma­ ta), già identici per tutti. (Arist., De int., 16 a, 3-8) Bisogna innanzitutto dire che il fatto di incontrare il ter­ mine s�meia come apparente sinonimo di sjmbola non si­ gnifica affatto che le due espressioni siano intercambiabili:  5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 107 in realtà in questo passo Aristotele usa il termine s�mefon in un'accezione debole, che ci conferma appunto la tenden­ za a un uso sfumato delle espressioni del lessico semiotico, quando non sia in questione la costruzione del sistema di demarcazioni teoriche. In secondo luogo qui Aristotele usa s�meia per dire che l'esistenza di suoni e lettere può essere considerata come indizio deli'esistenza parallela di affezio­ ni dell'anima. A ogni modo, è possibile costruire, trascurando il livello grafematico, un triangolo semiotico di questo tipo: 1 ) affezioni dell'anima (psthlimsts sn tlii psychliil 2) pensteri (no�mat8)  rapporto convenzionale motivato ra ppo rto ( � sn t�i ph�n�tl (prSgmsta) suoni della voce oggetti esterni Come si può osservare, diverso è il rapporto tra le coppie di termini appartenenti alla triade: tra suoni e stati d'animo c'è un rapporto immotivato e convenzionale, in quanto gli stati d'animo sono uguali, secondo Aristotele, per tutti gli uomini, ma essi vengono espressi in maniera diversa a se­ conda delle varie lingue e culture, esattamente come avvie­ ne per le forme scritte;4 invece tra gli stati d'animo e gli og­ getti c'è un rapporto di motivazione, che appare addirittura iconico, in quanto i primi sono le immagini dei secondi. Bi­ sogna precisare che sarebbe scorretto identificare in manie­ ra diretta la tesi della convenzionalità degli elementi del lin­ guaggio, cui aderisce Aristotele, con la tesi deli'arbitrarietà  108 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE del segno linguistico sviluppata da Saussure. In realtà nella teoria saussuriana esiste un rapporto arbitrario tra due en­ tità strettamente interne al linguaggio: il significante e il si­ gnificato sono le due facce del segno, in quanto unità lin­ guistica. In Aristotele troviamo invece un rapporto conven­ zionale tra elementi del linguaggio (il nome, il verbo, il 16- gos) ed elementi che propriamente non appartengono al lin­ guaggio, in quanto sono entità psichiche. Si deve inoltre ri­ levare che la teoria linguistica elaborata da Aristotele non si esaurisce nei testi di prevalente interesse logico, quali il De interpreta/ione, ma continua anche nei testi di interesse estetico: in questi ultimi, dove prevale la funzione poetica del linguaggio, il principio della convenzionalità viene in parte attenuato (Belardi 1975: 75 e passim). 5.1.2 I "suoni della voce" Ciascuno dei termini posti ai vertici del triangolo presen­ ta aspetti degni di nota e spesso non privi di problematicità. Per cominciare, che cosa intende Aristotele con l'espressio­ ne tà en tii phonii? A questa domanda vi sono risposte di­ verse. Donatella Di Cesare (1981: 161) sostiene che Aristotele attribuisce a questa espressione lo stesso valore che Saussu­ re dà al termine "significante" quando spiega la natura del segno linguistico. Belardi (1975: 198), invece, aveva sostenuto che tà en tii phonii doveva riferirsi non ai significanti, ma alle "espres­ sioni linguistiche" intese nella loro forma compiuta di 6no­ ma (nome), rhima (verbo), /6gos (discorso), come pure di kataphasis (affermazione) e ap6phasis (negazione); le ra­ gioni di questa scelta si basano sul fatto che questi elemen­ ti, facenti parte del programma di analisi di Aristotele, ven­ gono definiti "simboli" delle affezioni dell'anima (An. Pr. , 16 a, 25; 24 b, 2). Ora è indubbio che Aristotele intenda con l'espressione "suoni della voce" qualcosa che sottolinea molto chiara­ mente la veste fonica e il carattere di "significante". Tutta-  5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 109 via si deve anche sottolineare che l'ottica con cui Aristote­ le, almeno neli'Organon, guarda ai fatti di linguaggio sem­ bra diversa da quella saussuriana. Infatti Aristotele è qui interessato a saggiare le possibilità e le garanzie deli'uso del linguaggio neli'analisi della realtà. Tali garanzie sembrano esserci quando si dia una reciproca­ bilità tra i due ambiti del linguaggio e del reale. Ora, posto che per Aristotele la simbolicità del linguaggio nei confron­ ti del reale è sempre di secondo grado, in quanto il nome sta per un'immagine, la quale è appunto immagine di una cosa, sul vertice sinistro del triangolo deve stare qualcosa che (per gli scopi logici perseguiti nel De interpreta/ione) sia intercambiabile con ciò che si trova al vertice superiore. Da qui deriva l'uso della nozione di sjmbolon, che Ari­ stotele riprende da una tradizione risalente fino a Democri­ to (D-K, 68, B 5, 1). Le ragioni che permettono la specializ­ zazione di questo termine nel senso di indicare le espressio­ ni linguistiche convenzionali, sono connesse alla sua etimo· logia. Nella lingua greca, infatti, il termine sjmbolon indica ciascuna delle due metà in cui viene spezzato un oggetto (a esempio un astragalo, una medaglia, una moneta) in ma­ niera intenzionale, affinché possano servire, in un momen­ to successivo, come segno di riconoscimento, o come prova di una certa cosa (Belardi 1975: 198; Eco 1984: 199): il fat­ to che le due metà riescano a combaciare perfettamente vie­ ne a indicare la presenza di un rapporto precedentemente istituito (a esempio un rapporto di ospitalità, di amicizia, di paternità), la cui documentazione è affidata appunto alla congruenza perfetta dei due sjmbola. Si viene in effetti a realizzare una situazione in cui ciascuna delle due parti può scambiarsi di posto con l'altra, senza che venga a perdersi il valore di prova. Così dal momento che ciascuna parte pre­ suppone l'altra, o stabilisce con l'altra una stretta corri­ spondenza, l'espressione sjmbolon viene ad acquisire il si­ gnificato di "ciò che sta per qualcos'altro". Ma il fatto che venga preferita nel contesto della teoria linguistica aristote­ lica la parola sjmbolon all'espressione s�mefon (che pure indica uno "stare per") induce a indagare su una possibile  1 10 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE specificità del rinvio istituito dal simbolo. In effetti, nel ca­ so del segno, i due termini del rinvio (che, come vedremo, è una implicazione) non sono sempre reciprocabili: un primo termine può rimandare a un secondo, senza che necessaria­ mente il secondo rimandi al primo. Nel caso del simbolo, invece, i due termini sono perfettamente reciprocabili; non è un caso che sjmbo/on dal III secolo a.C. al III d.C. sia attestato anche nel senso di "ricevuta", talvolta redatta in duplice copia: le due parti hanno, per cosi dire, lo stesso valore. Questo aspetto etimologico è presente neli'uso che in particolare Aristotele fa dell'espressione sjmbolon nel De interpreta/ione: i nomi �ono simboli degli stati d'animo nel preciso senso che si realizza, previo un accordo (synth�k�), un combaciare perfetto tra di loro e una perfetta intercam­ biabilità, che garantisce la correttezza del nome stesso (Be­ lardi 1975: 199). In quanto sjmbolon, il nome non è più d�loma ("rivela­ zione"), come lo era per Platone: in Aristotele il nome è "suono della voce significativo per convenzione" (phon� s�­ mantik� katà synth�k�n) (De int., 16 a, 19). Questo marca il passaggio da una linguistica che conservava un carattere semiotico, come quella platonica, a una linguistica che non parla più di segni e che è intrinsecamente non semiotica. Mentre per Platone le espressioni linguistiche erano segni che "rivelano" qualcosa di non percepibile (l'essenza del­ l'oggetto o la djnamis), per Aristotele esse sono simboli che stabiliscono convenzionalmente una pura relazione di equivalenztr tra i due correlati, senza alcuna preoccupazio­ ne che l'un termine "riveli" l'altro. 5 . l . 3 Il linguaggio degli animali Del resto, l'opposizione convenzionalelnaturale6 permet­ te di distinguere anche tra il linguaggio umano e i suoni emessi dagli animali,7 questi ultimi essendo, per altro, ugualmente (i) vocali e (ii) interpretabili. Già la nozione di "voce" (phon�) presenta alcune interes-  5. 1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 1 1 1 santi particolarità. Nel De anima si dice che un suono può essere definito una "voce" quando: (i) sia emesso da un es­ sere animato (II, 420 b, 5); (ii) sia dotato di significato (s�­ mantik6s) (Il, 420 b, 29-33). Ora, i suoni emessi dagli ani­ mali, per quanto definiti ps6phoi (''rumori"), hanno tutta­ via le due precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalle voci emesse dagli uomini sono due fattori: (i) non sono convenzionali (e di conseguenza non possono essere né simboli né nomi), ma sono "per na­ tura" (De int., 16 a, 26-30); (ii) sono agrammatoi, cioè "inarticolabili" o "non combinabili" (ibidem, e Po�t., 1456 b, 22-24). La nozione di "combinabilità", del resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue (1967: 33 e sgg.), è al centro stesso del carattere di semanticità del linguaggio umano, i cui suoni semplici (adiafretoi, "invisibili") possono articolarsi in uni­ tà più grandi dotate di significato.8 Gli animali, invece, emettono solo suoni indivisibili, ma non combinabili (Po�t., 1465 b, 22-24). Si possono illustrare riassuntivamente i caratteri del lin­ guaggio umano in contrapposizione ai suoni emessi dagli animali, attraverso il seguente schema: linguaggio umano - per convenzione - elementi indivisibili combi- nabili e elementi divisibili - lettere - elementi dotati di signifi- cato - simboli - nomi suoni degli animali - per natura - elementi indivisibili non combinabili - non lettere - elementi che rivelano (d�- loflsl) qualcosa - non simboli - non nomi Si deve rilevare, tra l'altro, che la semanticità dei suoni emessi dagli animali è espressa dal verbo d�lofìsi (''rivela­ no", De int., 16 a, 28), fatto che conferma l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione, come nel caso del linguaggio degli animali, torna di nuovo in pri­ mo piano il carattere semiotico d'una espressione. I suoni degli animali sono sintomi che rivelano la loro causa.  1 12 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5. 1 .4 Le "affezioni dell'anima" Ritornando poi al triangolo aristotelico della significa­ zione, la seconda nozione degna di rilievo è quella di path�­ mata en tii psych�i. Si noterà che, dove ci si aspetterebbe la nozione di "significato", troviamo invece un'entità psichi­ ca, qualcosa che non è posto all'interno del linguaggio, ma nella mente stessa degli utenti del linguaggio. Per di più le affezioni dell'anima concepite da Aristotele, pur configu­ randosi come eventi psichici, non sono affatto individuali: si tratta piuttosto di elementi che, come dice Aristotele, so­ no identici per tutti, fatto che connette la teoria del lin­ guaggio con una sorta di psicologia sociale, se non addirit­ tura universale, piuttosto che individuale (Todorov 1977: 16). In secondo luogo è necessario rilevare una sorta di ambi­ guità che si trova nella nozione posta al vertice superiore del triangolo. Infatti Aristotele dice che i pathimata en tii psychii sono le immagini (homoiomata) degli oggetti esterni: con ciò in­ tende che tra gli oggetti e le entità psichiche c'è lo stesso rapporto che esiste tra l'originale e la copia. Tuttavia, poi, per indicare la rappresentazione mentale usa anche, più avanti, l'espressione no�ma ("pensiero", "nozione", 16 a, 10): ma, in questo secondo caso, precisa che i pensieri, sot­ to certe condizioni, possono essere veri o falsi. Da ciò con­ segue che i no�mata vengono concepiti come forme di giu­ dizio . Si tratta di due nozioni completamente diverse, e il fatto che venissero entrambe messe in rapporto con le medesime espressioni linguistiche aveva fatto pensare a un loro uso si­ nonimico, che risultava aporetico. In realtà, come ha messo in evidenza Belardi (1975: 109), nessuna delle due nozioni esaurisce da sola il livello della rappresentazione psichica, ma esse rimandano a due facoltà differenti dell'anima: i path�tnata rimandano a una facoltà passiva dell'anima, quella di subire impressioni dagli oggetti del mondo ester­ no; i no�mata rimandano a una facoltà attiva, quella di ela­ borare giudizi. Questa relazione è del resto confermata dal  5.l TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 113 rinvio che Aristotele fa al De anima, trattato nel quale non vengono discussi solo i pathimata, ma anche le altre fa­ coltà. 5.1.5 Semantico e apofantico Non si può, a questo punto, non fare un cenno (anche se, di necessità, breve) a una distinzione che si affaccia, nel pensiero linguistico di Aristotele, tra la categoria del "se­ mantico" e quella dell'"apofantico". Nel De interpretatione (16 a, 9 e sgg.) viene aperta la problematica circa la diffe­ renza tra phasis (il semplice "detto") e kataphasis (!'"affer­ mazione"). I nomi (ma così anche i verbi) in sé costituisco­ no un "detto", ma non possono da soli costituire un'affer­ mazione o una negazione. Correlatamente, vengono distin­ ti due tipi di rappresentazioni mentali (noimata): l . quella "che prescinde dal vero e dal falso"; 2. quella "cui spetta necessariamente o di essere vera o di essere falsa". Ciò che in realtà viene a essere contrapposto è la nozione di significato rispetto a quella di condizioni di verità. Al primo tipo di rappresentazione, infatti, corrispondo­ no i nomi (e anche i verbi) presi da soli, i quali possono avere un significato, ma non hanno condizioni di verità. Ciò è provato da Aristotele mediante la scelta di un caso particolare: il termine "ircocervo" (traghélaphos). Esso "si­ gnifica bensì qualcosa" (cioè una commistione mostruosa tra un caprone e un cervo), ma non può essere detto vero o falso. Il "qualcosa" a cui si riferisce qui Aristotele indivi­ dua appunto la dimensione della semanticità pura, regolata da leggi diverse da quelle della referenzialità. Al secondo tipo corrispondono, invece, quelle entità che hanno la dimensione linguistica della proposizione: è quan­ do si passa agli enunciati affermativi e negativi che diviene possibile parlare di verità o di falsità. È solo in questo caso che diviene possibile parlare di apofanticità come dimensio­ ne aggiuntiva (non contrappositiva) rispetto a quella se­ mantica. Ma qual è il mezzo specifico per passare dalla dimensio-  1 14 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE ne semplicemente semantica a quella apofantica? Non ci sono dubbi che esso consiste nell'uso del verbo come predi­ cato. Del verbo Aristotele valorizza essenzialmente la fun­ zione predicativa, quando, parlando del giudizio, riduce il verbo a !copula + predicatol: "non c'è differenza", sostiene egli infatti, "tra dire: l'uomo cammina, e dire: l'uomo è camminante" (De int. , 21 b, 9-10). In effetti il verbo viene qui concepito come nome assunto in funzione predicativa (Morpurgo-Tagliabue 1967: 62). Tuttavia, affinché il verbo possa esplicare questa sua funzione occorre che esso sia congiunto a qualcos'altro (cioè a un nome); preso da solo, cioè quando la sua funzio­ ne predicativa non può dispiegarsi, esso non può affermare alcunché (De int., 16 b, 19-25). L'incapacità del verbo preso da solo, ad affermare l'esi­ stenza di una certa cosa (cioè a fare asserzioni) è dimostrata da Aristotele con il ricorso all'esempio del verbo "essere": nemmeno esso preso da solo è capace di affermare che una cosa è. Così commenta Eco (1984: 25): "Pertanto, quando Aristotele dice che neppure il verbo essere da solo è segno dell'esistenza della cosa, vuoi dire che l'enunciazione isola­ ta del verbo non è indizio che si stia affermando l'esistenza di qualcosa: perché il verbo possa avere tale valore indiziale occorre che sia congiunto gli altri termini dell'enunciato, il soggetto e il predicato (e quindi il verbo l essere l è indizio di asserzione di esistenza, o di predicazione deli'inerenza attuale di un predicato a un soggetto, quando appaia in contesti come lx è yl oppure lx èl , nel senso di "x esiste di fatto)". 5.2 La teoria del segno 5.2.1 La definizione Completamente irrelata rispetto alla teoria del linguag­ gio, in Aristotele la dottrina del segno si pone nel punto di intersezione tra logica e retorica e i segni sono trattati tanto nei Primi analitici quanto nella Retorica.  5.2 LA TEORIA DEL SEGNO 115 Allo stesso tempo, la nozione di segno presenta due aspetti fondamentali: da una parte infatti ha un interesse epistemologico e antologico, in quanto si configura come strumento di conoscenza, che deve servire a condurre l'at­ tenzione dei soggetti conoscenti a operare un passaggio da un fatto a un altro (Todorov 1977: 19; Simone 1969: 91); dall'altra ha un carattere prettamente logico, in quanto è dotato di un meccanismo formale che presiede al suo fun­ zionamento. La definizione generale del segno (s�meion) è data nei Primi analitici (II, 70 a, 7-9). Di questo passo esistono di­ verse traduzioni (Colli 1982: 252; Todorov 1977: 19 ecc.); ma quella che sembra individuare nel modo più soddisfa­ cente il significato del passo è quella di Preti (1956: 5): Quando, una cosa essendo, un'altra è, oppure quando una cosa divenendo, un'altra diviene anteriormente o posteriormente, queste ultime sono segni del divenire o dell'essere. La sottolineatura che abbiamo effettuato intende mettere in risalto appunto la specificità deIl'interpretazione di Pre­ ti, che restituisce al passo aristotelico tutta la sua carica di problematicità e la complessità, che appunto gli ulteriori sviluppi, a opera delle scuole successive, della dottrina del segno metteranno in luce. Prima di tutto vediamo però ciò su cui tutte le interpreta­ zioni del passo concordano, cioè che la nozione di segno proposta da Aristotele prevede l'instaurarsi di un rapporto di tipo implicativo: il segno coincide press'a poco con il rapporto di implicazione "p implica q", accezione, questa, abbastanza comune della nozione di segno e che abbiamo già trovato operante in altri ambiti, diversi dalla filosofia. Ma più precisamente, e particolarmente in questa defini­ zione, il segno coincide con uno dei termini dell'implicazio­ ne. L'interpretazione di Preti suggerisce che esso coincida in particolare con il secondo termine, cioè suggerisce che la definizione aristotelica vada letta nel senso che "q è segno di p": ora questa definizione, che viene a configurare il rap­ porto segnico come "Se q, allora p", comporta, ai fini della  116 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE sua applicazione ad argomentazioni inferenziali, un'inver­ sione da "p implica q" a "q implica p". È proprio questo fatto che conferisce alla nozione di se­ gno il carattere di problematicità e che conduce all'instau­ razione di un dibattito serrato e complesso in seno alle scuole filosofiche postaristoteliche, anche se esse non fa­ ranno esplicitamente riferimento ad Aristotele. D'alta parte, questo tipo di inversione sembra porsi an­ che alla base della richiesta, ai fini della validità del segno, di un'implicazione tra p e q più stretta di quanto non sia, a esempio, l'implicazione materiale. Sembra, in sostanza, che già nella definizione aristotelica venga richiesta la con­ dizione "Se non-q, non-p" ("q, o non-p"), cioè esattamente quel tipo di implicazione stretta che verrà dagli stoici consi­ derata necessaria per la validità del segno. Al di là di questo si deve anche notare che nella defini­ zione (e in genere nell'intera trattazione) del segno condot­ ta da Aristotele è riscontrabile un'ambiguità di fondo nel modo di concepire i due termini del rapporto implicativo. Per un verso, infatti, essi costituiscono dei fatti (o delle proprietà) (e non a caso una parola centrale della definizio­ ne è tò pragma "il fatto"). Aristotele del resto dà esempi di questo genere: "il mostrare che una certa donna è gravida attraverso il fatto che essa ha il latte"; il segno è "l'aver lat­ te", che appare appunto essere l'espressione di un fatto o di una proprietà. Per un altro verso il segno è concepito come una proposi­ zione, in quanto un segno può costituire la premessa da cui si sviluppa un sillogismo: "Un segno, invece, vuole essere una premessa dimostrativa, o necessaria o fondata sulla opinione" (An. Pr., II, 70 a, 6-7). In realtà, la definizione di segno come proposizione, che può costituire una premes­ sa in un ragionamento infcrenziale, è abbastanza centrale in Aristotele. Infatti il ruolo fondamentale che egli attribui­ sce al s�mefon è proprio quello di essere uno degli elementi che forniscono premesse a quel particolare tipo di siilogi­ smo che è I'entimema.  5.2 LA TEORIA DEL SEGNO 1 17 5.2.2 L'entimema e i segni Nella nozione di entimema coesistono due aspetti com­ plementari, che la tradizione successiva svilupperà talvolta separatamente. Da una parte l'entimema può essere consi­ derato un sillogismo tronco, in cui una delle premesse è mancante, perché ritenuta nota o ovvia.9 DalPaltra, l'enti­ mema viene considerato un sillogismo che tende alla per­ suasione, e non alla dimostrazione; in quanto tale non è ne­ cessario che le sue premesse siano vere, ma soltanto che sia­ no probabili (hos epì tò poly). Aristotele sviluppa esplicita­ mente il secondo aspetto delle definizioni parallele dei Pri­ mi analitici (II, 70 a, 9-10) e della Retorica (1, 1357 a, 30- 32) . Dunque il segno trova la sua principale applicazione nel­ l'ambito del discorso persuasivo, ovvero retorico, dove, sotto forma di proposizione, entra nel meccanismo dell'en­ timema e vi svolge il ruolo di "protasi", di premessa. Ma, in quell'ambito, si profila una prima distinzione tra la no­ zione di s�meion e quella di eikos "verosimile" o "probabi­ le"), pur imparentate per il fatto di poter figurare entrambe come premesse negli entimemi. Ciò che contraddistingue la nozione di eikos è essenzial­ mente il suo carattere probabilistico, che lo lega irrevoca­ bilmente all'opinione, rimuovendolo in una zona del sapere piuttosto insicura, lontano dalla possibilità di una dimo­ strazione scientifica. 5.2.3 L'inferenza dal conseguente Per quello che riguarda la nozione di segno, la situazione è diversa e senz'altro molto più complessa. In effetti il s�­ meion non costituisce una categoria semplice, bensì una classe composita che prevede al suo interno tipi con carat­ teristiche molto differenziate tra loro. Ma, prima di porre l'accento sulle differenze interne, è forse possibile osservare che qualcosa unisce i vari tipi di segni rispetto alla nozione di eikos: invece che sulla probabilità, nel caso del segno  118 5. LINGUAGGIO ESEGNI IN ARISTOTELE l'attenzione è concentrata sul carattere di "consequenziali­ tà". Il ragionamento inferenziale, basato sui segni, procede tipicamente ek ton hepomén{Jn, "per conseguenze", tende cioè a inferire la causa dall'effetto. Per questa ragione sono possibili sia applicazioni corrette sia applicazioni inganne­ voli. ÈinparticolarenelleConfutazionisofistiche(167b, 1-5) che Aristotele sviluppa chiaramente la teoria del ragiona­ mento per conseguenze: quest'ultimo porta a conclusioni ingannevoli come, a esempio, nel caso in cui qualcuno, avendo osservato una volta che la terra è bagnata dopo la pioggia, volesse concludere in generale che, se la terra è ba­ gnata, allora è piovuto. Un secondo esempio di ragiona­ mento per conseguenze dato da Aristotele concerne le pro­ prietà, anziché gli eventi, come avveniva in quello prece­ dente: se qualcuno, avesse sperimentato che il miele ha la proprietà di essere giallo e volesse conciudere che qualcosa è miele partendo dalla proprietà che ha il colore giallo, cor­ rerebbe il rischio di scambiare per miele il fiele (ibidem, 167 b, 6-8). In tale contesto Aristotele giunge a identificare de­ cisamente questo tipo di inferenza con quello specifico del segno: "Nei discorsi retorici, del pari, le dimostrazioni trat­ te da segni si fondano sulle conseguenze" (ibidem, 167 b, 8- 9). È possibile a questo punto tornare agli Analitici e com­ prendere meglio perché Aristotele proceda innanzitutto alla distinzione fondamentale tra due tipi di segni: il tekm�rion, segno "necessario" o "inconfutabile",10 e il generico s�­ meion, che ha le caratteristiche opposte. In realtà quest'ultima distinzione (che, come vedremo, comporta non solo due, ma tre tipi di entità, poiché vi sono due specie di segni non necessari) corrisponde a un tentati­ vo di Aristotele di articolare una tipologia dei segni alle modalità di sviluppo possibile del sillogismo. Sono infatti tre i modi in cui il sillogismo può utilizzare la premessa che esprime un segno, corrispondenti alle posizioni possibili del medio nelle varie figure. In questo modo si possono avere inferenze che partono da un segno sulla prima, sulla secon­ da o sulla terza figura.  5.3 n. MECCANISMO LOGICO 1 19 5.3 D meccanismo logico 5 . 3 . l Il tekmérion come segno nella prima figura del sillogismo Prima però di entrare nei dettagli tecnici di questa distin­ zione, vale la pena di rilevare preliminarmente che ben di­ verso è il valore epistemologico che Aristotele attribuisce al segno che si sviluppa in un sillogismo di prima figura, cioè il tekm�rion, rispetto a quelli che si sviluppano in seconda e in terza figura, cioè i generici s�mefa. In realtà, nei due ultimi casi si verifica la tipica illusione segnalatanelleConfutazionisofistiche(167b, 1-5),cioèav­ viene di credere che ci sia possibilità di conversione tra ra­ gione e conseguenza, senza che questo sia di fatto giustifi­ cato: dunque, in questi casi, l'inferenza dalle conseguenze alle cause è estremamente ipotetica e insicura. Nel primo caso, invece, cioè con il tekm�rion, si ha un ti­ po di inferenza che parte anch'essa dalle conseguenze, co­ me dimostra l'esempio "se una donna ha latte, allora essa è gravida", in quanto l'"avere latte" costituisce sia una con­ seguenza dell'essere gravida, sia un segno di tale fatto; tut­ tavia, al contrario che nei casi precedenti, sembra esserci possibilità di conversione tra causa ed effetto; o, come sug­ gerivano le osservazioni di Preti (1956: 6) riportate prima, sembra essere previsto da Aristotele, in questo caso, un ti­ po di implicazione più stretta che non l'implicazione mate­ riale. Possiamo vedere ora come Aristotele sviluppa l'aspetto tecnico dei tre tipi di segno, partendo da quello in prima fi­ gura: Ad esempio, il provare che una donna è gravida, in quanto essa ha latte, si fonda sulla prima figura: il medio è infatti l'aver lat­ te. Poniamo che A indichi "esser gravida", che B indichi "aver latte", che C indichi "donna". (An. Pr., Il, 70 a, 12-16)11  120 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Traducendo il ragionamento di Aristotele nel comune schema illustrativo del sillogismo, si otterrà: 8 "chi ha latte" c "donna" c "donna" In questo esempio il segno "avere nello schema sillogistico come noi ma è anche il termine intermedio dal punto di vista esten­ sionale, tanto che potrebbe essere costruita la seguente fi­ gura per illustrare i rapporti tra i termini del sillogismo: A essere gravida l . A "essere gravida" 2. 8 "avere latte" si predica di si predica di 3. A sipredicadi "essere gravida" latte" non solo è medio lo abbiamo riportato,   5.3 n MECCANISMO LOGICO 121 5.3.2 La seconda e la terza figura del sillogismo e i "semeia" Nella seconda e nella terza figura il termine medio è il le­ game che consente Pinferenza, ma non occupa, né nella formula né estensionalmente, la posizione centrale. Questo fa sì che l'etichetta di "maggiore" e "minore" sia "arbitra­ ria nella seconda o nella terza figura, a qualunque dei due termini si voglia dare il nome di maggiore o minore" (Allan 1970: tr. it. 1973, 123). Del resto è indubbio che il punto di vista adottato da Aristotele nella trattazione che egli fa delle premesse sia quello estensionale. Legata a questo punto di vista è di cer­ to la svalutazione della seconda e della terza figura. Passiamo ora ad analizzare il tipo di segno che si svilup­ pa in un sillogismo basato sulla seconda figura: "Se una donna è pallida, allora essa è gravida". Questa è l'analisi di Aristotele: Infine, la presunta prova che una donna risulta gravida, in quanto è pallida, si sviluppa attraverso la seconda figura. In realtà, dato che il pallore è una determinazione conseguente delle donne gravide, e che tale determinazione appartiene altre­ si a una certa donna, si crede allora provato che questa donna sia gravida. Indichiamo con A "la nozione di pallore", con B "l'essere gravida" e con C "donna". (An. Pr., Il, 70 a, 20-24) Lo schema che può essere costruito in corrispondenza di questo sillogismo è il seguente: l . 2. 3. A "essere pallida" A "essere pallida" 8 si predica di si predica di si predica di 8 "chi è gravida" C "questa donna" C "essere gravida" "questa donna"  122 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE In questo caso il segno "essere pallida", che è anche il medio, ha la posizione di un estremo e si predica contem­ poraneamente dei due termini "essere gravida" e di "donna". 12 Aristotele condanna questa inferenza come non valida. Come si può osservare, ci ritroviamo qui di fronte al ca­ so più emblematico di inferenza tratta dalle conseguenze. Una conferma di questa condanna la si trova anche nel pas­ so corrispondente della Retorica (1, 1357 b, 17-21): "Se uno respira rapidamente è segno che ha la febbre". Anche que­ sto esempio di segno dà origine a un sillogismo sulla secon­ da figura, in cui il medio, "respirare rapidamente", ha la posizione dell'estremo maggiore e si predica di entrambi i termini "avere la febbre" e "uomo". Nella definizione di questo tipo di segno data nella Reto­ rica vengono aggiunte due particolarità interessanti rispetto a quella presentata negli Analitici: (i) la prima è che il se­ gno è confutabile anche se esso risultasse vero (kàn al�thès i1): viene dunque prevista la possibilità di costruire un'infe­ renza che risulti conforme alla verità, anche se questo è so­ lo un caso, si direbbe, accidentale; ciò deriva dal fatto che il sillogismo èformalmente scorretto, ma ci sono casi in cui esso porta, nonostante tutto, a conclusioni materialmente vere (Plebe 1966); (ii) la seconda particolarità consiste nel­ l'accennare al fatto che questo tipo di segno instaura una relazione "dall'universale al particolare": ciò è probabil- mente da mettersi in relazione al fatto che è proprio il ter­ mine estensionalmente maggiore a svolgere la funzione di medio, e che si predica prima di una classe, poi di un indi­ viduo . Vediamo ora un segno dal quale si sviluppa un sillogismo basato sulla terza figura. Ecco la definizione che ne viene data negli Analitici: D'altro canto la presunta prova che i sapienti sono eccellenti - poiché Pittaco è eccellente - si costruisce attraverso l'ultima fi­ gura. Poniamo che A indichi "la nozione di eccellente", che B indichi "i sapienti", che C indichi "Pittaco". Risponde in tal ca­ so a verità il predicare di C tanto A quanto B; senonché la pre-  5.3 IL MECCANISMO LOGICO 123 messa BC non viene enunciata, perché risaputa, mentre Paltra è assunta espressamente. (An. Pr., II, 70 a, 16-20) Il segno, più precisamente, è la protasi del condizionale "Se Pittaco è eccellente, i sapienti sono eccellenti " . Su di es­ so si sviluppa un sillogismo che può essere rappresentato dalla formula: l . 2. 3. A si predica di "essere eccellente" c "Pittaco" c "Pittaco" 8 "chi è sapiente" 8 "essere sapiente" si predica di A si predica di "essere eccellente" In questo caso il medio è "Pittaco", che ha la posizione del termine minore estensionalmente. Anche il sillogismo costruito su questo tipo di segno vie­ ne condannato in quanto confutabile (/jsimos). Del resto Aristotele aggiunge che esso rimane confutabile (come quello in seconda figura) anche nell'evenienza in cui esso conduca a una conclusione accidentalmente vera. Inoltre, nel passo parallelo della Retorica (I, 1357 b, 10-11), viene precisato che esso instaura un rapporto che va "dal partico­ lare all'universale"; anche in questo caso è la posizione del medio, che qui è il termine estensionalmente minore, a sug­ gerire questa determinazione ad Aristotele; in effetti si par­ te dalla proprietà di un individuo particolare per conclude­ re che tale proprietà appartiene a un'intera classe di cui l'individuo fa parte. 5.3.3 La classificazione Una volta stabilita una distinzione fra i tre tipi di segno sulla base della posizione che prende il medio in ciascuna  124 5. LINGUAOOIO E SEGNI IN ARISTOTELE delle figure, Aristotele procede a una ricapitolazione gene­ rale, dove consolida le distinzioni terminologiche e ribadi­ sce la diversità della potenza conoscitiva in relazione a cia­ scun tipo: il nome tekmirion ("indizio sicuro", "prova") viene riservato a quei segni che prendono realmente la posi­ zione del termine intermedio (cioè in cui il termine è medio anche dal punto di vista estensionale, sul quale si sviluppa un sillogismo in prima figura); invece il nome generico s�­ meion viene lasciato a quei segni che all'intero sillogismo hanno la posizione di un estremo (sui quali cioè si svilup­ pano delle inferenze in seconda e terza figura) (An. Pr. , Il, 70b, 1-6). Rispetto a quanto abbiamo già detto, è necessario ag­ giungere una precisazione sulla nozione di éndoxon, che ca­ ratterizza nel massimo grado il sillogismo basato sul· tekmi­ rion. In effetti nei Topici Aristotele precisa che i sillogismi dia­ lettici che danno il massimo di garanzia sono i sillogismi che derivano da premesse che sono degli éndoxa. Vengono poi definite éndoxa quelle proposizioni che sono "condivise da tutti o dai più o dai sapienti, e tra questi da tutti, dai più o dai più noti e famosi" (Top., l, 100 b, 21-23). Sono queste, del resto, le condizioni che permettono di confermare dialetticamente una tesi (Viano 1958 a). Il passo parallelo della Retorica propone un'analoga classificazione che distingue tra il segno necessario (anan­ kaion), corrispondente al tekmjrion, e il segno non neces­ sario �m� anankaion), corrispondente al generico s�­ meion, 3 e ulteriormente suddivisi in "segno che si trova in rapporto dali'universale al particolare" (da mettersi in rela­ zione ai segni in seconda figura del sillogismo) e "segno che si trova nel rapporto del particolare ali'universale" (da met­ tersi in relazione ai segni in terza figura). La classificazione aristotelica può allora essere disposta sullo schema della pagina seguente:  premesse da cui derivano gli entimemi /  eik6s s�melon (segno) ("probabile", "verisimile") - è tmdoxon ("fondato sulla opinione") es.: "è amato -ama" ·è invidioso -detesta•  m'S snsnkslon ("'non necessario") - è éndoxon ("fondato sulla opinione") snsnkslon (..necessario") tekm"érion ("prova") - è IJ/yton (..inconfutabile·) - è il medio di un sillo- gismo in 1 • figura es.: ..essa ha latte-è gravide" "ha la febbre -è malata"  t6 ksth ' kéksston pr6s t6 ksth61on ("dal particolare all'universale") rl) ksth6/on pr6s rl) kstll méros ( ·dall'universale al particolare") - è lyron (..confutabile") - è medio in un sillogismo - è lyton (..confutabile") - è medio in un sillogismo in 3• figura es.: "Pittacco è giusto-i sapienti sono giusti" in 2• figura es.: ..respira rapidamente-ha la febbre" "è pallida -è gravido"  126 5 . LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5.4 Un sistema particolare di segni non linguisti­ ci: la fisiognomica La particolare concezione che Aristotele ha del segno, come cosa o fatto che serve a condurre l'attenzione del sog­ getto conoscente su un'altra cosa o fatto, permette di por­ tare in primo piano un tipo di conoscenza che si ottiene in modo indipendente dal linguaggio verbale. Ciò conduce a un'evidente valorizzazione dei sistemi di segni non lingui­ stici . Aristotele, infatti, nei Primi analitici, dopo aver esposto la teoria del segno, propone un'interessante, quanto curio­ sa applicazione a un tipo di segni molto speciali: quelli del­ la fisiognomica. Neli'esempio dato si tratta di risalire da un segno visivo a un tratto del carattere: le grandi estremità del leone vengo­ no assunte come segno del suo coraggio. Tutto l'interesse di Aristotele è concentrato su due punti: da una parte egli tende ad acquisire una conoscenza circa l'ordine psichico partendo da un fatto rilevabile attraverso i sensi; dall'altra tende a stabilire il legame più stretto pos­ sibile tra due fatti che l'esperienza gli mostra associati (in questo caso: grandi estremità e coraggio), come presuppo­ sto dell'affidabilità stessa della conoscenza. Per dare validi­ tà al suo esempio di fisiognomica Aristotele propone di fa­ re tre assunzioni: 1 4 (i) che "le affezioni naturali trasformino simultaneamente il corpo e l'anima"; (ii) che vi sia un solo segno di un unico fatto, cioè dell'affezione dell'anima che deve essere scoperta; (iii) che ogni genere abbia un'affezio­ ne propria e un proprio segno (fdion [... ] semefon). Come si può osservare, Aristotele, con queste assunzio­ ni, tenta di razionalizzare e di dare dignità filosofica a una materia che era eminentemente mantica. Qui non c'è più la divinità che garantisce la corrispondenza fra un tratto per­ cepibile dell'aspetto fisico e qualcosa che si inscrive nell'or­ dine dell'invisibile (sia esso il carattere di un uomo o più generalmente il destino legato a quel carattere). Per Aristo­ tele vi può essere corrispondenza fra un tratto fisico e un  5.4 LA FISIOGNOMICA 127 aspetto interiore perché qualsiasi affezione trasforma con­ temporaneamente corpo e anima, proprio come avviene nel caso di chi ha imparato la musica, che si è trasformato non solo nell'abilità fisica di suonare, ma anche nella sua sensi­ bilità interna. Ma come avveniva per la mantica, in questa materia si può correre il rischio deli'ambiguità. È proprio per elimina­ re quest'ultima evenienza che Aristotele propone le sue ul­ teriori assunzioni. Infatti l'ambiguità si può verificare in due casi distinti: (i) quando si hanno molti segni che riman­ dano a un'unica affezione (fenomeno che potremmo avvi­ cinare alla sinonimia): l'unico rimedio epistemologico è, in questo caso, assumere che i segni siano univoci, cioè che un unico fatto sia significato da un solo segno; (ii) quando un genere abbia più affezioni, in maniera tale che si rimane in­ decisi su quale sia quella a cui rimanda il segno (fenomeno che potremmo avvicinare all'omonimia): la soluzione pro­ posta da Aristotele è quella di stabilire per ogni genere qua­ le sia l'affezione che gli è propria e quale il segno proprio, in maniera da riferire quest'ultimo univocamente alla prima. Stabilendo preliminarmente le tre precedenti assunzioni è possibile per Aristotele fare della fisiognomica una scienza. E, rispettando appunto queste assunzioni, è possibile stabi­ lire che per il leone le grandi estremità sono il segno del co­ raggio (An. Pr., II, 70 b, 16-17). Fin qui abbiamo seguito Aristotele nel suo ragionamento che si svolge su un piano, per così dire, deduttivistico. È possibile ricostruire, però, anche un altro versante dell'ar­ gomentazione che si colloca geneticamente in un momento in cui la regola deduttiva non è ancora stata posta. In effet­ ti è possibile pensare a un momento in cui si osserva che una certa affezione, il coraggio, è associata al genere dei leoni; contemporaneamente si osserva che ai leoni è asso­ ciata la caratteristica di a�re grandi estremità. A questo punto viene formulata l'ipotesi che il segno del coraggio sia rappresentato dal possesso di grandi estremità. Il processo logico che verrebbe qui a configurarsi segui­ rebbe lo schema:  128 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE l. "essere coraggiosi" 2. "avere grandi estremità" 3. "essere coraggiosi" (probabilmente) si predica di si predica di si predica di "leoni, "leoni" "chi ha grandi estremità" Un sillogismo in 3a figura, come è questo, secondo Peir­ ce costituirebbe una induzione, ma di un tipo talmente "ti­ mido da perdere totalmente la caratteristica ampliativa pro­ pria dell'induzione genuina" (1984: 210). Esso avrebbe un forte carattere ipotetico. Tuttavia Aristotele non segue in effetti questo ragiona­ mento perché non riesce ad accettare come valido dal pun­ to di vista logico un procedimento che risulta privo di ga­ ranzie. Così è costretto a inquadrare questo, si noti bene, quanto mai aleatorio segno del coraggio in uno schema an­ cora una volta deduttivo. In altre parole, l'osservazi,"ne deli'associazione tra coraggio e grandi estremità deve tra­ mutarsi in un legame stretto e costante. Lo sforzo di Ari­ stotele è tutto rivolto a dimostrare che ogni volta che ci sia coraggio, questo venga manifestato dalla presenza di gran­ di estremità, e viceversa. In termini tecnìci, la situazione ideale, cioè il massimo della certezza, si ottiene quando si verifica conversione (antistréphein) tra ciò che funge da se­ gno e ciò a cui esso rimanda, ovverosia quando l'estensione del primo termine è esattamente uguale a quella del secon­ do. Da qui la necessità (puramente logica, e non semiotica) che un unico segno si riferisca a un'unica affezione: solo in questo modo è possibile la conversione tra i due termini. A questo punto il problema di fare un'ipotesi su quale sia il segno del coraggio si trasforma in quello di trovare un elemento di mediazione tra il "coraggio" e il "genere dei leoni", che ne appaiono costantemente provvisti. Tale elemento di mediazioneJ che sembra appunto giusti­ ficare l'associazione, è "avere grandi estremità", che divie­ ne così il segno, sul quale viene costruito il seguente schema sillogistico deduttivo (An. Pr., II, 70 a, 32-38):  l . 5.5 SVALUTAZIONE DEL SAPERE SEONICO 129 A si predica di B "essere coraggioso" "chi ha grandi estremità" B si predica di c 2. 3. A si predica di c "avere grandi estremità'' "leone" "essere coraggioso" "leone" Ma ciò che Aristotele trascura di mettere in luce è che, come abbiamo visto, i dati di partenza della deduzione stes­ sa poggiano su una precedente inferenza a carattere più ipotetico. L'esempio proposto è interessante perché, prima della presentazione dello schema formale, tutto il ragiona­ mento è rivolto a stabilire i criteri che permettano di dire che qualcosa è segno di qualcos'altro. Ma ciò è possibile solo formulando un'ipotesi, che solo in seguito può essere verificata deduttivamente. 5.5 La svalutazione del sapere segnico In effetti la diffidenza di Aristotele nei confronti della conoscenza che si può ricavare dai segni è molto marcata. Infatti, nella concezione aristotelica, anche quando tra i due termini del segno vi sia un legame necessario, la cono­ scenza del termine non noto sembra imporcisi dall'esterno, senza che si riesca a comprenderne la causa. Aristotele nei Secondi analitici (1, 75 a, 28-36) oppone il ragionamento basato sull'essenza a quello basato sulsegno; quest'ultimo infatti viene definito come ragionamento che si fonda sulle determinazioni accidentali. Ne consegue, peraltro, che soltanto con il primo tipo è possibile arrivare a conoscere la causa. Ciò non significa che la conoscenza attraverso il segno sia totalmente esterio­ re. In certi casi, che sono quelli dei segni necessari, il segno permette di risalire alla causa: così la constatazione del fat­ to che una donna ha latte permette di risalire alla causa, cioè al suo essere gravida, come pure l'accertamento della  130 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARlSTOTELE presenza della febbre permette di risalire allo stato di ma­ lattia che la determina. Tuttavia questo tipo di ragionamento non arriva a forni­ re una vera e propria scienza dei fatti, in quanto quest'ulti­ ma si ottiene solo a partire dalla causa. Il ragionamento at­ traverso il segno parte invece dall'effetto e permette soltan­ to l'affermazione del fatto, cioè dello h6ti ("che"), senza condurre alla comprensione delle cause, cioè del di6ti ("perché"). Nel capitolo 13 dei Secondi analitici Aristotele insiste sul fatto che la dimostrazione veramente scientifica non consi­ ste nella scoperta o nella conclusione della causa, ma essa è scientifica proprio in quanto parte dalla causa; in quel con­ testo viene infatti fondata la distinzione tra "il sapere che qualcosa è" e "il sapere perché qualcosa è". In effetti alle scienze dello h6ti viene riconosciuto un cer­ to diritto di esistenza; tuttavia esse vengono considerate in­ feriori in quanto portano sui fatti, senza raggiungere la co­ noscenza del necessario e a malapena quella dell'universale. Ma quali sono queste scienze dello hoti? Dagli esempi che Aristotele fornisce si direbbe che si tratta eminentemente di scienze indiziarie, basate sui segni e fornite di un carattere fortemente ipotetico in contrapposizione ad altre che invece hanno carattere deduttivo. Tra questi esempi Aristotele cita il caso dell'astronomia (astrologhfa), nome condiviso sia da una certa scienza nau­ tica (nautik�) sia da una scienza basata su fondamenti ma­ tematici (math�matik�). Solo la seconda è scienza delle cau­ se. Ugualmente Aristotele contrappone la medicina alla geometria: infatti, nel caso delle ferite circolari, spetta al medico di sapere che esse guariscono più lentamente, men­ tre spetta all'esperto di geometria conoscere il perché di questo fatto. Dunque abbiamo medicina e scienza della navigazione contro matematica e geometria: il senso della scelta aristo­ telica contro il segno non potrebbe essere più chiaro. È interessante osservare come per Aristotele sia possibile anche sviluppare un ragionamento dello hoti oppure uno del dioti all'interno di una stessa scienza. La differenza che  5.5 SVALUTAZIONE DEL SAPERE SEGNICO 131 contraddistingue i due tipi è duplice. Infatti si fa un ragio­ namento dello h6ti, in primo luogo, quando il sillogismo non si basa su premesse immediate (che, nell'epistemologia aristotelica, significa assumere la causa prima e prossima); in secondo luogo, quando, pur basandosi su premesse im­ mediate, la deduzione non discende dal termine che indica la causa di un fatto, ma dal più noto di due termini, en­ trambi riferiti al fatto. In altre parole, la differenza specifi­ ca del sillogismo del dioti è ancora che esso va dalla causa ali'effetto e non dali'effetto alla causa. L'esempio che Aristotele fornisce è molto interessante. Posto, infatti, che c'è una certa relazione tra il non sfavilla­ re dei pianeti e la loro vicinanza alla terra, Aristotele mo­ stra come attraverso questi due termini sia possibile svilup­ pare due tipi di ragionamento di diverso valore epistemolo­ gico . Da una parte è infatti possibile dedurre la vicinanza dei pianeti dal fatto che non sfavillano (''Se non sfavillano, so­ no vicini"). Si ha in questo caso un ragionamento dello hoti e si può osservare che in questo contesto il "non sfavillare" è tipicamente un segno del fatto che risulta come conclusio­ ne, cioè la loro "vicinanza" alla terra. Il sillogismo costruito sul segno non parte dalla causa del non sfavillamento dei pianeti (che è costituita dalla loro vi­ cinanza), ma parte dell'effetto, che viene assunto come ter­ mine medio, per arrivare alla causa. È possibile anche che la causa non venga mai realmente conosciuta. Aristotele contrappone a questo tipo di ragionamento quello che deduce il non sfavillamento dei pianeti dalla loro vicinanza. Si ha in questo caso un ragionamento del dioti, che mostra il perché qualcosa sia, dal momento che coglie la causa precisamente in quanto causatrice dell'effetto; for­ malmente ciò avviene in quanto viene assunto come medio proprio il termine che indica la causa. Dunque tra il sillogismo del dioti e quello dello hoti c'è un rapporto di simmetria inversa. È sufficiente infatti in­ vertire i termini del secondo per ottenere il primo. Tuttavia ciò non è sempre possibile, come precisa il com­ mentatore del testo aristotelico Filopono:  132 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Spesso è necessario che, quando viene posta la causa, anche l'effetto sia posto, mentre non è affatto necessario che, quando si dà l'effetto, anche la causa si dia: così il fatto di avere il co­ lorito pallido non si accompagna necessariamente al parto, ma se una donna ha partorito, essa ha sempre il colorito pallido: infatti possono esserci varie cause del medesimo fatto. (Philop., in Anal. Post., Wallies, 169-9) L'aleatorietà del procedimento inferenziale tipico del se­ gno (dal pallore al parto) viene qui messa in risalto preve­ dendo il caso che un effetto possa avere molteplici cause, situazione nella quale, secondo Filopono, non potrà essere costruito un vero sillogismo dello h6ti, ma soltanto un sil­ logismo del di6ti. Del resto, Aristotele stesso aveva previsto il caso che un effetto potesse avere cause differenti,15 che rendono difficile e aleatorio il percorso di risalita dali'effet­ to alla causa. D'altra parte, però, secondo il con1mentatore Filopono, si può verificare anche il caso opposto, quello cioè in cui sia possibile soltanto un ragionamento dello h6ti. Infatti è possibile risalire dal fatto che una donna ha partorito (co­ me effetto e segno) al fatto che essa si è unita a un uomo (come causa): ma la reciproca non è necessaria, poiché il parto non segue necessariamente all'accoppiamento (Phi­ lop., in Ana/. Post., Wallies, 169-21). C'è infine un'ultima caratteristica che contraddistingue il ragionamento dello h6ti da quello del di6ti, consistente nel fatto che il primo è tipico del �emplice osservatore dei feno­ meni, non specialista, mentre il secoildo spetta all'uomo di scienza (An. Post. , I l , 79 a, 2-3). In Aristotele, in definitiva, le scienze indiziarie e il segno in generale sono oggetto di una svalutazione epistemologi­ ca, in quanto nella sua concezione teorica della scienza non viene fatto alcuno spazio alla ricerca e all'ipotesi, quale è presupposta invece da una concezione semiotica del sapere. Come sottolinea Le Blond (1939, tr. it. 1973: l 05), per Ari­ stotele la scienza "n'est elle pas principalement recherche, mais possession; les Analytiques n'apportent guère d'indi­ cations sur la recherche: il décrivent la science achevée, qui  5.6 DEDUZIONE E ABDUZIONE 133 descend des causes aux effets et coincide absolument avec le dynamisme des choses - conception singulièrement con­ fiante, on le voit, qui pose en principe la connaissance par­ faite de la réalité". 5.6 Deduzione e abduzione Non si deve tuttavia pensare che questa posizione teorica corrisponda esattamente alla pratica di ricerca adottata di fatto da Aristotele, a esempio nelle opere scientifiche. Né, d'altra parte, si deve accettare �enza riserve l'asserzione ari­ stotelica circa il carattere assolutamente deduttivo delle scienze del di6ti. Come ha mostrato Eco (1983: 242), per Aristotele trovare il perché di un certo fenomeno significa trovare un buon termine medio che spieghi quel fenomeno: ma questo termine medio può essere, in certi casi, anche molto ardito e sofisticato, e non corrispondere a nessuna conoscenza già accertata. Esso può essere, cioè, una "ipote­ si" nel senso peirceano. È illuminante, a questo riguardo , il ragionamento svilup­ pato da Aristotele nel trattato Parti degli animali, in cui, a proposito degli animali provvisti di corna, vengono regi­ strati alcuni "fatti sorprendenti" bisognosi di spiegazione. A esempio: (i) che tutti gli animali con le corna hanno una sola fila di denti, cioè mancano degli incisivi superiori (663 b - 664 a); (ii) che tutti gli animali con le corna hanno quat­ tro stomaci (674 a-b); (iii) che tutti gli animali con quattro stomaci mancano degli incisivi superiori (674 a) ecc. Il problema che ha di fronte Aristotele, in questo caso, è quello di spiegare la ragione per cui, innanzitutto, agli ani­ mali con le corna mancano gli incisivi superiori. Come sot­ tolinea Eco, Aristotele "deve porre una Regola tale che, se il Risultato che vuole spiegare fosse un Caso di questa Re­ gola, tale Risultato non sarebbe più sorprendente'' (1983: 239). E del resto, secondo Peirce, quando una circostanza "strana" si spiega supponendo che essa sia il caso di una certa regola 0enerale, siamo di fronte a un'ipotesi o abdu­ zione .  134 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Proprio in questi termini procede Aristotele, supponen­ do che, nel caso considerato, probabilmente, la materia du­ ra è stata deviata dagli incisivi superiori alla testa con lo scopo di formare le corna. A sua volta, la mancanza di in­ cisivi superiori è causa dello sviluppo di un quarto stomaco ed è il medio dal quale si sviluppa un ulteriore sillogismo. Espresso nei termini del sillogismo (nella formalizzazione peirceana adottata da Eco) il primo ragionamento si rico­ struisce così: Regola = Tutti gli animali devianti (cioè che hanno deviato la materia dura dalla bocca alla testa) mancano degli in­ cisivi superiori. Caso=Tutti gli animali con le corna hanno deviato. Risultato = Tutti gli animali con le corna mancano degli in­ cisivi superiori. La "deviazione deUa materia dura" costituisce contem­ poraneamente il medio del sillogismo e la spiegazione del fenomeno. Quello che Eco mette giustamente in risalto è che lo sforzo di spiegare a titolo ipotetico perché un feno­ meno è così come è, costruendo una forma rigorosamente deduttiva, non differisce in niente da ciò che Peirce chiama abduzione: in ciascuno dei due casi c'è un lavoro su ipotesi che permettono di spiegare fenomeni che appaiono "sor­ prendenti " . L'idea di Eco, in sostanza, è che al di sotto e prima del li­ vello deduttivo preso in considerazione da Aristotele esista un livello abduttivo che Aristotele rifiuta di riconoscere, ma al quale ricorre nel caso che debba costruire delle defi­ nizioni scientifiche: definire il perché di un fatto sorpren­ dente "significa stabilire una gerarchia di collegamenti cau­ sali per via di una sorta di ipotesi che può essere convalida­ ta solo quando dà luogo a un sillogismo deduttivo che agi­ sce come previsione di successive modifiche" (ibidem, 241). Ed è in definitiva proprio il mancato riconoscimento di questo movimento inferenziale preliminare che vieta ad Aristotele di riconoscere il carattere ipotetico della scienza e, nel contempo, la produttività dello stesso sapere segnico.  6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO E LA SEMIOTICA DEGLI STOICI 6.0 Introduzione La scuola stoica è quella che nell'antichità ha sviluppato con maggior rigore e profondità una riflessione semiotica. Tuttavia l'indagine degli stoici si polarizza, com'era già av­ venuto per Aristotele, su due ambiti fondamentalmente di­ stinti tra di loro: da una parte, una teoria del linguaggio in senso stretto, che comporta anche un'analisi dei rapporti tra linguaggio, pensiero e realtà (in corrispondenza della terna "significante", "significato", "oggetto esterno"); dal­ l'altra, una teoria del "segno" proposizionale, connessa con la teoria dell'inferenza. Questi aspetti della filosofia stoica trovano però un pun­ to di convergenza, come vedremo, nel loro comune legame con il lekt6n, un'entità che ha uno statuto eccezionale nella metafisica stoica. In effetti, a fondamento di quest'ultima, si pone la speciale dialettica tra le entità che condividono la proprietà di essere "corpi" (sOmata) e quelle entità che sono invece corporee (asOmata). Più in dettaglio si può dire che di solito l'ontologia stoica prende in considerazione solo quegli individui che hanno la caratteristica di essere oggetti tridimensionali e di possedere altresì una resistenza nel tem­ po. Questi, appunto, sono i corpi e solo essi vengono consi­ derati esistenti. Ora, tanto nella teoria del linguaggio, quan­ to in quella del segno proposizionale, accanto alle entità corporee vengono prese in considerazione anche delle entità incorporee, quali i lekta.  136 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI Per il momento è invece necessario sgombrare il campo da due equivoci. Il primo concerne il destino che tocca alle entità incorporee: esse non vengono relegate semplicemente nell'ambito del non-esistente, ma vengono investite di una "esistenza derivativa'' (Long 197I a: 89-90). Il secondo pos­ sibile equivoco concerne la nozione stessa di corpo. Contra­ riamente a quello che ci attenderemmo in relazione a una nozione moderna di corpo, per gli stoici erano "corpi" an­ che le qualità, in quanto venivano considerate come materia in un certo stato. Le proprietà di un certo individuo costi­ tuiscono stati o modi del suo essere e, per la loro esistenza, dipendono dall'esistenza di questo individuo. Se l'individuo esiste, le sue proprietà sono appunto disposizioni esistenti di materia (Rist I969: 52-55). Si profila, a questo punto, una ontologia che pone al suo centro la nozione di "particolare": quest'ultimo viene carat­ terizzato come un oggetto materiale, che ha una forma defi­ nita come condizione necessaria e sufficiente della sua esi­ stenza. La forma, del resto, è l'elemento caratteristico di un oggetto, che lo rende identificabile come tale (Long I97I a: 76). È proprio su questi presupposti antologici che si innesta e si sviluppa la teoria semiolinguistica degli stoici: il bisogno di una teoria del significato e della verità nasce appunto a proposito deIl'identificazione dei "particolari", ed è con­ nesso a una teoria della percezione. Così, si terrà presente innanzitutto che per gli stoici le im­ magini (phantasfa1) prodotte nella mente dagli oggetti ester­ ni danno luogo a una percezione vera se esse riproducono esattamente la configurazione di tali oggetti.1 Del resto, le immagini giocano un ruolo importante nella teoria del si­ gnificato degli stoici, come si sa che avevano una parte im­ portante anche nella teoria del significato di Aristotele. In secondo luogo si può considerare come fondamentale il fatto che uno dei modi di identificare un "particolare" è quello di identificarlo linguisticamente. In questo caso è fondamentale l'abilità di A nel comunicare a B che sta par­ lando intorno a X, come pure l'abilità di B di indicare ad A che egli ha compreso il suo riferimento.  6.1 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 137 6.1 La teoria del linguaggio 6 . 1 . 1 Il triangolo semiotico Il passo di Sesto Empirico che contiene i lineamenti fon­ damentali della teoria linguistica stoica si trova proprio in un contesto che concerne un conflitto di opinioni intorno alla verità. È importante sottolineare che per gli stoici una teoria del­ la verità, cioè la ricerca delle basi per una verifica delle pro­ posizioni, non può essere elaborata in maniera indipenden­ te da una concezione della struttura del mondo e da ciò che può essere detto intorno a esso. Ecco il passo di Sesto. Alcuni hanno riposto il vero e il falso nella cosa "significata" (tò s�mainomenon), altri nella voce (phon�), altri infine nel mo­ vimento del pensiero. Della prima opinione sono stati i porta­ bandiera gli stoici col sostenere che sono tra loro congiunte tre cose, ossia la cosa significata (tò s�mainomenon), quella signi­ ficante (tò s�mafnon), e quella-che-si-trova-ad-esistere (tò tyn­ chanon), e che, tra queste, la cosa significante è la voce (ad esempio la parola "Dione"); quella significata è lo stesso stato di cose (autò tò pragma) indicato dalla voce pronunciata (tò hyp'autis d�loumenon), che noi percepiamo come coesistente (paryphistamenon) con il nostro pensiero (dianoia1), mentre i barbari, pur ascoltando la voce che lo indica, non lo compren­ dono; infine, ciò-che-si-trova-ad-esistere è quello che sta fuori di noi (ad esempio, Dione in persona). Di queste cose due sono corpi, cioè la voce e ciò-che-si-trova-ad-esistere, ed una è incor­ porea, cioè l'oggetto significato o "detto" (lekton), e proprio quest'ultimo è vero o falso. 2 (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 11-12) A partire dalle notizie di Sesto, anche per gli stoici il fe­ nomeno della significazione linguistica può essere ricostrui­ to nei termini di un triangolo (cfr. p. 138). Si può osservare che compaiono i termini "significante" e "significato" (come è dato trovare anche nella teoria mo­ derna di Saussure), ma non quello di "segno": come anche  138 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI slmsin6menon (significato) lekt6n ( detto)  tmsm lnon (aignificente) tynchAnon  in Aristotele, la nozione di s�meion appartiene a un altro ambito della teoria, che non è quello strettamente linguisti­ co. Si può notare anche che l'esempio che viene dato qui è abbastanza particolare, in quanto si tratta di un nome pro­ prio. In secondo luogo, se da una parte, come per Aristotele, i termini che individuano la significazione sono tre e com­ prendono anche l'oggetto, che propriamente è esterno al linguaggio, tuttavia la coincidenza tra i due modelli è solo parziale: soltanto il primo e il terzo termine, cioè la voce si­ gnificante e l'oggetto, possono essere assimilati nei due triangoli. 6. 1 .2 Il "lekt6n" come "asserzione" Un caso assolutamente a sé costituisce il termine che si trova al vertice superiore del triangolo, chiamato prima ù·lJ_ main6menon, poi anche lekt6n. Soprattutto nella sua se­ conda denominazione costituisce un termine peculiare della filosofia del linguaggio degli stoici e rimanda a un concetto complesso e di grande interesse. Un primo aspetto della sua peculiarità lo si può rilevare in un confronto con Aristotele. (oggetto esterno, referente)   6.1 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 139 Nella stessa posizione del triangolo della significazione Ari­ stotele poneva delle entità psicologiche, che venivano consi­ derate le medesime per tutti gli uomini. Il lekt6n degli stoici, come ci dice Sesto nel passo riporta­ to, ha caratteri completamente diversi, in quanto i barbari, pur udendo i suoni e vedendo l'oggetto, non lo compren­ dono . Come rileva Todorov (1977: 17-18), la differenza tra le due nozioni consiste innanzitutto nel fatto che, mentre l'en­ tità presa in considerazione da Aristotele si situa a livello della mente dei locutori, quella considerata dagli stoici si si- tua direttamente al livello del linguaggio: Todorov interpreta il lekt6n come la capacità del primo elementodi designare il terzo. Tale interpretazione poggia anche sul fatto che l'e­ sempio dato è un nome proprio, che ha una capacità di de­ signazione come gli altri nomi, ma è molto controverso se abbia un senso; la risposta che di solito si dà a questo inter­ rogativo è negativa. I barbari odono sicuramente la sequenza di suoni l Dio­ ne l e vedono l l Dione l l , ma sono incapaci di connettere il suono con il suo oggetto di riferimento. Comprendere, dun­ que, come avviene appunto nel caso dei Greci, consiste pro­ prio nel percepire la connessione tra la parola che viene pro­ nunciata e l'oggetto cui si riferisce. Anche Long (1971 a: 77) identifica il lekt6n con tale connessione, ma nel senso che esso si configura come l'affermazione che un enunciato fa nei confronti di qualche oggetto; in questo caso, la tra­ duzione più propria di lekt6n è "ciò che è detto", in quanto tale espressione copre sia la nozione di "giudizio" che quella di "stato di cose significato da una parola o da una serie di parole".3 L'idea che i lekta si potessero configurare come "affer­ mazioni intorno agli oggetti" emerge da una testimonianza di Seneca (Epistulae mora/es, 1 17, 13), in cui viene delinea­ to uno schema triadico della significazione analogo a quello di Sesto, ma con una proposizione ( l Catone cammina l ), laddove Sesto proponeva solo un nome ( l Diane l ). Seneca invita a distinguere tra l'oggetto di riferimento, cioè Cato­ ne, che è un oggetto materiale, e l'asserzione intorno a esso  140 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI ( l Cato ambulat l ), che è un "incorporale". Tale asserzione è propriamente il lekton, del quale termine Seneca propone tre diverse traduzioni latine: enuntiatum ("enunciazione"), effatum ("affermazione"), dictum ("asserzione"). Dato che l'esempio proposto da Seneca è una proposizio­ ne, risulta più agevole, rispetto ali'esempio di Sesto, capire come possa essergli applicato il predicato "vero" o "falso".4 Infatti solo i lekta che costituiscono una proposizione com­ pleta possono essere veri o falsi.5 6. 1 .3 I rapporti tra il "lekt6n" e il pensiero Nel modello aristotelico della significazione le espressioni linguistiche sono i simboli degli stati psichici (path�mata en tiipsychi1) elo dei pensieri (noimata). In questo modo non viene operata una chiara distinzione tra la nozione di "si­ gnificato" e quella di "pensiero". Tale concezione ricompa­ re del resto nella nota teoria novecentesca di Ogden e Ri­ chards (1936: tr. it. 37), i quali disegnano un triangolo se­ miotico in cui figura al vertice superiore la nozione di "thought" ("pensiero"). Diversa è la concezione proposta dagli stoici. In effetti, dalla testimonianza concorde di Sesto e di Diogene si ricava una nozione di significato nettamente distinto dal pensiero, anche se intrattenente con questo un certo tipo di rapporto. Dice infatti Sesto: [Gli stoici] affermano che il /ekton è ciò che sussiste in confor­ mità con una rappresentazione razionale (loghik� phantasia) e che una rappresentazione razionale è quella secondo cui il rap· presentato (phantasthén) può essere espresso in parole. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 70) In termini del tutto analoghi si esprime Diogene (Vitae, VII, 63), usando anche le stesse espressioni. Cosi, da en­ trambi i passi si può ricavare l'idea che gli stoici operassero una distinzione netta tra i lekta, che rappresentano il livello del "significato", e le "rappresentazioni razionali" (loghikaì  6.1 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 141 phantasfa1), che possiamo definire come delle forme di atti­ vità intellettiva o dei pensieri; quest'ultime entità sono pe­ culiari della specie umana6 e possono, ali'occorrenza, essere espresse in parole (a questo infatti si riferisce l'aggettivo lo ghikaf). Ma, sempre dai due passi, si può ricavare anche che i due termini, il lekton e l'attività di pensiero, vengono messi in relazione. Long (1971 a: 82) cosi commenta il passo di Se­ sto: "I take this difficult passage to mean that the /ekton is defined as the objective content of acts of thinking (no�­ sis)" e aggiunge anche "or, what comes to the same thing in Stoicism, the sense of significant discourse". Prima di ap­ profondire il senso di questa seconda asserzione di Long, soffermiamoci sulla prima. Dunque la relazione che il lekton instaura con l'attività di pensiero è tale per cui esso si configura come contenuto o risultato di tale attività. Ma questa nuova relazione, che ve­ niamo scoprendo attraverso le testimonianze di Diogene e Sesto, comporta un elemento nuovo rispetto a quanto lo stessoSestoavevadettoaltrove(Adv.Math.,VIII, 11-12), quando aveva messo in relazione il lekton con l'espressione significante (cioè con il s�mainon). In effetti, se il lekton viene ora definito come qualcosa che sussiste in conformità con una rappresentazione razionale, è evidente che l'accen­ to appare spostato dal precedente rapporto con il suono della voce, a un rapporto con l'attività del pensiero. Questa, prima di dimostrarsi un'apparente contraddizio­ ne o un falso dilemma, ha diviso sia le testimonianze degli esegeti antichi sia le interpretazioni degli studiosi moderni degli stoici. Come mette bene in evidenza Mignucci (1965: 92-93), i lekta, essendo incorporei, "non possono essere disgiunti da qualcosa di corporeo che faccia in qualche modo da sup­ porto ad essi e che permetta la loro esprimibilità". Il proble­ ma diviene allora quello di stabilire se a fare da supporto ai lekta siano: (i) i suoni della voce; o (ii) l'attività della mente che li pensa. La prima definizione di Sesto7 opta per la solu­ zione (i),9mentre la seconda,8 come pure la definizione di Diogene, optano per la soluzione (ii). Ugualmente, tra gli ­  1 42 6 . LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI interpreti moderni, Mates10 risponde che sono le parole a fare da supporto ai lekta; Zeller11 e Bréhier12 assumono l'altro punto di vista. Come dicevamo, questo è un falso dilemma, non resolu­ bile tuttavia filologicamente, in quanto nei testi antichi c'è un'uguale quantità di elementi di convalida per ciascuno dei due punti di vista. Piuttosto è necessario considerare un du­ plice presupposto che sembra agire nella teoria stoica: da un lato il verificarsi di discorsi significativi rimanda a un'at­ tività intellettuale, in assenza della quale non è possibile che si diano i significati; dall'altra il risultato dell'attività intel­ lettuale ha bisogno dei suoni della voce significativi per esplicitarsi oggettivamente. È possibile, anzi, trarre le con­ seguenze dal fatto che i lekta siano definiti da una parte co­ me contenuti delle rappresentazioni razionali e dali'altra come significati delle parole: conseguenze che indicano la necessità di postulare una stretta connessione tra i contenuti dell'attività rappresentativa della mente e il loro essere si­ gnificati attraverso le parole. I due termini, in realtà, non possono essere disgiunti l'uno dall'altro.13 A questo punto possiamo comprendere la seconda asserzione di Long che abbiamo anticipato: il senso del discorso significante e il contenuto oggettivo degli atti di pensiero devono essere considerati come la stessa cosa.. La precedente conclusione viene del resto appoggiata da tà14 è dato dalla "rappresentazione" (phantasia) passo Diogene spiega che la phantasia ha un ruolo assoluta­ mente primario, in quanto non è possibile, senza di essa, rendere conto di alcuni processi fondamentali della cono­ scenza, quali l'assenso (synkatathesis), la comprensione (kata/�psis) e l'attività di pensiero (n6�sis): "infatti la rap­ presentazione viene per prima, poi il pensiero (dianoia) che è capace di parlare (eklalètik�), esprime in parole (/6g01) ciò che esperimenta come il risultato della rappresentazione". Il passo di Diogene è importante perché ripropone la no­ zione, già platonica,15 del pensiero come "discorso inter­ no".16 Tutto ciò porta a concludere che per gli stoici esiste Long sulla considerazione di un passo di Diogene Laerzio (Vitae, VII, 49-50) in cui viene detto che il criterio di veri- .. In questo  6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 143 una sostanziale identità tra i processi del pensiero e quelli della comunicazione linguistica. Il fatto poi che i processi cognitivi siano basati sulla phantasia getta luce sul ruolo che le immagini mentali hanno nella teoria linguistica del si­ gnificato. 6.2 La teoria del segno 6.2. 1 Il "lekt6n" e la teoria del segno Il lekton, che abbiamo finora incontrato come elemento centrale della teoria del linguaggio, costituisce una nozione fondamentale anche della teoria del segno e, in un certo f110do, è un fattore di mediazione tra le due teorie. Infatti i 5egni (s�mefa) per gli stoici sono anzitutto dei lekta, in auanto sono costituiti da proposizioni. Questo fa sì che, come sottolinea Eco (1984: 30), nella se­ fllÌOtica stoica si verifichi una saldatura "di diritto" tra la 0ottrina del linguaggio e la dottrina dei segni. Infatti, "per­ ché ci siano segni occorre che siano formulate proposizioni e le proposizioni debbono organizzarsi secondo una sintassi Jogica che è rispecchiata e resa possibile dalla sintassi lingui­ stica" (ibidem). Occorre tener presente che gli stoici non di­ cono ancora che le parole sono segni (sarà Agostino il pri­ (110 a fare una simile asserzione) e rimane, del resto, una òifferenza lessicale tra la coppia s�mafnonls�main6menon e sl!mefon. Tuttavia il fatto che i segni siano dei lekta ci illumina sul­ ra necessità, avvertita dagli stoici, di tradurre il segno non verbale in termini linguistici e di legare, dunque, per quanto jfl maniera implicita e indiretta, le due teorie. Ecco la definizione di segno che ci viene data da Sesto: Gli stoici, volendo presentare la nozione di segno, dicono che è una proposizione (axloma) che è l'antecedente (prokathegou­ menon) in un condizionale vero (en hyghiei synemménOl), e che è rivelatore del conseguente (ekkalyptikòn tou ligontos). E di-  144 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI cono che la proposizione è un lekt6n completo in se stesso; e il condizionale vero è quello che non comincia dal vero e finisce ] Riprenderemo più avanti le varie problematiche che ven­ gono presentate in questo passo. Per il momento ci preme sottolineare che in esso si definisce il segno come un lekt6n completo, cioè come una proposizione che si pone in rap­ porto di implicazione con un altro lekt6n, cioè con un'altra proposizione, secondo lo schema: p -:J q. Si deve notare che, come per Aristotele, l'attenzione per il segno è esercitata in funzione della conoscenza che esso pe_rmette di raggiungere: l'ottica, in altre parole, è ancora quella epistemica, e il segno appartiene a un campo che è di­ stinto sia da quello logico sia da quello semantico in senso stretto. Il segno, infatti, non è una proposizione qualsiasi che figuri come antecedente in un condizionale vero, ma so­ lo quella proposizione che permette di scoprire il conse­ guente (cioè che permette l'accesso a una nuova conoscen­ za). Su questo torneremo tuttavia più avanti. Va comunque notato che, se l'ottica con cui gli stoici guardano al segno è la stessa di quella di Aristotele, assolu­ tamente diverso è il tipo di inquadramento logico. È nor­ mallnente accettato che Aristotele pratichi la logica delle classi, mentre gli stoici introducono quella proposizionale. Ciò comporta che l'attenzione venga spostata: (i) dalla so­ stanza degli eventi (Todorov 1 977 : 21), per quanto concerne il punto di vista antologico; (ii) dal nome/aggettivo, che funge da predicato, alla proposizione, per quanto concerne l'espressione linguistica. In effetti, in Aristotele si poteva notare un certo disagio a trattare le sostanze e le proprietà come segni. Ciò che, invece, può essere trattato come segno sono i fatti e gli avvenimenti espressi da proposizioni. E del resto Aristotele, pur senza denunciare la differenza, tutta- nel falso [ di un condizionale che comincia con il vero e finisce nel vero. Essa fa scoprire il conseguente poiché la proposizione "essa ha latte" sembra essere rivelatrice (de/Otik6n) di quest'altra "essa concepito". 17 (Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II, 104-106) ... . Essi chiamano antecedente la prima proposizione  6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 145 via fornisce alcuni esempi di segno (come quello della Reto­ rica, I, 1357 b, 16-18: "Se essa ha latte, essa ha partorito"), in cui vengono presi in considerazione eventi e non sostan­ ze. Ma nella filosofia aristotelica la teoria del segno ha una parte marginale: il segno viene fatto rientrare nel procedi­ mento sillogistico (costituisce una premessa del sillogismo) e viene confinato nel campo dei procedimenti retorico-dia­ lettici, se non è un tekmirion, cioè un segno necessario. Nella scienza vera e propria, fondata sul sillogismo perfet­ to, il s�meion non trova f>osto. Al contrario, nelle scuole postaristoteliche, l'inferenza da segni acquista un ruolo centrale: dalla retorica e dialettica, suoi punti di partenza, il segno viene esteso alla scienza in generale e alla filosofia nel suo grado più alto. Gli stoici e gli epicurei vedono nel segno il procedimento canonico del passaggio da ciò che è noto a ciò che è ignoto. Preti (1956: 7-8) sostiene che, a proposito della teoria del segno, tra Aristotele e le scuole posteriori si può individuare un anello di congiunzione, rappresentato dalla teoria di Nausifane, un seguace di Democrito e uno dei maestri di Epicuro. Da quanto ci è rimasto della sua opera, il Tripo­ de, 1 8 è possibile cogliere i punti essenziali di questo passag­ gio . Per Nausi fane, infatti , il discorso filosofico (basato per Aristotele sul sillogismo) e quello retorico (basato sull'enti­ mema) presentano in realtà la stessa struttura logica. In en­ trambi i casi è necessario distinguere tra la "conseguenza" (ak6/outhon), la "premessa" (homologoumenon) e "ciò che deriva dalle premesse" (tlnon l�phthénton ti symbafnei: il sillogismo?). In ognuno dei due tipi di discorso il problema è quello di partire da cose presenti (hyparchonta) per giun­ gere in maniera metodica alle cose invisibili. Il metodo del passaggio è la akolouthia, "la relazione di consequenziali­ tà", di implicazione o implicitazione,19 comune appunto a filosofia e retorica. 20 Ora, come testimonia Sesto, dalle cose evidenti (apò ton enargOn) alla comprensione del­ le cose oscure (ad�la) per mezzo del segno come relazione di akolouthia costituisce proprio il nocciolo della dottrina de­ gli stoici (come pure di tutti coloro che Sesto riunisce sotto la possibilità di passaggio  146 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI il nome di "dogmatici"). Non solo, ma come prova della centralità della semiotica, anche la dimostrazione viene considerata un segno:21 fatto che testimonia la riduzione della filosofia della scienza a semiotica e che conferma la tendenza delle scuole postaristoteliche a ridurre o trasfor­ mare il sillogismo nell'inferenza implicativa. 6.2.2. 1 I tipi di segno: A) "comune" e "proprio" Nella semiotica stoica si registra la scomparsa della di­ stinzione terminologica tra tekm�rion e s�meion: il primo termine non viene più usato e i segni vengono tutti denomi­ nati s�meia. Un'ipotesi plausibile è che ciò sia legato all'ab­ bandono del sillogismo e della sua distinzione in figure la quale sorreggeva tale opposizione. Tuttavia, al suo posto, sembra comparire un'opposizione tra "segno comune" (koinòn s�meion) e "segno proprio" (fdion). Tale distinzione non era specificamente stoica, ma appartenente a una koini filosofica ellenistica, sulla quale c'era accordo anche tra scuole per altro verso in contrasto. Una definizione sufficientemente chiara dei due tipi di se­ gno si trova nel trattato semiotico di Filodemo (l secolo a.C.): Un segno è comune (koin6n) per nessuna altra ragione che quella per cui può esistere, sia che l'oggetto non percepito (tò ad�lon) esista, sia che non esista. Noi diciamo che la persona che crede che questo particolare uomo sia buono a causa del fatto che è ricco, sta usando un segno non valido e comune dal momento che molti che sono ricchi risultano malvagi e molti buoni. Perciò il segno proprio (idion), se è necessario (ananka­ stik6n), non può esistere altrimenti che con la cosa che noi di­ ciamo appartenere di necessità ad esso, (cioè) l'oggetto non evi­ dente di cui è segno. 22 (Philodemus, De signis, I, 1-17) C'è una convergenza nelle scuole postaristoteliche nel ri­ tenere il segno comune come non valido e nell'accettare in­ vece unicamente il segno proprio. Dalla definizione di Filo-  6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 147 demo si ricava che una differenza peculiare consiste nel ca­ rattere di necessità del segno proprio, che viene definito co­ me "necessario" (anankastik6n), carattere non posseduto da quello comune. Viene dunque da mettere in parallelo il segno proprio con il segno necessario di Aristotele che ri­ chiedeva una connessione necessaria con l'oggetto a cui rin­ viava. D'altra parte, il segno comune è definito come quel segno che può rimandare a qualcosa di esistente, di cui sa­ rebbe segno, ma può anche non rimandare a niente. Dato l'esempio, cioè l'inferire dalla ricchezza di un uomo la sua bontà (inferenza che in certi casi funziona e in certi altri no), sembra plausibile porre in relazione il segno comune e i segni in seconda e terza figura di Aristotele. Infatti per Ari­ stotele si poteva inferire dal pallore di una donna il suo es­ sere gravida (segno in 2a figura) oppure dalla bontà di Pit­ taco la bontà dei sapienti (segno in 3a figura): ma questi se­ gni non in ogni caso risultavano verificati. Si può così giungere a una conclusione interessante: men­ tre Aristotele, pur negando validità scientifica ai segni non necessari, ne prevedeva comunque un uso in un ambito epi­ stemologicamente più basso, come quello della retorica, do­ minio delPopinione, la scuole postaristoteliche sembrano aver fatto definitivamente piazza pulita delle inferenze del tipo non necessario. 6.2.2.2 I tipi di segno: B) "rammemorativo" e "indicativo" Filodemo aveva scritto il suo trattato intorno alla metà del I secolo a.C. Circa due secoli dopo, Sesto riprende la di­ stinzione tra segno preso in senso proprio (idlos) e segno preso in senso comune (koinOs), mettendola in esergo alla sua trattazione del segno; ma, stranamente, assimila questa a un'altra opposizione, quella tra segno rammemorativo e segno indicativo: Il segno [. . .] si dice in due maniere, comune (koinOs) e proprio (idt'Os). In maniera comune si dice segno quello che sembra rive­ lare qualche cosa: in questo senso sogliono chiamare segno an-   148 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI che ciò che serve a richiamare alla memoria la cosa osservata in­ sieme con esso. In maniera propria si dice segno quello che è in­ dicativo di una cosa avvolta nell'oscurità. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 143) Apparentemente, e in maniera contraddittoria, tuttavia Sesto sembra voler mantenere la duplice distinzione, in quanto, dopo aver introdotto l'opposizione tra segno co­ mune e segno proprio, dichiara di voler trattare solo di que­ st'ultimo (ibidem, 143); e poiché il segno proprio è quello che permette di scoprire le cose che sono oscure, egli propo­ ne di distinguere preliminarmente le cose in "manifeste" e "oscure", e di suddividere ulteriormente quest'ultime in tre categorie. Ne risulta una quadruplice tipologia: (i) Le cose manifeste o immediatamente evidenti: sono quelle che giungono alla conoscenza in maniera diretta; co­ me esempio Sesto porta "il fatto che è giorno e che io sto di­ scorrendo"23 quando io faccio realmente queste cose. (ii) Le cose oscure in senso assoluto: sono quelle che han­ no una natura tale da non arrivare alla nostra comprensio­ ne (kata/�psis), come a esempio "se le stelle siano di numero pari o dispari" o "se i granelli di sabbia della Libia siano di un determinato numero".24 (iii) Le cose oscure temporaneamente: sono quelle che pur avendo una natura manifesta divengono, per certe cir­ costanze, non evidenti per un certo tempo: l'esempio è il fatto che, chi si trova a una certa distanza, non vede la città di Atene. Atene, visibile per sua natura, diviene tempora­ neamente invisibile a causa della distanza.2� (iv) Le cose oscure per natura: sono quelle che hanno una natura tale da non essere percepite, ma sono soltanto pen­ sabili (no�to1).26 Gli esempi sono "i pori intelligibili" e "il vuoto". Non si pone un problema di segni a proposito della prima e della seconda categoria, in quanto le cose manifeste ven­ gono comprese in maniera non mediata e le cose oscure in senso assoluto non possono essere comprese affatto. Invece è proprio attraverso i segni che possono essere comprese le cose che appartengono alle ultime due categorie. Ma i tipi  6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 149 di segno sono diversi per ciascuna di esse. Le cose tempora­ neamente oscure si colgono attraverso i segni rammemora­ tivi, quelle oscure per natura attraverso i segni indicativi. Ecco la definizione che ne dà Sesto: Dei segni [...], secondo costoro [i dogmatici], alcuni sono ram· memorativi (hypomn�stika), altri indicativi (endeiktika). Chia­ mano segno rammemorativo quello che, osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, appena esso si presenta, se quella è avvolta nell'oscurità, ci conduce a ricordare la cosa che è stata osservata insieme a tal segno e che non si presenta ora in maniera evidente, come avviene per il fumo e il fuoco. È invece indicativo, come dicono, quel segno che, non osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, pure, per la propria natura e costituzione, segnala ciò di cui è segno; così, per esempio, i movimenti del corpo sono segni dell'anima. (Sext. Empyr., Hyp. Pyrrh., II, l00-1Ol)27 Il segno rammemorativo è, in sostanza, frutto di un'asso­ ciazione costante tra cose comunemente osservate in con­ nessione empirica. Sembra, tra l'altro, che gli esempi che Sesto sceglie per illustrare questo tipo si distribuiscano se­ condo la tripartizione28 contemporaneità/anteriorità/po­ steriorità tra il segno e la cosa indicata: nel caso di "fu­ mo-+fuoco" vi è contemporaneità; in "cicatrice-+piaga" o in "fascia-unzione degli atleti" il fatto indicato è anterio­ re; in "ferita al cuore-morte", il segno rimanda a qualcosa di posteriore.29 Il segno indicativo, a differenza del precedente, non è su­ scettibile di essere osservato insieme alla cosa di cui è segno, in quanto quest'ultima non è mai stata manifesta e spesso non è nemmeno sospettabile. Ne sono esempi "i movimenti del corpo" che permettono di risalire all'"anima", o "il su­ dore" che rimanda ai "pori della pelle".30 Sesto accetta la validità epistemologica dei segni rammemorativi, mentre nega validità epistemologica ai segni indicativi, che sono, secondo lui, un'invenzione dei "filosofi dogmatici" e dei "medici razionalisti".3 1 Possiamo ricapitolare con il seguente schema la classifi­ cazione di Sesto: cose manifeste oscure   non danno luogo a segni danno luogo a un segno in senso assoluto per natura danno luogo a un segno indicativo rammemorativo Si deve però osservare che la distinzione riportata da Se­ sto tra segno rammemorativo e segno indicativo solleva molti dubbi circa la sua provenienza stoica. In effetti, non se ne trova traccia in altre fonti e neppure nel resto della trattazione dello stesso Sesto. Inoltre, tale distinzione appa­ re addirittura in contrasto con l'indirizzo complessivo della filosofia stoica e soprattutto con l'orientamento logico-for­ male della teoria del segno. Questa distinzione, per quanto importante dal punto di vista epistemologico, appare irrile­ vante dal punto di vista logico. Invece, sembra essere genuinamente stoica la distinzione tra segno comune e segno proprio, secondo la testimonian­ za di Filodemo. È, tra l'altro, il carattere necessario del se­ gno proprio che dimostra la coerenza di essa con il pensiero stoico. Infatti, il segno degli stoici è sempre un segno "ne­ cessario", come un'analisi più dettagliata della sua struttura ci permetterà di vedere. 6.2.3 La struttura del segno nel "condizionale" Ritornando alla definizione stoìca di segno che abbiamo visto, si devono prendere in considerazione almeno tre cose. Prima di tutto la nozione di synemménon, che letteralmente significa "connesso" o "connessione". Il suo significato lo­ gico ci viene chiarito da Diogene:32 si tratta dell'asserto temporanea­ mente  6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 151 condizionale del tipo "Se p, allora q", in cui a una prima proposizione consegue una seconda come nell'esempio "Se è giorno, c'è luce". La seconda cosa da prendere in considerazione è la no­ zione di condizionale valido (hyghiés, "sano"). Da un passo di Sesto, dove se ne trova la definizione, è possibile ricavare che questa nozione è affine alla moderna interpretazione vero-funzionale di "Se p, allora q"; infatti la validità o in­ validità dell'asserto condizionale "Se p, allora q" dipende dal valore di verità deli'antecedente e del conseguente di esso. 33 Sesto, in due passi paralleli, camente "quel condizionale che non comincia dal vero e fi­ nisce nel falso" e fcrnisce una tavola dei valori di verità del tutto conforme a quella che la logica contemporanea preve­ de per l'implicazione materiale:  p q ·se p, allora q• valido vero vero falso falso vero falso invalido falso vero valido Sesto accenna anche a un disaccordo tra i logici stoici a pro­ posito del criterio per giudicare un condizionale valido:34 esso corrisponde a ciò che è stato definito dai Kneale ( 1 962: tr. it. 154 e sgg.) "il dibattito sulla natura dei condizionali", che animò le discussioni di logica ali'epoca degli stoici. Il terzo elemento da rilevare è legato alla nozione di se- definisce come valido uni­ valido  152 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI gno come antecedente (prokathegoumenon) in un condizio­ nale valido. In effetti, come fa rilevare lo stesso Sesto,3s i ti­ pi di condizionale valido sono tre nella tavola dei valori di verità corrispondente all'implicazione materiale (V V; F F; F V); il problema diviene dunque quello di vedere se la struttura del segno sia da ricercare in ciascuno dei tre tipi di condizionale valido, o solo in casi particolari. Ora, in effet­ ti, un segno non può non essere espresso da una proposizio­ ne vera, come pure deve essere vera la proposizione a cui es­ so rimanda. Così sono esclusi il secondo e il terzo caso (F F; F V), in quanto hanno un antecedente falso. Dunque l'uni­ ca possibilità è relativa al primo tipo di condizionale, cioè quello che comincia dal vero e finisce nel vero.36 Ma c'è un'ultima osservazione da fare, ed è relativa al ca· rattere che il segno deve avere di essere rivelatore (enkalyp­ tik6n) del conseguente. In effetti un condizionale del tipo "Se è giorno, c'è luce", nel momento in cui si verifichino le due condizioni che sia giorno e che vi sia luce, è formato da due proposizioni entrambe vere. Tuttavia, secondo Sesto,37 non si realizzano in questo caso le condizioni perché vi sia un segno, in quanto entrambe le proposizioni rimand?no a fatti di per sé evidenti. Il primo termine del condizionale non è rivelatore del secondo. In effetti, per comprendere la vera natura del segno bisogna passare dal piano strettamen­ te logico a uno più generalmente epistemologico. Il segno, per gli stoici, non solo deve avere una corretta costruzione dal punto di vista logico, individuabile nella implicazione tra due proposizioni vere, ma deve anche possedere il carat­ tere di dispositivo che permette di accrescere la cono­ scenza.38 Come già in Aristotele, anche per gli stoici il segno si ap· poggia su un livello logico, ma si inquadra in un'ottica co­ noscitiva. Gli esempi di carattere medico denunciano l'ori­ gine di quest'ottica. In generale il segno deve permettere il passaggio inferenziale da una conoscenza di facile accesso, come "egli ha sputato cartilagine bronchiale", a una cono­ scenza di molto più difficile accesso, come "egli ha una pia­ ga nel polmone". Tuttavia, ciò che la teoria del segno ac­ quisisce, passando dalle mani dei medici a quella dei filoso..  6.2 LA TEORIA DEL SEGNO fi, è una solida struttura dal punto di vista logico-formale, tale da escludere la possibilità di inferenze scorrette. 6.2.4. 1 Il dibattito sulla natura dei condizionali Quanto ampio e difficoltoso fosse il lavoro che i filosofi dovevano svolgere, sul piano logico, per stabilire un criterio atto a escludere le inferenze scorrette, lo dimostra l'acceso dibattito che si sviluppò sulla "natura dei condizionali" (Kneale 1962). Scrive infatti Sesto Empirico: "Tutti quanti i dialettici sono generalmente d'accordo neli'affermare che un condizionale è valido quando il suo conseguente segue (akolouthei) dal suo antecedente, ma disputano sul come e quando esso segua, e propongono criteri rivali" (Adv. Math., VIII, 12). Riferendosi a questo dibattito, Sesto elenca quattro crite­ ri che erano stati proposti per stabilire la validità di un as­ serto condizionale: (i) quello di Filone Megarico; (ii) quello di Diodoro Crono; (iii) quello della srsnart�sis attribuibile a Crisippo; (iv) quello della émphasis. 9 Sulla disputa si può tuttavia fare un'osservazione genera­ le preliminare. Il punto di partenza, infatti, come fa notare Martha Hurst (1935: 492), è una relazione già conosciuta, nel senso che essa è riconoscibile nei suoi esempi. Ciò che invece costituisce lo scopo è una definizione di questa rela­ zione di consequenzialità (akolouthla) in termini formali. Nel corso dell'intero dibattito sulla natura dei condizionali i logici antichi si sono concentrati sul definiendum e non sul definiens. Quest'ultimo, che può possedere proprietà auto­ nome, essendo dotato di significato, non è stato preso in considerazione se non nella misura in cui poteva essere pro­ vato che esso coincideva con il definiendum. Si è cosi spesso creata una confusione tra i due livelli e spesso sono stati scelti esempi che ambiguamente erano in grado di elucidare sia la relazione riconosciuta, sia le proprietà della relazione logica che essi tentavano di identificare con la prima. Può aiutarci a comprendere meglio questo modo di pro­ cedere un paragone con i metodi della logica contempora- 153  154 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI nea. I logici contemporanei, infatti, sono in genere interes­ sati unicamente al definiens, cioè alla relazione che essi pos­ sono stabilire in simboli, senza riguardo alla questione se tale relazione sia identica a quella che è ampiamente cono­ sciuta, facilmente riconosciuta, e poco compresa come quella di una espressione di implicitazione ("fol/owing", Hurst 1935: 492). A esempio Peirce e Russell erano interes­ sati alle proprietà della implicazione materiale indipenden­ temente dal fatto che essa riproducesse il significato "usua­ le" di "implica" ("implies"). Così pure Lewis era interessato al sistema della implicazione rigida senza sostenere che l ' im­ plicazione rigida rappresenti il significato di "implica". Questa differenza nel modo di procedere tra antichi e moderni comporta un'ulteriore differenza formale: mentre i logici antichi erano interessati a dare un'unica definizione, i moderni lo sono a fornire due definizioni: quella di "im­ plicazione materiale" e quella di "implicazione rigida". 6.2.4.2 L'implicazione filoniana Filone è il primo esponente della scuola megarico-stoica citato da Sesto ed è il primo che dà un'interpretazione vero­ funzionale dell'espressione "Se p, allora q": secondo lui, un'espressione condizionale è valida se, e solo se, non co­ mincia con il vero e finisce con il falso. Come abbiamo già visto, la definizione che Filone dà del criterio di consequen­ zialità (ako/outhfas krit�rion) corrisponde al quadro del­ l'implicazione materiale. Infatti sono tre i casi in cui il con­ dizionale è valido, corrispondente ai tre esempi seguenti: (i) "Se è giorno, c'è luce" (VV); (ii) "Se la terra vola, la terra ha le ali" (FF); (iii) "Se la terra vola, la terra esiste" (FV). Come sottolineano i Kneale (1962: tr. it. 157), è probabi­ le che Filone avesse in mente l'uso dell'espressione "Se p, allora q" nei ragionamenti e che volesse attirare l'attenzione sul fatto che la congiunzione dell'asserto condizionale con il suo antecedente implicita sempre il conseguente. L'inter­ pretazione proposta da Filone è la più debole che soddisfi tale requisito.  6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 155 6.2.4.3 L'implicazione diodorea Diodoro Crono era il maestro di Filone, e la ragione per cui Sesto lo cita per secondo può essere forse attribuita al fatto che, mentre Diodoro riuscì a confutare Filone, que­ st'ultimo non riuscì a fare altrettanto con il primo (Hurst 1935: 435 n.). La critica che Diodoro muove all'interpretazione filonia­ na insiste proprio sul carattere di debolezza di quest'ultima. Egli individua infatti degli esempi di condizionale che, pur potendo soddisfare il requisito filoniano in un tempo tt , possono tuttavia mancare di soddisfarlo in un altro tempo t2. A esempio, l'asserto "Se è giorno, io sto conversando" sarebbe considerato vero da Filone se si dessero le condizio­ ni , in un tempo t � , per cui fosse giorno e io stessi conversan­ do. Diodoro invece dimostra che esso è falso, sostenendo che non c'è niente nella sua natura che permetta di dire se esso cada o no sotto la definizione di Filone. Infatti esso potrebbe essere pronunciato anche in un tempo t2, quando fosse giorno, ma io rimanessi silenzioso. In questo caso es­ so avrebbe la forma invalida VF. Per ovviare a questo inconveniente, Diodoro elabora una concezione secondo la quale un condizionale è valido quan­ do "non ammise, né ammette di cominciare con il vero e fi­ nire con il falso".40 L'esempio che egli dà è "Se non esisto­ no gli elementi atomici delle cose, allora esistono gli ele­ menti atomici delle cose", che, secondo Diodoro, ha l'ante­ cedente sempre falso e il conseguente sempre vero: ciò ba­ sterà a escludere l'evenienza di un antecedente vero con un conseguente falso, unico caso in cui il condizionale sarebbe non valido.41 6.2.4.4 L'"implicazione connessiva" ("synartesis") di Cri­ sippo La terza concezione di condizionale valido riportata da Sesto è quella che, secondo diversi studiosi moderni (Mates  1 56 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI 1949 a; Bochenski 1951 e 1956), corrisponde alla implica­ zione rigida di Lewis o comunque a una forma di implica­ zione necessaria (Kneale 1962; Preti 1956). In maniera con­ corde con il passo di Sesto, che abbiamo visto, questa con­ c e z i o n e v i e n e r i p o rt a t a d a D i o g e n e ( Vi t a e , V I I , 7 3 ) : " È v e r o un condizionale nel quale il contraddittorio (antikefmenon) del conseguente è incompatibile (macheta1) con l'anteceden­ te, come a esempio 'se è giorno, c'è luce' ". Il nome del sostenitore di questa concezione non ci è sta­ to lasciato da chi la riferisce; ma vi sono prove che essa ap­ partenesse a Crisippo (cfr. anche Miiller 1978: 18-19). La nozione di "incompatibilità", messa in scena da que­ sta definizione, è molto interessante, ma problematica in quanto non viene chiaramente definita. Martha Hurst (1935: 495), commentando il passo, tende a mostrare che la relazione di incompatibilità e anche, più in generale, quella di "consequenzialità" (jollowing), non possono essere espresse in termini estensionali, cioè mediante relazioni esterne, che sussistono tra le proposizioni in virtù di pro­ prietà che esse avrebbero al di fuori della relazione: al con­ trario, è necessario ricorrere alle relazioni interne che sussi­ stono in virtù del loro significato. Può essere interessante confrontare questa conclusione di M. Hurst con le osservazioni di Preti (1956: 13), il quale so­ stiene che l'esempio di Sesto, dato a proposito della synar­ t�sis "sembra alludere a qualcosa di ancora più forte (della strict implication di Lewis): alla vera e propria tautologia". Preti basa la sua osservazione sulle notizie circa la dottrina stoica che vengono riportate da Filodemo nel De signis. In effetti in quel testo (come vedremo meglio nel capitolo spe- cificamente dedicatogli) è presentato come genuinamente stoico il metodo inferenziale della "contrapposizione" (ana­ skeu�), che appare analogo a quello della synart�sis. Infatti, l'inferenza per "contrapposizione" è quella in cui la negazione del conseguente comporta la negazione del­ l'antecedente. Essa si configura in maniera tale che la verità del condizionale "Se il primo, allora il secondo" è garantita dalla verità del corrispondente condizionale "Se non il se­ condo, non il primo".42  6.3 CONCLUSIONI 157 Preti sottolinea le affinità tra la synart�sis (secondo cui la negazione del conseguente è incompatibile con l'anteceden­ te) e il metodo di contrapposizione (anaskeu�) (in cui la ne­ gazione del conseguente comporta la negazione dell'antece­ dente), e in entrambi i casi chiama in causa la implicazione rigida di Lewis, con la precisazione che gli esempi forniti da Filodemo sembrano indicare un rapporto più forte, che ten­ de a risolvere l'inferenza o in una forma di tautologia o in una forma di L-implicazione. 6.3 Conclusioni Nel passaggio dalla teoria aristotelica del segno a quella stoica c'è, come abbiamo visto, uno spostamento di accento dai termini su cui si costruiscono le proposizioni categori­ che nel sillogismo, alle relazioni tra le proposizioni nell'as­ serto condizionale. Contemporaneamente si registra un'ac­ centuazione del carattere, già presente in Aristotele, di con­ sequenzialità necessaria che la relazione segnica è chiamata a istituire: l'inferenza dal termine noto a quello non noto deve presentare un carattere cogente. Ci sono due ragioni di questo aspetto necessaristico della semiotica stoica, una legata ali'analisi della natura della ra­ gione e dei suoi processi, l'altra riferibile alla configurazio­ ne della metafisica stoica (De Lacy 1978: 208). Per il primo punto è Sesto43 stesso a informarci che gli stoici ritenevano che l'uomo si differenzia dagli animali per la sua capacità di "discorso interno " (16gos endiathetos) e in virtù della sua abilità di combinare i concetti e di passare dall'uno all'altro. L'uomo possiede infatti la nozione di consequenzialità (akolouthfa) e con ciò egli possiede anche la nozione di segno, che ha appunto la forma: "Se questo, allora quest'altro". Così l'esistenza del segno si pone in stretta dipendenza dalla natura del pensiero umano. Quanto al secondo punto, la metafisica stoica poggiava sull'idea che il reale fosse costituito da una catena ininter­ rotta di eventi, legati tra loro da rapporti di causa-effetto. Tali relazioni erano .:oncepite come necessarie in quanto di-  158 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI pendenti daiPordine razionale istituito dalla divinità. In questo modo, la consequenzialità necessaria nella relazione segnica valida riproduce quella stessa consequenzialità che si rintraccia a livello della concatenazione degli eventi.44 L'insistenza che gli stoici pongono sull'asserto condizionale e sull'inferenza da segni indica proprio l'enfasi da loro col­ locata sulla relazione necessaria tra concetti e proposizioni a livello logico e tra cause ed effetti a livello metafisica. Su queste basi, del resto, riposa la stessa accettazione, con riserva, della divinazione da parte degli stoici. La divi­ nazione consiste, infatti, nel cogliere la relazione che colle­ ga certi avvenimenti presenti e altri che avverranno.4� Ora, per quanto la razionalità degli uomini sia sostanzialmente dello stesso tipo di quella che hanno gli dei, tuttavia questi ultimi possiedono la conoscenza dell'intera catena causale che lega gli eventi ("conligatio causarum omnium"),46 men­ tre ai primi è preclusa. Gli uomini non possono conoscere dunque le cause ma solo gli indizi caratteristici delle cause ("signa [.. . ] causarum et notas") degli eventi e su questi si basano per predire il futuro. Ma, a differenza di quanto av­ verrebbe per gli dei, i condizionali degli uomini intorno al futuro mancano di necessità. Nel caso della scienza umana (che per gli stoici equivale a quello della dialettica) il segno deve basarsi su un'impli­ cazione necessaria. Ma questa, che è una caratteristica irri­ nunciabile, non è tuttavia sufficiente a definire un segno. Infatti, in un condizionale come: "Se è giorno, c'è luce»47 il giorno non potrebbe essere considerato un segno della luce in quanto entrambe le cose sono evidenti e quindi l'in­ ferenza non può provare nulla. La verità su cui si basa è certamente a priori e analitica, come sembra richiesto nel caso delle verità necessarie, ma tale condizionale è privo della caratteristica di permettere di scoprire una nuova co­ noscenza. Il segno stoico, in conclusione, si deve inquadrare in uno schema logico (che è quello deli'implicazione necessaria), ma deve contemporaneamente superarlo per collocarsi in un'ottica epistemologica, nella quale esso diventa fattore dell'accrescimento del sapere: bisogna sempre tener presen-  6.3 CONCLUSIONI 1 59 te che l'essenza del segno è l'inferenza che va dalle cose ma­ nifeste a quelle non percepite. Ma a questo punto sembra delinearsi nella semiotica stoi­ ca un problema difficilmente resolubile: come è possibile che l'inferenza segnica sia analitica (se si pensa alla L-impli.. cazione di cui parla Preti) e contemporaneamente fornisca una nuova conoscenza (la scoperta di un fatto nascosto)? Prendiamo come esempio di segno una dimostrazione (infatti anche la dimostrazione viene considerata, secondo la testimonianza di Sesto, un segno):48 - sono pori intellegibili nella pelle. - Il primo. - Dunque , il secondo . Qui l'inferenza è condotta dal fatto percepibile rappre­ sentato dallo scorrere del sudore al fatto nascosto che esi­ stano pori nella pelle. La presenza dei pori è un fatto oscuro per natura: infatti essi possono soltanto essere conosciuti dalla mente (no�to1), ma non dai sensi in un'epoca in cui il microscopio non era ancora stato inventato. Sesto aggiun­ ge, come argomento rafforzativo delle premesse nel ragio­ namento precedente, un'ulteriore argomentazione:49 - compatto e non poroso. - Il sudore scorre attraverso il corpo. - Pertanto non è possibile che il corpo sia compatto, ma esso è poroso. La premessa maggiore di questa argomentazione sembra essere basata sul test di contrapposizione (Q::jJ) applicato alla premessa maggiore del precedente. Infatti se al condi­ zionale: p (se il sudore scorre attraverso la superficie del corpo) ::q (ci sono pori intellegibili nella pelle) Se il sudore scorre attraverso la superficie del corpo, ci È impossibile che un liquido scorra attraverso un corpo  160 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI applichiamo il test di contrapposizione, otteniamo l} (se la pelle è un corpo compatto e non poroso) :>p (un li­ quido non vi può scorrere attraverso), espressione che è alla base della premessa del secondo ra­ gionamento di Sesto. Essa permette di sviluppare un ragio­ namento corrispondente al modus tollens, che convalida la conclusione del primo ragionamento. Non si saprebbe dire se gli stoici riescano a evitare, con il ricorso alla contrapposizione, la contraddizione che esiste tra la richiesta di una relazione necessaria e a priori tra le due proposizioni del condizionale e la necessità che il segno produca nuova conoscenza. Di fatto la contrapposizione rende necessaria la relazione anche nel caso di verità fattua­ li, poiché parte dall'assunzione che il fatto oscuro per natu­ ra sia legato a quello evidente in modo tale che ciò che è evi­ dente non potrebbe esistere se il fatto non percepito non fosse quale viene rivelato essere. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO 7.O Introduzione Contemporaneo allo sviluppo della riflessione stoica sul segno è il capitolo della semiotica antica scritto dalla scuola epicurea. Uno dei cardini dell'epistemologia epicurea, in­ fatti, è il principio semiotico del congetturare dai fenomeni visibili fatti che sono per natura non percepibili con i sensi. Gli stessi elementi fondamentali della metafisica epicurea (cioè l'esistenza degli atomi e del vuoto, le configurazioni e le ragioni dei fenomeni celesti) vengono stabiliti attraverso inferenze semiotiche che partono dai fenomeni percepibili: Gli indizi (semeia) dei fenomeni celesti ce li forniscono alcuni fenomeni che accadono presso di noi, e che si vede dove e come avvengono, e non i fenomeni celesti stessi, che possono avvenire in molte maniere. (Epic., Epistula ad Pythoclem, 87) Epicuro rifiutava il ragionamento deduttivo, tipico di Aristotele e degli stoici, giudicandolo vuoto e privo di utili­ tà, ma accettava e valorizzava l'inferenza analogica che si sviluppa a partire dai segni. Nel periodo ellenistico, anzi, gli epicurei divennero i portabandiera di un metodo di ragiona­ mento qualificabile come "induzione semiotica", e proprio sul metodo deli ' in ferenza si posero in polemica con gli esponenti della scuola stoica. Un intero trattato del I secolo a.C. , il Perì s�melon kaì s�meioseon (Sui segni e sulle infe-  162 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO renze), redatto dall'epicureo Filodemo di Gadara, è dedica­ to, del resto, al dibattito intercorso fra stoici ed epicurei sul tema dell'inferenza semiotica.1 Epicuro, così, e la scuola epicurea nel suo insieme, pro­ pugnano la possibilità di elaborare giudizi che siano oggetti­ vamente validi su fenomeni non direttamente conosciuti at­ traverso l'esperienza, sulla base di inferenze elaborate a partire dai segni. Il problema centrale diviene, allora, quello di stabilire il criterio per verificare se ed entro quali limiti tali giudizi pos­ sano essere considerati attendibili o non attendibili (cioè ve­ ri o falsi) e di fornire le basi per poter dire se certe asserzio­ ni corrispondano effettivamente ai fatti che esse descrivo­ no. Si fa strada quindi la nozione di "criterio di verità", che costituisce la cornice di sfondo all'interno della quale si col­ locano tanto la teoria deli'inferenza semiotica quanto la teoria del linguaggio. In effetti il criterio di verità è non uni­ co, ma molteplice: secondo la testimonianza di Diogene Laerzio,2 esso comprende le sensazioni (aisth�seis), le affe­ zioni (path�), le preconcezioni (prol�pseis), a cui può essere aggiunta, per motivi che vedremo, l'evidenza immediata (enargheia). I criteri di verità, e tra essi la pro/essi ("antici­ pazione", "preconcezione") in particolare, giocano un ruo­ lo fondamentale in entrambe le teorie sia nella teoria del­ l'inferenza3 sia nella teoria del linguaggio;4 in questo modo essi costituiscono un elemento di connessione tra le due teo­ rie. Tuttavia ciò non è ancora sufficiente a permettere un'articolazione comune tra segno inferenziale e segno lin­ guistico, che rimangono ancora una volta oggetti di due in­ dagini separate. Si ricorderà che anche per gli stoici la teoria del segno lin­ guistico, chiamato s�mafnon, nasceva ali'interno di una di­ scussione sul criterio di verità e sul "vero"; e anche in quel caso il segno inferenziale, chiamato s�mefon, non aveva al­ cun punto di contatto con il precedente se non per il ruolo giocato dalla nozione di lekt6n, a cui spettava il carico di essere vero o falso. Si deve però notare una peculiarità della semiotica epicurea: essa si arricchisce anche di una teoria deli'immagine percettiva, che si collega al criterio di verità,  7 . l CRITERIO DI VERITÀ ED EPISTEMOLOGIA EPICUREA 1 63 ma che anticipa anche alcuni problemi interessanti per una teoria semiotica deli'iconismo. Così, nei paragrafi seguenti esamineremo le questioni del criterio di verità, della prolessi e deli'immagine percettiva in Epicuro, che collegheremo con la teoria deli'inferenza se­ miotica, da una parte, e con la teoria del linguaggio, dall'al­ tra. Gli sviluppi che la teoria semiotica epicurea avrà nel trattato De signis di Filodemo saranno esposti , data la loro ampiezza, a parte nel prossimo capitolo. 7.1 ll criterio di verità e l'epistemologia epicurea L'impostazione generale della filosofia di Epicuro, dal punto di vista epistemologico, è un tentativo di fondare la conoscenza su basi puramente empiriche. In primo piano vengono posti i fatti o gli oggetti; ma anche le parole essen­ zialmente costituiscono una via per giungere alle cose. In questo modo si presentano per la filosofia due metodi di ri­ cerca: (i) uno orientato alla conoscenza che proviene dalle parole; (ii) l'altro a quella che proviene direttamente dalle cose.s Tuttavia il primo è considerato un processo prelimi­ nare rispetto al secondo, e spesso la conoscenza che si ottie­ ne attraverso gli strumenti del linguaggio, come quella che si produce attraverso le proposizioni, è vuota e inganne­ vole.6 Il fondamento ultimo della conoscenza sono i criteri di verità, i quali sono in grado di procurare all'uomo niente­ meno che l'imperturbabilità.7 Essi sono dunque posti alla base stessa della filosofia generale di Epicuro; del resto essi erano trattati in un'opera perduta, intitolata Canone, in cui era contenuta la materia propedeutica rispetto all'intero si­ stema dottrinario.8 Se noi pensiamo alla verità in termini moderni , cioè come una funzione delle proposizioni, corriamo il rischio di non comprendere il pensiero di Epicuro. In effetti, nella lingua greca in generale, l'aggettivo al�thés ("vero") può servire tanto a qualificare la verità di una proposizione, quanto a indicare ciò che sussiste di fatto o che è reale. In Epicuro, in  164 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO particolare, l'aggettivo "vero" implica un'effettiva consape­ volezza di qualcosa. Si giustifica così la sua applicazione al­ le sensazioni e alle affezioni, in quanto dire che una certa sensazione (o una certa affezione) è vera equivale a dire che essa fornisce un indizio effettivo su un fatto reale, renden­ docene consapevoli.9 Prima di passare in rassegna le varie forme del criterio di verità, è necessario sottolineare fin d'ora come esso sia fun­ zionale a una teoria dell'inferenza semiotica. Infatti esso tende a stabilire delle verità basilari riguardanti le cose per­ cepibili, che servono a loro volta come punto di partenza per fare inferenze intorno alle cose non direttamente rag­ giungibili con i sensi.10 7.2 Le forme del criterio di verità Epicuro, dunque, considerava come criteri di verità le sensazioni, le p[econcezioni (o prolessi), le affezioni (o sen­ timenti). 1 1 Nel paragrafo 82 della Lettera ad Erodoto veni­ va fatto cenno anche alla enargheia ("evidenza immediata, o "chiara visione"). Riferendosi a questi passi, Long (1971 b: 116) fa una interessante proposta circa l'organizzazione interna delle forme del criterio di verità. Suggerisce infatti di ordinarie in modo gerarchizzato: in primo luogo ci sono le affezioni e le sensazioni; poi l'evidenza immediata; infine le preconcezioni. Secondo Long, le prime due hanno un va­ lore di verità puramente soggettivo, se prese da sole, e devo­ no essere coordinate all'evidenza immediata e alle prolessi, per giungere a costituire un criterio oggettivo. Le affezioni e le sensazioni comportano la consapevolez­ za di qualcosa, e la loro "verità" consiste proprio in questa consapevolezza, anche se, appunto, soggettiva. Si possono riprodurre le relazioni tra le forme del criterio di verità se­ condo il seguente schema:  7.3 TEORIA DEI SIMULACRI 165 criteri di veritè � consapevolezza consapevolezza soggettiva oggettiva ll affezioni sensazioni evidenza 7.3 Teoria dei simulacri prolessi   Finora abbiamo considerato il processo conoscitivo dalla parte del soggetto che prova una sensazione o ha una affe­ zione in relazione agli stimoli esterni. Se consideriamo lo stesso processo dalla parte opposta, cioè partendo dall'oggetto, possiamo constatare che Epicu­ ro aveva elaborato una vera e propria teoria dell'immagine che ha molti elementi di interesse per una semiotica dell'ico­ nismo. Dal paragrafo 46 della Lettera ad Erodoto Epicuro inizia a parlare del modo in cui si rende possibile la perce­ zione degli oggetti. Questi ultimi, infatti, emettono in conti­ nuazione degli efflussi di atomi estremamente fini, che compongono configurazioni in tutto e per tutto identiche alla forma esterna dei corpi solidi.12 Queste configurazioni prendono il nome di simulacri (eldO!a). Essi viaggiano a una velocità estremamente alta e possono penetrare nei no­ stri organi di senso o nella nostra mente, e lì produrre un ' immagine (phantasfa) più o meno esatta del corpo da cui i simulacri sono stati emanati. Il processo può essere sche­ matizzato così: oggetti - - - - - - - - � simuh1cri - - - - - - - - .-.. immsgini mentali (stertJmnia) (sfd"lJfs) (phsntssfst)  166 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO Quella di Epicuro può essere definita una teoria "causa­ le" (Long 1 97 1 b: 1 1 7) della percezione, in quanto gli ogget­ ti sono responsabili dell'esistenza dei simulacri e questi ulti­ mi causano direttamente il formarsi delle immagini nella mente. Si deve però dire che le immagini sono una diretta conseguenza dei simulacri, ma solo secondariamente una conseguenza degli oggetti, dai quali possono anche essere difformi. In effetti la continuità del processo può essere interrotta al livello del passaggio dell'efflusso dagli oggetti esterni ai simulacri . Questi ultimi , sebbene di solito risultino delle co­ pie esatte degli oggetti, talvolta possono subire delle modifi­ cazioni per il fatto di entrare in collisione con altri atomi nel passaggio attraverso l'aria e possono anche ridursi in di­ mensione nel momento in cui entrano in una persona (in quanto, anche in questo caso, entrano in collisione con altri atomi). 1 3 Epicuro è, con questa teoria, impegnato a rendere conto del fatto che gli oggetti, visti da vicino, presentano certe di­ mensioni, mentre ne presentano altre, molto minori, se visti da lontano, senza entrare in contraddizione con il principio che la sensazione è garanzia di verità in ogni caso, e ci si troverebbe di fronte veramente a una contraddizione se la phantasfa fosse un'immagine dell'oggetto, mentre in realtà è un'immagine del simulacro (ekiOion). Sesto Empirico sembra riportare correttamente il pensie­ ro di Epicuro quando cita, a questo proposito, l'esempio della "torre": Così io non oserei dire che la vista suggerisca il falso per il fatto che a grande distanza essa vede la torre piccola e rotonda e a di­ stanza accorciata la vede più grande e quadrata, ma direi piut­ tosto che la vista suggerisca il vero, perché l'immagine ricevuta dai sensi, quando le appare piccola e di una certa forma, è real­ mente piccola e di quella determinata forma, per il fatto che i li­ miti appartenenti ai simulacri (eldola) vengono cancellati dal passaggio attraverso l'aria. (Sext. Emp., Adv. Math., VII, 208-209)  7.4 TEORIA DELL'ERRORE E DELL'OPINIONE 167 In effetti, ciò che i sensi recepiscono è il flusso di atomi che si stacca dall'oggetto e che costituisce il suo simulacro e non l'oggetto stesso. Tale flusso, passando attraverso l'a­ ria, si altera nella sua configurazione, producendo la diver­ sità delle immagini che si hanno dello stesso oggetto. Cosi ogni immagine mentale (phantasfa) è effettivamente vera perché è relativa non all'oggetto, ma a ciascuno dei simula­ cri dell'oggetto, che sono diversi in relazione alla distanza percorsa per raggiungere il soggetto che percepisce. L'importante è non identificare il simulacro che si produ­ ce nelle vicinanze dell'oggetto con quello che si ha in una vi­ sione a distanza. 7.4 Teoria dell'errore e dell'opinione Il tema deli'inferenza semiotica diventa sempre più cen­ trale nel campo dei processi percettivi quando si abbandona il terreno sicuro della sensazione per esplorare quello insi­ dioso delle opinioni, in cui si può verificare l'evenienza del­ l'errore. Se gli uomini si attenessero soltanto alle loro sen­ sazioni e si limitassero a descrivere le loro immagini mentali (phantasfa1), non ci sarebbe possibilità di errore. Ma ciò non avviene, e l'errore sorge quando viene ad aggiungersi alla sensazione qualche processo mentale che Epicuro, nella Lettera ad Erodoto (5 1), chiama "secondo movimento" (al­ l� klnèsis). Long (1971 b: 1 18) identifica questo "secondo movimen­ to" proprio con il processo di elaborazione deli'opinione. Infatti Epicuro dice che esso è "connesso" con il primo mo­ vimento (cioè la semplice apprensione di immagini), ma, a differenza di questo, "ammette una distinzione": quella tra il falso e il vero. Il primo movimento, cioè l'apprensione di immagini, non ammette alcuna distinzione di questo gene­ re, perché è prodotto da cause esterne, ovvero dai simula­ cri; il secondo movimento, invece, consistendo nell'aggiun­ ta di un giudizio che noi facciamo su queste immagini, può ricevere conferma o attestazione contraria. Si può così sche­ matizzare il processo:  168 7. INFERENZA E LINOUAOQIO IN EPICURO processo conoscitivo /� apprensione di immagmi lphsntsstik� epiboli'J sempre vera opinione (d6xs)   conferma e non attestazione contraria vera attestazione contraria e non conferma falsa  In effetti, se, sulla scorta di una visione distante e oscura, io dico, traducendo in parole le mie sensazioni: "Quella ha le apparenze di una torre rotonda" , io parlo in maniera veri­ tiera; ma se dico: "Quella è una torre rotonda", il mio giu­ dizio è disconfermato nel caso che, avvicinandomi, riceva l'immagine di una torre quadrata. In definitiva, le immagi­ ni sono tutte vere mentre le opinioni sono alcune vere e altre false. 14 Quello che comunque risulta è il carattere congettu­ rale dell'opinione. 7.5 La congettura È naturale che all'interno di una teoria dell'opinione uno spazio privilegiato venga dedicato alla congettura. Infatti, in generale, la congettura consiste proprio in un'ipotesi co­ noscitiva su una dimensione che va oltre ciò che può essere colto attraverso i sensi. L'opinione, come la concepisce Epi­ curo, è associata esattamente a queste caratteristiche, consi­ stendo appunto in un giudizio che prevede l'impegno del soggetto su qualcosa che attende conferma. Ci sono alcune parole chiave che definiscono il processo conoscitivo attuato attraverso l'opinione. La prima è pro-  7.5 LA CONGETTURA 169 sménon, "ciò che attende conferma", 1 5 che è appunto l'og­ getto sul quale si esercita il giudizio. Una seconda e una terza parole chiave, collegate tra loro da una relazione di antonimia, sono epimartjr�sis "attesta­ zione" e antimartjr�sis "attestazione contraria" o "conte­ stazione". Tuttavia, il sistema di Epicuro per la conferma o la disconferma di una certa opinione non gioca su due, ben­ si su quattro termini: c'è infatti conferma quando si ha "at­ testazione" o "non contestazione"; c'è disconferma quando c'è "contestazione" o "non attestazione". Si viene cosi a creare un vero quadrato semiotico: attestazione contestazione ( epimsrtyrlJsis) non contestazione (ouk sntimsrtyr�sis) ( sntimsrtyrlJsis) non attestazione (ouk epimsrf'jrlJsis)  in cui, per Epicuro, due termini (o quelli della deissi positi­ va, o quelli della deissi negativa) congiuntamente sono ne­ cessari per decidere di un'opinione. 1 6 Tuttavia ciascuno dei quattro termini è idoneo a stabilire la validità di un'opinione. Infatti nella teoria semiotica ri­ portata nel De signis da Filodemo, il criterio per decidere sulla validità di un'inferenza induttiva sarà rappresentato dalla sola non contestazione, ovvero dal non conflitto del­ l'espressione segnica con i fenomeni percepibili. Nel quadrato di Epicuro sorge il problema di stabilire un criterio per definire in che cosa consista il termine base, cioè l'attestazione. Questo criterio è rintracciabile nella enargheia ("l'eviden­ za", "la chiara visione"), come ci dice Sesto:  170 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO Ed è attestazione (epimartjr�is) una apprensione, conseguita mediante evidenza (di' enarghefas), del fatto che l'oggetto opi­ nato è appunto quello che precedentemente veniva opinato, co­ me, ad esempio, se Platone da lontano incede verso di me, io congetturo ed opino, a causa della distanza, che si tratti di Pla­ tone, e, quando egli mi si è accostato, viene attestato che si trat­ ti eli Platone, mercé la soppressione della distanza, e la confer­ ma si è avuta in virtù della stessa evidenza. (Sext. Emp., Adv. Math., VII, 212) In effetti Epicuro era ben consapevole del fatto che si possono commettere degli errori neli'identificazione o nel riconoscimento degli oggetti della percezione e, probabil­ mente, egli pensava che in ogni atto percettivo, accanto alla pura e semplice sensazione, anche la d6xa gioca sempre un ruolo. In questo modo la congettura diviene onnipresente, in quanto è coinvolta in ogni atto percettivo. Di conseguen­ za, la funzione che vengono ad assumere le sensazioni e le immagini mentali è quella di fornire i dati sulla base dei quali elaborare le congetture. 1 7 Nella Lettera ad Erodoto (38) sembrano essere presi in considerazione due tipi di oggetti sui quali l'inferenza se­ miotica si esercita: (l) ciò che attende conferma (prosménon) (2) ciò che non cade sotto i sensi (ad�lon) che danno luogo a due tipi di processi inferenziali. Il primo è relativo al genere di congettura che si instaura all'interno degli stessi processi percettivi ed è illustrato dal­ l'esempio, riportato da Sesto, del vedere in lontananza Pla­ tone che si avvicina, e poter solo congetturare che si tratti proprio di lui. In questo caso l'oggetto su cui si esercita la congettura è qualcosa che viene colto dai sensi, ma non di­ stintamente. Tuttavia, questo processo si conclude con una verifica: in questo caso, la conferma del dato congetturato, attraverso una visione chiara. Chiameremo questo tipo in­ ferenza percettiva. Il secondo è relativo all'inferenza su cose assolutamente escluse dal processo percettivo: è il caso della congettura nel senso fliù classico. Anche di questo ci fornisce un esempio Sesto. 8 Si tratta di risalire dali'esistenza del moto (cioè di  7.6 L'INFERENZA DA SEGNI 171 un elemento percepibile, un phain6menon) all'esistenza del vuoto (cioè di un elemento non percepibile, ad�lon). È la ti­ pica relazione logica di implicazione (chiamata da Sesto akolouthfa) tra un antecedente e un conseguente. Chiame­ remo questo secondo tipo di processo inferenza al non per­ cepibile. 7.6 L'inferenza da segni L'inferenza al non percepibile è una tipica inferenza da segni. Infatti in molti casi, come quello che abbiamo visto, "Se c'è moto-+c'è vuoto", non è possibile conoscere diret­ tamente l'oggetto sul quale viene fatta l'inferenza ("il vuo­ to"), ma lo si deve attingere attraverso un segno ("il mo­ to"). In effetti, anche per Epicuro, l'inferenza da segni è connessa con la possibilità di ampliare i limiti della cono­ scenza oltre la sfera degli oggetti sensibili. È proprio grazie a una teoria dell'inferenza segnica che la scuola epicurea riesce a superare i limiti del proprio radicale empirismo, aprendo la via anche alla conoscenza di fenomeni non per­ cepibili direttamente dai sensi. Anzi, nel De signis di Filode­ mo (fr. 2), c'è un esplicito invito a considerare le conoscen­ ze ottenute tramite inferenza, altrettanto sicure di quelle di­ rette. Un programma conoscitivo di questo tipo presuppone un'epistemologia che divide gli oggetti in quattro categorie, in maniera del resto non molto diversa da quanto avveniva nella semiotica stoica: ( l ) Oggetti o fatti evidenti (enarghi): "quegli oggetti che vengono recepiti involontariamente per mezzo di una rappresentazione o di una affezione" (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 316). Come esempi vengono dati il fatto che sia giorno o il riconoscimento che una certa persona è un uomo. (2) Oggetti oscuri in modo assoluto (phjsei ad�la): "quegli oggetti che né furono conosciuti nel passato, né sono conosciuti nel presente, né saranno conosciuti nel futu-  172 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO ro, ma sono inconoscibili in eterno" (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 317-318). Come esempio viene data l'im­ possibilità di conoscere se il numero delle stelle sia pari o dispari. Fatti di questo genere sono inconoscibili, co­ me spiega Sesto, non per la loro natura, ma per la no­ stra natura, dato il tipo di limitazioni a cui è sottoposta la conoscenza umana. (3) Oggetti oscuri di per sé (ghénei ad�la): "quegli oggetti che sono oscuri per la propria natura, ma che si stima vengano conosciuti per mezzo di segni e di dimostrazio­ ni" (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 319). Gli esempi so­ no gli atomi e il vuoto infinito. L'esistenza degli atomi e del vuoto era postulata da Leucippo e da Democrito su basi puramente razionali, ma Epicuro insisterà, in con­ formità con il suo empirismo, che possono essere cono­ sciuti attraverso l'inferenza analogica. (4) Oggetti che attendono conferma (prosménonta): sono quegli oggetti posti immediatamente oltre la nostra esperienza (Ep. Hdt. , 38), la cui conoscibilità è limitata da fattori, quali la distanza nello spazio o il loro essere situati nel futuro. Come si può vedere, gli unici oggetti che possono essere conosciuti attraverso l'inferenza sono quelli che apparten­ gono alla terza e alla quarta classe. Essi sono da porre in corrispondenza con i due tipi di inferenza di cui abbiamo già parlato. L'inferenza percettiva, infatti, verte intorno agli oggetti appartenenti alla quarta classe, quelli "che attendono con­ ferma". L'inferenza al non percepìbile, invece, verte intorno agli oggetti appartenenti alla terza classe, cioè è rivolta alla co­ noscenza di quegli oggetti che sono "oscuri di per sé" e che non arrivano mai a essere esperiti dai sensi . In questo caso il metodo di verifica assume una forma indiretta: la "non at­ testazione contraria" (ouk antimartjresis). Il vuoto, come abbiamo visto, non è verificabile per esperienza diretta, ma gli epicurei sostengono che la sua esistenza non è in contra­ sto con nessun fatto conosciuto, 1 9 mentre la sua negazione  7.7 LA PROLESSI 173 entra in conflitto con l'esperienza empirica del movimento, che richiede il vuoto per attuarsi. Il cuore del ragionamento basato sulla non attestazione contraria consiste nel fatto che, quando si hanno due proposizioni contraddittorie in­ torno a qualcosa che non è percepibile, e una di esse risulta falsa in base a una prova empirica (nell'esempio preceden­ te, la non esistenza del vuoto, in quanto entra in conflitto con l'esistenza del moto), allora l'altra può essere conside­ rata vera (De Lacy 1978: 188). 7.7 La prolessi La prolessi (o "anticipazione" o "preconcezione") costi­ tuisce il secondo dei due criteri di verità che abbiamo defini­ to "oggettivi". Essa ha un ruolo determinante nell'inferenza percettiva, come mostra Diogene: Per esempio, per poter affermare: "Ciò che sta lontano è un ca­ vallo o un bue", dobbiamo per prolessi (o anticipazione) già aver conosciuto una volta la figura di un cavallo e di un bue. (Diog. Lai!rt.. Vitae, X, 33) In effetti la protessi è necessaria perché si abbia percezio­ ne in senso proprio, cioè affinché si passi dalla semplice consapevolezza del fatto che si sta vedendo un'immagine, al giudizio oggettivo che questa è immagine di un oggetto pre­ ciso. In altre parole, secondo Epicuro, per poter effettiva­ mente percepire un cavallo o un bue, si deve: l . avere avuto precedentemente un'immagine di questi animali; 2. averla immagazzinata nella mente; 3. effettuare un confronto con i dati che vengono forniti dalla propria attuale sensazione. Le prolessi sono in realtà delle immagini mentali o dei concetti che si sono formati in seguito a numerose esperien­ ze relative agli oggetti esterni. Esse hanno due caratteri fon­ damentali: (i) sono strettamente legate alla memoria di esperienze precedenti; (ii) sono evidenti (enargeis). Come concetti, le prolessi non necessariamente corri­ spondono a singoli oggetti esterni, ma costituiscono piutto-  174 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO sto il tipo, di cui le singole esperienze percettive sono le oc­ correnze. Ciò, del resto, è strettamente collegato al fatto che esse rappresentano un test di verità: solo possedendo il concetto generale di "uomo", si può decidere se ciò che si ha di fronte sia o non sia un'occorrenza particolare di esso. 7.8 La teoria del linguaggio Le protessi costituiscono anche una condizione necessaria del linguaggio e agiscono tanto al livello della decodifica quanto a quello della codifica. Infatti, da una parte, l'atto di pronunciare un nome (a esempio juomol) richiama nella mente dell'ascoltatore un'immagine o un concetto, cioè un'entità che è soggiacente, hyfootetagménon, a quel nome e che è derivata dalla protessi; 0 potremmo dire che la pre­ senza di un significante fa scattare nell'ascoltatore I'abbina­ mento con un significato. Dall'altra, il Iocutore deve posse­ dere una preconcezione di ciò che intende esprimere, altri­ menti non gli sarebbe possibile dire niente: in questo caso, il locutore codifica un significato presente nella sua mente per mezzo di un artificio espressivo (un "nome"). Nella teoria epicurea la prolessi sembra coinvolta in ogni caso nella formazione dei concetti. Infatti Diogene dice che "tutti i concetti (epfnoia1) sorgono dalle sensazioni, o per diretta esperienza, o per analogia, o per somiglianza, o per combinazione, con una certa collaborazione anche da parte del ragionamento" ( Vitae, X, 32). Long (1971 b: 1 19) sug­ gerisce di identificare con le prolessi la prima classe di con­ cetti, cioè quelli che sorgono per diretta esperienza dalle sensazioni. Se dunque le prolessi sono alla base di ogni concetto, si viene a configurare una teoria del segno linguistico sensibil­ mente diversa da quella che è normalmente attribuita agli epicurei sulla scorta delle testimonianze di Sesto e di PIutar­ co.21 Questi ultimi, infatti, sostenevano che nella teoria lin­ guistica di Epicuro solo due fattori erano implicati: la cosa significante (sèmainon, o voce, ph(Jn�) e la cosa designata (tynchanon). In effetti, la ragione per cui Plutarco e Sesto  7.8 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 175 trascurano le protessi nella teoria del significato linguistico è imputabile al fatto che essi non vedono nella teoria epicu­ rea niente di simile al lekt6n stoico, che è contemporanea­ mente incorporeo e completamente diverso da un'immagine mentale. Ciò non impedisce, tuttavia, alle protessi di avere la stes­ sa funzione dei lekta stoici, cioè di costituire un elemento di mediazione tra le parole e le cose. Di conseguenza, la teoria epicurea del segno linguistico dovrebbe essere così rico­ struita: prolessi  nomi cose Del resto, se a Epicuro fosse attribuita una teoria lingui­ stica secondo cui le parole si riferiscono direttamente alle cose, senza la mediazione delle protessi, entrerebbe in con­ traddizione tutta la sua dottrina della falsa credenza. A esempio, poiché gli uomini credono erroneamente che gli dei siano malevoli nei loro confronti ed esprimono verbal­ mente questa credenza, se non esistesse il livello concettuale delle prolessi, non ci sarebbe niente che corrisponde alla proposizione "Gli dei sono malevoli nei confronti degli uo­ mini". La presenza della prolessi come elemento mediatore tra le parole e le cose può rendere conto di molte asserzioni false e di asserzioni su cose che non esistono. Ciò che gli uo­ mini fanno, pensando agli dei come malevoli, è una falsa supposizione, ovvero un concetto non derivato dali'ogget­ to, cioè dagli dei stessi. La centralità della protessi nella teoria linguistica epicu­ rea è dimostrata anche dal fatto che essa deve essere identi­ ficata anche con quel particolare significato che è il "signifi-  176 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO cato basico" o "primario" (proton enno�ma), di cui si parla nella Lettera ad Erodoto (37-38) e che si oppone a tutti gli altri significati che possono essere considerati derivati da esso.22 7.9 L'origine del linguaggio La teoria linguistica in Epicuro è connessa con quella del­ l'origine stessa del linguaggio, che è discussa principalmen­ te nella Lettera ad Erodoto (75-76).23 Per Epicuro il linguaggio è un'attività che gli uomini han­ no sviluppato nel corso della loro evoluzione, passando at­ traverso due stadi distinti. Nel primo stadio il linguaggio esprime una relazione con la realtà che potrebbe essere defi­ nita naturale, mentre nel secondo una relazione che potreb­ be essere definita convenzionale. In effetti Epicuro, nella polemica phjsisln6mos, assume una posizione mediana e molto particolare, rifiutando sia l'idea che ci sia stato un unico datore di nomi, sia l'idea (per altro sostenuta dagli stoici) che le parole si accordino in maniera naturale alle co­ se. Esaminiamo più in particolare come è descritto il pro­ cesso di nascita e sviluppo del linguaggio nella Lettera ad Erodoto . In una prima fase l'attività linguistica degli uomini non è affatto diversa dai processi naturali quali tossire, starnuti­ re, gemere ecc.: infatti gli uomini emettono suoni, simili a parole, sotto lo stimolo involontario e naturale delle affe­ zioni (path�) che provano e delle immagini (phantasmata) che si formano in loro. Il linguaggio primitivo costituisce una reazione istintiva all'arnbiente, e la tesi di Epicuro sem­ bra essere, in relazione a questo stadio, a pieno titolo quella naturalista. Ma, a ben guardare, essa presenta qualcosa di più. Infatti ha sempre costituito un problema, per i sosteni­ tori della tesi del naturale accordo tra le parole e le cose, spiegare la diversità delle lingue: qui Epicuro non evita que­ sto aspetto del problema,24 ma lo integra nella sua teoria. La diversità delle lingue è diretta conseguenza della diver­ sità degli ambienti in cui i vari popoli si trovano e in relazio-  7. l0 EPICURO E TRADIZIONE «PHYSIS/N6MOS» 177 ne ai quali emettono suoni diversi. Insomma, le lingue va­ riano perché le cose variano da regione a regione. Inoltre gli uomini, accorgendosi che si producono suoni diversi in re­ lazione alle affezioni e alle immagini prodotte dagli oggetti, trovano utile usare questi suoni come nomi-etichette degli oggetti. A questo punto interviene il secondo stadio nel processo evolutivo del linguaggio, in cui vengono introdotti degli ele­ menti di convenzione. Questi ultimi si instaurano sotto una duplice spinta: da una parte c'è un movimento che tende a razionalizzare il linguaggio, rendendo le espressioni ambi­ gue, createsi naturalmente "più chiare" e "più concise"; dal­ l'altra c'è l'operato degli "uomini colti", i quali tendono a introdurre concetti relativi a cose che vanno oltre la perce­ zione e che dunque non hanno potuto essere nominate at­ traverso il processo naturale. Come sottolinea Sedley (1973: 19), il tentativo deliberato di introdurre processi di semplifi­ cazione nell'evoluzione del linguaggio corrisponde al desi­ derio di rendere conto dei processi astratti, come quelli in cui la relazione uno e uno tra parole e cose non è più soste­ nibile. Ciò avviene sostanzialmente in due casi, che sono le­ gati all'intera problematica linguistica di Epicuro, cioè (i) nella formazione dei termini generali e (ii) nei processi di metaforizzazione. 7.lO Epicuro e la tradizione "physis/nomos" Dopo aver esaminato la teoria epicurea dell'origine del linguaggio, è possibile ritornare al triangolo semiotico e analizzare quali relazioni siano implicate tra i vari termini, in rapporto con altre posizioni della tradizione linguistica. Un primo confronto può essere stabilito con Aristotele. Spesso gli studiosi hanno suggerito una dipendenza della teoria linguistica di Epicuro da quella di Aristotele (tra gli altri, Arrighetti 1960: 476), o almeno una stretta somiglian­ za (Long 1971 b: 121). In effetti nel De interpreta/ione (16 a) Aristotele pensa alle affezioni dell'anima come a immagi­ ni provenienti dalle espressioni sensoriali derivate dalle cose  178 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO esterne, in un modo non molto diverso da come le protessi di Epicuro derivano dagli oggetti. Se questo è un punto di contatto tra le due teorie, tuttavia maggiori sono, secondo Sedley (1973: 20), le divergenze. Anzitutto, per Aristotele i diversi popoli hanno esattamente le stesse affezioni mentali, ma le rappresentano attraverso espressioni linguistiche diverse. Per Epicuro, invece (come abbiamo visto a proposito dell'origine del linguaggio), le forme linguistiche sono diverse perché le affezioni mentali (path� e phantasmata, ambedue inclusi negli aristotelici path�mata) sono diverse da popolo a popolo, in relazione ai diversi ambienti naturali. Ma ci sono anche altri elementi di divergenza tra Aristotele ed Epicuro. Per il primo, infatti, nessun nome preso di per sé ha funzione apofantica, cioè nessun nome può essere detto vero o falso; inoltre nessuna espressione diviene un simbolo se non in seguito a conven­ zione. Per Epicuro, invece, i nomi di oggetti individuali comportano verità o falsità, come avveniva, del resto, an­ che nel Crati/o platonico; inoltre, una certa espressione, che può essere anche un semplice rumore, può essere usata co­ me un simbolo, per quanto in assenza di elementi conven­ zionali, come avviene negli stadi primitivi della comunica­ zione. Un secondo confronto può essere stabilito poi anche con la posizione platonica. Sicuramente in Epicuro non è pre­ sente alcuna posizione simile a quella della prima teoria se­ mantica di Platone,25 adottata in seguito anche dagli stoici, secondo la quale il nome è una lista abbreviata delle pro­ prietà dell'oggetto a cui si riferisce. Platone, infatti, vede le parole primitive come una rappresentazione fedele delle proprietà dell'oggetto, quasi che tutto il vocabolario fosse deliberatamente costituito da onomatopee. La posizione naturalistica di Epicuro si limita a sostenere che, ali'interno di ciascun linguaggio, ogni nome ha un uso corretto quando viene impiegato per denotare l'oggetto, o la classe di oggetti, a cui è stato associato nel momento del­ la sua origine naturale. Tuttavia, nonostante questa distin­ zione, ci sono forti elementi di convergenza tra la posizione platonica e quella epicurea, in quanto in entrambe i nomi  7.l0 EPICURO E TRADIZIONE «PHYSIS/N6MOS» 179 hanno alla loro origine un valore cognitivo, che viene par­ zialmente obliterato attraverso i cambiamenti del linguag­ gio nel corso del tempo.26 Per Platone il recupero del senso originario delle parole avviene attraverso l'etimologia, stra­ da sulla quale lo seguiranno anche gli stoici. Epicuro ritie­ ne, invece, che la relazione originaria del linguaggio con gli oggetti percepibili sia stata oscurata soprattutto da processi metaforici e, per recuperare il valore epistemologico origi­ nario dei nomi, suggerisce di ricercare "la prima immagine" (prOton enn6ema: Ep. Hdt., 38). Questa prima immagine è da identificarsi con la prolessi, cioè con il concetto che si è formato alla prima percezione dell'oggetto e che è stato as­ sociato al nome. In conclusione, rispetto alla teoria di Aristotele e alla pri­ ma teoria semantica di Platone, si può dire che Epicuro as­ sume una posizione intermedia. Per Aristotele i nomi sono simboli e sono convenzionali. Per Platone, invece, i nomi sono delle icone degli oggetti e sono naturali. Per Epicuro i nomi sono simboli, come per Aristotele, in quanto non riproducono le proprietà degli og­ getti, ma sono naturali, come per Platone, nella loro origi­ ne, coincidente con il primo dei due stadi evolutivi del lin­ guaggio . Gli elementi di convenzionalità si sviluppano soltanto in seguito, nel secondo stadio. Questa posizione intermedia di Epicuro spiega perché non venga fatto ricorso all'etimolo­ gia, come invece avviene in Platone e negli stoici, e, pur tut­ tavia, si chieda di tenere presente "la prima immagine": in realtà, la corrispondenza biunivoca tra il nome e "la prima immagi ne" si fonda non sulla forma, ma sulla origine natu­ rale .  8. IL ''DE SIGNIS'' DI FILODEMO 8.0 Introduzione Dopo Epicuro la teoria del segno trovò un ampio svilup­ po negli scritti dei suoi seguaci. Un trattato del I secolo a.C.,1 ilPerìs�met'Onkaìs�mei8seon(Suisegniesulleinfe­ renze)2 di Filodemo, testimonia ampiamente del grado di raffinatezza e di complessità che la teoria del segno aveva raggiunto in seno alla scuola epicurea. Si tratta di un'opera composta probabilmente a uso della scuola epicurea di Er­ colano, della quale Filodemo fu uno dei più importanti esponenti. Il De signis non costituisce un vero e proprio trattato metodologico, né un'esposizione sistematica della teoria epicurea del segno, ma riporta la polemica allora in corso fra stoici ed epicurei sull'inferenza da segni e su varie tematiche semiotiche a essa connesse. Il trattato è diviso in quattro sezioni, nelle quali sono esposte le argomentazioni di tre maestri epicurei, Zenone di Sidone, Bromio e Deme­ trio di Laconia,3 a favore della teoria epicurea del segno e contro le critiche a essa mosse dagli esponenti della scuola stoica. Il trattato è di grandissima importanza semiotica, perché tanto gli stoici quanto gli epicurei costruivano la loro teoria logica sull'inferenza da segni. Nel confronto le due teorie si illuminano a vicenda. Inoltre il De signis dibatte una serie di problemi che ancora oggi sono al centro della discussione semiotica. Del resto, per la sua pertinenza semiotica, que­ st'opera aveva attirato anche l'interesse di Charles Sanders  8.l RELAZIONE SEGNICA «A PRIORI» E «A POSTERIORI» 181 Peirce, che ne aveva affidato l'approfondimento e l'analisi all'allievo Allan Marquand; di quest'ultimo ci rimane un saggio sulla logica semiotica degli epicurei.4 8.1 La relazione segnica è "a priori" o "a poste­ riori"? Al centro del trattato di Filodemo si colloca il contrasto fondamentale tra le due scuole circa il modo di concepire il rapporto che si instaura tra i due termini della relazione se­ gnica: gli stoici sono sostenitori di una posizione che vede tale relazione come a priori, formale e di natura razionale; gli epicurei, invece, sostengono che tale relazione è a poste­ riori e interamente fondata su basi empiriche. Il punto di vi­ sta epicureo, in effetti, è che per poter stabilire una relazio­ ne tra un segno e ciò a cui esso rinvia, è necessario aver os­ servato più volte i due termini in un qualche tipo di con­ giunzione (sia essa spaziale, temporale, causale ecc.). Così la relazione si stabilisce in seguito ali'esperienza, e non a priori, come sostenevano gli stoici. Di conseguenza, il me­ todo semiotico proposto dagli epicurei è quello deH'analo­ gia (ho katà t�n homoi6t�ta tr6pos), cioè un "metodo stret­ tamente empirico e basato sull'osservazione delle similarità nella nostra esperienza e su certe congiunzioni costanti, dal­ le quali noi inferiamo ugualmente delle similarità e delle congiunzioni nella sfera di ciò che è oscuro" (De Lacy 1938: 398). In corrispondenza con i due modi di concepire la relazio­ ne segnica, stoici ed epicurei sviluppano anche due differen­ ti teorie sulla verifica della validità logica della relazione. Gli stoici consideravano valida la relazione segnica basata sulla contrapposizione (anaskeu�), secondo cui la negazione del conseguente comporta la contemporanea negazione del­ l'antecedente. A esempio, nell'inferenza "Se c'è moto, c'è vuoto", gli stoici sostenevano che la negazione della cosa si­ gnificata ("c'è vuoto") implicherebbe anche la negazione del segno (''c'è moto"). Si tratta di un metodo di verifica as­ solutamente a priori e astratto, al quale gli epicurei con-  182 8. IL «DE SIGNIS)) DI FILODEMO trappongono un metodo completamente empirico. Anzi, gli epicurei sostengono che nessun metodo a priori è possibile fino a che non sia stata costruita un'inferenza su base empi­ rica: l'esistenza del vuoto, nell'esempio precedente, è inferi­ ta a partire dalla osservazione empirica che non si verifica il moto senza l'esistenza congiunta del vuoto, e da una conse­ guente generalizzazione.5 Ciò significa che il principio astratto degli stoici può esse­ re formulato soltanto dopo che l'inferenza è stata costruita su base empirica e con il ricorso a un ragionamento analogi­ co. Così gli epicurei sostengono che il metodo della con­ trapposizione poggia, inconsapevolmente, sul fondamento ultimo dell'analogia epicurea. In questo modo le verità ne­ cessarie, che gli stoici consideravano analitiche e a priori, sono in realtà stabilite attraverso l'induzione. Gli epicurei prospettano un punto di vista secondo cui la logica dedutti­ va è susseguente a una logica induttiva in ordine di svilup­ po: la prima dipende infatti dalla seconda (De Lacy 1978: 221). Se questa idea è chiaramente espressa nel trattato di Filodemo, non ci si deve tuttavia aspettare una discussione articolata sulle relazioni tra la logica formale e deduttiva da una parte, e logica induttiva e metodo empirico dall'altra. Anzi, a ben vedere, nel corso del trattato, entrambi i prota­ gonisti della discussione tendono a confondere due cose che la logica moderna avrebbe piuttosto tendenza a tenere di­ stinte: da una parte, il metodo per la costruzione di un'infe­ renza segnica; dall'altra, il criterio per la verifica della sua validità (Martinelli 1 986) . Così , il metodo di costruzione deli'inferenza per gli epicurei è l'analogia, mentre il criterio è più precisamente quello della inconcepibilità (adiano�sfa). Tuttavia la distinzione non è così forte, in quanto sia il me­ todo sia il criterio sono su base empirica: in effetti, nel di­ battito, gli stoici tenderanno ad attaccare il metodo per in­ validare il criterio e viceversa. 8.2 Contrapposizione vs inconcepibilità Vediamo di analizzare, in termini formali, l'opposizione  8.2 CONTRAPPOSIZIONE VS INCONCEPmiLITÀ · 1 83 che si stabilisce tra il criterio stoico della contrapposizione e quello epicureo della inconcepibililà. Data l'inferenza p-:Jq il criterio della sua verifica secondo la contrapposizione stoica è esprimibile come il che equivale a dire che, negando per ipotesi il conseguen­ te, anche l'antecedente risulta negato. La prova dell'infe­ renza, dunque, avviene su base formale e non empirica. Il criterio della inconcepibilità epicurea, invece, prescinde da considerazioni formali ed è basato sull'analogia empiri­ ca. Esso viene così illustrato nelle parole di Filodemo: Ma talvolta l'inferenza non è provata essere vera in questo mo­ do ( = per contrapposizione), ma proprio per l'impossibilità di concepire che il primo sia, o abbia una certa proprietà, mentre il secondo non sia, o non abbia tale proprietà, come per esem­ pio: "Se Platone è un uomo, anche Socrate è un uomo". Se è vera questa inferenza, diviene vero anche che "Se Socrate non è un uomo, nemmeno Platone è un uomo", non perché, attraver­ so la negazione di Socrate, Platone sia negato insieme ad esso, ma perché non è possibile che Socrate non sia un uomo e Plato­ ne sia un uomo; e questa inferenza appartiene al metodo dell'a­ nalogia . (col. XII, 14-31=cap. 17) Dal punto di vista formale il criterio della inconcepibilità è esprimibile come impossibile (pl\q) In effetti le due formule che corrispondono rispettiva­ mente al criterio di verifica stoico e a quello epicureo non esprimono un contenuto logico molto diverso l'una rispetto all'altra. La stessa presenza di un operatore modale nella   184 8. n «DE SIGNIS» DI FnODEMO formula del criterio di inconcepibilità è controbilanciata dal carattere, ugualmente modale, di necessità, che sappiamo essere richiesta dali'implicazione come la concepivano gli stoici . Tuttavia, in Filodemo i due metodi sono presentati come contrapposti, e anzi, nel passo citato, sembra che trovino applicazione in casi diversi. Se non è dunque sul piano del contenuto logico che si dif­ ferenziano, che cosa è allora che li rende diversi? È possibi­ le cercare una risposta a questo interrogativo soffermando­ ci sull'esempio che viene riportato da Filodemo di inferenza verificata con il metodo dell'inconcepibilità: "Se Platone è un uomo, anche Socrate è un uomo" Questa inferenza, ci dice Filodemo, appartiene al metodo dell'analogia. Infatti, entrambi i membri dell'inferenza condividono un elemento, cioè la proprietà attribuita ai soggetti rispettivi delle due proposizioni, fatto che potrem­ mo esprimere come: u {P) � u {S) in cui "u" è la proprietà di "essere un uomo", "P" è "Plato­ ne" e "S" è "Socrate". Questo aiuta a capire che cosa intendano esattamente con "analogia" e con "inferenza segnica basata sull'analogia" gli epicurei. In effetti, mentre per gli stoici non è necessario alcun elemt.�nto in comune tra i due membri dell'inferenza segnica, una tale caratteristica diviene essenziale per gli epi­ curei.6 Il fatto, però, che l'analogia, da un punto di vista logico, si venga precisando come situazione in cui c'è una proprietà condivisa dai soggetti delle due proposizioni membri del­ l'inferenza, ci permette di dire che la logica usata dagli epi­ curei non è la stessa di quella usata dagli stoici: mentre que­ sti ultimi si servono della logica delle proposizioni, gli epi­ curei ritornano a una logica dei predicati, sotto un certo punto di vista più simile a quella aristotelica.  8.2 CONTRAPPOSIZIONE VS INCONCEPIBILITÀ 185 A distinguere il metodo della contrapposizione da quello dell'inconcepibilità è dunque l'ambito di applicazione: le proposizioni nel primo caso, le proprietà nel secondo. Lo scopo è tuttavia lo stesso: dimostrare che l'inferenza ha un carattere di necessità. Ora non c'è nessun problema a considerare necessaria la relazione stoica verificata dalla contrapposizione, in quanto il metodo adottato è aprioristi­ co. Ci sono maggiori problemi, invece, come gli stoici sot­ tolineano, a considerare necessaria l'inferenza analogica. A ogni modo, per gli epicurei le relazioni segniche vengo­ no scoperte empiricamente e, se la ricerca è ben condotta, la relazione tra il segno e l'oggetto a cui il segno rimanda' è necessaria. Tuttavia, il metodo stesso dell'inconcepibilità è un metodo empirico, in quanto una certa cosa è inconcepi­ bile solo nei termini della nostra esperienza. Le inferenze verificate dall'inconcepibilità sono basate sull'analogia tra il segno e ciò a cui esso rimanda: "Un oggetto che non ab­ bia niente in comune con ciò che appare è inconcepibile" (col. XXI, 27.;.29 = cap. 36). Anche le inferenze su ciò che va di là dell'esperienza sono basate sull'analogia con le proprietà che presentano le cose ali'interno deli'esperienza. Se non è possibile verificare di­ rettamente la presenza di quelle proprietà negli oggetti non percepiti, si ricorre alla prova indiretta della non incompati­ bilità (ouk antimartjr�sis) con i dati empirici.7 L'inferenza che viene presa in considerazione è la seguente: Se gli uomini che noi conosciamo direttamente, una volta deca­ pitati muoiono, senza che ricrescano nuove teste, allora tutti gli uomini, dovunque, una volta decapitati muoiono e non ricre­ scono nuove teste. Il primo membro del condizionale è considerato segno del secondo. Tra i due membri si stabilisce un elemento co­ mune, e l'inferenza è propriamente un'induzione: l'espe­ rienza ripetuta dell'associazione tra decapitazione da una parte e morte congiunta alla non ricrescita della testa dal­ l'altra, porta alla generalizzazione di questa associazione, in modo da poter fare inferenze e previsioni anche in casi  186 8. IL «DE SIONIS» DI FnODEMO non precedentemente osservati, o non osservabili in asso­ luto. Inoltre, poiché è impossibile verificare l'inferenza sui casi non osservabili , gli epicurei la ritengono veri ficata basando­ si sulla non incompatibilità con i casi che cadono nel domi­ nio deli'esperienza. La condizione è tuttavia quella di sce­ gliere i casi giusti, che sono quelli che appartengono allo stesso genere: a esempio, per inferire la non ricrescita delle teste, è necessario non basarsi sulla ricrescita dei capelli o delle unghie (coli. XIII, 20 - XIV, 2 = cap. 18). 8.3 Segni comuni e segni propri La disputa sui metodi di verifica dell'inferenza si lega alla discussione sui tipi possibili di segno. Tanto gli stoici quan­ to gli epicurei distinguevano tra segno comune (koinòn s�­ mefon) e segno proprio (fdion s�mefon). Definivano il segno comune come quella entità che può esistere anche in assen­ za di un'entità cui dovrebbe rinviare (a esempio, nell'infe­ renza "Se quest'uomo particolare è ricco, allora è buono"! la ricchezza può sussistere anche se non sussiste la bontà). Definivano poi il segno proprio come quell'entità che può esistere solo se esiste un oggetto non percepibile a cui essa rinvia (a esempio, nell'inferenza "Se c'è moto, c'è9vuoto", il moto può esistere solo se esiste anche il vuoto). Gli epicurei erano d'accordo con gli stoici nel rifiutare i segni comuni come basi inaffidabili di inferenze, ma non concordavano sul fatto che ogni caso di segno proprio fosse anche un caso (come sostenevano gli stoici) di segno stabili­ to per contrapposizione, cioè stabilito aprioristicamente. Per essi era possibile stabilire dei segni propri usando un criterio empirico, come è quello dell'inconcepibilità.10 Se consideriamo l'inferenza: "Se Epicuro è un uomo, allora anche Metrodoro è un uomo " ci troviamo di fronte a un segno proprio costruito per ana-  8.3 SEGNI COMUNI E SEGNI PROPRI 187 logia, cioè sull'osservazione di una proprietà in Epicuro che è inconcepibile pensare che Metrodoro non abbia esatta­ mente negli stessi termini. In altre parole si può dire che, posto l'accordo tra le due scuole sulla validità dei soli segni propri, gli stoici costituivano un oggetto come segno a par­ tire dal conseguente (ovvero dal rinviato), mentre gli epicu­ rei lo costituivano a partire dall'antecedente. È l'oggetto che compare nell'antecedente, infatti, che nella semiotica epicurea viene associato a certe proprietà (costantemente osservate) e diviene segno di un altro ogget­ to non percepibile a cui vengono attribuite le proprietà del primo. Tuttavia, il primo oggetto X deve avere almeno due proprietà Pt e P2 e il secondo oggetto deve avere almeno una di queste: la proprietà comune diviene il segno della presenza della seconda proprietà che può non essere perce­ pibile direttamente nel secondo oggetto. A esempio, se un certo individuo X ha le due proprietà: Pt = "essere un uomo" p2 = "non poter avere la ricrescita della testa, una volta tagliata" sarà sufficiente che un altro individuo Xt abbia la proprietà Pt perché gli si possa attribuire anche la proprietà p2. Le condizioni della validità generale di questa inferenza sono due: (i) che l'associazione tra le due proprietà nel pri­ mo membro dell'inferenza sia costante; (ii) che tale associa­ zione non si stabilisca tra proprietà casuali. Come vedremo in seguito, si tratta di scegliere delle proprietà che siano "es­ senziali". Rimane da fare una considerazione generale sul tipo di segno proposto dagli epicurei: esso sembra costantemente configurarsi come segno iconico, in quanto, in termini peir­ ceani, rimanda al suo oggetto in virtù di una somiglianza o per avere alcune proRrietà in comune con esso (Peirce 1980: 140; Eco 1973: 51). 1  188 8. ll «DE SIGNIS» DI FILODEMO 8.4 Critica stoica all'induzione epicurea Gli stoici non accettano la validità dell'inferenza basata su un criterio induttivo, come proponevano gli epicurei. A essa contrappongono inferenze segniche basate sostanzial­ mente su due tipi di criterio: (i) la tautologia; (ii) la L-impli­ cazione. 12 Seguiamo lo sviluppo dell'argomentazione degli stoici. Essi prendono come punto di partenza una tipica in­ ferenza induttiva, o analogica, epicurea: "Se gli uomini tra di noi sono mortali, allora tutti gli uomi­ ni lo sono''. Per gli stoici l'inferenza cosi formulata è inaccettabile. Per acquisire validità, essa deve essere riformulata secondo l'uno o l'altro dei criteri che abbiamo menzionato. Vedia­ mo il criterio definito come tautologia. Gli stoici sostengo­ no che, per rendere valida l'inferenza, cioè, dal loro punto di vista, per rendere necessaria la relazione tra i due mem­ bri, entrambe le proprietà prima considerate devono essere contenute nella premessa. 1 3 Gli stoici propongono così di riformulare l'inferenza nel modo seguente: Dal momento che gli uomini tra di noi sono mortali, e se in altri luoghi vi sono uomini simili a quelli tra di noi sotto tutti i ri­ spetti, e anche nell'essere mortali, essi sono eventualmente mor­ tali . (coIl. II, 37 - III, 4= cap. 5) Il carattere tautologico dell'inferenza è sottolineato dagli stoici stessi, i quali sostengono espressamente che "la con­ clusione appresa attraverso questo segno non differisce dal segno a partire dal quale si trae l'inferenza (s�meioume­ tha)".14 Infatti viene assunta la premessa che entrambe le serie di entità (cioè sia gli uomini che si trovano tra di noi, sia gli uomini che sono in luoghi sconosciuti) hanno non so­ lo la proprietà comune di essere "uomini", ma anche con­ temporaneamente quella di essere "mortali".  8.5 RISPOSTA EPICUREA A FAVORE DELL'INDUZIONE 189 L'assunzione nella premessa dello stesso carattere di "mortalità" che dovrà essere anche oggetto di inferenza è, per gli stoici, condicio sine qua non della necessità dell'infe­ renza. L'inferenza sarà valida, dunque, solo se totalmente analitica o tautologica. Vediamo ora l'argomentazione stoica contro l'induzione secondo il criterio definito L-implicazione. In questo secon­ do caso gli stoici propongono di riformulare l'inferenza epi­ curea di partenza in maniera tale che il carattere di "morta­ lità" da inferire sia contenuto nella definizione stessa di "uomo". Per esprimere l'idea che la parola luomol implicita semanticamente tutto un insieme di proprietà che una defi­ nizione metterebbe in luce, essi introducono le espressioni hii "in quanto" e kath6 "nella misura in cui". L'inferenza riformulata secondo questo principio assume la forma se­ guente: Dal momento che gli uomini tra di noi, in quanto (hi1) e nella misura in cui (kath6) sono uomini, sono mortali, anche in qual­ siasi altro luogo gli uomini sono mortali.ts in cui la semplice espressione l uomo l è data come implici­ tante la proprietà "mortale" da inferire. Gli stoici sostengono che l'attribuzione della proprietà di essere "mortale" a l uomo l , se avviene in qualsiasi altro modo diverso da questo, come appunto fanno gli epicurei, rende vana l'inferenza. 8.5 La risposta epicurea a favore dell'induzione La sostanza della replica epicurea è che il sistema stoico, per quanto appaia analitico e a priori, tuttavia poggia in ul­ tima analisi su una base induttiva. In realtà, secondo gli epicurei, la necessità della relazione inferenziale è costruita sull'osservazione di congiunzioni costanti. È a causa del fatto di non vedere mai il fumo senza il fuoco, né il moto senza la presenza del vuoto, che noi arriviamo a dire che il fumo è segno del fuoco e il moto segno del vuoto.16 Cosi è  190 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO su base empirica che viene stabilito il sistema di necessità lo­ gica a priori alla quale fanno ricorso gli stoici . Del resto, la stessa connessione necessaria tra due termini, espressa at­ traverso il test della contrapposizione, può essere verificata solo dopo che l'esperienza ha mostrato la costante congiun­ zione tra di essi. Come giustamente interpreta Estelle De Lacy (1938: 405), "le ipotesi sul livello logico e teoretico sono formulate sulla base di informazioni intorno alla connessione di termini da­ ti dali'osservazione deli'esperienza dei sensi. La validità di queste ipotesi, di conseguenza, dipende dalla loro corri­ spondenza con i fatti e dalla loro adeguatezza nel compren­ dere tali fatti, come pure dalla loro interna coerenza o com­ patibilità dell'uno con l'altra". Se questa è la sostanza della replica epicurea alle critiche stoiche sull'induzione, vale però anche la pena di analizzare la risposta specifica17 alla seconda critica stoica. Infatti, in relazione alla L-implicazione, gli epicurei, ribaltando l'ar­ gomento stoico, sollevano una questione interessante: la de­ finizione di uomo in quanto mortale è non il punto di par­ tenza di un'inferenza deduttiva, ma il punto di arrivo di ri­ petute inferenze induttive. In altre parole, si costruisce la definizione di uomo in quanto tale, come comprendente an­ che la proprietà di essere "mortale" in conseguenza di due serie di informazioni: (i) le informazioni che ci fornisce la storia sulle vite degli uomini che ci hanno preceduti; (ii) le informazioni che ci derivano dali'esperienza diretta dei no­ stri contemporanei. Così gli epicurei pongono l'equivalenza tra la proposizione: (a) "Gli uomini , in quanto uomini , sono mortali " (che è la formula suggerita dagli stoici, e che indica dedutti­ visticamente il fatto che nella nozione di "uomo" vi è com­ presa la proprietà "mortale"), e la proposizione: (b) "Gli uomini con questa proprietà (di essere mortali) sono uomini"18  8.6 PROPRIETÀ ESSENZIALI E ACCIDENTALI 191 che è la formula epicurea, la quale suggerisce in qual modo venga costruita la definizione. In sostanza, gli epicurei sem­ brano sostenere che la definizione di "uomo" viene costrui­ ta mediante un'accumulazione di proprietà che sono rileva­ te mediante un metodo analogico in entità che sono9deno­ minate in un certo modo, in questo caso, luominil.1 8.6 Proprietà essenziali e proprietà accidentali Un altro interessante problema che emerge nella disputa tra stoici ed epicurei è quello della distinzione tra proprietà primarie e proprietà secondarie. Questa distinzione risale a Democrito, che è stato il primo a usarla (De Lacy 1938: 403). Il problema non è affatto banale e ancora oggi, in molte teorie semantiche, si ricorre a un'analoga distinzione. Gli epicurei affrontano l'argomento per rispondere a una critica stoica che attacca il metodo dell'analogia mostrando il rischio che si corre neli'applicarla a proprietà che non hanno tutte la stessa ripartizione o generalità. Infatti, so­ stengono gli stoici, allo stesso modo in cui viene universaliz­ zata la concomitanza osservata tra la proprietà "uomo" e la proprietà "mortale'', altrettanto potrebbe essere fatto per la concomitanza osservata tra "uomo" e "di breve vita": il ri­ schio è che, così facendo, si viene ad attribuire quest'ultima proprietà anche agli abitanti del monte Athos, che nell'anti­ chità erano proverbialmente considerati longevi.20 Proprio da questo tipo di critica gli epicurei sono spinti a elaborare una distinzione tra proprietà che sono variabili (cioè peculiari a certi individui) e proprietà che sono costan­ ti (cioè rintracciabili in ogni individuo). L'inferenza corret­ ta sarà quella che parte dalle proprietà costanti. Tuttavia, sostengono gli epicurei, la stessa presenza di proprietà va­ riabili, invece di indebolire la teoria dell'inferenza analogi­ ca, la rafforza: posto infatti che gli uomini conosciuti diffe­ riscono moltissimo rispetto alla lunghezza della vita (essen­ do alcuni di breve vita e altri longevi), diviene possibile, proprio sulla base dell'esistenza della variazione, fare cor­ rettamente l'inferenza che altrove esistano uomini di ecce-  192 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO zionale longevità, come lo sono appunto gli abitanti del monte Athos.21 Ma ciò che spinge gli epicurei ad andare ancora più a fon­ do su questa strada è l'attacco stoico a proposito di inferen... ze che hanno conseguenze sulla loro teoria metafisica. La provocazione stoica concerne la teoria degli atomi, che, nel­ la metafisica epicurea, hanno la proprietà di essere "incolo­ ri" e "indistruttibili"; però essi hanno anche la proprietà di essere "corpi", a cui, nell'esperienza, sono associate le pro­ prietà opposte (cioè "colorati" e "distruttibili"). Queste so­ no le due inferenze che, secondo gli stoici, gli epicurei do­ vrebbero fare, applicando correttamente il metodo analo­ gico: (l) "Dal momento che tutti i corpi della nostra esperienza hanno colore e anche gli atomi sono corpi, anche gli atomi hanno colore." (2) "Dal momento che tutti i corpi nella nostra esperienza sono distruttibili, e anche gli atomi sono corpi, gli atomi devono essere tutti distruttibili."22 La replica epicurea è molto interessante, per due motivi. In primo luogo, perché precisa ulteriormente la necessità di fare distinzioni tra proprietà a cui il metodo analogico si applica, e proprietà a cui non si applica; infatti il metodo agisce selettivamente sulle proprietà e non in modo ca­ suale.23 In secondo luogo, la replica epicurea è interessante per­ ché modula la precedente distinzione in termini teoricamen­ te più forti: essa diviene una distinzione in proprietà che possiamo definire essenziali e proprietà accidentali. Infatti gli epicurei parlano di certe proprietà che i corpi hanno pro­ prio "in quanto corpi" (hei somata), che essi mantengono in ogni occasione: prima fra tutte la proprietà di "opporre resistenza al tocco". Questa è dunque una proprietà essen­ ziale. Poi ci sono quelle proprietà che non sono strettamen­ te legate alla natura dei corpi e che possono variare a secon­ da delle condizioni: si tratta di proprietà accidentali, che i  8.6 PROPRIETÀ ESSENZIALI E ACCIDENTALI 193 corpi hanno "in quanto partecipano di una natura opposta a quella corporea e non resistente",24 come a esempio la di­ struttibilità o il colore, il quale ultimo è tanto accidentale che scompare nelle condizioni di buio. Possiamo schematizzare queste due serie di proprietà at­ traverso una tabella:   proprietè entitè corpi A B proprietè accidentali (in quanto partecipano di una nature opposta) ..distruttibilitè• ·colore•  (in quanto tali) ·resistenze al tocco· proprietè essenziali  Gli epicurei precisano molto chiaramente che le inferenze induttive generalizzanti non dovranno partire dalle proprie­ tà della colonna B; ma niente impedirà di fare inferenze ge­ neralizzanti, con il metodo dell'analogia, partendo dalle proprietà della colonna A.25 A conferma di questo schema si può riportare l'esempio del "fuoco'',26 per il quale, accanto alla proprietà essenziale di bruciare, viene elencata una serie di proprietà variabili peculiari ai vari tipi:  8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO proprietà essenziali proprietà accidentali (koin6t�tes) (idi6t�tes) ·di lunga o corta durata• ·non tutte le sostanze sono bruciate nello stesso modo· ·facili o difficili da spegnere · ·duri o teneri· •di colore variabile a seconda del combustibile· Nella sezione di Bromio27 viene anche prevista una specie di topica per individuare la ripartizione delle proprietà: in­ fatti, ai fini della correttezza delle inferenze, le proprietà es.. senziali (o comuni, koin6t�tes) e quelle accidentali (o pecu­ liari, idiOt�tes) devono essere analizzate nei vari campi o ca­ tegorie che sono di pertinenza di un oggetto: nelle sostanze, nei poteri, nelle qualità, negli attributi, nelle disposizioni, nelle quantità, nei numeri. Lo scopo di questa topica appare essere quello di giustifi­ care inferenze universalizzanti ali'interno di categorie omo­ genee: infatti, a esempio, pur essendoci un'infinita varietà di esseri umani e di cibi che li nutrono, se si considera il fie­ no rispetto alla categoria dei "poteri", si troverà che esso ha due proprietà costanti: "di non nutrire gli esseri umani" e "di non essere digerito da essi".28 Perciò, al di là delle diverse caratteristiche che questo og­ getto potrà presentare (diversi colori, diversa consistenza, diverso grado di maturazione ecc.), potremo fare con sicu­ rezza l'inferenza che da nessuna parte si troverà del fieno che abbia la proprietà di nutrire gli uomini e di essere da lo­ ro digerito. Ma che cosa sono propriamente per gli epicurei quelle proprietà degli oggetti ''in quanto tali", che abbiamo defini­ to proprietà essenziali? Dai precedenti esempi (e da altri analoghi) appare chiaramente che esse sono , per loro , le ------------------- 194 propnettt r entità ! fuochi      8.6 PROPRIETÀ ESSENZIALI E ACCIDENTALI 195 proprietà definitorie di un oggetto, cioè quelle che concor­ rono alla sua definizione essenziale. Abbiamo visto che per gli stoici una definizione viene co­ struita analiticamente, attraverso una ricognizione delle proprietà implicite nella nozione da definire: un individuo, in quanto è uomo, ha la proprietà di essere mortale. Per gli epicurei le cose vanno nel senso opposto. La defi­ nizione di una nozione viene costruita per accumulo delle proprietà comuni a certi individui. Di conseguenza, tra le proprietà comuni (o essenziali) rilevate empiricamente e le proprietà che fanno parte della definizione, non c'è diffe­ renza. Lo dimostra anche l'uso della particella h�i ("in quanto") che viene utilizzata (come vedremo meglio più avanti) nelle espressioni definitorie. Rimane aperto il pro­ blema se sia possibile costruire empiricamente una defini­ zione annotando le proprietà comuni a una classe di ogget­ ti, o se il processo non sia in qualche maniera viziato (alme­ no in parte) proprio dalla preliminare esistenza di definizio­ ni che rimandano alla lingua come struttura globale interde­ finita e/o storicamente stratificata. Questa seconda ipotesi sembra in parte prospettarsi con la definizione di l uomo l . Per gli epicurei, infatti, la pro­ prietà "mortale'' è, come abbiamo visto, una proprietà es­ senziale o definitoria di l uomo l . Si deve però notare che es­ sa fa parte della definizione di l uomo l già in una lunga tra­ dizione che risale per lo meno ad Aristotele. Quest'ultimo definiva infatti l uomo l come "animale mortale provvisto di ragione" (Top. , V, l , 128 b, 35-36). Gli stoici poi lo defi­ nivano come "animale razionale mortale" (Epictetus, Diss. II, 9, 2). La tradizione epicurea, infine, lo definiva come "mortale provvisto di sapienza pratica" (De signis, col. XXII, 22-24=cap. 37).29 È probabile, dunque, che definizioni di questo genere co­ stituissero un'implicita guida nella stessa ricognizione empi­ rica delle proprietà comuni a una serie di oggetti (gli uomini percepibili) analizzati in vista di un'inferenza al non perce­ pibile .  196 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO 8.7 Modalità di inerenza delle proprietà essenziali ai soggetti Quando nel trattato di Filodemo si parla di proprietà co­ muni o essenziali, queste vengono congiunte al soggetto me­ diante le particelle héi, kath6, par6, che equivalgono nel si­ gnificato alle espressioni italiane "in quanto", ''nella misura in cui". Esse vengono a indicare una condizione restrittiva nell'inferenza al non percepibile, come abbiamo visto nel­ l'esempio della natura degli atomi come "corpi in quanto tali", o degli uomini come mortali "nella misura in cui sono uomini". Nella sezione di Demetrio sono elencate quattro accezioni fondamentali di queste particelle, che rimandano a quattro modi di inerenza delle proprietà ai soggetti: (i) Secondo la prima accezione, le proprietà possono es­ sere viste come conseguenze necessarie (ex anank�s synépe­ tar): come esempio di conseguenza necessaria del fatto di essere uomini, sono riportati i fatti di avere un corpo e di essere soggetti alla malattia e alla vecchiaia.3° Con questo esempio l'autore sembra individuare un tipo di proprietà che in certe semantiche contemporanee sono chiamate fat­ tuali o sintetiche3 1 o proprietà secondo il modo 1r). 32 (ii) Nella seconda accezione, le proprietà sono individua­ te come essenziali alla definizione o alla concezione fonda­ mentale (prolessi)33 di un certo oggetto. Questo si verifica a esempio con espressioni del tipo: "I corpi, in quanto corpi, hanno volume e resistenza", o come: "L'uomo, in quanto uomo, è un animale razionale''. In questo caso il rapporto sembra essere di tipo equativo: l'estensione del primo termi­ ne viene a coincidere con quella del secondo. Nel caso del­ l'esempio di l uomo l , l'equivalenza definizionale viene data in termini di genere ("animale"), più differenza specifica ("razionale"). (iii) Secondo la terza accezione, certe proprietà sono vi­ ste come sempre concomitanti (synbebekénar), come nell'e­ sempio: "L'uomo nella misura in cui è uomo, muore".34  8.8 CONCLUSIONI 197 L'autore sembra individuare qui delle proprietà che nelle teorie contemporanee sono state definite semantiche, anali­ tiche o proprietà secondo il modo E : "uomo,, infatti, è in­ cluso nella classe più vasta di "mortale". Quest'ultima, poi, ritorna sotto forma di marca semantica a comporre il seme­ ma corrispondente al termine l uomo l . (iv) La definizione della quarta accezione è perduta in una lacuna, ma essa può essere ricostruita dagli esempi che il testo ha conservato: "L'uomo, nella misura in cui è folle, è massimamente infelice,, "Un coltello taglia nella misura in cui è affilato", "Gli atomi, nella misura in cui sono soli­ di, sono indistruttibili", "Un corpo, nella misura in cui ha peso, cade verso il basso". Marquand (1883: 125) interpreta questi come esempi di proprietà che implicano gradazioni o proporzione. I De Lacy (1978: 125) fanno invece la conget­ tura che si tratti di proprietà delle proprietà. Certi di questi esempi farebbero pensare al rapporto se­ miotico della connotazione, inteso come significato che si appoggia su un altro significato e che comunque è fissato da un codice. Si possono schematizzare i quattro modi in cui le proprie­ tà ineriscono al soggetto, · sia secondo l'interpretazione di Marquand, sia secondo quella della semiotica contempora­ nea (cfr. p. 198). 8.8 Conclusioni Se gli stoici avevano fornito alla semiotica una solida im­ palcatura logica, gli epicurei arricchiscono la problematica del segno mediante una serie di specificazioni destinate ad avere valore operativo nella ricerca concreta ed effettiva. Abbiamo già visto le distinzioni tra i tipi di segno, i tipi di proprietà, i modi di inerenza delle proprietà ai soggetti. Ol­ tre a questi temi gli epicurei affrontano anche il problema della gamma di variazione a cui i fenomeni sono sottoposti e quello dei limiti di tale variazione, come condizione per fare inferenze corrette. Infatti ammettono l'esistenza di proprietà che variano da individuo a individuo, ma negano  198 8. IL «DE SIGNIS)) DI FILODEMO semiotica contemporanea   Marquand conseguenza  1. 2. concezione estensionalmente necessaria definizione o proprietè fattuali o sintetiche  essenziale (protessi ) proprietà equivalenti al soggetto  3. concomitanza proprietà semantiche o analitiche  4. gradazione o connotazioni proporzione codificate che nei fenomeni non percepibili la gamma di variazione sia illimitata e che comunque superi i confini della variazione osservabile nei fenomeni conosciuti. Così non si potrà infe­ rire che gli uomini fuori dalla nostra esperienza siano tanto resistenti da essere invulnerabili, oppure che essi siano fatti di ferro, o che passino attraverso le pareti, come quelli co­ nosciuti passano attraverso l'aria. La giustificazione di que­ sto fatto viene data dal metodo deli'inconcepibilità: "è in­ concepibile che ci sia un og�etto che non abbia niente in co­ mune con ciò che appare". 5 Nel De signis vengono anche affrontati i problemi con­ nessi ai vari tipi di inferenza: da classe a classe; da oggetti identici ; da casi rari ; da casi unici . Tutti questi problemi so­ no collegati a un tema che è costante nella semiotica epicu-   8.8 CONCLUSIONI 199 rea: quello delle garanzie di validità di un'inferenza. A esempio, un'inferenza scorretta è quella che porta a concludere che tutti gli uomini sono bianchi, partendo dal­ l'osservazione che gli uomini greci lo sono, o che, al contra­ rio, porta a concludere che tutti gli uomini sono neri, par­ tendo dali'osservazione che gli Etiopi sono tali. In effetti, simili inferenze sono errate perché non sono frutto di "una accurata supervisione di tutti i casi percepibili".36 Ciò che, dal punto di vista logico, avviene in casi di questo genere è che si tenta di applicare ali'intera classe o genere (quello de­ gli "uomini") una proprietà che di volta in volta è caratteri­ stica di una sottoclasse o specie (quella dei "Greci" o, ri­ spettivamente, quella degli "Etiopi"). In effetti, per garantire il massimo di sicurezza, gli epicu­ rei pongono alla base del loro metodo per costruire inferen­ ze una teoria della progressiva inclusione semantica tra in­ dividui, specie e generi, cioè una teoria delle classi. È infatti legittimo fare inferenze tra membri (classi o in­ dividui particolari) i quali si situino a un livello analogo o che siano il più possibile vicini e simili. Naturalmente que­ sto non significa che l'inferenza debba essere fatta esclusi­ vamente tra membri che si situano esattamente allo stesso livello, altrimenti l'induzione perderebbe molta della sua forza, ma nella maggior parte dei casi viene previsto un mo­ vimento ascendente di generalizzazione.37 Una teoria delle classi è implicita anche nella trattazione epicurea dei casi unici, elaborata ancora una volta in rispo­ sta a una critica stoica. In effetti gli stoici avevano tentato di attaccare il metodo deli'analogia ricorrendo ali'argomen­ to deli'esistenza in natura di casi unici, che non presentano analogia con alcun altro fenomeno: a esempio, in mezzo al­ la stragrande quantità di pietre che esistono nella nostra esperienza, ce n'è una sola, il magnete, che è capace di atti­ rare il ferro; ugualmente, solo l'ambra ha la proprietà di at­ tirare la paglia; infine, non c'è che il quadrato che misura 4 di lato che ha il perimetro e l'area espressi dallo stesso nu­ mero.38 Secondo gli epicurei, però, le critiche degli stoici, invece di inficiare l'inferenza analogica, in realtà la rafforzano.  200 8. IL «DE SIGNIS» DI Fll.ODEMO Per dimostrare questo, gli epicurei ricorrono al metodo di ridurre ad altrettante classi gli oggetti unici. Così, essi dico­ no, se alcuni magneti attirassero il ferro e altri no, l'inferen­ za per analogia sarebbe inficiata; ma poiché così non avvie­ ne, è possibile inferire le proprietà degli altri magneti a par­ tire dal magnete che cade sotto la nostra percezione.39 Molti ancora sarebbero i punti particolari da prendere in considerazione, per mostrare il modo con cui gli epicurei tentano di dettagliare la teoria del segno. Ma quello che in definitiva caratterizza la semiotica epi­ curea è il suo richiamo a un completo programma empirista (che era condiviso, tra l'altro, anche dai medici empirici). Tale programma comprende tre tappe fondamentali: (i) os­ servazione; (ii) storia; (iii) inferenza da simile a simile. I pri­ mi due momenti del programma permettono di individuare le "proprietà essenziali", e quindi di passare al terzo mo­ mento, che è quello della ricostruzione del processo semioti­ co vero e proprio. Nei primi due momenti, infatti, vengono suggerite delle condizioni sui fenomeni da osservare per ottenere le pro­ prietà costanti: essi devono essere "molti", devono essere diversi tra di loro (''vari") e, contemporaneamente, devono essere "omogenei".40 Il terzo momento, infine, combina le proprietà deli'enciclopedia semantica con le leggi della logi­ ca (che per gli epicurei sono quelle della logica delle classi). In questo compromesso, appunto, tra i concreti suggeri­ menti in vista della produttività empirica e il tentativo di mantenere il massimo rigore formale deve essere individua­ ta l'originalità della proposta epicurea.  9. RETORICA LATINA 9.0 Introduzione L'interesse per la problematica semiotica nel mondo ro­ mano fa parte di quel processo di costante e progressiva ac­ quisizione del patrimonio culturale greco, che inizia nel III secolo a.C. Ma, nel passaggio dal mondo greco a quello ro­ mano, il paradigma semiotico abbandona il campo della fi­ losofia in senso stretto, per installarsi, in maniera centrale, nell'ambito retorico-giuridico. In Grecia la conoscenza attraverso i segni era divenuta, soprattutto nelle scuole postaristoteliche, il modello stesso della conoscenza in generale e, a partire dagli stoici, aveva trovato la sua collocazione ali'interno della dialettica, una delle branche più astratte della filosofia, in quanto sotto­ partizione della stessa logica. Invece i Romani, aderendo a interessi maggiormente orientati in direzione pragmatica, avevano bensì colto l'estremo interesse del paradigma se­ miotico, ma lo avevano subito piegato ai fini, a loro più congeniali, del dibattito politico e giudiziario, dibattito de­ stinato a essere condotto con gli strumenti forniti appunto dalla retorica. Per rendersi conto, nel modo più chiaro, del cambiamen­ to di prospettiva, basta mettere a confronto l'atteggiamento di Aristotele con quello di Cicerone nei riguardi della retori­ ca. Aristotele aveva fatto di questa disciplina l'argomento di un suo importante trattato, la Retorica, e al suo interno aveva affrontato il tema dei segni; ma, come era già avve-  202 9. RETORICA LATINA nuto nei Primi analitici, aveva tentato di ridurre la forma dei vari tipi di segno a quella dei tipi di sillogismo. Cosi fa­ cendo, aveva indicato un percorso ben preciso: la logica stabilisce le forme fondamentali del ragionamento, che de­ vono rimanere un punto di riferimento anche quando l'inte­ resse si sposta, come nel caso della retorica, dal discorso scientifico a quello persuasivo, dai segni referenziali a quelli efficaci . In Cicerone, e in genere nella trattatistica retorica roma­ na, si registra un'inversione nell'ordine di priorità: la retori­ ca non occupa più il secondo posto, rispetto a un primato della logica, ma, al contrario, è la filosofia nel suo insieme che diviene scienza ancillare, il cui scopo è quello di contri­ buire alla formazione del buon oratore. Tuttavia è l'elo­ quenza l'espressione più alta dell'attività intellettuale. Un passo del De oratore (Il, 159-160) mostra abbastanza chia­ ramente l'opinione di Cicerone circa i rapporti tra dialettica e retorica, quando per bocca di Antonio viene detto che i dialettici sono soltanto capaci di criticare degli enunciati, ma non di produrne. In effetti, per Cicerone la retorica costituisce il "corona­ mento" della filosofia, dalla quale non può essere dissociata (De orat., III, 59-61), e non deve essere considerata una tec­ nica capace di aggiungere un'espressione elegante a un pen­ siero già formato. Come mettono bene in luce Mare Baratin e Françoise Desbordes (1981: 50), in Cicerone agisce un principio, sempre sfumato, ma costantemente affermato, che, se si parla bene, si pensa anche bene o, in altre parole, che non si pensa veramente bene se non quando si parla ve­ ramente bene. Tuttavia la retorica, indiscutibilmente, presenta anche un aspetto tecnico, e ogni trattatista mostra che essa è organiz­ zata secondo due tipi di assi. Il primo concerne i tipi di di­ scorso: il discorso dei tribunali (giuridico); il discorso del­ l'assemblea (politico); il discorso delle cerimonie pubbliche (dimostrativo). Il secondo riguarda le parti della retorica, ovvero i tipi di procedimenti che devono essere messi in atto per strutturare progressivamente un discorso: inventio (ri­ cerca degli argomenti); dispositio (ordinamento di quel che  9.l LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 203 è stato trovato); elocutio (resa degli argomenti in forma or­ nata); memoria (procedimenti mnemotecnici); actio (recita­ zione del discorso: gesti e dizione). La problematica riguardante il segno si colloca nel cuore della inventio, quando cioè si devono "trovare" le prove che convincano l'uditorio della colpevolezza o dell'innocenza di un imputato. Le prove, in retorica, hanno una loro propria forza, muovono dal ragionamento e si inseriscono nel pro­ gramma rivolto a convincere (/idem facere), il primo dei due programmi in cui si articola l'inventio. L'altro pro­ gramma è il commuovere (animos impellere) e consiste nel porre l'accento non sul messaggio o sulla sua forza proba­ toria, ma sulle emozioni del destinatario. Tuttavia, come sottolinea Barthes (1970: tr. it. 60), si ha un certo disagio a usare l'espressione "prova" per indicare le probationes (pf­ steis) retoriche, in quanto questa parola ha oggi una conno­ tazione scientifica la cui assenza appunto definisce le "pro­ ve" retoriche. Tuttavia, un merito che va riconosciuto alla retorica è proprio quello di aver tentato di dare una classifi­ cazione del diverso grado probatorio e della diversa forza argomentativa delle "prove" stesse. Compito, quest'ultimo, che ogni autore ha assolto in ma­ niera particolare, proponendo una classificazione che non coincide, se non parzialmente, con quella data dagli altri. Nei prossimi paragrafi, così, cercheremo di illustrare le li­ nee secondo le quali i tre grandi autori della trattatistica re­ torica romana, cioè Cornificio (autore della Rhetorica ad Herennium) , Cicerone e Quintiliano , ricostruiscono nelle rispettive opere la struttura del paradigma indiziario, cia­ scuno secondo diverse modalità. 9.1 La "Rhetorica ad Herennium" di Comificio Una documentazione diretta della retorica latina la si ha soltanto con i trattati del I secolo a.C., tra cui la Rhetorica ad Herennium , attribuita un tempo a Cicerone sulla scorta dell'autorità dei manoscritti, ma la cui paternità è oggi asse­ gnata a Cornificio (Calboli: 1969).  204 9. RETORICA LATINA La problematica semiotica viene sviluppata da Cornificio all'interno della constitutio coniecturalis dove, per verifica­ re se sia stata commessa o no una determinata azione da un certo imputato, si cercano dei segni che ne mostrino la col­ pevolezza o Pinnocenza. L'elemento non conoscibile diret­ tamente a cui i segni devono rimandare non è il fatto o rea­ to, che è ovviamente noto, ma l'agente responsabile di tale fatto, oppure le relazioni tra un certo individuo e un certo fatto. Questo aspetto è abbastanza peculiare della semiotica giuridica ed è ben illustrato dall'esempio di Cornificio: Aiace in un bosco, dopo essersi reso conto di quello che aveva compiuto durante la sua pazzia, si gettò sulla spada. Sopravviene Ulisse e lo vede morto; estrae dal suo corpo l'arma insanguinata. Sopravviene Teucro, vede il fratello ucciso e il nemico del fratello con la spada insanguinata. Lo accusa di assassinio. Qui si cerca la verità per congettura. (Rhet. adHer., l, 18) Ma ciò che è in questione nell'esempio Oa colpevolezza o meno di Ulisse) per i retori romani non può scaturire da una intuizione spontanea, né da una abduzione fulminea. La retorica antica, come ha sottolineato Barthes (1970: tr. it. 59), nutriva una fiducia incrollabile nel metodo ed era ossessionata dali'idea che lo spontaneo e l'ametodico non portavano a niente di buono. Così Cornificio, con il suo ti­ pico procedimento diairetico, suddivide lo stato congettura­ le in sei parti, sei diverse vie per arrivare alla verità (Il, 3): probabile (probabilità), conlatio (confronto), signum (pro­ cedimento indiziario), argumentum (segno), consecutio (conseguenza), adprobatio (conferma). 9. 1 . 1 La probabilità Troviamo qui una terminologia in parte familiare, in quanto probabile può essere considerata la trasposizione la­ tina di eik6s, e signum quella di s�mefon, per limitarci solo a questi due casi. Ma i contenuti delle espressioni latine so-  9.l LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 205 no completamente difformi dalle corrispondenti nozioni greche. Infatti il probabile è "ciò attraverso cui si dimostra che era utile commettere il crimine e che l'imputato non si è mai astenuto da comportamenti di tale turpitudine" (Il, 3), defi­ nizione nella quale non rimane molto deli'eik6s aristotelico. Piuttosto la nozione di probabile è connessa alla caratteriz­ zazione psicologica dell'individuo in questione (''Se [l'accu­ satore] dirà che ha agito per denaro, mostri che egli è sem­ pre stato avaro, se per una carica, ambizioso; così potrà far combaciare il difetto congenito con il motivo del crimine", Il, 5) e, come si può cogliere dalla sua ulteriore suddivisione in causa e vita, oscilla tra la nozione di "movente" e quella di "precedenti". 9.1.2 Il procedimento indiziario La nozione di signum viene definita da Cornificio come "ciò che serve a mostrare come è stata cercata un'occasione favorevole ali'esecuzione (del crimine)" (II, 6). Non ritro­ viamo nemmeno qui la nozione greca di s�meion. Piuttosto il signum costituisce l'insieme di quei procedimenti indizia­ ri, di pertinenza dell'investigatore, che permettono di rico­ struire il fatto scomponendolo, come suggerisce di fare Cornificio, in tanti oggetti di indagine separata: sul luogo del delitto, sul tempo, sull'occasione, sulla speranza di por­ tare a esecuzione il fatto, sulla speranza di tenerlo celato. 9.1.3 Il segno Una nozione che presenta maggiore interesse è quella di argumentum. Se la sua definizione non è ancora molto elo­ quente ("Argumentum è ciò attraverso cui il crimine viene confermato con segni [argumentis] più precisi e con un so­ spetto più sicuro", II, 8), gli esempi che vengono forniti ci tolgono ogni dubbio che si tratti del segno come singolo fe­ nomeno percepibile, che rimanda a un fatto non conoscibile  206 9. RETORICA LATINA direttamente; la sua struttura è quella in ferenziale, espressa da un periodo ipotetico: "Se il corpo del morto s'è alterato nel colore per gonfiore o lividezza, significa che è stato uc­ ciso da una dose di veleno" (Il, 8); se si trova del sangue sulle vesti dell'imputato, se è stato visto sul luogo del delit­ to, significa che egli è colpevole (ibidem) ecc. Caratteristicamente l'argumentum viene suddiviso in tre tipi, in relazione al rapporto temporale (anteriorità, con­ temporaneità, posteriorità) che si instaura fra antecedente e conseguente del segno; classificazione, questa, che risale al­ la retorica prearistotelica (si trova a esempio nella Rhetori­ ca ad Alexandrum, 1430 b, 30 e sgg.) e giunge almeno fino a Quintiliano. 9. 1 .4 Le reazioni fisiche non controllabili Un'altra nozione interessante è quella di consecutio, che Calboli (1969: 232) mette in relazione ai sjmptoma della terminologia medica. Si tratta, come dice Cornificio, dei "segni (signa) che solitamente presentano i colpevoli e gli innocenti" (II, 8), come, a esempio, che l'imputato, quando si è giunti a interrogarlo, "sia arrossito, sia impallidito, ab­ bia titubato, sia caduto in contraddizione, si sia smarrito, abbia fatto qualche promessa, che sono segni di coscienza non tranquilla" (ibidem). Sono dunque delle reazioni fisi­ che non controllabili, dei segni involontari che possono ve­ nire messi in relazione, in maniera abbastanza codificata, con degli stati d'animo (come il senso di colpa). Questi se­ gni, per quanto non siano facilmente dissimulabili, sono pe­ rò manipolabili a livello di interpretazione: infatti l'avvoca­ to difensore può intervenire sulla loro presenza sostenendo che l'imputato, a esempio, si è turbato per la gravità del pe­ ricolo e non per la coscienza della colpa; d'altro canto, l'ac­ cusatore può intervenire sull'assenza di segni di tal genere sostenendo che l' imputato aveva a tal punto premeditato la cosa da presentare la massima sicurezza, ragione che rende l'assenza di turbamento "segno di sicurezza, non d'inno­ cenza" (ibidem).  probabile causa - vita conlatio alii nemini bonum - neminem alium potuisse slgnum occasio - spes per- ficiendi spes celandi l argumentum consecudo adprobatio - praeteritum - signa 9.1 LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 207 9. 1 .5 La classificazione e la forza argomentativa Come si può vedere, il procedimento indiziario che viene messo in atto in ambito retorico-giuridico gioca su vari li­ velli: (i) innanzitutto, ci sono i segni della premeditazione. che nella tassonomia di Cornificio sono distribuiti tra il probabile, la conlatio (che consisteva nel dimostrare che l'imputato aveva più di ogni altro ragioni e possibilità di commettere il delitto) e il signum; (ii) in secondo luogo ci sono i segni delfatto stesso, che sono rappresentati dagli ar­ gumenta: essi mettono in relazione diretta l'imputato con il reato; (iii) in terzo luogo c'è quella sorta di segniproducibili quasi sperimentalmente, che si traggono dal comportamen­ to dell'imputato osservato in un momento diverso e succes­ sivo rispetto a quello dell'evento criminoso. Possiamo illustrare complessivamente la classificazione della materia congetturale effettuata da Cornificio con il se­ guente schema (Curcio 1900):  - locus - tempus - spatium - consequens   Se messa a paragone con quella della Retorica aristoteli­ ca, la classificazione di Cornificio appare filosoficamente meno coerente e non saldamente fondata. Tuttavia, con­ temporaneamente, appare molto più aderente alla materia instans conscientiae - signe  confidentiae - signa  innocentiae  208 9. RETORICA LATINA cui è destinata ad applicarsi e non priva di una logica inter­ na nel suo seguire i segni deli'imputato in un percorso che parte dal momento precedente il crimine e culmina nel pro­ cesso . Cornificio discute anche della forza argomentativa dei se­ gni, quando propone di organizzare in una struttura logica gli argomenti trovati. E, a questo proposito, nota che ci so­ no dei segni che non garantiscono nessuna certezza come a esempio: uoeve aver partorito, poiché porta in braccio un bimbo piccolo", oppure: "Dal momento che è pallido, deve essere ammalato" (Il, 39). Come si può notare, si tratta di segni che corrispondono a quelli in 2a figura di Aristotele: essi non sono sicuri perché, a esempio, il pallore può bensi indicare malattia, ma anche una quantità di altre cose. Quello che è però interessante è che Cornificio non li rifiu­ ta, ma sottolinea un loro valore argomentativo nel caso che compaiano in gran numero ("se però vi si aggiungono an­ che tutti gli altri, tali segni hanno un certo peso per accre­ scere il sospetto", ibidem). 9.2 Cicerone Cicerone affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti della sua produzione teorica: (i) le opere di argomento retorico; (ii) le opere che parlano dei se­ gni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di questo ambi­ to, possiamo osservare che l'interesse per i segni non è ugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De oratore, I'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una problematica a carattere so­ cio-politico, volta a definire la figura deli'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut­ to ciò che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con esso anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tanto trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi:ura come un vasto campo di  9.2 CICERONE 209 competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, le Partitio­ nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunate dalla caratteristica di prendere in considerazio­ ne e di sistematizzare la gran massa delle nozioni che com­ pongono l'apparato tecnico della retorica. Un limite di que­ ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa­ rossismo, come nel De inventione, e che spesso non trova un'adegu�ta giustificazione teoretica. Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare gli spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno. 9.2. 1 Il "De inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di Cicerone e con­ densa l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino a Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro­ vino riprodotti alcuni aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In particolare è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an­ tecedente che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata l'attenzione verso i segni involontari (l'im­ pallidire, l'arrossire, il balbettare dell'imputato) come indi­ zi di colpevolezza. Infine compare la classica divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il fatto crimi­ noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei segni proposta da Cice­ rone è in larga misura diversa da quelle precedenti. Essa ap­ pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar­ gomentazione), cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove per confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere qualche cosa che si esco­ gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in maniera  210 9. RETORICA LATINA probabile (probabiliter ostendens) , o la dimostra in . un mo­ do necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44). Anche se non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è stato trovato (un indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato) rinvia a qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione (già aristotelica) tra una forza argomentativa debole (probabili­ ter ostendens) e un'inferenza necessaria (necessarie demon­ strans) . 9.2 . 1 . 1 Rinvio necessario e non necessario I segni necessari sono così definiti: "Viene dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi né essere pro­ vato diversamente da come viene detto" (ibidem). Ne sono esempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo" (ibidem); "Se respira, è vivo", "Se è giorno, c'è luce" (De inv. , l, 86). Come Cicerone spiega in un altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il conseguente sono legati da una re­ lazione inscindibile (cum priore necessario posterius cohae­ rere videtur, De inv., l. 86). Il rapporto di rinvio non necessario viene poi cosi defini­ to: "Probabile è poi ciò che suole generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" (De inv., l, 46). Con questa definizione Cicerone mette in evidenza due caratteri: (i) quello probabilistico e (ii) quello doxastico; il primo di questi era da Aristotele attribuito peculiarmente all'eikos (verisimile). E infatti i primi due esempi sono di un tipo che Aristotele avrebbe classificato come eikos: "Se è madre, ama suo figlio", "Se è avido, non fa gran caso del giuramento" (De inv., I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di generalizzazio­ ne che per Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet., 1357 a). C'è però un terzo esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio" (De inv. ,  9.2 CICERONE 21 1 I, 47), che non sembra dello stesso tipo, ma è più vicino al s�meion aristotelico. 9.2. 1 .2 L'indizio La categoria di signum, poi, compare come una sottopar­ tizione dei segni non necessari, accanto al credibile (credibi­ le), ali'iudicatum (giudicato) e al comparabile (paragonabi­ le). Se le ultime tre nozioni appaiono distinte in base a crite­ ri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni successive), il signum corrisponde a una categoria di fenomeni abbastan­ za particolare: "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no­ stri sensi e indica (significar) un qualcosa che sembra deri­ vato dal fatto stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più sicura" (De inv. , I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il pallore", "la fuga", "la poivere". Si tratta, come si vede, degli indizi, intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e generalmente non vo­ lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio­ nale; ma niente vieta che vengano sviluppati in proposizio­ ni, come dimostra il caso deli'indizio "polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio". Gli indizi, infine, vengono suddivisi secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso. Possiamo quindi schematizzare la classificazione propo­ sta nel De inventione (cfr. p. 212). 9.2.2 "Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae sono un'opera della tarda matu­ rità di Cicerone, nella quale la classificazione della materia semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al trattato giovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da quella dei modelli greci e viene completa­ mente latinizzata. In secondo luogo gli indizi (qui chiamati  212 9. RETORICA LATINA argumentatio �� necessaria probsbilis (·quod fero solet fiori élut quod in opi­ nione positum est") es.: .. "pallore'", ..polvere" vestigiafactl) non compaiono più come sottopartizione di un'altra categoria, ma assumono un ruolo autonomo. (·ea quae alitar ac discuntur nec fieri nec probari pos­ sunt"l es . : ·se ha partorito, è stata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et quiddam sig nificat , quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue", ·ruga"', Sa è madre, ama suo fi\]lio� � � �--- --- -  l "'·-- signum erodibile indicBtLm comparabile / -- -- Infine viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo­ ghi estrinseci" (corrispondenti alle "prove extratecniche", titechnol) e "luoghi intrinseci'' (corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1), che veniva criticata nel De inventione (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei Topica. È curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle testirnonianze umane, anche quelle "divine": gli oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part. or. , 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una concezione orda­ lica e antichissima deli'amministrazione della giustizia; tut­ tavia è anche un indizio di un continuo riaffiorare del para­ digma divinatorio all'interno dei fatti semiolici, anche quando ormai i segni si sono completamente laicizzati.  9.2 CICERONE 213 Né questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L ,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli dei" (V, 81; Lanza 1979: l05). 9.2.2. 1 Il verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli argomenti intrin­ seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau­ sa congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di segni: i verisimilia (verisimili) e le notaepropriae rerum (segni caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lo più" (Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri­ sponde ali'eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili­ stico e generalizzante. La nnta propria rei viene definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co­ me il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi­ dentemente, del segno necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman­ da alla nozione di fdion s�meion (segno proprio). Per Ari­ stotele il segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva carat­ tere di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si­ gnis, l, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali  214 9. RETORICA LATINA vengono dati questi esempi: "un'arma, macchie di sangue, grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor­ so contraddittorio, tremore [...], gli indizi materiali della premeditazione, le confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive, rivelate" (Pari. or., 39). Cicerone non definisce QUf)tO tipo di segni, se non dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem), caratte­ ristica condivisa anche dai signa del De inventione (l, 48), in cui ricorrono esempi analoghi, e dagli argumenta di Cor­ nificio (Rhet. adHer., II, 8). I commentatori si sono chiesti se i vestigiafacti siano più in relazione con i segni necessari (notae propriae rerum) o con i verisimili (verisimile) (Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi­ che degli ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate­ goria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai tekm�ria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo delle Partitiones oratoriae (1 14), dove ricorrono esempi analoghi, i vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono definiti come consequentia, cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica che definiva appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma mentre Aristotele condannava i s�mefa da un punto di vista episte­ mologico per la loro insicurezza, Cicerone è pronto a rico­ noscerne l'efficacia qualora si presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi schematizzare la classificazione cicero­ niana nelle Partitiones oratoriae (cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla divinazione Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina­ zione. Innanzitutto il fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare alla conoscenza di fatti non direttamente accessibili alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente­ mente congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o  trt•) (·sensu percipi potest•) es . : ·sangue - uccisione· es.: •adolescenza­ inclinazione alla libidine · 9.2 CICERONE 215 coniecturs ---- l ----- verisimilie (•quod plerumque rta notse proprise rerum (•quod numquam alrter frt certumque declarat•) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu­ rali) e prove extratecniche corrisponde la distinzione tra di­ vinazione artificiale (basata sull'interpretazione e sulla con­ gettura) e divinazione naturale. Infine, come Cicerone pole­ micamente rileva (De div. , II, 55), i segni della divinazione sono talvolta interpretati in maniera diametralmente oppo­ sta, proprio come avviene nel processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due interpretazioni di­ verse ed entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i metodi deli'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti della di­ vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di intellet­ tuali della sua epoca, educati ai metodi di indagine della fi­ losofia greca, a fondamento razionalistico, e contempora­ neamente impegnato in politica, sente l'esigenza di operare una distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la divinazione fa, per lui, parte. La religione appartiene alla più antica tradizione romana e, posta come è ai fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione dello stato st��so; la superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi spuri che inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere respinta, anche per­ ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel suo impegno di gestione della repubblica.  216 9. RETORICA LATINA Cicerone affronta questi argomenti nel De natura deo­ rum, nel De fato e, soprattutto, nel De divinatione. Que­ st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni di Cicerone contro la teoria soste­ nuta da Quinto sono particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una concezione generale del segno. 9.2.3. 1 La divinazione "artificiale" Secondo la teoria di Quinto, gli dei si pongono come fon­ te dell'informazione e come emittenti nei processi di comu­ nicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinata­ ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di divinazione, il pro­ cesso comunicativo si struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla divinatio artificialis, in cui l'interpretazione dei segni è legata a un'ars, ovvero a una tecnica professionale di decriptazione, demandata a specia­ listi, ciascuno esperto in un settore: extispices (esaminatori delle viscere), interpretes monstrorum et fu/gurum (inter­ preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures (interpreti del volo degli uccelli), astrologi (interpreti delle stelle), in­ terpretes sortium (interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed estratte a caso). In tale divinazione l'informazione proveniente dalla divinità si materializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica, secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau­ se ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il /6gos divino e costituisce il fato (heimarmén�), non è conoscibile per intero da parte degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola divinità (De div., I, 125-127).  9.2 CICERONE 217 Tuttavia viene prevista l'esistenza di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre quantoprimaèaccaduto"(Dediv.,l, 127).Questofasìche gli uomini, attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo­ do in cui gli eventi si ripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas cernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con­ nessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato sul­ la iteratività. Si può schematizzare così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla iterattività 9.2.3.2 La divinazione "naturale" Il secondo tipo di divinazione è quello definito naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di preveggenza derivan­ ti da invasamento profetico, cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri­ patetiche (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no­ minati, De div. , II, 100), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al corpo, partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo del codice è in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema:     218 9. RETORICA LATINA emittente divino - segno interno - evento futuro .... ricevente umano 9.2.3 .3 Critiche "semiologiche" contro i segni divinatori Le obiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi­ nazione si basano su argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale Cicerone nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente carattere semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se­ gni non siano veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli antecedenti rispetto a dei conse­ guenti. Per distinguere i segni veri rispetto a quelli presunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le tecniche scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica previsionale del contadino e deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi i casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi; ma, mentre le pratiche pro­ fessionali adottano una vera e propria metodologia che comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e congettura (coniectura)" (De div. , II, 14), le prati­ che divinatorie si basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso farà accade­ re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il codice (anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla frequenza statistica) e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip­ pocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes­ sionale dalla divinazione e dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi si sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso della divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata delle coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28).     9.3 QUINTILIANO 219 Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div. , Il, 83); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio­ so, ma a ben diverse cause naturali (De div., II, 62); (iii) l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni ne­ cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div. , II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivata da ra­ gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div., II, 74). 9.3 Quintiliano All'epoca di Quintiliano, la trasformazione del regime politico dalla repubblica all'impero aveva fatto si che la re­ torica divenisse inutilizzabile come mezzo di agitazione po­ litica e sociale: per questo, da strumento pragmatico quale l'aveva essenzialmente concepita Cicerone, era divenuta so­ prattutto materia teorica. In questo quadro Quintiliano è colui che espone i principi dell'arte retorica nella maniera migliore e più completa di chiunque altro e contemporanea­ mente registra il processo di cadaverizzazione che l'elo­ quenza stava subendo. Nella sua Institutio oratoria (ca. 93-95 d.C.) tratta un programma completo del ciclo educativo del perfetto orato­ re, in cui la competenza semiotica ha una posizione di rilie­ vo. Gran parte degli elementi che compongono l'opera di Quintiliano hanno indiscutibilmente una pertinenza semio­ tica; ma nella lnstitutio è presente anche una sezione speci­ ficamente dedicata ai segni, come era ormai consuetudine per ogni trattato di retorica. Vaie anche nel caso di Quintiliano la considerazione fatta a proposito degli altri trattatisti di retorica, e cioè che la ri­ flessione sul segno è saldamente inquadrata all'interno del­ l'ottica giuridica con cui viene trattata la materia. I segni in­ fatti fanno parte delle probationes artificiales, cioè delle  220 9. RETORICA LA... INA prove che l'abilità (ars) dell'oratore saprà trovare per far assolvere o condannare un imputato. D'altro canto, le pro­ bationes inartificiales sono quegli elementi che derivano dali'esterno del processo e vengono consegnati ali'oratore insieme al suo dossier. Il seguente schema ne mostra l'inventario completo: 9.3. 1 Orientamento della retorica di Quintiliano probstiones (prove)  i n a rt i f i c/i a l tJ s praejudicia (pregiudizi) rumores (voce pubblica) tormenta , quaesita ( inter­ rogatorio sotto tortura) tabulae (scritture, atti, contratti ecc.) jusjursndum (giuramento) testimonia (testimonianze) a rt i f i c i s l e s  formale Va pure detto che la retorica di Quintiliano, accanto a un orientamento giuridico, ne presenta anche uno fortemente teorico, che tende a inquadrare la materia il più possibile in termini logici e formali (anche se è stato rilevato che Quinti­ liano non si trova del tutto a suo agio in questo campo) (Kennedy 1969). Così tutti e tre i tipi di prove tecniche (signa, argumenta, exempla) vengono inquadrati in un reticolo di relazioni lo­ giche vicine al genere deli'implicazione, ovvero del rappor­ to "se p, allora q". Infatti il meccanismo di avvaloramento signum (segno, prova di fatto) argumentum (prova di ragionamento) exemplum (esempio) ed epistemologico  9.3 QUINTlIANO 221 delle prove deve assumere una forma logica che coincide con uno dei seguenti quattro tipi: (i) il concludere dalPesse­ re una cosa che un'altra non sia (p-+ - q) ("È giorno, dun­ que non è notte"); (ii) il concludere dall'essere una cosa che un,altra sia (p-+q) (''Il sole splende sulla terra, dunque è giorno"); (iii) il concludere dal non essere qualcosa che qualcos'altro sia ( -p-+q) (''Non è notte, quindi è giorno"); (iv) il concludere dal non essere qualcosa che un'altra sia ( -p-+ - q) ("Non è un essere razionale, quindi non è un uomo") (lnst. or. , V, 8, 7). Analizzati ali'interno di questa griglia, i segni tendono a configurarsi come degli antecedenti rispetto a dei conse­ guenti; nozione, questa, che Quintiliano non ha bisogno nemmeno di rendere esplicita, in quanto attinta direttamen­ te dalla tradizione della retorica e della logica greca. Dallo stesso ambito, del resto, verranno attinti anche molti esem­ pi, tra cui l'ormai celebre "Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo", che, più o meno variato, ritorna in tutti i trattatisti del segno. Come Aristotele, a cui fa costante riferimento, Quintilia­ no è orientato verso un'ottica epistemologica, piuttosto che di calcolo logico: ciò che lo interessa è soprattutto la possi­ bilità di acquisire una conoscenza a partire da un segno. Scrive Eco (1984: 38) a questo proposito: "Aristotele, inte­ ressato ad argomentazioni che in qualche modo rendessero ragione dei legami di necessità che reggono i fatti, poneva distinzioni di forza epistemologica tra segni necessari e se­ gni deboli. Gli stoici, interessati a puri meccanismi formali dell'inferenza, evitano il problema. Sarà Quintiliano, inte­ ressato alle reazioni di un'udienza forense, a cercare di giu­ stificare, secondo una gerarchia di validità epistemologica, ogni tipo di segno che in qualche misura risulti 'persua­ sivo' ". A proposito del carattere persuasivo dei signa, Quintilia­ no fa una precisazione preliminare: i signa hanno molto in comune con le prove extratecniche, in quanto, a esempio, una veste insanguinata, le grida o i livori non vengono esco­ gitati dali'arte deli'oratore, ma gli vengono consegnati nel dossier. Inoltre, se e�si rimandano a un significato inequi-  222 9. RETORICA LATINA vocabile, scompare la possibilità di argomentazione; se, in­ vece, essi sono ambigui, non sono delle prove ma necessita­ no essi stessi di prove (lnst. or., V, 9, l). Per questa ragione i segni devono essere divisi innanzitut­ to in necessari e non necessari. 9 . 3 . 2 I segni necessari l signa necessaria sono quelli che, come dice Quintiliano, "aliter se habere non possunt" (lnst. or. , V, 9, 3), cioè sono degli antecedenti che rimandano in maniera necessaria a dei conseguenti, e vengono messi in corrispondenza con i tekm�ria della tradizione greca. Si tratta di segni insolubili (alyta s�mefa), ovvero legati inscindibilmente ai conseguen­ ti. L'informazione che se ne ricava è sicura e incontroverti­ bile . La furia classificatoria, tipica del mondo antico, porta inoltre Quintiliano a sottoclassificare questo tipo di segni in base al fatto che i loro conseguenti siano individuabili nel tempo passato ("Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo"), nel presente (''Se soffia un forte vento sul ma­ re, si formano su di esso le onde"), nel futuro ("Se uno è stato ferito al cuore, morirà") (lnst. or., V, 9, 5). Questi segni vengono, poi, sottoposti anche a un altro ti­ po di classificazione basata sul criterio di reversibilità dei termini: ci sono relazioni segniche, come "Se vive, respira", che mantengono la relazione di necessità anche invertendo antecedente e conseguente: "Se respira, allora vive"; ma vi sono anche relazioni segniche in cui la reversibilità non è possibile, come in "Se cammina, si muove", "Se ha partori­ to, si è unita con un uomo", "Se è ferito al cuore, morirà", "Se si è raccolta la messe, si è seminato", "Se è stato ferito dalla spada, ha una cicatrice" (lnst. or. , V, 9, 7). Quintilia­ no sembra sollevare qui il problema della "conversazione" (antistréphein), che per Aristotele (An. Pr. , 70 b, 32 e sgg.) è condizione del segno proprio, cioè dell'"esserci un unico segno di un'unica cosa".  9. 3 QUINTllANO 9.3.3 I segni non necessari 223 I signa non necessaria, che Quintiliano mette in corri­ spondenza con gli eik6ta greci, sono le verisimiglianze, cioè quei fatti su cui vi è comunemente accordo, quelli che, se­ condo Eco (1984: 40), potendo essere altrettanto convincen­ ti di un segno necessario, dipendono dai codici e dalle sce­ neggiature che una certa comunità registra come "buone". Quintiliano ne distingue tre tipi fondamentali, in base al­ l'intensità del legame che si stabilisce fra antecedente e con­ seguente: firmissimum (sicurissimo), corrispondente alla norma statistica, come "Se sono genitori, amano i propri fi­ gli"; propensius (molto probabile), come "Se uno sta bene in salute, allora giungerà fino al giorno successivo"; non re­ pugnans (non contraddittorio), cioè non contrastante con il senso comune, come "Se c'è stato un furto dentro la casa, allora è stato fatto da chi era in casa". Nessuna di queste inferenze presenta un grado di certezza accettabile. Ma nell'ottica del discorso persuasivo esse pos­ sono essere molto efficaci, soprattutto nel caso che si pre­ sentino in gran numero avvalorandosi a vicenda (lnst. or. , V, 9, 8), poiché ricostruiscono una tessitura isomorfa a quella dell'opinione pubblica. 9.3.4 Gli indizi materiali Nel contesto dei signa non necessaria (lnst. or., V, 9, 8) Quintiliano parla del signum senza altra determinazione (messo in corrispondenza sia con indicium e vestigium, sia con il greco s�meion). Non si capisce bene se esso venga considerato una categoria autonoma rispetto alle due prece­ denti (segni necessari e verisimiglianze), come del resto av­ veniva nella fonte aristotelica, o se Quintiliano consideri analoghi eik6ta e s�meia. Nella seconda ipotesi si potrebbe parlare di un vero e proprio errore di Quintiliano, come fa Cousin (1936). Tuttavia il fatto che consideri un sinonimo l'espressione vestigium e ricorra all'esempio del sangue che permette di scoprire l'uccisione, spinge a stabilire un paral-  224 9. RETORICA LATINA lelo con i vestigia facti delle Partitiones oratoriae (39) cice­ roniane, dove compariva lo stesso esempio. Si tratterebbe, in definitiva, della abituale categoria degli indizi materiali (lividi., enfiagioni, ferite ecc.) (lnst. or., V, 9, I l) percepibili sensorialmente. Quintiliano li definisce come quelli "attraverso cui si comprende un'altra cosa, (per quod alia res inte/ligitur, V, 9, 9), sottolineando che con essi si stabilisce un rapporto di significazione, che parte da un sensibile per arrivare a qualcos'altro. Nella precedente categoria (quella dci signa non necessa­ ria == eik6ta) venivano classificati fatti o proprictfi che forni­ vano un'informazione non sicura, perché non convalidabile dal punto di vista sciePtifico (se uno sta bene oggi, non è scient((ica1nente sicuro che arriverà a domani); nella cate­ goria dei signa sono classificati fatti che sono insicuri per­ ché ambigui (una macchia di sangue su una veste può ri­ mandare tanto bene a un omicidio, come a una epistassi o allo schizzare del sangue di una vitti1na durante un sacrifi­ cio). La classificazione, allora, dovrebbe essere così formu­ lata: necessaria relazione necessaria tra a'ltecadente e cons&guento es.: "Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo· l ------- signa  non nec�ssaria verisimiglianze non conva!idabili scienti­ ficamente es.: "Se uno sta bene in salute, giungerà fino al g iorno successivo" signa indizi materiali ambigui es.: ..Se macchia di sangue, allora omi­ cidio, o epistassi, o sacrificio· Questo spiega anche come mai Quintiliano chiami signa non necessaria dei casi chiari di verisimiglianza (e non si­ gna), come gli esempi che egli riprende da Ermagora e che  9.3 QUINTILIANO 225 critica: "Tra le cose che sono segni, ma non necessari, Er­ magora ritiene questo, che non sia vergine Atalanta perché vaga nei boschi con i giovani" (lnst. or., V, 9, 12). Quinti­ liano ha una certa riluttanza a considerare questo e altri esempi di verisimiglianze molto deboli come elementi pro­ banti in un processo: "Ma se accoglieremo questo come se­ gno, temo che si ritengano come segni tutte le conseguenze che si traggono da un fatto". Tuttavia, egli aggiunge, "essi si trattano allo stesso modo dei segni" (ibidem). Quella che viene descritta è la condizione tipica della semiotica giuridi­ ca, in perenne dialettica tra la forza oggettivamente proba­ toria degli argomenti e l'abilità dell'avvocato di fare un uso persuasivo anche di segni debolissimi. Naturalmente, in un'ottica semiotica generale, non c'è al­ cun problema a considerare come segni "tutte le conseguen­ ze che si traggono da un fatto". Le proprietà che l'enciclo­ pedia registra a proposito di un certo oggetto o fatto sono tutte, a buon diritto, dei segni di questo oggetto o di questo fatto. Saranno poi le relazioni circostanziali e contestuali a garantire le differenze nella forza probatoria: una pis.tola può essere segno di un delitto, ma diversi sono i casi in cui essa venga rinvenuta in casa di un presunto terrorista, di un poliziotto, di un armaiolo (Eco 1984: 39). E forse questo era stato oscuramente intuito dalla retori­ ca antica, già da Aristotele, ma ancor più da Quintiliano, i quali, da una parte ponevano una distinzione netta tra "cer­ tezza scientifica" e "certezza legata ai codici socio-cultura­ li", ma, dall'altra, utilizzavano entrambe, caso mai racco­ mandando, nel secondo caso, l'assunzione congiunta di più prove che si rafforzassero a vicenda. AGOSTINO 10.0 Unificazione delle teorie del segno e del lin­ guaggio Con Agostino si opera, per la prima volta e in maniera esplicita, una completa saldatura fra la teoria del segno e quella del linguaggio. Per trovare una altrettanto rigorosa presa di posizione teorica bisogna aspettare il Corso di lin­ guistica generale di Saussure, scritto quindici secoli dopo. La grande importanza che la tematica semiolinguistica ha in Agostino deriva in gran parte dal suo assorbimento della lezione stoica, come del resto testimonia il trattato giovanile De dialectica (387 d.C.): in esso sono riassunti molti dei principali temi stoici in materia semiotica, tra cui il princi­ pio che la conoscenza è, in linea generale, conoscenza attra­ verso segni (Simone 1969: 95). Ma vari elementi differenziano l'impostazione agostinia­ na da quella stoica. In primo luogo, infatti, gli stoici, racco­ gliendo e formalizzando una lunga tradizione di origine so­ prattutto medica e mantica, consideravano propriamente segni (s�meia) solo i segni non verbali, come il fumo che svela il fuoco e la cicatrice che rinvia a una precedente feri­ ta. Agostino, invece, per primo nell'antichità, include nella categoria dei signa non solo i segni non verbali come i gesti, le insegne militari, le fanfare, la pantomima ecc., ma anche le espressioni del linguaggio parlato (''Noi diciamo in gene­ rale segno tutto ciò che significa qualche cosa, e fra questi abbiamo anche le parole", De Magistro, 4.9).  10. 1 STRATIFICAZIONE TERMINOLOGICA 227 In secondo luogo, gli stoici avevano individuato nell'e­ nunciato il punto di congiunzione tra il significante (semaf­ non) e il significato (semain6menon), elemento che comun­ que non coincideva con il segno (semefon). Agostino, inve­ ce, individua nella singola espressione linguistica, cioè nel verbum (''parola"), l'elemento in cui significante e signifi­ cato si fondono, e considera questa fusione un segno di qualcos'altro ("Quindi, dopo aver sufficientemente assoda­ to che le parole [verba] non sono nient'altro che segni [si­ gna] e che non può essere segno ciò che non significhi [si­ gniflcet] qualcosa, tu hai proposto un verso di cui io mi sforzassi di mostrare che cosa significhino le singole paro­ le", De Mag., 7.19). In terzo luogo, gli stoici avevano elaborato una teoria del linguaggio che aveva le due caratteristiche di essere formale (il lekt6n non coincideva con alcuna sostanza) e centrata sulla significazione. Agostino, invece, elabora una teoria del segno linguistico che ha un carattere psicologistico (i si­ gnificati si trovano nell'animo) e comunicazionale (passano nell'animo dell'ascoltatore) (Todorov 1977: 35; Markus 1957: 72). 10.1 n triangolo semiotico e la stratificazione ter­ minologie& È del resto con l'analisi della nozione stessa di parola (verbum simplex) che si apre il De dia/ectica ed è con questa nozione che si inaugura una serie interessante di distinzioni terminologiche. Al capitolo V, Agostino elabora una triplice distinzione che possiamo mettere in corrispondenza con i moderni con­ cetti di significato, significante e referente. Infatti individua in primo luogo la vox articu/ata (o il sonus) della parola, cioè quello che è percepito dali'orecchio quando la parola viene pronunciata. In secondo luogo individua il dicibi/e1 (corrispondente, anche dal punto di vista della trasposizio­ ne linguistica, al /ekt6n stoico), definito come ciò che viene avvertito dall'animo e che è in esso contenuto. In terzo luo-  228 10. AGOSTINO go, infine, distingue la res, che viene definita come un og­ getto qualsiasi, percepibile con i sensi, o con l'intelletto, op­ pure che sfugge alla percezione (De dialect. , cap. V). È così possibile ricostruire il triangolo semiotico nei se­ guenti termini: dicibile  vox articulata (o sonus) res Ma Agostino guarda ai segni anche dal punto di vista del loro potere di designazione, oltre che da quello della signifi­ cazione. Questo lo spinge a elaborare un'ulteriore suddivi­ sione terminologica in corrispondenza dei due aspetti che può assumere il referente di una parola: (i) può infatti avve­ nire che la parola rimandi a se stessa come proprio referente (fatto che si verifica nel caso della citazione, ovvero della designazione metalinguistica), e allora prende il nome di verbum;2 (ii) oppure può avvenire che la parola, intesa co­ me combinazione del significante e del significato, abbia come referente una cosa diversa da se stessa (come avviene con l'uso denotativo del linguaggio), nel qual caso prende il nome di dictio.3 È precisamente la nozione di dictio che, come ha osserva­ to Baratin ( 198 1 ), costituisce l'elemento di congiunzione tra la teoria del linguaggio e quella del segno. E ciò in virtù di uno sfasamento semantico che la nozione stoica di léxis (si­ gnificante articolato, ma senza essere necessariamente por­ tatore di significato) ha subìto nel corso degli studi lingui­ stici antichi.  10.2 RELAZIONE D'EQUIVALENZA E D'IMPLICAZIONE 229 Dictio è traduzione di léxis; ma non ha lo stesso significa­ to che le attribuivano gli stoici, bensì quello che le davano i grammatici alessandrini, in particolare Dionisio Trace, che definiva la léxis come "la più piccola parte dell'enunciato costruito" (Grammatici graeci, l , l , 22, 4), a metà strada tra le lettere e le sillabe, da una parte, e l'enunciato, dall'al­ tra. Questa sua particolare posizione fa sì che la léxis venga considerata come portatrice di un significato (in contrappo­ sizione alle lettere e alle sillabe che non lo posseggono), ma incompleto (in opposizione all'enunciato che porta un sen­ so completo). Lo spostamento di fuoco dalla centralità stoica dell'e­ nunciato alla centralità alessandrina della singola parola, fa sì che quest'ultima assuma al(\une delle funzioni prima spet­ tanti solo all'enunciato. In particolare, quella di essere un segno.4 Agostino definisce decisamente la parola come un segno al cap. V del De dialectica: "La parola è, per ciascuna cosa, un segno che, enunciato dal locutore, può essere compreso dall'ascoltatore". E, del resto, il segno viene definito come "ciò che presentandosi in quanto tale alla percezione sensi­ bile, presenta anche qualche cosa alla percezione intellet­ tuale (animus)" (ibidem). 10.2 Relazione di equivalenza e relazione di im­ plicazione Ponendo l'accento sulla parola, anziché sull'enunciato, Agostino ritrova l'opposizione platonica tra parole e cose. Incontro non casuale, in quanto Platone è l'unico, prima di Agostino, ad avere una concezione semiotica del linguag­ gio; per Platone, infatti, il nome era d�/Oma, svelamento di qualcosa che non è direttamente percepibile, ovvero dell'es­ senza della cosa. Ma mentre nel Crati/o platonico si discute se il rapporto tra nome e cosa sia un rapporto iconico (pe­ raltro con la soluzione che conosciamo, cfr. cap. 4), in Agostino tale rapporto ��- configura subito come una rela­ zione di significazione: il nomt "significa" una cosa (nozio-  230 10. AGOSTINO ne equivalente a quella di "essere segno di" una cosa). Nel momento in cui Agostino propone la sua concezione della parola come segno, si producono alcune modificazio­ ni teoriche, conseguenti allo spostamento di prospettiva. In effetti nelle teorie linguistiche precedenti a quella di Agosti­ no il rapporto tra le espressioni linguistiche e i loro conte­ nuti era stato concepito come una relazione di equivalenza. La ragione, come noto, era di carattere epistemologico e ri­ guardava la possibilità di lavorare direttamente sul linguag­ gio, in sostituzione degli oggetti della realtà, dato che il lin­ guaggio veniva concepito come un sistema di rappresenta­ zione del reale (per quanto mediato dall'anima). Al contrario, il rapporto tra un segno e ciò a cui esso rin­ via era stato concepito come una relazione di implicazione, per cui il primo termine permetteva, per lo stesso fatto di esistere, di arrivare alla conoscenza del secondo. Eco (1984: 33) ha suggerito che, nell'enunciato stoico, i rapporti tra la relazione segnica e quella linguistica possono essere illustra­ ti da uno schema in cui il livello implicazionale si regge su quello equazionale:  onIE=>c __________________ m_E:! c dove E indica "espressione", C "contenuto", ::J "implica" e == "è equivalente a". In Agostino l'unificazione tra le due prospettive avviene a livello della singola parola e senza chiamare in causa rapporti di equivalenza. Caso mai la dic­ tio, che è rappresentabile con il livello i, è costituita dali'u­ nione, o prodotto logico, di una vox (significante) e di un dicibile (significato), unità che diviene segno di qualcos'al­ tro (livello ii).   10.3 UNmCAZIONE DELLE PROSPETI 231 10.3 Conseguenze dell'unificazione delle prospet­ tive La prima conseguenza dell'unificazione agostiniana, co­ me sottolinea Eco (1984: 33), è che la lingua comincia a tro­ varsi a disagio all'interno del quadro implicativo. Essa in­ fatti costituisce un sistema troppo forte e troppo strutturato per sottomettersi a una teoria dei segni nata per descrivere rapporti così elusivi e generici, come quelli che si ritrovano, a esempio, nelle classificazioni della retorica greca e roma­ na. Infatti l'implicazione semiotica era aperta alla possibili­ tà di percorrere l'intero continuum dei rapporti di necessità e di debolezza. Inoltre la lingua, come del resto Agostino mette in risalto nel De Magistro, possiede un carattere peculiare rispetto agli altri sistemi di segni, corrispondente al fatto di essere un "sistema modellizzante primario",5 cioè tale che qualun­ que altro sistema semiotico può essere tradotto in esso. La forza e l'importanza della lingua fanno sì che i rapporti con gli altri sistemi di segni si rovescino, e che essa, da specie, divenga genere: a poco a poco, il modello del segno lingui­ stico finirà per essere senz'altro il modello semiotico per ec­ cellenza. Ma quando il processo evolutivo arriva a Saussure, che ne rappresenta il punto culminante, si è ormai venuto a per­ dere il carattere implicativo, e il segno linguistico si è cri­ stallizzato nella forma degradata del modello dizionariale, in cui il rapporto tra la parola e il suo contenuto è concepito come situazione sinonimica o definizione essenziale. La seconda importante conseguenza dell'innovazione agostiniana riguarda il problema della fondazione della dia­ lettica e della scienza (Baratin 1 98 1 : 266 e sgg.). Fintanto­ ché il rapporto tra linguaggio e oggetto del reale era conce­ pito nei termini dell'equivalenza, il primo non appariva di­ rettamente responsabile della conoscenza del secondo. Ma nel momento in cui si attribuisce un carattere di segno alle espressioni linguistiche, la conoscenza delle parole sembra implicare, di per se stessa, e a priori, la conoscenza delle co­ se di cui esse sono segno. Tutta la grande tradizione sernio-  232 10. AGOSTINO tica, del resto, convergeva nel considerare il segno come il punto di accesso, senza ulteriori mediazioni, alla conoscen­ za dell'oggetto di riferimento. Il problema che si pone ad Agostino è allora quello di prendere una posizione rispetto alla questione se il linguag­ gio fornisca o meno , di per se stesso , informazioni sulle co­ se che significa. 10.4 Linguaggio e informazione Agostino affronta la questione del carattere informativo dei segni linguistici nel De Magistro (389 d.C.). L'opera, in forma di dialogo tra Agostino e il figlio Adeodato, inizia stabilendo due fondamentali funzioni del linguaggio: (i) in· segnare (docere) e (ii) richiamare alla memoria (commemo­ rare), sia propria sia degli altri. Si tratta di funzioni con­ temporaneamente informative e comunicative, in quanto coinvolgono in maniera centrale la presenza del destinatario nel momento in cui forniscono informazione. La prima parte del dialogo è tesa a dimostrare che queste funzioni, principalmente quella informativa, sono svolte dal linguaggio in quanto sistema di segni. Sono le parole, infatti, che, in qualità di segni, danno informazione sulle cose, senza che nient'altro possa assolvere alla medesima funzione. Nella seconda parte del dialogo, però, Agostino ritorna sull'argomento e cambia completamente la sua prospettiva. Fondandosi ancora una volta sul fatto che la lingua è un in­ sieme di segni, egli mostra che si possono presentare due ca­ si: (i) il primo caso è quello in cui il locutore produce un se­ gno che si riferisce a una cosa sconosciuta al destinatario; in tale situazione il segno non è in grado, di per se stesso, di fornire informazione, come dimostra l'esempio, riportato da Agostino, dell'espressione saraballae, la quale, se non precedentemente nota, non permetterà di comprendere il ri­ ferimento ai "copricapr', che essa effettua; (ii) il secondo caso è quello in cui il locutore produce un segno che si rife­ risce a qualcosa che è già noto al destinatario; e nemmeno  10.5 COMUNICAZIONE DEL VERBO INTERIORE 233 in questa evenienza si potrà parlare di un vero e proprio processo di conoscenza (De Mag. , 10.33). Alla fine Agostino conclude invertendo il rapporto cono­ scitivo tra segno e oggetto, e stabilendo che è necessario co­ noscere preliminarmente l'oggetto di riferimento per poter dire che una parola ne è un segno. È la conoscenza della co­ sa che informa sulla presenza del segno e non viceversa. La soluzione ha una ascendenza chiaramente platonica, e a es­ sa si collega anche la presa di posizione, di marca ugual­ mente platonica, che la conoscenza delle cose deve essere pregiata maggiormente della conoscenza dei segni, perché "qualunque cosa sta per un'altra, è necessario che valga meno di quella per cui essa sta" (De Mag., 9.25). Ma se per le cose sensibili (sensibilia) sono gli oggetti esterni che ci permettono di arrivare alla conoscenza, non altrettanto avviene nel caso delle cose puramente intelligibi­ li (intelligibilia). Per queste ultime Agostino individua una soluzione "teologica": la loro conoscenza deriva dalla rive­ lazione che viene fatta dal Maestro interiore, il quale è ga­ ranzia tanto deli'informazione quanto della verità (De Mag., 12.39). Ma anche con questa soluzione "teologica" del problema linguistico, al linguaggio è lasciato uno spazio, che in parte coincide con la funzione del segno rammemorativo, ma in parte la supera: quando conosciamo già l'oggetto di riferi­ mento, le parole ci ricordano l'informazione; quando non lo conosciamo , ci spingono a cercare (De Mag. , 1 1 . 36) . 10.5 Espressione e comunicazione del verbo inte­ riore In Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia per uscire da un'impasse teorica. Al contrario, essa mette capo a nuove problematiche. È nel De Trinitate (415) che viene affrontato il tema dell'espressione del verbo interiore, una volta che sia stato concepito nella profondità dell'ani­ mo. In effetti, per poter comunicare con gli altri, gli uomini si servono della parola o di un segno sensibile, per poter  234 10. AGOSTINO provocare nell'anima dell'interlocutore un verbo simile a quello che si trova nel loro animo mentre parlano (De Trin., IX, VII, 12). D'altra parte Agostino sottolinea la natura prelinguistica del verbo interiore, il quale non appartiene a nessuna delle lingue naturali, ma deve essere codificato in un segno quan­ do ha bisogno di essere espresso e portato alla comprensio­ ne dei destinatari. Il verbo interiore ha, del resto, una duplice origine: da una parte esso costituisce una conoscenza immanente, la cui sorgente è Dio stesso; dall'altra esso è determinato dalle im­ pronte lasciate neli'anima dagli oggetti di conoscenza. Ma anche in questo secondo caso esso è riconducibile a Dio, in quanto il mondo è il linguaggio attraverso il quale Dio si esprime. Si trovano qui gli embrioni del simbolismo univer­ sale, che tanta parte avrà nella cultura del Medioevo. Quello che comunque emerge con sempre maggiore chia­ rezza è il carattere comunicativo della semiologia agostinia­ na, che è individuabile anche nello schema riassuntivo pro­ posto da Todorov (1977: 42): oggetti di conoscenza potenza !Immanente verbo verbo verbo divina interiore - esteriore - esteriore pensato proferito sa pere �   10.6 Le classificazioni È comunque innegabile, come sottolinea Simone (1969: 96 n. 2), che se la semiologia agostiniana presenta un aspet­ to "teologico", connesso al problema del verbo divino, tut­ tavia possiede anche un ben individuato e autonomo aspet­ to laico, che prende in considerazione i caratteri che il segno ha di per se stesso. Fanno parte di quest'ultimo aspetto le varie classificazioni dei segni, alle quali Agostino si dedica soprattutto nel trattato De doctrina Christiana (397 d.C.,  l . 2. 3. 4. 5. secondo il modo di trasmissione: vista/udito secondo l'origine e l'uso: segni naturali/segni intenzio­ nali secondo lo statuto sociale: segni naturali/segni conven­ zionali secondo la natura del rapporto simbolico: proprio/tra­ slato secondo la natura del designato: segno/cosa 10.6 LE CLASSffiCAZIONI 235 con aggiunte più tarde), ma che ritorna anche in varie altre opere . Todorov (1977: 43 e sgg.) individua e analizza cinque tipi di classificazione a cui Agostino sottopone la nozione di se­ gno : Todorov lamenta il fatto che Agostino giustappone quel­ lo che in realtà avrebbe potuto articolare, in quanto gene­ ralmente queste opposizioni sono tra di loro irrelate. Questo non è però del tutto vero, perché (soprattutto nel De Magistro) c'è un tentativo di dare una classificazione combinata di alcuni aspetti del segno. A questo proposito è possibile ricostruire tale classifica­ zione ordinandola secondo uno schema arboriforme (Ber­ nardelli 1987), secondo il modello dell'albero di Porfirio (Eco 1984: 91 e sgg.); cfr. p. 236. La classificazione di Agostino non è totalmente a inclu­ sione, come tende a essere quella porfiriana; e si può osser­ vare che se venissero sviluppati i rami collaterali, si vedreb­ bero comparire, una seconda volta, alcune categorie elenca­ te sotto il ramo principale. Tuttavia è Agostino stesso a metterei sulla strada di una classificazione inclusiva da ge­ nere a specie quando definisce la relazione tra nome e paro­ la come "la stessa che c'è tra cavallo e animale" e includen­ do la categoria delle parole in quella più ampia dei segni (DeMag., 4.9).  genen· e specie AES SEGNO PAROLA NOME ------ segno udibile di cose (funzione denotativa) res sensibili (Romulus, Roma, fluvius) differenze significanti qualcosa verbale (voce articolata) differenze  ( s i g n i fi c s b i l i s l non significanti     nome in senso particolare non verbale (gesti. insegne, lettere, tromba militare ecc.) altra parte del discorso (si, ve/, ex, nsmque, neve, ergo, quonism ecc.) segno udibile di segni udibili (funzione metalinguistìca) res intelligibili ( virtus)   SIGNIFICANTE delle .. AES"    10.6 LE CLASSIFICAZIONI 237 10.6. 1 "Res" e "signa" La prima relazione interessante è quella tra res e signa. Per quanto il mondo sostanziahnente venga diviso in cose e segni, tuttavia, Agostino non concepisce tale distinzione co­ me ontologica, bensì come funzionale e relativa. Infatti anche i segni sono delle res e l'uomo è libero di as­ sumere come segno una res che fino a quel momento era sprovvista di quella dignità. Anzi, la stessa nozione di res viene definita in termini rigorosamente semiologici (Simone 1969: 105): "In senso proprio ho chiamato cose (res) quegli oggetti che non sono impiegati per essere segni di qualche cosa: per esempio i� legno, la pietra, il bestiame" (De doctr. Christ. , I, Il, 2). Ma, immediatamente dopo, cosciente del­ la pervasività dei processi di semiosi, aggiunge: "Ma non quel legno che, leggiamo, Mosè gettò nelle acque amare per dissipare la loro amarezza (Esodo, XV, 25); né quella pietra sulla quale Giacobbe riposò la sua testa (Gen., XXVIII, I l); né quella pecora che Abramo immolò al posto di suo figlio (id., XXII, 13)". L'articolazione che esiste tra segni e cose è analoga a quella dei due processi essenziali: usare (ut1) e godere (jrul) (De doctr. Christ. , l, IV, 4). Le cose di cui si usa sono tran­ sitive, come i segni, che sono strumenti per giungere a qual­ cos'altro; le cose di cui si gode sono intransitive, cioè sono prese in considerazione per se stesse (Todorov 1977: 39). Nel De Magistro (4.8) Agostino propone anche un nome per le cose che non sono usate come segni, ma sono signifi­ cate attraverso segni: significabilia. Niente toglie che in un secondo momento anche quest'ultime possano essere assun­ te con funzione significante. Dopo aver così articolato i rapporti tra segni e cose, Ago­ stino propone questa definizione di segno nel De doctrina Christiana (Il, l, 1): "Il segno è una cosa (res) che, al di là dell'impressione che produce sui sensi, di per se stessa, fa venire in mente (in cogitationem) qualcos'altro".  238 10. AGOSTINO 10.6.2 Segni verbali e non verbali Nel nostro albero porfiriano abbiamo deciso di ricostrui­ re la principale suddivisione agostiniana dei segni secondo la dicotomia verbale/non verbale, anche se altre opzioni, ugualmente esplicite nei testi di Agostino, erano disponibili. Questa decisione è autorizzata da un passo del De doctrina Christiana (Il, IV, 4) in cui, a conclusione di un'analisi dei vari tipi di segni, Agostino sostiene: "Infatti di tutti quei se­ gni, di cui ho brevemente abbozzato la tipologia, ho potuto parlare attraverso le parole; ma le parole in nessun modo avrei potuto enunciarle attraverso quei segni". Viene esplicitamente fatto riferimento al carattere, tipico del linguaggio verbale, di essere un sistema modellizzante primario, e tale carattere viene assunto come criterio della divisione fondamentale dei segni. I0.6.3 Segni classificati in base al canale di perce­ zione Una classificazione incrociata rispetto alla precedente è quella effettuata in base al canale di percezione. Agostino infatti sostiene che "tra i segni di cui gli uomini si servono per comunicare tra di loro ciò che provano, certi dipendono dalla vista, la maggior parte dali'udito, pochissimi dagli al­ tri sensi" (De doctr. Christ., Il, III, 4). Tra i segni che vengono percepiti con l'udito ci sono quel­ li, fondamentalmente estetici, emessi dagli strumenti musi­ cali, come il flauto e la cetra, o anche quelli essenzialmente comunicativi emessi dalla tromba militare. Naturalmente, ritroviamo tra i segni percepìbili con l'udito, in una posizio­ ne dominante, anche le parole: "Le parole, in effetti, hanno ottenuto tra gli uomini il primissimo posto per l'espressione dei pensieri di ogni genere, che ciascuno di essi vuole ester­ nare" (Dedoctr. Christ., II, III, 4). Tra i segni percepibili con la vista Agostino elenca i cenni della testa, i gesti, i movimenti corporei degli attori, le ban­ diere e le insegne militari, le lettere.   10.6 LE CLASSIFICAZIONI 239 Infine vengono presi in considerazione i segni che riguar­ dano altri sensi, come l'odorato (l'odore dell'unguento sparso sui piedi di Cristo), il gusto (il sacramento dell'euca­ ristia), il tatto (il gesto della donna che toccò la veste di Cri­ sto e fu guarita). 10.6.4 "Signa naturalia" e "signa data" Sicuramente fondamentale, anche se non direttamente integrabile al nostro albero inclusivo, risulta lo schema di classificazione che oppone i signa naturalia ai signa data. I primi sono "quelli che senza intenzione, né desiderio di si­ gnificare, fanno conoscere qualcos'altro, oltre a se stessi, come il fumo significa il fuoco" (De doctr. Christ. , II, I, 2). Ne sono esempi anche le tracce lasciate da un animale e le espressioni facciali che rivelano, inintenzionalmente, irrita­ zione o gioia . Dopo averli definiti , Agostino dichiara di non volerli trattare ulteriormente. È invece maggiormente interessato ai signa data, in quan­ to a questa categoria appartengono anche i segni della Sa­ cra Scrittura. Essi vengono definiti come "quelli che tutti gli esseri viventi si fanno, gli uni agli altri, per mostrare, per quanto possono, i movimenti della loro anima, cioè tutto ciò che essi sentono e pensano" (De doctr. Christ. , II, II, 3). Gli esempi sono soprattutto i segni linguistici umani (le pa­ role) . Ma Agostino, curiosamente, include in questa classe an­ che i segni emessi dagli animali, come quelli che si hanno quando il gallo segnala alla gallina di aver trovato il cibo (ibidem). Questo crea una marcata differenza rispetto ad Aristotele, che include i gridi degli animali tra i segni natu­ rali (De int., 16 a). Ma Aristotele opponeva "naturale" a "convenzionale", mentre i signa data non sono i "segni convenzionali", come Markus (1957: 75) aveva suggerito (e come del resto era sta­ to proposto dalla traduzione francese di G. Combès e J. Farges). I signa data sono i "segni intenzionali" (Engels 1962: 367; Darrel Jackson 1969: 14), e corrispondono a 1:1na  240 10. AGOSTINO ben precisa intenzione comunicativa (De doctr. Christ. , Il , III, 4). È del resto il carattere intenzionale che permette ad Agostino di includere tra i signa data quelli emessi dagli animali, anche se egli non si pronuncia sulla natura di que­ sta intenzionalità animale (Eco 1987: 78). Del resto, come nota Todorov (1977: 46), porre l'accento sull'idea di intenzione corrisponde al progetto semiologico generale di Agostino, orientato verso la comunicazione. I segni intenzionali, o meglio, creati espressamente in vista della comunicazione, possono essere messi in corrisponden­ za del syrnbolon di Aristotele e della combinazione stoica di un significante con un significato; quelli naturali, ovvero già esistenti come cose, corrispondono invece ai s�meia, sia aristotelici che stoici. 10.7 Semiosi illimitata a modello "istruzionale" Uno dei punti fondamentali della semiologia agostiniana, infine, è costituito dalla ricerca dei modi in cui si può stabi­ lire il significato dei segni. Tale indagine è condotta soprat­ tutto nel De Magistro, dove si può rintracciare una conce­ zione semantica che si avvicina al tipo della "semiosi illimi­ tata" di Peirce. Come ha rilevato anche Markus (1957: 66), il significato di un segno, per Agostino, può essere stabilito o espresso mediante altri segni, per esempio: fornendo dei sinonimi; attraverso l'indicazione con il dito puntato; per mezzo di gesti; tramite astensione (De Mag. , III e VII). Questa concezione del significato si rende possibile sol­ tanto nel momento in cui viene abbandonato lo schema equazionale del simbolo, per adottare, come fa Agostino, quello implicazionale del segno. La teoria semiologica ago­ stiniana si apre così, come ha messo in evidenza Eco (1984: 34 e sgg.), verso un modello "istruzionale" della descrizione semantica. Se ne può cogliere un esempio neIl'analisi che Agostino conduce insieme ad Adeodato del verso virgiliano "si nihil ex tanta superis placet urbe relinqui" (De Mag. , II, 3). Esso viene definito come composto di otto segni, dei quali, appunto si cerca il significato.  l0.7 SEMIOSI ILLIMITATA 241 L'indagine comincia da l si l , di cui si riconosce che espri­ me un significato di "dubbio", dopo aver tuttavia sottoli­ neato che non si è trovato un altro termine da sostituire al primo per illustrare lo stesso concetto. Si passa, poi, a lni­ hi/1 , il cui significato viene individuato come !'"affezione dell'animo" che si verifica quando, non vedendo una cosa, se ne riconosce l'assenza. In seguito Agostino chiede ad Adeodato il significato di lexl ed esso propone una definizione sinonimica: lexl sa­ rebbe equivalente a l de l . Agostino non è soddisfatto di questa soluzione e argomenta che il secondo termine è certo un'interpretazione del primo, ma ha bisogno di essere a sua volta interpretato. La solu2ione finale è che l ex l significa "una separazione" da un oggetto. A questa conclusione, pe­ rò, viene aggiunta anche una successiva istruzione per la sua decodifica contestuale: il termine può esprimere separa­ zione rispetto a qualcosa che non esiste più, come nel caso della città di Troia a cui si allude nel verso virgiliano; oppu­ re il termine può esprimere separazione da qualcosa che è ancora esistente, come quando diciamo che in Africa ci so­ no alcuni negozianti provenienti da Roma. Il significato di un termine, allora, "è un blocco (una se­ rie, un sistema) di istruzioni per le sue possibili inserzioni contestuali, e per i suoi diversi esiti semantici in contesti di­ versi (ma tutti ugualmente registrabili in termini di codice)" (Eco 1984: 34). La struttura implicativa permette regole del tipo "Se A appare nei contesti x, y, allora significa B; ma se B, allora C; ecc.", regole che sono comuni tanto al modello istruzio­ nale quanto alla semiosi illimitata. In definitiva, è proprio grazie ali'assunzione generalizza­ ta del modello implicazionale che la semiologia agostiniana riesce a porsi sia come sintesi delle acquisizioni semiolingui­ stiche del mondo antico (teoria della parola come segno), sia come potente anticipazione di alcune delle più recenti tendenze della ricerca attuale in campo semantico (modello istruzionale) . NOTE 1 Anche se non è ancora possibile stabilire se e in quale misura la cultura greca sia debitrice a quella mesopotamica della nozione di segno, secondo lo schema implicativo, in generale, è possibile, però, rilevare una connes­ sione storicamente documentabile tra le due culture in ambiti di uso parti­ colare del segno. A esempio nelPambito della medicina viene fatto ricorso allo schema del segno implicativo ("se..., allora...") nella presentazione dei complessi eziologici tanto nei trattati mesopotamici quanto in quelli greci, ambito in cui si sa che ci sono stati contatti positivi tra le due culture (cfr. Di Benedetto-Lami 1983: I l). 2 Barthes e Marty (1980: 71) collocano nel 3500 a.C. la nascita dei primi germi della scrittura in Mesopotamia. Alcuni, come Cardona (1981: 70), fanno risalire al 3500 l'invenzione degli stessi caratteri cuneiformi. Bottero (1974: tr. it. 155) posticipa molto la data, sostenendo che "la scrittura cu­ neiforme è stata inventata nella bassa Mesopotamia verso il 2850 avanti la nostra era"; cfr. anche Barthes e Mauriès (1981: 602). 3 Si veda il sumerogramma n. 73 del manuale di Labat (1948: 69). È cu­ rioso notare come si registri qui un gioco simile a quello omografico greco tra bios (''vita") e bios (''arco"), presente nel frammento 48 (D-K) di Era­ clito: "L'arco (bios) ha dunque per nome vita (bios) e per opera morte". 4 In ciascun esempio dividiamo la protasi dali'apodosi con un trattino, allo scopo di far meglio risaltare la distinzione. Per questi esempi, come per la maggioranza dei testi mesopotamici riportati nel corso di questo ca­ pitolo, siamo debitori al ricchissimo e ben documentato saggio di Bottero (1974). Qui, una volta per tutte, rimandiamo a esso per l'indicazione delle fonti primarie e delle edizioni critiche. Anche per gran parte delle notizie contenute in questo capitolo si fa riferimento a quel saggio. � Si potevano contare oltre cento oracoli per tavoletta, e alcune raccolte potevano arrivare a un numero di circa venti tavolette.  244 NOTE CAPITOLO 2. 1 Infatti da un'analisi del vocabolario dell'azione oracolare compiuta da Crahay (1974: tr. it. 220) risulta che alcuni vocaboli presentano il testo della rivelazione come un segno, molto spesso un segno anticipatorio, in quanto orientano l'azione verso l'avvenire. Tra questi si ricordino i due verbi s�mafno e pros�mafnO (cioè "informare in anticipo con segni") e l'ag­ gettivo di origine verbale pr6phanton che esprime l'idea di un'informazio­ ne prima del fatto. 2 Ciò è tanto più evidente se si opera un confronto con civiltà come quella mesopotamica che mettevano la divinazione al centro della vita pubblica (Vernant 1974) e ne estendevano il modello formale anche a tutti gli altri ambiti culturali (a esempio, alla medicina e alla giurisprudenza). 3 Cfr . anche //. , I I I , 277 . Per i passi citati sono utilizzate, nel corso del­ l'intero testo, traduzioni correnti, talvolta parzialmente modificate. 4 Traduco dal testo in inglese di Romeo (1976: 86): "The lord, who has the oracle in Delphi, l neither discloses nor hides his thought, l but indica­ tes it through signs". s Infatti la divinazione è indissolubilmente legata ad Apollo, e Apollo è indissolubilmente legato alla sapienza. La sapienza del dio è totale e simul­ tanea e non ha bisogno di essere frammentata in parole. Tuttavia agli uo­ mini egli concede, invece, solo la frammentazione della parola oracolare, oscura e incomprensibile, in quanto in essa la sapienza divina appare come follia dell'uomo invasato. La follia, del resto, che Platone ritiene essere l'essenza stessa della mantica, riconnettendo nel Fedro (244 a-c) l'etimolo­ gia di mantiké a maniké ("arte folle"), non è altro che la sapienza vista dal­ l'esterno. 6 Ma si veda anche Amandry (1950) per la presenza di possibili procedi­ menti anche di cleromanzia (divinazione attraverso il lancio delle sorti) presso l'oracolo di Delfi. 7 Talvolta certi fenomeni naturali potevano perdere il carattere di ca­ sualità ed essere sottoposti a un processo di istituzionalizzazione, come av­ veniva nel caso dell'oracolo di Dodona, dove si interpretavano i segni dati dallo stormire del vento tra le fronde di una quercia sacra a Zeus (come pure, probabilmente, il tubare e il volo dei piccioni sacri e iJ mormorio di una fonte, gli echi di un gong). Per gli oracoli in generale, si vedano Ferri (1916) e Parke (1967); per una disamina generale e approfondita dei vari ti­ pi di divinazione i testi basilari sono Bouché-Leclercq ( 1 879-82) e Halliday (1913). 8 "Lobo", "vescichette" e "porte" erano i termini tecnici designanti par­ ti che gli specialisti di questo tipo di divinazione prendevano come segni da cui elaborare interpretazioni; cfr. Arist., Historia anima/ium, l, 17, 496 b 32· Eurip., E/ectra, 826-828. 9 Le forme della consultazione oracolare ci sono note attraverso un cer­ to numero di iscrizioni epigrafiche, provenienti principalmente da Delfi e da Dodona; cfr. Parke-Wormell ( 1 956) e Fontenrose ( 1 978) . 10 Quest'ultima categoria fa ovvio riferimento alla nozione di enigma, come era presente nella cultura greca: esso comportava, come vedremo  NOTE 245 meglio più avanti, sia un aspetto di sfida (da parte del dio all'uomo), sia la presenza nascosta di un secondo senso, sia, infine, l'idea che il primo senso doveva essere immediatamente scontato. Il termine "modo", poi, pone l'accento sul fatto che non vi è presenza di un unico meccanismo, ma di una galassia di procedimenti espressivi molto eterogenei, che vanno dalla banale omonimia, alla metafora (metasememi), allo scambio di prospetti­ va (metalogismi) ecc. L'espressione "modo" enigmatico fa naturalmente riferimento alla categoria di modo simbolico elaborata da Eco ( 1 984). Pur­ troppo non è qui possibile usare direttamente quella categoria perché essa, pur avendo molti punti in comune con questa che qui proponiamo, se ne discosta per la presenza di alcuni caratteri specifici (rapporto stretto tra si­ gnificante e significato, nebulosa di sensi multipli tendenzialmente coesi­ stenti ecc.) che qui non si ritrovano. È un peccato, perché ci sarebbe sem­ brato appropriato definire "simbolico" il modo di parlare del dio. 1 1 Il meccanismo retorico dell'enallage ricorda il meccanismo oracolare usato dalla Sibilla cumana, nella descrizione di Virgilio (Aen. , VI): la sa­ cerdotessa di Apollo scrive le varie parti del responso su delle foglie, se­ guendo l'ordine sintagmatico del linguaggio umano; poi lascia quelle fo­ glie al vento, che scompiglia l'ordine precedente, creandone un altro, in cui i riferimenti incrociati fra i ternlini rendono oscuro il testo e difficile l'interpretazione. 12 L'ambiguità del dio è simbolizzata dai due attributi antitetici della li­ ra e dell'arco: la lira rappresenta la faccia benigna ed esaltante (quella che compare nell'interpretazione di Nietzsche); l'arco, quella maligna e deva­ stante. Del resto l'etimologia stessa del suo nome suggerisce il significato di "colui che distrugge totalmente", ed è sotto questo aspetto che Apollo si presenta all'inizio dell'Iliade, dove le sue frecce portano lutto e distruzione nel campo degli Achei (Colli 1 975 : 1 8) . 1 1 Per una nozione complessa e articolata della nozione di "verità" nel mondo antico, si veda Detienne (1967). In particolare, sulla concezione di a/�theia come "sintesi del passato, del presente e del futuro", comune al poeti ispirati, agli indovini e agli ambienti filosofico-religiosi, Detienne (1967, tr. it. 99). CAPITOLO 3. 1 D'ora in avanti ci riferiremo al Corpus Hippocraticum con la sigla C.H. Naturalmente, per una documentazione completa sulla medicina gre­ ca, dovrebbero essere prese in specifica considerazione almeno anche le opere di Galeno; tuttavia queste ultime, appartenendo a un'epoca molto più recente (II sec. d.C.) e attingendo a una tradizione filosofica (quella aristotelica e stoica) che aveva già portato molto avanti lo studio sul segno, si situano in parte al di fuori del discorso che stiamo svolgendo . Rimandia­ mo, comunque, a Manuli (1980). 2 La massiccia attribuzione dei trattati di medicina del V e lV secolo  246 NOTE 3 Si possono distinguere all'interno del C.H. gruppi omogenei di opere. Innanzitutto il gruppo di trattati tecnico-terapeutici (Sulle affezioni inter­ ne, il libro II delle Malattie (A), il libro III delle Malattie, la parte più ar­ caica del trattato Sulle malattie delle donne), caratterizzati da un carattere spiccato di arcaicità e da una maggiore attenzione all'aspetto terapeutico della medicina (Di Benedetto 1986: 5 e 80). In secondo luogo, un gruppo di trattati in cui appaiono maggiormente approfonditi i principi teorici e me­ todologici della medicina. Vegetti (1976: 21 e sgg.) ha proposto di definire convenzionalmente "pensiero ippocratico" queJJo che da questi ultimi ri­ sulta (indipendentemente dal fatto che essi siano attribuibili a molti autori e probabilmente tutti diversi dali'lppocrate storico vissuto tra il 460 e il 370 a.C.). Questi testi, collocabili cronologicamente nella seconda metà del V secolo a.C., sono: Antica medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Il 4 Cfr. Jaeger (1947: tr. it. 3). s Cfr. Vegetti (1976: 65 ss.); Vegetti (1967: 78). 6 Anche se, come mette in evidenza Lloyd (1979), la medicina ippocrati­ ca non arriverà mai a essere sperimentale in senso compiuto. 7 Per le traduzioni ci atteniamo al criterio di usare versioni correnti, tal­ volta apportandovi delle modifiche. 8 Solo più tardi, con la Scuola di Alessandria, sarà stabilita una distin­ zione fornaie tra anamn�sis, relativa ai fenomeni collocati nel passato, diaghnOsis, ovvero individuazionc dello stato presente, e pr6ghnOsis, cioè previsione deJJ'andamento futuro della malattia; cfr. Di Benedetto-Lami (1983: 166). Sulla pr6ghnOsis si veda anche Grmek (1983: tr. it. 499 ss.). Si deve poi segnalare che Irigoin (1983: 179) collega il prefisso pro-, unito ai verbi di "dire", con il significato di "pubblicamente ", anziché con un si­ gnificato di "anticipazione". a.C . a lppocrate avviene nell'ambito della biblioteca di Alessandria nel I I I secolo a.C.; cfr. Di Benedetto (1986: 81). prognostico, Il regime nelle malattie acute, il Male sacro, Le epidemie l e III, e poi le maggiori opere chirurgiche (Leferite nella testa, Le articola­ zioni, Lefratture). 9 Cfr. Detienne (1967: tr. it. 99 n.). 10 In certi casi, il vocabolario usato per indicare la previsione medica ri­ calca queJJo della divinazione, come nel cap. 9 delle Articolazioni in cui si dice che è compito del medico "vaticinare" (katamante-Usasthal) certi pro­ cessi relativi allo stato di salute. 1 1 Si tratta di una concezione (vale la pena sottolineado) che affonda le radici in una religione preolimpica, animistica e demonica; cfr. Lanata (1967); Detienne (1963: 32 e sgg.); Dodds (1951); Lloyd (1979); Parker ( 1 983) . Un'ampia panoramica sul movimento magico e catartico era già stata fornita dagli studi del Rohde (1890-94: tr. it. 1982). 12 Cfr. Diog. Laert., Vitae, VIII, 32 D-K, 58 B la. Va notato, di sfug­ gita, che il carattere molto arcaico della concezione espressa dal brano è garantito dal riferimento al bestiame coinvolto nelle stesse vicende della comunità umana: c'è la rappresentazione di una comunità agricola in cui uomini e bestie formano una unità inscindibile; cfr. Deticnne (1963: 32). n Un esempio assolutamente analogo a questo si trova nel cap. 21 del =  NOTE 247 trattato Le arie, le acque, i luoghi, dove si confuta, usando i1 modus tol­ /ens, la tesi secondo cui l'impotenza che colpisce certuni degli Sciti sia do­ vuta a causa divina, in quanto colpisce i ricchi (che vanno a cavallo, essen­ do questa, per l'autore, la causa della malattia) e non i più poveri. Se fosse di origine divina, continua l'autore, colpirebbe indifferentemente tutti. 1"' Si pensi a questo proposito all'indebolimento dei sensi durante il son­ no di cui parla Platone nel Timeo (7 1 e) e a1la diminuzione dei turbamenti nell'aria che rende possibile il sorgere dei sogni secondo Aristotele (De di­ vinatione per somnum) . •s Per la nozione di "omomaterico", cfr. Eco (1975: 295): per "omoma­ tericità" si intende il fenomeno per cui "l'oggetto, visto come pura espres­ sione, è fatto della stessa materia del suo possibile referente". 16 Cfr. anche Lichtenthaeler (1983) e Wenskus (1983). 17 Cfr. Vegetti (1976: 48); Manuli (1985: 233). 18 Sull'abduzione si vedano Thagard (1978); Proni (1981); Eco (1983); Bonfantini-Proni (1983); Bonfantini (1985); Peirce (1984); Eco (1984). 19 Di Benedetto (1986) ha messo in luce, in maniera molto convincente, i rapporti tra i moduli espressivi di presentazione della malattia nella medi­ cina greca e quelli dei trattati mesopotamici ed egiziani; cfr. anche Di Be­ nedetto-Lami (1983). 2° Cfr. Campbell Thompson (1937: 285, I, 1). 2 1 Per questa nozione, cfr. Conte ( 1 986) . CAPITOLO 4. 1 Cfr. Hjelmslev (1943). CAPITOLO 5. 1 Cfr. Arist., An. Pr., Il, 70 a-b; Rhet., 1, 1357 a-b. 2 Cfr. Arist., Rhet., l, 1358 a, 36 e sgg. 3 Cfr.Arist.,Deint.,16a;An.Pr.,11,70a-b. "' Su questa nozione cfr. Di Cesare (1981 : 161). s Cfr. Eco (1984: 6-7; 1987: 75). 6 Cfr. Heinimann (1945). 7 Cfr. Eco-Lambertini-Manno-Tabarroni (1984); Eco (1987). 8 Emerge qui, per quanto nebulosamente, il tema della doppia articola­ zione del linguaggio umano, che verrà poi sviluppato in epoca contempo­ ranea da André Martinet (1960). 9 Anche se Aristotele non dà esplicitamente questa definizione, tuttavia nella Retorica (1, 1357 a, 14-22) c'è un passo che suggerisce l'idea dell'enti­ mema come sillogismo accorciato. Inoltre, in un passo dei Primi analitici  248 NOTE (Il, 70 a, 24-25), Aristotele tenta anche di distinguere il segno dal sillogi­ smo in base al numero di premesse assunte (una sola nel primo caso, due nel secondo). 1�ella Retorica infatti il tekmirion verrà definito esplicitamente "neces­ sario" (anankaion), mentre il s�mefon è definito ..non necessario" (mè anankafon) (Rhet., I, 1357 b, 4). 1 1 Lo stesso punto di vista e la stessa terminologia ricorrono anche nel passo parallelo della Retorica (l, 1357 b, 16-18). 12 Quanto al carattere di confutabilità di questo tipo di segno, Aristote­ le così commenta l'esempio dato negli Analitici; "D'altra parte il sillogi­ smo che si sviluppa attraverso la figura intermedia risulterà sempre confu­ tabile (ljsimos), senza eccezione. In realtà, quando i termini si comporta­ no come si è detto sopra, non si costituirà mai un sillogismo: se infatti la donna gravida è pallida, e se inoltre una determinata donna è pallida, non per questo sarà necessario che questa determinata donna sia gravida"' (An. Pr.J Il, 70 a, 34-37). 1 "(Dei segni) quello necessario è la prova, quello non necessario non ha un nome corrispondente a questa differenza. Intendo per necessarie le proposizioni da cui derivano sillogismi. Perciò anche dei segni quello che è tale è la prova: quando infatti si ritiene che non è possibile confutare la proposizione enunciata, allora si pensa di apportare una prova, che si ritie­ ne dimostrata e compiuta; nella lingua antica infatti tékmar ('prova') e pé­ ras Ccompimento') significavano la stessa cosa" (Rhet. , l , 1357 b, 4-10). Si deve tuttavia segnalare il fatto che, se negli Analitici e nella Retorica la di­ stinzione tra tekm�rion e semeion è rigida e netta, l'uso che Aristotele fa di questi termini nei trattati scientifici sembra essere molto più fluido, senza distinzioni speciali tra l'uno e l'altro termine. Si trova anche impiegato un terzo termine, martyrion, in un senso analogo a quello di semeion; cfr. Le Blond (1939, ried. 1973, 241, n.). 14 Cfr. Arist., An Pr., II, 70 b,'7-14. I!!. Cfr. Arist., An. Post., II, 98 b, 25-30. CAPITOLO 6. 1 È del resto sulla base delle immagini prodotte nella mente dagli oggetti esterni, in particolare su certi tipi di immagini, chegli stoici chiamano ka­ tal�ptikaì phantasfai, che viene basato il "criterio di verità", cioè "ciò a cui ci atteniamo nell'affermare che alcune cose esistono e altre no e che certe cose determinate sono vere ( = sono il caso) e certe altre sono false ( = non sono il caso)" (Sext. Emp., Adversus Mathematicos, VII, 29); cfr. Mi­ gnucci (1965 e 1966); Sandbach (1971 a, e 1971 b); il capitolo "The crite­ rion of truth" di Rist (1969). 2 Cfr. anche Sext. Emp. , A dv. Math. , VII I , 69-70. 1 Si deve sottolineare che /ekt6n è l'aggettivo verbale del verbo /éghein.  6 Cfr. Diog. La�rt., Vitae, VII, 51; Long (1971 a: 83). 7 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 11-12. 8 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 70. 9 Cfr. Diog. La�rt., Vitae, Vll , NOTE 249 A questo proposito si ricorderà che, come sostiene Diogene Laerzio ( Vitae, VII, 57), gli stoici distinguevano tra il "proferire" (prophéresthal), che consisteva nel puro emettere dei suoni, e il "dire" (léghein), che consisteva nel fare ciò in modo da significare (s�ma{nein) lo stato delle cose in mente; cfr. anche Sext. Emp., Adv. Math. , VIII, 80. Long (1971 a: 77) sostiene di preferire, per lekt6n, la traduzione "what is said" rispetto a quella propo­ sta da Mates e dai Kneale, "what is meant", in quanto la prima è più gene­ rale e permette al lekt6n di essere interpretato come avente funzione tanto logica quanto grammaticale. 4 Si deve tuttavia sottolineare che vi è una tradizione, risalente al Crati­ lo platonico, secondo la quale nominare qualcuno equivale a dire "questo è il suo nome". In questo caso anche l'esempio di Sesto dovrebbe essere compreso nei termini di una proposizione implicita come "'Dione è il nome di costui" oppure "Questo è Dione"; cfr. Long (1971 a: 107 n. 1 1). ..s I lekta venivano classificati dagli stoici in completi e incompleti; cia­ scuno dei due tipi dava luogo a una sottoclassificazione, anche molto com­ plessa, che non prenderemo qui in considerazione; si veda a questo propo­ sito Mates (1953: 11-26). 63. 1° Cfr. Mates (1953: 1 1-12): Mates infatti concepisce i lekta come signi­ ficato delle parole e avvicina la loro definizione a quella di Sinn di Frege e a �uella di intension di Carnap. 1 Cfr. Zeller (1865: 78-79). 12 Cfr. Bréhier (1909: 114-125). 13 Cfr. Mignucci (1965: 96). 14 Una definizione del criterio di verità la fornisce Sesto (A dv. Math. , VII, 29): "Ciò a cui ci atteniamo nell'affermare che alcune cose esistono e altre no e che certe cose determinate sono vere e certe altre sono false". Sul problema del criterio di verità, cfr. Rist (1969: 133-151); Sandbach (1971 a: 9 e sgg.); Mignucci (1966). 17 Cfr. anche Adv. Math., VIII, 245-257. 18 Cfr. Diels-Kranz, 75, B 2. 19 Si veda, a proposito di questa questione terminologica, la esaustiva 1� Cfr. Platone, Th., 190 a (206 d); Soph., 263 a. 16 In effetti il "discorso interno" (endiathetos /6gos), a differenza delle espressioni emesse materialment� (prophorikòs 16gos), è un fattore che si dimostra capace di distinguere l'uomo dagli animali. Dice infatti Sesto (Adv. Math. , VIII, 275-276): "(Gli stoici) dicono che l'uomo differisce da­ gli animali irrazionali a causa del discorso interno, non a causa di quello pronunciato, in quanto corvi, pappagalli e gazze pronunciano suoni arti­ colati"; cfr. anche Pohlenz (1959, 1: 61-62). trattazione di Conte (1972: XXXV), curatore dcll'edizione italiana dei Kneale (1962). 20 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pirrh., Il, 95-96. 21 Ibidem: "anche la dimostrazione in quanto al genere è, a quel che pa-  250 NOTE re, un segno"; cfr. anche Adv. Math., VIII, 180. 22 Il testo del De signis, con traduzione inglese, è contenuto in Ph . e E.A. De Lacy (1978). 21 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 144; Hyp. Pyrrh., Il, 97. lA Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 147; Hyp. Pyrrh., II, 97. 2' Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 145; Hyp. Pyrrh., II, 98. 26 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 146; Hyp. Pyrrh., Il, 98. 27 Cfr. anche Adv. Math., VIII, 151-155. 28 Tale tripartizione verrà esplicitamente teorizzata nella retorica roma- na: vedi il capitolo relativo. 29 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 152-153. 30 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 154. 11 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 156. Al di là del carattere pole­ mico, l'osservazione di Sesto è interessante perché, citando "medici" e "fi­ losofi", fissa i due punti estremi di un ciclo di sviluppo deli'interesse verso il segno: l'introduzione di tale interesse da parte dei medici (come, poi, di­ mostrano anche i numerosi esempi di carattere medico presenti in tutte le trattazioni) e lo studio sistematico del segno da parte dei filosofi. 12 Cfr. Diog. Latrt., Vitae, VII, 71. 13 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 104-105; Adv. Math., VIII, 245- 247 . 34 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 245. 1' Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 248; Hyp. Pyrrh., Il, 106. 16 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 249-250; Hyp. Pyrrh., Il, 106. 37 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 250-251. 11 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 106-107; Adv. Math., VIII, 252- 253 . 39 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, IlO-I12. Qui prenderemo in consi­ derazione solo i primi tre criteri, perché il quarto sembra avere un'origine diversa dalla scuola megarico-stoica. 4() Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, lIO-I12; Adv. Math., VIII, 115- 117. •U Sono state proposte varie interpretazioni del condizionale diodoreo, che non possiamo qui prendere in considerazione. Segnaliamo tuttavia i saggi di Hurst (1935), di Mates (1949 a), dei Kneale (1962) e di Mignucci (1966), che affrontano l'argomento in una successione cronologica e teo­ rica. "2 Cfr. Phil., De signis, XIV, 11-14= 19; Xl, 32-XII, 1 = 17. l numeri romani, relativi ai paragrafi del testo greco, sono messi in correlazione con il segno " = " ai capitoli della traduzione inglese dei De Lacy (1978). "3 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 275-276; 287. � Cfr. Goldschmidt (1953: 79 e sgg.); Verbeke (1978: 401-402); Manuli (1986: 262). ..s Sul rapporto tra filosofia e divinazione, Verbeke (1978: 402) osserva molto opportunamente che per gli stoici il filosofo "est le médecin de cet organisme vivant qu'est le monde; il est aussi une sorte de prophète, un de­ vin, un exégète, un interprète des signes qu'il observe". 46 Cfr. Cic., De divinatione, I, 125-127.  49 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., 309. CAPITOLO 7. NOTE 251 "7 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II, 140; Adv. Math., VIII, 305. 48 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 180: "D'altronde anche la dimo­ strazione è, in linea generale, un segno, giacché essa è considerata come di­ svelatrice della conclusione". 1 Il testo di Filodemo, giunto a noi attraverso il papiro ercolanese 1065, è ora disponibile nell'ottima edizione critica dei De Lacy (1978); d'ora in poi citeremo quest'opera con il titolo latino De signis: a essa è dedicato il prossimo capitolo. 2 Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 31; cfr. ancheEpic., EpistulaadHerodo­ tum (d'ora in poi Ep. Hdt.), 38; Kyriai Doxai (d'ora in poi K.D.), XXIV. 3 Cfr.Phil.,Designis,fr.l. " Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 33; Epic., Nat., XXVIII, fr. 4, col. III, in Arrighetti (1960: 296-297). Long (1971 b: 1 14) sostiene che un simile rap­ porto tra linguaggio e pro/essi è presupposto anche nella Ep. Hdt. , 37-38. � Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 34. 6 Cfr. Epic., Ep. Pyth., 86-87. 7 Cfr. Epic., Ep. Hdt., 82. 8 Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 31. 9 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 9. 1° Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 32. 11 Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 31. 12 Cfr. Epic., Ep. Hdt., 46. 13 Cfr. Epic., Ep. Hdt., 48. 1" Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VII, 211. 15 Cfr. Epic., K.D., XXIV. 16 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VII, 211. 1 7 La congettura semiotica è espressa dal verbo s�meiolJ (Ep. Hdt. , 38) e prende la forma dell'induzione nella teoria epicurea. Il sostantivo da esso derivato, s�meilJsis, non direttamente attestato negli scritti di Epicuro, avrà ampio spazio nel trattato di Filodemo. 18 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math. , VII, 21 3-214. 19 Come vedremo nel prossimo capitolo, il criterio della "non incompa­ tibilità" con i fatti conosciuti è centrale nella teoria dell'inferenza come è es�osta nel De signis di Filodemo. ° Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 33. 21 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 13; 258; Plut., Adversus Colo­ tem, 1119f. 22 Si deve segnalare l'articolo di Glidden (1983) che tratta il problema semantico in Epicuro in termini molto diversi da quelli in cui lo abbiamo trattato qui e recupera, sostanzialmente, le posizioni di Sesto e di Plutarco, sostenendo che non esiste nella filosofia linguistica epicurea un livello spe-  252 NOTE cifico del "significato" in termini intensionali. 23 Cfr. Sedley (1973: 17-18); il testo di Sedley in parte si discosta da quello di Arrighetti (1960: 66-67). 24 Come veniva evitato, nel Crati/o platonico, tanto da Cratilo quanto da Socrate. 2� Cfr. capitolo relativo a Platone in questo libro. 26 Cfr. Plat., Crat., 421 d, 435 c; cfr. Sedley (1973: 20). CAPITOLO 8. 1 La data di composizione del trattato, che è controversa, oscilla tra il 542e il 40 a.C.; cfr. De Lacy (1978: 163-164). Il titolo greco, essendo il testo in parte corrotto, è frutto della conget­ tura di T. Gompers; altre congetture sono state proposte. D'ora in poi ci riferiremo a esso nella sua versione latina De signis; cfr. De Lacy ( 1978: 1 1-I4). 3 Nella prima sezione vengono riportate le risposte di Zenone di Sidone alle critiche stoiche; nella seconda viene esposta la versione di Bromio del­ l'enumerazione e confutazione di Zenone degli argomenti contro l'inferen­ za empirica; nella terza viene riportata l'enumerazione di Demetrio di La­ conia degli errori comuni degli antagonisti del metodo analogico; la quarta sezione, che espone una seconda lista degli errori degli oppositori, è anoni­ ma, ma, con molta probabilità, è anch'essa da attribuire a Demetrio. .. Cfr. Marquand 1883; Deledalle 1984. � Cfr.Phil.,Designis,coll.VIII,32-IX,3=cap.13).Ilriferimentobi­ bliografico al trattato di Filodemo è dato in maniera duplice, indicando prima la colonna e il numero delle righe del testo greco del papiro, poi il numero del capitolo corrispondente nella traduzione inglese effettuata dai De Lacy (1978). 6 Come è a più riprese ribadito anche nella terza sezione che riporta il pensiero di Demetrio; cfr. col. XXVIII, 13-25 = cap. 45, e col. XXXVII, 12-24=cap. 57. 7 Cfr.col.XIII,1-15=cap.18. 8 Cfr. col. I, 1-12 9 Cfr. col. I, 12-16=cap. 2. 1° Cfr. col. XII, 14-31=cap. 17. 11 In Peirce (1980: 140), del resto, c'è a proposito dell'icona anche un'interessante considerazione (sulla possibilità che l'oggetto del segno iconico esista o non esista), la quale sembra riproporre, in epoca contem­ poranea, una tematica simile a quella stoica ed epicurea circa la distinzione dei segni in propri e comuni: "Un'Icona è un segno che si riferisce all'Og­ getto che essa denota semplicemente in virtù di caratteri suoi propri, e che essa possiede nello stesso identico modo sia che un tale Oggetto esista ef­ fettivamente, sia che non esista. È vero che, a meno che vi sia realmente un tale Oggetto, l'Icona non agisce come segno". = cap . 2,ecol.XIV,4-11=cap. 19.  NOTE 12 Cfr. Preti 1956: 13; si veda anche il cap. VI del presente lavoro. 13 Cfr. col. II, 25·36=cap. 5. ... Cfr. col. III, 4-8=cap. 5. 1� Cfr. col. III, 30-34 = cap. 6. 16 Cfr. coli. XXXV, 35 - XXXVI, 7=cap. 53. 17 Le risposte alle obiezioni stoiche sono, nella sezione di Zenone, alle coli. XVI, 4 · XVII, 28 = capp. 23-24, e, nella sezione di Bromio, alle coli. XXII, 28 - XXIII, 7=cap. 38. 18 Cfr. col. XVII, 3-7=cap. 24. 19 Una discussione attribuita ai "dogmatici" sul problema della defini­ zione come combinazione di attributi, a esempio "animale", "mortale", "ragionevole" rispetto a uomo, è presente anche in Sesto Empirico, Adv. Math., VII, 276-277. 2° Cfr.col.IV,3-5=cap.6. 21 Cfr. col. XVII, 1 1-28 = cap. 24. 22 Cfr.V,l-7=cap.7. 21 Cfr. col. XVII, 29-36=cap. 25. 2A Cfr. coli. XVII, 37 - XVIII, 3 = cap. 25. 2� Cfr. col. XVIII, I0-16=cap. 25. 26 Cfr. coll. XXIII, 13 - XXIV, 8=cap. 39. 27 Cfr. col. XXIV, 10-17 = cap. 40. 28 Cfr. col. XXVI, 6-9=cap. 41. 29 La tradizione continua dopo gli epicurei, e nella tarda antichità le de­ finizioni vengono talvolta combinate; cosi si ha quella di Galeno: "animali razionali, cioè provvisti di ragione" (De P/ac. Hipp. et Plat., IX, 3); e quella di Sesto Empirico: "animale razionale mortale, provvisto di intelli­ genza e razionalità" (Adv. Math., VII, 269). 3° Cfr. 11 Cfr. 12 Cfr. 31 Cfr. 34 Cfr. 1� Cfr. 36 Cfr. l7 Cfr. 18 Cfr.coli.I,19-II,3=cap.3. 39 Cfr. coli. XIV, 28 - XV, 13=cap. 20. 40 Cfr.coli.XX,32-XXI,3=cap.35. coli. XXXIII, 35 - XXXIV, 5=cap. 52. Eco (1984: 130 e sgg.). Groupe p. (1970: 100). col . col. col . col. col. XXXIV, 5-7 = cap. 52. XXXIV, 11-15=cap. 52. XXI , 27-29 = cap. 36. XXX, 27-31 =cap. 47. XVIII, 23-29=cap. 26. CAPITOLO 9. 1 A questo proposito Cicerone parla di "regolarità della ragione" (ratio et constantia) contrapposta alla "sorte" (fortuna) (De div. , I l , 1 8). 253  254 NOTE CAPITOLO 10. 1 In altre opere, al posto di dicibile troviamo l'espressione significatio; a esempio in De Magistro, 10.34. 2 Si deve notare che Agostino adopera l'espressione verbum in due sen­ si: (i) uno tecnico e specifico, che è quello dell'uso metalinguistico della pa­ rola; (ii) uno generale, che corrisponde alla nozione ampia di "parola", co­ me "segno di ciascuna cosa che, proferito dal parlante, possa essere inteso dalJ'ascoltatore" (cap. V). 1 La natura della nozione di dictio, come composizione di significante e significato, è messa chiaramente in risalto dalla definizione del cap. V da De dialectica: �Quel che ho detto dictio è una parola, ma una parola che significhi ormaj le due unità precedenti conten1poraneamente, la parola (verbum) stessa e ciò che è prodotto nell'animo per mezzo della parola [di­ cibile]". La dictio, inoltre, "non procede per se stessa, ma per significare qualcosa d'altro" (ibidem). 4 Si ricorderà che dagli stoici un segno era concepito, in termini propo­ sizionali, come un antecedente che rimandava a un conseguente; cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VliI, 245. s Per questa nozione, cfr. Lotman-Uspenskij (1975). RIFERIMENTI BffiLIOGRAFICI A.A. V.V. 1978 Les Storcien.s et leur logique, Actes du Colloque de Chan­ tilly, 18-22 Septembre 1976, Vrin, Paris Al, D.J. 1970 The Philosophy ofAristotle, Oxford University Press, Ox­ ford (tr. it. La filosofia di Aristotele, Lampugnani Nigri, Milano, 1973) AMANDRY, P. 1950 La mantique apollinienne à Delphes. 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